All things all at once

di lestylinson
(/viewuser.php?uid=802399)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** It's all coming back ***
Capitolo 2: *** Already gone ***
Capitolo 3: *** Too much to ask ***
Capitolo 4: *** Nearly morning ***
Capitolo 5: *** Send me an Angel ***
Capitolo 6: *** If I could fly ***
Capitolo 7: *** One ***
Capitolo 8: *** When we were young ***



Capitolo 1
*** It's all coming back ***


Louis
 
“Louis? Louis, mi stai ascoltando?”
Solo in quel momento mi riscossi dai miei pensieri. Tenevo lo sguardo fisso sullo schermo del telefono da un paio di minuti ormai, senza riuscire a distoglierlo.
“Scusami, mi sono distratto” feci imbarazzato, “dicevi?”
“Ti ho chiesto quale preferisci. Azzurro o verde smeraldo?”
Rimasi interdetto per qualche istante, poi “verde smeraldo” risposi, senza capire a cosa si stesse riferendo Eleanor. Alzai gli occhi nella sua direzione e la vidi sventolare due pezzi di stoffa colorati, e in quel momento ricordai perché mi trovassi lì: la mia ragazza mi aveva trascinato in quel negozietto per scegliere le bomboniere per il nostro matrimonio. Eravamo lì dentro da più di mezz’ora ormai, ma non eravamo ancora arrivati ad una conclusione, perché per lei era di vitale importanza scegliere il giusto colore dello chiffon che avrebbe avvolto i confetti, per me invece quella era solo una tortura alla quale non potevo sottrarmi. Come se non bastasse poi, da quando avevo letto il messaggio di Niall, mi sentivo avvolto da una profonda agitazione che mi faceva desiderare solo di scappare da lì e di non tornare più indietro.
Improvvisamente la stanza cominciò a vorticarmi intorno, la fronte mi si imperlò di un sottile strato di sudore.
Avevo bisogno di aria, decisamente. Così mi alzai dal divanetto, presi la giacca e mi avviai verso l’uscita del negozio.
“Scusate, ho bisogno... ho bisogno d’aria” dissi sbrigativo, sotto lo sguardo perplesso della commessa e di Eleanor.
Non appena uscii in strada venni investito dal vento freddo di marzo, che si insediò nei miei polmoni e mi permise di riprendere a respirare. Mi accesi una sigaretta ed estrassi il telefono dal cappotto, digitando il numero del mio migliore amico. Liam rispose dopo tre squilli.
Ehi Tommo! Hai già dato di matto?”  ridacchiò dall’altro lato del telefono.
Mi ritrovai a sorridere, quel bastardo mi conosceva fin troppo bene.
Ma il motivo della mia telefonata non era quello che Liam si aspettava.
“Tu sapevi che fosse a Doncaster?” chiesi dunque, con un’urgenza che non mi ero reso conto di avere.
Cosa? Chi?”  
“Harry, Liam. Harry è a Doncaster. Tu lo sapevi?”
“Cosa? No! Aspetta, vi siete incontrati?”
Feci un lungo tiro dalla sigaretta, poi cacciai fuori il fumo con una risata amara.
“No, è stato Niall a dirmelo”.
Una nuvola di fumo si condensò di fronte al mio viso prima che gettassi a terra la sigaretta quasi finita.
Rimasi in attesa per qualche secondo, ma Liam non sembrava voler pronunciare una sola sillaba.
“Payne, che fine ha fatto la tua adorabile parlantina?”
“Scusa è che... Sei sicuro sia realmente a Doncaster?
“Così sembrerebbe” risposi, lapidario, senza sapere realmente cosa dire.
Sospirai silenziosamente, avvertendo uno strano bruciore allo stomaco mentre mi accendevo un’altra sigaretta.
Ancora una volta tutto ciò che ottenni dal mio migliore amico fu un assordante silenzio. Probabilmente tutto quello che avevo dentro in quel momento trasparì dalla mia voce, senza che riuscissi ad impedirlo.
Si farà vivo, Louis. Ne sono sicuro.”
Liam aveva capito. Senza che io dicessi nulla, lui aveva capito.
La notizia del ritorno inaspettato di Harry, dopo quasi quattro anni di silenzi e assenze mi aveva colto impreparato, riportando a galla delusioni e vecchi rancori che mi ero costretto a seppellire in un cassetto troppo piccolo di cui nessuno, a parte me, a parte lui, aveva la chiave.
Da lontano sentii la voce cristallina di Eleanor e il rumore dei suoi tacchi farsi sempre più vicino.
Mi voltai e la vidi camminare velocemente verso di me con un sorriso raggiante sulle labbra.
“Sì certo!” feci sprezzante.
“Adesso devo andare, El è appena arrivata. Ci vediamo domani sera?”
“D’accordo, e mi raccomando non fare tardi come al solito!”.
 
“Ehi tesoro, va tutto bene?”.
Eleanor mi posò un leggero bacio sulle labbra e in quel momento dovetti combattere contro me stesso per non sfuggire a quel contatto.
Mi sforzai di sorridere, sperando di apparire abbastanza convincente e “sì, tutto ok” rispondere, “solo torniamo a casa, oggi è stata una giornata pesante”, dissi con un filo di voce.
Così cominciai a camminare velocemente, con El avvinghiata al mio braccio, fingendo di ascoltare ogni singola parola del suo frivolo discorso, mentre in realtà la mia mente era da tutt’altra parte, ripercorrendo ricordi e sensazioni degli anni passati.
Eleanor continuò a parlare per tutto il tragitto, io continuai ad ignorarla finché non arrivammo a casa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note personali:
Se siete arrivate qui e avete speso qualche minuto per leggere questo primo breve capitolo, vi ringrazio di cuore. Lavoro a questa storia da un bel po', ma non ho mai avuto il coraggio di pubblicarla, fino ad ora.
Spero dunque che queste poche righe vi abbiano incuriosito a tal punto da ritornare la settimana prossima per il prossimo aggiornamento.
A presto,
lestylinson.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Already gone ***


Louis
 
“Forza Tom, marcalo! Levagli la palla! Ti voglio cattivo!”
“Louis non credo che dovresti incitare i tuoi ragazzi ad usare la cattiveria per vincere un’amichevole”.
Mark - il proprietario del campetto - aveva ragione, ma ogni partita che giocavano i miei pulcini era di vitale importanza e soprattutto doveva essere vinta.
Allenavo la squadra junior di Doncaster da tre anni ormai, vedevo gli stessi bambini ogni giorno.
Avevo assistito ai loro fallimenti, avevo ammirato il coraggio con cui si erano rialzati, la caparbietà con cui inseguivano giorno dopo giorno i loro sogni, e quando raggiungevano i loro obbiettivi, quando stringevano tra le loro esili mani piccole vittorie che per loro avevano valore immenso, io non potevo essere che orgoglioso.
I miei bambini rappresentavano tutto quello che io non ero mai stato, tutto quello che non avevo raggiunto.
Ogni loro sconfitta, ogni loro caduta, ogni loro fallimento, erano miei.
Quindi sì, Mark poteva anche avere ragione, perché accanirsi per vincere un’amichevole tra junior non era proprio necessario, ma per me ogni vittoria era un’occasione per sentirmi bene, per stare meglio con me stesso, dicendomi che forse, nonostante tutto, qualcosa nella vita sapevo pur fare.
 
Ero teso come una corda di violino.
Mancavano pochi minuti alla conclusione della partita. Se il punteggio si fosse mantenuto lo  stesso fino alla fine avrei potuto ammirare i sorrisi smaglianti della mia squadra per aver ottenuto una vittoria con un ottimo risultato.
Ero immerso completamente nel gioco, scrutando con perizia i movimenti dei piccoli giocatori in campo, quando il mio telefono prese a squillare.
Snervato da quella interruzione lo afferrai osservando il nome del mittente.
Se possibile l’ansia crebbe a dismisura. Era mia madre, e ultimamente le sue telefonate annunciavano disastri uno dopo l’altro, come una grande valanga inarrestabile che diventando sempre più grande, travolgendo tutto senza curarsi di niente e di nessuno.
Risposi, mio malgrado.
“Mamma, sono al campo. Ti posso richiamare quando finisco?”
“E’ uscito, Lou. Dan è libero...”
Il terrore nella voce di mia madre mi fece rabbrividire, era in preda al panico, e non ci volle molto affinché il panico raggiungesse anche me.
“Cosa? È impossibile, sarebbe dovuto rimanere dentro per anni!”
“Il nostro avvocato ha avuto una soffiata, non so molto.”
“Io non… Tu come stai?”
“Come credi possa stare? Ho paura, Lou. Per te, per le tue sorelle. Per tutti noi.”
"Metti l'acqua a scaldare per una camomilla. Arrivo subito."
Chiusi la chiamata con un gesto automatico e mi imposi di non pensare a quello che mi aveva appena detto. Mentre componevo il numero di Liam, con la coda dell'occhio riuscii a vedere i miei bambini esultare per la vittoria ottenuta.
Avrei festeggiato con loro se la vita vera non fosse venuta a bussare insistentemente alla mia porta, presentandomi un nuovo problema che sarebbe stato l'ennesimo mio fallimento.
"Tommo?"
"Per stasera tutto annullato. Non so come, ma Dan è uscito dalla galera e sono con la merda fin sopra la testa. Ti faccio avere notizie quando saprò qualcosa."
Non attesi risposta.
Cominciai a correre velocemente verso casa e in quel momento, come di rado mi capitava, rimpiansi di non avere avuto più il coraggio di guidare, dopo quel giorno di due anni prima.
 
 
 
Harry
 
Ritornare a Doncaster fu molto più strano di quanto avessi potuto immaginare.
Sull'aereo, mentre ero immerso nei miei pensieri, avevo pensato che una volta sceso a terra avrei respirato un'aria che avrebbe profumato di casa.
In realtà mi sbagliavo, e tanto.
Quando misi piede nella mia città natale dopo quattro anni di assenza, tutto ciò che riuscii a percepire fu disagio, inadeguatezza.
La sensazione di conforto che pensavo di poter provare si rivelò in realtà una deludente stretta attorno all'esofago, sfacciata, fastidiosa, ad impedirmi di respirare liberamente.
Libertà.
Quella meravigliosa sensazione che mi aveva avvolto come una coperta di seta delicata e mi aveva accompagnato nelle mie avventure americane, in quel momento mi sembrò un lontano ricordo.
Un altro di ricordo, invece, si fece più vivido e insistente.
Quello di un giovane me che voleva poter vivere i propri sogni senza ostacoli e impedimenti stupidi, rozzi. Quello che si era guardato intorno e aveva visto in Doncaster tutto quello che non voleva essere.
In quel preciso istante, mentre fuori dall'aeroporto, sommerso dai borsoni, facevo un cenno ad un taxi, mi sembrò di essere tornato esattamente a quattro anni prima, quando avevo il cuore diviso a metà fra la curiosità scoprire un nuovo mondo e l'angoscia di dover lasciare le persone a cui tenevo più nella mia vita.
Specialmente una.
 
 
 
 
L’aeroporto era gremito di gente che correva in tutte le direzioni.
Voci metalliche uscivano dagli altoparlanti, rotelle di valigie stridevano sul pavimento lucido, singhiozzi tristi e risa gioiose riecheggiavano in quello spazio enorme.
Mi guardai attorno smarrito, insicuro, con un’ansia tale da stravolgere lo stomaco e farmi desiderare di entrare nel primo bagno e vomitare tutto.
Non era la tipica ansia dovuta all’adrenalina o all’entusiasmo, no. Era più un timore, la paura che non stessi facendo la cosa giusta.
Era sbagliato inseguire il proprio sogno? No.
E lo era lasciare il mio migliore amico con cui avrei dovuto condividere quell’avventura? Forse.
Per un attimo, quando mesi prima Louis mi aveva detto di non poter venire con me, avevo pensato di lasciar perdere tutto, di accontentarmi di quello che mi avrebbe offerto Londra, anche se non era quello a cui aspiravo. Ma Louis mi aveva dissuaso, mi aveva convinto a non demordere, promettendomi che non appena avesse guadagnato abbastanza e la sua famiglia si fosse ripresa dall’abbandono di Mark, mi avrebbe raggiunto.
Mesi dopo da quella sua promessa mi trovavo dunque lì, una mano stretta alla mia valigia, l’altra stretta a quella di mia madre.
Dietro di noi, mia sorella Gemma e i miei quattro migliori amici.
Mi fermai ad osservarli, espressioni tristi e lacrime mal trattenute. Chissà quando li avrei rivisti.
Louis come al solito cercava di sdrammatizzare, facendo continuamente battute idiote per risollevare il morale di tutti, ma io vedevo come dietro a quella risata troppo fragorosa stesse nascondendo tutte le sue lacrime. Avevamo passato la notte seduti sotto al nostro albero di Londra, io e lui, e non avevamo fatto altro che piangere. Non eravamo pronti a dirci addio, forse non lo saremmo mai stati.
Quando il mio volo venne chiamato, vidi un panico mal celato impadronirsi dei loro occhi.
Mia madre e mia sorella mi abbracciarono velocemente, loro sarebbero venute a trovarmi nel giro di due settimane. Distaccarmi da loro fu comunque doloroso, perché da quella volta le cose sarebbero inevitabilmente cambiate, anche se ci fossimo visti spesso.
Poi fu la volta degli altri quattro.
“Abbraccio di gruppo?” propose Niall.
Tutti annuirono, con sorrisi bagnati, e mi travolsero con abbraccio talmente stretto e caldo, che una volta arrivato in America avrei potuto ancora sentirmelo addosso.
Eravamo un groviglio indistinto di braccia che si aggrappavano tra di loro, stringendo forte, per paura di lasciar andare. Impressi nella mia mente quella sensazione di pienezza che provai , nei momenti più bui ero sicuro mi avrebbe ridato la forza per andare avanti.
Mi sarebbe mancato tutto di loro.
I capelli troppo biondi di Niall, le sue risate frequenti e genuine, il suo ottimismo e la sua inesauribile meraviglia per la vita.
La parlantina di Liam e i suoi strani passi di danza, la sua espressione accigliata quando provava ad essere attraente.
La quiete silenziosa di Zayn, che parlava poco, ma quando lo faceva riusciva sempre a stupire per la sua saggezza.
Gli occhi cristallini e puri di Louis, due zaffiri blu contornati da lunghe ciglia; il suo supporto, la sua comprensione, il suo infinito altruismo, il suo bisogno di proteggermi, sempre, a qualunque costo.
In effetti, mi sarebbe mancato tutto di Louis.
Non perché volessi più bene a lui degli altri, ma perché noi due, insieme, avevamo qualcosa di talmente speciale e intenso, che in nessun modo e con nessun altro avremmo potuto ripeterlo.
Eravamo stati programmati per combaciare alla perfezione, funzionavamo solo se l’uno si incastrava all’altro, proprio come due pezzi di un puzzle, che se provi a combinarli con altri non riusciranno mai ad amalgamarsi e fondersi per creare quella stessa immagine in modo altrettanto impeccabile.
Sentii il cuore dilatarsi a quei pensieri, per poi restringersi immediatamente, schiacciato dalla tristezza, dalla separazione, dalla nostalgia.
Non li avevo ancora salutati ma già sentivo la mancanza. Era troppa, mi sembrava ingestibile. E lo sarebbe stata, talmente tanto che alla fine avrei perso la ragione e avrei commesso l’errore più grande della mia vita. Solo che questo ancora non potevo saperlo.
“Harry, tesoro, devi andare” mi richiamò gentilmente mia madre.
Annuii piano, e lentamente sciolsi l’abbraccio. Provai a parlare, avrei voluto fare un discorso degno di un addio come quello, ma le lacrime mi risalirono in gola, e tutto ciò che potei fare fu scoppiare a piangere.
“Vi voglio bene, sarete sempre con me” dissi soltanto, tra un singhiozzo e l’altro.
Quattro paia d’occhi annacquati mi osservarono intensamente, cercando di trasmettermi il coraggio che ad ogni lacrima sentivo venire meno.
Liam, Niall e Zayn mi diedero un veloce bacio sulle guance umide, senza dire nulla, le parole non sarebbero bastate. Poi si allontanarono un po’, lasciando a me e Louis un attimo tutto per noi, di cui sapevano avessimo bisogno.
Louis si fece avanti piano, un’espressione contrita nello sforzo di non piangere e un sorriso instabile sulle labbra sottili e rosse, mangiucchiate dai suoi denti nervosi.
“Se dovessi incontrare David Beckham ricordati di dirgli che sono un suo grande fan” esordì, strappandomi una risata sincera, la prima della giornata.
Come potevo separarmi da lui, che sapeva sempre come farmi stare bene, senza che nemmeno glielo chiedessi?
“Gli dirò anche che sei un idiota!”
Mi diede uno scappellotto sulla nuca, a mo’ di punizione per averlo appena insultato.
Poi mi guardò fisso e la sua risata si trasformò tutt’a un tratto in un pianto isterico.
Si coprì subito il volto con le mani; non voleva che lo vedessi piangere, non voleva che mi sentissi in colpa perché stavo partendo.
Lo attirai subito in abbraccio che sperai potesse mettere insieme i pezzi, invece mi sembrò che tutto si stesse mescolando caoticamente, potevo sentire i suoi sentimenti dentro di me. Un pezzo del mio cuore si incastrò al suo.
Me lo strinsi addosso, le mani a modellare la sua schiena, a toccarlo finché c’ero, a sentirlo finché potevo.
“Ti prego Lou, ti prego non piangere!” lo supplicai, perché egoista com’ero non potevo sopportare di vederlo così a causa mia.
“Mi dispiace, ma non posso. Come faccio adesso che te ne vai?” mi rivelò, la voce un sussurro spezzato dal pianto, gli occhi un concentrato di smarrimento e frustrazione.
Adesso era il suo turno di crollare, e toccava a me rialzarlo da terra.
Gli afferrai le mani, scostandole dal suo volto, e le avvolsi tra le mie, intrecciando insieme le nostre dita.
“Io non vado da nessuna parte, rimango sempre qui” indicai con i nostri indici il suo cuore, sfiorando con i polpastrelli il suo petto caldo e ansimante per il pianto.
Sospirò, affranto, unendo le nostre fronti, i respiri confusi, il dolore condiviso in quel piccolo scorcio d’aria che ci separava.
“Promettimi  che non ti dimenticherai mai di me.”
Suonò come una preghiera quando me lo disse,  fissando attentamente i miei occhi.
“Non posso, ho una collana proprio sopra i battiti del cuore che mi ricorda dove dovresti essere.”
Accarezzò l’aeroplanino argentato che mi aveva regalato la sera prima, e un sorriso orgoglioso gli illuminò il viso.
“Mi manchi già Haz.”
“Anche tu Lou.”
L’ultima chiamata per il mio volo annunciò che il nostro tempo era finito.
Inspirai profondamente, rassegnato. Posai le labbra sulla punta del suo naso, nel fantasma di un bacio,e le trascinai lentamente fino alla fronte, dove posai uno schiocco bagnato. A quel contatto Louis serrò le palpebre, io invece rimasi a guardarlo, riempiendomi gli occhi di quell’immagine, irripetibile per la sua perfezione.
Mi strizzò forte i fianchi prima di lasciarmi andare.
Quando riaprì gli occhi ero già troppo lontano.
 
 
 
 
I primi tre giorni trascorsi a casa furono sorprendentemente piacevoli.
Nonostante Doncaster, cittadina retriva che pullula di gente bigotta e ficcanaso, non mi andasse più a genio, non potevo dire lo stesso della mia famiglia.
Poter godere delle compagnia genuina di mia madre e mia sorella fu una cosa di cui capii di aver avuto bisogno in quegli anni.
Le loro visite a Los Angeles erano rare e spesso si concretizzavano in incontri sporadici, a causa del mio lavoro. Gli orari assurdi di radiofonico non mi permettevano di passare del tempo quantitativamente sufficiente con loro.
Mi sentivo fuggevole, sempre con qualcosa da fare che sembrava essere più importante di loro.
 E forse Anne e Gemma pensavano realmente che il mio lavoro contasse per me più di loro, più dello stare tutti e tre insieme a raccontarci come procedevano le nostre vite.
Durante le nostre riunioni, distesi nel mio letto gigante a mangiare schifezze, ci dicevamo tutto quello che ci eravamo persi durante quei mesi di forzata separazione.
Loro mi raccontavano di quanto Doncaster non fosse cambiata, di come le loro giornate passassero lente e spesso fossero un po’ tristi a causa della mia assenza.
Io invece raccontavo loro quanto l’America mi cambiasse ogni giorno di più, tra gente di diverse etnie, tra strade caotiche e affascinanti, tra  grattacieli troppo alti o case troppo piccole e diroccate. Quando parlavo con loro cercavo sempre di tirare fuori gli aspetti postivi di quel luogo che mi aveva attirato a sé come una sirena col suo canto.
Dentro di me, invece, tenevo tutto quello che a volte mi faceva crollare: lo stress, l’ansia di dover essere sempre impeccabile, perché gli errori difficilmente venivano perdonati, la pesantezza della solitudine che spesso si presentava davanti alla porta di casa quando ritornavo dopo una lunga giornata di lavoro.
La città degli angeli era tutto quello che avevo sempre sognato.
Era un tripudio di gioia, lusso, sole, indipendenza.
In quella città avevo avuto il coraggio di capire chi ero e di vivere la mia realtà senza bastoni tra le ruote che impedissero la mia corsa sfrenata verso la libertà.
Ma se da un lato lì io ero tutto quello che volevo e potevo essere, dall’altro molto spesso mi sembrava di vivere in una dimensione in cui esistevo solo io.
Il difetto di una città troppo grande, pronta a soddisfare le curiosità e i desideri di ogni suo singolo abitante, è che spesso ti fa sentire solo.
I ritmi frenetici, gli orari da rispettare, la gente che ti passa accanto senza nemmeno vederti, senza accorgersi della tua esistenza, mi facevano sentire invisibile, come se non contassi nulla.
Ma se solo avessi detto tutto questo a mia madre e a mia sorella, la magia sarebbe svanita.
Soffrivano già troppo, anche se non volevano darlo a vedere.
Non avrei mai potuto essere così egoista da confessare loro qualcosa che sarebbe stato un ulteriore motivo di preoccupazione nel sapermi tutto solo lì fuori.
 Quando nelle settimane precedenti le avevo chiamate per avvisarle della mia imminente pausa di sei mesi, prima di impegnarmi in un progetto che mi avrebbe tenuto impegnato a Londra, erano scoppiate a piangere dalla gioia.
L'euforia di recuperare il tempo perso, di creare nuovi ricordi per sopperire al vuoto lasciato dagli ultimi anni.
Ma in quei mesi avrei imparato a mie spese che il tempo perso non si può recuperare, non può essere rivissuto.
È solo perso.
È andato.
L'unico modo per non renderlo vano è andare avanti, cercando di tappare quelle buche che si trovano di fronte al proprio cammino.
Legittimare quello squarcio temporale che è andato via, sfuggito alle nostre mani imbranate e maldestre che non hanno saputo tenerlo stretto, accarezzarlo, cullarlo, apprezzarlo.
E di tempo, in quei tre giorni, ne era passato tanto, forse troppo.
E io dovevo trovare il coraggio di non sprecarne altro, di ritrovare le vecchie amicizie, le stesse che avevo dovuto lasciare dietro di me.
Cominciai così dal comporre il numero del destinatario con il quale sapevo sarebbe stato più facile parlare, riprendere le fila di tempi passati e intrecciarle con quelle del presente.
Rispose subito.
"Dunque il tuo ritorno dalle Americhe non è una leggenda metropolitana!"
"Vedo che le voci corrono."
La voce cristallina di Niall, molto più profonda dall'ultima volta che l'avevo sentita, mi accolse con la solita ilarità che la distingueva da tutte le altre.
"Bentornato nella mitica Doncaster, traditore della patria!"
E da lì fu solo un susseguirsi di risate genuine e conversazioni senza senso, come era sempre stato con lui.
E mentre gli parlavo mi resi conto, grazie anche alla sua sempreverde spensieratezza, che sì, il tempo perso non poteva essere recuperato, ma il passato poteva essere rivissuto e prendere forme diverse, metamorfizzandosi, nel presente, in qualcosa di piacevole e inaspettato.
 
 
 
 
 
 
 
Note personali:
Buona sera a tutti!
Innanzitutto vorrei ringraziare coloro che hanno letto la storia, l’hanno inserita tra le seguite, le ricordate e le preferite. Sono rimasta piacevolmente colpita da questo responso, quindi grazie di cuore, davvero!
Oggi avete avuto un piccolissimo assaggio di uno dei tanti problemi che incasinano la vita di Louis, avete conosciuto un po’ Harry, che è appena ritornato a Doncaster, e avete assistito al loro addio di quattro anni fa.
La prossima volta arriverà il primo incontro tra Harry e Louis.
Come lo immaginate? Sarei curiosa di scoprirlo.
Spero  che questo capitolo vi sia piaciuto e che abbiate voglia di farmi sapere cosa ne pensate.
Vi abbraccio.
A presto,
lestylinson.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Too much to ask ***


Louis
 
"A quanto pare Dan è riuscito a fuggire.
Ha avuto sicuramente un complice, ma della sua identità non si sa ancora nulla.
Per ora questo è tutto.
Si sta indagando pur di avere notizie appurate e il più possibile veritiere.
Vi terremo informati non appena sapremo altro."
 
Queste erano le parole che mi martellavano in testa da più di una settimana, e non importava cosa facessi o in compagnia di chi mi trovassi, non riuscivo a disfarmene.
Avevo provato la teoria del ‘chiodo scaccia chiodo’ immergendomi in qualsiasi attività mi tenesse impegnato fisicamente e mentalmente, dal babysitting con le mie sorelline, al calcio, dalle serate con gli amici al sesso poco appagante con Eleanor.
Ma nulla era riuscito a distrarmi.
Era passata una settimana dalla chiamata di mia madre e dal seguente colloquio con l'avvocato.
Da allora nessuna notizia, nessun segno, nessuna speranza.
Solo una muta e snervante attesa che si declinava in attacchi di panico e sfuriate nevrotiche da parte di mia madre.
Io invece cercavo di rassicurarla, caricandomi sulle spalle l’ennesimo macigno troppo pesante da reggere per il mio corpo esile.
Quel giorno camminavo diretto a casa di Liam con un malloppo di scartoffie tra le mani.
Era al quinto anno di Giurisprudenza e tirocinante del nostro avvocato, perciò si era proposto di leggere quei documenti insieme a me.
Mia madre mi aveva chiesto di aiutarla, e io –come sempre- avevo accettato senza esitazione.
Non mi aveva detto cosa ci fosse scritto in quei fogli che pesavano come mattoni, e io, codardo com’ero, non ero riuscito a dar loro un’occhiata da solo.
Avevo bisogno di supporto, di qualcuno che rendesse quella situazione di merda meno di merda.
E Liam era la persona che mi avrebbe tirato fuori da quel pantano, di nuovo.
Arrivai da lui nel giro di dieci minuti. Aprii la porta con le chiavi che mi aveva dato anni prima ed entrai in casa, annunciandomi con la solita eleganza che mi apparteneva.
"Bastardo di un Payne! Se non mi aiuti con questa robaccia giuro che manderò a puttane il giorno della tua laurea!"
“Spiegami perché sono ancora tuo amico!”
Lo trovai in cucina, già pronto a stapparmi una birra.
“Perché sono bello, intelligente e con uno spiccato senso dell’umorismo” scherzai, mentre mi accomodavo sul solito sgabello.
“Quello che ti ostini a definire umorismo è solo puro sarcasmo.”
“Umorismo, sarcasmo, chiamalo come vuoi. In ogni caso non riesci a vivere senza di me, quindi…”
Lo vidi alzare gli occhi al cielo mentre cercava di nascondere un sorriso.
“Invece di continuare a tessere le tue lodi faresti meglio a prendere i documenti mentre io finisco di pulire.”
Solo in quel momento mi resi conto del casino sopra il tavolo: bottiglie di birra, patatine, piattini, anche un vecchio album di foto.
“Hai avuto ospiti, piccola casalinga?”
“In realtà sì. È venuto a trovarmi Harry.”
Mi strozzai con un sorso di birra non appena sentii quelle parole.
“Mi prendi per il culo?”
“Assolutamente no. È passato oggi pomeriggio ed è andato via due minuti prima che arrivassi tu.”
Inspirai profondamente e mi sembrò di sentire nell'aria l'aroma dolce del profumo di Harry, lo stesso di quattro anni prima. Sentii crescere in me qualcosa, ma non sapevo se fosse rabbia o delusione.
Sapevo soltanto che Harry era stato lì e che se l’era data a gambe levate prima che arrivassi.
Non voleva incontrarmi, non voleva vedermi, forse non gli importava nemmeno, e sebbene ne fossi consapevole sin da quando Liam e Niall mi avevano detto di aver ricevuto una sua chiamata, adesso mi sembrava di averne la conferma.
“Certo, non sia mai che mi incontri per sbaglio.”
“Lou, ascolta…”
“No”, lo interruppi bruscamente, “lascia stare, non mi devi nessuna spiegazione. Lui è uscito dalla mia vita, non dalla tua o da quella di Niall, quindi se vi incontrate per una birra lo capisco. Voi siete ancora amici d’altronde."
"La situazione non è come pensi."
"Liam, davvero. Non ha importanza ormai."
"Lui ci tiene ancora a te."
“Oh, davvero? Non è che si stia impegnando così tanto per dimostrarmelo” dissi sarcastico, forzando un sorriso volutamente finto, “senti, non sono qui per parlare di Harry. Possiamo guardare questi documenti?”
Cercai di troncare la discussione, ma Liam sembrava ostinato a portarla avanti contro ogni mia volontà.
“Lou, ci sono cose che non sai. Non è facile per lui.”
“E per me lo è invece? Cazzo, no! Secondo te per me è stato facile digerire il fatto che abbia chiamato voi e non me? Non pretendo che facesse chissà cosa, mi sarebbe bastata un telefonata, una sola! Chiedo troppo, Liam?”
Lo guardavo con il fuoco negli occhi e lui, in difficoltà per la mia reazione, abbassò gli occhi e preferì tacere.
Ma io non avrei accettato il silenzio.
“Chiedo troppo?” ripetei, sbattendo un pugno sul tavolo e richiamando la sua attenzione.
"Dovresti dargli una possibilità" disse alla fine, in un mormorio timoroso.
"Una possibilità? Adesso sono io il cattivo? Se davvero avesse voluto incontrarmi o anche solo parlarmi, allora perché non ha chiamato anche me?”
“È questo il problema, Louis! Tu pensi che in tutta questa storia ci sia una vittima e un carnefice, ma non è così! A differenza di quanto pensi, non sei l’unico ferito qui.”
“Ferito? Ti prego Liam, sei più intelligente di così! Non farti abbindolare dalle sue stronzate.”
“Anche tu sei più intelligente di così! Pensi veramente che a Harry non importi nulla di te?”
“Io non penso proprio niente, Payne. Sono i fatti che lo dimostrano.”
“Tu vedi solo quello che ti conviene, Louis, perché se solo guardassi oltre scopriresti che c’è molto di più dietro a quello che appare. Il problema però è che non vuoi farlo, perché se venissi a sapere che le convinzioni con cui hai vissuto negli ultimi quattro anni sono solo frutto della tua fantasia, crolleresti, e poi vivresti nel rimorso.”
Quelle parole mi colpirono come una schiaffo in pieno viso, e fecero male, soprattutto perché, dentro di me, sapevo quanto fossero vere.
“È vero. Crollerei, vivrei nel rimorso, ma se proteggere me stesso significa essere uno stronzo senza cuore, allora sì, sono uno stronzo senza cuore! Ma mi ci pulisco il culo con i suoi sensi di colpa!”
Mi alzai di scatto dalla sedia e mi diressi a passo spedito verso il salotto.
“E adesso dove vai?”
“Via!”
“E i documenti?”
“Che si fottano anche loro!”
Mi chiusi il portone alle spalle con un tonfo secco, ignorando Liam che continuava a chiamarmi dalla finestra. Non riuscivo a credere che avesse difeso Harry dopo tutto quello che avevo passato per colpa sua. Liam mi aveva visto stare male, digiunare e rimanere rintanato nella mia stanzetta per settimane per colpa di Harry, eppure adesso aveva il coraggio di accusarmi. Ma d’altronde non potevo fargliene una colpa, Liam non era stato ferito dal suo migliore amico, quindi per lui era facile dimenticare e perdonare.
Il problema era che io non potevo farlo.
Come facevo a dimenticare tutto il dolore, la sensazione di sentirsi abbandonato per l'ennesima volta, le notti passate in bianco a piangere, a pensare a lui? Potevo andare avanti se tutt'ora, ogni sera, prima di andare a letto, mi appariva davanti agli occhi il suo viso mentre mi diceva di voler andare avanti senza di me? Quasi come se fossi destinato a ripercorrere nella mia mente quel momento che mi aveva distrutto definitivamente.
Ma soprattutto, potevo perdonarlo per avermi lasciato da solo, quando nessun altro c'era? Per avermi dimenticato subito, una volta arrivato in America, come se non contassi nulla?
No, non potevo.
Forse sarebbe stato più facile perché avrei finalmente vissuto con un peso in meno sul petto, ma non ci riuscivo. La delusione era stata talmente grande che semplicemente mi era impossibile lasciarmi tutto alle spalle e comportarmi come se non mi importasse di ciò che era successo, come invece aveva fatto Harry. Lui con una videochiamata aveva cancellato cinque anni come fossero gesso sbiadito su una lavagna sporca. Una frase e noi due non eravamo più niente, tutto quello che ci aveva legato fino a quel momento era svanito, sfumato nel nulla.
Da quel momento la mia ombra era rimasta sola, per la prima volta, senza di lui.
Avevo aspettato per anni di vederlo entrare in un pub, al campetto, in casa mia, ovunque, in qualsiasi momento, bastava che lo facesse, perché mi rifiutavo di credere che fosse scomparso per sempre dalla mia vita.
Per tutto quel tempo avevo vissuto con la speranza ingenua e stupida che sarebbe tornato.
E adesso che era lì, che era tornato veramente, continuava a commettere errori su errori, ed io,  mio malgrado, continuavo inconsapevolmente ad aspettarlo, ancora.
Eppure non aveva fatto nessun passo verso di me, nessuna telefonata, nessun messaggio.
Nulla.
Questo non faceva che spingermi ancora più lontano da lui, a farmi domandare se non sentisse mai la mia mancanza, se non gli fosse capitato a volte di pensarmi, da quattro anni a questa parte, oppure se avesse rimosso totalmente il mio ricordo.
Se solo avesse fatto un passo verso di me, forse sarei riuscito a perdonarlo.
Ma non lo avevo fatto, e questo mi portava a credere che non si fosse pentito di ciò che aveva fatto.
Che ci aveva fatto.
Avrei voluto domandarglielo: non ci sono cose che rimpiangi?, perché ad essere onesto non riuscivo a togliermi dalla testa il pensiero di lui, e non riuscivo a credere che per lui non fosse lo stesso.
Queste riflessioni caotiche e sconnesse mi incasinavano così tanto la testa da così tanti anni, che molte volte ero arrivato a pensare di odiarlo.
Perché forse, se non avesse separato a forza le nostre vite, costringendomi a lasciarlo andare, sarei riuscito a trovare soldi e coraggio per raggiungerlo in America, per affrontare insieme quelle avventure tanto desiderate come ci eravamo promessi.
Non riuscivo a non pensare che se mi trovavo intrappolato in una vita che non volevo, la colpa fosse anche un po’ sua, che inconsapevolmente, con quella videochiamata, mi aveva tolto l’audacia di diventare chi volevo. Quindi alla fine ero rimasto qui, a vivere una vita non mia, ad occuparmi di responsabilità non mie, a preoccuparmi della serenità altrui, mentre io cadevo malato e fingevo di essere un Louis che in realtà non ero.
Ma poi, quando la calma arrivava anche per me, mi rendevo conto che quello credevo fosse odio per lui, non era altro che l’odio riflesso che provavo per me. Troppo codardo per ammettere quello che sapevo da sempre, logorato dal rimorso di non aver detto tutto quando ero ancora in tempo, quando le cose potevano ancora funzionare.
Ormai era troppo tardi, potevo solo trascinarmi dietro quel rammarico come una zavorra pesante che rallentava la mia corsa verso il futuro.
E più andavo avanti più la matassa si ingarbugliava, e più diventata difficile tornare indietro.
Scelte sbagliate su scelte sbagliate, complicazioni su complicazioni, bugie su bugie, e così via all’infinito.
Le cose erano cambiate e dovevo accettarle per quelle che erano.
Questo mi rendeva un vigliacco? Assolutamente sì.
Ma mi ero stancato di soffrire e di farmi domande, le risposte mi facevano troppa paura, quindi preferivo nasconderle sotto montagne di sabbia.
E’ quel che è.
Questo fin’ora mi era bastato.
Presto però le cose sarebbero cambiate.
Tutt’a un tratto un fulmine squarciò il cielo, fino a poco prima sereno.
Tenevo il capo chino, il cappuccio alzato e lo sguardo fisso sulle punte delle Vans bucate.
Mi soffermai a guardare la pioggia: mi sembrò che il cielo stesse buttando giù tutte le lacrime che mi trattenevo dal piangere da un tempo infinito.
Immerso com’ero nei miei vaneggianti furori, non mi accorsi della macchina che uscì improvvisamente dal vicolo che stavo per imboccare. Sentii il rumore fastidioso delle gomme che stridevano sull’asfalto bagnato, il paraurti si scontrò contro la mia coscia e l'attimo dopo mi ritrovai per terra, sommerso fino alle ginocchia da una pozzanghera fangosa.
I ricordi, sempre più vividi, cominciarono a farsi spazio nella memoria, confondendomi, facendomi credere di essere tornato indietro di due anni.
Flash sconnessi mi invasero la mente: il paraurti della macchina in frantumi, il dolore lancinante, il sangue, quello sguardo carico d'odio, mia madre e le mie sorelle in lacrime, la polizia, l'ambulanza, e poi l'agonia e l'ansia dei giorni seguenti.
La vista cominciò ad appannarsi, ogni senso sembrava affievolirsi, i suoni erano confusi e lontani, e improvvisamente io ero di nuovo il Louis ventunenne impaurito e imprudente.
Per un attimo tutto divenne nero e silenzioso, poi vidi solo verde.
Un colore che sulla soglia della mia porta nera, piena di dolore, significava solo una cosa: speranza.
 
 
 
 
 
Harry
 
“Non lo hai ancora chiamato, vero?”
Nei giorni precedenti ci avevo provato, ma qualcosa dentro di me mi aveva impedito di farlo.
E non sapevo distinguere se fosse semplice ansia, timore  di essere respinto o pura codardia, ma non ci ero riuscito.
Con Niall e con Liam era stato semplice e piacevole, e la paura che con Louis non sarebbe stato così mi aveva spinto ad aspettare ancora e a prendere tempo.
Io che al tempo davo un'importanza che raramente davo alle altre cose, ché per me il tempo non era nulla di scontato o dovuto.
Eppure con Louis mi ritrovavo sempre ad aspettare inevitabilmente che scorresse, come un pendolo che oscilla e non si ferma.
Per questo avevo accettato l'invito di Liam.
Lui avrebbe saputo darmi la gentile spinta che mi serviva per prendere il telefono e chiamare quello che era stato il mio migliore amico fino a pochi anni prima e che, nonostante tutto, dentro il mio cuore lo era ancora.
“No.”
Ammisi sospirando. Liam mi rivolse un'occhiata di rimprovero.
“Non mi guardare così! Ci ho provato, ma è troppo difficile.”
“Non è difficile, devi solo selezionare il numero di Louis sulla rubrica, premere il tasto verde e la chiamata parte sola.”
“Sei un coglione!”
Liam scoppiò a ridere, divertito probabilmente dal finto broncio che avevo messo su, ma dopo sembrò ricomporsi perché la sua espressione divenne improvvisamente seria.
“Harry, Louis sta aspettando questa chiamata.”
“Te l'ha detto lui?”
“No, ma ho visto la sua faccia quando io e Niall gli abbiamo detto di aver parlato con te, e fidati, le parole non servivano.”
“E...Com'era? La sua faccia intendo.”
Riuscivo già a pregustare il sapore amaro che avrebbe avuto la sua risposta.
“Secondo te? Sembrava gli fosse passato addosso un treno. Era deluso, Harry. Anche se finge indifferenza è ovvio che ci sia rimasto male.”
Avrei preferito non ascoltare quelle parole, erano la conferma di quanto fossi nocivo per Louis.
Possibile che non facevo mai la cosa giusta quando si trattava di lui? L'avevo ferito, di nuovo, l'avevo deluso, e per l'ennesima volta lo stavo lasciando sul filo sottile e instabile dell’attesa.
Un'attesa vana probabilmente, perché non avevo idea di quando avrei trovato il coraggio per chiamarlo.
“Come fai ad esserne sicuro?”
“Perché Louis ti vuole bene nella maniera più pura in cui si può voler bene ad una persona, Harry. E non c’è bisogno che me lo dica lui, lo so e basta. Lui ci tiene ancora a te, non ha mai smesso di farlo.”
“E se non fosse così, se invece lui mi odiasse?”
Ed era proprio questa la mia paura più grande, quella che mi aveva impedito di comporre il suo numero e ascoltare la sua voce: scoprire che Louis mi odiasse, o peggio, che si fosse  dimenticato di me, che per lui io non rappresentassi più nulla.
Ma soprattutto: sarei riuscito a sopportare l’idea che tra me e lui fosse finito tutto, per sempre?
“Proprio non ci arrivi, eh? Secondo te perché l’argomento ‘Harry’ è praticamente diventato un tabù da quando sei uscito dalla sua vita? Perché  quando sente il tuo nome si irrigidisce sul posto? Perché per Louis tu sei ancora una ferita aperta! Quando le persone riescono a parlare di cose che in passato le hanno ferite significa che finalmente le hanno superate. Louis invece non ha superato un bel niente.
E non c'entra  il suo carattere di merda o il rancore o la rabbia, Louis non riesce ad andare avanti perché ti vuole fin troppo bene, e si maledice perché non è in grado di odiarti.
Se lo facesse, se ti odiasse, per lui sarebbe tutto più facile adesso, credimi.”
Non seppi cosa rispondere a quelle parole. Troppe informazioni tutte insieme per me che forse non ero ancora pronto.
Così optai per dire la verità, semplice e spontanea.
“Ho solo paura di scoprire quanto le cose tra me e lui siano cambiate per colpa mia, Li.”
Mi rivolse un sorriso incoraggiante, avvolgendo con la sua morbida mano la mia.
“Io invece credo che ti sorprenderà scoprire quanto in realtà tra voi due non sia cambiato nulla.”
 
Ero talmente concentrato a ripercorrere con la mente la conversazione avuta poco prima con Liam da non accorgermi che qualcuno avevo appena imboccato la stradina stretta da cui stavo uscendo.
Frenai di botto, ma la macchina slittò sul bagnato, arrivando a toccare il ragazzo davanti a me che cadde subito a terra.
“Cazzo!”
Scesi immediatamente dalla macchina, sentendo la pioggia scrosciarmi addosso mentre in preda al panico mi avvicinavo a lui.
“Mio Dio, stai bene?”
Solo quando mi inginocchiai accanto a lui mi resi conto di chi fosse.
Il cuore mi schizzò in gola cominciando a battere all’impazzata, privandomi dell’aria nei polmoni.
“Louis?” sospirai incredulo.
Alzò di scatto la testa nella mia direzione e quando mi vide il suo sguardo venne attraversato da qualcosa che in quel momento non seppi decifrare.
Paura?
Stupore?
Sollievo?
Non lo sapevo.
Vedevo solo i suoi occhi incredibilmente azzurri fissarmi sbigottiti tra un battito frenetico di ciglia e l'altro, quasi come a voler nascondere dietro alle palpebre qualcosa che altrimenti sarebbe stato troppo evidente.
Quel momentaneo smarrimento durò poco però, perché l'attimo dopo Louis indossò una maschera di strafottenza che conoscevo fin troppo bene e che usava quando sentiva il bisogno di proteggersi.
Se si stesse proteggendo da me o da se stesso però, in quel momento rimase un mistero.
“Potresti guardare la strada quando guidi? Sai com’è, rischi di uccidere la gente.”
Feci un passo indietro senza neanche accorgermene, un gesto riflesso di quelle parole, perché nonostante sapessi che mi avrebbe riservato saccenza e indifferenza, non riuscii ad impedirmi di rimanere deluso dal tono sprezzante che mi rivolse.
Non mi aspettavo di certo un “ben tornato” o un abbraccio, ma avevo sperato almeno in un saluto accogliente.
Louis, invece, non pronunciò nemmeno il mio nome.
“Mi dispiace, sul serio. Ti sei fatto male?”
Si portò una mano tremante allo zigomo mentre faceva un movimento impercettibile con il ginocchio sinistro, poi annuì piano e si alzò da terra.
“No, è tutto a posto.”
Mi disse lapidario, poi si girò, infilando le mani nelle tasche, forse per nascondere il loro eccessivo tremore, che io invece notai, e cominciò a camminare nella direzione opposta alla mia.
Prima che potesse allontanarsi troppo lo afferrai dal polso, facendolo voltare.
“Aspetta, ti prego.”
Mi rivolse uno sguardo infuocato, osservando con sdegno la mia mano su di lui, facendomi capire perfettamente che non avevo il permesso di toccarlo a quel modo, non più.
Ritirai la mano, ferito dall’evidenza di quanto tutto fosse cambiato.
Prima toccarsi per noi era quasi un’esigenza, adesso invece sfiorare la sua pelle mi sembrò qualcosa di cui non avevo il diritto.
Mai prima d’ora, con lui, mi sentii così sbagliato.
“Che c’è?”
“Sei sicuro di non esserti fatto nulla? Posso portarti al pronto soccorso se vuoi.”
Con un strattone liberò il suo braccio dalla mia presa e si allontanò di appena due passi.
“Te l’ho già detto, è tutto a posto.”
Il suo messaggio era chiaro: stava tracciando i confini oltre i quali non mi era concesso andare, limitando ed evitando qualsiasi mio gesto troppo confidenziale.
Tutto in lui gridava “stammi lontano”: le mani che tremavano, il corpo rigido, gli occhi azzurri come il ghiaccio. Era come se volesse scappare da lì il più presto possibile, e nonostante si stesse mostrando aggressivo mi sembrava impaurito, spiazzato, vulnerabile.
Non sapevo che fare, come comportarmi, mi sentivo intrappolato in una gabbia in cui ero costretto a rimanere, così decisi di ignorare deliberatamente ogni suo segnale, e osai, fregandomene delle conseguenze.
“Allora lascia che ti offra un tè, per farmi perdonare. Ti ho praticamente quasi investito.”
Gli rivolsi un sorriso teso, ma ciò che ricevetti in cambio fu il suo gelido sguardo nauseato.
Mi vennero in mente le parole che Liam mi disse quello stesso pomeriggio, ‘Louis non ti odia, Harry’, e non potei fare a meno che farmi sfuggire un sorriso amaro.
Io e Payne avremmo dovuto parlare, decisamente.
“Louis, ti prego.”
Rimase ad osservarmi in silenzio per secondi che parvero ore, un cipiglio sulla fronte come se dalla risposta che mi avrebbe dato sarebbe dipesa l’incolumità dell'intero universo.
Nei suoi occhi riuscivo a leggere una battaglia interiore che cessò quando uno dei due combattenti si arrese.
Sospirò pesantemente, poi, finalmente, mi rispose.
“D’accordo.”
E in quel momento ‘d’accordo’ mi parve la parola più bella mai pronunciata.
 
 
 
 
 
 
 
Note personali:
Buona sera ragazze, bentornate! Spero che questa settimana, ormai quasi giunta al termine, sia andata bene.
In questo capitolo entriamo meglio nella testa di Harry e Louis, che espongono dubbi e paure riguardo al loro rapporto ormai totalmente incrinato. Spero di aver dato un chiaro disegno dei loro pensieri, che verranno maggiormente approfonditi successivamente. Importante è stata anche la figura di Liam: sa perfettamente quanto Louis abbia sofferto a causa di Harry, ma sa anche che non è abbastanza lucido per poter interpretare gli atteggiamenti di Harry. Allo stesso modo fa ragionare quest’ultimo, cercando di fargli capire quanto Louis ancora tenga a lui, e quanto si aspetti un gesto da parte sua.
E finalmente dopo quattro anni, anche se in maniera - è il caso di dirlo – incidentata, i Larry riescono ad incontrarsi. Lo so, ho sospeso la narrazione proprio sul momento probabilmente più atteso (così mi auguro perlomeno), ma spero di poter aggiornare in pochi giorni, così che possiate gustarvi il seguito del loro incontro.
Spero abbiate apprezzato il capitolo, e che più in generale la storia vi stia piacendo. Mi piacerebbe davvero sapere cosa ne pensate, se vi sentite incuriosite. Sarei davvero felice di leggere le vostre impressioni.
Vi auguro una buona serata, a presto!
Un abbraccio,
lestylinson.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Nearly morning ***


Louis
 
Non appena varcammo la soglia di Yorkshire Grey, il locale dove ero solito consumare i miei pranzi economici il sabato, mi sentii avvolgere da un tepore confortante e familiare.
Io e Harry avevamo camminato in silenzio sotto la pioggia per minuti resi interminabili dal freddo.
I capelli e i vestiti completamente fradici.
Intirizzite le nostre anime.
Ci sedemmo uno davanti all'altro, ancora accompagnati da un silenzio imbarazzante.
Quel silenzio che precede ogni tempesta e dilata il tempo, lasciandoti sulla soglia dell’ansia tra la stasi di adesso e il caos del dopo.
Silenzio che, per fortuna, venne spezzato da una cameriera che ci venne incontro.
“Siete pronti per ordinare?”
“Sì. Per me una cioccolata calda, grazie.”
Harry le rivolse un sorriso cordiale che la ragazza non esitò a ricambiare con particolare coinvolgimento.
Sentii pizzicare la punta delle dita per l’interesse, per me eccessivo, che quella ragazzetta stava dedicando ad Harry.
Mi portai le mani in grembo e le strinsi tra di loro, cominciando a grattare in un gesto nevrotico l’unghia del pollice con quella dell’indice, sperando di grattare via i segnali di qualcosa di talmente evidente che volevo – anzi no, dovevo nascondere.
Innanzitutto a me stesso.
“Io prendo un tè.”
Sentii l’urgenza di intromettermi, insensata e prepotente, per interrompere l’idillio della cameriera, e lei, a malincuore, distolse lo sguardo da Harry per rivolgerlo a me.
“Lo preferisce con limone, cannella o…”
“Lui lo prende con un cucchiaio di latte parzialmente scremato.”
I miei occhi schizzarono dalla cameriera a Harry che abbassò immediatamente lo sguardo con aria colpevole, come se si vergognasse per non essere riuscito a trattenersi dal rispondere al posto mio.
Una frase eco di vecchie abitudini che erano andate perse.
Una frase paradigma di quanto ancora mi conoscesse, di quanto bene mi ricordasse.
Mi mossi agitato sulla sedia, lasciando che quelle parole si espandessero dentro di me facendo nascere una guerra di ossimori testardi.
Nostalgia.
Rabbia.
Affetto.
Dolore.
Ma anche stupore e lusinga, perché forse ancora qualcosa di me gli era rimasta dentro.
Quella frase rappresentò uno spiraglio di luce sotto la porta di una stanza che credevo fosse disabitata.
Approfittai del suo sguardo basso per osservarlo, per vederlo davvero.
Fu come trovarsi davanti ad un ologramma, come se non fosse davvero davanti a me.
Come se il ricordo e la mancanza che sentivo per lui, si fossero amplificati talmente tanto negli ultimi anni, da riuscire a renderlo reale, a disegnarne le fattezze nell’aria, riempiendola di lui e della sua essenza.
Mi sembrava di vedere una proiezione tangibile di quella che negli ultimi anni era stata una fantasia astratta e impalpabile.
E risi, amaramente, per l’ironia befferda in cui era precipitata la mia vita.
Ché per me, se c’era una cosa che aveva sempre rappresentato Harry, era la parte più consistente e vera della vita, era ciò che mi connetteva al mondo nel modo più concreto, fisico, empirico che avessi mai sperimentato. Tutto con lui assumeva consistenza e valore, con lui accanto potevo percepire la caratura del mondo sul palmo delle mie mani.
Adesso invece era tutto sfocato, indistinguibile, vago.
I colori avevano perso intensità ed intenzione, tutto ciò che mi circondava era fioco e privo di dimensione.
Vivevo in una bolla di nebbia, nessuna luce attorno a schiarirmi la vista.
Harry stesso aveva la consistenza di quella nebbia in cui vivevo e che mi soffocava, mi appariva come un fantasma, qualcosa che non potevo raggiungere, distante anni luce da me.
Come lo è la meta di arrivo per un corridore, l’ossigeno per chi sta in apnea, la luce del sole per chi ormai vive solo al buio.
Agognavo la sua vita di nuovo nella mia, bramavo per poterlo riavere, ma non potevo.
La mia vita era tutta giocata sul vorrei ma non posso, o peggio ancora, potrei ma non voglio.
E quel non voglio e non posso dipendevano tutti dalla mancanza di coraggio e dall’incapacità di scegliere, dettate a loro volta dalla paura di compiere l’ennesimo sbaglio.
E la cosa che più mi logorava era che non sapevo se non potessi riaverlo perché lui non voleva concedersi più a me, perché mi aveva accantonato in un angolo di vita come qualcosa dimenticato in una cantina troppo polverosa per distinguerne gli oggetti e riconoscerne il valore, oppure perché io stesso mi allontanavo da lui per colpa del mio continuo costruire muri spessi che ci dividevano.
Lo guardai.
E guardandolo mi sembrò di vedere due Harry diversi ibridati nell'essenza di una sola persona.
Il mio Harry, quello che conoscevo a memoria, che capivo meglio di quanto capissi me stesso, e quello nuovo, quello che prendeva decisioni che non sapevo più decifrare, in cui improvvisamente avevo smesso di riconoscermi e riconoscerlo.
Vidi un Harry diverso, nuovo, più bello di come lo ricordavo.
Il suo viso angelico, più maturo nei lineamenti, era il viso di un uomo, non più quello del ragazzino di quattro anni prima.
I capelli, ancora gocciolanti per la pioggia, erano cresciuti a dismisura, arrivando a ricoprire abbondantemente le spalle, ora più larghe.
Le sue braccia erano più forti, i suoi fianchi più asciutti.
La pelle non era più candida come la ricordavo, raccontava una storia adesso.
Ogni parte del corpo lasciata scoperta era una pagina sbiadita su cui erano incisi segni indelebili, codici da decifrare, che tracciavano i confini di una nuova vita – di cui non facevo più parte- vissuta lontano da qui, lontano da me.
Le sue labbra erano sempre piene, rosse, ma continuavano a tremare, quasi fossero nel tentativo di contenere un fiume di parole.
Tutto di lui sprigionava sicurezza e consapevolezza di sé.
E non solo perché adesso indossava una camicia trasparente e dei pantaloni incredibilmente stretti, o perché i suoi capelli fossero molto più lunghi di quanto sia solito portarli un uomo.
No, Harry era diverso perché in lui non c’era più traccia del ragazzino impacciato e insicuro che era cresciuto con me, adesso sorrideva alle cameriere, camminava per strada con una sicurezza che non gli avevo mai visto addosso, quasi compiacendosi degli sguardi che attirava.
Quando rialzò il viso nella mia direzione, puntando i suoi occhi nei miei, mi resi conto che una cosa in lui non era cambiata affatto: l’intensità e la purezza dello sguardo.
Prima, lì fuori, quando avevo creduto che i demoni del passato mi fossero tornati a prendermi, i suoi occhi verdi mi avevano riportato alla realtà, scacciando ogni paura e ogni ricordo con la loro luce.
Per quegli stessi occhi avevo ceduto e avevo accettato di venire qui.
Perché erano privi delle impurità di cui è pieno il mondo, perché dentro, tra una sfumatura di verde e l’altra, si può solo vedere la disarmante autenticità della sua anima.
E io lo avevo letto, il senso di colpa che provava per avermi quasi investito, l'impellente bisogno di farsi perdonare per quello e forse anche per tanto altro, e tutto era intrecciato ad una solida speranza che sul momento, improvviso e spiazzante, non riuscii a deludere.
O forse, avevo accettato semplicemente perché da quando avevo incontrato il suo sguardo, il mio passato tormentato, quello che lui non aveva potuto conoscere, sembrava soltanto un vago ricordo.
Quando quei due fari verdi si erano posati, sorpresi, su di me, ero riuscito a scorgere il retrogusto agrodolce del passato che vi si celava dietro e che impaurito rimaneva nascosto.
Vidi il vecchio Harry, quello spensierato e infinitamente dolce.
Vidi quello che era stato il mio migliore amico e il mio compagno di avventure per molti anni.
Vidi passato e presente fondersi insieme a creare sfumature diverse nei suoi occhi, ora forse di un colore più intenso, vibrante.
E la consapevolezza che passato e presente non potessero essere conciliabili mi lasciò dentro qualcosa a cui non seppi dare un nome.
 
Senza neanche rendermene conto mi ritrovai sotto al naso la tazza di tè che avevo ordinato poco prima.
Distolsi il mio sguardo, ancora stordito, dal suo, e mi inebriai dell'odore della mia bevanda preferita, godendomi il vapore che sprigionava.
Presi un lungo sorso sentendo il liquido riscaldarmi tutto il corpo.
“Come stai, Louis?”
Nel tentativo di attirare la mia attenzione avvicinò la sua mano alla mia poggiata sul tavolo.
Io, istintivamente e inevitabilmente, la ritrassi, e vigliacco com’ero, non ebbi il coraggio di guardarlo e scoprire quale fosse la sua reazione.
Potevo immaginarla perfettamente però, quello già mi bastava per sentire di nuovo il fuoco risalirmi le viscere.
Il fuoco della rabbia. Della mia testardaggine. Della sua insicurezza.
Del suo provarci, del mio respingerlo.
“Non c’è male.”
Presi un altro sorso di tè e vidi oltre la tazza il suo viso tendersi e poi spezzarsi per la delusione.
Tendersi, per il modo brusco in cui gli avevo negato un contatto.
Spezzarsi, per l’inflessione che aveva preso la mia voce, che senza riuscire ad evitarlo, avevo riempito di ciò che all’esterno appariva come disprezzo e noncuranza, ma in realtà era solo il suono prodotto dalle barriere che con fatica continuavo a costruire per proteggermi.
Ma si sa, nella vita non tutto si rivela per ciò che realmente è.
Per questo non ricambiai la domanda.
 Non perché non mi interessasse, ma perché non ero pronto a sentirgli raccontare di come la sua vita fosse perfetta e felice a Los Angeles, senza di me.
Di come lui stesse bene, senza di me.
Diede un colpo di tosse , imbarazzato, e riprese a parlare.
“Ho visto che hanno ristrutturato una zona dell’aeroporto. Non era così quando sono andato via.”
Di male in peggio.
 Nella fretta di intavolare una conversazione, uscì proprio l'ultimo argomento che avrei voluto sentire.
Certo. Perché non tirare in ballo il giorno in cui si era lasciato tutto alle spalle.
In cui si era lasciato me alle spalle.
Sentii ogni parte del mio corpo paralizzarsi per una frazione di secondo, l'attimo dopo la rabbia mischiata ad un senso di inadeguatezza cominciò a risvegliare le mie pulsazioni, fino ad allora intorpidite.
Perché era così che mi sentivo, intorpidito, come se da quattro anni fossi entrato in un lungo letargo dei sensi, e da cui non sapevo se ne sarei più uscito.
“Che ci faccio qui, Harry?”
L’unica cosa che mi rimase, a quel punto, fu sbottare.
L'esasperazione che avevo cercato di placare alla fine uscì fuori.
Le sue pupille si dilatarono a quella mia domanda e le guance gli si tinsero di un rosso acceso.
“Louis, non…”
“Che stiamo facendo? Stiamo qui a bere tè e cioccolata e a parlare di nulla. Cosa credi me ne fotta che abbiano ristrutturato l’aeroporto?”
Mi sporsi sul tavolo nella sua direzione, il viso in fiamme e le vene a pulsare incessantemente nel collo.
La sua risposta fu il silenzio.
Prevedibile, colpevole e assordante silenzio.
“Perché non mi hai chiamato?!”
Quella domanda, che tanto avevo sentito fermentarmi dentro, esplose senza preavviso tra di noi.
E se respiravamo a pieni polmoni, la sentivamo inquinarci il respiro, come pulviscolo dopo un’eruzione.
Fu inaspettata.
Per lui, che rimase col fiato sospeso tra stupore e incredulità.
Per me, che forse non avrei dovuto chiederlo, che non credevo avrei avuto il coraggio di farlo, perché nella mia mente malata in cui avevo seminato la convinzione di volermi tutelare, credevo di dover ostentare ad ogni costo strafottenza e fingere che non mi importasse nulla, quando in realtà durante quei tre giorni non avevo fatto altro che fissare il cellulare e balzare in aria ogni volta lo sentissi squillare, rimanendo poi deluso nel vedere sul display un nome che non fosse il suo.
Ma non ero riuscito a trattenermi, la domanda mi era sfuggita, impulsiva, prepotente, incurante delle conseguenze.
Avevo agito istintivamente, perché con lui era sempre così: qualunque cosa mi passasse per la testa veniva automaticamente a galla, come se la sua sola presenza fosse sufficiente a tirare fuori - con una naturalezza e una spontaneità che avevo ormai dimenticato - tutto quello che costringevo dentro di me.
“Ti avrei chiamato, prima o poi.”
“Già, ma non lo hai fatto. Perché?”
“Io non... Mi dispiace, Louis, avrei dovuto ma non…”
“Lascia stare. È evidente che non ti importi.”
Lo interruppi, di nuovo.
Era chiaro come il sole che non mi avesse chiamato perché non voleva farlo.
Non aveva bisogno di sentirmi, né tantomeno di rivedermi.
E rimanere seduto di fronte a lui, davanti alla sua incapacità di parlare, di spiegarsi, mi sembrò un’ipocrisia.
Non aveva senso continuare a fingere una cordialità che era solamente fuori luogo.
Non era necessario sottopormi al suo sguardo colpevole e combattuto, perché lo vivevo come una tortura.
In quel momento il rumore della pioggia si fece più intenso, gocce d'acqua più fitte colpivano incessantemente le vetrate del bar. Mi fermai ad osservarle: si abbattevano sui vetri, rimanevano lì per qualche secondo, poi riprendevano la loro frenetica corsa, scivolando sempre più giù nel tentativo di raggiungersi. Alcune di loro si incontravano unendosi a formare un'unica grande goccia; altre invece erano destinate a rincorrersi senza mai trovarsi. E in quel momento io ero convinto che il destino mio e di Harry fosse simile a quest’ultime: continuavamo a rincorrerci, ma trovare un punto d’incontro sembrava impossibile.
Ferito da quel pensiero mi alzai di scatto, sbattei dieci sterline sul tavolo, sentendo il mio ginocchio protestare per quello scatto improvviso, e cominciai ad avvicinarmi alla porta.
“Louis, per favore non te ne andare.”
Mi fermai a un passo dall' uscita e mi voltai a guardarlo.
“Non ce la faccio, mi dispiace.”
“Ti prego, aspetta. Non è come sembra” urlò, in un tentativo maldestro di trattenermi, lo leggevo nella mano rivolta timidamente nella mia direzione.
“Ho smesso di aspettare tanto tempo fa, Harry. E sinceramente, adesso sono stanco.”
Ignorai il suo sguardo di supplica ed uscii, chiudendo dietro a quella porta Harry Styles e tutte le mie domande su di lui, su di noi.
 
 
 
 
 
Harry
 
Rimasi immobile senza riuscire a muovere un passo verso di lui, come se una forza invisibile mi stesse trattenendo su quella sedia.
Uscii dal locale dopo un tempo che mi parve infinito e cominciai a dirigermi verso la macchina.
La mia mente cominciò a ripercorrere a ritroso l'ultima ora che avevo trascorso con Louis, flash sconnessi di momenti confusi: l’incidente, le mani tremanti, un mio sorriso incerto, la sua rabbia.
I suoi occhi.
Da quando lo avevo visto non avevo smesso di osservarli e tutto ciò che li abitava erano paura e smarrimento.
Non sapevo a cosa fossero dovuti.
Inizialmente credetti che la causa fosse stata l'incidente, ma poi, quando entrammo da Yorkshire Grey, quelle emozioni non volevano saperne di abbandonare le sue pupille, e una parte presuntuosa di me pensò che forse, in parte, la causa fossi io.
E mentre camminavo avvolto dal vento freddo di marzo mi resi conto che ciò che realmente mi aveva angosciato non erano state la freddezza o la rabbia di Louis, ma vedere quanto negli anni fosse cambiato.
Ma non fisicamente.
Era più meno alto allo stesso modo, forse più muscoloso, ma il suo corpo non era molto diverso da prima.
Ciò che era cambiato in lui era lo sguardo.
Nei suoi occhi non vi era più nessuna scintilla ad illuminarli, non vi era gioia, non vi era speranza.
Solo buio.
Denso, profondo e freddo buio.
L'unica emozione ad attraversarli era l'angoscia.
La potevo vedere chiaramente sotto le ciglia folte che mi erano sempre piaciute.
Se avessi allungato un dito forse avrei potuto toccarla, sentirne la consistenza, percepire quanto fosse corposa e pesante.
Quelli non erano gli occhi del Louis che conoscevo.
Quelli non erano gli occhi del Louis che amava sorridere e far ridere la gente, anche a costo di mettersi in ridicolo.
Io quegli occhi non li conoscevo.
E le sfumature scure, quasi nere, che li attraversavano, erano la prova tangibile della forza del tempo.
Quegli occhi contenevano delle storie che in quattro anni avevano modificato l'essenza dell'anima più bella avessi mai conosciuto in ventidue anni di vita.
E per un secondo, tra un fugace battito di ciglia e l'altro, quando le sue palpebre avevano iniziato a sfarfallare per via dello smarrimento, io ci avevo letto qualcosa che somigliava terribilmente ad una tacita richiesta di aiuto.
E forse dopo tutti gli errori che avevo commesso negli ultimi anni non ne avevo il diritto, ma io quelle storie desideravo conoscerle.
Avrei voluto scoprirle per cercare di aiutarlo.
E ci avrei provato, nonostante sapessi già che mi avrebbe respinto.
Per questo nei giorni successivi decisi che lo avrei... osservato.
Ok, forse sarei sembrato uno stalker folle e psicolabile, ma non volevo pedinarlo per una malsana mania, e nemmeno per irrazionale e infantile curiosità fine a se stessa, volevo conoscere la sua vita, la sua quotidianità, volevo vedere quanto grande e profondo fosse il buco nero che aveva inghiottito le luminose stelle blu che erano stati un tempo i suoi occhi.
Volevo riappropriarmi delle sue abitudini e riconoscermi in essere, ricordare come fu una volta e come adesso non era più.
Perché nonostante gli anni, per me, il legame tra noi non si era spezzato, l'affetto che provavo per lui non si era dissolto tra le onde dell'oceano che ci aveva tenuti separati.
A dispetto di quanto lui credesse, nonostante le mie mancanze, non avevo mai smesso di pensarlo, di volergli bene, di considerarlo una parte di me.
Ero andato via, è vero, a modo mio ero andato avanti, ma mi ero guardato indietro spesso, non lo avevo mai dimenticato, e adesso che ero tornato non riuscivo a togliermi dalla mente i suoi occhi intrisi di angoscia, non potevo lasciarmi scivolare tutto addosso con indifferenza.
Quindi sì, volevo aiutarlo.
Lo avevo sempre fatto, e lo avrei fatto ancora. Sempre.
E lo avrei fatto per lui.
Ma anche per me.
Perché forse avevo bisogno di liberarmi di alcune colpe, perché non volevo sopportare il peso di un rancore meritato ma troppo opprimente.
Avevo bisogno che lui mi perdonasse, che mi lasciasse spiegare e che capisse.
Perché lui aveva solo preso ciò che della storia io avevo voluto lasciargli vedere.
Non sapeva cosa ci fosse dietro a ciò che avevo fatto, non sapeva cosa ci fosse in mezzo a tutti gli anni che erano passati. Viveva in un mondo di parole e gesti che non avevo commesso io, ma che si era costruito attorno lui stesso.
E lui doveva saperlo che non era così, che si sbagliava, che quella che credeva di sapere non era la verità.
Non l’unica perlomeno.
E probabilmente era una cosa egoista, aiutarlo per espiare le mie colpe, ma non me ne curai abbastanza.
Forse era una cosa avventata, persino presuntuosa, ma mi sembrò la più giusta che potessi fare al momento.
E dovevo farla adesso, mentre ero in tempo.
Alle conseguenze ci avrei pensato successivamente.
Il carpe diem, uno dei mantra della mia vita, non prevedeva nessuna riflessione su cosa sarebbe stato dopo.
 
 
Louis
 
"Tesoro, è tutto ok?"
"Sì El, sono solo un po' stanco."
Erano solo le sette e mezzo del mattino, la giornata non era ancora iniziata e io già desideravo solo che terminasse il prima possibile.
Dopo quello che era successo la sera precedente non ero riuscito a chiudere occhio.
Ero logorato dall'ansia perché non avevo idea di cosa ci fosse scritto in quei maledetti documenti che avrei dovuto leggere insieme a Liam.
Mi sentivo un idiota per il modo in cui avevo reagito con Harry, palesando la mia delusione per non aver ricevuto una sua chiamata durante i giorni precedenti.
Mi sarei preso a schiaffi da solo, perché come al solito gli permettevo di sconvolgermi l’esistenza e mettere in discussione tutto. Ancora. E ancora.
Percepivo tuttora la paura densa scorrermi nelle vene per il quasi incidente, ma non potevo permettermi di provarla, mi avrebbe reso solo debole e inutile. Perciò dovevo nasconderla, dovevo dissimulare con gli altri e con me stesso, come facevo sempre da alcuni anni a questa parte.
"Bevi un po' di caffè, ti farà stare meglio."
El mi strappò da quei pensieri porgendomi la mia tazza fumante.
"Grazie."
Le sorrisi mestamente, e lei mi posò un leggero bacio sulla fronte.
"Devo andare a lavoro adesso, o rischio di fare tardi. Ma parliamo quando farò pausa pranzo, ok?"
Annuii, abbassando lo sguardo ad osservare il caffè bollente.
Eleanor uscì dopo pochi secondi, lasciandosi dietro la scia del suo profumo dolce.
Ultimamente aveva intensificato i suoi turni a lavoro per riuscire a mettere da parte più soldi per il matrimonio, e di rado riuscivamo a trovare un po' di tempo per parlare.
Per questo, di tutto quello che era successo in quei giorni, ero riuscito solo ad accennarle della fuga di Dan dalla prigione.
In quel momento ricevetti un messaggio da parte di Liam.
 ‘Ho dato un'occhiata a quei fogli. Passo da te fra mezz'ora’
Sospirai, percependo l'ansia depositarsi all'altezza della bocca dello stomaco.
Fui colto da un'improvvisa nausea, così gettai la tazza nel lavandino, la lavai e aprii le finestre per fare uscire la puzza del caffè.
Dopo due anni che ci conoscevamo, Eleanor non aveva ancora capito quanto schifo mi facesse il caffè, ostinandosi a prepararlo anche per me ogni mattina. Io ormai mi ero rassegnato, così facevo finta di berlo, poi quando lei andava via, lo buttavo e mi preparavo una tazza di tè.
Misi l'acqua per il tè a bollire sul fuoco, poi presi il telefono e chiamai mia madre.
"Mamma, Liam mi ha detto di aver letto quei documenti che mi avevi dato. Sarà qui per le otto.
Passiamo da te o ci raggiungi qui?"
"Buon giorno anche a te, figliolo" rispose lei ironica.
Sorrisi impercettibilmente mentre alzavo gli occhi al cielo sospirando.
"Sì, buon giorno mamma!"
"Molto meglio! Comunque passo io. Porto i gemelli al nido, le bimbe a scuola e arrivo. A dopo."
Chiusi la chiamata e dopo essermi lavato cominciai a sistemare casa nell'attesa che arrivassero.
Furono entrambi davanti alla mia porta alle otto in punto.
Quando Liam aprì la sua borsa e tirò fuori tutti quei fogli bianchi disponendoli sul tavolo ampio, in casa calò un silenzio carico di tensione.
“Come potete immaginare, si tratta del divorzio" esordì, leggermente teso.
Vidi mia madre trattenere il respiro e irrigidirsi immediatamente sul posto. Poggiai una mano delicata sul suo ginocchio per tranquillizzarla, lei mi ringraziò stringendola fra le sue.
Liam mi lanciò uno sguardo preoccupato come per chiedermi il tacito il permesso di proseguire.
Io annuii con un cenno impercettibile della testa.
“Dunque, l’avvocato di Dan ha risposto alla tua richiesta di divorzio, che è stata respinta. A questo punto intraprende un processo giudiziario sembra proprio inevitabile. Inoltre…”rovistò un attimo nella sua ventiquattrore, dopo poco trovò una busta e lo porse a mia madre che lo afferrò con mani tremanti.
"Questa lettera è per te, Johanna. Era insieme agli altri documenti, ma credo proprio si tratti di una lettera personale. Con molta probabilità tuo marito l’ha scritta prima di evadere dal carcere."
“È ancora sigillata” osservò mia madre.
Era una piccola busta giallastra e maleodorante, puzzava come si immagina possa farlo un luogo stantio come il carcere.
Non sembrava promettere nulla di buono.
“Ho preferito non leggerla, sembra qualcosa di personale.”
"Non so se voglio sapere quello che c'è scritto Lou."
Ancora una volta riuscii a leggere nel suo sguardo il disperato bisogno che avesse di me, l’unico uomo della sua vita, l’unico veramente fedele, l’unico che poteva salvarla di nuovo, sempre.
E in quel momento, con le sue mani fra le mie, sentii un altro macigno aggiungersi sopra alle mie spalle, un altro peso che si aggiungeva agli altri già presenti.
Speravo solo che un giorno non mi avessero schiacciato, perché non sapevo se dopo sarei riuscito a rialzarmi.
"Mamma, non sei costretta a leggere la lettera. Non adesso almeno. Non c'è nulla di male a non sentirsi pronti."
"Ha ragione Louis, Johanna. Se non ti senti pronta la leggeremo quando lo sarai. Non c'è nessuna fretta."
La vidi chiudere gli occhi e prendere un profondo respiro, come se con quel gesto avesse potuto raccogliere il coraggio che le mancava.
"No ragazzi, devo farlo adesso, con voi. Se rimando ho paura che non ne avrò più il coraggio."
Districò la presa delle mie mani e con un po' di esitazione cominciò a strappare la busta.
Ci stava provando, voleva essere coraggiosa per me, ma appena aprì la lettera e i suoi occhi si posarono su un punto imprecisato del foglio, il tremolio delle sue dita si intensificò e piccole gocce di sudore cominciarono ad imperlare la sua fronte pallida.
Allora decisi di fare quello che mia madre non aveva osato chiedermi, ma che sapevo sperava io facessi. Voleva essere salvata, di nuovo, e io non mi tirai indietro.
"Mamma, credo sarebbe meglio se la leggessi io, che ne dici?"
Posai una mano alla base della sua schiena per infonderle coraggio, conforto, un gesto che tante volte avevo sperato avesse fatto a me, per farmi sentire abbastanza forte da essere all’altezza delle sue esigenze.
Vidi Liam rivolgermi uno sguardo loquace, come se mi stesse chiedendo 'ancora?'.
Ma lui sapeva che la mia risposta sarebbe stata ‘sempre’.
 Avrei salvato mia madre sempre, a qualsiasi costo.
Così presi la lettera, nascosi la paura tra uno dei cassetti della mia anima, e cominciai a leggere.
 
 
 
 
 
"È un fottuto figlio di puttana, Liam! Ti rendi conto a cosa si sta aggrappando pur di rovinarci la vita? E io che cazzo devo fare adesso?"
"Louis, calmati ti prego."
"Come faccio a calmarmi? Dimmelo! Come?!"
Silenzio.
Sempre silenzio.
Quando io chiedevo aiuto era sempre questa la risposta, sfacciata e prepotente.
"Rispondimi, cazzo!"
"Io... Non lo so Tommo, non lo so."
Vidi i suoi occhi intristirsi mentre si accasciava sul divano. E io mi sentii una merda.
Non avevo alcun diritto di trattarlo così, di accusarlo per delle colpe che non aveva.
A dispetto di tutti lui voleva aiutarmi, era lì.
C'era da quando quattro anni prima una figura fondamentale, insostituibile, era scomparsa, lasciandomi a combattere da solo una guerra che non ero in grado di vincere.
"Scusami Li, mi dispiace."
Mi sedetti accanto a lui, i palmi premuti contro gli occhi in un tentativo di scacciare indietro le lacrime.
Mia madre era andata via da un paio d’ore e tutto quello che avevo tenuto dentro durante la mattinata aveva bisogno di uscire fuori, altrimenti sarei impazzito.
Leggere quelle parole mi avevo scosso più di quanto avessi potuto immaginare, ma davanti a mia madre non mi era concesso mostrare le mie debolezze.
Io ero il suo uomo, quello forte e coraggioso, non di certo un ragazzo di ventitré anni insicuro e pieno di paure.
Se fossi crollato davanti a lei, tutti quegli anni sarebbero stati vani, sfumati in una nuvola evanescente, intrisa delle mie fobie.
"Mia madre è troppo debole. Pur di non mettermi in pericolo sarebbe capace di accettare i suoi viscidi ricatti e di ritornare insieme a lui. E io non posso permetterlo. Non voglio vederla affondare ancora, anche perché non so se sono abbastanza forte da impedirlo."
"Infatti non puoi impedirlo, Louis."
"Lo so. Ma almeno devo provarci, lei ha solo me. E Dan lo sa, per questo mi ha tirato in ballo. Sa che se si tratta di me mia madre è capace di fare tutto. Anche rinunciare al divorzio."
Sentii le braccia di Liam avvolgermi in un abbraccio che avrei voluto potesse consolarmi, ma che purtroppo non ci riuscì.
Le parole di quel bastardo mi scorrevano davanti agli occhi come una pellicola dalle immagini vivide, infuocate, e non riuscivo a cacciarle via dalla mia mente.
Dan stava cercando di sabotare i piani di mia madre e l'unico modo per non fallire era colpire dove sapeva avrebbe fatto centro.
E per ironia della sorte, nonostante la lettera fosse indirizzata a mia madre, le parole incise sopra non lo erano. Il loro destinatario era un altro, forse più debole.
Ero io.
Dan stava cercando di avvertirmi di farmi da parte, e il messaggio era arrivato forte e chiaro.
Ma io non ero disposto a cedere, per nessun motivo.
Tutto quello era solo un giochetto subdolo architettato da due menti malsane che volevano solo vederci crollare.
E nonostante non mi sarei permesso di arrendermi, in quel momento non riuscivo a non provare paura. Perché se c'era una cosa che non avrei voluto vedere negli occhi di mia madre quella mattina era l'esitazione, l'arrendevolezza. E invece, mio malgrado, erano state le uniche cose che ero riuscito a scorgere tra le sfumature celesti di quelle iridi simili alle mie.
“Pensi che mia madre abbia creduto alle sue parole?”
“Sinceramente? Non lo so. Sembrava molto scossa però. Non credo sia stato facile leggere una lettera in cui suo marito confessa di amarla ancora. Io e te sappiamo che è una bugia, ma sappiamo anche che nonostante tutto quello che è successo negli ultimi anni, Jay è ancora innamorata di quell’uomo. Quindi non mi stupirei se, anche solo per un attimo, gli credesse.”
“Già… Peccato che è tutto falso, una montatura. Dan sta facendo tutto questo non perché innamorato, ma per un contorto intento ostruzionistico volto a privare mia madre della sua libertà.”
“Lo so Louis, lo so, ma devi capire che al momento tua madre non è altrettanto lucida per capirlo. Le servirà del tempo.”
“Le servirà del tempo? Ancora?” gridai, furioso, “non le sono bastati due anni? Non le è bastato vedere suo figlio quasi morto per colpa di quel figlio di puttana?”
Liam mi guardò rassegnato, sospirando pesantemente.
Sapeva avessi ragione, ma anche io sapevo che lui avesse ragione.
Mia madre non era totalmente in sé, non era ancora in grado di prendere delle decisioni importanti senza che io la guidassi nel farlo.
“Spero solo che l’amore per me e i miei fratelli sia più grande di quello per suo marito. Forse questo potrebbe farle prendere la giusta decisione” conclusi, ormai esausto e rassegnato.
"Troveremo una soluzione Tommo, te lo prometto."
Volli credere a quelle parole, perché in quel momento era l'unica cosa che potevo fare: aggrapparmi ad una speranza e andare avanti, nonostante tutto.
Pregai solo che mia madre non cedesse, perché se lo avesse fatto avrei rivissuto il mio inferno personale, e quella volta non credevo di essere di nuovo pronto per affrontarlo.
 
 
 
 
 
 
 
 
Note personali:
Bentornate ragazze.
Buon pomeriggio e buon primo novembre.
Questo capitolo per me rappresenta un po' il vero inizio della storia, è qui che si seminano dubbi ed è qui che vediamo Harry e Louis, che impariamo a conoscerli l’uno attraverso gli occhi dell’altro.
I capitoli precedenti hanno gettato le basi per questo momento e spero abbiate apprezzato questo capitolo tanto quanto a me è piaciuto scriverlo.
Vorrei sapere se quello che leggete vi piace, vi soddisfa; vorrei sapere quali sono le vostre opinioni riguardo alla storia.
Spero vogliate farmi sapere cosa ne pensate.
Vi auguro buone vacanze.
A presto,
lestylinson.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Send me an Angel ***


Harry
 
Passeggiavo per Doncaster da ore.
Sentivo il bisogno di prendere aria, respirare il profumo degli alberi in inverno e liberare i pensieri.
Volevo passare un po’ di tempo con me stesso, godermi la solitudine.
Da quando ero tornato in paese non ero rimasto un attimo da solo, circondato sempre da persone che avevano sentito la mia mancanza, che erano curiose di scoprire come fosse la vita oltreoceano.
E nonostante tutto quel calore familiare mi fosse mancato, l’esigenza di ritagliarmi uno spazio per me era troppo impellente per metterla a tacere.
Così quella mattina decisi di uscire, di ripercorrere con i miei piedi vecchie strade che raccontavano storie passate e che portavano a galla ricordi di giorni che sembravano ormai lontani anni luce.
Era quasi mezzogiorno quando entrai da Yorkshire Grey.
Ordinai un milk-shake e andai a sedermi in uno dei divanetti più appartati.
Ero circondato da gente che parlottava, chi a bassa voce, chi quasi urlando, ma la mia attenzione venne attirata dal suono di una voce in particolare.
 L’avrei riconosciuta tra tutti i rumori del mondo: squillante, cristallina, sporcata da leggere vibrazione roche.
Mi voltai lentamente e vidi Louis seduto ad un tavolo poco lontano dal mio.
Stava parlando con una ragazza che gli stringeva la mano, quasi come per consolarlo.
Tesi l’orecchio in quella direzione e cercai di ascoltare la loro conversazione mentre fingevo di smanettare col cellulare.
“El, in quel foglio c’è scritto che sono io a costringere mia madre, capisci? E’ un cazzo di casino! E sono sicuro che lei cederà, il problema è questo! Dan ha giocato sporco perché sa che solo così può vincere facile.”
“L’avvocato come pensa di procedere?”
“Non lo sa ancora. Per ora è fuori città, ci darà appuntamento appena sarà tornato.”
Stavo cercando di capire qualcosa e di dare un senso a ciò che il mio udito stava afferrando con difficoltà.
Ma ero disorientato, smarrito in una conversazione di cui origliavo con prudenza le parole, per paura di scoprire cosa significassero.
Mi rifiutavo di comprendere quanta sofferenza potesse comportare nella vita di Louis ciò che stavo sentendo.
Infatti finii per non capirci assolutamente nulla.
Solo poche parole, ormai ad impregnare l’aria con la loro eco lontana, che mi avevano investito d’ansia nonostante non fossi riuscito a rielaborarle e riempirle di senso.
“D’accordo. Tu cerca di stare tranquillo nel frattempo, se ti agiti è peggio, lo sai.”
“Ci proverò.”
Sembrò infastidito, lo capii dalla riluttanza con cui le rispose.
Se avessi potuto, se mi fosse stato permesso, mi sarei alzato e sarei corso al suo tavolo.
Lo avrei stretto a me e lo avrei ascoltato, nella speranza che quello bastasse per prendermi il suo dolore.
E lo vedevo, il dolore, dal modo in cui con sguardo accigliato si osservava la mano, la stessa in cui pollice e indice avevano iniziato una battaglia frenetica, strofinandosi l’uno sull’altro.
Lo vedevo nella curva scomposta che aveva preso la sua schiena, come se accartocciandosi su se stesso lo stomaco sarebbe stato in grado di trattenere tra due strati di pelle che si sovrappongono tutta la frustrazione e la sofferenza.
E lo avrei fatto davvero, raggiungerlo e sedermi accanto a lui, se solo pochi giorni prima non mi avesse chiaramente fatto capire che non avevo più il diritto di avvicinarmi, toccarlo, di reclamarlo.
Avrei voluto solo sfiorargli la mano, fargli sentire che c’ero senza dover per forza usare le parole, che quelle tra noi non sempre servivano, ma lui si era sottratto a quel tocco, costringendo il mio palmo a scontrarsi con il freddo della superficie del tavolo.
Sprofondai un po’ nel mio divanetto al ricordo di quella sensazione, e un brivido mi attraversò tutto.
In quel momento il mio telefono cominciò a squillare, attirando lo sguardo dei presenti per via del volume troppo alto.
Vidi i suoi occhi posarsi gelidi su di me per una frazione di secondo, l’attimo dopo aveva già distolto lo sguardo, come se non fossi importante, come se non valesse la pena dedicarmi attenzione.
Non risposi alla telefonata, qualsiasi cosa avesse da dirmi mia madre, avrebbe dovuto aspettare.
Quando sollevai gli occhi dal cellulare, Louis era già in piedi.
Lasciò dei soldi sul tavolo posando un bacio leggero fra i capelli di quella ragazza e poi scomparve.
Non uno sguardo, non un saluto, non un cenno verso di me.
Nulla.
Mi era passato accanto facendo finta che non esistessi.
Stava scappando da me, mi stava evitando, e si guardò bene dal farmelo notare.
Ma d’altronde cosa potevo aspettarmi? Avevo mandato io a puttane la nostra amicizia, non lui.
Ero stato io a fargli credere di potercela fare da solo, di non sentire il bisogno di averlo nella mia vita.
E nonostante fossi consapevole di tutto ciò, sentirlo così distante pur avendolo a un paio di metri da me faceva fottutamente male.
Perché  quelli non eravamo noi. Noi non eravamo mai stati così.
E vedere quello che eravamo diventanti, quello che non eravamo più, per colpa mia, era troppo doloroso.
Mi alzai di scatto, pagai il conto e uscii in strada correndo.
Avevo bisogno di ossigeno, tutte quelle consapevolezze mi stavano schiacciando.
Le mie colpe stava tornando indietro come un boomerang, la loro intensità triplicata.
Se non avessi avuto la forza di resistere, di rimanere saldamente attaccato al terreno, mi avrebbero trascinato via.
Ma questa volta ero determinato, non mi sarei piegato nemmeno al più forte dei venti.
Vidi Louis dall’altro lato del marciapiede, stretto nel suo cappottino troppo leggero per combattere l’aria fredda di inizio marzo.
Il passo trascinato, il viso affondato nella sciarpa, le spalle che tremavano impercettibilmente.
Era l’immagine dell’angoscia, ne aveva assunto fattezze ed essenza.
E non riuscivo ad accettare che se Louis fosse diventato così, era solo per colpa mia.
Non volevo accettarlo.
Doveva per forza esserci dell’altro e dovevo sapere cosa.
Dovevo scoprire perché la luce dei suoi occhi fosse cambiata, cosa li avesse adombrati di una patina tetra e opaca.
Così cominciai a camminare, nel marciapiede opposto al suo, seguendo i suoi passi, sperando mi avessero condotto verso una direzione in cui finalmente ci saremmo incontrati.
Ma non per sfiorarci in un attimo fugace e passare oltre, come fanno i passanti di una città caotica.
Ma per ritrovarci, riconoscerci, e questa volta restare.
Lo vidi svoltare un angolo che portava verso una stradina stretta. Aspettai un po’ per paura di essere visto e poi attraversai, addentrandomi in quel vicolo.
Alcuni minuti dopo mi ritrovai davanti alla scuola elementare di Doncaster.
Quando la campanella suonò, Louis si alzò sulle punte dei piedi e assottigliò gli occhi per guardare tra la coltre di bambini che si era appena riversata nell’atrio. Pochi minuti dopo lo vidi abbassarsi sulle gambe, spalancare le braccia con un sorriso ampio e accogliere in un abbraccio due bambine che, non appena lo videro, si fiondarono su di lui.
Sorrisi, riconoscendo Daisy e Phoebe.
“Allora principesse, com’è andata oggi?” chiese premuroso mentre con un gesto dolce scompigliava i capelli di entrambe.
“Io ho preso otto in scienze!”
“Io invece ho preso dieci in matematica! Sono più brava di te Daisy!”
Sorrisi di nuovo vedendo Louis alzare gli occhi al cielo mentre le prendeva per mano e cominciava a camminare.
“Fate le brave e non bisticciate, altrimenti non vi farò bere la cioccolata oggi pomeriggio.”
Furono le ultime parole che riuscii a sentire prima che si allontanassero.
Mi si sciolse il cuore guardando quella scena e decisi di rimanere lì.
Seguirlo, dopo quello, mi sembrò come privarlo di un’intimità familiare che mi apparve diversa, addirittura più intensa di come la ricordassi.
Louis era sempre stato adorabile e affettuoso con le sue sorelline, ma quei piccoli gesti che gli avevo visto compiere – assicurarsi che i giubbotti delle bambine fossero chiusi bene, che le loro sciarpe fossero allacciate adeguatamente e che indossassero guanti e cappellino per evitare di prendere freddo – raccontavano di certo qualcosa di molto più profondo di un normale rapporto tra fratello e sorelle.
Sembravano quasi le attenzioni maniacali che una mamma riserva ai propri figli, non di certo quelle che un fratello ventitreenne riserva alle sorelle più piccole.
Non appena li vidi scomparire cominciai a camminare nella direzione opposta alla loro, opposta alla sua.
Come era accaduto negli ultimi quattro anni.
 
 
Durante quella settimana osservai Louis nella sua quotidianità.
Scoprii che non viveva più in casa con la sua famiglia, ma che abitasse in una piccola casa bianca e blu con un modesto giardinetto nel retro.
La mattina usciva presto e spesso passava da Yorkshire Grey, ordinava una colazione al volo e poi andava al campetto, quello vicino casa sua.
Scoprii anche che fosse diventato allenatore della squadra junior di Doncaster.
Vederlo lì, nel suo ambiente, circondato da bambini che lo amavano e che gli correvano gioiosamente incontro non appena lo vedessero arrivare, mi rese felice.
Perché se c’era un momento della giornata in cui, osservandolo, vedevo i suoi occhi riempirsi di una luce brillante, era proprio quando allenava i suoi pulcini.
Li incitava a dare il massimo, a non arrendersi, con una dolcezza e una devozione che mi resero inspiegabilmente orgoglioso.
Durante gli allenamenti era insolitamente severo, concentrato, ma una volta finito si spogliava di quella corazza autorevole e si tuffava nel prato insieme ai bambini, tornando ad essere il solito amorevole giocherellone. Batteva il cinque a ogni singolo componente della squadra, ringraziando tutti per la tenacia e l’impegno dimostrati, dopodiché li mandava negli spogliatoi e aspettava con pazienza che venissero prelevati dai genitori.
Un giorno vidi le sue labbra esplodere in un sorriso fiero quando, durante una partita, la sua squadra riuscì a segnare il gol della vittoria.
In effetti, ripensandoci, Louis non smetteva mai di sorridere quando era a lavoro.
Perché lì poteva essere se stesso, poteva fare ciò che più amava.
Non era lui ad appartenere a quel posto, era quel posto che apparteneva a lui. Quello era il suo ambiente, tirava fuori tutto il bello che c’era in lui, senza che Louis se ne accorgesse.
Non poteva sapere quanto, durante quei momenti, lo avessi visto brillare.
Era uno spettacolo da far invidia persino al sole quando, incontrandosi col mare, fa vibrare l’aria attorno a sé, attirando con superbia sguardi ammaliati e ammirati; vederlo così spensierato e bearsi della sua fragorosa risata era come sognare ad occhi aperti.
Ma tutti i sogni, purtroppo, finisco.
Durano quel tanto che basta a farci apprezzare di più la vita, dopo.
Servono a darci la carica per cercare attorno a noi la stessa meraviglia di cui abbiamo goduto nel sonno.
Infatti, era quando Louis andava via dal campo che la magia si spezzava.
Il sorriso svanito, la spensieratezza un ricordo lontano.
Di Louis rimanevano solo uno sguardo fosco e un respiro troppo pesante.
E mentre tornava a casa calciando con frustrazione i sassolini dei marciapiedi, emettendo frequenti sospiri, i suoi occhi si spegnevano gradualmente, velati da una patina di amarezza.
Ed io, in quei momenti, non avevo mai trovato il coraggio di seguirlo.
Semplicemente restavo nascosto dietro ad un albero e aspettavo che si allontanasse, perché dopo aver goduto del suono delle sue risa durante il pomeriggio, non riuscivo a sopportare quel repentino – e per me inspiegabile- cambiamento d’umore.
Quando tornavo a casa e chiudevo gli occhi per dormire volevo ricordarmi le sue labbra distese, aperte a mostrare la felicità, non un viso cupo e due occhi di un blu troppo scuro.
E forse ero stupido ed egoista, ma era questa l’immagine di Louis che volevo ricordare prima di addormentarmi, come quando ero in America e nel sonno mi illudevo che senza di me lui fosse ugualmente felice.
Ma nella vita vera, quella che gli stavo vedendo vivere, non c’era spazio per le illusioni, e mio malgrado dovetti accettare che Louis fosse tutto tranne che felice.
Durante quei giorni lo avevo visto dispensare sorrisi a molte persone, e ognuno di essi era sempre diverso dall’altro.
Alcuni erano forzatamente finti, altri gentili e rassicuranti, altri spensierati e pieni di gioia.
Ma quelli che gli avevo visto sfoderare più spesso erano i sorrisi tristi, un semplice movimento di labbra che si alzavano ma che non trasmettevano alcuna gioia.
Solo un occhio attento si sarebbe accorto che quei sorrisi erano in realtà segno di disagio e inquietudine, lo si capiva dallo sguardo: i suoi occhi non venivano coinvolti in quella ostentazione di falsa allegria, rimanevano spenti, spesso indugiavano nell’osservare chi si trovavano di fronte e diventavano immediatamente gelidi, privi di ogni emozione che non fosse il dolore.
In quella settimana imparai anche che Louis camminava sempre a piedi, in qualsiasi momento della giornata, e che ogni tanto si fermava nel bel mezzo della strada per massaggiarsi il ginocchio con espressione dolorante. Inizialmente pensavo fosse un vizio, ma con il passare dei giorni mi accorsi che quel gesto era sempre più frequente, soprattutto quando camminava troppo, e un dubbio cominciò ad insinuarsi nella mia mente, aggiungendosi a quelli che non volevano abbandonarmi da quando avevo ascoltato le parole che aveva scambiato nel locale con quella ragazza. Spesso l’avevo vista entrare ed uscire dalla casa di Louis, ma non avevo ancora capito chi fosse, o meglio, che ruolo avesse nella sua vita.
E forse non ero nemmeno tenuto a saperlo.
Molte cose in realtà non avevo il diritto di sapere dopo che il nostro rapporto si era incrinato col passare degli anni, ma non riuscivo semplicemente a lasciar perdere, era più forte di me.
Sapevo solo che Louis mi mancava, mi era sempre mancato, e anche solo osservarlo da lontano in quei giorni mi era bastato per illudermi che forse non era così irraggiungibile come credevo, che le distanze tra noi potessero in qualche modo essere colmate.
Il problema era appunto che non sapevo come fare a colmarle.
Ci eravamo incontrati per caso solo un paio di volte e in entrambe le occasioni ai suoi occhi ero apparso come un fantasma troppo trasparente perché potessero prestarmi la giusta attenzione.
E nonostante tutta quella indifferenza facesse male, dovevo solo avere pazienza e cercare di trovare un punto di contatto che mi avrebbe condotto da lui.
Sperai solo che lui me lo avrebbe permesso.
 
 
 
 
Successe un venerdì pomeriggio.
Ero al campetto, nascosto dietro al solito albero, ad osservare Louis mentre allenava la sua squadra.
Il giorno precedente avevo quasi rischiato di farmi scoprire, ma per fortuna ero riuscito a cavarmela.
Evidentemente però non era destino che le cose andassero bene, perché ovviamente era di me che si trattava, e non potevo di certo passarla liscia per due volte di seguito.
Stavo rispondendo al messaggio di Niall quando improvvisamente persi l’equilibrio e mi ritrovai disteso per terra con una fitta lancinante alla caviglia.
“Cazzo!”
Imprecai non proprio sottovoce, attirando l’attenzione di alcune persone aldilà della rete in fil di ferro che delimitava il campo da calcio.
“Hey, va tutto bene?”
Sollevai lo sguardo da dove ero disteso e davanti a me apparve un ragazzo paffuto che mi guardava come fossi un alieno.
Mi sentii prendere fuoco dalla vergogna.
“Sì, è tutto a posto grazie. Sono solo un po’ sbadato.”
Mi alzai velocemente fingendo non mi fossi fatto nulla, ma quando poggiai il piede a terra non riuscii a trattenere una smorfia di dolore.
 “Sicuro? Dalla tua espressione non sembrerebbe. Vieni dentro, magari un po’ di ghiaccio può aiutare.”
Se avessi potuto mi sarei scavato da solo una fossa attorno ai piedi e mi sarei fatto inghiottire da un buco nero. Se Louis mi avesse visto non avrei saputo giustificare la mia presenza lì. E se avesse capito che da giorni lo seguivo?
“Non credo ci sia bisogno, ma comunque grazie lo stes...”
Quel ragazzo non mi diede nemmeno il tempo di replicare che già mi aveva afferrato per un braccio e mi aveva trascinato dentro al campetto.
Mi fece sedere in un angolino e poi si allontanò.
Si avvicinò a parlare per un attimo con Louis che due secondi dopo mi puntò lo sguardo addosso, sorpreso, confuso, infastidito.
Volevo morire.
Avrei soluto voluto darmela a gambe levate, ma scappare non sarebbe servito a molto, avrei solo fatto la figura del coglione.
In effetti, pensandoci, quella l’avevo già fatta.
Lo vidi sparire dentro agli spogliatoi, poco dopo uscì da lì con una busta di ghiaccio sintetico tra le mani e cominciò a camminare nella mia direzione, lo sguardo infuocato che però evitava in ogni modo di posarsi su di me.
Abbassai immediatamente la testa, vergognato e umiliato, come se quel gesto avesse potuto nascondermi alla sua vista.
“Che ci fai qui?”
Ancora una volta, non si risparmiò di farmi percepire il fastidio che provava nel vedermi.
Incassai il colpo stringendomi nelle spalle.
Che ci facevo lì? Potevo mica dirgli che mi appostavo lì da dieci giorni come un pazzo?
“Passavo di qui per caso, ma non guardavo la strada così sono inciampato e sono caduto. Mi dispiace, non volevo disturbare.”
Sul suo volto apparve il fantasma di un sorriso beffardo, ma c’era troppa amarezza nei suoi occhi perché potessi interpretarne il significato.
 Sbatté velocemente le ciglia e si allontanò di due passi.
“Peccato tu abbia disturbato lo stesso. Qui c’è il ghiaccio, quando finisci sai dov’è l’uscita.”
Mi gettò accanto la busta col ghiaccio con aria di sufficienza e si voltò raggiungendo il bordo campo.
Ancora una volta, proprio come era successo al bar qualche mattina prima, non mi rivolse nessuno sguardo, nessun saluto.
Mi sentii frustrato, oppresso e umiliato per tutto quello che era appena successo e in uno scatto d’ira afferrai il ghiaccio sintetico scaraventandolo per terra.
“Fanculo!”
Mi alzai da dove ero seduto e sentendo lo sguardo di Louis perforarmi la schiena, mi avviai velocemente verso l’uscita del campetto, allontanandomi da quel posto che era stato teatro di colpe e rancori taciuti.
 
 
 
“Niall, Louis praticamente mi odia. E oggi è stato abbastanza chiaro nel farmelo capire.”
“Tutte stronzate. Louis non ha il coraggio di odiare nessuno, fidati. E’ solo ferito, ma vedrai che gli passerà.”
“Quindi cosa significa questo suo atteggiamento? Me la sta facendo pagare? O è il karma che mi sta elegantemente prendendo a calci in culo?”
Nonostante il volume della musica fosse abbastanza alto riuscii a sentire chiaramente la sua risata cristallina che, come sempre, coinvolse anche me nonostante non fossi dell’umore.
Dopo che quel pomeriggio ero tornato a casa zoppicando, avevo chiamato Niall e gli avevo proposto di andare a bere qualcosa insieme. Avevo bisogno di svagarmi e divertirmi e nessuna compagnia si sarebbe rivelata migliore della sua.
“Harry, per Louis questo non è un bel periodo. Negli ultimi anni sono successe un bel po’ di cose e ultimamente sembra andare anche peggio. Quindi cerca di non prendertela troppo, è solo particolarmente nervoso.”
Era la seconda volta che mi sentivo dire quelle parole. Prima Liam a casa sua due settimane prima, e adesso lui.
“Il problema Niall è che io non ho idea di che cosa stia succedendo nella vita di Louis. Quindi come faccio a capire o giustificare i suoi atteggiamenti? Tu e Liam parlate di lui come se avesse bisogno di aiuto e...”
“E ne ha, Harry. Anche se non vuole ammetterlo, Louis ha bisogno di essere aiutato.”
Interruppe il mio discorso e mi disse quelle parole guardandomi dritto negli occhi con voce estremamente seria, quasi come se volesse farmi capire qualcosa che però non aveva il permesso di dire.
Buttai giù in un solo sorso il bicchiere di Bourbon e sospirai.
“Niall, se potessi, se solo me lo permettesse, io lo aiuterei. Devi credermi.”
“Io ti credo Harry, e sono anche sicuro che tu sia l’unico che possa aiutarlo.”
Lo guardai con aria scettica.
“Andiamo Harry, non guardarmi così! Tu e Louis avete sempre avuto un rapporto tutto vostro.
Vi intendevate con un solo sguardo, ridevate a battute che gli altri nemmeno capivano, vi supportavate in qualsiasi momento a qualsiasi costo. Voi non eravate Harry e Louis, voi eravate i Larry. Te lo ricordi come vi chiamavamo no?” a quel ricordo mi sfuggì una risata amara “e nonostante fosse un nomignolo imbarazzante, rendeva perfettamente il concetto: eravate solo voi due. Vi volevate bene in un modo così esclusivo che a volte anche noi stentavamo a capire quanto forte fosse ciò che vi legava.
Quindi sì, Harry. Nonostante siano passati quattro anni e siano cambiate tante cose, io penso che voi vi vogliate bene come allora e che tu possa aiutarlo veramente.
Non ti fare ingannare dalla sua corazza, Louis lo fa per proteggersi.
Cerca solo il punto più debole di questo scudo e poi prova ad entrare, sono sicuro che Louis abbia lasciato una breccia apposta per te.”
Non mi ero mai reso conto di quale fosse l’immagine che gli altri avessero di noi, non avevo mai capito quanto facilmente l’intensità del nostro legame arrivasse agli occhi di chi ci osservava.
Perché io dentro di me lo sentivo quanto fossimo speciali, quanto avessimo bisogno l’uno dell’altro per stare bene, ma mai avrei immaginato che insieme, anche solo guardandoci o sfiorandoci, trasmettessimo un tale senso di appartenenza.
Lasciai che le parole di Niall mi si espandessero dentro; fu come guardarsi da fuori, rivedere i fotogrammi della vita passata assieme. Sentii subito un groppo formarsi alla gola, perché se c’era una cosa che non avrei mai voluto, era essere spettatore inerme della nostra relazione, che compiange i vecchi momenti e rimpiange le scelte sbagliate.
Niall mi rivolse un sorriso incoraggiante mentre mi stringeva una mano e con l’altra alzava il calice per fare ‘cin cin’ col mio. Guardai il fondo del bicchiere, sperando di trovare le risposte tra le sfumature bionde del liquore. Poi lo buttai giù tutto d’un fiato.
 
 
 
 
Louis
 
Non ero entrato in quel pub da nemmeno cinque minuti e avevo già calato tre shots di tequila.
“Adesso hai bevuto abbastanza o dovrò aspettare altre cinque di quelli prima che tu mi dica cos’hai?”
Dopo quello che era successo al campetto con Harry e tutta la tensione che avevo accumulato nelle ultime due settimane avevo bisogno di ubriacarmi. Ma farlo da solo non era una buona idea, così decisi di trascinare Liam nel mio vortice di follia e irresponsabilità.
Ogni tanto potevo pur permettermi di comportarmi come un normale ventitreenne, no?
Buttai giù altri due cicchetti e poi presi a parlare.
“Dunque la situazione è questa: ti avevo già detto che ultimamente mi sentivo strano, no?”
“Sì, Tommo. Ti prego vai al dunque.”
“Siamo impazienti per caso, Payne?”
Vidi Liam alzare gli occhi al cielo e schiaffarsi una mano sul viso con fare esasperato.
Mi misi a ridere, forse con troppa enfasi, e percepii l’alcool cominciare a fluire libero nel mio corpo.
“Comunque, sono arrivato ad una conclusione. Sono sicuro che qualcuno mi stia seguendo.”
“Cristo Santo, ci mancava solo questo. Ok credo di aver bisogno di bere anch’io per sostenere questa conversazione.”
Risi di nuovo, afferrai la bottiglia di tequila e cominciai a riempire i bicchierini di Liam che fino a quel momento erano rimasti vuoti.
Ne bevve tre tutti di fila, batté il palmo della mano sul bancone in legno e poi si girò verso di me, dandomi la sua completa attenzione.
“Dunque, hai uno stalker che ti perseguita?”
Lo vidi trattenere a stento una risata, ma questa volta invece di scherzare anch’io, lo afferrai per il bavero della maglietta e lo avvicinai con rabbia e frustrazione al mio viso.
“Liam, sarò anche mezzo ubriaco ma non sto scherzando, cazzo! Non dormo da dodici giorni, mi guardo attorno ogni volta che cammino per strada, ovunque sono sento dietro di me l’eco di passi che non sono i miei, mi sento perseguitato e non so se questo significa che sto diventando pazzo o che ho dei sensi iper sviluppati. Sono perennemente nevrotico, più elettrico di una pila carica, mi scazzo più del solito con gente che non se lo merita e tutto questo perché vedo sempre una fottuta ombra accanto a me da dodici fottuti giorni. Non ho idea di chi sia, ma la mia mente mi dice che potrebbe essere quel bastardo di Dan! Sto passando l’inferno e mi sembra di stare impazzendo, quindi dimmi Liam, vuoi ancora ridere?”
Vomitai tutte quelle parole d’un fiato.
Erano stati dei giorni di merda e stavo implodendo. Anzi no, me la stavo proprio facendo sotto dalla paura, perché se realmente qualcuno mi stava seguendo, chi poteva essere se non Dan? E se Dan mi stava seguendo era perché sicuramente stava architettando qualcosa, ma la domanda era: cosa? Quale sarebbe stata la sua mossa? Dio solo sapeva quanto durante quelle notti avessi tremato nella solitudine delle mie lenzuola. Solitudine, sì. Perché ne avevo parlato con Eleanor, e lei come sempre aveva sminuito tutto per non farmi preoccupare, ma io non avevo bisogno di qualcuno che mi consolasse, io avevo bisogno di qualcuno che mi capisse e mi credesse, non che mi facesse sentire un completo idiota che veniva perseguitato dai fantasmi del proprio passato.
E come mi capitava spesso, questa volta aiutato anche dall’alcool, avevo manifestato tutto il mio malessere sfogandomi su Liam.
Vidi riflesso nei suoi occhi il senso di colpa che attanagliava i miei, così mollai la presa dalla sua maglia e mi fiondai su di lui, abbracciandolo stretto, sperando di non cadere e rompermi in mille pezzi.
“Scusami Liam, mi dispiace, scusa.”
“Louis, ehi guardami.”
Sciolse l’abbraccio e mi prese il volto, puntando il suo sguardo nel mio.
“Non volevo farti sentire un idiota, scusami. Troveremo una soluzione anche a questo, non sei solo, ok?
Tu sei proprio sicuro che qualcuno ti stia seguendo?”
“Sì Liam, sì. I primi giorni pensavo che fosse causa dello stress, ma poi ho cominciato a notare movimenti sospetti, soprattutto al campo. Io non so che pensare, so solo che questa situazione mi sta facendo uscire pazzo.”
“Perché hai aspettato tanto per dirmelo? E se ti fosse successo qualcosa? Da oggi sei pregato di non camminare più da solo. Chiama chi vuoi, me, Niall, ma non rimanere mai solo. Hai capito?"
Mi costò uno sforzo immane annuire ed accettare le sue condizioni. Era naturale per me rifiutare sempre l'aiuto che i miei amici volevano darmi. Di solito ero io quello che aiutava gli altri, mia madre e le mie sorelle soprattutto, e riconoscere di avere bisogno di aiuto era una sconfitta, perché significava che non ero così forte e invincibile come mi raccontavo di essere.
Perché come potevo essere d'aiuto a qualcuno se il primo ad averne bisogno ero io stesso?
"Ti è mai capitato di vederlo?"
 Ancora una volta Liam interruppe uno dei miei momenti di alienazione. 
"Più o meno. Ieri sentivo qualcuno dietro di me, ma quando mi sono girato ho visto solo la sua schiena, ma è stata una frazione di secondo, poi è sparito. Non lo so, è tutto strano."
"Ti prometto che si risolverà tutto. Magari alla fine scopriamo che è qualche vecchia compagna del liceo che è follemente innamorata di te e vuole sabotare il matrimonio."
Risi di gusto, provando a liberare la mia mente da tutti i pensieri negativi.
"Ti prego non mi nominare donne e matrimoni. Siamo qui per ubriacarci e sembriamo entrambi ancora troppo sobri, quindi propongo di rimediare subito."
Afferrai la bottiglia di tequila svuotandola nei nostri bicchierini e ne ordinai un'altra al barista che mi guardò di sbieco.
"Amico non giudicarmi, è stata una settimana di merda!"
Liam scoppiò a ridere sinceramente guardando la reazione del ragazzo dietro al bancone, poi prese il suo cicchetto, lo fece scontrare col mio e ricominciammo a bere.
 
Quando uscii dal locale erano le due e mezza ed ero talmente ubriaco che se mi avessero chiesto di scrivere il mio nome probabilmente non ne sarei stato in grado.
 Alla fine la serata ebbe il solito epilogo: io bevvi come un dannato tanto da farmi appannare la vista mentre Liam abbandonò l'idea di ubriacarsi con me, corrompendo con dei soldi il barista per costringerlo a non darmi più da bere.
Quando poi persi ogni facoltà di pensiero o movimento mi trascinò fuori dal locale e mi accompagnò fino a davanti casa.
Ma quando si allontanò io decisi che di entrare a casa non ne avevo proprio voglia, così, incosciente e coglione come ero, dimenticandomi di avere qualcuno che osservasse le mie mosse ogni singolo giorno, cominciai a ciondolare per le strade senza sapere dove dirigermi.
 Le mie gambe mi condussero in una stradina vicino al pub in cui lavorava saltuariamente Niall, ma i piedi ad un certo punto non risposero più ai comandi e io caddi per terra, sbattendo con forza il ginocchio sinistro. Provai ad alzarmi ma il dolore alla rotula era lancinante, costringendomi a rimanere accasciato sul marciapiede. E in quel momento accadde tutto velocemente: un flashback, un pensiero, un disperato grido d’aiuto, una due mille lacrime, e poi due braccia d'angelo, calde e delicate, che mi sollevarono da terra, impedendomi di essere risucchiato dal centro esatto dell'inferno.
Ancora non sapevo che quello era solo l'inizio, il primo di una lunga serie di salvataggi.
 
 
 
 
Harry
 
Io e Niall ci eravamo salutati prendendo direzioni opposte.
Come al solito, nonostante fossi uscito con l'intenzione di ubriacarmi per soffocare la frustrazione, non ero riuscito a bere più di due mezzi bicchieri di liquore. Niall, al contrario, ci era andato pesante, godendosi il suo giorno di pausa dal lavoro.
Stavo camminando verso la macchina quando venni distratto da una figura che a stento riusciva a mantenersi in piedi, nel marciapiede di fronte al mio. Quel tizio era ubriaco marcio e sembrava piuttosto confuso, tanto che neanche un secondo dopo lo vidi con le ginocchia a terra, come se fosse stato svuotato della vita stessa e non avesse altra scelta che lasciarsi cadere, parandosi con le mani per evitare di sbattere anche la faccia.
Provò ad alzarsi ma non ci riuscì. Fu in quel momento che un urlo straziato uscì dalle sue labbra, e non appena sentii la sua voce il mio cuore perse un battito, o forse più di uno, perché la riconobbi subito, sapevo a chi appartenesse.
Non ci pensai nemmeno un attimo, mi fiondai immediatamente dall’altro lato della strada, correndo verso di lui.
Quando fui vicino abbastanza da sentire i suoi sussurri sconnessi, rimasi pietrificato sul posto. 
“Che c'è, vuoi portarmi di nuovo via il ginocchio?”
Parlava da solo ma sembrava rivolgersi a qualcuno su nel cielo, la testa rivolta verso l’alto e gli occhi serrati in un momento di follia e verità.
“Puoi prendertelo, tanto ormai non mi serve più! Portatelo via come hai fatto con Mark, con la nonna, con il calcio, con Harry. Mi hai tolto tutto!”
Il cuore mi schizzò in gola, iniziò a battere velocemente, le mani cominciarono a sudare e il mondo si mise a vorticare troppo velocemente.
“Perché anche lui ti sei dovuto prendere. E io adesso non ho più niente."
I singhiozzi che aveva cercato di trattenere fino a quel momento esplosero in un pianto muto, ma che gridava dolore a voce fin troppo alta.
“Non ho più niente” continuava a ripetere, in una litania straziante.
“Non ho più forza, non ho più speranza.”
Queste furono le ultime parole che le sue labbra tremanti e sfinite riuscirono a dire, prima che sferzasse un pugno contro l'asfalto, che si macchiò subito dopo del suo sangue, e si abbandonasse alle lacrime come non lo avevo mai visto fare. E io ero semplicemente sopraffatto, perché sentire tutto quel dolore in una sola volta era come ricevere uno schiaffo talmente violento da farti girare la testa.
Era troppo per me vederlo così, distrutto dentro e fragile, quando invece l'immagine che voleva dare di sé era tutt'altra.
Era troppo per me sentire pronunciare dalla sua voce rotta il mio nome, come se fossi una delle cose più preziose che avesse avuto nella sua vita e che gli era stata strappata via a forza dalle mani.
In quel momento mi tornarono in mente le parole di Niall: ‘cerca solo il punto più debole di questo scudo e poi prova ad entrare, sono sicuro che Louis abbia lasciato una breccia apposta per te.’
Così mi avvicinai a lui con cautela, come quando si vuole salvare un gattino sul ciglio della strada ma ci si muove lentamente, per paura che possa scappare.
Mi rannicchiai dietro di lui e poggiai le mani sulle sue braccia, sentendo quanto stesse tremando.
"Louis."
Non si mosse, non mi rispose, probabilmente non mi sentì nemmeno.
“Sono qui, mandatemi un angelo. Per favore.”
Fu un sussurro talmente debole che a stento riuscii a sentirlo.
Sentii gli occhi cominciare a riempirsi di lacrime.
Cercai di ricacciarle indietro e mi avvicinai un po' di più , posai le labbra accanto al suo orecchio e lo chiamai con tutta la dolcezza che possedevo, quasi come ad accarezzarlo con la mia voce, adesso tremante.
"Louis, sono io, Harry."
Questa volta sembrò sentirmi, perché cercò di liberarsi dalla mia presa e cominciò ad urlare esasperato.
"Esci dalla mia testa! Tu non sei realmente qui. Tu te ne sei andato, mi hai lasciato solo, smettila di tormentarmi!"
Mi odiai. Ma come in quel momento provai profondo odio e schifo per me.
Cosa avevo fatto al mio Louis?
Come avevo finito per fargli così tanto male nel mio maldestro tentativo di proteggerlo?
Riuscivo a sentire addosso l’irrimediabilità di tutto il suo dolore, perché era talmente lacerante che anche nell'incoscienza Louis era in grado di riconoscere la mia assenza, di percepire la mia mancanza.
Avvertii il pizzicore agli occhi farsi più fastidioso, ma mi impedii di piangere.
Non era il momento di auto commiserarsi. Ero lì solo per lui, per provare ad asciugargli lacrime e dolore.
Lo vidi portarsi le mani ai capelli per tenersi la testa, come se temesse che da un momento all'altro sarebbe esplosa.
Aveva gli occhi serrati, si rifiutava di aprirli. Mi misi davanti a lui e delicatamente presi le sue mani tra le mie, stringendole, sporcandomi con il suo sangue, ponendo fine alla tortura a cui stava sottoponendo i suoi capelli, tirandoli e stringendoli fra le dita fragili e tremanti.
"Louis, apri gli occhi. Io sono qui, con te."
Aspettai minuti infiniti prima di vedere le sue palpebre sollevarsi lentamente e rivelare quelle bellissime iridi blu, intrise di sofferenza, brillanti per via delle lacrime.
Rimasi senza fiato.
Quella era la prima volta dopo tanto tempo che mi guardava, che mi vedeva.
Fino a quel pomeriggio avevo provato ad instaurare un contatto visivo, quello che ci permetteva di comunicare veramente senza neanche dire una parola, ma lui era sempre sfuggito ai miei occhi che avevano provato a leggere nei suoi.
Per la prima volta dopo quasi tre settimane, Louis mi vide davvero, e sembrò rimanere sconvolto.
Nelle sue pupille nere, profonde, riuscii anche a scorgere il riflesso dei miei occhi, riuscii a vedere i nostri occhi, insieme, mescolati, come era sempre successo e come non accadeva da tempo.
E guardando le sue iridi, rese troppe liquide dall'alcol, mi resi conto che fosse quella la chiave con cui avrei dovuto aprire la via che mi avrebbe condotto a lui.
I suoi occhi erano la chiave. Perché erano talmente limpidi e cristallini che dentro non vi si potevano nascondere menzogne e sotterfugi, erano trasparenti, veri, puri come il suo cuore.
E non mi importava se la strada fosse ripida e scoscesa, io l'avrei percorsa comunque.
Louis sembrava diffidente, come se fosse impossibile che io fossi realmente lì con lui, sicuramente pensava che la sua mente, aiutata dai drink che aveva bevuto, gli stesse giocando un altro stupido scherzo.
Lo vidi sbattere più volte le palpebre in uno sfarfallio delicato di ciglia e poi puntò di nuovo lo sguardo nel mio.
"Harry..."
Sentirlo chiamarmi con incredulità, forse speranza, senza che nella sua voce ci fossero tracce di odio e rancore, mi diede il coraggio di avvicinarmi ancora un po' e asciugare con la punta della dita le lacrime che continuavano a rigargli le guance scarne.
“Sono io, sono qui.”
“Sei qui per me?”
Non dimenticherò mai l’espressione di Louis quando, con un filo di voce, mi chiese di esserci.
Sempre, per lui.
Anche dopo gli anni passati, le ferite e le lacrime.
Con quella domanda, Louis Tomlinson mi chiese inconsapevolmente di salvarlo.
“Sì Louis, sono qui per te.”
Mentre pronunciavo quelle parole vidi Louis spingersi contro il palmo della mia mano, a ricercare una carezza che non gli negai. Era il suo modo per cessare tra di noi quella battaglia folle e testarda che si era ostinato a voler portare avanti.
 La sua guancia si sporcò di sangue e sul suo viso apparve un'espressione serena, e io mi sentii veramente felice per la prima volta dopo il mio arrivo a Doncaster, perché da quando ero tornato non avevo mai visto Louis così, che nonostante in quel momento fosse distrutto, sembrava essere in pace col mondo.
“Sarebbe meglio se tornassi a casa adesso.”
“Dove si va quando la tua dimora non è la tua casa?” rispose lui.
Mi guardava cercando di strapparmi una riposta dagli occhi, ma io non l’avevo.
Come potevo averla, dopo tutto quello che avevo appena visto e sentito?
Sapevo solo che se lui avesse voluto, se solo me lo avesse chiesto, sarei tornato ad essere io la sua casa.
“Non lo so Lou, non lo so… Però potrei venire con te, se vuoi.”
Una scintilla nel blu del suo sguardo tentennante, come una stella cometa ad attraversare il cielo nel cuore della notte, poi un lieve gesto di assenso.
“Sì, forse così andrebbe meglio.”
Non me lo feci ripetere due volte, lo sollevai piano da terra stringendomelo addosso e cominciai a camminare verso casa sua, dimenticandomi della macchina parcheggiata chissà dove, di mia madre che mi aveva chiesto di non fare tardi, dimenticandomi di tutto.
 
 
 
 
"Fa' attenzione!"
Non eravamo neppure entrati a casa che Louis era già spalmato a terra.
Nel buio non aveva visto il gradino dell’ingresso ed era inciampato, ed io non avevo saputo trattenerlo in tempo per evitargli di cadere.
Cominciò a tossire convulsamente fino a quando non venne assalito da un conato di vomito.
Di male in peggio, pensai.
“Louis? Devi vomitare?”
Annuì freneticamente e "bagno" disse soltanto, prima di portarsi una mano sulle labbra.
Mi guardai attorno cercando il bagno ma al piano di sotto non sembrava esserci altro oltre al salotto e alla cucina.
Con l'indice indico il piano di sopra, e a me venne da piangere perché salire tutte con Louis in quelle scale sarebbe stata un'impresa.
Con una mano cercai l'interruttore sul muro e accesi le luci, poi sollevai Louis da terra e cercai di condurlo al piano superiore.
“Ce la fai a salire le scale?”
Fece un cenno affermativo con la testa ma appena provò a salire il primo gradino rischiò di cadere di nuovo.
Sospirai esausto, e rassegnato lo presi in braccio cominciando a salire le scale, cercando di raggiungere il primo piano prima che Louis mi vomitasse addosso.
Non che non fosse successo già quando eravamo più piccoli, ma era un'esperienza che avrei preferito non ripetere.
Quando finalmente trovai il bagno poggiai Louis a terra davanti al water e gli tolsi il cappotto.
Qualche secondo dopo cominciò a vomitare persino l’anima.
"Vattene Harry!" disse tra un conato e l'altro con tono aggressivo, ma non gli diedi ascolto.
Mi avvicinai a lui e con una mano gli tenni la fronte, mentre con l’altra gli massaggiavo la schiena per cercare di tranquillizzarlo.
Inizialmente tentò di ribellarsi alla mia vicinanza, ma poi parve arrendersi e abbandonarsi al tocco delle mie mani.
“Ma come ti sei ridotto, Lou?”
Non riuscii a trattenermi dal lasciare andare in quel sussurro i miei pensieri e lui mi rivolse uno sguardo truce, leggendo forse nella mia voce una pietà che non voleva ricevere.
Si irrigidì di nuovo e i suoi occhi tornarono ad essere gelidi e impenetrabili, non più dolci e speranzosi come erano stati pochi minuti prima.
“Non sono affari tuoi. Ognuno sfoga la frustrazione come gli pare e io...”
Non riuscì a terminare la frase che riprese a vomitare, aggrappandosi con le mani alla tavolozza del water. Quando finalmente finì, si accasciò a terra, e sfinito cominciò a singhiozzare.
Interpretai il suo abbandonarsi in quel modo come una tregua momentanea, perché capii che era quello di cui Louis aveva più bisogno in quel momento. E questo lo sapevamo entrambi.
Mi avvicinai a lui e lo abbracciai forte, come ad impedirgli di scappare.
“Shh, va tutto bene, Louis. Non piangere per favore.”
“Non è tutto ok Harry, è tutto una merda!”
“Posso aiutarti, devi solo permettermelo. Devi solo fidarti di me.”
A quelle parole strinse i pugni sulla mia maglietta, all’altezza delle clavicole, e se possibile, cominciò a piangere più forte di prima.
“Non è vero, nessuno può aiutarmi. Io sono solo, Harry.”
Me lo strinsi più addosso, portandomelo sulle gambe, e gli asciugai le lacrime dal viso.
“Louis, guardami. Adesso sono qui, non sei più solo.”
Era forse troppo presuntuoso, da parte mia, credere di essere l’unico in grado di poterlo aiutare veramente, dopo che lo avevo abbandonato? Era troppo da ingenui credere che lui mi avrebbe perdonato, che si sarebbe fidato di me?
“No Harry, tu te ne andrai. Lo hai già fatto una volta, nulla ti impedirà di farlo ancora.”
L’arrendevolezza con cui lo disse mi lasciò spiazzato, come se fosse sicuro che io lo avrei abbandonato facilmente, come avevo fatto quattro anni prima.
Solo che lui ancora non sapeva che questa volta avrei combattuto pure con le unghie pur di rimanere, pur di non lasciarlo di nuovo solo.
E sì, forse ero troppo ingenuo, ma avere speranza significava essere ingenui o semplicemente essere ottimisti? Sperare che le cose potessero cambiare era da stupidi?
Rimanemmo in quella posizione per un tempo che mi parve infinito, poi Louis sembrò ridestarsi.
Mi guardò di nuovo con gli occhi freddi e si alzò dal mio corpo come se quel contatto che avevamo avuto fino a quel momento fosse tremendamente sbagliato, tanto da essersene pentito immediatamente.
“Dovresti andartene, è tardi.”
Uscì dal bagno e andò in quella che pensai fosse camere sua, chiudendosi la porta alle spalle, senza neanche salutarmi.
Indifferenza, di nuovo.
Sembrava che ogni volta riuscissimo a instaurare un contatto, anche minimo, lui ne fosse sollevato, forse contento, ma poi si ricordasse del vuoto che gli avevo lasciato dentro, di come lo avessi fatto sentire sbagliato e non all’altezza di ciò di cui avrei avuto bisogno, e così scappava, lasciandomi dietro di lui, cercando di respingermi  come se fossi qualcosa che ormai apparteneva solo al passato, e per cui non c’era spazio nel suo presente.
I suoi cambiamenti di umore mi confondevano, mi scoraggiavano, ma non mi sarei arreso.
Gli avrei lasciato il suo tempo per sbollire la rabbia, la delusione, e poi sarei tornato, come sempre avevo fatto, come sempre avrei fatto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note personali:
 
Buona sera ragazze.
Torno dopo poco più di una settimana con questo capitolo che, devo ammettere, non è stato semplice da scrivere.
Mi auguro comunque vi sia piaciuto leggere di questo inaspettato cedimento di Louis e del suo momentaneo avvicinamento ad Harry.
Vi aspettavate questa svolta? Cosa ne pensate?
Sarei curiosa anche di scoprire che pensiero vi siete fatte di Harry, come vedete il suo personaggio, se vi sembra incoerente o se credete che dietro al suo comportamento si nasconda qualcosa.
Spero davvero vogliate farmelo sapere, vorrei scoprire qual è l’impressione che si ha della storia dall’altro lato dello schermo.
Vi auguro una buona serata (e tra l’esibizione di Harry a X Factor e quella di Louis a Manchester, sicuramente lo sarà!)
Un abbraccio,
Letizia.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** If I could fly ***


Louis
 
Mi svegliai con le tempie che pulsavano ad un ritmo incessante.
Quando aprii gli occhi mi sentii confuso, ma per fortuna la sbornia era passata.
La sera prima sembrava essere lontana anni luce, sfocata nella mia testa confusa, ma di una cosa ero certo: le carezze e le attenzioni di Harry non erano state frutto della mia immaginazione o del mio stato di ebbrezza.
Mi aveva raccolto e mi aveva portato a casa, mi era stato accanto mentre vomitavo alcool e rimpianti, si era preso cura di me e tutto quello mi era piaciuto talmente tanto che alla fine l’avevo respinto.
Era più forte di me, non riuscivo a non allontanarlo.
Era la paura che potesse abbandonarmi di nuovo a reagire, non io, ché se fosse stato per me non lo avrei lasciato andare mai.
Per questo continuavo a scappare, perché il mio primo istinto sarebbe sempre stato quello di tenerlo con me, ma sapevo che questo non era possibile, lui non voleva restare qui, non voleva me, me lo aveva fatto abbondantemente capire molti anni prima.
Eppure, quando l’avevo cacciato malamente da casa mia, avevo visto nei suoi occhi una delusione tanto grande che mi aveva colpito dritto allo stomaco come un pugno ben assestato.
E in quel momento, per la prima volta, mi chiesi se anche io stessi sbagliando.
Perché se Harry era andato via dall’Inghilterra, dimenticandosi facilmente di me – come credevo avesse fatto –io non potevo di certo ritenermi migliore di lui. Da quando era tornato a Doncaster non avevo fatto altro che evitarlo, sfuggendo al suo sguardo, respingendo i suoi maldestri tentativi di farsi ascoltare, di raccontare la sua versione dei fatti. Impedendogli semplicemente di avvicinarmi.
Mi ero limitato a mostrargli la rabbia, voltandogli ripetutamente le spalle.
E potevo raccontarmi tutte le bugie che volevo: che appena arrivato in paese il suo primo pensiero fosse stato quello di chiamare Liam e Niall, ma che non avesse sentito l’esigenza di fare lo stesso con me, che questo dimostrasse quanto poco gli importasse di quello che una volta riteneva il suo migliore amico, ma la verità era che io avevo paura di affrontare Harry.
Nonostante avessi sempre disperatamente sperato di rincontrarlo, avevo paura.
Perché sapevo che un solo suo sguardo sarebbe bastato per far crollare i muri che faticosamente mi ero costruito attorno in quegli anni.
Ero in continua lotta con me stesso, diviso tra il desiderio di vederlo e quello di evitarlo.
Tra il bisogno di odiarlo e l’impossibilità di farlo.
Un’estenuante e continua battaglia tra poli opposti, cuore e raziocinio, che testardamente difendevano le proprie ragioni. Ma era veramente così netto il confine tra torto e ragione, tra chi subisce e chi ferisce, tra chi ci tiene troppo e chi non abbastanza? Mi ero davvero convinto che fosse tutto o bianco o nero?
Avevo realmente la presunzione di erigermi su un piedistallo di giustezza, senza aver prima provato ad ascoltare la sua versione dei fatti? Come potevo accusarlo di non avere nemmeno provato a parlarmi se io non continuavo a fare altro che respingerlo?
Eppure non riuscivo ad ignorare quella sensazione che mi si era appiccicata addosso dalla sera prima, come l’umidità estiva che si attacca alla pelle e non ti lascia fin quando non decidi di lavarla via.
Avevo bisogno di vederlo.
Un  bisogno capriccioso, inspiegabile e martellante.
Un’urgenza testarda che non riuscivo a mettere a tacere.
Di parlargli, di capire, di provare a mettere insieme i pezzi mancanti di una verità raccontata solo a metà, di una storia incompleta.
E sarei stato un ipocrita se non avessi detto che la sera prima, Harry, mi aveva sconvolto  in tanti modi diversi. Per la dolcezza, il coraggio, e la calma con cui si era preso cura di me.
Per la tenera caparbia con cui non si era fatto scoraggiare dai miei altalenanti rifiuti mischiati ad esigenze.
Non volevo che quella notte passasse come niente fosse.
Io non lo meritavo, e forse nemmeno lui.
Fu questa la spinta irrazionale che mi fece alzare dal letto e scendere in cucina. Mi misi alla ricerca disperata di un'aspirina, sperando in questo modo di alleviare l’inferno che mi era scoppiato in testa, ma nelle mensole non trovai nulla.
Mi guardai intorno e sul tavolo notai due bigliettini e un sacchettino.
Uno era da parte di Eleanor, mi rimproverava di non rispondere mai alle sue chiamate e mi avvisava di essere partita improvvisamente per un corso di aggiornamento fuori città.
L'altro, attaccato al piccolo sacchetto, recitava ‘queste ti serviranno domani per il post-sbornia. H.’
Lo aprii e vidi una confezione di aspirina.
Sorrisi perché quel gesto era tipico di Harry.
Sorrisi perché forse non era tenuto a farmi sapere che aveva pensato a come sarei potuto stare l’indomani di quella nottataccia, soprattutto non dopo che lo avevo mandato via così malamente, eppure lo aveva fatto lo stesso.
Si stava prendendo cura di me pur non essendomi accanto.
Sorrisi  perché mi sentivo il cuore più leggero, nonostante tremasse per qualcosa che sarebbe esploso di lì a poco, piccolo tremolio avviso di un distruttivo terremoto.
Presi una compressa, salii a lavarmi e poi uscii di casa senza pensarci troppo, prima di potermi pentire di quello che stavo per fare.
 
 
 
 
Arrivai davanti casa di Harry che mi sentivo stordito dai pensieri che incessantemente mi frullavano nella testa.
Rimasi a fissarla dall’altro lato del marciapiede per minuti infiniti.
Quando pensai fosse passato abbastanza tempo, inspirai profondamente e attraversai la strada, avviandomi verso il piccolo giardino di fronte all’ingresso.
Aprendo il cancelletto in legno mi ritrovai ad abbassare istintivamente la testa, cercando di stabilizzare il respiro che inspiegabilmente aveva cominciato ad accelerare.
Feci un passo e mi scontrai con qualcosa che per un breve istante mi fece perdere l’equilibrio.
Alzai gli occhi e mi resi conto di essere stato appena travolto da Anne che tutta trafelata usciva da casa.
Non appena mi vide, un sorriso luminoso le dipinse le labbra.
“Louis...”
La sua voce era satura di stupore, allo stesso modo dei suoi occhi che mi osservavano come se non riuscissero a credere che proprio io, dopo quattro anni, avessi messo di nuovo piede nel loro giardino.
Sorrisi per l’ironia della sorte. Fino a qualche anno prima, essere in casa loro, con Harry, era la normalità che riempiva le nostre giornate. Adesso invece dovevo solo apparire fuori luogo lì, quasi come se fossi un estraneo ormai.
In quel momento mi resi conto che il tempo ha il potere di cambiare tante cose, forse troppe, e che noi siamo solo vittime costrette a subirne l’inevitabilità degli eventi.
“Posso esserti d’aiuto, tesoro?”
Anne sembrò accorgersi della mia esitazione, io mi grattai la barba incolta con la mano che prima di uscire avevo fasciato.
“In realtà sono qui per... Harry è in casa?”
Vidi il suo sguardo incredulo trasformarsi in un’espressione di felicità non appena mi sentì dire quelle parole, e mi rivolse un ampio sorriso che somigliava tanto a quello di Harry.
“Certo! Entra pure, credo sia già sveglio.”
“Grazie mille.”
“Non c’è di che. Adesso scusami, devo scappare. Spero di rivederti qui presto!”
E senza perdere il suo meraviglioso sorriso mi posò un bacio gentile su una guancia, prima di sparire dentro alla sua auto scura.
Sorrisi sinceramente a quella dimostrazione di affetto genuina.
Mi sfiorai la guancia e mi meravigliai di come un semplice gesto, istintivo, figlio di una vecchia abitudine, potesse riportarmi indietro nel tempo.
Suonai il campanello con un dito tremante, incerto su cosa stessi realmente facendo, e rimasi in attesa, perdendomi ad osservare la piccola altalena sul portico dove io e Harry, durante le lunghe notti d’estate, eravamo soliti sorseggiare tè e leggere poesie sotto i raggi della luna.
Non sapevo nemmeno cosa gli avrei detto una volta entrato in casa, né come lui avrebbe reagito nel vedermi lì.
Quando sentii il rumore del portone che si apriva il mio cuore singhiozzò.
 Mi girai lentamente e vidi un Harry leggermente assonnato guardarmi con confusione mentre con una mano si strofinava l’occhio destro, sembrando un bambino.
Era a petto nudo, con i tatuaggi scuri in vista e dei pantaloni della tuta troppo larghi per essere suoi.
“Louis?”
Deglutii prima di formulare una risposta.
La bocca era diventata improvvisamente secca, la saliva sabbia arida a raschiarmi la gola.
“Harry. Spero di non averti svegliato” riuscii a gracchiare alla fine.
Quel suo sguardo incredulo, fissato ancora prepotentemente su di me quasi fossi un miraggio, mi stava consumando al punto da farmi desiderare di scappare via.
Non riuscivo a sostenerlo, mi faceva sentire inadeguato perché non mi sentivo all’altezza della sua intensità, non volevo deluderne l’aspettativa.
“No assolutamente, ero già sveglio. Vieni dentro, qui fuori si congela.”
Spalancò la porta per permettermi di entrare ed io sussurrai un flebile "grazie" prima di varcare la soglia di casa.
Non appena mi ritrovai nel salotto di casa Styles mi sentii risucchiato da un vortice di ricordi.
Era tutto ancora come lo ricordavo: la tv con la consolle per la playstation, i divani in pelle marrone, la vetrinetta che, tra le tante cose, conservava ancora  le foto della nostra festa di diploma, quando insieme avevamo festeggiato in un locale poco lontano da Doncaster.
Quella casa era un contenitore di momenti condivisi che non ero pronto a rivivere.
Mi avvicinai ad osservare la foto di me e Harry che, con indosso tocco e toga, sorridevamo all’obiettivo. Accanto a questa, un'altra foto in cui stappavamo lo spumante, gli occhi di Harry pieni di gioia e aspettative, i miei pieni di incredulità – perché se ero riuscito a diplomarmi era solo grazie a lui – e anche di nostalgia perché sebbene fosse ancora con me, già ne sentivo maledettamente la mancanza.
Mi resi conto di essere rimasto immobile davanti alla vetrina ad osservare le nostre foto quando sentii la presenza di Harry accanto a me.
Indossava una maglietta ora e mi stava fissando con quella che mi parve malinconia mischiata ad un imbarazzo gemello di quello che colorava i miei occhi.
Lanciò uno sguardo fugace alle foto che fino a poco prima avevo osservato anch’io e poi mi fece cenno di seguirlo in cucina.
“Vuoi qualcosa? Posso farti un tè.”
Nella sua voce colsi una tensione che fino a quel momento avevamo solo respirato nell’aria, nelle sue mani vidi il nervosismo figlio della paura di fare qualcosa di sbagliato, lo stesso che faceva correre in un ritmo scalpitante il mio cuore. Ancora una volta ci stavamo nascondendo dietro muri di vetro troppo sottili, stavamo cercando di mascherare le nostre emozioni con gesti che sarebbero dovuti sembrare naturali, ma che in realtà facevano scoprire il nostro bluff.
Stavamo fingendo, consapevoli comunque che l’altro non si stesse facendo ingannare.
Era un gioco massacrante, che serviva solo ad estenuarci, perché mai avremmo vinto se avessimo continuato ad uscirne separati.
"No grazie, sono a posto."
Mentii. Non avevo avuto nemmeno il tempo di bere un sorso di tè quella mattina, e nonostante il mio stomaco ne avesse il disperato bisogno, mi imposi di rifiutare. Ero sicuro non avrei retto se mi avesse porto la mia tazza, quella bianca con la L stampata sopra, in cui ero solito bere il tè a casa sua.
“Ti dispiace se mi preparo un caffè allora?”
“Da quando bevi il caffè tu?”
Mi morsi la lingua a sangue non appena pronunciai quella frase, ma ormai il danno era fatto.
Quando ore prima avevo lasciato il mio appartamento non l’avevo fatto con l’intenzione di rivangare insieme i vecchi tempi, né tantomeno mi trovavo lì per fargli sapere che ricordavo ancora quando anni prima diceva continuamente di odiare il caffè.
In effetti, pensandoci, non sapevo quale fosse il reale motivo per cui mi trovassi lì.
Forse c’erano tanti motivi, forse non ce n’erano affatto.
Appena sveglio, seppi solo che volevo andare da lui.
Mi mossi nervoso sul posto sperando stupidamente che non avesse sentito la domanda, invece lui si girò nella mia direzione e mi rivolse un sorriso meraviglioso, talmente intenso, che per un attimo mi sembrò di essermi liberato di tutta l'ansia che avevo, dei rancori, delle delusioni.
Un solo sorriso ed io ero tornato il vecchio Louis, quello adolescente che voleva un bene fuori dal comune al suo migliore amico.
Chiusi istintivamente gli occhi per paura che Harry potesse leggerci la nostalgia, la mancanza, e tutto ciò che non ero ancora pronto a far uscire fuori.
Quando lo sentii parlare li riaprii, e con mio gran sollievo vidi che era di nuovo di spalle.
“Ho cominciato a berlo in America. Se vuoi stare al passo con la loro vita frenetica non puoi farne a meno.”
Sentirgli nominare quella terra maledetta mi fece irrigidire sul posto.
Il portachiavi con cui avevo iniziato a giocherellare mi cadde dalle mani, e a quel piccolo tonfo Harry si voltò di scatto, i suoi occhi fissi sulla mia mano fasciata che si era protesa a raccogliere l'aggeggio.
Lo sentii sospirare mentre io abbassavo gli occhi.
"Come stai Lou?"
Ed eccola la domanda che tutti e due temevano.
Una domanda che se non fosse stata riempita dalla dolcezza disarmante di quel Lou, mi sarebbe sembrata un’accusa.
Una domanda che, come per un ironico effetto domino, ne aprì un’infinita serie nella mia testa e mi lasciò cadere in un silenzio fatto di difficoltà e indecisione.
Cosa potevo rispondergli se tutti quegli anni passati lontano da lui mi avevano intorpidito l’anima al punto da non sentire più niente? Da non essere più in grado di distinguere le emozioni?
Come stavo? Non ne avevo idea, l’unica cosa che sapevo è che un giorno, aprendo gli occhi, il sole si era tinto di nero e il buio era calato tutto attorno. Niente più sfumature, nessun colore brillante.
Tutto opaco e triste.
Il corpo si era definitivamente svuotato, la vita si era riempita di problemi e responsabilità, e tutto aveva assunto le fattezze del dolore. Intenso e viscoso dolore.
Decisi per questo di rispondere con un convenevole, l’ennesimo di quelli che erano iniziati non appena ero entrato a casa sua.
“Molto meglio. La sbornia è passata per fortuna.”
 Lui non rispose, mi osservava in attesa che dicessi altro, perché sapevamo entrambi che ci fosse dell’altro.
Il problema era che non sapevo come far venir fuori il casino che avevo dentro.
Per questo, prima di proseguire, presi due respiri profondi nel tentativo di trovare le parole giuste che sembravano non arrivare, preferivano nascondersi in qualche lontano meandro della mia mente stordita.
A quel punto decisi di parlare lo stesso, le parole sarebbero arrivate comunque, in qualsiasi forma.
Forse non sarebbero state abbastanza curate o ponderate, ma sarebbero state sincere.
“In realtà volevo scusarmi... Per ieri sera, intendo. Non avrei dovuto cacciarti via in quel modo dopo tutto ciò che hai fatto per me. E a proposito di quello… Grazie.”
La macchinetta del caffè lampeggiò e lui prese la sua tazza, adesso fumante di liquido bollente, senza staccare gli occhi da me.
Ancora quello sguardo che mi faceva tremare le pareti dell’anima contro il corpo, come se volesse uscire fuori e liberarsi di quella gabbia stantia.
Sentii un brivido intenso percorrermi la spina dorsale e feci istintivamente un passo indietro, come per proteggermi da quella sensazione che sentivo attanagliarmi le viscere, che mi impauriva, ma che non sapevo distinguere.
Lui di riflesso avanzò verso di me, posando la tazza sul tavolo con un tonfo sordo ma fermo, determinato.
“Louis, come stai?” e mi ripeté la domanda.
“Te l'ho detto. Sto bene adesso.”
Un altro passo indietro, un altro tassello ad aggiungere distanza.
Cominciai ad infastidirmi, percepii che la conversazione stesse andando verso una direzione che non avrebbe più rappresentato per me un terreno stabile. Stava per cominciare uno scontro senza esclusione di colpi in un territorio che temevo, che mi rifiutavo di conoscere, che avrebbe mostrato al mio avversario le ferite che lui stesso mi aveva inflitto nel tempo, in una battaglia iniziata anni prima.
“Non è alla sbronza che mi riferisco” disse cauto, la sua voce fluida come miele caldo.
Sapevo dove volesse arrivare, ma non gli avrei permesso di scavarmi dentro tanto facilmente. C'erano ancora strati e strati di mattoni da buttare giù prima di arrivare al centro di quello che mi aveva reso ciò che ero adesso: freddo, schivo, distaccato.
“In realtà non ho idea a cosa tu ti stia riferendo.”
Per questo incrociai le braccia al petto e preferii ostentare strafottenza, come sempre facevo, per mascherare la paura.
Quello della sera precedente era stato un crollo, mi ero affidato a lui in un momento di debolezza, ma si era trattato appunto di un momento. Probabilmente a mente lucida non avrei mai agito allo stesso modo, perché se dentro di me sapevo di aver bisogno di lui, sapevo anche di non essere ancora pronto ad accoglierlo di nuovo nella mia vita. Ma non per stupido orgoglio, quello senza dubbio era anche uno dei motivi, ma non quello determinante. La mia era semplice paura: lui se n’era già andato, chi mi assicurava che non l’avrebbe fatto di nuovo? Mi aveva rimpiazzato con dei nuovi amici dall'accento balordo, mi aveva detto che doveva andare avanti, come facevo ad avere la sicurezza che non sarebbe ricapitato?
Semplicemente, col tempo, mi ero rassegnato di fronte all'evidenza che per me lui rappresentasse più di ciò che io rappresentavo per lui e mi ero convinto a dover andare avanti, dovevo farlo, e lui adesso non poteva avere la presunzione di entrare di nuovo nella mia vita, così prepotentemente, senza preavviso, e trascinarmi indietro nel passato.
Avevo bisogno di lasciarmelo alle spalle, Harry, di dimenticarlo, solo così mi dicevo di poter riprendere in mano la mia vita. E nonostante in quei quattro anni non ci fossi riuscito, non smettevo mai di provarci.
Volevo stare bene, frantumare una volta per tutte quel filo di seta che mi faceva sentire ancora irrimediabilmente legato a lui.
Questo almeno, era quello che mi raccontavo di giorno.
Che la verità venisse a galla di notte, quando nel buio della mia stanza crollava il castello di bugie che durante il giorno mi ero costruito faticosamente attorno, era una cosa che sapevo solo io, e che fingevo di ignorare.
Era ciò che mi faceva stare meglio, il male minore mi dicevo.
Eppure per un attimo, guardandolo, vacillai. Ebbi paura che la determinazione che sosteneva i suoi occhi in uno sguardo fermo potesse sconvolgere il mio precario equilibrio emotivo.
Non volevo mostrarmi debole, non più di quanto avessi fatto la sera prima.
E non per insensata arroganza, cercavo di non mostrare le mie debolezze semplicemente perché non volevo fargli pena, non volevo che si avvicinasse a me perché mi considerasse un caso umano da aiutare o salvare. Desideravo solo che ritornasse da me perché la mancanza era più forte dell’orgoglio, dei capricci, della testardaggine, del pentimento, degli errori; desideravo che mi volesse, perché nonostante tutto ero ancora io, il suo Louis, e questo gli bastasse per tornare indietro.
Tutto qui.
“Ieri sera ti ho sentito, sul marciapiede.”
Con quella frase fu come se avesse gettato una bomba nel bel mezzo della stanza.
 Mi sembrava di vedere nell’aria la fuliggine che l’esplosione di quelle parole aveva cosparso attorno.
Caos. Assordante e disorientante caos.
Ero ubriaco marcio la sera prima, ma nella mia testa ronzavano ancora le frasi sconnesse che avevo pronunciato tra un urlo e l’altro.
La paura che il mio ginocchio si fosse rotto, di nuovo.
Il terrore che Dan mi stesse perseguitando.
Il nervosismo per l'incontro con Harry di quel pomeriggio.
Ero imploso, aiutato dall'alcool, e non ero riuscito a controllarmi.
E ricordavo perfettamente che mentre gridavo contro un Dio che non ero sicuro esistesse, non per me almeno, accusandolo di avermi portato via tutto ciò che ritenevo essenziale, avevo pronunciato il suo nome.
Il nome di Harry.
Perché lui rappresentava per me una delle cose più autentiche e preziose che mi fosse rimasta nella vita, e proprio quando ne avevo avuto più bisogno lui era sparito, ignaro di tutto quello che mi stava capitando, di come lentamente stessi scivolando verso l'oblio. E probabilmente sembravo un bambino stupido e capriccioso perché dopo tutto quel tempo, ancora arrabbiato e ferito, non riuscivo ad andare avanti e perdonarlo, ma solo io sapevo quanto fottutamente male avesse fatto essere abbandonato anche da lui, la mia ancora, il mio appiglio più sicuro.
“Cosa vuoi da me, Harry?”
Lui mi rispose, per niente scalfito dalla durezza della mia voce né da quella dei miei occhi, con una sincerità che mi spiazzò, lo sguardo dritto nel mio.
 “Voglio aiutarti.”
Rimasi disorientato per un lungo attimo.
Voglio aiutarti.
Probabilmente in quel momento era l’unica frase che non avrei voluto sentirgli dire.
Nei suoi occhi non vidi nessuna traccia di indecisione o tentennamento, neanche per un attimo.
E allora tentennai io, e cominciai a ridere, una risata isterica, segno che sarei crollato da un momento all'altro.
“Vuoi aiutarmi? Tu non sai un cazzo di me, Harry. E per la cronaca, nessuno ha chiesto il tuo aiuto.”
La mia voce vacillò, risultando insicura e fragile.
Perché forse dentro di me sapevo che non fosse così, e mi odiai per quello , perché ero ancora terribilmente dipendente da lui, perché gli permettevo di essere la mia fonte di forza e coraggio, perché non riuscivo ad affrontare la vita senza di lui.
“E allora se non è aiuto quello che vuoi, permettimi comunque di starti vicino.”
Con uno slancio fui davanti a lui, a un centimetro dal suo volto, la rabbia cieca ad avvolgermi.
Che ipocrita del cazzo.
“Tu non hai alcun diritto di tornare dal nulla e pretendere di entrare nella mia vita! Non mi interessa se quello che hai sentito o visto ieri sera ti ha fatto nascere l'istinto di crocerossina e adesso vuoi aiutarmi, ma stanne fuori Harry. Sei stato tu stesso ad andartene via, non ti ho cacciato io, quindi sii coerente con la tua scelta e lasciami in pace. Sono stato senza di te quattro anni, ce la farò anche adesso. Non la voglio la tua pietà!”
“Pietà? Credi davvero che con te possa agire solo per pietà? Che cazzo dici Louis, non sono questa persona, dovresti saperlo.”
“Il fatto è che io non lo so più chi sei!”
Sferrai un pugno contro il tavolo della cucina, vedendo la garza macchiarsi di sangue e Harry sobbalzare sul posto.
Mi guardai la mano, pensando che la ferita sulle nocche che mi ero procurato la notte prima si fosse riaperta proprio come si stavano riaprendo le ferite della mia anima, quelle che avevo provato a ricucire debolmente per tutti quegli anni.
Ero esasperato, incazzato, sfinito.
E la cosa che più mi faceva male, era che quello che avessi appena detto era maledettamente vero.
Io non sapevo chi fosse la persona che mi ritrovavo davanti, se fosse ancora il mio migliore amico, quello dolce, premuroso ed estremamente altruista, o quello che vigliaccamente mi aveva cancellato dalla sua vita con una videochiamata.
E soprattutto, chi odiavo dei due? Quello che mi aveva illuso, facendomi credere che qualcuno forse potesse realmente volermi bene, o quello che aveva rotto quell’illusione con uno sguardo di vetro, e mi aveva scaraventato la crudele realtà addosso?
“E invece lo sai! Se mi guardi negli occhi mi riconosci, lo vedi che non sto mentendo.”
Non mi azzardi nemmeno per un secondo a guardarlo, piuttosto spostai lo sguardo verso la finestra, e osservando la neve che lentamente attecchiva al terreno parlai piano, un sussurro dell’anima.
“Ti sbagli invece, io non ti conosco. Non più.”
“Guardami Lou” mi implorò, la sua voce incrinata da quelle che immaginai fossero lacrime.
“Sono ancora io, l’Harry di sempre.”
Scossi la testa, e lo dissi. Senza potermi nemmeno fermare, era solo il dolore che prendeva voce.
Il vaso di Pandora ormai era stato aperto, tutto era pronto per uscire fuori.
“L’Harry che conoscevo io non avrebbe mai fatto al suo Louis ciò che tu hai fatto a me.”
Per quanto non volesse ammetterlo, eravamo entrambi cambiati, ognuno per motivi diversi.
Anche io ero diverso, ero più tetro, pieno di colpe, trincerato dietro ad una corazza che non mi apparteneva ma che ero stato costretto ad indossare per proteggermi dall’unica persona che credevo non mi avrebbe mai fatto del male.
Era difficile da accettare che non fossimo più quelli di una volta, ma era la verità.
A quelle mie parole indietreggiò. Sembrava che lo avessero sospinto indietro, nel passato, e che adesso lo stessero facendo affondare tra i suoi errori.
Quando parlò, aveva la voce bagnata di lacrime.
“Non puoi dire questo, perché non è così che è andata.”
Questa volta lo guardai, vedendo pian piano il suo volto incrinarsi nel tentativo di trattenere il pianto che gli faceva tremare le labbra.
Il senso di colpa gli deformò quel viso perfetto che mai avrei voluto vedere distrutto dal rimpianto, ma una parte di me, nella mia mente malata, mi diceva che lui meritava di ricevere, seppur in minima parte, il dolore che anni prima mi lui stesso mi aveva inflitto.
Volevo che lo sentisse bruciare sulla pelle proprio come lo sentivo io, volevo che gli bloccasse il respiro nei polmoni talmente fosse insopportabile. Volevo che capisse quanto, per le sue scelte, io soffrissi tutt’ora.
“Ah no? E com’è che è andata? Spiegamelo, perché evidentemente mi sono perso qualche passaggio!”
Lui non mi rispose, si morse il labbro e preferì tacere.
Così continuai, e gli gridai in faccia quelle parole che per anni mi avevano avvelenato il sangue.
“Harry, tu mi hai guardato dritto negli occhi e mi hai detto non posso  rimanere ancorato al passato perché non mi permette di andare avanti. Come pensi mi sia sentito io? Un idiota, un illuso! Perché se la mattina riuscivo ad alzarmi dal letto nonostante la merda che mi circondava, era perché avevo la sicurezza che tu ci fossi, anche se dall'altro lato dell'oceano! Ma poi hai detto quelle cose e ogni mia certezza è crollata, ho aperto gli occhi e ho smesso di raccontarmi stronzate su quanto potessimo essere forti e superare anche la distanza. In quel momento ho capito che tu per me rappresentavi molto di più di quello che io ero per te, e scusami se non l'ho presa bene! Scusami se, in una vita in cui tutti mi hanno sempre abbandonato, tu rappresentavi il mio punto fisso. Scusami se quando ho capito che ti avevo appena perso, mi sono sentito crollare il terreno sotto ai piedi!"
Perdere Harry era stato molto peggio di quanto potesse sembrare dalle mie parole.
Nella mia vita di incertezze lui era l'unica certezza fissa e incrollabile che possedevo.
Avevo cambiato casa innumerevoli volte, ed ogni trasloco era stato traumatico ed estenuante. Affezionarsi ad un quartiere, ai vicini di casa, e poi dover abbandonare tutto e ricominciare da capo era diventato sempre più difficile. Quando finalmente avevamo trovato una casa abbastanza grande, al centro di Doncaster, pensai che avremmo goduto di una serenità meritata.
Ma mi sbagliavo. Fu proprio lì che cominciò il vero inferno.
Mio padre ci abbandonò, e dopo quello mia madre cadde in depressione.
Poi ci furono gli avvocati, i debiti, i problemi economici e la difficoltà ad arrivare a fine mese.
Lì mi resi conto di aver perso entrambi i genitori: Mark si era trasferito in un'altra città, lontano dall'egoismo deleterio di mia madre; lei invece era diventata inesistente, troppo presa dal lavoro e dai conti in banca per occuparsi dei suoi figli.
A casa, nonostante lei ci fosse, mi sembrava di vivere solo insieme alle mie sorelle, le uniche persone che potevo davvero considerare famiglia.
Harry però, in mezzo a quell'inferno, era sempre stato presente, non aveva mai lasciato che affrontassi tutto da solo, mi aveva impedito di crollare persino quando io stesso sarei voluto scappare via da tutto e tutti.
Da quando lo avevo incontrato eravamo diventati inseparabili, Harry era diventato il mio punto di riferimento, il mio baricentro, semplicemente rappresentava le coordinate grazie alle quali riuscivo ad orientarmi nel mondo. Senza di lui ero vuoto, fragile.
E tutt'ora era così che mi sentivo, con Harry di fronte.
Debole.
Perché avevo cacciato fuori tutta la sofferenza senza neanche accorgermene, con lui era così, non potevo avere filtri, non potevo fingere di stare bene come facevo con Liam e Niall.
Con lui era sempre stato diverso, con uno sguardo mi strappava la pelle di dosso e mi leggeva l'anima.
Io rimanevo nudo e l'unica cosa che potevo fare era dire la verità, perché se anche non l'avessi detta lui l'avrebbe comunque scoperta attraverso i miei occhi.
Perché insieme funzionavamo così, eravamo sempre stati questo: frasi taciute e sguardi molto più loquaci di qualsiasi parola, che davanti alla limpidezza dei nostri occhi, diventava solo un suono indistinto nella quiete del mondo che ci eravamo costruiti attorno.
E nei suoi occhi, in quel momento, riuscii a vedere riflesso tutto il mio dolore.
Stava piangendo come poche volte lo avevo visto fare, e dovetti distogliere lo sguardo per non crollare. Fece un passo verso di me e io mi allontanai, di nuovo.
Due specchi che funzionavano al contrario, ognuno a riflettere il gesto opposto dell’altro.
“Louis ti prego lasciami spiegare.”
“Non c'è niente da spiegare. Non ha più importanza.”
“Se per te non ha più importanza allora smettila di torturami con questo tuo atteggiamento. Odiami, Louis, odiami fino in fondo! Perché così è peggio, continuiamo solo a farci inutilmente del male.”
Lo disse con arrendevolezza, la voce deformata dal pianto, come se fosse rassegnato all’idea che io lo odiassi.
Se solo avesse saputo quanto si sbagliava…
Lo guardai un’ultima volta, le spalle abbassate, le mani mosse da un tremolio continuo, gli occhi pieni di lacrime e lo sguardo assente. Sembrava svuotato.
Vederlo così fu troppo anche per me, così decisi di andarmene.
Non dissi nulla, gli voltai le spalle e a passo lento uscii dalla cucina.
Chiusi la porta d'ingresso e mi appoggiai su di essa con la schiena, alla ricerca di un sostegno.
Lasciai uscire dei respiri affannati, veloci, sincronizzati col battito del mio cuore, senza avere la forza di andare via.
Mi ero sfogato, gli aveva rinfacciato tutto il dolore che mi aveva inflitto, eppure mi sentivo una merda.
Perché io non riuscivo a fargli del male, era una cosa impossibile per me farlo soffrire senza che di riflesso non soffrissi anch’io. La sofferenza di tutti quegli anni, in quel momento, mi parve essersi duplicata.
Ma qualcosa adesso, sembrava essersi insediata tra i cunicoli bui di quell’angoscia.
Una flebile luce, timida, timorosa.
Un inspiegabile bagliore di speranza.
Una parte di me, quella contraddittoria ed estremamente emotiva, forse la più importante, la più vera, sperò che Harry avesse ascoltato con attenzione le mie parole, leggendo tutto ciò che vi si celava dentro.
Avevo abbassato la guardia, abbattuto tutto i muri, ed ero rimasto senza difese.
Quando quella mattina ero uscito di casa, non avevo pensato che le cose avessero potuto prendere quella piega, non era neppure nelle mie intenzioni, non adesso perlomeno.
Eppure era successo, perché i suoi occhi, maledettamente verdi e sinceri, mi avevano tirato tutto fuori a forza, scoprendo le mie cicatrici con la loro dolce prepotenza.
Avevo sempre cercato testardamente di nasconderle a tutti, nonostante bruciassero sempre, lì, sotto alle enormi felpe che indossavo per proteggermi dal mondo, e spesso ci ero riuscito.
Ma con lui non avevo potuto nasconderle, perché nonostante non fossero sempre visibili, in quel momento, dove il dolore era diventato troppo da sopportare, si erano palesate in tutta la loro sanguinolenta evidenza, e a me non era rimasto che restare inerme, sopraffatto dalla presenza di Harry, che sola bastava a far riemergere tutto ciò che continuavo a soffocare ogni giorno della mia vita.
E questo dolore, che aumentava di giorno in giorno, che si protraeva negli anni, senza sosta, mi aveva mandato fuori di testa. Mi ero lentamente spento, indebolito, come quando ci si sente privati di una parte di se stessi.
Ed era così che mi ero sentito e continuavo a sentirmi ancora da quando Harry se n’era andato, ero un’entità lacerata, mancante della sua parte più fondamentale.
Il famoso mito delle metà di Platone.
Quella metà accanto alla quale raggiungi l’originaria perfezione.
Con Harry nella mia vita, succedeva esattamente questo, sentivo di essere meno imperfetto, meno incasinato e fragile, non provavo più alcun dolore, non vi era nessuna pressione a soffocarmi; le preoccupazioni improvvisamente sopite, cancellate.
Solo felicità e pienezza.
Senza di lui invece, peregrinavo per lunghe vie buie, senza sosta, senza speranza.
Ero perfettamente consapevole che Harry fosse tutto ciò di cui avessi bisogno nella mia vita, soprattutto in quel momento, sapevo che prima o poi avrei ceduto e lo avrei riaccolto fra le mie braccia, avrei sentito di nuovo il suo cuore dentro al mio, a farlo battere con i suoi movimenti calmi e regolari.
Ma non sarebbe accaduto quel giorno.
Non ero ancora pronto, la paura che le ferite avrebbero ripreso a bruciare più di prima era ancora più forte del bisogno di lui.
Sperai solo, ora che aveva visto tutto quel dolore mescolato all’irruenza che dimostravo per proteggermi, non sarebbe scappato.
Non di nuovo.
Con quei pensieri a frastornarmi la testa, a far vacillare il già precario equilibrio della mia vita,  guardai casa sua per l'ultima volta, poi me ne andai.
Solo in quel momento mi accorsi che stessi piangendo anch'io.
 
 
 
 
Harry
 
“In una vita in cui tutti mi hanno sempre abbandonato, tu rappresentavi il mio punto fisso.”
 
“Quando ho capito che ti stavi allontanando, che ti stavo perdendo, mi sono sentito crollare il terreno sotto ai piedi.”
 
Da quando Louis era andato via erano queste le frasi che continuavano a rimbombarmi nella testa.
Per tutto il tempo non avevamo fatto altro che guardarci per riconoscerci addosso pezzi di vita che sembravano appartenere a tempi troppo lontani, assetati di scorgere le tracce ormai sbiadite che l’uno aveva lasciato sull’altro.
E quando aveva detto di non riconoscermi più, che eravamo cambiati, aveva maledettamente ragione.
Perché non eravamo più noi, eravamo il fantasma di ciò che eravamo stati una volta, gusci di due uomini che senza l’altro non sarebbero mai potuti essere al loro meglio. Ma non avevamo il coraggio di ammetterlo, ripetevamo sempre le stesse parole, una litania di colpe sofferenze e verità taciute, senza dire davvero ciò che pensavamo. Ce le leggevamo negli occhi le intenzioni, ma le mascheravamo di bugie, troppo impauriti per far uscire fuori la verità.
Quella sarebbe stata la nostra condanna, la colpa che avremmo dovuto scontare con la punizione che più ci avrebbe distrutti.
Poi, come se tutto quello che aveva appena detto non mi avesse appena distrutto, come se le sue parole non avessero importanza, mi aveva voltato le spalle, per l'ennesima volta, e se n'era andato, lasciandomi con le mani aggrappate sul tavolo per impedirmi di cadere.
Come per contrappasso, da quando ero tornato a Doncaster, non avevo visto altro che le sue spalle, forse proprio come lui aveva visto le mie da quando io ero partito.
Aveva distrutto il suo muro, aveva abbassato le difese, poi se n'era pentito ed era scappato, troppo impaurito da quello che si era lasciato scappare tra un urlo di rancore e l'altro. E quando avevo guardato il fuoco ghiacciato dei suoi occhi mi ero sentito morire, tutto il suo dolore mi aveva investito in pieno cogliendomi impreparato.
La cosa peggiore di tutte fu rendermi conto che la causa di tutta quella sofferenza fossi io, o meglio, la mia assenza dalla sua vita.
Può qualcuno ritenere essenziale la vicinanza di una persona al punto da sentirsi perso una volta che questa lo abbandona? Ero stato veramente così stupido da credere di aver preso la decisione migliore per Louis? Da credere che non avrebbe sofferto? Avevo realmente avuto il coraggio di lasciarlo nel momento in cui probabilmente aveva più bisogno di me? Di sapere che almeno io c'ero? Ero stato così egoista da dirgli di sentire l’esigenza di andare avanti, solo perché la sua mancanza era troppo asfissiante, tanto da farmi pentire ogni giorno di essere andato in America? Di farmi desiderare di tornare indietro, non per mia madre, non per mia sorella, Niall, Liam, o Zayn, ma solo per lui? Era sano un rapporto totalitario e assurdamente intenso come quello nostro? Era normale che un'amicizia fosse così?
 Solo le quattro mura della mia umida stanzetta americana sapevano quante notti, durante i primi mesi, avessi pensato di fare le valigie e abbandonare tutto.
Fanculo l'America, la libertà tanto agognata, il mio sogno da realizzare.
Tutta quella sofferenza, tutta quella mancanza, ne valevano veramente la pena?
Quella nuova vita che mi stavo pian piano costruendo, era degna di essere vissuta se lui non c’era?
La maggior parte delle volte mi rispondevo di no.
Ma poi avevo cominciato a farmi degli amici, avevo conosciuto Jeff, Nick, Ben, e loro mi avevano insegnato a rischiare, a lottare per quello che era da sempre stato il sogno della mia vita, e io avevo deciso di chiudere il passato di Doncaster in una delle mie tante valigie, per poi nasconderla in un armadio che non avrei mai più voluto aprire.
E quando avevo trovato il coraggio di fare la videochiamata con Louis, lo avevo guardato negli occhi e gli avevo detto che lo stavo lasciando andare, che dovevo vivere la mia nuova vita, nella quale non c'era più spazio per lui. Non gli dissi che in realtà lo stavo tacitamente pregando affinché lui lasciasse andare me, perché di lasciarlo andare io non ne avevo la forza. Quindi avevo optato per una bugia, sperando che dopo quella lui mi avrebbe odiato così tanto da mandarmi affanculo senza rancori.
E per mia fortuna le cose erano andate esattamente così. Per tutti quegli anni Louis aveva pensato che per me lui non contasse nulla, che lo avessi dimenticato facilmente, come qualcosa di insignificante che non ha valore. Non sapeva però che io, ogni giorno, per quattro anni, avevo custodito gelosamente lui e ogni ricordo di noi due.
Non sapeva che mi svegliavo nel cuor della notte, in preda all’inquietudine, e allora prendevo carta e penna e scrivevo parole su parole, sconnesse, insensate, istintive, alcune delle quali diventavano canzoni, e riempivo fogli interi di pensieri che nascevano solo per lui, e quando finivo chiudevo tutto in una busta, la piegavo e la conservavo nel cassetto del mio comodino con la promessa che l'indomani gliel'avrei spedita. Quando il sole sorgeva, però, e io riacquisivo la lucidità persa durante la notte, prendevo le lettere e le mettevo via.
In quattro anni avevo scritto settanta lettere mai inviate.
L'ultima risaliva al mese scorso.
La prima invece, l'avevo scritta la notte stessa in cui avevo detto addio a Louis.
Ricordo ancora perfettamente le parole bagnate d’inchiostro e lacrime, impresse a fuoco nella mia memoria.
 
 
 
2 settembre 2012.
 
“Lou, mi senti?”
“Sì , tu?”
“Non molto bene.”
Louis sbuffò, cacciando indietro una ciocca di capelli finita sugli occhiali da vista.
“Dovrei comprare una webcam nuova, questa fa praticamente schifo.”
Presto non avrai più bisogno di una webcam,  pensai.
Sospirai pesantemente, sentendo l'ansia cominciare a stringersi attorno allo stomaco.
“Come sono andate queste ultime settimane?” chiesi, la voce carica di un finto entusiasmo.
Gli occhi di Louis si illuminarono, come se non aspettasse altro che questa domanda.
“È successo di tutto Haz, non so nemmeno da dove cominciare. Zayn è partito per il college due settimane fa, Niall sta pensando di aprire uno studio di registrazione con Josh -anche se non ho idea di come ci riusciranno- e Liam è in preda a crisi isteriche da praticamente un mese. Fra qualche giorno partirà anche lui per Londra e non ha ancora fatto le valigie perché non vuole separarsi da Sophia. Quindi, a meno che non mi voglia abbandonare anche Niall, fra un paio di giorni saremo solo io e lui ad avere il monopolio su questa cittadina deprimente.”
Finì il discorso con un sorriso amaro sulle labbra, e se possibile l'ansia dentro di me si fece più densa.
“E tu cos’hai deciso di fare?”
“Haz, a casa per ora è un casino. Le gemelline strillano in continuazione, Fizzy e Lottie stanno sempre fuori, mia madre è ogni giorno dall'avvocato e quando torna a casa non fa altro che piangere e gridare. Posso lasciarla sola secondo te?”
I suoi occhi si incupirono immediatamente e lui dovette distogliere lo sguardo dallo schermo del laptop.
“In più” riprese, la voce ridotta ad un sussurro adesso “mi hanno licenziato. Quindi addio soldi, addio America. Mi mancavano solo duecento euro, cazzo! Avevo già controllato i voli e cominciato a fare la valigia, e invece quel bastardo mi ha licenziato! Mi sa che la mia visita dovrà aspettare ancora un po’. Mi dispiace un sacco.”
E adesso come cazzo faccio a dirgli che devo lasciarlo andare? Come?
“Lou, io...”
"Senti, cambiamo discorso che è meglio. Tu che mi racconti invece? Non ci sentiamo da tre settimane, sarà successo sicuramente qualcosa, no?”
Sì, è successo che ho deciso di uscire dalla tua vita.
“Sì, in effetti ci sono molte novità, ma sono incasinato e gli orari non coincidono e non so mai quando chiamarti. Trovare un minuto libero sta diventando impossibile ultimamente.”
Mi odiavo per quello che gli stavo dicendo, perché nulla di tutto quello era vero.
In realtà nelle ultime tre settimane non era successo proprio nulla. Avevo solo ricevuto porte in faccia e delusioni. Ogni tanto uscivo con Jeff e Nick, due nuovi amici, ma la maggior parte del tempo lo passavo a piangere nella mia stanza, aspettando il momento in cui mi sarei sentito pronto per parlare con lui.
“Lo sai che per me l'orario non è un problema. Da quando sei partito non faccio praticamente niente, chiamarti la notte non mi pesa più di tanto. E anche quando lavoravo sapevi che l'ora non è mai stato un problema per me. L'importante è sentirti, il resto non conta."
Tu sei disposto a stare sveglio la notte pur di sentirmi Lou, ma possiamo continuare così?
Posso passare ogni notte insonne perché la tua mancanza è semplicemente troppa?
Posso piangere ogni fottuto giorno perché invece di essere contento di trovarmi qui, vorrei tornare da te? La verità è che sono un ingrato Louis, perché non riesco neanche ad apprezzare quello che ho.
Vorrei mandare tutto all'aria e tornare a Doncaster, tornare da te.
Ma non posso continuare a comportarmi come un bambino, ho diciotto anni adesso, ed è arrivato il momento di diventare forti, di diventare uomini, per tutti e due.
Perdonami per quello che sto per fare, ti prego, ma io non posso più continuare così.
Cercai di trovare dentro di me il coraggio che sapevo mi mancasse, e poi parlai.
“Louis, devo parlarti.”
Lo vidi avvicinarsi allo schermo del computer mentre assottigliava gli occhi.
“Ok, spara.”
“È una cosa seria, solo... promettimi che mi lascerai finire” feci serio.
“Haz, mi stai facendo preoccupare. È successo qualcosa?”
“Lou!”
“Ok, prometto.”
Un altro sospiro, prima della fine.
“Io non credo sia una buona idea che tu venga a trovarmi” dissi tutto d'un fiato.
“Haz, ti ho promesso che sarei venuto per trascorrere qualche giorno insieme. Come avevamo sempre sognato, ti ricordi? Troverò un modo per racimolare dei soldi, non devi sentirti in colpa per…”
“Non è ai soldi che mi riferisco” lo interruppi, la voce improvvisamente dura.
Lo vidi aggrottare le sopracciglia mentre si muoveva nervoso sul letto.
“E a cosa ti riferisci allora?”
“A noi due. Non possiamo continuare a sentirci.”
"Cosa? Perché?"
Con uno slancio si avvicinò alla webcam e io riuscii distintamente a vedere i suoi occhioni blu riempirsi di lacrime e panico.
Distolsi lo sguardo dallo schermo cercando di reprimere il pianto violento che minacciava di uscire fuori. Mancava ancora poco, poi finalmente tutto sarebbe finito.
“Non possiamo più andare avanti così, Louis. Guardati, quante ore dormi a notte? Due? Tre, al massimo? E tutto questo per parlare con me? Io adesso ho una vita incasinata qui e non posso vivere col peso che qualcuno dall'altra parte del mondo aspetti la mia chiamata.”
“È così? Sono solo un peso per te? Dio, non riesco a crederci! In questi due mesi ho fatto i salti mortali per starti vicino, per riuscire a sentirti anche solo per due minuti, e tu te ne esci con queste stronzate?
E che fine hanno fatto tutte le promesse che ci eravamo fatti? Non contavano un cazzo per te, non è vero? Io non…”
“Louis…”
“Dimmi, da quant’è che ti prepari questo discorso? Anzi no, fammi indovinare, io dico che ci avrai impiegato circa tre settimane. Mi sbaglio?!”
Era andato in escandescenza, aveva disattivato il filtro tra il cervello e la bocca e stava sfogando tutta la delusione con lacrime e accuse.
Non ebbi il coraggio di difendermi, perché aveva ragione, avevo architettato il piano che ci avrebbe distrutto durante quelle tre settimane di silenzi e poi mi ero fatto vivo, gettandogli tra le mani una bomba che non avrebbe saputo disinnescare.
Mi facevo quasi schifo per quello che stavo facendo ad entrambi, ma dentro di me sapevo fosse necessario.
Louis stava continuando a gridare ma io non riuscivo ad ascoltarlo, aspettavo solo che finisse, cercando nel frattempo di trattenere le lacrime e mantenere il controllo.
Quando finì, alzai lo sguardo sullo schermo, ignorai i suoi occhi rossi e gonfi di lacrime, e dissi l'ultima frase, quella che - ero sicuro - l'avrebbe definitivamente portato via da me.
“Louis, io ho degli obiettivi da raggiungere, dei sogni da realizzare, e pensare a Doncaster è solo una distrazione inutile.
Non posso rimanere ancorato al passato, perché non mi permette di andare avanti. Mi dispiace.”
L'ultima cosa che vidi fu Louis che si portava una mano alla bocca nel tentativo di trattenere un singhiozzo, l'attimo successivo la schermata del pc divenne nera.
Sentii un raggio caldo accarezzarmi la spalla, mi girai verso la finestra.
Fuori c'era il sole, io invece avevo la pioggia dentro e intorno.
Solo in quel momento mi concessi finalmente di piangere.
Fu un pianto liberatorio, disperato, incessante: realizzai che dopo quello, Louis non avrebbe più voluto vedermi.
Piansi fino a sera, sfogando il mio tormento interiore su un foglio di carta sgualcito.
Il bagliore della luna illuminava attraverso la finestra l’inchiostro della mia penna, suggellando le parole che vomitava la mia mente, rendendole eterne.
 
‘Se potessi volare, tornerai a casa da te.
Credo potrei mollare tutto, arrendermi, se solo me lo chiedessi.

Ma è proprio questo che mi fa paura, quando si tratta di te non sono lucido, non ragiono.
Quello che ho fatto sembrerà crudele, e forse lo è, ma mi manca il respiro Lou.
Mi manchi troppo, ora che siamo divisi.
Mi manca una parte di me, me l’hai strappata con la forza, e non so vivere così, a metà, in apnea.
Non sono mai stato bravo a farlo, lo sai. Quello che ci riesce sei tu.
Perdonami se sono debole.
Perdonami se so volerti bene solo così, ma è l’unico modo che conosco.
Con tutto il mio affetto,
H.’
 
Volli aggrapparmi a un’illusione  ingenua, sperando che la luce della luna fosse il segno di una flebile speranza, la stessa che avrei covato negli anni a seguire.
 
 
 
Rimasi rannicchiato per terra a piangere lacrime figlie di rimorsi e rancori fino a quando il cellulare non prese a squillare. Il nome di Niall lampeggiava ininterrottamente sullo schermo, ma io non avevo voglia di sentire nessuno, così ignorai la chiamata e lasciai che il telefono continuasse a squillare.
Inutile dire che non mi stupii per niente quando mi ritrovai Niall davanti al portone di casa, dieci minuti dopo, con un sorriso impertinente sulle labbra e i capelli mossi dal vento.
“Hazza, senza offesa, hai un aspetto riprovevole.”
Sorrisi mio malgrado e lo lasciai entrare.
“Fingerò che tu non abbia deliberatamente ignorato la mia chiamata e ti perdono solo perché stai per offrirmi una birra!”
“Una birra? Alle dieci e mezza del mattino? Cazzo Niall, datti un po’ di tregua.”
“Sono un irlandese, sono geneticamente predisposto ad assumere alcool in qualsiasi momento della giornata”, diede un piccolo pugno al tavolo per rimarcare il concetto e io non potei fare a meno di alzare gli occhi al cielo davanti al quel gesto.
“E non alzare gli occhi al cielo. Lo fa anche Louis, è una cosa che non sopporto.”
Mi si strinse un po’ il cuore a quell’osservazione, perché sapevo perfettamente che Louis avesse il vizio di farlo quando qualcosa gli dava noia, era da lui che avevo preso quella piccola abitudine.
A questo pensiero mi si riempirono di nuovo gli occhi di lacrime, e Niall se ne accorse.
“Haz è tutto ok?” mi chiese infatti, premuroso.
“ È stata solo una brutta mattina, non preoccuparti.”
“Sei sicuro di non volerne parlare?”
“Sì, sono sicuro. Anche perché a questo punto non so più cosa dire.”
“Presumo c’entri qualcosa Louis allora.”
“Già, ma non ho voglia di parlarne.”
Porsi a Niall la sua birra e mi sedetti di fronte a lui, osservando il suo sguardo preoccupato che mi scandagliava con particolare attenzione.
“Piuttosto dimmi, qual è il motivo che ti porta a casa mia a quest’ora del mattino?”
“È successo un mezzo casino, ma tu” mi puntò contro l'indice indicandomi ripetutamente, “tu, amico mio, sei l'uomo che mi salverà.”
“Dio Santo, che hai combinato?”
“Ma perché devo per forza aver combinato qualcosa? Giuro che io non c’entro nulla.”
Alzò le mani sopra la testa come per provare la sua innocenza e io scoppiai a ridere.
Quel ragazzo non sarebbe cambiato mai.
“Ok ti credo, dimmi cos’è successo.”
“Stasera io e il mio gruppo suoniamo al locale dove lavoro, ma il panista sta male e noi non possiamo disdire la serata. Abbiamo bisogno dei soldi e il proprietario del pub mi sparerebbe nel culo se lo lasciassi senza musica. Quindi siamo nella merda.”
“Capisco… E io in tutto questo che c’entro?”
“Tu, caro Harry, entri in gioco nella missione del rimpiazzo!”
Mi guardava con un sorriso a trentatré denti e gli occhi da pazzo e io, seriamente, non stavo capendo più nulla.
“Continuo a non capire” dissi perplesso.
“Cristo, Haz! E poi il ritardato del gruppo sarei io? Sei tu il mio rimpiazzo, il mio pianista!”
“Cosa?” mi strozzai con la poca aria che circolava nella stanza, “no! Non se ne parla.”
“Ti prego Harry, ti scongiuro, sono nella merda!”
Adesso aveva le mani congiunte e mi stava persino facendo gli occhi dolci.
“Mi dispiace ma non posso. Non suono da troppo tempo e poi non so nemmeno quali brani suonate, dovrei imparare un sacco di canzoni in meno di dodici ore e…”
“Sono sicuro che conoscerai tutti i nostri pezzi. Li imparerai in fretta, te lo prometto. Ti prego Harry non dirmi di no, sei l'unico di cui mi fido, ti prego!”
 
Dieci ore più tardi mi ritrovai seduto su uno sgabellino di fronte ad un pianoforte in un pub gremito di gente, un microfono davanti alle labbra e delle luci accecanti puntate addosso.
Maledetto Niall.
Maledetto io che non ero riuscito a dirgli di no.
 
La serata non era così male, anzi, ci stavo quasi prendendo gusto. Suonavamo da quasi un’ora e io e Niall ci stavamo divertendo proprio come ai vecchi tempi, lui saltellava da una parte all’altra del piccolo palchetto e io mi limitavo a seguirlo con gli occhi, cercando di non ridere troppo per non stonare le note delle canzoni che cantavo.
Alla fine mi aveva costretto persino a cantare, il bastardo.
Tra il pubblico scorgevo alcuni visi familiari, Liam e la sua fidanzata Sophia, mia sorella Gemma, alcuni vecchi amici, i vicini di casa, e le sorelle più grandi di Louis.
Sembrava fosse una riunione di famiglia, solo molto più grande.
C’erano tutti, o quasi.
Lui non c'era, nonostante Niall lo avesse invitato e Liam avesse provato a convincerlo.
Probabilmente preferiva rimanere a casa a guardare qualche squallido programma tv piuttosto che sorbirsi la mia voce e la mia faccia per un’ora intera.
Mi odiava davvero così tanto?
Il mio cervello non fece in tempo a formulare la risposta che Niall annunciò l'ultimo brano della serata, un mio assolo, una canzone che avevo pensato apposta per lui nel caso fosse venuto.
Per esprimere tutto quello che ogni volta non mi permetteva di dire.
Ma lui non c'era, e io sentivo un gran vuoto dentro, che ormai respiravo a fatica.
Mi schiarii velocemente la voce davanti al microfono, legai i capelli in un bun e presi ad accarezzare i tasti del piano, mentre chiudevo istintivamente gli occhi.
Percepii un lieve spostamento d'aria dentro la stanza e un fascio di luce blu investirmi.
Cominciai a cantare con una sensazione strana appiccicata alla pelle, e quando sollevai le palpebre durante il ritornello, vidi i suoi occhi fissarmi dal fondo della stanza con un’intensità tale da strappare la vita e far morire il fiato in gola.
Lui era lì.
Mi guardava e mi ascoltava come se dentro al pub non ci fosse nessun altro.
Restammo a guardarci per tutto il tempo, io ad urlargli addosso la mia anima e tutto quello che vi era dentro attraverso le parole di quella canzone, lui ad accettare tutto quello che gli stavo dando senza mai battere ciglio, un luccichio mozzafiato negli occhi che sembrava simile ad un velo sottile di lacrime.
E forse la vidi davvero, una lacrima, scivolargli velocemente sulla guancia leggermente incavata, prima che lui potesse uscire di corsa da lì dentro mentre il pubblico scoppiava in un applauso fragoroso per la fine della mia esibizione.
La gente attorno mi sorrideva entusiasta, ma io non osservavo il sorriso di nessuno di loro.
Io pensavo all'unica persona che da quando ero arrivato in paese un sorriso non me lo avevo rivolto mai.
Io pensavo a quella lacrima che mi aveva ucciso.
Se mi passavo una mano sulla guancia potevo sentirmela addosso.
Scesi dal palco improvvisato malamente in quello spazio angusto, e uscii fuori seguendo le tracce bagnate del suo dolore.
La gente dietro di me chiamava il mio nome, io non l’ascoltavo.
In quel momento sentivo solo una voce, forte, che aveva gridato in silenzio, mi aveva chiamato a sé.
La sua.
La stavo seguendo.
E mi fece quasi paura la consapevolezza che mi colpì in quell'istante: io lo avrei seguito sempre, come avevo fatto in passato e come non avrei mai smesso di fare.
Non importava in quale parte del mondo fossi: se lui mi chiamava io lo trovavo.
Perché noi eravamo fatti così, ci trovavamo sempre.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note personali:
Buona sera ragazze, bentornate.
Questo fino ad ora è il capitolo più lungo che abbia scritto e mi auguro vi sia piaciuto.
Ho cercato di dare voce alla battaglia interiore di Louis, caratterizzata da continue contraddizioni, che spesso possono farlo sembrare incoerente. Ma la sua non è incoerenza, come lui stesso ha detto, è solo paura. Sarà difficile superarla, ma pian piano qualcosa (o meglio qualcuno) gli permetterà di farlo, almeno in parte.
Fino ad ora Harry è stato, rispetto a Louis, il personaggio meno messo a fuoco, ma spero che adesso siate riuscite ad inquadrarlo un po’ meglio, e che nei prossimi capitoli riuscirete a capire anche il suo punto di vista.
Il titolo e il capitolo sono ispirati, come avrete capito, alla canzone dei ragazzi, e penso avrete trovato alcuni riferimenti ad essa nelle parole di Louis e Harry.
Spero vogliate farmi sapere cosa pensate di questo capitolo, se vi è piaciuto o meno, se è riuscito ad emozionarvi, se vi siete sentite più vicine ad Harry o a Louis, oppure se vi sareste aspettate un altro tipo di confronto.
Nella speranza di leggere i vostri pareri, vi abbraccio.
A presto,
Letizia.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** One ***


Louis
 
 
Facevo avanti e indietro nel corridoio di casa come un pazzo.
Arrivavo davanti al portone, mi fermavo per un attimo, e poi tornavo indietro verso la cucina, e così via per più di mezz'ora.
Ad un certo punto però mi arrestai.
Dentro, un senso di inquietudine che non riuscivo a placare.
Cominciai a far vagare attorno lo sguardo, e fu quando vidi il mio riflesso osservarmi da uno specchio appeso lungo la parete del corridoio che capii.
Mi soffermai ad osservarlo.
Avevo l’aspetto di qualcuno a cui fosse stata appena stravolta l’esistenza.
Gli occhi infossati, circondati da due macchie nere che riflesse nelle iridi ingrigivano lo sguardo.
Le palpebre gonfie, pregne di lacrime che ogni giorno cercavo di trattenere.
Le labbra violacee, colorate solo da piccoli sprazzi di sangue causati dagli incisivi che non smettevano mai di torturarle.
Il viso svilito, magro e smunto, dal colore spento che non si addiceva ad un uomo vivo.
Quindi questa era l’immagine che restituivo di me alla gente?
Era questo il Louis che quella mattina si era presentato a casa di Harry?
Feci un passo verso lo specchio, sporgendo il viso per osservarmi meglio, mentre istintivamente avvicinavo le dita alla mia faccia.
Incredulo, ecco come mi sentivo.
Quando ero diventato così?
È questo, dunque, quello che provoca la paura?
Mi aveva cambiato la faccia? Mi aveva spinto a dire per anni ciò che non pensavo?
Mi aveva strappato dal cuore il coraggio, la forza, la speranza che sempre mi erano appartenuti?
Mi aveva fatto perdere la strada per poi farmi ritrovare indifferenza, freddo, apparenza?
Che fine aveva fatto l’amore che un tempo avevo dentro?
Mi sembrò di vedere i miei occhi diventare neri, adombrati dall’oscurità che sentivo mi avvolgesse ogni giorno, e mi allontanai di scatto, spaventato.
Afferrai in un gesto nervoso il mio giubbotto di jeans e aprii la porta di casa sgusciando via fra le strade di quel paese che ormai conoscevo a memoria.
Non appena fui fuori respirai a pieni polmoni, provando a regolarizzare il respiro.
Cominciai a camminare con passo concitato e senza neanche accorgermene, alcuni minuti e sigarette dopo, mi ritrovai davanti al pub dove Niall si stava esibendo.
Ero rimasto chiuso a casa per ore a tormentarmi su cosa fare, e alla fine mi era bastato mettere un piede fuori per correre da lui? Da Harry?
Mi ero precipitato da lui, senza neanche accorgermene.
E potevo raccontarmi tutte le stronzate che volevo, ma sapevo che il prurito che mi sentivo addosso non era altro che il corrodente bisogno di vederlo.
Quella mattina lo avevo lasciato mentre piangeva, e non potevo che sentirmi di merda.
Io non ero quella persona, non avrei mai voluto fare intenzionalmente male ad Harry, mai.
Eppure ultimamente sembrava essere l’unica cosa che riuscissi a fare.
Ogni volta che ci incontravamo non facevamo altro che aumentare la distanza che già ci separava da tempo, gridandoci addosso senza realmente ascoltarci.
Sembrava impossibile ormai ritrovarci, perché per farlo bisognava mettere tutto in gioco e rischiare, e fino a quel momento nessuno dei due si era dimostrato disposto a farlo.
Dove si era rotto quel filo che ci aveva uniti talmente stretti da farci soffrire poi così intensamente il distacco?
Era davvero irreparabile quello strappo che ci aveva lacerato l’anima?
Se mi avessero detto che a fine serata avrei avuto le risposte ad alcune delle domande che mi stavano fottendo la testa, avrei riso, scettico.
Decisi di entrare, ma non appena mi trovai dentro al pub, rimasi senza fiato.
Mai, aprendo quella porta, mi sarei aspettato di vedere Harry, solo, al centro di quel piccolo palco.
Le mani grandi e morbide che sfioravano i tasti come fossero delicati petali di rosa, i capelli lunghi legati in un codino - che se chiudevo gli occhi potevo sentire l'odore di orchidea e vaniglia che emanavano - e la voce roca, rotta da qualcosa simile a un dolore troppo intenso per lui da sopportare.
Sembrava lo stesso dolore che lo aveva fatto scoppiare in lacrime quella stessa mattina.
Risi amaramente. Il solito Harry troppo buono per questo mondo e troppo sensibile per sopportarne le brutture.
Fu inevitabile pensare che se solo avesse provato un po’ del mio dolore, forse sarebbe rimasto schiacciato dal suo peso.
Il ghigno che mi deformava le labbra sparì quando lo vidi sollevare le palpebre e puntare lo sguardo dritto verso di me, senza un attimo di esitazione.
Come se sapesse che ero lì a guardarlo.
Come se mi avesse sentito arrivare e avesse ascoltato i miei pensieri, che lo avevano condotto a me.
Un po’ morii sotto a quello sguardo, soprattutto quando cominciai ad ascoltare le parole di quella canzone che pronunciava con voce tremolante.
 
‘And I know, you’re gonna be away a while
But I’ve got no plans at all to leave
And would you take away my hopes and dreams?
Just stay with me’
 
Probabilmente, se ci fosse stato più silenzio in quella stanza, avrei potuto sentire perfettamente il tonfo del mio cuore e il rumore delle mie budella mentre gli si stringevano attorno talmente forte da azzerarne i battiti.
 
‘All my senses come to life
While I’m stumbling home as drunk as I
Have ever been and I’ll never leave again
Cause you are the only one
And all my friends have gone to find
Another place to let their hearts collide
Just promise me, you’ll never leave again
Cause you are the only one’
 
Volevo scappare. Spingere tutti e andare via.
Mi guardai attorno e mi resi conto di essere ancora sulla soglia del pub, davanti e dietro di me nessuno.
Sarei potuto andarmene immediatamente, nessuno me lo avrebbe impedito, eppure non lo feci.
Una forza più grande mi tratteneva lì dentro, e non era di certo la gravità.
Pian piano sentivo entrarmi nelle vene quelle parole, una dopo l'altra, piccoli spilli pungenti che mi avvelenavano il sangue e non mi facevano respirare.
Pezzi sventurati della mia anima corrosa venivano via man mano che lui emetteva un suono, prendeva fiato, pronunciava alcune lettere con un accento che non gli era mai appartenuto.
 
 
‘Take my hand and my
Heart and soul, I will
Only have these eyes for you’
 
E me le diceva in faccia quelle parole, me le faceva entrare dentro senza mai distogliere lo sguardo.
Ché se con le parole di quella canzone mi stava dicendo tanto, con i suoi occhi immensamente verdi mi stava dicendo di più.
E io non sapevo come sentirmi.
Ero stordito.
Attorno a me era tutto fin troppo fermo e asfissiante.
Le sue pupille luccicanti rendevano l'aria pesante, difficile da mandare giù oltre all'esofago per farla arrivare ai polmoni.
 
‘And you know, everything changes but
We’ll be strangers if, we see this through
You could stay within these walls and bleed
But just stay with me’
 
E poi la sentii.
La rabbia cieca.
Saliva dalla punta delle dita e arrivava alla testa, tirava così forte da tramortire il cervello.
Aveva una gran bella faccia tosta lo stronzo.
Lui se n’era andato, mi aveva dimenticato, si era fatto un’altra vita con altri amici e aveva anche il coraggio di dire a me di non fuggire?
Mi stava realmente confessando che io fossi l'unico?
Ma con che coraggio?
Faceva la vittima quando a mandare tutto a puttane era stato proprio lui.
Cazzo lo odiavo, sarei salito sul palco e gli avrei rovesciato addosso la tastiera su cui stava suonando.
Strinsi i pugni contro i fianchi così forte che sentii le unghie mangiucchiate martoriarmi i palmi delle mani, e lo guardai anch’io.
Avevo tante di quelle emozioni dentro che non volevo immaginare nemmeno l’espressione del mio viso.
Distolsi lo sguardo solo quando percepii la mia guancia inumidirsi, ma era troppo tardi.
Lui mi vide, e nonostante tutti lo stessero applaudendo, non si era mosse di un millimetro.
Era concentrato su di me, sulla mia reazione da cui dipese immediatamente la sua: non appena una lacrima mi rotolò sul volto lo vidi incurvare di riflesso le spalle e sospirare sconfitto.
Solo quando chiuse gli occhi per un attimo fuggevole, scappai da lì dentro.
Fanculo tutto.
Fanculo lui.
Fanculo io.
Mi riversai sulla strada come un pazzo, respirando a pieni polmoni l’aria gelida della notte, riappropriandomi dell’ossigeno che mi era venuto a mancare per minuti che mi parvero infiniti.
A quel punto il bisogno di fumare si fece impellente, il tabacco sedativo per l’agitazione.
Feci la guerra con l'accendino e quando finalmente la sigaretta prese fuoco, tirai talmente forte che per un attimo mi girò la testa.
Le mani mi tremavano per la rabbia e la frustrazione, tanto che arrivai a sferrare un calcio al muro per scaricare la tensione.
 Stavo per tirarne un altro quando sentii la porta cigolare alle mie spalle.
“Louis.”
Mi bloccai col piede a mezz'aria.
Non mi stupii per niente quando scorsi Harry dietro di me, la camicetta di seta arrotolata ai gomiti, troppo leggera per il freddo di marzo.
“Dovresti entrare, o prenderai freddo.”
“Come se a te interessa qualcosa se prendo freddo.”
Sbuffai una risata, anche se avrei voluto sferrargli un pugno perché non capiva un cazzo.
Non aveva mai capito un cazzo.
Ma forse la colpa era mia.
O forse era sua.
Probabilmente era troppo tardi per provare anche solo a capire.
“No, infatti. Voglio solo che te ne vai.”
“Perché fai sempre così?” gridò, la solita vena del collo che sporgeva.
Ma se lui gridava allora io avrei gridato più di lui.
“Così come?” chiesi, impertinente.
“Mi respingi! Tu respingi le persone, ma così non dai la possibilità di spiegare, di parlare! È frustrante, cazzo!”
“Oh, ed è per questo che hai tirato su questo teatrino e hai cantato quella canzone? Per spiegare?” Sbuffai una risata viscida che mi fece quasi schifo, mi fece sentire infimo e cattivo.
“Se ci tieni davvero così tanto a chiarire le cose, perché non lo hai fatto un mese fa, quando sei arrivato? Perché non mi hai chiamato quando ti sei reso conto di aver sbagliato? Perché hai lasciato passare tutto questo tempo?”
“Stai scherzando? E cosa credi che abbia fatto sei mesi fa, quando ti ho chiamato per settimane da Los Angeles e tu non ti sei degnato nemmeno di ascoltare i messaggi che ti ho lasciato in segreteria?”
Mi ammutolii immediatamente.
La spavalderia e l’arroganza che avevo usato fino a poco prima, svanite.
Adesso solo confusione e paura.
Il cuore a martellare nel petto in un’ansia crescente.
“Di che diavolo stai parlando?”
“Ho chiamato a casa vostra, Louis, diverse volte. Per te, per parlarti. Probabilmente avrei capito se non avessi voluto rispondermi, non lo avrei accettato facilmente, ma lo avrei capito. Però speravo almeno ti interessasse sapere cosa avevo da dirti. Ma evidentemente mi sbagliavo. Quindi se vuoi, incolpami pure, ma non puoi biasimarmi se una volta arrivato a Doncaster non ho avuto il coraggio di chiamarti. La paura di sentire il telefono suonare a vuoto, di nuovo, mi ha bloccato da ogni tentativo. E puoi accusarmi di non averci provato abbastanza, di non essere venuto da te, ma voglio ricordarti che sei stato tu quello che ha cambiato numero di cellulare per non farsi più rintracciare da me.
E sono umano anch’io Louis, anche io ho le mie paure, anche io commetto errori, e tu non hai alcun diritto di rinfacciarmi di averti abbandonato senza prima sapere perché l’ho fatto!”
Mi sentii svuotato di tutto. Mente e cuore totalmente sgombri.
I miei castelli di sabbia distrutti, le mie convinzioni crollate.
E non ci fu nemmeno bisogno di una tempesta, fu sufficiente il più debole dei venti.
“Io non capisco… Nessuno in casa mi ha mai detto nulla riguardo ai tuoi messaggi in segreteria.”
Mi guardò rassegnato, un sorriso amaro a deformargli la faccia.
Anni di silenzi e verità nascoste lottavano sulle sue labbra per uscire.
“Ma l’ho fatto, anche se troppo tardi, l’ho fatto. Forse questo non ti farà cambiare idea su di me, né farà sembrare i miei sbagli meno gravi, ma dovevi saperlo. Non posso sopportare l’idea che tu creda io non ti abbia mai più pensato, perché non è così.”
Venni travolto totalmente da quella sua confessione, incapace di emettere un fiato, di formulare un pensiero, timoroso di poter dire qualcosa di sbagliato e rovinare la perfezione delle sue parole frenetiche.
“Perché?”
Stordito com’ero, fu l’unica cosa che fui di in grado di dire.
“Cosa?”
“Perché mi hai chiamato?”
Una domanda stupida, figlia di un’urgenza di sapere che non mi aveva mai lasciato in tutti quegli anni.
“Ero logorato dai sensi di colpa, mi ero reso conto di aver fatto una cazzata. E mi mancavi Louis, mi manchi tutt’ora. È così difficile per te crederlo?”
Venimmo interrotti dal cigolio della porta, da cui sbucò il proprietario del locale.
“Harry, ecco dove ti eri cacciato! Vieni dentro, abbiamo bisogno di te.”
Non si curò di me, forse nemmeno mi vide, semplicemente lo afferrò per un braccio e lo trascinò dentro, via da me.
Harry mi rivolse uno sguardo colpevole, poi venne inghiottito dalla folla del pub.
E prima che i singhiozzi che sentivo strozzarmi la gola scoppiassero in un pianto disperato, mi allontanai da lì e cominciai a camminare.
Verso dove ancora non lo sapevo.
Avevo solo bisogno di cercare un posto in cui piangere e schiarirmi le idee.
Sperai che il buio e il silenzio mi sarebbero stati d’aiuto.
Quella notte non rientrai a casa, vagai per il paese, fumando sigarette e paure.
Il cervello mi esplodeva di domande.
Di risposte, neanche una.
Alla fine aveva avuto ragione Liam: le convinzioni che mi ero fatto negli ultimi anni non avevano neppure cominciato a vacillare che io ero già crollato.
Erano bastate poche parole. E quella era solo una piccola parte di tutta la storia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Harry
 
Il locale aveva chiuso da più di mezz’ora e Niall era già andato via insieme agli altri.
Io invece ero rimasto in giro, vagando indisturbato per il paese.
Era quasi l’alba, ma non avevo ancora voglia di tornare a casa.
La testa mi frullava troppo, piena di immagini di quella sera, di parole gridate e occhi inondati di lacrime.
Non potevo ignorare quel senso di inadeguatezza che mi seguiva come un’ombra sin dal primo giorno in cui avevo rimesso piede a Doncaster, e che quella sera mi aveva soffocato.
La gente mi adulava, mi sorrideva, ma vedevo quanto ogni gesto fosse velato di ipocrisia e falsità.
Non erano felici di vedere me, il ragazzo riccioluto che era cresciuto in quel paese insieme a loro, no. Loro lusingavano l’Harry radiofonico, quello con una carriera ben affermata in America che gli permetteva di vivere una vita agiata, e questo mi aveva talmente fatto schifo da farmi desiderare di scappare immediatamente da quel posto.
Ma non potevo, così avevo deciso di mostrarmi cordiale ed educato, cercando di raccontare qualcosa, di dire qualcuna delle mie pessime battute, ma a nessuno, fuorché i miei amici, interessavano le mie barzellette.
La cosa che più mi rendeva irrequieto, era sapere che fuori da quella porta, su un marciapiede freddo e bagnato, avessi lasciato Louis solo, in preda a lacrime, confusione e sensi di colpa.
Ero circondato da centinaia di persone, eppure io riuscivo solo a notare l’unica assenza in quella stanza.
Mi sembrava di avere attorno solo nemici, che nascondevano dietro falsi sorrisi il disprezzo che provavano per me.
Come se mi stessero accusando per qualcosa che non avevo commesso nei loro confronti, ma per cui dovevo comunque essere punito.
E in quei giorni, percorrendo le vie di Doncaster dove ero cresciuto e stavo ritrovando i miei passi, mi sentii schiacciato da tutti i miei errori.
I passanti mi vedevano ma non osavano guardarmi negli occhi, era come se non mi riconoscessero o avessero paura di me, e nei loro sguardi mi sembrava di poter scorgere lo stesso rancore che aveva ingrigito gli occhi di Louis.
Forse era solo suggestione, forse nessuno mi guardava realmente con disprezzo, ma gli unici occhi da cui non avrei mai voluto essere guardato in quel modo erano gli stessi di cui mi importava davvero, e non potevo fare altro che vederli ovunque, nello sguardo del panettiere sotto casa, dei bambini usciti da scuola, del guardiano del parco.
I suoi occhi mi perseguitavano, erano ovunque guardassi, a ricordarmi il mio unico grande sbaglio.
Perché fargli credere di non avere più bisogno di lui era stato uno sbaglio.
Ma lo stesso forse non potevo dire della mia decisione di andare in America.
Cosa c’era di sbagliato nel perseguire un sogno?
Volere un futuro all’altezza dei miei sogni mi rendeva una brutta persona?
Volevo solo vivere con spensieratezza, divertirmi, imparare a correre, a volare.
E per tutto questo avevo dovuto pagare un prezzo. Tutt’ora lo stavo pagando.
Con l’indifferenza, la rabbia, l’odio e il rancore di Louis.
E ultimamente continuavo a chiedermi se ne fosse veramente valsa la pena.
Nel profondo, dentro di me, avevo sempre saputo che sarebbe stato inevitabile scontrarmi con la durezza delle sue parole e l’avventatezza dei suoi gesti.
E nonostante mi facesse male, andava bene così, dovevo prendere tutto ciò che mi arrivava e sopportarlo senza batter ciglio.
Era la mia giusta punizione, il modo migliore per espiare le mie colpe.
Per guadagnare punti devi pagare e sacrificare l’anima mi disse Nick una volta.
Ed era quello che mi stava accadendo, stavo incassando ogni colpo, cercando di non cadere ogni qual volta un tiro si rivelava particolarmente forte.
Ad un certo punto, senza riuscire a trattenermi, aiutato dalla stanchezza e dai sensi di colpa, mi ritrovai a piangere, sfinito e sfatto, sul marciapiede di fronte casa Tomlinson.
Ero seduto lì, ad osservare la vecchia stanzetta di Louis, da quelle che mi parvero ore.
Quanto avevamo condiviso dentro quelle quattro mura, quante confessioni, pianti, risate, dolori e gioie.
Adesso invece era tutto diverso, ogni cosa era cambiata per colpa mia.
Nel silenzio dell’alba mi sembrava di sentire l’eco dei nostri schiamazzi risuonare dentro quella casa.
Sorrisi allora, un sorriso amaro, perché da quei momenti sembrava fossero passati migliaia di anni, e invece ne erano trascorsi appena quattro.
Chiusi gli occhi, respirando piano, cercando di calmare il pianto che mi stava allagando i polmoni.
Fu inevitabile pensare a quella frase, all’urgenza mischiata alla paura con cui Louis l’aveva pronunciata.
Perché mi hai chiamato?
Perché nulla era come credeva, e lui doveva saperlo.
 
 
 
 
 
 
Los Angeles, sei mesi prima.
 
Il sole batteva forte sul suolo californiano, un’afa asfissiante soffocava l’aria che circolava nelle ampie strade di Los Angeles. Ero tornato in città da più di una settimana e già mi mancava tremendamente il mare cristallino di St. Barts dove io mia sorella e mia madre avevamo trascorso le vacanze estive.
Erano stati solo dieci giorni, troppo brevi per potersi riposare veramente, ma sufficienti per sopperire alla mancanza che sentivamo dilatarsi a causa della distanza.
Al rientro mi ero sentito particolarmente fragile, svuotato, disorientato.
Non seppi dire quanto influì sul mio stato d’animo ciò che mia madre mi aveva raccontato prima di ripartire, ma decisi che avrei dovuto fare qualcosa.
E ci avevo provato, per dieci giorni di seguito.
Ma fino ad ora non era andata esattamente come avevo sperato.
Quello sarebbe stato l’ultimo giorno in cui lo avrei fatto, dopodiché avrei aspettato.
Se fosse stato destino, prima o poi, avrebbe richiamato.
Mi avvicinai al solito telefono pubblico da dove avevo chiamato nei giorni precedenti, e cominciai ad infilare uno ad uno i gettoni.
Il rumore che facevano man mano che cadevano dentro, somigliava incredibilmente a quello del mio cuore che scalpitava per la paura.
Anche questa volta però, il telefono squillò a vuoto.
Decisi allora di lasciare un messaggio.
L’ultimo.
Lasciai andare definitivamente quel briciolo di speranza a cui mi ero testardamente aggrappato.
“Louis, sono io. Harry. Chiamo da un telefono pubblico della California. Stupidamente ho pensato che se non avessi visto il mio numero sullo schermo del telefono avresti risposto. Evidentemente mi sbagliavo.
Ho chiamato anche nei giorni scorsi, ma sembra non ci sia mai nessuno a casa. Lo so che può sembrare assurdo, che è passato troppo tempo dall’ultima volta, che ci sono migliaia di chilometri a dividerci, ma volevo sapere come stai.
Gli ultimi giorni sono stati difficili, e ho bisogno di spiegare, ma anche di sapere.
Ti capita mai di pensare al passato? A quando eravamo giovani e felici, prima che il mondo ci cadesse addosso? Prima che io rovinassi tutto? Quei momenti mi sembrano appartenere ad un passato così remoto che a stento ricordo come ci si sentiva, come fosse bello non avere nulla di cui pentirsi, nulla per cui soffrire.
Non senti mai il bisogno di lasciarti tutto alle spalle, errori, rimorsi, rimpianti, e ricominciare da capo? Perché io sì, ogni giorno, e questa cosa mi sta opprimendo.
Oggi ho saputo che fra qualche mese mi trasferiranno a Londra per lavoro, e io non ho fatto altro che pensare se ti andrebbe di vederci, se venissi a Doncaster.”
Feci una pausa, spaventato da quello che avevo appena detto, insicuro su cosa avrei dovuto dire dopo.
Parlavo senza riflettere, buttavo fuori i pensieri e le emozioni come venivano, non riuscivo a curare le parole con cui li esprimevo.
“Mi dispiace per tutto Louis, per averti spezzato il cuore, per non essere stato abbastanza forte, per averti detto quelle cose. Vuoi sapere qual è l’ironia di tutto questo? Che nemmeno le pensavo.
Sì, è vero, dovevo andare avanti, dovevo guardare al futuro, ma mai avrei dovuto dirti che non volevo più sentirti, perché non era vero, non lo è mai stato. La verità è che sono stato un codardo, perché avevo paura di quanto forte fosse il nostro legame, non sapevo nemmeno come definire quella cosa che mi teneva così stretto a te.
E quando ho capito cosa fosse, era già troppo tardi.
Non c’è giorno in cui non sto male se penso a ciò che ti ho fatto, non avrei dovuto decidere anche per te. Avrei dovuto parlartene, avremmo dovuto trovare una soluzione insieme. Se lo avessimo fatto forse ora le cose sarebbero diverse.
So di aver sbagliato, ed è per questo che continuo a chiamare da giorni, per chiederti di perdonarmi.
Ma tu non hai ascoltato nessuno dei miei messaggi, probabilmente hai deciso di andare avanti, di cancellarmi dalla tua vita, ne hai tutto il diritto d’altronde.  Io però dovevo chiamarti, dovevo in qualche modo dirti che mi dispiace, anche se per te sarà tardi, anche se non vuoi più sapere nulla di me e le mie scuse ti sembreranno ridicole.
Almeno potrò dire di averci provato.”
Presi un respiro profondo, provando a ricacciare indietro i singhiozzi che mi stavano dimezzando l’aria nei polmoni. Ma il pensiero che stessi per dirgli addio, di nuovo, che mi stessi rassegnando al fatto di averlo perso, mi fece crollare, e a quel punto trattenere le lacrime fu impossibile.
“Sai, forse dovrei andare avanti anche io, questa volta davvero, ed aspettare che il tempo guarisca tutte le ferite, anche se, ad essere sincero, negli ultimi anni non mi sembra di essere guarito granché.
Ricorda che ti ho sempre voluto bene.
E te ne vorrò per sempre.”
Feci per attaccare il telefono ma sentii che ci fosse un’ultima cosa che avrei dovuto dire, che Louis avrebbe dovuto sapere: tra di noi, finché avremmo avuto ancora forza e fiato per correrci incontro, non sarebbe mai stato un addio.
“Ah, se dovessi ascoltare questo messaggio, richiamami. Per favore.
Non è mai finita per me Louis. Non finirà mai.”
Chiusi la chiamata ed uscii da quella cabina che era diventata la mia prigione, il contenitore di tutti i miei rimpianti.
Mi allontanai, consapevole che Louis non avrebbe richiamato.
Ma andava bene lo stesso.
Forse non era ancora arrivato il nostro momento.
 
 
 
Louis
 
 
“Ernie, posa subito quelle forbici! E tu Doris, smettila di impiastricciarti la faccia con i colori!”
“Dio, Lou. Sembri una casalinga disperata. Rilassati.”
“Se invece di smaltarti le unghie mi aiutassi, forse non sembrerei una casalinga disperata, non credi?”
“Ho la febbre e lo smalto è ancora fresco, quindi…”
Lottie mi rivolse un sorriso impertinente mentre alzava le spalle con noncuranza.
Le feci il dito medio, poi presi una salviettina imbevuta dalla mensola accanto al frigo e cominciai a strofinare il viso di Doris che somigliava molto alla tavolozza di qualche pittore francese.
Sentii squillare il mio cellulare in lontananza e con gli occhi scandagliai la casa per capire da dove arrivasse il suono.
Il caos regnava sovrano. Sembrava fosse esplosa una cazzo di guerra mondiale lì dentro.
Cominciai a girovagare per il salotto fino a quando non trovai il mio telefono sotto una coltre di cuscini e coperte con cui avevo costruito il fortino per Ernie e Doris poco prima.
“Pronto?”
La mia voce risultò più disperata di quanto pensassi.
“Amore, tutto ok?”
“Mmh… Vediamo… Ho un’adolescente con la febbre a 38 in piena crisi amorosa sul divano, due piccoli diavoletti che hanno messo a soqquadro la casa, tra cui uno gioca con armi da distruzione di massa, tipo forbici, e l'altra ha ben pensato di colorare ogni superficie di questo soggiorno. E come se non bastasse devo portarli con me al campo fra…” controllai l'ora sul display e mi resi conto di essere in clamoroso ritardo - come al solito, “adesso. Cazzo, sono in ritardo!”
“Lou, dimmi che quando tornerò a casa sarà tutto come l'ho lasciato una settimana fa!”
“El, mi spiace ma non posso fare promesse. Ernieeee, Doriiiss mettete sciarpa, capello e giubbotto. E non voglio sentire storie, siamo già in ritardo!”
I miei fratellini mi guardarono con il broncio per un secondo, poi presero le loro cose e fecero come avevo chiesto. Mi dispiaceva essere dispotico e asfissiante, ma era l'unico modo per farmi ascoltare.
“Tu come stai? Tutto bene lì?”
“Non potrebbe andare meglio! Dio Lou, Tokyo è meravigliosa, dovremmo venirci in viaggio di nozze!”
“In mezzo a cinesi che mangiano pesce crudo e merda varia? No grazie!”
“Giapponesi, Lou. Sono Giapponesi.”
 “È lo stesso! Adesso scusami ma devo proprio andare, appena finisci il meeting mandami un messaggio, lo leggerò dopo gli allenamenti. Salutami i cinesi!”
Chiusi la chiamata senza aspettare risposta, come facevo sempre e con chiunque.
“Folletti, forza! Il fratellone vi porta a divertirvi!”
I miei fratellini mi guardarono con occhi adoranti, e con dei sorrisi meravigliosi sul volto sfrecciarono subito fuori casa.
“Lots, lo so che stai male, ma ti prego sistema un po’ questo casino.”
“Lo sai che dovrai pagarmi?”
“Fanculo, nemmeno per sogno!”
Sentii la sua risata cristallina da dietro la porta mentre con passo svelto raggiungevo i gemelli.
 
 
 
“Lou, in braccio, in braccio!”
Stavamo tornando dal campetto dopo due ore estenuanti di allenamento.
I gemelli avevano giocato tutto il pomeriggio e adesso ciondolavano per le strade con gli occhi socchiusi.
Alla mia destra Ernie mi tirava il cappotto reclamando la mia attenzione, a sinistra Doris si ciucciava il pollice silenziosamente.
“Ernie, gli ometti di due anni come te non si fanno prendere in braccio.”
Mi guardò con smarrimento per un attimo, poi riprese a piagnucolare.
“Ma io sono ‘tanco!”
“E va bene, va bene! Ma solo per questa volta, siamo intesi?”
Scosse la testa con vigore e poi mi saltò addosso, accoccolandosi sulla mia spalla.
Arrivammo a casa nel giro di pochi minuti, aprii la porta e trovai tutte le mie sorelle sedute attorno al tavolo intente a parlare.
“Che ci fate tutte qui?! Sia chiaro, sono stanco morto e non ho intenzione di ospitare uno sleepover in casa mia!”
La mia ilarità si spense nell'istante esatto in cui vidi le loro facce.
“Che sta succedendo?” chiesi allarmato.
Phoebe e Daisy piangevano abbracciate, Fizzy aveva l'aria rassegnata, Lottie era su tutte le furie.
“Si può sapere dove cazzo tieni il telefono?”
“Lots, niente parolacce davanti ai bambini.”
“Fanculo!”
Mi diede una spallata e si diresse al piano di sopra senza aggiungere altro.
Le gemelle mi vennero incontro e mi abbracciarono forte, svegliando Ernest che si era addormentato in braccio a me. Fizzy lo prese e lo portò in salotto insieme a Doris, lasciandomi in cucina con le altre.
“Lou, l-la mam-ma…”
Phoebe non riusciva a smettere di piangere, i singhiozzi sempre più frequenti che scuotevano le sue piccole spalle, Daisy con gli occhi sgranati pieni di lacrime mi implorava con lo sguardo di aiutarle.
“Shh, tranquille. Ci sono io adesso, ok?”
Presi ad accarezzare le loro trecce aspettando che si calmassero, mentre io cominciavo ad agitarmi. Cercai di cacciare via la frustrazione che sentivo strisciarmi addosso mentre cominciavo ad immaginare gli scenari più tragici.
Sospirai forte, poi mi inginocchiai e me le strinsi addosso.
“Adesso mi dite cosa è successo?”
Le gemelle si strofinarono gli occhi contemporaneamente, poi si guardarono e Daisy fece un cenno a Phoebe di parlare.
Due parole sussurrate che spiegavano tutto.
“Codice rosa.”
O quasi.
Codice rosa.
“Cazzo…”
“Che fine ha fatto la regola del niente parolacce davanti ai bambini?”
“Non eri andata di sopra tu?”
Mi girai appena per guardarla, ma quando i suoi incrociarono i miei scoppiò a piangere, lasciando andare le lacrime che ero sicuro avesse trattenuto per tutto quel tempo.
“Me ne occupo io, voi nel frattempo aspettatemi qui. State tranquille, qualsiasi cosa sia, si risolverà.”
Abbracciai Phoebe e Daisy, andai incontro a Lottie, strizzandole appena le spalle per rassicurarla, e uscii da quella stanza. Ad aspettarmi davanti alla porta c’era Fizzy, sguardo basso e denti che mangiucchiavano unghie.
“Lou, lei…”
“Quanto grave?”
“È chiusa a casa da più di un’ora, non apre nemmeno alle gemelle.”
Cazzo. Cazzo. Cazzo.
“D’accordo” annuii. “Torno presto, promesso.”
Le diedi un bacio sulla fronte e poi mi riversai sulla strada, correndo come un folle verso casa di mia madre.
Cercai di non pensare a quello che avrei potuto trovare una volta arrivato da lei, a quello che sarei riuscito a fare per farla stare meglio, a come avrei potuto rendere serene le mie sorelle.
Più correvo più sentivo le gambe pesanti, rese di piombo dalla paura di non farcela.
Il senso di colpa cominciava ad avvelenarmi le viscere. Se avessi sentito le chiamate di Lottie e fossi intervenuto subito, adesso le mie sorelle non starebbero piangendo in preda al panico nel salotto di casa mia.
Ancora una volta, era tutta colpa mia.
Il tragitto verso casa di Johanna non mi era mai sembrato così lungo.
Quando arrivai salii di corsa i tre gradini del porticato e cominciai a bussare con violenza alla porta.
“Mamma, sono io, Lou. Apri la porta!”
Silenzio.
Altri due colpi.
“Per favore!”
Ancora silenzio.
Mi spostai verso la finestra, misi le mani a coppa sul vetro per guardare dentro ma l'unica cosa che riuscii a scorgere fu la luce fioca della cucina che illuminava timidamente il divano del soggiorno, su di esso mia madre.
Era distesa con un braccio penzoloni, il viso sereno, il respiro lento. Sembrava stesse dormendo serenamente.
Ripresi a battere le nocche sul vetro freddo nella speranza di attirare la sua attenzione, ma niente sembrava ridestarla.
A quel punto ebbi la certezza che mia madre avesse perso i sensi.
Riuscii a percepire chiaramente il momento in cui il panico cominciò a farsi strada dentro di me, ma la sua espansione venne interrotta da una voce.
“Louis?” mi sentii chiamare.
Harry.
“Che succede?”
Dovetti trattenermi dall'urlare. Ero sempre circondato da drammi, ma gestirne due di questa portata contemporaneamente era impossibile anche per me.
Non ero pronto ad affrontarlo, specialmente dopo quello che mia aveva detto la sera precedente, lasciandomi senza parole.
Con quella confessione aveva rimescolato le carte della mia vita e io non avevo ancora la lucidità per metterle in ordine da solo.
Mi passai una mano sulla fronte scoprendo che nonostante la temperatura glaciale di marzo, si era imperlata di sudore.
Sentivo il cuore rimbombare nelle orecchie.
Le mani avevano cominciato a tremare impercettibilmente.
I contorni di tutto ciò che osservavo diventavano via via più sfocati.
Stavo per avere uno dei miei sporadici attacchi di panico.
Vidi Harry guardarmi con aria interrogativa ma cercai di ignorare il suo sguardo, consapevole che mi avrebbe smosso dentro un terremoto di emozioni che al momento avrebbero solo peggiorato la situazione.
Perciò presi un profondo respiro e cercai di riacquisire il controllo della situazione, non potevo permettermi di essere debole, la mia famiglia contava su di me.
“Non è un buon momento Harry, per favore.”
Fu quasi una supplica, se di lasciarmi in pace e rimandare ad un’altra volta la conversazione o di aiutarmi, però, non lo capii neanch'io.
Cominciai a girare la maniglia, in un tentativo di forzare la serratura, e con l’altra mano provai a spingere la porta.
Dopo qualche tentativo però niente sembrava essersi mosso di un millimetro.
E nonostante quella ad essere chiusa dentro casa fosse mia madre, in quel preciso istante, senza avere idea di cosa fare, mi sentii in trappola, senza alcuna via di uscita.
Per questo in un moto di sconforto poggiai la fronte sulla porta, già sfinito, strizzando gli occhi per impedire alle lacrime di uscire.
La mia mano, ancora posata arrendevole sulla maniglia, venne subito stretta timidamente da un’altra, calda, rassicurante, accogliente.
“Louis ti prego…”
Spalancai di scatto gli occhi.
Spostai lentamente lo sguardo dalle nostre mani verso il suo viso, trovandolo contratto in un’espressione che esprimeva quasi frustrazione, indecisione.
Percepivo il suo respiro sulla mia fronte, e solo allora mi accorsi di quanto mi fosse vicino.
Il suo petto attaccato alla mia schiena, i battiti del suo cuore a riverberare tra le indentature della mia spina dorsale.
Ogni suo battito era un mio respiro che mancava, una mia parola che non trovava voce.
Chiusi gli occhi e per una frazione di secondo scomparve mia madre priva di coscienza sul divano, scomparvero le lacrime delle mie sorelle, scomparvi persino io.
Forse mi ero rifugiato in un luogo dove ero libero di farmi accarezzare di nuovo l’anima da lui senza che il mio orgoglio mi obbligasse a fuggire.
Riaprire gli occhi fu come svegliarsi bruscamente da un sogno.
Nella mia vita, nel mondo reale, non esisteva un posto dove smettevo di essere Louis-l'eroe e cominciavo ad essere il Louis di Harry, quello felice e spensierato.
Per motivi a me incomprensibili, non mi era concesso.
“Lascia che ti aiuti.”
Aveva gli occhi spalancati, lucidi, e colmi di una sincerità che mi disarmò.
Mi stava quasi implorando.
“Dovresti smettere di dirlo, o finirò col crederci.”
“Devi crederci, perché è la verità.”
E senza nemmeno accorgermene, mentre lo guardavo dritto negli occhi, gli strinsi anch'io la mano e annuii piano.
Finalmente, forse, gli stavo concedendo la fiducia che tanto desiderava gli dessi.
Il sorriso che ricevetti in cambio fu più luminoso di qualsiasi stella cadente avessimo mai visto insieme, e quello solo mi convinse ad affidarmi a lui.
Non sapevo per quanto sarebbe durata, ma in quel momento sentii che dovevo lasciarmi scivolare quella corazza che avevo indossato per ripararmi da lui e lasciare che mi aiutasse.
“Mia madre… Lei è chiusa dentro e io devo entrare in qualche modo.”
Sembrava sul punto di chiedermi perché, ma non gliene diedi il tempo.
“Storia lunga.”
La troncai così. Non volevo che provasse pietà per me.
“Credo dovremmo provare con la porta sul retro, sarà più facile forzarla.”
Lo seguii nel giardino sul retro e prima che potessi avvicinarmi alla porta lui mi disse di farmi indietro; l’attimo dopo lo vidi sfondare la porta con una sola spallata.
Il suo sguardo imbarazzato, quasi a scusarsi per aver combinato un disastro, e il mio sorriso aperto, perché in quell'istante gli ero immensamente grato, entrarono in collisione, generando scintille di fuoco nell'aria.
Scostò la porta per farmi entrare, rimanendo da parte sulla soglia.
Un ultimo sguardo, poi mi fiondai dentro casa.
 
 
 
Harry
 
 
Non appena aprii la porta corse subito verso Johanna, inerme sul divano, e si chinò su di lei per controllare se respirasse ancora.
La scosse ripetutamente, alternando una litania di “svegliati” e “per favore”, in preda alla disperazione.
Io stavo nel fondo della stanza, spettatore ignaro di uno spettacolo confuso, senza sapere esattamente cosa fare, come agire.
Sapevo solo di dover aiutare Louis in qualche modo, qualsiasi modo, e cominciai chiamando un'ambulanza, camminando nervosamente per la stanza in attesa che qualcuno rispondesse.
Mi fermai sul posto, però, quando sentii Louis imprecare in un sussurro poco più che percettibile.
Un lieve tremito a scuoterlo, lo sguardo perso, bagnato da un accenno di lacrime, stava fissando un flaconcino di plastica vuoto, stretto tra le sue dita.
Finalmente sentii una voce dall'altro capo del telefono e quando parlai, riferendo le poche informazioni che sapevo - nome, cognome e residenza del paziente da soccorrere – Louis sembrò accorgersi che io fossi ancora lì con lui. Cercai di ignorare il suo sguardo colmo di stupore, rassegnazione e smarrimento, e gli rivolsi un'occhiata di cui lui capì subito i sottintesi.
Infatti: “ha ingerito sette antidepressivi, forse otto. Probabilmente tutti insieme.”
L'aria sembrò asciugarsi improvvisamente nella stanza.
O forse furono solo i nostri polmoni a prosciugarsi di tutto l'ossigeno dopo quell'affermazione.
Ancora una volta i miei occhi dovettero far trasparire le domande a cui non avevo il coraggio di dare voce, perché con un fugace sguardo Louis mi fece capire che quello non fosse il momento per spiegare tutto ciò che aveva portato a quello a cui stavo assistendo, qualsiasi cosa fosse.
Annuii, forse a lui, forse a me stesso.
Perché dopotutto, e nonostante tutto, eravamo ancora in grado di comunicare con gli occhi, di costruire intere conversazioni usando solo un battito di ciglia e uno sguardo, senza alcun bisogno di parole. Tra di noi quelle non erano mai servite a molto.
E forse era per questo che ci eravamo persi: avevamo creduto di poter riempire certi vuoti con le parole, e invece li avevamo solo ingigantiti rendendoli incolmabili.
Se solo ci fossimo ascoltati a vicenda i silenzi non saremmo arrivati al punto in cui ci trovavamo in quel momento.
La donna dall'altro lato del telefono mi avvisò che in meno di mezz'ora sarebbe arrivata l'ambulanza.
“Saranno qui fra mezz'ora” riferii a Louis in un soffio, staccando la chiamata.
Lui non mi rivolse nemmeno uno sguardo, fissava dritto un punto imprecisato del divano senza battere ciglio, come se non mi avesse sentito.
Mi sentivo un idiota, inutile, incapace di aiutarlo.
Ma soprattutto, mai nella mia vita trascorsa con lui, mi ero sentito così fuori luogo e a disagio.
Perché avrei voluto abbracciarlo, consolarlo, dirgli che sarebbe andato tutto bene.
Ma se pensavo a tutte le volte in cui mi aveva respinto e guardato con disprezzo mi bloccavo, rimanevo fermo in quell'angolo di cucina, con la paura che non volesse avere nulla a che fare con me.
Lo vedevo lì accucciato accanto a sua madre e io volevo solo gridargli di chiedermi aiuto, di lasciarmi essere la sua ancora. Stava cercando di tenere tutti i pezzi uniti, ma io mi accorgevo di come in realtà si stesse lacerando dal modo in cui si torturava il pollice sfregandovi sopra l'indice, da come la mano chiusa a pugno fosse talmente contratta che la nocca del dito medio sporgeva di più rispetto alle altre. Ma soprattutto, lo notavo da come cercava in qualsiasi modo di escludermi da tutto quello, da come evitava di posare lo sguardo su di me a meno che non fosse strettamente necessario.
E vedevo il dolore squarciarlo, come un enorme lama affilata che lo dilaniava perfettamente in due, vedevo le notti prive di sonno attraverso le sue palpebre scure, quasi nere, sentivo il suo cuore tremare ogni volta che mi parlava, ma non conoscevo la storia che si celava dietro a tutto questo.
E davvero, avrei voluto potergli dire di essere il suo rimedio, di volerlo essere, ma poi ricordavo le parole che pochi giorni prima mi aveva detto a casa mia e capivo che per lui sarei sempre stato colui che lo aveva distrutto, non colui che lo avrebbe curato. Non mi sentivo degno di essere il suo rimedio.
E come si fa pace con se stessi dopo una consapevolezza del genere? Come avrei fatto a fargli capire che mai, in nessuno universo, sarebbe esistito un Harry Styles che ferisce intenzionalmente il suo Louis Tomlinson? Come avrei potuto farlo ritornare tra le mie braccia facendo sparire l'odio dai suoi occhi e l'insicurezza dai suoi gesti?
Poi ebbi quasi una illuminazione.
Avrebbe potuto funzionare oppure rivelarsi un disastro, ma valeva la pena tentare.
"Louis, potremmo provare una cosa. L'ho già fatto una volta a Los Angeles, forse potrebbe funzionare.”
La frase mi uscì con più insicurezza di quanto volessi.
“Cos'è? Ti sei specializzato in medicina lì in America?”
Di nuovo il disprezzo. Di nuovo l'odio.
Maschere e volti a confondersi ancora.
“Non fare così, per favore. Sto solo cercando di risolvere la situazione, di darti una mano.”
Mi attaccava con l’aggressività per nascondere la paura, lo sapevo, ma non potevo evitare di rimanerci male, di percepire l'intenzione che avesse di ferirmi.
Per questo il mio tono di voce risultò spento e scoraggiato.
Da quando ero arrivato a Doncaster qualsiasi cosa facessi o dicessi, con lui, mi sentivo sempre sbagliato.
Eppure, con una sola frase, mi fece ricredere, rimise tutto in discussione.
Inaspettatamente, si aprì con me, e mi confidò qualcosa che dentro di me, osservandolo per tutto quel mese, avevo già intuito.
“Lo so, mi dispiace per averlo detto” ammise, sconfitto. “È solo che ho paura e non so che fare. Ma non posso fallire Harry, le mie sorelle contano su di me, capisci?”
Certo che lo capivo, ecco perché non lo avrei lasciato da solo e lo avrei tirato fuori da quel casino, a costo di rimanerci impantanato io stesso.
“E allora dammi la possibilità di farti fidare di me, almeno questa volta” lo supplicai.
“Mi fido.”
Lo disse così, tutto d'un fiato, senza esitazione, penetrandomi con lo sguardo.
Inaspettato.
Quel giorno capii che per me Louis era e sarebbe sempre stato inaspettato.
Come inaspettate erano la fiducia e la speranza che gli vidi negli occhi.
“Aiutami a portarla in bagno allora.”
Quando riuscimmo a condurla in bagno avevo le gambe che tremavano e lo stomaco attorcigliato dall'ansia.
“E adesso?” mi chiese.
Preferii non rispondergli, piuttosto misi due dita sotto il getto dell'acqua, sollevai il viso di Jay e le indussi il vomito. Contai fino a tre prima che Louis mi urlasse contro.
“Ma che cazzo fai? Sei impazzito?”
Prevedibile.
“Te l'ho già detto. Mi è capitata una cosa simile una volta a Los Angeles, ed ha funzionato.”
Mi guardò con l'orrore negli occhi.
“Hai tentato anche tu il suicidio?”
Lo disse senza fiato, come se anche solo immaginare una cosa del genere lo distruggesse.
Sentii crescere un brivido sotto quello sguardo, si insinuò alla base della schiena e si disperse in tutto il corpo.
Mi concentrai su Johanna, spostandole i capelli dal volto mentre continuava a rimettere, senza però dare cenni di ripresa.
“Non io, un ragazzo che conosco.”
Tagliai corto, non avevo voglia di riportare alla luce quell'episodio, soprattutto non con Louis.
Poggiai una mano sulla guancia di Jay, avvertendo con sollievo che fosse ancora calda.
Subito dopo, due colpi di tosse sferzarono l'aria sospesa tra di noi.
Johanna aveva riacquistato coscienza.
Sarebbe stata bene.
Louis sarebbe stato bene.
Ce l'avevo fatta.
Sospirai, sollevato, e solo in quel momento mi resi conto di aver trattenuto il fiato per tutto quel tempo.
Louis mi guardò con una gratitudine negli occhi che fece nascere delle lacrime nei miei.
Quello sguardo era tutto ciò avevo aspettato per quattro anni, da quando l’ultima volta lo avevo visto incupirsi dalla delusione tramite lo schermo del mio PC.
“Vi lascio soli” sussurrai, poi mi allontanai, lasciando a madre e figlio il loro spazio.
Jay piangeva sulla spalla di Louis mentre lui le accarezzava i capelli e stringeva le labbra tra i denti per trattenere un pianto che, ero sicuro, non avrebbe lasciato andare fino a quando non sarebbe rimasto da solo.
L'intimità di quella scena, e il dolore che trasmetteva, mi costrinsero ad uscire, ma prima che chiudessi la porta sentii Louis rompere i singhiozzi di sua madre.
"Perché lo hai fatto? Noi non siamo abbastanza per tenerti in vita? Non siamo abbastanza per te, mamma?"
Non c'era rabbia nella sua voce, solo l'arrendevolezza di chi è esausto.
“Certo Boo, certo. Siete tutto per me” rispose flebile Johanna.
“E allora perché lo hai fatto?” chiese di nuovo Louis, le lacrime che tratteneva a rendere più acuta la sua voce.
“Perché ultimamente l’unica cosa che faccio è deluderti, e non voglio più essere un peso per te.”
Attraversai di fretta il corridoio dopo quella frase, era troppo anche per me.
Mi concessi di piangere un po', lontano dagli occhi di Louis e da tutto quello che si portavano dentro.
Mi concessi di essere debole per un minuto, prima che sentissi le serene dell'ambulanza farsi sempre più vicine.
Cos'era successo al mio Louis?
 
 
 
 
Quando arrivò l'ambulanza fu tutto caotico e veloce.
I medici, le domande, Johanna sfinita sulla barella, Louis improvvisamente rigido e silenzioso.
E poi ancora Fizzy, Lottie e le gemelle che arrivarono, impaurite, incredule, e due piccoli bambini che non avevo mai visto ma che non ebbi fatica a capire che fossero un'ulteriore aggiunta alla famiglia Tomlinson.
E di nuovo, in Louis rividi lo stesso atteggiamento che mi aveva colpito quando avevo lo avevo seguito all'asilo: lui non era solo un fratello, era un padre, un amico, il pilastro di quella famiglia.
Lo si vedeva da come le sue sorelle gli gravitavano attorno, dal modo in cui i più piccoli gli salirono in braccio non appena lo videro. E Louis era estremamente forte e coraggioso, perché stava rassicurando tutti, ma lo conoscevo e sapevo che in realtà, l'unico ad aver davvero bisogno di sentirsi dire che tutto sarebbe andato bene, era proprio lui.
E se avessi potuto, gli avrei donato i miei occhi per osservare da fuori quella scena, per far sì che si rendesse conto di quanto tutto di lui fosse ammirevole, di quanto brillasse quando attorno aveva le persone che più amava al mondo, e di quanta forza era in grado di tirare fuori solo per loro, solo grazie a loro.
"Papo, dov'è mamma?"
"Doris, amore, quante volte ti ho detto di non chiamarmi papà?"
"Dov'è mamma?"
"Torna subito, promesso. Ora però andiamo a dormire, mh?"
La piccola Doris annuì piano prima di sporgersi per dare un piccolo e dolce bacio sulle labbra di Louis.
Il cuore mi si riempì di tenerezza e di così tante emozioni che non riuscii a trattenere un singhiozzo che attirò l'attenzione su di me, rimasto in fondo alla stanza.
"Harry?!"
Non feci in tempo a distinguere di chi, delle le quattro sorelle Tomlinson, fosse la voce, che subito me le ritrovai tutte addosso in un groviglio di braccia che stringevano e mani che mi toccavano quasi come se non fossi reale.
"Dio, Harry ci sei mancato così tanto!"
"Anche voi Lots. Non sai quanto."
Inutile dire che, dopo questo, tutti i miei sforzi di trattenere le lacrime furono vani.
Fu un momento quasi catartico, tra le braccia di quelle che io avevo sempre considerato le mie sorelline, sentii le mie colpe scivolare giù dal corpo e alleggerirmi l'anima.
E andava bene così, non importava se Louis avesse continuato ad odiarmi.
Si era lasciato andare, anche se per poco, e si era fidato di me.
Quello sarebbe stato abbastanza.
Me lo sarei fatto bastare.
Eppure, non appena sollevai lo sguardo, ritrovai gli occhi di Louis fissi su di me.
Sul viso quel bagliore che gli riverberava attorno e si posava sulla curva del suo sorriso.
In quel momento giuro che tutto si arrestò e allo stesso tempo cominciò a scorrere più velocemente. Fu lì, in quel preciso istante, che capii che Louis sarebbe ritornato da me.
Che saremmo ritornati nostri, non sapevo ancora come e precisamente quando.
Ma ero che lo avremmo fatto in un modo tutto nostro, come sempre.
 
 
 
“Sarà meglio che vada adesso. Avete bisogno di restare in famiglia.”
Eravamo nel piccolo giardino di casa Tomlinson, l'uno di fronte all'altro.
Imbarazzo e indecisione ad aleggiare tra di noi, nelle mani dentro le tasche e nei piedi che scacciavano ciottoli.
“Lo so che quello che hai visto stasera può sembrarti assurdo -ed effettivamente lo è- ma adesso la mia vita è questa, e so anche che probabilmente meriteresti delle spiegazioni riguardo a tutto quello che è appena successo, ma è troppo complicato e…”
“Non mi devi nessuna spiegazione” lo interruppi, “credo di aver perso il diritto di sapere certe cose molto tempo fa” ammisi, con più dolore e amarezza di quanto immaginassi.
“Harry, io…”
“Lou?”
La testa biondo platino di Lottie sbucò dalla porta d'ingresso timidamente, con in braccio la piccola Doris che piangeva.
Vidi Louis sospirare piano prima ancora che sua sorella parlasse.
“Mi dispiace interrompervi, ma i gemelli hanno fame, dovresti tornare dentro a darmi una mano, sono totalmente fuori controllo.”
Louis annuì piano, un velo di tristezza a posarsi sulle sue palpebre.
“Arrivo” l'avvisò, e lei con uno sguardo di scuse si ritirò.
“Devo andare, il dovere mi chiama.” Puntò verso casa con il pollice, per metà coperto dalla manica della sua felpa, e non poté evitare di farsi sfuggire un altro sospiro angosciato.
Avrei voluto chiedergli talmente tante cose quella sera, ma semplicemente non era il momento adatto. Perciò mi limitai ad annuire, comprensivo.
“Buona notte Louis.”
Stavo già per voltare strada quando “Harry?”
“Sì?”
“Grazie.”
“A presto Lou.”
Il sorriso che mi rivolse prima di rientrare a casa fu talmente luminoso che la luna piena di quella notte impallidì di fronte a tutta la sua lucentezza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note personali:
Buona sera ragazze!
Dopo settimane di studio intenso, finalmente sono riuscita a pubblicare.
Questo capitolo rappresenta la svolta nel rapporto tra Harry e Louis, e spero siate curiose di scoprire cosa succederà tra loro nel prossimo.
La tregua è molto vicina.
Ci sono molti aspetti di questo capitolo che ho adorato scrivere, come quelli che riguardano il rapporto di Louis con le sue sorelle, e la confessione di Harry (a proposito: ve l'aspettavate?)
Mi auguro che queste pagine vi siano piaciute, e che in tal caso vogliate farmi sapere cosa vi ha più colpiti o emozionati, se le cose che più ho preferito scrivere sono le stesse che avete apprezzato voi, oppure se qualcosa non vi ha particolarmente convinte.
Spero di leggere i vostri commenti, davvero.
Vi abbraccio.
A presto,
Letizia.
Ps: la canzone cantata da Harry è One di Ed Sheeran. Se non la conoscete, ascoltatela (magari anche rileggendo quel pezzo della storia) perché è veramente meravigliosa e perfetta per questi Larry.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** When we were young ***


Harry
 
“Sono qui da settimane e solo adesso vengo a sapere che ti sposi? Tramite un bigliettino per giunta?!”
“Tecnicamente sono solo fidanzato ufficialmente, per il matrimonio c’è ancora tempo, e scusa se non te l'ho detto prima, volevo fosse una sorpresa!”
“Liam, hai idea in crisi esistenziale mi hai appena messo? E adesso dove lo trovo il vestito per stasera? In valigia ho praticamente solo spazzatura.”
“Un pantalone e una maglietta andranno benissimo.”
“Dio santo, stai scherzando? È una festa di fidanzamento, non un rave! L'occasione merita senza dubbio un completo Gucci.”
“Harry ti prego, niente cose strambe.”
“Farò finta che tu non abbia appena bestemmiato.”
Sentii Liam esplodere in una risata dall'altro capo del telefono e non potei evitare di farmi contagiare, cominciando a ridere anch’io.
“Quanto sei drammatico!”
“Cosa vuoi che ti dica, tengo a certe cose.”
“D’accordo Mister Gucci, ti lascio ai tuoi dilemmi stilistici, io devo andare, devo terminare delle cose per stasera. Mi raccomando puntuale!”
Attaccò la chiamata senza nemmeno darmi il tempo di rispondergli, tipico di Liam quando aveva l'ansia di sbrigare delle cose per lui importanti.
Mi guardai intorno, seduto sullo sgabello della mia cucina, indeciso su cosa fare.
In un angolo del piano cottura vidi le chiavi della macchina.
Le afferrai di fretta e uscii da casa sorridendo. Fra un paio d’ore sarebbe cominciata una sessione di shopping tra le boutiques di Londra.
 
Quella città sapeva sempre come lasciarmi senza fiato, travolgermi con la sua imperitura magia, con il suo sfacciato fascino.
Giravo per le strade da ore ma non ero ancora stanco.
Sentivo di appartenere a quel posto, ai negozi, ai vicoli nascosti, ai quartieri affollati. Era sempre stato così, a Londra non ero Harry-il ragazzo strano e bullizzato che voleva evadere da Doncaster, ero Harry e basta.
Nessuna etichetta, nessuna definizione.
Non potevo però ignorare la malinconia che sentivo salire inevitabilmente dall'asfalto e mischiarsi all'odore dello smog, inebriandomi mente e polmoni, perché Londra era la città grazie alla quale io e Louis, da ragazzini, avevamo imparato a sognare.
Era la città in cui ci eravamo ripromessi saremmo andati a vivere insieme, da adulti, a prescindere da quello che saremmo diventati, dalle nostre famiglie, dal nostro lavoro.
Perché Londra ci faceva sentire liberi, vivi, capaci di fare qualsiasi cosa, di realizzare tutti i nostri sogni più segreti.
Semplicemente, ci rendeva felici.
Per questo ogni qual volta sentivamo il peso della vita arrivarci addosso e schiacciarci d’improvviso, prendevamo di corsa un treno e andavamo a rifugiarci lì.
Giravamo per le piazze, esploravamo i musei, imprimevamo le nostre tracce nei marciapiedi delle strade, assaggiavamo cibi nuovi e a volte disgustosi, andavamo nei parchi dove correvamo a perdifiato e dove, dopo, ci sedevamo sfiniti sotto un albero, sempre lo stesso, che sembrava ripararci dalle brutture del mondo da cui scappavamo.
Quelli erano i momenti in cui ci permettevamo di vivere e ci prendevamo il lusso di farlo come era giusto facessero dei ragazzi della nostra età.
Quelli furono i momenti in cui mi innamorai di Londra e promisi a Louis che non sapevo né come né quando, ma ci avremmo vissuto insieme.
Mentirei però, se non dicessi di essermene innamorato per il modo in cui Louis guardava quella città, che riflessa nelle sue iridi blu appariva decisamente molto più bella e magica.
Probabilmente allora eravamo ingenui, ma a noi bastava poco per sperare che prima o poi avremmo avuto la vita che meritavamo.
Inutile dire che poi tutto andò diversamente da come lo avevamo immaginato.
 
Entrai da Gucci solo un'ora e mezza dopo essere arrivato a Londra e subito venni colpito dalla dolce fragranza che riempiva l'aria fresca della boutique.
Provai un’infinità di completi, tanto da far girare la testa alla mia commessa, senza però trovarne uno che mi convincesse abbastanza per il fidanzamento di Liam.
Sconsolato, provai l'ultimo completo: un doppio petto e un pantalone dritto color pistacchio1 a far risaltare i miei occhi. Uscii dal camerino per guardarmi attraverso la grande specchiera.
“Credo di non aver mai visto nessuno indossare un Gucci così. Ti sta divinamente.”
Dal riflesso dello specchio vidi alle mie spalle una ragazza minuta osservarmi con curiosi occhi nocciola dai quali traspariva quella che sembrava devozione.
Arrossii per l'imbarazzo e mi schiarii la voce per ringraziarla timidamente.
“Dico sul serio, faresti un grande sbaglio a non prenderlo, sempre se è adatto all'occasione per cui lo indosseresti.”
“Tu lavori qui?”
“Purtroppo no, sto cercando anch’io l'abito perfetto, ma a quanto pare oggi non è la mia giornata fortunata.”
Fece una smorfia delusa e non potei evitare di ridere. Lei rise di rimando e si presentò.
“Sono Eleanor.”
Accettai la mano che mi stava tendendo, stringendola mentre la osservavo. Qualcosa dei suoi lineamenti mi diceva che l'avessi già vista da qualche parte.
“Harry, piacere. E per rispondere alla tua domanda, sto cercando un completo per una festa di fidanzamento. Il mio amico mi ha chiesto esplicitamente di non indossare nulla di strambo, come l’ha definito lui, e nonostante la tentazione sia molto forte, non voglio contraddirlo per una serata così importante.”
Eleanor rise ancora, rumorosamente, spostando delicatamente con l'indice un ciuffo di capelli che le finì sul volto.
“Credo che con questo vestito il tuo amico non avrà nulla da ridire, è perfetto.”
Mi guardai un'ultima volta allo specchio, e in effetti non potevo darle torto, l'abito cadeva perfettamente, sembrava fosse stato fatto appositamente per me.
“Mi hai convinto, credo proprio che lo prenderò.”
Eleanor mi rivolse un sorriso soddisfatto.
“Ottima decisione! È stato un piacere Harry, ti auguro una buona serata.”
“Grazie Eleanor, buona serata anche a te.”
Le diedi una gentile stretta di mano prima di congedarmi, dopodiché pagai e una volta uscito dal negozio mi diressi verso la macchina, pronto per ritornare a Doncaster.
 
 
Louis
 
La sala era gremita di gente che sorseggiava drink mentre disinteressatamente intratteneva frivole conversazioni a cui la musica faceva da gentile sottofondo.
Ero arrivato da quasi un'ora, il bar aveva aperto da appena dieci minuti ed ero già al terzo bicchiere di champagne.
Stavo sorseggiando il mio alcolico quando due morbide mani, al profumo di vaniglia, si posarono leggere sui miei occhi, oscurandomi momentaneamente la vista.
Da dietro la mia schiena, qualche parola sussurrata all’orecchio.
“Ti sono mancata?”
La vista ritornò, mostrandomi in tutto il suo bagliore la mia fidanzata che, ora di fronte a me, mi sorrideva dolcemente.
“El, che ci fai qui?”
L’abbracciai di slancio, sperando che, stretta tra le mie braccia, non si accorgesse del poco entusiasmo con cui l'avevo accolta.
“Sarei dovuta rimanere via altri due giorni, ma mi mancavi troppo così ho deciso di tornare prima. E poi non potevo perdermi la festa di fidanzamento della mia migliore amica. Quindi… Sorpresa! Non sei contento?” 
Già… Non ero contento?
La verità?
Non lo sapevo.
Avrei dovuto esserlo, certo, ma per qualche motivo non riuscivo a scrollarmi di dosso quel disinteresse che provavo nel ritrovarmela lì e che, per qualche assurdo motivo, mi impediva di gioire del suo anticipato ritorno.
Normalmente un fidanzato avrebbe dovuto essere contento per una sorpresa del genere, mentre a me la cosa lasciava totalmente indifferente.
Gli ultimi giorni erano stati talmente assurdi che non mi ero nemmeno soffermato a pensare che Eleanor non ci fosse, era come se avessi cancellato momentaneamente la sua presenza dalla mia vita. Ma adesso era lì, mi guardava in attesa che io dicessi qualcosa, reclamava la mia attenzione, e mi sentii tremendamente in colpa perché nell’ultimo periodo non ero più in grado di darle ciò di cui aveva bisogno.
Che razza di persona orribile ero?
“Certo che sono contento! È solo che non mi aspettavo di vederti qui, mi hai colto alla sprovvista. Questa settimana è stata un disastro, quindi scusa se non sembro entusiasta, ma lo sono, davvero!”
Raccontai una bugia su due piedi, e subito dopo averla detta, mi resi conto che fosse più diretta a me che a lei: avevo bisogno di credere che ciò che avessi appena raccontato fosse vero, altrimenti avrei dovuto interrogarmi sul perché non mi fosse mancata quella che presto sarebbe stata mia moglie, sul perché non fossi contento di rivederla dopo quasi una settimana di separazione forzata, sul perché, nei giorni appena trascorsi, i miei sogni fossero stati popolati da un paio di occhi verde smeraldo anziché da un paio d'occhi color nocciola.
“Problemi con tua madre?” mi chiese, premurosa come sempre.
“Sì, ma non mi va di parlarne. Ti racconterò tutto a casa.”
Mi diede un casto bacio e aggrappandosi al mio braccio mi diresse verso il bancone del rinfresco.
“Cosa posso offrirvi signori?”
“Uno Chardonnay per la mia fidanzata e un Brandy per me.”
“Amore non esagerare” mi sussurrò sottovoce, “lo sai che non dovresti.”
“Tranquilla El, ho tutto sotto controllo.”
La mezz'ora successiva passò tra Eleanor che mi raccontava del suo viaggio di lavoro e pochi ospiti -che siano benedetti- che di tanto in tanto interrompevano il suo sproloquio per una breve conversazione con noi.
Ad un certo punto, fui talmente saturo dei suoi discorsi che smisi di ascoltarla e cominciai a far vagare distrattamente lo sguardo per la stanza.
Fu quando lo vidi scendere maestosamente dalle scale che dal piano superiore conducevano alla sala del ricevimento che mi si bloccò il respiro e tutto ciò che potei fare fu ammirarlo.
Il suo innato fascino aveva attirato l’attenzione della maggior parte degli invitati che come me, vennero attratti da quella calamita che era Harry Styles.
Le mani anellate a scompigliare i ricci perfetti, in un gesto di vanità ingenua, e le fossette a fare capolino, dispettose, non appena Liam gli si avvicinò fingendosi arrabbiato per il suo imperdonabile ritardo.
“Sbaglio o ti avevo raccomandato di essere puntuale?”
“Scusa! Lo shopping a Londra è durato più del previsto. Mea culpa.”
“Sei sempre il solito idiota. E adesso vai a bere, sei ancora troppo sobrio.”
Sorrisi impercettibilmente a quella battuta di Liam.
“Agli ordini caporale!”
Harry si portò la mano alla fonte per poi allontanarla con uno scatto, a mo' di saluto militare.
Liam gli diede una piccola spinta e Harry, senza perdere il suo sorriso, si diresse verso Niall, che lo aspettava a braccia aperte con due boccali di birra nelle mani.
“Louis? Mi ascolti?” richiamò la mia attenzione Eleanor.
“Scusa, mi sono distratto. Dicevi?”
Posai lo sguardo di nuovo su di lei e notai che fosse su tutte le furie, il viso cosparso di chiazze rosse per la rabbia.
“Non parlarmi per il resto della serata. Ah, e non aspettarmi a casa, stanotte dormo da Sophia.”
“El non fare così, hai davvero voglia di litigare? Sei appena tornata.”
“Già, eppure a te sembra non importare.”
E dicendo così se ne andò, ferita ed incazzata, lasciandomi solo al bancone del bar.
Per qualche motivo però non riuscii ad interessarmene, né tantomeno ne fui ferito.
Ordinai anzi un altro bicchiere di Brandy e mi godetti un po’ di solitudine seduto sul mio sgabello.
Quando il barman mi posò davanti il bicchiere col mio vino, presi a sorseggiarlo con calma e mentre l'alcol si faceva strada nelle mie vene non potei impedire ai miei occhi di posarsi di nuovo su Harry.
Parlava amorevolmente con amici e parenti di Liam che, contenti di rivederlo, non riuscivano a togliergli gli occhi di dosso.
In realtà, sin dal suo ingresso, con indosso un completo color verde chiaro da mozzare il fiato, aveva catalizzato su di sé l'attenzione di ogni singolo individuo presente quella sera, che ne subiva inevitabilmente il fascino. Tutti volevano passare un po’ del loro tempo con lui, sapere dell'America, delle sue avventure. Sembravano pendere dalle sue labbra, erano ammaliati dal suo modo di parlare, di muoversi e di atteggiarsi cordiale.
Harry quella sera sembrava essere un film d'autore o una canzone d'epoca, quelli dai quali non riesci a distogliere lo sguardo e l'udito, dai quali non puoi fare a meno di sentirti attratto, di rimanere affascinato, meravigliato.
E quindi non ti resta che rimanere lì ad ammirarlo, a bocca aperta e con gli occhi intrisi di una luminosità riflesso di quella che emanava lui.
Se ne avessi avuto la possibilità, lo avrei fotografato in quella luce che lo avvolgeva e lo rendeva quasi etereo, per paura che quella potesse essere l'ultima volta che l'avrei vista.
Rimasi incredulo e sbalordito quando lo vidi salutare con sorpresa Eleanor, quasi abbracciandola amichevolmente.
Come diavolo si conoscevano quei due? Quando si erano incontrati?
Ma soprattutto, perché Eleanor stava andando a fuoco sotto lo sguardo di Harry e lo stava riempiendo di complimenti per l'abito che indossava?
Durante la loro breve conversazione la mia fidanzata mi indicò da lontano, guidando lo sguardo di Harry verso di me.
Quando lui si voltò, l’alcol che avevo in circolo si incendiò in un attimo, i suoi occhi scintilla su di me che in quel momento ero benzina pura.
A quel punto il propagarsi dell'incendio nel mio corpo fu inevitabile.
Il suo sguardo da estasiato passò ad essere contrariato e subito dopo di nuovo estasiato.
Mi sentivo ubriaco, la testa girava in profondi vortici, ma la colpa non era sicuro dello champagne, né tantomeno del Brandy. Era tutta colpa di quei prati verdi che si ritrovava al posto degli occhi e che mi stavano scrutando con una intensità tale da farmi sentire frastornato.
Si congedò educatamente da Eleanor, iniziando ad avanzare deciso nella mia direzione, ma la sua traiettoria venne interrotta da una ragazza, credo si chiamasse Camille, che si aggrappò al suo braccio, civettuola, e lo portò dai propri genitori, trattandolo come un trofeo da esibire.
Vidi i suoi occhi dispiaciuti per un attimo, quello immediatamente successivo stava già stringendo -mi accorsi con meno cordialità di prima- le mani dei suoi nuovi interlocutori.
La maggior parte della serata passò così, con Harry che come una trottola passava da un gruppo di invitati ad un altro, con Liam e Sophia che cercavano di fare sentire tutti quanti a proprio agio, con Eleanor che continuò ad ignorarmi per tutto il tempo, e Niall che da ottimo amico e compagno di bevute qual era, rimase al bancone con me, bevendo tutto ciò che ci capitasse sotto mano.
Io però guardavo Harry e non potevo fare a meno di pensare che avrei solamente voluto un momento, solo uno, per stare con lui, anche solo per sentire la sua voce, prima di dover andare via, anche solo per ringraziarlo per tutto quello che aveva fatto per me e la mia famiglia pochi giorni prima.
Quando avevo visto Johanna senza sensi sul divano ero così spaventato di dover affrontare le mie paure, di dover essere forte a tutti i costi, che probabilmente se non fosse arrivato lui non ce l'avrei fatta.
Mi aveva reso forte, e grazie a lui ero riuscito ad affrontare tutto.
Era sbagliato che mi rendesse forte?
Ero convinto fosse all'estero, lì dove mi aveva lasciato andare, che ci sarebbe rimasto per sempre. Nessuno mi aveva detto che invece sarebbe tornato a scavare con le unghie il mio muro fatto di fango e pece, a insinuarsi di nuovo nella mia vita, a ricordarmi com'era bello quando eravamo poco più che ragazzini, com'era facile.
Per questo una parte di me, quella che avevo cercato di reprimere per tutto quel tempo, continuava a resistere, perché al diavolo le maschere, le bugie e l'orgoglio, ci tenevo ancora, dannazione quanto ci tenevo! E non potevo far altro che sperare importasse anche a lui, almeno tanto quanto importava a me.
Un boato di applausi mi strappò dai miei pensieri e mi costrinse ad avvicinarmi al tavolo dove la coppia della serata stava richiamando l’attenzione di tutti i presenti.
Fu la volta dei discorsi emozionati, dei regali, dei ringraziamenti, del brindisi in onore dei neo fidanzati e dei lenti.
Le luci si abbassarono, la musica cambiò ritmo, e finalmente Liam trovò un momento per i suoi amici.
Liberò Harry dalle grinfie di due bionde schizzinose e reggendosi a lui per la stanchezza, venne incontro a me e Niall, già pronti con quattro cicchetti di tequila, come prevedeva la tradizione.
Harry mi guardò, forse indeciso su cosa sarebbe stato giusto dire, e io gli rivolsi un sorriso caldo, accogliente, che lui ricambiò subito con una dolcezza sconvolgente.
Non servirono parole dopo quello, stava tutto dentro ai nostri sorrisi.
Entrambi, in quel momento, capimmo che finalmente era arrivata la tregua che tanto avevamo desiderato ma che per testardaggine ed orgoglio ci eravamo negati a lungo.
“Vi ricordate quando da ragazzini avevamo paura di diventare grandi e di invecchiare? Quando immaginavamo il nostro futuro e ci chiedevamo dove saremmo arrivati a vent’anni? Beh, quel futuro è diventato il nostro presente adesso, e io non potrei essere più felice di condividere con voi questo momento.”
Liam introdusse così il brindisi tutto nostro, intimo e privato.
“Non capisco perché dobbiamo brindare per gli anni che passano” borbottai contrariato e un po’ alticcio.
Vidi Niall sospirare, esasperato.
“È evidente, Liam, che qualcuno qui non sia proprio eccitato all’idea di essere cresciuto.”
“Crescere fa schifo, mi mette tristezza. Da piccoli era tutto più facile.”
Niall alzò gli occhi al cielo, accompagnato dalla risata fin troppo brilla di Liam. Harry si limitò a fissarmi, gli occhi lucidi di stanchezza e… tristezza?
“Tommo e la sindrome di Peter Pan parte milionesima!” ribatté Niall, cingendomi le spalle con un braccio.
“Fottiti” gli rivolsi il dito medio, mettendo su un sorriso imbronciato a cui sapevo non avrebbe resistito.
Subito dopo infatti proruppe in una risata fragorosa, coinvolgendoci tutti quanti.
“A noi” concluse Harry, alzando la sua tequila.
Io e gli altri gli facemmo eco, facendo tintinnare i nostri bicchieri prima di berne il contenuto in un soffio.
Fu un brindisi semplice, genuino, fraterno, proprio come lo eravamo noi.
Io ed Harry non distogliemmo lo sguardo l'uno dall’altro, fino a quando non mi sentii sopraffatto e, approfittando che Niall si fosse allontanato per esibirsi sul palco, mi congedai da lui e da Liam per andare a fumare una sigaretta.
 
Uscii fuori nel balconcino della piccola stanza accanto alla sala, lasciando la porta semi aperta per poter ascoltare la canzone di Niall.
“È quasi mattina” sentii sussurrare qualche attimo dopo.
Per poco non mi andò di traverso la sigaretta dallo spavento.
Harry se ne accorse e si lasciò scappare un risolino.
Gli lanciai un’occhiata di rimprovero alla quale rispose prendendo a ridere più forte, poi gli diedi nuovamente le spalle e poggiai i gomiti sulla ringhiera.
Rimasi così per un po', finendo la mia sigaretta, e mi persi ad osservare i colori che stava portando l'alba, rischiarando il buio tetro della notte appena trascorsa.
“È uno spettacolo meraviglioso” dissi in un sospiro.
“Sì, lo è davvero.”
Mi voltai verso Harry, e mi resi conto che non stesse guardando il cielo, ma me.
A passo lento mi si avvicinò, affiancandomi, appoggiò la schiena alla ringhiera e continuò a fissarmi mentre io non distoglievo lo sguardo dal cielo.
“Come conosci Eleanor?”
“L'ho incontrata di pomeriggio, a Londra. Mi ha consigliato lei di acquistare quest'abito. È stata molto gentile.”
“Ci provi con lei?” gli chiesi scherzando, solo per il gusto di vederlo in difficoltà.
Come previsto, arrossì immediatamente a quella mia domanda, cominciando ad annaspare per l’imbarazzo.
“Cosa? No! Credi davvero che ci proverei con la tua ragazza?”
Provai a rimanere serio per qualche minuto, ma davanti al suo sguardo stralunato fu davvero impossibile.
Così scoppiai a ridere, talmente tanto forte da sentire delle lacrime bagnarmi gli angoli degli occhi.
“Stronzo!”
“Te lo sei meritato” lo apostrofai scherzosamente, ma lui mi rivolse uno sguardo colpevole e io mi pentii subito di averlo detto.
“Harry non…”
“Le pensavo davvero le parole di quella sera” mi interruppe con urgenza.
I suoi occhi, di un verde impossibilmente intenso, erano puntati su di me e sembravano scrutarmi spasmodicamente.
“Tutto ciò che ti ho detto fuori dal pub, quello che volevo trasmetterti con la canzone… Era tutto vero. È tutto vero” proseguì, spiegandosi meglio.
La sua solita eloquenza messa in difficoltà da qualcosa che potevo intravedere nel suo sguardo.
Al ricordo della canzone, delle sue parole calde al punto da intiepidire la gelida notte, non potei non provare odio per me stesso, che avevo covato talmente tanto rancore nei suo confronti da arrivare al punto di dubitare delle sue parole, di lui, che nella sua vita non aveva mai mentito.
Mi odiai perché non avevo fatto nulla per impedire a quell’imbecille del proprietario del pub di portarlo dentro senza che prima avessimo chiarito, senza che prima avessi provato a fargli capire quanto quello che aveva appena detto mi avesse ridato speranza.
Sentii allora l’urgenza di rimediare.
“Harry …”
“Balla con me” mi interruppe di nuovo.
Lo guardai confuso, corrucciando la fronte, e lui ripeté la sua richiesta, allungando una mano verso di me.
Dopo un iniziale tentennamento la accettai.
“Se ci vedesse qualcuno ci prenderebbe per pazzi.”
“Se tutto il mondo ci guardasse continuerei comunque a ballare con te”2 mi rispose canticchiando, facendo eco alle parole che Niall stava cantando al di là di quella stanza.
E sapevo che non c’era nessun sottinteso, era solo la frase di una canzone, ma mi sciolsi comunque sotto il suo tocco.
Ero creta fra le sue mani, avrebbe potuto modellarmi a suo piacimento, non mi sarei opposto.
In quel momento decisi che gli avrei detto tutto quello che avrei voluto dire da settimane, avrei messo una pietra sopra a qualsiasi cosa fosse successa in quegli anni, provando finalmente a voltare pagina.
Ero stanco di combattere e respingere, la mia vita era già piena di battaglie contro cui non ero in grado di vincere, aggiungervi anche questa, inutile e forzata, non aveva senso.
Dovevo perdonare e andare avanti, era quello che mi avrebbe fatto bene, che avrebbe fatto bene ad entrambi.
“Harry, devo parlarti.”
“Aspetta solo che finisca la canzone” mi pregò in un soffio di voce, direttamente all'orecchio.
Lo accontentai.
Per i restanti minuti rimanemmo a muoverci impacciatamente a tempo di musica.
Le mie mani attorno al suo collo, le sue ad avvolgermi i fianchi.
Non fu strano, imbarazzante o fuori luogo.
Fu necessario.
Era il nostro modo di cercarci e, dopo anni, ritrovarci.
Uguali a prima solo tra le braccia dell’altro.
Fu un attimo di tregua, di silenzio dalle nostre parole che ferivano, di serenità che ci eravamo tolti inconsciamente.
Approfittai di quei minuti per ascoltare il battito del suo cuore, leggermente alterato proprio come il mio, e per aspirare il suo profumo che tanto mi era mancato, direttamente dal punto in cui collo e orecchio si incontravano.
Sapeva ancora, inconfondibilmente, di orchidea.
Quell’odore mi portò indietro di una vita, attorcigliando attorno alla mia gola secca un nodo di lacrime e angoscia.
Se avessi aspettato ancora un po’, non sarei più stato in grado di parlare.
“Mi dispiace per tutto, Harry.”
Non ce la feci nemmeno ad aspettare che la voce di Niall sfumasse nel silenzio.
“Lou, non devi…”
“Sì invece” questa volta fui io a interromperlo, “perché non importa quanto male mi abbia fatto quella maledetta conversazione, io non avevo alcun diritto di trattarti come ho fatto. Ero deluso e ferito, e forse lo sono tutt'ora, perché non riesco a capire il motivo per cui hai voluto allontanarmi, ma non meriti questo trattamento da parte mia, soprattutto non dopo quello che hai fatto per me e mia madre nonostante in questo mese ti abbia continuamente respinto, e soprattutto non dopo ciò che mi hai detto l’altra sera.”
“Credi davvero di essere tu a doverti scusare? Il tuo comportamento è più che lecito Louis, io ti ho ferito. Ho ferito te, il mio migliore amico, la mia ancora, e l'ho fatto con la consapevolezza che ti avrebbe distrutto. L'odio è il minimo che tu possa riservarmi.”
Quelle parole fecero male, portarono a galla i miei incubi più frequenti, e allora l’esigenza e l'impellenza di sapere, una volta e per tutte, si fecero avanti prepotentemente.
“E allora perché lo hai fatto? Se sapevi che mi avrebbe distrutto, perché mi hai lasciato andare? Non ti bastava quello che eravamo? Non ero abbastanza per te?”
Potevo sentire il dolore e la frustrazione, mescolati, scorrere nelle vene che sporgevano dal mio collo rosso.
“Quello che eravamo era tutto ciò che mi serviva per andare avanti e continuare a vivere in quello schifo di posto! Ma era proprio questo il problema Louis, stavamo cadendo malati. La distanza, la separazione, ci stavano uccidendo. Vedevo come ti consumava la mia mancanza e mi sentivo malissimo, perché ero un fottuto egoista ed ero partito senza di te. Ogni videochiamata mi mostrava come i tuoi occhi si stessero spegnendo di giorno in giorno, consumati dall'odio che cominciavi a provare nei confronti di te stesso, perché non avevi abbastanza soldi per raggiungermi, perché avevi una famiglia disastrata che non potevi lasciare, e perché non potevi rendermi abbastanza felice con un oceano a dividerci!”
“Ma tu mi avevi detto che…”
“Ho mentito, ho dovuto farlo! Piuttosto che farti odiare te stesso avrei preferito che tu odiassi me per il resto della vita. Ma forse ho sbagliato tutto, perché tu mi hai creduto così facilmente… Lo so che ho mandato tutto a puttane, che ho rovinato l'unica cosa bella che ci fosse rimasta, so che ti ho lasciato solo e che ti ho ferito, però ti prego Louis, perdonami, perché io non ce la faccio più ad andare avanti così. Questi di ora non siamo noi, noi non siamo mai stati così.”
Si era lasciato andare ad un monologo frenetico, un’accozzaglia di parole sregolate, spinto dal bisogno di tirare tutto fuori, insieme ad un lago di lacrime che aveva invaso il suo viso stanco, ma comunque perfetto.
Le sue parole mi colpirono talmente intensamente che ne ebbi quasi paura.
Fu come se il mio cuore si stesse liberando delle mura di cemento che per anni si era costruito attorno.
Al mio organo, per troppo tempo maltrattato, non rimaneva che respirare di nuovo la libertà e muoversi frenetico, al ritmo della felicità.
“Io non ti odio Harry, non l'ho mai fatto né mai lo farò. Penso sia impossibile che un Louis Tomlinson possa odiare un Harry Styles. Il Louis che vedi adesso non è così per colpa tua, smettila di colpevolizzarti.”
Un singhiozzo gli sfuggì rumoroso dalle labbra tremanti e bagnate dal pianto.
Fu naturale, proprio come lo era stato un tempo, avvicinarmi e raccogliergli con la punta delle dita le lacrime che si rincorrevano in una lotta frenetica sulle sue guance bollenti.
Tremò al contatto, fu un fremito impercettibile ma io me ne accorsi, perché lui era attorno a me, dentro di me, ovunque, sempre, ad invadere i sensi con la sua dolce prepotenza.
“E cos’è successo al Louis che conoscevo?”
“Ha sofferto, Harry. Talmente tanto che a volte non riesce a vedere la luce del sole.”
Un singhiozzo più forte abbandonò le sue labbra a quelle parole, io rafforzai la presa sul suo viso.
“Come faccio a non sentirmi colpevole? Tu dici che non è colpa mia, ma se io ci fossi stato sarebbe stato tutto diverso, non è così?” sussurrò piano.
Leggevo nei suoi occhi l’ansia di scoprire quale sarebbe stata la mia risposta, di capire ancora una volta quanto essenziale lui fosse per me.
“È vero, sarebbe stato più facile, forse mi sarei sentito più forte. Ma adesso non ha più senso rimuginarci sopra, il passato è passato, bisogna andare avanti. E lo so che fino a qualche giorno fa non la pensavo così, e so anche che per te è stato difficile riavermi indietro, ma tu, questo posto, noi di nuovo insieme a Doncaster, mi ha fatto pensare a quando tu eri ancora qui con me, a quando eravamo piccoli, a quanto io ero felice prima che tu te ne andassi e la mia vita cominciasse ad andare a rotoli. Quando sei tornato hai portato con te così tanti ricordi, Harry, che è stato come se qualcuno avesse riaperto con forza le porte dietro cui credevo di averli chiusi per sempre. Quello che hai visto non è odio, è solo il mio modo di non crollare, pensavo che respingendoti sarei rimasto in piedi, ma non è stato così, perché saperti di nuovo in paese mi ha sconvolto, rivederti mi ha fatto combattere con quella enorme parte di me che avrebbe solo voluto abbracciarti, proprio come avrei voluto abbracciarti pochi giorni fa nel giardino di casa mia. Ed è stato lì che finalmente ho capito: la mia vita è talmente piena di sofferenze e problemi che non voglio tu faccia parte di questi. Tu sei sempre stata la parte più bella, più vera, e voglio che continui ad essere così. Non importa se mi hai fatto male, perché te ne ho fatto anch’io. La cosa che più conta adesso è che sei qui, con me, e probabilmente sarò un egoista, ma ho bisogno che tu ci sia.
Quindi basta farci la guerra Haz, non siamo fatti per questo.”
I suoi occhi, nell'udire di nuovo dopo anni quel soprannome, se possibile, divennero ancora più luminosi.
Mi sorrise ampiamente allora, avvolgendo le sue mani attorno alle mie che circondavano il suo viso.
Sorrisi anch’io, forte, mille farfalle a volare in giro tra cuore e stomaco.
Con uno slancio mi fu addosso, avvolgendomi tra le sue braccia e tenendomi talmente stretto che lo sentii dentro di me.
Il suo odore mi arrivò dritto alle narici, cogliendomi di sorpresa.
Profumava di sogni e di promesse, di vecchi ricordi, di una nuova città, della panetteria in cui aveva lavorato a sedici anni, e inspiegabilmente, profumava anche di me.
Fu come se tutto il mondo mi fosse entrato dentro d’un tratto: un cataclisma.
Non riuscii a non pensare, mentre ricambiavo la sua stretta, che forse, grazie a quel contatto, la mia vita avrebbe ricominciato ad essere meno buia.
Con quell'abbraccio aveva costruito degli argini attorno alla mia anima, impedendole di andare dispersa nel fiume di dolore; aveva riportato speranza, gioia; aveva liberato la vita che adesso scorreva a velocità della luce nelle mie vene.
Successe tutto all’improvviso, un tuono nel silenzio.
Quando ci staccammo, mi passò una mano sullo zigomo, una carezza leggera, e solo allora mi accorsi che stessi piangendo anch’io.
“Abbiamo infranto tutte le nostre promesse” mi lasciai sfuggire, in balia dei ricordi e assalito da un’improvvisa angoscia.
Il suo sguardo si accigliò un attimo, poi scosse la testa nascondendo un sorriso, mentre delicatamente mi passava una mano tra i capelli scomposti.
“Non tutte. Inconsciamente, abbiamo mantenuto fede a quella più importante: in qualsiasi tempo e spazio, non abbiamo mai smesso pensarci, di volerci bene.”
Una verità che avevo ignorato, sottovalutato, e che adesso invece mi si palesava nella sua estrema veridicità.
Dopo quello, sentii l’esigenza di abbracciarlo di nuovo.
Mi sentivo finalmente libero, privo della pesantezza che mi ero trascinato addosso per gli ultimi anni.
Stavo cominciando a mettere a posto tutti i pezzi di una parte della mia vita, quella con Harry, e mi sentivo in pace col mondo, con me stesso.
Forse da lì in poi tutto sarebbe stato in discesa.
Guardai l’orizzonte: il sole era quasi sorto, il buio quasi completamente scomparso.
Il mio cuore era finalmente tornato al suo posto.
 
 
Ritornammo nella sala dopo mezz'ora, gli occhi ancora gonfi dal pianto e le guance indolenzite per i sorrisi.
“Dov'eravate? Vi cerchiamo da quando Niall ha finito di esibirsi. La sua canzone merita un brindisi!”
Un Liam ubriaco fradicio e su di giri ci afferrò per i gomiti e ci trascinò poco delicatamente alla postazione di prima.
I nostri bicchieri pieni d'alcol già disposti in fila ad aspettarci.
“A Niall, e alla sua splendida canzone!”
“E a questi due bastardi che se la sono persa!” aggiunse l'irlandese, ormai completamente ubriaco.
Ridemmo di cuore mentre facevamo il nostro secondo brindisi, ed io, preso dall'euforia del momento, decisi di fare una cosa avventata, semplice, forse anche un po’ stupida, ma non ci volli pensare più di tanto. Semplicemente volevo farlo, quindi, incoraggiato anche dall'alcol, presi la bottiglia di tequila e riempii soltanto il mio bicchiere e quello di Harry.
“Adesso è il mio turno di fare un brindisi!” annunciai.
Mi schiarii la voce e puntai i miei occhi nei suoi.
“A volte l'unico modo per guarire è lasciare uscire tutto fuori.
Ricominciamo da qui.
Ricominciamo da noi.”
Scontrai il mio bicchiere col suo, e nel momento in cui nell'aria si liberò il tintinnio del vetro, Harry scoppiò in un pianto di gioia.
Bevemmo la nostra tequila fra le urla di giubilo di Niall e dei “finalmente! Grazie Signore, grazie!” di Liam, che a mani giunte guardava verso l'alto e non riusciva a smettere di sorridere.
Risi di cuore anch'io, finalmente felice, finalmente a casa, quando attirando Harry in un abbraccio mi resi conto che attaccata al collo portava ancora la collana che gli avevo regalato la notte prima della sua partenza, sotto le ombre della luna.
“La indossi ancora?” domandai a corto di fiato, estasiato, stupito, contento da far schifo.
“Non l’ho mai tolta. Te l’avevo promesso, ricordi?”
Annuii frenetico, sfregando la mia guancia contro la sua, sentendo una lacrima bagnarla.
“Grazie” gli sussurrai piano, scostandogli una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
“Per cosa?”
“Per aver mantenuto anche questa promessa. E per non esserti arreso con me” confessai, mentre con un indice sfioravo l’ala dell’aeroplanino su cui avevo fatto incidere una frase quattro anni e mezzo prima.
“Te lo dovevo, e lo dovevo anche a me. Meritavamo un’altra possibilità.”
 
 
 
 
Quattro anni e mezzo prima
 
Fu la prima cosa che vidi appena entrai a casa. Svettava in perfetto contrasto sul tavolo nero, colpita dalla luce del sole che entrava da uno spiraglio della tenda lasciata aperta.
La stanchezza della mattinata appena trascorsa svanì subito, sostituita dall'adrenalina e dall'emozione.
Lanciai a terra lo zaino, mi fiondai subito sulla busta e salii di corsa in camera mia. Mi chiusi la porta alle spalle, cominciando a strappare spasmodicamente la carta, fremente dalla voglia di leggere le parole che negli ultimi mesi avevano costellato i sogni miei e di Harry.
‘Congratulazioni, è risultato idoneo per sostenere un provino per la nostra squadra.’
Non proseguii oltre, mi riversai sul corridoio, scesi le scale e cominciai a gridare dalla gioia richiamando l’attenzione di mia madre.
“Sono idoneo!” le andai incontro, ma contro ogni mia aspettativa, mi accolse con triste velo di colpevolezza negli occhi.
“Lou, tesoro, dobbiamo parlare.”
“Dopo, parleremo dopo. Adesso devo chiamare Harry per dirgli che è arrivata la lettera!”
“Non credo sia una buona idea dirglielo adesso.”
“Ma che stai dicendo? Certo che è una buona idea.”
Sospirò affranta, scuotendo la testa, e senza avere il coraggio di guardarmi, mi indicò di sedermi.
“Mamma, che sta succedendo?” chiesi preoccupato.
Un brutto presentimento a farsi spazio nella testa.
“Si tratta di Los Angeles, Boo…”
Quella che avemmo per l'ora successiva fu la conversazione che cambiò le sorti del mio futuro, ma quello allora non potevo ancora saperlo.
 
Piansi per un pomeriggio intero, i sogni infranti non appena avevano cominciato a prendere vita, le speranze perse con un soffio di vento.
Perché tutto doveva essere così difficile? Perché ogni cosa agognata doveva disintegrarsi davanti ai miei piedi non appena la sfioravo? Perché per provare a raggiungere i miei sogni dovevo sempre faticare, soffrire? Era troppo chiedere un po’ di gioia e serenità senza che qualcosa andasse storto? Era forse sbagliato volersi lasciare alle spalle i problemi e guardare al futuro con la speranza nella mano destra e il mio migliore amico aggrappato a quella sinistra?
Il telefono prese a squillare troppo forte per il silenzio in cui era sprofondata la mia stanza.
Era Harry.
Risposi sperando non si accorgesse che avessi pianto.
“Lou, è arrivataaa! Potrò finalmente studiare per diventare radiofonico, sto sognando!”
E adesso che avrei fatto? Come avrei potuto dirgli che anche io avevo ricevuto la lettera da parte della squadra di calcio che avevo scelto ma che al contrario suo non sarei partito?
“È grandioso Haz! Non avevo dubbi saresti entrato” mi sforzai di risultare entusiasta.
“A te ancora niente?”
Tentennai.
Avrei dovuto dirglielo così, su due piedi, spezzando la magia di quel suo momento?
No, non potevo.
“No, nessuna lettera per adesso.”
Per questo mentii, era l'unica cosa che potevo fare.
 “Lou sta' tranquillo, presto arriverà anche a te, e prima di accorgercene saremo per le strade di Los Angeles a sorseggiare frullati di Starbucks e a crogiolarci sotto il tepore del sole della California” mi incoraggiò con voce sognante.
Sorrisi amaramente a quell’immagine, ormai consapevole che non si sarebbe realizzata, non subito almeno.
Passammo il resto della serata al telefono, lui con il cuore intriso di gioia e la mente abitata dalle più felici delle fantasie, io a cercare di risalire dal buio in cui ero rimasto inevitabilmente intrappolato e da cui non vedevo via d’uscita.
 
Passarono le settimane e le bugie cominciarono a diventare macigni di piombo, mentire stava diventando sempre più difficile, soprattutto quando vedevo Harry diventare di giorno in giorno sempre più ansioso, in attesa dell'arrivo della mia lettera.
Decisi di dirgli la verità.
Un pomeriggio, sulla strada di ritorno verso casa dopo scuola, gli afferrai silenziosamente la mano e deviai il nostro percorso.
Quando arrivammo alla fermata del treno Harry non fece domande, salì con me e stette in silenzio, scrutandomi preoccupato di tanto in tanto, fino a quando non arrivammo a Londra.
Scesi dal treno trascinandomelo dietro, e sempre stringendogli la mano, lo condussi sotto l'albero di quel parco che durante le giornate più tristi era diventato il nostro rifugio.
Dirgli la verità risultò la cosa più difficile che avessi fatto fino a quel momento, ma era la cosa giusta da fare.
Sotto quello stesso albero, tre mesi dopo, trascorremmo la notte prima della sua partenza.
 
Tre mesi dopo
 
Un fiore si lasciò cadere dal suo ramo, fluttuò silenziosamente nell'aria e interruppe il suo breve volo depositandosi tra i ricci di Harry.
Lui fece per levarselo ma lo bloccai subito.
“Lascialo lì.”
Sorrise leggermente, guardando in su tra i suoi capelli, e dopo quel sorriso il crepuscolo davanti a noi mi sembrò subito più cupo.
Poi qualcosa si ruppe, e quel sorriso si trasformò in pianto, e l'aria serena di poco prima venne sconvolta dal tremore delle sue spalle.
“Mi dispiace Lou, ti avevo giurato che non avrei pianto, ma non ce la faccio. Il pensiero di andarmene senza di te, di lasciarti qui da solo, mi distrugge.”
Lo guardai attraverso il velo sottile di lacrime che stava cominciando ad appannarmi la vista, ed era vero, aveva davvero gli occhi di chi si sentiva distrutto, intrisi di sofferenza ed impotenza.
Non potevo sopportare di vederlo così, soprattutto se la causa del suo pianto ero io.
Me lo trascinai sulle ginocchia e lo abbracciai, cullandolo come un bimbo fra le mie braccia.
“Non fare così Haz, per favore. Io starò bene, te lo prometto. Cercherò di inserirmi a Londra, farò dei provini e continuerò a lavorare per raccogliere i soldi, e non appena potrò, ti verrò a trovare. Ma adesso smetti di piangere, ti prego, devi essere felice, realizzerai il tuo sogno.”
“Non sarò mai felice abbastanza se non tu non sarai con me” mi confessò, premendo il naso contro il mio collo.
Sorrisi per il leggero solletico che avvertii e per la sua disarmante e sfacciata dolcezza.
Decisi allora che non potevo aspettare più.
Sentivo l’urgenza di vederlo sorridere, ed era talmente prepotente da farmi prudere le mani.
Quel regalo cominciava a diventare fuoco nelle mie tasche, bruciava d’impazienza.
“Avrei voluto dartelo domani, ma così mi costringi a fare tutto adesso.”
Sollevò la testa di scatto, guardandomi con un pizzico di curiosità a rendere meno tristi i suoi occhi.
Pregustavo già il suono delizioso che avrebbe avuto la sua risata non appena lo avrebbe visto, e non potei trattenermi dal sorridere.
“Di che parli?”
“È una scemenza, ma serve a ricordarti che io sarò sempre con te.”
Frugai nella tasca del mio giubbotto di pelle sotto al suo sguardo pieno di aspettativa, e quando trovai il piccolo pacchetto che avevo incartato da me, sentii l’aspettativa crescere, impaziente com’ero che lo aprisse, che vedesse con i suoi occhioni verdi e toccasse con le mani inanellate quello che io non ero in grado di esprimere a parole, ma che era tutto racchiuso lì, in quel piccolo oggetto.
Gli porsi il regalo e lui, come un bambino la notte di Natale, lo afferrò velocemente, scartandolo con cura.
Sollevò la catenina con mani tremanti e non appena vide il ciondolo scoppiò di nuovo a piangere.
“Lou” sospirò incredulo, guardandomi con una lucentezza negli occhi talmente abbagliante da farmi tremare l’anima.
“È perfetta.” 
“Leggi qui” indicai un punto con l’indice e i suoi occhi saettarono in quella direzione.
“You’ll never be alone” lesse sottovoce, a corto di fiato, come per non inquinare quel momento già perfetto con la sua voce tremolante e bagnata di lacrime.
“Quando ti sentirai solo, spaesato, triste, e penserai di non potercela fare, di non sapere come andare avanti, guarda questa collana e ricordati che non importa se ci saranno chilometri e distese di mare a separarci, io sarò sempre con te” gli sfiorai il petto con leggerezza, soffermandomi con il palmo sul suo cuore scalpitante, “proprio qui. Quindi per favore, qualsiasi cosa succeda, non toglierla mai. Promettimelo.”
Mi guardò serio, come raramente faceva, ed annuì con una solennità che mi fece paura per quanto intensa.
“Te lo prometto, Lou.”
Mi porse poi la collana, in una tacita richiesta di fargliela indossare.
La allacciai attorno al suo collo, facendola adagiare sul suo petto, e indugiai qualche minuto in più con le mani sul suo scalpo, lasciandogli piccole carezze e sperando che quelle potessero calmare i piccoli singhiozzi che ancora lo scuotevano.
Sembrò funzionare, perché dopo un po’ si calmò, e senza smettere di accarezzare l’aeroplanino argentato, mi rivolse uno sguardo imbarazzato.
“Lou, io non ti ho preso nulla.”
Si morse le labbra in un gesto nervoso, cominciando a torturarle come sempre faceva quando si sentiva in difficoltà.
“È una fortuna allora che abbia pensato anche a questo!”
Con un balzo mi alzai da terra, spolverando dal retro dei jeans alcuni fili d’erba e porgendo una mano ad Harry, invitandolo ad alzarsi.
“Di che parli?”
“Lo scoprirai solo se sarai più veloce di me.”
L’ultima cosa che vidi fu la sua espressione stralunata.
L’attimo immediatamente successivo stavo già correndo dalla parte opposta del parco, quella che portava in centro città.
“Stronzo!” lo sentii gridare alle mie spalle, prima che scoppiasse a ridere.
Corremmo per almeno dieci minuti, i passanti che incrociavamo ci guardavano come fossimo pazzi, ma a noi non interessava.
Stavamo vivendo, ridevamo felici, correvamo incontro alla vita e ci godevamo il vento che ci colpiva la faccia e ci restituiva la voglia di gioire e stupirci ancora delle piccole cose.
Nonostante Harry avesse le gambe più lunghe delle mie, non riuscì a superarmi, così quando arrivai per primo a destinazione aspettai che mi raggiungesse.
Quando mi si affiancò, imitò la mia posizione e si accasciò con la schiena al muro cominciando a tossire.
“Se entro stanotte sputo un polmone mi avrai sulla coscienza per il resto della vita!”
“Quanto sei melodrammatico! Piuttosto, possiamo entrare o devo aspettare che sputi anche l’altro polmone?”
“Primo: sei un idiota. Secondo: io non mi muovo da qui fino a quando non mi dirai dove mi stai portando.”
“Se leggi l’insegna del negozio sono sicuro capirai da solo quale sia la nostra destinazione.”
Sbuffò indispettito, ma fece come gli chiesi.
Non appena alzò lo sguardo sgranò gli occhi, lasciandosi sfuggire dalle labbra un verso sorpreso.
“Mi hai portato a fare un tatuaggio?” sospirò incredulo.
“Non esattamente. A fare il tatuaggio sarò io, tu dovrai solo tenermi la mano.”
Mi guardò con le guance chiazzate di rosso e un’emozione in viso che non riuscì a camuffare.
Lo afferrai per un braccio e lo trascinai dentro, provando ad evitare di pensare all’ansia che mi si era sedimentata all’altezza del petto al pensiero di ciò che stavo per fare.
“Cosa ti farai tatuare?” mi sussurrò all’orecchio mentre seguivamo il tatuatore in una stanza.
“Non avere fretta Harry, fra poco lo scoprirai.”
Lui annuì, provando a soffocare la curiosità, ma lo vedevo da come sbatteva per terra la punta del suo stivaletto che stesse fremendo per scoprire cosa mi sarei fatto incidere sulla pelle.
Non appena mi sedetti sul lettino e sollevai la manica della mia felpa, indicando il punto preciso in cui avrei voluto il tatuaggio, vidi Harry trattenere il respiro.
Gli sorrisi, tendendogli la mano in un tacito permesso di avvicinarsi.
Mi fu accanto in un attimo, strizzando le mie dita tra le sue e lasciandomi di tanto in tanto delle carezze sul palmo.
Non distolse lo sguardo dal mio avambraccio nemmeno un istante, osservando con meraviglia il piccolo aeroplano stilizzato che prendeva forma sotto i suoi occhi meravigliati.
Non appena venti minuti più tardi uscimmo dal negozio di tatuaggi, mi attirò in un abbraccio caldo, sicuro, forte.
“Da quant’è che pensavi di farlo?”
“Ho prenotato un mese e mezzo fa.”
Si staccò dall’abbraccio, guardandomi sorpreso per un lungo momento, poi mi attirò di nuovo a sé.
“Grazie.”
La voce strozzata e resa flebile dall’emozione.
Lo strinsi di più, affondando le mani tra i suoi ricci profumati d’orchidea.
“Per cosa?”
“Per avermi regalato la notte più bella della mia vita e per esserti inciso sulla pelle la nostra promessa. Sei il migliore.”
Gli rivolsi una sguardo carico di quella che fui sicuro sembrasse devozione. E lo era.
“Grazie a te per essere arrivato nella mia vita e aver portato la meraviglia che solo le stelle comete sanno donare.”
“È stato un onore.”
Dopo quello ci fu silenzio per molto tempo, semplicemente camminammo abbracciati per le strade di Londra, godendoci la spensieratezza e la purezza dei nostri ultimi momenti insieme.
Arrivati alla stazione gli strizzai la mano, attirando la sua attenzione.
“Harry, devo dirti una cosa.”
“So che ci sono cose di cui dovremmo parlare, ma lo faremo dopo, quando arriveremo a casa.”
Annuii, fidandomi di lui.
Illusi, stupidi, ingenui.
Non potevamo sapere che non ci sarebbe stato un dopo.
 
Salimmo sul treno all’una e mezza di notte.
I nostri telefoni esplodevano per le chiamate preoccupate delle nostre mamme, ma a noi non importava. Eravamo scompostamente seduti sui sedili del treno, gli occhi quasi chiusi per la stanchezza, le gambe intrecciate, e le mani che si sfioravano dispettosamente dentro al pacco di caramelle gommose che avevamo comprato sulla strada di ritorno.
Quando Harry ne ebbe abbastanza delle caramelle sfilò la mano dal sacchettino e si appisolò sulla mia spalla, cominciando ad accarezzare distrattamente il mio tatuaggio coperto dalla pellicola trasparente.
Appoggiai la testa sulla sua e mi beai dei suo tocchi delicati.
Avevamo chiuso il mondo fuori, perché tutto quello di cui avevamo bisogno in quel momento era proprio al nostro fianco.
Quando arrivammo a Doncaster indugiammo più del solito per scendere dal treno, consapevoli che il nostro tempo era quasi scaduto e desiderosi che ce ne venisse concesso dell’altro.
“Non voglio che questa notte finisca, Lou. Non portarmi a casa” piagnucolò Harry, ciondolando per strada.
Alzai gli occhi al cielo, esasperato. Sapevo che avrebbe cominciato a fare i capricci.
“Devi andare a letto, Haz. Domani hai l’aereo prestissimo.”
“Allora dormi con me.”
“Non posso. Mia madre mi uccide se non rientro, lo sai.”
“Lou, ti prego. Tua madre capirà.”
E davvero… Come facevo a dirgli di no se mi guardava in quel modo, come se da una mia semplice risposta affermativa dipendesse la sua felicità ?
Non potevo. E infatti non lo feci.
“E va bene, ma appena arriviamo a letto ti metterai subito a dormire. Altrimenti, oltre a dover affrontare la furia di mia madre per aver dormito fuori,  domani dovrò affrontare anche quella di tua madre per averti fatto fare tardi.”
Mi saltò al collo, al settimo cielo, schioccandomi numerosi baci sulla guancia.
“Sapevo non mi avresti detto di no. Sei il migliore!”
“Lo so, lo so. Adesso però andiamo.”
Lo trascinai verso casa sua e quando arrivammo, cercando di fare meno rumore possibile, lo condussi nella sua stanzetta.
Gli feci indossare il pigiama, lo misi a letto, e dopo aver recuperato da un cassetto il cambio che tenevo lì per le emergenze, lo raggiunsi sotto le coperte.
“Buona notte Lou” mi disse dolcemente, sfiorando il mio naso col suo.
I respiri resi pesanti dal sonno si mescolavano nel piccolo spazio che separava i nostri visi stanchi.
“Buona notte Haz.”
Gli lasciai un tenero bacio sulla fronte, sentendolo respirare beato.
Chiusi gli occhi per un attimo.
Quando li riaprii era già giorno.
Il cuore in petto era più pesante, sulle labbra riposava un dolce sapore, quasi di miele, che non mi era mai appartenuto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Questo capitolo lo dedico a te.
Che mi capisci sempre anche quando sto in silenzio,
che mi ascolti pazientemente quando parlo troppo,
e che mi riconosci in mezzo a parole tra cui gli altri
non riconoscerebbero le mie tracce, i pezzi di me che consegno alle pagine.
Per questo, e per molto altro, ti ringrazio.
Ti voglio infinitamente bene.
 
 
 
Note:
1 L’abito è lo stesso che Harry (quello vero) ha indossato alla premiere di Dunkirk in Francia.
2 La frase è la traduzione della prima parte del ritornello di This Town di Niall: “if the whole world was watching i’d still dance with you”
 
Note personali:
Buon giorno ragazze, bentornate!
Mi scuso per il ritardo, ma scrivere in questo mese è stato quasi impossibile.
Mi auguro però che con il contenuto del capitolo mi sia fatta perdonare.
Finalmente la tregua è arrivata e per Harry e Louis si prospetterà un periodo sereno.
Non ho molto da dire su questo capitolo, credo parli abbastanza da sé.
Sono solo contenta di averlo finalmente pubblicato, perché nella mia testa ha cominciato a prendere forma più o meno un anno fa, ma scriverlo è stato più difficile di quanto pensassi.
A farmi compagnia durante la sua stesura sono state diverse canzoni che spero vogliate ascoltare anche voi per calarvi di più nell’atmosfera di queste pagine. Sentitevi liberi di riconoscere in esse i Larry di questa storia.
Purtroppo devo comunicarvi che per tutto gennaio e febbraio non potrò aggiornare la storia, causa: sessione invernale che si sta abbattendo su di me come le piaghe d’Egitto.
Spero però di riuscire a pubblicare qualcosa (non inerente a questa storia) che sto scrivendo da un po’ e che dovrebbe essere completa a breve.
Quindi se siete curiosi di sapere di cosa si tratta, date una sbirciata al mio profilo nei prossimi giorni.
Qui invece ci sentiremo fra due mesi.
Un abbraccio,
Letizia.
 
Canzoni:
When we were young – Adele
This Town – Niall
You’ll never be alone – Shawn Mendes
Photograph – Ed Sheeran
Midnight city – M83
Outro – M83
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3712314