SE FOSSE STATO AMORE?

di piccina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROPOSTA ***
Capitolo 2: *** LUTTO ***
Capitolo 3: *** RINASCITA ***



Capitolo 1
*** PROPOSTA ***


“Ciao nonno.”
“Pulcino! Ciao” Scosto la sedia, Nina si insinua e si arrampica sulle mie ginocchia.
“Ciao papà, disturbiamo? Il brigadiere ha detto che eri libero …”
“Non disturbate affatto, anzi. Come mai da queste parti? E perché tu, birbante, non sei all’asilo?”
“Sono andata a fare i vaccini. Non ho neppure pianto, così la mamma mi ha comprato questa” Mi mostra fiera, una bambolina di non so quale serie. Faccio finta di riconoscerla, mi spiace fami prendere in castagna dalla puffetta di cinque anni appena compiuti.
Laura, mia figlia, si siede. Accavalla le lunghe gambe che si scorgono dalla gonna e in questo gesto mi ricorda tanto sua madre. Assomiglia moltissimo ad Amanda quando aveva la sua età, credo che guardando mia figlia, negli anni, potrò immaginare come sarebbe diventata se avesse avuto il tempo di invecchiare.

“Nina è voluta passare. Come va? Sei pronto? Manca poco Signor Generale a tre stellette”
Nina ha preso una penna dal porta penna e si accinge a scarabocchiare. “No, non qui. Aspetta.” Apro il cassetto e ne prendo un foglio di carta riciclata. “Tieni”
Fra tre settimane è il mio ultimo giorno. La terza stella zigrinata, d’argento, è arrivata sei mesi fa, vado in pensione come Generale di Corpo d’Armata. L’ultima promozione come commiato, un regalo per rendere più pesante quanto lo Stato mi riconoscerà tutti i mesi.

“Si manca poco e ti dirò, per ora non mi dispiace. Il mio l’ho fatto, adesso è l’ora che mi tolga dai piedi.” Sorrido. “Finalmente avrai un baby sitter gratis, sei contenta?” “Certo! Anche perché se aspetto la mamma, campa cavallo… lei ne ha ancora un bel po’ davanti. Cerca di non essere troppo rompi e datti da fare in casa, mi raccomando.” “Oh bimba, ma con chi credi parlare?! Mi sono sempre dato da fare io!” “Vero, quando c’eri … “ridacchia bonariamente, ma la stoccatina intanto me l’ha tirata. Diciamo che quando erano piccoli lei e i suoi fratelli, sono stato un po’ tanto preso dal lavoro e dalla carriera e quella che c’era, quella che c’era, sempre e comunque, era la mamma. La mia seconda moglie, quella che anche Laura chiama mamma. 

Sono strani i casi della vita. Ero sicuro che Amanda fosse la donna sbagliata. Finalmente quella sera avevo aperto gli occhi. Rientravo a casa, i miei passi echeggiavano sul selciato del vicolo deserto. Stringevo con rabbia la scatoletta con l’anello nella tasca della giacca. Un saluto veloce con Patrizia che avevo incrociato per caso, rifiutai il passaggio, avevo bisogno di camminare.
Arida, egoista, prepotente, dittatoriale. Quante volte me le sono ripetute queste parole ripensando ad Amanda? Tante, anche mentre firmavo la richiesta di trasferimento. Cambiare. Cambiare aria, cambiare, vita, cambiare Comando.  Salutai Nino, Pietro, i miei uomini, con il groppo alla gola, ma avevo deciso. Mi accomiatai dalla famiglia Cecchini con dispiacere. Mi ero affezionato a tutti loro, al Maresciallo ovviamente e con la figlia più grande negli ultimi tempi, dal suo rientro dall’Erasmus, era incominciata a nascere una bella amicizia. Mi ripromisi di non lasciarla cadere. Non fu così. Con Patrizia ci perdemmo di vista. Ho saputo, per caso, da Cecchini che si era laureata in medicina ed era ripartita per gli USA, per una specializzazione in medicina forense. Fui traferito a Lucca e non fu un brutto periodo. Non ho più messo piede a Urbino in quegli anni.

Squilla il telefonino di Laura, si china e lo cerca nella borsa. Nel farlo i lunghi lisci capelli neri le cadono sul viso, li riporta indietro con la mano. Uguale. Come sia possibile che sia così identica, un mistero. Eppure Amanda se ne è andata che lei aveva tre anni, non può essere emulazione.
Arida, egoista, prepotente, dittatoriale. E mi mancava, ma piuttosto che cercarla mi sarei fatto torturare. Avevo fatto sparire qualsiasi riferimento a lei dalla mia vita. Nulla che me la ricordasse. È che era piantata nel mio cuore e non se ne andava.

Arida, egoista, prepotente, dittatoriale. Mi ripetevo. E non vuole quello che vuoi tu. Mi giravo su un fianco e mi dicevo: dormi. La sera solo nel letto, quando il desiderio di lei e la sua assenza si facevano più forti. I mesi passavano, la vita andava avanti e pure abbastanza bene. Quel tarlo era sempre li, che mi prendeva a tradimento, quando non me l’aspettavo. Nel profilo di una donna che fa la spesa e le assomiglia, nella sagoma di una ragazza che scende da un taxi, in un profumo che mi arriva alle narici mentre sto entrando al cinema. Incominciavo a pensare di non essere tanto normale, come si può stare così per una donna che ti ha respinto, che ti ha trattato come uno zerbino per anni, per una donna arida, egoista, prepotente, dittatoriale? Il fatto è che io non mi ero innamorato di quella donna, ma di una ragazza allegra, divertente, bella, felice, che mi correva incontro, che mi aspettava fuori dall’accademia. Che cambiava i turni, che faceva tratte pazze per rubare i momenti per stare insieme. E Amanda era spiritosa, ironica e intelligente. Era spigliata e diretta, anche per me che ero imbranato e timido. Era cambiata, è vero, però io la trovavo ancora quella ragazza quando lei si dimenticava di recitare la parte che, chissà perché un giorno, aveva deciso di dover interpretare sul palcoscenico della vita. Erano sprazzi, erano momenti, quando i suoi occhi ridevano di nuovo, quando la beccavo a guardami di nascosto come tanto tempo prima, come quando mi reggeva comunque il gioco con il Maresciallo anche se secondo lei era una cazzata e lo faceva guardandomi con lo sguardo ridente, benché la faccia fosse truce, quando comunque riusciva a tornare da Pechino per non lasciarmi solo al ballo dell’Arma. Troppo poco, Giulio.

Troppo poco. Dormi.

Un sabato mattina, era abbastanza presto, in tuta, stavo uscendo per andare a correre sulle mura. Fuori dal portone c’era lei. Struccata, in jeans e maglietta, con i capelli stretti in una coda di cavallo che sembrava fatta in fretta e furia. Non l’ho neppure salutata e ho iniziato a correre. Via veloce, velocissimo. Non volevo pensare a cosa volesse, ma solo che se ne andasse. Stare lontano il tempo sufficiente per non ritrovarla. Ho corso per circa due ore, quando sono rientrato ero stanchissimo, tutto sudato. Era ancora lì. Seduta sullo scalino del portone. Ci siamo fissati, poi l’ho scansata e sono entrato. Mi sono fatto la doccia e mi sono cambiato. Ho bevuto due bicchieri d’acqua e poi ho sceso piano le scale. Ho aperto il portone. Era ancora seduta sullo stesso scalino “Sali” le ho detto. Si è alzata e mi ha seguito.
“Mi manchi”
“Ne prendo atto”

Mi aspettavo che si mettesse a piangere. Invece niente, mi guardava fissa negli occhi. Cercava qualcosa che io non volevo trovasse, ma c’era, dannazione, c’era. “Ho sbagliato tutto e non quella sera. Ho iniziato a sbagliare anni fa. Scusami. Non so più chi sono diventata e non so come tu abbia potuto chiedere di sposarti alla donna che sono diventata. Sono venuta solo per ringraziarti per non avermi più cercata da quella sera. Per le prime settimane sono stata bene, mi pareva di stare bene. Poi Capitano hai iniziato a mancarmi come l’aria e nell’enorme superbia in cui ero caduta ero sicura che saresti tornato a supplicarmi. Grazie di non averlo fatto. Grazie di avermi fatta stare male. Male Giulio, male come erano anni che non stavo. Ora non sto meglio, ma forse ho iniziato a ritrovarmi e lo devo a te. Ecco volevo dirti questo. Ciao Giulio. Buona fortuna.” Tutto mi sarei aspettato. Tutto, ma non questo.

La afferro per un braccio prima che varchi la soglia di casa. “Mi manchi anche tu.” La spingo dentro. La guardo in viso. Mi fa impressione senza trucco, quanti anni erano che non succedeva? Non lo ricordo neppure più. Pieno giorno e Amanda non è in tiro. “Sembri una ragazzina” le dico. Sorride.  “Come quando ci siamo conosciuti …” e questa volta la voce è strozzata. “No, allora eri una ragazzina, adesso lo sembri” scherzo. Si mette a ridere ed è di nuovo lei. La mia Amanda. La tiro a me e la abbraccio. Stiamo fermi per un po’ poi le accarezzo i capelli. Dopo qualche minuto alza il viso. Muove leggermente una spalla: “me l’hai detto tu, tante, troppe volte, negli ultimi anni, senza che io ti rispondessi e adesso, anche se magari sarai tu a non rispondere, te lo dico io: ti amo, Giulio. Ti amo”.
Probabilmente avrei dovuto fare il duro, invece mi sono commosso. Ho sospirato e con gli occhi lucidi le ho risposto: “pure io”
Mi stringe fortissimo e non parla più. Sono io che le alzo il viso con la mano “ehi … “poso le mie labbra sulle sue. Mi prende il viso fra le mani e mi bacia con una passione che era così tanto che non ricevevo da lei, che un brivido mi attraversa. La prendo per mano e la porto in camera.
“E adesso?” mi chiede dopo.
“E adesso non lo so …” rispondo sincero, mentre continuo ad accarezzarle la schiena. “Tu cosa vorresti, se potessi scegliere?” le domando.  La risposta mi lascia senza parole, per la seconda volta Amanda mi spiazza completamente.
“Vivere con te, ma lo so che non è possibile, però magari, se ti va, possiamo ricominciare a vederci ogni tanto.” La faccio girare. Sono serio. “Dipende da quanto hai intenzione di fare la stronza”

È più seria di me, quando risponde “Mai più stronza, te lo prometto. Magari litigheremo, ma da pari a pari, come era un tempo. Te lo giuro Giulio.” Sei mesi dopo ci sposavamo. Siamo stati felici, per cinque anni. Fino a quando quel maledetto aereo non è caduto e insieme a lei si è portato via il nostro futuro.
Laura che adesso mi sta dicendo che vanno, distogliendomi dai miei ricordi, stava per compiere tre anni. Non mi dimenticherò mai quella telefonata. “Maggiore una chiamata per lei dalla Farnesina, c’è stato un incidente aereo, si teme un attentato.” Non avrebbe dovuto essere su quel volo. Era stata una sostituzione dell’ultimo minuto. Avevamo chiamato la baby sitter, ringraziandola infinitamente di essersi resa disponibile così all’improvviso per andare a prendere Laura all’asilo e poi aspettare che io rientrassi a casa alla sera. Amanda sarebbe dovuta rincasare in nottata. Né io né Laura l’abbiamo più rivista. È stata durissima. Non sono stato all’altezza della situazione, non i primi tempi almeno. Sua madre, i miei, tutti intorno a me mi dicevano che dovevo farmi forza, che dovevo farlo per mia figlia. Io guardavo Laura e sapevo che era giusto, ma neppure la mia bambina mi pareva una buona ragione per andare avanti. Ero morto anche io. Intendiamoci facevo tutto, andavo a lavorare, mi coordinavo con la babysitter e non mi sono mai dimenticato di andare a prenderla all’asilo, alla sera le preparavo la cena, la lavavo e la mettevo a letto, ma se non ci fosse stata per me sarebbe stato meglio. Lei si ostinava a vivere e io ero morto. Insieme a sua madre.

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Capitolo 2
*** LUTTO ***


Con l’onestà crudele dei bambini è stata Laura a riportarmi alla realtà. Era passato quasi un anno dall’incidente, era il ponte dei Santi ed eravamo Roma dai miei. Il mio stato d’animo, se possibile, era ancora più cupo in quei giorni in cui si commemorano i propri morti. Amanda riposa in un cimitero qui nella capitale ed ero appena tornato. Laura era in sala con i nonni, c’erano ospiti, sentivo voci. Sperai che nessuno mi avesse sentito, l’ultima cosa che desideravo era fare conversazione. Passando davanti alla porta accostata, con fare furtivo, non potei impedirmi di sentire qualcuno fare una di quelle odiose domande che a volte gli adulti rivolgono ai bambini, ma non fu questo quello che mi colpì, bensì la risposta di mia figlia. Una fucilata in pieno petto.
Non ho mai saputo quale fosse la prima parte della conversazione, so solo che sentii chiedere: “Chi è che ti vuole più bene al mondo, Lauretta?” e la vocina di mia figlia rispondere convinta: “Serena” che era la baby sitter. Silenzio e sconcerto per qualche secondo e poi con voce melliflua a coprire imbarazzo: “Ma no, dai Laura, è papà” e mia figlia decisa ribattere: ”No. Papà no.”
Quella sera dopo a cena, la bambina era già a letto, dissi ai miei che Laura ed io saremmo ripartiti il giorno dopo. Rimasero stupiti, dovevo fermarmi anche io ancora tre giorni e poi eravamo d’accordo che Laura sarebbe rimasta due settimane a Roma. “Cosa è successo Giulio? Problemi in caserma? Ma perché ti porti via anche Laura?” mi domandò mia mamma. “È successo che devo tornare a fare il papà, mamma e ho bisogno di stare solo con Laura. Domani rientrando ci fermiamo a Livorno al Cavallino Pazzo e poi vediamo, cercherò di prendermi qualche giorno di licenza in più. Mia figlia pensa che non le voglia bene…”
Ero scoppiato a piangere, i gomiti sul tavolo e il viso fra le mani. Mio padre si era alzato e mi aveva messo una mano sulla spalla che sussultava per i singhiozzi. “Ha ragione, Laura ha ragione, non sono più capace di volere bene a nessuno, neanche alla mia bambina, ma che razza di uomo sono diventato? Amanda non me lo perdonerebbe, Laura già non me lo perdona più.”
“Giulio, tesoro. Il dolore, quando è così forte, fa questi scherzi e non si ha la forza più per nessuno, sembra impossibile, ma neppure per i propri figli. Non vuol dire essere dei mostri, vuol dire essere umani e aver amato. L’importante è superarlo. Io lo so che tu ami Laura, papà lo sa e lo sa anche lei, devi solo ricordarglielo. Coraggio amore mio. Noi siamo qui.” Aveva detto mia madre abbracciandomi.
Da quella sera qualcosa era scattato. Laura ed io eravamo tornati a Lucca, ero rientrato in servizio giusto il tempo per chiedere due settimane di licenza per motivi famigliari, avevo affittato un camper ed eravamo partiti. Soli io e lei. Io e la mia bambina. E ce l’avevamo fatta. Ero partito credendo di farlo per lei, ero tornato che le ero grato per avermi ridato la voglia di vivere.
Amanda continuava a mancarmi. La sera a letto, a volte, mi veniva ancora da piangere o al mattino, al risveglio quando allungavo il piede e non la trovavo, ma avevo ricominciato a ridere. Laura era la mia carica, la mia allegria e la mia spinta. È in quei mesi che siamo diventati una bella coppia io e lei. I miei figli li amo tutti, i due ragazzi li adoro, ma Laura è sempre la mia bambina, anche adesso che è grande, ha una figlia di cinque anni e ancora ci basta uno sguardo per capirci al volo.
“Saluta il nonno che andiamo, dobbiamo ancora fare la spesa.” La voce di Laura mi riporta al presente. “Ciao nonno” sgattaiola via. La acchiappo per un piedino. “Che ciao nonno… Neanche un bacino?” Ride e torna su “È vero” e mi schiocca un bacio sulla guancia e mi avvolge il collo con le sue braccina, poi scende veloce verso la mamma che le infila il cappottino. Mi alzo e vado verso Laura. “Domani venite a cena da noi? Confermo alla mamma?” e le faccio una carezza. “Non lo so ancora, ma credo di si” “Senti fai così, chiamala tu così evita di dare il tormento a me… che i figli l’avvertono sempre all’ultimo momento.”
“Ema più che confermare all’ultimo si presenta all’improvviso” ridacchia. È vero. Emanuele, il secondo, è andato a vivere da solo da qualche mese e ha l’abitudine di presentarsi a cena o pranzo a sorpresa, senza avvertire. Niente di male, per carità se arrivasse solo, invece di solito si presenta in compagnia di qualcuno, amico, fidanzata o entrambi e la mamma, che magari non è attrezzata per avere due o tre ospiti in più si irrita un pelino. Gliel’ho detto in tutte le salse, niente non c’è verso. Poi lui se ne torna a casa sua e la consorte incazzata me la cucco io. Matteo, il più piccolo, ha 19 anni, frequenta il primo anno di Ingegneria e vive ancora con noi.
La giornata passa abbastanza veloce. Non ho più molto da fare, lontani i tempi quando non c’era orario, adesso sono un pensionando e me la godo. Sono le 17 e 30, spengo il pc e alzo il telefono. “Come sei messa? Esci anche tu? Si batte la fiacca oggi, eh? Passo a prenderti” Smorzo la luce sulla scrivania, cappello, guanti, cappotto sul braccio, visto che devo solo scendere due rampe di scale.
“Comodo Carasale” dico entrando “il Maggiore è libero?” chiedo, visto che la porta dell’ufficio è socchiusa. “Le ho passato una chiamata qualche minuto fa, ma credo abbia finto.” Deve aver sentito la voce perché mi chiama “Entra, finisco una cosa e sono pronta” mi avvicino alla porta. La targhetta recita “Magg.re. Cecchini Patrizia – Ufficiale Medico”
Mette due firme. Si alza, cappello, guanti e cappotto pure lei. Molla i fogli che ha appena firmato sulla scrivania di Carasale e lo saluta “Mettili nelle cartelle cliniche, grazie. Io vado. Ciao Giuseppe, a domani”
Qui al secondo piano, zona di infermeria e di visite per l’arruolamento, prima che militari sono medici e infermieri, l’etichetta militare fra di loro non la usano proprio. Solo quando sono costretti, perché ci sono esterni. Io da mo’ non sono più considerato esterno, sarò anche Generale, ma prima di tutto sono il marito di Patrizia. Mi danno del lei, si alzano e fanno tutto per benino, per carità, ma non so come dire, non c’è marzialità qui dentro.  È per questo che Pat si trova bene, immagino.  Come le sia venuto in mente di arruolarsi è per me, a distanza di vent’ anni, ancora un mistero a volte. In realtà è un ottimo carabiniere, una grande anatomopatologa e ci ha dato mano decisive nel risolvere molti casi. Ha un profondo senso della giustizia e dello Stato, è per questo la divisa, in fondo, le sta bene addosso per quanto sia un tantino refrattaria alle regole. Per un certo periodo sono stato il suo superiore e mi ha fatto diventare matto, poi mi ha fatto diventare anche il suo fidanzato, ma questa è un’altra storia. Sorrido al ricordo, mentre saliamo per le scale. “Sono passate Nina e Laura” “Lo so hanno fatto un salto anche da me” mi risponde. “Non potevi farglieli tu i vaccini?” domando. “Preferisco di no, meglio che la nonna non sia quella che fa le punture, se posso evitare” strizza l’occhio. “Nonna bellissima e astutissima.” È bella sul serio. Una bella cinquantenne.  Io ho sessantacinque anni e sono dodici gli anni che ci dividono. Per colpa mia è diventata nonna giovane, così come si era trovata a fare la mamma di una bimba di sei anni, pur di stare con me.
Me lo ricordo come fosse ieri. All’epoca ero Maggiore.
“Maggiore, è arrivato il nuovo Tenente.” “La faccia accomodare” avevo risposto e pensavo, corsi e ricorsi storici un altro Cecchini sotto il mio comando andando con il ricordo a Nino. Non sapevo quanto ero profetico, l’avrei scoperto di lì a pochi secondi.
Sulla scheda avevo letto Patrizia Cecchini, ma avevo pensato a un caso di omonimia. L’ultima volta che avevo sentito Nino, ormai in pensione, non mi aveva accennato al fatto che Patrizia si fosse arruolata. A dire il vero delle figlie parlavamo poco, durante le nostre telefonate. Di solito mi limitavo a chiedere se stessero bene e lui mi rispondeva genericamente di si, sapevo che Patrizia era rientrata dagli States, qualche anno prima, più o meno due anni dopo che mi ero sposato, e nulla più.
Faccia a faccia. Ci guardiamo stupefatti.  Era lei. Me la ricordavo giovanissima, ancora all’università. Adesso aveva ventinove anni ed era il mio nuovo medico legale. “Tenente Cecchini a rapporto, Signore” aveva scandito. Rimanendo sull’attenti davanti alla mia scrivania. “Comoda” avevo risposto alzandomi, andando verso la porta per chiuderla. “Ciao Patrizia -  le avevo detto– che sorpresa. Non pensavo fossi tu. A dire il vero non sapevo neppure ti fossi arruolata. Siediti” mi ero andato a sedere pure io. “Neanche io sapevo che fosse lei il Maggiore a cui dovevo presentarmi oggi per prendere servizio a Lucca. Una sorpresa anche per me. Come sta? Sua moglie?” Evidentemente sapeva che mi ero sposato, ma non che fossi vedovo ormai da un anno e mezzo. “Sto bene, grazie – rispondo e glisso sul resto, non voglio metterla in imbarazzo. E tu? Ci davamo del tu se non ricordo male. Qui siamo soli, hai il permesso.” Sorride. “Grazie” “Adesso devo andare, fatti accompagnare agli alloggi, ti sistemi, io fra una quarantina di minuti dovrei essere di ritorno e ti presento al Tenente Pelli che sarà il tuo superiore diretto, ok?” “Comandi” risponde. Eravamo usciti insieme dal mio ufficio, l’avevo lasciata alle cure dell’appuntato e mi ero diretto verso l’ufficio di Serci. 

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Capitolo 3
*** RINASCITA ***


Aveva preso servizio. Ogni tanto mi capitava di osservarla. Si era inserita benone. Pelli me ne parlava egregiamente, solo qualche appunto sulla forma e io pensavo tale padre, tale figlia, ma non lo dicevo. Avevamo poco a che fare direttamente. Tre gradi fra me e lei. Vedevo i suoi rapporti sulla mia scrivania, nei fascicoli che mi arrivavano dai suoi superiori. Erano precisi, dei buoni lavori. Mi ero stupito nel constatare che non si era cercata casa fuori, ma continuava ad alloggiare in caserma. Qualche volta ci eravamo trovati allo stesso tavolo, con altri, alla mensa ufficiali e in quelle occasioni nessuno dei due aveva lasciato trasparire il passato che avevamo condiviso a Gubbio. E comunque risaliva alla notte dei tempi. Era esistito sul serio? Pareva quasi di no. La Patrizia ragazzina intenta a sfuggire agli assillanti controlli paterni per andare a ballare non esisteva più e il Capitano impacciato e sottomesso a una fidanzata dispotica neppure, c’era un papà solo, abbastanza sereno, ma che ancora pensava, adesso con dolcezza, a una moglie amata. Circa due anni dopo che era arrivata, l’influenza A decimò la caserma, così mi trovai ad avere a che fare direttamente con lei, per un caso e a urlare nuovamente esasperato, questa volta nell’interfono, e non dalla porta come per suo padre a Urbino, perché lei l’ufficio ce l’aveva al piano dei laboratori: “CECCHINI!” “Comandi Maggiore” rispondeva con aria soave, anche quando l’aveva fatta grossa. “Immediatamente nel mio ufficio” “Volo” rispondeva invece di “Comandi” e l’avrei strozzata.
Arrivava, le mostrine da Capitano, sul camice bianco aperto sulla gonna e camicia della divisa, nel frattempo era stata promossa, perché era indisciplinata, sconsiderata a volte, ma bravissima e dotata di un intuito eccezionale. Se ci penso che sono stato io a rallentare la sua promozione a Tenente Colonnello. È stato il mio parere negativo a farle attendere l’avanzamento un anno di più e dire che stavamo già assieme, ma una regolata se la doveva dare. “TU!! TU hai dato parere negativo.” Era entrata in casa mia sibilando furiosa. “Se ti danno così fastidio gli ordini, la disciplina e la forma non ti dovevi arruolare” le avevo risposto semplicemente. Era uscita sbattendo la porta.  Poi si era data una regolata, non tanto, ma una cosa dignitosa e il mio parere favorevolissimo l’aveva avuto. Quel caso ci costrinse a lunghe giornate al lavoro e qualche nottata. Furono parecchie le cene nel mio ufficio, davanti al cartone della pizza o ai contenitori del cibo cinese. Sono situazioni che inducono alla confidenza e così successe a noi. Riscoprimmo quell’amicizia che stava nascendo anni prima e che poi si era interrotta.
Incominciammo a vederci qualche volta anche fuori dal lavoro, anzi soprattutto fuori dal lavoro, perché finita l’emergenza sanitaria, per lavoro ritornammo ad avere poco a che fare direttamente. Spesso con amici, a volte da soli. Una pizza, un cinema, uno spettacolo a teatro. Lasciavo Laura a Serena e mi concedevo qualche serata fuori, tanto lei crollava alle nove e quindi non le toglievo praticamente nulla. Ricominciavo ad avere una vita normale e senza che me ne accorgessi, in questa nuova vita c’era entrata Patrizia.
Ogni tanto succedeva che dovessi portare Laura in ufficio, quando capitava qualche emergenza e non sapevo dove piazzarla. Ormai eravamo una coppia collaudatissima, ci portavamo il portatile che usavamo a casa, una buona scorta di cartoni animati, l’astuccio con i colori, i fogli per disegnare e uno zainetto pieno stracolmo di bamboline micro, con le alette, mi pare fossero le winx. Più che altro mi portavo una bambina dotata di una pazienza infinita, capace di trascorrere intere domeniche con me, in ufficio, senza un capriccio. Ogni tanto mi veniva in braccio, le facevo due coccole, parlavamo cinque minuti e poi tornava a farsi i fatti suoi lasciandomi lavorare. Quando capitava che Patrizia fosse in servizio e ci vedeva arrivare, poco dopo faceva in modo di passare nel mio ufficio “Maggiore che ne dice, posso portarmi una bambina giù nelle segrete stanze?” E così mia figlia è cresciuta trovando normale aggirarsi nelle stanze asettiche dove si eseguono le autopsie, fra gli odori di disinfettanti che io ancora adesso trovo nauseabondi e nei laboratori d’analisi. Credo si divertisse un mondo con Patrizia giù di sotto. Secondo me è colpa sua se adesso fa il chirurgo.
Un sabato Laura ed io decidiamo di andarcene a pranzo in un agriturismo fuori città, mi hanno detto che ci sono i pony e fanno fare dei bei giri ai bambini. Ce la voglio portare. È Laura che invita Patrizia, quando la incontriamo la sera prima al supermercato mentre facciamo la spesa.
A tavola, come al solito, Laura cincischia con il cibo invece di mangiare. La sgrido. Quella svergognata di figlia, che non ha neppure cinque anni mi guarda fissa negli occhi e mi dice: “Papà ti spiego un concetto: se uno ha fame mangia, se uno non ha fame non mangia”. Patrizia fa finta che le sia caduto il tovagliolo e si tuffa sotto il tavolo per non farsi beccare a ridere, io non so come ho fatto a resistere, ma ce l’ho fatta e ho risposto: “Il concetto te lo spiego io ed è semplicissimo: se uno non mangia non fa il giro sul pony”. Si era messa a mangiare zitta e velocemente. Di giri sui pony ne aveva fatti parecchi poi si era messa a giocare con altri due bambini nell’area giochi attrezzata, Patrizia ed io ci eravamo seduti sul prato poco distante.
“Certo che è proprio un bel tipetto!” mi dice Patrizia “come ti ha risposto a tavola? Mitica!”
“Lascia perdere, ogni tanto ne inanella di quelle, fin da quando era piccolissima. Una roba da pazzi, questa se non sto attento, mi mette i piedi in testa in un lampo, però è forte” dico orgoglioso e con lo sguardo l’accarezzo “assomiglia alla mamma” concludo.
Patrizia si volta “Posso chiederti una cosa?” “Certo” “Se non ti va non mi rispondere, sono fatti tuoi, ma sono curiosa.” “Spara” “Si tratta di omonimia o tua moglie era proprio l’Amanda che conoscevo io?” chiede spiritosa. Scoppio a ridere, capisco cosa intende. “Era proprio lei, incredibile che io la rimpianga ancora, vero? Masochista proprio stai pensando, eh?” Fa la faccia buffa, come dire “Un po’”
“Hai ragione, Pat. La donna che avete conosciuto a Gubbio era proprio odiosa e insopportabile e io un grazioso babbeo. Non è lei la donna che ho amato e amo – aggiungo piano. Si era persa. Io avevo permesso che lo facesse, con la mia accondiscendenza. Lo sai vero che ci eravamo lasciati?” “Si” “Non ci siamo più sentiti per otto mesi, io ero stato trasferito qui. È tornata a cercarmi, ma è tornata sul serio, nel senso che era di nuovo lei. La donna della quale mi ero innamorato tanti anni prima, quella che mi capiva, che voleva le stesse cose che volevo io, quella con cui ridevo, giocavo, con cui ero felice, quella con la quale sognavo e immaginavo la mia esistenza. Quella che mi guardava come solo lei mi ha mai guardato in tutta la mia vita. Era tornata l’Amanda che mi amava.”
“Ora comprendo” dice “e anche perché qui della Signora Tommasi, hanno tutti un buon ricordo.  Capisco che dei morti è difficile si parli male, ma mi pareva incomprensibile. A Gubbio a chi chiedi, chiedi il più gentile le voleva mettere due dita in un occhio”. Rido di nuovo. 
In quei mesi credo che Patrizia abbia avuto una simpatia ricambiata con il dott. Simeoni, un giovane procuratore. Non ne sono sicuro, non gliel’ho mai chiesto. Sicuramente l’auto blu con i vetri antiproiettile con la quale si muoveva da quando aveva ricevuto delle minacce, si vedeva un po’ troppo spesso sotto casa sua, alla mattina presto. Mi capitava di scorgerla quando riuscivo a fare un po’ di corsa prima di andare in caserma, le mattine che Serena arrivava presto e preparava lei Laura. Tornavo, mi facevo la doccia, indossavo la divisa, me la caricavo sulle spalle e la portavo all’asilo. Serena si fermava a dare una riordinata a casa, ci faceva un po’ di spesa e spesso ci cucinava qualcosa per la sera, anche se non era nei suoi compiti. Ci viziava.  
A vedere com’è andata a finire si potrebbe pensare che io fossi geloso, per niente. Mi ero affezionato a Patrizia, ci vedevamo spesso, lei e Laura andavano d’accordo, ma eravamo solo amici. Non ero pronto ad amare nessun’altra.
Così come aveva iniziato, l’auto blu smise di farsi vedere sotto casa del Tenente Cecchini e le nostre uscite si fecero invece più frequenti. Capitava sempre più spesso che uscissimo insieme dalla caserma, che passassimo in rosticceria e che poi Patrizia venisse a cena da noi, oppure se era presto facevamo la spesa e poi cucinavamo qualcosa. Laura andava a letto presto e io e Patrizia ci vedevamo un film, ascoltavamo un po’ di musica. Io mi sorpresi, di me stesso, più di una volta ad osservarla dal vetro del mio ufficio, mentre passava nell’open space e non erano sguardi opportuni.  Era bella il Tenente. Fino ad allora era come se non me ne fossi mai compiutamente reso conto. Lo ammetto, prima che il mio cuore, di Patrizia come donna, se ne è accorto il mio inguine. Il che comunque mi era sembrata una notizia da prima pagina, iniziavo a pensare di averne perso l’uso. Non avevo più provato desiderio per nessuna. Adesso Patrizia, si toglieva il maglione e il gesto delle braccia alzate, mentre lo sfilava dalla testa e lasciava scoperta la T-shirt aderente che fasciava i seni sodi, che svettavano, rendevano i miei jeans improvvisamente troppo stretti. Tossivo e mi allontanavo.
Una sera che era da noi, rideva come una pazza mentre guardavamo uno di quei film di comicità demenziale che piacciono a lei, aveva il viso accesso dalle risa, i riccioli scomposti e gli occhi resi luccicanti dalle lacrime che il troppo ridere le aveva procurato. Non so cosa mi sia preso, mi sono appoggiato veloce sulle sue labbra. Si è ammutolita e ho temuto seriamente che mi tirasse una sberla. Invece mi ha messo la mano dietro la nuca e mi ha stampato un bacio come si deve. Ci siamo spostati in camera con le labbra incollate. Erano quasi tre anni che non facevo l’amore con una donna. Quando l’ho vista sdraiata sul letto, sul nostro letto, ho avuto un momento di vertigine, lo confesso. È durato un attimo, ho chiuso gli occhi e spero che Patrizia non se ne sia accorta. Poi è stato tutto facile, un segno. Sarebbe stato facile amare Patrizia, solo dovevo averne il coraggio. Quello era meno facile.
La mattina quando si era svegliata mi aveva fissato, forse cercava una risposta. “Mi sono addormentata” “E già, Tenente. Buongiorno!” e le avevo dato un bacio sulla bocca. Si era alzata veloce. “Ora vado” L’avevo acchiappata al volo per un polso, tirandola a cadere sul materasso. “Che hai? Dove vai?” “A casa”  aveva risposto, sintetica. Non mi aspettavo che ci giurassimo amore eterno, ero molto lontano dall’idea pure io, ma neanche che fuggisse a gambe levate. “Ero un po’ arrugginito, lo ammetto, ma è stato così orribile da scappare in questo modo?” provo a smorzare l’atmosfera con una battuta. Si apre in un sorriso che poi si trasforma in una lieve risata. Scuote la testa “Non te la sei cavata affatto male” “Ah, menomale, almeno quello” replico e la tiro un po’ più verso di me. “Sono in imbarazzo” ammette infine. “Non devi. Ti sei pentita?” “No” “Bene, perché neanche io, quindi non vedo dove stia il problema. Mi piaci Tenente.”  L’avevo baciata. “Anche tu mi piaci, Giulio Tommasi, parecchio” 
Era iniziata la nostra storia che con i mesi si era fatta sempre più stretta e quotidiana, Patrizia aveva mantenuto il suo appartamento, ma ormai da qualche tempo ci passava solo raramente. Convivevamo di fatto. Io non so se l’ho fatto coscientemente, ma sicuramente una delle cose che mi ha portato verso Patrizia è che ho sentito che era una mamma, molto prima di diventarlo biologicamente. Non avrei potuto amare e ricominciare con una donna che non avesse saputo amare la mia bambina.  Laura aveva accettato il nuovo ruolo di Patrizia nella mia vita e quindi nella sua, con un’apertura che mi aveva commosso e Patrizia aveva saputo entrare nella sua vita in punta di piedi, con delicatezza, rispetto, allegria, dolcezza e amore. Dopo nove, dieci mesi che viveva con noi, chi non ci avesse conosciuto prima avrebbe senza dubbio creduto che fossero mamma e figlia, se non per il fatto che Laura la chiamava Patrizia.
Accecato dall’egoismo di chi assapora di nuovo la gioia e la serenità dopo anni di dolore e ansia, in quel periodo non mi sono accorto di aver fatto parecchi errori e di averla ferita senza accorgermene.  Con le mie omissioni, con pensieri che non traducevo in parole. Solo quando ho rischiato di perderla mi sono accorto che non le avevo mai detto che l’amavo. Lei si, in quell’anno e mezzo prima che accettasse di andare a La Spezia lei me l’ha detto, qualche volta, poi ha smesso e io stupido non me ne ero accorto. Sentivo di amarla, sentivo che mi amava, vivevamo insieme, Laura era felice, andava tutto bene per me.  E invece lei si sentiva un surrogato.
L’avevo fatta chiamare nel mio ufficio. “Siediti.” Avevo in mano la comunicazione del Comando regionale. “Chiedono un medico legale con la tua specializzazione a La Spezia, una sostituzione, un anno come minimo. Il Capitano Lucenti, ha fatto il tuo nome, vorrebbe te. Sono io che devo decidere se lasciarti andare, ma sei tu che devi dirmi cosa vuoi fare.”  “Tu cosa ne pensi?” mi aveva domandato. “Come superiore o come compagno?” avevo chiesto di rimando, sorridendole. “Prima l’uno e poi l’altro” si era seduta e si aggiustava la gonna con la mano. Mi ero passato una mano sulla bocca “Dunque per la tua carriera è una buona opportunità, il laboratorio lo dirigeresti tu. Secondo me dovresti andare e  io non ho ragionevoli motivi per impedirtelo. Come compagno, beh, come compagno mi girano, però sempre come compagno ti dico che, se te la senti, devi accettare. Sono circa 80 Km da qui, non è impossibile. Ci vedremo nei we e magari una sera in settimana, ce la possiamo fare. Io accetterei Pat” “E Laura?” mi aveva chiesto e in quel momento l’avrei baciata, lì in caserma. “E a Laura glielo spieghiamo, si tratta solo di un anno e non ci vedremmo solamente per quattro giorni su sette. Poi magari cercheremo di prendere qualche licenza sfasata così un po’ verremmo noi da te e un po’ tu torneresti a casa qui anche quando io lavoro. Dai che si può fare” “Ho un po’ di tempo per pensarci?” “Cinque giorni” “Ok” ed era uscita pensierosa. Alla fine aveva accettato ed era partita. Laura ed io ci eravamo trovati di nuovo soli in settimana. Devo dire che il mercoledì spesso Patrizia cercava di venire, così la settimana era un po’ più corta, poi il venerdì sera l’andavamo a prendere alla stazione. Per il fine settimana preferiva muoversi con il treno, tanto poi a Lucca c’era la mia macchina. Ci mancava da matti e adesso lo posso dire con certezza, non gliel’ho fatto capire abbastanza. Scendeva dal vagone, Laura le saltava in braccio e poi tutte e due insieme mi volavano fra le braccia e io pensavo che ero fortunato. Spesso quelle sere non tornavamo subito a casa ma ci fermavamo a mangiare una pizza, sulla via del ritorno. Laura bombardava Pat di chiacchiere, la aggiornava sugli ultimi avvenimenti.  Capitava spesso che Laura si addormentasse sul divanetto del locale e noi ci attardassimo a fare due chiacchiere. Le dita intrecciate sul tavolo. Io credevo che lo sentisse che l’amavo. Quando la accarezzavo, quando la baciavo, quando la guardavo, quando stavo ore al telefono alla sera, io che lo odio. A volte, però, bisogna dirlo e io non lo dicevo.
Poco prima di Pasqua, ero passato a prendere Laura al doposcuola e mentre ci dirigevamo in pasticceria per ordinare l’uovo, mi aveva chiesto: “Quando torna?” si riferiva chiaramente a Patrizia “Domani sera, oggi è giovedì” avevo risposto senza dare troppo peso alla cosa.  Si era fermata improvvisamente sul marciapiede e la mano che stringevo nella mia, subì un leggero strattone. “Che c’è?” “Voglio sapere la mamma quando torna definitivamente a casa” Mi ero bloccato pure io. “La mamma, Laura?” ripeto.  “Si, la mamma. Quando va via da La Spezia e torna da noi. Io non ne posso più.”
A me era mancato il fiato, non so se ho fatto bene, ma non ho commentato il fatto che avesse chiamato Patrizia mamma, mi limitai a rispondere:” Fra due mesi, Lauretta. Tieni duro, manca poco”
Ci pensavo da un po’, aspettavo solo che Patrizia rientrasse a Lucca, ma adesso dopo quello che aveva detto Laura decisi di non tergiversare oltre. Chiesi a Serena di venire a tenere Laura e andai a La Spezia.
“Buonasera Tenente” le dissi presentandomi a sorpresa nel suo laboratorio quel martedì sera. “Ciao Giulio! Che ci fai qui?” “Sorpresa! Posso invitarla a cena Tenente? Ho una cosa bella da dirle o forse due” le avevo risposto amletico.  “Dammi il tempo di finire, mezz’oretta e sono tutta tua. Laura? Con chi l’hai lasciata?” “È con Serena, tranquilla tutto apposto.” Una quarantina di minuti dopo eravamo in macchina, diretti verso le alture sopra Sarzana, meta una piccola trattoria che ci piaceva molto, arroccata fra le fasce, con i tavoli nascosti fra gli ulivi.
“Mamma, capisci? Sei la mamma” le avevo preso la mano. I piatti degli antipasti ingombravano il tavolo. Gli occhi di Patrizia erano lucidi. “La mia bambina” aveva mormorato. Eravamo al dolce quando gliel’ho chiesto: ”Pat, ci sposiamo?” Non sono stato un granché quanto a tempismo e romanticismo e soprattutto non avevo capito un accidente. È che per me non si trattava che di certificare l’evidenza. Idiota. “Certo che no” mi ha risposto. L’ho fissata incredulo. “Io non lo sposo uno che me lo chiede perché sua figlia mi considera sua madre. Uno che per anni non mi ha mai detto che mi ama, perché l’unica che meritava di sentirselo dire è sotto due metri di terra. Anzi sai cosa facciamo? Fra due mesi, quando torno a Lucca, mi cerco una casa, vicino a voi. Io per Laura ci sono e ci sarò sempre. Sarà come avere i genitori separati. Portami a casa.” La stavo perdendo. Amanda mi era stata strappata via, ma Patrizia la stavo perdendo io perché ero un idiota. Era vero. Non le avevo mai detto che l’amavo e non perché, non solo perché voleva bene a Laura, ma perché io, io l’amavo.
Mi sono alzato di scatto e l’ho costretta a fare altrettanto. Le ho messo le mani sulle braccia. “Patrizia dio santo, cosa ho combinato. Non te ne andare, non mi abbandonare. Non per Laura, per me. Per questo stupido uomo che non ha saputo dirtelo quanto ti ama. Ti prego Patrizia.” Mi sono messo a piangere. “Giulio, ma cosa fai?” “Ti prego Patrizia, ti prego. Io ti amo. Ti amo, non è tardi Patrizia, dimmi che non è tardi per dirtelo, perché per sentirlo sono anni che è così” Credo di averle fatto venire i lividi da tanto stringevo le sue braccia.
“Non sono Amanda” “Lo so, lo so” l’avevo abbracciata e avevo ricominciato a respirare. Un pelo, ero andato a un pelo dal perderla. Avevo chiamato Serena, per fortuna si poteva fermare a dormire e così io ero rimasto a La Spezia. Quella notte avevamo bisogno di stare insieme. È quella notte che, inaspettato, ma non troppo, è arrivato Emanuele.
Aveva sospeso la pillola, per una delle pause programmate, in quelle settimane andavamo di preservativo. Quella sera a La Spezia in casa di Patrizia non ce ne erano, ma Emanuele non è stato un errore. Mi ricordo come fosse ieri che l’ho guardata:” Sei sicura?” “Sì” e non abbiamo fatto nulla per evitarlo.
Quando ci siamo sposati il pancione di cinque mesi iniziava a vedersi chiaramente sotto il vestito.
A proposito di Emanuele. “Pat, mettiti al vento che secondo me lo sciagurato domani a cena si presenta con la fidanzata, ma mica ci avverte.” “ Lo so bene! Indisciplinato dentro, quello li” mi risponde allegra prendendomi sotto braccio, mentre usciamo dalla caserma.
Ci incamminiamo verso casa, le nostre gambe si muovo all’unisono.
Ho molto perduto e molto avuto. Molto sofferto e molto gioito.
Sono stato e sono molto amato.  Sono un uomo fortunato.
“Ti offro un aperitivo, moglie” le dico. “Buona idea” e come suo solito, incurante della divisa, mi posa un bacio sulle labbra.

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