ITS - Vecchia versione

di Red Owl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0. Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Un fulmine a ciel sereno ***
Capitolo 3: *** 2. Addio ***
Capitolo 4: *** 3. Punti di vista ***
Capitolo 5: *** 4. Al primo sguardo ***
Capitolo 6: *** 5. Il prezzo di una figlia ***
Capitolo 7: *** 6. La Sacerdotessa ***
Capitolo 8: *** 7. La fine e l'inizio ***
Capitolo 9: *** 8. Promesse ***
Capitolo 10: *** 9. Nella notte ***
Capitolo 11: *** 10. Punto e a capo ***
Capitolo 12: *** 12. Prove di cucina ***
Capitolo 13: *** 11. Malintesi ***
Capitolo 14: *** 13. Offerte ***
Capitolo 15: *** 14. Il suono ***
Capitolo 16: *** 15. Lettere ***
Capitolo 17: *** 16. Una cena in famiglia ***
Capitolo 18: *** 17. Alla luce del giorno ***
Capitolo 19: *** 18. I pascoli estivi ***
Capitolo 20: *** 19. L'Aquila ***
Capitolo 21: *** 20. Storie di soldati ***
Capitolo 22: *** 21. La via del ritorno ***
Capitolo 23: *** 22. Tito ***
Capitolo 24: *** 23. L'Ospite ***
Capitolo 25: *** 24. La legge degli Dèi ***
Capitolo 26: *** 25. Segreti ***
Capitolo 27: *** 26. Faccia a faccia ***
Capitolo 28: *** 27. Sangue ***
Capitolo 29: *** 28. Un rifugio sicuro ***
Capitolo 30: *** 29. La soglia ***
Capitolo 31: *** 30. Incontri inaspettati ***
Capitolo 32: *** 31. Verso casa ***
Capitolo 33: *** 32. Ferite ***
Capitolo 34: *** 33. Giallo ***
Capitolo 35: *** 34. In volo ***
Capitolo 36: *** 35. Senza traccia ***
Capitolo 37: *** 36. Un salto nel buio ***
Capitolo 38: *** 37. Dal cielo ***



Capitolo 1
*** 0. Prologo ***


Germanica Inferiore, 342 a.U.c., 15 Febbraio                                                                                                                              

Quel ragazzo non poteva avere più di vent’anni - con ogni probabilità ne aveva qualcuno in meno. Helfried si fermò per qualche istante davanti alla barella sulla quale era adagiato il giovane ferito, poi si rivolse al guerriero fermo a pochi passi di distanza. «Quanti morti?»

L’uomo spinse fieramente in avanti il mento, ma quel gesto non poté celare il dolore e lo shock che l’anziano capo riuscì a leggere nei suoi occhi. «Una decina» rispose con voce ferma. «Ne abbiamo contati altrettanti tra i romani, però. E a breve a quel numero dovranno anche aggiungere qualche ferito che non supererà la notte, se ho giudicato bene quello che ho visto.»

«Non dare per scontato che i nostri siano tutti salvi» mormorò Helfried, scuotendo il capo con amarezza. Il vecchio abbassò lo sguardo sul ragazzo che si lamentava flebilmente, sospeso in uno stato di semi incoscienza, e poi percorse con una rapida occhiata la radura tra gli abeti nella quale si erano accampati i suoi uomini. L’inverno non aveva ancora sciolto la sua morsa e il terreno era duro di brina e talmente umido che i piccoli fuochi accesi qua e là faticavano ad attecchire e a riscaldare i feriti che vi erano stati sistemati attorno.

Il vecchio lasciò che l’aria che aveva trattenuto nei polmoni defluisse in un sibilo lento e si condensasse in una nuvoletta di vapore davanti ai suoi occhi. D’un tratto, sentì che le forze erano sul punto di abbandonarlo.

Troppe battaglie. Troppi morti.

«Inizio a essere stanco, Lothar.»

Gli occhi scuri del guerriero si fecero più attenti. «Sono giorni difficili», esordì, in un borbottio sordo, «ma non abbiamo scelta: non possiamo arrenderci. Se oggi lasciamo che Roma conquisti il lago, domani i legionari si faranno più audaci e pretenderanno di avere sempre di più. Non possiamo permettere che ci caccino sulle montagne, come bestie.»

«No, ma non possiamo nemmeno continuare a perdere uomini per difendere steppe e paludi.»

Con la coda dell’occhio, Helfried vide Lothar irrigidire la mascella nel tentativo di combattere la frustrazione. Era il suo guerriero migliore e lo sapeva: a volte quella consapevolezza gli faceva dimenticare la sua posizione e l’obbedienza che doveva a lui, il capo villaggio. «Con tutto il rispetto, ma non vedo molte alternative» mormorò Lothar, dopo qualche secondo di silenzio.

Il vecchio sospirò di nuovo. «Fa’ che inviino un messaggio al Legato. Digli che voglio incontrarlo per discutere la proposta del loro Imperatore.»

Il guerriero trattenne il respiro per una frazione di secondo. «Tuo figlio non sarà felice di saperlo.»

«Otmar se ne farà una ragione», ringhiò il capo villaggio, «e i suoi compari con lui. In ogni caso, era solo una questione di tempo: non avremmo potuto ignorare ancora a lungo le richieste del Sacro Concilio.»

«Da questa cosa non ne verrà nulla di buono» borbottò Lothar, scuotendo il capo.

«Vedremo» replicò il vecchio, con lo sguardo perso tra gli abeti scuri. «Vedremo.»

***

Rieccomi con la versione riveduta e corretta di questa storia, pubblicata per la prima volta più di un anno fa sul mio vecchio profilo. Nella prima parte non cambierà un gran che, a dire il vero… spero solo di essere riuscita a correggere un po’ di sviste, errori e incoerenze.

Matilde

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Capitolo 2
*** 1. Un fulmine a ciel sereno ***


Lidia Aurelia Prisca soffocò nel cuscino un urlo di frustrazione, mentre lacrime di rabbia le scendevano dagli occhi e bagnavano la federa di cotone violetto. Perché il Fato sembrava avercela tanto con lei? Perché, proprio quando la sua vita sembrava aver raggiunto una certa stabilità, il destino avverso si scagliava contro di lei, costringendola a ricominciare tutto da capo?

Essere la figlia di un Senatore avrebbe dovuto avere dei vantaggi, eppure lei, di vantaggio, non ne aveva mai visto nemmeno uno. Sì, aveva una casa grande e bella, ma quel fatto non poteva essere considerato una rarità tra la cerchia dei suoi conoscenti, così come non erano una rarità i numerosi servitori che l’aiutavano nella vita di tutti i giorni. Anche la possibilità di accedere a tutti gli eventi esclusivi offerti dalla grande metropoli le sembrava ormai una cosa di ben poco conto.

Singhiozzando e asciugandosi stizzosamente gli occhi, Lidia raggiunse la finestra e vi si affacciò: il meraviglioso giardino della sua villa, ricco di fontane e siepi in fiore, si estendeva davanti a lei, splendido nel tiepido sole di fine aprile. La casa, i servi, la vita di mondo, persino il suo giardino… erano tutte cose che aveva sempre dato per scontate. Erano tutte cose che presto, prestissimo, le sarebbero state strappate. Per sempre.

La notizia era arrivata come un fulmine a ciel sereno. Anche se aveva già compiuto diciannove anni, Lidia non si era mai interessata un gran che di politica: del resto, era una donna; e si sapeva che le donne dovevano cercare la loro strada in altri campi. L’arte, lo studio della filosofia e, perché no, persino la medicina, ma la politica era un affare viscido e subdolo, un affare da uomini. Qualche voce era arrivata anche a lei, in verità, sapeva che nella Nova Germanica le cose non andavano proprio benissimo, aveva sentito parlare di un paio di scaramucce tra legionari e guerrieri barbari, ma non aveva dato troppo peso alla vicenda. Di notizie del genere se ne sentivano in continuazione, e quei nuovi battibecchi erano tutto fuorché un fatto eccezionale.

Quello che la ragazza non sapeva era che quegli scontri erano parte di un conflitto latente molto più esteso che aveva spinto i politici della capitale a cercare una soluzione che consentisse di preservare la pace nella regione della Germanica Inferiore, evitando così di perdere l’accesso a dei territori tanto importanti per posizione e risorse naturali. La scelta era ricaduta su un metodo che, seppur non brillava per originalità, in passato si era già dimostrato piuttosto efficace, in occasioni del genere: si era deciso di combinare dei matrimoni tra giovani romani e giovani barbari.

La proposta era dunque partita da Roma ed era stata accolta di buon grado non solo dagli Alti Sacerdoti germanici, ma anche dai capi delle tribù locali, che avevano visto nelle unioni tra i propri figli e i rampolli delle più importanti famiglie romane una possibilità per infiltrarsi nella politica dell’Impero. Ai rampolli in questione, però, non era stato chiesto nulla: o, perlomeno, nessuno aveva chiesto nulla a Lidia, che quella mattina era stata convocata nello studio di suo padre da un servo che si era rifiutato di darle spiegazioni.

Il Senatore Lucio Aurelio Prisco era un uomo più giovane di quanto la sua chioma bianca facesse presagire, appesantito dagli anni passati a trascinarsi mollemente dal triclinio allo scranno del senato, ma aveva un carattere di ferro e poco incline a compromessi e discussioni. «Figlia mia», le aveva detto, «ho una notizia da darti. Siediti.»

Con un pessimo presentimento nel cuore – suo padre le dedicava raramente attenzione e, quando lo faceva, di solito per lei erano guai – Lidia si era seduta sulla poltrona di pelle nera e aveva incrociato nervosamente le gambe, senza riuscire a trovare il coraggio di chiedere spiegazioni. «So che la cosa non ti farà piacere, ma, in quanto figlia di Roma, hai il dovere di sacrificarti per la Patria.»

La fanciulla aveva tremato. «Certo, padre» aveva però detto, tenendo gli occhi bassi.

«Tra circa due settimane ti sposerai» le aveva comunicato suo padre, guadagnandosi un’occhiata confusa. «Due settimane?» aveva balbettato la ragazza, colta di sorpresa, mentre il pensiero correva al suo fidanzato. «Due settimane sono troppo poche. Non riusciremo mai a organizzare tutto per tempo. Tito vuole…»

Suo padre l’aveva fatta tacere con un cenno della mano. «Scordati Tito» le aveva detto, in tono di sufficienza. «Tu sposerai il figlio di un capo tribù germanico, così come ha deciso il nostro Imperatore.»

Lidia era sbiancata e aveva avvertito un capogiro che aveva rischiato di mandarla a terra. «Un germanico?» aveva chiesto, in preda allo stordimento, cercando di dare un senso a quelle parole. «Sì» aveva replicato suo padre. «Settimana prossima partiremo alla volta di Erding per conoscerlo.»

«Padre, io… io non capisco» aveva balbettato di nuovo la ragazza, mentre l’angoscia le montava nel petto. «L’Imperatore… l’ha deciso l’Imperatore? Ha detto che io devo sposare…»

«Per ora non è necessario che tu capisca» aveva tagliato corto il senatore, volgendo già la sua attenzione altrove. «Capirai più avanti. Adesso devi solo ubbidire.» Lidia l’aveva guardato, incredula e con le lacrime agli occhi. Non era possibile. La liquidava così? Improvvisamente, aveva sentito la rabbia esplodere dentro di lei. «No!» aveva gridato, balzando in piedi e stupendo persino se stessa.

«Lidia!» aveva però abbaiato suo padre. «Tu lo farai, parola mia! Non hai scelta!»

«Sì, che ce l’ho» aveva protestato, picchiando un piede per terra. «Non voglio lasciare Tito! Non voglio sposare un germanico!» La ragazza aveva spalancato la porta, intenzionata a fuggire nelle sue stanze, ma al cenno di suo padre i due servitori che l’attendevano all’ingresso l’avevano bloccata. «Tu lo farai», aveva ripetuto l’uomo, «o giuro che ti farò processare come traditrice della Patria.»

In quel momento la fanciulla non era stata in grado di dire se quelle di suo padre fossero minacce vane o se davvero avrebbe fatto sbattere in prigione la sua stessa figlia, ma la sua voce controllata e i suoi gelidi occhi grigi le avevano fatto capire di non avere scelta. Era in trappola; se n’era resa conto mentre i contorni del mondo si facevano grigi e sfumati e le forze la abbandonavano tutto d’un tratto. «Sì, signore» aveva sussurrato allora, chinando il capo in preda ai singhiozzi.

Appena aveva pronunciato quelle parole i due servitori avevano allentato la presa e lei era stata libera di andare a piangere la propria sorte nel privato della sua camera.

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Capitolo 3
*** 2. Addio ***


Tac-tac-tac…

Il tacco dei sandaletti che portava ai piedi risuonava secco sul selciato, un rumore che la teneva ancorata alla realtà e che riusciva a penetrare il velo di incoscienza che premeva sui suoi sensi dal giorno prima. Dopo lo shock iniziale, Lidia era caduta in preda a una sorta di senso di straniamento dalla realtà. Le sembrava di aver abbandonato il proprio corpo e di osservare gli eventi dalla prospettiva di una spettatrice esterna, la stessa che avrebbe avuto standosene seduta a teatro, soffrendo per le sfortunate vicende della protagonista di un’animazione drammatica.

Il guaio era che invece era tutto vero, come non mancava di segnalarle la fitta di panico che l’assaliva ogni volta che provava a riscuotersi. La cosa peggiore era la consapevolezza di essere del tutto impotente di fronte a quella decisione impostale dall’alto: dal momento che era stato l’Imperatore a decidere di mandarla in sposa a un barbaro germanico, non c’era nulla che lei potesse fare per sottrarsi a quell’imposizione. Se l’idea fosse nata da suo padre, forse… ma così, no. Doveva accettare in silenzio la volontà del Divo Cesare.

L’aver scoperto di non essere l’unica fanciulla a dover sottostare a quell’ingiustizia, ma di condividere il destino con decine di altri giovani patrizi, non rendeva la realtà meno drammatica. Forse un giorno si sarebbe rassegnata all’idea di doversi sacrificare per un bene superiore, ma quel tempo era ancora lontano e l’attesa di non conoscere ogni dettaglio del suo destino l’angosciava: per assurdo, Lidia desiderava che i giorni che la separavano dalla partenza passassero il più in fretta possibile, perché quel lento addio a tutte le cose che amava la stava logorando. Avrebbe voluto andarsene subito, farla finita con quella vita e gettarsi in pasto al leone – metaforicamente parlando.

Però con lui non poteva far finta di niente: a lui, un saluto lo doveva. Lui era, ovviamente, Tito Fabio Fusco, il suo promesso sposo – o, meglio, il suo ex-promesso sposo. Anche se erano ormai passati alcuni anni dal giorno in cui aveva conosciuto il ragazzo, Lidia ricordava perfettamente il pomeriggio in cui suo padre l’aveva chiamata nel suo studio – certe notizie le venivano sempre date lì – e le aveva comunicato di averle trovato un marito. All’epoca aveva quattordici anni appena compiuti e la notizia l’aveva riempita di meraviglia, dal momento che Donna Giulia, sua madre, le aveva sempre detto che per gli uomini c’era tempo, che lei era ancora una bambina e che non doveva pensare a quelle cose.

Evidentemente suo padre era stato di diverso avviso e, come sempre accadeva in casa, si era fatto quello che voleva lui. Lidia ricordava con perfetta chiarezza il timore, ma anche la curiosità, che aveva provato mentre scendeva le grandi scale di marmo della sua villa per incontrare per la prima volta l’uomo con cui era stata destinata a condividere la vita. Sarebbe stato bello? Sarebbe stato forte?

La risposta era stata un sonoro “no”. A quattordici anni, Tito era un ragazzino rinsecchito e anche un po’ gobbo, con dei capelli troppo lunghi e un incarnato troppo pallido. I suoi occhi neri, grandi e lucenti, non erano bastati per farglielo rivalutare.

Per un po’ di tempo l’aveva odiato. Aveva pianto, si era chiusa in camera, aveva anche inscenato uno sciopero della fame nel vano tentativo di costringere suo padre a riconsiderare le sue posizioni. Tutto era stato inutile e, giorno dopo giorno, Lidia si era trovata a dover dividere sempre più tempo con Tito, parlando con lui, passeggiando nei giardini o per le vie del centro, andando a teatro e qualche volta anche in discoteca – di pomeriggio, ovviamente, e sempre con una servetta attaccata alle calcagna. All’inizio Tito parlava poco, si limitava a guardarla con quei suoi enormi occhi neri, come se avesse paura di lei, poi aveva iniziato a buttar lì qualche frase casuale e, poco alla volta, si era sciolto. Lidia, che nel frattempo aveva compiuto quindici anni, si era stupita nel scoprirlo intelligente e spiritoso. Era sempre gentile con lei, sopportava i suoi malumori e li stemperava con una risata. Continuava a rimanere bruttino, questo sì, ed era addirittura più basso di lei.

Fino ai diciassette anni. Poi si era trasformato. Si era alzato di colpo, le sue braccia esili si erano rinforzate, il suo viso si era fatto meno sfuggente. Addirittura la sua pelle aveva assunto un colorito meno malsano e, con i capelli corti, pareva un uomo fatto.

Una sera Lidia l’aveva guardato e si era accorta di essere innamorata di lui. Ed era stata una gioia, perché non a tutti capita di innamorarsi del proprio migliore amico.

Era stata così contenta di sposarlo… e adesso avrebbe dovuto dire addio a quel sogno. A quel sogno, e a una delle persone che più le stavano a cuore. Chissà se aveva già ricevuto la notizia?

Immersa in quei pensieri cupi, Lidia percorse le strade della capitale, quelle strade che aveva conosciuto per tutta la sua vita, sfilando quasi senza rendersene conto attraverso la bizzarra costellazione di negozi di lusso e osterie tipiche, forni fragranti di pane e palazzi istituzionali. Infine, i suoi piedi la condussero davanti alla casa, ben nota, di Tito. Appoggiandosi con una mano alla recinzione di metallo scuro, la fanciulla si lasciò sfuggire un sospiro tremulo. Con quale coraggio sarebbe entrata e avrebbe affrontato il ragazzo?

Mentre cercava di trovare la forza di suonare al campanello, la porta d’ingresso si spalancò e Tito corse fuori, avvertito forse da qualche servitore che l’aveva scorta indugiare in strada. Quando scorse il suo sguardo sconvolto, Lidia non ebbe più alcun dubbio: il giovane sapeva. Qualcuno gli aveva già dato la notizia.

Nella notte che aveva passato insonne, rotolandosi senza pace tra le coperte, la ragazza aveva studiato un discorso estremamente dignitoso con il quale accomiatarsi da Tito, ma quando lui le fu davanti, in carne e ossa, si ritrovò a piangere piano, incapace di nascondergli il suo sconforto. Tito la raggiunse e, senza dire una parola, l’abbracciò, tenendola stretta e nascondendo il volto tra i suoi capelli bruni.

«Verrò a prenderti» le disse, con voce fremente, premendole e labbra contro la tempia.

Lidia alzò su di lui lo sguardo appannato dalle lacrime. «C-cosa?» chiese, senza poter evitare che la voce le tremasse.

«Verrò in Germanica o ovunque ti spediranno», ripeté il giovane, sul volto l’espressione più dura che gli avesse mai visto, «e ti porterò via con me. Non ti lascerò a marcire tra le mani di un selvaggio!»

Lidia scosse il capo, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano. «N-non puoi» disse, tristemente. «L’Imperatore…»

«Che si fotta l’Imperatore!» sbottò lui. «Non possono decidere così delle nostre vite! Non possono!»

La ragazza si strinse più forte al suo petto, respirando il suo profumo famigliare. «Anche tu dovrai…»

«No.» Tito scosse il capo, troncando la domanda della fanciulla. «Ma è possibile che prima o poi chiedano anche a me di sposare una di loro.»

Posando il capo sulla sua spalla, Lidia chiuse gli occhi, cercando di credere alle parole del giovane, senza però riuscirci. «E dove andremo?» gli chiese, scoraggiata. Il ragazzo scosse le spalle, come se la meta non fosse importante. «Non lo so. Via. Non a Roma. Forse in Oriente. Tu ami il caldo…»

Era vero, ma la ragazza non riusciva ad avere fiducia il quel progetto. Avvertendo la sua esitazione, Tito le posò le mani sulle spalle e la staccò da sé. «Ti fidi di me?» le chiese, guardandola negli occhi.

Non lo so, fu la risposta che, immediatamente, si affacciò alla mente di Lidia: si fidava delle sue buone intenzioni e della sua determinazione, ma non della sua capacità di portare a termine un’impresa tanto difficile da sembrare disperata. «Sì» sussurrò invece, cercando di rivolgergli un pallido sorriso.

«Quanto tempo abbiamo?» chiese il giovane, stringendo più forte le spalle della compagna.

«Partirò settimana prossima» mormorò lei. «Non so esattamente quando, però.»

Tito annuì. «D’accordo. Ti hanno detto dove andrai?»

La giovane cercò di ricordare le parole del padre, poi corrugò la fronte, maledicendo le sue scarse conoscenze geografiche. «Esiste un posto che si chiama Erding?» chiese, mentre un leggero rossore le colorava le guance. Tito si illuminò. «Certo che esiste!» esclamò. «Ed è anche perfetto! Ho diversi amici di stanza proprio lì. Portarti via non sarà difficile.»

Con un sorriso trionfante, il ragazzo si chinò su di lei e la baciò, stringendola come se intendesse fonderla col proprio corpo. Anche se non riusciva affatto a condividere il suo ottimismo, Lidia si lasciò cullare dalle sue braccia e dal suo calore famigliare e, per qualche minuto, l’angoscia della partenza imminente fu mitigata dall’amore di quel giovane uomo testardo e coraggioso.

 ***

Aggiornamento anticipato al giovedì, visto che nel WE sarò senza internet…

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Capitolo 4
*** 3. Punti di vista ***


Nelle due ore che trascorsero insieme, Tito tentò di illustrare a Lidia i confusi dettagli del piano che gli si stava disegnando nella mente, ma la ragazza non era dell’umore giusto per ascoltare quelle congetture. Rannicchiata contro il suo petto, la giovane cercava di trarre conforto dalla sua presenza e dal suo calore, più che dalle cose che andava dicendo – anche perché, man mano che Tito acquisiva sicurezza nelle sue idee, la fanciulla ne perdeva. Malgrado l’enfasi crescente che il ragazzo metteva nelle sue parole, infatti, Lidia non riusciva a credere che i progetti di fuga elaborati da Tito potessero funzionare nella realtà.

Sembrerebbero ridicoli persino in un libro, pensava, sconsolata. Noi non siamo i tipi da mollare tutto e scappare via, da soli, magari inseguiti da dei malintenzionati. Ci riacciufferebbero dopo qualche ora.

Quando, nel tardo pomeriggio, Lidia lasciò la casa di Tito, non poté fare a meno di sentirsi più sperduta e confusa di quando vi era entrata. Se da un lato le faceva piacere sapere che il giovane l’amava al punto da essere disposto a lasciare tutto quello che aveva a Roma per fuggire con lei, dall’altro la consapevolezza di quanto fosse pericoloso anche solo discutere di quei progetti le faceva tremare le mani. La sua mente, abituata a cercare sempre il lato negativo di ogni situazione, le illustrò con una certa dovizia di particolari tutto quello che sarebbe potuto andare storto. In primis, il viaggio da Roma alla Germanica: con quale scusa Tito si sarebbe allontanato dalla casa paterna? Avrebbe viaggiato da solo? E poi, naturalmente, vi era la fuga in sé. Ci prenderanno, pensava. Ci ammazzeranno di sicuro. I germanici non apprezzeranno un mio tentativo di fuga. E nemmeno l’Imperatore lo apprezzerà, in effetti. Ci farà cercare dall’esercito, ci arresterà, ci condannerà a… e se anche riuscissimo a farla franca, moriremmo comunque di fame. Non sappiamo fare niente, noi. Dove prenderemmo i soldi? Di certo papà non sarà disposto a passarmi una paghetta mensile…

Senza nemmeno rendersene conto, Lidia prese a girovagare per le strade di Roma e fu solo quando si trovò di fronte a una domus famigliare che si riscosse dalla sorta di trance nella quale era caduta. Era la casa di Lucilla, un’altra persona che le sarebbe mancata da morire, su nelle fredde foreste germaniche.

Senza esitare, Lidia premette con forza un dito sul campanello di bronzo che scintillava nella luce calda dell’ora che precede il tramonto e attese che qualcuno venisse a riceverla. «Donna Lidia» l’accolse, dopo qualche minuto, un’anziana serva. «Posso fare qualcosa per te?»

«Lucilla è in casa?» chiese, allungando il collo per spiare oltre il cancello. «Tra qualche giorno lascerò Roma e vorrei salutarla.» La donna la lasciò entrare: «Naturalmente; vado subito a chiamarla. Vuoi accomodarti in casa?»

La giovane scosse il capo. «No, grazie. Aspetterò in giardino.» Mentre la serva si allontanava con un cenno d’assenso, Lidia si lasciò scivolare sulla panca di granito posizionata all’ombra del grande leccio che svettava nel centro del giardino della casa dell’amica. Ho sempre amato questa pianta, pensò, inclinandosi all’indietro fino a quando la schiena incontrò la corteccia ruvida. Un tempo a uno dei rami più bassi era appesa un’altalena e lei e Lucilla avevano passato dei pomeriggi memorabili a dondolarsi nell’ombra fresca e a fingere di prendere il volo.

Abbiamo anche fatto litigate memorabili, qui sotto, ricordò, con un sorriso carico di nostalgia. Litigate che si risolvevano nel giro di pochi minuti, però, perché Lucilla era così: le bastava un istante per passare dall’allegria più sfrenata alla rabbia più esplosiva… e viceversa. Lidia la invidiava.

Chissà se in Germanica crescono i lecci, pensò la ragazza, alzando gli occhi sulle foglie che fremevano, scosse da una brezza leggera. Non ne aveva idea, ma nella sua fantasia le foreste del nord erano popolate da enormi abeti neri e vecchi alberi lugubri e scuri, ricoperti di muschio ed erbe limacciose. La fanciulla tremò dal disgusto al solo pensiero di sfiorare uno di quegli alberi; poi una voce proveniente dalla sua sinistra la distrasse. «Eccoti qui! Cosa ci fai qui fuori? Potevi entrare in casa!»

Lidia si voltò verso l’amica, sulle labbra un sorriso pallido. «Sono un po’ troppo nervosa per starmene seduta al chiuso… preferisco restare all’aperto, almeno non mi manca l’aria» confessò. Lucilla sbatté rapidamente gli occhi, elaborando le parole della ragazza bruna, poi ridacchiò. «Aaah, ho capito: tu dove vai?» le chiese, guardandola con fare eloquente.

«A Erding, o da quelle parti» replicò Lidia, sorpresa. «Parti anche tu?»

Lucilla annuì. «Sì» disse, con aria svagata. «Però io vado più a nord. Afen, Asen, qualcosa del genere. Nel bel mezzo delle montagne, comunque. Mi sono informata e mi hanno detto che, da quelle parti, d’inverno nevica un sacco: spero che non mi si ghiaccino le dita dei piedi!»

Lidia non poté fare a meno di percepire una nota stonata. «Non mi sembra che la cosa ti disturbi più di tanto» fece, incerta, osservando con attenzione il volto luminoso di Lucilla.

L’altra fanciulla rise, quasi trovasse la sua perplessità estremamente divertente. «No, infatti!»

L’amica la guardò con tanto d’occhi: come poteva prenderla così alla leggera? «M-ma…» balbettò. «Ma non hai paura? Dover sposare un germanico…»

Lucilla sventolò una mano con aria di sufficienza. «E che vuoi che sia?» sbuffò. «Tanto gli uomini sono tutti uguali. Prendilo romano o prendilo germanico poco cambia, solo una cosa vogliono!» Lidia arrossì, intuendo il significato non detto. «Se non altro», sorrise Lucilla, «su dovrebbero esserci un po’ meno formalità! O così mi hanno detto, almeno.»

La ragazza scosse il capo: Lucilla riusciva a trovare un risvolto positivo praticamente in tutto. A volte si chiedeva se al mondo esistesse qualcosa in grado di abbatterla. «E non ti dispiace lasciare Roma?» indagò.

«Un po’», ammise l’amica, facendo le spallucce, «però in Germanica ci sono tante cose interessanti…»

«La nebbia» sospirò Lidia.

«Gli orsi neri!» controbatté la seconda ragazza.

«Pioggia tutto l’anno» gemette Lidia.

«I lupi striati!» esclamò Lucilla.

«Ma queste non sono cose positive!»

«Come no! Sarà un’avventura!»

Lidia si passò una mano sul volto, trovandosi a sorridere suo malgrado. A volte si stupiva di come lei e Lucilla avessero potuto diventare tanto amiche: la loro diversità non si limitava all’aspetto fisico – Lucilla era bionda, paffuta e con dei grandi occhi azzurri, mentre Lidia era scura e minuta – ma interessava soprattutto i loro caratteri. Se Lidia bramava la tranquillità e la sicurezza, gli occhi di Lucilla si illuminavano di fronte alla prospettiva dell’avventura e del pericolo.

Non che si fosse mai realmente trovata in una situazione di pericolo, comunque.

«E Tito come l’ha presa?» chiese la bionda, facendosi seria.

Lidia si guardò attorno per assicurarsi che nessuno la sentisse, poi sussurrò, avvicinandosi all’orecchio dell’amica: «Dice che verrà a prendermi. Ha degli amici di stanza a Erding e secondo lui portarmi via da lì sarà piuttosto semplice.»

Lucilla la guardò con aria critica. «Lidia… a me non sembra una grande idea. Se anche ci riuscisse… dove andreste?»

Lidia strusciò la punta del piede a terra, afflitta. «Lo so» sospirò. «Nemmeno a me convince, il suo piano. Però lui è così deciso…»

La sua amica scosse il capo. «Finirà col farsi ammazzare» borbottò, rivolta più a se stessa che a Lidia.

«Ho cercato di fargli cambiare idea, ma lui… l-lui è così determinato. Ho paura che faccia qualche idiozia…» la ragazza sentì le lacrime bruciare agli angoli degli occhi. Avvertendo che l’umore dell’amica era in caduta libera, Lucilla corse ai ripari. «Su, vedrai che cambierà idea. Deve solo abituarsi alla tua partenza. E chissà, magari ti troverai bene con il tuo nuovo marito. Io spero di trovarmi bene con il mio», si interruppe di colpo, poi sorrise, «per quanto non so come farò a non scoppiare a ridere ogni volta che pronuncerò il suo nome. Si chiama Ekbert. Che razza di nome è Ekbert?! Sembra uno starnuto! Vorrei tanto che avesse un nome normale, come… non so… per esempio, il tuo come si chiama?»

Travolta dal fiume di parole di Lucilla, Lidia ci mise qualche attimo a capire che la ragazza le aveva rivolto una domanda. «Eh… io… io non lo so» disse, quasi stupita.

La giovane bionda la guardò con gli occhi sgranati. «Non lo sai? Ti sposi tra meno di un mese e non sai nemmeno come si chiama il tuo uomo?»

«Non me lo sono certo scelta io» ribatté Lidia, un po’ piccata.

«D’accordo, ma non sei curiosa?»

La ragazza bruna si strinse nelle spalle, abbassando lo sguardo. «No» ammise. «Preferisco non pensarci, a dire il vero. Se non ci penso, mi sembra che non sia vero niente.»

Lucilla scosse il capo, guardando l’amica con un’espressione preoccupata. «Fare così non ti aiuterà, Lidia» le fece notare, con delicatezza. «Al di là delle battute, ho preso anch’io un colpo, quando l’ho scoperto. Però, poi, riflettendoci bene, ho pensato che, forse, anche da questa cosa potrà venire qualcosa di buono. Anzi, sono certa che sarà così.»

La giovane annuì. «Sì, lo so», sospirò, «ma per te è più facile. Io invece ho Tito.»

«Avevi Tito…»

«So anche questo!» scattò Lidia, facendola sobbalzare. «Non c’è bisogno che tu me lo ripeta!»

Sorpresa dal tono dell’amica, anche Lucilla alzò la voce. «Lo ripeterò finché non smetterai di far finta che questa sia solo una situazione momentanea! Perché ho come l’impressione che tu ci creda veramente, al progetto di Tito… quindi te lo ripeto: è una pazzia. Voi non potete scappare insieme!»

«So come stanno le cose», fece Lidia, balzando in piedi e iniziando a camminare nervosamente avanti e indietro, «ma io voglio crederci! Voglio credere di avere una via d’uscita!» In due passi Lucilla la raggiunse e la afferrò per le spalle. «E per far cosa? Per stare ancora peggio quando non succederà e dovrai ammettere di esserti illusa inutilmente?»

Lidia soppesò le parole della ragazza. «Dovrei fare come fai tu, allora? Rassegnarmi già in partenza?»

Lucilla scosse la testa. «Ma non vedi che io non sono rassegnata? Io voglio impegnarmi per essere felice. Qui, in Germanica… non mi interessa, non permetterò a nessuno di rovinarmi la vita.»

«Facile dirlo adesso» mormorò Lidia, lanciandole un’occhiata storta. «Vallo a spiegare a quel selvaggio di tuo marito, quando ti farà diventare la sua schiava e ti costringerà a sfornare un figlio all’anno.»

Lucilla la soppesò con lo sguardo. «Non ti sembra di essere un po’ troppo melodrammatica, adesso?»

«In che senso?»

«Non mi pare che le donne germaniche siano tutte delle serve dei loro uomini.»

Lidia la guardò con aria critica. «Ne hai incontrate molte?»

«Qualcuna» rispose Lucilla, con una smorfietta.

«E comunque noi siamo romane» insistette la ragazza bruna. «Quelli ci odiano e di certo non ci renderanno la vita facile.»

La bionda si strinse nelle spalle. «Forse», concesse, «e forse no. Io non li odio, magari nemmeno mio marito odierà me. E comunque non sarà certo immune al mio fascino femminile.»

Lidia si ritrovò a sorridere di fronte all’atteggiamento da donna navigata assunto dall’amica, mentre l’irritazione di un istante prima iniziava a sfumare. «E comunque non è solo quello» disse, dopo alcuni minuti in cui le due ragazze osservarono in silenzio il giardino, ognuna persa nei propri pensieri. «Ho paura che mi mancherà Roma, la vita qui, i miei amici…»

«… i tuoi genitori?» le suggerì Lucilla.

«Mia madre, se non altro» borbottò lei.

«Be’, penso che sia normale», disse pensierosa la ragazza bionda, «ma è per questo che io intendo cercare di ambientarmi subito. Del resto siamo donne, l’abbiamo sempre saputo che un giorno o l’altro avremmo dovuto farci una nuova famiglia, no?»

Lidia dovette ammettere che, in un certo senso, Lucilla non aveva tutti i torti. Anche se, fino al giorno prima, lei era stata convinta che la sua nuova famiglia sarebbe stata a Roma, poco distante dalla casa dove era nata e cresciuta. «Forse hai ragione» sospirò, cercando vanamente di convincersi che c’era una certa dose di verità, nelle parole di Lucilla.

«Ma certo che ho ragione!» esclamò la sua amica, passandole un braccio attorno alle spalle. «Ma adesso basta parlare di queste cose. Ci restano solo un paio di giorni qui a Roma: godiamocela!»

 

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Capitolo 5
*** 4. Al primo sguardo ***


Colle di Hudwill - Germanica Inferiore, 342 a.U.c., 30 Aprile

«Ecco, Lidia, questo è il confine» sussurrò Donna Giulia, posando una mano sulla spalla della figlia e scrollandola piano.

«Mh» grugnì la ragazza, lanciando uno sguardo apatico fuori dal finestrino del carro automatico sul quale stavano viaggiando. Non c’era praticamente nulla, lì: solo un ammasso di casupole che si perdevano nell’atmosfera grigia e umida di quella che, in teoria, avrebbe dovuto essere una giornata primaverile. Il solo pensiero di abbandonare il tepore del carro le faceva venire il mal di stomaco.

«Sei sicura di non volerti fermare a prendere qualcosa?» insistette la donna più anziana, con una nota di preoccupazione nella voce. «Non voglio niente» bofonchiò compostamente Lidia, senza nemmeno girarsi verso la madre. Donna Giulia esitò qualche istante, poi si lasciò ricadere sul proprio sedile con un sospiro preoccupato.

Lidia ci aveva provato, a seguire il consiglio di Lucilla. Ci aveva provato, a vivere con uno spirito più positivo quella nuova fase della sua vita, ma proprio non ci riusciva. Man mano che il carro proseguiva verso nord, si sentiva sopraffare sempre più da un’angoscia difficile da contrastare. Erano in viaggio da un giorno intero e il paesaggio fuori dai finestrini non aveva più nulla di simile alle verdi, dolci colline e ai campi di grano che aveva lasciato lontano, in quella che avrebbe per sempre chiamato casa. Forse era anche colpa del tempo: da un paio di ore aveva infatti iniziato a piovere. Non una pioggia forte, tipo temporale, ma una pioggerellina insistente e sottilissima, accompagnata da una nebbia persistente che rendeva il paesaggio uniforme e ben poco attraente.

A Roma non c’era mai questo nebbione, pensò Lidia, afflitta. Non era vero, naturalmente, ma quel clima tutt’altro che primaverile, in netto contrasto con il sole splendente che aveva lasciato nella grande metropoli, le pareva di pessimo auspicio.

Appoggiando la fronte al finestrino freddo, la ragazza lasciò scorrere uno sguardo assente sul paesaggio che sfilava davanti ai suoi occhi, senza badare alla nuvoletta di condensa che il suo fiato aveva disegnato sul vetro. Campi bagnati, prati costellati di pozzanghere, strade di terra nera, alberi scuri, contadini avvolti nei loro pesanti pastrani, orti ancora desolatamente spogli e…

«Madre!» esclamò Lidia, rianimandosi tutta d’un tratto. «Guarda! Quel carro è trainato da dei cavalli!» La fanciulla sapeva che non ovunque si usavano i carri automatici che erano tanto diffusi a Roma, ma quella era la prima volta che vedeva con i propri occhi un mezzo di trasporto che non sfruttava l’energia del sole, ma quella degli animali. Donna Giulia si sporse per guardare le bestie indicatele dalla figlia. «Già» confermò. «Non se ne vedono tanti giù dalle nostre parti…»

«In compenso qui non ho visto carri automatici» notò con preoccupazione la ragazza. «Dici che non li usano?» Sua madre si strinse nelle spalle, incerta. «Non lo so, piccola, forse qui non c’è abbastanza sole per alimentarli e quindi questa gente è costretta a ricorrere ai cavalli…»

«Ma no, stupide!» sbottò il senatore Prisco, sollevando il naso dai comunicati che stava studiando. «I carri automatici sono poco adatti per muoversi sulle strade di montagna: sono troppo strette. Un carro automatico sarebbe solo una spesa inutile, da queste parti. Il sole non c’entra niente.»

Il rimprovero del padre soffocò lo sprazzo di curiosità di Lidia, che tornò a rinchiudersi nel suo mutismo e a scrutare torva il paesaggio.

Erding - Germanica Inferiore, 342 a.U.c., 1 Maggio

L’alba che stava sorgendo su Erding era umida di rugiada e di pioggia cessata da poco. Lidia poggiò esitante un piede fuori dal carro e fu grata di avere indossato degli abiti più pesanti di quelli che portava di solito. Faceva freddo, molto più freddo di quanto si sarebbe aspettata e, anche se l’aria era tersa e piena del cinguettio dei primi uccelli, la fanciulla non poté fare a meno di osservare preoccupata le montagne che si ergevano tutt’intorno alla stretta valle. Sapeva che non erano le più alte della regione, ma a lei, abituata alle dolci colline romane, parvero dei giganti neri che la scrutavano con occhi malevoli.

Non essere melodrammatica! La voce di Lucilla risuonò chiara nelle sue orecchie e la ragazza ebbe l’assurdo impulso di guardarsi attorno per sincerarsi che l’amica non fosse effettivamente lì con lei. La notte insonne passata sul sedile del carro le aveva irrigidito tutti i muscoli e la giovane si stiracchiò, discretamente, nel tentativo di sciogliere i nodi dolorosi alla schiena e al collo. Immediatamente, un refolo d’aria fredda le si infilò sotto la mantella che le cingeva le spalle e lei se la strinse addosso, tremando violentemente. In cerca di protezione dalla brezza gelida – e forse, inconsciamente, dal destino che stava per compiersi – Lidia si avvicinò al fianco della madre, guardandola da sotto in su e cercando di spiare una qualche reazione sul suo volto. Donna Giulia se ne stava rigidamente in piedi di fianco al carro, aspettando che suo marito facesse ritorno in compagnia del Legato Quinto Anicio Libo, davanti alla cui domus si trovavano al momento.

«Madre?» Lidia andò in cerca di una parola di conforto, ma negli occhi scuri della madre – quegli occhi che assomigliavano tanto ai suoi – non lesse altro che un affetto triste. La ragazza sapeva che la donna non poteva fare nulla per cambiare la sua sorte, tuttavia avrebbe apprezzato un piccolo incoraggiamento.

Era una donna quieta, Giulia, e Lidia le assomigliava molto. La fanciulla si chiese se anche sua madre provasse di tanto in tanto quel senso di ribellione e quella rabbia che le facevano venir voglia di urlare fino a farsi bruciare i polmoni; e se, soprattutto, fosse altrettanto brava a soffocare quegli impulsi e a relegarli nell’angolo più remoto del suo essere, sepolti sotto strati di cortesia e timidezza. Glielo avrebbe chiesto, forse, consapevole che quella era una delle ultime occasioni che aveva per parlare a quattr’occhi con Donna Giulia. L’arrivo di suo padre e del Legato, tuttavia, la costrinse a desistere.

Quinto Anicio Libo non era un uomo particolarmente giovane, con ogni probabilità andava ormai per i cinquanta, ma era alto e asciutto e aveva un viso dall’espressione gentile, con due occhi buoni che rincuorarono un poco Lidia. Nel vederlo, la fanciulla pensò di aver forse trovato un volto amico anche in quel villaggio buio e umido.

«Donna Giulia, Lidia», disse il Legato, allargando le braccia per accogliere le due donne, «benvenute a Erding. Siete arrivate giusto in tempo: negli ultimi giorni ha piovuto molto, ma ora il tempo dovrebbe volgere al meglio… o così mi dicono.» Donna Giulia gli rivolse un sorriso cordiale e Lidia la imitò, cercando di evitare che il suo nervosismo si manifestasse nel sorriso che rivolse all’uomo. I suoi tentativi non ebbero successo, perché Quinto si rivolse a lei, divertito: «Sei nervosa?»

La fanciulla annuì. «Un po’» sussurrò, con gli occhi bassi.

«Solo un po’, eh?» Il sorriso sul volto del Legato si allargò, ma non era un sorriso di scherno e Lidia riuscì a ricambiarlo un’altra volta. «È normale», cercò di rassicurarla l’uomo, «ma vedrai che la paura passerà una volta che ti sarai ambientata un pochino e avrai visto che non c’è nulla da temere, qui.»

La ragazza lo guardò con due occhi enormi. «No?»

«No» confermò Quinto. «E comunque c’è un manipolo di legionari di stanza alle porte della città, per cui la pace è garantita.» Lidia avrebbe voluto chiedere perché ci fosse bisogno di così tanti soldati, se la situazione era davvero così tranquilla, ma non disse nulla: del resto, la sua unica, remotissima possibilità di fuga era legata proprio a quei militari, quindi non l’avrebbero certo sentita lamentarsi della loro presenza. «Bene» disse il Legato, battendo le mani e indicando ai servitori di scaricare i bagagli. «Volete riposarvi un po’ o preferite visitare il paese?»

«Visitiamo il paese!» rispose subito Lidia, che voleva conoscere il prima possibile il luogo in cui avrebbe passato il resto della vita, ponendo così fine alla logorante attesa che durava ormai da più di una settimana.

Annuendo, Quinto li condusse fuori dalla sua proprietà e attraverso le strade sconnesse di Erding. Definirla città, scoprì Lidia, era assolutamente troppo lusinghiero. Si trattava piuttosto di un grosso villaggio, con case in legno e pietra, tutte uguali, tutte scure, con le travi annerite dall’esposizione al sole e il muschio che si arrampicava su dal terreno a causa dell’umidità eccessiva. Nel giro di una decina di minuti, il sole fece capolino da dietro le creste e l’atmosfera si sarebbe anche potuta definire relativamente piacevole, se non fosse stato per il disagio che la fanciulla provava per la calma surreale che regnava in quel luogo. Le strade erano completamente deserte e, fino a quel momento, non avevano incontrato anima viva. «Ma non ci abita nessuno, qui?» chiese, ad un certo punto.

Quinto ridacchiò. «Certo che ci abita qualcuno… in questo momento però se ne stanno tutti in casa, a spiarti da dietro le finestre e a spettegolare su di te.»

Lidia sbiancò. «E perché dovrebbero fare una cosa del genere?»

Il Legato la guardò con un sorriso. «Non sai molto della vita di paese, vero?» La ragazza storse appena il naso davanti alla canzonatura non troppo velata dell’uomo, ma fu felice di notare che il sapersi spiato non fece piacere nemmeno a suo padre, che improvvisamente prese a lanciare occhiate feroci tutt’attorno a sé.

Il gruppetto giunse in una piccola piazza circolare, dove, finalmente, ebbero modo di incrociare i primi abitanti del luogo. Si trattava soprattutto di donne e Lidia guardò stupita le loro semplici vesti di lana e i loro lunghi capelli, che portavano sciolti, in un’acconciatura che la giovane non aveva mai visto sfoggiare a nessuna donna di buona famiglia. Sebbene provasse una certa curiosità nei confronti di quelle persone, che già al primo sguardo le parvero terribilmente diverse da quelle con cui era solita avere a che fare, Lidia distolse lo sguardo in preda all’imbarazzo quando sentì su di sé i loro occhi: tra la piccola folla radunata nella piazza, c’era chi pareva condividere la sua stessa curiosità, ma alcuni di loro – soprattutto una manciata di uomini – sembravano guardarla quasi con ostilità.   Nel tentativo di sfuggire a quelle attenzioni, la ragazza si finse interessata alla statua che dominava il centro della piazza. «Chi è quello?» chiese, indicando la raffigurazione di un giovane da capelli ricci e con uno strano elmo in testa, immortalato nell’atto di levare al cielo una spada.

«Quello è Arminio, il più grande degli Dèi germanici» le spiegò Quinto, seguendo la direzione del suo sguardo. «Stai attenta a non parlarne male: sono piuttosto suscettibili, quando si tratta di religione.» Lidia annuì, prendendo nota di quanto le aveva detto il Legato, e poi si affrettò a seguire i suoi genitori, che si stavano già allontanando dalla statua del giovane guerriero.

Il resto della mattinata passò più rapidamente di quanto si sarebbe aspettata. Erding era piccolo, ma Quinto riuscì comunque a scovare diversi luoghi d’interesse da mostrarle: la piazza in cui, un giorno alla settimana, si teneva il mercato, il macellaio con la carne migliore, la bottega alla quale rivolgersi per ottenere dei tessuti di qualità. La fanciulla faceva segno di sì con il capo e sorrideva in silenzio, cercando di nascondere il proprio disagio e l’imbarazzante realtà che lei non la sapeva nemmeno cucinare, la carne.

Man mano che le ore passavano e il sole si alzava nel cielo, accorciando le ombre, Lidia sentiva crescere in sé l’inquietudine. Sapeva che avrebbe dovuto conoscere il suo futuro sposo, quel giorno, ma il fatto di non essere a conoscenza dell’orario in cui ciò sarebbe avvenuto la riempiva d’angoscia. Quando giunse l’ora di pranzo, la giovane aveva lo stomaco talmente chiuso che dovette farsi violenza per mangiare, per educazione, i manicaretti che Quinto fece servire loro. Quando, poco dopo, due ancelle vennero a chiamarla, stringendo tra le mani un pettine e delle vesti pulite, Lidia si sentì sul punto di svenire. Qualcosa, nel profondo del suo petto, le imponeva di ribellarsi, di rifiutare quello che le pareva un sopruso, ma le sue gambe si mossero in automatico, permettendo così alle due giovani di scortarla in un’altra stanza.

Le ragazze la lavarono e la vestirono; quando però le pettinarono i capelli e le proposero di lasciarli sciolti, alla moda delle donne germaniche, la fanciulla si oppose. No, li avrebbe raccolti, così com’era sempre stata abituata a fare. Senza le trecce arrotolate sul capo si sentiva quasi nuda, vulnerabile: in quel momento, non era disposta a rinunciare anche a quel misero conforto. Dopo quella piccola presa di posizione, però, Lidia fu colta da una sorta di senso di ineluttabilità e rinunciò a opporsi agli eventi. Seguì allora i suoi genitori e il Legato camminando per le strade di Erding quasi in trance, senza riuscire a concentrarsi su qualcosa che non fosse il battito del suo cuore e il suo respiro affannato. Dalla direzione che avevano preso era convinta che la stessero portando nella piazza con la statua; Quinto, tuttavia, deviò improvvisamente e si infilò in una via laterale, leggermente in salita, prima di fermarsi davanti a una casa che non aveva nulla di diverso da tutte le altre.

Il Legato bussò deciso alla porta di legno e immediatamente una vecchia donna venne ad aprirla. Aveva i capelli scarmigliati e bianchissimi e i suoi occhi azzurri, appannati dall’età, trapassarono Lidia da parte a parte. Non sembra particolarmente felice di vedermi, comprese la ragazza, con un brivido.

«Buongiorno, Donna Edda» la salutò Quinto. «Questa è la futura sposa, possiamo entrare?»

La donna annuì secca e si fece da parte brontolando a bassa voce. Lidia tese le orecchie per decifrare il senso delle sue parole, ma la vecchia parlava un dialetto germanico che alla ragazza non parve altro che un ringhio sordo.

«Sul retro» disse improvvisamente la padrona di casa, passando al latino: la sua voce era fragile, ma sorprendentemente tagliente. Attraversando la stanza senza nemmeno vedere quello che le stava attorno, quasi come se qualcuno le avesse stretto il volto in una coppia di paraocchi, Lidia si ritrovò in una sorta di giardino protetto da un alto muro di sasso. Lì, si accorse con un tremito, era riunita quella che con ogni probabilità era la famiglia del suo futuro sposo. La sua nuova famiglia.

Erano ancora peggio di quello che si era aspettata. Gli uomini le parvero tutti eccezionalmente alti e insolitamente robusti – sebbene, le fece notare la sua mente, era probabilmente colpa degli abiti pesanti che indossavano – e, cosa che la impressionò, portavano tutti una barba più o meno abbondante e capelli lunghi fino alle spalle.

Quando i quattro romani fecero il loro ingresso nello spazio recintato, tutti si voltarono a guardarli, ma Lidia si rese conto che c’era qualcuno che la fissava con più insistenza degli altri: si trattava di un uomo dall’età indefinibile, dai capelli grigi e gli occhi chiari. Anche se era seduto a parecchi metri di distanza da lei, la fanciulla riuscì a vedere la deformità della sua gamba destra, forse la traccia di un antico incidente che lo costringeva seduto sull’alta sedia di legno.

Non sarà mica lui mio marito, vero? In preda a un panico improvviso, la ragazza retrocedette di un passo e si scontrò contro il petto di Quinto, che esalò bruscamente. Da qualche parte alla sua destra giunse una risata sommessa e voltandosi in quella direzione Lidia incontrò gli occhi glaciali di una giovane donna dai capelli così chiari da sembrare bianchi. La giovane la guardava con un ghigno tutt’altro che amichevole e, fissandola dritta in viso, disse qualcosa ai due uomini che le stavano accanto. I due annuirono e la fissarono a loro volta, uno con un’espressione di scherno sul volto, l’altro con palese disprezzo. Lidia rabbrividì e arrossì, distogliendo lo sguardo e pregando che nemmeno uno di loro fosse la persona che era obbligata a sposare. Voltandosi dall’altra parte incrociò lo sguardo curioso di un uomo bruno, che subito alzò gli occhi su Quinto con un’espressione interrogativa. Alle sue spalle il Legato scosse le spalle, come per dire che non importava, e poi fece un passo avanti, rivolgendosi direttamente all’uomo sulla sedia. «Gefrid, siamo qui per presentare a te e alla tua famiglia questa fanciulla, Lidia Aurelia Prisca, promessa sposa di tuo figlio Ulf.»

L’uomo annuì e, malgrado tutto, Lidia tirò un sospiro di sollievo. Meglio suocero che marito, pensò. Il Legato si voltò poi verso la fanciulla e le prese le mani nelle sue. «Lidia, ti presento tuo marito, Ulf. Forse potrai pensare che…» l’uomo si interruppe e si guardò attorno, confuso. «Ehm…»

In quel momento la porta alle loro spalle si aprì e un ragazzo fece il suo ingresso, precipitandosi nel giardino e piegandosi a metà come per riprendersi da una corsa. «Scusate» boccheggiò.

«Oh, eccoti qui!» esclamò Quinto, con un sorriso. «Mi stavo appunto chiedendo dove fossi finito. Bene, come stavo dicendo…»

Quinto riprese le mani di Lidia e ricominciò a parlare, ma la ragazza non lo ascoltava più. Quello era Ulf? Era giovane, all’incirca della sua età, e bello, con due grandi occhi verdi come l’acqua e un ciuffo di capelli scuri e scompigliati. Quando si accorse della sua attenzione le fece un sorriso che gli fece comparire due adorabili fossette sulle guance. Forse non sarà così dura come pensavo, si disse la giovane, mentre un sollievo caldo e liquido le colava nello stomaco.

«Lidia, se vuoi andare a stringere la mano al tuo fidanzato…» le disse gentilmente il Legato. Nell’udire quell’invito, la fanciulla si riscosse. «Oh, sì certo» disse, muovendo un passo verso il ragazzo dai capelli scuri. La mano di Quinto la fermò. «Cosa…?» l’uomo si interruppe, illuminandosi in volto. «Ah, no, scusa per il malinteso!»

Lidia lo guardò, cercando di afferrare la situazione. «Eh?»

«Quello è Hermann, il fratello minore di Ulf» le disse l’uomo, prendendola delicatamente per le spalle e facendola girare. «Tuo marito è lui

Seguendo la direzione indicata dal cenno di Quinto e arrossendo mortificata, Lidia incrociò lo sguardo del suo vero marito e si sentì morire.

Or dunque, facciamoci due conti. Prologo: 174 visualizzazioni; 1 commento. Primo capitolo: 89 visualizzazioni; 0 commenti. Secondo capitolo: 91 visualizzazioni; 1 commento. Terzo capitolo: 47 visualizzazioni; 0 commenti.

Io non sono una che venderebbe un rene per una recensione: del resto, questa storia è quasi del tutto scritta ed è pianificata nel dettaglio fino all’epilogo, motivo per cui non mi serve avere il supporto di chi legge per sentirmi motivata a scrivere. Però qualche domanda me la faccio lo stesso. Se un buon numero di gente legge quello che scrivo e non trova comunque un accidente di niente da dire, questo è sicuramente indicativo di un certo disinteresse. E se una cosa non interessa, se annoia, vuol sicuramente dire che c’è qualcosa che non va… purtroppo, però, io non sono in grado di identificarlo con chiarezza, quel qualcosa. Per migliorare e sistemare i dettagli (e non solo quelli) mi serve necessariamente un feedback di qualche tipo: qualcuno sarebbe così carino da darmelo?

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Capitolo 6
*** 5. Il prezzo di una figlia ***


Lidia non era mai stata una persona particolarmente religiosa e già da qualche anno si chiedeva se ci fossero davvero degli Dèi, nascosti negli angoli dei templi e nelle profondità dei boschi. In quel momento, quando si trovò ad abbassare il capo sotto lo sguardo del suo futuro marito, i suoi dubbi scomparvero definitivamente: gli Dèi non erano altro che una favola, altrimenti avrebbero ascoltato almeno in parte le sue preghiere e non l’avrebbero gettata in pasto a quello.

Se fino a un attimo prima gli occhi dell’uomo esprimevano disprezzo, ora il suo volto era carico di semplice, desolante e inequivocabile schifo. La donna accanto a lui, la stessa che l’aveva osservata con tanta insistenza, si stava mordendo con forza le labbra in un disperato tentativo di non scoppiare di nuovo a ridere, ora che l’attenzione di tutti era incentrata sulla persona al suo fianco. Osservando il colore di capelli e occhi, Lidia capì con un tremito che lei e il suo futuro sposo non erano semplici conoscenti.

A quanto pare mio marito mi odia già e mia cognata sembra una pessima persona, pensò la fanciulla, inorridita. Peggio di così non poteva andare.

La sua buona educazione le stava intimando di obbedire all’invito di Quinto e di andare a stringere la mano a quello, ma le sue gambe si rifiutarono di eseguire quell’ordine e la ragazza rimase inchiodata al terreno, attirando su di sé le occhiate scettiche dei presenti. Notando la sua reticenza e la tensione che iniziava a crescere tra gli astanti, il Legato le posò una mano sulla schiena e, con gentilezza, la sospinse verso il suo futuro marito. Lidia sobbalzò e quasi incespicò, ma poi si costrinse a riscuotersi.

Stai solo facendo la figura dell’idiota, si disse, mentre un velo di lacrime minacciava di appannarle gli occhi. Stringendo con forza le palpebre per dissiparlo, la fanciulla deglutì e poi, a piccoli passi, quasi strisciando i piedi sul terreno, coprì i pochi metri che la separavano da Ulf. Non riuscì a trovare il coraggio di alzare la testa e di guardarlo negli occhi; e così procedette quasi alla cieca, fermandosi solo quando una maglia di lana scura e un’alta cintura di pelle entrarono nel suo campo visivo. Eccoci, pensò. Il cuore le batteva talmente forte che la giovane era certa di essere sull’orlo dell’infarto.

Sapendo di non poter fare nulla di diverso, Lidia strinse i denti, desiderosa di concludere al più presto quell’esperienza così sgradevole, e sporse una mano, in attesa che l’uomo la stringesse. Quasi si aspettava che il suo fidanzato la rifiutasse, che si allontanasse ridendo di lei, ma dopo un attimo di indecisione la mano dell’uomo si strinse piano attorno alle sue dita sudate, come se anche lui desiderasse adempiere a quella formalità nel modo più rapido e indolore possibile. Quando il palmo caldo e ruvido del germanico sfiorò la sua pelle, Lidia si accorse di avere le mani gelate e, in un riflesso spontaneo, alzò lo sguardo fino a incrociare quello di Ulf: nei suoi occhi pallidi credette di leggere ostilità, ma anche qualcos’altro.

Compassione?

Davanti a quello sconosciuto così alto, così diverso dagli uomini che era solita frequentare, completamente alieno con i suoi capelli chiari e con la barba che, sebbene più corta di quella di altri uomini riuniti attorno a lei, celava parte del suo volto, Lidia si sentì piccola e impotente come una bambina e, colta da una nuova fitta di paura, ritirò la mano e se la strinse al petto, come per proteggerla. Quel gesto suscitò l’ilarità della donna bionda e del suo compagno dai capelli scuri e quelle risate sommesse ferirono la fanciulla come colpi di frusta.

Ma cosa ci faccio, io, qui?

In preda allo sconforto e a un panico crescente, Lidia si guardò attorno, passando in rassegna a quella gente con cui non aveva nulla in comune. Si soffermò sul volto impassibile di suo padre e su quello angosciato di sua madre, poi tornò a quello del suo fidanzato, che si era ritratto di un passo e aveva di nuovo assunto un’espressione fredda, e a quello della donna bionda, i cui occhi brillavano di una luce selvaggia.

Tentando di scacciare le lacrime che si erano di nuovo fatte avanti, Lidia si portò una mano alla bocca. Che cosa ci faccio qui? Si chiese una seconda volta.

Stringendo i denti, la giovane si impose di non piangere: in quella circostanza lei rappresentava Roma e l’Imperatore e, sebbene in quel momento provasse ben poca simpatia per il Divino Cesare, non avrebbe disonorato se stessa e la sua città scoppiando in lacrime come una bambina impaurita. Non si sarebbe mostrata debole davanti a tutta quella gente che, ne era convinta, stava solo aspettando il momento più opportuno per approfittare della sua fragilità.

Nonostante i suoi buoni propositi, però, la fanciulla sentì gli occhi inumidirsi e stava per perdere la sua personale battaglia contro le lacrime quando una voce superò la barriera di angoscia e paura che la stava avvolgendo in spire sempre più strette.

«È adeguata», disse il vecchio sulla sedia, parlando con uno strano accento metallico, «ma è evidente che è provata dal viaggio. Discuteremo in privato dei dettagli del matrimonio.»

Lidia si voltò a guardarlo, mentre un’ondata di gratitudine le scaldava il petto e le faceva rotolare due grosse lacrime giù per le guance. Grazie, gli avrebbe detto, se ne avesse avuto il coraggio. Non sentendosi in grado di compiere un gesto tanto eclatante, si limitò a rivolgergli un debole sorriso, che il vecchio ricambiò con un piccolo cenno del capo.

«Credo che sia una buona idea, Gefrid» concordò Quinto. «Donna Lidia è appena arrivata a Erding e sono certo che apprezzerebbe un po’ più di tranquillità.»

Il vecchio – Gefrid, si corresse Lidia, cercando di ricordare il nome del suo inaspettato alleato – si alzò in piedi e subito il più giovane dei suoi figli corse al suo fianco, sostenendolo con discrezione. Nel far ciò, il ragazzo lanciò un’occhiata curiosa alla fanciulla e lei si trovò nuovamente a desiderare che fosse lui, l’uomo che avrebbe dovuto sposare.

«Lidia.»

La voce di Quinto la richiamò e la ragazza raggiunse il Legato all’ombra di un albero un po’ in disparte rispetto al resto della gente. «Com’è andata?» le chiese gentilmente l’uomo. La fanciulla scosse mestamente il capo. «Male» ammise, stringendosi nelle braccia. «Legato, io… io non voglio sposarlo.»

Lidia sapeva che la sua era una richiesta vana, dal momento che nessuno aveva il potere di opporsi a una decisione imperiale, tuttavia desiderava esprimere la propria insoddisfazione in tutti i modi possibili. Quinto parve sorpreso da quell’affermazione così diretta. «Come mai?» le chiese infatti.

Per mille ragioni, pensò la fanciulla, cercando di fare ordine nella sua testa. «È vecchio» esordì. Non era certo il motivo principale, ma era un punto di partenza. Quinto ridacchiò. «Non è vecchio, ha appena compiuto venticinque anni» le fece notare.

Quell’informazione la colse di sorpresa, a una prima occhiata gliene avrebbe dati dieci di più, ma la giovane non si lasciò scoraggiare. «Mi odia, ho visto come mi guarda» ribatté, rabbrividendo al ricordo dello sguardo apertamente ostile che le aveva rivolto l’uomo.

Il Legato sospirò. «Cosa dovrebbe dire di te, invece? Tremavi come di fronte a un mostro. Di certo non si sarà sentito particolarmente lusingato.»

Lidia provò un po’ di vergogna, ma la sua opinione non cambiò: per lei quell’uomo era un mostro, o per lo meno una persona con cui non voleva avere nulla a che fare. «Mi fa paura» confessò allora, cercando di spiegare il terrore che l’aveva colta qualche minuto prima. «Ho cercato di controllarmi, ma è così. Non posso resistere in questo posto, in questa situazione…»

La sua voce si stava di nuovo incrinando e il Legato le posò le mani sulle spalle. Per un attimo Lidia pensò che l’avrebbe abbracciata, dimostrandole un affetto superiore a quello mai dimostratole da suo padre, ma Quinto si limitò a stringere brevemente le dita.

«Devi essere forte, Lidia» le disse serio, piegandosi un po’ per guardarla negli occhi. «Tu sei romana, so che hai in te tutta l’energia che ti serve per affrontare questa situazione. Non conosco molto Ulf, è vero, ma conosco suo padre: Gefrid è un uomo giusto. Se sarai leale nei suoi confronti, avrai in lui un ottimo alleato.»

Lidia annuì, stringendo i pugni e cercando di trovare in sé quella forza che Quinto sembrava riconoscerle e di cui lei non aveva mai visto traccia. C’era però una cosa che la turbava, forse più di tutte le altre.

«E cerca di non badare troppo a Unna» continuò il Legato, leggendole nel pensiero. «Unna?» chiese Lidia, senza capire.

«La sorella di Ulf, quella ragazza bionda che stava accanto a lui. Non ho mai avuto veramente a che fare con lei, ma mi è giunta voce che, effettivamente, ha un caratteraccio. Ma tu non devi preoccupartene.» Notando il turbamento della fanciulla, Quinto strinse un po’ di più la presa. «Lei e Ulf sono gemelli e sono molto legati, ma anche lei sottostà al volere di suo padre. Fattelo amico e non avrai problemi nemmeno da lei.»

Quella notizia, che nelle intenzioni del Legato avrebbe evidentemente dovuto rassicurarla, non fece altro che aumentare l’inquietudine di Lidia: per un breve istante, prima di conoscere la famiglia del suo promesso, si era illusa di poter trovare nelle donne di casa delle compagne in grado di alleviare la sua solitudine. Ora che aveva visto Unna, quella speranza era evaporata come neve al sole. Le era infatti bastato poco per capire che non sarebbero mai state amiche; e ora Quinto le stava facendo intendere che, se non fosse stata attenta, la donna avrebbe anche potuto essere una sua nemica dichiarata.

«Forza, Lidia» riprese ancora il Legato. «Non è in gioco solo il tuo futuro, lo sai.»

La fanciulla avrebbe voluto ribattere che no, non sapeva nulla perché suo padre non le aveva mai rivelato i dettagli delle circostanze che l’avevano condotta in quel villaggio freddo e umido, tuttavia l’attenzione di Quinto si spostò improvvisamente su un uomo che si stava avvicinando a loro di buon passo. «Romano», esordì il germanico, un uomo con i lunghi capelli bianchi e il ventre prominente, «Gefrid vuole parlare con la donna e con suo padre. Adesso.»

«Li accompagno subito da lui» si offrì Quinto, ma il germanico scosse il capo.

«Solo la donna e suo padre» sottolineò, perentorio. Il Legato alzò le mani in segno di resa e fece cenno a Lidia di seguire lo sconosciuto con i capelli bianchi. A malincuore, la giovane obbedì e si incamminò alle spalle del suo accompagnatore, che attraversò rapido il giardino e si avvicinò al padre della fanciulla. «Senatore» esordì il germanico, utilizzando il titolo di cui suo padre andava tanto fiero, ma riuscendo in qualche modo a pronunciarlo in un tono che lo fece sembrare tutto fuorché un titolo onorifico. «Gefrid desidera discutere con te i termini del matrimonio.»

Il romano annuì, facendo cenno alla moglie di restare lì seduta ad aspettarlo. «Bene», sbuffò, «questa sceneggiata è durata fin troppo.»

«E tu», disse poi, rivolgendosi alla figlia, «cerca di comportarti come se in quella tua testa ci fosse qualcosa di diverso dalla segatura. Prima sei stata patetica.» Lidia chinò il capo, incassando in silenzio l’offesa, e per la prima volta si ritrovò a pensare che, forse, essere lontana dagli insulti di suo padre non sarebbe stato poi un grosso svantaggio.

Il barbaro li condusse di nuovo in casa e, questa volta, la ragazza si guardò attorno, cercando di trovare qualcosa di piacevole in quell’ambiente tanto diverso dalla domus che aveva lasciato a Roma. Il bianco con cui erano dipinte le pareti non era sufficiente per far sembrare più grande l’unica stanza angusta, dal soffitto basso, arredata da semplici mobili di legno scuro e illuminata da finestre un po’ troppo piccole. Lidia notò come il muro accanto al camino acceso fosse nero di fuliggine e non riuscì a impedirsi di storcere il naso. Erano tutti così sciatti, da quelle parti?

«Di sopra» disse il loro accompagnatore, accennando con il capo alla ripida scala di legno che conduceva al piano superiore.

Il senatore Prisco non se lo fece ripetere e subito iniziò ad arrampicarsi su per i gradini, seguito da Lidia che, sebbene non avesse gradito l’insulto che l’uomo le aveva rivolto poco prima, non aveva intenzione di rimanere da sola in un ambiente potenzialmente ostile.

La stanza in cui sbucarono era sorprendentemente luminosa, la luce lattea del cielo nuovamente ingombro di nubi dipingeva tutto di bianco e ammorbidiva i lineamenti duri dell’uomo seduto sulla poltrona in pelle scura. Distrattamente, Lidia si chiese come avesse fatto a salire fin lassù con una gamba in quelle condizioni, ma poi l’attenzione della giovane venne inevitabilmente attratta dal secondo uomo, che sedeva accanto alla finestra, su una sorta di panca ricoperta da un cuscino rosso.

Trovarsi quasi a tu per tu con Ulf la mise in un imbarazzo ancora peggiore di quello provato giù in giardino.

«Prego, sedetevi» disse Gefried, accennando con una mano ai due posti liberi sulla stessa panca dove sedeva suo figlio.

Muovendosi con una rapidità insospettabile, il senatore si accomodò all’estremità opposta rispetto a quella in cui sedeva il suo futuro genero, non lasciando a Lidia altra possibilità che sedersi tra loro due. Avvampando, la ragazza cercò di farsi piccola piccola e di non toccare con nessuna parte del corpo il germanico.

«Tremila sesterzi» esordì a bruciapelo Gefrid.

Prisco lo fissò, sporgendosi in avanti come sempre faceva quando si concentrava nel suo lavoro. «Di dote?» chiese. «Sono troppi. Il Legato mi aveva parlato di milleottocento sesterzi, duemila al massimo.»

Il germanico non cedette. «La ragazza è completamente spaesata» disse, osservando brevemente Lidia. Sentendosi addosso il peso di quello sguardo indagatore, la giovane cercò di scomparire nel muro. «Avrà bisogno di assistenza continua, durante i primi tempi.»

Il senatore scosse il capo. «Mia figlia è abituata ad arrangiarsi», mentì, «non ci metterà molto ad ambientarsi.»

«È in grado di svolgere le faccende di casa?» insistette Gefrid. «Mio figlio lavora tutto il giorno, non ha il tempo di occuparsi di una moglie inesperta.»

«Sa fare il necessario» lo rassicurò il romano. «Il resto lo imparerà; e anche in fretta. Duemila sesterzi saranno più che sufficienti per lei, di più sarebbero un furto.»

Lidia assistette con orrore crescente alla contrattazione tra i due uomini che, per quanto legittima, la faceva sentire come una manzetta al mercato del bestiame. Sapendo di non aver alcuna voce in capitolo, la fanciulla cercò di estraniarsi da quella situazione, ma così facendo divenne lentamente consapevole di essere osservata.

Non avrebbe voluto voltarsi, ma ignorare quella sensazione che le faceva formicolare le orecchie divenne presto impossibile. Lentamente, quasi con circospezione, la fanciulla ruotò il capo fino a incontrare lo sguardo azzurro di Ulf. Vedendolo da vicino, la ragazza si accorse del proprio errore. L’uomo era chiaramente più giovane di quanto non le fosse sembrato a una prima occhiata furtiva, tuttavia non lo trovava meno inquietante, né la prospettiva di sposarlo le pareva più gradevole.

Il germanico la osservò con calma, passando in rassegna al suo viso, ma senza scendere con gli occhi sul suo corpo, cosa che, in un certo senso, glielo fece apprezzare un pochino.

Sempre che non abbia già guardato prima, ovviamente, pensò, con un cinismo che non si riconosceva.

In quella strana bolla fatta di occhiate scambiate all’oscuro dei rispettivi padri, Lidia si sentì libera di studiarlo a sua volta. Anche se a lei erano sempre piaciuti gli occhi scuri, dovette ammettere che aveva dei begli occhi, azzurri come il cielo del mattino e più scuri all’esterno e, se guardava bene, poteva scorgere delle lentiggini sul naso e sulle guance. Quel particolare la fece quasi sorridere: era abituata ad accostare le lentiggini ai volti dei bambini e ritrovarle su quelle di un uomo adulto le pareva una cosa singolare. Non era oggettivamente brutto, dovette riconoscere, ma non era nemmeno il genere di uomo che avrebbe scelto. Non era Tito e, soprattutto, non era romano. E tanto bastava a non farglielo piacere. Senza contare che quei capelli così chiari e così lunghi le sembravano assolutamente fuori posto.

I capelli di Tito erano belli da accarezzare. I suoi sono troppo lunghi, mi parrebbe di accarezzare Lucilla! Quel pensiero sbucato da chissà dove la fece avvampare e la cosa non sfuggì a Ulf, che corrugò leggermente le sopracciglia, evidentemente confuso dalla causa del rossore improvviso della fanciulla. Il germanico inclinò leggermente il capo, come per studiare un enigma, e Lidia non trovò di meglio da fare che fissarlo con gli occhi spalancati, pregando che non le chiedesse nulla. Aveva appena trovato il coraggio di guardarlo, parlare con lui sarebbe stato decisamente troppo!

La voce di Gefrid la riscosse e fece esplodere quello strano momento di tranquillità. «Duemila e trecento sesterzi, senatore!» sbottò il vecchio. «Se tutti i romani fossero avari come te, il tuo glorioso impero non avrebbe certo tutti i debiti che ha adesso!»

«È un prezzo più che adeguato per la ragazza», sostenne il romano, «e non si può dire che tu sia stato generoso con le forniture di pelli, germanico, per cui ritieniti soddisfatto!»

Lidia non aveva seguito la conversazione, ma evidentemente il suo prezzo era stato fissato. Duemila e trecento sesterzi. Suo padre aveva falconi da caccia che valevano di più.

La dote non era però l’unica cosa che era stata fissata. «Tra tre giorni, allora» disse infatti Gefrid, mentre il senatore e Ulf si alzavano in piedi. «Chiedi al Legato di condurre la ragazza dalla sacerdotessa, voglio che sia pronta e che non ci siano sorprese.»

Che sorprese? Si chiese Lidia, sentendo il panico tornare ad assalirla. E poi, tre giorni? Mi sposo tra tre giorni?

La data le sembrava improvvisamente troppo vicina. La fanciulla alzò gli occhi su Ulf, ma l’uomo non incontrò il suo sguardo e il suo volto pareva essersi incupito nell’udire le parole dei due uomini. Improvvisamente Lidia capì quello che avrebbe dovuto esserle evidente già da tempo: nemmeno lui voleva sposarla.

Quella rivelazione non fece altro che accrescere il suo sconforto: un marito insoddisfatto sin dall’inizio sarebbe stato certo peggiore di uno che accettava di sposarla di buon grado, e, forse anche più difficile da tenere a bada in attesa che arrivassero i rinforzi da Roma. «Certamente» disse il senatore, rispondendo al germanico. «Mi atterrò al nostro accordo. Lidia, muoviti.»

Ignorando il pallore della figlia, l’uomo sparì giù per le scale e, dopo aver incontrato per un’ultima volta lo sguardo assorto di Gefrid, la ragazza lo seguì, rischiando di inciampare sul primo gradino a causa della nebbia che le aveva improvvisamente riempito la mente e gli occhi.

 ***



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Capitolo 7
*** 6. La Sacerdotessa ***


Erding - Germanica Inferiore, 342 a.U.c., 3 Maggio

Dal momento che il primo impatto con il paese e i suoi abitanti non era stato dei migliori, Lidia era ormai abituata ad aspettarsi il peggio da quel luogo e non aveva motivo di credere che la dimora della sacerdotessa avrebbe fatto eccezione. Trovandosi di fronte a una casetta sorprendentemente curata, la fanciulla faticò dunque a trattenere un’esclamazione di sorpresa – a maggior ragione perché quel poco che sapeva dei sacerdoti germanici l’aveva portata a considerarli poco più che stregoni dediti alla preparazione di intrugli velenosi, alla pratica di strani rituali con gli animali e, si mormorava, persino di sacrifici umani. Un personaggio del genere avrebbe dovuto vivere in un antro oscuro o in una capanna buia e umida, se non addirittura in una grotta, e invece la casa della sacerdotessa era la più bella e luminosa di tutto il paese.  A differenza delle altre abitazioni che Lidia aveva avuto modo di vedere, infatti, essa aveva i muri intonacati di bianco e i balconi erano abbelliti da un gran numero di fiori coltivati con cura: sembrava quasi che, per qualche strano motivo, in quel luogo la primavera avesse deciso di dare il meglio di sé, trascurando in parte il resto del villaggio.

In altre circostanze, la giovane avrebbe forse permesso all’ambiente piacevole di farla rilassare un po’, ma in quel momento anche quel particolare le parve un inganno, alimentando così le sue paure e la sua diffidenza. Donna Giulia, nervosa quanto la figlia, le strinse la mano, indirizzandole un sorriso tremulo, mentre Quinto bussava educatamente alla porta di legno.

La donna che venne ad aprire non pareva affatto la megera che Lidia si era immaginata. Di mezza età - doveva aver da poco passato i quarant’anni - sembrava ancora in perfetta forma, alta e sottile, con i lunghi ricci ramati appena toccati dal grigio del tempo e un’espressione intelligente che brillava negli occhi verdi. Era sorprendentemente pulita e il sorriso che rivolse loro sembrava sincero e per nulla sinistro.

Non sembrava una germanica.

Non sembra nemmeno romana, però, pensò la fanciulla, scrutandola di sottecchi e cercando di inquadrare correttamente quella donna che di lì a poco l’avrebbe sottoposta a chissà quale esame.

«Legato Libo! Benvenuto» sorrise la sacerdotessa, porgendo una mano a Quinto. «E benvenute anche a voi, signore. Tu devi essere Lidia.» Sentendosi chiamata in causa, la ragazza annuì, arrossendo. «Molto bene» continuò la donna, facendo loro cenno di entrare in casa. «Accomodatevi pure.»

L’interno dell’abitazione era estremamente luminoso e il bianco legno di betulla sostituiva il nero del cupo legno di castagno, che sembrava essere presente un po’ ovunque, all’interno del villaggio. Lidia si chiese se il colore bianco, che la donna sembrava prediligere anche negli abiti che indossava, fosse in un qualche modo legato al suo essere una figura religiosa.

«Allora», esordì la sacerdotessa, dopo che i tre romani ebbero preso posto su una panca davanti al camino, «io sono Erin e il mio compito è assicurarmi che questo matrimonio parta sotto i migliori auspici.»

Lidia deglutì nervosamente, avvertendo confusamente che dietro alle parole della donna si celava un pericolo.

«È quello che desideriamo tutti» la rassicurò Quinto.

«Naturalmente» replicò la sacerdotessa, con un sorriso cordiale. «Tuttavia vorrei fare una chiacchierata con Lidia, così da chiarire i suoi dubbi e aiutarla a partire con il piede giusto in questa avventura. Sei d’accordo, Lidia?»

La ragazza scambiò un’occhiata confusa con sua madre. L’atteggiamento di quella donna la confondeva: parlava in maniera insolita, non vi era traccia di accento germanico nel modo in cui pronunciava le parole e persino la sua gestualità le era del tutto estranea. Tuttavia, riconobbe la fanciulla, non poteva certo opporsi a quella chiacchierata; non ultimo perché le era stata imposta dal padre e dal futuro suocero. «Certamente, Donna Erin» rispose dunque, rispettosa.

La donna le sorrise di nuovo e le porse una mano. Stringendosi per un istante il labbro tra i denti, Lidia si alzò e le si vi avvicinò. Quando Donna Giulia fece per alzarsi a sua volta, la sacerdotessa la bloccò con un gesto perentorio. «Solo Lidia, per il momento. Voi potrete entrare più tardi, se lo desiderate.»

Lanciando un’ultima occhiata a sua madre e al Legato, la giovane seguì la sacerdotessa in un altro locale, dove, oltre a un secondo camino acceso, erano posizionate due poltrone di pelle bianca e un tappeto rosso decorato con degli intricati motivi floreali. La donna sedette su una delle due poltrone e invitò Lidia a fare altrettanto, sorridendo appena quando notò che la ragazza si accomodò all’estremità del cuscino, come se fosse pronta a scattar via al minimo segnale di pericolo. «Non c’è bisogno di essere così nervosa, Lidia» cercò di tranquillizzarla. «Siamo qui solo per parlare.»

La fanciulla avvampò e si sistemò meglio sulla poltrona, appoggiandosi allo schienale e senza trovare il coraggio di dire che era proprio quello, a spaventarla. Il fatto di non sapere di cosa avrebbe dovuto parlare le dava l’impressione di essere in procinto di addentrarsi in un territorio sconosciuto e, con ogni probabilità, pericoloso.

Quando la giovane incrociò compostamente le mani in grembo, la sacerdotessa sorrise. «Va bene», disse, con un cenno del capo, «iniziamo. Sei vergine, Lidia?»Le guance della giovane si fecero ancora più rosse e Lidia chinò il capo, sussurrando un “sì” quasi impercettibile. Aveva immaginato che in un modo o nell’altro la conversazione sarebbe andata a parare lì, ma questo non rendeva la domanda meno imbarazzante.

«Oh, molto bene!» annuì Donna Erin, soddisfatta. «Come ti trovi qui a Erding?»

Lidia la fissò a bocca aperta, stupefatta dal repentino cambio di rotta. Tutto lì? Si fidava della sua parola? Notando il suo stupore, la sacerdotessa sbuffò divertita e spinse una ciocca ramata dietro all’orecchio. «Non preoccuparti, non intendo esaminarti per vedere se dici la verità: si vede lontano un miglio che sei sincera!»

Il rossore della fanciulla si fece ancora più pronunciato: come faceva quella donna a parlare con tanta disinvoltura di certi argomenti? E, soprattutto, si disse la ragazza, con una punta di fastidio, com’è che la cosa la diverte? Mi sta prendendo in giro?

«Quindi», continuò la donna, ignorando la smorfia della sua giovane interlocutrice, «ripeto la domanda: come ti trovi qui?» Quell’insistenza mise sul chi va là Lidia, che si strinse nelle spalle. «Bene» mormorò, senza guardare la sacerdotessa. Questa volta la donna scosse il capo. «Ecco, vedi? Adesso invece stai mentendo.»

La fanciulla abbassò lo sguardo, colpevole. Donna Erin sospirò e, alzatasi dalla poltrona, si accovacciò davanti alla ragazza. «Lidia», la richiamò, prendendole il mento tra le dita e sollevandole dolcemente il volto, «è importantissimo che tu sia sincera con me. Io sono qui per aiutarti, capisci? Però tu devi aiutare me. So che non è facile fare quello che ti viene chiesto, ma io posso semplificarti le cose, se deciderai di fidarti di me.»

Lidia sollevò lo sguardo e si specchiò nei grandi occhi di smeraldo della donna. Ancora una volta le parvero incredibilmente limpidi e sinceri e quando non scorse alcuna traccia di malizia sul suo viso pallido decise di abbassare un po’ le difese che negli ultimi tempi aveva innalzato attorno a sé. «Va bene» mormorò, offrendo alla donna un sorriso timido.

«Allora, dimmi: perché non ti piace stare qui?»

La giovane sollevò appena le spalle. «Non lo so, sono appena arrivata» disse, piano. «Non ho visto ancora molto del paese e della gente.»

«Però quello che hai visto non ti piace» affermò, più che domandare, la sacerdotessa.

Lidia annuì. «Avrei voluto restare a Roma» confermò, con voce pacata.

«Avevi un ragazzo, a Roma?»

La fanciulla sussultò: come faceva a saperlo? «Sì», ammise, temendo che la donna potesse riconoscere un’eventuale menzogna, «Tito. Mio padre l’aveva scelto per me quando avevamo quattordici anni e io… io gli volevo bene.»

«Capisco» sospirò Donna Erin, allungando una mano per accarezzare i capelli bruni di Lidia. «E non pensi di poter voler bene anche a Ulf, un giorno?»

No, pensò la ragazza. «Non lo so» disse, invece, mordendosi un labbro e iniziando a tormentarsi la gonna con una mano. «Lui mi fa paura. È così strano, diverso dalle persone che conosco… e poi ho visto come mi guardava, l’altro giorno: nemmeno lui vuole sposarmi. Anzi… credo proprio di fargli un po’ schifo. Aveva una faccia… per non parlare poi di sua sorella. Sembra… non so, sembra cattiva. Io non ci voglio vivere, in una famiglia così. Nemmeno mi conoscono e già mi odiano: come faccio ad adattarmi a una cosa del genere?» Lidia si interruppe di colpo, portandosi una mano alla bocca come per rimangiarsi quello sfogo che era sfuggito dalle sue labbra quasi senza il suo permesso.

«Va bene», disse la sacerdotessa, rialzandosi e, quasi di rimbalzo, piombando di nuovo sulla poltrona, «va bene, una cosa alla volta. Prima di tutto, qui nessuno ti odia.»

«No?» La fanciulla non riuscì a nascondere lo scetticismo.

«No» confermò la donna. «Sanno che non hai chiesto tu di venire a Erding, ma sanno altrettanto bene che la tua presenza qui è estremamente importante. Sono certa che, se gliene darai il tempo, ti vedranno esattamente per quello che sei: una ragazza coraggiosa che fa il suo dovere per aiutare a evitare una guerra.»

Per una frazione di secondo, Lidia rimase come abbagliata dalle parole di Donna Erin. Per quanto si fosse sforzata di comprendere le vere ragioni che l’avevano costretta a lasciare la sua casa e la sua famiglia, non era ancora riuscita a capire come la sua presenza in quel luogo potesse giovare a qualcuno. Con un improvviso barlume di spirito d’iniziativa, la giovane decise di prendere la palla al balzo. «Io non sono ancora riuscita a capire cosa devo fare: nessuno me l’ha spiegato per bene» borbottò, leggermente contrariata.

«No?» La sacerdotessa parve sorpresa. «Be’, in realtà è piuttosto semplice. Da circa un anno, i rapporti tra Roma e la Nova Germanica sono tesi. Più tesi del solito, intendo. Ti potrà sembrare un’idea abbastanza stupida, ma il tuo Imperatore ha pensato che, stringendo dei legami tra la gente di Roma e quella che vive qui, le cose sarebbero migliorate.»

«Questo lo so» mormorò la fanciulla. Anche se si trattenne dal dirlo ad alta voce, l’espressione del suo volto lasciava chiaramente intendere che sì, la riteneva davvero una trovata stupida.

«D’accordo, ma capisci cosa vuole dire?» insistette Donna Erin, sporgendosi verso di lei. «Sposando Ulf, farai sì che i vostri figli ereditino parte del patrimonio di tuo padre; e così sarà per tutte le altre ragazze – o tutti gli altri ragazzi – che si creeranno una nuova famiglia qui. È un modo incruento per portare in Germanica un po’ delle ricchezze di Roma: in sostanza, Roma si prende le materie prime che si trovano in Germanica, ma in cambio lascia oro e, indirettamente, terre.»

«Roma porta via delle materie prime?» chiese Lidia, stupita. In tutta risposta la sacerdotessa scoppiò a ridere: «Certo! Cosa credevi, che i vostri coloni si fossero stabiliti qui per la bellezza del paesaggio?»

Leggermente imbarazzata, la fanciulla si strinse nelle spalle. «In ogni caso, non credo che la cosa funzionerà» sospirò, abbassando lo sguardo sulle unghie corte e un po’ mangiucchiate. «Il patrimonio di mio padre andrà a mio fratello e ai suoi figli. Marco ha già tre bambini, tutti maschi…»

La sacerdotessa sorrise di nuovo. «No. È parte dell’accordo» spiegò. «Oltre alla dote che è stata già pagata, ai tuoi figli spetteranno esattamente la metà delle ricchezze di tuo padre.»

Ah, ecco perché è così arrabbiato, pensò Lidia mentre, con una punta di soddisfazione, ripensava al malumore del Senatore. E chissà Marco come l’avrà presa! Lidia e il fratello non erano mai stati molto legati e i rapporti tra i due si erano ulteriormente raffreddati quando l’uomo aveva preso moglie e si era creato una nuova famiglia. «Ah» commentò, annuendo.

«Però è fondamentale che il tuo matrimonio funzioni» continuò Erin, tornando a scivolare verso lo schienale della poltrona. «Niente divorzio; e non solo perché è immorale: se tu e tuo marito doveste separarvi, l’accordo sarebbe nullo e la sua famiglia non riceverebbe nulla in cambio.»

Lentamente, Lidia iniziò a rendersi conto della vera entità della situazione in cui si trovava. Cionondimeno, provò ancora a protestare debolmente: «D’accordo, ma se io divorzio e le altre coppie restano unite…»

Donna Erin scosse immediatamente il capo. «No. Parliamoci chiaro: nessuno è felice di essere costretto a sposare un perfetto sconosciuto. Proprio per questo, però, non possiamo fare alcuna eccezione: per nessuno

C’era un qualcosa di sottilmente inquietante, nel modo in cui la voce della sacerdotessa sottolineò le ultime parole e la fanciulla si ritrovò ad annuire meccanicamente.

«Credo che a questo punto ti sia chiaro che, se il piano del tuo Imperatore fallisse, la guerra sarebbe praticamente certa. Vero?» La donna socchiuse gli occhi, fissando la giovane romana, che, di nuovo, annuì. «Questo sarebbe un grosso problema: non solo per la guerra in sé, ma anche perché gli Dèi, che predicano la pace, non sarebbero felici di sapere che i loro figli disobbediscono ai loro comandamenti.»

Lidia, stupita dal riferimento religioso, abbassò in fretta il capo, cercando di nascondere la sua perplessità. Quali Dèi? Si chiese. I miei o i tuoi? Dal momento però che quella non era una domanda che si poteva rivolgere a una sacerdotessa, la ragazza si limitò a fare un piccolo sorriso di circostanza. «Capisco.»

«No, cara, io non credo che tu capisca fino in fondo» sospirò la donna, scuotendo il capo. «Scontentare gli Dèi è pericoloso. Quando si scontentano gli Dèi, ci si tira addosso una punizione.»

«Quale punizione?» Sebbene non fosse stata sua intenzione fare quella domanda, Lidia non riuscì a evitarlo. Era certa di avere intravisto una minaccia, dietro alle parole della donna, ma non sapeva ancora di cosa si trattasse.

«Una dura punizione» si limitò a rispondere la sacerdotessa. «Quale, non lo so nemmeno io, ma gli Dèi mi hanno donato la capacità di entrare in contatto con Loro. Una cosa è certa: se ci sarà una guerra, ci sarà anche una reazione celeste.» La donna pronunciò quelle parole con una tale convinzione che, malgrado il suo scetticismo, la fanciulla si ritrovò a crederle.

«Ho capito» mormorò, sconfitta. Pur accantonando per un istante il lato più spirituale e intangibile della cosa, lo spauracchio della guerra era sufficiente per farle riconsiderare i suoi vaghi progetti di fuga.

«Ma non preoccuparti», disse poi Donna Erin, cambiando completamente tono e atteggiamento, «vedrai che le cose non saranno poi così terribili, qui, per te. La gente non ti odia; e non devi preoccuparti di Unna: è una donna passionale, odia e ama con un’intensità notevole, ma i suoi umori sono come il temporale… arrivano in fretta, fanno un gran rumore e spariscono nel giro di poco. Tu vola basso e non avrai problemi.»

Facile dirlo… pensò la giovane, mentre una fitta di disperazione le trafiggeva lo stomaco. A sentire quello che dice lei, quella tizia sembrerebbe quasi come Lucilla. Peccato che, con ogni probabilità, l’unica cosa che hanno in comune è che sono bionde.

«L’altro giorno sembrava avercela con me senza motivo» obiettò allora, guardando di sottecchi la sua interlocutrice.

La sacerdotessa scoppiò a ridere. «Senza motivo?» chiese, ironica. «Le stai per portare via il fratello con cui è nata e cresciuta, mi pare un motivo più che sufficiente per avercela con te!»

«Ma io nemmeno lo voglio, suo fratello!» sbottò Lidia, sentendo l’irritazione far capolino tra la tristezza e lo smarrimento.

La donna le fece un gran sorriso. «Ah, ma allora c’è un po’ di carattere, lì sotto!» Immediatamente, Lidia arrossì. «In ogni caso, Lidia, spero che tu capisca che è normale avere bisogno di un po’ di tempo per adattarsi a una novità del genere. Certo che… domani tu e Ulf vi sposerete. Forse sarebbe il caso di scambiarsi due parole, prima di allora, non credi?»

La ragazza si strinse nelle spalle. «Non saprei cosa dirgli» mormorò. «E poi non ne ho avuto l’occasione.»

«A questo rimediamo subito» sorrise la donna. «Sai che facciamo? Lo mando a chiamare e poi vi lascio un po’ qui da soli a chiacchierare.»

«No, non ce n’è bisogno» si precipitò a dire la fanciulla, terrorizzata dalla prospettiva di trovarsi improvvisamente a tu per tu con il suo futuro marito.

«Oh, sì che ce n’è bisogno» sogghignò invece la sacerdotessa, come se trovasse estremamente divertente il disagio della giovane.

***

Una decina di minuti più tardi, Lidia rispondeva distrattamente alle domande che la donna le stava ponendo – malattie avute, incidenti, parenti in vita e quelli morti - mentre con un occhio cercava nervosamente di tenere sotto controllo la porzione di strada che le era possibile scorgere, seduta sulla poltrona bianca. Le sembrava passata un’eternità da quando uno dei servi della sacerdotessa era andato a chiamare il suo futuro marito; e ancora nessuno aveva fatto ritorno. Forse non l’ha trovato, pensò la fanciulla, con un fremito di speranza.

Quasi le avesse letto nel pensiero, Donna Erin sorrise. «Non preoccuparti: saranno qui a breve.»

Se non fosse stata tanto beneducata, Lidia le avrebbe sbuffato in faccia: era impossibile che la donna non fosse in grado di comprendere il suo stato d’animo. Qualche istante dopo, quasi a conferma delle parole della sacerdotessa, qualcuno bussò alla porta e il servo che era stato mandato a casa di Gefrid entrò nella stanza, torcendosi le mani come se fosse a disagio. Alle sue spalle c’era Ulf che, a giudicare dall’espressione contrariata, non pareva affatto felice di essere stato convocato.

«Oh, Ulf» lo accolse gioviale la sacerdotessa, mostrando una sorpresa che certo non provava. «Stavo appunto scambiando due parole con la tua fidanzata: sarà davvero una brava moglie, non credi?»

Lidia lanciò un’occhiata incerta all’uomo, imbarazzata, e fu sorpresa di notare l’aperta ostilità con cui il germanico fissava la sacerdotessa. «Immagino di sì» rispose, gelido. La fanciulla si rese conto che quella era la prima volta che lo sentiva parlare – nelle sue parole ritrovò lo stesso accento tagliente che aveva colto nella voce di suo padre – e dovette riconoscere che effettivamente era un po’ strano sposare qualcuno di cui non si era mai nemmeno sentita la voce.

«Non mi sembri molto convinto» fece Donna Erin, studiandolo con attenzione. Lui aprì la bocca come per dire qualcosa, ma poi rinunciò e si limitò a scrollare le spalle, fissando la donna con un’aria di sfida. «Molto bene» sospirò lei, alzandosi in piedi. «Facciamo così: adesso io vi lascio soli. Resterete in questa stanza finché non avrete almeno provato a parlarvi un po’… e non provate nemmeno a pensare di barare, perché me ne accorgerò. Chiaro?» Il tono della sacerdotessa era giocoso, simile a quello che si sarebbe usato per minacciare due bambini capricciosi, ma la sua espressione era così determinata che Lidia era certa che li avrebbe davvero lasciati chiusi lì dentro finché non si fossero parlati.

«Sì, Donna Erin» si affrettò a rassicurarla, mentre Ulf si limitò ad annuire seccamente.

Lanciando loro un ultimo sguardo di avvertimento, la sacerdotessa girò sui tacchi e si diresse verso il locale in cui Donna Giulia e il Legato erano in attesa di sviluppi. Non appena la porta si fu richiusa alle sue spalle, Lidia si rannicchiò sulla poltrona, portandosi una mano all’altezza della gola. Improvvisamente ebbe la sensazione che la stanza avesse dimezzato le proprie dimensioni. Le pareti incombevano su di lei e la temperatura le sembrava essersi alzata di almeno una decina di gradi: la presenza del germanico era troppo ingombrante, le pareva che l’uomo risucchiasse tutta l’aria, costringendola ad annaspare come un pesce fuor d’acqua. Sudando profusamente, la fanciulla inspirò a fondo, cercando di calmare un poco il proprio cuore e aspettando che fosse il suo promesso sposo a fare la prima mossa.

Diversamente da quanto si sarebbe aspettata, però, Ulf non si sedette sulla poltrona antistante a quella occupata da lei, ma raggiunse la finestra e, voltando le spalle alla giovane romana, prese a guardar fuori, come se la stradicciola deserta fosse estremamente interessante.

Dopo alcuni minuti di silenzio, il senso di ansia che attanagliava lo stomaco della ragazza raggiunse livelli tali che Lidia iniziò a provare il bisogno di ripiegarsi su se stessa per attenuare i crampi. Perché non parlava? Aveva davvero intenzione di ignorarla per tutto il tempo? La sacerdotessa era stata chiara: non avrebbe accettato alcuna forma di disobbedienza; e lei, di certo, non si sentiva in grado di ingannarla.

Non si aspetterà che prenda io l’iniziativa, spero! Pensò, con il cuore in gola, consapevole che non avrebbe mai trovato il coraggio di fare una cosa del genere. Un sospiro tremulo le sfuggì dalle labbra e, quasi inconsciamente, la giovane si raggomitolò ancor di più sulla poltrona, abbracciandosi le ginocchia in un desiderio di protezione.

«Smettila di agitarti così tanto.»

La voce di Ulf la fece sussultare e automaticamente la giovane si voltò per fronteggiarlo. Il germanico si era finalmente girato verso di lei e la stava fissando con quei suoi occhi che la facevano pensare all’inverno – stagione che aveva sempre odiato. Lidia cercò di dire qualcosa in sua difesa, ma scoprì con raccapriccio che le parole sembravano essersi seccate nella sua gola.

Il germanico fece una smorfia di scherno. «Cosa dovrei farci, io, con te?» le chiese secco. In che senso? Avrebbe voluto chiedere Lidia, tuttavia non riuscì a far altro che abbassare lo sguardo, mentre l’uomo si avvicinava a lei. «Non parli, quando cammini tremi, non riesci nemmeno a guardare la gente negli occhi» ogni parola dell’uomo era come una stilettata nel suo già fragile orgoglio e Lidia sentì la gola chiudersi in una morsa dolorosa. «Non sembri nemmeno una persona normale, posso solo immaginare che razza di moglie sarai!»

Il disprezzo con cui l’uomo aveva pronunciato quelle ultime parole toccò un nervo scoperto. «… per te» disse la fanciulla, con un filo di voce.

Ulf sembrò sorpreso. «Come?» chiese. «Se non dovessi sposare te, sarei una moglie migliore» ripeté Lidia, appena un po’ più forte.

Lui la guardò, come se non fosse certo di aver sentito bene. «Sarebbe colpa mia, adesso?» ringhiò. «Tu non vuoi sposarmi e non hai nessuna intenzione di fare il minimo sforzo per far funzionare le cose.»

Lidia deglutì. Per un istante fu tentata di negare, di dire che lei stava facendo del suo meglio, ma la bugia le morì in gola. E perché dovrei sforzarmi, in ogni caso? Pensò, stringendo le mani in un pugno. Perché dovrei far finta che vada tutto bene?

Quando vide che la ragazza non sembrava intenzionata a ribattere, l’uomo scosse il capo. «Non credere che a me stia bene il fatto di dover sposare una romana. Ma non ci sono alternative, per mia sfortuna.»

 

 

«Per tua sfortuna?» ripeté Lidia, riuscendo a infilare appena un po’ di sdegno nella voce: tra i due lui era certamente quello che ne usciva meglio: non aveva dovuto lasciare la sua casa e il suo paese e, del resto, si sapeva che in un matrimonio la donna era sempre la parte più debole.

«Ovviamente! Guardati, sembri un topolino impaurito!» sibilò il germanico, scuotendo il capo. «E bada che non è un complimento. Non so come ti abbiano abituata a Roma, ma qui le persone come te sono solo un peso!» Con due passi la raggiunse e, prima che Lidia potesse evitarlo, le prese il mento tra le dita. Non appena la sfiorò, la fanciulla gemette terrorizzata e, guidata dall’istinto, balzò in piedi, inciampando nel bracciolo della poltrona e cadendo scompostamente a terra. Mortificata, la ragazza sentì la vergogna investirla e le lacrime pizzicare agli angoli degli occhi. Perché doveva sempre mostrarsi così debole davanti a lui? Perché?

Ulf, in piedi a un metro da lei, la studiò con un’espressione indecifrabile. Poi improvvisamente la sua postura si rilassò e l’uomo si passò una mano sul volto. «Alzati», sospirò, «e ascoltami.» Esitante, Lidia si rimise in piedi, stringendosi al petto il polso dolorante a causa della caduta e guardandolo di sottecchi. «Domani ci sposeremo, come vogliono il tuo Imperatore e quella maledetta donna» riprese il germanico. «Questo però non cambierà niente: io non voglio avere nulla a che fare con te. Non intendo toccarti, né avere nulla da te: l’unica cosa che dovrai fare è far credere alla sacerdotessa che sia tutto a posto. Chiaro?»

Stupefatta da quelle parole, la fanciulla annuì, cercando di non fare caso alla strana sensazione che avvertiva all’altezza del petto: quella svolta inaspettata era certamente a suo favore, non avere doveri nei confronti del germanico non poteva che essere una cosa positiva.

«Va bene» disse piano, senza incontrare i suoi occhi. Per una frazione di secondo, il dubbio che dietro a quella proposta si celasse un secondo fine attraversò la sua mente, ma la fanciulla scacciò quel pensiero. Qualunque fosse la ragione che aveva spinto il germanico a prendere quella decisione, essa non la riguardava che di striscio. L’unica cosa veramente importante era che l’uomo l’avrebbe lasciata in pace, senza importunarla in alcun modo. E poi… e poi c’è sempre Tito. Perché, prima di lasciare Roma, non era stata in grado di dissuadere il ragazzo: quel piano, che in un primo momento le era parso una follia, le appariva adesso come una flebile fiammella di speranza.

Ulf la stava guardando e dalla sua espressione Lidia comprese che l’uomo la considerava una nullità. Stringendo tra le mani il tessuto della gonna, la fanciulla si costrinse a ignorare il sottile senso di delusione che la attraversò il petto. Non aveva senso sentirsi ferita nell’orgoglio: cercare di dimostrargli il suo valore sarebbe stato inutile, se non addirittura controproducente. No, avrebbe volato basso, come le era stato consigliato dalla sacerdotessa, si sarebbe attenuta alle regole dettate dal germanico e, se proprio le cose si fossero messe male, avrebbe aspettato l’aiuto del suo fidanzato. Quello vero, però, che viveva a Roma e l’amava per quella che era.

Il pensiero di Tito e del suo viso gentile la confortò e la fece sentire meno sola e indifesa e, improvvisamente, Lidia si sentì un po’ più capace di affrontare gli ostacoli a cui il destino l’aveva posta davanti. Sollevando il capo, la fanciulla riuscì a incrociare per un istante gli occhi del suo promesso sposo. «Va bene», ripeté, «mi sembra una buona idea.»

Lanciandole un’ultima occhiata per d’avvertimento, Ulf bussò alla porta.

***

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Capitolo 8
*** 7. La fine e l'inizio ***


Erding - Germanica Inferiore, 342 a.U.c., 4  Maggio

La donna la punse con uno spillo e Lidia trasalì. «Ahi!» si lamentò, prima di riuscire a controllarsi.

«Scusa» disse per l’ennesima volta la vecchietta. Sulle prime, la ragazza aveva pensato che la donnina lo facesse apposta, ma osservandola attentamente si era resa conto che la poveretta aveva davvero dei problemi di vista e che le mani tremanti a causa dell’età non le rendevano certo semplice il compito di aggiustarle il vestito. Lidia le sorrise come per dirle che non importava, poi tornò a fissare la parete bianca, cercando di estraniarsi dalla situazione e, nel contempo, di non agitarsi, rendendo più difficile il lavoro dell’esile sarta.

Mancavano poche ore al suo matrimonio e il vestito non era ancora del tutto pronto: chiunque l’avesse scelto per lei non aveva fatto i conti con le sue misure, perché le risultava decisamente troppo abbondante sul seno e attorno alla vita. Questo è quello che ci si aspetta dalle donne germaniche? Pensò, con una punta d’invidia, tendendo con una mano la stoffa in eccesso sulla scollatura.

«Sta ferma, cara» le chiese con voce sottile la vecchietta.

Lidia riabbassò immediatamente le mani. «Certo, chiedo scusa» sospirò, costringendosi a non rendere il lavoro della sarta più difficile di quanto già fosse. La verità era che, sebbene una cosa tangibile come la prova dell’abito l’aiutasse ad allontanare un poco dai suoi pensieri la cerimonia imminente, il suo corpo fremeva irrequieto, quasi non aspettasse altro che il suo permesso per scattare e portarla via, lontano da quel posto e da quella gente.

Seduta su una panca poco distante, Donna Giulia osservava la scena con espressione corrucciata. Lidia sapeva che sua madre non approvava la scelta del vestito: la tradizione romana avrebbe richiesto un abito bianco, un mantello color zafferano e, in caso di cerimonie particolarmente tradizionali, persino un velo rosso. Lì però non erano a Roma e così la tunica indossata da Lidia era di un pallido azzurro con delle decorazioni verdi e avorio. Non v’era traccia di mantello né di velo; e questo a Donna Giulia non piaceva.

La ragazza non condivideva il turbamento di sua madre: per quanto la riguardava, il vestito era sufficientemente grazioso da permetterle di non fare una pessima figura davanti ai parenti di suo marito; il resto non aveva importanza. Quando ancora era a Roma, per gioco, era andata in giro per negozi in compagnia di Lucilla, immaginando quale abito avrebbe indossato il giorno in cui avrebbe sposato Tito. Ne aveva trovato uno incantevole, dal taglio raffinato e di una sfumatura di bianco che esaltava la sua carnagione rosea, ma in quel momento non rimpiangeva di non poterlo indossare. Quell’abito apparteneva a un’altra vita – quella che avrebbe dovuto condividere con il giovane romano – che ormai non esisteva più: nel momento in cui avrebbe sposato Ulf, non avrebbe rinunciato solo a un abito bianco e a Tito, ma anche a Roma, alla sua famiglia – che sì, non era delle migliori, ma era comunque sua – a un modo di vivere e persino alla sua identità.

Un bussare deciso la distolse da quei pensieri cupi. Lidia e sua madre si scambiarono un’occhiata sorpresa. «Avanti!» esclamò Donna Giulia.

Hermann, il fratello minore di Ulf, entrò reggendo tra le mani un piccolo pacco, ma quando notò l’abbigliamento di Lidia si affrettò a voltarle le spalle. «Oops» ridacchiò. «Chiedo perdono, Donna Lidia!»

La fanciulla lo guardò a bocca aperta. «Cosa… cosa ci fai qui?» balbettò, afferrando lo scialle che la sarta le stava porgendo e utilizzandolo per coprirsi il petto un po’ troppo scoperto.

Il ragazzo si girò appena un po’ nella sua direzione e Lidia vide che stava tenendo gli occhi comicamente serrati. «Sono vestita» sbuffò la giovane, trovandosi quasi a sorridere per la prima volta dopo molti giorni. «Puoi aprire gli occhi.»

«Sì?» chiese Hermann, aprendone uno a scopo perlustrativo. «Oh, bene!»

«Quindi?» insistette la ragazza, inclinando lateralmente il capo e cercando di indovinare il motivo della sua visita.

«Sono venuto a portarti questi.» Il ragazzo si avvicinò a lei e le porse il piccolo involucro di stoffa che aveva tra le mani.

Lidia avrebbe voluto ostentare indifferenza, ma in verità aveva sempre amato i regali e anche quella volta la curiosità ebbe la meglio sugli altri sentimenti. Scostando con cautela i lembi del pesante tessuto verde, la fanciulla si trovò tra le mani una collana d’oro alla quale erano appesi dei piccoli dischi di metallo e vetro colorato e una spilla circolare decorata con un motivo simile.

«I gioielli con cui si è sposata mia madre» spiegò il ragazzo. «In teoria avrebbe dovuto portarteli una donna di famiglia, ma mamma è morta diversi anni fa e nonna Edda avrebbe fatto fatica ad arrivare fino a qui… e mio padre ha pensato che mandare Unna non fosse una buona idea.» Il ragazzo pronunciò quelle ultime parole inarcando comicamente le sopracciglia e di nuovo Lidia si scoprì a sorridere, prima di rabbuiarsi di nuovo. «Mi dispiace per tua madre» disse, sincera.

Hermann accettò quelle parole con un cenno del capo e la giovane soppesò pensierosa i gioielli. Per qualche motivo, il fatto che fossero appartenuti alla madre del ragazzo la commosse. «Grazie» disse, richiudendo con cura il pacchettino e porgendolo alla sarta. «Sono molto belli.»

Il ragazzo le sorrise e fece per andarsene, ma Lidia vide che era combattuto. «Ti sta bene sposare mio fratello?» le chiese infatti, a bruciapelo. Lidia sussultò, impreparata, e cercò una risposta diplomatica a quella domanda. Avrei preferito sposare te.

No, quello naturalmente non si poteva dire. E non le pareva nemmeno il caso di dire che avrebbe preferito sposare il suo vero fidanzato: Hermann le era quasi simpatico, ma non era affatto certa di potersi fidare di lui. «È una decisione che mi è stata imposta» mormorò dunque, dopo un attimo. «Non è facile accettarla.»

Lui annuì, come se condividesse il suo pensiero. «Non è cattivo, sai?» fece piano, guardandola di sfuggita negli occhi. «Ti sarebbero potuti capitare uomini peggiori.»

Lidia scosse il capo. «Lo so, ma non è comunque facile. E mi mette anche un po’ in soggezione» confessò, arrossendo.

Hermann sorrise, apparentemente sorpreso. «Ulf? Immagino che possa fare quell’effetto, con quella faccia che ha ultimamente. Ma non è sempre così, eh! Di solito è una persona normale.»

«Se lo dici tu» mormorò la ragazza, scettica.

«Fidati, fidati» ridacchiò il giovane germanico. «E nemmeno Unna è un mostro. Di solito. Anche se a volte un po’ stronza lo è, in effetti.» Donna Giulia sussultò nell’udire il linguaggio del ragazzo e la sarta gli lanciò un’occhiata micidiale. «Va bene, tolgo il disturbo» disse lui, retrocedendo verso la porta. «Ci vediamo più tardi, sorella. E coraggio! Un bel sorriso e vedrai che andrà tutto bene!»

«Facile dirlo» sbuffò sottovoce Lidia, anche se ormai Hermann non era più in grado di sentirla.

«Lidia?» la richiamò Donna Giulia, pensierosa. «Forse quel ragazzo ha ragione. Non stai affrontando questa faccenda con lo spirito giusto.» La fanciulla si strinse stizzosamente nelle spalle, improvvisamente irritata dalle parole della madre. «Sto affrontando questa faccenda come meglio posso, madre» ribatté. «Vorrei vedere te, al mio posto!»

Di fronte all’inaspettato spirito combattivo della figlia, Donna Giulia decise di alzare bandiera bianca e tornò a osservare in silenzio il lavoro della vecchia sarta.

***

Alle tre del pomeriggio – orario che, per un qualche motivo, le sembrava particolarmente infausto – Lidia, accompagnata da suo padre, lasciò la domus del Legato per raggiungere il luogo in cui si sarebbe tenuta la cerimonia. Non si trattava di un tempio, come si era ingenuamente aspettata, ma di una semplice radura ai margini della foresta; un luogo che, le aveva spiegato Libo, i germanici consideravano sacro. Malgrado il sole si fosse finalmente deciso a splendere in pianta stabile nel cielo e nell’aria ci fosse un gradevole profumo di fiori, la fanciulla non riusciva a smettere di tremare.

L’inquietudine e la preoccupazione che l’avevano accompagnata fin da quando suo padre le aveva comunicato quello che la aspettava erano cresciute in maniera spaventosa nelle ultime ore ed erano infine esplose in una sorta di malessere che la ragazza non riusciva a comprendere fino in fondo, ma che la scuoteva da capo a piedi. Quello che era iniziato come un tremolio appena accennato si era poi trasformato in una violenta serie di brividi che le facevano tremare le mani e battere i denti.

«Vuoi finirla?» le sibilò il Senatore, artigliandole un braccio.

«N-non ci r-riesco» balbettò lei, guardandolo sperduta – ed era vero: per quanto si sforzasse di controllarsi, il suo corpo sembrava rifiutarsi di obbedirle, contraendosi in spasmi e tremiti. «M-mi gira la t-testa» gemette ancora la fanciulla, in preda a un capogiro improvviso. «Papà, non…» Con un sibilo strozzato, Lidia si portò improvvisamente una mano alla gola, faticando a respirare, mentre il suo campo visivo si restringeva improvvisamente.

«Lidia!» questa volta il tono di suo padre era preoccupato; e mentre le forze parevano abbandonarla, la giovane sentì le braccia dell’uomo stringersi attorno a lei, sostenendola come non succedeva da moltissimo tempo. «Lidia!» la chiamò di nuovo il Senatore, passandole una mano sulla fronte e facendola appoggiare a sé. «Che cosa succede?»

«Non respiro!» stridette lei, in preda all’angoscia e a i brividi. «Non riesco a re-respirare!» Il terreno sotto ai suoi piedi parve farsi molle e instabile e, senza nemmeno rendersene conto, la ragazza artigliò la tunica di suo padre, cercando in lui qualcosa che l’aiutasse a mantenere una parvenza di equilibrio.

Improvvisamente, quasi fosse sbucata dal nulla, la sacerdotessa con cui aveva parlato il giorno precedente le comparve davanti. Nel suo stato di confusione crescente, la giovane romana non fece in tempo a stupirsi di quella comparsa così improvvisa, perché la donna le afferrò subito le mani sudate. «No, no, Lidia» la richiamò dolcemente. «Hai solo un attacco di panico, calmati!»

La fanciulla la guardò con gli occhi sbarrati, senza capire, e la sacerdotessa le rigirò le mani verso l’alto e premette i pollici in corrispondenza del centro dei palmi della ragazza, così forte che Lidia sentì le unghie pizzicarle la pelle. «Adesso passa» sussurrò Donna Erin. «Respira. Fa’ dei bei respiri profondi.»

La giovane, ancora sostenuta da suo padre, annuì debolmente e, fissando terrorizzata il volto sfocato della donna, provò a fare quello che le era stato detto. Dopo alcuni interminabili minuti, le dita fresche della sacerdotessa si fecero largo attraverso la paura bollente che le attanagliava lo stomaco e i polmoni e, come per magia, iniziarono lentamente a dissolverla. Un respiro dopo l’altro, la fanciulla sentì il suo mondo tornare quasi alla normalità. Anche quando il cuore smise di rimbombarle nelle orecchie e la vista si fece di nuovo nitida, però, Lidia sentì di avere le gambe come di gelatina e di essere completamente madida di sudore.

«Va meglio?» le chiese dopo un altro po’ Donna Erin. Spossata, la ragazza fece un cenno d’assenso con il capo, continuando a respirare a fondo e lasciando che la brezza fresca e il sole che le sfioravano la pelle dissolvessero gli ultimi brandelli del terribile mantello di terrore e irrazionalità che l’aveva avvolta. «Non ti era mai capitato?» indagò ancora la sacerdotessa. Sentendo di avere la gola troppo asciutta per parlare, Lidia si limitò a scuotere la testa.

«Che cosa le è successo?» si intromise il Senatore Prisco, rivolgendosi alla donna con un tono secco, quasi come se il malessere della figlia fosse imputabile a lei.

«Un attacco di panico» ripeté Donna Erin; e pur nel suo stato di stordimento Lidia si stupì della freddezza della sua voce. «Probabilmente è dovuto alla situazione di stress: quello del matrimonio non è mai un giorno facile; e per Lidia le cose sono ancora più difficili del solito.»

L’uomo fece un grugnito d’assenso, ma, notando la piega rigida delle sue labbra, Lidia comprese che non aveva affatto gradito il tono in cui la donna si era rivolta a lui. «Ma starà bene?» insistette il Senatore, abbassando lo sguardo sulla figlia. Nei suoi occhi Lidia scorse un’espressione che non vedeva da molti anni: l’espressione che suo padre era solito dedicarle quand’era bambina, piccola e bisognosa di tutto il suo sostegno. Anziché confortarla, quel fatto le lasciò in bocca un retrogusto amaro: i tempi in cui l’uomo non si faceva problemi a dimostrarle apertamente il proprio affetto erano ormai lontani.

«Starà bene» confermò Donna Erin. «Questi attacchi sono brutti e fanno paura, ma non sono pericolosi. E di certo nel caso di Lidia si è trattato di un evento sporadico.» Il senatore la guardò strizzando gli occhi, senza capire. «Vuol dire che probabilmente non ne avrà altri» parafrasò la donna.

Sentendo di essersi ripresa a sufficienza, Lidia si schiarì un paio di volte la voce, cercando di disperdere la tensione che ancora le stringeva la gola. «Sono tutta sudata» mormorò, senza nemmeno trovare la forza per vergognarsi di quell’affermazione così poco elegante. Passandosi una mano sul vestito, la ragazza soffocò un brivido di disgusto nel sentirlo appiccicarsi alle gambe.

«Non fa niente, cara» la rassicurò la sacerdotessa che, ora che si rivolgeva a lei, aveva di nuovo adottato il consueto tono dolce e accomodante. «Facciamo in tempo a darti una sciacquata: vedrai che una volta sbrigata questa formalità la strada sarà tutta in discesa.»

Pur conservando dei seri dubbi circa il fatto che il matrimonio con un barbaro potesse considerarsi una formalità, Lidia annuì, grata, e permise a Donna Erin di riaccompagnarla a casa, seguite a poca distanza da un Senatore decisamente silenzioso.

***

Poco meno di mezz’ora più tardi, Lidia era di nuovo in strada e stava ripercorrendo la via che l’avrebbe condotta all’altare – metaforicamente parlando. Le mani premurose di Donna Erin e di sua madre avevano lavato via il sudore che imperlava il corpo della ragazza, ma non la paura che ancora le faceva contrarre i muscoli a intervalli regolari.

Tuttavia, mentre camminava per le strade sterrate del paese, Lidia si obbligò a tenere la testa alta e a non permettere al suo corpo di prendere il sopravvento come aveva fatto prima. Aveva già dato fin troppo spettacolo: non aveva modo di sapere se qualche germanico avesse assistito alla sua crisi, ma, di certo, non aveva alcuna intenzione di fornire alla gente del posto un ulteriore motivo per prendersi gioco di lei.

Ammesso che a qualcuno gliene freghi qualcosa di me, in effetti, considerò la ragazza, lanciando di tanto in tanto qualche occhiata a ciò che avveniva attorno a lei. A quell’ora il villaggio sembrava poco frequentato: la maggior parte delle persone che incrociava sul suo cammino si limitava a guardarla con blanda curiosità, senza però interrompere quello che stavano facendo; e solo qualche donna le aveva lanciato un grido d’incoraggiamento. Malgrado tutto, la giovane trovava rassicurante quella mancanza di attenzione per il suo matrimonio: meno gente davanti alla quale fare brutte figure, si diceva.

Un’altra buona notizia era che sarebbe stata Donna Erin stessa a ufficiare il rito: anche se la donna a volte la confondeva un po’, Lidia era portata a considerarla un’amica, qualcuno di cui fidarsi.

Mentre camminavano quasi come una piccola processione, accompagnati questa volta anche da Quinto e Donna Giulia, Lidia pensò che ci fosse una certa ironia nel fatto che suo padre si fosse deciso di mostrare un po’ di premura nei suoi confronti proprio nell’istante in cui si sarebbe separato per sempre da lei. Il Senatore, che solitamente pareva considerarla praticamente invisibile, continuava infatti a lanciarle occhiate che, per quanto cercasse di nasconderlo, tradivano chiaramente la preoccupazione.

Improvvisamente il legato si fermò. «Eccoci» disse, voltandosi verso Lidia. «Sei pronta?»

Nemmeno un po’, pensò la ragazza, ma annuì comunque, con il cuore in gola.

La radura aveva un aspetto così innocuo che la fanciulla quasi storse il naso davanti alla fragile erba primaverile e alle api che, esaltate dai primi raggi di sole, iniziavano a ronzare insistenti. Si sarebbe aspettata un po’ più di partecipazione da parte della natura; il paesaggio verde e amichevole non rispecchiava minimamente il tumulto che si sentiva nell’animo. Persino la grande quercia che si stagliava sul fondo del prato esibiva delle tenere foglioline pallide che la facevano apparire molto meno imponente di quello che era.

In piedi davanti al vecchio tronco ricoperto di muschio c’era Donna Erin. In qualche modo, la sacerdotessa era riuscita a precederli nella radura e a indossare una veste bianca diversa da quella che aveva sfoggiato poco prima, quando aveva soccorso Lidia. Tutt’attorno a lei c’era una piccola folla di persone: lasciando scorrere su di loro una rapida occhiata, la giovane romana scorse qualche volto noto – gente che aveva già intravisto a casa di Gefrid – ma la maggior parte di loro erano dei perfetti sconosciuti. Con un sussulto di sorpresa, la ragazza si rese conto che tra loro vi erano persino alcuni legionari. Perché sono qui? Si chiese, voltandosi verso Libo in cerca di spiegazioni. Il Legato, tuttavia, pareva stupito quanto lei e qualcosa, sul suo volto, fece contrarre sgradevolmente lo stomaco della fanciulla.

Prima che avesse il tempo o la prontezza di spirito per indagare, però, i presenti si accorsero del loro arrivo e si voltarono tutti verso di lei. Fu in quell’istante che Lidia si rese conto che il tempo di pensare e di indugiare era finito e che il punto di non ritorno era ormai stato superato. Le sue gambe si mossero da sole e la ragazza si trovò ad avanzare fino a giungere davanti alla sacerdotessa, lasciandosi alle spalle il legato e i genitori. Gli occhi di tutti i presenti erano puntati su di lei e Lidia aveva l’impressione che le stessero bruciando la schiena, trapassando la protezione della veste troppo leggera, ma Donna Erin si chinò leggermente in avanti e incontrò il suo sguardo, sorridendole incoraggiante. Negli occhi verdi della donna Lidia trovò un po’ di sicurezza e la forza di fare un cenno d’assenso quasi impercettibile.

«Bene, credo che possiamo cominciare» sorrise la sacerdotessa, prima di schiarirsi la voce, facendosi seria. «Oggi, davanti agli uomini e davanti agli Dèi, celebriamo l’unione tra Ulf, figlio della Germanica, e Lidia, figlia di Roma. Che possano la luce e la benevolenza degli Dèi splendere su questo giorno e sulla vita di questi giovani.» La sacerdotessa alzò brevemente le mani al cielo e poi si volse verso destra, facendo un cenno con una mano. «Vieni avanti, Ulf, figlio di Gefrid.»

Quasi in apnea, Lidia si girò verso il germanico, notando con una fitta allo stomaco la sua mascella contratta e lo sguardo rigidamente puntato davanti a sé. Quando l’uomo si fermò al suo fianco, sempre senza guardarla, la ragazza notò che stringeva talmente tanto i pugni che le nocche gli stavano diventando bianche.

Con un sospiro tremulo e una preghiera silenziosa agli Dèi, romani o germanici che fossero, Lidia chiuse gli occhi e si preparò a subire il suo destino.

***

Come avrete notato, oggi non è giovedì, bensì martedì. Visto che me ne vado via per un paio di giorni, ho pensato di anticipare l’aggiornamento (anche perché questo capitolo è cortino…).

Pubblicherò il successivo lunedì e quello dopo ancora giovedì, così da non sballare troppo il ritmo degli aggiornamenti.

Matilde

***

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Capitolo 9
*** 8. Promesse ***


Donna Erin parlava ormai da più di mezz’ora e, sebbene Lidia facesse del proprio meglio per seguire quello che stava dicendo, non riusciva a mettere a tacere quella vocina che le diceva che le chiacchiere della sacerdotessa erano per l’appunto quello, semplici chiacchiere. Era come se le sue parole non avessero alcun significato reale, ma fossero solo parte di un rituale vuoto, teso più a rispettare le aspettative dei presenti, che non a creare un patto duraturo tra i due sposi.

Che poi, a voler ben vedere, tra loro due un patto esisteva già, pensò la fanciulla, lanciando delle occhiate furtive verso il volto di Ulf, che però ancora si ostinava a tener lo sguardo fisso davanti a sé. Chissà se è nervoso anche lui, si chiese la ragazza. O è nervoso… o è arrabbiato. Molto arrabbiato.

Improvvisamente la sacerdotessa tacque e Lidia si rese conto, imbarazzata, di essersi persa dietro ai propri pensieri e di non avere la minima idea di quello che la donna aveva detto. Non mi avrà mica fatto una domanda, vero? Si chiese, angosciata. La sacerdotessa si limitò però a richiamare discretamente la sua attenzione con un cenno della mano, prima di fare lo stesso con Ulf. Con una punta d’orgoglio, la fanciulla notò di essersi ripresa più velocemente dell’uomo.

Riconquistata l’attenzione dei due giovani, la donna riprese a parlare in tono solenne e, pensò Lidia, anche leggermente pomposo. «In questo giorno, voi vi impegnate a restare uniti nei tempi di pace e in quelli di guerra, a onorare le tradizioni dei vostri padri e respingere il male, impegnandovi a perseguire il bene con tutte le vostre forze. Lo giurate?» Erin si voltò verso Ulf, evidentemente in attesa di una risposta.

«Lo giuro» pronunciò l’uomo, con voce atona.

La donna si voltò poi verso Lidia. «Lo giuro» esalò la fanciulla, cercando di imitare il tono di Ulf, ma non riuscendo a impedire che la sua voce suonasse un po’ tremula. Che cosa stava giurando, esattamente?

Quando ebbero pronunciato quelle parole, la sacerdotessa si allontanò di un passo. «Con questo bacio», disse, scandendo attentamente le parole, «vi riconoscete come marito e moglie, da oggi fino alla fine dei vostri giorni.»

Ulf si voltò rigidamente verso di lei e Lidia si sentì vacillare. Certo, aveva immaginato che avrebbe dovuto farlo, ma non si aspettava… Prima che il panico l’assalisse e annullasse i suoi pensieri, l’uomo la fulminò con un’occhiata. La fanciulla non era mai stata particolarmente brava a cogliere i messaggi non verbali, ma quello scritto negli occhi del germanico era chiarissimo: mi raccomando, le stava dicendo, e Lidia annuì, memore di quello che si erano detti a casa della sacerdotessa.

Senza indugiare, Ulf si chinò su di lei e, senza toccarla se non per lo stretto indispensabile, posò le labbra sulle sue, una lieve pressione calda e asciutta contro la sua bocca chiusa. Durò solo qualche secondo, il tempo necessario affinché tutti vedessero, poi si ritrasse e Lidia, con le guance in fiamme, si affrettò a voltarsi di nuovo verso Donna Erin. Lo sguardo della donna era scettico, come se non avesse apprezzato quel “bacio”, ma non commentò, mentre una ragazzina dai capelli scuri le si avvicinava, tenendo tra le mani due nastri rossi. «Con queste stringhe», proseguì la sacerdotessa, «legate il vostro destino e vi legate alle promesse che avete pronunciato oggi.»

La bambina bruna – non poteva avere più di dieci anni – porse loro i nastri con le mani giunte. Lidia li fissò senza capire a cosa servissero, ma Ulf ne prese uno e la guardò, come se si aspettasse che lei facesse qualcosa. Quando non si mosse, l’uomo le afferrò un braccio e legò la stringa attorno al suo polso destro. Poi le porse il suo.

Oh, pensò la ragazza, sentendosi sciocca. Raccolse il secondo nastro dalle mani della piccola e lo fece passare attorno al polso di Ulf, ma il tessuto era più rigido di quanto si aspettasse – è nylon? – e, malgrado svariati tentativi, la giovane non fu in grado di ottenere un nodo saldo.

Questo sì che è di ottimo auspicio, le fece notare quella vocina sarcastica che negli ultimi tempi la tormentava sempre più spesso.

«Dall’altra parte» le sibilò Ulf. Lidia alzò su di lui uno sguardo perso. «Eh?» chiese, intelligentemente.

«Quel lembo», sussurrò ancora lui, con una nota di impazienza, «lo devi far passare sotto a quell’altro, poi stringi.»

Seguendo le sue istruzioni con mani tremanti, la ragazza fu finalmente in grado di ottenere un nodo decente. Quando l’uomo riabbassò il braccio, la folla radunata davanti alla quercia esplose in manifestazioni di giubilo e fischi festanti.

Oh, mamma, pensò Lidia, sentendosi morire di imbarazzo e non osando alzare lo sguardo su quello che ora era a tutti gli effetti suo marito.

«Bene, complimenti!» disse Erin con un gran sorriso, posando le mani sulle spalle dei due giovani. Poi si chinò sull’orecchio di Lidia. «Visto che non era poi così terribile?» le chiese, quasi divertita.

Eh, insomma, avrebbe voluto rispondere la ragazza, ma si limitò a fare un sorriso di circostanza, troppo provata per protestare. Istintivamente, si guardò attorno alla ricerca dei suoi genitori e li trovò accanto al Legato, che applaudiva con aria soddisfatta. Donna Giulia cercava di nascondere le lacrime, invano, mentre suo padre se ne stava immobile, con un’espressione a metà strada tra il sollievo e il rimpianto. Sentendosi per la prima volta in dovere di rassicurarli, Lidia riuscì a fare un sorriso nella loro direzione. Lanciando un’occhiata tutt’intorno a sé, la fanciulla si sentì leggermente rassicurata dall’atmosfera allegra. L’occhio le cadde su suo suocero, che, sebbene sembrasse intento ad avere un dialogo silenzioso con Ulf, sentendosi osservato alzò lo sguardo su di lei e col capo le rivolse un cenno d’approvazione che, per quanto piccolo, le scaldò il cuore.

Finalmente, dopo giorni di tensione, Lidia sentì la paura allentare un po’ la morsa attorno al suo stomaco: la sua situazione era ancora estremamente delicata, naturalmente, ma, se non altro, fino a quel punto non era accaduto nulla di disastroso.

Poco alla volta la gente si avvicinò per congratularsi con la coppia – con Ulf, a dire il vero, perché tutti, nessuno escluso, si rivolgevano a loro in quel dialetto germanico che a Lidia risultava del tutto incomprensibile. La fanciulla, sebbene stordita dagli eventi, provò una punta di irritazione: sapeva che lì tutti erano in grado di parlare la sua lingua e il fatto che si rifiutassero di farlo le sembrava un chiaro segno di maleducazione. Però, malgrado tutto, la maggior parte degli ospiti le rivolgevano dei sorrisi calorosi, per cui la ragazza decise di soprassedere sul quel particolare.

Nel buonumore generale, Lidia non poté fare a meno di notare un piccolo drappello di uomini che, fermi a una decina di metri da lei, sembravano condividere il suo stesso umore cupo. Per un qualche motivo, la cosa la indispettì: che motivo avevano, loro, di esibire quelle facce scure? Erano forse loro, quelli che erano stati costretti a sposarsi contro la loro volontà?

Un uomo in particolare attirò la sua attenzione: le dava le spalle e l’unica cosa che poteva vedere di lui era la statura imponente e i lunghi capelli scuri, ma il modo quasi eccessivo in cui gesticolava attirò la sua attenzione. Di punto in bianco, uno dei suoi compagni si accorse dello sguardo di Lidia e gli tirò una gomitata nelle costole, spingendolo a girarsi.

Vedendosi scoperta, la fanciulla abbassò il capo, con le guance in fiamme, ma l’uomo scoppiò a ridere e si diresse a grandi passi nella sua direzione. Diversamente da quanto si sarebbe aspettata, però, il germanico la ignorò e batté invece con entusiasmo una mano sulla spalla di Ulf, strappandogli quella che a Lidia parve una risata sincera. Poi gli occhi grigi del nuovo arrivato si posarono su di lei e la giovane rabbrividì, sentendosi a disagio sotto quell’osservazione così minuziosa. Notando il suo turbamento, l’uomo disse qualcosa a suo marito, che però si limitò a scuotere le spalle con indifferenza. Visto da vicino, il volto del germanico le era vagamente famigliare: non si trattava forse della stessa persona che aveva riso con Ulf e sua sorella, il giorno in cui li aveva incontrati per la prima volta?

Lidia non fece in tempo a meditare troppo su quel particolare, perché dopo qualche minuto l’uomo si allontanò di nuovo e subito Hermann prese il suo posto. Il ragazzo tirò un pugno scherzoso addosso al fratello, che sbuffò, parandolo, e poi si girò verso la giovane romana, abbracciandola di slancio. «Auguri!» esclamò, dopo aver lasciato un’allibita Lidia. «Sono contento per voi!» Istintivamente, Lidia e Ulf si girarono per scambiarsi un’occhiata e la fanciulla si domandò se Hermann stesse scherzando o se davvero credesse che ci fosse motivo per essere contenti.

«Buona fortuna» disse una voce alle loro spalle. Lidia si voltò e si trovò davanti Unna: i suoi occhi gelidi erano in netto contrasto con la voce sorprendentemente dolce con cui aveva pronunciato quelle parole. «Grazie?» rispose, titubante. Non avrebbe voluto farla sembrare una domanda, ma non era certa che l’augurio di buona fortuna fosse il migliore da farsi a un matrimonio.

Un angolo della bocca della donna germanica si sollevò in un ghigno storto, ma prima che avesse tempo di dire qualcosa Hermann si frappose tra lei e Lidia. «Non incominciamo, eh!» fece, rivolto alla sorella, prima di prenderla a braccetto e cercare di trascinarla via. Lei per tutta risposta gli mollò uno scappellotto e ringhiò qualcosa nella sua lingua, poi tornò a rivolgersi alla coppia. «Spero di aver tempo di parlare un po’ con voi, durante il pomeriggio» cinguettò, e anche se le sue parole erano oggettivamente innocue, Lidia sentì un brivido freddo correrle giù per la schiena.

Gli ospiti – amici e parenti? Si chiese la ragazza, un po’ frastornata – continuarono a congratularsi con loro e a stringere loro le mani fino a quando, nella confusione generale, la fanciulla si trovò separata da Ulf. Guardandosi attorno nel tentativo di ritrovarlo, vide che era circondato da un gruppo di uomini che ridevano e gesticolavano.

Io lì non ci vado, decise subito, deglutendo. Già stava facendo una fatica immensa per abituarsi alla presenza di un germanico, ritrovarsi nel bel mezzo di una dozzina di uomini sconosciuti sarebbe stato decisamente troppo.

«Lidia», le disse il Legato, avvicinandosi insieme ai suoi genitori, «sei stata bravissima.» Donna Giulia l’abbracciò talmente stretta che la ragazza ebbe l’impressione di sentire le vertebre scricchiolare, mentre suo padre le sfiorava le spalle con una mano. Non era molto, ma per i suoi standard quella era una manifestazione d’affetto da non sottovalutare.

Due uomini si avvicinarono e Lidia si sottrasse dall’abbraccio dalla madre. «Oh, giusto!» esclamò Libo, voltandosi per accogliere i nuovi arrivati. «Lasciate che vi presenti il Prefetto Caleno e Terzo Marzio Opilio, ufficiale…»

«Nulla di importante, Legato, non preoccuparti» rise l’uomo, togliendo con un cenno della mano il Legato dall’imbarazzo di ricordare un grado dimenticato.

«Piacere di conoscerti, Donna Lidia» commentò il Prefetto, sorridendole affabile.

«Il piacere è mio» replicò educatamente lei, apprezzando la possibilità di parlare con gente dall’aspetto famigliare.

«Sei una donna molto coraggiosa, Lidia» disse ancora l’uomo. «Vivere qui non è facile per noi che l’abbiamo scelto: posso solo immaginare come possa essere per una giovane nata e cresciuta a Roma, ma sono certo che tu te la caverai benissimo.»

«Grazie» mormorò la fanciulla, arrossendo davanti a quel complimento inaspettato, ma comunque gradito.

«Tuttavia», proseguì il militare, abbassando un po’ la voce, «se in qualsiasi momento dovessi aver voglia di cambiare un po’ ambiente… vieni a trovarci. L’accampamento è solo a mezz’ora di cammino da qui, verso nord.»

Lidia lo guardò, stupita. «Eh, grazie», balbettò, «anche se non so se…»

«Mia cugina verrà a trovarmi a metà luglio» si intromise l’altro soldato. «Si chiama Flavia, so che siete molto amiche. Non ti piacerebbe rivederla?» Lidia aggrottò la fronte, senza capire. «Flavia? Non conosco nessuno che…»

«Sì, Flavia» insistette il soldato, sottolineando il nome e guardandola negli occhi. «So che ne avete parlato poco prima della tua partenza e che lei ti aveva promesso di venire a trovarti.»

Accanto a loro, il Prefetto ridacchiò e, improvvisamente, Lidia capì. «Oh… oh, Flavia, certo!» disse, annuendo con forza. «Certo, mi farebbe piacere vederla!»

«Non avevo dubbi» sorrise l’uomo.

Tito! Dunque il ragazzo non solo non aveva cambiato idea, ma non aveva nemmeno perso tempo e aveva già allertato gli amici di cui le aveva parlato. Guardandosi attorno, la fanciulla fu presa dall’angoscia: adesso che si trovava in Germanica, l’idea le pareva più pericolosa che mai. «Aspetta!» esclamò, affrettandosi a raggiungere l’ufficiale, che già si stava allontanando da lei. «Ho cambiato idea: dille che non è il caso che si scomodi. Il viaggio è lungo e di certo avrà molte cose da fare. Sapere che mi pensa è già una consolazione sufficiente.»

Il soldato scosse il capo. «Ti vuole molto bene, Donna Lidia, e ha deciso di venirti a trovare. È testarda, non potrò certo farle cambiare idea.»

Lei annuì, per nulla sorpresa dalle parole del militare. «Capisco» mormorò. «Ma, ti prego: dille di stare attenta.»

«Lo farò», le promise lui, «e ricorda: sei hai bisogno di parlare con me o con il Prefetto, vieni al campo… Sarai la benvenuta.»

Quando i due uomini si furono allontanati, Lidia si guardò attorno e vide che Ulf la stava fissando. Arrossendo e pregando ardentemente di non avere un’aria colpevole, la fanciulla si affrettò a raggiungerlo. Quando gli fu accanto vide che nello sguardo dell’uomo vi era una domanda alla quale decise di non rispondere, sentendo di non essere tenuta a fornirgli alcuna spiegazione.

Ulf la scrutò ancora per qualche istante, poi scrollò le spalle. «Possiamo andare?» La ragazza non aveva motivo per volersi trattenere in quella radura, quindi annuì. Senza una parola, il germanico girò sui tacchi e si avviò lungo la strada che l’aveva condotta lì. Confusa, Lidia si lanciò un’occhiata alle spalle e notò che le persone che ancora si attardavano nel prato li seguivano a una certa distanza.

Ulf camminava spedito e lei, intralciata dalla veste lunga, faticava a tenere il suo passo. Si sarebbe aspettata di raggiungere la casa nella quale si erano incontrati la prima volta, ma l’uomo imboccò una stradina secondaria che la giovane non aveva mai percorso. «Dove stiamo andando?» chiese la fanciulla, incapace di trattenere oltre la curiosità e la confusione.

«A casa» replicò lui, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Lidia boccheggiò per un istante, presa in contropiede. Forse si divertiva, a farla sentire stupida? «Ma… casa tua non era…»

«Non stiamo andando a casa mia», spiegò secco Ulf, «ma a casa nostra. Che è in fondo a questa strada.»

A bocca aperta, Lidia per un attimo non riuscì a replicare. Nessuno le aveva detto che avrebbe avuto una casa tutta sua e quel pensiero, anziché confortarla, la terrorizzò: lei non aveva nessuna idea di come si tenesse in ordine una casa, di come si cucinasse, di come ci si prendesse cura di un uomo. A Roma erano stati i servi a occuparsi di quei compiti: lei non era neppure in grado di fare una lavatrice, come avrebbe potuto svolgere da sola le mille incombenze che l’attendevano al varco?

Dal momento che dubitava che Ulf potesse esserle di alcun aiuto, la giovane decise di non esternare quelle paure. «Perché ci seguono?» chiese, invece, indicando le persone alle loro spalle.

«Sono invitati al banchetto» spiegò lui.

«A casa nostra?» Lidia si rigirò in bocca quelle parole, stupendosi di come dei termini così famigliari potessero sembrarle totalmente privi di senso, in quel contesto.

Ulf annuì. «Non preoccuparti, hanno preparato tutto le donne» la informò, con un sogghigno. «Tu non dovrai fare niente. Per ora.»

La fanciulla lo guardò, quasi… oltraggiata. Come si permetteva di mettere in dubbio le sue doti di padrona di casa? Dal momento che l’uomo non la conosceva, i suoi erano dei semplici pregiudizi privi di fondamento. La ragazza gonfiò il petto e, per una frazione di secondo, fu tentata di fargli sapere che cosa ne pensava, esattamente, dei suoi preconcetti, ma poi il coraggio le mancò e lei fu costretta a incassare in silenzio quell’insulto velato.

Per questa volta, si ripromise, stringendo i denti.

***

Lidia incrociò le mani in grembo, reclinandosi sulla sedia e osservando le ombre della sera che si allungavano sul prato antistante a quella casa che non aveva ancora avuto modo di guardare per bene. Il banchetto non era stato poi così male… almeno dal punto di vista del cibo. Anche se non era mai stata una grande consumatrice di carne, Lidia aveva mangiucchiato, assaggiando diverse specialità locali e apprezzando in silenzio il modo in cui erano stati cucinati i vari piatti. Le portate erano molto meno numerose di quelle che sarebbero state servite in occasione di un matrimonio a Roma, ma non aveva comunque nulla da recriminare al cuoco – o alla cuoca – che aveva cucinato al posto suo. Chissà se io imparerò mai a cucinare in questo modo, si chiese la ragazza, sentendosi quasi svagata.

Esattamente come durante la cerimonia vera e propria, gli invitati al banchetto erano solo poche decine, tuttavia erano piuttosto rumorosi – anche per colpa della birra che si ostinavano a bere, sospettava la fanciulla – e sembravano molti di più: a causa di quella confusione, Lidia aveva faticato non poco per capire quello che sua madre, seduta accanto a lei, le stava dicendo. Donna Giulia aveva parlato animatamente per l’intera durata del banchetto, cercando di fornire alla figlia tutte le nozioni sulla vita di coppia che non le aveva dato durante i diciannove anni che avevano passato insieme. Lidia aveva pregato gli Dèi affinché la donna non scendesse in particolari delicati e per una volta le divinità sembravano averle dato ascolto, dal momento che gli insegnamenti impartitile all’ultimo minuto da Donna Giulia vertevano più che altro sull’economia domestica e sul funzionamento dei diversi elettrodomestici.

Sempre a causa del chiacchiericcio costante, Lidia aveva temuto di non riuscire a non sentire quello che Ulf le avrebbe detto, tuttavia quelle preoccupazioni si erano rivelate infondate, dal momento che l’uomo non le aveva rivolto la parola, ignorandola completamente. Be’, meglio così, aveva pensato la ragazza, provando un rinnovato moto di antipatia nei confronti del marito. Tanto neanch’io ho niente da dirgli.

Dopo quella che le era parsa un’eternità, il sole era tramontato e il dolce era stato servito: alcuni ospiti, compresi i due legionari e le persone più anziane, se n’erano andati e rabbrividendo nella brezza del crepuscolo la fanciulla si stava chiedendo quanto a lungo ancora sarebbe stata costretta a restare all’aperto, quando dai tavoli iniziarono a levarsi le grida degli uomini. La ragazza sollevò lo sguardo dalla coppetta vuota del dolce e si guardò attorno cercando di capire cosa stesse succedendo. Anche se non riuscì a scorgere la causa di quell’agitazione improvvisa, notò che accanto a lei Ulf sembrava essersi irrigidito.

Uno degli uomini si alzò e gridò qualcosa in direzione di Ulf, che alzò le mani e si schernì. Immediatamente, però, un altro uomo imitò il primo; e a quel secondo uomo ne seguirono un altro e poi un altro ancora. Lidia spostò lo sguardo dall’uno all’altro, confusa. D’un tratto Ulf si alzò in piedi e disse qualcosa che scatenò l’ilarità degli altri germanici, prima di fare un cenno con due dita. Cinque o sei donne si alzarono e Ulf si chinò verso la giovane romana. «Va’ in casa e mettiti a letto» le disse piano.

Lei lo guardò, sperduta. «C-cosa?» balbettò, mentre le donne si avvicinavano. Tra di loro, notò con raccapriccio, c’era anche Unna. «Fa’ come ti dico!» le ingiunse Ulf, sottovoce, prima di sorridere alla sorella che l’aveva ormai raggiunto.

La fanciulla si vide costretta ad obbedire e, dopo aver lanciato un ultimo sguardo a sua madre, lasciò che le germaniche la conducessero via. Le donne, tutte giovani che dimostravano suppergiù la sua età, la presero sottobraccio e con una serie di risolini la portarono in casa e poi su per una rampa di scale. Forse vogliono farmi vedere dov’è la camera, cercò di ragionare la fanciulla, sebbene il suo inconscio le suggerisse che non fosse affatto così.

Una volta che le giovani giunsero nella camera da letto, infatti, le donne chiusero la porta e afferrarono le vesti di Lidia, iniziando a tirarle. La ragazza sbiancò e cercò di contrastarle, stringendosi al petto la tunica e indietreggiando verso il muro, ma loro erano in quattro e lei era sola e non aveva possibilità di resistere. «Ferme!» gridò. «Lasciatemi!»

In un ultimo, disperato tentativo di evitare quell’umiliazione, la fanciulla si voltò verso Unna. La giovane se ne stava un po’ in disparte, osservando la scena con un’espressione indecifrabile, ma quando si rese conto di essere osservata scoppiò a ridere e disse qualcosa alle compagne. Come ubbidendo a un comando, una donna dai capelli rossi si chinò e afferrò l’orlo della tunica di Lidia. «Sta ferma», disse Unna, rivolta alla giovane cognata, «o te li strapperanno di dosso, invece di sfilarteli e basta.»

Lidia si immobilizzò e, con le lacrime agli occhi, ricambiò lo sguardo della donna. «Ma Ulf ha detto che…»

«Oh, so benissimo cosa ti ha detto mio fratello», sorrise la germanica, «ma non crederai davvero che dicesse la verità. Era solo un modo per farti stare buona.»

Mortificata e confusa, Lidia abbassò le braccia e lasciò che le donne le sfilassero la tunica e la biancheria che indossava al di sotto di essa. Unna scrutò con aria critica il suo corpo nudo. «Insomma», sospirò, piegando la testa di lato, «si potrebbe fare di meglio. Per lo meno cerca di non frignare troppo, sorellina. A Ulf non piacciono le donne lagnose.»

Lidia abbassò il capo, mentre lacrime di rabbia e vergogna le colavano lungo le gote. Una delle altre donne, una ragazza con due grosse trecce ramate, si avvicinò il letto e scostò le coperte. Rapida, Lidia scivolò sul materasso e si coprì con la trapunta, frapponendola come uno scudo tra sé e il mondo esterno.

Soddisfatta, Unna disse qualcosa alle altre donne e si diresse verso la porta. «Buonanotte, per adesso» ghignò. «Ci vediamo domani. Mi racconterai com’è andata, sorella

Rimasta sola, la fanciulla scoppiò a piangere. Che stupida, che era stata: fidarsi di Ulf era ovviamente stato un errore. Le era sembrato strano, in effetti, che l’uomo le proponesse un patto tanto bizzarro, ma era stata così desiderosa di trovare un po’ di conforto che non si era accorta della sua menzogna. Certamente il suo destino non sarebbe cambiato un granché, se anche avesse saputo in anticipo quello che l’attendeva, ma per lo meno avrebbe avuto il tempo di abituarsi almeno un po’ all’idea. Invece, così…

La fanciulla nascose il volto tra le mani e singhiozzò, soffrendo per l’impotenza ancora più che per quello che avrebbe dovuto subire di lì a poco.

Un refolo d’aria improvviso spalancò la finestra e le portò le risate degli uomini che ancora riempivano l’aria della notte. Più lontano, un gufo lanciò il suo lugubre richiamo e Lidia desiderò di poter essere là fuori insieme a lui, o, meglio ancora, di essere come lui: un mucchio di piume senza coscienza né consapevolezza, libero di librarsi nella luce della luna e poi scomparire nel buio della foresta…

Improvvisamente, un’idea tanto folle quanto geniale la scosse. La ragazza si alzò dal letto e raggiunse la finestra, sentendosi come rinvigorita dall’aria fresca che le sfiorava la pelle nuda. La foresta.

La stanza nella quale l’avevano portata si trovava al secondo piano, era vero, però lì davanti cresceva un vecchio melo. Sporgendosi appena, la fanciulla calcolò che il primo ramo abbastanza robusto per sostenerla dovesse essere a circa un metro e mezzo di distanza. Forse troppo lontano per essere raggiunto con un balzo; e certamente troppo distante dal terreno per sperare in un atterraggio indolore, nel caso in cui avesse mancato la presa. Però…

L’accampamento è solo a mezz’ora di cammino da qui…

Le parole dell’ufficiale le risuonarono chiare nella testa. Rapida, sapendo di avere i minuti contati, Lidia si infilò di nuovo gli abiti che le donne le avevano appena tolto, maledicendo mentalmente i sandaletti che aveva stupidamente deciso di indossare. Quella era la sua unica possibilità di fuga, non c’erano dubbi.

Con cautela, la giovane si issò sulla finestra, cercando di mantenersi in equilibrio. Ondeggiando un po’ per prendere lo slancio, guardò in basso, verso l’erba nera, e venne colta da un capogiro. Quel ramo era così lontano, pensare di farcela era pura utopia.

Il vento le portò di nuovo delle voci, stavolta più forti, forse dei saluti… di certo non mancava più molto.

Mezz’ora di cammino.

Inspirando profondamente, Lidia saltò.

***
Prossimo aggiornamento giovedì, poi ritorno al ritmo normale di un capitolo alla settimana... altrimenti rischio di esaurire i capitoli già pronti!
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Capitolo 10
*** 9. Nella notte ***


Il suo ginocchio sbatté violentemente contro la corteccia, ma la suola liscia dei sandali non riuscì a trovare nulla su cui far presa. La ragazza crollò malamente a cavalcioni del ramo, scivolando con lo sterno e il mento contro la superficie ruvida e sbilanciandosi pericolosamente, rischiando di precipitare a terra. Sentendosi cadere, Lidia serrò con forza le gambe e le braccia, abbarbicandosi disperatamente alla porzione di ramo su cui era atterrata e riuscendo così a mantenersi in equilibrio. Chiudendo per un attimo gli occhi per riprendersi, la ragazza strisciò con cautela verso il tronco del melo e poi, quando trovò un buon appiglio, si tirò in piedi.

E questa è fatta, pensò, guardando verso il basso. Ora doveva riuscire a scendere. Erano passati almeno dodici anni dall’ultima volta in cui si era arrampicata su un albero; e nemmeno da bambina era stata particolarmente brava a farlo. Se avesse avuto scelta, non avrebbe mai fatto una cosa del genere - e per di più al buio - ma in quel frangente non aveva alternative.

Aggrappandosi ai rami con le mani e allungando i piedi alla cieca, la fanciulla riuscì a scendere per poco più di un metro, ma poi i rami terminarono e la ragazza si appollaiò contro il tronco, cercando di determinare la distanza da terra. Da quel poco che riusciva a vedere, il terreno era ancora più lontano di quanto sperasse, ma la libertà era lì, a pochi metri di distanza, e la giovane non esitò a saltare.

Atterrò male: le sue gambe cedettero e lei cadde su un fianco, sbucciandosi una mano. Dopo pochi istanti, però, era di nuovo in piedi, un po’ zoppicante, e correva verso gli alberi poco distanti, senza nemmeno avvertire il dolore delle botte e delle escoriazioni che si era appena procurata. Una volta raggiunta la protezione dell’ombra fitta della foresta, Lidia non si fermò, ma continuò a correre tra la vegetazione bassa, scivolando sul fango e lacerandosi la veste nei rovi che infestavano il sottobosco. Lanciandosi a rotta di collo lungo il sentiero a malapena riconoscibile tra la vegetazione, la fanciulla fuggì via, dirigendosi verso un luogo che non conosceva, ma che di certo sarebbe stato preferibile alla camera dalla quale era appena fuggita.

Dopo un tempo che non sarebbe stata in grado di quantificare, la gola iniziò a bruciarle e il cuore sembrò scoppiarle nel petto. La fanciulla allora si fermò, appoggiando la schiena a un albero e cercando di riprendere fiato. Nel giro di pochi minuti, il suo respiro tornò alla normalità e la scarica di adrenalina che l’aveva supportata durante la fuga si esaurì: fu solo allora che Lidia si guardò attorno e si rese conto di essere circondata da alberi alti e scuri, dei giganti senza volto che non le offrivano alcun punto di riferimento. Nell’oscurità che ormai era quasi totale, la giovane riusciva a distinguere a malapena la traccia che l’aveva portata fin lì; e allora rabbrividì, rendendosi conto di non avere la minima idea di dove si trovasse.

Forse correre in quella maniera non era stata una grande idea, dopotutto. Forse avrebbe fatto meglio a prendersi cinque minuti per decidere almeno la direzione nella quale dirigersi.

Lidia si guardò lentamente attorno, mentre una sorta di sudore freddo le imperlava la schiena: presto l’inquietudine tornò a montare, in lei, ma si trattava di un’angoscia molto diversa da quella che aveva provato fino a quel momento. Era una sensazione che non aveva nulla a che fare con il destino avverso e con le scelte che le erano state imposte dall’alto, ma che evocava piuttosto cose che scricchiolavano e sussurravano nell’oscurità del bosco, creature dagli occhi lucenti e il passo felpato che scivolavano, non viste, tra le felci e i castagni. Una paura antica le face rizzare i peli delle braccia e la fanciulla tese le orecchie nel silenzio della notte, alla ricerca di un suono senza nome.

Le gambe iniziarono a tremarle, e non era per via dello sforzo della corsa, ma Lidia si obbligò a riscuotersi: non aveva corso quei rischi per farsi prendere dal panico e finire col farsi mangiare da qualche belva.

Chissà se ci sono lupi, da queste parti, si domandò, deglutendo nervosamente. No, si rispose dopo un attimo, non ho mai sentito ululare. Questo vuol dire che di certo non ci sono lupi.

E gli orsi? Si intromise quella vocina che stava imparando a odiare. Quelli non ululano. Magari ce n’è uno proprio lì, da qualche parte alle tue spalle, che ti sta guardando. Guidata da un presentimento, la ragazza si voltò lentamente e cercò di penetrare con gli occhi il buio della notte. Non c’è niente, lì, si disse. E forse era vero; il sottobosco era perfettamente silente, se si escludevano gli scricchiolii delle foglie secche, prodotti da qualcosa di decisamente più piccolo di un orso.

Cercando di fare mente locale, la ragazza si accucciò sui talloni, respirando a fondo per calmarsi e passandosi una mano tra le ciocche spettinate che, durante la sua fuga, erano sfuggite alla crocchia nella quale erano state raccolte. Avrebbe voluto che ci fosse Lucilla, lì con lei: lei avrebbe saputo cosa fare… o forse no, ma per lo meno le avrebbe dato coraggio. Trovarsi nel bel mezzo di un’avventura del genere era sempre stato il sogno della sua amica e di certo lei non si sarebbe fatta prendere dal panico.

Lei non sarebbe nemmeno scappata, però, rifletté Lidia, mordendosi nervosamente le labbra. No, Lucilla, eterna ottimista, avrebbe dato sfoggio del suo carattere brillante e spigliato e con ogni probabilità sarebbe anche riuscita a far colpo su Ulf, facendolo innamorare di sé. Invece io sono riuscita a farmi odiare, da lui, pensò, con una smorfia preoccupata. E non voglio nemmeno pensare a quello che mi farebbe, se riuscisse a mettermi le mani addosso!

Alle sue spalle un ramo scricchiolò e si spezzò, facendole balzare il cuore in gola, ma subito dopo la foresta tornò silenziosa e Lidia tornò a rilassarsi ai piedi del vecchio castagno.

E comunque a me non interessa farlo innamorare di me: sarebbe come tradire Tito. Automaticamente, le tornò in mente il bacio che Ulf le aveva dato quel pomeriggio e la giuvane arrossì, affondando convulsamente le unghie nel terriccio umido del sottobosco. Bastava il ricordo perché il suo stomaco si contorcesse in preda ai sensi di colpa: non tanto per il bacio in sé, giacché esso era stato inevitabile, ma per il fatto che quel contatto così intimo con il germanico non l’aveva riempita di disgusto. Non che le fosse piaciuto, ma era stato… normale.

È stato normale, si ripeté Lidia, scuotendo il capo in preda allo sconcerto. Comunque non importa, perché da lui non ci torno più.

La ragazza si ripulì stizzosamente le mani su ciò che rimaneva dell’orlo del suo vestito, mentre il ricordo del motivo esatto che l’aveva portata nel cuore del bosco – e per di più in piena notte – la colpiva in pieno, causandole uno spasmo di rabbia che la giovane domò respirando a fondo. Non c’era motivo di perdere la testa. Se la menzogna dell’uomo l’aveva ferita più profondamente di quanto si sarebbe aspettata, essa le aveva dato una buona lezione: fidarsi di una persona sconosciuta era sempre e soltanto un errore. Anche se Unna le aveva detto quelle cose con l’intenzione di farle male, in un certo senso doveva ringraziarla: se non fosse stato per lei, sarebbe caduta dritta nella trappola di Ulf.

A meno che non sia stata Unna a mentire, ovviamente. Lidia soffocò quel pensiero: quella era un’ipotesi che si rifiutava di considerare, perché, se fosse stato così, allora… Allora… allora sarei io quella che ha tradito e infranto un patto. Il pensiero le causò un capogiro e una strana sensazione alla bocca dello stomaco, ma la ragazza strinse i denti, risoluta. Era inutile preoccuparsi di quelle cose: la sua fedeltà andava a Tito, non a Ulf. E il fatto che mi abbiano fatta sposare con lui non significa assolutamente nulla.

Quando era partita per la Germanica, la fanciulla aveva fatto del proprio meglio per lasciarsi alle spalle la storia con Tito, convinta che quella fosse la soluzione migliore per entrambi. Del resto, si diceva, non aveva alcun senso rimanere aggrappati a un’illusione che non aveva alcun futuro. Gli ultimi sviluppi avevano però cambiato le carte in tavola: se da un lato la determinazione di Tito aveva rinnovato la forza dei suoi sentimenti per il giovane romano, dall’altro la sua fuga improvvisata aveva cancellato ogni possibilità di convivenza civile con il germanico, convincendola che la sua strada dovesse per forza di cose essere altrove.

A Roma, per la precisione – o, quantomeno, in compagnia di Tito, ovunque lui ritenesse opportuno andare.

Il loro non era un amore travolgente come quello narrato nei romanzi che Lucilla era solita passarle di nascosto, né una forza in grado di fermare il tempo e sconvolgere il mondo, ma alla fanciulla andava bene così, anche perché non credeva nell’esistenza di un sentimento del genere. Nel corso del tempo, ciò che provava per Tito era cresciuto giorno per giorno, poco alla volta, e aveva radici salde nell’amicizia che li legava da ormai cinque anni. Guardando sua madre e suo padre, la ragazza era consapevole che prima o poi l’amore era destinato a dissolversi nell’abitudine, ma sapeva che lo stesso non valeva per l’amicizia. Di una cosa era dunque certa: se anche un giorno l’innamoramento fosse passato, lei e Tito sarebbero stati per sempre legati da un’amicizia vera e profonda.

E, comunque, quei pensieri erano del tutto prematuri, perché lei amava Tito. Amava i suoi occhi caldi, amava il sorriso che gli illuminava tutto il volto, amava le sue mani dalle dita affusolate, amava la dolcezza con cui la trattava, amava il modo in cui rideva delle sue battute – quelle stesse battute che Lucilla diceva che “non facevano ridere proprio nessuno” - amava il modo in cui la guardava, quasi a dirle che era lei l’unica cosa davvero importante.

A differenza di Ulf, che, ancor prima di conoscermi, ha deciso che non sono nemmeno lontanamente alla sua altezza.

Se suo marito – il germanico! – si fosse limitato a trovarla antipatica, Lidia non l’avrebbe biasimato: del resto nemmeno lui aveva chiesto di trovarsi in quella situazione. Ulf però l’aveva fin da subito guardata con disprezzo e le aveva mentito, motivo per cui non meritava nemmeno un grammo di comprensione, da parte sua. E, naturalmente, non poteva nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi di rivelargli l’esistenza di Tito: da quello che le aveva detto a casa della sacerdotessa, l’uomo era determinato a salvare le apparenze e, con ogni probabilità, non avrebbe certo accolto a braccia aperte il giovane romano, quando questi si sarebbe presentato per riprendersi Lidia.

Per cui mi conviene darmi una mossa e raggiungere il campo, si disse la fanciulla, costringendosi ad alzarsi in piedi e a ignorare i crampi nelle gambe. Magari potremmo incontrarci proprio lì, pensò, chiedendosi se i legionari che erano venuti a farle visita fossero veramente intenzionati a favorire la sua fuga. L’idea continuava a sembrarle assurda come la prima volta in cui l’aveva sentita, ma confidava nel fatto che Tito e i suoi amici avessero un piano.

A nord, ha detto quell’ufficiale, rifletté la ragazza, cercando di orientarsi nel bosco ormai immerso nell’oscurità. Doveva aver passato parecchio tempo ai piedi dell’albero e di certo ormai Ulf doveva essersi accorto della sua fuga. Ho perso fin troppo tempo! Pensò, mentre l’ansia tornava ad assalirla. Ma da che parte è il nord?

Ricordava quando, da bambina, un amichetto le aveva detto che sugli alberi il muschio cresceva sempre verso nord, ma, anche ammesso che fosse vero, gli alberi che la circondavano in quel momento erano completamente ricoperti di muschio. Tastando quasi alla cieca il tronco del tiglio più vicino, la giovane pensò di aver individuato un lato su cui il morbido tappeto umido cresceva più rigoglioso. Questo è il nord?

Fortunatamente, l’abbozzo di sentiero proseguiva proprio in quella direzione… o, almeno, così le pareva. Per un istante, Lidia si chiese se non sarebbe stato meglio abbandonare il sentiero, ma subito scartò quell’idea: se avesse abbandonato anche quell’esile traccia, si sarebbe sicuramente persa nel cuore della foresta.

Ammesso che io non mi sia già persa!

Lentamente, facendo attenzione a dove metteva i piedi, la fanciulla si mise di nuovo in cammino, ma dopo qualche minuto un suono terrificante le ghiacciò il sangue nelle vene: un verso roco e al contempo stridulo, a metà tra il latrare di un cane e il gracchiare di un corvo enorme. Il suono si levò da un punto imprecisato alle sue spalle e rimbombò nell’oscurità della notte. Lidia non ebbe dubbi: non poteva che essere il grido dell’orso nero, la terrificante fiera di cui aveva sentito tanto parlare. La ragazza si portò una mano alle labbra, ricordando i terribili racconti di viaggiatori solitari fatti a pezzi e divorati con una ferocia senza pari.

Spaventata a morte, incurante dei rovi e delle ortiche, la fanciulla si catapultò in avanti, correndo, ne era certa, per salvarsi la vita. Non sapeva a quale velocità potessero muoversi gli orsi – e di certo non intendeva scoprirlo. Mentre correva a perdifiato nel tentativo di sfuggire alla bestia che continuava a lanciare quelle grida spettrali, un altro richiamo, del tutto simile a quelli emessi dalla belva alle sue spalle, giunse da una macchia di alberi davanti a lei. Con un gemito terrorizzato, la ragazza scartò di lato, nascondendosi tra un folto groviglio di felci: un nascondiglio assolutamente misero, ma era meglio di niente.

Lidia rimase acquattata per un paio di muniti, tremando e tendendo le orecchie: se il primo animale continuava a essere estremamente rumoroso, il secondo si era zittito – ma doveva per forza di cose essere ancora lì, da qualche parte, dato che non l’aveva sentito allontanarsi.

La ragazza si schiacciò a terra, facendo del proprio meglio per respirare in maniera regolare e per non lasciarsi sopraffare dal sentore pungente delle felci e del terriccio marcio sul quale si era distesa. Dopo alcuni minuti, quando tutto nella foresta sembrava essere tornato alla normalità, Lidia si convinse a rimettersi in piedi e a dare un’occhiata in giro, ma, proprio quando si stava issando sulle ginocchia, dalla sua destra giunse un fruscio e dal sottobosco sbucò una sagoma confusa. Con un grido di puro terrore, la giovane fece in tempo a scorgere un muso triangolare, un sottogola chiaro, due enormi occhi neri e un piccolo paio di corna diritte, poi scattò via, allontanandosi dall’animale e incespicando nei propri piedi. Il capriolo, evidentemente terrorizzato almeno quanto lei, si allontanò a grandi balzi, dando alla ragazza una chiara visione della sua coda bianca.

Tremante, Lidia si accasciò sul sentiero. Non era un orso, si disse, cercando di calmarsi, non era un orso.

I caprioli erano del tutto innocui, lo sapeva bene; quell’incontro l’aveva tuttavia scossa e la giovane romana ci mise qualche istante a riprendersi dalla tremarella che l’aveva colta. Quando sentì di essersi calmata a sufficienza, Lidia si raccolse nuovamente i capelli in una crocchia, cercando di fare ordine nella propria mente. Doveva calmarsi. C’erano fin troppi pericoli reali, in quel posto, non aveva assolutamente bisogno di farsi spaventare anche dai mostri inventati dalla sua mente. Del resto, quando il Legato le aveva presentato il villaggio, non aveva fatto alcuna menzione delle belve che si nascondevano nei boschi, no? Con ogni probabilità, non c’era proprio nessun orso, in quella regione.

Un po’ rassicurata, la fanciulla si rimise in piedi e, per sicurezza, rimase immobile per qualche istante, ascoltando e catalogando mentalmente i rumori della foresta. Fu allora che sentì, in lontananza, un fruscio di foglie calpestate. Si trattava forse dell’altro capriolo, attratto dai richiami di quello che lei stessa aveva messo in fuga?

Ma no, i caprioli saltano e questa cosa… questa cosa sta correndo!

Malgrado le sue migliori intenzioni, Lidia sentì il panico tornare ad assalirla. Tremante, la fanciulla cercò disperatamente di capire quanto lontano fosse l’essere che stava producendo quei rumori, ma si rese conto di non averne la minima idea.

Si sta avvicinando, questo è certo! Pensò, sbiancando. Non era il galoppo regolare di un cavallo e non era nemmeno un passo umano; era piuttosto uno scalpiccio erratico, disordinato, di qualcosa che non procedeva in linea retta, ma vagava e frugava senza sosta. Era il passo… è il passo di un lupo! Non che avesse mai visto o sentito un lupo, ma Lidia sentì che c’era qualcosa – forse il suo istinto – che le gridava a gran voce che la verità fosse proprio quella. I lupi vivevano in branchi, lo sapeva, ma di certo esistevano esemplari solitari…

Senza fermarsi a riflettere oltre, ignorando il freddo e la fatica che iniziavano a morderle le ossa, la fanciulla si costrinse a rimettersi in movimento, accennando addirittura una sorta di corsetta stremata. L’animale sconosciuto, però, si muoveva troppo rapidamente e ben presto Lidia si rese conto che non aveva alcuna possibilità di sfuggirgli. Sperando di passare inosservata, la fanciulla abbandonò di nuovo il sentiero e si nascose tra gli alberi. Forse passerà oltre, pensò, chiudendo gli occhi.

Il tramestio si fece sempre più vicino e poco tempo dopo la ragazza fu addirittura in grado di distinguere il respiro pesante della bestia. Doveva essersi fermata e, a giudicare dai sibili che emetteva, stava annusando freneticamente qualcosa. Le sue tracce, con ogni probabilità. Quando l’animale raspò il terreno con una zampa e mosse qualche passo nella sua direzione, Lidia non riuscì a fare a meno di sporgersi dal suo nascondiglio, cercando di scorgere la creatura che le stava dando la caccia.

Forse è una volpe, si disse, speranzosa. Forse è solo… ma no. Era un lupo. Un lupo enorme, dal pelo grigio, ispido, sorprendentemente alto sulle zampe – era effettivamente molto più grande di quanto si fosse aspettata – dotato di una lunga coda che portava alta sul dorso.

Lidia non riuscì a trattenere un gemito e, non appena udì quel suono, l’animale alzò il muso dal terreno, piantandole addosso i suoi occhi scuri e avanzando nella sua direzione con un passo straordinariamente felpato. Lentamente, guidata da un istinto sconosciuto, la fanciulla indietreggiò fino a raggiungere il sentiero. Il lupo la seguì, senza perderla d’occhio, ma senza nemmeno attaccare. Quando si rese conto di essere su un terreno meno accidentato, Lidia tentò il tutto per tutto e provò a scappare, ma in due balzi l’animale si portò davanti a lei e prese ad abbaiarle contro.

Con un breve grido, la ragazza indietreggiò di nuovo, ma questa volta il lupo continuò ad abbaiare, ancora e ancora, spingendola indietro, verso i suoi compagni, forse, verso un albero, verso una pietra… In preda al terrore, Lidia pensò che volesse metterla con le spalle al muro, tagliandole ogni via di fuga prima di balzarle alla gola. Forse abbaiava per confonderla, forse per attirare il resto del branco, forse…

I lupi non abbaiano.

Quel pensiero le attraversò la mente con straordinaria chiarezza, ma non appena l’ebbe formulato Lidia si sentì afferrare per un polso e tirare contro qualcosa che non era certo un albero o un masso. Istintivamente la fanciulla gridò e si divincolò, ma un braccio le circondò le spalle e il petto, immobilizzandola, mentre una mano le calò sulla bocca per impedirle di urlare di nuovo. Quasi inconsciamente, la ragazza aprì la bocca e la richiuse con forza su quella mano, mordendo finché il sapore del sangue non le invase la bocca.

L’uomo che l’aveva aggredita sussultò, allentando un po’ la presa. Alzando lo sguardo Lidia poté constatarne l’identità: Ulf.

Prima che potesse dire o pensare qualsiasi cosa, l’uomo tornò a premerle il polso sulla bocca e la ragazza, visti i risultati, morse anche quello. Questa volta il germanico era però preparato e, liberandole le braccia, la afferrò per i capelli, tirandoli con forza e strappandole un grido di dolore che la costrinse a mollare la presa. Approfittando di quel momento, l’uomo la spinse violentemente contro un masso coperto di muschio, facendole sbattere la nuca contro la roccia. La ragazza fece scattare in avanti le mani e provò a graffiarlo, ma lui fu più veloce e riuscì a bloccarle i polsi prima che potesse andare a segno.

«Perché cazzo sei scappata?» le ringhiò in faccia. Tra le ombre del bosco, Lidia riusciva a vedere la rabbia sul suo volto; eppure, la voce dell’uomo rimase bassa, come se non volesse farsi sentire da qualcuno.

«Bastardo» le scappò detto, prima di riuscire a controllarsi.

Per nulla turbato dall’insulto, Ulf la scrollò, tenendola per le spalle, e ripeté la domanda. «Perché sei scappata? Posso sapere che cazzo ti passa per la testa? Ti dico di andare a letto e tu scappi! Perché?»

Respirando affannosamente, lei lo guardò in faccia: era spaventata, ma per una volta la rabbia stava avendo la meglio sulla paura, permettendole di affrontarlo. «Lo sai benissimo, il perché!» sibilò, accusatoria.

Lui fece un suono a metà tra l’incredulo e lo scocciato. «Unna» sbottò. «Hai creduto a quello che ti ha detto Unna. Sapevo che eri stupida, ma non pensavo fino a questo punto.»

Lidia avvampò, punta nell’orgoglio. «E perché non avrei dovuto?» urlò. «Non so nulla di te e probabilmente…»

Ulf le tappò immediatamente la bocca con una mano. «Non urlare!» le intimò. «Vuoi farti sentire da tutto il paese? Tu non hai idea… tu non hai idea di come funzionino le cose, qui, quindi chiudi quella bocca e fa’ quello che ti dico io!»

La ragazza ansimò come un animale in trappola, ma si zittì, mentre Ulf stringeva di più la presa sulle sue braccia, arrivando a farle male. «Te lo ripeto un’altra volta: vediamo se ti entra in testa» disse lui, tenendola inchiodata al sasso umido. «Io non voglio avere nulla a che fare con te. Sei patetica, immatura e con ogni probabilità completamente cretina. Il solo pensiero di toccarti mi fa orrore, chiaro?» L’uomo la scrutò con aria critica, poi rincarò la dose. «E sei pure bruttina, quindi non hai proprio nulla da temere, da me. Non in quel senso, almeno.»

Lidia lo guardò, boccheggiando a vuoto. I vaghissimi sensi di colpa che la sua coscienza aveva iniziato a provare per il fatto di aver creduto a sua sorella, anziché a lui, vennero immediatamente spazzati via dalle sue parole. «Perfetto» sbottò, riprendendosi. «Perfetto! La cosa è reciproca: mi fai schifo pure tu!»

Ulf annuì, secco. «Bene.»

Lidia sospirò e si divincolò finché l’uomo non si staccò da lei. «Stando così le cose», disse, sistemandosi per l’ennesima volta i capelli spettinati, «puoi anche lasciarmi andare. Raggiungo l’accampamento romano e sparisco, così siamo contenti tutti e due.»

«Ma lo vedi, che sei proprio stupida?» sbottò lui. «Tu non vai proprio da nessuna parte: noi due dobbiamo restare insieme, dobbiamo fingere che questa cosa funzioni a meraviglia e non dare a nessuno motivo di credere che non sia così. Non te l’ha spiegato, la sacerdotessa?»

«Me l’ha spiegato, sì» ammise Lidia, prima di aggiungere, mentalmente: ma non me ne frega niente. Perché, se ci pensava bene, il fatto che in Germanica potesse scoppiare una guerra non le faceva né caldo né freddo: a lei bastava trovarsi lontano da lì, quando sarebbe successo.

«E allora?» sibilò ancora Ulf, incrociando nervosamente le braccia davanti al petto.

«Continuo a non capirne il senso» protestò Lidia. «Se io odio te e tu odi me, chi potrebbe mai pensare che così, magicamente, le cose si risolvano?»

«Nessuno lo pensa», sbuffò l’uomo, «ma tutti hanno ben chiaro qual è la cosa più importante: la pace. Beh, tutti a parte te, a quanto pare.»

La fanciulla indietreggiò di un passo, offesa. «Ma…»

«Cosa credi?» riprese Ulf, con una nota tagliente nella voce. «Pensi forse di essere l’unica a dover fare dei sacrifici? Tu non hai assolutamente idea di come funzioni il mondo, credimi!»

«Non sono così stupida come credi» lo contraddisse Lidia, sentendo di doversi difendere dal disprezzo dell’uomo.

«A me non pare proprio» ribatté lui. «Del resto, quale persona dotata di cervello se ne andrebbe in giro da sola, di notte? E per di più in un bosco che nemmeno conosce?»

La giovane si strinse nelle spalle, fingendo indifferenza. «Perché, avevi paura che potesse mangiarmi un orso?» Malgrado fosse intenzionata a mantenere un tono distaccato, la fanciulla non riuscì a evitare che nelle sue parole si infiltrasse una leggera nota tremula.

«Ma magari!» sbottò il germanico. «No, non ci sono orsi, qui: in compenso ci sono un sacco di persone che sarebbero ben felici di levarsi di torno una romana. Non ti consiglio di andartene in giro da sola, di questi tempi: né di notte né di giorno.»

Nell’udire quelle parole, Lidia sbiancò. Cosa intendeva, quando diceva “levarsi di torno”? E quali persone? E perché?

«Li hai visti, quei soldati, no?» riprese Ulf. «Cosa credi, che siano qui in villeggiatura? Pensi che a tutti stia bene avere quei legionari a casa nostra?»

Lidia fece per replicare, ma improvvisamente la sua gola si fece secca, così la giovane si limitò a scuotere il capo, tenendo gli occhi bassi e cercando di elaborare quello che l’uomo le aveva appena detto.

«Perciò», continuò ancora il germanico, «non devi più azzardarti a provare a scappare: è chiaro?»

«Mh.» Lidia annuì, un gesto talmente vago che avrebbe potuto dire tutto o niente.

Evidentemente infastidito dal suo atteggiamento, Ulf le afferrò il mento tra due dita e la costrinse a guardarlo. «A me non interessa nulla di te. Se dipendesse da me, saresti libera di andartene adesso, in questo preciso istante. Vuoi andare a farti ammazzare? Prego, fai pure! Ma, sfortunatamente, le cose sono un pochino più complicate di così» mormorò, abbassando la voce e stringendo ulteriormente la presa sulla mascella della ragazza. «Se tu te ne vai e altri seguono il tuo esempio, succede un casino. Se tu te ne vai e la sacerdotessa pensa che io non abbia fatto del mio meglio per trattenerti, succede un casino. Hai afferrato il concetto?»

Senza fiato, Lidia esalò un “sì” quasi impercettibile. Continuando a fissarla negli occhi, Ulf la attirò a sé. «Se questa storia si venisse a sapere, Donna Erin ci terrebbe d’occhio a vista. Ci obbligherebbe a fare le cose come dice lei e la cosa non sarebbe piacevole per nessuno dei due.» Vedendo forse la paura nei suoi occhi, l’uomo allentò la presa e lasciò che la sua mano scendesse sulla spalla della ragazza, posandovisi sopra, ma senza stringerla. «Io ti capisco, davvero», fece, con voce più calma, «stare qui non ti piace e hai paura. Per questo ho cercato di essere gentile con te, pensavo di lasciarti più libertà possibile e di non sconvolgere troppo la tua vita. Però, evidentemente, di te non ci si può fidare.»

Il cuore di Lidia ebbe un sussulto e la ragazza chinò il capo, mentre la sua mente si riempiva di vecchie eco. «Ti do ancora una possibilità, l’ultima» continuò l’uomo, lasciando scivolare via la mano. «Dopodiché, se per farti collaborare ci sarà bisogno di metterti sotto chiave e trattarti come ti aspetti di essere trattata, lo farò. Mi sono spiegato?»

Perfettamente, pensò Lidia, annuendo piano. Soddisfatto, Ulf le afferrò un braccio. «Forza, torniamo a casa» disse, trascinandola con sé.

La fanciulla lo seguì docilmente, troppo turbata per opporre resistenza. “Di te non ci si può fidare”, le aveva detto. Di te non ci si può fidare. Perché sei una buona a nulla. Perché non riesci mai a capire quello che devi fare. Perché hai la testa per aria. Quante volte suo padre le aveva detto quelle cose? E adesso Ulf glielo aveva ripetuto: se due uomini tanto diversi tra loro la pensavano allo stesso modo, forse, allora, un fondo di verità c’era?

Con gli occhi improvvisamente offuscati dalle lacrime, la giovane inciampò in una radice e rischiò di finire a terra. Fu solo la mano di Ulf stretta attorno al suo braccio a impedirglielo e quella consapevolezza le strappò un singhiozzo: non era quella, la mano che voleva sul suo corpo.

Tito! Pensò, disperata. Che cosa aveva ottenuto con quella bravata? Solo di mettere sul chi va là il germanico, rendendo ancora più difficile un’impresa che si era fin da subito presentata come terribilmente complicata. Perché era così imbranata? Non era nemmeno riuscita a far perdere le sue tracce in mezzo a un bosco!

Oh, ma tutto stava andando così bene, prima che arrivasse quella maledetta bestia! Stringendo rabbiosamente i denti, Lidia lanciò un’occhiata carica di rancore alla vaporosa coda grigia che appariva e spariva attraverso gli alberi.

«E così credevi che ci fossero gli orsi, qui.»

Dopo alcuni minuti di silenzio, la giovane sussultò quasi, nel sentire la voce di Ulf. In tutta risposta, la ragazza si limitò a sollevare stizzosamente una spalla. Cosa accidenti ne doveva sapere, lei, della fauna locale?

«È per quello che hai urlato, poco prima che ti trovassi? Pensavi di essere inseguita da un orso?»

«… credevo» mugugnò, allungando il passo e incassando il collo nelle spalle, la voce ancora impastata a causa delle lacrime.

Davanti a quella risposta, l’uomo emise un suono che assomigliava in maniera sospetta a una risata soffocata. «Era un capriolo, vero?» sghignazzò.

Oltraggiata, Lidia strappò il braccio dalla presa del germanico, che, colto di sorpresa, la lasciò andare. «Ma va’ all’Inferno!» sibilò lei, allontanandosi a grandi passi lungo il sentiero. La risata bassa dell’uomo la inseguì e la ragazza sentì nuovamente la rabbia bruciarle lo stomaco.

Oh, quanto avrebbe pagato per veder arrivare veramente un orso, in quel momento. Giusto per vedere la faccia di quello là: era certa che non avrebbe più riso tanto, allora. Se se lo mangiasse, poi, sarebbe perfetto!

Con uno sbuffo sdegnoso, Lidia marciò verso la casa dalla quale era scappata, mettendo quanti più metri possibili fra se stessa e quell’uomo orribile che si divertiva a prendersi gioco di lei.

***

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Capitolo 11
*** 10. Punto e a capo ***


Quando giunsero davanti alla casa, Lidia sentì il vuoto che avvertiva all’altezza dello stomaco trasformarsi in una voragine. Rieccomi al punto di partenza, pensò, abbattuta. Non pensavo proprio di rivederlo così presto, ‘sto posto.

«Tu aspetta qui» le disse Ulf, indicando il melo da cui si era calata per scappare. Il grosso segugio grigio – che, dopotutto, non era affatto un lupo, ma il cane più brutto che Lidia avesse mai visto – si sedette compostamente al fianco della ragazza e le colpì amichevolmente la mano con il naso. Ah, adesso ti sono simpatica, eh? Pensò lei, guardandolo di sbieco. «Su, forza» mormorò il germanico, afferrando l’animale per il collare di cuoio e trascinandolo con sé. Vedendoli allontanarsi, nella mente della fanciulla balenò un pensiero. Forse potrei…

«Non. Ci. Pensare. Nemmeno.» sibilò l’uomo, intuendo le sue intenzioni.  Lidia si affrettò ad alzare le mani in segno di resa, prima di appoggiarsi all’albero. Fuggire non era più un’opzione, purtroppo. Dopo i fatti di quella notte, sapeva di doversi muovere con cautela, senza suscitare ulteriormente i sospetti di suo marito. Doveva trovare comunque una buona scusa per contattare il Prefetto, questo sì, ma doveva farlo con molta più discrezione di quanta ne avesse messa in conto. Ulf non doveva subodorare assolutamente nulla; e lo stesso valeva, naturalmente, anche per la sacerdotessa.

Tra l’altro, Ulf sembra non sopportarla affatto, rifletté Lidia, ricordando la freddezza con cui l’uomo era solito parlare di Donna Erin. Chissà perché, poi? Scommetto che è perché l’ha costretto a sposarmi. Alzando lo sguardo verso le foglie immerse nell’oscurità, la giovane fu sfiorata da un pensiero: e se Ulf si fosse veramente trovato nella sua stessa situazione? Lidia aggrottò la fronte, pensierosa: era stata talmente presa dai suoi sentimenti che non si era mai interrogata su quelli dell’uomo. Prima che quella maledetta decisione imperiale scombussolasse i suoi piani, lei aveva sognato di sposare Tito e di costruire una vita insieme a lui. E se anche nella vita di suo marito ci fosse stata un’altra donna? Ulf aveva sognato di sposare una fanciulla germanica? Magari una ragazza del villaggio? È per questo che è così prevenuto nei miei confronti? Perché sono io e non… qualcun altro? Quel pensiero le fece inaspettatamente provare una vaga irritazione. Ma per favore, pensò, alzando gli occhi al cielo. Di certo non sono gelosa!

No, non era gelosa: di Ulf non le interessava nulla, anzi, sarebbe stata ben felice di cederlo a qualcun’altra… ma solo in cambio della propria libertà o, ancor meglio, di una vita con Tito. Se lei era condannata a una vita di infelicità e rimpianto, allora lo stesso doveva valere anche per suo marito: non avrebbe accettato alcun compromesso, da quel punto di vista. Sull’onda di quei pensieri, la sua mente le presentò un quadretto assolutamente detestabile: lei, chiusa in cucina a spignattare, triste e senza futuro, e lui, in giro a spassarsela con qualche stangona bionda. Lidia piantò rabbiosamente le unghie nella corteccia del melo, sfogando il suo malumore sull’albero. Erano quelli, i progetti del germanico? Era per quello che aveva insistito tanto per riportarla a casa? Gli serviva qualcuno che lo coprisse?

Quando Ulf ricomparve da dietro l’angolo della casa, Lidia si era talmente convinta che nella sua vita ci fosse un’altra donna che lo accolse con un’occhiata assolutamente furiosa. «Cosa c’è?» la interrogò l’uomo, perplesso. «Hai ancora intenzione di scappare?»

«No!» sputò lei, voltandogli decisa la schiena. Ulf rimase immobile per qualche istante, visibilmente spiazzato dalla rabbia che la giovane era riuscita a esprimere con quella semplice sillaba, ma poi scrollò le spalle, tornando ad avvicinarsi al melo. «Meglio così» disse. «Avanti, torniamo dentro.» Per una frazione di secondo, Lidia fu tentata di affrontarlo e di chiedergli conferma dei suoi sospetti, ma poi la sua naturale timidezza e il timore che l’uomo ancora le incuteva le impedirono di interrogarlo. Riderebbe di me, questo è poco, ma sicuro, pensò, con una smorfia. O, peggio, penserebbe che io sia gelosa. Meglio lasciar perdere. Non è poi così importante, dopotutto.

Ignaro dei suoi pensieri, Ulf si guardò attorno, vagamente spaesato. «Ma come accidenti hai fatto a scappare?» le chiese, in un sussurro. Lidia inspirò a fondo, cercando di scacciare l’irritazione e di non fare nulla che potesse farlo arrabbiare. «Sono uscita dalla finestra» rispose, stringendosi nelle spalle e indicando il ramo sul quale era balzata.

Ulf alzò lo sguardo e misurò con gli occhi la distanza tra il davanzale e il ramo. «Ma…» l’uomo esitò, aggrottando la fronte. «Ho saltato» venne in suo soccorso Lidia, sentendosi stranamente fiera di sé. Lui scosse il capo, incredulo. «Hai preferito rischiare di romperti l’osso del collo, piuttosto che fidarti di me. Ma non ti è venuto in mente che mia sorella volesse semplicemente spaventarti?»

Lidia fissò dritta davanti a sé, stringendo testardamente i denti. Se si aspettava che gli chiedesse scusa, si sbagliava di grosso. «E perché avrei dovuto?» gli chiese di rimando, con tutta la freddezza di cui era capace.

«Va bene» sospirò lui, lasciando cadere l’argomento. «Vediamo di risalire.» Lidia annuì, controvoglia, e si avviò verso la porta d’ingresso. Prima che potesse fare più di tre passi, però, Ulf la bloccò, afferrandola per un braccio. «Saliamo da » sussurrò, indicando l’albero con un cenno del capo.

Questa volta fu Lidia a restare senza parole. «Cosa?» mormorò, confusa. «Ma non possiamo entrare dalla porta?» Lui scosse il capo. «No. La tua amica sacerdotessa è rimasta a dormire al piano terra, probabilmente proprio per evitare che qualcosa andasse storto. Se rientrassimo da lì, se ne accorgerebbe subito.»

Lidia deglutì. Tutto sommato, iniziava a sospettare che l’antipatia provata da Ulf per la sacerdotessa non fosse poi così incomprensibile. Che motivo aveva quella donna di controllarli tanto da vicino? «E tu come hai fatto a uscire senza farti scoprire?» chiese, esaminando rapidamente la facciata dell’edificio, alla ricerca di uscite secondarie.

«I miei fratelli l’hanno distratta quel tanto che bastava per permettermi di uscire di nascosto. Il che è abbastanza imbarazzante, data la mia età.»

La fanciulla chiuse gli occhi per qualche istante. Perfetto, pensò, sarcastica. «Quindi lo sanno tutti, che ho cercato di scappare?» chiese, con una nota di panico della voce. La sua fuga improvvisata iniziava a non sembrarle più una grande idea e il pensiero che l’intero villaggio venisse a sapere della sua disavventura la faceva morire di vergogna.

Ulf quasi sorrise. «No, non tutti, solo i miei fratelli» ripeté. Poi si voltò a guardarla, inclinando il capo di lato. «Anche se ti meriteresti che la cosa diventasse di dominio pubblico.» Lidia storse il naso. «Ma tu non lo dirai a nessuno, vero?» si informò, cauta. Il germanico la fissò con un sopracciglio ironicamente alzato. «Oh, adesso hai deciso di fidarti di me?» le chiese, beffardo.

Lidia arrossì e abbassò lo sguardo sui propri piedi. No, non si fidava di lui: sperava solo di aver interpretato correttamente la situazione. Davanti al suo silenzio, l’uomo sospirò. «Non lo dirò a nessuno, ovviamente. E nemmeno tu lo farai: questa storia ce la dimentichiamo stasera, d’accordo?»

«D’accordo» bofonchiò la ragazza, sentendosi quasi come una bambina rimproverata da un genitore – una sensazione della quale aveva sperato di essersi liberata, una volta emancipatasi dall’autorità di suo padre. «Bene» annuì Ulf, sospingendola fino al melo e avvicinandola al tronco con un’ultima spintarella. «Sali prima tu.»

La ragazza posò le mani sul tronco e guardò in alto, provando a posare un sandalo sulla corteccia ruvida. Immediatamente, il suo piede scivolò di nuovo a terra, atterrando con un piccolo tonfo sull’erba umida di rugiada. «Non ci riesco» dichiarò, voltandosi verso l’uomo. Lui sbuffò, poi fece un cenno verso i suoi piedi. «Togliti i sandali» le ordinò. «Avrai una presa migliore.»

Pur nutrendo alcuni dubbi sull’efficacia della tecnica che le era stata consigliata, la ragazza si liberò delle sue calzature e appoggiò nuovamente un piede sul legno. Non appena vi caricò sopra il proprio peso, però, l’alluce si piegò dolorosamente verso l’alto e Lidia ripiombò a terra. «Ahi!» si lamentò, abbandonando subito l’impresa e prendendosi tra le mani il piede dolorante. «Non funziona!»

Sono bloccata qui! Pensò, mentre il panico iniziava ad assalirla. Dovrò passare la notte all’aperto e domani mattina si accorgeranno che sono qui fuori. La ragazza si voltò verso Ulf, cercando inconsciamente il suo aiuto, ma lui sbuffò, passandosi rapidamente una mano sul volto. «Devi saltare» sibilò, chinandosi su di lei. «Devi aggrapparti a quel ramo!»

Il ramo in questione era più di un metro sopra la sua testa e subito Lidia scosse il capo. «Non ci arriverò mai!» sussurrò, con il cuore in gola. Ulf chiuse gli occhi per qualche secondo, evidentemente frustrato dalle sue doti di arrampicatrice. «Non sai fare veramente niente, non è così?» le chiese, con voce stanca. «Dai, vieni qui, che ti sollevo io.» Senza lasciarle il tempo di protestare, l’uomo l’afferrò per la vita e la sollevò fin sopra alla propria testa. Stupita dal movimento improvviso e dal contatto inaspettato, Lidia restò un attimo con le mani in mano. «Muoviti, che pesi!» la voce di Ulf la riscosse e subito la ragazza cercò di afferrare il ramo che l’uomo le aveva indicato. Mancavano ancora dieci centimetri. «Non ci arrivo» sussurrò, con la voce distorta dallo sforzo di allungarsi il più possibile. «Alzami ancora un po’!»

L’uomo si affannò per qualche secondo alla ricerca di un appiglio che gli permettesse di spingerla più in alto, poi si risolse a posarle una mano sul sedere, riuscendo così a guadagnare pochi, preziosi centimetri. Lidia avvampò. «Ehi!» esclamò, oltraggiata. «Sta’ zitta!» le sibilò lui, di rimando. «E datti una mossa, altrimenti ti lascio cadere!»

Con le guance paonazze a causa dell’imbarazzo, la ragazza guardò verso l’alto e si rese conto di essere ormai all’altezza giusta. Velocemente, si aggrappò con entrambe le mani al ramo, cercando di tirarsi su e scoprendo subito di non avere abbastanza forza nelle braccia. Mi serve qualcosa su cui appoggiare i piedi… Ulf stava poco alla volta smettendo di sostenere il suo peso e istintivamente lei gettò all’indietro le gambe, posando i piedi sulle spalle dell’uomo e… Ops. In faccia.

«Sono su!» esclamò in un sussurro trionfante, alzandosi in piedi e reggendosi ai rami più in alto. Ulf non commentò, ma le lanciò un’occhiata omicida. Subito si chinò a raccogliere i sandali che la giovane aveva lasciato a terra e li lanciò nella sua direzione. Lidia riuscì ad afferrarli al volo, prima di voltarsi dall’altra parte, incapace di nascondere un sorriso. Speravi di prendermi in testa, eh?

Con un balzo, l’uomo raggiunse il ramo e si issò di fianco alla giovane moglie. «Avanti» sbuffò, indicando l’ombra nera della finestra e togliendole i sandali di mano. Con cautela, la ragazza raggiunse il ramo sul quale era saltata durante la sua fuga; e subito si rese conto di una cosa: se passare dal davanzale al ramo era stato un azzardo, compiere il percorso inverso era un vero e proprio suicidio. «Non ce la farò mai» mormorò, rivolta a se stessa prima ancora che al germanico.

Ulf, che era alle sue spalle, la sospinse piano verso l’estremità del ramo. «Non ricominciamo» sospirò. Lidia scosse il capo. «No, Ulf, dico davvero» ribatté lei, seria. «È troppo lontano.»

Forse colpito dal sentirla pronunciare il suo nome, forse per via della sua voce ferma, l’uomo la osservò per qualche secondo, prima di annuire. «Aspetta», mormorò, «vado prima io.» Così dicendo, si portò verso la biforcazione sulla quale Lidia si era lanciata qualche ora prima e, calcolata la distanza, saltò sul davanzale. Atterrò sulle ginocchia, abbassandosi appena in tempo per evitare di sbattere la testa contro il telaio della finestra. Lidia deglutì: non sarebbe mai riuscita a fare una cosa del genere. Una volta entrato in camera, Ulf si sporse verso di lei. «Va bene» le disse. «Vieni più vicina e salta.»

Lidia sbiancò, scuotendo il capo. «No. Te l’ho detto: non ci riesco. Cado di sicuro» sussurrò, arretrando.

«Lidia!» la richiamò lui. «Non fare la bambina, vieni avanti! Devi solo arrivare alla finestra, poi ti prendo io.»

Mi prende lui? Come accidenti fa, a prendermi lui? Lidia si avvicinò di qualche passo, incerta. «Peso troppo» disse, preoccupata. «Se anche riuscissi ad arrivare alla finestra, non riusciresti comunque a tirarmi su.»

«Non pesi troppo» sospirò lui. «Devi saltare: l’alternativa è farti beccare da Donna Erin e, credimi, non è un’alternativa piacevole. Il perché te l’ho già spiegato prima.» La fanciulla strinse convulsamente le mani attorno a un giovane ramo dalla corteccia liscia, cercando disperatamente una soluzione diversa. «Non puoi… non puoi chiedere a Hermann di distrarre ancora la sacerdotessa?»

«Hermann è tornato a casa con mio padre» ribatté l’uomo. «Ti ho detto che ti prendo io: fidati.»

Fidati.

La fanciulla deglutì. Già una volta non si era fidata di lui e, a quanto pareva, si era sbagliata. Lidia chiuse gli occhi, inspirando profondamente. Non sapeva se ci si potesse veramente fidare di quell’uomo, ma una cosa era certa: se si fosse rifiutata di farlo per la seconda volta in una serata, ogni possibilità di avere con lui un rapporto civile sarebbe sfumata.

E, in ogni caso, non credo che sia nel suo interesse farmi spiaccicare a terra.

Sporgendosi lievemente in avanti, la giovane guardò in basso e fu colta da un capogiro. È così importante avere un rapporto civile? Si chiese. A luglio arriverà Tito e allora tutto questo non avrà più nessuna importanza.

Ma a luglio mancano ancora due mesi, le fece notare un’altra parte della sua mente. Due mesi sono lunghi.

Che fare? Alzando lo sguardo verso la finestra, Lidia vide che Ulf le stava porgendo una mano. Anche nell’ombra della notte la ragazza riusciva a vedere la sua espressione impaziente; eppure, l’uomo stava aspettando che si decidesse a saltare, senza metterle fretta.

E va bene, pensò Lidia, con un sospiro rassegnato. «Mi prendi?» gli chiese ancora, bilanciandosi sul ramo. «Ti ho detto di sì» replicò seccamente lui.

Con un ultimo respiro, la giovane spostò il proprio peso all’indietro, prendendo la rincorsa; poi, con due rapidi passi, si lanciò nel vuoto. Anche se la direzione era grossomodo giusta, Lidia non riuscì a far presa sul granito del davanzale, ma Ulf, fedele alla sua promessa, le afferrò con una mano un braccio e con l’altra il tessuto dell’abito, sulla schiena. Questo non impedì alla ragazza di sbattere violentemente lo stomaco contro il davanzale di pietra, né di urtare il muro con i piedi nudi. «Oof» proclamò, mentre l’impatto violento le mozzava il fiato. «Forza» la incitò l’uomo. «Cerca di tirarti su!»

Annaspando a vuoto per qualche istante, Lidia tentò di piantare un ginocchio sul ripiano di granito, mentre l’uomo riusciva in un qualche modo a trascinarla all’interno della stanza. Con un gemito strozzato, la giovane ricadde di faccia sul pavimento, riuscendo a malapena a proteggersi il volto con le braccia. Viva! Pensò, sollevata, rotolando sulla schiena e riprendendo fiato a occhi chiusi. Quando li riaprì, vide che Ulf aveva acceso una lampada ed era fermo sopra di lei, osservandola dall’alto in basso con aria critica. Imbarazzata, Lidia si mise a sedere, ma molteplici fitte in diverse parti del corpo le strapparono un gemito. Che male…

Ulf sogghignò, notando la sua smorfia di dolore. «Almeno la prossima volta ci penserai due volte prima di scappare, disgraziata!» sbottò, voltandole le spalle.

Dolorante, la ragazza rinunciò a ribattere. Rialzatasi in piedi, si guardò attorno, mentre un senso di angoscia l’assaliva. E così sono davvero punto e a capo… Anche se ormai era abbastanza sicura che Ulf non fosse interessato a lei in quel modo – anzi, che non fosse interessato a lei in alcun modo, a dire il vero – Lidia non riusciva a fare a meno di sentirsi in trappola in quella stanza, prigioniera di una situazione dalla quale diventava sempre più difficile fuggire. Fuori all’aperto, nel bosco e ai piedi del vecchio melo, quando c’erano cose più urgenti a cui pensare, stare accanto a Ulf le era sembrato quasi naturale; ma adesso, nel privato di quella camera, Lidia sentì un po’ del vecchio imbarazzo fare di nuovo capolino. Era un sentimento che la schiacciava a terra, simile a un peso troppo pesante da portare, e la ragazza si rese conto di volersene liberare a tutti i costi. Forse potrei… la fanciulla cercò di dare forma ai pensieri confusi che si stavano affollando nella sua mente. Magari… se…

Ulf si voltò a guardarla con una strana espressione sul suo volto, quasi fosse a disagio anche lui, e Lidia si obbligò a riscuotersi. «E adesso che facciamo?» chiese, lasciandosi cadere sul letto e torcendosi nervosamente le mani. L’uomo si strinse nelle spalle, quasi divertito. «Adesso dormiamo» rispose, sedendosi sul lato opposto e ruotando la manovella per spegnere la luce. «Non manca molto all’alba e francamente vorrei anche riposarmi un po’.» Così dicendo, Ulf si distese sulle coperte, stiracchiandosi e sospirando. «Domani sarà un incubo» mormorò poi, dando forse inconsciamente voce a un pensiero che avrebbe voluto tenere per se stesso.

La fanciulla si adagiò su un fianco, arrossendo nell’avvertire la vicinanza con l’uomo. «Perché?» chiese. Parlare nel buio immobile della casa le sembrava strano e la metteva un po’ a disagio, ma il silenzio sarebbe stato ancora più difficile da affrontare.

«I miei amici vorranno un resoconto dettagliato, temo» ringhiò lui, portandosi un braccio sopra la testa. Lidia aggrottò la fronte. «Un resoconto?» ripeté, confusa. «Ma avevi detto che non avresti detto a nessuno che sono scappata…»

Ulf le lanciò un’occhiata piatta, fissandola senza commentare. Poi sollevò un sopracciglio. «Parlavo di un altro tipo di resoconto.» Lidia sbatté un paio di volte gli occhi, senza capire. Oh. Pensò, poi, avvampando nell’istante in cui comprese il significato delle parole dell’uomo. Oh. «Già» commentò serafico Ulf, chiudendo gli occhi.

D’un tratto, a Lidia venne in mente un dettaglio a cui non aveva pensato, ma che forse avrebbe attirato l’attenzione di un osservatore più attento. «A proposito» mormorò, con il volto in fiamme. «Potrebbe esserci un piccolo problema.»

Il giovane riaprì gli occhi, controvoglia. «Cosa c’è, ancora?» chiese, sospirando. «Il vestito» rispose lei, con un filo di voce. Lui la guardò, senza capire. «Be’, toglilo, se stai scomoda» disse, stringendosi nelle spalle. «Chiudo gli occhi, se spogliarti davanti a me ti imbarazza: l’articolo non mi interessa, te l’ho detto.»

Certo che mi imbarazza! Pensò la fanciulla, avvampando. Ma non era quello il problema. «No, intendo… è tutto rovinato» disse, sollevando un lembo della veste. «Si è tutto strappato nei rovi ed è pieno di fango. E se qualcuno si accorgesse che l’ho usato per… fare altro?»

Ulf osservò l’indumento, improvvisamente più interessato alla questione. «Ah» mormorò. Rimase un attimo immobile, riflettendo, poi scosse il capo. «Toglietelo» le ordinò, secco.

Lidia esitò. Alzando gli occhi al cielo, l’uomo ruotò su se stesso e le diede le spalle. Rapida, non vedendo alternative, la ragazza si liberò della veste e si infilò sotto le coperte, tirandosi il lenzuolo fin sotto al mento. Avvertendo il movimento, Ulf si girò verso di lei, scuotendo il capo quando vide la posizione in cui si era rintanata. «Da’ qua» le disse, allungando una mano in direzione del vestito che giaceva abbandonato a terra.

Con cautela, facendo ben attenzione a non scoprirsi, la fanciulla lo raccolse con due dita e lo passò all’uomo, che lo esaminò con aria critica. «Cosa mi tocca fare» sibilò, con una smorfia. Afferrando con due mani la scollatura, il giovane tirò con forza, strappando il sottile tessuto azzurro e rendendo inutilizzabile l’abito. Lidia lo fissò a bocca aperta, allibita. «Ma cosa fai?»

Lui si strinse nelle spalle, prima di lanciare la veste rovinata verso i piedi del letto. «Be’, possiamo sempre far finta che nella fretta le cose ci siano un po’… scappate di mano» commentò, storcendo il naso. «Un’idea schifosa, ma, se tu ne hai una migliore, sono tutt’orecchie.» Con un gridolino imbarazzato, Lidia si affrettò a nascondere il viso nel cuscino, sentendo le guance andare a fuoco. Questa conversazione finisce qui, decise, mentre un risolino incredulo le scappava dalle labbra. Ecco, si disse, questa è una buona posizione per dormire. Adesso me ne resto qui, al buio, e vedo di riposare per un paio d’ore. Magari posso anche far finta di essere sola, tanto non vedo e non sento niente…

Appena ebbe concluso quel pensiero, la mano di Ulf calò sulla sua spalla e la scosse brevemente. Con un pessimo presentimento, la ragazza voltò appena la testa, spiando l’uomo da dietro una cortina di capelli. «Mh?» chiese, la bocca ancora premuta contro il guanciale.

«In realtà», disse Ulf, accendendo nuovamente la lampada, «ci sarebbe anche un altro problema.»

Lidia scostò i capelli scuri dal volto, guardandolo con aria interrogativa. «Cioè?» L’uomo deglutì, a disagio. «Tu…» disse, prima di interrompersi e riprovare. «Ehm… hai mai…» Lidia chinò il capo di lato, cercando di capire dove volesse andare a parare. Ulf chiuse gli occhi e sospirò. «Insomma, sei vergine?» chiese, tutto d’un fiato.

La fanciulla lo guardò per un lunghissimo istante, a bocca aperta, poi il cuore le balzò in gola e il volto assunse una sfumatura violacea. «Io…», boccheggiò, «tu… non vedo perché…» Immediatamente il giovane la bloccò, alzando una mano nella sua direzione. «Aspetta», sbottò, «ho cambiato idea. Non mi interessa. Anzi, non voglio proprio saperlo.» Lidia chiuse la bocca e deglutì. «Il fatto è», continuò Ulf, senza guardarla, «che loro si aspettano che tu lo sia.»

«Lo so» ammise la fanciulla, quando fu di nuovo in grado di parlare quasi normalmente.

«E di conseguenza si aspettano anche di trovare qualcosa che indichi… insomma, hai capito.»

Oh, merda, fu il primo pensiero della ragazza, che aveva capito benissimo quello che il germanico intendeva. Finiranno mai tutti questi problemi? Prima Unna, poi l’albero, poi le spine, poi il cane, poi questo tizio che decide di inseguirmi, poi di nuovo l’albero, poi…

Ulf, che aveva mal interpretato il suo silenzio, interruppe la sua filippica mentale. «Dèi, non dirmi che non sai nemmeno che una donna sanguina, quando…»

«Lo so!» lo aggredì Lidia, con i nervi a fior di pelle. «Non sono così stupida!» L’uomo si ritrasse, sorpreso dalla sua reazione violenta. «Va bene, va bene, meglio» si affrettò a rassicurarla, alzando le mani per placarla. «Comunque il concetto non cambia. Qui di sangue non ce n’è nemmeno l’ombra.»

Be’, questo è poi da dimostrare, pensò la giovane, alzando il polso per esaminare una ferita che si era procurata in una delle sue numerose cadute. Il taglio iniziava appena a richiudersi, ma la linea scarlatta era ancora ben visibile sulla sua pelle chiara. Ulf seguì con lo sguardo il suo movimento e subito si illuminò. «Giusto!» esclamò, afferrandole senza troppi complimenti il braccio. «Fatti in là!»

Così dicendo, buttò indietro le coperte e Lidia dovette aggrapparsi al lenzuolo per evitare che quel gesto la scoprisse completamente. Senza perdere tempo – e senza darle il tempo di capire cosa stesse succedendo – l’uomo le strofinò con forza la ferita sul materasso, lacerando la pelle che si era appena richiusa e facendone sgorgare di nuovo il sangue. Un dolore acuto e sottile le trapassò il braccio e Lidia non riuscì a trattenere un gemito strozzato. Quando Ulf la lasciò libera, la fanciulla si portò il polso al petto in un movimento protettivo e lo fissò con astio. «Quindi, se avessi fatto come dicevi tu e fossi rimasta qui, mi avresti ferita di proposito?» lo accusò, retrocedendo verso il bordo del letto.

Per nulla toccato dal suo tono d’accusa, l’uomo tornò a posare il capo sul suo cuscino, facendo ripiombare la stanza nel buio. «No, probabilmente avrei usato un po’ del mio sangue. Anche perché, se mi fossi avvicinato a te con un coltello, saresti svenuta o qualcosa del genere.»

Lidia sbuffò dal naso, oltraggiata. «E non potevi farlo anche adesso?» sibilò. Il giovane fece schioccare la lingua. «Questa notte ho già fatto fin troppo, per te. E adesso smettila di seccarmi, che voglio dormire.» Così dicendo, Ulf si avvoltolò nelle coperte e nel farlo ne rubò un po’ a Lidia, che provò a riprendersele tirando, ma senza successo. «Sei odioso» borbottò, ma il cuscino soffocò quelle parole e, se l’uomo le udì, finse di non sentirle.

Premendo di nuovo il volto nel guanciale, la giovane romana cercò di rilassarsi, ma le botte e i graffi che si era procurata quella notte, nonché lo stress emotivo che aveva contraddistinto quel giorno, le impedirono di prendere sonno. Mi fa male dappertutto, pensò cupamente, e con questa storia non ho fatto altro che far insospettire questo… questo… lui. Domani dovrò affrontare tutti gli altri. Mamma e papà se ne andranno via. E a luglio mancano ancora due mesi.

Con un sospiro depresso, Lidia premette ancor di più il volto nel cuscino, aspettando le lacrime, certa che sarebbero arrivate da un momento all’altro. Tuttavia, un movimento avventato le fece pulsare il ginocchio che per primo aveva urtato contro l’albero e quel dolore le ricordò il salto nel buio e tutto ciò che ne era seguito. La nottata era stata decisamente diversa da come se l’era immaginata qualche ora prima, quando Unna e le sue compagne l’avevano abbandonata, sola e spaventata, in quella stessa camera.

Quando, dieci minuti più tardi, la fanciulla scivolò tra le braccia del sonno, i suoi occhi erano ancora perfettamente asciutti.

 

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Capitolo 12
*** 12. Prove di cucina ***


Erding - Germanica Inferiore, 342 a.U.c., 6 Maggio

Ferma davanti alla porta di casa, Lidia seguì con lo sguardo il carro automatico che si allontanava sobbalzando in maniera irregolare lungo la strada sterrata, portando con sé i suoi genitori. E così se ne andavano, pensò, chiudendo brevemente gli occhi per cacciare indietro le lacrime che minacciavano di colarle lungo le guance. Si erano trattenuti un giorno in più del previsto, ma, alla fine, avevano deciso di lasciarla in Germanica e di tornare a Roma senza di lei. Chissà se la rivedrò mai, Roma, pensò la fanciulla, soffocando un gemito afflitto. Chissà se rivedrò mai la mamma e il papà…

Quella di non rivedere mai più la propria patria era probabilmente una paura comune alla maggior parte delle giovani spose che si trasferivano lontane da casa, ma Lidia scosse tristemente la testa, ricordando che, tra lei e tante sue coetanee nella sua stessa situazione, c’era una differenza fondamentale. Se le altre ragazze potevano sperare di tornare a Roma, se non altro per una breve vacanza, lei, scappando con Tito, si sarebbe preclusa quella possibilità. Lasciando la Germanica, infatti, sarebbe andata contro la volontà dell’Imperatore – e, indirettamente, di suo padre: era certa che, una volta fuggita, a casa sua non sarebbe più stata bene accetta. “Giuro che ti farò processare come traditrice della Patria” le aveva detto il Senatore, qualche tempo prima e, nonostante le piccole dimostrazioni di affetto degli ultimi giorni, la giovane non era ancora certa che quelle fossero semplicemente delle parole dettate dalla rabbia del momento.

Suo padre non era certo l’uomo migliore che conoscesse, tuttavia, quando il carro sparì dietro una curva della strada, la fanciulla provò un dolore quasi fisico, mentre la solitudine e lo sconforto calavano su di lei, simili a un manto vischioso e pesantissimo. Era fatta. Da quel momento in poi sarebbe stata davvero sola con se stessa: almeno fino a luglio, non avrebbe potuto fare altro che contare sulle proprie forze per sopravvivere in quel paese sconosciuto e, forse, ostile.

Inaspettatamente, una mano calò sulla sua spalla e Lidia sobbalzò, voltandosi fino a incontrare gli occhi chiari di Donna Edda. L’anziana germanica era uscita con lei per salutare – in silenzio, s’intende – i suoi genitori, ma era rimasta a qualche metro di distanza, garantendo a Lidia un minimo di riservatezza. Avvertendo forse la tristezza della fanciulla, però, la vecchia si era avvicinata, offrendole il modesto conforto della sua presenza. Commossa, Lidia le rivolse un sorriso piccolo, ma sincero. Forse non sono proprio del tutto sola, pensò, inspirando a fondo e sentendosi un po’ più sicura di sé.

Se gli eventi del giorno precedente erano un’indicazione, l’amicizia di Donna Edda le sarebbe risultata estremamente preziosa. Il suo primo giorno da donna sposata le aveva infatti chiarito una cosa: finché sarebbe rimasta a Erding, il suo peggiore nemico sarebbe stata la solitudine. Con una smorfia infastidita, Lidia ripensò al pranzo del giorno prima. Quando Gefrid e i suoi genitori erano tornati in sala da pranzo, la fanciulla era decisa a cercare di calmare gli animi e per questo aveva preso a distribuire sorrisi cordiali, ingoiando il proprio nervosismo e cercando addirittura di fare conversazione. Malgrado la prospettiva di tornare a Roma con i propri genitori fosse in un certo senso allettante, infatti, la ragazza avvertiva che il Senatore non avrebbe mai avuto il potere di andare contro gli ordini della sacerdotessa e dell’Imperatore: alimentare delle paure infondate sarebbe dunque stato inutile e, forse, anche controproducente. Durante il pranzo, Lidia aveva cercato più volte lo sguardo di Ulf, tentando di coinvolgerlo nella conversazione, ma il giovane aveva tenuto gli occhi fissi sul tavolo, trangugiando con una velocità allarmante tutto ciò che Donna Edda aveva cucinato e abbandonando il locale quasi senza aspettare che gli altri finissero a loro volta di mangiare.

Anche se comprendeva il suo desiderio di sottrarsi a quell’atmosfera pesante, Lidia aveva storto il naso davanti a quella fuga frettolosa: con quell’atteggiamento sfuggente, Ulf non faceva altro che alimentare i sospetti dei loro genitori. Ad ogni modo, quando l’uomo non era più ricomparso per tutto il pomeriggio, la fanciulla non aveva dato troppo peso alla cosa, e ne aveva invece approfittato per passare qualche ora in compagnia di sua madre, facendo del proprio meglio per mostrarsi tranquilla e allontanare così le preoccupazioni della donna. La mancanza di Ulf aveva iniziato a insospettirla solo quando, all’ora di cena, l’uomo non aveva ancora fatto ritorno: il posto vuoto a tavola attirava la sua attenzione in modo fastidioso e la fanciulla non poteva fare a meno di interrogarsi su dove fosse finito. Da amici o da qualcun altro? Si chiedeva, piantando inconsciamente le unghie nella tovaglia a quadretti. Possibile che suo marito fosse così sfacciato da andare a trovare una sua ipotetica amica proprio quando tutti gli occhi erano puntati su di lui?

Quel che era peggio, era che Lidia riusciva a leggere un’ombra di sospetto negli occhi di Donna Giulia, ma la prudenza e l’orgoglio le impedivano di esprimere ad alta voce i propri dubbi, di chiedere delucidazioni a chi, forse, ne sapeva più di lei.

Quando giunse l’ora di ritirarsi nelle sue stanze, l’umore della giovane era ormai virato verso un nero cupo: dunque sarebbe veramente stata così, la sua vita? Ulf aveva davvero intenzione di piantarla a casa e disinteressarsi completamente a lei? Quegli interrogativi non facevano altro che innervosirla ancora di più: cosa accidenti le importava di quello che faceva il germanico? Non era forse un bene che lui la evitasse il più possibile? Non era forse quello che aveva sperato? Quando, a notte fonda, Ulf era scivolato in camera, quasi di soppiatto, Lidia non aveva nemmeno sollevato la testa dal cuscino, fingendo di dormire e avvolgendosi in un silenzio offeso. All’alba, l’uomo era sparito di nuovo e non si era più palesato per tutta la mattina – il che era piuttosto maleducato da parte sua, visto che, così facendo, non aveva nemmeno salutato i genitori di Lidia.

Scuotendo la testa come per scacciare quei pensieri, la ragazza sospirò e si voltò verso Donna Edda, aspettando le sue indicazioni e chiedendosi come avrebbe potuto interagire decentemente con una donna così anziana e che, oltretutto, pareva avere una conoscenza della sua lingua piuttosto superficiale. Mi toccherà imparare il loro dialetto, si disse Lidia, arricciando le labbra, poco attratta da quella prospettiva.

Notando di avere l’attenzione della giovane, la vecchia fece un cenno nella sua direzione. «Chum» le disse. «Vieni. Prepariamo il pranzo.» Un po’ spaesata, Lidia la seguì all’interno dell’abitazione. «Ma tu abiterai qui con noi?» le chiese, sperando di non sembrare scortese.

La donna scosse il capo con un verso di diniego. «No, ti aiuto solo un po’» la informò; e la fanciulla provò un fremito di gratitudine nei suoi confronti. Nonostante le indicazioni di sua madre, infatti, non aveva ancora capito esattamente cosa ci si aspettasse da lei e il fatto di avere una guida era sicuramente un vantaggio.

Una volta giunte in cucina, la vecchia estrasse un sacco di tela spessa da un armadio a muro e lo porse a Lidia.  «Mettili a bagno» ordinò, indicando i cereali – o erano legumi? – contenuti al suo interno. Davanti allo sguardo perplesso della ragazza, la donna emise un brontolio sordo e afferrò una grossa ciotola dalla credenza, appoggiandogliela poi sotto al naso. «Così» ringhiò, mostrandole con gesti rapidi e secchi quello che avrebbe dovuto fare.

Per le ore seguenti, Lidia cercò di imitare le azioni di Donna Edda, sentendosi estremamente inadeguata – per non dire incapace – e rimediando tre dita tagliate. Mentre le avvolgeva una pezza pulita attorno all’ultima ferita, la donna le lanciò uno sguardo severo. «Non aiuti tua mamma a Roma?» Lidia arrossì, scuotendo il capo. «No, noi… avevamo dei servitori. Facevano tutto loro» ammise.

«Questa è una signora di città, nonna. Non devi aspettarti troppo da lei.» La voce di Ulf fece sobbalzare entrambe e Lidia si voltò per lanciare uno sguardo velenoso in direzione dell’uomo.

«Och,  blaascht!» sbottò Donna Edda. Qualsiasi cosa volesse dire, la ragazza pensò che avesse un suono adeguato. «Dove sei stato?» gli chiese allora, in tono vagamente accusatorio, mentre l’irritazione della mattina tornava a farsi sentire. Ulf, che si era seduto al tavolo, si strinse nelle spalle. «Sono andato a lavorare.»

Lidia lo squadrò con più attenzione, socchiudendo gli occhi. «E ieri, invece?» indagò, poco soddisfatta di quella spiegazione. Lui ricambiò il suo sguardo, con aria di sfida. «Ho pensato che fosse meglio girarti alla larga per un po’, visto come si stavano mettendo le cose» fece, per poi aggiungere, con un sorrisetto: «Di’ un po’, adesso non avrai mica intenzione di diventare una di quelle mogli apprensive e ficcanaso, vero?»

La ragazza sbuffò, sdegnosa. «Certo che no. Ero solo curiosa, per me puoi fare quello che ti pare. Non me ne importa niente.» Ulf la osservò per qualche istante, reclinando il capo sulla spalla, poi disse: «Ad ogni modo, sono andato da mia sorella: mi era permesso farlo?»

Afferrando una delle ciotole che Donna Edda aveva riempito con la zuppa che avevano preparato, Lidia la posò con malagrazia sul tavolo, davanti all’uomo, facendone strabordare un po’. «Fa’ quello che ti pare» ripeté asciutta. «Non mi interessa.»

La vecchia germanica, che aveva seguito lo scambio in silenzio, prese la pentola ricolma di zuppa e la appoggiò sul tavolo, poi raccolse lo scialle con il quale era solita coprirsi le spalle e si diresse verso la porta. «Tu non resti, nonna?» le chiese Ulf. «Näi» replicò lei, scuotendo il capo e rivolgendo loro un brusco cenno di saluto.

Quando se ne fu andata, Lidia si chinò sul piatto, iniziando a mangiare in silenzio e cercando di ignorare la tensione che improvvisamente aveva riempito l’aria. Era sorprendente quanto fosse diverso restare sola con Ulf in una situazione di emergenza e condividere con lui un momento di quotidianità come il pranzo: c’era un che di intimo, in quella seconda circostanza, e la cosa la metteva a disagio. Imbarazzata, la fanciulla rimestò la zuppa, cercando qualcosa da dire, ma si trovò penosamente a corto di argomenti di conversazione.

«Ti hanno già fatto visitare il villaggio?» Lidia accolse entusiasticamente la domanda di Ulf e si affrettò ad annuire. «Solo in parte» disse, ingoiando rapidamente la zuppa densa e saporita. «Il Legato mi ha fatto vedere la piazza e qualche bottega, ma pensavo di fare un altro giro, questo pomeriggio: se non altro, per ambientarmi un po’ meglio.»

Il giovane annuì. «Va bene, ma non da sola» le raccomandò, incontrando i suoi occhi al di sopra del piatto ancora fumante. Confusa, Lidia aggrottò la fronte. «Non da sola? E perché?»

Per una frazione di secondo, Ulf parve quasi imbarazzato. «Te l’ho detto: non è sicuro.» Davanti a quella risposta, la ragazza posò il cucchiaio sul tavolo e si prese qualche secondo, prima di parlare. «Nemmeno di giorno, è sicuro?» chiese, mentre una sensazione sgradevole le stringeva lo stomaco. «Perché… cosa… cosa potrebbe succedermi, esattamente?»

«Ma no, niente di che» mormorò il giovane, ma la sua voce suonò un po’ incerta e Lidia strinse i pugni sul tavolo, scoprendoli sudati. Accorgendosi del suo nervosismo, Ulf si sporse leggermente verso di lei. «Non è mai successo niente», la rassicurò, «e, con ogni probabilità, non succederà mai niente. Però è stupido andare a cercarsi i guai: la gente deve imparare a conoscerti e, finché sei ancora nuova, è meglio che tu non te ne vada in giro da sola. Tra qualche giorno tutti inizieranno a non vederti più come una romana, ma come una di noi, e allora non avrai più niente da temere… nemmeno da quelle persone che non vedono di buon occhio la tua gente.»

Quella risposta che, in teoria, avrebbe dovuto rassicurarla, fece provare a Lidia uno spasmo di repulsione. Io sarò sempre romana, si disse, irrigidendo la mascella. In quell’istante, la fanciulla provò un lampo di fierezza e di orgoglio per le proprie origini; e il fatto di perdere la propria identità le parve una prospettiva intollerabile. Spostando lo sguardo su Ulf, la giovane si accorse che l’uomo la guardava con più attenzione – forse si era accorto della sua tensione improvvisa – e così si impose di rilassarsi. Un paio di mesi, ricordò. Un paio di mesi e mi lascerò questo posto alle spalle.

«Bene», disse, poi, cercando di sviare da sé l’attenzione di suo marito, «allora forse potreste accompagnarmi tu o tua nonna? Erding è così diverso da Roma, tutto mi sembra così strano…»

Il germanico ridacchiò. «Non lo metto in dubbio: io a Roma non ci sono mai stato, ma mi hanno detto che a voi piace fare le cose in grande.» Sebbene fosse indubbiamente vero, Lidia credette di scorgere una sottile nota ironica nelle parole dell’uomo e, per qualche motivo, la cosa la fece arrossire. «In un certo senso è così» riconobbe. «Da noi tutto è più grande e pieno di cose… tutto è diverso. Prendi la piazza, per esempio: le nostre piazze sono piene di gente, di fontane, di statue degli Dèi…» Ulf fece un vago suono d’assenso e Lidia ne approfittò per togliersi un dubbio che la tormentava da qualche giorno. «Nella vostra, di piazza, ho visto però la statua di un solo Dio: come mai? Non ne adorate altri?»

L’uomo sbuffò, beffardo. «Oh, ce ne sono altri, sì. Ma Arminio è il più grande, a quanto pare.»

Alla ragazza non sfuggì il suo tono scettico. «A quanto pare?» ripeté. Ulf scrollò le spalle. «Tu li hai mai visti, gli Dèi?» Lei lo fissò, stupita dalla domanda. «No, certo che no. Nessuno li ha mai visti, ma questo non vuol dire che non esistano.»

Il germanico storse la bocca e sembrò sul punto di dire qualcosa, ma poi rinunciò. «Cosa?» insistette Lidia. C’era qualcosa, nell’atteggiamento di suo marito, che aveva attirato la sua attenzione e la spingeva a indagare più a fondo: anche lei provava un cauto scetticismo verso l’esistenza degli Dèi, ma più passavano i giorni e più le pareva di avvertire, nel modo di fare di Ulf, un’aperta ostilità verso tutto ciò che era religione.

Lui la squadrò con attenzione, fissandola poi negli occhi. «Non credo proprio di fidarmi di te a sufficienza per parlarti di questa cosa» mormorò, soppesando le parole. Lidia si reclinò sullo schienale della sedia, presa in contropiede. «Cos’è?» chiese, con una punta di ironia. «Un segreto?»

«In un certo senso» confermò Ulf, prima di aggiungere, con un sorriso storto: «Il tipo di segreto che si confida solo alle persone affidabili» sottintendendo chiaramente che lei non risultava appartenere a tale categoria.

Lidia alzò gli occhi al cielo con una smorfia offesa e incrociò le braccia, ma l’uomo le spinse il piatto sotto il naso. «Dai, finisci di mangiare» la incitò. «Ho un po’ di tempo prima di ritornare al lavoro. Posso portarti a fare un altro giro in paese: ci sono anche altri posti che dovresti conoscere.»

***

Un quarto d’ora più tardi, i due sfilavano tra i banchetti del mercato. Era decisamente più piccolo di quello che di tanto in tanto aveva frequentato a Roma, ma non per questo Lidia si sentiva meno a disagio. «Mi guardano tutti» sussurrò a Ulf, avvicinandosi inconsciamente al suo fianco.

«Per forza», disse piano suo marito, «sei nuova. E comunque guardano anche me, se la cosa ti fa piacere.» Il livido che si era procurata durante il suo tentativo di fuga era ancora lontano dal riassorbirsi e, malgrado la ragazza avesse cercato di nasconderlo con un po’ di trucco, l’ematoma era ancora ben visibile. «Le voci girano in fretta, qui» le sussurrò ancora Ulf.

«Ho notato» disse Lidia, deglutendo nervosamente. «Non possiamo andare in un luogo meno affollato?» Annuendo, Ulf le porse la mano e si infilò in un passaggio particolarmente stretto, tra una bancarella e l’altra. Istintivamente, la fanciulla la afferrò e si lasciò guidare tra la folla, stando ben attenta a non perdere la presa, grata di quell’appiglio che, dopotutto, le dava coraggio.

Quando si furono allontanati dalla ressa, Ulf le lasciò la mano e indicò un punto davanti a sé. «Quello invece è il bosco sacro,» disse. «Quello?» chiese Lidia, osservando quello che a lei non pareva altro che un normale boschetto di faggi.

«Possiamo avvicinarci un po’», propose l’uomo, «ma l’ingresso è vietato.»

Poco prima di raggiungere i margini del bosco, i due incrociarono tre uomini che rivolsero un cenno di saluto a Ulf. Lidia li guardò, impressionata. Due di loro erano piuttosto giovani e dimostravano approssimativamente l’età di suo marito, mentre il terzo era decisamente più anziano: tutti e tre, però, erano ricoperti da uno strato di sottilissima polvere grigio-verde. Portavano sulle spalle dei picconi e, quando uno di loro la guardò in faccia, la ragazza vide che i suoi occhi erano rossi e lacrimavano.

«Chi sono?» chiese, quando si furono allontanati. «Minatori» rispose tra i denti Ulf. «Lavorano nella miniera d’argento al confine sud del paese. Ci sei passata davanti, quando sei arrivata a Erding.»

Lidia cercò di ricordare, ma il giorno del suo arrivo era talmente presa dai suoi pensieri che non aveva prestato molta attenzione al paesaggio. «Non me la ricordo» disse, scuotendo il capo. Poi aggiunse, con un filo di apprensione: «Tu non lavori lì, vero?»

L’uomo fece un cenno di diniego. «No, fortunatamente no. Io sono un falegname, ho ereditato la bottega in cui mio padre lavorava prima di restare ferito in battaglia.»

«E questo è un bene, immagino» commentò la giovane. «Certo che lo è» confermò lui, amaramente. «I minatori hanno vita breve. Karl, sfortunatamente, lavora là sotto.»

«Chi è Karl?» chiese Lidia, confusa, non ricordando di aver mai sentito quel nome. «Il marito di mia sorella» rispose Ulf, guardandola di sottecchi.

«Oh.» Sentire nominare Unna non le aveva certo fatto piacere, ma la ragazza cercò comunque di mostrarsi partecipe. «È l’uomo che era con voi quando…» Quando ci siamo incontrati per la prima volta e mi avete riso in faccia tutti quanti, avrebbe voluto dire, ma non si sentiva ancora abbastanza coraggiosa per toccare quell’argomento. Fu Ulf ad affrontarlo per lei. «Sì, è lui» confermò. «Alto, con i capelli scuri. Quello che fa praticamente tutto ciò che dice Unna, per intenderci.» Le parole erano critiche; e tuttavia a Lidia non sfuggì il tono vagamente affettuoso con cui le pronunciò.

«Ho capito chi è» disse, a denti stretti. Sentendo su di sé lo sguardo dell’uomo, Lidia incrociò per un secondo i suoi occhi, ma poi li riabbassò a terra. Parlare con Ulf si stava rivelando più semplice del previsto, ma la giovane non aveva dimenticato il suo comportamento durante quel primo incontro, il suo sguardo freddo – disgustato – il suo disprezzo, la sua espressione di scherno. Non sono cose facili da ignorare, pensò, stringendo inconsciamente i pugni.

Accanto a lei, Ulf sospirò. «Devo dire che la realtà è forse un po’ migliore della prima impressione.» Lidia alzò di nuovo lo sguardo su di lui, sorpresa. «Cosa vorrebbe dire?»

«La prima volta che ti ho vista», spiegò il giovane, «sembravi una bambina terrorizzata. Eri pallidissima, tremavi come una foglia e sembrava che stessi per scoppiare a piangere. Non mi hai fatto una gran bella impressione.»

Lidia storse la bocca. «Ero spaventata» sottolineò. «Non è facile cambiare tutto, così…»

«Lo so» sospirò Ulf. «Ma nemmeno per me lo è. E pensavo che, oltretutto, mi sarebbe pure toccato badare a una persona incapace di funzionare autonomamente, che avrebbe passato il tempo a piangere e a lamentarsi.»

«E invece?» chiese Lidia, benché non fosse certa di voler sapere quello che Ulf pensava veramente di lei. «E invece sei saltata dalla finestra» disse lui, con un sorriso. «Certo, la cosa mi fa dubitare della tua intelligenza, ma quantomeno hai dimostrato di avere un minimo di spina dorsale.»

Lidia scosse la testa, non sapendo cosa pensare. Un insulto e un complimento in poco più di dieci parole. Notevole. L’uomo la stava ancora fissando e lei si sentì in dovere di commentare. «D’accordo» sospirò. «Forse anch’io ti ho giudicato un po’ male. Mi dispiace essermi fidata di Unna e non di te.»

Ulf annuì, secco. «Unna è… a volte Unna è una persona un po’ difficile. Non ama molto i romani.» Lidia lo guardò, sorpresa. «Perché?»

«Ha i suoi motivi», mormorò l’uomo, «ma non ti dirò altro. Sono affari suoi e, se sei curiosa, devi chiedere a lei di raccontarti tutta la storia.» La fanciulla gli lanciò un’occhiata scettica, ma Ulf parlò di nuovo, impedendole di protestare. «Siamo arrivati» disse, indicando i primi alberi del bosco che avevano scorto in lontananza. «Non è possibile andare oltre.»

Lidia annuì, osservando il filo spinato che correva tutt’attorno alla vegetazione, formando una barriera invalicabile alta almeno tre metri. «Che cosa c’è, lì dentro?» Automaticamente, la sua mente corse a quello che aveva letto sui libri di scuola, allo strano legame che i Germanici parevano avere con gli alberi, ai sacrifici che avevano luogo sui grandi altari di pietra nel cuore della foresta. O quelli erano i Galli? Si chiese la fanciulla, cercando di ricordare.

«Il luogo in cui si portano le offerte per gli Dèi» spiegò Ulf, interrompendo i suoi pensieri. Lidia deglutì. «Che tipo di offerte?»

«Oh, un po’ di tutto» rispose lui. «Pellame, pietre preziose, oggetti di valore… gli Dèi sembrano essere piuttosto veniali, in queste cose. Il rito ha luogo ogni mese; e ogni mese dobbiamo lasciare qui almeno due carri d’argento.»

«Che cosa succede alle cose che lasciate qui?» chiese la fanciulla, confusa. L’uomo si strinse nelle spalle. «Spariscono.»

«Spariscono?» ripeté Lidia, stupita. «Ma allora questo significa che gli Dèi esistono! Altrimenti dove andrebbero a finire tutte quelle cose?»

Ulf scoppiò in una risata amara. «Non so a te, ma a me vengono in mente un paio di altre opzioni. Ogni mese costruiamo una sorta di enorme forno con il materiale di scarto della miniera, ogni mese ci mettiamo sopra le offerte per gli Dèi, ogni mese ci accendiamo sotto un fuoco… dopodiché dobbiamo abbandonare la foresta e lasciare la tua amica sacerdotessa sola con tutte quelle cose. Chi può dire che fine fanno le nostre offerte

Lidia gli lanciò un’occhiata scettica. «Di certo non penserai che Donna Erin possa portarsi via tutto da sola.» Ulf scosse il capo. «Da sola no, però…»

«Pensi che ci sia qualcuno che l’aiuti? E per quale scopo?» il tono di Lidia era chiaramente dubbioso e Ulf se ne accorse. «Non lo so: dico solo che mi sembra un po’ strano che gli Dèi vengano a chiederci cose tanto preziose. Magari mi sbaglio, ma a me sembra un ottimo modo per far fessi un branco di polli e arricchirsi alle loro spalle.»

«Stai parlando del tuo intero villaggio?» insistette la ragazza, inarcando le sopracciglia, scettica. Per nulla turbato dalla sua domanda, Ulf scrollò le spalle. «Aspetta, prima di giudicare: la prossima volta assisterai anche tu alla cerimonia e poi mi dirai cosa ne pensi.»

Anche se poco convinta, la fanciulla non ribatté.

***

La fiamma divampò violenta e Lidia balzò all’indietro con un gridolino, agitando la spatola in direzione della padella. Qualcosa non stava andando per il verso giusto.

Con un pessimo presentimento, la ragazza pigiò di nuovo il bottone, sperando di abbassare la potenza della fiamma, ma sbagliò tasto e il fornello acquistò potenza, anziché perderne. Premendo convulsamente un altro paio di pulsanti, la fanciulla riuscì a domare il fuoco fino a spegnerlo completamente e poi, a denti stretti, si avvicinò ai ritagli pressati di patate che Donna Edda aveva preparato con lei, quella mattina. Sollevandoli cautamente con la spatola – e facendone cadere una buona parte sul piano di cottura – Lidia ebbe la conferma di ciò che l’odore di bruciato già le aveva fatto sospettare: erano completamente carbonizzati.

E adesso che faccio?

Desolata, la fanciulla raggiunse il tavolo e si lasciò cadere sulla panca, appoggiando la spatola sul ripiano di legno e nascondendo il volto fra le mani. Improvvisamente apprezzava molto di più il lavoro che la servitù aveva svolto ogni giorno nella sua domus romana, in maniera così efficiente e silenziosa che lei quasi non si era nemmeno accorta dell’impegno necessario per mandare avanti una casa.

Poco dopo averle mostrato il bosco sacro, Ulf l’aveva riaccompagnata a casa e poi aveva fatto di nuovo ritorno alla sua bottega. Una volta rimasta sola, Lidia aveva deciso di rimboccarsi le maniche e familiarizzare un po’ con quello che sarebbe stato il suo regno. La prima sorpresa – tutt’altro che gradita – era stata la totale assenza dei mille meravigliosi elettrodomestici di cui Donna Giulia le aveva parlato. Forse era stata un po’ ingenua a pensare che attrezzi rari e costosi come le scope elettriche o le lavatrici potessero esistere in quella regione arretrata, ma Lidia si era comunque stupita quando si era trovata davanti a una scopa – non ne aveva nemmeno mai toccata una! – o quando l’occhio le era caduto sul pezzo di sapone grezzo e sulla spazzola da bucato posata accanto a esso.

Aveva curiosato un po’ in giro, aveva rifatto il letto – più facile a dirsi, che a farsi, con tutte quelle coperte che scappavano da tutte le parti e non volevano saperne di restare al loro posto – aveva buttato un occhio nella dispensa e annusato i cibi che non aveva mai visto prima, dopodiché si era resa conto che il sole era ormai basso sull’orizzonte e aveva deciso che era giunta l’ora di cucinare qualcosa per cena. Quella mattina, Donna Edda le aveva spiegato la preparazione di un piatto a sua detta semplicissimo – rösti, l’aveva chiamato - e Lidia aveva ingenuamente creduto che l’impresa fosse alla sua portata.

Grave errore. Il risultato era stato mezzo chilo di patate da buttare e un gran odore di bruciato in tutta la casa. Mentre, controvoglia, si accingeva a scrostare la padella dai rimasugli carbonizzati delle patate, la porta si aprì e Ulf entrò in casa, annusando l’aria e facendo una smorfia. «Che cos’è questo odore?» chiese, senza nemmeno salutarla e correndo a spalancare una finestra.

Lidia arrossì, continuando a dargli le spalle e senza sollevare la testa dal lavello. «Mi è bruciata la cena.» Con un sospiro, Ulf si portò alle sue spalle e spiò quello che stava facendo. «Cosa accidenti era quella roba?»

La ragazza lasciò cadere la padella e la spugnetta e si girò a fronteggiarlo, indietreggiando istintivamente contro il lavello quando se lo trovò così vicino. «Erano patate… arrosto. Arrosti. Qualcosa del genere» spiegò. «Ho fatto quello che mi ha detto tua nonna, ma sono bruciate lo stesso. Forse la fiamma era troppo alta…»

Ulf si sporse oltre di lei e prese in mano la padella, tastandone con un dito l’interno. «Ci hai messo il burro?» chiese, amabile.

Lidia aprì la bocca per ribattere, ma le parole le morirono in gola. Oh. Il burro. Notando la sua espressione, Ulf scoppiò a ridere. «Lo sanno tutti, che devi ungere la pentola! Lo sapevo pure io!» Prima di riuscire a controllarsi, la ragazza lo colpì sul petto, cercando di allontanarlo e ottenendo solo di farlo ridere più forte. «Se sei tanto bravo, perché non cucini tu?» gli chiese, offesa.

Sorridendo, evidentemente divertito dalla situazione, l’uomo si chinò su di lei, avvicinando il proprio volto a quello della ragazza. «Vuoi per caso fare cambio? Io sto in cucina e tu prendi in mano la pialla?»

Non so nemmeno cos’è, una pialla, pensò Lidia, fulminandolo con lo sguardo. «Oh, finiscila!» sbottò, cercando di allontanarlo con una spallata. Lui resistette per un attimo, poi si scostò, lasciandola passare. La giovane marciò di nuovo verso il tavolo e Ulf la seguì con lo sguardo. «Allora?» le chiese, appoggiandosi al lavello. «Cosa mangiamo?»

Lidia scosse le spalle, fissando il pavimento. «Mi è passata la fame» mugugnò, consapevole di avere assunto un comportamento infantile e non dando alcun peso alla cosa.

Ulf sospirò di nuovo e raggiunse la dispensa. «Ecco qua» disse, posandole qualcosa sotto il naso. «Pane, formaggio e pomodori. Grazie per la cena, moglie, davvero deliziosa.» La ragazza, che nonostante quello che aveva detto, era affamata, mise in bocca un pomodorino e lo stritolò rabbiosamente sotto ai denti. «Certo che è una vera fortuna, averti sposato» continuò Ulf, con aria svagata, guardandola attraverso il tavolo. «Com’è che aveva detto tuo padre, l’altro giorno? Che sai fare di tutto e che impari in fretta? Tutto vero, non c’è che dire.»

Lidia posò sul tavolo il panino e lo fissò negli occhi, sentendosi insolitamente coraggiosa – e stanca. «Perché mi prendi sempre in giro?» gli chiese, seria. L’uomo si strinse nelle spalle. «Mi sembra che sia il modo migliore per farti reagire» rispose, altrettanto serio. «Meglio arrabbiata, che in lacrime, per quanto mi riguarda.»

Lidia scosse rabbiosamente la testa. «Potresti anche cercare di essere un po’ più gentile» mormorò, infilandosi una manciata di pomodorini nel grembiule e alzandosi dal tavolo. Stava per lasciare la stanza quando la mano di Ulf, che la afferrò per il braccio, la costrinse a fermarsi. «Lidia» le disse, senza lasciare la presa. «Io non so che cosa ti aspetti da me.»

Quelle parole la colsero di sorpresa e la ragazza alzò lo sguardo fino a incrociare quello azzurro dell’uomo. Che cosa si aspettava da lui? Non si era mai posta quella domanda. «Non lo so» ammise, spostando lo sguardo sulla mano dell’uomo, che, nel frattempo, era scesa a circondarle leggermente il polso. «Forse solo un po’ di comprensione.»

«Che cosa vuol dire comprensione?» le chiese lui, continuando a fissarla.

«Comprensione vuol dire…» istintivamente, la mano della giovane volò al polsino della camicia di Ulf, allacciato male, e lo sistemò. «Comprensione vuol dire avere solo un po’ più di pazienza. Mi serve tempo per adattarmi a tutta questa situazione.»

Ulf inspirò a fondo, prendendo le mani della ragazza nelle sue. «Io posso anche avere pazienza», disse, dopo un attimo, «ma tu devi cercare di aiutarmi. Non pretenderò mai niente da te, te l’ho detto. Non mi interessa averti come un uomo ha la propria moglie, ma ho bisogno di sapere che tu qui puoi resistere. Posso lasciarti tutto il tempo che ti serve, ma devo sapere che alla fine ti adatterai a questa situazione, come dici tu.»

«Per sempre» sospirò Lidia, senza riuscire a trattenere quelle parole, né a celare lo sconforto che esse le provocavano. «Per sempre», confermò Ulf, con una smorfia amara, «o, per lo meno, per parecchio tempo. Non dico che le cose non cambieranno, un giorno, ma non posso farti alcuna promessa, in questo senso… per questo ho bisogno di sapere che ce la farai e che ti impegnerai per fare funzionare le cose.»

Tito. Il ragazzo e la promessa che le aveva fatto, l’impegno che aveva preso, le tornarono subito in mente, ma la fanciulla si sforzò di sorridere, alzando gli occhi sul volto di Ulf. «Cercherò di non bruciare più la cena» promise. L’uomo parve considerarla una risposta sufficiente e con un sorriso le sfiorò una guancia, spostando una ciocca di capelli castani che erano scesi sul suo viso. Per un qualche motivo la ragazza sentì gli occhi inumidirsi a quel tocco leggero, ma, sentendosi stupida, ricacciò ferocemente indietro le lacrime e, liberatasi dalla presa di Ulf, si avvicinò di nuovo al lavello.

Colpa della tensione, pensò, passando gli occhi sulla superficie smaltata. «E adesso cosa fai?» le chiese Ulf, avvicinandosi nuovamente a lei. Lidia sollevò la padella incrostata e, sospirando per scacciare quella strana malinconia, la sventolò debolmente in aria. «Credo che sia il caso di pulire questa» disse, rimboccandosi le maniche.

***

Più tardi, quando si ritrovò sola sotto le coperte, Lidia si rigirò per l’ennesima volta, incapace di prendere sonno. Ulf era andato a trovare con alcuni amici e, sebbene l’avesse invitata ad accompagnarlo, Lidia aveva preferito andare a letto, tremando al pensiero di trovarsi in compagnia di tanti uomini sconosciuti.

Anche se normalmente non amava la solitudine, in quella particolare occasione la ragazza era grata della possibilità di riflettere nella tranquillità della propria stanza. La domanda di Ulf le era rimasta impressa nella mente.

Che cosa mi aspetto da lui? Si chiese di nuovo la fanciulla. “Niente” era la risposta più sincera. Lidia si trovava nella scomoda posizione di dover riconoscere di essere partita troppo prevenuta nei confronti di suo marito; e non solo: doveva anche prendere atto del fatto che Lucilla aveva avuto ragione, quando le aveva detto che, rifiutandosi di pensare al suo imminente matrimonio con il germanico, non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose. Certo, la sua amica l’aveva forse intesa in maniera un po’ diversa, ma Lidia era stata così convinta di andare in pasto a un mostro che, quando invece si era trovata di fronte a un uomo – strano, ma comunque un uomo – non aveva saputo come reagire.

Scivolando sulla schiena, Lidia si domandò cosa avrebbe fatto, se invece di Ulf avesse trovato qualcuno come Tito: si sarebbe trovata altrettanto spaesata? Ma Tito e Ulf sono troppo diversi, rifletté, non posso fare un paragone. Ed era vero. Tito era sempre stato molto più accomodante, nei suoi confronti, molto più dolce.

Prendiamo quello che è successo questa sera, per esempio: Tito mi avrebbe messo a mio agio, mi avrebbe detto che non importava… magari mi avrebbe anche aiutata a preparare qualcos’altro. No! Meglio! Avremmo ordinato qualcosa e ci saremmo fatti portare qualcosa di buono da fuori… Per un istante Lidia sorrise, perdendosi in quel pensiero allettante. Non come quel… quel… Ulf. Si trovava in difficoltà anche solo per trovare un insulto adeguato. Anche se, doveva ammetterlo, anche Ulf era stato quasi dolce, a modo suo, quando le aveva promesso di concederle tutto il tempo di cui avrebbe avuto bisogno.

Non come Tito, però.

Non come Tito, no, però la ragazza era sempre più consapevole dei vaghi sensi di colpa che la coglievano al pensiero della fuga che aveva in programma per luglio, quando il giovane romano sarebbe venuto a prenderla. Non gli devo niente, però… però aveva la sensazione di tradire, se non lui, quantomeno la sua fiducia. Ma che alternative ho?

L’alternativa, lo sapeva, era una sola: restare a Erding e continuare la farsa, così come desiderava Ulf. La fanciulla storse la bocca a quel pensiero: l’idea di vivere una vita di menzogne non l’allettava nemmeno un po’. Prendendo il coraggio a due mani, si spinse a esaminare un’idea che aveva sfiorato la sua mente un paio di volte, negli ultimi giorni: e se fosse diventata davvero la moglie di Ulf? Subito scartò l’ipotesi: non solo perché l’esistenza di Tito e dei sentimenti che provava per lui rendevano impraticabile quella via, ma anche perché il germanico aveva espresso più volte e chiaramente il suo disinteresse per lei. Molto chiaramente, ricordò la ragazza, con un sospiro irritato. Ha anche detto che sono “bruttina”.

Per l’ennesima volta, la fanciulla si chiese se l’uomo avesse un’altra donna, da qualche parte; e per l’ennesima volta il pensiero le provocò una fastidiosa fitta allo stomaco. Gli conviene non avere nessun’altra: sarebbe troppo comoda, così! Pensò, battagliera, prima di rigirarsi sulla pancia e affondare il volto nel cuscino. No, la cosa migliore era attenersi al piano e tagliare la corda al momento opportuno. Sì, è la cosa migliore. Non c’è altra via, davvero, decise la giovane, chiudendo gli occhi risoluta e cercando di allontanare i dubbi e le incertezze.

Quando, diverse ore dopo, Ulf fece ritorno e lei si ritrovò a fingere di dormire, la ragazza non ebbe però alcun dubbio: a tenerla sveglia non era la paura di vivere un nuovo giorno in una terra sconosciuta, ma la sua coscienza sporca.

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Capitolo 13
*** 11. Malintesi ***


Quando aprì gli occhi, Lidia si rese conto di essere sola. Il sole filtrava dalla finestra, centrandola in piena faccia. Con una smorfia di fastidio, la ragazza si portò istintivamente una mano al volto per strofinarsi gli occhi come faceva ogni mattina, ma quel movimento la fece sussultare. Male.

Nell’immobilità del sonno, il dolore legato alle abrasioni e alle contusioni che aveva rimediato durante la sua avventura notturna sembrava essersi acuito, anziché indebolito, e con un gemito soffocato la ragazza si girò sulla schiena, piegando leggermente le gambe per verificare la funzionalità delle ginocchia.

Sembra tutto a posto. Tirandosi a sedere e portandosi le ginocchia al petto, la giovane romana si guardò attorno, cercando di determinare l’ora. Il lembo di cielo che riusciva a scorgere al di là della finestra spalancata era del colore grigio e lattiginoso dell’alba e anche il cinguettio indaffarato degli uccelli che affollavano il melo indicava che il sole doveva essere sorto da poco. Con un gemito assonnato, Lidia lasciò scorrere lo sguardo tutt’attorno a sé: che fine aveva fatto Ulf? Nella stanza tutto sembrava nella stessa posizione in cui l’aveva lasciato la notte prima. Solo il vestito strappato era stato raccolto da terra e riposto sullo schienale di una sedia.

Oh, Dèi. La semplice visione di quell’insignificante pezzo di stoffa chiara le fece contrarre sgradevolmente lo stomaco. Non si sentiva assolutamente in grado di affrontare il nuovo giorno e tutte le incognite che esso portava con sé, tantomeno da sola. Anche se la presenza di Ulf non le risultava particolarmente gradevole, Lidia si scoprì a desiderare che l’uomo fosse lì con lei, se non altro per dirle cosa fare e per toglierla dall’imbarazzo di un’attesa che non sapeva come riempire.

A disagio, la ragazza si scrocchiò lentamente le dita, cercando di decidere sul da farsi. Doveva forse alzarsi e scendere al piano inferiore? E se, una volta arrivata di sotto, non ci fosse stato nessuno? O se, peggio ancora, vi avesse trovato tutti i parenti di Ulf? E poi, cosa accidenti dovrei indossare? Di certo non il vestito di ieri, visto lo stato in cui è ridotto.

Con una smorfia, Lidia si rese conto di essere bloccata in quella camera. Forse potrei rimettermi a dormire, considerò, lanciando un’occhiata al cuscino stropicciato. Prima o poi qualcuno verrà a cercarmi. Quasi fossero stati evocati dal suo pensiero, dei passi risuonarono improvvisamente su per le scale e si fermarono proprio davanti alla stanza. Come per un riflesso spontaneo, la ragazza si lasciò ricadere sul cuscino e si tirò la coperta fino al mento, appallottolandosi su un fianco e sforzandosi di adottare un respiro regolare, nella speranza di ingannare chiunque si trovasse dall’altro lato della porta. Non aveva alcuna voglia di parlare con nessuno. Non si sentiva in grado di rispondere ad alcuna domanda.

La persona in corridoio bussò un paio di colpi appena accennati, poi la porta di legno si aprì e dei passi leggeri risuonarono sul pavimento. Una donna, pensò Lidia, senza aprire gli occhi, ma non la mamma. I passi si avvicinarono al lato del letto sul quale era distesa e una mano leggera le sfiorò la fronte. «Lidia» disse una voce gentile. «Lo so, che sei sveglia.»

Arrossendo leggermente, e seppur di malavoglia, la fanciulla aprì gli occhi e si ritrovò a fissare il volto pallido di Donna Erin. «Buongiorno, mia cara» la salutò la sacerdotessa, sorridendo.

Consapevole di essere una pessima bugiarda, Lidia si limitò a fissarla con gli occhi sgranati, incapace di ricambiare il sorriso cordiale della donna. Perché era lì da lei, a quell’ora di mattina? Intendeva forse chiederle qualcosa a proposito della notte precedente? Aveva forse subodorato qualcosa? Se così fosse stato, la fanciulla era praticamente certa di non essere assolutamente in grado di ingannarla.

Davanti al silenzio della giovane, la sacerdotessa la osservò con maggiore attenzione e il suo sorriso si spense un po’. «Come va?» le chiese piano. Stringendo i denti per contrastare le proteste del suo corpo indolenzito, Lidia si sistemò meglio sul cuscino. «Bene» rispose, con un filo di voce, cercando di sbilanciarsi il meno possibile.

Donna Erin si sporse verso di lei e, posatale una mano su uno zigomo, le fece voltare delicatamente il viso nella sua direzione, spingendole i capelli dietro alle orecchie. «Sicura?» insistette, osservandola con un’espressione vagamente preoccupata.

Perché insiste tanto? Si chiese Lidia, mentre l’ansia iniziava a lambirle lo stomaco. Non aveva alcuna idea di cosa volesse sentirsi rispondere e la cosa la innervosiva. «Io… un po’…» A corto di parole, Lidia arrossì e fece per mettersi seduta. Non appena mise il peso sulle gambe, però, il pulsare sordo del ginocchio destro la convinse a desistere e ad adagiarsi di nuovo sul guanciale con una smorfia di dolore. Nel vedere la sua espressione, la sacerdotessa sospirò. «Capisco» mormorò, prima di sfiorarle il mento con la punta delle dita. Quando le dita morbide della donna toccarono la sua pelle, la fanciulla avvertì una fitta bruciante che la fece sussultare. Confusa, Lidia si portò una mano al volto e si stupì nel sentirlo caldo e tumefatto.

Ma cosa…

Ignorando – o forse interpretando male – la sua espressione perplessa, Erin le accarezzò i capelli. «Mi dispiace davvero tanto, Lidia» mormorò, triste. «A volte gli uomini sono delle vere bestie. Non conosco bene tuo marito, ma non avrei mai pensato che… arrivasse a tanto. Gli parlerò io, non preoccuparti.»

Lidia aggrottò le sopracciglia, confusa dalle parole della donna. A cosa si stava riferendo, esattamente? Seguendo lo sguardo verde della sacerdotessa, la giovane si toccò di nuovo il mento e, improvvisamente, comprese l’equivoco. Doveva esserci un livido, lì, che faceva bella mostra di sé sul suo volto. Facendo rapidamente mente locale, Lidia ricordò la circostanza in cui se l’era procurato: doveva essere stato durante la sua fuga, quando era atterrata maldestramente sul ramo, sbucciandosi le mani, il ginocchio e, evidentemente, anche il mento. Ma lei questo non lo sa e, a quanto pare, crede che me l’abbia fatto Ulf.

Istintivamente, la ragazza si coprì con le mani il punto offeso, guardando la sacerdotessa in silenzio. Non poteva spiegarle la verità, ovviamente, ma, allo stesso tempo, sentiva che era un errore lasciarle credere che il germanico le avesse volontariamente fatto del male. Troppe bugie, si disse, mentre un brivido freddo le scivolava lungo la schiena. Troppe bugie, le cose rischiano di sfuggirmi di mano... Cercando di tamponare in qualche modo la situazione, la ragazza balbettò: «N-no, è stata colpa mia.»

Donna Erin scosse la testa con decisione. «Non dire mai una cosa del genere!» la redarguì. «È stato lui a farti questo. È stato lui a sbagliare – e, credimi, adesso glielo faccio io, un discorsetto. Ci penserà due volte, prima di…»

«No, no, un attimo!» Nel tentativo di correre ai ripari, Lidia protese entrambe le braccia in direzione della sacerdotessa, come per placarla e farla desistere dai suoi intenti. «Non… come dire... È stato un incidente, non ha fatto apposta… poi le cose sono andate meglio.»

La sacerdotessa scosse il capo, palesemente poco convinta dalle parole della ragazza, e la fissò con una tale aria di compatimento che Lidia sentì un briciolo di irritazione far capolino tra il nervosismo e lo smarrimento. Perché nessuno sembrava intenzionato a rispettare la sua opinione? Inspirando profondamente, la giovane sostenne lo sguardo della donna e, dopo pochi, lunghissimi istanti, Erin chinò il capo, piegando le labbra in un sorriso un po’ malinconico. «Dici davvero?» Lidia annuì, irrigidendo inconsciamente la mascella e rispecchiando così l’espressione che aveva visto tante volte sul volto di suo padre. «Allora credi di poter sopravvivere a questa convivenza?»

«Andando avanti, le cose andranno meglio» rispose la ragazza. La sua voce suonò meno ferma di quanto le sarebbe piaciuto, ma Lidia non abbassò lo sguardo, cercando di dimostrare una sicurezza che non provava affatto. Se non altro, pensò, cercando di farsi coraggio, perché questa “convivenza” durerà meno di quello che credi tu, “mia cara”.

La sacerdotessa la studiò ancora per una manciata di secondi, poi il suo sorriso si allargò e le sue spalle si rilassarono. «Non ti nascondo che è un sollievo sentirtelo dire» le confidò. «Perché, per quanto non sopporti gli uomini che alzano le mani sulle proprie donne, non avrei avuto l’autorità per scogliere questo matrimonio così rapidamente e, quindi, avrei potuto fare ben poco per te.»

Vedendo il pericolo allontanarsi, la fanciulla si sforzò di rivolgerle un sorriso grato. «Non ce ne sarà bisogno» mormorò.

La donna annuì. «Lo sapevo, che eri più forte di quello che sembravi» le disse, con tono d’approvazione. Alzandosi in piedi, la sacerdotessa rivolse un piccolo cenno del capo in direzione della ragazza. «Beh! Ero passata solo per vedere come stavi. È ancora presto, ti lascio riposare ancora un po’: tra non molto, Donna Edda dovrebbe salire per aiutarti a prepararti. Noi due ci vedremo più tardi.»

Così dicendo, la sacerdotessa uscì dalla stanza e Lidia si chiese se la donna avesse veramente a cuore il suo benessere o se, invece, stesse semplicemente seguendo una scaletta determinata in precedenza. Non era la prima volta che aveva l’impressione che Donna Erin recitasse un ruolo, tenendo ben nascosti i suoi veri pensieri. È davvero una persona strana, si disse la fanciulla, spostando lo sguardo fuori dalla finestra. Per quanto ci provasse, sentiva di non riuscire a inquadrarla: c’erano dei momenti in cui avvertiva di potersi fidare di lei, ma, più in generale, non riusciva a scacciare la sensazione che nella sacerdotessa ci fosse qualcosa di decisamente anomalo.

Lidia non aveva pensato di potersi addormentare di nuovo, dopo la visita di Donna Erin, ma, quando la porta si spalancò di nuovo, riscuotendola dal dormiveglia nel quale era piombata, la luce del sole aveva assunto una tonalità decisamente più calda. Sbattendo più volte gli occhi per liberarli dall’appannamento dovuto al sonno, Lidia si trovò a fissare il volto di Donna Edda, l’anziana nonna di suo marito. «Grüezi» proclamò la vecchia, con voce raspante, avvicinandosi a lei con un passo un po’ traballante. Lidia la guardò con una punta di sospetto: anche se di fatto non era molto più alta di lei, c’era un qualcosa di arcigno e imponente in quella donna che vestiva completamente di nero e si aggirava nella stanza come se ne fosse la padrona.

Quando la giovane romana non reagì al suo saluto, la donna la osservò con gli stessi occhi di ghiaccio che aveva lasciato in eredità a due dei suoi tre nipoti e poi, barcollando leggermente, si avvicinò al letto, posandovi sopra degli abiti accuratamente piegati. «Mettili» disse, indicando i vestiti.

Almeno sa il latino, pensò la fanciulla, soppesando con lo sguardo il fagottino di abiti dai colori cupi. Non osando disobbedire a quella donna dal modo di fare così perentorio, Lidia scivolò fuori dal letto e mosse qualche passo in direzione dei vestiti che le erano stati indicati, prima di avvedersi del proprio errore. Quando era andata a dormire, la sera prima, si era liberata della veste rovinata, ma non della biancheria intima – cosa piuttosto insolita, se si considerava che, in teoria, quella appena trascorsa avrebbe dovuto essere la sua prima notte di nozze. Donna Edda scrutò con sospetto il suo abbigliamento, poi passò accuratamente in rassegna i lividi e le escoriazioni che costellavano il corpo della ragazza.

Merda, pensò Lidia, provando per una frazione di secondo il comico impulso di coprirsi. È inutile, realizzò, con una fitta di preoccupazione. Ormai il guaio è fatto.

Con una voragine all’altezza dello stomaco, la fanciulla cercò gli occhi della germanica e, per quella che le parve un’eternità, la vecchia sostenne il suo sguardo. «Dä Trottel» borbottò poi, scuotendo il capo. Anche se Lidia non riuscì a decifrare quelle parole, il tono era piuttosto inequivocabile. Dopo qualche istante di immobilità, Lidia iniziò a sentirsi stupida e così si infilò di tutta fretta la veste che Donna Edda le aveva portato, notando con un certo stupore che era più corta di quelle che era solita portare e che era corredata da un grembiule.

Non va bene, notò Lidia, con il cuore in gola. La veste le copriva a malapena le ginocchia e i lividi che segnavano la sua pelle erano perfettamente visibili. Donna Edda dovette giungere alla stessa conclusione perché, inaspettatamente, alzò una mano nella direzione della ragazza. «Resta» le disse, prima di infilare la porta e sparire.

E adesso dov’è andata? Non a chiamare qualcuno, spero! Pensò nervosamente la giovane, mordendosi un labbro.

L’inquietudine non fece in tempo ad assalirla che, dopo pochi minuti, Donna Edda tornò nella stanza, reggendo tra le mani un paio di spesse calze grigie. «Per te» le disse, porgendogliele. Leggermente esitante, ma comunque grata per la possibilità di celare quei segni rivelatori, la fanciulla si infilò gli spessi calzettoni di lana, storcendo la bocca quando il tessuto ruvido le fece pizzicare ferocemente la pelle delicata delle gambe. Quando fu completamente vestita, Lidia notò con una certa sorpresa di assomigliare a una versione più giovane – e solo leggermente più variopinta – della vecchia Edda: l’anziana donna la squadrò con attenzione, prima di fare un breve cenno d’assenso, soddisfatta.

In quel mentre, qualcuno bussò alla porta e irruppe nella stanza prima che le due donne facessero in tempo a dargli il permesso. «Disturbo?» chiese Hermann, chiudendosi la porta alle spalle. Lidia restò a fissarlo, stupita, mentre Donna Edda si riprese rapidamente dalla sorpresa e gli riversò contro un fiume di parole di cui la giovane romana non comprese assolutamente nulla. Il ragazzo sollevò le mani, come per difendersi dall’aggressione verbale della nonna, che infine puntò un dito contro Lidia e fissò il nipote con tutta l’aria di qualcuno che si aspetta una risposta.

La risposta – che anche la ragazza capì essere malamente abbozzata – di Hermann non dovette piacerle più di tanto, però, perché l’anziana donna lo afferrò per la camicia e gli scandì in faccia qualcosa che lo fece annuire freneticamente. Lidia non fece in tempo a stupirsi dell’insospettabile forza della vecchietta, che quella lasciò la presa e infilò la porta.

«Uff» sbuffò Hermann, lasciandosi ricadere sulla sedia su cui era ancora riposta la veste che Lidia aveva indossato il giorno prima. «Quella donna è un mastino, quando ci si mette!»

La ragazza lo guardò di sottecchi. «Cos’ha detto?»

Lui sorrise, vagamente imbarazzato. «Si chiedeva quali attività ti avessero lasciato con ancora le mutande addosso e una serie di strane ferite su braccia e gambe. Ha detto che più che una novella sposa sembri un monello di sette anni che è andato a costruire capanne tra i rovi…»

Lidia deglutì, abbassando gli occhi; e il ragazzo ridacchiò. «A proposito, cosa cavolo hai fatto in faccia?»

La giovane si tastò con delicatezza il mento, poi sollevò le spalle. «Non lo so» rispose. «Non mi sono ancora vista.»

«No?» sghignazzò Hermann. «Ecco qui!» Così dicendo, estrasse uno specchietto dal cassetto dello scrittoio e lo lanciò a Lidia. Prendendolo al volo, la ragazza vi si specchiò. «Oh, cavolo…» mormorò, inclinando leggermente il capo per vedere meglio l’entità del danno.

«Una bella botta, eh?» commentò il ragazzo. Lei annuì. «Devo essermela fatta quando ho sbattuto la faccia contro il ramo» rifletté, posando lo specchio sul letto.

Hermann scosse il capo, con un sorriso un po’ triste. «Adesso capisco perché la nostra sacerdotessa se ne va in giro a insultare Ulf…» sospirò, storcendo la bocca.

Lidia si portò le mani al volto, sospirando, abbattuta. «Mi dispiace» mormorò. «Non volevo fare tutto ‘sto casino. Pensavo di essere riuscita a dissuaderla, ma, a quanto pare, mi sbagliavo.»

«Devi esserle particolarmente simpatica» sospirò Hermann, alzando gli occhi al cielo. «In effetti, sembra essersi presa particolarmente a cuore tutta questa faccenda… ti lascio immaginare l’umore di mio fratello. Tra l’altro: lo sai che Ulf ha litigato con Unna?»

Lidia si voltò verso di lui, guardandolo con un sopracciglio sollevato: la notizia la lasciava completamente indifferente. «E allora? Se lei non mi avesse detto quelle cose…»

Il ragazzo la interruppe. «No, Ulf ha litigato con Unna» scandì. «Loro due non litigano mai. Saranno passati almeno quindici anni dall’ultima volta che si sono urlati contro.»

«Stai dicendo che hanno litigato per causa mia?» chiese la fanciulla, beffarda. «Dovrei per caso sentirmi onorata?»

Hermann sbuffò. «No, sto solo dicendo che potresti almeno cercare di apprezzare un po’ di più mio fratello. Non so perché, ma ho come l’impressione che tu lo odi: non se lo merita, credimi.»

«Apprezzarlo, dici?» lo provocò Lidia, più sprezzante di quanto avrebbe voluto. «Apprezzarlo sarà davvero difficile, data la situazione in cui mi trovo. Però non lo odio» ammise, dopo una breve pausa. «Non mi piace, mi è antipatico e, se qualcuno mi offrisse un modo per tornarmene a casa mia, senza di lui, lo accetterei al volo… però, forse, è possibile che io l’abbia giudicato un po’ male. Se potessi tornare indietro, non scapperei più, credo.»

Il ragazzo la guardò come se non si fosse aspettato quell’ammissione. «Be’, è già qualcosa. Vuoi dire che potreste almeno cercare amici?»

«Vuol dire che cercherò di vivere civilmente con lui e di dargli un po’ più di fiducia» si affrettò a correggerlo lei. «Nei limiti del possibile, si intende.»

Il viso di Hermann si accigliò. «Non potresti sforzarti un po’ di più?»

Lidia ricambiò lo sguardo con la stessa intensità. «Mi sto già sforzando abbastanza, credimi» ribatté, dura. «Del resto vorrei vedere te. Presto potrebbe capitare anche a te di dover sposare una donna che non ami e non conosci.»

«Oh, c’è tempo» la informò allegramente il ragazzo, ritrovando un tono più leggero. «Sono ancora troppo giovane per sposarmi, io!»

Lei lo soppesò con un’occhiata critica. «Perché, quanti anni hai?» Era già più alto di lei, aveva le spalle squadrate e il corpo agile di un uomo nel pieno delle forze: anche se era chiaro che era più giovane di Ulf, non poteva essere poi così giovane da ritenersi al sicuro da un matrimonio forzato.

«Quindici» replicò prontamente Hermann, alzando le spalle.

Lidia non riuscì a nascondere la sua sorpresa e il ragazzo scoppiò a ridere. «Perché, me ne davi di più?»

«Sì» ammise lei, sbattendo più volte gli occhi, stupita. Improvvisamente si sentì un po’ stupida per essersi quasi invaghita di un ragazzo tanto più giovane di lei. Quindici anni, si disse, scuotendo la testa, non sono proprio brava a giudicare l’età degli uomini.

«È che noi germanici siamo uomini veri!» si pavoneggiò il giovane, ignaro dei suoi pensieri. «Non come i vostri ragazzini giù a Sud.»

La ragazza sbuffò, divertita. «Oh, non preoccuparti», lo prese in giro, senza riuscire a nascondere un sorriso, «ho solo preso un abbaglio. Adesso che ti sento parlare, vedo chiaramente che sei praticamente un bambino

Hermann avvampò, punto nell’orgoglio. «Ehi!» si lamentò. «Non sono un bambino!»

Lidia fece schioccare la lingua, ironica. «Se lo dici tu…»

Il ragazzo la osservò, inclinando la testa di lato. «Comunque sono contento di vedere che il tuo umore è migliore del previsto» disse, con un sorriso. «Viste le premesse, quasi mi aspettavo di trovarti in lacrime, magari sotto shock.»

Bastò quella considerazione a privare Lidia del buon umore che la conversazione con Hermann le aveva procurato. «Già» mormorò, atona. «In realtà mi sto sforzando di concentrarmi sul presente, ma non è facile… e il non sapere quello che mi aspetterà quando i miei genitori faranno ritorno a Roma non fa che peggiorare la situazione.»

«Non preoccuparti» la rassicurò Hermann. «So che probabilmente non ti sarà di grande aiuto sentirtelo dire, ma vedrai che andrà tutto bene: basterà fare un passo alla volta e non preoccuparsi troppo del futuro.» Lidia gli offrì un debole sorriso di circostanza e il ragazzo si portò una mano alla fronte, come se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa di importante. «Ah, che scemo, che sono! Mi stavo dimenticando di dirti che è ora di scendere di sotto. Il pranzo è quasi pronto e devi presenziare.»

Lidia deglutì, improvvisamente a disagio. «Niente colazione?» chiese.

«No, oggi no» spiegò Hermann. «Ormai è quasi mezzogiorno.» Sorpresa, Lidia guardò fuori dalla finestra, rendendosi conto con stupore che il sole era effettivamente alto nel cielo. Il tempo è volato, pensò. «Qui serve un orologio» borbottò. Aveva dormito praticamente tutta la mattina: non era il modo migliore per affacciarsi alla sua nuova vita.

Hermann scosse la testa, deciso. «È di pessimo gusto mettere un orologio in camera da letto» la informò, con il tono di chi esprime una banalità. Lei lo fissò, senza capire: non ci vedeva niente di sbagliato nel desiderio di avere sempre sotto controllo lo scorrere del tempo. «E come si fa a sapere quand’è ora di alzarsi, senza sveglie?» obbiettò.

«Mai sentito parlare del canto del gallo?» la punzecchiò il germanico. All’alba, pensò desolata Lidia, che odiava alzarsi la mattina presto. Un’altra abitudine che dovrò cambiare, immagino.

«Dài, forza!» la spronò Hermann, balzando in piedi e porgendole una mano. «Non è educato far aspettare i propri ospiti.»

***

La sala da pranzo era, fortunatamente, poco affollata. Quando Lidia fece il suo ingresso, le uniche persone presenti erano la vecchia Edda, che si affaccendava attorno ai fornelli, e Ulf, seduto al tavolo.

«Oggi siediti» le disse l’anziana germanica, indicandole il tavolo con un attrezzo da cucina di cui Lidia non conosceva il nome. È una spatola? La ragazza si lasciò scivolare sulla panca accanto a Ulf, chiedendosi se in quel posto avessero qualcosa contro le sedie tradizionali e osservando con la coda dell’occhio suo marito. Quando si era seduta al suo fianco, l’uomo le aveva dato un’occhiata distratta, ma improvvisamente si girò verso di lei per osservarla meglio. Nei suoi occhi Lidia lesse chiaramente una domanda e Ulf aprì e chiuse la bocca un paio di volte, alzando la mano come per sfiorarle il viso. Poi le lanciò un’occhiata storta.

Lidia abbozzò un sorrisetto di scuse e istintivamente si coprì il livido con una mano, mentre Donna Edda li osservava con aria critica. Ulf passò più volte lo sguardo tra le due donne e forse avrebbe detto qualcosa, se sua nonna non l’avesse preceduto. Ancora una volta, la ragazza non comprese il significato di quelle parole e fu quasi sul punto di chiedere a Edda di usare una lingua che anche lei potesse capire, ma la situazione le pareva già abbastanza delicata così com’era.

La vecchia sa, si disse, con una smorfia. Su questo non ci sono dubbi. Poteva essere in là con l’età e avere dei problemi a muoversi, ma la fanciulla sospettava che la mente della germanica fosse ancora perfettamente funzionante. Quando la donna abbandonò momentaneamente la stanza per andare a prendere qualcosa, Ulf non perse tempo. «Come fa a sapere che non abbiamo…» chiese, chinandosi su Lidia e lasciando sfumare la frase.

La ragazza arrossì appena alla domanda, ma non c’era tempo per l’imbarazzo. «Non ho potuto evitarlo» si giustificò. «Mi ha fatto alzare e ha visto che ero vestita e che ero piena di lividi e di graffi... avrà fatto due più due, immagino.»

«Perfetto» ringhiò Ulf, abbassando lo sguardo sul tavolo.

«Credi che lo dirà in giro?» chiese con un filo di voce la ragazza. Lui scosse il capo. «Non credo, no» mormorò. La sua espressione non piacque a Lidia: malgrado le sue parole, l’uomo non pareva del tutto sicuro di ciò che aveva detto. «Non penso che mi metterebbe nei guai solo per il gusto di farlo» continuò il germanico. «Però devi stare più attenta, da adesso in poi.»

Lidia annuì. «Se tengo tutto coperto, nessuno vedrà niente» ragionò, credendo di chiudere così il discorso. L’uomo però continuò a fissarla. «Che c’è?» sussurrò lei, cercando di sostenere il suo sguardo di ghiaccio. «Grazie per questo» sibilò lui, di rimando, puntandole un dito sul mento. Lidia non trattenne un sibilo di dolore. «Non ho fatto apposta!» si lamentò, lanciandogli un’occhiata velenosa.

«Pensano tutti che ti abbia picchiata!»

Nell’udire quelle parole, Lidia provò una strana sensazione allo stomaco. «Tutti chi?» chiese. «Tutti quelli a cui quella stronza di una sacerdotessa è andata a dirlo.» La ragazza lo fissò, soppesando le sue parole. «Perché la odi così tanto?» indagò, trovando finalmente il coraggio per risolvere quel dubbio che la tormentava ormai da qualche giorno. Ulf scosse il capo, serrando con forza la bocca.

Non vuole rispondere, comprese Lidia. Quella scoperta solleticò ancora di più la sua curiosità e diede nuova linfa ai suoi sospetti circa l’esistenza di un’altra donna, tuttavia il ritorno di Donna Edda le impedì ancora una volta di approfondire la questione. Con una punta di sgomento, la ragazza si accorse che la vecchia non era sola: c’erano i suoi genitori, con lei, e anche il padre di Ulf. Dopo qualche istante comparve anche Hermann, che le rivolse un sorriso di incoraggiamento. Manca solo la strega, notò Lidia, con una punta di nervosismo.

«Padre, madre!» li accolse Lidia, alzandosi in piedi com’era solita fare. «E… ehm… signore?» Non aveva idea di quale fosse il titolo esatto con il quale rivolgersi a suo suocero, un dubbio che avrebbe dovuto risolvere in fretta.

«Lidia!» esclamò Donna Giulia, precipitandosi al suo fianco e abbracciandola sopra al tavolo. «Oh, Dèi, che cosa ti è successo?» le chiese, l’angoscia evidente nella sua voce.

E adesso come me la cavo? Si chiese nervosamente Lidia, alzando lo sguardo su Ulf, in cerca di aiuto. L’uomo stava però valutando la reazione di suo padre e non gliene fornì alcuno. La fanciulla spostò allora lo sguardo sul Senatore Prisco e vide che stava guardando Ulf con un’espressione che non gli aveva mai visto in viso. Merda, merda, merda… non era fine, ma era l’unico – inutile – pensiero che la ragazza riuscì a formulare in quella situazione tanto delicata.

«No, madre» disse, cercando di riscuotersi e afferrando le mani di sua madre, che stavano toccandole convulsamente il viso. «Non è niente.» Si trattava di una spiegazione troppo scarna per rassicurare Donna Giulia. «Come sarebbe a dire che non è niente!» ribatté la matrona, con la voce leggermente tremante. «Guarda qui!»

Ma porca vacca! Si disperò Lidia. Possibile che siano tutti così cretini da non rendersi conto che è un’abrasione, non una botta? Non che potesse andare a raccontare ai quattro venti quello che era successo, ma era piuttosto assurdo che la vecchia Edda fosse stata l’unica a indovinare la verità. Stringendo più forte le mani di sua madre, Lidia cercò i suoi occhi. «Mamma!» sibilò, abbassando la voce e usando un termine meno formale. «Non è niente. Davvero!»

Donna Giulia smise un attimo di percorrerle il volto con le mani, prima di sfiorarle il livido sul mento. «Ma…» mormorò, confusa. Lidia scosse il capo, guardando sua madre negli occhi. «Fidati» sussurrò, cercando di non farsi sentire da suo padre e, soprattutto, dal suocero. «Non ti devi preoccupare. È tutto a postoO quasi, aggiunse mentalmente, ma non era il caso di far preoccupare ulteriormente sua madre.

Donna Giulia spostò allora lo sguardo su Ulf, che chiuse per un secondo gli occhi e scosse appena il capo, con aria stanca. La donna si rialzò dalla sua posizione semi distesa e, con lo sguardo di qualcuno che non capisce qualcosa di importante, retrocedette verso suo marito. L’uomo fece per partire a sua volta all’attacco, ma lei lo bloccò dolcemente, posandogli una mano sul braccio. Il Senatore si voltò con uno sguardo feroce verso la donna, ma Giulia scosse appena il capo. Allora, l’uomo fece passare lo sguardo tra Ulf e Lidia, improvvisamente sospettoso.

«Per favore» disse silenziosamente Lidia, sperando che suo padre cogliesse la sua preghiera e lasciasse cadere l’argomento. Il Senatore si accigliò e si ritrasse, lanciandole uno sguardo che alla ragazza parve quasi arrabbiato. Che gran novità, considerò la ragazza, amaramente.

Quando stava iniziando a pensare che la situazione fosse stata tamponata in modo relativamente soddisfacente, la voce secca di Gefrid la fece voltare di scatto verso il germanico, che fino a quel momento era rimasto in silenzio. Parlò nel suo dialetto natio, per cui, ancora una volta, Lidia fu esclusa dalla conversazione, ma quello che disse fece sussultare Hermann e stringere rabbiosamente i denti a Ulf, mentre Donna Edda puntava il suo sguardo freddo sull’uomo più anziano, senza però dire nulla.

La voce di Gefrid si fece più dura, mentre faceva un passo verso Ulf, che chinò il capo e non replicò. In tutto quel discorso, Lidia credette di cogliere soltanto il nome di Unna, ma non occorreva parlare quella lingua o essere un genio per capire che lo stava rimproverando; e anche in modo piuttosto deciso.

Quando ebbe finito il suo discorsetto, l’uomo imbracciò due stampelle e si avviò fuori dalla porta, seguito a ruota da Hermann, che durante il discorso del padre si era torto nervosamente le mani per tutto il tempo. Quando i due scomparvero dalla loro vista, Donna Giulia e il Senatore si scambiarono uno sguardo, evidentemente indecisi sul da farsi. Dopo un attimo di indecisione, l’uomo fece un cenno a sua moglie e, rivolgendo un’ultima occhiata alla figlia, anche i due romani lasciarono la stanza. Lidia li udì parlottare in corridoio, ma le loro voci erano troppo basse affinché lei potesse afferrarne le parole.

Forse hanno deciso che lasciarmi qui non è una buona idea? La ragazza tremò, in preda a sentimenti contrastanti. Se da un lato desiderava disperatamente lasciare quel villaggio freddo e umido e tornarsene a casa sua, dall’altro sentiva che non era quello il modo in cui avrebbe voluto andarsene. Certo, tornare a Roma con il consenso dei suoi genitori sarebbe stato infinitamente più semplice, invece di scappare via di nascosto mettendo in pericolo se stessa e Tito, ma Lidia non poteva fare a meno di pensare di avere involontariamente fatto un torto a Ulf e, sebbene avrebbe voluto restare indifferente alla cosa, non poté fare a meno di sentirsi terribilmente in colpa nei confronti di suo marito.

Chissà cosa gli ha detto? Si chiese, ripensando all’espressione dura del suocero e a quella indecifrabile di Ulf. In qualche modo, sospettava che non si trattasse di una normale ramanzina, che tutto sommato non avrebbe dovuto toccare più di tanto una persona con la coscienza pulita. No, dev’esserci sotto dell’altro. Non appena ebbe formulato quel pensiero, Lidia sentì qualcosa stringerle fastidiosamente lo stomaco: anche se non era affatto sicura di volere veramente approfondire quella faccenda, si sentiva quasi in dovere di farlo. Esitando appena, la giovane si voltò verso l’uomo, decisa a indagare, ma la sua espressione la fece rapidamente desistere. Ulf fissava ancora il tavolo, lo sguardo immobile e la mascella contratta, i pugni talmente stretti che le nocche gli stavano diventando bianche.

Il braccio di Lidia si mosse da solo e, quasi inconsapevolmente, la ragazza appoggiò la propria mano su quella rigida di Ulf. Sorpreso da quel contatto, l’uomo spostò lo sguardo su di lei e Lidia strinse un po’ la presa, prima di offrirgli un sorriso triste. «Scusa» mormorò, sincera. Lui non rispose e tornò a fissare la superficie del tavolo, ma poco alla volta la sua mano si rilassò e qualche secondo dopo sfiorò con il pollice la punta delle dita della ragazza. Sentendo quella specie di carezza lieve, Lidia si rilassò. Non si era nemmeno accorta di essersi irrigidita, ma era come se, sfiorandola, Ulf avesse accettato le sue scuse; e tanto bastò per farla sentire più leggera.

Una volta messe in chiaro le cose, Lidia si sarebbe aspettata che Ulf ritraesse la mano, ma l’uomo non sembrava intenzionato a farlo e lei, in preda a un capriccio che la spinse a non cedere per prima, prese a giocherellare distrattamente con le sue dita, mentre la sua mente tornava rapidamente ai dilemmi di poco prima.

Cosa succederà adesso? Dovrò tornare a casa? Potrò tornare a casa? Oppure resterò comunque qui? Non so se loro possono decidere qualcosa o… Persa nei suoi pensieri, senza nemmeno rendersene conto, Lidia prese a picchiettare con l’indice contro le nocche dell’uomo, che a un certo punto allargò le dita e poi le richiuse di scatto attorno a quelle della ragazza. Sentendosi bloccare, Lidia alzò lo sguardo e incrociò quello di Ulf, che guardandola negli occhi con un sorrisetto storto strinse la presa sulle sue dita.

Beh? Con una smorfia di disappunto, la ragazza strappò la propria mano da quella dell’uomo, rivolgendogli uno sguardo offeso che lo fece sorridere più apertamente. Non sapendo come interpretare la mossa del germanico – stava forse giocando con lei? – ma sentendosi comunque vagamente presa in giro, Lidia sbuffò rumorosamente e piazzò platealmente le mani giunte davanti a sé, sul tavolo, come a sfidare il giovane a toccarla di nuovo.

«Chende…»

La ruvida voce di Donna Edda la fece sobbalzare, mentre Ulf sospirava divertito e si lasciava ricadere contro lo schienale della panca. Lidia alzò lo sguardo sull’anziana donna e vide che li guardava scuotendo il capo: l’espressione era accigliata, ma alla ragazza parve di leggere nei suoi occhi chiari una sorta di affettuoso divertimento che la spinse a sorriderle.

La vecchia Edda era burbera e anziana, ma, pensò Lidia, averla come amica non le sarebbe dispiaciuto poi tanto.

***

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Capitolo 14
*** 13. Offerte ***


I giorni successivi passarono in modo relativamente tranquillo, per Lidia. Anche se entrambi si rifiutavano di ammetterlo, la fanciulla era convinta che Ulf fosse corso a spifferare a Donna Edda della sua scarsa performance culinaria, perché l’anziana donna si era stabilita da loro quasi in pianta stabile, tornandosene a casa solo una volta che la cena era stata servita.

Contrariamente alle sue aspettative, nelle due settimane successive alla partenza dei suoi genitori la ragazza non ebbe molte occasioni di passare del tempo con suo marito: il giovane, infatti, non aveva minimamente modificato la sua routine quotidiana e così usciva di casa la mattina presto, facendovi ritorno solo quando era ormai ora di cena. Lidia non sapeva bene cosa pensarne, di quel fatto: se da un lato la presenza di Ulf non aveva smesso di innervosirla e irritarla, dall’altro la ragazza non poteva negare di provare una certa curiosità nei suoi confronti.

Nonostante i pochi contatti avuti con il marito, però, Lidia non ebbe il tempo per sentirsi sola, perché Donna Edda la tenne ben impegnata in mille incombenze domestiche.

Un giorno, quando il sole aveva appena fatto capolino dalle creste nere, l’anziana germanica l’aveva trascinata fuori di casa e l’aveva portata davanti a un grande lavatoio di pietra, piazzandole in mano una tinozza piena di panni sporchi. La donna le aveva mostrato come immergerli nell’acqua gelida, strofinandoli poi sulla ruvida tavola di legno che correva tutt’intorno ai bordi della vasca inferiore, e sciacquandoli infine nella limpida vasca superiore. Lidia aveva sempre amato l’acqua e, in un primo momento, l’incombenza non le era sembrata troppo pesante, ma, dopo un’ora con le mani tenute in ammollo, la ragazza aveva completamente perso la sensibilità nelle dita. Mentre lei era al lavoro, Donna Edda le era rimasta costantemente accanto, osservandola con la stessa acuta attenzione con cui un maestro osserva un alunno indisciplinato. Di tanto in tanto, scambiava qualche parola con le comari di passaggio, additandola al pari di una bestiola rara e affascinante. Sotto a quell’esame scrupoloso e sfacciato, Lidia si era sentita terribilmente a disagio, almeno fino a quando una bambina decisamente goffa – aveva lasciato cadere il sapone sul fondo della vasca per ben tre volte – era arrivata e aveva catturato l’attenzione del gruppetto di spettatrici.

Un altro giorno, Donna Edda l’aveva portata in una grande stalla in cui erano radunate almeno una cinquantina di capre e, dopo averla presentata ai due ragazzetti che gironzolavano nei paraggi, le aveva mostrato come mungere le bestie: impresa tutt’altro che semplice, dal momento che gli animali scalpitavano sotto alle sue mani inesperte e, in alcuni casi, avevano addirittura deciso di utilizzare come gabinetto il secchio destinato a contenere il latte. Quando Lidia era riemersa dalla stalla, respirando a fondo per riaversi dall’odore pungente al quale non era abituata, Donna Edda non le aveva dato tregua e l’aveva fatta entrare nell’edificio nel quale erano ricoverate le mucche, che a Lidia parvero gigantesche e pericolose, con le loro corna acuminate e le loro zampe possenti. Nemmeno la vista dei vitelli appena nati, con i loro occhi enormi e pieni di meraviglia, era stata sufficiente a rinfrancare la fanciulla, che si era categoricamente rifiutata di avvicinarsi alle vacche. L’espressione di disappunto con la quale Donna Edda aveva accolto quella presa di posizione aveva fatto capire a Lidia che l’anziana germanica era abituata a essere obbedita in tutto e per tutto. «Domani ancora» le aveva infatti detto, minacciosa, decisa a far superare a Lidia quella che considerava una paura sciocca.

Le cose da fare non mancavano nemmeno in casa e in giardino, naturalmente: la ragazza si era spezzata le unghie strappando le erbacce dall’orto, si era punta i polpastrelli rammendando gli abiti, si era distrutta le braccia nel vano tentativo di pulire i vetri dell’intera casa e aveva passato un’intera giornata spazzando il pollaio sotto allo sguardo scettico dei polli che vi risiedevano. L’attività che, in assoluto, dava più grattacapi a Lidia, rimaneva però la cucina.  «Non è normale» aveva decretato Donna Edda di fronte all’ennesima pentola di verdure bruciate. Lidia si era chiesta se la donna volesse dire che non era normale che le verdure bruciassero così rapidamente, o che fosse lei, Lidia, a non essere normale… qualcosa le faceva presagire che la seconda ipotesi fosse la più corretta.

Anche se le giornate passate in compagnia dell’indomita vecchina erano assolutamente spossanti – talmente spossanti che, arrivata a sera, Lidia non sognava altro che infilarsi sotto le coperte e dormire – esse avevano comunque un risvolto positivo: non le lasciavano alcun tempo di pensare a ciò che aveva lasciato a Roma. Ogni volta che il pensiero dei suoi genitori o di Tito si insinuava nella sua mente, infatti, la fanciulla si distraeva quel tanto che bastava per commettere un errore che l’avrebbe costretta a ricominciare da capo, raddoppiando così il suo carico di lavoro.

Ciononostante, c’era comunque un pensiero che si affacciava alla sua mente con una certa frequenza: Lucilla. Chissà come se la cava lei, pensava la fanciulla, rincorrendo le galline o muovendosi con circospezione alle spalle delle mucche. Per qualche motivo, era convinta che la vita coniugale di Lucilla fosse ben diversa della sua. Ovviamente: lei è sempre stata più brava di me, in queste cose. Anche se era perfettamente soddisfatta di come andavano le cose tra lei e Ulf, la ragazza non poteva fare a meno di sentirsi sconfitta, nell’immaginario confronto con l’amica. A differenza di Lidia, lei non era mai stata promessa ad alcun giovane e questo le aveva permesso di flirtare con un buon numero di ragazzi e di diventare molto più esperta dell’amica, nel campo della seduzione. Accanto a lei, Lidia si era sempre sentita un po’ una bambina e sapere che nemmeno trasferirsi in un altro paese era servito per cancellare quella sensazione di inferiorità era un po’ deprimente.

Ma non importa, pensava la ragazza, riscuotendosi. Non era con Ulf, che doveva dimostrarsi pari a Lucilla: quando sarebbe fuggita con Tito e avrebbe finalmente preso in mano la sua vita, si sarebbe pienamente riscattata per tutti gli anni trascorsi all’ombra dell’amica.

***

Erding - Germanica Inferiore, 342 a.U.c., 20  Maggio

Quando, quella mattina, Donna Edda non fece la sua comparsa, Lidia quasi si preoccupò. Che le sia successo qualcosa? Si chiese, prima di ricordare vagamente quello che Ulf le aveva detto a cena, la sera prima. Oggi è il giorno in cui fanno la cerimonia delle offerte agli Dèi, rammentò la ragazza, accigliandosi.

Suo marito le aveva spiegato che anche lei era tenuta a prendervi parte, ma non aveva detto nulla che giustificasse l’assenza della vecchia Edda. Riflettendo per qualche istante, Lidia ricordò poi che gli anziani del villaggio erano tenuti a presenziare all’intera cerimonia; e non solo alla parte pubblica alla quale erano invitati anche gli altri abitanti. Questo significa che dovrò andarci da sola? Si chiese nervosamente la fanciulla. Quella mattina, Ulf si era recato in bottega come suo solito, senza specificare a che ora si sarebbe tenuta la cerimonia. Mi ha detto che sarà di pomeriggio, ma il pomeriggio è lungo…

Per tutta la mattina, Lidia cercò di occuparsi al meglio della casa e degli animali da cortile, ma la sua mente era altrove, le orecchie tese alla ricerca di un qualche rumore che le indicasse che la cerimonia stava per iniziare. Spesso si recava all’imbocco della strada che portava a casa sua, cercando di scorgere qualche movimento sospetto, ma la gente andava e veniva come al solito, impegnata nei compiti quotidiani, e sembrava che non ci fosse nulla di diverso dagli altri giorni.

Appena dopo l’ora di pranzo, il chiocciare sommesso delle galline la allertò della presenza di un ospite. Lidia, che stava sciacquando il piatto nel quale aveva mangiato, si asciugò in fretta le mani e uscì nell’aia, sbiancando quando si trovò di fronte Unna.

«Sei ancora così?» le chiese la donna, senza nemmeno salutarla. «Va’ a metterti qualcosa di pulito, la cerimonia inizia tra mezz’ora.»

La ragazza si passò addosso le mani, in preda all’agitazione. «Sì, non mi sono preparata perché Ulf non mi ha detto a che ora …»

«Muoviti!» la esortò secca Unna. «Non voglio arrivare in ritardo per colpa tua!» Strega! Pensò Lidia a denti stretti, prima di girare sui tacchi e correre in casa. La ragazza si sbatté la porta alle spalle e si guardò bene dall’invitare la cognata a entrare, lasciandola invece ad aspettare sotto il sole. Quando ebbe indossato una veste che aveva portato con sé da Roma, Lidia scese di nuovo in cortile, decisa a non lasciarsi intimorire da Unna e dall’aperta ostilità che si ostinava a dimostrarle. E perché, poi? Si interrogò, innervosita. E, in ogni caso, se stare con me le pesa tanto, avrebbe tranquillamente potuto andare alla cerimonia da sola! Io mi sarei arrangiata! Si disse, dimentica dei pensieri di poco prima.

Quando Lidia la raggiunse, Unna sbuffò rumorosamente. «Finalmente!» sbottò, prima di lanciare uno sguardo scettico alla veste della giovane romana. Senza staccarle gli occhi di dosso, la germanica stirò le labbra in un sorriso beffardo, poi voltò le spalle alla cognata e si avviò lungo la strada, lasciando a Lidia il compito di seguirla. Mentre camminavano a passo spedito verso il bosco che Ulf le aveva mostrato qualche giorno prima, Lidia si rese conto che Unna continuava a lanciarle delle occhiate di soppiatto. Sulle prime cercò di ignorarla, ma dopo un po’ non riuscì a contenersi. «Cosa c’è?» sbottò, stupendosi del tono deciso della sua voce.

Unna si strinse appena nelle spalle e le rivolse di nuovo quel suo sorriso storto che a Lidia sembrava sempre un po’ derisorio. «E così sei saltata dalla finestra» le disse, in un tono che, se non fosse stato impossibile, la ragazza avrebbe creduto tradisse un minimo di ammirazione. «Più o meno» replicò, senza guardarla. «Mi sono anche fatta male. Per colpa tua, tra l’altro.»

«Oh, povera cara» ribatté sarcastica la germanica.

Lidia le lanciò un’occhiata carica di astio, ma dovette abbassare lo sguardo davanti agli occhi gelidi di Unna. «Perché mi hai detto quelle cose?» le chiese, quasi sussurrando.

La donna esitò per un breve momento. «Perché speravo che mio fratello avesse abbastanza cervello per fare le cose per bene e non correre rischi inutili» ringhiò, prima di aggiungere: «Non credevo fosse talmente idiota da fidarsi di una romana.»

Unna non ama molto i romani. Le parole di Ulf le tornarono in mente e, malgrado l’antipatia che provava per la cognata, Lidia fu attraversata da un brivido di curiosità. «Perché non ti piacciono i romani?»

Inaspettatamente, la germanica si voltò a fissarla con ferocia. «Chi te l’ha detto?» sibilò. Sbiancando, la fanciulla si rese conto di aver commesso un errore e, in affanno, cercò di rimediare. «Nessuno», balbettò, «è solo un’impressione che ho avuto…»

Unna storse le labbra e, per una frazione di secondo, nei suoi occhi passò un’ombra che la ragazza non riuscì a riconoscere. Poi la germanica arricciò le labbra in una smorfia e il suo sguardo si fece più duro. «Be’, in ogni caso non sono affari tuoi, quindi evita di impicciarti» le ordinò, con il tono di chi non intende discutere oltre di un certo argomento.

«Va bene» disse Lidia, allontanandosi leggermente da lei e sollevando una mano, sconfitta. Anche se la ragazza aveva deciso di non sfidare ulteriormente Unna e di lasciare cadere la questione, la reazione della germanica l’aveva turbata. Pur mantenendosi a una distanza di sicurezza da lei, Lidia la osservò di soppiatto, chiedendosi, non senza un certo turbamento, se in passato fosse accaduto qualcosa che avesse spinto la giovane donna a odiare così tanto il suo popolo. Anche se cercò di non pensarci, alla sua mente si affacciarono delle nozioni che aveva sempre cercato di ignorare, voci che parlavano di quello che facevano a volte i legionari nelle terre in cui si trovavano a combattere, del modo in cui trattavano le donne… con un moto di orrore, Lidia accantonò quel pensiero.

No, doveva trattarsi di qualcos’altro. Anche se il passato del villaggio in cui viveva restava per lei piuttosto nebuloso, Lidia era ragionevolmente certa che, in quella regione, non si combattesse seriamente da molti anni – se si escludevano, naturalmente, le scaramucce che l’avevano condotta lì. Il Legato Libo le aveva assicurato che la situazione in paese era tutto sommato tranquilla, il che significava che nessuno poteva considerarsi al di sopra delle leggi locali, nemmeno i soldati di Roma. Del resto, se qualcuno avesse davvero fatto quello a Unna, Lidia dubitava che Gefrid sarebbe stato disposto ad accogliere una romana nella propria famiglia… e lo stesso discorso valeva anche per Ulf, naturalmente: se il legame che c’era tra lui e sua sorella era davvero così forte come sosteneva Hermann, il germanico non sarebbe certo stato così comprensivo nei confronti di Lidia, se la sua presenza gli avesse ricordato qualcosa di tanto orribile.

E allora di cosa si tratta?

Lidia dovette conservare quell’interrogativo per un’altra volta, perché erano ormai arrivate al bosco sacro. L’area era delimitata da una recinzione di filo spinato e i cancelli che permettevano di accedervi non erano ancora stati aperti. Al loro esterno era radunata una discreta folla e, leggermente in disparte, Lidia scorse Ulf, che, a giudicare dai capelli spettinati e la camicia spiegazzata, doveva essersi lavato e rivestito di tutta fretta. Quando l’ebbe individuato, Unna si diresse verso di lui e, posata rapidamente una mano tra le scapole di Lidia, la sospinse bruscamente nella direzione del fratello, rischiando di farla inciampare. «È tutta tua» gli disse, asciutta.

«Grazie» borbottò lui. La tensione tra i due era evidente e Lidia, che si era voltata per lanciare un’occhiata velenosa alla cognata, si immobilizzò, prendendosi qualche istante per analizzare la situazione. Unna però non aggiunse altro e, stringendosi brevemente nelle spalle, si allontanò da loro. Ulf emise un sibilo basso, lasciando che il fiato gli fischiasse tra i denti, poi si rivolse alla moglie. «Allora?» le chiese, abbassando lo sguardo su di lei. «Tutto a posto?»

Lei si strinse nelle spalle. «Immagino di sì», sospirò, «anche se ho provato a chiedere a tua sorella perché non le piace la mia gente. Non l’ha presa bene.» Ulf scosse il capo, abbassando gli occhi a terra, e per una frazione di secondo la fanciulla fu tentata di insistere per ottenere da lui le risposte alle sue domande, ma poi desistette. Sospettava infatti che l’argomento fosse delicato, qualcosa di cui, con ogni probabilità, non si poteva parlare sulla pubblica piazza, lì dove chiunque avrebbe potuto sentirli. Inoltre, la freddezza di Unna e la reticenza di Ulf le provocavano una sgradevole sensazione allo stomaco, come l’impressione di un’ombra, il presagio di un pericolo, e la ragazza non era del tutto convinta di volere veramente conoscere la verità.

Una manciata di minuti più tardi, i cancelli si aprirono e la gente radunata all’esterno iniziò a scorrere verso l’interno del bosco, con l’andatura lenta, ma inarrestabile, di un fiume placido. Gli abitanti di Erding non erano molti, ma il varco nella recinzione era stretto e per passare le persone erano costrette ad accalcarsi le une sulle altre. Senza una parola, Ulf cercò la mano di Lidia e la tenne stretta, impedendo alla giovane di venire risucchiata dalla folla e separata da lui.

La fanciulla si stupì della naturalezza di quel gesto e ripensò alla paura che non molto tempo prima l’aveva scossa al solo pensiero di sfiorarla, quella mano: forse, pensò con un sorriso, qualche progresso l’avevano fatto. Forse aveva ragione Hermann… forse, prima o poi, potremmo anche essere amici. Quel pensiero le fece provare una curiosa sensazione di calore all’altezza dello stomaco e, senza pensarci, la ragazza strinse ancora di più la mano dell’uomo.

Il bosco di faggi non era molto grande e dovettero camminare solo una decina di minuti per arrivare a una radura tra gli alberi. Malgrado lo spazio fosse piuttosto ampio, la gente si accalcava lungo i margini: Lidia, che era rimasta un po’ nelle retrovie, si alzò sulla punta dei piedi, nel vano tentativo di scorgere qualcosa. Sfiorandole le costole con un gomito per attirare la sua attenzione, Ulf la condusse verso un modesto rialzamento del terreno, allontanandola dalla calca, poi le passò un braccio attorno alla vita per aiutarla a restare in equilibrio sul terreno scosceso. «Ci vedi?» le chiese, chinandosi sul suo orecchio.

Lidia annuì distrattamente, l’attenzione tutta rivolta a quello che stava accadendo al centro della radura. Alcuni uomini stavano ultimando la costruzione di un piccolo edificio realizzato accatastando l’una sull’altra delle strane pietre verdognole. Incuriosita, la giovane ipotizzò che si trattasse del forno di cui le aveva parlato Ulf. «Che roccia è, quella?» chiese Lidia che, sebbene non fosse certo un’esperta di minerali, non aveva mai visto dei sassi di quel colore.

«Olivite» spiegò lui. «Viene estratta insieme all’argento, ma è fragile e non vale niente. Non possiamo usarla nemmeno per costruire un capanno per gli animali, è così friabile che si sgretolerebbe subito.»

La fanciulla annuì, tornando a osservare la scena. Lentamente, quasi al rallentatore, la folla dall’altra parte della radura si aprì e Donna Erin fece la sua comparsa, seguita da due carri trainati da alcune coppie di robusti cavalli da tiro. I carri erano colmi di quella che a prima vista parve a Lidia semplice roccia grigia ed erano accompagnati da quattro uomini che li fermarono di fronte alla fragile costruzione di pietra verde. Gli uomini manovrarono allora alcune leve e la parte posteriore del primo carro si inclinò e si aprì, scaricando il contenuto all’interno di una specie di recinzione adiacente al piccolo edificio, nel quale, a giudicare dalla legna che vi era stata ammucchiata, sarebbe stato acceso il fuoco. Gli uomini ripeterono l’operazione anche con il secondo carro, poi condussero via i cavalli, che, per quanto grandi e forti, parvero felici di essersi liberati dal loro pesante fardello.

Quando i carri si furono allontanati, Lidia alzò il capo verso Ulf. «E quello invece è…?» chiese, indicando con un dito il materiale che era stato appena depositato. «Argento» spiegò l’uomo. «Non puro, ovviamente.»

Nel frattempo, un gran numero di donne e bambini si stavano avvicinando al forno come in processione, aggiungendo il loro piccolo contributo al materiale che vi era appena stato collocato davanti: c’era chi offriva alcune pellicce, chi degli oggetti d’artigianato, chi dei monili e chi, semplicemente, del denaro. Quel particolare soprese Lidia: agli Dèi servono i soldi degli uomini? Si chiese, inarcando le sopracciglia. Sebbene si fosse ripromessa di affrontare quella faccenda con mente aperta e libera dai pregiudizi, quella scena le faceva pensare che, forse, lo scetticismo di suo marito non era del tutto immotivato.

Quando anche l’ultima offerta fu posata nel mucchio, Donna Erin, che fino a quel momento era rimasta un po’ in disparte, si portò davanti alla bocca del forno e alzò le braccia davanti a sé, facendo tacere il cicaleccio che aveva riempito l’aria fino a un istante prima. Fu allora che la vera cerimonia ebbe inizio e Lidia seguì con attenzione il discorso della Sacerdotessa, cercando di cogliervi qualcosa che giustificasse l’atteggiamento ostile di Ulf. Per quanto si sforzasse, però, nelle parole della donna non trovò nulla di sospetto: anche se, fino a quel momento, gli Dèi germanici erano stati degli sconosciuti, per lei, il modo in cui la Sacerdotessa li dipingeva glieli faceva sembrare piuttosto simili a quelli, più famigliari, venerati a Roma.

Erano ormai diverse decine di minuti che Donna Erin stava lodando l’opera dei suoi Dèi, esortando il popolo a essere grato e riconoscente per i doni che aveva ricevuto da loro, per la sapienza e la capacità di costruire tutte le cose belle e meravigliose che distinguevano l’essere umano dalla bestia. In tutto ciò, Lidia non ci vedeva nulla di strano: quello che faceva la donna, infatti, non era né più né meno di quello che facevano tutti i sacerdoti che aveva incontrato fino a quel momento. Se proprio avesse dovuto cercare una stranezza nell’atteggiamento di Donna Erin, questa sarebbe stata l’insistenza con cui ella tornava sulla punizione divina che sarebbe caduta su coloro che non avessero seguito le leggi celesti. Lidia trovò particolarmente fantasiose le descrizioni dei poteri degli Dèi: la potenza del tuono, la pioggia di fuoco, un vento talmente forte da distruggere le città… immagini ad effetto, indubbiamente, ma, ne era abbastanza certa, null’altro che licenze poetiche.

Non era, tra l’altro, la prima volta che la fanciulla sentiva cose del genere: ricordava quando, poco più che bambina, aveva ascoltato la predica di un vecchio sacerdote con un occhio solo, un esaltato che aveva predetto l’imminente fine del mondo e l’avvento del regno degli Inferi sulla terra. Le immagini forti, molto simili a quelle evocate da Donna Erin, l’avevano impressionata, ma il tempo aveva ridimensionato le sue paure e le aveva insegnato a non credere a tutto quello che usciva dalla bocca dei sacerdoti. Anche se molti di loro pensavano di essere nel giusto, erano anch’essi esseri umani, ognuno con la propria fissazione. Era stato lo stesso Senatore Prisco, per sua natura un uomo concreto e poco incline a credere a quello che non poteva toccare con mano, a esortarla a non prendere alla lettera l’insegnamento dei sacerdoti.

Quando Donna Erin finì di parlare, Lidia si sentiva piuttosto perplessa, dal momento che nulla, di ciò che aveva sentito, le pareva in grado di giustificare l’odio che suo marito nutriva nei confronti della Sacerdotessa e, forse, della religione in generale.

Nel silenzio che seguì il suo discorso, però, la ragazza avvertì l’avvisaglia di un mutamento: quasi senza rendersene conto, durante la cerimonia Lidia era scivolata con la schiena contro il petto di Ulf e l’uomo le aveva cinto la vita con un braccio. Quando Donna Erin si voltò verso il forno e fece un cenno in direzione dei due uomini che attendevano immobili ai lati della costruzione, Ulf si irrigidì e la presa attorno al corpo della giovane si fece più salda. Quando i due uomini accesero un paio di torce e si chinarono sulla legna raccolta all’interno del forno, la pressione del braccio del germanico sul suo stomaco si fece quasi fastidiosa e, stupita da quella reazione, Lidia alzò lo sguardo sull’uomo, in cerca di una spiegazione. Ulf però la ignorò, tenendo gli occhi fissi sulle fiamme che divamparono rapide, avvolgendo dapprima gli oggetti più piccoli e arrivando poi a lambire il grande mucchio di argento. Con un sibilo di dolore, la ragazza si dimenò e le sue mani volarono al braccio di Ulf, che subito allentò la presa, ma senza rilassarsi.

Che cosa gli prende? Si chiese, confusa. Poteva capire che gli dispiacesse vedere andare in fumo quelli oggetti – anche se la reazione le pareva comunque esagerata – ma non era forse quello che accadeva ogni volta che si sacrificava qualcosa agli Dèi?

Date le premesse, Lidia si aspettava che a quel passaggio ne seguisse un altro, magari più delicato e controverso, ma dopo qualche istante Donna Erin batté le mani e comunicò agli astanti, con un gran sorriso, che la cerimonia era finita e che erano liberi di tornare a casa. Delusa, Lidia tornò a voltarsi verso Ulf, rigirandosi nella sua presa fino a fronteggiarlo, ma lui stava ancora osservando la Sacerdotessa, che si era inginocchiata davanti le fiamme, con gli occhi chiusi e le mani compostamente posate sulle ginocchia.

«Ma è tutto qui?» gli chiese, sperando di attirare così la sua attenzione. Quando l’uomo non si riscosse, la fanciulla gli posò una mano sul petto. «Ulf!»

L’uomo abbassò gli occhi, come se non si aspettasse di trovarsela davanti, poi annuì. «Sì, è tutto qui. Andiamo» disse, secco, staccandosi da lei.

Lidia lo seguì brevemente con gli occhi, presa in contropiede da quell’atteggiamento così brusco, poi, prima di rendersene conto, si ritrovò a rincorrerlo e a infilare un braccio sotto il suo, aggrappandosi a lui. L’uomo le lanciò un’occhiata sorpresa, ma non commentò, continuando a camminare. «Che cosa ti prende?» gli chiese la ragazza, cercando di tenere il passo. «Dopo» disse lui, a bassa voce, senza rallentare.

Non ci misero molto a uscire dal bosco e, mentre facevano per avviarsi verso casa, la fanciulla sentì una voce chiamarla. «Donna Lidia!»

Voltando la testa in direzione di quel richiamo, la ragazza scorse il Legato Libo avvicinarsi a grandi passi. Non l’aveva più visto dal giorno del suo matrimonio e le venne istintivo sorridergli, lasciando il braccio di Ulf e raggiungendo il romano, a qualche metro di distanza. «Legato» lo salutò. «È un piacere rivederti.»

«Il piacere è mio, Donna Lidia.»

Nel sentirsi apostrofare in modo così rispettoso, la giovane sorrise di nuovo. «L’ultima volta che ci siamo visti mi chiamavi semplicemente Lidia» gli fece notare.

L’uomo annuì, ricambiando il sorriso. «È vero, ma ora sei una donna sposata, meriti più rispetto.» Quinto la guardò con attenzione, soffermandosi appena sull’ombra del livido che era ancora un po’ visibile sul suo volto. «Devo dire che ti trovo bene» disse, dopo qualche istante. «Ti stai abituando alla vita qui a Erding?»

La fanciulla chinò il capo, annuendo appena. «Non è Roma, ma sì, mi sto abituando a vivere qui. Poco alla volta, s’intende» disse, prima di aggiungere, alzando di nuovo lo sguardo sull’uomo: «A proposito, non ti ho mai ringraziato per la tua ospitalità e l’accoglienza che mi hai riservato.»

Il Legato si schernì. «Spero di averti aiutata a sentirti un po’ meno lontana da casa, Donna Lidia.»

Lei annuì. «Lo hai fatto» lo rassicurò. «Mi è di grande aiuto sapere di poter contare su di te… forse un giorno riuscirò a pensare a questo posto come a casa mia, se gli Dèi lo vorranno, ma sono e resterò sempre romana.»

Quinto annuì. «So cosa intendi» mormorò, con un sorriso un po’ triste. Poi si riscosse e i suoi occhi scuri si accesero di una luce curiosa. «A proposito di Dèi: cosa ne pensi della cerimonia pagana?»

La fanciulla si strinse nelle spalle. «Non mi è sembrata molto diversa da quelle romane, a dire il vero. Devo dire che mi aspettavo qualcosa di più… speciale.» Non appena ebbe pronunciato quelle parole, Lidia si morse le labbra, chiedendosi se avesse forse detto troppo, ma Libo non parve badarvi.

Rivolgendole un sorriso complice, il Legato ridacchiò. «La nostra Sacerdotessa è molto fervente, non trovi?» Lidia esalò lentamente, incerta se parlare all’uomo dell’antipatia che Ulf sembrava provare per la donna, ma la voce di suo marito la richiamò. «Lidia!»

Sorpresa dal tono secco dell’uomo, la ragazza si voltò, notando sul volto del germanico la stessa espressione irritata che sembrava indossare permanentemente durante i primi giorni in cui l’aveva conosciuto. Mi sa che oggi è di cattivo umore… pensò, aggrottando la fronte. Voltandosi di nuovo verso il romano, la fanciulla gli rivolse un sorriso di scusa. «Devo andare» mormorò. L’uomo alzò le mani, come per dire che non intendeva trattenerla, e dopo averlo salutato Lidia si affrettò a raggiungere Ulf, che subito riprese a camminare verso casa.

La ragazza avrebbe voluto parlargli per capire quale fosse il problema, ma se ormai si sentiva a proprio agio a discutere con l’uomo quando era di buon umore – o anche quando si prendeva gioco di lei – Lidia aveva ancora qualche remora ad affrontarlo quando era palesemente arrabbiato. Non so come prenderlo, dovette riconoscere con una smorfia, mentre in silenzio varcavano la porta di casa.  

Ulf si lasciò cadere sulla panca accanto al tavolo e, anche se era ancora presto, Lidia uscì a cogliere un cespo di lattuga e, riempito una bacinella d’acqua, iniziò a pulirlo. Se vuole iniziare un discorso, che lo faccia lui, pensò, senza alzare lo sguardo dalle foglie verdi. Sono stanca di rincorrerlo.

«Allora, come ti è sembrata la cerimonia?»

Oh, finalmente!

La fanciulla si strinse nelle spalle. «Noiosa» disse, fingendosi disinteressata alla questione. Ulf sbuffò, evidentemente poco soddisfatto dalla sua risposta stringata. «Non hai notato niente di strano?»

Posando l’insalata sul tavolo, la ragazza incontrò il suo sguardo. «No, sinceramente no.» L’uomo si sporse verso di lei, guardandola negli occhi. «Secondo te, perché gli Dèi richiedono quelle offerte?»

Lidia esitò, soppesando la risposta. «Non lo so» ammise. «Immagino che sia una cosa simbolica.»

Ulf storse la bocca. «Due carri carichi d’argento sono una cosa simbolica?» la provocò. Di nuovo, Lidia scrollò nuovamente le spalle. «Che cosa stai insinuando?»

Invece di rispondere, l’uomo si sporse verso di lei, guardandola negli occhi. «Tu ci credi, agli Dèi?» le chiese, piano. Colta alla sprovvista, Lidia arrossì. «Io…» balbettò, incerta sulla risposta. «Io non lo so, non sono mai stata molto religiosa, ma credo che… credo che qualcosa ci sia. O qualcuno, non lo so.»

La bocca del giovane si stirò in una smorfia scettica e la fanciulla assottigliò gli occhi, sospettosa. «E tu?» gli chiese. «Ci credi, tu?»

Dopo un istante, Ulf scosse il capo. «No» rispose, con semplicità. Anche se già da tempo Lidia sospettava che quella fosse la verità, una risposta così diretta la colse di sorpresa e la lasciò senza parole per qualche istante. Davanti al suo silenzio, Ulf si alzò in piedi e le si avvicinò, piantando le mani sul tavolo e incombendo su di lei. «Io credo che tutta questa storia delle offerte non sia altro che un modo per derubarci senza destare i nostri sospetti» ringhiò, cupo.

Lidia lo guardò sbattendo lentamente gli occhi e sentendosi un po’ stupida. «Ma se danno fuoco a tutto!» protestò, non riuscendo a vedere la logica dietro alle affermazioni di Ulf.

«Non a tutto» la contraddisse lui, con una smorfia. «L’argento non brucia.»

La fanciulla non riuscì a nascondere l’espressione scettica che le si disegnò sul volto. «Credi che sia un modo per rubare l’argento, quindi?» chiese. Quando l’uomo fece un cenno d’assenso, Lidia sospirò. «Due carri d’argento sono tanti, ma immagino che dalla miniera ne estraiate molti di più» ragionò, guardandolo con la fronte aggrottata. «Perché non chiedere un tributo più alto, se lo scopo della cerimonia è di arricchirsi alle vostre spalle? Non ha senso limitarsi alle briciole, quando si potrebbe avere tanto di più…»

Ulf scosse il capo, interrompendola bruscamente. «Non possono prendere troppo: se lo facessero, la cosa sarebbe troppo sospetta. Meglio prendere poco alla volta e garantirsi una certa continuità nel tempo.»

«Al villaggio c’è un’unica Sacerdotessa: di certo non crederai che lei si porti via tutta quella roba da sola» insistette Lidia. «E, anche ammesso che abbia degli aiutanti, finirebbero comunque per dare nell’occhio. E le pietre? Spariscono anche quelle?»

«L’olivite è friabile» ribatté prontamente il giovane. «Può essere frantumata facilmente.»

«D’accordo, ma non sarebbe più comodo lasciarla lì dov’è?» borbottò lei, scuotendo il capo. «Perché mai qualcuno dovrebbe prendersi il disturbo di sbriciolarla? A mano, poi! E senza fare rumore… no, non ha senso.»

Ulf le rivolse uno sguardo strano e Lidia lo sostenne, sentendo in sé una sicurezza che raramente aveva avuto. Devo essere più simile a papà di quanto credessi, pensò con un sorriso amaro, stupendosi del proprio scetticismo. La teoria di Ulf le pareva troppo inverosimile e piena di buchi per essere considerata valida; e le sembrava strano che l’uomo basasse tutti i suoi sospetti e tutto il rancore che provava per Donna Erin su quella storia strampalata. A meno che ci sia qualcosa che non mi ha detto, pensò, improvvisamente sospettosa. Il segreto a cui aveva fatto cenno qualche tempo prima e di cui si rifiutava di parlare aveva forse a che fare con quella faccenda?

«Potrebbero usare… delle macchine. Sono d’accordo, non ha alcun senso portare via o sbriciolare l’olivite, ma credo che, così facendo, il tutto acquisti credibilità. Gli Dèi si prendono tutto, rocce comprese» mormorò Ulf, con fare circospetto, rispondendo alla domanda che la ragazza gli aveva posto qualche istante prima.

«Delle macchine?» ripeté lei. «Che tipo di macchine? Qui non avete nemmeno i carri automatici, non vedo davvero come possiate avere accesso a qualcosa di più evoluto...»

Ulf la guardò negli occhi e qualcosa nel suo sguardo cambiò. «Giusto: ma nulla vieterebbe a Erin e a i suoi eventuali complici di appoggiarsi a qualcuno che viene da fuori, a qualcuno che ha accesso a mezzi che noi non abbiamo.»

«Ma perché?» insistette la fanciulla, che iniziava a sentirsi a disagio. Anche se, tutto sommato, i dubbi di Ulf erano piuttosto innocui, c’era qualcosa di vagamente inquietante, in tutto quel discorso. «Ulf, onestamente non capisco perché una Sacerdotessa germanica dovrebbe allestire tutto questo teatrino per ingannare e derubare la sua gente. Al di là delle difficoltà tecniche: perché dovrebbe farlo?» Davanti a quella domanda, l’uomo le rivolse un sorriso storto e freddo e Lidia deglutì, intuendo improvvisamente dove volesse andare a parare. «Credi che… lei non sia parte della vostra gente?»

«Be’, di certo non è nata qui. Probabilmente non è nemmeno germanica» fece l’uomo, stringendosi nelle spalle con tutta l’aria di chi enuncia un dato di fatto.

«Di certo non crederai che sia romana!» sbottò Lidia, guardandolo con gli occhi sgranati. «Non sembra affatto romana!»

«Voi romani siete ovunque, ormai» ribatté l’uomo, con un’amarezza che fece contrarre sgradevolmente lo stomaco della fanciulla. «Non mi stupirei se fosse fedele a Roma, pur non essendovi nata e non avendovi forse nemmeno mai vissuto.»

Lentamente, Lidia sbatté gli occhi, cercando di collegare tutti i punti. «Ma i matrimoni… scusami, ma sei stato tu a dirmi che Donna Erin ha tanto insistito perché il nostro matrimonio funzionasse alla perfezione. Questi accordi sono tutti a vostro vantaggio, perché avrebbe dovuto incoraggiarli, se non avesse a cuore il benessere della Germanica?»

«Non sono tutti a nostro vantaggio» la contraddisse Ulf. «Anche Roma ci guadagna qualcosa: il permesso di restare nella nostra terra senza dover combattere una guerra, per esempio.»

È vero, comprese Lidia, ricordando le vaghe spiegazioni che suo padre le aveva fornito prima di caricarla su un carro e partire con lei alla volta di Erding. «Quindi secondo te questi matrimoni servirebbero non per portare i nostri soldi in Germanica, ma…»

«… per portare le nostre ricchezze da voi» concluse per lei Ulf.

Lidia lo guardò, allibita. «Ma non ha senso!» esclamò. «Lasciamo per un attimo da parte la posizione di Donna Erin: la vostra gente ha accettato la proposta del Divino Cesare, non è stata una decisione che vi è stata imposta!»

«I nostri sacerdoti hanno accettato la proposta» la corresse Ulf. «E nemmeno tutti. Personalmente, non sono molto propenso a fidarmi dell’Alto Consiglio dei Sacerdoti…»

La fanciulla scosse il capo. «E avrebbero architettato una cosa così complicata per… per…»

«Lo ripeto: per favorire Roma senza scatenare una guerra» suggerì l’uomo.

Lidia si appoggiò al tavolo, cercando di riordinare i pensieri. Sono solo sue teorie, si disse. Teorie che, però, improvvisamente le parevano meno assurde. «Tutto per favorire Roma» mormorò, sovrappensiero, ripetendo le conclusioni a cui era giunto suo marito. «Allora è per questo che non volevi sposarmi. È per questo che non mi hai mai toccata.» Appena quelle parole uscirono dalle sue labbra, Lidia avvampò, rendendosi conto di quello che aveva detto. Stupida, stupida, stupida!

Ulf la guardò, stupito. «No» disse, lentamente. «Non ti ho mai toccata perché pensavo che ti facesse piacere…»

«E infatti mi fa piacere!» si affrettò ad assicurare Lidia, più rossa che mai, sventolando convulsamente una mano. «Mi fa molto piacere, davvero!»

L’uomo la guardò con un sorrisetto. «Sicura?» Lei lo fissò, senza parole. Cosa sta insinuando? «Sicurissima!» affermò, con la voce leggermente incrinata. «Davvero, Ulf, va benissimo così! Io non voglio altro! Va bene anche a te, vero?»

Il giovane rimase in silenzio per dei secondi che a Lidia parvero interminabili, poi sollevò una mano e le sfiorò uno zigomo in una carezza leggera. «Be’, diciamo che, quando mi hanno detto che mi sarei sposato, pensavo che avrei avuto certi privilegi» mormorò, tracciando con due dita la linea invisibile che dalla guancia scendeva fino al mento della ragazza, mentre Lidia lo fissava con gli occhi sbarrati e il cuore in gola. «Tuttavia», continuò, salendo verso le sue labbra e accarezzandole piano, prima di toccarle leggero la punta del naso, «tuttavia non saprei che farmene di un topolino come te, quindi smettila di guardarmi così e sta’ pure tranquilla!» Così dicendo le premette con forza un dito sulla punta del naso e scoppiò a ridere quando Lidia ricadde sulla sedia con un gridolino oltraggiato.

«Ma quanto sei scemo!» ringhiò la ragazza, sentendosi sollevata e decidendo di sorvolare sull’appellativo topolino che l’uomo si ostinava a rifilarle e che, ne era piuttosto certa, non era un complimento. L’uomo si limitò a guardarla sorridendo, anche se il suo sorriso si spense lentamente quando la conversazione di poco prima tornò al centro dei suoi pensieri.

Lidia, la cui mente era tornata a pensieri simili, lo guardò, improvvisamente triste. «Ma se sospettavi questa cosa», chiese, riagganciandosi al discorso di poco prima, «perché hai comunque accettato di sposarmi? Voglio dire, se sapevi che era tutto un imbroglio ai danni della tua gente e della tua terra, perché non ti sei rifiutato di farlo?»

Ulf ricambiò lo sguardo e i suoi occhi azzurri le parvero un po’ più scuri del solito. «Avevo scelta?»

Lidia scosse la testa: no, naturalmente no. Anche se Ulf era un uomo e, in generale, la sua posizione era migliore della sua, non era così stupida da pensare che il giovane potesse sottrarsi alla volontà di suo padre e della Sacerdotessa. Mordendosi le labbra, la ragazza si chiese se Gefrid condividesse i sospetti del figlio e avesse anch’egli deciso di sottostare comunque alla volontà di Donna Erin e, indirettamente, del Divino Cesare.

Mentre osservava il volto cupo di Ulf, Lidia afferrò il coraggio a due mani e gli rivolse la domanda che avrebbe voluto fargli da tempo. «Avevi… avevi una ragazza, prima di me?» Quando ebbe pronunciato quelle parole, la fanciulla arrossì, sentendosi stupida: la loro vita privata era ben poca cosa rispetto alle questioni di cui avevano discusso fino a quel momento; cionondimeno Lidia avvertiva che la risposta a quella domanda sarebbe stata importante, un punto fermo su cui costruire la loro vita futura.

O, se non altro, la nostra vita per i prossimi due mesi, si corresse, mentre una piccola fitta d’ansia le attraversava la gola.

Ulf parve sorpreso da quella domanda, ma subito scosse il capo. «No» rispose, stringendosi nelle spalle. «C’era qualcuno, una volta, ma si è sposata l’anno scorso.»

Lidia distolse lo sguardo, mentre un’inopportuna ondata di sollievo la travolgeva. «Mi dispiace» mormorò.

«Sì?» chiese lui, con una nota aspra nella voce. «A me no. Sono cose che capitano; lei è una brava donna e ha fatto la volontà di suo padre. E comunque sarebbe stato peggio doverla lasciare per sposare te, non credi?» La ragazza deglutì, trattenendo un sorriso amaro davanti all’ironia della situazione. Già. Ulf dovette leggere qualcosa sul suo volto, perché, inclinando appena il capo, le chiese: «E tu? Avevi qualcuno a Roma?»

Lidia annuì: l’idea di parlare di Tito a Ulf non le piaceva nemmeno un po’, ma sentiva di non avere scelta. «Sì. Si chiamava… si chiama Tito», mormorò, con un improvviso groppo in gola, «e mio padre l’aveva scelto per me quando avevamo entrambi quattordici anni.»

L’uomo la fissò con più attenzione. «Gli volevi bene?»

«Sì» rispose lei, con un filo di voce; e Ulf sospirò: «Mi dispiace.» Erano le stesse parole che lei stessa aveva pronunciato pochi attimi prima, ma nella voce dell’uomo le parve di avvertire una sfumatura diversa. Incerta, Lidia alzò lo sguardo su di lui, ma non riuscì a interpretare la sua espressione. «Non… non è facile per nessuno» sussurrò, sentendosi in dovere di dire qualcosa.

«No, non lo è» concordò lui. Con un cenno del capo, l’uomo si allontanò da lei e, lanciata un’occhiata fuori dalla finestra e resosi conto che il sole era ormai tramontato, uscì in cortile con la scusa di doversi assicurare che le galline fossero al sicuro per la notte. Quando rientrò, Lidia smise di sciacquare l’insalata e si voltò verso di lui, insoddisfatta del modo in cui si era conclusa la conversazione.

«Non è facile», riprese, quasi senza avere il coraggio di guardarlo, «ma avrebbe anche potuto essere peggio.»

Non sapeva se quelle parole le avesse dette per tranquillizzare l’uomo o per allontanare i suoi pensieri da Tito, ma quando Ulf le rivolse un sorriso che lo fece sembrare molto più giovane, Lidia provò lo strano impulso di abbracciarlo.

***

È da un po’ che non ringrazio le mie fedelissime commentatrici, ovvero Fioremargherita e Controcorrente: meno male che ci siete voi, signore! E grazie anche a Wadowice, che non commenta pubblicamente, ma si fa comunque sentire via messaggio privato, chiedendo delucidazioni là dove il testo è effettivamente poco chiaro. Le vostre osservazioni sono preziose, mi aiutano anche ad aggiustare dei passaggi nei capitoli che sto revisionando e modificando in questi giorni.

Ai 277 lettori che sono passati dall’ultimo capitolo (o anche ai 150 lettori, se qualcuno è passato più di una volta) senza lasciare la minima traccia di sé: magari una parolina, una volta ogni tanto? Non dico di lasciare un papiro, ma avere un feedback di tanto in tanto non è che mi farebbe proprio schifo, sapete?

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Capitolo 15
*** 14. Il suono ***


Lidia sognava di correre insieme a Lucilla lungo i viali lastricati della sua domus a Roma, quando qualcosa superò il velo dell’incoscienza e pungolò i suoi sensi fino a svegliarla. Spalancando gli occhi nel buio della notte, la fanciulla rimase in ascolto, cercando di capire cosa fosse stato a strapparla dal piacevole abbraccio del sogno.

«Cosa c’è?» chiese in un sussurro, notando che Ulf era in piedi accanto alla finestra, perfettamente immobile all’ombra del melo. Lui non rispose, ma con una mano le fece cenno di raggiungerlo.

Stringendo i denti quando toccò il pavimento freddo con la punta dei piedi nudi, la ragazza coprì i pochi metri che la separavano dall’uomo e si appoggiò con le mani alla finestra, sporgendosi appena per osservare il giardino scuro. La notte era quieta e una brezza leggera scuoteva lieve le foglie dell’albero, facendole agitare nella luce della luna e disegnando ombre cangianti all’interno della stanza. Lidia non era in grado di stabilire che ore fossero, ma ovunque regnava un silenzio rotto appena dal sibilo gentile del vento.

Non comprendendo cosa avesse attirato l’attenzione di suo marito, la ragazza alzò su di lui uno sguardo confuso. «Cosa succede?» gli chiese, senza osare parlare ad alta voce.

Lui distolse gli occhi dal paesaggio buio, voltandosi verso di lei, e la fanciulla notò come alla luce lunare i suoi capelli sembrassero fatti d’argento. «Ascolta» le disse, semplicemente, indicando un punto imprecisato con un cenno del capo.

Di nuovo, la giovane tese al massimo le orecchie, trattenendo quasi il fiato affinché il ritmo del respiro non creasse alcuna interferenza. Dopo qualche istante, però, Lidia aggrottò la fronte: le sue orecchie non coglievano altro che il fruscio del vento e, più lontano, il frinire dei grilli. «Sento solo il vento e i grilli» mormorò, consapevole che quella risposta non sarebbe piaciuta a Ulf.

L’uomo, quasi adeguandosi alle sue previsioni, scosse il capo. «Ma non senti?» insistette, una nota d’impazienza ben chiara nella voce. Lidia si strinse nelle spalle, impotente. «Cosa dovrei sentire?»

«Questo sibilo» rispose Ulf. La giovane si mise ancora in ascolto per qualche secondo. «È solo il vento» decretò, senza capire. Di nuovo, l’uomo fece un cenno di diniego. «No, oltre il vento» mormorò. «C’è anche un altro rumore, più lontano.»

Lanciandogli un’occhiata scettica, Lidia provò ad ascoltare meglio, aspettandosi di non udire nulla di strano, quando all’improvviso lo sentì: un sibilo – o un fischio? – quasi impercettibile, talmente lieve da venir quasi nascosto dalla voce del vento, ma cionondimeno presente, fisso e costante. Era talmente confuso che più che un suono vero e proprio pareva quasi una vibrazione dell’aria, eppure, adesso che le sue orecchie l’avevano colto, alla fanciulla pareva impossibile non averlo udito prima.

«Che cos’è?» chiese, in un sussurro.

Ulf esalò lentamente dal naso, prima di rispondere. «Cosa sia esattamente, non lo so» ammise, lanciando uno sguardo torvo fuori dalla finestra. «Però, ogni volta che offriamo qualcosa agli Dèi, di notte vi… di notte si sente questo suono.»

«Non l’hai mai notato, in altre occasioni? Quando non c’è alcuna cerimonia, intendo» gli chiese Lidia, con un filo di voce, soprassedendo sulla breve esitazione che aveva scorto nella voce dell’uomo. Lui scosse il capo e la fanciulla pensò che, effettivamente, era davvero difficile che si trattasse di una coincidenza. Colta da un fascino strano, la giovane romana si sporse un po’ di più dalla finestra, muovendo il capo a destra e a sinistra per cercare di determinare la direzione esatta da cui proveniva il sibilo.

«Sta indietro» le disse Ulf, prendendola per le spalle e costringendola a tornare al riparo dell’ombra della stanza. La fanciulla si voltò verso di lui, senza capire. «Perché?» chiese, confusa. «Hai paura che mi veda qualcuno?»

Lui si strinse nelle spalle. «Non si può mai sapere. Meglio evitare di essere visti.»

«Se anche qualcuno mi vedesse, che problema ci sarebbe? Non sto facendo niente di male» si difese Lidia, ma Ulf non lasciò la presa sulle sue braccia. «Lo so» disse, con una smorfia. «Ma non credo proprio che chi produce quel rumore voglia essere notato. Meglio fingere di non esserci accorti di nulla.»

La ragazza scosse il capo e si mordicchiò nervosamente un’unghia, contagiata suo malgrado dalle teorie di complotto di suo marito. C’è davvero qualcuno che non dovrebbe esserci, là fuori? Forse qualcuno che viene da Roma, come crede Ulf? Non poteva fare a meno di avvertire una fitta bollente di delusione, a quel pensiero, ma improvvisamente il vento cambiò e il sibilo divenne leggermente più distinto. Ora che poteva sentirlo meglio, Lidia si accorse che non era così monotono come le era sembrato in un primo momento, ma sembrava animato da delle onde ritmiche, delle lievi alterazioni di potenza e di tono.

Ma cosa potrebbe produrre un suono simile? La maggior parte delle macchine che aveva visto nella sua città natale erano piccoli congegni rumorosi che tossivano e sputavano e scoppiettavano, nulla di paragonabile a quel suono sottile, quasi impalpabile, che più lo ascoltava e più le ricordava il soffio di un serpente, elegante e letale. Improvvisamente, l’atmosfera attorno a lei parve farsi pesante, vischiosa e fredda e la fanciulla ebbe l’impressione di osservare la scena da un punto di vista esterno, mentre una consapevolezza senza nome iniziava a premere sui suoi sensi. Tutto d’un tratto Lidia ebbe paura e rabbrividì, passandosi le mani sudate sulle braccia nude.

Ulf si accorse del suo tremore e si voltò a guardarla, squadrando con occhio critico il suo abbigliamento. «Torniamo a letto» disse. «Qui non c’è niente che possiamo fare, non ha senso prendere freddo.»

La giovane annuì in silenzio e tornò rapida al letto, infilandosi sotto le coperte e, dopo un momento di esitazione, tirandosele sopra alla testa, nel vano tentativo di tagliar fuori quel suono che, nella sua testa, si faceva sempre più inquietante. Come spesso le accadeva quando cercava di ignorare una cosa, però, i suoi sensi si ostinarono a ricercare il sibilo nel silenzio della notte, rendendole di fatto impossibile tagliarlo fuori. Era fastidioso, era insistente ed era troppo strano per essere ignorato. Premendosi le mani sulle orecchie, Lidia fu scossa da un brivido, poi da un altro e un altro ancora. Basta, si disse, risoluta, è solo un suono. Basta tremare.

Come già le era accaduto il giorno del suo matrimonio, però, il suo corpo sembrò rifiutarsi di obbedirle e continuò a tremare sotto l’impulso di spasmi violenti, anche se, sorprendentemente, la sua mente rimase relativamente lucida. Perché sto tremando? Si chiese, confusa, e ben presto l’incapacità di dominarsi iniziò a farle più paura del suono misterioso che aveva scatenato il suo nervosismo.

Basta, rilassati, pensò, sentendosi scivolare sempre più velocemente in una disperata impotenza. Incapace di rimanere ancora ferma in quella posizione rannicchiata, Lidia si rigirò di scatto sulla schiena, distendendo gli arti e cercando di controllarne il tremore. Disturbato dal suo movimento improvviso, Ulf si sollevò su un gomito. «Perché tremi? Hai ancora freddo?»

La fanciulla scosse il capo, umiliata di mostrarsi ancora una volta così fragile davanti a lui. «N-no» balbettò. «N-non lo so p-perché t-t-tremo.»

Sollevandosi ancora un po’, l’uomo la osservò con attenzione, anche se, nel buio della stanza, Lidia non era in grado di vedere i suoi occhi. «Cosa vuol dire che non lo sai?» Non sembrava irritato, ma piuttosto confuso.

«N-non lo so, f-forse il s-suono…» La ragazza avrebbe voluto aggiungere altro, spiegarsi meglio, ma improvvisamente formulare delle parole comprensibili le parve uno sforzo sovraumano. Fortunatamente, Ulf riuscì comunque a intuire quello che aveva cercato di dire. «Il suono?» ripeté. «Ti sei spaventata?»

«Nh» Lidia non riuscì a rispondere, limitandosi a fare un cenno che non era né d’assenso né di diniego. Non era una paura razionale, quella che provava, ma qualcosa di freddo e tagliente che le strisciava nelle viscere e le stringeva la gola.

«Non c’è bisogno di avere paura», cercò di rassicurarla l’uomo, «qui non…» Si interruppe di colpo, come se avesse improvvisamente cambiato idea e avesse deciso di non terminare la frase. Facendo un ulteriore sforzo, la fanciulla si costrinse a parlare, guardandolo con gli occhi spalancati. «Q-qui non c-cosa?»

Ulf esitò un attimo, poi sospirò e sollevò un braccio, portando con sé le coperte. «Dai, vieni qui» mormorò. Sulle prime Lidia non si mosse, comprendendo la natura dell’offerta dell’uomo, ma esitando ad accettarla. Dopo qualche istante, però, si sentì troppo stanca per continuare ad opporsi e si mosse fino a ritrovarsi tra le braccia del germanico. Ulf la attirò a sé, stringendola e facendole posare il capo sul suo petto, mentre la fanciulla continuava a tremare senza sosta, incapace di trovare una posizione confortevole o un posto su cui appoggiare le mani. Improvvisamente, però, le mani di Ulf presero a percorrerle la schiena in un movimento lento, rassicurante, e fu come se il corpo della giovane perdesse, poco alla volta, un po’ della tensione che lo faceva fremere. Sollevata oltre ogni dire, Lidia sospirò e chiuse gli occhi, premendo la fronte contro il petto dell’uomo, scordandosi d’un tratto dell’imbarazzo e delle remore che l’avevano fatta esitare poco prima. Dopo diversi minuti, il tremore cessò del tutto e, finalmente, Lidia sentì il proprio corpo rilassarsi completamente, scivolando meglio contro quello di Ulf. Non aveva previsto di permettere a suo marito di avvicinarsi tanto a lei, ma al momento la cosa sembrava aver perso ogni importanza.

Anche quando i brividi smisero di scuoterla, Ulf non si fermò, ma continuò ad accarezzarle la schiena, lasciando trascorrere alcuni minuti di silenzio, prima di decidersi a parlare. «Ti capita spesso?» le chiese, con una voce stranamente quieta. Senza alzare la testa dal suo petto, Lidia scosse il capo. «No» mormorò. «Solo una volta, il giorno in cui ci siamo sposati. Allora era stata Donna Erin ad aiutarmi…»

La fanciulla si sentiva stranamente assonnata e si accorse una frazione di secondo troppo tardi che probabilmente non era stata una grande idea nominare la sacerdotessa in quel frangente, ma, per una volta, Ulf parve non reagire al nome della donna che detestava tanto. «Mi spiace averti spaventato» mormorò, infatti, salendo con una mano fino all’attaccatura dei suoi capelli, prima di scendere di nuovo.

«Non mi hai spaventato. Sono solo un po’ nervosa» ribatté lei, con la voce impastata, muovendo appena le gambe per sistemarsi meglio addosso a lui. Una parte della sua mente le fece notare che la posizione in cui si trovava al momento era estremamente sconveniente, che non era quello che voleva, che solo Tito avrebbe potuto permettersi di toccarla così, ma un’altra parte del suo essere, quella che si sentiva così incredibilmente rilassata e al sicuro e che non aveva nessuna intenzione di allontanarsi dal corpo caldo di Ulf, la mise subito a tacere. «Ulf?» sussurrò Lidia, sollevando appena il capo.

«Mh?»

«Che cosa stavi per dire, prima?»

La giovane sentì il corpo dell’uomo contrarsi, ma lei fece scivolare una mano attorno alla sua vita e tornò a posare la guancia sul suo petto e, lentamente, lo sentì rilassarsi di nuovo. «Posso fidarmi di te?» le chiese.

Dalla posizione in cui si trovava, la voce dell’uomo le giunse simile a un rombo basso. Non lo so, pensò la fanciulla, mordendosi le labbra, mentre il volto deciso di Tito e le parole che il giovane le aveva rivolto le tornavano alla mente. Poi, però, si rese conto che Ulf non le stava chiedendo se poteva fidarsi di lei in generale, bensì se poteva fidarsi di lei in quel singolo frangente: Lidia non aveva dubbi, al riguardo. «Sì» disse, sicura, accompagnando le parole con un cenno del capo.

Inspirando profondamente, Ulf salì a giocherellare per qualche istante con i suoi capelli, prima di rispondere. «C’è un gioco che facciamo qui in paese» disse, con voce grave. «È una cosa stupida, in effetti, una cosa da ragazzini: ci sfidiamo a entrare di notte nel bosco sacro e a rimanerci fino all’alba, senza farci scoprire e senza scappare via per paura degli spiriti che si dice vivano là. Quando ero più giovane partecipavo anch’io, naturalmente, e circa una decina di anni fa Karl, che già allora era mio amico, venne a chiamarmi per propormi una variante: voleva intrufolarsi nella foresta la notte in cui gli Dèi sarebbero scesi sulla terra per raccogliere le offerte. Il suo scopo era tutt’altro che nobile, a dire il vero: voleva far colpo su una ragazza.»

Lidia sorrise leggermente. «Unna?»

Ulf rise piano, scuotendo il capo e facendo scivolare Lidia più vicino a sé con un movimento della spalla. «No, non Unna. Astrid, si chiamava, e in effetti era davvero molto carina… non per niente non ci pensai due volte, ad accettare: anch’io ero interessato a fare una bella figura con lei. Sai, il piano era di rubare qualcosa dal mucchio delle offerte e portarglielo.»

La fanciulla strofinò appena la guancia sulla stoffa grezza della maglia dell’uomo, immaginandoselo ragazzino e intento a contendersi con l’amico l’attenzione di una ragazza.

«In ogni caso, entrammo nella foresta piuttosto tranquilli» continuò Ulf, riprendendo il suo racconto. «L’avevamo fatto già molte volte e sapevamo che non c’era nulla da temere, di certo non dagli spiriti, e nemmeno dal vecchio sacerdote che avevamo al tempo, un uomo che passava la metà del tempo addormentato e l’altra metà ubriaco. Non aveva il rispetto degli uomini; e infatti entrare nella foresta era davvero un gioco da ragazzi: era molto più semplice di quanto non sia oggi, tant’è vero che non c’era nemmeno la recinzione di filo spinato... quella è stata voluta tempo fa da Erin. Be’, sulle prime andò tutto bene, non vedemmo niente di diverso da tutte le altre notti. Le offerte erano ancora tutte lì, un po’ bruciacchiate, come ci si poteva aspettare, ma sembrava che non fosse stato toccato nulla. Ricordo che prendemmo subito alcuni gioielli, ma poi decidemmo di non tornare subito a casa, ma di aspettare l’alba, come facevamo di solito… cosicché la prova fosse completa, capisci? Ricordo anche che ci addormentammo, devo essere sincero, ma a un certo punto della notte udimmo questo sibilo e…» L’uomo si interruppe di nuovo, visibilmente riluttante a rivelare quello che aveva visto quella notte.

«… e cosa?» Determinata a scoprire la verità – o almeno quella che suo marito credeva essere la verità – Lidia si mosse d’istinto e, lentamente, allungò una mano fino a sfiorargli il volto, soffermandosi sulla guancia ruvida e poi su uno zigomo, prima di far scorrere il braccio attorno al suo collo, arrivando poi ad accarezzargli i capelli – che, dopotutto, non erano proprio come quelli di Lucilla. Ulf le strinse brevemente i fianchi, prima di scivolare di nuovo sulla sua schiena e riprendere a parlare. «Arrivò una macchina. Non una macchina come quelle che circolano qualche volta a seguito dei legionari, ma una macchina volante. Era un affare strano, quasi invisibile nel buio e incredibilmente silenzioso: forse non ci saremmo accorti della sua presenza, se non fosse stato per il sibilo e per alcune piccole luci intermittenti. Ovviamente ci spaventammo moltissimo e cercammo di fuggire, ma avevamo paura di venire scoperti, anche perché a un certo punto accesero una specie di piccolo faro, così ci nascondemmo tra gli alberi e aspettammo che se ne andassero.»

Benché stupita da quella descrizione, Lidia cercò di sospendere il proprio giudizio, preoccupandosi piuttosto di capire come fossero andate le cose e in che modo quelli eventi si ripercuotessero sul presente. «Pensi che qualcuno vi abbia visti?» chiese.

L’uomo scosse il capo. «No, ma noi vedemmo loro

La fanciulla si tirò a sedere di scatto, in preda all’agitazione. «Loro chi? Gli Dèi?»

Ulf fece un suono a metà tra uno sbuffo e una risata. «Non erano Dèi, erano uomini.»

Appena un po’ rinfrancata, la giovane riprese il suo posto sul petto dell’uomo, senza nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi di trovarsi un’altra sistemazione. «Come fai a saperlo?» chiese, con una punta di turbamento. Lui sollevò un po’ le spalle, facendola sobbalzare lievemente. «Non li abbiamo visti bene, erano in controluce e noi eravamo nascosti tra gli alberi, ma il modo in cui si muovevano, il loro aspetto… erano in tutto e per tutto simili a dei normalissimi esseri umani. Naturalmente non ci siamo fermati a indagare, appena hanno spento il faro siamo scappati, ma nessuno mi convincerà mai che quelle persone erano Dèi

Lidia esitò un attimo, incerta se presentare le sue obiezioni o accettare la spiegazione dell’uomo. «Come fai a sapere che gli Dèi non assomiglino a noi?»

«È la stessa cosa che disse Karl all’epoca», ammise Ulf, «e per un po’ di tempo me lo sono chiesto anch’io. Del resto, non avevo mai visto una macchina del genere, non ne avevo mai nemmeno sentito parlare… fino a quando, qualche anno fa, un mercante berbero si fermò per qualche mese in paese. Raccontava di aver vissuto in Nuvia, durante la guerra, e di aver visto tutta la potenza di Roma, in quell’occasione. Un giorno, per caso, l’ho sentito parlare di un cargo aereo in grado di trasportare grandi quantità di uomini e materiali per lunghe distanze, muovendosi più rapidamente di qualsiasi carro che percorresse le vie di terra. Ovviamente, non ho potuto fare a meno di pensare a quella notte e lui mi ha mostrato alcuni disegni di quella che lui definiva “meraviglia volante”.» Lidia sollevò lo sguardo sul suo volto, indovinando già la conclusione di quel racconto. «Be’, se non era la stessa macchina che ho visto quella notte, di sicuro ci assomigliava in maniera impressionante» fece infatti il giovane. «E, come mi ha confermato anche quel mercante, c’è una sola potenza in grado di creare e possedere una cosa del genere…»

«Roma» concluse per lui la fanciulla. «Già» confermò Ulf, con un cenno del capo. Inconsciamente, Lidia strinse tra i pugni la maglia dell’uomo, meditando su quanto le aveva detto, e lui riprese a sfiorarle la schiena, quasi temesse che il discorso l’avesse turbata più del dovuto e che lei si rimettesse a tremare. Tuttavia, non era paura quella che Lidia provava in quel momento, ma piuttosto tristezza, delusione e, forse, anche un po’ di rabbia: il pensiero che Roma si stesse prendendo gioco in quel modo di un suo alleato la riempì comunque di vergogna. Tuttavia, le fece notare la parte più scettica della sua mente, non è detto che le cose stiano proprio così. Questa storia mi sembra un po’ strana.

«E gli altri che cosa ne pensano?» chiese, appiattendo la mano sul suo torace e avvertendo il modo in cui i muscoli dell’uomo si contrassero al movimento della sua testa. «Gli altri? Chi?» chiese Ulf, incerto.

Lidia inspirò a fondo, corrugando la fronte e raccogliendo i pensieri. «Hai detto che quella di intrufolarsi nel bosco sacro di notte è un po’ una tradizione dei ragazzi del villaggio, no? Mi sembra impossibile che nessun altro abbia mai visto quella macchina, se davvero arriva ogni volta che sacrificate qualcosa agli Dèi. Non ne hai mai parlato con nessuno?»

Il giovane sospirò, prima di spostare lo sguardo fuori dalla finestra. «Non è esattamente una cosa di cui posso parlare liberamente, sai? Un po’ perché, in teoria, entrare nel bosco è vietato. Donna Erin l’ha circondato di filo spinato, lo fa addirittura sorvegliare da dei soldati… non ci tengo a farle sapere che, da ragazzino, ci andavo a fare scorribande. Ne ho parlato con la mia famiglia, naturalmente, con alcune persone fidate… ma nessuno ha mai visto niente. E, come ti dicevo, non è un argomento che si può discutere durante il Consiglio degli anziani del villaggio.»

«Quindi nessuno ne sa niente?» insistette Lidia, un po’ perplessa. Ulf esitò nuovamente, prima di rispondere. «Io credo… io credo che i minatori ne discutano, tra loro. Karl mi ha accennato qualcosa, ma quello della miniera è un ambiente molto chiuso. Nemmeno Unna sa cosa si dicano, durante le loro assemblee e, se anche lo sapesse, si guarda bene dal riferirlo a me.»

Lidia annuì, riflettendo in silenzio su quello che il marito le aveva detto. «Senti», disse, dopo qualche minuto, «e… se fossero veramente gli Dèi, quelli che hai visto?» La domanda suonò sciocca alle sue stesse orecchie e Ulf la accolse con uno sbuffo sarcastico. «Degli Dèi che si muovono a bordo di una macchina che usano anche i tuoi conterranei? Sì, effettivamente ha senso.»

Davanti a quella risposta ironica, la fanciulla abbassò il mento contro il proprio petto, serrando per un istante la mano in un pugno. «Hai ragione» sospirò. «Be’, mi dispiace.»  

Le mani di Ulf ripresero a sfiorarle la schiena, mentre l’uomo tornava a cercare il suo volto nella camera buia. «Per cosa?» La giovane si strinse nelle spalle. «Per quello che Roma sta facendo, se la tua teoria è giusta.»

«Non è certo colpa tua» mormorò lui, sfiorandole la base del collo.

«Lo so, ma mi sento comunque in colpa.»

Ulf soffocò una risata. «Sciocchezze; e, comunque, non c’è nulla che tu possa fare» disse, il sorriso evidente nella sua voce. «So che tuo padre è una persona piuttosto in vista, a Roma, e che pertanto il tuo imperatore dovrebbe tenere in grande considerazione il tuo parere, ma temo che in questo caso si sia avvalso di ben altri consiglieri… anche se proprio non mi spiego il perché.» Così dicendo le tirò scherzosamente una ciocca di capelli e la ragazza lo colpì debolmente con un pugno. «A parte tutto», riprese l’uomo, dopo un attimo di silenzio, «ti senti meglio?»

Lidia annuì, arrossendo leggermente al ricordo del tremore che l’aveva colta. «Sì, va molto meglio, grazie.»

Ulf annuì, soddisfatto. «Credi che potremmo dormire un po’, adesso? Se domani sono troppo stanco rischio di tagliarmi via un dito…»

«Non sia mai» commentò la giovane, soffocando uno sbadiglio e sollevando una mano per strofinarsi stancamente il viso. L’uomo lasciò scivolare via le braccia, liberando la fanciulla dalla sua presa, ma, improvvisamente, alla prospettiva di separarsi da lui e dal suo calore inaspettatamente rassicurante, Lidia fu presa da una leggera ansia. E se, allontanandomi, ricominciasse tutto da capo?

Dopotutto il sibilo era ancora ben udibile ed era stato Ulf ad aiutarla a riprendere il controllo sul proprio corpo. Io quasi quasi rimango qui, pensò, arrossendo. Vincendo il senso d’imbarazzo che l’aveva colta al pensiero di fare quello che, in un certo senso, avrebbe potuto essere visto come una sorta di primo passo, la ragazza si accoccolò meglio accanto all’uomo e gli posò di nuovo il capo sul petto, chiudendo gli occhi come per prepararsi a dormire. Dopotutto lo faccio per un motivo puramente medico, si disse, e lui mi ha detto un sacco di volte che non gli interesso, quindi non si farà certo strane idee.

Sentendola sistemarsi di nuovo addosso a lui, anziché allontanarsi come si era aspettato, Ulf si era come congelato dalla sorpresa; e Lidia pregò affinché non commentasse la sua scelta. Dopo un minuto, però, l’uomo tornò di nuovo a circondarla con le braccia e a rilassarsi sotto di lei.

Stranamente calda e in pace con se stessa, la ragazza si concentrò sul respiro dell’uomo e sul battito regolare del suo cuore, scivolando presto in un sonno quieto e senza sogni.

***

Quando la mattina dopo si svegliò, come sempre, da sola, Lidia ci mise qualche minuto a ricordare gli eventi della notte precedente. Nel momento in cui si accorse di trovarsi nella metà sbagliata del letto, però, le tornò tutto in mente – quello strano suono, i tremori incontrollati, Ulf che la prendeva tra le sue braccia e le parlava di quello che aveva visto, lei che sceglieva di restare tra le braccia di Ulf…

Avvampando, la fanciulla si nascose il volto tra le mani. Ma a cosa cavolo stavo pensando? Si chiese, con un gemito soffocato. Forse Ulf non era attratto da lei, ma di certo le strane idee se le sarebbe fatte lo stesso… Oh, Dèi, che vergogna! Adesso penserà che io non riesca nemmeno a tenere le mani a posto!

Il che, tra l’altro, non era neppure vero: se aveva scelto di stare così vicina a lui, era solo perché aveva paura di affrontare da sola la strana crisi che l’aveva colta poco prima, non certo perché trovava piacevole la sua vicinanza!

Anche se un po’ piacevoli le sue carezze lo erano, no? Le fece notare la sua coscienza, sottolineando un particolare decisamente scomodo. Scuotendo il capo, la fanciulla si affrettò a scacciare quel pensiero, mentre i sensi di colpa iniziavano già a farsi sentire. La sua determinazione e la sua lealtà erano davvero così deboli, se già dopo poche settimane iniziava a scordare quello che aveva lasciato a Roma? Si era forse dimenticata di Tito?

No, si rispose, irrigidendo il volto. Anche se non pensava a lui costantemente, il giovane romano continuava a essere quanto di più importante aveva al mondo – o quasi. Aggrappandosi a quella consapevolezza, Lidia ripensò alle mani del ragazzo che le sfioravano il volto, alle sue labbra sulle sue, al suo profumo, alla sua risata contagiosa, al modo disperato in cui l’aveva abbracciata durante il loro ultimo incontro. Bastò quel ricordo per farla vergognare di essersi trovata tanto a suo agio tra le braccia di Ulf, l’uomo che, anche se non per suo volere, aveva usurpato il posto che avrebbe dovuto essere di Tito. Un attimo dopo, però, si ritrovò a pensare al modo in cui il germanico l’aveva abbracciata e confortata, aiutandola con una dolcezza insospettabile a combattere contro quella paura senza nome, senza nemmeno pretendere nulla in cambio, e subito si vergognò di essersi vergognata di essersi sentita a proprio agio con lui.

Avvertendo chiaramente di essere finita in un vicolo cieco, Lidia decise che era troppo presto per affrontare quei pensieri scomodi e con la mente corse a un altro argomento.

La macchina, il cargo e Roma.

A mente fredda, lontano dalle ombre suggestive della notte, la giovane non poté fare a meno di sentirsi un po’ delusa dal grande segreto di Ulf: viste tutte le premesse e la riluttanza che l’uomo aveva dimostrato a parlarne, si era aspettata qualcosa di più interessante di una grossa macchina. Una macchina eccezionale, certo, ma pur sempre una macchina, ovvero qualcosa che, in un modo o nell’altro, poteva essere costruito dall’uomo. Ma forse era proprio quello il punto: qualcosa di ordinario, forse anche banale, celato da una coltre di mito e sacralità per trarre in inganno gli uomini e approfittare della loro buona fede. E forse lei, Lidia, aspettandosi qualcosa di straordinario, se non soprannaturale, non faceva altro che fare il gioco di chiunque avesse ordito quell’inganno.

Ma ci sarà davvero Roma, dietro a tutto questo? Tornò a chiedersi, mordendosi pensosamente un labbro. Le conclusioni tratte da Ulf non le parevano del tutto soddisfacenti: sebbene fosse vero che Roma era l’unica potenza al mondo in grado di disporre di un discreto numero di macchine del genere, l’intera faccenda le sembrava un po’ troppo contorta e arzigogolata per essere verosimile. E poi, rifletté, non è mica detto che quella macchina compaia solo quando si fanno le offerte. Magari Ulf non se n’è mai accorto, ma quell’affare gira spesso, da queste parti…

Sospirando, la ragazza affondò il viso nel cuscino. Quella linea di pensieri, anche se meno controversa della prima, richiedeva comunque una capacità di ragionamento che Lidia sentiva di non avere a quell’ora di mattina e così, un po’ controvoglia, la ragazza scivolò fuori dal letto, quasi desiderando che Donna Edda facesse irruzione nella stanza con una lunga lista di incombenze da sbrigare. Del resto, aveva scoperto che svolgere dei compiti fisicamente impegnativi era il modo migliore per non indugiare troppo in pensieri complicati.

Anche quel giorno, però, dell’anziana donna non vi era alcuna traccia e, mentre sbocconcellava del pane cosparso di marmellata, Lidia si chiese se per caso fosse ancora impegnata in qualcosa di relativo alla cerimonia del giorno prima. Mentre sciacquava il pentolino nel quale aveva scaldato il latte, strofinandolo energicamente con una spugnetta di metallo e chiedendosi come fosse possibile riuscire a bruciare anche il latte, qualcuno bussò alla porta.

Confusa – Donna Edda non avrebbe di certo bussato; e lo stesso valeva per Hermann – Lidia si asciugò le mani e andò ad aprire, non riuscendo a nascondere la propria sorpresa quando si trovò di fronte una bambina. Aveva una pelle luminosa, quasi dorata, cosparsa da un’infinità di lentiggini, brillanti occhi castani e lunghi capelli del colore delle nocciole mature. Osservandola dall’alto in basso, Lidia si chiese dove potesse averla già vista, ma in un baleno se ne ricordò: era la stessa ragazzina che aveva portato i nastri il giorno del suo matrimonio. Inconsciamente, la mano della fanciulla corse alla stringa rossa che le cingeva il polso destro. «Ciao» la salutò, leggermente a disagio, sorpresa da quella visita decisamente inaspettata.

La bambina sorrise, mettendo in mostra un paio di denti mancanti. «Ciao! Donna Erin ha detto se vuoi venire a trovarci un attimo.»

Lidia deglutì, improvvisamente nervosa. «Come mai?» chiese.

La ragazzina si strinse nelle spalle. «Ha detto che vuole chiederti come va.»

Quell’invito inaspettato la colse di sorpresa e Lidia esitò. Sebbene fosse in realtà piuttosto comprensibile che, dopo qualche tempo, la sacerdotessa volesse un resoconto su come stessero procedendo la sua permanenza a Erding e la sua vita con Ulf, la fanciulla si sarebbe aspettata un poco di preavviso. Prendendo tempo, Lidia abbassò lo sguardo sulla ragazzina sorridente. «Sei venuta da sola?» indagò.

Quella sgranò gli occhi, mentre sul suo visino grazioso si disegnava un’espressione perplessa. «Sì, perché?»

«Non è pericoloso?» chiese la giovane, inclinando il capo.

La piccola scoppiò in una risatina soddisfatta. «Ma no» la rassicurò. «Non c’è niente di pericoloso, qui al villaggio!»

Se lo dici tu, pensò Lidia, abbassando uno sguardo scettico sulla testolina bruna della bambina. Nella sua mente risuonarono le raccomandazioni di Ulf: anche se ormai la ragazza risiedeva a Erding da diverse settimane, l’uomo non le permetteva ancora di vagare per il villaggio da sola, sostenendo che la gente non la conoscesse ancora abbastanza per considerarla una di loro.

È una questione che dobbiamo affrontare, questa, si disse Lidia, perdendosi per un istante dietro ai propri pensieri.

«Allora? Vieni o no?»

La voce della bambina la riscosse e la fanciulla deglutì nervosamente, cercando disperatamente un pretesto per rifiutare l’invito. Se fosse stata più previdente – o più intelligente! – si sarebbe preparata un discorsetto da rifilare alla sacerdotessa: dal momento che non l’aveva fatto, però, avrebbe dovuto improvvisare, con il rischio che la sacerdotessa si accorgesse di come stavano veramente le cose tra lei e suo marito.

Dal momento che la ragazzina continuava a fissarla e a dondolare impazientemente da un piede all’altro, Lidia chinò il capo. «Va bene» mormorò, cercando di prendere tempo. «Quando vuole vedermi?»

«Adesso» replicò la bambina.

Perfetto.

«D’accordo, arrivo subito» Indugiare non aveva senso, Donna Erin si sarebbe certamente insospettita se avesse rifiutato il suo invito o se avesse posticipato l’incontro con una scusa poco credibile. Sospirando, Lidia si tolse il grembiule che indossava sopra alla gonna e si chiuse la porta alle spalle, apprestandosi a seguire la bimba.

«Ti chiami Lidia, vero?»

Evidentemente la piccola aveva voglia di fare conversazione e la fanciulla non poté fare a meno di accontentarla. «Esatto. Tu invece chi sei?»

«Io mi chiamo Susi.»

Osservandola dall’alto in basso, Lidia si chiese chi fosse quella bambina. Aveva una pelle luminosa, quasi dorata, cosparsa da un’infinità di lentiggini, brillanti occhi castani e lunghi capelli del colore delle nocciole mature. «Sei la figlia di Donna Erin?» chiese, anche se la somiglianza tra la bambina e la sacerdotessa era assolutamente nulla.

Susi scoppiò in una risata cristallina. «No, lei è un’amica della mamma» spiegò.

Improvvisamente, Lidia si rese conto che quella bambina poteva essere un mezzo per scoprire qualcosa di più a proposito di Donna Erin, per cui accantonò le remore morali che avrebbe potuto avere e decise di approfondire l’argomento. «E la tua mamma è qui con te?»

La piccola scosse il capo. «No, lei è andata lontano, verso sud, dove c’è il deserto» disse, in tono allegro, come se la distanza dalla madre non le pesasse affatto. «Però torna a trovarmi, ogni tanto.»

Verso sud, dove c’è il deserto… la Nuvia? Si chiese la giovane romana, ricordando ciò che Ulf le aveva confidato la notte prima.

«E non ti manca?»

Susi sollevò le spalle. «Un pochino, ma Donna Erin è simpatica e io le voglio bene.»

Nell’udire quelle parole, la fanciulla storse le labbra, scettica, e poi subito aggrottò la fronte, accorgendosi, non senza un certo stupore, che i suoi sentimenti nei confronti della sacerdotessa erano cambiati. Non avrebbe saputo dire quando fosse avvenuto il mutamento, ma, poco alla volta, il senso di fiducia che Erin aveva suscitato in lei quando l’aveva incontrata per la prima volta era andato scemando, lasciando il posto alla diffidenza e al sospetto.

Colpa di Ulf, sicuramente! Pensò Lidia, quasi indispettita.

«Siamo arrivati!» proclamò d’un tratto la bambina, fermandosi di fronte alla casa della sacerdotessa. Immersa com’era nei suoi pensieri, la ragazza aveva camminato quasi senza rendersi conto del percorso che stava compiendo; e la vista della linda casetta bianca la colse quasi impreparata.

«Grazie, Susi» disse Lidia, sorridendole. «Sei stata molto gentile ad accompagnarmi.»

La piccola sorrise, felice di aver ricevuto un complimento, prima di correre a bussare alla porta e di spalancarla senza nemmeno aspettare una risposta. «Sono tornata!» gridò, fiondandosi dentro.

Lidia rimase sull’uscio, incerta se entrare o meno, ma l’arrivo di Donna Erin risolse i suoi dubbi. «Oh, Lidia, benvenuta!» l’accolse, rivolgendole il suo solito sorriso luminoso.

Mentre rispondeva al saluto, la giovane si trovò a osservare il suo viso, cercando di trovarvi un segno che indicasse la sua malafede ma, come già era accaduto in passato, non ne trovò alcuno. Il modo in cui sorrideva le sembrava del tutto naturale e nei suoi occhi verdi non scorse altro che una gentile sincerità. Possibile che quella donna fosse alla base dell’elaborato inganno sospettato da Ulf?

«Scusami per lo scarso preavviso, ma purtroppo questo è un periodo molto impegnato, per me, e ho dovuto infilarti nel primo buco disponibile… non ti dispiace, vero?»

Lidia scosse il capo, abbassando lo sguardo e sorridendo. «Non c’è nessun problema, Donna Erin, non stavo facendo nulla di importante.»

«Oh, davvero? Credevo che la vita di una casalinga fosse piena d’impegni…»

La fanciulla alzò il capo, mortificata, credendo che la donna la stesse rimproverando, ma quando incontrò i suoi occhi si rese conto che la sacerdotessa stava solo scherzando. «Oh, ehm, già» farfugliò, arrossendo.

«Scusa, non volevo prenderti in giro!» rise Donna Erin, senza cattiveria. La ragazza si limitò a fissarla, a corto di parole, e la sacerdotessa le posò una mano sulla spalla, facendosi seria. «Ti ho chiamata perché volevo sentire un po’ come sta andando con Ulf e la sua famiglia… sai, l’ultima volta che ti ho vista mi hai fatta un po’ preoccupare.»

Oh, quello, pensò arrossendo la fanciulla, ricordando il malinteso di cui si era resa protagonista qualche tempo prima.

«Non subito, però» proseguì Donna Erin. «Prima c’è una persona che pensavo ti avrebbe fatto piacere incontrare. Vieni, ci sta aspettando dentro.»

Per un qualche motivo quelle parole le fecero balzare il cuore in gola, ma non c’era nulla che potesse fare per opporsi: con un pessimo presentimento, Lidia annuì e seguì la sacerdotessa all’interno dell’edificio.

***

Colgo l’occasione per ringraziare, oltre a Controcorrente e Fioremargherita, anche Mazie, EnMilly e Wasabi, che si sono fermate/i per scrivere due parole (anche più di due parole, in effetti!) e a darmi alcuni consigli utili!

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Capitolo 16
*** 15. Lettere ***


Nel giro di una manciata di istanti, i pensieri di Lidia vorticarono impazziti, mentre Lidia cercava di indovinare chi fosse la persona che la stava attendendo nel salotto della sacerdotessa. Un altro sacerdote? Si interrogò la fanciulla, per poi passare a prendere in considerazione ipotesi ben più inverosimili: suo padre, forse? Tito?

La verità, però, era molto più deludente: seduto davanti al camino spento non vi era altri che Caleno, il Prefetto con cui Lidia aveva parlato brevemente nel giorno del suo matrimonio. «Prefetto» mormorò, prima di schiarirsi la voce, cercando di mascherare la delusione che le stringeva la gola. «È un piacere incontrarti di nuovo.»

Voltandosi verso di lei, l’uomo scoppiò a ridere, evidentemente divertito. «Ne sei sicura? A dire il vero, non mi sembri molto felice di rivedermi…» Davanti a quella blanda presa in giro, la fanciulla arrossì. «No... cioè, sì» balbettò, inciampando sulle parole. Chiudendo gli occhi per un istante, Lidia inspirò a fondo, ricomponendosi. «Mi fa piacere vederti, naturalmente, è solo che mi aspettavo di trovare qualcun altro.»

«Davvero?» si intromise Donna Erin, inclinando il capo sulla spalla e puntando su di lei uno sguardo curioso. «E chi ti aspettavi di trovare?»

«Mio padre» mentì Lidia, stupendosi della naturalezza con cui la bugia lasciò le sue labbra. «Mi aveva detto che sarebbe tornato per vedere come andavano le cose e… be’, credevo che fosse già qui.»

Il Prefetto si accomodò meglio sul divano, allungando le gambe davanti a sé e allargando le braccia con aria di scusa. «Mi dispiace averti delusa, Donna Lidia. Sono certo che tuo padre verrà a trovarti quanto prima.» Il soldato sorrise, guardandola negli occhi. «Spero che, nel frattempo, l’esserti trovata di fronte la mia brutta faccia non sia stato per te uno shock troppo forte.»

Lidia piegò le labbra in un sorriso tirato che non riuscì a mascherare completamente l’espressione critica che le si era dipinta sul volto, nell’udire quelle parole. Il Prefetto era ancora giovane e aveva dei penetranti occhi verdi: non poteva certo dirsi brutto, per cui quella considerazione sul suo aspetto fisico le sembrava un po’ troppo forzata per essere casuale. Incuriosita da quell’atteggiamento sornione, la giovane lo fissò per un istante più a lungo di quanto fosse appropriato e, accanto a loro, la sacerdotessa si appoggiò con entrambe le mani allo schienale di una poltrona, spostando lo sguardo dall’una all’altro. «Quindi voi due vi conoscete?»

Il Prefetto fu più rapido di Lidia e rispose ancor prima che lei avesse il tempo di aprir bocca. «Abbiamo scambiato due parole quando si è sposata: il Legato Libo me l’ha presentata» replicò, pronto. Davanti a quella spiegazione, Donna Erin rise, scuotendo il capo. «E io che pensavo di farle una sorpresa, facendole conoscere un altro cittadino di Roma!»

Leggermente imbarazzata, la fanciulla si sentì in dovere di dire qualcosa. «Parlare con qualcuno che condivide la mia cultura mi fa sempre piacere, Donna Erin.»

La sacerdotessa annuì. «Bene» fece, con l’ombra della risata ancora presente sul suo volto. «A dire il vero, ho anche un’altra sorpresa per te… e questa credo che sia davvero inaspettata.» Lidia la guardò, senza capire, mentre Erin si alzava e, raggiunto il mobile alle sue spalle, apriva un cassetto e ne estraeva qualcosa. «Questa è per te» disse, porgendole una semplice busta bianca. Notando che lo sguardo della giovane si soffermava sul sigillo spezzato, chiaro indicatore che la lettera era stata aperta, la donna si strinse nelle spalle. «Scusami se l’ho aperta, ma per legge sono tenuta a farlo. Devo assicurarmi che nella corrispondenza che ricevi non vi sia nulla di sovversivo» si giustificò.

Quando l’espressione di Lidia non cambiò, Donna Erin si spiegò meglio. «Ti sorprenderebbe sapere quante giovani spose mantengono i rapporti con amici e parenti lasciati a Roma, pianificando la fuga e quindi la rottura del patto matrimoniale. Pensa che in un paio di casi ho scoperto che le ragazze progettavano di scappare via con i loro amanti…»

«Ah» commentò Lidia, sforzandosi di mantenere un’espressione neutra e pregando gli Dèi – o chiunque fosse disposto ad ascoltarla – che la sacerdotessa non si accorgesse del sussulto colpevole provocatole dalle sue parole.

«Comunque tu non hai nulla di cui preoccuparti» concluse la donna, tornando a sedersi. «Nella tua lettera non c’è nulla di tutto ciò.»

La fanciulla si affrettò ad aprire la busta: se si fosse immersa nella lettura, non avrebbe dovuto incrociare lo sguardo di Donna Erin e la sacerdotessa avrebbe avuto meno possibilità di accorgersi del suo disagio. Non appena la inclinò, dalla busta piovvero quattro o cinque fogli. Incuriosita, la fanciulla raccolse il primo e subito sorrise: Lucilla riusciva a essere logorroica anche quando scriveva.

«Buone notizie?» chiese il Prefetto, notando il suo sorriso. Lidia ripiegò i fogli, prima di rispondere. «Non saprei dirlo» ammise. «Credo che leggere tutte queste pagine mi richiederà un bel po’ di tempo. Questa mia amica ha molte qualità, ma il dono della sintesi non rientra tra esse.»

«Sembra una ragazza simpatica» commentò la sacerdotessa. La giovane annuì, cercando di nascondere il fastidio che l’intromissione della donna le provocava: qualsiasi segreto Lucilla avesse consegnato a quelle pagine, ormai esso era noto anche a Erin. Dopo qualche istante, la sacerdotessa scrollò le spalle. «Be’, spero che la sua lettera possa rendere più piacevole la tua giornata» sospirò, cercando gli occhi della giovane romana. «Dimmi un po’, Lidia: come va?»

Lei la guardò, cauta. «Con Ulf, intendi?»

La donna annuì. «Con Ulf, sì, ma anche con la sua famiglia.»

Inspirando profondamente, la ragazza abbassò lo sguardo sulle proprie mani. «Donna Edda mi è stata di grande aiuto, in questi giorni» ammise, con un piccolo sorriso.

La sacerdotessa inclinò leggermente in capo. «So che è una donna dal carattere piuttosto burbero…»

Lidia non riuscì a evitare che il sorriso comparso sul suo volto si allargasse. «È vero», concordò, «ma senza di lei sarei persa. Resta con me praticamente tutto il giorno, mi fa vedere quello che c’è da fare in casa e fuori, con gli animali. A volte perde la pazienza, è vero, ma non è cattiva… anche se credo che non sia affatto soddisfatta del modo in cui cucino.»

Donna Erin sorrise, prima di spronarla a continuare. «E di Unna e Gefrid che mi dici?»

Lidia esitò, sentendo improvvisamente su di sé lo sguardo di Caleno. «Gefrid non l’ho quasi mai visto; e le poche volte che è venuto a trovarmi era sempre in compagnia di Ulf. È gentile, con me, ma sembra tenere le distanze.»

Da me e da suo figlio, considerò la giovane, in silenzio: anche se erano passate alcune settimane dal malinteso che l’aveva portato a rimproverare Ulf, suo suocero sembrava riluttante a immischiarsi nei loro affari e Lidia non aveva mancato di notare la freddezza con cui trattava suo marito. La cosa la lasciava sempre più perplessa: da quel poco che conosceva Ulf, l’uomo non le aveva dato l’impressione di uno che potesse alzare le mani sulle donne… possibile che suo padre credesse davvero che le avesse fatto del male?

Preferendo non addentrarsi troppo nei dettagli della sua vita con Ulf, Lidia decise di non riferire alla sacerdotessa quei pensieri. «Per quanto riguarda Unna, invece… be’, credo di non piacerle proprio» ammise, demoralizzata. «Non so neanche perché, ma è sempre fredda, sarcastica… persino maleducata, direi. Per fortuna con lei ho poco a che fare.»

Donna Erin scosse il capo. «Sì, so che Unna non ha un carattere facile… però ti consiglio comunque di cercare di appianare le vostre divergenze e di fartela amica» disse, guardandola negli occhi. «Non dico di farlo oggi stesso, ma non lasciar passare troppo tempo: è tua cognata e un giorno potresti aver bisogno di lei e del suo aiuto.»

«Ci proverò» mormorò Lidia, poco convinta. Come per rinforzare le sue perplessità, la sua mente le ripresentò il ricordo degli occhi gelidi della germanica e della sua espressione sprezzante e la fanciulla si chiese, quasi distrattamente, quale fosse il modo migliore per avvicinarsi a Unna. Sempre che esista, un modo migliore per farlo, pensò, con una smorfia. Persa in quei pensieri, la ragazza non si accorse dello sguardo penetrante che Donna Erin le stava rivolgendo; e così la sua voce la fece sussultare. «E con Ulf, invec0,e come va?»

La giovane si morse le labbra, soppesando la risposta. «Bene, immagino. Noi… stiamo iniziando a conoscerci, credo.» La sacerdotessa scrutò con attenzione il suo volto, come se fosse alla ricerca di un segno che contraddicesse le sue parole. «Non ti ha più picchiata, quindi?»

Lidia sussultò e avvampò, colta alla sprovvista da una domanda tanto diretta e dallo sguardo improvvisamente allarmato di Caleno. «No, certo che no!» esclamò, prima di potersi trattenere. «Si è trattato solo di un malinteso, te l’ho già detto: lui non intendeva farmi male.» La fanciulla era consapevole che la sua risposta era troppo vaga e sfuggente per essere soddisfacente; e dunque non si sorprese quando la sacerdotessa sbuffò, sporgendosi verso di lei. «Lidia, ho visto chiaramente i segni sul tuo volto, quella mattina. Com’è possibile che te li abbia fatti senza l’intenzione di farti del male?»

La giovane romana la guardò con gli occhi sbarrati, cercando disperatamente una spiegazione e non trovandone alcuna. Lidia sentì il panico montare rapidamente dentro di lei, mentre, in preda allo sconforto, si chiedeva perché fosse stata così stupida da non aver pensato a una giustificazione plausibile per i lividi che la sua avventura notturna aveva lasciato sul suo corpo. Boccheggiando come un pesce fuor d’acqua, la ragazza cercò di correre ai ripari, mentre le sue guance assumevano una sfumatura scarlatta. «Ehm, no», balbettò, «in realtà noi stavamo… ecco, come dire…» Le parole le morirono in gola e Lidia si portò automaticamente una mano alle labbra, sentendosi piccola e stupida, fin quando il Prefetto non venne miracolosamente in suo aiuto.

«Erin, credo che la ragazza sia a disagio a parlare di certi argomenti» mormorò, quieto, soppesando Lidia con lo sguardo. «Del resto, quello che accade tra un uomo e una donna in camera da letto dovrebbe riguardare soltanto loro, non credi?»

Intuendo vagamente quello che l’uomo stava insinuando, Lidia sgranò gli occhi, troppo mortificata per correggerlo, ma la replica di Donna Erin la tolse prontamente dall’imbarazzo. «Non se lui le fa del male!» sbottò la sacerdotessa, perdendo il contegno tranquillo che l’aveva sempre contraddistinta.

Il Prefetto la ignorò e tornò a rivolgersi a Lidia. «Le cose tra te e tuo marito vanno bene?»

La giovane annuì. «Sì» confermò, con un filo di voce, troppo a disagio per incontrare lo sguardo dell’uomo. Con un piccolo sorriso, il romano si volse verso Donna Erin. «Vedi? Credo che per ora dovremmo crederle, a meno di segnali evidenti che ci diano ragione di sospettare il contrario.»

La sacerdotessa parve sul punto di protestare, ma poi annuì, secca; e Lidia, sorpresa, passò lo sguardo dall’una all’altro. Perché improvvisamente la donna sembrava essersi fatta così arrendevole? Ogni volta che aveva avuto a che fare con lei, le era parso che Donna Erin avesse il controllo totale della situazione: lei diceva cosa fare e gli altri eseguivano. Perché adesso dava ascolto alle parole di quell’uomo?

Non un uomo qualsiasi, le fece notare il suo inconscio, ma un romano. Vagamente, Lidia si rese conto che uno dei motivi per cui era stata così restia a credere alle teorie di Ulf era l’assenza di una qualsivoglia prova che indicasse che la sacerdotessa fosse legata – o comunque parteggiasse – per Roma: ora che la vedeva interagire con il Prefetto, Lidia credeva di scorgere una qualche segnale in quel senso.

«Spero che questa conversazione non ti abbia messa a disagio, Lidia» continuò Caleno, all’oscuro dei sospetti che stavano attraversando la mente della giovane. «A volte Erin si lascia un po’ prendere la mano con queste cose: non era certo sua intenzione essere invadente… non è vero?» Quelle ultime parole erano state rivolte, con un ammiccamento, alla sacerdotessa, che alzò gli occhi al cielo e scosse il capo. Lidia registrò quell’atteggiamento – nonché il modo in cui il Prefetto ometteva sistematicamente l’appellativo Donna nel rivolgersi alla sacerdotessa - e una domanda le si affacciò spontanea alla mente: c’era forse qualcosa, tra quei due?

Erin parve accorgersi dello sguardo sospettoso di Lidia e improvvisamente si alzò in piedi, mettendo bruscamente fine a quella conversazione. «Spero che le cose stiano davvero come dici tu, mia cara» disse, avvicinandosi alla giovane romana e porgendole una mano per aiutarla ad alzarsi. «In ogni caso, mi raccomando: se dovessero esserci problemi, adesso o in futuro, non esitare a venire da me.»

«Ti ringrazio, Donna Erin» fece Lidia, ringraziandola con un piccolo cenno del capo. Quando la sacerdotessa non aggiunse altro, la fanciulla si rese conto di essere stata congedata e, con un brivido di sollievo, si avviò verso l’uscita, non prima di aver chiesto alla padrona di casa di porgere i suoi saluti alla piccola Susi. Mentre stava per varcare la soglia, con la coda dell’occhio vide che il Prefetto fece per seguirla, ma venne bloccato dalla sacerdotessa, che gli posò una mano sul braccio, invitandolo a fermarsi.

Strano, pensò la ragazza, corrugando la fronte. Quando si trovò di nuovo all’aperto, con la lettera di Lucilla stretta tra le mani, Lidia provò la tentazione di andare subito da Ulf e farlo partecipe delle sue osservazioni, ma si trattenne, decidendo di rifletterci un po’ sopra in autonomia, così da non farsi influenzare troppo dalle opinioni di suo marito.

«Donna Lidia!»

Sentendosi chiamare, la ragazza si voltò di scatto e vide il Prefetto Caleno correre nella sua direzione. Malgrado fosse un suo concittadino, la giovane non era certa di gradire la compagnia del soldato e aveva dunque sperato di poterlo evitare, almeno per qualche tempo: nel vederlo avvicinarsi con tanta urgenza, Lidia sentì un filo di preoccupazione serpeggiarle nello stomaco.

Quando la raggiunse, l’uomo le sorrise, piegandosi verso di lei, e Lidia vide che nei suoi occhi verdi brillavano delle pagliuzze dorate. «Scusa per l’interrogatorio di poco fa» le disse, rivolgendole un sorriso d’intesa. «Erin ci tiene molto, a certe cose.»

«Perché la chiami Erin?» chiese lei, senza riuscire a contenersi.

L’uomo sorrise di nuovo, passandosi una mano tra i capelli scuri. «So che può sembrare strano, ma io e lei siamo amici da molti anni e tra noi certe formalità non esistono più.» Nell’udire quelle parole, Lidia provò un tuffo al cuore e, intuendo la natura del suo turbamento, l’uomo le posò una mano sulla spalla. «Sono amico di Erin, è vero, ma la mia lealtà va a Roma» la rassicurò.

La giovane avvampò, disturbata dal fatto che fosse così facile leggere i suoi pensieri. Anche se, a dire il vero, non è la tua lealtà, a essere è in discussione, pensò, affondando nervosamente i denti nella carne morbida del labbro. Quando la fanciulla alzò su di lui uno sguardo incerto, il Prefetto le si avvicinò ancora di più. «A proposito», mormorò, con voce così bassa che Lidia dovette sforzarsi, per udirlo, «ho qui con me un’altra lettera da darti. Scusami se ho aspettato tanto, ma dovevo trovare il momento opportuno per farlo.» Così dicendo, l’uomo le consegnò una piccola busta marrone, una di quelle che i legionari usavano per la loro corrispondenza privata. «Immagino che non ci sia bisogno di dirti chi l’ha scritta…» aggiunse, guardandola negli occhi.

Con il cuore che, improvvisamente, aveva preso a martellarle in gola, Lidia scosse il capo, stringendosi al petto la lettera. «Cosa dice?» sussurrò, con la voce che tremava un poco.

L’uomo si strinse nelle spalle. «A differenza di Erin, io non ho l’abitudine di leggere le lettere che non sono indirizzate a me.»

La fanciulla annuì, provando nonostante tutto un senso di gratitudine nei confronti del soldato che le aveva consegnato quel piccolo tesoro. «E… se volessi rispondere?» balbettò, accorgendosi di non avere alcuna idea precisa di come avesse fatto, quella lettera, ad arrivare nelle mani di Caleno.

Il Prefetto rimase in silenzio per qualche istante, pensieroso. «Immagino che, in quel caso, potresti consegnare la lettera a me, la prossima volta che ci vediamo. Tra poco più di una settimana, in paese ci sarà una festa in occasione del primo di giugno: la gente celebra l’inizio dell’estate e cose del genere. Solitamente io non vi partecipo mai, ma potrei fare un’eccezione, quest’anno: potremmo incontrarci allora, così, se avrai scritto qualcosa, sarò io a far avere la risposta a… Flavia.»

«Sarebbe perfetto» annuì lei, rigirandosi in testa la proposta dell’uomo.

«Però», continuò lui, annuendo appena, «spero che tu ti renda conto che nessuno deve sapere dell’esistenza di questa lettera. Se qualcuno ci mettesse sopra le mani saremmo tutti nei guai: tu, io, Terzo e anche Flavia. Quindi fai molta attenzione, nessuno deve vedere nulla…»

Di nuovo, Lidia annuì con foga. «Naturalmente.»

«E sta anche attenta a non fare insospettire tuo marito: chissà come potrebbe reagire» concluse il Prefetto, cercando il suo sguardo. Davanti a quell’insinuazione, la fanciulla si sentì per qualche motivo in dovere di difendere Ulf. «Starò attenta, Prefetto. Mio marito però non è cattivo, sai?» disse, piano.

Il romano le lanciò una lunga occhiata. «Mi fa piacere saperlo» commentò, fissandola intensamente. Dopo un attimo di silenzio, aggiunse: «Sei ancora convinta di voler andare a… trovare Flavia?»

Sorpresa da quella domanda, Lidia esitò per un istante, poi annuì. «Assolutamente. Anche se le cose qui sono meno terribili di quello che pensavo, questo posto non è comunque casa mia e queste persone non sono la mia famiglia» mormorò, sentendo una strana tristezza improvvisa scendere su di lei.

«Perfetto» fece l’uomo, annuendo. «Se le cose stanno così, vedrò di farti avere altre lettere, allora.»

Lidia annuì, rivolgendogli un piccolo sorriso e affondando le dita nella carta ruvida delle buste che stringeva tra le mani, cercando in quel materiale le forze che d’un tratto sembravano mancarle. «Posso… posso leggerle adesso?» chiese, rivolta a Caleno, sollevando appena le lettere.

«Naturalmente» acconsentì lui. «Prima permettimi però di accompagnarti a casa: non so a cosa stesse pensando Erin, quando ti ha permesso di attraversare il villaggio con la sola compagnia di quella ragazzina…»

«Quindi è davvero pericoloso per me, qui?» indagò la fanciulla, gettando intorno a sé uno sguardo circospetto. «Anche mio marito mi raccomanda sempre di non andarmene in giro da sola, ma, sinceramente, non ho mai visto nulla di sospetto, da queste parti: mi sembra un villaggio come tutti gli altri.»

«Non lo so» sospirò Caleno, scuotendo il capo. «Personalmente, ritengo che nessun cittadino romano debba andarsene in giro senza scorta, quando si trova in terra straniera. So che le cose possono sembrare tranquille, ma questa è gente che non manifesta apertamente i propri sentimenti. Abbiamo combattuto, diversi anni fa: è passato parecchio tempo, è vero, ma gli abitanti di queste terre covano ancora un certo rancore di fondo, nei nostri confronti, e di certo basterà una sola scintilla per far scoppiare di nuovo l’incendio. Dunque… meglio non rischiare.»

«Meglio non rischiare, no» concordò Lidia, sorridendo appena nel notare come le parole del Prefetto fossero un’eco quasi esatta di quelle che Ulf le aveva rivolto poco tempo prima.

«Lo sai perché ti sto aiutando, Lidia?» chiese d’un tratto il soldato, fermandosi per guardarla negli occhi. «Non è solo perché ho un cuore tenero e penso che non sia giusto separare due persone che si amano, ma anche perché credo che tutta questa storia dei matrimoni combinati sia una follia. Tu sei una cittadina di Roma, non un animale sacrificale, né una merce di scambio. Se in questa regione c’è un problema, esso va affrontato e risolto in modo incisivo, non ricorrendo a mezzucci da quattro soldi e trucchetti che non fanno altro che mettere in pericolo i nostri ragazzi…» Quelle ultime parole furono pronunciate a bassa voce, quasi come se Caleno stesse pensando ad alta voce. Non sapendo bene cosa rispondere a quelle considerazione – non sapendo nemmeno se l’uomo si aspettasse una risposta – la ragazza si limitò ad annuire, emettendo un suono neutro.

Quando, poco più tardi, si fu accomiatata da lui, Lidia accantonò momentaneamente i pensieri che la confessione fattale da Caleno aveva suscitato in lei, estraendo invece le lettere dalla tasca del grembiule. La giovane si guardò attorno, osservando i panni sporchi ammonticchiati in un angolo della stanza e il pavimento da spazzare, ma decise che quelle faccende potevano essere rimandate, almeno per un po’: lasciandosi scivolare sulla panca accanto al tavolo della cucina, Lidia decise che, prima, avrebbe letto le lettere che le sue amiche le avevano spedito. Con un pensiero di scusa rivolto a Lucilla, Lidia aprì per prima quella di Tito.

Mia adorata Lidia, esordiva; e la fanciulla provò un brivido di piacere nel sentirsi chiamare così, per prima cosa voglio chiederti scusa per aver aspettato così tanto a scriverti e, soprattutto, per non essere stato in grado di portarti via prima che tu fossi obbligata a sposare quel germanico. Spero che la presenza di Terzo e degli altri ragazzi possa aiutarti a vivere più serenamente questa situazione difficile.

Ti giuro che, se potessi seguire il mio cuore e fare quello che mi dice, partirei oggi stesso da Roma e verrei a prenderti, a portarti via da quei barbari… ma purtroppo non posso farlo. Ho degli obblighi, qui a Roma, e una partenza improvvisa desterebbe troppi sospetti. Per cui ti chiedo di avere pazienza e di fidarti di me: se vuoi avere mie notizie, chiedi pure a Terzo o al suo amico Prefetto, comunicare con loro è molto più facile che comunicare direttamente con te.

Scusa se questa lettera ti sembrerà un po’ confusa, ma ci sono così tante cose che vorrei dirti; e così poco spazio per farlo! In realtà, vorrei solo sapere che stai bene, nonostante tutto, e che non ti sei dimenticata di me (io di certo non mi sono dimenticato di te!). Tra l’altro, so che il clima su in Germanica è decisamente più freddo che qui a Roma (almeno stando a quello che mi dice Terzo), ma non temere: se tutto va secondo i miei piani, tra un paio di mesi potrai crogiolarti al caldo sole del sud e non dovrai più preoccuparti di non farti congelare le dita dei piedi, in inverno (ti ricordi?).

Per adesso preferisco non dirti altro: voglio darti notizie certe e non illusioni, per cui scusami se la lettera ti sembrerà un po’ troppo corta, cercherò di rifarmi con la prossima.

Stammi bene; e ricordati che ti amo.

Un bacio, Amore mio

Tito

Ps. Ho visto tua madre, l’altro giorno: mi sembrava preoccupata. Se quel tipo che ti hanno rifilato ti ha fatto del male, giuro che lo ammazzo!

Pps. Dimenticavo: dopo che l’hai letta, ti conviene bruciare questa lettera. La prudenza non è mai troppa…

Lidia lesse e rilesse il messaggio di Tito, rammaricandosi del fatto che fosse così corto. Anche se alcuni passaggi l’avevano leggermente disturbata – alcuni termini che aveva utilizzato, la velata allusione al fatto che lei avesse bisogno di qualcuno che andasse a salvarla – leggendola le era parso di udire la voce del ragazzo, di vederselo lì davanti, pronto a sostenerla e a incoraggiarla come aveva sempre fatto.

La ragazza sorrise, soffermandosi sul passaggio in cui Tito menzionava il fatto dei piedi congelati: ricordava perfettamente l’episodio a cui faceva riferimento il ragazzo. L’inverno precedente, durante una gita in montagna, lei e Lucilla avevano deciso di emulare i loro amici maschi e di lanciarsi su una lastra di ghiaccio, slittandovi sopra e cercando di restare in piedi, senza cadere. Se Lucilla era uscita incolume dall’esperienza, il ghiaccio, più sottile del previsto, aveva deciso di spezzarsi proprio al passaggio di Lidia. Per sua fortuna il laghetto era alto solo poche decine di centimetri, in quel punto, ma mentre facevano ritorno di gran fretta verso il carro, la ragazza aveva i piedi così freddi che aveva temuto che le si staccassero le dita. Anche in quell’occasione, Tito si era dimostrato dolcissimo, prendendole i piedi nudi e piazzandoseli sulla pancia, per aiutarla a scaldarli.

Tito, pensò, mentre la nostalgia le stringeva il petto. Mi manchi, sai? E non ti ho certo dimenticato… come potrei?

Eppure, le fece notare la solita vocina molesta, non pensava più così spesso a lui come nei primi giorni del suo matrimonio. È normale, si disse, la vita va avanti e Tito non può essere un pensiero fisso. Però non è cambiato niente, lo amo come prima.

Facendo scorrere di nuovo gli occhi sulla grafia spigolosa del giovane, Lidia sfiorò la lettera con una mano, sospirando. Da quello che scriveva, era chiaro che Tito fosse molto in pensiero per lei. Voglio rassicurarlo, decise, guardandosi rapidamente attorno alla ricerca di qualcosa a cui affidare il proprio messaggio. Non aveva carta da lettere, ma un foglio qualsiasi – anche uno di quelli un po’ sporchi che Donna Edda usava per scriverci la lista della spesa – sarebbe andato bene.

Lidia respirò a fondo, fissando intensamente la superficie bianca. Amore mio, esordì, scrivendo automaticamente le parole con cui si rivolgeva solitamente al ragazzo, ho ricevuto solo oggi la tua lettera, che naturalmente mi ha reso molto felice. Tuttavia, desidero rassicurarti, perché mio marito…

La ragazza si bloccò, prima di cancellare con un deciso tratto di penna la dicitura “mio marito”: non era il caso di mettere l’accento sul legame che esisteva tra lei e Ulf.

Ecco, scriviamo “Ulf”…

Quando l’ebbe scritto, però, la fanciulla esitò di nuovo. Ma lui non sa nemmeno chi sia, Ulf. E poi potrebbe forse sembrargli un po’ troppo famigliare. Lidia mordicchiò il retro della penna, cercando un’espressione più adeguata. Tuttavia, desidero rassicurarti, perché il germanico mi tratta con riguardo e…

No, no! Pensò con una smorfia, cancellando l’intera frase e gettando la penna sul tavolo. Ulf non è solo “il germanico”!

Ma per Tito lo è, le fece notare una parte della sua coscienza. Nascondendo il volto tra le mani, Lidia si arrese all’evidenza. Per Tito lo è, ma per me no. Era inutile continuare a negarlo: in un modo o nell’altro aveva finito con l’affezionarsi a Ulf, almeno un pochino, e non le andava di definirlo semplicemente “germanico”.

Facendo a pezzi il foglio e gettandolo nella spazzatura, Lidia si rosicchiò nervosamente un’unghia, pensando che, prima di scrivere a Tito, avrebbe fatto bene a capire quello che provava per Ulf. Ecco, adesso mi servirebbe veramente Lucilla. Si disse, con un sospiro afflitto. Lei è sempre stata brava a destreggiarsi nelle faccende di cuore.

A quel pensiero, Lidia si riscosse. Ma io non sono innamorata di Ulf, su questo non ci sono dubbi. E non ce n’erano veramente, di dubbi: quello che provava per suo marito era troppo diverso da quello che provava per Tito per essere parte dello stesso sentimento. Però… forse un po’ a lui ci tengo? Come si tiene a un amico o… a un fratello?

La fanciulla emise un sibilo basso, sarcastica, alzandosi automaticamente dalla sedia e raggiungendo la finestra poco distante. L’unico fratello con cui poteva fare il paragone era Marco; e lui di certo non era un fulgido esempio di amore fraterno. Improvvisamente, un flashback le lampeggiò nella testa. Aveva dodici anni e Lucilla era seduta accanto a lei in giardino e intrecciava un bracciale di margherite. L’ho letto sul giornale, stava dicendo la sua amica. Per capire se un ragazzo ti piace veramente, devi pensare di baciarlo. Se ti fa schifo, vuol dire che non ti piace. Se invece ti fa pizzicare lo stomaco, vuol dire che ti piace. Funziona. Se penso a Massimo mi viene caldo, se penso a tuo fratello, invece, mi viene da vomitare.

Lidia sorrise, persa nel ricordo. Se penso di baciare Tito, sento caldo attorno al cuore. Se penso di baciare Ulf… La fanciulla si fermò, avvampando. Se penso di baciare Ulf…

Allontanandosi di scatto dalla finestra, Lidia afferrò la lettera di Lucilla, lacerandone l’involucro. NON penso di baciare Ulf. Non ci penso affatto! Si impose, con le guance in fiamme e una strana tensione nel petto. Con le gambe che le tremavano un poco, la ragazza tornò a sedersi al tavolo, prendendosi per un istante il capo tra le mani. La situazione potrebbe essere leggermente più complicata del previsto, riconobbe, con il cuore in gola. Chiudendo gli occhi per qualche istante, Lidia si tuffò nella lettera di Lucilla, sperando che le parole dell’amica la distraessero dalla sorprendente mezza scoperta che aveva appena fatto.

Dopo più di mezz’ora, la giovane posò di nuovo la lettera sul tavolo, con un gran sorriso stampato sul volto. Come previsto, il messaggio dell’amica l’aveva distratta e notevolmente rasserenata. Lucilla aveva un vero talento per la scrittura, riusciva a rendere interessanti e avventurose anche le cose più banali e aveva raccontato del suo arrivo ad Afen, del suo matrimonio e della convivenza con suo marito in un modo così coinvolgente che a Lidia era parso di leggere un romanzo.

Un romanzo umoristico, naturalmente. Il povero Ekbert doveva essere stato travolto da un ciclone biondo che, per nulla intimorito dal nuovo ambiente in cui si trovava, aveva preso a riordinare la sua vita secondo la sua personalissima visione del mondo, lasciando ben poco spazio per le opinioni altrui.

Però sembra che stiano bene, insieme. Lucilla, infatti, non si lamentava di suo marito e, anche se sembrava non considerarlo particolarmente intelligente, diceva che era un uomo buono e paziente – per forza, altrimenti come farebbe a sopportarla giorno e notte? – e che, tutto sommato, era un buon marito. La sua unica pecca era quella di essere un pastore e di fondare il suo relativo benessere economico sugli introiti legati all’enorme gregge di capre di cui era l’unico padrone. Enorme gregge del quale Lucilla, sua legittima consorte, doveva occuparsi tanto quanto lui.

Almeno non sono l’unica a dover fare certe cose, pensò Lidia, sogghignando.

«Perché ridi, Meidli

Lidia sobbalzò, portandosi automaticamente una mano al cuore e raccogliendo con l’altra i fogli sparsi sul tavolo, avendo cura di nascondere la lettera di Tito, ancora in bella vista, tra le pagine di quella di Lucilla. «Donna Edda!» esalò, voltandosi a fronteggiarla. «Mi hai spaventata. Non ti ho sentita arrivare.»

La donna non replicò, ma il suo sguardo si fermò sui fogli che la giovane teneva tra le mani. «Mi ha scritto una mia amica» le spiegò Lidia. «Si è sposata e ora sta ad Afen: mi ha raccontato un po’ della sua vita.»

«Mh» commentò Donna Edda, chiaramente colpita da quell’informazione. «Hai pulito la stalla?»

Il sorriso di Lidia si smorzò e la giovane si infilò le lettere nella tasca del grembiule. «No, Donna Edda» sbuffò. «Lo faccio subito.»

«Schnäll, Meidli!» abbaiò la vecchia germanica.

Afferrando la scopa di saggina, la ragazza marciò verso il retro della casa. Ma sì, forse è meglio pensare al letame, invece che a certe cose: puzza un po’, ma dà meno preoccupazioni.

***

Quella sera, a cena, Lidia notò che Ulf sembrava osservarla con una certa insistenza. La sua coscienza sporca le fece immediatamente pensare che, forse, Donna Edda gli avesse detto qualcosa delle lettere e che lui si fosse insospettito per un qualche motivo. Meglio affrontare subito l’argomento, decise. «Sai», disse allora, posando il cucchiaio nel piatto, «oggi mi ha scritto una mia amica.»

Lui la guardò, leggermente sorpreso. «Ti ha scritto qui? Aveva l’indirizzo?»

Lidia scosse il capo, leggermente amareggiata. «No, la lettera l’ha ricevuta Donna Erin. L’ha anche letta, se è solo per questo.» Ulf fece fischiare l’aria tra i denti, sarcastico, senza però mostrarsi particolarmente stupito da quell’informazione. «Comunque», continuò la giovane, «pare che si trovi bene, su ad Afen. Anche se, da quello che dice, la sua vita sembra decisamente avventurosa

L’uomo la osservò in silenzio per qualche istante, prima di sorridere. «Ti manca, non è vero?»

Lidia gli rivolse un sorriso triste. «Sì, molto. Ci conosciamo da quando siamo bambine e lei… be’, lei è la mia migliore amica. Mi manca da morire» mormorò. Ulf parve soppesare le sue parole. «Afen, dici» disse, a mezza voce. Quando Lidia annuì, l’uomo proseguì «Stavo pensando… a settembre dovremmo avere un po’ di tempo libero. Forse potremmo andare a trovarla, se ti fa piacere.»

La ragazza si illuminò. «Dici sul serio?» Ulf annuì, sorridendo davanti al suo entusiasmo. Andare a trovare Lucilla! Sarebbe magnifico, non vedo l’ora di sentire dalle sue labbra tutto quello che… Improvvisamente, il sorriso di Lidia si spense. Già. Peccato che a settembre io non sarò più qui.

L’uomo, accorgendosi del suo brusco cambio d’umore, si affrettò a correggere il tiro. «Solo se ti va, naturalmente» disse, ignaro del motivo dell’improvviso sconforto della giovane. «Non devi sentirti obbligata.»

Lidia si sforzò di tornare a sorridere, anche se tutto d’un tratto sentiva di avere la gola chiusa. «No, sarebbe bellissimo, davvero. È solo che sono un po’ triste perché settembre è lontano.»

Ulf si strinse nelle spalle. «Lo so, ma purtroppo non è proprio possibile partire prima di allora. D’estate ci sono sempre un sacco di lavori da fare.»

La fanciulla annuì. «Lo capisco. Va benissimo così, davvero.» Da quando le bugie ti vengono così naturali, Lidia? Si chiese, con una smorfia. Stare a Erding l’aveva cambiata; e non era certa che il cambiamento fosse stato per il meglio. Prima non mentivo in questo modo, rifletté.

Prima piangevi anche più spesso, però, le fece notare la solita vocina.

«Sei sicura?» insistette Ulf, squadrandola con aria critica. «Perché se c’è qualcosa che…»

La ragazza scosse la testa, allungandosi sopra il tavolo e stringendogli brevemente la mano – anche toccarlo era diventato molto più facile, ultimamente. «Non c’è nessuno problema, dico sul serio.» Improvvisamente la giovane si ricordò di qualcosa che forse avrebbe sviato l’attenzione di Ulf dalla sua tristezza. «Però c’è una cosa che vorrei chiederti.» L’uomo sollevò le sopracciglia, sorpreso dal cambiamento nella voce della giovane, ma non commentò. «Che tu sappia, c’è un qualche legame tra Donna Erin e il Prefetto Caleno?»

Ulf scosse il capo, senza capire. «No, che io sappia no. Perché me lo chiedi?»

«Oggi Donna Erin mi ha invitata a casa sua per consegnarmi la lettera di Lucilla, la mia amica. C’era anche lui e devo dire che mi sono sembrati piuttosto… intimi.»

La notizia parve sorprendere il germanico. «Sei sicura di non avere interpretato male la situazione? Ai sacerdoti è vietato avere legami sentimentali, pena la perdita del loro rango.»

Lidia si strinse nelle spalle. «Non lo so, forse hai ragione. Il Prefetto del resto sostiene di essere semplicemente un suo vecchio amico…»

Lo sguardo di Ulf si concentrò su di lei. «Gli hai parlato?» Lidia arrossì, rendendosi improvvisamente conto di non avere una scusa plausibile per giustificare il fatto di aver parlato a quattr’occhi con il romano. «Sì» ammise. «Voleva sapere come mi trovo qui in Germanica.»

L’uomo annuì, senza indagare oltre. «E la Sacerdotessa? Ti ha invitata a casa sua semplicemente per darti quella lettera?»

La fanciulla sospirò. «No. In effetti… in effetti voleva sapere se mi avevi ancora picchiata

Ulf sbuffò, allontanando la sedia dal tavolo e alzandosi bruscamente in piedi. «Mi libererò mai di questa storia?» sbottò, rivolto più a se stesso che a sua moglie. La giovane si morse le labbra, nervosa, prima di alzarsi e raggiungerlo. «Sono sicura che prima o poi la gente si dimenticherà di questa faccenda» mormorò. «Del resto, non si vede nemmeno più il livido.»

Ulf le si avvicinò e, posatale una mano sul mento, le sollevò il viso per esaminarlo meglio. «Vero» confermò. Quando le dita dell’uomo si posarono sulla sua pelle, la fanciulla avvampò, con il cuore in gola. Ulf si accorse del suo rossore e la guardò, stranito. «Stai bene? Ti vedo un po’ strana.»

Lidia deglutì. «Sto bene, sto bene» lo rassicurò. «Mi gira solo un po’ la testa. Forse mi sono alzata un po’ troppo in fretta.»

«Hm…» commentò l’uomo, prima di lanciarsi in un discorso sul perché, da un certo punto di vista, odiasse vivere in un paese così piccolo, dove tutti sapevano tutto di tutti. Lidia, però, non lo stava più ascoltando, persa nei suoi pensieri confusi. Non è possibile, si disse, a denti stretti, stanotte ho dormito addosso a lui come se nulla fosse; e adesso arrossisco come una cretina solo perché lui mi tocca la faccia. Non va bene, non va bene per niente!

No, non andava bene: se voleva vivere serenamente i mesi che la separavano dall’arrivo di Tito, doveva certamente imparare a controllarsi. Non poteva iniziare ad avere strane – e stupide! – reazioni davanti a Ulf. Non è cambiato niente, si disse, non deve cambiare niente. Non doveva dimenticare il modo in cui era nata quella storia, quella decisione che le era stata imposta dall’alto e che l’aveva tanto fatta soffrire: anche se al momento le cose andavano indubbiamente meglio, non doveva dimenticare se stessa e quella che era stata. Era, tra le altre cose, una questione d’orgoglio, una questione d’onore.

E per lei, romana per nascita e nello spirito, l’onore era tutto.

***

Anche questa settimana, ci tengo a ringraziare alcune persone. I nuovi lettori – Fioremargherita e Controcorrente (che non perdono un colpo), Wasabi (che ha l’occhio lungo XD), Mazie (che ha scritto un papiro e ha inquadrato davvero bene Lidia) e Okapi7 (una parola di conforto sull’ambientazione, che è il mio cruccio, fa sempre piacere!).

Un grazie speciale anche ad Arda: è davvero bello sapere che c’è qualche lettore “vecchio”, che ha seguito la prima versione della storia, che trova la voglia e il tempo di leggere anche questo secondo tentativo (definitivo, promesso!)

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Capitolo 17
*** 16. Una cena in famiglia ***


Erding - Germanica Inferiore, 342 a.U.c., 28  Maggio

Anche se Lidia le aveva in un certo senso relegate nel suo inconscio, le parole di avvertimento rivoltele da Caleno la resero più consapevole del modo in cui la gente la guardava. Quando, la mattina, si recava al mercato accompagnata da Donna Edda, la fanciulla lanciava tutt’attorno a sé occhiate circospette, cercando di valutare il modo in cui gli abitanti di Erding reagivano alla sua presenza. Anche se la maggior parte di essi le sfilavano accanto senza nemmeno notarla, c’era ancora chi si soffermava a osservarla con curiosità e, così le pareva, una scintilla di malizia nello sguardo. Ciò che più la disturbava, però, era quello che, di tanto in tanto, le pareva di notare negli occhi di certi uomini: un’ombra torva, cupa, anche malevola, al tempo stesso fredda e bollente.

È tutta suggestione, si diceva la ragazza, senza trovare il coraggio di farne parola con la sua accompagnatrice che, un giorno di fine maggio, le ingiunse di andare a portare il pranzo a Ulf nella sua bottega. Da sola. Lidia non sapeva quale fosse la posizione di suo marito al riguardo – anche se sospettava che non avrebbe approvato – ma, quando la vecchia germanica glielo propose, lei non osò contraddirla.

Quando era a Roma, la giovane era abituata a muoversi da sola – o al massimo in compagnia di una servetta – nella più totale autonomia, con la massima libertà di decidere dove andare: le settimane passate in compagnia di Donna Edda le avevano quasi fatto dimenticare quanto fosse bello poter vagare per le strade senza l’ingombrante presenza dell’anziana donna costantemente attaccata alle calcagna. Tuttavia, quando si trovò sola nelle vie di Erding, la ragazza si accorse come la severa figura della vecchia Edda l’avesse anche in un certo senso schermata dalle occhiate dei presenti: quella mattina, Lidia si sentì seguita da mille occhi, sguardi penetranti e pungenti come tanti piccoli spilli.

Stingendosi al petto il fagotto che Donna Edda le aveva consegnato, Lida allungò il passo, cercando di sottrarsi in fretta a quelle attenzioni che la facevano tanto sentire fuori posto: anche se non era più bassa di buona parte delle donne germaniche e i suoi capelli di un castano slavato erano più chiari di quelli di molti abitanti del paese, la giovane romana non riusciva a fare a meno di sentirsi piccola e scura, in netto contrasto con il resto della popolazione locale.

Camminando a testa bassa, evitando di incrociare lo sguardo di chi le stava accanto, la fanciulla sfilò rapida attraverso le vie del villaggio, lasciandosi presto alle spalle le vie più trafficate. La bottega di Ulf, nella quale era già stata un paio di volte, in compagnia di Donna Edda, si trovava verso i margini del piccolo paese e, man mano che si allontanava dal centro di Erding, Lidia sentiva il peso degli occhi della gente scivolarle via dalle spalle. Respirando a pieni polmoni, la ragazza si ricordò di quanto amasse il mese di maggio, con il suo profumo di fiori e con il sole che, pur essendo piacevolmente caldo, non bruciava ancora la pelle e gli occhi come quello infuocato dell’estate inoltrata.

Forse dovrei iniziare a passare un po’ più di tempo fuori casa, si disse, respirando a pieni polmoni l’aria del tardo mattino. Sì, ma con chi? Anche se ormai era in Germanica da parecchie settimane, la giovane romana non era riuscita a farsi alcuna amica – a meno che non si volesse ottimisticamente definire così Donna Edda – e, tra le sue conoscenze, la donna che era più vicina a lei per età e per legami famigliari era Unna, una persona che certo non l’avrebbe accompagnata in lunghe e spensierate passeggiate bucoliche.

Quando, poco dopo, giunse di fronte alla bottega, la fanciulla la esaminò con un’occhiata veloce: non vi era segno di presenza umana e dall’interno non giungeva alcun rumore. Con un sospiro rasserenato, Lidia dedusse che suo marito dovesse essere solo e, rassicurata, abbassò la maniglia con un gomito. Con un colpo di spalla, la ragazza socchiuse l’uscio, certa che all’interno dell’edificio avrebbe trovato solamente Ulf. «Ti ho portato da mangiare» annunciò ad alta voce, guardandosi attorno alla ricerca del marito.

Gli occhi azzurri che comparvero dalla porta aperta che conduceva al locale più interno, però, non appartenevano a Ulf, bensì a Unna. Il disappunto che provò dovette mostrarsi chiaramente nella sua espressione, perché la germanica ridacchiò. «A me?» la prese in giro.

Lidia strinse i denti e sostenne il suo sguardo freddo. «No, a Ulf, a dire il vero» ribatté, cercando di non farsi innervosire dall’indisponente cognata.

La donna bionda si strinse nelle spalle. «Be’, meglio così, dopotutto. Mi sono arrivate certe voci, a proposito della tua cucina…»

Crepa, pensò Lidia, esalando lentamente e cercando di non risponderle malamente: Unna la intimidiva e confondeva, ma la fanciulla si sentiva molto vicina a esplodere e dirle una volta per tutte quello che pensava di lei. E comunque, pensò ancora, stizzita, quel traditore doveva proprio andare a sbandierare ai quattro venti quel piccolo incidente di percorso?

Respirando a fondo, Lidia scrollò le spalle. «Già. Comunque questi sono gli involtini di Donna Edda, non li ho preparati io.»

Per una frazione di secondo, l’espressione di Unna mutò e il suo sguardo si appuntò sul fagotto che la ragazza teneva tra le mani. «Ah» commentò, in un tono neutro che non riuscì a celare il lampo di desiderio che era passato nei suoi occhi chiari.

La giovane romana non si dette pena di nascondere il sorrisetto trionfante che le increspò le labbra: la vecchia Edda le aveva raccomandato di imparare a cucinare quel piatto – senza dar fuoco alla cucina, per grazia degli Dèi! – perché a Ulf piaceva tanto e si meritava di mangiare qualcosa di buono, ogni tanto.  A quanto pare questi cosi piacciono a entrambi i gemelli, non solo a Ulf, considerò Lidia, studiando il volto della cognata. Prima di avere però il tempo di formulare una battuta sagace – e di trovare il coraggio di pronunciarla – Lidia venne distratta dalla comparsa di suo marito.

«Lidia?» fece Ulf, in tono vagamente sorpreso. «Mi era sembrato di averti sentita.»

Distogliendo lo sguardo da Unna, la fanciulla si volse verso l’uomo. «Sì, ti ho portato il pranzo!» esclamò, avvicinandosi a lui e sorridendo come se vederlo l’avesse resa incredibilmente felice. La reazione era certamente un po’ spropositata, tuttavia la giovane si sentiva per qualche motivo in dovere di dimostrare qualcosa alla cognata.

Ulf le lanciò uno sguardo stranito, ma accettò il fagotto che gli stava porgendo, posandolo poi sul tavolo alle sue spalle prima di aprirlo e sorridere scorgendone il contenuto. «Li ha fatti tua nonna» lo rassicurò, e lui le lanciò un sorriso divertito che fece sbuffare Unna.

L’uomo passò rapidamente lo sguardo tra le due giovani, prima di lasciarsi scivolare su una sedia. «Voi due avete già pranzato?» chiese, con il tono di chi intavola una discussione tra vecchi amici.

«No, e a dire il vero ho anche un po’ fame» rispose Lidia, sovrapponendosi alla voce di Unna, che invece lo informava di non avere nemmeno un po’ di languore. Bugiarda, pensò la giovane romana, memore dello sguardo che la donna le aveva rivolto poco prima quando aveva scoperto il contenuto del fagottino.

Sentendo di avere l’occasione di rifarsi almeno in parte della scortesia che Unna le aveva sempre dimostrato, la fanciulla si sedette accanto al marito e afferrò con due dita un involtino, infilandoselo in bocca. Masticando lentamente, si voltò appena per osservare di soppiatto la cognata, che, a sua volta, la guardò schifata. «Che eleganza» commentò, sarcastica.

Ulf, che aveva seguito con sguardo critico lo scambio silenzioso, scosse il capo, sospirando. «Non potete proprio cercare di andare d’accordo?»

Lidia arrossì leggermente, sentendosi vagamente sciocca per il comportamento adottato, ma si strinse nelle spalle, rifiutandosi di ammetterlo ad alta voce, mentre Unna sibilava qualcosa in dialetto. Ulf lanciò alla sorella un’occhiata secca e Lidia provò un piccolo brivido di trionfo, ma subito dopo l’uomo spostò lo stesso sguardo su di lei, trasformando la sua soddisfazione in irritazione. Ciononostante, un filo di vergogna le imporporò ancora di più le guance.

Ha iniziato lei, avrebbe voluto dire, un’affermazione forse un po’ infantile, ma tuttavia veritiera. Poi, però, Unna parlò di nuovo, catturando tutta l’attenzione di Ulf. Anche se non comprese le sue parole, la giovane romana avvertì chiaramente l’istante in cui l’atmosfera cambiò, facendosi d’un tratto più cupa e colma di una tensione diversa da quella di un momento prima. I gemelli si fissarono negli occhi per un istante che alla ragazza parve lunghissimo, poi Ulf annuì, secco, distogliendo lo sguardo da quello della sorella. «Jo» mormorò, così piano che Lidia dovette tendere le orecchie per sentirlo.

“Sì” cosa? Si chiese, con un pessimo presentimento. Senza aspettare una risposta più articolata, né rivolgere loro alcun saluto, Unna girò sui tacchi e uscì dalla bottega, lasciando Lidia sola con suo marito. «Cos’ha detto?» chiese la fanciulla, dopo qualche istante.

Ulf masticò lentamente un boccone, prima di darle una risposta che a Lidia parve un po’ troppo vaga per essere accurata. «Questa sera siamo invitati a cena da mio padre. Vuole parlarci di alcune importanti novità.»

Il fatto che Gefrid desiderasse passare del tempo con loro era già di per sé una novità e Lidia non poté fare a meno di insospettirsi davanti a quell’invito inaspettato. «Quali novità?»

L’uomo scosse il capo. «Non ne ho idea, Unna non me l’ha detto. Immagino che non lo sappia nemmeno lei.»

«Questa sera ci sarà anche lei?» chiese la giovane, cauta. Il cenno di assenso di Ulf la gettò nello sconforto. Alzando lo sguardo sull’uomo, però, si rese conto che anche lui pareva tutt’altro che rilassato e la fanciulla intuì che doveva sapere di più di quello che era disposto a rivelarle in quel momento. «Questa novità riguarda noi o riguarda tutto il villaggio?» indagò la ragazza, colta da un presentimento.

Ulf fece schioccare la lingua, lanciandole uno sguardo storto. «Te l’ho detto, non ne ho proprio idea. Se si trattasse di una nuova trovata della nostra amatissima sacerdotessa, però, non me ne stupirei: tutto questo ha un che di già visto, in effetti.»

«In che senso?» insistette Lidia, avvicinandosi a lui e sedendosi sul tavolo, guardandolo, per una volta, dall’alto in basso. L’uomo scrollò appena le spalle. «Mio ha padre ha fatto un annuncio del genere, il giorno in cui mi ha detto che avrei dovuto sposarti.» La giovane aggrottò la fronte, turbata. «Credi che sia una cosa del genere?» chiese.

Ulf piegò le labbra in una smorfia. «Non lo so, però ho sentito certe voci… niente di sicuro, solo alcune cose che mi ha riportato Karl, il marito di Unna, a proposito di alcune concessioni che si vorrebbero fare a Roma.» Lidia inclinò la testa, confusa, ma il giovane scosse il capo. «Per ora è inutile fare troppe congetture, però: del resto, tra qualche ora mio padre ci dirà tutto, stanne pur certa. È solo questione di portare pazienza fino a questa sera.»

La fanciulla annuì, poco convinta, e si portò alla bocca un altro involtino. C’era qualcosa, in quella faccenda, qualcosa che aveva respirato in giro per strada e scorto nei lineamenti tirati di Unna, che la intimoriva. Avrebbe desiderato parlarne ancora, magari per sentire Ulf pronunciare qualche parola rassicurante, tuttavia avvertiva chiaramente che l’uomo non desiderava discuterne ulteriormente, almeno per il momento, e così cercò un argomento di conversazione che fosse in grado di spezzare il silenzio nervoso che era calato nella stanza. «Come va con il lavoro?» chiese, aggrappandosi al primo pensiero che le attraversò la mente.

Ulf sorrise, mentre le sue spalle si rilassavano in maniera visibile. «Bene, direi. Il mobile a cui sto lavorando dovrebbe essere finito in un paio di giorni, se non ci sono imprevisti.» Così dicendo, si alzò dal tavolo e raggiunse una cassettiera di legno chiaro appoggiata alla parete poco distante. I cassetti non erano nei loro vani e, avvicinandosi per osservarli più da vicino, Lidia notò che due di essi erano finemente decorati con motivi regolari, eppure sorprendentemente morbidi e armoniosi. «Li hai fatti tu?» chiese, ammirata, pur conoscendo già la risposta. Ulf annuì, evidentemente fiero del proprio lavoro, e sorrise di nuovo. «Sei davvero bravo» commentò la ragazza, sincera, seguendo con la punta del dito la linea degli intarsi. «Ti piace il tuo lavoro, non è vero?» aggiunse, alzando gli occhi scuri sull’uomo.

«Molto», confermò lui, «ma mi piacerebbe avere qualcuno con cui lavorare. Se solo riuscissi a convincere Hermann…»

Quel commento fatto a mezza voce attirò l’attenzione di Lidia. «Perché, tuo fratello non vuole venire a lavorare qui?»

Ulf scosse la testa, mentre un’espressione cupa gli si dipingeva sul volto. «No» sospirò. «E dire che sarebbe anche bravo, molto più di me, soprattutto con le decorazioni. Ma lui dice di voler fare qualcosa che gli permetta di stare all’aria aperta…»

Lidia si strinse nelle spalle. «Be’, immagino che non lo si possa costringere a fare qualcosa che non vuole fare…»

L’uomo abbassò gli occhi, pensieroso. «Probabilmente no, ma se non si troverà un lavoro stabile a breve finirà col diventare un minatore.» Alla fanciulla non sfuggì la preoccupazione nella sua voce e le sue labbra si piegarono in un’espressione inquieta quando ricordò i minatori che aveva incrociato qualche giorno prima. I minatori vivono poco, aveva detto Ulf, e la fanciulla non stentava a crederlo, ricordando i loro occhi rossi e la loro pelle ricoperta di polvere d’argento e roccia.

Mentre era immersa in quei pensieri cupi, la voce di Ulf la riscosse. «E tu? Che cosa ti sarebbe piaciuto fare?»

La domanda la sorprese, perché, in realtà, Lidia non aveva mai avuto dei progetti precisi per il proprio futuro. Da bambina aveva sognato di diventare un medico, ma con il passare del tempo il suo scarso amore per lo studio l’aveva costretta ad abbandonare quel progetto. Da quando si era scoperta innamorata di Tito, poi, si era convinta che la sua vita sarebbe stata quella di una moglie e di una madre: l’idea le era sembrata piacevole, rassicurante, e lei l’aveva sposata di buon grado. Del resto, se fosse diventata la moglie di Tito, non avrebbe certo avuto bisogno di lavorare per sopravvivere. Da quando era giunta in Germanica, però, la fanciulla si era abituata a vivere alla giornata e non si era più preoccupata di pensare a quello che avrebbe dovuto fare per guadagnarsi da vivere. Immaginava che, da un certo punto di vista, il suo progetto di vita avrebbe potuto rimanere valido anche lì: Ulf non era certo ricco come Tito, ma il fatto di avere una bottega tutta sua gli permetteva di poter vivere con un certo agio. Non tutto sarebbe stato uguale, naturalmente: lì non ci sarebbero stati bambini, per lei, e anche il fatto di essere “moglie” non era che una copertura, un inganno. Accorgendosi che Ulf stava aspettando una risposta, la ragazza deglutì. «Non lo so» improvvisò. «Credo che mi sarebbe piaciuto diventare una maestra d’asilo…»

L’uomo la guardò, corrugando leggermente la fronte. «Asilo?»

«Sì» spiegò Lidia. «Un asilo è un luogo in cui si accolgono i bambini piccoli, quelli che non hanno ancora l’età per andare a scuola. Si fanno dei giochi, delle attività, delle gite… non esistono, qui?»

Il germanico scosse il capo. «No. Però ne ho sentito parlare, ora che ci penso.»

«Ah» commentò la fanciulla, con una punta di delusione, accorgendosi di come, improvvisamente, quell’idea le sembrasse affascinante. «Be’, questo è quello che mi sarebbe piaciuto fare. Mi piacciono i bambini.»

«Sì?» fece Ulf, distratto, mentre si voltava per tornare a esaminare un cassetto appoggiato sul piano di lavoro. Lidia inarcò un sopracciglio, leggermente sorpresa da quella repentina perdita di interesse per la loro conversazione, ma preferì non insistere oltre e non chiedersi se a Ulf piacessero, i bambini, e se nelle sue parole l’uomo avesse letto qualcosa di più personale di quello che lei aveva inteso.

***

Lidia fissò nervosamente la propria immagine riflessa nello specchio appeso alla parete del bagno. A denti stretti, la fanciulla cercò per l’ennesima volta di costringere dietro a un orecchio una ciocca ribelle che, ostinata, continuava a ricaderle sulla fronte. Abbassando con un sospiro le mani sudate e cercando di asciugarsele nel cotone leggero della gonna, la giovane si osservò con occhio critico, scoprendo mille piccoli difetti.

La verità era che non riusciva proprio a sentirsi a suo agio, con i capelli sciolti. Nel pomeriggio Donna Edda era passata da lei e le aveva proibito di raccoglierli nella sua solita crocchia: solo le vedove portavano i capelli raccolti, le aveva detto la vecchia germanica, poiché nella loro società quella pettinatura era vista come un segno di lutto. Presentarsi con i capelli raccolti a una cena di famiglia sarebbe stato a dir poco irrispettoso. Lidia si era allora rassegnata a lasciarli sciolti, ma non riusciva a fare a meno di sentirsi nuda, quasi indifesa: il fatto di non sentire la famigliare tensione alla base della nuca le dava l’impressione di aver dimenticato qualcosa, qualcosa di importante.

«Lidia! A che punto sei?»

La voce di Ulf la fece sussultare e la ragazza strinse convulsamente le mani sulla ceramica del lavandino. «Arrivo» fece, di rimando, lanciando un’ultima occhiata alla propria immagine riflessa e stupendosi di quanto spaventati sembrassero i suoi occhi. Con un sospiro, la giovane spalancò la porta e si trovò di fronte il marito, che la aspettava con le braccia conserte e un’espressione vagamente annoiata. «Alla buon’ora» brontolò l’uomo. «Ti ci vuole sempre mezz’ora, per prepararti ad andare a cena?»

«Ma no», si difese lei, «è solo che non riuscivo a sistemarmi i capelli. Vedi?» borbottò, portandosi una mano sul capo e strattonando nervosamente il ciuffo che proprio non voleva saperne, di stare al suo posto. «Sono tutta spettinata e… non volevo fare brutta figura, con tuo padre.»

Ulf inclinò leggermente il capo, osservandola attentamente. «Sei nervosa?» le chiese, in tono sorpreso.

Lidia avvampò. «Be’… forse un pochino?» Davanti allo sguardo scettico del giovane, la ragazza ridacchiò, imbarazzata. «Forse un po’ più di un pochino?»

L’uomo aggrottò la fronte, palesemente confuso. «Ma perché? Si tratta solo di mangiare qualcosa con la mia famiglia: è tutta gente che conosci, tra l’altro.»

«Lo so, lo so» sospirò lei. «Ma io non sono mai stata a mio agio in mezzo a tanta gente, sai?»

«In tutto saremo in sette: sette persone sono tanta gente

Lidia fece un piccolo cenno d’assenso. «Per me sì» ammise. Inaspettatamente, Ulf sorrise. «Cosa c’è?» indagò lei, confusa da quella reazione. L’uomo si strinse nelle spalle. «Da come me le avevano descritte, mi aspettavo che le romane amassero stare in società e detestassero la solitudine. Invece tu sei più selvatica di una volpe.»

La fanciulla sospirò. «Non è che a me piaccia stare da sola, a dire il vero. Quando ero a Roma adoravo stare in compagnia, avevo molti amici… ma qui non è la stessa cosa. Io… come dire, io mi sento costantemente fuori posto. Prendi la tua famiglia, per esempio: io non ho nulla in comune con loro, nemmeno la lingua.»

Un istante dopo aver pronunciato quelle parole, Lidia fu sul punto di pentirsene: quell’affermazione avrebbe potuto sembrare offensiva, anche se, di fatto, non era quella, la sua intenzione. La giovane, però, rinunciò a rettificare quello che aveva detto, dal momento che esso corrispondeva alla verità. Ulf non parve prendersela, però, e scosse appena il capo. «Non è esattamente vero che non hai niente in comune con loro: hai me, no?»

Per qualche motivo, quelle parole la fecero arrossire e Lidia rivolse al marito una smorfia a metà tra il divertito e l’imbarazzato. «Sì, va be’…» borbottò, guardandolo di sbieco per un istante, prima di volgergli le spalle e scendere lentamente le scale di legno, sentendosi quasi come un condannato che si incamminava verso il patibolo.

Dopo qualche secondo, Ulf la seguì e la raggiunse, posandole una mano sulla spalla. «Coraggio, vedrai che non sarà poi così terribile: è solo una cena, te l’ho detto. Saremo di ritorno tra un’ora o poco più.»

«Lo so» sospirò la giovane romana, rivolgendogli un sorriso tirato. Per qualche istante, Lidia si chiese se fosse il caso di dirgli che non era soltanto la presenza della sua famiglia, a metterla a disagio, ma anche e soprattutto l’argomento di cui si sarebbe discusso: non aveva dimenticato l’espressione esibita da Unna quel pomeriggio, nella bottega di suo marito. Poi, però, la ragazza chinò il capo e distolse lo sguardo, pensando che parlarne in quel momento non sarebbe servito ad altro che a far perdere loro del tempo e a rischiare di arrivare in ritardo alla cena.

Ulf la osservò attentamente e parve a sua volta sul punto di dire qualcosa, ma poi scosse il capo. «Vogliamo andare?» chiese invece, mettendo a tacere qualsiasi pensiero avesse attraversato la sua mente un istante prima. Con il cuore in gola e una sgradevole sensazione all’altezza dello stomaco, Lidia annuì e lo precedette fuori dalla porta.

***

Una decina di minuti più tardi, i due giovani giunsero in vista della casa di Gefrid e subito vennero accolti dai latrati del segugio grigio che aveva dato la caccia a Lidia la sera che aveva tentato di raggiungere l’accampamento romano. Quando riconobbe Ulf, il cane abbandonò l’atteggiamento guardingo e si avvicinò, scodinzolando amichevolmente.

«Ehilà» mormorò Lidia, allungando una mano per sfiorare il pelo ruvido che ricopriva il capo dell’animale. In cambio ne ricevette una generosa leccata sulle dita e quel tocco ruvido e umidiccio riuscì quasi a confortarla.

Un’istante dopo, la porta d’ingresso si spalancò e Donna Edda fece capolino sull’uscio. «Siete in ritardo» ringhiò la vecchia germanica, posando su di loro uno sguardo di gelida disapprovazione.

Apparentemente poco colpito dal rimprovero della nonna, Ulf si strinse nelle spalle. «Lo so, scusa. Sono tornato a casa tardi e mi sono dovuto preparare in tutta fretta.» Udendo quella spiegazione, Lidia gli rivolse un piccolo sorriso riconoscente, ringraziandolo in silenzio per non aver detto le cose come stavano e non averle rivelato che, se erano in ritardo, era per colpa del tempo che lei aveva passato chiusa in bagno.

Seguendo i suoi due accompagnatori in sala sa pranzo, Lidia deglutì nervosamente, vedendo che il resto della famiglia era già seduto al tavolo. Se Hermann le rivolse un sorriso radioso, Unna le riservò il consueto sguardo sprezzante, squadrandola da capo a piedi con un’irritante aria di superiorità.

«Scusate il ritardo» esordì Ulf, prendendo posto di fronte a suo padre e facendo cenno a Lidia di sedersi al suo fianco. «Ho davvero un sacco da fare, in questo periodo.»

«Hai degli ordini importanti?» la voce di Gefrid era bassa, ma alla giovane romana parve che il suo tono fosse un poco più morbido di quello che l’uomo aveva usato per rivolgersi al suo primogenito, negli ultimi tempi.

Ulf parve sorpreso dalla domanda del padre, ma sorrise, palesemente sollevato, e rispose di buon grado, illustrando lo stato del suo lavoro e trovandosi presto impegnato in una conversazione sui vantaggi e gli svantaggi del legno d’abete che Lidia aveva ben poco interesse a seguire. Anziché prestare attenzione alle parole, allora, la fanciulla badò piuttosto al modo in cui venivano pronunciate e notò con un certo sollievo che la tensione che in principio regnava tra i due uomini andava via via scemando, mentre padre e figlio parevano intenzionati a lasciarsi alle spalle le incomprensioni che Lidia stessa aveva causato. Tuttavia, la ragazza divenne poco alla volta consapevole di un altro tipo di nervosismo, qualcosa che portava Hermann a scoccare occhiate ansiose ai presenti e costringeva Karl a un immobilismo elettrico e forzato.

Ma certo, pensò Lidia, quasi con rassegnazione. Per quanto piacevoli, i discorsi di Ulf e di suo padre non facevano altro che rimandare il motivo per cui la famiglia si era riunita, quella sera: quali che fossero le novità che Gefrid intendeva comunicare loro, era piuttosto evidente che l’opinione comune era che esse non sarebbero state particolarmente gradevoli.

Poco alla volta, Lidia sentì la tensione montare nuovamente dentro di sé, una sensazione che culminò nel momento in cui, dopo un tempo che alla ragazza parve infinito, Gefrid posò rumorosamente il bicchiere sul tavolo e si schiarì la voce. «Veniamo subito al punto» esordì l’uomo, attirando immediatamente su di sé gli sguardi dei presenti. «Vi ho chiesto di venire qui questa sera perché ci sono delle novità di cui devo informarvi. Preferisco che le veniate a sapere da me, piuttosto che da altri.»

Quelle parole parvero avere un effetto immediato su Karl, che spinse indietro la sedia e posò i gomiti sul tavolo, posando sul suocero un’occhiata quasi feroce. Al suo fianco, Unna si schiarì la voce e irrigidì la schiena, un movimento che a Lidia ricordò quello di un gatto che si prepara a balzare sulla preda.

«Senza girarci troppo attorno», continuò Gefrid, senza degnare Karl di uno sguardo, «vi informo che due giorni fa mi è arrivata una comunicazione firmata dal Prefetto di Nemska e dal generale Leuthar. Forse avrete già sentito delle voci, ma ora la notizia è ufficiale: la parte sud della miniera è stata data in concessione a Roma. Questo significa che…»

La violenta esclamazione di Karl fece sobbalzare Lidia e impedì a Gefrid di terminare la frase. Immediatamente, questi si voltò verso il genero, fulminandolo con lo sguardo. «In latino, Karl!» abbaiò, guadagnandosi la riconoscenza di Lidia. Sebbene in quel momento la ragazza non vedesse cosa ci fosse di tanto importante nella cessione di un pezzo di montagna, la fanciulla viveva a Erding da un tempo sufficientemente lungo per capire che buona parte dell’economia del villaggio ruotava attorno all’argento che veniva estratto dalla miniera.

Karl strinse i denti e sostenne ferocemente lo sguardo del suocero, fissandolo in silenzio. Lidia si rese conto di non averlo mai sentito parlare in latino e, con una certa sorpresa, si ritrovò a chiedersi se il giovane non conoscesse la sua lingua. Dopo qualche secondo, però, egli abbassò il capo, facendo sibilare il fiato tra i denti. «Quindi dovremo fare spazio ad altri minatori?» chiese, con un accento talmente duro e tagliente che la fanciulla sospettò quasi che Karl esagerasse appositamente la propria inflessione germanica.

Senza battere ciglio, Gefrid scosse il capo. «No, sarete voi a estrarre l’argento e a versarlo a Roma» disse, lentamente, valutando la reazione dell’uomo. Con un’esclamazione di incredulità, Karl scosse il capo. «Non lavorerò mai per Roma» sibilò.

«No?» lo sfidò Gefrid, piantando i suoi occhi verdi, tanto simili a quelli di Hermann, in quelli del genero. «Non lavorare, allora, e fatti licenziare. Sei libero di farlo, nessuno ti obbliga: cerca però di non dimenticare le condizioni a cui ti ho permesso di sposare mia figlia.»

«Non è il caso» ringhiò Unna, con la voce simile alla lama di un coltello. A Lidia parve di vedere un’ombra scura attraversare il volto di Gefrid e, per una frazione di secondo, la giovane credette di avvertire un cambiamento nell’aria. L’istante fu però immediatamente spezzato dalla voce di Karl che, apparentemente poco turbato dalla velata minaccia del suocero, tornò all’attacco. «Perché dovremmo accettare una cosa del genere? Cosa ci guadagniamo?»

Davanti a quella provocazione, Gefrid parve esitare. «Non è una questione di cosa potete guadagnare, ma di cosa potete evitare di perdere. Come stavo cercando di dirvi prima, questa è una situazione in cui occorre essere estremamente pazienti: non è certamente una situazione ideale, ma nessuno di noi può fare nulla per cambiarla, quindi tanto vale cercare di sfruttarla al meglio.»

Karl commentò quelle parole con una risata beffarda e Hermann si sentì in dovere di intervenire. «Forse costruiranno delle strade» disse, con il tono di chi cerca di trovare un aspetto positivo in una vicenda che ne ha ben pochi. «Potrebbero anche riparare il ponte che…»

«Questo è poi da vedere» ringhiò Karl, interrompendo anche Hermann.

«Che cosa c’è, da vedere?» chiese il ragazzo, confuso. «Se ripareranno il ponte?»

L’uomo gli rivolse un’occhiata gelida. «Se non c’è davvero nulla da fare, come dice tuo padre» fece, parlando quasi come se Gefrid non fosse lì, seduto a poco più di un metro da lui. Il capofamiglia inspirò profondamente, preparandosi a ribattere, ma Hermann fu più rapido. «Sei un idiota!» sputò, rivolto al cognato.

Karl emise un suono di gola, poi si voltò di scatto verso Ulf, parlando in dialetto. Immediatamente, l’uomo si irrigidì, piantando gli occhi in quelli dell’amico. «No, non ho niente da dire, in proposito» scandì, in latino, rispondendo evidentemente alla domanda che l’altro gli aveva posto. «L’unica cosa che mi interessa è capire cosa significherà per me, tutta questa storia.»

Sentendosi improvvisamente chiamata in causa, Lidia alzò su di lui uno sguardo incerto. Tutto d’un tratto, si chiese se, dietro alle occhiate che la gente le rivolgeva per strada, non ci fosse forse quella storia. Ma no, si disse, cercando di rassicurarsi: lei era romana, era vero, ma, di certo, nessuno poteva ritenerla responsabile per quella decisione presa da altri.  Sentendosi osservata, la giovane alzò gli occhi fino a incrociare quelli grigi di Karl e tremò, trovandoli pieni di rabbia. L’uomo ringhiò nuovamente qualcosa in dialetto e Ulf gli rispose, nella stessa lingua e nello stesso tono, guadagnandosi un’altra risposta da parte dell’amico, che si alzò in piedi, minaccioso. Lidia non fu in grado di capire quello che aveva detto, ma, inaspettatamente, Unna artigliò il braccio del marito, costringendolo a tornare a sedersi e sibilandogli qualcosa con voce tagliente. Di fronte all’espressione bellicosa della moglie, Karl parve perdere un po’ di slancio e posò il mento sui pugni, lanciando un’occhiata torva a Ulf, ma astenendosi dall’aggiungere altro.

Accanto a lei, Lidia sentì Ulf rilassarsi impercettibilmente, ma non poté fare a meno di notare la sua aria tesa. Donna Edda, che aveva seguito lo scambio con espressione distaccata, spinse indietro la sedia e si alzò in piedi. «Unna, Lidia», disse, «aiutatemi a portare di là i piatti.»

Anche se sorpresa dal brusco cambio di argomento, la fanciulla si affrettò a imitare la cognata, afferrando qualche piatto vuoto e seguendo l’anziana germanica verso un’altra stanza. Pur dubitando che Donna Edda avesse veramente bisogno d’aiuto, capiva che si trattava di un semplice pretesto per dare la possibilità agli uomini di parlare da soli.

Mentre posavano i piatti nel lavello, Lidia azzardò un’occhiata verso Unna. «Grazie» le disse, tra i denti, riferendosi al modo in cui aveva ricondotto all’ordine suo marito: anche se non ne aveva la certezza, sospettava che l’ira di Karl fosse rivolta contro di lei. Unna si limitò a rispondere con un secco cenno del capo e, senza incrociare il suo sguardo, si allontanò da lei, lasciandola a fissare la sua schiena che si allontanava fino a sparire dietro a un’altra porta. Leggermente delusa dall’evidente impossibilità di avviare un dialogo con la cognata, Lidia scosse la testa, impilando distrattamente i piatti sporchi.

«Sono tutti un po’ nervosi.»

Voltandosi, Lidia incontrò gli occhi di Donna Edda che, seduta su uno sgabello, la osservava con sguardo attento. La fanciulla annuì, asciugandosi le mani bagnate nella gonna. «L’ho notato», mormorò, «ma non so cosa fare per migliorare la situazione.»

L’anziana germanica emise un suono sibilante che aveva solo una vaga somiglianza con una risata. «Niente» disse. «Non puoi fare niente, ma forse sarà meglio quando nascerà un bambino.»

Lidia sbiancò, prima di avvampare. Cos’è tutto questo parlare di bambini, oggi? «Speriamo» disse, quasi sottovoce, cercando un modo per sviare la conversazione. La vecchia Edda però non si lasciò distrarre e continuò a fissarla con i suoi occhi sorprendentemente penetranti. «Perché nascerà un bambino, vero?»

Pur comprendendo perfettamente il significato non detto di quella domanda, Lidia finse di ignorarlo. «Se gli Dèi lo vorranno…»

Donna Edda schioccò la lingua, un suono che ormai la fanciulla aveva capito essere un modo per esprimere il proprio scetticismo. «Non devono essere solo gli Dèi, a volerlo.»

Non vedendo alcuna via di fuga, Lidia abbassò lo sguardo sulle proprie mani, terribilmente a disagio. «Lo so» mormorò. Lanciando una rapida occhiata alle proprie spalle, Donna Edda lasciò lo sgabello e si avvicinò alla ragazza. «A che punto siamo?» le chiese, sottovoce.

Lidia chiuse gli occhi, arrossendo mortificata. Non voglio avere questa conversazione, mi rifiuto! Non ricevendo alcuna risposta, la germanica insistette. «Dovete darvi da fare, se passa troppo tempo la gente mormora!»

La fanciulla strinse ancora di più gli occhi e fu seriamente tentata di tapparsi le orecchie, pur di non sentire altro. Donna Edda sbuffò, spazientita. «Devo parlarne con Gefrid?»

Davanti a quella minaccia, la giovane spalancò gli occhi. «No, no!» esclamò, con urgenza. «Ne parlerò con Ulf» promise, prima di aggiungere, silenziosamente: per vedere se a lui viene qualche idea geniale per toglierci da questo pasticcio.

«Spero» borbottò ancora la germanica. «Altrimenti vi faccio io un discorsetto.»

Tremando d’orrore a quella prospettiva, Lidia deglutì. «Non ce ne sarà bisogno» la rassicurò.

***

Quando le tre donne fecero ritorno in cucina, i toni della conversazione sembravano essersi ammorbiditi: Ulf e suo padre parlottavano tra di loro in quella lingua che a Lidia risultava ancora quasi del tutto incomprensibile, mentre Karl, seduto rigidamente contro lo schienale della sedia, rispondeva a monosillabi. Quando, dopo una decina di minuti, Lidia e Ulf si avviarono verso casa, l’uomo si rinchiuse in un silenzio che la fanciulla non ebbe il coraggio di spezzare. Sebbene fosse impaziente di confrontarsi con lui, la ragazza si avvide che il giovane sembrava immerso nei propri pensieri e decise di non disturbarlo, almeno per il momento, rimandando la conversazione di qualche minuto. Quando si furono chiusi alle spalle la porta di casa, però, Lidia si voltò immediatamente verso il marito. «Allora? Credi che questa cosa sarà un problema?» lo interrogò.

L’uomo parve sorpreso dalla domanda; e la guardò senza capire. «Quale cosa?»

«Il fatto della miniera» chiarificò Lidia, aggrottando la fronte. Ulf le pareva assente, quasi che i suoi pensieri fossero lontani mille miglia da lei e dal suo tentativo di fare conversazione.

«Ah.» Con un sospiro, l’uomo si lasciò cadere sulla panca, nascondendo il volto tra le mani. «Sì, immagino… immagino che potrebbe essere un problema. Non tanto per la concessione in sé, ma per il modo in cui la gente potrebbe prenderla.»

Lidia annuì, ricordando la rabbia del marito di Unna. «Mi pare che Karl l’abbia presa decisamente male.»

«E non sarà certo l’unico» considerò Ulf, con una smorfia preoccupata. «Lui sa dell’esistenza della macchina di cui ti ho parlato l’altra sera. Era con me, l’ha vista. E quasi certamente anche gli altri minatori sanno che fine fanno le offerte. Se avessero capito a chi vanno le offerte e se anche loro sospettassero che la Sacerdotessa collabora con Roma…» L’uomo lasciò sfumare la frase e la fanciulla inspirò profondamente, prima di parlare. «Questa cosa della miniera però non c’entra niente con Donna Erin: tuo padre ha detto che l’ordine è arrivato da un qualche generale, se non ho capito male. È una faccenda di economia, non di religione.»

L’uomo le rivolse un’occhiata scettica. «Non sarei tanto convinto che le due cose siano realmente distinte, a dire il vero.»

«Ah, già» ricordò Lidia, con un sorriso storto. «Tu non ci credi, agli Dèi. Pensi che i sacerdoti siano tutti degli impostori?»

«Non tutti» la corresse Ulf. Non tutti, ma la maggior parte sì, concluse per lui la fanciulla, interpretando il tono in cui il giovane aveva pronunciato quelle parole. Per l’ennesima volta, Lidia cercò di farsi una propria idea su quella vicenda: sebbene, presi singolarmente, i singoli sospetti di suo marito le parevano piuttosto condivisibili, il modo in cui l’uomo le aveva presentato il quadro generale continuava a sembrarle un po’ troppo fantasioso e inverosimile. «Mi dispiace che tu abbia litigato con Karl» disse allora, dopo qualche istante, cambiando argomento.

Ulf scrollò le spalle. «Non fa niente» sospirò, a voce bassa. Tuttavia alla ragazza non sfuggì la sua espressione cupa, né il rammarico che, nonostante avesse cercato di mascherarlo, era emerso dalle sue parole. Sentendosi improvvisamente inadeguata, Lidia gli si avvicinò, cercando di trovare delle parole per confortarlo un po’. «Capita di litigare, tra amici», mormorò, sperando di non risultare stupida o scontata, «ma alla fine le cose tornano a posto, no?»

Alzando appena lo sguardo su di lei, Ulf annuì. «Immagino di sì…»

La fanciulla lo guardò, mordendosi le labbra. «Ma…?» abbozzò, sentendo che, dietro alla mezza frase del giovane, c’erano un’infinità di significati non detti. Lui si strofinò stancamente gli occhi. «Ma mi sembra di essermi fatto terra bruciata attorno» ammise, amaramente. «Unna, Karl, mio padre, gli altri miei amici… tutti odiano Roma e io mi sento tirato in mezzo. Ci sono giorni in cui non so più nemmeno io da che parte stare. A volte ho l’impressione di essermi inavvertitamente schierato dalla parte del nemico e questa cosa mi fa impazzire!»

Lidia sgranò gli occhi, stupita. «Di esserti schierato dalla parte del nemico?» ripeté, esterrefatta. «E cosa ti darebbe questa impressione, esattamente?» Ulf non disse niente, ma la sua espressione diede a Lidia la risposta che stava cercando. «Io sarei il nemico?» sibilò, indietreggiando di un passo.

Ulf abbassò la mano che gli copriva il volto e la fissò per qualche istante, sorpreso. «No» replicò, alzandosi e avvicinandosi a lei.

«No?» lo sfidò la ragazza, sentendosi ferita dalle sue parole. Capiva perfettamente quello che Ulf aveva voluto intendere, eppure sentirlo parlare in quel modo le aveva causato una sgradevole sensazione allo stomaco. Quasi senza rendersene conto, la giovane mosse un passo verso le scale che portavano al piano superiore, ma Ulf le afferrò le mani, arrestando la sua fuga. «Non tu, Lidia, al massimo Roma!» sbottò, con una vena di irritazione nella voce.

«Ma io sono romana! Io sono Roma!» esclamò lei, piccata, quasi senza accorgersi di avere alzato la voce.

L’uomo non parve particolarmente impressionato dal suo sfogo. «Addirittura? Tu sei Roma? Se fossi in te, non avrei una così alta opinione della tua città, sai? Mi pare che Roma non ci abbia pensato due volte a usarti come merce di scambio.»

Rifiutandosi di perdere quel confronto, Lidia fece un passo avanti, risoluta. «Nemmeno la tua gente ci ha pensato molto, prima di costringerti a sposarmi!» ribatté, fissandolo negli occhi.

Ulf scosse la testa. «Non è la stessa cosa.»

La fanciulla sbuffò. «Pensala come vuoi», ringhiò, «ma io sono e sarò sempre romana, che ti piaccia o meno! Se la mia città è un tuo nemico, allora lo sono pure io!» Immediatamente si pentì di quell’affermazione azzardata, eppure non riuscì a rinnegarne la verità di fondo.

L’uomo chiuse brevemente gli occhi, come per cercare di controllarsi. «Lo so, che sei romana: è difficile scordarselo, purtroppo. Ma non sei solo romana: adesso vivi qui, qualcosa vorrà pur dire!»

«E tu?» lo provocò Lidia, ignorando le sue parole. «Sei solo germanico, tu? Stai con me, sarai pure un po’ romano, no?»

Ulf la guardò come se l’avesse insultato. «No!»

«No? Solo no?» sibilò la giovane, mentre la rabbia le faceva pulsare le tempie. «Io devo adattarmi e cambiare, ma tu no?» Qualcosa nella sua testa le sussurrò che non era quello il punto, che era sbagliato insistere in quella discussione, ma il rancore e la frustrazione che aveva tenuto dentro di sé per tutto quel tempo le incendiarono il petto, impedendole di ritornare sui propri passi.

«Mi pare inevitabile: sei tu che vivi a casa mia, non viceversa!» le fece notare Ulf, senza mai lasciare la presa dalle sue braccia.

L’ingiustizia di quell’affermazione la fece avvampare. «Be’, mi sembra un po’ troppo comoda, così! Non ho chiesto io di venire qui, non vedo perché dovrei essere l’unica a fare dei sacrifici» ringhiò, dimenandosi nel tentativo di sottrarsi alla presa dell’uomo.

«Credi davvero che io non abbia fatto dei sacrifici? Credi che la mia sia una posizione comoda?» chiese Ulf, con il tono di chi è esasperato da i capricci di un ragazzino petulante. «Sono rimasto praticamente solo, ho litigato con tutte le persone a cui tengo, non mi pare che tu sia l’unica a potersi lamentare!»

«E cosa dovrei dire io, allora? Io invece sono davvero sola! Sono lontana migliaia di chilometri da casa e la mia unica compagnia sei tu

L’uomo fece sibilare l’aria tra i denti. «Mi dispiace per te» disse, sarcastico.

Lidia annuì, scostandosi i capelli dagli occhi con un gesto secco del capo. «Vorrà dire che meno avrò a che fare con te e meglio sarà!» sbottò. L’affermazione suonò infantile alle sue stesse orecchie, ma la ragazza spinse testardamente il mento in avanti e sostenne lo sguardo del giovane.

«Fai come credi!» commentò lui, gelido.

Tra i due calò il silenzio e, con i polsi ancora intrappolati tra le mani di Ulf, Lidia si sentì improvvisamente sola e sperduta. Ricacciando indietro la rabbia e la stanchezza, la fanciulla sorrise amaramente, mentre, tutto d’un tratto, i suoi occhi rividero il volto di Donna Edda. «E farai meglio a parlare con tua nonna, perché si aspetta di vedere un bambino in tempi rapidi.»

La voce le si spezzò e la ragazza sentì con orrore lacrime di frustrazione offuscarle la vista. Lidia inspirò a fondo, cercando di riprendere il controllo su di sé, ma la tensione della giornata, il litigio con Ulf, le cose che non avrebbe voluto dire – ma che in una certa misura pensava veramente – le pesavano sulle spalle e la giovane sentiva come un peso immenso schiacciarla a terra.

Improvvisamente Ulf la tirò contro di sé e, senza una parola, l’abbracciò. Con un sospiro che suonava quasi come un singhiozzo, Lidia si avvinghiò a lui, passandogli le braccia attorno alla vita e stringendolo più che poteva, nascondendo il viso nel suo petto. «Non è stata una serata facile» mormorò l’uomo, accarezzandole i capelli. Nell’udire la sua voce, la giovane si chiese se si sentisse stanco tanto quanto lei.

Lidia non rispose, ma respirò l’aroma del legno d’abete che ancora gli era rimasto addosso e quel profumo la confortò un poco. Con delicatezza, Ulf la scostò da sé e, posandole due dita sotto il mento, le alzò la testa fino a incrociare i suoi occhi arrossati. Vergognandosi della propria debolezza, Lidia voltò il capo di lato, appoggiando la guancia contro la mano di Ulf.

«Hai davvero litigato con tutti a causa mia? Se è così, mi dispiace» sussurrò, con gli occhi chiusi. L’uomo le accarezzò la guancia e la attirò di nuovo a sé. «Non è colpa tua, naturalmente» mormorò, accarezzandole la schiena.

In silenzio, con la fronte appoggiata al suo sterno, Lidia ascoltò le sue carezze, il calore del suo corpo e sentì la rabbia e lo sconforto scivolare via, lasciando al loro posto una strana tensione. Con te mi sento meno sola, pensò, ma non osò dirlo.

«Mi dispiace che tu sia così sola» fece il giovane, dopo qualche istante, quasi le avesse letto nel pensiero. «E mi dispiace che tu abbia dovuto lasciare il mondo che hai sempre conosciuto.»

Aprendo gli occhi e alzando il capo, Lidia osservò il suo volto, leggendovi preoccupazione e forse anche qualcos’altro e, quasi inconsciamente, fece scivolare le mani sul suo petto, su, fino ad arrivare a cingergli il collo. L’uomo seguì in silenzio i suoi movimenti e, quando incrociò i suoi occhi chiari, Lidia non si sentì nervosa, né a disagio, ma provò solo un senso di quieto tremore.

In quell’istante le sembrò giusto essere lì e, senza pensare a niente, si alzò sulla punta dei piedi e posò le labbra sulle sue. Immediatamente sentì i muscoli di Ulf tendersi per la sorpresa, ma la ragazza intrecciò le dita ai suoi capelli e schiuse leggermente la bocca, accarezzando le labbra dell’uomo con le proprie. Quando lui continuò a rimanere immobile, senza allontanarla, ma senza nemmeno ricambiare il bacio, la fanciulla lo sfiorò appena con i denti, rabbrividendo quando sentì la presa che l’uomo aveva sui suoi fianchi farsi più salda. Fu solo un istante, poi una mano di Ulf corse fino alla sua nuca e, affondando tra i suoi capelli, le fece inclinare il capo, approfondendo il bacio e insinuandosi nella sua bocca. Lidia tremò, aggrappandosi a lui con il cuore in gola e quando la sua mano scivolò lungo la sua schiena, lasciando dietro di sé una scia che le parve infuocata, desiderò che andasse oltre. Dopo qualche istante però Ulf si staccò da lei, appoggiando la fronte su quella della ragazza, col respiro leggermente affannato.

Il distacco schiarì le idee a Lidia, che avvampò. Cosa… cos’è successo?

Prima di riuscire a formulare un pensiero coerente, si allontanò di qualche centimetro dall’uomo e, incrociando il suo sguardo, vide che pareva confuso tanto quanto lei. La consapevolezza di non essere la sola a essere spaesata da quello che era appena accaduto la calmò un poco e Lidia deglutì, sentendo il bisogno di dire qualcosa, di spiegare, ma senza trovare le parole per farlo.

«Io», provò, «non è che… è solo che…» Si interruppe, in affanno, e Ulf le posò un dito sulle labbra, facendole socchiudere per un istante gli occhi. «Forse non è il caso di parlarne adesso…» sussurrò deglutendo.

Ottima idea! Esclamò una vocetta nella mente della ragazza, mentre la sua coscienza l’accusava di vigliaccheria. Accantonando quei pensieri, la fanciulla annuì, posando nuovamente le mani sul petto dell’uomo. Mentre i suoi occhi si chiudevano, Lidia si lasciò cullare dal respiro del giovane, cercando di scacciare i dubbi e i sensi di colpa che già si affacciavano alle porte della sua mente e di ignorare quegli strani brividi di felicità che le correvano su per la schiena, fermandosi, caldi e liquidi, nel centro del suo petto.

***

Oggi sono a casa, quindi anticipo di qualche ora la pubblicazione del capitolo.

Ormai sono in ritardo per gli auguri di Natale, però ne approfitto per augurare a tutti buon Anno!

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Capitolo 18
*** 17. Alla luce del giorno ***


L’aveva baciata. Non riusciva davvero a credere che, dopo aver giurato e spergiurato di non essere minimamente interessato a lei, si fosse arreso e l’avesse baciata. Che poi, a voler bene vedere, era stata lei a baciare lui, e non viceversa: ogni volta che ripensava a come Lidia avesse inaspettatamente preso l’iniziativa, il giovane avvertiva un sussulto che era a metà tra lo stupito e l’indispettito.

Perché l’aveva fatto? E perché, soprattutto, lui non l’aveva fermata?

Domanda retorica, lo rimproverò la sua coscienza. Se voleva sperare di far chiarezza nei i suoi pensieri e nelle sue emozioni, doveva per forza di cose essere onesto, se non altro con se stesso.

Voltando lo sguardo verso destra, Ulf sfiorò con una mano il fianco di Lidia, sollevato dal fatto che, dopo avere a lungo finto di dormire, la ragazza avesse veramente ceduto al sonno e si fosse addormentata tra le sue braccia. Certo, gli dava la schiena, ma, se il contatto con il suo corpo non l’aveva fatta scappare a gambe levate, allora forse gli avvenimenti di quella sera non avevano distrutto il fragile equilibrio sul quale si reggeva il loro rapporto. O almeno lo spero, considerò il giovane, rimpiangendo di non essere in grado di valutare con più sicurezza le reazioni della moglie.

La verità era che quella donna lo confondeva. Era da quando era arrivata a Erding che la stava studiando e, dopo diverse settimane passate insieme, Ulf sentiva di non averla ancora compresa in pieno. Sulle prime gli era parsa fragile e inutile, irritante nel suo continuo abbattimento, ma poi l’aveva vista impuntarsi, tenergli testa, prendere decisioni inaspettate e, sebbene ci fosse indubbiamente una fragilità di fondo in lei, l’uomo aveva pian piano dovuto ricredersi sul suo conto. Lidia, ne era convinto, era più forte di quello che sembrava, probabilmente più forte anche di quello che lei stessa credeva di essere. Il problema era che sembrava non voler rendersene conto, lasciando che le sue potenzialità andassero sprecate.

Sospirando piano, l’uomo si lasciò scivolare un po’ più vicino a lei, appoggiando il petto alla sua schiena. O forse sono solo io che mi illudo che sia così, e questa poveretta davvero non ce la fa ad andare oltre…

Improvvisamente, Lidia tremò nel sonno e Ulf la guardò, allarmato. Non si rimetterà mica a tremare, vero? Non avrebbe saputo dire quando avesse incominciato a preoccuparsi per lei, a desiderare che stesse bene. Sulle prime si era preoccupato soltanto di garantirle una vita dignitosa, badando soprattutto a incontrarla il meno possibile: per non disturbarla imponendole la sua presenza, sì, ma anche per non essere a sua volta disturbato da lei. Poco alla volta, però, le cose erano cambiate e lui aveva iniziato a sentire il desiderio di coinvolgerla nella sua quotidianità, di confrontarsi con lei, di mostrarle come fosse possibile anche per lei trovare un proprio posto lontana da Roma. Aveva iniziato a sperare che fosse soddisfatta della vita che aveva, poi aveva iniziato a chiedersi se fosse possibile che quell’ipotetica soddisfazione si trasformasse in felicità.

A ripensarci, doveva ammettere che si era probabilmente trattato di un processo graduale – un processo nel quale una parte importante era stata svolta da quei suoi maledetti occhi neri. Lei lo guardava con quegli occhi spalancati e lui sentiva il bisogno fisico di fare qualcosa per lei, di difenderla e di rassicurarla, quasi avesse a che fare con un cucciolo bisognoso di protezione. Che poi fosse calda e morbida e che le sue mani che si aggrappavano a lui lo facessero rabbrividire non era che un piccolo dettaglio.

Ma Lidia non era un cucciolo, bensì una donna, il che rendeva infinitamente più complicata l’intera faccenda. Perché, se da un lato Ulf doveva riconoscere di avere a cuore il suo benessere e di essere in un certo modo interessato a lei, almeno dal punto di vista fisico, il fatto che Lidia fosse una persona e, per la precisione, una persona straniera, era un problema. Anche se i toni erano stati un po’ troppo accesi, le cose che si erano detti durante la discussione che avevano avuto quella sera non erano del tutto false: Lidia era romana e, sebbene la cosa non gli piacesse nemmeno un po’, con ogni probabilità lo sarebbe sempre stata.

Avvicinandosi ulteriormente alla ragazza, Ulf respirò il profumo dei suoi capelli, sapone e qualcosa di dolce che non riusciva a identificare. La tangibilità della sua presenza lo portò a pensare, quasi automaticamente, alle circostanze che l’avevano condotta da lui.

Non aveva mai voluto sposarla, eppure, allo stesso tempo, non si era mai veramente opposto alla decisione di suo padre. Quando Gefrid gli aveva detto di avergli trovato una sposa romana, Ulf aveva borbottato, ma senza troppa convinzione: sapeva infatti che le sue obiezioni non sarebbero valse a nulla. Il giovane era consapevole che, se si trovava in quella situazione, non era certo per volontà di suo padre, ma piuttosto per un’imposizione degli Alti Sacerdoti che, per motivi che trascendevano la sua comprensione, avevano stretto un accordo con l’Imperatore di Roma. Quando Donna Erin si era recata da lui per raccogliere le sue impressioni sull’intera faccenda, Ulf aveva appreso due cose: in primo luogo, aveva scoperto che lo scopo di quelle unioni era di garantire pace e prosperità alle loro terre e, in secondo luogo, aveva intuito che qualsiasi risposta poco meno che entusiastica sarebbe stata non gradita e avrebbe potuto avere ripercussioni negative sulla sua famiglia.

C’era qualcosa di sottilmente inquietante, in Donna Erin. Ulf l’aveva guardata con sospetto sin da quando, più di nove anni prima, aveva fatto la sua comparsa al villaggio: come tutti, nemmeno lui aveva potuto fare a meno di trovare curioso il fatto che la donna e il manipolo di legionari che si erano stabiliti alle porte del villaggio fossero arrivati quasi in contemporanea. Negli anni successivi, alcuni atteggiamenti e alcune decisioni della Sacerdotessa gliel’avevano resa ancora più invisa e, poco alla volta, Ulf si era convinto che di lei fosse meglio non fidarsi.

Al di là di quelle che potevano essere considerate antipatie soggettive, comunque, una cosa era certa: Donna Erin aveva dei legami molto forti con gli Alti Sacerdoti e dunque contraddirla – o, peggio ancora, sfidarla – non era consigliabile. Per questo motivo, davanti a lei Ulf aveva fatto buon viso a cattivo gioco e, pur senza manifestare un entusiasmo eccessivo, aveva accettato di sposare quella che per lui non era altro che una sconosciuta.

Stringendo tra le dita una ciocca dei capelli di Lidia, il giovane ripensò a quello che Unna e Karl gli avevano detto, quando lui si era rivolto a loro in cerca di uno sfogo e di comprensione. Sin dal principio, Karl era stato profondamente convinto di una cosa: gli sforzi dei sacerdoti per mantenere la pace erano inevitabilmente destinati a fallire. Possono fare quello che vogliono, diceva, possono costringerci a sposare chi meglio credono, ma non cambierà niente: la guerra scoppierà comunque. E lo diceva in tono di trionfo, quasi che la battaglia fosse un traguardo a cui mirare e non qualcosa dal quale guardarsi attentamente. Ulf non gliene aveva mai fatto una colpa e, anzi, all’epoca comprendeva appieno le sue motivazioni: per quanto terribile sarebbe stata una guerra, essa appariva comunque preferibile a una dominazione straniera.

Non preoccuparti, gli diceva dunque Karl, dovrai solo portare un po’ di pazienza. Non sarebbe servito sfidare apertamente Donna Erin, perché, quando si sarebbe iniziato a combattere, le leggi ordinarie sarebbero venute meno e lui sarebbe stato libero di allontanare quella moglie indesiderata. Avrebbe potuto mandarla via, liberarsi di lei una volta per tutte: un’idea che in principio Ulf aveva trovato profondamente invitante.

Ma non sappiamo quando questo accadrà, aveva aggiunto Unna, quasi sottovoce, perciò, se le cose dovessero andare per le lunghe, ti converrebbe farle fare un figlio. Così, per evitare di fare insospettire quella là.

Ah. Un figlio. Al solo pensiero, Ulf tremò dall’orrore. No, non voleva un figlio da Lidia, né allora né mai. Il bambino sarebbe stato mezzo romano, una prospettiva che lo disturbava oltre ogni dire. Ma mandarla via? Poteva davvero mandare via quella ragazza che, in un modo o nell’altro, era ormai parte della sua vita? Voleva davvero mandarla via? Non poteva certo dirsi innamorato di lei, ma, cionondimeno, sentiva di volerla tenere vicino a sé – fisicamente e idealmente – e il pensiero di rimandarla a Roma gli causava una pressione dolorosa al torace, un senso di angoscia che gli stringeva la gola e gli mozzava il respiro.

Istintivamente, Ulf inspirò a fondo, cercando di scacciare la sensazione sgradevole che gli gravava sul petto. Più ci pensava e più credeva che Karl avesse ragione: la pace non sarebbe durata in eterno. I segnali erano presenti già da tempo, occorreva soltanto avere la sensibilità necessaria per coglierli, e la vicenda della miniera non avrebbe fatto altro che accelerare le cose. Quando la guerra sarebbe scoppiata, sarebbe stato giusto chiedere a Lidia di rimanere con lui? Avrebbe avuto senso farlo? Perché, se era arrivato a un punto in cui non poteva più negare che Lidia non gli era esattamente indifferente, era altrettanto innegabile che tra di loro esisteva un problema di fondo: loro due, in comune, non avevano nulla. Come potevano sperare di andare da qualche parte, se a unirli non c’erano valori condivisi né progetti in comune, ma solo un’imposizione calata dall’alto?

I progetti potremmo farli adesso, insieme, rifletté il giovane, facendo scivolare delicatamente un braccio attorno alla vita della ragazza. E forse era vero, ma doveva riconoscere che non sarebbe stato facile e che, per farlo, entrambi avrebbero dovuto impegnarsi a fondo. Non solo: avrebbero anche dovuto mettere da parte le loro differenze, per quanto possibile. Ma Lidia era ancora ferocemente attaccata a Roma e lui, dal canto su, sentiva di non potere andare oltre al suo odio per l’Impero. Voleva Lidia, ma non la romana.

Ma le due cose sono imprescindibili.

Se, istintivamente, Ulf sentiva di volere la fanciulla per sé, la sua mente si ribellava a quella prospettiva e gli ricordava ogni più piccolo dettaglio, ogni sfumatura dell’odio bollente e della disperazione che aveva provato un pomeriggio di tanti anni prima, quando la vita l’aveva messo di fronte a una scelta che non avrebbe mai voluto prendere. Quando ripensava a quel giorno, Ulf sentiva di non riuscire ad andare oltre alla barriera del suo nome, delle sue origini e delle differenze che esistevano tra loro.

E poi, naturalmente, c’era la questione di cosa volesse lei. Del resto era Lidia quella che aveva tentato di scappare, cercando con ogni probabilità di raggiungere l’accampamento dei soldati e, forse, di tornare a casa sua, a Roma.

Chissà se ha cambiato idea, o se sta solo aspettando il momento migliore per filarsela di nuovo. Le sue labbra si tesero in un sorriso amaro. Sai che ridere, se anche lei ha in programma di piantarmi in asso… io mi faccio tutti questi problemi, ma magari una cosa in comune ce l’abbiamo.

Certo, il desiderio di cercare una via di fuga da quell’accordo non desiderato non era la base migliore su cui costruire un matrimonio duraturo, ma era forse… un punto d’intesa?

Non che abbia veramente importanza, perché io non lo so, se ho voglia di lasciarla andare.

Ma se lei avesse voluto andare, sarebbe stato giusto trattenerla? Se non aveva giudicato male la situazione, la fanciulla sembrava fidarsi maggiormente di lui, non era più così nervosa in sua compagnia e non sembrava più odiarlo come ai primi tempi. Ah! Se proprio le facessi schifo, non mi avrebbe baciato, no? Subito, Ulf si corresse. A meno che non l’abbia fatto perché avevamo litigato e voleva… voleva… boh, chi lo sa cosa voleva! Poi, un altro pensiero, che lo incupì ulteriormente. E, naturalmente, chissà se mi avrebbe baciato comunque se avesse saputo di quel giorno.

Non che intendesse parlarle mai di quel giorno, a dire il vero: quella era una faccenda tra lui e Unna, qualcosa che non riguardava nessun altro, se non forse Karl. Era un’altra vita, un altro mondo, un microcosmo di cui la sua giovane sposa non avrebbe mai potuto fare veramente parte, indipendentemente da quello che sarebbe stato il loro futuro. Lidia non avrebbe mai avuto il diritto di giudicare le sue azioni, tuttavia Ulf non poteva fare a meno di pensare di averle fatto un torto nel scegliere di celarle quel particolare, sebbene l’occasione di parlarne si fosse presentata più volte. Mi dispiace, sai? Pensò, stringendo un po’ di più la presa attorno alla vita della fanciulla. Ma non posso scegliere tra te e Unna.

Avrebbe voluto che le due donne imparassero ad andare d’accordo, anche se sapeva che difficilmente il suo desiderio si sarebbe avverato: l’avversione di Unna per tutto ciò che aveva a che fare con Roma sarebbe stata troppo difficile da abbattere.

«Che cosa devo farci, con te?» chiese, in un sussurro impercettibile, avvicinando il volto alla nuca della fanciulla. Era una domanda che le aveva fatto molte volte, ma quella volta era rivolta più a se stesso, che a lei. Era abituato, nella vita e sul lavoro, ad avere una visione d’insieme che gli permettesse di avere uno schema preciso secondo il quale procedere: sebbene si sforzasse di avere sotto controllo ogni particolare, però, con Lidia non riusciva ad avere quel quadro completo che gli sarebbe piaciuto avere; e la cosa lo innervosiva.

Forse dovrei procedere per gradi, pensò. Prima di tutto doveva assicurarsi che Lidia non corresse alcun pericolo: le stesse tensioni che un tempo aveva guardato con favore, perché sarebbero state la possibilità di liberarsi di una moglie sgradita, adesso lo innervosivano, perché sapeva che costituivano un elemento di pericolo per Lidia… e forse anche per lui, se quello che aveva sibilato Karl a cena aveva un fondamento.

In secondo luogo… in secondo luogo devo capire quello che le passa per la testa. «Mh?» sussurrò, accarezzandole una guancia. «Tu ci vuoi restare, con me, o no?»

Domani, si ripromise. Domani vedremo di capirci qualcosa. Perché, sospettava, la pace relativa in cui avevano vissuto in quelle ultime settimane sarebbe presto giunta al termine.

***

Non fu la luce del sole a svegliarla, ma l’eco di un sogno già dimenticato che le fece battere il cuore e rizzare i capelli sulla nuca. Che ore sono? Si chiese confusamente, girandosi verso la finestra nel tentativo di determinare l’orario. Con un gemito, Lidia si lasciò ricadere sul cuscino. È solo l’alba e…

Il pensiero si interruppe a metà quando lo sguardo le cadde sulla figura che riposava accanto a lei. Perché è ancora a letto?

Non solo Ulf era ancora a letto, ma era anche profondamente addormentato e Lidia ne approfittò per osservarlo, una cosa che raramente osava fare quando l’uomo era sveglio. Sembra così giovane, adesso…

Con il viso avvolto dal sonno e appena ombreggiato dalla barba, i suoi lineamenti sembravano morbidi, quasi delicati. Inconsciamente, lo sguardo della fanciulla corse alle sue labbra e Lidia avvampò. Le azioni avventate della sera prima l’avevano quasi condannata a una notte insonne ma, malgrado tutto il suo pensare, la giovane non era riuscita a giungere a una conclusione definitiva. Baciarlo era stato un errore, naturalmente, un colpo di testa che non era nemmeno stata in grado di spiegarsi, se non come una sorta di disperata ricerca di conforto. In quel momento le era venuto istintivo stringersi a lui, alzarsi sulla punta dei piedi e… il rossore delle sue guance si fece più intenso e Lidia provò uno strano brivido interno ripensando alla sensazione delle labbra dell’uomo sulle sue, al gioco della sua lingua, alle mani che le percorrevano la schiena, incendiandole la pelle.

Basta! Si disse, imponendosi di pensare ad altro. Disobbediente, la sua mente si rifiutò di allontanarsi dall’argomento. Baciare Tito era stato così? Be’, sì, si rispose la ragazza.

Il ricordo dei baci di Tito era un po’ sfumato e si confondeva con quello, più recente, del bacio che aveva dato a Ulf, ma Lidia era assolutamente certa che essi erano stati altrettanto gradevoli. Anzi, erano anche meglio… senza contare che, con Tito, non ci siamo limitati a due bacetti. In verità, Lidia non aveva mai fatto nulla di eccessivamente scandaloso: Tito era sempre stato molto attento a non esagerare. Sì, ma, volendo essere precisi… prima di perdersi nei ricordi, Lidia si riscosse. Era inutile fare confronti: quello che era successo era stato una mancanza di rispetto per Tito e non avrebbe dovuto più ripetersi. Mai più, assolutamente! Si disse Lidia, stringendo testardamente i denti.

Ma Ulf è mio marito, replicò risentita una vocina nella sua testa, ho il diritto di baciare mio marito, se mi va!

La ragazza sbuffò, esasperata, rotolando sulla pancia e sollevandosi sui gomiti. «Tu non sei veramente mio marito» sibilò, puntando un dito nel petto di Ulf. «Capito? Non lo sei!»

«Ah, no?»

La ragazza lanciò un gridolino, ripiombando sul materasso. Era sveglio? L’uomo la seguì, assumendo una posizione simile a quella che la fanciulla aveva avuto poco prima. «E se non sono tuo marito, chi sono?»

La ragazza lo guardò, boccheggiando come un pesce fuor d’acqua, senza riuscire a rispondere. Nella penombra, Ulf la guardò negli occhi, sfiorandole la guancia con le dita. Quando lei voltò il viso di lato, l’uomo sorrise. «Adesso sei di nuovo timida?» la provocò.

Immediatamente, Lidia tornò a fissarlo: ricordava perfettamente lo spaesamento e la sorpresa che lui aveva mostrato la sera prima e di certo non gli avrebbe permesso di prenderla in giro anche in quel frangente. «No, ma mi vergogno di aver fatto un errore del genere» disse, a denti stretti.

Se sperava di farlo allontanare con quelle parole mezze ringhiate, Lidia si sbagliava, perché Ulf non si spostò di un centimetro. «Un errore, dici» mormorò. «Mi sembra che errori del genere stiano diventando piuttosto frequenti, ultimamente.»

La ragazza aggrottò la fronte, senza capire. «Cosa stai dicendo?»

L’uomo esitò per un istante soltanto. «Non scappi più come fai una volta», disse, piano, «mi abbracci, ti lasci toccare, mi dormi addosso… e ieri sera, naturalmente…»

«Zitto!» sbottò Lidia, imbarazzata dall’elenco sciorinato dall’uomo. Ulf obbedì, ma continuò a fissarla intensamente. «Si può sapere cosa ti prende?» gemette la fanciulla, confusa dall’insolito atteggiamento del giovane.

Lui distolse brevemente lo sguardo, ma non smise di incombere su di lei. «Ma tu vuoi stare con me o no?» le chiese, cercando i suoi occhi.

La fanciulla si sentì avvampare, nella penombra della stanza. «Eh?» fu tutto ciò che riuscì a dire; e l’uomo sembrò non riuscire a trattenere un sospiro frustrato.

«Fino ad adesso ci è andata bene», disse Ulf, dopo qualche istante, «ma ora hai sentito cos’è successo alla miniera: non credere che la gente accetti tutta ‘sta storia senza battere ciglio. Non sarà così facile andare avanti e io voglio sapere se ne varrà la pena oppure no.»

La fanciulla deglutì, voltando il capo di lato. «In che senso?»

«Vale la pena di mettermi contro tutti per difendere te?»

Nell’udire quelle parole, Lidia sbiancò, sentendo improvvisamente un nodo alla gola. «Cosa stai cercando di dire?» balbettò allarmata, mentre una vaga angoscia le strisciava nel petto. «Che cosa vorresti fare?»

Accorgendosi del suo turbamento, l’uomo si allontanò leggermente da lei, scuotendo il capo. «Niente, Lidia!» esclamò. «È solo che…» Ulf si interruppe, quasi fosse incerto su come proseguire, e improvvisamente un dubbio si affacciò alla mente della ragazza. «Perché mi chiedi queste cose?» indagò, cauta. «Tu vuoi stare con me?»

Ulf inspirò e rispose alla domanda con un’altra domanda. «Perché mi ha dato quel bacio, ieri sera?»

«Non hai risposto» insistette la ragazza, senza lasciarsi distrarre.

«Prima dimmi perché» ribatté lui, altrettanto determinato.

In difficoltà, la giovane si morse le labbra, cercando di formulare una risposta plausibile. «Non lo so» le scappò detto. «Ero confusa e stanca e… mi sentivo sola.» Quando ebbe pronunciato quelle parole, la fanciulla si rese conto di aver detto la verità… anche se forse non tutta la verità.

«Tutto qui?»

Dal tono della sua voce, Lidia non fu in grado di capire a cosa stesse pensando, ma decise comunque di passare al contrattacco. «Sì» disse, telegrafica, sperando che la sua voce suonasse sufficientemente decisa. «Perché non mi hai allontanata? Mi hai sempre detto che non ti interessavo, eppure non mi hai mandata via…»

L’uomo parve preso in contropiede da quell’osservazione così diretta e Lidia stessa si stupì della facilità con cui parlava di quello che era accaduto la sera prima: era come se, nell’istante infinito e immobile che precedeva il sorgere del sole, ella riuscisse a trovare delle risorse che le erano sconosciute durante il giorno. Poi, Ulf si riscosse. «Era solo un esperimento.»

La fanciulla si voltò verso di lui, sbattendo lentamente gli occhi. «Un esperimento?»

Ulf annuì. «Be’, sì, volevo vedere quello che sai fare, topolino.»

Nell’udire l’odiato soprannome, Lidia si incupì, con la vaga sensazione di essere appena stata insultata. «E…?» sentì la sua voce chiedere, senza che il suono fosse processato dal suo cervello.

«Eh, insomma…» Ulf sorrideva, ma la fanciulla sgranò comunque gli occhi, oltraggiata. Prima di rendersi conto di quello che stava succedendo, Lidia si sentì spingere sul materasso, mentre l’uomo si portava sopra di lei. «Riproviamo?»

Troppo sorpresa per profferir motto e in preda a una strana immobilità che le fece socchiudere la bocca e aumentare i battiti del cuore, Lidia lo fissò con gli occhi spalancati, senza reagire quando l’uomo si avvicinò a lei, sfiorandole il naso con il suo.

Quando vide che la ragazza non sembrava intenzionata a respingerlo, Ulf posò le labbra su quelle della fanciulla, accarezzandole piano prima di mordicchiarle. Quella sensazione fece sobbalzare Lidia, che portò le mani sulle sue spalle con l’intenzione di allontanarlo da sé, ma la mano di Ulf salì a intrecciarsi ai suoi capelli e quel contatto caldo contro la nuca le fece chiudere gli occhi, sospirando contro la sua bocca. Sentendola rilassarsi sotto di sé, l’uomo lasciò che la sua mano scivolasse via dai suoi capelli e scendesse ad accarezzarle un braccio nudo e poi i fianchi, prima di risalire fino al suo volto e farle inclinare leggermente il capo.

Non è poi così male, pensò confusamente Lidia, stringendo inconsciamente la maglia dell’uomo tra i pugni. Non è affatto male, si corresse poi, quando Ulf approfondì il bacio. Perché lo sto lasciando fare? Si chiese la fanciulla, senza però trovare la forza di volontà per respingerlo. Quasi distrattamente, avvertì una parte del suo essere vibrare soddisfatta, godendo dell’interesse dell’uomo.

Avvertendo la sua passività, Ulf si fece più insistente, reclamando la sua attenzione, e Lidia si riscosse, circondandogli il collo con le braccia e rispondendo al suo bacio con un entusiasmo che sorprese persino lei. All’Inferno, è solo un bacio!

Quando la ragazza iniziò a sentirsi in affanno per la mancanza di fiato, l’uomo abbandonò le sue labbra e scese sul suo collo, esplorando la pelle appena sotto all’orecchio. Immediatamente Lidia si inarcò, inspirando bruscamente e affondando le dita nei capelli di suo marito.

Oh.

Quello era sempre un suo punto debole e Ulf sorrise contro la sua pelle, evidentemente soddisfatto dalla sua reazione. Quando le mani dell’uomo si strinsero sui suoi fianchi e i suoi denti le scivolarono sulla pelle delicata della gola, Lidia rabbrividì e, senza quasi rendersene conto, allargò un poco le gambe, permettendo al corpo dell’uomo di sistemarsi meglio contro al suo. Lui fece scivolare una mano sulla sua coscia, e poi, forse intralciato dalla gonna, si scostò dal suo collo, osservandola. Sentendo su di sé il peso del suo sguardo, Lidia aprì gli occhi, incontrando quelli chiari dell’uomo e venendo bruscamente riportata alla realtà illuminata dalla luce del sole nascente. A disagio, vergognandosi per aver perso il controllo in quel modo, la ragazza avvampò.

La cosa mi è un po’ sfuggita di mano, pensò fugacemente, mordendosi le labbra e distogliendo lo sguardo. Ulf si sollevò un po’ da lei e con il pollice le sfiorò il labbro inferiore, liberandolo dalla presa dei suoi denti. «Meglio» commentò dopo qualche istante; e a Lidia non sfuggì la voce leggermente alterata con cui pronunciò quella parola.

«Meglio?» ripeté, timidamente: se una parte di lei voleva scappare via e sottrarsi a quel contatto e alle emozioni che esso suscitava in lei, un’altra parte – piuttosto battagliera – non aveva nessuna voglia di porre fine a quel momento.

«Mh-mh» confermò Ulf, accarezzandole di nuovo le labbra con il polpastrello.

La ragazza sorrise appena e, prima di potersi fermare, gli mordicchiò la punta del dito. Lui rise piano e improvvisamente la fanciulla provò una fitta all’altezza dello sterno, così intensa che le fece quasi venire voglia di piangere. Ti prego, pensò, non chiedermi se voglio stare con te. Rispondergli avrebbe significato mentire, perché di rinunciare ai suoi piani con Tito non se la sentiva. O forse sì? Si chiese, confusa. Io amo Tito, ma…

Ulf le scostò un ciuffo di capelli che le ricadeva sugli occhi e la guardò, così concentrato che Lidia si chiese cosa vedesse in lei, in quel momento.

… ma mi sa che potrebbe esserci qualcosa anche con Ulf, concluse. Baciava bene e ormai stava diventando difficile negare il modo in cui il suo corpo reagiva al suo tocco, ma la fanciulla avrebbe anche potuto ignorare – sebbene a malincuore – quelle cose, se non fosse stato per le reazioni che l’uomo stava incominciando a suscitare anche nel suo cuore.

È solo colpa della solitudine, rifletté, cercando i suoi occhi chiari. Se non fossi qui, sola, lontana da casa e da Tito, non proverei queste cose. Oppure le proverei lo stesso? Sconfitta, Lidia sospirò. Oh, Dèi, che gran casino…

Notando la sua espressione angosciata, Ulf si accigliò. «Tutto bene?»

Sebbene si sentisse gli occhi umidi, Lidia annuì. «Sì, è solo che ho paura» mormorò.

Ed era vero, aveva paura… solo, non di quello che credeva suo marito, che infatti sospirò, posandole un bacio sulla fronte. «Non devi averne, vedrai che andrà tutto bene.»

«Dici?» sussurrò lei, odiando il suono fragile della propria voce. L’uomo annuì, sorridendo, ma si trattava di un sorriso tirato e, con una smorfia preoccupata, Lidia si chiese se non ci fosse veramente da avere paura anche della situazione politica, oltre che del dramma personale che la vedeva protagonista.

Dopo alcuni istanti di silenzio, Ulf sospirò di nuovo e rotolò via da lei, scivolando direttamente fuori dal letto. «È tardissimo» disse, passandosi una mano sugli occhi e stiracchiandosi. «Se vuoi, però, possiamo continuare il discorso più tardi.»

Che discorso? Si chiese Lidia, arrossendo mentre la sua mente veniva in suo soccorso fornendole alcune immagini di come avrebbero potuto proseguire la conversazione. «Va bene» disse, voltandosi per seguirlo con gli occhi. «Vengo da te?»

L’uomo annuì. «A mezzogiorno» confermò; e la ragazza fece un cenno d’assenso, sprofondando di nuovo sotto le coperte. Quando sentì la porta della camera aprirsi e richiudersi, la fanciulla respirò a fondo: prima di mezzogiorno, avrebbe fatto bene a chiarirsi le idee e a capire quello che stava succedendo… doveva prendere in mano la situazione, perché sospettava che, se avesse continuato a farsi trascinare dagli eventi, le conseguenze sarebbero state tutt’altro che piacevoli.

***

Malgrado ci avesse riflettuto per tutta la mattina, Lidia non era riuscita a venire a capo dei suoi pensieri – e dei suoi sentimenti – come avrebbe voluto. L’unica conclusione a cui era giunta era che, evidentemente, amare Tito non le aveva impedito di sviluppare qualcosa nei confronti di Ulf.

La fanciulla aveva tentato di illudersi dicendosi che era normale, che l’uomo era l’unica persona che le fosse sempre stata vicina e che quindi quello che provava per lui era inevitabile, ma l’affermazione suonava falsa persino alle sue orecchie: tra lei e Ulf c’era qualcosa di più, ma la giovane non riusciva ancora a dare un nome a quel sentimento. Non era amore, c’era troppa poca fiducia tra loro per chiamarlo così, troppe cose non dette, ma non era nemmeno semplice affetto… era qualcosa di diverso, un sentimento ibrido che le faceva venir voglia di prendere a testate un muro pur di non doversi più arrovellare per cercare di definirlo.

Forse mi converrebbe vivere alla giornata, se non fosse che luglio è sempre più vicino. Quando Tito arriverà, dovrò per forza prendere una decisione. Che poi, anche ammesso che la decisione fosse di non partire con lui, ma restare con Ulf… chi mi dice che Tito la prenderebbe bene? E se si mettesse a fare una scenata? E se Ulf scoprisse tutto?

Certo, la soluzione migliore sarebbe stata parlarne con suo marito, ma così si sarebbe preclusa la possibilità di andarsene: un lusso che non poteva permettersi, dal momento che era perfettamente verosimile che, a mente fredda, si sarebbe resa conto che, dopotutto, la Germanica e Ulf non facevano per lei.

Scuotendo mestamente il capo, Lidia attraversò di fretta la piazza principale del villaggio. La pavimentazione irregolare e le pareti modeste delle case che la circondavano la colpirono allo stomaco come un pugno. Era tutto così diverso da ciò che aveva conosciuto a Roma: si sarebbe mai abituata a vivere in un paese così piccolo? Si sarebbe mai abituata alle occhiate della gente? Malgrado le parole di incoraggiamento di Ulf e di Donna Edda, Lidia iniziava a intuire che, per gli abitanti di Erding, lei sarebbe sempre stata una straniera, qualcuno da additare con curiosità, se non proprio con sospetto.

Avrebbe voluto avere un carattere diverso – l’allegria sfrontata di Lucilla, forse, oppure la feroce scontrosità di Unna – e sostenere così gli sguardi che i suoi nuovi concittadini scoccavano nella sua direzione: non essendo in possesso di quelle doti, però, non poteva fare altro che arrossire e chinare il capo, resistendo appena alla tentazione di schiacciarsi contro i muri e sgattaiolare via come un topolino qualsiasi.

A passo rapido, la giovane schivò tre uomini fermi a un lato della piazza e svoltò in un vicoletto secondario, grata della protezione fornita dalle pareti ricoperte di muschio che si ergevano tutt’attorno a lei. Quando ebbe percorso poco meno di una decina di metri, un fischio proveniente dalle sue spalle la fece sobbalzare.

Voltandosi di scatto, la ragazza vide tre figure camminare pigramente a qualche metro di distanza da lei: erano gli stessi uomini che aveva superato appena qualche istante prima. Con una rapida occhiata, Lidia cercò di fare il punto della situazione: erano ancora piuttosto giovani – trent’anni, forse meno – e, sebbene fossero apparentemente intenti a parlottare tra loro, i loro occhi erano fissi su di lei. Con un brivido di inquietudine, la ragazza allungò il passo, ma, dopo pochi secondi, fu raggiunta da un secondo fischio. Cosa accidenti vogliono? Si chiese, mentre il suo stomaco si torceva in una stretta nervosa.

Resistendo alla tentazione di voltarsi di nuovo, la fanciulla svoltò dietro l’angolo, sperando che gli sconosciuti imboccassero il viottolo che proseguiva nella direzione opposta. Come a contraddire le sue speranze, però, quelli la seguirono e, anzi, si avvicinarono ancora di più a lei. La giovane provò l’impulso di mettersi a correre, ma la consapevolezza di non avere alcuna possibilità di sfuggire ai tre individui la frenò.

Ma ce l’hanno davvero con me?

«Ehi, romana!» Se ancora non fosse stata certa di essere proprio lei l’obiettivo dei tre germanici, quel richiamo secco fugò ogni dubbio. Non c’erano altre romane, nei paraggi, e, anche se controvoglia, Lidia si fermò e ruotò sul posto, fronteggiando gli uomini. «S-sì?» balbettò, facendo correre nervosamente lo sguardo dall’uno all’altro.

Uno dei tre, un uomo alto che indossava una maglia rossa, tirò una gomitata a uno dei suoi compari. «Tu e i tuoi modi!» sbottò. «Non vedi che l’hai spaventata?»

Il secondo uomo, più basso e con il volto segnato da una cicatrice chiara, scoppiò a ridere. «Perdonami, Donna Lidia» disse, con un piccolo inchino. «Non sono abituato a trattare con le signore per bene, io.»

La fanciulla si ritrasse istintivamente: lo loro parole, apparentemente rassicuranti, erano in pieno contrasto con il tono di scherno in cui erano state pronunciate e anche la gestualità dei due uomini sembrava rispondere a un teatrino montato apposta per prendersi gioco di lei. «Che cosa volete?» chiese, con il cuore in gola.

Il più alto dei tre si schiarì la voce. «Ma niente, Donna Lidia» disse, suadente, indicando con un cenno del capo il terzo uomo che, fino a quel momento, era rimasto in silenzio. «Il nostro amico, qui, viene da un villaggio un po’ più a sud. Dalle sue parti non si sono ancora viste ragazzine romane; e così era curioso… vorrebbe fare due chiacchiere con te, se la cosa non ti scoccia.»

Guardandosi attorno alla ricerca di una via di fuga, Lidia mosse qualche passo verso sinistra, sperando di riuscire a lasciare l’angolo in cui i tre l’avevano costretta senza che lei se ne avvedesse. «Io…» la fanciulla deglutì, cercando di mantenere la calma. «Io ho fretta, non ho tempo per parlare con voi.»

L’uomo sfregiato fece schioccare la lingua, aggrottando la fronte. «Eh, insomma, un po’ di educazione: ti rubiamo solo cinque minuti!»

Sentendosi in trappola, la giovane si addossò al muro più vicino, seguendo un istinto che però non fece altro che farle perdere la sua unica possibilità di allontanarsi da lì: approfittando della sua esitazione, i tre germanici la costrinsero a indietreggiare finché la fanciulla non si ritrovò stretta in un passaggio fra due case, con ogni via di fuga bloccata dagli sconosciuti.

Il terzo uomo le si avvicinò tanto che la fanciulla riuscì a sentire l’odore speziato del suo alito. Aveva dei riccioli chiari e i lineamenti delicati di un bambino, ma c’era un che di amaro nella piega delle sue labbra e nel taglio sottile dei suoi occhi. «Ti spiego anche perché voglio parlare un po’ con te» le disse, piegandosi ancor di più verso il suo volto. «Forse tu riuscirai a darmi le spiegazioni che mio padre non è stato in grado di fornirmi: Sören mi ha detto che il padre di tuo marito è il capo villaggio…. Non è così?» Senza una parola, Lidia girò il volto di lato e mosse appena il mento in un cenno di assenso. «Molto bene» proseguì l’uomo, che parlava un latino quasi privo d’accento. «Senza tanti giri di parole: perché sei qui?»

Lidia sussultò: non tanto per la domanda diretta, quanto piuttosto per la rabbia che, di punto in bianco, l’uomo le sputò in faccia. «Mi ci hanno mandata» si difese, dando voce al primo pensiero che le attraversò la testa. «Io non avrei voluto venire, ma Donna Erin dice che serve per mantenere la pace e…»

«Queste storie le conosco bene» la interruppe l’uomo, con una voce tagliente come l’espressione dei suoi occhi. «Sono le stesse stronzate che mi ha raccontato mio padre. Non ho nessuna intenzione di berle, naturalmente… nessuno ha intenzione di farlo.»

La fanciulla lo guardò con gli occhi sgranati, sentendosi persa. Chi era quell’uomo? Qualcuno che, come Ulf, avrebbe presto dovuto sposare una ragazza romana? Per una frazione di secondo, Lidia fu tentata di riferir loro i discorsi che aveva sentito fare da suo marito, le mezze voci che aveva sentito a cena la sera prima, ma subito represse quell’impulso. Chiunque fossero quei tizi, non era certo il caso di dar loro corda. «Io… non capisco» disse allora, cercando di sgattaiolare via di lato.

Notando i suoi movimenti, l’uomo con la cicatrice la affiancò, sbarrandole la strada. «Dove pensi di andare?» sibilò. «Rispondi al mio amico.»

«Cosa volete sentirvi dire?» replicò la ragazza, cercando disperatamente di evitare che la sua voce tremasse in maniera eccessiva, tradendo la paura che provava in quel momento. «Se anche… se anche ci fosse sotto qualcosa, io non ne so niente.»

L’uomo la afferrò per un braccio e se la tirò contro, allontanandola dall’uomo con gli occhi sottili. «Non ti conviene prenderci per il culo, bella. Ci è giunta voce dei tuoi incontri con la strega: non negare!»

Un gridolino di terrore le sfuggì dalla gola e Lidia si dibatté, senza riuscire però a sottrarsi alla presa del germanico. «Qua-quale strega?» balbettò, cercando di dare un senso alle parole dell’uomo.

«La Sacerdotessa» si intromise seccamente l’uomo più alto. Dopo l’approccio iniziale, questi sembrava aver scelto di rimanere in disparte e Lidia lo guardò con gli occhi sgranati, sorpresa dal suo intervento. Quando non fu rapida a riscuotersi, l’uomo basso la strattonò di nuovo, riportando l’attenzione della giovane su di sé.

«Donna Erin è una Sacerdotessa piuttosto anomala, non trovi?» fece il terzo uomo, lo straniero. «Io non la conosco bene, l’ho vista solo un paio di volte, ma mi dicono che è solita frequentare il campo militare installato appena fuori dai confini del villaggio. Singolare, no?»

Già, pensò a suo malgrado la giovane romana, senza però alzare lo sguardo da terra.

«Te lo dico io: sì, è decisamente singolare. Di solito sacerdoti e legionari hanno un rapporto piuttosto conflittuale, diciamo, ma Erin no: a lei piacciono, i soldati. Non è così?» quando Lidia non rispose a quella che era comunque una domanda retorica, l’uomo continuò. «E anche tu sei una romana piuttosto singolare: non sei una patrizia qualsiasi, ma la figlia di un Senatore. È un caso?»

Quella considerazione stupì sinceramente Lidia, che non riuscì a scorgere alcuna correlazione tra lo status di suo padre e tutte le altre osservazioni fatte dal germanico. «È un caso?» ripeté lui, con maggiore insistenza.

La fanciulla boccheggiò come un pesce fuor d’acqua, poi scosse il capo, sentendo di aver perso il filo del discorso. «Io… n-non lo so» sussurrò. Quella risposta non piacque all’uomo con la cicatrice, che strinse ancor di più la presa sul suo braccio, facendole piegare le labbra in una smorfia di dolore. «Non lo so?» sibilò, rifacendole il verso. «Non lo so? Solo questo, sai dire? Che non lo sai?»

«Lasciatela andare!»

Prima che Lidia potesse avere il tempo di provare ad abbozzare una difesa, dalle loro spalle giunse un ordine secco che li fece girare di scatto. Con un tuffo al cuore, la ragazza si rese conto dell’identità del proprio salvatore: Hermann, più giovane e minuto dei suoi due assalitori, ma non per questo meno minaccioso, se ne stava a gambe larghe a pochi metri di distanza, un’espressione rabbiosa sul volto dai tratti regolari.

I tre uomini non parvero però turbati dal suo arrivo inaspettato e quello che teneva prigioniera Lidia scoppiò a ridere. «Cos’è? Ne vuoi un po’ anche tu, bellezza?»

La battuta – l’insulto? – non fece altro che aumentare la rabbia di Hermann, che fece un paio di passi avanti, scansando l’uomo più alto e tenendo gli occhi fissi su quello con il volto segnato dalla cicatrice. «Ripeto: lasciala andare.»

Pur nella sua paura, Lidia guardò meravigliata il ragazzo, stupendosi della fredda determinazione della sua voce: quello non era affatto l’Hermann che conosceva, quello che scherzava e la faceva sentire a suo agio in un mondo ostile. Qualcosa nella voce del ragazzo dovette mettere in allarme anche il suo assalitore, che cambiò postura, come per prepararsi a uno scontro. Quando, rapido come un gatto, il giovane estrasse un coltello, l’uomo lasciò Lidia, spingendola a terra, e alzò le braccia per difendersi.

«Ecco, bravo» sorrise Hermann, abbassando l’arma e muovendo ingenuamente un passo verso Lidia. Notando il suo movimento, la fanciulla si trattenne a stento dal coprirsi gli occhi con le mani: per quanto coraggioso, il ragazzo non aveva alcuna possibilità di spuntarla contro tre uomini grossi il doppio di lui.

«Vieni qui, ragazzino!» L’uomo sfregiato si lanciò sul giovane, che riuscì ad alzare il coltello, ma non fece in tempo a preparare il colpo, finendo col ferire solo marginalmente il braccio del suo aggressore. Quest’ultimo, evidentemente abituato alle zuffe, si abbassò con una velocità insospettabile e sferrò un pugno allo stomaco di Hermann, che si chinò nel tentativo di riprendere fiato: l’uomo ne approfittò per fargli volare via il coltello e poi lo colpì con un pugno sulla mascella che lo fece vacillare. Il ragazzo però non cadde, ma rispose al colpo, facendo indietreggiare il suo avversario.

Riscuotendosi dal suo torpore, Lidia si guardò attorno alla ricerca del coltello – se non per passarlo a Hermann, quantomeno per evitare che l’altro uomo se ne impossessasse – e trasalì quando lo vide schiacciato sotto il piede dell’uomo più alto. Muovendosi quasi al rallentatore, la fanciulla alzò gli occhi fino a incrociare quelli d’ambra dello sconosciuto. Lui la fissò per alcuni lunghissimi istanti, poi sorrise. «Meglio andare» disse improvvisamente, rivolto al suo compagno. Al suo fianco, l’uomo con i capelli chiari ridacchiò, quasi trovasse la situazione particolarmente divertente.

L’uomo con la cicatrice si voltò verso gli altri due, sorpreso quanto Lidia da quelle parole: per un attimo parve intenzionato a obiettare, ma poi fece sibilare il fiato tra i denti e si allontanò da Hermann che, muovendosi a ritroso, raggiunse Lidia, aiutandola ad alzarsi.

Mentre i suoi due compagni si allontanavano in silenzio, l’uomo che veniva da un altro villaggio si voltò nuovamente verso di loro, scoccando un’occhiata imperscrutabile nella loro direzione. «Alla prossima, Donna Lidia. Cerca di pensare a quello chi ti ho chiesto: mi piacerebbe davvero avere una risposta un po’ più articolata, la prossima volta che ci vediamo.»

***

«Così non va bene» sibilò Ulf, stringendo Lidia tra le braccia.

«Non so cosa volessero» sbottò suo fratello, camminando nervosamente avanti e indietro e misurando il pavimento tra il tavolo e la porta della bottega. «Per fortuna che papà mi aveva chiesto di tenerla d’occhio: se non l’avessi seguita, non so proprio cosa sarebbe successo…»

Con il volto nascosto nella maglia di suo marito, Lidia non riuscì a trattenere una smorfia di rabbia: Hermann aveva ragione, naturalmente, ma sentire dalla sua voce della propria debolezza non le faceva affatto piacere. «Ma chi erano, poi?» borbottò, cercando di dare un nome ai suoi misteriosi assalitori.

«Un branco di idioti!» ringhiò Hermann. «Quello basso e stupido si chiama Arnold e fa il minatore. Ci ho avuto a che fare un paio di volte ed è un vero somaro. Quello alto con gli occhi strani è Sören. È un mercante e si crede un grand’uomo solo perché è riuscito a mettere da parte un po’ di quattrini e l’altro… boh, l’altro è un suo amico. È solo di passaggio, spero, si chiama Otmar e non so cosa faccia, esattamente. Tu ne sai qualcosa?»

Davanti a quella domanda, Ulf scosse il capo. «No, ma sarà il caso di chiedere più informazioni a nostro padre…»

«… o al Prefetto Caleno» suggerì Hermann, osservando attentamente la reazione del fratello.

«Nostro padre sarà più che sufficiente» tagliò corto Ulf. «Lui è sicuramente al corrente di chi entra e esce dal villaggio. In ogni caso, una cosa è chiara: Karl aveva ragione.»

Lidia inspirò a fondo e Hermann scosse la testa. «Non possiamo saperlo» disse piano. «Magari si è trattato solo di un gesto isolato.»

«Forse», concesse Ulf, stringendo accarezzando la schiena di Lidia, «ma non è comunque il caso di correre rischi. Fortunatamente, credo di avere una soluzione.»

***

Oggi mi è successa una cosa divertente: sono stata accusata di plagio della mia stessa “opera”. XD

A parte tutto, però, mi è venuto un dubbio: sono stata abbastanza chiara, quando ho scritto che questa è la riscrittura di una storia già pubblicata in precedenza, oppure devo specificarlo meglio?

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Capitolo 19
*** 18. I pascoli estivi ***


Erding - Germanica Inferiore, 342 a.U.c., 30 Maggio

Unna non approvava minimamente la scelta del fratello e, per capirlo, non occorreva aspettare che aprisse bocca: l’espressione corrucciata e la piega severa delle labbra già esprimevano perfettamente il suo pensiero. «Non mi sembra proprio il caso» sbottò, quando Ulf ebbe finito il suo discorso.

Hermann sospirò e, con un sorriso di circostanza, passò un’altra sacca a Lidia, aiutandola a posarla su quelle che aveva caricato pochi istanti prima. Dall’alto del carro sul quale era stata fatta salire – un carro alla vecchia maniera, di quelli trainati da una coppia di cavalli – la ragazza non poté fare a meno di sentirsi un po’ stupida e decisamente fuori luogo. A pochi metri da lei, i gemelli si lanciavano occhiate torve, senza che nessuno dei due sembrasse intenzionato a cedere di un centimetro.

«Secondo me stai esagerando: non è davvero il caso di reagire così» ripeté per l’ennesima volta Unna, cercando di convincere il fratello. «È vero, quei tizi sono dei cretini, ma questo non significa che siano veramente pericolosi!»

Ulf sbuffò e piantò gli occhi in quelli della sorella. «Questo vale forse per Arnold, ma con Sören è tutto un altro discorso… e tu lo sai. E non c’è da fidarsi nemmeno dello straniero, se quello che ha detto papà è vero. Ci sarà un motivo, se i suoi l’hanno cacciato dal suo villaggio.»

Unna scosse stizzosamente il capo, ma non ribatté, quasi come se fosse a corto di argomentazioni valide. Anziché essere compiaciuta dall’improvviso silenzio della cognata, Lidia provò un brivido di inquietudine. Anche se aveva provato a chiedere ulteriori delucidazioni circa l’identità dei suoi aggressori, non aveva ottenuto altro che mezze risposte che non avevano aggiunto nulla a ciò che già sapeva. Dopo più di ventiquattr’ore, la fanciulla ancora non sapeva perché Ulf e Hermann fossero tanto allarmati dal fatto che Sören si fosse avvicinato a lei in quel modo, né aveva scoperto cosa avesse fatto Otmar per essere allontanato dal suo villaggio natale. Lidia trovava che, oltretutto, la reazione di suo marito gettasse un’ombra particolarmente inquietante sull’intera vicenda: non appena aveva scoperto quello che era successo, Ulf aveva deciso che Lidia avrebbe dovuto sparire dalla circolazione, almeno per qualche tempo, in attesa che le acque si calmassero e la situazione si facesse più chiara. Per sua somma sfortuna, il metodo più semplice e immediato per farle cambiare aria era spedirla in montagna al seguito di Unna, la quale, come ogni anno, si apprestava a raggiungere gli alti pascoli estivi dove, da giugno ad agosto, si sarebbe presa cura del bestiame.

Per nulla soddisfatta dalla piega presa dagli eventi, Lidia sbuffò: l’unico vantaggio di quella soluzione era che, lasciando il paese, difficilmente avrebbe corso il rischio di subire ulteriori aggressioni. Del resto, chi mai potrebbe aggredirmi in mezzo a un prato a duemila metri? Una capra?

Anche se riconosceva e, in un certo senso, apprezzava quel vantaggio, le pareva che gli aspetti negativi superassero di gran lunga quelli positivi. In primo luogo vi era la convivenza forzata con Unna. Anche se non ne aveva la certezza, Lidia sospettava che lei e la cognata avrebbero dovuto condividere gli stessi spazi, lavorando – e forse anche dormendo – gomito a gomito: una prospettiva che la gettava nello sconforto più profondo. Il fatto di dover passare tanto tempo in alta montagna, poi, non faceva altro che farle apparire ancora più sgradevole l’intera situazione. Lidia non aveva mai amato le montagne e, anzi, aveva sempre guardato con sospetto anche le modeste alture che circondavano la sua città natale. Unna, ne era certa, si sarebbe mossa meravigliosamente bene in un ambiente che a lei sarebbe invece sembrato ostile e alieno: la natura stessa avrebbe cospirato contro di lei, aumentando il divario che già le sembrava esistere naturalmente tra lei e la cognata.

E poi, naturalmente, c’erano quei tre mesi: non era forse proprio il tempo, il problema più grande? Mancavano solo due giorni al primo di giugno e lei non avrebbe potuto partecipare alla festa che si sarebbe tenuta in paese. Di conseguenza, non avrebbe potuto consegnare la lettera per Tito – lettera che non aveva nemmeno mai scritto, tra l’altro – al Prefetto Caleno, né avrebbe potuto incontrare il giovane romano quando, in capo a un mese, si sarebbe presentato a Erding con l’intenzione di portarla via.

Poteva solo sperare che il Prefetto fosse al corrente dei suoi spostamenti e tenesse aggiornato Tito. Un pensiero le attraversò la mente e la fanciulla non riuscì a nascondere una smorfia: aveva sperato di avere un po’ più di tempo a disposizione per far chiarezza sui suoi sentimenti, ma quella partenza improvvisa aveva scombussolato i suoi piani. Cosa sarebbe successo se, entro luglio, avesse deciso di rinunciare ai suoi progetti di fuga? Vigliaccamente, Lidia aveva cullato il vago proposito di affidare a una lettera quella notizia, evitando così il confronto diretto con Tito, ma ora vedeva chiaramente che ciò non sarebbe stato possibile: avrebbe dovuto affrontarlo a faccia a faccia. 

«E va bene!» la voce di Unna la strappò ai suoi pensieri, facendola sussultare.  «Ma mi aspetto che si renda utile, chiaro? Non intendo servirla o lasciarla poltrire mentre io lavoro, capito?» Ulf indietreggiò di un passo davanti alla furia della sorella e Lidia avrebbe fatto lo stesso, se non fosse stata seduta contro il bordo del carro, così si affrettò ad annuire, sperando di acquietare la bionda germanica.  

Raccogliendosi le gonne con una mano, Unna balzò a bordo, lanciando un’occhiata micidiale alla giovane cognata, che deglutì nervosamente, per nulla desiderosa di passare del tempo da sola con lei. Meno male che c’è anche lui, pensò Lidia, guardando con gratitudine l’anziano contadino che, apparentemente sordo alla discussione nata alle sue spalle, sistemava i finimenti dei due robusti cavalli morelli attaccati al carro.

Mentre osservava le code degli animali frustare l’aria nel vano tentativo di tenere lontane le mosche, Lidia sentì la mano di Ulf posarsi sul suo braccio, appena sopra al polso. «Mi raccomando», le disse il giovane, quando lei incrociò il suo sguardo, «cerca di non cacciarti nei guai e di non fare arrabbiare troppo Unna.»

Con un gemito demoralizzato, Lidia scosse il capo. «È proprio necessario che io vada con lei?» chiese, quasi sperando che l’uomo cambiasse idea all’ultimo istante e non la costringesse più a partire.

Lui però non si lasciò commuovere dal suo sguardo pietoso e annuì. «Sì, ne abbiamo già parlato.»

«Non è che mi hai lasciato molto spazio per ribattere» fece la ragazza, in un sussurro cupo, abbassando lo sguardo a terra. Ulf accennò appena un sorriso, poi le sollevò il volto, incoraggiandola a guardarlo. «Non sarà poi così terribile» cercò di rassicurarla.

«Se lo dici tu» commentò scettica Lidia, con una smorfia. Prima che l’uomo potesse aggiungere altro, però, il contadino, che aveva finito di sistemare i cavalli, li interruppe. «Possiamo partire?»

«Sì, certo» rispose risoluto Ulf, frantumando le ultime speranze di Lidia. «Ci vediamo presto» aggiunse poi, rivolto alla fanciulla, prima di attirarla verso di sé e posarle un bacio leggero sulle labbra. La giovane sentì un’ondata di tristezza centrarla in pieno: quando si sarebbero rivisti Tito sarebbe stato in Germanica e le cose sarebbero state molto diverse. Accorgendosi della sua espressione affranta, Ulf le scompigliò i capelli. «Non fare così, guarda che ogni tanto dovrò venire su anch’io… credo di salire tra un paio di settimane: pensi di poter resistere fino ad allora?»

Davanti all’evidente presa in giro, Lidia sbuffò, ma poi sorrise, sollevata: l’addio – se a Ulf o a Tito era ancora tutta da vedere – poteva essere rimandato ancora per un po’. D’impulso si chinò verso suo marito e lo baciò, soffermandosi un po’ troppo a lungo per quello che avrebbe dovuto essere un semplice bacio di commiato. Ulf fece per dire qualcosa, ma lei lo precedette, fidandosi poco dell’espressione che l’uomo aveva sul volto. «Resisterò» dichiarò, ignorando il leggero rossore che sapeva averle colorato le guance. Lui sogghignò, ma non aggiunse altro, passando a salutare sua sorella, prima di ritrarsi di qualche metro e raggiungere Hermann, che stava urlando raccomandazioni alle due donne.

Non volendo passare per la sposina che si tormentava al pensiero di doversi separare dal marito, non appena il carro si mise in moto Lidia distolse lo sguardo da Ulf e lo spostò su Unna, incontrando i suoi occhi di ghiaccio. La donna le rivolse uno sguardo quasi incuriosito. «Quindi le cose vanno meglio, tra di voi?»

Sorpresa per quella domanda così diretta, la ragazza esitò un istante, prima di rispondere. «Direi di sì» ammise, con una punta di imbarazzo. Unna annuì; e per una volta non parve disapprovare le sue parole. «Quindi non hai più cercato di scappare?»

La domanda riportò alla mente di Lidia la prima volta in cui aveva veramente avuto a che fare con la germanica e la fanciulla si accigliò: non aveva dimenticato la freddezza con cui Unna l’aveva costretta a spogliarsi, spaventandola a morte e facendole dubitare delle intenzioni di Ulf. «Non credo sia il caso di parlare di queste cose» fece, piano, indicando il cocchiere, decisa a non ripensare alla paura e allo smarrimento che avevano contraddistinto i suoi primi giorni a Erding.

Unna seguì la direzione del suo dito e scoppiò a ridere. «Il vecchio è sordo come una campana» proclamò. «Non sente niente!»

In effetti l’uomo parve non reagire a quelle parole di scherno, ma Lidia scrollò le spalle. «Una volta ho conosciuto un tizio che faceva finta di essere sordo, mentre in realtà sentiva tutto.» Un tizio a caso, vero, papà? Aggiunse silenziosamente. Più di una volta, Lidia aveva visto il Senatore Prisco all’opera, intento a ingannare gli stranieri sprovveduti che pensavano di poter approfittare della sua forma fisica non proprio smagliante.

Unna le lanciò un’occhiata indagatrice, ma poi abbassò la voce. «Quindi?» insistette. «Hai ancora intenzione di scappare o no?»

Facendo attenzione a evitare i suoi occhi e fingendosi interessata all’orlo decorato della sua gonna, la fanciulla scosse il capo. «No» disse, prima di rialzare gli occhi. «Voglio bene a Ulf.»

La donna annuì, soddisfatta, e Lidia si trattenne dall’esprimere il suo pensiero, evitando di dire che, se le cose tra lei e Ulf andavano meglio, non era certo grazie all’intervento di Unna. Dopo quel breve scambio di battute, la germanica parve perdere ogni interesse per la conversazione e Lidia le voltò le spalle, girandosi a osservare il paesaggio circostante.

La valle di Erding, già piuttosto stretta in corrispondenza del paese, si faceva sempre più angusta man mano che la mulattiera che andavano percorrendo si allontanava dal centro abitato, inerpicandosi su per il fianco della montagna. «Cosa c’è alla fine della valle?» le scappò detto, quando notò che il torrente d’acqua biancastra che bagnava il villaggio non scendeva dalle pendici dei monti, come si era aspettata, ma restava sempre nel fondovalle.

Unna si scrollò le spalle, indifferente. «Un ghiacciaio.» Il tono della germanica era annoiato, ma Lidia spalancò gli occhi, sporgendosi oltre il fianco del carro nella speranza di vedere la neve. Non ho mai visto un ghiacciaio, pensò, incuriosita.

La valle era però troppo stretta e, una decina di chilometri più avanti, virava decisa verso sinistra, cosicché la giovane non vide altro che abeti e rocce scure. Ben presto la strada sterrata prese ad arrampicarsi su per il pendio e Lidia iniziò, quasi inconsciamente, a scivolare verso il lato opposto del carro, ritrovandosi a fianco di Unna. «Non appoggiarti, che rischi di cadere» commentò la donna, senza guardarla.

Sorpresa dall’avvertimento, Lidia si staccò un po’ dal portellone posteriore, abbracciandosi le ginocchia per mantenersi in equilibrio e lanciando un’occhiata di soppiatto alla cognata: probabilmente non ha voglia di dover saltar giù per recuperarmi, pensò, con una punta di cinismo. Unna, però, sembrava più rilassata del solito: il suo volto era liscio, privo di rughe o increspature, e le labbra pallide erano piegate in un sorriso quasi impercettibile. Guardava dritta davanti a sé, ma Lidia aveva l’impressione che gli occhi non vedessero veramente la schiena dell’uomo che guidava il carro e che la sua mente fosse lontana. Non sembra turbata dai problemi che ci sono giù in paese, pensò, perplessa, o forse è solo contenta di allontanarsene per un po’ di tempo.

La giovane romana avrebbe tanto voluto condividere un po’ del buonumore di Unna, ma più salivano e più si sentiva isolata, lontana dalle poche persone che le davano sicurezza: circondata da una natura sconosciuta e accompagnata solo dalla presenza ostile della cognata, Lidia si sentiva completamente allo sbaraglio.

Con un sospiro, la ragazza chiuse gli occhi per qualche istante, respirando il profumo dei larici e degli abeti.

Spero solo che vada tutto bene.

***

Seduta sul copriletto a quadretti, Lidia si sentì decisamente sciocca.

Era naturale che non potessimo fare tutto Unna e io

Quando la mulattiera che le aveva condotte in quota era giunta al termine, le due giovani e il loro accompagnatore erano sbucati in un ampio prato scosceso, dominato da un paio di stalle e da una singola baita di pietra. Era proprio da quest’ultima che era spuntata una robusta donna bruna che aveva rivolto loro un gran sorriso, salutandole con un braccio e tenendo stretto al petto un bimbetto di circa un anno con l’altro. Subito dopo, la stessa donna aveva afferrato per la collottola un altro ragazzino e, con atteggiamento marziale, l’aveva spedito a radunare le capre: Lidia l’aveva trovata immediatamente simpatica e, a giudicare dalle fossette che si dipingevano sul volto della germanica ogni volta che la guardava, il sentimento doveva essere reciproco.

Sbrigati i convenevoli, la donna – di nome Linda – le aveva condotte all’interno della cascina. Nonostante il leggero odore di fumo che aleggiava nel locale principale, la baita era molto più accogliente di quello che Lidia si era aspettata: il tavolo era ampio e pulito e il pane, il formaggio e il miele che la padrona di casa le aveva servito le erano parsi particolarmente saporiti.

Linda aveva diffidato lei e Unna dall’alzare un dito: è il primo giorno, dovete riposarvi, aveva detto, prima di introdurle al resto della famiglia – il marito Gislin, decisamente sottomesso al volere dell’imponente consorte; Sven, il ragazzino spedito a badare le capre; il bebè Ingo e la bambina dai capelli rossi, dal nome talmente impronunciabile che, per quieto vivere, rispondeva al nomignolo di Bibi.

Sarebbe stata una sistemazione quasi perfetta, se non fosse stato per un piccolo particolare.

«Io dormo sopra.»

Riportata alla realtà dalla voce di Unna, Lidia annuì e si lasciò ricadere sul materasso, mentre la cognata lanciava un paio di maglioni verso l’alto, accaparrandosi il piano superiore del letto a castello.

Che fa, marca il territorio? Pensò la giovane romana, con un sogghigno. Sì, sarebbe stato quasi perfetto, se non avesse dovuto dividere la camera con Unna.

Una volta chiarita la questione dei letti, Unna raggiunse il piccolo armadio sul lato opposto della stanzetta e lo spalancò, osservandolo da tutti i lati prima di appendere due gonne – e un paio di pantaloni! – nella metà di destra. Poi si chinò di nuovo e, dalla sacca che si era portata appresso, estrasse anche un paio di stivali, che sistemò sul fondo dell’armadio. Lidia storse il naso. «Sono puliti, quelli?» chiese, sollevandosi sui gomiti.

«Naturalmente» rispose Unna, altezzosa, prima di infilare la porta senza degnare di un’occhiata la compagna di stanza.

E va be’, pazienza, pensò la fanciulla, liberandosi con un calcio degli stivaletti che ancora portava ai piedi. Ci farò l’abitudine, immagino.

E, in effetti, con il passare dei giorni fece davvero l’abitudine alla presenza di Unna, arrivando addirittura a stipulare con lei un tacito accordo di non belligeranza: non andavano d’accordo, ma, semplicemente, si ignoravano, svolgendo ciascuna i propri compiti, senza aiutarsi, ma senza nemmeno intralciarsi a vicenda.

Se Linda era stupita dalla freddezza che regnava tra le due giovani, non lo dava a vedere. Lidia immaginava che fosse perché la donna conosceva bene il carattere irritabile di Unna: quando questa perdeva la pazienza, infatti, la lasciava sbollire in pace, lanciando di tanto in tanto delle occhiate divertite a Lidia. Anche se la fanciulla non trovava nulla di divertente nelle sfuriate di Unna, quando Linda la guardava così non ridere diventava difficile.

Grazie a Linda e alla sua famiglia, quell’esperienza in alta quota si stava rivelando meno sgradevole del previsto, ma c’era una cosa a cui Lidia proprio non riusciva ad abituarsi: l’ambiente in cui si trovava. In quel mondo sperduto, così isolato e diverso da tutto ciò che aveva sempre conosciuto, la giovane si sentiva a disagio. C’erano dei momenti in cui, allontanandosi dagli altri abitanti del luogo, la fanciulla si sentiva terribilmente sola e, in quella solitudine, tenere a bada i pensieri scomodi diventava difficile. Se quando era in compagnia di altra gente la sua mente doveva stare concentrata sul compito che le veniva assegnato o su una conversazione che la vedeva coinvolta, nel silenzio del bosco e dei pascoli erbosi essa era libera di vagare, avviandosi su sentieri che la giovane non avrebbe voluto percorrere. Pensava a Ulf, allora, e a Tito, al suo futuro e al suo presente incerto.

In generale, in montagna Lidia si sentiva come un pesce fuor d’acqua e quella sensazione di inadeguatezza era resa ancora peggiore dalla naturalezza con cui Unna si muoveva tra pascoli, rocce e pendii. Capitava, a volte, di dover inseguire una vitella indisciplinata su per il ripido prato che dalla cascina conduceva verso la base delle pareti di roccia, cinquecento metri più in alto: dopo poche decine di minuti di cammino in salita, Lidia già ansimava e sbuffava, col volto rosso e una fitta alle costole, mentre Unna pareva danzare su per il sentiero, i capelli quasi bianchi perfetti e senza nemmeno una goccia di sudore sul viso pallido.

Il vento freddo e il sole troppo forte arrossavano e seccavano la pelle di Lidia, ma, giunte a sera, quella di Unna risultava solo graziosamente rosata in alcuni punti strategici. Quando attraversavano il bosco per raggiungere gli alpeggi vicini, Lidia incespicava nelle radici e scivolava sui sassi coperti di muschio, mentre il passo di Unna era sicuro e privo di ogni esitazione. Unna trovava le bacche commestibili per le marmellate di Linda; Lidia riusciva a raccogliere solo le insipide bacche blu che assomigliavano tanto ai mirtilli, ma che non sapevano di niente. Unna riusciva a farsi obbedire dai cani con un fischio; Lidia, che non sapeva fischiare, doveva urlare e sbracciarsi per ottenere una corsetta svogliata: dove Lidia falliva, Unna riusciva alla perfezione, e la fanciulla era abbastanza certa di odiarla. E, quel che era peggio, era che Unna lo sapeva ed era deliziata dal suo odio, ben conscia della propria superiorità.

Oh, ma sbaglierai anche tu, qualche volta, pensava velenosamente la giovane romana, rosa dalla gelosia e dal senso di inferiorità. Sebbene la osservasse con un’attenzione quasi maniacale, però, Lidia doveva riconoscere che Unna dedicava talmente tanta cura a quello che faceva che difficilmente commetteva gravi errori. Vi erano piccole sviste, sì, imperfezioni di poco conto, ma mai nulla di goffo o sciatto.

Fu proprio per questo motivo che la ragazza sobbalzò quando, circa due settimane dopo il loro arrivo, Unna rovesciò un secchio pieno di latte. «Merda!» sbottò la donna, tirando un calcio al secchio ormai vuoto e facendolo rotolare per un paio di metri.

«Tutto bene?» chiese Lidia a mezza bocca, senza pensarci.

La giovane bionda annuì, secca. «Sì, è stato solo un capogiro.» Vedendola un poco instabile sulle gambe, la fanciulla fece per avvicinarsi, ma Unna la bloccò con un gesto della mano. «Forse ti sei alzata un po’ troppo in fretta» commentò allora Lidia, riprendendo a spazzare l’ingresso della stalla.

«Può essere» rispose la donna, alzando una spalla e senza dare troppa importanza alla cosa.

Nei giorni seguenti, Lidia notò qualcosa di insolito nel comportamento di Unna, delle piccole incertezze, delle strane pause senza motivo che sembravano sbucare dal nulla, delle ombre scure sotto i suoi occhi che non aveva mai notato prima.

Che non stia bene?

Non che le importasse veramente, la sua era più che altro una curiosità distratta: in altre circostanze avrebbe forse provato un minimo di preoccupazione per la cognata, ma l’umore di quest’ultima sembrava essersi incupito ed era sempre più facile incappare nei suoi scatti d’ira. Si trattava di un atteggiamento generalizzato, Sven si era già preso qualche scappellotto e la piccola Bibi era più volte scoppiata a piangere di fronte alle risposte secche di Unna, ma Lidia rimaneva comunque la vittima prediletta del malumore della germanica. Dèi, quanto la odio, si diceva, stringendo rabbiosamente i denti: poco alla volta, quasi senza rendersene conto, iniziò a rendere pan per focaccia a Unna, facendo del suo meglio per renderle la vita il più difficile possibile.

Fu in quell’atmosfera che, in una sera di metà giugno stranamente fresca e piovosa, Lidia entrò in camera, corrucciata, e trovò Unna già rannicchiata sotto le coperte. Dorme già? Bene!

Mentre si toglieva gli abiti che aveva indossato durante il giorno e si infilava la camicia da notte, però, un fruscio proveniente dal letto a castello le suggerì che la sua sgradita compagna di stanza non era affatto addormentata. «Passami la coperta, che ho freddo.»

Sbuffando, Lidia sfiorò con le dita la trapunta di lana ripiegata sulla sedia. «Prenditela da sola» sibilò, raggiungendo il proprio letto e sdraiandovisi senza alcun rimpianto. Da sopra la sua testa, Unna ringhiò qualcosa – un insulto o una maledizione – nel suo dialetto, prima di calarsi cautamente fino a terra, distendendosi in tutta la sua altezza per evitare di dover saltare. Strisciando contro il materasso, la maglia di Unna si sollevò e fu allora che, nella luce fioca della stanza, Lidia lo vide: un groviglio di cicatrici argentee che coprivano entrambi i fianchi della ragazza, incurvandosi in modo curiosamente simmetrico verso il ventre e la schiena. Fu solo un secondo, poi Unna si riabbassò rabbiosamente la maglia, celando la pelle scoperta. Subito dopo fissò Lidia, sfidandola a dire qualcosa: la ferocia nei suoi occhi era tale che la fanciulla si ritrovò a indietreggiare verso il lato opposto del materasso. Dopo qualche istante, Unna le voltò le spalle e agguantò la coperta, prima di tornare a letto, trattenendo con una mano la maglietta per assicurarsi che non risalisse ancora.

Che cosa le è successo? Si chiese Lidia, quando la donna ebbe spento la luce e la camera fu immersa nelle ombre della notte. C’era qualcosa di spaventoso in quelle cicatrici, un disegno troppo regolare, troppo metodico per essere frutto del caso: non se le è fatte in un incidente, pensò, e, automaticamente, come per un collegamento logico, la sua mente corse alle parole di Ulf, alla sua reticenza a parlare del passato della sorella, all’odio che Unna nutriva per Roma.

Subito dopo, però, scosse la testa. Lavori troppo di fantasia, si disse. Vi erano mille modi in cui la donna poteva essersi procurata quelle ferite, mille circostanze più logiche per giustificare quei segni che sfregiavano la pelle della germanica. Perché Roma dovrebbe aver fatto questo a una ragazza? Perché dovrebbero averla… Lidia esitò, incerta su cosa avrebbe potuto causare quelle cicatrici: delle frustate, forse? Delle ferite di guerra? Ma quanto tempo fa è successo? Quanti anni aveva Unna?

Di nuovo, la fanciulla rabbrividì: linee dritte, precise, scintillanti. Cosa procura delle ferite del genere? C’era una verità che si affacciava alla sua mente, una spiegazione che però Lidia si rifiutò di analizzare, relegandola nell’inconscio perché troppo assurda e troppo… no, dev’esserci un’altra spiegazione.

Quella notte la fanciulla dormì male e l’indomani, quando si svegliò, si ritrovò sola nella stanzetta dalle pareti di legno. La freddezza di Unna e il suo palese desiderio di evitarla fecero sfumare le esili intenzioni di confronto nutrite da Lidia, e così la giovane accantonò momentaneamente quello che aveva visto e il turbamento che quei segni argentei avevano suscitato in lei. Con il passare dei giorni la vita tornò a scorrere relativamente placida nella quiete dell’alpeggio, ma la fanciulla iniziò, inconsciamente, a osservare Unna con occhi un po’ diversi, prestando più attenzione ai suoi movimenti e alle espressioni del suo volto. Così, dopo qualche tempo, Lidia si convinse definitivamente che ci fosse qualcosa che non andava: cosa fosse esattamente quel qualcosa le divenne chiaro quando, qualche giorno più tardi, si ritrovò sola a confezionare marmellate in compagnia di Linda.

Le due donne si trovavano in cucina a setacciare i lamponi e a metterli poi a bollire sul fuoco, riempiendo il locale adibito a cucina dell’aroma denso e penetrante dei piccoli frutti, quando Unna entrò nella stanza, portando con sé un recipiente ricolmo di bacche. La giovane fece appena in tempo ad appoggiarlo sul tavolo, che subito corse alla finestra, spalancandola e lasciando che una ventata d’aria fredda entrasse all’interno della cucina.

«Unna!» protestò Linda. «Che fai? Vuoi farci congelare?» La pioggia cadeva incessantemente da un paio di giorni e le calde giornate di giugno avevano presto mutato aspetto, divenendo in tutto e per tutto simili agli uggiosi pomeriggi d’ottobre che Lidia aveva vissuto a Roma: a farla da padrone erano ormai il freddo, l’umidità e i banchi di nebbia che correvano rapidi lungo la costa della montagna.

Davanti al richiamo della padrona di casa, Unna storse il naso. «Questo odore mi dà il voltastomaco» mormorò, secca, respirando a pieni polmoni l’aria umida di pioggia. Linda appoggiò il mestolo che aveva in mano al bordo della pentola e fece scorrere uno sguardo attento lungo la figura di Unna. «Sarai mica incinta?» le chiese, a bruciapelo.

A quelle parole, Lidia sussultò e Unna si irrigidì, senza però negare. «Possibile» mugugnò poi, controvoglia. Posandosi le mani sui fianchi larghi, Linda si rifiutò di lasciar cadere l’argomento. «Possibile?» ripeté, inclinando il capo di lato e fissando Unna con i suoi grandi occhi blu. «Lo saprai bene se sei incinta o no, spero.»

Sotto quello sguardo così attento, Unna sollevò una spalla in un gesto elaborato, poi annuì. «Credo di sì» ammise infine, arrossendo leggermente. Linda lanciò un’esclamazione di giubilo e attraversò a grandi passi la cucina, raggiungendo la giovane e abbracciandola, complimentandosi con lei. Unna si schernì, ma la sua maschera di indifferenza non resistette a lungo e presto il suo volto si aprì in un sorriso dapprima timido, poi sempre più largo.

È la prima volta che la vedo sorridere, pensò Lidia. O, meglio: è la prima volta che la vedo fare un sorriso che non sembri più che altro un ghigno. Mentre Linda e Unna si scambiavano qualche battuta nel loro dialetto, la giovane romana si dondolò nervosamente sui piedi, e non solo perché, improvvisamente, in quella stanza si sentiva quasi di troppo. Anche se non riusciva a capire bene il perché, la notizia della gravidanza di Unna aveva suscitato in lei mille emozioni diverse: spaesamento, curiosità, stupore, ansia e, soprattutto, fastidio.

Mentre cercava di captare qualche parola in quel discorso di cui non capiva nulla, Lidia non smise mai di mescolare la marmellata, concentrandosi sul movimento regolare del liquido denso e profumato. Si sentiva esclusa, messa da parte, e si chiese cosa avesse da spartire con quelle donne, di cui una era già madre e l’altra lo sarebbe presto divenuta, lei, che non aveva nemmeno mai fatto l’amore con un uomo.

Quasi avvertendo i suoi pensieri, Linda liberò Unna dal suo abbraccio e si voltò verso Lidia. «Non è una bellissima notizia?» le chiese, sorridendo.

La fanciulla annuì, simulando un’allegria che non provava affatto. «Sì, lo è» convenne. Se pensava che le circostanze tutto sommato felici ammorbidissero Unna, Lidia si sbagliava: quando avvertì su di sé lo sguardo della fanciulla, la germanica le lanciò un’occhiata fredda, scoraggiando qualsiasi tipo di approccio amichevole.

Be’, se vuoi continuare a fare così, fai pure. Sai cosa me ne importa! Pensò, stizzita, tornando a concentrarsi sulla marmellata che, nelle sue mani sapienti, stava già iniziando ad attaccarsi sinistramente ai bordi della pentola.

Accorgendosi di quello che stava accadendo, Linda si affrettò a riprendere in mano il cucchiaio di legno. «Comunque», continuò la donna, rivolta a Unna, «se l’anno prossimo verrai ancora qui, sarà bellissimo avere un altro neonato in casa. Ingo sarà già grandicello; e io sono stata chiara con Gislin: un altro figlio non lo faccio più, sto diventando troppo vecchia per queste cose!»

Unna ridacchiò, appoggiata alla finestra. «Be’, ma guarda che nemmeno io avevo intenzione di fare questo…»

«Eh, cara mia», ribatté Linda, con un gran sorriso, «queste cose capitano, quando si è giovani come te e tuo marito.» Unna arrossì e alzò gli occhi al cielo, sbuffando. «E poi», continuò la padrona di casa, divertita dall’imbarazzo di Lidia, «chissà che l’estate prossima anche la nostra Lidia non ci porti un bel bambino, eh?»

Sentendosi chiamata in causa, Lidia avvampò e fece per schernirsi, ma la risatina sarcastica di Unna le fece morire le parole in gola. «Chissà», rispose allora, ostentando sicurezza, «potrebbe anche essere.»

«Cerca di non farlo troppo romano, però!» commentò ilare Linda.

Lidia si strinse nelle spalle e, afferrando il colino con un mormorio confuso, raggiunse il tavolo, voltando le spalle a Unna e ignorando lo sguardo penetrante che sembrava volerle trapassare la schiena.

***

Malgrado le sue iniziali intenzioni di non cambiare minimamente atteggiamento nei confronti di Unna, Lidia fu ben presto contagiata dalle attenzioni che Linda riservava alla donna e iniziò a sua volta a cercare di agevolarle i compiti più gravosi. Unna si lamentava e protestava, sostenendo di non aver bisogno di aiuto, ma Lidia non si lasciava scoraggiare né dalle sue parole, né dalla sua maleducazione: se non per effettivo riguardo nei confronti della cognata e del suo futuro nipote, quantomeno per dimostrare a Linda e alla sua famiglia di essere adulta, responsabile e all’altezza della situazione.

Fu così che, una mattina in cui il sole si era finalmente deciso a mostrarsi nel cielo estivo, Lidia si offrì di accompagnare Unna alla ricerca di alcune manze che, giovani e intraprendenti, si erano allontanate dalla sicurezza dei pascoli, inerpicandosi su per il fianco della montagna e sparendo chissà dove.

«Dovete trovarle prima che venga sera», aveva detto loro Gislin. «Ogni tanto da queste parti gira anche qualche orso.» Lidia aveva deglutito nervosamente alla prospettiva dell’incontro con una belva simile, ma si era fatta coraggio, non volendo essere da meno di Unna – che, oltretutto, era anche incinta!

Così, di buon’ora, quando i raggi obliqui del sole scavalcavano appena le creste sull’altro lato della valle, le due giovani si guardavano attorno, cercando di individuare gli animali ribelli. «Là!» esclamò Unna, indicando un gruppetto di mucche a qualche centinaia di metri di distanza. Mentre si affrettavano a raggiungerle, Lidia notò che, quella mattina, la germanica sembrava particolarmente di buonumore. «Come mai così allegra, stamattina?» chiese, sfidando la sorte.

Unna si strinse nelle spalle. «Linda non te l’ha detto? Domani arriva Karl.»

La fanciulla la guardò, sorpresa. «Non lo sapevo» mormorò. «Ci sarà anche Ulf?»

La donna annuì. «Sì, certo.»

Malgrado tutto, Lidia sorrise: anche se fino a qualche tempo prima non l’avrebbe mai creduto possibile, ora che gli era lontana si accorgeva di sentire la sua mancanza. Cioè, posso sopravvivere anche senza di lui, si rassicurò, però non sarebbe male rivederlo per qualche giorno. Così, prima che… La fanciulla si costrinse a interrompere quel pensiero: quello non era il momento per pensare a Tito.

Non ci misero molto a raggiungere le vitelle e, dopo averle contate, Unna si accigliò. «Sono solo cinque: dov’è la sesta?»

Allontanandosi di qualche passo da lei, Lidia osservò il pendio sottostante, strizzando gli occhi per vedere meglio. «Non la vedo», disse, dopo qualche istante, «ma non può essere andata lontano, di solito si muovono tutte insieme.»

«È appunto questa la cosa strana» mormorò Unna, con un’espressione preoccupata.

Il vento cambiò e improvvisamente il suono di un campanaccio raggiunse le orecchie delle due giovani. «È…» cominciò Lidia, rivolgendosi verso delle placche lucide d’acqua alla sua destra.

«… là sopra» concluse per lei Unna, prima di guardarsi attorno, facendo il punto della situazione. «Io riporto queste giù all’alpeggio» disse poi, voltandosi verso Lidia. «Tu sali a recuperare quella che manca.»

La fanciulla guardò verso l’alto, preoccupata: già aveva difficoltà a camminare sui sentieri, quelle rocce lisce e infide le parevano un ostacolo insuperabile. Deglutendo nervosamente, Lidia incrociò lo sguardo di Unna. «Non potresti andarci tu?» chiese, senza riflettere. «Lo sai che io non sono brava a camminare in salita…»

L’esitazione della giovane fu sufficiente a frantumare il buonumore di Unna, che si rabbuiò, lanciandole un’occhiata sprezzante. «Cos’è, la signora non vuole prendersi il disturbo?» l’aggredì, sibilando.

La fanciulla sbiancò davanti a quella reazione imprevista ed esitò per qualche istante, prima di difendersi. «Ma no» disse, inciampando nelle parole. «È che io non ci riesco, ad arrivare lassù.»

Unna la fissò in silenzio, scuotendo il capo. «Ma certo, che stupida: pensavo che camminare su di un prato fosse un compito alla tua portata, ma evidentemente mi sbagliavo.» Quelle parole furono pronunciate con un disgusto tale, che Lidia si sentì arrossire. Senza lasciarle il tempo di replicare, Unna le passò il sacchetto contenente il sale che avrebbe dovuto convincere le mucche a seguirla. «Tieni, ci vado io, che faccio prima!»

Con un guizzo d’orgoglio, Lidia glielo restituì. «No, no, lascia perdere, ci vado io!» La donna la guardò con un’espressione scettica, identica a quella sfoderata tante volte da Ulf. «Anche perché non credo di riuscire a portar giù le mucche, da sola» aggiunse la ragazza, facendo scorrere lo sguardo sui cinque animali che brucavano affianco a loro.

Unna annuì, lentamente e, dopo essersi chinata per stringersi di più gli scarponcini, Lidia si voltò a fronteggiare la montagna, cercando di farsi coraggio. Senza esitare oltre, la fanciulla si avviò su per il pendio, facendo attenzione a dove appoggiava i piedi e ignorando lo sguardo di Unna appuntato sulla sua schiena. Viste da vicino, le rocce erano meno scivolose di quello che si sarebbe aspettata e le suole delle sue scarpe aderivano con facilità al granito, permettendole di salire più velocemente del previsto.

Quando ebbe coperto circa la metà della distanza che la separava dal pianoro sul quale, in teoria, avrebbe dovuto trovarsi la mucca, Lidia venne raggiunta dalla voce di Unna. «Io scendo!» gridò la germanica. «Se la vitella non è su lì, scendi anche tu, che mandiamo Gislin e Sven, a cercarla!»

Voltandosi verso di lei, Lidia fece un cenno d’assenso con una mano, poi riprese la salita, determinata a riuscire nel suo compito e a dimostrare a Unna che non era così inutile come credeva lei. Si tratta solo di trovare una stupida vacca, non può essere difficile.

Quando, dopo una decina di minuti, superò il tratto roccioso e arrivò su un grande prato obliquo ai piedi della ripida salita che portava alla vetta, la giovane si guardò attorno, abbattuta: dell’animale fuggitivo non c’era traccia. Eppure il suono veniva da quassù, pensò, confusa, non può essere sparita nel nulla!

Unna, forse in preda a un piccolo ripensamento, le aveva raccomandato di scendere, qualora non avesse trovato la vitella, ma Lidia decise di non darsi per vinta e di impegnarsi un po’ di più in quello che le era stato chiesto. Verso destra il paesaggio era aperto e, anche dalla sua posizione attuale, poteva vedere che l’animale non si era avviato in quella direzione, ma a sinistra la montagna faceva una curva decisa e lo sguardo della ragazza poteva spaziare solo per un centinaio di metri.

Che sia lì dietro?

Con un’occhiata cauta alle sue spalle, cercando di memorizzare la via dalla quale era salita e quella, a destra, dalla quale avrebbe dovuto scendere per ricongiungersi al sentiero, molto più in basso, Lidia si avviò di nuovo in salita, gli occhi fissi sul punto dove il prato si univa alla roccia. Quando l’ebbe raggiunto, la giovane trasalì: il prato regolare si interrompeva di colpo, lasciando spazio a un pendio talmente ripido da sembrare quasi un precipizio, privo di alberi per diverse centinaia di metri. Davanti a lei, la valle si apriva, ma era invasa da delle nuvole basse che impedivano alla giovane di ammirarne il paesaggio.

Di nuovo, uno scampanellio giunse alle sue orecchie e, voltandosi nella direzione del suono, la fanciulla individuò finalmente la sagoma brunastra dell’animale. «Eccoti lì» mormorò, trionfante. La mucca era più lontana di quanto le sarebbe piaciuto, tuttavia Lidia si rimboccò le maniche e si avviò di buon passo verso la bestia. Non guardare in basso, si disse, terribilmente consapevole dell’abisso che si apriva al suo fianco. Se non guardi in basso, puoi anche far finta di essere nel giardino di casa.

La fanciulla era talmente presa a badare a dove metteva i piedi, che non si accorse di quello che stava accadendo qualche centinaia di metri sopra la sua testa. Come spesso accade in montagna, dall’aspra cresta rocciosa che si stagliava contro il cielo si affacciò un’ombra grigia, dapprima simile a un filo di fumo, poi a un muro compatto, eppure evanescente. Simile a un liquido che trabocca da un bicchiere troppo pieno, la nebbia scavalcò le creste e, con una velocità sorprendente per una materia tanto impalpabile, scivolò giù lungo il fianco della montagna, silenziosa e inesorabile. Lidia avvertì solo un alito freddo e umido e poi, improvvisamente, il mondo assolato nel quale si era trovata fino a un istante prima venne avvolto da un mare grigio, uniforme eppure cangiante. Con un’esclamazione stupita, la fanciulla si immobilizzò, guardandosi attorno: ovunque volgesse lo sguardo, non vedeva nulla che non fosse ingannevole fumo grigio, un’atmosfera densa che si faceva sempre più impenetrabile, avvolgendola in spire sempre più strette. Lo scampanellio della mucca si fece distante, ovattato e, abbassando gli occhi ai propri piedi, Lidia gemette, accorgendosi che l’esile traccia che aveva percorso per giungere fino a quel punto ero divenuta completamente invisibile.

***

Un ringraziamento a Fioremargherita per il suo immancabile supporto! Ce ne fossero, di lettori come te! Purtroppo sto cambiando un po’ di cose nella mia vita e finisco sempre per uscire di casa alle 7 di mattina e per tornarci alle 7 di sera… ho già un po’ di capitoli pronti, ma il tempo per scriverne di nuovi è sempre meno. Spero di riuscire a trovare presto degli incentivi per scrivere di più, dopo cena!

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Capitolo 20
*** 19. L'Aquila ***


Va bene, si disse Lidia, cercando di controllare il ritmo del proprio respiro e di non farsi prendere dal panico. Se non mi vedono tornare, verranno sicuramente a cercarmi. L’importante è non muoversi da qui.

Il pendio sotto ai suoi piedi le pareva d’un tratto molto più ripido e scivoloso di quanto non le fosse sembrato pochi istanti prima. Con cautela, la ragazza si sedette sull’erba fredda, abbracciandosi le ginocchia e stringendosi la gonna contro le gambe, cercando al contempo di proteggere il più possibile le braccia nude. Respirando a fondo nel tentativo di calmarsi, Lidia si guardò attorno, abbagliata dal paesaggio spettrale che la circondava: il suo mondo finiva a pochi metri di distanza dal luogo in cui sedeva ed era un universo dai contorni sfumati, delle sagome grigie che apparivano e sparivano nell’atmosfera umida. Non si era mai fermata a osservare da vicino la nebbia e, adesso che vi era immersa, si accorgeva che, diversamente da quello che aveva sempre immaginato, non si trattava di un muro compatto e uniforme, ma piuttosto di un’infinità di sottili volute di fumo che, impalpabili ed eteree, viaggiavano sospinte da una brezza invisibile, danzando sospese nell’aria. Per un breve istante, a Lidia parve di trovarsi in un altro luogo e in un altro tempo, sospesa in un istante infinito nel quale non era più se stessa, ma una creatura dai mille volti e dalle mille possibilità, libera dai vincoli terreni e dagli obblighi che gli uomini le avevano imposto. Le parve quasi di poter levitare, di poter oscillare sulle punte, leggera, e poi scivolare via in quell’atmosfera surreale come avrebbe fatto nelle acque di un mare placido.

Poi, però, un capogiro la colse e la fanciulla si riscosse dalla specie di trance nella quale era caduta, rabbrividendo. Fa freddo, pensò.

La miriade di microscopiche goccioline che formavano la nebbia le imperlavano la pelle e i capelli, inumidendole gli abiti e facendola tremare, intirizzita. Quando le sue dita iniziarono a diventare bianche e insensibili, la fanciulla si rese conto di aver completamente perso la cognizione del tempo e di non avere alcuna idea di quanto a lungo fosse restata lì, seduta su un prato che si faceva sempre più scomodo, in attesa che qualcuno si decidesse a venirla a cercare.

Alzando lo sguardo verso l’alto, là dove un tempo c’era stato il cielo, la ragazza non si stupì di non riuscire a scorgere nemmeno il più piccolo baluginio che le indicasse la posizione del sole: quello che la confuse fu invece la fioca luce crepuscolare che pareva avvolgerla. Non può essere già sera, rifletté. Quando sono salita non era ancora mezzogiorno!

Tendendo al massimo le orecchie, Lidia cercò di identificare qualche rumore che annunciasse l’arrivo di qualcuno, ma la nebbia non le restituì altro che il rimbombo del suo cuore e il cinguettio di qualche uccello che sfrecciava via veloce, prima di sparire tra le volute grigie.

La paura tornò a impossessarsi di lei, lentamente, quasi senza fretta, fino a che la fanciulla non fu più in grado di restare seduta e ferma, aspettando un aiuto che non sapeva quando sarebbe arrivato. Va bene, si disse, posso tornare a casa da sola: il sentiero non era troppo distante.

Sempre ammesso che tu riesca a vederlo, il sentiero, commentò la parte del suo animo che voleva rannicchiarsi a terra e piangere finché il sonno o qualcos’altro non l’avesse sopraffatta. Rifiutandosi di dare ascolto a quella voce, Lidia si obbligò ad alzarsi in piedi e poi, con le gambe leggermente tremolanti a causa del freddo e dell’immobilità prolungata, si avviò verso la direzione dalla quale era venuta. A destra, pensò. Devo andare a destra.

Memore della scarpata che si apriva a pochi metri di distanza, la giovane procedette con cautela, mettendo un piede di fronte all’altro con estrema attenzione. Non dovrebbe mancare molto alle rocce; prima avrò camminato sì e no una decina di minuti. Quando era salita per cercare la mucca, Lidia aveva camminato con un passo molto più spedito rispetto a quello che stava tenendo al momento. Tuttavia, ad un tratto, la giovane si fermò scoraggiata. Adesso però sto camminando da molto più tempo, calcolò. Dove sono le rocce? Non le ho viste? Oppure… oppure ho sbagliato strada? Avrei dovuto andare dall’altra parte?

Con il cuore in gola, la fanciulla girò su se stessa, cercando di orientarsi. Tornare indietro era fuori discussione, avrebbe solo rischiato di stancarsi troppo percorrendo e ripercorrendo i propri passi. Premendosi un pugno sulle labbra, Lidia cercò di pensare. Era piuttosto certa di essersi incamminata nella direzione corretta, del resto il prato sul quale si era fermata era in leggera pendenza e lei aveva camminato in discesa, così come avrebbe dovuto fare. Ma allora perché non aveva trovato la via dalla quale era salita? Possibile che ci fosse passata accanto senza accorgersene? Possibile, si disse. Del resto, con questa nebbia non si vede a due metri di distanza.

Inspirando risoluta, la giovane prese una decisione. Va bene, io scendo.

Durante la salita, prima di svoltare dietro al fianco della montagna, aveva osservato con attenzione il paesaggio e ricordava di non aver visto passaggi particolarmente pericolosi: il prato era un po’ troppo ripido per i suoi gusti e le rocce avrebbero potuto essere scivolose a causa dell’umidità, ma probabilmente sarebbe riuscita a tornare alla baita senza rompersi l’osso del collo. Al massimo mi farò qualche livido… niente di nuovo sotto il sole, comunque.

Rinfrancata dalla propria decisione, Lidia iniziò a scendere verso destra, dove, secondo i suoi calcoli, avrebbe dovuto trovarsi il pendio che l’avrebbe riportata al sentiero. Dopo una decina di metri, però, la fanciulla vide che la pendenza aumentava improvvisamente, rendendo il terreno impraticabile. Ma cosa… possibile che io sia ancora troppo indietro?

Camminando sul bordo della scarpata, Lidia cercò di leggere al meglio il terreno, ma presto fu costretta a fermarsi di nuovo. Nemmeno di qui si scende! Pensò, mentre il panico iniziava ad assalirla. Calma, sta calma! Si disse, passandosi le mani sulle braccia e sentendole sempre più sudate. No, no, niente panico!

Inspirando profondamente, la giovane si premette il pollice al centro di un palmo, memore di quello che aveva fatto Donna Erin il giorno del suo matrimonio. Ulf… il collegamento fu istantaneo e, con le lacrime agli occhi, quasi senza la consapevolezza di farlo, la fanciulla pensò a suo marito e desiderò averlo accanto a sé. Avrebbe tanto voluto poterlo abbracciare, lasciandosi stringere e rassicurare da lui.

Chissà cosa avrebbe pensato Ulf quando, l’indomani, sarebbe arrivato alla cascina e non l’avrebbe trovata. Chissà se si sarebbe preoccupato per lei; chissà se gli sarebbe dispiaciuto quando l’avrebbero trovata morta congelata, oppure spiaccicata al suolo dopo un volo di qualche centinaia di metri… La sua mente vagò brevemente per scenari sempre più tragici che, per quanto differenziati, si concludevano sempre con la sua dipartita e con le diverse reazioni delle persone che l’avevano conosciuta. Ulf, nelle sue fantasie, era sempre triste, mentre Unna aveva immancabilmente un’aria vagamente soddisfatta.

Mentre lacrime di commozione e dispiacere per la propria sorte iniziavano a scivolarle già per le guance, Lidia si riscosse. Eh, insomma! Basta! Sei patetica! Tirando su con il naso e stirando le braccia lungo i fianchi, la fanciulla si fece coraggio. Da quello che riusciva a capire, doveva trovarsi su una specie di terrazzino erboso. Era arrivata da sinistra; a destra e davanti a sé non aveva altro che vuoto. Questo significava che non aveva che due possibilità: tornare indietro oppure inerpicarsi su per il pendio, in salita. Salgo, decise, su due piedi. Magari più in alto la nebbia si dirada e riesco a capire dove sono.

No, non sarebbe rimasta lì su quella sporgenza, a due passi dall’abisso, ad aspettare di morire di freddo o di paura. Ormai le era abbastanza chiaro che nessuno sarebbe venuto a cercarla nell’immediato – del resto la nebbia era troppo fitta anche per Gislin o Sven – quindi tanto valeva cercare di trovare da sola la strada di casa.

In affanno nonostante la volontà di non farsi prendere ulteriormente da panico, Lidia iniziò a salire, scivolando e incespicando nella gonna troppo lunga. Quando raggiunse delle rocce, la ragazza vi si infilò in mezzo, spingendosi in alto con i piedi e cercando degli appigli che le permettessero di issarsi con le braccia. Anche se la nebbia l’aveva resa più sdrucciolevole del consueto, la ruvida roccia granitica offriva un’ottima presa alle suole dei suoi scarponcini e le sue dita, ancorché delicate e poco avvezze a uno sforzo simile, riuscivano ad ancorarsi con un certo agio alla miriade di sporgenze offerte dalla montagna. Prima di quanto si fosse aspettata, la giovane raggiunse una zona in cui era possibile tornare a camminare normalmente. Poco alla volta, il freddo sparì, sostituito dal calore generato dall’esercizio fisico, ma la fanciulla non si fermò. La nebbia persistente le aveva fatto perdere ogni riferimento, non solo spaziale, ma anche temporale: quando però avvertì i primi crampi allo stomaco, capì che l’ora di pranzo doveva essere passata da un bel po’.

Basta, non ce la faccio più. Lasciandosi scivolare su di un masso di granito, Lidia chiuse gli occhi. Anche se il suo spirito la esortava a proseguire, a non abbandonarsi allo sconforto, il suo fisico era semplicemente troppo stanco per accontentare quelle richieste. Più della fame, si accorse, era la sete a tormentarla: la sua gola era riarsa e ora che si era fermata il sudore che le inumidiva ancora la pelle non faceva altro che aumentare la sensazione di freddo legata alla nebbia e all’alta quota. In più, da qualche minuto si era alzata una brezza fredda; un filo di vento che faceva vorticare e correre le volute di nebbia, un alito sottile e sinistro che, data la situazione, alla fanciulla parve portatore di presagi nefasti. Morirò qui? Si chiese.

Sebbene razionalmente sapesse che quella possibilità era in realtà del tutto remota, in quelle circostanze la giovane si sentiva più pessimista del solito: non sarebbe morta di fame, certo, e probabilmente nemmeno di sete, ma il freddo era un pericolo da non sottovalutare. Inoltre, ora che lo slancio di iniziativa che l’aveva spinta ad arrampicarsi in alto si era esaurito, la fanciulla riconosceva di essere stata fortunata a non mettere un piede in fallo e a non precipitare nel vuoto: era possibile che, se si fosse mossa da lì, non le sarebbe andata altrettanto bene. Senza contare gli orsi. Se riescono a mangiarsi una mucca, figuriamoci se non riescono a mangiare me.

Lidia si nascose il volto tra le mani, cercando di non pensare a quelle cose. A parte tutto, però: se mi succedesse qualcosa, chissà se mancherei a qualcuno?

Un tempo aveva creduto che i suoi genitori avrebbero sentito la sua mancanza, se lei se ne fosse andata, ma adesso quelli stessi genitori l’avevano spedita via, lontano da casa. Sì, forse sua madre avrebbe pianto, si sarebbe dispiaciuta, ma chissà se le sarebbe davvero mancata? A proposito di suo padre, la ragazza preferiva non interrogarsi, anche se nel suo subconscio già conosceva la risposta. E, per assurdo, ci sono dei momenti in cui tu mi manchi, papà.

I suoi amici a Roma, ne era abbastanza certa, l’avevano data per persa nel momento in cui aveva lasciato la città e, probabilmente, avrebbero accolto la notizia della sua dipartita con un mormorio di circostanza e un’alzata di spalle. A parte Lucilla: lei non è come gli altri. Anche quel pensiero, però, non le recò alcun conforto: la ragazza aveva ormai una sua vita, lontano, a nord, e di certo non avrebbe avuto troppo tempo per piangere una vecchia conoscenza, per quanto cara.

Tito! A lui mancherei sicuramente. So che si dispererebbe, forse piangerebbe anche, per me. Sarebbe così triste che…

… però anche Ulf. Forse un po’ mancherei anche a lui, credo. Se morisse lui, a me mancherebbe.

Lidia si bloccò, arrestando i movimenti automatici con i quali stava cercando di scaldarsi, folgorata da quella rivelazione. Già, mi mancherebbe. Se non lo vedessi più, mi mancherebbe. Se me ne andassi via, mi mancherebbe. La fanciulla deglutì, a disagio.

E perché, poi?

Le tornarono in mente i piccoli gesti che quotidianamente Ulf faceva per lei, la proposta di andare a trovare Lucilla, i suoi occhi, il modo strano in cui sorrideva, come se non riuscisse a evitare di farlo, la sicurezza che riusciva a comunicarle quando la abbracciava, persino le frecciatine con cui la faceva arrabbiare così spesso…

Però anche Tito mi manca, si disse, quasi disperata.

Sì, ma chi ti mancherebbe di più? Lidia ammutolì, davanti a quello scomodo quesito che la sua coscienza le aveva posto. Potrei vivere senza Tito? Si chiese. La risposta arrivò quasi immediata: ovviamente, sì – del resto, lo stava già facendo, e, malgrado quello che aveva pensato prima di raggiungere la Nova Germanica, stava vivendo, non sopravvivendo.

E potrei vivere senza Ulf? Sì, si rispose di nuovo, dopo un attimo di esitazione. Sì, sarebbe stata in grado di vivere senza di lui, indubbiamente. Se avesse voluto farlo, però, era una questione da analizzare in un altro momento. L’idea di non rivedere mai più Tito – o di vederlo solamente per dirgli addio -  le causava ancora una stretta allo stomaco, ma la fanciulla non poteva fare a meno di chiedersi se quella sensazione fosse dettata veramente dal dolore o se, piuttosto, non fosse causata dai primi sensi di colpa che, subdoli, erano strisciati nel suo inconscio. Oh, ma non importa! Pensò, mentre un brivido violento la scosse. Se va avanti così, non rivedrò più né l’uno né l’altro. Non rivedrò più nessuno!

Da qualche tempo a quella parte le sue dita avevano ripreso a farsi fredde e bianche. In quel momento erano così insensibili che la fanciulla aveva la sensazione di averle perse: avvertiva il loro tocco sulle labbra, quando se le portava alla bocca per scaldarle, ma i suoi polpastrelli le segnalavano solo la vaga impressione di un contatto. La testa prese a girarle e Lidia gemette, incapace di determinare se il capogiro fosse causato dal freddo e dal fisico indebolito o se fosse solo un’ingannevole sensazione generata dalla sua psiche turbata.

Oh, Dèi, pensò, nuovamente sull’orlo delle lacrime. Come in risposta alle sue preghiere, la brezza che aveva spirato fino ad allora si trasformò in un vento gelido che le trapassò la schiena, sorpassando la fragile protezione della camicia leggera con raffiche affilate come lame di un coltello. La giovane si ripiegò su se stessa, incassando il capo tra le ginocchia, mentre il suo stomaco si contraeva dolorosamente.

Poi, improvvisamente, la ragazza si accorse di riuscire a vedere a diversi metri di distanza. La nebbia densa come ovatta si trasformò in una bruma più rada, il grigio plumbeo che l’aveva circondata fino a pochi istanti prima virò verso sfumature argentee e lì, in quell’atmosfera d’un tratto fatata, Lidia si rese conto di non essere sola. Era più grossa di quanto pensasse, anch’ella accovacciata su di un masso simile a quello sul quale riposava lei, le piume brune un po’ arruffate, ma cionondimeno incredibilmente dignitosa. Trattenendo il fiato, Lidia si chiese se fosse possibile che l’aquila non si fosse accorta della sua presenza, forse come lei confusa dalla nebbia, ma in quell’istante il rapace voltò il capo nella sua direzione e la fissò. La fanciulla si sarebbe aspettata che l’animale volasse via, vedendosi scoperto, ma l’aquila sostenne il suo sguardo e la ragazza si perse nei suoi occhi d’ambra, al contempo folli e pieni di consapevolezza. Nello sguardo insistente del rapace, nel suo becco acuminato, la giovane lesse qualcosa che la colpì nel profondo, risuonando in una parte del suo essere di cui aveva sempre ignorato l’esistenza. Prima che la fanciulla fosse in grado di formulare un pensiero coerente, però, l’animale spalancò le ali immense e, con un saltello che in altre circostanze l’avrebbe forse fatta sorridere, ma che in quel frangente le parve assolutamente maestoso, volò via, sollevandosi nell’aria evanescente quasi senza sforzo. Subito il vento freddo la ghermì e, senza muovere una sola piuma, l’aquila scomparve alle spalle di Lidia. La fanciulla si voltò in fretta, cercando di seguirne il volo con gli occhi, e subito il rapace passò nuovamente sopra alla sua testa, prima di lasciare l’altopiano sul quale si era posato e lanciarsi nel cielo sopra alla valle, disegnando ampi cerchi che lo portarono sempre più in alto.

Distogliendo a fatica gli occhi dall’aquila, Lidia si rese conto che il vento, che ora soffiava forte e regolare, aveva definitivamente disperso la nebbia: alla vista del panorama che si apriva davanti ai suoi occhi, la ragazza rimase quasi senza fiato. Doveva essere passato più tempo di quello che pensava, perché la luce dorata del tardo pomeriggio illuminava ormai la valle. La foschia residua che ancora permaneva nell’aria le impediva di scorgere i dettagli del paesaggio sottostante, che le appariva come attraverso un vetro leggermente opaco, ma là, oltre alla lieve cortina biancastra, Lidia poteva vedere il ghiacciaio in tutto il suo splendore, creste bianche e sorprendentemente morbide, dove le nevi di innumerevoli inverni si erano depositate, celando i ghiacci eterni che solo di tanto in tanto emergevano azzurrini dalla coltre bianca. Il sole, che ormai si stava avviando verso la linea dell’orizzonte, gettava una luce calda sul candore della neve e la ragazza inspirò, sentendo una strana pace scendere su di lei. Si accorse di non avere più paura e di essere stranamente felice di trovarsi lì.

Quando il vento che le sferzava il volto si fece troppo insistente, la giovane volse le spalle a quel paesaggio e si guardò attorno, cercando di determinare la propria posizione. Era salita più di quanto avesse immaginato, e, nella cecità causata dalla nebbia, aveva preso la via più difficile, arrampicandosi su per le ripide placche di roccia grigia, ignorando il prato che si estendeva alla loro destra.

Bene, almeno posso scendere da lì, pensò. Non subito, però. Scivolando verso l’altro lato del sasso sul quale era seduta, la fanciulla trovò una posizione al riparo dal vento gelido e, appoggiando la schiena alla roccia, permise ai raggi del sole di riscaldarla. Poco alla volta, il tepore scacciò l’umidità della nebbia e della paura e la luce dorata del tardo pomeriggio illuminò le tenebre che si erano raccolte anche dentro di lei. Pigramente, Lidia cercò con gli occhi l’aquila, seguendola fino a quando l’animale, con un paio di potenti colpi d’ali – o così le parve, data la distanza – non scomparve dalla sua vista. Solo allora la giovane si alzò e, stiracchiandosi per sciogliere i muscoli intorpiditi, iniziò la discesa, sentendosi stranamente di buon umore. Ce l’ho fatta da sola, pensò. Non era ancora giunta alla baita, era vero, ma era convinta che il peggio fosse ormai passato.

 Stava camminando da un po’, quando il vento le portò un richiamo. Fermandosi per ascoltare meglio, Lidia guardò a destra e a sinistra, cercando di capire da dove venisse quella voce. «Lidia!»

Sven? Si chiese sorpresa la fanciulla. Allora qualcuno è venuto a cercarmi!

La voce del ragazzo era ancora distante e la ragazza valutò se rispondere al suo richiamo, ma poi pensò che il vento, che soffiava in direzione contraria a quella in cui si trovava Sven, avrebbe portato via le sue parole. Meglio avvicinarsi ancora un po’, decise. In fretta, però, prima che vada via!

Ritrovandosi quasi a correre verso il ragazzino – che non riusciva a vedere, ma la cui voce si faceva sempre più vicina – la fanciulla ripercorse rapidamente il tragitto che, immersa nella nebbia, aveva coperto in un tempo decisamente maggiore.

«Lidia!»

Fermandosi così bruscamente che quasi inciampò nei propri piedi, la giovane guardò meravigliata l’uomo fermo davanti a lei: se lui non l’avesse chiamata, lei gli sarebbe probabilmente sfrecciata davanti senza nemmeno vederlo, tanta era la sua fretta di raggiungere Sven. «Cosa ci fai qui?» chiese, con gli occhi sgranati.

Ulf le si avvicinò a grandi passi e Lidia notò che sembrava stupito, sollevato e… arrabbiato? «Dov’eri finita?» l’apostrofò l’uomo per tutta risposta, afferrandola per le spalle.

Costringendosi a chiudere la bocca, che per lo stupore di vederselo davanti, era rimasta leggermente aperta, Lidia si riscosse. «Io… mi ero persa. Ma cosa ci fai qui?» ripeté. «Unna aveva detto che sareste arrivati domani.»

Il giovane sospirò, chiudendo brevemente gli occhi. «Ci siamo liberati prima del previsto e abbiamo deciso di anticipare di un giorno» spiegò, sbrigativo. «Cosa significa che “ti eri persa”?»

Il suo tono brusco irritò la ragazza, che arricciò il naso, contrariata. Non era quello il modo in cui aveva segretamente sperato di incontrarlo di nuovo. «Significa che è arrivato un gran nebbione e che non vedevo a un metro dal mio naso! Avrei voluto vedere te, a trovare la strada di casa in quelle condizioni: non c’era nemmeno il sentiero!» Poi, facendosi sospettosa, aggiunse: «Cos’è, credevi che fossi scappata di nuovo?»

Forse Ulf non si aspettava di trovarla così bellicosa, perché la presa che aveva sulle sue spalle si allentò per un istante, ma l’uomo non si lasciò scoraggiare. «No, penso che nemmeno a te verrebbe in mente di tentare la fuga in alta montagna… da sola, poi» disse, con una smorfia. «Ma Unna ci ha detto che ti aveva mandato a recuperare una mucca cinquanta metri più in alto, una cosa da dieci minuti… cosa avrei dovuto pensare, sentendomi dire che eri sparita da ore?»

Lidia scrollò le spalle, senza però riuscire a liberarsi dalla presa di Ulf. «Non l’ho trovata subito» spiegò, a mezza bocca. «Mi sono dovuta allontanare più del previsto e, quando l’ho trovata, la nebbia è scesa all’improvviso e non sono più riuscita a tornare indietro.»

L’uomo la scrutò, indagatore. «Quindi Unna non ti ha detto di non allontanarti?»

Arrossendo leggermente, la fanciulla abbassò il capo. «In realtà l’ha fatto, ma volevo dimostrarle che non sono del tutto inutile» mormorò.

Invece di placarlo, quell’ammissione sembrò far arrabbiare ancora di più Ulf, che la scosse leggermente. «Non ti avevo raccomandato di fare quello che ti diceva Unna?» la rimproverò, avvicinandosi al suo volto per guardarla negli occhi. «Tu non conosci queste zone, come ti viene in mente di fare di testa tua? È pericoloso!»

«Ma cosa dovevo saperne, io?» lo attaccò di rimando Lidia, che malgrado tutto si sentiva in dovere di difendere la decisione presa. «Anche tua sorella mi ha detto che era una cosa alla mia portata. E comunque non potevo certo sapere che sarebbe cambiato il tempo! Come… come facevo a saperlo?»

Le sue parole si spensero tristemente quando la fanciulla si rese conto di non avere a disposizione molti argomenti che potessero sostenere la sua scelta avventata, così abbassò cupamente lo sguardo, stringendo i denti in un silenzio ostinato. Ulf sospirò e se la tirò un po’ più vicina, mentre le sue mani si spostavano dalle sue spalle alle sue braccia. «Va bene» disse a voce bassa, cercando evidentemente di allontanare l’irritazione. «Va bene. Però la nebbia si è dissolta più di un’ora fa: cos’hai fatto fino ad adesso?»

Alzando lo sguardo su volto dell’uomo, Lidia esitò. «Tra una cosa e l’altra, sono salita parecchio in alto. Quando è uscito di nuovo il sole, mi sono fermata un po’ per riposarmi e per riscaldarmi» mormorò. «E poi c’era un’aquila e…»

Nell’udire quelle parole, Ulf sussultò. «Un’aquila?» ripeté.

La fanciulla annuì, confusa dalla sua reazione. «Sì, perché? È pericolosa?» Quando il giovane scosse la testa, senza però rilassare i tratti del volto, improvvisamente contratti, Lidia si affrettò a spiegare meglio la situazione. «Era lì, a pochi metri da me» continuò. «Forse anche lei stava aspettando che la nebbia se ne andasse. Probabilmente era anche un po’ spaesata: si è girata a guardarmi, ma non è volata via subito. E anche dopo, non si è allontanata, ma è rimasta lì a volteggiarmi attorno per un bel po’. È stato strano…»

«Tutto qui?» chiese il giovane, con una strana tensione nella voce.

Perplessa dal suo atteggiamento, Lidia si strinse nelle spalle. «Sì. Be’, e poi sono rimasta un po’ a guardare il panorama» disse, chiedendosi distrattamente se suo marito avesse qualcosa contro le aquile.

Quelle parole sembrarono riscuotere Ulf, che abbassò su di lei uno sguardo incredulo. «Noi ti stavamo cercando e tu guardavi il panorama?» Lidia arrossì, improvvisamente consapevole del fatto che forse quella non era stata la scelta migliore, e Ulf sospirò esasperato. «Posso sapere che cosa ti passa per la testa?» le chiese, mordendo le parole in un modo che fece risaltare ancora di più il suo accento.

«Scusa», cercò di giustificarsi lei, «è che proprio non ci ho pensato. Non lo so, il sole, l’aquila, il sollievo di essere fuori dalla nebbia…»

… quello che stavo pensando di te e di Tito…

L’uomo la guardò in silenzio, poi distolse lo sguardo, irrigidendo la mascella ed espirando lentamente dal naso. La fanciulla sentì i sensi di colpa assalirla e le dispiacque di averlo fatto stare in pensiero inutilmente. «Scusa» ripeté, alzando le mani sul suo petto e spingendole fino alle sue spalle: improvvisamente si sentiva in dovere di consolarlo e di rassicurarlo e la cosa la confuse.

Sotto le sue mani Ulf si rilassò un poco e dopo qualche attimo tornò a incontrare il suo sguardo. «Mi hai fatto preoccupare» ammise, quasi sottovoce, posandole le mani sui fianchi e attirandola a sé. «Pensavo che ti fosse successo qualcosa. Che fossi caduta, o che so io… è facile perdersi, qui, e la notte è fredda. Senza contare che, quando ci sei di mezzo tu, non si può mai sapere.»

Malgrado la mezza battuta finale, nei suoi occhi chiari Lidia lesse tutta la sua preoccupazione e quella consapevolezza le provocò una fitta allo stomaco. Oh, Ulf, pensò, stringendosi a lui senza pensarci due volte.

Sospirando, l’uomo nascose il viso nei suoi capelli. «Hai questo pessimo vizio», mormorò, «di sparire nel nulla, rischiando di fare una brutta fine.»

La ragazza capì che si stava riferendo anche al suo primo – e unico – tentativo di fuga e si morse un labbro, arrossendo un po’. «Cercherò… cercherò di evitarlo, in futuro» promise, storcendo il naso quando si rese conto che le sue parole non suonavano particolarmente rassicuranti.

«Voglio sperarlo» commentò il giovane, sorridendo appena. «Perché altrimenti vivere con te diventerebbe decisamente più stressante del previsto.» Così dicendo, Ulf le posò un bacio sulla fronte e Lidia gli passò le braccia attorno al collo, restia a interrompere quel contatto.

Sei ancora arrabbiato? Gli chiese in silenzio, incontrando i suoi occhi con un’espressione di cauta speranza. Scuotendo appena il capo in risposta a qualche suo pensiero, Ulf le posò una mano alla base della nuca e si chinò per baciarla. Sollevata, Lidia intrecciò le dita tra i suoi capelli e lo attirò a sé, ricacciando indietro un sorriso di sollievo e abbandonandosi al suo bacio.

Lontana dalla casa e dall’ambiente che, anche se inconsciamente, continuava ad associare alla paura provata nei suoi primi giorni a Erding, la fanciulla si sentì libera e più sicura di sé. Sentendosi particolarmente coraggiosa, Lidia si alzò sulle punte dei piedi, spingendo il proprio corpo contro quello dell’uomo e tremando di piacere quando sentì le sue mani percorrerle il corpo con più forza di quanto avessero fatto in passato. Avvertendo come il bisogno di averlo più vicino, la fanciulla approfondì il bacio e, per un istante, l’uomo sorrise contro la sua pelle.

Senza che se ne rendesse conto, un gemito lieve sfuggì dalle labbra della ragazza e Ulf le prese il volto tra le mani, esplorando la sua bocca in un modo che la fece fremere, mentre un calore sconosciuto si impossessava del suo corpo e della sua mente. Non voglio andare via, pensò, confusamente, stringendosi a lui.

Quando l’uomo si staccò da lei, la presa di Lidia si fece più salda, impedendogli di allontanarsi. Con il fiato corto, la fanciulla lo guardò negli occhi, sentendosi stranamente viva, quasi come se la sua pelle fosse improvvisamente diventata troppo stretta e formicolasse nello sforzo di contenere le sue emozioni e i suoi sentimenti. Nella sua mente, un solo pensiero: non voglio lasciarlo.

Come per un riflesso condizionato, il pensiero di Tito si presentò alla sua mente, ma, diversamente da quanto era accaduto in passato, non sortì alcun effetto sulla fanciulla. Con un blando senso di sorpresa, la giovane si rese conto di non provare nulla: non dolore, non angoscia, non dispiacere, non amore, solo un piccolo colpo sordo alla bocca dello stomaco, che però impallidì davanti a tutto quello che stava provando al momento.

Senza una parola, Lidia si sollevò di nuovo sulle punte e catturò nuovamente le labbra dell’uomo, che la strinse come se volesse fondersi con lei. Deliziata, la ragazza assaporò il calore della sua pelle e la saldezza dei suoi muscoli e, con un guizzo di intraprendenza che non riuscì a stupirla, si chiese come sarebbe stato stringersi a lui senza l’intralcio dei vestiti. La mano del giovane, che vagava sulla parte bassa della sua schiena, doveva avere pensieri simili, perché raggiunse l’orlo della sua camicia e vi si infilò sotto, accarezzando la pelle morbida della fanciulla. Sorpresa da quel contatto improvviso, che le parve così caldo da bruciarle la pelle, Lidia sussultò e la sua bocca si aprì in un’esclamazione muta. Allontanando il volto da quello del giovane, la ragazza scese sul suo collo e vi posò alcuni baci, incoraggiando il suo compagno a esplorarla più a fondo, spingendosi più in su con la mano e posando l’altra sulla pelle scoperta della sua vita.

«Ma io vi ammazzo!»

Quell’esclamazione rabbiosa fece sussultare i due giovani, che si allontanarono leggermente l’uno dall’altra e si voltarono a fissare l’intruso: Sven, con un’espressione assolutamente furiosa sul volto arrossato, era fermo a qualche metro da loro, gli occhi neri scintillanti e i capelli arruffati. Malgrado l’imbarazzo, Lidia alzò lo sguardo su Ulf e sogghignò notando che non sembrava aver preso particolarmente bene l’interruzione: a giudicare dalla sua espressione, sembrava stesse valutando chi dovesse uccidere chi.

Il ragazzino, però, non parve per nulla intimidito dallo sguardo torvo dell’uomo e, anzi, marciò verso di loro, guardandoli inferocito. «Io sono qui che vado avanti e indietro da un’ora e voi siete qui a fare schifezze!» ululò.

Il tono con cui pronunciò quell’ultima parola era talmente oltraggiato che, malgrado i suoi tentativi di evitarlo, Lidia sentì un sibilo divertito sfuggirle dalle labbra. Un secondo dopo scoppiò a ridere e Ulf, contagiato dalla sua risata, si rilassò e la guardò con un sorriso che andava da un orecchio all’altro, apparentemente deciso a ignorare la presenza del ragazzo.

Sven sbuffò, ancora più irritato, ma strinse la mascella e girò sui tacchi, sibilando un idioti a mezza voce, ma non troppo, senza preoccuparsi di essere sentito. «Io torno a casa» urlò poi, prima di sparire giù dal pendio dal quale era salito. «Non intendo saltare la cena. Ma se voi volete restare qui, restateci pure. Sapete cosa me ne frega, a me!»

Sorridendo, Lidia si voltò verso Ulf. «Forse faremmo meglio ad andare anche noi?» gli chiese.

L’uomo annuì. «Sì» convenne, sogghignando. «Non voglio nemmeno pensare al resoconto che potrebbe fare a Unna e agli altri…»

La fanciulla ridacchiò, arrossendo leggermente, e si avviò per la stessa via presa dal ragazzino, quando un pensiero attraversò la sua mente. «A proposito di Unna», disse, voltandosi verso Ulf, «che cosa ne pensi?»

Lui la guardò, senza capire. «In che senso, cosa ne penso?»

«Be’, voglio dire, immagino che…» Improvvisamente Lidia si bloccò. «Ehm… non ti ha detto niente?»

L’espressione dell’uomo si fece ancora più confusa. «Non so neppure di cosa stai parlando. Devo preoccuparmi?»

Istintivamente, la fanciulla si portò una mano sulla bocca. Ops, stavo per fare una gaffe. Non aveva dubbi che la donna avrebbe voluto comunicare personalmente la lieta novella al fratello: se avesse scoperto che le aveva rovinato l’effetto sorpresa, non glielo avrebbe mai perdonato, non c’erano dubbi.

«No, no, lascia perdere» si affrettò a dire, allungando il passo. Senza rimanere indietro, Ulf la afferrò per un braccio, cercando di convincerla a fermarsi. «Lidia, c’è qualcosa che dovrei sapere?»

La ragazza rise e si liberò dalla presa dell’uomo. «Smettila, non ti dirò una parola!»

«Si può sapere cosa…» provò ad insistere lui, sorridendo, ma la giovane scosse il capo.

«Non saprai niente, da me!» esclamò, divertita. «Zitto e cammina, che prima arriviamo e prima saprai!»

Sorridendo verso il cielo che iniziava ad assumere i colori della sera, Lidia accennò a un saltello, sentendosi incredibilmente leggera e libera. Non sapeva se sarebbe stata la scelta migliore, ma era la sua scelta e, pertanto, doveva essere quella giusta: amava Tito, l’aveva sempre amato e l’avrebbe amato per sempre, ma ora si accorgeva che l’amore non era unico, ma multiforme e dotato di mille sfaccettature. Quello che provava per il giovane romano era saldo e consolidato, ma era diverso da quello che provava per Ulf, adesso se ne rendeva conto. Anche se il sentimento che nutriva per suo marito non era ancora completamente formato, anche se necessitava ancora di un po’ di lavoro per diventare autonomo e reggersi con le proprie gambe, Lidia avvertiva chiaramente che aveva il potenziale di diventare quello che l’amore che provava per Tito non avrebbe mai potuto essere. C’era un po’ di tristezza in quella scoperta, ma era una tristezza buona, che costruiva, anziché distruggere; una malinconia che dipingeva di colori dolci il passato e illuminava con luce chiara il futuro.

Certo, ci sarà poi da vedere se Tito sarà dello stesso avviso, le ricordò la vocina sarcastica nella sua testa, mettendo freno a quei pensieri gloriosi, ma Lidia si rifiutò di farsi abbattere. Non sarebbe stato facile, ne era consapevole, ma conosceva Tito quasi come conosceva se stessa e sapeva che era un ragazzo buono e ragionevole. Forse non sarebbe stato felice di apprendere la novità, ma avrebbe compreso il suo punto di vista e avrebbe rispettato la sua decisione… che, a conti fatti, sarebbe anche stata la migliore per tutti. Se fosse rimasta con Ulf non avrebbe dovuto vivere una vita clandestina, non avrebbe dovuto tagliare i ponti con il passato – né con il presente – avrebbe potuto rivedere Lucilla e i propri genitori e Tito non avrebbe dovuto abbandonare una famiglia a cui era molto legato.

Il tragitto per raggiungere la cascina le parve decisamente breve e Lidia deglutì, a disagio, quando giunsero in vista della baita e videro che Sven stava ragguagliando Linda circa gli ultimi sviluppi, gesticolando nella loro direzione. Vedendoli arrivare, la donna sorrise, posando – non troppo gentilmente – una mano sul capo del figlio e voltandosi verso di loro. «Lo sapevo che non ti era successo niente!» annunciò, trionfante, avvicinandosi per abbracciare Lidia.

«Ah» ammise la ragazza, lievemente imbarazzata. «Io qualche dubbio ce l’ho avuto.» Un movimento a qualche metro di distanza attirò la sua attenzione e la giovane spostò lo sguardo sulla vitella che pascolava placida nei pressi della stalla. Lidia strizzò gli occhi, sospettosa. «Quella è…»

«È tornata a casa praticamente subito, quando è calata la nebbia» commentò serafica la donna.

La vacca è stata più furba di me, pensò la fanciulla, sentendosi quasi offesa dal confronto con l’animale.

«Eh, finalmente!»

Voltandosi nella direzione della voce, Lidia vide Unna, appoggiata di traverso allo stipite della porta, con Karl alle sue spalle. L’espressione della giovane era annoiata, ma nei suoi occhi la ragazza vide la scintilla combattiva che spesso preludeva a una battuta poco gentile nei suoi confronti. Unna parve infatti intenzionata a dire qualcosa, ma Ulf passò un braccio attorno alla vita di Lidia e quel gesto sembrò far cambiare idea a sua sorella, che scrollò le spalle e lanciò un’occhiata dietro di sè, incrociando gli occhi di suo marito. L’uomo osservava la scena senza manifestare alcuna emozione particolare e la fanciulla si chiese se Unna non gli avesse ancora detto nulla.

Incuriosita, Lidia guardò la cognata, inclinando leggermente il capo, la domanda evidente sul suo volto. Sorprendentemente, Unna parve cogliere quell’interrogativo muto e si strinse nelle spalle, facendo un piccolo cenno con la testa. Dopo, voleva dire quel gesto; e Lidia sorrise: anche se Karl non le era particolarmente simpatico – anzi! – era curiosa di vedere il modo in cui avrebbe reagito una volta scoperto che sarebbe diventato presto padre.

Interrompendo il silenzio, Linda si avviò verso casa, portando con sé il figlio. «Bene» disse. «Io torno in cucina. Credo che dopo questa giornata ci meritiamo tutti un pasto sostanzioso.»

***

Seduta al tavolo, Lidia mangiava lentamente, assaporando ogni boccone e dividendo la sua attenzione tra il cicaleccio sconclusionato di Bibi e i discorsi degli altri commensali.

Né Ulf, né Karl sembravano particolarmente desiderosi di discutere delle tensioni che ancora permanevano in paese: rispondevano alle domande di Linda e Gislin, ma in modo talmente vago e sintetico che presto i due lasciarono cadere il discorso, spostandosi su altri argomenti.

Di tanto in tanto, Lidia osservava Unna, notando che la giovane mangiava poco, giocando con il cibo, piuttosto che portarlo alla bocca, e teneva lo sguardo fisso sul piatto, tormentandosi nervosamente le labbra con i denti. E su, coraggio! La incitò mentalmente, comprendendo il nervosismo della cognata, ma iniziando a stancarsi dell’attesa.

Di punto in bianco, Unna inspirò profondamente e posò le posate sul tavolo, prima di voltarsi verso suo marito. «Vieni di là un attimo?» gli chiese.

Lidia si stupì di quanto la sua voce suonasse controllata e nascose un sorriso davanti all’espressione sorpresa di Karl. Nonostante lo stupore, l’uomo si alzò senza ribattere, seguendo la moglie nell’altra stanza. A differenza della giovane romana, Linda non si preoccupò di nascondere la propria allegria, dando vita a un giro di risatine e sorrisi che lasciarono confuso Ulf, l’unico a essere ancora all’oscuro di tutto. L’uomo si guardò attorno, senza capire, evidentemente alla ricerca di qualche spiegazione, sebbene qualcosa nella sua espressione suggerì a Lidia che stesse iniziando a sospettare il perché di tanti segreti.

Ulf si voltò verso di lei. «Ma Unna…» lasciò sfumare la frase, come se non volesse sbilanciarsi, ma Lidia si tuffò nel bicchiere, evitando di rispondere e limitandosi a sorridere con gli occhi.

Dopo un tempo che le parve infinito, Unna e Karl tornarono nella sala da pranzo e Linda scoppiò a ridere davanti alla gioia palese dell’uomo, che abbracciava la compagna, impedendole di allontanarsi da lui. Unna, con il volto arrossato, ma sorridente, sbuffò e colpì con il gomito il petto del marito, convincendolo a lasciarla allontanare di qualche centimetro, senza però riuscire a fargli mollare del tutto la presa.

Ma che carini, pensò sarcastica Lidia, sprofondando nella sedia e osservando la coppia con lo stesso distaccato entusiasmo con cui avrebbe assistito a una scena romantica di un’animazione.

«Va bene» esclamò Ulf, incrociando le braccia sul tavolo. «Posso sapere cosa sta succedendo?»

Karl sorrise, con gli occhi che scintillavano. «Diglielo!» disse, stringendo la mano di Unna.

Con un sospiro melodrammatico, la donna si voltò verso il fratello, allargando le braccia. «Diciamo che, prima che si avveri la vaga e remota possibilità che tu e il pesce lesso al tuo fianco riusciate a mettere al mondo una creatura tutta vostra, potrei permetterti di fare un po’ di pratica con la mia

Ulf sbatté lentamente gli occhi, prima di sorridere. «Avrete un bambino?» chiese cauto.

«Sì!» esclamò Karl, con la voce un po’ incrinata dalla gioia e dall’emozione.

Mentre Ulf si precipitava a congratularsi con la sorella e con l’amico, Lidia emise un sibilo a metà strada tra uno sbuffo e una risata: l’insulto che, con grande nonchalance, Unna era riuscita a inserire nel suo annuncio le faceva storcere il naso, ma, in un certo senso, la divertiva anche un po’.

Senza nemmeno pensarci, quando incontrò gli occhi azzurri della donna, Lidia le rivolse una smorfia e le mostrò la lingua: da sopra alla spalla del fratello, Unna sorrise, e per una volta era un sorriso vero, anche se dispettoso.

Ma sì, pensò la giovane romana, appoggiando il mento sul palmo di una mano, dopotutto poteva anche andarmi peggio.

***

Per rispondere a quello che alcuni di voi mi hanno chiesto dopo l’ultimo capitolo: no, non ho in programma di abbandonare di nuovo questa storia. Ho i capitoli pronti per i prossimi due mesi e ho scritto lo “scheletro” di quelli restanti.

Quando ho ripreso in mano ‘sta roba, l’ho fatto con l’intento di finirla in tempi rapidi. Quello che non avevo messo in conto era di trovare un lavoro che mi facesse arrivare a casa praticamente all’ora di cena, il che significa che il tempo per scrivere va dalle nove alle undici di sera… ovviamente, quando non esco con gli amici, quando non guardo un film, quando ho semplicemente voglia di cazzeggiare su internet o quando non sono così stanca da fare una doccia e andare a letto.

Il vostro supporto, il fatto di sapere di scrivere per qualcuno e non solo per me stessa mi aiuta a essere un po’ più produttiva, ma quello che voglio dire è questo: i capitoli arriveranno, sì, ma, una volta finita la “scorta”, è probabile che gli aggiornamenti saranno un po’ più radi.

Sorry.

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Capitolo 21
*** 20. Storie di soldati ***


«E quindi il fatto che ti abbiano sbattuta fuori dalla tua camera non ti infastidisce nemmeno un po’?»

Davanti alla domanda di Ulf, Lidia si strinse nelle spalle, cercando di trovare una posizione comoda sulla paglia che le faceva da materasso. «Ma no, ma no» cantilenò, soffiando via i miseri resti di un trifoglio secco e schiacciato. «Spero solo che Karl non dorma nel mio letto: quello effettivamente mi farebbe un po’ schifo.»

Ulf rise. «E perché mai? Sono abbastanza certo che Unna lo costringa a lavarsi, di tanto in tanto.»

La ragazza storse il naso. «Non lo metto in dubbio, ma è comunque un estraneo. Non mi va di dormire dove ha dormito lui.»

«Mh, come sei schizzinosa…» la prese in giro il giovane.

«Oh, finiscila!» rise Lidia, colpendo il marito con il dorso della mano. Afferrandole il polso, Ulf se la tirò contro, facendole posare il capo sulla propria spalla. La fanciulla sospirò e si rilassò, sistemandosi meglio addosso a lui.

Anche se non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, Lidia trovava ben poco cavalleresco il fatto che Karl si fosse preso il suo letto, costringendola a dormire nel fienile insieme a Ulf. Anche se capiva benissimo il desiderio di Unna e di suo marito di passare del tempo insieme, la ragazza non poteva negare di essere vagamente infastidita dal fatto di aver dovuto rinunciare al suo materasso morbido: se aveva fatto buon viso a cattivo gioco, era soltanto per evitare di passare per una signora di città, viziata e petulante. Almeno qui c’è un buon profumo, si consolò, respirando la fragranza dell’erba secca.

Accanto a lei, Ulf era silenzioso e, a giudicare dal modo distratto in cui le sfiorava i capelli, pareva decisamente rilassato, perso in pensieri piacevoli. Anche se le dispiaceva turbare la sua tranquillità, Lidia pensò che quella fosse l’occasione ideale per scoprire qualcosa di più a proposito di ciò che l’avrebbe accolta quando avrebbe fatto ritorno a Erding. Per qualche motivo, infatti, quando era solo con lei l’uomo pareva più propenso ad aprirsi e a discutere di argomenti che di solito evitava con cura, e Lidia intendeva approfittarne: le informazioni che era riuscita a carpire durante il suo isolamento in alta quota erano infatti troppo scarne per soddisfare il suo bisogno di conoscenza.

Con un sospiro leggero, la giovane romana rotolò sulla pancia e si mosse nella penombra solcata dal canto dei grilli. «Allora», esordì, sollevandosi sui gomiti e guardandolo dall’alto in basso, «come vanno le cose, giù in paese?»

Come previsto, Ulf si irrigidì e sospirò, spostando lo sguardo di lato. «Vanno» rispose, evasivo. «Credo, però, che per qualche mese sia meglio che tu stia alla larga da Erding. A settembre Gislin e Linda torneranno a valle: se per allora le cose non si saranno ancora calmate, cercheremo di trovarti una sistemazione alternativa.»

Quelle parole misero immediatamente in allarme Lidia, che si tirò bruscamente a sedere. «A settembre?» chiese, con voce leggermente strozzata. «Hai intenzione di farmi restare lontana da casa fino a settembre? E forse anche oltre?»

La sua esclamazione violenta fece quasi trasalire Ulf, ma il giovane si mise a sedere a sua volta, fronteggiando la ragazza con le mani sollevate, come nel tentativo di ammansirla. «Capisco che per te non sia il massimo viaggiare da un posto all’altro in questo modo, ma, almeno al momento, Erding non è un luogo sicuro, per te.»

«E per te, invece?» ribatté la fanciulla. «Se è pericoloso per me, sarà certamente pericoloso anche per te, no?»

Il germanico scosse il capo. «Non particolarmente» la contraddisse. «Innanzitutto perché sono un uomo e, fino a prova contraria, sono in grado di difendermi meglio di te. E, soprattutto, io non sono romano; e, credimi, al momento questo particolare fa tutta la differenza del mondo.»

Lidia, che era già pronta a ribattere, davanti a quelle parole rimase in silenzio per qualche istante. «Quindi il problema è che sono romana?» chiese. «Perché? È per la storia della miniera?» indagò, ricordando la rabbia di Karl la sera in cui Gefrid aveva comunicato loro la novità riguardante la concessione fatta a Roma.

Ulf esitò e abbassò lo sguardo sulla coperta ruvida sulla quale erano seduti. «Anche», ammise, «ma non solo. Il problema è più… il problema, temo, è che la gente inizia a essere stanca di farsi sfruttare da Roma.»

Nonostante tutto, quella spiegazione toccò un nervo scoperto e la giovane romana lanciò al marito un’occhiata tagliente. «Ancora con questa storia? Scusami tanto, ma francamente non vedo in che modo Roma stia sfruttando la vostra terra.»

Ulf scosse il capo. «Ti ho parlato…» «… delle offerte, sì» lo interruppe Lidia, sentendosi particolarmente infervorata. «Ma si tratta solo di supposizioni tue e di Karl, non ci sono prove che le vostre teorie siano vere.»

«A dire il vero, le teorie non sono proprio solo mie e di Karl» replicò Ulf, a bassa voce. «Parlando un po’ con diverse persone, ho scoperto che non sono l’unico a trovare strana la natura delle offerte che ci chiedono di fare agli Dèi. Il punto non è questo, comunque: hai presente Caleno?»

Lidia aggrottò la fronte. «Certo che ce l’ho presente: è il Prefetto. Ho parlato con lui in diverse occasioni.»

«Bene. Un paio di settimane fa ha comunicato a mio padre di aver fatto richiesta perché Roma inviasse a Erding un altro centinaio di soldati, che sarebbero andati a sommarsi ai quasi duecento che sono già di stanza alle porte del villaggio.» Lidia fece per parlare e chiedere spiegazioni, ma Ulf sollevò una mano, facendole cenno di aspettare. «Me lo spieghi a cosa servono, così tanti soldati?»

La giovane romana aprì e chiuse la bocca un paio di volte, poi si schiarì la voce. «Speravo me lo dicessi tu, a cosa servono così tanti soldati. Vi avrà pur dato qualche spiegazione…»

«Oh, certo che ce le ha date» sogghignò l’uomo, amaramente. «Sostiene che nella nostra regione ci siano sempre più attacchi ai danni dei cittadini di Roma e che quindi, per garantire l’ordine, gli servono più uomini. Ora, se consideriamo che a Erding i civili romani si contano sulle dita di una mano, mi pare chiaro che i soldati servono solo a garantire la sicurezza dell’esercito stesso. O forse… ad attaccare?»

«Ad attaccare?» gli fece eco Lidia, che non riusciva a credere alle sue orecchie. «Ad attaccare chi? E per cosa? Io credevo che Roma fosse interessata a mantenere la pace: non è questo, il motivo per cui ci hanno fatto sposare?»

Ulf parve preso in contropiede da quell’osservazione, e si accigliò. «Sì, ufficialmente è così, ma… non è detto che tutti condividano la decisione del vostro Imperatore. Forse anche tra i romani c’è qualcuno che aveva sperato in qualcosa di diverso?» Dopo una breve pausa, l’uomo riprese: «Io non so come stiano veramente le cose, però cerca di vedere la situazione nel suo complesso: Roma e la Germanica non sono mai state amiche e, poco più di trent’anni fa, da queste parti ci sono stati degli scontri anche piuttosto violenti.»

«Sì, lo so» annuì la ragazza. «Caleno me ne ha accennato.»

Se fu sorpreso dal fatto che il Prefetto avesse istruito sua moglie circa la storia della regione, Ulf non lo diede a vedere. «Non è che, una volta che si smise di combattere, le ragioni che avevano generato il conflitto siano scomparse, sai? Anche perché la ragione principale era che Roma voleva annettere le nostre terre all’Impero, così da poterne sfruttare le ricchezze naturali.» Mentre pronunciava quelle parole, il tono del giovane era talmente amareggiato che Lidia, che pure non aveva oggettivamente nulla a che vedere con quelle vicende, sentì le sue guance imporporarsi: conosceva benissimo la politica estera di Roma e ne aveva più volte apprezzato i vantaggi che essa apportava nella sua vita, ma non si era mai fermata a considerare seriamente l’altro lato della medaglia. «Mio padre e tutti gli uomini della sua generazione hanno combattuto per difendere il nostro territorio. In molti sono morti, molti altri sono tornati con ferite che non sono mai guarite. E adesso… adesso bastano due firme e la stessa terra per cui loro hanno lottato viene ceduta a Roma, pezzo dopo pezzo. Qui da noi è una sezione di miniera – per ora – altrove sono cave, terre coltivabili, porti. Capisci che non è una cosa facile da accettare.»

«Lo capisco» mormorò Lidia, aggrottando la fronte. C’era qualcosa che non le tornava, in tutto quel discorso, ma non era certa di sapere cosa. «Capisco», ripeté poi, più decisa, «però, se c’è un accordo, significa che qualcuno l’ha firmato, qui in Germanica. Tuo padre non aveva parlato di un generale…?»

Il giovane annuì. «Chi si ritrova in posizioni di potere riceve molte pressioni per accettare questo genere di accordi, a quanto pare» commentò, laconico.

«Sì? E da parte di chi?» la ragazza non ebbe bisogno che Ulf le rispondesse a parole: la sua espressione fu sufficientemente eloquente. «Da parte dei Sacerdoti?» chiese, confusa.

«Già» confermò l’uomo. «Quindi, fai un po’ tu i conti. Stiamo parlando di un intero popolo che già mal sopportava Roma e che si vede attaccato su più fronti. Ci sono dei trattati ufficiali che legittimano il furto delle nostre ricchezze, dei sacerdoti che forse non sono esattamente fedeli alla Germanica che sottraggono altre materie preziose con la scusa di offrirle agli Dèi e, non ultimo, un numero allarmante di soldati che, senza che nessuno possa fermarli, si ammassano davanti alle nostre case… capirai che la situazione non è esattamente ottimale, per te.»

Lidia chinò il capo, pensierosa. Anche se c’erano ancora aspetti di quella storia che non la convincevano fino in fondo – non ultima l’intera faccenda delle offerte – la ragazza iniziava a rendersi conto di quanto la sua presenza fosse verosimilmente poco gradita al villaggio. «Ho capito» disse, poi, con voce un po’ tremula. «Ma io cosa c’entro? Io non ho fatto niente e non posso nemmeno fare niente per fermare quello che sta succedendo. Anzi, non l’ho nemmeno chiesto io, di venire qui: perché la gente dovrebbe prendermi di mira?»

Ulf sospirò e, sporgendosi verso di lei, le carezzò i capelli. «Per nessun motivo valido, immagino. Ma se qualcuno volesse, diciamo, far passare un messaggio, attaccare te sarebbe molto più semplice ed efficace che attaccare un soldato qualsiasi.»

«Cosa vuoi dire?» insistette la ragazza, confusa da quella risposta.

«Voglio dire che sei la figlia di un Senatore: se qualcuno – Sören, per esempio, o Otmar, o qualcun altro come loro – volessero fare capire al Prefetto che l’aria sta cambiando, potrebbero scegliere di concentrarsi su di te. La cosa attirerebbe di certo la sua attenzione e, in un certo senso, sarebbe anche un insulto alla sua autorità e a tutti i suoi soldati.»

Lidia storse le labbra, dubbiosa. «L’ultima volta che abbiamo parlato, il Prefetto mi ha detto che in questa regione ci sono dei problemi irrisolti. Mi aveva lasciato un’impressione strana e, con il senno di poi, ho come il sospetto che Caleno non aspetti altro che una buona occasione per… non so, per passare alle vie di fatto? Per usare le maniere forti?» Ulf le rivolse un’occhiata obliqua e la fanciulla si voltò verso di lui, sfiorandogli distrattamente la manica della camicia. «Non so se a lui dispiacerebbe poi tanto, se quelli là mi facessero del male: probabilmente lo vedrebbe come un pretesto per attaccarli a sua volta e magari prendersi più di quello che ha adesso? Magari è per quello che ha portato a Erding tutti quei soldati?»

L’uomo la guardò per qualche istante, silenzioso, poi scosse il capo. «È possibile», concesse, «ma non è proprio così facile. Caleno deve sottostare all’autorità di Libo, e il Legato è senza dubbio un uomo più pacato del Prefetto: lui ci penserebbe due volte, prima di far scoppiare un conflitto. E, inoltre, Caleno non può scavalcare completamente il Sacro Consiglio.» Dopo una breve pausa, Ulf aggiunse: «Rappresentato da Donna Erin, per la precisione.»

«A proposito di Donna Erin» esclamò Lidia, colta da un’illuminazione improvvisa. «Perché Otmar, o come si chiama, insisteva tanto a chiedermi di lei? Voleva sapere cosa avesse in mente, o qualcosa del genere.»

«Probabilmente crede che sia in combutta con Roma» fu la pronta risposta di Ulf, e la giovane non riuscì a nascondere un sorriso amaro. E non è l’unico, si disse, guardando di soppiatto il marito. «O se anche non lo crede», riprese l’uomo, «vuole farlo credere agli altri.»

«Agli altri chi?» chiese Lidia. «Alla gente del villaggio? E a che pro?»

«Per metterglieli contro, naturalmente» replicò Ulf, stringendosi nelle spalle. «Io credo che Sören, Otmar e chi la pensa come loro vogliano prendere il potere a Erding, ma, per farlo, devono togliere quello stesso potere a Erin.»

«A Donna Erin?» ripeté la giovane romana. «Donna Erin è solo una Sacerdotessa: non è tuo padre, il capo villaggio? Non è lui, quello che ha in mano il potere?»

L’uomo emise uno sbuffo quasi divertito e scosse il capo. «Un tempo, forse: ora, l’unica vera autorità riconosciuta nelle nostre terre è quella religiosa. Il ruolo di mio padre è più che altro simbolico; lui e gli altri anziani del villaggio non hanno praticamente alcun potere decisionale… non nelle cose che contano, almeno. Ti sarai accorta che è Donna Erin a decidere su tutto.»

Sebbene sulle prime quelle parole la sorpresero un poco, Lidia ripensò rapidamente a quello che aveva visto durante il suo soggiorno al villaggio, e dovette riconoscere che, in effetti, quello che diceva Ulf era probabilmente vero. «D’accordo», riprese, allora, «però Donna Erin è una Sacerdotessa: Sören o Otmar non possono prendere il suo posto, non sono Sacerdoti.»

«Ovviamente no» rispose Ulf, asciutto, «ma questo non significa che non possano eliminarla. Anzi, immagino che sia proprio quello che intendono fare.»

«E non possono… non possono ucciderla e basta? È una donna come tutte, non è certo immortale o invulnerabile» ribatté la fanciulla, ingoiando a fatica lo strano sapore che quelle parole lasciarono nella sua bocca.

«Io non credo che abbiano intenzione di ucciderla: non personalmente, almeno. Quella donna ha degli agganci importanti» fece lentamente il giovane. «Mandarla via sarebbe difficile e ucciderla sarebbe troppo pericoloso. Penso però che Sören e Otmar vogliano fomentare la rivolta, così che sia tutto il popolo a cacciarla, e non solo una manciata di uomini con poca simpatia per Roma.»

Lidia rimase in silenzio per alcuni istanti, riflettendo su quello che il germanico aveva detto. Poi sospirò: «Ma perché dovrebbero voler prendere il potere a Erding? Voglio dire, perché proprio Erding? Cos’ha di tanto particolare, quel villaggio?»

«Non ha proprio niente di particolare» rispose Ulf, con la stessa asciuttezza di poco prima. «Sören e Otmar sono amici, a quanto pare, ed è per questo che quel tipo si trova nel nostro villaggio. Sai, è probabile che loro pensino anche di essere nel giusto: vogliono cacciare Roma dalle nostre terre perché credono che sia giusto così.» Dal tono in cui pronunciò quelle parole, Lidia si chiese se suo marito condividesse, almeno in una certa misura, quel pensiero. Ma poi, il giovane continuò: «Però si deve essere veramente stupidi per non capire che, da un approccio del genere, non possono venire che problemi. Ho scoperto che è proprio per questo che Otmar è stato cacciato da casa sua, sai? Suo padre è capo villaggio e continuavano a scontrarsi a proposito del modo più giusto per rapportarsi con Roma: alla fine è stato Otmar ad avere la peggio e a venire allontanato dal suo villaggio. È possibile che abbia anche voglia di rifarsi, o chissà. In ogni caso, è meglio che tu stia alla larga da Erding almeno per un po’.»

Anche se controvoglia, Lidia annuì, stringendosi a lui. Ora che aveva più chiara la reale situazione in cui si trovava, iniziava a credere che tornare al villaggio non fosse veramente la cosa più intelligente da fare. «Forse hai ragione» ammise, con un sospiro sconsolato. «Ma se le cose non dovessero sistemarsi? Se riuscissero a mandare via Donna Erin?»

L’uomo esitò un attimo, prima di rispondere. «Io credo che, alla fine di tutta questa storia, Donna Erin ne uscirà vincitrice. Se così non fosse, però, vedremo di trovare un’altra soluzione.»

La ragazza giocherellò brevemente con l’allacciatura della sua maglia. «D’accordo» si arrese. «Ma cosa ti fa pensare di essere davvero al sicuro, tu? Mi hai sposata, immagino che nemmeno tu sia in una gran bella posizione, no?»

Ulf sorrise. «Io so badare a me stesso» disse, sicuro di sé. Lidia scosse il capo, divertita nonostante la preoccupazione. «Come no…»

Il giovane doveva essere desideroso quanto lei di spezzare l’atmosfera sgradevolmente tesa che si era creata durante la loro conversazione, perché raccolse immediatamente la sua provocazione. Afferrandola per le braccia e facendola rotolare sulla schiena, si portò sopra di lei. «Stai forse mettendo in dubbio la mia abilità nel combattimento?» le chiese, minaccioso.

«Non saprei, non ti ho mai visto combattere» rise lei, divincolandosi. Ulf la guardò, altezzoso. «Una brava moglie crederebbe il proprio marito sulla parola e non si sognerebbe mai di mettere in discussione la sua abilità… in qualsiasi campo

Lidia arrossì leggermente, credendo di indovinare un doppio senso nelle parole dell’uomo, e si agitò brevemente, ritrovandosi così fuori dalla coperta sulla quale erano distesi. I suoi movimenti le avevano fatto sollevare un poco la camicia e la paglia punse la sua pelle scoperta. «Pizzica!» esclamò la ragazza, ridendo. Con un movimento repentino, Lidia riuscì a cogliere di sorpresa il compagno, ribaltando nuovamente la loro posizione. Quello scambio così scherzoso le ricordò i momenti spensierati passati con Tito, a Roma, tanto tempo prima e, senza pensarci, Lidia si mise a cavalcioni su di lui, sentendo le ossa del suo bacino premere contro la pelle morbida delle cosce. Il sorriso della fanciulla si spense leggermente quando, pur nella luce fioca della tarda sera, vide lo sguardo che l’uomo le lanciò. «Addirittura?» sogghignò Ulf. «Non pensavo che fossi tipa da...»

«Zitto!» esclamò Lidia, gettandosi in avanti e piazzandogli una mano sulla bocca. «Stai zitto!» La ragazza sentì l’uomo sorridere contro il suo palmo e, lentamente, tornò nella sua posizione seduta e lo scrutò con attenzione, sentendosi presa in contropiede. Durante i suoi giochi con Tito, quella posizione era semplicemente un modo – forse un po’ malizioso - per affermare scherzosamente il proprio potere, per sentirsi forte, anche fisicamente, in grado per un istante di tenere testa a un uomo. Ed era esattamente così che l’aveva intesa anche in quel frangente, con Ulf: solo la sua battuta le aveva fatto capire quanto essa potesse effettivamente risultare equivoca. Bah, tanto mi sta solo prendendo in giro, pensò, notando lo scintillio divertito nei suoi occhi. Arricciando il naso, Lidia decise di non cedere il terreno conquistato, e così restò a fissare solennemente il marito. Notando la sua immobilità, Ulf la guardò, incuriosito. «Beh?» chiese, picchiettando leggermente con le dita contro le sue ginocchia.

Persa nei suoi pensieri, la fanciulla ricambiò il suo sguardo, soppesando l’idea che le era strisciata in testa. Chissà cosa direbbe, se provassi a… fare qualcosa? Le spiegazioni su quello che occorreva fare in determinate circostanze – informazioni molto dettagliate e riccamente illustrate, contenute nei giornaletti che, di tanto in tanto, aveva sfogliato con Lucilla – le tornarono in mente, facendola arrossire anche a mesi di distanza. Posando a mo’ di tentativo una mano sotto all’orlo della maglia di Ulf, toccando la sua pelle calda con la punta delle dita, Lidia avvampò, battendo rapidamente in ritirata. No, no, non sono capace!

Dèi, che vergogna! Pensò subito dopo, notando che gli occhi del compagno vagavano sul suo viso, soffermandosi sul suo rossore e sul labbro stretto tra i denti. «Cosa stai facendo?» le chiese Ulf, con una nota di incertezza nella voce.

«Ah… niente» sospirò la fanciulla, spostandosi da lui e sistemando bruscamente la coperta, prima di tornare a sdraiarvisi sopra, volgendo le spalle all’uomo. Lui rimase in silenzio, fermo nella posizione in cui l’aveva lasciato; e Lidia inspirò profondamente, sentendosi vagamente mortificata per il suo approccio fallito. La sua incapacità di prendere l’iniziativa la frustrava e quello strano sentimento la confondeva: solo il giorno prima era ancora decisa a scappare con Tito, e adesso, improvvisamente, voleva qualcosa di più dal suo rapporto con Ulf. Siamo sposati da un mese e mezzo! Si disse, sentendosi quasi in dovere di giustificarsi con se stessa.

Era stata fidanzata con Tito per molto più tempo; eppure con il giovane romano aveva sempre accettato relativamente di buon grado il fatto di non poter vivere fino in fondo la sua relazione con lui… Perché con Ulf era diverso? La ragazza si mordicchiò le dita, inquieta: era perché erano sposati e quindi non esistevano dei veri motivi per mantenere le distanze, adesso che aveva preso la decisione di restare con lui? Oppure c’era anche qualcos’altro? Cosa importa? pensò, imbronciata. Tanto io non ce la farò mai a fare la prima mossa! E lui…

Improvvisamente si bloccò, colpita da un pensiero. Una volta diceva che l’idea di toccarmi gli faceva orrore: adesso però non la penserà più così, no? Non mi pare di fargli proprio così tanto schifo… la fanciulla deglutì, nervosa, senza riuscire a convincersi del tutto.

Sospirando, abbattuta e confusa, Lidia si rannicchiò, portandosi le gambe al petto e rimuginando su quello che Ulf provava – o non provava – per lei. Improvvisamente, il braccio dell’uomo le scivolò attorno alla vita e le sue labbra le si posarono sul collo nudo, facendola trasalire.

«Perché sei così timida? Non avrai ancora paura di me, vero?» mormorò il giovane, a contatto con la sua pelle, mentre le sue mani le stringevano la vita, scivolando con naturalezza sotto alla camicia leggermente sollevata.

Lidia si sentì avvampare, terribilmente consapevole di quel contatto inaspettato che le fece morire le parole in gola. Non so il perché, avrebbe voluto rispondere, forse perché non so come comportarmi, con te. Ulf, però, non pareva veramente interessato alla sua risposta, perché, quando vide che la fanciulla non accennava a sciogliere la sua postura contratta, la attirò a sé, facendole scivolare una mano sulla pelle tesa dello stomaco e baciandole il collo, salendo fino all’attaccatura dei capelli per poi scendere fino a dove la curva del collo scompariva sotto alla stoffa bianca. Quando insistette su un punto alla base della gola, stringendo brevemente la sua pelle tra i denti, Lidia inspirò bruscamente, mentre le sue braccia venivano percorse da brividi sottili.

Automaticamente, le sue gambe si rilassarono e la giovane si allungò, in preda a uno strano languore. Uhm. «Cosa… cosa stai facendo?» balbettò, dopo qualche istante.

Ulf le infilò il naso tra i capelli, mentre con la mano le disegnava dei cerchi sullo stomaco, lasciando dietro di sé una scia bruciante. «Cosa ti sembra che stia facendo?» la provocò, avvicinandosi al suo orecchio.

«No, intendo…»

I denti dell’uomo si strinsero sul suo lobo; la sua lingua le percorse il profilo dell’orecchio e Lidia rinunciò a parlare, rifugiandosi in un sospiro tremulo. No, intendo: perché lo stai facendo?

Lidia rinunciò però a quell’interrogativo: si sentiva al contempo scossa e rilassata, le pareva che il suo corpo si tendesse e che tutta la sua attenzione si concentrasse sul lembo di pelle che Ulf stava baciando. Confusamente, la giovane pensò che le sarebbe piaciuto fare qualcosa e, quasi inconsciamente, serrò i pugni, come se in quella situazione tutto sommato nuova le sue mani desiderassero non essere solo delle spettatrici passive. Prima che la fanciulla potesse controllarsi abbastanza per agire, però, il palmo di Ulf scivolò verso l’alto e si posò inaspettatamente sul suo seno, esitando appena mentre l’uomo studiava la sua reazione. Lidia sobbalzò e si sentì come attraversata da una scossa di elettricità che dal petto scendeva verso il ventre. Sorpresa, la ragazza spalancò gli occhi davanti alla forza della reazione del suo corpo: non aveva mai capito perché altre donne lo considerassero una parte tanto interessante, quando si parlava di rapporti con l’altro sesso, ma adesso…

Poi, la mano dell’uomo si mosse con più insistenza la giovane chiuse istintivamente gli occhi, inarcandosi contro di lui, mentre il suo pollice la accarezzava in un modo che non aveva mai nemmeno sognato.

Questo è… Non sentendosi abbastanza coraggiosa da elaborare una descrizione esatta di ciò che stava provando in quel momento, Lidia mosse appena il capo e si avvicinò a Ulf. Chiudendo gli occhi, la ragazza gli baciò il collo, mentre le sue dita si stringevano in un pugno attorno alla sua maglia, come se volessero impedirgli di scappare.

Non credo proprio che abbia intenzione di scappare, sogghignò sarcastica quella parte di lei che notava sempre i particolari più sconvenienti e che, anche in quell’occasione, pressata com’era contro di lui, aveva preso nota della prova evidente che Ulf, dopotutto, la desiderava davvero.

A quel pensiero Lidia sorrise, stranamente soddisfatta, ma il sorriso le si spense sulle labbra quando le dita dell’uomo si strinsero sul suo seno, strappandole un gemito. Ansimando, la ragazza rovesciò bruscamente il capo all’indietro, colpendo accidentalmente il naso del compagno, che si ritrasse di qualche centimetro, ridendo. «Calma» le disse, in un mormorio divertito.

«Mh.» Troppo presa dal momento per dar peso a quel piccolo incidente, Lidia si sistemò meglio contro al corpo dell’uomo. Mentre Ulf la teneva stretta e continuava ad accarezzarla, Lidia sentì la tensione crescerle tra le gambe e, in preda all’impazienza, strinse le cosce nel tentativo di alleviare quella sensazione. Già in passato le era capitato di provare qualcosa di simile, seppure con un’intensità minore, durante alcuni momenti passati con Tito, ma le circostanze erano state diverse.

Chissà se anche la conclusione sarà diversa, si chiese la giovane. Il pensiero la allarmò leggermente: anche se il suo corpo le stava suggerendo molto chiaramente la direzione da prendere, la sua mente, ancora un po’ frastornata dagli avvenimenti recenti, esitava.

Un po’ nervosa, Lidia si irrigidì per un istante, combattuta tra il desiderio e l’incertezza, ma poi il tocco di Ulf, delicato e insistente, tornò a impossessarsi dei suoi sensi e lei pensò che non voleva allontanarsi da lui. Voleva anzi che continuasse a toccarla, al sicuro tra le ombre profumate di paglia del fienile.

Quasi come se avesse avvertito il suo desiderio, l’altra mano dell’uomo scivolò giù, oltre l’ombelico, e si insinuò sotto all’orlo della sua gonna, prima di fermarsi. Le dita premettero sulla sua pelle liscia, ma non andarono oltre.

Beh? Aggrottando appena la fronte, la fanciulla si mosse impazientemente contro di lui, cercando di comunicargli il suo desiderio. Ulf sorrise, mordicchiandole un orecchio. «Cosa c’è?»

Momentaneamente distratta, Lidia sbuffò, sarcastica. Non crederai davvero che ti dica… Senza lasciarle il tempo di finire il pensiero, le dita dell’uomo coprirono l’ultimo tratto che le separava dall’intimità della fanciulla e la sfiorarono piano, dando vita a una scintilla di piacere che le si irradiò nel ventre.

«Ah…» senza riuscire a trattenere un’esclamazione, con il cuore in gola, Lidia aprì inconsapevolmente le gambe, permettendo al compagno di toccarla con più facilità. Mentre le sue dita scivolavano su di lei, sicure e attente, la ragazza chiuse gli occhi e, senza rendersene conto, si morse un labbro. Si sentiva stretta tra le mani dell’uomo, che prendevano possesso di tutti i suoi punti più sensibili, accarezzando, stringendo, esercitando una pressione deliziosa. Lidia ansimò, completamente immersa in quelle sensazioni nuove e meravigliose; e quando Ulf scese più in basso e scivolò dentro di lei con la punta di un dito, la fanciulla sentì il piacere e l’eccitazione crescere esponenzialmente.

La ragazza avvertì il bisogno di averlo vicino, ancora più vicino e, senza che lui potesse fermarla, si voltò un poco nella sua direzione e trovò le sue labbra. Ulf la baciò con forza, affondando nella sua bocca, mentre le dita della fanciulla affondavano nei suoi capelli, attirandolo a sé con una decisione che non si riconosceva, mordendolo e andandogli incontro con un entusiasmo nuovo. Facendola scivolare sulla schiena, l’uomo si spinse un po’ più in profondità dentro di lei e con il pollice raggiunse ancora il punto che più di tutti sembrava capace di farla tremare per le sensazioni che provocavano in lei. Lidia esalò bruscamente, mentre, quasi a tradimento, il piacere raggiungeva il suo apice e il suo corpo esplodeva improvvisamente in mille brividi profondi.

Le ci volle qualche istante per riuscire a calmarsi e Lidia respirò a bocca aperta, cercando di riprendere fiato e, nello stesso tempo, di prendere coscienza della presenza dell’uomo al suo fianco. Ulf le baciò il naso e la fronte, prima di allontanare la mano dal suo corpo – impigliandosi per un secondo nella gonna – e di attirarla di nuovo a sé.

Oh, pensò eloquentemente Lidia, premendo il viso contro la maglia di Ulf e ascoltando il battito accelerato del suo cuore, chiedendosi se avrebbe dovuto vergognarsi per quello che era successo e non riuscendo a trovare alcun vero motivo per farlo. Mentre il suo respiro tornava normale e le sue pulsazioni diminuivano, la fanciulla si sentì soddisfatta, felice e rilassata malgrado il piccolo brivido di eccitazione e meraviglia che ancora le stringeva lo stomaco. Stava bene, tra le braccia di Ulf, avvolta dal suo calore e cullata dalle sue carezze; così bene che, poco alla volta, sentì gli occhi farsi pesanti e la sua mente scivolare verso il sonno. L’unica cosa che la disturbava era la posizione di Ulf, un po’ troppo laterale perché lei potesse prendere a sonnecchiare sul suo petto come avrebbe voluto fare, così la ragazza lo circondò con un braccio e mise una gamba a cavalcioni delle sue, nella speranza a indurlo a cambiare posizione. Non appena si accomodò su di lui, però, l’uomo inalò bruscamente e, confusa, Lidia sollevò un poco il capo, costringendosi ad aprire gli occhi.

Che fa, non dorme? Si chiese. Non è stanco? Improvvisamente la fanciulla avvampò, rendendosi conto tutta d’un tratto che, in effetti, era probabile che l’uomo non condividesse la sua stessa piacevole spossatezza, dal momento che lui non aveva… lei non aveva… Deglutendo imbarazzata, a disagio per quella che ora le sembrava una grossa maleducazione da parte sua, Lidia alzò lo sguardo su suo marito, incontrando i suoi occhi attenti. Doveva forse ringraziarlo?

La giovane si sentì un po’ stupida e tremendamente sprovveduta: temeva che, se avesse cercato di esprimere i suoi sentimenti a parole, sarebbe apparsa ridicola. Lidia scelse allora di restare in silenzio e gettò le braccia al collo al marito, posandogli un bacio sulle labbra sulle labbra, a mo’ di ringraziamento, e poi subito un altro, rapido, per cercare di dissolvere la tensione che sentiva nel petto.

Ulf sorrise, sfiorandole la guancia con le dita. «Pensavo ti fossi addormentata.»

«Quasi» ammise lei, grata all’oscurità che impediva all’uomo di vedere quanto fosse arrossita. «Scusa» aggiunse, poi, guardandolo di sottecchi.

Ulf rise, un suono basso che, sebbene si sentisse ancora piuttosto assonnata, le fece formicolare piacevolmente lo stomaco. «E di cosa vorresti scusarti?» Sembrava divertito, e Lidia si strinse nelle spalle, incerta. Ulf le alzò il viso e la baciò, indugiando più a lungo di quanto avesse fatto lei poco prima e la giovane si chiese se magari volesse qualcosa da lei. Sarebbe solo giusto, ragionò la fanciulla: il pensiero di toccarlo in un modo diverso da quello che aveva fatto fino ad allora la innervosiva, ma non poteva negare di provare anche una certa curiosità…

Dopo qualche secondo Ulf si staccò da lei e aprì la bocca per dire qualcosa, ma Lidia lo bloccò, posandogli le dita sulle labbra. Esitante, la sua mano si abbassò sul suo petto, come per toccare un terreno più conosciuto, prima di abbassarsi fino a sfiorare la vita dei suoi pantaloni. Malgrado fosse buio, la fanciulla avvertì chiaramente l’intensità con cui l’uomo la stava osservando e avvampò, ma si rifiutò di tirarsi indietro per la seconda volta nell’arco di così poco tempo: trattenendo il fiato, Lidia spinse più in giù la propria mano e, stranamente affascinata nonostante le orecchie in fiamme, disegnò con le dita i confini del corpo dell’uomo, teso sotto la stoffa ruvida. Ulf chiuse gli occhi, esalando lentamente, e Lidia ripeté la sua carezza, rendendosi conto con apprensione di non sapere bene come procedere.

Poi, all’improvviso, Ulf le afferrò la mano e la allontanò da sé. «Lidia… non iniziare qualcosa che non hai intenzione di finire» le disse, a denti stretti.

La fanciulla lo guardò, corrucciata e un po’ piccata da quelle parole. «Io non voglio fermarmi» ribatté. Malgrado le sue buone intenzioni, però, la sua voce suonò flebile e incerta alle sue stesse orecchie.

Ulf le strinse un po’ di più la mano. «No? E cosa vorresti fare, esattamente?» Avvampando, Lidia abbassò gli occhi. «Non lo so» ammise, controvoglia.

Nel sentire la sua risposta, Ulf sospirò e la tirò a sé, senza però liberarle il polso dalla presa della sua mano. «Ecco, appunto.»

La ragazza storse il naso davanti al suo tono vagamente accondiscendente e si dimenò nel vano tentativo di liberarsi dalla sua presa. «Ma io voglio…»

Con un sibilo sarcastico, l’uomo la interruppe. «Anch’io vorrei, fidati, ma mi sembra che l’idea di farlo ti terrorizzi, quindi…» Quell’osservazione la punse nell’orgoglio: con uno strattone deciso, la giovane riuscì a liberare la propria mano dalla presa del marito e la usò per sferrargli un pugno all’altezza dello stomaco. «Non mi terrorizza affatto!» sibilò, mentendo spudoratamente.

«No?» la sfidò Ulf, guardandola con un sopracciglio sollevato.

«No!»

Dopo averla studiata per qualche secondo ancora, l’uomo si girò sulla schiena e si portò le braccia piegate dietro alla testa. «Va bene, allora. Continua pure.»

Lidia lo guardò a bocca aperta, incredula. «Cosa… cosa?» balbettò, prima di sibilare, infuriata: «Adesso non mi va più! Arrangiati!» Accorgendosi un secondo troppo tardi che l’ultima parte di ciò che aveva detto avrebbe potuto suonare come un invito, Lidia si rigirò bruscamente su un fianco. «E va’ all’Inferno» aggiunse, stizzita.

Dopo qualche istante di silenzio, la giovane sentì dei movimenti alle sue spalle, poi la mano di Ulf le si posò sul braccio con una breve carezza. «Dai, non fare così… non volevo offenderti.»

Lidia sbuffò rumorosamente. Non volevi, ma ci sei riuscito benissimo! Perché dovevano esserci sempre così tanti alti e bassi, con Ulf? Con Tito le cose erano più semplici!

La mano calda dell’uomo continuò a rimanere sul suo braccio, sfiorando con il pollice il muscolo teso, e poco alla volta la ragazza sentì un po’ di irritazione scivolare via da lei. Quando la sentì rilassarsi leggermente, Ulf parlò di nuovo. «Però, dài», disse, nel chiaro tentativo di suonare ragionevole, «non mi dirai che non eri nemmeno un po’ nervosa…»

Lida sollevò bruscamente una spalla. «Certo che lo ero, ma è perfettamente normale» ribatté.

«Può essere», concordò l’uomo dopo qualche istante, «ma non c’è nessuna fretta.»

La fanciulla sospirò, voltandosi a guardarlo. «Lo so, però siamo sposati e non abbiamo mai nemmeno…»

Lui scosse il capo, con un sorriso storto. «Il fatto che siamo sposati non conta praticamente niente» dichiarò. «Ci siamo conosciuti da poco, fino a poco tempo fa eravamo praticamente estranei.»

È vero, ammise Lidia, ricordando la nascita relativamente recente della loro effettiva relazione. Sempre che così si possa chiamare. Annuendo impercettibilmente, la fanciulla incontrò gli occhi dell’uomo, con un sorriso appena accennato.

«Diciamo che… mi serve tempo?» continuò allora Ulf, sorridendo apertamente e invitandola ad avvicinarsi a lui. Lidia gli permise di prenderla tra le braccia, chiedendosi se il giovane fosse serio o se si stesse invece prendendo gioco di lei. «E poi ti ricordo che siamo in un fienile: hai idea di dove ti troveresti la paglia?» continuò lui.

«Oh, taci!» sorrise Lidia, dandogli un colpetto sul braccio. Chiudendo gli occhi e avvertendo le vibrazioni della sua risata contro l’orecchio, Lidia si rilassò, lasciando che il respiro di Ulf la facesse nuovamente scivolare verso il sonno.

***

Luglio arrivò ed esplose in tutto il suo splendore, portando con sé giornate calde e luminose, senza traccia di pioggia o nebbia. Il tempo soleggiato influenzò positivamente l’umore di Lidia, che riuscì a tenere a bada in modo piuttosto efficiente l’ansia per l’arrivo ormai imminente di Tito e la paura di quello che avrebbe potuto dire e pensare Ulf, scoprendo la presenza del giovane.

Decisa a dimostrare a chi le stava attorno che la sua disavventura nella nebbia non l’aveva turbata, la fanciulla si avventurò un paio di volte da sola su per l’altura e in qualche occasione scorse anche l’aquila che si era appollaiata poco distante da lei, in quello strano pomeriggio. Naturalmente non aveva modo di dimostrare che si trattasse dello stesso animale, ma l’idea che lo fosse le piacque molto e Lidia decise che doveva trattarsi di una femmina, una vecchia matriarca che vegliava, attenta e maestosa, sull’intera valle.

Il sole splendente non sortì lo stesso effetto positivo su Unna che, con il passare del tempo e con l’avanzare della gravidanza pareva farsi sempre più cupa e scontrosa. È lunatica, pensava Lidia: c’erano momenti in cui la donna si dimostrava quasi amichevole con lei, aiutandola nel lavoro e suggerendole come svolgerlo al meglio, e altri momenti in cui invece la guardava come se la ritenesse estremamente stupida e fastidiosa.

Anche se le sarebbe piaciuto liquidare i malumori della cognata come semplici effetti del suo cattivo carattere, più tempo trascorreva con lei e più imparava a leggere e a interpretare i suoi atteggiamenti e le sue espressioni: ben presto, le fu chiaro che c’era qualcosa che la turbava.

Sulle prime, la ragazza cercò di ignorare l’inquietudine di Unna, ma quando, una sera, rientrò in camera e la trovò seduta sul suo letto con un maglione arrotolato tra le mani, Lidia decise di affrontarla. «Cosa stai facendo?»

La germanica scrollò le spalle. «Niente» replicò secca; un chiaro invito a non farle altre domande.

Lidia non si lasciò dissuadere e, quando lo sguardo le cadde sullo zaino posato ai piedi del letto, il piano di Unna le fu subito chiaro. «Vuoi scappare!» Era un’accusa, più che una domanda, e alla giovane non sfuggì l’ironia della situazione: con tutte le volte che la donna l’aveva provocata e punzecchiata, rinfacciandole il suo tentativo di fuga, la ragazza trovava quasi comico che adesso le parti si fossero invertite.

Nell’udire quelle parole, Unna puntò gli occhi glaciali in quelli scuri della cognata. «Voglio andarmene» ribatté, in tono di sfida.

«Va bene, ma non c’è bisogno di farlo di nascosto» le fece notare Lidia, avvicinandosi al letto.

Unna si strinse nelle spalle. «Non ho detto che intendo farlo di nascosto.»

«Però non hai nemmeno negato.»

Lidia si stupì nel notare che, da qualche tempo, parlare con la donna era diventato più facile. Cionondimeno, si sarebbe aspettata una reazione verbale violenta, e invece Unna sospirò. In quel momento, la somiglianza tra lei e Ulf fu così forte che la giovane provò una stretta al cuore.

«Non sono una prigioniera e posso andarmene quando voglio, da qui» disse la giovane germanica. «Però so già che, se domani mattina dicessi a Linda e agli altri che voglio tornare a Erding, ci sarebbero discussioni a non finire.»

«E a ragione!» sbottò Lidia, sostenendo lo sguardo azzurro della donna. «Tornare al villaggio adesso potrebbe essere pericoloso anche per te!»

La germanica la guardò, leggermente stupita. «Come fai a saperlo?»

Lidia scrollò le spalle. «Ulf mi ha accennato qualcosa, quando lui e Karl sono venuti a trovarci.»

«Mh» prendendo tempo, Unna si chinò e ripose il maglione nello zaino. «A quanto pare, adesso la situazione è ancora peggiore.»

Allarmata, Lidia si sedette accanto a lei, ignorando il lampo sorpreso che passò sul viso della giovane. «In che senso?»

Abbassando per un secondo lo sguardo sulle proprie mani, Unna tirò con due dita una cuticola che si sollevava accanto un un’unghia. «Hai presente Kati, quella mia amica che è passata a salutarmi qualche giorno fa?»

«Sì, quella bionda.» Lidia ricordava benissimo quella ragazza dall’aspetto timido e delicato: si era sorpresa nell’apprendere che era un’amica di Unna, talmente le due parevano diverse.

«Lei è rimasta a Erding per tutta l’estate, ma ora la sua famiglia l’ha costretta ad allontanarsi. Sembra che restare in paese stia diventando pericoloso un po’ per tutti: è anche morta della gente.»

Nell’udire quelle parole, Lidia provò un vago capogiro. «Chi?» chiese. Malgrado non si aspettasse di conoscere le sfortunate vittime, si sentiva comunque in dovere di porre quella domanda.

«Due minatori» rispose Unna, a denti stretti. «Hanno detto che i soldati li hanno uccisi per difendersi, ma, a quanto si dice, sono stati loro ad attaccarli.»

La giovane romana sgranò gli occhi. «Così?» chiese, incredula. «Senza che avessero fatto niente?»

Unna fece per replicare, ma poi parve ripensarci. Forse colta da un dubbio, la donna si strinse nelle spalle. «Non lo so» ammise, sprezzante. «Francamente non mi interessa nemmeno saperlo, però: immagino che ci stiamo avvicinando a una guerra e sicuramente basta un pretesto qualsiasi, per farsi ammazzare.»

Lidia aggrottò la fronte, leggermente turbata dalla freddezza con cui Unna parlava di quell’argomento. «Se è come dici, perché vuoi scendere a valle? È una follia… e nelle tue condizioni, poi!»

La germanica piegò la bocca in una smorfia e, dopo averne controllato il contenuto, richiuse lo zaino con dei gesti decisi. «Karl è là» disse, pronunciando con forza le parole. «Ed è un minatore.»

Lidia la guardò inclinando leggermente la testa, cercando di capire il ragionamento della donna. «E allora? Se non farà idiozie, non gli capiterà niente, no? Non credo che Caleno, o chi per esso, possa o voglia sterminare tutti i minatori.»

Unna le rivolse un’occhiata di sbieco, poi distolse lo sguardo. «Questa è tutta da vedere» replicò, a denti stretti. «E comunque tu non conosci Karl. Io sì.»

«Non ti fidi di lui?» chiese Lidia, prima di riuscire a mordersi la lingua. Sul volto della giovane bionda passò qualcosa di troppo rapido perché la ragazza riuscisse a identificarlo, poi Unna scosse il capo, quasi impercettibilmente. «No» ammise. «In questo caso no.»

Avvertendo che fosse meglio cambiare discorso, Lidia tornò a concentrarsi sulla cognata. «Be’, se non ho capito male, è stato lui a chiedere che tu restassi qui pur essendo incinta. Cosa ti fa credere che ti permetterebbe di rimanere a Erding?»

Lo sguardo di Unna tornò a farsi più acceso. «Oh, ma io non voglio restare al villaggio» disse, in tono più leggero. «Voglio convincerlo a lasciare il paese. E ce la farò, vedrai, dovessi portarlo via di peso.»

Lo disse con una sicurezza tale che la ragazza sorrise, pensando che, indubbiamente, Unna sarebbe riuscita a ottenere quello che si era proposta. «E dove pensereste di andare?» la interrogò, soppesando le sue parole.

«Qui, per adesso» rispose senza esitazione Unna, indicando con una mano la stanzetta di legno nella quale erano sedute.  «E poi via, da qualsiasi parte. A nord, forse, lontano dal fronte.»

Quelle parole risvegliarono un’eco scomoda nei ricordi di Lidia, che si accorse quanto esse fossero simili a quelle che Tito le aveva rivolto in un pomeriggio di Aprile, a Roma. Scacciando quel pensiero, la ragazza incrociò le braccia davanti al petto, riflettendo su quello che aveva detto la donna. «Va bene» disse poi, battendosi con risolutezza le mani sulle cosce. «Vengo anch’io!»

Unna la fissò per un attimo con gli occhi sgranati, prima di ricomporsi e assumere la solita aria scocciata. «Ma nemmeno per sogno!» ribatté. «Cosa verresti a fare? Non mi servono palle al piede!»

Lidia sbuffò, ma non si lasciò turbare dal tono bellicoso della cognata. «Ti ricordo che a Erding c’è anche il mio, di marito» sbottò, voltandosi a fronteggiarla con i pugni sui fianchi. «A questo punto tanto vale portare via anche lui!»

Unna rise, sorprendendola. «E credi davvero di riuscire a farti obbedire da Ulf?»

La fanciulla si strinse nelle spalle. «Non lo so,» ammise, «ma in ogni caso penso di poter contare su di te, no? Capisco che di me non ti importi niente, ma Ulf è tuo fratello e so che gli vuoi bene.»

La germanica la soppesò con lo sguardo e Lidia si aspettava quasi che rifiutasse di portarla con sé a Erding, ma, dopo alcuni istanti infiniti, Unna annuì. «D’accordo,» concesse, fissandola negli occhi, «ma vedi di non ostacolarmi.»

Lidia sorrise, suo malgrado, e alzò le mani in aria, come a mostrarle le sue buone intenzioni. «Promesso!»

Unna sospirò, come se stesse già avendo dei ripensamenti sulla sua decisione, ma poi estrasse un secondo zaino dal fondo dell’armadio e glielo lanciò. «Mettici qualcosa di caldo e una maglia di ricambio» le ordinò. «Poi vai a letto. Partiremo prima dell’alba, per evitare fastidi.»

Dopo aver fatto quello che Unna le aveva detto, Lidia si infilò a letto, strofinandosi le mani, nervosa ed eccitata. Per quanto avesse fatto fatica ad adattarvisi, l’alpeggio era stato per lei una sorta di rifugio sicuro: tornando a Erding avrebbe dovuto rinunciare a quella sicurezza e affrontare l’incertezza di una situazione potenzialmente pericolosa - la guerra e Tito -  ma la ragazza non poteva fare a meno di sentirsi come se, per la prima volta, avesse preso una decisione importante di testa sua, senza adeguarsi a quello che gli altri si aspettavano da lei.

Con quel pensiero, Lidia chiuse gli occhi e cercò di addormentarsi.

***

E con questo, signore, siamo a metà storia - dal punto di vista concettuale e, più o meno, anche da quello dei capitoli. La seconda metà è molto più incasinata e più difficile da scrivere per me: per questo motivo, sto andando un po’ a rilento con la stesura dei capitoli.

Essendo a metà strada, è tempo di bilanci. Mi piacerebbe poter dire che la mia esperienza su questo sito è stata positiva, ma non sarebbe del tutto vero. Ci sono alcune persone fantastiche, che mi hanno anche aiutata a vedere quello che scrivo con un occhio esterno, ma, in generale, devo dire che ho notato un certo disinteresse generalizzato. Probabilmente è colpa anche mia, possibilissimo che quello che scrivo non sia particolarmente interessante, ma, notando una certa discrepanza tra letture e commenti (303 letture per l’ultimo capitolo, 1 commento), mi è venuta una mezza idea su come gestire gli aggiornamenti futuri.

Più info nel prossimo capitolo!

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Capitolo 22
*** 21. La via del ritorno ***


Valle di Erding, 342 AuC, 12 Luglio

«Possiamo fermarci, adesso?»

Anche se si era ripromessa di non essere assolutamente un peso per Unna, verso mezzogiorno Lidia dovette riconoscere che, anche se incinta, la cognata era molto più resistente di lei allo sforzo fisico.

Sin da quando avevano lasciato di soppiatto l’alpeggio, la germanica l’aveva preceduta di almeno dieci metri, percorrendo il sentiero con passo leggero, perfettamente a suo agio anche nell’atmosfera grigia che precedeva il sorgere del sole. Dopo alcune ore di cammino, la giovane romana si sentiva indolenzita, con le spalle e la schiena irrigidite a causa della poca abitudine a portare uno zaino, ancorché leggero. La paura di mettere un piede in fallo e di rimediare una storta le faceva tenere una postura talmente contratta che il collo iniziava a dolerle, mentre un fastidioso formicolio le percorreva le braccia. Da qualche tempo a quella parte, poi, il suo stomaco aveva iniziato a lamentarsi, per nulla soddisfatto della misera colazione che Unna le aveva concesso di consumare – senza mai smettere di camminare, naturalmente.

Udendo la sua richiesta, la donna si voltò verso di lei, prima di annuire seccamente. «Va bene» concesse. «Ma non ci fermeremo a lungo, voglio arrivare a Erding prima di notte.»

«Certo», convenne la ragazza, «è meglio non passare la notte all’aperto.»

Senza rispondere, Unna sedette a terra, posando la schiena contro il tronco di un larice. Osservandola con la coda dell’occhio, Lidia notò la curva appena accennata del ventre. Mentre staccava un morso dal panino al formaggio che aveva portato con sé, la ragazza si chiese se non fosse giunto il momento di cercare di lasciarsi alle spalle almeno parte delle incomprensioni del passato, se non altro per fare fronte comune contro Ulf e Karl. Più ci pensava, infatti, e meno era convinta che i due uomini le avrebbero seguite senza fare storie: non sarebbe forse stato meglio presentarsi da loro unite e con una linea d’azione condivisa?

Decisa a fare conversazione, Lidia si schiarì la voce. «Hai già deciso come chiamarlo?» chiese, indicando con una mano la pancia della donna. Quella abbassò lo sguardo sulla stoffa verde della maglietta e scrollò le spalle. «No. Non so nemmeno se sia un maschio o una femmina, come faccio a scegliere un nome?»

Malgrado la risposta secca, Unna sembrava relativamente disposta a parlare della propria gravidanza, per cui la fanciulla osò spingersi oltre. «Cosa speri che sia?»

Di nuovo, la germanica ostentò indifferenza. «Per me è uguale.» Lidia storse la bocca, leggermente frustrata dall’atteggiamento della donna. «Be’, ma avrai pure una preferenza…» ipotizzò. Unna parve rifletterci sopra. «Preferirei che fosse maschio» decise, poi. «Un maschio ti da meno problemi. E corre meno rischi.»

La giovane romana le lanciò un’occhiata scettica. «Dici?» chiese, inclinando di lato la testa. «Secondo me è esattamente il contrario: pensa, per esempio, che sono gli uomini ad andare in guerra, non le donne.»

La giovane bionda le lanciò un’occhiata beffarda. «Già. Loro fanno la guerra e noi la subiamo. Un bel vantaggio, sicuramente.» Cogliendo l’amarezza nelle sue parole, Lidia la fissò, leggermente intrigata. «Preferiresti andare anche tu sul campo di battaglia?»

Unna esitò un istante, prima di ribattere. «Non necessariamente, però vorrei che qualcuno mi avesse insegnato come difendermi, in caso di necessità. Quando eravamo bambini, mio padre ha insegnato a Ulf come maneggiare una spada, anche se, di fatto, lui non se n’è mai fatto un gran che, di quegli insegnamenti. A me, invece, non ha mai fatto vedere nemmeno come si usa una fionda: l’ho dovuto imparare da sola, e a modo mio.»

«Davvero sai usare una fionda?» le chiese Lidia, senza riuscire a evitare di provare una punta di rispetto per la donna. «È difficile?» Persa nei suoi pensieri, la germanica non rispose a quella domanda. «E, soprattutto, spero che sia un maschio perché così, una volta cresciuto, non dovrebbe sottostare alla volontà di nessuno…»

«… solo a quella dei sacerdoti, del capo villaggio e dei suoi superiori in generale» concluse asciutta Lidia, ricordando le lamentele a cui si abbandonava talvolta suo padre, rientrando a casa dopo un’intensa giornata in Senato. Nell’udire quel commento non richiesto, Unna le scoccò un’occhiata tagliente. Prima che avesse la possibilità di replicare, però, la fanciulla alzò le mani in segno di resa. «Ma, in ogni caso, ho capito cosa intendi. E hai ragione, immagino: a casa mia, la parola di mio padre era legge. Nessuno poteva sognarsi di disobbedirgli.»

Unna rimase immobile per qualche secondo, forse stupita dal fatto che Lidia le avesse dato ragione. Poi allungò le gambe davanti a sé, sistemandosi meglio contro il tronco dell’albero. «Allora adesso ti troverai sicuramente meglio: Ulf è più ragionevole… almeno sotto questo aspetto.»

Lidia annuì. «Sì, è vero» riconobbe.

«Eppure non sei contenta di averlo sposato.» Quella di Unna non era una domanda, ma un’affermazione e, anche se la giovane continuava a mantenere un contegno distaccato, come se stessero conversando del più e del meno per vincere la noia, Lidia avvertì che l’argomento le stava a cuore. Prima di rispondere, la ragazza si prese qualche secondo per riflettere. «Il discorso è complicato» spiegò. «Adesso sono contenta di stare con lui: come ti ho già detto, gli voglio bene. Però non mi piace il fatto che mi abbiano obbligata a sposarlo. Mi hanno portata via dal mio mondo senza nemmeno darmi il tempo di abituarmi all’idea e questa cosa… non so, è come se mi impedisse di sentirmi completamente serena.» Mentre pronunciava quelle parole, Lidia si accorse di quanto fossero vere: anche se ormai sapeva di provare qualcosa per Ulf e di non volere vivere lontana da lui, nella sua mente c’era sempre una nota di fondo stonata, come un’ombra scura ai lati del campo visivo. Ora che la paura per il matrimonio e la vita coniugale si era dissolta, la giovane si accorgeva di provare rancore per il modo in cui delle altre persone avevano preso il controllo della sua vita, senza darle la possibilità di dire una sola parola in merito. Unna l’ascoltò in silenzio e Lidia si chiese se riuscisse a capire il suo discorso. «Per te è diverso» riprese ancora la giovane romana. «Se non ho capito male, sei stata tu a scegliere di sposare Karl. Nessuno ti ha obbligata a farlo, no?»

La donna esitò. «Esatto» disse, ma nella sua voce Lidia colse una piccola incertezza e corrugò la fronte, confusa. «Non è così?» chiese. Unna si irrigidì e parve essere sul punto di darle una risposta scortese, ma poi Lidia la vide abbassare le spalle come se, improvvisamente, avesse perso il desiderio o la forza di litigare con lei. «Sì, è così» esalò. «Ma non è quello che avevo sperato da bambina.»

Per un’istante, la ragazza fu tentata di chiederle cosa avesse sperato, esattamente, quand’era bambina, ma l’espressione di Unna, improvvisamente guardinga, le suggerì di non insistere. Cionondimeno, nella sua mente si formò il sospetto che quella mezza frase fosse in un qualche modo legata alle cicatrici che aveva intravisto sul corpo della cognata. Il pensiero le fece correre un brivido freddo lungo la schiena, e la fanciulla si affrettò ad allontanarsi da quel discorso. «Ma con lui mi sembri comunque felice» osservò. La germanica fece quel piccolo sorriso che le aveva visto fare poche volte. «Lo sono» disse, piano, e Lidia sorrise a sua volta, sentendo però dentro di sé una sorta di tristezza che non riuscì a spiegarsi.

***

Quello strano umore non durò molto: quando ebbero finito di mangiare, Unna tornò a darle ordini secchi e, rendendosi forse conto di aver perso più tempo di quanto le sarebbe piaciuto, prese a esortarla a fare in fretta che, di quel passo, sarebbero arrivate a Erding in cinque giorni, anziché in cinque ore.

Sbuffando e ansimando, Lidia la seguì giù per i ripidi sentieri che attraversavano dapprima scure foreste di larici e abeti e poi luminosi boschi di noccioli e frassini. Man mano che si avvicinavano al fondovalle, Unna iniziò a farsi più prudente, muovendosi con circospezione, quasi si aspettasse di trovare un nemico invisibile appostato dietro a ogni angolo. «Credo sia meglio non prendere la strada sul fondovalle» disse, a un certo punto, fermandosi di fronte a un bivio.

Lidia, che aveva pregustato il momento in cui avrebbe potuto camminare su un fondo meno sconnesso, dovette nascondere un piccolo moto di disappunto. «Perché?» chiese. «Credi che qualcuno ci stia cercando?» La germanica scosse il capo. «No, ma siamo comunque due donne che viaggiano da sole: meglio evitare brutti incontri.»

La ragazza annuì e deglutì nervosamente, intuendo quello che la cognata aveva inteso con quelle parole. «Come preferisci» annuì. «Da che parte andiamo?»

«Di qui» replicò Unna, indicando il sentiero che, anziché continuare a scendere, si inoltrava nel bosco davanti a loro, procedendo stretto e pianeggiante. «Daremo molto meno nell’occhio, in questo modo e, oltretutto, riusciremo anche a evitare l’accampamento romano. Non voglio vederlo neanche da lontano, quel posto.»

Il sentiero scelto dalla donna era decisamente meno battuto di quello che avevano percorso fino ad allora e Lidia guardò con antipatia i rovi che lo incorniciavano. Lentamente, raccogliendo la gonna in una mano nel tentativo di proteggerla almeno un poco dalle spine acuminate delle more selvatiche, la ragazza seguì Unna, cercando di tenere il suo passo. Ben presto, la vegetazione acquistò vigore: quando le due giovani giunsero in prossimità dei margini della foresta, le erbacce che crescevano ai bordi del tracciato erano talmente rigogliose che sfioravano i due metri di altezza, arrivando a intrecciarsi ai rami bassi degli alberi e degli arbusti. Quasi senza rendersene conto, Lidia si ritrovò in una sorta di galleria verde e dorata, profumata di erba e di terra. Con gli occhi spalancati per lo stupore, la giovane romana si mosse con cautela, pregando di non mettere un piede su un serpente o su un nido di vespe di terra. Faceva caldo, molto più caldo di quanto si sarebbe aspettata, e la ragazza dovette fermarsi più volte per asciugare il sudore che le colava giù per la fronte, facendole bruciare gli occhi.

Quando finalmente sbucarono dalla vegetazione fitta e Unna rallentò visibilmente il passo, Lidia pensò che la cognata volesse semplicemente riprendersi un poco dalla fatica e, sulle prime, non badò a quello che aveva realmente spinto la germanica a rallentare. Ignara, la raggiunse e fece per aprire bocca per chiedere indicazioni su come procedere, ma, quando volse gli occhi nella stessa direzione in cui stava guardando la donna, le parole le morirono in gola.

«Muoviamoci» mormorò Unna, vedendosi raggiunta, ma la ragazza quasi non la udì. Un centinaio di metri più in basso, dove la valle si allargava, formando un’ampia piana tra il fiume e la costa della montagna, c’era l’accampamento romano che aveva sperato di raggiungere in una lontana notte di aprile. Lidia percorse con gli occhi il fossato e il vallum difensivo, le vie regolari, le tende dei soldati e quelle degli ufficiali e si sorprese nel notare che fosse così grande.

Quanta gente c’è, qui? Si chiese, cercando di calcolare rapidamente il numero di legionari presenti nell’accampamento. Ulf le aveva detto che i soldati romani presenti alle porte del villaggio erano aumentati, negli ultimi tempi, ma non si era aspettata che la presenza militare di Roma fosse così massiccia.

«Ti vuoi dare una mossa?» la riprese bruscamente Unna, incamminandosi di nuovo lungo il sentiero. Lanciando un’ultima occhiata all’accampamento, Lidia si affrettò a seguirla, senza però riuscire a scacciare l’interrogativo che si era spontaneamente affacciato tra i suoi pensieri. Chissà se Tito è laggiù? Il pensiero le strinse lo stomaco come in una morsa e, con il cuore in gola, la fanciulla si accorse di aver perso la misura del tempo, nel periodo in cui era rimasta presso la cascina di Linda. «Che giorno è, oggi?» chiese a Unna, parlando quasi inconsciamente sottovoce.

La germanica si voltò a guardarla, gli occhi chiari sospettosi. «Il dodici di luglio. Perché?» Lidia si strinse nelle spalle. «Stavo cercando di capire quanto tempo è passato dal giorno in cui siamo salite all’alpeggio» improvvisò. «Non siamo state via molto, eppure, sembra che qui le cose siano cambiate. Ulf mi aveva avvertita, ma non mi aspettavo di trovare così tanti soldati.»

Unna strinse le labbra pallide in un’espressione a metà tra la preoccupazione e la rabbia. «E ho paura che non siano tutti lì, nell’accampamento. Temo che questi boschi siano meno sicuri di quanto fossero un tempo.»

Lidia inclinò appena il capo. «Ma sono davvero così pericolosi, questi soldati?» chiese, dubbiosa. «Io un po’ ne ho conosciuti, quando ero ancora a Roma, ed erano quasi tutti persone normalissime…»

La germanica sibilò, sarcastica. «A casa loro, forse», concesse, «ma ti assicuro che, una volta arrivati qui, cambiano. E adesso togliamoci da qui, siamo troppo vicine all’accampamento: non vorrei trovarmi di fronte qualche romano che ha deciso di fare una passeggiata nel bosco.» Così dicendo, Unna riprese a camminare con passo veloce, obbligando la giovane a fare altrettanto. Lidia rimuginò sulle parole della cognata, senza però riuscire a convincersi che, da quelle parti, il pericolo maggiore fossero davvero i legionari romani.

Quando Unna, evidentemente soddisfatta della distanza messa tra se stessa e l’accampamento militare, rallentò il passo, la fanciulla la affrontò. «Comunque», esordì, «da quello che ho avuto modo di vedere io, non mi pare che avere a che fare con i tuoi concittadini sia molto più piacevole… anzi! In un certo senso, è anche colpa loro, se il Prefetto ha chiesto all’Imperatore di avere più soldati.»

Voltandosi bruscamente verso di lei, la germanica la inchiodò con un’occhiata velenosa. «E che colpa avrebbero, secondo te? Quella di voler difendere la propria patria e allontanare chi vorrebbe invaderla? Sarebbe una colpa, questa?»

La giovane romana esitò, poi scosse con forza il capo. «Messa così, no, non lo è: ma attaccare ragazze indifese non è certo un atto lodevole» si lamentò, arrossendo leggermente nel vedersi costretta a definirsi una ragazza indifesa. Unna sollevò un sopracciglio chiaro. «Ti stai per caso riferendo a Sören e al suo compare? Ma se quei due non ti hanno fatto niente!»

La fanciulla ricambiò il suo sguardo freddo, irritata dalla noncuranza con cui la cognata liquidava il suo incidente. «A parte il fatto che erano in tre e non in due», precisò, «ma sì, mi sto riferendo proprio a quello: se non mi hanno fatto niente, è solo perché è intervenuto Hermann. Se lui non fosse stato lì, chissà cosa mi sarebbe successo!»

«… sì, perché mio fratello è un tipo estremamente minaccioso» la prese in giro la donna. «Hermann è solo un ragazzino: se quei tipi avessero veramente voluto farti del male, l’avrebbero fatto comunque, con o senza Hermann.»

«Quindi, secondo te, mi sto preoccupando per niente?» la provocò la fanciulla. «Ulf non la pensava così – e non lo pensa tutt’ora, lo so per certo.»

La donna bionda sospirò. «Mio fratello vede il pericolo in ogni cosa. A volte esagera.» Una lieve indecisione nella sua voce rivelò però a Lidia che Unna stava ribattendo più per spirito di contraddizione, che per reale convinzione, quindi insistette: «Se non c’è motivo di preoccuparsi, perché vuoi lasciare il villaggio, allora?»

Presa in contropiede, la giovane esitò. «Perché non voglio correre rischi inutili. Forse per ora nessuno di noi è veramente in pericolo, ma le cose potrebbero precipitare dall’oggi al domani. E io non ho alcuna intenzione di trovarmi lì, quando questo accadrà.»

Lidia fu sul punto di aggiungere dell’altro, ma Unna, che camminava al suo fianco, si bloccò di colpo. Per una frazione di secondo, la ragazza la credette sul punto di afferrarle un polso, ma la germanica strinse le mani in un pugno e si immobilizzò. «Cosa c’è?» le chiese Lidia, in un soffio. Unna piegò le labbra pallide, mentre i suoi occhi guizzavano irrequieti. «Mi è sembrato di aver visto un movimento, lì davanti» sussurrò, indicando la curva del sentiero con un cenno del mento.

Facendole segno di non muoversi, la donna fece alcuni passi cauti, poi Lidia la sentì imprecare tra i denti. «C’è un soldato, lì davanti» le riferì Unna, tornando rapidamente verso di lei. «Romano?» chiese Lidia, guadagnandosi un’occhiata tagliente dalla cognata. «Ovviamente sì» replicò quella. «Temo che controllino tutti i sentieri che potrebbero condurre all’accampamento» aggiunse poi, quasi tra sé e sé. «Peccato che questo specifico sentiero fosse proprio quello che avevo sperato di percorrere per raggiungere il paese.»

Lidia incassò la notizia con un senso di smarrimento. «E adesso cosa facciamo?» chiese, sentendosi quasi come una bambina che cercava conforto dalla propria madre. «Adesso saliamo» replicò Unna, pratica. «E facciamo il giro dalla miniera.» Senza aspettare una risposta, la germanica prese a inerpicarsi su per il pendio che saliva a sinistra del sentiero. La vegetazione selvaggia di poco prima si era fortunatamente fatta più rada e aveva lasciato il posto a un prato ripido e irregolare, ricoperto da un tappeto di erba smeraldina, lucente come una lama e altrettanto affilata. Quando Lidia ne afferrò un ciuffo, cercando di non scivolare, ne ottenne un paio di taglietti sottili, ma cionondimeno piuttosto fastidiosi. Dovremo salire molto? Si chiese, con una punta di apprensione. Il fondo su cui si trovava a camminare era infido, la vegetazione nascondeva i resti di un’antica frana e più di una volta la giovane corse il rischio di infilare un piede in un buco tra due massi celati dall’erba. Unna però non accennava a rallentare e, prima di rendersene conto, Lidia si trovò ad arrampicarsi di nuovo tra mirtilli e rododendri, mentre il cielo iniziava a macchiarsi del viola del tramonto.

«Che ore saranno?» chiese, senza fiato, mentre il sudore le colava dalla fronte e le finiva negli occhi, facendoglieli bruciare.

«Non lo so, saranno quasi le sette, immagino» replicò Unna, voltandosi a guardarla. Dopo qualche istante, sul suo volto passò un’ombra. «Ce la fai a camminare oppure preferisci fermarti un attimo?»

Stupita da quella premura, la giovane romana fissò la cognata con una punta di sospetto. «Perché me lo chiedi?» indagò, sperando di non risultare scortese. Unna si strinse nelle spalle. «Siamo quasi arrivate alla miniera e, una volta lì, dovremo fare attenzione. È un posto abbastanza pericoloso e non vorrei passare dei guai perché tu sei troppo stanca per badare a dove metti i piedi.»

La fanciulla sgranò gli occhi, subito preoccupata. «Pericoloso? Perché dici che è pericoloso? È per via dei minatori?»

«No, i minatori non c’entrano niente» la corresse Unna. «È proprio l’ambiente a essere pericoloso. La discesa non è molto agevole, ma non c’è altra via.»

Lidia si prese qualche istante per stirare la schiena indolenzita e per respirare a pieni polmoni. «Ho capito. Comunque, no, non sono troppo stanca: andiamo pure.» Subito dopo aggiunse, tra sé e sé: se ce la fai tu, che ti porti in giro anche quella zavorra nella pancia, non vedo perché non dovrei farcela io. Unna la fissò ancora per qualche secondo, come se si aspettasse di vederla stramazzare a terra da un momento all’altro, poi annuì. «Come vuoi.»

Dopo una decina di minuti, le due giovani giunsero in prossimità di un costone erboso, che aggirarono sulla sinistra. Pochi metri più in là, il tappeto erboso si interrompeva improvvisamente, lasciando il posto a un panorama spettrale che lasciò Lidia quasi senza fiato. Davanti a lei, sotto di lei, accarezzato dalle ombre lunghe della sera, si estendeva un paesaggio ferito e alieno, dove il lavoro di innumerevoli generazioni di uomini aveva scavato e spaccato e raschiato, esponendo il ventre verdastro della terra alla luce viola del tramonto. Gli occhi della fanciulla corsero su quel luogo aspro e deserto, dove le rocce mutilate assumevano forme curiose, quasi di animale, e venne colta da una sensazione antica, a metà tra la nostalgia e il presagio. «È la miniera, questa?» chiese, sentendo la bizzarra necessità di parlare quasi sottovoce.

Unna scosse il capo. «Non esattamente» la corresse. «Questa è una cava in disuso, la miniera è sotto i nostri piedi.» Nell’udire quell’informazione, Lidia venne colta per un istante da un’irrazionale paura del vuoto che la riscosse dal suo improvviso umore contemplativo. La terra è piena di cunicoli, sale e gallerie, qui sotto. Speriamo che non crolli tutto!

Cercando di nascondere il proprio turbamento alla cognata, la ragazza si guardò di nuovo attorno. «Che strana roccia verde» commentò, notando le rocce dal colore insolito che inframezzavano il granito. «È quella che usate per costruire i forni per le offerte?»

«Sì, è olivite» confermo Unna, chinandosi per raccoglierne una scheggia. «Porcheria inutile.» La germanica fece per lasciare cadere sdegnosamente a terra il frammento, ma Lidia glielo tolse di mano, avvicinandoselo agli occhi ed esaminandone la superficie ruvida. Era attraversato da mille solchi sottili e regolari, quasi qualcuno avesse preso dei fili di sasso e li avesse fusi insieme. «È strano, però. Non l’ho mai vista da nessun’altra parte.»

«Karl dice che si trova solo associata all’argento» commentò Unna, distrattamente. «Probabilmente è per questo che non è molto diffusa. Meglio così, comunque: va giusto bene per essere sbriciolata, nulla più.»

Quel commento attirò l’attenzione della giovane romana. «Sbriciolata durante la cerimonia delle offerte, dici?» La donna annuì. «Be’, sì: se usassimo il granito, dopo ogni sacrificio dovremmo portare via tutto quello che resta dei forni… diversamente, verremmo sommersi dai detriti. Gli Dèi vogliono avere un forno nuovo ogni volta, a quanto pare, ma l’ordine non è il loro forte.»

L’improvvisa loquacità di Unna la stupì non poco, ma Lidia non si lasciò sfuggire l’occasione di sentire anche un altro parere a proposito di ciò che accadeva veramente nei recessi segreti del Bosco Sacro. Del resto, se doveva essere completamente onesta con se stessa, la ricostruzione di Ulf non l’aveva mai convinta del tutto. Senza incontrare lo sguardo della cognata, la ragazza inspirò a fondo. «Ma secondo te… secondo te, chi se le prende, le offerte?»

«Eh?» la donna la guardò con la fronte corrugata e una sorta di confusione guardinga; e Lidia si schiarì la voce. «Voglio dire… tempo fa, Ulf mi ha detto che, secondo lui, le offerte venivano portate via dai romani e che, sempre secondo lui, Donna Erin collaborerebbe con Roma. Tu la pensi così? La pensate tutti così, qui?»

«Le offerte si sono sempre fatte» rispose la donna, dopo qualche istante di silenzio. «Fin da prima che Roma mettesse piede nei nostri territori: non sono stati i tuoi concittadini, a inventare il rito del sacrificio.»

«Quindi tu credi che vadano veramente agli Dèi?» la interrogò nuovamente Lidia, che non si era aspettata quella risposta. Unna scosse il capo. «Non ho detto questo» precisò. «Io credo che solo un idiota possa credere che gli Dèi, se anche esistessero, siano interessati alle cianfrusaglie degli uomini.»

Lidia corrugò la fronte, confusa da quella spiegazione. «Quindi…»

«Quindi», riprese Unna, «io penso che, all’inizio, la cerimonia delle offerte fosse stata una trovata dei Sacerdoti per racimolare un po’ di fondi. Non escludo che, ora, si spartiscano le offerte con Roma, per tenersela buona e per mantenere una sorta di pace nella regione… ma, ripeto: non si tratta di un piano sviluppato dai tuoi concittadini.»

«E i tuoi, di concittadini, sono d’accordo con te?» indagò la ragazza. «Non lo so» ammise la giovane bionda. «Alcuni sì, immagino, altri continueranno a illudersi che ci siano veramente gli Dèi, dietro alla cerimonia… la maggior parte, comunque, trova più comodo credere che sia tutta colpa dei romani, da quanto ne so io. Gli piace avere un nemico con cui prendersela, immagino.»

«Anche a Ulf?» le venne spontaneo chiedere. A quella domanda, però, il viso di Unna si adombrò. «Ulf non ha bisogno di pretesti, per avercela con i romani» mormorò. Qualcosa, nella sua voce, fece correre un brivido ghiacciato lungo la schiena della giovane romana e Lidia deglutì, cercando di scacciare il sapore amaro che le aveva improvvisamente invaso la bocca. «Capisco» sussurrò, anche se, in realtà, non capiva affatto.

«Fa’ attenzione, adesso.»

Il repentino cambio di argomento la stupì e Lidia si voltò appena in tempo per vedere la cognata muovere qualche passo cauto giù per il ripido sentierino che si snodava tra i grossi massi di pietra grigia. Non volendo restare indietro, la ragazza accantonò il pensiero delle offerte e la imitò, accorgendosi con una punta di ansia che il tracciato era estremamente sdrucciolevole a causa della ghiaia sottile da cui era composto il fondo.

Poche decine di metri più in basso, il granito e il terriccio, prevalenti in cima al pendio, lasciavano spazio a una concentrazione sempre maggiore di olivite. «Evita di mettere i piedi sulle rocce verdi» le disse Unna, spostandosi con cautela su uno dei pochi blocchi di granito che ancora affioravano dal terreno.

Lidia annuì, cercando di appuntare dietro alle orecchie le ciocche di capelli castani che le ricadevano sugli occhi, impedendole di vedere chiaramente il tracciato confuso lungo cui la germanica la stava conducendo. Malgrado la cautela con cui si stava muovendo, però, pochi istanti dopo la ragazza poté toccare con mano la tanto decantata fragilità dell’olivite: quando Unna, più alta di lei di diversi centimetri, scavalcò con un balzo una valletta, Lidia cercò di imitarla, ma si trovò a fare letteralmente il passo più lungo della gamba. Per evitare di rovinare a valle, la giovane posò un piede su un blocco di roccia verde, ma, non appena vi caricò il proprio peso, quella cedette di schianto, facendola rotolare per qualche metro lungo il sentiero ghiaioso.

Con un sibilo di dolore, Lidia si portò le mani al petto, senza sorprendersi quando le trovò sanguinanti ed escoriate. «Te l’avevo detto, di non salirci sopra» commentò poco empaticamente Unna, guardandola con il capo un po’ inclinato.

La ragazza sbuffò, senza degnarla di una risposta, e poi si soffiò delicatamente sui palmi doloranti, sfiorandoli con la punta delle dita nel tentativo di togliere i sassolini che le erano rimasti attaccati alla pelle. «Potrai lavarle alla prima fontana» le disse la cognata, superandola. «Adesso dobbiamo muoverci. Se viene buio, sarà ancora più difficile arrivare a Erding sane e salve.»

Anche se le sarebbe piaciuto avere qualche minuto per riprendersi dalla caduta, Lidia si rimise in piedi senza lamentarsi e riprese a scendere verso valle.

***

Arrivarono a Erding dopo quella che alla fanciulla parve un’eternità: il paese era ormai immerso nelle tenebre e, esattamente come la prima volta che vi aveva messo piede, le sue vie erano deserte, dando l’illusione che il villaggio fosse completamente disabitato. Se non altro, sembra che non ci siano in giro soldati, pensò, con una punta di sollievo. Le strade vuote la mettevano a disagio e, senza rendersene conto, la ragazza si ritrovò a camminare quasi in punta di piedi, cercando di fare meno rumore possibile. Le finestre delle case, notò, erano buie, e quel particolare le sembrò decisamente fuori luogo. «Ma è normale che non ci sia in giro nessuno?» chiese, sottovoce, pur conoscendo già la risposta.

Accanto a lei, Unna scosse silenziosamente il capo. «No» sussurrò. «C’è qualcosa di strano.» La donna non aggiunse altro e Lidia non fece altro domande, ma si avvicinò un altro poco al muro della casa più vicina, muovendosi entro i confini dell’ombra proiettata dal tetto e cercando di evitare la luce fioca proiettata dal quarto di luna che aveva da poco fatto capolino dalle creste delle montagne. Non stiamo facendo niente di male, si disse, cercando di allontanare l’irrequietezza che iniziava ad avvertire. Ulf non sarà felice di vedermi qui in paese, probabilmente, ma non è certo la fine del mondo. Non stiamo facendo niente di illegale.

Quando le due giovani giunsero a un bivio famigliare, Lidia si voltò verso la compagna, preparandosi ad accommiatarsi da lei: la sua casa era sulla destra, quella di Unna no. Prima che potesse dire alcun che, però, la germanica svoltò decisa in direzione dell’abitazione che la ragazza condivideva con Ulf. Mi accompagna addirittura a casa? Si chiese, non sapendo se apprezzare o meno quel gesto.

«Eccoci qui» sussurrò Unna, una volta giunte davanti alla porta di casa. «Vorrei poter dire che mio fratello sarà deliziato dall’averti qui, ma…» La giovane lasciò sfumare la frase e Lidia si torse nervosamente le mani. È troppo tardi per avere ripensamenti, si disse, gonfiando il petto per darsi coraggio. E, in ogni caso, ho fatto la cosa giusta.

Con un respiro profondo, Lidia afferrò la maniglia e l’abbassò con forza, ma la porta non si mosse. Confusa, provò di nuovo, ottenendo lo stesso risultato. «Uh… è chiusa» commentò, sentendosi improvvisamente piuttosto stupida.

«Non ce le hai, le chiavi?» le chiese Unna, col tono con cui avrebbe potuto rivolgersi a un bambino non particolarmente intelligente.

«Ehm… no.» Lidia si sentì arrossire e Unna alzò gli occhi al cielo. «E se lo chiamassimo?» propose la giovane romana, alzando lo sguardo per vedere se qualche luce fosse accesa, indice che Ulf era in casa ed era sveglio.

«No!» la bloccò la germanica. «Se ci mettiamo a urlare per strada, sveglieremo tutti i vicini. È una cosa che vorrei evitare, se non ti dispiace… soprattutto alla luce del fatto che non sappiamo bene cosa stia succedendo, qui.»

Lidia alzò le mani. «Va bene, va bene: era solo un’idea» si difese. Dopo qualche istante di silenzio, Unna tornò a rivolgersi a lei. «Quella notte in cui hai cercato di scappare… come avete fatto a rientrare?» Al ricordo del suo tentativo di fuga, Lidia non riuscì a trattenere un gemito. «Siamo passati dal retro» sospirò, incamminandosi verso il vecchio melo che le aveva fatto da supporto.

Quando giunsero ai piedi dell’albero, Unna lo studiò attentamente, vagamente impressionata. «E tu», mormorò, osservandone il tronco liscio, «sei riuscita a salire da qui? Non l’avrei mai detto.» La ragazza arrossì di nuovo. «A dirla tutta, Ulf mi ha aiutato un po’.» Davanti a sopracciglio sollevato della donna, si sentì in dovere di spiegarsi meglio. «Mi ha sollevata fino a farmi raggiungere quel ramo.»

Unna sbuffò, passandosi una mano tra i capelli chiari. «Io non ho proprio nessuna intenzione di sollevarti!» sbottò, battagliera. Malgrado la situazione scomoda in cui si trovavano, Lidia non nascose un sorriso. «Non avevo dubbi. Oltretutto», continuò poi, strizzando gli occhi per vedere meglio nel buio della notte, «la finestra è chiusa. Non riuscirei mai a entrare.»

«Va bene» disse Unna, con una voce talmente bassa che Lidia pensò che non si stesse affatto rivolgendo a lei, ma stesse piuttosto ragionando ad alta voce. Vedendola allontanarsi di qualche passo e chinarsi per raccogliere qualcosa da terra, la ragazza si allarmò. «Che cosa stai facendo?» chiese, in un sussurro urgente.

La donna la guardò, stranita. «Lancio qualche sassolino: altrimenti come pensi di fare ad attirare l’attenzione di mio fratello?»

«Non rompendo il vetro!»

Unna sogghignò. «Ma non sai proprio niente! Si può sapere che razza di infanzia hai avuto?» La ragazza storse il naso, leggermente offesa dal tono di scherno della cognata. Ho avuto un’infanzia meravigliosa, in una casa bellissima e in un giardino ancora più bello, con un sacco di giocattoli che scommetto che tu non hai nemmeno mai visto! Pensò, stizzita.

Dal momento che Lidia si guardò bene dall’esternare quel pensiero, Unna prese la mira e lanciò tre sassolini in rapida successione: contrariamente alle aspettative di Lidia, questi non ruppero il vetro, ma vi rimbalzarono contro, perdendosi poi da qualche parte nel prato sotto alla finestra. Quando il primo tentativo non sortì alcun risultato, Unna ripeté altre due volte l’operazione, finché la finestra non si aprì, lasciando intravvedere la sagoma di Ulf. «Hey, Brüeder!» lo salutò a bassa voce, sventolando una mano, come se la loro presenza lì, nel cuore della notte, fosse tutt’altro che inaspettata.

«Was…»

La finestra si richiuse e Lidia si voltò verso la germanica, vagamente ammirata dalla sua faccia tosta. Prima che potesse fare qualche commento al riguardo, però, il fratello in questione sbucò da dietro l’angolo della casa e, anche se non mancò di notare che il giovane non sembrava affatto felice di vederle, Lidia avvertì lo stomaco fare una capriola di felicità. «Cosa ci fate voi due qui?» le apostrofò però Ulf, senza nemmeno salutarle.

«Io ho degli affari da sbrigare con Karl», disse Unna, sbrigativa, «e lei ha deciso di seguirmi. Ha la testa più dura del previsto.»

Lidia si voltò di scatto verso Unna, con la bocca aperta. Traditrice!

«Dovevi restare in montagna!» ringhiò Ulf, piantando gli occhi in quelli della moglie, che deglutì, presa alla sprovvista.

«Sì, ma…»

Senza lasciarla finire, Ulf si voltò verso la sorella. «E qualsiasi cosa tu dovessi fare con Karl, di certo poteva aspettare! Qui c’è il coprifuoco! Non potete andarvene in giro così, come se niente fosse, nel cuore della notte! Hai idea di cosa sarebbe successo, se qualcuno vi avesse trovate?»

«Il coprifuoco?» chiese Lidia, spaesata, ma Unna si infilò con forza nella conversazione. «Ah, c’è pure il coprifuoco, eh?» ripeté. «Ovviamente, nessuno si è preso il disturbo di farcelo sapere. Avete ancora intenzione di sostenere che va tutto bene, tu e Karl?»

Ulf la fulminò con lo sguardo, avanzando di un passo verso di lei e ignorando completamente Lidia. «Non è questo il punto» ringhiò. «Il punto è che, come sempre, tu devi fare di testa tua. E no, non provare a dare la colpa a Lidia. So benissimo che è stata un’idea tua!»

Quell’affermazione toccò un nervo scoperto e Lidia afferrò il braccio del marito, cercando di frapporsi tra i gemelli. «Ehi! Non mi ha mica costretta! Ho scelto io di venire qui. Il villaggio non è sicuro, dobbiamo andare via.»

Di nuovo, però, le sue parole vennero ignorate. «Faccio di testa mia?» ripeté Unna, con voce tagliente. «Come al solito, dici? Be’, se non ricordo male, non è perché ho fatto di testa mia che…» la voce della giovane calò di colpo, come se qualcuno le avesse stretto la gola, e Unna abbassò rabbiosamente un pugno, spostando lo sguardo di lato. Quel movimento parve avere un effetto diretto sul fratello, che si irrigidì come se, invece che colpire l’aria, la sorella avesse colpito lui.

«Cosa…?» Lidia socchiuse gli occhi, confusa, spostando lo sguardo dall’uno all’altra, senza riuscire a capire cosa stesse succedendo.

«Niente» mormorò Ulf, riprendendosi e lanciando uno sguardo carico di qualcosa – rancore, colpa, delusione – a Unna. «Il concetto non cambia, comunque» riprese, con voce più salda. «Non avreste dovuto tornare al villaggio. Ormai è tardi, ma domani non voglio sentire storie: tornerete all’alpeggio.»

Unna sbuffò, sdegnosa. «Non provarci nemmeno, a dirmi cosa devo fare: puoi comandare a bacchetta lei, se ti fa piacere, ma su di me non ha proprio nessun potere. Io da qui non me ne vado: non senza mio marito, quantomeno.»

«Me non mi comanda a bacchetta proprio nessuno» si lamentò Lidia, stringendo i denti come una bambina capricciosa. Ulf inspirò e fece per dire qualcosa, ma lei scosse il capo. «Unna ha ragione: stare qui è pericoloso. Dobbiamo andare via tutti, almeno per un po’. Poi, se le cose miglioreranno, torneremo qui.»

«E se le cose non dovessero migliorare?» chiese Ulf e Lidia pensò che la sua voce sembrasse stanca, tutto ad un tratto. La giovane scambiò uno sguardo veloce con la cognata, poi si avvicinò al marito. «Se le cose non dovessero migliorare, ci penseremo: immagino che potremmo trovare un altro posto dove vivere…»

Ulf le rivolse un sorriso amaro. «Non è così facile» mormorò. «Non posso lasciare tutto così, da un giorno all’altro. E di certo non posso lasciare qui il resto della mia famiglia. Nostro padre ha un ruolo importante, dei compiti da svolgere, non può fuggire dal villaggio così, da un giorno all’altro.»

«E allora ci prenderemo il tempo che serve!» ribatté Lidia, infervorata. «Noi, però, nel frattempo resteremo qui, perché in queste situazioni è meglio restare tutti uniti e…»

«No, in queste situazioni è meglio che, chi può mettersi al sicuro, lo faccia. E senza fare storie.» La giovane aggrottò la fronte, contrariata dall’atteggiamento dell’uomo. «Ma…»

«Cosa state facendo?»

Una voce brusca li fece sobbalzare e Lidia si voltò appena in tempo per scorgere un’ombra sbucare da una stradicciola laterale. Quando il nuovo arrivato entrò nell’alone di luce che giungeva dall’interno della casa, vide che era un giovane biondo che vestiva l’uniforme dei legionari. Prima che avesse modo di scorgere altri particolari, Ulf si frappose tra di lei e il soldato, schermandole la visuale. «Stiamo parlando» rispose freddamente.

«A quest’ora di notte?» insistette il soldato, con tono vagamente insinuante. «Lo sapete, vero, che è vietato andare per le strade dopo il calare del sole?»

«Certo, che lo sappiamo» ribatté il germanico, senza scomporsi. «Ma noi non siamo per strada: siamo sulla porta di casa, non mi risulta che questo sia vietato.»

«Mh, non lo è» confermò il romano, con voce annoiata. «Abitate tutti qui, voi? Siete parenti, amici…» Lidia lo avvertì avvicinarsi e poi parlare ancora, senza aspettare una risposta. «Tu sei il figlio del vecchio Gefrid, vero?»

«Sì» fece Ulf, sintetico.

«E voi due chi sareste?»

Sentendosi chiamata in causa, Lidia mosse un passo di lato, mostrandosi al soldato. Ma tu guarda che idiota arrogante, si scoprì a pensare, osservando il modo impettito con cui il ragazzo si ergeva davanti a loro. Scommetto che non vale niente, ma qui si sente un grand’uomo. Papà lo schiaccerebbe, un tipo così. Con un sorriso amaro, Lidia si rese conto che quella era una delle poche volte nella vita in cui si era augurata che suo padre fosse lì con lei.

Unna, che si era nel frattempo portata al fianco del fratello, inspirò bruscamente e strinse con forza in pugni, ma, prima che potesse rispondere, Ulf le posò una mano su un braccio, parlando al posto suo. «Non vedo perché la cosa dovrebbe interessarti, ma, in ogni caso, sono mia moglie e mia sorella.»

«Mh» commentò il romano, facendo scorrere lo sguardo da Unna a Lidia e rivolgendosi poi alla seconda, «tu sei la moglie, immagino. Da quale famiglia vieni?» Davanti alla tracotanza del giovane soldato e alla menzione della propria famiglia d’origine, la fanciulla provò un moto d’orgoglio. «Non vengo da questo villaggio. Io sono Lidia Aurelia Prisca» declamò, a testa alta. «Sono la figlia del Senatore Lucio Aurelio Prisco.»

Nell’udire quelle parole, gli occhi del soldato si spalancarono. «Oh! Oh…» balbettò per qualche istante, come se improvvisamente avesse compreso un particolare che fino a quel momento gli era sfuggito. «Donna Lidia! Chiedo scusa!»

Davanti a quel repentino cambio di atteggiamento, la ragazza lo guardò sospettosa: improvvisamente il legionario le parve decisamente più giovane di quanto non le fosse sembrato in un primo momento, doveva avere suppergiù l’età di… I pensieri di Lidia si bloccarono di colpo; il suo sguardo si fece cauto e incrociò quello del romano.

Ulf, che non aveva notato quello scambio di sguardi – o che forse l’aveva notato fin troppo e non l’aveva apprezzato – si intromise nel discorso. «Bene», disse, brusco, «adesso che abbiamo fatto le presentazioni, noi avremmo da fare.»

Il soldato si riscosse in fretta. «No, un attimo. Donna Lidia deve venire con me.»

«Cosa?» chiesero all’unisono Ulf e Lidia.

Il giovane romano raddrizzò le spalle, facendo del proprio meglio per mostrarsi nuovamente sicuro di sé e nascondere la sorpresa di poco prima. «Ordini del Prefetto Caleno» disse. «Data la situazione attuale, tutti i cittadini di Roma devono venire al campo per ricevere alcune raccomandazioni.»

«Per ricevere alcune raccomandazioni» ripeté sarcastico Ulf, evidentemente poco convinto dalla scusa accampata dal ragazzo. «Sì» confermò quello. «Il Prefetto desidera inoltre assicurarsi che i cittadini romani stiano bene e che le loro condizioni attuali consentano loro di vivere in sicurezza.»

Gli occhi di Ulf si ridussero a due fessure. «E deve farlo a quest’ora di notte?» Il soldato scosse le spalle. «Sono solo le nove di sera, non è propriamente notte. E comunque, sì. desidera parlare con i Romani il prima possibile e nei giorni scorsi Donna Lidia non è stata reperibile.»

Credendo di intravvedere una critica, Lidia irrigidì la schiena. «Ero in montagna» si difese, cercando di imitare il tono autoritario di suo padre. «Avevo del lavoro da fare.» Il romano si rivolse direttamente a lei, guardandola negli occhi. «Capisco. Però, Donna Lidia, è davvero importante che tu venga con me, questa sera. È da molto che il Prefetto desidera parlarti… ha aspettato a lungo.» Gli occhi del ragazzo cercavano di comunicarle un messaggio silenzioso che, sebbene non l’avesse dato a vedere, la fanciulla aveva colto immediatamente. Tito.

«Con chi… con chi sto parlando?» chiese, cercando di prendere tempo. «Il mio nome è Lucio Terenzio Rufo» rispose il soldato, con un sorriso. «Capisco la tua diffidenza, ma ti prometto che ti puoi fidare di me. Ti riaccompagnerò a casa di persona, domani mattina.»

A quelle parole, Ulf si intromise nuovamente tra loro. «Non se ne parla nemmeno!» sbottò, svettando sul ragazzo che, per quanto robusto, era più basso di lui di tutta una testa. «Non lascerò che mia moglie passi una notte da sola, in mezzo a dei soldati

Il legionario fece per ribattere, ma Lidia si mise tra di loro. «Aspetta!» disse, cercando di evitare il litigio. «Verrò con te solo se mi assicurerai che sarò a casa prima di mezzanotte.»

Il giovane romano si mostrò sorpreso, ma Lidia sostenne il suo sguardo. Non insistere, gli chiese, silenziosa, sperando che il ragazzo cogliesse il suo messaggio. Dopo qualche istante, lui annuì. «Va bene» sospirò.

Ulf era però di altro avviso. «Va bene solo se posso venire anch’io.»

«No» si oppose il romano, deciso. «Il Prefetto vuole vedere solo Donna Lidia, per essere certo che lei possa parlare in piena libertà.»

«In questo caso, dovrà aspettare fino a domani» ribatté Ulf, altrettanto categorico.

Lidia si premette con forza due dita alla base del naso, cercando di riprendere il controllo sulla situazione. Anche se si sentiva in ansia per quello che sarebbe accaduto quella sera, non desiderava rimandare ancora l’inevitabile. Tolto il dente, tolto il dolore. «Ulf», mormorò allora, posando una mano sul braccio del marito, «lascia che io vada con lui. Non mi succederà niente.»

«Come fai a saperlo?» le chiese, a bassa voce. Lidia si guardò attorno alla ricerca di un appiglio che le permettesse di rassicurare il giovane, senza svelargli però l’esistenza di Tito e il fatto che il ragazzo l’aspettasse con ogni probabilità all’accampamento militare. Trovò soltanto gli occhi freddi di Unna che, come la loro silenziosa proprietaria, non le furono di alcun aiuto. «Mio padre è un Senatore,» disse, dopo qualche istante, «e loro sono soldati di Roma: sono al sicuro. Fidati, per una volta.»

Ulf sostenne per diversi secondi il suo sguardo, poi annuì, sconfitto. «D’accordo» mormorò, stringendole brevemente le braccia. «D’accordo.»

Improvvisamente, Lidia provò una stretta al cuore: anche se era assolutamente certa della scelta fatta qualche settimana prima, non poteva fare a meno di provare la sensazione di tradire la fiducia di Ulf, incontrando di nascosto Tito. Inoltre, c’era il piccolo particolare che, se dire addio a Tito nella sua testa era stato più facile del previsto, farlo nella realtà, trovandoselo di fronte, avrebbe potuto essere ben più arduo.

La ragazza si voltò di scatto verso il giovane legionario. «Va bene» disse, ingoiando il nodo che le si era formato in gola. «Andiamo. Voglio tornare a casa quanto prima.»

Il ragazzo annuì e le offrì un braccio. Dalla sua espressione, Lidia comprese che il giovane aveva frainteso quello che lei aveva voluto dire con l’espressione tornare a casa. Chiudendo gli occhi per un istante, la fanciulla provò un capogiro. Non sono pronta, pensò. Non sono assolutamente pronta.

Stringendosi inconsciamente al braccio del legionario e sentendo gli occhi di Ulf fissi sulla sua schiena, Lidia si incamminò verso il campo militare.

***

Dunque, in occasione dell’ultimo capitolo, diverse persone mi hanno scritto dicendo che, anche se non commentano mai, apprezzano la mia storia. La cosa mi fa piacere, ma vorrei dire qualcosina a questo proposito.

La questione è un po’ questa: a me scrivere piace, ovviamente, ma questo non cambia il fatto che farlo di tarda sera, dopo una giornata di lavoro, è abbastanza stancante. Se scrivessi solo per me stessa (cosa che, comunque, non sono mai stata brava a fare), me la prenderei più con comodo. Se scrivessi solo per me stessa, è probabile che, durante le settimane particolarmente intense, non scriverei una singola sillaba, preferendo svaccarmi sul divano a guardare la tv. Dal momento che presumo però che c’è gente che mi segue, mi siedo alla scrivania e accendo il computer, anche se magari sono scazzata, stanca o con l’ispirazione sotto i piedi. In altre parole: mi impegno in quello che faccio. Quindi, quando leggo di qualcuno che mi segue volentieri, ma non ha voglia di commentare, o non ama farlo, ecco… resto un po’ così, perché mi pare che il mio impegno non venga minimamente ripagato. Non so se mi spiego.

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Capitolo 23
*** 22. Tito ***


Appena si furono allontanati a sufficienza da Ulf e Unna, l’atteggiamento di Lucio cambiò ancora. Il ragazzo prese a sorridere, voltandosi di tanto in tanto per lanciare a Lidia occhiate cariche di aspettativa: camminava di fretta, ma con passo leggero, con l’aria di chi non vede l’ora di raggiungere un luogo desiderato. Notando il mutismo della giovane, allungò un braccio verso di lei e le strinse brevemente una mano. «Allora? Sei agitata?» Lei gli rivolse un debole sorriso. «Abbastanza» ammise, accorgendosi di avere le mani sudate. Non per il motivo che pensi tu, però, aggiunse mentalmente, con un sospiro afflitto.

Il soldato rise, come se trovasse divertente il nervosismo della fanciulla. «Mi pare comprensibile» disse, in tono svagato. «Ma non preoccuparti, il tuo fidanzato non vede l’ora di riabbracciarti! In questi giorni ha parlato continuamente di te, ci ha detto talmente tante cose che praticamente è come se tutto l’accampamento ti conoscesse… quel ragazzo ti adora, davvero!»

Lidia si sentì tremare le ginocchia e dovette mordersi le labbra per reprimere un gemito demoralizzato: le parole del legionario non la rassicuravano affatto, anzi, non facevano altro che aumentare i sensi di colpa che già provava nei confronti di Tito. Negli ultimi giorni aveva pensato e ripensato a come avrebbe potuto comunicare al giovane romano la decisione di rimanere in Germanica con Ulf, ma, nelle sue fantasie, si era sempre concentrata solo su se stessa, senza prendere davvero in considerazione il modo in cui Tito avrebbe potuto reagire, né i suoi sentimenti. Anche se aveva ormai compreso di non essere più innamorata di lui, di non amarlo abbastanza per decidere di portare a termine il piano concepito dal ragazzo e scappare con lui, la fanciulla sapeva con assoluta certezza di volergli bene e di non avere nessun desiderio di spezzargli il cuore. Ma ho paura che questo sia inevitabile, se davvero le cose stanno come dice Lucio…

C’era forse un modo per indorargli la pillola? Lidia passò confusamente in rassegna alle diverse possibilità a sua disposizione, ma subito scosse il capo, sconfitta. Un addio era un addio, in qualsiasi modo la si mettesse.

La strada che si snodava lungo il fondovalle era completamente deserta – fatta eccezione per poche coppie di legionari, apparentemente lasciati di guardia lungo la via – e, percorrendola, i due giunsero all’accampamento molto più rapidamente di quanto avessero fatto Lidia e Unna quel pomeriggio, passando attraverso la cava. Ben presto la ragazza avvistò il vallum e la sommità delle tende dietro a esso. L’impulso di girare sui tacchi e scappare via la investì, prepotente, ma la fanciulla si aggrappò al braccio del soldato, pregando che il giovane non si accorgesse delle sue mani sudate. Smettila di comportarti come una codarda e affronta la situazione! La spronò la sua coscienza.

Oh, ma non si era mai trovata in una posizione tanto scomoda! In un certo senso, le pareva di essere in una situazione peggiore di quella in cui si era trovata il giorno in cui si era sposata. Infatti, se allora era stata in preda al panico, obbligata a sottostare a qualcosa su cui non aveva alcun controllo, ora erano i sensi di colpa ad attanagliarla, uniti alla consapevolezza di non avere altri da incolpare, se non se stessa. Non posso controllare i miei sentimenti, cercò di consolarsi, e ignorarli non sarebbe giusto per nessuno. Però forse avrei potuto gestire le cose in maniera diversa. Avrei dovuto avere il coraggio di scrivere prima a Tito, evitandogli di farsi un viaggio tanto lungo e pericoloso per niente.

Notando il loro arrivo, i soldati a guardia di una delle porte si erano messi sul chi va là. Quando riconobbero Lucio, però, si rilassarono e li lasciarono passare, lanciando a Lidia degli sguardi curiosi e, in alcuni casi, rivolgendole un sorriso cordiale, indovinando forse la sua identità.

Anche se quella era la prima volta che metteva piede in un campo militare, la ragazza lo trovò più famigliare di qualsiasi altra cosa avesse incontrato in Germanica. C’era qualcosa di innegabilmente romano nel modo in cui le cose erano disposte e organizzate e, mentre il suo accompagnatore la conduceva verso una meta che le era ancora sconosciuta, Lidia si sentì come divisa tra il sollievo di essere tornata a casa e lo sconforto di scoprire lontano ciò che un tempo era stato normale e amato.

Improvvisamente, Lucio si fermò di fronte a una tenda più grande delle altre. «Eccoci arrivati» sorrise, scostando un lembo di stoffa pesante con una mano e invitando la ragazza a entrare con l’altra. Con il cuore che batteva a una velocità allarmante, Lidia fece due passi e si ritrovò all’interno della tenda, avvolta dalla luce gialla delle lampade. Davanti a lei, seduto a una sorta di scrivania, c’era il Prefetto Caleno. Vedendola entrare, l’uomo posò la coppa di vino che aveva in mano e si alzò per accoglierla, un’espressione stupita disegnata sul bel volto. Distrattamente, la ragazza notò che alla sua destra c’era Quinto, il Legato che per primo l’aveva aiutata al suo arrivo a Erding, ma gli occhi della fanciulla corsero inevitabilmente al giovane fermo alla sinistra del Prefetto. «Tito» mimò con le labbra, senza riuscire a trovare la voce per pronunciare quel nome.

Era come se, nei mesi passati lontana da lui, la sua immagine si fosse un po’ sfumata, nella sua mente - o forse, semplicemente, durante la sua assenza il ragazzo era cresciuto: le sembrava diventato più alto, con le spalle più larghe, con i tratti del volto più definiti. Eppure, quando la vide, nei suoi occhi scuri si accesero la stessa luce e la stessa emozione che Lidia vi aveva sempre scorto.

L’etichetta avrebbe previsto che fosse il Prefetto ad accogliere l’ospite, ma Tito si mosse prima che Caleno facesse in tempo ad aggirare la scrivania che lo separava dalla fanciulla e, con tre lunghe falcate, raggiunse la fanciulla e la strinse a sé. Il suo profumo famigliare la investì e, malgrado le sue migliori intenzioni, Lidia sentì un’ondata di nostalgia colpirla in pieno petto, togliendole le forze e costringendola ad abbandonarsi tra le braccia del giovane. «Lidia» sussurrò lui, affondandole il naso tra i capelli.

Stretta nel suo abbraccio, Lidia sentì gli occhi inumidirsi. Un paio di lacrime le scivolarono lungo le guance e bagnarono la maglia di Tito. Stringendo i denti risoluta, però, la ragazza si controllò: sentì di non avere il diritto di piangere, di auto commiserarsi, di pensare a se stessa come a una vittima. Cionondimeno, quando il giovane la scostò da sé e la guardò in volto, vide che aveva gli occhi lucidi e subito si allarmò. «Va tutto bene?» le chiese, sfiorandole il volto con dolcezza.

«È solo emozionata» interloquì Lucio, evidentemente fiero di essere stato lui ad aver fatto ricongiungere la coppia che il destino aveva separato. Per un qualche motivo, quell’intervento fuori luogo aiutò Lidia a sottrarsi dallo spaesamento causato dall’emozione e a vedere con più chiarezza tutti i dettagli di quella situazione surreale. Posando le mani sul petto di Tito e allontanandolo leggermente da sé, la ragazza annuì, chiudendo per un secondo gli occhi, nel tentativo di riordinare le idee. «Sì» disse. «Sì, va tutto bene.» La sua voce suonò ferma e stranamente piatta e la fanciulla se ne stupì. Tito però parve non accorgersene e annuì, sollevato. «Bene» sorrise. I due rimasero a guardarsi, mentre i secondi scorrevano inesorabili e Lidia iniziò a sentirsi a disagio sotto agli sguardi di quei quattro uomini che sembravano osservarla come se si aspettassero da lei chissà quale reazione.

Notando la situazione di stallo, il Prefetto Caleno intervenne. «Donna Lidia», fece, avvicinandosi alla coppia, «devo ammettere che il tuo arrivo è stato piuttosto… inaspettato.» La giovane si voltò verso di lui, corrugando la fronte, confusa. Inaspettato? Si chiese, alzando gli occhi per incontrare quelli verdi dell’uomo. Non erano forse stati lui e il suo commilitone a proporle di incontrare Tito, il giorno stesso in cui si era sposata? Non le aveva forse offerto asilo nell’accampamento, qualora si fosse sentita sola e spaesata? Perché si dichiarava stupito, allora?

«Eh…» abbozzò, a corto di parole. «Io… è stato il tuo soldato a portarmi qui, pensavo di essere attesa.» Volgendo lo sguardo verso Lucio, la fanciulla vide che sul viso aveva un’espressione confusa che, con ogni probabilità, era lo specchio della sua. Il soldato fece saettare lo sguardo tra il suo superiore e la ragazza, ma Quinto lo tolse dall’imbarazzo di trovare un commento adeguato. «Immagino che tu non ne sapessi assolutamente niente, vero, Prefetto?»

I lineamenti di Caleno si indurirono e il soldato si voltò per fronteggiare il Legato. «Prego?»

Quinto sorrise, ma, in quella circostanza, il suo sorriso parve a Lidia meno caldo di quanto non fosse solitamente. «Dico: naturalmente è una coincidenza, se Lidia e questo ragazzo si trovano entrambi qui nella tua tenda, questa sera.» Accanto a lei, Lidia sentì Tito irrigidirsi e, per la prima volta, realizzò che, con ogni probabilità, Quinto non condivideva minimamente il piano di farla ricongiungere al giovane romano.

«È una coincidenza, sì» ribatté Caleno. «Come ti ho spiegato, il ragazzo è qui perché voleva accertarsi che Lidia stesse bene. Tiene molto a lei: non vedo cosa ci sia di male.» Nell’udire quelle parole, la fanciulla lanciò una rapida occhiata a Tito, che le rivolse un cenno del capo, come per confermare ciò che il Prefetto aveva detto. «Non aveva alcuna intenzione, però, di convocare qui Lidia senza prima parlartene: Lucio deve averla incontrata per caso e deve aver deciso di portarla qui, dico bene?»

Nel sentirsi interpellato, il soldato avvampò. «Sì… è esatto» confermò, incerto. Caleno si rivolse a Quinto, stringendosi nelle spalle con un mezzo sorriso. «Visto, Legato? Non c’era nulla di premeditato. Ma se vuoi, posso far riaccompagnare a casa Lidia e rimandare a Roma il ragazzo. Devo fare così?»

Tito fece per protestare, ma si trattenne, rivolgendo però uno sguardo carico di nervosismo al Legato. Quinto lo osservò per qualche istante, silenzioso, poi incrociò gli occhi di Lidia. Sentendosi sotto esame, in preda alla sensazione di aver deluso e tradito il Legato, la fanciulla arrossì e quella reazione parve confortare Quinto. «Non ce ne sarà bisogno» disse infatti l’uomo, con voce un poco più morbida rispetto a poco prima. «Ormai i ragazzi sono qui, lasciamo che si parlino.»

Davanti a quella concessione, la giovane sentì le guance farsi ancora più rosse e uno strano senso di mortificazione calare su di lei. Quinto ha capito come stanno le cose, comprese: non sapeva come il Legato potesse essere a conoscenza dei suoi sentimenti e delle sue intenzioni – forse si trattava di semplice intuito, forse di qualcosa di più complesso – ma Lidia ebbe la certezza che l’uomo si fosse accorto della sua intenzione di rimanere con Ulf. Se, da un lato, quella consapevolezza le dava quasi coraggio, dall’altra Lidia sentiva di dover dimostrare qualcosa – non solo a se stessa, ma anche a Libo.

Caleno annuì, tornando a sorridere come se le parole del Legato avessero spazzato via la tensione di qualche istante prima. «Perfetto, allora. Credo che abbiate molte cose da dirvi», disse, rivolgendosi ai due giovani, «e capisco che siate a disagio a discuterne qui, davanti a tutti. Un accampamento militare non garantisce molta privacy, ma, se volete, posso concedervi di usare la mia stanza privata per un po’.»

Davanti a quelle parole che, con un poco di malizia, avrebbero potuto essere interpretate in modo decisamente non opportuno, Lidia non riuscì a trattenere una smorfia, mentre il giovane soldato che l’aveva accompagnata al campo soffocava un risolino. Notando l’espressione cupa della fanciulla, Tito le passò un braccio attorno alle spalle. «Lascialo perdere» le sussurrò, sorridendo appena.

Così dicendo, rivolse al Prefetto un cenno di ringraziamento e, con gentilezza, sospinse la giovane verso il tendaggio indicato da Caleno. Quasi in cerca di una via d’uscita, Lidia lanciò un’ultima occhiata intorno a sé, incrociando prima lo sguardo incoraggiante del Prefetto e poi quello teso di Quinto.  Quando i loro occhi si incontrarono, il Legato le rivolse quello che avrebbe forse voluto essere un sorriso, ma che alla giovane parve soltanto un rigido stirarsi di labbra che non riuscì a dissolvere l’ombra cupa che occupava i suoi occhi. Per una frazione di secondo, la fanciulla provò l’irrazionale tentazione di chiedergli aiuto, di pregarlo di intercedere per lei, ma subito serrò la mascella, preparandosi a prendersi le proprie responsabilità.

Un istante più tardi, il drappo che separava le stanze private di Caleno dal resto della tenda calò di nuovo e Lidia si trovò improvvisamente da sola con Tito. Un senso di nausea l’assalì, ma, prima che potesse fare qualcosa per contrastarlo, il ragazzo le si avvicinò. «Allora!» disse, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro. «Finalmente posso parlarti di tutto quello che ho organizzato: l’avrei fatto quando ti ho scritto, ma non volevo correre il rischio di essere scoperto. Ma prima…» Senza lasciarle il tempo di capire le sue intenzioni, Tito le prese il volto fra le mani e, chinatosi su di lei, la baciò, premendo le labbra calde contro quelle della ragazza. Troppo di stucco per reagire, Lidia lo lasciò fare, perdendosi nel sapore famigliare della sua bocca e dimenticandosi per un attimo delle circostanze che l’avevano condotta lì. Dopo qualche secondo, però, una sensazione di estraneità la colpì e uno strano distacco le fece vedere la scena con occhi nuovi e inaspettati.

No, pensò. Non solo e non tanto perché era moralmente sbagliato, ma perché non aveva senso. Non aveva senso baciare Tito, non più: passata la sorpresa iniziale, svanito il conforto dell’abitudine, Lidia si rese conto di non riconoscere più il tocco delle sue labbra, di avvertire come estraneo il tocco dei polpastrelli che le sfioravano le gote e la nuca – persino il suo respiro le pareva stonato, fuori posto.

Basta così. Posandogli le mani sul petto, la ragazza spinse, inducendolo a interrompere il bacio e ad allontanarsi da lei. Per una frazione di secondo, un’espressione confusa si dipinse sul volto del ragazzo, ma fu subito rimpiazzata da un sorriso.

«Lidia…»

«Tito…»

I due parlarono insieme e subito si interruppero, sorpresi dalla voce dall’altro. «Tito», riprovò lei, quando vide che il giovane intendeva cederle la parola, «io non… non posso… scusami, ma…» La ragazza si portò una mano alla gola, sentendola come chiusa in una stretta che le impediva di parlare e di pronunciare le parole che aveva ripetuto migliaia di volte, nella sua testa.

Notando la sua difficoltà, il giovane sorrise di nuovo e le posò una mano su una spalla, comprensivo. «No, scusami tu» le disse, piano. «Non avrei dovuto baciarti. Ho sbagliato. So che le cose non possono essere come prima, naturalmente.»

Lidia lo guardò, con gli occhi sgranati. Lo sapeva? Lo sapeva veramente? Si era preoccupata per niente?

E allora cosa ci fa qui in Germanica?

«Davvero?» chiese, quasi senza osare sperare di potere uscire così facilmente da quella situazione scomoda. Tito annuì. «Certo, sei una donna sposata, adesso. Ti conosco fin troppo bene, so che senti di avere degli obblighi verso il germanico…» sospirò, prima di sorridere. «Ma non per molto. Presto ce ne andremo e tu non dovrai più preoccuparti di lui. Ho pensato a tutto, vedrai!»

Lidia sbiancò e, di fronte all’entusiasmo del ragazzo, trattenne a stento un gemito. Ah, ecco. Mi sembrava troppo bello, per essere vero…

Interpretando male lo sguardo perso della ragazza, il giovane cercò di rassicurarla. «So che può fare un po’ paura», disse, chinandosi appena per guardarla negli occhi, «ma, davvero, andrà tutto bene. Ho già preso accordi, naturalmente ti spiegherò tutto, ma, per ora…»

«Aspetta.» La parola le sfuggì dalle labbra quasi senza il suo permesso e Tito si ritrasse un poco, leggermente sorpreso. Inspirando profondamente, Lidia cercò il coraggio per guardarlo negli occhi, senza però riuscire a trovarlo. «Non posso venire con te» sputò allora, con lo sguardo vigliaccamente fisso sulla punta degli scarponcini che ancora indossava.

Per alcuni lunghissimi secondi, il giovane rimase in silenzio. «Cosa?» chiese poi, come se pensasse di non aver sentito bene. «Mi dispiace», ripeté la fanciulla, cercando di mettere una forza maggiore nella propria voce, «ma non posso venire via con te.» Non voglio farlo, più che altro, avrebbe voluto dire, ma sentiva di non essere in grado di usare quella parola che avrebbe fatto ricadere su di lei tutta la responsabilità di quella decisione.

«E perché mai?» chiese di nuovo Tito, mentre il suo volto si contraeva in un’espressione al contempo spaesata, afflitta e contrariata.

Lidia esitò per un istante, pensando che, forse, sarebbe stato meglio trovare una motivazione che non lo toccasse troppo da vicino, che non lo ferisse come avrebbe fatto la notizia che la sua fidanzata – ex fidanzata! – preferiva un germanico a lui. «È troppo pericoloso» disse, quando ne ebbe trovata una che le parve sufficientemente convincente. «Quando sono partita non lo sapevo, ma i matrimoni tra noi e i germanici servono per fare avere a questa gente un po’ della nostra ricchezza: non ci lasceranno andare via così facilmente!»

Lo sguardo di Tito si fece determinato. «Già, ti vogliono per i tuoi soldi: un motivo in più per andarsene da qui il prima possibile!»

La fanciulla scosse la testa, capendo di aver scelto la motivazione sbagliata e di essere a un passo dall’infilarsi in un vicolo cieco. «E la famiglia di mio… di mio marito?» chiese ancora, sforzandosi di non alzare la voce per il nervosismo. «Se scappo via, per loro ci saranno conseguenze! La sacerdotessa, Donna Erin… ha legami importanti con gli Alti Sacerdoti, contrariarla potrebbe essere pericoloso!» Lidia sgranò gli occhi e si torse le mani, cercando di trasmettere a Tito tutta la sua preoccupazione. Non le parve il caso di specificare che, a conti fatti, era solo Ulf a sostenere che Donna Erin fosse una persona pericolosa.

Il giovane la guardò con gli occhi leggermente socchiusi, come colpito da un’idea improvvisa. «Ti interessa di loro?»

Lidia alzò la testa di scatto, colpita dalle sue parole. Davvero aveva un’opinione così bassa di lei da credere che fosse in grado di passare dei mesi a stretto contatto con delle persone e di non sviluppare con loro il minimo legame? «Certo che mi interessa di loro!» ribatté, con una voce più dura di quanto si sarebbe aspettata. «Sono delle brave persone, non voglio che finiscano nei guai per causa mia!»

Tito scosse impercettibilmente il capo, come se non riuscisse a capire la logica di ciò che la ragazza stava dicendo, ma poi fece un cenno d’assenso. «Va bene. Non è un problema» disse, con un sospiro secco. «Faremo in modo che sia assolutamente palese che sei scappata di nascosto e che loro non ne sapevano niente: faremo fare loro la figura delle vittime, non dei complici. Nessuno li potrà accusare di nulla.»

Lidia incrociò le braccia e strinse spasmodicamente le dita sui propri avambracci. Perché deve essere così insistente? Si chiese, con una punta di disperazione. Tito aveva pensato proprio a ogni evenienza, evidentemente. La cosa non avrebbe dovuto sorprenderla – era sempre stato un ragazzo intelligente, pieno di risorse – ma non mancò di causarle comunque un fremito di fastidio indispettito. Non c’era un modo efficace per ribattere alla sua proposta, si rese conto, e allora sospirò: «Non posso comunque andare via… Mi dispiace.» Mentre lo diceva, non riuscì nemmeno a incontrare i suoi occhi, temendo di leggervi rabbia, delusione o qualche altro sentimento che non si sentiva in grado di affrontare.

Tito sbuffò e mosse un passo verso di lei, evidentemente turbato dalla sua titubanza. «Ma cosa…» Improvvisamente, il ragazzo si bloccò e la sua voce si fece più dura. «Ti sei innamorata di lui?»

Colta di sorpresa da quella domanda così diretta, Lidia sgranò gli occhi. «Cosa?»

Tito avvicinò il volto al suo, fermandosi a una decina di centimetri da lei. «È per tuo marito, vero? Per questo non vuoi venire via con me? Ti sei innamorata di lui?» A ogni domanda, la rabbia riempiva sempre più le sue parole. «Lo ami?»

Lidia avvampò, indietreggiando di un passo. La guardava come se la stesse accusando di qualcosa di terribile. «Tito, io non…»

Il ragazzo la seguì, impedendole di sottrarsi alle sue domande. «Lo ami?» le chiese ancora, guardandola con insistenza. Quando la fanciulla non rispose e distolse lo sguardo, il ragazzo la afferrò per le spalle, scuotendola debolmente. Improvvisamente, Lidia sentì la rabbia montarle nello stomaco. Facendo un passo indietro, la giovane si liberò dalla sua presa. «E se anche fosse?» sibilò, puntando gli occhi in quelli di lui e irrigidendo stizzosamente le spalle. Lidia strinse irosamente i denti, senza riuscire a capire se la disturbasse di più l’atteggiamento supponente di Tito o il fatto che lui fosse riuscito a scorgere le sue vere motivazioni con tanta semplicità

Davanti allo sguardo duro e scintillante della giovane, Tito indietreggiò di un passo. «E anche se fosse?» ripeté, ironico, con un’amarezza che a Lidia parve più tagliente della rabbia di poco prima. «Non so, forse avresti potuto dirmelo prima? Hai idea di quello che ho passato per organizzare tutto, per venire qui? Di quanto sia stato difficile lasciare Roma all’insaputa della mia famiglia?»

I sensi di colpa le trafissero il petto, ma la fanciulla inspirò profondamente, mettendoli a tacere – almeno per il momento. «E come avrei potuto comunicartelo?» ribatté. «E, comunque, ti ricordo che io non sono mai stata d’accordo con il tuo piano di fuga.»

Tito la guardò, incredulo, poi scosse di nuovo il capo. «Quindi lo ami veramente?» chiese; e a Lidia parve di leggere una sfumatura di disprezzo nella sua voce. Davanti all’espressione inorridita del ragazzo, fu tentata di negare, d’istinto, ma poi la ragione la fermò. Che diritto aveva Tito di chieder conto dei suoi sentimenti? No, non di chiederne conto – quello sarebbe stato anche accettabile: di giudicarli. «Scusami tanto, ma, come dicevo, non devo renderne conto a te: la cosa non ti riguarda.» ribatté allora, infastidita.

«Permettimi di dissentire» sibilò Tito, guardandola come non l’aveva mai guardata, prima di quel giorno. «Mi stai scaricando per lui, quindi mi pare proprio che la cosa mi riguardi, eccome!»

La fanciulla fece per negare di nuovo, ma poi si rese conto che, forse, il giovane non aveva tutti i torti. Quel pensiero portò via un poco d’indignazione e Lidia sospirò, rilassando le spalle e sentendosi simile a un palloncino sgonfio. «Non lo so, se lo amo» mormorò, passandosi stancamente una mano sul volto. «Però gli voglio bene… ci tengo, a lui, e non lo voglio lasciare.»

Anche se, fino a qualche istante prima, Tito si era mostrato sicuro di sé, quasi aggressivo, l’espressione smarrita con cui accolse quell’ammissione le fece capire che, in cuor suo, il giovane aveva cullato la speranza che i suoi sentimenti non fossero cambiati – non del tutto, almeno – e che quelle parole l’avevano ferito. Lidia provò un moto di tenerezza nei suoi confronti e desiderò poter fare qualcosa per consolarlo, ma, non senza un certo sforzo di volontà, si costrinse a non cedere e a portare a termine quella sgradevole conversazione quanto prima. Prima che potesse aggiungere dell’atro, però, Tito alzò su di lei uno sguardo turbato. «Non ci hai messo molto, a dimenticarti di me» commentò e, di nuovo, Lidia dovette dargli atto di avere, almeno in parte e da un certo punto di vista, ragione.

Le cose non stanno del tutto così, però.

«Non mi sono dimenticata di te» protestò, pacatamente. «Ti ho pensato ogni giorno, all’inizio, non aspettavo altro che di avere tue notizie, di poterti rivedere. Poi, però…» «Poi però cosa?» la incalzò Tito. La rabbia nella sua voce aveva per lo più lasciato posto alla tristezza, ma non per questo Lidia trovava più facile affrontarlo. «Cos’è successo, poi?»

«Poi… non lo so, forse mi sono accorta di non poter sempre e solo guardare indietro» sospirò. «Non è stata una mia scelta, è una cosa che è venuta praticamente da sé. Ho iniziato ad abituarmi a vivere qui e ho cominciato a vedere che Ulf… che mio marito non era poi così male e… lui mi fa arrabbiare, però è anche gentile, con me, mi fa sentire al sicuro…»

«E ti capisce?» la interrogò Tito, fissandola in volto come se volesse scorgere il minimo indizio di menzogna. «Si sforza di farlo» ammise Lidia. «Non è sempre tutto semplice, ma come potrebbe esserlo? Veniamo da due mondi così diversi… però lui ci prova, e io ci provo. E questo è quello che conta.»

Il giovane romano storse le labbra in un’espressione dubbiosa, ma non commentò. «E ti fa ridere?» chiese, invece. «Ti diverti, quando stai con lui?»

«Non ci sono molti motivi per essere allegri, ultimamente» gli fece notare la ragazza, asciutta. «Però, sì: sa anche farmi ridere.»

Tito sospirò. «Ho capito» disse, a mezza voce. Poi, il suo tono si fece di nuovo più tagliente. «E ho capito anche un’altra cosa: tu non ci hai mai creduto, al mio piano. Quando sei venuta qui, io sono diventato automaticamente il passato. Non è così?» Per una frazione di secondo, Lidia fu tentata di negare, poi rinunciò, non vedendone l’utilità. «È vero. Ma, ammettilo: il tuo piano non stava in piedi. Era troppo pericoloso.»

Tito le lanciò un’occhiata penetrante. «Eppure, eccomi qui» scandì, allargando le braccia. Improvvisamente, Lidia sbiancò, deglutendo. Già. Eccolo qui, si disse, sgomenta. L’aveva sempre sottovalutato, l’aveva sempre considerato un ragazzino con un mucchio di idee, ma con scarsa capacità di metterle in pratica. Evidentemente si era sempre sbagliata, sul suo conto, e c’era un che di inquietante nel fatto che se ne fosse accorta solo in quel momento. Possibile che non lo conosca affatto? Tutti gli anni passati insieme non sono serviti a niente?

La fanciulla socchiuse le labbra, cercando una risposta adeguata, ma Tito scosse il capo. «Almeno mi hai mai amato?» la interrogò. «Oppure stavi con me solo perché tuo padre ti aveva imposto di farlo?» Bastò quell’insinuazione per scuotere Lidia dal suo stupore. «Certo che ti ho amato!» ribatté, piccata. «Forse io ho sbagliato a giudicare te, ma anche tu ti stai sbagliando sul mio conto, se credi che io sia capace di fingere per tutto questo tempo. Ti ho voluto bene, ti ho amato», aggiunse, con voce più pacata, «ma le cose cambiano, è normale. Io ci tengo ancora moltissimo, a te, ma non voglio più sposarti. Perché sono già sposata e con mio marito ci sto bene. Non è la strada che avrei scelto, se avessi potuto scegliere, ma le cose sono andate così… e io non posso, né voglio, cambiarle.»

Tito la osservò in silenzio per qualche istante, poi sospirò, distogliendo lo sguardo. «Sei cambiata.» La fanciulla si strinse nelle spalle, non sapendo che cosa farsene, di quell’osservazione, e sentendo di non avere altro da aggiungere. Dopo qualche secondo, Tito parlò di nuovo. «Va bene. Però questo non cambia la realtà dei fatti: restare in questo posto è un rischio, se si è romani.»

«Lo so», ribatté Lidia, cercando di riordinare in fretta le idee per affrontare quella nuova argomentazione, «ma è rischioso per tutti, non solo per i romani.» Il giovane la fissò con gli occhi socchiusi e la fanciulla fu sfiorata dal dubbio che ci fosse qualcosa di cui lei non era a conoscenza. «O no? È successo qualcosa?»

«Lo sai, vero, che sono stati uccisi dei soldati?» le chiese lui, lentamente. La notizia le provocò un sussulto allarmato e Lidia corrugò la fronte, cercando di ricordare se qualcuno le avesse mai riferito qualcosa di simile, negli ultimi tempi. «Com’è successo? C’è stato uno scontro?» indagò, cercando di impedire che la voce le tremasse.

«No, nessuno scontro» rispose Tito, sprezzante. «Li hanno uccisi di notte, all’uscita di una locanda, quando non si aspettavano un attacco. Nessuno ha visto nulla, naturalmente.»

«Ma… ma perché…» Lidia balbettò, cercando di trovare un motivo che giustificasse quell’aggressione. Si trattava forse di una vendetta per il fatto riferitale da Unna, per i minatori uccisi dai legionari? «Perché li hanno uccisi?» fece il ragazzo, al posto suo. «Per nessun motivo che non fosse la volontà di uccidere dei cittadini romani» decretò, tagliente. «È per questo che dico che non è sicuro per te restare qui. Devi venire via. Ammesso che tu ti consideri ancora cittadina romana, ovviamente.»

«Certo che mi considero romana!» ribatté prontamente Lidia, punta nell’orgoglio. «E ne vado anche fiera! Non avevo idea che dei nostri soldati fossero stati attaccati in questo modo: fino a questa mattina ero al sicuro, in montagna, e non ne avevo avuto notizia. Non c’è bisogno che tu mi convinca ad andare via da Erding, comunque: sono scesa con l’intenzione precisa di convincere mio marito a venire via con me. Potremmo… potremmo tornare in montagna o magari andare in un villaggio vicino, dove le cose sono più tranquille.»

«Non è abbastanza» ribatté il giovane. «Non è che il problema è confinato al villaggio: è una cosa diffusa a tutta la regione. Anzi, da quanto ho sentito, più a sud le cose vanno anche peggio.»

Per una frazione di secondo, Lidia fu tentata di raccontargli del suo incontro con Sören e Otmar – che, se non ricordava male, veniva proprio da uno dei villaggi più meridionali – ma scartò in fretta quell’idea che sarebbe servita soltanto a mettere ancora più in allarme il ragazzo. «Be’, vorrà dire che andremo ancora più a nord» ribatté. «Magari da Lucilla…»

«L’unico posto sicuro è Roma» la interruppe Tito, categorico. «Lo sai benissimo anche tu.»

«Roma?» ripeté lei, con gli occhi sgranati. «Stai scherzando? Ulf non accetterebbe mai di venire a Roma, la odia! Hai idea di quanto tempo mi ci vorrebbe, per convincerlo?»

«Troppo, indubbiamente» replicò il ragazzo, pronto. «Infatti sto dicendo che tu dovresti venire a Roma, non che devi portare con te tutta la tua… famiglia.» Quell’ultima parola la pronunciò come se il suono stesso gli risultasse estremamente innaturale, ma Lidia sorvolò su quel dettaglio. «Mi stai dicendo che dovrei lasciarli qui?» chiese, invece, sfidandolo a darle una risposta affermativa.

Tito sembrò sul punto di confermare quell’ipotesi, ma poi si trattenne. «Non per forza qui» fece, con voce un poco incerta. «Però potrebbero rimanere in Germanica. Non sarebbe pericoloso, per loro.» Lidia scosse il capo, incredula. «Tito… io non voglio separarmi da mio marito. Ti ho appena spiegato che…»

«… che vuoi stare con lui e non con me. Sì, ti ho sentita» la interruppe il ragazzo. «E, infatti, non sto dicendo che dovresti lasciarlo. Sei stata abbastanza chiara: le cose non sono più come prima. Questo, però, non significa che tutti i problemi siano magicamente risolti. Ti chiedo solo di ragionare con la tua testa: chiunque vedrebbe che, arrivati a questo punto, la cosa più logica da fare sarebbe separarvi per qualche tempo. Basterà aspettare che le acque si calmino e poi potrete riunirvi una volta che non vi sarà più pericolo, se è davvero quello che vuoi.»

«La cosa più logica?» ripeté la fanciulla. «Perché non potremmo andare da qualche parte tutti insieme? Non ci sono solo Roma e la Germanica: c’è la Gallia, ci sono le terre su al Nord, ci sono i deserti a Oriente e a Sud… qual era il tuo piano iniziale? Dove pensavi di portarmi?»

«A questo punto non ha più importanza» sbuffò il giovane. «Era un piano congegnato per una persona sola: avevo trovato un passaggio per Alessandria, ma non c’è tempo – né modo – per riorganizzare il tutto e portare là… quante persone?»

Lidia contò rapidamente, nella sua testa. C’erano lei e Ulf, naturalmente, e poi Hermann, e la vecchia Edda, non potevano certa lasciarla lì. E Gefrid, e sì, anche Unna e Karl… «Sette persone in totale» dichiarò. Otto con il bambino. Tito sbuffò, sarcastico. «Appunto! No, non è fattibile. Dovete dividervi, è l’unico modo per evitare di correre dei rischi inutili.»

Il giovane pareva estremamente convinto di ciò che diceva e Lidia lo guardò con una punta di sospetto. «È solo per questo che mi chiedi di tornare a Roma? Non hai doppi fini?» Tito sospirò, allargando le braccia in un gesto di resa. «Lidia, ho appena scoperto che, mentre io mi facevo in quattro per trovare un modo per riportarti a casa, tu vivevi felice e contenta – e innamorata – con un uomo che pensavo che odiassi: è ovvio che la cosa non mi faccia fare i salti di gioia.» La ragazza fece per dire qualcosa, ma lui levò una mano, chiedendole di aspettare. «Io ti amo ancora e, temo, ti amerò per parecchio tempo. Vorrei che non fosse così, a questo punto, ma, come hai detto tu, non sono esattamente cose che possiamo controllare, no?» Così dicendo, le rivolse un pallido sorriso che la ragazza ricambiò con una punta di imbarazzo. «Però mi è chiaro che hai fatto la tua scelta: non mi sta bene, non mi piace, ma ne prendo atto. Rispetto la tua volontà, non posso fare altrimenti. Tu, però, non puoi chiedermi di disinteressarmi completamente di te: io voglio saperti al sicuro. Anche senza di me, anche con lui, alla fine, ma comunque al sicuro. Quindi no, non ho doppi fini… ed è per questo che ti chiedo di ascoltarmi e di tornare a Roma.»

Lidia abbassò lo sguardo, pensierosa. Quel discorsetto l’aveva messa leggermente a disagio e, soprattutto, l’aveva fatta sentire una pessima persona – Tito non si meritava davvero di essere trattato in quel modo. Tuttavia… «Ho bisogno di un po’ di tempo per pensarci. Non è una cosa che posso decidere così, su due piedi.» La fanciulla deglutì è, per qualche secondo, non osò incontrare lo sguardo del giovane romano, temendo che lui potesse leggerle la verità negli occhi: perché lei, nonostante potesse intravvedere la logica nella proposta del ragazzo, non aveva alcuno intenzione di separarsi nuovamente da Ulf, senza peraltro avere la certezza della data di ritorno.

«Non abbiamo molto tempo» disse Tito, con una nota di urgenza nella voce.

«Eh?» Lidia lo guardò, aspettando che elaborasse maggiormente quello che aveva detto, e lui si avvicinò fino a sfiorarle nuovamente le mani con le sue. «Pesaci, non dico di no», la incalzò, allacciando le dita con quelle della ragazza, «ma fallo in fretta. La situazione potrebbe partecipare da un giorno all’altro: prenditi due, tre giorni, non di più.»

Tito le strinse le mani e Lidia non poté fare a meno di apprezzarne la forza asciutta, calda, così in contrasto con le sue dita fredde e umide di sudore nervoso. Poi però si sottrasse alla sua presa e incrociò le braccia davanti al petto, erigendo una sorta di barriera inconsapevole tra sé e il ragazzo. La conversazione era giunta a un punto morto, lo avvertiva chiaramente, e ogni minuto in più era un minuto che Tito avrebbe potuto usare per minare le sue convinzioni e convincerla a fare quello che voleva lui. Ti fidi così poco della tua volontà e dei tuoi sentimenti? La punzecchiò la sua coscienza.

«Ci penserò» ripeté la giovane, rapida, alzando gli occhi sul volto del compagno e cercando di trasmettergli sicurezza. «Dimmi solo una cosa: perché Roma e non Alessandria?» chiese, pronunciando con una punta di rimpianto il nome di quella città mitica ed esotica che avrebbe da sempre voluto visitare.

Tito scrollò le spalle. «Non c’è più alcun bisogno di fare le cose di nascosto, ormai. Tornare a Roma sarà molto più semplice e veloce, soprattutto se, come pare, potremo contare sull’aiuto del Prefetto Caleno.» La menzione dell’ufficiale diede a Lidia l’occasione di aggrapparsi a qualcosa che le permettesse di interrompere quella conversazione e di potervi riflettere sopra con calma, nella pace della sua camera da letto. «Il Prefetto forse ci aiuterebbe, ma che mi dici di Quinto? Voglio dire, del Legato Libo? Lui non mi sembra così propenso a lasciarmi andare via.»

Alla menzione di Libo, Tito non nascose una smorfia. «Caleno dice che quell’uomo non vale niente: io non mi preoccuperei troppo di lui.» Accorgendosi forse dell’espressione infastidita di Lidia – che, a conti fatti, provava più simpatia per il Legato, che non per il Prefetto – il ragazzo si affrettò a rettificare. «Non che io lo conosca, eh. Mi limito a riferire quello che dice Caleno.»

Lidia annuì. «Sì, be’… in ogni caso, credo che ci siano detti tutto. Devo pensarci un po’, eventualmente preparare un po’ di cose.  Ti farò avere una risposta in un paio di giorni. Ora è meglio che vada, non so quanto tempo è passato, da quando sono partita da casa, ma, sicuramente, non poco.» Così dicendo, la ragazza fece per dirigersi verso la tenda che separava la camera di Caleno dallo spazio in cui la stavano attendendo gli altri tre uomini, ma Tito la trattenne, afferrandola per un polso. «Lidia… aspetta.»

La fanciulla si voltò verso di lui, divisa tra sorpresa e inquietudine. «Sì?» Le mani di Tito si strinsero delicatamente attorno a quella della ragazza e il giovane ne sfiorò leggermente il dorso con la punta del pollice. «Volevo solo dirti che mi dispiace. Per tutto. Io ti voglio ancora bene e so che forse ti sto causando dei problemi e… e, niente, mi dispiace. Però sono comunque contento di averti vista un’altra volta, e di vedere che stai bene, nonostante tutto. Perché ti voglio bene. Davvero, Lidia.»

Inaspettatamente, la fanciulla sentì le lacrime pizzicarle gli angoli degli occhi e, quasi inconsciamente, si lanciò verso il giovane, gettandogli le braccia al collo e premendo il viso contro la spalla. «Anch’io ti voglio bene e anch’io sono felice di vederti… anche se forse non sembra, dall’accoglienza che ti ho riservato.»

Tito la strinse e sorrise contro il suo orecchio, prima di posarle un bacio sulla tempia. Poi l’allontanò leggermente da sé e cercò il suo sguardo. «Sarà meglio che ti lasci andare a casa, adesso» mormorò. Lidia annuì, sentendo in sé una tristezza che non sapeva spiegarsi fino in fondo. Sul volto di Tito passò un’ombra di incertezza. «Dirai… dirai a tuo marito che ci siamo incontrati?»

Lidia esitò un istante, mordicchiandosi un labbro, pensierosa. L’avrebbe detto a Ulf? Suo marito aveva tanti pregi, ma aveva anche la tendenza a saltare a conclusioni affrettate: e se avesse interpretato male la presenza di Tito? E se avesse insistito per incontrarlo? E se lo dicesse a Karl? Si chiese improvvisamente, ricordando la rabbia e l’odio con cui il cognato parlava di Roma e dei romani. No, forse, per il momento, sarebbe stato più prudente tenere segreta la presenza di Tito a Erding – se non altro, per evitare di causare problemi al ragazzo.

«Glielo dirò», annuì Lidia, «ma non subito. Non oggi.»

Tito parve rinfrancato da quella decisione e, con un cenno del capo, si diresse verso il tendaggio. «Qui abbiamo finito» disse, rivolto agli uomini in attesa dall’altra parte. Spiando al di sopra della sua spalla, Lidia riuscì a scorgere i volti cupi di Caleno e Libo e quello imbarazzato di Lucio, sintomo che quando lei e Tito si erano appartati, la discussione iniziata in loro presenza era proseguita e, con ogni probabilità, non era stata piacevole.

Vedendo i due ragazzi, il Prefetto rilassò i lineamenti del viso, riuscendo anche a piegare le labbra in un sorriso. «Tutto a posto?» chiese loro. Lidia esitò, colta alla sprovvista da quella domanda così semplice. Avrebbe voluto rispondere di sì – una risposta convenzionale, anche se non del tutto sincera – ma la consapevolezza di aver fatto credere a Tito di avere intenzione di tornare a Roma con lui, quando invece i suoi progetti erano ben altri, le soffocò in gola quella sillaba.

«Tutto a posto» rispose però per lei il ragazzo. «Lidia ha solo bisogno di un po’ di tempo per riordinare un po’ le idee.» La fanciulla gli lanciò un’occhiata in tralice: non era certa che quell’affermazione riassumesse alla perfezione ciò che si erano detti. Prima che potesse fare una qualsiasi precisazione, però, il Prefetto le si avvicinò di qualche passo. «Non abbiamo molto tempo a disposizione, Donna Lidia.»

La ragazza voltò il capo di lato, cercando di sottrarsi allo sguardo insistente dell’uomo. «Tito mi ha detto quello che è successo» mormorò. «Però devo valutare cosa sia meglio fare. Mi serve qualche giorno per capire come…»

«La cosa migliore da fare è lasciare il villaggio non più tardi di domani» la interruppe Caleno. Prima che la fanciulla potesse replicare, però, Quinto si intromise nel discorso. «Se permetti, Prefetto, questa è una valutazione che spetta a me. La tutela della sicurezza dei nostri cittadini è affidata ancora a me, se non mi sbaglio.» Nell’udire quelle parole, il soldato gli rivolse uno sguardo decisamente infastidito. «Lo so bene. Tuttavia, la mia posizione mi consente di avere una visione più accurata di quello che succede in queste terre. Se c’è un pericolo, io lo individuo prima di te: forse faresti bene ad ascoltarmi, anziché continuare a ostacolarmi per inutili questioni gerarchiche.»

Malgrado il tono tagliente con cui l’uomo aveva pronunciato quelle parole, Libo sostenne il suo sguardo, impassibile. «Le questioni gerarchiche, come le chiami tu, sono le uniche in grado di garantire l’ordine e la sicurezza in un momento in cui, forse, qualcuno potrebbe avere interesse a sovvertirle.»

Caleno lo fissò per qualche istante, poi scosse il capo, un sorriso ironico disegnato sul volto. «Lo vedi?» commentò, con una nota di disprezzo nella voce. «Tu non sei in grado di interpretare la situazione. Vedi i nemici sbagliati e, così facendo, ignori quelli reali. Non è forse un atteggiamento pericoloso, questo?»

Libo si irrigidì e sostenne lo sguardo del Prefetto, le labbra stirate in una linea dura. «Ne discuteremo in un altro momento» disse, poi. Il sorriso del soldato si allargò, segno che quella velata minaccia non aveva sortito l’effetto sperato. Ignorando quella reazione, il Legato si voltò verso Lidia. «Adesso, però, è tempo di riaccompagnare Donna Lidia a casa. L’abbiamo trattenuta fin troppo.»

La ragazza si sarebbe aspettata che Caleno protestasse, ma l’uomo rivolse loro un cenno d’assenso, prima di girare sui tacchi e tornare a sedersi dietro alla sua scrivania. «Bene. Però ricordati di quello che ti ho detto, Lidia: non abbiamo molto tempo. Aspetta un giorno di troppo, e potresti pentirtene.» Al suo fianco, la fanciulla sentì Tito inspirare profondamente e, lanciando un’occhiata al suo volto, vide, dalla sua espressione ansiosa, che il ragazzo condivideva le preoccupazioni del Prefetto. Quella consapevolezza le provocò un fremito di fastidio: più conosceva Caleno e meno le piaceva il suo atteggiamento. Perché invece Tito sembrava pendere dalle sue labbra in quel modo? «Ci penserò» disse, stupendosi quasi del tono distaccato con cui aveva pronunciato quelle parole.

Quasi inconsciamente, Lidia incrociò lo sguardo di Quinto, che le rivolse un minuscolo cenno di assenso. «Molto bene» fece l’uomo. «Ti accompagno a casa.»

«Vengo anch’io» fece subito Tito, ma il Legato levò una mano, fermandolo prima ancora che il giovane potesse muovere un passo. «Non credo che sia una buona idea farsi vedere troppo vicini a casa sua, visti i tempi che corrono. Rischieresti di metterti in pericolo, ragazzo, e io non posso permetterlo.»

Lidia non poté fare a meno di rivolgergli un’occhiata colma di gratitudine – il suo cuore aveva avuto un sussulto all’idea che Ulf si trovasse a tu per tu con Tito così, senza che lei avesse prima la possibilità di annunciargli la presenza del ragazzo.  Il giovane romano parve sul punto di protestare, ma Caleno scosse il capo, facendogli capire che, in quel momento, era inutile insistere. «Lucio», disse, rivolto al soldato biondo che aveva condotto Lidia al campo, «li riaccompagnerai a casa tu.»

«Sissignore» annuì subito il ragazzo. «Posso salutarti?» chiese invece Tito, rivolgendosi direttamente a Lidia. Non vedendo alcun motivo per rifiutare, lei annuì. C’era qualcosa di diverso, ora, negli occhi del giovane, una luce determinata che non aveva scorto, prima, quando avevano discusso nella segretezza della stanza privata del Prefetto. Cingendole le spalle con le braccia, Tito l’attirò a sé in un abbraccio che, per quanto affettuoso, rimaneva comunque rispettoso dei ruoli e delle distanze. «Possiamo incontrarci ancora, tra qualche giorno?» chiese, dopo qualche istante, allontanandosi leggermente da lei. «Così mi dirai quello che hai deciso.»

Conscia di aver già preso una decisione – una decisione che sarebbe risultata sgradita a Tito, per la precisione – Lidia resistette a malapena alla tentazione di abbassare lo sguardo, poi rivolse un debole sorriso al ragazzo. «Naturalmente» mormorò. «Perfetto» sorrise lui, abbracciandola di nuovo. Con un movimento quasi impercettibile, Tito avvicinò le labbra all’orecchio della fanciulla. «Io non mi arrendo, sai?» sussurrò, con tono talmente basso che solo lei poté sentirlo. Lidia sgranò gli occhi, allontanandosi da lui quel tanto che bastava per guardarlo in volto e chiedergli silenziosamente una spiegazione. Il giovane si limitò però a rivolgerle un sorriso placido e, senza aggiungere una parola, retrocedette fino a sfiorare la scrivania alle sue spalle. Sentendosi al centro dell’attenzione e avvertendo gli sguardi dei presenti puntati su di lei, Lidia deglutì a vuoto ed evitò di fare domande – almeno ad alta voce. Cosa voleva dire? Si chiese, però, inquieta.  In che senso “non si arrende”? Vuole che io lasci Erding oppure vuole che io lasci… Ulf? In cuor suo, la ragazza conosceva già la risposta, ma si rifiutò di credere che, dopo quello che si erano detti pochi minuti prima, Tito avesse scelto di ritornare comunque sulle sue posizioni iniziali, eliminando con un singolo colpo di spugna tutto ciò che lei aveva cercato di fargli capire.

«A presto, Lidia.» La voce del Prefetto la fece quasi sussultare e la ragazza di riscosse, incontrando per un istante gli occhi verdi del soldato. «Sì… a presto» mormorò. Libo le posò una mano sulla spalla e, quasi senza lasciarle il tempo di scoccare un’ultima occhiata a Tito, la guidò fuori dalla tenda. Nonostante la confusione che le ultime parole del ragazzo avevano suscitato in lei, la fanciulla non poté fare a meno di notare che il legato sembrava avere una gran fretta di lasciare il campo. «Figlio di puttana» ringhiò improvvisamente l’uomo, sottovoce, facendola sobbalzare con quell’imprecazione inaspettata.

Quando ebbero oltrepassato il vallum, Quinto si voltò verso Lucio, che li seguiva a pochi passi di distanza. «Devo parlare con Donna Lidia» disse, con voce asciutta.  «In privato.» Il soldato si rabbuiò. «Il Prefetto mi ha chiesto di riaccompagnarvi a casa…» obiettò, ma Libo non gli lasciò terminare la frase. «E lo farai», disse, «ma a qualche metro di distanza.»

Lucio aggrottò la fronte, visibilmente contrariato, ma non si oppose all’ordine di quello che, in fin dei conti, era pur sempre un suo superiore. Quando fu certo di essere fuori dalla portata delle orecchie del giovane, l’uomo si avvicinò un altro po’ alla ragazza. «Non fidarti di Caleno, Lidia» le sussurrò. «Perché?» indagò lei, desiderosa di scoprire cosa si celasse dietro l’evidente antipatia che aveva percepito tra i due uomini.

«Quello che dice non coincide mai con quello che pensa veramente» fece il Legato, cupamente. «Anche se non ho mai trovato il modo di dimostrarlo, sono sempre stato convinto che il concetto di lealtà gli sia del tutto estraneo. Tradirebbe qualsiasi ideale e qualsiasi amico, se la cosa gli sembrasse vantaggiosa.»

Lidia aggrottò la fronte, credendo di indovinare dove volesse andare a parare. «Anche Roma?» chiese. Libo esitò per un istante soltanto. «Non posso dimostrarlo», ripeté, «ma sì, sono convinto che tradirebbe anche Roma.»

La ragazza rimase in silenzio per qualche secondo, cercando di ricordare se avesse mai percepito qualcosa che potesse dare valore alle parole di Quinto. Strano, pensò, non ho mai avuto l’impressione che Caleno non fosse fedele a Roma... anzi.  «Perché mi stai dicendo queste cose?» chiese allora, alzando lo sguardo sul suo accompagnatore.

Libo la osservò con la coda dell’occhio. «Perché credi che ti stia aiutando a scappare con quel ragazzo?»

A quella domanda, la fanciulla avvampò. «Non voglio scappare con lui!» si difese, prima di rendersi conto di aver parlato con voce un po’ troppo alta. «All’inizio pensavo… pensavo di andare via, ma adesso non più» spiegò allora, più piano. «Sto bene, qui.»

Quinto sospirò. «Lidia, non devi giustificarti con me. O, meglio: teoricamente sì, dovresti farlo, ma…» La ragazza lo interruppe. «No, Legato, dico sul serio. Io non ho più nessuna intenzione di andare via. Solo… solo, non ho avuto il coraggio di dirlo a Tito. Non così brutalmente, almeno. Temo di avergli lasciato qualche speranza di troppo.»

L’uomo le rivolse un’occhiata di commiserazione, poi sorrise. «Be’, se hai deciso di rimanere con tuo marito, la cosa non può che farmi piacere. Questi matrimoni non fanno miracoli, ma sono comunque meglio di niente. Non hai risposto alla mia domanda, però.» Lidia, che già si era dimenticata cosa le avesse chiesto l’uomo, lo guardò smarrita. «Eh?»

«Ti chiedevo perché, secondo te, Caleno vuole che tu scappi con quel ragazzo» ripeté, prima di rispondersi da solo: «Spera di destabilizzare un po’ la situazione. Spera che la voce si diffonda e che altri ragazzi e altre ragazze nella tua stessa situazione prendano esempio da te. Sai che, la scorsa settimana, un’altra giovane avrebbe dovuto venire qui a Erding?»

La notizia la sorprese. «Davvero?»

Il Legato annuì. «Sì. Ma Caleno ha convinto il padre a non lasciarla partire. Non so come abbia fatto, ma è palese che sta remando contro. Vuole che queste tensioni si trasformino in guerra, in scontro aperto, perché così… bah, immagino che creda di poter approfittare del rimescolamento che ne seguirebbe per avere un avanzamento di carriera. E scommetto che ci riuscirebbe anche: non sarebbe la prima volta, del resto.»

Quell’osservazione colpì la ragazza. «In che senso?» chiese, ma Libo scrollò le spalle. «È una storia vecchia, non vale la pena di rivangarla. È solo per farti capire con che tipo di persona hai a che fare.»

Assurdamente, Lidia provò l’istinto di proteggere il Prefetto. «Però», azzardò, sperando di non offendere Quinto, «non si può dire che, se la situazione sta degenerando, la colpa è tutta di Caleno… no? Ho sentito che è stata uccisa della gente, e non mi risulta che l’abbia uccisa lui…»

«No, hai ragione: sfortunatamente, anche i germanici ce ne stanno mettendo del loro.»

Improvvisamente, come per un collegamento di idee, Lidia vide la possibilità di far luce su un dettaglio che aveva attirato la sua attenzione tempo prima. «Legato? Cosa mi dici di Donna Erin?» Apparentemente sorpreso da quella domanda, l’uomo rallentò il passo. «Cosa vorresti sapere?»

Rendendosi conto di aver fatto una domanda troppo vaga, Lidia si affrettò a riformulare. «Ho visto… tempo fa, quando sono stata a casa di Donna Erin per ritirare una lettera indirizzata a me, vi ho trovato il Prefetto. Lui e la sacerdotessa mi sembravano amici…»

Inaspettatamente, Quinto scoppiò a ridere, senza nemmeno preoccuparsi di non farsi sentire da Lucio. «Amici? Una definizione interessante, senza dubbio!» Arrossendo, la fanciulla si mordicchiò le labbra. «Be’, amici o… altro» concesse. «Ecco… io mi chiedevo se fosse normale che una sacerdotessa germanica e un prefetto di Roma fossero in rapporti tanto intimi.» Quando vide che Libo si limitava a fissarla in silenzio, Lidia provò a spiegarsi meglio. «Tu dici che Caleno non è fedele a Roma, ma se invece fosse Donna Erin, a non essere fedele alla Germanica? C’è chi dice che le offerte…»

«… finiscano nelle tasche dell’Imperatore» concluse per lei Quinto, con voce stanca. «Be’, non è così. O, se è così, è una cosa talmente segreta che pure io ne sono all’oscuro.»

La fanciulla chinò il capo, non sapendo se credere fino in fondo alle parole del Prefetto: del resto, quante probabilità c’erano che Quinto le confidasse un segreto tanto delicato? «Ma non credi che Donna Erin possa collaborare in qualche modo con Roma?» insistette, cercando di capire se vi fosse un fondo di verità nelle teorie che Ulf le aveva esposto qualche tempo prima.

L’uomo scosse la testa. «La colpa di Donna Erin è di essersi innamorata dell’uomo sbagliato» disse, mestamente. «Già il fatto che si sia innamorata è piuttosto negativo, data la sua posizione, ma questa storia con Caleno – che va avanti da anni, per inciso – non le porterà nulla di buono. Forse al momento al Prefetto fa comodo averla accanto a sé, ma non si farà problemi a tradirla e a gettarla via, quando e se riterrà conveniente farlo.»

Lidia alzò su di lui uno sguardo dubbioso. «Non mi sembra che la cosa ti interesse più di tanto» commentò, sperando di non risultare maleducata. Lui si strinse nelle spalle. «Io nutro una certa stima per la nostra sacerdotessa, la ritengo una donna intelligente e profondamente votata alla sua causa… ma non è di lei, che mi devo preoccupare. Io devo curarmi di te e di tutti i nostri concittadini: i germanici non sono affar mio. Non dico che di loro non mi interessi niente, ma non sono la mia priorità… è Donna Erin è adulta: dovrebbe essere in grado di badare a se stessa.»

La ragazza annuì in silenzio, cercando di riordinare le idee. A meno che Quinto non le stesse mentendo spudoratamente – ma perché avrebbe dovuto farlo? – l’unico collegamento tra la Sacerdotessa e Roma era costituito da Caleno: questo significava che la donna non era la doppiogiochista che Ulf si immaginava. Ma allora chi se le prende, le offerte? Davvero i sacerdoti, come sostiene Unna? Ricordando la conversazione che aveva avuto qualche tempo prima con suo marito, Lidia fu tentata, per un brevissimo istante, di chiedere a Libo se avesse mai visto o sentito parlare della macchina misteriosa che, a detta di Ulf, prelevava le offerte. Dopo qualche istante, però, la giovane scosse il capo, come per allontanare quei pensieri. Cosa importava, dopotutto? Qualunque fosse la verità, restava il fatto che ormai le cose erano andate troppo avanti e che, per evitare di venirne travolti, lei, Ulf e gli altri non potevano fare altro che allontanarsi il prima possibile da Erding, raggiungendo un posto sicuro.

Mentre era immersa in quei pensieri, Lidia si accorse con sorpresa che lei e i suoi due accompagnatori giunsero davanti alla porta di casa. Voltandosi verso i due romani, sorrise appena. «Vi ringrazio per avermi riaccompagnata a casa» disse, rivolgendo loro un cenno del capo.

«Buonanotte, Donna Lidia» mormorò Quinto. «Cerca di riposare, stanotte.»

La fanciulla chinò il capo in un ringraziamento silenzioso, poi volse loro le spalle, affrettandosi a rientrare in casa. Quando l’uscio si richiuse alle sue spalle, Lidia tirò un sospiro di sollievo, per poi sussultare scorgendo la figura seduta al tavolo. «Ulf!» esclamò, portandosi automaticamente una mano al petto. «Non ti avevo visto!»

Avvolto nella penombra rischiarata solo dalla luce di una candela, l’uomo si alzò. «Ho preferito aspettarti, prima di andare a letto. Hai fatto in fretta.»

Lidia non riuscì a nascondere una smorfia dispiaciuta nel notare che la sua voce suonava più fredda del solito. «Sì» confermò cautamente. «Unna?»

Ulf sospirò. «L’ho accompagnata a casa.» L’uomo si appoggiò al bordo del tavolo, fissandola con le braccia conserte; e Lidia copiò la sua posizione, appoggiandosi alla credenza. «Allora?» gli chiese, impaziente di sapere se Unna gli avesse parlato del motivo della loro presenza in paese.

«Allora?» le fece eco lui. «Dimmelo tu.» Lidia represse un sospiro stanco, sentendo di non avere la forza di affrontare una discussione con lui, non dopo quella appena avuta con Tito. «Unna ti ha detto perché siamo tornate qui?»

Ulf sbuffò, sarcastico. «Certo: vorreste che io e Karl mollassimo tutto e scappassimo via. Un piano davvero geniale.»

Lidia strinse i denti, irritata dal suo tono beffardo. «Non sarà un piano geniale, ma restare qui è ancora più stupido. È troppo pericoloso!» sbottò.

«Ed è per questo che tu e Unna non sareste dovute tornare!»

«E voi?» ringhiò Lidia, avvicinandosi fino a trovarsi a una decina di centimetri da lui.

Ulf fece per rispondere, ma poi sospirò e si passò una mano sul volto, visibilmente stanco. «Lidia, per favore» mormorò, abbassando lo sguardo su di lei. «Ho passato l’ultima ora e mezza a litigare con mia sorella: non potremmo rimandare questo discorso a domani?»

La ragazza scosse il capo. «No, io voglio…» Notando lo sguardo esausto di Ulf, però, la fanciulla si interruppe, prima di inspirare profondamente. «E va bene», concesse poi, «però domani ne parliamo.»

«Certo» le promise il giovane, alzando una mano per sfiorarle una guancia. «Credi che per stanotte possiamo lasciar da parte le discussioni e riposarci un po’?»

Inclinando un po’ il capo verso la sua mano, Lidia fece un suono d’assenso. «Mi pare una buona idea.» Inclinando la testa all’indietro per osservarlo meglio, la giovane passò in rassegna ai suoi capelli spettinati, al suo viso teso e ai suoi abiti in disordine e sentì una profonda ondata d’affetto investirla. Chiudendo la distanza tra di loro, gli passò le braccia attorno alla vita e lo abbracciò, affondando il naso contro la sua maglia e respirando a fondo. È la scelta giusta, si disse, confortata, è la scelta giusta.

Dopo qualche istante, le mani dell’uomo le percorsero la schiena, fermandosi infine su suoi fianchi. «Cosa ti hanno detto? Perché il Prefetto ha voluto vederti?»

Senza allontanarsi da lui, Lidia alzò le spalle. «Dicono che, se le cose continuano così, potrebbe addirittura esserci una guerra civile» mormorò, inventandosi una risposta non troppo dissimile dalla realtà. «Secondo loro, queste zone presto diventeranno troppo pericolose per i romani. Dicono che forse dovranno farmi andare via.»

«Dicono?» le fece eco Ulf, scostandosi da lei solo di qualche centimetro.

«C’era anche Libo, all’accampamento. Lui non era molto d’accordo con la ricostruzione del Prefetto, a dire il vero. Secondo lui, Caleno sta esagerando.»

Pressata com’era contro il suo corpo, la giovane sentì i muscoli dell’uomo guizzare nervosamente. «Però è Caleno il soldato, forse lui è più affidabile di Libo…»

«Può essere. Io però non vado da nessuna parte» disse, come per affermare un dato di fatto. Ulf le sorrise e poi tornò a stringerla. «Vedremo» mormorò.

«Vedremo» ripeté lei, chiudendo gli occhi.

***

Posto un po’ più tardi del solito, ma i miei orari si fanno sempre più allucinanti e questo è sempre stato uno dei capitoli più problematici. Pur avendone riscritta una buona metà, mi sono accorta in extremis che c’erano ancora un sacco di cose che non andavano… anche adesso c’è ancora qualche “pezza” messa lì in qualche modo, ma dovrebbero essere più che altro dei dettagli che vedrò di sistemare più in là.

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Capitolo 24
*** 23. L'Ospite ***


Quando si svegliò, a mattina ormai inoltrata, Lidia si accorse di essere completamente sola, nel letto e nella camera. Quando fece per mettersi seduta, la fanciulla gemette, avvertendo una pressione dolorosa sopra all’occhio destro, simile alla puntura di uno spillone incandescente. Ho mal di testa, pensò, lasciandosi ricadere sul cuscino e cercando di dare una parvenza di coerenza ai suoi pensieri. Ho dormito poco e male. E si può sapere che fine ha fatto Ulf? Avremmo dovuto parlare…

Premendo il volto contro la stoffa ruvida nel tentativo di proteggersi dalla luce bianca che entrava dalla finestra, peggiorando la sua emicrania, Lidia mosse il collo a destra e a sinistra, cercando di sciogliere i muscoli che si erano contratti durante la notte. Non potrà evitarmi per tutto il giorno…

Malgrado la promessa che aveva fatto al marito quando era rientrata in casa, la sera prima, una volta che si era trovata con lui sotto alle coperte la ragazza era stata tentata di non aspettare la mattina seguente e di discutere immediatamente dei suoi piani di fuga da Erding. Tuttavia, prima che la fanciulla riuscisse a trovare un modo per introdurre l’argomento, l’uomo si era addormentato e lei aveva dovuto desistere. L’aveva osservato, mentre dormiva, e non aveva potuto fare a meno di fare un confronto tra lui e Tito. Erano così diversi: fisicamente, sì, ma anche caratterialmente. Anche se c’erano dei tratti del carattere di Ulf che ancora le sfuggivano, Lidia era abbastanza certa che in lui non avrebbe mai trovato la dolce pazienza con cui Tito le veniva in aiuto nei momenti di sconforto, né l’impulsività sconsiderata, ma coraggiosa, che il giovane romano aveva dimostrato nel momento in cui aveva deciso di portarla via dalla Germanica, andando contro alla volontà delle autorità e delle loro stesse famiglie. Tuttavia, Ulf aveva indubbiamente altre qualità: se non aveva interpretato male certi suoi atteggiamenti, l’uomo sembrava riconoscerle più capacità di quanto non avesse mai fatto Tito e, anche se talvolta le era capitato di pensare che suo marito mancasse un po’ di spensieratezza e di volontà di farsi trasportare dalla fantasia, Lidia apprezzava la sua capacità di analizzare la realtà e il suo essere con i piedi per terra. A parte quando si parla di Donna Erin, si disse poi, con l’accenno di un sorriso. Lì si che viaggia con la fantasia… Ammesso che non avesse ragione, ovviamente.

Più di tutto, però, Lidia si rendeva conto con una chiarezza nuova delle differenze nel modo in cui lei reagiva – e aveva reagito in passato – quando si trovava in compagnia dei due uomini, o quando comunque pensava a loro. Aveva creduto di amare Tito, ma, alla luce del nuovo sentimento che provava per Ulf, si avvedeva che quella che aveva provato per il ragazzo era, con ogni probabilità, una semplice infatuazione. E amicizia. L’amicizia era vera. Sarebbe ancora vera, se lui me lo permettesse e non si ostinasse a chiedermi qualcosa che non posso più dargli.

Ricordava con un sorriso i momenti vissuti insieme, le risate e gli scherzi e i pomeriggi in discoteca, gli sberleffi alle spalle dei genitori e le scappatelle indegne di una signorina per bene. Con Ulf non ho mai vissuto delle esperienze del genere, rifletté, arrossendo appena. Ma c’era tempo, naturalmente. Si conoscevano ancora da poco, e poi… E poi il resto è così diverso. Mi sento come se… come se…

Questo è amore? Si era chiesta, titubante, quasi sperando che non lo fosse, perché, se lo fosse stato, ci sarebbero state troppe ombre e troppe incertezze su quel sentimento che tutti le avevano sempre descritto come luminoso e indomito. Per come gliene avevano parlato, Lidia si era convinta che l’amore fosse un’emozione indomabile, un qualcosa che non conosceva limiti né ostacoli. Eppure, quello che provava per Ulf non era sufficiente per farle dimenticare il timore per una guerra forse imminente, né per distogliere la sua mente dalle tante cose poco chiare che la circondavano. Allo stesso modo, non aveva cancellato del tutto l’amarezza che provava ogni volta che ripensava al modo in cui Ulf aveva detto che lui non sarebbe mai stato romano, nemmeno in minima parte. E, soprattutto, non le aveva fatto pensare che forse – forse – avrebbe potuto rinunciare alle proprie radici e sentirsi, un giorno, germanica.

Se quello era amore, non era il sentimento che aveva sognato da sola nel suo letto, nelle ore più buie della notte. Eppure, nonostante l’incertezza e gli inizi burrascosi, decisamente non propizi alla nascita di un rapporto stabile, Lidia sentiva che con Ulf aveva la possibilità di costruire qualcosa di vero e di duraturo, qualcosa che con Tito non avrebbe mai potuto creare. Avevano solo bisogno di tempo.

Le cose sono già migliorate molto, rispetto ai primi tempi. Poi era arrossita, vergognandosi persino con se stessa. E poi mi piace. Eh, sì… Guardando la figura addormentata dell’uomo, Lidia aveva provato un irriverente senso di soddisfazione. Ed è tutto mio!

Sì, più ci pensava e più era convinta che le cose tra lei e Ulf sarebbero potute andare bene, non solo nell’immediato, ma anche negli anni a venire. Per costruire una vita insieme, però, Lidia sentiva che lei e il marito dovevano imparare a parlare e discutere con più facilità, ad essere più sinceri, anche a fidarsi di più l’uno dell’altra. Per fare questo, però, abbiamo appunto bisogno di tempo. E se il Prefetto e Tito hanno ragione, restando qui potremmo non averne a sufficienza.

In realtà, malgrado gli avvertimenti ricevuti da più parti e le cupe previsioni fatte da entrambe le fazioni, Lidia non riusciva a prendere sul serio l’ipotesi di una guerra. Certo, comprendeva la gravità degli eventi recenti e si rendeva conto dell’atmosfera tesa che regnava in paese tra Romani e Germanici: in un certo senso l’aveva anche sperimentata sulla propria pelle con la mezza aggressione di cui era stata vittima tempo prima. Eppure, quello che agli altri sembrava un conflitto imminente, a lei pareva solo una prospettiva vaga e remota, qualcosa che, se anche si fosse verificato, non l’avrebbe toccata di persona. Cionondimeno, la fanciulla non intendeva correre rischi.

Gettando indietro le coperte, la giovane si schermò gli occhi per evitare che la luce del sole peggiorasse il suo mal di testa e, dopo essere velocemente passata dal bagno, indossò una veste pulita, apprezzando la sensazione del cotone leggero a contatto con la pelle. Poi uscì dalla camera, decisa ad andare a cercare suo marito. Sarà andato in bottega, rifletté, rendendosi conto di aver dormito più di quanto avrebbe voluto.

Quando raggiunse la cucina, però, la fanciulla sussultò, in preda alla sensazione di essere tornata indietro nel tempo. «Donna Edda!» L'anziana germanica si voltò a fronteggiarla, posando lo straccio nel lavello, e Lidia indietreggiò davanti al suo sguardo aggressivo. «Dormi troppo!» la apostrofò, fissandola con i suoi occhi di ghiaccio.

La ragazza annuì, imbarazzata. «Ero stanca» Si giustificò, prima di guardarsi attorno. «Perché sei qui? Dov'è Ulf?»

«Da suo padre» rispose la donna, sbrigativa. «Siedi e mangia, veloce. Che poi devi lavorare.»

Senza riuscire ad opporsi alla volontà di Donna Edda, la fanciulla si lasciò scivolare sulla panca, accettando la brocca di latte che la germanica le stava porgendo. «A casa di suo padre?» chiese, sorpresa. «Come mai?»

«Questa notte hanno rubato l'argento per la prossima offerta.» Il biscotto che Lidia stava intingendo nel latte si inzuppò così tanto che si spezzò e cadde nella tazza, ma la ragazza non vi badò. «Rubato? Chi? E come si fa a rubare tutta quella roba?»

Donna Edda stirò le labbra, frustata. «No, non rubato. Im Beschlag gnoh... Preso in soc… sec...» La donna si interruppe, alla ricerca di una parola che non ricordava più. Vedendola in difficoltà, Lidia provò ad andare in suo aiuto. «Sequestro? L'hanno sequestrato?»

«Jo», confermò l'anziana germanica, annuendo energicamente, «minatori e artigiani.»

«Sören?» Chiese la fanciulla, ricordando l'uomo dagli occhi d'ambra.

«Sì, anche lui.»

«E Karl?»

Questa volta Donna Edda scosse il capo. «No, lui no.»

Lidia si concesse un breve sospiro di sollievo, ma subito l'inquietudine tornò a impossessarsi di lei. «Ma perché l'hanno fatto? Donna Erin non la prenderà bene...»

«Loro vogliono tenere l’argento. Non vogliono che qualcuno lo porti via. Ma sono stati stupidi e Gefrid è molto... Nervoso.» Mormorò l'anziana germanica, soppesando le parole. «E Ulf anche, immagino» sussurrò la giovane, parlando quasi tra sé e sé. «Sì» confermò Donna Edda, prima di lanciarle un'altra occhiataccia. «Non dovevi venire. Testa dura, come Unna.» Lidia le rivolse uno sguardo carico di scetticismo: si potevano dire molte cose di Unna e lei, ma che fossero simili non era certo una di queste.

Rinunciando a ribattere e tornando a dedicarsi alla sua colazione, la ragazza sospirò, sentendosi in colpa. Era tornata a Erding carica di buone intenzioni, ma, dopo una sola nottata trascorsa in città, iniziava a rendersi conto che seguire Unna e abbandonare la sicurezza dell'alpeggio non era stata una grande idea. Ma ormai quello che è fatto, è fatto, si disse. Non resta che cercare di non peggiorare la situazione. Osservando cupamente il liquido bianco rimasto nella tazza di ceramica, Lidia sospirò. Spero solo che questo non significhi dovermene andare da qui senza Ulf.

Risoluta, la fanciulla ingoiò il resto della sua colazione. Devo andare da Unna. In altre circostanze non si sarebbe mai sognata di andare spontaneamente a far visita alla cognata, ma in quel momento sentiva il bisogno di confrontarsi con lei, di raccogliere le sue impressioni e di sentire se per caso lei avesse avuto più fortuna, con Karl.

Dopo aver lasciato la tazza nel lavello, la ragazza afferrò gli scarponcini e se li infilò rapidamente ai piedi. Stava per infilare la porta, quando la voce di Donna Edda la fermò. «Dove vai?» Sussultando, la giovane si voltò verso di lei, cercando di mostrarsi determinata. «Ho bisogno di parlare con Unna.»

L’anziana germanica però scosse il capo, marciando verso di lei e afferrandola per un polso. «No», scandì, guardandola negli occhi, «è pericoloso, fuori, per te. Ulf ha detto che devi rimanere in casa. E c’è anche tanto lavoro da fare.» Per una frazione di secondo, Lidia fu tentata di obiettare e di lottare per difendere la propria volontà, ma si rese ben presto conto che sarebbe stata fatica sprecata. Chinando il capo con un sospiro, prese una spugnetta e iniziò a pulire il tavolo.

E va bene, si disse, diamoci alle faccende domestiche. Tanto Ulf deve pur rientrare, prima o poi!

***

E Ulf rientrò, sì, ma non prima delle tre di pomeriggio. Lidia avrebbe voluto interrogarlo subito, chiedergli ogni particolare di quello che era accaduto durante la notte, ma l’espressione tirata sul viso dell’uomo la frenò. Entrando in cucina, il giovane rivolse appena un cenno di saluto alle due donne e poi sparì di sopra. Lidia e Donna Edda si scambiarono un’occhiata, sconcertate. «Dici che mi convenga seguirlo?» chiese la fanciulla, smarrita. Normalmente non avrebbe avuto dubbi, ma quando suo marito era di cattivo umore finivano sempre per litigare; e una discussione con lei non l’avrebbe di certo aiutato, in quel momento.

Donna Edda rimase per un attimo in silenzio, gli occhi offuscati dall’età puntati sul punto in cui il nipote era sparito, poi annuì. «Vai» disse, una parola che alle orecchie della giovane suonò, più che come un incoraggiamento, come un ordine.

I dodici gradini che separavano la cucina dal piano superiore le parvero molto più ripidi di quanto fossero solitamente e, quando poggiò il piede sul pavimento scricchiolante del corridoio, Lidia sentiva il cuore battere all’impazzata. Adesso non dire niente che possa irritarlo, le raccomandò la vocina che di tanto in tanto si manifestava ancora nella sua testa.

La fanciulla si fermò di fronte alla porta della camera da letto, chiedendosi se fosse il caso di bussare, poi, inspirando risoluta – è anche camera mia! – sospinse il pannello di legno, socchiudendo l’uscio. «Posso?» chiese, cercando di mantenere un tono neutro, né troppo timido, né troppo aggressivo. Il giovane non le rispose e Lidia vide che era seduto alla piccola scrivania che non gli aveva mai visto usare nemmeno una volta. «Che cosa stai facendo?» gli chiese, aggrottando la fronte. «Mi serve dell’inchiostro» mormorò lui, spingendo la mano più a fondo in uno dei cassetti. «Ma questi barattoli sono tutti secchi» aggiunse, alzando nella sua direzione una boccetta di vetro nella quale si era raggrumato un poco di materiale nerastro.

Storcendo il naso di fronte a quella risposta, Lidia si allontanò dalla porta e, quasi in punta di piedi, raggiunse il letto, lasciandosi scivolare sulla trapunta. «A chi devi scrivere?» indagò, mentre i suoi occhi danzavano sui fogli sparsi disordinatamente sulla scrivania, alla ricerca di un indizio.

«A un paio di persone nei villaggi qui attorno» fece Ulf, a mezza voce. Quando vide che la giovane romana non smetteva di guardarlo, l’uomo sospirò a fondo e ripose la boccetta vuota, girandosi per fronteggiare la ragazza. «Donna Erin vuole che io scriva ai capi dei villaggi vicini per raccontargli quanto sia meravigliosa la vita con una donna romana e quanto i matrimoni come il nostro siano fondamentali per la felicità e il benessere di tutti.»

Alla fanciulla non sfuggì il tono sarcastico con cui l’uomo aveva pronunciato quelle parole, né l’amarezza celata in esse, e la cosa le fece contrarre sgradevolmente lo stomaco. Ulf dovette leggere qualcosa sul suo volto, perché sospirò di nuovo e allungò una mano per sfiorarle uno zigomo con le nocche. «Lidia, non prenderla sul personale. Io sto bene con te, ma questo non significa che, improvvisamente, mi sia convinto che questa faccenda dei matrimoni combinati sia una buona idea.»

Abbassando gli occhi per una frazione di secondo, Lidia si mordicchiò le labbra. «No, hai ragione» concesse, poi. «L’idea di fondo continua a essere… sbagliata.» Ulf annuì e con le dita prese a tamburellare distrattamente sulla superficie della scrivania. Quando vide che non sembrava intenzionato ad aggiungere altro, Lidia si sporse leggermente verso di lui. «E quindi che cosa farai?» gli chiese, inclinando un poco il capo. Il giovane sbuffò. «Farò quello che vuole lei» sbottò, sprezzante. «Non è che abbia molta scelta.»

La fanciulla annuì. «È solo una lettera» fece, piano, in quello che le parve un tono ragionevole. «Non significa nulla.» Ulf le lanciò un’occhiata penetrante. «Significa molto, invece» la contraddisse. «Io posso anche dire che tra noi due va tutto bene, anche se, a dire il vero, non è che mi vada molto di parlare dei fatti miei. Ma come faccio a scrivere che questi matrimoni sono necessari e che, di conseguenza, anche la presenza di Roma è necessaria? Cosa mi dovrei inventare?»

«Anche perché tu non credi affatto che le cose stiano così, non è vero?» indagò la ragazza.

«Ovviamente no!»

«Mh.» Lidia si mordicchiò le labbra, pensierosa. «Ma non pensi che… non so, non pensi che, in un mondo ideale, Roma e la Germanica – ma non solo la Germanica, anche tutti gli altri popoli – potrebbero trarre un vantaggio dal fatto di collaborare? Se la gente venisse qui per prendere qualcosa, ma, in cambio, lasciasse qualcos’altro di altrettanto valido…»

Ulf scrollò le spalle. «Non lo so, non ci ho mai pensato molto, se devo essere sincero. Forse potrebbe essere così, ma cosa importa? Io parlo del mondo reale, non di quello ideale, e qui la situazione non è certo quella che dipingi tu. Qui, come avrai notato, Roma prende e in cambio non lascia praticamente nulla. Cosa ci ha dato tuo padre, di dote?»

Ricordando la sgradevole trattativa di cui era stata oggetto il giorno in cui era arrivata a Erding, Lidia gli lanciò un’occhiata risentita. «Duemila e trecento sesterzi» scandì, puntigliosa. Il giovane sorrise, sarcastico. «Appunto: quattro soldi. Senza offesa, eh!» aggiunse poi, stringendosi nelle spalle. La ragazza storse la bocca in una smorfia. «No, sono d’accordo: una miseria. Io valgo ben più di così.»

Questa volta, Ulf si lasciò sfuggire un accenno di risata. «Sicuramente» concesse, posandole una carezza sui capelli scuri. Lidia scostò bruscamente la testa, fissandolo accigliata. «Ero seria», protestò.

Ulf sorrise nuovamente. «Anch’io.» Sentendosi arrossire, Lidia ricambiò il sorriso e abbassò lo sguardo. «Ad ogni modo», riprese l’uomo, «il problema è che io non ho nessuna influenza sui Consigli degli altri villaggi. Anzi, a dirla tutta, non ho nemmeno nessuna influenza sulla gente di questo villaggio. Io posso anche andarmene in giro a raccontare che tu non sei un mostro, ma cosa cambierebbe?» Nell’udire quelle parole, Lidia fu brevemente distratta: prima di partire alla volta di Erding, aveva pensato al suo futuro marito come a un mostro. Possibile che anche lui avesse avuto dei pensieri simili nei suoi confronti? «Non capisco», continuò il giovane, «come faccia Erin a pensare che questa lettera possa servire a qualcosa. Nella migliore delle ipotesi, si faranno una risata e la butteranno nel camino.»

La ragazza sospirò, riconoscendo che, con ogni probabilità, Ulf aveva ragione. «Va be’, però non può nemmeno fare del male, no?» replicò, sollevando appena le spalle. L’uomo però scosse il capo, dubbioso. «Se la scrivo e la firmo, la gente crederà che io stia agli ordini di Erin – e la cosa non mi sta bene. Perderei… perderei ogni credibilità. Qualcuno potrebbe addirittura arrivare a pensare che io stia dalla parte di Roma e, ovviamente…» il giovane lasciò sfumare la frase con una smorfia amara e Lidia sospirò, portandogli una mano sul braccio nel tentativo di confortarlo. «Non puoi rifiutarti di scriverle?» indagò, pur sentendo di conoscere già la risposta. Così come si era aspettata, l’uomo scosse il capo e lei insistette. «Ma perché? Non puoi dire a Donna Erin la verità? Dille che non saresti convincente e che non riusciresti comunque a ottenere niente…»

«Non conosci la nostra Sacerdotessa» mormorò lui, scuotendo la testa. «Contraddirla non è prudente.»

«Ma perché?» sbottò Lidia, stanca di quelle mezze frasi circa la supposta pericolosità della donna, che non facevano altro che confonderle le idee, senza aiutarla a comprendere come stessero veramente le cose. «Non può costringerti!»

«Tecnicamente, potrebbe farlo» la contraddisse Ulf, asciutto. «Soprattutto adesso che, a quanto pare, ha preso il vezzo di circondarsi di soldati romani.»

«Donna Erin non è fedele a Roma» lo informò lei, di getto, ricordando ciò che Quinto le aveva rivelato la sera prima, mentre facevano ritorno dall’accampamento militare. «Me l’ha detto ieri il Legato. E ha detto anche che le offerte non vengono portate a Roma, diversamente da quello che credi tu.»

Il germanico le rivolse un’occhiata sarcastica. «E tu gli credi, ovviamente.» Infastidita dal tono accondiscendente del marito, la fanciulla scrollò le spalle. «Be’, Libo mi sembra una brava persona. Non mi ha dato l’impressione di essere un bugiardo.»

Per una frazione di secondo, la giovane credette che Ulf fosse sul punto di dire qualcosa, ma poi l’uomo parve mordersi la lingua. «Io dico solo che, in questo caso, potrebbe avere interesse a mentire. E comunque non è questo il punto: forse è vero che Erin non collabora con Roma. Forse è veramente fedele al suo ordine: la situazione non cambia. L’Alto Concilio è comunque pericoloso: se io la sfido così apertamente, potrebbero esserci delle conseguenze per me e per la mia famiglia. Anzi, sono praticamente certo che ce ne saranno.»

«Eppure, mi pare di capire che, ultimamente, ci sia parecchia gente che ha deciso di sfidare la sua autorità» commentò la ragazza. «Tua nonna mi ha detto quello che è successo con le offerte, questa notte.» Ulf contrasse i lineamenti in una smorfia che alla fanciulla ricordò il ringhio di un lupo. «Sono un mucchio di idioti. Ci tireranno addosso tanti di quei casini che nemmeno ti immagini…»

«Posso immaginarmeli benissimo, invece» lo contraddisse lei, intravvedendo improvvisamente l’occasione di ricondurre il discorso sull’argomento che più le stava a cuore. «Ed è proprio per questo che dico che, secondo me, è meglio allontanarsi da Erding, almeno per un po’.»

Ulf rimase brevemente interdetto del repentino cambio di argomento, poi serrò gli occhi, esalando lentamente. «Ancora con questa storia? Non posso mollare tutto e andarmene via.» Lidia corrugò la fronte, confusa. «Perché no?» Il giovane si sporse verso di lei. «Ho delle responsabilità qui… come anche mio padre, del resto. E, comunque, scappare via non è la soluzione.»

Nell’udire quelle parole, Lidia avvertì un sussulto: era forse la sua coscienza che le rinfacciava l’avergli taciuto la presenza di Tito, ricordandole, tra l’altro, dei suoi antichi piani di fuga? Incapace di sostenere il suo sguardo, la giovane abbassò gli occhi sui propri piedi e incassò il collo nelle spalle, senza badare a come quel gesto la facesse sentire simile a una bambina capricciosa. «Ma restare qui potrebbe essere pericoloso. Non hai paura che possa succedere qualcosa, nonostante i tuoi sforzi per impedire che questo accada?»

Con un movimento rapido, Ulf lasciò la sedia sul quale era seduto e si spostò sul letto, di fianco a Lidia. «Certo, che ho paura che succeda» mormorò. «E infatti non escludo di andare via da Erding, prima o poi. Ma non subito: prima devo – dobbiamo – assicurarci di aver fatto tutto il possibile anche per garantire la sicurezza del villaggio e della gente che ci abita.» Notando l’espressione poco convinta della giovane romana, l’uomo inclinò il capo di lato. «Non credi?»

Lidia esitò. In quel momento prendeva coscienza di qualcosa che, dopotutto, aveva sempre sospettato: a lei, di quello che succedeva al di fuori della ristretta cerchia dei suoi affetti, non è che importasse proprio un gran ché. Ovviamente, quella non era una risposta che poteva dare a Ulf. «Non lo so», nicchiò, allora. «Secondo me, è più importante la famiglia.»

Inaspettatamente, l’uomo sorrise. «Ma come? Proprio tu mi dici una cosa del genere? Pensavo che voi romani aveste un forte senso della società. Pensavo che il vostro Imperatore venisse prima di tutto, che Roma stessa venisse prima di tutto.» La ragazza si strinse nelle spalle: avrebbe dovuto essere così, in teoria. Per suo padre era certamente così. Ma non per lei. «Io nemmeno lo conosco, l’Imperatore», sospirò, «e, comunque, qui non siamo a Roma.» Prima che Ulf potesse controbattere, lei gli prese le mani nelle sue. «È solo che ho paura che succeda qualcosa. Hai ragione, forse avrei dovuto restare su in montagna con Linda, ma, se ti succedesse qualcosa, che cosa farei?» chiese, improvvisamente angosciata.

«Torneresti dai tuoi genitori» replicò l’uomo, pratico. Per qualche motivo, quella risposta le fece divampare una fiammata di rabbia all’altezza dello stomaco. Seguendo un collegamento che non era del tutto chiaro nemmeno a lei, il suo pensiero corse a Tito, che aveva lasciato Roma ed era corso da lei, riponendo una cieca fiducia nei sentimenti che la fanciulla provava per lui. Possibile che Ulf credesse invece che lei potesse lasciarsi alle spalle gli ultimi mesi così, con tanta semplicità? «Sì, come no!» ringhiò, sottraendo una mano dalla presa del giovane e usandola per colpirlo al petto. «Credi che non me ne freghi niente di te e che potrei tornarmene a Roma e riprendere la mia vita da dove l’avevo lasciata?»

«Non ho detto questo» ribatté lui, afferrandole nuovamente un polso. «Non ho detto questo» ripeté, con voce più morbida. «Pensavo solo che sarebbe la soluzione migliore, se qualcosa dovesse andare storto. Ma… non ho intenzione di correre dei rischi inutili. Né di farne correre a te o a Unna o a tutti gli altri. Devo solo sistemare un po’ di cose qui e poi, se sarà inevitabile, andremo via. Promesso.» Quella rassicurazione fece scivolare un sollievo caldo e liquido sulle spalle della ragazza, ma non fu in grado di spazzare via la tensione che ancora permaneva nel suo petto. Notando la sua espressione corrucciata, Ulf le coprì una guancia con il palmo di una mano. «E non credo che non te ne freghi niente di me: so che non è così.»

Quando non aggiunse altro, Lidia alzò gli occhi fino a incontrare quelli del giovane e sorrise debolmente nel trovare in essi una luce più calda del solito. Lui le percorse delicatamente la linea dello zigomo con il pollice, poi si chinò su di lei e la baciò. Rendendosi conto di quanto le fosse mancato quel contatto, Lidia sospirò, chiudendo gli occhi e abbandonandosi al suo tocco. Non richiesto, però, alla sua mente si affacciò il ricordo del bacio che Tito le aveva rubato la sera prima: il rimorso le pugnalò lo stomaco e, per una frazione di secondo, la fanciulla si irrigidì. Avvertendo la sua esitazione, Ulf si allontanò un poco da lei, posando la fronte contro quella della ragazza e cercando i suoi occhi.

Tito non c’entra niente, adesso, si disse Lidia, decisa. La sfiorò il sospetto che, se fosse stata sincera con il marito, quel bacio non avrebbe bruciato in quel modo, ma la ragazza si affrettò a scacciarlo e, intrecciando le dita dietro alla nuca del compagno, lo attirò nuovamente a sé. Lo baciò con più forza di quanto lui non avesse fatto un istante prima e Ulf si lasciò sfuggire un suono sorpreso, ma poi le sue mani si strinsero attorno alla vita della fanciulla e Lidia fremette, mentre il pensiero del giovane romano svaniva dalla sua mente. Istintivamente, la ragazza fece per avvicinarsi di più al compagno e fu sul punto di sistemarsi sulle sue ginocchia, ma la presa di Ulf si fece più salda e bloccò i suoi movimenti. «Non riuscirai a distrarmi» bofonchiò l’uomo, contro le sue labbra.

«Uh?» la fanciulla si allontanò leggermente da lui, un’espressione perplessa dipinta in volto, e il giovane sorrise. «In un modo o nell’altro, devo inventarmi qualcosa da scrivere: ho bisogno di concentrarmi» spiegò, prima di posare un altro rapido bacio sulla bocca della ragazza, stringendole brevemente il labbro inferiore tra i denti.

«Ah, d’accordo» sospirò lei, con appena una punta di delusione, salendo a giocherellare con i capelli chiari dell’uomo. Lui le portò una mano sul ginocchio e tamburellò con le dita. «Adesso vai» la esortò. «Devo buttare giù qualcosa; e devo farlo subito: tra poco più di un’ora, la Sacerdotessa vuole vederci a casa sua.»

Quella notizia mise subito in allarme Lidia, che raddrizzò immediatamente la schiena, turbata. «Vuole vederci? E perché?» Il giovane si strinse nelle spalle. «Dice di volerci parlare di alcune faccende importanti: sicuramente, si tratta di qualcosa che ha a che fare con ciò che è successo questa notte.»

Lidia annuì: effettivamente, quell’ipotesi era decisamente più plausibile dello scenario che, per una frazione di secondo, si era dipinto nella sua mente. Per qualche istante, infatti, la fanciulla aveva temuto che qualcuno – forse lo stesso Prefetto Caleno – avesse parlato a Donna Erin dell’arrivo di Tito e che adesso lei volesse chiedergliene conto. «D’accordo» disse, allora. «Ti lascio lavorare.»

Con un cenno del capo e con una notevole mancanza d’entusiasmo, Ulf tornò a sedersi alla scrivania e, rivolgendogli un’ultima occhiata preoccupata, Lidia lasciò la stanza, dirigendosi verso il piano inferiore e preparandosi a fare rapporto a Donna Edda.

***

Lidia accavallò le gambe, chiedendosi per l’ennesima volta perché fosse stata convocata anche lei: da quando erano arrivati, infatti, nessuno l’aveva degnata di un’occhiata ed era da circa un’ora che non faceva altro che ascoltare i discorsi altrui.

Quando erano giunti nella casa della Sacerdotessa, luogo in cui si sarebbe tenuto l’incontro, il servitore che li aveva accolti li aveva invitati ad aspettare nella stessa stanza in cui, la prima volta che Lidia aveva incontrato Donna Erin, avevano dovuto aspettare i suoi genitori. «Donna Erin vi riceverà presto» aveva comunicato loro l’uomo, mantenendo un contegno rigido e formale. «Al momento è impegnata con altri ospiti.»

Lidia aveva accettato l’invito dell’uomo e si era seduta, mentre Ulf era rimasto nervosamente in piedi accanto alla finestra, smuovendosi solo quando Gefrid e Hermann avevano fatto il loro ingresso nell’abitazione. Vedendo il suocero per la prima volta dopo più di un mese, Lidia aveva avuto un sobbalzo: sembrava stanco, decisamente invecchiato, e la sua andatura le parve ancora più incerta, come se, senza Hermann al suo fianco, non sarebbe stato in grado di reggersi in piedi. Il ragazzo, dal canto suo, aveva sul volto un’espressione determinata e, vedendoli l’uno accanto all’altro, la fanciulla si rese conto quanto padre e figlio si assomigliassero.

A differenza di Ulf e Unna, che avevano ereditato gli occhi chiarissimi da Donna Edda e, di conseguenza, dalla loro madre, Hermann condivideva con il padre lo sguardo verde-azzurro e il naso diritto. Con un velo di tristezza, Lidia si chiese se, in gioventù, Gefrid fosse stato bello come il figlio minore, se avesse avuto lo stesso sorriso allegro e le stesse fossette sulle guance; e poi si domandò se, crescendo e invecchiando, Hermann avrebbe assunto la stessa aria grave del padre, se si sarebbe incurvato e ingrigito nello stesso modo.

Dalla stanza in cui donna Erin discuteva con gli ospiti non giungeva alcun suono, ma, proprio quando Lidia iniziava a domandarsi se là dentro ci fosse realmente qualcuno o se si trattasse piuttosto di un qualche strano inganno, la porta si spalancò e un Quinto decisamente contrariato uscì dalla stanza. «Legato!» lo accolse Lidia, colta di sorpresa.

«Ciao, Lidia» la salutò lui brusco, tralasciando il Donna con cui si rivolgeva a lei solitamente. Gli altri tre uomini presenti lo guardarono con sospetto, ma il romano rivolse loro un sorriso teso, come per dire che non avevano motivo di considerarlo un nemico.

«La Sacerdotessa si è liberata?» chiese Gefrid, con voce roca, guardando con insistenza la porta che il legato si era chiuso alle spalle. Il romano scosse il capo. «No, sta parlando con Caleno, un Prefetto dell’esercito.»

Ah. Ecco spiegata la faccia di Quinto, pensò la fanciulla, ben memore della palese antipatia che regnava tra i due uomini.

Prima che nessuno dei presenti facesse in tempo ad aggiungere altro, però, la porta si aprì di nuovo, rivelando il Prefetto. Lidia non poté fare a meno di notare che era decisamente meno sorridente del solito. «Ti aspetto domani mattina, allora» disse Donna Erin, come per concludere una conversazione che nessuno aveva avuto modo di seguire, facendo capolino dall’uscio. «Come vuoi», fece l’uomo, senza voltarsi a guardarla, «ma vedi di risolvere questa faccenda. Non ho tempo da perdere.»

Ulf e il fratello si scambiarono una rapida occhiata, probabilmente sorpresi dal tono brusco dell’uomo, e a Lidia non sfuggì lo scintillio infastidito che per un istante balenò negli occhi della donna. Rivolgendo appena un cenno di saluto alla ragazza e ignorando tutti gli altri, il Prefetto infilò la porta, mentre la Sacerdotessa si schiariva la voce. «Prego, accomodatevi.»

E così Lidia si era trovata seduta su una delle poltrone di Donna Erin, ascoltando le rassicurazioni che, seppur controvoglia, Gefrid offriva alla Sacerdotessa. , comprendeva benissimo come la situazione attuale fosse inaccettabile. , restava naturalmente a disposizione nel caso in cui gli Alti Sacerdoti avessero voluto fare un sopralluogo in paese. , avrebbe fatto il possibile per ragionare con i minatori e fare in modo che essi comprendessero il loro errore. «In caso contrario», aveva commentato la donna di fronte a quell’ultima osservazione, «dovremo prendere dei provvedimenti contro i colpevoli.»

Dei provvedimenti, sì, ma non aveva specificato quali, accogliendo solo con un’alzata di spalle la successiva domanda di Gefrid, che chiedeva se tali provvedimenti prevedessero il coinvolgimento dell’esercito di Roma.

Tutto sommato, pensò Lidia mentre appoggiava il mento su una mano, cercando di nascondere la propria inquietudine, la conversazione parve svolgersi in modo piuttosto tranquillo, quasi che la Sacerdotessa considerasse l’intera faccenda come uno sgradevole imprevisto, qualcosa che dovesse essere risolto al più presto, certo, ma che non meritava però attenzioni eccessive. Tuttavia, forse perché influenzata dall’opinione che Ulf aveva della donna, alla fanciulla parve che sotto alla sua calma apparente vi fosse un pericolo in agguato, una gelida sicurezza che non prometteva nulla di buono, forse anche un’indifferenza sospetta. Incrociando lo sguardo di Ulf, vide che l’uomo aveva probabilmente avuto delle sensazioni molto simili.

«Molto bene» disse improvvisamente la Sacerdotessa, alzandosi in piedi. «Mi piacerebbe poter continuare a discutere qui, ma purtroppo ci servirà molto più spazio, ora. Per favore, vogliate seguirmi nel giardino sul retro.»

Gefrid e i suoi figli si scambiarono un’occhiata confusa. «Perché?» chiese l’uomo più anziano. Donna Erin sorrise. «Ho voluto vedervi da soli per assicurarmi la tua collaborazione in questa faccenda, Gefrid» spiegò, puntando gli occhi verdi in quelli del germanico. «Tuttavia, come capirai bene anche tu, la situazione richiede un confronto fra tutte le forze coinvolte: ho chiesto un incontro con i rappresentati dei minatori e con un paio di altre persone che credo siano interessate, ma è evidente che non posso ospitarli tutti qua dentro.»

Gefrid annuì, mentre un’espressione carica di sospetto gli si dipingeva in volto, e Ulf si avvicinò alla Sacerdotessa. «Mio fratello e mia moglie possono tornare a casa?» chiese. «A questo punto non credo che la loro presenza sia più richiesta, no?»

Donna Erin scosse il capo. «Il ragazzo può andarsene, se lo desidera», disse, «ma Lidia deve restare: è pur sempre la figlia di un senatore, non escludo che il suo punto di vista possa esserci utile.» La fanciulla la guardò, sorpresa e intimorita. «Ma io non so nulla di queste cose», disse, con un filo di voce, «e non so niente nemmeno di quello che fa mio padre, non ha mai voluto che io mi immischiassi in cose politiche.»

La Sacerdotessa la tranquillizzò, alzando una mano. «Non preoccuparti, cara: probabilmente non dovrai nemmeno aprire bocca. Ma saremo tutti più contenti, se ci sarai anche tu, se non altro per salvaguardare le apparenze.»

La giovane deglutì, nervosa, ma non trovò un argomento valido per opporsi alle parole della donna. Notando lo sguardo gelido di Ulf, la Sacerdotessa sospirò. «Devo chiedervi una cosa piuttosto delicata» disse, rivolgendosi a tutti ma guardando Ulf e Lidia in particolare. «Mi è giunta voce che in molti, qui al villaggio, credono che le offerte che doniamo agli Dèi non finiscano affatto tra le mani degli Dèi, bensì tra quelle di qualcuno che pensa di arricchirsi sfruttando le tradizioni del nostro popolo. Avete sentito parlare di questa teoria?»

Senza parlare, Ulf annuì, brusco, e Lidia lo imitò, offrendo alla donna un piccolo cenno del capo. «Perfetto» sospirò la Sacerdotessa. «A questo punto voglio che voi siate sinceri: credete nell’esistenza degli Dèi?»

Esitando solo un secondo, Ulf guardò la donna negli occhi, poi scosse il capo. «No.»

«Lidia?» chiese Donna Erin, spostando l’attenzione sulla fanciulla.

«Io… non lo so» mormorò la ragazza. «Non ne sono sicura.» Appena ebbe pronunciato quelle parole, Lidia incassò istintivamente il capo nelle spalle, come se si aspettasse una reazione violenta dalla Sacerdotessa, ma la donna si limitò ad avvicinarsi di un qualche passo alla coppia. «Ascoltatemi», disse, con voce quieta, «non posso certo costringervi a credere, la Fede è una conquista a cui ognuno deve giungere spontaneamente. Tuttavia, per quello che vale, posso assicurarvi che gli Dèi sono veri, esistono e agiscono nel mondo in maniera molto chiara. Anch’io ero scettica, quando avevo la vostra età, ma crescendo, com’è ovvio, non ho più potuto negare l’evidenza.»

Ulf inarcò un sopracciglio, poco impressionato dall’appassionato discorso della donna. «Quale evidenza?» la provocò. «Li hai forse visti, Donna Erin?»

La Sacerdotessa scosse il capo. «No, non li ho visti, ma ho visto le loro azioni.» Davanti allo sguardo interrogativo dei presenti, la donna parve gonfiarsi e farsi più grande, come per assumere più importanza. «Sono stata testimone del Flagello di Neniveh» proclamò; e Lidia corrucciò la fronte, sorpresa. Sapeva poco di quello che era accaduto alla città-stato di Neniveh, nei caldi deserti del Continente del Sud; e anche quelle poche e generiche informazioni erano avvolte da un velo di mito e di leggenda. Neniveh era stata una cittadina fiorente, con una ricca tradizione artistica e al centro di una fittissima rete commerciale, ma, secondo i racconti, l’arroganza dei suoi abitanti era cresciuta troppo, mettendo in pericolo le altre città-stato della zona; e così gli Dèi l’avevano punita radendola al suolo.

«Non credevo tu fossi così vecchia, Donna Erin» commentò ancora Ulf, sarcastico: la città era infatti stata distrutta una sessantina di anni prima ed era palese che, all’epoca, la Sacerdotessa non fosse ancora nata. La donna sorrise, ma i suoi occhi rimasero freddi, mostrando chiaramente quanto Erin fosse infastidita dalla mancanza di rispetto dell’uomo. «Non ho assistito direttamente al Flagello, naturalmente», disse, asciutta, «ma ho visto il luogo in cui sorgeva un tempo la città: credetemi, nessun’arma di questo mondo può causare una distruzione simile. Non ne è rimasto più nulla, solo poche macerie carbonizzate. Quello che è accaduto lì è stato così terribile che nessuno si è sognato di provare a ricostruire la città… anche perché si dice che, oltre ad averla distrutta, gli Dèi abbiano anche lanciato su di essa una maledizione che colpirebbe chiunque osi avvicinarsi troppo al luogo in cui sorgeva. Sono solo dicerie, da quanto mi risulta, ma ho sentito parlare di avventurieri morti in circostanze misteriose dopo che avevano cercato di profanare le rovine della città.»

«In più», continuò la donna, «qualche tempo fa ho avuto modo di parlare con alcuni dei pochi sopravvissuti. All’epoca era passato quasi mezzo secolo dal giorno della distruzione, ma quei vecchi ricordavano ancora ogni minimo particolare e nessuno di loro aveva il minimo dubbio: si trattava di una punizione divina, non di un’opera dell’uomo. E no, non guardarmi così, Ulf: nemmeno tu avresti dubbi, se avessi visto quello che ho visto io.»

Mentre l’eco delle parole della donna si spegneva, Lidia abbassò lo sguardo sulle proprie mani, combattuta: quando parlava in quel modo, credere a ciò che Donna Erin diceva diventava estremamente facile.

***

Poco più di mezz’ora più tardi, Lidia sedeva all’ombra delle pallide betulle che crescevano nel giardino della dimora di Donna Erin. Il piccolo spazio recintato era decisamente affollato e la torrida serata di luglio era resa ancora più calda dall’atmosfera arroventata che si respirava tra i partecipanti all’assemblea.

«L’unica cosa che ci farà riconsiderare la nostra posizione», scandì con voce sempre più alta l’uomo che si era eletto portavoce dei minatori, «sarà la ritirata dei bastardi romani!»

«Ewald!» lo ammonì Donna Erin, tagliente. «Modera i toni!»

«Li abbiamo moderati per troppo tempo» ringhiò l’uomo, di rimando, lanciando un’occhiata piena d’odio al Prefetto Caleno, in piedi alle spalle della Sacerdotessa.

«E noi ci siamo fidati per troppo tempo della parola di questa gente», ribatté il soldato, cupo, «e questo è stato sicuramente un grave errore. Ci saremmo aspettati maggiore collaborazione da parte degli Alti Sacerdoti, Erin: ma voi noi fate altro che parlare. Parlate, parlate, ma, alla fin dei conti, non fate niente di concreto per cambiare veramente le cose.»

«Adesso basta» sibilò la Sacerdotessa, chiaramente esasperata dai toni della conversazione. «Sedetevi, tutti e due, e lasciate che vi riporti alla mente la questione più urgente: oggi non stiamo parlando della contesa tra Roma e la Germanica, ma dell’assurdo capriccio per cui voi state privando gli Dèi delle offerte che spettano loro!»

Caleno sibilò, sarcastico, mentre l’uomo che rispondeva al nome di Ewald arricciava le labbra in una smorfia disgustata. «Gli Dèi…» ripeté, sprezzante. «Vogliamo davvero toccare questo argomento, Donna Erin?»

Gli occhi di Lidia saettarono dall’uno all’altro, mentre, intimorita e frastornata dalla discussione accesa, si avvicinava un po’ di più a Ulf, ricercando inconsciamente la sua protezione. «È proprio per questo che siamo qui» ribatté gelida la Sacerdotessa, senza raccogliere la provocazione dell’uomo. «Anzi, per questo motivo ho invitato qui una mia consorella, un’Alta Sacerdotessa: confido che almeno lei sia in grado di farvi ragionare. Chissà che un parere esterno non riesca ad aprirvi gli occhi.»

L’annuncio di Donna Erin non sembrò sortire un grande effetto e la discussione – e gli insulti scambiati tra le due parti – ripresero con lo stesso vigore di prima, fino a che, dopo quella che a Lidia parve un’eternità, la bambina che spesso accompagnava la Sacerdotessa fece capolino dalla porta sul retro e, dopo essersi guardata rapidamente attorno, si avvicinò timidamente alla donna.

Quando si accorse della presenza della piccola, la Sacerdotessa parve trarre un sospiro di sollievo. «È arrivata la nostra ospite?» chiese, mentre le voci dei presenti si abbassavano per un istante.

La bambina, però, scosse il capo e il sorriso di Donna Erin si spense lentamente. «C’è un signore», disse la ragazzina, con la vocina sottile e squillante, «però dice che ti conosce e che è qui al posto di Donna Agnes.»

Anche se la donna fu rapida a controllarsi, Lidia riuscì a scorgere un’ombra di confusione attraversare rapidamente il suo volto. «Be’», mormorò, lanciando un’occhiata verso la porta, «visto che ormai è qui, tanto vale farlo entrare. Va’ da lui, Susi, e digli che lo stiamo aspettando.»

La bimbetta bruna annuì e poi, veloce e silenziosa com’era arrivata, rientrò in casa. Fece ritorno una manciata di minuti più tardi e, quando l’ospite inatteso fece il suo ingresso in giardino, il cicaleccio che ancora vi regnava si spense completamente. Lidia si ritrovò a fissare il nuovo arrivato, completamente dimentica delle buone maniere.

Due cose erano indubbie: la prima era che quel giovane uomo dall’aspetto esotico non era certamente Agnes, e la seconda che, almeno a giudicare dall’espressione di Donna Erin, il suo arrivo non portava nulla di buono.

***

Mi sono presa l’influenza e mi stavo dimenticando di aggiornare, sorry. Stasera non ho riletto il capitolo: lo farò domani. Nel frattempo, se trovate qualcosa che non va, segnalate pure.

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Capitolo 25
*** 24. La legge degli Dèi ***


«Non era te, che stavo aspettando.» Nel rivolgersi al giovane sconosciuto, Erin aveva sussurrato ed era palese che non volesse che i presenti sentissero le sue parole, ma il silenzio che era calato nel giardino fece sì che esse venissero udite da tutti.

«Dati gli ultimi avvenimenti, il Sacro Consiglio ha ritenuto che fosse più opportuno mandare me, piuttosto che Donna Agnes.» A differenza di Donna Erin, lo sconosciuto non pareva preoccuparsi di tenere la voce bassa e le sue parole risuonarono forti e chiare nel piccolo spazio gremito di folla. Aveva un curioso modo di parlare, notò Lidia, la sua voce era vellutata, completamente priva di inflessione o accento e la fanciulla lo squadrò da capo a piedi, chiedendosi chi fosse e da dove venisse.

Di certo non è un germanico…

La ragazza sapeva che esistevano, nel Continente Sud, degli uomini dalla pelle così scura da sembrare nera. Quando era a Roma, le era capitato più e più volte di imbattersi in un suo concittadino originario delle terre del sud, ma non si sarebbe mai aspettata di trovarne uno in un villaggio sperduto come Erding. E, in più, c’era un che di strano nel giovane uomo appena comparso nel giardino di Donna Erin. Oggettivamente, lo sconosciuto era alto e con le spalle larghe, i muscoli ben formati visibili sotto ai vestiti chiari, eppure c’era qualcosa di estremamente aggraziato in lui, un’armonia leggera che non ci si sarebbe aspettati in un uomo della sua stazza. I lineamenti del suo viso erano insoliti, la mascella forte e i capelli neri, cortissimi, contrastavano con gli occhi dal taglio allungato e gli zigomi dalla curva elegante: in generale, c’era qualcosa di quasi magnetico nel suo volto e Lidia si trovò a osservarlo ben più a lungo di quanto l’etichetta e la buona educazione ritenessero accettabile. Interruppe quella sorta di intenso esame solo quando, dopo una piccola eternità, lo sguardo nero e liquido dell’uomo si scontrò con il suo. La fanciulla ebbe allora la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa che era altro e, spaesata e confusa, chinò il capo, abbassando gli occhi sull’erba verde del prato.

Per un qualche motivo, la vista di quell’uomo le riportò alla mente il primo incontro che aveva avuto con Donna Erin e la giovane ricordò di come avesse pensato, posando gli occhi sulla Sacerdotessa, che ci fosse qualcosa di strano in lei, qualcosa che la distingueva sia dai germanici, che dai romani. Ora, osservando quell’ospite inatteso, provava la stessa identica sensazione; e non solo perché il colore della sua pelle e la strana foggia dei suoi vestiti lo identificavano come non appartenente a nessuno dei due popoli: quello che era davvero fuori luogo era un certo non so che nel suo atteggiamento, forse la sua postura, forse quello che aveva letto nel suo sguardo nel breve istante in cui i loro occhi si erano incontrati. Con un brivido di sorpresa, Lidia si rese conto che quel qualcosa era ancora presente anche in Donna Erin, solo che l’abitudine l’aveva reso meno evidente ai suoi occhi.

Tornando a osservare di soppiatto l’uomo, la giovane si chiese quanti anni avesse. Se avesse dovuto giudicarlo solamente dall’aspetto fisico, avrebbe detto che lo sconosciuto avesse più o meno l’età di Ulf, forse addirittura qualche anno in meno, tuttavia la confidenza che animava la sua voce e i suoi gesti e la sicurezza che trapelava dal modo in cui si muoveva lo facevano sembrare molto più maturo e autorevole.

Prima che Lidia potesse inoltrarsi più profondamente in quei pensieri, però, la voce di Donna Erin la riscosse, spingendola a spostare di nuovo la sua attenzione sulla Sacerdotessa. «Avrei gradito essere avvertita per tempo di questo cambio di programma», disse secca la donna, che aveva impiegato qualche istante di troppo ad assorbire le parole dell’uomo e a trovare una risposta adeguata, «ma, visto che sei qui, immagino che tu debba restare.»

«Precisamente» confermò lui, con un cenno del capo, prima di raggiungere una delle panche di granito che adornavano il giardino e di sedervisi. Poi, senza aggiungere altro, estrasse dalla tasca quello che sembrava un piccolo taccuino. Donna Erin seguì i suoi movimenti, gli occhi verdi ridotti a due fessure. «Cosa stai facendo?»

«Prendo appunti», replicò, impassibile, il giovane, «così che io li possa trasmettere al Concilio, in caso di necessità.»

La Sacerdotessa fece per ribattere, ma il portavoce dei minatori la precedette. «Si può sapere chi sei, ragazzo? Mi pare di capire che non sei stato invitato: non intendo certo parlare dei miei affari di fronte a qualcuno che nemmeno si è presentato!»

Sentendosi apostrofare, il giovane sollevò lo sguardo dal taccuino, il volto liscio privo di ogni espressione. «Solo un esaminatore» disse, come se quella magra spiegazione potesse essere sufficiente per rispondere alla domanda del germanico.

«Quello che fratello Kay vuole dire è che è stato inviato dal Sacro Concilio per verificare lo stato delle cose qui a Erding. Avrei preferito avere qui con me Donna Agnes, dal momento che lei ha già avuto esperienze simili, ma non posso fare altro che piegarmi alla volontà del Concilio» disse, lanciando un’occhiata al giovane dalla pelle scura. Poi tornò a rivolgersi ai minatori. «E così farete anche voi.»

«Fratello Kay fa parte del Sacro Concilio dei Ssacerdoti germanici?» la domanda di Caleno avrebbe potuto sembrare innocente, se non fosse stato per il palese tono di scherno con cui era stata pronunciata. Donna Erin si girò di scattò, fulminando il romano. «Sì, ma opera nel Continente del Sud.»

«Ah, ecco» commentò il Prefetto, reclinandosi mollemente contro lo schienale della panca sulla quale era seduto e incrociando le gambe con aria rilassata. Non le crede, realizzò Lidia e, automaticamente, alzò lo sguardo verso Ulf, per giudicare la reazione del marito alle nuove rivelazioni. Il volto dell’uomo però era impassibile e la fanciulla non riuscì a leggervi nulla.

«Con chi sto parlando?»

La domanda costrinse Lidia a tornare di nuovo a concentrarsi sul giovane Sacerdote, che si era rivolto direttamente a Caleno, un’espressione altera sul volto dai tratti eleganti. Se lo sguardo nero e liquido dell’uomo l’aveva messo a disagio, il soldato non lo diede a vedere, perché, senza alterare la sua postura rilassata, rivolse allo straniero un sorriso forse fin troppo smagliante. «Publio Mario Caleno, Prefetto di Roma… residente a Erding da parecchi anni, ormai.»

Con un movimento quasi impercettibile della testa, il giovane scambiò un’occhiata con la Sacerdotessa. «Da quanti anni?» chiese poi, come se quel dettaglio fosse di qualche importanza. Il romano si strinse nelle spalle. «Parecchi» ripeté. «Da poco prima che Donna Erin arrivasse da queste parti, se non ricordo male.»

La donna annuì appena, confermando la versione dell’uomo, e il Sacerdote lo osservò ancora per qualche istante. Per una frazione di secondo, a Lidia parve di scorgere una lievissima increspatura nella sua espressione neutra, e la cosa la incuriosì. Si conoscono? Si chiese nuovamente, passando lo sguardo dal Prefetto all’uomo che la Sacerdotessa aveva chiamato fratello Kay. Dal modo carico di sospetto in cui i presenti scrutavano il nuovo arrivato, era abbastanza chiaro che nessuno di loro l’avesse mai prima d’allora, eppure Caleno, a differenza degli altri, non sembrava particolarmente sorpreso dalla sua presenza. Sapeva che sarebbe arrivato?

Ma era impossibile: Erin stessa era sorpresa dall’arrivo dell’uomo dalla pelle scura. Lanciando un’occhiata a Quinto, Lidia prese nota dell’espressione confusa disegnata sul volto del Legato. Quinto invece sembra non saperne di niente. Qui c’è sotto qualcosa, pensò, esattamente come diceva Ulf.

Ne era sempre più convinta, eppure, più il tempo passava e più iniziava a credere che Ulf avesse preso un abbaglio, almeno in parte. Forse, dopotutto, Quinto ha detto la verità: Donna Erin è fedele solo ai suoi Sacerdoti. E allora… allora Unna avrebbe ragione. Gli Dèi non esistono e tutta questa faccenda delle offerte non è che una trovata degli Alti Sacerdoti per arricchirsi alle spalle della loro gente! Più ci pensava, e meno l’idea le pareva inverosimile: dopotutto, non era stato proprio Ulf a dire, nell’unica notte che avevano passato insieme in montagna, che era ormai Donna Erin a tenere in mano le sorti del villaggio? E se anche in tutti gli altri villaggi la situazione fosse stata uguale? Possibile che i Sacerdoti si fossero a tutti gli effetti arrogati i poteri che un tempo spettavano ai Capi?

Ha senso! Pensò la fanciulla, in preda all’agitazione: del resto anche l’Imperatore aveva trattato con gli Alti Sacerdoti, quando aveva cercato una soluzione per mantenere la pace nelle regioni ai confini dell’Impero. Questo significa che anche Lui li considera la vera forza politica con cui trattare. E Caleno… forse Caleno sa più cose di Quinto, visto che lui e Donna Erin hanno una relazione.

Era una soluzione relativamente semplice e quasi perfetta. Quasi, ripeté Lidia, osservando con occhi nuovi i presenti. C’erano ancora alcuni particolari fuori posto, ovviamente, ma di certo era una spiegazione più concreta e meno fantasiosa di quella elaborata da Ulf. Devo parlargliene al più presto, si disse la fanciulla, anche se non capisco perché non ci abbia pensato anche lui. Voglio dire, perché tirare in ballo Roma, se la spiegazione potrebbe essere molto più immediata?

Tutta d’un tratto, l’entusiasmo della fanciulla si raffreddò bruscamente. Ah, già. La macchina volante e il sibilo nella notte. Ulf sosteneva che l’unica potenza ad avere accesso a una tecnologia simile fosse l’Impero… sì, ma potrebbe anche sbagliarsi. O forse…

Mentre era persa in quei pensieri, la trattativa tra minatori, romani e sacerdoti era andata avanti e all’improvviso un vociare concitato la strappò alle sue riflessioni. «La nostra presenza in questa regione non è in discussione!» stava tuonando Caleno: il Prefetto era balzato in piedi e, circondato com’era da tre o quattro soldati, sembrava in procinto di gettarsi addosso ad Ewald, il portavoce dei minatori. «Se qualcuno ha da ridire su questo punto», disse ancora il romano, gettando occhiate feroci tutt’attorno a sé, «vedremo di risolvere la controversia. Anche con le armi, se necessario!»

Prima che il germanico potesse replicare, Gefrid, che sino ad allora si era espresso molto poco, si alzò in piedi e levò una mano in direzione dei minatori. «Ewald», disse, senza alzare la voce, ma ottenendo comunque l’attenzione dell’uomo e dei suoi compagni, «silenzio. Non è questa la sede per discutere di questo argomento.»

Pur non conoscendo tutti i retroscena politici e strategici, Lidia intuì qualcosa di non detto dietro alle parole del suocero. Ewald, che probabilmente conosceva più dettagli rispetto alla giovane romana, parve cogliere il messaggio nascosto dietro le parole di Gefrid e, anche se chiaramente controvoglia, chinò bruscamente il capo in un cenno d’assenso.

«Gefrid ha ragione» disse Donna Erin, approfittando dell’attimo di calma per inserirsi nel discorso. «Oggi si discute delle offerte che non stiamo inviando agli Dèi. Vi ho convocati qui per trovare un punto d’accordo tra le parti: dal momento che vedo che, purtroppo, siamo ben lontani dal trovare tale accordo, desidero venirvi incontro.» Quelle parole parvero catturare l’attenzione dei presenti, che tacquero e si voltarono a guardarla. Prima di continuare, la Sacerdotessa parve trarre un minuscolo sospiro di sollievo. «Anche se sono convinta che i vostri timori siano infondati e le vostre richieste troppo difficili da esaudire», disse, rivolgendosi ai minatori, «comprendo il vostro punto di vista. Sfortunatamente, non posso permettervi di continuare la vostra protesta così come state facendo ora, perché, se trascurassimo gli Dèi, vi sarebbero sicuramente gravissime conseguenze: non devo certo portarvi degli esempi tratti dalla storia più o meno recente, sapete tutti cosa accade a coloro che contravvengono alle regole divine.»

La Sacerdotessa fece una pausa e i presenti parvero dividersi tra coloro che annuivano, evidentemente d’accordo con quanto detto da Donna Erin, e coloro che, invece, scuotevano la testa e ringhiavano la loro disapprovazione. «Tuttavia», continuò lei, «sono certa che, se dimostreremo un po’ di buona volontà, gli Dèi comprenderanno la difficile situazione in cui ci troviamo e saranno disposti a darci un piccolo aiuto.»

Quando fu certa di avere l’attenzione di tutti, la donna proseguì. «Da settimana prossima, riprenderemo ad offrire loro un pegno della nostra fedeltà, così come abbiamo sempre fatto. Tuttavia, per i prossimi tre mesi, le offerte saranno ridotte: sacrificheremo solo una piccola quantità di argento, non più di una decina di chili e, al posto dell’argento mancante, offriremo altri beni: lana, cibo, oggetti vari. Manterremo la cerimonia intatta, naturalmente, costruiremo un forno che abbia la stessa grandezza di sempre e, per scusarci della nostra mancanza, pregheremo e digiuneremo per il giorno successivo all’offerta. In questi tre mesi, ovviamente, non ce ne staremo con le mani in mano, ma cercheremo di risolvere i malintesi che ci hanno portati in questa situazione così sgradevole e troveremo una soluzione equa, che accontenti tutti: questo significa che ognuno di noi dovrà fare dei sacrifici, ma, alla fine, la pace è il bene più grande che abbiamo, non credete?»

Gli uomini parvero esitare e Quinto, che fino a quel momento non aveva mai parlato, si schiarì la voce per attirare l’attenzione della Sacerdotessa. «Mi pare una buona idea, almeno per risolvere la questione delle offerte agli Dèi» disse, con voce quieta. «Tuttavia, temo che, per trovare una soluzione al problema politico che ci troviamo tra le mani, tre mesi siano decisamente troppo pochi. Non dimentichiamoci che abbiamo appena perso degli uomini in circostanze poco chiare. Le circostanze andranno investigate, non possiamo lasciar correre.»

La donna annuì. «Naturalmente, Legato. Capisco benissimo la vostra necessità di fare chiarezza e ti posso assicurare che avrete la mia più totale collaborazione, da questo punto di vista. Ma non dobbiamo perdere di vista il quadro più ampio.» Poi sorrise, incoraggiante. «So bene che tre mesi sono pochi, ma saranno sufficienti per gettare le basi di un progetto comune… a patto che tutti vogliano impegnarsi per raggiungere un accordo, naturalmente.» Nonostante gli sguardi dubbiosi di molti, la folla parve acquietarsi, come per considerare la proposta di Donna Erin.

«Erin.»

Quasi già si aspettasse di sentire la voce del giovane dalla pelle scura, la Sacerdotessa si voltò immediatamente verso di lui, l’ombra del sorriso di poco prima congelata sul volto pallido. «Dimmi.»

«Non credo che sia una buona idea.» L’espressione tranquilla del giovane contrastava con quella tesa di Donna Erin, eppure, negli occhi dell’uomo, Lidia scorse un bagliore come d’acciaio.

«Cosa vuoi dire?» Il tono della donna era cauto, con appena un cenno di frustrazione.

«Non si può scendere a compromessi, con gli Dèi» rispose lui, solenne. «La loro legge va rispettata alla lettera perché, nella loro infinita saggezza, essi sanno che, se concedessero una deroga anche a una sola persona, presto gli uomini si farebbero sempre più avidi e arroganti, pretendendo di erigersi essi stessi al rango di divinità.»

Le parole del giovane furono accolte da un secondo di silenzio quasi assordante, dopodiché il brusio esplose, acquistando rapidamente forza e volume. Prima che la confusione scoppiasse di nuovo, nel piccolo giardino, la voce del Prefetto Caleno tornò a levarsi sopra alle altre. «E allora che cosa proponi, fratello Kay

L’uomo si voltò e lo fissò per un breve istante con i suoi occhi d’inchiostro. «La cerimonia delle offerte riprenderà immediatamente: settimana prossima verrà versata la stessa quantità di argento che è sempre stata versata in passato. Non dovrà mancarne nemmeno un grammo.»

Caleno scosse il capo, dubbioso, mentre le imprecazioni dei minatori fecero sobbalzare Lidia, che, istintivamente, si rifugiò contro il fianco di Ulf. Avvertendo il suo turbamento, l’uomo la circondò con un braccio e le lanciò un’occhiata per sincerarsi che stesse bene. Rassicurandolo con un breve cenno del capo, la fanciulla tornò a concentrarsi sulla scena che aveva davanti agli occhi.

«E dimmi, Sacerdote: come pensi di fare per convincerci a cedervi di nuovo tutto quell’argento?»

Erin e Kay si voltarono contemporaneamente e i loro sguardi si appuntarono su Sören. Lidia deglutì, inquieta: non si era accorta della presenza dell’uomo e il fatto di trovarselo davanti, a così pochi metri di distanza da lei, le procurò un brivido freddo lungo la schiena. Istintivamente si guardò attorno, alla ricerca degli altri due germanici che l’avevano aggredita, ma presto si avvide che non v’era traccia dell’uomo con la cicatrice, né del suo compagno con la faccia da bambino.

Donna Erin fece per rispondere, ma il suo confratello lo bloccò con il cenno di una mano. «Non sarò io a convincervi», disse il giovane, ergendosi in tutta la sua statura, «ma gli Dèi.»

Sören sogghignò, sarcastico, e allargò le braccia in un gesto teatrale. «Gli Dèi, dici? E se, per caso, io agli Dèi non ci credessi affatto?» In una frazione di secondo, gli occhi dell’uomo dalla pelle scura si fecero freddi e il suo viso si contrasse, lasciando trapelare quanto poco gli piacesse l’atteggiamento spavaldo del germanico. «Allora dovrai lasciarti convincere dall’esercito di Roma.»

Accanto a sé, Lidia sentì Ulf irrigidirsi per un istante, stringendo la presa sulle sue spalle, ma prima che facesse in tempo a dire qualcosa, Quinto e Caleno si lasciarono sfuggire due esclamazioni ugualmente sorprese. «Non correre troppo, ragazzo: l’esercito di Roma ha altre cose a cui badare» scandì il Prefetto, abbandonando immediatamente la posa rilassata che aveva sfoggiato fino a pochi secondi prima. Anche il Legato si sporse verso il giovane dalla pelle scura, un’espressione allarmata sul volto dai tratti regolari, ma Donna Erin si volse verso di loro, sussurrando qualcosa che Lidia non riuscì a udire, ma che ebbe l’effetto di far tacere i due uomini. Il giovane Sacerdote lanciò ai due un’occhiata fredda, poi si voltò verso Sören che, spalleggiato dai minatori più combattivi, mosse qualche passo verso di lui, minaccioso. «Roma? Naturalmente, Roma! Era questo che c’era sotto fin dall’inizio, non è così, Donna Erin

Senza lasciare alla donna il tempo di rispondere, Fratello Kay si parò davanti all’uomo, nei suoi occhi e nella sua postura la gelida sicurezza di chi non è minimamente intimorito dalle minacce dell’avversario. «Stai indietro» gli intimò, infatti, ottenendo però solo di aumentare ancora di più la rabbia di Sören e dei suoi uomini, che strinsero il cerchio attorno a lui. «Non è a Roma che vanno le offerte, se è questo che stai insinuando», proseguì il Sacerdote, sostenendo lo sguardo d’ambra del germanico, «ma so che i soldati dell’Impero avranno abbastanza onore per tener fede al patto stretto tra il loro Cesare e il Sacro Concilio. Onoreranno gli Dèi, costi quel che costi.»

Nell’udire quella dichiarazione, Lidia sbirciò rapidamente nella direzione di Caleno, curiosa di vedere come avrebbe reagito. Il soldato, però, sembrava aver perso parte della sua intraprendenza e restava come in attesa, una strana espressione guardinga negli occhi verdi.

Completamente concentrato sul giovane Sacerdote, Sören sostenne il suo sguardo per un lunghissimo istante, poi, lentamente, un sorriso storto si dipinse sul suo viso. «Mi chiedo», disse, fissando il ragazzo con gelida ferocia, «quanti di questi bravi soldati vi difenderebbero, se decidessimo di togliervi dai piedi, te e la tua amica lì dietro.»

Di fronte alla minaccia tutt’altro che velata dell’uomo, Caleno balzò in piedi, portando la mano al gladio, ma, prima che chiunque altro potesse reagire, il Sacerdote levò la mano verso Sören, quasi intendesse respingerlo con la mera forza del pensiero.

«No!»

Il grido di Donna Erin sembrò immobilizzare tutti i presenti e la donna ne approfittò per balzare sul suo giovane confratello, afferrandogli il braccio con entrambe le mani e costringendolo ad abbassarlo. «Kay, no» ripeté, senza più gridare, ma ancora con un tono che non ammetteva repliche.

Lui la fissò in volto, la mascella irrigidita e gli occhi che mandavano scintille. «Togliti» le intimò. La donna, però, non si allontanò, continuando a sostenere il suo sguardo, senza lasciare la presa sul suo braccio. L’intervento della Sacerdotessa lasciò comunque il tempo di agire a Gefrid: a un cenno del capo villaggio, alcuni uomini si frapposero tra Sören e i due sacerdoti, sospingendo indietro il germanico. Lui però si oppose e, con una gomitata, si liberò da uno degli uomini che cercavano di trattenerlo. «Dico davvero» disse Sören, alzando la voce per farsi sentire da tutti. «Anch’io, come tutti, riconosco l’autorità dei Sacerdoti. Ma se un Sacerdote sbaglia, o si dimostra inadeguato, può essere rimosso! E io dico che Donna Erin e questo ragazzino si stanno dimostrando più che inadeguati! Sono pronti a tradire la nostra Patria e a venderla a Roma!»

«Silenzio!» ringhiò Gefrid, portandosi davanti a lui e afferrandolo per il bavero. Senza quasi degnarlo di un’occhiata, Sören lo spinse via e Ulf fece per scattare in piedi e muoversi in difesa del padre, ma le mani di Lidia e la voce del giovane Sacerdote lo trattennero. «I Sacerdoti che sbagliano possono essere rimossi», disse il giovane, che nel frattempo era riuscito a liberarsi dalla presa di Donna Erin, «e lo stesso vale per gli uomini che, con le loro azioni o le loro parole sconsiderate, possono mettere in pericolo un intero popolo.»

Nella sua voce non vi era più alcuna traccia di morbidezza. Con un moto che a Lidia parve quasi di stizza, il Sacerdote strinse le mani in un pugno e poi, per la seconda volta in pochi minuti, levò nuovamente il braccio destro in direzione di Sören. Muovendosi con una rapidità insospettabile, Erin si gettò contro di lui, costringendolo a muovere qualche passo verso sinistra e ad abbassare il braccio per mantenere l’equilibrio e non cadere a terra. Con un sibilo, il giovane si voltò verso la compagna. «Stai al tuo posto!» le intimò.

Lei non si lasciò intimidire dalla sua espressione gelida e gli posò le mani sulle spalle. «Non è questo il modo, Kay» scandì a bassa voce, alzando un poco il capo per guardarlo negli occhi. «Non è questo il modo.»

Nel giardino era calato un silenzio che fu spezzato solo dalla voce di Gefrid. «Che cosa sta succedendo?»

Senza distogliere lo sguardo da quello del giovane dalla pelle scura, Donna Erin inspirò brevemente, prima di rispondere. «Fratello Kay ha ricevuto dagli Dèi un dono molto particolare, ma non intendo discuterne qui. Gefrid, Legato Libo, vi chiedo di portare via i vostri uomini, adesso. Ci sono alcuni dettagli sui quali devo confrontarmi con il mio confratello, prima di discuterne con voi.»

Il romano e il germanico si scambiarono uno sguardo grave, poi Quinto mosse un passo verso di lei. «Ma non abbiamo risolto nulla» provò a dire. «La situazione con i minatori è rimasta uguale a prima.» La donna sospirò e gli lanciò un’occhiata fugace. «Lo so, Legato, lo so. Vi farò avere degli aggiornamenti al più presto, convocherò un nuovo consiglio. Adesso andate, però.»

Il Legato annuì, ma Caleno, chiaramente contrariato, le si avvicinò, ignorando lo sguardo d’avvertimento che gli lanciò il giovane dalla pelle scura. «Lo lasci andare?» sbottò, con una nota di incredulità nella voce, indicando Sören. Lei gli posò una mano su un braccio. «Per ora sì» disse, a voce bassa, ma non abbastanza perché Lidia non la sentisse. Sul volto del Prefetto passò un’ombra scura, poi il soldato si allontanò, scuotendo il capo e chiamando a sé i propri uomini.

Spaesata, Lidia fece saettare lo sguardo tutt’attorno, cercando di capire cosa stesse succedendo, ma improvvisamente Ulf le passò un braccio attorno alla vita, distraendola. «Andiamo» le sussurrò l’uomo, chinandosi su di lei. La giovane alzò su di lui uno sguardo confuso, ma poi annuì e, lanciando un’ultima occhiata dietro di sé, lasciò che Ulf la guidasse fuori dal giardino e poi in strada, seguendo i primi uomini che iniziavano ad allontanarsi dalla casa della Sacerdotessa.

«Cosa…» Lidia avrebbe voluto chiedere immediatamente spiegazioni, confrontarsi con suo marito, ma lui le afferrò la mano e quasi la trascinò via lungo la strada lastricata. «Dopo» disse, a mezza voce. «Adesso andiamo a casa. E in fretta, anche.»

C’era qualcosa, nel tono di Ulf, che le fece correre un brivido freddo lungo la schiena, mentre una paura improvvisa le stringeva lo stomaco in una morsa. Ha paura, realizzò improvvisamente la fanciulla, ha paura anche lui.

Percorsero in silenzio le vie del paese, camminando così rapidamente che, quando giunsero a casa e l’uomo chiuse dietro di sé la porta di legno, la ragazza si sentiva leggermente in affanno. Nella relativa sicurezza della loro casa, i due giovani si fissarono in silenzio per qualche istante. Alla fine fu Lidia a parlare per prima. «Cos’è successo là dentro?»

Ulf stirò le labbra in una smorfia amara. «Quello che temevo sarebbe successo: la presenza di Roma non verrà più tollerata a lungo, temo.»

La fanciulla si mordicchiò nervosamente un’unghia. «Ma, alla fine, nessuno può davvero dimostrare che Roma stia rubando l’argento. Anzi, mi pare che siano piuttosto i sacerdoti a…» L’uomo non la lasciò finire. «L’argento non è che un pretesto. Il problema è molto più ampio, non lo vedi?»

Lidia sussultò lievemente di fronte al suo tono brusco, ma poi fece un cenno d’assenso con il capo. «Sì, l’avevo capito» mormorò, abbassando lo sguardo sulla punta dei sandali che indossava, improvvisamente a corto di parole.

Sospirando, Ulf raggiunse la panca accanto al tavolo e vi si sedette, nascondendo il volto tra le mani come spesso faceva quando era stanco o frustrato. Provando una stretta allo stomaco, la fanciulla gli si avvicinò, esitando appena, e gli posò una mano sulla spalla irrigidita, stringendo un poco le dita e muovendole in un accenno di massaggio. «Speravo che le cose potessero risolversi, se non in fretta, almeno in un paio di mesi» disse il giovane, con la voce un po’ soffocata dalle mani che ancora teneva davanti alla bocca.

«E invece non sarà così, vero?» chiese Lidia, sebbene conoscesse già la risposta.

«Temo di no» ammise infatti lui, alzando gli occhi chiari fino a incrociare quelli della moglie. Cercando di cacciare indietro la paura sottile e indistinta che iniziava a serpeggiarle giù per la schiena, la ragazza posò entrambe le mani sulle spalle dell’uomo, se per confortarlo o per assorbire un po’ della sua forza non avrebbe saputo dirlo. «Cosa faremo, allora?» chiese, soffocando una smorfia quando sentì che la sua voce suonò un po’ tremula.

Ulf le posò le mani sui fianchi e la attirò a sé, premendo poi il viso appena sopra al suo seno. «Dobbiamo andarcene» disse, quasi mordendo le parole, come se pronunciarle gli costasse una grande fatica.

Lidia, che aveva preso ad accarezzargli i capelli, lo scostò un poco da sé. «Dobbiamo?» ripeté, incerta.

Con una smorfia amara, Ulf annuì. «Sì» sospirò. «Se ci fosse la minima speranza che la situazione possa tornare normale nel giro di qualche mese, farei allontanare solo te e Unna per un po’ di tempo. Ma così… restare qui presto non sarà più sicuro per nessuno.»

Dall’espressione dell’uomo, Lidia capì che Ulf si preoccupava anche per suo padre, suo fratello e per Donna Edda. Anche loro sono la sua famiglia. Anche loro sono la mia famiglia. «Mi dispiace» mormorò allora la fanciulla, chinandosi fino a posare le labbra sul capo dell’uomo, provando tuttavia un piccolo fremito di sollievo. Ce ne andremo tutti, pensò. Non dovremo dividerci. Non era forse stato esattamente quello il suo piano, quando aveva deciso di disobbedire agli ordini di Ulf e di tornare a Erding con Unna?

Il giovane annuì in silenzio e tornò a stringerla a sé; tuttavia, dalla tensione che ancora irrigidiva il suo corpo, la ragazza si rese conto che c’era anche qualcos’altro che lo turbava. E credo anche di sapere di cosa si tratta. «Chi era quell’uomo?» gli chiese, intuendo che non ci sarebbe stato alcun bisogno di specificare a quale uomo si stesse riferendo.

Senza sollevare il viso dal suo sterno, Ulf scosse le spalle. «Un sacerdote» replicò, sbrigativo.

Lidia aggrottò appena la fronte. «Lo pensi davvero?»

L’uomo sollevò lo sguardo su di lei. «Cos’altro potrebbe essere?» La ragazza strinse le labbra, incerta. «Non lo so, c’era qualcosa di strano in lui. A parte l’ovvio, intendo» aggiunse, quando vide il sopracciglio sollevato di Ulf. «E poi… Donna Erin ha parlato di un potere particolare. I sacerdoti hanno poteri magici?»

Lo sguardo di Ulf si fece sarcastico. «Perché, conosci per caso qualcuno con dei poteri magici? La magia non esiste» dichiarò, piatto.

«E allora?» chiese Lidia, inclinando il capo di lato. «E allora non lo so» ribatté Ulf, alzandosi in piedi e scostandola un poco da sé. «Comunque non importa. Appena sarà possibile farlo, ce ne andremo e né lui, né Erin saranno più un problema nostro.» Con quelle parole, l’uomo fece per allontanarsi, ma la giovane lo trattenne per un braccio. «Cosa significa ‘appena sarà possibile’?» insistette.

Ulf chinò appena il capo, prima di rispondere. «Un paio di giorni, credo. Devo prima sistemare un paio di faccende, non posso lasciare tutto così a metà, da un momento all’altro.»

«Certo» annuì lei, senza però riuscire a nascondere la preoccupazione che provava.

«Sarà questione di poco, vedrai» la rassicurò Ulf, sollevando una mano per accarezzarle una guancia.

«Va bene» sospirò la fanciulla, chiudendo gli occhi e appoggiandosi alla sua mano. Speriamo, pensò, mentre cercava di rilassarsi sotto al tocco leggero di suo marito, perché, se va avanti così, la situazione rischia di precipitare da un momento all’altro.

Per la prima volta da quando le era giunta voce delle prime tensioni in paese, il pericolo le parve reale e immediato e non qualcosa di vago e distante e, per la prima volta, la fanciulla ebbe veramente paura. Poi, un brivido diverso la scosse. E, se le cose dovessero mettersi veramente male, tenere lontano Tito non sarà affatto facile.

Mordendosi nervosamente le labbra, Lidia si strinse di più a Ulf. Dobbiamo fare in fretta.

***

Erding, 342 AuC, 14 Luglio

Lanciando un’occhiata al cielo ingombro di nubi, Lidia tamburellò nervosamente sul davanzale, chiedendosi perché non arrivasse nessuno. Spero che non mi mandino ancora il soldatino dell’altra volta: parlava decisamente troppo e stamattina io non sono dell’umore giusto per fare conversazione con lui. In realtà, Lidia non era dell’umore giusto per parlare con nessuno, quella mattina, ma Quinto era stato chiarissimo: andarsene in giro non accompagnata avrebbe potuto essere estremamente pericoloso, per lei, visti gli avvenimenti recenti.

Quando, la sera prima, il Legato si era presentato alla loro porta, Ulf non era parso particolarmente felice di vederlo, ma l’aveva comunque invitato a entrare, forse convinto dall’espressione cupa e inquieta sul volto del romano. Alla fine Kay l’aveva spuntata, aveva detto Quinto, e un drappello di legionari era stato mandato a disperdere il gruppo di minatori che avevano sequestrato l’argento, restando poi a guardia delle preziose offerte già accumulate in vista dell’imminente cerimonia sacrificale. I minatori e i compari di Sören non l’avevano presa bene, aveva continuato il Legato, prima di aggiungere che, anche se Lidia non aveva oggettivamente nulla a che fare con quella storia, sarebbe stato più prudente se fosse sempre stata scortata da qualcuno, almeno quando si trovava fuori casa.

A quelle parole, la ragazza aveva guardato Ulf, aspettandosi che protestasse. Tuttavia, anche se a denti stretti, il giovane aveva annuito seccamente, dando il suo consenso – evidentemente, preferiva sapere Lidia in compagnia dei suoi conterranei, piuttosto che nelle mani dei rivoltosi.

E così, dopo aver svolto qualche faccenda domestica, Lidia si trovava ad attendere la scorta che l’avrebbe accompagnata da Ulf, in bottega, così che non lei non dovesse trascorrere la mattinata da sola, rischiando di ricevere qualche visita sgradita.

Ma qui non arriva nessuno, pensò spazientita.

Quasi come per contraddirla, qualcuno scelse quel preciso istante per bussare alla sua porta. Esalando con forza dal naso per dar sfogo alla sua irritazione, fanciulla marciò decisa verso l’ingresso, con un’espressione seccata dipinta in volto. Finalmente! Quando schiuse l’uscio, però, le parole di rimprovero che aveva pensato di rivolgere al soldato le morirono in gola e la ragazza rimase per qualche secondo a bocca aperta davanti al giovane uomo che, a testa alta, era in attesa sulla soglia.

«E tu cosa ci fai qui? Non sei un soldato!»

Tito alzò immediatamente le mani, come per placarla. «Lo so, ma mi serviva una scusa per vederti. E comunque una o due cose le ho imparate anch’io, in questi mesi.» Così dicendo, il ragazzo si mosse nella sua direzione, ma Lidia frappose le braccia tra di loro, facendo un passo indietro. «Hai imparato qualcosina?» ripeté, accigliata. «E se incontrassimo qualcuno in cerca di rogne? Sapresti cosa fare?»

Il ragazzo esitò per un istante, poi scrollò le spalle, riacquistando la propria sicurezza. «Ma chi vuoi incontrare? Nessuno si azzarderà a fare niente. Non dopo il discorsetto che i sacerdoti hanno fatto ieri. Il villaggio è pieno di soldati, puoi stare tranquilla.» Tito sorrise, incoraggiante, e la fanciulla scosse la testa, poco convinta. «Va bene» sospirò, poi. Il ragazzo era lì, ormai, e mandarlo via non aveva senso. «Allora andiamo. È quasi un’ora che aspetto.»

Sul volto di Tito passò un’ombra di delusione, ma poi il giovane romano annuì. «Come vuoi» disse, prima di aggiungere, con un filo di amarezza nella voce: «Non c’è bisogno che tu stia così sulla difensiva, però. Non sono passato per causarti problemi o per fare chissà che: volevo solo assicurarmi che tu stessi bene. Il Prefetto mi ha detto di averti vista un po’ scossa, ieri pomeriggio…»

Davanti a quella spiegazione, Lidia rilassò un po’ la sua postura. «D’accordo, scusa» mormorò, leggermente ammorbidita. «Sono un po’ tesa, ultimamente. Non volevo essere antipatica.» Tito sorrise, accettando le sue scuse. «Ti capisco» le disse, prima di posarle una mano al centro della schiena. «Dai, andiamo. Magari possiamo scambiare due chiacchiere, strada facendo?»

Lidia alzò lo sguardo sul volto del giovane, ma i suoi occhi scuri erano limpidi e la fanciulla non vide in lui nessun doppio fine. «Perché no» concesse, con un piccolo cenno del capo.

«Allora», riprese Tito, tenendo un tono di voce sufficientemente basso affinché nessun passante potesse origliare quello che si stavano dicendo, «Ti è toccato partecipare al consiglio a casa di Donna Erin, eh?»

«Eh, già» confermò lei. «Non ho capito perché hanno insistito tanto, a dire il vero.»

«È vero che è successo un gran casino?» la incalzò il giovane. Lidia rifletté un istante, prima di rispondere. «Non so se lo definirei ‘un gran casino’», disse, soppesando le parole, «ma, di certo, hanno parlato tanto e non hanno risolto un bel niente. Tutta colpa del Sacerdote nuovo, per quanto mi riguarda. È un tipo strano… tu l’hai visto?» Tito scosse il capo. «Be’, non mi piace» sentenziò lei.

Questa volta, il giovane annuì. «Sì, è quello che pensa anche Caleno. Crede che non ci sia da fidarsi, di lui.»

Cogliendo al volo l’occasione, la ragazza cercò di scoprire qualcosa di più su quello che le era parso di notare il giorno prima a casa della Sacerdotessa. «Ho come avuto l’impressione che il Prefetto non fosse tanto sorpreso di trovarselo davanti, però. Non dico che lo conoscesse, ma mi è quasi sembrato che… non so, che lo stesse aspettando.»

Tito la guardò, sorpreso. «Non credo proprio che Caleno abbia qualcosa a che fare con lui. E, di certo, non lo conosce. Da quanto ne so io, i sacerdoti germanici se ne stanno piuttosto sulle loro, non si mischiano con i comuni mortali… soprattutto se sono romani.»

Lidia fece schioccare la lingua, scettica. «Dici? Eppure mi pare che Donna Erin e il Prefetto si conoscano piuttosto bene.»

Il giovane ridacchiò. «Si, be’, immagino che ci siano delle eccezioni… ma non credo che quel tizio rientri tra le eccezioni che interessano a Caleno.» Lidia sorrise, comprendendo quello che Tito voleva dire, poi tornò seria. «Boh, sicuramente sarà come dici tu: però, secondo me, il Prefetto sa più di quello che dici.»

L’espressione di Tito si fece un po’ più severa. «Non lo so: personalmente non ho motivo per non fidarmi di lui, è un ottimo uomo e un grande soldato, sicuramente molto fedele a Roma.»

La fanciulla si strinse nelle spalle. «Non lo metto in dubbio, del resto non posso certo dire di conoscerlo bene. Però,» insistette, sostenendo lo sguardo del giovane, «ogni volta che lo guardo, mi sembra che ci sia qualcosa di strano, in lui. Non lo so, è difficile da spiegare, ma non è una bella sensazione.»

Tito stirò le labbra, in disaccordo con la ragazza. «Peccato» disse, alzando le spalle. «Credo che, se lo conoscessi un po’ meglio, lo apprezzeresti di più.»

«Può darsi» concesse Lidia, per quanto non lo credesse affatto.

Tra i due giovani calò il silenzio, ma, osservando con la coda dell’occhio Tito, la fanciulla notò la sua inquietudine. Ha in mente qualcosa, si disse, a disagio. Qualche secondo dopo, il ragazzo confermò i suoi sospetti. «So che non vuoi sentirne parlare», disse infatti, cauto, «ma hai pensato alla mia proposta?»

Lo sapevo.

Lidia inspirò a fondo. «Sì, ci ho pensato» disse, lentamente. «Ne ho parlato con mio… con Ulf, e abbiamo deciso che, tra qualche giorno, andremo via da Erding. E con noi verranno anche mio suocero, i miei cognati e Donna Edda e… sarò al sicuro, con loro.»

Anche se era evidente che la notizia non gli fece affatto piacere, Tito strinse i denti e, quando parlò, la sua voce suonò leggera e regolare. «Tuo suocero è il capo villaggio» le fece notare. «Non credo che possa scappare via così.»

Lidia avrebbe voluto ribattere, ma dovette riconoscere che il ragazzo aveva ragione. «Lo so» ribatté comunque, testarda. «Ed è proprio per questo che Ulf dice che gli servono un paio di giorni per sistemare le ultime faccende qui in paese. Se non fosse stato così, ce ne saremmo andati subito.»

Il giovane sorrise, ma a Lidia la sua espressione parve forzata. «Ulf… si direbbe che lo stimi molto.» La ragazza si strinse nelle spalle, senza commentare. «Non lo conosco», continuò Tito, allungando il passo e piazzandosi davanti a lei, «però credo che il tuo amico stia correndo un po’ troppo con la fantasia. Non mi stupirei se, un giorno non lontano, toccasse proprio a lui farsi carico delle sorti del villaggio. Se così fosse, la sua presenza sarebbe richiesta qui. Se tu accettassi di venir via con me, renderesti la vita più facile a tutti, questo è certo!»

Lidia lo fulminò con gli occhi. «È mio marito, non un mio amico» puntualizzò. «E, in ogni caso, credi davvero che accetterebbe di lasciarmi via con te? Cosa dovrei dirgli? ‘Oh, Ulf, questo è Tito, il tipo di cui ti avevo parlato e con cui ero fidanzata a Roma. Non ti dispiace, vero, se ti pianto qui e scappo via con lui? Tanto prima o poi torno. Sempre che nel frattempo non ti abbiano ammazzato…’»

Tito sbuffò, sarcastico. «Certo che ti è cresciuta la lingua, da quando hai lasciato Roma» commentò, squadrandola in un modo che Lidia non seppe decifrare. «Comunque, no: è ovvio che bisognerebbe trovare una scusa plausibile. E, guarda caso, io ne ho una già bella pronta.»

La fanciulla si portò le mani all’orecchie, senza curarsi di quanto infantile fosse quell’atteggiamento. «Non importa, non la voglio sentire. Non mi serve il tuo aiuto, non vado da nessuna parte senza di lui!» Il ragazzo fece per ribattere, ma Lidia lo precedette di nuovo. «Anzi, guarda, siamo arrivati. Puoi lasciarmi qui, proseguo da sola.»

Tito fece correre lo sguardo fino all’edificio in cui si trovava la bottega di Ulf, poi tornò a concentrarsi sulla fanciulla. «Non siamo arrivati» ribatté. «Ci sono almeno cento metri tra qui e quel posto.»

«Cento metri di prato» puntualizzò la giovane. «Dubito che qualcuno si stia nascondendo tra i fili d’erba.» Il giovane romano scosse il capo con forza. «Non importa, ti accompagno lo stesso.»

Spazientita, Lidia posò le mani sul petto del ragazzo. «Tito, no! Non sei nemmeno vestito da soldato, Ulf si insospettirebbe. Non è stupido.»

Il ragazzo parve sul punto di protestare, ma poi rinunciò, abbassando gli occhi sui suoi abiti chiaramente civili. «E va bene» si arrese. «Posso almeno venire a trovarti, nei prossimi giorni? Mi farò prestare un’uniforme, così non si insospettirà nessuno.»

Lidia esitò. «Come ti ho già detto, prossimi giorni me ne andrò, non so se riuscirò a…»

«Vedremo», la interruppe Tito, pressante. «Io ci proverò comunque. Allora, posso venire a trovarti?» La fanciulla indietreggiò di un passo, cercando di arginare l’insistenza del giovane, ma poi si trovò costretta a chinare il capo. «E va bene, fai come vuoi» si arrese. «Ma non ti prometto nulla.»

Tito sorrise e poi l’abbracciò, di slancio. «Ci vediamo presto» le promise, allontanandosi da lei con la stessa velocità con cui l’aveva presa tra le braccia. Un po’ spaesata, Lidia gli lanciò un’occhiata severa. «Sì, ma ti ho detto che non devi…»

«Toccarti» concluse per lei il ragazzo, per nulla impressionato dalle sue parole. «Lo so, lo so: ma gli amici si abbracciano, non credi?»

La giovane strinse i denti in un ringhio, ma non rispose, scegliendo invece di voltargli le spalle e di avviarsi verso la bottega di Ulf indirizzando al romano solo un vago cenno di saluto. Ma che razza di faccia tosta, si disse, seccata, stringendo automaticamente i pugni. É sempre stato così… invadente?

Persa nei suoi pensieri rabbiosi, Lidia raggiunse la porta della bottega e si accinse a bussare, senza accorgersi della presenza alle sue spalle fino a quando una voce famigliare la fece sussultare.

«Chi era quel romano?»

***

Scusate per questi capitoli un po’ lenti (anche il prossimo sarà un po’ così), ma mi servono per preparare il terreno all’ultima sezione di storia, che sarà anche la più movimentata: se non metto bene le basi, rischio di fare un pasticcio!

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Capitolo 26
*** 25. Segreti ***


Gli occhi grigi di Karl la scrutavano con sospetto e Lidia dovette fare forza su se stessa per impedirsi di indietreggiare davanti alla sua presenza imponente. «Nessuno» si trovò a balbettare. «Solo un soldato che mi ha accompagnato qui, come ordinato dal Legato Libo.»

L’espressione del germanico non cambiò. «Cosa vuoi dire?»

«Visto quello… visto quello che sta succedendo ultimamente, il Legato pensa che sia troppo pericoloso, per me, andarmene in giro da sola. Ha detto che devo muovermi solo accompagnata da un soldato. Ulf lo sa ed è d’accordo» aggiunse poi, sperando che la spiegazione fosse abbastanza convincente da spingere Karl a non indagare oltre.

Per sua sfortuna, non fu così. «Quell’uomo non era un soldato: chi era?»

Lidia sentì il sangue defluirle dal volto e restò per qualche istante con la bocca aperta, alla vana ricerca di una spiegazione che le consentisse di non ammettere la verità. Per un attimo fu tentata di mentire, di dire che Tito era un soldato e che il fatto che fosse vestito in abiti civili non era che una copertura. Le bastò però una seconda occhiata al viso di Karl per scartare quell’idea: anche se conosceva poco il cognato, aveva avuto modo di capire che era una persona che non si lasciava raggirare facilmente. Con le mani che tremavano un po’, Lidia si abbracciò, cercando di darsi forza. «Era… era un mio amico, un ragazzo che conoscevo quando vivevo a Roma» ammise, in un soffio.

Avrebbe quasi voluto essere sincera, cogliere quell’occasione per liberarsi del peso che il fatto di dover mantenere segreta la presenza di Tito le aveva posato sulle spalle, ma la reazione di Karl le fece rapidamente cambiare idea. «Un tuo amico?» ringhiò infatti l’uomo, scattando in avanti e serrandole le spalle in una morsa dolorosa. «Da dove sbuca? So benissimo che non hai mai ricevuto visite, da quando ti sei trasferita a Erding: quel tipo non vive all’accampamento! Perché è qui? Perché compare proprio adesso che le vostre porcate iniziano a venire a galla?»

Lidia non ebbe bisogno di chiedere, per capire che quel ‘vostre’ era riferito a Roma e che Karl, nonostante tutto, continuava a considerarla una straniera. Invece di rispondere, la fanciulla si divincolò, cercando di allontanare da sé l’uomo. «Lasciami» si lamentò, puntandogli le mani al petto e scuotendo le spalle. Karl però non si lasciò impietosire dalle sue proteste e, anzi, strinse ancora di più la presa sulla giovane, facendola sibilare di dolore. «Rispondi» le intimò, scuotendola.

«È un caso!» sputò lei, a metà tra la rabbia e la disperazione. «È solo un caso, e se tu non ci credi, non so cosa farci!»

Karl sogghignò. «Vuoi forse farmi credere che, con tutti i posti che ci sono al mondo, un tuo amico arriva qui e, casualmente, si ritrova sulla tua porta?» Mentre parlava, l’uomo aveva allentato lievemente la stretta d’acciaio delle sue mani e Lidia lo guardò, torva. «Non ho detto questo» disse, tra i denti. «Lui è venuto qui per farmi una sorpresa, naturalmente. Io non ne sapevo di niente ed è una coincidenza che sia arrivato proprio adesso.»

Karl la scrutò intensamente per qualche secondo, prima di parlare. «Ulf sa che è qui?»

La ragazza lo guardò, allarmata. «No, io stessa l’ho incontrato solo oggi: non ho avuto il tempo parlargliene… l’avrei fatto quando l’avrei visto» si giustificò, ingoiando il gusto amaro che la bugia le lasciò in bocca.

Anche se la sua voce non aveva tremato, le sue parole non dovevano essere state troppo convincenti, perché Karl la trasse a sé, avvicinando il volto a quello della ragazza finché lei non riuscì a sentire sul viso il fiato dell’uomo. «Che cosa stai combinando, donna?»

Lidia voltò bruscamente la testa di lato e chiuse gli occhi, tornando a spingere contro il petto del cognato. «Ti ho detto di lasciarmi» ripeté, sforzandosi di mantenere un tono di voce basso.

Improvvisamente, Karl lasciò la presa e Lidia si accasciò contro il muro, leggermente tremante. L’uomo però non si allontanò da lei e, posando le mani accanto alla sua testa, la intrappolò tra il suo corpo e la parete. La fanciulla avrebbe potuto leggere un secondo fine nel suo atteggiamento, se non fosse stato per l’odio e la rabbia che brillavano chiaramente nei suoi occhi d’acciaio. «Io non so che cos’hai in mente», le disse, in un tono basso che la fece rabbrividire, «ma Ulf è un mio amico e parte della mia famiglia: se avrò anche solo il minimo sospetto che tu stia facendo qualcosa contro di lui, giuro che te la farò pagare… è chiaro?»

Contro ogni buon senso, Lidia sentì la propria voce parlare ancora. «A me sembra che tu ce li abbia già, dei sospetti.»

Karl non apprezzò la provocazione e le afferrò bruscamente il mento. «Aspetto solo di avere dei sospetti appena un po’ più fondati, romana» ringhiò, a pochi centimetri dal suo volto. Messa alle strette, la fanciulla inspirò profondamente, ma, prima che facesse in tempo a urlare, il germanico l’allontanò da sé, spingendola malamente contro il muro. «Fa attenzione» le intimò, prima di voltarsi e bussare alla porta. Lidia si appoggiò alla parete di pietra dell’edificio, cercando di riprendere il fiato e il controllo su di sé, ma, quando l’uscio si aprì, la fanciulla si sentiva ancora molto scossa.

«Oh, eccoti!»

La voce di Unna suonò leggera e sorprendentemente allegra, ma, quando i suoi occhi si posarono su Lidia, la sua espressione mutò e la germanica lanciò un’occhiata interrogativa al marito, prima di rivolgersi alla ragazza. «E tu cosa ci fai qua?» la interrogò. «E che cosa ti è successo?»

«Niente, niente» mormorò la fanciulla, passandosi una mano tra i capelli e cercando di ricomporsi. Gli occhi di Unna si fecero sospettosi e la donna fissò intensamente il marito, che però ricambiò lo sguardo con un’espressione tirata – e vagamente colpevole? – sul volto e la superò, scomparendo all’interno dell’edificio. Unna sembrò sul punto di dire qualcosa, ma poi scosse il capo, rinunciando e scegliendo invece di fare un ceno alla giovane. «Forza, entra» le disse e, per una volta, a Lidia la sua voce sembrò un po’ meno tagliente del solito.

Mordendosi nervosamente le labbra al pensiero di trovarsi nella stessa stanza con Ulf, Karl e il segreto che ancora nascondeva a suo marito, la fanciulla si costrinse a seguire la cognata. Non che abbia altra scelta, comunque.

Non appena mise piede all’interno della bottega, Lidia venne subito colpita dalla sensazione che ci fosse qualcosa di diverso rispetto alla prima e unica volta in cui si era trovata in quel luogo. Durante la sua prima visita, nel locale regnava l’ordine affollato tipico di un ambiente in cui si lavorava intensamente, ma a cui si teneva troppo per lasciare che la confusione ne deturpasse l’aspetto e la funzionalità. Ora, invece, il locale le pareva più disordinato e, anche se non avrebbe saputo dire cosa mancasse rispetto alla volta precedente, più spoglio, come se fosse venuto a mancare qualcosa di importante e le cose avessero iniziato a ricadere su loro stesse e a scomparire, ingoiate dalle ombre agli angoli della stanza.

Lidia non fece però in tempo a soffermarsi troppo sui dettagli, perché, quando si rese conto della sua presenza, Ulf la raggiunse con un paio di passi. «Che fine avevi fatto?» le chiese, con una certa urgenza. «Ti aspettavo più di un’ora fa!

Non sentendosi ancora in grado di sostenere il suo sguardo, la ragazza abbassò gli occhi a terra e si portò una ciocca di capelli dietro a un orecchio. «Ah… sì, ho dovuto aspettare un po’ il soldato.» Con la coda dell’occhio, Lidia vide Karl voltarsi a guardarla di scatto. Il suo le parve un gesto quasi stupito e la ragazza fu sfiorata dal sospetto che l’uomo credesse che il motivo del suo ritardo fosse un altro.

«Capito» annuì Ulf, ignaro, prima di accorgersi dell’espressione turbata della ragazza e della rigida postura del suo corpo. «Va tutto bene?» le chiese allora, con una punta di preoccupazione, posandole una mano sul braccio. «Avete incontrato qualcuno, strada facendo?»

Sforzandosi di sorridere nonostante il nervosismo, Lidia gli sfiorò il polso con le dita, appena sopra al nastro rosso che aveva tanto faticato ad annodare il giorno del loro matrimonio. «No, è andato tutto bene. Non abbiamo incrociato nessuno.» Mentre pronunciava quelle parole, però, il suo sguardo si spostò automaticamente su Karl e un fremito le attraversò il corpo. La cosa non sfuggì a Ulf, che si voltò per osservare l’amico: davanti alla domanda silenziosa dell’uomo, Karl irrigidì le spalle e si mosse leggermente a disagio, ma la sua espressione rimase determinata, mentre lanciava a Lidia un’occhiata d’accusa.

Seguendo l’istinto che le ordinava di agire per prima, la fanciulla strinse la mano di Ulf, ignorando i gelidi occhi di Unna che sembravano non perdere un particolare di quello che stava avvenendo nella stanza. «Non credo di piacergli molto» mormorò, indicando il cognato con un cenno del capo. «Non si fida di me.»

Davanti a quell’accusa – per altro assolutamente fondata – Karl fece per muovere un passo in direzione della giovane, ma Unna lo trattenne, affondando le dita nel braccio del marito. Anche se con una piccola esitazione, Ulf prese le difese della moglie, frapponendosi tra lei e l’altro uomo e celandola alla sua vista. «Cos’è questa storia?» chiese, con una nota di avvertimento nella voce.

Karl sbuffò, sprezzante. «Perché non lo chiedi a lei?» propose, indicando con il mento Lidia.

Ulf chiuse gli occhi per una frazione di secondo, poi fece un passo indietro, spostando lo sguardo dall’uomo alla fanciulla. «Lo chiedo a entrambi» disse, con il tono di chi non ha voglia di perdere tempo.

I due si fissarono senza parlare, ma, prima che il silenzio diventasse troppo pesante e le cose sfuggissero di mano, Unna intervenne. «È una cosa che riguarda te e me?» chiese, strattonando con malagrazia il braccio del marito. Lui scosse il capo. «Non direttamente, ma…» «… e allora vediamo di levarci dai piedi» sbottò la donna, interrompendolo. «Non ho nessunissima voglia di assistere a qualche dramma famigliare. Ne ho già abbastanza dei miei, di drammi.» Così facendo, si tirò un colpetto sulla pancia e sbuffò, girando sui tacchi e tirando di nuovo Karl verso di sé. «Vedete di risolvere in fretta qualsiasi problema abbiate e di non farmi perdere tempo inutilmente» continuò poi, osservando critica il fratello. «Non ci servono altri imprevisti.» Ulf, ancora concentrato su Lidia, annuì senza nemmeno guardarla, ma la giovane romana le rivolse un piccolo cenno del capo, sperando che la donna cogliesse il suo ringraziamento muto: Unna l’aveva appena aiutata, ne era certa, anche se non capiva perché l’avesse fatto.

Quando furono rimasti soli, Ulf sospirò e poi si appoggiò al davanzale, osservando la fanciulla in silenzio, quasi cercasse di indovinare cosa le passasse per la mente. «Allora», disse poi, «posso sapere cos’è successo tra te e Karl?»

Torcendosi nervosamente le mani, Lidia gli si avvicinò di un passo, senza osare raggiungerlo e toccarlo. «Mi ha vista con un romano e mi ha accusata di avere in mente qualcosa» disse, decidendo di prenderla alla larga.

Ulf aggrottò la fronte, senza capire. «Un soldato? Perché dovrebbe vederci qualcosa di strano? Sa benissimo come stanno le cose…» La ragazza deglutì. «Non era un soldato» confessò; e subito l’espressione di Ulf mutò, facendosi improvvisamente più tesa. Non ce la faccio, pensò disperatamente Lidia, maledicendosi per la propria codardia.

«No?» chiese ancora Ulf, chinando un po’ la testa per guardarla negli occhi. «E chi era, allora?»

«Un mio amico, una persona che conoscevo quando ero a Roma» esalò la ragazza, in un soffio. «É per questo che sono arrivata in ritardo. Ho aspettato per quasi un’ora che arrivasse il soldato e, alla fine, quando mi sono trovata davanti lui, ero talmente stupita che… be’, naturalmente abbiamo parlato un po’. Poi mi ha accompagnato qui. Mi ha lasciato qua fuori e Karl ci ha visti mentre ci salutavamo e… è saltato alle conclusioni sbagliate.» La mezza bugia le venne estremamente naturale e la giovane se ne vergognò, ma non abbastanza per ammettere tutta la verità.

«Un tuo amico» ripeté Ulf, con voce piatta, senza muoversi dalla sua posizione. «Perché non ne sapevo niente?»

Lidia strinse i denti e ricacciò indietro l’inquietudine legata alla sensazione di essere sotto interrogatorio. «Nemmeno io sapevo che sarebbe venuto a trovarmi. Ha voluto farmi una sorpresa, ma ha scelto un brutto momento…» Nella speranza di dimostrare la propria sincerità, la ragazza cercò lo sguardo di dell’uomo e lo sostenne, sperando che nel suo atteggiamento lui non leggesse alcuna esitazione sospetta. Dopo qualche istante, Ulf sospirò. «Come hai detto che si chiama?»

Non ricordando se avesse mai fatto il nome di Tito a Ulf, Lidia pronunciò la prima cosa che le venne in mente. «Claudio.» Forse rinfrancato dalla prontezza con cui aveva risposto, l’uomo annuì. «Va bene. Mi piacerebbe incontrarlo, se non ti dispiace.»

Lidia sbiancò, ma si obbligò a rispondere comunque. «Incontrarlo? Certo, ma non so se… è che…» balbettò, presa in contropiede. Poi sospirò e chinò il capo, arrendendosi. «Va bene. Quando vuoi.» Ulf la osservò, critico. «C’è qualche problema?»

Lidia si affrettò a negare. «No, è che lui è un po’ prevenuto nei confronti dei germanici. Non vorrei che finiste per litigare, non ne varrebbe la pena.»

A quelle parole, Ulf le rivolse un mezzo sorriso. «Anche tu eri prevenuta, quando sei arrivata qui.»

«Vero» riconobbe lei, ricambiando il sorriso appena accennato.

Tra i due cadde il silenzio, poi l’uomo allungò un braccio in direzione della compagna, invitandola a raggiungerlo. Quando Lidia fu a poche decine di centimetri da lui, Ulf le posò le mani sui fianchi. «Lidia, io ho deciso di fidarmi di te» le disse, piano, appoggiando la fronte contro a quella della fanciulla. «Faccio bene?»

Lidia chiuse gli occhi e annuì, mentre l’angoscia minacciava di soffocarla. Bugiarda bugiarda bugiarda…

«Sì» fece poi, in un sussurro spezzato, annuendo di nuovo.

«E allora perché sembra che tu stia per metterti a piangere?»

La ragazza sollevò una mano se la passò sul volto nel tentativo di ricacciare indietro le lacrime che avevano preso a solleticarle gli angoli degli occhi, poi sospirò profondamente, per calmarsi. «Non sto per mettermi a piangere», mormorò, deglutendo per scacciare il nodo che le stringeva la gola, «ma sono stanca di tutta questa tensione. Mi sembra di non avere più nulla sotto controllo, mi sento così inutile…»

Ulf la attirò a sé e la ragazza si appoggiò a lui. «È una sensazione che abbiamo tutti» disse, nel tentativo di confortarla. «O, almeno, è una sensazione che ho anch’io. Vedrai che, quando saremo via da qui, passerà tutto.»

Sebbene non riuscisse a credere ciecamente nelle sue parole, la fanciulla si lasciò rassicurare da esse, e, passandosi discretamente una mano sotto al naso, cercò di rilassarsi sotto alle lievi carezze concentriche che Ulf stava tracciando sulla sua schiena.

C’era, naturalmente, qualcosa che le impediva di essere completamente a suo agio. Sì, si chiama ‘coscienza sporca’, venne in suo aiuto la voce che, anche a mesi di distanza dall’ultima volta in cui aveva visto l’amica, tanto assomigliava a quella di Lucilla. E ti sta bene, coniglio. Credi davvero che la verità non verrà a galla, prima o poi?

No, ribatté testarda un’altra parte del suo essere, quella che non desiderava altro che nascondersi in un luogo buio e sicuro e dormire finché non fosse passato tutto. Se gliene parlassi adesso si arrabbierebbe di sicuro. È già un momento difficile, non serve complicare ulteriormente le cose. E poi tra me e Tito non ci sarà mai più nulla, per cui posso benissimo presentarglielo come un mio amico. Il passato non ha più importanza, ormai!

Quella sorta di battaglia interiore ebbe vita breve: la paura e l’incertezza misero rapidamente a tacere i sensi di colpa e la fanciulla si convinse che davvero quello non fosse il momento migliore per rivelare a Ulf la vera identità di “Claudio”. Relegando i dubbi in un angolo della mente, Lidia lasciò che il suo corpo si rilassasse e aderisse meglio a quello di Ulf. Con gli occhi chiusi, la giovane appoggiò il capo contro il petto del marito e lasciò che il battito regolare e leggermente ipnotico del suo cuore la cullasse in uno stato simile al dormiveglia o alla trance.

«Ti manca Roma?»

Lidia sobbalzò quasi, sbattendo lentamente gli occhi davanti a quella domanda che l’aveva riscossa dal suo stato di rilassamento. «Un pochino» disse, sentendosi la bocca un po’ impastata. «Qualche volta, quando ci penso, un po’ mi manca.»

«Vorresti tornarci?»

Appena un po’ meravigliata, la fanciulla posò le mani sulle spalle dell’uomo, con un sorriso triste. «A te non piacerebbe, credo.»

Lidia avvertì, più che vedere, il movimento di Ulf, che si spostò per sistemare meglio il loro peso contro il davanzale. «Lo so. Indipendentemente da questo, però, non pensi mai di tornarci?»

La giovane corrugò la fronte, confusa. «Senza di te, intendi?»

L’uomo sollevò le spalle, senza però negare, e Lidia non seppe se essere intenerita o allarmata da quel tentativo di Ulf di sondare il terreno delle sue intenzioni. «Pensavo che fosse chiaro che non voglio andare da nessuna parte, senza di te» disse, dolcemente, ma venne sorpresa dallo sbuffo ironico di Ulf.

«Non mi credi?» chiese, leggermente piccata, alzando lo sguardo sull’uomo. Lui scosse il capo. «Ma no, non è che non ti credo» ribatté lui, inclinandosi un po’ all’indietro per osservarla meglio. «È che a volte mi sembra strano come le cose siano cambiate così tanto in così poco tempo.»

Lidia sorrise, timida. «Lo so, ma adesso io ci tengo a te» mormorò a mo’ di spiegazione, nascondendo il volto contro la maglia dell’uomo per nascondere il rossore che le aveva invaso le guance. Per qualche attimo Ulf non rispose, poi posò una mano sulla sua testa, accarezzandole i capelli. «Sì», disse, con appena una nota divertita nella voce, «anch’io ci tengo a te.»

La ragazza avvertì qualcosa di non detto, nelle sue parole. «… però?» chiese, con un filo di inquietudine. Lei era stata sincera, quando aveva detto di tenere a lui: per lui non era lo stesso?

«Non c’è nessun però» sorrise l’uomo, accorgendosi del suo disagio e accarezzandole la guancia. Lidia lo guardò, mordendosi inconsciamente le labbra. «No?» chiese di nuovo, poco convinta.

Lui fece per negare, ma poi si bloccò, cercando nei suoi occhi la risposta a una domanda mai posta. «Devo dirti una cosa» disse all’improvviso Ulf. «Non è niente di che, a dire il vero, però credo che sia giusto che tu lo sappia.»

Il tono in cui pronunciò quelle parole le provocò una fitta allo stomaco e Lidia lo guardò con gli occhi sgranati, mentre le sue dita si stringevano automaticamente sulla maglia dell’uomo. «Che cosa?» balbettò, sentendo una paura irrazionale impossessarsi di lei.

«Non guardarmi così, te l’ho detto, che non è niente di che» si affrettò a rassicurarla Ulf. «È solo che, all’inizio, quando ho accettato di sposarti, non avevo intenzione di tenerti con me.»

Oh.

Non sapendo bene cosa farsene di quell’informazione, Lidia aprì e chiuse un paio di volte la bocca, senza riuscire a formulare la domanda giusta. «In che senso?» chiese, dopo diversi secondi.

Ulf esitò. «Le cose tra romani e germanici non andavano tanto bene già allora» spiegò. «Sapevo che, prima o poi, la situazione sarebbe esplosa, come effettivamente ha fatto. Speravo… be’, speravo che allora i romani se ne sarebbero tornati a casa e contavo sul fatto che tu avresti colto l’occasione al volo e saresti tornata a Roma con loro.»

Lidia lo guardò senza capire. «Non capisco» disse, confusa. «Ma allora perché mi sei corso dietro, quella notte che ho cercato di scappare?»

Ulf si strinse nelle spalle. «Allora era troppo presto: mi serviva una scusa per dimostrare a Erin che io avevo fatto tutto il possibile per tenerti con me e che non era certo colpa mia, se ci trovavamo in una situazione di guerriglia nella quale le leggi normali non valevano più niente…»

Lidia annuì. «Mh… avevi pianificato tutto, eh?» Ulf sorrise, ma tenne gli occhi bassi. «Non avevo certo pianificato il fatto che tu saltassi dalla finestra, ma, per il resto… sì, mi ero fatto i miei programmi.»

«E perché me lo stai dicendo proprio adesso?» gli chiese ancora la ragazza.

«Quel tuo amico…» il giovane aggrottò la fronte, interrompendosi per un istante. «Non so, ho pensato che forse anche tu potessi esserti fatta un piano di fuga e… ecco, io ho cambiato idea, ma forse tu no?»

«Ho cambiato idea anch’io» replicò d’istinto la fanciulla, con il cuore che improvvisamente aveva accelerato i battiti. «Non ho più voglia di scappare.»

Ulf annuì. «Sì, me l’hai già detto tante volte e, a questo punto, penso di potermi fidare… era solo un dubbio che avevo. Come io mi ero fatto un piano, mi pareva solo logico che tu avessi fatto altrettanto.»

Tito. Diglielo, la incitò la sua coscienza, questo è il momento adatto. Te l’ha chiesto. Diglielo. Non si arrabbierà.

Lidia inspirò profondamente, stringendo i denti per darsi coraggio. Sì. È giusto.

Subito dopo, un impulso contrastante. No. Hai mentito, prima, non puoi cambiare idea adesso.

Diglielo.

La fanciulla deglutì. «Sono… sono cambiate tante cose, adesso» sussurrò, cercando di trovare le parole adatte. «Prima di conoscerti non avevo idea di come sarebbe stato. Pensavo… pensavo delle cose che adesso non penso più.» Lidia si interruppe, asciugandosi le mani sudate sulla gonna e cercando una via per cui procedere. «Io…»

«Non è tutto.»

Le parole di Ulf, quasi sputate, la costrinsero a interrompersi e fu solo in quel momento che la fanciulla si accorse della tensione dell’uomo. Era talmente presa dalle sue paure che non si era accorta che Ulf non sembrava passarsela meglio. «Come?» chiese, disorientata.

Il volto del giovane si contrasse in una smorfia, come se fosse stato costretto a mandare giù un boccone amaro. «Anch’io pensavo delle cose che adesso non penso più» disse, riprendendo le parole di lei. «Prima era diverso, prima sarei stato disposto a fare delle cose che… delle cose a cui adesso non posso neanche pensare, e…»

Lidia raddrizzò la schiena e, in preda a un presagio che la raggelò, alzò lo sguardo sul volto del marito. «Quali cose?»

Ulf esitò, come se parlarne gli costasse una fatica enorme. «Avevo anche preso in considerazione l’ipotesi che tu non volessi affatto andartene.»

La fanciulla non commentò, come pietrificata dal significato che intuiva dietro a quelle parole. Avrebbe quasi voluto che l’uomo lasciasse le cose com’erano, che non parlasse più, ma Ulf proseguì nella sua spiegazione, evidentemente intenzionato a mettere in chiaro le cose. «Pensavo… pensavamo che, nel caso tu non volessi andartene di tua spontanea volontà, si sarebbe potuto fare qualcosa per convincerti ad andartene. Oppure…», l’uomo si interruppe, prima di continuare, tutto d’un fiato, «oppure avremmo trovato un modo per toglierti di mezzo.»

Lidia si allontanò bruscamente da lui, in preda all’orrore. «Togliermi di mezzo?» sbottò, incredula. «Vuoi dire uccidermi?»

Ulf mosse un mezzo passo nella sua direzione, ma poi si bloccò, frustrato. «Sì», ammise, prima di correggersi, «no, non lo so! Era una cosa molto vaga, teorica, non avevo pensato ai dettagli! Lidia… non ho mai pensato di farlo davvero!» Davanti all’angoscia che poteva leggere sul viso del marito, la fanciulla smise di indietreggiare, ma mantenne comunque le distanze. Sollevando le mani, Ulf provò a calmarla. «Erano dei pensieri rivolti a una sconosciuta, a un’idea, più che a una persona reale. Non so se capisci cosa intendo.»

Lidia lo guardò di soppiatto, corrucciata, col cuore che le martellava nel petto e un cattivo sapore in bocca. Sì, anche se quello che le aveva rivelato Ulf l’aveva riempita di sgomento, sfortunatamente riusciva a capire quello che intendeva. Quando suo padre le aveva comunicato il suo destino, in quel lontano giorno d’aprile, lei non aveva progettato di uccidere quello sconosciuto che l’avrebbe portata via di Roma e dalla sua vita, ma, se le fosse giunta la notizia che quel barbaro era morto, lei avrebbe di certo esultato. Ma non ho mai pensato di ucciderlo io stessa. Non ne sarei mai capace. E questo fa tutta la differenza del mondo.

Accigliata, alzò lo sguardo su Ulf. «Quando mi hai conosciuta, hai pensato di uccidermi?» chiese, con la voce che inciampava sull’ultima parola. L’uomo scosse immediatamente il capo. «No» negò, guardandola negli occhi. «Di mandarti via sì, almeno all’inizio, ma di farti veramente del male no, mai.»

Malgrado il turbamento che ancora le stringeva la gola, Lidia avvertì la sua sincerità. «Mai?» chiese, senza riuscire a evitare che la sua voce suonasse un po’ sollevata.

«No» confermò l’uomo, prima di abbozzare un pallidissimo sorriso. «Be’, forse all’inizio mi è venuta voglia di tirarti le orecchie, qualche volta. Eri davvero impossibile. Ma, a parte quello…» Lidia annuì, mentre le sue spalle si rilassavano e tutto il suo essere tirava un sospiro di sollievo. Sì, rilassati, ma non troppo, l’avvertì qualcosa all’interno della sua testa. Non si sa mai.

«Lidia», mormorò ancora Ulf, cercando i suoi occhi, «io non ti farei mai del male, spero che questo tu lo sappia. Se ti ho raccontato queste cose è solo perché volevo essere sincero, con te, adesso più che mai. Ci sono già tanti segreti da queste parti, non voglio che ce ne siano anche tra di noi.»

La ragazza si trovò ad annuire e fu tentata di rivolgergli un piccolo sorriso, ma si affrettò a soffocare quell’impulso. No, niente sorrisi! La rimproverò il suo inconscio. Tu sei arrabbiata, con lui! Rimani arrabbiata, se lo merita!

Ma se lo meritava veramente? Lidia non poteva fare a meno di pensare che ci fosse qualcosa di stonato, in quello che aveva scoperto. «Saresti stato davvero in grado di fare una cosa del genere a tua moglie? O, più in generale, a una persona che non ti aveva fatto niente?» gli chiese improvvisamente, passandosi le mani sulle braccia in cerca di conforto.

Ulf esitò. «Non lo so» disse poi, con voce stanca. «Non credo, in tutta onestà. Era solo un’idea stupida, senza fondamento, in effetti.» Lidia si morse le labbra. «Però ci hai pensato comunque.» L’uomo sospirò. «Se devo essere sincero», ammise, «il suggerimento è arrivato da Karl. Ma io non mi sono opposto, ho le mie responsabilità. Non cerco giustificazioni.»

Anziché rassicurarla, quelle parole la terrorizzarono. Lidia si rese conto di non aver mai veramente pensato che Ulf sarebbe stato in grado di farle del male, ma Karl… Karl era un’altra storia. Improvvisamente l’odio che aveva visto brillare nei suoi occhi chiari assunse un significato del tutto diverso, le ombre doloranti che già avevano iniziato a formarsi là dove le sue mani l’avevano stretta le sembrarono più pericolose e le parole che le aveva rivolto prima di allontanarsi da lei si fecero infinitamente più minacciose.

Karl voleva ucciderla. Karl poteva ucciderla.

Accorgendosi dell’improvviso tormento della moglie, Ulf si accigliò. «Lidia?» Senza quasi rendersene conto, dimenticandosi del suo proposito di tenere le distanze per un po’, la fanciulla si lanciò verso di lui, artigliandogli gli avambracci. «Karl mi ha minacciata, prima» disse, concitata, con gli occhi spalancati per la paura. «Mi ha spinta contro il muro, mi ha fatto male!»

Negli occhi di Ulf passò un’ombra scura, ma poi l’uomo si liberò dalla presa di Lidia e strinse le mani della giovane nelle sue. «Prima che arrivaste qui?» la interrogò. La ragazza annuì. «Non gli sono mai piaciuta» mormorò, spaventata. «Mi odia. Non so perché, ma mi odia.»

Ulf scosse la testa. «Gli parlerò io, gli dirò di non toccarti più» le promise, deciso. «Però ti assicuro che Karl odia Roma, non te.» La fanciulla alzò su di lui gli inquieti occhi scuri. «Per lui siamo la stessa cosa.» «Non lo siete, credimi» la contraddisse il giovane. «I motivi per cui lui odia Roma non hanno nulla a che fare con te.»

Non sentendosi in grado di ribattere – del resto conosceva troppo poco il cognato per poter capire cosa gli passasse per la testa – Lidia annuì, abbassando gli occhi a terra. Poi si portò le mani al petto: malgrado le rassicurazioni di Ulf, lei non si sentiva affatto tranquilla. Esitante, quasi aspettandosi che lei si scostasse o fuggisse via, l’uomo le posò una mano su una spalla e attese una sua reazione. I suoi occhi erano guardinghi e sul suo volto teso la giovane lesse un’inquietudine che non le era mai capitato di osservare.

Lidia sospirò. Anche se non aveva affatto gradito le rivelazioni fattele da Ulf, capiva perfettamente che qualsiasi piano suo marito avesse fatto prima di conoscerla non era rivolto a lei, bensì all’idea astratta di una persona senza volto né identità. Scuotendo appena il capo, la fanciulla chiuse di nuovo la distanza tra loro e fece scivolare le braccia attorno alla vita dell’uomo, appoggiandogli la testa sul petto. Avvertì immediatamente il suo sospiro di sollievo e le sue braccia che la circondarono, stringendola a sé.

Gli voleva bene. Nonostante tutto, gli voleva bene. Anche se non so niente di te. Ed era vero. Dopo tre mesi passati insieme, Lidia si accorgeva di non sapere praticamente nulla di suo marito. Lo conosceva solo per quello che aveva avuto modo di vedere durante la loro vita comune, ma il suo passato rimaneva avvolto nella nebbia più fitta, o quasi. Chissà se mi piacerebbe ancora, se conoscessi tutti i dettagli del suo passato. Chissà se io piacerei a lui, se sapesse chi ero, quando ero a Roma.

… se sapesse di Tito.

Lidia nascose una smorfia contro la stoffa ruvida della maglia dell’uomo. Dalla tensione che avvertiva nei suoi muscoli, tesi sotto il palmo delle sue mani, la fanciulla capiva quanto dovesse essere stato difficile, per lui, farle quella confessione. La ragazza aggrottò la fronte, chiedendosi per l’ennesima volta se non avrebbe dovuto approfittare dell’occasione e rivelargli chi fosse veramente Tito. Subito, però, dovette trattenere l’impulso di scuotere il capo in un segno di diniego. Alla luce di quello che aveva appena scoperto, sentiva che dire la verità avrebbe potuto costituire un pericolo per il giovane romano: se anche Ulf non gli avesse fatto nulla, chi avrebbe potuto dire come avrebbe reagito Karl?

Ci sono troppe cose che non so, si disse Lidia, stringendo per un secondo tra i pugni la stoffa che ricopriva la schiena del germanico. Se io adesso dico a Ulf come stanno veramente le cose, chi mi assicura che lui non corra a riferire tutto a Karl? Evidentemente sono molto più uniti di quanto non pensassi…

No, non poteva correre quel rischio. Non poteva far correre a Tito quel rischio.

E poi, anche se Ulf si tenesse tutto per sé… quasi vergognandosi di quel pensiero, la fanciulla si rese conto di non riuscire a fidarsi completamente di quella che avrebbe potuto essere la reazione del marito. Perché non so di cosa sia veramente capace, riconobbe, con una smorfia amareggiata. D’un tratto, la giovane fu sfiorata da un pensiero scomodo. Anche se il suo istinto le gridava di non farlo, Lidia sollevò il capo e si ritrovò a porre a Ulf una domanda di cui non era certa di voler conoscere la risposta. «Ulf?»

«Mh?» Nei suoi occhi azzurri Lidia vide ancora un’ombra di preoccupazione, ma la ignorò. «Hai mai ucciso qualcuno?» chiese, con voce sorprendentemente ferma.

L’uomo lasciò passare solo un istante. «Sì.»

Forse fu il tono con cui pronunciò quella singola sillaba, forse l’espressione del suo volto, ma, senza bisogno di spiegazioni, Lidia capì e all’improvviso tutto assunse un significato diverso. «Per Unna?» chiese, sentendosi improvvisamente triste.

«Per Unna» confermò lui, con una voce così bassa che la ragazza dovette fare uno sforzo per udirlo.

«Per quelle cicatrici?» fece ancora lei.

«E per altro.»

Forse era un errore, doveva di certo essere un errore, ma la fanciulla non volle sapere più nulla. C’era Unna e c’erano le sue cicatrici, c’era un odio per Roma di cui nessuno voleva parlare e c’era quello sguardo distante negli occhi della donna, spettro dei suoi sogni che non si erano avverati. C’era qualcuno che era morto, sì, e, forse, c’era qualcuno che era rimasto vivo.

C’era soprattutto Ulf, si accorse, che la guardava triste, forse confuso, forse spaventato e, mossa da qualcosa su cui non aveva nessun controllo, Lidia si alzò in punta di piedi e gli affondò il viso nel collo, cercando il suo calore.

«Lidia», sospirò lui, e il tono della sua voce le fece capire che qualsiasi fantasma l’avesse tormentato un istante prima era già lontano, «è stato tanto tempo fa, ero un ragazzo e…»

«Non importa» lo interruppe lei.

L’uomo sbuffò, leggermente contrariato. «Dici così, ma…»

«Conosco tanti soldati» mormorò lei, sfiorandogli il petto con le mani. «I soldati vanno in guerra e in guerra muore tanta gente. Anche mio padre è stato nell’esercito, da giovane.»

«Ma io non sono un soldato» le fece notare lui. La fanciulla si strinse nelle spalle. «Cosa cambia?»

Ulf scosse il capo, come se avesse rinunciato a discutere, e Lidia si chiese se, per caso, non fosse lui a sentire il bisogno di parlare di quelle cose. Dopo un silenzio che si protrasse per alcuni minuti, la ragazza inclinò il capo all’indietro per incontrare i suoi occhi e i due rimasero a guardarsi in silenzio per qualche istante.

«Allora?»

Quella di Ulf non era una vera e propria domanda, ma Lidia la accolse con un sorriso lento, che non spezzava la tensione, ma, in un certo senso, la rielaborava.

«Allora» rispose.

L’uomo alzò la mano e con due dita seguì la curva del suo viso dallo zigomo al mento, ma, quando i suoi polpastrelli sfiorarono il punto in cui Karl l’aveva stretta, la giovane sussultò, mentre una fitta di dolore si irradiava verso il suo orecchio.

Gli occhi di Ulf parvero farsi più scuri, ma, prima che avesse il tempo di dire qualcosa, Lidia voltò leggermente il capo e gli baciò il palmo della mano, prima di stringergli leggermente la punta di un dito tra i denti. Ulf sospirò e la tirò più vicina a sé, senza smettere di fissarla intensamente. Le dita di Lidia corsero su verso il suo collo, fermandosi però sull’allacciatura della maglia dell’uomo. Mh. Stoffa.

Non voleva la stoffa, voleva toccare la sua pelle, sentirne il calore sulla punta delle dita. Velocemente, ma con una concentrazione quasi religiosa, Lidia slacciò un paio di bottoni e lasciò scivolare le mani sul corpo caldo dell’uomo. Ulf trattenne il fiato e lei, alzandosi sulla punta dei piedi, gli posò le labbra sulla gola, schiudendo appena la bocca per assaporare il sapore della sua pelle. Non avrebbe saputo dire da dove venisse quell’improvvisa necessità di sentirlo vicino, molto più vicino di quanto l’avesse voluto solo alcuni minuti prima, eppure quel bisogno parve alla fanciulla del tutto naturale.

La mano di Ulf le corse alla nuca e, scostandola da sé quel poco che bastava per chinarsi su di lei, l’uomo la baciò, toccandola come se fosse alla ricerca di rassicurazioni o conforto. Lidia inarcò la schiena con un sospiro, ma la differenza di altezza tra di loro era tale che presto il collo iniziò a dolerle e, inevitabilmente, la ragazza si irrigidì. Improvvisamente le mani dell’uomo si strinsero attorno alla sua vita e, con un movimento così rapido che Lidia faticò a capire che cosa stesse succedendo, Ulf invertì le loro posizioni e la sollevò, mettendola a sedere sul davanzale. Ah, meglio, pensò la giovane in uno sprazzo di praticità, prima di attirarlo a sé e trovare di nuovo la sua bocca. Mi sei mancato, pensò, accorgendosi all’improvviso di quanto avesse sentito la mancanza del contatto fisico con il marito, dei suoi baci e del suo tocco sul corpo.

Ulf doveva pensarla allo stesso modo, perché le sue mani scesero nuovamente sulla sua vita, forse alla ricerca di un passaggio che gli permettesse di insinuarsi sotto ai vestiti di lei. Non trovandolo a causa dell’abito lungo che Lidia indossava e che le ricadeva attorno alle ginocchia, l’uomo le sollevò la gonna e le fece scivolare le mani sulle cosce. Come davanti a una richiesta mai formulata ad alta voce, la fanciulla allargò le gambe, permettendo al compagno di insinuarsi tra di esse e avvicinarsi di più a lei. Poi, guidata dall’istinto, le strinse attorno a lui, tirandolo bruscamente contro di sé. Le mani dell’uomo corsero automaticamente ai suoi fianchi, toccando appena la pelle morbida celata dalla biancheria intima, e poi Ulf spinse il bacino contro quello della ragazza, alla ricerca di un contatto diverso.

Lidia inspirò bruscamente, deliziata dalla sensazione nuova e ancora sconosciuta e, scivolando sotto alla sua maglia, appiattì i palmi contro la schiena del marito, muovendo inconsciamente i fianchi per aumentare la frizione. La bocca di Ulf lasciò la sua e scese su suo collo, mentre l’uomo le sussurrava qualcosa che Lidia non capì.

La fanciulla chiuse gli occhi, sentendosi leggera e piena di vita, completamente concentrata sulla presenza solida dell’uomo contro di lei, su quello che le faceva provare e sul calore liquido che le riempiva il petto. Voglio…

Lidia non era affatto certa di riuscire ad articolare quello che voleva, ma, nel dubbio, scivolò un po’ all’indietro, offrendo più spazio di manovra al marito. Ulf però la trattenne e la ragazza gemette quando i suoi denti le sfiorarono un orecchio.

«Hai capito?»

Lidia corrugò la fronte e sbatté gli occhi nel tentativo di riemergere dalla nebbia che l’aveva avvolta. «Eh?» chiese, confusa.

Ulf ridacchiò e posò la fronte contro a quella della giovane, baciandole il naso. «Ho detto che sto aspettando delle persone.»

Mh, delle persone…

Lidia si immobilizzò. Delle persone?!

«Adesso?» chiese, fissandolo con gli occhi spalancati. L’uomo si morse le labbra nel tentativo di rimanere serio. «Eh, sì.»

Inorridita, la ragazza lo spinse via, senza però riuscire ad allontanarlo da sé. «E perché non me l’hai detto prima!?» sbottò, facendolo scoppiare a ridere.

«A dire il vero te l’ho detto, ma non mi hai ascoltato…» replicò lui, con uno scintillio negli occhi chiari che la fece arrossire violentemente. Ridendo, l’uomo fece un passo indietro e Lidia balzò giù dal davanzale, affrettandosi a raddrizzare la gonna e a cercare di sistemare i capelli spettinati. Ulf le posò di nuovo le mani sui fianchi, lisciandole le pieghe del vestito, e lei gli lanciò un’occhiata critica. «E allacciati la maglia» borbottò, provvedendo poi di persona a riallacciare i bottoni che le sue stesse dita avevano slacciato poco prima. Quando fu relativamente soddisfatta della situazione dei loro abiti, la giovane fece per allontanarsi, ma la presa di Ulf si fece più salda e l’uomo la osservò dall’alto al basso, alla ricerca della conferma che il peggio fosse passato.

Quello di cui avevano parlato quel pomeriggio non era certo un argomento che poteva essere liquidato con poche battute, ma, per il momento, Lidia decise che ne avevano discusso abbastanza. Era certa che il discorso sarebbe riemerso, prima o poi, e allora ci sarebbero state molte cose da dire – da parte di entrambi – ma quello sarebbe avvenuto solo quando anche lei si fosse sentita pronta a rivelare a Ulf la sua parte di segreto. Presto, si ripromise, ma non oggi.

Con un piccolo sorriso, Lidia allungò una mano e con due dita scostò una ciocca di capelli chiari che era ricaduta sul viso dell’uomo, prima di scivolare lungo le sue braccia in una carezza e stringergli le mani, rassicurante. Visibilmente più rilassato, Ulf annuì e le posò un bacio sui capelli bruni. Davanti a quella manifestazione d’affetto, la fanciulla non poté impedire che il suo sorriso si facesse più ampio.

***

Avrebbe già dovuto tornare a casa da un pezzo – Donna Edda non sarebbe stata felice di scoprire che il pavimento non era stato lavato nemmeno quel giorno – ma nessun soldato si era presentato alla porta della bottega per scortarla fino alla sua abitazione e Ulf stava ancora lavorando alla rifinitura di un mobile.

Lidia lo guardò con gli occhi socchiusi, senza osare aprir bocca. Sarà, ma a me sembra uguale a prima… pensò, lasciando scorrere lo sguardo sull’armadietto di abete.

L’uomo si stava affaccendando attorno all’anta sinistra da almeno mezz’ora, ma, malgrado lo avesse osservato con attenzione, la ragazza non era riuscita a scorgere il minimo cambiamento nel legno chiaro. E, tra l’altro, aveva scoperto che Ulf non accettava volentieri le critiche, quando c’era di mezzo il suo lavoro.

Permaloso, pensò con una smorfia la fanciulla, ricordando la risposta poco educata che aveva ricevuto quando si era permessa di fargli notare che, forse, avrebbe potuto lavorare un po’ più velocemente.

«Dieci minuti e ho finito» le comunicò l’uomo, senza alzare gli occhi dalla punta dello scalpello. «Mh-mh» commentò lei, sistemandosi meglio sulla cassapanca sulla quale era seduta.

Dopo qualche minuto, qualcuno bussò alla porta e Lidia si voltò di scatto verso la direzione del suono. «Aspetti ancora qualcuno?» chiese, senza riuscire a nascondere la nota di allarme che distorse le sue parole. Chi può essere a quest’ora? Unna? Un soldato che vuole riportarmi a casa? Karl? Oh, Dèi, spero di no! Non sarà Tito, vero? Non può essere così stupido da venire qui…

Nella frazione di secondo in cui quei pensieri balenarono nella mente della ragazza, Ulf aveva già posato a terra gli attrezzi e aveva raggiunto l’uscio, aprendo di scatto la porta. «Ah, ancora tu» lo sentì dire.

Incuriosita – e un po’ rinfrancata dal tono distaccato dell’uomo – Lidia allungò il collo e spiò la persona che attendeva alla porta. Il soldatino biondo. Lucio. Alzandosi in piedi con un sospiro di sollievo – Lucio non era pericoloso – la fanciulla raggiunse il marito. «Ciao» fece, sorridendo cordialmente in direzione del legionario. «Grazie per essere venuto, ma non ce n’era bisogno. Torno a casa con Ulf.»

Il giovane romano la guardò con la bocca socchiusa per qualche secondo, poi si riscosse. «Ehm, no, a dire il vero non ero venuto per portarvi a casa.»

Lidia e Ulf si scambiarono uno sguardo stupito, poi l’espressione dell’uomo si indurì. «E allora cosa sei venuto a fare?»

Lucio spostò nervosamente il peso da un piede all’altro, ma sostenne lo sguardo del germanico. «Donna Erin e Fratello Kay vogliono vedervi» annunciò, con un tono che lasciava intendere quanto poco gli piacesse essere usato come messaggero dai due sacerdoti.

«Ancora?» chiese stupita Lidia, prima di riuscire a fermarsi. Il soldato si strinse nelle spalle. «Sì. Non so esattamente perché vi abbiano convocati» ammise, con una smorfia. «Mi hanno solo detto di portarvi da loro. La Sacerdotessa sembrava normale, comunque.»

«Normale?» ripeté Ulf, con un sopracciglio sollevato.

«Sì, non arrabbiata, intendo.»

Lidia si portò una mano alla bocca per nascondere un sorriso sarcastico: che il soldatino avesse recentemente avuto modo di avere a che fare con una Donna Erin arrabbiata? Allargando le braccia impotente, Ulf sospirò, rendendosi conto di non avere un motivo valido che gli permettesse di opporsi a quella convocazione. «Va bene, andiamo.»

Quando raggiunsero la loro meta, Lidia rallentò inconsciamente il passo, sorpresa. Anche se era passato un solo giorno dall’ultima volta in cui vi aveva messo piede, in meno di ventiquattro ore la casa della sacerdotessa sembrava essersi trasformata in un distaccamento dell’accampamento romano. C’erano due soldati a guardia della porta e altri quattro che si aggiravano nelle vicinanze. Ancora prima di vedere gli altri legionari, Lidia si rese conto, semplicemente incontrando lo sguardo seccato del servo germanico che venne ad aprire loro la porta, che la presenza militare era massiccia anche all’interno delle mura chiare.

A differenza di quanto si sarebbe aspettata, la giovane non vide Celano, ma…

No. Non è possibile.

Tito.

C’era Tito, lì a pochi metri di distanza da lei.

E, accanto a lei, c’era Ulf.

Tito e Ulf, nella stessa stanza. E lei in mezzo, con tutti i suoi segreti e le sue bugie.

No, pensò ancora, mentre il suo cervello eseguiva un elaborato sobbalzo, no, no, no, non sono pronta!

Tito era immerso in una conversazione con due soldati che la ragazza non aveva mai visto prima e, per un istante, Lidia si illuse che il giovane non si voltasse, permettendole di sgattaiolare all’interno e raggiungere Donna Erin senza essere notata da lui.

La fanciulla mosse tre passi nella sua direzione, sospinta da suo marito e da Lucio, e Tito continuò a parlare. Poi qualcosa attirò la sua attenzione e il giovane romano si voltò verso di lei. Anche a due metri di distanza Lidia vide benissimo la sorpresa, la felicità, la rabbia e infine l’espressione indecifrabile che si susseguirono con una velocità sorprendente sul suo volto.

Infine, Tito sorrise.

«Lidia! Anche tu qui?»

***

Ecco, finalmente ho superato questa fase di transizione – scriverla è stato pesante, rileggerla ancora di più. Ormai i capitoli già pronti sono agli sgoccioli, quindi il vostro supporto è ancora più importante: commenti e osservazioni varie sono un toccasana, quando l’ispirazione scarseggia!

 

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Capitolo 27
*** 26. Faccia a faccia ***


Lidia lo guardò, incredula. Non oserà farlo davvero, pensò, con il cuore in gola. Con la coda dell’occhio, la fanciulla vide Ulf voltarsi a guardarla. «Ah», disse allora, senza riuscire a nascondere il nervosismo che incrinò la sua voce, «sì, Donna Erin vuole vedermi.»

Tito non si mostrò particolarmente interessato a quell’informazione e, anzi che commentare, spostò lo sguardo su Ulf. «Tuo marito?» chiese, tornando a rivolgersi alla ragazza. Lidia deglutì. «Sì», ripeté, rassegnandosi all’inevitabile, «Ulf. Ulf, questo è quel mio amico di cui ti ho parlato, Claudio.» Nel pronunciare quelle parole, Lidia enfatizzò il nome fittizio che aveva assegnato a Tito, sperando che il giovane comprendesse la situazione e decidesse di reggerle il gioco.

Oh, sono certa che la comprende benissimo, la situazione, commentò sarcasticamente la vocina nella sua testa. C’è solo da vedere se gliene frega qualcosa o se invece intende sfruttarla a suo favore…

Non può essere così stupido, rifletté però Lidia. Non c’è nessun modo per sfruttarla a suo favore. Come a conferma di quel pensiero, Tito fu abile a mascherare la sorpresa nel sentirsi chiamare in quel modo, ma il sollievo di Lidia fu solo momentaneo: il sorriso che comparve sul volto del giovane, infatti, non le piacque affatto.

Accanto a loro, Lucio, all’oscuro di tutto, fece passare lo sguardo da Lidia a Tito, palesemente confuso. Prima che il giovane soldato avesse il tempo di parlare e dire qualcosa che avrebbe svelato l’inganno, però, Tito gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla. «Oh, Lucio», sorrise, «se vuoi andare, vai pure. A loro due ci penso io. Li accompagno io da Donna Erin, se tu hai da fare.»

Il ragazzo rimase per qualche istante a bocca aperta, ma poi annuì e si allontanò da loro, abbozzando un cenno di saluto e un vago sorriso. Quando furono rimasti soli, Tito tornò a osservare Lidia e Ulf e, in una frazione di secondo, la fanciulla si rese conto che il giovane non sapeva cosa dire: malgrado il suo atteggiamento spavaldo, l’incontro inaspettato doveva aver colto di sorpresa anche lui, il che le dava un certo vantaggio. «Magari possiamo parlare più tardi?» propose, rapida, consapevole che ogni istante era prezioso. «Credo che sia meglio non fare aspettare Donna Erin e l’altro Sacerdote…» Così dicendo, la ragazza afferrò la mano del marito e mosse un passo verso la stanza in cui in passato si erano svolti tutti gli incontri con la Sacerdotessa.

«Aspetta.»

Lidia si immobilizzò. Era stato Ulf a parlare, non Tito. In preda a un pessimo presentimento, la ragazza alzò cautamente gli occhi sull’uomo. «Sì?»

«Non c’è fretta» disse lentamente lui, squadrando il giovane romano da capo a piedi. Inconsciamente, la fanciulla strinse i pugni finché le unghie non le si piantarono nel palmo. Avrebbe obiettato, sarebbe scappata via, se avesse potuto farlo, ma capiva con una terribile chiarezza che non aveva modo di sottrarsi a quel confronto. «Non ci conosciamo» continuò Ulf, rivolgendosi a Tito e facendo deglutire nervosamente Lidia.

«No, infatti.» Tito sorrise e, se non l’avesse conosciuto abbastanza bene per scorgere la scintilla fredda che brillava nei suoi occhi, la fanciulla avrebbe detto che fosse sincero. «Spero che non ti dispiaccia, se sono venuto a trovare tua moglie» continuò il ragazzo, fissando il germanico negli occhi e ignorando Lidia. «Noi due ci conosciamo da moltissimi anni e ho approfittato di un viaggio in Germanica per passare a farle visita.»

«Certo che no» rispose Ulf, sebbene la rigidità nella sua postura sembrasse affermare il contrario. «Mi sorprende solo non aver mai sentito parlare di te. Dovete essere stati davvero molto legati, se ti sei preso la briga di venire fino a qui: nemmeno i suoi genitori sono mai venuti a trovarla, da quando ci siamo sposati.»

Tito si mostrò sorpreso e si voltò verso Lidia. «Davvero non gli hai mai parlato di me?» Sentendosi messa all’angolo, la fanciulla fu scossa da un fremito di rabbia. «E perché avrei dovuto?» replicò, sdegnosa. «Gli ho raccontato solo le cose più importanti, di certo non gli interessa sapere ogni dettaglio su quello che facevo a Roma, no?» Così dicendo, Lidia guardò il marito, ma, se cercava una conferma, sul suo volto non ne trovò alcuna. «Ogni dettaglio no», disse Ulf e per un istante nei suoi occhi passò un’espressione che la riportò indietro ai primi tempi della loro convivenza, «ma lui non mi sembra esattamente un dettaglio.»

Tito incrociò compostamente le braccia dietro la schiena e guardò Lidia, restando in attesa di ulteriori sviluppi. Lei scosse il capo, cercando una risposta adeguata. «È solo un mio amico, te l’ho detto. Avevo molti amici, a Roma» disse, facendo uno sforzo per controllare la voce. «Non avevo idea che ti interessasse di loro.»

Ulf si strinse nelle spalle. «E invece mi interessa» disse, dopo qualche istante di silenzio. «Non so praticamente nulla di quello che hai fatto prima di venire qui. So solo che sei la figlia di un Senatore, che hai un’amica che vive a nord e che eri fidanzata…» A quelle parole, Tito si illuminò. «Ah, gli hai parlato di Tito?» sogghignò. «Non l’avrei mai detto!»

La ragazza lo fulminò con gli occhi. «Zitto!» sbottò, irritata. «Non avevo motivo per non farlo, comunque.»

Il giovane si limitò a fissarla con un sorriso scettico, mentre Ulf passava lo sguardo dall’uno all’altra, sospettoso. «Non mi sembrate poi così amici» disse, lentamente. «È successo qualcosa, tra di voi?» Nella sua voce a Lidia parve di cogliere un sottointeso pericoloso e immediatamente il suo volto cambiò colore e virò verso il bianco.

Tito, per nulla a disagio, fece un sorriso storto, tornando ad avvicinarsi alla giovane. «Non so, Lidia: è successo qualcosa, tra di noi?»

Lidia avvertì un fremito di rabbia scuoterle lo stomaco e strinse le mani in un pugno nel tentativo di dominarsi. Smettila, avrebbe voluto dirgli, ma si limitò a stringere i denti, distogliendo lo sguardo e cercando una risposta. Prima che avesse il tempo di trovarla, però, la voce di Ulf la costrinse a voltarsi verso il marito. «Va bene» sbottò l’uomo, cupo. «Adesso voglio sapere cosa sta succedendo.» I suoi occhi danzarono tra i due giovani e Lidia non fu in grado di sostenere il suo sguardo. Tito, al contrario, scosse le spalle. «Vorrei tanto saperlo anch’io.»

«Cosa vuoi dire?» chiese di nuovo Ulf, avvicinandosi a lui. Il giovane romano non parve intimorito dal suo atteggiamento minaccioso e si voltò verso Lidia, guardandola con il capo inclinato. «Vedi», disse, con tono quasi svagato, rivolgendosi al germanico, «quando ci siamo separati, a Roma, eravamo in ottimi rapporti. Ora, invece, sembrava odiarmi. Quindi, sì: anch’io vorrei sapere che cos’è successo in questi ultimi mesi.»

Sentendosi chiamata in causa, Lidia scosse il capo con forza. «Non ti odio, lo sai», sospirò, fronteggiando Tito, «ma non mi piace il tuo atteggiamento.»

«Quale atteggiamento?» insistette il ragazzo, avvicinandosi a lei. Istintivamente, la fanciulla alzò una mano per bloccarlo, con la sensazione di essere presa tra due fuochi. «Questo tuo essere così insistente.»

Tito non riuscì a nascondere l’amarezza che velò il suo sguardo. «Non mi sembra di essere particolarmente insistente» mormorò, cercando gli occhi della ragazza. «Sono solo rimasto molto sorpreso: sei cambiata e non capisco perché.»

«Sono cambiata e basta» replicò la ragazza, con una smorfia. Se, da un lato, sentiva che Tito non aveva tutti i torti, a esigere quella spiegazione, dall’altro avvertiva chiaramente che quello non era il momento adatto per discutere di quelle cose. «È normale cambiare» riprese. «Anche tu l’hai fatto, comunque.» Il giovane scosse di nuovo il capo. «Sì, ma l’ultima volta che ci siamo visti, a Roma, eri terrorizzata. Ti disperavi all’idea di venire qui e…» Tito si interruppe, ma guardò la ragazza con un’intensità che la fece tremare.

«E?» La freddezza che Ulf riuscì a mettere in quella singola vocale le provocò un capogiro.

«E pensavo a un modo per scappare e tornare a casa» mormorò la fanciulla. «Lo sai.»

Ulf rimase in silenzio per qualche istante e Lidia vacillò sotto al peso degli occhi dei due uomini. «E immagino che il fatto che lui sia qui non abbia niente a che fare con quei progetti, giusto?» chiese il germanico, e c’era qualcosa, nel tono distaccato della sua voce, che le strinse dolorosamente il petto. Era disprezzo? O forse delusione? Per un qualche motivo, quella seconda ipotesi le fece più male della prima.

Con gli occhi lucidi suo malgrado, Lidia guardò il marito. «Ulf, cosa stai…»

L’uomo la bloccò con un cenno della mano. «Lidia.»

Sentendosi come sull’orlo di un precipizio, la fanciulla incontrò lo sguardo cupo di Ulf e fece per parlare, per spiegare, per trovare forse una nuova scusa, ma improvvisamente divenne consapevole di un qualcosa - un formicolio, una pressione all’altezza della nuca - che la costrinse a girarsi fino a incontrare gli occhi neri di fratello Kay che la fissavano attraverso la stanza. Per un qualche motivo non fu sorpresa di vederlo lì, intento a scrutarli con quella sua faccia insondabile.

«Va tutto bene, qui?» Lidia sussultò e i due uomini accanto a lei si voltarono di scatto verso Donna Erin. La giovane non si era accorta della presenza della Sacerdotessa e, a giudicare dal modo in cui avevano reagito, nemmeno Ulf e Tito l’avevano sentita avvicinarsi. «Benissimo» rispose il germanico, asciutto.

«Chi è questo giovanotto?» chiese la donna, osservando Tito con il capo leggermente inclinato. «Un mio amico» sussurrò Lidia, sperando di non essere costretta a rivelare la vera identità del ragazzo. Tanto Ulf l’ha capito, che gli stai raccontando un sacco di balle! Cantilenò la sua coscienza, quasi compiaciuta. Ti sta bene, ti sta bene.

Non cambiava nulla, comunque. Se proprio doveva affrontarlo, preferiva farlo nel privato della loro abitazione, non in mezzo a tutti quegli sconosciuti. E, soprattutto, non davanti a lui, pensò con un fremito, lanciando un’occhiata furtiva verso il giovane Sacerdote con la pelle scura. Quell’uomo mi dà i brividi.

Per sua fortuna, Donna Erin si limitò a sollevare un sopracciglio, evidentemente poco convinta da quella spiegazione così superficiale, ma non commentò. «Magari dopo facciamo due chiacchiere» disse, rivolta a Tito. «Mi piace conoscere i nuovi arrivati.» Poi la donna si voltò verso Ulf. «Adesso però devo chiederti di venire con me. Devo parlarti con una certa urgenza.»

Ulf annuì e, per una volta, Lidia fu grata dell’intromissione di Erin. «Va bene.»

Mentre attraversavano insieme la stanza seguendo la Sacerdotessa, Lidia cercò di incrociare lo sguardo del marito, ma l’uomo tenne saldamente gli occhi fissi davanti a sé, rifiutandosi di guardarla. Lidia si strinse istintivamente una mano al petto, in preda all’angoscia. È colpa tua, le ricordò di nuovo la sua coscienza, solidale.

Ha capito? Si chiese la fanciulla, mentre il suo cervello schizzava come impazzito tra le mille ipotesi che si erano materializzate nella sua mente. Oh, certo che ha capito, ma cosa ha capito? Quanto ha capito? Sa che è Tito? È arrabbiato? Ma è ovvio che è arrabbiato, cretina! Perché non dovrebbe esserlo? Oh, Dèi, oh, Dèi! Ma davvero ha capito? Come ha fatto? E adesso? Quel flusso di pensieri che la stava conducendo rapidamente verso uno stato di panico si interruppe bruscamente quando raggiunsero Fratello Kay e Donna Erin si fermò davanti a lui.

Va bene. Adesso respira, si fece coraggio la fanciulla, cercando di dominarsi come meglio poteva. Ignara dell’angoscia di Lidia – o forse ignorandola deliberatamente – la Sacerdotessa si rivolse a Ulf. «Vieni, andiamo di sopra. Lì potremo parlare meglio: non sarà una cosa rapida.»

Così dicendo, la donna si avviò verso la scala di legno che portava al piano superiore e Ulf la seguì senza una parola. Lidia fece per avviarsi dietro di loro, ma una mano calò sulla sua spalla, impedendole di proseguire. «Tu no, signorina.»

Con gli occhi spalancati per la paura e la confusione, Lidia si voltò verso il Sacerdote. «Perché?» chiese, con voce tremante.

«Erin deve parlare con tuo marito e io, invece, ho bisogno di parlare con te.»

Se possibile, gli occhi di Lidia si fecero ancora più grandi. «C-con me?» balbettò, confusa. L’uomo fece un cenno d’assenso e spalancò la porta alle sue spalle. «Precisamente. Prego, entra pure.»

Sentendosi come una preda che si accinge a entrare in una trappola, Lidia fu tentata di aggrapparsi allo stipite della porta e non muoversi più da lì, ma poi un moto d’orgoglio improvviso le ribollì nel petto. Testa alta, si disse, cercando di essere risoluta. Dopotutto si tratta solo di una conversazione. Non può succedermi nulla di male.

Mentre lei cercava di farsi forza, Fratello Kay si era accomodato dietro alla scrivania di legno lucido che si trovava nella stanza in cui Donna Erin era solita accogliere i propri ospiti. Lidia lo guardò mentre si sistemava per un istante con i gomiti appoggiati sulla scrivania e, con una fugace smorfia di frustrazione, spingeva la sedia più lontana dal tavolo, cercando di trovare una posizione comoda in uno spazio forse un po’ troppo angusto per una persona con le gambe così lunghe. Sembra un ragazzino, pensò improvvisamente. Chissà quanti anni ha. Invece di farglielo sembrare più innocuo, però, quell’osservazione lo rese ancora più inquietante ai suoi occhi.

Il giovane la guardava con insistenza, evidentemente aspettando che lei si sedesse, e la fanciulla percorse la stanza con lo sguardo: le altre volte in cui si era trovata lì, si era seduta sulle poltrone di pelle bianca, ma di certo non poteva fare lo stesso, adesso che il suo interlocutore era seduto al tavolo.

Cercando di mascherare la propria impazienza, il Sacerdote accennò alla sedia che faceva mostra di sé sul lato opposto della scrivania. «Si sied… siediti.» Lidia sbatté gli occhi, confusa, ma poi si riscosse e si affrettò a fare quello che l’uomo le aveva ordinato. Perché era un ordine, non un invito.

Quando finalmente ce l’ebbe di fronte, Kay si adagiò contro lo schienale della sedia e osservò la fanciulla con la stessa espressione con cui un contadino osserva un capo di bestiame. Come per determinare se vale qualcosa oppure no. «Bene» disse poi, chinandosi fino a raggiungere uno dei cassetti della scrivania ed estraendone carta, pennino e una boccetta d’inchiostro. «Da quanto tempo sei a Erding?»

Momentaneamente distratta dal fatto che il Sacerdote sembrava intenzionato a prendere appunti, la ragazza esitò un attimo, prima di rispondere. «Come, scusa?» chiese, avvampando. Le sopracciglia scure del giovane si contrassero in quella che a Lidia parve un’inequivocabile manifestazione di disapprovazione. «Ti ho chiesto da quanto tempo sei al villaggio» ripeté, a suo beneficio. Malgrado l’impazienza che la fanciulla credeva di avergli letto in volto, la voce del Sacerdote rimase del tutto priva di qualsiasi sfumatura.

«Ah, io… da poco più di due mesi, signore. Mi sono sposata a inizio maggio.» Lidia si interruppe di colpo, turbata da quel “signore” che le era sfuggito inavvertitamente dalle labbra. Quanto tempo è passato, dall’ultima volta che ho chiamato qualcuno così? Era un appellativo che, nei momenti di sconforto, rivolgeva a suo padre, quello.

«Due mesi» ripeté Kay, osservandola con i suoi liquidi occhi neri. «Sei sempre rimasta al villaggio o hai trascorso del tempo altrove?» Pur non capendo perché il Sacerdote fosse interessato ai suoi spostamenti, la fanciulla rispose prontamente. «In effetti, ho passato più tempo in montagna che non al villaggio» ammise. Quando si rese conto che l’uomo seduto di fronte a lei si aspettava una risposta più precisa, Lidia si affrettò a spiegarsi meglio. «A inizio giugno sono salita con mia cognata in un alpeggio poco distante. Ci ho passato tutto il mese di giugno e, be’… sono tornata a Erding solo due giorni fa.»

«Perché hai lasciato il villaggio?» chiese il giovane, intingendo il pennino nell’inchiostro e abbassandolo poi fino a sfiorare il foglio. Lidia notò che non si dava alcuna pena di nascondere quello che si apprestava a scrivere, eppure, per qualche motivo, la ragazza non osò abbassare lo sguardo sul foglio bianco. «Mio marito… ecco, lui pensava che restare qui non fosse sicuro, per me» mormorò.

Fratello Kay emise un suono che avrebbe potuto essere d’assenso. «Hai avuto delle esperienze negative?» la interrogò. Di nuovo, la giovane si morse le labbra, prima di rispondere. «Un giorno… un giorno delle persone mi hanno avvicinata, chiedendomi perché fossi qui e facendomi anche delle domande su Donna Erin.»

«Che tipo di domande?» insistette Kay, scrivendo ancora qualcosa. Lidia aggrottò la fronte, cercando di ricordare la discussione avuta con Sören e l’uomo con la faccia da bambino. «Loro… pensavano che Donna Erin fosse in realtà al servizio di Roma. Erano più accuse, che domande, a voler ben vedere.»

«Sapresti riconoscere quelle persone?» chiese ancora il Sacerdote. La fanciulla annuì. «Sì. Uno era Sören, la persona che…» «So chi è Sören» la interruppe il giovane. «Qualcun altro?» Lidia deglutì, sentendosi sotto interrogatorio, e cercò di ricordare il nome dei suoi altri due aggressori. «Uno… uno era un ragazzo biondo, uno che viene da un altro villaggio. E il terzo aveva una cicatrice in faccia. Non ricordo i loro nomi, purtroppo.»

«Non importa, queste informazioni sono sufficienti» replicò Fratello Kay, posando seccamente il pennino sulla scrivania. «Perché sei tornata?» Lidia socchiuse le labbra, incapace di rispondere immediatamente e sentendosi un po’ sciocca a causa della sua esitazione. «Ehm… al villaggio, intendi?» L’uomo annuì e la fanciulla fece rapidamente mente locale. Era prudente parlare al Sacerdote dei suoi piani di fuga? Ovviamente no! Decise subito. «Ero preoccupata per mio marito» fece, allora, rallegrandosi del suono sicuro della propria voce. «Quando è venuto a trovarmi all’alpeggio, ha portato notizie poco rassicuranti e allora ho deciso di tornare a Erding per stare vicino a lui.»

«Avevi paura che potesse commettere qualche sciocchezza?»

La domanda del Sacerdote la fece sbiancare e Lidia si affrettò a scuotere il capo, mettendo nei movimenti più vigore del necessario. «No, no! Ulf non è uno che commette sciocchezze» decretò, con una punta di panico nella voce. A parte quando uccide la gente per difendere Unna, ovviamente, le ricordò la sua memoria, pronta.

Davanti a quella risposta, Fratello Kay sospirò e la ragazza ebbe l’orribile sospetto che non le credesse affatto. «Ti sarà forse capitato di sentire che girano alcune voci, qui al villaggio, a proposito delle offerte che, di mese in mese, offrite agli Dèi. C’è chi crede che vadano a Roma e chi invece crede che siamo noi – membri del Sacro Concilio – a prenderci tutto. Hai mai sentito parlare di queste teorie?»

La giovane romana rimase brevemente spaesata davanti all’improvviso cambio di argomento, ma subito i suoi sensi l’allertarono del fatto che, con ogni probabilità, stava per inoltrarsi in un terreno pericoloso. Attenta a quello che dici, adesso, si raccomandò. Per un istante desiderò di essere una bugiarda migliore di quella che era in realtà, di avere la risposta pronta di Lucilla e la strafottenza di Unna. «Ne ho sentito parlare, sì» replicò. Una risposta neutrale, non pericolosa.

«E cosa ne pensi, in proposito?»

La giovane alzò su di lui uno sguardo dubbioso. Era forse la sua fede a essere in discussione? Non che avrebbe tutti i torti a metterla in dubbio, comunque, riconobbe, mentre un leggero calore le invadeva le guance. Accantonando quel pensiero, Lidia annaspò qualche istante, alla ricerca di una risposta diplomatica. «Sono qui da troppo poco tempo per essermi fatta un’idea precisa» mormorò, azzardando un’occhiata al volto del Sacerdote per studiarne la reazione. «Tuttavia, le offerte si fanno ovunque, anche a Roma. E mi sembra un po’ difficile credere che tutti i Sacerdoti del mondo si intaschino le offerte che, in teoria, spetterebbero agli Dèi…» Non appena ebbe pronunciato quelle parole, Lidia si interruppe, aggrottando la fronte e rendendosi conto di aver detto una cosa che pensava veramente. C’è qualcosa che non torna, si disse, per la millesima volta.

«Le offerte che fate a Roma sono un po’ diverse da quelle che fate qui, però» le fece notare Kay. Lidia ebbe l’impressione di scorgere un bagliore di sfida nel suo sguardo, ma l’uomo fu veloce a farlo sparire. «È vero», ammise lei, «ma sempre di offerte si tratta.»

Il giovane Sacerdote la soppesò con lo sguardo per qualche istante, poi appoggiò i gomiti sulla scrivania, sporgendosi leggermente verso di lei. «Tuo marito, invece, come la pensa? Ha mai affrontato quest’argomento con te?»

Il primo impulso di Lidia fu di mentire, di negare che Ulf le avesse mai fatto parola dei suoi sospetti. Poi, però, le mancò il coraggio e, temendo che l’uomo potesse leggere sul suo volto la menzogna, optò per un compromesso che non si allontanasse troppo dalla realtà. «Non apertamente» mormorò, abbassando gli occhi sul tavolo per evitare di incrociare quelli di Kay. «Lui mi sembra… abbastanza scettico sul fatto che vada davvero tutto agli Dèi. Però non si è mai lamentato delle offerte, dice che si sono sempre fatte e che si faranno sempre. A me non sembra che… be’, ecco, mi sembra che l’argomento non gli interessi un gran che, a dire il vero.»

«No?» ripeté lui. Non riuscendo a interpretare il suo tono, la fanciulla alzò lo sguardo per studiare l’espressione del suo interlocutore, ma sul volto del Sacerdote era di nuovo calata la consueta maschera impenetrabile. «No» confermò allora, stringendosi nelle spalle.

«E sua sorella? Cosa ne pensa, lei?»

La domanda sorprese Lidia, che non ebbe difficoltà a rispondere con una certa naturalezza. «La pensa nello stesso modo» disse, prima di aggiungere: «Per quanto ne so io, per lo meno. Non parliamo molto, noi due.» Gli occhi di Fratello Kay si piantarono nei suoi e la ragazza ebbe l’impressione che quello sguardo scuro gettasse su di lei una strana malia, una costrizione alla quale non aveva modo di sottrarsi. «Non ha dunque mai detto nulla che ti sia sembrato strano?» indagò ancora il Sacerdote, assottigliando gli occhi.

Dove vuole andare a parare? Si chiese la ragazza, a disagio di fronte all’insistenza dell’uomo. «Non capisco» ammise, senza riuscire a resistere all’impulso di torcersi nervosamente le mani, al riparo sotto il piano di legno della scrivania. Fratello Kay sospirò. «Ha sposato un minatore. Voglio sapere se ti ha mai accennato a qualcosa che Roma potrebbe aver fatto, in passato.»

La giovane mascherò un sospiro di sollievo. Per un attimo, era stata certa che Kay si stesse riferendo alla macchina volante che Ulf e Karl avevano visto da ragazzi. «A Unna i romani non piacciono» rispose allora, con un sospiro. «Non ne ha mai fatto mistero. Ma credo che non le piacciano perché ci siamo stabiliti qui, non per un qualche motivo che ha a che fare con le offerte.»

«Nient’altro?»

Lidia scosse il capo. «No. Avrebbe dovuto dirmi dell’altro?» chiese poi, osando porre una domanda diretta al Sacerdote. Lui inclinò leggermente il capo. «Avrebbe potuto, più che altro. Se non l’ha fatto, tanto meglio. Ora, però, passiamo al vero motivo per cui ti ho chiesto di venire qui: ho bisogno che tu scriva una lettera.»

La ragazza aggrottò la fronte, confusa. Ricordava chiaramente che anche Donna Erin aveva chiesto a Ulf di scrivere una lettera ai capi de villaggi vicini, ma certo Kay non poteva aspettarsi che lei facesse lo stesso, dal momento che la sua influenza sui germanici era pari a zero. A meno che… «Voglio che tu scriva a tuo padre» precisò il Sacerdote, confermando il sospetto che aveva appena sfiorato la mente della fanciulla. «Nei nostri progetti iniziali, avevamo chiesto che altre ragazze arrivassero a Erding per consolidare il legame tra Roma e la Germanica. Tuttavia, tu sei stata l’unica a trasferirti.»

Già – e il perché non è certo un mistero, pensò Lidia, ricordando ciò che il Legato Libo le aveva detto la notte in cui si era recata all’accampamento militare per incontrare Tito. Caleno sta remando contro. Non vuole che arrivino altre ragazze. «Sì, l’ho notato» disse, soppesando le parole. Il Prefetto le piaceva poco, ma non intendeva denunciarlo a Kay. Non prima di avere inquadrato un po’ meglio il Sacerdote, se non altro.

«Mi sono informato sul conto della tua famiglia» riprese il giovane, chinandosi nuovamente per raggiungere uno dei cassetti della scrivania. «So che tuo padre ha due fratelli e che uno di questi fratelli ha una figlia ancora nubile.»

Lidia si mordicchiò un labbro, cercando di fare mente locale e di ricordare nomi e generalità di quei cugini che era solita vedere sì e no una volta all’anno. «Sì… Ottavia. Ha… dovrebbe avere all’incirca dodici anni, se non ricordo male.»

«È quello che risulta anche a me» confermò il Sacerdote. «Nella lettera che invierai a tuo padre, gli chiederai di far sì che suo fratello acconsenta a dare la mano di sua figlia a un germanico.»

La fanciulla lo guardò a bocca aperta, mentre la sua mente correva all’ultima immagine che aveva della cugina, una ragazzetta paffutella e timida, con occhi da cerbiatto e lucidi capelli neri. «Chi dovrebbe sposare?» chiese, con la voce che tremava appena.

«Un parente dell’uomo che risponde al nome di Sören.» Quando vide l’orrore dipingersi sul volto della giovane romana, il Sacerdote continuò: «Si tratta di un suo nipote. Sappiamo che Sören e gli altri ribelli vogliono distruggere l’equilibrio che ancora esiste tra Roma e questi luoghi. Ed è per questo che cercheremo di mettergli contro parte della sua stessa famiglia. Se tua cugina sarà accompagnata da una ricca dote – più ricca di quella che hai portato tu, per intenderci – i suoi parenti ci penseranno due volte, prima di schierarsi al suo fianco.»

Quella spiegazione non fece altro che aumentare il disgusto di Lidia che, con una stretta allo stomaco, ricordò la paura e il senso di impotenza che l’avevano assalita quando era stata lei, a essere venduta a un uomo che nemmeno conosceva. E io avevo diciannove anni, non dodici! «Ma è una bambina!» disse, con voce strozzata.

«Il ragazzo ha solo un anno in più di lei» la informò Fratello Kay, con indifferenza. «Sarà un matrimonio equilibrato.»

«È un bambino anche lui» replicò amaramente Lidia.

Malgrado le sue proteste, la fanciulla si era aspettata che l’uomo ignorasse le sue perplessità, ma, diversamente dalle sue previsioni, il Sacerdote le rivolse l’accenno di un sorriso asciutto. «Esattamente. È un bambino che, se scoppiasse una guerra, correrebbe un concreto rischio di morire, non credi?»

Quell’osservazione la colse in contropiede e Lidia prese tempo, prima di rispondere. «Immagino di sì…» mormorò, senza riuscire a infondere particolare convinzione alla sua voce. Il Sacerdote incrociò compostamente le mani davanti a sé, senza mai smettere di sostenere lo sguardo della ragazza. «I ragazzini della loro età non dovrebbero pensare a sposarsi, sono d’accordo con te. Sfortunatamente, però, ci troviamo in circostanze che ci obbligano a fare una scelta: e la scelta, nel nostro caso, è di fare il possibile per evitare che scoppi una guerra civile… di nuovo.»

«Di nuovo?» non poté fare a meno di chiedere la fanciulla. Sapeva che, in passato, nella regione di Erding si erano verificati degli scontri anche piuttosto violenti, ma non credeva che la situazione fosse mai stata tanto grave.

«Esattamente» confermò Fratello Kay, tornando ad accomodarsi contro lo schienale della sedia. «Saprai che, anche se per breve tempo, alcune decine di anni fa questi territori erano sotto il dominio dell’Impero.» La giovane romana lo guardò con gli occhi sgranati, sentendosi tremendamente sciocca e ignorante. «No. Io… non ne avevo idea. Sapevo che si è combattuto, ma non pensavo che ci fosse stata una vera e propria dominazione» ammise, abbassando lo sguardo sulle proprie mani.

«La dominazione romana è stata di breve durata, a dire il vero» riprese il Sacerdote, ignorando il rossore della fanciulla. «La Germanica Inferiore non offre grandi attrattive, ma in compenso è ricca di miniere d’argento e di altri metalli preziosi: è per questo che, una trentina di anni fa, Livio, che all’epoca era Imperatore, decise di fare un tentativo per portare queste terre sotto il suo dominio. Ci riuscì, per qualche tempo, ma, come puoi bene immaginare, i locali non la presero bene e opposero una resistenza molto più feroce di quanto lui si fosse aspettato. Con il senno di poi, possiamo dire che ci è andata bene.»

«In che senso?» lo interrogò Lidia.

«Quando Livio fu avvelenato e il vostro attuale Imperatore prese il potere, egli si dimostrò molto più lungimirante e ragionevole del suo predecessore. Capì che una guerra non avrebbe portato a nulla di buono e cercò un compromesso diplomatico. Ritirò l’esercito, ma pretese in cambio un occhio di riguardo nel commercio dell’argento.»

«E i germanici glielo concessero?» chiese Lidia, stupita dall’atteggiamento accomodante nei confronti di quelli che erano di fatto degli invasori.

«Se glielo concessero, devo dire, fu soprattutto per merito dei miei confratelli e delle mie consorelle, che si fecero carico della situazione, ben comprendendo quanto fosse importante mantenere la pace.» La ragazza annuì, ma, prima che potesse commentare, il Sacerdote riprese: “All’epoca riuscimmo a scongiurare il pericolo che la guerriglia si estendesse a tutti i territori meridionali della Germanica, ma fu solo per un soffio. E il fatto che, oggi, le pretese di Roma stiano di nuovo aumentando non fa che alimentare un malcontento mai del tutto scomparso. Quanto pensi che ci vorrà, prima che qualcuno si decida a prendere di nuovo in mano le armi?»

Qualcuno l’ha già fatto, pensò la giovane, ricordando i legionari uccisi qualche tempo prima. «Io… capisco la situazione e mi rendo conto che è peggiore di quanto pensassi» ammise, spingendo dietro a un orecchio una ciocca bruna sfuggita dall’acconciatura. «Quello che non capisco è come Ottavia – o qualsiasi altra ragazza – possa cambiare le cose. I soldi che porterebbe in dote sarebbero ben poca cosa rispetto a… tutto il resto.»

«Nessuno si aspetta che questi matrimoni combinati cambino veramente le cose» fece il Sacerdote, con voce morbida. La fanciulla spalancò gli occhi, sentendosi quasi tradita dalle sue parole. No? Si chiese. E allora io cosa ci faccio qui? «Non capisco» mormorò. «Non è quello che Donna Erin mi ha detto quando mi sono sposata…»

Un’increspatura quasi impercettibile si disegnò sulla fronte liscia del giovane. «E questo è stato l’errore di Erin. Ha riposto troppa fiducia nei mezzi degli uomini, dimenticando una semplice verità: se lo volessero, gli Dèi potrebbero spazzare via questa rivolta con un singolo battito di ciglia.» Quando Lidia non diede cenno di comprendere il significato di quanto aveva detto, Fratello Kay provò a spiegarsi meglio. «I matrimoni servono a placare un poco gli animi della gente, a parer mio, ma hanno più che altro una valenza simbolica: dimostrano agli Dèi la nostra buona volontà e la nostra intenzione di fare del nostro meglio per mantenere la pace. Perché Loro predicano la pace, non dimenticarlo: cercando la guerra e lo scontro, gli uomini vanno contro la legge che gli Dèi hanno stabilito… e la Storia ci insegna cosa accade a coloro che osano sfidare la Loro volontà troppo a lungo.»

Immediatamente, la mente di Lidia corse alla vicenda della città-stato di Neniveh, sulla quale Donna Erin aveva insistito qualche giorno prima. «Sì, anche Donna Erin ha parlato di qualcosa di simile, qualche giorno fa» disse, senza riuscire a infondere la dovuta partecipazione alla sua voce. Quel riferimento agli Dèi, tanto inaspettato quanto, forse, dovuto, l’aveva colta di sorpresa e la fanciulla non poteva fare a meno di pensare che, scegliendo di dirottare la conversazione su quell’argomento, il Sacerdote si stesse allontanando dal nocciolo della questione.

«Mi fa piacere», disse lui, «ma non avrebbe dovuto aspettare tanto a lungo. È per questo che io sono qui: sono stato incaricato di riportare le cose sulla retta via, prima che sia troppo tardi.»

«Troppo tardi… per cosa?» chiese la fanciulla, mentre un nodo amaro iniziava pian piano a stringerle la gola. C’era qualcosa, negli occhi scuri dell’uomo, che le faceva correre un brivido lungo la schiena – una sorta di lucida freddezza che le ricordò lo sguardo del gatto che gioca con il topo.

«Troppo tardi per salvare questa comunità» replicò lui, sicuro. «Non so in quale modo gli Dèi sceglieranno di punire questa gente, ma so per certo che lo faranno, se le cose non cambieranno rapidamente. Non per malvagità o per crudeltà, ma per eradicare sul nascere un’infezione che, se fosse lasciata libera di crescere a suo piacimento, potrebbe contagiare l’intera regione e, forse, tutti i territori che confinano con l’Impero, portando rovina e infelicità a un numero incalcolabile di persone.»

«Mh.» La ragazza annuì, cauta. Non poteva contraddire il Sacerdote, naturalmente, ma non riusciva a credere che quella vaga e non meglio specificata punizione divina fosse qualcosa che avesse realmente una qualche possibilità di verificarsi. Non sapeva cosa fosse successo a Neniveh e non sapeva cosa spingesse realmente i Sacerdoti ad agire come agivano, ma sospettava che le due cose non fossero minimamente collegate. La ragazza inspirò brevemente, decisa a fare un tentativo per riportare il discorso su un terreno più concreto e, perché no, trovare un modo per accomiatarsi da Fratello Kay quanto prima. «E io cosa dovrei fare, per evitare che questo accada?» chiese, alzando lo sguardo sull’uomo.

Rapido, lui le fece scivolare davanti un foglio scritto fittamente. «Tu devi firmare questa lettera. Non ti è richiesto altro, per ora.» Lidia fece scorrere rapidamente lo sguardo sul manoscritto, cercando di afferrarne il significato. «É…» «… la lettera da indirizzare al fratello di tuo padre» la precedette il Sacerdote. «Mi sono preso la libertà di scriverla al posto tuo, per accorciare i tempi.»

Lidia annuì di nuovo, mentre i suoi occhi scorgevano parole che non avrebbe mai scritto e termini che non avrebbe mai utilizzato. «Va bene» disse, infine. «Dove devo firmare?»

L’uomo puntò un indice sul foglio e le porse il pennino. Mentre lo stringeva tra le dita, la ragazza ebbe una breve esitazione, mentre la sua mente si soffermava sul volto infantile della cugina e su quello di un ragazzino che, nella sua immaginazione, aveva gli occhi da sparviero di Sören. Oh, ma non importa, si disse, con una punta di cinismo. Nessuno avrebbe mai creduto che quella lettera l’avesse scritta veramente lei e, se aveva interpretato correttamente la situazione, Caleno avrebbe avuto qualcosa da ridire sul fatto di portare in Germanica un’altra cittadina romana. E, chissà perché, ho come il sospetto che il papà e lo zio si fideranno di più di un Prefetto dell’esercito che di me…

Con uno svolazzo elegante, Lidia appose la propria firma in calce alla lettera. Ecco fatto, pensò, rivolgendo a Kay un piccolo sorriso. Tanto non servirà a niente.

E che gli Dèi punissero pure Erding, se lo ritenevano necessario: per allora, lei sarebbe stata ben lontana da lì.

***

Lidia si rigirò nel letto, desiderando di avere a portata di mano un orologio.

Ma che ore sono? Si chiese per l’ennesima volta. Non era certo nuova al fatto di andare a letto da sola, ma, a differenza di quanto era avvenuto in passato, ora l’attesa di Ulf le pesava. Forse perché in passato sapevo di non avere niente da farmi perdonare.

La ragazza scalciò indietro le coperte, inquieta, chiedendosi quale sarebbe stata la reazione del marito, una volta che si sarebbero trovati da soli. Durante il confronto con Tito, l’uomo si era dimostrato freddo, quasi distante, ma Lidia non riusciva a decidere se quel suo atteggiamento fosse un bene o un male.

Nell’immediato era stato sicuramente preferibile a una scenata che avrebbe attirato l’attenzione di tutti i presenti, ma la ragazza non poteva dimenticare l’occhiata che le aveva lanciato quando si erano separati senza una parola di commiato. Come faccio a sapere cosa accidenti gli passa per la testa? Speriamo che il colloquio con Donna Erin l’abbia distratto, si ritrovò a pensare. Speriamo che l’abbia aiutato a mettere le cose in prospettiva… Erano certamente speranze vane, ne era consapevole, eppure la fanciulla non poteva fare a meno di aggrapparsi con tutte le sue forze a quella flebile possibilità.

Ma di cosa staranno parlando, ancora? Quanto ci mettono a decidere quello che devono decidere? Lidia si rigirò sulla pancia, appiattendosi contro il materasso. Erano passate parecchie ore da quando Donna Erin e Ulf erano spariti su per le scale e da allora la ragazza non aveva più avuto notizie di suo marito.

Sempre che stiano ancora parlando, ovviamente. Non sarà mica andato da qualche altra parte, vero? Quel pensiero aumentò i suoi timori. Voleva che Ulf tornasse a casa, subito, all’istante, anche se avrebbe significato affrontare le sue accuse e, con ogni probabilità, la sua rabbia.

Era preoccupata per lui.

Spero che non abbia fatto niente di avventato… Oh, non può essere andato a cercare Tito! La ragazza si mordicchiò nervosamente le nocche di una mano. Ma allora… allora perché non torna?

E poi, naturalmente, sentiva la necessità di confrontarsi con lui a proposito di quello che Fratello Kay le aveva detto quel pomeriggio. Con ogni probabilità, Ulf non sarebbe stato particolarmente interessato alla sorte della piccola Ottavia, ma Lidia sospettava che avrebbe avuto qualcosa da dire a proposito della poca fiducia che il Sacerdote riponeva nei matrimoni come i loro. Non mi ha proprio detto che sono inutili, ma il concetto era quello, ricordò la fanciulla, con una smorfia.

Inoltre, più ci pensava e più il riferimento che Kay aveva fatto agli Dèi le pareva forzato. Il che non ha molto senso, visto che è un Sacerdote e che gli Dèi dovrebbero essere il suo primo pensiero, ma… La ragazza si raggomitolò su un fianco e si portò una mano alle labbra, mordicchiandosi pensierosamente le nocche. In generale, sia Erin che Kay le sembravano persone estremamente pratiche e attente ai dettagli, abili a pianificare le loro azioni fin nei minimi particolari. Le davano l’impressione di non lasciare nulla al caso, eppure i loro discorsi lasciavano intendere che essi considerassero gli Dèi come la soluzione ultima a tutti i problemi, un’ancora di salvezza alla quale aggrapparsi qualora tutte le altre misure avessero fallito.

Lidia non riusciva a comprendere quel punto di vista, dal momento che non aveva mai avuto una grande fede nella religione. Per lei le divinità erano delle entità astratte e, anche se non sapeva dire con certezza se esistessero veramente o se non fossero altro che il frutto della fantasia degli uomini, su una cosa non aveva alcun dubbio: non operavano in modo tangibile nel mondo terreno. Chi mai poteva dire di aver visto la traccia inequivocabile della loro opera? Ma forse è proprio questo il punto: io non ho fede, loro sì… perché sono Sacerdoti e, se si sono scelti questa vita, un motivo ci sarà.

Eppure, complici forse il suo naturale scetticismo e i dubbi che Ulf aveva instillato in lei, la giovane si ritrovava ora a prendere in considerazione anche un’altra ipotesi. Anche se, sulle prime, non ci aveva fatto caso, a mente fredda si rendeva conto che il discorso di Kay era estremamente simile a quello che Erin le aveva fatto in occasione del loro primo incontro. Al momento, a Lidia venivano in mente solo due spiegazioni per quel fatto: o i due Sacerdoti avevano imparato a memoria un ritornello che ripetevano ogni qualvolta se ne presentava l’occasione, oppure erano davvero certi che gli Dèi avrebbero punito gli uomini ribelli.

Ma come può essere? Si chiese la fanciulla, turbata. Se era vero che gli Dèi predicavano la pace, allora non c’era giorno in cui gli uomini non disobbedissero alle loro leggi. Il mondo era pieno di guerre, di rivolte, di violenza, e a Lidia non risultava che una qualche divinità facesse qualcosa per evitarle o per punirne i colpevoli. E dunque da dove veniva la sicurezza di Donna Erin e di Fratello Kay? Poi un pensiero la sfiorò: e se loro dicessero “Dèi”, ma intendessero tutt’altro? Si chiese.

Sull’onda di quei pensieri, la fanciulla permise alla sua mente di avventurarsi un po’ più in là. Era forse possibile che, quando parlavano di intervento divino, alludessero a un possibile intervento militare di Roma? Ulf l’avrebbe forse creduto, ragionò Lidia, ma, da quanto aveva avuto modo di vedere e di sentire negli ultimi giorni, era sempre meno convinta che la spiegazione potesse essere quella.

E allora forse c’è dell’altro, rifletté, corrugando appena la fronte. Quella prospettiva le fece correre dei brividi freddi lungo la schiena. Poteva davvero essere presente un ulteriore elemento, qualcosa che era rimasto nascosto e celato agli occhi di tutti ma che, se aveva interpretato correttamente quanto rivelatele da Fratello Kay quel pomeriggio, aveva la potenzialità e la volontà di colpire chiunque andasse contro ai suoi interessi?

Sono solo fantasie, si disse, prima ancora di cercare una risposta. Mi sto facendo suggestionare dagli eventi. Sospirando, la ragazza premette il volto contro il cuscino, cercando di schiarirsi la mente. Aveva bisogno di confrontarsi con qualcuno, ma Ulf non c’era e lei non aveva nessun altro con cui parlare. Per una frazione di secondo il pensiero di andare da Unna attraversò la sua mente, ma la fanciulla si affrettò a scacciarlo, se non altro per il timore di ritrovarsi faccia a faccia con Karl.

Non fa niente, aspetterò Ulf, pensò ancora la ragazza, allungando una mano e posandola sul cuscino vuoto sull’altro lato del letto. Prima o poi dovrà tornare a casa, no? Cercando di rilassarsi, la giovane inspirò profondamente e si predispose a una lunga attesa.

Quando, molto più tardi, il sonno la colse, la sua mano era ancora stretta sulla stoffa fredda.

***

Fu il movimento a svegliarla. Era mattina e, evidentemente, Ulf doveva essere rientrato durante la notte, ma lei non l’aveva sentito e lui non si era preso la briga di comunicarle il suo ritorno.

E adesso se ne sta andando di nuovo. «Dove stai andando?» gli chiese, con la voce ancora impastata dal sonno. L’uomo, che si stava alzando, tornò a sedersi sul letto e si voltò a guardarla con la coda dell’occhio. «Da mio padre.»

«Subito?» insistette a lei, tirandosi a sedere, ma non osando avvicinarsi. Ulf afferrò le scarpe riposte ai piedi del letto e se le infilò. «Sì» fu la telegrafica risposta.

Va bene, è arrabbiato. Lidia sospirò. «Devo parlarti» disse, cercando di convincerlo a dedicarle qualche minuto. L’uomo fece fischiare l’aria tra i denti, prima di voltarsi a guardarla con un’espressione al contempo fredda e sarcastica. «Sì, credo anch’io che tu debba parlarmi», sibilò, facendola sussultare, «ma non adesso. È un discorso che richiederà un certo tempo e ora vado di fretta.»

Lidia chinò il capo, comprendendo che si stavano riferendo a due argomenti completamente diversi. «Ti stai riferendo…» «… al tuo amico, sì» la interruppe Ulf. «In realtà, ho un’idea abbastanza precisa di chi sia e del perché sia qui, ma voglio sentirmelo dire da te.»

«Non è come pensi!» si precipitò a dire lei, prima di rendersi conto di quanto banale e scontata suonasse quella frase. «Non… noi non…» La fanciulla provò a riformulare il concetto, ma trovò che le mancavano le parole.

Ulf, che si era fermato per un istante a osservarla, espirò con forza e si alzò in piedi. «Lascia perdere» ringhiò, alzando una mano. «Ne parleremo quando torno.» Sconfitta, Lidia annuì, stringendosi al petto le coperte. «A che ora torni?» gli chiese allora, con la voce che tremava appena.

«Fra tre giorni.»

Il capo della fanciulla si rialzò di scatto. «Cosa? Dove vai?»

«Mio padre e io dobbiamo visitare un paio di villaggi nelle vicinanze» rispose, sbrigativo. La giovane lo guardò con gli occhi sgranati, prima di collegare quella notizia con la conversazione che, probabilmente, Ulf e la Sacerdotessa avevano avuto la sera prima. «È per la storia delle lettere che hai scritto l’altro giorno? Non hanno funzionato?»

L’uomo annuì bruscamente. «Già» confermò. Poi le voltò la schiena e fece per andarsene, ma Lidia si catapultò fuori dal letto, portando con sé le coperte e rischiando di inciampare nelle lenzuola. «Ulf, aspetta, aspetta!» esclamò, aggrappandosi a un mobile per evitare di rovinare a terra.

Sorpreso da quel repentino cambio d’atteggiamento, l’uomo si bloccò e tornò a guardarla. «Devo parlarti» ripeté, alzando lo sguardo sul volto del marito. Lui si accigliò. «L’hai già detto e, come ti dicevo…» «No», lo interruppe lei, «non è di quello che voglio parlarti, ma del discorso che mi ha fatto ieri quel Sacerdote.» Quando l’uomo non protestò, Lidia interpretò il suo silenzio come un invito a continuare. «Prima mi ha fatto firmare una lettera nella quale chiedo a mio zio di mandare qui mia cugina. Vuole farle sposare un parente di Sören» disse, non sapendo bene da dove iniziare.

«Ah» fu l’unico commento del giovane. Lidia deglutì, resistendo a stento all’impulso di torcersi nervosamente le mani. «Sì, e poi mi ha fatto anche tutto uno strano discorso sugli Dèi, su quello che potrebbero fare se non rispettiamo le loro leggi e se non manteniamo la pace…»

Lidia lasciò sfumare la frase, ma l’uomo non cambiò espressione. «E cosa ci sarebbe di strano? È lo stesso discorso che Donna Erin ripete da anni.»

La giovane chiuse gli occhi, frustrata. «Sì, ma stavo pensando che forse c’è qualcosa di strano nel suo modo di fare.»

«Che cosa?» la incalzò lui.

«Non lo so» ammise Lidia passandosi nervosamente le mani sulla gonna. «Non è facile da spiegare. È una sensazione, è come se… come se lui…» L’uomo sbuffò, spazientito. «Hai qualcosa di concreto da dirmi oppure no?»

Lidia aprì la bocca per replicare, ma improvvisamente sentì le energie abbandonarla. Meglio rimandare, pensò, scoraggiata. Non mi sembra che sia dell’umore adatto per parlare di teorie campate per aria. «No» sospirò dunque, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi. «Nulla di concreto, solo supposizioni. Vai pure, se devi. Però… però stai attento.»

Ulf avvertì forse la preoccupazione sincera nella sua voce, perché le sue spalle si rilassarono in maniera quasi impercettibile e l’uomo annuì. Guardandola con la coda dell’occhio, quasi non volesse incontrare il suo sguardo diretto, il giovane curvò le labbra in una smorfia. «Non uscire di casa da sola, oggi. Questa notte è morto Sören: farti vedere in giro potrebbe non essere prudente.»

Lidia ci mise qualche secondo per processare le parole dell’uomo. «É… morto?» fece, chiedendosi se non avesse forse capito male. «Ma l’ultima volta che l’ho visto stava bene, non sembrava… non sembrava malato.»

«Sì, e adesso è morto» tagliò corto Ulf, mentre nella sua voce emergeva ancora una sfumatura tagliente. Improvvisamente, Lidia credette di sapere quello che era accaduto. «Oh. L’hanno ucciso?»

L’uomo non negò, ma sollevò appena una spalla. «Dicono che sia morto per una malattia improvvisa.» Il giovane si passò una mano tra i capelli, senza riuscire a nascondere il proprio turbamento. «Pare sia successo tutto nel giro di poche ore.»

Senza poter far nulla per impedirlo, Lidia fu scossa da un brivido e istintivamente si passò le mani sulle braccia, nel tentativo di allontanare una sensazione di freddo che non aveva nulla a che fare con la temperatura esterna. «Credi che sia una cosa contagiosa?» chiese, mentre un’antica paura riemergeva dal suo subconscio. Anche se negli ultimi tempi aveva avuto cose più urgenti di cui preoccuparsi, Lidia era sempre stata terrorizzata dalle malattie e ora quella sua fobia tornava prepotentemente a farsi sentire. Per tutta risposta, Ulf fece schioccare la lingua. «Credo che sia qualcosa di decisamente strano» replicò, una risposta che alla fanciulla parve profondamente insoddisfacente. Prima che potesse aggiungere dell’altro, però, Ulf raddrizzò la schiena e il suo sguardo si fece più distante. «Be’, fai come ti ho detto e non uscire di casa da sola. Anzi, non uscire di casa e basta. Riprenderemo il discorso al mio ritorno.»

La fanciulla incassò il collo nelle spalle, sentendosi quasi minacciata da quella prospettiva e poi pigolò un “va bene” che suonò patetico alle sue stesse orecchie. Ulf la guardò ancora per qualche istante, poi le rivolse un brusco cenno del capo e lasciò la stanza a passi rapidi, quasi avesse fretta di allontanarsi dalla giovane romana. «Ciao» esalò lei, a capo chino. Non si aspettava una risposta: suo marito era già sulle scale e, con ogni probabilità, non l’aveva nemmeno sentita.

Rimasta sola, Lidia si lasciò cadere sul letto sfatto. Si sentiva… vuota. In preda a una strana desolazione, a un sconforto a metà strada tra il dolore e la vergogna, la ragazza si ripiegò su se stessa, sfinita, e nascose il volto contro la stoffa del cuscino, premendosi le mani sulle orecchie finché non sentì altro che il rimbombo del proprio cuore.

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Capitolo 28
*** 27. Sangue ***


Seduta al tavolo della cucina, Lidia sbocconcellava mestamente la trota che Hermann aveva pescato il giorno prima e che lei aveva prontamente provveduto a carbonizzare. Di fronte a lei, il giovane germanico tastò un frammento di pesce con la punta della forchetta, prima di alzare su di lei uno sguardo vagamente desolato, rivolgendole un sorriso di circostanza. «La cucina non è il mio forte» si giustificò la fanciulla, a mezza voce. «Vedo» replicò lui, riponendo le posate sul tavolo.

Anche se il ragazzo non aveva detto nulla a proposito di Ulf, l’insistenza con cui i suoi occhi verdi seguivano ogni suo movimento le fece presagire che Hermann sospettasse che tra lei e suo marito fosse successo qualcosa e quella consapevolezza le riempì lo stomaco di un formicolio nervoso. Per l’ennesima volta, Lidia fu tentata di cercare di affrontare l’argomento – il silenzio colpevole che si era auto imposta iniziava a diventare un peso troppo pesante da sostenere – ma, per l’ennesima volta, i suoi dubbi la frenarono: era giusto confessare al cognato quello che non aveva mai confessato nemmeno a Ulf?

Ma parlare con Hermann è molto più facile che parlare con Ulf, le fece notare il suo inconscio. Lui non ti giudica mai. Alzando lo sguardo quasi di soppiatto, la fanciulla lanciò un’occhiata fugace al volto del giovane: come d’abitudine, sul suo bel viso non v’era alcuna tensione, ma solo un’espressione di placida attesa. Hermann era uno che sapeva ascoltare – uno che sapeva aspettare – ma, improvvisamente, la ragazza si chiese se le cose stessero veramente così. Poteva davvero dire di conoscerlo abbastanza bene da sapere come avrebbe reagito, una volta che lei gli avrebbe raccontato tutto?

Più che altro, non vorrei deluderlo, riconobbe. Ho già deluso abbastanza persone, ultimamente. Mentre si stava ancora tormentando nel tentativo di prendere una decisione, il ragazzo appoggiò i gomiti al tavolo e si sporse verso di lei. «Questa mattina sei riuscita a parlare con mio fratello?» le chiese.

Lidia sobbalzò, alzando di colpo lo sguardo e fissandolo con gli occhi sgranati per qualche istante. Le sue guance si tinsero di un leggero rossore, mentre la giovane non poteva fare a meno di sospettare che quella domanda volesse indagare qualcosa di più profondo rispetto al significato letterale delle parole con cui era stata posta. «Io… sì, brevemente» mormorò. «Andava di fretta, però, e non mi ha detto molto.»

Hermann annuì. «Sì, non ha detto molto nemmeno a me, quando è passato a casa per incontrare mio padre. Non mi pareva di buon umore.» «Non lo era» confermò Lidia, senza riuscire a evitare di abbassare lo sguardo sulle proprie mani. Il giovane germanico sospirò. «Ci credo. Non aveva nessuna voglia di partire… non in un momento così delicato.»

La fanciulla non riuscì a nascondere la propria sorpresa. «No?» Sulla fronte liscia di Hermann comparve una lieve increspatura. «La cosa ti stupisce?» le chiese, reclinando un poco il capo sulla spalla. Affondando nervosamente i denti nel labbro inferiore, lei si strinse nelle spalle. «Be’, a dire il vero… mi ha dato l’impressione di avere una gran fretta di levarsi di torno, ecco.»

Sul volto di Hermann si disegnò un’espressione indecifrabile. «Avete litigato?» indagò, con voce piatta. Lidia sollevò una spalla. «In un certo senso» ammise, pensando che, a conti fatti, sarebbe stato molto meglio se avessero litigato veramente. Il fatto che Ulf se ne fosse andato rivolgendole soltanto poche parole gelide le aveva lasciato un senso di incompiutezza peggiore dell’eco di qualsiasi litigio. «È stato… è stato per una cosa che è successa a casa di Donna Erin. C’era una persona, lì, una persona che conoscevo quando ero ancora a Roma. Lui… non si è comportato proprio benissimo e Ulf… Ulf se l’è un po’ presa.» Ecco, questo è quel che si dice un eufemismo, commentò la sua coscienza, sarcastica, e Lidia represse a stento un gemito scoraggiato.

«Tutto qui?» la interrogò Hermann.

Tutto qui, sì, rispose silenziosamente la ragazza. Ma è più che sufficiente, fidati. Deglutendo a vuoto, esalò un sospiro tremulo, cercando di farsi forza. «Ecco… sì, però…» Lidia si interruppe nuovamente, trovandosi di fronte allo stesso dilemma che l’aveva fermata pochi minuti prima, quando si era interrogata su quanto fosse opportuno parlare a Hermann di Tito.

Inaspettatamente, il ragazzo allungò una mano per sfiorare quella di lei. «Non ne vuoi parlare?» le chiese, con un’ombra di preoccupazione negli occhi verdi. La giovane romana gli rivolse uno sguardo carico di commozione e rammarico. «Hermann, non è che non ne voglio parlare» disse tutto d’un fiato. «Anzi, vorrei parlarne, eccome, però… sento che dovrei parlarne prima con Ulf, che con te. Non è una questione di fiducia…» Non appena ebbe pronunciato quelle parole, la fanciulla si interruppe. «Anzi, sì, che lo è: fiducia nei confronti di tuo fratello. E anche viceversa: voglio che sappia che lui può fidarsi di me, anche se non sono stata brava a dimostrarglielo.»

Anche se non lo vide, Lidia avvertì il sorriso di Hermann. «Lo capisco» disse lui, stringendole leggermente la mano.

«… ma non è che non mi fido di te» si affrettò a rassicurarlo lei, stringendogli a sua volta la mano. «Mi fido molto di te!» aggiunse, con un certo trasporto. Sul volto del ragazzo comparve una sfumatura rosata e Hermann tossicchiò, forse leggermente imbarazzato da quella dichiarazione di fiducia. «Ah, ehm, bene» borbottò, guardandola di sottecchi. Poi, schiarendosi la voce, tornò a sorriderle, lasciandosi velocemente alle spalle la questione. «Comunque, ti chiedevo se fossi riuscita a parlare con Ulf perché volevo capire se ti avesse detto qualcosa di quello che è successo questa notte.»

Le ci volle qualche istante per adattarsi al cambio di argomento, ma poi Lidia fece mente locale e cercò di ricordare cosa le avesse detto Ulf, un attimo prima di andarsene. «Be’, mi ha detto che Sören è morto. Ti riferisci a quello, no?»

Sul volto del ragazzo passò un’ombra amara. «Ulf se n’è andato troppo presto per saperlo, ma questa mattina sono morte altre due persone, a parte Sören.» C’era qualcosa, nel modo in cui il giovane germanico aveva formulato la frase, che fece comparire un blocco gelido nello stomaco della fanciulla. Chi è morto? Si chiese, mentre l’angoscia le montava nel petto. Qualcuno che conoscevo? Hermann dovette leggere lo sconforto sul suo viso, perché si affrettò a rassicurarla. «Oh, no, non preoccuparti», le disse, prima ancora che Lidia potesse dire alcunché, «non li conoscevi. Erano due compari di Sören, gente che lavorava con lui.»

La paura di un istante prima sfumò e si stemperò in un turbamento più superficiale, un’ombra grigia ai limiti del campo visivo che costrinse la fanciulla a scuotere la testa nel tentativo di mettere un poco di chiarezza nei suoi pensieri confusi. «Si trattava forse di quei due… delle due persone che…?»

«Delle due persone che ti hanno aggredita?» venne in suo soccorso il ragazzo. «No. Per quanto ne so io, Arnold sta bene e lo stesso vale anche per quello che viene da fuori, Otmar. No, erano un mercante di pellicce e un casaro, gente che commerciava con Sören. I loro famigliari hanno dato l’allarme nelle prime ore della mattina.»

Lidia annuì lentamente. «Credi che siano stati avvelenati? Magari perché avevano qualcosa a che fare con la gente che ha attaccato i legionari o con la storia della miniera?» La domanda parve sorprendere Hermann. «Avvelenati?» ripeté il ragazzo. «Cosa te lo fa pensare?»

La fanciulla si strinse nelle spalle. «Non so, ho avuto come la sensazione che Ulf credesse che Sören non fosse morto di morte naturale. Quando gli ho chiesto la sua opinione, mi ha risposto che, secondo lui, qui sta succedendo qualcosa di strano…»

Il giovane la fissò per qualche istante, la fronte liscia corrugata in un’espressione pensierosa, poi sospirò. «Mah, non so cosa pensare. In realtà, da quello che sono riuscito a capire, sono morti di febbre… mio padre sostiene che la moglie del casaro abbia detto che era tanto alta che suo marito delirava, prima di morire.»

«E non potrebbe essere opera di un veleno?» insistette lei, pur non riuscendo a figurarsi chi potesse essere tanto organizzato e abile da avvelenare tre persone in poco tempo, per di più senza lasciare tracce del proprio passaggio. E perché, poi? Chi avrebbe potuto volerli morti? Caleno? Libo? Oppure Donna Erin o… be’, o Fratello Kay.

«Immagino che, in teoria, potrebbe esserlo» rispose Hermann, distogliendola dai suoi pensieri. «Quando sono uscito di casa, però, mio padre stava parlando con alcuni altri membri del consiglio degli anziani. Non ho sentito molto, ma mi è parso di capire che loro sono piuttosto propensi a pensare che non si sia trattato di omicidio, ma, piuttosto, di morte naturale. Temono che sia stata una malattia a ucciderli e, be’… ovviamente, hanno paura che ci sia il rischio di un’epidemia.»

Nell’udire quelle parole, Lidia riprese a sudare freddo, esattamente come quando, quella mattina, Ulf le aveva parlato per la prima volta della morte del suo aggressore. «Ma… non ci sono stati altri casi dopo, vero? Non è più morto nessuno.»

«No», ammise Hermann, «ma te l’ho detto: io non so cosa pensare. Non sono un esperto di malattie e, di certo, non sono nemmeno un esperto di veleni. Mi limito a riportarti quello che ho sentito. Uno degli anziani sosteneva addirittura che non è stata la mano degli uomini a uccidere quei tre, bensì la mano degli Dèi. Capisci, quindi, che…»

«La mano degli Dèi?!» l’esclamazione di Lidia lo costrinse a fermarsi e il giovane lanciò alla cognata un’occhiata interrogativa, sorpreso dal suo improvviso pallore. «Beh?» le chiese. «Che c’è?»

La fanciulla chiuse gli occhi per qualche istante, inspirando a fondo nel tentativo di calmare il cuore, che aveva improvvisamente preso a galopparle nel petto. «È quello che ha detto fratello Kay» esalò. Quando riaprì gli occhi, fu accolta dallo sguardo confuso di Hermann. «Non ti seguo» disse il ragazzo. La giovane romana si sporse verso di lui, sforzandosi di parlare in maniera più comprensibile. «Ieri il nuovo Sacerdote ha voluto parlarmi» fece, riassumendo gli eventi del giorno precedente a beneficio del cognato. «Abbiamo parlato di diverse cose, principalmente di quello che si aspetta che io faccia. Comunque, a un certo punto se n’è uscito con tutta una storia sugli Dèi: ha detto che solo loro possono riportare l’ordine da queste parti e che, se non la smettiamo di farci la guerra, puniranno il villaggio. E adesso c’è questa malattia… non so, può davvero essere tutta una coincidenza?»

Hermann fece schioccare la lingua, scettico. «Non mi dirai che credi veramente che stia per abbattersi su di noi una punizione divina, vero?»

Lidia arrossì mentre, per un istante, il tono e l’espressione del ragazzo le ricordarono quelli che Ulf era solito adottare durante i primi giorni della loro convivenza. «Be’, non so» fece poi, cercando di mimare una noncuranza che non provava. «Magari tutti sono convinti che i Sacerdoti siano solo dei buffoni esaltati, e poi invece salta fuori che hanno ragione…»

Il giovane si concesse un sorrisetto. «Innanzitutto, io non credo affatto che siano dei “buffoni esaltati”: non so se hanno ragione o meno, ma di certo sono delle persone intelligenti… e probabilmente pure parecchio furbe. Detto questo, mi pare che ci possano essere delle spiegazioni molto più logiche e plausibili rispetto a un’ipotetica punizione divina… per quanto ne possiamo sapere noi, magari ieri sera quei tre hanno cenato insieme e si sono avvelenati con qualcosa.»

La fanciulla gli lanciò un’occhiata torva. «Sì, come no» commentò sarcastica. Hermann agitò una mano in aria. «Be’, poco importa, comunque: quello che conta, è che tu adesso te ne stai buona buona in casa ed eviti i pericoli di qualsiasi tipo: eviti di incontrare gente che potrebbe contagiarti ed eviti di incontrare gente che potrebbe avercela con te per qualsiasi motivo. D’accordo?»

«D’accordo» annuì lei. «E tu farai lo stesso: resti al sicuro e lontano da veleni o malattie. Poi, appena torna tuo fratello, ci allontaniamo da questo posto per tutto il tempo che serve… che, poi, sarebbe il motivo per cui io e Unna siamo tornate a valle.»

Per una frazione di secondo, Lidia credette che Hermann volesse aggiungere qualcosa o, forse, farle notare che le cose non sarebbero state così facili come lei le aveva prospettate, ma poi chinò il capo sul piatto e, in silenzio, infilzò un boccone di pesce indurito.

***

Per tutta la giornata, Lidia si era attenuta alle raccomandazioni di Hermann e non aveva messo piede fuori di casa, limitandosi a lanciare di tanto in tanto occhiate nervose verso lo scorcio di strada che vedeva attraverso la finestra. Quando, giunta a sera, si apprestava ad andare a letto – facendo del proprio meglio per fare buon viso a cattivo gioco e ignorare la solitudine che già la opprimeva – qualcuno bussò alla sua porta.

I tre colpi secchi che risuonarono nel silenzio della sera la fecero sobbalzare e la fanciulla si portò istintivamente una mano al petto, sentendo sotto alle dita il battito accelerato del proprio cuore. Non aspettava visite e c’erano ottime possibilità che quell’ospite inaspettato non portasse nulla di buono. «Chi è?» chiese, con voce leggermente strozzata. Un istante più tardi si chiese se non sarebbe stato forse più prudente restare in silenzio e fingere di essere già a letto, ma, ormai, il danno era fatto.

«Lucio!»

Ancora?! I timori di un istante prima si trasformarono immediatamente in irritazione e, rassettandosi la gonna, la giovane marciò verso l’ingresso. Il soldatino sta diventando un po’ troppo invadente, per i miei gusti, pensò, arricciando il naso infastidita. Quando spalancò la porta, però, le parole di rimprovero che aveva intenzione di rivolgere al giovane legionario le morirono sulle labbra.

«Lidia! Vieni, dobbiamo andare via di qui! Subito!»

Tito si slanciò verso di lei, ma la fanciulla retrocedette rapidamente e poi levò un braccio, frapponendolo fra sé e il ragazzo, come per impedire a quest’ultimo di avvicinarsi ulteriormente. «Cosa ci fai qui?» sibilò, con voce tagliente.

Per una frazione di secondo, sul volto di lui passò un’ombra di vergogna, quasi che Tito provasse qualche rimorso per il modo in cui si era comportato il giorno prima. Fu solo un istante, però, poi la sua espressione si fece di nuovo decisa. «Ti spiegherò tutto strada facendo: adesso dobbiamo andarcene.»

Con la coda dell’occhio, Lidia vide che, fermi sulla porta, c’erano altri due soldati, ma non prestò loro alcuna attenzione, puntando invece lo sguardo su Tito. «Insisti? Ti ho già detto che io di qui non mi muovo. Non senza mio marito.»

Il giovane strinse i pugni in un moto di impazienza. «Ma è pericoloso!» sbottò. «Lo vuoi capire, che qui non è più sicuro stare?» L’espressione angosciata che riuscì a scorgere dietro al velo d frustrazione e impazienza la mise leggermente in allarme e la ragazza voltò rapidamente il capo verso Lucio, alla ricerca di spiegazioni. Il giovane biondo aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi la richiuse, come se fosse incerto su come affrontare l’argomento.

«Lascia che parli io, ragazzo.» Uno dei due soldati fermi in attesa sull’uscio lasciò la sua postazione e si avvicinò alla fanciulla. «Buonasera, Donna Lidia. Ti chiedo scusa per la visita improvvisa e per le circostanze poco piacevoli in cui ci incontriamo.»

Appoggiata al muro più vicino, la ragazza incrociò le braccia al petto e rivolse al legionario uno sguardo diffidente. Era un uomo già piuttosto anziano – Lidia giudicò che dovesse essere vicino al congedo – piccolo e segaligno, con due occhi infossati e talmente scuri che la fanciulla ebbe l’impressione di fissare due pezzi di carbone. «Con chi sto parlando?» chiese, con voce asciutta.

L’uomo sorrise e il suo volto asciutto si addolcì in un’espressione che le parve quasi amichevole. «Mi chiamo Gaio Cornelio Urso e sono da queste parti ormai da tanti, tanti anni.» Quando la giovane gli rivolse un cenno d’assenso, l’uomo proseguì: «Quello che Tito voleva dire è che si stanno verificando dei fatti allarmanti. Poco più di un’ora fa, qualcuno ha appiccato il fuoco all’abitazione del Legato Quinto Anicio Libo. Fortunatamente il Legato era fuori casa ed è rimasto illeso, ma quello che è accaduto è stato sicuramente un attentato alla sua vita.»

Nell’udire quelle parole, Lidia sbiancò. «Ma… ma lui sta bene?» chiese, sentendosi quasi un po’ stupida: la sua voce le suonava distorta, come se le sue labbra facessero fatica a incurvarsi per articolare correttamente le sillabe. Il soldato che rispondeva al nome di Gaio annuì. «Sì. Come ti ho detto, non era in casa al momento dell’attacco: si trovava al campo, per discutere con il Prefetto Caleno di alcune questioni. Naturalmente gli verrà fornita una scorta che possa garantire la sua sicurezza anche nei giorni a venire.»

«Naturalmente» ripeté Lidia, torcendosi inconsciamente le mani. Era da parecchio tempo che non vedeva il Legato e solo allora si accorgeva di trovare estremamente rassicurante la consapevolezza di poter contare su di lui.

«Purtroppo non è tutto» sospirò Gaio. «Avremmo voluto agire rapidamente e catturare i colpevoli, ma non abbiamo potuto farlo, dal momento che ci siamo dovuti occupare dell’altro incendio: quello che ha colpito il nostro accampamento.»

La ragazza sgranò gli occhi. «Due incendi in meno di un’ora?» chiese, mentre il cuore riprendeva a martellarle in gola. «Questo è ciò di cui siamo a conoscenza noi» la corresse il soldato. «Non escludo che, dopo la nostra partenza dal campo, se ne siano verificati degli altri.»

«Oh, Dèi» sospirò la fanciulla, avvilita, passandosi una mano tra i capelli spettinati. Dopo qualche istante di silenzio, Lidia alzò nuovamente gli occhi, facendo scorrere lo sguardo suoi quattro uomini che avevano occupato la sua abitazione, soffermandosi brevemente anche sul giovane alto e sottile che, sino a quel momento, non aveva detto nulla. Poi, inspirando a fondo, pose loro la domanda che più le stava a cuore. «E quindi voi siete qui per…?»

«Per trasferirti a un campo poco distante dal confine, tanto per cominciare» la informò Gaio, asciutto. «Un carro automatico attirerebbe troppo l’attenzione, quindi dovremo muoverci usando un carro trainato da un cavallo: questo allungherà inevitabilmente i tempi di percorrenza, ma, salvo imprevisti, dovremmo arrivare a destinazione in poco più di due giorni. Una volta raggiunto il campo, vedremo il da farsi. La cosa migliore sarebbe riportarti a Roma, immagino.»

La voce dell’uomo non lasciava spazio a dubbi o proteste e quasi Lidia si sentì in torto, quando cercò di replicare. «Vorreste farmi partire adesso?» chiese, facendo scorrere lo sguardo sugli uomini. Per una frazione di secondo, Tito incrociò i suoi occhi, ma subito chinò il capo, come se la domanda che lesse sul volto della fanciulla lo facesse sentire a disagio. Ancora una volta, fu il soldato più anziano a rispondere: «Sì, Donna Lidia: non possiamo più aspettare. I rischi, per te, aumentano a ogni minuto che passa e noi non siamo più in grado di garantire la tua sicurezza, purtroppo.»

La giovane si morse le labbra, sentendo una sensazione opprimente calare su di lei, simile al presagio del cappio che si stringe attorno alla preda. «E devo… devo per forza andare via? Non c’è un’altra soluzione?» chiese, senza avere un’idea ben chiara di quello che avrebbe voluto proporre. «Non potrei andare da Donna Erin, per esempio?»

«La Sacerdotessa è una germanica, non possiamo essere completamente certi della sua affidabilità» fece Gaio, categorico. «Inoltre, se anche lei avesse i mezzi per tenerti al sicuro – e non sono affatto certo che ce li abbia – ci è giunta voce di alcune morti sospette che si sono verificate nelle ultime ore. Non abbiamo ancora alcuna conferma, ma pare che possa esserci il rischio di un’epidemia di febbre, qui al villaggio: un motivo in più per allontanarsi il prima possibile.»

Lidia inspirò a fondo, cercando disperatamente qualcosa a cui aggrapparsi, ma non trovando nulla. Aveva davvero modo di opporsi? Sospettava che, se non aveva interpretato male la situazione, i soldati – e Tito! – l’avrebbero costretta a partire anche contro la sua volontà. «Chi vi ha detto di portarmi via?» chiese, cercando di mantenere ferma la propria voce.

«Il Prefetto Caleno» replicò prontamente Gaio. «Non abbatterti, Donna Lidia: agiamo solo ed esclusivamente per il tuo bene. Il Prefetto ha a cuore la tua sicurezza, così come quella di tutti i cittadini di Roma.»

«Mio padre è stato informato di questa decisione?» chiese ancora la fanciulla. A pochi passi da lei, Tito sospirò. «Non ce n’è stato tempo. Le cose sono successe troppo in fretta.»

«Il ragazzo ha ragione» annuì Gaio. «Vedremo però di informarlo quanto prima. Provvederò io stesso a inviargli un messaggio, una volta giunti al campo a sud.»

«Bene» sospirò la ragazza, prendendo rapidamente una decisione. «Accetto di lasciare il villaggio, anche perché mi pare che voi non mi stiate lasciando molta scelta. Però mi rifiuto di abbandonare la Germanica prima di avere il permesso scritto di mio padre: Caleno sarà anche un Prefetto, ma mio padre è un Senatore, e io non voglio avere problemi da lui.» Con la coda dell’occhio, Lidia vide Tito e Lucio scambiarsi un’occhiata, ma Gaio annuì, imperturbabile, acconsentendo alla sua richiesta. «Inoltre», riprese la giovane, «voglio informare la famiglia di mio marito di quello che sta succedendo. Mio marito e mio suocero non sono al villaggio, al momento, ma mio cognato sì. Gli scriverò un messaggio: prima di partire, voglio consegnarglielo.» Per una frazione di secondo, Lidia fu sfiorata dal pensiero di far recapitare un messaggio anche a Unna, ma subito scartò l’idea: anche se i rapporti tra lei e la cognata erano leggermente migliorati, non era affatto sicura che la donna non avrebbe bruciato la sua lettera e giurato di non sapere niente di lei.

Davanti a quella proposta, Gaio parve un poco titubante. «Preferirei partire subito» disse. «Non vorrei perdere troppo tempo qui al villaggio.» Lidia strinse le labbra in una linea sottile. «Non ci vorrà molto tempo» replicò. «Hermann abita a una decina di minuti da qui, se ci andremo in carro, ci arriveremo in un men che non si dica.»

«E se non fosse in casa?» obiettò Tito, con un’espressione cupa disegnata sul viso. «Se non sarà in casa, consegneremo il messaggio a Donna Edda» ribatté lei, secca. «In ogni caso, sarà lì: gli ho chiesto di non uscire e di non correre rischi inutili.»

«E va bene» concesse il soldato più anziano, stroncando sul nascere ogni ulteriore protesta da parte del giovane bruno. «Fai in fretta, però, a scrivere quel messaggio. Come ti ho detto, abbiamo i minuti contati.»

Lidia annuì, mentre la sua mente correva, cercando di individuare il modo migliore di agire. «Va bene. Mi ci vorrà un attimo. Devo… devo solo salire in camera a prendere carta e penna e… e magari a preparare una sacca con un cambio.»

Di nuovo, il soldato annuì e, senza aggiungere altro, Lidia si staccò dal muro al quale si era appoggiata e si diresse a passi rapidi verso la scala che portava al piano superiore. Saliti pochi gradini, però, si voltò di nuovo verso gli uomini ancora fermi sull’uscio. «Il nome del campo dove intendete portarmi?» chiese.

«Hudwill.» A parlare era stato il ragazzo silenzioso, un giovane dai lineamenti delicati e ricci di un castano slavato. La fanciulla gli rivolse un cenno di ringraziamento, prima di correre verso la sua camera da letto. Hudwill, ricordò. È il paese di confine che abbiamo attraversato quando siamo arrivati in Germanica con mamma e papà.

Una volta raggiunta la scrivania che si trovava di fronte al letto, la ragazza frugò rapidamente nei cassetti alla ricerca di alcuni fogli di carta e del pennino che aveva visto usare a Ulf pochi giorni prima. Sedendosi di scatto sulla sedia, Lidia si leccò nervosamente le labbra, cercando di trovare le parole adatte.

Hermann, scrisse. Sono arrivati dei legionari che mi hanno costretta ad andare via con loro. Con loro c’è anche quella persona di cui ti ho parlato oggi a pranzo. Si chiama Tito Fabio Fusco ed è un mio amico. Non credo che abbiano cattive intenzioni, ma non ho potuto rifiutarmi di seguirli: mi porteranno in un accampamento militare vicino al Colle di Hudwill, sul confine con l’Impero. Credo che poi vogliano riportarmi a Roma – e io non ci voglio andare. Cercherò di guadagnare tempo, tu fai avere questo messaggio a tuo padre e a Ulf e vedi se loro possono fare qualcosa per farmi tornare a Erding. – Lidia

La fanciulla piegò in quattro il messaggio appena scritto e lo posò accanto alla lampada da tavolo. Poi, su un altro foglio, scrisse un secondo messaggio, dai toni un po’ meno allarmistici. Hermann, Gaio Cornelio Urso e i suoi uomini mi stanno portando al sicuro in un campo militare più a sud, poco distante dal colle di Hudwill. Ti prego di informare tuo padre e Ulf di quanto sta succedendo, così che non stiano in pensiero per me. – Lidia

Infilando quella seconda missiva nella tasca del grembiule, Lidia infilò alcuni abiti nello zaino che Unna le aveva prestato quando erano scese dall’alpeggio e poi, lanciando un ultimo sguardo al bigliettino seminascosto dal piedistallo della lampada, uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Non era che non si fidava di Tito e dei legionari. Avevano detto che l’avrebbero accompagnata da Hermann e, con ogni probabilità, sarebbero stati di parola. Però…. Lidia si era scoperta piuttosto diffidente, quando si trattava di fidarsi ciecamente delle intenzioni altrui. Forse i soldati non le avevano detto proprio tutta la verità. Forse preferivano tenere segreto il luogo in cui l’avrebbero trasferita.

Ad ogni buon conto, preferisco pararmi le spalle, pensò la giovane, raggiungendo le scale. Mal che vada, avrò scritto un biglietto inutile. Ma, se così non fosse… a Hermann verrà sicuramente in mente di dare un’occhiata in camera. O, se non a lui, a Ulf, quando tornerà a casa.

Al pensiero del marito, Lidia provò una stretta allo stomaco, ma subito irrigidì la schiena, allontanando la malinconia che, per un istante, aveva cercato di avvolgerla nel suo abbraccio cupo. Non era il momento di lasciarsi prendere dallo sconforto, quello. Se Ulf fosse tornato a casa e non l’avesse trovata, avrebbe potuto pensare le cose peggiori – che lei l’avesse abbandonato per fuggire con Tito, per esempio. Non poteva permetterlo. Se era vero che non aveva modo di opporsi apertamente a una disposizione di Caleno, era altrettanto vero che poteva rallentare un poco il proprio rimpatrio. Ulf e Gefrid sarebbero rientrati dopo pochi giorni e forse avrebbero potuto convincere Libo a farla tornare al villaggio… e Libo costringerà il Prefetto a obbedire! Si disse Lidia, con un fremito di indignazione. Caleno non le era mai piaciuto molto e, in quel momento, l’antipatia che provava nei suoi confronti era schizzata a livelli mai toccati prima di allora.

«Sei pronta?» la voce di Tito la costrinse a riscuotersi da quei pensieri e la fanciulla annuì, pescando dalla tasca del grembiule il messaggio scritto pochi istanti prima e mostrandolo al giovane. «Sì» confermò. «Possiamo andare.»

Mentre il giovane soldato silenzioso le teneva aperta la porta d’ingresso, Lidia si voltò rapidamente per lanciare un’ultima occhiata all’abitazione che si apprestava a lasciare. Non le era mai veramente sembrata la sua casa, quella, forse perché non aveva ancora avuto il tempo per familiarizzare con essa. Tuttavia, in quell’istante il pensiero di lasciarla le causò una vaga angoscia. Ma ci rivedremo presto, pensò la ragazza, rivolgendo un saluto silenzioso alla cucina e alla sala da pranzo.

Con il coprifuoco ancora in vigore, la notte era più buia che mai e quando mise piede in strada, richiudendosi alle spalle la porta di casa, Lidia rimase per qualche istante accecata dall’oscurità quasi totale che la circondava. Le poche luci accese nelle abitazioni più vicine non erano sufficienti per rischiarare le tenebre e, quasi senza rendersene conto, la ragazza si trovò a stringersi al fianco di Tito, cercando inconsciamente la protezione di una presenza conosciuta. «Dov’è il carro?» chiese, in un sussurro, senza osare alzare la voce per il timore irrazionale – forse – che qualcun potesse essere in ascolto.

«L’abbiamo lasciato vicino al bosco» replicò il ragazzo, parlando altrettanto piano. «Abbiamo pensato che fosse meglio tenersi fuori dalla portata di orecchie indiscrete.» A Lidia non sfuggì l’ironia della situazione. Nell’indicarle il luogo in cui era stato lasciato il carro, Tito aveva levato il braccio in direzione della foresta verso cui era fuggita la sera del suo matrimonio. Alla fine, sembra proprio che la mia fuga da Erding debba passare attraverso questo bosco, si disse la ragazza, con una punta di amarezza. Il suo non sarebbe stato un allontanamento definitivo – non l’avrebbe permesso – ma la coincidenza non poté non sembrarle strana.

Fu la voce di Gaio a distrarla da quei pensieri. «Forza, senza perdere tempo: qual è la strada più rapida per arrivare a casa di tuo suocero?» La fanciulla rifletté rapidamente, stringendo nel pugno il messaggio che aveva scritto per Hermann, poi si incamminò verso destra. «Da questa parte» disse. Subito, Lucio la superò, portandosi davanti a lei. «Aspetta» mormorò circospetto. «È meglio che vada io, è più sicuro.»

Non vedendo motivo di protestare, Lidia si strinse nelle spalle e il gruppetto si incamminò nella direzione indicata dalla ragazza. Con Tito alla sua sinistra e il giovane soldato senza nome alla sua destra, la ragazza non poteva fare a meno di sentirsi in gabbia. Comprendeva perfettamente che gli uomini si erano stretti attorno a lei con l’intento di proteggerla da eventuali aggressioni, ma, nonostante le notizie allarmanti che le erano giunte nelle ultime ore, quelle misure di sicurezza le sembravano decisamente eccessive. Non c’era odore di fumo, nell’aria, e le strade del villaggio parevano perfettamente deserte, quasi come se nessuno osasse trasgredire le regole imposte dal coprifuoco.

Quando giunsero a un bivio, Lidia esitò. Se avessero svoltato a destra, sarebbero arrivati a casa di Gefrid in poco più di cinque minuti. Tuttavia, così facendo, avrebbero dovuto attraversare la piazza principale del villaggio e, certamente, non sarebbero passati inosservati. Se qualcuno mi vedesse in compagnia di un drappello di soldati, si farebbe certamente delle domande, rifletté. Anche se sapeva di non avere nulla da rimproverarsi, quell’eventualità la mise comunque a disagio. Dopo un istante di indecisione, Lidia si voltò verso Gaio, che chiudeva la piccola processione. «Converrebbe passare attraverso la piazza: sarebbe molto più rapido» mormorò, occhieggiando in quella direzione. «Però… non lo so, forse sarebbe più sicuro passare dal sentiero esterno, quello che costeggia gli orti?»

Gli altri tre uomini si voltarono per attendere la decisione di quello che, almeno per il momento, era a tutti gli effetti il loro capo. «Sì, forse è meglio. Certamente sarebbe più prudente. Tu non fare niente di stupido, ragazzo» disse, poi, rivolto a Tito. «Lucio, Valerio: voi state pronti a intervenire, nel caso qualcosa andasse storto.»

Ah! Allora si chiama Valerio! Pensò Lidia, vagamente soddisfatta del fatto di avere scoperto il nome anche dell’ultimo dei suoi accompagnatori. Senza aggiungere altro, Lucio si avviò lungo il vicoletto che, quasi invisibile, si insinuava tra due case e, dopo pochi metri nell’oscurità più totale, il gruppetto sbucò tra i campi. Anche se la luna era schermata dalle nuvole, a Lidia parve che i confini delle cose si fossero fatti più nitidi, quasi che i fili d’erba riflettessero un minimo di luce argentea – o forse erano soltanto i suoi occhi che si erano abituati alle tenebre.

Al limitare esterno del villaggio erano situati numerosi piccoli appezzamenti di terra coltivata, ognuno dei quali era delimitato da una recinzione costruita con pali di nocciolo, rinforzati, nel caso in cui il proprietario fosse particolarmente bellicoso, con alcuni giri di filo spinato; un accorgimento che sarebbe dovuto servire per difendere verdure e ortaggi dalla voracità degli animali selvatici. Nelle poche occasioni in cui era passata di lì dopo il calar del sole, Lidia aveva sempre scorto qualche capriolo intento ad allungare il collo verso i germogli teneri dei fagioli e, anche in quell’occasione, tese istintivamente le orecchie nel tentativo di cogliere un qualche fruscio che la avvertisse della presenza degli ospiti indesiderati.

Per quanto si sforzasse, però, la ragazza non udì altro che l’intenso frinire dei grilli nascosti tra l’erba alta, i passi ovattati dei suoi accompagnatori e qualche raro suono che proveniva dal villaggio – una porta che sbatteva, l’eco di una voce. La strana immobilità della natura le parve, se non proprio un tradimento, quanto meno il segnale che qualcosa fosse fuori posto: spostando lo sguardo sui campi bui, Lidia provò a sondarne l’oscurità con gli occhi, nel vano tentativo di cogliere un qualsivoglia movimento. Così facendo, la fanciulla non si accorse che, davanti a lei, Lucio si era fermato di colpo e andò a sbattere contro la sua schiena rigida.

Quando il giovane non mosse un muscolo, lei lo guardò con aria interrogativa. «Cosa c’è?» chiese, in un sussurro.

Per qualche istante, Lucio non disse nulla, ma, pur nelle scarse condizioni di luce in cui si trovavano, la ragazza riuscì a scorgere la sua espressione tesa, il movimento lento del suo braccio che si alzava come per indicare qualcosa. Poi, all’improvviso, il soldato ruotò velocemente su se stesso e, posando entrambe le mani sulle spalle di Lidia, la spinse in avanti, verso i suoi compagni. «Via!»  esclamò, con gli occhi sbarrati dalla paura e dall’eccitazione.

La fanciulla fece appena in tempo a scorgere delle ombre che, giungendo dalla direzione opposta alla loro, si stavano avvicinando rapidamente, poi Valerio la circondò con un braccio e, dando sfoggio di una forza inaspettata, la trascinò via. Lidia si ritrovò a correre alla cieca, ma la confusione, lo smarrimento e il braccio del soldato che ancora la stringeva la rallentavano.

Ci mise un po’ a rendersi conto che i passi di Lucio, alle sue spalle, si erano fatti più distanti e poi si erano fermati del tutto. Anche se c’era qualcosa, nelle profondità del suo stomaco, che le ordinava di non guardare indietro, Lidia si voltò comunque a lanciare uno sguardo alle proprie spalle. L’unica occhiata fugace che riuscì a rubare le permise di scorgere soltanto una figura scura rannicchiata a terra, immobile, e altre sagome – quattro, cinque, sei uomini – che le si stringevano attorno. Qualcosa sobbalzò, nel suo petto, e per una frazione di secondo Lidia provò l’impulso irrazionale di divincolarsi dalla stretta di Valerio e di tornare sui propri passi, correndo verso il punto in cui Lucio era caduto. Il giovane dovette però intuire le sue intenzioni, perché la sua stretta si fece ancora più salda e decisa. La fanciulla sentì le dita del soldato conficcarsi dolorosamente nella sua spalla e quella sensazione la costrinse a riportare l’attenzione su se stessa.

Immediatamente, Lidia tornò a voltarsi nella stessa direzione in cui Valerio la stava trascinando. Confusamente la ragazza avvertì che Gaio le stava dicendo qualcosa, ma non riuscì a cogliere il senso di quelle parole. Corri, era l’unico ordine che arrivava dal suo cervello, eppure, allo stesso tempo, i suoi occhi si appuntarono su Tito che, accanto a lei, ancora si soffermava a guardare ciò che stava accadendo alle sue spalle, sul suo volto lo stesso sconvolgimento che lei avvertiva nel cuore. Istintivamente Lidia allungò una mano fino a stringere tra le dita il polso del giovane romano e a strattonarlo nel tentativo di riscuotere il ragazzo dal suo smarrimento.

Funzionò e, una frazione di secondo più tardi, gli occhi scuri di Tito incontrarono i suoi. «Dai, Lidia, vai!» ansimò il ragazzo, stringendole a sua volta la mano. Nell’avvertire il contatto con il suo palmo sudato, la fanciulla sentì un nodo doloroso serrarle la gola. Come ci erano finiti, loro due, in quella situazione? Fino a pochi mesi prima, la loro preoccupazione più grande era stata trovare un modo divertente in cui passare il pomeriggio, mentre ora, a così poco tempo di distanza, si trovavano a correre nella notte, nel tentativo di salvarsi la vita.

Lidia seguì Gaio quasi alla ceca, senza nemmeno fare il tentativo di capire dove la stesse conducendo, talmente assorbita dai suoi pensieri confusi da non accorgersi che il soldato stava rallentando. Fu solo grazie alla presa decisa di Tito che, quando l’uomo si fermò completamente, la fanciulla riuscì a evitare di rovinare a terra. Alle sue spalle, Valerio, che si era staccato da lei senza che lei se ne rendesse conto, si piegò leggermente su se stesso, con il respiro pesante. «Non li vedo più» mormorò, quasi mordendo le parole tra i denti.

«Nemmeno io» replicò Gaio, con voce sorprendentemente calma. Lidia si appoggiò al muro del fienile dietro a cui avevano trovato riparo, portandosi una mano all’altezza delle costole. Adesso che non stavano più correndo, la fanciulla sentiva il cuore martellarle nel petto a una velocità allarmante. In gola aveva un vago sapore di sangue e le sembrava di avere un pugnale conficcato nella zona della milza. Chiudendo per un istante gli occhi, la ragazza cercò di calmare il tremolio delle proprie gambe e poi inspirò a fondo, spostando lo sguardo sui due soldati di fronte a lei e restando in attesa di una loro decisone.

Dopo alcuni secondi che le parvero infiniti, Gaio annuì. «Va bene. Cerchiamo di raggiungere il carro. Con calma, ma tenendo gli occhi aperti.»

Muovendosi con una sincronia quasi perfetta, Lidia e Tito si voltarono l’uno verso l’altro, sui loro volti la stessa identica domanda. Sentendosi in dovere di dire qualcosa, la ragazza allungò un braccio in direzione del soldato più anziano, arrivando a sfiorargli una spalla. «Ma…?»

La fanciulla sentì di non avere la forza di esprimere il suo pensiero, e allora si limitò a fissare Gaio con gli occhi sgranati, sperando che l’uomo comprendesse la natura del suo dubbio. Lui però aggrottò la fronte, guardando con la coda dell’occhio il suo giovane commilitone, forse per accertarsi che, almeno nell’immediato, non vi fosse alcun pericolo. «Cosa c’è?» le chiese, poi.

Lidia deglutì, cercando di sopraffare la secchezza che le stringeva la gola e le impastava la lingua. «Ma… Lucio?» Accanto a lei, la giovane sentì Tito esalare un sospiro lento e le dita del ragazzo stringersi un po’ di più attorno alle sue.

Anche se l’oscurità le rendeva impossibile scorgere con chiarezza l’espressione del suo volto, Lidia ebbe l’impressione di vedere le rughe che solcavano il viso di Gaio farsi più profonde, più cupe. «Non possiamo fare più niente, per Lucio. È andato. Non ha senso tornare indietro e mettere in pericolo anche noi stessi.»

Davanti alla schiettezza del militare, Lidia sbiancò. «Ma forse… forse non è morto?» chiese, vergognandosi un poco nell’udire il modo in cui la sua voce si incrinò, nel pronunciare quell’ultima parola. «Forse l’hanno solo catturato?» le diede man forte Tito, con appena un filo di speranza ad animare il suo tono.

Gaio sospirò e, avanzando di un passo, posò le mani sulle loro spalle. «No, è morto» ripeté, senza mezzi termini. «Era solo un soldato come tanti altri, non avrebbe avuto alcun valore, come ostaggio. Da morto, invece, può benissimo diventare un trofeo.» Il legionario restò immobile per qualche istante, osservando la reazione dei due ragazzi, poi, quando vide che le sue parole avevano colpito nel segno, si allontanò da loro, facendo un cenno a Valerio e rimettendosi in marcia.

Lidia e Tito seguirono in silenzio i due soldati, ognuno immerso nei propri pensieri. Con la testa piena di ovatta, Lidia appoggiò un piede su un ciottolo instabile e si torse una caviglia in maniera dolorosa, ma non vi prestò alcuna attenzione. Si sentiva in colpa. Lucio era morto e lei non riusciva a fare a meno di pensare che, sotto sotto, in un modo o nell’altro, ciò che era accaduto fosse colpa sua.

Non essere sciocca, lui era un soldato e sapeva benissimo ciò a cui andava incontro. È questo, quello che fanno i soldati: vanno a combattere lontano da casa loro e, qualche volta, muoiono. Quella strana voce che, di tanto in tanto, le soffiava in testa pensieri inaspettati cercò di alleggerirle la coscienza, ma il peso che le gravava sul cuore non si allentò.

In maniera un po’ contorta, Lidia pensò che, se fosse stata sincera con Ulf, le cose sarebbero andate diversamente, forse. Forse, se gli avessi detto di Tito, lui non sarebbe partito già questa mattina. O forse sarebbe partito lo stesso, ma mi avrebbe portata con sé e tutto questo non sarebbe successo.

O magari non sarebbe cambiato niente, si disse ancora e, in un certo senso, quel pensiero fece aumentare ancora di più il suo senso di angoscia. La ragazza si rese conto che, fino a quella sera, non aveva preso veramente sul serio quello che stava succedendo attorno a lei. Era come se stupidamente – follemente – avesse cullato l’illusione di avere ancora un certo livello di controllo sulla situazione quando, in realtà, era in completa balìa degli eventi.

Era tutto troppo più grande di lei, comprese con un nodo alla gola, e non c’era nulla che lei potesse fare per evitare che andasse tutto a rotoli. E sono riuscita a rovinare anche le poche cose che dipendevano anche un po’ da me. Come il suo rapporto con Ulf, per esempio. Se convincerlo a lasciare Erding con lei era sempre stata una cosa piuttosto complicata, ora il progetto le appariva come un’impresa praticamente disperata. Non posso certo sperare che passi sopra a tutta la storia di Tito come se niente fosse.

Doveva fare qualcosa, doveva trovare un modo per aggiustare le cose, ma, sfortunatamente, non sapeva da che parte iniziare. Mentre le mani iniziavano a sudarle e il panico iniziava ad avvicinarsi a lei, strisciante, la giovane si costrinse a fare un respiro profondo e a calmarsi un poco. Una cosa alla volta, si disse, risoluta. Farsi sopraffare dalla paura e dai sensi di colpa sarebbe stato assolutamente deleterio. Doveva affrontare un ostacolo alla volta, senza perdere di vista l’obiettivo finale – la riconciliazione con suo marito e l’allontanamento dal villaggio – ma senza cercare di risolvere tutto subito.

Alzando lo sguardo davanti a sé e spiando oltre le spalle di Gaio, la ragazza intravide la sagoma di un carro. Lo sbuffo sommesso di un cavallo le fece comprendere di aver raggiunto la meta. Per prima cosa, si disse, devo riuscire ad allontanarmi da qui sana e salva. Come seconda cosa, devo evitare che mi rispediscano a Roma. Poi si vedrà. Quel pensiero non la consolò più di tanto, ma le diede l’impressione di avere qualcosa di concreto su cui lavorare e Lidia sospirò, leggermente rinfrancata.

«Salite, svelti.» La voce sommessa di Gaio la riportò alla realtà e, annuendo in silenzio, la ragazza si arrampicò sul carro, prendendo posto tra Tito e Valerio. Gaio si posizionò a cassetta e, pochi istanti più tardi, il carro prese a muoversi.

Per qualche tempo, il gruppetto viaggiò nel silenzio più assoluto. Lidia aveva quasi l’impressione di riuscire a sentire la tensione che si levava dai suoi compagni, simile a una vibrazione nell’aria. Lei stessa si scoprì più volte a trattenere il fiato, cercando di spingere il proprio udito al limite ultimo, tentando di rendere più acuta la propria vista. Non aveva intenzione di farsi cogliere di sorpresa una seconda volta: se c’era un nemico nascosto nelle tenebre del bosco, avrebbe fatto del proprio meglio per scorgerlo per tempo.

Fu solo dopo un’ora di viaggio che gli uomini iniziarono a rilassarsi un poco e a sciogliere la propria immobilità. Di punto in bianco, Tito si schiarì la voce. «Chi erano?» chiese. Nell’udire quella domanda, Lidia si voltò bruscamente verso di lui, sentendosi un po’ sciocca. Quando era fuggita dagli uomini che li avevano attaccati, non si era interrogata sull’identità dei loro aggressori: le era parso che quello fosse un particolare senza nessuna importanza, ma, improvvisamente, veniva colta dal dubbio che non fosse così. Si era trattato di un incontro casuale – e sfortunato – o era stata una vera e propria imboscata? Qualcuno li stava tenendo d’occhio? Qualcuno sapeva che sarebbero passati di lì? O forse tenevano d’occhio proprio me? Si chiese, poi, con un brivido.

Prima che potesse proseguire oltre in quei pensieri, Gaio si voltò leggermente verso di loro, senza mai lasciare le redini del cavallo. «Non ho idea di chi fossero. Forse minatori, forse no. Ormai non è più solo la gente che lavora alla miniera: le cose si sono fatte più complicate.»

«Ma perché ci hanno attaccato?» insistette Tito. Con un sospiro, il soldato tornò a guardare davanti a sé. «Non lo so» ammise stancamente.

Quella risposta così poco soddisfacente fece scorrere un nuovo brivido di inquietudine lungo la schiena di Lidia, che si torse per lanciare uno sguardo nervoso alle proprie spalle. «Credete che ci stiano ancora seguendo?» chiese, senza riuscire a soffocare il tremolio che si manifestò nella sua voce.

«No» fu la laconica risposta di Valerio. Ancora una volta, fu Gaio a fornire una spiegazione un po’ più approfondita. «Se avessero avuto intenzione di seguirci, ormai ce ne saremmo accorti» la rassicurò. «A piedi non hanno modo di starci dietro e dubito che siano riusciti a procurarsi un carro in così poco tempo; senza contare che anche loro devono evitare di dare troppo nell’occhio. Immagino che abbiano deciso che non valeva la pena di inseguirci. In ogni caso», continuò poi, dopo qualche attimo di silenzio, «è meglio essere prudenti: viaggeremo solo di notte.»

«Solo di notte?» ripeté Tito, sporgendosi verso il soldato. «E di giorno? Cosa avete intenzione di fare? Di fermarvi in mezzo al bosco e di aspettare che torni sera, sperando che, nel frattempo, nessuno ci veda?» Valerio fece per rispondere, ma poi si bloccò, limitandosi a lanciare uno sguardo dubbioso alla schiena del suo commilitone.

«C’è un… rifugio, a poche ore di strada da qui» fece Gaio, con una leggera esitazione. «Avrei preferito andare un po’ più a sud, prima di fermarmi, ma non conosco nessun altro posto sicuro. Lì vive un nostro contatto, per così dire. È a metà strada tra Erding e Hudwill e, se passeremo il giorno lì e ci rimetteremo in marcia al tramonto, arriveremo al campo prima dell’alba.»

Lidia strinse inconsciamente le mani, scoprendole imperlate di un sudore nervoso. Sebbene non potesse dire di conoscere bene i due soldati con cui stava viaggiando, la loro compagnia le pareva comunque più rassicurante di quella di uno sconosciuto: c’era qualcosa, nel modo in cui Gaio ne aveva parlato, che faceva nascere in lei come un cattivo presentimento. «Chi è questo contatto?» chiese, sperando che l’inquietudine non distorcesse il suono della sua voce. «È romano?»

«No, è germanico» replicò Gaio. «Però è fidato. Collabora con noi ormai da parecchi anni e non abbiamo mai avuto motivo di dubitare della sua fedeltà. Non hai motivo di preoccuparti, Donna Lidia.»

Anche se sapeva che il soldato non poteva vederla, la ragazza annuì. Non sapeva nemmeno lei perché avesse chiesto se l’uomo che avrebbero incontrato di lì a qualche ora fosse romano o meno: quel fatto non era più una garanzia di nulla, a conti fatti, e lei non poteva fare altro che affidarsi a chi, forse, ne sapeva un po’ più di lei.

Il fatto di essere regredita a uno stato in cui non aveva alcuna autonomia decisionale non le piaceva, ma si rendeva conto che, in quelle circostanze, c’era ben poco che lei potesse fare. Respirando lentamente nel tentativo di mettere a tacere almeno in parte l’inquietudine che minacciava di soffocarla, Lidia si lasciò scivolare contro lo schienale basso del carro, afflosciandosi un poco su se stessa. Accorgendosi del suo sconforto, Tito lo passò un braccio attorno alle spalle e la attirò a sé delicatamente. Sulle prime, la fanciulla fece per resistere, ma poi la stanchezza e lo stress della serata ebbero la meglio e la ragazza reclinò il capo sulla spalla del giovane, appoggiandosi a lui e lasciando che il suo calore famigliare le portasse un po’ di conforto.

«Non preoccuparti» le sussurrò Tito; e lei sorrise amaramente. Come fa a dire che non mi devo preoccupare? Pensò, con una smorfia. Non c’è una sola cosa per cui possa evitare di preoccuparmi. Lucio… quel poveretto non c’è più, e anche noi siamo stati vicini a fare la sua stessa fine. Al villaggio non si capisce più niente e Ulf… Ulf è arrabbiato con me e chissà quanto ci metterà, a perdonarmi. Con una punta di risentimento dettato dalla frustrazione, Lidia fu sul punto di dire a Tito di risparmiarle le frasi di circostanza, ma poi lasciò perdere, sentendo di non avere la forza di discutere con lui.

Avvertendo di essere giunta a un punto morto, la giovane scivolò un po’ più in basso e chiuse gli occhi – non con la speranza di riuscire a dormire, ma, piuttosto, con l’intento di riposare almeno un poco i pensieri. Ben presto, però, il beccheggio irregolare del carro fece calare su di lei una sorta di immobilità calda, quasi piacevole, e la sua testa si fece pesante e leggerissima allo stesso tempo. Pochi minuti più tardi, quasi senza rendersene conto, Lidia scivolò tra le braccia del sonno.

***

Sto uscendo di casa ora e ci rimetterò piede lunedì pomeriggio, quindi posto subito questo capitolo. Però non sono riuscita a rileggere niente. Segnalatemi pure gli errori, provvederò a correggerli il prima possibile.

Ps. Dopo questo, ho pronti altri due capitoli e mezzo. Tra un po dovrò rallentare il ritmo, temo D:

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Capitolo 29
*** 28. Un rifugio sicuro ***


Lidia si svegliò di soprassalto, destata da un sobbalzo del carro. Portandosi una mano alla nuca, la ragazza si massaggiò il collo indolenzito e poi sbatté gli occhi, cercando di allontanare l’offuscamento causato dal sonno residuo. Accanto a lei, Tito si stiracchiò e la fanciulla si chiese se il giovane si fosse addormentato, esattamente come lei. «Dormivi?» gli chiese, con voce impastata.

Il ragazzo deglutì un paio di volte, prima di rispondere. «Sonnecchiavo» replicò, e Lidia non trattenne un sorriso, udendo la risatina soffocata che giunse dall’angolo del carro in cui sedeva Valerio. Sì, sonnecchiava, come no. Questo qui è crollato. Può atteggiarsi a uomo vissuto, ma si vede che nemmeno lui è abituato a questa vita.

«Che ore sono?» chiese poi, diplomatica.

«Avete dormito per un paio di ore» spiegò Valerio, voltandosi per guardarla. «Vi siete svegliati giusto in tempo, però: siamo quasi arrivati da Alexander.»

«Alexander?» ripeté Tito, precedendo di un soffio la ragazza, che avrebbe voluto porre la stessa domanda. «È la persona di cui ci avete parlato? Il vostro contatto?»

«Esattamente» confermò Valerio. Lidia fu tentata di indagare ulteriormente, ma poi decise di tenersi per sé i propri dubbi. Il giovane soldato aveva detto che presto sarebbero giunti a destinazione: non aveva senso riempire di domande i loro accompagnatori, se di lì a poco avrebbero incontrato di persona quello che avrebbe dovuto essere il loro ospite.

Guardandosi attorno nella notte che, se possibile, le pareva ancora più buia di quanto le fosse sembrata qualche ora prima, Lidia si accorse che avevano abbandonato la strada principale. Quello su cui procedevano ora era un viottolo angusto, poco più largo di un sentiero: per quanto poteva vedere, il fondo era irregolare, costellato di sassi e radici. Ora che era sveglia, la ragazza iniziava ad avvertire un certo disagio a livello dello stomaco e si ritrovò a pregare silenziosamente che il loro viaggio giungesse a termine quanto prima – diversamente, non si sarebbe ritenuta responsabile delle proprie reazioni.

Gaio, che, apparentemente, non aveva mai abbandonato la sua postazione, continuò a condurre il carro per un tempo che alla giovane parve interminabile. Poi, proprio quando stava iniziando a disperare e ad avvertire un senso di nausea sempre più pressante, il cavallo rallentò la propria andatura. Ci stiamo fermando? Si chiese Lidia, raddrizzando la schiena e sedendo in modo più composto. Qui? In mezzo al nulla?

«Siamo arrivati?» chiese, con un filo di voce. Il pensiero che davanti a loro vi fosse un qualche pericolo che avesse spinto Gaio a fermare il cavallo sfiorò per un istante la sua mente, ma il cenno di assenso di Valerio la rassicurò. «Sì» confermò il ragazzo. «Lì, nella radura.»

Lidia si sporse leggermente dal fianco del carro e strizzò gli occhi nel tentativo di distinguere qualcosa tra i rami scuri degli alberi che li circondavano. Il tracciato che stavano percorrendo virò dolcemente a sinistra e, pur nel buio quasi totale in cui erano immersi, la fanciulla scorse un piccolo sprazzo erboso seminascosto tra i tronchi possenti dei castani e dei frassini che crescevano tutto attorno. Al centro della piccola radura si ergeva una costruzione scura, una casupola che, a prima vista, le parve completamente disabitata. Non appena ebbe elaborato quel pensiero, però, una delle finestre si illuminò, facendole capire che al suo interno c’era qualcuno che li attendeva.

Gaio fermò il cavallo a pochi metri dalla costruzione, poi si voltò verso la giovane. Nel buio della notte, Lidia ebbe l’impressione di vedere i suoi occhi scintillare. «Spero tu sia consapevole del fatto che siamo molto lontani da Erding, Lidia.»

La ragazza aggrottò la fronte, confusa. «Sì, lo so» replicò, cercando di capire perché il soldato le avesse dato quell’informazione. Davanti a quella risposta neutrale, il legionario parve un poco in imbarazzo, perché tossicchiò, schiarendosi la voce. «Quindi saprai anche che sarebbe davvero molto sciocco, da parte tua, cercare di scappare per tornare al villaggio, giusto?»

«Scappare?» sbottò la ragazza, con le guance in fiamme, offesa da quell’insinuazione.  «Ho deciso di seguirvi di mia volontà, non vedo perché dovrei cercare di tornare indietro. Se non avessi voluto venire con voi, mi sarei opposta fin da subito.»

Tito, che sedeva al suo fianco, si voltò per guardarla e, se possibile, le guance della giovane si fecero ancora più rosse. Quello che aveva detto non era completamente vero, naturalmente: se non si era opposta alla richiesta di Caleno, era solo perché aveva compreso di non avere scelta. Il fatto che, almeno all’apparenza, stesse collaborando non significava però che li avrebbe seguiti docilmente fino a Roma. E sospetto che Tito sappia perfettamente come stanno le cose, si disse, osservando con la coda dell’occhio l’espressione del giovane romano. Lui la conosceva fin troppo bene e, sicuramente, i pochi mesi che avevano passato lontani l’uno dall’altra non erano stati sufficienti per rendergliela imprevedibile.

Temendo che il ragazzo potesse indovinare i suoi pensieri, Lidia osò lanciargli soltanto un’occhiata veloce, poi tornò a rivolgersi a Gaio. «Non temere: non cercherò di scappare» riprese, facendo del proprio meglio per mantenere un tono di voce neutro.  Il soldato parve sul punto di replicare, ma, improvvisamente, la porta della casupola alle loro spalle si aprì e un uomo si diresse verso di loro. «Siete in anticipo» disse il nuovo venuto, a mo’ di saluto. «Alexander» rispose, con un mezzo sorriso, il soldato. «Ti avrei avvertito del cambio di programma, ma, purtroppo, non ne ho avuto il tempo.»

L’uomo annuì e poi si diresse verso di loro, arrivando a posare le mani sul bordo del carro. La luce proveniente dall’interno dell’abitazione gettava su di lui un’aura dorata che sembrava incendiare i suoi capelli. Alexander studiò per qualche istante Lidia, che abbassò lo sguardo, sentendosi a disagio di fronte a quell’esame così attento. «Chi è lei?»

Con un balzo sorprendentemente leggero per un uomo della sua età, Gaio scese dal carro e si portò accanto al germanico. «Lei è Lidia Aurelia Prisca: dobbiamo accompagnarla a Roma.»

L’uomo che rispondeva al nome di Alexander inarcò le sopracciglia. «Dovete portarla fino a Roma? E perché?» indagò, spostando nuovamente lo sguardo sul volto della fanciulla, quasi si aspettasse che fosse proprio lei a rispondergli. «Ordini del Prefetto Caleno» tagliò però corto il soldato.

Davanti al tono secco di Gaio, il germanico sorrise e alzò le mani in un gesto di resa. «Va bene, va bene, non voglio impicciarmi in cose che non mi riguardano» lo rassicurò, con l’ombra di una risata nella voce. «Però lo sapete, che non voglio avere rogne: se questa ragazza vi ha obbligato a scappare in fretta e furia da Erding, non sono sicuro di volerla ospitare in casa mia.»

Lidia inspirò bruscamente, mortificata. La modesta curiosità che aveva nutrito nei confronti di Alexander si trasformò immediatamente in antipatia. Nemmeno mi conosce e già dice che non mi vuole tra i piedi, pensò, contrariata. Di fronte al suo sguardo corrucciato, però, lui le rivolse un sorriso disarmante, quasi volesse chiederle di non prendersela per quello che aveva detto.

«Non è solo per lei, che siamo partiti prima del previsto.» Nell’udire le parole di Gaio, Lidia sollevò bruscamente il capo. No? Si chiese. Era convinta che i soldati si fossero allontanati da Erding perché il Prefetto aveva ordinato loro di portarla in salvo: non era così?

Anche Alexander parve stupito, perché si voltò per fronteggiare Gaio, reclinando il capo sulla spalla in un modo che riportò alla mente della giovane romana alcuni atteggiamenti di Hermann. «Cos’altro c’è?» indagò.

Gaio allungò un braccio e Valerio gli passò una bisaccia, sporgendosi oltre a Tito e a Lidia. «Abbiamo bisogno del tuo parere a proposito di una certa faccenda» mormorò il soldato più anziano, scuotendo la sacca così da attirare su di essa l’attenzione del germanico.

«Di cosa si tratta?» chiese Alexander, facendo per afferrarla, ma Gaio fu rapido a ritrarre il braccio e a portare la bisaccia al di fuori della portata dell’uomo. «Non qui» fece il romano. «Sono cose riservate, meglio discuterne all’interno.»

Alexander esitò per una frazione di secondo, poi annuì. «Va bene, allora. Seguitemi in casa. Noi potremo discutere di questa cosa così riservata, e la ragazza potrà riposare. Se siete in viaggio da ieri sera, sarai distrutta, no?»

Lidia, che non si era aspettata che l’uomo le rivolgesse la parola, a fu presa leggermente in contropiede da quella domanda diretta. «Ah, ehm» biascicò. «Abbastanza, anche se… anche se ho dormito, sul carro.»

«Be’, è meglio dormire in un letto» rise il germanico. «È molto più comodo, sai?»

Sicuramente, pensò la fanciulla, alzando gli occhi al cielo. Anche se lo conosceva da pochi minuti soltanto, aveva la netta impressione che ci fosse qualcosa di piuttosto insolito, nell’atteggiamento dell’uomo. Non riusciva a capire se il modo in cui si rivolgeva a lei fosse un tentativo di risultarle simpatico – e dunque di stemperare un poco l’imbarazzo di un primo incontro – o se l’ironia che le pareva di intravedere nelle sue parole fosse indice di strafottenza.  E poi anche a vederlo, mi sembra un po’ strano. Mentre Alexander li accompagnava all’interno dell’edificio, Lidia lo osservò di soppiatto. Gaio aveva detto che era un germanico e i suoi colori chiari – la pelle pallida, i capelli rossi e gli occhi del blu più intenso che avesse mai visto – sembravano confermare quella tesi. Tuttavia, il suo viso era perfettamente rasato, cosa rara, tra gli uomini che vivevano da quelle parti, e i suoi capelli erano tagliati corti, alla moda dei romani.

«Avete mangiato?» chiese Alexander, distraendola brevemente dai suoi pensieri. «Immagino di no, vero? Non ho molto, ma qualcosa posso comunque offrirvi. Poi… Lidia, giusto? Poi Lidia potrà andare a dormire per qualche ora e voi potrete sistemare il cavallo. Da queste parti non passa mai nessuno, ma non mi sembra comunque il caso di lasciare il carro là fuori, in bella vista. Meglio essere prudenti, visto i tempi che corrono.»

Parla un sacco, pensò ancora la ragazza, e ha un accento strano. Mentre l’uomo continuava nel suo monologo, istruendo Valerio su come e dove avrebbe potuto ricoverare il cavallo, la ragazza cercò di ricollegare la curiosa cadenza strascicata dell’uomo con una qualche pronuncia a lei nota. Forse un qualche dialetto, magari del nord? La voce di Alexander sembrava inciampare sulle consonanti, sottolineandole più del dovuto, mentre le vocali venivano spesso ignorate e ingoiate nella foga del discorso. E si può sapere perché fa quella specie di cantilena, alla fine delle frasi? È irritante!

«Lidia? Tutto bene?» Persa com’era nelle sue riflessioni, quando Tito le rivolse la parola la ragazza sobbalzò, colta di sorpresa. «Sì, tutto bene» mormorò. «Stavo solo pensando.»

Il giovane le rivolse un’occhiata preoccupata e allungò una mano per stringere quella della fanciulla. In un gesto del tutto istintivo, però, lei si sottrasse a quel contatto, incrociando le braccia davanti al petto e distogliendo lo sguardo dal volto di Tito per evitare di scontrarsi con la sua espressione delusa. Così facendo, però, inciampò negli occhi azzurri di Alexander, che aveva seguito lo scambio con un’espressione incuriosita sul viso. «Mi accorgo adesso che non sei un soldato, tu» fece l’uomo, scrutando da capo a piedi il giovane romano.

Tito ricambiò lo sguardo, sospettoso. «Eh… no.» Alexander inarcò le sopracciglia in maniera teatrale, come per mimare sorpresa, e poi si rivolse verso Gaio. «E allora cosa ci fa qui?» chiese, in un tono che rese ancora più marcato il suo strano accento.

«Conosco Lidia da un sacco di tempo e ho deciso di riaccompagnarla a casa» replicò Tito, asciutto, troncando sul nascere la risposta del soldato. La ragazza abbassò lo sguardo a terra, in parte contrariata dalla spiegazione fornita dal ragazzo e in parte imbarazzata dallo sguardo che le rivolse Alexander: l’uomo la stava guardando con un’intensità nuova e con negli occhi una luce che lei non riuscì a interpretare. «Perché ho come il sospetto che abbia un marito germanico, su a Erding, e che tu stia scappando da lui?»

Lidia lo guardò a bocca aperta, troppo mortificata per trovare una risposta in tempi rapidi, ma Gaio la salvò dall’imbarazzo rispondendo al posto suo. «Il tuo sospetto è sbagliato» sbottò. «Lidia è sposata, è vero, ma non sta fuggendo da suo marito: sta fuggendo dalla guerra. La riaccompagneremo a Roma da suo padre – che è anche un Senatore, affinché tu lo sappia – e resterà lì finché la situazione lo richiederà. Quando non ci sarà più alcun pericolo per lei, qui in Germanica, la restituiremo alla sua nuova famiglia.»

«È così?» chiese ancora Alexander, rivolgendosi alla fanciulla. Ancora una volta, però, fu Gaio a rispondere. «Sì, è così. Anche se non fosse così, però, la cosa non ti riguarderebbe. Adesso portaci il cibo che ci hai promesso: sono stanco anch’io, e vorrei mostrarti questa cosa, prima di riposarmi per qualche ora.» Gli occhi del germanico si appuntarono sulla bisaccia che il legionario aveva di nuovo sollevato e, dopo un istante di esitazione, annuì. «Va bene, hai ragione: ti chiedo scusa. Forza, seguitemi: vedrò cosa posso offrirvi.»

***

Lidia sfiorò con una mano il copriletto di lana grezza, tastando la morbidezza del materasso sottostante, e poi vi si lasciò cadere sopra, incrociando nervosamente le mani in grembo. Non riuscirò mai a dormire in questa stanza, si disse, lasciando scorrere lo sguardo sulle pareti sconosciute che la circondavano.

Alexander aveva offerto loro del pesce essiccato e delle verze accompagnate da delle spesse fette di pane nero, ma alla vista di quel piatto Lidia aveva sentito il proprio stomaco chiudersi. A costo di fare la figura della ragazzina viziata e incontentabile, aveva rifiutato quella sgradita colazione e aveva chiesto di potersi andare a coricare. Anche se aveva fatto del proprio meglio per ignorarlo, non le era sfuggito lo sguardo carico di scetticismo che si erano scambiati Alexander e Valerio. Fortunatamente, però, il germanico le aveva sorriso e l’aveva accompagnata al piano superiore, mostrandole quella che, a sua detta, era la camera da letto che riservava per gli ospiti di un certo riguardo.

Spero solo che non sia la sua, di camera, pensò la ragazza, accigliata. Quando l’uomo le aveva mostrato il luogo in cui avrebbe potuto dormire, Lidia era stata sul punto di chiederglielo, ma poi il pudore glielo aveva impedito. Non vorrei che si facesse strane idee: è talmente strambo che è difficile dire che cosa gli passa per la testa.

Quella, però, non era un’anonima camera degli ospiti, arredata con suppellettili inutili che non avevano altro scopo che riempire uno spazio che, altrimenti, sarebbe rimasto vuoto. C’era un tavolino sporco d’inchiostro, accanto al letto, corredato da una sedia sgualcita, dall’aspetto vissuto. La lampada da tavolo non era riposta ordinatamente in un angolo, ma era stata trascinata al centro del ripiano, come se fosse stata usata per illuminare meglio un qualche foglio. Sul divanetto all’angolo, ammonticchiati in maniera disordinata, c’erano alcuni panni che Lidia non aveva avuto il coraggio di esaminare da vicino e la parete di fronte al letto era completamente occupata da una libreria di legno scuro.

In cerca di una distrazione, la ragazza si alzò e fece per avvicinarvisi, ma, prima che potesse raggiungere la sua meta, fu distratta da un bussare deciso alla porta. «Sì?» chiese, con una punta di tensione nella voce.

«Ti ho portato qualcosa da mangiare. Apri!»

Nell’udire la voce di Alexander, Lidia si accigliò per un istante, ma poi sospirò, riconoscendo che, certo, non avrebbe potuto impedire al padrone di casa di muoversi liberamente all’interno della propria abitazione. «La porta è aperta» rispose, con una smorfia. L’uscio si socchiuse appena. «Posso?» ripeté l’uomo.

La ragazza si portò le mani ai fianchi, imitando inconsciamente la postura che sua madre assumeva nelle rare occasioni in cui perdeva la pazienza. «Be’, sì: è casa tua.» Aprendo definitivamente la porta con il tocco di una spalla, Alexander entrò nella camera reggendo tra le mani un vassoio sul quale erano posati una tazza fumante e quello che a Lidia parve del pane bianco.

«Ecco qui: una tisana fatta con le mie mani e del pane dolce. Spero che questo ti piaccia di più delle verze e dello stoccafisso.» La ragazza sentì un calore famigliare lambirle le guance. Le toccava ammettere che, rifiutando la cena che le era stata offerta, non si era dimostrata particolarmente educata. Date le circostanze, però, Lidia sentiva di potersi perdonare un minimo di cattive maniere, e quindi si limitò a rivolgere all’uomo un piccolo cenno di assenso con il capo. «Non dovevi disturbarti» disse, a mezza voce.

Il germanico si strinse nelle spalle. «Nessun disturbo» le assicurò, ma la fanciulla vide che già i suoi occhi correvano per la stanza, quasi come se volesse assicurarsi che fosse ancora tutto come l’aveva lasciato. «Ti lascio tutto qui sulla scrivania. Tu cerca di riposarti e non preoccuparti per la tazza: verrò a recuperarla questa sera.»

Lidia annuì nuovamente, aggrottando appena la fronte. Sembra quasi che tu voglia assicurarti che io non esca da qui, pensò, lanciandogli un’occhiata di soppiatto. Non che la cosa la disturbasse più di tanto, comunque: la fatica della nottata iniziava a farsi sentire e, in quel momento, la prospettiva di riposarsi sul letto alle sue spalle le sembrava decisamente più allettante di quella di un’ulteriore discussione con Tito. Il ricordo di quella faccenda riservata a cui Gaio aveva fatto cenno immediatamente dopo il loro arrivo la sfiorò, ma Lidia accantonò rapidamente la questione: qualunque fosse la cosa che preoccupava i legionari, era abbastanza certa che non la riguardasse da vicino. Ho già i miei, di problemi, non ho nessuna intenzione di ficcare il naso in quelli che non mi riguardano.

«Lidia? Hai capito cosa ti ho detto?»

La ragazza sobbalzò, riscossa dalla domanda di Alexander, che era tornato a concentrarsi su di lei e la stava guardando come se la considerasse un po’ stupida. «Mh? Sì, certo. Lascia pure tutto lì, grazie.» Il germanico esitò ancora per qualche istante, poi si strinse nelle spalle. «Va bene. Ti lascio riposare.»

Quando l’uomo se ne fu andato chiudendosi la porta alle spalle, Lidia espirò bruscamente, liberandosi di una tensione che non era stata nemmeno consapevole di avere accumulato. Questa situazione mi sta stressando, si disse, circondandosi un istante con le proprie braccia. Chissà se qualcuno si è già accorto che non sono più a casa, si chiese, ma subito scosse la testa. Dal momento che non era riuscita ad avvertire Hermann della propria partenza, era probabile che la prima persona a rendersi conto della sua scomparsa sarebbe stata Donna Edda, che, con ogni probabilità, si sarebbe recata da lei per assicurarsi che svolgesse a dovere tutte le faccende domestiche.

Chissà se troverà il messaggio che ho lasciato in camera, si chiese, ancora. Chissà se è in grado di leggere il latino, soprattutto. Sconfortata da quei pensieri, Lidia sospirò. Avrebbe preferito sapere che la sua assenza era già stata notata e che, forse, qualcuno si stava già attivando per andare a cercarla e riportarla a casa. Ma mi toccherà aspettare ancora qualche ora, prima che Hermann venga a sapere quello che è successo. C’è di buono che resteremo qui fino a sera, se non ho capito male. Questo gioca a mio favore. E, cosa ancora più importante… Ulf non tornerà a casa che fra qualche giorno.

Anche se non aveva quasi il coraggio di confessarlo a se stessa, la ragazza temeva che il marito fraintendesse la situazione e che, pur trovando il biglietto che aveva scritto per spiegare come stavano le cose, non le credesse. Ma non può davvero pensare che io sia scappata con Tito! Pensò, con una punta di isteria. Non dopo tutte le cose che gli ho detto, quello che ho fatto…

Mordendosi le labbra, la fanciulla dovette però riconoscere che, se avesse voluto, Ulf avrebbe avuto più di un motivo per dubitare della sua sincerità. Temo di non essermi dimostrata la persona più affidabile del mondo… né la più sincera.

Sentendo che lo scoramento stava per sopraffarla, Lidia chiuse gli occhi e fece un paio di respiri profondi, ripetendosi che, se voleva sperare di uscire decentemente da quella storia, non poteva permettersi di lasciarsi prendere dal panico e di perdere la testa. Quando fu riuscita a riportare un po’ di ordine tra i suoi pensieri, la ragazza riaprì gli occhi e si avvicinò alla scrivania sulla quale Alexander aveva depositato la sua cena.

Una tisana fatta con le sue mani, si ripeté, abbassando uno sguardo sospettoso sulla tazza fumante. Stringendo tra le dita la ceramica gialla e piegando la bocca in una smorfia nel trovarla più calda di quanto si fosse aspettata, Lidia si avvicinò al naso l’infuso limpido, dall’intenso colore ambrato. Aveva un sentore vagamente balsamico, con solo un leggero retrogusto dolce che la fece pensare al miele.

Mh. Con cautela, la fanciulla si portò la tazza alla bocca e bevve un piccolo sorso. La tisana era sorprendentemente aromatica, le note amarognole delle erbe si mescolavano con quelle dense del miele e, se non si ingannava, con quelle speziate della cannella e dei chiodi di garofano. Non è malaccio, concesse, scoprendosi più assetata di quanto avesse creduto. Bevendo con cautela, per evitare di scottarsi la lingua, e inframezzando i sorsi con alcuni bocconi del pane bianco e dolce che Alexander le aveva portato, Lidia prese a vagare per la stanza nel tentativo di ingannare il tempo.

La notte stava ormai volgendo al termine e i primi raggi dell’aurora tingevano il cielo di una delicata sfumatura rosata. Le chiome degli alberi che circondavano la casa impedivano alla ragazza di scoprire se il sole si fosse già alzato sopra all’orizzonte, ma il chiarore limpido che stava iniziando a invadere la foresta le fece capire che presto si sarebbe fatto giorno.

È strano andare a dormire a quest’ora, si disse, con una smorfia di disappunto. Malgrado la stanchezza fisica e qualche dolorino dovuto al tempo passato sul carro, Lidia si sentiva sveglia, vigile, come se la sua mente si stesse già predisponendo per affrontare un nuovo giorno. Mi sa proprio che non riuscirò a chiudere occhio.

Allontanandosi dalla finestra, Lidia si avvicinò alla libreria, alla ricerca di un libro conosciuto o che comunque avesse un titolo accattivante. Quando era a casa sua, a Roma, e ancora aveva parecchio tempo da dedicare alla lettura, la ragazza aveva l’abitudine di leggere qualche capitolo, prima di coricarsi: quella pratica rilassava la sua mente e l’aiutava a passare una nottata più serena. Facendo scivolare l’indice sui libri riposti sugli scaffali alla sua altezza, Lidia trovò alcuni titoli noti, ma nulla che fosse veramente di suo gradimento.

Quel tipo deve leggere davvero molto, ma sembra avere una passione per i mattoni. E per la poesia. Che schifo. Con un moto di ribrezzo legato al ricordo di un vecchio educatore che la costringeva a imparare a memoria anche i componimenti più insulsi e melensi, la ragazza alzò lo sguardo, sperando di trovare qualcosa di più gradevole sugli scaffali più alti.

E questi cosa sono? Si chiese, perplessa. Alzandosi sulla punta dei piedi, Lidia afferrò un piccolo volume rilegato in pelle scura e se lo avvicinò agli occhi, facendone inconsciamente frusciare le pagine un po’ ingiallite dal tempo. Che alfabeto è? Si domandò, sfiorando con la punta dell’indice i consunti caratteri dorati stampigliati sulla copertina. È greco? Non mi sembra greco.

La ragazza retrocedette fino al letto e vi si sedette sopra a gambe incrociate, appoggiandosi il libretto in grembo. C’era qualcosa di affascinante, in quei piccoli caratteri arrotondati, che a tratti le sembravano famigliari e a tratti completamente alieni. In che parte del mondo usano una scrittura di questo tipo? Facendo scorrere lo sguardo sugli scaffali, la giovane vide che quello non era l’unico volume scritto in quell’alfabeto: ce n’erano almeno un paio di dozzine.

Confusa, senza nemmeno essere in grado di spiegarsi perché si stesse focalizzando tanto su un particolare tutto sommato irrilevante, Lidia si lasciò scivolare con la schiena sul cuscino, il libro abbandonato al suo fianco. I suoi occhi ripresero a perlustrare la stanza da quella posizione, sfiorando il quadretto dorato che rappresentava una donna dai tratti al contempo spigolosi e arrotondati, il tagliacarte intarsiato posato sulla scrivania, il ricamo sottile delle tende, la stoffa un po’ sdrucita del divano, le ragnatele che occupavano gli angoli più reconditi…

Meno di un minuto più tardi, la ragazza era già scivolata tra le braccia del sonno.

***

Che ore sono?

Lidia si svegliò con un sussulto e subito gettò le gambe giù dal letto, facendo cadere a terra il libricino di pelle scura. La ragazza lo seguì con gli occhi, confusa, senza riuscire a capire perché fosse lì. Era tardi, la luce che entrava dalla finestra era troppa perché la mattina fosse solo agli inizi, e certamente Donna Edda sarebbe arrivata da un momento all’altro, pretendendo di sapere perché…

Con qualche secondo di ritardo rispetto al suo risveglio, il suo cervello prese nota del luogo in cui si trovava e la informò che no, quella non era la sua camera. Gli eventi della notte precedente piombarono su di lei con la forza di un macigno e Lidia si ripiegò leggermente su se stessa con un gemito sconfortato. Come aveva potuto dimenticarsi anche solo per un istante del guaio in cui si trovava?

Già mi stupisce il fatto che io sia riuscita ad addormentarmi, con tutti quei pensieri per la testa. E, in effetti, la velocità con cui aveva ceduto alla stanchezza era davvero inconsueta: non ricordava quand’era stata l’ultima volta in cui si era addormentata in maniera tanto inconsapevole.

Colta da un dubbio improvviso, Lidia si guardò rapidamente attorno e poi si alzò dal letto, dirigendosi verso la tazza gialla, abbandonata sulla libreria. La tisana preparatale da Alexander era ancora lì per più di metà, fredda e apparentemente innocua, ma la ragazza se la portò al naso, annusandola con sospetto. Quello lì mi ha dato un sonnifero! Realizzò sgomenta.

Naturalmente non aveva nessuna prova a sostegno dei suoi sospetti, ma a ogni secondo che passava quella convinzione prendeva forza e autorevolezza e, in meno di un minuto, Lidia era assolutamente certa che Alexander l’avesse drogata con il preciso intento di farla dormire.

E perché, poi! Pensò, mentre una rabbia sconosciuta le bruciava lo stomaco. Ma come si permette? Pensava che andassi a curiosare tra i suoi affari?

Con l’indignazione che le infiammava le guance, la giovane sbatté la tazza sulla scrivania, senza curarsi del modo in cui il liquido traboccò e bagnò il ripiano di legno, e poi si precipitò alla porta, spalancandola di scatto. Ma adesso mi sente! Non me ne frega niente, se stanno parlando di cose riservate o se stanno facendo chissà quale cosa super segreta! Questa non gliela faccio passare liscia!

Sulle prime, Lidia fu tentata di dar sfogo alla propria rabbia urlando il nome del germanico e precipitandosi giù dalle scale pestando i piedi com’era solita fare durante i suoi capricci infantili, ma poi si controllò, ispirando a fondo. No. Non ho più cinque anni, si disse, serrando le dita sul legno del corrimano. Non avrebbe fatto una scenata, decise, ma avrebbe affrontato la situazione con la fredda dignità che si addiceva a una matrona romana. In ogni caso, non ho certo intenzione di mandargliele a dire!

Scendendo le scale con passi misurati, quasi in punta di piedi, Lidia tese le orecchie per individuare un qualche rumore che le indicasse la posizione del padrone di casa, ma tutto sembrava immobile e silente. Non sarà mica andato a dormire, vero? Si chiese, con una punta di delusione. Se era verosimile che i suoi compagni di viaggio si fossero coricati per recuperare il sonno perso durante la notte, non vedeva perché Alexander dovesse essersi concesso un sonnellino pomeridiano. Andarlo a pescare in camera sua sarebbe estremamente imbarazzante, riconobbe la fanciulla, mentre un vago alone rossastro tornava a disegnarsi sulle sue gote.

Una volta giunta in fondo alle scale, la ragazza si guardò attorno, cercando di decidere il da farsi. Fu solo allora che si rese conto che la porta antistante all’ingresso era leggermente socchiusa e che dalla stanza dietro a essa giungeva un brusio quasi impercettibile. Con uno strano presagio in cuore, Lidia si mosse silenziosamente in quella direzione, facendo del proprio meglio per non provocare il minimo rumore. Trattenendo quasi il fiato, la giovane si appoggiò al muro e poi, un passo alla volta, si avvicinò allo spiraglio di pochi centimetri che qualcuno aveva lasciato tra lo stipite e il pannello della porta.

Sei assolutamente ridicola, la informò la sua coscienza. Lidia si morse un labbro, concentrata, e continuò a strisciare verso la propria meta. Anche se lo sdegno che l’aveva spinta a lasciare la camera da letto non era stato dimenticato, ma solo momentaneamente accantonato, la fanciulla intuiva che quello che stava succedendo in quella stanza era con ogni probabilità più importante di quanto non avesse immaginato. Altrimenti che bisogno ci sarebbe di tanta segretezza? Ragionò.

Ora che era più vicina, riusciva a distinguere l’accento strascicato di Alexander e la voce un po’ roca di Gaio. Sono solo loro due o c’è anche Valerio? Tra lei e la porta c’era ancora una cinquantina di centimetri – troppi, perché riuscisse a cogliere le parole sussurrate che i due uomini si stavano scambiando. Lidia occhieggiò la distanza che la separava dall’uscio e poi, sebbene fosse consapevole del pericolo che stava correndo, coprì anche quegli ultimi centimetri. Speriamo che nessuno si accorga di me! Pensò, con il cuore in gola. Nella migliore delle ipotesi, ci farei una figuraccia terribile. Nella peggiore…

Lidia decise di non soffermarsi troppo a pensare cosa le sarebbe potuto succedere, nella peggiore delle ipotesi, anche perché quei pensieri l’avrebbero distratta troppo dalla situazione che si ritrovava tra le mani al momento. Chiudendo un attimo gli occhi per calmare un po’ il martellare del suo cuore, la fanciulla si mise in ascolto con un’intensità ancora maggiore di prima.

«… con certezza da dove venga. Sinceramente, non ricordo di aver mai visto una cosa del genere, prima d’ora.» La voce di Alexander le giungeva forte e chiara, anche se attutita dalle precauzioni che l’uomo aveva preso per non farsi sentire da orecchie indiscrete, e Lidia sorrise, compiaciuta dai progressi compiuti.

«Credi che potrebbe appartenere ai Sacerdoti? Magari al ragazzo che è arrivato solo l’altro giorno?» Ora era stato Gaio, a parlare, e Lidia corrugò la fronte, chiedendosi come fosse possibile che un oggetto appartenuto a Fratello Kay si trovasse ora nelle mani di un legionario di Roma.

«Non lo so. Non posso escluderlo» replicò Alexander. «Però di solito Roma è più all’avanguardia rispetto alla Germanica, almeno in ambito tecnologico. Mi sembra strano non aver mai sentito parlare di un oggetto del genere…»

«Sì, ma secondo te cos’è, in definitiva?» Lidia riconobbe la voce di Valerio, indice che anche il giovane soldato era stato invitato all’incontro segreto dal quale lei era invece stata esclusa. E Tito? Non dirmi che c’è anche lui, lì dentro!

Alexander borbottò qualcosa che la ragazza non riuscì a cogliere e poi tacque per alcuni secondi. «Credo che sia una mappa» disse poi. «Una mappa che… che ti permette di cercare qualcosa, credo. Anche se non so bene cosa.»

«Noi siamo qui, credo» riprese, dopo ulteriori istanti di silenzio. Dalla stanza giunsero altre parole indistinte e poi una domanda che fece sobbalzare la giovane romana. «E quell’altro punto rosso?»

Tito! Realizzò Lidia, esterrefatta. Perché lui può assistere a questa cosa e io no? Offesa e mortificata, la fanciulla non riuscì a fare a meno di sporgersi di qualche centimetro oltre alla protezione offerta dal muro – un gesto che forse l’avrebbe fatta scoprire, se i quattro uomini dall’altra parte della porta non fossero stati tanto concentrati sull’oggetto posato sul tavolo tra di loro.

La fessura attraverso la quale stava spiando era sufficientemente larga da permetterle di avere una visuale decente di ciò che stava accadendo nella stanza e, allo stesso tempo, era abbastanza angusta da consentirle di non essere troppo visibile. Gli uomini erano disposti a cerchio attorno a un tavolino tondo e Lidia prese atto del fatto che Alexander le stava proprio di fronte. Se avesse sollevato gli occhi e lei non fosse stata sufficientemente rapida a ritrarsi, l’uomo si sarebbe con ogni probabilità accorto della sua presenza, ma, esattamente come i tre romani che gli stavano accanto, la sua attenzione pareva completamente assorbita dall’oggetto posato tra loro.

L’angolazione con cui stava osservando la scena non era tale da permetterle di scorgere ogni dettaglio – né il punto rosso di cui Tito aveva parlato – ma Lidia riuscì comunque a vedere che l’oggetto della conversazione era una sorta di tavoletta lucida e scura, grande pressappoco come un libro di medie dimensioni, ma alta solo pochi millimetri.

Cos’è quella roba? Si chiese la fanciulla, pur consapevole del fatto che, con ogni probabilità, il germanico e i suoi compagni di viaggio avevano già passato parecchio tempo cercando di rispondere a quella domanda.

Alexander reclinò il capo su una spalla, come per studiare l’oggetto da un’altra angolazione, poi allungò una mano per sfiorare la superficie della tavoletta. «Quello indica la posizione di qualcos’altro» fece, dopo un po’. «Forse… forse di un luogo che il proprietario di questa cosa riteneva di un qualche interesse?» Così dicendo, l’uomo colpì di nuovo la superficie della tavoletta con un dito – in corrispondenza, immaginò Lidia, del punto rosso.

Non appena l’ebbe fatto, l’oggetto emise un suono sommesso, come una vibrazione, e, sotto gli occhi stupiti di Lidia, da esso si levò improvvisamente un piccolo arco azzurrino, che si alzò nell’aria per alcuni centimetri prima di ricadere sulla superficie della tavoletta. Immediatamente i tre romani si strinsero a cerchio attorno al tavolo, tagliando la visuale a Lidia e costringendo Alexander ad allontanarsi di un passo. La ragazza riuscì a scorgere l’espressione allarmata del suo volto giusto un secondo prima che l’uomo si slanciasse in avanti, spingendo da parte Valerio e allungando le mani con il palese intento di riprendersi la tavoletta.

Cosa sta succedendo? Si chiese la ragazza, confusa da quel trambusto improvviso. Istintivamente la giovane strinse più forte le dita attorno allo stipite, ma il movimento le causò un piccolo crampo alla base del pollice che la costrinse a lasciare la presa per una frazione di secondo: un segmento di tempo così infinitesimale da risultare quasi impercettibile, ma che fu tuttavia sufficiente per farla sbilanciare quel poco che bastava per farle sfiorare con la testa l’uscio socchiuso. Come al rallentatore, la porta si mosse, ruotando di qualche grado sui cardini e facendo emettere loro un cigolio acuto, un rumore breve, ma penetrante, che attirò l’attenzione di tutti e quattro gli uomini, che si voltarono di scatto verso di lei.

Vedendosi scoperta, Lidia passò freneticamente in rassegna alle sue possibilità. Per un istante valutò di scappare, di girare sui tacchi e di cercare di riguadagnare la salvezza della camera in cui aveva dormito, ma subito dopo decise di giocare la carta dello sdegno. Spalancando la porta con un colpo deciso della mano, la ragazza ingoiò il nervosismo e la vergogna e marciò in avanti, cercando di assumere un’espressione di puro risentimento.

Nei pochi attimi che fu libera di avvicinarsi al gruppetto, Lidia ebbe modo di vedere meglio l’oggetto stretto tra le mani del germanico: si trattava effettivamente di una piccola tavoletta di vetro, di un blu tanto scuro da sembrare quasi nero, costellata da cinque o sei luci rosse che lampeggiavano a intermittenza. Non c’era invece più alcuna traccia dell’arco azzurro che si era librato nell’aria pochi momenti prima.

Nel giro di una manciata di secondi, però, Alexander consegnò la tavoletta a Gaio e poi si avvicinò a lei a grandi passi, raggiungendola e agguantandola per le spalle, prima di spingerla contro la parete accanto alla porta. La fanciulla sentì in lontananza le proteste di Tito, che evidentemente non aveva gradito il trattamento riservatole dal germanico, ma la sua attenzione era tutta concentrata sull’uomo davanti a lei.

«Che cosa stavi facendo?» sibilò Alexander, con gli occhi che mandavano lampi.

Stavo spiando, fu tentata di replicare Lidia, presa alla sprovvista dalla reazione dell’uomo. La giovane deglutì, cercando rapidamente una risposta più accettabile. «Io… eh, io…» Ricordandosi il motivo per cui aveva abbandonato la stanza che le era stata assegnata, la ragazza irrigidì la schiena a spinse in avanti il petto, cercando di scrollarsi di dosso le mani del germanico. «Tu mi hai dato del sonnifero!» esclamò, passando al contrattacco. «Che cosa c’era nella tisana che mi hai portato questa notte?»

Alexander parve colto di sorpresa da quell’accusa e la presa che aveva sulle spalle della fanciulla si fece subito più morbida. Con una certa soddisfazione, Lidia notò che era arrossito, chiaro segnale di colpevolezza. «Solo una cosa per aiutarti a dormire meglio» si difese lui.

«E chi te l’ha chiesto?» sbottò ancora, oltraggiata dalla naturalezza con cui il germanico aveva fatto quell’ammissione. «Come ti è venuto in mente?»

L’uomo rimase a bocca aperta per qualche istante, poi si rianimò. «Be’, era anche un modo per evitare che te ne andassi a curiosare troppo in giro. Il che ci riporta alla questione principale: che cosa ci fai qui?»

Lidia esalò con forza dal naso, portando le mani su quelle del germanico e costringendolo a toglierle dalle sue spalle. «Ero venuta a lamentarmi e a chiedere spiegazioni. Non certo a spiare, se è quello che stai insinuando» sbuffò. «Non me ne frega niente dei vostri traffici.» Davanti allo sguardo scettico del germanico, Lidia mosse il capo in direzione di Tito. «E, comunque: se quell’affare è una cosa tanto segreta, perché Tito è rimasto qui con voi? Perché lui può assistere e io no?»

«Questa è una bella domanda» fece Alexander lentamente, voltandosi per guardare i tre romani alle sue spalle. Gaio sospirò, come se la sola idea di affrontare quella discussione lo annoiasse. «Non vedo perché il ragazzo non dovrebbe assistere. Sono più che sicuro che sia completamente fedele a Roma, non andrà certo a raccontare in giro quello che ha visto.»

Lidia gli scoccò un’occhiata velenosa. Ah, perché io, invece, non sono fedele a Roma? Fece per protestare, ma poi l’immagine di Ulf si parò davanti ai suoi occhi. Se se ne fosse presentata l’occasione, era davvero sicura che non avrebbe fatto parola con suo marito di quello che aveva appena visto? E Ulf di certo non è fedele a Roma…

«In ogni caso, Lidia non ha tutti i torti» riprese Alexander, mettendo di fatto fine alle sue riflessioni. «Ho un paio di sospetti a proposito di questa… mappa, ma preferirei che Tito ci lasciasse soli. Senza offesa, eh!» continuò poi, rivolgendosi al giovane romano. «Ma quando accumuli un po’ di esperienza in certe faccende, imperi che la prudenza non è mai troppa.»

Lidia lesse chiaramente la delusione sul volto del ragazzo, ma, sentendosi i suoi occhi addosso, Tito annuì, evitando di opporsi alla richiesta del germanico. «Va bene» mugugnò, in un tono che, nonostante tutto, non riuscì a nascondere quanto quella decisione gli dispiacesse. La fanciulla abbassò gli occhi a terra, un po’ indispettita. Aveva parlato senza riflettere: non era stata sua intenzione far sì che il giovane romano venisse allontanato. Tito sarà pure fedele a Roma, ma scommetto che, se gliel’avessi chiesto, qualcosina a proposito di quella tavoletta me l’avrebbe detto comunque. Ora che aveva visto l’oggetto della discussione, infatti, non poteva fare a meno di sentirsi incuriosita da esso e non avrebbe disdegnato scoprire qualcosa di più a proposito delle sue origini e della sua funzione.

«Perfetto» sorrise Alexander, rivolto al ragazzo. «Ti ricordi dov’è la mia stanza, vero? Torna pure lì a riposarti un altro po’: tra cinque o sei ore farà buio e dovrete rimettervi in marcia.» Tito annuì e, con un ultimo sguardo di rimpianto in direzione dei due legionari, sfilò silenziosamente accanto a Lidia, infilando la porta.

La fanciulla provò una piccola stretta al cuore – ce l’ha con me? – e fece per seguirlo, ma la mano di Alexander planò nuovamente sulla sua spalla. «Scusami tanto, ma non sono proprio sicurissimo di fidarmi di te.»

Lei gli lanciò uno sguardo interrogativo. «Eh?» «Se non ti dispiace», riprese l’uomo, «preferisco accompagnarti fino alla tua camera.» La ragazza alzò platealmente gli occhi al cielo. E dove accidenti pensa che potrei andare? Si chiese.

Mentre la scortava su per le scale, Alexander teneva gli occhi fissi su di lei. Quando quell’esame divenne troppo fastidioso da sostenere, la ragazza si girò per lanciargli un’occhiata indispettita. «Cosa c’è?» Per tutta risposta, il germanico si strinse nelle spalle. «Nulla, sono solo curioso di sapere cosa c’è veramente tra te e Tito.»

La domanda la sorprese. «Perché ti interessa saperlo?» gli chiese. Quello sollevò nuovamente le spalle. «Mah, per nessun motivo in particolare. È solo che è la prima volta che mi capita di ospitare due persone come voi e la cosa mi ha incuriosito.»

Anche se non aveva una gran voglia di conversare con lui, Lidia intuì che il suo silenzio avrebbe potuto stuzzicare ulteriormente la curiosità dell’uomo – e dunque la sua insistenza – e quindi decise di fornirgli qualche spiegazione. «Come ti ha già detto anche Tito, ci conosciamo da parecchi anni. Quando ancora vivevo a Roma, eravamo… uhm… be’, eravamo fidanzati. Ci siamo divisi solo quando mio padre mi ha spedito qui in Germanica per sposare Ulf. Che sarebbe mio marito, ovviamente.»

«E quando è successo, tutto ciò?» Lidia sollevò nuovamente lo sguardo sul volto del germanico, insospettita da quello che le sembrava un interesse un po’ eccessivo, ma sul suo viso le parve di scorgere solo un po’ di genuina curiosità. «Mi sono trasferita in maggio» rispose allora. «Tito non l’ha presa molto bene, ovviamente, tant’è che si era messo in testa di riportarmi a casa. Adesso ha cambiato idea – spero – e in effetti è un po’ ironico che, alla fine, io a Roma ci stia tornando lo stesso.»

«E non sei contenta?» Il tono del germanico era sorpreso e lei scosse la testa. «No. Ormai la mia vita è con mio marito e la sua famiglia. Gli voglio bene e non ho proprio nessuna voglia di tornare a Roma.»

«E perché ci stai tornando comunque, allora?»

Lidia sospirò. «Perché Gaio e gli altri si sono presentati a casa mia con un ordine del Prefetto e non potevo esattamente rifiutare di seguirli. E poi a Erding c’è praticamente una specie di guerra civile e, a forza di sentirmi ripetere che restare lì è pericoloso, ho finito per crederci.» Alexander annuì. «Sì, ho sentito che le cose si stanno mettendo maluccio, in effetti. E tuo marito è d’accordo con il fatto che tu stia tornando a sud?»

La gola della ragazza si fece improvvisamente asciutta. «Mio marito non ne sa niente» ammise. «Non era al villaggio, quando sono partita, e io non ho avuto modo di fargli sapere niente. Ho lasciato un messaggio alla sua famiglia, ma… non so se qualcuno l’ha trovato.»

Mentre parlavano, avevano raggiunto la camera nella quale Lidia aveva già trascorso qualche ora e Alexander le aprì la porta, facendole cenno di entrare. «Senti… io lavoro per Roma, è vero. Però, se mi dici chi devo cercare, posso cercare di fare avere un messaggio a tuo marito. Se non altro per tranquillizzarlo, capisci?»

Sorpresa da quella proposta inattesa, Lidia rimase in silenzio per qualche istante. La sua indole diffidente le fece valutare se si celasse una qualche insidia, dietro all’offerta dell’uomo. Come posso sapere che farà veramente arrivare a Ulf il messaggio esatto? Alexander al stava fissando, restando silenziosamente in attesa della sua risposta, e la ragazza decise che, se non aveva modo di conoscere le intenzioni dell’uomo, rivelargli quello che stava chiedendo non avrebbe comunque potuto causare alcun danno. Tanto sono informazioni che può tranquillamente farsi dare da Gaio o da Tito… il fatto che le stia chiedendo a me può forse farmi pensare che sia sincero e voglia aiutarmi veramente. Anche se non capisco perché dovrebbe farlo.

«Mio marito si chiama Ulf» rispose, infine. «Potrà però esserti più facile trovare suo padre: il suo nome è Gefrid, ed è il capo villaggio di Erding.»

Alexander annuì e le rivolse un sorriso che lo fece sembrare un adolescente. «Perfetto. Cercherò di mettermi in contatto con loro il prima possibile, allora. Tu, nel frattempo, riposati ancora per qualche ora.»

Lidia guadò con antipatia il letto su cui aveva dormito poco tempo prima. «Non sono stanca» protestò. Alexander sorrise di nuovo, mettendo in mostra una serie di denti bianchissimi. «Be’, riposati comunque» replicò, posandole una mano al centro della schiena e spingendo delicatamente. «E lascia parlare i grandi, giù di sotto.»

La fanciulla sbuffò. «I grandi. Sospetto che Valerio sia più giovane di me e nemmeno tu mi sembri poi tanto vecchio.»

«Io ho trentadue anni, ragazzina» replicò il germanico, con la risata nella voce. «Quindi ho tutta l’autorità necessaria per dirti che cosa fare.» Lidia lo guardò corrucciata, ma poi scosse la testa, rinunciando a ribattere. Tanto lo so benissimo, che perderei soltanto tempo.

Quando la ragazza si appoggiò rigidamente alla scrivania – si rifiutava infatti di accomodarsi sul letto, almeno fino a quando lui sarebbe stato lì per vederla – Alexander annuì soddisfatto. «Benissimo. Ti lascio, fai come se fossi a casa tua» le disse, con una voce così suadente che a Lidia sembrò quasi una presa in giro. Dopo averle rivolto un’ultima occhiata, il germanico sembrò finalmente decidersi a lasciarla sola e Lidia sentì la tensione e il nervosismo allentare leggermente la presa che avevano su di lei. Aveva però appena fatto in tempo a tirare un sospiro di sollievo, quando il suono inequivocabile di una chiave che girava in una toppa raggiunse le sue orecchie.

Mi ha chiusa dentro? Si chiese, incredula. Mi ha davvero chiusa dentro? Lidia si portò alla bocca una mano stretta a pugno, soffocando contro le proprie nocche un gemito di frustrazione, poi raggiunse il letto e vi si sedette di schianto. E adesso cosa accidenti dovrei fare? Dovrei far finta di nulla e mettermi a dormire a comando? Dèi, quanto odio quel tipo!

Dopo alcuni minuti sprecati fissando il muro bianco, la ragazza si rese conto che il fatto di non avere nulla di concreto da fare dava alla sua mente la possibilità di vagare in luoghi scomodi, di soffermarsi su sensi di colpa di varia natura e di indagare ansie e preoccupazione riguardanti il presente e il futuro. Basta, si disse, basta. Abbiamo detto che non ha senso preoccuparsi per queste cose. Ormai Hermann avrà trovato il biglietto che gli ho scritto. L’unica cosa importante, adesso, è arrivare al campo di Hudwill sani e salvi e di non fare niente che possa convincere Gaio a rispedirmi a Roma senza aspettare di avere il permesso di papà.

Determinata a trovare un modo alternativo in cui occupare la propria mente, la fanciulla si avvicinò nuovamente alla libreria e, tra la miriade di tomi noiosi che la ingombravano, ne scelse uno che parlava delle divinità germaniche. Chissà che non mi faccia imparare qualcosa di utile, visti i tempi che corrono.

Con il libro stretto tra le mani, Lidia tornò ad accomodarsi sul letto. Dopo un tempo che le parve infinito, però, lo richiuse di scatto, sfinita. Non ricordo di aver mai letto niente di tanto pesante e inutile, si disse, guardando con astio la copertina blu notte. Sessantaquattro pagine di introduzione: chiunque l’abbia scritto, doveva essere un trombone logorroico.

Un bussare violento, seguito dallo scatto della serratura, la distrasse improvvisamente dalle cattiverie che stava formulando all’indirizzo dell’autore del “Trattato sulle divinità della Germanica Meridionale”. Guidata dall’istinto, la fanciulla balzò in piedi, rassettandosi la gonna e poi alzando le braccia a mezz’aria, quasi come per difendersi da un potenziale aggressore.

Chi le si presentò davanti un secondo più tardi, però, non era altri che Gaio, il volto stanco segnato da un’espressione preoccupata. Immediatamente, un campanello d’allarme suonò nella testa della giovane, che si avvicinò velocemente al legionario. «Che cosa succede?» chiese, con il cuore che aveva preso tutto ad un tratto a martellarle in gola.

Il soldato piegò le labbra in una smorfia amara. «Recupera le tue cose in fretta: temo che abbiamo un problema.»

***

Non so com’è, ma ultimamente sono sempre di fretta D:

Niente da dire, correggete quello che c’è da correggere. Segnalo che, dopo questo, ho solo un altro capitolo già pronto: avevo sperato di arrivare un po’ più in là, prima di finire la mia scorta, ma, purtroppo, non ho praticamente più tempo per fare niente. Mi dispiace!

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Capitolo 30
*** 29. La soglia ***


Lidia indietreggiò automaticamente di un passo, turbata dalla presenza del soldato. «Cosa succede?» ripeté allarmata, sporgendosi appena per spiare oltre le sue spalle.

Gaio si mosse leggermente, riportandosi al centro del campo visivo della ragazza. «Alexander è appena stato informato che qualcuno potrebbe essere sulle nostre tracce. Temo che non siamo stati abbastanza prudenti, quando abbiamo lasciato Erding.» Lidia si portò una mano davanti alla bocca, nascondendo inconsciamente la propria espressione sconcertata. «Credi che si tratti delle stesse persone che hanno ucciso Lucio?» chiese, pur conoscendo già la risposta.

Il legionario annuì, confermando i suoi sospetti. «Temo di sì» fece, con voce mesta. La fanciulla scosse la testa, retrocedendo fino alla scrivania e appoggiandovisi alla ricerca di un sostegno. «Ma perché dovrebbero averci seguito fino a qui?» chiese, ragionando ad alta voce. «Non ha senso! Pensi che credano che li abbiamo visti in faccia? Che li abbiamo riconosciuti? Ma io non ho visto niente!» Con il cuore in gola, la ragazza alzò lo sguardo sul soldato. «Tu li hai riconosciuti?»

Gaio scosse il capo. «No, era troppo buio. Loro però non hanno modo di saperlo. Immagino che vogliano evitare di avere testimoni. Oppure… oppure sono qui per te.»

Quel suggerimento le parve assurdo e Lidia lo negò con vigore. «Per me? Lo escludo. Io non sono nessuno.» Quando le mani del legionario si posarono sulle sue, Lidia si accorse che stava stringendo il legno del tavolino con tanta forza che le sue nocche si erano fatte bianche. «Non possiamo escludere nulla, Lidia» le disse Gaio, con una dolcezza inaspettata. «Non sappiamo chi siano quegli uomini e, di conseguenza, non sappiamo nemmeno cosa vogliono, come ragionano. Se scoprissimo che ti vogliono per chiedere un riscatto, non me ne stupirei affatto: l’esperienza mi ha insegnato che, quando la legge e l’ordine perdono il loro potere, la peggior feccia della società rialza la testa.»

Davanti a quella spiegazione, la giovane chinò il capo, turbata. Quella era una prospettiva che non aveva mai preso in considerazione e il fatto che Gaio l’avesse messa di fronte a quella possibilità la faceva sentire piccola e smarrita. Cercando di fare il punto della situazione, Lidia deglutì. «Come hanno fatto a scoprire che siamo qui?»

«Non lo sappiamo, purtroppo» ammise il soldato, con una punta di amarezza. La ragazza ebbe l’impressione che l’uomo considerasse quello che stava accadendo come una sorta di sconfitta personale, quasi che Gaio esigesse di avere sempre tutto sotto controllo. Quella considerazione fece sì che un altro dubbio si affacciasse alla sua mente. «E come fa Alexander a sapere che qualcuno ci sta cercando?»

Nell’udire quella domanda, Gaio la sorprese con una piccola risata divertita. «Temo di non poterti dire nemmeno questo, Lidia: segreti militari.»

Segreti militari? Si ripeté la fanciulla, indispettita da quella risposta. Malgrado la situazione di emergenza, il fatto che tutti sembravano intenzionati a tenerla all’oscuro di ciò che stava accadendo iniziava a irritarla. Mi credono una bambina? Oppure un’idiota che non sa tenere un segreto!

«Non avevo capito che quell’uomo fosse un militare» disse allora, con un certo sussiego. Forse stupito dall’improvvisa freddezza del suo tono, Gaio si fece di nuovo serio. «E, infatti, non lo è» replicò, osservando il volto della ragazza come se stesse cercando di capire dove volesse andare a parere.

«E non è nemmeno romano» continuò lei. «Esatto» confermò il legionario. «Come ti ho detto, è un germanico.»

Un germanico che mi ha dato del sonnifero spacciandomelo per una tisana rilassante! Pensò Lidia, con un fremito di rabbia. Anche se i mesi passati a Erding le avevano fatto almeno parzialmente cambiare opinione nei confronti del popolo di suo marito, istintivamente la ragazza si ritrovò ancora a pensare nei termini di noi e loro: da una parte i romani, degni di fiducia, e dall’altro gli stranieri, potenzialmente infidi e pericolosi. È un ragionamento stupido, si disse, ma quella consapevolezza non cambiava la realtà dei fatti: a lei Alexander non piaceva, e sentiva di non potersi fidare di lui. Anche se ha promesso di far sapere a Ulf quello che sta succedendo…

«E allora come facciamo a sapere che è dalla nostra parte?» chiese. Nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole, esse le sembrarono sciocche, ma Lidia sostenne comunque lo sguardo del soldato, pretendendo una risposta. Gaio sospirò. «Lo sappiamo e basta. Collabora con noi ormai da molti anni e, se avesse voluto tradire, l’avrebbe fatto molto prima. Le occasioni non gli sono mancate, credimi.»

La giovane si allontanò bruscamente dalla scrivania, in un moto di frustrazione. «Ma…» Gaio le posò le mani sulle spalle. «Lidia. Stiamo solo perdendo tempo. Prepara le tue cose e andiamo – non preoccuparti di Alexander, non devi diventare la sua migliore amica. Dopo questa sera, non lo vedrai più.»

La ragazza fece per protestare ancora, ma poi sospirò, rivolgendo al soldato un minuscolo cenno di assenso. «Il sole non è ancora tramontato» disse, poi, volgendo lo sguardo alla finestra. «Lo so, purtroppo», mormorò il legionario, «ma non possiamo permetterci di aspettare che faccia buio: è troppo pericoloso.»

Lidia annuì. «Va bene, prendo le mie cose» sospirò, voltandogli le spalle e andando a raccogliere la sacca che aveva abbandonato ai piedi del letto e nella quale aveva appallottolato i pochi vestiti che aveva portato via da Erding.

Tenendo la porta aperta con una mano, Gaio le fece cenno di uscire. «Coraggio, andiamo: Valerio ha già preparato il cavallo. Avrei preferito proseguire con il carro automatico, ma, sfortunatamente, dovremo farne a meno.» La giovane gli lanciò un’occhiata confusa. «Quale carro automatico?» «Quello che Alexander aveva promesso di farci avere» fu la risposta dell’uomo. La giovane chinò il capo per nascondergli la sua espressione dubbiosa. Il soldato le aveva garantito che il loro ospite era una persona affidabile e lei non aveva intenzione di mettere ulteriormente in dubbio la sua parola: in che modo il germanico pensasse di fare arrivare un carro automatico in mezzo a una foresta per gran parte disabitata, però, rimaneva un mistero a cui le sarebbe tanto piaciuto trovare una risposta.

Quando raggiunsero il piano inferiore, Tito gli si fece subito incontro. «Stai bene?» chiese, sfiorando con una mano il braccio di Lidia. Domanda stupida, considerò lei, prima di pentirsi di quel pensiero poco gentile. «Abbastanza» disse allora, scrollando le spalle.

«Siamo pronti per partire?» chiese allora il giovane, spostando lo sguardo su Gaio. Anche se la sua voce era salda, alla fanciulla non sfuggì la tensione mescolata alle sue parole. «Sì» confermò il soldato. «Voi due iniziate a salire sul carro, io devo sistemare due cose con Alexander.»

La mano di Tito scese a stringere quella di Lidia e lei, un po’ spaesata dalla rapida evoluzione degli eventi, resistette all’impulso di sottrarsi alla sua presa e gli permise di scortarla fino al carro. Valerio era ancora intento a manovrare attorno ai finimenti del cavallo e rivolse loro solo un rapido cenno di saluto, lasciando che fosse Tito ad aiutare la ragazza a montare a bordo. Quando le mani del giovane fecero per serrarsi attorno alla sua vita, però, Lidia si scansò di un passo. «Faccio da sola» mormorò, afferrando saldamente la sponda e issandosi sul pianale. Mentre si sistemava sulla scomoda panca di legno, la fanciulla credette di avvertire su di sé gli occhi del ragazzo, ma li ignorò.

Quando Tito si sedette accanto a lei, Lidia scoprì con un certo stupore di avvertire come un senso di disagio, di essere quasi in imbarazzo al pensiero di guardarlo in faccia. Non so che cosa dirgli, comprese, con un certo sgomento. Non so di cosa parlare, e questa cosa non era mai successa prima.

Prima che la fanciulla avesse modo di sviluppare ulteriormente quel pensiero, Gaio e Alexander uscirono di casa, parlottando tra loro. Mentre il romano, in silenzio, si sistemava a cassetta, il germanico appoggiò i gomiti sulle sponde, a poca distanza da Lidia. «Allora» esordì, fissandola con quei suoi occhi che, nella luce del tramonto, le parvero di un blu ancora più intenso. «Fate buon viaggio, vuoi due.» Davanti a quell’augurio che le parve leggermente fuori luogo, la ragazza sollevò un sopracciglio. «Grazie» mormorò, con una punta di scetticismo.

«Fate i bravi», proseguì l’uomo, «e tu cerca di non preoccuparti troppo: abbiamo un patto, no?» Lidia corrugò la fronte. «Non esattamente» puntualizzò. «Tu hai promesso di…» Senza lasciarle il tempo di finire la frase, Alexander sollevò un braccio e le scompigliò i capelli in un gesto che le sarebbe quasi potuto sembrare affettuoso. «Lo so che cosa ho promesso» la rassicurò, con una voce più calda di quanto si sarebbe aspettata. Lida alzò gli occhi al cielo e indietreggiò fino a incontrare il fianco di Tito, stranita dall’atteggiamento del germanico.

Quello la guardò ancora per qualche istante, poi si rivolse a Gaio. «Allora sei proprio sicuro di non potermela lasciare ancora per qualche giorno, vero?» Per qualche istante, la fanciulla credette scioccamente che stesse parlando di lei, ma la risposta del legionario chiarì rapidamente l’equivoco. «Non insistere» replicò infatti Gaio, seccamente. «Il Prefetto ci ha ordinato di portare quella cosa a Roma, e questo è esattamente ciò che faremo.»

«Certo» insistette Alexander, con voce suadente. «Mi hai detto che vi fermerete qualche giorno al campo di Hudwill: vi porterò io stesso la mappa. Chiedo solo di poterla studiare un po’ più a lungo.»

Di nuovo, il soldato scosse il capo, inamovibile. «No.» Il germanico parve sul punto di protestare, ma poi si strinse nelle spalle, lasciando apparentemente cadere la questione con altrettanta facilità di come l’aveva sollevata. «D’accordo. Mi arrendo. Quando arrivate al campo, fatemelo sapere: non fatemi stare in ansia.»

Gaio accolse quella raccomandazione con uno sbuffo che trasudava sarcasmo. «Sì, immagino che la preoccupazione per la nostra sorte ti terrà sveglio di notte, non è vero?»

La luce sempre più fioca nascose parzialmente l’espressione di Alexander, ma l’uomo retrocedette di un paio di passi, ridendo, e sventolò il braccio a mo’ di saluto mentre Gaio spronava il cavallo, facendo muovere il carro. Man mano che si allontanavano dalla casa di Alexander, la ragazza divenne sempre più consapevole degli occhi di Tito fissi su di lei. «Cosa c’è?» sbottò di punto in bianco, voltandosi di scatto per guardarlo.

Il ragazzo si strinse nelle spalle con aria innocente. «Oh, niente. Notavo solo che, a quanto pare, i germanici hanno un debole per te.» Lidia corrugò la fronte, un po’ irritata dal tono noncurante del giovane. «Di cosa accidenti stai parlando?» chiese, battagliera. Anche se non avrebbe saputo dire perché, l’osservazione del ragazzo l’aveva punta nel vivo.

Lui le rivolse un sorriso storto. «Di Alexander, ovviamente. Mi è sembrato piuttosto espansivo.» «A me è sembrato solo un cretino» si lamentò Lidia. «Mi ha chiuso in camera, lo sai? E, prima, mi ha dato un sonnifero o qualcosa che mi ha fatta dormire anche se non avevo sonno.»

Tito sospirò, poi si adagiò contro lo schienale di legno. Per qualche istante tenne gli occhi puntati sulla schiena di Valerio, seduto accanto a Gaio, poi si voltò nuovamente verso la fanciulla. «Probabilmente l’ha fatto per evitare che tu facessi sciocchezze. Gaio gli ha detto che non eri proprio entusiasta dell’idea di lasciare Erding. Forse ha pensato che volessi tornare da… che volessi tornare al villaggio?» Davanti a quel suggerimento, Lidia si mordicchiò le labbra. Il pensiero che Alexander – o Tito, o uno dei due soldati – avesse così poca fiducia in lei da credere che potesse veramente tentare di fuggire era frustrante, ma, sotto sotto, sapeva benissimo che non era quello, il punto. «Io invece credo che volesse evitare che io vedessi qualcosa che non avrei dovuto vedere. Quella… mappa, per esempio.»

Tito sembrò preso in contropiede. «Può essere» ammise, a bassa voce. Lidia gli si avvicinò di qualche centimetro, poco soddisfatta da quella risposta così sintetica. «Può essere?» ripeté. «E allora perché non hanno allontanato anche te? Non subito, almeno?»

Il giovane romano abbassò lo sguardo, come se quella domanda l’avesse messo in imbarazzo. «È stato Gaio a dirgli che io potevo rimanere» confessò, tormentando con un’unghia il legno rovinato del sedile. Lidia lanciò un’occhiata tradita alla schiena del legionario. «E perché ha fatto una cosa del genere?» chiese, un po’ piccata. «Avrebbe potuto invitare anche me a rimanere e, invece, non l’ha fatto.»

Tito la guardò con la coda dell’occhio. «Forse ha pensato che la cosa non ti interessasse?» suggerì. Lei scrollò le spalle. «Sì, in effetti non è che la cosa mi interessasse un gran che» replicò, sorvolando sulla curiosità che l’aveva colta quando i suoi occhi si erano posati sulla mappa. «Però la cosa non dovrebbe toccare nemmeno te, quindi non capisco perché…»

«In realtà, le cose non stanno proprio così» la interruppe il giovane, a mezza voce. Davanti all’espressione perplessa di Lidia, Tito si sistemò meglio sul sedile, in una mossa che alla ragazza parve tradire un certo disagio. «In questi giorni ho parlato un po’ con Gaio e anche con il Prefetto Caleno» riprese lui, dopo qualche istante. «Ormai è da un po’ di tempo che sono al campo e ho pensato che questo mondo non mi dispiace. Credo che, forse, se le cose dovessero finire male… be’, ecco, forse potrei arruolarmi.»

Lidia rimase in silenzio per qualche secondo, cercando di dare un senso a quello che Tito aveva appena detto. Vuole arruolarsi? Si domandò, stupefatta. E cosa significa “se le cose dovessero finire male”? «Eh?» chiese, infine, non riuscendo a trovare una replica più eloquente.

«Ho detto che mi piacerebbe entrare nell’esercito» ripeté Tito, questa volta con voce più sicura.

«Sì, ho capito» fece la ragazza, deglutendo un paio di volte per disperdere la secchezza che improvvisamente aveva preso possesso della sua bocca. «Ma… cosa dirà tuo padre? Tu stai studiando per diventare un avvocato, non un soldato. E cosa vorresti dire con “se le cose dovessero andare male”? In che senso “male”?»

Tito sospirò e poi si ripiegò sulle proprie ginocchia, massaggiandosi stancamente il volto. «Io un po’ ci spero ancora, che tu ti renda conto della follia che stai facendo e decida di tornare a Roma con me.» Non appena udì quelle parole, Lidia si irrigidì in un moto di frustrazione. «Credevo di essere stata abbastanza chiara» sbottò, senza curarsi di non essere sentita da Gaio e Valerio. «Mi dispiace, ma non posso più tornare indietro. E non voglio nemmeno farlo. E, comunque, la follia sarebbe stata scappare con te, non restare con mio marito. E…»

Il giovane romano sollevò una mano, interrompendola. «Lo so, lo so. Sei stata chiara. La mia era solo una considerazione. O un desiderio, chiamalo come vuoi. Il concetto non cambia: la cosa che più mi piacerebbe in assoluto sarebbe che tu tornassi a casa con me e riprendessi le cose da dove le abbiamo lasciate. Perché io ti amo ancora… anche se più passa il tempo e più mi sento cretino a farlo.»

Quell’ultima considerazione fu come una stilettata nello stomaco di Lidia e la fanciulla sobbalzò. Mi dispiace, pensò, amareggiata. È tutto uno schifo. «Io vorrei restare ancora tua amica» disse, sforzandosi di aggirare il nodo che, improvvisamente, le stringeva la gola.

«Potevi trovare una frase un po’ meno abusata» commentò Tito, asciutto. Per una frazione di secondo, la ragazza fu tentata di replicare a tono, ma poi si morse la lingua, cercando di evitare il litigio. Non è proprio il momento, si disse, inspirando a fondo e contando lentamente fino a tre. «Be’, sarà anche banale, ma è vero. Non sono più innamorata di te, ma continuo a volerti bene. Non mi sembra un concetto tanto difficile da capire.»

Lui la guardò in silenzio per qualche istante. Un tempo riuscivo a prevedere perfettamente le sue reazioni, considerò Lidia, osservandolo di soppiatto. «Sì, va be’» sospirò infine il ragazzo, prima di scuotere le spalle e riprendere, in un tono più neutrale: «Quello che volevo dire, comunque, è questo: se tu decidessi di restare in Germanica – o di tornarci, visto e considerato che adesso a Roma devi tornarci comunque – credo che mi piacerebbe rivedere un po’ i progetti per il mio futuro. Io non ho mai voluto fare l’avvocato.»

«Però eri disposto a diventarlo» gli fece notare Lidia, con cautela, cercando di capire dove volesse andare a parare.

Lui annuì. «Era tutto parte di un piano ben congegnato, no? Papà è avvocato, suo padre pure: era un mestiere sicuro. Un mestiere che mi avrebbe permesso di mantenere senza alcuno sforzo una moglie, anche se siamo giovani e con poca esperienza, e che ci avrebbe anche permesso di avere un certo status sociale…»

Lo status sociale sarebbe comunque più che altro stato legato al titolo di papà, valutò Lidia, ma si limitò ad annuire in silenzio, senza esternare quella considerazione. «Solo che, adesso, mi sembra tutto senza senso. Voglio dire: chi se ne frega se non posso sposarmi per altri dieci anni, adesso?»

Lidia abbassò lo sguardo sulle proprie mani. «Potresti sempre incontrare qualcun altro. Se conoscessi un’altra donna, non cambieresti idea?» chiese, in tono studiatamente leggero. Anche se non lo stava guardando, la fanciulla sentì chiaramente lo sbuffo sarcastico di Tito. «Al momento non è una cosa a cui mi piace pensare, se permetti.»

Subito, lei si strinse nelle spalle. «Sì, va bene. Scusa.» Azzardando un’occhiata nella direzione del giovane – doveva ammettere che quella di cercare di dirottare la sua attenzione su un’innamorata futura non era stata una mossa particolarmente elegante – Lidia riprese: «Ciò non toglie che i tuoi genitori non sarebbero felici della tua scelta: loro ci tengono, al fatto che tu diventi avvocato.»

«Sì, è vero: non ne sarebbero entusiasti» riconobbe il ragazzo. «Però sai cosa ti dico? Se tu puoi decidere di mandare all’Inferno tutto e di rifarti una vita qui, perché non posso farlo io? L’idea di passare la vita in un tribunale mi fa schifo: stando qui, mi sono accorto che questo è quello che mi piacerebbe fare. Ed è quello che farò, in effetti, se tu proprio non vuoi cambiare idea.»

Lidia annuì. Anche se, a onor del vero, non è che io me la sia proprio scelta, questa vita. Ormai mi sta bene, non la cambierei – e, soprattutto, non cambierei Ulf – però me l’hanno imposta. Far notare quel particolare a Tito le parve controproducente, almeno in quel contesto, e così sorrise. «Non mi pare una brutta idea» disse, con la voce che tradiva solo un leggerissimo, inspiegabile tremito.

«Non lo è» confermò il ragazzo, deciso. Si interruppe brevemente e poi riprese, con il sorriso nella voce: «E, in ogni caso, sono convinto che i miei capirebbero: mi vogliono bene e so che, in fondo, approverebbero le mie scelte.»

Di punto in bianco, Lidia fu colta da un’inaspettata nostalgia di casa e, per una frazione di secondo, desiderò potersi immergere nell’abbraccio morbido e profumato di sua madre. Ma non sono più una bambina, si disse, facendo forza su se stessa e allontanando la malinconia come meglio poteva. «Sei fortunato» le scappò detto, con un filo di voce.

Tito fece per replicare, ma uno scossone improvviso gli mozzò il fiato, costringendolo a ingoiare le parole che aveva sulla punta della lingua. Lidia sbatté un paio di volte le palpebre, con la sensazione di essere appena emersa da una sorta di dormiveglia, di essere uscita da una specie di bolla che l’aveva isolata dal resto del mondo.

Per quanto tempo abbiamo parlato? Si chiese, un po’ spaesata. Lei e Tito avevano discusso tanto a lungo che aveva perso la nozione dello scorrere del tempo: ormai era notte fatta e una mezza luna illuminava il cielo. Ciò che più mise in allerta Lidia fu però la tensione quasi palpabile che sentiva provenire dai due militari seduti a cassetta.

«Cosa succede?» chiese Tito, che, evidentemente, provava le stesse sensazioni della ragazza. «Siamo giunti a un bivio» rispose Gaio, piano. Sporgendosi oltre il fianco del carro, la fanciulla vide lo spettro pallido di due strade distinte che, come da manuale, si dividevano formando una “V” perfetta, svoltando l’una a destra e l’altra a sinistra di un albero monumentale.

«Lo vedo» fece ancora Tito. «E allora?»

Il soldato sospirò e attese qualche secondo, prima di rispondere. «Alexander ci ha messo in guardia. Se le persone che ci stanno inseguendo volessero tenderci un agguato, questo sarebbe il posto perfetto per farlo.»

«Qui?» chiese Lidia in un soffio, mentre il suo cuore accelerava improvvisamente i battiti. Gaio si voltò per guardarla da sopra la sua spalla. «Be’, non proprio qui, in questo luogo preciso. La situazione è questa: con il carro, non abbiamo altra scelta che proseguire a sinistra. La strada di destra diventa sentiero, poco più in là, e non è certo percorribile con il carro.»

«Il problema», continuò l’uomo, «è che, muovendosi a cavallo, i nostri inseguitori avrebbero la possibilità di tagliarci la strada, poche miglia più avanti. Ci sono molte scorciatoie che noi non abbiamo potuto prendere, ma che loro potrebbero seguire con agio.»

«Rischiamo di finire dritti in un’imboscata» intervenne Valerio, con la sua voce un po’ roca.

Per qualche istante, i quattro rimasero in silenzio, poi Tito si schiarì la voce. «Ma siamo proprio sicuri che qualcuno ci sta inseguendo? Io non ho visto né sentito niente…»

«L’unica certezza che abbiamo è quello che ci ha detto Alexander» replicò Gaio. «Non abbiamo motivo di non fidarci di lui: se ci ha detto che qualcuno era sulle nostre tracce, è assai probabile che sia proprio così.»  «E allora cosa facciamo?» chiese ancora il giovane romano, anticipando di una frazione di secondo la domanda che anche Lidia era stata sul punto di porre.

«Facciamo così» riprese il soldato più anziano, anche se, dal tono con cui pronunciò quelle parole, la fanciulla comprese che non era affatto certo che quella che si apprestava a proporre fosse la soluzione migliore. «Ci dividiamo. Io e Valerio portiamo il carro a sinistra, tu e Lidia proseguirete verso destra. Ci ritroveremo nel punto in cui le strade si riuniscono, più a valle.»

Lidia lanciò un’occhiata dubbiosa alla propria destra, lungo la strada che lei e Tito avrebbero dovuto percorrere a piedi. «Si riuniscono? Che motivo c’è di fare due strade che portano nello stesso posto?»

«Quella lì è più antica» rispose Gaio, indicando con un cenno del capo la via di destra. «Questa qui è stata costruita dai nostri uomini una decina di anni fa, per agevolare il transito dei carri. Non guardarmi così, Lidia: non sarà difficile arrivare al punto di ritrovo. Non dovete fare altro che seguire il sentiero: forse non sarà in ottime condizioni, dal momento che, da quanto mi risulta, è piuttosto in disuso, ma costeggia un torrente e dovrebbe essere abbastanza semplice da individuare.»

«Dovrete camminare per tre quarti d’ora, un’ora al massimo. Seguite la strada fino a quando sorpasserete una specie di arco di pietra: a quel punto, svoltate a sinistra, in discesa. Proseguite lungo il torrente fino a quando il terreno non si farà più pianeggiante e la foresta più rada. Arriverete ad alcune cascine abbandonate. Rifugiatevi lì e aspettate che io o Valerio veniamo a recuperarvi.»

La ragazza si strofinò nervosamente le mani. «Ma è prudente dividersi?» chiese, preoccupata dal tono autoritario con cui Gaio aveva impartito quelle disposizioni. Non mi sembra che ci stia dando la possibilità di dissentire. «Non sarebbe più prudente rimanere tutti insieme?»

Il soldato scosse il capo. «No. Se qualcuno dovesse attenderci al varco, non vogliamo doverci preoccupare di difendere anche voi due, oltre che noi stessi.»

«E se qualcuno stesse aspettando al varco noi?» indagò Tito, asciutto. Gli occhi di Gaio scintillarono al buio. «Speriamo di no. Dobbiamo affidarci agli Dèi, ragazzo.»

Lidia storse la bocca di fronte a quella considerazione. Visti gli avvenimenti recenti, non era affatto sicura che affidarsi agli Dèi fosse garanzia di alcunché, ma decise di tenere per sé quella riflessione. «D’accordo» sospirò Tito, all’oscuro di quei pensieri. «Allora è meglio se ci diamo una mossa. Immagino che più passa il tempo e più aumenta il pericolo di venire raggiunti.»

«Esattamente» confermò Gaio.

Con le gambe che le tremavano un poco, Lidia si calò giù dal carro. Fatti forza, Medli, si disse. Per qualche motivo, fu la voce della vecchia Edda a risuonare nella sua testa. Non è questo il momento di farsi prendere dall’ansia.

«Mi raccomando» disse ancora Gaio. «Non allontanatevi dalle cascine: aspettate che siamo noi a venirvi a recuperare.» Lidia deglutì. «Va bene» lo rassicurò. «Allora ci vediamo dopo.»

Rivolgendo un cenno di saluto ai due soldati, i due giovani si avviarono verso la strada che era stata loro indicata, ma, quando ebbero percorso pochi metri, la voce di Gaio li richiamò. «Tito! Vieni qui!» Il ragazzo si affrettò a raggiungerlo e Lidia vide che il soldato gli porgeva qualcosa. «Questa è meglio se la tieni tu. Non si sa mai.»

Perché gli sta dando la tavoletta? Si chiese Lidia, mentre l’angoscia le serrava improvvisamente lo stomaco. Il fatto che il soldato avesse consegnato a Tito un oggetto tanto prezioso le sembrò proiettare un’ombra nefasta sull’immediato futuro. Mi sembra un cattivo presagio, pensò, percorrendo con occhi leggermente lucidi la sagoma scura dei due soldati. Un istante dopo, però, Tito tornò da lei e, posandole una mano sulla schiena, la invitò a rimettersi in marcia. «Dai, andiamo» mormorò.

Annuendo in silenzio, senza trovare la forza o la voglia di parlare, Lidia si incamminò accanto a lui, cercando di liberare la mente da qualsiasi pensiero riguardante il futuro e i pericoli che li avrebbero potuti aspettare tra le ombre del bosco. La notte di luglio era sorprendentemente piacevole, tiepida e profumata come non avrebbe creduto potesse essere tra le ostili foreste germaniche, e il frinire dei grilli creava un sottofondo musicale decisamente bucolico. Sembra tutto così innocuo, pensò la ragazza. E invece è tutto un inganno.

La strada su cui stavano camminando era larga e pianeggiante e, anche se i raggi argentei della luna erano schermati dalle fronde degli alberi, Lidia non aveva difficoltà a vedere dove mettere i piedi. «Vorrei che fosse nuvoloso» disse d’un tratto Tito, spezzando il silenzio. «Siamo fin troppo visibili, con questa luna.»

Lidia annuì, guardando stupita la propria ombra proiettata sul terreno, definita come non l’aveva mai vista di notte. Prima di quanto si fosse aspettata, la ragazza vide una sagoma scura delinearsi qualche decina di metri davanti a lei. Siamo già arrivati all’arco di cui parlava Gaio?

«Eccoci» sussurrò Tito, confermando il suo pensiero. «Qui da qualche parte dovrebbe esserci il sentiero che dobbiamo imboccare. Dovrebbe essere sulla sinistra, giusto?»

«Sì» confermò lei, avvicinandosi alla grande struttura di roccia. Alzando il naso al cielo, Lidia percorse con gli occhi la sua sagoma possente e curiosa. Sembra che qualcuno l’abbia preso e piazzato qui per qualche motivo. L’enorme masso era posizionato in una sorta di radura tra gli alberi e, per quanto poteva vedere la fanciulla, sembravano non essercene altri, nelle vicinanze. Come ci è arrivato, qui?

Alla luce fredda della luna, la roccia brillava di una lucentezza quasi innaturale. I cristalli di mica imprigionati nelle grandi placche di granito le facevano risplendere come scudi d’argento e i disegni intricati dei muschi e dei licheni apparvero alla fanciulla come antiche rune tracciate prima dell’avvento dell’uomo da qualche creatura fatata. In preda a una malia che non seppe spiegarsi, la ragazza chinò il capo e si infilò nel pertugio buio che perforava il masso da parte a parte. Quando emerse dall’altro lato, ebbe l’impressione di aver varcato una soglia segreta, di aver attraversato un confine nascosto e di aver messo piede in un luogo ancora sconosciuto.

«Ecco il sentiero!»

La voce di Tito la fece sobbalzare e Lidia si strofinò una mano sugli occhi nel tentativo di riguadagnare la propria lucidità e di allontanare quelle suggestioni. Raggiungendo il ragazzo, vide che stava indicando un viottolo ripido, che abbandonava la radura e si inoltrava tra gli alberi. «Sicuro che sia questo?» chiese, cercando gli occhi del giovane. Lui annuì. «Certo: Gaio ha detto che l’avremmo trovato dopo l’arco di pietra. E l’arco l’abbiamo appena passato, quindi…»

«D’accordo» mormorò Lidia, facendo correre lo sguardo davanti a sé, tra le ombre del bosco. Muovendosi con cautela, Tito si incamminò lungo il viottolo appena visibile nell’oscurità e Lidia lo seguì, anche se con una certa riluttanza. Quando aveva lasciato la sua casa a Erding, non aveva indossato gli scarponcini che era solita portare in montagna, ma un paio di semplici stivaletti. Mica lo sapevo, che avrei dovuto fare una scampagnata nei boschi! Pensò, con una smorfia. La loro suola liscia e sottile le permetteva di avvertire molto chiaramente il fondo sconnesso su cui stava camminando, le radici e i ciottoli mobili, infidi e pronti a farla rovinare a terra.

«Non essere così rigida» la riprese Tito, voltandosi per guardarla. «Se fai così, rischi di cadere.» Lidia inspirò bruscamente dal naso, irritata dalla raccomandazione del ragazzo. «Non preoccuparti» sbottò. «Tu vai avanti con il tuo passo, che io ti seguo con il mio.» Il giovane scosse il capo e rallentò un po’ l’andatura, ma non replicò, avvertendo che l’umore di Lidia stava virando al peggio e che, quindi, sarebbe stato più prudente lasciarla da sola per un po’.

Il silenzio della notte era spezzato solo dallo stormire del vento che aveva preso a soffiare da qualche minuto e dal canto del torrente che, anche se nascosto tra la vegetazione, si faceva sempre più vicino. Lentamente, Lidia divenne consapevole di quanto quella situazione le ricordasse l’avventura che aveva vissuto la notte del suo matrimonio, quando aveva deciso di fuggire dalla sua camera. Mi sembra passata una vita, ma, in realtà, sono passati solo un paio di mesi, si disse, un po’ stupita.

Esattamente come era successo allora, la fanciulla avvertì una sensazione di disagio crescente serpeggiarle nel petto e gocce di sudore freddo imperlarle la schiena. Anche se non l’aveva mai confessato a nessuno, Lidia aveva paura del buio. Non si trattava di un terrore incontrollabile, né di un’ossessione che la tormentava ogni volta che calava la notte, ma piuttosto di un turbamento che la coglieva quando permetteva alla sua mente di vagare libera oltre ai confini del razionale. Anche in quel momento, mentre arrancava dietro a Tito nell’oscurità di un bosco sconosciuto, la ragazza sentì un pizzicorino a fior di pelle, una tensione nei muscoli, la sensazione che là, tra l’ombra delle piante e il terreno scuro, fossero appostate creature senza volto né nome, esseri acquattati nell’attesa del momento più propizio per sferrare l’attacco. 

Non essere stupida, è solo la tua immaginazione! Ed era sicuramente così: aveva ormai imparato che era piuttosto improbabile che ci fossero davvero dei predatori nascosti tra le felci e le radici degli alberi, eppure il suo subconscio le imponeva di stare allerta e di non abbassare la guardia.

Non aveva forse colto un movimento, con la coda dell’occhio? Qualcosa di scuro non era forse scivolato via furtivo ai margini del suo campo visivo? Ma Tito non ha sentito niente, cercò di rassicurarsi, allungando un pochino il passo e facendo del proprio meglio per riavvicinarsi al giovane che, qualche metro più in là, procedeva senza dar segni di turbamento. Gli avrebbe parlato, avrebbe voluto farlo, ma qualcosa, in un luogo dimenticato della sua testa, le ordinava di non farlo, di essere il più silenziosa possibile per non attirare attenzioni indesiderate.

E cos’era quella pressione che le pareva di avvertire tra le scapole, ai lati del collo, alla base della nuca? Lidia serrò gli occhi per un istante, stringendo convulsamente in un pugno le mani sudate. Perché aveva la sensazione di essere seguita? Perché credeva di aver scorto degli occhi luccicanti scintillare tra le foglie di un cespuglio, seguendo ogni suo movimento?

Un gemito le sfuggì dalle labbra e Tito si fermò bruscamente, voltandosi a guardarla. «Lidia? C’è qualcosa che non va?»

Nell’udire la sua voce – inequivocabilmente umana e decisamente famigliare – la giovane arrossì, sentendosi improvvisamente sciocca. «No, niente, niente» disse, cercando di mantenere un tono leggero. «Mi sto solo lasciando suggestionare dal buio.»

Tito emise un suono che poteva essere d’assenso, poi, con una mano, le fece cenno di raggiungerlo. «Credo che sia meglio se mi stai più vicina, adesso: mi pare di vedere che il sentiero si restringe.» Asciugandosi le mani sudate sulla gonna, la fanciulla barcollò fino al luogo in cui il giovane la stava attendendo e poi allungò il collo, cercando di scorgere anche lei quello che aveva attirato l’attenzione del ragazzo. In effetti, qualche decina di metri più in là, la luminosità aumentava: se, sulla sinistra del sentiero, il bosco era ancora fitto, sulla destra vi era uno spazio completamente privo di alberi. Prestando attenzione, Lidia si rese conto che lo scroscio del torrente giungeva proprio da lì.

«Credo che siamo arrivati al fiume» mormorò Tito. «Considerato da quanto stiamo camminando, non credo che ci manchi tanto per raggiungere il posto dove dovremmo ricongiungerci con Gaio e Valerio.»

Siano ringraziati gli Dèi! Pensò Lidia, con un fremito di sollievo. Anche se la compagnia dei due soldati non era la migliore di cui avesse goduto negli ultimi tempi, l’inquietudine di trovarsi quasi da sola in un ambiente potenzialmente ostile stava diventando difficile da sopportare. «Meno male» mormorò. «Inizio a essere abbastanza stanca di camminare. Mi fanno male le gambe.»

«Coraggio, un ultimo sforzo» la esortò Tito, allungando una mano dietro di sé per afferrare quella della ragazza. «Stammi vicina e stai attenta a non scivolare. Tra un po’ potrai di nuovo rilassarti sul carro.»

Insieme, i due giovani si rimisero in cammino e Lidia sbirciò con prudenza alla propria destra. Tito ci aveva visto giusto: il sentiero ora procedeva sul margine del torrente e, se guardava davanti a sé, poteva vedere che erano quasi giunti al limitare della foresta. Le cascine dove avrebbero dovuto aspettare i loro compagni non potevano più essere molto lontane. Prima di arrivarci, però, devo restare concentrata ancora per un pochino: eviterei volentieri di farmi un bagno notturno.

Alla destra del sentiero si apriva infatti il solco che il torrente aveva scavato con il suo corso, una scarpata ripida e costellata da rovi e rocce irregolari. In fondo, oltre alla vegetazione e alle pietre, Lidia riusciva a scorgere un fiumiciattolo di montagna, ricco di onde impetuose e spume irregolari che la luna tingeva d’argento.

Dopo poche decine di minuti, i due ragazzi si lasciarono alle spalle anche gli ultimi alberi e sbucarono in un prato di erba alta e profumata, scossa dalla brezza notturna che ancora spirava da nord est. Lidia ebbe l’impressione di trovarsi di fronte a un oceano blu e argento e, per un istante, provò un’irrazionale sensazione di libertà, poco giustificata dalle circostanze in cui si trovava. Mi piacerebbe essere un animale selvatico e poter scappare via tra l’erba alta, senza dover rendere conto a nessuno di quello che faccio e di dove intendo andare. Quel pensiero inaspettato attraversò la sua mente, ma subito la fanciulla lo accantonò, pur con un certo rammarico. Sarebbe bello, sì, ma non me lo posso permettere: un po’ è anche colpa mia, se mi trovo in questa situazione…

Prima che i rimpianti e i sensi di colpa potessero assalirla, Tito si mosse attraverso l’erba alta e la ragazza si affrettò a seguirlo, poco desiderosa di restare da sola nel buio della notte. Alzandosi sulla punta dei piedi per vedere meglio quello che la circondava, la giovane allungò un braccio per indicare un punto alla sua destra. «Sono delle cascine, quelle?»

Il suo compagno si voltò nella direzione che aveva appena indicato. «Parrebbe di sì» confermò, strizzando gli occhi per affinare la vista. «Non ne vedo altre: immagino che siano proprio quelle di cui ci ha parlato Gaio. Mi pare che il posto corrisponda alla sua descrizione, no?»

Lidia sollevò appena le spalle. «Direi di sì.» «Bene», mormorò Tito, «allora andiamo. È meglio se ci mettiamo al riparo di un tetto e di quattro mura: qui siamo troppo scoperti, se qualcuno ci stesse seguendo, non avrebbe grosse difficoltà a individuarci.»

La ragazza sentì un brivido d’inquietudine scivolarle lungo la schiena: non aveva forse avuto davvero l’impressione che qualcosa – o qualcuno? – li stesse inseguendo, mentre camminava lungo il sentiero immerso nella foresta? Non appena ebbe formulato quel pensiero, la fanciulla scosse impercettibilmente il capo: non si sarebbe fatta prendere di nuovo da quelle paranoie; non ne avrebbe nemmeno fatto parola, per evitare di far preoccupare inutilmente Tito – o farsi prendere in giro da lui.

Forte di quella decisione, la giovane attraverso il prato in silenzio e, quando giunsero di fronte alle tre cascine che avevano scorto da lontano, si voltò verso il suo compagno. «Cosa facciamo? Entriamo?»

La luna stava ormai per scivolare al di sotto della cresta delle montagne e la notte si stava facendo più buia, ma Lidia riuscì comunque a scorgere l’espressione indecisa che si disegnò sul volto di Tito. «Sì» disse poi il ragazzo. «Immagino che una valga l’altra: entriamo.» Così dicendo, il giovane raggiunse la porta della cascina più vicina a loro, ma, quando posò la mano sul catenaccio arrugginito, quello oppose resistenza. «È chiusa a chiave» sbuffò, con una nota di frustrazione nella voce. «Proviamo quella.»

Anche la porta della seconda stalla era chiusa, ma i due giovani scoprirono che, sul retro, una porzione di tetto era crollata, aprendo uno squarcio nella parete posteriore. «Sarà sicuro?» chiese Lidia, titubante, alzando lo sguardo sulle travi scure che si stagliavano contro il cielo notturno.

«È rimasta in piedi fino ad adesso» replicò Tito, pragmatico. «Non crollerà proprio ora.»

Pregando silenziosamente che una delle grandi lastre di pietra che ricoprivano il tetto della vecchia cascina non scegliesse proprio quel momento per schiantarsi al suolo, Lidia scavalcò le pietre e gli altri detriti e scivolò all’interno dell’edificio abbandonato. Lì il buio era totale e la fanciulla rimase assolutamente immobile per qualche istante, cercando di adattare la propria vista a quelle nuove condizioni di luminosità. La fioca luce delle stelle e il chiarore sempre più debole della luna, però, non riuscivano a penetrare in quel luogo e Lidia chiuse gli occhi, per calmarsi e per scacciare la sensazione di disagio che quelle tenebre così fitte stavano di nuovo facendo nascere in lei.

«Non è che, per caso, hai qualcosa che possa fare luce, vero?» chiese, con voce un po’ tremante, voltandosi verso il luogo in cui presumeva dovesse trovarsi Tito.

La risposta del ragazzo le giunse da qualche parte alle sue spalle. «No. Ho solo quella tavoletta che mi ha dato Gaio, ma suppongo che accenderla non sia prudente.» La fanciulla sospirò di nuovo, afflitta. «Vieni qui» la richiamò ancora la voce di Tito. «Non so esattamente su cosa sono seduto, ma è morbido. Credo che si tratti di un letto o di qualcosa del genere.»

Strisciando i piedi sul pavimento per evitare di inciampare in qualcosa di imprevisto, Lidia si mosse lentamente nella direzione da cui era giunta la voce del giovane, fermandosi solo quando le sue gambe urtarono contro quello che le sembrò un materasso. «Ecco, siediti» la guidò il giovane romano. Con un piccolo sospiro di sollievo, la ragazza si lasciò cadere sulla superficie morbida; e subito le sfuggì un sibilo di disgusto. «Che schifo! Ci saranno due centimetri di polvere, qui!»

Accanto a lei, Tito ridacchiò. «Dubito che qualcuno abbia fatto le pulizie, negli ultimi anni.»

Già, convenne silenziosamente lei, vergognandosi un po’ della sua esclamazione così sciocca. Quando tra i due scese il silenzio, Lidia si ritrovò inconsciamente a torcersi le mani come sempre faceva quando c’era qualcosa che la innervosiva. La sensazione di disagio, quasi di imbarazzo, che aveva provato quella sera, quando si era accomodata sul carro accanto a Tito, tornò a farsi sentire e la giovane desiderò disperatamente trovare un modo per ingannare il tempo.

Non possiamo fare conversazione, ragionò, mentre le mani le si facevano sudate. In primis perché rischieremmo di farci sentire da qualcuno, se là fuori c’è davvero qualcuno che ci cerca, e poi perché già lo so, che finiremmo a parlare di Ulf e di quello che voglio o non voglio fare… finiremmo ancora per litigare, e io non ne ho proprio voglia.

Quella parte del suo cervello che era sempre in movimento e che sembrava rifiutarsi di obbedire ai comandi della ragione si premurò di farle notare che quella non era la prima volta che si trovava in una situazione del genere e che, in passato, non aveva fatto molta fatica a trovare un modo per ingannare il tempo. Se la ricordava, no, quella volta che lei e i suoi genitori avevano passato due settimane nella villa di campagna della famiglia di Tito? Quando, con la scusa di esplorare i dintorni, si erano appartati nella vecchia foresteria in cui nessuno metteva ormai più piede? C’era stato anche lì un letto, e le tende pesanti tirate alle finestre avevano creato una penombra pigra, e tutt’attorno c’era solo il silenzio e lo scricchiolio delle vecchie assi del pavimento…

Lidia arrossì, in preda ai ricordi. Era stato un pomeriggio tutto sommato innocente, ma, se ci ripensava, ricordava ancora i baci di Tito, le sue mani sulla pelle – impacciate, ma curiose – il peso del suo corpo su di lei. Improvvisamente, la fanciulla divenne più consapevole del calore del giovane seduto al suo fianco, di quel suo profumo tipico, della lieve curvatura del materasso dovuta alla sua presenza e quei particolari accesero qualcosa al centro del suo petto. È… è una sorta di malessere, riconobbe. Era un contrasto scomodo tra il ricordo di un passato piacevole e un presente fatto di distanze crescenti: lei sapeva come sarebbe stato sdraiarsi sul materasso, prendere la mano di Tito e attirarlo su di sé, ma al solo pensiero di fare una cosa del genere il suo corpo si ribellava e si contorceva nel rifiuto, la sua mente poneva una barriera rovente e invalicabile. Perché io non lo amo più. Perché non lo voglio più. Ma forse lui si aspetta qualcosa?

«Perché non arrivano ancora?» la domanda ringhiata di Tito la fece sobbalzare e le rivelò che, diversamente da quello che aveva creduto lei, la mente del ragazzo era lontanissima da quei pensieri. Presa in contropiede, Lidia boccheggiò un paio di volte, prima di riuscire a parlare. «Forse è passato troppo poco tempo» suggerì, con un lieve tremolio nella voce. «Forse dobbiamo aspettare ancora un po’.»

«Quanto tempo dobbiamo aspettare?» sbottò il ragazzo, frustrato. «Quanto tempo è passato? Boh, io ho perso il conto!»

Lidia si morse le labbra, mentre l’ansia del giovane iniziava a contagiare anche lei. Era davvero passato un tempo sufficientemente ampio perché Gaio e Valerio percorressero con il carro la strada che, al bivio, si dirigeva verso sinistra? Avrebbero già dovuto essere lì? E se avessero avuto qualche imprevisto? E se qualcosa fosse andato storto?

«Non… non lo so» ammise, chinando il capo. «Non sono molto brava a tenere il conto del tempo.» Accanto a lei, Tito si mosse nervosamente e Lidia se lo immaginò chinato sulle ginocchia, con il mento sostenuto da una mano. Si mette sempre in quella posizione, quando è nervoso.

«Va bene» concesse il ragazzo, con voce tesa. «Aspettiamo ancora un po’.»

Tra i due scese di nuovo il silenzio, ma, diversamente da quanto aveva fatto prima, Lidia non permise alla sua mente di vagare, ma si costrinse a restare vigile, pronta a cogliere anche il minimo segnale che potesse allertarla dell’arrivo di qualcuno. Con gli occhi resi inutili dal buio, con l’olfatto che non riusciva ad andare oltre al sentore stantio che permeava la vecchia cascina, la ragazza non poté che fare affidamento sul proprio udito, ma anche quello si rivelò piuttosto inefficace: la notte sembrava completamente silenziosa, una volta abbandonato il bosco. Il fruscio del torrente era solo un’eco lontana, il vento sembrava essersi acquietato e, più di ogni altra cosa, Lidia sentiva il rimbombo del proprio cuore, sempre uguale a se stesso, quasi ipnotico.

«Io vado a cercarli.»

Le parole di Tito la riscossero dalla specie di trance nella quale era scivolata e la ragazza si voltò bruscamente verso il giovane romano. «Ma sei matto?» sbottò, mentre l’angoscia saliva a stringerle la gola. «Non sai nemmeno da che parte andare; e poi Gaio ha detto che non dobbiamo muoverci da qui!»

«Lo so, ma se gli fosse successo qualcosa? Se fossero caduti in un’imboscata? Noi resteremmo qui ad attenderli all’infinito e loro non arriverebbero mai: in compenso, rischieremmo di farci trovare da quelli che ci stanno cercando. Di sicuro lo sanno anche loro, che le due strade si riuniscono in questo punto: quanto vuoi che ci mettano, a venirci a cercare qui?»

Con il cuore in gola, Lidia dovette riconoscere che Tito non aveva tutti i torti: se davvero qualcuno aveva attaccato i due soldati, era piuttosto probabile che loro due non fossero al sicuro, fermi in quella cascina. Ma andare a vedere cos’è successo è una pessima idea!

«E se dovessi scoprire che è successo qualcosa? Cosa faremmo, allora?» chiese, con la voce più petulante di quanto avrebbe voluto.

«Non lo so, che cosa faremmo» replicò Tito, asciutto. «Di certo non staremmo qui ad aspettare che ci trovino. Di andare a piedi fino al campo di Hudwill non se ne parla nemmeno: è troppo lontano e troppo pericoloso. Credo che la cosa migliore da fare sarebbe tornare da Alexander e chiedere aiuto a lui.»

«E se scoprissimo di non poterci fidare di lui?» chiese ancora Lidia, con la gola stretta nella morsa della paura che stava iniziando a impadronirsi di lei. «Non sono sicura che mi piaccia, mi ha fatto un’impressione strana…»

«Non abbiamo altra scelta.» Anche se non poteva vederlo in faccia, la fanciulla colse chiaramente l’amarezza nella voce del ragazzo e si figurò l’espressione dura che sicuramente gli si era disegnata in volto. «Se fossimo davvero rimasti da soli, dovremmo per forza affidarci a lui… e che gli Dèi ci proteggano!»

Lidia si portò automaticamente una mano alla bocca e prese a mordicchiarsi nervosamente le nocche, ma non riuscì a trovare un argomento che le permettesse di controbattere a ciò che Tito aveva appena detto. Ha ragione, riconobbe a malincuore. Ha perfettamente ragione.

Dopo qualche istante di silenzio, la ragazza avvertì un movimento al suo fianco, mentre Tito si alzava in piedi. Lo udì inspirare a fondo, poi il giovane romano parlò ancora. «D’accordo, allora. Io vado a dare un’occhiata in giro.» Istintivamente, Lidia allungò una mano verso di lui, ma non trovò altro che l’aria pesante della notte. «E io che cosa faccio?»

«Tu resti qui» fu la risposta del ragazzo. «È inutile rischiare in due: se non mi vedi tornare, rimettiti in cammino da sola.» Sebbene la prospettiva che a Tito potesse succedere qualcosa di male le risultasse intollerabile, Lidia cercò di mantenere la mente lucida. «Ma come faccio a capire quanto tempo è passato? Non ho un orologio, non ho niente che mi permetta di calcolare lo scorrere del tempo…»

«E allora aspetta che cominci ad albeggiare» propose il ragazzo, dopo qualche istante. «Non ho idea di che ore siano, ma immagino che, ormai, non possa mancare più tantissimo al sorgere del sole. Non lo so… saranno le tre, le quattro?»

«Non ne ho la benché minima idea» ammise lei, demoralizzata. Un secondo più tardi, la mano di Tito le si posò sulla spalla, come per confortarla. «So che non è una grande idea, ma non me ne viene una migliore. Cercherò di fare in fretta: arrivo fino a dove il sentiero incrocia la strada che Gaio e Valerio avrebbero dovuto percorrere, do un’occhiata in giro e poi torno indietro.»

Lidia deglutì, cercando di scacciare il nodo che le stringeva la gola. «Va bene. Stai attento, però, e cerca di tornare presto. Non farmi preoccupare per niente.» Quell’ultima raccomandazione avrebbe voluto essere una mezza battuta, ma il tono angosciato con cui le uscì di bocca vanificò il debole tentativo di Lidia di alleggerire l’atmosfera cupa. «Promesso» sussurrò Tito, prima di allontanarsi da lei senza aggiungere una parola.

Non appena fu rimasta sola, Lidia si ripiegò su se stessa, mentre un crampo violento le mordeva lo stomaco. La giovane espirò lentamente, facendo sibilare il fiato tra i denti e facendo del proprio meglio per dominare la paura che montava a ondate incandescenti. Stai calma! Si raccomandò, avvertendo che il panico era a un soffio dal sopraffarla.

Nel tentativo di dominarsi, Lidia si distese sul vecchio materasso abbandonato, incurante della polvere e delle ragnatele che avvertì contro il viso. Le ossa del bacino affondarono nella lana vetusta e quel contatto morbido e solido allo stesso tempo le parve quasi un abbraccio rassicurante. Andrà tutto bene, si disse, incrociando le mani sul proprio stomaco. Probabilmente ci siamo fatti prendere dall’ansia e abbiamo calcolato male i tempi. Gaio e Valerio non sono ancora arrivati semplicemente perché la strada era più lunga di quello che credevamo noi. È assolutamente probabile che Tito li incontri strada facendo. Ce ne ricaveremo una bella sgridata, da questa storia, ma finirà tutto bene!

Cullata da quei pensieri confortanti che riuscirono miracolosamente a tenere a bada gli spettri che si affacciavano ai confini della sua mente, Lidia scivolò in una sorta di dormiveglia nel quale il tempo si dilatava e si restringeva con un ritmo che sfuggiva alle logiche del razionale. Con gli occhi chiusi, sperimentò alcuni sogni leggeri, impressioni fugaci subito dimenticate, sprazzi di colore e di sole, di carezze sulla pelle e di mostri in agguato nell’ombra.

Poi, all’improvviso, all’esterno della cabina risuonarono dei passi.

***

Bene… anzi, no, perché, purtroppo, questo è l’ultimo capitolo pronto. La storia proseguirà, ovviamente, ma più lentamente di prima.

Dal momento che non sarò più in grado di aggiornare regolarmente, non mi pare corretto continuare a stressarvi chiedendovi di recensire e di sapere cosa ne pensate. Da ora in poi, adotterò un approccio molto più rilassato: voi lascerete due righe solo quando avrete tempo voglia e io, dal canto mio, scriverò solo quando avrò tempo e voglia.

Voglio specificare che non è una ripicca, ma una semplice costatazione dei fatti. Per vari motivi, non ho trovato gli stimoli sufficienti per scrivere più in fretta di quello che ho fatto. Visto che, per me, la scrittura è solo e soltanto un hobby, credo che non abbia senso fare i salti mortali per tenere un ritmo che non mi risulta naturale, no?

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Capitolo 31
*** 30. Incontri inaspettati ***


Lidia si ritrovò in piedi senza nemmeno ricordare di aver compiuto lo sforzo volontario di alzarsi. La sonnolenza di un istante prima era già dimenticata e i suoi sensi erano vigili, quasi affinati dall’adrenalina. La fanciulla avvertiva un pizzicorino diffuso, una tensione nei muscoli delle spalle e delle gambe, un’acutezza nello sguardo che pure non coglieva altro che tenebre informi e cangianti. Si accorse di non avere paura, di sentirsi forte, e si ritrovò a stringere i denti nell’accenno di un ringhio, a irrigidire le dita nella pallida imitazione di artigli mai avuti.

Durò solo un istante, poi l’ansia e l’incertezza tornarono a farsi sentire, mozzandole il fiato e facendole tremare le gambe. Chi c’è, là fuori? Si chiese. Non poteva essere Tito: in primo luogo perché il ragazzo si sarebbe fatto riconoscere immediatamente, in secondo luogo perché, istintivamente, avvertiva che i suoni che aveva colto erano stati prodotti da un corpo diverso per stazza e movenze da quello del giovane romano.

È una sola persona, si disse Lidia, trattenendo il fiato e rimanendo perfettamente immobile per qualche istante. Tutto taceva, all’esterno della cascina, quasi che la persona sconosciuta fosse in attesa di udire un qualche suono che gli confermasse che là dentro ci fosse effettivamente qualcuno.

Io non vedo lui, ma lui non può vedere me, ragionò la fanciulla. Addossata contro la parete polverosa e che sembrava sgretolarsi sotto le sue mani, Lidia si interrogò rapidamente sul da farsi. Avrebbe potuto rimanere ferma lì dov’era, senza emettere alcun suono che tradisse la sua presenza: se fosse stata fortunata, la persona fuori dalla porta avrebbe creduto che l’edificio fosse deserto e se ne sarebbe andata. Ipotesi piuttosto improbabile, valutò amaramente la ragazza. Verosimilmente, lo sconosciuto avrebbe comunque voluto dare un’occhiata all’interno per assicurarsi che nessuno vi si stesse nascondendo. Forse ha con sé una torcia o qualcosa che fa luce, ipotizzò. Ma allora cosa sta aspettando? Perché non entra? O forse anche lui è costretto a rimanere al buio.

Se così fosse stato, Lidia avrebbe potuto nascondersi da qualche parte e confidare nella sua buona stella che, accecato dall’oscurità quanto lei, lo sconosciuto non la trovasse. Ma, se mi muovessi, rischierei di inciampare in qualcosa. E allora si accorgerebbe sicuramente che sono qui!

No, sarebbe stato meglio non muovere un muscolo e aspettare la mossa del suo invisibile avversario. Del resto, se non è ancora entrato vuol dire che, probabilmente, non è sicuro al cento per cento che qui dentro ci sia veramente qualcuno. Premendo i polpastrelli contro la vecchia parete di calce e avvertendone l’irregolarità fragile e polverosa, la ragazza svuotò la mente da ogni pensiero, limitandosi a rimanere in ascolto.

I minuti scivolarono via lenti senza che alcun rumore giungesse più alle sue orecchie. Che mi sia immaginata tutto? Si chiese, dubbiosa. Erano forse dei topi, quelli che aveva sentito? Era tesa e doveva riconoscere che non era del tutto inverosimile che la sua mente avesse ingigantito dei suoni molto più modesti, facendole scambiare per dei passi umani il sottile scalpiccio di un qualche roditore. Oppure era solo il vento che ha smosso qualcosa, o lo scricchiolio naturale di qualche vecchia trave…

Naturalmente, non aveva modo di verificare se quelle ipotesi fossero corrette o se là fuori ci fosse veramente qualcuno. La cosa migliore da fare sarebbe non muoversi da qui e aspettare che Tito e gli altri facciano ritorno, si disse. Tuttavia iniziava a essere stanca e quell’immobilità forzata – in netto contrasto con il tumulto del suo cuore e delle sue emozioni agitate – stava diventando difficile da sopportare. Poco alla volta, nacque in lei la tentazione di staccarsi dal muro e di raggiungere la porta per dare un’occhiata all’esterno e giudicare con i propri occhi la situazione. Non dovrei farlo, pensò Lidia, mordicchiandosi piano il labbro inferiore. Qui sono al sicuro: se uscissi allo scoperto, rischierei di essere vista.

Era indubbiamente vero, ma quell’impulso crebbe fino ad acquistare la forza di un ordine a cui era quasi impossibile sottrarsi. Non dovrei farlo, si ripeté la fanciulla, ma se vado avanti così, scoppio. Avrebbe dato solo un’occhiatina fugace. Sarebbe stata attenta, si sarebbe sporta dall’uscio solo quel tanto che bastava per fare balenare lo sguardo sul prato buio, poi sarebbe rientrata.

Muovendosi in punta di piedi, ignorando quella parte più razionale del suo intimo che le urlava di tornare indietro, Lidia si avvicinò al rettangolo della soglia, solo vagamente più luminoso dell’ambiente oscuro in cui era immersa. Dopo qualche istante, sentì sotto alle dita la ruvidità del legno scheggiato dal tempo e dal sole e afferrò la trave che costituiva l’intelaiatura della porta, cercando di trarre forza da quel materiale compatto. Inspirando a fondo, spinse lo sguardo al di fuori della cascina, sul prato nero. La luna era ormai tramontata e non poteva contare che sul chiarore delle stelle. Quel poco che riusciva a vedere, però, la rassicurava: tutto sembrava tranquillo e deserto esattamente come quando lei e Tito si erano rifugiati all’interno del vecchio edificio.

Trattenendo il fiato, la ragazza si sporse leggermente in avanti, fermandosi solo quando i suoi capelli bruni furono sfiorati da un alito di vento. Quasi con timore, Lidia volse lo sguardo a destra e poi a sinistra, perlustrando rapidamente le mura esterne della cascina. Non c’è niente, realizzò, mentre una sensazione di sollievo le si riversava addosso come una doccia calda e gradevole. Non c’è nessuno.

Sollevata, ma pur sempre guardinga, Lidia si staccò dall’intelaiatura della porta e osò uscire allo scoperto sotto il cielo stellato. Il vento aveva ripreso a soffiare dolcemente e la notte era lucida e cristallina. La giovane romana si ritrovò a respirare a pieni polmoni quell’aria frizzante, grata di trovarsi finalmente fuori dall’atmosfera densa e polverosa della vecchia cascina. Tutto era immobile, se si escludeva l’oscillare dell’erba sotto il soffio della brezza notturna, e la fanciulla si portò le mani ai fianchi, concedendosi qualche secondo per riprendere fiato e per far riabituare la vista a delle condizioni di luce leggermente migliori rispetto a quelle in cui si era trovata fino a pochi istanti prima.

Nell’istante stesso in cui udì il movimento alle sue spalle, Lidia fece per voltarsi, ma lui fu più veloce e le premette una mano sulla bocca. «Non urlare» le intimò, piegandosi sul suo orecchio.

Lidia sgranò gli occhi, mentre il colore le abbandonava le guance e lo sgomento le mordeva lo stomaco. Non è possibile, fu il primo pensiero che le attraversò la testa. Lo stupore e la consapevolezza che ciò che stava accadendo era assurdo vinsero la paura e la fanciulla afferrò con entrambe le mani il polso che aveva davanti al volto, divincolandosi fino a quando riuscì a ruotare il collo fino a scorgere il viso del suo aggressore. La mano che lui teneva saldamente sulla sua spalla sinistra le impedì di fronteggiarlo come avrebbe voluto, ma Lidia riuscì comunque a incontrare i suoi occhi.

«Ancora tu» sputò, quando riuscì a spostare la sua mano dalle proprie labbra. Sul viso di Karl passò un’espressione confusa e, per un attimo, Lidia pensò che il germanico non fosse un uomo in carne ed ossa, ma uno spirito maligno che aveva lasciato gli Inferi appositamente per tormentare lei. Per qualche istante, quell’ipotesi non le sembrò poi così assurda.

«Ancora io?» ripeté lui, piantando più a fondo le dita nella spalla della giovane. Lei annuì furiosamente. Distrattamente notò che era curioso che, in quelle circostanze, la rabbia avesse la meglio sul timore che Karl le incuteva normalmente: in un certo senso, le pareva quasi confortante trovarsi di fronte a un viso noto, piuttosto che a un inseguitore sconosciuto, senza volto né identità. «Sì» sbottò, piantando gli occhi in quelli del germanico. «L’altro giorno ti ho trovato fuori dalla bottega di Ulf, e adesso mi compari davanti anche qui: tu mi stai seguendo! Non hai niente di meglio da fare?»

Karl le afferrò anche l’altra spalla, inchiodandola al suolo. «Sì, ti sto tenendo d’occhio» confermò, con quel suo accento tagliente che le feriva sempre le orecchie. «E no, non mi è rimasto molto di meglio da fare: grazie alle decisioni dei tuoi politici, ho perso il lavoro alla miniera. Di conseguenza, mi ritrovo con un sacco di tempo libero che posso gestire come meglio credo.»

Di fronte a quella rivelazione, Lidia ammutolì. Ricordava vagamente il discorso a cui aveva assistito la sera in cui era stata invitata a cena a casa del suocero: Gefrid non aveva forse intimato a Karl di non azzardarsi a farsi cacciare dalla miniera? Oh, scommetto che è nei guai, adesso! Pensò, con una punta di trepidazione quasi compiaciuta. Naturalmente, era assai probabile che il fatto che Karl potesse avere problemi con il padre di sua moglie lo rendesse ancora più maldisposto nei confronti della sua giovane cognata. «Che cosa vuoi?» chiese, allora, mentre il coraggio che l’aveva sostenuta fino a quel momento sfumava un poco e l’abituale timore tornava a farsi sentire.

«Riportarti a casa.»

La risposta la sorprese e Lidia lo fissò per qualche istante, con la bocca leggermente socchiusa. Poi scosse lentamente la testa. «Cosa? Io non capisco. Perché sei qui?» La presa di Karl si fece più salda e l’uomo la scosse leggermente, in un moto di frustrazione. «Ho saputo di quello che è successo. Mi hanno detto che ti hanno vista partire con quei soldati, quindi ti ho seguita per riportarti indietro.»

«Sai che qualcuno ha ucciso Lucio?» chiese Lidia, mentre la bocca le si riempiva di un sapore amaro al ricordo della sorte toccata al giovane soldato. Karl annuì. «Se Lucio è il nome del soldato morto l’altra notte, allora sì: so che è stato ucciso. Ed è proprio per questo che sono qui.»

La situazione le era poco chiara. Malgrado le mezze spiegazioni dell’uomo, non riusciva a capacitarsi come Karl avesse fatto a raggiungerla in un posto tanto lontano da Erding e le parole appena pronunciate dal germanico risuonarono sinistramente nella sua testa. Aveva detto di volerla riportare a casa, ma la cosa non aveva minimamente senso: da quanto ne so io, questo qui voleva cacciarmi, altro che riportarmi a casa! Era allora chiaro che il cognato stesse cercando di ingannarla: ma a quale fine? Voleva forse consegnarla ai suoi compari? O, peggio… voleva ucciderla?

Lidia fu scossa da un tremito e cercò di retrocedere di un passo, ma Karl glielo impedì. «No, no: dove pensi di andare?» ringhiò. «Tu adesso vieni con me!»

«Che cosa vuoi da me?» chiese ancora lei, cercando di tenere a bada la paura che ormai le stringeva la gola, distorcendo un poco il suono delle sue parole. Il germanico la guardò come se stesse dubitando delle sue facoltà mentali. «Ma sei stupida o cosa?» chiese, infatti. «Ti ho detto che voglio riportarti a Erding, da Ulf. Come te lo devo dire?»

Lidia scosse con forza il capo. «Non ti credo» sputò, con una voce un po’ troppo acuta per risultare neutrale e controllata. «Non capisco come hai fatto ad arrivare qui. Come hai fatto a trovarmi? Come facevi a sapere che mi ero nascosta proprio qui? Non puoi avere fatto tutto da solo! Chi c’è con te?»

Davanti a quella raffica di domande pronunciate con voce sempre più alta, Karl parve preso leggermente alla sprovvista, ma si riebbe in fretta dalla sorpresa e premette bruscamente una mano sulla bocca della giovane, mentre con l’altra le dava un nuovo scossone. «Non urlare, cretina! Non è il caso di attirare troppo l’attenzione, credimi!» Lidia trattenne il fiato per un istante, storcendo il naso contro l’odore della pelle dell’uomo e fissandolo con gli occhi sgranati. Notando che la fanciulla sembrava essersi calmata un poco, il germanico la lasciò libera di respirare più con agio. «Ieri mattina ero alla taverna con alcuni compagni, quando alcuni ragazzi sono entrati e ci hanno detto quello che era successo la sera prima – quello che avevano fatto. Erano consapevoli del fatto che li aveste visti, ma non hanno avuto il coraggio di inseguirvi, per vostra fortuna. Erano venuti alla taverna per cercare consiglio e l’hanno trovato. Il nostro capoturno gli ha consigliato di cercarvi e di assicurarsi che non parlaste e io mi sono offerto di accompagnarli.»

«Che cosa mi vuoi fare?» esalò Lidia, quasi istintivamente.

Il germanico piegò le labbra in una curva amara e ironica. «Oh, vorrei farti diverse cose e nessuna di queste sarebbe piacevole, credimi. Però Ulf ci tiene a te, a quanto pare, e Ulf è il mio migliore amico: quindi ti riporto da lui.»

Malgrado il tono sincero con cui l’uomo aveva pronunciato quelle parole, Lidia non riuscì a credergli. «E gli altri? Cosa diranno i tuoi compagni?»  chiese, guardinga. «Gli altri non sono qui» replicò Karl, allargando le braccia. «Sono solo, o quasi. Voi romani vi credete tanto furbi, ma non è un segreto che usate come rifugio la capanna in cui avete passato la notte. Da lì c’è una sola strada che un carro può percorrere per dirigersi verso sud: gli altri hanno preso delle scorciatoie per tagliare la strada ai soldati; e io e Rolf abbiamo proseguito a piedi lungo il sentiero che, immagino, hai percorso anche tu. Speravamo di trovarti… e ci è andata bene, a quanto pare.»

«E se non mi avessi trovata qui?» chiese Lidia, mentre il suo pensiero correva a Gaio, a Valerio e a quelle che poteva esser successo loro, se davvero i compagni di Karl erano riusciti a intercettarli. «E chi è Rolf?» aggiunse poi, lanciando un’occhiata nervosa tutt’intorno a sé. Se davvero l’uomo non era solo, dove si nascondeva la persona che l’aveva accompagnato fino a lì?

«Rolf lo conoscerai tra poco» replicò il germanico, in un tono che le fece accapponare la pelle. «E, per rispondere alla tua domanda, se non ti avessi trovata qui… be’, è probabile che non ti avrei trovata affatto, perché gli altri ti avrebbero trovata prima di me. Avrei detto a Ulf che avevo fatto il possibile per salvarti, ma che, purtroppo, non era comunque stato sufficiente.»

Davanti a quella spiegazione – pronunciata, se non si ingannava, con una punta di compiacimento – Lidia rivolse un’occhiata velenosa al cognato. E adesso magari dovrei anche ringraziarlo per essere venuto a salvarmi? Si chiese, scettica e indispettita.

Quando la ragazza rimase in silenzio qualche istante troppo a lungo, Karl riprese a parlare. «E adesso andiamo. Gli altri ci metteranno un po’ ad accorgersi che io e Rolf siamo spariti, ma è meglio non perdere tempo.» Così dicendo, l’uomo le afferrò saldamente un braccio e fece per trascinarla via dalla cascina abbandonata, ma Lidia oppose ancora resistenza. Le sarebbe piaciuto riuscire a fidarsi di lui, ma non poteva dimenticare l’aperta ostilità che il germanico le aveva dimostrato in tutte le occasioni in cui avevano avuto a che fare l’uno con l’altra. E, soprattutto, non posso andarmene senza dire niente a Tito, pensò la fanciulla, preoccupata. Se tornasse qui e non mi trovasse più, andrebbe sicuramente in panico! E non posso nemmeno abbandonarlo qui da solo, se davvero è successo qualcosa a Gaio e a Valerio!

«Aspetta» mormorò, cercando di divincolarsi dalla presa dell’uomo. Lui le lanciò un’occhiata seccata. «Cosa c’è, ancora?» La giovane romana deglutì. «Io non sono venuta qui da sola: mi ha accompagnata un mio amico.» Sul volto del germanico si disegnò un’espressione dapprima sorpresa e poi sospettosa. «Fammi indovinare», fece, sprezzante, «si tratta dello stesso tipo con cui ti ho pescata l’altro giorno?» Lidia storse il naso davanti al sottointeso che le parve di scorgere nelle parole dell’uomo. «Esatto» confermò, comunque. «È piuttosto insistente e non sono riuscita a convincerlo a lasciarmi a Erding. Però è un mio amico e non posso permettere che si preoccupi per niente. È andato a cercare i due soldati che ci hanno portati qui, ma presto sarà di ritorno e, se non mi trovasse…»

«Se è andato a cercare i due legionari, è probabile che non torni più indietro» la informò seccamente Karl, senza un briciolo di empatia.  Lidia sbiancò e il suo intimo rifiutò categoricamente ciò che Karl le stava lasciando intendere. «No, lui tornerà!» abbaiò, di riflesso. Per tutta risposta, l’uomo scosse le spalle. «Sì? Può essere, ma la cosa non ci riguarda. Noi ce ne andiamo adesso, senza aspettare che il tuo amichetto ritorni. Prima di tutto perché non voglio perdere tempo ad ascoltare i capricci di un ragazzetto romano e poi, soprattutto, perché voglio evitare che tornino i miei, di amici: già questa situazione mi lascerà nella merda fino al collo. Non ho alcuna intenzione di affrontarla da solo, in mezzo al nulla, di notte.»

Per un istante, la consapevolezza che Karl stesse sostanzialmente tradendo i suoi compagni per lei la colpì, ma Lidia allontanò velocemente quel pensiero e tornò a concentrarsi su una questione che le stava ben più a cuore. «Voglio aspettarlo lo stesso» replicò, cocciuta. Il germanico sospirò e la sua presa sul braccio della fanciulla si strinse fino ad arrivare a farle male.  «Tu vieni con me adesso» ribatté, con altrettanta fermezza. «Non me ne frega niente di quello che vuoi o non vuoi fare. Però puoi scegliere se seguirmi con le tue gambe o se farti portare in spalla fino al villaggio.»

Lidia fece per protestare ulteriormente, ma ormai le era chiaro che non avrebbe potuto averla vinta, contro Karl. Per una frazione di secondo – e per puro spirito di contraddizione – fu tentata di rispondere che, se avesse voluto portarla via da lì, avrebbe dovuto veramente caricarsela in spalla, ma poi il coraggio le mancò e la fanciulla abbassò mestamente gli occhi a terra. «Tu non ci vuoi proprio tornare da Ulf, vero?»

La domanda di Karl le fece alzare di scatto la testa. «Certo che ci voglio tornare!» replicò, senza la minima esitazione. «È da quando mi hanno costretta a lasciare il villaggio che sto pensando a come fare per tornare indietro. Però non mi sembra corretto lascare Tito così, senza dirgli niente… considerato tutto quello che ha dovuto fare per arrivare fino a qui per aiutarmi!» «Per aiutarti a fare cosa?» le chiese immediatamente il germanico. Lei si strinse nelle spalle. «Be’, lui era convinto di aiutarmi, presentandosi qui. In realtà, mi ha causato un sacco di guai, ma le intenzioni erano buone.»

«Con le buone intenzioni non si va da nessuna parte» le fece notare il germanico, pragmatico. «Se davvero vuoi tornare da tuo marito, allora sono io quello che ti sta aiutando, non il romano. Quindi dovresti fare come ti dico, invece di rendermi la vita più complicata del necessario.»

Lidia aprì la bocca, combattuta. «Ma io…» «Ma tu niente, romana» la interruppe subito Karl. «Smettila di fare storia, o finirai per farmi perdere definitivamente la pazienza.»

La ragazza si torse nervosamente le mani, in preda all’indecisione. Anche ammesso che suo cognato fosse sincero e non intendesse consegnarla alle persone che avevano ucciso Lucio, poteva davvero abbandonare Tito senza nemmeno una parola di commiato? Non che io abbia molta scelta, comunque, ragionò: per la seconda volta in poco più di due giorni, si ritrovava in completa balia degli eventi, costretta a sottostare al volere di un’altra persona come non le accadeva da tempo. Non posso certo mettermi a fare i capricci. Non servirebbe a niente e sarebbe pure piuttosto imbarazzante.

«Davvero vuoi riportarmi a Erding, da Ulf?» gli chiese, facendo del proprio meglio per guardarlo negli occhi. Karl sospirò di nuovo e allargò le braccia. «Sì, te l’ho detto. E intendo riportartici sana e salva: se ti succedesse qualcosa, Ulf ci starebbe male, e Unna… be’, di conseguenza, Unna renderebbe la mia vita un inferno.»

Karl la fissò, in attesa della sua reazione e, con l’animo appesantito dalla consapevolezza di essere ad un passo dal tradire la fiducia di Tito, Lidia annuì quasi impercettibilmente, arrendendosi e decidendo di fidarsi del germanico. «E va bene» concesse. «Andiamo.»

«Era ora!» esultò lui, lasciando improvvisamente la presa che aveva ancora sul braccio della ragazza. «Rolf, komm’er!» Allarmata da quel richiamo, la fanciulla si voltò rapidamente nella direzione in cui Karl stava guardando. Da dietro l’angolo della vecchia cascina, vide sbucare una piccola ombra scura che si muoveva rapida e leggera. Quando le fu abbastanza vicina, la giovane sobbalzò. «Ma è un bambino!» esclamò, stupita. Karl sogghignò. «Rolf, mio nipote!» lo presentò, con un certo orgoglio. Sentendosi chiamato in causa, il ragazzino alzò su di lei un volto dai lineamenti sorprendentemente simili a quelli dell’uomo che gli stava di fronte e poi le rivolse un piccolo sorriso timido, che lei ricambiò senza particolare convinzione. Si è portato un bambino, ‘sto disgraziato, pensò, fulminando Karl con lo sguardo. Da come ne parlava poco fa, mi immaginavo che si trattasse di qualcuno di decisamente più pericoloso.

«Non guardarmi così, romana» si difese Karl, che aveva evidentemente interpretato male lo sguardo della ragazza. «Ha già dodici anni, è ora che inizi a occuparsi delle cose da adulti.»

«Mh-mh» replicò distrattamente Lidia, che provava solo un blando interesse per il ragazzino. Karl la fissò ancora per qualche istante, poi scrollò le spalle. «Be’, diamoci una mossa, allora.» Sebbene si fosse ormai resa conto di non avere alternative, Lidia provò comunque una stretta al cuore al pensiero di lasciarsi alle spalle la cascina abbandonata. Ma Tito non è stupido, cercò di rincuorarsi. Saprà cavarsela. Proseguirà verso sud, oppure tornerà da Alexander… o magari riuscirà anche a trovare Gaio e Valerio, checché ne dica Karl!

Mentre era persa in quei pensieri, i due germanici si erano allontanati di qualche metro e, resisi conto che lei non si era ancora allontanata dalla cascina, si erano fermati ad aspettarla. Muovendosi in fretta nel vano tentativo di mettere a tacere i sensi di colpa che già le mordevano lo stomaco, Lidia si affrettò a raggiungerli.

***

La luce pallida di un’alba serena stava ormai iniziando a filtrare tra il fogliame fitto del bosco e Lidia si passò una mano sulla fronte sudata, inspirando a fondo e alzando gli occhi al cielo nel tentativo di riprendere fiato. Anche se non poteva vederlo, era sicura che il sole non avesse ancora fatto capolino dalle montagne: e allora perché quella maledetta foresta era così calda?

Il sottobosco era pervaso da un’umidità tiepida e appiccicosa che poco si addiceva a quell’ora della mattina – cosa saranno? Le sei? Le sette? – e la giovane romana iniziava a sentire una sensazione di insofferenza ribollirle nel petto. Se non mi permette di riposarmi almeno un pochino, giuro che urlo! Pensò, lanciando un’occhiata carica d’astio alla schiena robusta di Karl e alla figura esile di suo nipote, che si muoveva tra tronchi e massi con la stessa agilità disinvolta di un capretto.

Era ormai da qualche tempo che Lidia era riuscita a lasciarsi alle spalle – almeno per il momento – la bruciante consapevolezza di aver tradito la fiducia di Tito, accettando tutto sommato di buon grado di seguire Karl. Del resto, l’aver scoperto che il cognato sembrava veramente intenzionato a riportarla a Erding era stato un bel sollievo e la fanciulla iniziava a pregustare il momento in cui avrebbe messo piede di nuovo nella casa che condivideva con Ulf.

Certo, ho paura che il nostro incontro non sarà dei più spensierati, ma quello che va fatto, va fatto: ci sono così tante cose di cui dobbiamo parlare! Lidia aveva maturato la convinzione che, una volta espletato quel passaggio tanto sgradevole, quanto necessario, le cose tra lei e suo marito avrebbero preso una piega decisamente più favorevole. Ho gestito malissimo questa storia, lo riconosco: ma, sicuramente, quando ce la saremo lasciata alle spalle, avremo imparato a fidarci di più l’uno dell’altra. Forse è vero, che non tutto il male viene per nuocere!

Mentre si intratteneva in quei pensieri – e metteva a tacere la subdola vocina del suo inconscio che le sussurrava che, più che di pensieri razionali, si trattava di illusioni – Lidia era diventata via via più consapevole dello scorrere del tempo. Quando era partito per fare ciò che Donna Erin gli aveva chiesto, Ulf le aveva detto che sarebbe stato via tre giorni: il che significa che tornerà oggi!

Anche se, a conti fatti, c’era ben poco che potesse fare per prepararsi all’inevitabile confronto con il marito, Lidia sperava di riuscire a essere a casa prima che lui vi facesse ritorno. Voleva avere il tempo per riordinare le idee nella quiete della sua abitazione e, soprattutto, voleva evitare che il giovane non la trovasse, quando sarebbe rientrato. Chi avrebbe potuto dire cosa avrebbe pensato, se avesse trovato la casa vuota? Non vorrei mai che credesse che sia scappata… magari con Tito!

Tuttavia, anche se quel pensiero le faceva tremare i polsi, la ragazza sentiva di avere il bisogno fisico di una pausa. Se non mi siedo, svengo! Pensò, portandosi le mani sulle reni e inarcando la schiena nel tentativo di alleviare la pressione che vi si stava accumulando. Come aveva già avuto modo di notare quella notte, gli stivaletti che indossava erano assolutamente inadatti per camminare su un sentiero ricoperto di fanghiglia e il clima umido faceva sì che la gonna, forse un po’ troppo lunga e pesante, le si appiccicasse fastidiosamente agli stinchi. E ci sono pure le zanzare! Pensò, esasperata, tirandosi una manata sul braccio ed eliminando uno di quegli insetti molesti un istante prima che quello affondasse la proboscide nella sua carne.

«Datti una mossa! Ci stai rallentando!» La voce secca di Karl la fece sobbalzare e Lidia alzò gli occhi al cielo. Ecco, parlando appunto di cose moleste…

«Sono stanca!» ribatté, per tutta risposta. «Non potremmo fermarci un attimo?» Sentendola parlare, Rolf, che sembrava capire molto poco il latino, trotterellò verso di lei, chinando il capo di lato come per chiederle se avesse bisogno di aiuto. Lidia, però, ignorò il ragazzino e continuò a puntare gli occhi su Karl. «Non ce la faccio più!» si lamentò ancora, rincarando la dose.

«Non fare la lagna, romana!» sbottò l’uomo, sprezzante. «Già così ci metteremo un secolo, ad arrivare al villaggio: se ci fermiamo ogni volta che tu dici di essere stanca, ci vorrà una settimana!»

Lidia sgranò gli occhi, colta improvvisamente da un sospetto. «Non avrai mica intenzione di farla tutta a piedi, vero?» Anche se il germanico era a parecchi metri di distanza da lei, la fanciulla udì chiaramente il suo sbuffò di disprezzo. «Ovviamente no: faccio conto di trovare un carro, prima o poi. Dobbiamo però camminare ancora per qualche ora e non possiamo permetterci ritardi.»

«E dove pensi di trovarlo, il carro?» chiese ancora lei, avvicinandosi di un paio di passi. Karl scrollò le spalle. «Fatti miei. Su, muoviti!»

Con quelle poche parole, l’uomo le voltò la schiena e riprese a camminare, tornando a ignorarla completamente. Lidia fu tentata di rivolgergli un gesto osceno – una pratica a cui si abbandonava assai di rado – e furono solo i grandi occhi grigi di Rolf, fissi su di lei, a fermarla. La giovane rivolse un sorrisetto di circostanza al ragazzino e riprese a camminare, maledicendo mentalmente il cognato.

Anche se Karl non si era certamente preso il disturbo di illustrarle nel dettaglio il suo piano per riportarla a Eding, Lidia era riuscita a farsi dare qualche informazione a proposito del percorso che avrebbero seguito per fare ritorno al villaggio. Se la strada che lei e Tito avevano percorso quella notte era la più rapida e semplice, se si poteva contare sull’appoggio di un carro, quella su cui Karl l’aveva condotta si snodava sul lato destro del fiume ed era decisamente meno agevole dell’altra. Lo stretto viottolo di terra battuta a tratti pareva più la traccia lasciata da un qualche animale che non l’opera dell’uomo e, soprattutto, era intervallata da diversi lastroni di granito scuro, lisci e resi sdrucciolevoli dalla rugiada scesa durante la notte. Più di una volta, Lidia aveva rischiato di scivolare e in un’occasione il piede destro le era slittato di lato, facendole sbattere malamente l’interno del ginocchio contro la roccia dura.

Mi fa anche male, e di certo il fatto di continuare a camminarci sopra non aiuta, pensò la fanciulla, chinandosi appena per toccare la parte offesa. Come già aveva avuto modo di constatare, bastava la semplice pressione delle dita di una mano per far partire due scariche dolorose che si diramavano in contemporanea in direzione della caviglia e dell’anca destra. Spero che non si gonfi troppo, altrimenti camminare potrebbe diventare un problema serio! Pensò la ragazza, con una smorfia preoccupata.

Quando era scivolata, Karl si era limitato a redarguirla, dicendole di stare attenta e di non costringerlo a venirla a ripescare nel fiume che scorreva qualche decina di metri più in basso. Anche se la freddezza e la maleducazione dell’uomo non avrebbero dovuto sorprenderla, quella risposta così indisponente l’aveva mortificata e la ragazza non aveva più avuto il coraggio di lamentarsi ulteriormente del suo ginocchio dolorante.

Ma adesso inizia a diventare veramente un problema, pensò, scavalcando cautamente il tronco di un vecchio abete che si era schiantato sul sentiero, ostruendo il passaggio. Il movimento le causò una nuova fitta di dolore e la sua smorfia non sfuggì a Rolf, che le sfiorò una spalla. «Was isch los?» le chiese il ragazzino, scrutandola da capo a piedi alla ricerca di qualcosa di palesemente fuori posto. «Niente… ds Knöi» mugugnò lei, sforzandosi di usare quel poco che aveva appreso della lingua locale a favore del bambino.

«Ach» replicò lui, annuendo con fare comprensivo. «Bruchst du Hilfe?» Quando Lidia continuò a guardarlo senza cambiare espressione, Rolf le si avvicinò ulteriormente, passandole un braccio attorno alla vita e invitandola ad appoggiarsi alle sue spalle strette. Nel sentire il corpo ossuto del ragazzino, apparentemente tanto fragile e del tutto inadatto a sostenerla, la giovane provò un moto di tenerezza nei suoi confronti. «Näi, warte mal… non ce la fai. Non possiamo camminare così» protestò, cerando di allontanarsi da lui senza tuttavia offenderlo. Il ragazzo però la guardò con le sopracciglia aggrottate e Lidia sospirò, scoraggiata. Questo poveretto non ha capito una parola di quello che ho detto e io non sono in grado di esprimermi nel suo dialetto… Di nuovo, la fanciulla cercò con lo sguardo Karl, ma l’uomo sembrava essere stato inghiottito dalla vegetazione e di lui non vi era più alcuna traccia. E, naturalmente, quello là ben si guarda dal darci una mano. È andato avanti, il disgraziato!

Stringendosi nelle spalle e alzando gli occhi al cielo, Lidia rivolse un cenno del capo al suo aiutante improvvisato. «Andiamo, va’» sospirò, osando appoggiarsi un po’ di più a lui e accettando il sostegno che il ragazzino aveva deciso di offrirle. Almeno lui è educato: non come quel caprone là davanti!

Un’eternità più tardi, Lidia afferrò con una mano un ramo di nocciolo e lo usò per issarsi al di là dell’ennesimo gradino, approdando finalmente su quella che aveva tutta l’aria di essere una strada carrabile. Rolf, al suo fianco, alzò su di lei il viso arrossato dalla fatica e la giovane comprese che il ragazzino doveva essere sfinito almeno quanto lei. Poverino, devo averlo distrutto!

Diverse ciocche di capelli scuri erano scivolate via dalla treccia in cui le aveva costrette e ora le sfioravano fastidiosamente le guance e la fronte, appiccicandosi alla sua pelle sudata. Lidia le ricacciò dietro alle proprie orecchie con un gesto stizzito, prima di volgere lo sguardo attorno a sé. Erano finalmente riemersi dalla parte più fitta del bosco e, anche se il fatto di aver seguito una strada diversa rispetto a quella che aveva percorso all’andata l’aveva disorientata, grazie alle montagne che scorgeva in lontananza la fanciulla vide che si erano avvicinati sensibilmente al punto in cui lei e Tito si erano separati da Gaio e Valerio, la notte prima. Il sole era ormai ben alto nel cielo e Lidia si sentì stranamente vulnerabile, non più protetta dallo scudo del fogliame e immersa nell’atmosfera immobile della mattina estiva.

Karl era fermo una decina di metri più avanti e, seduto su un sasso al margine della strada, li stava aspettando osservando il panorama davanti a sé. Non appena avvertì la loro presenza, si voltò a guardarli, puntando su di loro i suoi freddi occhi grigi. «Vi eravate persi o cosa?»

Anche se aveva parlato al plurale, Lidia non aveva dubbi che la critica fosse rivolta a lei, dal momento che Rolf di certo non aveva nemmeno capito quello che aveva detto. «Non ci siamo persi» replicò, secca. «Però mi fa male un ginocchio e non riesco a camminare in fretta. Anzi, se va avanti così, mi sa proprio che tra poco non riuscirò a camminare affatto: mi pare che si stia anche gonfiando.»

L’uomo alzò gli occhi al cielo e sbuffò qualcosa che la giovane romana non riuscì a cogliere, ma che aveva tutta l’aria di essere un’imprecazione. Stiracchiandosi, Karl si rimise in piedi e poi le si avvicinò, mormorando qualcosa che ebbe l’effetto di far sorridere Rolf. Prima che la ragazza avesse il tempo di prevedere le sue mosse, il germanico le si inginocchiò davanti e, con una mano, prese l’orlo della sua gonna. «Fa vedere» disse. Afferrandole saldamente il polpaccio con l’altra mano, il germanico sollevò la stoffa quel tanto che bastava per mettere a nudo il ginocchio della fanciulla. Immediatamente, Lidia strillò, mentre il cuore le balzava in gola. «Cosa stai facendo?» chiese, con la voce strozzata.

Karl alzò lentamente lo sguardo sul di lei, gli occhi carichi di sarcasmo. «Sto controllando se il ginocchio si sta gonfiando» replicò, con lo stesso tono che avrebbe usato per rivolgersi a una bambina non particolarmente sveglia. «Cos’altro pensavi che stessi facendo, razza di cretina?»

Lidia ammutolì, avvilita e con le guance in fiamme. Fantastico. Proprio una bella figura da deficiente, ho fatto. L’umiliazione le seccò la gola – il suo era stato un riflesso spontaneo, non aveva mai creduto che Karl potesse avere intenzioni anche solo vagamente amichevoli nei suoi confronti – ma, fortunatamente, il germanico si rialzò in piedi ancor prima che lei trovasse il modo di parlare e di dire qualcosa che, con ogni probabilità, avrebbe peggiorato ulteriormente la situazione.

L’uomo la guardò in silenzio per qualche istante, poi scosse il capo, come se non riuscisse a capacitarsi della sua idiozia. «Lasciamo perdere» decise, poi. «Comunque, a quanto pare hai ragione: non ha un bell’aspetto. Fa molto male?»

Sorpresa da quel repentino cambio di argomento, la ragazza rimase a bocca aperta per qualche secondo, poi si affrettò ad annuire. «Sì, fa male» confermò. Poi, temendo di fare la figura della buona a nulla, rettificò un poco il tiro: «Cioè, non è proprio un male insopportabile, ma, se lo carico, mi pare che mi ceda la gamba. Sento come delle scosse che salgono fino all’anca e mi pulsa un po’. Non so se ce la faccio, a camminare…»

«Merda» imprecò l’uomo, stringendo le labbra in una piega dura. «Ma quand’è che ti sei fatta male? Quando sei scivolata e hai rischiato di cadere nel fiume?» In silenzio, Lidia annuì, e Karl mosse le mani in un gesto di frustrazione. «Ma è stato un sacco di tempo fa! Avresti dovuto dirlo, che non riuscivi a camminare!»

Davanti a quel rimprovero, la ragazza raddrizzò la schiena, offesa. «Ma io te l’ho detto, che mi faceva male! Sei tu che mi hai ignorato e hai tirato dritto!» Lui aggrottò la fronte, avvicinandosi di nuovo a lei. «Avresti dovuto essere più chiara» insistette.

La giovane si strinse nelle spalle e indicò Rolf con un cenno del capo. «Be’, lui se ne è accorto e mi ha anche aiutato. Forse, se tu mi avesti prestato un po’ più di attenzione, invece di camminare cinquanta metri più avanti…» Il ragazzino, che doveva aver seguito almeno a grandi linee quello che si erano detti, annuì. «Ic han si geholfen» confermò, rivolgendole un’occhiata fiera.

Karl lo guardò di sbieco, poi volse loro la schiena e si avvicinò verso il bordo della strada, dove gli alberi dai quali erano appena emersi si aprivano e lasciavano intravvedere uno scorcio della valle circostante. «Siamo in ritardo» borbottò tra sé e sé. Zoppicando leggermente – stranamente, la breve sosta sembrava aver fatto precipitare le condizioni del suo ginocchio – Lidia gli si avvicinò. «In ritardo per che cosa?»

«In ritardo sulla nostra tabella di marcia» ribatté Karl. «È già mezzogiorno: non saremo mai a Erding prima di sera. Il che significa che le possibilità di finire nei guai con Unna e Ulf aumentano a dismisura. In più, non siamo abbastanza lontani dal luogo in cui abbiamo lasciato gli altri: rischiamo di venire raggiunti.»

Quella prospettiva fece accelerare i battiti del cuore di Lidia e la ragazza fu quasi tentata di prendere la mano di Karl tra le sue, alla ricerca di un contatto umano e di un poco di stabilità. «E allora cosa facciamo?» chiese ancora, sentendosi smarrita con una bambina. L’uomo sospirò. «Non abbiamo altra scelta che cercare di trovare un carro. Avrei voluto farlo un po’ più in là, dove sarebbe stato più facile, ma, viste le tue condizioni, perderemmo ore preziose. E, soprattutto, non ho alcuna voglia di portarti in spalla: come minimo, penseresti che voglia molestarti.»

Per la seconda volta nel giro di pochi minuti, Lidia si sentì arrossire. «Ma vai all’Inferno» borbottò, abbassando lo sguardo a terra. «Prima mi hai colto di sorpresa, tutto qui.»

«Mh-mh» annuì Karl, con negli occhi un luccichio che lo fece sembrare più giovane della sua età. «Basta chiacchiere, comunque. Tu e Rolf salite sopra al sentiero e cercate un posto dove sedervi: io vedrò di recuperare un carro e poi verrò a riprendervi.» Subito dopo, il germanico ripeté le istruzioni nel suo dialetto e Rolf si incamminò immediatamente nella direzione che gli era stata indicata, arrampicandosi tra la vegetazione bassa che ricopriva la scarpata a monte della strada.

Davanti alla prospettiva di quella nuova separazione, Lidia esitò brevemente. «E se non dovessi tornare?» chiese, inclinando un poco il capo. Karl scoppiò a ridere. «Sei gentile a preoccuparti, ma non temere: io non sono come il tuo fidanzatino romano. Io tornerò di sicuro, e anche in fretta!»

Lei incrociò le braccia davanti al petto, irritata dall’atteggiamento dell’uomo. «Punto primo, Tito non è il mio fidanzatino, come credo di averti detto più e più volte. Punto secondo, non ero preoccupata per te, ma per me stessa: cosa accidenti dovrei farci, da sola e in mezzo a una foresta?»

L’uomo le rivolse un sorriso sghembo. «Se non torno, significa che sono morto: a quel punto, francamente, non me ne potrebbe fregare di meno, di quello che succede a te. Rolf se la sa cavare. Tu puoi anche marcire sotto un pino, per quanto mi riguarda.»

Lidia boccheggiò a vuoto, sconcertata dalla mancanza di tatto del cognato. «Ma… ma…» Davanti alla faccia divertita dell’uomo, la ragazza girò bruscamente sui tacchi. «Ma cosa ci parlo a fare, con te?»

Così dicendo, marciò, zoppicando, verso il punto in cui si era diretto Rolf, ignorando la risata che le giunse alle orecchie.

***

Contrariamente alle sue previsioni, Karl fu di parola e fece ritorno molto prima di quanto si sarebbe aspettata. Mentre stava mangiando un panino al formaggio che Rolf aveva fatto magicamente comparire dalla piccola bisaccia che portava a tracolla, Lidia udì l’inconfondibile rumore degli zoccoli di un cavallo sulla strada sterrata e immediatamente ingoiò un boccone più grosso del consueto, ritrovandosi a tossire rumorosamente.

«Cerca di non soffocare, romana!»

Anche se, nascosta com’era dalla vegetazione, non riusciva ad avere una visione chiara di quello che stava succedendo sulla strada, la voce di Karl era inconfondibile e la ragazza si affrettò ad alzarsi in piedi, seguita a ruota da Rolf. «Hai fatto in fretta» disse, avvicinandosi al carro trainato da un cavallo baio che sembrava aver passato giorni migliori. L’uomo si strinse nelle spalle. «Ovvio: ci pensi già tu, a farci perdere tempo.»

Arricciando il naso davanti all’ennesima provocazione, Lidia permise a Rolf di aiutarla a salire a bordo, poi, dopo essersi seduta scomodamente sul pianale, si rivolse a Karl. «Dove hai trovato carro e cavallo, comunque?» indagò, soprassedendo sulla frecciatina dell’uomo. Quello si voltò appena nella sua direzione, senza lasciare le redini. «Diciamo che li ho presi in prestito?»

La fanciulla sgranò gli occhi. «Li hai rubati?» chiese, allibita dalla naturalezza con cui il cognato aveva ammesso quel fatto. Karl scrollò le spalle. «Be’, non vederla come una cosa definitiva. Prima o poi potrei sempre riconsegnarli allo sprovveduto che li ha lasciati in mezzo a un campo senza alcuna sorveglianza…»

Lidia scosse lentamente la testa. «Ma sei matto? E se il loro proprietario avvertisse qualcuno? Se desse l’allarme? Mi sembra che abbiamo già abbastanza gente sulle nostre tracce, non vedo davvero nessun motivo per aggiungerne dell’altra…»

Sbuffando, Karl si girò fino a incontrare i suoi occhi. «Siamo praticamente in mezzo al nulla: prima che riesca a trovare qualcuno da avvertire, noi saremo ben lontani. Ammesso che non ci siano altri imprevisti, ovviamente.» Lidia serrò i denti, contrariata dalla rapidità con cui Karl stava liquidando l’argomento. Anche se non le piaceva il fatto che l’uomo l’avesse praticamente resa complice di un furto, capiva che la situazione in cui si trovavano non lasciava loro molto margine di manovra.

Va be’, non pensiamoci, si disse, incrociando le gambe e deglutendo nel tentativo di cacciare il retrogusto amaro che sentiva in bocca. Ultimamente, sto collezionando un sacco di cose a cui è meglio non pensare.

Mente Karl li guidava lungo la strada che li avrebbe riportati a Erding, Lidia fece del proprio meglio per rilassarsi e schiarirsi le idee a proposito di quello che avrebbe dovuto dire e fare una volta ritornata al villaggio, ma i suoi nervi tesi non glielo permisero. La via che stavano percorrendo sembrava scarsamente frequentata e le poche persone che avevano incrociato fino a quel momento – a piedi, a cavallo o a bordo di un carretto simile al loro – non avevano prestato loro alcuna attenzione. Ciononostante, Lidia si ritrovava a trattenere il fiato ogni volta che qualcuno, germanico o romano che fosse, passava loro accanto, temendo che tra quelli sconosciuti si celassero i loro inseguitori o, magari, i proprietari del cavallo e del carro che suo cognato aveva rubato con tanta leggerezza.

I suoi accompagnatori non sembravano condividere le sue preoccupazioni: Karl reggeva mollemente le redini e, semisdraiato sul sedile di legno, conduceva il cavallo pigramente, con gli occhi socchiusi e con l’aria di chi stava facendo una scampagnata innocente. Rolf, invece, aveva estratto dalla bisaccia un coltellino dalla lama corta e sottile e un blocchetto di legno e aveva preso a incidervi una figura che la ragazza non riusciva a riconoscere. Potrebbe essere un gufo, meditò, sbirciando con la coda dell’occhio la strana cosa piena di bozzi che stava prendendo forma tra le mani del ragazzino. Oppure un orso. O anche un maialino.

Improvvisamente, dopo una curva, il giovane germanico abbandonò ciò che stava facendo e, in ginocchio, raggiunse la sponda del carro opposta a quella a cui Lidia era appoggiata. Che cosa starà guardando? Si chiese la fanciulla, incuriosita dalle sue azioni. Quasi le avesse letto nel pensiero, Rolf si voltò verso di lei, gesticolando. «Schau» disse. «Ds Blauestau!»

Confusa, Lidia si mosse nella sua direzione, stringendo i denti quando il ginocchio destro le ricordò la sua presenza facendo partire una serie di scosse dolorose. Era già da qualche tempo che la strada aveva preso a salire dolcemente, emergendo dal folto del bosco e proseguendo in una zona in cui gli alberi crescevano più radi. Se sulla destra della strada correva un costone di roccia chiara, sulla sinistra la visuale era più libera e la giovane ebbe modo di vedere ciò che, ore prima, l’oscurità e la situazione concitata le avevano nascoste. In quel punto del percorso, dove la roccia pareva più morbida e friabile rispetto al resto del territorio, nel corso di milioni di anni il modesto torrente che avevano incrociato più e più volte lungo la via aveva scavato un canyon profondo. Davanti agli occhi della fanciulla si estendeva ora un abisso calcareo sul cui fondo scintillava, chiaro e trasparente come uno zaffiro, il fiume, che, in quel punto, si allargava e si faceva più placido, formando delle pozze luminose e, in un certo senso, invitanti.

«Non l’avevo notato, prima» mormorò Lidia, attirando su di sé lo sguardo beffardo di Karl. «Guardi il panorama, romana?»

Irritata dal tono in cui era stata posta quella domanda, la ragazza distolse lo sguardo dallo scintillio dell’acqua in fondo alla gola e si voltò per fronteggiare il cognato. «Sì: non dovrei?» Il germanico sollevò una spalla, continuando a sorridere. «No, no, anzi: goditi il viaggio. Rilassati, fin che puoi: quando arriveremo a Erding, avrai un bel po’ di cose da spiegare a Ulf.»

Quell’inaspettato riferimento a suo marito ebbe l’effetto immediato di fare esplodere la bolla in cui Lidia si era rifugiata, mettendola bruscamente di fronte a tutte le questioni irrisolte che aveva cercato di accantonare nelle ultime ore. Malgrado fosse impaziente di riabbracciare Ulf, ora che il momento della resa dei conti si era fatto drammaticamente vicino la ragazza si sentiva pervadere dall’ansia. «Lo so» mormorò, con la voce che tremava leggermente. «Spero solo che mi dia la possibilità di parlare, senza partire subito in quarta con le accuse…»

Karl emise un suono che era una via di mezzo tra una risata e un’esclamazione di sdegno. «Non ti pare di chiedere un po’ troppo?» fece, mentre i suoi occhi assumevano un’espressione più fredda e dura, più simile a quella che l’uomo aveva sfoggiato in tutte le occasioni in cui l’aveva incontrato al villaggio. Genuinamente confusa da quella domanda, Lidia aggrottò la fronte. «Be’, no. Mi pare che sia un mio diritto, quello di poter spiegare come sono andate veramente le cose.»

L’uomo scosse la testa. «Puoi spiegare tutto quello che ti pare, ma la sostanza non cambia: tu l’hai tradito.»

Sotto sotto, Lidia era sempre stata consapevole che, tolti tutti i fronzoli e le giustificazioni del caso, la verità era quella enunciata da Karl: il fatto di vedersela presentata in maniera tanto brutale, però, la fece avvampare, mentre la vergogna le mozzava il fiato. «Lo so» esalò, alzando gli occhi sul cognato nell’istintiva ricerca di un appoggio. Quello che lesse sul suo volto, però, la fece trasalire. «No, aspetta un attimo!» sbottò, rianimandosi di colpo. «Io non l’ho tradito!»

Sorpreso da quel brusco voltafaccia, il germanico distolse gli occhi dalla strada e si concentrò completamente sulla giovane cognata. «Ma se hai appena ammesso…» «Di aver tradito la sua fiducia!» lo interruppe immediatamente Lidia, calcando l’accento sull’ultima parola. «Di avergli nascosto la presenza di Tito, quelli che erano stati i nostri piani: tutto qui! Io non l’ho mai tradito con Tito!»

Karl le rivolse uno sguardo scettico e Lidia sentì il sangue defluirle dalle guance. «Ulf pensa che io… che tra me e Tito ci sia stato qualcosa, da quando è arrivato in Germanica?» Distogliendo lo sguardo dal suo, l’uomo si strinse nelle spalle. «È probabile» disse, a mezza voce.

Ah. Allora è quello che pensa lui, non quello che pensa Ulf, comprese, mentre un piccolo sorriso sollevato le si disegnava sulle labbra. «Be’, non è così… e, francamente, non credo proprio che Ulf abbia dei dubbi a proposito di quello che provo per lui» riprese la fanciulla, senza riuscire a evitare che nella sua voce si intrufolasse una nota vagamente compiaciuta.

Per tutta risposta, Karl fece schioccare la lingua. «Guarda, te lo dico sinceramente: come vadano le cose tra te e tuo marito non sono affari miei» riprese, tagliente. «Però, se credi che lui si fidi ciecamente di te, ti sbagli di grosso. Il fatto che di punto in bianco sia comparso a Erding il tuo amichetto, poi, non migliora affatto la situazione.»

«È da parecchio tempo che sto cercando il momento giusto per parlargli di Tito» si difese Lidia, interrompendolo. «Però, non ho mai trovato il momento…» «… e comunque», continuò Karl, ignorando completamente ciò che la ragazza stava dicendo, «non gliel’hai nemmeno mai data. Come pensi che la interpreti, ‘sta cosa?»

Lidia strillò, oltraggiata. «Ma come parli! Il tuo nipotino!»

Karl scoppiò in una risata breve e secca, lanciando un’occhiata al ragazzino che aveva ripreso ad armeggiare con il suo coltellino. «Il ragazzo non capisce una parola di quello che stiamo dicendo» spiegò, come se quel fatto gli consentisse di adattare un linguaggio scurrile. «Non fa niente» abbaiò lei. «Non devi… non devi permetterti di impicciarti di certe faccende! E comunque tu non ne sai niente! E hai ragione: la cosa non ti riguarda!»

«Su questo siamo d’accordo» commentò Karl, serafico, tornando a concentrarsi sulla strada. Evidentemente, l’imbarazzo della fanciulla aveva avuto l’effetto di dissipare il malumore che, per un istante, aveva rischiato di prendere il sopravvento su di lui quando si erano trovati a discutere della supposta infedeltà di Lidia.

Basta poco, per farlo felice, pensò la ragazza, velenosa, con le orecchie in fiamme e il respiro reso affannoso dall’indignazione. Con che coraggio viene a chiedermi conto di quello che faccio e non faccio con Ulf. E anche lui, comunque! Poteva anche evitare di metterlo al corrente di quel… particolare!

Il fatto che Karl avesse avuto l’ultima parola l’aveva lasciata con l’amaro in bocca e Lidia tossicchiò, prima di tornare all’attacco. «Se vogliamo essere precisi, comunque», riprese, sporgendosi un po’ verso il cognato, «io non sono l’unica che dovrà affrontare conseguenze sgradevoli, quando torneremo a casa.»

L’uomo la guardò con la coda dell’occhio. «Di cosa stai parlando?»

«Anche tu hai tradito la fiducia dei tuoi compagni, venendo a recuperare me e decidendo di riportarmi al villaggio: come credi che la prenderanno?»  Anche se Karl non si voltò a guardarla, la fanciulla vide l’ombra scura che passò sul suo volto. «Non la prenderanno bene, immagino» replicò lui. «Ma non ha importanza: noi ci resteremo molto poco, a Erding.»

Nell’udire quelle parole, Lidia si illuminò. «Oh! Allora Unna è riuscita a convincerti a partire!» Le spalle di Karl furono scosse da una risata silenziosa. «Ovviamente sì: non è una a cui si possa dire di no facilmente. E comunque credo che sia la scelta migliore: vorrei che il bambino nascesse in un ambiente un po’ più tranquillo e sicuro.»

«Quindi ti sta bene andare via? Non so perché, ma mi immaginavo che avresti protestato di più» ammise Lidia. Karl stirò le labbra in una linea amara. «Non ho detto che mi sta bene. Anzi, il pensiero di dover lasciare tutto quello per cui ho sempre lavorato e di regalarlo ai romani mi fa semplicemente incazzare: ma immagino che ci saranno cosa più importanti a cui pensare, d’ora in poi.»

Lidia annuì, pensierosa, cercando di mettere a fuoco quella nuova versione di Karl che aveva sotto gli occhi. Chissà com’è, in famiglia, si chiese. Chissà che tipo di padre potrà essere. Prima che avesse modo di trovare risposta a quegli interrogativi, il germanico si irrigidì e, improvvisamente, fermò il cavallo.

«Che cosa succede?» chiese Lidia, con i sensi immediatamente all’erta. Dopo una brevissima esitazione, Karl si voltò verso di lei. «Sdraiati sul pianale e copriti con quella coperta» le ordinò. Rolf, pur senza comprendere una parola di latino, aveva abbandonato il suo passatempo e aveva preso tra le mani una vecchia tela di juta polverosa che la fanciulla non aveva nemmeno notato.

«Che cosa c’è?» chiese di nuovo la ragazza, con il cuore in gola.

Karl alzò un dito in aria, come per invitarla ad ascoltare. Qualche istante più tardi, Lidia represse un gemito. Nell’aria era ora chiaramente avvertibile il tipico borbottio prodotto da un carro automatico. E le persone che potevano permettersi un carro automatico, da quelle parti, erano davvero poche.

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Capitolo 32
*** 31. Verso casa ***


La ragazza guardò il misero straccio che Rolf le stava porgendo. Ammesso che ci fosse veramente la necessità di nascondersi dalle persone che si stavano avvicinando, giungendo dalla direzione opposta alla loro, quel telo sarebbe stata una protezione sufficiente?

Secondo me, finirò soltanto per dare nell’occhio e attirare ancora di più l’attenzione.

«Muoviti!» l’apostrofò Karl, con una nota di urgenza nella voce. Non vedendo alternative, Lidia si sdraiò sul pianale del carro e Rolf drappeggiò sopra di lei il telo di juta. Immediatamente, un odore denso e penetrante, di polvere e di fibre, le invase i polmoni, e la fanciulla dovette combattere contro l’impulso di tossire rumorosamente. «Mi vedranno comunque» si lamentò, con la voce soffocata dal tessuto pesante.

«È sempre meglio di niente» replicò Karl. «Tu stai ferma… così abbiamo la speranza che ti scambino per un sacco di patate o qualcosa del genere!»

Che idea cretina, pensò Lidia, stringendo i denti e costringendosi a rimanere immobile. Non sarebbe forse stato meglio restare in piena vista e ostentare indifferenza? Tanto dubito che, chiunque ci sia su quel carro automatico, mi conosca così bene da riconoscermi a colpo d’occhio. Al massimo me la sarei potuta mettere in testa, questa coperta…

Appoggiando una guancia contro il legno ruvido e cercando di assorbire le vibrazioni e i sobbalzi del carretto come meglio poteva, la giovane romana rimase in ascolto, mentre il borbottio del carro automatico si avvicinava sempre di più. Saranno dei legionari, rifletté ancora la ragazza. Chi altro potrebbe permettersi una macchina del genere? Possibile che qualcuno mi stia già cercando? Che il Prefetto abbia scoperto che qualcosa è andato storto e abbia mandato i rinforzi?

Lidia pregò ardentemente che le cose non stessero così: se avessero incrociato gli uomini di Caleno e quelli l’avessero riconosciuta, era alquanto probabile che l’avrebbero costretta a invertire ancora una volta la rotta e a dirigersi nuovamente verso Roma. Cosa che non ho assolutamente intenzione di fare: non adesso che sono coì vicina a tornare da Ulf!

Con un improvviso barlume di speranza, Lidia si chiese se vi fosse qualche possibilità che anche il Legato Libo fosse venuto a conoscenza della sua partenza forzata e, deciso a opporsi alle disposizioni di Caleno, avesse mandato qualcuno a recuperarla. Sarebbe davvero perfetto! Così potrei tornare a Erding molto più in fretta… e non sarei nemmeno costretta a viaggiare con Karl!

Anche se non aveva modo di vedere alcun ché, quando i sobbalzi del carro si fecero meno bruschi, Lidia comprese che Karl si stava fermando. Perché ti fermi? Gli chiese in silenzio, premendo i polpastrelli sul pianale del carro fino a quando non sentì le unghie penetrare leggermente nel legno. Vai avanti, fai finta di niente…

Come obbedendo al suo ordine silenzioso, Karl piegò lievemente verso destra, forse per permettere a chiunque ci fosse davanti a loro di passare.

«Buongiorno.»

Quel saluto improvviso – che non era stato pronunciato da Karl – la fece sussultare. Dove aveva già sentito quello strano accento strascicato? Nel momento stesso in cui si poneva la domanda, Lidia trovava la risposta. Alexander! Comprese sgomenta, con il cuore in gola. Subito si ricordò ciò che Gaio le aveva detto la sera prima: il germanico aveva promesso di recuperare da qualche parte un carro automatico, che però non era arrivato in tempo per la loro partenza. Evidentemente gliel’hanno fatto avere durante la notte! Ma perché è in giro? Cosa sta facendo?

Karl rispose al saluto dell’uomo con una sorta di grugnito poco amichevole. La fanciulla sperò che l’ostilità del suo accompagnatore fosse sufficiente per scoraggiare Alexander, ma, per suo sommo orrore, il borbottio del motore del carro automatico cessò, indice che l’uomo aveva spento la macchina.

«Non riesco a passare» ringhiò Karl, in un tono che a Lidia non piacque affatto. «Spostatevi un po’ a sinistra.»

La ragazza dovette compiere un notevole sforzo di volontà per impedirsi di mettersi a sedere e vedere con i propri occhi quello che stava succedendo. “Spostatevi”? Si disse. Perché parla al plurale? Alexander non è solo?

«Certamente» replicò educatamente l’uomo dai capelli rossi. «Vieni da sud?» Karl attese qualche istante, prima di rispondere, e Lidia si chiese se anche lui, come lei, avesse intravisto una trappola in quella domanda apparentemente innocente. «Mi pare ovvio» sbottò poi il germanico.

«In questo caso», riprese Alexander, «forse ci puoi aiutare. Stiamo cercando una ragazza: mora, non tanto alta. Forse viaggia da sola o forse è accompagnata da alcuni uomini: l’hai vista, per caso?»

«Se ho incrociato delle ragazze, non ci ho badato.» Karl aveva risposto con prontezza e con voce ferma, ma Lidia era talmente stupefatta da quello che aveva appena udito, che le parole del germanico giunsero alle sue orecchie un po’ attutite. Era assolutamente palese che Alexander si stesse riferendo proprio a lei, ma, sulle prime, la fanciulla non riuscì a comprendere come fosse possibile che l’uomo fosse al corrente della sua scomparsa.

Quell’interrogativo ebbe però vita breve. «Tu vieni da Erding, non è così? Lavori alla miniera.» Non era stato Alexander a parlare, ma un’altra voce, fin troppo familiare. Tito! Pensò Lidia, mentre il sangue le defluiva dalla faccia. Come può essere qui? L’ho lasciato in mezzo a un bosco, da solo, nel cuore della notte… e noi non ci siamo mai fermati!

In un modo o nell’altro, il giovane romano li aveva preceduti. E non solo: ha anche fatto in tempo a raggiungere Alexander e a dirgli quello che è successo! Come ha fatto? Per una frazione di secondo, la ragazza fu tentata di balzare in piedi e di chiedere spiegazioni, ma il buon senso – e la mano di Rolf che, non vista, le sfiorava la schiena – la spinse a rimanere sdraiata sul fondo del carro, in attesa dell’evolversi degli eventi.

«Sì.» La voce di Karl si era fatta guardinga e in essa Lidia riconobbe quell’accento tagliente che gliel’aveva fatto notare le prime volte che aveva avuto a che fare con lui. «Tu invece sei quel ragazzino romano che gironzola al villaggio, ultimamente.»

No! Stai zitto, idiota! Non far vedere che lo conosci! Frustrata, Lidia si morse un labbro, cercando di contenere il nervosismo. Che motivo aveva, Karl, di far capire a Tito che sapeva chi fosse? Rischia di attirare l’attenzione… su di me.

«Ci siamo già incontrati?» indagò Tito. Anche se non aveva modo di vederlo, la fanciulla si figurò perfettamente l’espressione sospettosa che si era sicuramente disegnata sul suo volto. Prima che il germanico avesse modo di rispondere, il giovane romano riprese a parlare. «Aspetta un attimo» disse lentamente. «Tu non sei… tu conosci Lidia! Hai sposato la sorella di suo marito, vero?»

Orripilata dalla piega che stava prendendo il discorso, la ragazza trattenne il fiato. «Ne sei sicuro?» Era stato Alexander a parlare, e nel suo tono cauto Lidia colse qualcosa che la fece rabbrividire. Karl inspirò come per dire qualcosa, ma Tito lo precedette. «Certo, che ne sono sicuro!» esclamò. «Me lo ricordo benissimo, adesso: è stato il Prefetto in persona a dirmi chi fosse e a consigliarmi di tenerlo d’occhio… non è un tipo raccomandabile, ed è uno di quelli che fanno più casini, a quanto pare!»

Sebbene, in tutta coscienza, Lidia non si sentisse di dissentire col ritratto che Tito aveva appena fatto del cognato, il fatto che Karl fosse stato letteralmente schedato da Caleno e dai suoi sottoposti la disturbava un po’.

«Vogliamo davvero parlare di chi è che fa più casino, romano?» lo provocò Karl, che, evidentemente, stava perdendo la pazienza. «Per quanto mi riguarda, siete…» «Non è il momento di parlare di queste cose» intervenne bruscamente Alexander, nella sua voce un’autorevolezza che, fino a quel momento, Lidia non aveva mai notato. «Quello che conta, adesso, è ritrovare Lidia… che sembra essere sparita nel nulla in circostanze poco chiare.»

«Esatto» concordò Tito, con voce un po’ roca. «Non so perché, ma ho come il sospetto che la sua presenza da queste parti non sia esattamente una coincidenza: perché sei qui, minatore?»

«La cosa non ti riguarda» ribatté Karl, altrettanto duramente. Accanto a lei, Lidia avvertì Rolf vacillare lievemente, come se il ragazzino fosse intimorito dai toni sempre più accesi della conversazione che si stava svolgendo davanti ai suoi occhi.

«Tu sai dov’è Lidia, non è così?» insistette Tito, con voce dura. «Dove l’hai portata?»

«Tito…» Alexander provò nuovamente a inserirsi nella conversazione, ma il giovane romano non glielo permise. «Anzi, fammi un po’ vedere che cos’hai sul carro? Che cosa trasporti?»

«Non ti avvicinare, ragazzino» ringhiò di rimando Karl. «Quello che trasporto è affar mio: ti assicuro che non ci ho nascosto il corpo della tua amica, qui sopra.»

Tecnicamente non è una bugia, osservò Lidia, con una punta di sarcasmo dettato più che altro dalla disperazione. Quasi senza accorgersene, si ritrovò ad appiattirsi ancor di più contro il fondo del carro, riducendo al minimo il respiro. Per qualche istante, ebbe l’impressione che anche il cuore avesse preso a battere in modo più silenzioso.

«Allora non ti dispiacerà, se do un’occhiata.» Le parole di Tito la fecero trasalire. Lo conosceva abbastanza bene per poter dire con certezza che non si trattava di una provocazione vuota: se il ragazzo si era messo in testa che Karl stesse nascondendo qualcosa, non c’era modo di impedirgli di verificare con i suoi occhi che fosse tutto a posto. A meno che Karl non gli impedisca di salire bloccandolo fisicamente. Davanti ai suoi occhi si parò l’immagine del giovane romano, tutto sommato fragile e minuto in confronto alla stazza imponente del germanico, che si apprestava ad avere uno scontro fisico con lui. No, no, pensò Lidia, mentre la preoccupazione per le sorti dell’amico le serrava la gola.

«Tito, aspetta!» Il richiamo di Alexander le confermò che il ragazzo stava effettivamente cercando di raggiungere il carro su cui si trovavano Karl e Rolf; e Lidia si trovò ad agire senza riflettere. Del resto, non voglio certo farmi scoprire qui, nascosta come un criminale. Sarebbe patetico, e poi non sto facendo nulla di male! Senza che Rolf potesse fare nulla per impedirglielo, la ragazza si mise a carponi e, con un gesto secco, si liberò della vecchia coperta polverosa, incontrando subito gli occhi di Tito che, nel frattempo, era sceso dal carro automatico.

«Lidia!» esclamò lui, in un misto di stupore e sollievo. Per qualche motivo, lei si ritrovò a lottare contro una bocca improvvisamente secca. «Ehm… ciao» abbozzò, senza riuscire a sostenere il suo sguardo che per pochi secondi. Mordicchiandosi le labbra, Lidia pensò che il giovane romano avesse tutti i motivi per avercela con lei: l’aveva abbandonato in mezzo al nulla, lasciandolo solo a sbrigarsela con tutte le insidie che si nascondevano nella notte.

Il ragazzo, però, non sembrava mostrare rancore nei suoi confronti: sorrideva come se il fatto di vederla viva – e sana e salva – fosse l’unica cosa veramente importante. C’è da dire che Tito non lo sa, che hai deciso di seguire Karl di tua spontanea volontà, le fece notare la sua coscienza, velenosa. Mi sa che, se lo sapesse, sorriderebbe un po’ meno.

«Stai bene?» le chiese il ragazzo, avvicinandosi a lei fino a quando non appoggiò le mani sulla sponda del carro. Con la coda dell’occhio, Lidia notò la mascella contratta di Karl e lo ringraziò in silenzio per quel briciolo di pazienza che stava dimostrando. La fanciulla annuì. «Sì, sì, sto bene…» Le parole di scusa che avrebbe voluto rivolgergli le morirono in gola e Lidia abbassò lo sguardo sulle proprie ginocchia, a disagio come le era capitato poche volte, quando era stata in compagnia di Tito.

Con il capo chino, la giovane avvertì, più che vedere, il cenno d’assenso rivoltole dal ragazzo. «Meno male. E allora andiamo, su.» Nell’udire quell’esortazione, Lidia levò di scatto la testa. «Andiamo?» gli fece eco, anticipando persino Karl, che si era girato per fronteggiare meglio Tito.

Sul volto del giovane romano si disegnò un’espressione ancora più determinata. «Sì. Adesso ti riporto da Alexander», disse, indicando con una mano il germanico ancora fermo a bordo del carro automatico, «e poi domani ripartiamo per il campo di Hudwill. Non so cosa sia successo esattamente a Gaio e a Valerio, ma ora abbiamo un carro e potremo arrivarci anche da soli, credo.»

Lidia rimase immobile per qualche istante, troppo incredula per reagire immediatamente. Possibile che Tito intendesse davvero riprendere il suo piano lì dove l’aveva lasciato? Crede davvero che intenda fare marcia indietro per l’ennesima volta? Prima che avesse modo di dar voce a quei pensieri, però, Karl lasciò le redini del cavallo e si avvicinò minacciosamente al giovane romano. «Tu non farai niente del genere» ringhiò. «La ragazza torna a Erding. Con me.»

Tito irrigidì la mascella, mentre i suoi occhi sembravano farsi ancora più scuri del consueto. «Così che tu possa consegnarla alle persone che hanno cercato di ammazzarci, giusto?» lo provocò, sprezzante. Turbata dal tono del giovane, Lidia scosse con forza la testa. «No, lui non vuole farmi del male. Vuole solo riportarmi da Ulf.»

«Come fai a esserne certa?» La voce quieta di Alexander, che la fissava con un’espressione preoccupata nei profondi occhi blu, distrasse brevemente la ragazza, che non si accorse del fatto che Tito si fosse avvicinato a lei fino a quando non si sentì afferrare saldamente per un braccio. «Non lo può sapere, ovviamente» rispose il ragazzo, al posto suo. «Ed è proprio per questo che verrà con noi, come avevamo deciso fin dall’inizio.»

«Avete deciso tutto voi» ribatté lei, cercando di liberarsi dalla sua presa, invano. «Io avrei preferito restare al villaggio, ma non mi avete lasciato scelta.»

«Lasciala andare. Ci stai facendo perdere fin tropo tempo» ringhiò Karl. Il suo volto era talmente tirato che Lidia temette che il cognato fosse sul punto di esplodere e di perdere il controllo – tutto sommato sorprendente – che aveva dimostrato fino a quel momento. «Tito, lasciami andare» rincarò allora la dose la fanciulla. «Mi stai facendo male.»

«Cerca di ragionare» la esortò il ragazzo, senza allentare minimamente la presa. «Io ho cercato di rispettare la tua volontà, ma non posso permettere che tu ti esponga a dei rischi inutili così, proprio sotto ai miei occhi.»

«Tito…» riprovò ancora la ragazza, ma le parole le morirono in gola quando, con la coda dell’occhio, vide Karl balzare in piedi e poi giù dal carro, in un unico movimento fluido. Il cuore prese a martellarle in gola e Tito sgranò gli occhi, sorpreso dal movimento del germanico. Un secondo più tardi, l’uomo gli fu addosso e lo afferrò per la collottola, tirandolo indietro così bruscamente che, prima che lasciasse andare il suo braccio, il ragazzo rischiò di trascinare con sé anche Lidia. «Ti ho detto di lasciarla andare e di sparire!» fece ancora Karl, con la voce carica di minacce.

Quando Tito si voltò per fronteggiarlo, la ragazza sentì il proprio cuore perdere un battito. Istintivamente si lanciò giù dal carro, rendendosi solo vagamente conto del fatto che Alexander si era mosso quasi in perfetta sincronia con lei. Distratto dal movimento che avvertì alle sue spalle, Karl si voltò a guardarla. «Torna sul carro» le intimò, piantando gli occhi nei suoi. Approfittando della distrazione dell’avversario, Tito si mosse così rapidamente che Lidia si accorse che il giovane si era nuovamente avvicinato a lei solo nel momento in cui le sue dita trovarono una seconda volta il suo polso. «Non ci pensare nemmeno» le intimò, cercando di tirarla a sé.

«Forse potremmo…» Alexander tentò di dire qualcosa che potesse calmare un poco gli animi, ma, di punto in bianco, i due uomini lo ignorarono e si scagliarono l’uno sull’altro. Karl afferrò il ragazzo più giovane e, come aveva fatto anche in precedenza, lo tirò con forza via da Lidia, rimediandosi così un pugno che lo fece imprecare. Prima che Tito potesse attaccarlo di nuovo, il germanico gli torse dolorosamente il braccio dietro la schiena, costringendolo a ripiegarsi su se stesso con un gemito di dolore.

«Smettetela!» gridò Lidia, facendo per inserirsi tra di loro nel tentativo di separarli. Prima che riuscisse a raggiungerli, però, Alexander le circondò la vita con un braccio, tirandola contro il proprio corpo. «Stanne fuori» le disse.

La giovane piegò il collo all’indietro e vide che il germanico fissava con occhi preoccupati i due uomini, senza tuttavia accennare a mollare la presa che aveva su di lei, né a fare qualcosa per separarli. «Finiranno col farsi male» gemette, preoccupata. «Lo so», mormorò amaramente lui, «ma non è il caso che ci vada di mezzo anche tu.»

In un qualche modo, Tito riuscì a liberare il braccio dalla presa del germanico, ma subito quello lo afferrò per il bavero e lo strattonò come per gettarlo a terra. Puntando i piedi contro il terreno erboso, il giovane romano riuscì a sbilanciare l’avversario, sospingendolo bruscamente verso i pochi alberi che crescevano sulla sinistra del sentiero. «Attenti!» gridò Lidia, divincolandosi nella presa di Alexander. L’uomo la tenne stretta, passandole più saldamente il braccio attorno alla vita, e la fanciulla si voltò verso di lui, angosciata. «C’è un salto, lì sotto. Se non stanno attenti…»

«Resta qui» le disse lui, sporgendosi per guardarla negli occhi. Lidia corrugò la fronte, confusa e spaventata. «Ma…»

«Cerco di calmarli», mormorò Alexander, «ma tu devi promettermi di restartene qui buona, senza più cercare di metterti in mezzo. Non voglio dovermi preoccupare anche per te, d’accordo?» Con gli occhi offuscati dalle lacrime, Lidia annuì e indietreggiò fino ad appoggiarsi, tremante, al tronco di un frassino che cresceva sul lato opposto della strada. Con l’angoscia che le mozzava il fiato, la fanciulla percorse con i polpastrelli la corteccia liscia dell’albero, cercando inconsciamente conforto nella solidità del legno.

Una volta che si fu assicurato che la ragazza sarebbe rimasta al proprio posto, il germanico si avvicinò con circospezione agli altri due uomini, alzando le mani come per dimostrare il suo intento pacificatore. Dalla sua posizione, Lidia vide gli occhi dell’uomo balenare tra i due giovani e il precipizio che si apriva a pochi metri di distanza, valutando forse un modo rapido per dividerli e allontanarli dal pericolo. Proprio quando parve sul punto di prendere una decisione e muovere un passo nella loro direzione, Karl cadde su un ginocchio con un gemito di dolore. «Tito, no!»

L’esclamazione di Alexander fece balzare il cuore in gola a Lidia e, in preda a un capogiro, la ragazza si trovò a scivolare a terra. Anche se la distanza e la vegetazione bassa che la separava dai tre uomini non le permettevano di scorgere i particolari, la fanciulla vide che, inaspettatamente, nella mano di Tito era spuntato un coltello dalla lama insanguinata. Oh, no, pensò, sconvolta, mentre un presagio funesto calava su di lei e le faceva comprendere per la prima volta quanto grave fosse la situazione.

Prima che il giovane romano potesse colpire di nuovo l’avversario, Alexander di lanciò su di lui, cercando di immobilizzarlo. In quello stesso istante, però, Karl si rimise in piedi e, anche se il suo volto si era fatto pallido e il dolore distorceva i suoi lineamenti, strinse le mani sulle spalle del ragazzo, sospingendo sia lui che Alexander verso la ripida vallata creata dal fiume. Senza lasciare a nessuno il tempo di fermarlo, Tito si divincolò, facendo saettare la mano che stringeva il coltello e ferendo il braccio di Alexander che, di riflesso, lasciò la presa. Con un unico, rapido movimento, il giovane colpì di nuovo Karl, facendolo vacillare, mentre una macchia scura si allargava sui suoi vestiti attorno al punto in cui era affondata la lama.

L’uomo cadde a terra, ma, così facendo, afferrò gli abiti del ragazzo e lo trascinò con sé. Tito urtò violentemente il terreno umido con una spalla e perse la presa sull’arma che ancora stringeva in mano. I movimenti dei due si fecero confusi e la fanciulla, il cui sguardo si faceva via via sempre più appannato a causa delle lacrime e del terrore che le annebbiava i sensi, non riuscì più a scorgere quello che stava accadendo: sentì solo il grido di Alexander e poi, senza nemmeno accorgersene, si ritrovò a volare verso il germanico.

Quando lo raggiunse, vide che l’uomo era inginocchiato a terra molto più vicino al dirupo di quanto si sarebbe aspettata. Tenendosi ancorato al terreno con una mano, Alexander stringeva con l’altra il polso di Tito, impedendogli di scivolare giù per la ripida scarpata. Senza pensarci due volte, la ragazza si lasciò cadere a terra accanto a lui: ignorando il dolore al ginocchio, si sporse a sua volta in direzione del giovane romano, stringendo tra i pungi la stoffa della sua maglia e aiutandolo a issarsi in una posizione più sicura. Quando Tito non si trovò più in pericolo di scivolare di sotto, la fanciulla si guardò attorno. Dov’è Karl?

In preda a uno strano senso di estraniamento, la giovane si sporse verso il fiume che scorreva in fondo al burrone, quasi senza sentire le mani di Alexander che la afferravano per le spalle e la costringevano a ritrarsi: diverse decine di metri più in basso, dopo un piccolo salto di roccia, Lidia scorse il corpo immobile dell’uomo. «No!» esclamò, in preda all’orrore. «Dobbiamo aiutarlo!»

«Lidia», la richiamò Alexander, con voce morbida, «non c’è niente che possiamo fare, per aiutarlo.» La fanciulla si voltò verso di lui con gli occhi sgranati, rifiutandosi di accettare l’evidenza che il germanico le stava presentando. «Non è vero» lo contraddisse, con voce strozzata. «Possiamo… possiamo scendere, un po’più avanti! Non possiamo lasciarlo lì, ha bisogno di essere aiutato, curato!»

Le labbra di Alexander si piegarono in una curva amara, mentre l’uomo scuoteva mestamente la testa. «Ha fatto un volo di più di dieci metri ed è finito sulle rocce: se non è morto, lo sarà presto. Perdeva parecchio sangue» aggiunse, lanciando un’occhiata di soppiatto a Tito, che sembrava come congelato nella posizione in cui l’avevano lasciato.

Lidia guardò ancora verso il punto in cui Karl era caduto, seguendo con gli occhi i contorni del suo corpo in una sorta di macabra fascinazione. Anche se la parte più razionale della sua mente le sussurrava che Alexander aveva ragione e che non c’era assolutamente modo che il cognato potesse sopravvivere a una caduta del genere, c’era qualcosa, nel profondo del suo animo, che si ribellava alla prospettiva di abbandonarlo lì, sulla roccia fredda. Vivo o morto che fosse. «Non fa niente» insistette, cercando di ingoiare il nodo che aveva preso a stringerle la gola. «Voglio scendere comunque. Non possiamo lasciarlo lì.»

Con quelle parole, Lidia fece per dirigersi verso il punto in cui le pareva che la scarpata fosse meno impervia, ma le mani di Alexander strinsero la presa sulle sue spalle. «Non possiamo scendere senza attrezzatura. Ci servirebbe una corda, come minimo. Dei rinvii.» La ragazza lo guardò boccheggiando, troppo scioccata per capire quello che l’uomo stava dicendo, e lui ne approfittò per trascinarla via dall’orlo del precipizio. «Mi dispiace, ma non possiamo rischiare di romperci l’osso del collo. Un morto basta e avanza. So che non è facile, ma devi andare avanti.»

Quell’ultima osservazione suscitò nella ragazza un moto di ribellione. È appena morto! Pensò confusamente, mentre la rabbia le infiammava lo stomaco. Come fa a dire che devo andare avanti? È troppo presto! Lidia si voltò verso il germanico, intenzionata a controbattere, ma qualcosa, nella sua espressione distante e stanca, dissolse la sua rabbia: al suo posto, la giovane avvertì soltanto smarrimento, angoscia e un’intuizione che scivolò via prima che lei potesse afferrarla. «Cosa dirò a sua moglie?» pigolò allora, a corto di parole. «Cosa dirò a Ulf?»

Alexander fece per rispondere, ma le parole sembrarono morirgli in gola, mentre l’uomo abbassava gli occhi a terra. «Non lo so» ammise cupamente. «È stato un incidente.»

Non è vero che è stato un incidente, pensò la fanciulla, mentre lo stomaco le si contraeva in una stretta dolorosa. Se era vero che era stata la fatalità a far sì che Karl scivolasse giù dalla scarpata e cadesse nel canyon creato dal fiume, era altrettanto vero che era stato Tito, ad attaccarlo per primo. Ad accoltellarlo.

Spostando la sua attenzione sul giovane romano, Lidia avvertì una nuova preoccupazione nascere in lei. Malgrado tutto – malgrado la sua volontà di allontanarla da Erding e malgrado quello che aveva appena fatto – lei continuava a voler bene a Tito. Con una punta di stupore, si rese conto di sentirsi persino responsabile per lui, forse perché, se non fosse stato per lei, il ragazzo non avrebbe mai abbandonato Roma per recarsi in Germanica. Se già prima le speranze che il giovane fosse ben accetto dalla sua nuova famiglia erano estremamente esili, dopo la morte di Karl esse erano assolutamente inesistenti.

Non posso non raccontare a Unna e a Ulf quello che è successo. Hanno il diritto di sapere. Soprattutto Unna… e il bambino. Anche se il solo pensiero di raccontare ai gemelli – e a Gefrid! – la dinamica dei fatti le faceva tremare le gambe, Lidia era terribilmente consapevole di non poter fare altrimenti. E allora, chi può dire come reagiranno?

Tito sarebbe stato al sicuro, una volta che la sua responsabilità nella morte di Karl fosse stata chiara a tutti? Be’, immagino che lui possa sempre chiedere protezione all’accampamento militare: scommetto che Caleno sarebbe ben felice di concedergliela. Improvvisamente, un altro pensiero le balenò in testa. E io? Sarò al sicuro, io? L’espressione gelida di Unna le si presentò davanti agli occhi e Lidia sentì il proprio cuore mancare un battito, mentre una sincera preoccupazione per la reazione della cognata le mozzava il fiato.

Fu la voce di Alexander a riscuoterla da quei pensieri e a riportarla al presente. «Dov’è finito il ragazzo?»

Quale ragazzo? Fu la prima domanda che attraversò la mente di Lidia, ma, una frazione di secondo più tardi, la giovane si riscosse. Rolf! Comprese, improvvisamente consapevole che era da parecchio tempo che aveva perso di vista il nipote di Karl. Dov’è sparito?

«Non lo so» replicò, incerta. Lidia fece saettare lo sguardo tutto attorno a sé, alla ricerca di un qualche segnale che potesse rivelare la posizione del ragazzino, ma Rolf sembrava essere scomparso nel nulla. «È scappato, presumo» concluse, poi, stringendosi nelle spalle in preda allo sconforto.

Alexander espirò lentamente dal naso. «Preferirei ritrovarlo» mormorò, con una smorfia preoccupata. «Ha visto chiaramente quello che è successo: il fatto che sia in giro a piede libero mi piace poco.» Lidia aggrottò la fronte, turbata. «Perché?» indagò, con un tremito quasi impercettibile nella voce. «Che cosa vorresti fargli?»

Il germanico le rivolse uno sguardo teso. «Niente di male, ovviamente. Io non me la prendo di certo con i bambini. È solo che preferirei tenerlo d’occhio per un po’: è spaventato; e non vorrei che andasse a parlare con le persone sbagliate.»

Lidia annuì in silenzio. L’adrenalina che l’aveva sostenuta fino a quel momento stava rapidamente scemando, lasciando il posto a un sentimento opprimente e appiccicoso che la faceva annaspare alla ricerca di ossigeno. Quando spostò il peso sul ginocchio destro, la ragazza sussultò mentre il dolore dovuto alla caduta, dimenticato per qualche tempo, tornava a farsi sentire. La sua smorfia non sfuggì ad Alexander, che le si avvicinò di un passo. «Sei ferita?» le chiese. Dalla sua espressione preoccupata, Lidia comprese che il germanico temeva che, in un modo o nell’altro, lei si fosse fatta male durante la colluttazione di poco prima, quindi scosse la testa. «È solo una storta. O una botta. Sono scivolata lungo il sentiero.»

Il dolore acuto che ancora si riverberava nella sua gamba ebbe l’effetto di distoglierla dalle preoccupazioni che non riguardavano l’immediata contingenza in cui si trovava. In particolare, si rese conto che Tito era ancora nella stessa identica posizione in cui lei e Alexander l’avevano lasciato ormai diversi minuti prima. Non sarà mica ferito, vero? Si chiese la fanciulla, mentre una preoccupazione improvvisa la assaliva.

Anche se la morte del cognato la turbava – e la spaventava – più di quanto avrebbe potuto immaginare fino al giorno prima, doveva riconoscere che non c’era più nulla che potesse fare per lui: ora non le restava che prendersi cura di Tito. Se da un lato il suo subconscio continuava a ripeterle che il giovane romano si trovava dalla parte del torto ­– era stato lui a uccidere Karl – Lidia doveva riconoscere che il ragazzo era anch’esso una vittima, a modo suo. L’ha fatto solo per difendersi. Per difendermi.

Avvicinandosi a Tito quasi in punta di piedi, la fanciulla si accovacciò accanto a lui, stringendo i denti contro il dolore che le si irradiò dal ginocchio. «Ehi. Stai bene?» gli chiese, cercando di adottare il tono più morbido che le riuscisse in quelle circostanze. Quando un’ombra calò su di lei, Lidia scoccò un’occhiata alle proprie spalle e vide che Alexander le si era avvicinato in silenzio e restava fermo a poco più di un metro di distanza da lei, quasi volesse concederle una certa privacy, ma, allo stesso tempo, volesse essere certo di potere intervenire in tempo nel caso in cui ce ne fosse stato bisogno.

La ragazza quasi sorrise, di fronte alla premura del germanico. Come se ci fosse il bisogno di difendermi da Tito! Pensò, con una punta di amaro divertimento. Il ragazzo non sarebbe mai stato capace di farle del male, di questo ne era certa. Però eri anche certa che non avrebbe mai portato con sé un coltello, né, tanto meno, che sarebbe stato capace di usarlo per uccidere una persona… non è così? Le sibilò la sua coscienza, facendole trattenere il respiro per una frazione di secondo.

Ma no. Conosceva Tito e sapeva che da lui non aveva nulla da temere. Non in quelle circostanze, quantomeno. «Tito?» ripeté, quando vide che il giovane non dava cenno di aver sentito la sua prima domanda. Nell’udire il proprio nome, il ragazzo si riscosse e alzò su di lei due grandi occhi scuri insolitamente vuoti. Sul suo viso, Lidia lesse una tale disperazione e un tale senso di smarrimento che gli occhi le si riempirono di lacrime e la gola le si serrò. Impulsivamente, la ragazza fu tentata di abbracciarlo per dargli conforto, ma si impedì di farlo: anche se confusamente, avvertiva di dover dosare con attenzione le proprie reazioni. Doveva evitare di fare dei gesti che, a caldo, le sarebbero potuti sembrare giusti e sensati, ma di cui si sarebbe poi pentita in un secondo momento.

Davanti allo sguardo del ragazzo, la fanciulla si sentì allora indifesa e impacciata, incerta su come comportarsi e accolse con sollievo l’inaspettato intervento di Alexander. Avvertendo forse l’imbarazzo della giovane, l’uomo la raggiunse e si chinò su Tito, passandogli un braccio attorno alle spalle. «Ce la fai ad alzarti?» gli chiese, con un tono più spiccio di quello che Lidia si sarebbe aspettata.

Il giovane romano sbatté più volte le palpebre, come ridestandosi da un sogno – o da un’allucinazione – poi annuì. «Sì» fece, con voce un po’ roca. «Sei ferito?» lo interrogò ancora Alexander. «Ti fa male qualcosa?»

Il ragazzo si portò una mano alla tempia. «La testa» mormorò, quasi in trance. Lidia gli si avvicinò di un passo, passando rapidamente in rassegna al suo capo alla ricerca di tracce di sangue. «L’hai battuta?» indagò, preoccupata. Tito fece un cenno di diniego. «No. Mi fa male la testa» ripeté, senza incontrare lo sguardo della ragazza.

Lidia aggrottò la fronte, confusa, ma Alexander mosse una mano come per chiederle di non insistere. «Credo che sia sotto shock. La cosa migliore è riportarlo a casa mia, almeno per stanotte: ha bisogno di riposarsi; e tu devi mettere qualcosa su quel ginocchio, a giudicare da come zoppichi.»

Quel cambiamento dei piani – imprevisto, anche se forse inevitabile – mise immediatamente in allarme la ragazza. «No, io… io devo essere a Erding entro questa sera» protestò, inciampando nelle parole. Alexander le rivolse un’occhiata scettica. «Sì? E per fare cosa?» Lidia boccheggiò. «Per… per dire a Ulf quello che è successo. E anche a Unna, la moglie di Karl.»

Il germanico scosse la testa con decisione. «Non mi pare una buona idea» decretò. «Ovviamente dovremo spiegare a tutti quello che è successo, ma non oggi. Sei troppo scossa; e sei stanca: riposati, per questa notte, e domani affronteremo la faccenda a mente fresca.» La giovane corrugò la fronte. «Affronteremo?» ripeté, senza capire.

Alexander le rivolse un piccolo sorriso. «Be’, sì: non me la sento, di scaricarvi per strada come se nulla fosse. Mi siete capitati tra capo e collo, non dico di no, ma adesso mi sento responsabile per voi.» Davanti a quell’ammissione, Lidia si accigliò. «Non ce n’è alcun motivo. Non ho bisogno di un protettore… posso affrontare le conseguenze da sola» proclamò, anche se il solo pensiero le provocò un capogiro.

«Non lo metto in dubbio» replicò l’uomo, ancora con un mezzo sorriso. «Ma cosa mi dici di Tito? Credi davvero che possa percorrere da solo la strada che porta al tuo villaggio? Non sono sicuro che sia in grado di reggere i sensi di colpa.»

Lidia soppesò con lo sguardo il giovane romano. Il ragazzo era visibilmente scosso e provato, eppure, qualcosa nel fondo della sua mente, metteva in dubbio che Tito si sentisse veramente in colpa per avere ucciso Karl. Dopotutto, non sono convinta che l’abbia fatto apposta: l’ha attaccato per difendermi, non per ucciderlo… credo. E, soprattutto, non riusciva a togliersi dalla testa l’astio e il disprezzo con cui il giovane si era rivolto a Karl – un sentimento che forse il ragazzo provava per l’intero popolo germanico, se aveva interpretato correttamente i suoi discorsi.

Tuttavia, non sentendosi in grado di interpretare correttamente i pensieri che in quel momento stavano attraversando la testa di Tito, Lidia preferì soprassedere su quel particolare. «E allora cosa farai?» chiese, tornando a rivolgersi ad Alexander. «Ci accompagnerai a Erding, e poi? Farai avanti e indietro in giornata? Non è un viaggio troppo lungo?»

Il germanico esitò. «Credo che potrei approfittarne per scambiare due parole con Erin» mormorò. Lidia gli scoccò un’occhiata sorpresa: non era certamente la spiegazione che si era aspettata. «Erin? Intendi Donna Erin? Ovvero la nostra Sacerdotessa?»

Alexander si strinse nelle spalle. Forse era solo un’impressione, ma a Lidia quel gesto sembrò tradire un certo imbarazzo. «Sì, proprio lei» confermò però l’uomo, con voce neutrale. «Non ci vediamo spesso, ma ci conosciamo da diversi anni. È sempre bene informata su tutto quello che avviene nella regione e, visto tutto quello che sta succedendo, mi piacerebbe avere qualche aggiornamento.» Lidia si rigirò in testa quella spiegazione, pensando che aveva senso, ma, prima che potesse aggiungere altro, Alexander si chinò nuovamente su Tito e, afferrandolo saldamente per le spalle, lo esortò ad alzarsi. Il ragazzo sembrava leggermente più padrone di sé, adesso, e si sciolse dalla presa del germanico. «Ce la faccio» mormorò, senza alzare lo sguardo da terra.

«Va bene» annuì Alexander. «Allora andiamo. Salite pure sul carro automatico. Sai a chi appartiene quello su cui stavi viaggiando tu, Lidia?»

«Non lo so. Karl l’aveva… l’aveva rubato da qualche parte» replicò, con la bocca secca. Dunque lo stavano facendo veramente: stavano davvero andandosene via, abbandonando il corpo di Karl in fondo a una gola, alla mercé degli elementi e degli animali selvatici. Sebbene stesse cercando di convincersi del fatto che non avevano alternative, non poteva fare a meno di pensare che quella decisione fosse profondamente sbagliata.

«E allora lasceremo che il cavallo ritrovi il suo padrone» fece il germanico, ignorando – o scegliendo di ignorare – il turbamento della fanciulla. Così dicendo, sciolse i finimenti del cavallo ancora legato al vecchio carro sottratto a qualche contadino della zona; e a Lidia non rimase altra scelta che montare sul carro automatico al fianco di Tito.

Quando, dopo qualche istante, la macchina si mise in marcia, il suo stomaco era talmente contratto dallo smarrimento e dai sensi di colpa che la giovane si credette sul punto di vomitare.

***

Germanica Inferiore, 342 a.U.c., 18 Luglio

Quando il profilo ormai famigliare della miniera d’argento si stagliò davanti a lei, Lidia affondò nervosamente le unghie nella gommapiuma che rivestiva i sedili del carro automatico. Non era stata tanto in ansia nemmeno il giorno in cui era giunta per la prima volta a Erding accompagnata dai suoi genitori: all’epoca, infatti, sapeva di non avere nulla di cui rimproverarsi. A differenza di adesso. Adesso ci sono un sacco di cose che, volendo ben vedere, si potrebbe dire che siano successe per colpa mia…

Inspirando a fondo e poi rilasciando l’aria in un sospiro tremulo, la fanciulla notò che i suoi compagni non sembravano condividere del tutto la sua inquietudine. Anche se non lo conosceva abbastanza bene per giudicare i suoi stati d’animo, Alexander pareva piuttosto tranquillo. Anzi, a giudicare dall’espressione del suo volto, il germanico sembrava quasi annoiato, come se l’imminente incontro con Donna Erin non lo preoccupasse minimamente. Il che è abbastanza strano: a parte Caleno, mi sembra che la gente sia sempre abbastanza tesa, quando deve trattare con lei.

Quel particolare la incuriosiva: la sera prima, Lidia aveva cercato di indagare e capire meglio quale tipo di rapporto esistesse tra Alexander e la Sacerdotessa, ma lui era stato molto vago, facendole chiaramente capire di non gradire la conversazione. Il che, probabilmente, dovrebbe farmi dubitare della sua affidabilità, pensò la ragazza, osservandolo con la coda dell’occhio. Anche se gli avvenimenti del giorno prima avevano fatto passare in secondo piano tutto il resto, ora che era a un passo dal rimettere piede al villaggio, Lidia vedeva riemergere tutti gli antichi sospetti che aveva nutrito – incoraggiata da Ulf, naturalmente – a proposito delle intenzioni di Donna Erin e dei Sacerdoti in generale.

La questione più importante, comunque non è quello che ha in mente Alexander: mi preme più capire cosa ha intenzione di fare Tito…

Quasi le avesse letto nel pensiero, il ragazzo si voltò a guardarla. «Io rimango dell’idea che sarebbe meglio andare al campo militare» disse, incrociando le braccia davanti al petto. «No» fu l’immediata replica di Alexander. «Ne abbiamo già parlato: prima di tutto, andremo da Erin e sentire cosa ha da dirci. Poi, se vorrete e se non ci saranno controindicazioni, potrete anche andare dal Prefetto.»

Lidia alzò gli occhi al cielo, pregando ferventemente che i due uomini non riprendessero a discutere come avevano fatto per ore la sera prima. «Fate come volete» sbuffò. «Andiamo dalla Sacerdotessa, se proprio dobbiamo: poi, però, io vado a casa. Mio marito dovrebbe essere già tornato e non mi sembra proprio il caso di perdere dell’altro tempo. Devo andare da lui.»

Tito le lanciò un’occhiata truce, ma non replicò. Inconsciamente, Lidia si morse le labbra, mentre un nuovo brivido di apprensione le scivolava lungo la schiena. Le cose erano già abbastanza complicate così com’erano e lei non aveva assolutamente bisogno che il giovane romano ricominciasse ad avanzare pretese sul suo futuro.

Il giorno prima, mentre Alexander li riaccompagnava alla sua casa in mezzo ai boschi, il ragazzo era stato estremamente silenzioso. Aveva percorso l’intero viaggio chiuso in se stesso – quasi ripiegato su se stesso, anche fisicamente. Anche se Lidia aveva rispettato e compreso il suo bisogno di venire a patti con quello che aveva fatto, era stata sinceramente preoccupata per l’ostinato mutismo del giovane. Si era sentita inutile, senza alcuna idea di cosa fare, né di quali cupi pensieri stessero attraversando la mente di Tito in quel momento.

Era stato solo durante la cena, diverse ore dopo, che il ragazzo aveva iniziato a dare segni di ripresa. Poco alla volta, si era fatto più loquace e aveva preso a porre domande e a chiedere ad Alexander come intendeva muoversi, il che aveva poi condotto alla discussione circa l’opportunità di recarsi da Erin piuttosto che dal Prefetto.

Però non ha mai detto nulla a proposito da Karl, ricordò Lidia, con una smorfia. Se lo guardava attentamente, vedeva che Tito non era ancora veramente se stesso, capiva che c’era ancora qualcosa che lo turbava: cionondimeno, le pareva che il ragazzo si stesse lasciando alle spalle la morte di Karl fin troppo velocemente… cosa che lei non riusciva a fare.

Quando lo shock iniziale si era un po’ affievolito, Lidia aveva passato una notte insonne, cercando di mettere le cose in prospettiva. Anche se il cognato si era rivelato un alleato inaspettato, la sua mente aveva iniziato a ricordarle tutti i motivi per cui lei e Karl non erano mai andati d’accordo. Lui odiava i romani, si era detta, ricordando tutte le occasioni in cui l’uomo aveva dato sfoggio dell’insofferenza che provava nei confronti della sua gente. Non mi ha mai vista per quello che sono veramente: mi ha sempre odiata solo perché sono nata a Roma. Come se questa fosse una colpa; o una cosa che ho scelto.

Aveva suggerito a Ulf di uccidermi, aveva ricordato, ancora. Non mi conosceva nemmeno e già pensava a un modo per farmi fuori. E scommetto che non ha mai cambiato veramente idea. L’altro giorno mi ha spaventata, e mi ha fatto male.

Non era un mio amico. Non lo sarebbe mai stato.

Erano stati quei pensieri, la sera prima, a farle capire una cosa: il trauma che aveva avvertito non era legato tanto alla morte di Karl in sé, quanto piuttosto a tutte le ripercussioni che quella vicenda avrebbe avuto sul suo futuro e sui rapporti con le persone a cui voleva bene. Karl non mi è mai piaciuto ed è probabile che in futuro mi avrebbe dato un mucchio di problemi. Però ho paura che i problemi che mi causerà da morto saranno ben peggiori di quelli che mi avrebbe potuto causare da vivo.

Unna, per prima cosa, non l’avrebbe mai perdonata. Su questo non ci sono dubbi. Anche se non era mai riuscita a capire quanto profondo fosse l’amore tra la cognata e suo marito, era evidente che i due fossero fortemente legati e che, in un certo senso, Unna trovasse in Karl un appoggio, un punto di riferimento. Senza contare il fatto che tra poco nascerà il loro bambino, ovviamente. Un bambino che ora Unna avrebbe dovuto crescere da sola, senza un padre.

E nemmeno Ulf mi perdonerà facilmente. Perché Karl era il suo migliore amico sin dall’infanzia e perché i due avevano condiviso più di una semplice amicizia. Come mi sentirei se lui avesse provocato la morte di Lucilla? Sarebbe una cosa che riuscirei a superare?

Lidia non riusciva a figurarsi le reazioni di Gefrid, di Donna Edda, di Hermann, ma era certa che non sarebbero state particolarmente morbide. Se non con me, quantomeno con Tito. Il ragazzo correva veramente qualche pericolo? Oh, forse sarebbe davvero meglio accompagnarlo dal Prefetto Caleno. Il militare aveva a cuore il benessere dei suoi concittadini e, con lui, Tito sarebbe probabilmente stato più al sicuro che non con la Sacerdotessa.

Era comunque ormai troppo tardi per un cambio di rotta: mentre era immersa in quei pensieri, il carro automatico aveva raggiunto il villaggio e, borbottando, aveva imboccato la strada che conduceva all’abitazione di Donna Erin. Con una morsa allo stomaco, Lidia osservò le abitazioni famigliari e vide qui e là qualche viso noto. Istintivamente, di allontanò un po’ dal finestrino nel timore di incrociare lo sguardo di Ulf o di qualche altro membro della sua famiglia. Non voglio che mi vedano qui, in compagnia di Tito e di Alexander. Voglio potergli parlare: non voglio che si facciano idee strane.

Dopo pochi minuti, il carro si fermò davanti alla casetta bianca che Lidia stava ormai imparando a conoscere bene. «Erin abita ancora qui, giusto?» si informò Alexander, percorrendo con gli occhi i muri immacolati. Lidia annuì. «Sì» confermò. «Ci ha convocati qui giusto un paio di giorni fa…» La ragazza lasciò sfumare la frase, mentre, improvvisamente, si accorgeva di non aver parlato di un particolare forse importante. In occasione della sua ultima visita, Donna Erin non era stata sola: con lei c’era Fratello Kay.

La fanciulla socchiuse le labbra, tentata di informare Alexander della visita del giovane sacerdote dalla pelle scura, ma il germanico era già sceso dal carro e si stava dirigendo verso la porta. «Voi restate qui» disse, rivolgendosi ai due romani. «Preferisco avvertire Erin della nostra visita, poi vi farò entrare.» Lidia e Tito si scambiarono un’occhiata perplessa, ma non commentarono.

Meno di un minuto più tardi, Alexander fece ritorno, la fronte contratta in un’espressione confusa. «Siete sicuri che abiti ancora qui?» chiese. «La porta è aperta, ma in casa sembra non esserci nessuno.»

Scesa dal carro, Lidia si strinse nelle spalle. «Be’… sarà uscita. Non c’è nemmeno Susi? La ragazzina che abita con lei?» L’uomo scosse il capo. «Ho provato a chiamare, ma non è comparso nessuno. E… la casa è spoglia. Non mi pare di aver visto alcun oggetto che possa appartenere a lei.»

Per qualche motivo, quell’informazione fece comparire un piccolo nodo di paura nel petto di Lidia. Donna Erin c’era sempre. Era ovunque, all’interno del villaggio. Sapeva tutto, era sempre presente: non poteva essere sparita nel nulla, nel giro di un paio di giorno. «Forse… forse potremmo controllare un po’ meglio?» Alexander sollevò le spalle. «Controlliamo un po’ meglio» acconsentì, in tono poco convinto.

Quando anche Tito li ebbe raggiunti a terra, i tre si diressero nuovamente verso l’abitazione e, una volta che vi furono entrati, Lidia vide che il germanico aveva ragione. Era cambiato tutto. La casa non era esattamente vuota, non sembrava disabitata, ma pareva che tutte le suppellettili inutili fossero state rimosse, lasciando soltanto lo stretto necessario.

«Dove sono finiti i soldati?»

Lidia inspirò bruscamente. Era stato Tito a parlare e a farle notare un’altra enorme differenza rispetto all’ultima occasione in cui aveva messo piede in quel luogo: non vi era più alcuna traccia dei numerosi legionari che avevano affollato quei locali in occasione del suo colloquio con Fratello Kay. Lidia boccheggiò. «Ah… non lo so.»

«C’erano dei soldati, qui?» li interrogò Alexander, cercando i loro occhi. Tito annuì. «Sì. Suppongo che la Sacerdotessa li avesse raccolti per garantire la propria sicurezza. Pare che ci sia molto malcontento, in paese, e non escludo che si sentisse minacciata da qualcuno…»

Il germanico sospirò e lasciò scorrere lo sguardo tutto intorno a sé. «Non vorrei che fosse successo qualcosa di brutto, qui…» mormorò.

«Non è successo nulla di brutto, ma voi non dovreste essere qui.»

Lidia sobbalzò e, voltandosi di scatto, si trovò davanti a Fratello Kay, fermo ai piedi delle scale che conducevano al piano superiore. Il Sacerdote, impassibile come suo solito, li fissava con i suoi occhi neri, aspettando una loro reazione. Il primo a riprendersi fu Alexander. «E tu chi sei?» chiese, assottigliando gli occhi.

«Kay, confratello dell’ordine degli Alti Sacerdoti germanici.» Alexander sollevò elegantemente un sopracciglio. «Kay… cosa?» insistette, attirandosi l’occhiata confusa di Lidia.

«Jonathan Kay» replicò il Sacerdote, in tono basso, sostenendo lo sguardo del germanico. Quello spalancò gli occhi, come se, improvvisamente, la situazione gli fosse divenuta più chiara. «Oh! Capisco. Io sono Alexander…» «Sì, sì, lo so chi sei» tagliò corto Kay. «Posso immaginarlo, per lo meno. Quello che mi sfugge, è perché sei qui. E perché hai portato con te queste persone.»

Alexander si passò stancamente una mano sul viso. Lidia notò che le sue spalle sembravano essersi irrigidite e, quando parlò, c’era una tensione nuova anche nella sua voce. «C’è stato un incidente. Volevo confrontarmi con Erin per capire come procedere: non sono certo che il ragazzo sia al sicuro, qui.»

«Chi è il ragazzo?» si informò il Sacerdote. «Mi chiamo Tito Fabio Fusco» si inserì Tito. «Sono un cittadino di Roma.» «Ma non sei un soldato» affermò, più che domandare, il giovane dalla pelle scura. Quando Tito scosse il capo, Kay si rivolse ancora ad Alexander. «Cos’è successo?»

«È morto un germanico» replicò, senza scendere nei particolari. «E l’ha ucciso lui?» insistette il sacerdote, subodorando ciò che l’altro uomo stava cercando di tacere. Alexander esitò. «Diciamo che… è stato più che altro un incidente. Potrebbe averlo ucciso lui, ma si è trattato di autodifesa.» Lidia storse il naso davanti a quella ricostruzione dei fatti: in tutta onestà, non era certa che si potesse dire che Tito avesse ucciso Karl per difendersi da lui. Quando Kay non disse altro, Alexander proseguì: «Si trattava di un minatore.»

Il Sacerdote annuì. «Ah. Questo potrebbe essere un problema. Porta il ragazzo dai suoi conterranei: al campo militare sarà ragionevolmente al sicuro, suppongo.» Quando Alexander annuì, Kay spostò la sua attenzione su Lida. «Lidia» la apostrofò, riconoscendola. «Tu hai una casa. Torna da tuo marito ed evita di metterti nei guai.»

«Certamente» replicò in fretta lei, ignorando lo sguardo di disapprovazione di Tito che le gravava sulle spalle.

«Molto bene» riprese il giovane sacerdote. «Se non c’è altro, potete andare.» Sorpresa dalla rapidità con cui l’uomo li stava liquidando, Lidia cercò lo sguardo di Alexander, ma questo era concentrato sul sacerdote. «Solo una cosa: dov’è Erin?» chiese, rivolto a Fratello Kay.

«Se n’è dovuta andare: ora ci sono io, al suo posto.»

Lidia inspirò bruscamente, sorpresa da quella notizia, e sul volto di Alexander passò un’espressione che la giovane non riuscì a interpretare, ma che smosse qualcosa di estremamente sgradevole nel suo animo. «Se n’è andata di sua spontanea volontà?» chiese, in un tono che alla ragazza parve quasi cauto.

Il Sacerdote scosse appena il capo. «No, naturalmente: è stata richiamata dall’Alto Concilio.» Alexander gli si avvicinò di un passo. «Ma…» Fratello Kay levò una mano come per chiedergli di non avvicinarsi ulteriormente. «È così: sono decisioni prese ad alto livello. Vanno accettate e basta.»

Retrocedendo inconsciamente di un passo, Lidia spostò lo sguardo da un uomo all’altro, cercando di capire che cosa stesse succedendo. Era assolutamente sicura che ci fosse tutto un dialogo silenzioso, dietro alle parole che lei e Tito riuscivano a sentire. Riusciva a intravvedere un discorso sottointeso, forse segreto, ma non riusciva a intuirne il contenuto – e la cosa la inquietava. Più di tutto, però, ad allarmarla era la rigidità che riusciva a scorgere nella postura di Alexander, la scintilla di allarme – forse anche di rabbia – che si era accesa nei suoi occhi.

«C’è qualche problema?» chiese Tito, interrompendo le riflessioni della fanciulla. Deglutendo vistosamente, Alexander distolse lo sguardo da Kay e si voltò verso i due giovani. «Forse» ammise, a mezza voce, ma senza preoccuparsi di non farsi sentire dal Sacerdote. «Ora però andiamo» aggiunse, poi, posando le mani sulle spalle dei due ragazzi e sospingendoli gentilmente verso la porta.

Lidia esitò e Alexander strinse le dita sulla stoffa dei suoi abiti. «Andiamo, Lidia» le sussurrò. Confusa e un po’ spaesata, la giovane smise di opporre resistenza e permise al germanico di guidarla verso la porta. Quando stavano per varcarla, vennero raggiunti dalla voce del Sacerdote. Il tono era calmo, ma le parole erano completamente sconosciute, incomprensibili. La ragazza fece per voltarsi, ma il sibilo di disprezzo che uscì dalle labbra di Alexander – e lo spasmo che percorse fulmineo le sue dita – la convinsero a non farlo.

Quando si trovò di nuovo in strada, davanti al carro automatico, Lidia ebbe la netta impressione che qualcosa fosse cambiato; e che il cambiamento non fosse stato per il meglio.

***

Bando alle ciance, che sono già in ritardo. Entriamo ora nella fase finale della storia che, da scaletta, dovrebbe durare 13 capitoli più epilogo. Vediamo se riuscirò a rispettare i miei stessi piani. Nella prima stesura aveva previsto più di 20 capitoli, quindi direi che ho tagliato un bel po’ di porcheria inutile.

A parte questo, settimana prossima sarò piuttosto impegnata e poi me ne andrò un paio di giorni a Napoli, quindi, salvo miracoli o sere particolarmente ispirate, il prossimo capitolo andrà a dopo il 25 aprile.

Alla prossima!

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Capitolo 33
*** 32. Ferite ***


Lidia alzò lo sguardo su Alexander. «Andiamo a piedi?» gli chiese, quando notò che l’uomo era passato accanto al carro automatico senza degnarlo di uno sguardo. Lui annuì in silenzio e lei aggrottò la fronte, a disagio davanti all’atteggiamento improvvisamente scontroso dell’uomo. «E dove andiamo?» aggiunse, poi, con voce sottile, provando per un istante lo sciocco timore di risultare molesta.

Il germanico si fermò di colpo, guardandola come se si fosse reso conto solo in quell’istante che lei e Tito erano ancora lì con lui e che non erano misteriosamente evaporati nell’aria della mattina. Alexander chiuse per un istante gli occhi, poi espirò lentamente, come nel tentativo di allontanare da sé un po’ della tensione che aveva accumulato durante l’inaspettato incontro con Fratello Kay. «Andiamo a casa tua» la informò, con una voce che voleva essere gentile, ma non riusciva a non tradire una certa impazienza. «Ci andiamo a piedi, perché un carro automatico darebbe troppo nell’occhio. Poi, una volta che tu sarai al sicuro tra quattro mura, accompagnerò personalmente Tito dal Prefetto Caleno. E no, non protestare, ragazzo: si fa come dico io.»

Tito, che era stato sul punto di contestare il programma appena esposto dall’uomo, chinò il capo, ma rimase in silenzio. Meno male, pensò Lidia, rivolgendogli un pensiero grato. Se c’era una cosa di cui non avevano bisogno, in quel momento, era di attirare attenzioni sgradite con una discussione animata. «Sai da che parte andare?» chiese allora, rivolta ad Alexander. L’uomo scosse la testa. «No. Fai strada.»

Mettendosi alla guida del terzetto, Lidia si incamminò lungo le strade del villaggio, passando davanti a luoghi ormai ben noti senza vederli veramente. Fin ad allora, aveva cercato di non pensare troppo al suo imminente incontro con Ulf. Il momento in cui avrebbe dovuto assumersi tutte le sue responsabilità si era però fatto incombente e, a ogni passo che la portava più vicina alla casa che condivideva con il marito, il suo campo visivo si faceva più stretto, più appannato.

Non farti prendere dal panico, si raccomandò, invano, stringendo in un pugno le mani sudate. Quando, giorni prima, si era separata da Ulf, era stata convinta di dovergli rendere conto solo del fatto di avergli tenuta nascosta la presenza di Tito. Ora, invece, avrebbe anche dovuto spiegargli come quella cosa che lei gli aveva taciuto avesse, in un certo senso, provocato la morte di Karl. Sempre ammesso che Rolf non gli abbia già raccontato tutto, pensò, ricordando come il ragazzino fosse fuggito, approfittando dalla confusione nata dalla colluttazione tra Tito e Karl. Mordicchiandosi nervosamente le labbra, Lidia si chiese cosa sarebbe stato meglio: essere lei la prima a comunicare a suo marito che Karl era morto, oppure affrontarlo quando già Rolf l’aveva messo al corrente di ciò che era successo?

Non che io possa permettermi il lusso di scegliere, comunque. Chissà se Ulf è in casa? Chissà se è solo, o se c’è Unna con lui?

Quando, finalmente, si ritrovò di fronte alla propria casa, la fanciulla credette che il cuore fosse sul punto di schizzarle via dal petto, tanto batteva forte. Preoccupata, si posò una mano sullo sterno, cercando di imporsi di rilassare un poco i propri nervi tesi. Quando ho paura, non faccio altro che peggiorare le cose. Devo darmi una calmata.

Inspirando a fondo, la ragazza si voltò verso i propri accompagnatori. «Siamo arrivati» fece, rivolta ad Alexander, ben consapevole che Tito sapeva benissimo che avevano raggiunto la loro meta. «Grazie per avermi scortata fino a qui.» I due uomini si scambiarono un’occhiata rapida e lei abbassò lo sguardo a terra, avvertendo un leggero calore a livello delle guance. Di certo non era particolarmente educato, da parte sua, abbandonare i due uomini in strada, senza nemmeno invitarli a entrare. Ma adesso ho cose più importanti a cui pensare, si giustificò, mordicchiandosi le labbra. Le buone maniere possono anche passare un po’ in secondo piano.

«Sei sicura che non vuoi che veniamo con te?» chiese Alexander, con una punta di preoccupazione nella voce. Lei scosse la testa. «No, non ce n’è bisogno. Anzi, credo proprio che sia meglio che io entri da sola. Per… per sondare il terreno, ecco.»

Tito fece per muovere un passo nella sua direzione, ma fu trattenuto dalla mano del germanico che calò rapida sulla sua spalla. «Ma…» provò a protestare il giovane romano, ma Lidia lo interruppe con un sospiro. «Tito, non è davvero il caso che io mi presenti in casa accompagnata da voi due. Soprattutto… accompagnata da te.» Il ragazzo chinò il capo, mentre un’ombra di vergogna passava sul suo volto. Leggermente pentita per averlo fermato in modo tanto brusco, la fanciulla gli rivolse un minuscolo sorriso, addolcendo un poco il proprio tono. «Fammi almeno dare un’occhiata. Se è tutto a posto, verrò a dirvelo, d’accordo?»

Il ragazzo la osservò per qualche istante con un’espressione dubbiosa, poi, non vedendo forse alternative, annuì. Indirizzando ai due uomini un cenno del capo, Lidia voltò loro la schiena e poi raggiunse rapidamente la porta. Eccoci, pensò, con il cuore in gola, mentre si accorgeva che questa non era chiusa a chiave.

Quando posò di nuovo lo sguardo sui locali in cui aveva passato parte dei suoi ultimi mesi di vita, Lidia fu travolta da un’ondata di qualcosa di molto simile alla nostalgia, ma impedì ai propri sentimenti di prendere il sopravvento. Posando entrambe le mani sulla superficie liscia del tavolo, la ragazza ispirò a fondo, rendendosi conto che la tensione era tale che le braccia le tremavano vistosamente. Calmati, si impose per l’ennesima volta.

L’abitazione era perfettamente silenziosa, come se in casa non vi fosse nessuno. Ma non è possibile, ragionò la fanciulla. La porta era aperta, e Ulf ha l’abitudine di chiuderla a chiave, quando esce. Ma allora, era possibile che nessuno l’avesse sentita entrare in casa? Possibile che nessuno avesse udito la porta aprirsi e poi richiudersi? Forse dovrei provare a chiamarlo?

Per qualche motivo, il solo pensiero di pronunciare ad alta voce il nome del marito la fece sentire stupida: doveva parlargli, era vero, ma le cose che doveva dirgli non potevano essere urlate ai quattro venti. Era un discorso che richiedeva una certa delicatezza, quello, parole sussurrate e contrite, non la volgarità di un grido lasciato salire liberamente su per le scale.

Con un sospiro spossato, Lidia si staccò dal tavolo ed esaminò velocemente il giardino sul retro, il ripostiglio, persino la dispensa. Trascinandosi stancamente su per le scale di legno che conducevano al piano superiore, la ragazza lanciò un’occhiata al bagno vuoto e poi si lasciò cadere sul letto, sconfitta dall’evidenza: Ulf non era in casa. Il fatto di dover posticipare il confronto con lui, anziché placare la sua angoscia, la fece crescere ulteriormente, e la ragazza si portò istintivamente una mano alla gola, avvertendo sotto i polpastrelli il battito convulso del proprio cuore. E adesso cosa dovrei fare? Si chiese. Aspettare che torni qualcuno? E per quanto tempo, poi? Minuti? Ore? E se Ulf non tornasse affatto?

Improvvisamente, la ragazza si trovò a contemplare delle opzioni che, fino a quel momento non aveva preso in considerazione: e se qualcosa fosse andato storto e suo marito fosse stato trattenuto in uno dei villaggi in cui Donna Erin lo aveva mandato? O, ancora: e se Rolf gli avesse già detto quello che era successo e lui avesse deciso di non vederla mai più, escludendola dalla propria vita senza possibilità di appello?

Lidia si alzò nervosamente dal letto e raggiunse la scrivania situata di fronte a esso. Frugando rapidamente tra gli oggetti che ingombravano il ripiano di legno, vide che il biglietto che aveva lasciato per spiegare la situazione sembrava non esserci più. Il che significa che qualcuno l’ha trovato. Ma chi?

Incerta sul da farsi, la giovane raggiunse la finestra e, sovrappensiero, scostò la tenda. Tito e Alexander erano ancora fermi in strada, apparentemente intenti a parlottare tra di loro. Non è prudente che restino lì, si disse, con una smorfia. Anche se il pensiero di invitarli in casa le piaceva poco, Lidia scese rapidamente le scale e si affacciò alla porta d’ingresso. «Non c’è nessuno» annunciò. «Penso che… penso che Ulf rientrerà tra poco, ma, se volete, potete entrare un attimo. Preferirei evitare di parlare per strada.»

«Credo che sia una buona idea» replicò immediatamente Alexander, facendo cenno a Tito di seguirlo. Quando i due furono in soggiorno, il germanico si guardò attorno, incuriosito. «Immagino che questo posto non assomigli un gran che alla casa in cui eri abituata a vivere quando eri a Roma, vero?»

Tito soffocò uno sbuffo sarcastico, ma Lidia scrollò le spalle, sentendosi in un certo modo in dovere di difendere la casa che condivideva con Ulf. «Ammetto che abituarmi a vivere qui non è stato facile, ma immagino che ci sia di peggio…»

«Sicuramente» concesse Alexander, in un tono distante che attirò l’attenzione di Lidia. La ragazza inclinò un poco il capo su una spalla, aspettando che l’uomo elaborasse ulteriormente quello che aveva detto, ma questi si limitò a scuotere quasi impercettibilmente la testa. «Mi pare di capire che non hai intenzione di ritornare a Roma» disse, poi, cambiando bruscamente argomento. «Pensi di rimanere ancora a lungo qui a Erding?»

Lidia corrugò la fronte, cercando di ricordare se avesse mai fatto cenno ad Alexander dei suoi progetti di abbandonare il villaggio. «No, il piano sarebbe quello di allontanarci da Erding, almeno per qualche tempo. Convincere mio marito non è stato semplicissimo, ma credo di esserci riuscita, alla fine: ha detto che doveva solo risolvere un paio di questioni e che poi saremmo potuti partire. Certo che…» la fanciulla lasciò sfumare la frase, mentre la voce le moriva in gola.

«Certo che…?» la sollecitò Alexander. Lidia deglutì, provando un’improvvisa difficoltà a parlare. «Be’, tutto questo si era deciso prima che Karl morisse. Lui e Unna – mia cognata – avrebbero dovuto venire con noi. Adesso…. Non sono affatto sicura che questi progetti siano ancora validi.» Il germanico piegò le labbra in una smorfia. «Mi auguro che lo siano: da quel poco che ho visto, mi pare di capire che il villaggio non sia più un posto sicuro.»

Lidia fece per chiedergli cosa fosse dato a dargli quell’impressione – dopotutto, Alexander era giunto in paese solo quella mattina e di certo non aveva avuto modo di vedere nulla di veramente allarmante – ma l’uomo la precedette, rivolgendosi a Tito. «E tu cosa pensi di fare?» Il ragazzo esitò, preso in contropiede. «Io… non lo so ancora, a dire il vero. Credo che tornerò dal Prefetto Caleno e vedrò se posso essergli utile in qualche modo.»  

Il germanico scosse la testa, risoluto. «Che senso ha restare al villaggio? Sei venuto fino a qui per Lidia. Se lei ha deciso di restare in Germanica con suo marito, non c’è più nulla che ti trattiene da queste parti: tornatene a casa tua, a Roma.» Nell’udire quelle parole, il giovane romano aggrottò la fronte, visibilmente contrariato. «Grazie per i consigli, ma credo che resterò qui.»

Alexander lanciò una rapida occhiata a Lidia. «Mi pare che Lidia ormai abbia preso una sua decisione: non è così?» Quando la fanciulla annuì, il germanico tornò a rivolgersi a Tito. «E allora perché vuoi restare?» Lui esitò per un istante soltanto. «Il Prefetto mi ha aiutato a venire fino a qui, quindi ho un debito con lui. E intendo ripagarlo.»

Davanti alla determinazione del ragazzo, Alexander tradì uno scatto di frustrazione. «Non è un po’ stupido rischiare la vita per un debito di cui nessuno verrà mai a chiederti conto?» Tito corrugò la fronte, confuso dall’osservazione dell’uomo, e poi si voltò verso Lidia, come in cerca di supporto. «Hai paura che nemmeno il campo militare sia un luogo sicuro?» indagò lei, cercando di capire il motivo dell’improvvisa inquietudine di Alexander.

Lui si lasciò sfuggire una risatina amara. «Ho paura che nessun luogo possa dirsi sicuro, nei prossimi tempi.» La ragazza annuì lentamente, poco convinta. «Per via della rivolta? Non dico che il pericolo non sia reale, ma abbiamo molti soldati, no? Sicuramente molti di più di quanto non siano i minatori e le altre persone che vogliono cacciarci da qui. E i nostri legionari sono anche meglio addestrati…»

Lidia fece appena in tempo a rendersi conto di essersi espressa in termini di noi e loro – una suddivisione in cui lei si annoverava ancora tra le schiere di Roma – quando Alexander scosse il capo. «No, il problema non è la protesta dei minatori…»

«E allora si può sapere qual è, questo problema?» sbottò Tito, che iniziava a mostrarsi un po’ infastidito dalle mezze frasi dell’uomo. Quello sospirò e, lentamente, si incamminò verso il lavello, dando loro le spalle e stringendo brevemente tra le mani la ceramica bianca. «Io sono da queste parti da molto più tempo di voi» disse, dopo alcuni istanti di silenzio. «Lo so, come funzionano le cose.»

«Cosa vorrebbe dire?» insistette il giovane romano, avvicinandosi di un passo. «Le cose funzionano che, se da qualche parte c’è una rivolta che mette in pericolo i cittadini di Roma, il nostro esercito interviene per sedarla. Magari ci va bene e magari no, ma non c’è bisogno di avere chissà quale esperienza, per capire qual è la situazione. In ogni modo, se proprio le cose dovessero mettersi così male come temi tu, vedrò di tornarmene a Roma: d’accordo?»

Alexander si voltò verso di lui e Lidia provò una stretta allo stomaco nel vedere la tensione e la frustrazione che regnavano sul suo volto. «Io vi do solo un consiglio, come tu stesso hai detto: dovete allontanarvi da questo posto. Non tra una o due settimane, però: subito.»

Lidia sgranò gli occhi, stupita dal tono secco e perentorio dell’uomo. «Ma… perché? Non riesco a capire da cosa nasca tutta questa fretta. Perché hai deciso di riportarci qui, se adesso vuoi farci ripartire a tutti i costi?» Il modo di fare di Alexander le pareva in aperta contraddizione con ciò che aveva fatto fino a quel momento e la cosa la spaventava quasi. «Quando ho deciso di accompagnarvi qui, non sapevo ancora che Kay si fosse stabilito al villaggio» commentò il germanico, asciutto.

«Quindi lo conosci? Prima mi era parso di capire il contrario…» intervenne Tito, inclinando il capo di lato. «Non lo conosco personalmente», chiarì Alexander, «però conosco quelli come lui e so che, quando arrivano loro, le cose iniziano a mettersi male.»

Inconsciamente, Lidia si portò una mano alle labbra e prese a mordicchiarsi nervosamente l’unghia del pollice. Aveva l’impressione che l’uomo stesse tentando di metterli in guardia contro qualcosa, ma che, allo stesso tempo, volesse evitare di esporsi troppo. Il fatto che Alexander sentisse di doversi tutelare anche lì, dove non c’era nessun altro se non lei e Tito, la spaventò forse più di ogni altra cosa. «Cosa vuol dire che le cose iniziano ad andare male? Io non capisco.»

L’uomo chiuse gli occhi per un istante. Quando li riaprì, posò sulla fanciulla uno sguardo improvvisamente stanco. «Se anche te lo spiegassi, non capiresti lo stesso.»

Quelle parole sospirate toccarono un nervo scoperto e Lidia si sentì avvampare, mentre la paura e la frustrazione che aveva cercato di mantenere sotto controllo esplodevano senza preavviso. «Cosa ne sai?» sbottò, muovendo un passo nella sua direzione. «Io non sono mica stupida, sai? Chi te lo dice, che non capirei?»

Davanti a quella rabbia improvvisa, il germanico sgranò gli occhi e sollevò una mano nel tentativo di placare la ragazza. «No, non intendevo…» «È da quando sono arrivata qui, che nessuno si degna di dirmi come stanno veramente le cose!» lo interruppe rabbiosamente lei. «Mi avete costretta ad andarmene da Roma e non ho detto niente. Mi avete obbligata a sposare un perfetto sconosciuto e, ancora, non ho detto niente. In questi mesi sono stata spostata di qua e di là come se fossi un pacco e mi sono sempre accontentata solo di mezze spiegazioni… ma adesso basta! Adesso voglio sapere esattamente cosa sta succedendo, voglio sapere chi è quel tizio e perché è tanto pericoloso!» Con le guance arrossate e il respiro un po’ corto, Lidia fissò Alexander, ma in cambio ricevette solo uno sguardo piatto. «Mi dispiace, ma non posso dirtelo.»

Di fronte a quella risposta così sintetica ed elementare, la giovane romana restò per qualche istante a bocca aperta e il germanico approfittò del suo silenzio per parlare di nuovo. «Capisco che quello che hai passato non dev’essere stato facile né piacevole e, di certo, avresti avuto diritto a ricevere più spiegazioni di quelle che ti sono state fornite. Non ci sarebbe stato nulla di male a spiegarti perché i matrimoni come il tuo vengono organizzati, o perché i minatori protestano: ma ci sono altre faccende che non possono essere rese note a tutti; e Fratello Kay è una di queste.»

«Perché è un Sacerdote?» ipotizzò la ragazza, cercando di tenere a bada la propria irritazione. Alexander esitò. «Sì. In un certo senso è così.»

«Ma tu non sei un Sacerdote» gli fece notare Tito, aggrottando la fronte. «Se si tratta di informazioni segrete, tu come fai a esserne a conoscenza?»

Alexander spostò lo sguardo dall’uno all’altro, poi scrollò il capo e si premette due dita alla base del naso, come per allontanare un mal di testa incipiente. «Sentite. Cerchiamo di capirci, d’accordo?» Lidia e Tito si scambiarono un’occhiata perplessa e poi tornarono a fissare il germanico, un’espressione leggermente confusa disegnata sui loro volti. Rendendosi conto di avere la loro attenzione, l’uomo fece un passo nella loro direzione e poi abbassò il tono di voce, come se temesse di essere udito da orecchie indiscrete. «Io sto cercando di aiutarvi perché mi siete capitati tra i piedi e perché, se vi piantassi in asso, mi sentirei una merda – scusate la finezza. Non posso dirvi come stanno veramente le cose: il discorso sarebbe lungo, complicato, e sapere la verità non vi sarebbe comunque di alcun aiuto – anzi! Raccontandovi tutto rischierei soltanto di mettervi in pericolo e di mettere in pericolo anche me stesso: certe cose è meglio non saperle, credetemi.»

«Ciononostante, vi chiedo di fidarvi di me» riprese l’uomo. «Fate come vi ho consigliato e andate via da qui. Non posso spiegarvi quale sia esattamente il pericolo, ma sappiate che è imminente: se Kay è arrivato qui, significa che la decisione… significa che non c’è più nulla da fare. So come vanno queste cose, l’ho già visto in passato e, anche se è una cosa che mi fa schifo, non c’è nulla che io possa fare per impedirlo. Posso solo cercare di aiutare voi. Ed Erin, se mi riesce.»

Mentre Alexander parlava, Lidia sentiva qualcosa di pesante e vischioso formarsi al centro del petto, una sensazione che le mozzò il respiro e le fece tremare le mani. Non so perché faccia tanto il misterioso, ma non me ne frega niente, decise, con un tremito di angoscia. Quello che conta è ritrovare Ulf e convincerlo ad andare via, esattamente come avevamo deciso. Non importa se è per evitare di rimanere invischiati in una rivolta o per sfuggire a qualsiasi cosa abbia in mente Kay: che se ne vadano tutti all’Inferno!

«Tu sei veramente fedele a Roma?» La domanda di Tito, così distante dai pensieri che in quel momento stavano attraversando la mente di Lidia, indusse la ragazza a voltarsi verso di lui. «Sembri sapere molte cose a proposito dei Sacerdoti germanici, sembri temerli. Eppure, da quanto mi risulta, il Prefetto Caleno non pare ritenerli una minaccia: è evidente che sei a conoscenza di qualcosa che lui ignora. Si può sapere da che parte stai?»

«Io…» Il germanico sospirò. «Io non sto né dalla parte di Roma né da quella della Germanica. Io cerco di fare il mio dovere senza fare torto a nessuno.»

«Ma almeno sei veramente un germanico?» intervenne Lidia, chiedendosi quale fosse quel dovere a cui l’uomo aveva accennato. Lui scosse il capo in maniera quasi impercettibile. «No. In effetti, vengo da… be’, da lontano.»

«Ovvero?» insistette la fanciulla. Alexander sorrise. «Lascia perdere: non lo conosci. E non insistere: potrei farti un nome a caso, e tu non sapresti mai se ti ho detto la verità oppure no.»

Lidia fece per aggiungere dell’altro, ma il movimento repentino di Tito, che ruotò bruscamente su se stesso, attirò la sua attenzione. «Cosa succede?» chiese la fanciulla, con voce tesa. Il ragazzo aggrottò lievemente la fronte. «Mi è come sembrato di sentire un rumore…»

A Lidia bastò solo un istante per accorgersi che Tito aveva ragione: anche se sulle prime non aveva notato nulla, ora sentiva chiaramente il suono inequivocabile di passi che si avvicinavano all’ingresso. Il cuore le balzò in gola e la fanciulla si guardò disperatamente attorno, in preda al panico: chiunque stesse arrivando, era certa che non avrebbe apprezzato trovarsi a faccia a faccia con il giovane romano. «Dovreste…»

Non fece in tempo ad aggiungere altro, che la porta si aprì e Rolf entrò in casa. Lidia vide chiaramente lo sconvolgimento che si disegnò sul suo volto infantile, ma la sua attenzione venne catturata dalla figura che, pochi istanti dopo, comparve alle spalle del ragazzino.

Oh, no, pensò, mentre il sangue le defluiva dal volto. Non Unna. Non adesso. La germanica fece scorrere lentamente lo sguardo per la stanza, come se avesse qualche difficoltà a comprendere quello che stava vedendo. Poi i suoi occhi incontrarono quelli di Lidia e la ragazza si sentì sul punto di svenire. Un miscuglio di sentimenti spiacevoli – dolore, dispiacere, paura, smarrimento – le riempì il petto e alla giovane parve di soffocare. Confusamente avvertiva che avrebbe dovuto dire qualcosa, ma era come se la sua gola avesse perso la capacità di articolare parole di senso compiuto. Istintivamente, Lidia indietreggiò di un passo, spaventata dal vuoto che lesse negli occhi della cognata.

Fu Rolf a rompere l’immobilità e il silenzio di quei pochi secondi. In un sussurro, il ragazzino disse qualcosa e Unna distolse prontamente lo sguardo dalla ragazza, fissando intensamente il giovane nipote. Fu solo in quel momento che Lidia si accorse che il ragazzo aveva gli occhi puntati su Tito, che, guardingo, ricambiava lo sguardo del piccolo germanico. «Es wär er» ripeté Rolf, portandosi una mano alla tasca. Sotto gli occhi sgomenti di Lidia, il ragazzino estrasse il coltellino che il giorno prima aveva usato per incidere il legno e, con quello in pugno, si avvicinò di un passo al romano.

Immediatamente, Alexander fece per muoversi verso di lui, ma Unna fu più rapida e, riscuotendosi dal torpore nel quale sembrava sprofondata, agguantò il nipote per le spalle, attirandolo contro il proprio corpo. Chinandosi su di lui, la giovane prese la mano del piccolo tra le sue. «Näi» sussurrò e, delicatamente, lo convinse a lasciare il coltello, sfilandoglielo dalle dita. Nel vedere l’espressione concentrata con cui Unna osservava la piccola lama che ora si trovava tra le mani, Lidia avvertì il proprio cuore accelerare i battiti. La fanciulla indovinò le intenzioni della donna un istante prima che quella spingesse da parte Rolf e, senza preavviso, si slanciasse in avanti, verso Tito.

«No!» Lidia sentì la propria voce gridare, ma le gambe parvero rifiutare di obbedirle, tenendola inchiodata sul posto. Alexander fu invece più reattivo e, con un balzo, si portò davanti a Tito con le braccia tese, frapponendosi tra lui e Unna. Se la giovane si accorse dell’ostacolo, fu troppo tardi. Il suo braccio calò e, anche se l’uomo cercò di deviare il colpo, la lama sottile del coltellino gli si piantò nella spalla. Con un gemito di dolore e un’imprecazione, Alexander afferrò il polso di Unna, piegandolo in un modo che la costrinse a lasciare la presa.

Lidia, atterrita, avanzò di un passo e poi retrocedette, incapace di decidere se fosse più saggio avvicinarsi ai due per cercare di dividerli o restarsene in disparte, evitando di peggiorare inavvertitamente la situazione. «Ma sei pazza o cosa?» gemette Alexander, allontanando da sé la donna con uno spintone. Con il volto pallido come uno straccio, l’uomo si strappò il coltellino di dosso e lo lasciò cadere per terra. Per un secondo, Lidia lo credette in procinto di perdere i sensi – quello, però, vacillò solo un istante e poi parve ritrovare la propria stabilità. «Due volte in due giorni» sibilò, portandosi una mano sulla spalla ferita e mettendo così in mostra il taglio sull’avambraccio che Tito gli aveva procurato il giorno prima.  «Io cosa c’entro?» chiese, rivolgendosi a Unna.

Oh, Dèi. Con la coda dell’occhio, Lidia avvertì che Tito, che si era tenuto a distanza di sicurezza, stava avvicinandosi a lei, ma in quel momento la sua attenzione era tutta per Unna. La giovane non aveva reagito minimamente alla domanda di Alexander e lo stava fissando con gli occhi spalancati e così smarriti che la fanciulla sentì una stretta al cuore. «Unna» sussurrò, trovandosi di nuovo a corto di parole, ma avvertendo l’esigenza di dire qualcosa.

La giovane si voltò appena verso di lei e la ragazza vide che i suoi occhi erano lucidi di lacrime. Non ho mai visto Unna piangere, realizzò, con un nodo alla gola. Non l’ho mai vista veramente spaventata o ferita o debole… Il fatto di trovarsi di trovarsi di fronte alla prova evidente della vulnerabilità della cognata fu un pugno allo stomaco e Lidia si rese conto di non averla mai veramente vista per la persona che era, con le sue paure, le sue speranze e i suoi punti deboli.

Accanto a lei, Alexander posò un piede sul coltellino e lo calciò all’indietro, allontanandolo dai due germanici. «Chi è questa persona?» chiese, poi, rivolto a Lidia. La fanciulla deglutì più volte, cercando di ritrovare la propria voce e di sciogliere un poco il nodo che le stringeva la gola. «È mia cognata. È la moglie di Karl.»

Nell’udire il nome del marito, Unna trasalì e sul volto dell’uomo passò un lampo di comprensione. «Mi dispiace» fece, rivolgendo alla giovane donna un cenno del capo. Lei inspirò a fondo e i suoi occhi si posarono brevemente sulla mano insanguinata di Alexander, poi scivolarono alle sue spalle e si appuntarono su Tito. Immediatamente, lo smarrimento fu sostituito dalla rabbia. Prima che la giovane potesse fare qualsiasi cosa, però, Lidia le si fece incontro. «Unna», ripeté, «aspetta.»

La fanciulla non avrebbe saputo dire cosa esattamente la cognata avrebbe dovuto aspettare, ma non poteva permettere che cercasse di attaccare ancora Tito. Anche se ha tutte le ragioni del mondo per volersi vendicare, pensò, amaramente. Per una frazione di secondo, la ragazza cercò di guardare Tito con gli occhi di Unna, ma quello che vide la spaventò troppo per indugiare a lungo in quelle considerazioni.

In quell’istante, una voce femminile risuonò in strada e Rolf, che da quando Unna gli aveva sottratto il coltello era rimasto come congelato sul posto, sobbalzò. «Mama!» esclamò, con le lacrime agli occhi, prima di correre fuori.

Mama? Si ripeté Lidia, sorpresa da quella svolta inattesa. Automaticamente, la ragazza cercò gli occhi della cognata e Unna rispose rivolgendole un lungo sguardo strano, che lei non seppe interpretare. La giovane fece per chiedere spiegazioni, ma la germanica non gliene lasciò il tempo: girando lentamente su se stessa, uscì all’esterno, come Rolf aveva fatto qualche istante prima.

Subito, Lidia fece per seguirla, ma Tito la trattenne per un polso. «Lidia, aspetta un attimo, per favore» mormorò, guardandola con aria preoccupata. La ragazza ritrasse immediatamente il braccio, liberandosi dalla presa del giovane. «No, voglio vedere.»

Non appena ebbe messo piede fuori dalla porta di casa, Lidia sentì il cuore sobbalzarle nel petto e, istintivamente, si aggrappò con una mano allo stipite della porta, cercando sostegno. Lì, a pochi metri da lei, accanto a Unna e a una donna sconosciuta che stringeva tra le braccia Rolf, c’era Ulf.

La ragazza sentì il terreno mancarle sotto i piedi, mentre una cascata di emozioni diverse e contrastanti – e non tutte positive – si abbatteva su di lei, dandole l’impressione che le mancasse l’ossigeno. Ulf, che stava dicendo qualcosa alla sorella, si accorse della sua presenza una frazione di secondo più tardi. Quando i suoi occhi incontrarono quelli della fanciulla, lei vi scorse un lampo di qualcosa che non riuscì a definire, ma che le parve tanto famigliare che la morsa che le stritolava il petto allentò un poco la sua stretta. Una fiammella di speranza divampò nel petto di Lidia. Forse è meno arrabbiato di quanto pensassi, si disse, non osando credere alla propria fortuna.

Quando anche Unna si accorse che la cognata l’aveva seguita all’esterno, si allontanò dal fratello e raggiunse Rolf e sua madre qualche metro più in là. Ora che il momento che tanto aveva temuto era giunto, Lidia sentiva la testa stranamente vuota e aveva l’impressione di essere immersa in un’atmosfera rarefatta, dove ogni movimento era rallentato, irreale.

Si accorse che diversi secondi erano passati senza che lei muovesse un muscolo. Coraggio, si incitò, respirando a fondo per scacciare il nodo che le stringeva la gola. Non sei venuta fino a qui per restartene aggrappata alla porta come una cretina.

Lentamente, con le gambe tremanti, la ragazza scese i due gradini che separavano l’uscio dalla strada e Ulf seguì ogni suoi movimento con occhi attenti e quasi guardinghi. Lidia sentiva che l’attenzione dei presenti era puntata su di lei e, se la cosa da un lato la metteva a disagio, dall’altro la rassicurava, dal momento che la giovane aveva l’impressione che tutto fosse finalmente nelle sue mani. Un pensiero rapido attraversò la sua mente: se sto attenta, andrà tutto bene.

Improvvisamente, però, gli occhi di Ulf scattarono verso l’alto e si focalizzarono su qualcosa alle spalle della fanciulla. Cosa… voltandosi per capire cosa avesse catturato l’attenzione dell’uomo, Lidia vide che Tito e Alexander l’avevano seguita e indugiavano sull’uscio, apparentemente indecisi se uscire completamente allo scoperto o se rientrare in casa. Oh, no, pensò la ragazza, rivolgendo loro un’occhiata afflitta. Anche se, naturalmente, non avrebbe potuto nascondere a lungo la presenza dei due uomini, avrebbe di gran lunga preferito avere l’occasione di parlare brevemente con Ulf, prima di lasciare che i due rendessero nota la loro presenza. Con un senso di sventura incombente, Lidia si voltò nuovamente verso Ulf e vide che il volto dell’uomo si era fatto più duro. Il giovane si soffermò brevemente su Alexander e sulla sua ferita ancora sanguinante, ma poi si concentrò su Tito.

Quando lo fece, Lidia ebbe un tuffo al cuore. Senza che potesse fare nulla per evitarlo, antichi timori tornarono a riaffacciarsi alla sua mente e, come già era accaduto in passato, la fanciulla si chiese se il marito potesse in qualche modo rivelarsi pericoloso per l’amico. Quasi come per confermare le sue paure, Ulf fece per muovere un passo nella direzione del giovane romano, ma, inaspettatamente, Unna lo trattenne afferrandogli saldamente un braccio e mormorandogli qualcosa in un orecchio.

Fu solo in quel momento che Lidia si rese conto di essersi mossa in modo del tutto inconsapevole e di essersi frapposta, senza averne realmente l’intenzione, fra i due uomini. Nel realizzare quello che quel gesto involontario avrebbe potuto apparire, almeno agli occhi di Ulf, la fanciulla avvampò, mortificata. Dèi, adesso penserà che io volessi difendere Tito. Crederà che io non mi fidi di lui e… Lidia alzò lentamente gli occhi, con la netta sensazione di avere appena fallito un esame importante.

Per qualche istante, Ulf la fissò impassibile, poi si rivolse alla donna con le trecce bionde, che ancora teneva per le spalle Rolf e lo cullava lentamente. «Andiamocene» disse, semplicemente. La parte più razionale della sua mente fece notare a Lidia che non poteva essere un caso, se il giovane aveva scelto di usare il latino per rivolgersi a una sua connazionale che, con ogni probabilità, non masticava bene quella lingua. La parte più istintiva del suo essere, invece, rimase raggelata.

Sul volto della donna sconosciuta passò un’espressione confusa. La germanica fece una domanda che Lidia non riuscì a capire e a cui Ulf rispose solamente con un secco cenno di diniego.

Cosa vorrebbe dire, “andiamocene”? Si chiese la fanciulla, con qualche secondo di ritardo. Smarrita, cercò gli occhi di Unna, ma la donna si rifiutò di guardarla.

«Lidia…» la voce morbida di Alexander la richiamò, ma lei ignorò completamente la sua presenza e la richiesta – o la raccomandazione – che l’uomo aveva voluto racchiudere nel suo nome.

Dopo un istante di indecisione, la madre di Rolf cinse le spalle del figlioletto con un braccio e con l’altra mano prese quella di Unna, invitandoli gentilmente ad allontanarsi dalla scena e ad avviarsi lungo la strada che portava verso il centro del villaggio.

Dove vanno? Si chiese ancora Lidia, fissando il terzetto con occhi persi. Quando anche Ulf si mosse e fece per allontanarsi da lei, però, scattò. «Aspetta!» esclamò, liberandosi dall’immobilità che l’aveva tenuta prigioniera fino a quel momento e facendo due rapidi passi in direzione del germanico. «Dove vai?»

Davanti a quella domanda, il giovane abbassò inaspettatamente gli occhi a terra. «Via» rispose però, semplicemente. La ragazza aggrottò la fronte. «In che senso?» chiese, con la voce che tremava un poco. Anche se il suo istinto le aveva già fatto capire quello che stava succedendo, Lidia semplicemente si rifiutava di accettare quell’intuizione.

Ulf sospirò, ma, ancora, evitò lo sguardo di Lidia, come se il pensiero di guardarla in volto lo mettesse a disagio. «Devo occuparmi della mia famiglia. Di Unna.» La giovane romana coprì rapidamente la distanza che la separava dal marito, ma si fermò a mezzo metro da lui, non osando toccarlo. «E io?» chiese, con una voce sottile che risultò patetica anche alle sue stesse orecchie.

Improvvisamente Ulf alzò gli occhi e Lidia sbiancò vedendo la rabbia improvvisa che li aveva riempiti. «E tu… cosa?» sibilò l’uomo, sfidandola a rispondere. Alle sue spalle, la fanciulla avvertì qualche movimento: Tito aveva forse provato a intervenire, ma Alexander doveva averglielo impedito, dal momento che il ragazzo rimase al suo posto. «Anch’io sono parte della tua famiglia» replicò lei, cercando di sostenere senza tremare lo sguardo del marito.

Il giovane si lasciò sfuggire un sibilo sarcastico che avrebbe potuto forse essere una risata, se non fosse stato così amaro. «Questa cosa… questa cosa è stata proprio un’idea di merda» ringhiò, indicando prima se stesso e poi Lidia. «Ho sbagliato ad accettare questa farsa: mi sarei dovuto rifiutare di sposarti, e che la Sacerdotessa se ne andasse all’Inferno. Lo sapevo, che non avrebbe potuto funzionare… e, infatti, non ha funzionato!»

Lidia si fece ancora più pallida e per qualche secondo fu troppo sconvolta per rispondere. «Ma tu… l’altro giorno non hai detto la stessa cosa!» protestò, mentre si accorgeva con orrore che le lacrime avevano iniziato a bruciarle all’angolo degli occhi. Ripensando ai discorsi che avevano fatto prima che tutto iniziasse ad andare a rotoli, Lidia sentì poi la rabbia divamparle nello stomaco. Credeva davvero di liquidarla così, con una frase e quattro insulti? «Ne avevamo parlato! Avevi detto che avevi cambiato idea! Che con me ci stavi bene! Non puoi pensarle veramente, queste cose…»

Ulf le rivolse un sorriso tagliente. «L’altro giorno mi sfuggivano un paio di dettagli.» Quando Lidia gli rivolse uno sguardo confuso, l’uomo indicò Tito con un cenno del mento. «Chi è lui?» Voltandosi appena per lanciare un’occhiata a un Tito impietrito – e a un Alexander sempre più pallido – Lidia deglutì. «Mi dispiace, avrei dovuto dirtelo» ammise, mentre l’angoscia e la tensione le arrochivano la voce. «Ma lui non è nessuno di importante, davvero. Avevo paura che tu… che forse…»

«Non me ne frega niente» tagliò corto Ulf. «Chi sia non è importante, ormai. Quello che conta è che Karl è morto. Per colpa sua. Per colpa tua.» Lidia scosse con forza il capo, anche se, in fondo, sapeva che il marito aveva perfettamente ragione. «Non puoi parlare così» protestò, cercando di conservare quel poco di sangue freddo che le era rimasto. «Tu non c’eri, non sai come sono andate le cose…»

«… ma so come sono andate a finire» la interruppe nuovamente Ulf. «Karl è morto. Era il mio migliore amico. Lo conoscevo da una vita. Era il marito di Unna. Credi davvero che me ne freghi qualcosa, di come sono andate le cose?»

Lidia fece per protestare ancora, ma le parole le morirono in gola. No. Ovviamente a Ulf non interessava conoscere la dinamica esatta dei fatti. E poi, anche se la conoscesse, cambierebbe poco. Tito l’ha ucciso e non è stato Karl, a cercare lo scontro. «No, hai ragione» mormorò, mentre la rabbia evaporava tutta d’un colpo e restava solo la vergogna. E la stanchezza. «Però…»

«Però niente, Lidia» sospirò Ulf, anche lui con voce quieta. «Non è stata una buona idea, tutto qui. Io devo pensare a mia sorella, adesso.»

Improvvisamente Lidia rabbrividì, mentre una sensazione di freddo scivolava su di lei. «Ma poi tornerai qui?» chiese, mentre già il suo subconscio le sussurrava la risposta. Ulf le rivolse un’occhiata che aveva il sapore amaro della compassione. «Torna a casa, Lidia.»

La fanciulla alzò su di lui gli occhi lucidi. «A casa?» ripeté. Il giovane annuì. «A Roma. Chiedi a Donna Erin, lei ti aiuterà. O vacci con il tuo amico. O con l’altro tipo là dietro, chiunque egli sia… ma non restare qui. È pericoloso, per te, restartene qui da sola.»

Davanti a quella richiesta fatta in tono così ragionevole, Lidia non riuscì a trattenere le lacrime. «Ma io non ci voglio tornare, a Roma. Io voglio restare con te» mormorò, con voce spezzata. Per una frazione di secondo, Ulf incontrò il suo sguardo e nei suoi occhi la fanciulla credette di leggere un lampo di sorpresa. Meno di un istante più tardi, però, l’espressione del giovane si fece ancora distante. «Mi dispiace, ma sono io che non voglio più stare con te.»

Con quelle parole, Ulf retrocedette di un passo e, in maniera del tutto istintiva, Lidia si lanciò verso di lui, afferrandogli un polso con entrambe le mani. «Aspetta!» esclamò, con la gola stretta e il cuore che le martellava nelle orecchie. La fanciulla lo fissò con gli occhi sbarrati, cercando disperatamente di dire qualcosa che potesse spingerlo a riconsiderare la sua decisione. La sua testa era però invasa da mille pensieri terrorizzati che si accavallavano e si scontravano l’uno contro l’altro, lasciando la giovane solo con una manciata di idee spezzate.

Davanti al suo silenzio, Ulf portò una mano su quelle della ragazza e, con delicatezza, le staccò dal proprio braccio. «Torna dai tuoi genitori. Sarà meglio anche per te, vedrai.» Nell’udire quelle parole, Lidia sentì l’irritazione tornare a bruciarle nel petto, ma era un sentimento triste, privo di forza. «Come fai a dirlo?» chiese, debolmente. «Come fai a sapere che per me sarà meglio, se tornerò a Roma?»

Il germanico abbassò lo sguardo a terra. «Hai ragione» concesse, dopo qualche istante. «Non lo so, se per te sarà meglio oppure no: però so che, di certo, questa è la scelta migliore per me. Devo badare a Unna, adesso. Devo portarla via da qui e tu non puoi venire con noi. Non dopo quello che è successo.»

«Ma…» Nell’udire quelle parole che suonavano tanto come una sentenza definitiva, Lidia cercò ancora di afferrare le mani dell’uomo, ma lui indietreggiò, sottraendosi al suo tocco. «Buona fortuna, Lidia» mormorò, prima di darle le spalle e allontanarsi velocemente.

Per alcuni lunghissimi secondi, la fanciulla rimase congelata sul posto, incapace di rendersi veramente conto di quello che era appena accaduto. Poi le lacrime le offuscarono completamente gli occhi e dalla gola le sfuggì un singhiozzo. La giovane si premette entrambe le mani sulla bocca, come nel tentativo di mettere a tacere il proprio sconforto.

Non poteva essersene davvero andato così. La stava davvero lasciando lì, senza nemmeno dirle dove era diretto? Senza nemmeno darle la possibilità di accertarsi che fosse al sicuro, che stesse bene?

Non può fare sul serio, pensò, disperata, rifiutandosi di accettare l’evidenza. Quello che era successo a Karl era terribile, ma c’erano mille modi per affrontare la questione e quello scelto da Ulf le pareva decisamente il peggiore. Non ha nemmeno avuto il coraggio di guardarmi, prima di andarsene, ricordò, passandosi una mano su una guancia per asciugare le lacrime.

Quando una mano le sfiorò una spalla, Lidia sobbalzò e si voltò di scatto, trovandosi di fronte il volto cupo di Tito. «Lidia, mi…»

«Vai via!» esclamò la giovane, con la voce resa incerta dalle lacrime. Allontanandosi da lui quasi di corsa, Lidia marciò in casa, colpendo inavvertitamente con una spalla Alexander, che non trattenne un gemito di dolore. Giunta nella sala da pranzo, la ragazza si lasciò cadere su una delle sedie disposte attorno al tavolo e poi posò entrambe le mani sul legno liscio e scuro, cercando inconsciamente conforto nella frescura che le sfiorò i palmi sudati. Si sentiva svuotata, sospesa in una dimensione che non era quella reale. E adesso che cosa farò? Si chiese. Era come se ogni punto di riferimento fosse scomparso e lei si trovasse sola nell’epicentro di una pianura infinita, senza sentieri né segnali che indicassero la via.

Per un tempo che non riuscì a quantificare, Lidia rimase ricurva di fronte al tavolo, mentre lacrime silenziose le scivolavano lungo le guance e bagnavano il tessuto del suo abito.

Quella era davvero la fine di tutto? Doveva davvero rassegnarsi a tornarsene a Roma, senza Ulf e con la coda tra le gambe? Il solo pensiero le dava la nausea e la terrorizzava. Anche ammesso che Fratello Kay le permettesse di lasciare la germanica e rompere il patto matrimoniale, con quale coraggio si sarebbe ripresentata dai suoi genitori? Come avrebbe potuto sopportare il disprezzo che suo padre avrebbe certamente riversato su di lei e sul suo fallimento? E, soprattutto, come farò a sopportare la consapevolezza che, se siamo arrivati a questo punto, è tutta colpa mia?

No, non poteva farlo. Semplicemente, era una cosa che ogni fibra del suo essere rifiutava di accettare. E allora vai a cercarlo! La spronò la sua coscienza, con un guizzo d’orgoglio. Trova Ulf e costringilo ad ascoltarti! Colpita da quel pensiero, Lidia serrò le mani in un pugno, mentre un filo di energia le scivolava lungo la schiena, simile a una ventata di aria fresca. Prima, durante il confronto con il marito, si era arresa troppo velocemente. Il fatto di esserselo ritrovata di fronte all’improvviso aveva cancellato dalla sua mente il frutto di giorni di pensieri e riflessioni. Ma adesso so cosa aspettarmi. Adesso so come stanno le cose e forse… forse riuscirei a tenergli testa un po’ meglio.

In ogni modo, se anche Ulf si fosse ostinato a rifiutarla e a chiederle di fare ritorno nella sua città natale, Lidia avrebbe potuto in un certo senso avere la coscienza a posto. Se non altro, saprei di non aver lasciato nulla di intentato.

Con le gambe che ancora tremavano un po’, ma animata da una determinazione nuova, la ragazza spinse indietro la sedia e, facendo leva sui polsi, si alzò in piedi. Lanciando un’occhiata fuori dalla finestra della cucina, cercò di calcolare quanto tempo fosse passato da quando Ulf se n’era andato.

Non possono essere passati più di venti minuti, ragionò, cercando di fare mente locale. Mezz’ora al massimo. Facendo un respiro profondo, Lidia si avviò verso la porta, decisa a mettere in atto il suo intento. Non appena ebbe varcato la soglia, però, si trovò di fronte a Tito e Alexander, che si voltarono a guardarla con un’espressione mesta.

La fanciulla quasi sobbalzò: era stata talmente presa dai suoi pensieri bui, che la sua mente aveva relegato in un angolino la presenza dei due uomini e poi se n’era dimenticata. Il fatto di trovarsi faccia a faccia con loro quasi la infastidì, così Lidia abbassò lo sguardo a terra. Sono rimasti qui fuori per tutto questo tempo? Si interrogò, con una punta di sospetto. Cosa stavano facendo?

«Stai andando da qualche parte?» le chiese a sua volta Alexander, soffermandosi per qualche istante sul suo volto e sui suoi occhi ancora arrossati dalle lacrime versate.

Lidia esitò, ma poi incontrò lo sguardo dell’uomo, cercando di non curarsi del fatto che, in quel modo, gli sarebbe stato evidente quanto lei avesse pianto. «Vado a cercare mio marito» annunciò, mettendosi istintivamente un po’ sulla difensiva. Immediatamente, Alexander scosse il capo. «Non credo proprio. Togliti pure dalla testa di girovagare per il villaggio da sola.»

Lidia fu sul punto di ribattere che non ci sarebbe stato alcun bisogno di girovagare, dal momento che, per ritrovare suo marito, le sarebbe bastato recarsi alla casa del suocero, quando la sua mente le fece notare un particolare scomodo: lei non aveva la minima idea di dove fossero andati Ulf e Unna.

Non ha detto che sarebbe andato a casa di Gefrid, realizzò, mentre il suo stomaco tornava a contrarsi sgradevolmente. E non ha nemmeno detto che sarebbero andati a casa di Unna… la fanciulla comprese che, se davvero Ulf voleva allontanarsi da lei, era assai probabile che si fosse diretto in un luogo di cui lei non era a conoscenza e che non aveva modo di trovare.

Ma forse Gefrid o Hermann potrebbero aiutarmi? Si chiese. Nel momento stesso in cui la formulava, però, quell’ipotesi le sembrava decisamente poco plausibile.

La ventata di tiepido entusiasmo che l’aveva sostenuta fino a quel momento si esaurì e la ragazza si rese conto di essere giunta a un punto morto. Certo, avrebbe comunque potuto fare un tentativo co nil suocero, oppure avrebbe potuto fare un giro perlustrativo per il villaggio – anche a costo di mettere a repentaglio la propria sicurezza – però… in quel momento, il volto di Alexander si contrasse in una smorfia di dolore e l’uomo fece come il gesto di piegarsi verso Tito, quasi fosse alla ricerca di un sostegno.

«Ma tu sei ferito!» esclamò scioccamente Lidia, ricordandosi solo in quel momento che, prima di venire disarmata, Unna era riuscita a colpire Alexander. Lui le rivolse un sorriso tirato che di allegro aveva ben poco. «Eh, già…»

Sentendosi decisamente in colpa per aver lasciato che un uomo sanguinante restasse per diverse decine di minuti in piedi, in strada, Lidia gli si avvicinò preoccupata. Tito la guardò come se intendesse dire qualcosa, ma lei fece del proprio meglio per ignorarlo. «Posso… posso fare qualcosa per te?» chiese, incerta. Non aveva modo di giudicare quanto fosse profonda la ferita, ma, dal modo in cui continuava a sanguinare, era sicura che si trattasse di qualcosa ben al di là delle sue capacità mediche.

Alexander scosse il capo. «No, ma… devo andare a farmi ricucire. Non smette di sanguinare» disse, fissandosi la spalla con aria preoccupata.

Lidia annuì solerte, alzando istintivamente le mani e frenandosi solo un istante prima di toccare con la punta delle dita la stoffa intrisa di sangue. «Ma certo!» concordò. «Dove… da chi andrai, per farti curare?» Improvvisamente, la ragazza si rese conto di quanto poco conoscesse la realtà del villaggio in cui si era trasferita ormai da mesi. Era mai possibile che non sapesse a chi si rivolgesse la gente del posto, quando aveva bisogno di cure mediche? Meno male che non mi è mai capitato di stare male seriamente!

Alexander strinse i denti, apparentemente per contrastare una fitta di dolore particolarmente acuto. «C’è un guaritore, poco al di fuori delle porte del villaggio. Mi ha già… trattato una volta, in passato, ed è particolarmente abile con ago e filo.»

«Va bene» intervenne Tito, avvicinandosi all’uomo dai capelli rossi. «Ti ci accompagno.»

Di nuovo, Alexander scosse il capo con decisione. «No. Vado da solo: tu e Lidia restate qui e non vi muovete fino a che non mando qualcuno a recuperarvi. È chiaro?» Il giovane romano annuì, ma Lidia incrociò le braccia contrariata. «Io però devo ritrovare mio marito» insistette. «Non posso permettere che se ne vada via così.»

«Ti chiedo solo di aspettare un’oretta, forse anche meno» replicò Alexander, altrettanto determinato. «A questo punto, un’ora in più o un’ora in meno non farà alcuna differenza, non credi?»

Questo lo dici tu, pensò la ragazza, scontrosa. In realtà, in quella circostanza un’ora persa poteva fare una differenza enorme, visto che avrebbe potuto permettere a Ulf di allontanarsi ulteriormente. Non può costringermi a rimanere qui in attesa che arrivi chissà chi… Una volta che Alexander se ne fosse andato per la propria strada, lei avrebbe potuto fare altrettanto e mettersi sulle tracce del marito. Tito non può certo legarmi a una sedia per impedirmi di uscire di casa…

Subito, però, realizzò che nemmeno lei avrebbe potuto impedire al ragazzo di seguirla. Ed è ovvio che, la prossima volta che incontrerò Ulf, dovrò essere da sola.

Sospirando sconfitta, la fanciulla rivolse un cenno del capo ad Alexander. «E va bene» concesse, piegando le labbra in una smorfia. «Però cerca di fare in fretta: se lascio passare troppo tempo, rischio di non riuscire più a rintracciare Ulf e Unna.»

«Farò il prima possibile» la rassicurò lui.

***

Malgrado le parole di Alexander, due ore erano passate senza che nessuno si presentasse alla sua porta. Il suo stomaco l’avvertiva discretamente che l’ora del pranzo era giunta ormai da tempo, ma Lidia se ne stava rannicchiata nella sua camera, senza alcuna intenzione di cedere ai morsi della fame.

Per trovare qualcosa da mettere sotto ai denti, infatti, avrebbe dovuto scendere al piano inferiore – e fare ciò avrebbe significato incontrare Tito. Da quando Alexander li aveva lasciati soli, andando in cerca di qualcuno che potesse ricucire la sua ferita, la fanciulla aveva deliberatamente ignorato la presenza del giovane romano.

Sarà anche un atteggiamento infantile, ma adesso sento proprio di non avere la forza di parlare con lui e di fare ragionamenti… complicati.

Quando si era vista costretta all’attesa e aveva dovuto momentaneamente accantonare i suoi piani di andare alla ricerca di Ulf, Lidia aveva sentito lo sconforto montare nuovamente e, per qualche istante, le lacrime le avevano ancora appannato gli occhi. Accorgendosi del suo turbamento, Tito aveva tentato di avvicinarla – se per confortarla o per scusarsi, la ragazza non l’avrebbe saputo dire – ma Lidia l’aveva bloccato con un cenno deciso della mano e poi era battuta in ritirata verso il piano superiore, dove il ragazzo non aveva fortunatamente avuto il coraggio di seguirla.

Se lui non fosse mai arrivato in Germanica, tutto questo non sarebbe mai successo, si ripeteva, premendo il viso contro il cuscino. In quel frangente, il fatto che fosse stata lei a far sì che il ragazzo arrivasse a Erding le pareva di poco conto: avrebbe potuto scrivergli chiedendogli di rinunciare al suo piano, ma che certezza aveva che Tito l’avrebbe ascoltata?

Se solo non avesse la testa così dura! Pensò la fanciulla, serrando le mani in un pugno, frustrata. Se avesse lasciato parlare Karl, se avesse ascoltato Alexander…

Confusamente, avvertiva che Tito si era in un certo senso trovato in balia degli eventi. Era piuttosto improbabile che il ragazzo avesse veramente saputo che cosa aspettarsi, quando era partito da Roma carico di determinazione e belle speranze, ma Lidia trovava sempre più difficile giustificare le sue azioni.

O forse sto solo cercando un capro espiatorio che mi permetta di non sentirmi del tutto responsabile per quello che è successo…

Mentre era immersa in quelle riflessioni, qualcuno bussò alla porta della camera, facendola sobbalzare. «Sì?» chiese, sollevando appena la testa dal cuscino.

«Sono io… posso entrare?»

Nell’udire la voce di Tito, la giovane si mise a sedere. Che sia finalmente arrivata la persona mandata da Alexander?

«Sì, vieni pure» replicò, rassettandosi la gonna e il corpetto. Quando il giovane romano aprì la porta, Lidia vide che sul suo volto c’era un’espressione tirata, quasi preoccupata. «Che succede?» chiese, aggrottando la fronte.

«C’è una cosa che vorrei farti vedere» rispose lui, un po’ titubante.

Abbassando lo sguardo sulle sue mani, Lidia vide che Tito stava stringendo la tavoletta scura che aveva visto per la prima volta nella capanna di Alexander. Quando quella emise un bip acuto, subito seguito da altri suoni simili, la fanciulla guardò il ragazzo, interrogativa.

«Io non ho fatto niente» replicò quello, stringendosi nelle spalle. «Ha iniziato a suonare per conto suo, un paio di minuti fa.»

Perfetto, pensò Lidia, alzando gli occhi al cielo. E adesso cosa accidenti sta succedendo?

***

Il ritardo è colpa del ponte 25 aprile – 1 maggio passato a Napoli (città bellissima, tra parentesi) e di una settimana infernale in ufficio (ho lavorato dalle 8 di mattina alle 8 di sera).

E niente, tra settimane per un capitolo che non è nemmeno il massimo dell’allegria. Spero di riuscire ad aggiornare più rapidamente, al prossimo giro!

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Capitolo 34
*** 33. Giallo ***


La tavoletta non suonava in continuazione, ma emetteva delle serie di tre bip consecutivi, intervallate da un breve silenzio.

«Guarda» fece Tito, inclinando l’oggetto verso di lei e avvicinandosi al letto su cui Lidia era seduta. Per una frazione di secondo, la ragazza si ritrovò a pensare che la presenza del giovane romano in quel luogo fosse in un certo senso sbagliata, ma poi accantonò quel pensiero, concentrandosi invece su quello che Tito stava cercando di mostrarle. Anche se non vi era più traccia degli archi azzurrini che si erano levati da essa qualche sera prima, nella capanna di Alexander, la superficie di vetro scuro della tavoletta era costellata da diversi punti rossi, piccoli e luminosi.

«Alexander pensava che fosse una mappa» le ricordò il ragazzo. «Credi che stia indicando qualcosa?»

Quando Lidia tese le mani, lui le consegnò il piccolo oggetto e la fanciulla si stupì di quanto fosse leggero: pesava decisamente meno di quanto un pezzo di vetro di quelle dimensioni avrebbe dovuto pesare. Sistemandosi meglio sul letto e posando la tavoletta sulle proprie gambe, Lidia esaminò con più attenzione quello che aveva sotto agli occhi.

La maggior parte dei punti rossi che aveva intravisto qualche istante prima si limitava a pulsare debolmente, aumentando e diminuendo la propria luminosità in maniera quasi impercettibile, simili alle fiammelle incerte di candele minuscole. Ve n’era però uno che lampeggiava in maniera decisa, quasi con insistenza, come per attirare l’attenzione su di sé. Quando la fanciulla lo sfiorò con la punta del dito, accanto a esso comparvero dei piccoli caratteri ordinati. Erding, lesse Lidia, con una smorfia. Perché la cosa non mi stupisce?

Tito fece per sedersi accanto a lei, sul letto. Quando però avvertì il modo istintivo in cui la giovane si era irrigidita, intuendo le sue intenzioni, si limitò ad accovacciarsi a terra davanti a lei, torcendo il collo per poter vedere meglio la superficie della tavoletta. «E quelli cosa sono, secondo te?» chiese, aggrottando la fronte in un’espressione concentrata.

Nell’istante stesso in cui aveva toccato il vetro scuro, su di esso erano comparsi due piccoli simboli gialli, di forma triangolare. L’uno era situato accanto al bordo destro della tavoletta, l’altro si trovava poco lontano dal margine inferiore. Quello che fece però scorrere un brivido freddo lungo la schiena della fanciulla fu il movimento lentissimo, ma inesorabile, con cui essi si spostavano verso il centro dello schermo. E non c’è assolutamente alcun dubbio su quale sarà il punto in cui si incontreranno, comprese la giovane, disegnando con gli occhi la traiettoria lungo la quale i due triangoli si sarebbero mossi.

«Non ne ho alcuna idea» rispose sottovoce, mentre il suo cuore accelerava i battiti. Per qualche secondo, il suo indice rimase sospeso a poca distanza dalla superficie liscia. C’era una vocina che le suggeriva che, forse, prendersi troppa libertà con quello strano oggetto non era una grande idea. Forse faremmo meglio a non toccare niente e a far vedere questa cosa ad Alexander. Sicuramente lui saprebbe cosa vogliono dire questi simboli… Ma Alexander era lontano, ferito, e forse sarebbero passate ancora molte ore, prima che potessero rivederlo. E io le risposte le voglio ora, pensò Lidia, caparbia. Inspirando a fondo per darsi coraggio e per scacciare il brutto presentimento che l’aveva colta, sfiorò con il polpastrello una delle due piccole icone gialle.

Era talmente convinta che sarebbe successo qualcosa che, quando la tavoletta non reagì in alcun modo, la ragazza provò una microscopica punta di delusione. Aggrottando appena la fronte, premette con più forza il dito sul simbolo luminoso e poi, non ottenendo ancora alcun risultato, lo colpì più volte con la punta dell’indice, picchiettando piano. Che cos’è questa roba? Si chiese, contrariata, mentre Tito le si faceva un po’ più vicino.

Come per rispondere alla sua domanda silenziosa, accanto al triangolino comparve una scritta simile a quella apparsa di fianco al punto che indicava il villaggio di Erding. Northern Lights, lesse la fanciulla, con qualche difficoltà.

«Cosa vuol dire?» le chiese immediatamente il giovane romano. «È scritto nella lingua del posto?»

Lidia scosse lentamente il capo, confusa. Non si era mai interrogata su come si scrivesse il dialetto germanico parlato al villaggio. Liecht, pensò, Liecht vuole dire… vuole dire luce. Che si scriva per caso “lights”?

Poco convinta dalla sua stessa spiegazione, la ragazza provò a colpire anche l’altro triangolo luminoso che si avvicinava sempre di più a Erding. Nel vedere la didascalia assolutamente incomprensibile che comparve sullo schermo, Lidia arricciò il naso. Greyhound. Questa non la capisco proprio.

«Sono parole che non mi dicono niente» disse allora, incontrando gli occhi scuri di Tito. «Per quello che ne so io, potrebbe anche essere un qualche dialetto germanico: però non sono termini che conosco… e, ovviamente, non saprei proprio a cosa si possano riferire.»

«Credo che si tratti di qualcosa che si sta avvicinando a noi» fece Tito, constatando l’ovvio. «Dei carri automatici, forse?»

O delle macchine volanti, aggiunse silenziosamente Lidia. Date le circostanze, non poteva fare a meno di pensare a ciò che Ulf le aveva raccontato. Possibile che quello che si ritrovava tra le mani fosse qualcosa che le persone che prelevavano le offerte – fossero esse romane o germaniche -  usavano per comunicare tra di loro? Sarebbe una scoperta interessante… e forse pericolosa. Ben guardandosi dal rivelare a Tito i suoi sospetti, la ragazza fece un vago cenno del capo. «È possibile» mormorò, senza sbilanciarsi.

«Io credo che questa cosa appartenga ai Sacerdoti: a Donna Erin, o forse all’altro tipo che abbiamo incontrato prima» replicò il giovane, giungendo inconsapevolmente a delle conclusioni simili a quelle a cui era giunta Lidia.

«Non mi è chiaro come abbia fatto Gaio ad avere questa mappa, però. Chi gliel’ha data?» indagò lei. Prima di rispondere, Tito esitò per un attimo e la soppesò con lo sguardo, come se stesse cercando di decidere se potesse veramente fidarsi di lei. Lidia nascose un sorriso amaro, pensando a quanto poco tempo bastasse per far svanire la fiducia costruita in anni di amicizia. «L’abbiamo trovata addosso a un sospettato germanico» disse poi il giovane, senza scendere nei dettagli. «Non so in che modo fosse arrivata a lui. Potrebbe averla rubata, per quanto ne so io.»

Lidia annuì lentamente, riflettendo. «Può essere» concesse, non trovando una spiegazione migliore. Dubitava fortemente che un comune minatore potesse essere il legittimo proprietario di un oggetto tanto bizzarro, dunque l’ipotesi di Tito poteva avere un qualche fondamento di verità. «Che cosa facciamo?» chiese, poi. Anche se la tavoletta in sé sembrava tutto sommato innocua, il fatto che non smettesse di suonare la rendeva inquieta.

Tito sospirò e, lentamente, si alzò in piedi. «Se Alexander fosse qui, la consegnerei a lui e fine della storia. Visto però che non è qui – e che non sembra nemmeno intenzionato a ritornare tanto presto – credo che la cosa migliore da fare sia riportarla al Sacerdote.»

Lidia lo guadò con gli occhi sgranati. «Vuoi riportarla a Fratello Kay?» esclamò, senza preoccuparsi di nascondere la propria incredulità. «Ma sei matto?»

Il giovane romano le rivolse uno sguardo corrucciato. «Non mi sembra una proposta tanto assurda. Perché dovrei essere matto?» La ragazza balzò in piedi, afferrando al volo la tavoletta un secondo prima che questa si schiantasse al suolo. «Prima di tutto, non sappiamo nemmeno se ‘sta cosa sia effettivamente sua: e se appartenesse a qualcun altro e, dandola a Kay, combinassimo qualche pasticcio? E poi… a me quel tipo non piace nemmeno un po’. Mi mette i brividi e non ho proprio nessuna voglia di andare da lui con un oggetto che qualcuno potrebbe avergli rubato. E se se la prendesse con noi? E se pensasse che siamo stati noi, a portargli via questo affare?»

Tito incrociò le braccia. «Mi pare improbabile» commentò, asciutto.

«Improbabile, ma non impossibile» ribatté lei testardamente.

I due si scrutarono torvamente per qualche secondo, ma, prima che il ragazzo potesse aggiungere dell’altro, qualcuno bussò alla porta d’ingresso e poi, senza aspettare risposta, l’aprì. Tito rivolse a Lidia uno sguardo allarmato e, istintivamente, lei gettò la tavoletta sul copriletto. «Sarà la persona che ha mandato Alexander» disse, a mezza voce, rispondendo alla domanda silenziosa del giovane romano.

Lasciando a passi rapidi la camera e raggiungendo la scala di legno, la ragazza si sporse per sbirciare verso il piano inferiore. In cuor suo, si ritrovò assurdamente a sperare che Ulf avesse avuto un ripensamento e che fosse tornato indietro a cercarla, ma quell’illusione ebbe vita breve. Del resto, perché accidenti avrebbe dovuto bussare, prima di entrare?

Quando i suoi occhi si posarono sul visitatore, però, Lidia provò comunque un tremito compiaciuto. «Hermann!» esclamò, ritrovandosi a rivolgere al giovane cognato un sorriso smagliante.

Alzando lo sguardo verso di lei, il ragazzo le sorrise in quella maniera che la fanciulla aveva sempre trovato adorabile e che aveva immancabilmente l’effetto di farle pensare che tutto sarebbe andato per il meglio. «Oh, sei ancora qui! Meno male! Avevo paura che fossi partita di corsa per cercare quell’idiota di mio fratello…»

Nel sentire Hermann riferirsi a Ulf in quel modo, Lidia provò un’ondata di profondo affetto nei confronti del più giovane dei figli di Gefrid. Ulf si è davvero comportato un po’ come un idiota, lasciandomi qui, si disse, trovando il pensiero stranamente consolatorio.

Scendendo velocemente le scale, Lidia si trattenne dal seguire l’istinto che la spingeva ad abbracciare di getto Hermann. Anche se il ragazzo sembrava sinceramente felice di vederla – e anche se i suoi rapporti con Karl non erano mai stati ottimi, se non ricordava male – il giovane germanico doveva essere sicuramente preoccupato per Unna e per il suo nipotino non ancora nato. E non è detto che, dopo tutto, non ce l’abbia almeno un po’ con me.

Giunta di fronte a lui, la ragazza si limitò allora a incrociare le braccia e a sorridergli nuovamente. «Sì, be’… a dire la verità, avevo veramente intenzione di andare a cercare Ulf. Poi, però, ho pensato che fosse meglio riordinare un po’ le idee… senza contare che non so proprio dove sia andato. Immagino che non sia a casa di vostro padre, giusto?»

Sospirando, Hermann scosse il capo e appoggiò sul tavolo un fagottino avvolto in uno strofinaccio dall’aspetto vagamente famigliare. «Tieni: ti ho portato il pranzo. La nonna ha pensato che non fossi dell’umore adatto per provare a cucinarti qualcosa.»

«Oh… è stata gentile» mormorò Lidia, commossa, prima di fissare Hermann, aspettando che il ragazzo rispondesse alla domanda che gli aveva posto qualche istante prima.

«No, Ulf non è da noi» fece allora il giovane germanico. «Mio padre non lo vede da ieri, da quando sono tornati dal loro viaggio. Quello che sappiamo, ce lo ha riferito Katti questa mattina. Ci ha detto che Karl era morto e che Ulf intendeva andare via con Unna. Dove volesse andare esattamente, non ce lo ha detto: sospetto che non lo sapesse nemmeno lei.»

Lidia aggrottò la fronte. «Katti?» chiese. Hermann annuì. «Sì, è la madre di Rolf.» La fanciulla sentì crescere ulteriormente la propria confusione. «Ma… non capisco. Lei era qui, quando Ulf e Unna sono passati di qua. Era con loro. Com’è possibile che non sappia dove sono andati?»

Quell’informazione parve sorprendere il ragazzo. «Ah. Non lo sapevo. In effetti, è…» Hermann lasciò sfumare la frase e, seguendo il suo sguardo, Lidia vide che Tito, evidentemente insospettito dalla sua assenza prolungata e dalle voci che sentiva giungere dal piano inferiore, era sceso fino a metà scala.

Dèi, datemi la forza, pensò la fanciulla, sentendosi improvvisamente esausta. Tutto d’un tratto, aveva una gran voglia di dormire, di appallottolarsi sotto alle coperte e di lasciare che il mondo andasse avanti senza di lei. Vorrei solo addormentarmi e svegliarmi quand’è tutto finito, pensò, serrando gli occhi per qualche secondo.

Ovviamente, quella non era un’opzione a sua disposizione e allora, gonfiando i polmoni per farsi coraggio, la ragazza riaprì gli occhi. «Tito», esalò, «vieni qui.» Voltandosi poi verso Hermann, indicò con un cenno della mano il giovane romano. «Hermann, questo è…»

«… il tuo amico?» fece per lei il ragazzo, inclinando un poco il capo sulla spalla.

«… sì» confermò la fanciulla, presa leggermente in contropiede dal tono neutrale del cognato. «Possiamo affrontare una cosa alla volta? Vi va?»

Lidia si sentiva stanca, sia fisicamente che emotivamente. Curiosamente, quella spossatezza le sembrò fungere quasi da anestetico: di punto in bianco, la giovane si rese conto che Hermann la intimoriva decisamente meno di Ulf. Se, per un qualche motivo che non si era mai fermata ad analizzare, Lidia si era sentita sempre lievemente inferiore al marito – se non intellettivamente, quantomeno a livello di status sociale – Hermann le pareva in tutto e per tutto un suo pari. Discutere con lui era facile, comprese, e di Tito non si doveva preoccupare.

Per la prima volta in molti giorni, la giovane ebbe l’impressione di essere all’altezza della situazione, di controllarla completamente. Adesso voglio solo fare un po’ di ordine, si disse, sentendo un’inaspettata sensazione di calma scendere su di lei. Voglio fare chiarezza per bene e ripartire da qui. E al passato ci penseremo poi più tardi.

Forte di quella nuova determinazione, Lidia si lasciò cadere sulla sedia più vicina. «Sedetevi» ordinò ai due ragazzi che si guardavano in silenzio a pochi metri da lei. Tito farà bene a non combinare più guai di quelli che ha già combinato, e Hermann è solo un ragazzino: sono io quella che ha il diritto di prendere le decisioni, qui. C’era, ovviamente, una vocina che, nel fondo della sua testa, le sussurrava che dare per scontato che Hermann si piegasse completamente al suo volere era un grosso errore, ma Lidia la mise a tacere – almeno per il momento. «Allora», disse, rivolgendosi al giovane germanico, «immagino che di lui sai già un paio di cose, giusto?»

Il ragazzo fece un cenno d’assenso e i suoi occhi verdi scintillarono. «Quello che so è che è un romano e che ha ammazzato Karl. Quello che suppongo è che sia venuto per portarti via e che… non sia semplicemente un tuo amico? Questo è quello che Ulf ha detto a nostro padre, quanto meno.» Dopo una brevissima pausa, Hermann riprese: «Quello che mi chiedo, invece, è cosa cavolo ci faccia qui».

«L’ho fatto per difendermi!» sbottò Tito, prima di venire azzittito da Lidia con un gesto della mano. «Sulle circostanze che hanno portato alla… morte di Karl ci sarebbe da discutere» fece la ragazza. La sua voce tremò leggermente, ma Lidia si impose di non lasciarsi sopraffare dai sensi di colpa e di fare del proprio meglio per mantenere la sua neonata sicurezza. «Se tutti avessimo agito in modo diverso non saremmo qui a parlarne… o forse non sarebbe cambiato e noi ci ritroveremmo nella stessa identica situazione. Quello che è certo, però, è che mi dispiace. Tanto. Più di quanto avessi creduto.» In preda a un saliscendi emotivo che la lasciava leggermente frastornata, Lidia sentì una famigliare tensione stringerle la gola e sbatté più volte le palpebre, cercando di allontanare lo spettro delle lacrime che, per una frazione di secondo, rischiarono di riempirle di nuovo gli occhi.

Hermann sospirò. «Karl non era il mio migliore amico e non posso certo dire che il fatto che non ci sia più non mi farà dormire dalla disperazione» disse, schietto. «Però io voglio bene a Unna e lui per lei era importante. Non ho mai capito quanto, non ho mai capito quanto l’amasse veramente, ma… be’, se non gli avesse voluto bene, non ci avrebbe fatto un figlio.»

Lidia annuì e il ragazzo fissò Tito. «Quindi, il fatto che tu abbia in un modo o nell’altro causato la sua morte mi irrita parecchio.» Davanti allo sguardo torvo di Hermann, Tito si irrigidì, come preparandosi per uno scontro, ma poi il germanico esalò lentamente, come per allontanare la tensione. «Ma immagino che di questo si possa discutere in futuro, quando non abbiamo due membri della nostra famiglia in procinto di scappare chissà dove, giusto?»

«Esatto» confermò Lidia, sollevata dal modo in cui il giovane aveva liquidato la questione. «E, per la cronaca: io e Tito eravamo fidanzati, a Roma, ma ora non lo siamo più, ovviamente. Tra noi due non c’è più niente. Gli ho spiegato in lungo e in largo che io voglio stare con Ulf: non è così?»

Tito sbuffò, sarcastico. «Direi che sei stata assolutamente cristallina.»

«Se non ho detto a Ulf che lui era qui», riprese la fanciulla, guardando con la coda dell’occhio il giovane romano. «era solo perché non sapevo come avrebbe potuto reagire. Un giorno mi ha detto delle cose, mi ha parlato di alcuni discorsi che lui e Karl avevano fatto prima che io arrivassi in Germanica e io mi sono un po’ spaventata. Avevo paura che a Tito potesse succedere qualcosa…» Quando Hermann le rivolse un’occhiata dubbiosa, Lidia piegò le labbra in una smorfia esasperata. «Non stiamo più insieme, ma questo non significa che non me ne freghi più niente di lui. È un mio amico, è normale che gli voglia ancora bene. No?»

«Così parrebbe» sbuffò di nuovo Tito, ma nei suoi occhi la ragazza scorse una luce calda che sciolse un po’ della tensione che si stava accumulando nelle sue spalle.

«Immagino che sia normale, sì» confermò Hermann. «Però continuo a non capire perché lui sia qui.»

«Ecco, questa… questa è una storia un po’ lunga» abbozzò Lidia, mordicchiandosi pensosamente l’unghia del pollice. «Cercando di farla breve. Quando mi hanno costretta a partire – a proposito, hai trovato il mio biglietto?» chiese, interrompendo immediatamente la spiegazione. «Sì, l’ho trovato» replicò il ragazzo, facendole cenno di proseguire.

«Bene. Stavo dicendo: quando mi hanno portato via da qui, ci siamo fermati una notte nella capanna di un certo Alexander. Il giorno dopo, io e Tito ci siamo separati e Karl mi ha trovata e ha cercato di riportarmi a Erding. Dopo che è successo quello che è successo, ho comunque chiesto di essere riportata al villaggio e Alexander si è offerto di accompagnarci con un carro automatico. È venuto fino a qui, ma quando è arrivata Unna, lei l’ha ferito e…»

«Unna l’ha ferito?» la interruppe Hermann, sporgendosi verso di lei. La ragazza annuì. «Sì, con il coltellino di Rolf. Mirava a Tito, ma lui si è messo in mezzo e si è beccato una coltellata alla spalla.»

Hermann fischiò e a Lidia parve quasi ammirato dal coraggio della sorella. «Sì, be’, morale della storia: lui è andato a farsi ricucire e ci ha detto di aspettarlo qui, visto che andarsene in giro per il villaggio da soli è diventato pericoloso» concluse la ragazza, prima di puntare gli occhi in quelli del cognato. «Il che mi fa sorgere due domande. Uno: cosa ci fai tu, da solo? E due: come sapevi che mi avresti trovato qui?»

Sorvolando completamente sulla prima domanda, il ragazzo si concentrò sulla seconda. «Sapevo che eri tornata a Erding e che ti avrei trovata a casa perché è stato Fratello Kay a dircelo. Ci ha detto che questa mattina eri passata da lui e ci ha raccomandato di tenerti d’occhio per evitare che te ne andassi in giro per il villaggio a fare cose strane. Non chiedermi cosa volesse dire, esattamente, perché non ne ho proprio idea.»

«Nemmeno io» replicò Lidia. Cercò gli occhi di Tito in cerca di suggerimenti, ma quello si limitò a scrollare le spalle.

Per alcuni lunghi secondi, i tre giovani si guardarono in silenzio, poi Hermann si sporse verso Lidia. «Allora… quali sono i piani?»

«Ritrovare tuo fratello» rispose prontamente la ragazza. «Ritrovarlo, e costringerlo ad ascoltare quello che ho da dire. Se crede di poter scappare via così, si sbaglia di grosso!» Anche se con qualche ora di ritardo, l’oltraggio per il trattamento riservatole dal marito iniziava a farsi sentire e Lidia sentì l’indignazione arrossarle le guance. «Non può dirmi di tornarmene a Roma e pretendere che io obbedisca come un cagnolino! Deve starmi a sentire: almeno quello, me lo deve. Non metto in dubbio di aver sbagliato, anzi! Ne sono ben consapevole, adesso, ma devo avere il diritto di difendermi. Se poi vorrà comunque andare via, me ne farò una ragione. Ma almeno potrò dire di averci provato.»

Sì, come no, le sussurrò malignamente la sua coscienza. Se davvero, dopo quell’ultimo tentativo, Ulf l’avesse comunque rispedita a casa, Lidia non era affatto certa di come avrebbe reagito. Sarebbe davvero stata in grado di sopportare il dolore e l’umiliazione?

Hermann le rivolse uno sguardo strano. «Non metto in dubbio che tu abbia le tue colpe», disse lentamente, «ma Ulf ti ha mai raccontato cos’è successo a Unna? No, perché se non l’ha fatto, ti assicuro che anche lui ha la sua bella dose di colpa, sai?»

«No, non mi ha mai detto niente di specifico» mormorò lei, scuotendo appena il capo. «Ha sempre detto che toccava a Unna parlarmene…»

«Sì, come no!» sbottò Hermann. «Come se Unna fosse una che va in giro a raccontare i fatti suoi così a cuor leggero! No, mio fratello avrebbe dovuto spiegarti come stavano esattamente le cose!» Il ragazzo si interruppe bruscamente, facendo danzare lo sguardo tra i due romani. «Lo farei io, ma non è il momento più opportuno – e poi mi scuserete, se non ho tanta voglia di parlarne davanti a lui

«Nemmeno mi interessa» lo informò Tito, incrociando le braccia davanti al petto e lasciandosi scivolare contro lo schienale della sedia.

«Be’, in ogni caso… in ogni caso, voglio dare a Ulf un’altra possibilità» borbottò il giovane germanico. «Se poi continua a non dirti niente, ti racconto io come sono andate le cose… e poi vedremo se non era una cosa che avresti dovuto sapere, visto che sei romana e che i romani hanno avuto un piccolissimo ruolo in quello che è successo a nostra sorella.»

Lidia fece per dire qualcosa, ma Hermann la interruppe di nuovo. «E poi, voglio dire, andarsene via così! C’è proprio da essere cretini! Ti ha lasciato qui da sola? Con tutto quello che sta succedendo in questi giorni? E se ti fosse successo qualcosa?»

Davanti allo sdegno del ragazzo, la fanciulla si sentì in dovere di difendere almeno in parte il marito. «Non è che mi abbia lasciato qui proprio da sola. Con me c’erano Tito e Alexander: Ulf mi aveva detto di andare via con loro. Non mi ha abbandonato a me stessa…» ricordò, ripercorrendo la conversazione, breve e dolorosa, avuta poche ore prima.

Hermann parve preso alla sprovvista da quell’informazione, ma incrociò caparbiamente le braccia sul tavolo, riflettendo inconsciamente la posa assunta da Tito. «Be’, in ogni caso, si è comportato come un idiota! Nostro padre avrà una o due cosette da dirgli, quando torna.»

Nella sua indignazione, Hermann dimostrava tutta la sua giovane età e Lidia non riuscì a trattenere un sorriso. «Sì, effettivamente non si è comportato in maniera particolarmente intelligente» decise, lasciando che le parole del ragazzo rinfrancassero la sua autostima.

«Tutto questo è molto interessante, ma cosa ci facciamo, con quell’affare che abbiamo lasciato di sopra?» chiese Tito, ostentando un’espressione palesemente annoiata. Hermann aggrottò la fronte. «Quale affare? E, già che ci siamo: cos’è questo rumore?»

Tendendo le orecchie, Lidia si rese conto che il suono emesso a intervalli regolari dalla tavoletta era ora chiaramente udibile anche dalla sala da pranzo. «È aumentato il volume?» chiese, rivolta a Tito. «A me pare proprio che sia aumentato…»

Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Non lo so, può essere. Credi che sia il caso di andare a prenderla?» Quando la fanciulla gli rivolse un cenno d’assenso, il giovane balzò in piedi e corse di sopra, lasciando Lidia nuovamente sola con Hermann. «Dunque, ci sarebbe anche un’altra cosa che dovresti sapere» sospirò lei, sistemandosi una ciocca di capelli dietro un orecchio. «I soldati che hanno cercato di riportarmi a Roma avevano con sé una specie di tavoletta che, se non ho capito male, hanno sottratto a uno dei minatori che hanno fermato. Alexander – il tipo di cui ti ho parlato prima – crede che possa trattarsi di una mappa… e forse non ha tutti i torti, considerato che, poco fa, è saltata fuori una dicitura con scritto “Erding”. Sospettiamo che in origine appartenesse a uno dei nostri Sacerdoti.»

«Il fatto è che non è proprio una comune mappa. Sembra fatta di vetro e ogni tanto su di essa compaiono come dei pallini luminosi, dei nomi, delle… tracce. Io non ho mai visto una cosa del genere e, da quanto ho capito, nemmeno il Prefetto Caleno. Alexander dev’essere una specie di esperto di queste cose, ma anche lui mi è sembrato perplesso. E adesso si è messa a suonare, e non riusciamo a farla smettere.»

«Com’è che questa cosa è rimasta a voi?» la interrogò Hermann. Lidia esitò. «Be’, uno dei soldati l’ha affidata a Tito. A un certo punto ci siamo dovuti dividere e… non siamo più riusciti a ricongiungerci.»

Dopo qualche istante, Tito scese di nuovo in sala da pranzo, tenendo tra le mani la tavoletta scura. «Posso vederla?» chiese Hermann, allungando una mano in direzione del giovane romano. «Sì», replicò quello, «ma cerca di non toccare niente. Non abbiamo ben capito come funziona ed è meglio non schiacciare cose a caso…»

Hermann gli rivolse un’occhiata storta, ma poi afferrò la tavoletta con delicatezza, quasi temesse che l’oggetto potesse avere delle reazioni inconsulte. «Mh» mormorò poi, dopo averla studiata in silenzio per alcuni secondi. «Cosa sono ‘ste cose gialle?»

Tito e Lidia si scambiarono un’occhiata tesa. «Non lo sappiamo» disse poi la fanciulla. «Tu riesci a capire cosa vogliono dire quelle parole che ci sono scritte accanto?» Il ragazzo scosse subito la testa. «No. No capisco nemmeno in che lingua siano…»

«Perfetto» ringhiò Tito trai denti, attirandosi lo sguardo confuso del ragazzo più giovane.

«Fino a poco prima che tu arrivassi qui, quelle due cose non c’erano» spiegò rapidamente Lidia. «Sono comparse solo nel momento in cui la tavoletta ha iniziato a suonare. Non siamo riusciti a capire che cosa siano, però, se guardi bene, vedrai che si stanno avvicinando a Erding… e la cosa ci preoccupa un po’. Soprattutto alla luce di quello che hanno detto Kay e Alexander» concluse poi la ragazza, tracciando per la prima volta un collegamento che fino a quel momento era rimasto implicito.

«Perché, che cosa hanno detto?» chiese immediatamente Hermann, posando la tavoletta sul tavolo e voltandosi per guardarla meglio.

Lidia si mordicchiò nervosamente l’unghia del pollice. Le minacce velate del Sacerdote e il criptico avvertimento di Alexander l’avevano impressionata e nella sua testa la convinzione che qualcosa di brutto stesse per accadere prendeva sempre più forma. Tuttavia, ora che le veniva chiesto di dar voce alle sue preoccupazioni, esse le sembravano solo sciocche suggestioni. Ma non si può mai sapere, si disse la ragazza, sollevando il mento.

«L’altro giorno, quando Donna Erin ha convocato me e Ulf, Fratello Kay mi ha fatto tutto un discorso a proposito di come gli Dèi potrebbero decidere di punirci, se la gente del villaggio continua a comportarsi in maniera contraria alle loro leggi» disse, allora, incontrando gli occhi del cognato. «In più, come sai, questa mattina abbiamo incontrato di nuovo il Sacerdote. Be’… con noi c’era anche Alexander, e il fatto che Kay sia qui al villaggio l’ha fatto preoccupare. Infatti ci ha consigliato di andarcene via il prima possibile, perché, a quanto pare, quando quelli come lui arrivano in un posto, le cose iniziano ad andare male.»

Hermann aggrottò la fronte, impensierito. «Cosa vorrebbe dire?» chiese, con una nota di turbamento nella voce. Lidia storse le labbra. «Non ci ha detto altro, purtroppo» mormorò, dispiaciuta.

«Per farla breve, crediamo che la cosa migliore da fare sia riportare questa cosa al Sacerdote» si intromise Tito. «E, magari, approfittarne per cercare di capire qualcosa di più a proposito di questa ipotetica punizione divina…»

La fanciulla si voltò immediatamente verso di lui. «Aspetta un attimo: non è che avessimo esattamente deciso di fare così. Quando Hermann è arrivato, ne stavamo ancora discutendo. E io ribadisco quello che ho detto prima: non mi sembra una grande idea.»

«Perché no?» la interrogò il giovane germanico. Lidia si mordicchiò appena le labbra. «A me quel tipo non piace nemmeno un po’. Ogni volta che lo vedo, ho come un brutto presentimento: l’idea di andarlo a cercare di mia spontanea volontà mi disturba, ecco.»

«Però lui non ha tutti i torti» obiettò il ragazzo, indicando Tito con un cenno del capo. «Magari si tratta solo di una delle solite balle dei Sacerdoti e non c’è nulla di cui preoccuparsi, però, se non fosse così…»

«Se non fosse così, cosa faremmo?» controbatté la fanciulla. «Se davvero stesse per succedere qualcosa di brutto, non è che parlandone con Fratello Kay risolveremmo qualcosa. Anche ammesso che lui sia disposto a riceverci e a starci a sentire, non credo proprio che riusciremmo a convincerlo a fare qualcosa. Non mi sembra il tipo di persona che si preoccupa dei problemi degli altri, o che accetta di buon grado i suggerimenti.»

«Forse no», concordò Hermann, «ma potrebbe essere utile riuscire quanto meno a farsi un’idea di come stanno veramente le cose, non credi?»

Lidia scrollò le spalle. Certo che sarebbe utile, pensò, abbassando pensosamente lo sguardo sul tavolo. Peccato che non mi sembra proprio che questa gente sia abituata a parlare chiaro. Perché mai dovrebbe dirci la verità? Non l’ha fatto nemmeno Alexander… figuriamoci se lo farebbe Kay!

«Sono d’accordo» intervenne Tito, stringendo le mani in un pugno. «Io dico di andare. Alla peggio, ci libereremo di questa cosa, così che nessuno possa accusarci di averla nascosta o di aver cercato di tenerla per noi.»

«E poi», rincarò la dose Hermann, «una volta che non dovremo più gestire questa cosa, potremmo preoccuparci di ritrovare i miei fratelli, prima che vadano troppo lontano.»

«Ecco, questa è la cosa più importante» sospirò Lidia, giocherellando nervosamente con i propri capelli. «Non vorrei aver già perso troppo tempo, aspettando che Alexander venisse a recuperarci.»

«E allora è deciso» concluse Tito, alzandosi in piedi. «Non perdiamone altro: portiamo la mappa al Sacerdote e sentiamo se ha qualcosa di interessante da dirci. Fatto ciò, io me ne tornerò dal Prefetto e tu… tu potrai andare a cercare il tuo amato, se è questo che vuoi. Prima, però, sarebbe il caso di riuscire a far star zitto questo affare: inizia a darmi sui nervi» aggiunse il giovane romano, ignorando lo sguardo velenoso che la fanciulla gli aveva appena rivolto.

«Hai qualche idea?» fece Lidia, vagamente beffarda. Tito si strinse nelle spalle. «Be’…» Il ragazzo raccolse la tavoletta dal tavolo e se la rigirò tra le mani, alla ricerca di qualche tasto che potesse arrestare il suono incessante. «Non capisco nemmeno da dove esca il suono» borbottò, provando a colpire lo schermo un po’ a caso.

Dopo un paio di colpetti, l’oggetto prese a vibrare intensamente. Tito sgranò gli occhi, spaventato e, istintivamente, Lidia balzò verso di lui, posando le proprie mani su quelle del ragazzo. «Shh!» sibilò, chinandosi inconsciamente sulla tavoletta. «Basta!»

Di punto in bianco, suono e vibrazione si arrestarono come per magia. «Che cosa avete fatto?» chiese cautamente Hermann. I due romani si scambiarono un’occhiata perplessa. «Io… niente» mormorò Lidia, perplessa da quel silenzio improvviso.

«Va be’, l’importante è che non faccia più quel bip-bip irritante» tagliò corto Tito, posando nuovamente l’oggetto sul tavolo. «Mangiamo qualcosa e poi vediamo di disfarci una volta per tutte di questo coso

***

Meno di un’ora più tardi, i tre giovani si ritrovarono a fissare la porta chiusa della casa che fino a poco tempo prima era stata di Donna Erin. Malgrado la brezza tiepida che spirava in quel caldo pomeriggio di luglio, Lidia rabbrividì e si passò inconsciamente le mani sulle braccia nude, cercando di placare il tremore che l’aveva colta all’improvviso. «La Sacerdotessa se n’è andata» mormorò, a beneficio di Hermann. Il ragazzo annuì. «Sì, lo so: quando Fratello Kay è venuto a parlare con mio padre, ci ha detto che ha preso il posto di Donna Erin.»

«Ah, lo sapevi già» fece la fanciulla, tornando a fissare la porta in legno scuro. «Cosa facciamo? Entriamo?» Accanto a lei, Tito piegò le labbra in una smorfia che aveva solo una vaghissima somiglianza con un sorriso. «Direi proprio di sì. Non siamo venuti qui per ammirare il panorama, no?»

Stringendo la tavoletta sotto il braccio sinistro, il giovane romano bussò con decisione. Quando, dopo alcuni istanti, dall’interno non giunse alcuna risposta, il ragazzo impugnò la maniglia e spinse fino a quando la porta non ruotò silenziosamente sui cardini. «Be’, per lo meno è aperta» commentò, asciutto.

Senza esitare, Tito si introdusse nella casa della Sacerdotessa e Hermann lo seguì a ruota. Lidia indugiò qualche secondo sull’uscio, in preda alla netta sensazione di essere in procinto di fare qualcosa che sarebbe stato decisamente più giusto – e più saggio – non fare. Non si entra in casa di estranei senza esservi stati invitati. La voce di sua madre le risuonò in testa dopo mesi di silenzio e la ragazza deglutì, sentendosi a disagio davanti alla prospettiva di trasgredire a uno dei primi principi di buona educazione che le fossero mai stati impartiti.

Oh, che idiozia! La sferzò pochi istanti dopo la sua coscienza. Nemmeno fosse la prima volta che ti comporti in maniera poco onorevole. E poi è per una buona causa, no?

«C’è nessuno?»

La voce di Tito la costrinse a riscuotersi e Lidia raggiunse i due giovani uomini nella sala in cui Donna Erin era solita fare aspettare i propri ospiti. «Credi che Fratello Kay sia in casa?» chiese la fanciulla, facendo danzare gli occhi tutt’intorno a sé. Anche se si era decisa a entrare, non poteva certamente dire di sentirsi a proprio agio. La sensazione di essere fuori posto – o forse di trovarsi nel posto sbagliato, al momento sbagliato – si era acuita e la ragazza aveva i nervi a fior di pelle.

«Non c’è motivo di essere nervosi» le disse gentilmente Hermann, percependo il suo turbamento. «In fin dei conti, non stiamo facendo nulla di male: vogliamo solo consegnare al Sacerdote un oggetto che forse gli appartiene.» Malgrado quel tentativo di rassicurarla, Lidia vide che il ragazzo pareva nervoso almeno quanto lei, e così si astenne dal commentare.

«Sembrerebbe proprio che non ci sia nessuno» mormorò Tito, con in viso un’espressione che a Lidia parve quasi delusa. «Cosa facciamo? Lasciamo la mappa da qualche parte oppure proviamo a dare un’occhiata in giro, nel caso il Sacerdote non ci avesse sentito?»

«Questo posto non è esattamente una reggia: se Fratello Kay fosse in casa, ci avrebbe risposto» replicò la giovane. «Credo che sarebbe meglio lasciargli la tavoletta sul tavolo e andarcene via… magari prima che lui faccia ritorno. Sarò paranoica, ma a me la situazione continua a sembrare un pochino equivoca. Credo proprio che, al di là delle nostre intenzioni, non sarebbe felicissimo di trovarci qui.»

Tito storse le labbra, dubbioso, e abbassò ancora una volta lo sguardo sulla tavoletta scura. Avvicinandosi a lui, Lidia vide che, anche se ora l’oggetto era completamente silenzioso, i due triangoli gialli dai nomi impronunciabili non si erano fermati e distavano ormai solo pochi centimetri dal puntino che indicava Erding.

«Se ce ne andiamo così, però, non riusciremo a scoprire niente di più sul pericolo che incombe sul villaggio.» Senza che i due romani se ne accorgessero, Hermann era giunto alle loro spalle e stava a sua volta osservando la mappa con aria concentrata. «E se provassimo a dare un’occhiata in giro? Giusto una cosa veloce, per assicurarci che non ci siano altre cose strane. Magari riusciamo a trovare qualcosa di utile...»

Lidia scosse immediatamente la testa. «Assolutamente no!» sbottò, portandosi le mani ai fianchi. «Non possiamo metterci a ficcare il naso in giro: se Kay arrivasse e ci cogliesse sul fatto, non avremmo più nessunissima giustificazione. Non facciamo idiozie: lasciamo qui la mappa e andiamocene via.»

«Il ragazzo ha ragione: se davvero vogliamo chiarirci le idee, dobbiamo approfittarne» mormorò Tito lentamente, ignorando completamente le proteste di Lidia. «Sbrighiamoci, però. Facciamo solo un giro veloce e, se sembra tutto normale, ce la filiamo.»

La ragazza non riusciva a credere alle proprie orecchie. «Ma cosa state dicendo?» sibilò, guardando i due giovani. «Ma siete impazziti o cosa? Non è un gioco! Non stiamo facendo una caccia al tesoro, non siamo… non siamo investigatori alla ricerca di indizi. Cosa cavolo vi aspettate di trovare? Un manuale pratico che spiattella tutti i dettagli della punizione divina che cadrà su Erding? E che magari spiega pure come affrontarla?»

Tito le lanciò uno sguardo irritato. «Ovviamente no» scandì. «Per quanto mi riguarda, voglio solo vedere che non ci siano altri oggetti tipo questo o altre cose altrettanto strane. Non voglio portarmi via niente, sia chiaro: se però dovessi imbattermi in qualcosa di insolito, vorrei vederlo da vicino per poi andare a fare rapporto al Prefetto.»

Fare rapporto, ripeté silenziosamente Lidia. Ma è mai possibile che questo qui si crede già un soldato? È poco più che un ragazzino senza alcun addestramento!

«Io, invece, non so proprio cosa aspettarmi, perché non ho idea di cosa ci sia in ballo» fece a sua volta Hermann. «Però un’occhiata voglio darla lo stesso.»

Lidia scosse lentamente il capo, mentre la tensione che le nasceva a livello dello stomaco le avvolgeva a spire lente gambe e braccia, facendola tremare in maniera quasi impercettibile. Avrebbe protestato ancora, se non avesse avuto la netta sensazione che l’unico risultato che avrebbe ottenuto sarebbe stato di perdere ancora più tempo. «E va bene» sospirò, assolutamente poco convinta. «Diamoci una mossa, però. Non voglio rischiare di venire scoperta e, soprattutto, non voglio perdere troppo tempo: te lo ricordi, vero, che dobbiamo andare a cercare Ulf?» chiese, rivolta a Hermann.

«Certo che me lo ricordo» annuì il giovane germanico. «Saremo velocissimi, vedrai. Se vuoi, però, tu puoi restare qui e controllare che non arrivi nessuno.»

Lidia valutò quella proposta, ma la prospettiva di rimanere da sola in quella casa che ormai le metteva i brividi era decisamente poco allettante. «No, grazie» declinò. «Vengo con voi, così vi metto anche un po’ di fretta.» Tito alzò platealmente gli occhi al cielo. «Muoviamoci, allora.»

Trovandosi al piano inferiore, i tre iniziarono con l’ispezionare i locali situati al pianterreno. Trovarono una cucina talmente lucida e ordinata che ebbero l’impressione che qualcuno l’avesse pulita minuziosamente e poi non l’avesse più utilizzata, una dispensa ampia, ma nella quale erano stati sistemati solamente pochi prodotti di prima necessità, un piccolo bagno spoglio e la sala con le poltrone bianche che Lidia aveva imparato a conoscere piuttosto bene. «Questo è una specie di studio» fece la fanciulla, quasi sottovoce. «Quando Donna Erin abitava ancora qua, lo usava per accogliere gli ospiti. E anche Kay fa la stessa cosa, per quanto ho avuto modo di vedere: quando sono stata convocata qui, lui era seduto proprio lì, alla scrivania…»

Non appena quelle parole lasciarono la sua bocca, Lidia si pentì di averle pronunciate, ma oramai era troppo tardi. Tito si diresse a grandi passi verso lo scrittoio e, dopo aver percorso rapidamente con lo sguardo il ripiano pulito e ordinato, occupato da un unico portapenne, scostò la sedia e si accovacciò di fronte ai cassetti. «Vediamo un po’» mormorò, aprendone uno.

Il ragazzo frugò velocemente nei diversi scomparti e Lidia sbiancò. «Non lasciare le cose in disordine» gli ordinò, in un sussurro urgente.

«Sono solo cianfrusaglie inutili» annunciò lui, una manciata di minuti più tardi. «Però c’è un blocco di appunti scritti in una lingua strana. Immagino che non ci sia alcuna speranza che voi riusciate a leggerla, giusto?» Così dicendo mostrò ai compagni un quadernino con la copertina di cartoncino verde, le cui pagine erano piene di parole scritte in lettere piccole, ordinate, leggermente oblique. Lidia seguì con gli occhi gli svolazzi delle “g” e le linee decise delle “l”, stentando a riconoscere le lettere scritte in una grafia che non le era famigliare e che le appariva diversa da quelle che aveva conosciuto fino a quel momento.

«Io non ci capisco un tubo» dichiarò Hermann, lanciando un’occhiata scettica alla pagina che Tito gli stava esibendo. «E io nemmeno» sospirò Lidia, con una punta di frustrazione.

Di fronte a quelle risposte, Tito sfogliò rapidamente il quadernetto e poi, quando trovò un foglio che non apparteneva al blocchetto, ma vi era stato inserito in un secondo momento, lo piegò in quattro e se lo infilò in tasca.

«Rimettilo subito al suo posto!» sbottò la ragazza. «Avevi detto che non avresti preso nulla!»

Il giovane scrollò le spalle. «Ma chi vuoi che si accorga della sparizione di un pezzo di carta?»

Lidia esalò con forza dal naso, irritata dalla leggerezza con cui Tito stava affrontando l’intera vicenda. «Non sappiamo nemmeno che cosa ci sia scritto, su quel pezzo di carta: e se si trattasse di cose importanti?»

«Dubito che le avrebbero scritte su un foglietto volante, in quel caso.» Le fece notare lui. «Questa lingua mi incuriosisce: e se si trattasse della stessa utilizzata nella mappa? Al campo abbiamo un traduttore: se riuscisse a decifrare questo foglio, potrebbe aiutarci a capire cosa sono quei due simboli gialli che si stanno avvicinando al villaggio.»

Anche se riusciva a vedere la logica nel discorso del ragazzo, Lidia si rifiutò di dargliela vinta. «Fai un po’ come credi, allora» ringhiò. «Se Kay se ne accorgerà e verrà a cercarti, però, non aspettarti che io ti difenda.»

«Tu non preoccuparti» replicò Tito, secco. «Piuttosto, dimmi: sai cosa c’è al piano superiore?» La ragazza si strinse nelle spalle, ancora infastidita dall’atteggiamento dell’amico. «Non ci sono mai stata, ma suppongo che ci siano le camere da letto. E forse un altro bagno?»

Mentre salivano le scale di legno che portavano al primo piano, Lidia sentì aumentare il nervosismo che l’accompagnava fin dal primo momento in cui aveva messo piede in casa. Ci stiamo mettendo troppo tempo, pensò, lanciando un’occhiata inquieta alla porta. Fratello Kay potrebbe rientrare da un momento all’altro e ci beccherebbe con le mani nel sacco.

Quando raggiunsero il pianerottolo, Hermann si diresse immediatamente verso la porta che avevano di fronte. «Questa è una camera» disse. «A colpo d’occhio, direi che non c’è nulla di strano, però, se volete, possiamo controllare un po’ meglio…»

«Venite un po’ qui, invece» replicò Tito, senza dargli modo di terminare la frase. «Questa porta è chiusa a chiave: scommetto che, se c’è qualcosa di interessante, si trova qui dentro.»

Il giovane romano era fermo davanti alla stanza che si trovava all’estremità sinistra del corto corridoio che occupava parte del piano superiore. Quando Lidia lo raggiunse, vide che la porta era tenuta chiusa da una leva di ferro. Automaticamente, la fanciulla impugnò l’anello che fungeva da maniglia e lo strattonò un paio di volte. «È proprio chiusa» commentò, attirando su di sé lo sguardo sarcastico del ragazzo. «Mi sa che ci tocca lasciar perdere…»

«Questa serratura non mi sembra un gran ché» commentò Hermann, raggiungendoli. «Non so dove sia andato il Sacerdote, ma immagino che sia partito piuttosto di fretta, se ha chiuso la porta solo in questo modo…»

La fanciulla aggrottò la fronte. «A me sembra che l’abbia chiusa in modo più che adeguato: a meno che tu non abbia una chiave nascosta da qualche parte, non vedo proprio come potremmo fare ad entrare…»

Il ragazzo le rivolse un sorriso sghembo. «Stai un po’ a vedere!» Avvicinandosi ulteriormente all’uscio, Hermann mise mano ai piccoli bulloni situati accanto alla leva e li svitò uno ad uno, con una perizia e una rapidità che fecero capire a Lidia che quella non era la prima volta che il cognato faceva una cosa del genere. Sentendosi osservato, il ragazzo le sorrise ancora. «Lo sai quante volte Unna e Ulf mi hanno chiuso nelle stalle, quando ero bambino? Se non avessi imparato a svitare i catenacci, ci avrei passato delle giornate intere…»

Quando anche l’ultimo bullone fu svitato, dall’altra parte della porta giunse un piccolo tonfo sordo. Arretrando di mezzo passo, il giovane germanico sollevò una gamba e sferrò un calcio alla porta, che tremò e si socchiuse di qualche centimetro. La leva oppose resistenza, ma Hermann la spinse e manovrò fino a quando la porta non fu libera di aprirsi del tutto. «Prima di andarcene, dobbiamo solo ricordarci di sistemare il tutto. Mi ci vorrà qualche minuto, quindi è meglio non passarci troppo tempo, qui dentro.»

Senza dire una parola, Tito rivolse al ragazzo un cenno di ringraziamento e poi scivolò nella stanza. Lidia preferì fermarsi sull’uscio, esaminando per qualche istante sul catenaccio che pendeva, storto e inutile, sull’altro lato del pannello di legno. Il fatto che quella sembrasse una serratura fatta apposta per chiudere fuori qualcuno le parve sospetto, ma l’esclamazione dei suoi due accompagnatori la distrasse da quei pensieri. «Lo sapevo, io, che ci avremmo trovato qualcosa di interessante!» fece Tito, con un sorriso eccitato disegnato sul volto.

La stanza che si apriva davanti ai loro occhi era profondamente diversa da quelle che avevano trovato nel resto della casa. Se gli altri locali rientravano perfettamente nello stile delle abitazioni germaniche, con i loro pavimenti di legno, le pareti di calce e i soffitti con le spesse travi d’abete a vista, quella in cui si trovavano ora era un semplice vano completamente bianco. Bianche erano le mattonelle che ricoprivano il pavimento e le pareti fino all’altezza di un metro e mezzo, bianco era lo smalto di cui era dipinto il soffitto, bianche le luci che si erano accese al loro ingresso e che correvano lungo il bordo superiore delle pareti. La finestra sul fondo della stanza era sbarrata da degli scuri che impedivano alla luce del sole di penetrare nel locale.

«Non capisco» disse Hermann, guardandosi attorno confuso. «Che cos’è questo posto? Un ripostiglio?»

Non v’erano tappeti, né vasi, né alcuna suppellettile che potesse rendere la stanza vagamente accogliente. Gli unici elementi d’arredo erano il minuscolo tavolino quadrato posto al centro del locale, la sedia di acciaio posizionata accanto ad esso ed alcuni armadietti metallici disposti lungo le pareti. Nel locale, che a Lidia parve angusto e claustrofobico, regnava un odore strano: polvere, umidità e qualcosa di aspro e sottile che la fanciulla non seppe identificare.

«Non… non lo so» mormorò Tito, con gli occhi sgranati, rispondendo alla domanda che Hermann aveva posto poco prima. Avvicinandosi a Lidia, le porse la tavoletta. «Tienila un attimo, per favore. Facciamo una ricerca veloce: è probabile che troveremo solo altre scartoffie, però…»

La ragazza afferrò la mappa con le mani sudate e se la fece scivolare nella tasca del grembiule. «D’accordo, però cercate di toccare il meno possibile. Questo posto non mi piace. E, Tito, mi raccomando: da qui non portiamo via niente, chiaro? Assolutamente nulla!»

Il ragazzo le rivolse uno sguardo teso. «Non sono cretino: questo posto non piace nemmeno a me. Però mi pare la prova lampante che i vostri Sacerdoti nascondono qualcosa di strano. Non possiamo rinunciare a quest’occasione di scoprire qualcosa di più.»

Lidia avrebbe voluto replicare che in realtà sì, potevano benissimo girare sui tacchi e lasciare Kay ai suoi misteri e alle sue stanze bianche. Avrebbero potuto fare ciò che Alexander aveva raccomandato loro di fare: recuperare Ulf e abbandonare il castello in tutta fretta. Tuttavia, c’era qualcosa che le impediva di dar voce a quei pensieri: una curiosità strisciante, la sensazione di essere a un passo dallo scoprire qualcosa di importante. «Certo, però state attenti» mormorò, con la voce un po’ strozzata, stringendo istintivamente le dita sullo stipite della porta.

Rivolgendole un cenno d’assenso, Hermann fece scorrere lentamente l’anta dell’armadietto più vicino. Lidia si ritrovò a trattenere il fiato, poi esalò un sospiro quando scorse l’espressione delusa del giovane. Il ragazzo estrasse un fascicoletto scritto nella stessa lingua incomprensibile che avevano avuto modo di osservare nello studio di Donna Erin. «Ecco, appunto» disse, sventolando affinché i due compagni potessero vederlo. «Scartoffie. Qui ci sono solo un mucchio di scartoffie.»

«Qui invece potrebbe esserci qualcosa di interessante» disse Tito che, nel frattempo, aveva raggiunto l’armadietto più vicino alla finestra sbarrata. «Non è un’altra mappa, né niente di simile, però…» Con estrema attenzione, il giovane romano posò sul tavolino una specie di cubo di plastica in cui erano inseriti una moltitudine di cilindretti colorati. Hermann gli rivolse uno sguardo incuriosito. «Cos’è quell’affare?» Tito si strinse nelle spalle. «Non ne ho idea. Parrebbero… contenitori?»

Dalla sua postazione accanto alla porta, Lidia allungò il collo per vedere meglio, senza però trovare la forza di volontà di entrare in quella stanza che le faceva mancare il respiro. Dopo aver sistemando il fascicolo là dove l’aveva trovato, Hermann raggiunse il romano accanto al tavolo. «Contenitori con dentro cosa, esattamente?»

Dopo un istante di esitazione, Tito scelse un cilindretto dal tappo giallo e lo estrasse dal contenitore. La parte inferiore della provetta era trasparente e il ragazzo se la accostò al volto, osservando la polvere biancastra che vi era contenuta. «Sembrerebbe quasi talco, ma dubito che lo sia, no?» chiese, lanciando un’occhiata veloce a Hermann.

Rapido, il giovane svitò il tappo del piccolo recipiente e provò ad annusarne il contenuto. «Non sa di niente» decretò, stringendosi nelle spalle. Riposta la prima provetta nel contenitore, ne estrasse un’altra dal tappo verde e poi una con il tappo blu. «Sinceramente, non capisco proprio cosa accidenti siano queste cose» mormorò, alzandole contro la luce. Nella prima era contenuta una sorta di fanghiglia grigiastra, mente la seconda pareva custodire delle foglie secche, tritate in frammenti minuscoli.

«Forse sono dei campioni di qualche tipo?» propose Lidia, sporgendosi leggermente verso di loro. «Non so cosa facciano i Sacerdoti durante tutto il giorno. Un po’ pregheranno, ma poi? Magari fanno degli studi, delle ricerche…»

«Secondo me, si limitano a complottare ai nostri danni» ridacchiò Hermann, sarcastico.

Tito sorrise. «Mi sa che Lidia ha ragione. Dopotutto, temo che questo affare non sia poi così interessante.»

«Allora ce ne andiamo?» chiese la ragazza, che iniziava a provare una certa insofferenza. «Da quanto saremo qui? Sarà passata almeno mezz’ora dal momento in cui siamo entrati in casa: è decisamente ora di andare.» Il giovane romano annuì. «Sì, sì, adesso ce ne andiamo» concesse, sistemando il contenitore con le provette all’interno dell’armadietto e richiudendo l’anta. «Lasciaci solo dare un’occhiata rapida agli altri scaffali.»

«Se proprio dovete…» mormorò lei, torcendosi le mani in preda al nervosismo. Nei minuti successivi, i due giovani passarono rapidamente in rassegna ai ripiani di tutti gli altri armadietti: vi trovarono altri contenitori di provette simili a quello esaminato da Tito, altri fascicoletti incomprensibili, alcuni libri sulle piante medicinali della Germanica e quello che a Lidia parve una specie di elenco o indice, ma nulla di veramente degno di nota.

Quando giunsero all’ultima teca, quella più vicina alla porta, Tito si irrigidì, aggrappandosi pesantemente all’intelaiatura di ferro dell’armadio. Hermann, che era di fianco a lui, gli posò istintivamente una mano su un braccio, prima di ritrarla come se fosse stato scottato.

«Tito?» chiese Lidia. «Va tutto bene?»

Il ragazzo annuì. «Sì, mi è solo venuta una fitta di mal di testa. Mi sembra che in questo posto inizi a mancare l’aria…»

«Pare proprio anche a me» concordò lei, indietreggiando di un passo e riportandosi in corridoio. «Direi che abbiamo cercato abbastanza. Abbiamo buttato via un sacco di tempo in maniera del tutto inutile: adesso andiamo. Tu te ne torni da Caleno, e io e Hermann vediamo di rintracciare mio marito. Che ne dite?»

Hermann parve leggermente combattuto e lanciò un’ultima occhiata alla stanza, ma, dopo qualche secondo, annuì a sua volta. «D’accordo: fuori tutti, che devo sistemare il catenaccio.»

***

Capitolo molto significativo, come potete vedere *insert sarcasm here*

Nelle prossime settimane vedrò di rimaneggiarlo un pochino e magari di cambiare un po’ di cose che non mi convincono. Il prossimo aggiornamento non sarà a breve: causa matrimonio di perfetto sconosciuto e ricerca di un vestito decente rimandata all’inverosimile, fino a lunedì non scriverò nemmeno una parola.

In più, stimo che, per buttare giù praticamene ex-novo il prossimo capitolo mi ci vorranno almeno due settimane.

Eh, va be’… pazienza!

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Capitolo 35
*** 34. In volo ***


A Hermann ci vollero quasi dieci minuti per fissare nuovamente il chiavistello alla porta. Lidia lo osservò lavorare appoggiata alla balaustra di legno che delimitava il corridoio. Fai un buon lavoro, gli raccomandò mentalmente. Ci manca solo che Kay si accorga che abbiamo ficcato il naso tra le sue cose. Già è abbastanza grave che Tito si sia intascato quel foglietto…

La fanciulla cercò con gli occhi il giovane romano e lo trovò seduto sul primo gradino della scala che conduceva al piano inferiore, lievemente ripiegato su se stesso. Un po’ preoccupata, gli si avvicinò. «Non stai bene?» gli chiese, accovacciandosi al suo fianco.

Il ragazzo alzò su di lei degli occhi che a Lidia parvero stranamente lucidi. «Non lo so» mormorò, indeciso. «Mi è venuto un po’ di mal di testa e mi sento… strano. Un po’ indolenzito, come quando stai covando l’influenza. Hai presente?»

«Sei pallido» notò la fanciulla, posandogli una mano sulla fronte. «Non avrai mica la febbre, vero?»

Tito scosse il capo. «No, non mi sento la febbre…»

Soppesandolo ancora un istante con gli occhi, Lidia si rimise in piedi e raggiunse Hermann, ancora intento a riavvitare i piccoli bulloni che fissavano il catenaccio. «Hai quasi finito?» si informò a bassa voce. Il germanico annuì. «Ci sono quasi. Perché?» Lei lanciò una rapida occhiata alle proprie spalle. «Mi pare che Tito stia poco bene: credo che sia meglio riportarlo all’accampamento un po’ in fretta.»

Il ragazzo interruppe per un istante il proprio lavoro. «Lo vuoi accompagnare?» chiese, leggermente stupito. «Credevo che avessi fretta di ritrovare Ulf.» Lidia esitò. «Sì, è vero» mormorò, poi. «È solo che non so se sia il caso di mandarlo in giro da solo. Lo vedo un po’ strano.»

Hermann seguì lo sguardo della ragazza e si soffermò per qualche momento sulla figura china del giovane romano, poi annuì. «Va bene. Qui ho praticamente finito. Poi, se vuoi, vengo con te fino al campo. Se non ti dispiace, però, preferirei non entrare… non è un ambiente in cui mi sentirei particolarmente a mio agio.»

Lidia sorrise. «Non preoccuparti: troviamo qualcuno che lo accompagni in infermeria e poi ce ne andiamo. Non intendo certo passarci la giornata, in quel posto.»

Fedele alle sue previsioni, pochi minuti più tardi Hermann avvitò anche l’ultimo bullone. «Ecco fatto!» esultò. «Possiamo anche togliere il disturbo, adesso.» Con un cenno del capo, la fanciulla raggiunse Tito in cima alle scale. «Sentito?» gli chiese, porgendogli una mano per aiutarlo ad alzarsi. «Andiamo!»

Quando il palmo del ragazzo toccò il suo, Lidia si accorse con stupore che la mano de giovane era coperta di sudore freddo. «Hai le mani gelate» mormorò, strofinandogli istintivamente le dita nel tentativo di scaldarle. Iniziava ormai a intuire che c’era qualcosa che non andava – dopotutto, Tito era stato in perfetta forma fino a mezz’oretta prima – ma fu solo quando il ragazzo fece per alzarsi in piedi e crollò immediatamente contro il muro, che Lidia si rese conto di quanto grave potesse essere la situazione. «Ti gira la testa?» gli chiese, con gli occhi sgranati e il cuore in gola.

Per tutta risposta, il ragazzo emise un gemito basso e si premette una mano tra gli occhi, come per allontanare una sensazione sgradevole. «Mi fa… male» balbettò, con voce impastata. «Non riesco… le gambe.»

Lidia gli si avvicinò ulteriormente e, guidata dall’istinto, prese un braccio del ragazzo e se lo fece passare sopra le spalle. «Non ti senti le gambe?» insistette, cercando di capire quale fosse esattamente il problema. Tito scosse lentamente la testa. «No. È…» con la mano, il giovane fece un movimento circolare davanti al proprio viso, poi aprì e chiuse la bocca un paio di volte, come alla ricerca di parole che non venivano. «Gli occhi, non… non vedo bene. È a macchie.»

«Forse ha avuto un calo di pressione» interloquì Hermann, portandosi all’altro fianco del ragazzo e sostenendolo a sua volta. «Lascia, lo aiuto io: è troppo pesante, per te.»

Angosciata, Lidia retrocedette di un passo, senza staccare gli occhi dal volto sempre più pallido dell’amico. «Ma… così all’improvviso? Fino a un momento fa non aveva assolutamente nulla!» Il giovane germanico si strinse nelle spalle. «Non so che cosa dire… portiamolo dal medico del campo, lui saprà sicuramente curarlo meglio di noi. Comunque potrebbe essere che in quella stanza mancasse un po’ l’aria: anch’io ho come un accenno di mal di testa.»

«Mh.» Lidia annuì preoccupata. Per qualche motivo, la spiegazione fornita da Hermann le pareva poco convincente. C’era qualcosa nell’aspetto di Tito, nella sua postura, che le faceva correre dei brividi ghiacciati per tutto il corpo e che le gridava di scappare il più lontano possibile.

Ma che cosa vuoi saperne, tu, si disse, stringendo i pugni. Ti ricordo che credevi di soffocare, quando invece avevi solo paura di sposarti. Per non parlare di quando ti sei messa a tremare come una foglia semplicemente perché hai sentito un rumore strano fuori dalla finestra.

Ricordandosi della propria tendenza a ingigantire ogni problema, Lidia fece un respiro profondo – ma tremulo – e si impose di mantenere i nervi saldi. Avvicinandosi di nuovo a Tito, gli posò una mano sul braccio. «Coraggio» gli disse dolcemente. «Adesso ti portiamo fuori: un po’ di aria fresca ti farà bene, vedrai.»

Lentamente e non senza qualche difficoltà, Hermann accompagnò il romano giù per le scale. Questi non si lamentava, ma inciampava spesso, rischiando in più di un’occasione di far cadere anche il suo accompagnatore. «Cerca di sollevare un po’ di più i piedi» gli disse Hermann, a denti stretti, con il volto contratto dalla fatica.

Quando raggiunsero la porta d’ingresso, Lidia sentì in bocca un sapore di sangue: si accorse solo in quel momento di essersi mordicchiata un pollice fino ad aver aperto una piccola ferita rosso vivo alla base dell’unghia. Asciugandosi nervosamente la mano nel grembiule, la fanciulla si portò accanto al cognato. «Credi di riuscire a trasportarlo fino all’accampamento militare?» gli chiese a bassa voce. «Dobbiamo camminare almeno mezz’ora…»

Il ragazzo storse la bocca. «Anche di più, di questo passo.» Con l’apprensione che le stringeva lo stomaco, Lidia abbassò lo sguardo sui pochi gradini di granito che separavano il cortile dall’uscio della casa di Donna Erin. «Forse converrebbe dividerci» disse, incerta. «Forse… potrei aspettarti qui con Tito e tu potresti correre all’accampamento e cercare qualcuno che ci possa aiutare. Oppure, melio ancora: io vado a cercare aiuto e tu mi aspetti qui.»

Davanti a quella proposta, Hermann scosse il capo con decisione. «No, non se ne parla proprio. Non puoi andartene in giro per i boschi così, tutta sola: è troppo pericoloso.» Malgrado la situazione, Lidia riuscì a sollevare un angolo della bocca in un sorrisetto sarcastico. «Ah, beh! Non è che muovendoci tutti insieme saremmo molto più al sicuro, però!» Il giovane germanico si strinse nelle spalle. «Lo so, ma è pur sempre meglio che spedire solo te.»

La ragazza chinò il capo, facendosi di nuovo seria. Hermann aveva ragione, naturalmente. «Va bene» sospirò. «Andiamo, allora.» Osservando con la coda dell’occhio il volto terreo di Tito, la fanciulla fu tentata di portarsi di nuovo la mano alla bocca e riprendere a torturarsi il pollice. Speriamo che Tito non peggiori, si disse, preoccupata. Se fossimo costretti a portarlo di peso fino al campo, non ce la faremmo mai.

Quando si misero in marcia, Hermann imboccò una strada che non era quella che Lidia aveva percorso poco tempo prima, quando Lucio l’aveva accompagnata da Tito. «Tagliamo attraverso il bosco» decise il ragazzo. «Dovremmo arrangiarci a camminare sul sentiero, ma almeno arriveremo prima alla strada che porta all’accampamento. Se attraversassimo tutto il villaggio, ci metteremmo un’eternità…»

Erding pareva quasi completamente deserta. La casa della Sacerdotessa si trovava in una posizione piuttosto defilata e i tre giovani dovettero camminare solo per alcune centinaia di metri, prima di raggiungere il limitare del bosco. Ciononostante, Lidia fece in tempo ad accorgersi con un certo stupore che le uniche persone che incrociarono sul loro cammino erano delle donne di una certa età. Dove sono finiti gli uomini? Si chiese. Dove sono finiti i giovani?

Le signore rivolgevano loro occhiate schive, quasi scontrose, guardando con egual diffidenza sia Tito che Hermann. Lidia riconobbe un paio di donne con cui aveva scambiato qualche parola durante le commissioni affibbiatele da Donna Edda durante i primi tempi della sua permanenza al villaggio, ma nessuna di esse diede cenno di riconoscerla. Nessuno si offrì di aiutarli e la fanciulla si sentì quasi ferita da quella palese dimostrazione di indifferenza. Devono davvero odiarci, se nessuna di loro si degna di muovere un dito. Eppure dovrebbe essere assolutamente evidente che una mano potrebbe farci comodo… Tito sta male, è chiaro. Possibile che non interessi a nessuno? Possibile che a nessuno salti in mente di venire a dare un’occhiata, se non altro per solidarietà?

La giovane fu tentata di prendere lei stessa l’iniziativa, di vincere la sua naturale ritrosia e di essere lei la prima a cercare il contatto con quelle persone, ma i loro volti cupi soffocarono sul nascere quel fragile intento.

Quando raggiunsero i margini della foresta, Lidia si costrinse a dimenticare il retrogusto amaro che l’incontro con le donne del villaggio le aveva lasciato in bocca e a concentrarsi invece sull’affrontare il cammino che avrebbero dovuto percorrere per condurre Tito all’accampamento romano. Il sentiero che Hermann intendeva percorrere era piuttosto scosceso e pareva poco utilizzato: la prima parte era seminascosta da un folto groviglio di lamponi selvatici e la ragazza avvertì la puntura delle ortiche anche attraverso il cotone spesso della gonna che indossava e che le raggiungeva le caviglie. «Sei sicuro che sia una buona idea, passare di qui?» chiese, dubbiosa.

Qualche metro più in là, Hermann era talmente concentrato nel difficile compito di aiutare Tito a superare il primo tratto di sentiero – quello più difficile e ripido – che nemmeno le rispose, limitandosi a rivolgerle un vago cenno del capo. Notando la postura rigida e poco collaborativa del romano, Lidia sentì crescere lo sconforto. Non ce la faremo mai a raggiungere il campo, comprese, con un nodo allo stomaco. Dobbiamo assolutamente chiedere a qualcuno di aiutarci.

Non appena ebbe ultimato quel pensiero, il terriccio secco e friabile che ricopriva il tracciato tradì Hermann e i piedi del ragazzo persero la presa sul fondo del sentiero. Il giovane slittò per diverse decine di centimetri e non poté evitare che Tito si sbilanciasse, rovinando a terra. Con un’esclamazione di disappunto, Lidia si lasciò scivolare verso di lui e si chinò al suo fianco. «Tito! Ti sei fatto male?»

Per alcuni secondi che le parvero infiniti, il ragazzo non diede alcun cenno di avere udito la domanda che gli era stata posta. Quando però alzò gli occhi su di lei, Lidia trasalì: il suo sguardo era assente, distante, come se il giovane la stesse guardando, ma non riuscisse a vederla veramente. «Oh, Dèi!» le scappò detto, mentre le sembrava che, per un istante, la vista si annebbiasse anche a lei. Muovendosi in maniera quasi inconsapevole, Lidia afferrò il braccio del ragazzo e lo tirò, cercando di convincere l’amico a rimettersi in piedi.

«Hermann!» disse ancora, senza distogliere gli occhi dal giovane romano. «Tito sta male!» Non era una constatazione nuova, quella, ma in quel momento la fanciulla si rese conto che la situazione era infinitamente peggiore di quanto avesse creduto fino a pochi istanti prima. 

Hermann si ripiegò leggermente su se stesso e si posò le mani sulle ginocchia, respirando affannosamente, come nel tentativo di riprendere fiato dopo uno sforzo intenso. «Lo so», ansimò, «ma che cosa ci posso fare? Lo stiamo portando da un medico…»

Nell’udire la sua voce tesa, la ragazza si voltò a guardarlo e vide che, anche se le sue gote erano arrossate dalla fatica, il cognato sembrava più pallido del solito. Davanti al suo sguardo confuso, il giovane chiuse per un istante gli occhi. «Mi sta aumentando il mal di testa» disse, a mo’ di spiegazione. «Mi sembra di avere… mi sembra di avere qualcuno che mi martella le tempie.»

Quelle parole scatenarono immediatamente il panico in Lidia. «Stai male anche tu?» chiese, con la voce strozzata dalla paura. Sentendosi senza forze, la fanciulla si accovacciò sul sentiero polveroso e strinse a sé il busto di Tito, invitando il ragazzo ad appoggiarsi contro di lei. «Come… com’è possibile? Prima stavate benissimo tutti e due…»

Hermann alzò una mano, interrompendola. «Io ho solo mal di testa» disse, cercando di mantenere un tono ragionevole. «Non mi tremano le gambe, non ho problemi agli occhi… solo, faccio forse un po’ fatica a respirare. Come se… come se avessi il raffreddore, o come se non avessi digerito bene.»

Chinandosi ulteriormente su Tito, Lidia si rese conto che anche il respiro del giovane romano sembrava essersi fatto un po’ affannoso. Sconsolata e impaurita, la ragazza scosse lentamente il capo. «Non capisco… cosa può aver provocato tutto questo? Non avete mangiato né toccato nulla di strano.»

Il germanico piegò le labbra in una smorfia dura. «Non lo so» disse, sottovoce. Alla ricerca di una spiegazione che l’aiutasse a capire cosa stesse succedendo, la fanciulla ripercorse mentalmente tutto ciò che lei e i due compagni avevano fatto a partire dal momento in cui Hermann era arrivato a casa sua.

Ma non abbiamo fatto nulla di eccezionale o pericoloso, si disse, portandosi istintivamente una mano alla bocca e riprendendo a mangiucchiarsi le unghie. L’unica cosa che forse non avremmo dovuto fare è stato frugare tra le cose di Fratello Kay. Che sia colpa della mappa? Si chiese, rendendosi conto solo in quel momento di avere ancora nella tasca del grembiule la tavoletta di vetro.

Quando le sue dita sfiorarono la superficie fredda e liscia dell’oggetto, Lidia venne colpita da un’illuminazione. A meno che non si tratti di qualcosa che hanno toccato all’interno della stanza bianca. Loro sono entrati, hanno toccato… io no. Io sono restata all’ingresso. È forse per questo che loro stanno male e io non ho niente?

In preda alla peculiare e sgradevolissima sensazione di essere giunta a una verità che riusciva solo a sfiorare senza comprendere davvero, Lidia si rivolse di nuovo a Hermann. «E se fosse colpa di qualcosa all’interno della stanza che abbiamo trovato a casa del Sacerdote? Quella che era chiusa a chiave?»

Il giovane chinò per qualche istante lo sguardo a terra, riflettendo. «Forse hai ragione, ma abbiamo toccato talmente tante cose… abbiamo cercato in tutti gli armadi, abbiamo sfogliato un sacco di libri e appunti, maneggiato tutte quelle scatole. Chi può dirlo…» Improvvisamente, Hermann si interruppe e poi sgranò gli occhi. «E se fosse quella fialetta? Quella che Tito ha aperto e annusato?»

Lidia si strinse lentamente nelle spalle, dubbiosa. «Non saprei… lui l’ha annusata, ma tu no. Perché stai male anche tu? E poi ha detto che non sapeva di niente, che non aveva odori particolari… non so come funzionino i veleni, ma ho come l’idea che dovrebbero sapere di qualcosa, no?»

Hermann storse le labbra. «Non ne ho idea. Però forse avremmo fatto bene a portare con noi quel contenitore. Lo so, che con il senno di poi è facile parlare… però, ecco: se quella roba bianca era velenosa, forse averla qui con noi avrebbe potuto aiutare un medico a trovare l’antidoto.»

Lei si mordicchiò le labbra, impotente. «Probabilmente hai ragione. Ma ormai è troppo tardi: non possiamo certo tornare indietro per prendere quella provetta.» Hermann annuì. «Certo che no. Ricordati di riferirlo al medico che visiterà Tito, però.»

La ragazza lo scrutò da capo a piedi. «Naturalmente. Però credo proprio che sia il caso che ti faccia dare un’occhiata anche tu. Se è colpa di quella roba, tra non molto anche tu potresti stare male seriamente.» Mentre pronunciava quelle parole, Lidia sentì una nuova ondata di angoscia assalirla: cosa avrebbe fatto, se si fosse trovata in mezzo al bosco, ancora distante dall’accampamento e con i due ragazzi incapaci di camminare con le loro gambe?

Hermann le rivolse un mezzo cenno d’assenso. «Poi vediamo» mugugnò con reticenza. «Adesso aiutami a rimetterlo in piedi. Dobbiamo cercare di raggiungere il capo prima che le cose peggiorino ancora.»

Con tutta la delicatezza di cui era capace, Lidia aiutò Tito a mantenere il busto eretto, mentre Hermann si faceva nuovamente passare il braccio del ragazzo attorno alle spalle e, facendo leva sulle gambe, lo faceva alzare. «Coraggio» gli sussurrò la fanciulla, accostando il proprio volto a quello del giovane romano. «Non ci manca molto, ormai.»

Non era esattamente vero, ma Tito la guardò e questa volta i suoi occhi parvero focalizzarsi in quelli di lei. «Va bene» sussurrò, con voce rauca.

Il terzetto avanzò allora in silenzio. Anche se, pochi metri più in là, il sentiero si faceva più agevole, le condizioni del romano li costringevano a muoversi con estrema lentezza. Lidia ebbe l’impressione che i metri diventassero chilometri e i minuti ore. Di tanto in tanto, Hermann si fermava con gli occhi chiusi e respirava a fondo, toccandosi la gola con la punta delle dita. Il suo volto pallido era imperlato di sudore, ma, nonostante Lidia si fosse offerta di farsi carico del peso di Tito, almeno per qualche tempo, il ragazzo si era rifiutato di lasciarsi aiutare.

Sto perdendo il senso del tempo, comprese, asciugandosi nella gonna le mani madide di sudore. La situazione in cui si trovava le pareva quasi surreale: la ragazza si sentiva come immersa in una nebbia fitta, le sembrava di non riuscire a individuare con precisione i contorni di ciò che la circondava. I suoni le giungevano quasi attutiti, distanti, i movimenti le parevano più lenti di quanto in realtà non fossero. Forse sto impazzendo, si disse, mordendosi le labbra fino a quando non sentì ancora una volta il sapore del sangue. O forse sto iniziando a stare male anch’io…

Quando giunsero a un’ampia radura che si apriva senza preavviso nel cuore della foresta, Hermann lasciò scivolare a terra Tito e poi si sedette anch’egli tra l’erba alta. «La strada è da quella parte» disse, con il respiro mozzo. «Lasciami riposare un attimo, per favore.»

Accovacciandosi a terra, Lidia annuì. L’odore del terriccio le riempiva le narici, il profumo dell’erba riscaldata dal sole le solleticava la gola: quelle fragranze famigliari e gradevoli le ricordavano quanto poco la natura si curasse delle vicende degli uomini. C’era una formica, proprio lì, a pochi centimetri dal suo piede destro, che trascinava il cadavere di un moscerino molto più grande di lei. Per qualche motivo, la ragazza trovò quella scena stranamente interessante.

Improvvisamente, Hermann levò il capo, sciogliendo la posizione rannicchiata in cui si era raccolto. «Cos’è stato?» chiese, con un filo di voce.

Distogliendo lo sguardo dagli insetti, Lidia lasciò che i propri occhi corressero a pelo d’erba, sbirciando attraverso le spighe del pabbio e i fiori bianchi della cicuta. «Io non ho sentito né visto niente» disse, una volta che ebbe constatato che nulla sembrava essere fuori posto.

Il ragazzo corrugò la fronte, come se non fosse sicuro di potersi veramente fidare dei propri sensi. «Non lo so, mi è come parso di sentire… una vibrazione

«Una vibrazione?» ripeté lei, mentre la sua mente tornava automaticamente al sibilo che aveva sentito la notte in cui Ulf le aveva svelato l’esistenza della misteriosa macchina volante che, a sua detta, prelevava le offerte. Anche se non l’aveva mai più sentito, quel soffio sottile le era rimasto impresso nella mente. Cercando di ricordare quanto tempo fosse passato dall’ultima cerimonia sacrificale a cui aveva assistito, Lidia calcolò che il giorno in cui si sarebbe compiuto il nuovo rito era probabilmente vicino.

Per un attimo, la fanciulla si interrogò se ciò che Hermann credeva di aver sentito non potesse essere provocato da qualcosa di simile a ciò di cui le aveva raccontato Ulf. Subito dopo, però, scartò quell’ipotesi: il sibilo notturno l’aveva impressionata a tal punto che era certa che, se esso si fosse manifestato nuovamente, lei l’avrebbe sicuramente colto.

Il volto del giovane germanico era teso e allarmato. Io non mi sono accorta di niente, ma Hermann ha chiaramente avvertito qualcosa, si disse, lanciando un’occhiata guardinga alla radura deserta. A meno che il mal di testa non gli stia facendo venire le allucinazioni…

Per alcuni minuti, i ragazzi rimasero immobili, con i sensi all’erta e pronti a cogliere ogni cambiamento nell’ambiente che li circondava. La radura era immersa in una calma placida, scossa solamente da un alito di vento che faceva ondeggiare in maniera quasi impercettibile l’erba alta. Di tanto in tanto, un picchio verde lanciava un richiamo acuto che sovrastava per qualche istante il cinguettio sommesso di cince e regoli. Poi, all’improvviso, anche Lidia sentì ciò che aveva messo in allarme il suo giovane cognato. Non si trattava di un suono chiaramente distinguibile, ma piuttosto di una vibrazione, esattamente come aveva detto Hermann. Non era altro che una pressione sui timpani, un tremolio all’interno della testa, qualcosa di talmente basso da sfuggire all’orecchio umano. Si manifestò dapprima in modo lieve, poi crebbe per alcuni secondi e infine scemò, confondendosi con i rumori della natura e venendo inghiottito da essi.

Lidia aggrottò la fronte. «Ma cosa…»

Barcollando un poco, Hermann si alzò in piedi. «È questo», disse, «è questo quello che ho sentito prima. L’hai sentito anche tu, questa volta?» Lei annuì, con la bocca socchiusa. Il giovane si prese qualche secondo per ritrovare l’equilibrio che pareva sfuggirgli, poi abbassò uno sguardo determinato sulla ragazza. «Vado a dare un’occhiata: tu resta qui.»

Lei lo fissò con gli occhi spalancati. «Dove vuoi andare?» chiese, allarmata. «Non stai bene, e poi non c’è niente da vedere! Resta qui a riposarti.»

Hermann scosse il capo. «Quel suono deve pur essere stato prodotto da qualcosa…» Il ragazzo tacque per qualche istante, mentre la vibrazione misteriosa si manifestava nuovamente e nuovamente svaniva nel nulla, simile a un’onda che si abbatte sul bagnasciuga e poi si ritira nel mare, regolare ed elegante. «Voglio solo accertarmi che non ci siano pericoli: con Tito in queste condizioni, non possiamo certo permetterci una fuga veloce. Se dovessi accorgermi che c’è qualcosa di strano, potremmo tornare indietro un po’ e prendere un sentiero più interno: allungheremmo un po’ la strada, ma almeno rischieremmo meno di essere notati da persone sgradite

Lidia gli indirizzò un’occhiata scettica. «Va bene» concesse controvoglia. «Però dai solo un’occhiata veloce: prima arriviamo da un medico e meglio è.»

Rivolgendole un ultimo cenno del capo, il giovane germanico si addentrò nell’erba alta con passi cauti e appena un poco incerti. Lidia lo seguì con gli occhi per qualche istante, poi si mosse a carponi fino a raggiungere Tito. Il ragazzo non si era mosso e si trovava ancora nella stessa identica posizione in cui Hermann l’aveva lasciato quando l’aveva adagiato a terra. Inginocchiandoglisi accanto, Lidia gli sfiorò la fronte con la punta delle dita e la trovò madida di sudore. «Come stai?» gli chiese, sottovoce. Una domanda inadeguata, ma che le suonò comunque estremamente naturale.

Tito emise solo un gemito sommesso e i suoi occhi chiusi fremettero come se il giovane volesse aprirli, ma non avesse la forza per farlo. «Adesso ce ne andiamo» mormorò ancora Lidia, accarezzandogli dolcemente i capelli corti. «Lasciamo che Hermann dia un’occhiata in giro e poi ti portiamo da un dottore.»

Mossa da un sentimento di tenerezza e di preoccupazione nei confronti del ragazzo, la fanciulla gli sollevò delicatamente il capo e se lo posò in grembo. Non so quand’è stata l’ultima volta che mi sono sentita così inutile, si disse, mordendosi nervosamente le labbra. Tito sembrava prossimo a perdere i sensi e il fatto di non poter far nulla per impedirlo, la consapevolezza di non avere modo di aiutarlo, le faceva torcere lo stomaco per la frustrazione. I dissapori degli ultimi tempi svanivano nel nulla di fronte alla debolezza del giovane e anche il ricordo del modo in cui Karl era morto sembrava essersi fatto meno pressante. L’unica cosa che le pareva davvero importante, in quel momento, era che Tito si riprendesse in fretta e tornasse a essere quello di sempre.

Ma cosa sta facendo Hermann? Si chiese, dopo diversi minuti di attesa vana. Aveva detto che avrebbe dato solo un’occhiata e poi sarebbe subito tornato qui! Scossa dall’impazienza, Lidia cercò di individuare il cognato, ma l’erba era troppo alta e lei, seduta a terra, non riusciva a vedere che a pochi metri di distanza. Per una frazione di secondo fu sul punto di chiamarlo ad alta voce, ma poi si trattenne. Se ci fosse qualcuno, se quel rumore fosse veramente prodotto da qualcosa di strano, rischierei di farci scoprire.

Negli ultimi minuti, la sua attenzione era stata tutta concentrata su Tito, ma, ora che ci faceva caso, la fanciulla si rendeva conto che la vibrazione che aveva udito poco prima sembrava essersi fatta più intensa. Se ascoltava con attenzione, le pareva di avvertire un rombo profondo e al tempo stesso attutito, un suono ovattato, ma pericolosamente presente. Cosa accidenti sta succedendo? Si chiese, rizzandosi inconsciamente sulle ginocchia.

Quasi come se fosse stato disturbato da quel movimento, Tito si irrigidì. Le sue spalle ebbero un sobbalzo e la sua schiena si inarcò, costringendo Lidia a cingergli il busto con entrambe le braccia per evitare che scivolasse a terra. Il suo respiro – che fino a quel momento era stato accelerato, ma tutto sommato regolare – si spezzò e il giovane romano prese a respirare a bocca aperta, a singulti, come se avvertisse il bisogno di inghiottire l’aria.

Spaventata da quel cambiamento improvviso, Lidia strinse a sé il ragazzo. Con il cuore che le martellava nelle orecchie e una sensazione terribile che le stringeva lo stomaco, la fanciulla si chinò sull’amico. «Tito!» esclamò, con la voce ridotta a un sussurro rauco. «Cosa c’è?»

Davanti a quel secondo richiamo, le palpebre del ragazzo tremarono di nuovo e un istante più tardi Tito aprì gli occhi. Il suo sguardo era fisso, distante, ma non perso: era come se il giovane romano stesse mettendo a fuoco qualcosa che Lidia non riusciva a vedere, qualcosa che si trovava oltre.

«Tito!» lo richiamò ancora la fanciulla, mentre una sensazione di gelo la travolgeva. Improvvisamente fu come se la calura estiva fosse svanita, come se i suoni del prato e del bosco fossero stati ingoiati dal rombo monotono che aveva invaso le sue orecchie. Gli occhi del ragazzo si richiusero e le sue labbra si mossero una, due, tre volte, ma nessuna parola intellegibile lasciò la sua bocca. Lidia si chinò su di lui, facendo attenzione a non compiere alcun gesto che potesse provocargli dolore o fastidio. «Cosa?» chiese. «Che cosa hai detto?»

Tito ingoiò una boccata d’aria, poi rimase perfettamente immobile. Sentendosi completamente scollegata dal mondo e quasi senza avvertire la fitta di dolore che le attraversò la testa da tempia a tempia, Lidia lo afferrò saldamente per le spalle e lo scosse con forza, nel tentativo disperato e inconscio di provocare in lui una qualsiasi reazione. «Tito!»

Per tutta risposta, il corpo del ragazzo si inarcò ancora di più ed ebbe uno spasmo che gli fece oscillare gambe e braccia. Qualche istante più tardi, si rilassò e piombò nuovamente nell’immobilità più assoluta. Le mani della fanciulla si mossero in preda al panico e, scoordinatamente e senza alcuna grazia, scivolarono sul busto del giovane romano, sul suo volto, alla base del suo collo alla ricerca di un qualsiasi movimento che tradisse il ritmo del respiro o il pulsare del cuore.

Ma certo che respira! Si disse, sull’orlo dell’isterismo. È ovvio che respiri! Respirava un secondo fa, perché avrebbe dovuto smettere di farlo? I suoi occhi appannati percorsero più e più volte il torso del giovane, ma Lidia non fu in grado di comprendere se il tremolio che le parve di avvertire fosse legato al gonfiarsi dei polmoni di Tito o ai brividi di terrore che scuotevano il suo corpo. Le sue mani sudate trovarono quella esanime del ragazzo e le sue dita si strinsero attorno al polso di lui. Sapeva che avrebbe dovuto avvertire il battito del cuore, lì da qualche parte, ma i suoi polpastrelli non le rimandarono altro che il suo stesso battito accelerato. O forse è quello di Tito? Si chiese, mentre i pensieri le vorticavano in testa come impazziti.

D’un tratto, una nuova fitta di dolore intenso e bruciante le trapassò il cranio e Lidia gemette, ripiegandosi per un istante su se stessa. Un secondo più tardi, la ragazza si ritrovò a retrocedere a carponi, mentre il suo istinto le gridava di scappare lontano, di allontanarsi da quel luogo che, per qualche motivo, le pareva pericoloso.

«Tito…» singhiozzò, mentre le lacrime le offuscavano la vista e le bagnavano le guance. Non poteva essere… Lidia si rifiutò anche solo di pensare alla parola “morto”, perché era semplicemente impossibile. Tito doveva essere svenuto, doveva aver perso i sensi a causa di quello strano male che l’aveva colto e lei, da cretina qual era, non era stata in grado di trovare i segnali che indicavano che il suo cuore batteva ancora.

Combattendo contro quella forza ignota che la spingeva ad allontanarsi, Lidia si mosse lentamente e si riportò di nuovo al fianco del ragazzo. Le sue dita furono sul punto di sfiorargli nuovamente il volto, quando la fanciulla divenne consapevole di qualcosa che negli ultimi, concitati momenti aveva ignorato.

Era cambiato qualcosa, dietro di lei. Muovendosi con estrema lentezza, Lidia vide qualcosa che, per qualche lunghissimo istante, catturò completamente la sua attenzione. Ferma a una decina di metri d’altezza, sospesa nell’aria come se non pesasse più di una piuma, c’era la macchina più strana che avesse mai visto. Sgomenta, la giovane non fu in grado di stabilire quanto fosse grande, ma le parve enorme, gigantesca, e, per un secondo, il suo cervello si rifiutò di accettare il fatto che una cosa così imponente potesse anche essere così silenziosa. Aveva una punta affusolata, simile a un pugnale e, cosa che le parve singolare, una parte posteriore curiosamente arrotondata. La sua mente le disse che la macchina doveva essere fatta di metallo, ma, alla vista, essa pareva ricoperta da un velo d’acqua – o di mercurio liquido – cangiante e riflettente come uno specchio. Confusamente, la ragazza si avvide che era difficile individuarne i contorni precisi, come se quello strato lucido e instabile modellasse la materia, fondendola all’aria e al riflesso del cielo.

La vibrazione che lei e Hermann avevano avvertito poco prima si era ora trasformata in un rombo basso, ma regolare. La produceva quella cosa lì, si disse la fanciulla, sgomenta.

Poi, proprio sotto ai suoi occhi, la macchina si mosse e prese a scendere lentamente verso terra. Il cuore della ragazza ebbe un sussulto e Lidia si riscosse, gettandosi istintivamente sul corpo di Tito – su Tito! Afferrandolo per le spalle, senza fermarsi veramente a pensare a quello che stava facendo, Lidia lo trascinò verso i margini della radura, muovendosi con la schiena china fino a quando non raggiunse i primi alberi bassi e fitti. Tremante, stremata e confusa, la ragazza nascose il corpo del ragazzo tra il fogliame, facendo del proprio meglio per celarlo da sguardi indiscreti. Poi, facendo attenzione a non esporsi troppo, si alzò in piedi, cercando di scorgere Hermann.

Quello che vide le gelò il sangue. Il ragazzo era fermo nel bel mezzo della radura, esattamente davanti al luogo in cui la macchina stava toccando terra. Quando la pare inferiore della cosa raggiunse il terreno, la sua superficie mutò aspetto, rivelando dei lisci pannelli di metallo chiaro. Dalla sua posizione, Lidia riuscì a leggere la sigla CS-745 dipinta con lucida vernice azzurra.

Con il cuore che le martellava nelle orecchie, Lidia si acquattò tra l’erba alta, allungando però il collo per poter seguire lo svolgersi degli eventi. Proprio lì, davanti ai suoi occhi, c’era un portellone che in un primo momento non aveva notato. Quando questo esalò un sibilo sommesso e si aprì, per qualche secondo la fanciulla si ritrovò come paralizzata dal terrore. Alla sua mente si riaffacciarono tutte le nozioni che aveva appreso durante la sua permanenza in Germanica. Ricordò che il giorno delle offerte era vicino e che le offerte erano destinate agli Dèi i quali, secondo quanto raccontavano i Sacerdoti, si occupavano personalmente di ritirarle.

Per un istante in cui tutto le sembrò sospeso, Lidia si credette sul punto di trovarsi faccia a faccia con delle divinità sconosciute – e nelle quali lei non aveva comunque mai creduto. Poi la voce di Ulf le risuonò nelle orecchie. Lui l’aveva già vista, una macchina simile a quella. E le persone che erano scese da essa non erano Dèi, ma semplici uomini.

E, in effetti, fu proprio così. Anche se la fanciulla non aveva alcuna idea di che aspetto avessero gli Dèi, l’uomo di mezza età, un po’ calvo e non particolarmente slanciato che per primo balzò a terra non aveva certo l’aria di un essere sovrannaturale. Nemmeno il suo compagno più alto, più giovane e con le spalle cascanti aveva un aspetto particolarmente formidabile. La fanciulla passò rapidamente in rassegna ai loro bizzarri abiti scuri, poi tornò a concentrarsi su Hermann, esortandolo con la sola forza del pensiero a scappare, ad allontanarsi dai due sconosciuti.

Il giovane germanico sembrava essere rimasto paralizzato dallo stupore o della paura. Quando entrambi gli uomini vestiti di nero fecero per avvicinarsi a lui, però, il ragazzo girò lestamente sui tacchi e mosse due passi rapidi nella direzione opposta a quella in cui si trovava Lidia. Improvvisamente, però, tutto il suo corpo parve irrigidirsi e incurvarsi, quasi in un’imitazione di ciò che era accaduto a Tito poco prima. Mentre Lidia si portava una mano alla bocca per impedirsi di gridare, Hermann cadde in ginocchio, puntellandosi a terra con una mano e reggendosi la testa con l’altra.

Il più basso dei due sconosciuti gli si avvicinò velocemente, frapponendosi di fatto tra il germanico e gli occhi ansiosi della giovane romana. A causa di quell’ostacolo, Lidia non fu in grado di vedere quello che stava succedendo, ma, una manciata di secondi più tardi, intravide Hermann accasciarsi a terra esanime.

In preda all’orrore, Lidia si ritrovò a mordicchiarsi le dita che ancora le coprivano le labbra. Con il respiro affannato e una morsa dolorosa che le stringeva la gola, la ragazza guardò i due uomini piegarsi sul giovane germanico. Alle sue orecchie giunsero parole borbottate, incomprensibili forse perché pronunciate in una lingua sconosciuta, poi i due individui vestiti di nero afferrarono Hermann per le ascelle e le caviglie e, con qualche difficoltà data l’altezza non indifferente del ragazzo, lo portarono all’interno della macchina volante.

Lidia ebbe l’impressione che il suo cuore si fermasse. Oh, no! Sfinita, la fanciulla si appiattì contro il terreno, quasi nella speranza inconsapevole che la terra calda le potesse dare un poco di conforto. Perché l’hanno portato lì dentro? La giovane si sentiva completamente spaesata, priva di punti di riferimento e senza alcuna idea di cosa avrebbe dovuto fare.

Tito era… Tito non si muoveva più – nemmeno l’arrivo di quell’assurda macchina volante era stato in grado di riscuoterlo – e Hermann era stato fatto sparire all’interno del ventre di metallo di quella cosa a cui Lidia non sapeva nemmeno dare un nome. E poi… e poi è caduto a terra. Che cosa gli hanno fatto? E sta bene? La ragazza ricordava perfettamente che, prima di allontanarsi, il giovane aveva accusato mal di testa, stanchezza, forse anche confusione, a giudicare dal modo leggermente scoordinato con cui si muoveva: si trattava grosso modo degli stessi sintomi che anche Tito aveva manifestato, prima… prima.

Oh, Dèi, vi prego! Fate che almeno lui stia bene! Che per lui non sia troppo tardi, che ci sia il tempo di portarlo da un dottore…

Quasi in risposta a quella preghiera silenziosa, i due uomini sconosciuti uscirono nuovamente dalla macchina volante, questa volta senza portare con sé Hermann. Scesi a terra, si guardarono brevemente attorno, come per accertarsi di non essere osservati, e poi girarono attorno all’immenso congegno volante, sparendo dalla vista di Lidia.

Immediatamente, la ragazza sentì i propri muscoli tendersi. Hermann era lì dentro. Forse era solo. Il folle proposito di correre verso la nave, introdursi all’interno, prendere il cognato e riportarlo nel rifugio sicuro del bosco si affaccio con prepotenza alla sua mente. Le gambe della fanciulla si fletterono, preparandosi allo scatto, ma la sua mente le impedì di muoversi.

Non essere stupida, la rimproverò. Pensi davvero di essere in grado di fare una cosa del genere? Senza farti beccare da nessuno, magari? E di Tito che cosa mi dici? Intendi lasciarlo qui?

Con lo stomaco trapassato dal dolore e dai sensi di colpa, Lidia lanciò un’occhiata afflitta alla sagoma del ragazzo che si scorgeva a malapena tra il fogliame rigoglioso. Non poteva abbandonarlo lì. Anche se ormai lui non c’era più – un pensiero che le faceva venire voglia di urlare e piangere e vomitare – Lidia sapeva che non poteva lasciarlo lì. Avrebbe dovuto prendersi cura di lui anche allora. Soprattutto allora.

Ma Hermann è lì dentro… ed è solo anche lui.

E c’era di più: Hermann era ancora vivo – forse. In ogni caso, se il ragazzo si era trovato in quella situazione, era solo e soltanto per ciò che lei aveva combinato. Se Hermann non fosse stato costretto a venirla a cercare a casa sua, non avrebbe mai messo piede nella stanza di Fratello Kay e, forse, non sarebbe mai stato male. Di certo, non si sarebbe trovato in quel prato nel preciso istante in cui la macchina era atterrata: ergo, non sarebbe mai stato scoperto dai due uomini in nero, né portato a bordo di quel mostro d’acciaio.

Glielo devo, si disse, mentre un senso di ineluttabilità calava su di lei. E lo doveva anche a Ulf, a Unna, a Gefrid, che avevano già perso fin troppo, per causa sua. E poi che succeda quello che deve succedere: l’importante è riuscire a riportare a terra Hermann e a farlo tornare dalla sua famiglia.

Lanciando un ultimo sguardo a Tito e promettendo a se stessa che presto, prestissimo, sarebbe tornata da lui, Lidia scattò in avanti. Cercando di esporsi il meno possibile, attraversò l’erba alta, gli occhi puntanti sullo squarcio scuro lasciato aperto dal portellone sollevato e le orecchie tese per cogliere qualsiasi suono che tradisse il ritorno dei due uomini.

Quando raggiunse la piccola rampa che conduceva verso l’interno della macchina, Lidia esitò per una frazione di secondo, poi ingoiò lo strano odore che le invase le narici – ferro e qualcosa di acre che non seppe definire – ed entrò. La luce del sole scomparve e, al suo posto, la ragazza sentì risplendere su di sé la luce bianco-verdastra di una serie di potenti faretti posizionati sul soffitto.

Per qualche motivo, Lidia si era immaginata che l’interno della macchina voltante fosse in un certo simile alla stanza bianca che lei e i suoi compagni di sventura avevano scoperto nell’abitazione dei Sacerdoti, ma la realtà era piuttosto distante dall’idea che si era fatta. In primo luogo, si rese conto che la nave doveva essere ancora più grande di quello che si era figurata dall’esterno. Il portellone doveva essere posizionato circa a metà della fusoliera e dava accesso diretto a una sorta di piccolo corridoio. Se sulla sinistra – verso la prua – il passaggio era sbarrato da una porta bianca e azzurra, volgendo lo sguardo verso destra Lidia riusciva a vedere un immenso locale scuro e polveroso, ricco di scaffalature e pareti divisorie che le ricordarono quelle delle scuderie che aveva visto una volta nelle campagne fuori Roma, da bambina.

Dove lo avranno portato?

Sentendo il proprio coraggio venire pericolosamente meno, Lidia inspirò a fondo e cercò di aprire la porta bianca che si trovava alla sua sinistra, solo per scoprire che questa non era provvista di maniglia. La ragazza corrugò la fronte, confusa. Eh? Cercando un modo per passare dall’altra parte, posò entrambe le mani sul freddo pannello metallico e spinse con tutte le sue forze, ma questo non si smosse di un millimetro. Come accidenti si apre questa cosa?

C’era qualcosa che le suggeriva che Hermann si trovava proprio lì, al di là di quel gelido sbarramento bianco e celeste. Ma come faccio a entrare? Si chiese, sentendo montare la frustrazione. Dopo un altro paio di tentativi a vuoto, Lidia retrocedette lentamente, sentendo le lacrime tornare ad offuscarle la vista. E adesso che cosa dovrei fare?

Stupidamente era salita a bordo di quella macchina pensando che recuperare Hermann sarebbe stato facile. Aveva agito d’istinto, senza nemmeno prendersi il tempo di chiedersi che cosa avrebbe trovato all’interno della nave. Cosa pensavo? Che quei due avessero mollato Hermann proprio qui, giusto per rendermi la vita più facile?

Mordicchiandosi nervosamente l’unghia del pollice, Lidia cercò di analizzare le diverse alternative che le si paravano davanti. Constatata l’impossibilità di aprire la porta bianca, avrebbe potuto scendere nuovamente a terra, recuperare Tito e portarlo all’accampamento militare. La sola prospettiva le provocò un’ondata di nausea: farlo avrebbe significato prendere veramente coscienza del fatto che il ragazzo era morto e che lei non era stata in grado di salvarlo. Farlo, poi, avrebbe anche significato arrendersi e abbandonare Hermann a se stesso: non se lo sarebbe mai perdonata. Ulf non l’avrebbe mai perdonata.

No, non doveva mollare così facilmente. Se non poteva aprire quella porta, poteva quantomeno dare un’occhiata al locale scuro che si apriva alla sua destra. Anche se, per qualche motivo, le pareva piuttosto improbabile che il giovane germanico si trovasse lì dentro, valeva sicuramente la pena fare un tentativo: se non altro, per non restare con il dubbio di non avere fatto tutto ciò che era in suo potere per ritrovarlo.

Brevemente, Lidia contemplò anche una terza alternativa. E se aspettassi che quei due tornassero a bordo e li affrontassi? La ragazza si immaginò la scena. Lei, nascosta appena dietro alla parete che separava il piccolo corridoio dalla parte destra della nave; e loro, che risalivano la rampa senza sospettare di nulla. Sarebbe balzata fuori all’improvviso e avrebbe preteso di sapere chi fossero e dove avessero portato Hermann.

Un’ondata di sudore freddo le imperlò le mani. Forse sarebbe stato giusto agire così. Certamente, avrebbe avuto tutti i diritti di pretendere delle spiegazioni. Sfortunatamente, la ragazza era fin troppo consapevole del fatto che, per quanto disperate ed eccezionali fossero le circostanze, non avrebbe mai avuto il coraggio di affrontare a volto scoperto quelle persone sconosciute.

Io non sono così. Non sono quel tipo di persona, non sono proprio capace di farle, certe cose.

Deglutendo nervosamente, la giovane lanciò un ultimo sguardo carico di rimpianto alla porta chiusa e poi si avviò verso il passaggio alla sua destra. Quando si lasciò alle spalle il corridoio bianco e azzurro, Lidia ebbe l’impressione di entrare in un mondo completamente diverso, un mondo fresco, buio e polveroso. La sola illuminazione era data da poche luci biancastre situate nei punti strategici, perlopiù all’ingresso dei singoli box creati dalle pareti divisorie che aveva intravisto appena aveva messo piede all’interno della macchina.

Che razza di posto è questo? Si chiese la fanciulla, con la netta sensazione di essere in un luogo in cui non avrebbe mai dovuto trovarsi. A colpo d’occhio, le parve di essere entrata in una sorta di magazzino. Le mensole e le scaffalature posizionate a ridosso delle pareti metalliche erano in parte occupate da scatoloni dall’aspetto anonimo, tutti uguali e tutti all’incirca delle stesse dimensioni, contraddistinti solamente da alcune sigle dal significato oscuro. Altre casse dalle dimensioni decisamente superiori – alcune di esse, stimò Lidia, superavano i due metri d’altezza – erano sistemate sul pavimento all’interno dei box, riposte ordinatamente su alcuni robusti bancali, accanto a enormi sacchi di tela ruvida, forse juta.

La fanciulla sentì un brivido d’inquietudine correrle lungo la schiena. A rigor di logica, quella macchina comparsa dal nulla avrebbe potuto trasportare le cose più disparate. Considerando la situazione, però, e l’alone di segretezza che pareva aleggiare attorno a quell’affare, Lidia credette di indovinare che cosa si trovasse all’interno delle casse: il ricavato delle offerte. L’argento!

La scoperta, sebbene non particolarmente eccezionale, la mandò nel panico. Allo sconvolgimento per la perdita di Tito – un dolore sordo e costante che le martellava all’interno delle costole, mozzandole il fiato – e all’angoscia per il rapimento di Hermann si aggiungeva ora la preoccupazione di quello che sarebbe potuto accadere a lei, se qualcuno l’avesse sorpresa in quel posto.

Se davvero era a un passo dallo svelare il segreto che si celava dietro alla cerimonia dei sacrifici, Lidia era sicura di trovarsi in una situazione di pericolo. Se le persone che pilotavano quella macchina si fossero accorte della sua presenza a bordo, certamente non le avrebbero consentito di andarsene via come se nulla fosse, con il rischio che lei corresse a spifferare a tutti quello che aveva scoperto.

Spronata da quel nuovo sentore di un pericolo imminente, la fanciulla si inoltrò ulteriormente nei meandri del magazzino, nella speranza di trovare una qualche segnale che le suggerisse che Hermann si trovasse da quelle parti. Ma qui non c’è traccia di presenza umana, comprese, scoraggiata, quando sorpassò l’ennesimo scomparto popolato soltanto da casse e grandi sacche polverose.

Quello che sembrava essere una sorta di corridoio centrale proseguiva ancora verso la coda della nave, ma la giovane romana si lasciò scivolare a terra accanto a un’enorme cassa di legno grigiastro, prendendosi per qualche istante la testa tra le mani.

Ho fallito, si disse, sentendosi soffocare dallo scoramento. Le era ormai evidente che Hermann non era lì, ma si trovava al di là della porta che non era stata in grado di aprire. Non aveva modo di raggiungerlo, a meno di non chiedere aiuto ai due uomini che l’avevano tramortito e portato a bordo.

Serrando con forza gli occhi, la fanciulla si lasciò sfuggire un gemito disperato. Era finita. Aveva perso Hermann, e non era stata in grado di salvare Tito. Due persone scomparse probabilmente per sempre, solo ed esclusivamente per causa sua. Lidia si abbandonò contro la stoffa ruvida, sentendo le forze abbandonarla. Come avrebbe fatto ad affrontare il mondo, adesso? Con che coraggio sarebbe andata avanti, portando con sé il ricordo di quello che era successo quel pomeriggio? Presa dallo sconforto, la ragazza arrivò a pensare che forse sarebbe stato meglio non muoversi più da lì. Che la trovassero pure, si disse, lì seduta sul pavimento freddo e decidessero cosa farne di lei – lei era troppo stanca per decidere di testa sua.

Un sibilo improvviso, seguito da un tonfo quasi impercettibile, spazzò via quelle riflessioni e la spinse a scattare nuovamente in piedi. Lidia soffocò un conato di vomito e strinse i denti cercando di contrastare la fitta di dolore violento che le trapassò la testa, facendola vacillare. Confusamente, la ragazza si rese conto che il male che aveva colpito Hermann e Tito stava iniziando a manifestarsi anche in lei, ma quella consapevolezza passò in secondo piano rispetto al significato del suono che aveva appena udito. Quel sibilo e quel tonfo leggero potevano voler dire una cosa soltanto: il portellone attraverso cui era entrata si era chiuso, intrappolandola di fatto all’interno della macchina.

Oh, no! Pensò, sconvolta. Se pochi istanti prima Lidia aveva quasi desiderato di venire scoperta, la prospettiva che quel desiderio divenisse presto realtà le fece vedere le cose da un punto di vista decisamente diverso. Non voleva che la trovassero lì, non voleva che la punissero per la sua intrusione, non voleva che la portassero via e, soprattutto, non voleva che la cosa che aveva ucciso Tito uccidesse anche lei. Voleva vivere, qualsiasi cosa accadesse.

Non appena ebbe concluso quel pensiero, Lidia sentì il pavimento vibrare e un rombo profondo invadere il magazzino, rimbombando quieto tra le scaffalature e le pareti metalliche. Cosa… Quando avvertì il mondo attorno a lei ondeggiare, la ragazza comprese ciò che stava accadendo: così come era atterrata, ora la macchina si stava nuovamente alzando in volo.

E io ci sono dentro! Pensò, mentre il sangue le defluiva dal volto e il cuore pompava adrenalina. Che cosa faccio? Che cosa faccio?

Sentendosi completamente allo sbaraglio, Lidia seguì l’istinto e si mosse alla ricerca di un riparo. Anche se non sapeva da chi avrebbe dovuto nascondersi, esattamente, nella mente della fanciulla si disegnò un piano confuso. Avrebbe trovato un rifugio che le consentisse di non venire scoperta e poi, al prossimo atterraggio, sarebbe sgattaiolata fuori. E chissà che, nel frattempo, io non riesca a trovare anche Hermann… speriamo solo di non ritrovarmi dall’altra parte del mondo!

La sua mente corse subito a Tito, abbandonato ai margini della radura, alla mercé di qualunque persona –o animale! – che sarebbe passato di lì. Anche se la cosa le faceva provare un profondo senso di disgusto verso se stessa, la giovane si costrinse a non soffermarsi troppo su quei pensieri: oggettivamente, non v’era nulla che potesse fare per lui, in quel momento. Devo pensare a Hermann, adesso. E magari anche a salvarmi la pelle, se possibile.

Annuendo tra sé e sé, la fanciulla trovò un pertugio tra due grandi casse di legno e vi si infilò dentro, tastando con i polpastrelli ciò che la circondava. Lo spazio era angusto, il riverbero delle lampade situate all’ingresso del box era minimo, ma l’ambiente le parve sufficientemente protetto e sicuro. Nessuno verrà mai a guardare qui dietro, si disse, facendo del proprio meglio per convincersi di quel fatto.

Con una manica della camicia, Lidia si asciugò la fronte madida di sudore. Se nel corridoio principale del magazzino la temperatura le era parsa piuttosto bassa, nello stretto vano tra le due casse l’aria era più calda di diversi gradi; ed era impregnata dell’odore pungente che la ragazza aveva avvertito appena salita a bordo della macchina.

È fastidioso, si disse la ragazza, strofinandosi il naso per soffocare uno starnuto. Non appena la sua mano raggiunse le sue narici, però, quel sentore acre aumentò in maniera esponenziale e la giovane non riuscì a impedirsi di starnutire con forza. Soffocando un’imprecazione, Lidia si guardò le mani, cercando di determinare cosa avesse scatenato quella reazione.

Osservando le proprie mani alla pallida luce artificiale, la ragazza notò che brillavano di un bagliore minerale, come se una polvere sottilissima avesse rivestito la sua pelle con un’infinità di minuscoli cristalli. Strofinando insieme i polpastrelli di indice e pollice, Lidia credette di avvertire anche al tatto una sorta di patina sottilissima. Cosa accidenti ho toccato? Si chiese, confusa.

Ripercorrendo a ritroso gli ultimi minuti, la fanciulla ricordò come, nel suo procedere a tastoni verso l’anfratto in cui aveva trovato rifugio, si era appoggiata alle grandi casse di legno. Cosa contengono? Si chiese, esaminandole con gli occhi. Le offerte agli Dèi? L’argento?

Osservando con attenzione le listarelle della cassa alla sua destra, Lidia notò che ve n’era una leggermente danneggiata. Scommetto che la mia mano ci passa, stimò, alzandosi sulla punta dei piedi per raggiungere la fessura che si apriva tra due sottili assi di legno. Trattenendo il fiato e sentendosi come un ladro che si accinge a mettere le mani su un bottino particolarmente ambito, la ragazza infilò una mano nell’apertura e mosse le dita alla cieca, tastando la consistenza di ciò che le capitò sotto i polpastrelli.

Non vi era alcun dubbio che si trattasse di pietre, pietre ruvide e polverose, suddivise in frammenti più piccoli di quanto si sarebbe aspettata. Ripercorrendo con la memoria ciò che aveva visto durante la cerimonia a cui aveva assistito con Ulf, alla giovane pareva di ricordare che i blocchi d’argento fossero più grandi di quelli che avvertiva sotto alle dita in quel momento, ma non diede peso alla cosa: dopotutto, delle pietre più piccole sarebbero state più facili da nascondere e trasportare rispetto a dei blocchi di diversi chili.

Afferrando il primo blocco compatto che le capitò a tiro, la ragazza fece per estrarre la mano, ma la piega innaturale nella quale aveva dovuto costringere il braccio per farlo penetrare all’interno della cassa la obbligò a torcere dolorosamente una spalla. Di riflesso, Lidia serrò con forza il pugno e rimase allibita nel notare che, a quel movimento, l’argento che stringeva tra le dita si frantumò fino a ridursi in polvere.

Eh? Sorpresa, la fanciulla estrasse in fretta il braccio e alzò di nuovo la mano alla luce delle lampade, ritrovandola ricoperta da uno spesso strato di polvere verdastra. Portandosela al naso, la fanciulla vi ritrovò lo stesso odore pungente che poco prima l’aveva fatta starnutire.

Non è argento, realizzò, stupita. È oli… olivite. Confusa, Lidia tornò ad analizzare il contenuto della cassa più vicina a lei, rendendosi rapidamente conto che essa pareva piena della roccia friabile con la quale erano costruiti i forni nei quali venivano bruciate le offerte.

Perché portano via questa roba? Si chiese, spaesata. Ricordava perfettamente quanto poco stabile fosse quella roccia. Ne aveva avuto una prova il giorno in cui lei e Unna avevano fatto ritorno al villaggio passando attraverso la vecchia cava che sovrastava la miniera, quando il cedimento di un blocco di olivite l’aveva fatta ruzzolare a valle senza troppi complimenti.

Mossa dalla voglia di scoprire qualcosa di più, Lidia si inoltrò ulteriormente nel passaggio tra le due casse che le davano rifugio. Muovendosi lentamente, la ragazza raggiunse uno dei grandi sacchi di juta che ingombravano il pavimento. Dopo aver sciolto i lacci che la tenevano chiusa, la giovane frugò rapidamente all’interno, scoprendo che anch’essa non conteneva altro che olivite. Dov’è l’argento? Si chiese, perplessa. Ulf mi ha sempre detto che questa roccia non serve a niente, che senso ha riempirne casse intere?

Prima che avesse modo di provare anche solo a pensare a una risposta a quell’interrogativo, la ragazza udì un suono che la fece raggelare. Sono passi? Si chiese, trattenendo il fiato. Provando il desiderio inconscio di farsi il più piccola possibile, Lidia si schiacciò contro la parete di una cassa di legno, lottando contro la polvere di pietra che minacciava di farla starnutire nuovamente.

Poi, qualcuno la chiamò. «Lidia? Sei qui?»

La giovane sgranò gli occhi: aveva sentito bene? Qualcuno si era davvero rivolto a lei chiamandola per nome?

Qualche secondo più tardi, la voce parlò di nuovo. «Lidia, lo so, che sei qui. Non avere paura: voglio solo aiutarti.»

Senza nemmeno rendersene conto, la ragazza affondò le unghie smussate nelle vecchie assi della cassa. Perché lei la conosceva, la persona a cui apparteneva quella voce. Solo che non riusciva a spiegarsi perché accidenti fosse lì.

***

Gente, scusate il ritardo con cui posto questo capitolo: scriverlo non è stato affatto facile. L’ho riletto solo a pezzi, sarò sincera: non ho avuto né il tempo né la forza di fare una rilettura integrale. Come al solito, lo riprenderò in mano tra un po’ di tempo, a mente fredda. Nel frattempo, se voi trovate qualcosa da segnalare, segnalate pure.

A parte questo, che dire? Il capitolo non è il massimo dell’allegria (o forse sì? Dipende dai punti di vista…), ma da adesso in poi solo cose belle! Più o meno. Molto più o meno.

Però indovinate chi torna a farsi sentire, nel prossimo capitolo?

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Capitolo 36
*** 35. Senza traccia ***


Ulf strinse le dita sul granito del ripiano al quale si era appoggiato, premendo la fronte contro il vetro fresco della finestra. Davanti ai suoi occhi, la luce calda delle sei di sera illuminava il prato che circondava la casa di Katti, facendo risplendere i fiori selvatici che vi crescevano come se fossero stati infusi d’oro e ambra.

È stata la scelta giusta. Non avrei potuto fare altrimenti. Per quella che doveva essere la millesima volta, l’uomo si ripeté quelle parole, cercando di farle suonare convincenti almeno alle sue stesse orecchie. Il problema era che, ogni volta che ripensava al suo brevissimo incontro con Lidia, la sua mente gli ripresentava senza pietà lo sguardo che la ragazza gli aveva rivolto quando le aveva ordinato di fare ritorno a Roma. Uno sguardo incredulo, ferito, smarrito. Uno sguardo che, inevitabilmente, lo faceva sentire la persona peggiore sulla faccia della terra.

Ma cos’altro avrei potuto fare? Si chiese il giovane, con un senso di frustrazione che rasentava la rabbia. Lidia non gli aveva lasciato scelta. Tenendogli nascosta la presenza del ragazzo romano – nonché, sospettava, la sua identità – la fanciulla aveva dato il via a tutta una serie di eventi che si era poi risolta nel peggiore dei modi, mettendolo di fatto nella situazione di dover scegliere tra lei e Unna.

Proprio la decisione che non avrei mai voluto prendere, considerò, con una smorfia amara. Più che altro, perché non si trattava affatto di una scelta. Non poteva abbandonare Unna: era sua sorella – la sua gemella – e l’aveva conosciuta ancora prima di conoscere il volto di sua madre. Il fatto di starle accanto in un momento tanto delicato non era nemmeno un obbligo, per lui: era semplicemente una necessità.

Perché lui la conosceva fin troppo bene, Unna. Vista da fuori, la giovane sembrava indistruttibile, ma nel profondo del suo animo, in un posto sconosciuto ai più, nascondeva una fragilità impensata. Una fragilità che può rivelarsi particolarmente pericolosa proprio perché lei si rifiuta di riconoscerla e di farci i conti.

Il solo pensiero di abbandonarla a se stessa lo terrorizzava. Già una volta, in passato, avevano provato a concederle i suoi tempi e i suoi spazi, lasciandola libera di decidere se e quando farsi aiutare. Ulf ricordava fin troppo bene quali erano stati i risultati e non aveva alcuna fretta di trovarsi nuovamente in una situazione del genere.

E poi, c’è da dire una cosa: Lidia ha una famiglia che sarebbe disposta a riprenderla con sé, se necessario. Lei un posto dove andare ce l’ha… Unna no. Quando Rolf aveva detto loro che Karl era morto e che a ucciderlo era stato un romano che viaggiava con Lidia, la mente di Ulf era subito corsa a ciò che quel fatto avrebbe significato per il suo rapporto con la moglie. Malgrado la rabbia e la delusione dei primi istanti, l’uomo si era convinto che la ragazza non potesse essere veramente ritenuta responsabile per la morte dell’amico. Se la conosceva almeno un poco, sentiva di poter dire che, con ogni probabilità, Lidia si era ritrovata vittima degli eventi e non era riuscita a evitare che le cose virassero al peggio. Ciononostante, restava il fatto che, se fosse stata sincera con lui fin dall’inizio, le cose sarebbero forse andate in un altro modo. E, ancora più importante: forse quello che è successo non è colpa sua. Però il tizio che ha ucciso Karl è un suo amico; e non c’è niente che possa cambiare questa cosa.

Alla fine dei conti, Ulf sentiva di dover guardare in faccia la realtà. E, per sua sfortuna, la realtà era estremamente semplice: Unna sentiva il bisogno di allontanarsi da Erding, per se stessa e per il bene del bambino. Ora che Karl non c’era più, il giovane sapeva di dover essere lui a farsi carico di quella responsabilità. Non poteva certo chiedere a suo padre di occuparsi di lei, né, tantomeno, poteva pretendere che fosse Hermann a farlo: l’uno doveva sottostare agli obblighi che gli derivavano dall’essere il capo villaggio, l’altro era semplicemente troppo giovane per prendersi una responsabilità del genere.

No, tocca a me.

Il che lo poneva dinnanzi a ciò che avrebbe dovuto fare con Lidia. Se la situazione fosse stata diversa – se non fosse stata proprio lei a condurre al villaggio quel romano – Ulf l’avrebbe portata con sé. Ma così come faccio? Poteva davvero imporre a Unna la presenza della ragazza? Come avrebbe mai potuto essere possibile la convivenza tra le due?

E, tra l’altro: sono davvero sicuro che sarebbe giusto costringere Lidia a vivere per sempre a stretto contatto con mia sorella?

In quell’istante, dei passi leggeri risuonarono alle sue spalle. «Vieni: la cena è pronta. Rolf è abituato a mangiare a quest’ora e Katti non vuole scombussolarlo troppo.» Silenziosa come suo solito, Unna l’aveva raggiunto accanto alla finestra. Ulf però era talmente assorto nei suoi pensieri, che si limitò a rivolgerle un vago cenno d’assenso.

Che poi, c’era da considerare anche un’altra cosa. Suo padre gli aveva raccontato che la notte in cui Lidia era sparita di casa un soldato romano era stato ucciso da delle persone che non erano ancora state identificate. Anche se non aveva la certezza assoluta di chi fosse il ragazzo morto, da ciò che gli era stato riferito Ulf sospettava che potesse trattarsi dello stesso legionario che, qualche giorno prima, aveva scortato Lidia dal Prefetto Caleno.

Potrebbe trattarsi di una coincidenza, oppure potrebbe significare che, quando è stato aggredito, Lidia era con lui. Il che, di conseguenza, significava che, così come temeva ormai da parecchio tempo, lì in Germanica la ragazza era in pericolo. E, allora, rimandarla a Roma sarebbe davvero la cosa migliore per tutti.

Egoisticamente, Ulf si chiese se in quel “tutti” fosse compreso anche lui. Concettualmente sapeva che senza Lidia e i suoi pasticci la sua vita sarebbe tornata a essere molto più semplice. Nonostante ciò, non poteva fare a meno di domandarsi se sarebbe stata anche più felice.

Lui e Lidia si conoscevano ancora poco, ma il tempo che avevano passato insieme era stato comunque sufficiente a fargli venire voglia di conoscerla di più. Le voleva bene e, quasi senza rendersene conto, era arrivato a considerarla parte integrante della propria vita. Se pensava al futuro, lo vedeva con lei. Gli avvenimenti degli ultimi giorni l’avevano costretto a rivedere i suoi piani e quella prospettiva gli causava un dolore sordo all’altezza del petto. Sentiva di aver perso qualcosa; e il fatto che si trattasse di un “qualcosa” che non aveva nemmeno mai avuto non era di alcuna importanza.

«Guarda, io te lo dico: di là si raffredda tutto.»

Con le dita, l’uomo tamburellò pensosamente sul piano di granito che si trovava davanti. Forse, però, stava un po’ perdendo il senso della misura. Da quanto stavano insieme, loro due? Tre, quattro mesi? Ci siamo sposati il quattro di maggio: non sono nemmeno tre mesi. Com’era possibile che una persona che conosceva da così poco tempo gli cambiasse in tal modo la vita? Dopotutto, non doveva dimenticare il motivo esatto per cui loro due erano finiti insieme. È stato grazie alla geniale pensata dei Sacerdoti e dell’Imperatore.

Bastò il pensiero per fargli correre un brivido infastidito lungo le braccia. No: anche a distanza di mesi, la faccenda dei matrimoni combinati continuava a sembrargli una grandissima idiozia. E, allora, non dovrei fare altro che tornare a quello che ero prima che la suddetta grandissima idiozia si verificasse: non dovrebbe essere troppo difficile, no?

Ulf si soffermò qualche istante a valutare quell’idea. Tornare a una vita in solitaria, lontano da Erding, con Unna e il suo bambino. E magari un’altra donna, prima o poi. Una vita da gestire in libertà, senza interferenze da parte di Roma, né da parte dei Sacerdoti. La prospettiva aveva un certo fascino, in effetti. Però…

Il giovane si sentì travolgere da una desolante ondata di tristezza. Lidia, pensò. Il suo modo di fare, a tratti comico in maniera del tutto non intenzionale, quel suo aprirsi un poco alla volta, le sue paure che a volte diventavano coraggio, la sua inaspettata determinazione, la sua capacità di ascoltare… già ne sentiva la mancanza. Terribilmente. Per non parlare, poi, delle cose più concrete: i suoi occhi scuri, il suo profumo, il modo che aveva di stringersi a lui e di baciarlo. E altre cose…

«Hai intenzione di rimanere così ancora per molto?»

Ma questo non cambia niente, si disse il giovane, irrigidendo le spalle e stringendo i denti come per darsi forza. Erano pensieri che aveva già fatto mille volte, nelle ultime ore, e la conclusione era sempre la stessa: per quanto doloroso fosse andarsene via e separarsi da Lidia, non c’erano alternative. Andava fatto, e basta.

Stando così le cose, Ulf sentiva di avere soprattutto un rimpianto: non aver gestito meglio la sua ultima conversazione con la moglie. Avrei quantomeno dovuto darle la possibilità di spiegare meglio le sue ragioni, prima di imporle la mia decisione. Il risultato finale non sarebbe cambiato, ma forse ora mi sentirei meglio.

La verità era che si era fatto prendere dal panico. Aveva permesso che i vecchi ricordi lo inducessero a credere che vi fosse un pericolo imminente e, quasi inconsciamente, non aveva voluto permettere a Lidia di parlare. Forse per evitare che potesse farmi cambiare idea. Che poi, chissà cos’ha fatto, quando me ne sono andato. Si sarà rivolta alla Sacerdotessa? Sarà rimasta a casa?

A quel pensiero, un tremito di preoccupazione gli strinse lo stomaco. Era stato davvero stupido a non prendere qualche precauzione per assicurarsi che Lidia non corresse alcun pericolo. Avrebbe dovuto mandare qualcuno a tenerla d’occhio. Se non altro, avrei dovuto spiegare a papà quello che stava succedendo: lui si sarebbe preso cura di lei.

Nel tentativo di rassicurarsi, il giovane si disse che, con ogni probabilità, non avendo più sue notizie Gefrid aveva comunque mandato qualcuno a vedere che cosa stava succedendo. O almeno lo spero: malgrado tutto, dubito seriamente che il ragazzino romano sia in grado di difenderla in maniera decente.

Ulf era completamente immerso in quei pensieri che si facevano via via sempre più inquieti e non si accorse dello sguardo stranito che Unna gli stava rivolgendo. Quando la sorella gli posò una mano sul braccio, il contatto con le sue dita fredde lo fece trasalire. «Sì, adesso arrivo» mormorò cupamente, voltandosi appena per guardarla.

La donna scosse il capo. «Se devi stare così, tanto vale che vai a prenderla.»

Sulle prime Ulf non capì e guardò la sorella, confuso. «Come?» Lei abbassò lo sguardo a terra e si masticò brevemente le labbra, come se stesse tentando di capire se la decisione presa fosse quella giusta, poi cercò gli occhi del fratello, rivolgendogli un sorriso tirato. «È da questa mattina che praticamente non apri bocca. Non so perché, ma immagino che sia per colpa della romana: a ‘sto punto, vattela a riprendere e falla finita.»

Ulf distolse brevemente lo sguardo, cercando maldestramente di nascondere l’espressione attonita che gli si era dipinta sul volto. «Lidia non c’entra niente» provò a negare, consapevole di quanto falsa suonasse quell’affermazione.

Unna storse la bocca. «Come no!» commentò, sarcastica. «É inutile che cerchi di farmi passare per cretina: ti conosco abbastanza bene per capire quando non dici la verità.»

L’uomo sospirò. «D’accordo» ammise. «Non mi è piaciuto affatto doverla lasciare là. Però sai benissimo perché l’ho fatto… e, anche se odio dirlo, non c’era altra soluzione. Lidia starà bene, a Roma.»

Unna lo fissò con aria scettica. «Può essere. Quello che mi chiedo, però, è se tu starai bene senza di lei.»

Ulf scosse le spalle. «Sopravvivrò.»

La donna strinse la presa sul suo avambraccio, pizzicandolo come era solita fare quando erano bambini. «Non fraintendermi: se non dovessi vederla più non mi dispererei di certo, ma ti dispiacerebbe dirmi per quale motivo, esattamente, l’hai mandata via?»

L’uomo voltò il capo di scatto, fissandola con gli occhi ridotti a fessure. «Sarebbe stato un po’ strano, non credi, vivere tutti nella stessa casa?»

«Tutti?» lo interrogò Unna, chinando il capo di lato. «Intendi tu, lei e io?» Ulf annuì e la giovane sbuffò. «Cosa ti fa credere che io voglia vivere con te? Non mi serve una balia!»

L’uomo fu sul punto di dirle che, quando la notizia della morte di Karl li aveva raggiunti, non gli era affatto sembrato che lei fosse in grado di cavarsela da sola. Almeno in un primo momento, il modo in cui lei aveva reagito l’aveva fatto preoccupare non poco: anche se ormai erano passati anni da quello che, fino ad allora, era stato il momento più buio nella vita di Unna, il giovane aveva riconosciuto perfettamente quello sguardo vuoto, quei movimenti assenti, apatici. Poi, però, la donna sembrava essersi ripresa. Se non altro, pareva aver riguadagnato un discreto controllo su se stessa, lasciando presumere che non sarebbe ripiombata negli abissi che aveva conosciuto durante la sua adolescenza.

«Lo so», disse allora, scegliendo con attenzione le parole, «ma presto avrai un bambino e sarai completamente sola, non credo che…» Unna lo interruppe con un brusco cenno della mano. «Non sarò né la prima, né l’ultima donna a prendersi cura di un bambino senza l’aiuto di un marito. Me la caverò benissimo.»

«Può essere», ribatté Ulf, voltandosi verso di lei e fissandola negli occhi, «ma io non ho comunque intenzione di lasciarti sola!»

Sua sorella sostenne il suo sguardo per alcuni lunghi secondi, poi lasciò che i suoi occhi scivolassero via da quelli del fratello e scosse il capo con un mezzo sorriso. «D’accordo, d’accordo. Però sappi che, se vuoi riprenderti quella buona a nulla di tua moglie, a me sta bene.»

L’uomo la scrutò intensamente, come se non credesse alle sue parole e stesse cercando la ragione per la quale stava mentendo. «Vorresti farmi credere che quello che è successo non conta niente?» chiese, e la sua voce suonò più dura di quanto avrebbe voluto.

Unna lo fulminò con lo sguardo. «Non ho mai detto una cosa del genere!» ringhiò. «Karl era mio marito e già mi manca da morire…» La voce della giovane si incrinò in maniera quasi impercettibile e, subito pentito per la sua mancanza di tatto, Ulf le posò le mani sulle spalle e la attirò a sé. Lei resistette e si divincolò, ma non si allontanò da lui. «Scusami» mormorò l’uomo. «Non volevo insinuare niente. È solo che a volte… è solo che a volte non mi era molto chiaro quello che provavi veramente per lui.»

Unna si strinse nelle spalle, sospirando. «Se ho accettato di sposarlo, è perché lo amavo, non certo perché avevo bisogno della sua compassione. E non mi serve nemmeno la tua, di compassione: quindi, per favore, risparmiamela.»

Avvertendo la riluttanza della sorella a parlare di un argomento del quale, del resto, nemmeno lui era particolarmente ansioso di trattare, Ulf tornò ad appoggiarsi al davanzale e abbassò brevemente lo sguardo a terra, prima di alzarlo di nuovo su Unna. «Va bene, ho capito» disse, dopo qualche istante di silenzio. «Però faccio comunque fatica a credere che rivedere Lidia non ti farebbe alcun effetto.»

La donna scosse il capo, con un sorriso amaro. «Non la incolpo per quello che è successo» dichiarò, allargando le braccia. «Se Lidia non mi piace particolarmente, è perché non ha un minimo di spina dorsale. Non sopporto quel suo essere completamente dipendente dagli altri… e poi è romana, il che non migliora di certo le cose. Però non credo che sia stata lei a uccidere Karl.» Poi, facendo scorrere lo sguardo sul fratello, Unna parve colta da un dubbio. «Tu invece credi che sia colpa sua?»

Preso alla sprovvista dalla domanda della gemella, Ulf arrossì leggermente. «No, certo che no!» si affrettò a precisare. «Però, forse, se fosse stata più sincera, le cose sarebbero andate diversamente.»

Unna sollevò appena una spalla. «E chi lo sa… forse. A giudicare da quello che ci ha raccontato Rolf, però, ho come l’impressione che quella ragazza si sia ritrovata in completa balia degli eventi. Come suo solito, del resto. È talmente stordita che, probabilmente, non si è nemmeno accorta di quello che stava accadendo.»

Nel sentir parlare di Lidia in modo tanto dispregiativo, Ulf storse un po’ il naso. «Be’, Rolf ha anche detto che ha tentato di fermare quel romano… che ha cercato di calmare un po’ gli animi, no?»

«Sì», ribatté Unna, «ma non mi pare che la cosa le sia riuscita molto bene.»

«Almeno ci ha provato» insistette lui, sentendosi improvvisamente in dovere di difendere la moglie. La giovane si limitò a rivolgergli un vago cenno del capo. «Va be’. Quello che voglio dire è che, secondo me, Lidia non è andata veramente a cercarsela. Si è lasciata trasportare dagli eventi, ma non ha scelto di fare quello che ha fatto… a differenza di Karl.» Cogliendo la nota amara che aveva distorto la voce della sorella, Ulf si costrinse a rimanere in silenzio e a lasciarla parlare. «Lui è partito di sua spontanea volontà, anche se gli avevo chiesto di non farlo.»

L’uomo sospirò. «L’ha fatto perché credeva fosse la cosa giusta da fare» le fece notare dolcemente.

Lei gli rivolse un sorriso triste. «Lo so: lui era fatto così… non ce l’ho veramente con lui.» Poi, la sua voce si fece più dura. «L’unico vero colpevole di quello che è successo è quel romano: mi dispiace non essere stata più veloce, ieri. Avrei potuto ucciderlo, se quell’altro tizio non si fosse messo in mezzo.»

Il volto di Ulf si irrigidì. «Forse è un bene che tu non l’abbia preso. Non credo che Lidia l’avrebbe presa bene, se fosse morto.» Unna gli lanciò uno sguardo freddo. «Non me ne frega niente, a dire il vero. Ho detto che per me può restare, non che voglio diventare la sua migliore amica. Tu e tua moglie potete pensarla come volete, ma quel romano ha ucciso Karl e io ho tutto il diritto di vendicarmi. Ti ricordo che era anche tuo amico.»

Ulf distolse lo sguardo, sentendosi combattuto e vergognandosi un po’ della sua indecisione. «Lo so, ma ucciderlo non ti restituirebbe tuo marito. Il ragazzo resta pur sempre un romano, magari anche di buona famiglia, se ha avuto i mezzi per venire fino a qui: la sua morte non farebbe che procurarti altri problemi.» Notando l’incertezza che si era disegnata sul volto della sorella, il giovane rincarò la dose. «Possiamo già ritenerci fortunati se non avremo rogne da quel tipo che hai ferito: hai idea di chi fosse?»

Lentamente, Unna scosse il capo. «Non l’ho mai visto prima. E, sfortunatamente, non c’è proprio stato il tempo per fare le presentazioni. Comunque non l’ho certo ferito in modo grave: mi pareva bello combattivo, quando mi ha dato della pazza per averlo colpito…»

«Non mi pareva un legionario» commentò Ulf, cercando di riportare alla memoria i vaghi ricordi che conservava dell’uomo con i capelli rossi.

«Non lo era» confermò Unna, con una nuova certezza nella voce. Dopo qualche istante, la ragazza si scostò di un passo e fece un gesto come se volesse allontanare quei pensieri. «Allora», disse, poi, guardandolo con il capo leggermente inclinato, «cosa intendi fare? Vai a riprenderti la ragazza o cosa?»

Anche se avrebbe voluto apparire un po’ meno entusiasta e dare almeno la parvenza di rifletterci sopra un poco, l’uomo si ritrovò ad annuire. «Sì, meglio di sì. Questa mattina ho agito d’istinto e non ci ho pensato molto, prima di andarmene via. Però, considerato quello che è successo negli ultimi giorni, mi sentirei molto più tranquillo avendocela sott’occhio. Poi vedremo cosa fare.»

Unna corrugò la fronte. «In che senso?»

L’uomo esitò. «Vedremo se vorrà comunque restare qui o se preferirà tornare a Roma. Se prima di tutta questa storia sentivo di conoscerla davvero molto poco, adesso non ho proprio la minima idea di che cosa le passi per la testa…»

La donna non trattenne un sorrisetto storto. «Oh, a giudicare da come ti guarda e da come parla di te, non credo proprio che voglia andarsene.»

«Dici?» A quelle parole Ulf si aprì in un sorriso, avvertendo uno strano calore all’altezza dello stomaco. Unna alzò gli occhi al cielo. «Patetico» sospirò, prima di fare un cenno in direzione della porta. «Dai, vai, tanto ormai di là è tutto freddo.»

Il giovane annuì, mentre il suo sorriso si spegneva un poco. «Va bene, ci vado subito. Voi mangiate, nel frattempo: potrebbe non essere una cosa rapida.»

Unna gli rivolse uno sguardo confuso. «E perché mai? Non credo proprio che dovrai pregarla, per convincerla a seguirti…» Un angolo della bocca di Ulf si sollevò quasi impercettibilmente, poi l’uomo scosse il capo, divertito dall’osservazione della sorella. «Forse no, ma il problema è che non è affatto detto che Lidia sia ancora a casa nostra. Questa mattina le avevo raccomandato di non rimanere lì da sola, ma di andare a cercare Donna Erin. E, chissà: potrebbe anche avermi ascoltato, per una volta nella vita. Oppure potrebbe essere andata al campo militare con il suo amico romano, o il tipo che hai ferito potrebbe averla portata chissà dove… in effetti, potrebbe essere ovunque, ora che ci penso.»

Vedendo che il fratello cominciava a farsi inquieto, Unna gli posò una mano sul braccio. «È inutile che stai qui a perdere tempo, allora. Va’ e cercala – e vedi di trovarla, che ‘sto muso lungo mi ha già stancato.»

Lui le rivolse un’occhiata storta, poi ricambiò la sua stretta e, senza aggiungere altro, si avviò verso la porta. La casa di Katti si trovava praticamente dall’altra parte del villaggio e il giovane percorse le strade di Erding a passo rapido, senza fermarsi a osservare quello che accadeva attorno a lui. Con la coda dell’occhio, notò che in paese pareva esserci un certo fermento, ma non si soffermò per scoprire che cosa l’avesse provocato. Quando, poco più di un quarto d’ora più tardi, giunse in prossimità della casa che divideva con Lidia, Ulf si fermò di colpo, sorpreso. E quello chi è?

Seduto sui gradini di fronte alla porta d’ingresso, c’era un ragazzino dall’aria annoiata che giocherellava con un filo d’erba. Anche se sulle prime gli parve di non conoscerlo, avvicinandosi ulteriormente Ulf vide che si trattava del figlio del macellaio – del resto, le sue orecchie a sventola e il suo naso rosso erano piuttosto inconfondibili.

Cosa accidenti ci fa, qui? Si chiese, strisciando un poco i piedi sul selciato per attirare l’attenzione del giovane germanico. Sentendolo avvicinare, il ragazzo lasciò cadere la margherita che teneva tra le dita e balzò in piedi, sul volto un’espressione a metà strada tra lo scocciato e il sollevato.

Il ragazzino fece per parlare, ma Ulf lo precedette. «Hai bisogno di qualcosa?» chiese, senza tanti preamboli. Il figlio del macellaio sbatté un paio di volte gli occhi chiari, come se fosse rimasto sorpreso da un approccio tanto diretto, poi fece un mezzo cenno d’assenso. «Devo dire una cosa a Livia.»

«A Lidia» lo corresse Ulf. «Che cosa devi dirle?»

Il ragazzetto lo guardò con sospetto, quasi come se non fosse certo di potersi fidare di lui. «Il papà mi ha detto di parlare solo con Lidia. Non so se posso dirlo a te.»

Per una frazione di secondo, Ulf fu tentato di alzare gli occhi al cielo. «Sono suo marito» spiegò, cercando di mantenere la calma. «Sono abbastanza certo che qualsiasi cosa tu le debba dire possa essere detta anche a me.»

«Hm.» Il ragazzo lo squadrò ancora per qualche istante, poi parve rassegnarsi. «Tu lo sai, chi è Alexander?» Ulf corrugò la fronte, cercando di ricordare se conoscesse qualcuno che rispondeva a quel nome. «Chi, scusa?»

Il figlio del macellaio si portò le mani sui fianchi e sbuffò. «Ma sei sicuro che sei suo marito? Mio padre mi ha detto che Alexander è un amico di Lida e che lei stava aspettando un suo messaggio. Mi sembra strano che tu non lo conosci

Ulf espirò con forza, ricordandosi improvvisamente di quanto potessero essere odiosi i ragazzini di quell’età. «Senti, perché non facciamo una bella cosa? Adesso entriamo, tu le consegni il tuo messaggio e io sento che cos’hai da dirle. D’accordo?» Per tutta risposta, l’altro gli rivolse uno sguardo accondiscendente. «Ci ho già provato» lo informò. «Non è in casa.»

Allarmato, l’uomo si girò di scatto verso la porta. «No?»

«No» confermò il ragazzetto. «Ho provato a entrare, ma la porta è chiusa a chiave.» Sentendo la preoccupazione montare, Ulf tornò a rivolgersi al suo giovane compaesano. «Da quanto tempo sei qui, tu?»

Il ragazzo scrollò le spalle. «Non lo so. Un’ora, due… un sacco di tempo, insomma. E, prima di me, è stato qui mio padre. Abbiamo praticamente passato tutto il pomeriggio ad aspettarla, ma lei non si è vista.»

Ah, merda! Imprecò mentalmente Ulf. Esattamente come aveva temuto, Lidia doveva aver scelto proprio quel giorno per ascoltare i suoi consigli e se n’era andata di casa. E del resto che cosa ti aspettavi, idiota? Mi pare il minimo, visto come l’hai trattata!

 

Colto da un dubbio, Ulf cercò lo sguardo del ragazzino. «Questo Alexander… ha per caso i capelli rossi?» Il figlio del macellaio annuì. «Sì. È alto e ha i capelli rossi. E dev’essere anche bello ricco: non ci viene spesso, a comprare la carne, ma, quando la compra, non ha paura di spendere!»

L’uomo ebbe un fremito d’impazienza di fronte a quell’informazione inutile. «D’accordo, ho capito chi è» tagliò corto. «Lo conosco, solo che non sapevo che si chiamasse così. Lascia pure a me il messaggio: ci penso io a recapitarlo a mia moglie.»

Il ragazzino parve combattuto, ma poi scrollò le spalle. «Oh, e va bene! Io ci ho perso fin troppo tempo, per questa cosa.» Così dicendo pescò dalla tasca un foglietto stropicciato, ripiegato in quattro. «Credo che siano tipo le indicazioni su dove trovare Alexander. Non so perché vuole che Lidia vada da lui… credo di aver capito che lui non sta tanto bene. O forse si è fatto male… qualcosa del genere, insomma.»

Prendendo il foglietto che il ragazzo gli stava porgendo, Ulf annuì. «Va bene, grazie. Magari la accompagno anch’io, allora.» Il figlio del macellaio si strinse nelle spalle. «Fai un po’ come vuoi» fece, accomiatandosi da lui sventolando pigramente una mano.

Rimasto solo, l’uomo lesse rapidamente il messaggio scritto con una grafia obliqua ed elegante, a tratti difficile da interpretare. Non è che dica molto, constatò, con una smorfia amareggiata. Alexander non forniva infatti alcun elemento che potesse aiutarlo a ritrovare sua moglie: nel suo biglietto, si limitava a chiedere che Lidia e Tito lo raggiungessero nella cascina in cui esercitava uno dei guaritori del villaggio.

Tito dev’essere il ragazzo romano, ragionò, serrando inconsciamente i pugni. Respirando a fondo per allontanare il fremito di rabbia che l’aveva colto, Ulf tornò a osservare il messaggio dell’uomo dai capelli rossi. A Erding esercitavano tre guaritori e, per qualche motivo, Alexander aveva deciso di rivolgersi proprio a quello più fuori mano. Che motivo c’era di farsi un paio di chilometri a piedi, quando all’interno del villaggio ci sono altri medici altrettanto capaci di dargli due punti?

Accantonando quell’interrogativo, Ulf ragionò sul da farsi. Considerato il messaggio che gli era appena stato recapitato, era chiaro che Lidia non fosse in compagnia dell’uomo dai capelli rossi che l’aveva riaccompagnata al villaggio. Il che mi lascia con due possibilità: o è andata con il suo amico all’accampamento militare, oppure è andata a chiedere aiuto a Donna Erin. Per la prima volta da quando, parecchi anni prima, la Sacerdotessa era arrivata al villaggio, il giovane trovò piuttosto allettante la prospettiva di andarla a trovare. Sempre meglio andare da lei, piuttosto che andare in un posto pieno di legionari…

Mentre, per togliersi ogni dubbio, faceva un inutile giro di perlustrazione dentro casa, il giovane si domandò se non fosse possibile che, spaesata e spaventata, Lidia avesse cercato la compagnia di qualcuno che conosceva. E se fosse andata a casa di papà? Si chiese, con una punta di speranza. Del resto, lei e Hermann andavano d’accordo e Donna Edda le era stata vicina durante i primi tempi della sua permanenza al villaggio: era davvero così poco verosimile che la fanciulla avesse cercato rifugio da loro?

Un poco rinfrancato da quel pensiero, una decina di minuti più tardi Ulf si ritrovò davanti alla casa di suo padre. «Papà?» chiamò, aprendo la porta e lasciando scorrere lo sguardo sulle mura che l’avevano visto nascere e crescere. «Hermann?» provò di nuovo, quando il suo richiamo cadde nel vuoto. Dal giardino sul retro giunse un rumore e Ulf si diresse rapidamente in quella direzione.

«Nonna!» esclamò, scorgendo la figura scura di Donna Edda intenta a ritirare i panni stesi. «Sei sola? Dove sono tutti?»

Nell’udire la voce del nipote, l’anziana germanica sobbalzò, lasciando scivolare a terra la tovaglia che teneva fra le mani. «Dov’eri finito?» lo aggredì, non appena si fu ripresa dal suo stupore. «Dove sono i tuoi fratelli?»

Preso alla sprovvista dalla reazione imprevista della donna, il giovane retrocedette di un passo. «Unna è a casa di Katti» replicò, prima di rendersi conto che forse Unna non avrebbe voluto che la sua famiglia sapesse dove si era ritirata alla ricerca di un po’ di pace e tranquillità. «Hermann, invece… be’, lui non lo vedo da ieri, quindi non ho proprio idea di dove sia finito.»

Donna Edda si adombrò ulteriormente, mentre sul suo volto si dipingeva un’espressione turbata. «Non è venuto da te, questa mattina?» La preoccupazione che colse nella voce di sua nonna lo mise subito in allerta e Ulf scosse il capo. «No: ero anch’io da Katti, con Unna, e lì Hermann non è passato.»

Lentamente, la vecchia germanica raccolse la tovaglia caduta sul prato e la ripose nella cesta, insieme agli altri panni ancora bagnati. Poi si avvicinò al nipote, lo sguardo chino a terra e un’espressione concentrata sul viso segnato dal tempo. «E tua moglie, invece? Dove l’hai lasciata?»

Tutte quelle domande stavano iniziando a innervosirlo e Ulf scrollò le spalle in un gesto di impazienza, cercando di capire dove volesse andare a parare la donna. «L’ho incontrata questa mattina. Ero… ero un po’ arrabbiato per il modo in cui si è comportata ultimamente e le ho chiesto di restare a casa» mormorò, senza avere il coraggio di raccontare a Donna Edda tutta la verità. Anche se continuava a essere convinto di avere agito in modo tutto sommato comprensibile, data la situazione, ora che si trovava a discutere con qualcuno di quello che aveva fatto, si sentiva un po’ in colpa. «Adesso sono tornato a cercarla, ma a casa non c’era nessuno. E non c’è stato nessuno per tutto il pomeriggio, stando a quanto mi ha raccontato il figlio del macellaio.»

«Oh, Dèi!» Donna Edda si portò una mano al viso. Per una frazione di secondo parve sul punto di perdere le forze e, senza nemmeno pensarci, Ulf le si avvicinò, pronto a sostenerla. «Tuo fratello era andato da lei, questa mattina. Non è più tornato a casa: dove possono essere andati?»

L’uomo sentì la preoccupazione montare dentro di sé, ma cercò di tenere a bada l’ansia e di ricostruire esattamente quello che era successo. «Aspetta un attimo» disse, cercando di non mangiarsi le parole come spesso faceva quando era preoccupato. «Perché Hermann è andato a cercarla? Come faceva a sapere che l’avrebbe trovata a casa?»

L’anziana germanica scosse una mano con impazienza. «Non è importante!» sbottò, alzando su di lui il suo sguardo di ghiaccio. «Il nuovo Sacerdote ci ha detto di averla incontrata, tu eri partito con Unna la sera prima e tuo padre ha semplicemente pensato che fosse prudente chiedere a Hermann di andare a dare un’occhiata per assicurarsi che fosse tutto a posto…»

«… quale nuovo Sacerdote?» la interruppe Ulf. «Il ragazzo… il ragazzo che è arrivato l’altro giorno a casa di Donna Erin?» Donna Edda annuì. «Sì. Donna Erin se n’è andata, adesso al suo posto c’è Fratello… Caio, o come si chiama.»

«Kay» la corresse il giovane, con un nodo alla gola. Se Donna Erin non era più al villaggio, allora Lidia non poteva essere andata da lei. E quindi c’è un solo posto in cui potrebbe trovarsi: l’accampamento militare. Improvvisamente, però, quell’ipotesi gli parve poco verosimile: stando a quanto gli aveva detto sua nonna, Hermann era probabilmente con lei. E ho dei seri dubbi che avrebbe accettato di seguirla in un posto pieno di soldati di Roma.

«Dov’è mio padre?» tagliò corto Ulf, riscuotendosi dai suoi pensieri e cercando di definire rapidamente un piano d’azione. «Ho bisogno di parlargli.»

Donna Edda scosse mestamente il capo. «Dovrai aspettare un po’, prima di farlo: è stato convocato più di un’ora fa dal Legato. Pare che sia morto un romano e, visto che non è il primo che fa questa fine, vogliono vederci chiaro.»

Per qualche motivo, quell’informazione gli fece correre un brivido ghiacciato lungo la schiena. «Che romano?» chiese, temendo però la risposta. «Un soldato?» Di nuovo, l’anziana germanica scosse la testa in segno di diniego. «Non ne so molto: il Legato Libo è venuto per parlare con tuo padre, non certo con me. Ma no, non si trattava di un soldato: da quanto ho capito, era un ragazzo normale…»

«Ma non ci sono civili romani, da queste parti» protestò debolmente, mentre un lieve capogiro lo coglieva. No, non ci sono civili romani. A parte l’amico di Lidia, ovviamente. Quasi indovinando i suoi pensieri, Donna Edda gli puntò addosso il suo sguardo acuto. «Sai benissimo che uno ce n’era» mormorò, con voce cupa. «Ed è anche per questo che il Prefetto è venuto a cercare tuo padre. Perché forse Lidia lo conosceva e, forse…»

«… si tratta dello stesso ragazzo che ha ucciso Karl? Quello che ha cercato di portare via Lidia?» Quando l’anziana germanica annuì, Ulf si ritrovò a camminare nervosamente avanti e indietro. «Io l’ho visto, questa mattina: era anche lui con Lidia, a casa nostra!»

Intuendo la direzione in cui si stavano indirizzando i pensieri del nipote, Donna Edda gli posò una mano sul braccio, come per tranquillizzarlo. «Tua moglie e tuo fratello non erano con lui: Libo ha parlato di una sola persona morta.»

«Ma potrebbero essere stati insieme!» insistette Ulf, che si stava rapidamente convincendo che lo scenario peggiore fosse anche quello più verosimile. «Di cosa è morto? È stato ucciso?» La stretta di Donna Edda si fece ancora più salda, mentre le labbra dell’anziana donna si piegavano in una smorfia amara. «Non so niente» mormorò, con una voce che ricordava lo scricchiolio delle foglie secche. «Non mi hanno detto niente.»

Nonna e nipote si fissarono per qualche secondo in un silenzio angosciato, poi Ulf inspirò a fondo. «Papà è a casa del Legato?» chiese, con voce secca. Quando la donna annuì, il giovane retrocedette di un passo. «Io vado a cercare di capirci qualcosa. Tu resta qui, nel caso papà o Hermann facciano ritorno.»

Senza aggiungere altro, l’uomo si catapultò fuori di casa, reprimendo a stento l’impulso di mettersi a correre come un bambino spaventato. Nella sua testa, i pensieri vorticavano furiosamente, tempestandolo con accuse e recriminazioni. Stupido, si disse. Come posso essere stato così stupido da lasciarla lì in compagnia di quei due? Lo sapevo, che avrebbe potuto essere pericoloso! Perché non ho ragionato, invece di farmi prendere dal panico? Per colpa delle sue decisioni affrettate, adesso si trovava a dover cercare non solo Lidia, ma anche suo fratello. Sì, però sono stato anche sfortunato. Ci si è messa in mezzo tutta una serie di cose…

Immerso in quei pensieri cupi e confusi, il giovane arrivò rapidamente in vista della domus del Legato Libo. Non si sorprese, nel vederla circondata da legionari di guardia – del resto, non era passato molto tempo dal giorno in cui qualcuno aveva cercato di appiccarvi il fuoco – ma quello che lo stupì fu notare che il drappello più numeroso sembrava essere posizionato all’interno dei cancelli della villa.

Rallentando il passo, Ulf si avvicinò alle mura esterne, cercando di capire che cosa stesse succedendo. Quando fu giunto a pochi metri di distanza dal drappello di soldati fermi davanti alle porte dell’abitazione del Legato, uno di questo lo notò e gli si avvicinò con passo rapido. «Hai bisogno di qualcosa?» lo interrogò, scrutandolo, se non con sospetto, quantomeno con diffidenza.

Il giovane esitò per un istante, cercando una risposta che non mettesse in allerta il legionario. «Sto cercando mio padre» disse, allora. «Sono Ulf, figlio di Gefrid, il Capo Villaggio: mi è stato detto che è stato convocato poco fa dal Legato Libo. Mi hanno riferito che c’è stato un incidente con un cittadino di Roma.»

Rilassando un poco la propria postura, il soldato annuì. Era un giovane uomo dalla pelle ambrata e corti capelli neri e Ulf ebbe l’impressione che non sapesse bene come comportarsi, in quella situazione. «È così» confermò. «Mi dispiace, ma non posso farti entrare: ordini del Prefetto.»

Davanti a quella risposta, l’uomo si accigliò. «Come sarebbe a dire?» protestò. «Il Prefetto ha ordinato di non farmi entrare?» Il giovane moro ebbe un attimo di incertezza. «Non esattamente» rispose, poi. «Ha semplicemente dato disposizioni di non far passare nessuno per motivi di sicurezza. Finché non capiamo di cos’è morto quel ragazzo, ci è stato detto di tenere lontano la gente.»

Vedendo comunque un’occasione per scoprire ciò che gli interessava, Ulf provò a insistere un altro po’. «Avevo capito che fosse stato ucciso in un agguato. Pensavo che mio padre fosse stato convocato nel tentativo di trovare i colpevoli: non è così?»

Di nuovo, il legionario fece un cenno di diniego. «No, a quanto pare non c’è stato alcun agguato: il corpo è stato ritrovato per caso nel bosco, in un sentiero che collega Erding con il campo militare, ma non ci sono ferite evidenti che suggeriscano una morte violenta

Per un istante, Ulf si chiese se il soldato fosse autorizzato a fornirgli tutte quelle informazioni o se, invece, si stesse lasciando sfuggire qualche parola di troppo, ma quello non era certo il momento per farsi scrupoli simili. «E quindi?» insistette. «Pensate che sia stato avvelenato?»

Il legionario si strinse nelle spalle. «È un’ipotesi» confermò. «Oppure potrebbe essere morto di morte naturale: al momento non abbiamo modo di sapere se fosse malato o meno. In ogni caso, il Prefetto ha ritenuto che fosse più prudente portare qui il corpo. La situazione è delicata, soprattutto perché il ragazzo era un civile, e per questo Caleno ha voluto discuterne subito con il Legato. Però ha voluto anche ridurre al minimo il rischio di contagio: all’accampamento viviamo uno attaccato all’altro, puoi ben capire che…»

Ulf non riuscì a trattenersi. «E quindi ha preferito rischiare di contagiare Libo?» gli scappò detto. Il soldato lo guardò per qualche istante, poi sollevò nuovamente le spalle con aria leggermene smarrita. La notizia appena appresa distrasse brevemente Ulf dalla sua preoccupazione per la sorte della moglie e del fratello e il giovane si chiese se la mossa di Caleno non fosse stata studiata: del resto, ricordava perfettamente quanta poca simpatia scorresse tra il Legato e il Prefetto.

Notando un improvviso movimento tra i legionari radunati dall’altra parte della cancellata, l’uomo distolse gli occhi dal soldato che gli stava davanti e cercò di sbirciare verso l’interno della villa. Seguendo il suo sguardo, il romano aggrottò la fronte, confuso. «Lo stanno portando dentro?» chiese, rivolto ai suoi commilitoni che, come lui, si erano voltati per seguire la scena.

«Così parrebbe» rispose uno di loro, con una scrollata di spalle.

È davvero l’amico di Lidia? Si chiese Ulf, mentre l’angoscia gli stringeva il petto in una morsa. Anche se non aveva la benché minima simpatia o compassione per il ragazzo che aveva ucciso Karl, il fatto che quel romano fosse stato in compagnia di Lidia fino a poche ore prima lo riempiva di ansia. Se lui è morto, dov’è finita Lidia?

Certo, rimaneva la esile, esilissima possibilità che Lidia si fosse separata da lui e fosse andata da qualche parte con Hermann, ma quell’ipotesi gli sembrava assolutamente inverosimile. Anche perché dove potrebbero essere andati?

In quel momento, due soldati di guardia davanti alla porta interna della domus si chinarono e sollevarono una barella militare sulla quale era disteso un corpo. Anche se la distanza e gli uomini che continuavano a frapporsi tra lui e la barella gli impedirono di scorgere i dettagli, Ulf riuscì comunque a intravvedere dei capelli scuri e dei lineamenti che gli parvero fin troppo famigliari. Il giovane si sentì sbiancare, mentre, per un istante, il mondo pareva farsi distante e ovattato.

«C’è qualche problema?»

La voce del giovane legionario dai capelli neri lo costrinse a tornare alla realtà e Ulf scosse più volte la testa, cercando di tenere a bada i propri pensieri e il proprio turbamento. «No», negò, «stavo solo cercando di capire se lo conoscevo…»

Il soldato gli scoccò uno sguardo obliquo. «Dubito: da quel poco che ho sentito, il ragazzo era un patrizio. Figlio di gente importante, se non ho capito male. Non è nemmeno ben chiaro che cosa ci facesse qui, un tipo come lui.»

Lo so io, che cosa ci faceva qui, pensò Ulf, con la testa piena di sentimenti contrastanti. Se, da un lato, c’era l’inconfessabile soddisfazione di sapere che l’uomo che aveva ucciso il suo migliore amico era morto, dall’altro quella morte poteva avere delle terribili implicazioni sulla sorte di Lidia – e di Hermann.

D’un tratto, Ulf si sentì completamente perso e abbandonato a se stesso. Non aveva la benché minima idea di dove potessero essere finiti sua moglie e suo fratello. Non so nemmeno se siano ancora vivi! Pensò, mentre l’ipotesi peggiore prendeva forma nella sua mente.

Inconsciamente, il giovane prese a indietreggiare, allontanandosi dal soldato con il quale aveva parlato fino a pochi istanti prima. Quello lo richiamò, gli chiese qualcosa, ma Ulf non udì le sue parole. In silenzio, girò sui tacchi e tornò rapidamente sui propri passi. Sembra che stai scappando, interloquì la sua coscienza. Meno male che non dovevi fare niente di sospetto! Come minimo, adesso penseranno che l’hai ammazzato tu, quell’idiota!

Sul momento, quell’eventualità gli parve del tutto irrilevante. L’unica cosa che contava era ritrovare Lidia e Hermann – o, se non altro, riuscire a farsi un’idea di dove iniziare a cercarli. Sarebbe già qualcosa…

Camminando per Erding quasi alla cieca, Ulf si ritrovò senza nemmeno rendersene conto sulla via che conduceva nuovamente alla casa di suo padre. Poco prima di imboccare il viottolo che conduceva lì, il giovane si fermò. Che cosa intendi fare? Si chiese. Il suo primo impulso era stato quello di tornare da Donna Edda e di dirle che non era riuscito a trovare né Hermann né Lidia, ma in quel momento si rese conto che un’informazione del genere non sarebbe stata in alcun modo utile all’anziana germanica. Rischierei solo di farla preoccupare.

Stringendo i pugni, in preda alla frustrazione, l’uomo si ricordò improvvisamente di un particolare che era passato in secondo piano di fronte al precipitare degli eventi. Il messaggio di Alexander. Ripescando il foglietto stropicciato che gli era stato consegnato dal figlio del macellaio, Ulf rilesse rapidamente le poche righe che vi erano scritte sopra. Pensosamente, si rigirò un paio di volte tra le mani il messaggio stropicciato. E se lui sapesse qualcosa che io non so?

L’ipotesi non era poi così inverosimile: dopotutto, quando lui se n’era andato, l’uomo dai capelli rossi era rimasto con Lidia. E, nonostante suo fratello non fosse menzionato nel suo messaggio, non poteva nemmeno escludere che, nonostante la ferita provocatagli da Unna, Alexander si fosse trattenuto abbastanza a lungo da incontrare Hermann.

Non è detto che il romano fosse con loro, quando è morto. Forse Lidia e Hermann avevano preso qualche decisione che lui non condivideva. Forse si sono divisi, lui ha cercato di tornare al campo militare e lungo la via qualcosa è andato storto…

Era una ricostruzione con pochi elementi di certezza, ma Ulf scelse di aggrapparvici per mantenere un briciolo di speranza di ritrovare sani e salvi moglie e fratello. Ripiegando accuratamente il foglietto sgualcito, il giovane se lo ripose nuovamente in tasca. E va bene: vado a parlare con Alexander, decise risoluto.

***

Quando, qualche decina di minuti più tardi, si ritrovò davanti alla casa del guaritore presso il quale Alexander aveva dato appuntamento a Lidia, il giovane non poté fare a meno di sentirsi un po’ stupido. Il piccolo e bellicoso Albert era un medico eccellente, talmente abile nel ricucire ferite e sistemare ossa spezzate che la gente era disposta a sottoporsi a un viaggio lungo e faticoso, pur di potere usufruire delle sue cure. Anche se lui non ci aveva mai avuto a che fare direttamente, Ulf conosceva bene la sua fama e si sentiva un po’ a disagio all’idea di disturbare un tale luminare solo per chiedergli notizie di un uomo di cui non conosceva con esattezza nemmeno l’identità.

Ma le circostanze sono eccezionali, si ripeté, scacciando le proprie remore e bussando alla porta di legno bruciata dal sole. Mentre aspettava che qualcuno venisse ad accoglierlo, l’uomo si voltò per lanciare un’occhiata alle proprie spalle. Vedi di calmarti, si intimò, cercando di tenere a bada il proprio nervosismo. Attorno a lui, tutto pareva tranquillo – fin troppo, in effetti. La casa di Albert era situata al di fuori dei confini del villaggio. Per arrivarci, Ulf aveva dovuto camminare lungo la strada carrabile che proseguiva verso nord: un percorso solitamente abbastanza trafficato, ma lungo il quale, quel giorno, non si era imbattuto in anima viva. Tutto sembrava sospeso, immobile, come in attesa di un evento imminente.

Dopo qualche istante, la porta davanti alla quale era in attesa si aprì e un ometto sulla sessantina lo squadrò da sotto in su. L’espressione seccata perfettamente riconoscibile nei suoi piccoli occhi azzurri gli rivelò senz’ombra di dubbio che si trattava del padrone di casa. «Ti serve qualcosa?» lo apostrofò il guaritore, parlando con la cadenza impostata tipica di chi aveva studiato nelle terre del nord. Inconsciamente, Ulf si schiarì la voce. «Sto cercando Alexander. È qui?»

Albert indietreggiò di mezzo passo, piantando gli occhi in quelli del giovane. «Sì, è qui» confermò lentamente. «Però mi ha detto che stava aspettando Lidia, e qua non vedo nessuno che possa rispondere a tale nome.»

Ulf sostenne il suo sguardo, sforzandosi di mantenere un atteggiamento neutrale. «Lo so, è proprio per questo che sono qui. Lidia è mia moglie. Il figlio del macellaio mi ha consegnato un messaggio destinato a lei.» Vedendo che l’espressione dell’uomo non cambiava, azzardò un passo in più. «Lidia sembra essere sparita nel nulla da ormai qualche ora: speravo che Alexander potesse aiutarmi a ritrovarla.»

Per un attimo, il giovane temette che Albert gli sbattesse la porta in faccia, ma poi l’uomo fece un cenno d’assenso e un piccolo sorriso cortese. «Va bene, entra pure. Vediamo se Alex può darti una mano.» Il guaritore lo fece accomodare su un grande divano di pelle chiara e poi sparì in un altro locale. Nervosamente, Ulf abbassò lo sguardo sul tappeto esotico situato sotto i suoi piedi. Notandone lo stile inconsueto, ne seguì con gli occhi gli intricati ghirigori blu. L’arredamento ricercato e le suppellettili di valore che riempivano il locale non lasciavano alcun dubbio sullo stato economico del guaritore, decisamente più agiato anche di quello di Gefrid. Quel particolare non fece altro che aumentare il senso di inadeguatezza che Ulf aveva sentito inspiegabilmente calare su di sé.

Il suono dei passi di Albert lo spinse a riscuotersi e il giovane si alzò in piedi, pronto ad accogliere il proprio ospite. Quando il guaritore si presentò nuovamente alla soglia, Ulf vide che alle sue spalle c’era Alexander: aveva una spalla bloccata con una fasciatura leggera, ma, a parte quello, sembrava godere di ottima salute.

«Vi lascio parlare» disse l’uomo più anziano, passando lo sguardo dall’uno all’altro. Poi si soffermò su Alexander. «Se avessi bisogno di me, puoi trovarmi nel mio studio.» Con quelle parole, Albert si accomiatò dai due giovani. Non appena furono rimasti soli, Alexander si mosse velocemente verso Ulf. «Cos’è successo?» lo interrogò, balzando a piè pari ogni tipo di preambolo o presentazione. «Albert mi ha detto che Lidia è sparita.»

«È così. E credo che il ragazzo romano sia morto» confermò il germanico a bruciapelo, provando quasi una punta di soddisfazione davanti all’espressione scioccata di Alexander. «Morto?» ripeté infatti quello, guardandolo con insistenza, come se stesse cercando di capire se Ulf fosse serio o meno. «Ma com’è possibile? L’ho visto prima e stava benissimo…»

Ulf scrollò le spalle. «Non ho la certezza che si trattasse proprio di lui, ma questo pomeriggio è stato trovato il corpo di un ragazzo romano lungo il sentiero che porta all’accampamento militare. Pare che si trattasse di un civile e, da quanto ne so io, non ci sono molti civili, da queste parti.»

Alexander scosse il capo e si lasciò lentamente scivolare sui cuscini di pelle del divano. «Ma non è possibile» disse, quasi a bassa voce. «Che cosa ci faceva in mezzo al bosco? Gli avevo detto di aspettarmi a casa di Lidia e di non muoversi da lì.»

Guardandolo in volto, Ulf vide che l’uomo sembrava sinceramente sconvolto e si sentì in colpa per la vaga sensazione di trionfo provata poco prima. «Non so che cosa sia successo», disse, un po’ più gentilmente, «fatto sta che nemmeno Lidia si trova più a casa. Il che significa che qualcosa li ha convinti a uscire e ad andare da qualche altra parte.» Quando l’uomo si limitò a fissarlo con i suoi profondi occhi blu, Ulf aggiunse: «Hai forse incontrato anche mio fratello, quando eri a casa mia?»

Alexander gli rivolse uno sguardo confuso, poi scosse il capo. «Non conosco tuo fratello, ma io ho parlato solo con Lidia e con Tito. Povero ragazzo, mi dispiace per lui…»

L’espressione di Ulf si indurì. «Ha ammazzato mio cognato. A me non dispiace affatto che sia morto – ammesso che sia poi morto davvero, ovviamente.» Sul volto di Alexander si disegnò un’espressione stanca. «Lo capisco, però sono convinto che Tito si sia ritrovato in una cosa più grande di lui. Non dico che abbia agito bene, però, insomma… era spaventato, confuso, e credeva di proteggere Lidia. Non sono riuscito a fermarlo, purtroppo.»

Prima di rispondere, Ulf si costrinse a inspirare a fondo e a calibrare bene le parole. «Può essere», concesse, «ma ultimamente le cose sono difficili per tutti. Questo, però, non giustifica nessuno ad agire senza pensare: se tutti cercassimo di far fuori chi non ci piace o chi ci sembra pericoloso, ci troveremmo in guai ben peggiori di quelli in cui ci troviamo adesso.»

Alexander non replicò, ma si limitò ad allargare le braccia, dandogli forse silenziosamente ragione. «In ogni modo», riprese Ulf, desideroso di arrivare ad affrontare l’argomento che gli stava veramente a cuore, «non è del ragazzo, che voglio parlare. Voglio capire che fine hanno fatto mia moglie e mio fratello. Probabilmente tu sei uno degli ultimi ad aver visto Lidia: hai idea di dove possa essere finita?»

Dopo qualche istante di riflessione, l’uomo dai capelli rossi scosse il capo. «No, purtroppo no. Come ti ho già detto, le avevo raccomandato di aspettarmi a casa vostra; cosa che, evidentemente, non ha fatto. Non ho proprio idea di dove possa essere andata.»

Maledizione, pensò Ulf, rabbuiandosi ulteriormente. «Credi che possa essere andata a cercare Donna Erin? So che adesso la Sacerdotessa non si trova più a Erding, ma forse Lidia non lo sapeva…»

Alexander scosse di nuovo il capo. «No, Lidia sapeva benissimo che Kay ha sostituito Erin: ce l’ha detto lui stesso e so che…» L’uomo si interruppe di colpo e contrasse la fronte in un’espressione concentrata. Poi improvvisamente si illuminò. «Aspetta un attimo!» esclamò, concitato. «Forse mi è venuta un’idea.»

Il giovane sentì nascere in sé un filo di speranza. «A proposito di dove potrebbe essere Lidia?»

«Più che altro per capire come fare a trovarla» precisò l’altro uomo. «Seguimi, di sopra ho una cosa che potrebbe esserci utile. Che stupido, avrei dovuto pensarci subito!»

Confuso, ma comunque determinato a sfruttare qualsiasi appoggio che potesse aiutarlo a ritrovare Lidia e Hermann, Ulf seguì Alexander su per le scale di legno che conducevano al piano superiore, scorgendo solo qualche dettaglio della ricca casa di Albert. L’uomo lo condusse in quella che doveva essere la camera che gli era stata assegnata dal guaritore: era piccola e arredata in modo pratico, ma non spartano. Il suo occhio esperto colse le fini lavorazioni lignee eseguite sulla superficie del tavolino posto a poca distanza dalla branda militare e sul fianco delle mensole posizionate sopra di esso.

Quando si fu richiuso la porta alle spalle, Alexander fece per chinarsi sul cassetto del comodino accanto al letto, ma si fermò un istante prima di aprirlo. «Ora» esordì, chiaramente a disagio. «Sto per mostrarti una cosa che non dovrei assolutamente farti vedere. Se si venisse a sapere in giro, io passerei dei guai molto grossi… soprattutto se questa cosa dovesse arrivare alle orecchie di gente come Kay.» Non sapendo bene che cosa farsene di quell’informazione, Ulf sollevò un sopracciglio con una punta di scetticismo. Alexander strinse nervosamente le mani in un pugno e cercò gli occhi del germanico, sperando forse di trovarvi la conferma del fatto che si poteva fidare di lui. «Il fatto è», riprese, «che ormai in questa storia ci sono dentro e che sento di non potermene lavare le mani. E quindi, niente… vediamo se il localizzatore ci può aiutare.»

Così dicendo, l’uomo aprì il cassetto e ne estrasse una piccola tavoletta di vetro scuro. Piegando un po’ la testa per vedere meglio, Ulf notò che era costellata da punti luminosi. «Che cos’è questa roba?» chiese, cercando di ricordare se avesse mai visto nulla di simile.

Alexander sventolò una mano in aria, come per dire che quell’informazione non era così importante. «Immaginala come una specie di mappa. Serve per trovare diverse cose: città, punti particolari, strade e altri aggeggi dotati di un sistema di localizzazione. Tito aveva con sé una tavoletta come questa: se siamo fortunati, potrebbe averla passata a Lidia. E, se siamo ancora più fortunati, Lidia potrebbe averla ancora con sé.»

Ulf fu tentato di toccare la tavoletta con la punta delle dita, ma si trattenne. «Quindi si tratta di qualcosa che viene da Roma?» indagò. Alexander lo guardò cine se fosse sorpreso da quella domanda e poi, in maniera del tutto inaspettata, si lasciò sfuggire una piccola risata. «Oh, no, no, non viene da Roma. La storia è lunga e temo che, prima o poi, dovrò raccontartela: adesso però cerchiamo di capire se Lidia ha ancora la tavoletta o meno, d’accordo?»

Pur avvertendo che il modo sbrigativo con cui aveva liquidato la questione poteva celare un pericolo, Ulf decise di non insistere e di lasciare, almeno per il momento, campo libero all’uomo. «Va bene» acconsentì con un cenno del capo.

Sfiorando la superficie lucida con alcuni gesti rapidi, Alexander fece comparire sul vetro alcuni riquadri azzurri, all’interno dei quali erano presenti alcune frasi scritte in caratteri minuscoli. I movimenti dell’uomo erano troppo veloci perché Ulf potesse leggere i brevi messaggi, ma, ancora una volta, il giovane si costrinse a rimanere in silenzio. Fu solo quando Alexander si lasciò sfuggire un’esclamazione di disappunto, che si decise a indagare oltre. «Che cosa succede» chiese.

L’uomo dai capelli rossi abbassò bruscamente la tavoletta, mostrandone la superficie al germanico. Ulf non vide altro che un triangolo giallo e pulsante, in lento movimento sopra a quella che poteva essere la rappresentazione stilizzata di un bosco. Non capendo cosa stesse guardando, alzò su di lui uno sguardo confuso.

«Non ho modo di sapere se Lidia abbia ancora l’altro localizzatore», esordì Alexander, «però, di certo, quella tavoletta non ci è arrivata da sola, lì.»

Quella spiegazione non servì a dissipare i dubbi del germanico. «?» ripeté. «E dove sarebbe, esattamente,

Alexander sospirò di nuovo. «L’ultimo posto al mondo in cui vorrei che Lidia si trovasse: a bordo della Northern Star

***

Tra una cosa e l’altra, l’ho tirata lunga anche con questo capitolo. Spero di riuscire ad aggiornare nuovamente prima di partire per il mare a fine mese, ma mi sa che servirebbe un mezzo miracolo… alla peggio, ci risentiamo a metà luglio. Prendetela come una specie di pausa estiva?

Come al solito, non è che mi farebbe schifo avere qualche commento… non ho praticamente fatto in tempo a rileggere nulla, quindi le vostre segnalazioni mi farebbero comodo!

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Capitolo 37
*** 36. Un salto nel buio ***


Lidia rallentò il ritmo del respiro e cercò di ragionare in fretta. Era sicura che la persona che le aveva appena parlato fosse Donna Erin, ma non riusciva a capire perché la Sacerdotessa si trovasse a bordo di quella strana macchina volante. Dopo qualche istante, la sua mente le fece notare che, forse, la spiegazione la conosceva da tempo: anche se le loro teorie differivano leggermente l’una dall’altra, sia Ulf che Unna avevano sempre pensato che le offerte passassero direttamente attraverso le mani dei Sacerdoti. La consapevolezza di trovarsi verosimilmente davanti alla prova tangibile di quel fatto le provocò un moto di indignazione, ma la voce della donna la costrinse a tornare a occuparsi del presente.

«Dai, Lidia, lo so che sei qui dentro! Se non ci diamo una mossa, rischiamo di venire scoperte!”

Il tono urgente con cui vennero pronunciate quelle parole sussurrate fece contrarre di preoccupazione lo stomaco della giovane. Lidia si affondò i denti nel labbro inferiore: era davvero prudente abbandonare il proprio nascondiglio e fare quello che la Sacerdotessa le stava chiedendo?

Ma che alternative ho? Se Erin era riuscita in un qualche modo a scoprire che lei era a bordo, non poteva certo sperare di sfuggirle a lungo. Era meglio uscire autonomamente allo scoperto, anziché venire stanata come un topolino spaventato. Inspirando a fondo per darsi coraggio, Lidia si staccò dalla grande cassa di legno alla quale era appoggiata e, lentamente, scivolò attraverso lo stretto pertugio nel quale si era infilata poco prima, mostrandosi infine alla luce verdognola della lampada posta all’esterno dello scomparto.

La Sacerdotessa si trovava proprio davanti a lei e, nel vederla, le rivolse un sorriso un po’ rigido. La fanciulla fece appena in tempo a notare che un paio di pantaloni scuri e una camicia verde smeraldo avevano preso il posto delle sue consuete vesti bianche, poi la donna le si avvicinò e le posò le mani sulle spalle, stringendo appena le dita. «Ma si può sapere cosa ci fai qui?» le chiese Donna Erin, cercando di incontrare gli occhi della ragazza.

Lidia boccheggiò, presa in contropiede da quella domanda così diretta. Poi deglutì, decidendo di andare dritta al punto. «Hanno portato a bordo Hermann: voglio riprendermelo.»

La Sacerdotessa la fissò per qualche istante, quasi come se quella risposta l’avesse lasciata senza parole. Poi scosse il capo un paio di volte e Lidia ebbe l’impressione di scorgere l’ombra di un sorriso sul suo volto pallido. «Sì, ho visto quello che è successo a Hermann. Sta ricevendo tutte le cure del caso, quindi non devi preoccuparti troppo per lui.»

La giovane romana sgranò gli occhi. «Sta bene?» chiese, dimenticandosi per un attimo di parlare a bassa voce. «Posso vederlo?»

Donna Erin levò una mano come nel gesto di posare le dita sulle labbra della fanciulla, forse per intimarle di abbassare il tono. «Sì, adesso ti porto da lui» le promise. «Tu però cerca di non fare rumore e fai esattamente quello che ti ho detto io: voglio aiutarti, ma, per farlo, devo capire che cosa è successo.»

Parrebbe sincera, considerò la ragazza, osservando di soppiatto l’espressione limpida dipinta sul volto della donna. «Va bene» acconsentì: in ogni caso, non aveva altra scelta che fidarsi di lei. Anche se questo significherà ammettere che abbiamo ficcato il naso in casa sua – in casa di Kay.

Con un cenno d’assenso, la Sacerdotessa abbassò una mano fino a raggiungere quella della fanciulla e, stringendola gentilmente nella sua, la guidò di nuovo fino a quando si trovarono nuovamente davanti alla porta bianca e azzurra. Posando la mano sinistra al centro del pannello, Donna Erin abbassò lo sguardo sulla ragazza al suo fianco. «Ti chiederei gentilmente di non raccontare a nessuno quello che hai visto e vedrai tra poco… ma so benissimo che sarebbe una promessa che difficilmente potresti mantenere, non è così?»

Lidia ricambiò lo sguardo verde della donna con una punta di risentimento. La riteneva davvero così poco affidabile? «Non lo so» replicò, stringendosi nelle spalle. «Ultimamente ne sto vedendo parecchie, di cose strane, e ho capito che la riservatezza è importante.»

La Sacerdotessa parve meravigliata da quell’affermazione, ma, prima che potesse ribattere, la porta emise un sibilo leggero e poi scorse silenziosamente verso destra, dando così accesso a una parte di corridoio prima sbarrata. «Vieni» mormorò Erin, abbandonando la mano di Lidia. Quando l’ebbero superato, il pannello metallico si richiuse alle loro spalle e la giovane romana ebbe per un istante l’impressione di essersi appena inoltrata in una trappola. Devi fidarti di Donna Erin, si ripeté per l’ennesima volta. Mantieni la mente lucida e non farti prendere dal panico: lei è sempre stata gentile con te. E poi è amica di Alexander.

«Quali cose strane avresti visto, esattamente?» la interrogo la Sacerdotessa, quando ebbero percorso pochi metri di corridoio bianco e immacolato.

Lidia si mordicchiò un labbro: da dove iniziare? Decidendo di affrontare la questione di petto – stava iniziando a capire che il gettarsi a capofitto nelle cose le generava meno preoccupazioni che l’approcciarle con eccessiva cautela – la fanciulla estrasse dalla tasca del grembiule la tavoletta di vetro. «Questa, per esempio» replicò, osservando il viso della donna per coglierne la reazione. «Non ho ben capito che cosa sia, ma ho come il sospetto che sia importante.»

Erin sbiancò e, prima che Lidia potesse fermarla, le strappò la tavoletta dalle mani. «Dove l’hai trovata?» sussurrò, rigirando l’oggetto per osservarne più da vicino il retro.

Colta alla sprovvista da quella reazione, la giovane prese a giocherellare nervosamente con il tessuto del suo vestito estivo. «Ce l’avevano due legionari. L’hanno affidata a un mio amico, che… che poi l’ha affidata a me.»

«Questa cosa è mia» mormorò la donna, scuotendo lentamente il capo. «L’ho cercata per settimane… hai idea di come sia arrivata tra le mani di quei soldati?»

Lidia cercò di ricordare ciò che Gaio le aveva detto a proposito del modo in cui era entrato in possesso della tavoletta. «Non ricordo bene, ma credo che l’abbiano trovata addosso a un germanico – a uno dei ribelli, se non ho capito male.»

«Wolfgang» sospirò tristemente la Sacerdotessa. «Allora ho paura che i miei sospetti fossero fondati. Uno dei miei servitori è sparito nel nulla qualche tempo fa: probabilmente ha trovato il localizzatore e ha pensato bene di intascarselo. Avrei dovuto essere più prudente…»

Non sapendo cosa rispondere alle parole della donna, la ragazza tornò a osservare la tavoletta. «È effettivamente una mappa?» chiese.

Donna Erin fece un mezzo cenno di assenso. «Sì, è una specie di mappa, anche se, in realtà, può fare anche un sacco di altre cose utili. Sono davvero felice di averla ritrovata: se avessi dovuto denunciarne la scomparsa, avrei passato un sacco di fastidi…»

«Allora aveva ragione Alexander…» fece Lidia, quasi sovrappensiero.

Il suo sussurro però attirò l’attenzione della Sacerdotessa. «Alexander chi?» chiese, fissandola intensamente. «Non Alexander Ivanov, vero?»

Lidia corrugò la fronte, cercando di ricordare se quel nome le fosse nuovo o meno. «Non saprei» replicò, piegando le labbra in una smorfia. «È sui trent’anni, piuttosto alto, capelli rossi… vive in una capanna verso sud.»

La Sacerdotessa annuì brevemente. «Sì, allora è lui. Mi stupisce che ti abbia parlato tanto di questa mappa. Non avrebbe dovuto farlo, in effetti.»

Quell’ultima considerazione sembrava essere rivolta più che altro a se stessa, ma Lidia si sentì comunque chiamata in causa e aggrottò la fronte, un po’ contrariata. «I due soldati con cui stavo viaggiando si sono fermati da lui apposta per avere informazioni su quell’oggetto. Avevo l’impressione che lui fosse una specie di informatore di Roma: non è così?»

Donna Erin le lanciò un’occhiata stanca e forse solo un poco diffidente. «Alex è molte cose, ma non credo che questo sia il luogo o il momento migliore per parlarne. Volevi vedere Hermann, no?»

La fanciulla ebbe l’impressione che l’offerta fattale dalla donna non fosse altro che un modo per sviare la sua attenzione dalla tavoletta e dal ruolo di Alexander, ma dovette comunque riconoscere che la Sacerdotessa aveva ragione. In quel momento, la cosa che più le stava a cuore era accertarsi di persona delle condizioni in cui versava il cognato. «Certo» confermò allora. «Posso vederlo subito?»

La Sacerdotessa annuì. «Da questa parte.» Avanzando solo di pochi passi, Erin raggiunse una porta che, sulle prime, Lidia non aveva nemmeno visto. Tutto le pareva alieno, a bordo di quella macchina: persino le porte non era quelle che aveva conosciuto per tutta la sua vita. Quella, in particolare, sembrava completamente integrata nella parete lucida, delimitata solo da una sottile depressione. Quando la donna la sfiorò con il palmo della mano, però, emise un sibilo e si aprì esattamente come aveva fatto quella bianca e azzurra che aveva in un primo momento sbarrato la strada alla giovane romana.

Qualsiasi domanda avrebbe potuto nascere nella sua testa, però, svanì alla vista del ragazzo sdraiato su un lettino posto al centro della stanza che si apriva dietro alla porta. Hermann pareva privo di sensi e il suo volto era terreo, ma il suo petto si alzava e si abbassava con regolarità. Notando quel particolare, Lidia si lasciò sfuggire un inconscio sospiro di sollievo. «Cosa sono quelle cose?» chiese, poi, notando i sottili tubi trasparenti collegati alle braccia del giovane.

Chiudendosi la porta alle spalle, Donna Erin si avvicinò al letto. «Possiamo quasi toglierli» commentò, esaminando una colonnina posta accanto al capezzale del ragazzo. «Sono delle medicine: servono per tamponare la situazione e per assicurarci che Hermann possa arrivare vivo da chi potrà fornirgli delle cure più mirate.»

Quelle parole risvegliarono un sussulto di paura nello stomaco della ragazza. La fanciulla raggiunse il giovane germanico, toccandosi istintivamente la testa per contrastare la fitta rovente che la attraversò da tempia a tempia. Quando la vista, che per un istante le si era offuscata, tornò a farsi limpida, Lidia sfiorò con la punta delle dita la fronte del cognato, trovandola più fredda di quanto le sarebbe piaciuto. «Ma starà bene?» chiese, con la voce che tremava leggermente.

«Starà bene», confermò la Sacerdotessa, voltandosi per guardarla, «ma non sarà una cosa veloce.»

«Ah» commentò Lidia, cercando di trovare il coraggio per chiedere alla donna di spiegarsi meglio, sebbene fosse consapevole che, con ogni probabilità, quello che le avrebbe detto non le sarebbe piaciuto.

«Però, Lidia», la precedette Erin, «a me piacerebbe capire come ha fatto Hermann a ridursi in questo modo: non è una malattia che si prende tanto facilmente, questa.»

La giovane chinò il capo e, per qualche istante, non riuscì a incontrare lo sguardo della Sacerdotessa. Voleva davvero confessarle di essere entrata in casa sua senza esservi stata invitata e, soprattutto, di aver rovistato in tutte le stanze alla ricerca di una qualche prova di una sua eventuale e non meglio specificata consapevolezza? E se la prendesse male?

Donna Erin se ne stava immobile, ferma davanti a lei in attesa che si decidesse a rispondere alla sua domanda. Improvvisamente, Lidia espirò. Oh, ma che importa oramai? È ovvio che qui sta succedendo qualcosa di decisamente strano e mi sa proprio che non si può più far finta che sia tutto normale. «Fino a poco fa stava bene» sospirò allora. «Hermann è venuto a casa mia per pranzo. Con noi c’era anche un mio amico venuto da Roma…» La gola le si chiuse, e Lidia sentì il bisogno di dire le cose come stavano. «Era… era il ragazzo con cui ero fidanzata prima di venire in Germanica e di sposarmi con Ulf. Era venuto fino a qui per portarmi via. Voleva aiutarmi.»

Sul volto della Sacerdotessa si dipinse un sorriso affilato. «Oh, quindi pensavi di scappare? L’avevo sempre sospettato, sai?»

La ragazza scosse lentamente il capo. «Solo all’inizio. Adesso non voglio più scappare, voglio restare con Ulf, ma non è questo il punto. Il fatto è che avevamo la tavoletta e abbiamo pensato di andare a casa tua e di lasciarla a Fratello Kay… non sapevamo che altro fare.»

«Ah.» Negli occhi di Donna Erin si accese una luce di consapevolezza e la giovane sentì un brivido freddo scivolarle lungo la schiena.

«E…» Lidia riprese, sentendo la necessità di concludere la propria spiegazione. Sapeva con assoluta certezza che, una volta concluso il proprio racconto, la donna di fronte a lei non avrebbe potuto evitare di rivelarle qualcosa che l’avrebbe aiutata a capire meglio gli eventi delle ultime ore. «Be’, abbiamo trovato la porta aperta, ma in casa non c’era nessuno. Non abbiamo resistito alla tentazione di dare un’occhiata in giro. Non avremmo dovuto farlo, lo so, ma l’abbiamo fatto lo stesso. Al piano superiore abbiamo trovato una stanza… strana.»

La Sacerdotessa si lasciò sfuggire un sibilo che Lidia non riuscì a interpretare: era sorpresa o irritazione? «Posso immaginarlo» commentò asciuttamente, prima di passarsi stancamente una mano sugli occhi. «Avete trovato il laboratorio, non è così?»

La fanciulla ricambiò l’occhiata della donna. «Un laboratorio?» ripeté, cercando di capire che cosa volesse indicare la Sacerdotessa con quel termine. «Non lo so, può essere. C’erano molti armadi che contenevano delle cose strane…»

«Che cosa avete toccato?» la incalzò Donna Erin, puntando gli occhi verdi in quelli scuri della ragazza.

Non per la prima volta, Lidia cercò di ricordare che cosa avessero fatto, esattamente, una volta entrati nella stanza chiusa a chiave, ma i suoi ricordi sembravano essere stati inghiottiti da una nebbia impenetrabile. La fanciulla corrugò la fronte, sforzandosi di fare mente locale. Improvvisamente le si ripresentò davanti una delle ultime conversazioni avute con Hermann. La fialetta che Tito ha aperto, ricordò, come in un lampo. «Io non ho toccato nulla, ma Hermann e il mio amico hanno frugato un po’ qua e là. In particolare, Tito ha aperto una fialetta con dentro della roba bianca…»

«Merda» imprecò la Sacerdotessa, attirando su di sé l’occhiata stranita della giovane romana. «Non mi stupisce che questo poveretto stia così male, allora. Era ovvio che fosse entrato in contatto con le spore, ma non pensavo che si trattasse di un contatto così diretto.» Quando Lidia continuò a guardarla senza capire, la donna mosse una mano in un gesto sbrigativo. «Dov’è il tuo amico adesso?»

Lidia chinò il capo e si schiarì la voce per evitare che questa tremasse. «È morto» mormorò, sforzandosi di aggirare il nodo amaro che le stringeva la gola. «Ha iniziato a stare male come Hermann – anche più di Hermann – e poi ha perso i sensi. Ed è morto.»

«Mi dispiace» sospirò la Sacerdotessa, posandole per un istante una mano sulla spalla e stringendola dolcemente. «Deve aver inalato una gran quantità di materiale per… perché le cose degenerassero tanto velocemente.»

«Ha annusato il contenuto di quella fiala» replicò Lidia, rivivendo ora con perfetta chiarezza il momento in cui Tito si era portato al volto il piccolo contenitore trasparente.

Erin scosse il capo. «Poveretto» mormorò tra sé e sé. «Non aveva davvero possibilità di farcela, allora.»

Lidia le rivolse un’occhiata cauta. «Pensi che l’avreste potuto salvare, se l’avreste trovato in tempo?»

La donna mosse di nuovo la testa in un cenno di diniego. «Non lo so, ma credo che sarebbe comunque stato improbabile. Quella roba è forte: serve apposta per ammazzare la gente, non è stata studiata perché si potesse curare con facilità.» Dopo qualche istante di silenzio, la Sacerdotessa posò anche l’altra mano sulle spalle della ragazza e l’attirò leggermente verso di sé. «Tu eri con loro nella stanza: stai bene, tu?»

Lidia boccheggiò, sorpresa dalla domanda diretta. «Io… non sono sicura di stare benissimo. Ho mal di testa e faccio un po’ fatica a concentrarmi. Ma io non l’ho annusata, quella polvere.»

Immediatamente, Donna Erin si allontanò da lei e raggiunse un armadietto posto ai lati della stanza. «Non c’è bisogno di annusarla direttamente, per stare male» commentò, dandole le spalle e accovacciandosi sui talloni per frugare all’interno di uno degli scomparti del mobile. «Vieni qui» le ordinò, tenendo tra le mani una siringa e una fialetta colma di un liquido trasparente.

Alla vista dell’ago, Lidia deglutì nervosamente: era passato molto tempo dall’ultima volta che si era dovuta sottoporre a un’iniezione – del resto, si trattava di una pratica estremamente costosa – e di certo non serbava un ricordo particolarmente piacevole dell’esperienza. Davanti allo sguardo insistente di Donna Erin, però, la fanciulla accantonò le proprie remore e si affrettò a obbedire. Con un secco cenno di approvazione, la Sacerdotessa perforò con l’ago il coperchio della fiala e ne aspirò il contenuto. Poi, senza dire una parola, allargò la scollatura dell’abito della ragazza, scoprendole una spalla. Colta alla sprovvista, Lidia sobbalzò e le rivolse uno sguardo d’accusa. «Oh, non è niente» la rassicurò la donna. «Stai ferma un attimo, per favore.»

Prima che la giovane avesse il tempo di prepararsi, Erin le conficcò l’ago nel muscolo del braccio e le iniettò il contenuto della siringa. Lidia strinse i denti davanti al bruciore improvviso, ma non si lamentò. «Ecco fatto» le comunicò la Sacerdotessa, apparentemente rinfrancata. «Mi sembra che tu stia tutto sommato bene e questa dose di antidoto dovrebbe essere sufficiente per farti tornare come nuova. Aspettiamo quindici o venti minuti: se i sintomi saranno spariti, bene, altrimenti vedremo di affrontare il problema con una terapia d’urto.»

Lidia annuì e si raddrizzò il vestito, resistendo alla tentazione di massaggiarsi il punto offeso. Una paura passeggera la spinse a chiedersi se la Sacerdotessa le avesse davvero iniettato un liquido curativo: e se, invece, avesse voluto prendere qualche precauzione per evitare che lei se ne andasse in giro a raccontare ciò che aveva scoperto a casa sua e a bordo di quella strana macchina volante? E se si fosse trattato di veleno?

Scuotendo impercettibilmente la testa, la ragazza si costrinse a mantenere i nervi saldi. Data la situazione, non aveva altra scelta che fidarsi di Donna Erin e credere che la Sacerdotessa avesse veramente intenzione di aiutarla, così come le aveva assicurato sin dal primo istante. «Grazie» borbottò allora, facendo del proprio meglio per mostrarsi riconoscente.

«Non c’è di che», ribatté la donna, «anche se ti sarei davvero grata se, in futuro, tu evitassi di andare in giro a ficcare il naso in faccende che non ti riguardano. Non scherzavo, quando dicevo che ci sono dei pericoli che tu non puoi nemmeno immaginarti.»

«Come del veleno nascosto nella casa di un Sacerdote?» scappò detto a Lidia. Donna Erin, forse stupita dalla sua inaspettata sfacciataggine, le rivolse uno sguarda stranito. La giovane arrossì, ma decise che, almeno in quel frangente, non sarebbe ritornata sui suoi passi. «Perché era lì? A cosa serve?»

La Sacerdotessa esitò per un istante. Poi, con un sospiro, appoggiò la schiena contro la parete più vicina. «È un modo come un altro per tenere sotto controllo gli elementi più sovversivi… come Sören, per esempio. Non dico che sia una cosa bella o giusta, ma è sicuramente meno vistoso di un’esecuzione pubblica o dell’azione di un sicario, pur garantendone gli stessi risultati. O, per lo meno, questo è quello che crede Kay. Sia chiaro che io non condivido affatto questa linea di azione.»

Quella spiegazione risvegliò un ricordo nella mente della ragazza. «L’altro giorno, al consiglio, hai detto che gli Dèi avevano dato a Fratello Kay un dono particolare: ti stavi riferendo a questo?»

Erin emise un sibilo sarcastico. «Quello era un modo di dire» sbottò amaramente. «Però, sì: in un certo senso mi riferivo proprio a questo. E a certi altri suoi poteri e prerogative, naturalmente.»

Lidia restò in silenzio per qualche istante, poi osò porre una domanda che credeva che non avrebbe mai trovato il coraggio di fare. «Gli Dèi non c’entrano assolutamente niente, non è così?»

La Sacerdotessa la fissò per alcuni lunghi secondi, poi scosse il capo. «No, in effetti non c’entrano niente. Ma la storia è molto più complicata di quello che credi, Lidia. Non… non ha senso che tu cominci a fare congetture strane o a pensare che io sia parte di chissà quale complotto. Le cose non sono mai quelle che sembrano e questo è uno dei pochi casi in cui conoscere la verità farebbe più male che bene.»

La fanciulla corrugò la fronte, poco colpita dalle vaghe giustificazioni della donna. «Ulf crede che tu collabori con Roma: è così?» Se si fosse fermata a riflettere su quello che stava facendo, Lidia non avrebbe saputo dire dove avesse trovato la forza e il coraggio di affrontare così direttamente la Sacerdotessa. Inconsciamente intuiva però che, in quel momento, Donna Erin si trovava in una posizione particolarmente delicata: e l’istinto le ordinava di approfittarne.

«So benissimo quali sono le voci sul mio conto», ribatté Erin, rivolgendole un’occhiata tagliente, «ma ti assicuro che nessuna di esse è fondata.»

«Però tu non sei germanica» insistette la fanciulla, con assoluta certezza.

«Non sono nemmeno romana, se è solo per questo» le fece notare la Sacerdotessa, con un sorriso storto.

Questo era ovvio, considerò la fanciulla, ricordando come avesse sempre fatto fatica a definire la nazionalità della donna che le stava di fronte. «E allora da dove vieni? Che cosa ci fai qui?»

Il sorriso di Donna Erin si trasformò in un’espressione determinata. «Queste non sono domande a cui posso rispondere, Lidia. Innanzitutto perché credo davvero che tu sia più al sicuro ignorando come stiano veramente le cose, e poi perché non ho l’autorizzazione per farlo. Se ti raccontassi tutto e questa cosa si venisse a sapere – ipotesi pressoché certa, credimi – io sarei in pericolo, e lo stesso varrebbe per te. Ci sono delle regole a cui devo sottostare, regole estremamente rigide.»

La ragazza abbassò lo sguardo a terra, cercando di ricordare dove avesse già sentito qualcosa di molto simile. «È la stessa cosa che ha detto anche Alexander» la informò, quando ricordò lo scambio avuto con l’uomo dai capelli rossi. «Nemmeno lui mi ha voluto dire da dove venisse.»

«In ogni caso, si tratterebbe di un posto troppo lontano perché tu possa conoscerlo.»

«Ha detto anche questo» replicò Lidia, asciutta.

«Non stento a crederlo», ribatté la donna, inamovibile, «perché questa è l’unica risposta che avrai a proposito di questo argomento.»

Davanti a quelle parole che negavano ogni possibilità di dialogo, Lidia strinse rabbiosamente i denti e distolse lo sguardo da quello della Sacerdotessa, cercando di contenere la propria irritazione. Le stava lentamente diventando chiaro che era proprio quello il nodo cruciale della vicenda – la reale provenienza di quelli che, almeno in teoria, avrebbero dovuto essere Sacerdoti germanici – e il fatto che Donna Erin si rifiutasse di parlarne non le piaceva neanche un po’. «A questo punto, non mi stupirei nemmeno se scoprissi che venite dall’Ade» fece, a mezza voce.

Erin le rivolse un’occhiata confusa. «Come, scusa?»

La fanciulla scosse le spalle. «No, è che ci sono talmente tante cose che non capisco che… non so, io non so più che cosa pensare. Ma siete veramente dei Sacerdoti, voi?»

La donna scosse il capo in maniera quasi impercettibile. «No, in effetti no. Credo che ormai la cosa sia abbastanza lampante, non è così?»

Non saprei, si ritrovò a pensare la ragazza, rendendosi improvvisamente conto che non era quella, la risposta che aveva sperato di sentire. «E, allora, io non ci sto capendo più niente. Se voi non siete dei Sacerdoti, allora vorrei proprio sapere con chi è che ha preso accordi il mio Imperatore. L’avete ingannato? Oppure lui sapeva tutto? O forse… forse è anche lui un impostore?»

Lidia rivolse alla sua interlocutrice un’occhiata carica di rancore, ma Erin si limitò a ricambiarla con uno sguardo che era quasi di compassione. «Te l’ho detto, Lidia: non è il caso che tu ti preoccupi di queste faccende. So che non è una cosa facile da accettare, ma è meglio se, una volta scesa da qui, dimentichi questa conversazione e torni alla tua vita di tutti i giorni. Sapere tutto quello che sta dietro a questa cosa non ti sarebbe di alcun aiuto: non cambierebbe comunque nulla e tutto diventerebbe più difficile, per te. A volte l’ignoranza è un bene, te l’ho detto.»

«Ma io non sono nemmeno cosa sia esattamente “qui”» sbottò la fanciulla, non riuscendo a sopprimere un gesto di stizza. «So solo che mi trovo a bordo di questo affare che vola e…»

«Questo è un pattugliatore» la interruppe Erin. «Serve per perlustrare il territorio. Ne girano spesso, da queste parti, ma da terra non è facile vederli, dal momento che sono dotati di un sistema che li fa risultare praticamente invisibili.»

«E perché e pieno di sassi?» tornò all’attacco Lidia, ricordando un particolare che l’aveva stupita non poco, quando si era rifugiata nel magazzino che occupava la parte posteriore della nave. «Dov’è l’argento?»

Gli occhi verdi di Erin si assottigliarono. «Cosa ti fa pensare che c’entri qualcosa l’argento?»

Ulf vi ha visti, avrebbe voluto dire Lidia. Lui sa che siete voi a portare via le offerte. Però si trattenne appena in tempo, rendendosi conto che quell’informazione avrebbe forse potuto mettere in pericolo suo marito. «Ci sono parecchie teorie che girano a proposito della fine che fanno veramente le offerte» disse invece, riuscendo ad assumere un tono sprezzante. «Sicuramente ti sarà capitato di sentirne una o due.»

«Ovviamente sì» confermò la donna, con una smorfia. «Però non è l’argento a essere importante, ma l’olivite.»

Lidia non riuscì a trattenere un’esclamazione sarcastica. «Ma se Ulf mi ha sempre detto che quella roccia è perfettamente inutile! L’ho visto anche con i miei occhi: basta sfiorarla, per ridurla in briciole. Non serve assolutamente a nulla.»

«Non serve a nulla qui», la contraddisse Erin, «ma ti assicuro che nel posto da cui vengo io è invece estremamente ricercata. L’argento si trova un po’ ovunque, l’olivite invece è molto rara ed estremamente preziosa, se uno sa come utilizzarla.»

«Ma un materiale così fragile…»

«Serve per costruire delle cose. Per far funzionare delle cose. Non credo che capiresti, ma…» Il suono sommesso che provenne dalle sue spalle le fece morire le parole sulle labbra. Donna Erin si avvicinò rapidamente al mobiletto dal quale aveva estratto l’antidoto e impugnò la tavoletta che vi aveva abbandonato poco prima.

«Cosa succede?» la interrogò Lidia, mentre l’inquietudine tornava a fare capolino nel suo animo. Distrattamente, la ragazza si rese conto che il mal di testa sembrava già essere in via di guarigione. Con un gesto della mano, la donna le indicò di aspettare un attimo e sfiorò con alcuni gesti rapidi la superficie dell’oggetto. Poi, sul suo volto si dipinse l’accenno di un sorriso. «È Alexander» le comunicò. «Lui sapeva che il localizzatore ce l’avevi tu, giusto?»

Poco convinta, Lidia fece un mezzo cenno d’assenso. «Suppongo di sì» mormorò. «Be’… sapeva che ce l’aveva Tito e sapeva che io ero con lui, quindi…»

La tavoletta suonò di nuovo e la donna se la avvicinò al volto, come per leggere qualcosa scritto con dei caratteri particolarmente piccoli. Rimase poi perfettamente immobile per qualche istante, prima di prendere a colpire rapidamente lo schermo con i polpastrelli. «Adesso ti spiego» mormorò Erin, senza distogliere lo sguardo dal localizzatore. «Avrei dovuto pensarci prima anch’io!»

Per qualche minuto, la giovane romana la fissò con aria interrogativa. Poi, finalmente, la Sacerdotessa – che, a conti fatti, non era affatto una Sacerdotessa – posò nuovamente la tavoletta sul mobile, con aria soddisfatta. «Abbiamo un piano» le comunicò.

«Un piano per fare cosa?» chiese Lidia, senza capire.

«Per farti tornare a terra», ribatté prontamente Erin, «e anche per curare al meglio Hermann. Perché funzioni, però, avrò bisogno della tua più completa collaborazione. Potrebbe non essere semplicissimo, ma, se farai quello che ti dico, non ci saranno problemi.»

«Ah» mormorò Lidia, cercando di mettere nella giusta luce ciò che la Sacerdotessa aveva appena detto. «E che cosa dovrei fare?» Naturalmente, la fanciulla non desiderava altro che abbandonare quella macchina e tornare con i piedi per terra – tornare da Ulf, se possibile – ma la proposta di Donna Erin le sembrava un poco sospetta. Sebbene si fosse dimostrata gentile con lei, e sebbene avesse quantomeno rallentato il decorso del male che aveva colpito lei e Hermann, la donna non si era mai apertamente offerta di riportarla a terra. Che lo facesse proprio allora, dopo che la tavoletta aveva suonato, le sembrava un po’ strano.

Erin inspirò a fondo e si sedette sull’orlo della branda che ospitava Hermann, abbassando per qualche istante lo sguardo a terra, come per raccogliere le idee. «Dunque», esordì, «la situazione è questa. In questo momento, noi ci troviamo sulla Northern Star, una delle due navi-pattuglia che si trovano nella Germanica Meridionale e che hanno il compito di raccogliere l’olivite e di perlustrare il territorio. Il Capitano Paerson, l’ultimo comandante di questa nave, è andato in pensione di recente e il capitano ad interim è Jonathan Kay. Non hai certo bisogno che te lo presenti, dal momento che l’hai già conosciuto di persona. Da queste parti c’è anche un’altra nave, la Greyhound, comandata dal Capitano Han: ed è proprio a bordo di questa seconda nave, che dovremo fare arrivare Hermann.»

Lidia sgranò gli occhi. «Cosa?» esclamò. «Dovrei portare Hermann giù da questa cosa e farlo salire su una uguale? Perché mai?»

«Perché la Greyhound è una nave più grande e più equipaggiata di questa. A bordo c’è una squadra medica che sarà in grado di trattare adeguatamente il ragazzo. Se vuoi che torni a essere quello di sempre, non c’è altra scelta: le vostre conoscenze mediche sono troppo arretrate e non farebbero altro che peggiorare la situazione.»

Quando Lidia fece un cenno d’assenso – piccolo e poco convinto – Erin riprese a parlare. «Non ci dovrai andare da sola, ovviamente: ci penserà Alexander a condurti lì. Il che significa, ovviamente, che dovrai innanzitutto raggiungere il nostro amico.» Quando la giovane romana continuò a fissarla con espressione cauta, Donna Erin le rivolse un sorriso. «Forse ti farà piacere sapere che Ulf è già da lui. Non so come ci sia arrivato, sta di fatto che si trovano entrambi presso la capanna di un guaritore di nome Albert: ed è proprio lì che tu dovrai andare.»

Nell’udire il nome del marito, Lidia si illuminò e tutto ad un tratto ebbe una gran voglia di abbandonare la macchina volante, qualunque fosse il piano di Donna Erin per farla scendere a terra. «Non ho idea di dove sia questo posto» si rese però conto un istante più tardi, rabbuiandosi.

«Di questo non ti devi preoccupare» la rassicurò la donna più anziana. «Alex mi ha inviato le coordinate esatte sul localizzatore, non dovrai fare altro che seguire la macchina.»

Lidia deglutì, senza osare dire che, in tutta onestà, non era affatto certa di essere in grado di “seguire la mappa”. Tra le altre cose, aveva sempre avuto un pessimo senso dell’orientamento e di certo non era in grado di maneggiare alla perfezione quella strana tavoletta.

«Ora», riprese la Sacerdotessa, «la parte difficile non è certo questa. Avrai ben notato che stiamo volando: in questo momento, dovremmo trovarci a un’altezza di perlustrazione compresa tra gli ottocento e i mille metri: perché tu possa scendere a terra, dovremo abbassarci parecchio. Ecco quello che faremo: Kay è a terra e la nave è piuttosto sguarnita. Il qualità di prima ricercatrice, ho un certo potere decisionale. Chiederò al pilota di abbassarsi in corrispondenza del lato sud della miniera d’argento, a pochi chilometri del villaggio. Fingerò di voler esaminare più da vicino alcuni sedimenti o qualcosa del genere. Il punto è che non potrò fare atterrare completamente la nave: le procedure di sicurezza prevedono che durante la ricognizione non si scenda mai al di sotto dei sessanta metri di altezza. Ed è qui che entri in gioco tu: non spaventarti, ma tu e Hermann dovrete lasciare la nave mentre questa è ancora in volo.»

La fanciulla la fissò con gli occhi spalancati, certa di non aver capito bene. «C-come?» balbettò, mentre la sua determinazione iniziava a vacillare.

«So che può sembrarti strano», mormorò Erin, «ma ti assicuro che è una cosa assolutamente fattibile.»

Non mi sembra strano, pensò la giovane, preoccupata, mi sembra proprio una follia. Cosa pretende che faccia? Dovrei forse farmi spuntare le ali e volare giù fino a terra?

«La cosa migliore», continuò Erin, ignorando il nervosismo della ragazza, «sarebbe che tu prendessi il mio paracadute e saltassi giù. Sarebbe rapido, non ci costringerebbe a fare alcuna manovra sospetta e nessuno si accorgerebbe di niente. Ma forse per te sarebbe un po’… troppo

La ragazza sentì le ultime parole, ma non le ascoltò veramente: la sua mente si era bloccata su quel “saltare giù” pronunciato con tanta nonchalance dalla sacerdotessa. «Cos’è un paracadute?» chiese, sentendo improvvisamente la gola secca e odiando il suono di quella parola il cui significato poteva solo immaginare.

La donna aggrottò leggermente la fronte e si voltò verso la romana come per studiarne l’espressione, poi scosse il capo, stirando le labbra in un smorfia risoluta. «Lascia perdere» disse poi, sventolando la mano come per allontanare un’idea sciocca. «Tra l’altro difficilmente riusciresti a portare con te il ragazzo. No, è decisamente meglio calarvi fino a terra.»

Appena un poco rassicurata da quel termine più famigliare, Lidia si morse le labbra, senza commentare. Completamente immersa nei suoi pensieri, la Sacerdotessa annuì un paio di volte, poi tornò a concentrare la propria attenzione sulla ragazza. «Aspetta qui» le disse. «Torno tra un attimo.»

Veloce e silenziosa, Erin si alzò in piedi e lasciò la stanza, chiudendosi alle spalle la porta scorrevole. Quando fu rimasta sola, Lidia si accoccolò accanto a Hermann, posando una guancia sul cuscino, a pochi centimetri dai morbidi capelli scuri del cognato. «Hai sentito che cos’ha detto?» chiese in un sussurro, ben consapevole che il ragazzo non aveva modo di sentirla né, tantomeno, di risponderle. «Non so che cosa abbia in mente, ma qui finisce che ci lasciamo la pelle.»

Non appena ebbe concluso la frase, Lidia sentì il proprio stomaco contrarsi in una morsa di paura. Quella che aveva inteso come una battuta scherzosa, volta a esorcizzare i timori che sentiva crescere in sé, non aveva fatto altro che aumentare l’inquietudine strisciante che aveva preso ad avvolgerla in spire sempre più strette. Sospirando, la fanciulla cercò la mano del giovane germanico e la strinse nelle sue, cercando inconsciamente il conforto di un contatto umano. Chiusa in quella stanza tanto simile a una scatola bianca, senza finestre né contatti con il mondo esterno, Lidia si sentì in trappola, prigioniera di una situazione sulla quale non aveva alcun controllo, catturata da un qualcosa di sconosciuto e pertanto ancora più spaventoso.

Improvvisamente la giovane avvertì l’urgenza di lasciare al più presto la macchina volante.

In qualsiasi modo possibile.

Una volta abbandonata la stiva nella quale erano ammucchiate le casse di olivite, la nave non tradiva la benché minima vibrazione e, avvolta in un silenzio innaturale, dava l’impressione di essere completamente immobile: tutto era fermo e immutabile e per un istante Lidia provò il timore irrazionale di essere stata trasportata in un luogo sconosciuto, lontano da Erding e dalla Germanica. Vorrei solo, pensò, che ci fosse un qualsiasi rumore che mi facesse capire che siamo ancora a bordo della macchina e che si sta ancora muovendo.

Quasi in risposta alla sua preghiera per un qualcosa che la tenesse ancorata alla realtà, la nave vibrò e la fanciulla credette di avvertire un’inclinazione quasi impercettibile del pavimento. Lidia non fece in tempo a esalare un inconsapevole sospiro di sollievo che Donna Erin fece ritorno, portando tra le braccia quello che, a prima vista, a Lidia parve un groviglio di corde e stracci.

«Eccoci qui» mormorò la donna, tradendo un vago affanno. «Mettiti questa, veloce.» Così facendo, le porse degli abiti scuri in tutto e per tutto simili a quelli che avevano indossato gli uomini che avevano raccolto Hermann quando il ragazzo era caduto tra l’erba.

«Eh?» Lidia li guardò senza capire e la Sacerdotessa tradì un moto di nervosismo.

«È un tuta» spiegò, secca. «Non puoi infilarti l’imbrago con la gonna, rischi di procurarti delle bruciature.»

Esitante, la fanciulla spiegò gli indumenti che la donna le aveva offerto. «Ma sono…»

«Pantaloni, sì» confermò Erin, gesticolando nella sua direzione. «Indossarli non ti ucciderà, te lo prometto.»

Scoccandole un’occhiata tagliente, senza riuscire a nascondere l’irritazione provata davanti al suo tono di scherno, Lidia esitò solo un istante prima di liberarsi della gonna e di indossare, leggermente impacciata, la tuta scura. Quando fu vestita, si voltò verso Erin, allargando le braccia e restando in attesa di altre indicazioni, cercando di non dare a vedere quanto si sentisse a disagio nell’indossare quell’indumento che le delineava in modo quasi scandaloso la forma delle gambe.

La donna fece un cenno d’assenso e poi si avvicinò a Herman, distendendo a terra accanto al suo letto una sorta di telo arancione. «Adesso aiutami a stenderlo qui. Prendigli i piedi, io gli reggo la testa e le spalle.»

Quando il ragazzo fu disteso sul pavimento, Erin si chinò su di lui e prese tra le mani un’estremità del telo, facendo cenno a Lidia di fare lo stesso. «Ce la fai a sollevarlo?» le chiese. «Altrimenti lo dovremo trascinare di là.»

Nella sua voce e sul suo volto Lidia scorse una tensione che era assente fino a un momento prima e la cosa la costrinse a lasciar scivolare a terra i lembi dello spesso telo arancione e a fermarsi a riflettere qualche istante. «Perché mi stai aiutando?» le chiese, cercando i suoi occhi chiari.

Sul volto della donna passò un lampo di confusione, come se Erin non fosse certa a cosa si stesse riferendo.

«Non capisco», parafrasò allora Lidia, «perché mi stai aiutando ad andarmene: tu non mi devi niente. Potresti disinteressarti completamente a me e a Hermann. Potresti tranquillamente lasciarci qui fino a quando Kay o qualcun altro ci scopre, no? A te cosa cambierebbe?»

«Nel tempo che abbiamo passato insieme ho imparato a conoscerti» mormorò Erin, distogliendo lo sguardo da quello della fanciulla. «Se non facessi nulla per aiutarti, mi sentirei in colpa.»

Il tono in cui aveva pronunciato quelle parole era così poco convinto che Lidia riconobbe subito la menzogna. «Non ti aspetterai davvero che io ti creda!» sbuffò quindi di rimando, mentre un piccolo sorriso sarcastico le si disegnava sulle labbra.

Dopo una breve esitazione, la donna scrollò le spalle e tornò a chinarsi sul telo che avrebbe dovuto sorreggere Hermann. «Come vuoi» disse, asciutta. «Allora diciamo che credo mi convenga così. Kay ha dato degli ordini molto precisi a proposito di come ci saremmo dovuti comportare in situazioni come queste, ma, al momento, credo sia decisamente più prudente prendere le distanze da lui, piuttosto che seguire i suoi comandi alla lettera.»

Lidia tornò ad accucciarsi davanti a lei, incerta su come interpretare quella spiegazione. «Cosa vorrebbe dire?»

Erin strinse convulsamente tra le mani il tessuto rigido. «Come ti ho detto, vengo da un posto dove ci sono molte regole e molte persone che comandano altre persone. Kay è il mio Capitano e il mio diretto superiore, ma ci sono persone alle quali anche lui deve sottostare, anche se la cosa non gli piace affatto. E quello che sta facendo ora… quello che sta facendo ora non farà certo piacere a queste persone, per cui preferisco che sia assolutamente chiaro che io non l’ho aiutato in alcun modo.»

La giovane romana la soppesò con lo sguardo per qualche istante. Sarà vero? Si chiese, non per la prima volta. Se la donna aveva detto la verità, non la stava aiutando per puro altruismo, ma piuttosto per tutelarsi da ritorsioni future. Il che mi sembra un pochino più credibile di un aiuto dato per bontà d’animo, ma comunque…

Forse c’era un trucco, dietro alle motivazioni di Donna Erin, un inganno che lei, nella sua ignoranza, non era in grado di scorgere. Improvvisamente, però, Lidia decise che non gliene importava nulla: la donna le stava fornendo un modo per abbandonare la macchina volante e per portare con sé Hermann, il che era l’esatto motivo per cui aveva abbandonato Tito tra i cespugli e si era infilata nel ventre di metallo della nave. A tutto il resto – ai moventi, alle conseguenze - avrebbe poi pensato in un secondo momento.

«D’accordo» fece allora, cambiando radicalmente tono e argomento. «Cosa dobbiamo fare?»

Erin parve riscuotersi davanti alla sua domanda e tornò ad afferrare più saldamente la barella improvvisata. «Lo solleviamo e lo portiamo nel magazzino in cui ti eri nascosta prima che ti trovassi.»

Davanti a quelle parole, Lidia tradì un moto di sorpresa. «Non ci fermiamo nel corridoio? Credevo che avessi detto che dovrò calarmi dalla nave…»

«Esatto, ma non useremo la porta principale: ci sono troppe telecamere. Useremo una botola secondaria che viene usata per caricare a bordo il materiale bagnato. Non preoccuparti, ti sarà tutto chiaro una volta che saremo lì.»

Pochi minuti più tardi, Lidia si ritrovò di nuovo nella stiva polverosa, immersa nella luce verdognola dei faretti e nell’odore pungente dell’olivite. Quanto lo odio, quest’odore! Pensò, strofinandosi stizzosamente il naso. Credo proprio che lo odierò fino a quando avrò vita!

Anche se stava facendo del proprio meglio per mostrarsi coraggiosa, il nervosismo nato in lei quando aveva scoperto cosa avrebbe dovuto fare per abbandonare la nave era cresciuto in modo lento, ma costante. Ora che il momento cruciale si era fatto drammaticamente vicino, Lidia sentiva di avere il battito del cuore accelerato e i palmi madidi di sudore.

«Eccoci qui» ansimò Erin, passandosi una manica sulla fronte diafana. Con una punta di vergogna, Lidia dovette riconoscere che la donna si era fatta carico della maggior parte del peso di Hermann, lasciando che lei si occupasse più che altro di evitare che i piedi e le gambe del ragazzo impattassero contro gli angoli delle pareti. «Adesso lo assicuriamo per bene» mormorò la Sacerdotessa, rivolta più a se stessa che alla sua giovane accompagnatrice. Accovacciandosi accanto al germanico, la donna tirò delle cinghie che in un primo momento Lidia non aveva visto e in un istante Hermann fu completamente avvolto dal telo arancione. Solo il suo volto rimaneva scoperto, mentre il resto del suo corpo era saldamente bloccato dal tessuto pesante e da robuste cinghie nere. «Così non va da nessuna parte» commentò Erin con un sorriso soddisfatto.

«Allora!» esclamò poi, facendo trasalire Lidia che, per qualche istante, si era persa nei suoi pensieri, sopraffatta per un attimo dalla stanchezza e dalle emozioni intense della giornata. «Ti spiego che cosa dovrai fare. Cerca di ascoltarmi bene, perché io non potrò rimanere qui con te, se voglio evitare di generare sospetti. Dovrai cavartela da sola, d’accordo?»

«D’accordo» mugugnò la ragazza. Che scelta aveva?

«Perfetto. Innanzitutto, infilati questa. Va sopra alla tuta.» Così dicendo la donna porse a Lidia quello che alla fanciulla non parve altro che un ammasso di corde.

«Ehm…»

«Così.» La donna le fece alzare un piede alla volta e le infilò su per le gambe due anelli di corda, poi le strinse un laccio in vita e uno sul petto. Quando ebbe finito di manovrare attorno a lei, Lidia si sentiva come un salame, legato da corde troppo strette.

«Non riesco a muovere le braccia» provò a protestare.

«Sì, che ci riesci» la liquidò Erin. «Se l’imbrago fosse più largo, rischieresti di scivolare fuori.»

«… fuori?» ripeté la ragazza, mentre il nodo alla gola che avvertiva ormai da qualche tempo si faceva più ingombrante.

«Sì» ripeté Erin, prima di far passare una corda di un giallo acceso all’interno di due specie di anelli formati dalle fettucce che avvolgevano Lidia e di bloccarla dapprima con un nodo e poi con una sorta di fibbia. «Adesso ascoltami» disse, poi, una volta che sembrò essere soddisfatta dal lavoro fatto. «Te lo spiegherò solo una volta, dopodiché dovrò andare e non potrò più tornare indietro per aiutarti.»

L’espressione della donna era estremamente seria e la fanciulla si rese conto dell’importanza del momento. Raddrizzando le spalle, Lidia annuì. «Come ti ho anticipato», riprese Erin, «la nave scenderà fino a un’altezza di sessanta metri e registrerà alcune immagini. Mi segui?» Deglutendo, Lidia annuì. «A quel punto io fingerò di aver visto qualcosa che non va nelle immagini e chiederò al pilota di fermare la nave a mezz’aria per qualche minuto.»

«Vedi quel riquadro disegnato lì a terra?» continuò la donna, indicando un punto qualche metro più avanti dove delle strisce gialle e nere delimitavano una sezione di pavimento. «Quella è la botola di cui ti parlavo prima. Sul localizzatore è impostato un timer: quando suonerà, tu dovrai ruotare verso l’alto la leva rossa che si trova sulla parete accanto alla botola. La vedi?­»

«Difficile non vederla» replicò Lidia, con il cuore in gola, occhieggiando verso la leva scarlatta che, in quel frangente, le pareva simile alla lingua infuocata di un drago.

Improvvisamente, la donna più anziana sgranò gli occhi. «Oh, prima di fare questo, dovrai collegare questo moschettone alla barella di Herman, così» disse, mostrando a Lidia l’azione che avrebbe dovuto compiere. «Questo capo della corda lo leghiamo qui, a questo ancoraggio, e l’altro, quando la botola sarà aperta, lo dovrai buttare all’esterno facendo attenzione che non formi dei nodi. È chiaro?»

«Abbastanza» balbettò la ragazza.

«Abbastanza?» ripeté Erin, fissandola intensamente.

Lidia si affrettò a correggere il tiro. «Sì, sì, è tutto chiaro.»

«Perfetto» annuì la donna, porgendole il localizzatore. «Questo infilatelo nella tasca interna della tuta: ti condurrà da Alexander, quindi è importante che tu lo tenga sempre con te. Ora: guarda questa leva.» Lidia abbassò lo sguardo sulla fibbia che la Sacerdotessa aveva fissato alla corda e all’imbrago. Quando Erin fu certa di avere la sua attenzione, proseguì: «Abbassandola scivolerai giù lungo la corda, lasciandola andare ti fermerai. Quando il timer suonerà, dovrai aprire la porta, legare Hermann alla corda, spingerlo fuori e poi calare entrambi fino a terra. Capito?»

Lidia la guardò come interdetta per qualche istante. «Sì», mormorò, poi, «ma non credo proprio di poterlo fare.»

La donna la fissò sollevando un sopracciglio con aria severa. «Ti conviene farcela, invece. In primis perché è la tua unica possibilità di lasciare la nave incolume, e in secondo luogo perché, se tu dovessi fallire e qualcuno dovesse scoprirti, finirei nei guai pure io.»

La fanciulla si torse nervosamente le mani. «Sì, lo so», mormorò, mentre l’angoscia le serrava la gola, «ma io non ho mai fatto niente di simile e sessanta metri sono tanti.»

«Soffri di vertigini?» le chiese Erin, inclinando leggermente il capo.

Lidia negò. «No, ma comunque…»

«E allora non ci saranno problemi, fidati. So che può fare impressione, ma in realtà è tutto molto sicuro… a patto che tu non perda tempo, ovviamente. Non posso assicurarti più di sei minuti da quando il timer inizierà a suonare: devi scendere a terra il più velocemente possibile, perché se, quando la nave ripartirà, tu sarai ancora appesa alla corda, allora… be’, puoi immaginare anche tu che le cose andrebbero a finire male.»

«Ma…»

«Niente “ma”, Lidia» tagliò corto Donna Erin. «Quello che devi fare te l’ho spiegato. È un compito assolutamente alla tua portata: l’importante è che manovri correttamente la leva, che non ti fai prendere dal panico e che, una volta arrivata a terra, segui la mappa per arrivare fino ad Alexander.»

La fanciulla aprì e chiuse un paio di volte la bocca a vuoto, cercando di dar voce alla miriade di pensieri che le ingombravano la testa. «E come faccio a trasportare Hermann per tutta quella strada?»

Erin corrugò la fronte, come se quel pensiero non l’avesse sfiorata prima d’allora. «Be’… forse puoi chiedere a qualcuno di venirlo a recuperare in un secondo momento? Dovresti atterrare vicino a un vecchio capanno che i minatori utilizzavano molto tempo fa: lascia lì il ragazzo, vai da Alexander e chiedi che mandi qualcuno a prenderlo. Non ti ci vorrà molto ad arrivare da lui.»

Lidia si mordicchiò le labbra, poco convinta, ma prima che potesse aggiungere altro Donna Erin le posò le mani sulle spalle. «È ora di andare: devo raggiungere il pilota, prima che si chieda cosa accidenti sto facendo qui dietro e mandi qualcuno a dare un’occhiata. In bocca al lupo! E buona fortuna per tutto…» Stringendo un’ultima volta le dita attorno alle sue spalle, la donna si allontanò rapidamente da lei e ben presto l’eco dei suoi passi leggeri svanì, inghiottito dalle pareti di metallo della stiva.

Un’ondata di apprensione travolse la giovane romana, che contrasse spasmodicamente le mani e ingoiò una gran boccata d’aria, cercando di contrastare il senso di svenimento che l’aveva colta e che non aveva nulla a che fare con il malessere che l’aveva colpita quel pomeriggio. Mi fa male la pancia, pensò la ragazza, portandosi inconsciamente una mano all’altezza del ventre.

Facendo un altro profondo respiro nel tentativo di calmarsi, Lidia tornò a voltarsi verso Hermann. Dopo un istante di indecisione, afferrò il telo che lo avvolgeva e trascinò il ragazzo un po’ più vicino alla botola. Se almeno tu ti svegliassi, le cose sarebbero un po’ più facili, pensò, rivolta al ragazzo ancora privo di sensi. Non avrebbe saputo dire se il giovane germanico si sarebbe rivelato più abile di lei, in quel frangente – probabilmente sì – ma, se non altro, il ragazzo avrebbe potuto darle un po’ di coraggio e togliere un po’ di responsabilità dalle sue mani.

Molto prima di quanto Lidia avrebbe desiderato, la mappa – il localizzatore – prese a vibrare. È questo l’avviso di cui parlava Donna Erin?

Sebbene la giovane si rendesse conto che era decisamente inverosimile che la tavoletta si fosse attivata per un altro motivo, i dubbi e le ansie legate alla situazione facevano tremare le poche certezze che ancora aveva.

Ma sì, non può che essere l’avviso.

Passandosi i palmi delle mani sulla tuta, la fanciulla inspirò profondamente, sforzandosi di calmarsi e di fare mente locale. Prima cosa, pensò, legare Hermann.

Quando il ragazzo fu assicurato, Lidia raggiunse con qualche difficoltà la leva rossa che Erin le aveva indicato e la ruotò verso l’alto con la mano sudata. Non appena quella si trovò in posizione verticale, la botola emise un debole cigolio che a Lidia parve piuttosto inquietante e poi si spalancò, offrendo alla fanciulla la visione del mondo sottostante. La ragazza si sarebbe aspettata che la corrente la sospingesse verso l’interno della nave, ma l’aria che filtrava dall’apertura creò un vortice che le fece perdere l’equilibrio per una frazione di secondo. Per un terrificante istante, la giovane credette di essere in procinto di cadere fuori dalla nave e si aggrappò al primo scaffale che le capitò a tiro.

La corda, si disse, quando si sentì nuovamente stabile. Assicurandosi che il nodo che la collegava all’ancoraggio fosse saldo, la fanciulla raccolse tra le braccia il resto della corda e, stupendosi di quanto fosse pesante, si avvicinò alla botola, intenzionata a gettarla di sotto, esattamente come Erin le aveva detto di fare. Quando si trovò sulla bordo, però, prese piena coscienza di cosa volesse dire avere sotto di sé un abisso di svariate decine di metri metri e fu colta da un senso di vertigine che la costrinse a lasciare la presa e ad afferrare nuovamente uno degli scaffali di metallo.

Scuotendo il capo, la fanciulla indietreggiò cautamente. Non posso saltare, pensò, disperata. Non posso proprio farlo!

Una frazione di secondo più tardi, Lidia si avvide del proprio errore. La paura improvvisa che l’aveva colta alla vista del vuoto le aveva fatto scivolare dalle mani la corda. Sfortunatamente, data la sua posizione, questa non si era limitata a cadere sul pavimento, ma, da lì, era precipitata nell’abisso sottostante.

Merda! Imprecò mentalmente la ragazza, maledicendosi per la propria stupidità. Vincendo l’istinto che le ordinava di allontanarsi il più possibile dalla botola spalancata, la ragazza si avvicinò di nuovo al bordo. Speriamo che non abbia fatto nodi, pensò, occhieggiando verso il basso.

Fortunatamente la corda era ancora legata all’ancoraggio che avrebbe dovuto sostenere il peso di lei e di Hermann e, nonostante lo spavento, sembrava che fosse ancora tutto a posto. La fanciulla tirò un sospiro di sollievo. Adesso basta idiozie, però! Si impose. Non devo farmi prendere dal panico, come ha detto Donna Erin.

Cercando di tener stretta quella flebile scintilla di determinazione, la giovane trascinò Hermann più vicino all’apertura della botola. Poi, con una mano, tornò a stringere il solido metallo dello scaffale più vicino. Avvinghiata a quella che le pareva un’ancora di salvezza, Lidia guardò verso il basso, mentre gli occhi iniziavano a lacrimarle a causa delle raffiche violente che invadevano il ventre della nave. Non avrebbe mai voluto farlo, ma l’alternativa, la prospettiva di rimanere prigioniera su quella macchina comandata da uomini sconosciuti, le parve molto peggiore del salto nel vuoto. D’un tratto la libertà le sembrò lì vicina, a portata di mano, e quasi le venne di sorridere al ricordo di un altro salto, fatto mesi prima. Allora volevo scappare, da quella vita, adesso invece voglio tornarci.

Sentendo un inaspettato brivido di eccitazione, Lidia passò le proprie braccia attorno all’imbrago di Hermann. Sollevando con un gemito di fatica, si apprestò a calarsi con cautela, ma il ragazzo pesava troppo e, trascinata dal suo corpo, la fanciulla inciampò e cadde verso l’esterno.

Il grido di puro terrore che avrebbe voluto emettere le rimase incastrato in gola, mentre il cuore batteva talmente in fretta che la giovane ebbe l’impressione che la vista le si appannasse. Lidia ci mise diversi secondi prima di rendersi conto di essere esattamente dove aveva cercato di arrivare, appesa sotto alla pancia della nave.

Va bene. Va bene, non è successo niente, si disse, mentre il suo respiro affannato si faceva più regolare. La leva. Scendiamo.

Sebbene le raffiche di vento la facessero oscillare più di quanto avesse voluto, facendole di tanto in tanto compiere una giravolta su se stessa, e la paura di venire scoperta le formasse un nodo doloroso nel petto, Lidia scoprì che il meccanismo fissato alla corda le permetteva di scendere in modo rapido e fluido. Ben presto, la ragazza fu in grado di scorgere con chiarezza i dettagli del ghiaione che si estendeva sotto di lei, e poco dopo riuscì addirittura a distinguere i fiori che crescevano tra l’erba incolta. Molto più velocemente di quanto si fosse aspettata, la fanciulla si ritrovò con i piedi per terra.

Senza concedersi nemmeno un secondo per esultare, la giovane staccò maldestramente l’imbrago di Hermann dal gancio che lo teneva ancorato alla corda e il ragazzo cadde malamente a terra, senza tuttavia dare alcun segno di risveglio. Alzando lo sguardo verso l’alto, Lidia vide che la nave era ancora dove l’aveva lasciata e calcolò che i sei minuti concessi da Donna Erin non fossero ancora passati.

Se qualcuno guardasse giù, mi vedrebbe di sicuro, realizzò la ragazza, con un sussulto. Stringendo nervosamente i denti, la giovane tornò ad afferrare il telo che avvolgeva Hermann. Erin aveva ragione: a poche decine di metri di distanza dal punto in cui aveva toccato terra, si ergeva un capanno fatiscente. La porta era stata divelta e le pareti di legno presentavano parecchie assi marce o spezzate, ma il tetto sembrata tutto sommato in buono stato. Sarà un riparo sufficiente, giudicò. Il villaggio non è molto distante, ci metterò sì e no un quarto d’ora ad arrivarci.

Nonostante le raccomandazioni della Sacerdotessa, infatti, Lidia aveva deciso che non avrebbe aspettato che fosse Alexander a recuperare Hermann: avrebbe lasciato che fosse Gefrid a prendersi cura del figlio. Poi racconterò tutto anche ad Alexander, ma almeno sarò sicura che, nel frattempo, Hermann è in buone mani.

Il terreno era accidentato e l’operazione si rivelò più complicata del previsto, ma, pochi minuti dopo, Lidia riuscì a raggiungere l’edificio in rovina. L’interno era spoglio e i pochi mobili rimasti erano ormai ridotti in uno stato tale che la ragazza ebbe qualche difficoltà a identificarne la natura. Poco male, comunque, considerò. L’importante è che nessuno venga a ficcare il naso da queste parti e che il tetto regga.

Quell’ultima considerazione le diede da pensare per qualche istante. Era davvero prudente lasciare lì il cognato? Lidia allontanò però rapidamente quelle preoccupazioni: non che avesse veramente alternative, comunque. Se sapessi utilizzare la tavoletta, chiederei ad Alexander di venire a prenderci. Peccato che Donna Erin non si sia degnata di spiegarmi come funziona…

Con una smorfia amareggiata e un ultimo sguardo preoccupato scoccato in direzione del giovane cognato, Lidia uscì nuovamente all’aperto. Non appena ebbe messo piede all’esterno, la ragazza trasalì: non vi era più alcuna traccia della nave. Non l’ho nemmeno sentita allontanarsi, pensò meravigliata.

Il cielo stava ormai virando verso l’azzurro carico del tardo pomeriggio e Lidia si rese conto di aver completamente perso la cognizione del tempo. Aveva indubbiamente passato alcune ore a bordo della macchina volante, ma non avrebbe saputo dire quante, di preciso. Però saranno almeno le sette di sera, comprese, con una punta di sgomento. Era con ogni probabilità più tardi di quanto pensasse, il che significava che non poteva permettersi il lusso di perdere dell’altro tempo. Non se voglio evitare il coprifuoco e se voglio sperare di tornare da Ulf questa sera.

Guardando un’ultima volta verso il capanno in cui aveva nascosto Hermann e rivolgendo una preghiera silenziosa a qualsiasi divinità fosse in ascolto perché proteggesse il ragazzo, Lidia si avviò verso il villaggio. Anche se era la prima volta che metteva piede in quel luogo, aveva ormai iniziato a conoscere piuttosto bene la morfologia della valle: affidandosi a quello che vedeva attorno a sé – e sperando vivamente che il suo scarso senso dell’orientamento non la tradisse proprio in quel frangente – la ragazza si avviò trotterellando lungo il pendio che conduceva verso il fondo valle. Quando il terreno si fece più scosceso, la fanciulla allungò il passo senza nemmeno accorgersene e ben presto si ritrovò a correre lungo il sentiero che si era poco alla volta delineato sotto i suoi piedi.

Arrivò alle prime case del villaggio molto più velocemente di quanto si fosse aspettata. Solo in quel momento si rese conto di essere completamente madida di sudore. Il tessuto della tuta scura era più pesante di quanto appariva al tatto e si appiccicava fastidiosamente a braccia e a gambe. Costringendosi a rallentare l’andatura per darsi un contegno e per non attirare su di sé attenzioni poco opportune, Lidia si scostò i capelli umidi dalla fronte e imboccò la via che conduceva alla dimora di Gefrid.

Quando vi giunse davanti, la giovane si bloccò solo per un istante. Poi, scacciando la soggezione che la casa del suocero le infondeva da sempre – del resto, non poteva dire di aver mai vissuto esperienze particolarmente felici, tra quelle mura – la fanciulla aprì la porta senza nemmeno bussare, prima di rendersi conto di non sapere bene come approcciare il padre di Ulf. «C’è nessuno?» chiese, allora, accorgendosi con una smorfia di quanto stridula suonasse la sua voce.

Quasi si trovò a sperare che fosse Donna Edda ad accoglierla, ma quando i passi provenienti dalla stanza accanto si rivelarono essere di Unna, Lidia vacillò leggermente.

Unna. Perché proprio Unna?

Istintivamente la giovane si irrigidì, pronta a subire un attacco – se fisico o verbale non l’avrebbe saputo dire – da parte della cognata, così, quando l’unica cosa che sentì fu la sua esclamazione di sorpresa, Lidia alzò lo sguardo su di lei, confusa. «Dov’eri finita?» le chiese Unna e, per una volta, l’ombra tagliente solitamente presente nelle sue parole sembrò quasi smorzata.

«Eh, io…» la ragazza si interruppe, incapace di riassumere in poche parole l’esperienza vissuta.

«Qui stanno diventando tutti matti a cercarti!» la interruppe la germanica, riacquistando la consueta aggressività. «Ulf è preoccupatissimo! Si può sapere dove sei stata, tutto questo tempo? E Hermann? Non è con te?»

Lidia levò una mano e Unna parve sorpresa da quel gesto che sembrava volerle intimare il silenzio. «Siamo stati a bordo di una delle macchine volanti che raccolgono le offerte» disse tutto d’un fiato la giovane romana. Quando Unna si portò le mani davanti alla bocca, in preda all’orrore, e non disse nulla, Lidia proseguì con la sua spiegazione. «A bordo c’era anche Donna Erin. Ci ha aiutati a scappare, ma Hermann sta male, è privo di sensi… Donna Erin l’ha curato come poteva, ma ha detto che dobbiamo portarlo da Alexander. Lui conosce della gente che può guarirlo.»

Unna le si avvicinò fino a giungere a poche decine di centimetri da lei e sul suo volto pallido Lidia lesse chiaramente l’angoscia che la divorava. «Dov’è mio fratello?»

Lidia si morse nervosamente le labbra. «Non riuscivo a trasportarlo da sola. L’ho lasciato in un vecchio capanno dei minatori a sud della miniera. È al sicuro, lì.»

Se possibile, la germanica sbiancò ulteriormente. «Al sicuro? Sbottò. «Ho capito a quale capanno ti stai riferendo: quel posto rischia di crollare da un momento all’altro!»

La fanciulla scrollò le spalle, frustrata. «Lo so, ma non sapevo cos’altro fare. Non potevo lasciarlo allo scoperto: Donna Erin ci ha fatto scendere di nascosto e quelle macchine servono per… per esplorare il territorio. A bordo c’erano anche delle altre persone: non volevo che rischiassero di vedere Hermann.»

Unna le lanciò uno sguardo torvo, ma poi annuì. «D’accordo. Non possiamo lasciarlo lì, però: dobbiamo mandare qualcuno a recuperarlo.»

«È proprio per questo che sono venuta qui. Donna Erin voleva che lo portassi direttamente da Alexander, ma a me è parso giusto informarvi, prima.»

La giovane bionda annuì di nuovo. «Va bene» disse, con voce tesa. «Mio padre dovrebbe essere alla locanda a cercare informazioni: tu e Hermann siete svaniti nel nulla e anche Ulf è sparito, da qualche ora a questa parte…»

Lidia si passò stancamente una mano sul volto. «Ulf è con Alexander, l’uomo con i capelli rossi che hai… incontrato l’altra sera.» Unna si irrigidì e la ragazza si maledisse per aver inavvertitamente toccato un argomento troppo delicato per essere affrontato a cuor leggero. Non dimentichiamoci le circostanze in cui l’ha incontrato, si ricordò, con una smorfia. Decisa a non lasciarsi sviare, però, riprese rapidamente il discorso. «La Sacerdotessa si è messa in contatto con lui. Sono entrambi a casa di un guaritore… mi ha dato una mappa che mi porterà fino a loro.»

«Dopo» tagliò corto Unna. «Adesso troviamo mio padre e recuperiamo Hermann.»

Quando furono in strada, la germanica si voltò nuovamente per osservare Lidia. «Cos’è successo a mio fratello?» chiese, con voce quieta.

La giovane romana scosse mestamente il capo. «Eravamo a casa di Donna Erin e Hermann ha accidentalmente inalato del veleno. Sono stata male anch’io, anche se meno di lui, ma la Sacerdotessa mi ha curato. Ora sto bene.» La ragazza dovette mordersi la lingua per impedirsi di menzionare Tito. Anche se quell’omissione le provocò una stretta al cuore, la giovane era perfettamente consapevole che la menzione dell’amico avrebbe scatenato una reazione da parte della cognata. E questo non è il momento adatto per affrontare certi discorsi.

Unna le rivolse uno sguardo stranito. «Come sarebbe a dire che ha inalato del veleno? Dove lo ha trovato? E perché eravate a casa della Sacerdotessa?»

Lidia sospirò. «Possiamo parlarne più tardi?» chiese, con un gemito. «Sicuramente anche tuo padre e Ulf vorranno sapere quello che è successo. È una storia… non è una storia facile da spiegare e vorrei evitare di doverla ripetere più e più volte.»

La donna bionda parve sul punto di protestare, ma poi si limitò a stringere i denti e a scuotere appena il capo, visibilmente contrariata. Dopo quello scambio, le due giovani proseguirono in silenzio sino a quando giunsero alla locanda nella quale trovarono Gefrid. L’anziano germanico pareva profondamente immerso nei propri pensieri ed era circondato da una decina di altri uomini che parlavano animatamente. Quando però si rese conto della presenza di Lidia e Unna, sul suo voltò passò un lampo di sorpresa e sollievo. Per un istante, la fanciulla fu tentata di raggiungerlo, ma la presenza degli altri germanici la frenò e così la giovane romana indugiò sull’uscio, in attesa di ulteriori sviluppi.

Unna non sembrava condividere le sue remore e si avvicinò a passi rapidi al padre, facendosi largo tra la folla che lo circondava. Lidia era troppo lontana per riuscire a seguire la conversazione: non colse altro che poche parole in dialetto germanico, frammenti troppo esigui perché lei potesse farsi un’idea di come Unna stesse raccontando a Gefrid ciò che era successo. Poco dopo, però, l’uomo si alzò bruscamente in piedi, con una velocità insospettabile, considerata la sua menomazione. I suoi compagni lo seguirono a ruota e Lidia si ritrasse istintivamente, retrocedendo di qualche passo fino a quando non si trovò fuori dalla porta.

Quando il Capo Villaggio le passò accanto, si fermò per un istante e la guardò in volto. La ragazza abbassò inconsciamente il viso, quasi vergognandosi di essere lì. Ma perché, poi? Si chiese, un po’ indispettita. Non ho fatto niente di male. Non ho alcun motivo di vergognarmi. Ciononostante, sentiva di non riuscire a incontrare gli occhi del suocero. La mano dell’uomo le si posò sulla spalla e Lidia sussultò, dimenticando all’istante i pensieri di un secondo prima. Quando il suo sguardo si specchiò in quello verde di Gefrid, la ragazza vi trovò una luce calda che non si sarebbe mai aspettata di trovare. «Tu stai bene?» le chiese l’uomo, con il suo accento tagliente.

Per qualche motivo, quella semplice domanda le fece seccare la voce in gola. Lidia si limitò allora ad annuire, senza trovare la forza di spiegarsi a parole. La risposta parve comunque soddisfare l’uomo, che strinse per un secondo le dita sulle spalle della giovane e poi si allontanò dai lei.

Parlottando tra loro nella loro lingua, Gefrid e i suoi compagni si incamminarono lungo la via, senza rivolgere alcun cenno alle due donne. Quando furono rimaste sole, Lidia lanciò un’occhiata confusa a Unna. «Cosa fanno?» chiese. «Vanno a recuperare Hermann?»

La giovane bionda le rivolse un cenno d’assenso. «Sì. Lo porteranno poi a casa di mio padre: ho già anticipato che poi verrà un medico a cercarlo, quindi nessuno dovrebbe pensare a un rapimento, se il tuo amico rosso verrà a chiedere di lui.»

La fanciulla si limitò ad aggrottare la fronte. «Ma non andiamo con loro?»

L’altra si limitò a scrollare le spalle. «Non siamo state invitate. Questo genere di cose sono cose da uomini, dicono. Saremmo solo d’intralcio, comunque.»

Anche se era poco convinta da quella spiegazione, Lidia annuì, riconoscendo silenziosamente che non aveva alcuna fretta di tornare alle pendici della miniera, arrampicandosi su fino al vecchio capanno in cui aveva lasciato Hermann. Il solo pensiero di tornare nell’ultimo posto in cui aveva visto la macchina volante le faceva correre un profondo brivido di inquietudine lungo la schiena. «Va bene» disse allora, alzando lo sguardo verso il cielo che iniziava a imbrunire. «Io allora vado da Ulf e Alexander.»

«Come pensi di fare per trovarli?» indagò Unna, inarcando elegantemente un sopracciglio chiaro.

Dopo un istante di esitazione, Lidia estrasse dalla tasca la tavoletta scura. Fino a quel momento l’aveva completamente ignorata: si accorse solo allora che sullo schermo era riportata una piccola carta geografica, interamente disegnata nei toni dell’azzurro. Le uniche note di colore erano date da un punto rosso e da una croce gialla. Inspirando lentamente, la ragazza si rigirò un paio di volte lo strumento tra le mani, cercando di capire quale fosse il nord e quale il sud. Dopo un paio di tentativi, si rese conto con una punta di frustrazione di non essere in grado di leggere la cartina che si ritrovava sotto agli occhi. «Questa dovrebbe essere una mappa» sbuffò, allora, senza osare incontrare lo sguardo della cognata. «Però non sono sicura di essere in grado di leggerla.»

«Da qui» tagliò corto Unna, allungando una mano e togliendole la tavoletta dalle dita. Se si ritrovò spiazzata dalla natura curiosa dell’oggetto, la germanica non lo diede a vedere. Dopo alcuni secondi di osservazione silenziosa, annuì soddisfatta. «Ho capito dove sono. Questa roba qui è la miniera, quindi noi siamo il pallino rosso. Mio fratello, evidentemente, si trova a casa di Albert: so come fare ad arrivarci.»

Nell’udire quelle parole, Lidia alzò su di lei uno sguardo speranzoso. «Vuoi accompagnarmi?» chiese, prima di riuscire a trattenersi.

Sul volto di Unna passò una chiara espressione di stupore, e anche la giovane romana rimase qualche istante a bocca aperta per la richiesta che le era inavvertitamente sfuggita. Fino a poco tempo prima non si sarebbe mai sognata di chiedere alla cognata una cosa del genere, ma era come se, in silenzio e senza troppe cerimonie, tra loro fosse cambiato qualcosa. Se era ben lungi dal considerarla un’amica o un’alleata, Lidia si rese conto che Unna non era nemmeno più una nemica, per lei. E, sotto sotto, intuiva che la cosa doveva essere reciproca.

Unna deglutì, prima di annuire. «Va bene» mormorò. Poi, ritrovando il consueto sorriso tagliente, aggiunse: «Del resto, tu resteresti a girare a vuoto per tutta la notte.»

Davanti a quella frecciatina, Lidia alzò gli occhi al cielo, ma si astenne dal commentare. «Vogliamo andare?» chiese, invece.

La donna bionda annuì. «Sì, è meglio se ci diamo una mossa: non è proprio dietro l’angolo. Dobbiamo raggiungere il fondo valle e da lì discendere il fiume nel senso della corrente. Perdersi è praticamente impossibile, ma c’è da camminare un po’.»

Come Unna aveva predetto, il luogo in cui avrebbero dovuto trovarsi Alexander e Ulf non era affatto vicino: quando raggiunsero la foresta che occupava il fondovalle, le ombre della sera si erano ormai fatte lunghe e scure. Anche se, diversamente dall’ultima volta in cui si era trovata in una situazione simile, Lidia non temeva di essere inseguita da nessuno, la giovane non poteva fare a meno di stare con le orecchie all’erta. Odio non riuscire a vedere che a pochi metri da me. Pensò, con i nervi a fior di pelle. Se ci fosse un pericolo, non potremmo che vederlo all’ultimo.

A ogni minimo rumore ingiustificato, la fanciulla si gettava occhiate furtive alle spalle, sobbalzando vistosamente. La cosa, sfortunatamente, non sfuggì a Unna. «Dì un po’», disse a un tratto la donna bionda, in un tono che non prometteva nulla di buono, «non avrai mica paura del buio, vero?»

Lidia esalò con forza dal naso e cercò di imitare il tono sprezzante della cognata. «No, affatto. Sono solo un po’ stanca, tutto qui.»

«Mh. Qualche tempo fa Ulf mi ha raccontato la storia di un certo capriolo scambiato per un orso…»

Lidia sbuffò, oltraggiata. «Ulf dovrebbe imparare a tenerle per sé, certe cose» ringhiò.

Unna, che sembrava aver messo momentaneamente da parte l’umore cupo che sfoggiava di solito, scoppiò a ridere.

«Shh!» sibilò d’un tratto Lidia.

La cognata si voltò verso di lei, sarcastica. «Oh, non credere che…»

«No, zitta!» sussurrò la giovane romana, con urgenza, «Ascolta!»

Forse allarmata dal suo tono, la germanica rimase in ascolto per qualche istante, poi scrollò le spalle. «Non sento niente di strano. Tu cos’hai sentito?»

Lidia esitò. «Non so, forse… forse un ramo che si spezzava.»

Unna sospirò. «Assolutamente possibile, dal momento che siamo in un bosco. Non c’è comunque motivo di allarmarsi.»

La sua giovane compagna annuì, ma qualche istante dopo tornò a bloccarsi. «Ancora!»

Di nuovo, la donna al suo fianco si mise in ascolto. «Il bosco è pieno di animali» sospirò poi. «Volpi, lepri, tassi e, appunto, caprioli. Ma non sono pericolosi: quindi, per favore, smettiamola di perdere tempo e camminiamo senza fermarci ad ascoltare ogni minimo rumorino.»

Sebbene fosse consapevole che quella domanda l’avrebbe resa ridicola agli occhi di Unna, Lidia non riuscì a trattenersi. «E orsi?»

La donna si voltò a osservarla, con la fronte corrugata. «Come?»

«Ci sono anche orsi neri, qui?»

Unna esitò. «In teoria sì» disse, poi. «Ma io sono sempre andata per boschi e, in venticinque anni, non ne ho mai incontrato nemmeno uno. Quindi non preoccuparti e muoviti.»

Appena ebbe pronunciato quelle parole, però, un nuovo scricchiolo, proveniente da un punto a una sessantina di metri da loro, la fece voltare di scatto. Mentre le due giovani trattenevano il respiro in contemporanea, a Lidia parve di sentire un vago raspare e dalle sue labbra sfuggì un gemito terrorizzato. «Non è niente» mormorò Unna, pur indietreggiando di un passo. «Al massimo è un cinghiale. In ogni caso, è meglio…»

In quell’istante una sagoma scura uscì dal folto della foresta. Anche se non si era mai trovata di fronte a una bestia del genere, Lidia non ebbe dubbi: l’ispido pelo nero interrotto soltanto dalla striscia rossastra che correva lungo la linea dorsale, gli artigli visibili anche a quella distanza, il cranio possente sormontato dalle piccole orecchie tonde, le zanne che spuntavano ai lati della mandibola glielo fecero immediatamente identificare come un orso nero.

Accanto a lei, Unna allungò un braccio e le sue dita si strinsero attorno al polso della fanciulla come una morsa.

Poi, Lidia si sentì svenire.

***

Pensavate che fossi sparita, vero? E invece no! Ho avuto qualche contrattempo: il computer che si è sfasciato e ha dovuto essere sostituito, per esempio. Oppure una vacanza di due settimane al mare.

Comunque, al di là di questo, avrete forse notato che questo capitolo è un po’ più lungo dei precedenti. Ho deciso che voglio attenermi allo schema che ho fatto quando ho pianificato la storia, quello che prevede che il tutto si concluderà in nove capitoli. Saranno nove capitoli lunghi, è vero, che verranno pubblicati più lentamente: quando scrivo dei capitoli corti, mi viene sempre la tentazione di inserire un po’ di cose “extra” per dare un po’ più di peso al capitolo in questione. Ecco, voglio evitare di farlo, perché poi il rischio di perdere il filo è troppo alto.

Come al solito, segnalatemi qualsiasi errore o cosa che non torna!

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Capitolo 38
*** 37. Dal cielo ***


[Avviso ai naviganti: una volta terminata la storia, rimetterò mano alla timeline degli ultimi capitoli, perché così non mi convince affatto. Per ora non ho ancora modificato nulla, ma ho intenzione di diluire un po’ nel tempo gli ultimi avvenimenti: adesso come adesso, la morte di Karl, il ritorno a casa di Lidia, la morte di Tito e la storia della macchina voltante sono molto ravvicinate. Quando avrò sistemato le cose, il tutto si svolgerà in quattro o cinque giorni. Al momento, il capitolo è un po’ ibrido: ho mantenuto i riferimenti temporali attuali, ma le reazioni dei personaggi sono già quelle che sarebbero nella versione finale. Vi chiedo di fare un piccolo sforzo di immaginazione e di chiudere un occhio… o, se preferite, di ignorare completamente questo aspetto!]

Il mondo attorno a lei vacillò e si fece confuso, poi lo strattone deciso di Unna la riportò rapidamente alla realtà. Una parte della sua mente – quella che non era concentrata sull’enorme bestia nera davanti a loro – si stupì della forza della stretta della giovane, della violenza con cui le sue dita si chiusero attorno al suo polso sottile, dando vita a una fitta acuta che le corse su verso il gomito.

Senza una parola e senza nemmeno assicurarsi di avere l’attenzione di Lidia, ma tenendo gli occhi chiari spalancati sull’orso, Unna indietreggiò di un passo, poi di un altro ancora. Immersa com’era in una sorta di trance, la giovane romana stentò a seguirla, sentendo le gambe farsi di legno e i piedi pesanti come macigni.

«Muoviti.» Unna pronunciò quella parola senza quasi emettere alcun suono, eppure, nell’improvviso silenzio della notte spezzato solo dal battito del suo cuore e dal sibilo del suo respiro, alla fanciulla quell’ordine sembrò risuonare come se fosse stato urlato.

La cognata la strattonò ancora e Lidia si riscosse, investita da un’ondata di adrenalina che le rischiarò la mente, affinandole la vista e rendendola estremamente consapevole di tutto ciò che la circondava. Forse non si è accorto di noi, comprese la fanciulla, notando che l’animale pareva più interessato ad alcune radici che non a loro. Forse facciamo ancora in tempo a scappare.

Sfortunatamente, in quell’istante il vento cambiò direzione e una brezza quasi impercettibile prese a spirare dalle loro spalle, portando il loro odore all’orso. L’animale sollevò il muso dal terreno, inspirando rumorosamente. Nel momento in cui i suoi occhi si posarono sulle due donne, le orecchie della bestia si orientarono in avanti e ed essa si drizzò sulle zampe posteriori, arricciando le labbra.

«Piano» sibilò Unna. «Muoviti piano. Vieni indietro.»

Sebbene la sua mente le stesse urlando di girare sui tacchi e di mettersi a correre più veloce che poteva, Lidia, tremante, si costrinse a controllare la propria paura e a fare quello che Unna le stava ordinando. Affidandosi quasi completamente alla cognata, la fanciulla prese a retrocedere in punta di piedi, resistendo all’istinto che le chiedeva di appiattirsi a terra nella speranza di risultare meno visibile.

Le due giovani avevano appena compiuto una decina di passi, quando l’orso si lasciò ricadere pesantemente sulle zampe anteriori e poi, come al rallentatore, prese ad avvicinarsi a loro, in un trotto lento che si trasformò in un galoppo in un paio di falcate.

Lidia registrò lontanamente il grido che sfuggì dalla sua gola e il gemito strozzato di Unna. Un istante più tardi, la germanica ruotò su se stessa e, senza allentare la presa attorno al braccio della compagna, prese a correre, spingendo Lidia ad abbandonare il sentiero e lanciandosi poi a rotta di collo verso destra, giù per il lieve pendio che conduceva al fiume.

Intuendo le sue intenzioni, la ragazza puntò inconsciamente i piedi, opponendo una debole resistenza. «Cosa stai facendo?» chiese, con la voce strozzata dall’affanno e dal terrore.

«Entra nel fiume!» ansimò Unna, trascinandosela dietro e rischiando di farla scivolare sul terreno reso viscido dal muschio e dal fango. Ancor prima di finire di pronunciare quelle parole, la donna raggiunse il corso d’acqua e vi balzò dentro, sollevando una miriade di spruzzi e obbligando la giovane romana a fare lo stesso. Quando i suoi piedi entrarono a contatto con l’acqua fredda – terribilmente fredda, considerato che si trovavano nel periodo più caldo dell’anno – Lidia espirò con forza e il fiato le sibilò tra i denti. Di nuovo, la fanciulla fu tentata di fermarsi, combattuta tra il desiderio di tornare all’asciutto e l’assoluta necessità di allontanarsi dalla bestia che si faceva sempre più vicina.

«Gli orsi nuotano!» urlò, afferrando a sua volta il braccio di Unna con la mano libera.

La donna la tirò verso di sé, senza voltarsi a guardarla. «Gli orsi neri no» ribatté, immergendosi sempre più nelle acque glaciali.

Quasi a volerla contraddire, l’animale, che aveva raggiunto le sponde del fiume, posò le possenti zampe anteriori nell’acqua scura, allungando l’enorme collo verso di loro.

Non ce la faremo mai, pensò Lidia, sentendosi curiosamente sospesa tra il terrore e la rassegnazione. Si sarebbe forse fermata e avrebbe atteso che l’orso la raggiungesse, se Unna non l’avesse costretta a procedere sino a quando l’acqua le bagnò i fianchi. Ancora fermo sulla riva, l’orso raspò il fondo del fiume con le unghie acuminate, annusando rumorosamente. Poi, con un grugnito di disappunto, si voltò e, leggermente barcollante, rientrò nella foresta – se perché effettivamente non sapesse nuotare, come aveva detto Unna, o perché non le ritenesse tanto interessanti da giustificare un tuffo fuori programma, Lidia non avrebbe saputo dirlo.

Ma chi se ne importa, quello che conta è che se ne sia andato! Pensò la fanciulla, travolta da un’ondata di sollievo che le fece sembrare meno fredda anche l’acqua del fiume.

Una manciata di secondi più tardi, però, un’altra ondata – questa volta d’acqua – investì in pieno Unna e, complice il fondo scivoloso, le fece perdere la presa sui ciottoli lisci e ricoperti di melma. Lidia registrò appena la sua esclamazione di sorpresa e poi, senza nemmeno prendere la decisione cosciente di muoversi, si lanciò verso di lei, afferrandola per un braccio nel tentativo di trattenerla. Il movimento la fece sbilanciare e, prima che potesse fare qualsiasi cosa per evitarlo, la ragazza si trovò un istante più tardi completamente immersa nell’acqua nera.

Per un attimo il suo mondo divenne buio e liquido, poi il gelo la colpì violentemente alle costole e Lidia scalciò e annaspò, cercando invano di rimettersi in piedi. Unna, che cercava altrettanto inutilmente di fare lo stesso, la centrò inavvertitamente con un calcio in pieno stomaco e le due giovani si ritrovarono ad allontanarsi sempre di più dal punto nel quale erano entrate nel fiume, sospinte da una corrente che non era particolarmente impetuosa, ma che era comunque più che sufficiente per trasportale con sé.

Sbattuta di qua e di là dall’andamento irregolare del fiume, accecata dalla paura e dalla notte, Lidia fu sul punto di perdere l’orientamento e di lasciarsi sommergere dall’acqua, quando la voce di Unna, roca e un po’ strozzata, ma perfettamente udibile, raggiunse le sue orecchie. «A destra!» le ordinò la germanica.

Improvvisamente la fanciulla si ricordò di essere capace di nuotare e, combattendo contro il gelo che cercava di paralizzarle braccia e gambe, fece un paio di bracciate nella direzione indicatale dalla cognata. «Si tocca» ansimò di nuovo Unna. Allungando i piedi sotto di sé, Lidia si accorse che era vero. Calciando con forza contro qualsiasi cosa solida le capitasse a tiro e aiutandosi con le braccia, la giovane riuscì ad avvicinarsi di nuovo alla sponda. Poco dopo, quando il fiume si allargò in una pozza più profonda, ma d’acqua quieta, le due ragazze riuscirono a tornare di nuovo a riva.

Con un gemito esausto, Lidia si lasciò cadere sull’erba morbida, stringendo i denti contro la fitta di dolore che le trapassò il fianco quando venne in contatto con il terreno. Devo averlo sbattuto contro un qualche sasso…

Non appena ebbe ripreso fiato, la giovane si tirò a sedere e si voltò verso la cognata, distesa sulla schiena accanto a lei. Unna teneva gli occhi chiusi e le braccia sulla pancia e Lidia provò un brivido di preoccupazione. «Va tutto bene?»

La donna annuì. «Sì, ma ho bevuto mezzo fiume» si lamentò, con una smorfia.

«Io ho freddo» disse Lidia, all’improvviso, rendendosi conto di tremare.

«Anch’io» mormorò Unna. «Se restiamo così ci prenderemo qualcosa. Dobbiamo cambiarci.»

La giovane romana la guardò, sentendosi completamente impotente. «Sì, ma ci metteremo un secolo a tornare al villaggio.»

Unna tossì e si strizzò la treccia fradicia. «Non dobbiamo tornare al villaggio: se non altro, siamo andate nella direzione giusta. Non manca molto al posto indicato dalla tua mappa.»

Sentendo nominare la mappa, Lidia si illuminò e le sue mani volarono alla tasca della tuta, cercando la tavoletta. Quando l’ebbe tra le mani, però, non riuscì a trattenere un gemito di disappunto. «Mi sa che si è rotta» mormorò, mostrandola a Unna e indicando la superficie nera e priva di luci. Lei rivolse alla tavoletta solo un'occhiata distratta, poi scrollò le spalle, passandosi le dita tra i capelli pallidi. «Poco male» decretò. «Ho capito dove siamo. Poco distante ci dovrebbe essere anche una strada: non ci metteremo molto ad arrivare alla capanna del guaritore.»

La giovane romana si strinse brevemente al petto la mappa ormai inutilizzabile, rendendosi conto solo in quell'istante di quanto si fosse inconsciamente affidata a quell’oggetto di cui non capiva bene nemmeno il funzionamento. Dopo qualche istante sospirò e annuì, riponendo la tavoletta in una delle tasche della tuta scura: anche se sembrava che l'acqua del fiume l'avesse messa fuori uso, Lidia sospettava che non fosse comunque il caso di abbandonarla nel bosco, lì dove chiunque avrebbe potuto trovarla. «Va bene, allora andiamo» mormorò, rivolta a Unna.

Zoppicando leggermente, le due giovani ripresero ad attraversare il sottobosco, che in quel punto della foresta era piuttosto fitto. Fradicia e stanca, la fanciulla annaspò tra le erbacce e le felci, improvvisamente grata alla tuta che le fasciava le gambe, proteggendole dal tocco pungente delle ortiche. Ho i piedi gelati, constatò la ragazza, con una smorfia di sconforto.

Proprio quando la stanchezza e lo scoramento stavano per avere la meglio, il buio della foresta parve diradarsi e Unna si fermò per un istante, scostandosi i capelli dagli occhi e massaggiandosi leggermente la schiena. «Oh, perfetto. Lì c'è la strada.»

Lidia rivolse un ringraziamento silenzioso agli Dèi e precedette la cognata, superando gli ultimi arbusti e guadagnando la superficie polverosa del tracciato carrabile. «Da che parte?» chiese, poi, rivolta alla giovane germanica.

Con un cenno del capo, Unna indicò un punto alla loro destra. «È laggiù, guarda.»

Poche centinaia di metri più avanti, ai margini degli alberi scuri, si ergeva un edificio di medie dimensioni. La luce che brillava alle finestre era un chiaro indicatore del fatto che la casa fosse effettivamente abitata. Improvvisamente, Lidia senti il cuore balzarle in gola, stretto tra emozioni contrastanti. Ulf era lì. Certo, lì c'erano anche Alexander e il guaritore di cui non ricordava il nome e, forse, persino il Capitano di cui le aveva parlato Donna Erin. In quell'istante, però, l’unica cosa che le sembrava importante era che, nel giro di pochi minuti, si sarebbe trovata davanti a suo marito.

Lidia strinse inconsciamente i pugni, cercando di soffocare il tremore che le aveva improvvisamente scosso le mani. Non vedeva l'ora di riabbracciarlo, di respirare il suo profumo e di convincersi che il peggio era passato: era sufficiente il pensiero, perché il sollievo la travolgesse e disperdesse la tensione che le contraeva le spalle. Tuttavia, a smorzare il suo entusiasmo c'era l'incognita di come avrebbe reagito lui. Unna le aveva detto che era stato in pensiero per lei, che l'aveva cercata ovunque. Sfortunatamente, quel fatto non garantiva però che l'avrebbe accolta a braccia aperte. Non è mica detto che mi abbia perdonata per quello che è successo a Karl. Anzi, con ogni probabilità non l’ha fatto!

Prima che potesse perdersi oltre in quei pensieri, però, Unna la colpi con una spalla. «Beh? Che fai? Ti sei addormentata in piedi o cosa?»

Davanti al tono brusco della cognata, Lidia si riscosse. «No...vengo, vengo. Sono solo un po' in ansia al pensiero di rivedere tuo fratello» ammise, arrossendo nel buio della notte.

Unna emise un suono che avrebbe potuto dire tutto e niente. «Perché? Hai per caso la coscienza sporca?»

La giovane romana aggrottò la fronte. «Non esattamente» mormorò, dopo qualche istante di esitazione. «Ma ho combinato un bel po' di pasticci, in questo periodo, e non so se...» Lidia lasciò sfumare la frase, incerta su come proseguire.

Per tutta risposta, Unna sbuffò rumorosamente. «Questo è indubbio. Però ne parlerei al caldo, una volta che ci siamo messe dei vestiti asciutti e magari anche qualcosa nello stomaco. Vedi di non dimenticarti che Hermann è a casa di mio padre, e che ha bisogno di cure urgenti: è soprattutto per lui che siamo qui.»

La fanciulla annuì con forza. «Non me ne dimentico» le assicurò. Facendo un respiro profondo, Lidia si avviò verso le luci che brillavano davanti a loro. Unna ha ragione. Per parlare di quello che è successo ci sarà sicuramente tempo: ora come ora, la cosa più importante è curare Hermann. E magari anche cercare di capire che cosa ci aspetterà nei prossimi tempi.

Quando giunse di fronte alla porta chiusa, Lidia ebbe un istante di esitazione: curiosamente, anche se aveva fatto tutto ciò che era in suo potere per tornare con il marito, non si era mai preoccupata di come, in termini pratici, sarebbe avvenuto il loro incontro. Che cosa dovrei fare? Corrergli subito incontro oppure sarebbe forse meglio dargli qualche spiegazione, prima? O forse dovrei pretenderle io, le scuse e le spiegazioni?

Notando la sua indecisione, Unna la sorpassò e bussò decisa contro il pannello di legno, battendo leggermente i denti a causa del freddo. Anche se le luci erano accese, la casa sembrava silenziosa e per un lunghissimo minuto nessuno si presentò ad aprire. Quando già Lidia iniziava ad avvertire un lieve tremore dovuto al nervosismo che faticava a tenere a bada, l’uscio si schiuse, rivelando alla vista un uomo sulla sessantina, basso e minuto, ma dotato di due penetranti occhi chiari nei quali brillava un’intelligenza sottile.

«Unna, figlia di Gefrid» le accolse il padrone di casa, incontrando per un istante gli occhi di Unna. Poi, la sua attenzione si accentrò sulla giovane romana ferma accanto alla germanica. «E tu devi essere Lidia, suppongo.»

La fanciulla fece un vago cenno d’assenso, a disagio davanti allo sguardo attento del guaritore. Unna, invece, chinò appena il capo in un gesto che a Lidia parve quasi deferente. «Albert» lo salutò. «Abbiamo saputo che mio fratello è tuo ospite.»

Sul volto del germanico si disegnò un sorriso che lo rese simile a una volpe. «Oh, posso ben immaginare come siate venute a conoscenza di questo fatto.»

Quando gli occhi dell’uomo indugiarono su di lei, Lidia arrossì e istintivamente le sue dita si strinsero sulla tavoletta rovinata, nascosta nella tasca della tuta inzuppata d’acqua. «Anche Alexander è qui?» chiese, pur conoscendo già la risposta. Che domanda idiota, la rimbeccò il suo inconscio. È ovvio che sia qui. Ciononostante, la ragazza sollevò appena lo sguardo per giudicare la reazione del guaritore. Fuggevolmente, Lidia riconobbe che non aveva idea di quanto liberamente potesse parlare davanti a quell’uomo: era a conoscenza di tutto o era forse meglio tenergli celati alcuni dettagli?

Il volto del germanico non tradì però nessuna emozione. «Sì» replicò sinteticamente Albert, prima di esaminare rapidamente con gli occhi le due giovani che gli stavano davanti. «Tra poco potrete incontrare entrambi. Prima, però, sarà il caso che indossiate dei vestiti asciutti.»

Ricordandosi solo in quel momento di essere infreddolita e fradicia a causa dell’imprevisto bagno nel fiume, Lidia rivolse all’uomo un piccolo sorriso grato. Senza aggiungere altro, Albert si fece da parte e fece un cenno alle due ragazze, invitandole a entrare. Con un gesto che alla giovane romana parve d’impazienza, Unna le sfilò accanto e, passandosi un paio di volte le mani sulle braccia coperte dalla camicia resa trasparente dall’acqua, superò la soglia. Lidia la seguì a ruota e, quando la porta d’ingresso si chiuse alle sue spalle, fece del proprio meglio per conservare un contegno dignitoso ed educato, evitando di lanciare tutt’attorno a sé occhiate furtive, come un’ospite troppo curiosa o come una ladra in cerca di un qualche oggetto di valore da sottrarre. Ma è così difficile! Si lamentò in silenzio, sentendo quasi il bisogno fisico di allungare il collo per guardarsi attorno.

Suo marito era lì, da qualche parte, e Lidia si aspettava di vederlo comparire da un momento all’altro. E non importa che cosa mi dirà o come mi accoglierà, decise d’un tratto. Adesso l’unica cosa che conta è riabbracciarlo.

Ignaro – o forse noncurante – dell’impazienza della ragazza, Albert indicò con la mano una porta socchiusa alle sue spalle. Spiando oltre a essa, Lidia scorse un’altra stanza e una scala che conduceva al piano superiore. «Ho una sola stanza libera» le informò l’uomo. «Spero che non vi spiaccia dividerla per la notte.»

Unna e Lidia si scambiarono un’occhiata rapida, poi, in silenzio, scossero il capo.

«Seguitemi» annuì allora il guaritore. «Vi farò poi portare degli abiti puliti e una minestra calda. Sembrate averne bisogno.»

Lidia fece per ringraziarlo, ma le parole le morirono in gola. Con un cigolio quieto, la porta che Albert aveva indicato pochi istanti prima si aprì del tutto e Alexander – ancora pallido, ma tutto intero – fece capolino. Per qualche istante, la fanciulla rimase con il fiato sospeso, poi una fitta di delusione le trapassò lo stomaco. È solo? Si chiese, con il cuore che le martellava nel petto.

Non appena si fu ripreso dal suo stupore, l’uomo le rivolse un gran sorriso. «Ma allora ce l’hai fatta ad arrivare!» esclamò, muovendo un paio di passi rapidi verso di lei e allungando le braccia come se intendesse abbracciarla. Prima che Lidia potesse decidere come reagire, però, Alexander si bloccò di colpo e si voltò a guardare un punto alla destra di Lidia. Seguendo il suo sguardo, la ragazza sentì lo stomaco contrarsi in maniera decisamente sgradevole. Oh. Unna.

L’espressione della giovane germanica era indecifrabile: un misto – o così parve a Lidia – di imbarazzo, irritazione e disprezzo. Alexander corrugò la fronte e, con due dita, si sfiorò appena la ferita che lei gli aveva inferto. «Ah. Ci sei anche tu?»

Unna parve sul punto di replicare, ma, sebbene le sue labbra si arricciassero in una smorfia simile a un ringhio, dalla sua gola non si levò alcun suono. Senza nemmeno prenderne consapevolmente la decisione, Lidia si ritrovò a intervenire. «Sì, mi ha accompagnata fino a qui» spiegò, frapponendosi tra la cognata e l’uomo dai capelli rossi. «Non so cosa sai, esattamente, però abbiamo bisogno di parlare perché…»

«Cosa accidenti avete fatto ai vestiti?» la interruppe lui, come se si fosse reso conto solo in quell’istante dello stato dei loro abiti.

«Siamo dovute entrare nel fiume per sfuggire a un orso e…»

«Un orso?»

A Lidia parve di muoversi al rallentatore. Ruotando su se stessa con quella che le sembrò una lentezza infinita, la ragazza si ritrovò a sostenere lo sguardo azzurro di Ulf. «Sì… un orso» sentì la sua voce replicare, in un tono sorprendentemente fermo. Quando è arrivato? Si interrogò, spiazzata, mentre i suoi pensieri inciampavano per un istante l’uno sull’altro. Da dove è arrivato? Un angolo della bocca dell’uomo si sollevò in maniera quasi impercettibile e, con la testa curiosamente leggera, Lidia si ritrovò a sorridere timidamente. «Era un orso vero, questa volta» aggiunse, quasi sottovoce.

«Mai visto un orso in quasi trent’anni di vita e ne incontro uno l’unica volta che metto piede nel bosco in compagnia di questo impiastro. Dev’essere sicuramente un segno di qualche tipo…»

La voce sarcastica di Unna, che si era evidentemente ripresa dal suo improvviso mutismo, spezzò il legame che, per un attimo, si era formato tra Ulf e Lidia e l’uomo si voltò di scatto verso la sorella. «Cosa ci fai qui, tu?» le chiese, con una punta di rimprovero nella voce. «Perché non sei rimasta da Katti?»

«Perché mi ero rotta le scatole di starmene con le mani in mano» replicò altrettanto seccamente Unna. «Hermann non sta bene» aggiunse, poi, in tono più morbido e preoccupato.

Ulf si incupì ulteriormente. «Lo so» mormorò, rivolgendo un cenno in direzione di Alexander. «Mi ha spiegato come stanno le cose… più o meno.»

Alla menzione di Hermann, Lidia si morse nervosamente le labbra, mentre l’apprensione tornava a stringerle lo stomaco. «Ne hai parlato con Donna Erin?» chiese, rivolta ad Alexander.

L’uomo annuì. «Sì, anche se devo ammettere che non mi è molto chiara la dinamica dei fatti. Erin mi ha detto solo che tu e il ragazzo eravate a bordo della Northern Star e che avevate trovato qualcosa che non avreste dovuto toccare a casa di Kay…»

Albert, che fino a quel momento era rimasto leggermente in disparte, come per lasciare agli ospiti la possibilità di confrontarsi senza troppe interferenze, fece un passo in avanti e si frappose tra i giovani. «Un momento» disse, facendo saettare su di loro gli occhi chiari. «Questa ha tutta l’aria di essere una conversazione complicata e, soprattutto, lunga: voi due la affronterete con addosso dei vestiti asciutti; e magari dopo esservi riposate e rifocillate.»

Sentendosi chiamate in causa, Lidia e Unna si scambiarono un’occhiata veloce, poi le labbra della germanica si piegarono in un’espressione dura. «Vada per i vestiti asciutti e per una minestra calda, se possibile, ma il riposo dovrà aspettare. Hermann è più importante.» Davanti allo sguardo dubbioso del guaritore, la donna rincarò la dose: ­«E la minestra la mangeremo mentre faremo il punto della situazione con mio fratello e con… lui

Sul volto di Alexander passò un’espressione scettica, ma l’uomo evitò di commentare. Albert, invece, sollevò le spalle, decidendo di adeguarsi alla volontà della giovane. «Come preferite» acconsentì. «Se volete seguirmi di sopra, vi mostrerò la vostra stanza. Poi chiederò alla mia domestica di farvi avere degli abiti puliti. Voi, invece, potete aspettarle nella stanza accanto: lasciate loro almeno il tempo di cambiarsi in santa pace.»

L’ultima richiesta – che suonava piuttosto come un comando – era stata rivolta a Ulf e ad Alexander. Prima di lasciare la stanza e di seguire il padrone di casa, Lidia incontrò lo sguardo del marito. Lui le rivolse di nuovo un piccolo sorriso e la fanciulla sentì una sensazione di calore invaderle il petto. Aspettami qui, pensò. Mi tolgo questa maledetta tuta e poi torno subito da te.

Rendendosi conto di essere rimasta ferma sul posto un po’ troppo a lungo, Lidia si affrettò a raggiungere Unna e Albert, che avevano ormai guadagnato le scale e si stavano incamminando verso le camere che, evidentemente, si trovavano al piano superiore. Non si sarà mica accorta che sono rimasta lì imbambolata a guardare suo fratello, vero? Si chiese, temendo che la cognata avesse assistito al suo attimo di smarrimento e fosse pronta a servirle una delle sue solite battute taglienti. Tuttavia, la giovane bionda teneva il capo chino, un’espressione pensierosa sul volto dai lineamenti sottili.

«Eccoci qui» annunciò Albert, fermandosi davanti alla porta più vicina alle scale. «Non è grande, ma in due ci potrete dormire comodamente.»

In effetti… considerò la giovane romana, esaminando con un’occhiata veloce la microscopica stanzetta che si apriva davanti ai suoi occhi. Un pavimento scuro, un lavandino, due brandine posizionate talmente vicine tra loro che avrebbero tranquillamente potuto essere sostituite da un unico letto matrimoniale e due minuscoli comodini sui quali si sarebbe potuto riporre a malapena un libro. Nemmeno l’ombra di un armadio in cui appendere i vestiti.

Non appena il guaritore se ne fu andato chiudendosi la porta alle spalle, la ragazza si lasciò cadere sul letto e alzò lo sguardo su Unna. Si sentiva un po’ a disagio davanti all’immobilismo e al silenzio della germanica, ferma in piedi a pochi passi da lei. «C’è qualcosa che non va?» chiese, perplessa dall’atteggiamento della cognata.

Improvvisamente, quella alzò il capo e incontrò i suoi occhi. «Tu vuoi dormire con Ulf?»

Lidia avvampò. «Ah. Ehm, i-io…» accorgendosi del proprio balbettio, la fanciulla inspirò a fondo. «Perché?» chiese, con voce più controllata.

Lentamente, Unna sollevò le spalle. «Be’, mi parrebbe anche normale, visto che è tuo marito e che, sorprendentemente, voi due sembrate andare anche abbastanza d’accordo.»

«Mi piacerebbe» ammise allora Lidia, senza riuscire a evitare che sul viso le comparisse l’ombra di un sorriso. «Però prima ci sono diverse cose di cui dovremmo parlare, e poi il guaritore ha detto che questa è l’unica stanza disponibile… cioè, immagino che, volendo, tu e Ulf potreste scambiarvi la camera? È questo, che mi stai proponendo?

Sul volto della giovane bionda comparve una lievissima sfumatura rosata. «Non so se Ulf ha una stanza singola.»

La ragazza bruna aggrottò la fronte, senza capire. «Eh?»

«Non vorrei ritrovarmi a dormire con quel tizio!» sbottò Unna, mentre il suo rossore si faceva più pronunciato.

Lidia sgranò gli occhi, sorpresa che un’ipotesi del genere potesse anche solo essere passata per la mente della cognata. «Ma, Unna, è ovvio che non dovrai dividere la camera con lui!» esclamò, senza riuscire a trattenere una risata incredula. «Voglio dire, stiamo anche parlando della stessa persona che hai appena…» La sua voce sfumò e il sorriso le svanì dalle labbra. Stiamo parlando della stessa persona che hai appena accoltellato, stava per dire. Verosimilmente, nel tentativo di ammazzare Tito, aggiunse, poi, osservando la cognata con la coda dell’occhio.

Unna la fissò di rimando, gli occhi azzurri attenti e penetranti. «Cioè», riprese Lidia, schiarendosi la voce, «quello è assolutamente scontato. Comunque non devo per forza dormire con Ulf: se la cosa ti fa sentire più sicura, possiamo lasciare le cose così come stanno… tanto ci passeremo al massimo un paio di notti, qui, no?» Mentre parlava, le era venuto istintivo posare una mano sul braccio della cognata. Stupita dal suo stesso gesto, Lidia si irrigidì per un istante, ma non distolse la mano.

Fu la giovane bionda ad allontanarla, scrollando debolmente le spalle. Quando parlò, però, la sua voce suonò stranamente morbida. «Poi vediamo» mormorò, rivolgendo alla ragazza l’accenno di un sorriso.

Un bussare leggero alla porta le interruppe e, pochi attimi più tardi, una donna di mezza età comparve sull’uscio tenendo tra le braccia alcuni abiti ripiegati con cura. «Ve li lascio sul letto» annunciò la domestica, parlando un latino sorprendentemente privo di inflessioni per una donna del popolo. «Se c’è qualcosa che non va, fatemelo sapere: potete trovarmi in cucina.»

Lidia la ringraziò e subito allungò una mano verso una gonna di morbida lana blu. Il suo animo fu percorso da un brivido di piacere al pensiero dell’imminente contatto tra il tessuto caldo e le sue gambe intirizzite. «Io mi cambio subito, eh!» annunciò a Unna, prendendo subito ad armeggiare con la chiusura della tuta scura. Brevemente, la sua mente tornò a quando la cognata l’aveva costretta a spogliarsi durante in occasione della sua prima notte di nozze e la fanciulla deglutì, cercando di allontanare il retrogusto amaro che improvvisamente le aveva invaso la bocca.

Non è il momento di pensare a queste cose, si disse, sfilandosi il tessuto fradicio dalle spalle. Non so perché si sia comportata in quel modo, né perché mi odiasse tanto, ma adesso le cose sono cambiate. Anche se non lo ammetterebbe mai, non è più così ostile verso di me. Non era forse un gran che, come punto di partenza su cui costruire un’amicizia, ma Lidia sentiva che era comunque qualcosa da non sottovalutare. Anche perché non è che io abbia conosciuto poi tante altre persone che potrebbero diventare mie amiche, a dire il vero… non sono stata molto brava, con le relazioni sociali.

Immersa in quei pensieri, la ragazza si infilò una camicia di lino chiara e un corpetto di lana cotta, marrone e decorato con motivi floreali. Vestita così sembro proprio una germanica, riconobbe, con una punta di stupore. Avrebbe forse dovuto raccogliere i capelli nelle trecce che piacevano tanto a Unna?

Senza che lei se ne accorgesse, anche la germanica si era cambiata d’abito e ora stava esaminando con aria critica la gonna verde che le arrivava a metà polpaccio. «È troppo stretta», decretò. «e anche troppo corta. Io vado a farmene dare un’altra.»

Tornando a sedersi sul letto, Lidia annuì. «Va bene» disse, prima di esitare in preda all’incertezza. «Ti… ti aspetto qui?»

«Faccio in fretta» la rassicurò la donna. «Due minuti e sono di ritorno.»

Con quelle parole, la giovane marciò verso la porta, ma quella si aprì prima ancora che lei raggiungesse la maniglia. «Eh!» esclamò Unna, scattando all’indietro. «Per poco non mi prendi in faccia!» Per un istante, Ulf abbassò lo sguardo sulla sorella, ma poi la sua attenzione si appuntò su Lidia. «Albert non ti aveva mica detto di aspettare di sotto?» Lo interrogò di nuovo Unna, posandosi le mani sui fianchi.

L’uomo storse la bocca, come se l’osservazione fosse di poco conto. «Be’, sì, però…» Il giovane lasciò sfumare la frase, tornando a guardare la moglie.

La giovane bionda scosse il capo. «Va be’, ho capito. Io vado a cercare dei vestiti che mi vadano bene. Facciamo che torno tra dieci minuti e non tra due, d’accordo?»

Lidia le rivolse solo un vago cenno d’assenso, tutti i sensi concentrati sulla figura del marito. Ulf… pensò, mentre il suo stomaco eseguiva una capriola. Per una frazione di secondo, la ragazza rimase come inchiodata sul copriletto, poi le sue gambe si mossero senza la sua autorizzazione. Lentamente, provando la sensazione di trovarsi immersa in un’atmosfera stranamente vischiosa, la fanciulla si avvicinò all’uomo, la mente libera da ogni pensiero che non fosse quello di raggiungerlo. Poi, quando si trovò a pochi passi da lui, scattò in avanti. Le sue braccia si strinsero attorno alla vita di lui e la sua testa ritrovò la posizione sul suo petto – appena sotto la clavicola – che fino a poco tempo prima le era stata tanto famigliare.

Non mandarmi via, pensò, stringendolo forte. Con gli occhi chiusi, Lidia si prese qualche istante per assorbire il suo calore e respirare il suo profumo. Una frazione di secondo più tardi, le mani dell’uomo le percorsero brevemente la schiena prima di attirarla a sé e la giovane si sentì travolgere dal sollievo. Solo in quel momento si accorse di quanto avesse temuto che Ulf la allontanasse, così come aveva fatto in occasione del loro ultimo incontro. Quando il suo volto le sfiorò i capelli, Lidia si staccò leggermente da lui e lasciò che le sue mani corressero verso l’alto, scivolando attorno alle spalle del marito.

Ulf serrò la presa sui suoi fianchi e spostò la testa quel tanto che bastava per guardarla in volto. «Lidia?» mormorò.

Alle orecchie della fanciulla, il suo nome suonò come una domanda e le sue dita furono percorse da un tremito. Non sapeva che cosa le stesse chiedendo, ma sapeva di per certo che dovevano parlare. Era di fondamentale importanza: non potevano più andare avanti come avevano fatto fino a quel momento, cercando di schivare gli ostacoli e sperando di non incontrarne mai uno troppo grosso da evitare e contro cui non avrebbero potuto fare altro che andarsi a schiantare.

Ma dobbiamo farlo proprio adesso? Si chiese la giovane, mentre tutto il suo essere si ribellava a quella prospettiva. È importante, ma non potresti almeno darmi un bacio? Mi sembra passato così tanto tempo, dall’ultima volta…

L’uomo le posò una mano sulla guancia e con una carezza salì fino a sfiorarle con le dita i capelli ancora umidi. Senza distogliere lo sguardo dal suo viso, Ulf sorrise. «Stai bene?» le chiese. Una domanda semplice, ma che le scaldò il cuore.

Chinando appena il capo di lato, Lidia non si trattenne e gli posò un bacio sul dorso della mano. «Sì» mormorò. «È stato più lo spavento che altro.»

Il giovane annuì lentamente, poi le sue dita si spostarono verso la nuca della ragazza e affondarono nei suoi capelli morbidi. Senza una parola, si chinò su di lei e la fanciulla trattenne il fiato, mentre il cuore le martellava nel petto. Nel momento in cui le loro labbra si incontrarono, Lidia ebbe come la sensazione di essere a casa, di essere tornata in un luogo famigliare, sicuro, un luogo in cui la luce calda del sole disperdeva il buio e l’umidità di una notte di pioggia. Quasi inconsciamente, la fanciulla si strinse di più al marito e Ulf, sorpreso dal suo entusiasmo, inspirò bruscamente. Quando però Lidia socchiuse le labbra, colse immediatamente l’invito della ragazza e approfondì il bacio, scivolando nella sua bocca.

Lidia rabbrividì, pensando che tutto quello che contava in quel momento era lì, a portata di mano: era così che doveva essere e lei era stata davvero stupida a credere che potesse essere altrimenti. Ti amo, pensò, e fu anche tentata di dirglielo, ma non si sentiva ancora così coraggiosa. Si disse allora che quello non era il tempo, né il luogo adatto per tali confessioni. Ma questo non lo rende meno vero, riconobbe, ammettendo che era ormai giunto il tempo di essere sincera almeno con se stessa.

Dopo un tempo che a Lidia parve troppo breve, Ulf si allontanò da lei e le posò un bacio sulla fronte, prima di fare un piccolo passo indietro. «Dovremmo parlare» sospirò, quasi controvoglia. «Magari non subito, ma credo che sia meglio…»

Quando il giovane lasciò sfumare la frase, la ragazza provò una sgradevole fitta allo stomaco e le sue labbra si piegarono in una smorfia. «Lo so» ammise, annuendo. Automaticamente, le sue mani cercarono quelle del marito e Ulf le strinse, ma rimase in silenzio, lasciando che fosse la fanciulla a fare il primo passo.

«Mi dispiace per come mi sono comportata» mormorò ancora Lidia. «Avrei dovuto dirti subito di Tito. Forse avremmo evitato tanti guai, se l’avessi fatto.» Ora che aveva pronunciato quelle parole, il segreto che l’aveva tormentata per tanto tempo le pareva terribilmente stupido. «È per questo che te ne sei andato in quel modo, quando siamo tornati dall’incontro con Donna Erin e con Fratello Kay?»

Ulf annuì. «Sì. Avevo… credevo di avere intuito chi fosse quel ragazzo e la cosa mi ha fatto sentire… be’, quasi tradito.» Dopo una breve pausa, il giovane abbassò gli occhi al suolo. «Questo non toglie però che non avrei dovuto reagire in quel modo. E, soprattutto, non avrei dovuto lasciarti da sola a casa, questa mattina: avrebbe potuto succederti di tutto.»

Lidia storse la bocca. «Probabilmente non mi sarebbe successo niente – non ci sarebbe successo niente – se fossimo rimasti tutti a casa. E invece adesso Tito è morto e Hermann sta male…»

«Mio fratello starà meglio» la rassicurò Ulf, lasciandole le mani e tornando a cingerle le spalle, attirandola a sé. «E mi dispiace per il tuo… amico

«Era davvero solamente un mio amico» sussurrò lei, affondando il viso contro il petto del compagno. «Era così stupido… e anche coraggioso. Che idiota. Gli volevo bene.» Le parole le sfuggirono di bocca senza controllo, mentre il dolore per la perdita di Tito tornava a sollevare la testa e gli occhi le bruciavano a causa delle lacrime che li avevano improvvisamente riempiti.

Ulf la strinse più forte e le posò un bacio sui capelli. Puntando le mani sulle sue spalle, Lidia cercò i suoi occhi, senza preoccuparsi del proprio viso arrossato. «Ho cercato di fermarlo» sussurrò. «Ho cercato di mettermi tra lui e Karl, ma non ce l’ho fatta. Non so a cosa pensasse, quando… nemmeno Alexander ha potuto fare niente.»

Il giovane strinse i denti per una frazione di secondo, un movimento nervoso che fece capire a Lidia quanto ancora gli facesse male la morte dell’amico. «Alexander mi ha già raccontato cos’è successo. Nemmeno Karl aveva un carattere facile… e, tra l’altro, resta da capire perché ti avesse seguita.»

Lidia aggrottò la fronte, perplessa. «Voleva riportarmi a casa, da te. E, in effetti, è proprio quello che stava facendo.»

«Sì, ma come faceva a sapere che tu e quei soldati eravate stati attaccati? Chi gliel’ha detto?»

La ragazza si mordicchiò le labbra, cercando di ricordare che cosa le avesse detto Karl, quando l’aveva portata via dalla cascina abbandonata. Le parole del cognato erano però solo un ricordo lontano e Lidia si rese conto di non aver mai veramente scoperto cosa facesse Karl, quando non lavorava in miniera. Sicuramente non aveva simpatia per Roma; e credo anche che avesse qualcosa a che fare con i ribelli

Di certo, però, la consapevolezza delle azioni poco limpide del giovane non rendeva la sua morte meno dolorosa per Ulf e per Unna. «Non lo so» mormorò allora Lidia, rispondendo alla domanda che il marito le aveva rivolto pochi istanti prima.

Ulf la fece sistemare meglio contro di sé e le posò una guancia sulla sommità del capo. «Perché non mi hai detto nulla di Tito?» chiese, ritornando sull’argomento sul quale, evidentemente, gli premeva di più fare chiarezza.

Lidia prese a giocherellare distrattamente con il tessuto della maglia del marito, riordinando rapidamente le idee. «All’inizio, quando le cose tra di noi non andavano proprio benissimo, pensavo di scappare con lui: eravamo fidanzati, a Roma, e lui mi aveva promesso di venirmi a prendere.»

L’uomo si irrigidì leggermente. «Ah. Allora non era proprio solo un tuo amico.»

La fanciulla non riuscì a impedirsi di alzare gli occhi al cielo. Cos’è, è geloso? Si chiese, con una punta di irritazione. Oggettivamente, Ulf aveva tutte le ragioni per essere geloso nei confronti di Tito, ma, in quel contesto, la sua osservazione le parve fuori luogo. «Invece sì, lo era» ribadì, incontrando il suo sguardo. «C’è stato un tempo in cui… boh, pensavo di essere innamorata di lui. Però non lo so, forse era solo affetto: ci conosciamo da diversi anni.» Tornando ad appoggiarsi contro di lui, la ragazza riprese, con voce più morbida: «Poi, però, ti ho conosciuto meglio e ho capito che volevo stare con te. Stare con te è… diverso. Ho capito che il mio posto è qui: non dico di preferire la Germanica a Roma, ma non ho alcuna intenzione di scappare. O di farmi cacciare via, se è solo per questo. E Tito lo sapeva: gliel’ho detto, e lui ha acconsentito a starmi accanto solo come amico. Sai, in caso le cose si fossero messe male e io avessi avuto bisogno di aiuto.»

«E la cosa ti ha impedito di parlarmi di lui?» insistette Ulf, posandole le mani sulle spalle come se intendesse allontanarla da sé.

Lidia irrigidì la mascella e retrocedette di un passo, incontrando ancora una volta gli occhi dell’uomo. «Se non te ne ho parlato, è perché non sapevo come avresti reagito» ammise, con voce grave. «So di avere sbagliato, questo sì, però… ti ricordi quel giorno in cui mi hai raccontato quello che avevi intenzione di fare prima di conoscermi? Quando mi hai detto che Karl ti aveva addirittura suggerito di… di farmi sparire, insomma?» Sul volto del giovane passò un lampo di consapevolezza e qualcosa parve ammorbidirsi, nel suo sguardo. Deglutendo per allentare la tensione, Lidia riprese. «Ecco, ero stata sul punto di dirti tutto, quel giorno, ma poi me ne è mancato il coraggio. Anche perché avevo appena incontrato Karl e lui mi aveva minacciata, e… quello che voglio dire è che anche se non amavo più Tito, gli volevo ancora bene. Non volevo metterlo in pericolo.»

«Io non avrei mai fatto del male a quel ragazzo» sbottò Ulf, come se la vaga insinuazione della giovane romana l’avesse offeso.

Lei, però, si rifiutò di lasciarsi intimidire. «E lo stesso vale per Karl? Se proprio sicuro che lui non gli avrebbe fatto del male?»

Ulf sollevò un sopracciglio, scettico. «Se devo basarmi sugli avvenimenti recenti…»

Lidia frustò l’aria con una mano. «Sai benissimo che cosa intendo. Se Karl è morto, è perché è caduto dalle rocce ed è finito in una scarpata. Se il terreno fosse stato diverso… se il terreno fosse stato diverso, credo proprio che le cose sarebbero andate diversamente.» Notando l’espressione tesa del marito, la fanciulla si affrettò ad abbandonare quell’argomento. «In ogni caso», riprese, «all’epoca io non potevo sapere quello che sarebbe successo: ho solo pensato a proteggere Tito.»

«E non ti sei fidata di me» concluse Ulf, con amarezza.

La ragazza abbassò brevemente gli occhi, a disagio. «Più che altro, non mi sono fidata di Karl.»

«È la stessa cosa» borbottò l’uomo. «Hai creduto che corressi a raccontargli tutto senza nemmeno pensare alle conseguenze.»

Lidia rifletté per qualche istante, mentre un pensiero improvviso si affacciava alla sua mente. «Che cosa è successo a Unna?» chiese, a bruciapelo.

L’uomo rimase in silenzio qualche istante, sorpreso dal repentino cambio di argomento. «Come, scusa?» ribatté, scrutandola in volto come se stesse cercando di indovinare che cosa le passasse per la testa.

Lei storse la bocca, impaziente. «Dopo tutto questo tempo, non sono ancora riuscita a capire che cosa è successo a Unna e che cos’è che vi ha spinto a odiare tanto Roma e la mia gente. Lei non ne parla, tu non ne parli. Hermann, però, sostiene che è una cosa importante e che io avrei tutti i diritti di conoscere i dettagli… perché è una cosa che mi riguarda, in un certo senso.» Quelle non erano state le testuali parole del giovane germanico, ma, in quella situazione, Lidia decise di prendersi qualche licenza poetica.

Contrariamente a quello che si era aspettata, Ulf non protestò. «Non vedo molto il nesso logico con quello che stavamo dicendo, però hai ragione: forse è il caso che ti raccontiamo una volta per tutte questa storia… soprattutto alla luce di quello che sta accadendo in questi giorni.»

«Il nesso logico sta nel fatto che io non mi sono fidata di te e non ti ho raccontato di Tito, però nemmeno tu ti sei fidato di me, visto che non mi hai mai detto nulla del passato di tua sorella – e, indirettamente, del tuo» sospirò la ragazza. «E, comunque, in che senso? Cosa intendi con “quello che sta accadendo in questi giorni”?»

Ulf sospirò e portò le mani sui fianchi della ragazza, stringendoli brevemente come per saggiare la concretezza della sua presenza. «Mi riferisco alla storia della macchina su cui sei salita. C’è gente strana in giro e, francamente, non posso fare a meno di pensare che inizino a esserci un po’ troppe somiglianze con ciò che stava accadendo prima che Unna fosse presa…»

Lidia sgranò gli occhi. «Stai dicendo che Unna è stata portata a bordo di una di quelle macchine?» Quando Ulf le rivolse un cenno d’assenso, la giovane scosse il capo un paio di volte. «Ma cosa c’entra Roma? Lì sopra io ho incontrato Donna Erin, non dei soldati romani… a meno che tu non sia ancora convinto che sta facendo il doppio gioco?»

Ulf la attirò a sé. «Ti racconterò tutto, ma non adesso e non da solo: mia sorella deve essere presente. Ha il diritto di dire la sua e di evitare di parlare di certi particolari, se non lo desidera.»

La fanciulla fu sul punto di protestare, ma poi annuì. «E va bene. Vediamo di non rimandare troppo il discorso, però.»

«Promesso» mormorò Ulf, chinando il capo e appoggiando la fronte contro quella della ragazza.

Lidia chiuse gli occhi per qualche secondo, godendosi la vicinanza con il marito e il silenzio, la rinnovata sensazione di pace che pareva essere calata su di loro dopo lo scambio di battute che avevano appena avuto. «Sei arrabbiato?» chiese dopo un po’, a voce bassa.

Lui esitò qualche istante, prima di rispondere. «Forse un pochino» ammise piano. «Più che altro, però, ero preoccupato. Sono ancora preoccupato, considerata la tua innata propensione a cacciarti in situazioni assurde e pericolose.»

«Esagerato» mormorò lei di rimando, sorridendo appena. «Comunque anch’io sono…» Lidia si interruppe, cercando le parole giuste. Non poteva dire di essere propriamente arrabbiata, ma era fondamentalmente insoddisfatta del modo in cui si erano svolte le cose. «Dobbiamo cercare di fare meglio, da adesso in poi. Dobbiamo parlare di più. Dobbiamo fidarci di più l’una dell’altro.»

«Possiamo farlo?» chiese Ulf, sfiorandole il naso con il proprio.

Lidia sentì una sensazione di calore lambirle lo stomaco e un piacevole languore scivolarle lungo le braccia e nel petto. «Perché no?» sorrise, tornando ad allacciare le mani sulla nuca del compagno. Sollevandosi sulla punta dei piedi, la giovane cercò le labbra dell’uomo. Ulf mormorò qualcosa che lei non riuscì a capire, poi inclinò il capo, baciandola più a fondo e facendo aderire il busto di lei contro il proprio. Deliziata, Lidia si aggrappò a lui, con la testa improvvisamente leggera. Mh, pensò, portando una mano tra i capelli dell’uomo e trovandosi a desiderare di avere molto più tempo di quello cha avevano a disposizione.

La ragazza fece appena in tempo a registrare il rumore di passi che si avvicinavano rapidamente, che la porta si spalancò e la voce di Unna li costrinse a separarsi. «E pensare che credevo di essermi tolta dai piedi abbastanza a lungo!» commentò la donna, sarcastica.

Con uno sbuffo divertito, Ulf si allontanò da lei e Lidia vacillò per un istante, momentaneamente spaesata dal movimento repentino. «Altri dieci minuti sarebbero stati graditi» la informò lui, lanciandole un’occhiata di sbieco.

Unna arricciò il naso, «Sì, be’. Mi sono cambiata, la cena è pronta, Albert mi ignora e io di certo non ho intenzione di fare conversazione con il vostro amico rosso. Quindi venite di sotto, per favore.»

Lidia soffocò un sospiro, portandosi automaticamente le mani ai capelli e pettinando in maniera sommaria le ciocche scompigliate. Se proprio dobbiamo, pensò, rivolgendo uno sguardo rassegnato al marito. Per tutta risposta, Ulf si strinse nelle spalle e si avviò verso la porta.

***

Arroccata su uno sgabello, Lidia sorbì un altro sorso del brodino che la domestica di Albert aveva servito a lei e a Unna. «Ma non sarebbe meglio se andassimo a prendere Hermann?» chiese, per quella che doveva essere la terza o la quarta volta. Si trovavano in sala da pranzo da quasi un’ora e, anche se si erano aggiornati vicendevolmente sugli avvenimenti delle ultime ore, non avevano ancora fatto nulla di concreto per portare il ragazzo nella cascina del guaritore.

Rivolgendole appena un’occhiata distratta, Alexander annuì rigidamente, sfiorando con la punta delle dita la tavoletta posata sul tavolo davanti a lui. «Certo, tra poco ci andiamo» rispose con voce tesa. «Voglio solo aspettare un altro po’, nel caso Erin riesca a mettersi in contatto con noi.» Detto ciò, l’uomo tornò a fissare astiosamente Unna, attività che l’aveva tenuto occupato per tutta la durata di quella misera cena consumata a notte fonda.

Ulf spinse indietro il proprio sgabello e le gambe di legno produssero uno stridio acuto a contatto con il pavimento. «Non ricominciamo» sbottò. «Lasciala in pace.»

L’uomo dai capelli rossi lo fulminò con lo sguardo. «La coltellata me la sono presa io, quindi decido io se ricominciare o meno. Le ho solo chiesto delle scuse: non mi sembra una cosa così inconcepibile!»

Con il volto nascosto dalla scodella di ceramica, Unna piegò le labbra in una smorfia simile a un ringhio, ma non disse nulla. «Allora?» insistette Alexander, sporgendosi in avanti con gli occhi fissi su di lei. «Hai intenzione di chiedermi scusa o cosa?»

Espirando lentamente dal naso, la giovane bionda posò la tazza sulla tovaglia immacolata. «No» replicò, glaciale.

Per un istante, Lidia provò l’irrefrenabile tentazione di mandare tutti all’Inferno e di ritirarsi nella propria camera – come, del resto, Albert aveva prudentemente fatto già da tempo. Sono stanca morta, pensò, stropicciandosi gli occhi con la mano libera. Mi sembra di non dormire da anni, tra poco sarà l’alba e questi due se ne stanno qui a litigare come bambini. Non ne posso più! Occhieggiando lo schermo scuro della tavoletta adagiata sulla tovaglia, la fanciulla provò a dirottare la discussione su un argomento che, a suo parere, era più pressante delle questioni irrisolte tra Unna e Alexander. «Non per essere ripetitiva», esordì, rivolta all’uomo dai capelli rossi, «ma credi che Donna Erin riuscirà a trovare una tavoletta con cui contattarci?»

Distogliendo gli occhi da Unna, Alexander annuì. «Non dovrebbe essere una cosa troppo complicata, per lei: se è ancora a bordo dell’incrociatore, mettere le mani su uno di questi affari dovrebbe essere piuttosto semplice.»

Grata di aver ricevuto una risposta discretamente elaborata, la fanciulla lo interrogò ancora: «Credevo che avessi detto che si trattava di oggetti piuttosto rari: non è così?»

Lui esitò. «Be’… qui sono sicuramente rari. Dalle mie parti, invece, decisamente meno.»

Appoggiando entrambe le braccia sul tavolo, Ulf fissò per qualche istante la tavoletta. «Credi di poterci dire da dove viene questa tavoletta? Quando te l’ho chiesto, prima, mi hai detto che non era il momento adatto per parlare di queste cose: forse adesso lo è?»

Lidia fu percorsa da un tremito, mentre la sonnolenza che l’aveva accompagnata fino a quell’istante svaniva in un sol colpo. Con lei, Alexander si era sempre rifiutato di parlare in maniera chiara delle proprie origini, limitandosi a dirle che veniva da lontano. Come per un collegamento di idee, la sua mente corse agli strani libri che aveva visto nella sua capanna nel cuore della foresta, ai piccoli caratteri regolari che non era stata in grado di decifrare, né di collegare ad alcuna lingua a lei nota. Quanto lontano può essere questo luogo? Si chiese. Perché nemmeno Donna Erin ha voluto sbilanciarsi?

Lentamente, l’uomo scosse il capo. «Facciamo una cosa un po’ diversa, invece. Secondo voi, da dove viene? Eh, Lidia?» chiese, lanciando un’occhiata insondabile alla giovane romana. «Secondo te, da dove vengo, io?»

La fanciulla aggrottò la fronte e Ulf sbuffò. «Personalmente non ho nessuna voglia di perdere tempo con questi giochetti: parla chiaro.»

Alexander si passò entrambe le mani tra i capelli e rivolse loro un’occhiata stanca. «Vedete, lo farei anche, se potessi. Il problema è che, con ogni probabilità, non mi credereste affatto.»

«Tu dici?» lo provocò Ulf.

L’altro lo guardò con un mezzo sorriso. «Vogliamo vedere? Che cosa mi direste, se vi dicessi che vengo da lì?» Così dicendo, il giovane puntò un indice verso il soffitto.

Unna, che era rimasta relativamente silenziosa, seguì con lo sguardo il suo dito teso. «Da lì dove?» chiese, con la voce che grondava disprezzo. «Dal sottotetto?»

L’uomo le rivolse un sorriso smagliate. «No: dal cielo.»

I tre giovani seduti accanto a lui rimasero in un silenzio attonito per qualche istante, poi Unna ricambiò il sorriso di Alexander. «Oh, dal cielo» ripeté, con voce melliflua. «Ci prendi per il culo o cosa?»

Per tutta risposta, Alexander si strinse nelle spalle. «Ve l’avevo detto, che non mi avreste creduto!» esclamò, nella voce una nota che pareva quasi di trionfo.

«Eh, per forza!» sbottò ancora Unna. «Se ci dai risposte stupide, come puoi pretendere che ti crediamo?»

Adagiandosi contro lo schienale della sedia, Lidia lo osservò pensierosa. Dal cielo, si ripeté. E io che ero quasi arrivata a credere che venisse dall’Oltretomba… Alexander aveva mentito, quello era assolutamente ovvio, ma la sua menzogna non aveva fatto altro che solleticare ulteriormente la sua curiosità. Che motivo c’era di sfidarli e di provocarli in quel modo? Quale segreto voleva proteggere con quelle bugie così palesi?

Prima che potesse trovare una risposta, la superficie della tavoletta si illuminò e un riquadro rosso prese a pulsare al centro dello schermo. «Che succede?» chiese, mentre il suo cuore accelerava i battiti. «È Donna Erin?»

Alexander assottigliò gli occhi, inclinando di qualche grado il capo per leggere il nome inscritto nel rettangolo scarlatto. «Sì» confermò sommessamente. Sfiorando lo schermo con le dita, l’uomo avvicinò a sé la tavoletta. «Erin? Mi senti?» chiese, parlando come se si stesse rivolgendo all’oggetto posato sul tavolo. «Sono qui con Lidia e Ulf e… la sorella di Ulf.»

Con grande sorpresa della giovane romana, dalla tavoletta giunse la voce della Sacerdotessa: leggermente distorta, ma comunque perfettamente riconoscibile. «Ti sento. Lidia è riuscita a raggiungerti? Ha portato Hermann con sé?»

Avvicinandosi ulteriormente alla tavoletta, Alexander parlò in fretta. «Lidia è arrivata e sta bene. Il ragazzo, invece, è a casa di suo padre. Lo recupereremo tra poco: aspettavo di avere tue notizie, prima di partire.»

«Bene. Hai già avuto qualche contatto con gli altri?» chiese la voce incorporea di Erin.

L’uomo corrugò leggermente la fronte. «Con gli altri? No, non ho parlato con nessuno… fatta eccezione per Albert, naturalmente.»

«Allora ascolta», riprese la donna, con una certa urgenza, «temo di non avere molto tempo a disposizione. Tra poco si accorgeranno che Hermann non è più in infermeria e io voglio evitare di attirare troppi sospetti. Ci sono delle cose che devi sapere.»

Donna Erin fece un breve pausa, come per assicurarsi di avere l’attenzione di Alexander. «Ti ascolto» le assicurò lui. «Ti ascoltiamo tutti.»

«Preferirei che tu fossi solo, ma immagino che sia inutile chiederti di mandare via i ragazzi.» Senza aspettare la replica dell’uomo, la Sacerdotessa riprese a parlare. «Abbiamo ricevuto un messaggio dalla Greyhound. Han arriverà prima del previsto e sarà qui già domani mattina. Il fatto che si stia muovendo così in fretta deve per forza significare qualcosa… probabilmente che ha dei sospetti a proposito di quello che sta facendo Kay, tant’è vero che ha già chiesto di incontrarlo.»

«Han ha su Kay un’autorità solo formale: sa benissimo che non può pretendere di dargli degli ordini. A cosa dovrebbe servire, questo incontro?» ribatté Alexander.

Confusa da quella conversazione di cui riusciva soltanto a intuire il significato, Lidia cercò lo sguardo dei gemelli, ma anche loro parevano quasi smarriti, forse incerti di quale fosse l’effettiva importanza delle informazioni che stavano ricevendo.

«Be’, il fatto che si stia interessando alla faccenda è comunque meglio di niente» fece Donna Erin, rispondendo all’osservazione di Alexander. «Probabilmente lei è l’unica persona abbastanza vicina e abbastanza autorevole per fermarlo… o, per lo meno, per costringerlo a pensare molto bene a quello che sta facendo.»

«Ammesso che abbia interesse a farlo» commentò l’uomo, con un’espressione tetra che a Lidia non piacque nemmeno un po’.

«Ammesso che abbia interesse a farlo» concesse la Sacerdotessa. «Il fatto è che, per quanto ne so io, Kay non le ha mai inviato nessun tipo di rapporto, nemmeno prima di arrivare fisicamente a Erding. Di fatto l’ha scavalcata, sapendo probabilmente che non avrebbe particolarmente apprezzato la sua linea d’azione. Se la conosco, questa cosa non le piacerà affatto.»

«Io temo che, a questo punto, Kay sia intenzionato ad arrivare fino in fondo. Si sta muovendo in un modo che… sinceramente, non vedrei altra spiegazione» riprese Erin, dopo qualche istante di silenzio. «In questi giorni non si è dato pace: sta raccogliendo prove per dimostrare che i disordini che si stanno manifestando in tutta la regione stanno influenzando negativamente la rendita delle miniere.»

«Ma l’impatto è davvero tanto grave?» chiese Alexander.

«Non lo so» fu la replica della Sacerdotessa. «Ma quel ragazzo è sveglio e sa manipolare le informazioni a suo favore. Di certo, se scoppiasse una guerra aperta dovremmo sospendere la raccolta di olivite. Per ora, però, la situazione è ancora sotto controllo. C’è sotto dell’altro, credo. Il problema è che non so di cosa si tratti.»

Anche se aveva l’impressione che Erin stesse parlando in modo volutamente vago per far sì che solo Alexander potesse capire veramente quello che stava dicendo, Lidia sentì qualcosa di estremamente sgradevole stringerle lo stomaco. Ancora una volta, le tornarono alla mente tutte le velate minacce che aveva sentito pronunciare durante il suo soggiorno in Germanica dai due sedicenti Sacerdoti. Che cosa vuol dire che intende arrivare fino in fondo? Si chiese, con un vago senso di nausea. E che cosa c’entra l’olivite? Confusamente, ricordò che Donna Erin le aveva detto, molto tempo prima, che gli Dèi non avrebbero accettato che le offerte si fermassero e che la gente non sacrificasse più l’argento e altri beni preziosi. Tuttavia, non aveva forse recentemente scoperto che gli Dèi non c’entravano niente in quella storia? Niente Dèi, niente punizione divina, no? Eppure, iniziava a intravvedere la possibilità che ci fosse un altro tipo di reazione. Una punizione… o forse una rappresaglia?

«Io…» Alexander esitò. «Io non so cosa dire. Non lo conosco abbastanza bene per indovinare che cosa gli passa per la mente. Non so nemmeno che cosa fare… che cosa vuoi che faccia?»

«Credo che sarebbe il caso di parlare con Han prima che lei parli con Kay. Lo farei io, ma Kay sta rientrando sulla nave e difficilmente riuscirò a intercettare Han prima che arrivi da lui. Quello che posso fare, però, è contattare Ariel – che è di turno sulla Greyhound – e dirle che Albert ha in cura un malato che ha bisogno delle sue attenzioni. Recupera Hermann, portalo alla capanna di Albert e, domani mattina, quando Ariel arriverà per visitarlo, cerca di convincere Han a dedicarti due minuti. Spiegale quello che sta accadendo, riferiscile pure quello che ti ho detto a proposito di Kay… io cercherò di raggiungervi il prima possibile, ma non posso assicurarti che riuscirò a essere da voi già domani mattina: se scappassi dalla nave, Kay penserebbe che ho qualcosa da nascondere.»

Alexander rimase immobile per qualche secondo, poi annuì mestamente. «Va bene. Non sono sicuro che possa servire a qualcosa, ma ci proverò comunque.»

«Perfetto» replicò Erin. «Ora è meglio che vada: ho detto al pilota che mi serviva il suo trasmettitore per archiviare alcuni dati… non posso metterci troppo tempo.»

«Va bene» acconsentì l’uomo. «Se puoi, mettiti in contatto con me anche domani.»

«Farò il possibile» fece la donna. Subito dopo, la tavoletta si fece buia e silenziosa e Alexander alzò lo sguardo, scontrandosi con gli occhi dei tre giovani che sedevano al tavolo con lui.

«Saresti così gentile da spiegarci di cosa stavate parlando, esattamente?» chiese rigidamente Ulf. «Sembrava che steste parlando in codice… cos’è che non volete che noi sappiamo?»

«Tante cose, a dire il vero» replicò cinicamente l’uomo dai capelli rossi. «Ma temo che, ormai, voi siate troppo coinvolti per lasciarvi completamente all’oscuro di quello che sta succedendo… e la cosa è una vera sfortuna, per voi. Se le cose andranno come spera Erin, domani incontrerete il Capitano Han Xinghua: sarà lei stessa a decidere cosa dirvi e cosa non dirvi. Io non me la prendo, questa responsabilità.»

Lidia si mosse nervosamente sul suo sgabello. «E se questa persona decidesse di non dirci niente?»

«Allora vedremo il da farsi» rispose Alexander. «Però è inutile parlarne, per adesso: è tardi, e tu e quella lì sarete sicuramente stanche. Andate a letto: Ulf e io andremo a recuperare Hermann… d’accordo?»

Nel porre quella domanda, Alexander si era rivolto a germanico. Pur con una certa riluttanza, il giovane annuì. «Ve bene. Mi pare di avere inteso che domani arriverà qualcuno che lo può curare?»

«Esatto» confermò l’uomo. «Ariel… be’, la dottoressa Ariel qualcosa. È giovane, ma pare che sia in gamba. O così almeno crede Erin: ha una gran stima di quella ragazza.»

Con un sospiro, Ulf si alzò in piedi. «Perfetto. Allora andiamo: non manca molto all’alba e non sono poi così convinto che mio padre ce lo lascerà portare via senza protestare.»

***

Una porta sbatté e Lidia si svegliò di soprassalto. Non lo avrebbe creduto possibile, vista la tensione che aveva in corpo la notte prima, ma si era addormentata subito dopo aver toccato il cuscino ed era scivolata in un sonno senza sogni.

E adesso è mattina. Ulf e Alexander saranno riusciti a portare qui Hermann? Non ho sentito niente, durante la notte…

Lanciando un’occhiata alla sua sinistra, la fanciulla vide che Unna dormiva ancora profondamente. Sembra stanca, considerò. Che si stia strapazzando troppo, viste le sue condizioni?

Facendo attenzione a non fare rumore, la ragazza gettò indietro le coperte e si alzò dal letto, infilandosi rapidamente gli abiti che aveva indossato la notte prima. Mentre si stava allacciando i lacci del corpetto – azione che non le era affatto famigliare – la porta si socchiuse, facendola sussultare. Quando scorse il volto della domestica che aveva già incontrato la sera precedente, Lidia le rivolse un cenno della mano, indicandole di aspettarla in corridoio.

«Unna dorme ancora» si scusò, quando, pochi istanti dopo, la raggiunse. «Meglio lasciarla riposare un altro po’.»

La donna le rivolse un cenno d’assenso. «Va bene» acconsentì. «Tu, però, devi scendere: il Capitano Han è qui e ha chiesto esplicitamente di te. Vuole parlarti.»

La ragazza sgranò gli occhi, trattenendo a stento un’esclamazione di meraviglia. Vuole parlarmi? Si chiese, sgomenta. Che cosa potrebbe mai volere, da me?

«Adesso?» chiese, sperando in una risposta negativa, che però non venne.

«Sì, subito» confermò infatti la domestica, rivolgendole uno sguardo che alla giovane parve quasi dispiaciuto.

Lidia deglutì. «E va bene» disse, allora, facendo del proprio meglio per mostrarsi impassibile. «Non facciamola aspettare.»

***

Through dangers untold and hardships unnumbered (chi riconosce la citazione?) sono riuscita a postare questo capitolo. Sì, ci ho messo mezzo secolo per una serie di noiosissimi motivi che non starò a elencarvi. E no, non so se posso promettere che il prossimo arriverà a breve, perché il tempo è quello che è (ovvero pochissimissimo).

Però si procede, eh! Lentamente, ma ci stiamo decisamente avvicinando alla fine di questa storia. Li sentite, i cori di giubilo?

 

 

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