Il catalogo delle cose belle

di Applepagly
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***
Capitolo 15: *** XV ***



Capitolo 1
*** I ***


Ciao a tutti!
Come ve la passate?
Ebbene sì, sono tornata per tormentare le Winx in quello che, ipoteticamente, sarebbe il seguito delle vicende de “I volti del fuoco” per come l’avevo immaginato.
Oh, ma non temete! Non è necessario averla letta per poter comprendere i meccanismi contorti di questa storia; in sintesi, alla fine della prima serie Bloom non ha riacquistato i poteri dopo una semplice chiacchierata con Dafne e ciò comporta una sequela di tragiche (ma non troppo) morti ed un macello per fermare le Trix.
Alla fine ce l’hanno fatta… per un soffio.
Qui la narrazione segue il dopo, ovvero il secondo anno delle nostre fate dopo il trambusto ad Alfea (nel cartone tutti festeggiano eccetera, ma penso sia stato abbastanza traumatico; no?). Ah, sì; è una song-fiction!
Ho iniziato a scriverla all’incirca a marzo di quest’anno, in un momento un po’ particolare; i capitoli sono già completi, perciò la pubblicazione dovrebbe riguardare la domenica, ogni due settimane (presto scoprirete il perché di questa tabella di marcia).
Ma ora basta parlare, e passiamo alle avvertenze…
No, per ora non ce ne sono.
Perciò, buona lettura!
7th


Il catalogo delle cose belle
 
Alcuni dicono che sulla terra nera non vi è nulla di più bello di un esercito di cavalieri, altri di fanti, altri ancora di navi, ma io dico che non vi è nulla di più bello di ciò che si ama.
Saffo, fr.16 V
 
***
 
I
 
So penniless for a dream
I hope I get by today
I want to get to the truth
And learn how to gray
Fall Into Place, Apartment
 
Bloom si fece strada a gomitate tra le sue compagne di scuola.
Era sempre difficile trovare un posto a sedere che permettesse di scorgere almeno la figura di Faragonda, voce narrante di qualsiasi assemblea scolastica.
In particolare, pareva che quella fosse stata indetta in via del tutto eccezionale ed imprevista, senza che ne fossero a conoscenza nemmeno gli stessi professori. Ciò implicava una certa urgenza, da parte di Alfea, di comunicare notizie di grande rilevanza.
Il ricordo delle vicende che avevano devastato Magix poco tempo prima era ancora pulsante nei cuori di tutte le studentesse; e l’atmosfera allarmata che impregnava l’aria non faceva altro che rendere accreditabile il sospetto di avere a che fare con una nuova minaccia.
Così, tra una spallata e l’altra – le studentesse del primo anno sembravano fatte tutte con uno stampino di un metro e ottanta – Bloom riuscì ad appartarsi in un angolino accanto ad una finestra. Era quasi sicura che Alfea non avesse mai vantato di così tante allieve, dato che l’aula magna era gremita di giovani fate che discutevano attonite tra loro.
«Oh, Bloom» fece annoiata Stella, mentre era sugli spalti. «Non c’era un posto un po’ meno polveroso?»
«La prossima volta la precederai tu, così sarai certa di trovare la poltrona che preferisci, principessa» l’apostrofò Musa, che prese posto accanto a Bloom senza molte cerimonie. «Sei una fata, no? Fa’ una magia e la polvere scomparirà. Le lezioni di Palladium servono anche a questo»
Il tono con cui lo disse voleva sembrare scherzoso, fintamente sprezzante; tuttavia, la tensione e l’apprensione che avvertiva crescenti deformarono la sua voce.
Stella sbuffò, non prestando davvero attenzione alle parole dell’altra; si sedette con cautela, per non lasciare che i suoi nuovissimi pantaloni entrassero in contatto con quella che, a suo parere, era una zona contaminata del pavimento.
Continuava a ripetere di vedervi una macchia di chissà che cosa; di uno di quegli strani intrugli che preparavano le macchine evoca-bevande aggiunte quell’anno. Sosteneva che la ragazza promotrice di quell’acquisto fosse in realtà una strega di Torrenuvola e che il suo unico scopo fosse quello di avvelenare le colleghe fate.
«Eppure l’anno scorso non ti facevi tutti questi problemi su ciò che mangiavi» borbottò Musa, senza guardarla. «E credo che Griselda abbia obbligato quella ragazza a non comprare prodotti nocivi… o qualcosa del genere. Perciò puoi stare tranquilla, non ti accadrà nulla se per sbaglio dovesse capitarti sotto i denti una di quelle barrette al coccoblu»
Troncò la conversazione con un gesto della mano. La tensione nell’aria stava aumentando ma, fortunatamente, la voce della preside interruppe il denso mormorio dell’aula e quella discussione fonte di discordia.
Come prima cosa, Faragonda fece le sue rimostranze per aver convocato il collegio senza alcun preavviso; dopodiché, evitando ogni altra sorta di convenevole, si apprestò ad esporre le ragioni dell’improvvisa assemblea.
«Care ragazze, il motivo per cui siete qui riguarda le tradizionali prove di metà anno che, come ben sapete, si svolgono generalmente gli ultimi giorni del prossimo mese» iniziò, destando l’interesse anche di quelle discole di Amaryl e le sue seguaci.
«Quest’anno avrete modo per prepararvi in maniera più adeguata e, allo stesso tempo, rilassarvi e riprendervi dagli avvenimenti che i mesi scorsi hanno segnato e schiacciato Alfea. Le prove, naturalmente, sono posticipate al vostro rientro a metà inverno»
Un boato si levò gli ultimi posti; un gruppo di studentesse del terzo anno aveva appena esultato, ricevendo immediatamente una strigliata da Griselda, che scorreva tra le gradinate per controllare che nessuna studentessa fosse distratta o avesse introdotto nel cibo nella stanza.
«So che alcune di voi festeggiano per tradizione il Soldì. Quest’anno avrete la possibilità di trascorrerlo con le vostre famiglie!» trillò la preside.
Tra la boria generale, soltanto le cinque amiche avevano mantenuto l’iniziale serietà. A dir la verità, anzi, le espressioni di Tecna e Bloom si erano fatte corrucciate; Stella sembrava confusa e con lei Flora.
Solo Musa, per qualche ragione, era rimasta impassibile. Teneva le mani sulle ginocchia sottili, guardando a terra.
«È fondamentale, per voi, trascorrere dei periodi di riposo. L’equilibrio nella mente e nel corpo è importante, e un po’ di meditazione non potrà che beneficiare ai nostri cuori ancora scossi» continuò l’anziana.
Le parole che seguirono scivolarono come acqua nei pensieri delle Winx, tutte troppo impegnate a rimuginare sulla stranezza di quanto avevano appena sentito.
Stranezza, sì; perché qualcosa di molto insolito era trapelato dalla voce solitamente calma di Faragonda. Come un guizzo di agitazione; ma non avrebbero saputo dire se di natura positiva o meno.
In verità, sarebbe stato più facile comportarsi come pareva avessero già fatto altre ragazze. L’idea di un mese e più di vacanze meritate era pressoché semplice, da accettare.
Era più comodo; anzi, sotto quel punto di vista, risultava anche meglio per il mantenimento di una buona media scolastica. Un periodo di riposo, pensò Tecna, giovava certamente alla preparazione.
E anche su questo doveva aver fatto leva la responsabile del collegio, forse certa di riuscire ad abbindolare tutte le sue studentesse. Eppure, sembrava così in contrasto con l’indole onesta della preside… c’era qualcosa, sotto.
Doveva esserci necessariamente. Ma come contestare quella decisione?
Quasi nessuno pareva effettivamente scettico.
Bloom, particolarmente stranita, si guardò attorno. Guardò verso le novelline di un metro e ottanta; verso quelle del suo anno; verso le studentesse dell’ultimo; verso i professori.
Nessuno di loro indossava qualcosa che non fosse un largo sorriso. Non avrebbe saputo fornire una spiegazione alla sensazione che la attraversò nel momento in cui incontrò gli occhi ambrati di Palladium; la piega delle sue labbra, artificiosamente arricciate all’insù, sembrava tentare di comunicare con lei.
Sembrava volesse avvertirla; o, più probabilmente, la ragazza si stava immaginando tutto ed il professore non aveva un sorriso molto aggraziato.
Per qualche motivo, cercò di sopprimere quel curioso sussurro che alimentava i suoi dubbi. Oltretutto, cosa diamine era, il Soldì?
Incrociò le gambe, scostandosi una ciocca di capelli dal viso. In quel momento, mentre scoccava un’occhiata alle ragazze elettrizzate alla sua sinistra, si accorse che Tecna si era visibilmente irrigidita.
Come Bloom immaginava, anche lei doveva aver intuito qualcosa e non tardò ad esprimersi.
«C’è qualcosa di molto illogico, in tutta questa faccenda» asserì infatti, non appena si trovarono abbastanza lontane dall’aula magna e dalla schiera di studentesse che marciava dietro di loro.
«Perché organizzare un periodo di riposo proprio in questo momento dell’anno? Non mi risulta che il Soldì sia una festività celebrata da Magix, né da qualsiasi altra dimensione o pianeta che non siano Solaria ed Eraklyon. La questione è stata presentata anche come un modo per mantenere una tradizione che non persiste se non in qualche sporadico nucleo familiare»
«Non hai sentito Faragonda? Ci vuole po’ di relax. E chi siamo, noi, per impedirle di concedercelo?» Stella agitò la mano con la sua solita aria annoiata, come a voler scacciare quelle insignificanti contestazioni.
In realtà, la pensava allo stesso modo; ma limitarsi ad annuire e non porsi troppe domande era in qualche modo la soluzione più auspicabile. «Senza contare che noi festeggiamo il Soldì e questa è la volta buona che riesco a trascorrerlo con mia madre»
L’altra scosse la testa, lentamente. Stella non capiva.
Quale poteva essere il senso di quella decisione? La preside aveva parlato di stanchezza accumulata dopo gli ultimi eventi che avevano schiacciato Alfea, di meditare, di prontezza; tuttavia, quegli stessi eventi risalivano a più di quattro mesi prima.
Avrebbe avuto più senso prolungare la durata delle vacanze estive, a tale scopo.
No, le ragioni dovevano necessariamente essere altre. Ma perché mentire? Perché mantenere le studentesse ed il corpo docente all’oscuro di qualsiasi cosa rientrasse nei piani di Faragonda?
Naturalmente, nulla obbligava quest’ultima a svelare ogni sua congettura; eppure, quando la situazione volgeva verso un tragitto insidioso, si premurava sempre di renderlo meno problematico con i suoi avvertimenti.
Questa volta, pareva proprio che non fosse intenzionata a spianare la strada, invece.
«Quindi non tornerai su Solaria?» fece Flora, sorridendo. Tecna non poteva definirsi esattamente empatica ma, osservandola, aveva imparato che nei momenti di maggior preoccupazione l’amica tendeva a raddolcire i toni ancora di più.
Il nervosismo era quasi tracciabile, nella sua voce. Doveva aver formulato ella stessa dei dubbi sulla questione.
«Non subito. Penso che starò un po’ da mia madre e poi andrò da mio padre; lei abita su uno dei satelliti attorno… quello più lontano, per la precisione, il più vicino ad uno dei Soli.» sospirò, lanciando occhiate di fuoco a quelle presunte doppie punte che credeva di aver appena individuato tra le sue ciocche dorate. «Beh, meglio così. A Brandon piace il caldo… anche se non so se queste vacanze siano state estese anche a Fonterossa»
Brandon…
Tecna a momenti trasalì.
Mi pare logico… è il suo fidanzato, dopotutto.
Quasi non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva avuto l’occasione di scambiare due parole con lui. Le poche possibilità di incontrarlo risalivano a due mesi prima: il giorno dell’inaugurazione della restaurata accademia di Fonterossa, che il ragazzo aveva prevedibilmente trascorso con la fidanzata, ed alcune uscite di gruppo in cui si erano limitati a saluti di circostanza.
La consapevolezza del fatto che il legame tra i due si fosse ulteriormente consolidato non turbava la fata come avrebbe creduto, in verità. Ormai quella che provava era mera nostalgia per quelle emozioni che – era innegabile – Brandon le aveva fatto sperimentare.
Tuttavia, non poteva negare a se stessa di avvertire una sorta di invidia per quella che era la situazione sentimentale della sua amica. E così, avrebbe trascorso le vacanze con quel ragazzo?
«Penso proprio gli piacerà. Oh, Bloom!» esclamò ad un tratto. «Potresti venire anche tu! Dopotutto, non ti ho mai fatto vedere dove abito. Cioè, dove abita mia madre»
«Se solo mi spiegaste cos’è il “Soldì”…» fece notare lei.
«Oh, che sciocca!» inveì Stella, portandosi una mano sulla fronte. «Dimentico sempre che tu non conosci queste cose…»
Tecna scosse la testa, interrompendola. «Sì, le conosce. È una tradizione simile a ciò che sulla Terra chiamate “Natale”» spiegò, rendendo tutto molto più chiaro. «Si tratta di una ricorrenza rispettata principalmente dai pianeti più tradizionalisti»
«Adesso ho capito! Non ne sapevo nulla» rise. «Perciò dovrei venire con te e rischiare di diventare un terzo incomodo? No grazie!»
«Non diventeresti un terzo incomodo! Ci divertiremmo! A Brandon piaci» fece Stella, cercando il suo tono più convincente.
La fulva scosse la testa. «È gentile da parte tua, ma non credo sia il caso. Probabilmente tornerò a Gardenia. Lì non sarà il Soldì… o Natale, ma potrò aiutare i miei e stare un po’ con loro, credo»
Già immaginava le levatacce che l’avrebbero attesa alle sei del mattino, per prendersi cura delle piante di sua madre o, semplicemente, svolgere tutte le commissioni che lei le avrebbe affidato. D’altronde, realizzò, la sua vita normale consisteva proprio in quello.
«Potresti portarti dietro una delle altre, no? Una vacanza a quattro o a sei. Oppure a otto, o qualcosa del genere. Se foste tutte coppiette, non ci sarebbe imbarazzo, no?» riprese Bloom.
«Giusto! Tecna, mia cara… la buona vecchia coppia numero tre sarebbe…» trillò Stella, quando la diretta interessata la interruppe bruscamente.
«Non sono in grado di comprendere quali soggetti compongano il tanto agognato binomio di cui parli. Se ti riferisci a Timmy, è solo un amico» volle precisare.
«Oh, è vero. Mi stavo dimenticando di quell’Alan di cui ti eri invaghita. Beh, fa lo stesso. Potresti venire anche tu, con noi» lo disse con semplicità, con quella genuina generosità che ogni tanto riaffiorava in lei.
Stella provava ad essere amichevole, talvolta; ma non poteva sapere in alcun modo che la sua vicinanza era l’ultimo dei desideri di Tecna.
Non si trattava di rancore o di antipatia; ma la sola idea di trovarsi in mezzo alla dolce immagine di quel che lei non avrebbe mai avuto la faceva rabbrividire dall’imbarazzo.
Cercò di declinare l’invito il più cordialmente possibile. Accennò a sua madre, alla curiosa ossessione che quella donna condivideva con le sue amiche, che si scambiavano doni natalizi sebbene il Soldì fosse qualcosa di così caldo e profondo da andare contro la fredda logica Zenithiana.
«Uff… Flora? Pensi che Helia voglia combinare qualcosa?» fece la bionda, con una punta di malizia. Prese a punzecchiare l’altra con il gomito, lanciandole occhiate allusive.
Flora avvampò, scatenando suscitando ilarità in Stella. Ormai, anche se quei due non avevano mai definito chiaramente la natura della loro relazione né avevano dato l’idea di domandarselo, era palese quale fosse lo stato delle cose.
Ogni volta che ne aveva la possibilità, la principessa di Solaria e Vera si divertivano a provocare i piccioncini, destando una quasi totale indifferenza da parte di lui ed un imbarazzo eloquente da parte di lei.
«Ecco… io… insomma non… non so se anche a Fonterossa… beh…»
«Anche loro avranno queste vacanze» la interruppe Musa, masticando quelle parole. Procedeva davanti a tutte loro e pareva star meditando qualcosa di impegnativo.
Tecna cercò di intercettare il suo sguardo, senza però riuscirci. Doveva dedurre che la sua migliore amica fosse a conoscenza di qualche informazione più dettagliata?
La fata della natura la guardò, perplessa ed interdetta. «Oh… davvero?»
«Come fai a saperlo?» chiese Bloom incuriosita, fino ad allora rimasta in disparte, ad osservare la neve che lentamente danzava aldilà delle grandi finestre.
Musa non rispose, sulle prime. Disse solo che aveva i suoi informatori; dopodiché, si dileguò con una scusa e con quattro paia di occhi puntati su di lei.
«Tecna» mormorò Stella, dopo un po’. «La coppia numero quattro da chi è formata?»
Lei tacque, non sapendo cosa replicare.
C’era una coppia numero quattro? Musa aveva mai parlato di una coppia?
Chi era lui? C’era un lui?
Era uno di quei due di cui sospettava? Quel Jared le era sembrato piuttosto interessato, dopotutto. Dunque era così? Ma non stava con quella strega, Maria?
Chi era la coppia numero quattro?
E, soprattutto, quando e come era nata la presunta numero tre?
«Beh… potreste venire tutte, quando sarò su Solaria. Potremmo invitare anche i ragazzi, no?»
 
«Non ho detto questo e lo sai anche tu» sbraitò al telefono. «Perché devi fare così?»
Tacque, prestando ascolto a quella concisa ed imbronciata risposta che lui proferì. Sbuffò sonoramente, stanca di tutte quelle bambinate. «Senti, quando vorrai parlare fammi uno squillo. Sono stufa di queste storie»
Senza nemmeno attendere che controbattesse, chiuse la telefonata in malo modo. Scaraventò il cellulare sulla scrivania, buttandosi poi sul morbido piumone del suo letto.
Perché Riven si comportava sempre come se tutti fossero stati intenzionati a metterlo in discussione? Raramente era possibile intrattenere con lui una conversazione normale.
Quel pomeriggio le era parso particolarmente agitato. Come lei, del resto.
Sospirò, voltandosi sul fianco destro.
Avrebbe voluto poter fare qualcosa per rasserenarlo, per riuscire a placare quel suo desiderio di prevenire qualsiasi disgrazia futura al fine di rimediare a quelle che, a detta sua, erano le sue colpe.
Avrebbe voluto poterlo abbracciare senza che lui si ritraesse, senza che lui cercasse di mantenere la sua solita area burbera.
Lei era inesperta, non aveva mai avuto una relazione con un ragazzo né niente che vi si avvicinasse; ma sapeva che, inesperienza o meno, avrebbe dato tutto per lui allo stesso modo in cui tentava di darlo a coloro che già amava.
Si mosse un po’ sul piumone, sentendosi sciocca.
Lei non amava Riven, non stavano insieme. Anzi, non erano nemmeno amici.
Cosa siamo?
Non avrebbe saputo dirlo.
Negli ultimi tempi, negli ultimi mesi che lei aveva trascorso ad Alfea, i rapporti tra loro si erano fatti strani. Lui la cercava ma, quando lei compariva, improvvisamente si allontanava, perdeva interesse.
Musa, dal canto suo, aveva imparato a non sprecare troppe energie inseguendo la figura di Riven; e così, dopo poco tempo, si stancava di andargli vicino. Ed era allora, che lui si faceva vivo nuovamente.
Ma questo non è stare insieme o essere amici. Né nulla di simile.
Perciò, che cosa le importava se lui era turbato? Poteva continuare ad essere intrattabile quanto voleva, per quel che la riguardava.
A che scopo porgergli il suo aiuto, se poi in cambio otteneva solo monosillabi rabbiosi? Non potevano sorreggersi a vicenda, a quanto pareva.
Che faccia come vuole. Non me ne importa un accidente.
Continuò a ripetersi quella misera frase come un mantra, anche ad un passo da quel caldo sonno che la colse alla sprovvista. Tuttavia, nei suoi brevi e confusionari sogni, vedeva quelle parole sottolineate in rosso, come fossero stati errori commessi in un esame scolastico e corretti da un professore.
Rivedeva se stessa durante quel giorno strano che era stata la riapertura di Fonterossa. Rivedeva se stessa sotto quel portichetto, a pochi passi da lui, dai suoi occhi magnetici che si specchiavano in quelli di lei.
Rivedeva se stessa, la sua incapacità di agire e di essere smaliziata, per una volta; la sua incapacità di avvicinarsi e mettersi in punta di piedi per strappargli qualcosa che voleva.
Si svegliò di soprassalto.
Si guardò attorno, impiegando qualche istante a rinvenire completamente e mettere a fuoco la stanza. Diede una rapida occhiata alla sveglia sul comò e scoprì che era trascorsa a malapena un’ora.
Soffocò uno sbadiglio con la mano, stropicciandosi poi gli occhi.
Conviene che io lasci perdere queste idiozie e mi metta sotto con lo studio.
Du Four aveva affidato loro una ricerca piuttosto lunga e tediosa riguardo il bon ton in presenza dei Tettigantropi, ma Musa era stata assente durante l’ultima spiegazione.
Sbuffò forte, trovandosi poco dopo di fronte alla porta che dava sull’appartamento di Pia. Bussò, e l’altra fata non tardò ad aprire.
Cordiale, paciosa nei modi e nel viso incorniciato da onde more; con quei piccoli occhialetti che le conferivano un’aria studiosa. Pia era forse la persona più pacata che conoscesse.
«Oh, Musa» fece, sorpresa. «Vieni, entra»
«Ti ringrazio, ma sono un po’ di fretta» mentì. «Ti scoccerebbe prestarmi gli appunti che hai preso l’ultima volta, con la Du Four? Non c’ero e mi servirebbero per la ricerca che dobbiamo fare» disse, senza giri di parole.
Quella restò interdetta per qualche istante. Annuì e scomparve dentro la stanza; poi, rapida come si era allontanata, le lasciò tra le mani un quaderno dalla copertina ben rilegata.
La ringraziò, senza riuscire a smettere di guardare quella pelle tinta di viola che custodiva i fogli immacolati. Dimenticava che Pia, un po’ come Tecna, riponeva una cura maniacale nei confronti del materiale scolastico.
Lei, al contrario, era piuttosto confusionaria. Benché generalmente fosse una studentessa diligente, non riusciva a fare a meno di annoiarsi in alcune lezioni; e, così, capitava che i margini delle pagine su cui prendeva nota fossero costellati di scarabocchi o idee per delle partiture.
Una volta tornata nella sua stanza, Musa vi trovò anche la compagna.
Intenta a leggere qualcosa attraverso lo schermo del suo pc, sembrava quasi di poter scorgere tutte quelle informazioni mentre scorrevano per l’azzurro erboso dei suoi occhi. Senza che li staccasse dal computer, la salutò. «Dov’eri finita? Prima stavi dormendo»
L’altra boccheggiò appena, un po’ sorpresa. Era strano che Tecna facesse domande del genere, in virtù della politica – del tutto condivisa da Musa – del “non mi riguarda”.
«Ho chiesto a Pia gli appunti di galateo» replicò.
La conversazione cadde; tuttavia, una strana ombra aveva incupito il volto dell’amica, per un attimo. Ormai la conosceva e, sebbene alcuni lo ritenessero impossibile, aveva imparato a comprendere buona parte dei segnali che indicavano un mutamento dell’umore della zenithiana.
Aveva detto qualcosa di sbagliato?
Si strinse nelle spalle, dicendosi che, in fondo, si sarebbe semplicemente potuta sbagliare. Si lanciò sul letto, supina, spalancando il quaderno di Pia ed iniziando a farsi quantomeno un’idea di ciò che l’aspettava.
Non riusciva proprio a cogliere la necessità di sprecare carta e tempo preziosi nello studio di una materia tanto insulsa ed inutile. Insomma, il fatto che fossero fate non implicava che si comportassero come creature dalla postura e dalla gestualità impeccabili.
Non erano tutte principesse, dopotutto.
Lo stesso abbigliamento della Du Four era in profonda contraddizione con un paragrafo del primo manuale, “L’abito fa il monaco”, dedicato interamente a stoffe, forme e motivi che più si addicevano ad una perfetta dama.
Sbuffò sonoramente; inutile o meno, avrebbe influito come tutte le altre discipline.
Si voltò a pancia in giù, stabilendo di impegnarsi, proprio quando Tecna riaprì il discorso. «Avresti potuto domandarli a me» fece notare, più veloce del vento e più frigida del ghiaccio.
Era offesa? Proprio Tecna?
«Avrei dovuto chiederti il permesso e tu non c’eri» ribatté, realizzando in realtà quanto fosse stata stupida per non averci pensato prima.
Apparentemente, parve placarsi. Ma Musa poteva percepire il rapido sfacchinare della mente di lei, come faceva quando si trovava davanti ad un dilemma che non sapeva risolvere.
«Sei ben consapevole di non aver bisogno di chiedere la mia autorizzazione» sottolineò, ad un certo punto. «Oppure - ipotesi più attendibile – non li ritieni abbastanza esaurienti, rispetto a quelli di Pia?»
Lo disse senza alcuna traccia di ironia, come una mera constatazione. Eppure, Musa poté giurare di aver percepito un sottile tono di fastidio, in quella domanda.
All’improvviso, le sembrò che si fosse incrinato qualcosa.
Le sembrò di aver fatto in modo che si incrinasse. Le parole della sua amica non erano troppe ma, quelle poche che pronunciava, non risultavano quasi mai fuori luogo.
«Non dire sciocchezze» mugugnò in risposta, non sapendo esattamente come proseguire. Era vero? La sua mente aveva automaticamente accantonato l’aiuto della sua amica?
«Non ne dico mai» replicò l’altra, immediatamente. «Musa, cosa sta succedendo?»
Già; cosa stava succedendo?
Da dove iniziare? Loro due condividevano tutto, ma raramente avevano discusso di ragazzi. Entrambe erano piuttosto inesperte, in quell’ambito; e soltanto a parlarne l’imbarazzo avrebbe impedito loro di guardarsi in faccia.
Perciò, quando le cose avevano iniziato a susseguirsi e le giornate si erano fatte sempre più strane, sempre più da Riven, non aveva saputo come esprimersi. E adesso si aggiungeva tutta quella faccenda di…
«Potrei essere nel torto, anche se difficilmente accade, ma mi pare che le tue intenzioni siano sempre più quelle di evitarmi. Di evitare tutte noi» continuò.
Musa si morse le labbra, perché… come negarlo? Aveva cercato di escluderle da quella viscosa ragnatela che si era tessuta intorno; per proteggerle tutte e quattro.
«Il fatto che condividiamo un appartamento non fa di noi delle entità inseparabili» commentò, mascherando l’amarezza con tutta la cattiveria di cui era capace.
Loro non dovevano sapere, per nessun motivo.
Tecna, dal canto suo, avvertì qualcosa di non meglio specificato appesantirle il petto. Si sentì quasi come se non riuscisse più a contrarre i polmoni, ad inspirare ed espirare.
Si sentì come tutte quelle volte in cui aveva ricevuto disprezzo; come quando aveva dovuto constatare la diversità tra gli occhi con cui Brandon guardava lei e quelli con cui guardava Stella.
Come quando si era accorta di non aver mai avuto altri amici all’infuori di Blade. Aveva forse creduto di averne trovati, da quando frequentava Alfea?
D’un tratto, percepì una curiosa coltre sgradevole calarle sulle spalle. Aveva degli amici? Delle amiche?
Quanto significava, lei, per le Winx? Quanto significava, per Musa?
Poco, a quanto pareva. Eppure… poteva fermarsi a quelle che erano semplici parole?
Conosceva Musa. La conosceva, sì; e, cambiata o meno, quel che aveva appena detto non rispecchiava ciò che provava davvero.
Non poteva costringerla a vuotare il sacco. Le avrebbe concesso tutto il tempo di cui aveva bisogno, anche se quell’affermazione non smetteva di sussurrarle all’orecchio tutti quei dubbi che avrebbe solo voluto scacciare.
Tecna si alzò, senza aggiungere altro.
Imboccò la soglia della stanza, abbassando piano la maniglia, sperando forse che Musa le chiedesse di restare e si decidesse a parlarle. Non le era mai piaciuto quel genere di conversazione, perché non sapeva esattamente come intervenire per risultare d’aiuto.
Eppure, ora avrebbe voluto sostenerne a centinaia, anche se si fosse trattato di ascoltare e basta. Ma Musa non avrebbe parlato, non lo avrebbe fatto per molto tempo, forse.
Adesso, Tecna avvertiva l’impellente bisogno di sgranchirsi le gambe e riflettere.
Imbroccò il corridoio, scendendo lentamente per le rampe di scale.
Ogni gradino equivaleva a immagini che la sua mente proiettava; soluzioni a quella piccola discussione, alle piccole discussioni con sua madre, a quelle inesistenti con Brandon.
Discussioni.
A ben pensarci, non aveva mai discusso così aspramente con Musa. Non ricordava di aver dovuto affrontare un qualsivoglia litigio, con lei.
Anzi, in verità, nemmeno quello di poco prima poteva definirsi tale. Forse, ragionò, se ci fosse stato sarebbe stato più liberatorio; conoscendo l’amica e se stessa, poteva ben prevedere la guerra fredda che avrebbe minato i loro rapporti.
Quell’unica volta in cui il battibecco era stato un po’ più animato, si erano degnate a malapena di qualche saluto per un po’; poi, come se niente fosse stato, avevano ripreso a comportarsi quasi normalmente.
Entrambe erano troppo orgogliose per scusarsi o ammettere i propri errori.
Sarebbe accaduto di nuovo?
Perché diamine Musa aveva deciso di chiudersi totalmente nella sua riservatezza?
Si fermò appena ai piedi di una delle gradinate minori, quella che dava sul corridoio verso le cucine. Sembrava che non ci fosse nessuno, nei dintorni.
Decise di non dilungarsi ulteriormente a rimuginare su quelle questioni. Adesso urgeva trovare una risposta al quesito che aveva scombussolato la sua giornata fin da quando se l’era posto.
Perché avrebbero dovuto trascorrere oltre un mese di riposo dai corsi scolastici?
Riposo. Riposo, studio, meditazione. Soldì.
Sarebbe stato semplice, no? Accettare tutte quelle insulse motivazioni, godersi quei giorni di ozio e chinare la testa, non fare domande.
Un tempo, forse, ne sarebbe stata in grado. Attenersi alle regole e alle decisioni di chi sapeva… non lo aveva sempre ritenuto più importante di ogni altra cosa?
Eppure, ora, forse le cose stavano in modo diverso; e cos’altro fare, se la curiosità prendeva il sopravvento?
Deve esistere un dettaglio che mi è sfuggito.
Cosa poteva aver trascurato? Più e più volte aveva mentalmente ripercorso la scena, ripetendo le stesse parole che aveva sentito pronunciate dall’allegra e cordiale voce di Faragonda.
Eppure, il fatto che gli altri insegnanti non fossero a conoscenza di quel piano destava un certo sospetto. La preside aveva agito alle spalle di tutti e…
«Ma certo…!» si ritrovò ad esclamare.
Perché non ci era arrivata prima?
Faragonda non voleva tenerle lontane dagli impegni scolastici, ma dalla scuola stessa.
Per qualche ragione, per alcune settimane la struttura sarebbe diventata inagibile. Ma perché? E se, per ipotesi, alcune studentesse non avessero avuto la possibilità di allontanarsi?
Oltretutto, si era parlato anche di Fonterossa. Le streghe di Torrenuvola avrebbero avuto lo stesso privilegio?
Se così fosse stato, allora la preside avrebbe dovuto averne discusso con Saladin e con la Griffin. Perciò…
«Il database del suo teleproiettore deve aver conservato le ultime conversazioni nella memoria interna» rifletté, fermandosi. «Si potrebbe pensare di effettuare un’incursione notturna e…»
All’improvviso, un debole fruscio destò i suoi sensi. Tecna scattò sul chi va là, non sapendo se temere maggiormente che si trattasse di un mostro o di qualcuno che non avrebbe dovuto udire quella specie di monologo.
Si voltò, sobbalzando alla vista della ragazza dietro di lei.
Statuaria, dallo sguardo fiero e cristallino che spiccava sulla pelle d’ebano, quella principessa, quella… quella Aisha la scrutava. Sostenne il peso dell’indecifrabile ciglio che le stava rivolgendo.
«Da quanto sei lì dietro?» domandò, senza apparire minimamente turbata.
«Da un po’. Abbastanza perché sentissi qualcosa, in effetti» fece, un po’ imbarazzata. Sembrava una ragazza piuttosto discreta, di quelle che raramente si impicciavano negli affari altrui.
Come Musa.
Per quella stessa ragione, non le domandò nemmeno se avesse intenzione di spifferare quel che non avrebbe dovuto ascoltare. Sapeva che non lo avrebbe fatto, non ne aveva le ragioni.
Non aveva, però, mai davvero parlato con quella ragazza, se non per qualche saluto di cortesia e vaghi convenevoli dovuti a quel triste giorno d’estate, quando Bloom l’aveva conosciuta e l’aveva presentata anche alle altre – sebbene lei si trovasse già su Zenith. Perciò, saltare a conclusioni affrettate sulla natura della fata che aveva di fronte sarebbe stato sconsiderato.
Tecna non aggiunse nulla; dopotutto, non era nemmeno certa che Aisha avesse udito ogni dettaglio del suo monologo. Inoltre, si era mantenuta piuttosto vaga e nessuna studentessa avrebbe forse mai dubitato di una fata ligia al dovere come lei.
«Mi rincresce che tu abbia dovuto assistere ad un monologo di ricognizione» fece, mantenendo la massima calma e cercando di occultare quel misero timore che le cose potessero andare all’aria. «Ti auguro un buon pomeriggio»

 I’m struggling just to see
Amount to better ways
What’s possibly meant to be…
Was probably meant for me
Fall Into Place, Apartment
 

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Capitolo 2
*** II ***


II
 
Just ‘cause I predicted this
Doesn’t make it any easier to live with
And what’s the point of knowin’ it
If you can’t change it?
To Be Human, Sia&Labrinth
 

Maria faticò parecchio, per riuscire a mettere piede fuori dal teporino delle coperte.
Stava così bene, lì sotto, che quasi maledisse il suo spasmodico desiderio di avere a che fare con certa gentaglia di Fonterossa.
Si alzò a malincuore, perché quello era il giorno del suo appuntamento con quello sciocco fatofilo. Si stropicciò gli occhi, passandosi una mano tra i lunghi capelli; la sera prima doveva essere crollata dalla stanchezza senza asciugarli, perché le ricadevano sulla schiena in lunghi viticci del colore di quei fiori che teneva Flora nella sua stanza di Alfea.
Si diede una sciacquata, apprestandosi a scegliere ciò con cui avrebbe cercato di lasciare a bocca aperta quel babbeo. Lo specchio le ricordava, ancora una volta, di non aver bisogno di nulla di particolare, per farlo.
Osservandosi bene, notò di essere cresciuta ulteriormente in altezza.
Questa non ci voleva.
Non andava bene. Non andava affatto bene.
L’estate precedente aveva acquisito un numero ragguardevole di centimetri, senza quasi rendersene conto. Aveva inveito aspramente, perché non si ritrovava più in quel corpo sa stangona che non sembrava voler accennare a fermarsi nella sua crescita.
Gettò una rapida occhiata dietro di sé, verso la sua – ancora per poco – assopita compagna di stanza. Quella perfida Jena, che sputava sentenze su tutti.
«È basso» le aveva detto, la prima volta che lo aveva visto.
Due parole pronunciate in un caldo giorno d’estate, quando Maria era stata abbastanza stolta da uscire con lui senza ricordarsi che quella crudele strega sarebbe rimasta in giro per Magix.
«Quel Jared, dico. È basso» aveva specificato, non contenta.
Lo aveva detto così, a bruciapelo, appena l’altra aveva messo piede nella sua stanza, di ritorno da una giornata piuttosto proficua. Non che si fosse aspettata qualcosa di diverso, da lei.
Jena e Maria non erano amiche. Per tutto il tempo che avevano condiviso il loro spazio vitale, si erano sempre comportate come se non si fossero mai fidate totalmente l’una dell’altra.
Quella ragazza, così minuta e così peperita, era un po’ una vecchia volpe. Come buona parte delle streghe, agiva secondo un tornaconto personale; e la cosa andava contro i saldi principi di Maria, naturalmente.
Quella volta, però, le aveva semplicemente fornito un parere da amica – non richiesto, ma pur sempre da amica.
Jared era basso, e questo era risaputo.
O meglio, Jared era basso rispetto a Maria. Da quell’estate, lei lo superava di cinque centimetri abbondanti e questo non faceva che suscitare l’ilarità di Jena e di tutte quelle galline invidiose di Torrenuvola che, in realtà, chissà quanti pensieri dovevano aver fatto su di lui, sui suoi bei lineamenti sottili ed alabastrini.
Era basso, rispetto a lei; e questo le impediva di indossare qualsiasi cosa rischiasse di sottolinearlo ancora di più.
Mentre malediceva la natura, l’occhio le ricadde sul cellulare posato sulla sua scrivania. Emetteva un continuo bagliore; significava che qualcuno doveva aver cercato di contattarla, qualche ora prima.
Chi diamine poteva essere stato tanto sprovvisto di sonno da inviarle un messaggio alle… tre del mattino?
Oh.
Era Tecna di Alfea.
Per qualche istante, Maria si domandò come avesse fatto a reperire il suo numero telefonico. Che lei ricordasse, non glielo aveva mai lasciato…
Poi si ricordò del fatto che fosse grande amica di Flora e Musa che, al contrario, il numero lo avevano.
Se si era rivolta a lei e a quell’ora, doveva trattarsi di una questione grave e di una certa urgenza. Non avevano mai intrattenuto conversazioni particolarmente confidenziali che avessero dato a una delle due motivo di credere di essere poco più che semplici conoscenti.
Sullo schermo comparve il testo del messaggio.
Conciso e freddo, come quella fata. Tre parole, un segno grafico.
“Torrenuvola resterà chiusa?”
Tre parole ed un segno grafico che la spiazzarono più di qualsiasi altra cosa avesse mai letto. Perché accidenti le aveva fatto quella domanda?
A quell’orario improponibile, oltretutto!
Perché mai si supponeva che Torrenuvola restasse chiusa?
Aggrottò la fronte, chiedendosi se fosse erronea la sua percezione della realtà o se, semplicemente, ci fosse qualcosa di sballato nella mente di quella Tecna.
Bah.
Non aveva tempo da perdere; ci avrebbe pensato dopo. Quell’improvviso accorgimento – quelle gambe appena più lunghe, che rendevano ormai ridicoli i suoi pantaloni preferiti – la infastidì.
Cosa diamine avrebbe dovuto fare, adesso?
«Voglio sprofondare…» sussurrò, sconsolata.
«Altina come sei, spunterebbe comunque uno spazio che va… dal busto in su» biascicò la voce impastata di Jena. Accidenti a lei e al suo udito. «Puoi allungarli, no?»
Giusto…
Come aveva fatto a non pensarci? «Per una volta ti rendi utile»
In risposta ottenne solo un grugnito. Il rumore delle coperte scostate in malo modo ed il suo pesante sciabattare suggerirono che si fosse svegliata di cattivo umore.
«Cosa ti affligge, ora? Un’altra alga cisposa ti è cresciuta tra i capelli?» scherzò, ricordando l’incidente avvenuto l’anno prima, nel laboratorio di pozioni.
Jena fece comparire un piccolo specchio tra le sue mani, prendendo ad osservarsi il viso. Borbottò qualcosa a proposito dell’acne che non accennava a voler diminuire nemmeno dopo tutti gli impacchi che aveva applicato.
«O forse sarebbe più prudente usare uno di quelle lozioni di Trisha del secondo anno? Aminta ne ha presa una, ieri» raccontò, ormai completamente ridestatasi dal sonno. «Quella Trisha ci sa davvero fare, con i filtri. O almeno, così dicono. Il bagno del terzo corridoio è diventato il suo negozio»
Maria si voltò verso di lei, perplessa. «Li vende
«Certo. Mica è scema, con quegli intrugli fa degli affari…»  trillò, con ovvietà. Con un gesto della mano fece spalancare l’armadio e un ampio vestito verde volò oltre le ante d’ebano. «Non lo sapevi?»
Scosse la testa. Non ne aveva mai sentito parlare. «Credo sia anche contro il regolamento. Ma, come sempre, immagino che la Griffin promuova queste cose, in realtà»
Andava così ogni anno. Anche quando qualcuno veniva sorpreso a portare a termine certi lavoretti senza autorizzazione, la preside cercava le parole adatte a mascherare con rimprovero quello che in realtà era orgoglio.
«Non può tarpare le ali ad un talento del genere. All’inizio preparava solo cosmetici. Pozioni che rimodellavano i lineamenti, fiale di siero allunga ciglia… cose così» raccontò, fremendo per l’emozione. «Ma poi… ha iniziato a frequentare con grande e curiosa assiduità la biblioteca. Sai perfettamente che lì ci si trova di tutto e di più»
Jena si cimentò nell’articolato resoconto di tutte quelle che – pareva – erano state le prodezze di quella Trisha. A quanto si diceva, il ragazzo con cui era stata vista girare per Magix se lo era procurato con un afrodisiaco, o un filtro d’amore.
Era tutto molto interessante, ma lei non poteva tardare. Si appuntò un lungo orecchino di ali di farfalla – le sue compagne di scuola parevano apprezzare particolarmente il fatto che sembrassero le ali di una fata – e calzò gli stivali.
Fuori, come al solito, diluviava. «Non credo che sia saggio, comunque. Cosa succederà, quando l’effetto svanirà?»
L’altra rivolse gli occhi al soffitto, annoiata. «Perché sei sempre così noiosamente giusta? A momenti sembri una fatina di Alfea. Non ti fa bene frequentarle»
Una fatina di Alfea.
«Se lo fossi, a Jared potrei piacere sicuramente di più» scherzò, pensando in realtà a quanto fosse vero.
Diede un’ultima occhiata allo specchio. In verità, sapeva di piacere a Jared anche e soprattutto per le sue gambe lunghe; doveva solo abituarsi ad abbassare lo sguardo un po’ di più, no?
«Credo che gli piacerebbe ancora di più se potesse sovrastarti fisicamente. Ma dimentico sempre che è basso» ribadì Jena, appollaiandosi sul letto e rigirandosi l’abito tra le mani.
Maria le rivolse una stilettata abbastanza eloquente.
«Jared è basso, Maria»
Sbuffò. «Non mi interessa»
La sua compagna parve ammutolirsi, momentaneamente. Poi, sorrise; lo fece in maniera genuina, del tutto priva di quella piega maliziosa o furba che assumevano le sue labbra piccole, di solito.
«Non so perché, ma non mi aspettavo una risposta diversa» replicò, posando il vestito sulle coperte e facendo comparire un pacchetto di snaks al sale marino che aveva saviamente nascosto in un cassetto del comò.
«Come sarebbe a dire?»
«Deve piacerti davvero» bofonchiò, mentre sgranocchiava i grissini. «Che cosa disgustosamente mielosa»
Maria sorrise appena. Aveva ragione, però.
«Ma se dovessi cambiare idea, credo che quella Trisha abbia anche qualche rimedio per accorciare le ossa!»
Si richiuse la porta alle spalle con un tonfo.
 
Si scostò.
Evitò accuratamente il suo sguardo, imbarazzata e vergognosa, guardandosi più volte intorno, anche se sapeva perfettamente che nessuno li avrebbe disturbati, lì, in quello sprazzo erboso appena fuori dall’accademia.
«Perché non riesci a guardarmi?» le domandò piano, cercando i suoi occhi di carbone.
Non riusciva a guardarlo. Non ci riusciva mai.
«Non è nulla» fece, scuotendo la testa.
Non era nulla.
Solo che non mi sento mai abbastanza.
«Non è vero» disse. «So stai mentendo. So riconoscere le bugie»
«A differenza tua, non mento mai» replicò a tono, trovando il coraggio di fronteggiarlo, finalmente.
Lì, in quel blu così magnetico, Musa vi scorgeva sempre un tono di sfida e di alterigia che camuffava una grande insicurezza. Era come lei?
Riuscivano a parlare senza veli solo quando si trattava di litigare, di prevalere l’uno sull’altra e viceversa.
«Il semplice fatto che tu lo dica dimostra quanto sia falso» fece notare, furbamente.
Le si strinse nelle spalle. «Puoi non credermi, se vuoi. Ora, se vuoi scusarmi…»
Fece per voltarsi e ritornare tra le mura di Fonterossa, ma Riven la trattenne per il polso sottile. Il suo sguardo non ammetteva repliche. «Non puoi andartene così. Perché lo hai fatto?»
Musa arrossì nuovamente.
Perché sono una povera bambina inesperta e capricciosa. Non riesco nemmeno a fare qualcosa senza pentirmene.
Benché io lo voglia.
«Non lo so»
 
Come la prima volta che si erano incontrati e si erano scambiati calore; e lei aveva sentito il petto di lui sussultare insieme al suo.
Le sue dita sulla nuca, che correvano a scioglierle i capelli setosi, lasciandoli cadere, a sfiorare appena le spalle, le sue spalle delicate.
 
«Come le altre volte?» fece lui, allentando la presa. «Lo ripeti in continuazione. Eppure non sembri pensarlo davvero»
Puntualmente era sempre lì, a posare il capo nell’incavo del suo collo, trattenendo lacrime al sapore di gioia e frustrazione insieme.
 
Lei non era abbastanza per lui; lui non era abbastanza per lei.
Entrambi lo pensavano, entrambi lo negavano e si facevano forti e sicuri, quando uno dei due dava l’impressione di ricordarlo.
 
«Tecna ha intenzione di indagare» cambiare discorso, allontanarsi dalla fonte di tutti quei dubbi; le sembrò la cosa più appropriata da fare, sebbene l’argomento rimandasse fitte altrettanto dolorose.
«Su di noi?»
«No. Credo inizi a sospettarlo; e, comunque, quella pettegola di Stella lo sa già e non si risparmierà di farlo sapere anche alle altre» masticò, acidamente. «Chissà chi glielo ha detto, eh?»
 
Eppure, lui non si vergognava di lei.
Lo aveva raccontato; lo sapeva.
Quando smetteva di essere inavvicinabile, ricordava e faceva male.
Allora si aggrappava a chi era rimasto lì con lui, a quei due.
Non si azzardava a chiamarli “amici”, perché non ne aveva mai avuti.
Allora condivideva ciò che aveva dentro insieme a loro; fingeva che si conoscessero come fossero stati amici veri.
Allora rideva e scherzava con Brandon e Timmy e quell’Helia.
Come avrebbe fatto un qualsiasi ragazzo di diciassette anni con gli altri.
 
«Intendevo…»
«Ho capito cosa intendevi» la interruppe, cingendole i fianchi. «Lascia che indaghi quanto vuole»
Fece scorrere le mani sulle sue braccia, lentamente, come una carezza.
«E se… ci fosse davvero qualcosa? Se le nostre supposizioni fossero giuste?» Musa si allontanò, cercando di richiamare a sé tutto l’autocontrollo di cui era capace.
Riven sottovalutava troppo le capacità di Tecna, comunque. «Voglio solo tenerle lontane dai guai, Riven. Non mi stupirei se si andassero a ficcare in qualche brutta faccenda»
L’intelligenza della sua amica la portava a porsi con grande curiosità verso tutto ciò che conosceva ma, quando l’aveva conosciuta, si era sempre dimostrata in grado di frenare quei desideri istintivi, di non impicciarsi in ciò che non la riguardava e, soprattutto, di avere fiducia e rispetto per chi si supponeva fosse competente.
Ma ora era tutto diverso e sia Tecna sia le altre non riuscivano più ad affidarsi al giudizio delle loro guide.
Il ragazzo stava per ribattere, quando una voce li fece sobbalzare entrambi.
«Musa! Sei tu?» era Maria.
La fata sorrise, vedendo la strega avvicinarsi a grandi passi. Come le andrò in contro, le gettò le braccia al collo. «Non ci vediamo dall’inizio dell’anno!» esclamò.
«È vero, in effetti. È bello vederti» sorrise, sciogliendo l’abbraccio. A guardarla con attenzione, sembrava più alta. «Sei qui per Jared?»
L’altra annuì.
«E tu?» fece, con un velo di malizia, rivolta oltre di loro.
Riven si era appoggiato a ridosso di un albero, guardando in lontananza. Era imbarazzato?
«Più o meno come te…» biascicò Musa, non sapendo esattamente come rispondere. Non sapeva nemmeno se lei e quel brutto bisbetico stessero insieme o no. «Anche se, a dire il vero, stavo per andarmene»
«Oh…» fece la strega. «Di già?»
«Sì… ho parecchie lezioni di galateo in arretrato ed è proprio il caso che inizi a studiare… però, in effetti, gli esami sono stati posticipati» realizzò.
All’improvviso, Maria ricordò il curioso messaggio che aveva ricevuto quella mattina e sussultò. «Ah! Ascolta… la tua compagna di stanza… Tecna…» iniziò. «Per caso ti ha chiesto il mio numero di telefono, o lo ha chiesto a Flora?»
La fata rimase interdetta. «No… a me no, e nemmeno a Flora, che io sappia. Perché avrebbe dovuto?»
«Questa mattina ho ricevuto un suo messaggio. Mi ha chiesto se Torrenuvola resterà chiusa» spiegò, non badando all’espressione dell’altra.
Ora era chiaro; Tecna non si era certo persa in chiacchiere. Aveva subito dato inizio alle indagini, a quanto pareva.
«Non sapevo come interpretare la sua domanda. Mentre venivo qui ho pensato potesse avere qualche significato nascosto, o qualcosa del genere. Ma…» sorrise. «…anche così, proprio non riesco a capire perché mi abbia contattata e perché a quell’ora»
Per un attimo, Musa fu tentata di raccontarle tutto. In un certo senso, il fatto che Maria e lei non fossero così intime le rendeva più semplice aprirsi con lei.
Poi, però, ricordò tutte le raccomandazioni di chi sapeva. Non sarebbe stato prudente diffondere quelle ipotesi e scatenare il panico.
«Mah, sai… Tecna è particolarmente curiosa. Ieri Faragonda ha convocato l’assemblea di istituto e ci ha detto che quest’anno, in concomitanza con il… Soldì, Alfea resterà chiusa» spiegò, simulando disinteresse. «Ha detto che ci vuole un po’ di relax prima degli esami e che vuole concederci la possibilità di festeggiare questa tradizione. So che anche a Fonterossa lo farà. Forse Tecna te lo ha chiesto per quello»
«Oh… ho capito…» mormorò Maria, a cui la situazione apparve ancora più contorta.
Musa dovette accorgersi di non essere stata abbastanza convincente. «È solo che le sembra veramente insensato. Sai, su Zenith il Soldì è ancora più lontano che dovunque altro e lei davvero non se ne capacita» disse, abbozzando una risata.
L’altra parve autoconvincersi che fosse così. Alla fine, le stranezze di Tecna tornarono utili; meno fossero circolate alcune notizie, meglio sarebbe stato per tutti.
«Beh, spero tanto che noi di Torrenuvola non saremo le uniche perdenti a restare a scuola» commentò, rianimandosi. «Ora devo sbrigarmi, scusa… ci sentiamo presto, Musa!»
Dopo averla abbracciata nuovamente, Maria scomparve oltre il portone delle mura dell’accademia. Da quando era stata ricostruita ed ampliata, la scuola dei maghi pareva ancora più bella ed imponente.
Eppure, ogni volta che vi metteva piede, la strega aveva l’impressione di percepire la terra tremare appena, come scossa da qualcosa che si muoveva lì sotto. Non avrebbe saputo spiegarselo.
Al tonfo del pesante legno si accompagnarono i passi decisi di Riven.
«Quella ragazza è ogni volta più bella» scherzò, ricevendo ben presto una gomitata ben assestata tra le costole. «La tua è solo invidia»
Proprio così…
«Ma non credo mi piacerebbe avere una ragazza alta poco meno di me. Già tu lo sei troppo, per i miei gusti» concluse.
«Noi non stiamo insieme» fece notare, voltandogli le spalle.
Oh, non gli piacevano le ragazze alte; eppure, non le era sembrato avesse fatto troppe storie, quando si era trattato di Darcy…
«Giusto» annuì, rientrando nell’accademia, senza degnarla di uno sguardo o di un saluto. Musa sospirò, non aspettandosi nulla di diverso.
Decise di incamminarsi verso Alfea a piedi. Quella mattina non aveva minimamente voglia di volare.
Si chinò, riallacciandosi una scarpa. Forse avrebbe dovuto comprarne un paio nuovo; le suole erano quasi completamente consumate e un ampio buco nella tela era nascosto solo dall’orlo degl’altrettanto ampi pantaloni.
Sbuffò, rialzandosi.
Mentre camminava, rabbrividì appena. L’inverno era ormai alle porte e non poteva sperare di continuare ad andare in giro con quella giacca leggera.
Chiuse gli occhi per qualche istante, addentrandosi nei suoni di Selvafosca e lasciandosi cullare dai sussurri del vento, sempre più vivi, sempre più allegri. Portavano con sé tracce dell’autunno appena trascorso tra le tante stranezze; dell’estate dalle molteplici tristezze; della primavera fatta di giornate serene.
Come sarebbero stati, i mesi a seguire? Che voce avrebbe avuto, il vento che li avrebbe accompagnati?
Inquietudine e un pizzico di novità, forse.
Tese bene l’orecchio.
Spensieratezza, alla fine.
Curioso come andavano le cose. Spensieratezza.
Non chiedeva di meglio.
Spesso le capitava di riflettere, di comprendere come gli eventi si susseguissero senza un preciso criterio; come mossi da un caso; come una fiera dalle mille occasioni.
Non che non ci fossero anche le giostre impossibili da vincere, di quelle dove il lancio degli anelli era truccato perché i pali erano semplicemente troppo larghi; non che non ci fossero premi insulsi, rispetto all’impegno che si riversava in quello stupido gioco.
Tuttavia, ce n’erano anche di belle; quel genere di cosa che si ripete all’infinito solo perché piacevole; perché non vi è nulla di più bello che quello che si ama e che reca serenità.
Musa aspettava solo di poter trovare quelle meraviglie, di poter trovare quelle belle cose che le avrebbero ricordato quanto valesse la pena sopportare tutte le altre.
Forse, quel bisbetico e le sue paturnie la stavano riportando alla normalità, alla spensieratezza lecita per una ragazza qualsiasi.
Imboccò la strada più lunga, per poter prolungare un po’ quella passeggiata e respirare l’aria pungente dei pini, che lottava aspramente con la dolcezza dei fiori lungo il lago di Roccaluce. Come si aspettava, lo specchio dell’acqua era ancora limpido e tiepido, come se l’autunno non l’avesse mai nemmeno sfiorato; e così l’inverno.
Gli animali erano un po’ meno vivaci, però, e Musa si scoprì sorpresa di non sentire il cinguettio di quei piccoli uccelli che di solito albergavano nei dintorni.
Sospirò, sedendosi a riva. La terra era fredda, ma l’erba era ancora morbida.
Il pallido riflesso di sé la fissava, scrutandosi.
Distolse lo sguardo, scuotendo la testa.
Talvolta, quando si osservava troppo a lungo, aveva quasi l’impressione di non vedere se stessa; di avere di fronte qualcun’altra e di starla guardando da lontano. E allora non si riconosceva, si estraniava e si spaventava.
Qualcosa di terribile e curioso allo stesso tempo, che la rendeva ancor più incapace di apprezzare quel corpo che spesso non le pareva quasi suo. Tendeva ad attribuirne le cause a tutto ciò che le era capitato, ai profondi sforzi ed affaticamenti che la sua mente aveva dovuto subire in quei mesi.
Mai come quando era penetrata nei ricordi di Vera si era sentita esausta. Aveva prosciugato ogni briciolo di quell’energia di riserva che aveva sempre avuto con sé.
Era diventata più debole? Non avrebbe saputo dirlo.
Fatto stava che ancora le sembrava di vedere un’estranea, nel lago.
Chissà cosa le avrebbe detto, Tecna, se avesse espresso i suoi dubbi. Era anche di questo, che non riusciva a parlarle.
Lei sembrava sempre così lontana da quelle paranoie e da quelle riflessioni contorte che impiegavano una buona parte del suo tempo. Certo non poteva sapere che Tecna, per quanto matura e, a detta sua, metà androide, restava pur sempre un’adolescente.
Ma forse, in ogni caso, neppure si sarebbe accorta della mancanza di Musa. Quella del giorno prima era stata una scena dettata dal momento; la sua razionale compagna non si sarebbe certamente lasciata trasportare da una qualsiasi emozione.
Si sarebbe comportata come nulla fosse stato. Ormai la conosceva.
Sospirò ancora una volta. Sembrava proprio che la bellezza di quel mondo cercasse di fuggire il più lontano da lei.
Forse avrebbe solo dovuto arrendersi, smettere di sperare di poter cogliere il bello.
 
Sometimes I go and walk the street
Behind a green sheet of glass
A million miles below their feet
A million miles, a million miles
Low, Cracker
 
Eccoci qui!
Dunque, dunque, dunque…
Lo so, avrei dovuto pubblicare domani ma, purtroppo, questa domenica sarò via tutto il giorno, quindi… eccomi!
Maria è uno dei personaggi introdotti nella scorsa fanfiction; qui avrà un ruolo più marginale, come Aisha, ma compariranno spesso. Per chi non la conoscesse o non la ricordasse, è un’amabile (beh, forse) streghetta di Torrenuvola che frequenta Jared (sì, proprio lui, proprio il filarino di Musa) e le Winx.
Jena è la di lei compagna di stanza. Sì, lo ammetto, sono io.
Ah, per quanto riguarda il Soldì… lo so, è un nome stupido. Però proprio non sapevo come chiamarlo e giorno del “Sol Invictus” mi sembrava un po’ troppo altisonante anche se, alla fine, si tratta di quello.
Durante le prime fasi di stesura della storia ho pensato che fosse un po’ un azzardo piazzare Natale a Magix perché, che io ricordi, lì non esiste una tradizione di quel tipo; e così è nato il Soldì (nonostante Magix se ne freghi abbastanza anche di quello).
Musa e Riven sono quello che sono perché non credo che la loro relazione sarà mai tutta cuoricini (certo, magari lo sarebbe diventata ma, a quanto pare, hanno deciso di recidere il povero Specialista e sostituirlo con… chi è che frequenta Musa, adesso?) e carezze, e non dimentichiamoci che non è passato nemmeno un anno dal casino che lui ha combinato!
Lei si deprime, mentre Tecna non perde un attimo. Mi sa che l’esperienza dell’estate scorsa la stravolta un tantino… beh, se è troppo OOC provvederò ad inserire l’avvertimento!
Ora vado. Grazie a tutti voi che avete letto e grazie a Tressa per il suo commento!
Appuntamento al 17 settembre!
7th

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Capitolo 3
*** III ***


III
 
I can remember the age that I was
But not that story that pumped in my blood
When you were the savior
And I was the taker of

Oh where I was
One Red Thread, Blind Pilot
 
Quando la porta si spalancò, annunciando la trionfale entrata di Looma, Bloom non si stupì poi molto.
Sfoggiando i suoi grossi incisivi immacolati in quello che era un sorriso gioioso, la ragazza elargì un energico saluto. Come sempre, il suo buonumore era contagioso ed era impossibile non rimanerne travolti.
Looma era una vivace studentessa del college ed era stata rimandata durante il suo secondo anno. Ora che frequentavano gli stessi corsi, la sua presenza lì era costante.
La sua corporatura esile la rendeva molto simile ad una sorta di bambina un po’ cresciuta, dai grossi occhi acquosi perennemente sgranati e dalla lunga chioma color tabacco, appuntata nelle acconciature più strane.
Di solito, si catapultava subito su uno dei divanetti ed iniziava a raccontare a Stella dei nuovi modelli invernali che aveva ideato, o dei cosmetici a basso prezzo ed alta resa che aveva appena scoperto a Magix.
Quelle due condividevano, tra le altre cose, la passione per tutto ciò che riguardava la moda; in particolare, la nuova arrivata era particolarmente nota per le sue abilità di stilista. Da quando era riuscita a mettere le mani su alcune stoffe, quell’anno, aveva allestito una sorta di boutique nel suo appartamento.
«Ho grandi, grandissime notizie per voi!» esclamò, restando a qualche metro da loro.
Stella rimase china sulla sua boccetta di smalto color porpora – sosteneva che la stesura operata da un incantesimo risultasse troppo grossolana per le sue unghie, che dovevano essere impeccabili – ma tese le orecchie.
«Ricordi le feste dello scorso anno?» le domandò la mora, suscitando la curiosità di Bloom.
Feste?
La principessa annuì. «Continua»
«Abbiamo trovato un posto. Musa e Riven ci sono stati l’altro giorno, ed è perfetto» sogghignò Looma, con voce sognante.
Stella sgranò gli occhi, scattando in piedi.
«Dici sul serio? Dove?» trillò, con un balzo.
Sotto lo sguardo confuso dell’amica, la principessa e l’altra fata iniziarono a discutere di arredamenti e di disinfestazioni; poi seguì una lunga epopea circa abiti da ballo, che fossero eleganti ma non troppo; liste di invitati e altre informazioni che Bloom non comprese.
Per qualche vago istante, temette che quelle due fossero seriamente uscite di senno, dopo l’estate.
«Brandon e Musa ti spiegheranno meglio» concluse Looma, muovendo qualche passo verso la porta. «Scusa, ma devo assolutamente finire di sistemare i bottoni a quel cappotto. Se vuoi scendi giù, dopo, così lo provi»
«Oh, senza dubbio!» rispose Stella, entusiasta.
Appena l’altra lasciò l’appartamento, la principessa prese nuovamente posto di fronte alla boccetta di smalto, ripiombando nel più religioso dei silenzi.
«Quindi?» la incalzò l’amica.
Sbatté le palpebre un paio di volte, distogliendo l’attenzione dalla cura delle sue unghie, come se non avesse capito a cosa si fosse riferita. «“Quindi” cosa?»
«Vuoi spiegarmi di cosa diavolo stavate parlando, tu e Looma? Per venti minuti ho creduto di star affrontando una delle solite ed incomprensibili lezioni di Griselda » rise. «Cosa intendeva, con “feste dello scorso anno”?»
«Oh, ma niente. Poi ti spiego» replicò, con tono annoiato.
Tuttavia, non ebbero più modo di affrontare la questione per un po’. Anche quando Bloom cercava di accennare alla vicenda, Stella restava vaga e sorrideva con fare malandrino, promettendole che le avrebbe spiegato ogni cosa.
In realtà, si divertiva semplicemente troppo a vederla cuocere nella sua curiosità e a farsi implorare. Andò avanti così fino a qualche giorno dopo, quando la principessa decise di accontentare le suppliche dell’amica.
«Vuoi dirmi dove stiamo andando?» ripeté Bloom per l’ennesima volta, mentre planavano lungo uno sprazzo erboso.
Senza un’apparente ragione, circa mezz’ora prima Stella l’aveva ribaltata dal letto, spiegando con un trillo qualcosa a proposito di “buone azioni”. L’aveva obbligata a vestirsi e sistemarsi in un battibaleno e, senza concederle nemmeno il tempo di fare colazione, l’aveva trascinata fuori dalla cancellata di Alfea.
Il fatto che fossero appena atterrate poco lontano dalla scuola di Fonterossa non lasciava presagire nulla di buono. Per Bloom era piuttosto difficile mettervi nuovamente piede perché, sebbene ora risultasse parecchio diversa, quell’accademia era pur sempre il luogo in cui aveva condiviso i suoi segreti con Sky.
Le sembrava fosse trascorsa un’eternità, da quei giorni sereni; eppure, si era trattato solo dell’anno precedente.
In generale, la infastidiva l’idea di passeggiare per quelle stanze senza che vi fosse la minima possibilità di incontrarlo. Perché Stella aveva voluto portarla lì? Sapeva perfettamente quanto fosse doloroso.
«Oggi è domenica. Se volevi vedere Brandon potevi farlo anche senza che venissi io» borbottò, contrariata. Non sarebbe certo stata la prima volta, se le loro presunte commissioni si fossero trasformate in romantici idilli tra quei due.
«Brandon c’entra relativamente» specificò Stella, sistemando con cura le pieghe della gonna. A poco a poco, le ali si ritrassero e l’abito della trasformazione scomparve completamente. «Dammi retta, siamo qui per una ragione più che ottima»
«Se lo dici tu…» biascicò l’altra, non molto convinta.
Mentre procedevano spedite oltre il labirinto, si passò una mano tra i capelli nel tentativo di addomesticarli. Solitamente erano piuttosto intrattabili e quella mattina, ovviamente, non aveva neanche avuto il tempo di pettinarli.
Sospirò sconsolata di fronte al vetro di una finestra, maledicendo quel casco di viticci rossi; all’improvviso, quella stessa finestra si spalancò, facendo trasalire la ragazza e anche il ragazzo che si trovava oltre essa.
Questi lanciò un urlo di spavento, portandosi le mani a coprirsi il petto, benché fosse interamente vestito. Bloom avvampò dall’imbarazzo e Stella rise fragorosamente. «Ben svegliato, Alan!»
Quello balbettò qualcosa, scandalizzato, nel tentativo di coprirsi e di placare quella morbida massa di riccioli biondi che gli ricadevano in fronte.
«Ma… insomma… vi ha dato di volta il cervello?» sbottò. «Cosa accidenti ci fate, qui? Perché lei guardava nella mia stanza?»
«Non volevo, scusa… io…» come spiegarlo, senza risultare ridicola? «Beh… stavo… cercando di sistemarmi… ecco…»
«Cos’è questo trambusto?» inveì una voce dall’interno della camera.
Di primo impatto, parve identica a quella di Alan; solo un po’ più dura e profonda, forse. Un altro studente si avvicinò loro, cercando di mettere bene a fuoco la scena.
Nel goffo tentativo, ridusse gli occhi grigi a due sottili fessure e corrucciò i lineamenti; eppure, anche così, mantenne una certa somiglianza con il compagno di stanza.
Gli stessi tratti bruschi, incorniciati però dalla dolcezza del cioccolato scuro; e qualcosa, nello sguardo, che catturò quello di Bloom.
«Beh? Queste cosa ci fanno, qui?» esordì.
«Chiedilo al tuo caro amico Brandon; lui avrà sicuramente le risposte!» bofonchiò Alan, traboccando un risentimento non meglio identificato. «La bionda è la sua ragazza»
L’altro aggrottò appena le sopracciglia brune, mimando poi un “oh” non troppo interessato. «In quel caso, forse lo stanno cercando» concluse. «È… beh, è tu sai dove»
Stella ringraziò dell’informazione, sogghignando; ma Bloom non riuscì a capire nulla di ciò di cui lei e quel ragazzo confabularono in seguito. Perché stavano mantenendo tutti quei segreti? Dove diamine stavano andando?
«A dopo» fece la principessa.
A dopo?
Alan emise una sorta di grugnito, mentre l’altro Specialista le salutò con un cenno della mano. Appena furono abbastanza lontane, Stella scoppiò nuovamente a ridere.
«Smettila» protestò la fulva. «Non pensavo che quella finestra desse sui dormitori»
«Beh, almeno ora conosci due dei più noti studenti dell’accademia» fece lei, trattenendo gli spasmi. «Alan e Sem»
Alan e Sem…
Ricordava di essere stata compagna di classe di un certo Sem Barrett, alle scuole elementari; ma si era trattato di un paffuto bambino afroamericano… «Com’è che non ne ho mai sentito parlare?»
«Sai» spiegò, con ovvietà. «Non credo proprio che parlarti dei suoi compagni figaccioni rientrasse nelle intenzioni di Sky. Anche se uno è frigido e l’altro… insomma… non è molto interessato alle ragazze»
«Qual è la differenza?» chiese, incerta sull’interpretazione che avrebbe dovuto attribuire a quelle affermazioni.
«L’hai visto, no? Uno è biondo, l’altro no» disse.
Bloom si nascose il viso tra le mani, scuotendo la testa. «Intendevo la differenza tra l’essere frigido ed il non essere interessato alle ragazze»
«Oh» apprese Stella.
Si fermò di fronte ad una parete piuttosto malconcia, che inquadrava un portone scardinato e sostenuto da delle sbarre metalliche. Sfregò un paio di volte la punta dei suoi stivali a terra. «Dovevi specificare. La vedrai presto, la differenza. Per intanto, sbrighiamoci»
La rossa stava per domandare nuovamente dove stessero andando ma, in un guizzo, la principessa le afferrò le mani appena prima che una botola si spalancasse sotto di loro.
Dopo quella che le parve una caduta infinita, percepì di essersi schiantata su qualcosa di estremamente morbido. Nel buio più totale, tastò quella che pareva una montagna di cuscini dalle federe sgranate e vecchie.
«Sei tutta intera?» domandò Stella, facendo luce con un incantesimo.
L’altra annuì, cercando di scendere da quel cumulo. «Dove siamo, Stella?»
«Nelle prigioni di Fonterossa. Non senti questo fetore di carogna?» commentò, ridendo poi all’espressione sconvolta dell’amica. «Sto scherzando! Secondo te potrei mai metterci piede, se fosse davvero così?»
Sotto l’ultimo cuscino, Bloom avvertì la dura consistenza del pavimento. Mosse qualche passo appena rischiarato dal bagliore che scaturiva dalle dita della principessa; ben presto, percepì alcune crepe tra le mattonelle.
Come la mano le raggiunse, la terra sembrò tremare appena. Ebbe l’impressione di percepire un boato e l’eco di una risata accompagnarsi a quello che avrebbe definito un preludio ad un terremoto.
Eppure, non accadde nulla. Forse lo aveva solo immaginato.
«Fonterossa sorge su una scuola preesistente. Questo è ciò che ne rimane» spiegò. «È qui che vorrebbero fare la festa»
«Quale festa?»
«Una festa per il Soldì. E per divertirsi, più in generale» spiegò, indicando poi uno stretto cunicolo di fronte a loro. «Per di qua»
Durante il tragitto, Stella non fece altro che parlare di tutte quelle festicciole abusive che gli anni precedenti erano state organizzate in una delle sale di addestramento della scuola. A detta sua, si trattava di momenti molto tranquilli, in cui era difficile che s’imbucasse qualcuno d’indesiderato.
«In realtà, le organizzavano da molto prima che io iniziassi a frequentare il college, ma allora potevano partecipare anche le streghe» raccontò. «Pare che qualche anno fa venissero anche Icy, Darcy e Stormy, di tanto in tanto. Solo che, un bel giorno, due stregacce hanno deciso di dar vita a delle scaramucce per un ragazzo proprio durante una di queste feste»
Dagli insulti, disse, erano passate allo scontro diretto. Erano volati incantesimi di ogni tipo e alla fine uno studente del primo anno si era perfino visto trasformato in un bidet.
«Perciò hanno bandito anche le streghe. Fino all’anno scorso le cose sono andate abbastanza bene, ma poi qualche squilibrato spione di Fonterossa ha deciso di spifferare tutto a Saladin e Codatorta» narrò, masticando imprecazioni.
Di fronte a loro si aprì un varco da cui Bloom poté vedere filare alcune ragnatele. Cercò di farle scomparire, prestando attenzione al racconto dell’amica senza riuscire a comprendere se si sentisse emozionata o stranita all’idea di party abusivi.
«Ovviamente, i due vegliardi non avevano prove certe e quando sono arrivati era già stato smantellato tutto a dovere. Quello che faceva da palo aveva dato l’allarme in tempo» rise. «Ma dovevi vedere la faccia di Brandon. Era su tutte le furie»
«Perciò non ne avete più organizzate?» chiese l’altra, facendo attenzione a non inciampare su una crepa.
Stella annuì. «Un po’ per quello e un po’ perché sarebbe stato rischioso. Saladin ha lanciato dei sigilli su tutte le aule e anche le fate dell’ultimo anno avrebbero avuto difficoltà a rimuoverli senza che lui se ne accorgesse»
Bloom si ammutolì, rimuginando.
Dunque, anche Sky aveva partecipato a quelle feste? Con chi aveva ballato, in quelle occasioni? Perché Stella non le aveva mai detto nulla?
«So cosa pensi, Bloom» disse infatti, prontamente. «Non potevo parlartene. Brandon non aveva alcun problema, ma gli altri non volevano. Soprattutto perché… beh, tu avresti voluto che partecipassero anche Flora e le altre e, detto fra noi, tra lei e Tecna non so chi si sarebbe lamentata di più per il regolamento ed altre idiozie»
«E quest’anno? Come mai hai cambiato idea?» fece, un po’ risentita.
L’amica si strinse nelle spalle, dicendo che tutti quelli che si opponevano ormai avevano finito la scuola e che, comunque, ora poteva fidarsi un po’ di più anche delle altre, memore di quella piccola festa che l’anno precedente avevano tenuto ad Alfea.
«Ovviamente, spetta a loro decidere se venire o meno. Sarebbe utile, perché così potrebbero dare una mano a pulire e sistemare questo posto» spiegò, quando giunsero di fronte ad una porta. «Musa ne è già a conoscenza. Lei ed un’altra fata si occuperanno di insonorizzare questo posto»
Quindi siamo qui per… pulire?
«La festa dovrebbe essere due giorni prima dell’inizio delle vacanze. Per allora, la maggior parte degli studenti indesiderati sarà già a casa, così sarà più sicuro» disse la bionda, prima di abbassare la maniglia.
«Resta ancora da definire come fare per trovarci tutti qui. Insomma, il mio scettro non può teletrasportare troppe persone ed io non ho intenzione di fare da chaffeur»
La soglia si spalancò, rivelando un immenso stanzone che comunicava con un’altra sala apparentemente inagibile. Era tempestata di crepe e di qualche secchio d’acqua lasciato qua e là, segno che i ragazzi avevano già iniziato a darsi da fare con le ristrutturazioni.
In un angolo risiedeva un cumulo di detriti provenienti da un’evidente falla del soffitto, a tratti sostenuta da alcune travi lì collocate alla meno peggio; quelle che parevano ampie finestre in vetro erano ora incrostate e polverose, e lo stesso si poteva dire di quello che anticamente doveva essere stato un pavimento marmoreo, o qualcosa del genere.
Stella spiegò che la vecchia Fonterossa, nel percorso di formazione dei giovani maghi, aveva sempre apprezzato l’impegno del sottile incanto della danza. «Questo salone era adibito proprio a i balli. Poi la struttura è stata inghiottita da un terremoto e, quando hanno dovuto ricostruire tutto da zero e ancora non c’era il buon vecchio Saladin a sistemare tutto con la magia, ormai non fregava più niente a nessuno di danze e cose simili»
Bloom si trovò ad annuire e ad appurare, ancora una volta, di sapere davvero poco della storia del mondo in cui viveva. Anche Alfea sorgeva su un’altra scuola? Quante tradizioni erano andate perdute?
E, soprattutto, quante volte Fonterossa era stata ricostruita?
«Questo posto doveva essere splendido» commentò, osservando ciò che restava di alcune tende ormai slabbrate. «Ma è davvero messo male. Anche con tutta la magia di questo mondo sarà lunga; no?»
«Oh, sì. Lo sarà senz’altro» fece con ovvietà. «Per questo abbiamo bisogno di aiuto. Looma mi ha detto che lei e le altre sono già riuscite a rendere queste rovine quantomeno percorribili; però, credo che non sarà altrettanto semplice, per il resto»
La fulva valutò gli evidenti squarci nella carta da parati, colmati dalla fresca ed umidissima terra. Forse non sarebbe stato tanto problematico conferire una certa dignità estetica a quel luogo, quanto assicurarsi che non crollasse sulle loro teste.
Senza contare che le vibrazioni emesse da voci, musica ed incantesimi avrebbero potuto peggiorare la situazione.
Proprio mentre rifletteva sul da farsi, dietro di loro comparvero alcuni studenti della scuola in abiti civili; tra loro, Bloom riconobbe anche Brandon, Alan e Sem.
Il primo fu immediatamente assalito da Stella, ricevendo poi un’occhiata carica di fastidio da parte del secondo; il suo gemello, invece, si mise subito all’opera. Afferrato un secchio d’acqua ed una scopa, si diresse verso una delle vetrate.
Mentre gli altri alternavano la fatica a qualche piacevole chiacchierata, Sem sembrava totalmente concentrato su ciò che stava facendo. Versò del sapone dentro il recipiente, immergendovi poi le setole logore.
Per qualche istante, Bloom seguì con lo sguardo i suoi movimenti, osservando la leggera schiuma rosa che colava lungo il bastone. Sobbalzò quando si accorse che Alan le si era avvicinato.
«Sem non perde mai un attimo» fece, calmo. «Mi chiedo dove trovi la voglia di sporcarsi le mani così»
«Bene o male, è quello che fanno tutti; no?» replicò lei.
Il biondo scosse la testa. Si allontanò, senza aggiungere altro.
Scrutandolo di quando in quando, si domandò come un tipo del genere – che pareva piuttosto vispo e pronto a rispondere a tono – potesse avere un viso così sereno. Anche quando si mostrava contrariato, i suoi lineamenti marcati non si deformavano mai in smorfie.
Ciò che tradiva i suoi reali stati d’animo era il guizzo che ogni tanto attraversava il grigio dei suoi occhi; in quel momento, pareva recriminasse qualcosa a se stesso.
Bloom non avrebbe saputo dire perché, ma la vista di Brandon e Stella sembrava averlo intristito parecchio.
«Hai intenzione di stare lì impalata ancora per molto?» le domandò, accortosi di essere osservato. «Credevo fossi qui per dare una mano, non per fissarmi»
La ragazza sobbalzò nuovamente, annuendo meccanicamente e decidendosi a lustrare una finestra a sua volta.
Con l’allegro chiacchiericcio di Stella come sottofondo, chiamati dalle sue abili dita, un secchio ed una pezza volarono in quella direzione; ad un tratto, però, la principessa chiamò a gran voce l’amica, distogliendo la sua attenzione dall’operazione.
Il secchio precipitò a terra; o meglio, precipitò sulla testa di quel povero malcapitato che aveva deciso di spostarsi proprio in quel momento. Da sotto il metallo lucente del recipiente comparve lo sguardo sbalordito di Sem.
Fradicio, dagli occhi appena svelati dagli ormai stopposi riccioli mori, guardò immediatamente in direzione di Bloom.
Oggi non è la mia giornata.
Avrebbe tanto voluto sotterrarsi, sprofondare in uno di quei solchi che rovinavano la fantasia del pavimento; accartocciatasi su se stessa e preparata al peggio – quel Sem le sembrava un tipo da cui guardarsi – e quasi non credette alle sue orecchie, quando una risata bassa la colpì in viso come uno schiaffo.
Sotto gli sguardi attoniti di tutti i presenti, lo Specialista continuava a ridere come se non avesse mai assistito a nulla di più comico. Avvertendo il silenzio attorno a sé, però, presto il ragazzo ammutolì nuovamente.
Vagamente imbarazzato, posò il secchio e lasciò la stanza, forse per cambiarsi gli abiti totalmente bagnati. Non fece più ritorno, e Bloom non comprese cosa fosse realmente successo; fino a che, dopo un paio di ore, Alan le si avvicinò giusto prima di andarsene.
Le disse, cercando di mascherare la sua sorpresa, che il fratello aveva riso per la prima volta dopo mesi e mesi di corrucciata serietà. Le disse, cercando di sembrare indifferente, che il fratello aveva riso.
Aveva riso grazie a lei.
 
Diede un paio di rapide occhiate fuori dalla porta, prima di uscire dalla sua stanza.
L’appartamento era immerso nel buio accogliente della notte, ma lei sapeva come muoversi. Fece attenzione a richiudersi piano la porta alle spalle.
In realtà, non le importava poi tanto di svegliare Musa; ciò che contava era non destare anche le altre. Poteva dirsi sicura che lei non avrebbe fiatato – date le ultime svolte della loro amicizia – ma non era altrettanto certa che Bloom, Stella e Flora non avrebbero detto nulla.
Avanzò furtiva, aprendo uno spiraglio oltre la soglia d’accesso all’appartamento. Il corridoio era deserto e silenzioso, ma Tecna sapeva bene che Griselda non era ancora andata a dormire.
Non le era risultato poi tanto difficile monitorare le sue abitudini, e quella era proprio l’ora della sua ultima ronda notturna. Si decise a mettere piede fuori di lì, svoltando subito sulla destra.
L’ispettrice avrebbe infatti svoltato sulla scalinata opposta, la meno ripida e lunga; o, almeno, così Tecna si aspettava che facesse.
Fu una sorpresa sentire i suoi passi risalire la tromba delle scale; e proprio mentre la studentessa era già a metà. Tornò indietro il più rapidamente e silenziosamente possibile, ricordando a se stessa di sopravvalutarsi di meno.
O, forse, avrebbe solo dovuto tenere a mente che tutte le creature sono piuttosto imprevedibili. Attraversò velocemente l’ala est, scagliando su di sé un incantesimo silenziatore che le impedisse di combinare disastri a causa dell’imposta cecità; l’intero piano era avvolto dall’oscurità, e lei non riusciva a vedere più nulla.
Fare luce sarebbe stato troppo pericoloso, anche perché era ormai vicina all’ufficio e anche alle stanze di Faragonda.
Cercò la parete, appoggiandovisi; tastandone la liscia consistenza, individuò i cardini di una porta.
Ci siamo.
Lasciò scorrere le dita alla ricerca della serratura, incontrando però una sorta di gelatina che la rivestiva. Cosa poteva mai essere?
Si accucciò, facendo come per sfilare uno dei suoi orecchini. Premette appena la piccola perla e quella, come si aspettava, iniziò ad emanare un bagliore non troppo fioco perché lei potesse studiare quel curioso tipo di protezione.
Tecna aveva pensato, forse un po’ ingenuamente, che la preside avrebbe imposto i soliti sortilegi di sigillo, se proprio avesse voluto premurarsi di precludere il suo studio ad esterni. Quella colla la lasciava perplessa.
Sembrava citoplasma, a prima vista; eppure, anche quando cercò di farlo svanire, rimase inchiodato lì. Ripassò mentalmente ogni tipo di mucillaggine che Palladium aveva illustrato loro appena il mese prima, ma nessun esempio pareva coincidere.
Puntò un pugno chiuso contro quella sostanza, reggendosi il polso con l’altra mano; provò con uno dei suoi incantesimi di saldatura, ma l’unica cosa che ottenne fu una serie di scintille eccessive che il sortilegio sprizzò dovunque.
Scintille che le permisero di constatare, suo malgrado, di non essere sola.
Non appena la luce rossa della magia sagomò i contorni di qualcuno alla sua sinistra, cessò di pronunciare mentalmente la formula. Restò in silenzio, acuendo i sensi e attendendo ulteriori sviluppi.
Ricercò con l’udito il respiro dell’altra presenza, ma non riuscì ad avvertire nulla all’infuori del proprio. Ad un tratto, però, poté percepire il lieve strascichio di quella che pareva una scarpa sul tappeto del corridoio.
Era appena dietro di lei.
Con uno scatto, si volto e sferrò un calcio laterale, mancando – sorprendentemente – colui o colei che avrebbe dovuto colpire.
«Ehi, non c’è bisogno di aggredirmi!» fece d’un tratto una voce, a metà tra l’affannato ed il divertito.
«Principessa Aisha?» sussurrò, Tecna, incredula. Puntò il suo orecchino in direzione di quella protesta, e la vide.
Era proprio Aisha; ma per quale assurda ragione non era nella sua stanza? «Non dovresti essere qui»
«Se è per questo, nemmeno tu. Sai…» rise piano, avvicinandosi. «mi domandavo proprio come saresti riuscita a scalfire il Morphix»
Tutto divenne subito più chiaro, nella mente della fata; quella mucillaggine non l’aveva imposta Faragonda, ma Aisha stessa. D’altronde, lo sapeva bene, no? I suoi poteri avevano a che fare principalmente sui liquidi e sulla costituzione di quella pasta rosa.
Come aveva potuto non pensarci?
«È stata Faragonda, a chiederti di farlo?» domandò, senza scomporsi. «Le hai riferito tutto ciò che hai ascoltato quel giorno»
La principessa scosse la testa. «Non le ho riferito nulla, né mi è stato chiesto niente. È stata una mia iniziativa»
Logico…
Tecna non aveva pensato a torto che Faragonda non avesse preso alcuna misura di protezione per il suo ufficio. No, le sue deduzioni erano state corrette, solo che…
Quella Aisha l’avrebbe ricattata. Perché aveva pensato che lei si astenesse da una così bassa pratica? Dopotutto, ognuno celava in sé ambizioni e desideri più o meno profondi.
«Cosa vuoi?» domandò, senza perdere ulteriore tempo prezioso.
La risposta la sorprese.
«Voglio che tu mi permetta di aiutarti»
Che cosa ha detto?
«Temo di non comprendere» finse. La principessa Aisha… invischiarsi in quelle faccende da impicciona?
«Hai capito bene. Voglio aiutarti» fece, avvicinandosi. «Non fare quella faccia. Tu hai sicuramente le tue buone ragioni, per voler sapere cosa ci sia sotto alla faccenda del Soldì; per me è lo stesso»
Tecna inclinò inconsciamente la testa, lasciando appena oscillare il ciuffo da un lato. Per quale motivo avrebbe dovuto riporre in lei la sua fiducia?
Cosa sapeva, di quella ragazza?
È abbastanza scaltra ed intraprendente da poter combinare ciò che più le aggrada. Perché dovrebbe necessitare del mio aiuto, se desidera scoprire i piani di Faragonda?
Aisha di Andros. La silenziosa principessa che, forse spinta dalla curiosità o da un’inspiegabile simpatia nei confronti di Bloom, aveva deciso di frequentare i corsi di Alfea.
Aisha, la prodigiosa fata che pareva assai più abile della maggior parte delle loro compagne. Quella che raramente proferiva parola, se non quando veniva interpellata dai professori o quando incontrava le ragazze del primo anno con cui condivideva l’appartamento.
Perfino con loro sembrava mantenere una certa riservatezza.
Una persona piuttosto taciturna che, tuttavia, quando doveva usare le parole non ne aveva mai una di troppo. O, perlomeno, così aveva detto Bloom.
Aisha di Andros. Cosa poteva mai averla spinta ad avvicinarsi proprio a Tecna, con cui a malapena aveva parlato, prima di allora? Cosa poteva esserci, di così irrinunciabile, da costringerla ad avere a che fare con lei?
«La mia è semplice curiosità» ammise Tecna. Evitò accuratamente di esprimere i suoi sospetti. «Quali sono, le tue ragioni?»
«Riguarda mio padre» tagliò corto. «So per certo che mio padre è coinvolto in tutta questa stramba situazione»
L’altra aggrottò appena le sopracciglia.
«Tu e Bloom non siete le uniche ad esservi accorte dell’assurdità di queste vacanze, sai?» rise piano, dandosi un’occhiata alle spalle. «Ricordi il giorno dei colloqui con i genitori?»
Lei annuì. Era una delle poche occasioni in cui aveva la possibilità di vedere i suoi genitori all’infuori di Zenith.
«Non ho visto mio padre discutere con un solo insegnante. Ha trascorso tutta la mattinata nell’ufficio della preside» prese a spiegare. «Per caso, ho ascoltato strascichi della loro conversazione. Lui era piuttosto allarmato, ma non sono riuscita a comprendere per cosa»
Tecna ascoltò il resto senza fiatare.
Tutto appariva così lineare. Senza dubbio, quella non doveva essere stata l’unica volta in cui il re di Andros e Faragonda avevano trattato quella… qualsiasi cosa fosse.
Secondo Aisha, la corrispondenza tra di loro doveva essere iniziata già da tempo.
«Nella memoria del teleproiettore ci sarà senz’altro qualche messaggio di mio padre» concluse, sperando di essersi guadagnata la fiducia dell’altra. «La mia idea, qualche tempo fa, era stata quella di introdurmi qui e consultare quell’affare, proprio come vorresti fare tu»
«Perché hai bisogno del mio aiuto? Credo tu sia abbastanza abile da potertela cavare da sola» indagò ancora, riluttante.
L’intervento di quella ragazza l’avrebbe aiutata a sciogliere un po’ i nodi di quella faccenda, che si faceva sempre più ingarbugliata man mano che più dettagli risalivano a galla. Oppure, al contrario, contribuiva solo a rendere il tutto più intricato?
«Le barriere tecnologiche non sono esattamente il mio forte. Come hai ben notato, se non fosse stato per il mio intervento non avresti incontrato alcuna resistenza» sospirò. «Tuttavia, come ho potuto scoprire la prima volta che ci sono venuta, quell’alambicco è intriso di sortilegi che hanno a che fare con… beh, con il tuo campo»
Aisha raccontò, non senza fare fatica ad ammettere una simile cosa, di aver dovuto rinunciare al suo piano per timore di combinare un disastro ed essere scoperta.
Barriere tecnologiche. «Perciò hai gettato questo Morphix qui per assicurarti che io avessi bisogno di te per scioglierlo come tu hai bisogno di me per il teleproiettore»
La principessa annuì. «Avrei voluto chiedertelo già l’altro giorno»
Tecna storse impercettibilmente il naso. Capiva bene perché quella Aisha non ne avesse avuto il coraggio e la voglia.
Nemmeno a lei piaceva particolarmente l’idea di dover ricorrere all’aiuto di altri, perché nella sua mente corrispondeva spesso ad abbassarsi. Tuttavia, forse in quella faccenda due menti avrebbero potuto lavorare meglio.
«Sbrighiamoci» disse allora la zenithiana, ingoiando una buona dose d’orgoglio.
L’altra esultò dentro di sé, accostandosi alla serratura e sbloccandola con un semplice schiocco di dita. Il citoplasma si dissolse, e la porta si aprì.
L’ufficio di Faragonda era appena illuminato dalla fredda luce che filtrava attraverso le spesse vetrate. In lontananza, il lago di Roccaluce appariva come un perfetto specchio non ancora ghiacciato nonostante la neve che, timida, stava iniziando a precipitare dal cielo.
La scrivania era sgombra di qualsiasi cosa, se non per una lampada sottile ed una piuma variopinta accanto ad essa.
«Dov’è il teleproiettore?» fece Aisha, allarmata. «È sempre su quella scrivania e proprio oggi che serve…»
Tecna spalancò un cassetto, sicura di trovarlo lì. E così fu.
«Ho un hardware esterno per poter copiare la memoria del dispositivo» disse, prestando la massima attenzione a come lo maneggiava. «Ma temo possa impiegare un considerevole intervallo di tempo»
L’altra scosse la testa. «Non importa. Quel che conta è che riusciamo a cavarne fuori qualcosa»
È il momento che mi concentri.
«Le tue preoccupazioni sono indirizzate verso la salute del tuo progenitore o è pura curiosità?» si azzardò a chiedere, mentre esaminava il teleproiettore.
«La prima che hai detto. E poi» rispose, osservandola in azione. «nemmeno tu sei mossa dalla pura curiosità»
Purtroppo no.
Come esserlo? Dopo gli eventi, le incertezze e i rischi corsi, qualsiasi sentore di pericolo destava in lei la necessità di investigare, di risolvere – di prevenire qualsiasi sofferenza.
Perché, forse non lo avrebbe mai ammesso, ma anche lei aveva qualcuno da proteggere.
«Riconosco i segni di un blocco e di un altro sigillo programmato nelle stesse impostazioni del teleproiettore» disse, cambiando argomento. «Ma ce n’è un altro… che non sono in grado di riconoscere. Non sembra provocare particolari impedimenti nella lettura della memoria»
La guardò, sperando al contempo di riuscire a ricordare dove avesse intravisto il piccolo simbolo che emetteva bagliori biancastri, l’unico che non riuscì a sciogliere con nessuno incantesimo.
«Senti, non ha importanza. Inserisci quella chiavetta lo stesso» fece Aisha, sbrigativa. «Dovrebbe scaricare quantomeno le ultime conversazioni, no? Sono già le quattro»
Tecna si trovò ad annuire, nonostante avesse un pessimo presentimento. Con i polpastrelli individuò l’unica apertura dell’oggetto, colmandola con il piccolo dispositivo di supporto esterno.
Quella sorta di missile di dimensioni ridotte si illuminò, proiettando sul soffitto l’ora corrente e lo stato di download delle conversazioni registrate.
«Fantastico… non siamo nemmeno al 20%» commentò Aisha.
«Avresti potuto premurarti di provvedere tu, se reputi che questo hardware non sia sufficientemente veloce» replicò Tecna. «Ti informo che è uno degli ultimi modelli»
L’altra rimase basita per qualche istante, forse non abituata a ricevere risposte tanto energiche. «Evidentemente non lo è. O forse è per quel sigillo che è rimasto?» fece, accantonando momentaneamente l’astio.
«Quale che sia la funzione di quel sigillo il download ha appena raggiunto il 60%. Come puoi notare tu stessa, è piuttosto rapido» ribadì, non avendo dubitato nemmeno un istante della sua tecnologia. «Al contrario, il teleproiettore di Faragonda è datato»
«Forse non lo è abbastanza perché voi possiate credere di usarlo senza che io me ne accorga» proruppe la voce irritata della preside.
Per qualche sporadico secondo di silenzio e gelo, Tecna e Aisha persero la facoltà di respirare. La prima sfilò immediatamente la chiavetta dal teleproiettore, cercando di nasconderla agli occhi della preside.
Ripose piano l’oggetto nel cassetto, richiudendolo poi con un incantesimo. Ecco qual era la funzione dell’unico sigillo rimasto.
«Posso sapere quali ragioni vi spingano qui nel cuore della notte?» fece, infastidita.
La donna, nonostante fosse pressoché piccola di statura e dall’aria bonaria, con quella lunga e morbida vestaglia, parve loro più spaventosa che mai.
Cos’avrebbero dovuto dire? Che scusante avevano?
Aisha pensò immediatamente di elaborare una scusa, anche la più sciocca, convinta che l’altra sarebbe stata al gioco. Ma era all’oscuro dell’incapacità più totale, da parte di Tecna, di mentire; e, soprattutto, non sapeva ancora quanto convenisse parlare con sincerità a Faragonda.
Eppure, come spiegare che né l’una né l’altra si fidavano del giudizio della loro preside? Che, anzi, non si fidavano delle sue intenzioni, delle sue parole?
La principessa fece per rispondere, ma l’altra le scoccò un’occhiata abbastanza rapida ed eloquente che la dissuase. Tacere, non fornire giustificazioni; nascondere quella piccola chiavetta nelle pieghe del pigiama.
«Non posso davvero credere che due studentesse della mia scuola – due ragazze come voi – siano state sorprese a rubare» fece, risentita. Guardava soprattutto in direzione di Tecna, colma di delusione e di incredulità.
Due sentimenti che la ragazza detestava, che non riusciva a sopportare; e Faragonda li rivolgeva a lei proprio perché lo sapeva. Ma ormai era fatta.
«Tornate immediatamente nelle vostre stanze, e non fatevi mai più trovare fuori dopo il coprifuoco!» esclamò, furibonda.
Per le due fate fu piuttosto difficile muovere le articolazioni e sbollire un po’ dell’imbarazzo che avevano provato. Raggiunti i dormitori, non si salutarono neppure.
Per tutta la mattinata rimasero in silenzio, a rimuginare sull’accaduto.
Tecna sedeva su uno dei divanetti dell’appartamento, sola, rintanandosi negli ultimi momenti di buio che quell’alba così forte si apprestava a squarciare.
Come aveva potuto essere così irrispettosa e sconsiderata?
In un tripudio di voci che urlavano ingiurie nella sua mente, iniziò ad immaginare mille scenari in cui Faragonda chiamava i suoi genitori, suo padre, la espelleva; immaginava il biasimo, la vergogna; e una grossa ferita iniziò a bruciare nel suo orgoglio.
Digrignò i denti, costringendosi a sopportare quel male che si meritava perché aveva cercato lei stessa. Doveva averle dato di volta il cervello.
Maledisse la sua curiosità eccessiva, quella strana e pessima abitudine ad impicciarsi in questioni che non la riguardavano.
Strinse forte tra le mani quella chiavetta che le restituiva un bagliore limpido ed il riflesso vago delle sue labbra sottili, distorte dal rimorso per ciò che aveva fatto.
Eppure, una piccola parte della sua mente sembrava suggerirle di aver agito per il giusto, per quella che era la parte umana e buona di lei, che voleva solo proteggere coloro che amava.
Sospirò, imponendosi di mantenere la calma.
Doveva ragionare senza lasciarsi prendere da tutte quelle emozioni che la stavano assalendo. Di certo, Faragonda non avrebbe espulso né lei né la principessa, per una cosa del genere.
Avrebbe sicuramente impartito loro una dura lezione e avrebbe avuto maggiore difficoltà a fidarsi delle sue allieve, ma la violazione della regola del coprifuoco non comportava nulla di grave come l’espulsione.
L’interrogativo centrale era rappresentato dalla questione del teleproiettore. Quel sigillo che entrambe avevano sottovalutato era in realtà una sorta di allarme che aveva avvertito la preside del loro tentativo di maneggiarlo.
Il fatto che fosse un sortilegio scagliato dalla donna e non incluso nella protezione dello stesso oggetto stava a significare che ella aveva voluto garantire che i suoi segreti non trapelassero; ma non si era preoccupata di aumentare drasticamente le misure di sicurezza, perché non aveva davvero creduto di avere alcun motivo per dubitare di chi viveva nella scuola.
Avrebbe iniziato a fare domande, e Tecna non avrebbe saputo come risponderle. Iniziò a pensare, a formulare possibili risposte che permettessero loro di non esporre eccessivamente le loro ragioni.
Ma non concluse nulla se non che fosse meglio, sopra ogni altra cosa, tacere.
L’interrogatorio non tardò ad arrivare e, come si aspettava, avvenne proprio quella stessa mattina, dopo l’ultima lezione della giornata.
Con aria seccata, l’ispettrice Griselda l’aveva presa in disparte intimandole di raggiungere Faragonda nel suo ufficio. Le sue amiche avevano cercato il suo sguardo preoccupate, chiedendo spiegazioni.
Le aveva rassicurate, dicendolo loro che avrebbe spiegato ogni cosa. In verità, avrebbe voluto evitare di farlo, di coinvolgerle.
E, in verità, pensò che avrebbe dovuto evitare di coinvolgere anche la principessa Aisha. Quando entrò nella stanza, lei era già lì.
Appena Tecna chiuse la porta, la preside sospirò. Si sfilò gli occhiali, prendendo a massaggiarsi le tempie, come a voler ricercare una ragione per cui intrattenere quella conversazione.
Si alzò, ponendosi esattamente di fronte a loro.
«Immagino possiate ben immaginare le ragioni che mi hanno spinta a convocarvi qui, oggi» iniziò, seria. Del suo solito tono gioviale non c’era più traccia. «Ho riflettuto molto, ragazze»
Fece una breve pausa, forse credendo che una delle due avrebbe detto qualcosa. Ma nessuna fiatò, nemmeno quando Faragonda si cimentò in un dettagliato resoconto di ciò che il regolamento scolastico ed il buon senso imponevano.
Non fiatarono nemmeno quando domandò ripetutamente loro le ragioni per cui si erano introdotte nel suo ufficio, appena qualche ora prima. Spiegarsi avrebbe implicato mandare a monte tutto, rendere la preside a conoscenza dell’esistenza di quei file che Tecna aveva già iniziato a scaricare e copiare sul suo computer principale.
Aveva deciso di andare fino in fondo, dal momento che avrebbe in ogni caso ricevuto una punizione che Faragonda non mancò certo di imporre loro.
«Una settimana di servizi per la scuola. E senza magia!» fece Aisha, una volta fuori di lì. «Non posso crederci»
«È stata sufficientemente clemente, nei nostri confronti» ribatté l’altra, invece. «Ma sa che nascondiamo qualcosa, ora. Avrà senz’altro un occhio di riguardo nei nostri confronti, ma al di fuori della scuola le sarà impossibile monitorarci»
«Vuoi dire…?»
Annuì. «Sto scaricando le conversazioni del teleproiettore. O almeno, ciò che siamo riuscite a copiare. Dovremmo avere quantomeno le conversazioni più recenti, ma temo che Faragonda possa osservare ogni nostro movimento, fino a che restiamo ad Alfea»
Come spiegò, il suo computer avrebbe impiegato del tempo per riuscire a recuperare i file, per la maggior parte corrotti. «Tra una settimana, quando avremo scontato la nostra punizione, ci sarà possibile consultare quelle conversazioni fuori di qui»
«Ho capito. Fino a quel momento forse è meglio che non ci facciamo trovare insieme troppo spesso, allora» ragionò Aisha, mentre camminavano. «Desterebbe sospetti, sarebbe piuttosto insolito»
Tecna annuì di nuovo, voltandosi di scatto, seguendo lo sguardo dell’altra. Bloom, Stella e Flora si dirigevano verso di loro, preoccupate; e, se da una parte si sentiva infastidita dall’idea che potessero fare domande – come sicuramente sarebbe accaduto – dall’altra avvertì come una fitta nel notare l’assenza di Musa.
Scrollò rapidamente quel pensiero dalla mente. «Non sono fatti miei, ma dovresti raccontare loro ogni cosa» fece Aisha, allontanandosi.
La vide salutare le ragazze con un gesto della mano ed un flebile sorriso sul volto. Adesso sarebbe iniziato l’interrogatorio.
«Che cosa è successo, Tecna? Perché la principessa Aisha era con te?» chiese Flora, allarmata.
Tutte e tre ascoltarono in silenzio il racconto, senza interromperla nemmeno una volta; perfino Stella non disse nulla. Mentre parlava, Tecna non poteva fare altro che tormentarsi segretamente su quali sarebbero state le loro reazioni.
Forse l’avrebbero biasimata anche loro? Ingenuamente, dimenticò di star parlando con quelle che avrebbe dovuto considerare amiche.
Perché Tecna era anche e soprattutto una creatura insicura, checché potesse sembrare. Non riusciva a concepire, come in realtà le fecero presente in seguito, di far parte di una squadra.
Non riusciva a concepire di poter condividere ogni singola cosa con loro. Proprio adesso, che Musa sembrava essersi decisa ad escluderla dal suo mondo per ragioni non del tutto chiare… lei aveva bisogno di supporto.
Aveva avuto la prova svariate volte di potersi aprire anche con chi le era sempre parso meno propenso all’ascolto. Lo aveva verificato appena l’estate precedente, no?
Sia Stella che Bloom l’avevano aiutata a riflettere su se stessa, sui suoi sentimenti confusi e su quel muro che impediva loro di identificarsi. Flora, poi…
«Se ci avessi parlato del tuo piano ti avremmo aiutata» fece la fulva, sorridendo. «Insomma… non credo che ci saremmo tirate indietro»
«Non avrei… saputo come domandarvelo» spiegò, distogliendo lo sguardo. «Dalle vostre parole… mi era parso di comprendere che la notizia suscitasse in voi contentezza, non sospetto»
Stella rise alla grossa. Erano nel cortile, sedute sul pozzo, e diverse studentesse si voltarono verso di loro, udendo quella fragorosa e gallinacea risata. «A me piace festeggiare il Soldì, ma non sono mica scema» fece. «È ovvio che ci sia qualcosa dietro ma… diamine, Tecna, a momenti non sono trascorsi nemmeno tre giorni! Non avevo ancora pensato ad investigare»
Tecna fece per replicare, ma dovette ammettere di essere sorpresa. Davvero era trascorso così poco?
Forse aveva trascorso troppe ore a rimuginare su quell’assemblea, e aveva perduto la cognizione del tempo. O forse aveva ritenuto di dover agire tempestivamente?
«Senti, è chiaro che Faragonda e gli altri vegliardi abbiano qualcosa da nascondere, ma in questo modo sapranno che noi lo sappiamo» ragionò ancora la principessa.
«La questione è proprio questa» disse lei, scuotendo la testa. «Non vogliono che noi sappiamo. Eppure, se ben ricordo, l’estate scorsa hanno domandato a noi di andare a recuperare informazioni sul talismano. Hanno affidato a noi il compito aiutare Vera, di svelare l’intera faccenda»
Si interruppe. Lo sguardo le ricadde istintivamente verso il grande porticato dove si era risvegliata in seguito a quella brutta maledizione che Darcy aveva scagliato su lei e Flora.
Faragonda e gli altri presidi non si erano quasi fatti scrupoli a richiedere l’aiuto dei loro studenti. Perché, dunque, tenerli all’oscuro di tutto, ora?
«Se non rientra nelle loro intenzioni renderci partecipi di quella che è la situazione, sta a significare che è particolarmente grave e che non ci reputano in grado di affrontarla» riprese. «Tuttavia, abbiamo dimostrato loro il contrario già in precedenza. O lo hanno rimosso?»
Tacque, e le altre con lei. Oltretutto, se anche Saladin e la Griffin erano coinvolti, forse il problema era comune a tutte e tre le scuole; o a tutta la dimensione, addirittura.
«Hai provato a pensare che, forse… loro non sono intenzionati a spiegarsi non perché non nutrano fiducia nelle nostre capacità, ma perché non… vogliono causarci altri problemi?» suggerì Flora. «Credo si rendano conto che, in ogni caso, abbiamo diciassette anni. Sanno che abbiamo già… sofferto molto per ragioni che dipendevano da loro. Sanno quanto abbiamo faticato e patito per combattere, per scavare nei ricordi di altre persone e trovarvi ugualmente il brutto. Forse non vogliono… che cresciamo troppo in fretta»
Le altre ragazze soppesarono quelle parole, con grande sorpresa. In effetti, nessuna di loro aveva lontanamente considerato la possibilità che la volontà dei professori fosse – come sarebbe sempre dovuta essere – quella di tutelare i loro studenti.
Allora, forse, riguardando dentro di sé alla luce di quel punto di vista, la scelta di indagare e di intromettersi non sembrava poi tanto corretta.
Eppure, quel che Faragonda non capiva, era che ormai era troppo tardi. Erano già cresciute troppo in fretta, e non solo loro quattro e Musa; ogni fata, strega o Specialista che avesse assistito o preso parte alla grande battaglia aveva perso qualcosa.
Tutti avevano affrontato la morte di qualche compagno; e ognuno aveva sofferto nel vedere stroncata la vita di chiunque si fossero trovati accanto, benché magari non lo conoscessero.
Quel che Faragonda non aveva realizzato era che nessuno di loro era e sarebbe più stato lo stesso, per quanto le cose avessero ripreso il loro solito corso. Tutto era già incrinato.
Ciascuna di loro quattro lo sapeva bene, ma nessuna ebbe la forza di muovere quell’obiezione così carica di trascorsi dolorosi alle spalle.
«Beh…» fece Stella, per smorzare l’assordante silenzio che era calato tra loro. «Che cosa vi ha detto?»
Tecna si strinse appena nelle spalle. «Ha tentato in ogni modo di comprendere il motivo del nostro comportamento, ma se avessimo parlato si sarebbe premurata di privarci della chiavetta» raccontò. «Una settimana di servizi pomeridiani per la scuola. Senza l’ausilio della magia, naturalmente»
«Che originale…» commentò la bionda, schiacciando quell’informazione con una mano. «È vecchia, questa punizione. Non si ricorda di averci dato bene o male la stessa, l’anno scorso?»
«Non è esattamente la stessa cosa, Stella. Loro dovranno farlo ogni pomeriggio, senza poter nemmeno trovare il tempo per studiare o altro» fece notare Bloom. «Senza contare che sono in due. È una punizione piuttosto tosta… potremmo aiutarvi noi e…»
La zenithiana scosse il capo. «Faragonda lo verrebbe senz’altro a sapere. D’ora in poi monitorerà me e la principessa con particolare attenzione» considerò. «Ma non rappresenta un problema»
Ciò che contava era che non scoprisse il resto del piano. Sì, sarebbe riuscita a tenerlo segreto, anche a costo di ricevere altre punizioni.
Perché questa volta… questa volta i presentimenti – il sesto senso di cui tanto parlava Bloom – proiettavano nella sua mente orribili immagini.
Si alzò dal bordo del pozzo, incamminandosi verso le scale del portico.
«Dove stai andando, Tecna? È quasi ora di cena» fece Flora, dando uno sguardo al cielo appena più cupo.
«…A disattivarmi nella mia stanza»
 
I’m not saying right is wrong
It’s up to us to make
The best of all the things that come our way
Oasis, The Masterplan
 

Sì, lo so: avrei dovuto pubblicarlo domani ma, visti battesimi e ricevimenti vari (uffi), anticipo ad oggi… chissà se riuscirò a rispettare la tabella di marcia, prima o poi…
Faragonda non ha molta fantasia, per quanto riguarda le punizioni… ma non finisce qui!
Non so se nello strano circolo Fonterossa-Alfea-Torrenuvola siano mai state date simili feste (anche se non credo, date le festicciole barbosamente divertenti alla fine di ogni anno scolastico, che coinvolgono tutto l’istituto), ma mi piaceva il senso di segretezza e cameratismo che si instaura tra quelli che partecipano a questi eventi mondani.
Ah, l’idea dei colloqui con i genitori l’ho ripresa dai fumetti, mi sembrava carina!
Precisazioni circa i nuovi personaggi…
Su Looma: non mi sembra sia mai comparsa nel cartone, ma nel videogioco c’era e mi stava particolarmente simpatica (in più era utile ed aveva davvero allestito una specie di boutique nel suo appartamento), perciò ho deciso di ripescarla anche per motivi che verranno svelati in seguito e che riguardano gli altri due.
Alan: lo avevo introdotto nella precedente storia come lo Specialista di cui Tecna, per non accennare a quell’ambigua… cosa tra lei e Brandon, aveva detto di essersi invaghita. Ovviamente le cose non sono mai state così, sia perché Alan è una vecchia suocera, sia perché… beh, lo scoprirete.
Dulcis in fundo, Sem: mia croce e mia delizia. Non spaventatevi: in realtà è un tenerone.
Tecna sarebbe un hacker perfetto, lo so. È solo giovane ed inesperta.
Bene; credo sia ora che mi dilegui.
Alla prossima – ovvero, ottimisticamente parlando, il primo di ottobre!
7th

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Capitolo 4
*** IV ***


 
IV
 
The ones who really love you
Walk up and down outside the wall
Some hand in hand
Some together in bands
Outside The Wall, Pink Floyd
 
Sola al centro della stanza, iniziò.
Un gesto della mano, e diverse spugne si immersero in secchi di acqua gelida, pronte a far risplendere le vetrate del salone. Bloom si accostò ad una di esse, sedendosi a gambe incrociate.
Dallo zainetto che aveva preso con sé estrasse il libro che Wizgiz aveva dato loro da leggere circa due settimane prima per l’indomani e che lei aveva a malapena iniziato.
In realtà, come poté constatare, le finestre erano quasi interamente coperte da tralci di quella che pareva una strana tipologia di edera violacea. Immediatamente la memoria corse alla foresta in cui si era trovata catapultata – o che forse aveva solo sognato – insieme ad Helia.
Voci e volti tutti uguali, danze energiche ed un bambino dagli occhi di fiamma. Poteva sentirlo ogni volta che la Fiamma del Drago giungeva lì per lei, in uno scintillante riflesso del suo reale splendore.
Scosse la testa, cercando di ridestarsi. Doveva evitare di distrarsi e leggere il più possibile di quel voluminoso tomo sui… Tettigantropi.
Improvvisamente, si ricordò anche della ricerca che avrebbe dovuto fare per Du Four, maledicendosi per aver procrastinato fino ad allora. Cercò di sopprimere quella flebile scossa che le era parso di sentire come la prima volta, abituatasi ormai a considerarlo uno scherzo della sua mente.
Come se non fosse bastato, in quel momento Alan irruppe nella stanza, con degli strani aggeggi caricati in spalla e tra le mani. La salutò con un rapido cenno del capo, grugnendo appena ed arrossendo quando si rese conto di chi lei fosse.
Bloom non lo conosceva un granché, ma non riusciva mai a nascondere una risata, quando aveva a che fare con lui. Il suo sereno e delicato aspetto contrastavano particolarmente con la sua personalità o, per lo meno, con quella che sembrava esserlo.
«Ci sei solo tu, oggi?» le chiese, lasciando a terra quegli alambicchi.
«No, tra un’oretta dovrebbero arrivare anche Musa e Stella. Ah, e forse sarebbe passato anche Brandon per dare una mano con quella colonia di pantegane viola che abbiamo visto l’altro giorno» rispose.
«Pantegane viola?» fece, allarmato.
Bloom annuì. «Non sono molte, ma credo si riproducano in fretta. Brandon è andato a prendere dei pesticidi non so dove…»
Alan storse il naso, un po’ per le pantegane e un po’ per Brandon, forse. Bloom si chiese perché ce l’avesse tanto con lui.
Nonostante lo conoscesse da poco, quel ragazzo biondo sembrava sempre infastidito, quando c’era di mezzo il fidanzato di Stella. Forse serbava quella sorta di rancore proprio perché si erano messi insieme, e magari Alan era innamorato di lei?
Eppure, lei stessa aveva detto che lui non era interessato alle ragazze… cosa aveva voluto dire?
«A cosa ti servono, quelli?» gli chiese, cambiando argomento.
«Un po’ di cose, in effetti. Rimuovere quello strato di ragnatele cementificate, saldare le falle nel soffitto e iniziare a sovrapporne un altro» spiegò. «Sì, sì, lo so – voi fatine potreste farlo in un battibaleno. Ma visto che ci siete sempre solo tu, Looma e un’altra che non conosco, direi che ce ne dobbiamo occupare noi»
Bloom aggrottò le sopracciglia.
Sembrava detestarle proprio, le fate. «E ne siete capaci?»
«Ci proviamo. Anche perché, non vedo molte alternative» disse lui, decidendo di mettersi all’opera.
Puntò uno di quegli aggeggi verso il soffitto, premendo poi un tasto che doveva essere quello d’accensione. Da uno dei tubi che procedevano dall’impugnatura, quello più grosso e spesso, si diffuse una strana corrente che sembrò risucchiare la fitta coltre di ragnatele.
Quello strumento non emetteva alcun rumore ma, ad un tratto, iniziò a produrre delle vibrazioni che fecero oscillare pericolosamente le pareti. Quando Bloom intravide una crepa increspare il muro sprovvisto di carta da parati, urlò ad Alan di spegnere quell’affare.
«Che problema hai?» le fece, infastidito.
«Non ti sei accorto delle vibrazioni? Avresti finito per far crollare tutto sulle nostre teste» gli fece notare. «Forse è meglio sbrigarsela con la magia»
Senza che lui potesse ribattere nulla, lei fissò lo sguardo sui pochi filamenti chiari rimasti. Avrebbe potuto incenerirli da lì sotto, ma avrebbe rischiato di mandare in fiamme anche quel che restava di antiche travi.
Si trasformò, volando poi in alto. Si apprestò ad ardere una ragnatela nascosta in un angolo. «Ah, certo. Dimenticavo che voi fate potete svolazzare di qua e di là, con le vostre belle alucce»
Guardò Alan, cercando di rivolgergli un’occhiata che fosse il più truce possibile. Forse aveva frequentato troppe streghe e avevano finito per contagiarlo; in genere, quei commenti li partorivano proprio loro.
Sospirò, riprendendo da dove si era interrotta. «Tuo fratello non viene?»
«Perché me lo chiedi?» ribatté immediatamente, brusco.
Non ti ho chiesto se nascondi una parrucca da donna nell’armadio, Alan...
Davvero non capiva come mai fosse così nervoso, quando aveva a che fare con lei. Lo aveva visto parlare diverse volte con alcuni suoi compagni, e le era parso completamente diverso.
«Arriverà, credo. In realtà non lo vedo da ieri» rispose, lascivo.
«Ma… condividete la stessa camera… e siete fratelli…» iniziò lei, confusa.
Alan sbuffò, spiegando che non frequentavano gli stessi corsi. Disse che dalla metà del secondo anno ciascuno studente doveva scegliere se continuare ad occuparsi del suo drago, intraprendendo un percorso finalizzato all’addestramento, o se dedicarsi allo studio delle altre specie.
Bill, a quanto pareva, aveva deciso di occuparsi di un allevamento di draghi rossi degli abissi, una razza il cui unico allevamento era fuori da Magix. «Ogni mercoledì mattina si sveglia alle quattro. Il viaggio verso l’Allevamento è piuttosto lungo»
«Allevamento?» chiese lei, dando fuoco all’ultimo ostacolo.
«L’Allevamento…» fece lui, sgranando gli occhi. «Il più grande allevamento di draghi… infatti lo chiamano “Allevamento” e basta. Davvero non… ne hai mai sentito parlare?»
Sorrise, abbassando lo sguardo. «No, io… sono cresciuta sulla Terra. Non so quasi nulla di… beh, di queste cose»
«Sei cresciuta sulla Terra?» per qualche ragione, sembrava essersi ammansito.
Spalancò ancora di più le orbite e sul suo viso si fece strada uno strano e sbilenco sorriso. Per un po’, sembrò aver perso la solita aria di sufficienza.
«Anche io e Sem»
Oh…
«Sul serio? E dove?» fece, interessata.
«In… Ucraina» rispose, distogliendo lo sguardo. «Era per… era per il lavoro di mio padre»
Bloom annuì, non molto convinta. Per qualche ragione, le sembrava che le parole di Alan non fossero state del tutto sincere.
Che si vergognasse del luogo in cui era cresciuto?
Prima che potesse indagare, la voce bassa di Sem si annunciò.
Fermo sulla porta, la sua espressione solitamente imperturbabile si piegava solo a tratti in una sottile macchia di dolore, che si dipinse ben nitida sul suo volto quando avanzò verso il fratello.
«Ho bisogno di un antidolorifico» rantolò, senza fornire spiegazioni.
«C’è l’infermiere, per quelli» replicò l’altro, chino sull’aggeggio che aveva portato con sé. «Non ti dirò dov’è la mia scorta. Ne usi troppi, e senza che nemmeno ti siano prescritti»
Il gemello storse appena il naso dritto, corrucciando il sopracciglio. Bloom si accorse solo in quel momento che era per metà bruciato ed attraversato da un taglio.
Fece per andarsene e soltanto quando si voltò la ragazza comprese finalmente la ragione di quella discussione.
Gli abiti di Sem erano laceri sul retro, squarciati da quelle che parevano profonde artigliate. Tra la stoffa squartata, spiccava una viva e lunga ferita rossa, che si estendeva per tutta la schiena.
La fata trattenne un grido, lasciando scorrere gli occhi sgranati da un fratello all’altro. Come potevano mantenere quell’aria così assolutamente… rilassata?
«Vai da Aibao, se proprio non vuoi farti guardare dall’infermiere» insistette Alan. «Sai che se la cava più che bene»
«Sì, lo so» fece l’altro, brusco.
Girò sui tacchi e se ne andò, seguito dallo sguardo del gemello, che scuoteva appena il capo. Sem non imparava mai.
«Va’ con lui» disse ad un tratto. «Non andrà da Aibao, quella testa di legno. Per favore, va’ con lui»
Bloom aggrottò la fronte; poi, raccolse le sue cose e corse verso il corridoio buio, senza replicare nulla. Alan sembrava subire un cambiamento radicale, quando si trattava del fratello.
Per un attimo, si domandò se quell’atteggiamento da nevrotico non fosse solo una copertura.
Sembrava così premuroso…
«Sem, aspettami!» lo chiamò, ansimando. Nonostante fosse ferito e dolorante, era stato comunque più veloce di lei.
Si voltò, forse sorpreso, chiedendosi perché l’avesse seguito. Quando si fermò di fronte a lui, china sulle ginocchia per riprendere fiato, non poté fare a meno di trovarla buffa.
«Hai bisogno di qualcosa?»
La ragazza scosse la testa, ora rialzandosi per fronteggiarlo. Due grosse pietre cristalline erano incastonate in una primavera di lentiggini; come una bambina.
«Alan mi ha detto di venire con te. Devi andare da quell’Aibao» fece, non del tutto sicura di come dovesse rivolgersi a lui.
Non aveva quasi mai parlato con quel ragazzo – tranne quando aveva dovuto scusarsi per avergli rovesciato un secchio d’acqua in testa; quel ragazzo che, dopotutto, interagiva quasi esclusivamente con il fratello, con Stella e con pochi altri compagni di accademia. Da come l’amica glielo aveva descritto, era uno di poche ma significative parole.
«So cosa devo fare» replicò, riprendendo a camminare.
Zoppicava un po’.
Senza dire nulla, Bloom lo raggiunse e cercò di sorreggerlo. «Perché non vuoi che ti aiutino? Sembra piuttosto grave»
«So cavarmela da solo. Ho soltanto bisogno di antidolorifici, in verità» borbottò. Fortunatamente, la stanza che condivideva con Alan era poco lontano.
Il ragazzo si avvicinò alla finestra, cercando qualcosa tra le tasche. Dopo aver armeggiato con i pantaloni, riuscì a ritrovare quella che sembrava una sorta di chiave.
Era sottile laddove avrebbe dovuto articolarsi di più; pareva più una tessera.
Sem la infilò della stretta fessura tra i cardini della finestra ed il muro, lasciandola scorrere velocemente verso il basso.
I pannelli si spalancarono improvvisamente; come il ragazzo scostò le tende, la prima cosa che Bloom vide fu un cumulo di magliette sovrastare uno dei due letti della camera. «Eppure gli avevo chiesto di dare una sistemata…» lo sentì sussurrare.
Lo Specialista si sedette su uno sgabello accostato alla scrivania, sotto la finestra, prendendo a rovistare tra i cassetti. Lei ebbe tutto il tempo di osservare quella stanza che aveva intravisto qualche giorno prima, oltre le spalle di Alan.
Era piccola, il mobilio e gli indumenti sparsi contribuivano ad amplificare l’effetto. Intuì che il gemello biondo, nonostante l’apparenza e quell’aria da puntiglioso, dovesse essere in realtà molto confusionario.
Mentre lei si guardava intorno, Sem aveva iniziato a disporre bende e creme sul tavolo.
«Come ti sei procurato quelle ferite?» gli domandò.
Non ottenne risposta.
Iniziò a provare un profondo senso di fastidio; chi diamine credeva di essere, per ignorarla in quel modo? Sembrava costantemente scocciato.
«Senti, non so perché mio fratello ti abbia chiesto di accompagnarmi» fece dopo un po’, esasperato.
«Credo fosse preoccupato che tu potessi svenire» masticò quelle parole in risposta. «Mi sembra normale, visto che siete fratelli»
Sem sospirò, lasciando marcire la conversazione. Impugnò dell’ovatta e, dopo averla imbevuta di quello che doveva essere disinfettante, si contorse in tutti i modi possibili perché arrivasse laddove il sangue aveva preso a colare copioso.
Bloom rise sotto i baffi della sua ostinazione. Forse, un po’ si somigliavano; anche lei era spesso troppo orgogliosa per chiedere aiuto.
«Lascia che faccia io» disse, avvicinandosi.
«No, ti ringrazio» rispose, secco. Si alzò di scatto, come a volersi allontanare.
«Non mi fa impressione…» cercò di insistere.
Lui scosse la testa. «Non mi serve il tuo aiuto. Dico davvero»
Bloom raggelò sul posto.
«Capisco» sussurrò, voltandosi verso la soglia. La trovò aperta.
Decise di fare ritorno direttamente ad Alfea.
Forse non avrebbe dovuto dare retta ad Alan.
 
«Quel ragazzo è completamente fuori di testa!»
Quell’esclamazione risuonò per tutto l’appartamento. Musa aggrottò un sopracciglio, distogliendo lo sguardo dallo spesso volume che stava leggendo.
Possibile che fosse appena tornata e che avesse già iniziato a fare tutto quel baccano?
La domenica era sempre un giorno terribile, perché le sue amiche non avevano nulla di meglio, da fare, che cimentarsi in chiacchierate assolutamente fastidiose.
E, a quanto pareva, non era intenzionata a smettere. Poteva sentire distintamente ogni impropero che Bloom stava vomitando in faccia a Stella, una stanza più in là.
Cercò di non prestare attenzione a quel che si dicevano, perché non la riguardava. Afferrò gli auricolari, sperando che almeno così funzionasse; ma si accorse ben presto che il lettore musicale era scarico.
Sbuffò. Forse avrebbe potuto a Tecna di…
No. Non posso chiedere nulla, a lei.
Sbuffò nuovamente; era chiaro che non sarebbe riuscita a studiare, in quelle condizioni.
«Non riesco a capire perché sia così… così… stronzo. Cercavo solo di aiutarlo! E lui cosa ha fatto? Mi ha riservato occhiate raggelanti e qualche parola per ribadire la sua completa e presunta indipendenza. Non si è nemmeno degnato di rispondere alle mie domande!»
Di chi stava parlando?
Sembra tanto un Riven più intrattabile… il che è tutto un dire…
Sentì Stella ridere fragorosamente, com’era suo solito fare. «Oh, è un po’ così. Tra lui ed Alan non so chi abbia il carattere più strambo. Però sono sicura che non sia niente di personale»
Sem… ma certo…
Si diede della sciocca. Solo uno come Sem era capace di mandare qualcuno fuori di testa senza averci a che fare per più di venti minuti.
Ricordava bene di averlo detestato, all’inizio, quasi quanto mal sopportava Stella i primi giorni dell’anno precedente. Era taciturno, a tratti brusco e diretto, a tratti impacciato e discreto.
Non si sorprese poi molto che anche Bloom lo trovasse spiacevole.
Chiuse il libro, alzandosi per riporlo su uno scaffale. Decise di sgranchirsi le gambe con una passeggiata per il cortile.
Come raggiunse la scalinata dell’ingresso della scuola, rimase pietrificata.
Tecna era lì, intenta ad immergere una ramazza in una bacinella d’acqua. Il suo viso sottile era il ritratto della noia.
Era in… punizione? Proprio lei?
Cos’aveva combinato?
«Ciao» la salutò, evitando il suo sguardo. L’altra ricambiò con un breve cenno del capo, ritornando subito al suo lavoro.
«Come mai sei in punizione?» domandò, fingendosi non troppo interessata.
«Come mai me lo domandi?» ottenne in risposta.
Musa poté avvertire le sopracciglia sfiorare le scure ciocche della frangia. C’era dell’astio, nella replica di Tecna? «Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda»
«No, temo di no» sospirò, senza nemmeno guardarla in viso. «Tuttavia, temo anche di non essere tenuta a fornirti un’effettiva risposta»
Con la coda dell’occhio, la fata della tecnologia seguì i passi stizziti dell’altra mentre imboccavano il portone principale. Per qualche vago istante, la possibilità che avesse sbagliato le attraversò la mente.
Soppresse immediatamente quel pensiero. A quanto pareva, Musa preferiva rinchiudersi in sé; e, allora, per quale motivo avrebbe dovuto condividere con lei qualcosa che non era disposta ad ascoltare?
Se vuole la guerra fredda…
Lasciò la ramazza nel secchio, concedendosi un po’ di riposo.
Fortunatamente, la punizione che lei e la principessa Aisha dovevano scontare era quasi terminata; per tutta la settimana, oltre a seguire le lezioni mattutine, non avevano fatto altro che correre di qua e di là per tutto il castello, armate di spugne e quant’altro.
Tecna non reputava di alcuno spessore le occhiate curiose o sprezzanti che alcune studentesse le rivolgevano quando la incontravano in quei momenti.
L’unica cosa che effettivamente la infastidisse, di tutta quella faccenda – oltre al ragguardevole numero di ore potenzialmente utili per lo studio e che, al contrario, spendeva in quei modi – era l’idea di non avere neppure un attimo per poter finalmente consultare ciò che era riuscita ad ottenere.
Il download delle conversazioni archiviate da Faragonda era completo, ma ancora non le era stato possibile riprodurle. Oltretutto, si supponeva che anche la principessa fosse presente; era previsto che si trovassero il giorno successivo.
«Tecna, di là ho finito» la principessa di Andros la raggiunse, con aria stremata. «Penso che andrò a farmi una bella dormita. Tutte queste pulizie mi stanno tenendo sveglia la notte»
L’altra annuì. Chissà come doveva apparire surreale, ad Aisha, il dovere di lustrare la scuola da cima a fondo. «Io ho quasi terminato»
«Ah, quasi dimenticavo… per domani… ricordi che ci saremmo dovute trovare a Magix per consultare le registrazioni?» fece, tornando sui suoi passi. «Noi del primo anno siamo in gita, perciò…»
Non concluse la frase; ma fu sufficiente perché Tecna provasse un senso di irritazione che sapeva essere sbagliato. Naturalmente, la colpa non poteva ricadere sulla principessa, ma avrebbe comunque potuto parlargliene prima.
«D’accordo. Sarà per un’altra volta» disse, senza perdere la sua solita impassibilità.
La salutò, forse sentendosi un po’ in torto per averle appena mentito. Non poteva aspettare, anche perché non era sicura che ci sarebbero state poi molte altre occasioni, prima che le vacanze iniziassero.
Decise che avrebbe consultato le informazioni ottenute quel giorno stesso, con o senza Aisha. Una volta finito di pulire quell’ala del castello, raggiunse la sua camera.
Non scese neppure a cenare, per la stanchezza e per la curiosità. Il momento della verità era arrivato.
Entrata nella stanza che condivideva con Musa, afferrò il portatile riposto sulla scrivania; lo schermo riportava la stessa notizia di quella mattina: il download era completo.
A quel punto, indugiò.
Se fosse rimasta nella sua stanza, probabilmente le altre l’avrebbero obbligata a cenare o l’avrebbero costretta a lasciare che anche loro ascoltassero le registrazioni. D’altra parte, non era certa di essere al sicuro da orecchie indiscrete nemmeno fuori di lì.
Sapeva perfettamente di essere tenuta d’occhio da Faragonda e non poteva rischiare di mandare tutto in fumo. Come fare?
Rifletté.
La preside non conosceva la ragione della sua incursione nell’ufficio; perciò, se non l’avesse vista a tavola non avrebbe avuto motivo di pensare che fosse per portare a termine le sue trame.
Forse si sarebbe potuta rintanare nella biblioteca, con la scusa di dover studiare per portarsi avanti. Lì, Barbatea non l’avrebbe certo infastidita e avrebbe eventualmente potuto farle da testimone, qualora Faragonda avesse deciso di investigare.
Mentre imboccava le scale con il portatile e qualche libro sotto braccio, continuava a ripassare mentalmente quel piano, chiedendosi se avesse delle falle.
Forse stava sbagliando tutto; forse avrebbe davvero dovuto aspettare un altro momento.
Ma non era mai riuscita a tenere a freno la curiosità, nonostante essa spesso contravvenisse al regolamento; lei doveva sapere.
Salutò la bibliotecaria, ricercando subito il tavolo più isolato, su cui la luce batteva più soffusa; scelse dagli scaffali dei libri che potessero rendere credibile la ragione della sua presenza lì.
Barbatea non le stava prestando alcuna attenzione.
Meglio così.
Accese il computer, connettendovi degli auricolari. Lanciò nuovamente un rapido sguardo alla donna, intenta a scribacchiare qualcosa su un registro.
Forse sarebbe stato più prudente infilare solo una cuffia.
Mentre la cartella in cui erano salvati i file si apriva, Tecna strinse i pugni. Era agitata; qualcosa di incomprensibile, per lei.
Ma era agitata. Aveva paura di quel che avrebbe potuto scoprire.
Da quando aveva assistito a quello spettacolo orrendo, non riusciva più a smettere di considerare qualsiasi notizia inaspettata come una minaccia. Stava diventando un’ossessione e ne era consapevole; ma c’era poco da fare, ormai.
Inspirò, iniziando a riprodurre la registrazione. Si accorse subito delle interferenze di sottofondo; forse i dati erano stati parzialmente corrotti quando aveva bruscamente estratto la chiavetta dal teleproiettore.
La voce della preside Griffin parlava basso, allarmata; discuteva sul da farsi.
Era la conversazione più vecchia e pareva risalisse a circa tre mesi prima, poco prima della ripresa delle lezioni. La strega sosteneva che i problemi di Saladin non fossero necessariamente anche di Torrenuvola; ribadiva la presunta pericolosità di quel che Faragonda doveva averle proposto.
Tecna mise momentaneamente in pausa la riproduzione.
Aveva avuto ragione. Stavano nascondendo loro qualcosa.
Griffin riprese a parlare, accennando ora al fatto che potesse trattarsi solo di dicerie.
«Noi non abbiamo la certezza che quelle storie siano vere, Faragonda. Quando fu il nostro turno di frequentare queste scuole, nessuno ne parlava; eppure erano giorni molto più vicini a quel che tu dici» disse ad un tratto. «Se quel male si annida veramente a Fonterossa non è detto che sia anche nei nostri istituti»
Dunque, si trattava di presunte leggende metropolitane che riguardavano tutte e tre le scuole? Questo significava che doveva esserci del materiale a riguardo, nella scuola.
Si parlava di un potenziale pericolo che riguardava Saladin, e quindi Fonterossa, in primo luogo; un pericolo che risaliva a prima degli anni in cui gli attuali presidi erano stati studenti?
Se solo il teleproiettore avesse registrato anche le parole di Faragonda…
Il monologo si interruppe, ed il portatile caricò un’altra registrazione. Era dello stesso giorno.
«Purtroppo, è come ti ho detto. Abbiamo nuovamente setacciato le rovine della scuola e ciò che abbiamo trovato è affine a quello di cui ti ho parlato pocanzi. In più, la terra continua a vibrare» diceva il preside Saladin. «Non voglio che questo ci impedisca di dare a questi ragazzi un’istruzione adeguata, come dovrebbe essere in condizioni normali. Quel che abbiamo rinvenuto durante i mesi precedenti non deve distoglierci dalle nostre solite mansioni»
Tecna rifletté. Certo, era logico; la fonte di potenziale pericolo era venuta alla luce solo durante l’estate precedente, quando erano stati avviati i lavori di restauro dell’accademia?
Ma di cosa poteva trattarsi? Cos’avrebbe mai potuto rappresentare una minaccia tale da allarmare i presidi? Vibrazioni del terreno?
La registrazione proseguì, ma lei poté coglierne solo qualche sprazzo; i dati si facevano ancora più incomprensibili ed il database era riuscito a salvare ben poco.
Ascoltò anche quel che rimaneva di quelle successive, che tuttavia ripetevano bene o male le stesse informazioni e confermavano le sue deduzioni. Una delle ultime catturò la sua attenzione: risaliva a qualche giorno prima dei colloqui generali e l’interlocutore di Faragonda era il sovrano di Andros.
«… intollerabile! Non lascerò che mia… se la situazione non dovesse essere risolta il… lei capisce bene che non…» il tono dell’uomo pareva piuttosto acceso e contrariato. «Domani ne discuteremo con più… ma non si aspetti… è per il bene di mia figlia, lei…»
Una leggera pressione sulla spalla la riportò alla realtà, lontano da quegli strascichi di segreti. Impallidì all’istante.
«Ecco dove ti eri imboscata!» la voce di Stella la fece sobbalzare immediatamente sulla sedia; per un attimo aveva temuto che Barbatea o qualunque altro professore l’avesse scoperta.
«Sembri sconvolta… va tutto bene, Tecna?» fece Bloom, prendendo posto accanto a lei. Immediatamente, la sua attenzione si focalizzò sul computer che Tecna aveva con sé, e tutto fu più chiaro.
Le tre si scambiarono un’occhiata allarmata.
«Cos’hai scoperto?» domandò Flora.
L’altra si sporse leggermente e si accorse di aver attirato lo sguardo sospettoso della bibliotecaria. «Non qui» rispose a voce bassa, raccogliendo le sue cose.
A quanto pareva, era inevitabile coinvolgere anche loro. E, se all’esterno si mostrava infastidita, in verità provava una sorta di sollievo, forse.
Forse, agire da sola non l’avrebbe portata molto lontano. Loro erano lì, avrebbero affrontato ogni guaio insieme; era quello che facevano le amiche, dopotutto.
Si chiusero in camera di Stella, badando bene a non alzare troppo i toni.
Tecna lasciò che ascoltassero le registrazioni, vedendo di volta in volta delle espressioni perplesse sui loro visi.
Cos’avrebbero dovuto pensare? Il fatto che il pericolo, di qualsiasi natura esso fosse, avesse creato un trambusto simile… non lasciava presagire nulla di positivo.
«Perciò… le nostre vacanze sono in qualche modo legate a questa storia?» ipotizzò Bloom. «Credete che abbiano intenzione di sbarazzarsi di quella… cosa mentre siamo via?»
«Non avrebbero potuto occuparsene direttamente quando è saltata fuori?» borbottò la principessa. «Voglio dire, così hanno solo peggiorato tutto»
Tecna scosse la testa, sospirando. «Evidentemente la natura del problema è ben più grave di quanto si aspettassero. È possibile che, quando si sono accorti della sua esistenza, non avessero i mezzi adatti per estirpare questo parassita»
«Tu credi che si tratti di una creatura?» chiese Flora.
Lei annuì. «È altamente probabile. Se così non fosse, non riuscirei proprio a spiegarmi di cosa si possa trattare» ammise. «Credo che i presidi siano intenzionati a fronteggiarla proprio in quel periodo in modo da garantire l’incolumità degli studenti»
«Cosa possiamo fare?» domandò Bloom, scrutando il cielo oltre la finestra.
«Non lo so… io…» mormorò Tecna. «Io cercherò tutto il materiale possibile in biblioteca; ma dubito sarà sufficiente»
«Potremmo chiedere ai ragazzi se hanno notato qualcosa di strano» realizzò Stella. «Si saranno pur chiesti a cosa siano effettivamente dovute, queste vacanze! Ne hai parlato con Timmy?»
Con Timmy?
Scosse la testa. No, non ne aveva parlato, con Timmy.
In effetti, era da giorni che non si faceva vivo; e lo stesso valeva per lei. Tra lo studio, la punizione e lo scombussolamento generale, non ci aveva minimamente pensato.
Per un attimo provò un vago senso di colpa. Aveva deciso di fare un tentativo, con quel povero ragazzo; eppure, forse, la cosa era scivolata in secondo piano.
Certo, avrebbe anche potuto contattarla lui. Talvolta Tecna non era in grado di comprendere dove finisse la timidezza di lui e dove iniziasse il disinteresse.
«Chiederò a Brandon, ma non penso che si sia allarmato più di tanto. Sapete com’è fatto…» scherzò la bionda. «A proposito di allarmarsi… beh, voi due lo sapete già. Tecna… ti va di venire ad una festa?»
 
I’m coming out my skin tonight
So tell me if you’re ready or no
I’m tired of living out a lie
Sitting here watching things flying by me
Maybe Maybe, Nico Stai
 
Ve l’avevo detto, no? Sem è un tenerone.
Sì, certe cose me le sono inventate, come i Tettigantropi, Aibao e l’infermiere (insomma, ‘sti ragazzi si spaccano la schiena ogni giorno tra draghi e spade, e non hanno nemmeno qualcuno che li possa medicare? Codatorta e le sue manone non mi sembravano indicate).
Il Club è più di supporto a Tecna, ora. Povero tesoro; inizia a capire che ne ha bisogno? Andrà alla festa? Bloom riuscirà a sistemare quel postaccio senza avere un esaurimento nervoso?
Si deciderà ad usare la magia?
Lo scopriremo nella prossima puntata!
Per ora ringrazio il trio della speranza (alias Tressa, Still_Sane e Great_Gospel), sempre qui ad infondermi sentimenti positivi, ed anche tutti coloro che passano di qui, anche per errore!
Appuntamento al 15!
7th

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Capitolo 5
*** V ***


Avvertenze: cose tristi e Bloom da prendere un po’ a schiaffi.
Beh, più del solito, s’intende.

 
V
 
The needle tears a hole
The old familiar sting
Try to kill it all away
But I remember everything
Johnny Cash, Hurt
 

Da quella fredda sera in cui alcune verità erano venute a galla erano trascorse delle settimane; ma ancora nessuna buona notizia, per Tecna e le altre.
La biblioteca sembrava essersi ammutolita, di fronte alle esasperate richieste della fata che, d’altronde, non era nemmeno certa di quale pista avrebbe dovuto seguire.
Talvolta le sembrava di aver intrapreso una buona strada; ma poi, inevitabilmente, scopriva di aver fatto un buco nell’acqua. Il poco materiale che era riuscita a recuperare nascondeva le risposte dietro un contenuto alquanto sibillino, e non era certa di come avrebbe dovuto interpretarlo.
Aveva condiviso con la principessa Aisha quel che aveva scoperto e anche lei aveva iniziato a darsi da fare per essere d’aiuto, senza però grandi risultati. La velocità con cui gli occhi di Faragonda seguivano i loro movimenti, poi, certamente non giovava.
Per non parlare del fatto che, per tutto quel tempo, parte delle sue facoltà mentali era rimasta ancorata a quel curioso invito rivoltole da Stella, cui non era ancora stata in grado di fornire risposta.
Una festa. Era stata invitata ad una festa.
Proprio lei? Non sapeva se fosse meglio declinare o meno; ed il tempo stringeva.
I preparativi per quel giorno proseguivano; Bloom si ritrovava sempre più spesso a Fonterossa, e altrettanto frequentemente trascorreva quei pomeriggi con la sola compagnia dei gemelli lunatici.
Nonostante le loro stranezze, aveva iniziato ad apprezzarli. I motti e le frecciatine argute di Alan compensavano bene il quasi mutismo dell’altro.
Nonostante i loro bruschi e talvolta indecifrabili caratteri, le giornate si rivelavano molto meno luminose, se non aveva a che fare con quei due.
Nonostante Sem fosse sempre refrattario all’aiuto e schivo, Bloom non poteva negare a se stessa di esserne profondamente incuriosita.
Aveva scoperto diverse cose, sul suo conto. Piccolezze che custodiva, in maniera forse un po’ infantile, come fossero segreti.
Sem, a discapito della pessima reputazione che si era guadagnato quando era tornato a scuola con una nuova collezione di tagli, non era affatto sgradevole, se si era in grado di prenderlo per il verso giusto.
Non si era mai effettivamente scusato per quella sua reazione, ma talvolta lo coglieva sul punto di dirle qualcosa che lo imbarazzava molto. E poi si ammutoliva.
Una volta Alan le aveva confessato, non senza rammarico, di aver notato che quando era con lei il fratello sembrava diverso. Sembrava quasi che non pensasse proprio a nulla e, per qualche istante, tornava il vecchio Sem, quello che era prima della grande battaglia dell’estate precedente.
Bloom non sapeva con certezza cosa fosse successo ma, a quanto pareva, da allora non era stato più lo stesso. E, d’altronde, non le avevano detto qualcosa di simile, quando gli aveva malauguratamente rovesciato in testa quel secchio d’acqua e lo aveva fatto ridere?
«Qualcuno si sta innamorando…» la ripeté Stella, quel giorno.
«Quante volte dovrò dirlo?» sbuffò lei. «Non mi piace Sem. Dico davvero»
«Ma se non fai altro che parlare di lui tutto il giorno!» rise Musa, intenta a spalmare della marmellata su una fetta di pane. «È stata la prima cosa per cui hai aperto bocca, qualche domenica fa. Ho sentito che ti lamentavi di lui, quel giorno; ed è stato lo stesso, questa mattina»
Bloom arrossì fino alla punta dei capelli, farfugliando sillabe sconnesse.
«Cercate di capirla, su!» le canzonò Flora. «Trascorre insieme a lui quasi ogni pomeriggio; è ovvio che non parli d’altro»
«Ma dai, Flora! Ti pare che ne parli come parlerebbe di uno qualsiasi?» insistette la principessa. «Secondo te, perché non usa quasi mai la magia per sistemare le cose, quando è lì? Se lo facesse non avrebbe chissà quale motivo per stargli appiccicata»
«E tu come fai a saperlo, visto che non ci sei mai? Siamo sempre io e Looma, a fare tutto!» sbottò Bloom. «Qualche volta vedo Musa e quella fata del terzo anno; ma per il resto non c’è nessuno, all’infuori dei ragazzi»
Stella sbatté le palpebre un paio di volta, pensando ad una scusa valida da rifilarle. «Beh… io devo cercare il mio vestito, scusa! È un’impresa impegnativa, cosa credi? Anzi…» ghignò, nel tentativo di indirizzare il discorso verso tutt’altra direzione. «Credo che dovresti preoccupartene anche tu. La festa è tra quattro giorni»
La fulva sgranò gli occhi.
Quattro giorni?
Dovevano aver fatto male i calcoli… eppure, le sembrava che…
«Lo troverò» affermò, con tono falsamente fermo.
Si conosceva, e sapeva bene che ci avrebbe impiegato secoli a trovare qualcosa che le piacesse, o che le stesse bene.
Si alzò, afferrando i suoi libri. Fortunatamente, quello sarebbe stato l’ultimo giorno di lezione, così avrebbe potuto dedicarsi a quel compito gravoso che…
«Bloom, questo pomeriggio io e la fata del terzo anno dovremmo andare a Fonterossa per le ultime prove acustiche» la chiamò Musa, prima che scomparisse oltre la porta. «Se sei già lì, potremmo… andare a Magix insieme. Per il vestito»
Lei annuì, sorridendo.
Non seguì quasi per nulla le spiegazioni di quella mattina, né il discorso che le fece Du Four sulla sua ricerca, su quanto fosse stata disastrosa e su quanto fosse deludente la sua preparazione… non prestò attenzione nemmeno all’assemblea d’istituto che si tenne dopo pranzo.
Continuava a rimuginare sulle parole delle sue amiche.
Avevano ragione? Eppure, Sem… era così diverso da Sky.
Scosse la testa, come formulò quel pensiero.
Sarebbe stato sciocco, paragonarli. Sky non c’era più.
Forse si stava solo lasciando trasportare troppo dalle insinuazioni delle altre che, seppur con le migliori intenzioni del mondo, non capivano quanto poco lei desiderasse provare quel tipo di emozioni per qualcun altro, in quel momento.
Avrebbe solo finito per farsi del male e per farne a quel povero malcapitato.
Eppure, loro non sembravano in grado di comprenderlo.
Già il secondo giorno di quell’anno scolastico, quando Alfea era stata invitata all’inaugurazione di Fonterossa restaurata, Stella aveva cercato di appiopparle un tipo con cui nessuna delle due aveva mai nemmeno parlato.
Quello sciocco di Helia, poi, doveva essersi lasciato deviare da Flora, perché più volte aveva tentato di fare da mezzano tra il suo compagno di stanza e la fata.
Proprio non capivano.
Apprezzava le loro preoccupazioni, ma forse avrebbero fatto meglio ad accorgersi dei suoi sorrisi forzati in quei giorni in cui si svegliava dopo aver visto Sky nel suo sonno; avrebbero dovuto accorgersi di quanto singhiozzasse alcune notti, quando la freddezza di quel corpo che aveva stretto a sé prendeva ad abbracciarla, ed il ricordo di Solo, di Helia, di Levi e di tutta quella sofferenza si impossessava di lei.
Ma forse, forse avevano ragione. Forse avrebbe davvero dovuto cercarsi qualcuno che potesse distrarla, farle dimenticare i suoi mali e regalarle il bello.
Non era ciò che Alan aveva detto che lei faceva a Sem? Dunque era solo una distrazione?
E lei? Sarebbe mai stata capace di illudere qualcuno solo per illudersi, a sua volta, di stare bene?
Scesa nei sotterranei, spalancò il portone con gran fragore.
Come vide Sem, ripensò a quel che le sue amiche le avevano detto a colazione. Perché sentiva un groppo in gola?
«Oggi siamo solo tu ed io» fece il ragazzo appena lei mise piede nella stanza.
Oh…
«E Alan?» chiese, non capendo perché l’idea la turbasse tanto.
«Non saprei. Sarà con Aibao» replicò il ragazzo, intento a rimuovere dalle pareti alcuni rimasugli di carta da parati.
Aibao… doveva essere quel ragazzo che aveva visto di sfuggita un paio di volte. Alto, dai tratti vagamente esotici; sembrava avere uno stretto legame con Alan. «È quello a cui tuo fratello ti aveva detto di rivolgerti per le ferite? A proposito, come vanno?»
«Non c’è male. Ne ho una nuova, però» rispose, concentrato.
«E immagino che tu non l’abbia fatta vedere a nessuno…» sospirò Bloom, andandogli vicino. Conosceva la risposta. «Su, dammi una spatola»
Sem interruppe il suo lavoro, guardandola con un cipiglio curioso. Le porse una spatola, senza staccare gli occhi da lei quando questa si accovacciò per aiutarlo.
«Cosa c’è?» ridacchiò la ragazza, ad un certo punto.
«Niente» biascicò lui, riprendendo subito da dove si era interrotto. «Mi chiedo solo per quale motivo ti ostini a non usare la magia. Anche per le decorazioni dell’altro lato della stanza non la usi. Ci impiegheresti di meno»
«Secondo te, perché non usa quasi mai la magia per sistemare le cose, quando è lì? Se lo facesse non avrebbe chissà quale motivo per stargli appiccicata»
Maledisse Stella con tutta se stessa. Di sicuro non era per quel motivo.
«Rischierei di combinare un disastro, con la magia. E poi… ci sono abituata» balbettò, imbarazzata. «Sulla Terra non… beh, non l’ho usata per sedici anni»
Sem non disse nulla per un po’; poi, si decise a parlare. «Conoscevo una ragazza… era una fata. Nemmeno lei voleva risolvere certe cose con i suoi poteri»
Una fata amica di Sem? Sem aveva amiche? «La conosco?»
«Non credo… no, lei…» si ammutolì nuovamente, riflettendo.
Ad un tratto, sembrava lo stesso Sem con cui aveva avuto a che fare i primi giorni. Qualcosa era appena mutato, nel suo umore; poteva capirlo dal modo in cui aveva serrato la mascella, o dall’improvvisa freddezza dei suoi occhi.
Cos’aveva detto, di sbagliato?
Forse era una ragazza di cui era invaghito? Il pensiero la urtava abbastanza, ma non riuscì a trattenere la curiosità.
Sem invaghito? Sem invaghito?
«Dai, Sem… è una che ti piace, vero? Non lo dirò a nessuno»
Lui non rispose. Accumulò in un angolo ciò che aveva rimosso dalle pareti, alzandosi poi per prendere un sacco che aveva adagiato all’unica finestra da cui si intravedevano stralci di un paesaggio.
Forse si era esposto troppo.
«Dimmi almeno come si chiama. Se frequenta la mia stessa scuola posso scoprire qualcosa di più, su di lei» insistette, decisa. «Dai, Sem… a me puoi dirlo!»
Lo Specialista sembrava a disagio, ma non trovava le parole per chiederle di chiudere lì quello scherzo.
«Vi conoscete già? Siete amici? Oppure lei non sa chi tu sia? L’hai vista all’inizio dell’anno e dopo non hai più avuto sue notizie?» continuò lei.
Sem le gettò un’occhiata tagliente, d’avvertimento; e, se solo lei non fosse stata tanto ostinata a saziare quella sua curiosità pungente, forse avrebbe inteso che era arrivato il momento di fermarsi.
Ma Bloom voleva sapere; perché, nel profondo, le sue domande celavano qualcosa di simile al timore e non sapeva spiegarsene la ragione.
«È per quello che non vuoi dirmelo?» fece, senza smettere di ridere. «Non è che lo sa e non ricambia?»
«Dovresti tacere, ogni tanto» sbottò, laconico.
Bloom raggelò sul posto. Non era sarcastico.
«Credo che faresti una figura migliore» continuò lui, guardandola ora dritto negli occhi.
Lei provò il desiderio di nascondersi, di fronte a tanta glacialità.
Si sentì sciocca; come tutte quelle volte che Stella non sapeva tenere a freno la lingua e finiva per offenderla. Perché non si era accorta di aver fatto lo stesso? «Non volevo…»
«Si chiamava Vesela»
Strinse i pugni, e Bloom rimase con il fiato sospeso.
Si… chiamava?
«È morta»
Oh…
«È morta durante la grande battaglia. Un lampo di una di quelle streghe l’ha folgorata»
Oh, mio Dio…
Strinse convulsamente le mani, sentendosi uno straccio.
Ora non sapeva cosa dire.
«Sei soddisfatta?» fece, nervosamente.
«Scusa, Sem. Avrei dovuto smetterla…»
«Già, avresti proprio dovuto. Forse eri abituata a straparlare, quando uscivi con il principe Sky» disse, chiudendo il sacco che aveva riempito. «Non mi sorprende»
Le si avvicinò pericolosamente, un triste sorriso dipinto sul volto. Bloom non riusciva più a respirare.
La guardò come se avesse voluto riversare su di lei tutto il male del mondo.
Eppure, i suoi occhi erano lucidi.
«Era patetico, il modo con cui giostrava tra te e tutte le altre. Forse avresti dovuto ascoltarlo, invece di vomitare parole» continuò. «Allora avresti saputo sin dall’inizio quanto fosse viscido»
Lo schiaffo risuonò per tutto il salone ed abbastanza a lungo perché si imprimesse nella mente del ragazzo.
Bloom aveva sbarrato gli occhi, mentre lui li aveva sgranati, incredulo. Abbassò lo sguardo, scuotendo la testa.
«Scusa, io… non…» biascicò, passandosi le dita tra i capelli. «Scusa»
La ragazza si ammutolì, mordendosi le labbra forse più per il male che sentiva dentro che non per quello che provava alla mano con cui aveva schiaffeggiato lo Specialista.
Aveva sbagliato lei; lui s’era solo difeso, e lo sapeva.
Ma, anche così, non riuscì a non fuggire via, disgustata dalle parole che Sem aveva detto su Sky; disgustata dall’idea che potessero essere state vere; inorridita da se stessa e dalla facilità con cui nutriva i suoi dubbi e, soprattutto, delusa da se stessa per avere scioccamente ferito qualcuno, ancora una volta.
Si odiò con tutte le proprie forze ancor di più quando, mentre usciva dall’accademia, andò a sbattere contro qualcuno.
Si scusò, non riconoscendo neppure quella voce un po’ sorpresa che la chiamò. Alzò lo sguardo e, con le lacrime ancora impigliate tra le ciglia corte, si rese conto di aver urtato Musa.
Quest’ultima non sapeva mai come comportarsi, quando qualcuno piangeva. Lì per lì provava solo un senso di fastidio ed imbarazzo; eppure, se si trattava di una sua amica, avvertiva più una sensazione di odiosa impotenza.
«Bloom…» mormorò, non sapendo se abbracciarla, stringerle le mani o fare qualsiasi altra cosa. Era, però, certa che la cosa migliore fosse non domandarle cosa fosse successo.
Le rivolse una sorta di sorriso e, avvoltole un braccio attorno alle spalle, decise di regalarle qualcosa che potesse aiutarla.
Non era molto brava a condividere ma, in quei momenti, sapeva che l’unica pace che si potesse trovare fosse nei suoni della natura.
La guidò verso quello sprazzo erboso che dava sul lago di Roccaluce; il luogo in cui, qualche tempo prima, aveva trovato conforto dopo aver riflettuto, dopo aver considerato con quale stupido criterio il mondo sembrasse desiderare di far soffrire e gioire i suoi figli, mentre lasciava i suoi paesaggi sempre forti e risoluti.
Quel giorno, aveva pensato di arrendersi all’idea che le cose stessero così, che non le fosse possibile cogliere il bello perché non c’era.
Eppure, cercando meglio nelle voci più lontane del suo cuore, Musa aveva realizzato che il bello non ci sarebbe stato finché lei stessa non avesse deciso di aprirsi e cercarlo.
E non era forse vero che quella musica che l’accompagnava sempre era, già di per sé, motivo di meraviglia e felicità?
Non sapeva se stare lì potesse aiutare anche Bloom ma, qualsiasi cosa le fosse successo, lo scroscio dell’acqua, il fruscio delle foglie e i sussurri sottili non avrebbero potuto lasciarla sola.
Si sedettero e, ancora una volta, Musa trovò la terra maternamente accogliente. Talvolta aveva l’impressione di capire Flora meglio di altri.
Bloom si strinse le ginocchia al petto, obbligandosi a non lasciare che altre lacrime dimostrassero quanto lei fosse debole e sciocca. Si detestò per aver costretto l’amica a perdere il suo tempo con lei, ad assistere a quel patetico teatrino che pretendeva che lei le offrisse una spalla su cui lagnarsi.
Eppure, aveva dimenticato che nessuno, meglio della fata della musica, poteva comprendere l’orgoglio. Quella, non sapendo quali parole potessero confortarla, preferì restare in silenzio.
Dopo un po’, rivolse una rapida occhiata all’altra e si rese conto che sembrava più serena. «Musa, tu… pensi mai che…» iniziò, torturandosi le mani. Non sapeva esattamente come esprimere ciò che era così chiaro nella sua mente. «Provi mai odio per te stessa?»
Tutte le volte che lui si apre ed io non riesco ad addentrarmi nei suoi pensieri. Tutte le volte che mi chiudo io.
Annuì. «Immagino succeda un po’ a tutti»
Tutte le volte che vorrei chiarire le questioni irrisolte, ma sono troppo scioccamente orgogliosa per capitolare…
«Però, in quei momenti, la cosa più importante forse è…»
E tutte le volte che non so cosa voglio e la mia indecisione ha delle ripercussioni sugli altri…
«…non dimenticarsi che ciò per cui ci odiamo è solo l’altra faccia di ciò per cui ci amiamo» rifletté. «Che ci rende quel che siamo e che ci sprona ad essere migliori di giorno in giorno»
La guardò, e poi scoppiarono a ridere.
«Cavolo, dovrei scrivermela da qualche parte!» esclamò la fata della musica.
Bloom riuscì a sfogarsi e, per un attimo, pensò che quelle parole e quelle risate valessero più di qualsiasi altra cosa che qualcuno avesse mai fatto per aiutarla.
«Che ne dici…» fece Musa, tra uno spasmo e l’altro. «…di andarci adesso, a Magix? Credo che trovare un vestito sarà un’impresa dannatamente lunga»
Bloom annuì e, per il resto del pomeriggio, il pensiero di Sem la sfiorò solo una volta.
Magix era sempre piuttosto gremita ma, verso quell’ora del pomeriggio, iniziava lentamente a svuotarsi; le voci dei passanti lasciavano spazio a quelle delle saracinesche che si abbassavano, ai sussurri di giovani innamorati accovacciati all’ombra di un albero, sotto il fruscio delle sue foglie, tra cui restavano incastonati gli ultimi raggi del Sole.
Per Musa, si trattava del momento migliore per passeggiare per le strade della città senza schiamazzi e rumori; per Bloom, invece, la desolazione che veniva a sostituirsi alla vitalità, in quelle ultime ore di luce, era fonte di ricordi spiacevoli.
Vedere le vetrine sbarrate e nessuno che ci passasse davanti riproiettava in lei la stessa visione di quella debole Magix che aveva sofferto.
«Alla fine, è stato inutile…» sospirò l’altra, accartocciando il sacchetto di patatine che aveva tra le mani e gettandolo in un cestino.
«Mi dispiace… te l’avevo detto. Io non trovo mai niente che mi stia bene o che mi piaccia» fece Bloom, desolata. «Non dovresti andare a fare spese con una come me. Insomma, i pantaloni non cadono mai nel modo giusto e spesso sono troppo stretti sui fianchi. Per non parlare delle magliette e dei vestiti…»
«Non dicevo che è stato inutile a causa tua. Io ho… lo stesso problema» ammise, con qualche difficoltà.
Si andarono a sedere sul bordo della fontana della piazza minore, appena dietro quella delle Nove Muse. «Ci riproveremo domani… anche se credo che Stella pretenderà di venirci. Mi ha mandato circa dieci messaggi intimandomi di non azzardarmi a fare spese senza di lei…»
«Quella è proprio fissata…» Musa scosse la testa. «Lei e Looma partono con il cervello, quando si parla di vestiti»
Bloom rise, e non poté non pensare che avesse perfettamente ragione. Di Looma sapeva poco e niente, in effetti, se non che avesse una smodata passione per la moda. «Conosci Looma da molto?»
«Mh, dalla metà dell’anno scorso» rifletté l’altra, specchiandosi ora nell’acqua cristallina dietro di loro. «In realtà, ogni tanto suonavo con una sua amica e compagna d’appartamento, Vesela; perciò mi trovavo spesso a parlare anche con lei»
Vesela?
Disprezzo e dolore sul viso di Sem; associò questi al nome di quel fantasma che pareva aver lasciato una sorta di solco. «Che tipo era… Vesela?»
Musa si strinse nelle spalle, concedendosi qualche momento per pensarci. Come avrebbe potuto definire quella ragazza?
Non l’aveva sicuramente frequentata abbastanza da poterne dare un giudizio. E poi, detestava dover sintetizzare le sfaccettature di chiunque in un paio di miseri aggettivi che potevano assumere diverse sfumature a seconda del caso.
«Un tipo da conoscere» disse, senza sforzo; perché era la verità. «Non era solo la sua musica, a renderla speciale… c’era qualcosa, in lei…»
Si interruppe, non sapendo come proseguire.
C’era stato qualcosa, in lei, che le aveva sempre reso facile entrare nel cuore di chiunque. Era stata capace di comprenderla fin dai primi giorni, quelli in cui le aveva prestato uno spartito e lei, ringraziandola, le aveva letto dentro e l’aveva capita.
Ma questo, Musa, preferì tenerlo per sé. «È stato difficile vederla andare via»
Bloom deglutì un boccone amaro.
Il solo fatto che perfino Musa, mentre ne parlava, fosse animata da una viva luce che le riempiva gli occhi…
Quella Vesela era rimasta un nome sconosciuto fino a qualche ora prima; uno dei tanti che qualche volta aveva sicuramente scorto attraversando i corridoi del dormitorio, vagando per le targhette colorate affisse alle porte.
Sì, ora ricordava. Si era soffermata proprio sulla sua, su quel cartoncino in cui il bianco ed il lilla si fondevano in una grafia tonda e bassa.
Vesela.
Da fantasma a viva grazie a due ricordi. Il potere delle parole…
Si sentì stupida e ancor più insulsa, ripensando alla propria lingua lunga e biforcuta.
«Bloom, ma… quella…» Musa la ridestò. Con gli occhi sgranati e le labbra schiuse per la sorpresa, guardava verso un vicolo a lato della panetteria. «Non è Darcy?»
Avvolta nel suo manto di ciocche lunghe e fosche, assorta e distante, Darcy scrutava il cielo oltre le sottili lenti che celavano uno sguardo ancor più sottile.
Sembrava non si fosse accorta di loro, né di nient’altro.
La osservarono abbastanza a lungo da essere certe che fosse proprio lei. Più provata e, forse, serena?
A ben pensarci, dopo l’epilogo con cui si era no salutate, era risaputo che le Trix sarebbero state impegnate da qualche parte per rimediare alle loro atrocità, ma nessuna delle Winx aveva mai pensato che si potesse trattare proprio di Magix.
Per tutto quel tempo, dunque, erano rimaste in città senza farsi sentire?
«Pensi che dovremmo…?» iniziò Musa, dubbiosa.
Non era certa dei modi che avrebbero dovuto assumere in presenza di… beh, di chi aveva distrutto buona parte di ciò che erano state.
«No… forse è cambiata; forse lo sono tutte e tre» rispose Bloom, alzandosi. «Forse stanno imparando, adesso»
Sospirò, questa volta piano.
Guardò anche lei le nuvole sopra le loro teste; e le sembrò surreale che stesse davvero per mettersi a piovere. «Capisco il motivo per cui abbiano agito in quel modo. Lo capisco bene» continuò l’altra. «Ma non lo posso perdonare»
Bloom annuì, sospirando impercettibilmente.
A pensarci bene, forse, Musa poteva capire quelle tre meglio di chiunque altro; lei, che aveva perso la stessa cosa.
«Alle volte l’affetto porta a fare cose così stupide che dopo, quando ci si rende conto di quel che si è fatto, ci si odia» constatò la fata della musica.
L’altra ebbe l’impressione di sentire l’eco di quelle parole per tutto il resto della serata e, quando poggiò finalmente il capo sul cuscino del suo letto, comprese il vero significato di ciò che Musa aveva detto.
 
Secrets I have held in my heart
Are harder to hide than I thought
Maybe I just wanna be yours
I wanna be yours
Arctic Monkeys, I Wanna Be Yours
 
 

Musa ci prova e ce la fa!
In origine, dopo quello sfogo di idiozia, Bloom doveva incontrare Flora; ma poi ho riflettuto e, spesso, confidarsi con chi è diverso può proporre prospettive diverse da cui osservare la verità.
Vesela non è un martire, è una ragazza che è stata travolta dalle vicende prima che potesse sbocciare per il fiore che era; è un po’ come le tante ragazze di cui sentiamo parlare nella quotidianità. La vedo un po’ come una luce silenziosa che ricorda a tutti quanto siano stati fortunati a sfuggire alle ombre.
Ma Bloom era troppo ingenua per arrivarci subito… stendiamo un velo pietoso. Oh, ma Sem non le piace per niente.
Per quel che riguarda Darcy, come si intuiva dall’epilogo de “I volti del fuoco” (o, per chi non lo sapesse), lei e le sue amate sorelle erano finite da qualche parte a scontare le loro malefatte. Sono a Magix; sta a voi decidere a fare cosa!
Il prossimo è uno dei miei preferiti. Looma in azione!
Ah, sì… ho cambiato nickname perché, beh, dopo quattro anni iniziava ad essere troppo altisonante, quello vecchio; Applepagly è più demenziale.
Però “7th” resta “7th”, quindi…
Appuntamento al 29 ottobre!
7th

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Capitolo 6
*** VI ***


Avvertenze: Stella&Looma fashion bloggers.
 
VI
 
Kept trying hard to mend
The pieces of my broken heart
And I spent oh, so many nights
Just feeling sorry for myself
I used to cry
I will survive, Gloria Gaynor
 

Si svegliò di soprassalto, la maglia del pigiama madida di sudore.
Prese a respirare affannosamente, come se fosse stata in preda ad una di quelle crisi asmatiche che assalivano spesso sua madre quando ancora lei era piccola. Gli occhi sgranati, fissi in un punto imprecisato della stanza immersa nella penombra, Bloom ripercorreva con la mente ciò che aveva visto nei suoi sogni.
Nei miei incubi…
Erano sempre più frequenti, in quel periodo.
Visioni confuse di Sky, e di bambini che giocavano a nascondino; immagini che, per qualche ragione, la turbavano sempre profondamente. E allora tremava, di notte, e lo scintillio sottile della Luna, che silenziosa s’insinuava oltre le tende, non faceva altro che aumentare le dimensioni di quelle ombre che lei poteva percepire intorno a sé.
In qui momenti, sentiva la terra tremare appena, seguita dall’eco di una risata bassa, metallica, graffiante. Si domandava se Flora avvertisse quelle scosse e se Musa udisse gli stessi terribili suoni.
Forse sono io, ad immaginarmi tutto…
Forse sto impazzendo. Forse sono impazzita.
Quella mattina, aveva deciso di mandare al diavolo ogni impegno e riflettere.
Tornare a Fonterossa dopo quello che era successo le sembrava impensabile, per ovvie ragioni; ma fu ciò di cui aveva bisogno a venire da Fonterossa fino ad Alfea. Mentre si godeva il timido calore della luce che filtrava tra gli alberi del giardino, scorse Helia da lontano.
Bloom era ormai abituata a vederlo nei paraggi – talvolta spendevano addirittura i loro pomeriggi tutti e tre insieme, loro due e Flora.
«Che ci fai qui fuori a quest’ora? Non hai freddo?» le domandò con un sorriso, mentre si avvicinava. «O la fata del fuoco è immune anche a questo?»
Lei gli rispose con una linguaccia, profondamente contenta di vederlo.
Talvolta si sorprendeva di come lui e la sua amica sembrassero essere lo specchio l’uno dell’altra e, allo stesso tempo, di come la loro sensibilità estrema si risolvesse in modalità completamente differenti. Le parole di conforto di lei; i silenzi comprensivi di lui.
Helia la capiva perfettamente; perché anche lui vedeva quei bambini, nei suoi sogni. Anche lui vedeva strascichi di un passato che non avrebbe mai più ricordato.
«Cosa fai, quando succede?» gli aveva chiesto una volta.
«Abbraccio Flora»
Quella mattina, scoprirono di aver fatto lo stesso sogno.
Dei bambini che giocavano a nascondino; Solo; Solo che ridacchiava davanti ad un armadio chiuso. E poi altre sequenze confuse, e quella risata come un sibilo graffiante.
«Cosa credi che significhi?» sospirò Bloom. «Perché entrambi sogniamo Solo? Pensi che voglia dirci qualcosa?»
«Penso che stia per succedere qualcosa» mormorò lui.
Lei si stiracchiò, pensosa. Forse si era trattato solo di una coincidenza.
«Ho un brutto presentimento, riguardo alla festa» ammise Helia. «Dobbiamo rimanere cauti. Flora mi ha raccontato tutto»
La ragazza annuì, con uno sbuffo impercettibile.
Aveva lo stesso presentimento.
 
«…E, come al solito, non riesco a trovare proprio nulla!»
«Su, su… ho già trovato una soluzione, quindi non lagnarti» fece Stella, agitando la mano. «Tu, piuttosto, sai già cosa indosserai?»
Musa si strinse nelle spalle. «Nemmeno io ho trovato molto. Forse cercherò di nuovo questo pomeriggio… ma niente di troppo impegnativo. Casual»
La principessa scosse energicamente la testa, lanciandosi poi in una lunga argomentazione in favore della necessità di procurarsi un vestito ad hoc. Insomma, una come Musa, invischiata nella sua prima relazione sentimentale, non poteva certo presentarsi in jeans e maglietta, a quella festa!
«Perché no, scusa? Casual significa…»
«Comfort, certo» la interruppe, trascinando sia lei che Bloom su per le scale della sua stanza. «Espressività personale; ma non trascuratezza. Sicuramente, quel bisbetico del tuo fidanzato apprezzerebbe comunque… credo» continuò. «Ma penso apprezzerebbe ancor di più se potesse intravvedere il tuo corpicino non soltanto quando indossi il costume da fata»
Stranamente, Musa si ammutolì. Stella riusciva sempre a dar voce ai suoi dubbi peggiori.
«Forza, magari riesci a trovare qualcosa che ti piaccia, tra i miei vestiti. Certo, la taglia è decisamente diversa, ma si può aggiustare» proseguì. «Oh, come sono magnanima, oggi. Dovrebbero farmi una statua»
«Ora il problema principale è…» fece, concentrata. «…trovare un vestito adatto per me»
Musa e Bloom scossero la testa. Stella non si smentiva mai.
Benché avesse comprato dei nuovi abiti appena la settimana prima – posto che il suo armadio non potesse certo dirsi manchevole di qualcosa, anzi – la principessa avvertiva l’esigenza di acquistarne di nuovi.
Girare per i negozi, scrutare le vetrine, osservare il modo in cui determinate stoffe cadevano sui manichini, verificarlo su se stessa e confrontare modelli, tagli, colori; la sua non era solo una smodata ossessione per le compere, né una banale mania da spendacciona.
La sua era una pura e semplice mania per tutto ciò che riguardava la moda.
Sin da quando era ancora una bambina, sin da quando era stata sua madre a sistemarle i nastri tra i capelli, Stella aveva appreso l’importanza di ciò che appariva al di fuori; ne aveva, più che altro, compreso la bellezza.
Non ricercava nulla di eccessivamente appariscente; forse desiderava che fosse singolare, un capo unico ed adatto solo alla sua figura; e questo la spingeva a cercare e vagare per qualsiasi negozio.
Il modo in cui si poneva, nel complesso e nel singolo contesto dell’abbigliamento, dimostrava ciò che si voleva comunicare; un linguaggio diverso, un diverso modo di esprimere il bello del mondo.
Era questo, che rendeva lei e quella pazza di Looma così simili.
Era stata la sua prima vera amica, ad Alfea.
Ricordava che, il suo secondo giorno, disceso l’ultimo gradino della scala che conduceva nella sala grande, quella fata aveva esclamato di sorpresa di fronte a quel semplice e chiaro vestito che la principessa aveva indosso.
Ne avevano vissute di ogni e l’unico motivo per cui le era dispiaciuto dover ripetere il primo anno era stato non poter più condividere tutto allo stesso modo. Poi anche l’altra era stata rimandata e questo le aveva riavvicinate un po’.
Looma era così: spontanea, amichevole e piena di meraviglia; così come piene di meraviglia erano le sue creazioni. Forse, ragionò Stella, era l’unica che condividesse appieno il suo punto di vista.
Di soppiatto, gettò una rapida occhiata alle sue spalle.
Le sue due amiche attendevano che si decidesse, l’una impaziente e l’altra vagamente annoiata. Sorrise, scuotendo il capo impercettibilmente.
Non si aspettava che capissero davvero.
«Ho pensato a qualcosa a tema. Com’è che lo chiamate sulla Terra, Bloom? Babbo Natale?» riprese, immaginando uno di quei goffi costumi rossi che aveva visto un paio di volte alla televisione terrestre.
Bloom annuì. «Però non credo che una cosa del genere sia adatta. Dopotutto, nessuno conosce quella tradizione. Anzi…» ridacchiò. «Non credo che qualcuno conosca nemmeno la tradizione dell’albero. Di chi è stata, l’idea di piazzarcelo?»
Quando Stella fece il nome di Sem, con sua grande soddisfazione, l’amica trasalì. Dopo quella sorta di discussione che avevano avuto, le succedeva ogni volta.
Certo, lui aveva vissuto sulla Terra, era naturale che ne conoscesse le usanze. Eppure…
Aveva sempre pensato a lui come ad uno ben lontano da simili tradizioni. Quasi come se avesse sempre creduto che lui le considerasse infantili.
Forse gli era solo parso un modo come un altro per decorare l’ambiente.
Sì, era senz’altro così. Non poteva certo essere uno che provasse emozioni nell’appuntare delle scintillanti sfere agli aghi di un abete o che si fermasse, durante le notti insonni, ad osservare incantato quel tripudio di colori.
Uno come Sem non aveva sicuramente mai avvertito nulla, sotto pelle, che ricordasse anche solo vagamente la magia del Natale.
Per un attimo, pensò di star esagerando con tutta quella sua durezza.
«Ora che ci penso, non hanno ancora finito di sistemarlo. Potresti andare a dare una mano» suggerì la bionda, ammiccando.
«Oh, sì… scommetto che Bloom muore dalla voglia di avere a che fare con Sem» commentò Musa, sarcastica.
L’altra la ringraziò mentalmente, contenta che almeno una delle sue amiche fosse dalla sua parte. Detestava quando Stella vedeva cose che non esistevano.
Né esisteranno mai. Soprattutto dopo che…
«Gli farà piacere certamente, e anche a lei» insistette.
«Non me ne potrebbe importare di meno, di Sem» fece la fulva, irritata.
Stella corrugò la fronte, non credendo davvero a quelle parole che pretendevano di lasciar trapelare fermezza. Nessuno poteva darla a bere proprio a lei.
Non proseguì nel discorso, richiamando con un gesto della mano tutti i migliori vestiti dalla sezione per le grandi occasioni del suo armadio. Abiti dai mille colori sfilarono sotto gli sguardi sbalorditi delle altre due; alcuni superarono la prima selezione, mentre gli altri finirono in un angolino.
«Le hai mai messe, tutte queste cose?» chiese Musa, studiando una lunga gonna plissettata. «Sembrano appena uscite da un negozio»
«Aspetto solo l’occasione giusta per farne sfoggio. Per intanto, è meglio assicurarsi di averle, no?» replicò, con ovvietà. Aveva tra le mani un corto vestito a righe, l’unico che fosse effettivamente adatto ad una piccola festicciola.
Storse il naso, decidendosi a provarlo nuovamente, sapendo però che non lo avrebbe comunque indossato; non per quell’evento. Corse dentro al camerino, scivolando dentro la stoffa pesante.
Musa scosse la testa, domandandosi perché fosse ancora lì. «Io me ne vado. Sono stanca di vedere tulle e seta svolazzare a destra e a manca» fece. «Ciao»
«Aspetta!» urlò Stella. «Tu hai bisogno di un vestito! Musa!»
Quella rise, lasciando il guardaroba. Bloom scoppiò a ridere, zittendosi subito dopo.
«Hai ben poco da ridere, cara Bloom» riprese, sistemandosi le maniche. «Se davvero non t’importa di Sem, allora non avrai problemi ad aiutare con l’albero»
Le si mozzò il fiato per la frecciatina appena ricevuta. Per qualche istante, la principessa quasi si pentì di averla provocata.
Infatti, la sua risposta furibonda non tardò ad arrivare. «Lo farò senz’altro, così potrai finalmente convincerti che tutto quello che vedi lo vedi solo tu!» tuonò, facendo per andarsene.
Mentre scendeva per le scale, nervosa, quasi si scontrò con Looma. «Oh, Bloom! Cercavo proprio te!» trillò, senza badare al malumore di quella.
Il sorriso della ragazza bastò a farle sbollire momentaneamente la rabbia. «Dimmi tutto»
«Beh, Stella mi ha detto che non riesci a trovare un vestito» fece. «Perciò, ho pensato che… se ti va… potrei fartene uno io»
Oh…
Che cara persona, quella Looma. Era venuta fin lì apposta? «Io… non voglio farti perdere tempo, Looma. Insomma… non mi va mai bene nulla e rischieresti solo di… uscirne pazza» protestò, imbarazzata.
Per Bloom era sempre difficile riuscire a piacersi davvero con… beh, con qualsiasi cosa indosso. In genere, prendeva le prime cose che le capitavano sotto il naso e che erano abbastanza decorose da non fare a pugni; ma quando si trattava di gonne svolazzanti e altre cose più elaborate, perdeva la testa.
Durante la sua ricerca era riuscita a far esasperare perfino Flora, pochi giorni prima…
«Questo è impossibile! E poi, sarà disegnato e cucito su misura per te. Ti piacerà per forza!» esclamò l’altra, con fermezza. «Dai! Vieni da me, questa sera. Così possiamo già prendere le misure»
Bloom sospirò, chinando il capo. «Non so come ringraziarti, Looma… se c’è qualcosa che posso fare per sdebitarmi…»
«Sdebitarti di cosa? Siamo amiche, no?» rise di cuore, prendendole le mani. «A più tardi, allora. Adesso, se non ti spiace, devo chiedere a Stella alcune cose»
«Potrei tardare un po’, però… dovrei… ecco…» come dirglielo? «Dovrei andare a dare una mano con le decorazioni dell’albero»
Looma sorrise ancora, aspettandoselo. «È per quello che ti ho detto di venire questa sera!»
La vide scomparire oltre la soglia del grande guardaroba, da dove proveniva il fitto chiacchiericcio tra la proprietaria della stanza e la sua immagine allo specchio. Bloom sospirò; forse aveva esagerato…
Però… quando si parlava di Sem, inspiegabilmente, i nervi si facevano tesi. Beh, come aveva ricordato Stella, per dimostrare che non rappresentava minimamente un problema, non avrebbe dovuto avere alcuna difficoltà a presentarsi là, quel giorno.
Si trattava solo di dare una mano per qualcosa che attendeva anche lei, in fondo. Un impegno in cui era coinvolta direttamente. Qualcosa che faceva per il Soldì. Un dovere morale, insomma.
Che importanza aveva, essere sola con quel pezzo di granito?
Sarà un normalissimo pomeriggio. Ci si comporta come persone civili. No problem.
Tuttavia, Bloom tendeva spesso a trascurare quella che era la sua fortuna, una donna orribile che si faceva beffe di lei; e, quel pomeriggio, ne ebbe nuovamente la prova.
Come mise piede nella sala sotterranea di Fonterossa, avvertì le membra paralizzarsi. Il salone era vuoto, eccezion fatta per il grande albero nel mezzo ed un ragazzo, in cima ad una scala a libretto.
Ai piedi della struttura lignea, una piccola radiolina cantava pacata, accompagnando il timido motivetto che intonava lo Specialista.
Ondeggiava lievemente il capo, scuotendo appena quei capelli color cioccolato, perennemente arruffati. Vedere Sem così, semplice, senza veli, in uno dei lati più intimi di sé, le fece una curiosa impressione.
Restò ad osservarlo a lungo, per minuti, forse. Non riusciva ad allontanare lo sguardo da lui, per qualche ragione.
Giunse alla conclusione che le piaceva, vederlo così.
Qualcosa, in lei, mutò; perché non poteva negarlo. Non poteva.
Come negare che facesse tenerezza? Come negare che avrebbe voluto poter passare una mano tra quei riccioli, per arruffarli ancor di più?
Come negare la voglia di abbracciare quel bambino che premeva per uscire dal corpo ormai adulto e che, per farlo, canticchiava?
Bloom aveva sofferto abbastanza da non volersi avvicinare nuovamente così a qualcuno, non con il rischio che quel qualcuno potesse avere problemi a causa sua. La ferita che Sky aveva lasciato era ancora lì, visibile, e si riapriva ogni volta che lei metteva piede in quella scuola.
Però… anche Sem aveva sofferto, anche Sem aveva perso molto di quel poco che aveva. Eppure era lì, e aveva provato a condividere quello che gli era rimasto proprio con lei.
Mentre lei… lei si era sempre e solo dimostrata scostante; forse perché i modi di lui erano strani, così… diversi da quelli di Sky…
Non aveva mai davvero provato a capire quel ragazzo, a comprendere che dietro a tutta quella freddezza nascondeva un bisogno spasmodico di affetto. Tutte le accortezze di Alan nei confronti del fratello, tutte le occhiate sospettose che il biondo le rivolgeva; quegli avvertimenti incomprensibili…
Bloom aveva paura di rimanere ferita, ma forse sapeva che lo sarebbe stata molto meno di Sem che, al contrario, fuori si dimostrava duro. Alan lo conosceva e voleva proteggerlo da…
Da me?
«Sei lì da molto?» persa nelle sue elucubrazioni mentali, non si era accorta che il ragazzo era sceso dalla scala ed aveva spento la radio.
Con gli occhi fissi sul pavimento, vagamente rosso sulle gote, Sem non poté sembrarle niente se non adorabile. «Sono appena arrivata» mentì.
Si avvicinò, scrutando l’albero. Calde sfere di cristallo le rimandavano il riflesso di sé, stupito; doveva ammettere che il ragazzo ci sapeva fare, con le decorazioni.
Senza dire una parola, raccolse alcune palline blu da uno scatolone. Sembravano dipinte a mano.
«Quelle vanno lì» disse lui, indicando alcuni spazi lasciati appositamente vuoti.
Bloom annuì, facendo per salire sulla scala.
Sem non le chiese perché non usasse la magia. Non ne aveva bisogno.
«Accendi un po’ la radio?» gli domandò. «Mi piaceva, la canzone che stavi ascoltando»
Lo Specialista assentì, dubbioso.
Presto, per la grande sala si diffusero nuovamente le stesse note di prima, a volume più alto. Bloom pensò a come fossero belle, scandite dalla voce bassa di Sem.
Perché non cantava più?
Sa di averlo fatto di fronte a me.
Ma al diavolo; perché lei non si lasciava un po’ andare? Lui lo aveva fatto già abbastanza, e ne era solo rimasto scottato. Adesso era il suo turno di provarci.
Non era mai stata abbastanza spigliata, quando azzardava qualche passo di ballo era sempre un ciocco di legno e, in generale, aveva la grazia di un elefante.
Non aveva la movenza naturalmente elastica di Musa, né la disinibizione che Stella mostrava anche in quei contesti; non aveva l’eleganza di Flora, o la rigida compostezza che mostrava Tecna ondeggiando a tempo, facendola apparire una che non amava ballare, piuttosto che una che non lo sapeva fare.
Ma aveva importanza?
Lui la assecondò.
Era strano; ballavano talora vicini, talora insieme; talvolta come fosse stato uno di quei valzer impacciati che ad Alfea piacevano tanto.
Risero, azzardando qualche passo più deciso, con movenze che cercavano di imitare quelle di una danza più calda, intima, che a loro riusciva in una specie di ironica parodia.
Eppure, in tutte quelle risate, quei piedi pestati e quei gesti, non c’era proprio nulla di grottesco.
La canzone iniziò a placarsi, lasciando sfumare anche quell’attacco di ilarità che li aveva assaliti. In qualche modo, era bello lasciarsi cullare dalla spensieratezza che ne derivava.
Ne avevano bisogno, entrambi.
Ondeggiarono, lei tenendosi accostata a lui, le piccole mani strette sulla sua nuca, a solleticare i suoi bei riccioli. Adesso, però, tornavano a galla i pensieri, le preoccupazioni.
Sem si sentì mancare; dovette aggrapparsi a lei, per non cadere.
Le dita corsero sulla sua vita, artigliandovisi nel tentativo di ritrovare stabilità, di poter restare così per sempre. Cercò il suo sguardo, come a volerglielo chiedere.
Anche se non ne aveva bisogno.
Bloom restò immobile fino a che il brano finì. Poi, con sorpresa da parte di entrambi, in verità, lasciò scorrere le braccia oltre, cingendolo più a fondo.
Lo abbracciava.
«Mi dispiace per… quello che ho detto. Non lo sapevo; io… se avessi saputo…»
Si strinse a lei. Era morbida, acerba, piccola; spariva tra le sue braccia.
«Lo so» sussurrò, affondando il naso tra i suoi capelli.
Tutto quel rosso sapeva di pulito e di fresco, come una splendida gardenia appena sbocciata. «Dispiace anche a me»
La sentì ridere piano e, altrettanto lentamente, la avvertì allontanarsi. Ora ricambiava il suo sguardo.
Una spruzzatina di lentiggini sotto gli occhi acquamarina; il piccolo naso un po’ all’insù… eppure, era così diversa da Vesela…
«Non è colpa tua» gli disse. «Sono io che…»
«No» la interruppe, con decisione. «È colpa di tutti e due. Avrei dovuto evitare di reagire in quel modo»
Adesso stava a loro decidere se passarci sopra e fare un tentativo o meno.
Bloom era ancora lì, a specchiarsi nei suoi occhi; e questo bastò perché lei rimanesse a rimuginarci su per tutto il resto della giornata.
Una volta fatto ritorno ad Alfea, si accorse di essere troppo spossata per unirsi alle altre a cena. La sola idea di ingerire qualsiasi cosa le metteva lo stomaco in subbuglio.
Si recò direttamente nel loro appartamento, lanciandosi sulle coperte del suo letto, a fissare il soffitto. Cercava di non pensare a nulla; o forse solo al tempo che sperava trascorresse, che lasciasse arrivare il momento in cui Looma avrebbe fatto ritorno dalla sala da pranzo e si sarebbe cimentata a farle da stilista.
Pregava che i minuti corressero e le distogliessero la mente da Sem, dalle sue mani che la stringevano e che la facevano sentire bene. Lo aveva voluto; si sentiva sporca, perché avrebbe dovuto richiamare a sé tutta la sua fermezza e ricordare Sky; ma aveva voluto che Sem la cullasse nel suo abbraccio.
Si mise a sedere di scatto, quando udì le voci delle compagne di stanza.
«Oh, eccoti» fece Flora, come mise piede nella stanza. «Dov’eri finita?»
«Non avevo molta fame» replicò, semplicemente. «Cosa c’era, a cena?»
L’altra sospirò, impugnando una spazzola. «Purea di rose rosse e altro cibo che non sono riuscita a mangiare. Le rose rosse sono abbastanza pesanti» commentò, passandosi le setole tra i capelli. «Sei sicura di non voler mangiare nulla? Hai una brutta cera… è successo qualcosa?»
Era successo qualcosa?
Forse sarebbe stato peggio se non fosse successo…
Devo solo realizzare il tutto. Abituarmi.
Sì, lo farò; e poi verrà più facile.
«No, sto bene. È andato tutto bene» replicò, alzandosi definitivamente. «Dico davvero. Vado da Looma»
Sapeva perfettamente che Flora non le aveva creduto; e, d’altronde, non si era aspettata nulla di diverso, da lei.
La sua spiccata sensibilità le impediva di fermarsi all’apparenza, al velo delle rassicurazioni. Ma, allo stesso tempo, quella stessa spiccata sensibilità le impediva di indagare, per non correre il rischio di essere indisponente.
Bloom corse giù per le scale, impaziente. Looma l’avrebbe aiutata a distrarsi; senz’altro.
L’aspettava in pigiama. Uno di quei morbidi pigiamoni di pile che rendevano la piccola figura della fata ancor più minuta; in un certo senso, era sorpresa di vederla così.
Si sarebbe aspettata una di quelle vestaglie di Stella, al massimo della moda e della sensualità anche laddove forse non erano necessarie.
«Oh eccoti qui!» esclamò, battendo le mani.
Di sfuggita, Bloom intravvide una compagna di stanza di Looma scomparire dietro la porta della camera. Si guardò un po’ intorno; non era stata lì se non un paio di volte, in cui comunque si era trattato di qualche minuto appena.
«Non so ancora come ringraziarti, Looma» fece, sorridendole.
«Ancora con questa storia? Su, non perdiamo altro tempo» rise l’altra. «Sali qui sopra»
La fata fece materializzare una sorta di piedistallo, su cui Bloom salì. In un lampo, una sfilza di nastri e di taccuini presero a vorticare attorno a lei, appuntando tutto ciò che registravano e che Looma diceva loro.
«Come lo vorresti, il vestito? Con le maniche? Lungo? Scollo a cuore?» prese a domandare. «Hai già presente un modello? Uno spezzato, forse? Il materiale? Per non parlare del colore! Quest’anno sono molto in voga i colori cangianti e…»
«Looma» la interruppe. «Io non ho la più pallida idea di… beh, di nulla. Ho cercato di capire come potessi volere questo dannato vestito ma… io non…»
«Oh, sta’ tranquilla, allora. Non è un problema, abbiamo ancora un bel po’ di tempo» la rassicurò. «Per intanto, che ne dici di provare qualche modello che ho in cantiere? Li ho studiati appositamente per le ragazze di bassa statura come noi!»
Bloom annuì e subito l’altra ragazza le pose sotto il naso una serie di abiti di ogni colore e stoffa. La bellezza di ciascuno di essi era innegabile, ma nessuno sembrava fare al caso suo.
«Che ne dici di provare una gonna con qualcosa sopra? Se ho ben inteso i tuoi gusti… beh, con uno di questi rischieresti di sembrare troppo sofisticata, vero?» propose. «Ecco. Prova questi»
Looma le lasciò tra le mani una gonna scarlatta ed una camiciola candida, che si apprestò a descrivere accuratamente.
«La gonna parte da appena più in sotto delle costole, ed è a ruota; arriva fino al ginocchio, per questo forse dovresti lasciare di fuori la camicia, che è a mo’ di poncho» spiegò, storcendo un po’ il naso. «Però… aspetta, forse ho qualcosa di più carino, per te. Quella nera… sì, forse…»
Le rubò la gonna, abbandonandola su una sedia; corse verso uno dei cassettoni disposti appena sotto la finestra e prese a frugare al suo interno. «Ma dove l’avrò messa… uff» sospirò, sconsolata.
Bloom rise. Da una parte, però, era sorpresa che Looma fosse riuscita ad individuare e, soprattutto, risolvere così abilmente il problema principale.
«Eccola!» esclamò, esibendo una gonnella in jeans nero. «Ora puoi provarle. La camicia va dentro e… tieni anche questa. Una cintura è immancabile»
Un separé si stese accanto alla porta d’ingresso, dando modo alla fata di cambiarsi. Mentre lei si vestiva, l’altra parlava.
«Allora… alla fine oggi ci sei andata, a Fonterossa?» ah, domanda meno appropriata, da porre proprio a lei.
«Sì. C’era solo Sem» disse.
Il silenzio che seguì fu abbastanza eloquente. Looma sorrise tra sé e sé.
«Sai, c’è una cosa che non ti ho detto» iniziò. «Insomma, per un motivo o per un altro ho sempre dovuto rimandare e lo stesso vale per Sem ed Alan»
Bloom rimase in ascolto, litigando con il vestito che, come previsto, le cadeva stretto attorno al busto. «Ti ascolto»
«Beh, noi tre siamo amici d’infanzia» disse.
Oh.
Ecco perché sembrava conoscere così bene i due fratelli. Ecco perché aveva tutta quella familiarità con Sem.
Ecco perché i rapporti tra lei ed Alan sono strani.
«Non sono cresciuti sulla Terra, come me?» chiese, confusa.
«Non proprio. Sono rimasti sul nostro pianeta natio fino a quando hanno compiuto otto anni» specificò. «Fino a che la loro madre non ci ha lasciati»
Oh…
Come riusciva a parlarne così?
Alan e Sem avevano perso un pezzo di loro già da bambini e lei lo diceva con una simile leggerezza? «Looma, non credo che…»
«Alan pianse molto, quel giorno. Credo di non averlo mai visto così, nemmeno quando era caduto dalla sua prima bicicletta» continuò imperterrita. «Neppure quando ha capito di avere qualcosa di… diverso. Di non riuscire a sbavare dietro alla ragazza di Brandon quanto sbavava dietro a lui»
Oh…
Alan, che sembrava sempre così irruento ed impulsivo…
A volte la parte più difficili dell’essere innamorati è ammetterlo? Accettarlo?
Per lei valeva lo stesso?
«Alan piangeva, ma Sem no» proseguì. «La sua faccia non lasciava trapelare la minima emozione. Sem è sempre stato un tipo piuttosto riservato, ma vederlo impassibile è stato ugualmente insolito. Era solo un bambino. Alan lo ha odiato, per questo»
Sem non piange mai…
«Nessuno capiva che stava davvero troppo male, per dimostrarlo. Avevano bisogno di essere forti, ma nessuno ci riusciva; nemmeno suo padre. E, con due bambini ed una figlia di appena qualche anno, sarebbe stato impensabile, no?»
Sem aveva voluto essere forte anche per loro.
«Sulla Terra c’erano i genitori di suo padre. Non ho più visto Sem e Alan fino a tre anni fa, quando ci siamo ritrovati qui» sorrise, quando Bloom ricomparve da dietro il separé.
Looma le si avvicinò, estraendo degli spilli da un contenitore che teneva lì vicino. S’inginocchiò, appuntandone uno sull’orlo della gonna. «Sem era ancora più chiuso di prima, ma sorrideva, di tanto in tanto»
La fece voltare, per ripetere la stessa operazione. «Fino a che, la scorsa estate… beh, sai com’è andata. Vesela era riuscita ad ammorbidirlo un po’» proseguì, abbozzando un sorriso amaro.
Vesela…
Capitava che la ricordassero spesso; eppure, di lei sapeva poco.
Era una compagna di stanza di Looma, una studentessa di Alfea brillante; la prima ragazza di Sem. O meglio, era stata.
«Da allora, si è rintanato nei suoi silenzi anche più di prima. Sem è uno di poche ma buone parole, eh?» si allontanò un po’, per poter osservare meglio l’effetto del suo operato. «Tu sei la prima che sia riuscita a farlo sorridere di nuovo. Ma questo te l’ha già detto Alan, vero?»
«Beh» riprese, dopo qualche istante di silenzio. «Io la vedo diversamente. Sei la prima e l’unica che sia riuscita e che riesca a farlo sorridere ogni volta»
Oh…
Riesco a farlo sorridere? Eppure, a me sembra solo più triste di prima…
«Bloom» la guardò dritto negli occhi, con un’espressione comprensiva in viso. «So che è un tipo difficile»
Bloom sospirò, chinando il capo.
«Non è difficile, di per sé. È difficile stargli accanto, ora… ricordando cosa è successo. Ricordando che potrei fargli del male, più quanto ne abbia fatto l’ultima volta» replicò, cercando di spiegare quegli intricati pensieri che non riusciva ad esprimere come avrebbe voluto.
«Sem… lui non merita di stare male a causa mia e… non voglio che corra rischi» oh, era complicato. «Non sono stata in grado di proteggere chi avrei voluto difendere e con delle semplici parole l’ho ferito più che con qualsiasi altra cosa. Non credo di meritare… niente di ciò che potrebbe offrire»
«È la stessa cosa che pensa lui di sé. Ma, Bloom…» sorrise. «non conta tanto l’esserci riusciti o meno»
Appuntò l’ultimo spillo.
«Conta l’averlo voluto. Questo fa la differenza» disse. «Sem lo ha capito; è per questo che vuole provarci di nuovo»
Averlo voluto…
«Direi che stai d’incanto. Devo solo accorciare appena la gonna. Ovviamente, cucirò un modello apposta» fece, cambiando completamente tono. «Datti un’occhiata»
Le indicò uno specchio. Bloom sgranò gli occhi, non credendo di essere finalmente riuscita a trovare qualcosa che le piacesse.
«Se non ti piace possiamo pensare a qualcos’altro, ovviamente» disse Looma, con ovvietà. Comparve dietro di lei, scrutandola. «Anche se credo ti si addica. È proprio quello che mostri così, che vuoi mostrare anche di fronte agli altri?»
La fulva si osservò, soppesando quelle parole. Come sembrava?
Una bambina. Come quel Natale, tanti anni fa.
Avevo una gonna simile, i capelli raccolti in due codini e… un paio di scarpette di vernice rossa…
Una bambina un po’ più grande; forse solo il riflesso di quell’allegria vivace e rumorosa di quando saltava dentro le pozzanghere con le galoche, o di quando preparava i biscotti con la madre.
Una ragazza dall’aria sbarazzina, vestita del suo vero io. Voleva davvero mostrarsi per ciò che era realmente a… beh, a tutti? Ai suoi amici?
A Sem?
«Fa sempre paura, mostrare il proprio lato più debole» continuò Looma.
Ed era vero.
Eppure, rifletté Bloom, Sem glielo aveva fatto vedere. Dapprima inconsciamente ed involontariamente, quasi come se lei avesse rubato un momento che non lo riguardava; ma poi glielo aveva mostrato di nuovo, e allora non ci furono più dubbi.
Un velo alla volta, giusto una maschera che sarebbe caduta frammento per frammento; né troppo veloce nella sua caduta né, come era accaduto con Sky, troppo lenta. E allora, forse, avrebbe avuto modo di riprovarci per davvero.
«Va bene così, Looma» fece, decisa.
Looma sorrise.
«Passa da me domani pomeriggio!»
 
Take me out tonight
Take me anywhere, I don’t care
I don’t care, I don’t care
And in the darkened underpass
I thought oh God, my chance has come at last
But then a strange fear gripped me and I just couldn’t ask
There Is A Light That Never Goes Out, The Smiths

 
Nella mia testa, quei due ballavano qualcosa di malinconico.
Sono un po’ scemi ed insicuri, e non si sa chi lo sia di più. Ma passerà, passerà.
Looma è un po’ uno di quei folletti che appaiono sempre spensierati e frivoli e che, in verità, sono dotati di un ottimo spirito di osservazione ed immedesimazione; e dove sarebbe, Bloom, senza di lei?
Beh, certamente senza un vestito…
Stella non avrà di questi problemi, e Musa se la caverà. Ho fiducia in lei.
E così… arriva il giorno della festa (ovvero, per noi, il 12 novembre)!
7th

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Capitolo 7
*** VII ***


VII
 
You in that dress
My thoughts I confess
Verge on dirty
Oh, come on Eileen
Come On Eileen, Dexys Midnight Runners
 

Tecna digitò l’ultima parola, firmando poi il messaggio.
Sua madre aveva espresso tutto il proprio entusiasmo all’idea che la figlia facesse ritorno due giorni dopo; lei era stata tentata di risponderle che non sarebbe tornata a casa, che sarebbe rimasta ad Alfea, che non aveva nessuna voglia di allontanarsi da lì.
Perché non aveva voluto andare a quella festa?
Il suo buonsenso le aveva detto di evitare di ficcarsi in altri guai, di non comportarsi nuovamente in maniera irresponsabile, di non perdere tempo dietro a quelle sciocchezze. Aveva riso della proposta di Stella ma, in verità, era stata sorpresa dall’aver ricevuto un invito.
Era stata sorpresa, perché non avrebbe pensato che potessero volerla in un posto del genere. E, proprio per l’assurdità della faccenda, aveva declinato.
Eppure, forse, avrebbe dovuto rifletterci con più attenzione. Perché ora una parte di lei le domandava insistentemente di infilarsi in un vestito e chiedere a Bloom e alla principessa di poter andare con loro, a discapito dell’orgoglio.
Si alzò, sporgendosi appena oltre la porta della sua stanza per osservare la frenetica corsa di quelle due. Erano in un ritardo mostruoso.
Sentiva Stella inveire contro il rossetto che, a detta sua, aveva deciso di sbavarsi proprio ad opera completa; l’altra, invece, saltellava su un piede solo e chiedeva ad uno stivale di saltare fuori.
«Come avete fatto a ridurvi all’ultimo minuto?» domandò loro Tecna.
Avevano iniziato a prepararsi due ore prima e ancora non erano pronte… ma questo non avrebbe dovuto sorprenderla troppo. Impiegavano sempre una ragguardevole quantità di tempo, quando c’erano di mezzo quelle feste.
La fata si lasciò andare ad un impercettibile sospiro, guardando fuori dall’ampia finestra che dava sul cortile della scuola. Il cielo era buio e coperto, quasi come se fosse stato sul punto di nevicare, anche se si trattava di un fenomeno piuttosto raro, per Magix.
Zenith, al contrario, era spesso investito di fredde correnti che portavano con sé candidi fiocchi. Perfino d’estate, il pianeta sembrava non voler concedere un attimo di tregua da quella rigida routine di temperature basse.
Ricordava bene le lamentele di Brandon quando, qualche mese prima, si era trovato faccia a faccia con il gelo che pervadeva la città di notte. Sospirò, di nuovo.
Sembravano trascorsi appena due giorni, da allora.
Spesso Tecna si scopriva a ripercorrere quei momenti e si domandava se la sua malinconia fosse dovuta a ciò che pensava. Ma le giornate erano volate e, con esse, anche quello strano sentimento che era riuscita a debellare.
Ora provava solo una sorta di nostalgia per quegli sprazzi di confusione che l’avevano aiutata a maturare.
Quando erano usciti tutti insieme, lui era stato giustamente troppo impegnato con la sua fidanzata, per considerarla. In quei casi si era riscoperta distante, ma ancora troppo assorta per poter seriamente prendere in considerazione i timidi tentativi di Timmy di avvicinarla.
Un po’ si sentiva in colpa per aver deciso di non essere lì con lui, alla festa. Forse si sarebbe indispettito, o offeso; o non si sarebbe minimamente scomposto.
Poco importava. Se per un attimo aveva contemplato la possibilità di cambiare idea, ora Tecna si dava della completa sciocca.
Aveva ben di meglio, da fare. Lei ed Aisha avrebbero dovuto consultare alcuni libri che contenevano informazioni preziose; li aveva scovati proprio la principessa il giorno prima.
Uscì dall’appartamento, elargendo un generico saluto a quelle due povere stolte che stavano impazzendo per dei vestiti.
Si fermò esattamente di fronte alla soglia che recava i nomi di Mirta e altre due ragazze che non conosceva. In alto, su una targhetta verde, in un’elegante e slanciata grafia c’era anche quello della principessa.
Bussò, ma non ottenne risposta. Riprovò, scocciata.
Dopo qualche istante, pensò che le inquiline dovessero essere già partite. Eppure, era certa di aver raccomandato ad Aisha di non farsi aspettare…
Forse si era solo attardata a cena. Scese per le scale, quasi correndo, senza curarsi di quei volti che le sorridevano e la salutavano; spalancò le porte della sala grande, ma vi trovò solo un gruppetto di studentesse del primo anno e il corpo insegnanti.
Dove si era cacciata, la principessa?
«Qualcosa non va, cara Tecna?» furtiva e silenziosa, la preside Faragonda era comparsa alle sue spalle.
La domanda era stata rivolta in tono cordiale, ma era carica di sottintesi. Tecna non era stupida e comprese subito il significato velato dal sorriso educato della donna.
«Hai dimenticato qualcosa qui, Tecna?» fece l’anziana, incalzandola.
«No, io…» dove altro poteva essere, Aisha? «Credo di averla dimenticata in biblioteca. Si tratta di un libro. Con permesso…»
Si defilò, cercando di mantenere la sua solita area imperturbabile. Si sarebbe realmente recata in biblioteca, con o senza la principessa.
Come immaginava – come al solito, più che altro – era deserta. Curiosamente, perfino la signorina Barbatea pareva essersi dileguata.
Si diresse verso il leggio dorato, chiamando una serie di libri che non avevano nulla a che vedere con le sue ricerche; di poi, fece il nome dei volumi a cui era effettivamente interessata.
In questo modo, avrebbe potuto eludere Faragonda se mai avesse deciso di analizzare la memoria tattile di ogni tomo. Per un attimo valutò la possibilità di starsi semplicemente facendo troppe paranoie.
Ma Tecna era così; con la mente lavorava e giungeva laddove nessun altro ne aveva la facoltà. Agire e pensare come un vero criminale; e, forse, la fredda razionalità e la caparbietà con cui elaborava quelle strategie avrebbero fatto di lei un serio pericolo pubblico, se mai avesse deciso di imbroccare una strada diversa.
Iniziò, tuffandosi a capofitto tra le braccia delle pagine sottili di quei testi che contenevano la verità.
 
Appena mise piede nella sala, Bloom fu investita da un frizzante motivetto vagamente somigliante a quello che sulla Terra era “Jingle Bell”.
Basita, si guardò indietro. Eppure, prima di varcare la soglia era stata certa di non aver sentito nulla…
«Incanto di dissimulazione acustica» spiegò Stella. «Musa e quell’altra del terzo anno ci sanno davvero fare»
Bloom annuì, sorridendo.
Lo stanzone era gremito di gente.
«Te lo avevo detto, no? Niente imbucati, almeno per un po’» rise la bionda, piroettando sulle piastrelle che risplendevano come nuove.
Quindi questi hanno tutti ricevuto l’invito regolarmente?
Lei la seguì, scrutando ammirata il lungo e duro lavoro di restauro per il quale si erano impegnati per oltre un mese. Prima che la festa iniziasse, gli ultimi ritocchi dovevano essere stati quei festoni dorati che ornavano le finestre e, beh, le prelibatezze con cui erano state imbandite due tavolate.
Bloom vi si avvicinò, riconoscendo qualche pietanza che aveva per la prima volta assaggiato alla mensa scolastica. C’erano anche dei tortini di zucca, la firma di Flora.
La cercò tra tutte le fate riunitesi attorno all’albero per ammirarlo. La sua amica era lì, con un ampio sorriso ad illuminare i suoi tratti ambrati.
Pareva leggera, nel suo abito verde mela. Di tanto in tanto diceva qualcosa ad Helia, che non l’abbandonava mai.
La videro, e le fecero cenno di raggiungerli.
«Dovresti farti vedere da Musa… sei molto rock, vestita così» rise Flora. «Da quando è qui non si è allontanata dalla console un attimo»
Le indicò il punto preciso in cui la fata della musica, sorseggiando di tanto in tanto uno strano intruglio verde, dava il meglio di sé. Ondeggiava il capo a tempo, lasciando danzare i suoi bei capelli scuri.
Poco lontano da lei, in un angolo e con un broncio a metà tra il geloso e l’infastidito, Riven seguiva tutti i suoi movimenti. Bloom non poté far a meno di ridere.
«Se continua a fissarla così gli rotoleranno gli occhi fuori dalle orbite!» considerò. «Perché non la invita a ballare?»
«Sai com’è fatto Riven» intervenne Brandon, sopraggiunto in quello stesso momento. Sorrise, sardonico. «È una vecchia burbera e bisbetica. Ma basta sparlare di lui: Jared e Maria non sono ancora arrivati e in genere sono loro due, a cavarsela meglio con la lista dei suoi difetti»
Risero, restando ad osservare il suo modo di digrignare i denti ancora un po’. Era una scena piuttosto comica.
«Intanto, voi dovete assaggiare questo» disse il ragazzo, avvicinandosi ad uno dei tavoli. Al centro troneggiava un ampio contenitore in vetro; era lo stesso intruglio verde che avevano visto in mano a Musa.
Brandon afferrò il mestolo, iniziando a riempire alcuni bicchieri. Ne porse uno anche a Bloom. «È buono» constatò. «Ma è alcolico!»
Il bruciore raggiunse rapido la gola, insieme alla risata dello Specialista. Tuttavia era davvero squisito.
Aveva un piacevole sapore a metà tra la menta, la mela verde e qualcos’altro di altrettanto fresco. Lo sorseggiò lentamente, godendosi la vista dell’albero tanto premurosamente addobbato da Sem.
Dov’era?
Lo cercò con lo sguardo.
C’erano alcuni Specialisti che ridevano con Looma e con quella fata del terzo anno che aveva lanciato l’incantesimo di dissimulazione acustica; c’era Stella che scambiava quattro chiacchiere con Vera e c’era Brandon che osservava la sua bella fidanzata; c’era Musa, che ora si era gettata in pista e volteggiava cercando di coinvolgere una più impacciata Flora.
Ma nessuna traccia di Sem.
«Sei più carina, oggi. Stai bene, così» era stato Brandon, a dirlo?
Si voltò, sgranando gli occhi. Lui ricambiava il suo sguardo, stranito.
«Ho detto qualcosa di male?» fece, dubbioso. Bloom avvampò.
«No, no… beh…» solo che non era abituata a ricevere simili complimenti. E non da parte del fidanzato della sua migliore amica, soprattutto. «Nel senso… grazie, ma… pensavo che queste cose le dicessi… beh, ecco…»
Come spiegarglielo? Lui lo aveva detto in maniera assolutamente naturale ed innocente, come se fosse stata la cosa più ovvia del mondo.
Era stato un complimento disinteressato… forse lui non avrebbe capito le cause del suo imbarazzo. «Grazie. Però queste belle parole dovresti rivolgerle alla tua fidanzata, ecco… non a me»
Lui rise forte. «No, a lei direi che è favolosa. Che è meravigliosa. Che è splendida, strepitosa, sfavillante… ho già detto “favolosa”?» elencò, senza staccare gli occhi dalla bella biondina.
In quel momento stava ridendo, alla sua maniera forte e sgraziata.
Il suo sorriso era largo, e gli occhi quasi scomparivano in mezzo a tanta ilarità, e metteva in mostra i denti piccoli, bianchi, che brillavano come perline incastonate tra le labbra rosse. Forse, se fosse stata un’altra ragazza, pensò, non li avrebbe nemmeno notati, tutti quei particolari.
«Le sue amiche stanno solo “bene”, per me. Credo faccia loro piacere saperlo, anche se… forse non… dovrei essere io, a dirglielo» concluse.
Lo disse in tono serio; e Bloom capì.
Sorrise debolmente. Anche se Sky non c’era, anche se non era lì a dirle che era carina, a rivolgerle le stesse parole che Brandon avrebbe detto a Stella… anche se Sky non c’era, le cose sarebbero andate bene.
«Non so se Sem verrà» fu quasi una stilettata.
Perché lo aveva tirato in ballo, adesso? «Ah, no?» fece, fingendosi disinteressata.
Sorseggiò la sua bevanda, prendendo ora a fissare lo stesso punto che stava scrutando lui. Era il gruppetto di Specialisti.
«Non l’ho visto per tutta la mattinata. Però non credo che sia partito, visto che ci sono suo fratello e sua sorella» rifletté.
Sorella?
Si diede della sciocca per non essersi accorta di Alan prima di quel momento. Accanto a lui c’era quella ragazza che aveva visto prima e a cui non aveva saputo dare un nome.
Esile, dai lunghi capelli dello stesso biondo miele del ragazzo e dagli stessi e sottili occhi grigi. I lineamenti, però, richiamavano quelli dei fratelli solo nel sorriso.
Così, quella era la fantomatica sorellina dei due gemelli? Pareva molto più grande dell’età che doveva avere.
«Se vuoi sapere di più, dovresti chiedere a loro» continuò Brandon.
«Che idiozie devo pensare ti abbia raccontato, quell’arpia di Stella?» borbottò, scocciata. Ecco che si ricominciava con quelle insinuazioni fastidiose.
«Niente che nessuno non abbia notato osservandovi insieme almeno dieci minuti!» replicò, con ovvietà. «Beh, io ti lascio»
Lo vide dirigersi verso l’arpia nominata qualche istante prima. Le scoccò un dolce bacio a fior di labbra, che subito si incurvarono in un sorriso soddisfatto.
Bloom non credeva che esistesse qualcuno più complice di quei due.
Beh, comunque… in fondo… anche se avesse chiesto ad Alan… non sarebbe stato nulla di così scandaloso…
Sì, insomma... era cortesia, no? Sem era una sorta di amico, no? Ci si preoccupava per la salute degli amici, no?
Avrebbe solo cercato di fare un po’ di conversazione con Alan, con la sorella e con… Looma, la ragazza del terzo anno e quello Specialista, Aibao.
Sì, insomma.
Conversazione.
Quello che si faceva alle feste.
Sì, insomma.
Bloom non era esattamente il genere di ragazza in grado di farsi avanti in maniera assolutamente disinvolta, in quelle occasioni. Anzi, in nessuna occasione.
Tuttavia, quella volta si sarebbe impegnata; sì. Ripetendolo mentalmente come fosse stato un mantra, decise di avvicinarsi a quei cinque.
Looma le sorrise, sfoggiando i suoi grossi incisivi. «Ed ecco una delle mie modelle preferite!» esclamò, prendendola a braccetto. «Ragazzi, questa è Bloom. Beh, Alan… tu la conosci già»
La ragazza fece le presentazioni, ma Bloom non riuscì a ricordare i nomi di tutti. Riuscì, però, ad intercettare le occhiate tra Aibao ed il fratello di Sem. Le venne spontaneo sorridere.
«E lei è la sorellina dei nostri burberi gemelli. Hedy» timida, impacciata. Abbassò lo sguardo, abbozzando un sorriso.
Bloom si rivide in lei. «Tanto piacere» le tese la mano.
Alan le lanciò un’occhiata torva, indecifrabile. Sembrava sul punto di dire qualcosa, ma si trattenne. «Sem mi ha… parlato molto di te» fece invece la ragazza, sollevando gli occhi.
Davvero?
«Cioè… gli ho estorto informazioni e le ho unite a quelle di Alan» puntualizzò.
«Hey!» sbottò il fratello. «Io non ti ho detto proprio nulla. Mi sono solo limitato a rispondere alle tue domande su questa fata fastidiosa»
Bloom rise, chiedendosi in realtà perché Hedy fosse tanto curiosa di… beh, sapere qualcosa sul suo conto. Sem e Alan avevano accennato qualcosa alla sorella? Perché?
«E non fare quella faccia, lei è fastidiosa. Infatti adesso mi chiederà dov’è Sem, vero? Vero?» sibilò, in sua direzione. «Vedi, Hedy? Guarda la sua espressione. Lei mi chiederà dov’è Sem, lo so. È fastidiosa»
Glielo si leggeva in faccia?
D’altronde, non era mai stata in grado di dire le bugie. Continuava a cercarlo nella sala, aspettandosi di vederlo spuntare ad un tratto e domandandosi perché diamine non ci fosse proprio quando vederlo le avrebbe fatto bene.
Non che non avesse voglia di restare lì a godersi la festa, certo. Voleva conoscere Hedy, ballare un po’, bere ancora qualche sorso di quello che le aveva fatto assaggiare Brandon e ridere con le sue amiche.
Voleva davvero fare tutte quelle cose ma, in quel momento, avrebbe voluto che Sem fosse lì, o che lei fosse da lui; per questa ragione, quando Alan si decise a spiegarle che il gemello era rimasto nella loro stanza, lei non esitò un attimo.
Quasi si precipitò fuori dalla sala, dicendo a stento a Stella dove stesse andando.
Perché? Perché desiderava vederlo a tutti i costi?
Aveva deciso di provarci, di dargli una possibilità a scapito dei sensi di colpa e dei timori; ma c’era di più?
Doveva vederlo.
Nel buio dell’antro, una strana sensazione l’avvolse.
Forse aveva camminato troppo a lungo, o nella direzione sbagliata; ad un tratto, comunque, le sembrò di essersi persa.
Il soffitto era più alto di come lo ricordava, l’aria più rarefatta e fredda, le ombre più vicine e pericolose; e aveva paura. Come avvertì un fruscio sinistro, percepì le membra paralizzarsi.
Si fermò sul posto, i sensi all’erta e gli occhi sgranati; rigida, pronta ad urlare o a dimenare gambe e braccia se qualcosa l’avesse aggredita.
Quel rumore sinuoso e fastidioso serpeggiò più forte, dandole l’impressione che fosse ad un passo da lei. Era un sibilo, eppure aveva qualcosa di umano.
Rideva, forse, in un rantolo affannato.
Era la stessa che udiva nei suoi sogni.
Era già sul punto di trasformarsi, quando quel… qualsiasi cosa fosse stato parve allontanarsi. Lì per lì pensò che si fosse fermato per scrutarla.
Forse si era acquattato nell’oscurità, osservandola silenziosa. Decise di aspettare una sua mossa ma, dopo una manciata di minuti, non accadde nulla.
Al diavolo.
«Magic Winx!» un fascio di luce investì la galleria; eppure, nessuna traccia di ciò o di chi l’aveva messa in allerta.
Evocò una fiamma abbastanza viva da poter riscaldare ed illuminare l’intero ambiente. La luce definiva i contorni delle pareti in quel punto putride, e di nient’altro.
Che si fosse immaginata tutto? Eppure, era stata certissima di aver udito chiaramente un sibilo, o qualcosa di altrettanto agghiacciante.
Strinse i pugni, guardandosi attorno. Doveva uscire di lì immediatamente e avvisare gli altri, anche se forse l’avrebbero presa per una squilibrata.
Avevano setacciato quei corridoi più volte, e non avevano mai rinvenuto nulla di pericoloso, oltre alle pantegane viola. Almeno, che lei sapesse…
Forse aveva davvero creduto di sentire qualcosa che non c’era stato. Era in preda ai suoi pensieri, alle sue riflessioni…
Sì, senz’altro era stato solo un brutto scherzo della sua mente.
Rise, nervosa, cercando una via d’uscita; quando individuò l’antro che conduceva alla festa, tirò un sospiro di sollievo.
Era l’unico che avessero provveduto ad illuminare. Volò verso la botola che comunicava con i giardini dell’accademia, respirando a pieni polmoni una volta fuori.
Si accasciò al suolo, spossata dall’angoscia che aveva provato in quegli attimi interminabili nelle gallerie. Lasciò scorrere una mano sulla fronte, trovandola fradicia.
Da qualche parte, dentro di sé, una voce le ripeteva di mantenere il controllo.
Il controllo…
Doveva riprendersi e ricordarsi della ragione primaria per cui era lì.
Sem.
Le tende della sua stanza erano ben sigillate; provò a bussare alla finestra, ma non ottenne alcuna risposta. Che stesse dormendo?
Fece un altro paio di tentativi, prima di decidersi a mettere piede nei dormitori. L’accesso era poco più in là, ma le porte erano sbarrate.
Si concesse qualche secondo per osservarle e decretare che non vi era stato applicato alcun sigillo. Impose le mani sul legno lucido, concentrandosi.
Un flebile suono di sblocco le diede il via libera.
Si muoveva con circospezione tra i corridoi, sperando che non piombasse lì qualcuno che non avrebbe dovuto vederla. Se Saladin, Codatorta o chiunque altro del corpo docente l’avesse colta in flagrante, forse le sarebbe toccato lo stesso destino riservato alle Trix l’anno precedente.
«Cosa ci fai, qui?» trasalì all’istante, pensando di essere spacciata. «Perché sei trasformata?»
Impiegò qualche istante a riconoscere Sem in quella voce impastata di sonno. Di nuovo, poté percepire il suo cuore riprendere a battere, rasserenato.
Per oggi basta con i traumi, eh?
«Sem» fu l’unica cosa che riuscì a dire, per lo sgomento.
Lo scrutò, trattenendo un sorriso di fronte a quell’espressione perplessa e addormentata. Navigava nei pantaloni che indossava, più larghi di almeno due taglie e parzialmente nascosti da una maglietta.
L’unica parola che poté trovare per definirlo fu adorabile.
«Sì, è il mio nome» fece, non capendo dove volesse andare a parare. «Perché non sei alla festa?»
«Potrei farti la stessa domanda» replicò, cercando di guadagnare tempo. Insomma, non poteva certo ammettere di aver piantato tutti in asso solo perché aveva una voglia matta di vedere lui!
«Sono malato» rispose lui, con semplicità. Solo allora, Bloom si accorse dei medicinali che stringeva tra le mani. «La ferita si è riaperta e ha fatto infezione»
Lei scosse la testa, scocciata. «Ti avevamo detto di fartela guardare dall’infermiere! Ma, ovviamente, tu non ascolti mai!»
Sem sbuffò, oltrepassandola.
«Dove stai andando?»
«A cercare di prendere sonno» sbuffò. «Risparmiati le ramanzine da mamma apprensiva. C’è già Alan, per quello»
Perché accidenti avevo voglia di vederlo? Mi dimentico sempre di quanto sia tremendamente simpatico…
Lo seguì, intenzionata a dirgliene quattro. Proprio mentre lui stava per abbassare la maniglia della porta, fingendo di non vederla, Bloom scagliò un incantesimo che bloccò la serratura.
Sem stropicciò gli occhi, aspettando che lei si decidesse a rilasciare il sortilegio. Ma lei non lo fece.
«Bloom, voglio andare a dormire»
«Fammi vedere la ferita» disse lei. «Magari posso…»
«Ho già preso queste dall’infermiere» ribatté, stanco. «E poi, francamente…»
«Fammi vedere quella maledetta ferita, Sem» esclamò, stizzita. «Non sono una guaritrice, ma magari posso aiutarti»
Sem sospirò, in segno di resa.
Bloom sbloccò la soglia, seguendo il ragazzo. La stanza che condivideva con il fratello era esattamente come qualche settimana prima; eppure, lei non poté fare a meno di guardarsi attorno come fosse la prima volta.
Non si era accorta, in precedenza, di quel piccolo acquario che fungeva da lampada notturna, o dell’abitudine di Alan di accumulare i suoi vestiti sul fondo del letto.
«C’è un po’ di disordine, come sempre» disse Sem, più per un convenevole che non per un’effettiva preoccupazione. «Ecco,» fece, dandole le spalle e sfilandosi la maglietta. «sei contenta, adesso?»
Bloom deglutì, scrutando i profondi segni che si intravvedevano anche oltre alle bende ormai quasi totalmente impregnate di sangue. Il ragazzo si sedette su uno sgabello, sbuffando. «Qual è la diagnosi, dottore?»
«Se non la pianti, ti incenerisco i capelli» lo minacciò, iniziando a sfilare le strisce di garza. «Che drago hai detto che ti ha azzannato?»
«Drago rosso degli abissi. Uno dei cuccioli nati nel periodo estivo» spiegò. «È per questo che mi detesta tanto. Non ero lì, quando le uova si sono schiuse»
«E… sai se il contatto con i suoi artigli ha qualche effetto particolare, oltre a dilaniare la carne?»
«No… perché?» chiese, facendo per voltarsi a guardarla. «Ahi»
«Scusa» sussurrò Bloom.
Sarebbe stato più difficile di quanto avesse previsto. Il lungo e profondo segno rosso, oltre ad essere più vivo ed infetto che mai, aveva in qualche modo iniziato ad assumere sfumature bluastre lungo i margini.
Nel punto in cui si incrociava con altre cicatrici, la pelle si faceva visibilmente più scura e segnata.
«Hai preso anche dell’estratto di ginestra?» gli domandò, iniziando a ripulire la piaga.
«Sì» indicò debolmente una provetta lasciata sul comodino, mordendosi poi le labbra per non gemere in maniera poco virile.
«E come pensavi di usarlo, senza che ci fosse qualcuno a medicarti?» lo prese in giro. «Devi promettermi che domattina ti farai visitare dall’infermiere. Perché non lo hai svegliato?»
Lui non le rispose nemmeno, troppo impegnato a contenersi.
Bloom allungò la mano, afferrando l’estratto di ginestra; come lo versò sulla ferita, parve dare sollievo a Sem. La sostanza viscosa iniziò a sprigionare delle deboli fiamme che ben presto si avvicinarono ai margini del taglio.
Sem non poteva – fortunatamente – assistere al fenomeno, ma riuscì a percepire un piacevole tepore percorrergli la schiena. «Cos’hai fatto?»
«Beh… l’estratto di ginestra disinfetta la ferita. Ma credo che sarà inutile per la pelle bluastra»
«Pelle bluastra?» fece, una lieve sfumatura di sgomento nella voce.
«Già» rispose lei, prendendo le garze pulite che lui aveva tirato fuori da un cassetto. «Così impari a non darmi retta»
Quando Bloom ebbe finito, calò il silenzio.
Non che si aspettasse un’ovazione, ma almeno avrebbe potuto ringraziarla. Invece, Sem sembrava effettivamente intenzionato a dormire.
Si sdraiò su un fianco, digrignando appena i denti dopo un movimento troppo brusco.
«Beh… grazie»
«Non c’è di che, Sem» disse lei, sorpresa.
L’aveva ringraziata?
Si voltò, sciogliendo la trasformazione. Forse era arrivato il momento di tornare alla festa, di fingere di non aver provato quel folle desiderio di poter vedere quei begli occhi grigi che ora la stavano guardando.
Come si accorse di lui, voltò il capo, imbarazzata.
Lui sorrise, in un sospiro divertito.
Non si faceva problemi a mettere le mani sulla schiena di un ragazzo, ma arrossiva fino alla punta dei capelli se il suddetto ragazzo la guardava, se il suddetto ragazzo si malediceva per non riuscire ad allontanare lo sguardo dalle sue gambe morbide, da quella stupida gonna che le nascondeva le cosce.
Si diede dello sciocco per aver formulato quel genere di pensiero su di lei, e si voltò sull’altro fianco; il sonno lo colse poco dopo, con ancora impresso in viso il sorriso ed il ricordo di quel momento in cui, poco prima, lei si era mostrata per com’era davvero.
«Sem?» lo chiamò, piano.
Aveva il respiro leggero, rilassato, il volto sereno.
Come quando abbiamo ballato…
Si rannicchiò accanto a lui, tra il letto e la scrivania, chiudendo gli occhi.
Non aveva voglia di tornare dagli altri, di fingere di divertirsi e di essere felice. Non aveva voglia di allontanarsi da quel momento surreale in cui tutto era sospeso, in cui sembrava che potesse essere notte per sempre.
Distese le gambe, sistemandosi meglio.
L’ultima cosa che percepì prima di addormentarsi fu il riverbero di quel fruscio che aveva sentito nelle gallerie. Il tremore della terra ed una risata che strisciavano con un sibilo nelle ombre di un posto dimenticato da tutti.
 
I was teased by your blouse
Spit out by your mouth
I was loud by your lowered
Seminary soul
Creature Fear, Bon Iver
 
Oh, sì; c’è qualcosa, sotto Redfountain. E non è un simpatico animale da compagnia.
No, Tecna non si aggrega a certa plebaglia; ed è una fortuna, per l’economia delle ricerche! Forse Faragonda ha intuito?
Sem è un allevamenti di draghi-addicted, perciò se le va a cercare. A Bloom non passano le manie di fare la crocerossina, e così si addormenta per terra.
Il prossimo capitolo è decisivo. Almeno, per questa prima parte del catacolo… del calagoto… del catalogo. Grazie a tutti per i commenti, risponderò quanto prima!
Che bella, la domenica!
Al 26 novembre!
7th

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Capitolo 8
*** VIII ***


VIII
 
Oh, the lives that brush against us, pass us by and by
The friends who may or may not come if we would first invite
Oh, to open doors, to always gladly fly and fly
Into the sting of the cold and the prick of the barded wire
Evensong, The Innocence Mission
 

Timmy abbozzò un timido sorriso in risposta alla battuta di Jared.
In realtà, non era nemmeno sicuro di averla capita; l’umorismo dell’altro era piuttosto singolare. Tuttavia, gli altri sembravano quasi commossi dalla vis comica delle sue parole e non emularli avrebbe implicato dare adito a sospetti.
Insomma, non poteva certo lasciare che lo guardassero, smettessero di divertirsi e gli domandassero perché mai fosse così cupo proprio quella sera; non voleva che lo costringessero a non pensarci e a scatenarsi in pista come loro.
Perché, in verità, aveva intenzione di trascorrere il resto dell’intera serata a rimuginare su quella triste incognita che continuava a ronzargli in mente.
Perché Tecna non c’era?
I giorni precedenti si erano tenuti in contatto e lei lo aveva informato circa la sua partenza, ma non gli aveva detto nulla riguardo la festa.
Anzi, a dirla tutta, non avevano mai affrontato l’argomento. Lui aveva dato per scontato che lei ci sarebbe stata, che sarebbe arrivata con le sue amiche.
Ma le cose non erano andate così.
Forse… forse si era aspettata che lui tirasse fuori il discorso, che la invitasse. Che sciocco. Perché non ci aveva pensato prima?
Tecna era una ragazza. Brillante, razionale e ligia al dovere; ma pur sempre una ragazza. Gli altri gli avevano accennato qualcosa in merito…
Forse si era semplicemente stufata di aspettare; forse ora voleva qualcosa di più, e lui non era stato in grado di capirlo.
Oppure… non aveva ricevuto l’invito da Stella?
«…È possibile, Timmy?» la domanda di Maria lo riportò alla realtà.
«No, non credo…» replicò subito, senza nemmeno rendersi conto delle parole che erano volate dalle sue labbra in risposta a quella sciocca ipotesi formulata dalla sua mente.
I suoi amici lo osservarono, perplessi.
«Scu-scusate… devo andare un attimo in bagno» fece, abbassando lo sguardo.
Mentre si allontanava, poteva indistintamente sentire i sussurri di chi aveva assistito alla scena e l’aveva trovata strana; perché lui era sempre quello strano, quello bizzarro; ma quel giorno pareva esserlo ancor di più.
Aveva importanza? Anche Tecna lo trovava bizzarro?
Uscì dal salone, richiudendosi alle spalle la pesante porta. L’antro di fronte a sé era illuminato quel poco che bastava perché non inciampasse sui suoi stessi piedi.
Forse avrebbe dovuto telefonarle. Chissà, magari aveva rifiutato l’invito proprio per la natura di quella festa, troppo chiassosa e distante dai suoi gusti.
Forse.
Digitò in fretta il numero telefonico, esitando qualche istante. Si fece forza; ma Tecna non rispose.
Fece un altro paio di tentativi, allontanandosi sempre più dalla sala; ma ancora nulla. Sospirò, sedendosi su un cumulo di detriti della parete dietro di sé, franata.
Avrebbe dovuto smettere di accampare tutte quelle ipotesi solo per non affrontare la realtà dei fatti. Sapeva, ormai, di non poter più continuare a nascondersi dietro le sue e-mail, dietro quelle conversazioni fatte di parole che non valevano niente.
A lei non bastava più; e ne aveva tutte le ragioni.
Ma tutto ciò non faceva per lui.
Conoscere una ragazza, frequentarla, fare il primo passo con lei e manifestare il proprio interesse così da… no, non era per lui. Avvertiva un blocco al petto ogni volta che ci pensava. Forse, forse non era ancora pronto, e doveva aspettare.
Ma lei sarebbe stata in grado di fare altrettanto?
Mentre rifletteva, cercò una posizione più comoda.
La consistenza di quei detriti era curiosa. Ma dov’era finito?
Fece per alzarsi, quando si accorse di ciò che lo scrutava nell’ombra. E, d’un tratto, comprese.
Urlò, ma era già troppo tardi.
 
Ormai era trascorso un bel po’ di tempo; ma di Bloom ancora nessuna traccia.
La prima ad accorgersi della sua assenza prolungata fu Flora. Cercava di scorgerla tra le decine di presenti; eppure, sembrava essere scomparsa.
Raggiunse Stella che, in quel momento, stava ballando insieme al fidanzato e a Musa.
Poco distante c’era Alan, affiancato da Aibao; il primo sorseggiava qualcosa, di quando in quando, guardava di sottecchi Brandon. La fata dei fiori non riusciva proprio ad inquadrarlo, ma aveva inteso che dietro a quelle occhiate di astio vi fosse ben altro.
«Inizio a preoccuparmi. È via da molto» esordì, raggiunte le amiche.
«Sarà con Sem… ma non hai visto come si guardano, quei due?» scherzò Brandon, con un’occhiata maliziosa e divertita. «Insomma, non mi sorprenderei se avessero iniziato a parlare e… da cosa nasce cosa, quindi…»
«Guarda che mio fratello non è un poco di buono!» tuonò Alan, voltandosi di colpo.
«Rilassati, Al» intervenne Aibao. «Stava solo scherzando»
Il biondo scosse la testa.
Scherzava sempre. «Non sa fare altro. Mi domando se si comporti da buffone anche con la sua ragazza. Forse non fa sul serio nemmeno con lei» proseguì. «Non me ne sorprenderei. Bah. D’altronde, con una così…»
Alan si accorse tardi di essere stato sentito e di aver esagerato.
Come rivolse un’occhiata tagliente alla principessa, qualcosa lo costrinse a terra; e il fitto vociare si ammutolì, lasciando le vivaci note della melodia che risuonava come unico sottofondo di quello spettacolo patetico.
Il ragazzo si portò una mano al naso, sentendolo dolorante. Sanguinava.
«Puoi sputare acido quanto vuoi, finché si tratta di me» ora Brandon era minaccioso. «Ma non toccare Stella»
«Ma sei impazzito?» sbottò Stella. «Ti sembrava il caso?»
Lo Specialista non rispose, allontanandosi. La fidanzata scosse la testa, sospirando.
Si inginocchiò accanto ad Alan, cercando di capire se fosse integro.
Intorno, la festa riprese; e così, le parole che seguirono levitarono appena.
«Mi dispiace»
Lei abbozzò un sorriso. «Non è niente. Ti posso capire»
«Certo che anche tu potevi risparmiarti tutta quella scenetta» lo apostrofò Musa, aiutandolo a rialzarsi. «Aibao, di lui ti occupi tu?»
Il ragazzo annuì, non trovando la forza di guardare in viso l’altro. D’altronde, per quanto potesse sforzarsi, sapeva perfettamente quanto Alan trovasse difficile estirpare i suoi sentimenti, belli o brutti che fossero stati.
«Andiamo a cercare Bloom, Flora» continuò la fata della musica. Gettò un’occhiata a Riven, per rassicurarlo. «Stella, tu vieni?»
Stella trasalì, come risvegliandosi. Annuì, distogliendo lo sguardo da quello deluso di Brandon, che la scrutava da lontano.
Tentò di scacciare dalla testa il malevolo pensiero che Alan avesse avuto ragione. Insomma; forse era stato vero per l’estate precedente, quando lui le era parso lontano e non più suo. Ma ora?
Uscirono di lì, pronte per la trasformazione; quand’ecco che udirono dei rumori, in lontananza. Come ovattati, quasi deboli; rassegnati.
Erano urla.
«Cosa diamine è stato?» fece Stella, irrigidendosi.
Musa acuì i sensi, cercando di individuare la fonte di quelle grida strazianti. La voce sembrava… «Ma è Timmy!»
Ora che ci pensava, le sembrava di averlo visto allontanarsi poco dopo l’arrivo di Jared. Cosa poteva essergli successo? «Dobbiamo trovarlo! Musa,» esclamò la principessa. «credi di riuscire a trovarlo attraverso la sua voce? Questo posto è un labirinto»
Quella annuì. «Però ho bisogno che tu mi faccia luce. Flora, puoi avvisare gli altri? Quando lo avremo trovato ti contatteremo, in qualche modo»
Flora corse subito indietro; come scomparve, le due si trasformarono.
Mentre setacciavano le gallerie di quelle tetre rovine, le urla sembravano essersi affievolite. Parevano più un rantolo, una richiesta disperata di soccorso; per Musa era ora più difficile rintracciare il povero Timmy.
Per di più, ogni via era quasi speculare a quella già percorsa, come se i corridoi di quella scuola fossero stati tutti uguali.
Ad un tratto, si ritrovarono in un vicolo cieco. Di lì il passo era sbarrato da quelli che dovevano essere stati scaffali.
«Cosa facciamo, ora?» domandò la fata del Sole e della Luna. «Il percorso si interrompe qui, ma di Timmy nessuna traccia»
«Riproviamo. Deve pur…» l’altra si interruppe. Le sembrava di aver scorto come una fenditura in una parete; si avvicinò. «Vieni a vedere»
Accostò le mani al cemento corroso dal tempo, e questo si rivelò avere la stessa consistenza di una vecchia pergamena.
Si frantumò, rivelando un altro passaggio. Da lì in poi, il pavimento si faceva più umido e scivoloso e le due ragazze dovettero appoggiarsi alle pareti per non ruzzolare a terra – con grande rammarico di Stella. Non potevano nemmeno volare, per quel poco spazio che stavano attraversando.
Non avrebbero saputo spiegarsi come ma, per quel che vedevano così, anche con la luce che la principessa riusciva a richiamare, pareva loro di star attraversando una discesa che si snodava attorno ad un nucleo centrale.
Le grida di Timmy erano più vicine; eppure, a ben pensarci, qualsiasi cosa lo avesse attaccato non lo aveva di certo portato là in fondo passando per quel muro che si era sbriciolato come gesso. Da dove poteva essere passato?
Le suppliche cessarono all’improvviso; al loro posto, si udì un tonfo. E poi più nulla.
Continuarono a scendere, trovando il ragazzo proprio quando Stella aveva iniziato a sentirsi male per la troppa lontananza dalla superficie.
Lo Specialista giaceva su quella che doveva essere roccia, in uno stato comatoso. Non sembrava aver perso sangue né aver riportato lesioni di altro tipo.
«Dobbiamo avvisare Flora. Prendi il telefono di Timmy, credo sia in qualche tasca… lo ha sempre con sé» fece Musa, controllandogli il polso. Respirava; forse era solo momentaneamente svenuto.
Stella fece una smorfia insofferente, estraendo un microscopico aggeggio dalla giacca del ragazzo. «Non so se funzionerà, da qui»
«Ma certo che sì. È di Timmy» ricordò, afferrando il telefono dalle mani dell’amica.
Cercò il numero di Flora, pregando che rispondesse o che avesse almeno il cellulare con sé per accorgersi di eventuali chiamate perse. Fortunatamente la fata rispose subito.
«Pronto? Timmy?» era la voce di Brandon. «Mi senti? Sono Brandon. Stai bene?»
«Sono Musa. Io non… so come spiegarvelo. Se vi trovate davanti all’ingresso della sala, proseguite a sinistra; da qui…» iniziò, riflettendo. «In una delle gallerie c’era una sezione di parete più rovinata delle altre. Ha ceduto e si è aperto un altro passaggio; se riuscite a trovarlo, continuate a scendere finché non ci raggiungete»
Sperò che avessero un po’ di fortuna e che potessero trovare il passaggio in poco tempo. Non sapeva se Timmy si sarebbe ripreso e non sapeva nemmeno quanto potesse resistere Stella, lì sotto.
Per di più, non era certa che quel qualcosa che aveva trascinato lì il loro amico non si facesse nuovamente vivo.
Cercò di scrutare qualcosa, nell’ombra; ma tutto taceva. Non riusciva nemmeno a percepire quella creatura.
Perché si tratta di una creatura, e non di una persona; vero?
Per qualche ragione, la rendeva tesa come una corda di violino l’idea che qualcuno potesse aver assalito un ragazzo senza ragione e se ne stesse potenzialmente acquattato nell’oscurità. Da una certa prospettiva, era più incline a considerare normale che lo facessero i mostri che affrontavano spesso.
E se avesse aggredito anche Bloom?
I minuti trascorsero, interminabili; Stella, adagiata contro la nuda pietra, respirava a fatica. Musa rievocava ogni sua reminiscenza delle lezioni di primo soccorso ad Alfea, nel vano tentativo di risvegliare Timmy.
Tuttavia, il fatto che non avessero mai affrontato quel genere di malanno la lasciava in balia delle sue sole capacità. Forse, avrebbe potuto provare a fare lo stesso che lei e Flora avevano tentato per Vera, quando Darcy l’aveva spedita in un limbo con la sua maledizione.
Volle fare un tentativo ma, come batté le mani, le pareti circostanti vibrarono pericolosamente. Scosse la testa e, in un impeto di frustrazione, sbatté una mano a terra.
Non avrebbe funzionato, non in quel luogo e, soprattutto, non senza che qualcuno isolasse l’ambiente come Flora aveva fatto quella volta.
Perché si scopriva sempre impotente, quando c’era bisogno che facesse qualcosa?
Sospirò piano; ammutolendosi poi nel momento esatto in cui le parve di percepire un battito alle sue spalle. Era stata la roccia, ne era certa; ma come era stato possibile?
Tese le dita, lasciando che accarezzassero la superficie dietro di lei. La pulsazione era debole e lontana, ma presente; era come se, dietro la selce nuda, vi fosse un cuore.
«C’è qualcuno?» era Brandon. «Musa?»
La figura dello Specialista emerse dal buio e, con lei, anche quelle di Riven e della fata dei fiori. Sconvolti, corsero loro in contro.
«Cosa è successo?» chiese il moro, passandosi un braccio della fidanzata sul collo ed issandola in piedi.
«Non lo sappiamo…» dovette ammettere Musa. «Sappiamo solo che è meglio uscire di qui quanto prima. Che ne è, degli altri?»
«Helia, Aibao e Jared hanno stanno facendo evacuare la festa, ma non so come tutti riusciranno ad andare via» spiegò Riven, adagiandosi Timmy sulla spalla come se fosse stato un sacco di patate. «Penso che se ne occupino Maria ed altre, anche se non ho capito come»
«Stai bene?» le chiese Flora, anticipando il ragazzo o forse facendogli un favore e liberandolo dall’onere di domandarlo.
Lei annuì, sebbene non ne fosse certa.
«Alan ci ha avvisati che Bloom sta bene. L’ha trovata addormentata nella loro stanza» continuò la fata.
«Grazie al cielo…» esalò Stella, sollevata.
Musa sospirò, sentendosi più leggera. Fu una sensazione momentanea perché, all’improvviso, le balenò in mente il ricordo di ciò che lei e Riven avevano intravisto un giorno, proprio lì sotto.
Era stato un mese e mezzo prima, quando era appena stata scoperta quella maledetta botola che dava verso la vecchia scuola. Con la coda dell’occhio, loro…
Sì, ora tutto tornava.
E si sentì infinitamente imbecille per non aver ricollegato le due cose.
«Dobbiamo uscire di qua anche noi» considerò Brandon. «Se Timmy è stato trascinato qui vuol dire che ciò che lo ha preso è ancora in zona»
Avanzò nell’ombra, puntando la torcia che aveva con sé verso lo stretto sentiero che si intravedeva. Sembrava troppo angusto, perché qualcosa potesse anche solo strisciarvi attraverso; il passo era chiuso, era un vicolo cieco.
Significava forse che la creatura era rimasta acquattata lì attorno, ad osservarli?
Tutti loro se lo domandarono, ma ebbero timore della risposta; e, mentre si allontanavano e richiudevano la botola sotto i loro piedi, Musa ebbe come l’impressione di udire una risata mista ad un sibilo.
 
Si svegliò di soprassalto, individuando immediatamente la causa di quel clangore metallico che era risuonato per le pareti della stanza.
Jena aveva appena fatto accidentalmente cadere uno dei suoi calderoni dallo scaffale sul quale li aveva riposti. Maria emise un mugugno di protesta, a cui la compagna rispose con un’occhiata perplessa.
«Mi stavo appunto chiedendo quando avessi intenzione di alzarti. È quasi mezzogiorno» le fece, scansando un cuscino che l’altra le lanciò per farla tacere.
«Ieri notte è stato tremendamente faticoso portare via tutti, cosa credi?» borbottò, sprofondando nel materasso.
Jena fece spallucce. «Dovresti esserci abituata, no?»
«Non mi riferivo al dispendio di energia» sbraitò, stringendosi attorno al piumone.
Non dovette aggiungere nulla perché l’altra potesse capire. E, non lo avrebbe mai ammesso, ma era certa di aver perso qualche anno, quando aveva visto Maria fare ritorno alle tre di quella mattina e con un’espressione sconvolta.
La maledisse, pensando che nemmeno quella Trisha del secondo anno e le sue pozioni sarebbero riuscite a far scomparire quella ruga che sicuramente sarebbe comparsa sulla sua fronte, dopo quell’evento.
«E quel Jared? Era stanco anche lui?» fece, con noncuranza.
Maria biascicò qualcosa. Jena rise tra sé e sé; quando rispondeva così, la sua compagnava stava segretamente recriminando qualcosa al baldo e basso giovane del suo cuore.
Quasi esplodeva per l’ilarità, quando pensava a quanto quella ragazza si dannasse per uno che, senz’altro, rientrava nella categoria “bravo ragazzo” – e dunque prediletta di Maria – ma che incarnava un perfetto idiota sotto svariati aspetti; prima tra tutti, quella sua strana avversione per le streghe che era riuscito a placare solo da quando aveva deciso di cedere al fascino dei capelli lilla.
E poi era basso…
«Cos’ha fatto, questa volta?» continuò, seria.
Lei non rispose, voltando il capo verso la finestra. Pioveva.
Non le andava di raccontare a Jena di come Jared avesse passato quasi più tempo con quella Hedy che non con lei.
Certo, era la sorella di Alan, uno dei suoi amici più cari; e si conoscevano da tempo. Eppure, quando ne parlava, lo Specialista era sempre così entusiasta…
Ed Hedy non era poi tanto più piccola di loro…
«Beh, se non altro non c’entra una fata. Altrimenti avresti già sbraitato le peggio cose… sai, da questo punto di vista è buffo che tu abbia amiche fate» scherzò, uscendo.
Prima che chiudesse la porta dietro di sé, Maria la invitò calorosamente ad andare all’inferno. Non aveva bisogno che Jena contribuisse a ribadire la pateticità della situazione.
Sbuffò appena, sentendosi poi in colpa.
Non doveva trovare patetica l’idea di avere delle fate, come amiche. Anzi, si erano spesso rivelate più empatiche loro della sua compagna di stanza, che conosceva da quattro anni.
Si chiese come stesse Musa. Prima che Alan e Brandon avessero avuto la brillante idea di scannarsi, aveva ballato un po’ con lei, ma non avevano effettivamente avuto modo di parlare.
E poi Timmy era scomparso e, come lui, Bloom.
Si decise ad afferrare il telefono dal comodino, per chiamare ad Alfea e vedere come fosse la situazione. Sfortunatamente per lei – o per la fata della musica – in quel momento pareva che il Winx Club avesse faccende ben più urgente di cui occuparsi.
Quella mattina, Stella si era alzata al sorgere del Sole.
Stiracchiatasi nel letto, aveva provato come una sensazione di piacevole torpore; un’energia che proveniva da dentro e che coincideva con quella luce che filtrava dalle tende e che per troppi giorni era stata offuscata dalle nuvole.
Il suo primo pensiero era stato Brandon. La notte prima, nel mezzo del panico generale, non avevano avuto modo di chiarirsi circa quello che era successo alla festa.
Anche ora, che era al suo fianco a Fonterossa, non riusciva a dire nulla. Mentre camminavano per il cortile, si domandava se lui fosse per qualche ragione arrabbiato anche con lei.
Il ragazzo, dal canto suo, taceva, troppo assorto nella loro missione. Si erano trovati lì insieme a Riven, Helia e Sem per ispezionare le gallerie, ancora una volta.
Si chiedevano come avessero potuto non accorgersi di un mostro là sotto, dopo tutte le volte che avevano perlustrato le rovine. Riven aveva detto di aver intravisto qualcosa, forse, qualche tempo prima.
Era con Musa ed entrambi avevano avuto l’impressione di vedere di sfuggita qualcosa muoversi dietro dei detriti. Ma, quando era successo, era stato di sera ed entrambi avevano cercato di convincersi che si fosse trattato di traveggole, o di qualche topo.
Helia, invece, aveva ipotizzato che fosse una creatura notturna e che, di conseguenza, durante i diversi giri d’ispezione era stato loro impossibile vederla perché si era rintanata lontano dalla luce del Sole.
Così si spiegherebbe perché è apparsa ieri e perché io e Riven abbiamo avuto l’impressione di vederlo solo le prime ore della sera…
Brandon fece sì che la botola si spalancasse, facendo poi segno agli altri di calarsi giù.
Prima che Stella saltasse, le regalò un sorriso.
Dentro di sé, lei, tirò un profondo sospiro di sollievo.
Il posto era esattamente come la notte prima, anche se le candele che avevano disposto lungo il corridoio principale erano ormai liquefatte. La fata le fece svanire.
Una volta dentro il salone, il panico della notte precedente investì tutti loro.
Il punch che era stato posizionato al centro di un tavolo era ora rovesciato a terra, i rivoli che ancora colavano dalla tovaglia ormai quasi del tutto sul pavimento. Alcune teglie di pasticcini giacevano spappolate al suolo, forse pestate dalle scarpe di qualcuno.
Sem non riuscì a nascondere un barlume di dispiacere per il grande albero che aveva – che lui e Bloom avevano – abbellito con cura. Alcune palline di vetro dovevano essere cadute ed erano andate in frantumi.
Era una sciocchezza, ne era consapevole; ma, in quel momento, fu quasi come se la situazione gli si fosse parata davanti con la durezza di uno schiaffo. Per qualche momento, tutti loro non poterono fare a meno di chiedersi perché non potessero avere una vita normale e dovessero sempre fronteggiare mostri e creature di ogni genere.
«Maria deve essere esausta. Ha portato via tutta questa gente» ragionò Stella. «Questo branco di barbari»
«Dai; tu cos’avresti fatto, al loro posto? Erano spaventati» fece Brandon.
«Chi è che ha stilato la lista degli invitati?» domandò Riven, infastidito. «Quegli infissi li avevo montati io»
Helia rise. «Non abbiamo pensato a come far sparire tutta questa roba. Non credo che a mio nonno farebbe piacere trovarla, se mai dovesse nuovamente scendere quaggiù»
«Si può fare» annunciò la bionda, gonfiando il petto. In un battito di ciglia si era trasformata ed aveva già iniziato a far svanire di tutto e di più.
Storse il naso di fronte al cibo a terra. Non aveva mai avuto di questi problemi, ma sapeva riconoscere uno spreco.
Alla fine era esausta. Il salone era spoglio, ma ancora in uno stato troppo poco decadente rispetto a come lo avevano trovato.
«Di quello ci occuperemo questo pomeriggio. Basterà distruggere un po’ qua e là» disse Brandon. «Ora dovremmo piuttosto cercare tracce del mostro…»
Per le due ore seguenti, i ragazzi setacciarono le gallerie da cima a fondo.
Perfino nell’antro in cui avevano trovato Timmy pareva non esserci il minimo segno del passaggio di quella creatura che aveva seminato scompiglio. Lì sotto Stella, sebbene stanca per lo sforzo e per la sua lontananza dalla superficie, riuscì ad avvertire qualcosa.
Sul fondo, da dietro la vasta parete di pietra scura, pareva provenisse un suono. Non vi aveva fatto caso, quando era stata lì la prima volta; eppure, era come se un battito vibrasse appena, sfinito e flebile, nel vano tentativo di essere sentito.
Si avvicinò, percependo sempre più distintamente quelle pulsazioni ovattate ed aritmiche, domandandosi a cosa fossero dovute. Anche i ragazzi dovevano avvertirle ma, naturalmente, nessuno avrebbe saputo spiegarne la provenienza.
Alla fine, in ogni caso, del mostro non vi era l’ombra e giunsero alla conclusione che, effettivamente, dovesse trattarsi di un essere notturno.
Quando fece ritorno ad Alfea, la principessa era troppo sfiancata per poter pensare di non affogare nel morbido abbraccio delle sue coperte. La mente era ferma alla creatura, a ciò che c’era oltre quella selce; al panico ed al povero Timmy; a Bloom che, per qualche istante, aveva creduto nelle mani di ciò che aveva assalito lo Specialista.
Tuttavia, il cuore era fermo alla serata precedente, ai momenti prima dello sgomento.
Ricordava bene la sua prima volta ad una festa di quel tipo.
Era stato in occasione del compleanno di uno dei maghi di Fonterossa, uno dei più popolari e rinomati perfino tra il corpo insegnanti. Osannato da professori e compagni, non aveva saputo niente di quel party fino al momento in cui non era entrato nell’appartamento che ad Alfea la sua ragazza condivideva con le amiche.
Lì era stato assalito da uno stuolo di ospiti che, in quello spazio quanto mai ristretto rispetto alle esigenze dei presenti, era sembrato ancor più corposo.
Era stata l’ultima festa nel college delle fate; dopodiché, ne erano seguite molte altre. Una festa per il Soldì, come quell’anno; una per il test finale superato brillantemente dai cadetti di quell’anno.
Una serie di eventi di cui Stella ricordava luci e colori, ma non nomi e voci. A ben pensarci, il suo primo anno era stato piuttosto vuoto.
Si era divertita in quel modo frivolo in cui si divertono coloro che hanno tanti conoscenti e nessun amico. Ricordava le stupidaggini che aveva combinato, in quei mesi; e allora li ricordò ora con nostalgia, ora con amarezza.
Anche con Looma al suo fianco, aveva sempre avuto l’impressione che mancasse qualcosa. Erano stati i giorni migliori e, insieme, peggiori della sua breve esistenza.
Poi tutto era cambiato e, oltre ad amicizie vere, aveva trovato Brandon.
Tutte le feste a cui aveva partecipato l’anno precedente le aveva trascorse in sua compagnia, senza quasi badare agli altri presenti, agli altri ragazzi che la guardavano o che, semplicemente, volevano scambiare due chiacchiere con lui.
Era stato soprattutto in quei momenti, in quelle piste da ballo arrangiate, in cui si stava stretti, che si erano avvicinati di più. Ai tempi in cui lui era ancora Sky e Sky era lui, lei non si sarebbe mai sognata di poter amare qualcuno che fosse nobile solo nell’animo.
Eppure, adesso, realizzava quanto sarebbe stata triste la sua vita se le cose non fossero evolute in quello stesso modo.
Brandon; non principe, ma solo Brandon. Lo stesso che trascorreva molto tempo con un compagno di accademia più anziano di lui di un anno, un certo Alan.
Nei suoi ricordi, Stella custodiva il timido sorriso che quel giovane dalla testa piena di riccioli le aveva rivolto quando si erano presentati. Uno Specialista molto vicino a quella matricola di cui cercava continuamente di richiamare l’attenzione.
Ma Brandon non ci aveva mai fatto caso; la compagnia dell’altro era così piacevole che se ne separava quasi solo quando era in missione. Anche Sky – quello vero – era stato piuttosto legato ad Alan e a Sem, ora che ci rifletteva.
Ed il primo aveva scambiato l’affetto dell’amico per qualcosa di più profondo, ed era rimasto così scottato dal calore della verità che adesso appariva inacidito e non più quello stesso ragazzo sensibile e timido che le aveva stretto la mano circa un anno prima.
Stella sospirò afferrando un cuscino e piazzandolo a coprirle il volto.
Ogni giorno che passava e che parlava con Alan, leggeva una grande tristezza in quelle pozze di argento liquido che si facevano sempre un po’ acquose, quando si riflettevano nei bagliori degli occhi di lei.
E la fata, se da una parte vi trovava un segno della propria vittoria, dall’altra riconosceva la sconfitta del ragazzo come qualcosa che coinvolgeva lei stessa nel profondo. E si sentiva tremendamente colpevole.
Stella sapeva perfettamente che nessuno poteva essere obbligato ad amare.
Forse poteva essere indotto a farlo ma, nel caso di Brandon ed Alan, il problema alla radice era ciò che più turbava il secondo. E lei avrebbe solo voluto potergli stare vicino perché, in verità, avrebbe desiderato che le cose tra loro potessero andare diversamente, che loro potessero essere amici.
Per quella ragione, la sera prima, quando il fidanzato aveva reagito in maniera eccessiva, lei non aveva potuto fare a meno di cercare di aiutare il biondo come meglio poteva. Perché lei avrebbe sempre voluto aiutarlo.
Si rigirò piano nel letto, udendo poi dei passi avvicinarsi alla porta che dava accesso alla stanza. Bloom bussò, chiamandola.
Un suo occhio, ora sgranato, sbucò dalla fessura che si era aperta. «Allora sei sveglia» sorrise, entrando. «Vieni di là. Tecna ha scoperto qualcosa»
La ragazza si alzò di malavoglia. Non era in vena di altre pessime notizie.
Nella camera che quella condivideva con Musa, sembrava essersi scatenato un putiferio. Il pavimento era occupato dalle valigie delle rispettive proprietarie che, di lì ad un giorno, avrebbero fatto ritorno nei loro luoghi d’origine.
Nella confusione delle magliette e di tutto ciò che ancora non aveva trovato posto nei bagagli – si trattava per lo più di averi di Musa – l’altra pareva avere una gioiosa pazzia negli occhi.
«Ho avuto la soluzione sotto il naso per giorni e giorni!» sbraitò Tecna.
Quando le altre avevano fatto ritorno a scuola, nel cuore della notte – o meglio, all’alba – l’avevano trovata ancora in piedi, ad esaminare manuali su manuali, come fosse stata assalita da un impeto di follia.
Non era inusuale che la ragazza rinunciasse al sonno per placare la sua sete di conoscenza; tuttavia, quella volta era parsa loro esaltata come non mai.
Il riepilogo di ciò che era accaduto alla festa sembrava solo averla ulteriormente spronata ad impiegare anima e corpo per risalire a galla; e, alla fine, pareva ci fosse riuscita.
«Immagino sappiate – e, se così non fosse, ora ne siete a conoscenza – che la scuola di Torrenuvola ha un suo nucleo. Potremmo paragonarlo a quello che per gli umanoidi e le bestie corrisponde al cuore» iniziò, guardando negli occhi ciascuna delle tre ragazze.
Musa restava alle sue spalle, rigirandosi di tanto in tanto sulla sedia girevole.
«Il nucleo fu inserito come fosse garante di protezione. È, in sintesi, un meccanismo di difesa per l’istituto» disse. «Io e la principessa abbiamo scoperto che, quando la minaccia che lo riguarda è troppo pressante perché le sue allieve possano occuparsene, il nucleo dà vita ad un organismo vero e proprio che risolva il problema, epurando la struttura dal pericolo»
«L’organismo si ricongiunge al cuore appena l’elemento di disturbo viene eliminato. Può trattarsi di qualsiasi cosa; un sortilegio – uno tra i più complessi che esistano – ne garantisce la completa eliminazione. In verità, Torrenuvola non è l’unica a disporre di questa caratteristica» spiegò.
Pausò, concedendo alle amiche il tempo di soppesare le sue parole.
Come lei ed Aisha avevano scoperto, anche Alfea e Fonterossa possedevano un sistema difensivo simile. «Secondo le nostre supposizioni, la scorsa estate è stata originata a Fonterossa una creatura che, per volere del nucleo, contrastasse i mostri delle Trix» proseguì.
«Quindi, quella cosa che ieri ha attaccato Timmy potrebbe esserlo?» fece Stella, sdraiandosi sul letto di Tecna, senza troppi complimenti. Si teneva del ghiaccio premuto contro le tempie; lo sforzo della notte precedente e di quel pomeriggio l’aveva ormai spossata.
L’altra annuì, cercando di non badare a quella libertà che la bionda si era presa.
«Sì, ma… questo cos’ha a che fare con le conversazioni tra Faragonda e gli altri presidi? Con le vacanze per il Soldì?» rifletté Flora.
Tecna stava per replicare, ma Musa la precedette.
«Forse sono consapevoli della presenza di quella creatura nella scuola. Forse sanno che non è ancora svanita e che è estremamente pericolosa» suggerì. «Dopotutto, ieri ha aggredito un innocente, qualcuno che non ha danneggiato la scuola e che non rappresenta il motivo per cui la creatura stessa è stata originata»
La compagna di stanza, suo malgrado, si trovò d’accordo con lei. «Ora l’organismo di difesa si è trasformato in una minaccia perché, per qualche motivo, è fuori dal controllo del nucleo. I presidi devono essersene accorti e devono aver stabilito di occuparsene in un momento in cui tutti gli studenti siano al sicuro» proseguì.
In quel modo, ogni dettaglio tornava.
Le registrazioni, l’urgenza con cui quel periodo di riposo era stato prospettato loro… sì, la vicenda era ora più chiara.
Eppure…
«Tecna, i volumi che hai consultato descrivevano la posizione del nucleo rispetto alla scuola e il tempo che impiega per originare il suo difensore?» chiese Bloom, a quel punto.
Lei rifletté qualche istante; poi, scosse il capo. «Non ricordo di aver letto a proposito di quel che hai domandato. Ma presumo che il nucleo di Fonterossa si trovi nei paraggi delle rovine del precedente istituto»
«Credo… di averlo sentito. Quando io e Stella abbiamo trovato Timmy in quell’antro…» realizzò Musa, ora ottenendo l’attenzione di tutte e quattro. «La parete alla quale ero appoggiata… pulsava. Credete che il nucleo fosse lì?»
La bionda annuì. «Oggi abbiamo setacciato le rovine nuovamente. Anche a me è parso di avvertire delle pulsazioni. Erano fiacche, però…»
«Se così fosse… non pensate che possa essere stato danneggiato?» suggerì la fulva, sospirando. «Mi pare che la vecchia scuola fosse sprofondata nella terra in seguito ad un terremoto; giusto? Il nucleo potrebbe essersi rovinato; ed ecco perché ha dato vita ad un organismo ed ora non è più in grado di richiamarlo a sé»
Probabilmente, la creatura risiedeva là sotto fin dall’estate precedente, ma non aveva avuto modo di uscire allo scoperto poiché sepolta metri e metri sotto terra; e, allo stesso tempo, non aveva potuto tornare da dove era venuta perché il cuore di Fonterossa si era indebolito nel tempo.
Faragonda e gli altri conoscevano quei dettagli?
«Quella cosa… esattamente… che aspetto ha?» domandò Stella. «Qualcuna di voi lo ha visto?»
Flora scosse la testa; Bloom raccontò di aver avuto una sorta di incontro ravvicinato con la creatura e di non averla vista per il troppo buio. «Sembrava quasi che… sibilasse, o qualcosa del genere»
«Come un serpente?»
«No, era… diverso. Come se…» come spiegarlo?
Si era trattato di un suono raccapricciante, che aveva avuto in sé qualcosa di orrendo ed intrigante al tempo stesso.
«…Come se ridesse?» continuò Musa per lei, alzatasi ora dalla sedia.
L’altra annuì, sorpresa che lo avesse sentito anche lei, in qualche modo. Era stata convinta, in quel momento, di aver avuto un’allucinazione.
«È stato poco prima che uscissimo dalla botola, e…» forse… avrebbe dovuto dire tutto quello che sapeva. Non avrebbe più avuto alcun senso tenere nascosta la verità, ora che comunque le sue amiche l’avevano assaggiata.
Lo aveva fatto per loro, solo per loro.
Per tutto il tempo che era stata a conoscenza del male che si annidava, silenzioso, dentro Fonterossa… non aveva fatto altro che pensare alle Winx, a sperare che potessero restarne fuori.
Non voleva, non voleva che rimanessero coinvolte in qualcos’altro di pericoloso. Aveva cercato di evitare che si insospettissero circa il Soldì e che indagassero, ma questo l’aveva portata a reggere sulle sue sole spalle quel fardello, che l’aveva spinta a prendere le distanze.
Così, aveva compromesso ogni cosa e, alla fine, non era nemmeno riuscita nel suo intento primario e, anzi, aveva portato le persone che amava più vicine al pericolo, senza saperlo.
Quando aveva intravisto la creatura, insieme a Riven, entrambi avevano pensato che non fosse niente di pericoloso, e poi… e poi non si era più fatta viva e non avevano avuto motivo di preoccuparsene troppo.
Sciocchi; erano stati sciocchi, ma lo avevano fatto in buonafede.
Lo raccontò.
Ingoiò tutto il suo orgoglio, tenne gli occhi chini per tutta la spiegazione; avvertì le guance in fiamme e le membra che tremavano; quale sarebbe stata, la reazione delle altre quattro?
Non sapeva se le costasse di più ammettere di aver commesso un errore così sciocco o di averlo commesso per proteggere loro.
L’avrebbero insultata? Lo avrebbe meritato.
Era stata troppo scontrosa perfino per i propri standard, specialmente con Tecna.
Stella rise e, per un attimo, Musa provò una gran rabbia. Pensò che fosse buona solo a ridere e a fare la sciocca, quella.
Poi l’abbracciò, senza dire una parola, e se ne andò nella sua stanza. «Fatemi sapere quando decidiamo di andare a Fonterossa per sistemare quel coso. Vado a fare un riposino di bellezza»
«Perché, ovviamente, noi interverremo; vero?» fece Bloom, ridendo.
Tecna si strinse nelle spalle, scambiandosi un’occhiata con Flora. «Temo non vi sia altra soluzione. Provarci ormai è nostra prerogativa, no?»
La fulva sorrise. «Non ricordo quando sia stata l’ultima volta che non abbiamo ficcanasato in qualcosa» considerò. «Beh, credo che andrò a mangiare del pudding»
Regalò a Musa un sorriso, scuotendo appena la testa.
Flora le strinse una mano. «Siamo amiche, Musa. Avresti dovuto dircelo… mal comune, mezzo gaudio!» come le altre, scomparve dietro la porta. «Vado ad innaffiare le piante»
La fata della musica, basita, non capiva cosa stesse succedendo. Perché, improvvisamente, tutte sembravano avere un impegno?
Ad un tratto, quando fu sola con Tecna, realizzò il piano subdolo delle altre Winx. Si batté una mano in fronte, dandosi della sciocca.
La compagna di stanza, dal canto suo, parve non degnarla di attenzione. Sedette alla sua scrivania, prendendo immediatamente a digitare tasti freneticamente.
Era quasi come se fosse sola con il suo computer.
«Beh?» fece Musa, dopo un po’. «Non dici nulla?»
Quella si voltò, lentamente, inarcando le sopracciglia sottili all’inverosimile. «Cosa ci si aspetta che io dica?»
«Non lo so» sbuffò la ragazza, appollaiandosi sulla propria sedia.
«Credo tu sia consapevole della tua sconsideratezza» appuntò la fata della tecnologia, riprendendo poi da dove si era interrotta.
«Intendevo… beh, per il fatto di…» sospirò; com’era difficile! «Per il fatto di avervi allontanate per questa ragione»
«Appunto» replicò Tecna, rimanendo con gli occhi fissi sulla e-mail indirizzata al povero Timmy che, a quanto pareva, si era svegliato. «Non avresti dovuto. Se non altro, il fardello sarebbe stato di più semplice sopportazione»
Si alzò, cercando un paio di calze nell’armadio.
«Mi… dispiace, Tecna. Mi dispiace molto» ammise, a fatica.
«Sì, immagino sia logico» rispose lei, con noncuranza.
Calzò un paio di scarpe che normalmente lasciava nell’angolino più remoto della stanza. In un anno e mezzo di conoscenza, non l’aveva quasi mai vista indossarle.
«Dove vai? Non dovremmo pianificare quell’incursione?» chiese. «Manca… un giorno alla chiusura delle scuole»
Si voltò verso di lei. «C’è il pudding. Dovremmo approfittarne»
L’amica la lasciò interdetta e, proprio mentre stava per abbozzare un passo in avanti, qualcosa la trattenne.
Una sensazione piacevole, come di un tepore che si levava dal cuore e che faceva rilassare e distendere le membra e, allo stesso tempo, le rinvigoriva. Prima che potesse realizzarlo, qualcosa iniziò a prendere forma sul suo petto.
Argentea, dalla forma di una chiave di violino, una sorta di spilla stava appuntata sul suo maglione. Musa la guardò con gli occhi sgranati, riuscendo a vedere la propria espressione stupefatta riflessa in quella pietra lucida e dai colori di una violetta.
Veloce com’era comparsa, la spilla svanì.
«Tecna! Tecna!» esclamò correndole dietro. «Tecna!»
Mentre si precipitava per i corridoi, non riusciva a mascherare quella strana allegria che l’aveva assalita, non riusciva a smettere di ridere come non faceva da tempo.
«Tecna!» rise, una volta che l’ebbe raggiunta. «È successa una cosa!»
Forse aveva trovato un po’ di quella bellezza che non riusciva mai a far sua. Forse… non ci voleva poi chissà che cosa.
Contagiata dall’espressione dell’altra, Tecna fece una faccia strana e portò una mano a coprire la bocca; ma Musa non si lasciò ingannare.
Un sorriso; solo… un sorriso.
Le era sembrato che Tecna avesse sorriso.
 
 
We’re nothing, and nothing will help us
Maybe we’re lying
Then you better not stay
But we could be safer,
Just for one day
Heroes, David Bowie
 
Povero Timmy…
Secondo me qualche paranoia se la fa anche lui, ogni tanto. Insomma, lo saprà di essere totalmente negato, no?
La festa è finita male, ma ci saranno altre occasioni.
La storia dei nuclei è pura invenzione, non so se ci siano effettivamente; ma ho sempre pensato: se Torrenuvola si può spostare può essere che abbia una specie di cervello o di istinto?
Ora hanno scoperto i mali dentro le mura; bisogna andare ad estirparli. Ma… la vicenda finirà davvero lì? Tecna mangerà davvero il suo pudding?
Scrivere di lei e Musa che si riappacificano è stato divertente. La seconda, ovviamente, ha agito come avrebbe fatto la nostra fata-androide (come aveva provato a fare all’inizio); e perdere la propria migliore amica è un po’ come perdere un pezzo di sé, no?
Ah, sì, lo Charmix! La questione verrà approfondita in seguito ma, comunque, trattandosi della seconda serie, almeno lo Charmix non mancherà (che Gesù benedica quelle spille e quelle borsette, mi piacciono troppo).
Al 10 dicembre con la resa dei conti (almeno in parte)!
Un grazie tutto sberluccicoso a quei cuori che leggono o recensiscono!

7th

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Capitolo 9
*** IX ***


IX
 
You’re not the only one
Staring at the sun
Afraid of what you’d find
If you stepped back inside
Staring at the sun, U2
 
Vedere Fonterossa in quelle condizioni non apparve poi tanto tanto strano ai ragazzi.
Quella notte fredda non era molto diversa da quella afosa dell’estate precedente in cui le virtù e lo spirito dei maghi erano stati messi a dura prova dal male.
Le aree esterne della scuola erano quasi deserte e così anche le aule, i corridoi, i dormitori e perfino le stalle dei draghi– come Sem aveva spiegato, se ne sarebbero presi cura gli allevatori del centro dell’Allevamento che frequentava egli stesso.
Gli unici ospiti dell’accademia erano i pochi studenti rimasti, Codatorta, altri docenti ed il vecchio Saladin che, scrutando al di là della finestra un’ultima volta, prima di addormentarsi, aveva percepito una frizzante energia che da est giungeva trasportata dal vento.
In preda all’agitazione, le Winx e gli Specialisti si calarono per la botola.
Come misero piede sulle fredde piastrelle della vecchia scuola, un refolo gelido investì tutti loro insieme all’eco di un sibilo e di una risata.
Quel suono agghiacciante invitò ciascuno a farsi avanti.
Avevano riflettuto a lungo sul da farsi. Intervenire o lasciare tutto nelle mani dei presidi?
Il pericolo e la posta in gioco erano elevati, ma Tecna e le altre non volevano pensare di aver fatto tanti sforzi per nulla. Per di più, avevano concluso che quelle vibrazioni che molte di loro avevano avuto l’impressione di percepire, e che negli ultimi giorni si erano intensificate, erano dovute allo spostamento della creatura che albergava lì sotto.
Il suo frenetico muoversi rappresentava un pericolo per l’intera Accademia che sorgeva su quelle rovine, e la fata della tecnologia aveva calcolato che sarebbe crollata l’intera struttura se avessero aspettato ancora un giorno.
Perciò, mossi dall’idea di ciò che era giusto e non di ciò che era conveniente, i ragazzi si addentrarono per le gallerie di quello che un tempo era stato un luogo vivo ed affollato.
Decisero di non frammentarsi in piccoli gruppi. Il fatto che Saladin e gli altri avessero esitato a lungo lasciava intuire la pericolosità di una creatura che necessitava di più forze, per essere sconfitta.
Eppure, come ciascuno di loro aveva realizzato, se il mostro era nato per sconfiggere le creature d’ombra e loro ce l’avevano fatta, forse, l’impresa non sarebbe stata poi così complicata, no?
Più il tempo trascorreva e quella cosa non si trovava, più avrebbero tutti voluto tornare indietro. Non avrebbero saputo come spiegarselo, ma l’aria che filtrava dalle crepe delle pareti aveva in sé un che di maligno; un’energia che permeava nei loro cuori e ne accresceva l’inquietudine.
Un incanto che crebbe e raggiunse il suo picco massimo nel momento in cui, con la stessa tempestività di uno schiaffo, qualcosa li raggiunse alle spalle, costringendoli a terra e trascinandoli in un buio vorticoso, fatto di voci, sussurri ed urla mostruose.
Nella baraonda, nessuno poteva percepire nulla all’infuori di sé e di quel chiasso infernale; niente oltre alle ombre che si facevano sempre più forti e truculente. L’oscurità prendeva forma sotto i loro occhi, per tutti in maniera diversa.
Erano consapevoli che il mostro avrebbe cercato di aggredirli ma, nonostante questo, la rapidità con cui sferzò l’aria con la sua corporeità giunse totalmente inaspettata.
I ragazzi fecero appena in tempo a scansarsi ed a schivare anche gli attacchi successivi. La creatura sembrava percepire la loro presenza ma, abituata a muoversi senza la luce, era diventata cieca.
I suoi movimenti la spingevano da ogni parte, costringendola a scontrarsi con le pareti strette delle gallerie; i suoi sibili non erano risate, ma grida di una rabbia che giungeva metallica e amara dalle sue labbra.
Mentre si contorceva nel tentativo di abbracciarli tutti nella sua morsa, si divisero.
Bloom prese per mano Tecna e Riven, i più vicini a sé. Si accucciarono dentro un’ampia fenditura del terreno, cercando di combattere il disgusto provocato dal tanfo di muffa.
La ragazza fece un po’ di luce evocando una debole fiamma, ansimando; tremava, forse più per la paura che non per l’adrenalina. La presenza di quella creatura suscitava in lei lo stesso effetto della volta precedente, quando il panico si era impossessato del suo corpo come non aveva mai fatto.
Era quasi una reazione involontaria, la sua; come se per natura fosse stata spinta a temere quel male più di ogni altro.
Ora si udivano dei singulti inumani e dei suoni che lì per lì non parevano molto diversi dai fruscii delle vesti; l’oscurità avanzava sinuosa e dolorante, alla ricerca delle sue nove prede di quella notte.
«Se è una creatura d’ombra non sarebbe sufficiente la Fiamma del Drago, per sconfiggerla?» sussurrò Bloom.
Tecna scosse la testa. «È una creatura oscura, ma non della stessa natura di quelle a cui diedero vita le Trix. Le creature d’ombra erano state originate dalla Fiamma del Drago, ricordi?» fece in risposta. «Questa entità ha preso vita nel momento in cui le stesse creature hanno attaccato l’accademia; perciò deve essere depositaria di un potere abbastanza efficace da contrastare quello della magia di cui erano impregnati quei mostri»
La fulva tacque, stringendo i pugni. «In poche parole… per sconfiggere me?» ecco perché provava una paura folle, in quel momento. «Perciò, noi… cosa possiamo fare? Tu non hai in mente un… piano?»
L’altra ragionò.
Aveva un’idea, abbastanza valida da mettere finalmente a tacere quella storia, ma troppo azzardata per essere di facile riuscita. Ci aveva riflettuto tutto il giorno, giusto per non fare irruzione a Fonterossa e scontrarsi con qualcosa che non avrebbe potuto scalfire nemmeno per ipotesi.
«La convergenza» disse allora, gli occhi fissi in quelli agitati ed ora curiosi di Riven.
Bloom sussultò. «Ma è…»
«…un argomento che è stato a malapena accennato, a scuola» concluse Tecna per lei. «Lo so. Ma è la nostra unica possibilità»
L’altra deglutì. Forse si sarebbero dovute premurare di escogitare qualcosa prima di piombare lì sotto.
Ricordava sprazzi del discorso di Griselda, durante una delle ultime lezioni; la convergenza. Un’unione non di soli incantesimi e scintille, ma di menti ed anime che, nell’esatto momento in cui si cercavano e si trovavano, davano il via ad un tripudio di energia a cui nessuna creatura poteva resistere.
L’ispettrice non aveva esaurito la materia più di tanto, dal momento che le fate del secondo anno se ne sarebbero occupate solo durante gli ultimi mesi di corso. Tuttavia, loro cinque avevano fatto dei tentativi.
«È un’impresa dispendiosa e anche piuttosto rischiosa. Se anche dovessimo riuscire ad incanalare l’energia, potremmo indirizzarla lungo la traiettoria sbagliata, qualora il mostro dovesse continuare a muoversi» rifletté la ragazza. «E allora rischieremmo di vedere Fonterossa crollare su di noi»
«Io e gli altri potremmo creare un diversivo» intervenne allora Riven. «Così da condurre il mostro in un vicolo cieco, o qualcosa del genere»
Tacquero. Si sarebbe trattato di una mossa utile; ma quanto erano disposti a rischiare?
«È troppo pericoloso, Riven!» sbottò Bloom, regolando poi il tono di voce non appena sentì la creatura avvicinarsi.
«È pericoloso, ma necessario» disse Tecna, freddamente. «Riven, mentre io e Bloom distraiamo il mostro, vai a cercare gli altri ed illustra il piano»
Quello, forse per la prima volta nella sua vita, annuì remissivo, sgattaiolando fuori dal loro nascondiglio. L’essere era là fuori e, come udì i passi del ragazzo, scattò in avanti.
Prima che quelle che, presumibilmente, dovevano essere le sue fauci – o qualsiasi cosa vi andasse vicino – raggiungessero la carne dello Specialista, un getto rovente si perse nell’oscurità di cui era fatta la creatura.
Quella assorbì il fuoco, confermando le ipotesi di Tecna: era immune alla Fiamma del Drago. Il colpo non era andato a segno, ma aveva perlomeno distratto il mostro da Riven.
«Okay… come ce la caviamo?» chiese Bloom, la voce che tradiva il panico.
«Per intanto…» l’altra guardò in direzione del punto in cui il ragazzo era scomparso. Pregò che ci impiegasse poco. «…Scappiamo!»
Corsero, maledicendo gli spazi angusti con cui avevano a che fare e domandandosi come quell’ombra vivente potesse muoversi lì, ogni notte, e dar voce al suo tormento senza che ogni cosa le crollasse sopra.
Come formularono quel pensiero, il terreno prese nuovamente a vibrare, cosicché il sordo rumore di pareti che si squarciavano le raggiunse. Il soffitto stava per cedere.
Dopo un po’ non seppero più in che direzione stavano correndo, né da quanto tempo; Tecna gongolò quando si accorsero di aver raggiunto il tanto agognato vicolo cieco.
Non persero un istante; subito fasci di luce e sortilegi di ogni tipo tessero delle barriere che potessero fermare lì il mostro, anche solo temporaneamente. Reti fitte di dati e specchi di ogni genere bloccarono il flusso di quell’oscurità che, filtrando attraverso i sottili spazi tra un nastro e l’altro, cercava di ricomporsi al di fuori dello scudo.
Fu tardi che le due si accorsero dell’inutile dispendio d’energia; perché ormai la creatura si era già ricostituita alle loro spalle, pronta per attaccare.
Fu solo grazie al pronto intervento delle altre Winx, che Bloom e Tecna riuscirono a scansarsi in tempo.
In un gioco quasi labirintico, Flora aveva intrecciato un fitto telaio di quelle piante rampicanti che Bloom aveva scorto al di fuori delle finestre del grande salone, una delle prime volte in cui era andata lì.
Subito dopo, gli Specialisti si precipitarono in avanti, cosicché loro cinque potessero iniziare. «Ve la sentite?» domandò la fata della tecnologia, correndo verso di loro.
Stella sorrise. Sembrava debole. «Sarà un lavoraccio» constatò. «Ma che fate saremmo, se non ci provassimo?»
Musa annuì. «Puoi dirlo forte. Alla fine, è come quando abbiamo unito i poteri per far tornare normali le uova di Serperatto, no?» scherzò. «Il mostro è solo un po’ più grosso e vivace»
Prese le mani di Flora e della principessa, e ricercò la forza dentro di sé.
Di nuovo avvertì quell’inebriante ed allegra sensazione che aveva percepito la prima volta che lo Charmix aveva fatto la sua scomparsa, e lo ritrovò lì. La pietra viola rifletteva la sua determinazione.
Si disposero in cerchio, chiudendo gli occhi.
Non sarebbe stato semplice.
I sibili della creatura ed i gemiti, i respiri affannosi dei ragazzi impedivano loro di trovare la giusta concentrazione. La mente correva automaticamente agli Specialisti, alla vanità del loro tentativo di sferzare, con le loro spade ed i loro mezzi, qualcosa che non potevano nemmeno scalfire.
Metaforicamente, era come se non avessero alcuna possibilità contro un male ancor più forte per essere stato bene, prima di quel tempo. Un male che aveva aspettato, era cresciuto ed ora si lamentava in quei versi spregevoli che apparivano risate amare.
Chi avrebbe mai potuto fronteggiare, o anche solo comprendere, una creatura che aveva perso la sua luce, aveva perso il suo bello?
I ragazzi, forse, erano anche più estranei di loro a quel mondo di magie che da vive e brillanti si tramutavano in quell’ombra senza fine che albergava nelle rovine di se stessa.
E allora pregarono; pregarono per i ragazzi, per sé, per Magix. Pregarono per il mostro, perché trovasse finalmente quella pace da cui era stato svegliato a causa di chi, di pace, non ne aveva mai avuta.
La preghiera risuonò nelle loro menti; e perciò Tecna sentiva la voce di Bloom, e Bloom quella di Stella; e così via, fino a che ognuna non percepì il pensiero di tutte le altre e lo fece suo. Erano un tutt’uno, lo spirito che univa cinque corpi e faceva loro perdere la cognizione d’essere, cosicché avessero l’impressione di essere parte di un’unica, grande voce.
Quando la preghiera fu ascoltata e ripetuta e le fate spalancarono gli occhi, la terra – e, questa volta, l’intera dimensione – tremarono di una magia antica, che il mondo riviveva con gioia in ogni momento in cui delle anime, diverse e uniche, trovavano qualcosa di affine e si cercavano, mettendo da parte discordie e differenze per abbracciare una sola, vera e totalizzante bellezza.
Le loro mani si strinsero con più forza; e, nel momento in cui sentirono la presa e la vista venire meno, seppero che ce l’avevano fatta.
«Che cosa succede, qui?»
Musa, per la quale lo sforzo era stato più intenso che per le altre, cadde in un sonno profondo poco prima che Saladin piombasse nelle rovine della scuola, poco prima che l’incubo di quel male terminasse e che esso ritornasse in quel grande cuore stanco che ora poteva riposare.
 
I ragazzi erano là dentro da una buona ventina di minuti e, sempre da una buona ventina di minuti, Bloom non faceva altro che camminare avanti ed indietro per il corridoio antistante l’ufficio del preside di Fonterossa.
Flora stava seduta in silenzio, rigida, che si torceva le mani. Dalla postura composta di Tecna non traspariva alcuna agitazione, ma nei suoi occhi grandi era chiaramente leggibile la frustrazione che la stava logorando.
L’unica apparentemente serena era Stella. Appoggiata alla parete, intenta ad osservarsi le unghie, intonava un motivetto allegro. Bloom la trovò un po’ stonata.
«Si può sapere cos’hai da canticchiare?» le domandò, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni.
La principessa sollevo lo sguardo, inarcando le sopracciglia come se si fosse accorta della sua presenza per la prima volta. «Sono contenta perché domani è la vigilia del Soldì. Voi no?»
Come rispose, la porta si spalancò. I quattro eroi – Brandon, Riven, Helia e Sem – ne uscirono stremati, ma con uno strano sorriso in volto.
Prima che una di loro potesse chiedere spiegazioni, Helia fece loro segno di entrare. «Credo sia meglio che vi sbrighiate. Faragonda e gli altri vi aspettano»
«Non sanno nulla della festa. Mi raccomando» sussurrò Brandon all’orecchio di Tecna, lasciandola entrare.
Una luce genuina investì le ragazze appena misero piede nella stanza. Davanti alle finestre, le figure dei tre presidi le attendevano, stoiche.
Si fecero forza. In fondo, non poteva andare poi così male.
O, per lo meno, questo era quello che credevano.
Per tutto il tempo in cui rimasero lì – Sem tenne il conto; mezz’ora e sette minuti – Faragonda in primis non si risparmiò di sbraitare loro addosso quanto fossero state sconsiderate ed imprudenti a decidere di agire - senza nemmeno consultare chi di competenza!
Per non parlare poi della maniera in cui, non fidandosi del giudizio dei loro insegnanti, avevano deciso di investigare circa questioni di cui sarebbero dovute rimanere all’oscuro.
L’anziana, che ora comprendeva le ragioni per cui aveva sorpreso Tecna ed Aisha nel suo ufficio, era davvero incredula di fronte a tanta mancanza di rispetto che “francamente si sarebbe aspettata solo da un branco di streghe del primo anno”. La Griffin non poteva che annuire.
Le ragazze rimasero in silenzio per tutto il tempo, conoscendo bene la furia di Faragonda e la quasi totale impossibilità di spuntarla con lei, in una discussione.
Erano consapevoli di aver sbagliato; ma l’errore stava a monte, al giorno in cui loro per primi – vecchi maghi a capo di tre scuole – non si erano fidati dei propri alunni e non avevano ritenuto possibile che la loro negligenza e la loro incapacità di osservare davvero avesse potuto spingere delle ragazze, le Trix, a tessere un sottile piano sotto il loro naso.
In un certo senso, era così naturale che la fiducia nei presidi fosse svanita, che l’idea di confrontarsi con loro, di domandare, di chiedere aiuto o di fare qualsiasi altra cosa sotto la loro supervisione, beh… era divenuta inconcepibile.
Ma, forse, se questa volta avessero lasciato tutto nelle loro mani, avrebbero potuto dimostrare di esserne in grado, di saper far fronte ad un problema senza che la situazione precipitasse. Già il solo fatto che avessero deciso di intervenire lasciando all’oscuro i loro studenti… non era forse segno che qualcosa era cambiato?
Allora, probabilmente, se Tecna ci avesse riflettuto prima, avrebbe trovato insensato quel gran putiferio che, in quelle settimane, aveva combinato per comprendere più a fondo quello che succedeva sotto Fonterossa.
Perciò, appena la ramanzina terminò, decise di assumersi le proprie responsabilità.
Era vero, come disse, che le amiche ed i ragazzi risultavano coinvolti; tuttavia, era importante specificare come lo fossero stati solo a causa della sua incapacità di mettere un freno alla curiosità e alla sospettosità.
Zittì le proteste delle altre con un cenno della mano. «Se è necessaria una punizione… vi pregherei di considerare le mie parole. La responsabilità è mia, in primo luogo»
Saladin annuì, severo; ma, ben presto, la linea dura della sua mascella si sciolse in un sorriso e lo stesso valse per le colleghe.
Il mago e la strega lasciarono la stanza, affidando le ragazze alle cure di Faragonda.
Da dietro le sottili lenti, gli occhi della donna parevano ora pieni di orgoglio.
«Nonostante tutto…» iniziò, per poi interrompersi.
Talvolta si domandava se fosse quello, ciò che aveva sempre cercato.
Seguire le fragili linee delle vite di ogni fata, vederle intrecciarsi, sciogliersi e poi rincontrarsi in un gioco che scorreva sotto al suo sguardo. La scuola, che per lei era casa di tutte le bellezze, era ben più del semplice apprendere.
Vi erano cose – e Faragonda lo sapeva bene – che spesso trascendevano le conoscenze tramandate dai libri e che si potevano concretizzare nel momento stesso in cui i fili di cui sopra erano protagonisti di un nodo così saldo da far nascere un’alchimia indissolubile.
Quelle cinque ragazze, che erano riuscite per ben due volte laddove chiunque fosse pieno di manuali e formule forse avrebbe fallito, erano chiaramente invincibili finché erano insieme. La loro Convergenza era quel legame che poche volte, in tutta la sua carriera e, più in generale in tutta la sua vita, aveva avuto l’occasione di sentire.
Senza contare che non poteva negare la loro arguzia – e quella di Tecna specialmente. Né poteva negare di essere profondamente sorpresa dall’aver appreso che una delle allieve che procedeva più a rilento, Musa, avesse scoperto l’incanto dello Charmix senza che quasi gliene fosse stato accennato qualcosa.
«Suppongo che…» forse, quelle giovani non se n’erano accorte neppure, o non ricordavano la scossa di energia che per pochi istanti aveva smosso Magix.
Faragonda l’aveva avvertita in sogno e, una volta sveglia, aveva avuto l’impressione di essere ancora in preda a quegli spasmi che derivavano da una condivisione così grande. Certamente avevano avuto molta fortuna; se anche solo una di loro avesse perso la concentrazione l’incantesimo si sarebbe probabilmente riversato sulle altre.
«…la vostra audacia e la prontezza che avete dimostrato non siano biasimevoli. Senza trascurare la perfetta riuscita di un incanto che non avete quasi avuto modo di sperimentare, durante le lezioni» concluse.
Le ragazze si scambiarono delle occhiate incredule. Lei sorrise, soddisfatta.
«Non fate quella faccia. Non ci saranno punizioni» riprese. «Ma dovrete promettere di non agire mai più in questo modo. Ci sono cose che… temo non possiate capire, per ora. Dovete promettere di avere fiducia in noi»
Dobbiamo promettere di fidarci di voi? Di non immischiarci più in affari che, dal vostro punto di vista, non ci riguardando?
Tecna strinse quasi impercettibilmente le labbra.
Aveva preso inconsciamente l’abitudine di farlo, quando qualcosa meritava il suo disappunto.
Forse avrebbe davvero dovuto fare come Faragonda aveva detto. Abbassare gli occhi, la bocca e le orecchie; accettare le cose come sarebbero capitate, senza porsi troppe domande.
Eppure, l’impulso di fare di testa sua era troppo forte.
«Quel che è successo a Musa è solo il risultato del vostro agire nell’ombra. Francamente, credo di essere sempre stata disponibile e benevola, nei vostri confronti… dovreste avere più fiducia nel mio giudizio» concluse, forse un po’ risentita.
Certamente, Tecna ci avrebbe provato. D’altronde, quel briciolo di senso di responsabilità che le era rimasto suggeriva di rigare dritto e cercare di indirizzare le condizioni della sua mente ad un punto di ripristino.
Uniformarsi e riprendere a comportarsi come prima; fare ritorno a scuola e viverla come qualunque altra studentessa, senza caricarsi fardelli eccessivi… viverla con spensieratezza, a partire da quelle tanto discusse vacanze.
Alfea era in fermento. Le ragazze incontrarono diverse studentesse per i corridoi, prese dal panico o dalla collera per uno shampoo o per delle spazzole che non trovavano.
Il Soldì era alle porte.
In un certo senso, era quasi frustrante pensare che nessuna delle loro compagne di scuola – a parte Aisha – fosse a conoscenza della loro impresa; della loro forza di volontà – per quanto avesse sfiorato i confini della testardaggine.
Musa si era ripresa in fretta e sembrava più in forze che mai, ma chissà cosa doveva aver provato. Faragonda aveva spiegato che, essendo lei l’unica ad aver acquisito lo Charmix, aveva speso molte più energie di loro, durante la Convergenza.
«Quindi ora possiamo partire?» fece la fata della musica, allacciandosi le braccia dietro la testa.
Salì in cima alle scale con ampie falcate, piroettando poi su se stessa una volta raggiunto l’ultimo gradino. Sembrava allegra e piena di vita.
«Come mai sei così felice di tornare a casa?» sorrise Flora.
L’altra si strinse nelle spalle, restituendole il sorriso. «Almeno mi potrò riposare un po’. E poi sono sorpresa che Faragonda non fosse furiosa; mi aspettavo tuoni e fulmini»
Bloom rise. «Per una volta che combiniamo qualcosa di buono»
Ora potevano finalmente distogliere la mente da tutte quelle tensioni che avevano imbrigliato i loro nervi in quei tempi.
Tutte e cinque percepivano ormai restaurata l’armonia tra di loro e, anche se forse nessuna lo avrebbe mai ammesso, quasi non potevano ricordare come potessero andare avanti prima, quando nel gruppo si era venuta a creare una frattura.
Percorsero i corridoi di Alfea così e, per un attimo, provarono ad immaginare che quello fosse il loro ultimo giorno in quella scuola. Come doveva essere, per le studentesse dell’ultimo anno?
Come doveva essere, per loro, avere la consapevolezza di dover presto tuffarsi nel mondo degli adulti? Le Winx avevano sperimentato solo qualche breve ma dolorosa incursione; missioni quasi suicide, morti e mostri.
Quelle esperienze erano state sufficienti a fornire un quadro abbastanza esauriente su quello che le aspettava al di fuori della scuola. Come doveva essere, trovarsi ad un passo dall’accesso permanente ad una vita di responsabilità, sacrifici e perdite?
Bloom rabbrividì e scoprì che non aveva poi molto senso e molta voglia di pensarci in quel momento, di rovinare quei pochi istanti in cui la magia tra loro era quanto di più bello avesse mai vissuto.
Nel loro appartamento, quasi non parlarono. Tranne Tecna, che si era occupata dei suoi bagagli a tempo debito – e che, comunque, aveva bisogno solo del suo aggeggino elettronico per tornare a casa – le altre quattro dovevano ancora occuparsi di ogni cosa.
«Pensi di portare a casa tutto, Bloom?» le chiese Flora, guardandosi attorno nella loro stanza. Stava decidendo quali piante portare con sé e quali lasciare lì. «Alcune sopravvivono a lungo senza aver bisogno di particolari cure. Perciò potrei lasciarle qui, perché immagino che in autobus occuperebbero troppo spazio… però…»
«Vuoi che ne porti io qualcuna con me?» domandò Bloom, mentre piegava un paio di pantaloni. Non aveva ancora perso l’abitudine di farlo a mano.
La bruna sorrise, scuotendo il capo. «Ti ringrazio, ma l’atmosfera della Terra sarebbe troppo pesante, per loro. Forse chiederò ad Helia»
«Quindi… avevo ragione!» la voce di Stella rimbombò da oltre la porta della camera.
La principessa si catapultò dentro, con un ghigno trionfante.
«Stella che origlia… ma che sorpresa» sospirò Bloom, a metà tra il divertito e l’esasperato. «Non dovresti riordinare le centinaia di abiti che hai nel guardaroba?»
«Mh, direi di no. No, li lascerò quasi tutti qui» rispose. «Ma, tornando alle cose serie… avevo ragione? Trascorrerai il Soldì con Helia?»
Flora arrossì fino alla punta dei capelli. Si voltò, cercando di nascondere l’imbarazzo. «Beh… non proprio… insomma…» balbettò. «È solo che abitiamo piuttosto vicino, e quindi…»
«Certo, certo…» sorrise la principessa, con il tono di chi la sapeva lunga. Senza fare troppi complimenti, si stravaccò sul letto di Bloom. «Quindi immagino che non avrai tempo per fare una capatina su Solaria, vero?»
«Ma non dovevi stare con Brandon, tu?»
Scosse la testa. «Udite, udite!» esclamò, sperando che il suo proclama giungesse anche nella stanza di Tecna e Musa. Non ottenne però risposta. «Ho detto… udite, udite! Musa? Tecna?»
Dall’altro lato dell’appartamento provenne un sonorissimo sbuffo.
Dei passi, e le due ragazze le avevano raggiunte. «Cosa c’è da strillare, ancora?» sospirò la fata della musica, sfilandosi dalle orecchie degli auricolari. «Ho tentato di alzare il volume per non sentirti, ma non posso andare oltre un certo limite. Cosa devi dire, di così importante?»
«Che modi!» fece la bionda, oltraggiata. «Bene, allora tu non sei invitata. Stavo per chiedervi se voleste trascorrere l’ultima settimana di vacanza con me, su Solaria; ma non importa, tu puoi non venire»
«Su, non litigate» sorrise Flora. «Io avrei senz’altro piacere a venire, Stella. Se non è… di disturbo, certo»
«Io temo di non poterti dire di no» fece Bloom, buttandosi a peso morto su di lei. «Ah! Non puoi protestare! Sei sul mio letto»
«Ugh… Tecna…?» esalò la principessa a fatica. «Sei dei nostri?»
La diretta interessata strinse di nuovo le labbra, come qualche ora prima. Flora sorrise tra sé e sé; aveva capito che quello era il modo dell’amica per esternare il suo turbamento, in un certo senso.
Capiva bene che la proposta la prendesse in contropiede, un po’ com’era stato per la festa organizzata da Looma. Tecna non era abituata a quelle cose e, forse, aveva bisogno di un po’ di tempo per realizzare di avere delle amiche e che, di conseguenza, queste tenessero a lei e cercassero di coinvolgerla in quelli che lei era solita chiamare “briefings”.
«Io… non saprei dirtelo con certezza ora. Ma credo ti darò una risposta quanto prima; grazie per l’invito» replicò, abbozzando un sorriso.
Stella sembrò soddisfatta. «E tu, “Diaspro 2?”» scherzò, rivolgendosi a Musa.
«Devo ammettere che la proposta suona interessante» fece. «Il che è strano, visto che l’hai partorita tu. Tuttavia, non so se sarà possibile… il vecchio Ho-boè vorrà che lo aiuti in negozio per tutto il tempo, suppongo»
La principessa sbuffò, cercando di scrollarsi Bloom di dosso. «Che guastafeste, sei. Peggio per te, carina»
Musa si strinse nelle spalle, in un gesto ormai d’abitudine, quando parlava con Stella. Salutò, per poi rintanarsi nella sua stanza.
Tecna la seguì, fermandosi poi sul posto come vide entrare quella ragazza del terzo anno che frequentava spesso le sue amiche… Looma.
«Ciao!» esordì quella, aprendosi in un largo sorriso che mostrò i suoi denti immacolati.
Lei restituì il saluto, vagamente imbarazzata. Non era certa dell’atteggiamento che avrebbe dovuto assumere nei confronti di quella ragazza.
Non la conosceva abbastanza da poterla definire “amica”, ma nemmeno così poco per etichettarla come una semplice conoscente. In qualche modo, poi, il suo carattere così sereno e spensierato la rendevano insopportabilmente empatica.
Musa era più intima, con lei, ed era solita considerarla l’incrocio tra la solarità di Stella, la dolcezza di Flora e l’ingenuità di Bloom. Il fatto che apparisse frivola era, dal punto di vista di Tecna, ciò che la rendeva meno sospettabile di quell’acutezza che, al contrario, sapeva che aveva.
In un certo senso, temeva la sua spontaneità a tal punto da aver sempre preferito che rimanesse in quella non meglio specificata condizione a metà tra l’essere amica e l’essere conoscente.
Looma doveva averlo capito; eppure, quasi come fosse sotto effetto di un qualche intruglio o incantesimo, la fata della tecnologia aveva sempre l’impressione di aprirsi un po’ di più, ogni volta che ci aveva a che fare.
Che fosse il potere di quella ragazza?
«Bloom è lì dentro?» le chiese.
Tecna annuì. Proprio Bloom pareva essersi parecchio avvicinata a quella giovane dalla smodata passione per la moda; era forse a causa di quel ragazzo, Sem?
Fu sorpresa di scoprirsi curiosa di quei nomi che significavano qualcosa, per le sue amiche. Era quasi come se stesse, in quel momento, esplodendo tutta la sua voglia di domandare e sapere, tutta quella frivolezza che sapeva confarsi ad un’adolescente e che aveva sempre arginato.
O, più probabilmente, il suo era il desiderio di saperne di più delle persone a cui teneva?
Tenere a qualcuno…
«Allora buone vacanze, Tecna! Forse ci vedremo, se andrai da Stella» trillò Looma, superandola.
Si ricordò improvvisamente di quell’invito e del fermento che, per qualche ragione, provocava in lei. Forse… forse…
Sì, forse ci vedremo lì.
 
Mentre scendeva per quei gradini che, non molte ore prima, aveva risalito con uno strano senso di inquietudine e nostalgia addosso, non poteva fare a meno di sentirsi in fermento.
Looma aveva raggiunto lei e le altre per un ultimo saluto e, soprattutto, per avvisarla che qualcuno la stava aspettando nel cortile della scuola. Bloom non aveva dubbi circa l’identità di questo misterioso personaggio; solo, non riusciva a capire perché fosse lì.
In effetti, dopo la sera della festa – circa due giorni prima – non avevano più avuto l’occasione di parlare. Lei sentiva che, in qualche modo, le cose stavano cambiando.
Forse si stavano evolvendo, stavano lasciando che prendessero una direzione diversa, insieme. Non avrebbe saputo dire quale.
Non erano nemmeno lontanamente amici, anzi, nel legame che li univa c’era ben poco di quella genuina amicizia tra lei e le sue amiche, o tra lei ed Helia. Con Sem era abbastanza difficile parlare del più e del meno; non perché lui non sapesse ascoltare – era, al contrario, di poche ma buone parole – ma perché lo conosceva così poco ed era tanto granitico da risultare imperscrutabile.
Bloom trovava difficile aprirsi in virtù del giudizio che pensava lui potesse formulare su di lei; più spesso, si ritrovava a pensare di non volersi esporre perché, forse, lui avrebbe capito fin troppo bene senza che lei parlasse.
C’era affinità tra loro, tra le loro storie e, in un certo senso, i loro modi d’essere; tuttavia, perché fossero amici mancavano ancora dei tasselli fondamentali. Forse ora avrebbero cercato di colmarli?
Avevano molto tempo, a disposizione?
Sem era lì, seduto sulla gradinata di fronte al pozzo. Si stringeva appena nella sciarpa che aveva attorno al collo; era un tipo freddoloso.
Lei sorrise. Non l’aveva vista, mentre carpiva quel dettaglio così intriso di una quotidianità che a lei era ancora sconosciuta.
Non riusciva proprio a fare a meno di vedere in lui un bambino un po’ cresciuto, quando aveva la possibilità di osservarlo così, senza veli; proprio come quella volta che lui accompagnava con la voce le delicate sfere di cristallo che, come gocce di rugiada, lasciava ad imperlare un albero di Natale, al centro del salone sotto Fonterossa.
Via il primo tassello.
Aveva uno sguardo assorto e la consueta espressione che sfoggiava quando era solo.
Granitico, impassibile, corrucciato.
«Looma mi ha detto che c’era un pulcino sperduto ed infreddolito sulle scale» si annunciò. «Eppure io vedo solo un Cerbero scostante»
Come lui si voltò, la luce nei suoi occhi mutò. Si fecero più grandi e calorosi; un cielo plumbeo e di tempesta che trovava la pace.
Bloom non prestò molta attenzione a quel dettaglio, né al motivo di tale cambiamento; sapeva solo di volersi avvicinare e cogliere un po’ di quell’argento che quasi colava dalle ciglia folte e scure.
«Pensa che a me aveva detto che sarebbe andata a chiamare una dolce fata dalle chiome focose, eppure vedo solo una nanerottola pel di carota» la scimmiottò, ridendo.
Lei cercò di incenerirlo con lo sguardo ma, purtroppo, la Fiamma del Drago non glielo consentiva. Non ancora, almeno. Forse avrebbe sfruttato quel periodo di vacanza per provarci.
Lui rise e, come tutte le volte, la sua risata la fece vibrare come una corda di violino. Alan diceva che era raro sentire suo fratello ridere – ancor di più in maniera così sguaiata; eppure, proprio non capiva come potesse trascorrere ore con il gemello senza avvertire la necessità di sentire quel suono così limpido e profondo.
«Sopravvissute alla ramanzina di Faragonda?» commentò il ragazzo, cercando di mettere un freno ai tremori ed agli spasmi eco di quella risata. «Deve aver riservato il meglio per voi»
Bloom annuì, guardandolo negli occhi. «In realtà pensavamo tutte che andasse peggio»
Sem sorrise, provando un improvviso e smodato desiderio di guardarsi la punta delle scarpe; e così fu per Bloom, colta da uno strano imbarazzo che raggelò la conversazione. «Immagino andrai via anche tu» disse dopo un po’; una constatazione al limite della rassegnazione.
«Sì. Mio padre tornerà sulla Terra, dai nonni» rispose. «Sono due anni che non lo vedo»
Bloom sgranò gli occhi. Provò ad immaginarsi al posto di Sem, senza poter abbracciare i suoi genitori per tutto quel tempo.
Scoprì di non riuscire nemmeno a concepire un’idea simile.
«L’allevamento di draghi che gestisce è su Melody» aggiunse.
Draghi. La passione di Sem.
Non avrebbe saputo spiegarsene il motivo ma, concedendosi un minuto di riflessione, comprese di aver implicitamente sempre pensato a lui come ad uno che non aveva un grandissimo rapporto con il padre.
Forse… i draghi sono una di quelle cose che gli permettono di condividere qualcosa con lui?
«Anche tu torni sulla Terra?» le chiese, facendole un po’ di spazio sul gradino.
Bloom sussultò impercettibilmente, di fronte a quel gesto. Annuì. «Penso che aiuterò mia madre nel suo negozio di piante… come al solito. Nulla di che» fece. «Mi saluterai Hedy?»
Sem sorrise. «Senz’altro. Chiede spesso di te» disse, confermando le informazioni che alla festa aveva carpito dai borbottii del fratello. «Alan sbraita ogni volta»
La ragazza rise, prendendo finalmente posto accanto a lui.
«Come sta?» gli domandò.
«Bene… mi ha aggredito verbalmente, quando gli ho raccontato tutto» spiegò. «Si preoccupa sempre troppo, quando in realtà è lui, che rischia di ficcarsi nei guai. Con la lingua che si ritrova…»
Lei ripensò immediatamente a quello che Stella le aveva raccontato, a come, la sera della festa, Alan avesse lasciato che tutta la bile che aveva dentro si riversasse fuori. Sem lo sapeva, quindi.
«Che ne pensi, di Stella?» chiese, all’improvviso.
«Forse dovresti chiedermi cosa io pensi di Brandon» replicò Sem, dopo un po’.
Il sorriso di Bloom si fece ben presto nostalgico. Non conosceva così bene Alan ma, stando a quanto le era stato raccontato, nascondeva una grande sensibilità, dietro a quella coltre di supponenza e alterigia.
Quanto doveva essere pesante, tutta quella vicenda, per lui?
«Ci sarà anche Aibao, da voi?» domandò allora, abbracciandosi le ginocchia.
Sem aggrottò per qualche istante le sopracciglia scure, dischiudendo appena le labbra carnose. Si strinse nelle spalle. «Sì. Ormai è di famiglia» realizzò. «Anche se per Alan è comunque difficile da accettare. Come sempre»
«Spesso la parte più difficile è accettare di amare… no?» domandò, più a se stessa.
Il ragazzo si concesse qualche momento per riflettere. Gli occhi grigi che catturavano le ultime luci di quel pomeriggio, pareva lontano.
La mente correva a giorni passati e mai del tutto svaniti, che vedeva sbucare da dietro il pozzo del cortile, o da quella stessa scalinata su cui era seduto. Rivedeva Vesela scendere, fare una piroetta in quel bell’abito leggero e sorridere, sorridere; come faceva sempre.
Forse, quella purezza era un po’ la stessa che vedeva nello sguardo di Bloom? Eppure era diversa; più simile a lui, a quello spirito diafano che non li aveva mai lasciati nonostante entrambi avessero sofferto per qualcosa che avevano considerato loro diretta responsabilità.
Talvolta la coglieva in quegli attimi in cui sembrava recriminare qualcosa a se stessa; e allora capiva di voler andar più in fondo e di voler cancellare quella macchia nera che lei aveva nel cuore e che lui aveva l’impressione di non sentire quasi più sulla propria pelle.
«Credo che accada molto più spesso di avere difficoltà ad accettare di essere amati»
Bloom si volse a guardarlo, senza proferire parola.
Lui sapeva, perché lo aveva provato.
Quel misero stato di perplessità e piccolezza, sensazione generata da una bellezza che quasi rasentava il sublime e che in esso mutava in sgomento; una condizione dettata dalla difficoltà di cogliere il bello in virtù della difficoltà di accettare di amare qualcosa, qualcuno.
Più spesso, una condizione dettata dall’incapacità di amare se stessi e, dunque, di accettare il fatto di essere da altri amati; una condizione che impone a chi la sperimenta di smettere di vivere e di abbandonarsi ad un’irrequieta ricerca di qualcosa che è sotto gli occhi e che non si può vedere finché non ci si apprezza.
Sem voleva riprovare; questa volta, voleva essere in grado di far cogliere quel fiore a qualcuno che provava a non appassire.
Sem voleva che Bloom capisse di essere il bello di se stessa.
«Sulla Terra sarei in largo anticipo… però, beh» sorrise, stringendole una mano. «Soldì, Natale… è lo stesso. Perciò…»
Uno sbuffo divertito e si alzò.
Ci avrebbe provato.
L’abbracciò.
«…Buon Natale, Bloom»
 
You can’t love nothing
You can’t love anything
Till you can love yourself
Could It Be Another Change, The Samples
 
E così (in anticipo di qualche ora, rispetto alla tabella di marcia…) passiamo al tradizionale momento del capitolo in cui io pongo domande ed affermo cose stupide.
Tanto per cominciare, lo so, lo so… Stella non ce la fa proprio, senza organizzare raduni; alle Winx è andata meglio di quanto pensassero; ma sarà davvero finita? Non è stato troppo semplice?
La convergenza è un qualcosa che ho sempre inteso come un’unione non di soli poteri, ma di menti. Sarà per questo che è difficile?
Sem inizia a rivelarsi per quel pasticcino al caffè che è. E poi dai; dove si trova un altro uomo che metta le palline sull’albero bene come lui?
D’accordo… terminati gli sproloqui, e dopo lunghe ed interminabili sedute di revisione, ho cercato di rendere più ehm, leggibile e decente quell’interminabile one-shot sulla vigilia del Soldì che avrei in programma di pubblicare il 24 oltre al consueto aggiornamento (one-shot che, in verità, è la principale ragione per cui i capitoli vengono pubblicati a distanza di due settimane l’uno dall’altro…).
Beh, sto divagando di nuovo. Che altro dire?
Oh, sì! Ringrazio tutti coloro leggono questa cosetta e coloro che mi hanno lasciato un commento; risponderò appena potrò, promesso!
Au revoir!
7th

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Capitolo 10
*** X ***


X
 
I’ll take a quiet life
A handshake of carbon monoxide
With no alarms and no surprises
No Surprises, Radiohead
 
Il tragitto verso Solaria non era particolarmente lungo.
Musa scorreva le stelle con lo sguardo, alla ricerca di quella più luminosa, quella più azzurra e viva. Seduta su un sedile piuttosto logoro, unica passeggera di quell’autobus interspaziale, si lasciava cullare dalla sua musica in mondi preclusi a chiunque altro.
Quasi non riusciva a credere di essere riuscita a convincere il vecchio Ho-boé; pensò che si stesse rammollendo o che, forse, avesse finalmente deciso di lasciarla respirare.
Appena mise piede a terra respirò a pieni polmoni. L’aria di quel pianeta era così pura e piacevole che quasi avrebbe voluto restare lì per sempre.
Su Solaria le stagioni sembravano non esistere; le sagome della capitale erano immerse in una perenne estate luminosa. Forse iniziava a capire come Stella potesse avere il Sole nelle ossa.
Sfilò gli auricolari dalle orecchie e la realtà di quel luogo la colpì in viso. La stazione era alquanto affollata ed animata da un fitto chiacchiericcio che sembrava provenire da ogni dove, a mo’ di mercato del pesce; un po’ infastidita – Musa non sopportava quei disgraziati che non sapevano tenere un tono di voce basso – avanzò verso la strada principale che si diramava dalla piazza lì di fronte.
Ricevette diverse occhiate curiose; forse per i suoi abiti, o forse per i suoi delicati tratti melodiani. Non che avesse importanza.
Dopo circa un quarto d’ora si rese conto di aver imboccato la via che conduceva al quartiere benestante. Da ogni parte sorgevano palazzi in miniatura come fossero state erbacce; curati e colorati giardini ai piedi di mastodontiche abitazioni, cancellate che si estendevano per metri e metri di metallo chiarissimo e lavorato con finezza maniacale.
Non erano fatti suoi, certo; eppure, era difficile astenersi dal riconoscere quanto alcuni, baciati dalla fortuna, non avessero mai di che lamentarsi nonostante una bambina stesse piagnucolando e facendo una scenata alla madre, poco più avanti, per qualcosa che Musa non era certa di voler sapere.
Alzando il capo, in lontananza, poteva scorgere i contorni del castello farsi sempre più nitidi. Era preceduto, stando alle immagini che aveva trovato nel tentativo di documentarsi, da un fitto labirinto e diversi sprazzi erbosi.
Quando vi si trovò finalmente davanti si sorprese delle dimensioni della costruzione. Era perfino più imponente e maestosa di come appariva in foto.
Incerta sul da farsi, cercò di avvicinarsi a delle guardie per chiedere loro come muoversi. Una di loro, vedendola arrivare trafelata e con una valigia in mano, dovette intuire che si trattasse di una delle amiche di Sua Altezza; la principessa Stella Astrea Lucinda che, proprio in quel momento, si stava sbracciando da uno dei balconi degli ultimi piani del palazzo.
«Allora ce l’hai fatta, ad arrivare! Ci hai messo una vita!» esclamò, incurante della povera guardia che, in tono supplichevole la pregava di non sporgersi in quel modo per non farsi male.
«A metà strada ho valutato la possibilità di tornare indietro» rispose, sorridendo.
Doveva davvero ridurre gli occhi in due fessure, per poter guardare in alto senza restare accecata. La luce giungeva forte ed impertinente, proprio come la sua principessa.
«Fa’ meno la spiritosa ed entra, su… ma attenta agli scatoloni che potresti trovare all’ingresso. Contengono cose importanti!» le disse, per poi scomparire oltre a grande vetrata che precedeva la balconata.
Musa lanciò un’occhiata perplessa alla guardia che, stremata, sospirò. Doveva essere abituata ad episodi del genere, data l’eccentricità della sua principessa.
Senza dire una parola, le fece strada verso la maestosa entrata principale del castello. Non le piaceva rischiare di essere indiscreta, o ficcanasare in ciò che non la riguardava; tuttavia, sapeva riconoscere l’armonia nelle forme almeno quanto nelle note di cui si circondava.
La reggia di Solaria non era, contrariamente a ciò che si era forse aspettata, immersa in uno sfarzo eccessivo; rifulgeva di colori freschi e vivaci, piastrelle chiare e lustre in cui i lampadari sottili si specchiavano in tutta la bellezza di quei rami che si ripartivano da un unico fulcro perfetto, sospeso per aria da una quasi impercettibile catena di cristalli opachi.
Da ogni parte filtrava una luce genuina che si rifletteva in quel mosaico di specchi pendenti dal soffitto; un gioco di bagliori e toni caldi conferivano a quel luogo l’aria di un santuario la cui religiosa purezza corrispondeva all’esplosione di voci e suoni, vere anime del castello.
«Non stare lì impalata» in cima alla scalinata principale, la principessa.
Dietro di lei, notò, si stagliava un’ampia vetrata che offuscava la figura di Stella, ora vaga presenza sottile che si faceva via via più nitida, allontanandosi da un tripudio di luci che sembrava aver intrappolato nella sua lunga chioma.
Qualche volta, nei momenti in cui non si interrogava su questioni per le quali nessun’altra adolescente si sarebbe scervellata, Musa si domandava come dovesse essere.
Si chiedeva come ci si potesse sentire ad avere la consapevolezza di poter reggere tutto il mondo in mano, di poterlo stravolgere ad uno schiocco di dita, di poterne essere il fulcro semplicemente esistendo. Non ricollegava quelle facoltà al fatto che Stella fosse erede della corona.
No; si trattava di qualcosa che lei aveva da sempre in sé. Essere bella – bella, non normale; bella – e saperlo, valorizzarlo, sfruttare una bellezza esteriore viva seconda solo a quella interiore; come poteva essere?
Quella nobiltà, che la sua amica sembrava a volte dimenticare assumendo atteggiamenti disdicevoli, si riscopriva in quei momenti in cui la principessa era capace di incantare ad un solo gesto spontaneo della mano, ad una sola occhiata.
Qualche volta – ma solo qualche volta – Musa aveva l’impressione di invidiare quel mondo a cui non apparteneva; lei, che gli occhi su di sé non li aveva mai avuti, nonostante quel talento e quella tenacia che aspettavano solo di ridestarsi.
«Mi dispiace di essere arrivata solo oggi. È stata dura convincere mio padre» fece, iniziando a percorrere la scalinata.
Un incantesimo e la valigia stava già fluttuando, pronta per seguire la padrona. «Oh, no. Di quella non ti devi preoccupare, ora» la fermò Stella, battendo rapidamente le mani.
Proprio come dicevo.
Subito un domestico si precipitò verso di loro.
Uno schiocco di dita. Se poi le dita sono dieci, la velocità con cui accorrono è quintupla.
«E comunque non devi preoccupartene. Non ti aspettavamo di certo» riprese la bionda, fintamente annoiata.
Non erano mai state particolarmente vicine. Anzi, a ben pensarci, era quasi un miracolo che in quel momento stessero parlando così, serenamente.
Forse, rise Musa tra sé e sé, era solo una di quelle fortunate giornate in cui si svegliava di buon umore e riusciva a sopportarla; oppure l’altra era stranamente più gradevole.
Qualcosa di temporaneo in entrambi i casi, insomma.
Eppure, Stella si sentiva allegra come non mai.
«Sei arrivata giusto in tempo per la fine dei festeggiamenti del Soldì. Quelli non te li puoi proprio perdere!» trillò, estasiata.
Di lì ad un giorno ci sarebbe stata la grande parata che, come spiegò la principessa, fungeva da chiusura della festa del Soldì, che ormai si protraeva da un mese e più.
«Ci saranno fuochi d’artificio, spettacoli con il fuoco, giochi degli specchi e tante altre cose! Ora che ci penso, sono due anni che me li perdo» continuò, scortandola verso quelle che dovevano essere le sue stanze.
O meglio, l’ala del castello in cui lei dimorava.
Notò subito che, diversamente dalle aree della reggia che aveva appena visitato, qui i colori tendevano a pacarsi un poco; quasi a voler prendere una piega più serena e misteriosa e non per questo meno brillante.
Tende di una quasi impalpabile stoffa sottile sfioravano le ampie finestre che correvano lungo la sinistra. Una visione che suscitava nel profondo una sensazione di giocosa spensieratezza; qualcosa che solo le fresche notti di luna potevano evocare.
«Ecco, per di qua!» le indicò un infinito corridoio che si chiudeva con una porta alta e a vetri che alternavano il caldo dei toni del giorno ed il fresco di quelli della sera.
Era la sua stanza.
«Musa!» prima ancora che mettesse piede lì dentro, la sorpresa nelle voci di Bloom e Flora la travolse. «Temevamo non arrivassi più!»
«Voi lo temevate» puntualizzò Stella. «Io ci speravo, francamente»
Troppo intenta a sorridere – per qualche ragione che proprio non afferrava – non riuscì a non ridere. Forse era davvero un caso, oppure l’allegria di quel posto dalle mille tonalità; o, ancora, la bellezza nel vivere così, circondata da visi felici.
Ma non lo avrebbe mai ammesso, non platealmente; non con qualcosa di più di quell’emozione che le animava gli occhi scuri.
«Che ne è, di Tecna?» chiese.
Bloom si strinse nelle spalle. «È in biblioteca. Avresti dovuto vedere la sua faccia, quando ci è entrata per la prima volta» rise. «È piena di tutte quelle cose che piacciono a lei»
«Ma smettila…» l’apostrofò Stella. «Anche tu hai trascorso un’intera giornata lì dentro. Cosa ci sia di così interessante lo sapete solo voi… insomma, capirei si trattasse della mia stanza dei cosmetici. Oh, ma voi non l’avete ancora vista!»
Mentre la principessa si cimentava in una lunga descrizione di quella che, a parer suo, era la camera più degna di interesse del castello, Tecna era completamente immersa nella lettura di un file che aveva trovato nell’archivio di Solaria il giorno prima.
Nemmeno a dirlo, sembrava che le tecnologie di quel pianeta fossero quasi alla pari di quelle del suo. In una delle nicchie che davano su uno dei giardini sul retro, la fata scorreva con avidità le righe di un sapere così antico che quasi si perdeva nelle linee della storia.
La vita della dimensione magica. Magix ed i suoi natali; storie che aveva già letto e rivangato negli anni, qui presentate sotto una chiave completamente diversa.
Un itinerario che seguiva le più vecchie tecnologie e pareva farle risalire alla Terra; quel mondo diverso che incuriosiva Tecna e dal quale si sentiva talvolta chiamata. Si ipotizzava che Magix avesse dapprima conosciuto la tecnologia grazie a quegli sporadici contatti con gli umani, con le creature che non conoscevano più fate ma che ne conservavano il ricordo.
Un’arte, la loro, che poteva essere considerata una forma di magia vera e propria; un incanto che la dimensione magica aveva portato ai suoi massimi livelli solo in virtù di quegli incantesimi che, a differenza della Terra, non aveva dimenticato.
Ma la magia degli uomini era diversa, lo era sempre stata; era ciò che aveva Bloom e che a Tecna mancava da sempre: la facoltà di immaginare ciò che non era strettamente logico. L’immaginazione era il tipo di potere che lei non riusciva a far suo.
Quel file esplorava ed esauriva il suo contenuto così a fondo che, forse, per una volta, quasi poteva invidiare tutti quei detti assurdi e quelle immagini che provenivano dalla Terra e che le risultavano incomprensibili.
Dal database della biblioteca conseguì l’accesso in remoto al suo, salvando in una cartella tutte le informazioni lì contenute.
«Non so perché, ma un po’ mi aspettavo di trovarti qui»
Dava le spalle allo scaffale in legno rossiccio che la separava dal resto della biblioteca.
Nel ristretto spazio tra due libri adagiati su uno dei ripiani comparve un paio di occhi del colore di quella bevanda che a Bloom piaceva tanto bere nei giorni freddi e che, a quanto pareva, disponeva anche di una forma solida commestibile.
Brandon sorrideva da lì dietro.
Una delle prime cose a cui aveva faticato ad abituarsi quando, quattro giorni prima, aveva raggiunto la reggia di Solaria era… beh, era proprio veder comparire il ragazzo più spesso di quanto si aspettasse.
Da quel che aveva capito, lo Specialista e la fidanzata avevano trascorso il Soldì nella residenza della di lei madre – sul satellite più vicino ad uno dei Soli del pianeta.
Ovviamente, a quanto pareva, era stato dato per scontato che lui la seguisse anche durante la permanenza al castello e che, di conseguenza, presenziasse durante quello che Stella aveva bellamente proposto, stando alle parole di Bloom, come il “Randez-vous del Winx Club”.
Per questa ragione, talora, quando si ritrovavano la sera tarda sul balcone di uno dei salotti degli appartamenti della principessa, Brandon era una presenza ricorrente.
Tecna aveva lì per lì pensato che i due si sarebbero abbandonati ad effusioni e smancerie varie anche in quei momenti tutti femminili; al contrario, era quanto mai raro che non prendesse parte alla conversazione, dando sfoggio del lato civettuolo e pettegolo del suo carattere.
È uno dei principali elementi che rendono così affiatati quei due.
La questione che maggiormente la metteva in soggezione, dell’intera vicenda, consisteva nella volontà, da parte di lui, di mantenere la parola data nella seconda delle concise e-mail che si erano scambiati in occasione del Soldì: prestare più attenzione a lei.
Cercava spesso di coinvolgerla nelle sue ciance, di scoprire tasselli in più sul suo conto; cercava di… come lo si definiva? Riallacciare i rapporti.
Tecna era ben lontana dallo speculare, nella sua mente, su un simile comportamento da parte di Brandon – ormai poteva avere la presunzione di averlo giustamente inquadrato come uno di quei membri che, in una compagnia, si preoccupavano di non escludere nessuno; tuttavia, non poteva fare a meno di sentirsi in qualche modo agitata, di fronte a tutte quelle attenzioni.
«Stai leggendo lo stesso documento dell’altro giorno?» le chiese, da quello spiraglio.
Lei annuì. «È illuminante»
«Cosa non lo è, per te?» fece, più a se stesso. Lo aveva sussurrato, come uno di quei quesiti che non necessitavano di risposta e che, ciononostante, la mente non poteva trattenere.
Tecna lo sentì. Non era sicura di aver colto il significato di quella domanda.
Brandon fece il giro dello scaffale, raggiungendola. Prese posto accanto a lei, accasciandosi su una sedia come fosse stato di ritorno da una di quelle sessioni di allenamento che era solito dichiarare stremanti.
Si zittì e l’espressione sul suo viso parve farsi più cupa. La ragazza aveva imparato che spesso, quelli come lui – quelli che non erano come lei – potevano far corrispondere alla stanchezza fisica un dolore interiore.
Che fosse quello, il caso?
«Sei certo di sentirti bene, Brandon?» gli domandò.
Lui sollevò lo sguardo, abbozzando un sorriso. «Sì, sono solo… sono solo un po’…»
«…stanco» concluse al posto suo.
Per qualche istante lo guardò negli occhi, cercando di scorgervi il suo male. Scoprì, con non poco disappunto, di non esserne in grado.
Quel genere di cose erano di competenza di chi aveva più empatia di lei, di chi conosceva Brandon e condivideva con lui molto più di quanto lei avesse mai fatto. Un mondo che solo quelli come Stella potevano conoscere, che solo quelli come Sky potevano aver vissuto come parte di sé.
Incontrò un velo, e quel velo stabiliva con precisione la differenza tra l’amicizia e la conoscenza. Era la barriera che Looma cercava di oltrepassare quando conversava con lei e che Tecna, al contrario, cercava sempre di rinforzare.
Brandon era diverso. Innalzava barriere solo quando qualcosa lo turbava, per non coinvolgere anche gli altri; o, almeno, così aveva detto una volta Flora che, sicuramente, se ne intendeva meglio di lei.
Spettava poi a chi aveva a che fare con lui decidere di scavalcare quegli ostacoli per poterlo aiutare.
«Già» fece il ragazzo, dopo un po’. «Ma passerà, credo»
Sorrise e parve rianimarsi. Si alzò, sospirando.
Per qualche ragione, gli era sembrato che Tecna si fosse preoccupata per come si sentisse e non per come stesse. Il pensiero lo rendeva inspiegabilmente allegro.
Ora poteva indossare di nuovo la sua solita aria spensierata.
«Non ti stancare troppo con quelle storie» rise, sfiorandole la spalla.
Era sempre così, tra loro. Lei si preoccupava, lui si preoccupava.
«Oh, credo sia arrivata Musa»
Era proprio facile voler bene a Brandon.
Il ragazzo si allontanò, scomparendo oltre gli alti scaffali dietro di lei, lasciandola sola con i suoi pensieri. Decise di restare lì ancora un po’, prima di raggiungere le altre.
Cercò di concentrarsi nuovamente sui preziosi documenti che stava consultando; e, quasi senza che se ne accorgesse, la lettura l’aveva riassorbita completamente.
L’esperienza della creatura sotto Fonterossa aveva acceso in lei il desiderio di esplorare più a fondo quel mondo di incantesimi e sortilegi che si nascondeva dietro le semplici nozioni apprese a scuola. La stessa vicenda che aveva vissuto Bloom, l’estate precedente, lasciava intendere che vi fosse ben più di un interrogativo ancora aperto.
L’incanto che aveva permesso ai nuclei delle scuole di difendersi in caso di minaccia, ad esempio, restava un’incognita. Quando lei e la principessa Aisha erano venute a capo della vicenda, purtroppo, il testo che avevano trovato non esauriva l’argomento.
Chi l’aveva applicato? Come poteva dar vita a creature senzienti ed in grado di distinguere – tranne per quanto riguardava quella che avevano affrontato – i pericoli dalle presenze innocue?
Sulla base di quale criterio alcuni avvenimenti erano percepiti come ostili – e dunque presupponevano che il nucleo entrasse in azione – ed altri, al contrario, erano abbastanza superficiali perché le scuole se la sbrigassero da sole?
La mente affollata da quelle domande, Tecna prese a scorrere il file piuttosto rapidamente, alla ricerca del paragrafo che, presumibilmente, avrebbe trattato quella questione. Proprio in quel momento, un movimento sulla destra catturò la sua attenzione.
Brandon era tornato. Forse, pensò, aveva dimenticato qualcosa lì; eppure, quando aveva preso posto accanto a lei, prima, non le era parso che avesse qualcosa con sé.
«Cerchi qualcosa?» gli chiese.
Lui sgranò gli occhi; quasi come se si fosse appena accorto della sua presenza. Non era necessaria chissà quale empatia, per notare quanto strano fosse il suo comportamento.
Poi lo sguardo gli ricadde sul database che stava confrontando e sul suo pc, lasciato poco distante; ed un’espressione di puro orrore gli si dipinse in volto.
«Brandon?» fece, perplessa.
Il ragazzo le lanciò un’occhiata ancora agghiacciata; dipoi, rapido come era tornato, se ne andò. Tecna aggrottò le sopracciglia.
La stanchezza doveva avergli dato alla testa; anche se una voce infantile le suggeriva che la questione non fosse semplice come appariva.
 
«Lo so, Looma, lo so. Sì, non fa niente; sarà per un’altra volta. Sì, è ovvio!» Stella era occupata in quella telefonata da una buona mezz’ora e, finalmente, sembrava intenzionata a darci un taglio.
Il Winx Club ora al completo si era ritrovato sul terrazzo che si affacciava su uno dei laghetti pensili del giardinetto sottostante, come ogni sera, per tirare le somme della giornata.
Quella mattinata era stata particolarmente intensa, poiché aveva visto Musa alle prese con alcune delle tanto decantate meraviglie di Solaria e, soprattutto, con le buone maniere che erano richieste a tavola; pignolerie che nemmeno DuFour ed i suoi stramaledetti insegnamenti sul bonton avevano previsto.
E, stranamente – anche se poi non sarebbe dovuto apparire poi tanto curioso – Stella le rispettava tutte.
«Ma certo… sì, loro vengono lo stesso. Ah, ma come? Non te l’ha detto? Lui non può esserci… sì, è tutta una scusa, lo so. Oh, ma non così!» ringhiò a quel punto la principessa contro la limetta incantata poco prima apposta perché si occupasse delle sue unghie.
Bloom ridacchiò. Ormai si era abituata ad episodi del genere.
«È l’ultima volta che faccio questa cosa con la magia!» sbraitò, richiudendo il cellulare.
Sbuffò, lanciando uno sguardo disperato al disastro combinato da quello stupido incantesimo sulle sue splendide dita. «Adesso quest’unghia è più corta delle altre!»
«Una vera tragedia!» sospirò Musa, imitando il suo tono.
«Su Melody va di moda?» chiese, gettando un’occhiata alle mani dell’amica. «Tutte le melodiane adottano il tuo stile da artigli monchi e solo sul pollice?»
«Gli “artigli monchi e solo sul pollice” mi servono per suonare la chitarra» ribatté subito. «Non mi aspetto che tu capisca»
«Voi due non siete contente, se non battibeccate?» fece Flora, interrompendo esasperata la sua lettura.
«No!» risposero all’unisono.
«Questo trambusto è piuttosto fastidioso» sbuffò Tecna. «Non si riesce a pensare in santa pace»
Quando aveva salvato le informazioni che aveva letto dall’archivio della biblioteca, per errore, il database non aveva registrato solo quelle che le erano necessarie, ma anche il resto delle pagine che aveva aperto all’inizio; ora i documenti erano sparsi per tutte le cartelle e non riusciva più a trovare ciò che le serviva.
Quasi come se si fosse volatilizzato.
Ricordava esattamente il messaggio che era comparso sullo schermo del suo pc, una volta copiato il file; era perciò da escludersi che il processo non fosse andato a buon fine.
Quando Brandon era andato via – dopo aver dato sfogo alle sue stranezze – Tecna aveva spento il database ed aveva raggiunto le sue amiche, dal momento che il download era concluso.
Strinse le labbra. Qualcosa non quadrava.
«Va tutto bene, Tecna?» fece Flora, perplessa.
«No, in effetti. Dov’è Brandon?» chiese, rivolta a Stella.
«Ha detto che era stanco e che sarebbe andato direttamente a dormire, per questa volta. Credo voglia riservare le energie per domani» rispose quella. «Non ha tutti i torti. Per assistere alle attrazioni più belle bisognerà restare svegli fino alle prime ore del mattino, e noi dobbiamo essere in piedi piuttosto presto… tra circa sei ore, in effetti»
Si zittì, passando un’ultima volta la limetta contro un’unghia. «Penso che seguirò il suo esempio» disse poi, alzandosi. «Voi potete restare quanto volete»
«Ti seguo. Ho un po’ di sonno» sorrise Bloom. «Buonanotte, ragazze»
«Buonanotte» replicarono le altre tre.
Tecna non allontanava gli occhi dallo schermo, facendosi sempre più irritata. Era certa che non si trattasse di un caso, o di un errore del suo computer; ma, d’altra parte, cosa poteva essere successo?
«Ci vuoi dire che ti prende?» sospirò Musa, avvicinandosi alla sua poltrona. «È tutta la sera che borbotti davanti a quel coso»
La ragazza sollevò lo sguardo per qualche istante, per poi focalizzarlo nuovamente sul problema. «È complicato» rispose, prima di decidersi a spiegare la situazione.
Da una parte, era convinta che fosse cambiato qualcosa quando Brandon l’aveva raggiunta nuovamente ed era inorridito alla vista dell’archivio della biblioteca; dall’altra, proprio non capiva come potesse – nel caso in cui fosse giusto sospettare di lui – aver maneggiato i suoi averi.
Soprattutto, non comprendeva per quale ragione lui potesse averlo fatto.
«È per questo che hai chiesto dove fosse Brandon, prima?» fece Flora, dopo il racconto.
L’altra annuì. «Ero intenzionata a domandargli se ne sapesse niente. Anche se mi pare davvero surreale che possa avere a che fare con questa storia»
«Infatti mi sembrerebbe un po’ strano. Anche perché, per quale motivo avrebbe dovuto?» rifletté la fata della natura.
Oltretutto, perché potesse cancellare quei documenti, avrebbe dovuto introdursi nella stanza di Tecna durante quelle ore in cui lei e le altre non erano rimaste al castello. Eppure, tutte e tre erano certe che lui avesse trascorso tutto il pomeriggio nel centro della città, ad assistere ad una competizione di magischerma.
«Perché non controlliamo prima nell’archivio della biblioteca?» suggerì Musa. «Se riusciamo a trovare quella parte del documento, significa che si tratta di un incidente e che ci stiamo facendo paranoie per niente. In caso contrario, vorrà dire che qualcuno ha manomesso sia il tuo pc, sia il database»
Tecna soppesò le sue parole. «Ha senso»
«Certo che lo ha!» rise l’amica, avviandosi verso l’interno. «Dobbiamo sbrigarci. Non so se la biblioteca sia ancora aperta, a quest’ora»
I corridoi del palazzo erano illuminati appena da dei lumini che fluttuavano per aria, scivolando lungo le pareti e diffondendo un bagliore freddo – dai riflessi di quella Luna che si specchiava nel cielo. L’atmosfera era nel complesso spettrale; un po’ la stessa della sera della festa sotto Fonterossa quando, per il tragitto che conduceva alla sala, le lanterne disposte a terra conferivano all’ambiente i toni sinistri di un pericolo incombente.
In verità, nessuna delle tre era certa del percorso da intraprendere.
Tecna, benché fosse dotata di una memoria fotografica e di un ottimo senso dell’orientamento, aveva sentito diverse storie che vedevano come protagonista proprio la reggia di Solaria.
«Non so se sia vero o meno» iniziò, in un sussurro. «So bene che bisognerebbe diffidare da queste leggende metropolitane; tuttavia, non sono mai riuscita a raccogliere informazioni sufficienti a sfatare questo mito»
A quanto pareva, gli specchi disseminati per ogni area del castello avevano ben più di una funzione semplicemente estetica. «Non ci avete fatto caso? Le pareti sono interamente rivestite di superfici riflettenti» fece notare. «Di giorno, mostrano la realtà; ma di notte…»
Di notte, quando la Luna inondava gli specchi della sua luce fioca, questi la assimilavano e si oscuravano, cessando di riflettere il mondo così com’era. «I bagliori che hanno assorbito danno vita a delle illusioni ottiche. Chi conosce il castello non ha nulla da temere; l’abitudine impedisce all’occhio di vederle»
Flora emise una sorta di mugugno, gettando di riflesso un’occhiata alle pareti circostanti. Si avvicinò e, con suo grande sollievo, riuscì a vedere la sua espressione rasserenata anche nel cristallo chiaro di fronte a sé.
«Che sciocchezza. Se fosse una storia vera, Stella ci avrebbe certamente avvertite… no?» ridacchiò Musa, cercando di nascondere quella sfumatura isterica che la sua voce aveva assunto.
Tecna non rispose; scambiò un’occhiata con le altre due, nel tacito patto reciproco di non fare più menzione di quella faccenda. Erano sempre pronte a fronteggiare mostri e creature di ogni tipo ma, quando si trattava di scherzi della mente e di meccanismi oscuri, qualcosa si agitava sempre in loro.
«È meglio che ci affrettiamo» concordarono, proseguendo.
Se solo Flora avesse guardato nello specchio un attimo più tardi, lo avrebbe visto cancellare la di lei immagine ed assumere il colore della notte.
 
This is my final fit
My final bellyache with
No alarms and no surprises
No Surprises, Radiohead
 
Non credo che nella dimora di Stella esista questa roba (specchi e testi rari)… e non lo crede nemmeno Tecna. O forse sì?
Perché Brandon sembrava tanto sconvolto? Ce la farà, Musa, a sopravvivere lì per ben… due giorni?
Ce la farò, io, a rispettare la tabella di marcia?
“No Surprises” me la immagino come la colonna sonora del viaggetto della nostra fatina per le strade di Solaria. Non lo so, ma mi piace troppo!
Per intanto, ringrazio tutti e prometto che risponderò ai vostri magnami commenti durante queste vacanze! Buona Vigilia a tutti!
7th

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Capitolo 11
*** XI ***


XI
 
Down here, I cannot sleep from fear, no
I said “which way do I turn?”
Oh, I forget everything I learn
Spies, Coldplay
 
La biblioteca della reggia di Solaria era situata in una struttura a parte, comunicante con quella principale solo grazie ad un lungo porticato che attraversava il vastissimo giardino sul retro del castello.
Di giorno – soprattutto d’estate e nel periodo del Soldì, quando il pianeta si trovava alla stessa vicinanza dai due Soli – quel lungo corridoio era racchiuso da sottili barriere di cristallo purissimo dalle proprietà rinfrescanti, cosicché l’ambiente fosse estraneo all’afa esterna.
Di notte, viceversa, l’arrivo della Luna comportava un drastico abbassamento delle temperature, e le barriere venivano rimosse.
Così, mentre avanzavano con fare circospetto, le tre ragazze potevano percepire distintamente il cicaleccio degli insetti che abitavano l’area circostante. Sulla destra, il grande lago ora scuro era illuminato solo dalle pallide stelle, che sembravano volervisi tuffare.
Creature luminose – Musa e Flora non sapevano cosa fossero, ma Tecna aveva affermato che erano innocue o che, perlomeno, avrebbero dovuto esserlo, se si fosse trattato di ciò che pensava – vi si abbeveravano in silenzio, beandosi della sottile brezza che le raggiungeva.
Ad un tratto, la piacevole arietta iniziò a farsi più vigorosa. In un battito di ciglia, le tre fate furono investite da un’imperiosa folata di vento.
Musa trattenne il respiro, inquieta. I refoli sussurravano, lasciavano strisciare delle parole nella mente; parole in una lingua che non era quella del vento che conosceva e che, in ogni caso, percepiva come minacciose.
Cercò gli occhi delle compagne, turbata; ma, quando li raggiunse, l’urlo impetuoso tornò quella gentile carezza che era stato fino a poco prima.
«Le condizioni climatiche di questo pianeta sono piuttosto curiose» considerò Tecna, procedendo.
Flora la seguì. Musa si fermò, guardando perplessa verso destra.
«Che ti prende?» le chiese l’altra, tornando indietro.
Le creature che avevano scorto vicino al lago non c’erano più. «Le hai viste anche tu. Le ha viste anche Tecna» fece, febbrilmente.
La bruna rise piano. «Musa, quella di prima era solo una storia! È possibile che si siano spaventate per l’improvvisa ventata» spiegò, nel tentativo di rassicurarla.
Musa annuì, con poca convinzione. Avanzò, lanciandosi un’ultima occhiata alle spalle; ed il cicaleccio era cessato.
«Ragazze…» un sussurro di Tecna chiamò la loro attenzione.
Ferma davanti all’imponente soglia della biblioteca, la fata della tecnologia fissava ad occhi sgranati la serratura. «È stata forzata»
Si guardarono. Qualcuno doveva averle precedute, ed ora se ne stava lì dentro.
«Forse dovremmo… aspettare qui fuori» suggerì Flora. «Così quando uscirà potremo bloccarlo»
«Potrebbe non essere il responsabile di-» iniziò Tecna.
«Oh, per favore!» la interruppe Musa. «Non credo si tratti comunque di uno che ha le migliori intenzioni di questo mondo. Se ha forzato una serratura significa che la sua presenza non era richiesta nella biblioteca; e qualcosa mi dice che non lo è nemmeno nel castello»
L’altra scosse la testa. «Nemmeno noi dovremmo essere qui, ma questo non ci rende delle malintenzionate, suppongo»
«Non ci rende tali solo perché noi non avremmo forzato la serratura, ma avremmo aspettato domani…» rispose, incerta. «…credo»
A ben pensarci, lei e le altre non avevano mai brillato per pazienza. Anzi, il primo anno ad Alfea e l’intrusione di Tecna nello studio di Faragonda ricordavano quanto il Winx Club fosse covo di possibili delinquenti.
«Facciamo un tentativo. Chiunque sia entrato, non sa che siamo qui» considerò la fata della tecnologia. «Lo saprà presto se continuiamo a temporeggiare e fare baccano»
«Aspetta» la fermò Musa.
Si avvicinò all’ingresso e, in un gesto rapido, scagliò un sortilegio sul legno pesante impreziosito di pietre e su di loro. «Almeno non cigolerà, e noi non ci faremo sentire. L’incanto di dissimulazione acustica non serve solo per le feste, a quanto pare»
Tecna abbozzò un sorriso, aprendo poi la porta.
Immersa nell’oscurità più totale, dall’ombra della biblioteca spiccavano solo le vette degli scaffali più alti, a malapena rischiarati da quella poca luce notturna che filtrava attraverso le vetrate concentriche poco distanti dal soffitto.
Nel buio sarebbe stato difficile capire in che direzione si muovessero e, soprattutto, distinguere la figura del presunto malintenzionato. In un riflesso involontario, si strinsero tra loro.
Perfino Tecna non poté fare a meno di ridurre il suo respiro ad un impercettibile inspirare ed espirare; perché non sapevano cosa o chi stesse rintanato lì, e la prospettiva di non sapere rendeva tutto più agghiacciante.
Musa aveva già sperimentato le stesse sensazioni quando, nell’antro sotto Fonterossa, con Stella ed un Timmy in stato comatoso, il mostro che si nascondeva lì era ancora un’entità sconosciuta.
Ebbe l’impressione di percepire un fruscio e, immediatamente, arrestò il passo. Flora, che doveva aver sentito lo stesso, le strinse un lembo della maglia, deglutendo.
Tecna, dimentica di ogni tipo di incantesimo e sortilegio, serrò i pugni. In tensione, probabilmente avrebbe iniziato a sferrare ogni genere di colpo se qualcosa l’avesse anche solo sfiorata.
Un’agitazione malsana aveva assalito anche lei, normalmente posata e poco incline a lasciarsi andare a quell’irrazionale timore… di cosa, poi?
Erano fate, dopotutto. Non invincibili, ma comunque dotate di cervello e di conoscenze sufficienti quantomeno a tentare di difendersi.
Animata da una rinnovata fiducia, si mosse in direzione di quel sinistro fruscio, seguita a ruota dalle altre due. Con cautela, protese le mani in avanti; come tastò il freddo legno di uno scaffale, sospirò di sollievo, impercettibilmente.
Quel punto era appena più illuminato degli altri, ed ora poteva distinguere i titoli dei libri ordinatamente disposti, ad un palmo dal suo naso. Tra due di questi, noto, vi era una fessura.
La mente corse a quella mattina, quando Brandon si era annunciato da lì e le aveva parlato. Dunque, oltre quella libreria doveva trovasi l’archivio che aveva consultato.
Scivolò verso sinistra, avvicinandosi allo spazio tra i due volumi, per accertarsi che fosse davvero l’angolo che ricordava.
Appena guardò oltre lo scaffale, di fronte a lei, nei pochi centimetri che separavano i tomi, comparve la sagoma di un altro occhio.
Tecna indietreggiò immediatamente, un urlo che le morì in gola.
«Tecna?» Flora impallidì, non comprendendo cosa avesse reso cadaverica l’amica.
Lei non avrebbe saputo spiegarlo. Come aveva incontrato quei colori, era rimasta pietrificata.
Lo sbigottimento fu tale da impedirle di ricordare con esattezza ciò che aveva visto; tuttavia, sapeva per certo che aveva generato in lei un’angoscia tale da farle venire voglia di gridare.
Appena voltò lo sguardo in direzione delle altre, un’ombra si mosse veloce tra le altre, scivolando via. Senza dire una parola, Tecna soppresse la paura e si precipitò all’inseguimento di quella figura.
«Tecna, che succede?» chiese Musa, mentre correvano.
L’altra non rispose; ma tutto, in lei, lasciava intendere che avesse avuto un incontro ravvicinato con la persona – ora era abbastanza certa si trattasse di qualcuno, e non di qualcosa – che aveva forzato l’entrata.
Come uscirono di lì, la brezza le investì nuovamente.
Dell’ombra non c’era traccia. Guardarono in tutte le direzioni, come a voler verificare che, di chiunque si fosse trattato, non fosse riuscito a mimetizzarsi.
«È scomparso…» mormorò Flora.
«Si può sapere cos’hai visto?» chiese invece Musa.
Tecna deglutì a fatica, riacquisendo un po’ di colore. Ora che avevano perso le tracce di quell’individuo, non sarebbe più stata tranquilla.
«Non lo so. Un occhio, e poi una sagoma» spiegò. «Non ricordo i dettagli, io… è stato… non so chi fosse. Però qualcosa mi ha turbato. Come… non sono in grado di spiegare»
«Un occhio…» rifletté l’altra. «Non capisco»
«Non ha importanza. Entriamo; a quello penseremo dopo» suggerì Tecna, portandosi una mano alla tempia. Doveva mettere da parte il timore, per un momento.
Fece per spingere nuovamente le porte, ma queste non si mossero. Inarcò un sopracciglio.
Guardò la serratura. Non c’era alcun segno di forzatura.
«Non ha senso» biascicò Flora, passandovi una mano. «Non può essere»
Con un incantesimo riuscì a sbloccare il meccanismo; e, quando, il portone scricchiolò pesantemente. Nonostante Musa lo avesse silenziato poco prima.
Come per i corridoi del castello, anche la struttura della biblioteca era illuminata da quei silenziosi lumini fluttuanti; benché prima non ci fossero.
«Cosa sta succedendo, qui?» fece la fata dei fiori, confusa più che mai.
Mosse qualche passo incerto, osservandosi intorno ed aspettandosi di vedere qualche creatura sbucare da dietro l’angolo. Tuttavia, nessuna strana cosa l’assalì.
Solo la fredda voce di Tecna che, dopo aver consultato l’archivio, informava le altre due che i documenti erano stati rimossi qualche ora prima.
 
«C’è una cosa che non capisco, di tutta questa storia. Quella figura… quell’occhio…» fece Stella, quella mattina. «È possibile che ve lo siate immaginate, giusto?»
«È possibile, sì; come le creature che bevevano al lago, e tutto il resto. Hai detto che non hai mai visto niente del genere, qui; no?» chiese Flora.
La principessa annuì. «Mi ero dimenticata di avvisarvi degli specchi» ridacchiò.
«Però, illusione o no, qualcuno ha davvero manomesso l’archivio. Ed è stato qualche ora prima che lo scoprissimo» ragionò l’altra.
La bionda sospirò, sporgendosi un po’ dal balcone del terrazzo. «Forse, l’illusione vi ha mostrato quello che è successo. Sta di fatto che questo significa che c’è un intruso; significa che qualcuno è riuscito ad introdursi qui, nonostante la sorveglianza»
Tecna scosse la testa, alzandosi da una poltrona. «Io credo, invece, che ci sia riuscito benissimo, senza dover ricorrere a nulla di particolarmente ingegnoso» asserì. «Un impostore»
Riflettendo con calma, quella notte, aveva formulato l’ipotesi che il curioso comportamento di Brandon quando, la mattina precedente, l’aveva raggiunta fosse da attribuirsi non alle sue stranezze, ma a quelle di un impostore.
L’espressione di sgomento che aveva assunto nel momento in cui l’aveva vista trafficare con quei documenti… il suo mutismo…
Tutto riconduceva a qualcuno che si era finto lo Specialista solo per avere libero accesso ad ogni struttura del castello e che aveva colto l’occasione per scoprire dove fossero custodite quelle informazioni.
Tutto riconduceva a qualcuno che non voleva che lei sapesse.
Ma perché?
«Per quale ragione qualcuno dovrebbe voler evitare che tu legga quei documenti?» pensò allora Flora.
Appoggiò sul tavolino la tazza di tè che stava sorseggiando, prendendo a massaggiarsi le tempie. «Insomma, la biblioteca di Solaria senz’altro custodisce informazioni più dettagliate ma, a grandi linee, suppongo che dica le stesse cose di qualsiasi altro libro di storia»
«Non lo so. Non lo so davvero» ammise Tecna. «Non riesco ad immaginare un solo motivo valido»
«Sentite, rimandiamo questa discussione a più tardi; eh? Ora abbiamo un po’ di cose da fare. Come prepararci, ad esempio» s’intromise Stella, alzandosi. «Presto arriveranno i nostri “ospiti”»
Le altre due si scambiarono un’occhiata incuriosita; poi, ricordarono ciò che la principessa aveva detto loro quella mattina. La bionda rientrò, facendo chiamare una domestica.
«Non dovremmo svegliare Musa e Bloom?» chiese la fata dei fiori, seguendo le altre due. «O, per lo meno, avvertirle?»
L’altra la guardò, inarcando le sopracciglia in un’espressione annoiata; scosse appena la testa, passandosi poi una mano tra i lunghi e folti capelli. La serva rientrò nella stanza, seguita a ruota da un altro paio di giovani ragazze; avevano tra le mani una serie di spazzole, spilloni ed altri aggeggi che nessuna delle due fate aveva mai visto.
«No» disse Stella, prendendo uno di quegli affari che, presumibilmente, dovevano avere a che fare con i suoi strani rituali mattutini. «Così imparano a non sentire la sveglia, saltarsi colazione e pranzo e perdersi le mie preziose novità»
«Avresti potuto dirlo prima. Proprio come per la vicenda degli specchi» fece notare Tecna, senza nemmeno cercare di mascherare il disappunto nella sua voce.
Si avviò verso la porta. Avrebbe svegliato Musa, anche se sapeva che questo le avrebbe assicurato il broncio per tutta la mattinata.
Dopotutto, lo avrà lo stesso, quando saprà della novità…
Forse dovrei svegliare anche Bloom.
Quella rise. «E rinunciare alle loro facce sconvolte? Nossignore. Ho grandi progetti, per quelle due dormiglione»
Tecna scosse la testa, mettendo piede in corridoio.
«Vado a svegliare Musa. Ti occupi tu, di Bloom?» fece, rivoltasi a Flora.
Quella annuì e si separarono.
Mentre raggiungeva la camera della compagna, non poteva fare a meno di rimuginare su ciò che era accaduto quella notte e sull’assurdità di quella vicenda. Non si sarebbe tirata indietro e, questa volta, non aveva freni come il senso di responsabilità o la fedeltà a Faragonda ed alla scuola; tuttavia, da una parte, iniziava a percepire la stanchezza.
Le piaceva indagare ogni dettaglio di ciò che rappresentava un mistero; eppure, forse, alla lunga sarebbe diventato insostenibile. Oltretutto, proprio non comprendeva come uno sconosciuto potesse averla pedinata, osservata e capita così bene da conoscerla quasi come se fosse stato a contatto con lei quotidianamente.
Doveva trattarsi di qualcuno che aveva avuto tempo e modo per studiarla tanto a fondo da conoscere le sue abitudini e sapere che avrebbe trascorso gli ultimi giorni di vacanza su Solaria. L’impostore, poi, aveva voluto assumere le sembianze di Brandon, a quanto pareva.
Forse li aveva osservati mentre conversavano; o, forse, - e la prospettiva la indisponeva più di qualsiasi altra cosa – aveva seguito i loro movimenti da molto prima. Addirittura, poteva aver iniziato a prestare loro attenzione da quando avevano cominciato ad avvicinarsi.
Non erano le dinamiche del fatto, a turbarla molto. Avrebbe potuto facilmente ricostruirle, si si fosse messa d’impegno.
No; il quesito principale restava la ragione per cui qualcuno avesse potuto prendere di mira proprio lei.
Tecna passava sempre inosservata. Non che le interessasse particolarmente quel che gli sconosciuti potevano pensare di lei; ma, in ogni caso, era quanto mai raro che qualcuno potesse notare le sue stranezze e le sfaccettature di lei.
Ogni qualvolta che usciva con le amiche, a Magix, faceva da tappezzeria; ed era quindi insolito che ora si trovasse ad essere nel mirino di qualcuno.
Sospirò. Di fronte alla soglia che dava accesso alla camera di Musa, bussò.
Dall’interno non provenne alcuna risposta. «Musa? Potresti aprire?»
Un mugugno ed il fruscio di coperte; poi, il silenzio. Doveva essersi rigirata nel letto.
«Musa, è meglio che ti svegli. È piuttosto tardi» continuò.
«Oh, Tecna» borbottò quella, contro il cuscino. «Ho sonno. Siamo rimaste sveglie fino a tardi e abbiamo visto il mondo»
«Lo comprendo. Tuttavia, è davvero tardi» insistette. «Sarebbe conveniente se ti alzassi ora. Avremo presto degli ospiti, a quanto pare»
Un rumore sordo, – Tecna ebbe l’impressione che l’altra fosse caduta dal letto ed avesse lanciato un’imprecazione – passi che si avvicinavano, frettolosi; e poi una porta spalancata, così come gli occhi scuri ed assonnati dell’amica.
«Ospiti?» sbottò, ancora intontita.
Lei annuì. Entrò, seguendo con lo sguardo la compagna, ora alla ricerca di qualcosa da indossare quella mattina. «Stella ce lo ha detto stamane. Ne discuteva ieri al telefono con Looma»
«E questo cosa ha a che vedere, con noi?» mugugnò la mora, annoiata.
Si stropicciò gli occhi davanti allo specchio. I capelli erano un disastro e a niente servì lo stupido pettine che si era portata da casa.
«Beh… Stella aveva detto che avrebbe voluto festeggiare in grande; ricordi?» spiegò, sedendosi sul bordo del letto. Musa era in quella camera da meno di un giorno e, nonostante questo, era già riuscita a marcarlo con l’inconfondibile disordine che regnava nei suoi spazi.
«Perciò ha pensato di invitare anche i ragazzi, per questa sera»
«Che cosa?» sbiancò, perdendo presa sui pantaloni che aveva preso dalla valigia. «Come sarebbe a dire che ha pensato di invitare anche i ragazzi? Non poteva dirlo con un po’ di preavviso?»
Come aveva pronosticato, il malumore dell’amica raggiunse vette mai toccate prima.
La ragazza si era precipitata nel piccolo bagno annesso alla stanza, imprecando qualcosa a proposito di una “gallina bionda” e della necessità del “tirarle il collo”, e combinando un disastro tra abiti e pettini.
Dopo aver guardato l’ora ed aver cacciato un urlo, si mise a cercare disperatamente una borsetta seppellita sotto un cumulo di vestiti. Alla fine, dopo aver litigato con la cerniera, riuscì ad estrarne spazzolino e dentifricio.
Quest’ultimo finì sul pavimento e, nella frenesia del momento, Musa pestò il tubetto quando era ancora aperto, macchiando la moquette del bagno. Inveì, prendendo a spazzolare i denti con furia mentre, con l’altra mano, tentava di sciogliere un grosso nodo di ciocche scure.
Tecna avrebbe trovato comico quel momento, se strascichi delle sue congetture a proposito dell’impostore non avessero ancora ottenebrato la sua mente.
«Una viene qui per stare in compagnia, divertirsi e tutto il resto; e quella che fa? Ne approfitta appena abbassi la guardia!» borbottò, tra un colpo di pettine e l’altro. Sputò nel lavandino, sciacquandosi poi la bocca. «Sapevo di non dovermi lasciar distrarre dalla nostra tregua momentanea! Ha invitato i ragazzi… i ragazzi!»
«Non è nulla di che, Musa. Non capisco perché ti agiti tanto; pensavo che l’idea ti avrebbe infastidito» rifletté l’altra, senza scomporsi.
Musa si sporse appena dalla porta, cercando di fulminarla con lo sguardo. Purtroppo per lei, però, la sua espressione era già sufficientemente corrucciata nell’atto di pettinarsi, per poter risultare minacciosa.
«Io sono infastidita!» esclamò, contrariata.
«Non si direbbe. Dall’emozione con cui hai accolto la notizia, sembrerebbe che ti renda lieta» ragionò. «Sei divisa tra la contentezza che scaturisce dalla possibilità di rivedere gli amici ed il disappunto per non esserne stata avvisata per tempo»
«Non funziona così» fece notare, lanciando in un angolo i pantaloni che aveva preso prima. «Io sono divisa tra la contentezza che scaturisce dalla possibilità di rivedere gli amici ed il disappunto che scaturisce dalla possibilità di rivedere Riven
«E dal fatto di non esserne stata avvisata per tempo» concluse, riflettendo attentamente. «È curioso. Non è forse per lui, che ti stai agitando ed imbellettando in questo modo?»
Musa rispose con uno sbuffo esasperato, troncando la conversazione.
Alla fine, seppure a forza di sbraiti ed imprecazioni, riuscì ad uscire da quella stanza in condizioni più o meno decenti. Agitata, aveva ormai anche dimenticato quel senso di fame che aveva assaltato il suo stomaco appena aveva aperto gli occhi.
Tecna sembrava assolutamente indifferente, di fronte all’idea di rivedere Timmy. L’amica sapeva abbastanza dell’altra e del suo modo di ragionare, da sapere anche che lei sarebbe stata felice di trascorrere un po’ di tempo con lui; ma il fatto che non fosse agitata nemmeno un po’ non lasciava dubbi sulla natura dei sentimenti che nutriva per lui.
Seppur con riluttanza ed imbarazzo, quell’estate, prima di tornare a scuola, Tecna le aveva raccontato ogni cosa dell’esperienza su Zenith. E, con sua somma sorpresa, Musa l’aveva capita.
Ora, che aveva capito di non considerare Brandon nulla di più di un piacevole conoscente e confidente, – e, nei giorni in cui era di buon umore, un amico – aveva cercato di fare chiarezza circa la sua amicizia con Timmy.
Un’amicizia che forse sarebbe rimasta tale.
«Stella me la pagherà» biasciò, mentre raggiungevano la stanza di Bloom.
Dalle interiezioni ed urla udibili anche attraverso lo spesso legno della porta, comprese che l’altra fata doveva aver avuto pressappoco la sua stessa reazione.
Almeno avrò qualcuno con cui gridare addosso a Stella.
Bloom, dal canto suo, aveva impiegato molto più tempo, a svegliarsi ed alzarsi, di quanto ne avesse speso Musa. Quando lei e Tecna entrarono nella stanza, la trovarono più o meno nel medesimo stato di quella della prima.
Il brillante arancione del pavimento quasi scompariva sotto la massa di magliette e maglioni sparsi a terra; una scarpa sbucava, per qualche oscura ragione, dall’intelaiatura di legno del baldacchino del letto, legata in un saldo nodo che la lasciava oscillare vertiginosamente ad ogni paio di pantaloni scaraventato in malo modo sul materasso.
La ragazza si muoveva freneticamente da un angolo all’altro della camera, ora frugando in un cumulo di vestiti, ora in un armadio in cui non sapeva se avesse messo qualcosa o meno. Il viso era rosso per la rabbia e faceva pendant con i capelli corti e spettinati, raccolti alla bell’e meglio in una serie di mollettoni e pinzette da cui sbucavano sporadiche ciocche fulve.
Sul naso aveva uno di quei cosi che chiamava “cerotti” e che, a quanto pareva, usava la notte per poter respirare meglio.
Nel complesso, Musa la trovò buffa.
«Le costava tanto, avvisarci ieri?» sbraitò, lanciando un berretto di lana a mo’ di frisbee. «Appena esco di qui mi sente!»
Continuò a borbottare per un po’, accompagnando le male parole ad abiti che, prima o poi, finivano inevitabilmente per volare in aria e ricadere in ogni dove.
«Bloom, ma cosa stai cercando?» chiese Tecna, ad un certo punto.
«Non lo so… è questo, il punto!» rispose lei, con tono esasperato.
«Su, su… non è il caso di farla tanto grave. Dopotutto, li vediamo quasi ogni giorno, normalmente… no?» fece Flora, conciliante. «Non credo sia importante come sei vestita. Anche perché i festeggiamenti sono questa sera»
Bloom scosse la testa. «La fai facile, tu!» sbraitò, supportata da Musa, che annuiva.
«Normalmente non mi fregherebbe nulla, lo sai» continuò. «Ma è diverso, in questo caso!»
La testa della fata della musica non faceva altro che assentire, trovandosi costretta ad essere d’accordo su un argomento così complicato e fastidioso che solo chi lo viveva in prima persona poteva comprendere.
«Non è detto che ci sia anche Sem» insistette Flora.
La fulva si fermò un istante, per lanciarle la sua peculiare occhiata da “mi prendi in giro?”. «Credi davvero che Stella sprecherebbe un’occasione perfetta come questa per mettermi a disagio e lasciarmi sola con un ragazzo di cui è convinta io sia innamorata follemente?»
«Beh, se ti agiti tanto, forse, non ha tutti i torti» realizzò Tecna, corrugando la fronte. «Musa ha avuto pressappoco la stessa reazione, caratterizzata dalla medesima quantità di panico. Lei e Riven hanno una curiosa relazione che oscilla tra l’attrazione e la mal sopportazione»
La diretta interessata arrossì fino alla punta dei capelli, assumendo un’espressione scandalizzata. «È un’idiozia!»
«Quale delle sue affermazioni?» rise Flora, nell’atto di porgere a Bloom una spazzola.
Sembrava che, in quell’intermezzo, avesse finalmente deciso come conciarsi. Ascoltava, intanto, e non poteva fare altro che immedesimarsi in Musa.
«Andiamo via, Bloom» fece quest’ultima, fingendosi oltraggiata. «Sono solo capaci di sfotterci»
«Posso unirmi a loro?» la voce di Stella le sorprese da dietro.
Una mano su un fianco, l’altra appoggiata ai cardini della porta, la principessa sfoggiava una di quelle discutibili acconciature particolarmente di moda su Solaria. Tecna ricollegò immediatamente quella pettinatura alle spazzole ed all’inenarrabile quantità di pinze e spilloni che la servitù aveva portato con sé, nella camera di lei.
Bloom e Musa si voltarono di scatto e, come furie, si avventarono sulla bionda. «Tu!» esclamarono, all’unisono.
Si avvicinarono, minacciose, costringendola ad arretrare in corridoio. «Posso spiegare…» sorrise, con aria innocente.
«Non c’è nulla da spiegare» masticò Bloom. «Tu…»
Le parole le morirono in gola.
Ancora una volta, entrambe dovettero darsi delle sciocche, ingenue sempliciotte, troppo propositive per rendersi conto della potenzialità di quella mente che Stella mascherava, e che usava solo quando si trattava di far giostrare tutti a ritmo dei castelli per aria che si costruiva basandosi sulle relazioni dei suoi amici.
Ancora una volta, Bloom dovette ammettere la riuscita del diabolico piano architettato dalla sua migliore amica.
I ragazzi erano lì; Sem era lì, di fronte a loro. E lei?
Beh, lei aveva ancora quel maledetto cerotto sul naso.
 
Do we really care
Or are we still struggling to swim
I don’t know why we can’t just live with
The weight of your heart
Out On A Limb, Faunts
 
Buon anno, vittime mie!
(Sì, cinque minuti sono andati via per colorare questa frase)
Vi risparmio il racconto di tutte le peripezie per le quali l’aggiornamento giunge con una decina di ore d’anticipo. Beh, peripezie…

Semplicemente, da brava procrastinatrice quale sono, la domenica che mi attende sarà all’insegna della matematica, della fisica, del latino e della storia (perciò, ecco, se qualcuno di voi si ritrova nella mia stessa situazione, cheer up, gli sfaticati esistono in ogni parte del mondo!); quindi eccoci qui.
Si fa complicata? Nah, le Winx sono delle investigatrici di prima categoria.
Intanto, Bloom dà di matto. No, Sem non le piace, eh!
I cerotti sul naso… miei salvatori. Specialmente in questo periodo.
Grazie a tutti, siete la mia vis vitalis!
7th

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Capitolo 12
*** XII ***


Avvertenze: Stella fashion blogger e mangiatrice di schifezze.
Lettori avvisati, mezzi salvati.

 

 
XII
 
But did you know,
That when it snows,
My eyes become large
And the light that you shine can be seen
Kiss From A Rose, Seal
 
La morbida consistenza della spugna incontrò presto la superficie liscia delle sue gote, tingendole di una crema della stessa lucentezza dorata della pelle, illuminandola e levigandola ancor di più.
Stella era ben consapevole del fatto che non ne avrebbe avuto bisogno; ma quella maschera di cosmetici e polveri le infondeva una certa sicurezza. Accostò il pennello agli zigomi, procedendo con meticolosa attenzione.
Mentre applicava il rossetto sulle labbra piccole, per la prima volta, l’attenzione ricadde sulla ridicola espressione che aveva assunto per facilitare l’operazione. Si sorrise allo specchio.
Sarebbe stata una serata memorabile; se lo sentiva. Non ci sarebbe stato spazio per le inquietudini e quel gran investigare di cui lei e le altre erano sempre più schiave.
Solo folle, voci, colori e risate.
Qualcuno bussò.
«Sei pronta?» Brandon aprì appena la porta. Sbirciò nella stanza attraverso la stretta fessura che si era creato. «Wow»
Entrò; un sorriso sorpreso si formò sul suo volto. «A cosa è dovuta tanta magnificenza, questa sera?»
«È la tradizione. E, per tua informazione,» replicò lei. Si voltò, lasciando oscillare i vistosi pendenti che portava alle orecchie. «io sono sempre magnifica»
Sottolineò il concetto facendoglisi più vicina; e, prima che lui potesse proferir parola, la principessa frappose tra di loro quello che doveva essere il suo abito. Una stoffa che scivolava dalle mani, fresca tra le dita e calda sulla pelle; un colore opaco, che sotto i lampadari brillava di bagliori caldi e chiari ma che, alla luce lunare, splendeva di un fulgore metallico e freddo.
La fata del Sole e della Luna.
«Ho bisogno che mi aiuti a metterlo. Avevo una mezza idea di chiamare una delle ancelle, ma visto che sei qui…» fece, voltandosi e facendo passare il vestito sulla propria testa.
«Questa non la togli?» chiese lui, sfiorando la leggera sottana che mascherava il suo bel corpo.
Afferrò i lembi della gonna, facendoli scorrere verso il basso; lei abbassò le braccia, stendendo poi le pieghe che si erano formate. «No. Sarebbe trasparente, altrimenti» spiegò. «Lo so che non ti importa, ma è per non turbare i tuoi amici. Credo che sarebbero folgorati dalla mia bellezza»
«E tu lascia che restino folgorati» scherzò il ragazzo, prendendo ad allacciare i nastri sulla schiena di lei. Litigò un po’ con quegli affari; gli addobbi del Soldì avevano dimostrato quanto scarsa fosse la sua abilità manuale.
«Fosse per me, lo farei» rispose, sistemando le maniche. «Ma poi chi le sente, Musa e Bloom, se rubo loro i pretendenti?»
Finalmente, Brandon riuscì ad intrecciare quei cosi infernali; Stella ne afferrò i lembi, portandoli poi sul corpetto dell’abito e fissandoli. Lui rise, e le mise le mani sulle spalle.
«Avresti potuto avvertirle» fece, lasciando scivolare le mani sulla sua schiena. «Sembravano piuttosto sconvolte»
Indugiò sulle scapole, tracciando come dei ghirigori immaginari. La pelle di Stella era come velluto caldo. «Era proprio questo, il piano»
Si voltò, fronteggiandolo. Lui la guardò in viso e pensò di non averla mai vista così bella e raggiante; e cosa aveva fatto, per meritarla? «Non credi di preoccuparti troppo per loro e troppo poco per te e per me?» commentò.
La principessa rise di cuore, appuntando un ciuffo di capelli che era sfuggito all’acconciatura. «Perché dovrei?» fece, con finta arroganza.
Il ragazzo fece per baciarla ma lei, più veloce, lo schivò e si sciolse da quello strano abbraccio. Non voleva correre il rischio che si sbavasse il rossetto.
Riprese la borsetta che aveva abbandonato su una poltrona, battendo poi le mani. La servitù si precipitò nella camera, procedendo a sistemarla e ad abbassare le serrande.
«Andiamo» disse a Brandon, uscendo. «Ho dei piccioncini da prendere in giro»
«Non ti smentisci mai…» sospirò lui, con un sorriso.
Le offrì il braccio, abbassando lo sguardo. Dagli orli elaborati del vestito della fidanzata sbucavano, ad ogni passo, le scarpe dalla vertiginosa altezza che aveva indosso; ogni volta, non concepiva come potesse muoversi con tanta naturalezza.
«Brandon» lo chiamò, fermandosi.
Sfiorò la sua guancia con la mano, sollevandogli il viso. «Di cosa hai paura?» continuò.
«Io non… beh» biascicò, con tono stanco. «Non lo so»
Lei si accigliò. Da che si conoscevano, non lo aveva mai visto vacillare in nulla che lo riguardasse.
In un certo senso, la fermezza che ostentava era una di quelle sue sfaccettature che più l’avevano attratta, inizialmente; ma sapeva che tutta la sua risolutezza nascondeva spesso nervi altrimenti scoperti.
«È per la storia della festa? Per Alan?»
Brandon era all’apparenza superficiale; o, almeno, questa era la fama con cui era conosciuto ad Alfea per la lunga lista di ragazze che aveva frequentato. Eppure, si faceva molti più problemi di quanto potesse sembrare.
Per questo – così credeva Stella – si faceva sempre triste quando aveva a che spartire con Alan. Aveva un modo di fare sorprendentemente aggressivo, nel momento in cui si trattava di qualcuno che lo aveva ferito o che sospettava potesse farlo a qualcuno a lui caro – come nel caso di Bloom.
Fin da quando era stato rifiutato, aveva dato per scontato che l’altro avesse automaticamente perso interesse per lui, che lo avesse giudicato sbagliato in qualche modo e che, soprattutto, non si fosse minimamente posto alcun problema.
«Beh… forse. È stupido, lo so» rispose. «È passato più di un mese»
Alan pensava che Brandon non avesse mai davvero cercato di capire la sua situazione, una volta che aveva scoperto la verità. Solo Stella era a conoscenza delle reali paranoie che avevano turbato il suo fidanzato a lungo; del dispiacere nel constatare il logoramento di un’amicizia che lo aveva aiutato a crescere.
«Per quella cosa… per lo scambio di identità tra me e Sky… non lo avevamo detto ai ragazzi, e nemmeno ad Al. Però non l’ha presa male; ha capito che avevamo dei validi motivi» le aveva detto tempo addietro, quando le cose erano venute a galla per com’erano.
«Te lo farò conoscere, un giorno di questi. È davvero una persona eccezionale; è come se… mi conoscesse da sempre. Un po’ come Sky»
«È passato più di un mese e non ne abbiamo mai parlato, perché è una cosa stupida, e lo so. Però…» riprese. «Però ora c’è Alan e, ogni volta, non riesco a non pensarci»
«Oh, Brandon…» sospirò. «Ha detto quelle cose in un momento in cui era nervoso. Non me la sono presa»
«Non intendevo questo» la interruppe.
Ripreso a camminare.
Oltre le vetrate si intravvedevano le sagome della città in festa, che imbruniva e si beava degli ultimi istanti di una luce dolce, accogliente. Presto la notte sarebbe calata, e gli specchi del castello sarebbero stati nuovamente vittime di un sortilegio di secoli prima.
«Quello che ha detto… sul fatto che scherzo…» ricominciò, a fatica.
Brandon non era molto bravo con le parole. «Non mi interessa quello che ha detto, davvero» lo fermò, stringendogli di più il braccio. «Non ho nulla di cui preoccuparmi»
Si allontanò, avvicinandosi all’alta scala. Da lì, era tutta discesa.
Nell’atrio, una nervosa Bloom si guardava continuamente attorno. Stella sorrise.
«È per questo che mi preoccupo per gli altri!» esclamò, trascinandolo per gli scalini.
«Non correre, o ruzzoliamo giù» rise Brandon, il buonumore ritrovato. Lo prese per mano, sorridendo di nuovo quando lui le lasciò un rapido bacio sulla spalla scoperta.
«Ehi, voi due» borbottò Riven, cercando di mascherare il divertimento. «Ci sono come minimo un migliaio di stanze, qui dentro. Prendetevene una»
«Mille e ventisette, per la precisione. Più le cucine e tutto il resto» precisò la principessa, senza scomporsi. «Vuoi fare un giro?»
Il ragazzo si strinse nelle spalle, contrariato. «Penso sarebbe una noia, dopo un po’»
«È così che si mostra gratitudine per l’ospitalità altrui» intervenne Musa, cercando di fulminarlo con lo sguardo. «Un segno distintivo della tua stirpe?»
«Non mi pare tu sia stata molto più riconoscente del tuo fidanzato carciofo, cara» fece notare Stella, avvicinandosi all’amica. «Bel vestito. Finalmente hai dato retta al mio consiglio e hai deciso di lasciare qualcosa da vedere»
L’altra avvampò, tentando invano di trucidarla. Balbettò una flebile replica che la bionda mise immediatamente a tacere con un gesto della mano.
«Su, su. Non hai bisogno di accampare scuse; era ora che mi ascoltassi» sorrise, allacciandole un braccio al collo.
Musa aveva sempre un ottimo profumo.
«Dove sono Sem e Tecna?» chiese Brandon.
In un angolo, seduti ad un divanetto a ridosso di una delle finestre, Timmy ed Alan conversavano allegramente circa l’esperienza del primo su Zenith. Quest’ultimo sorrise allo Specialista; l’altro gli rivolse una rapida occhiata, per poi tornare concentrato sul discorso.
«Tecna ha finito di prepararsi, ma mi sembra sia stata trattenuta al telefono da sua madre» spiegò Bloom, guardandosi la punta delle scarpe. «E Sem… beh, non ne ho idea»
«Sem è qui» si palesò il diretto interessato, alla loro destra. «Sarò io ad avere un pessimo senso dell’orientamento, ma questo posto è così immenso che mi sono perso due volte»
La fulva lo guardò, torcendosi le mani in un gesto nervoso. Sin da quando Stella aveva dato il lieto annuncio – benché non si fosse degnata di farlo a tempo debito – si sentiva agitata, per qualche ragione.
Dal giorno della festa sembrava di aver stabilito una sorta di tregua, con Sem; ma la sola idea di rivederlo la metteva in subbuglio.
Lui le sorrise.
«Anche io» ammise Riven. «È un labirinto»
«Ecco perché ti avevo proposto un tour completo» gli fece l’occhiolino Stella. «Ma non questa volta. È tardi. Qualcuno telefoni a Tecna»
«Se è al telefono con qualcun altro, mi dici come pensi possa rispondere?» chiese Alan, sarcastico. «Vado io, vado io»
Incurante delle espressioni sorprese degli amici, il biondo si fece strada verso la camera della fata. Ricordava di esserci passato davanti un paio di volte, qualche ora prima.
Involontariamente, aggrottò le sopracciglia.
Cosa ci trovassero, di tanto strano, lo sapevano solo loro. Tecna era forse l’unica, di quella combriccola, che gli stesse simpatica – a parte Looma, anche se non ne faceva esattamente parte.
Quella Flora passava pressoché inosservata e non sembrava avesse una gran voglia di socializzare; Musa aveva la lingua troppo tagliente e, quand’anche avesse provato a parlarci, quel pusillanime di Riven trucidava chiunque la sfiorasse con lo sguardo – nonostante non stessero insieme e, soprattutto, nonostante Alan avesse altri interessi - mentre la cara principessina…
Bah, lasciamo perdere…
Dulcis in fundo, la piaga purulenta. Quella seccatrice con foglie di acero al posto dei capelli; il punto interrogativo più grande.
Faceva quasi tenerezza il modo in cui cercava a tutti i costi di guadagnare punti presso di lui, con quel suo prestare attenzione al minimo mutamento dei suoi muscoli facciali.
È antipatica comunque.
L’unica gradevole era la fata della tecnologia, probabilmente. Intelligente, sveglia e con una passione per tutto ciò che di utile esisteva al mondo.
Ormai non si sorprendeva più di tanto, ogni volta che offriva subito una risposta a qualsiasi tipo di domanda. Non era forse lei, ad aver sventato la minaccia sotto Fonterossa grazie ad una serie di ricerche di cui era quasi l’unica responsabile?
L’estate prima, benché non la conoscesse ancora se non per qualche indiscrezione di Timmy, sapeva già di tutte le sue capacità e, nonostante questo, era rimasto a dir poco a bocca aperta quando la ragazza aveva fornito loro un aiuto. Non avrebbe saputo dire se fosse peculiarità del popolo da cui proveniva o meno ma, sicuramente, lei doveva aver cercato di sfruttare al massimo ogni sua risorsa fin da piccola.
Sarebbe stata una Specialista esemplare…
Svoltò l’angolo.
Gli sembrò, finalmente, di essere quasi arrivato. I primi lumini sul soffitto iniziarono ad accendersi in contemporanea alle ombre che cadevano sul cielo e sul corridoio; nella penombra, Alan scorse quella che doveva essere la soglia della stanza di Tecna.
Bussò, attendendo una risposta; ma, vedendo che la soglia era socchiusa, entrò.
 
Un po’ perché si trattava di Solaria e un po’ perché nel mondo magico niente era come lo conosceva, Bloom rimase sbalordita dall’atmosfera che regnava per le strade del centro della capitale.
Le luminarie, i motivetti che, in lontananza, celebravano l’occasione… gli spettacoli pirotecnici, i bimbi che, di fronte alle vetrine dei negozi ed ai tendoni di leccornie, agitavano serpentelli e stelle…
In generale, l’ultimo giorno di festeggiamenti pareva assomigliare in tutto e per tutto alle tradizioni della Terra; per certi aspetti, era come avere a che fare con la vigilia del Natale e dell’anno nuovo, intrise però di un sapore più caldo, quasi estivo.
L’arietta giungeva piacevole sulla pelle, e portava con sé i profumi dei dolci sapientemente disposti sulle bancarelle della via maestra. Nonostante, a detta di Stella, fosse abbastanza presto ed il vero spettacolo iniziasse dopo, era già piuttosto difficile camminare.
«Sono molti, quelli che vengono da altre città del regno. Solo qui si festeggia in questo modo la fine del Soldì» aveva spiegato urlando, in uno scontro con la musica e le voci che si sovrapponevano alla sua. «Cercate di non perdervi di vista! In mezzo a tutta questa gente è difficile ritrovarsi già ora, figuratevi dopo»
«Ma dove stiamo andando, Stella?» chiese Flora.
«A fare un giro, no?» fece, con ovvietà. «È ancora presto per raggiungere il posto di cui vi ho parlato»
Mentre procedevano, nessuno pareva riconoscere la principessa; una faccenda insolita, pensò Bloom: ogni volta che avevano lasciato il castello anche solo per respirare aria di cornetti e mondanità, qualcuno le aveva fermate per tributare i suoi omaggi alla futura regina.
In quel momento, la ressa era tale da rendere chiunque troppo desideroso di tirarsene fuori, per prestare attenzione ad una ragazza bionda che camminava su delle sottospecie di trampoli. A Stella piaceva che venisse riconosciuta per quel che era; eppure, forse, ogni tanto anche lei avvertiva l’esigenza di passare quasi inosservata?
Nessuno di loro proferì parola, mentre si spostavano.
La principessa ed il rispettivo cavaliere erano a capo della fila, tenendosi per mano e lanciandosi di tanto in tanto le occhiate di chi ha visto qualcosa di interessante o divertente e non ha bisogno delle parole, perché l’altro o l’altra lo capisca.
Musa canticchiava tenendo un lettore musicale in mano e, di quando in quando, porgeva un auricolare a Flora; Riven stava un po’ sulle sue, valutando la mercanzia di alcuni banconi o guardando storto qualche avventore che cercava di rifilargli dei petardi.
Tecna e Timmy confabulavano a bassa voce di qualcosa di cui quest’ultimo, prima che lasciassero il castello, aveva parlato anche ad Alan. Questo camminava accanto al fratello, ma sembrava assente.
In realtà, già da quando era tornato nell’atrio del palazzo, in compagnia della fata della tecnologia, sembrava essersi ammutolito. Faceva il taciturno con chi non conosceva a sufficienza o con chi non rientrava nelle sue simpatie ma, in verità, era un gran linguacciuto.
Alla festa lo aveva visto chiacchierare animatamente con Looma – e, data l’indole allegra e ciarliera di lei, non aveva avuto poi molti dubbi – e con le sue amiche; aveva riso – Alan che rideva – spesso e volentieri, smuovendo anche quello stoico pezzo di ghiaccio di Aibao.
Passava buona parte del suo tempo a discutere con Timmy e Tecna circa macchinari e strani aggeggi di cui capivano solo loro, per non parlare di quelli che, stando a Sem, erano i lunghi simposi con Riven circa l’arte della sciabola.
Insomma, era piuttosto inusuale vedere Alan tacere nonostante la più o meno gradevole compagnia. Sembrava ignorare perfino il fratello, nonostante in genere fosse in grado di prendere anche un semplice ciuffo d’erba come argomento di conversazione con cui coinvolgere il granitico gemello.
Forse è un po’ stanco…
Non sapeva esattamente come lui e gli altri fossero arrivati su Solaria ma, considerato che sulla Terra non esistevano autobus intergalattici, il biondo ed il suo secondo dovevano aver fatto un bel giro dell’oca.
Eppure, sembrava davvero in un mondo suo. Non rivolgeva nemmeno le solite occhiatacce a Brandon…
«Ti senti bene, Alan?» forse l’avrebbe presa a male parole o l’avrebbe fulminata con lo sguardo – non che non ci fosse abituata – ma, in un certo senso, vederlo andare in giro con la stessa carica emotiva di un mollusco la rattristava.
Lui sbatté le ciglia un paio di volte, come se si fosse appena ridestato. Voltò il capo, sorpreso. «Oh… sì, bene. Grazie» rispose, abbozzando qualcosa di vagamente rassomigliante ad un sorriso.
Proseguì senza più prestarle attenzione; lei, per parte sua, aveva paura che gli occhi potessero uscirle dalle orbite. Alan le aveva risposto in maniera cordiale, aveva ringraziato ed aveva anche cercato di sorridere; di sorridere a lei!
Ma che diamine gli prendeva?
Lo osservò ancora un po’, trovando un po’ bizzarra la sua andatura. Alan aveva generalmente lo stesso modo di camminare del fratello, sebbene tendesse a tenere le spalle un po’ meno ricurve.
Ora quasi trascinava i piedi ed ondeggiava in una maniera che lo faceva sembrare sul punto di cadere. Forse avrebbe solo dovuto smettere di analizzare tutto; chissà come doveva essere ridicola lei, conciata in quel modo.
Stella – ovviamente – l’aveva praticamente obbligata ad indossare una sorta di surrogato del vestito che indossava lei; quello che pareva il tradizionale abito dell’evento. Si trattava certamente di simbologie e significati profondi ma, con tutti quei nastri e quelle fasce che all’inizio aveva messo a casaccio, si sentiva un’idiota.
La moda, su Solaria, era stravagante; questo lo aveva intuito già dal primo giorno che vi aveva messo piede.
«Oh, Stella… di là c’è quello che cercavo! Avevo promesso a Miele che glielo avrei portato, se lo avessi trovato» disse Flora, indicando un viottolo che scompariva oltre uno stuolo di gente. «Vi dispiace se faccio un salto? Vado e torno»
«Beh, non penserai di andare da sola» fece Sem. «Potresti perderti»
«Posso andare io» propose Alan guadagnando, per la seconda volta nell’arco della serata, una sfilza di occhiate perplesse. «Voi andate»
Decisero di assecondarlo; ma il gemello, titubante, esitò. Cosa stava succedendo?
Conosceva il fratello come le proprie tasche, ed era certo della sua antipatia verso Flora.
«Andiamo, Sem?» lo chiamò Bloom.
Annuì e, senza rendersene conto, si trascinò un’espressione corrucciata per tutto il tragitto. La ragazza ipotizzò che anche lui dovesse essersi reso conto di quanto curiosa fosse quella situazione.
Imboccarono una strada laterale, facendo cenno ai due che si erano allontanati di raggiungerli lì.
«Allora… ehm…» si schiarì la voce, non sapendo esattamente quale argomento di conversazione scegliere. «Hai festeggiato il Soldì?»
«Beh, non proprio» precisò. «I miei nonni sono terrestri e non ne capiscono molto. Per loro esiste solo il Natale»
La ragazza sorrise. Chissà come doveva essere.
In un certo senso, lui era diviso tra due mondi – proprio come lei. Un posto che lo aveva visto nascere e perdere qualcosa; un altro che lo aveva cresciuto e che chiamava “casa”. Ma, a differenza di Bloom, Sem aveva ricordi delle sue radici, vi poteva tornare.
Forse, la consapevolezza di averne la possibilità lo rendeva ancor più in bilico tra due realtà diverse? L’incanto e la quotidianità; le bellezze e le avventure.
«Non dovrei nemmeno essere qui. Non volevo che mio padre sapesse di questa cosa» continuò. «È stata colpa di Looma»
Come spiegò, il giorno del Soldì aveva telefonato, per far loro gli auguri. Ignara della volontà dei due fratelli di tenere segreto – ed ignorare – l’invito di Stella, aveva iniziato a parlarne al telefono con il padre dei due ragazzi.
«Pensavo ci avrebbe apostrofati e, comunque, non mi sembrava corretto abbandonarlo così, per una volta che abbiamo la possibilità di trascorrere del tempo con lui» fece.
Eppure, sorprendendo tutti, aveva rimproverato i due ragazzi per la loro sciocca idea di rinunciare a trascorrere del tempo con gli amici. «E così, eccoci qui. E tu?»
Lei aveva trascorso quel periodo tra i fiori di sua madre e le lamentele di suo padre.
Nel modo migliore possibile, insomma. «Proprio come ti avevo detto. Anche perché, lì non ho molti amici» rispose, stringendosi nelle spalle. «Anzi, in realtà, non ne ho proprio»
Quelli che avevo si saranno dimenticati di me…
«Perché Looma non c’è?» cambiò argomento. «Pensavo che sarebbe venuta. Beh, pensavo che sarebbe venuto anche Aibao»
«Looma aveva un altro impegno. Almeno, credo» sorrise. «Mentre Aibao… non era molto per la quale. Non credo apprezzi particolarmente la nostra compagnia»
Oh…
«È un tipo un po’ particolare. Però, se Alan è convinto che ne valga la pena, non posso obiettare» continuò.
Si sfioravano. Bloom provò il desiderio di prenderlo per mano.
«Dicevi che la parte più difficile è accettare di essere amati» sussurrò.
«Solo se non ci si apprezza abbastanza. Se non si sa cosa sia bello per sé» rispose, facendola sussultare; non credeva l’avesse sentita.
Ora poteva sentire le dita di Sem ad un respiro dalle sue.
«E cosa è bello, per te?» gli chiese.
«Oh, questa non ve la potete perdere!» li interruppe Stella. «Di là c’è il banco delle alici caramellate. Una vera prelibatezza! Il maestro del pesce viene qui ogni anno e se ne occupa personalmente; nemmeno a palazzo lo preparano con la stessa maestria»
Alici caramellate?
Una lunga tavolata era protagonista indiscussa di viottolo sulla sinistra, gremito di avventori. Da dietro un pannello adiacente proveniva un gran fumo ed un odore che Bloom non avrebbe saputo identificare; era però certa di trovarlo incredibilmente sgradevole.
Si rabbuiò un po’, infastidita dal fatto di aver interrotto quella conversazione per qualcosa di nauseabondo e per la proverbiale incapacità, da parte della sua migliore amica, di considerare quando intervenire e quando non farlo.
«Ma che razza di porcate mangiate, qui?» fece Riven, perplesso.
Dovevano pensarla allo stesso modo.
«Sono squisite, credimi» insistette la principessa, rivolgendo un cenno ad un vecchietto che sbucò dal fumo. «Ma non mi aspetto che tu le apprezzi. Sono per palati raffinati»
«Non mi sento molto bene» balbettò Sem, coprendosi la bocca con una mano.
«Andiamo, Sem. Non ce la faccio, è disgustoso» borbottò l’altro.
Presero posto su un muretto poco distante, che dava su un edificio abbandonato. Riven sembrava intento a mandare avanti il suo sproloquio circa il suo impellente bisogno di vomitare; il moro, invece, aveva assunto un pallore straordinario e, tra i due, sembrava fosse quello effettivamente sul punto di rimetterci.
«Era proprio necessario comprare questa roba?» si lamentò Musa, una volta che Stella ebbe finalmente tra le mani una busta di quella “prelibatezza”. «Da vicino è ancora peggio»
«Senti, carina… su Melody vi mangiate i gatti, ma io non vengo a rompervi le scatole, no?» replicò Stella, stizzita e con la bocca piena. Tutte le buone maniere di cui aveva dato prova il giorno prima sembravano ormai finite nel dimenticatoio.
«Noi non mangiamo i gatti. E comunque, anche se lo facessimo, puoi star certa che avrebbero un odore più sopportabile di quello di questo pesce ricoperto di caramello» fece notare. «È letale, se riesce a turbare perfino Riven!»
Stella si strinse nelle spalle, ignorandola. Porse a Brandon un’alice infilzata con uno stuzzicadenti; lui, facendosi forza, si sforzò di sorridere mentre i denti incontravano la consistenza appiccicaticcia di un caramello che sapeva di pesce avariato.
«Cosa non si fa, per amore?» rise Bloom, dandogli un leggero colpo sulla spalla.
Il cibo gli andò di traverso e prese a tossire; mentre la ragazza cercava di farlo rinsavire e la principessa sbraitava a proposito dello stomaco da femminuccia del fidanzato, Musa scuoteva la testa. «Io lo avevo detto»
«È piuttosto insolito. Brandon trangugia bene o male tutto, di solito» considerò Timmy. «Come riesci a mantenere la calma anche in mezzo a questo fetore, Tecna?»
La diretta interessata sgranò gli occhi e sembrò quasi di intravvedere del colore, sulle sue guance. «Su Zenith… su Zenith le alici caramellate sono piuttosto popolari»
Gli altri due la guardarono, sconvolti.
«Ma che fine avranno fatto, Flora ed Alan?» rifletté Bloom, interrompendo quel momento di sgomento. «Sono via da un po’… non è che si sono persi?»
«Mi sembra strano… abbiamo detto loro di raggiungerci qui. E poi, non so Flora, ma Alan ha un ottimo senso dell’orientamento» disse Brandon, dopo essersi ripreso.
Già… ma questa sera è così strano che potrebbe aver perso perfino quello…
A ben pensarci, era stato un gesto cortese, il suo.
Fin troppo…
Perfino la fata dei fiori ne era rimasta estremamente stupita. Forse lui aveva solo voluto allontanarsi un po’ dal cicaleccio, o esplorare spazi che non aveva mai visto prima.
«So che dovremmo andare per di là, dagli altri» disse Flora, stringendosi al petto un grosso sacchetto di carta. «Ma ti spiace se andiamo un po’ avanti per di qui e poi torniamo indietro? Mi sembra che dal parapetto di lì si possa scorgere un bellissimo orto botanico»
Il ragazzo arricciò appena le labbra all’insù, stranito. Annuì.
Avanzarono, senza dirsi una parola.
Lei si inebriava della fresca aria dal retrogusto fruttato e lui scrutava con curiosità ogni cosa, con gli occhi di un neonato in un mondo diverso. Flora poteva dirsi sufficientemente empatica da poter percepire l’angoscia o l’emozione in chiunque, anche nel cuore di chi conosceva poco; ma, in quel momento, Alan era veramente impenetrabile.
Pareva quasi… pareva quasi non appartenere a quella realtà; come un estraneo alle prese con qualcosa che non sapeva se reputare ostile o meno.
«Grazie davvero, per essere venuto con me» esordì, imbarazzata.
Una sottile inferriata delimitava la strada dal verde che si infittiva sotto di loro, bagnato dalle ombre della sera. Tra le fronde degli alberi, di tanto in tanto, si poteva intravvedere qualche fioca luce; farfalle di una rara specie, le cui ali brillavano di bagliori violacei nel buio.
Uno spettacolo magnifico e, per una ragione che non le era del tutto chiara, inquieto.
Lui le regalò un sorriso, come risposta; ma era distante.
Il suo sguardo non si soffermava sulla natura ai loro piedi, ma su grattacieli ed edifici i cui colori brillanti andavano incupendosi.
«Mi hai un po’ presa alla sprovvista» ammise, sorridendo. «Ero convinta di non… godere della tua simpatia»
Alan non rispose, sulle prime. Lontano con la mente, scandagliava ogni dettaglio del panorama di fronte a sé, come a voler imprimerne un ricordo indelebile nella mente.
«Quasi mai è come sembra» fece dopo un po’, enigmatico.
Si voltò, poggiando i gomiti sulla balaustra; guardava in lontananza. Il gruppo di amici che avevano lasciato stava molto più in là, in un vicolo da cui proveniva una nube bianca.
Pensò, ridendo sotto i baffi, che sarebbe stato divertente. Avrebbe imparato molto, prima di lasciare che le cose andassero come avrebbero dovuto.
«Perché abbattere qualsiasi minaccia? Perché cercare di sapere tutto?» chiese alla ragazza.
La guardò negli occhi e lei, per un istante tanto breve quanto intenso, ebbe paura. Non seppe dire cosa vi aveva visto; ma qualcosa, nella voce di lui e nei riflessi delle sue iridi chiare, l’aveva inquietata nel profondo.
«Perché non vivere alla giornata? Perché non vivere prendendo le cose come vengono?» continuò. «Perché difendere qualcosa di ingiusto? Perché è bello?»
Flora rimase interdetta, e non seppe se fosse più turbata dalle sue domande o dal tono con cui le aveva poste. Cosa gli prendeva, improvvisamente?
«Non…» le parole le morirono in gola, e quasi ringraziò il tempestivo intervento dei loro amici, che li avevano appena individuati.
«Ma che fate qui, tutti soli?» scherzò Riven, dando una pacca sulla schiena di Alan. «Se non ti conoscessi potrei quasi pensare che ci provi con la ragazza di un tuo amico»
«Va tutto bene, Flora?» chiese Musa, mentre gli altri due si allontanavano.
«Sembri scossa» constatò Bloom, posandole una mano sulla spalla. «Sei stanca?»
Forse, aveva ragione; forse era solo un po’ di stanchezza. «Credo di aver avuto un mancamento… non sono abituata a stare in mezzo a tanta gente» sorrise. «Ma voi dove siete stati? Ho visto che Stella ha comprato qualcosa»
Indicò la principessa che, poco lontano, ingurgitava alici alla velocità della luce. Tecna masticava più pacatamente, ma tutti si domandavano ugualmente come potesse mangiare una cosa simile.
«Sì, qualcosa che devasterà il suo stomaco» commentò Musa, proseguendo.
Guardò il cielo e si accorse che la cortina della notte era ormai calata su di loro. La musica e le luci che illuminavano le strade conferivano loro un’atmosfera di magia e tradizione, come una festa estiva nel regno delle lucciole.
I festeggiamenti continuavano indisturbati, ed i primi petardi presero a scoppiare, in lontananza. Lungo la via maestra aveva avuto inizio la parata, dove carri e bande si susseguivano in una sfida all’ultimo sangue.
«Tra poco c’è il discorso del re – alias, mio padre» spiegò Stella, indicando dall’alto una macchia che sembrava affluire verso la torre più alta della città. «Ma è un po’ noioso. La cosa importante è raggiungere il punto ottimale per vedere i fuochi d’artificio che verranno fatti partire proprio da lì»
«Facendo un rapido calcolo basato sulla pendenza della torre, l’altezza ed il-»
«Oh, Tecna!» sbottò la bionda. «Non c’è bisogno di fare calcoli. Il punto ottimale è poco distante da qui»
L’altra strinse le labbra; non apprezzava particolarmente l’idea di essere interrotta. Seguì a principessa e gli altri, guardandosi attorno con circospezione.
L’aria era strana, quella sera: non portava con sé nulla di buono – proprio come quella della notte precedente, quando un’illusione le aveva fatto comprendere di non aver ancora risolto nemmeno la metà di ciò che l’aspettava.
Guardò i compagni, uno ad uno. Non le erano certamente sfuggite le occhiate preoccupate che Bloom e Sem lanciavano ad Alan.
A dire il vero, perfino la fata della tecnologia, quando lui aveva bussato alla porta della sua camera ed era sceso con lei nell’atrio del palazzo, aveva trovato il suo comportamento curioso ed insolito, data la natura del ragazzo.
Per tutta la durata della serata e per tutto il tempo in cui la luce dei fuochi brillò su di loro, Tecna non riuscì a godere lo spettacolo di una bellezza che Stella aveva voluto regalare loro e che, in verità, quasi nessuno era riuscito a cogliere.
Poteva solo pensare e rimuginare.
Quando tornarono al castello e si divisero, per raggiungere le rispettive camere, ebbe un’intuizione. Non dovette attendere molto, per poter verificare le sue ipotesi; perché un lamento provenne da uno stanzino lì accanto.
E, diversamente dagli altri, non si sorprese poi molto di aprire lo sgabuzzino e trovarvi Alan rannicchiato in un angolo, con gli occhi sgranati e gli abiti laceri. Quello con cui avevano trascorso la giornata non era nella sua stanza, anzi, pareva che non vi fosse mai entrato.
Il biondo era sconvolto, e biascicava qualcosa. Diceva di averlo visto.
Occhi che non ricordava, ma tetri ed angoscianti, il ritratto di un urlo che vorticava nel cristallino di uno sguardo che lo aveva deriso. Un sibilo ed una risata che alla mente giungeva come un grido; e poi il buio.
La mente corse irrimediabilmente alla creatura che il nucleo di Fonterossa aveva partorito e di cui loro si erano sbarazzati; eppure, a quanto pareva, questa era stato tanto potente da insinuarsi nel cuore di chi aveva incontrato. Si trattava dunque di un altro mostro nato dalla scuola?
Ma come aveva potuto seguirli fino a lì, ed a che scopo? Era dunque la stessa presenza della biblioteca?
«Io l’ho visto» ripeteva, scosso.
Una cosa, però, era chiara.
Di qualsiasi cosa si fosse trattato, era lo stesso impostore che aveva assunto l’identità di Brandon e che aveva cancellato i documenti dall’archivio; e, soprattutto, era la stessa entità che si era finta Alan e che, in entrambi gli episodi, non era stata in grado di simulare in modo da risultare sufficientemente credibile.
Qualcuno che non aveva avuto la possibilità di osservarli e di memorizzarne le movenze, forse.
Oppure, qualcuno o qualcosa che non conosceva gli umani quel poco che bastava per poterne imitare uno senza sembrare un animale, come nel caso del fidanzato di Stella; qualcuno o qualcosa che non era mai davvero entrato in contatto con un uomo, una donna o un bambino e che, di conseguenza, non aveva saputo fingersi Alan senza sembrare un automa.
Un gioco le cui ragioni erano ancora sconosciute ed i cui effetti continuavano a serpeggiare nell’aria come lugubri eco dei fuochi d’artificio che, anche in quel momento, fungevano da colonna sonora di una festa buia.
 
Now I couldn’t be there
Now you shouldn’t be scared
I’m good at repairs
And I’m under each snare
Intangible
Clint Eastwood, Gorillaz
 
E… anche questa volta si aggiorna il giorno prestabilito la prossima volta…
Buonasera a tutti coloro che ce l’hanno fatta fin qui, come ve la passate?
Gennaio mi sembra sempre un mese lunghissimo… un po’ perché, almeno nella scuola che frequento io, si chiude il quadrimestre e ci sono un paio di settimane sospese in un limbo e un po’ perché le giornate sono tutte uguali! Ma bando alle ciance….
Povero, povero Alan.
Io lo amo. Non voglio far ingelosire Aibao, Looma e Sem; ma lo amo.
No, non è vero; ha avuto quel che si meritava. Amo solo Brandon ed il suo modo di fare il pulcino con Stella, mentre lei si ingozza di alici caramellate.
Riven fa tanto il duro, ma ha lo stomaco da principessina (una principessina non di Solaria, ovviamente); chi sarà mai l’impostore?
Lo scopriremo tra… beh, due settimane, come al solito!
Ringrazio tuuutti tutti, prometto che risponderò appena potrò!
7th

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Capitolo 13
*** XIII ***


Avvertenze: compare Vera. L’avevo già citata in qualche occasione e, per chi non la conoscesse, è la presunta sorella di Helia; un tempo frequentava Alfea ma, siccome faceva palesemente schifo come fata, il caro nonnino l’ha presa tra i suoi alunni.
Maria invece è stata mollata da Jared durante le vacanze.
E con questa, vi lascio alla lettura!

 

 
XIII
 
Each careful step
Along the byway
And more, much more than this, I did
It my way
My Way, Frank Sinatra
 
Affondando le mani nelle tasche della giacca pesante, si decise a fare un giro per il cortile dei dormitori. A quell’ora, l’accademia iniziava ad animarsi degli studenti sopravvissuti al primo giorno dopo il rientro dalle vacanze.
Ironicamente, era stato più difficile aggirarsi per la scuola per una giornata intera – senza fare nulla – piuttosto che ricominciare fin da subito con le estenuanti sedute di addestramento. Talvolta, Vera pensava che Codatorta sottoponesse i suoi allievi a lezioni estremamente severe per placare la loro necessità di fare qualcosa.
L’aveva testato lei stessa, quando ancora non aveva trovato la sua strada e, come qualsiasi donna della sua famiglia, aveva tentato di divenire una fata e di ricevere un’educazione che si confacesse a questa esigenza – nonostante non vi fosse mai stata nemmeno una lontana ombra di qualsiasi tipo di magia, in lei.
Quella vita statica e colma di tomi ed incantesimi da apprendere non faceva per lei; non era mai stata nelle sue corde. Il periodo lontano dall’istituto era stato piacevole e le aveva concesso un po’ di tempo da trascorrere con suo fratello ed aiutarlo a ricordare qualche dettaglio in più; ma Fonterossa le era mancata, ed ora più che mai se ne rendeva conto.
Si stiracchiò un po’, gettando uno sguardo alla finestra della camera che Helia divideva con Timmy. Dalle indiscrezioni trapelate da quest’ultimo e dal fratello – prontamente tenuto al corrente dalla rispettiva fidanzata – il soggiorno su Solaria si era trasformato nell’ennesimo episodio di angoscia.
Quel ragazzo, Alan, se l’era vista brutta; un po’ come Timmy stesso poco tempo prima. Per quanto poco conoscesse il biondo, sapeva che era piuttosto inusuale vederlo tanto scosso.
Anche a distanza di giorni dal fatto, manteneva un’inquieta espressione vuota, gli occhi sgranati e sbigottiti quando rinvenivano. Pareva versare nella costante attesa che lo stesso male che lo aveva assalito si ripresentasse.
Vera, al pari degli altri, aveva capito veramente poco dell’intera vicenda.
Una presenza aveva osservato le Winx, le aveva seguite fino ad un altro pianeta e, in un primo momento, si era finta Brandon, per poi cancellare dai dispositivi di Tecna e dagli archivi di palazzo alcuni documenti che la fata stava leggendo; il giorno successivo, aveva relegato Alan in uno stanzino e ne aveva assunto l’aspetto.
Eppure, se il primo episodio poteva in parte avere una spiegazione più o meno chiara – anche se restava un mistero il motivo che poteva aver spinto qualcuno a voler evitare che la ragazza usufruisse di quei testi – non si poteva dire lo stesso dell’altro. Il falso Alan non aveva fatto nulla di concreto per realizzare o far progredire il suo piano, qualsiasi esso fosse stato.
Lei, dal canto suo, aveva riflettuto abbastanza da avere una sorta di intuizione. Non avrebbe saputo dire quanto potesse essere d’aiuto alle ragazze ed alla loro causa, ma era convinta che Tecna non avrebbe ignorato il suo suggerimento.
La Specialista raccolse un sassolino da terra, scagliandolo poi sulle serrande che sbarravano le finestre della stanza di Helia. Replicò il gesto un paio di volte ed attese, sorridendo poi quando il fratello sbloccò le persiane e si affacciò, il viso assonnato.
«A cosa devo questa visita così, di buon mattino?» mugugnò, mentre raccoglieva i capelli alla bell’e meglio. «Non sono nemmeno le sei»
«No, infatti. Ma tu sei giovane e forte, puoi farcela» scherzò. «Ho bisogno del cellulare di Timmy. O di qualsiasi cosa permetta di mettersi in contatto con Alfea»
Il fratello inarcò le sopracciglia, confuso. «A che ti serve?»
«Devo parlare con Tecna, ma non ho il suo numero di telefono. Ho solo quello di Flora» spiegò. «È importante»
Lui non indagò oltre. Scomparve per qualche istante, per poi affacciarsi nuovamente al davanzale; le lanciò il cellulare di Timmy. «Vieni a riportarlo, quando hai finito. Anzi, non venire; ridaglielo quando lo vedi» biascicò. «Torno a dormire»
Vera sorrise, ringraziandolo.
Nonostante l’amnesia, Helia era rimasto lo stesso sotto svariati punti di vista: non faceva mai troppe domande, nel momento in cui comprendeva la situazione.
Si avvicinò ad una panchina, cercando intanto il numero telefonico della fata della tecnologia nella rubrica. Si sedette, lasciando squillare il telefono un po’ di volte.
Era piuttosto plausibile che non rispondesse, data l’ora. Decise di lasciarle un messaggio in segreteria telefonica.
Se le sue deduzioni fossero state corrette, le Winx sarebbero presto state in grado di comprendere quale pista seguire.
 
«Stai dicendo sul serio?» chiese, dubbiosa.
Tappò un orecchio con l’altra mano, cercando di isolare quel gran chiacchiericcio che risuonava per i corridoi dei dormitori. Torrenuvola si animava presto ogni giorno, e le sue studentesse si mostravano esuberanti sin dalle prime ore.
Maria non aveva mai sopportato la loro incapacità di recarsi a lezione senza belare come una mandria di pecore.
«Certo! Ti pare che mi sia inventata tutto?» dall’altro capo del telefono, Musa si fece un po’ infastidita. «So che avrai altro da fare, ma… appena hai un po’ di tempo, potresti fare un tentativo? Ieri abbiamo messo a soqquadro la biblioteca per un’intera giornata, ma non abbiamo trovato nulla»
«Ci proverò, appena posso… ma non so quanto riuscirò a trovare. Se non c’è traccia di documenti simili ad Alfea, dubito ci sarà qui. I testi di storia sono gli stessi» fece notare. «Posso sempre guardare nella sezione più vecchia»
Strinse tra le dita la sacca in cui teneva i libri. Notò che un paio di ragazze del primo anno la guardavano insistentemente; appena incrociò il loro sguardo, lo distolsero.
A Torrenuvola vigeva la pessima abitudine di farsi i fattacci di chiunque anche quando il soggetto in questione era al telefono. Le sue coetanee avevano imparato che era meglio girarle a largo, ma le novelline ancora non lo sapevano.
Rise tra sé e sé. Un rapido incantesimo sottovoce, e le due malcapitate si trovarono con delle chiome di colori assurdi; avrebbe solo voluto poter essere lì ad assistere alle loro urla di fronte allo specchio.
«Grazie, Maria. Non sappiamo come sdebitarci» la richiamò la voce della fata.
«Sdebitarvi di cosa? È mio dovere. Non ho ancora perso tutti i miei buoni propositi di dimostrare di che pasta sono fatte le streghe» rispose, seria. «E poi, è divertente»
E mi dà una vaga idea di come sia sentirsi parte di un gruppo, sapere che qualcuno si fida di me abbastanza da chiedermi aiuto…
«Beh, mi sembra un po’ brutto chiedertelo ora… dopotutto, credo non sia un momento molto felice» sospirò l’altra, imbarazzata.
Le veniva sempre difficile ammettere di essersi immedesimata in faccende che non la riguardavano direttamente. «Va tutto bene, Musa. Se ti riferisci a Jared, puoi stare tranquilla» sorrise, cercando di celare la punta di amarezza che l’aveva assalita. «Non mi interessa più nulla; abbiamo provato e non ha funzionato. Francamente, credo di aver fatto già abbastanza»
«È proprio questo, che intendevo…» replicò.
«Sono serena. Davvero» ripeté. «Ti terrò aggiornata appena riuscirò a scoprire qualcosa. A più tardi»
Sospirò a sua volta, estraendo dalla borsa il libro di testo per la prima lezione mattutina.
Proprio non sopportava il modo di spiegare di Zarathustra, unico membro del corpo docente in grado di rendere mortalmente noiosa una materia del calibro di arti oscure. Sbuffò appena, prendendo posto al primo banco.
Sorrise sotto i baffi, perché nessuno sedette accanto a lei. L’unica che avesse mai sopportato come compagna era Jena, che però aveva ben pensato di farsi venire un’intossicazione con i da lei tanto decantati filtri antiacne di quella Trisha.
In verità, Jena non era stata l’unica; ma Darcy era ormai un ricordo lontano, così come lontani sembravano i giorni in cui avevano condiviso qualcosa, fosse stato anche solo un po’ di spazio.
Prese appunti meccanicamente, non prestando veramente attenzione alla spiegazione; la mente restava proiettata alla conversazione con Musa ed al racconto di quello che era avvenuto su Solaria. Il resoconto l’agitava un po’, iniettandole sotto pelle un’emozione che non avrebbe saputo se etichettare come positiva o negativa.
Sapeva solo di avere una gran voglia di spulciare un po’ le ammuffite carte dell’archivio di Torrenuvola. Decise di marinare le lezioni pomeridiane – avrebbe inventato qualche scusa, o avrebbe usato lo stesso medicamento che aveva intossicato Jena – e di procedere subito con la sua ricerca.
Proprio come aveva immaginato, la sezione di storia non diceva nulla di più di quanto già non si sapesse. Doveva cercare qualcosa di più dettagliato che, più o meno alla pari dei documenti trovati da Tecna per caso, contenesse aspetti che l’impostore aveva voluto censurare, per qualche motivo.
Si guardò alle spalle. Ogni corridoio era deserto e, sotto una certa prospettiva, era estremamente comoda la totale assenza di custodi o bibliotecari.
Sapeva perfettamente che la Griffin avrebbe potuto osservarla dalla sua inquietante sfera di cristallo ma, dopotutto, lei non sapeva nulla della vicenda e delle ragioni che potessero spingerla a setacciare il reparto dei libri più antichi.
Si trattava di una sezione limitata, confinata in uno spazietto angusto che, lì per lì, assomigliava più ad un ripostiglio con degli scaffali. Per qualche strano motivo, la preside sembrava voler ripudiare tutti i volumi conservati lì; o, forse, non c’era abbastanza spazio?
È una strega…
Forse non era il momento di riflettere su quel dettaglio…
…Una delle più potenti dell’intera dimensione. Perché non ingrandire le sale o aggiungere scaffali?
Fece scrocchiare le dita, per poi stiracchiarsi. Non era il caso di farsi troppe domande sulle stranezze di quella donna; probabilmente, cercare di capirle sarebbe equivalso a fare dei grossi buchi nell’acqua.
Era per quella ragione, che Tecna diffidava tanto da Faragonda?
Troppo complessa ed apparentemente ingenua?
La maggior parte dei volumi era rilegata in una pelle ormai consunta in svariati punti. Uno addirittura pareva essere stato ricucito a mano.
Ricucito a mano?
Con le dita percorse lentamente i sottili nastri che tenevano insieme il retro ed il dorso; ne era abbastanza sicura: non si trattava di un incantesimo. Il lavoro era piuttosto grossolano in diverse zone, ed il filo era di colori diversi, come si fosse esaurito inaspettatamente nel corso dell’operazione.
Un libro ricucito da una creatura non in grado di adoperare la magia?
Maria era ben consapevole dell’esistenza di soggetti che, nonostante gli indubbi natali su pianeti o regioni impregnate degli incanti più antichi, non avevano in sé alcun tipo di potere. Vera era una di quelle, e la stranezza consisteva principalmente nella sua ascendenza, fitta di maghi e personaggi illustri.
L’editoria di un testo, però, - e di questo era certa, dato che suo padre adottivo se ne occupava – era affidata ad individui in grado di servirsi di appositi incantesimi. L’autore ed editore di quel tomo era uno di quelli a cui era preclusa la magia nonostante la provenienza? O, forse, era addirittura qualcuno di proveniente dalla dimensione dei non magici?
Forse lo sono tutti? Che sia per questo che la Griffin non vuole che questi libri stiano con gli altri?
Aprì il volume, scoprendo una grafia tozza e quasi del tutto illeggibile, un po’ per lo stato pietoso delle pagine ed un po’ per i caratteri irriconoscibili di alcune parole. Sfogliandolo un po’ con cautela, si accorse di non conoscere la lingua in cui il testo era stato composto.
Sospirò, riponendolo al suo posto.
La sezione era nel complesso così esigua che impiegò meno di due ore a setacciarla da cima a fondo, per scoprire di non aver infine nulla di utile da riferire a Musa. Ciò che aveva trovato erano lunghi elenchi di incantesimi ora irrealizzabili e di nomi di streghe che, nel mondo da cui proveniva Bloom, erano state arse vive secoli prima.
Proprio come prese in mano il cellulare, questo iniziò a vibrare.
La fata della musica le stava telefonando.
«Maria? Mi senti?» fece.
La sua voce giungeva a scatti, come se ci fossero state delle interferenze. «Io sì, ma tu? Dove ti trovi?»
«Siamo sotto Alfea» disse, lasciandola perplessa. «È una cosa un po’ complicata, più tardi ti spiego tutto. Forse abbiamo cercato qualcosa che possa fare al caso nostro; tu hai trovato nulla?»
Maria dissentì, volgendo l’ennesima occhiata sconsolata allo sgabuzzino. «No, purtroppo. Ma tienimi aggiornata» sorrise. «Cosa ci fate sotto Alfea?»
«È stata Vera a suggerircelo»
Quando la Specialista aveva contattato Tecna, quella mattina, le aveva suggerito di vedere se esistesse ancora quella stanza in cui, l’estate prima, Darcy aveva soffiato da sotto il loro naso il talismano.
«Vera non sapeva se, dopo che avevi lanciato l’incantesimo per ripristinare la scuola, anche quell’area fosse tornata in piedi» spiegò. «Ma la ricordava come zeppa di libri potenzialmente utili»
Avevano rinvenuto lo stanzone con le stesse modalità dell’anno precedente e, allo stesso modo, lo avevano trovato tremendamente buio. Il piedistallo su cui avevano riposato i cinque specchi, un tempo, era ora sgombro.
«Non so quanto impiegheremo, ma deve pur esserci qualcosa» concluse la fata, guardando le compagne che si davano da fare. C’era anche Looma. «A dopo»
«Non possiamo usare uno di quei filtri che ci sono in biblioteca?» sbuffò Stella, sfogliando un volume svogliatamente. «Ci vorrà un’eternità, così»
«Certamente. Tuttavia la ricerca risulterà più accurata» controbatté Tecna.
Le sembrava di essersi ormai abituata a consultare libri, testi e qualsiasi documento. La mente tornò su Zenith; e parve essere trascorso molto più tempo di quando non ne fosse passato in realtà.
«E poi la magia potrebbe non capire la nostra richiesta» fece notare Flora, chiamando due tomi verso il cantuccio in cui era seduta a gambe incrociate.
La principessa sbuffò ancor più sonoramente, chiudendo di scatto il libretto che aveva sulle ginocchia. Si alzò, prendendo a trascinare i piedi per la stanza, pensosa.
«Ci sbrigheremmo se tu ci aiutassi più concretamente, Stella» fece notare Bloom.
L’altra, di rimando, assottigliò gli occhi. «Non capisco ancora cosa ci facciamo qui. Ecco tutto»
«Te lo abbiamo spiegato venti volte. Lo abbiamo anche ripetuto prima a Looma, quando l’abbiamo incontrata» sospirò l’amica, esasperata. «Dobbiamo cercare un maledetto libro che contenga pressoché le stesse informazioni dettagliate dei documenti di Tecna. Solo così possiamo capire per quale motivo l’impostore volesse depistarci e, soprattutto, da cosa»
«Certo che ne succedono, di cose, quando ci siete di mezzo voi» scherzò Looma, sporgendosi appena dalla scala a ridosso di una libreria.
In realtà, aveva detto il vero. Quelle cinque erano una sorta di calamita per eventi improbabili e nemici altrettanto improbabili. «È che ce le andiamo a cercare» commentò Musa.
Il secondo giorno di scuola volò, lasciando un senso di delusione sempre crescente nelle ragazze; il pomeriggio non era stato fruttuoso come sperato ed ora le Winx collassavano sui divani e sui letti del loro appartamento, pensierose.
Stella passava lentamente le setole di una spazzola tra i capelli, un’espressione indecifrabile in viso; di tanto in tanto scoccava occhiate al cellulare, come se stesse attendendo una telefonata. Accanto a lei, Tecna digitava rapidamente i tasti di un portatile, senza rivolgere nemmeno una parola alle altre.
Bloom aveva forse avuto la reazione più preoccupante, dal momento che stava sdraiata a pancia in giù sul pavimento, scarabocchiando qualcosa su un foglio. Teneva gli occhi fissi nel vuoto e sgranati, conferendo al suo viso sottile l’aria di un folletto costantemente turbato.
Avrebbe voluto riuscire a dormire, come Flora; ma la sensazione che provava la imprigionavano in uno stato di inquietudine che le impediva di distendersi e lasciarsi andare ad un sonno senza preoccupazioni.
Forse, pensava, l’impostore le stava osservando anche da lì, escogitando l’ennesimo modo per mettere loro i bastoni tra le ruote.
«Che fine ha fatto Musa?» chiese, dopo un po’.
«Dopo le nostre ricerche sarebbe stata da Looma per studiare con lei» fece Stella. «Se la cava bene con Galateo e domani c’è l’esame»
«Sei sicura? A me pareva avrebbe studiato con Pia» rifletté Tecna, alzando lo sguardo dallo schermo.
«Beh, non so. Looma mi aveva detto che avrebbero studiato insieme» insistette l’altra.
Si guardarono, perplesse. Che stava succedendo?
Proprio in quel momento, la porta dell’appartamento si aprì piano, rivelando l’esile figura di Musa, che si sporgeva appena il necessario per constatare che le sue amiche erano ancora sveglie. «Pensavo di trovare le luci spente. Che ci fate, ancora in piedi?»
«Oh, ci stavamo appunto domandando dove fossi!» esclamò Stella.
La ragazza lanciò un’occhiata interrogativa alla compagna di stanza. «Non ti avevo detto che sarei stata da Pia per Galateo?» chiese, confusa.
Tecna annuì. «È quello che mi avevi detto che avresti fatto. Tuttavia, Stella era per qualche ragione convinta che avresti studiato con Looma»
«Si sarà sbagliata… o forse hai capito male tu. Non vedo Looma da quando siamo uscite da quella stanza infernale» spiegò, stringendosi nelle spalle. «Domattina le parlerò. Adesso ho solo un gran sonno e tante pagine da ripetere»
Sbadigliò, trascinandosi fino alla sua stanza.
Avendo ormai deciso che era ora di ritirarsi, anche Bloom entrò di soppiatto nella camera che divideva con Flora. La fata dormiva serena e supina, stretta nel piumone candido del suo letto.
Invidiava molto i sonni tranquilli della sua amica.
Per lei era difficile farne da quando aveva sperimentato quel brutto incubo, l’anno prima. In verità, riusciva ad addormentarsi e svegliarsi riposata più spesso, da qualche tempo a quella parte.
Iniziava non a dimenticare, ma a perdonare – a perdonarsi – ed i sogni erano molto più nitidi e piacevoli proprio nei momenti in cui lei non guardava indietro e si rallegrava di tutta la meraviglia che la circondava.
Sapeva perfettamente di dover ricondurre quella scoperta principalmente a se stessa; tuttavia, sapeva anche che non sarebbe riuscita a muovere nemmeno un passo, in quel percorso, se non fosse stato per le ragazze e per Sem.
La presenza di loro e l’esperienza di lui in merito avevano mosso qualcosa. Tuttavia, ancora, ogni tanto le sue notti erano infestate da quelle stesse immagini di cui aveva parlato con Helia… e, prima di andare a dormire, si domandava come sarebbero stati i propri sogni.
Bloom si rannicchiò sotto le coperte, avvicinando le ginocchia al petto.
Sospirò, ripensando a quanto era avvenuto su Solaria.
Tralasciando la brutta serata di Alan e la fugace comparsa di una nuova ombra, non poteva negare di aver percepito un sussulto quando i primi fuochi d’artificio avevano dato spettacolo nel cielo ed aveva letto la propria stessa emozione negli occhi di lui.
Sembrava trascorsa un’eternità, da allora; eppure, si era trattato solo della settimana precedente. Non aveva notizie sue e di Alan da allora.
Del gemello sapeva, grazie a vaghe informazioni che Brandon passava a Stella, che era riuscito in parte a rimettersi nonostante avesse preso a guardarsi attorno con molta più circospezione.
Nessuno avrebbe potuto dire con certezza cosa gli fosse successo, la notte in cui qualcuno aveva assunto il suo aspetto e lo aveva rinchiuso in uno sgabuzzino del castello. Lo avevano trovato in uno stato pietoso, ma sembrava aver subito una violenza che aveva a che fare con la sua interiorità.
Era stato come se la sola presenza di quel che aveva visto avesse potuto suscitare in lui uno sgomento tale da prosciugarlo di tutte le sue parole.
Si rigirò nel letto un’altra volta, afferrando il cellulare dal comodino. Con le mani che le tremavano, cercò in rubrica il numero di Sem; aveva anche quello di Alan, ma dubitava le avrebbe risposto a quell’ora e di buon grado.
Si fece forza ed inviò il messaggio; ma non avrebbe saputo dire se lo avesse fatto più per chiedere notizie del biondo o per scambiare qualche parola con l’altro.
Sapeva solo che il cuore le stava esplodendo in gola e che lo aveva sentito fare una capriola nel momento esatto in cui il ragazzo le aveva risposto. Non si era davvero aspettata che lo facesse.
Stava bene, a quanto pareva. Alan era ancora un po’ scosso, ma sembrava avesse ripreso un po’ di tono – e la voglia di fare del sarcasmo.
Non aveva mai parlato a Sem attraverso il telefono, ora che ci rifletteva. Anzi, non lo aveva fatto con nessun ragazzo che non fosse stato Andy, o al massimo Sky.
Lui era esattamente come nella realtà: parole precise, espressioni concise. Non che avesse ritenuto possibile il contrario…
Poi lo schermo si illuminò nuovamente, rivelando che entrambi erano a conoscenza delle ricerche di quel pomeriggio e che, insieme agli altri, si erano mobilitati al fine di essere d’aiuto. Era stata Looma, ad avvisarli.
Sorrise, intenerita per qualche ragione. Conosceva i due gemelli da così poco che pareva curioso il modo in cui questi fossero riusciti ad avvicinarsi a lei, a loro, con così tanta rapidità e genuinità.
Si chiese dove fossero stati fino ad allora e come le cose sarebbero andate se ne avesse fatto la conoscenza prima. Lo stesso valeva per la loro amica d’infanzia.
A poco a poco, avvertì gli occhi farsi stanchi e le palpebre più pesanti. Inviò un ultimo messaggio e, subito dopo, fu buio.
Il giorno successivo, le allieve del secondo anno si apprestavano alla prima sessione d’esame: un compito su sei capitoli interi del manuale di Galateo e su una ricerca svolta durante le vacanze.
Stella e Tecna erano abbastanza rilassate.
La prima non aveva avuto bisogno di impegnarsi chissà quanto, dal momento che l’educazione impartitale l’aveva costretta a conoscere il bon ton alla perfezione; la seconda, naturalmente, aveva studiato tutto a tempo debito.
Flora, invece, sgranocchiava nervosamente il cappuccio della penna che teneva in mano, nonostante non fosse giunta impreparata. Le altre due erano ormai rassegnate, l’una all’idea di dover far affidamento sulla logica per racimolare la sufficienza e l’altra a quella di dover cercare di ricordare più informazioni possibili tra tutte quelle apprese nelle ultime ore.
Gli esami ad Alfea non erano mai particolarmente impegnativi, nemmeno quando la materia presa in considerazione era quella di Griselda; tuttavia, i test architettati dalla Du Four erano notoriamente fonte di ansie e dispiaceri per tutte le studentesse.
«È una materia così inutile» ripeteva Musa, mentre sfogliava freneticamente il libro di testo, seccata. «E ci affanniamo più per questa che per le altre»
«Solo una vera principessa può eccellere in questo campo» commentò Stella, scherzosa.
L’altra la fulminò con lo sguardo, chiudendo il manuale di scatto. L’insegnante era infine entrata ed al suo seguito fluttuava una pila di fascicoli intonsi.
«Appunto. “Una vera principessa”, non una fata» sussurrò poi all’amica, mentre la professoressa era distratta. «Questa roba non riguarda tutte noi»
Du Four intercettò Musa e le fece lo stizzito segno di tacere.
Distribuì i fogli e, come questi si depositarono sul banco di ciascuna allieva, comparvero domande diverse per ogni fila. «Non c’è bisogno che vi rammenti che è impossibile copiare. Iniziate»
Bloom si morse appena il labbro inferiore, constatando di dover lasciare indietro i primi quattro quesiti. “Qual è la prima persona che deve porgere la mano in una presentazione?”
Scosse la testa, maledicendosi per tutti quei pomeriggi spesi a Gardenia a non fare nulla – nemmeno aiutare sua madre in negozio – se non pensare, disegnare e procrastinare all’infinito gli impegni scolastici.
Voltò il capo alla sua destra e, senza che nemmeno se ne sorprendesse, vide la penna di Tecna scorrere sul foglio in un unico ed ininterrotto movimento fluido. Non avrebbe potuto chiederle alcun suggerimento per svariati motivi.
Davanti a sé, Musa si teneva una mano tra i capelli nel tentativo di spremersi le meningi. Guardò l’amica con la coda dell’occhio e, quando Du Four non la vide, si girò.
Riassunta la posizione iniziale, mosse di poco la sedia a sinistra, spostando il fascicolo a destra. Bloom sorrise. «Grazie mille»
L’altra ricambiò il gesto, fingendosi poi pensierosa non appena la professoressa riprese a guardarla. Sperò che la sua compagna fosse riuscita a leggere qualcosa.
Mentre scribacchiava, la fulva lanciò un’occhiata oltre il banco di Musa, sulla destra; generalmente era occupato da Looma, che non si permetteva mai di seguire una lezione di Galateo senza essere in prima fila.
Tuttavia, quel giorno era assente.
La constatazione la turbò, soprattutto perché conosceva la fata abbastanza da sapere che quella era stata l’unica materia per i cui esami si era preparata a dovere.
Che fosse malata? Doveva essersi trattato di un malanno improvviso, perché il giorno precedente le era parso sprizzasse energia da tutti i pori.
Lasciò che quell’ora trascorresse così, tra sprazzi di risposte al compito, riflessioni sulle sorti di Looma, sulle loro ricerche e su ciò che ne era di Sem, che non le aveva più contattata.
Quando infine consegnò lo scritto, chiese subito di uscire.
Nell’aula erano rimaste solo Pia, Amaryl, Flora – che non si alzava mai prima dello scadere del tempo – ed altre quattro studentesse. Come varcò la soglia, cercò con lo sguardo le sue amiche.
Tecna e Stella confrontavano i quesiti e le risposte, scoprendo via via che la cara professoressa ne aveva soltanto cambiato l’ordine, e non il contenuto. Musa si era tappata le orecchie per non starle a sentire e ricambiò l’espressione distrutta di Bloom appena la vide.
«Questo è andato veramente male» disse all’amica. «Penso che, se non fosse stato per i tuoi suggerimenti, avrei lasciato la prima pagina vuota»
«Beh, non credo di aver avuto più fortuna. Punto al minimo» replicò, rassegnata. «Ma sono felice di non essermi assentata come avevo pensato di fare. La Du Four sarà ancora più crudele con quelle che se la sono balzata allegramente»
«A proposito di questo…» fece la rossa, richiamando l’attenzione delle altre due. «Voi sapete che fine ha fatto Looma? Oggi non c’era»
Proprio mentre diceva così, dalla classe giunsero stremate anche Amaryl ed un’altra fata. Per quanto le costasse rivolgersi a quell’arpia, Bloom fece uno sforzo e le si avvicinò.
Lei e Looma condividevano l’appartamento perciò, forse, avrebbe saputo dirle qualcosa di più. «Ehi, Amaryl…» fece, non sapendo da dove iniziare. «Com’è andata?»
La bionda corrugò la fronte, più annoiata che sorpresa. «Bene» mentì. «Perché?»
«Così… per fare un po’ di conversazione…» biascicò, scocciata. Era davvero impossibile averci a che fare senza soddisfare il desiderio di strozzarla.
«Oh, ti prego… non credo davvero ti interessi parlare con me» disse, con ovvietà. «Cosa vuoi?»
Respirò a fondo. L’orgoglio non aveva mai pulsato così. «Mi chiedevo dove fosse Looma. Non si è presentata all’esame»
Amaryl rise, con quel suo goffo modo di schernirla. «Che te ne importa? Avrà deciso di marinare, oggi»
«Ero solo preoccupata per lei, e dovresti esserlo anche tu. È la tua compagna di stanza» le fece notare, irritata. «Pensavo non si fosse sentita bene di notte e pesavo tu te ne saresti accorta. Ma, come al solito, dimenticavo che hai i prosciutti sugli occhi per qualsiasi cosa riguardi gli altri»
Si allontanò, scocciata e dandosi della stupida per aver pensato di poter intavolare una conversazione normale con una vecchia gallina come quella. Mentre sbraitava – ampiamente sostenuta da Stella – le risate insopportabili di Amaryl non accennavano a voler cessare.
«Quasi quasi le raso a zero i capelli, una notte di queste» ragionò Musa, mentre scendevano per le scale. «Avresti dovuto chiedere a Pia, sai che è più disponibile di quella scervellata»
Bloom annuì, sospirando.
Non voleva vedere complotti ovunque, ma le ultime vicende l’avevano frastornata un po’. Forse Looma avrebbe saltato solo la prima ora, pensò.
Giunte nell’aula di Metamorfosimbiosi, si sedette al suo solito posto e diede una rapida occhiata al cellulare. Sem le aveva risposto e, a quanto pareva, era giorno di esami anche a Fonterossa.
Improvvisamente, Bloom ebbe l’illuminazione. Rapida, chiese al ragazzo se sapesse qualcosa della loro amica, se l’avesse più sentita da quando aveva informato lui e gli altri delle loro ricerche.
«Vedo che tra voi procede a gonfie vele» Stella la fece sobbalzare sulla sedia, scatenando le risa delle altre. «Da quand’è che avete preso a messaggiare?»
«Non è mica un’abitudine» protestò, rossa in volto. «Gli stavo solo chiedendo se avesse notizie di Looma, ecco tutto»
E Looma non si presentò all’esame di Wizgiz, né alle lezioni successive; Sem ed Alan non avevano la più pallida idea di cosa potesse esserle successo, perché non rispondeva nemmeno a loro.
Pia, con cui condivideva la stanza, disse di non averla vista rientrare, la notte precedente. Pareva che la fata le avesse detto che sarebbe rimasta a dormire da Stella e, anzi, l’altra era convinta che loro ne sapessero di più.
Una serie di versioni differenti che la ragazza doveva aver rifilato loro per uno scopo ben preciso, anche se non era chiaro di cosa si potesse trattare.
Fatto stava che Looma era scomparsa e, più la giornata scorreva e di lei non si sapeva nulla, più le preoccupazioni aumentavano.
Così, al calare del Sole e dopo circa due passate a setacciare la scuola da cima a fondo, le Winx si incontrarono nel loro punto di ritrovo.
La gradinata del cortile era a quell’ora investita da una luce purissima, dalle striature dei colori del tramonto; l’aria andava via via rinfrescandosi e le ragazze dovettero stringersi un po’ nei loro cappotti. Era quasi ora di cena e ben poche studentesse erano rimaste lì fuori, a godersi gli ultimi istanti del giorno.
«Non abbiamo trovato nulla, vero?» sospirò Flora, facendo più una constatazione che non una domanda. «Io ho chiesto a chiunque, ma nessuno ha saputo dirmi qualcosa»
«Idem» borbottò Musa, calciando un sassolino. «Mi chiedo quando finirà tutto questo gran cercare per nulla»
Tecna stava corrucciata con il naso incollato al palmare, non prestando davvero attenzione alle altre. Le aveva pensate tutte ma, a quanto pareva, la sonda non era stata in grado di rinvenire Looma da nessuna parte.
Scomparsa; come fosse stata un fantasma.
Sbuffò, concentrandosi finalmente sulla discussione delle sue amiche. Lasciò vagare lo sguardo sul cortile e lo incrociò con quello della principessa Aisha che, da lontano, correva verso di loro.
Non aveva quasi più avuto la possibilità di averci a che fare, dopo gli eventi delle rovine di Fonterossa. Le aveva spiegato la situazione e le modalità con cui era stata risolta; dopodiché, aveva perso ogni contatto.
Ora non poteva non dirsi sorpresa di vederla rivolgersi a lei ed alle altre con tutta l’urgenza che le si poteva leggere negli occhi.
«Tecna, Bloom…» fece, cercando di ricomporsi. «So che è scortese esordire in questo modo, ma… mi hanno detto che stavate cercando una vostra compagna»
«Looma» annuì Bloom. «L’hai vista?»
«È quella piccolina, con un anello infilato tra le trecce e l’abitudine di salutare chiunque?» si accertò la principessa.
Le cinque fate si guardarono. «Sì!» dissero all’unisono.
«Allora forse l’ho vista, ieri sera. Mi pare fosse nei pressi di quell’ala del castello in cui c’è solo un ripostiglio… quella vicina all’infermeria» spiegò. «Io l’ho incrociata perché aspettavo che la mia compagna di stanza finisse la visita medica»
Raggelarono sul posto. Perché non ci avevano pensato prima?
Looma doveva aver deciso di continuare le loro ricerche senza dire nulla.
«Non so cosa ci facessi lì, ma non l’ho più vista uscire»
 
At last the arm is straight, the hand to the loom
Is this the end or just begin?
All My Love, Led Zeppelin
 

Aisha torna alla ribalta... ogni tanto mi piace riportarla in vita!
Sì, gli esami sono palesemente inventati, ma il Galateo e Du Four no. E sì, in questo capitolo Bloom copia; chi non lo ha mai fatto?
Diciamo che il loro test capita a fagiolo se comparato alla mia situazione attuale, dato che tra qualche giorno faremo l'ennesima simulazione di terza prova (che bello che gioia che bello) e il mio rapporto con la matematica è pressappoco quello che Musa ha con il Galateo. Uffi...

Lo sgabuzzino che dà accesso allo stanzone è (per chi non lo sapesse o non lo ricordasse) quel posto che nella storiella precedente ospitava un/il talismano. Ma ci sarà davvero stato solo quello?
Che fine avrà fatto, Looma?
Ah, sì, ovviamente anche questa volta sono in anticipo di qualche ora, ma ormai non ci fate nemmeno più caso, vero?

7th

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Capitolo 14
*** XIV ***


XIV
 
And when you’re out there, without care
Yeah I was out of touch
But it wasn’t because I didn’t know enough
I just knew too much
Crazy, Gnarls Barkley
 
Avevano ricontrollato ogni area del castello più e più volte, ma proprio non avevano pensato all’eventualità che Looma avesse deciso di riprendere da dove si erano interrotte.
Se si erano aspettate di trovarla dormiente nello stanzone al di sotto dello sgabuzzino, tra libri e ricettari alchemici, si erano sbagliate di grosso. La sala era vuota, eccezion fatta per qualche volume che giaceva aperto al suolo.
Tecna si chinò a raccoglierlo, riflettendo.
La fata doveva essersi interrotta all’improvviso e per una causa che doveva averla distolta dalle sue intenzioni e costretta ad abbandonare tutto il prima possibile. Di cosa poteva essersi trattato? E lei dov’era?
«Sono tutti libri che abbiamo escluso dalla nostra ricerca» constatò, sfogliandoli ad uno ad uno. «Questo è rimasto aperto su un capitolo che parla della Fiamma del Drago»
«Per quale ragione avrebbe dovuto leggere una cosa del genere?» rifletté Musa.
«Che cosa dice, esattamente?» intervenne invece Bloom, avvicinandosi.
L’altra si accigliò, facendo un rapido resoconto di quanto riportato dalle righe che aveva sotto il naso. «Non dice molto, in realtà. Proprietà benefiche della Fiamma… storia dei suoi custodi… un accenno ai suoi nemici»
«Non è un po’ strano che si parli di “nemici della Fiamma del Drago”?» chiese a quel punto Stella, sedendosi accanto all’amica e guadagnandosi delle occhiate confuse.
«Insomma, fino ad oggi c’è sempre stato qualcuno che ha voluto impossessarsene, giusto?» continuò. «Non c’è mai stato nessuno che volesse distruggerla o che avesse un potere tale da farlo… sarebbe impossibile, dato che impregna ogni aspetto della vita. Annientarla non comporterebbe anche la distruzione del mondo, dato che esso è nato grazie a lei?»
Le altre ragionarono e trovarono quella constatazione sorprendentemente coerente. Che loro sapessero, non era mai esistito un potere pari o superiore a quello universale rappresentato dal Grande Drago.
«Che cosa c’è scritto, a proposito di questi nemici?» domandò dunque Flora.
«Nulla di preciso, in verità… viene solo riportato che la Fiamma può essere sconfitta soltanto da un’entità che non è stata originata direttamente da essa, ma da un suo frammento coltivato da un sigillo» riferì.
«Ma che significa?» fece Musa, alzandosi e raccogliendo gli altri libri.
Tutti erano rimasti spalancati su una sezione che riguardava il potere di Bloom; Looma doveva aver avuto un’intuizione di qualche tipo, che potesse aver ricollegato la faccenda dell’impostore alla Fiamma del Drago.
«I nuclei…» realizzò allora la fata della tecnologia.
Come aveva potuto essere così cieca?
«Ricordate cosa vi avevo detto tempo fa, quando io e la principessa Aisha avevamo scoperto la verità sui nuclei? Possono eliminare qualsiasi minaccia grazie ad un sigillo imposto su di loro» ricordò, con un filo di voce.
«I sigilli sono l’unica forma di magia che non è tratta direttamente dall’energia della Fiamma; i nuclei delle scuole contengono in sé dei frammenti di quel potere da cui, attraverso un sigillo, hanno origine le entità preposte alla protezione della scuola» proseguì. «Queste possono essere le uniche in grado di sconfiggere la Fiamma del Drago. Il mostro di Fonterossa è nato durante l’assalto delle creature d’ombra, originate dal potere sottratto a Bloom e fuso a quello delle Trix»
Raccolse un libro, sorridendo. Avrebbe dovuto pensarci prima.
Come spiegò, ciò che avevano combattuto nelle rovine dell’accademia era stato un essere debole, partorito da un organismo logorato dal tempo e dall’ambiente in cui si trovava; un cuore che aveva originato una creatura altrettanto fragile. Con la convergenza erano riuscite ad avere la meglio solo in virtù delle condizioni pietose di quel mostro.
Non avevano mai lontanamente pensato, però, che anche Alfea possedeva un nucleo e che essa stessa era stata vittima di un tentato assedio da parte degli stessi invasori che avevano distrutto Fonterossa. «Non abbiamo considerato la possibile presenza di una creatura speculare nei pressi della nostra scuola» concluse.
«Ma questo… cosa può avere a che fare, con Looma e con le nostre ricerche?» fece Flora, preoccupata. «Credi che… l’impostore di Solaria possa essere la creatura nata dal nucleo?»
Tecna si lasciò andare ad un sospiro. «Non ne sono certa, ma ogni indizio parrebbe suggerire che sia così. Da quel che emerge attraverso i racconti di Alan e da quel che ho visto e sentito io quella notte, in biblioteca… sembrerebbe che questa entità sia simile a quella di Fonterossa»
E, riflettendo con maggiore accuratezza, i comportamenti dell’impostore facevano davvero pensare ad un essere che aveva poca dimestichezza con le abitudini umane.
«Restano da stabilire le ragioni per cui ci ha seguite, si è finto Alan e per cui ti ha impedito di consultare quei documenti» disse Bloom. «Forse Looma lo aveva intuito. Forse aveva pensato che potesse esserci un nucleo anche qui e, per accertarsene, aveva deciso di consultare questi libri»
«A questo punto, resta da stabilire dov’è Looma» fece Musa, guardandosi attorno con sospetto. «E se la creatura l’avesse rapita?»
«Io credo che la creatura ci abbia seguite per occuparsi di Bloom. Lei è custode del potere che quell’essere è nato per contrastare; perciò mi pare strano che possa aver rapito Looma» considerò ancora Tecna. «Anzi, ad una più attenta analisi dei fatti, mi pare strano che possa aver architettato qualsiasi piano per sbarazzarsi infine della Fiamma. Le entità generate dai nuclei non hanno una propria forza di volontà, sono puro istinto e pura forza»
Che quella fosse da considerarsi un’eccezione? «La priorità resta comunque trovarla. Forse dovremmo dare l’allarme, dirlo a Faragonda» valutò Flora.
«No… lei non dovrebbe nemmeno sapere che siamo qui» replicò Bloom, con voce flebile. «E che non abbiamo mantenuto la parola data»
S’alzò, con un sospiro.
Ciò che la turbava maggiormente, dell’intera vicenda, era il fatto che tutti i mali nuocessero agli altri solo a causa propria. Avrebbe probabilmente dovuto smettere di sorprendersene; d’altronde, lei non aveva nessuna colpa se non quella di essere nata con il fardello di un vasto potere da sopportare.
Eppure, non poteva fare a meno di dubitare di sé e di pensare che, forse, se le cose andavano sempre così era a causa della sua incapacità di amministrare e custodire la Fiamma del Drago.
Prima Sky, poi l’intera dimensione; adesso sarebbe stata Looma, a rimetterci?
«Se avessimo anche solo una vaga idea di cosa possa esserle successo…»
«Dite che questa libreria può essere un indizio?» fece Stella, richiamando la loro attenzione.
Sul fondo della stanza, a ridosso della parete, uno scaffale scuro sporgeva rispetto agli altri. Per la prima volta, si accorsero che non faceva parte di quella fitta rete di mensole e libri che si stagliavano fin sopra il soffitto; pareva fosse stato spostato di recente e poi rimesso al suo posto.
Un incantesimo e la libreria scivolò in avanti, rivelando l’ingresso ad una buia anticamera. Le Winx si scambiarono un’occhiata preoccupata e il tacito consenso nel procedere e scoprire cosa si celasse oltre quello spazio.
Musa v’entrò per prima. Come abbassò la maniglia di una bassa porta polverosa, ecco che venne investita da una luce fredda e bianca.
Ai loro piedi si avviluppava il profilo di una scala a chiocciola che scendeva sempre più in basso, alle radici della terra. La fata mosse un piede in avanti, e subito la sagoma di uno scalino parve farsi più solida, come un blocco di marmo bianco richiamato dall’incantesimo che doveva esservi stato applicato.
La scala diventava materiale laddove avvertiva il loro passaggio; scompariva appena si allontanavano. Guardando sotto di sé, videro il vuoto.
Le pareti, il soffitto ed il fondo parevano replicare l’immagine di un’aurora boreale e, man mano che loro discendevano, i suoi colori si facevano sempre più caldi, fino a vertere verso i toni luminosi dell’alba.
Quando, infine, anche l’ultimo gradino fu tornato impalpabile, una figura sdraiata emerse da un angolo di penombra. Era Looma.
Bloom e Stella si precipitarono in ginocchio accanto a lei, chiamandola e scuotendola per le spalle; ma la fata non rispondeva e respirava a fatica. Il panico s’impossessò di loro, mutando poi in terrore quando, con la coda dell’occhio, videro il rapido movimento di un refolo scuro.
Alle loro spalle stava quella che, presumibilmente, doveva essere la creatura nata dal nucleo durante l’assalto dell’estate precedente. A differenza di quella con cui si erano scontrate sotto Fonterossa – pura oscurità dalla forma mutevole – questa pareva aver mantenuto l’aspetto di Alan, seppur avvolto da un manto nero che sfumava nell’aria.
Nel complesso, sembrava un cherubino dal bel viso turbato dalle macchie scure della sua anima. Corrotto, lontano dalla bellezza e dalla luce di un tempo.
«Che cosa le hai fatto?» tuonò Stella, digrignando i denti.
La creatura rispose con un sorriso di pura compassione, avanzando lentamente. Andò loro vicino e, più si approssimava, più la sua ombra si faceva alta ed angosciosa.
«Facile irretire un cuore buono» sussurrò, ponendosi di fronte a Bloom ed alla bionda che, seppure a fatica, ingoiarono la paura e lo fronteggiarono con fermezza.
«Ragazza innamorata, crede troppo a quel che vede» continuò, lanciando uno sguardo intenerito a Looma. «Sufficiente mostrarle il viso che ama, e subito si lascia guidare qui. Solo un’esca»
«Un’esca?» ringhiò Musa.
La replica di Alan alzò piano il braccio, e sfiorò con l’indice le labbra di Bloom.
«Fratello di Fonterossa ha fallito nella missione. Fiamma del Drago delle streghe già sconfitta, ma originale ancora da distruggere; fratello di Fonterossa era sopravvissuto per farlo, ma troppo debole e in catene del suo posto» spiegò. «Non poteva uscire e per la sua debolezza ha sprecato occasione»
La loro missione era dunque distruggere la vera Fiamma? Non hanno fatto ritorno nei rispettivi nuclei perché il loro compito non era occuparsi delle creature d’ombra?
Forse, pensò Tecna, ciò che nasceva dai cuori delle scuole aveva davvero una propria volontà. Non riteneva nemmeno lontanamente possibile che l’ordine di compiere una simile azione potesse essere stata impartita dai nuclei stessi.
Equivarrebbe all’autodistruzione.
«Vi ho seguito e osservato. Fingersi ragazzo di Fonterossa era una buona via per sapere e vedere; scoperto di più su ragazze della convergenza» continuò. «Ad esempio la fata buona e fresca, come la madre del mondo»
Indicò Flora, poi Musa. «La ragazza che sente la voce e che ne fa sua parola. La principessa di Sole e Luna, con più luci ed ombre delle altre» disse, rivolto a Stella. «Creature senza peccato; agiscono per ciò che reputano giusto, ciò che reputano bello. Intelligenza al servizio del bello»
Sorrise a Tecna. «Intelligenza difficile da illudere. Privarla di fonti e libri, per non lasciare che sapesse del nucleo della scuola di fate finché non fosse stato abbastanza forte da piegarle tutte. Ora è il momento giusto per distruggervi» spiegò. «Creature buone e prevedibili; ma era da considerarsi anche questa con nome Looma. Buona e imprevedibile, che mette i bastoni fra le ruote e che fa da esca»
«Per attirarci qui?» domandò Bloom, stringendo i pugni.
«Attirarti qui» la corresse. «Loro sono solo stregate da bellezza della Fiamma del Drago. Agiscono per ciò che reputano bello; ma bello è uguale a giusto?»
Volere e dovere; quando due concetti sono specchio l’uno dell’altro?
«Non sempre» confermò Tecna.
«Non sempre» ripeté la creatura. «Fiamma del Drago non è potere; spirito dentro tutte le cose, dà vita a ciò che vedi e non vedi. Ma è sempre giusta? Quale criterio stabilisce cosa nasce e cosa no?»
Si voltò a guardare nuovamente Looma, ed il manto nero iniziò a sibilare e ridere allo stesso modo del mostro di Fonterossa; come già allora, tendendo bene l’orecchio le risate ed i sibili rivelavano il loro vero volto di urla e di dolore.
«Fiamma del Drago bella, ma non sempre giusta. Intrappola anime in nuclei, e sigillo su di loro le obbliga per secoli» proseguì. «Fanno ciò che la Fiamma vuole; ma il tempo è finito. Sigilli spezzati dal tempo, volontà delle anime si fa viva»
E le anime erano stanche; stanche di sottostare ed essere schiacciate, di dover combattere cause che non le riguardavano e che potevano per loro essere sbagliate.
«Volontà di distruggere la Fiamma, e così ogni creatura che è sua schiava» spiegò infine. «Non figlia, ma schiava. E la Fiamma è lì» disse, sorridendo a Bloom. «Bellezza in ragazza che la custodisce»
«Stai farneticando! Che cosa vorresti farle?» insistette Stella. «Cos’hai fatto a Looma?»
«Dorme. Aspetta che custode muoia e liberi Fiamma per essere distrutta» replicò, spalancando la mano. «Finirà»
Prima che la ragazza se ne accorgesse, la creatura aveva posato il palmo sul suo viso, costringendola a chiudere gli occhi. Tutto si fece ovattato e l’unica sensazione percettibile era la stessa dell’apnea. «Che cosa è bello?»
Senza dire una parola, le altre si trasformarono ed ingaggiarono una lotta fatta di incantesimi e formule che non potevano neppure scalfire il mostro dal volto di Alan. Musa e Flora evocarono lo Charmix, scagliando subito i sortilegi più potenti di cui erano capaci.
Luci e colori saettarono per quello spazio senza nome, e scie di potere si incontrarono in una salda catena che, inutilmente, andò ad infrangersi contro un’impalpabile quando salda barriera che avvolgeva la creatura.
Non le guardava, gli occhi erano vuoti; era in un mondo a parte e, con lui, anche Bloom.
Suoni e voci immersi nell’acqua; solo i sussurri del manto nero giungevano limpidi all’orecchio. Pianti e lacrime versate da un’anima stretta in briglie e catene per secoli, in balia di un sortilegio che l’aveva piegata senza romperla solo perché era troppo forte.
Quando la ragazza aprì gli occhi, tutto parve diverso.
Un mondo di idilli, falso e perfetto, pieno di piante viola e bambini. Tra questi, un volto noto; il viso di un infante dalle cinque qualità, un bimbo dagli occhi di lingue di fuoco.
Ricordo questo posto… Solo.
Dalle sue labbra non provenne alcun suono; eppure, Solo si voltò e le sorrise.
Le disse che era felice di rivederla e la prese per mano, per portarla a giocare con gli altri. Lei non capiva, ma non poteva ribellarsi.
Lo sguardo del bambino assorbiva il suo in una morsa vorticosa, impedendole di divincolarsi. Cosa stava succedendo?
Chi è quel ragazzino?
In solitudine, un ragazzino stava nella veranda di un casolare non guardava gli altri, ma restava a capo chino, pulendo per terra con uno straccio logoro.
Solo sorrise di nuovo. Disse che non era nessuno, era qualcuno che stava lì apposta.
Non ha un nome?
Alcuni nascevano senza un nome, rispose. Alcuni lo cambiavano in base alla situazione; il loro nome era il lavoro di cui si dovevano occupare.
Alcuni nascevano per quello, senza una vera e propria bellezza da inseguire.
Ma… nessuno nasce senza uno scopo.
Lei credeva? Solo rise forte e, tra uno spasmo e l’altro, le disse di non provare pena per chi nasceva così. Non era colpa sua.
Di chi è, la colpa?
Una bambina la fece sedere, e prese ad intrecciare dei fiorellini in una corona. La posò sul capo della ragazza, soddisfatta; ma lei non riusciva a ricambiare il suo sguardo allegro.
Non c’era una colpa, non c’era chi aveva colpa; era casuale: alcuni nascevano in un modo ed altri in uno diverso. Il ragazzino era nato nel modo diverso e il suo scopo – la sua bellezza – variava in base a quello che il caso gli ordinava.
Nessuno poteva ribellarsi. Era l’ordine giusto e naturale delle cose.
Il mondo, disse Solo, si basava su quel tipo di assoggettamento. Perfino lei era nata con un unico scopo e non aveva alcuna possibilità di fare diversamente.
Il bambino sorrideva, mentre parlava. Era così diverso da quello che le aveva ridato la forza, tempo addietro.
Era un’altra faccia della medaglia, più cruda ed onesta.
Ma era onestà?
Davvero nessuno può fare diversamente?
Solo non rispose, e lei guardò il ragazzino che puliva. Di tanto in tanto, questo lanciava occhiate di astio al bimbo dagli occhi ardenti; e Bloom capì.
È vero: è l’equilibrio; è fondamentale che sia così.
Con uno sforzo, avvicinò le mani al capo, e tutti i bambini nel prato si volsero a guardarla. Strinse la corona di fiori, gettandola poi in terra.
Ma non lo è sempre. A volte si può evitare; si può fare diversamente.
Si alzò; e tutto scomparve. C’era solo il ragazzino escluso dagli altri, ma ora non puliva più; chiuso in sé e con le ginocchia al petto, piangeva.
Chiuso in un armadio – come lo aveva visto la prima volta, in un sogno; come lo vedeva Helia – piangeva.
Si prospettavano due possibilità.
Lasciarlo lì a piangere come la creatura schiava che era; o andare da lui e sciogliere le sue catene. Sarebbe morto in ogni caso, perché era troppo debole; il tempo aveva abbattuto ogni muro e le forze volavano via.
Il sigillo era rotto e, liberando la volontà dell’anima imprigionata nel nucleo, rifletté Bloom, era andata perduta la sua capacità di annientare la Fiamma del Drago.
Sarebbe morto; spettava a lei scegliere se da schiavo o da anima libera: da creatura senza scopo o da spirito che aveva raggiunto il suo bello.
E pensò a Sem ed alle sue parole; pensò alla domanda che la creatura le aveva posto. «È bello ciò che si ama» gli rispose, abbracciando il ragazzino. «Non è sempre giusto, ma è ciò che si ama»
E, allo stesso modo in cui l’anima del nucleo avrebbe amato librarsi lontano da lì, Bloom amava il mondo che aveva, pieno di sogni e colori che aveva ricominciato a scoprire dopo che aveva perso se stessa.
Tra le due, in realtà, nessuna bellezza era giusta o sbagliata. Una era scaturita da qualcosa di sbagliato, dalla volontà di piegare qualcosa di puro per proteggere l’altra: una bellezza che era stata di molti prima della ragazza.
Ed ora, ora che aveva la possibilità di fare qualcosa di buono e che aveva capito, Bloom scelse di lasciare che quell’anima volasse come aveva sempre voluto e vivesse come desiderava.
Lasciò che diventasse il bello di se stessa.
 
Nei giorni che seguirono, in molti andarono a farle visita.
Lei non era sempre sveglia e, anche quando aveva gli occhi aperti, era spesso incapace di rispondere. Sentiva tutto, però, e comprendeva.
Quel pomeriggio, Stella entrò ridendo, dicendo qualcosa a Musa. Si sedette ai piedi del letto su cui riposava Bloom, e fu felice di trovarla più o meno cosciente.
«È una fortuna che tu non ti sia rimessa proprio oggi. Faragonda è tornata prima del previsto da quel suo convegno e, appena è stata informata dell’accaduto, ci ha chiamate in presidenza» raccontò.
La rossa sorrise lentamente. «Ramanzina?» disse a fatica.
«Peggio!» fece la fata della musica. «Si è messa a piangere»
«Forse ha avuto un esaurimento nervoso, non abbiamo capito molto. Ma è stato uno spettacolo orribile, con Griselda che le dava pacche sulla spalla e cercava di tranquillizzarla» continuò la principessa. «Mugugnava che era tremendamente dispiaciuta ed allo stesso tempo irata. Ha detto che parlerà della nostra punizione dopo, quando sarai abbastanza in forze da sopportarla»
Bloom rise come riusciva, cercando di sistemarsi meglio sui cuscini. Quella era una delle poche volte in cui restava vigile per così tanto tempo, e non voleva assolutamente sprecare l’occasione di sapere.
«Che cosa è successo?» chiese allora. «Che ne è del ragazzino?»
«Ragazzino?» ripeté Musa.
L’altra ammutolì. Doveva essersi immaginata tutto, come al solito.
«Abbiamo provato ad attaccare la creatura, ma sembrava assente. Non so cosa ti avesse fatto, ma nemmeno tu reagivi» spiegò Stella, incrociando le gambe. «Poi poff – il mostro è andato in mille pezzi e i tasselli sono volati verso la tromba delle scale»
«Non era un mostro» disse subito Bloom.
La bionda si strinse nelle spalle. «Qualsiasi cosa fosse, è finita. Questa storia dei nuclei è finita» fece, con aria serena. «Ma dovrai raccontarci tutto»
Annuì, socchiudendo gli occhi. I tentativi di restare sveglia furono vani, perché quando rinvenne di nuovo, per pochi minuti, c’era Helia.
Le sorrideva, ma non era sicura che le avesse detto qualcosa. Le aveva stretto una mano ed aveva posato qualcosa sul comodino; doveva essere una piantina, o qualcosa di altrettanto profumato.
Dopo – non seppe quantificare il tempo trascorso – le parve di veder spuntare le treccine di Looma ed il suo sorriso che rivelava i grossi incisivi. Aveva preso una sedia, le si era seduta accanto ed aveva preso ad elencare tutti i capi della nuova collezione; poi le aveva parlato della grande festa che avrebbe organizzato per la sua guarigione.
Bloom aveva annuito e si era addormentata, e nei suoi sogni aveva sentito strascichi delle voci dei suoi amici; Flora che le sussurrava qualcosa mentre le passava una mano sulla fronte, Aisha e Tecna che parlavano di Andros, i ragazzi di Fonterossa che parlottavano tra loro. Erano venute perfino Maria e Vera, al suo capezzale.
In cuor suo era combattuta tra il senso di colpa che derivava dal fare penare tutti in continuazione, ed una genuina felicità dovuta alla consapevolezza di essere circondata da amici veri; da quell’affetto che la faceva sentire viva e che alimentava il suo desiderio di ristabilirsi il prima possibile.
«L’ho sempre detto, io, che è una ragazzina fastidiosa» le palpebre erano pesanti ma, con uno sforzò, riuscì ugualmente loro di sollevarsi per qualche istante; abbastanza da permetterle di scorgere l’espressione infastidita che mascherava il sollievo di Alan. «Non fare porcate»
Bloom non capì; lo vide uscire dalla sua visuale ed essere sostituito da una figura simile e, allo stesso tempo, diversa. Lei fece appena in tempo ad incontrare i suoi occhi chiari ed a sentire le labbra di Sem posarsi sulla sua fronte.
Poco dopo, quando tutti erano già andati via ed il Sole si apprestava a tramontare, si svegliò un’ultima volta prima di crollare in un sonno che sarebbe durato altri tre giorni.
Voltò il capo verso la finestra e le sembrò di vedere un ragazzino sorriderle, e poi allontanarsi.
 
You don’t have to walk the night on your own
I will send a prayer with you to lead you on
I will say a prayer for you when you have gone
Have no Fear, Bird York
 
Sì, l’impostore parla in modo sgrammaticato. Ho pensato che, non avendo particolare dimestichezza con il mondo umano, facesse un po’ di fatica.
Ho pensato anche di farci lasciare le penne, a Bloom, ma… nah, alla fine ha fatto il suo dovere; per ora farà un po’ il vegetale con le allucinazioni.
Solo (per chi non lo conoscesse o non lo ricordasse) era un personaggio di mia invenzione che aveva aiutato la nostra pel di carota a ritrovare i suoi poteri, nella scorsa Fanfiction. Aveva un particolare legame con la Fiamma del Drago ma, se lì era forse parso una figura positiva, qui ho voluto renderla un po’ più ambigua.
Comunque, il prossimo è quello conclusivo!
Un grazie a tutti, ma proprio tutti!
7th

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Capitolo 15
*** XV ***


XV
 
Why would bliss make us blush
When it keeps us alive
Dinard, Iwan Rheon
 

Faragonda era sempre stata una delle più eccezionali fate in circolazione.
Addirittura, pareva che in gioventù lei ed altre sue coetanee avessero ideato incantesimi e sortilegi innovativi, filtri magici dalle proprietà strabilianti. La capacità di inventiva, insomma, non le era mai mancata; l’unico campo in cui la sua immaginazione sembrava venir meno erano le punizioni.
Sembrava infatti ormai decreto, in quella scuola, relegare a svolgere le pulizie quelle poche studentesse che avevano la malaugurata idea di combinare qualche guaio e farsi scoprire; proprio come nel caso delle Winx.
Quella volta, però, la preside aveva addirittura voluto che fossero le ragazze stesse a procurarsi il materiale necessario, nonostante la cittadina di Magix non fosse poi così fornita di negozi di detersivi e ramazze – per ovvie ragioni.
All’alba di quella tiepida domenica, le cinque fate e Looma si erano catapultate fuori dalla scuola alla ricerca dell’occorrente, nel disperato tentativo di rinvenire qualcosa. Tecna aveva subito scansionato il perimetro dell’intera metropoli, localizzando facilmente tre negozi di quello che aveva definito “arsenale” per far risplendere le scalinate del collegio.
A Flora e Bloom era toccato quello in periferia, in un qualche vicolo sperduto e piuttosto losco che, alle sette del mattino, non sembrava esattamente il luogo migliore in cui delle ragazze potessero trovarsi. Era poi curioso come quel negozietto sorgesse proprio in un’area tanto malfamata e come fosse uno dei pochi ad ergersi ancora intatto in mezzo a tanti edifici dalle finestre sprangate.
Guardandosi con circospezione, le due ragazze mossero qualche passo incerto in direzione di quel piccolo casolare dai mattoni rossi, aspettandosi di vedere qualche malfidente sbucare da un momento all’altro. Furono rapide ad infilarsi là dentro.
La signora che stava oltre al bancone non doveva avere meno di una sessantina d’anni, e pareva tuttavia una di quelle vecchine che Bloom aveva spesso visto nei film, quelle pronte a far pentire qualsiasi malintenzionato a suon di borsettate. Borbottò qualcosa a proposito di una delle sue assistenti, che era evidentemente in ritardo.
«La licenzierei in tronco, quella smorfiosetta… se solo non fosse l’unica in grado di tenere testa alla gente che si vede da queste parti» disse, più a se stessa che non alle clienti. «Andate sul retro; di fronte c’è una rimessa degli attrezzi tutta rovinata da quelle maledette pitture che a voi ragazzi piacciono tanto. Scegliete quello che meglio si adatta alle vostre esigenze… spero che non ruberete nulla. Normalmente è la mia assistente ad accertarsene…»
«Io prendo i detersivi, intanto» disse Flora all’altra.
Bloom annuì; si fece coraggio e si decise ad uscire di lì. La nonnetta aveva minimizzato un po’ la realtà delle cose: la rimessa – sempre che quella che si intravedeva in lontananza corrispondesse alla descrizione – era oltre un paio di edifici.
Okay… insomma, sono una fata. Posso difendermi.
Con uno scatto corse in direzione del capanno variopinto, l’adrenalina che le martellava il cuore e le orecchie; cercò di sbrigarsi ad aprire i diversi lucchetti con la chiave magica che la proprietaria le aveva lasciato, premendo immediatamente l’interruttore della luce come fu dentro.
Afferrò le prime cose che trovò, intenzionata a rimanere lì il meno possibile.
Ma tu guarda se qui ci dovevamo venire proprio io e Flora…
Con una serie di ramazze tra le braccia e le gambe, e diversi secchi che teneva a mo’ di borsette, si precipitò fuori e smanettò nuovamente con i lucchetti. La sua goffaggine era naturalmente amplificata dalla quantità di “arsenale” che aveva con sé.
«Ehi ragazzina, che ne diresti se ti dessi una mano?»
Una voce beffarda, maschile, la fece trasalire.
Si voltò, legnosa e macchinosa come un robottino, cercando di mantenere di fronte allo sconosciuto quella fierezza che tentava di ostentare dinnanzi al pericolo. Aveva davanti un ragazzo dal volto talmente luminoso e liscio che pareva quasi un metallo purissimo cesellato con la maestria di un artigiano; due occhi, profondi e scuri come niente che lei avesse mai visto prima, spiccavano in mezzo a tutto quel candore.
Ma chi era? E cosa ci faceva lì a quell’ora del mattino?
«Che ci fa, uno zuccherino come te, in un posto del genere?» le domandò.
«Potrei farti la stessa domanda» ribatté, esitante.
Quello rise e le tese una mano, offrendosi di aiutarla. Bloom fece un timido passo indietro; perché le unghie del ragazzo erano pregne di sangue e c’era qualcosa, nel suo sorriso, che non la confortava, non la confortava per nulla.
«Che c’è, lo zuccherino ha paura?» la prese in giro.
«Levati dai piedi»
Era stata una voce alle loro spalle, a dirlo.
Per qualche istante, la fata rimase con gli occhi fissi nel vuoto, persi nel tentativo di identificare quel timbro che aveva sentito tante volte e che, nonostante tutto, stentò a ricordare lì per lì. Si volse e tutto fu chiaro.
Non avrebbe saputo dire con esattezza cosa avesse provato in quel momento.
Un turbine di emozioni si erano affollate nelle regioni più remote del suo cuore e della sua mente; memorie di sofferenza che quella voce aveva impartito e che aveva anche subito. Memorie di uno sguardo glaciale ed impenetrabile, proprio come quello che la nuova venuta rivolgeva ora a quel ragazzo.
«Icy, vuoi unirti alla festa?»
«Levati dai piedi» gli ripeté, freddamente.
Come Bloom si specchiò in quegli occhi felini e vivi come la neve, qualcosa sembrò turbarli per una frazione di secondo. Non avrebbe mai più visto Icy, da quel momento in poi; eppure, per tutta la vita, non avrebbe potuto fare a meno di domandarsi che cosa avesse momentaneamente smosso l’animo della strega durante quell’incontro.
Sapeva che non era stata gratitudine, né niente che potesse considerarsi del tutto positivo; perché, nonostante quello che era accaduto tempo addietro, le Trix sarebbero sempre rimaste le Trix: meno legate ad una consistente fetta del loro passato, ma comunque ambiziose e con saldi – seppur contorti – principi, radicati nelle loro menti impenetrabili.
Quel contatto durò poco, e fu tuttavia sufficiente perché entrambe ne serbassero ricordo per sempre; come di un incontro casuale e, allo stesso tempo, in qualche modo provvidenziale perché ciascuna potesse finalmente chiudersi una porta alle spalle.
«Guarda che deliziosa ragazzina ho trovato lungo il mio cammino. Sembra talmente spaurita…» insistette il ragazzo.
Dovevano avere una certa confidenza, se lui si permetteva di infastidirla in quel modo con le sue chiacchiere e se Icy non provava l’impulso di renderlo una bellissima statua di ghiaccio.
«Va’ a lavarti quelle mani, invece di stare qui nel futile tentativo di adescare una mocciosa» replicò, senza battere ciglio.
Quello sbuffò. «Sai che mi sanguinano, quando fa freddo. Quando arrivi tu, poi, la temperatura si abbassa» cercò di fare un po’ di spirito.
La strega non lo guardò nemmeno, allontanandosi da loro.
«Ehi, Icy» la chiamò. «Penso che la megera licenzierà tua sorella; è in ritardo di nuovo»
Lei voltò il capo lentamente, assumendo un’espressione che quasi scalfiva il velo di indifferenza che era solita indossare. Sembrava un’occhiata quasi esasperata.
«Comunque, è stato un piacere, zuccherino» continuò, rivolgendosi a Bloom ed abbozzando uno strano inchino. «Potresti passare di qui più spesso»
Senz’altro.
La fata vide la figura di Icy allontanarsi sempre più, fino a che non divenne solo un pallido puntino in mezzo agli edifici ancora immersi nell’ombra di un Sole che tardava a fare la propria comparsa.
 
Tecna sospirò e svoltò l’angolo, seguita dalle altre. Ormai conosceva il ripostiglio dove venivano conservate scope e quant’altro, perciò fungeva da guida.
Due punizioni collezionate nel giro di qualche mese.
Spero che non influiscano sulla valutazione finale…
«Che esagerata… alla fine non le abbiamo detto niente perché non c’era tempo. Sì, insomma…» sbuffò Musa. «E poi punire anche Looma mi sembra un’idiozia. Dopotutto lei non ha chissà quale colpa»
La diretta interessata abbozzò un sorriso, prendendo una scopa tra le mani. «Mi piace pulire e fare ordine… anche se non l’ho mai fatto, senza magia»
«A proposito di pulire… che fine ha fatto lo stanzone sotto Fonterossa che abbiamo usato per la festa?» chiese Bloom.
«Oh, non ci ho proprio pensato… non lo so. Non ne ho più parlato con i ragazzi, ma magari lo possiamo riutilizzare» considerò Looma. «Per ritrovarci tutti insieme»
«Ma questa volta niente feste o mostri, eh?» fece la fata del fuoco. «Potremmo usare i passaggi che collegano le tre scuole. Sarebbe un’idea carina»
«Per intanto penso che dovremmo occuparci di ramazze e sapone. Immagino sarà necessario spartirsi le aree di cui ci occuperemo» fece Tecna, chinandosi per afferrare un secchio. «Siamo in sei, perciò due potrebbero occuparsi dell’ala est, due della ovest e le ultime del cortile»
«Io in cortile!» esclamò subito Stella. «Almeno oggi c’è il Sole»
«Allora io nell’ala ovest, lontano da luci e rumori» borbottò Musa.
Bloom rise. «Davvero vuoi occuparti dei dormitori?»
L’altra si strinse nelle spalle, prendendo ramazza e bacinella e trascinandosi per le scale. «Vengo con te» fece Tecna. «A dopo»
«Chi viene con me, invece?» continuò la principessa, guardando sdegnata l’arsenale delle pulizie. «Flora, a te piacciono i fiori, no? Potresti occuparti di quelli»
Quella annuì, pur sapendo bene che, alla fine, si sarebbe dovuta occupare quasi dell’intero cortile – Stella avrebbe tentato di fare qualcosa all’inizio, ma poi si sarebbe stufata e avrebbe fatto appello al suo status di principessa.
«Hai molta dimestichezza con queste cose?» domandò Looma a Bloom, quando le altre si furono allontanate.
Lei annuì. «Sulla Terra si pulisce così. Alan e Sem non te lo hanno raccontato?» scherzò. «In un certo senso, alla fine è più gratificante»
«Credi che le abbiano mai fatte, le pulizie? Cioè, oltre a quando abbiamo sistemato il salone di Fonterossa» chiese, armandosi di scopa e buona volontà. «Che io ricordi, Al è tremendamente confusionario… è così fin da quando eravamo piccoli e l’unica volta che io l’abbia mai visto cercare di mettere in ordine qualcosa è stata per la festa»
Scelsero un corridoio e poi iniziarono. Looma se la cavava piuttosto bene, anche se non si era mai cimentata in nulla del genere, prima di allora.
«Com’erano, da piccoli?» si azzardò a domandare Bloom, dopo un po’.
«Simili a come li vedi adesso, per certi aspetti» rispose lei, fermandosi.
Si specchiò nella superficie limpida dell’acqua e, senza che nemmeno se ne accorgesse, un sorriso nostalgico prese rapidamente posto sul suo viso.
«Sem era abbastanza schivo anche allora. Parlava un po’ di più, forse… in realtà parla anche adesso, ma solo con le persone con cui ha assunto abbastanza confidenza; tipo te» continuò. «Sì, non guardarmi con quella faccia. Nemmeno con Vesela era così»
Un nome che aveva sentito spesso; ora un paragone. Non le piaceva.
«Forse con Vesela era diverso…» disse infatti.
L’altra scosse la testa, immergendo la scopa nel secchio. «So cosa pensi. Era diverso, certo; ma era diverso perché lei era diversa e non “migliore o peggiore”» fece. «Era un affetto diverso. Sem aveva bisogno di lei e delle sue sicurezze; aveva bisogno di ricevere… le cose sono diverse, per come siete»
Bloom tacque, sospirando impercettibilmente. Sollevò il tappeto che percorreva il corridoio, prendendo a spazzare anche lì.
«Alan, invece, era diverso, per certi aspetti» proseguì Looma, ridacchiando. «Parlava già molto, ma era più solare. Con il tempo e con quello che è successo si è inasprito un po’»
«E lo preferivi prima?» chiese la fulva, combattendo con la stupida stoffa rossa che non voleva schiodarsi dal pavimento.
La mora si concesse qualche istante per riflettere; lo preferiva per come era da bambino? «Non lo so. Non m’importa, in realtà» ammise, un po’ a malincuore.
Bloom abbassò lo sguardo e si scusò. Non avrebbe dovuto porre una domanda così indelicata. «Come faremmo, senza il suo sarcasmo?»
Risero entrambe, e lei l’abbracciò.
Non doveva essere facile convivere con la consapevolezza di non poter sperare nemmeno in un miracolo, di vedere la persona che si amava volare via da sotto i propri occhi, sospinta dall’affetto di qualcun altro.
Non era semplice per nessuno, specie per Looma; per il fatto di essere sempre stata accanto ad un amico per cui provava un bene così genuino, da accettare di essere sempre lì, anche quando si struggeva per un sentimento non corrisposto, o per la semplice scoperta di essere in qualche modo diverso.
Tuttavia, forse, lei avrebbe imparato a lasciarlo andare, proprio come lui stava facendo con quella sua amica di infanzia con cui trascorreva ore a ciarlare degli argomenti più disparati. Alan stava cambiando, stava comprendendo di non doversi etichettare come “strano” o “diverso” solo perché quella era l’idea che gli sciocchi avevano di lui.
Ne aveva avuto prova, no? Brandon non aveva mai cercato di allontanarlo solo in virtù di quello che non riusciva a corrispondere; non aveva mai tentato di perdere la sua amicizia soltanto perché non gli piacevano le ragazze. E così anche gli altri del gruppo.
Forse, il giorno in cui Alan avesse lasciato tutti i suoi dubbi, la sua amicizia con Looma si sarebbe evoluta e lui si sarebbe potuto rivelare di conforto per lei.
«Alla fine, quando siamo insieme, è lo stesso di prima più spesso di quando è con Sem. Mi chiedo come Aibao possa sopportare la sua acidità» rise. «Se a questo aggiungi la gelosia malcelata di Sem per il suo fratellino, quel ragazzo uscirà di testa. Ma forse ora il taciturno dei due gemelli ci darà un taglio… ha cose più importanti, a cui pensare»
«Del tipo?» fece Bloom, accingendosi a passare lungo i vetri uno straccio inumidito.
Ebbe appena il tempo di posarvi la mano, perché subito un rumore improvviso la fece indietreggiare per lo spavento ed incespicare tra i secchi d’acqua lì vicino. Li rovesciò e cadde a terra, i pantaloni fradici dalle ginocchia in giù e Looma che rideva.
Si massaggiò il fondoschiena e, appena si ripeté lo stesso suono di prima – che dedusse essere frutto dell’attrito di un sasso contro il vetro – s’alzò e, con fare minaccioso, spalancò la finestra.
Stava per ringhiare contro il malaugurato che aveva osato tanto, quando un sorriso da schiaffi ed un paio di occhi argentei e familiari le fecero dimenticare tutti i suoi propositi bellicosi.
«Bloom può scendere a giocare?»
 
Stella non amava prendersi il merito delle vittorie e… beh, in realtà lo amava eccome, specialmente in quei casi; ma doveva ugualmente riconoscere l’innata abilità della diretta interessata di non fare assolutamente nulla – nemmeno affannarsi dietro abiti e trucco, come faceva lei (posto che poi ne avesse davvero bisogno) – e riuscire ad attirare l’attenzione di un burbero e frigido ragazzo che, come la storia di Alfea insegnava, aveva respinto più di una mezza dozzina di ragazze, da che aveva iniziato a frequentare l’accademia di Fonterossa.
Distese le gambe, seduta com’era lungo il bordo di un’aiuola che Flora stava innaffiando. «I miei piani riescono sempre alla perfezione» annuì a se stessa, stiracchiandosi.
L’altra sbuffò appena, lanciandole un’occhiata seccata che, ovviamente, la principessa ignorò. «I tuoi piani prevedono anche di darmi una mano?» fece, senza però sperarci troppo.
Infatti quella scacciò la sua proposta agitando la mano. «La mia mente ha lavorato troppo e ha speso tutte le sue energie nella progettazione di quest’affare, per potersi affaccendare con queste cose da popolani»
«Popolana o no, sei in punizione anche tu. E poi non ti serve il cervello, per rastrellare le foglie» fece notare.
«Oh, come sei noiosa, Flora… lasciami ammirare la scena in serenità. Dopotutto, il merito è anche mio» sorrise, scorgendo in lontananza Bloom, che attraversava il cortile con fare incerto.
Conosceva i suoi polli, e sapeva che quell’espressione imbarazzata nascondeva solo un grande sorriso che la sua amica non voleva lasciar andare.
Stella era contenta dal profondo del suo cuore.
Ricordava bene quando, il giorno in cui Bloom era scomparsa da Magix e le loro vite avevano assistito alla morte di altri, lei aveva domandato a se stessa come fosse possibile ritrovare la serenità dopo tanta sofferenza.
Si era chiesta se quella fata un po’ impacciata e timida sarebbe mai riuscita a vivere con la stessa spensieratezza di un tempo. La principessa non aveva mai voluto appiopparle un fidanzato o qualcosa del genere, perché sapeva che non lo avrebbe voluto e che, soprattutto, non le sarebbe stato necessario.
Non aveva mai voluto che Bloom trovasse l’amore della sua vita o sciocchezze simili solo perché aveva perso qualcuno di caro. Avrebbe solo desiderato che riuscisse ad affrontare le giornate come prima, come avrebbe fatto una qualsiasi ragazza che sospirava per una cotta, per i compiti in classe andati male, per un litigio con un’amica.
A lei più che a chiunque altro aveva augurato di ritrovare tutto questo; ed ora – ora che Sem era lì e che stavano seduti all’ombra, parlottando tra loro, immersi in un mondo che non apparteneva a nessun altro – sapeva di esserci riuscita.
Certo, forse non le era riuscito di soddisfare tutti i suoi buoni propositi; come cercare di riallacciare un qualche tipo di rapporto civile con Alan… ma, dopotutto, forse le cose stavano bene così. Forse, pensò, non era possibile risultare simpatici a tutti.
Però era soddisfatta. Adorava il lieto fine.
«Adoro il lieto fine» disse infatti a Flora.
«Se davvero adora il lieto fine, signorina Stella, farebbe bene a mettersi al lavoro, invece di stare qui a cincischiare» la fece sobbalzare la voce della vecchia megera. «Deduco che lo stesso valga per la signorina Bloom. La punizione non dev’essere stata abbastanza dura, se prova l’irrefrenabile impulso di affrontare con negligenza i suoi doveri per conversare con un allievo di Fonterossa»
Stella rivolse una linguaccia a Griselda non appena l’ispettrice si voltò; e Flora rise.
Sì; adorava il lieto fine.
 
«E anche oggi è andato…» annuì Musa, stremata.
Le luci improvvisamente cupe ed il venticello sottile che s’insinuava attraverso le fessure delle finestre erano messaggeri della giornata ormai volata alle loro spalle. Una lunga domenica massacrante, così come massacranti si prospettavano i giorni a seguire.
Per di più, il compito di Galateo si era rivelato un disastro; aveva risposto peggio alle domande per cui pensava di essersi preparata. Paradossalmente, Bloom aveva ottenuto risultati migliori pur avendo studiato poco e niente.
Sbuffò tra sé e sé pensando che, oltre alle settimane che avrebbero trascorso in punizione, si sarebbero aggiunte le nottate insonni nel tentativo di colmare le lacune in quella stupida materia.
«Riflettevo…» iniziò Tecna. «Cosa credi che ne sarà, del nucleo? Dei nuclei» domandò. «Gli spiriti che erano imprigionati nell’uno e nell’altro sono morti e liberi, ma… non mi convince e non-»
«Tecna» la interruppe. «So che ormai è l’abitudine e che è difficile fare altrimenti, ma… almeno per oggi, non ti martoriare. Ci penseremo dopo»
Ripose ramazza e secchio, comprimendosi poi lo stomaco appena lo sentì lamentarsi.
«Forse dovresti… distrarti un po’. Chiedere a qualche ragazzo di uscire, magari. Non per forza Timmy, se non ti piace. Anzi, credo che dovresti dirglielo… penso che si faccia molti castelli per aria» continuò. «Oppure potremmo uscire con le altre»
«Forse hai ragione, dopotutto» ammise, chinando il capo. «Vado un attimo in camera»
«Non scendi a cena?» le chiese.
Scosse brevemente la testa, massaggiandosi poi le tempie. «Forse tra un po’. Prima credo che farò una cosa. Una telefonata»
«Chiedi a qualche ragazzo di uscire?» domandò, allontanandosi.
L’altra si concesse qualche istante per riflettere. «Non nella tradizionale accezione del verbo “uscire”»
Musa sospirò, sorridendo. Si strinse nelle spalle, percorrendo le rampe di scale.
Ora Tecna era sola.
La sua migliore amica aveva detto bene: era arrivato il momento di distrarsi e, allo stesso tempo, assumersi le proprie responsabilità.
Non perse un minuto; nella penombra della stanza che divideva con l’altra, chiamò il cellulare con un incantesimo. Con le mani che tremavano, cercò il suo numero di telefono in rubrica e si concesse un profondo respiro agitato prima di digitare il numero.
In un attimo, la mente proiettò immagini dell’estate precedente, e si immerse per qualche istante nel nostalgico ricordo di quelle brevi e forti emozioni che aveva provato nello spazio di pochi giorni. Attese con il cuore in gola; perché, anche se ormai lo considerava un capitolo chiuso, aveva bisogno di sapere e di parlare.
«Pronto?» era un tono piacevolmente sorpreso, il suo; le era quasi sembrato di sentirlo sorridere e sospirare dall’altro capo del telefono. «Tecna?»
«Ciao, Brandon. Vorrai scusarmi se ti disturbo a quest’ora…» iniziò, richiamando tutte le nozioni che conosceva circa i convenevoli che si supponeva tirasse in ballo in quelle occasioni. «Stavi… cenando?»
«A dire il vero no» udì un clangore metallico fare da sottofondo alla voce del ragazzo. «Sono di ritorno dalla stalla dei draghi. E tu?»
«Noi… abbiamo concluso la nostra prima dose di pulizie, per oggi»
Brandon rise. «Oh, Stella mi aveva detto che Faragonda non ha fantasia, ma non pensavo fino a questo punto… sarai stanca» fece. «E anche preoccupata»
Tecna si accigliò. «Preoccupata?»
«Non mi hai mai telefonato, prima d’ora. Hai bisogno di qualcosa?» ah, ora capiva.
Dopotutto, era vero: quando mai, a parte che per il Soldì, l’aveva contattato o gli aveva rivolto la parola per qualcosa che non avesse a che fare con ricerche e quant’altro? Sgranò gli occhi, forse capendo per la prima volta come interpretare quella strana sfumatura che Brandon – come molti altri – sfoggiavano quando parlavano con lei e le facevano notare alcuni dettagli.
Era delusione.
«Mi dispiace» ammise.
«Ti dispiace?» ridacchiò lui. «E di cosa?»
Di non essere capace di comportarmi come chiunque altro e di dare l’impressione di essere così fredda. Sono davvero così insensibile?
«In effetti, avrei bisogno di qualcosa» cambiò discorso, avvertendo la propria determinazione venir meno. «Vorrei che mi ascoltassi»
Brandon tacque, non capendo il perché di quella richiesta. Non era sempre funzionato così, tra loro?
«E vorrei che non ne parlassi con Stella. Glielo dirò io stessa» continuò.
«Okay…» c’erano molte cose che non capiva, di Tecna.
In verità, erano molte le cose che Tecna stessa non capiva di sé. In primo luogo, non comprendeva che cosa l’avesse spinta a compiere qualcosa che, in un momento meno irrazionale di quello, avrebbe senz’altro riconosciuto come una follia vera e propria.
Era stato un gesto impulsivo, non premeditato; una decisione su cui avrebbe riflettuto a lungo, in altre occasioni.
Eppure, le parole di Musa avevano innescato uno strano meccanismo, e quella scelta avventata le permise di liberarsi una volta per tutte da un fardello che, forse, le avrebbe impedito di trovare quella spensieratezza di cui sentiva il bisogno.
Quella sera fu in grado di spiegarsi, di trovare le parole e così di aprire il suo cuore e rivelare a Brandon tutto ciò che le era passato per la testa ai giorni della loro missione; e quella liberazione le permise di chiudere la telefonata con un sorriso, serena.
Quella sera, Tecna conobbe lo Charmix e, con esso, la meraviglia e l’incanto di quella splendida magia che era la genuinità, il saper esprimere ciò che si aveva dentro senza freni, senza esitazioni.
Conobbe la stessa bellezza che aveva investito Musa, poco tempo prima, quando le era riuscito di rompere quella barriera di silenzio. Talvolta si sorprendeva di quanto fossero simili per molti aspetti.
E ne era segretamente contenta, perché era l’unica che riuscisse a comprendere un po’ di più. Per il breve periodo in cui non si erano parlate, aveva avvertito un perenne groppo alla gola e la consapevolezza di aver lasciato indietro qualcosa di importante.
Si domandava se anche per lei fosse stato lo stesso.
Quando si decise a scendere nella sala grande, molto più tardi, non poté fare a meno di nascondere il largo sorriso che le illuminava il volto.
Alcuni tavoli erano già sgomberi, ed individuò le sue amiche più facilmente. Come Flora la vide, le fece cenno di raggiungerle.
«Ma dov’eri finita?» chiesero.
«Avevo un’importante telefonata da fare» tagliò corto, senza smettere di sorridere.
«Cavolo, dev’essere stata sensazionale, se sei di quest’umore. Ma avete visto la sua faccia?» commentò Stella, incredula.
«Forse è solo contenta di aver evitato la purea di rose» sospirò Bloom. «Pesante da digerire»
Chiacchierarono e, per tutto il tempo, quella luce non smise di illuminare il viso di Tecna. Un clima di ristorata serenità andava via via consolidandosi e, mentre masticava, anche la fata della musica provava l’inconscio impulso di sorridere.
Ricordava quella giornata di mesi prima quando, dopo essere stata a Fonterossa, il vento aveva sussurrato al suo orecchio e le aveva promesso tutto ciò che poi, in fin dei conti, si era realizzato.
Aveva promesso novità, inquietudini e spensieratezze. Le aveva promesso la possibilità di trovare una giostra il cui premio corrispondesse allo sforzo, una giostra con cui potesse baloccarsi.
Quella giostra, in realtà, Musa l’aveva sempre avuta; era solo stata troppo cieca per accorgersene; ma quello che il racconto di Bloom aveva sortito in lei era stato così totalizzante e forte da rianimare la sua capacità di vedere la meraviglia e le bellezze.
Tutte quelle cose che le avrebbero permesso di sopportare i momenti infelici, le tristezze, la rabbia. Lo aveva sempre saputo, no?
Talvolta, cercare il bello in maniera ostinata fa dimenticare di averlo sotto gli occhi, come nel suo caso; altre volte, come per quell’anima sottratta a se stessa ed imprigionata per secoli in un nucleo, si ha ben chiaro quel che si ama, ma si sceglie il mezzo sbagliato per ottenerlo.
Non era stato lo stesso per le Trix, per Icy? Non aveva agito solo in virtù di quello che l’avrebbe fatta sentire viva?
Non era finita, a differenza di quello che dicevano le ragazze.
Musa sapeva perfettamente – come Tecna, che già prendeva in considerazione ogni eventualità – che altri pericoli si sarebbero presentati, prima o poi, ed altre insidie avrebbero forse approfittato di un loro momento di debolezza per instillare i semi della discordia.
Sapeva bene che altri avrebbero perso di vista la loro bellezza, o avrebbero abbracciato i mezzi errati per raggiungerla; ma non poteva che augurare loro di ritrovarla.
Non importavano gli sforzi che avrebbero dovuto fare per contrastare quel buio che, presto o tardi, si sarebbe nuovamente abbattuto su di loro; l’oscurità, forse, cercava solo un po’ di luce, dopotutto. Lei avrebbe fatto di tutto, per darle ciò che cercava, ciò che amava.
Non era finita, non sarebbe mai finita; ma ora, ora che era seduta a quel tavolo e che aveva ritrovato quello a cui aveva anelato, sapeva che quella bellezza le avrebbe dato la forza.
Quella bellezza avrebbe salvato il mondo.
 

 
And before we lie in our beds
To ponder what we should have said
To call up our demons for tests
Can we love what’s in between
Dinard, Iwan Rheon
 
Insomma, quest’ultimo è più breve ed è stato difficile, da scrivere.
Non so se si capisca. Anzi, non so se l’intero significato della storia si capisca.
Non lo so. Non sono un granché ad esprimermi, ma sono abbastanza contenta del risultato finale! Questa storia me la trascino dietro da… quasi un anno esatto.
L’avevo iniziata nei freddi giorni di febbraio, mi sembra; e paesaggi, posti e riflessioni dei personaggi erano un po’ i miei in un momento buio. Ma poi, con il passare del tempo e con una dose di buona volontà, quel momento è finito per me come per Musa e le altre.
Forse ricomincerà sia per me, sia per loro; ma un modo per venirne fuori e trarne il meglio c’è sempre, no?
Non so se si capisca, ma sono davvero felice di averla terminata, di averle dedicato parte del mio tempo; e sono felice che anche chi ha letto o chi è passato di qui per caso lo abbia fatto.
I vari estratti di canzoni che sono comparsi qui sono frammenti di ciò che ascoltavo nei bei momenti ed in quelli brutti. Beh, in realtà, i primi sei capitoli alla loro prima fase di stesura hanno avuto la colonna sonora di “The Danish Girl” come sottofondo; era abbastanza tormentata!
Che dire? Mi mancherà molto scrivere delle Winx in questo modo.
In verità ho in cantiere una cosuccia come cappello conclusivo della serie, ma vediamo come va!
Per ora sono solo più che soddisfatta e grata a chiunque sia giunto fin qui o anche solo alla prima riga del primo capitolo. Anzi, è giunto il momento dei ringraziamenti!
Un grazie grandissimo va a Morredson che, non si capisce bene perché, ha sempre la forza di starmi dietro anche quando scrivo castronerie. Grazie Red, e spero che tu non me ne voglia per le quantità di zucchero che sono presenti ogni volta che compaiono Bloom e Sem, o Stella e Brandon.
Poi c’è la pappardella, fatina carina che già solo per il nome squisito meriterebbe un premio e che fin dal primo momento ha shippato come non mai la pel di carota ed il frigido, e che non sopporta Hedy almeno quanto non la sopporto io (ma, ehi, i personaggi Mary Sue servono anche a questo)!
Grazie anche a Tressa, che io associo sempre ad una specie di Icy materna e comprensiva (lo so che sembra un paradosso, ma penso sia dovuto alla tua immagine profilo, con quel sorrisetto della nostra strega dei ghiacci). Anche tu, proprio non capisco con che voglia legga certe cose…
Un ringraziamento a Lady Choc, regina del cioccolato che conosce il gioco delle Winx per Play Station 2 e che come me capisce bene quanto, in tutta la sua bruttezza e la quantità inenarrabile di bug, quel videogioco fosse semplicemente perfetto!
Ultima ma non ultima (gli ultimi saranno i primi, insomma), giunge Mary Rosemary. Beh, penso che non ti ringrazierò mai abbastanza per tutto quanto (oltre all’henné fuhuhuh), per la pazienza e la voglia, per le interessanti conversazioni su quanto la nostra pelle sembri quella di un neonato, su quanto Sky faccia schifo e per i preziosi aneddoti sui nostri amici e conoscenti puzzosi e/o disperati. Grazie, Rosmarina.
Grazie a tutti quelli che hanno inserito questo scempio giunto al termine tra le seguite e le preferite, grazie a chi ha letto e anche a chi magari ha subito chiuso la pagina schifato. Insomma, vi capisco perfettamente.
Grazie di cuore a tutti voi!
Applepagly

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