Anime Imperfette

di Koa__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***
Capitolo 3: *** III. ***
Capitolo 4: *** IV. ***
Capitolo 5: *** V. ***



Capitolo 1
*** I. ***


Anime Imperfette
 
 
 



 
Suddenly you're here, suddenly it starts.
Can two anxious hearts beat as one?
Yesterday I was alone. Today you are beside me.
[Les Misérables]


 
 
 
 
I.




Londra è bellissima, sorprendente nei vicoli che s’addormentano al buio sotto il chiarore della luna. Londra è viva in quegli angoli che, invece, sembrano non volersi assopire mai. Londra è stupefacente. Lo è inerpicandosi per Primerose Hill, lo è là nelle curve di Hide Park. Londra coglie impreparati tra le viuzze che si diramano da Portobello Road, finendo in un dedalo di stradine caratteristiche dal sapore di un musical d’altri tempi. Londra è la città dove lui è nato e cresciuto e che ha ingiustamente dimenticato, anche se si vergogna questa è la triste realtà di cui si rende conto a un certo momento del suo vagare. L’eco di una sirena stuzzica i sensi di un Victor Trevor distratto, mentre una pioggerellina lieve gli solletica il naso. Ha dimenticato Londra. Ha dimenticato anche Sherlock a dire il vero, eppure eccolo lì. Che trotterella svelto appena un poco avanti a lui. Colletto del Belstaff sollevato, sciarpa blu e passo che non indugia ma che pare quasi affrettato. Sherlock che gli ha scritto un messaggio nel bel mezzo della notte, dicendogli di raggiungerlo. Dovrebbe confessare al suo vecchio amico che non ha tentennato un singolo istante, anche se già si era lasciato scivolare nel morbido letto del grande albergo che lo ospita, almeno finché non troverà una casa, alla vista di quel messaggio, Victor è balzato in piedi ed è corso a vestirsi.
 

Portobello Road. Vieni prima che puoi. SH
 

E lui l’ha fatto, senza neanche rispondere. Perché Sherlock già sapeva come sarebbe andata a finire. In effetti ci sono molte cose che Victor Trevor dovrebbe fare. Ammettere una volta per tutte che Sherlock Holmes gli era mancato da morire, decidersi a dire a qualcuno che anche se è inglese il tè gli fa schifo (particolare per il quale suo padre potrebbe quasi arrivare a diseredarlo) e trovare una casa, naturalmente. Si è rifiutato di vivere dai suoi genitori, anche se loro ne sarebbero stati entusiasti e ha del tutto abbandonato l’idea di andare da suo fratello, perché non ce la farebbe a vivere con tre bambini sotto i dieci anni tra i piedi tutto il santo giorno. E quindi alloggia all’Hilton, almeno per ora. Nel frattempo si limita a cercare un bell’appartamento, qualcosa di luminoso perché Victor ha bisogno di luce naturale per dipingere. Per ora nulla sta alle sue richieste. Ciò di cui è certo è che a Parigi non ha alcuna intenzione di tornare, e questo è quanto. Quella città si porta addosso le ragnatele viscide di un rapporto malato e ossessivo, un amore che amore aveva smesso di essere da tempo. Ha messo fine a tutto, lasciando chi doveva lasciare e poi se n’è andato, semplicemente. Anche se vivere in un hotel non è il massimo per l'intimità, ma in fondo se lo può permettere. Col lavoro che fa e i soldi che la galleria d’arte moderna più importante di Londra è riuscita a tirar fuori pur di averlo, potrebbe addirittura viverci, in quel dannato Hilton. Non lo farà, ovviamente. Victor vuole una casa. Una quotidianità. Un paio di gatti e forse anche un nuovo amore. Oddio, magari quello non subito. Per l’amore c’è tempo. Aspetterà. Al momento è troppo preso dagli albori di questa nuova vita per pensarci. E su tutto, a catturare gran parte del suo tempo, c’è Sherlock Holmes ed è proprio lui la sorpresa più inaspettata di tutte. Dannatamente piacevole, il che è quasi scontato a dirsi. Sì, sapeva che tornare in Inghilterra avrebbe significato l’essere nella stessa città del suo vecchio compagno di stanza dell'università, ma troppo tempo è passato dalla loro giovanile frequentazione. Troppi cambiamenti. Un trasferimento in Francia finito in malora e tante cose che preferisce dimenticare. Non era del tutto sicuro che Sherlock avrebbe voluto incontrarlo, né che Victor stesso avrebbe mai trovato il coraggio di andarlo a cercare. Eppure è successo. Una notte, una come questa. Fredda che faceva spavento a dirsi, passeggiava per le strade del centro senza una meta precisa, quando si è trovato in Baker Street. Non gli è servito niente per decidere, se non il notare luce accesa e l’ombra dietro una tenda scostata di poco. Il suono del violino che ancora riecheggiava per la via, vecchi sentimenti ad agitarsi nello stomaco e un sorriso ad allargar le lentiggini.

Sì, si era dimenticato di Sherlock Holmes. Della sensazione che lo prende quando vede il sorriso nascergli tra le espressioni perennemente serie che porta. Del groviglio emotivo che lo coglie all’altezza del petto e che non lo lascia più. Ne è stato innamorato, per un certo periodo. Ai principi della loro conoscenza, quella sua ruvida maniera di approcciarsi al mondo, lo inteneriva. In un certo senso si era sempre proclamato sicuro del fatto che quel ragazzino alto e allampanato, dentro di sé nascondesse ben altro che freddezza e apatia. Sherlock aveva qualcosa nella maniera di parlare e di pensare, che gli era piaciuto fin da subito. Ma giovane e inesperto, Victor non aveva mai fatto un passo in avanti. Il loro conoscersi aveva subito svariate mutazioni e da semplici colleghi di corso, erano diventati inseparabili. Oggi buona parte di quegli antichi sentimenti son tornati a farsi sentire e Victor non sa se riuscirà mai a farci qualcosa, di quell’antico amore. Lui esce da una brutta storia, Sherlock ha il cuore spezzato… Perché lo sa. Certo che lo ha capito. Anche se non dice nulla, anche se pronuncia il nome di John con un discreto distacco, sa che ha sofferto. Ma non si permette mai di forzarlo a parlare, anche se vorrebbe aiutarlo. Eccola lì, la sua dannata insicurezza. Il suo pensare troppo e poi l’agire di fretta e preda dalla passione. Ha sempre sbagliato tutto con Sherlock, questo Victor lo sa ancora oggi.

Lui e Sherlock parlano molto, in realtà. Anche se alcuni argomenti sono tacitamente banditi, da quando si sono rivisti, ormai due settimane fa, non fanno che raccontarsi pezzi di vita. Parlano dei casi. Di quelli divertenti, di quelli più pericolosi. Della storia finita male di Victor. Parlano del vecchio professore di anatomia di Cambridge e della sua alopecia, e quando lo fanno ridono di cuore. E parlano anche di John Watson, ma senza tirar fuori amore e dolore. Si limitano a qualche accenno al suo blog, alla fama che li ha stravolti. Parlano del fatto che il dottore ha sposato una certa Mary e che ora aspettano un figlio. Non parlano del loro bacio, però, quello avvenuto il giorno della laurea di Victor. Anche se l’ombra di quel ricordo aleggia lieve fra di loro, come un non detto che nemmeno pretende d'uscire. È successo un mattino, una manciata di attimi prima di separarsi. Sono trascorsi quasi vent’anni da allora, ma Victor lo ricorda come se fosse successo ieri. Stava impacchettando libri e facendo le valigie, avrebbe vissuto a Parigi per sei mesi (per vedere come va), in cerca di fortuna e magari facendo il lavoro dei suoi sogni. Non aveva visto Sherlock per tutto il giorno e tanto che aveva quasi temuto di non riuscire a salutarlo. Lui, gli si era presentato all’ultimo istante, quando Victor già stava con la portiera del taxi aperta e il motore acceso spazientiva l’autista. Era arrivato di corsa: gote arrossate, fiato corto e con una prima edizione de Les Miserable stretta tra le mani. Un sorriso timido e impacciato su quel viso incredibilmente giovane, l’ombra del dubbio dipinta dietro occhi dolci. Sherlock lo aveva baciato a quel punto, sulle labbra. In una maniera fugacemente impalpabile. In un saluto fatto su sorrisi che il suo più caro amico mai gli aveva negato e con sentimenti che, forse, entrambi si erano rifiutati di accettare. Non c’era mai stato nulla di concreto fra di loro, tranne quell’amore stupendamente platonico il cui ricordo addolciva entrambi. Ma sì, se Victor avesse saputo che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto quei meravigliosi e sinceri occhi, forse, magari, avrebbe ricambiato quel bacio.

Victor ci ripensa di tanto in tanto. Lo fa con un dolce e malinconico sorriso che gli arriccia le labbra e fa vibrare le lentiggini sulle guance rosee. Ci pensa anche in quel frangente, mentre osserva Sherlock camminare a passo svelto e nel contempo si chiede come abbia fatto quel John a farselo scappare. Salvo poi darsi dello stupido: lui non ha fatto di meglio.

«Vic, muoviti» sbraita un frenetico Holmes, come ogni tanto ancora lo chiama. Se ne sta qualche metro più avanti a lui e già ha svoltato a sinistra, in direzione di una Portobello che odora di nevischio e biscotti allo zenzero. Sebbene siano soltanto i primi di dicembre l’aria ha già una stucchevole atmosfera natalizia che Victor inizia a detestare. Ma Londra è fatta così. Stupefacente, colorata. Eccessiva. E anche sovraffollata, invivibile... Victor lo sa perfettamente e ha la sensazione che più ci stia, più si ricordi di quanto la ama e odia al tempo stesso. Per esempio, sa che Sherlock la adora proprio per questo e che non potrebbe davvero abitare altrove. E infatti eccolo, a proprio agio e anche adesso che è ben lontano da Baker Street o dall’essere appallottolato sul divano del soggiorno con una tazza di tè stretta tra le mani. Stanno inseguendo un criminale, un assassino gli pare d'aver capito. Sherlock è odiosamente impreciso su queste faccende, proprio come un tempo. Victor non ha capito bene chi sia stato ucciso o perché, ma sa che è importante e che c’è di mezzo Scotland Yard. Forse addirittura il governo. Non ha chiesto dettagli. Anche se ha tentennato, questo lo deve ammettere perché è sempre stato curioso. I piccoli misteri che svelavano insieme all’epoca dell’università lo tenevano sveglio la notte da tanto lo appassionavano. Vorrebbe sapere tutto, eppure se ne sta ugualmente lì, a tacere. Ben intenzionato a rimanerci e a non lasciare Sherlock per un solo attimo. Perché c’è una parte di lui che vorrebbe tornare al caldo, questo è vero, ma prima devono finire… beh, qualsiasi cosa stiano facendo.

«Qui» dice Sherlock, a un certo momento, trascinandolo dietro all’angolo di un vicolo mentre estrae il telefono dalla tasca e inizia a digitare. «Lo sapevo che qualcuno sarebbe tornato» continua, riferendosi a chissà chi.
«Tornato chi? E dove?» si azzarda a domandare un Victor che non capisce.
«L’appartamento al secondo piano, quello di fronte a noi, lo vedi?»
«Mh, sì?»
«Due settimane fa è stato commesso un delitto. La padrona di casa è stata assassinata, strangolata per la precisione. Quell’idiota di Dimmock ha arrestato il nipote perché è convinto che l’abbia uccisa per una questione di eredità, ma si sbaglia e adesso ne ho le prove.»
«E quindi chi è stato?»
«Ah, non ne ho idea!» se ne esce, facendo spallucce ed entrambi ridono di cuore. «Ma so che in quella casa c’è nascosto qualcosa di prezioso e io son certo di sapere anche dove andarlo a cercare.»
«Emozionante…» mormora Victor, ridendo appena.
«Allora vieni con me?» Sherlock ammicca e stira un ghigno malizioso. Sanno tutti e due che potrebbe essere pericoloso, ma nessuno pensa un granché a farlo presente. La sola cosa di cui è sicuro, è che lo vuole seguire. E quindi annuisce, timido e impacciato. Cedendo a quello che gli pare più un appuntamento romantico che una caccia al ladro. Ma no, Victor Trevor non pensa neanche a questo e un passo dopo l’altro, recupera gli anni perduti.


 
Continua
 



 
Aggiunta del 14/6/2018: Ho recentemente scoperto che alcuni tratti di questo Victor Trevor presentano delle similitudini con il Victor Trevor presente nella fanfiction: "Born to die" di Watson_my_head che è stata ripubblicata di recente. Mi sono resa conto di aver letto, tempo fa, quella fanfiction e di essermene ispirata inconsciamente, pertanto senza rendermene conto.  

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Capitolo 2
*** II. ***


II.
 
 

 
To love another person,
is to see the face of God.

[Les Misérables]
 
 


Della vita a Cambridge, Victor Trevor ricorda molte cose. Prima di tutto il violino, e il fatto che entrambi preferissero Bach a Haydn. Le montagne di libri e appunti tenuti perfettamente sparpagliati per la stanza (perché l’ordine fa brutte cose all’umore). I piatti d’arrosto lasciati a metà dal suo inappetente compagno di stanza. Le mai vuote tazze di caffè, bevute persino a mezzanotte per riuscire a restare svegli a studiare. Gli esami a cui il dannato bastardo, com’era solito chiamarlo quando faceva lo stronzo saccente, era sempre da lode. Gli esperimenti maleodoranti lasciati a decomporsi nel bagno in comune, e la costante certezza di non riuscire a comprendere poi molto di se stesso. Fin da bambino, Victor sapeva non essere esattamente eterosessuale. E anche se non era in grado di etichettarsi in qualcosa, né aveva idea che le persone dovessero dividersi in generi, era convinto d’essere diverso dai suoi amici. A dieci anni si era innamorato del maestro di matematica. A tredici una sbandata per un compagno di suo fratello, che faceva il mediano d’apertura nella squadra del liceo, lo aveva ridotto a un ammasso tremolante di ormoni. * A quindici era così cotto del professore di ginnastica, che era arrivato al punto d'allenarsi il sabato e la domenica solo per poter ottenere da lui un qualche complimento. A parte queste infatuazioni di poco conto, durante l’adolescenza non aveva mai avuto alcun fidanzato. Non prima di Parigi (come ha rinominato la sua ultima relazione importante). Sì, quella durata più di dieci anni. La stessa che è finita in malora e per la quale una parte di lui ancora si dispera, ma solo per aver perso così tanto tempo appresso a un emerito stronzo. Però, ora che ricorda meglio, c'è stato un qualcuno ai tempi del liceo. Anche se più che “un ragazzo” era uno con cui si baciava ogni tanto. Un certo Andreas, Andrew… un tale di cui a malapena ricorda il nome. Ecco, sa di averci pomiciato, oh, eccome se l’ha fatto! Un giorno, prima della pausa di primavera, lui e Andreas avevano trascorso una mattinata intera nello stanzino del bidello. Perché avrà anche dimenticato come si chiamava, ma ricorda perfettamente d’avergli infilato le mani nelle mutande. Giusto per provare capire se era vero che gli piaceva tenere il pisello di un altro maschio in mano. Poi gli ha fatto anche un pompino, ma questo è un altro discorso.

Dopo la scuola, naturalmente, arrivò Sherlock e con lui giunse la confusione. La vita con lui era… totalizzante. Sì, non saprebbe descrivere il rapporto che avevano se non con questo termine. Anche se non sono mai stati a letto insieme e nonostante quel bacio, di cui non parlano mai, per Victor era a tutti gli effetti una sorta di matrimonio. Ed è proprio la confusione a proposito che gli è rimasta maggiormente impressa. Ha sempre evitato la questione, fino all’ultimo dannatissimo giorno. Quando l’ha salutato. Davanti al taxi, con un treno che stava per partire e tanti sogni in valigia, troppi per poterli contenere tutti. Sino ad allora ha negato d’esser coinvolto, di amarlo davvero. Ma non ha mai smesso di chiedersi che cosa fossero e quale definizione fosse meglio usare. Sì, Victor è allergico alle targhette e specialmente quando ci sono di mezzo i sentimenti, eppure questa domanda lo ha tormentato per degli anni. Erano amici? Oppure per Sherlock era una sorta di fidanzato, pur senza esserlo a tutti gli effetti? Lui ne era innamorato, di questo è certo. Lo era davvero e nonostante avesse seppellito quel sentimento giù da qualche parte oltre il cuore e lo stomaco. Perché nascondersi a questo modo? Vigliaccheria, forse. Magari inesperienza o eccessiva timidezza. Ma non può negare d’aver evitato di rispondere. Eppure, ripesandoci, era così chiaro. Avevano anche una specie di routine giornaliera. Ad esempio, Sherlock lo svegliava al mattino. Victor lo obbligava a mangiare. Litigavano e discutevano come una vecchia coppia sposata e trascorrevano tutte le ore libere assieme. Solo che non facevano sesso. In un certo qual modo si amavano, anche se non era niente di canonicamente definito.

In effetti, Victor se lo chiede anche oggi che cosa siano lui e Sherlock Holmes. Si sono rivisti da neanche due settimane, ma tanto basta affinché vecchi sentimenti e antiche domande tornino a tormentarlo. A peggiorare la situazione c’è un tarlo del quale non sa davvero come liberarsi, sente che una sorta di amore sta riaffiorando e che si sta nuovamente innamorando di lui. No, non voleva gettarsi così presto in un’altra storia. Se l’è ripetuto decine di volte dopo Parigi. Però è quel che sta succedendo. Victor ha imparato a riconoscere i segnali e non vuole più mentire a se stesso. Ma a confonderlo è proprio quel loro passato rapporto platonico, lo stesso che per tanto tempo ha cullato la sua memoria mentre era in Francia. È innamorato del ricordo che ha di lui o prova quel che prova, perché non può fare a meno di amarlo? Anni fa si sarebbe risposto che Sherlock Holmes gli sarebbe piaciuto in qualsiasi epoca o a qualunque età e che, anche a ottant’anni, avrebbe adorato la sua compagnia. Oggi non ne è più sicuro. Perché è cambiato. Perché il ragazzino sognatore di allora che voleva vivere in una soffitta di Montmartre e fare il pittore, è drasticamente cresciuto. A peggiore il tutto c’è il fatto che non si fida più molto di se stesso e di quello che prova. Qui e ora chi ama? Ma soprattutto, due settimane bastano per innamorarsi?

Se la loro vita fosse un film d’amore, forse sarebbero già a letto insieme, si dice abbassando lo sguardo e sorridendo al nulla mentre nota Sherlock fissarlo di sbieco. Naturalmente non capisce che cos’abbia da ridere. O forse lo sa e perciò tace. Victor non ha idea di quale possa essere la risposta, e onestamente non ha nemmeno bisogno di chiedersi cosa ne stia pensando lui di tutta questa situazione. Perché è quasi sicuro che la soluzione al problema venga risolta da Sherlock Holmes in maniera razionale e pragmatica, cosa che lo fa discretamente innervosire. Quindi no, non ci vuole proprio pensare.

«Due settimane…» mormora fra sé, parlando a voce eccessivamente elevata e senza preoccuparsi degli sguardi torvi e delle occhiatacce dei poliziotti che stazionano poco distanti. Subito infatti, la profondità dei suoi pensieri lo cattura nuovamente. L’amore va quantificato in tempo trascorso? Se ti alzi un mattino e vedi Dio per un istante, stai a chiederti se quel secondo sia stato sufficiente a rendere il momento memorabile? Ecco, l’amore è come vedere Dio. Pensa Victor. Non importa quanto sia il tempo effettivamente trascorso, basta viverlo ed è sufficiente l’intensità del sentimento a rendere tutto speciale. E poi in quel film con Hugh Grant e… comunque si chiami lei, si sono innamorati per davvero in due settimane. ** No, la trama probabilmente era diversa, ma non è questo il punto. Il fatto è che è piena notte, a Portobello Road fa un freddo del diavolo e Victor Trevor se ne sta con il sedere congelato, le guance rosse per il freddo e le mani che a malapena riscalda col fiato, all’ingresso di un palazzo che a occhio e croce dev’essere del primo dopoguerra, dov’è stata ammazzata una donna. E vorrebbe dire che non gli sta piacendo tutto questo, ma mentirebbe. Già perché, se c’è una cosa che dell’università ricorda con malinconia, sono le indagini. Sherlock ha sempre avuto la passione per i puzzle e i piccoli misteri da risolvere. Quale opinione abbia oggi in proposito davvero non lo sa, ma ai tempi detestava i libri gialli: troppo elementari. E anche i film polizieschi, troppo stupidi. Adorava però l’andarsi a cercare dei casi. Riteneva molto più stimolante provare a dedurre la vita di uno sconosciuto di origini russo-svedesi che sedeva da solo alla sala da tè, invece che perdere tempo a leggere una storiella banale e dal finale scontato (previsto sempre attorno alla quarta o quinta pagina del suddetto romanzo), che si preoccupava ogni volta di riferire ai quattro venti. Era come se volesse risparmiargli la fatica di arrivare all’ultima pagina: “Dai, è ovvio che è stato il giardiniere, non essere sciocco!” gli diceva, prima di lasciare la stanza con un’uscita plateale. Dannato bastardo, pensa Victor ancora oggi con un sorriso nostalgico.

Ad ogni modo, all’epoca Victor lo ha seguito sempre e anche quando il caso più eclatante riguardava una tresca tra il professore di letteratura francese e una studentessa del primo anno. Ha ben in mente le nottate trascorsi uno accanto all’altro, acquattati sotto a una cattedra in attesa che il colpevole facesse la propria mossa. Ricorda il brivido che lo prendeva alla schiena. L’emozione che gli stringeva lo stomaco. Il cuore che batteva forte e l’inebriante felicità nell’averlo vicino. Oggi, proprio come un tempo, ciò che spinge Victor Trevor non è poi tanto diverso. La sola differenza è che i casi non riguardano giovani procaci o colleghi di corso dalla mano lesta, ma hanno a che vedere con omicidi e casi da prima pagina. C’è sempre la polizia, che arriva drasticamente in ritardo sulla scena di un crimine. Spesso c’entrano i servizi segreti, e a quel punto è Mycroft a far sparire tutto prima di filarsela su una macchina scura al grido di: “Guarda quanto bene si abbina il mio ombrello all’abito che indosso?”. Victor non ha capito del tutto come funzionino le cose con Scotland Yard, ma crede che siano proprio loro a chiedergli aiuto. Il che ha del ridicolo, specie perché Sherlock non è mai gentile con nessuno e fa di tutto per sembrare un perfetto stronzo. Ha visto una certa signorina Donovan venir trattata molto male e quel tizio con degli occhi stupendi e un sorriso da infarto, correr via furibondo giù per le scale del 221b, con una cartellina sotto al braccio e parole irripetibili in bocca. Lestrade gli pare si chiami. Sì, Victor ha capito quanto Sherlock sia rispettato dalla polizia londinese, e gli basta osservare il giovane detective ispettore Dimmock e la maniera in cui ascolta le strabilianti spiegazioni che gli vengono offerte. Nulla che non abbia già visto prima, anzi forse la sua faccia in quel momento non è poi tanto diversa. Ma in quel Dimmock gli pare di vedere anche una sorta di segreta e devota ammirazione, un qualcosa che non può permettersi di esprimere. Victor ne è certo, lo sente perché ad afferrare le emozioni sul viso degli altri è sempre stato dannatamente bravo. Sono le sue, il problema.
 
La notte fonda a Portobello Road e Victor è discretamente esausto. Alla fine, nell’appartamento al secondo piano dov’è stata assassinata una donna anziana di cui non conosce il nome, ci sono entrati per davvero. Mentre saliva le scale ha cambiato idea due o tre volte e fatto dietro front per altrettante, ha avuto paura di trovarci l’assassino e mandato al diavolo tutto e tutti (specialmente se stesso), eppure lo ha seguito. Ed è stato proprio allora che ha capito che era ben lontana l’epoca di tresche e furti in sala mensa. Ora indagano su un omicidio. Loro due. Insieme. Come quando vivevano nella stessa stanza e dividevano l’intera vita. Ha un sapore vagamente differente questa nuova avventura, ma tra le pieghe amare di un passato recente che per entrambi è da buttare, c’è anche un qualcosa di dolce. Sherlock è la parte stupenda di quanto gli sta capitando. Lui è di una bellezza infinita. Lo è mentre indaga. Lo è nella maniera in cui pensa e ragiona, come gli s’infittiscono i pensieri uno dopo l’altro. Lo è nella genialità sfacciata, nelle rughe del viso piene di deduzioni. Sherlock è stupefacente da osservare, con le mani guantate e quel cappotto dal colletto sollevato, gli zigomi spigolosi e gli occhi nei quali morirebbe. Victor pensa che sia più bello di qualsiasi cosa abbia mai visto. Vorrebbe disegnarlo, a matita, su un foglio bianco mentre è nudo magari, steso davanti al camino. Vorrebbe farci l’amore, forse.
«Pensi troppo rumorosamente, Vic. Smettila!» lo ha rimproverato a un certo punto. Sarà capitato allora, lì s’è reso conto che era sul luogo di un omicidio. Un delitto vero, non un giallo da bancarella da leggere sotto l’ombrellone. È stato parecchio eccitante, questo lo deve ammettere. Sherlock, organizzatissimo come ai bei tempi, ha scassinato la porta dell’appartamento permettendo loro d’intrufolarsi senza esser visti. È così che si sono ritrovati in una casa buia e gelida dov’era stata strangolata una persona, con un dannato busto di Napoleone che sembrava giudicare ogni mossa che facevano. E tutto per cercare un qualcosa di segreto nascosto chissà dove. Decisamente affascinate, no? Spaventoso, sì. Ma affascinante.

Alla fine il bottino l’hanno trovato. Era nascosto sotto un’asse del parquet, in una specie di piccola botola improvvisata. Si trattava di una collana di diamanti dal valore inestimabile, rubata circa due anni prima a un qualcuno di arabo pieno di soldi. Una specie di riccone petroliere con la fissa per i gioielli e le belle donne. La collana era stata nascosta lì per la fretta, dallo stesso ladro che era capito nell’appartamento dell’anziana mentre era in fuga. Costretto a tornare per recuperare la refurtiva era stato sorpreso sul fatto. “Il resto è venuto da sé”, ha commentato Sherlock prima d’incamminarsi lungo il vialone. Non ha salutato il detective ispettore Dimmock, né i poliziotti che erano con lui. Si è limitato a un cenno con la mano. Voleva dirgli di seguirlo.


La notte è fredda, l’aria sa sempre vagamente di zucchero e miele e quelle lucine colorate sono un fastidio per la sua vista assonnata. Non sa per quale ragione ci stia pensando e ripensando, ma le parole di una vecchissima canzone gli danzano sulle labbra e lui non vuole neanche trattenerle.

«You’ll find what you want in the Portobello Road…»

Victor canta a voce ben alta. Prima di fare un passetto di danza e inchinarsi a uno Sherlock che ride appena. Come una ballerina che ringrazia il proprio pubblico. Ma Sherlock ride, e lo fa in modo leggero. Con quella voce da baritono che a tratti diventa un poco più acuta. Ride a Vic gli si ferma il cuore. Si guardano e poi Sherlock leva gli occhi e li porta alla strada. Solleva la mano per chiamare un taxi, probabilmente l’unico nell’arco di chilometri. Ma non smette di ridere e tanto che a Victor sembra di avere di nuovo vent’anni. Eccola, allora si rifà viva quella sensazione alla bocca dello stomaco. Che lo stringe e lo divora dentro. E il cuore, oh, se batte svelto! È causa sua e di quell'agitarsi del sangue nelle vene, che agisce e lo fa senza pensarci. Lo fa con quella ridicola canzoncina ancora in testa e la voce della coscienza che a gridargli che, questa volta, non può scappar via come se niente fosse. E quindi parla, prima di aver preso un bel respiro ed essersi torto e ritorto le mani per l’agitazione.
«C’è» pigola, perché la voce è uscita in un sussurro quasi impercettibile. «C’è una cosa che vorrei farti vedere, ti… ti andrebbe di venire da me?»

Il “sì” non se lo aspetta. Perché sono le tre del mattino. Perché è sicuro che un lato di Sherlock ami ancora John. Perché è convinto di essere solo un amico per lui. Si aspetta un rifiuto che non arriva, un “no” che non ci sarà mai. Victor non ha idea di che cosa ne pensi Sherlock Holmes a proposito, ma c’è qualcosa tra loro. Quello che c’era un tempo e, anzi, forse una briciola di sentimento in più. Ma non ci pensa, non adesso e mentre il taxi si ferma, un timido rossore gli si apre sulle guance.

«Sì» sussurra Sherlock. Mentre lo vede salire in auto, Victor pensa che il suo sorriso sia la cosa più stupefacente mai vista.
 




Continua
 
 
 


*Il “mediano d’apertura” è un ruolo del rugby.
**Il film a cui si riferisce Victor è “Due settimane per innamorarsi” con Hugh Grant e Sandra Bullock.

La canzone che canta Victor è “Portobello Road” dal musical “Pomi d’ottone e manici di scopa”.

Annotazioni: Avviso che i capitoli saranno un po’ più di tre. Credo non più di cinque, ma non ne sono sicura perché in questa storia è un po’ tutto così come viene.
Grazie a tutti coloro che stanno seguendo e soprattutto a chi ha recensito.
Koa

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Capitolo 3
*** III. ***


III.
 


 
 I had a dream my life would be
So different from this hell I'm living.
[Les Misérables]
 



 
Piove, ma a Londra lo fa spesso. Lo fa da un momento all’altro e senza preavviso. La pioggia non s’annuncia,  arriva e sorprende. Un po’ come Sherlock Holmes, che invita a uscire alle due del mattino. A Londra piove mentre splende il sole, oppure splende il sole mentre piove? Victor s’è domandato spesso se sia più l’una o l’altra ipotesi, salvo poi non riuscire mai a darsi una risposta soddisfacente e concludere il discorso con un infame silenzio mentale. Ci sono molte cose che ricorda della cara e vecchia Inghilterra, ma il pessimo clima è decisamente una di quelle. Piove quando lasciano Portobello Road, nel pieno di una notte di dicembre. Piove mentre viaggiano sul taxi, immersi in un pacifico silenzio che ha il sapore dei vecchi ricordi. Lui e Sherlock, che sono seduti vicini. Senza parlare, con l’occhio che cade di tanto in tanto sulla figura dell’altro e tenta di carpirne il più possibile. Quant’è che non accadeva? Vent’anni o giù di lì. Da prima di Parigi, da prima di John Watson. Da prima di quel troppo tempo che li ha divisi. Pare non sia trascorso neanche un giorno da allora, eppure eccoli. Victor sorride al ricordo. Poi ride della propria stupidità. E quindi s’addolcisce al pensiero di averlo di nuovo accanto. Sorride mentre il ticchettio della pioggia colora il loro silenzio di un’atmosfera delicata e intanto guarda al di fuori, oltre i vetri appannati. Pensa a Londra che è caotica, nervosa e zuccherosa. Odiosa quando piove. Perché piove, ancora e senza smettere. Più forte di prima. Quasi con l’intensità travolgente un temporale estivo. Victor non la capisce, Londra. Fatica ad adattarsi, anche se crede sia per la stanza d’albergo e per il suo non avere una casa, né un qualcosa di concreto da fare per tutto il giorno. Ma a Sherlock piace, lo capisce da come gli brillano gli occhi. Gli stessi che s’immalinconiscono di una dolce tristezza mentre la osserva dal finestrino, con il mento appoggiato a un pugno chiuso. Un ghigno appena accennato gli stira le espressioni, quasi come se avesse appena ricordato un qualcosa di buffo. Intanto Victor lo osserva, guardandolo come forse non è mai riuscito a vederlo prima. In effetti scorge un universo di pensieri e parole rinchiuso dietro a un’espressione seria e compassata. Victor ama quell’universo. Il sentimento che lo prende alla bocca dello stomaco è il più strano che abbia provato sino a quel momento. Ha la netta sensazione di sapere già tutto di Sherlock e allo stesso tempo non ha idea di chi sia, non sa a che cosa stia pensando. Ma Sherlock è fatto così. Lo era anche a vent’anni. Sherlock è una magnifica contraddizione nascosta dietro a una faccia perennemente imbronciata. Sherlock è un rebus. È come un disegno che non riesce. Che inizia da una prospettiva pessima e prosegue, incurante, su quella medesima pessima strada. Sherlock, oh, fa vedere così tanto e allo stesso tempo talmente poco di sé, che sembra quasi possedere due differenti personalità. Adesso, per esempio, mentre viaggiano su di un taxi in una Londra trafficata, lo sta fissando di sbieco e con un’intensità tale che a Victor tremerebbero le ginocchia se soltanto fosse in piedi. No, Victor non ha davvero la minima idea di cosa possa passargli per la testa. E sarà anche un vigliacco, uno stupido ma le sue intenzioni scelgono la via di fuga. China il viso. Dannatamente incapace di sostenere il suo sguardo. Addirittura arrossisce, perché quegli occhi di cui ha tentato inutilmente di scorgerne il fondo, ora sono piantati su di lui e lo guardano con una determinazione, che nell’Holmes dei suoi ricordi, proprio non c’è mai stata.

Sì, è cambiato. Sherlock è diverso dai tempi dell’università e Victor se ne accorge anche dalla maniera in cui non dice niente. Per come se ne rimane in silenzio, da una parte. Senza mai accennare a una parola. Victor lo capisce da come lo guarda e anche da come non lo fa. Ricorda un altro Sherlock. Più giovane, più ingenuo nella maniera di concepire i rapporti con le persone. Ricorda uno Sherlock che fremeva dalla voglia di raccontare, di parlare, di farsi capire. Ricorda uno Sherlock che tentava, invano, di comprendere l’animo umano e che falliva miseramente nel tentativo di farsi accettare. Questo Sherlock Holmes, quello che si trova davanti in una notte dicembrina, del mondo, ne sa pure troppo. E si protegge. Lo fa schermando le espressioni del viso, mordendosi le labbra e trattenendo parole che vorrebbe dire. Lo fa rintanandosi in un palazzo mentale immenso e nel quale ha nascosto tutto il suo piccolo universo. Questo Sherlock si protegge dal resto mondo per timore che il suo cuore si spezzi di nuovo. Victor ne è certo perché, in questo, loro non sono mai stati troppo diversi.

«Vic, tu…» La sua voce sferza il silenzio. Lo squarcia come fosse una tela. Sherlock parla ma non chiede. Sussurra ed è come se gridasse. Non domanda, eppure il non detto è talmente chiaro che si sente come a fronte di un interrogatorio. Entrambi accennano a un qualcosa che han già capito.

Cosa siamo?

E Victor vorrebbe rispondergli. Parlare. Dirgli tutto quanto. L’amore che prova. Quello di adesso. Quello di allora. Vorrebbe perdersi nei ricordi dell’università che si mescolano a sentimenti strani. Ma tutto ciò che avrebbe da confessare riguarda una sfera talmente intima della propria esistenza, che non desidera condividere neanche un timido respiro. Quindi nega. Appena. Con un cenno del viso. Proprio non può dirglielo a che cosa pensa.
«Plus tard» sussurra mentre la pioggia s’infittisce e il ticchettio si fa più frenetico. Sherlock non risponde, occhieggia l’uomo alla guida e in un istante pare abbia capito. Poi cade in un pacifico mutismo.

Plus tard. Pensano entrambi, sospirando.
 

Victor non ha portato poi molto da Parigi. In valigia ha messo pochi abiti (neanche tutti), effetti personali, la copia di Les Miserables che Sherlock gli ha regalato anni prima, un lettore di musica che deve avere una decina d’anni e ovviamente il proprio album da disegno. Non ha l’attrezzatura da pittura. Le sue tele, quelle già finite e quelle no, la tavolozza e i pennelli... Tutte le sue cose le ha lasciate a Parigi. È riuscito a farsele spedire dalla propria manager, alla quale dovrà fare una statua un giorno o l’altro. Perché non ha davvero idea di come abbia fatto a convincere “lui” a dargliele. Ad ogni modo, ora sono in un deposito qui a Londra. Appena si trasferirà in una casa decente potrà tornare a dipingere. Non vede l’ora. Il suo lavoro gli sta già mancando come la terra sotto i piedi. La sola, seppur magra, consolazione è un vecchissimo blocco di fogli. Lo ha da anni e in effetti non lo ha mai utilizzato molto. Gliel’ha regalato suo padre dopo che s’è laureato e da allora si possono contare sulle punte dita le volte in cui l’ha sfruttato. La copertina odora ancora di pelle e non ha perso di lucentezza, molte delle pagine sono intonse e spesso Victor le trova uno sfacciato invito a riempirle. Quello è il suo album personale. Non lo ha mai fatto vedere a nessuno e infatti lui ne era assurdamente geloso, tanto che Victor ha perso il conto di quante volte è stato costretto a ripetergli che lì dentro c’erano solo schizzi. Pezzi di corpi senza volto. Occhi senza un’anima. Esercizi per distrarre la mente o anche solo per tenere le mani impegnate in qualcosa. Niente di rilevante o che valga la pena di mostrare. “Lui” non ci ha mai davvero creduto e tutte le volte che usciva fuori l’argomento finivano per litigare, ma questa è davvero un’altra storia e adesso non ci vuole davvero pensare.

Victor lo ha con sé, naturalmente. È stata una delle prime cose che ha ficcato in valigia, non poteva neanche concepire l’idea di andare via senza. Non se ne separerebbe mai e soprattutto non permetterebbe a nessuno di sfogliarlo. Perché sì, ha mentito. Lui aveva ragione e ciò che lì dentro è disegnato, ha sempre avuto un valore sentimentale. Lui doveva essersene accorto da come Victor osservava i disegni, dalla maniera in cui accarezzava il bordo delle pagine o i tratti di un viso appena abbozzato. Inutile mentire. Oramai non serve tacere o raccontarsi ulteriori bugie. C’è Sherlock, in quelle pagine. Pochi ritratti messi insieme nel corso degli anni. Niente di più che tentativi di ricordarne i tratti del volto. Le pieghe dei ricci dei capelli. L’infittirsi delle rughe della fronte mentre era su un problema particolarmente complesso da risolvere. La serietà dello sguardo mentre suonava. Ne ha disegnato la morbidezza del corpo e quelle forme longilinee. Ha disegnato le sue mani, nodose e lunghe. Dita affusolate, perfette per uno Stradivari. Ha tentato di immaginarselo a quarant’anni, chiedendosi quali differenze ci sarebbero state con l’immagine che di lui aveva stampata nella memoria. Ci ha provato, a dimenticarlo. Ha tentato con tutto se stesso. Ma come un nomade che sente il bisogno di tornare a casa, lui s’è ritrovato a rinvangare quel passato ormai lontano. Tante volte ha provato a convincersi che era soltanto un modo per non perderlo una seconda volta, una maniera come un’altra per non lasciare andare un pezzo della propria vita. Ma ora che glielo porge, che lo dà al suo Sherlock con mani tremanti e senza dir nulla, capisce che si tratta molto più che di semplici disegni. E che forse, da una qualche parte tra il chiaro e lo scuro, ci ha infilato anche tutto il suo amore. Tutto quello che provava e ha provato. Tutto l’affetto. La passione. Il dolce ricordo. La nostalgia. Il desiderio. La mancanza di un uomo che mai ha smesso del tutto di adorare.
«Ho provato a ricordarmi di te» dice ora Victor, chinando lo sguardo mentre le guance si tingono di rosso. Perché vorrebbe guardarlo negli occhi, ma proprio non ci riesce. Non ce la fa nemmeno a sondarne le reazioni mentre osserva i disegni. Quindi tiene il volto basso e gli occhi serrati. E intanto, uno dopo l’altro, tutti i sentimenti e i non detti che negli anni lo hanno tormentato, passano tra le dita di Sherlock Holmes. È come esser nudi.
«Non credo d’esserci riuscito» ammette, prima di decidersi a sollevare il viso «i tuoi occhi sono un bel problema, lo sai? Credo sia impossibile riuscire a disegnarli in maniera decente, occorrerebbe un costante studio ravvicinato.» Victor stira appena un sorriso, scherza e Sherlock afferra subito le sue intenzioni. È una maniera di sdrammatizzare, un modo come un altro per introdurre il discorso. Qualche istante più tardi, infatti, anche Sherlock fa lo stesso e un accenno di risata si affaccia appena, ma qualunque fossero le sue intenzioni subito si smorzano. Svaniscono e un’espressione seria torna prepotente, spazzando via ogni traccia di divertimento. Probabilmente è per questo che non se lo aspetta e che quando gli arriva vicino e gli accarezza una guancia, Victor smette di respirare. Si sente un perfetto idiota, un adolescente in piena crisi ormonale. Dev’essere rosso quanto i suoi capelli e tanto è sconvolto, che non si preoccupa nemmeno di nasconderlo.

«Quanto?» chiede. Senza aggiungere altro. Quasi Victor avesse il potere di capire ogni cosa solamente guardandolo. Victor non lo fa in effetti, ha di nuovo chinato lo sguardo e se anche lo sollevasse su di lui è sicuro che ci capirebbe ben poco. Quel pollice che con delicatezza gli accarezza lo zigomo è una brutale distrazione. E poi, Sherlock è così vicino! Victor si sente un po’ morire e un po’ rinascere. Di certo è confuso e balbettare parole senza senso, pare essere la sola cosa che è capace di fare.
«Io non… non…»
«Quanto ti ha trattato male? Voglio la verità, Vic. Tutta la verità perché ho capito quello che è successo, ma ho bisogno che tu me lo dica. Prima di tutto, ti ha tradito?» Victor annuisce e si fa coraggio. Prendere un bel respiro serve a poco e, in effetti, è quando Sherlock accentua un accenno di stretta a entrambe le sue mani, che una forza di gran vigore prende a scorrergli sotto pelle. Sherlock non fa nulla se non accarezzare le sue dita, ma è un gesto intimo e straordinariamente attento. Victor capitola e, pesantemente, si lascia cadere sulla sedia della piccola scrivania. La distanza che ora c’è fra loro, seppur minima, gli lascia una sensazione di vuoto. Ha freddo e ciò che è peggio è che sente di essere ancora un signor nessuno per lui. Di certo non sarebbe lecito il chiedergli un abbraccio. E, oh, se lo vorrebbe.

«Lui era molto possessivo» inizia così la sua confessione. Parla sulle labbra. In un mormorio lieve. Mentre Sherlock accorcia di poco il nulla che li divide e lo studia dall’alto verso il basso. «Sì, mi tradiva. Non so con quanti o per quanto tempo, ma ne sono più che sicuro perché non faceva nulla per nasconderlo. Anzi, mi sfidava. Una volta mi disse che Parigi è piena di bei ragazzi che fanno pompini meglio di me. E io che per anni me ne sono dato la colpa! Che stupido idiota. Mi dicevo che dovevo essere io il problema e che se cambiavo, se mi mostravo più gentile o accondiscendente, anche lui sarebbe cambiato. Mi sono detto che c’era una speranza e che potevamo salvare la nostra relazione. Io potevo riuscirci. Poi tutte le mie speranze, i miei sogni si sono infranti.
«Lui ti ha…»
«Picchiato? Sì. Violentemente. Mi ha tirato i capelli e colpito il viso molte volte.» Victor indurisce lo sguardo, serra la mascella. Il ricordo ancora brucia, così come si vergogna della propria stupidità. Se avesse accettato prima la fine di quella relazione, si sarebbe evitato l’inferno che ne è scaturito. Dirlo fa male. Ma stranamente, più parole vomita e meglio si sente. E quindi confessa, lo fa dopo aver sollevato il viso ed aver trovato dentro di sé il coraggio necessario. A sorprenderlo c’è lo sguardo Sherlock, che non trattiene la propria furia e la cui ira divampa come fosse un incendio. Victor trema. Non sa come reagire a fronte di tanta rabbia. Però prosegue, con la voce che si spezza e gli occhi che si riempiono di lacrime. Perché è sufficiente ricordare il terrore e la paura provati, per far riaffiorare tutto quanto.
«Avevo paura che mi spezzasse le dita e di non poter più disegnare.» Lo dice tremando e senza riuscire a trattenere le lacrime. Sherlock gli s’inchina di fronte, gli passa una mano tra i capelli e poi scende sul viso. Non parla, ma per Victor neanche è necessario che lo faccia. Capisce tutto. La dolcezza del tocco. L’impotenza frustrante che prova. Il disagio, la rabbia. Sherlock è un vulcano pronto a esplodere. «Lui era geloso di tutto. Anche della pittura, dei disegni a matita. Non gli ho mai fatto vedere il mio blocco, gli dicevo che erano esercizi e che non era niente di che. Lo so, erano bugie e ho sbagliato a mentire. Però non volevo che ti vedesse e che capisse che una parte di me era rimasta così ancorata al passato, da sentire il bisogno di disegnarti. Di mettere su della carta ciò che di te ricordavo. Mi sentivo colpevole perché mi pareva di tradirlo. Fino a che non ho capito che non ero io il problema.»
«Cos’hai fatto?» Victor vibra. Apre e chiude gli occhi. Sospira e trema. Ed è strano perché, anche se non si è mosso, lo sente ancora più vicino. Sherlock gli sfiora il viso e non la smette proprio di tenere gli occhi fissati su di lui. È proprio un’idiozia, ma si sente al sicuro e protetto. Sa che anche se lui sfondasse la porta, non potrebbe accadergli nulla di male. Non più.
«Volevo ribellarmi, non volevo che mi toccasse più e neanche per fare l’amore. Però sapevo che sarebbe stato inutile fronteggiarlo a viso aperto. Parlarci mi avrebbe solo portato a peggiore la situazione.»
«E così hai iniziato a progettare la tua fuga. Sagace, ma non me ne stupisco: non sei mai stato un idiota.» Victor sorride perché sa che Sherlock non dice cose del genere a chiunque. Anni fa riteneva uno stupido qualunque essere vivente entrasse nel suo raggio di azione. Lui faceva parte delle eccezioni, così gli diceva. Victor ci ha pensato molto, spesso si è domandato quanta verità ci fosse in certe uscite e quanto invece facesse parte di un po’ di teatrale scena.
«Già, la prima persona a cui l’ho detto è stata la nostra padrona di casa. Le ho spiegato com’erano le cose. L’ho avvisata che me ne sarei andato presto, le ho addirittura pagato la mia parte di affitto in anticipo e lei mi ha promesso che mi avrebbe aiutato in qualche modo. Poi è toccato a mio fratello e alla mia manager. Lei mi ha trovato un lavoro qui e mi ha detto che non avrebbe avuto problemi a trasferire a Londra la mia attività. Sono anni che prova a farmi tornare in Inghilterra, ero io a voler restare a Parigi. Comunque, abbiamo agito in silenzio ed evitando che lui capisse qualcosa. Sino a due settimane fa. Un mattino, mentre era via, ho fatto le valigie e… beh, non avrei mai creduto che la mia vita sarebbe stata un simile inferno. Eppure è così che è andata. Che ci vuoi fare? Almeno io non ho dovuto fingere la mia morte.»

Il silenzio scende lieve. Sherlock ancora se ne sta chinato tra le sue gambe. E lo guarda. Senza smettere un solo istante di toccarlo gli sfiora i capelli, gli tocca il viso. Non parla ma respira svelto. E fa trasparire tutto, forse più di quanto vorrebbe. Victor vede troppe cose nei suoi occhi, tanti sentimenti. Sfaccettature differenti di emozioni contrastanti. Non dovrebbero osare tanto, o forse sì? Victor non è certo di sapere cosa sia meglio per loro e quindi si lascia andare. Sherlock gli stringe i polsi. Accarezza il dorso della sua mano e poi intreccia le loro dita. Victor vorrebbe baciarlo e dire le tante altre cose che, non dette, ancora aleggiano fra loro. Nemmeno questo dovrebbe fare. Ma lo fa. Lì e in quel momento, con l’uomo che ama da tutta una vita chino davanti a lui. Parlano, finalmente e dopo decenni. A modo loro. In una maniera stupendamente strana.

«Hai una stanza nel mio Mind Palace» sussurra Sherlock, scostandogli una ciocca di capelli rossi caduta sugli occhi.
«Ti disegno da tutta la vita e non smetterei mai di farlo.»
«Ho suonato per te, anche mentre non c’eri. Anche quando te n’eri andato da anni. Ho composto per te. Ti ho parlato e lo faccio tuttora. Come un pazzo.»
«Ho letto Les Miserables.»
«Io ho visto il musical» ribatte Sherlock e allora entrambi scoppiano in una sonora risata «e l’ho detestato.»
«Non ho mai dimenticato il nostro bacio» mormora Victor. Sherlock nega con un vistoso cenno del capo, ride e lo fa proprio come un tempo. Nemmeno lui, vorrebbe dire. Ma tace perché non serve che lo faccia davvero. Perché ha una stanza nel mind palace. Perché, quel bacio, gliel’ha dato proprio lui. Perché si amavano allora e si amano adesso. Semplicemente.
«Lo sai anche tu che è un pessimo tempismo per… sì, tu con John e io e… non esiste momento peggiore per cominciare qualcosa.»
«Ed è per questo che è perfetto.»

Perfetto.

Quella parola gli rigira in testa a lungo e continuerà a farlo per delle ore. Sì, è perfetto e proprio perché non lo è affatto. Perché sono entrambi inadatti a una relazione. Perché son tutti e due dei pazzi lunatici. Disordinati. Perché hanno tante cose in comune ma tante altre invece no. Perché è troppo presto, o forse troppo tardi. Eppure non sembra importare a nessuno dei due. È tutto così giustamente imperfetto. Lo è il bacio che si danno. Leggero. Delicato. Che trattiene una passione appena accennata. Che trasuda di ricordi. E si emoziona per il nuovo. Perché è il momento peggiore per amarsi, e va dannatamente bene così.
 


Continua


 
 
Un grazie a coloro che stanno leggendo questo… bah, esperi
mento?

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Capitolo 4
*** IV. ***


IV.
 
 




 
Amare od aver amato, basta: non chiedete nulla, dopo.
Non è possibile trovare altre perle nelle oscure pieghe della vita:
amare è esser completi.
[Les Misérables] 
 




Baciare Sherlock Holmes fa parte di quel genere di stranezze che Victor ha per tutta la vita relegato in un angolo del cervello. Resta difficile da credersi, anche se sta succedendo davvero. In passato, baciare Sherlock ha spesso riguardato delle fantasie e nient’altro. Sogni a occhi aperti e alcune volte molto più che un vago desiderio nato da un altrettanto vago ricordo. Victor ci ha pensato, lo ha fatto in segreto. Ogni tanto, nel corso degli anni, si è chiesto come sarebbe stato baciarlo di nuovo. E azzardare un qualcosa di più di un semplice sfregarsi di labbra. Come la volta in cui loro due... Adesso che lo bacia di nuovo, però, Victor si rende conto di quanto poco vicino sia stato a immaginare la perfezione della morbida bocca che ha l’onore di assaggiare. Perché baciare Sherlock è un’emozione speciale; mai provato prima nulla di simile. È come una scarica elettrica che gli percorre la schiena. Un pugno allo stomaco che fa svolazzare mille farfalle. Gli rende la testa leggera, i pensieri confusi. E vaghi. Accelera i sentimenti e agita il battere del cuore. Questo, pensa mentre si lascia premere contro ai vetri della finestra in un impeto di passione, è un bacio completamente diverso dalle sue fantasie. Il tocco timido e impacciato, quasi fanciullesco e senza un accenno di malizia che Victor immaginava, è drasticamente andato a quel paese. Questo è un bacio differente. Più adulto. Sembra addirittura disperato per la foga che entrambi ci mettono. È un ritrovarsi che ha un certo sapore erotico. Di voglie antiche e perdute nel tempo. La pressione delle labbra è vorace, entusiasmante. C’è così tanta lingua, che Victor si sente peggio di come si sentirebbe un adolescente inesperto alla prima, grandiosa, pomiciata. E quelle dita che s’infilano ovunque, che accarezzano il torace e stringono le natiche con decisione, sono una piacevole tortura. Victor trema per l’emozione, come se non fosse mai stato a letto con nessuno. Tanto che gli sembra di essere lui, il vergine e non Sherlock. Già, perché è proprio questa la verità. Gliel’ha detto lui. Qualche attimo fa. Lo ha sussurrato a sguardo basso e senza troppa convinzione nei modi. All’inizio pareva scherzasse. Non era così, ovviamente non lo era. Victor ha compreso subito l’importanza della frase accennata a mezza bocca. Un sospiro frammentato, gli occhi chinati a terra. Il torcersi delle dita fin troppo insistente. La punta del piede a battere forsennatamente sul pavimento. Un’ansia crescente e a fatica controllabile a montare dentro e che storpia quella maschera di perfezione già perfettamente incrinata. Un istante e Victor ha capito che, quella, sarebbe stata una scomoda confessione. Parole tenute dentro troppo a lungo. Una vergogna che non avrebbe dovuto nemmeno esistere, ma che c’era. Viva e sincera quanto quegli occhi di ragazzo incastrati in un viso di uomo. Sherlock non s’è sentito a proprio agio nel dirgli che è drasticamente inesperto e che non ha mai fatto sesso. Il suo temere un giudizio che, di certo, mai sarebbe arrivato è anche adesso dannatamente palese. Victor in parte lo comprende, perché sa bene che tra i compagni d’università non era un granché popolare. In effetti, questo c’entra poco con l’essere o non essere vergine. Ma ricorda con discreta precisione che, ai tempi, Sherlock aveva un solo amico. Che poi sarebbe Victor stesso. Oh, sì. Ricorda proprio tutto di Cambridge e del proprio compagno di stanza. Ricorda quanto stentasse a rivolgersi agli insegnanti e che quando lo faceva, era sempre per obblighi scolastici. Quasi gli viene da ridere se ripensa al fatto che Sherlock a malapena sapeva i nomi dei propri colleghi di corso. Li riconosceva per caratteristiche fisiche. E in effetti, Victor ha ancora in mente uno o due soprannomi. Per esempio, c’era quello biondo coi capelli unti che davano sentore di sporco. E poi il signor “non mi piacciono i fagioli”. Quello che aveva una tresca con la fidanzata dell’amico, chiamato semplicemente “tresca”. E c’erano anche (in ordine casuale): occhiali, bel maglione e braccio rotto. Sì, Victor ci ripensa nel bel mezzo di un bacio scambiato con incredibile passione, e quando lo fa ride di cuore. Sherlock lo nota, non capisce e storce il naso. Si ritrae appena. E lo fissa di sbieco. Sherlock... ripensa Victor addolcendo lo sguardo, oh, che meraviglioso enigma! Lui che era lontano anni luce dalla sola concezione d’avere una ragazza e che la cosa più vicina a un rapporto sentimentale, era quel non detto che aleggiava tra loro, era drasticamente distante dai rapporti sociali. Allora come adesso, almeno così gli è parso di capire. No, Victor non è mai stato cieco. Sapeva. E sa ora. Anche se non l’ha aiutato come avrebbe dovuto e in parte se ne sente in colpa, ha una precisa immagine di lui che tornava in stanza con espressione imbronciata, e solo perché il simpaticone di turno gli aveva fatto un qualche scherzo di cattivo gusto. O perché era stato chiamato “strambo” per l’ennesima volta. No, il suo vecchio amico detective non è mai stato un granché simpatico alla gente, e non stenta a credere che la sua chiusura nei confronti del mondo lo abbia portato a non aver mai avuto nessuno nel letto. Vorrebbe fargli delle domande. Saperne di più di questi vent’anni. Chiedergli se è vero che ha amato John Watson, chiedergli se ancora lo ama. Se aveva delle fantasie che lo riguardavano. Però tace, perché sa che sarebbe azzardare troppo. E poi, che diritti ha? Quale importanza nella vita di un vecchio amico lo potrebbe portare a impicciarsi di quella che è la sua vita? Solo perché si stanno baciando? Un tempo non avrebbe indugiato un attimo. Ma allora dividevano una stanza, la vita. Tutto quanto. Persino la cena. Oggi si conoscono così poco… E poi, Victor lo ha lasciato senza più farsi sentire. Quindi un po’ per vergogna e in altrettanta parte per colpa della sua dannata insicurezza, tace. Eppure la mente viaggia e ora come ora non fatica a convincersi dell’evidente paura che il suo vecchio amico ha di un rifiuto. Teme di esser considerato uno stramboide e, per sua stessa ammissione, a un certo momento ha iniziato persino a sentirsi un idiota. Un “perfetto cretino” come ha aggiunto poco dopo.

«Ah, Holmes… sei tutto tranne che idiota.»

Gli ha detto proprio così, Victor Trevor. E poi lo ha ripetuto, una, due volte mentre Sherlock tendeva un sorrisino appena accennato e forse arrossiva. Lo sa che non è servito a nulla, perché che un uomo dall’animo così tanto tormentato difficilmente si lascia convincere di un qualcosa. Ma almeno ha provato a non farlo sentire inadatto, il che è un buon passo avanti. Sherlock ha faticato a credere alla sincerità delle sue parole. Si aspettava altro, probabilmente perché ritiene strano se stesso. Dice che le persone non pensano sia normale che un uomo adulto non abbia mai fatto sesso con qualcuno. È convinto che anche Victor lo giudicherà, come tutti gli altri. Anche se Victor non è tutte le persone, ha precisato poco dopo, imbarazzato e dubbioso d’aver rovinato ogni cosa. Sherlock è sempre stato dannatamente complicato. Dice e si contraddice. Pensa tutto e il contrario di tutto. Tanto geniale è nel lavoro, quanto impacciato è nelle faccende sentimentali. C’è un lato di lui, forse quello sempre pronto a ricevere batoste, che si aspetta il peggio da chiunque. Anche da Victor che, invece, dice poco o nulla. Al contrario di quanto ci si aspetterebbe, sorride. Mentre Sherlock trema di non capire e si irrita. Probabilmente s’offende, imbronciandosi appena. Come un bambino capriccioso. Perché non sa davvero che cosa ci sia di divertente. E poi lui odia non capire!

«Sei adorabile» gli dice Victor in un non ben precisato momento, accarezzando distrattamente una guancia accaldata. Poi lo bacia delicatamente. Lì, da una qualche parte tra l’angolo della labbra e lo zigomo. Sherlock arrossisce dalla cima dei capelli e Victor pensa sia bellissimo. Non glielo confessa, perché subito viene distratto da altro. Sherlock, per la precisione, che ancora gli sta premuto addosso. Ancora sono schiacciati contro al vetro della finestra, ma pare non s’accorgano nemmeno del freddo dei vetri o del fatto che laggiù qualcuno li potrebbe anche vedere. Ancora sono uno tra le braccia dell’altro. E pare basti così. Infatti, quella che potrebbe essere una situazione potenzialmente problematica, non scatena in loro alcun imbarazzo. Sono sempre stati fisicamente a proprio agio uno con l’altro. Il tempo muterà anche i sentimenti, storpierà la vita riducendola ad altro, ma di certo non cambia cose come questa.
«Sono quindici anni che non faccio l’attivo» confessa Victor, spezzando di punto in bianco il silenzio. L’ammissione è altrettanto imbarazzante, almeno per lui lo è. E infatti abbassa lo sguardo mentre le guance gli si arrossiscono del colore dei capelli. «Lui» riprende facendo un cenno con la testa che finisce lontano e cade nel vuoto. Non c’è bisogno di specificare, Sherlock ha capito di chi si sta parlando. E non gli piace. Digrigna i denti ogni volta che sente nominare questo famigerato “lui”, che sembra non possedere neanche più il diritto ad avere un nome. Prima si chiamava Parigi, ma Victor ne ha declassato l’importanza. Parigi avrà tanti difetti, questo sì, ma non si merita certo d’esser accostata a quel bastardo. Ora, quindi, il suo ex è diventato un pronome qualsiasi. Fra qualche tempo verrà ridotto a “infame” e poi tornerà a esser un’ameba (povere amebe...)! Ma per adesso nessuno di loro ci pensa più. Al momento, Victor è troppo impegnato a gustarsi quella girandola emotiva che è Sherlock Holmes. Perché Sherlock detesta le volte in cui sente nominare Lui, e questo ormai è un dato di fatto. Sherlock non esprime mai parole violente contro qualcuno, nemmeno contro il signor Lui, ma formula frasi misurate e pacate. Victor però capisce lo stesso, intuisce l’istinto di protezione. La gelosia. L’impotenza che si fa strada tra i suoi pensieri e torna a dominarlo. Forse dovrebbero affrontare anche quella traccia di sentimento, che ben poco ha a che fare col passato, ma tutti e due preferiscono evitarlo. Almeno per ora.
«Lui non voleva che… insomma, non voleva che io avessi il controllo. Nel sesso. Non ho idea di quale ruolo abbia avuto con i suoi amanti, e nemmeno mi interessa. Però aveva idee tutte sue su dominanza e sottomissione, e altre idiozie del genere. In ogni caso, il fatto è che anche prima di… non è che io abbia mai avuto tutta questa esperienza. Quindi se vuoi proprio sentirti uno scemo, allora saremo idioti in due. Sempre che tu non voglia sentirti idiota da solo.»
«L’unicità è sopravvalutata» sussurra a mezza bocca, dipingendo da sé un meraviglioso, piccolo sorriso che va a colorare un’espressione altrimenti imbronciata.   

Sherlock non dice più nulla. Però ride. Leggero. Delicato. Mutamente ringrazia la gentilezza. Forse vorrebbe aggiungere un qualcosa d’altro. E magari Victor potrebbe rispondergli a tono. Scherzare ancora. Ma è esattamente a quel punto che entrambi intuiscono che, quella, è la fine della loro conversazione. E allora riprendono a baciarsi. Lenti. Si baciano una, due e più volte. Con l’intenzione di non smettere mai e fondersi in un tutt’uno. Intanto si toccano, ancora. In carezze leggere e delicate, innocenti in un primo momento. Ma che in un ansito dopo l’altro diventano più impazienti. Tremano e ridono, come due ragazzini. Anche se hanno ancora addosso cappotto e sciarpa e ingombranti maglioni. Sherlock ride quando Victor getta a terra il Belstaff con una certa fretta nei modi. Non gl’importa di quanto costa, non ora perlomeno. Dopo, però, ridono di nuovo. Quando la testa s’incastra nel collo nel pullover e Victor si ritrova a rischiare di perdere la punta del naso. Ridono quando i bottoni della camicia faticano a slacciarsi e poi saltano, finendo ovunque per la stanza. Ridono sempre, e intanto si baciano. Come due perfetti idioti innamorati.
«Stiamo per…» balbetta Sherlock, interrompendosi. «Stiamo per fare l’amore, vero?» gli domanda con un’innocenza che fa tenerezza. Arrossendo appena. Victor annuisce e intanto ridacchia, perché sarebbero già parzialmente svestiti e il loro essersi spinti quasi fino al letto dovrebbe chiarire in maniera definitiva che cosa stanno per fare. Ma Victor crede che la verginità di Sherlock sia anche e soprattutto un fatto mentale. E che c’entri relativamente con l’atto fisico in sé. È l’inesperienza a parlare. Come se il semplice lasciarsi andare con qualcuno scatenasse in lui dubbi amletici su un qualcosa che, complicato, non lo è affatto. Non c’è niente di più ovvio di ciò che stan facendo. E la maniera in cui si baciano, il tocco delicato da parte di entrambi. I sospiri. La foga delle lingue che si toccano. Quella mezza erezione che preme tra le gambe. A Vic pare d’esser tornato al liceo, infrattato nello sgabuzzino con Andreas o come accidenti si chiamava. Perciò sorride, perché una parte di lui è ancorata all’università e da lì non si schioda affatto. Una parte che, lì e ora, sta facendo l’amore col suo compagno di stanza. L’affascinante strambo Sherlock Holmes. Forse è sbagliato, eppure Victor sente che non lo è del tutto. E che le verità che albergano dentro di lui sono tante e complesse. Non c’è solo la malinconia e il rimpianto per il passato. C’è anche un qualcosa di attuale e presente. C’è Sherlock adesso che gli chiede di essere almeno un po’ felice. Per questo annuisce e lo bacia di nuovo.
«Non esiste cosa al mondo che io desideri di più che fare l’amore con te, Sherl.» Poi, sono soltanto carezze.
 
 

 
Continua
 
 

Io ho rinunciato a chiedermi di quanti capitoli sarà questa minilong, perché tanto ogni volta che lo stabilisco, il suddetto numero va a ramengo e quindi… ve la beccate finché dura.
Vorrei ringraziare chi sta seguendo la storia, e chi ha lasciato una recensione.
Ko
a

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Capitolo 5
*** V. ***


V.
 


 
La felicità è un vecchio fondale
dipinto da una sola parte.
[Les Misérables]

 
 



Victor crede d’essere arrugginito, in materia sessuale intende. E in effetti lo è. Non ricorda bene come sia condurre il gioco. Avere un ruolo attivo. Baciare per il piacere di farlo, e non per dovere o paura di una qualche reazione negativa. A un certo punto di quell’incidentato percorso che dalla finestra dovrebbe condurli al letto, si rende conto che aveva persino dimenticato quanto fosse piacevole fare l’amore con qualcuno. In effetti non ha idea di come sia avere un ruolo paritario in un rapporto amoroso. Più di un decennio di relazione e Lui gli ha tolto persino questo. Ma sembra che con Sherlock sia tutto più facile e che Victor non debba pensare troppo o misurare parole di circostanza. Contare le carezze. Stare attento a ciò che dice o fa. Con Sherlock è diverso. Tutto lo è. Sherlock non sa bene come muoversi, ma prova a fare del proprio meglio. E Victor lo sente in ogni bacio e carezza. È gentile, e disponibile. Incredibilmente attento nel dedurre che cosa gli piace e che cosa no. La sua inesperienza è evidente dalla maniera goffa e buffa con cui graffia lembi di pelle appena scoperti o per la fretta che impiega nello spogliarlo. Però bacia bene. Victor ci muore, su quelle labbra. Arrossate e umide del loro non voler smettere di baciarsi. Impazzisce sotto al giogo della lingua, e a quello delle dita che s’insinuano sotto la stoffa e gli accarezzano la schiena. Sherlock ha una certa tecnica nel portarlo alla follia e subito dopo a rendergli indietro la ragione. Anche se non ha idea di quanto di volontario ci sia nel modo in cui lo fa impazzire e quanto invece sia da addebitare all’istinto, Victor crede che l’essere assolutamente meraviglioso qualsiasi cosa faccia, gli riesca piuttosto bene. Nonostante la goffaggine, ha un talento naturale. È come non avesse fatto altro che sesso per tutta la vita. Sherlock impara rapidamente e non c’è da stupirsene, è sempre stato sveglio. Ed è pazzesco come riesce a esser sensuale ed erotico, forse senza neanche sapere di esserlo. A iniziare da come si spoglia, in maniera lenta. Studiata e precisa. Non c’è malizia nei suoi gesti, non una traccia di lussuria nello sguardo. C’è solo un’infinita innocenza che trasuda da quelle iridi chiare, scuritesi appena di penombra. Sherlock si leva gli abiti, uno dopo l’altro. Prima i pantaloni, poi la giacca... In quest’ordine preciso. Finché non resta soltanto la camicia che, bottone dopo bottone, slaccia con maniacale cura. È come se sentisse il bisogno di assicurarsi che nessuna delle asole salti o venga strappata. Victor non sa che il rigore di quei gesti è un modo come un altro per placare lo spirito agitato. Però nota che le mani gli tremano e le dita gli inciampano una nell’altra e che pare distante dall’uomo adulto che in realtà è. Somiglia più al ragazzino ventenne che popola i suoi ricordi. Ricordi che ritornano prepotenti e si fanno di nuovo vivi, ma che Victor scaccia con determinazione. Non vuole amare un fantasma. Non vuole fare l’amore col passato, solo con Sherlock. E quindi sorride, tentando maldestramente di rassicurarlo. Dovrebbe essere l’esperto della coppia, ma in realtà è più spaventato di lui.

E quindi gli si fa vicino, con fare lento e misurando gesti che vogliono essere gentili. Le mani di Victor non tremano quando lo aiuta coi polsini. Anche se le parole gli muoiono tra i pensieri nell’attimo in cui scorge tracce di un timido sorriso farsi largo sul volto di Sherlock. Uno stirarsi di labbra che compare tra il rossore di guance affannate per l’eccitazione. È piccolo, leggero. Ma ha il potere di fargli vibrare il cuore.
«Sono un imbranato» ammette Sherlock, tra cascate di risatine nervose. È agitato, trema ancora. Non lo guarda negli occhi, ma li tiene bassi e fissi sui bottoni della camicia. Victor sente la tensione aleggiare nell’aria e farsi più accentuata. Capisce che in lui c’è anche molta paura. Lo sente da come è sottile la voce, dalle ombre che appaiono e scompaiono dal suo volto perfetto. Non crede sia un fatto meramente fisico, non è perché è vergine a quarant’anni. Pensa sia una faccenda sentimentale, infinitamente delicata da affrontare. C’è di più, nascosto dietro. Tra pieghe di sentimenti mai del tutto inespressi e un’intimità volutamente celata dagli sguardi indiscreti degli sconosciuti. Da una qualche parte oltre la volontà di amare, alberga il timore che il proprio cuore si spezzi di nuovo. Sherlock sta facendo l’impossibile per lui. Ciò che nemmeno per John Watson ha mai fatto. Victor lo capisce in quel preciso momento, mentre il fruscio della camicia che scivola a terra lo assorda come farebbe un boato. Tra il silenzio di quella camera d’albergo, vagamente asettica e fino ad allora testimone di quanto triste fosse diventata la sua vita, solo i loro respiri paiono voler rumoreggiare. Victor non smette di tremare, questa volta è lui ad aver paura. Gli sembra che il battere svelto del cuore si riesca a sentire anche a chilometri di distanza e perciò si domanda se anche Sherlock non sembri il tamburo di una banda.

La conclusione alla quale giunge, arriva come un lampo che squarcia il sereno. Victor si sente felice. Ha voglia di ridere e ballare. Vorrebbe disegnare. Disegnarlo. Dedurre tutto ciò che di lui ha dimenticato. E dopo un pensiero, un respiro e un tocco fugace appena accennato, l’ipotesi diventa sempre più realistica. Victor è felice e non riesce davvero a tenerselo dentro. Lui che negli ultimi anni ha dovuto mascherare persino troppo, adesso si lascia andare completamente.
«Lo so che sei nervoso ed è normale» esordisce. Victor gli ha afferrato le mani, le stringe tra le proprie. Ora ne bacia le nocche. Poi solleva lo sguardo e nuovamente sorride. Lo fa tra parole sussurrate e altre sospirate. Mentre Sherlock chiude gli occhi, si lascia appena un poco andare. «Ma se mi concederai l’onore di farmi condurre le cose, ti prometto che non sentirai niente.» La risata di Sherlock esplode con quello stesso gioioso fragore con cui un tuono inonda una nottata senza nuvole. Gli rimbomba nell’anima. Tiene ancora gli occhi chiusi e il capo reclinato indietro, e ride. Ride come non Victor lo ha mai sentito fare.
«Non è esattamente quello che qualcuno che sta per fare sesso vorrebbe sentirsi dire» scherza, sorridendo e questa volta c’è un velo di malizia in lui. Victor rotea gli occhi, si dà dello stupido. Cavolo, ha fatto una figuraccia!
«No, scusa intendevo dire che…»
«Baciami» gli dice, interrompendo le sue giustificazioni. Non è una richiesta. Sembra più che altro un ordine, pronunciato non del tutto seriamente. C’è un divertimento sfacciato nel suo sguardo, un ghigno che gli tira le labbra in maniera sagace. Tiene le lunghe braccia allacciate al collo di Victor e le dita a giocar coi capelli rossi. «Baciami!» Ed è una richiesta gentile, appena sussurrata. «Baciami e basta» ripete.

Baciarsi è lasciarsi alle spalle ogni cosa. L’imbarazzo, nato in un primo momento e poi scomparso. Una certa pena nel confessarsi pezzi della propria vita di cui entrambi discutono malvolentieri. Baciarsi è cacciar via fantasmi del passato, quelli di cui entrambi sono gelosi. In una certa maniera è come tornare in vita, ma questo, Victor crede lo terrà per sé perché Sherlock detesta la frasi sdolcinate. Baciarsi è cadere sul letto e ridere come due scemi. È premerlo contro al materasso e non smettere di toccarlo, farsi toccare e assaggiarsi porzioni di collo esposte. Baciarsi è fare l’amore per la prima volta. Con lui. Insieme. Baciare è farsi prendere da Sherlock, cavalcarlo senza tregua. Ridere per i suoi riccioli scuri che gli solleticano la base del collo. Ridere per le carezze ai fianchi. Per i baci sulla schiena e quelli alla nuca. Baciarsi è l’impeto del sesso. L’avere un ruolo attivo, controllare e dominare, ma mai troppo seriamente. Baciarsi è renderlo inerme, e soprattutto zitto! Anche se è lui a ricevere, Victor sente che quella è la prima volta che decide ciò che vuole da e per il proprio partner. Victor non è mai stato “in due” a fare l’amore. Non con Lui. Ma Sherlock è diverso e baciarsi con lui è aver voglia di farlo davvero. È non smettere mai e incalzare il ritmo. Baciarsi è rendersi conto che Sherlock Holmes, a letto, non sta fermo e immobile un singolo istante. Al contrario è una specie di demonio. Uno che è persino un po’ troppo bastardo per i suoi gusti. Infatti lo provoca, lo stuzzica. Lo afferra per le natiche e poi le stringe. Con forza. Lo fa impazzire e porta al limite, salvo poi allontanarsi e far finta di nulla. Innocentemente stronzo. Baciarsi è non smettere mai di farlo, una spinta dopo l’altra. Sempre più svelti. Uniti. In una sintonia perfetta trovata chissà come. Baciarsi è cercarsi sempre. Anche dopo che hanno raggiunto il culmine, e che crollano nudi e sfatti sul letto. Baciarsi è Sherlock Holmes.

«Cosa siamo?» domanda Victor all’improvviso. Nel bel mezzo di una notte ormai tranquilla. Son passate ore e già forse è mattino inoltrato. Ma a nessuno di loro pare importare. Anche se non hanno dormito, ma questo è un altro discorso. Non hanno parlato, mai. Bastavano i respiri, qualche carezza. Una o due occhiate, una risatina. Un sospiro. E sesso, di nuovo. Loro, illuminati a stento dal filo di luce che entra dalle tende. Ridere, di niente a dire il vero ma perché fa bene al cuore.
«Sei ancora innamorato di lui.» Quella di Sherlock non è una domanda. Afferma e lo fa con determinazione, perché lo sa. Anche se è assurdo perché Victor, Lui lo odia davvero. E c’è una sottile vena di tristezza a colorargli la voce, una nota amara che gli adombra lo sguardo. Non ha bisogno di chiedere, ha capito. E Victor non risponde, non serve. Non tra loro. Mai, tra loro.
«E tu di John» ribatte. Ora s’è voltato su un fianco, sorregge la testa con una mano e non smette mai di guardarlo nel buio. Sherlock fa altrettanto. Col volto voltato da un lato.
«Tra me e John è diverso, e lo sai. Io e lui non siamo mai stati niente.»
«E noi?» chiede Victor. Poi gli monta sopra, si siede sulle sue cosce. Gli carezza il petto con le punte delle dita, lascia che frema e sospiri. Gli concede del tempo, poi attacca. E non c’è pietà. «Noi cosa siamo?»
Questa volta Sherlock non risponde, ma le dita che vanno a cercare quelle di Victor e s’intrecciano alle sue, sono una risposta sufficiente. Mai, tra loro. Mai servono troppe parole. Ora tutto ciò che basterà è una briciola in più di onestà. Sapere di esser qualcosa. Agire invece che trattenersi. Baciarsi invece che non farlo. E lo sanno. Entrambi.

«Siamo che…» Ma le parole s’interrompono, muoiono appena su labbra bagnate di baci. E dita ancora unite. «Siamo che al Queen’s Theatre danno Les Misérables. Ci verresti con me?»
«Tu odi Les Misérables.»
«Amo di più te.»

Sono questo, in realtà. Anche dopo anni. E c’è un’altra storia che andrebbe raccontata. Quella di loro insieme a Baker Street. Quella di un John Watson che accenna malinconici stralci di gelosia, carichi di un’amarezza che sa di troppo tardi. Quella di disegni sparpagliati ovunque e di una passione verace consumata tra casi e cadaveri. C’è la storia di Les Misérables, che Sherlock ancora odia e che non capisce che cosa ci trovi di bello Vic. C’è la storia di quella tazza di tè che vive accanto a una riempita di caffè; perché Victor ancora lo odia, il tè. C’è Portobello Road che risuona nell’aria al mattino presto, fra tracce di colore colate sul pavimento. C’è tutto e Victor lo vede. Vede ogni dettaglio. Come fosse una tela. E nel farlo sorride. Se succederà o meno… beh, non può dirlo. E non lo sa, ma non è una semplice traccia vaga nella sua mente. Non è da solo a dipinger quel quadro, la felicità che gli risuona nel cervello e che grida per esser vista non è un vecchio fondale dipinto da una sola parte. Non più. Ma Victor non sa nulla. In questa notte che sa di giorno c’è solo il loro baciarsi, che ha mille e più sfaccettature. Ci sono loro che ricominciano a far l’amore, ma questa è davvero un’altra storia.
 
 


Fine
 
 
 
Annotazioni: Al Queen’s theatre danno (o davano comunque) davvero una rappresentazione teatrale de: Les Misérables.

Finale vagamene scrubsiano… Come avrete notato ho abbassato il rating ad arancio, perché non sarà mica una vera lemon questa cosa!
Devo ringraziare tutti coloro che hanno seguito questa storia.
Koa

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