Eroi e Dei tra i portatori - The Miracoulus Cycle (1)

di Aittam
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Neolitico (6500 a. C.) IL PRIMO PORTATORE ***
Capitolo 2: *** Prima e Media Età Antica (3500 a.cC.\1333 a.C.) GLI DEI SOVRANI ***
Capitolo 3: *** Età del Rame (3000 a.C.) IL POPOLO DELLA MADRE ***
Capitolo 4: *** Età del Bronzo (1235 a.C.) IL LEONE NERO, LA REGINA ARMATA E LA DONNA PAVONE ***
Capitolo 5: *** Età del Ferro (1001 a.C. circa) L'ASSASSINO DI FUOCO, IL GRIGIO CUSTODE DI ANIME E L'ANELLO SENZIENTE ***
Capitolo 6: *** Fine Età Antica\Impero Romano (138 d.C.) IL POTERE ASSOLUTO ***
Capitolo 7: *** Alto Medioevo (550 d.C.) IL RICONGIUNGIMENTO DELL'ARCANA COPPIA ***
Capitolo 8: *** 8. Metà Medioevo (1250 d.C.) MELODIA INCANTATA NELLA VALLE DI HAMELIN ***
Capitolo 9: *** Basso Medioevo (1370-1400) ARMATURA ROSSA ***
Capitolo 10: *** Prima Età Moderna (1500) L'ERRORE FATALE DEL POPOLO PIUMATO ***



Capitolo 1
*** Neolitico (6500 a. C.) IL PRIMO PORTATORE ***


I PRIMI PORTATORI
 
Era apparsa dal nulla: sbucata dalla selva come se stesse fuggendo da qualcosa ma nessuno l’aveva sentite arrivare, nessun rumore di sterpi calpestati o di fogliame scostato aveva tradito la venuta di quella strana ragazza che ora si trovava davanti a Kt’col, lo sciamano del villaggio che si trovava al di là della foresta.
Erano in tre: lui e due bambini, nati ormai cinque anni fa – gli ultimi per l’esattezza – e stavano vagando per il bosco in cui il vecchio stava illustrando le proprietà miracolose di molte della piante che crescevano li spontanee.
La ragazza era, a quanto pareva, apparsa dal nulla ed il suo abbigliamento era strano: una strana pelliccia sembrava ricoprirla per intero escluse le mani e la testa. Una pelliccia corta e morbida, grigio cenere con il ventre, il petto e gli incavi delle gambe color del latte; aveva i capelli lunghi e sciolti color castano chiaro e tra essi spuntavano due lunghe ed ellittiche orecchie da coniglio che sembravano essere cresciute direttamente dalla testa.
L’uomo si avvicinò tendendole la mano ma lei rimase ferma per poi accasciarsi tossendo rumorosamente.
Kt’col mise una mano sulla spalla della ragazza per poi poggiare il palmo tra le scapole dove sentì la colonna vertebrale muoversi in preda alle convulsioni; lo sciamano allora prese subito da una bisaccia che teneva legata alla cinta un piccolo sacchetto dove erano racchiuse quelle erbe che avrebbero consentito alla ragazza di riprendersi. L’anziano aprì il sacchetto di pelle e porse alla giovane una manciata dell’erba macinata.
Ma la ragazza mormorò qualcosa che alle orecchie dell’uomo suonarono come “No, è inutile”
Sia lui che i bambini furono meravigliati di tale situazione: nessuno dei tre infatti aveva sentito la ragazza parlare con la lingua che conoscevano ma avevano compreso perfettamente le parole… come se avesse parlato ai loro cuori.
L’uomo le fece cenno di andare avanti.
Lei allora, tra un colpo di tosse e l’altro, disse qualcosa di simile: “Non potrete mai salvarmi, mi sono spinta troppo indietro, i miei poteri e la mia vita se ne stanno andando con questa possibilità: tu sei lo sciamano giuso? Vengo da un luogo che non vedrai mai e ti faccio dono di quest’oggetto: custodiscila e fallo passare di generazione in generazione lungo la tua famiglia; devi fa si che non venga mai perduto e lo dovrete proteggere come se ne dipendesse la vostra stessa vita, ti garantisco che grazie a questo cimelio la tua stirpe si manterrà eterna, finché non giungerà il momento in cui tutto verrà sistemato. Devi subito sapere che ciò che è contenuto in questo cofanetto racchiude un potere straordinario: il tuo compito sarà quello di scegliere chi ha il diritto di possedere tali oggetti. Rammenta questo: sarà il tuo spirito a dirti chi andrà bene per ogni gioiello perciò non farti mai guidare dal desiderio di donare un potere simile solo a chi pensi che lo meriti: sebbene tu sia saggio molto più di me devi sapere che il potere che è conservato in questi manufatti è tale da essere paragonato a quello di un dio: perciò ricorda, chiunque possegga un Miraculous possiede tra le mani parte del potere dell’Eterno. Ora, io morirò tra pochi istanti, voglio che tu e la tua gente celebriate la mia dipartita e mi consacriate a qualsiasi delle divinità da voi adorate, a Lui andrà bene” detto ciò la ragazza chinò il capo e, senza emettere un gemito, spirò.
Kt’col aveva visto morire molte persone davanti a lui perciò non ne fu sconvolto quanto i bambini che lo accompagnavano: suo padre aveva combattuto contro il grande lupo bianco che porta l’inverno, sua moglie era morta sei anni fa per colpa di una misteriosa malattia che corrodeva ogni cosa – in seguito quella malattia sarebbe stata conosciuta come morbo di Hansen – infine  suo fratello era stato ucciso dalla Calamità… prima di quel giorno nessuno si era azzardato a sfidare la Calamità… dopo quel giorno quella superstizione non era sentita più come semplice scaramanzia.
Si chinò per raccogliere la scatola che ancora era stretta al petto della giovane: era un cofanetto ottagonale color nero lucido con decorazioni troppo complesse per essere comprese dallo stesso Kt’col – probabilmente erano manufatti del mondo degli dei – procedette poi ad aprirlo e vide che in quel ridotto spazio si dipanava un immenso caleidoscopio di colori che culminava in un centro in cui campeggiava un cerchio diviso in due parti da un segno che ricordava il corso del fiume che scorreva accanto al villaggio, stretto e sinuoso, definendone due metà uguali con al centro dei cerchi perfettamente speculari con colori delle parti opposte: bianco e nero ed attorno…. Innumerevoli forme, colori, così variegati che Kt’col si meravigliava che potesse esistere una così vasta gamma di colori.
Ma la cosa che lo incuriosì di più fu il fatto che, in ogni spazio colorato, era presente un minuscolo oggetto (o più oggetti in rari casi) di dimensioni apparentemente infinitesimali ma che, appena toccati da Kt’col, si sollevavano fuori dalla scatola assumendo dimensioni maggiori: erano gioielli e simili: anelli, orecchini, piercing, spille, pietre, medaglioni, amuleti, corone, ciondoli, collane, diademi, pendenti e oggetti simili fatti in una pietra particolare, simile a quella che alcuni clan possedevano in alcune valli nell’Est.
Il vecchio chiuse la scatola lasciando ricadere gli oggetti che ne avea estratto i quali, riducendosi, si andavano a riporre nei rispettivi loculi.
L’uomo si fece aiutare dai bambini a portare il corpo della giovane ormai inerme al centro del villaggio dove uomini, donne e bambini si erano riuniti per osservare la strana giovane incontrata dal vecchio e dai suoi allievi. Intanto l’uomo teneva accostato al grembo la strana scatola ottagonale Poi, durante la celebrazione, accadde qualcosa che lasciò basiti tutti: dal corpo della ragazza-coniglio si levò ad un certo punto una strana sagoma perlacea: un lepidottero opalescente che, muovendo ritmicamente le ampie ali, fuoriuscì dal petto della giovane e andò a dirigersi verso lo sciamano per poi andare a infrangersi (o a penetrare) nella scatola.
Kt’col fu piuttosto stupito da ciò ma poi notò una cosa a cui non aveva fatto caso prima: la giovane portava due oggetti al collo: un ciondolo che pareva intessuto d’oro puro e uno strano ornamento simile ad una rigida collana ad anello aperta sul davanti.
Kt’col si avvicinò al corpo e le levò i due ornamenti mostrandoli alla folla: il ciondolo presentava un simbolo sconosciuto ma piuttosto bello: tre ellissi dalle estremità coincidenti in una sorta di triangolo circondato da un cerchio del medesimo metallo.
Kt’col non sapeva che quel simbolo in seguito sarebbe stato chiamato triquetra e che la collana rigida era un torque… buffo sapere che proprio nella regione in cui essi vivevano queste particolarità artistiche si sarebbero diffuse.
I due ornamenti non furono seppellititi con il corpo della vergine come da tradizione ma furono lasciati al centro della piazza come memoria… una notte però il ciondolo scomparve.
Il mattino dopo avvenne una tremenda disgrazia: il villaggio era stato aggredito da un bisonte di dimensioni spaventose e con alcune strane caratteristiche: tra le sue crini crescevano lunghi steli d’edera gremiti di foglie, i suoi occhi erano verdi ed emanavano leggere fiammelle verdastre, i suoi zoccoli parevano far crescere erba ovunque l’animale li posasse e le sue corna erano innaturalmente lunghe.
L’animale iniziò a devastare il villaggio e ad uccidere chiunque incontrasse come mosso da una furia e da una indicibile rabbia: nessun mito citava un mostro simile e nessuna preghiera era rivolta ad un dio bisonte legato alla natura e alla vita selvaggia.
Perciò Kt’col dovette organizzare la fuga dal territorio: si mise d’accordo con Maun’tkan, il capo villaggio e divise la tribù in due parti: una sarebbe andata a lui e una a Kt’col e a suo figlio, aspirante sciamano come da tradizione.
Si mossero verso Nord-Est e raggiunsero le porte dei territori che dettero vita alla parola “sciamano” e qui sperarono di aver seminato il mostro.
Ma due giorni dopo essersi stabiliti ed aver cominciato ad erigere la base di un nuovo villaggio, essi udirono un tremendo muggire riconoscibilissimo che rimbombò tra le montagne e i pini.
Essi iniziarono a tremare consci di essersi spinti troppo anche per gli standard e che ciò non era bastato: lui li aveva raggiunti.
Kt’col allora ordinò a tutti gli uomini e alle donne abili nello scontro di scendere a difendere il popolo, intanto lui avrebbe chiesto aiuto agli dei. Lo sciamano congedò i guerrieri e si diresse verso la montagna più alta che vedeva ma, prima che ne ebbe scalata metà, gli fu sbarrata la strada da una figura eterea e nebulosa dagli occhi penetranti che gli disse: “Torna indietro, invoca lo spirito del torque” e detto ciò scomparve com’era apparso.
Kt’col scese nel villaggio e recuperò il torque, intuendo che il nome si riferisse alla collana solida e lo pose al centro dell’ipotetica piazza.
“Se c’è qualcuno qui dentro: esca! Ti prego! Mostrati!”
Detto questo una luce abbagliante si produsse attorno al torque e iniziò a plasmarsi in una figura umanoide che presto si materializzò in un giovane di circa venticinque anni dai capelli e dalla pelle scura, gli occhi adombrati da un formidabile palco di corna?
“Chi sei?”
“Chi vi aiuterà a sopravvivere: dov’è lei?”
“Intendi forse il bisonte?”
“Un bisonte? Strano aspetto… intuisco che sia lei: la percepisco”
Il primo kwami a presentarsi all’uomo scomparve immediatamente nell’etere e riapparve nel campo di battaglia dove, attorno al bisonte d’edera, erano più i corpi a terra che quelli con i piedi piantati al suolo.
Gli uomini si bloccarono con le lance e le asce ancora sollevate osservando la strana figura.
Il maestoso dio avanzò nella piana con il braccio destro teso mostrando il palmo della mano al bisonte.
“Fermati!” gridò lui mentre dal bosco giungevano decine di bestie: cinghiali, orsi, lupi, leoni, tigri, cervi, capre e innumerevoli altri animali tra cui serpi, uccelli e sciami ronzanti.
Il bisonte sbuffò spalancando gli occhi innaturalmente e facendo ardere maggiormente le fiamme verdi.
“Se sta cosi… dovrò usare la forza” mormorò lui e, non appena la mano destra si fu chiusa in un pugno, gli animali attaccarono il bisonte: due lupi gli saltarono sulla groppa mordendo e graffiando la groppa, un grosso gatto striato gli saltò sul muso soffiando mentre un intero branco di cervi gli si abbatevano addosso; gli insetti coprirono il bisonte che muggiva ancora più forte sollevandosi sulle zampe posteriori per allontanare gli aggressori a colpi di zoccoli… li gli uomini videro la triquetra.
Il dio cornuto si gettò verso il bisonte e lo afferrò per le corna ritorcendogli le corna con le possenti braccia; intanto gridava: “Per favore! Ora calmati! Fallo per me! Fallo per tutti!” e detto ciò l’animale iniziò a diminuire la sua furia.
Quando il bisonte si fu abbassato il cornuto afferrò la triquetra con un rapido gesto del braccio levandogliela dal possente collo.
In quel momento il bisonte tornò un normale animale dal pelo bruno e dagli occhi neri che portava in groppa il signore delle bestie.
Lui gettò a terra la triquetra che iniziò a sollevarsi investita da una luce che si modellò nella sinuosa figura di una bellissima donna dai capelli mossi e fluenti.
“Finalmente!” disse lei.
“Ricominciamo quindi? Per la terza volta amore mio?” chiese lui sorridendole.
“Già… andiamo, prima che qualcosa cambi ne passeranno di millenni no?”
“Esatto… ora vedremo le cose da un nuovo punto di vista giusto?”
“Effettivamente… prima che ce ne andiamo… ci presentiamo: potete chiamarmi Madre, mentre lui è Padre… ora dobbiamo conferire con lo sciamano”
Kt’col, che si era avvicinato ad osservare lo scontro, si prostrò ai due dei.
“Parlate o immensi”
“Tu sei lo sciamano Kt’col giusto?”
“Esattamente Madre”
“Per adesso quei gioielli, i Miraculous, sono semplici ornamenti privi di significato… sono però costruiti in una particolare pietra che non proviene da questa terra: se il mio compagno qui presente vi saprà aiutare al meglio, capirete bene come conferire loro il potere necessario”
“Esattamente: ora ti illustrerò il processo: dobbiamo fare in modo che la specie umana progredisca senza intoppi e ciò è possibile solo eliminando gli Antichi Dei”
Kt’col guardò stranito la coppia: “Volete uccidere gli dei per prendere il loro posto?”
“Non esattamente: loro verranno vincolati in queste pietre e vi potranno conferire il potere necessario per aiutare l’uomo ad evolversi… è nel loro interesse.
“Ma gli dei ci sono sempre stati avversi? Perché dovrebbero aiutarci? Mio fratello ha subito la calamità proprio da uno dei più potenti”
“Hanno dimenticato il loro obbiettivo: alcuni, soprattutto i più potenti, sono qui da molto più tempo e si sono abituati al loro status di Divinità Quantiche… ora hanno dimenticato cosa voglia dire essere umani mentre noi siamo giunti solo ora, con la ragazza coniglio… e con noi è giunto anche il ragazzo di polvere”
“Quindi cosa dovremo fare?”
“Dovrete erigere un cerchio di alte pietre, esattamente sette cerchi concentrici e disporre una rosa di lastre al centro del cerchio più interno; al centro della rosa vi sarà un alto ceppo su cui sistemerete la scatola con tutti i Miraculous… poi io guiderò il canto e tutto farà da sé”
“Vi do un ultimo consiglio: non fidatevi troppo del ragazzo di polvere”
E con questa ultima avvertenza la divina coppia scomparve abbracciandosi.
 
Così essi iniziarono a lavorare poco lontano dal villaggio: trovarono un grande spiazzo al cui centro cresceva un robusto rovere che fu presto abbattuto lasciando un ceppo alto due metri e spesso mezzo metro.
Le vicine montagne fornirono grandi lastre di pietra alte come un uomo che furono tagliate a forma di petalo e disposte attorno al ceppo formando una larga corolla da rosa.
Poi vennero portate le alte rocce che furono disposte in sette cerchi tutto attorno alla rosa; furono poste delle rocce in posizione orizzontale in coincidenza con i punti cardinali formando dei corridoi costeggiati da piccoli menhir.
Il lavoro proseguì per circa due mesi e, poiché il popolo di Kt’col era vasto, forte e laborioso, l’opera fu completata rapidamente.
Quando l’ultima pietra del circolo fu posta in verticale apparve al centro, in piedi sul ceppo, il Padre che chiamò a se tutti i presenti e ordinò che ogni uomo, donna, vecchio o bambino si ritrovasse ai suoi piedi.
Kt’col si inchinò a lui e così fecero tutti gli altri quando furono ben disposti attorno al centro.
Il Padre sollevò le mani al cielo e iniziò a cantare una melodia in una lingua incomprensibile ai presenti ma che ognuno di noi conosce: francese.
“Rèvellie vous et viens, rejoindre vos poches, arrêtes ta fuerur et descendens chez toi. Cessar le changement continu, fais che pour quoi tu es né, votre colère cesse. Apporter la civisation à l’homme afin que vos puissiez vous réunir”
La cantilena era lenta e misurata ma con un’inflessione malinconica mentre tutt’attorno al cerchio si percepiva la natura stessa muoversi verso quell’epicentro.
Poi apparvero: erano decine e decine di entità che, dall’aria, prendevano aspetto solido alternando varie forme: erano prima uomini e donne, poi creature mostruose per metà animali e per metà umane, poi demoniache bestie percorse da scariche di energia e poi globi luminosi o oscuri.
“Voici le kwamis, les forces du cosmos. Voici ce qui change le monde jusqu’à ce qu’ils gardent leur forme. Je vois les premiers qui arrivent, les premiers qui sont nés: je vois Tikki et je vois Plagg, qui sount nés avant tout, création et descruction, chance et malheur, les visages du chaos s’expriment en eux, jusqu’à present, ils se sont livres une bataille éternelle qui n’é jamais counduit à la victoire ou à la défaite”
Davanti a loro si fecero avanti due figure che camminavano in coppia: vedevano una bellissima giovane dagli occhi blu e dalla pelle rossa con chiazze rosse ma anche una gigantesca coccinella ricoperta di luci rosse e nere e dagli occhi brillanti, come galassie; vedevano anche una creatura simile a un’aberrante incrocio tra un grosso insetto e una donna con ali ampie e traslucide, testa ovoidale e nera e due paia di braccia nere e rosse.
Accanto a lei camminava un giovane dalla pelle così nera da sembrare fatto di tenebra solida, dai capelli scompigliati, con orecchie e coda di gatto; contemporaneamente avanzava un mastodontico felino dal pelo nero con gli occhi verdi e fiammeggianti, artigli così affilati da poter tranciare un uomo in due e una coda così lunga che sembrava non aver fine e perdersi all’orizzonte e, infine, un umanoide ricoperto di pelo nero con testa, artigli e coda di gatto.
Le due figure si portarono al centro del cerchio e furono letteralmente risucchiati dai miraculous.
Il dio cornuto continuò a cantare e, nel corso della giornata, numerose figure apparvero nella piana e il popolo di Kc’tol vide molte cose e ne percepì altre: quando venne la volpe videro sia un giovane dalla pelle arancione con orecchie e coda di volpe, un gigantesco ibrido uomo-volpe e una maestosa creatura di luci e immagini in continuo mutamento con nove lunghissime code. 
videro l’ape, sia come giovane donna che come immenso insetto dalle ali traslucide e dagli occhi oscuri e sia come ibrido donna-insetto.
Il dio cornuto continuò a cantare e, nel corso della giornata, numerose figure apparvero nella piana e il popolo di Kc’tol vide molte cose e ne percepì altre: quando venne la volpe videro sia un giovane dalla pelle arancione con orecchie e coda di volpe, un gigantesco ibrido uomo-volpe e una maestosa creatura di luci e immagini in continuo mutamento con nove lunghissime code.
videro l’ape, sia come giovane donna che come immenso insetto dalle ali traslucide e dagli occhi oscuri e sia come ibrido donna-insetto.
Videro anche altre figure sia mostruose che ibride che umane ma la cosa più strana accadde alla fine: venne al cerchio un giovane che portava un ampio mantello trasparente ma allo stesso tempo risplendente di colori caleidoscopici che cambiavano con lo scorrere dei secondi: aveva lunghi capelli ricci e violacei così come la sua pelle, gli occhi erano luminosi come stelle e indossava una sorta di tunica aperta sul davanti con gli stessi colori cangianti e caleidoscopici del mantello.
Videro anche altre figure sia mostruose che ibride che umane ma la cosa più strana accadde alla fine: venne al cerchio un giovane che portava un ampio mantello trasparente ma allo stesso tempo risplendente di colori caleidoscopici che cambiavano con lo scorrere dei secondi: aveva lunghi capelli ricci e violacei così come la sua pelle, gli occhi erano luminosi come stelle e indossava una sorta di tunica aperta sul davanti con gli stessi colori cangianti e caleidoscopici del mantello.
Videro anche altre figure sia mostruose che ibride che umane ma la cosa più strana accadde alla fine: venne al cerchio un giovane che portava un ampio mantello trasparente ma allo stesso tempo risplendente di colori caleidoscopici che cambiavano con lo scorrere dei secondi: aveva lunghi capelli ricci e violacei così come la sua pelle, gli occhi erano luminosi come stelle e indossava una sorta di tunica aperta sul davanti con gli stessi colori cangianti e caleidoscopici del mantello.
Portava in una mano un oggetto simile a un sottile bastone e, nell’altra, aveva una corda sottilissima, sembrava quasi un capello che però era tanto lungo da distanziare di molti passi lui dal suo prigioniero.
Colui che era legato alle sue spalle era piuttosto simile al carceriere: un fisico simile, un’età ideale simile. Un vestiario simile… solo che lui aveva un mantello più ampio e nero come la notte con numerose sfumature bianche, nere, viola e brunastre anche esse in continuo cambiaento. Aveva sul capo un elmo che lasciava visibili solo gli occhi, il naso, la bocca e il mento; l’elmo presentava una spirale sulla fronte tra due lunghe antenne ricurve che terminavano in una sorta di ciuffo di sottili peli… doveva essere una falena.
Il carceriere si avvicinò al dio cornuto e gli disse qualcosa nelle orecchie, lui annuì e ricominciò a cantere le ultimissime strofe: “enfin Nooroo, le papillon, le plus pur de tous, celui qui apporte la vertu et lie chaque lâcheté, lié au fil du destin, il apporte son ennemi juré: le seigneur des ténèbres et le dieu maléfique qui parle au cœur des hommes.”
La farfalla portò la falena nell’anello più interno e, entrambi, entrarono nello stesso miraculous.
La farfalla portò la falena nell’anello più interno e, entrambi, entrarono nello stesso miraculous.
Passarono alcuni anni e, mentre lo sciamano diventava sempre più vecchio, i Miraculous,  iniziarono a essere consegnati ad i loro primi portatori: il primo fu quello della tartaruga, in cui era entrato Wayzz. Il saggio custode, che passò nelle mani del nipote dell’anziano: la sua anima gli diceva che la sua saggezza nascente e la sua perseveranza erano compatibili.
Il secondo fu poi quello del Pavone: fu donato ad una giovane di grande bellezza che si era persa nella foresta ed era stata trovata dallo sciamano che stava cercando un vitello della mandria di Uri del Capo Villaggio che si era perduto; le consegnò subito la spilla e la giovane ne fu così felice che promise che sarebbe tornata con ricchi doni da parte del padre. La sua bellezza e la sua purezza avevano permesso ciò.
Il terzo che fu consegnato era quello dell’Ape: fu donato al più valente dei guerrieri del villaggio: un giovane desideroso di far vedere di che pasta fosse fatto: un profilo coraggioso e desideroso di essere apprezzato per ciò che compiva che aveva trovato il rispetto dell’Ape; fu consegnato poi quello del Gatto, Nero ad un bambino di soli undici anni che dimostrava però la mente lucida di un uomo maturo e che pareva fosse particolarmente fortunato all’apparenza ma che viveva in una situazione famigliare poco felice; l’esatto opposto avvenne quando furono consegnate le pietre gemelle della Coccinella: una bambina anch’essa di età fanciullesca, la quale era fortunata in quanto a rapporti famigliari ma era perseguitata nella sua persona dalla sfortuna più crudele la quale le aveva gettato il deriso dei suoi coetanei che la ritenevano praticamente incapace. Tali poteri, scoprì Kt’col, erano forse quelli più straordinari che il misterioso “Eterno” della ragazza coniglio aveva affidato a quei giovani ardimentosi: pareva infatti che il gatto conferisse al ragazzo poteri decisamente pericolosi ma che venivano usati per fini collettivi: la salvaguardia della tribù e, in rari casi, l’eliminazione di chi rischiava di danneggiare la stessa (il più delle volte bestie feroci), inoltre sembrava che la coccinella ed il gatto agissero in coppia: infatti sembrava che i danni che poteva procurare il felino venissero irrimediabilmente riparati dal coleottero.
Quanto agli altri poteri: erano tutti straordinariamente magnifici: l’Ape donava a chi la possedeva un coraggio superiore all’avventatezza che lasciava comunque spazio al ragionamento: la Volpe donava capacità magiche straordinarie che facevano invidia anche allo sciamano stesso; chi aveva il fermaglio del Pavone era capacissimo di ammaliare chiunque potesse affrontare e quindi di tenere in scacco qualsiasi minaccia costringendola persino ad uccidersi da sola o ancora quello di creare una sorta di guardia del corpo al suo o al servizio degli altri. La Tartaruga invece donava un’intelligenza strategica e concettuale superiore alla norma: inoltre donava una capacità combattiva (soprattutto di difesa) oltre lo scibile. L’ultimo ad essere stato affidato ad un portatore fu poi il gioiello della Volpe, il quale era stato donato ad un ragazzo astuto e versatile che abitava al di fuori del villaggio e si procurava del cibo da se uccidendo le bestie peggiori con trappole sofisticate per l’epoca: il giovane avrebbe sfruttato il proprio potere per ottenere una fama migliore di quella che possedeva prima di agire.
Il Miraculous della farfalla però rimase sempre ben conservato all’interno del prezioso cofanetto: ancora alla sua morte Kt’col, possedeva ancora quella misteriosa pietra che era rimasta sola nel cofanetto, ben chiusa agli occhi dei suoi conoscenti.
Sentiva in cuor suo che quell’oggetto era si molto benefico, ma anche parecchio pericoloso; sentiva che il suo potere era forse ancora più grande di quello del gatto e della coccinella: ricordava il dio incatenato e temeva che potesse liberarsi nell’utilizzo… sentiva che era ancora più pericoloso del peggiore degli uomini.

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Capitolo 2
*** Prima e Media Età Antica (3500 a.cC.\1333 a.C.) GLI DEI SOVRANI ***


GLI DEI SOVRANI
 
Quel piccolo gruppo di persone era riunito attorno ad un tavolo su cui era posta una mappa di un territorio desertico.  
Tra loro discutevano come liberarsi della loro piaga.
«L’ultima volta che qualcuno l’ha avvistato era su questa riva, vicino alle grotte dell’ippopotamo»
«Sicura che fosse li? Io avevo sentito che alcuni contadini avevano visto Apep da questa parte, verso il fiume»
«Ed è qui che ti sbagli, conosci i suoi poteri, sa porre il caos nella mente degli uomini. Ha sfruttato abbastanza il suo sigillo da riuscire a utilizzarlo in tutto il suo potere»
«Ma non è troppo potente per noi? Voglio dire, ora che il vecchio è morto chi lo combatterà? E soprattutto: nessuno si è mai chiesto come cavolo faccia a rimanere in vita così a lungo se non è sotto l’influenza dell’Aton…  lui lo vuole distruggere!»
L’uomo seduto alla destra del ragazzo intervenne: «Vedi mio caro, sto lavorando da un po’ di tempo a questa cosa e fino ad ora non ho trovato il capo del filo»
«Ah… hai qualche ipotesi Scimmia?»
L’uomo continuò con aria un po’ seccata per il nomignolo affibbiatogli: «C’è la possibilità che abbia trovato qualcosa di simile, fino ad ora l’Aton è l’unico oggetto in grado di emanare una simile energia ma non escludo che ce ne possano essere altri»
Gli altri assentirono.
La donna prese la parola: «E con Apep abbiamo terminato, riguardo a quella questione: ora che Ra ci ha lasciato, mio marito Asar può prendere il trono e governarci come è suo dovere, dopotutto è a lui che Ra ha concesso il proprio ruolo»
«Vedi Aset: in realtà il figlio primogenito di Ra è ancora vivo, così come suo figlio è padre di Asar e Sutekh viene prima di lui… non capisco perché debba essere lui a governarci?»
«Ra ha fatto una promessa: Asar l’avrebbe succeduto al trono d’Egitto qualora avesse abdicato»
«Ma lui non ha abdicato: è morto! MORTO!: asceso alla Duat, non è più tra noi, qualcuno l’ha ucciso!»
«Io sicuramente no…»
 «…ma hai tentato di ucciderlo una volta, con quel serpente che tu stessa creasti dal nulla!»
«Sono i miei poteri, non posso farci nulla se mi viene l’ispirazione e creo un cobra velenosissimo che, guarda caso, vada ad avvelenare Ra; non è completamente colpa mia! Poi l’ho persino curato da quel veleno.»
«Senti mia cara: io sono Geuti, il sapiente, nonché il dio dai molti aspetti e ciò sta a significare che porto il sigillo della scimmia che mi offre l’onniscienza: sono uno dei più vecchi qui e conosco benissimo la tua indole, ragazza, e conseguentemente so come ti comporteresti e sfrutteresti i tuoi poteri in caso di necessità: Tikki non ha mai concesso questa creazione vero?»
«Non dire fesserie, tu non sei onnisciente e sicuramente, per quanto ne so, lui non ti concede questo potere e perciò non puoi avere la certezza che io abbia permesso la morte di Ra. Lui se ne è andato di sua spontanea volontà! Accettalo e fattene una ragione»
Geuti sbuffò e si voltò verso una ragazza che sedeva vicino ad Aset.
«Bast, tu conoscevi bene Ra, eri la sua luogotenente e sei stata tu l’ultima a vederlo prima che se ne andasse. Ha detto qualcosa di specifico?»
«Semplicemente ha detto che preferiva lasciare il regno in mano a qualcuno di più giovane e adatto al compito»
«Ra ha giurato su Asar, sono certa che Nooroo può confermarlo» gridò d’improvviso Aset picchiando il pugno sul banco.
«Ma lui alberga il Miraculous che va al legittimo re… chi lo indossa è costretto a legarsi con lui fino alla sua morte» obbiettò l’uomo che le sedeva accanto: un tale alto vestito di bianco e con il volto nobile.
«Vuoi o no il trono marito mio?» gli chiese quindi Aset con la voce più suadente e ammaliante che riuscì a trovare.
«S...si amore… ma metti caso che… Ra non abbia giurato»
«Cos’è: non ti fidi della mia parola?» chiese improvvisamente Aset con tono preoccupante.
«No cara, semplicemente, sai come funzionano i giuramenti, una sola parola e va tutto in malora»
«Ottimo!» interruppe il ragazzo che poco prima parlava con Geuti «È giunto il momento di interpellare il buon vecchio Nooroo!» aggiunse poi estraendo fulmineo dalla bisaccia che teneva in grembo una spilla a forma di ali di farfalla color indaco.
«Khonsu, sei sicuro?» gli chiese Geuti.
«Fidati. Ora Asar, mettitela»
«Se non sarò il legittimo re non mi accadrà nulla vero?»
«Nulla amore, fidati di me» lo rassicurò la moglie ponendogli una mano sulla spalla.
«Ora mettigliela» tagliò corto Bast rivolgendosi a Khonsu.
«Si… gattaccia maledetta» ringhiò a mezza voce il ragazzo portando la spilla.
La giovane strinse il pugno destro e dal suo medio si propagò una luce che la mutò nell’aspetto con la quale venne ricordata in seguito: una bellissima donna perfettamente identica a lei ma apparentemente diversissima da se stessa con occhi verdi e due orecchie feline che le spuntavano dalla chioma corvina; la pelle era diventata di un coloro cinereo, la tunica era diventata nera così come la coda che era improvvisamente apparsa ed ora ondeggiava al vento.
«Ferma Bast!» le intimò Aset con voce tranquilla, quasi annoiata.
«Io non lo sopporto più, uno della sua età dovrebbe portarmi rispetto!» ringhiò in modo pauroso mentre una sinistra luce ambrata iniziava a brillarle nelle pupille e sulla pelle.
«Aset! Fermala!» gridò Geuti mentre il suo kwami gli volava accanto pronto a trasformarlo.
«Tikki, Trasformami!» gridò la giovane mentre la luce purpurea la avvolgeva mutandola.
La sua veste, da bianca, era diventata rossa a chiazze circolari nere, un piccolo collare nero le cingeva il collo e teneva fermo un velo trasparente che le avvolgeva le spalle; un laccio nero le legava la tunica e la chioma era trattenuta da un laccio rosso e da molti gioielli dei medesimi colori.
«Fermati Sekmeth!» urlò quindi Aset stendendo il braccio e facendo roteare lo yoyo.
Lo sguardo furioso di Bast iniziò a spegnersi mentre la sua luce omicida passò dal tetro ambrato al comune verde della sua versione trasformata.
«Plagg, Detrasformami» disse poi lei con voce monotona.
Il kwami nero uscì dal miraculous e gli svolazzò intorno.
«Sono felice che tu sia riuscita a contenerlo, l’ultima volta hai quasi sterminato il popolo egizio!»
«E anche quella volta sono dovuta intervenire io» aggiunse Aset rigettandosi sulla sedia in modo esausto e annullando la trasformazione.
 «Prima che la gatta furiosa ci interrompesse, Khonsu stava facendo indossare il sigillo a Asar… se volete darci la possibilità di interrogare Nooroo saremmo tutti molto felici!» disse in tono sarcastico l’ibis mentre Khonsu poneva la spilla al centro del collare di Asar.
Una luce si sprigionò dall’oggetto e da esso ne fuoriuscì il Kwami della farfalla.
«Dunque Nooroo, visto che Ra ha tagliato la corda, è quest’uomo il futuro re?» chiese Geuti con fare amichevole.
Il kwami annuì «Si, è lui, Ra lo designò prima di congedarsi da me»
«Perfetto. Sei salvo»
 
Aset si svegliò d’improvviso.
Aveva nuovamente sognato l’evento che aveva scatenato tutto e non riusciva più a toglierselo dalla testa.
«Amore… tutto bene?» le chiese Asar che si era nel frattempo svegliato e aveva tra le mani la corona di Iaru.
«Si, tutto bene, ho di nuovo sognato la tua prima incoronazione»
«Ah… prova a chiedere a Geuti, magari lui ne sa qualcosa»
«Vedrò se… non credo, forse dovrei chiedere a Sutekh»
«Sicura?»
«Mai stata più sicura»
 
Sutekh osservò la Dea Coccinella discendere verso di lui. Stava provando a fare una piramide di sabbia con la sua semplice capacità mentale.
«Sutekh!» gridò lei mentre la piramide implodeva.
«NOOOO! Aset non farlo mai più!» gridò lui furibondo e pestando un piede sulla sabbia.
«Non preoccuparti, te la ricostruisco io. Quanto a me: ti ricordi di quel sogno che continuo a fare? Sai, quello che vede la scena di poco prima che tu entri nella sala delle riunioni con un baule?»
«Ah già! Bei momenti» disse lui con sarcasmo
«Bene, sto ricominciando a fare quei sogni»
«Non saprei dirti, probabilmente è perché la tua mente vuole ricordarti tutti i tuoi fallimenti!»
«Non è stato un fallimento, tu hai deciso di entrare e far fuori Asar, la brutta cosa l’hai fatta tu!»
«La brutta cosa avresti potuta impedirla tu invece!»
«Ci vediamo Sutekh, vado a vedere se trovo di meglio da fare che stare a discutere con te di cose che non mi servono ora»
«Pace!»
Aset si voltò e, con  rapido passo, iniziò dirigendosi verso Menfi, pronta a vedere cosa stesse combinando il faraone: sentiva una strana sensazione, per sicurezza annullò la trasformazione e si mescolò tra la folla vociante.
«Hai sentito cosa vuole fare? Ha intenzione di sacrificare una schiava per riottenerla!» dicevano alcuni e altri commentavano disgustati o incuriositi.
«Forse accetterà il sacrificio e gli ridarà sua moglie» disse una vecchia signora per poi essere coperta dalle risa.
«Secondo me gli dei nemmeno esistono!» disse infatti un altro trattenendo a stento le risate mentre Aset faticava a mostrarsi nella sua forma “divina” per poi rinfacciarglielo.
Aset raggiunse il piazzale che si apriva dinnanzi alla casa del faraone e vide l’altare ghermito da sacerdoti.
Si avvicinò incuriosita e vide il faraone, vestito con i paramenti più regali, sollevare un pugnale sopra la propria testa con la lama che puntava verso il ventre di una ragazza tenuta legata all’altare.
«Io Akhenathon! Faraone dell’Alto e Basso Egitto, Astro del Mattino e della Sera, figlio di Horus e Ra, sono pronto a sacrificare questa giovane per consacrarla al grande padre così che possa ridarmi la moglie che amo!»
«Non lo farà veramente!» chiese quindi Aset ad un soldato li vicino, l’uomo assentì con volto inespressivo.
«Io ti consacro, vergine, come moglie del dio sole!»
Il pugnale scattò verso l’avanti ma Aset fece in tempo a bloccarlo con la sua sola imposizione della mano destra
«Fermo Faraone!» gridò lei avanzando tra i mormorii della folla ed un seguente silenzio tombale.
«Chi sei tu che osi sfidarmi?» le chiese imperativo.
«Io sono colei che protegge il faraone, la custode del popolo d’Egitto, la madre di Horus e del popolo che mi circonda. Io sono la fertile Hator e la temuta Serquet, sono la giusta Maat e Kephreth, la dea coccinella. Io sono Aset, colei che ricorderete come Isis!»
La luce avvolse la sua figura e Tikki apparve imprimendosi nel suo orecchino mentre le sue vesti mutavano e il suo sguardo si faceva più terribile.
Tutti fuggirono colti dal terrore mentre l’aria vibrò come mossa da un vento primordiale mentre un paio di ali variopinte si formarono dal velo che le ricadeva ai piedi.
«Temi Akhenathon! Gli dei ti hanno maledetto!» gridò mentre altre figure apparvero ai margini della piazza facendo il loro ingresso.
«Fermo! Io sono Horus, suo figlio, e ti intimo di abbandonare il tuo proposito o la mia vendetta calerà come in eterna onta su di te e su tutti i tuoi discendenti!» disse quello che si era fatto più vicino: alto e impetuoso, armato di Kopesh e flagello, indossava il copricapo del faraone e la corona dell’Alto e Basso Egitto mentre dalle spalle si spalancavano due ali immense che parevano coprire il sole.
«Ascoltalo» disse Bast puntandogli contro il bastone metallico mentre Asar allungò la mano e uno stormo di farfalle bianche si radunarono accanato a lui.
«Vi prego, non lo fate! Vi prometto tutti i sacrifici che meritate e ancora di più!» gridò implorando Akhenaton mentre lo yoyo volteggiava sopra la testa di Aset come una sentenza di morte.
«Sta di fatto che i sacerdoti di Ra ti hanno maledetto, perciò non hai più possibilità di scampo» urlò quindi Asar che fu però interrotto dallo stesso Akhenaton che, con un grido ancora più forte disse, rivolto al cielo: «ACCETTALA!»
Accadde in quel momento: il sole brillò più forte e un raggio partì dal sottosuolo trasportando in alto la schiava che urlava e si dimenava mentre attorno al sole il cielo si faceva più oscuro.
«Interrompi il raggio!» gridò Asar mentre Aset si gettava verso Akhenaton facendo roteare lo Yoyo seguita dagli altri suoi alleati.
«Horus! Va e tira via la schiava dal fascio, io mi occupo di Akhenaton con gli altri!» gridò la dea mentre il figlio spiccò un rapido balzo accompagnandosi con il battito delle poderose ali.
Giunto accanto alla giovane, la prese delicatamente ma scoprì di non riuscire a portarla via; la strattonò in tutti i modi ma a nulla sembrava servire.
«C’è qualcosa sotto terra che fa partire il raggio, forse una piramide, distruggetela!» gridò quindi Horus mentre cercava in tutti i modi di liberarla venendo trasportato anche lui verso il sole
«Scaviamo?» chiese la madre.
«No, secondo te? Aspettiamo che spunti fuori da sola?» le chiese ironico il dio falco mentre la luce si faceva sempre più vicina… intravedeva una specie di occhio ma non sembrava ellittico come quello di Ra…. Era circolare.
Asar cercò qualcuno che potesse servirgli e, trovandolo, inviò un’akuma provvidenziale.
Il gigante di terra e erba si fece strada tra la folla e, con un singolo pugno, riuscì a scavare fino a raggiungere la punta della piramide sotterrata.
«Ora Bast!» gridò Aset mentre la ragazza-gatto si gettava verso la punta rinvenuta per distruggerla. Una sfera nera comparve tra i suoi artigli e si infranse sulla pietra che si disintegrò all’istante.
Il raggio si interruppe facendo ricadere la giovane verso il suolo.
Horus riuscì a prenderla al volo riportandola a terra mentre Bast finiva di menare Akhenaton con il bastone di ferro.
«Ora mi chiedo. È normale che Ra si mostri in questo modo?» si domandò uno dei sacerdoti mentre osservava l’ombra nera scomparire così come era apparsa.
«Non so voi, ma secondo me quello non era Ra» commentò il sacerdote vicino.
Il faraone però non sembrava essersi completamente stancato e Bast sembrava iniziare a risentire  della fatica del cataclisma appena sprigionato.
«Aset, prendi il mio posto!» gridò lei mentre fuggiva verso i vicoli.
La coccinella piombò rapida verso il sovrano mulinando l’arma con furia omicida; si gettò su Akhenaton e lo colpì ripetutamente con lo yoyo; dopodiché sollevòil braccio destro al cielo e una luce apparve lasciando cadere una strana boccetta che, appena fu aperta, liberò una strana nebbia che investì il re.
Akhenaton indietreggiò non appena la nebbia lo investì in volto. Tossicchiò e cadde in ginocchio.
«La dea della creazione può uccidere!» disse severa Aset mentre il suo corpo iniziava a ricoprirsi di piaghe e pustole.
«Provate a curarlo! Non servirà!» gridò poi lei verso i sacerdoti per poi, con un salto fulmineo, seguire Bast.
 
Aset stava tornando verso la Piramide Divina, dove si trovava la sede delle riunioni, quando notò qualcuno che si sbracciava da lontano per attirare la sua attenzione.
«Bast? Cosa diavolo ci fai li? Ti avevo cercata per tutta Menfi!»
«Vieni, devo dirti una cosa importante!» rispose lei con voce angosciata.
Aset si mise a correre nella sua direzione mentre la sua preoccupazione saliva come il livello del Nilo nei gironi di piena.
«Cosa ti preoccupa?»
«Guarda cosa ho trovato!» disse la ragazza-gatto indicando qualcosa per terra.
Era un teschio con impresso l’Hankh sulla fronte.
«Non è possibile, solo Ra aveva quel simbolo in quel punto!»
«Appunto!»
«Quindi Ra è morto veramente?»
«Appunto»
Le due si voltarono mentre la terza voce prendeva un aspetto: un uomo alto e sinistro, volto incavato, occhi dalla sclera e dall’iride rossa come il deserto che circondavano una pupilla giallo acido, denti più affilati del normale e un cappuccio che ricadeva sulle spalle. La pelle rossastra e il lungo abito verde ed oro intrecciato con fili bianchi.
Il vecchio sollevò una mano e tra le sue dita danzò una sfera nera circondata da anelli rossi.
Nell’altra una sfera rossa, solida, campeggiava sul palmo e sulla sua superficie era impresso un singolo simbolo: un occhio circolare dalla cui destra spuntavano una linea e una spirale.
«Non mi riconosci Aset? Forse tu si Bast!»
«Isfet» sussurrò a mezza voce Bast mentre Asat invece ringhiava: «No: Apep!»
«Già…. Se quella giovane mi avesse raggiunto probabilmente io ora avrei già distrutto l’Aton… peccato, ora distruggerò tutte e due!»
Una luce rossa.
Tutto era finito.
Di Aset e Bast,  nessuna traccia.
Il miracoulus del gatto nero e della coccinella? Spariti nel nulla prima che Apep potesse prenderli.
L’Aton? Anche lui scomparve.
Così come tutti i portatori che si erano affidati a lui: morti sul colpo e spazzati via come polvere.
Rimangono nel mito che narra di Iside e Osiride.
E di Apep, o Apophis, il grande serpente del caos, nessuna traccia… forse il suo Kwami non comparve mai più… eppure molti si chiesero come mai avesse ottenuto tali poteri senza un sigillo da indossare ma guidato da un’entità sciolta e dai poteri illimitati.
 
La notte era calata mentre dalle sabbie dell’Egitto sorgeva l’entità: un essere fumoso e enigmatico che osservava le luci della città e si dirigeva a Est e a Nord, verso la lunga penisola che accompagnava il corno d’Africa. Li avrebbe albergato per i prossimi mille anni e pochi lo avrebbero nuovamente disturbato. Volava ora, avvolto dai fumi multicolori, i suoi occhi verdi ed una corta chioma bluastra scintillavano sotto la luna e al di la del fumo da cui era composto Djinn, il figlio della sorte.
 
Dovute spiegazioni (Rettifico che il mio Superio mi ha obbligato a farle)
Innanzitutto: perché non ho scritto nulla nel primo capitolo?
Non lo so, semplicemente mi sono dimenticato e, visto che mi è venuta l’ispirazione, ho deciso di scrivere tutto qua.
Ho già detto qualcosa nell’introduzione; mi interesso a questa serie più dal punto di vista metafisico che romantico (sebbene sia questa la parte, preponderante) sebbene il romanticismo non mancherà in ciò che scriverò.
Ho ideato un bel po’ di teorie che comprendono anche i personaggio a cui siamo abituati (in queste serie di semi-oneshot collegate tra loro non compariranno mai) i quali avranno, nella mia idea, un ruolo importante nella lore generale.
Avrei potuto partire con il fulcro del tutto: raccontarvi le origini dei kwami e le loro vicende pre-divine ma non sarebbe stato forse un po’ troppo fulmineo? Forse era meglio iniziare con qualcosa di più soft e tranquillo. Sono stato affascinato particolarmente dal racconto di Nooroo, personaggio che, a mio parere, può essere sfruttato per renderlo interessante (se continuerete a seguirmi nelle mie prossime serie vedrete) il quale spiega approssimativamente ciò che sono i kwami e che ruolo hanno avuto nel corso della storia.
Eroi leggendari? Possibili ex dei? Personaggi storici del calibro di Giovanna d’Arco? Ma che figata non è!?!
Alcuni sono già stati definiti (per ora solo i possessori di Tikki) ma altri, la maggior parte, ci sono ancora incogniti.
Per ora avete visto i portatori più antichi: vi ho nominato i primi nello scorso capitolo (nessun riferimento storico, tutta gente inventata) mentre, in questo caso, abbiamo assistito al collegamento più evidente alla serie principale. Ma parliamo con ordine: cosa mi ha portato a pensare che la Dea Coccinella potesse essere Iside?
Innanzitutto, non esiste nessuna dea coccinella nella mitologia egizia e, l’unico animale che ci si avvicina di più, è lo scarabeo stercorario, adorato perché ritenuto l’emanazione del sole (e anche su questo ci torneremo… vedrete) che era identificato con il dio Kephri.
Nei testi non si nomina mai una possibile pseudo-Kephret (una Kephri al femminile) ma si può presupporre che, molto marginalmente, potesse esistere: gli egizi avevano un dio per ogni cosa e venivano creati e dimenticati nel corso di singoli anni.
Affidiamoci più al ruolo che rappresenta la coccinella nella visione di Miraculous: fortuna e creazione. Qual’è la dea che rappresenta questi concetti? Una divinità che riassuma la triade: Iside, Hator e Maat: magia creatrice, amore e sessualità, ordine e equilibrio, tutti concetti che si riassumono nel kwami rosso e nero.
Per Bast (Bastet) era facile… l’ho resa donna per motivi vari. Riferito a questo personaggio, posso dire, che definisce un lato di Plagg che fin ora non si è visto: il lato oscuro e distruttivo: la distruzione vera e propria: Sekmeth.
Sekmeth era la dea leonessa legata a Bast e Hator e raffigurava, soprattutto, la distruzione pura e sciolta: il flagello di Ra: una furia scatenata che portava morte e distruzione ovunque andasse. Per fortuna che non era sempre in quella forma.
Asar (Osiride) l’ho unito a Nooroo per il suo legame con la morte e la successiva rinascita. Ho lasciato anche sottintendere il famoso mito della morte e resurrezione di Osiride (sarà Aset, con l’aiuto di Bastet, a riportare in vita Asat in cambio di un’altra vita) e, come vedete, l’ho reso come un personaggio estremamente positivo, nulla a che vedere con Papillon, avendo ereditato il miraculous della farfalla dalla dinastia degli Dei Faraoni (tutti lo terranno tranne Horus che continuerà ad affidarsi al miraculous del falco) e utilizzandolo, perciò, in modo serio privilegiando il lato positivo di questo interessante oggetto che svilupperò.
Parliamo di Apep e dell’Isfet… l’uno è il Simulacro di un potentissimo kwami che agirà sempre nel corso delle mie storie, l’altro è il suo catalizzatore preferito… l’Isfet era la forza contrapposta al Maat: il Caos, la forza primordiale che va contrastata e che non permette l’esistenza, il cui più grande operatore è Apep aka Apophis, il serpente rosso, una divinità demoniaca che minacciava di divorare Ra e, con esso, Aton: il sole. 
Nessuno a parte me si è chiesto come diavolo facesse il semplice potere di un’Akuma a controllare il sole? Come se gli dei egizi esistessero ancora nel 21 sec. a Parigi! Ma se abbiamo già delle divinità precise che controllano il mondo di miraculous: i kwami!
Esisterà quindi una forza che ha guidato Alya verso il sole oscuro? Diciamo di si: la forza oscura che verrà rappresentata da un personaggio interessante che, di sfuggita, ho introdotto nelle ultime righe: Djinn, l’onnipotente sovrano della materia… sapeste chi sono i suoi genitori non ci credereste mai!.
Se avete delle domande fatemele pure. Per favore non uccidetemi per via della mia assenza fin troppo lunga (mea culpa, vi prometto una maggiore regolarità di pubblicazione) e preparatevi a grandi cose che sfideranno il vostro modo di percepire questa serie.

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Capitolo 3
*** Età del Rame (3000 a.C.) IL POPOLO DELLA MADRE ***


IL POPOLO DELLA MADRE
 
Scorre in ognuno di noi.
Scorre in tutti noi
Scorre, di più in noi, rispetto a voi.
Siamo l’antico popolo dei tumuli, siamo la voce dei colli.
Siamo la fiaccola che guida il disperso, siamo la voce che porta alla follia.
Siamo i figli di Danu, la madre, siamo la Quinta Razza, la Quinta Genia.
Cercateci, se volete, guardate ovunque vi guidi la mente.
Noi non ci faremo mai vedere… ma voi stolti, sarete sempre sotto i nostri occhi.
Temeteci e adorateci. Poiché ci temettero e ci adorarono.
 
Vi potrei raccontare di come i miei antenati salirono al potere… di come divennero potenti e surclassarono un popolo di bifolchi isolani.
Di come uno di loro incontrò la madre e di come si unirono generando il primo dei Tuatha.
Di come poi la madre ricomparve unendosi al mio avo più prossimo e di come da quell’unione nacque mio nonno.
La madre è sempre esistita e sempre esisterà. Lei è libera, a differenza dei Limitati, così lei li  chiama, che sono rinchiusi e li piange… li piange poiché non li vedrà mai… se non alla fine del nostro tempo: ‘Quando la torre che nasce dal suolo e punta al cielo si sarà abbattuta sulla Nuova Ys.
Come so questa strana frase? Me lo disse un giorno un vecchio che portava una spilla blu a forma di conchiglia: diceva di chiamarsi Sudratha e di venire dalla città di Gorias, a nord del mondo… solo i miei antenati hanno visto quella città e so che  l’arma che ora impugno proviene da li.
Pare però che la corte in cui abitavo un tempo fosse composta da figli bastardi della stessa madre che generò il popolo del mio ramo paterno.
Popolo deforme e orribile: con aspetti mostruosi e innaturali: non appartenevo a quel popolo che mi insultava e mi sbeffeggiava dandomi dell’ibrido… e questi avevano teschi di caprone, altri un solo braccio, una sola gamba e un solo occhio… altri invece erano umani nell’aspetto ma con occhi rossi e corna di muflone… ecco cos’era il popolo dei Fomorian: malvagi d’aspetto e d’animo.
Mia madre però era diversa: era umana per aspetto e per carattere: meno barbarica e violenta e certamente più vicina a mio padre; certo: aveva anche lei delle corna che le spuntavano dai folti capelli rossi e due iridi ampie e rosse ma la amavo comunque e lei amava me.
Il matrimonio era stato sancito da un’alleanza avvenuta non so quanto tempo prima della mia nascita tra i Tuatha e i Fomorian… finì molto male.
Mio nonno, Balor, era un guerrafondaio: una volta tentò di affogarmi poiché non sopportava il fatto che fossi figlio di quel popolo, a detta sua, codardo e contaminato dal genere umano.
Diciamo che lui era il peggiore di tutti i Fomorian esistenti: orribile e abbastanza grande da spaccarti le ossa dandoti una manata sulla spalla: aveva un solo occhio che teneva sempre chiuso ma, stranamente, si muoveva sempre in modo molto, molto, molto veloce e sicuro… su quell’occhio si raccontavano storie inquietanti: la storia che girava di più era che fosse maledetto: un giorno gli comparve il Padre e lo maledisse a vita facendo si che il suo occhio fulminasse chiunque. Ora è cieco ma si muove bene, sia nel palazzo che sul campo di battaglia.
In più mi odiava… mi odiò ancora di più, in seguito, quando gli infilai la lancia su per lo sterno!
Un giorno non ne potei più: io Lug, il Simpolitecnico: in grado di fare qualsiasi cosa semplicemente volendolo! Perché rimanere in quella gabbia di matti quando sapevo che un popolo molto più civile e avanzato di quella marmaglia mostruosa avrebbe potuto ospitarmi essendo sangue del suo sangue?
Fuggi.
Sellai il mio cavallo e, a soli dodici anni, mi diressi verso la zona centrale dell’isola, dove sapevo che si trovava il centro del potente regno dei Tuatha de Danann: il popolo sacro di Danu.
Sapevo che ad Est sorgeva un palazzo di smeraldo tanto bello da abbagliare: Moy Tura: il Colle Sacro, ove dimorava il popolo prescelto e i più potenti e illustri dei suoi esponenti.
Avevo sentito narrare storie incredibile sui loro sovrani e sulla loro stirpe… non me ne fregava nulla dei Fomorian e della loro storia: erano solo barbari incivili, bravi solo a rovinare le feste con la loro sola presenza.
Invece di loro avevo sentito cose straordinarie: il loro attuale re aveva conquistato l’Eriu chissà quanto tempo fa soppiantando i Fir Bolg, i quali però erano comunque stati inclusi nei Tuatha de Danann.
Nuada, ancor oggi, era un guerriero formidabile: con un fichissimo braccio d’argento fuso alla carne e una spada di bronzo resistentissima e intrisa di malie di ogni genere.
Poi c’era Dagda: Il vecchio… lo ammiravo parecchio: saggio e potente, era il druido supremo e impugnava una calva magica: da un lato uccideva al singolo tocco e dall’altro ridava vita in un ciclo continuo; aveva poi un’arpa fatta d’oro puro che era due volte più grande di lui e poteva abilmente sollevarla e suonarla con la singola mente. Si raccontava che Dagda fosse figlio di Danu stessa.
Poi c’era il suo fratellastro Manannan Mac Lir; di lui si diceva che fosse figlio del grande padre-cervo e che fosse il potente sovrano delle onde e del mare: aveva una barca che si muoveva con la sua sola mente e un carro trainato da cavalli d’acqua… per non parlare di quel mantello che lo rendeva invisibile! Avrei dato anima e corpo per ottenerlo e usarlo per fini poco leciti come introdurmi nelle stanze delle ragazze e farle loro scherzetti non molto ortodossi... avevo ereditato la malizia di mio padre forse?
I miei pensieri furono però dissipati dalla vista che mi si spalancava davanti: un maestoso palazzo di smeraldo svettava toccando il cielo con molte torri e torrette che trasformavano la collina su cui si innalzava in una vera e propria montagna.
Mi avvicinai spronando il cavallo che si avviò verso il palazzo senza nemmeno ascoltarmi… per fortuna che ero in groppa e non a terra!
Notai come una cinta di mura verdi cingeva la cima del colle e come l’ingresso si trovava proprio sulla cima della collina dove era posto un Menhir alto due metri con numerosissime decorazioni e oggetti votivi accatastati sopra.
«Quella è la Lia Fail: la pietra che grida»
Mi voltai e vidi un ragazzo più o meno della mia età che mi squadrava da dietro il cancello.
«Chi sei?»
«Non ti è dato saperlo… non abbiamo bisogno di qualcuno in più, siamo già al completo»
«Potrei farvi da medico»
«Ne abbiamo già uno: Dian Cecht è ottimo e sa fare anche cose abbastanza difficili per il suo mestiere»
«Maniscalco?»
«Ce l’abbiamo»
«Falegname?»
«Idem»
«E che mi dici di un ciabattino?»
«Abbiamo anche uno di quelli»
«Almeno un potentissimo druido… ah no, se le storie sono vere avete anche quelli»
«E le storie non mentono»
«Quindi… se avete tutto ciò… non avete nessuno che possa fare tutto questo e molto altro?»
Il ragazzo rimase impalato con gli occhi sbarrati per poi sedersi a riflettere e rialzarsi nuovamente con una mano a pizzicarsi i pochi peli sul mento.
«Esattamente…»
«Esattamente cosa?»
«No! Non abbiamo nessuno che possa fare tutto questo»
«Allora avete proprio bisogno di qualcuno che lo sappia fare: mi presento, sono Lug, il Simpolitecnico: vengo dalla corte di Balor e sono suo nipote nonché figlio di Cian, del vostro popolo… ho scelto di abbandonarli in vostro favore»
«Lusingato; in questo caso sarai accettato sicuramente. Vieni, ti porto da Nuada»
Detto ciò lo seguì oltre l’arco che sovrastava Lia Fail.
 
Moy Tura era magnifica anche dentro: pareti smeraldine e auree tappezzate di arazzi magnifici e fiaccole che ardevano illuminando a giorno ampie sale con finestre alte e maestose.
Ci addentrammo sempre di più nel palazzo finché non persi completamente l’orientamento: ci ritrovammo quindi in una gigantesca sala ampia un centinaio di metri e altrettanto alta: al centro un gigantesco mosaico rappresentava un Triskele in cui scorreva un liquido che cambiava colore  a seconda delle zone: al centro era arancione come la fiamma più pura, nel braccio superiore era azzurro come il cielo, nel braccio posteriore era verde come l’erba di Eriu e nel braccio anteriore era blu come il mare.
Dietro al cerchio che racchiudeva il Trischele si innalzava un trono fatto di svariate pietre preziose sulla cui sommità campeggiava il Nodo Celtico: tre ellissi che si incrociavano formando quello che, a detta di molti, dovrebbe essere un’utero stilizzato, simbolo di fertilità e buona sorte.
Al centro di quel simbolo notai due figure, una femminile, verde e azzurra e una maschile bruna con la testa di cervo che parevano brillare di luce propria; erano semplici arazzi ma percepivo una vita che vi trascendeva.
Sul trono era seduto un uomo vestito con un’armatura gialla e nera, l’elmo, anch’esso di quei colori, lo faceva apparire in modo abbastanza spaventoso ma il suo sguardo, ora, lasciava intravedere una certa inquietudine.
«Chi sei?» mi chiese il sovrano.
Mi inchinai.
«Io sono Lug, figlio di Cian, dei Tuatha De Danann e nipote di Balor, sovrano di Fomorian; ho deciso di abbandonare quelle terre poiché li non posso rimanere a lungo: mio nonno ha tentato di uccidermi divere volte ed ora temo che possa attuare un piano definitivo; una profezia infatti dice che sarò io ad ucciderlo guidando l’esercito nemico»
L’uomo annuì silenziosamente.
«Ebbene?» gli chiesi.
«Ti accolgo con l’onore dovuto all’ospite; Brigid ti mostrerà la tua nuova dimora»
Detto ciò una giovane ragazza entrò da una porta laterale; ne rimasi affascinato: capelli lunghi e nero-bluastri raccolti in una treccia che le ricadeva sulla schiena, occhi color degli smeraldi e una lunga veste rossa legata da una fascia nera a decorazioni dorate.
«Questa e Brigid, mia cugina, ti mostrerà il palazzo e ti condurrà alla tua nuova casa»
 
Ci incamminammo lungo un viale ai cui lati crescevano vari alberi; Brigid mi chiese come mai avessi deciso di recarmi proprio a Moy Tura e perché non fossi. Magari, fuggito nel continente.
Le spiegai che una profezia sosteneva che io avrei dovuto uccidere Balor e donare potere definito al popolo dei Tuatha su tutta l’Eriu e Balor mi temeva per questo.
Brigid sembrava interessata e ne volle sapere di più.
Parlammo per così tanto tempo che non mi accorsi di non essere ancora arrivato all’alloggio che la ragazza avrebbe dovuto presentarmi; le chiesi come mai e lei mi disse che aveva deciso di allungare un po’ il tragitto per ascoltare meglio la mia storia e farsi un’idea su di me; mi avrebbe poi rispiegato al strada quando sarebbe venuta a prendermi poi, poco prima che il resto del popolo si riunisse nella grande sala dei banchetti per cenare.
Brigid mi spiegò di essere figlia di Dagda, il vecchio druido, e di una delle sue molte compagne e iniziammo poi a parlare del più e del meno. Nel giro di tre ore diventammo subito amici.
Ad un certo punto raggiungemmo una grande piazza dove una grande statua del Padre e della Madre, con i corpi intrecciati tra di loro in posizione verticale spiccava da una fontana; davanti alla fontana una strana figura se ne stava seduta davanti a un gruppo di persone che lo ascoltava reverente.
Aveva un aspetto da anziano: barba e capelli erano lunghi e ricci, di un castano tendente al rosso e le rughe solcavano il viso che sembrava dimostrare più di tremila anni. Gli occhi erano però animati da una grande foga mentre narrava di un combattimento con un tasso gigante che aveva affrontato per liberare la stessa collina su cui ora vivevano.
Aveva una corporatura che, definire anziana, sarebbe stato molto offensivo: il fisico era infatti quello di un cinquant’enne in canre e robusto, con muscoli delle braccia ben accentuati e un largo petto; indossava una tunica bruna lunga fino al ginocchio e legata da una cinta decorata con decorazioni geometriche; tra i capelli spuntava una corona anch’essa decorata e con un nodo celtico sopra la fronte. alla sua cinta era legato un falcetto d’oro e al suo fianco ribolliva un grande calderone al cui interno si poteva vedere quella che sembrava una carne stranamente invitate rispetto al solito.
Stava suonando un’arpa grande almeno due volte lui; quell’arpa fluttuava a mezz’aria e potevo distintamente vedere le corde muoversi singolarmente o in contemporanea componendo melodie pazzesche e bellissime. Lo riconobbi.
«Quello è Dagda? Tuo padre giusto?»
«Esattamente: lui è il più anziano dei Tuatha nonché il più potente. Vieni a conoscerlo»
Brigid mi condusse da Dagda che si stupì nel vedermi.
«Toh! Guarda chi c’è! Lug! Sei veramente tu! Ma come ti sei fatto grande bello di tuo bisnonno!»
Lug rimase immobile per un secondo poi chiese.
«Sono tuo nipote?»
Dagda annuì: «Alla lontana si: mio figlio Dian Chect è padre di tuo padre Cian; non sembra ma io ho più di quattrocento anni»
«Non l’avrei mai detto» disse Lug sedendosi assieme agli altri.
«Vorrei farti alcune domande»
«Parla figliolo»
«Cosa mi sai dire della profezia legata al mio futuro»
«Quella che predissi io stesso vorrai dire»
«Cosa?»
«Già; non ti stupire: tu sei destinato a grandi cose, forse diverrai persino re del nostro popolo un giorno non molto lontano. Ti dico solo che dovrai trovare un’oggetto che ti è destinato fin dalla nascita»
«Un’arma?» chiese Lug speranzoso.
«No, ti devi recare a sud, nel territorio della scogliera di Moer ho nascosto un’oggetto che tu troverai nel giro di una notte. Ti è destinato»
«Quando posso recarmi li?»
«Andrai domani, ti farai anche accompagnare da Brigid, a cui affido i miei più preziosi paramenti»
Dagda si portò le amani al capo e si staccò qualcosa dalle orecchie.
«Fanne buon uso»
«Perché a me padre? Sono potenti e sono destinati a te»
«Ma io posso concederteli, se li vorrai usare»
Brigid prese due piccole pietre rosse che teneva in mano il padre e le mise nalla sua tasca.
«Se li perdessi?»
«Non accadrà: i miraculous tornano sempre al loro portatore»
Brigid assent’ con il capo per poi incamminarsi verso un’alta dimora a nord-est della piazza.
«Aspettami!» le gridai per poi ringraziare Dagda che, sorridendomi, mi mise una mano sulla spalla.
«Ripongo moltissima fiducia in te ragazzo, mi raccomando rendimi fiero di aver te come discendente»
«Lo farò» dissi io per poi salutarlo formalmente e seguire Brigid.
 
La Scogliera di Moer era un’antica formazione rocciosa veramente magnifica che raggiungemmo in pochi giorni di cavalcati da Moy Tura: le pareti levigate e perfettamente verticali ricadevano a strapiombo nel mare e le acque sotto erano di un blu intensissimo e profondo.
«Cosa dovrei cercare?» chiesi a Brigid.
«Non saprei, direi di guardarti attorno e poi, quando ti sentirai attratto da qualcosa, prendilo.»
Iniziai a girovagare per la scogliera evitando crepacci e rocce sporgenti; finì per ritrovarmi da tutt’altra parte e inizia a non vedere più Brigid, l’avrei poi recuperata.
Camminai a lungo finché non udì uno strano rumore: davanti a me una strana creatura era appena sorta dalla roccia.
Aveva un corpo composto di pietra e estremamente robusto, testa ampia e zanne di cinghiale.
Ero completamente disarmato allora mi preparai a fronteggiarla apertamente ma la creatura sembrava molto più grossa, aggressiva e agguerrita di me.
Inizia a voltarmi in ogni direzione in cerca di un qualcosa che potesse salvarmi la vita; notai un luccichio tra due rocce e, con un salto, riuscì a raggiungerlo e lo raccolsi.
Un anello nero con l’impronta di un felino; preso dall’istinto infilai l’anello al medio e una fitta oscurità mi pervadeva mentre uno strano essere apparve al mio fianco.
«Bene bene bene… eccone un altro; inizio sinceramente a stufarmi di tutto questo»
Io rimasi immobile: lo spirito aveva una consistenza fumosa e grandi occhi verdi su un corpo minuto e nero, simil gatto.
«Chi sei?» gli chiesi.
«Non farti nessuna domanda» mi interruppe lui rapidamente «Ma dì semplicemente ‘Plagg trasformami’»
Io ero incerto.
«ORA!» gridò lo spirito emettendo un verso gutturale.
«Plagg, trasformami!» gridai e vidi lo spirito venir risucchiato dall’anello.
Mi ritrovai vestito con un’armatura nera e un elmo nero con decorazioni verde acido.
Estrassi un piccolo bastone e, appena ebbe premuto leggermente il manico lo sentii allungarsi diventando lungo almeno tre metri.
La creatura iniziò a ringhiare e ad avvicinarsi sempre di più spalancando le fauci.
«Affrontami mostro!» gridai io iniziando a correre verso di lui.
La bestia si sollevò su due zampe e roteò le zampe anteriori che erano diventate stranamente umanoidi.
Mi preparai a colpirlo con l’asta e riucii a centrargli l’occhio destro che scizzò via come un fulmine.
«Lug!» sentì gridare in lontananza.
«Sono qui Brigid! Vieni a darmi una mano con questo demone!» gridai io di risposta.
Vidi un lampo accecante e qualcuno apparve sul dorso della creatura colpendola con una piccola sfera legata ad una fune.
Ora Brigid indossava una gonna più corta e decorata a pois neri; il suo mantello era sparito e al so posto dalle sue spalle si spalancavano ampie ali trasparenti protette da elitre d’insetto. In mano teneva una strana arma: due dischetti uniti tra loro attraverso una lunghissima fune.
«Brigid?» le chiesi.
Lei si guardò gli abiti e sembrò apprezzare il cambiamento.
«Avevo visto solo mio padre nelle vesti di portatore… devo dire che io sto molto meglio» ridacchiò lei estraendo nuovamente la fune e colpendo la creatura con il corpo dell’arma.
«Cosa pensi che sia?» le chiesi.
«Boh, non ho mai visto nulla di simile»
Sentì una voce sussurrarmi qualcosa nell’orecchio.
Sollevai la mano al cielo e feci ciò che quella voce mi indicava di fare: pronunciai la parola: «Anachain!» e una strana energia iniziò a scorrermi dentro: appena sopra il palmo della mia mano ora danzava una sfera di energia oscura.
Chiusi rapidamente il palmo e lo riaprì: ora l’energia era distribuita su tutta la mano e mi pervadeva completamente.
Mi scagliai quindi verso il mostro e gli schiaffai la mano sul volto.
Il mostro iniziò a mugghiare e a sgretolarsi lentamente sotto la mia mano.
«Credo che abbiamo trovato ciò che mio padre ti ha detto di cercare» disse Brigid
«A quanto pare… torniamo a casa?»
«Si dai»
 
Mentre i due ragazi si allontanavano le ceneri si mossero e una figura apparve da esse.
«Credi che ce la faranno a scacciali?»
«Forse… stanno infestando quest’isola da troppo tempo»
«Come tutti, noi siamo i primi a riporre speranza in loro mia amata; Non temere, loro riusciranno ad allontanarli»
 
La piana era immensa e guarnita di persone: gli schieramenti erano stati distribuiti e il biondo sedicenne se ne stava a capo dell’esercito a cavallo di una magnifica giumenta color latte; al suo fianco la sua amata compagna impugnava una spada rossa a pois neri e suo padre, a sua volta, se ne stava al suo altro fianco cavalcando un gigantesco maiale.
«Pronto figlio mio?» gli chiese Cian quando fu tutto sistemato nello schieramento.
«Non vedremo mai più i Fomorian in quest’isola»
«Lo garantisco!» gridò la bellissima Eriu dall’alto della collina con il suo cavallo dal manto verdastro.
«Richiama le tue sorelle!» gridò poi a Brigid e lei suonò nel corno mentre due altre si avvicinavano a lei.
«Pronte?» chiese Brigid a due ragazze su cavalli neri che erano proprio dietro di lei.
«Ora» gridò una di loro ed estrasse un ciondolo che portava al collo che rappresentava un’ala nera; l’altra ne estrasse una identica e speculare; Brigid ne estrasse un’ultima, che invece rappresentava la testa di un corvo.
Dopo che ebbero unito i tre monili tre figure alate comparvero e le tre dissero all’unisono: «Ravv: trasformateci!»
I tre Kwami rientrarono nei Miraculous e le tre donne divennero ben diverse: i loro capelli si sciolsero, comparvero elmi neri e i loro mantelli si ricoprirono di piume di corvo.
Morrigan sollevò la spada nera e rossa e gridò con furia omicida: «MORTE!»
L’esercito avanziò con Lug e Morrigan in testa; ora Lug indossava l’elmo nero decorato con decorazioni celtiche di un verde chiaro che formavano il volto di un gatto; con un rapido colpo il bastone fece apparire due lame ai lati mentre nell’altra mano la sua lancia infallibile brillava di una luce gloriosa.
Dagda non combatteva con alcun cavallo; si muoveva con salti quasi inumani tra uno schieramento e l’altro falcidiando chiunque incontrasse colpendoli o con lo yoyo o con un piccolo bastone di legno utilizzando la metà scorticata e pallida nello schieramento opposto e quella ricoperta di tralci e foglie nello schieramento dei Tuatha.
Il suo mantello rosso a pois neri lo faceva apparire come una sorta di coccinella incappucciata omicida che si bagnava nel sangue delle sue vittime per assumerne il colore. Nuada intanto faceva roteare una trottolagigantesca decapitando più fomorian possibili con la sua spada dalla lama nera e gialla; la sua chioma nera volteggiava sotto l’elmo d’ape e ad un certo punto si sollevò da terra volando come un insetto mentre bersagliava gli sfortunati sotto di lui con sciami di pungiglioni dal veleno mortale.
Balor era li in mezzo: immenso e spaventoso: la barba biancastra sporca di sangue e l’elmo che copriva l’occhio emanava un’aura di terrore. Brandiva una spada gigantesca che avrebbe potuto spiaccicare Lug in un solo colpo; ma il ragazzo spronò la sua giumenta verso il mostruoso nonno e, appena ebbe preso la mira, si preparò a scagliare la lancia contro lo sterno del capo dei Fomorian quando questi si tolse l’elmo e iniziò lentamente ad aprire la palpebra: una luce accecante investì coloro che aveva di fronte e Lug lo colpì appena in tempo: la lama penetrò il suo sterno e il sangue sprizzò come in una fontana inondando coloro che avevano subito il suo sguardo; Lu si allontanò il più possibile e fece appena in tempo a recuperare il corpo di Nuada,c he era caduto sotto lo sguardo del nonno.
Lug sedeva ora sul suo trono, era stato eletto democraticamente dal popolo che lo aveva designato come successore di Nuada e Brigid ne era felice; il giorno dopo si sarebbe celebrato il matrimonio tra loro due.
 
 
Dovute spiegazioni
Rieccomi, dopo un’assenza imperdonabile (infatti mi faccio perdonare con una doppia pubblicazione: sono un genio!) vi chiedo comunque di perdonarmi e spero che abbiate apprezzato questo mio nuovo racconto ambientato molto più a nord dell’ultima volta.
Ovviamente il miraculous del gatto nero non è passato subito da Bast a Lug nel giro di pochi minuti; quest’ultimo è vissuto parecchio tempo dopo di lei e se dovessi dirvi tutti i portatori che ci possono essere stati nel corso di diecimila anni… non finiremmo mai più e allo stesso tempo vi potrei spoilerare cose che vanno ad aggiungersi nel corso del mio ciclo.
L’Irlanda (Eriu in gaelico) è una terra densa di magia, ricca di miti, di leggende, di poteri, di oggetti magici e di molte divinità (non sapete quanto sia difficile organizzare il pantheon celtico… almeno in questo caso posso dirvi che questi qui erano certamente dei... anche se con i Tuatha non si può mai sapere) ed era perciò ovvio che almeno una ventina di Miraculous fossero finiti qui.
Avrei potuto parlarvi di altri personaggi come Cuchulainn o simili, ma ho pensato che la battaglia di Moy Tura, l’epica battaglia tra le forze del caos e quelle dell’ordine in stile titanomachia rendesse molto di più: è giusto che si comprendi il messaggio che traspare dall’opera.
Quanto ai personaggi: Lug era destinato palesemente a portare il miraculous del gatto nero: un condottiero come lui era sicuramente adatto a portare il miraculous della distruzione e non ho avuto problemi a consegnarglielo.
Se mi volete fare qualche domanda riguardante il demone, il Padre e la Madre, le varie entità del mondo e simili chiedetemi pure.
 
 
 
 
 
 
 
  
 

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Capitolo 4
*** Età del Bronzo (1235 a.C.) IL LEONE NERO, LA REGINA ARMATA E LA DONNA PAVONE ***


Il Leone Nero, la Regina Armata e la Donna Pavone
 
“Quell’uomo è un pazzo”
Così pensava tra sé e sé conducendo gli animali per le quattro briglie.
“come può nutrire queste cavalle con carne umana? È follia!”
I suoi uomini cercavano di stare il più lontano possibile dalle creature che mordevano e scaciavano da quando erano partiti dalle loro stalle: i loro denti erano insolitamente appuntiti e i loro occhi color del vino.
«Zio? Ma cosa diavolo ce ne faremo poi?» gli chiese Iolao.
«Boh, non saprei… spero che non le volgia tenere come animale da cortile come per la cerva che poi è scappata»
«Se lo meritava, l’ira di Artemide è implacabile»
«Almeno spero che queste le uccida non può farne altrimenti: come animali domestici sarebbero pessimi»
«Potrebbe usarle come armi di distruzione di massa»
«Nah! Troppo oneroso, dovrebbe recuperarsene anche delle altre»
«Basterebbe prendere delle cavalle normali e contrinuarle a nutrirle con carne umana e sangue e poi, magari…»
«Queste giumente non sono comuni: guarda i loro occhi e i loro denti, sono palesemente discendenti di qualche bestia mostruosa… forse Arione»
«Il cavallo più veloce del mondo?»
«Una volta l’ho incontrato, mi ha praticamente fatto una pernacchia… ah già, non è un cavallo, è un tizio che si spaccia per cavallo»
«Tu guarda la follia della gente»
Eracle si guardò intorno iniziando a riconoscere le montagne attorno a Micene.
«Siamo quasi arrivati, dopo questa fatica me ne mancano ancora… quattro! E poi via dalle scatole!»
«Ma non erano dieci?»
«Euristeo me ne ha aggiunte due perché dice che: “non puoi farti aiutare da un tizio pescato nella campagna a tagliare le teste del serpente immortale che esala veleno e deviare il corso di due fiumi per pulire le stalle di Augia: il lavoro l’hanno fatto i fiumi, non te!”» e disse ciò mimando la voce nasale e insopportabile del re.
«Prima o poi lo trasformo in una tavola di compensato»
«Non è il caso, la sua amicona potrebbe vendicarsi»
«Non me ne parlare, da quando ha scoperto che il suo maritino adorato è andato a letto con una regina mortale ha iniziato a dare di matto: ti rendi conto che mi ha instillato la follia e mi ha costretto ad uccidere i miei figli e mia moglie?»
«E se non fosse veramente una dea?»
«Non penso, è davvero immortale: da quando l’ho visto l’ultima volta non è cambiata di una virgola: stessi capelli neri, stessa corona in piume di pavone, stesso odioso mantello e stessa insopportabile tunica verde… talvolta spero che muoia inciampando in una buccia di melograno!»
«Almeno tuo padre è sempre stato una brava persona… nei suoi limiti»
«Si dai, viene sempre a regalarmi uqalcosa per il compleano e si ricorda di inviarmi qualcuno in aiuto quando la situazione si fa disperata. Lui è apposto… è lei il problema!»
«Che ci vuoi fare, le matrigne sono sempre così: scoprono che il loro compagno se la fa con qualcun’altra e piuttosto che incenerire l’amante aspettano che ne nascaun figlio e lo perseguitano ficnhé crepa»
 
Eracle entrò nel palazzo con le cavalle ancora abbastanza affamate.
«Buone, che se ho fortuna riesco a darvi Euristeo in pasto»
I quattro animali sembrarono calmarsi un pochino, probabilmente allettate da un pasto delizioso.
Eracle entrò nella sala del trono dove il re, sdraiato comodamente sul trono, stava mangiando un po’ di uva e beveva vino da un cratere.
«Ah eccoti… non ti hanno ancora mangiato le giumente di DiomedeEEEEE!!!» Euristeo fece un balzo improviso e fuggì dietro il trono appena vide i quattro animali che, appena videro quella specie di prosciutto umano, iniziarono a scalpitare e a nitrire come se avessero visto il più bello degli stalloni in circolazione.
«Tienimele lontane!» gridò EUristeo da dietro il trono.
Eracle legò la fune ad uan colonna con triplo nodo (la sicurezza prima di tutto) e si diresse silenziosamente verso Euristeo.
«Non ti preoccupare, finché le tengo lontane non ti faranno nulla»
«Lo spero bene, brutto zoticone!» gridò lui da dentro la giara in cui si nascondeva ogni volta che Eralce portava dentro qualcosa che superasse le dimensioni di un Coker Spaniel.
«Le ho viste; ora portale via!»
«E che diavolo me ne devo fare allora?»
«Non lo so: sacrificale a tuo padre, introducile in un circo, falle andare libere per la campagna: l’importante è che siano FUORI DAI PIEDI!»
«Pff!»
«Come?»
«Nulla sua grande larghezza!»
«Cosa?»
«Grandezza, mio re, grandezza!»
«Ah ecco!»
 
Eracle si avviò mestamente con le giumente lungo la strada che da Micene portava alle campagne; calpestò i resti del pranzo di un cane e bestemmiò.
«Perché me ne dovrei occupare io?»
«Forse perché è tua la responsabilità» gli disse una voce alle sue spalle.
Eralce si voltò e vide suo padre: Zeus, tranquillamente seduto sulla roccia che spuntava a lato del sentiero.
Zeus aveva l’aspetto di un trentottenne: gli occhi gialli, come quelli delle acquile, ne risaltavano l’aspetto divino: indossava perennemente la corona con simbolo dell’aquila che gli conferiva immortalità, potere e quelle magnifiche e ampie ali tra le cui piume correvano sottili fili d’elettricità.
I capelli e la barba erano ricci e scuri e lasciati sciolti; il fisico prestante era coperto parzialmente dalla tunica rossa che lasciava scoperto metà del petto e il braccio sinistro.
«Padre; cosa mi consigli di fare?»
«Liberale»
«Ma i civili?»
«Sono cavalle, odiano nutrirsi di carne umana, sono state nutrite con quel cibo ma ciò non significa che, nel giro di poche ore non tornino ad apprezzare e piante.»
Eracle fu persuaso in questo modo a liberare le cavalle e Zeus gli si avvicinò con un battito di ali.
«Tra poco questo supplizio finirà e potrai entrare a far parte degli Olimpi; potrai mantenere il tuo anello per sempre»
«Ma come fate voi a non impazzire: avete rinunciato alle vostre identità pur di rimanere sempre sotto l’influenza dei Kwami! Perché?»
«Quesot mondo ha bisogno di qualcuno che lo possa controllare e proteggere»
«Ma voi non siete dei, vi credono dei da oltre duemila anni ma non lo siete veramente»
«Chiunque, se esercita potere, può essere un dio; anche tu lo sarai, se vorrai.»
«Grazie padre»
«Grazie a te figliolo. Ora torna da Euristeo»
 
Eracle rincasò di malumore e, appena fu entrato nella sala del trono, Euristeo spuntò fuori dalla giara.
«Se ne sono andate?»
«Già»
«Perfetto, ora dovresti fare altre quattro prove poi io e te non ci vedremo mai più»
«Lo spero»
«Ora fammi pensare… di cosa potrei aver bisogno… non ne ho la minima idea per ora, dammi due giorni e ti farò sapere la tua prossima mission…»
Il cianciare di Euristeo fu interrotto dall’ingresso di una ragazzina sui tredici anni vestita in modo elegante.
«Papà! Stasera vado all’Agorà a sparlare delle persone con le mie amiche, visto che dopodomani e è il mio compleanno, portami il cinto di Ippolita! Starebbe benissimo con il peplo che mi ha regalato la zia Medusa »
«Si luce della mia vita!» le gridò Euristeo contento di aver trovato il prossimo compito per quell’ingrato di Eracle.
«Bene ragazzo mio, se non ti dispiace: recati nel Ponto, sulle coste meridionali del Mar Nero, nel territorio delle Amzzoni e, se sarai costretto, fa si che la regina Ippolita ti consegni il cinto»
«Cosa? Ma quella la sono delle misogine al contrario! Mi colpiranno a vista!»
«Tu fai ciò che puoi fare: non sei Eracle? Il più grande eroe mai esistito? Il flagello dell’Idra e lo scuoiatore del Leone Nemeo? Non sei forse il figlio di Zeus di cui ognuno conosce le gesta? Fatti valere o rimarrai un fallito»
Eracle uscì con un mezzo ringhio e si diresse verso la scorta che si era portato dietro per andare in Tracia a recuperare le cavalle di quel dannato figlio di Ares.
«Voi là!»
«Si?»
«Andiamo nel Ponto? Vi va divenire?»
«Ma si dai, il mare in questo periodo è bello!»
«La regione deficienti, non il nome greco per ‘flutto’»
«Ah! E a fare cosa?»
«Andremo a trovare delle bellissime donne che saranno subito molto disponibili con noi per…»
«VENIAMO SUBITO!»
Eracle se lo aspettava: non era stupido e sapeva come blandire quel branco di deficienti arrapati.
«Allora vogliamo andare?» chiese quindi.
«Subitissimo!» gridarono in coro correndo verso i loro cavalli e sellandoli.
«Procuratemi una barca, non voglio farmi tutta la strada a piedi: il Mar Nero è largo»
«Subito capo!» gridò di rimando Iolao che stava già correndo verso il primo porto.
 
La triremi solcava il mare calmo e placido… strano, normalmente ogni volta che si metteva in viaggio doveva affrontare altri casini collaterali anche sul tragitto.
«Allora andiamo nel Ponto eh? Che raza di gente ci abita li?»
«Beh: ci sono vari popoli, varie culture, varie donne guerriere che odiano l’uomo»
«Ma di quelle non dobbiamo preoccuparci eh? Dopotutto hai parlato di donne bellissime pronte a concederci a noi appena sbarcheremo»
«Cosa? Non ho mai detto questo!
«Ma l’hai lasciato intendere…»
«Oppure siete voi che avete solo un pensiero in mente e non fate altro che cogliere le occasioni e i doppi sensi trovabili eh? No: non andiamo dalla discendenza di Afrodite, andiamo dalle Amazoni!»
«Ammutiniamo!»
Eracle fu più rapido: strinse il pugno e la sua armatura divenne nera, gli apparve una lancia di ferro in mano in aggiunta alla solita clava e, all’insaputa di tutti, sotto il cappuccio ricavata dalla pelle del leone gigantesco che aveva affrontato come sua prima fatica, due piccole orecchie di gatto.
«Stavate dicendo?»
«Nulla, nulla! Veniamo con te!»
«Bravi»
La mutazione si annullò e le sue vesti ritornarono come la solita armatura di bronzo. 
«ora iniziate a pescare, non vogliamo morire di fame lungo il tragitto»
«Sarebbe proprio il colmo» ghignò Iolao mentre immergeva le reti «Abbiamo affrontato le peggiori creature esistenti… ti ricordi di quella volta che ci siamo trovati a dover combattere contro i centauri dopo che ci hanno offerto da bere? Come se non sapessimo già che non reggono mai l’alcol…povero Folo, mi stava simpatico»
 
Parlarono per qualche ora del più e del meno osservando il mare e direzionando la triremi; la corrente li direzionava proprio verso il Ponto e non c’era nemmeno bisogno di remare… Fortuna?
Si trovavano ormai nelle vicinanze delle coste del Ponto quando la nave si incagliò in un banco di sabbia.
«Maledizione! Proprio ora?»
Uno dei marinai propose: «Vado a vedere se posso fare qualcosa?»
«Guarda se riesci a chiedere aiuto all’isola» ordinò Eracle indicando la striscia di terra a poche centinaia di metri.
Lui e altri due si getarono in mare e nuotarono con foga verso la costa.
Non tornarono più.
Eracle e il resto dell’equipaggio scese dalla nave e seguì la direzione presa dai compagni; quando raggiunsero l’isola la trovarono disabitata.
«C’è qualcosa che non va… troppo silenzio» mormorò sommessamente Eracle mentre camminava nel bosco con gli altri.
«Guardate dove mettete i piedi, potrebbe essere piena di trappole e non ce ne accorgeremmo nemmeno»
Un aculeo acuminato volò a pochi milimetri dal naso di Eracle sparendo nel fogliame di un cespuglio.
Eracle attivò la trasformazione e si preparò con la lancia puntata e la clava sollevata.
«Chi va la!» gridò
Due rami si scostarono e una creatura enorme fece la sua comparsa: aveva il corpo di una specie di draconico leone, con squame verdastre e artigli intrisi di veleno gocciolante; la coda era munita di una punta da scorpione e un busto di donna era esposto e sovrastato dal volto di una bellissima ragazza incorniciata da un covo di serpi verdastre; alle sue spalle spuntavano le ampie ali di un corvo e gli occhi parevano emanare una rabbia incontrollata.
«Tu cosa diavolo sei?» le chiese.
Una sola parola sussurrata tra i denti come il sibilo del più grosso dei serpenti esistenti: “Kampe!”
La terra tremò ad ogni passo che faceva per avvicinarsi; la sua coda colpì un tronco con uno dei suoi aculei e la creatura materializzò un tridente lungo diversi metri dal nulla.
«Aspetta… intendi la custode del Tartaro? Non fosti ucisa da mio padre quando liberò i Ciclopi e gli Ecatonchiri per distruggere i Titani?»
«I mostri rinascono sempre» sibilò lei con veemenza mentre iniziava a colpire l’aria a destra e a manca con il mostruoso tridente.
«Che poi: perché un Tridente? Non è il simbolo di Poseidone? Tu cosa diavolo dovresti centrare con lui?»
«Semplice coincidenza» ringhiò lei inarcando il dorso ponendosi al suo livello.
«Facciamo così figlio di Zeus: io ti affronterò nel mio covo, dove sarò avvantaggiata così potrai anche vedere la morte dei tuoi compagni che ho catturato e delle mie altre vittime!»
«D’accordo mostro, guidami alla tua dimora»
 
Kampe condusse Eracle in una caverna che sprofondava per decine di metri nella terra; ad un certo punto Eracle iniziò a temere che li stesse portando nel tartaro.
Giunsero in una vasta camera circolare dove numerosi massi erano accatastati e, qua e la, teschi di vario genere: da vacche a capre passando per montoni e leoni arrivando a uomini e giganti. Li c’era praticamente di tutto.
In un angolo se ne stava un gruppo di persone rannicchiate e spaventate: i suoi tre compagni lo guardarono con fare supplichevole mentre dall’altra parte alcune donne se ne stavano tristemente in disparte, forse pronte per attendere la loro fine.
Al centro del gruppo di ragazze una in particolare attirò l’attenzione di Eracle: alta e bella: aveva lineamentinon troppo duri e aggraziati, una chioma corvina tenuta indietro da una corona con guanciali di ferro che andava a simulare la parte anteriore di un elmo.
La ragazza aveva un sorriso a metà tra il rassegnato e l’ironico, come se attendesse l’ironia della sorte.
 «Dunque figlio di Zeus: sei pronto a raggiungere tuo zio Ade?» ringhiò Kampe mostrando i denti affilatissimi.
«Mai stato più pronto» disse spavaldamente l’eroe impugnando la lancia e estraendo la clava.
«Non direi proprio, combatterai con una sola arma! Precisò lei.
«Ma tu usi sia il pungiglione che il tridente… non vale!»
«Sai che forse hai ragione: sarò leale: non utilizzerò il mio aculeo»
«Almeno sei giusta nelle tue azioni; vediamo se lo sarai anche nello scontro!»
Eracle caricò e si gettò verso Kampe impugnando la lancia sopra il suo capo; la bestia si sollevò sulle zampe anteriori e menò un fendente nella sua direzione mentre,d ietro di lui, sentì alcune ragazze sospirare d’invidia e di ammirazione (1).
Eracle scattò di lato pronto a colpirla alle spalle ma la bestia era molto più veloce: schizzò come una saetta verdastra nella sua direzione e menò un altro fendente nella sua direzione.
Eracle colpì il fianco di Kampe con la lancia ma ciò non scompose la bestia che, animata da una nuova rabbia, si gettò verso di lui con furia omicida
Eracle si preparò a parare il medesimo fendente maun colpò ben attestato lo fece volare per circa sei metri; si schiantò contro la parete ma riuscì a recuperare rapidamente: corse velocissimo verso l’avversaria e la colpì al ventre perforandole l’ombelico con la lancia; dopodiché effettuò uno squarcio verso l’alto: l’intestino iniziò a ricadere fuori seguito da altri organi e un mare di sangue.
Lei fu presa da una rabbia disperata e tentò di colpire nel modo più mortale possibile l’eroe: estrasse il pungiglione e iniziò a bersagliarlo di pungiglioni.
«Avevi detto di essere leale!» gridò Eralce per poi aggiungere: «Se è così che la metti: è giusto che non sia nemmeno io quello leale» detto ciò raccolse la calva da terra e, con un balzo straordinario la sbatté sul cranio di Kampe riducendogli la testa ad un cumulo di carne e ossa indistinto; i capelli serpentini morirono sul colpo non avendo nemmeno il tempo di mordere l’eroe.
Il gruppo di compagni gli corse incontro festeggiando e gridando come degli ossessi.
«Ben fatto Eracle: sei riuscito ad uccidere un mostro primordiale di quella potenza»
Ma Eracle non li stava ascoltando e stava osservando le ragazze e quella che era probabilmente il loro capo: la giovane con l’elmo-corona.
«Quest’uomo ha detto Eracle?» gli chiese lei.
«Si, il mio nome è questo; con chi ho il piacere di parlare?»
«Sei al cospetto di Ippolita: regina delle Amazoni»
Eracle si inchinò ma la ragazza gli fece segno di rialzarsi.
«Dovrei essere io ad inchinarmi: oltre ad averci salvato la vita attendevamo tutte che tu arrivassi nella nostra terra: per noi non sei un uomo comune: sei un modello da imitare e una fonte d’ispirazione»
«Ah beh… lusingato…» farfugliò lui a disagio mentre uno dei soi compagni gli batteva una mano sulla spalla.
«Venivamo proprio da voi; come siete finite su quest’isola?»
«Avremmo dovuto esplorarla per fondarci una colonia; purtroppo siamo incappate in Kampe e non siamo riuscite a difenderci»
«Capisco»
«Ma ora non è il momento di cincischiare: siete invitati alla mia corte per questo e per altri giorni: saremo felicissime di ospitarvi»
Mentre si allontanavano dall’isola a bordo della loro nave, Eracle non riusciva ancora a credere di essere così ben accetto da un popolo che era famoso per impalare gli uomini all’ingresso della sua città principale.
Appena furono sbarcati sulla costa del Ponto giunse un gruppo di ragazze e donne a cavallo, in testa Eracle vide una ragazza che, per l’aspetto, assomigliava un po’ troppo a Ippolita.
«Sorella! Stai bene?» le chiese questa.
«Tranquilla Pentesilea, per fortuna sono capitati da queste parte Eracle e i suoi e ci hanno salvato all’ultimo minuto»
Pentiselea osservò l’equipaggio e vide il maestoso eroe avvolto nella pelle di leone.
«Grazie figlio di Zeus, ti siamo debitori per ciò che hai fatto per noi e per la nostra regina.»
«Infatti li ho invitati a pranzo e a cena e potranno restare per quanti giorni vorranno» aggiunse Ippolita interrompendola.
«L’avrei fatto anche io» acconsentì fieramente Pentiselea facendo segno all’equipaggio di scendere.
 
La città delle Amazoni era magnifica e ampia: un palazzo maestoso si stagliava al so centro, in un punto rialzato, e attorno si sviluppavano case, punti di commercio e luoghi simili.
Gli abitanti erano comunque tutte donne che guardavano l’equipaggio con un misto di odio e desiderio… probabilmente non vedevano uomini da molto tempo.
«Ma come fanno a mandare avanti questo popolo?» chiese Iolao accostandosi ad Eracle.
«Non è difficile da capire: se trovano qualche uomo particolarmente apprezzabile… tentano di portarselo a letto il prima possibile; è selezione naturale»
«Se nasce un maschio?»
«O lo abbandonano o lo ammazzano»
«E quella storia delle mammelle tranciate per tirare con l’arco è una bufala da quello che vedo… ma non credono nelle unioni sociali giusto?»
«Le trovano inutili e si considerano comunque il gene dominante»
Appena giunsero nella piazza centrale videro la tavolata; le Amazzoni avevano già preparato il tutto per un pranzo magnifico a cui Eracle e company presero subito parte: le migliori musiciste e cantanti si esibirono in presenza degli uomini e questi apprezzarono e lodarono l’ottimo trattamento.
«Ora dimmi Eracle, c’è una cosa che vorrei chiederti da quando sei arrivato ed è giunto il momento perfetto: perché sei giunto alla nostra corte?»
«Sai che sto compiendo dodici imprese per espiare una mia colpa giusto?»
«Si»
«Sono giunta alla mia nona e, Euristeo, mio cugino, quella specie di foca monaca ingioiellata, ha intenzione di regalare il tuo cinto a sua figlia Admeta; mi rincresce chiederti una cosa così grandi ma farò in modo che torni da te il prima possibile»
«Sarà fatto» disse lei.
Ippolita si portò le mani alla vita e pose le mani sugli orli della cinta liberandola e porgendogliela.
«Promettimi che la riporterai appena ti sarà possibile»
«Se mai morirò prima la prima cosa che farò è chiedere a qualche mio figlio o amico di fiducia di andare a rubarla e riportartela per conto mio! Lo giuro sollo Stige»
«Se è così che la metti: accetto volentieri; in più il diritto dell’ospitalità va onorato»
 
Eracle e Ippolita continuarono a parlare per tutto il banchetto e durante il pomeriggio passeggiarono per il paese finendo inevitabilmente per flirtare.
Eracle era ammaliato dalla bellezza di Ippolita e era incantato dal so modo di fare così atipico per le donne a cui era abituato: era sicura di se, forte, decisa, autorevole ma non autoritaria ed era inoltre sarcastica come un pezzo di carta vetrata… la amava!
Eracle era pronto a dichiararle eterno amore e, sembrava, che anche Ippolita fosse parecchio interessata a lui: la sua fama lo precedeva e non gli rendeva nemmeno giustizia… non avrebbe avuto alcuna esitazione a partorire i suoi bambini.
Tra le Amazzoni però qualcuno li stava osservando e no, non era un’amazzone.
Non le era servito molto: gli bastava togliere il miraculous, indossare un’armatura e spacciarsi per un’amazzone; non ci voleva nessun genio.
Era era li, in mezzo a tutti e pronta a seminare zizzania.
Aveva perseguitato Eracle in tutte le sue imprese: l’aveva fatto impazzire portandolo ad uccidere sua moglie Megara e i figlioletti, aveva inviato lei il Leone Nemeo a devastare la zona omonima, aveva spedito lei il Carcino, il granchio divino, ad aiutare l’idra; aveva indotto lei a ubriacare i centauri e aveva fatto altre nefandezze contro il suo odiato figliastro.
Era iniziò quindi a parlare con altre Amazzoni e iniziò a insinuare in loro il sospetto: Eracle e Ippolita erano un po’ troppo vicini e Eracle non era che un uomo guidato da doppi fini; sicuramente la sua vera intenzione era rapire la regina, farla sua e scatenare una guerra tra la Grecia e le Amazzoni… tipo Elena con la guerra di Troia.
Le Amazzoni iniziaorno così a incupirsi e a sospettare di Eracle finché, ad un certo punto della serata, quando era giunto quasi il momento di ritirarsi a letto (Eracle non vedeva l’ora in cuor suo) Pentilesea salì in piedi sul tavolo e sguainò la spada contro l’eroe.
«Tu non vai da nessuna parte con la nostra regina! Sappiamo cos’hai intenzione di fare maledetto!»
«Oh beh, non credevo che prendeste così tanto sul serio il discorso…»
«Non intendo quello idiota! La vuoi rapire e vuoi scatenare una guerra tra i nostri popoli portando spargimenti di sangue inutili!»
«È davvero così?» gli chiese interrogativa Ippolita.
«Ma secondo te? Perché mai dovrei farlo? Io ed Euristeo non abbiamo nemmeno un rapporto di padrone-servitore pari… è lui che si spaventa per me… perché dovrei allearmi con lui per rovesciare un popolo che mi ha accolto e mi ha concesso ciò che mi serviva in modo così pacato!»
«Noi non ti crediamo: molte di noi suggeriscono questo e siamo in maggioranza rispetto ai tuoi uomini: preparati allo scontro!»
Ippolita fece un rapido gesto e una cavalla grigia galoppò al suo fianco; le saltò in groppa e una luce rossastra la illuminò mutandola considerevolmente: ora la sua veste non era più candida e celeste ma rossa a pois neri: al suo braccio ora era legato uno scudo con quattro dischi neri su sfondo rosso, al suo fianco era legato un piccolo disco appeso ad una corda. Fece un gesto rapido e una lancia schizzò dall’armeria volandogli in mano.
«Combatterò con te Eracle, ho ora compresoche il mio popolo preferisce seguire mia sorella e non me»
Detto ciò iniziò a roteare la corda e a colpire le Amazzoni davanti a se con il disco; molte furono sbalzate indietro e i cavalli su cui erano montate si lanciaorno alla carica.
Lo scontro fu sanguinoso e crudele: Eracle volteggiava roteando la lancia evitando comunque di spargere meno sangue possibile; purtroppo la lancia aveva la punta e la punta poteva creare ferite anche gravi.
Ippolita sollevò la mano e gridò: “Tyke Araomai!” e una fortissima luce inondò il cielo facendo apparire un’arco e una faretra dal nulla.
Ippolita incoccò i dardi e iniziò a scagliarli contro le amazzoni  ma una di queste colpì la sua cavalla al fiano facendola cadere; Ippolita ricadde al suolo rotolando tra la polvere; Eracle riuscì a parare una freccia diretta al suo viso con la sua clava.
«Mia signora, sono troppo forti… le hai addestrate bene vedo!»
«Grazie, tutto merito di mio padre Ares»
«È sempre stato un maniaco dell’arte bellica»
Si misero schiena contro schiena, lei dardeggiava con le sue frecce mentre lui menava fendenti con la lancia e colpiva più amazzoni possibili con la clava.
«Mi spiace averti messo in questa situazione»
«La colpa non è tua… la colpa è di Era»
«Come lo sai?»
«Io conoscono ognuna delle mie suddite e quella che sta guidando quel piccolo gurppo li non riesco a riconoscerla; ho fatto solo due più due»
Eracle guardò meglio il viso dell’amazzone che stava guidando un piccolo battaglione contro Iolao; il volto, i lineamenti, gli occhi… era palesemente Era.
«Appena finisce tuto ciò se la vedrà con me»
«E con me»
«Vieni con me, saresti felice al mio fianco: combatteresti in giro per il mondo e compirai imprese per le quali verrai ricordata… e sarai al mio fianco»
«Lo farò, è certo… credo di amart…»
Le sue parole furono bloccate da un suono gutturale: una freccia si era appena conficcata all’altezza del seno e aveva penetrato la carne e l’osso.
«Eracle si voltò» il più rapidamente possibile verso colei che aveva scagliato l’incantesimo: Un’amazzone che sembrava animata dalla follia più pura che iniziò a sbeffeggiarlo.
«Ora che ho ucciso la nostra regina! Cosa farai? Mi ucciderai? O vuoi fuggire da codardo?»
Eracle prese fiato, prese una rincorsa e, mentre correva nella sua direzione, allungò il braccio davanti a sé gridando: «Kataklusmos!!!» e la sfera nera comparve davanti al suo palmo per poi essere distrutta dalle sue dita.
Abbatté la sua mano sul ventre dell’Amazone, che, incredula per il potere che aveva sprigionato e per la velocità che aveva acquisito, non riuscì nemmeno a rendersi conto della morte imminente.
 
«Ben fatto eroe: hai portato alla morte molte persone con questa tua azione!»
Era era li, in mezzo alla spiaggia e avvolta nelle sue vesti verdi e azzurre, con quell’odiosa coda di pavone che le spuntava da dietro la schiena.
«Spero che tu sia soddisfatta vecchia megera!» gridò di rimando Eracle, furibondo per la perdita.
«Era il minimo mio caro… quanto a lei, la sua anima sarà accolta nei campi elisi»
«Lo spero bene… anche perché se non succederà sarò io stesso a costringere Ade e i tre giudici infernali a rivedere e loro priorità»
«Non temere, vi ricongiungerete quando anche tu morirai»
«Ma Zeus dice che…»
«ZEUS DICE CHE UN CORNO! Finché non sarò anche io d’accordo sulla tua divinizzazione, cosa che non accadrà neanche quando sarò una vecchia di settantamila milioni di anni, tu non entrerai mai a far parte delle nostre schiere…ah già, un’ultima cosa: la prossima fatica sarà lunga e difficile; ti consiglio di prepararti ad affrontare ciò che non credevi di vedere nella tua esistenza»
Era sparì in uno sbuffo di nubi vaporose.
«Maledetta!» gridò lei inveendo contro il cielo.
Le ultime amazzoni rimaste erano attonite e disperate; aiutarono Eracle a seppellire il corpo esangue di Ippolita e fu lui stesso a versare le lacrime più pure… alcuni sostengono che fu quello il primo momento in cui il grande eroe pianse. O forse fu l’ultimo poiché aveva terminato le lacrime.
 
«Spero che Admeta sia felice di ciò che ha causato: innumerevoli morti… tra cui la regina stessa»
Queste furono le ultime parole di Eracle, in lacrime, quando sbatté la cintura della sua amante più sincera sul tavolo da pranzo di Euristeo.
 
(1): episodio ‘le Origini – parte 1’: la scena presentata nel vaso è praticamente la stessa.
 
 
Buondì
Come promesso: la doppia pubblicazione ve la siete meritata.
Abbiamo affrontato una cultura a noi molto più vicina e più conosciuta: una cultura con un personaggio che, se siete cresciuti a pane e film della Dinsey avete imparato ad amare.
Eracle/Herakles-Ercole/Hercules… grand’uomo.
Ippolita e Ercole sono stati effettivamente confermati come personaggi del passato di Miraculous: lo stesso Eracle compare in un vaso mostratoci dalla spiegazione di Nooroo mentre combatte con un mostro abbastanza difficile da riconoscere. Ho scelto Kampe perché sembra quella più probabile viste le somiglianze (sicuramente non era Medusa) ma, in ogni caso, Eracle non ha mai affrontato Kampe visto che, nel mito, lei viene uccisa da Zeus in persona.
Ippolita e Eracle sono una coppia bellissima, sia nel mito vero che nelle fanart su google (sono troppo adorabili, mi sono ispirato spesso a quelle fanart per questa storia) e li vedo un po’ come gli Adrien-Marinette del III millennio avanti Cristo.
Vi ho promesso il romanticismo? Eccovelo! E devo anche dire che sono soddisfatto di come sia venuto. In caso recensite in molti su questo versante.
Si è anche svelato il fattore divergente tra gli dei Egizi, dipendenti da una sfera maggggica e potentissima, e gli dei Olimpici, che non si tolgono mai i Miraculous arrivando a perdere la loro antica identità assumendone così quella di portator-difensori del mondo-branco di idioti pusillanimi che da mille anni non fanno altro che stuzzicarsi a vicenda.
Il bello di questa serie di oneshot (seppur collegate tra loro) è proprio il fatto che esploriamo il mondo attorno ai Miraculous… non è estasiante!
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Capitolo 5
*** Età del Ferro (1001 a.C. circa) L'ASSASSINO DI FUOCO, IL GRIGIO CUSTODE DI ANIME E L'ANELLO SENZIENTE ***


L’ASSASSINO DI FUOCO, IL GRIGIO CUSTODE DI ANIME E L’ANELLO SENZIENTE
 
Non ero pentito per ciò che avevo fatto.
Finché non l’avessero scoperto, io ero al sicuro e potevo vivere tranquillamente.
Certo, quando la punta ha trapassato il bimbo prediletto del generale questo si è arrabbiato parecchio e ha manipolato uno dei suoi figli per ucciderne un altro… povero Hodr: mi stava simpatico.
E mentre Vali aveva appena ucciso Hodr noi ce n’eravamo andati dalla cittadella per levarci tutto dalla testa.
Il monocolo era ancora abbastanza arrabbiato per l’avvenuto incidente (come no!) ed era di pessimo umore fin alla partenza.
Avevamo vagabondato per gran parte dei territori che conoscevo prima di toglierci l’avvenimento dal pensiero: ora ci trovavamo nella parte meridionale della penisola; in quella regione conosciuta come Svezia.
 Camminavamo attraverso un fitto bosco di latifoglie: l’estate era ormai inoltrata e il cado sole filtrava tra le foglie creando magifici giochi di luce.
Eravamo in tre, io, il generale e l’Orso.
Mi chinai tastando il suolo; percepivo del calore termico e sentivo che apparteneva a un piccolo mammifero… forse una donnola o un ermellino.
«Cosa senti?» mi chiese Thor.
«Lontra penso… di media taglia, ha una buona pelliccia… facilmente vendibile per un prezzo elevato»
«E questo l’hai capito solo dal suolo?» mi chiese l’Orso.
«No, dai peli che si lascia dietro»
Il viandante annuì con la testa mentre osservava il suolo da sotto il largo cappello che gli copriva parte del volto lasciando intravedere solo il luccichio malizioso dell’occhio sinistro.
Il vecchio disse quindi: «Qui vicino c’è un fiume, probabilmente è li che è andata»
«Con molta probabilità; forse avremo fortuna e riusciremo a catturarla»
«Ci spero, dobbiamo recuperare un po’ di soldi per il viaggio di ritorno»
«Già… ma non avevi un anello che moltiplicava le ricchezze fino a poco fa?»
«Si che l’avevo… l’ho abbandonato sulla pira poco prima che bruciasse»
Io corsi subito a mettergli una mano sulla spalla.
«Suvvia fratello, non pensarci, hai passato molte morti e riuscirai a passare anche questo»
«Forse hai ragione»
Thor osservò le foglie: i raggi erano molto più obliqui di prima.
«Il tramonto è prossimo; padre forse è il caso che inviate una di quelle vostre falene a perlustrare la zona in cerca di un rifugio»
«Buona idea» acconsentì Odin sollevando una mano dal grigio mantello che avvolgeva interamente.
Da sotto la manica apparve una farfalla perlacea che si posò subito sulla mano del viandante.
«Va in cerca di una casa» le disse in un mezzo sussurro e questa spiccò il volo sparendo tra le foglie.
 
Arrivammo dopo mezz’ora al fiume: un piccolo specchio d’acqua che scorreva tra le alte conifere e si dirigeva verso sud allargandosi.
«Eccoci» dissi io; estrassi il mio arco e mi preparai a puntare una lontra che se ne stava appoggiata su una roccia, di spalle rispetto a noi, e sembrava avere un pesce in bocca.
«Se mi impegno dovrei riuscire a colpire sia il salmone che la lontra» dissi digrignando i denti mentre prendevo bene la mira.
La freccia scoccò e volò, non verso la lontra, ma verso un ramo a diversi metri davanti e sopra di lei; avevo calcolato tutto: la velocità del vento, la forza impiegata nello scagliare il dardo, l’arco disegnato, la distanza tra il ramo, la roccia e la lontra, la rotazione successiva alla deviazione… era tutto perfetto e non avrebbe fallito.
Non riuscì nemmeno ad accorgersene: avevo tirato con più forza possibile e la freccia schizzò ad una velocità superiore al suono venendo deviata dal tronco, pochi millimetri più a destra della traiettoria che la indirizzò verso una roccia levigata che sporgeva a pochi centimetri dal pelo d’acqua; il tragitto tronco-roccia lo fece roteando su se stessa disegnando una molteplice quantità di spirali per poi venir nuovamente deviata dalla roccia, a pochi metri dalla lontra, che fu colpita dritta nelle fauci.
Vidi la freccia spuntare dalla nuca e, con un rapido balzo, raggiunsi la lontra e la portai agli altri con ancora il salmone in bocca.
Estrassi il salmone dalle sue fauci e lo mostrai trionfante agli altri.
«Volte uno spiedino?»
«Prima però puliscilo, non voglio mangiare solo le scaglie e le lische che troverò» ringhiò Thor da sotto al sua barba rossa.
Cucinammo il salmone e lasciai la lontra ad Odin che iniziò a scuoiarla per ricavarne la pelliccia pregiata che avremo venduto al primo che passava.
Ormai il sole stava lentamente morendo dietro i picchi innevati e l’aria iniziava a farsi leggermente fredda: tra poco sarebbe cominciata la breve notte d’estate.
Fu proprio quando la luna scoprì il suo volto che la farfalla fece ritorno.
Per qualche strana ragione brillava… non chiedetemi perché, una volta Odin mi aveva spiegato che non erano semplici lepidotteri ma altre anime defunte che utilizzava per possedere le persone in battaglia… i Berserkr erano infatti quelli che chiamava Akumizzati, da Akuma, il nome che il suo Kwami dava alle falene.
Anche io ne possedevo uno, di gran lunga più interessante di Nooroo: Trixx era intelligente, calcolatore, sapeva come sviare le risposte ma era anche un’ottima risorsa: la maggior parte delle volte che ero in dubbio chiedevo a lui invece che al viandante.
«Mi dice che ce n’è una poco lontano»
«Dove?»
«A poche centinaia di metri da qui»
Ci avviammo lungo il sentiero fatto da cinghiali e cervi annullando, sulla strada, la nostra kwamizzazione e tornammo in forma ‘mortale’. Per circa cinque minuti, continuammo a camminare nella foresta finché non vidimo un lume poco lontano.
«Eccola» disse Thor avvicinandosi.
«Fermo! Va prima tu Loki, magari potrebbe essere una trappola e…» iniziò a dire Odin ma io lo intercettai.
«…in cui finirei dentro al vostro posto?»
«Ma no! Cosa dici mai! Tu saresti perfettamente in grado di uscire da qualsiasi…» lo interruppi di nuovo: «Va bene vado!»
Mi avviai silenziosamente attraverso il sentiero finché non mi trovai davanti al portone, poggiai l’orecchio alla porta per sentire se qualcuno si muovesse al suo interno e, dopo aver sentito lo scricchiolare delle sedie e lo scoppiettare del fuoco bussai tre volte.
Un rumoroso tramestio predisse l’arrivo di qualcuno.
La porta si scostò leggermente e un vecchio vestito conuna semplice tunica legata in vita e un mantello mi osservò per un minuto buono per poi chiedermi: «Chi sei?»
«Salve, siamo dei viandanti che vi chiedono gentilmente ospitalità: sapete, veniamo da Uppsala e la distanza da li a qui è abbastanza considerevole… saremmo lieti di pagarvi dopo che ci avrete offerto la vostra ospitalità»
Nel frattempo Odin e Thor si erano fatti più vicini e sorridevano nel modo più affabile possibile salutando con le mani.
Il vecchio urlò alle sue spalle: «Dvala! C’è ancora del cibo da offrire per alcuni ospiti?»
Una voce femminile gridò di risposta: «C’è ancora del rognone! Sempre se a loro va bene!»
«Va benissimo» annuì e il vecchio riferì.
«Entrate pure, fate come se foste a casa nostra!» disse lui aprendo la porta e facendoci segno di entrare.
Appena entrai ebbi una strana sensazione… qualcosa non andava per il verso giusto.
Al tavolo erano seduti due ragazzi sui venticinque anni: uno alto e robusto, con una barba giù bella fluente di un biondo paglierino; l’altro più basso e magro ma con due braccia particolarmente muscolose e una chioma castano scuro, quasi nera.
Accanto al fuoco era seduta una donna dai capelli striati di grigio, stava badando al fuoco dove cuoceva il rognone che ci aveva promesso.
«Sedetevi pure: il mio nome è Hredimarr e questi sono i miei figli: Reginn e Fafnir; tra poco dovrebbe anche arrivare il mio ultimogenito: Otr ma non si è ancora fatto vedere, dovrebbe portare il pesce.»
«Hreidmarr… nome singolare… l’ho già sentito» inizia a dire ma l’uomo ridacchiò di risposta: «Oh è un nome molto comune!»
Ridacchiai anche io e lanciai un’occhiata a Odin che mi fece segno di andare avanti.
«Di cosa vi occupate?»
«Di nulla in particolare: viviamo di caccia e forgiatura: mio figlio Reginn, qui, è un ottimo fabbro: vedeste ciò che ha fatto ieri sera dopo cena… che ne dici di far loro vedere la tua ultima creazione?»
«Subito padre» disse il moro e andò subito nell’altra stanza.
Tornò con una ascia enorme: una lama larga e ampia quattro volte la sua testa e un manico lungo come l’asta di una lancia.
«Sorprendente! E riesci a sollevarla con così poco sforzo!» mi complimentai io.
«Non ci vuole molto: il metallo con cui l’ho forgiata è una lega molto leggera e resistente e il manico è di uno dei legni più leggeri e duri al mondo»
Parlammo per un po’ e iniziammo a mangiare ciò che ci venne servito: il rognone annaffiato con ottima birra era ottimo e mangiammo anche verdure e frutti di stagione.
«Magnifico pasto! Ora vorremmo donarvi qualcosa in cambio di tutto questo»
Ero diventato di colpo altruista… inquietante!
Tirai fuori la pelle di lontra dalla bisaccia e, dopo aver fatto spazio sul tavolo, la distesi.
«Ecco qui, un’esemplare magnifico conuna pelliccia che, a dire il vero, varrà una fortuna ma, per la vostra gentilezza e generosità saremo pronti a regalarvi!»
«Oh beh grazie! Sapete no… con Odin che gira per il mondo travestito da mendicante è giuso comportasti da osp…» la sua voce si interruppe mentre stava esaminando la pelliccia.
Sollevò lo sguardo e mi  parve di avvetire una piccola luce furiosa nel suo sguardo che si trasfigurò subito in una maschera di gioia.
«Ora non pensiamoci: mi sembra un regalo troppo grande per un semplice atto d’ospitalità: ci penseremo durante la notte, ora dormite!»
«Grazie buon uomo» dissi io mentre la sonnolenza iniziava a prendermi… allora era vero che il rognone faceva venire sonno!
Dvala, la donna, iniziò a disporre dei giacigli per noi tre e ci fece segno di accomodarci.
Io, Thor e Odin ci coricammo e iniziammo subito a dormire come dei sassi.
 
Mi trovavo su una superficie rocciosa: davanti a me un ragazzo con un mantello, una tunica legata in vita e orecchie da lupo che gli spuntavano dai folti capelli neri. Una lunga striscia dorata correva da un’articolazione all’altra cingendogli più volte il busto, le braccia e la testa.
«Padre… perché non vuoi che sia libero»
«Non sono io a volerlo… lo sarai presto» gli risposi io con amara tristezza.
La visione cambiò: Un uomo a cavallo arrivava alle porte di un palazzo tetro e coperto da nubi grigie.
«Ti prego! Fa che ritorni!» pregava lui rivolto ad una donna seduta su un trono.
«Solo se tutti nel mondo lo piangeranno lui farà ritorno alle vostre dimore» disse la figura ammantata di piume nere seduta su un trono.
«Perché non lo piangesti?» disse poi lei, rivolgendosi a me: il suo volto era cadaverico ed oscurato da un copricapo a forma di testa di avvoltoio.
Ora ero in una valle e attorno a me un numero indefinito di  uomini in armatura continuavano ad ammazzarsi a vicenda: nella mia mente, che non era la mia, una voce rimbombò.
«Ti dono la furia e con essa porterai la vittoria!»
Non ci vidi più e iniziai a correre brandendo, con braccia non mie, un’ascia che iniziava a tranciare arti, decapitare teste e conficcarsi nei fianchi degli uomini.
Nella mia testa sentì anche una risata inquietante e spaventosa, la stessa che apparteneva all’uomo che dormiva nel giaciglio accanto a me.
 
Mi svegliai di soprassalto.
La mia mente era ancora annebbiata ma udii persfettamente ciò che si stavano dicendo.
«Che ne facciamo?»
«Ah boh, io non lo so»
«Potremmo lasciarli ai lupi»
«Non è il caso, dovremmo ucciderli mentre dormono»
«Lo potremo fare… ma non sapevano che era nostro figlio caro»
«Ma Dvala! L’hanno ucciso!»
«Si ma…»
«Perché ci avete legato?» chiese d’improvviso Thor con innaturale calma.
«Oh no… li abbiamo svegliati» mormorò Reginn.
«Ehi voi! O ci liberate e ci date delle spiegazioni oppure farete una brutta fine!» gridò lui di rimando ma fu interrotto da Odin.
«Non ti preoccupare figlio mio, avranno avuto delle buone ragioni… vero re dei Nibelunghi?»
Hreidmarr si bloccò di colpo.
«Ma come…»
«Ovviamente non sei l’unico che ha questo nome, Hreidmarr, ma sei l’unico che contemporaneamente sia in grado di travestire un palazzo enorme da capanna di contadini e far apparire tu e la tua intera famiglia come comuni esseri umani agli occhi dei viandanti»
«Vi avremmo lasciati vivi e vegeti se non aveste ucciso nostro figlio» disse lui… in quel momento mi parve più basso anche da quella prospettiva.
«comprendo il to dolore vecchio re dei nani; anche io ho subito la morte di un figlio recentemente, sarò disposto a fare di tutto per sanare questo spiacevole avvenimento»
«Non dovrai fare nulla vecchio! Ti uccideremo sul momento» gridò Fafnir sollevando l’ascia di Reginn.
«Fermo! Non sai ciò che stai per fare!» urlò Odin e sussurrò qualcosa tornando in forma kwamizzata.
«Non hai ancora capito chi io sia?»
Mentre il suo abito si ricuciva e il suo cappello diventava molto più ampio e nella sua mano compariva una lancia che emanava oscurità, il suo occhio sinistro brillò più che mai mentre dalla sua tunica iniziavano a spuntare farfalle bianche come il latte.
«ODIN?!?» gridò Hredimarr facendo un salto in dietro a metà strada tra una domanda e un’affermazione.
«Esattamente» dissi io facendo lo stesso: i miei comuni abiti divennero arancioni e rossi, i miei capelli, da castani quali erano, divennero rossi e gialli, i miei occhi brillarono di una luce giallastra e mi comparve un flauto legato al mio fianco.
«E io sono Loki! Dio del foco e ingannatore tra gli Dei!»
«Quindi l’ultimo è…» iniziò a dire Fafnir mentre si allontanava lentamente da Thor.
«Beer! Trasformarmi!» gridò lui con voce tonante e il suo kwami, in forma di orso, volò fuori dal so mantello bruno e si infranse nel suo ciondolo a forma di martello.
La luce lo avvolse e la sua barba divenne più folta così come i suoi capelli da cui spuntavano piccole orecchie orsine, il suo volto si decorò con graffi d’orso sotto gli occhi e uno sguardo di furia cieca; il suo abito si ricoprì della pelliccia del grizzly e la parte esterna del suo mantello subì la medesima sorte mentre il suo interno divenne color del sangue.
Nella sa mano sinistra comparve quello che, fino a poco tempo fa, era il suo ciondolo: un martello di forma triangolare decorato con rune e decori geometrici.
«Avevo previsto anche questo» iniziò Hreidmarr mentre Thor provava a sollevare il braccio ritrovandoselo però addormentato.
«Avevo percepito la presenza di una forte magia e, perciò, ho imbevuto le catene di una sostanza che inibisce ogni vostro sforzo se non quello per parlare»
«E se volessimo formulare un incantesimo che ci liberi?» propose Odin.
«Anche quello richiede un grande sforzo… che voi non potrete soddisfare.»
«Maledetto! Non sarai mai accettato nel Valhalla!»
«Vuoi dire quelle piccole farfalline?»
«Non osare… sei in presenza del Dio dei Morti e dell’Ispirazione: sono adorato per miglia e miglia da migliaia di anni a questa parte, non osare mancarmi di rispetto»
«E come è possibile che tu esista da così tanto tempo?»
«I gioielli che ci rendono intaccati dalla morte…» iniziòa dire Thor ma io gridai prima che finisse di parlare… talvolta è proprio un idiota.
«Quindi se mi prendessi uno dei vostri gioielli otterrei la vita eterna?»
«No! Faremo tutto ciò che voi: sarò disposto a ripagarti il guidrigildo per la morte di tuo figlio: sarò disposto a pagare per il mio errore visto che è stata la mia freccia a trafiggerlo!» Sperai che Odin non interpretasse troppo a fondo…
«Ah si?»
«Lo farei anche subito»
«D’accordo… dovrai ricoprire la pelliccia con tutte le ricchezze che troverai»
«Lo farò subito: annulla il tuo incantesimo e liberami»
Hreidmar allora pose una mano sulla catena che passava sopra il mio petto e questa scomparve.
Io mi sollevai a fatica: l’effetto dell’incantesimo del re dei Nibelunghi stava terminando e, con esso, al mia vista iniziava a tornare normale e mi guardai attorno: non mi trovavo più nella vecchia capanna di un contadino ma in una sala ampia e completamente d’oro: il tetto era decorato con pietre preziose e il pavimento era ricoperto di mosaici magnifici.
Davanti a me un nano: dalla barba bianca, la corona ricoperta di pietre preziose e un mantello che gli ricadeva quasi a livello del suolo mi squadrava; alle sue spalle un altro nano in armatura, con l’ascia che ora gli arrivava a diverse spanne sopra l’elmo e un altro nano, con una cotta di maglia e un martello da fabbro in mano.
«Ora va, e ricordati che dovrai ricoprire interamente la pelliccia!» ringhiò Hreidmarr scortandomi verso la porta d’ingresso che, ora, era alta diverse decine di metri, completamente d’argento e con due enormi statuo e di nani al suo ingresso.
Uscì fuori e mi inoltrai nuovamente nel bosco lanciando un’occhiata al palazzo che pareva brillare di luce propria… il dio degli inganni era stato ingannato.
Avevo sentito parlare di un altro nano, Andvari,c he abitava nelle vicinanze e dimorava in una fonte in forma di luccio; dovevo trovarlo e farmi dare tutto ciò che, a quanto pareva, aveva raccolto nel corso dei millenni da che era nato (era uno dei primi nani ad uscire dalla profondità terrestre più di ventimila anni fa) così sarei riuscito a ripagare il debito.
“Ora: è un luccio in grado di sgusciare anche attraverso la cruna di un ago, è velocissimo e intelligente… mi serve una rete dalle maglie che si restringano e siano in qualche modo intelligenti… Ran!”
Mi sollevai in aria e, grazie al potere del volo, mi diressi verso la prima costa che vidi.
Appena mi fui posato sulla cima più alta di una scogliera osservai i flutti sotto di me: il mare quel giorno era inspiegabilmente calmo e potevo notare, con la mia vista potenziata, i pesci che guizzavano nelle acque.
Mi accovacciai pronto a richiamare Ran quando una voce mi avvisò: «Bada a ciò che fai figlio del fulmine»
Appena mi voltai vidi la figura imponente di Frigg: la sua tunica bianca era cinta da una cintura rossa e dalle sue spalle ricadeva un mantello a chiazze nere su campo rosso.
«Madre» dissi io inchinandomi.
«Non fare il ruffiano con me Loki,, percepisco ciò che stai per fare: è rischioso»
«Lo so… ma è per tuo marito che lo faccio.»
«O per sviare una colpa? Per far si che il tuo danno venga ripagato?»
«Non sospetterai che io… non mi sarei mai aspettato che proprio tu diffidassi così tanto da me»
«Loki, io non è che non mi fidi di te: io sono certa di ciò che hai fatto: dimentichi che Odino ha poteri di veggente ma io sono la Veggente Assoluta: io ci sono nata con questi poteri che mi hanno permesso di mantenere ben salda la nostra famiglia: ho sempre saputo che sarebbe arrivato un giorno in cui mio figlio sarebbe caduto sotto il colpo mortale guidato da un ingannatore; io non posso giustiziarti poiché il compito spetta a mio marito e all’intera assemblea degli Asi… ma so che hai guidato il dardo di vischio: LIvatein, attraverso mio figlio Hodr, il cieco, e con questo hai colpito Baldr, il più bello tra gli dei e il più amato»
«Perché lo amavate così tanto! Che cos’ha fatto per voi? Perché non dispensavate lo stesso affetto verso di me?»
«Perché lui era il figlio che io e Odin attendavamo da più tempo»
«Ma cos’ha fatto realmente per la comunità? Cos’ha fatto per il bene comune? Come ha contribuito al benessere di tutti?»
«Ci allietava con la sua musica e le sue canzoni»
«Ma non bastava Bargi? Io per voi ho fatto molto: vi ho aiutato nella vittoria sui Vanir, vi ho aiutato a ricostruire le mura di Asgard sporcandomi alquanto le mani, vi ho aiutati a eliminare tanti nemici nelle terre del nord: Geirodr, Thrym, Utgadr Loki… vi ho persino aiutato a incatenare i miei stessi figli! Voi cosa mi avete dato in cambio? Odio, disprezzo, risentimento, rancore, diffidenza, rabbia, maldicenza e male parole. Cosa vuoi che possa fare ora? Sto semplicemente richiamando Ran per farmi prestare al sua rete, non sto attentando alla vostre importantissime vite»
«Non prendere l’oro di Andvari»
«E perché? Quest’oro non potrà salvare il popolo a cui tieni?»
«Si ma… in quel tesoro c’è un oggetto potente e maledetto, non lo devi prendere»
«Dimmi qual è?»
«Non posso rivelarti ciò che il futuro non ti ha ancora mostrato; lo capirai appena lo vedrai… quanto a ciò che hai detto: gli altri Asi ti odiavano perché sei di origine Jotunn, sai quanto detestino i popoli a Nord di Asgard e per quanto tempo si siano prodigati a combatterli… solo tre persone ti rispettavano guardando al di la delle tue apparenze: io, Frigg, la madre degli Asi, Sigyn, l’ultima dei Vanir e figlia di Freyja nonché tua moglie, Baldr, che tu stesso hai ucciso e, infine, Thor… anche se a fasi alterne»
«Odin?»
«Lo conosci: ama solo una persona, sua moglie, e per il resto non è altro che un manipolatore e un ingannatore ancora più abile di te, che sei conosciuto tra i popoli di Midgard come il Dio dell’Inganno, il Padre delle Bugie e la Madre delle Magie… lui non ha amici e non intende farsene di veri»
«Grazie per queste rivelazioni… se veramente succederà… tra quanto tempo vedrò il mio processo?»
«Un anno scarso: sarai tu stesso a rivelarlo ad un bacchetto a casa di Aegir mentre sarai ubriaco, Forseti, mio nipote, ti processerà e verrai legato con i tendini di tuo figlio Narvi a tre pietre con un serpente che ti sgocciolerà veleno sul volto… l’unica a rimanerti accanto sarà Sigyn mentre tutti, me compresa, ti avranno maledetto; lei terrà tra le mani una bacinella in cui raccoglierà il veleno e ogni volta lo svuoterà… ma ogni volta che farà questo il serpente ne approfitterà e sputerà sul tuo volto una quantità inenarrabile di veleno che ti corroderà la pelle»
«Morirò?»
«No, ma sarai ricolmo di vendetta quando sarà fino il tempo della tua prigionia: unificherai sotto una sola corona i regni a Nord di Asgard e assieme a tua figlia Hel spiegherai le vele oscure di una nave di morti verso la nostra terra per poi attaccarla e distruggerla… non vincerai poiché nello scontro moriremo quasi tutti… piangerò di nuovo»
Si indicò le guance e notai che due solchi gemelli correvano dagli zigomi al mento: si diceva che Frigg non avesse mai pianto ma ora compresi ciò che la morte di Baldr le aveva causato… una madre sconvolta è impossibile da consolare.
«E sia… ora lasciami solo Frigg, devo recuperare una rete»
«Lascia prima che faccia una cosa»
Con un gesto fulmineo estrasse lo yoyo che teneva elgato al fianco, lo fece roteare e iniziò a colpirmi a tradimento.
«Finché non avrai esposto le tue colpe non potrò mai vedere il tuo processo! Ma ora meriti questo poiché mi hai tolto ciò che avevo di più caro al mondo!»
La corda serpeggiava ai miei fianchi e sopra la mia testa e cercai di evitare il più possibile quel maledetto disco mentre la corda mi sferzava ogni punto raggiungibile.
Appena la corda mi ebbe colptio nove volte lei scomparve e con lei tutto il dolore.
«Maledetta vecchia megera… Ran, portatrice del Miraculous del pesce! Vieni a me!»
Le acque si scossero e la onde si innalzarono mentre una figura scura apparve al centro della baia su cui mi ero posto.
«Loki… che voi?»
«Riusciresti a prestarmi la tua rete per mezz’ora circa?»
«A che ti serve?»
«Nulla di che: devo catturare un nano»
«D’accordo… ma voglio che tu poi me la ridia»
«Sarà fatto mia signora»
Detto ciò lei mi scagliò la rete e la presi al volo.
«Fanne buon uso… e non la voglio trovare rovinata»
«E sia»
 
Pochi minuti dopo ero già arrivato, ovviamente in volo, alla fonte di Andvari.
Una cascata si gettava da uno sperone di roccia dirigendosi al centro di un lago ben nascosto e cristallino; con quella rete non avrei avuto molti problemi a trovare Andvari.
Gettai l’arma e le sussurrai: «Trova il nano tra i pesci» e lei agì di conseguenza.
Percepii uno scossone e tirai su con tutte le mie forze: al suo inerno c’erano numerosissimi pesci più un grosso luccio nero con occhi molto molto espressivi.
«Andvari?»
Lui iniziò ad ingrandirsi prendendo forma umanoide: un sudicio e piccolo nanetto raggrinzito con pochi ciuffi di capelli e una barba grigiastra e stopposa.
«S-si… chi sei?»
«Nessuno, sono solo qui per chiederti di darmi tutto cl’oro che hai recuperato nel tempo»
«Prenditelo pure, non mi serve più»
Ero stupito: mi sarei aspettato una maggiore rappresaglia.
«Come vuoi… mi porti tu al suo nascondiglio?»
«D’accordo»
Si tuffò nel lago e mi fece segno di seguirlo: mi tuffai anche io venendo investito dall’ondata di acqua gelida che mi portò sul fondo. Qui l’aria pareva respirabile e presi una boccata d’aria.
«Cavoli!» dissi io guardandomi attorno: una gigantesca distesa di monete, collane, anelli, corni d’oro e d’argento si sviluppava sul fondale e al centro capeggiava un piccolo spazio vuoto con un anello al suo centro.
«Prendi tutto ciò che vuoi»
 Estrassi un sacchetto dalla tasca e iniziai a porvi dentro tutto ciò che riuscivo a prendere: ovviamente il sacchetto era un’illusione e riusciva a contenere ogni cosa.
«Prendi tutto ciò che vuoi» ripeté lui «…tranne quell’anello»
«A cosa ti serve?»
«Mi aiuterà a ristabilire le mie ricchezze dopo che tu te le sarai prese tutte»
«Molto interessante… ho finito»
Avevo raccolto ogni cosa nel sacchetto magico e ora ero pronto a ripartire.
«Potrei osservare quell’anello?»
«Se proprio ci tieni… guardalo ma non prenderlo»
Mi accovacciai all’altezza dell’anello: era un monile veramente ben fatto: spirali nere e rosse correvano nella parte esterna e l’interno era decorato con innumerevoli simboli che non sapevo riconoscere… non erano rune.
Annullai la trasformazione per mostrarlo a Trixx.
«Che ne pensi?»
«Non so… c’è qualcosa che non va in quest’oggetto… la sua anima è malvagia»
«Gli anelli hanno un’anima?»
«Questo si»
Rimanemmo in silenzio per un minuto osservando l’anello e una voce iniziò a farsi sentire nella mia testa.
Prima era flebile e lontana, come se mi chiamasse da grande distanza, poi si faceva sempre più vicina man mano che le davo ascolto. Ora mi sussurrava nelle orecchie come se un’entità invisibile fosse al mio fianco.
“Prendimi Loki, Prendimi!”
«Devo prenderlo»
«No,.. è troppo pericoloso»
«Ma va a quel paese!» e, con un rapido gesto, afferria l’anello e me lo misi in tasca prima di scomparire con tutta la mercanzia sulla spalla sinistra mentre, dietro di me, udivo la voce di Andvari che urlava fuvibonda: «NOOOO! Non lo devi fare indossare a nessuno o la bestia si libererà!»
 
Appena ebbi raggiunto la casa di Hreidmarr gettai l’intero contenuto del sacchetto sulla pelle di lontra.
«Ecco qui! Ho fatto»
«C’è ancora uno spazio libero… qui!» disse però Reginn indicando un peletto che sporgeva da due monente e una corona.
«Ma… e va bene»
Mi tolsi l’anello dalla tasca, lo guardai nuovamente a malincuore e lo posai tra la moneta e la corona.
«Contento?»
«Ora andate, siete liberi» sentenziò Hreidmarr schiccando le dita mentre le corde si scigolievano e Odin e Thor poterono uscire.
«Finalmente!» gridò il tizio con il martello che aiutò il padre a rialzarsi.
«Andiamo Loki, è ora di tornare a casa»
«D’accordo… Andvari mi ha detto che l’anello è maledetto… fossi in voi non lo indosserei»
«Leggende… ora fuori!»
Ci avviammo sul sentiero ricordandoci di non fermarci mai più in posti in cui si percepivano malie in atto… mentre ci allontanavamo detti un’occhiata bieca alla porta d’ingresso… qualcosa di sinistro stava per accadere.
 
Hreidmarr si era scagliato sul tesoro e stava praticamente nuotando nell’oro mentre i figli iniziavano a recuperare gli oggetti migliori; Hreidmarr intanto si era già impossessato dell’anello che, da quello che aveva capito, era apprtenuto ad Andvari e, perciò, l’aveva chiamato Andvaranaut.
«Questo rimarrà con me»
Qualcuno però penso: “Non per molto”
 
Quella notte ci fu un gran parapiglia: Reginn si svegliò di soprassalto udendo il rumore che proveniva dalla sala del tesoro: appena fu entrato vide il fratello Fafnir con in mao l’anello mentre il corpo del padre Hreidmarr giaceva ormai morto ai suoi piedi.
«Fratello! Cos’hai fatto!» gridò lui avanzando nella stanza ma Fafnir non lo ascoltava: il suo interesse era completamente rapito dall’anello.
«Reginn! Guardalo: quant’è bello? È così magnifico e regale… da oggi non sarà il tesoro di nostro padre… sarà il mio tesssoro!»
«Questo tesoro ci è stato donato a tutti: appartiene si a ame che a te che a nostro padre… perché te lo vuoi prendere?»
«Quanto sei sciocco: non mi riferisco all’intero tesoro ma a questo piccolo tesoro: l’anello: Andvaranaut è potente e a me serve: pensa a quante cose potremo risolvere con quest’oggetto!»
«Che cos’ha di speciale?»
«Ogni notte si moltiplica per nove volte evocando grandi ricchezze! Osserva questi anelli!»
Indicò nove anelli che giacevano ai suoi piedi.
«Li ho visti nascere!»
«E quindi? Rimarrà qui e ci garantirà una grande ricchezza!»
«Ma io la voglio per me! Non certo per te!»
«Come?»
«Ora vattene! Io me ne andrò con il tesoro e l’anello en on opporrò alcuna resistenza»
«No Fafnir! Non indossare l’anello»
Ma Fafnir fu rapido: appena ebbe infilato l’anello al medio i suoi occhi divennero rosso e la sua pelle si arrossi.
«Va via!»
«No! Non farlo! Toglietelo subito!»
«Non posso! Si sta prendendo il mio corpo!
«Ti aiuto io!»
«No! Non ti avvicinare… è il mio tesssoro… non ti avvicinare o morirai!»
La sua coscienza sembrava divisa in due: d auna parte Fafnir sembrava essere tornato in se ma dall’altra la ‘coscienza’ dell’anello stava prendendo il sopravvento.
«Scappa! Il drago è vivo!»
«Come?...»
Davanti agli occhi sconvolti di Reginn, Fafnir iniziò a ingrandirsi raggiungendo i due metri d’altezza; fu costretto a carponi da una forza invisibile e il suo collo si allungò, la su ashiena si allargò e inarcò, il suo corpo si ricorì di spine e squame mentre il suo volto si deformava diventando quello di un rettile.
«NO!!! FAFNIR!!!»
Ma davanti a Reginn non c’era più suo fratello: davanti a lui c’era un drago senz’ali che si preparava a sputare una fiammata enorme e a divorare tutti gli abitanti del palazzo.
 
Loki osservò la scena dall’alto di un pino, poco lontano e vide Fafnir allontanarsi dal palazzo; volò poi rapidamente verso nord fino a raggiungere quella rupe dove si innalzava la maestosa fortezza e da li vide una giovane in groppa ad un cavallo che veniva scacciata da un gruppo di sue compagne: la riconobbe come Brunhildr, una delle tante ancelle di Odin… forse aveva fatto qualcosa che aveva fatto arrabbiare il maledetto Sumarfuglr… uno dei suoi tanti nomi che però non ha resistito alla prova del tempo.
Osservando Brunhildr vidi come la luce che la avvolgeva iniziava lentamente a spegnersi e i suoi occhi, prima color delle nubi, tornavano castani… com’erano realmente.
Certo: Odin donava poteri a chi lo adorava e a chi si metteva al suo servizio, come la povera Brunhildr… ma li toglie se vuole e ora lo voleva.
Lo vidi osservare la scena dall’alto di un bastione, avvolto nel suo lungo e ampio mantello grigio screziato di bianco e nero sovrastato dall’elmo con ampie ali di lepidottero al lato; la sua lancia era nera e attorno ad essa svolazzavano falene di tenebra pura mentre il suo unico occhio brillava di una luce maligna.
 
Dovute spiegazioni
Ciao
Bello vedervi! Come state? Famiglia? Amici? Partner vivo o defunto? Io tutto bene.
Come avrete notato la maggior parte dei portatori che sto’ affrontando sono praticamente tutti personaggi mitologici o divinità… alla fine pochissimi personaggi storici mi pare avessero poteri magici… forse perché potere magico è sinonimo di roba inesistente quindi… non vedrete mai Carlo Magno cavalcare con un kwami a fianco ma forse qualche personaggio leggendario che gli assomiglia (coffcoffArtùcoffcoff) e potrei parlare dei personaggi che Astruc ha indicato come ex portatori della coccinella ma…. Gran parte di loro sono inventati di sana pianta da lui e preferisco basarmi su qualcosa di sicuro come la mitologia (sicuro e mitologia non vanno mai d’accordo nella stessa frase) perciò… Mito Norreno! Yuppy!
Ho sempre pensato che Odino fosse uno stronzo emerito… ho passato anni e anni a leggere miti dove lui era una bestia di satana che si fingeva una vecchia medica per mettere incinta una principessa legandola al letto (qui si sfiora il livello del Vietato ai Minori) oppure facendo il buono davanti alle facciate e intanto tramando piani di conquista sotto il suo cappello ammuffito mentre la gente manipolata dal uso palese potere da Antenato di Papillon si scatenavano di furia omicida nei campi di battaglia mietendo più vittime possibile (sinceramente preferisco questi akumizzati che vanno a radere al suolo interi villaggi depredando e massacrando il depredabile e massacrabile piuttosto che quei tizi vestiti da carnevale che fanno bolle di sapone) e intanto richiedendo sempre più vittime sacrificali che aumentino ancora un po’ di più quella sua allegra legione di anime intrappolate in forma di farfalla! Altro che Valhalla! Te lo do io il Valahalla mio caro Ragnar Lothbrok!
 
Parliamo di Thor… lui non mi è mai molto interessato come dio, sempre troppo mainstream e troppo apprezzato per la sua sete di sangue ma credo che il miraculous dell’orso, che nella mia idea simbolica dovrebbe donare una forza incredibile e un legame con la terra (infatti scagliare Mjolnir è un po’ come scagliare un’intera montagna e il rumore che fa una montagna quando si schianta al suolo è lo stesso, più o meno, del tuono) e sicuramente, il suo ciondolo, ritornerà nel ciclo come oggetto importante.
Poi abbiamo Loki! Il buon vecchio Loki! Compagno di mille scorribande del barbuto che si diverte a devastare il territorio dei giganti (che qui sono intesi come un semplice gruppo di clan che abitano a nord di Asgard, nella catena montuosa che è chiamata Jotunheimen) di cui lo stesso Loki è originario.
Non è indispensabile spiegarvi perché legarlo a Trixx… è un dio che fa illusioni, inganna le persone, ha un fisico longilineo, affascina le ragazze e ha i capelli rossi… è praticamente una volpe umana!
Fa un cameo anche la materna Frigg, moglie di Odin e portatrice di Tikki; mi è sembrato giusto visto che rappresenta l’atto creativo e la continuità della vita (un po’ come vedremo in seguito, piccolo spoiler, per due divinità del nuovo mondo) ed ho cercato di renderla il più bene possibile sia come comportamento che come atteggiamento sottolineando anche il dolore che prova per la morte di Balder, che per la cronaca dovrebbe aver portato il miraculous del gallo.
Poi abbiamo assistito all’ultimo evento importante: ciò che scatenerà una serie di eventi che porterà anche alla quasi distruzione del mondo (vedrete poi) ovvero il ritrovamenteo di Andvaranaut, l’anello del drago, un miraculous potentissimo e letale che non aiuta il portatore ma lo maledice; il kwami che vi abita è malvagio e il suo unico obbiettivo è mutare le persone con la sua avidità in ibridi uomini-drago che non riescono più a ragionare da soli e sono spinti solo da ciò che il drago occidentale rappresenta per noi: avidità, desiderio di potere, distruzione e perdizione…. Ma ad oriente c’è la sua controparte buona che se ne starà li al sicuro tenendo fede al suo simbolo di purezza.
 
Beh… ci vediamo a Roma sotto il regno di un imperatore che amerete subito…

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Capitolo 6
*** Fine Età Antica\Impero Romano (138 d.C.) IL POTERE ASSOLUTO ***


IL POTERE ASSOLUTO

L’ampia sala era maestosa: mosaici di incredibile bellezza tappezzavano il pavimento, le pareti e il soffitto e il tavolo era imbandito per l’imminente cena. Numerosi uomini transitavano per la stanza salutando gli stanti e discutendo tra loro.
Lui era sopra tutti, li osservava dall’alto del trono posto al fondo della stanza e rialzato rispetto al pavimento da tre gradini; osservava attentamente la situazione.
Aveva fatto riunire i più grandi pensatori, filosofi, conoscitori e sapienti del mondo dominato dal suo impero nella sua villa pur di sapere ogni cosa che gli fosse permesso dagli dei.
In quel momento la porta si aprì e un uomo vestito in armatura scortò un altro all’interno della villa.
Era vestito sontuosamente: una tunica larga e ampia di colori sgargianti che tendevano al rosso, all’arancio, al giallo e al viola; gli occhi erano sottili e obliqui e spiccavano in un volto appena segnato da rughe che gli davano l’aspetto di un quarant’enne; i suoi baffi erano tenuti in un modo che l’imperatore non aveva visto se non nei libri o aveva immaginato dai narratori che erano giunti dal lontano oriente, al di la dell’Impero Partico e delle ampie Terre Centrali dove orde di barbari galoppavno in ampie pianure semidesertiche su maestosi cavalli senza sella.
Aveva letto così tanto di quel luogo remoto che in seguito fu chiamata Cina, era stato lui ad avviare i rapporti diplomatici sino-romani e si era impegnato a fin che le due grandi nazioni collaborassero economicamente e commercialmente.
«Salve straniero, benvenuto nella mia villa, attendavamo una vostra risposta da molto tempo»
«Ave imperatore, sono lieto di poter presenziare alla vostra corte, il mio nome è Gaomiao Cheng e vengo dalla terra di Han, ho attraversato le distese delle steppe e i deserti d’Arabia per giungere in questa terra da voi governata, questo per parlarvi di ciò che avete chiesto al mio popolo»
Il figlio di Traiano fu lieto di sentire che parlava fluentemente latino; perciò gli disse: «Parla Gaomiao, dimmi ciò che hai portato a me»
«Tu mandasti un emissario in oriente perché ti portasse il più grande conoscitore delle arti mistiche dell’est, egli purtroppo è morto nelle steppe mentre venivamo attaccati dai mongoli, perciò mi sono fatto guidare dalle sue scorte prima verso Roma poi, quando siamo giunti alla capitale, abbiamo scoperto che vi eravate ritirato nella vostra villa qui a Baia e siamo perciò giunti in questa zona perché tu accogliessi me ed i miei servitori»
«Sei accolto. Ora siediti alla tavola e mangia e riposa, così potranno fare i tuoi servitori e le tue scorte poiché sia tu che loro sarete stanchi; poi, dopo cena, potremo parlare in pace.»
«Vi ringrazio maestà»
Gaomiao si sedette con eleganza al tavolo e alcune serve gli versarono il vino e gli servirono un piatto di arrosto.
 
«Dunque parlami, ora che sei riposato e sazio, dimmi ciò che sai»
Gaomiao Cheng iniziò a parlare esordendo con questo frase: «La nostra cultura, oh Publio Elio Traiano Adriano, è assai complessa e ramificata: adoriamo divinità che non sono come voi le intendente e il nostro concetto di divino è apparentemente incerto: i nostri imperatori divengono dei, se sono abbastanza apprezzati, i nostre antenati, dopo la morte, possono essere deificati così come gli spiriti della terra e gli spiriti protettori; ma su tutti governano due forze contrapposte: Ying e Yang, i quali sono rispettivamente il freddo e il caldo, il nero e il bianco, l’oscurità e la luce, la donna e l’uomo, il male e il bene… queste forze sono in continuo scontro ma non primeggiano mai tra loro e, in ogni frammento dello Yang, una parte dello Ying è presente e viceversa: sono due forze complementari che si odiano e si amano vicendevolmente così come assieme formano la stabilità e l’ordine; se uno di essi dovesse scomparire vi si creerebbe il caos così come se uno vincesse sull’altro»
 
Adriano ascoltò interessato e intervenne alcune volte per avere chiarimenti su alcuni passi e, fin dalle prime parole, a aveva richiamato a se uno scriba che prendesse appunti per lui.
Ad una certa però il discorso iniziò a prendere una piega ancora più interessante per l’imperatore che, accarezzandosi la barba bruna, con alcune striature grigie, iniziò a interessarsi ancora di più alle spiegazioni del saggio.
«Le nostre storie narrano di alcuni oggetti che sono apparsi nei tempi antichi e che, alcuni dicono, sono riapparsi nelle periferie dell’impero: sono sacri oggetti probabilmente di fattura divina e vengono indossati da gente del popolo che così ottiene grandissimi poteri che mette al proprio servizio o a quello dell’imperatore»
«Parlamene!»
«Fino ad ora ne conosciamo circa venti: ciascuno rappresenta un animale e ogni animale assegna un potere o più a colui che decide di portarne l’effige: il gallo da il potere di portare luce nell’oscurità, il serpente di fare impazzire le persone, il lupo di incantare la gente con la sua voce e la volpe, che ha causato parecchi problemi più di mille anni fa durante la dinastia Shang, con Daji, consorte dell’ultimo imperatore, piega l’aria al suo comando e crea incredibili illusioni; ognuno di questi animali sembra essere però superato dai poteri di due gioielli favolosi che brillano su tutti e sono apparsi in questi anni nella provincia del Gansu dove agiscono in coppia: il gatto nero e la coccinella sembrano incarnare rispettivamente lo Ying e lo Yang e intendiamo trovarli per esaminare i loro gioielli: fin’ora nessuno è mai riuscito a capire da dove derivi il potere di questi sacri amuleti ma alcuni sospettano che siano i sigilli di alcuni potenti demoni… o forse veri e propri dei!»
«Manderò alcune legioni in cina alla ricerca di questi miracolati, non temeranno di fronteggiare nemmeno Ercole o Achille che vivono nelle nostre leggende e non credo che indietreggeranno dinnanzi a due eroi di un paese lontano»
«Saresti disposto a portare a me e alla mia gente questi due gioielli? L’imperatore ha impiegato tutte le sue armate ma nessuno è mai riuscito a sconfiggerli»
«Non temere, andrò io stesso e riporterò questi oggetti nella mia villa a fin che tu possa esaminarli assieme a me: tu intanto verrai con me, se vorrai, oppure potrai restare qui ad insegnare ai miei sudditi le tue grandi conoscenze»
«Sarò ben lieto di seguirti anche in capo al mondo, la tua fama non ti rende giustizia: nella terra di Han dicono che tu sei saggio, desideroso di conoscenze e di apprendere tutto della cultura umana e lasciatelo dire, non ho mai visto nessuno così desideroso di apprendere»
 
Il cavallo di Adriano galoppava in testa ad una piccola guarnigione di cavalieri che precedeva la legione che si era preso per attraversare in sicurezza le terre dell’asia centrale.
Gaomiao era al suo fianco, in sella al cavallo che si era portato lui stesso dalle terre che stavano raggiungendo e sembrava guardingo: si guardava attorno con circospezione e teneva la mano sull’impugnatura della Jian che teneva legata al fianco mentre con l’altra reggeva le redini del destriero.
«Ti vedo preoccupato amico mio» osservò Adriano guardandolo di sbieco.
«Stiamo attraversando il territorio di Naran Khan, un terribile capo mongolo che tende ad attaccare chiunque attraversi i suoi confini»
«Me lo potevi dire prima allora: potevamo fare il giro lungo»
«Il suo dominio è troppo vasto in meridione e in settentrione, taglia in due parti il territorio mongolo e ci metteremmo troppo»
«Ora come facciamo?»
«Mi sa che dovremmo combattere»
Adriano era rimasto sorpreso quando aveva visto come il sapiente Gaomiao fosse anche molto allenato per la sua età: gli aveva detto di avere anche lui una sessantina d’anni ma non li dimostrava per niente: aveva servito nell’esercito imperiale per anni e, nei suoi ultimi anni, in cui aveva approfondito gli studi, si era anche esercitato nel combattimento e nell’allenamento della sua forza e nello sviluppo della sua muscolatura che era rimasta nascosta dalle tante pieghe della seta del suo abito nel tempo ceh aveva trascorso a Baia.
Era l’incarnazione del detto romano Mens Sana in Corpore Sano… Adriano ne era ammirato.
Proprio in quel momento un polverone enorme si innalzò el cielo e alla sua base si distinsero alcune figure galoppare nella loro direzione: erano palesemente alcuni uomini a cavallo guidati da uno che portava un copricapo imponente.
«Fermi!» gridò Adriano rivolto ai cavalieri e alle legioni, a circa cento metri da loro.
I cavalli che fino a quel momento procedevano al trotto, si arrestarono e così fecero i fanti.
L’orda giunse a una ventina di metri da loro e si arrestò, alla sua testa un uomo con un mantello verde e un’armatura più chiara li squadrò dall’alto in basso per poi dire qualcosa in una lingua che ad Adriano suonava incomprensibile.
«Che ha detto?»
«Si è presentato, è il tizio che ti dicevo prima: dice di averci visto superare il suo territorio e sostiene che dobbiamo pagargli un pedaggio altrimenti ci taglierà le orecchie e ce le farà mangiare per poi decapitarci uno dopo l’altro lasciando vivi per ultimi solo i capi – intende noi – che darò in pasto ai suoi cani»
«Tipo allegro»
«Te l’avevo detto»
«Ora fa da traduttore»
«Subito»
Adriano si rivolse a Naran Khan e, parlando comunque in latino disse: «Salve Naran Khan, io sono Adriano, imperatore di Roma e sarò pronto a pagare un pedaggio che sia in denaro o in sangue»
Gaomiao tradusse.
Naran Khan disse a sua volta qualcosa che suonava come una minaccia e Gaomiao referì: «Sostiene che non intende ottenere il denaro di un sovrano straniero e preferisce tenere il suo cadavere nel suo accampamento a fin che le aquile si nutrano delle sue carni»
«Quindi ci vuole proprio morti?»
«Già»
«Bene… sono pochi… ATTACCATE!»
A quel grido tutto l’esercito ivi presente si scagliò verso l’orda che non riuscì a malapena a rendersi conto di ciò che succedeva e tutti furono rapidamente uccisi; Nel frattempo Adriano gridò di risparmiare il Khan e i soldati lo ascoltarono mentre trafiggevano gli uomini a destra e a manca mentre Adriano combatteva contro uno dei più possenti assieme a Gaomiao.
In quel momento il Khan spalancò le braccia e un’ondata di luce verde si sprigionò dalla sua figura e investì tutti i presenti: sia i suoi uomini morti che i pochi caduti di Adriano parvero risvegliarsi di colpo come se dormissero, le ferite scomparvero così come il sangue e si gettarono nuovamente a combattere.
«Ha uno di quei gioielli!» gridò Gaomiao indicando il poslo di Naran Khan dove era allacciato un bracciale verde.
«Deve essere quello il suo amuleto!»
Adriano allora cavalcò rapidamente verso Naran Khan e con un rapido colpo dello scudo, lo stese all’istante per poi tagliargli il braccio con un rapido colpo di spatha che tranciò di netto l’arto.
Gaomiao trafisse poi il petto di Naran Khan con la sua Jian e, mentre la estraeva, osservò il gioiello alla mano mozzata e, con l’altra mano, lo tolse senza alcuna fatica.
Adriano si guardò attorno con calma: il suo esercito aveva palesemente vinto visto che una ventina di cadaveri era disseminata sul campo e circa quindici erano quelli che facevano parte dalla scorta di Naran Khan «La prossima volta, oh grande Khan, ti consiglio di prenderti una scorta più grande: con l’Impero Romano non si scherza!»
Gaomiao fu preso da uno strano impulso e non riuscì a trattenersi dall’indossare la reliquia.
Appena l’ebbe indossata una luce verde si sprigionò all’altezza del suo viso e una strana creatura gli apparve facendogli fare un salto indietro.
«Finalmente!» gridò quello con una vocina sottile ma dal timbro molto più equilibrato di quello di un bambino «Temevo che sarei rimasto al polso di quell’incosciente per altri due anni! Sembra che tu meriti davvero il mio miraculous!»
«Eh?»
«Lascia che mi presenti: io sono Wayzz, e sono il kwami della tartaruga, simbolo di sapienza e guarigione»
 «C… come?»
«Già»
Adriano era allibito, continuava a guardare con stupore e incredulità quella scena e iniziava a pensare di essere troppo vecchio per andare in giro per il mondo conosciuto: aveva già visto cose strane nel suo tour per l’impero pochi anni fa ed ora si trovava difronte a qualcosa di palesemente divino.
«Tu saresti… un Kami? Uno di quegli spirit che adorano oltre il mare orientale?»
«Parli degli dei Shinto?»
«Ehm… si?»
«Si dai, il nome deriva da li; ma sono molto più antico di quel popolo o di qualsiasi altro: io esisto da quando l’uomo venera e crede nel soprannaturale o negli ideali; noi kwami rappresentiamo gli elementi della vita dell’uomo in tutte le sue sfaccettature»
«Quindi… se tu sei il “dio” della conoscenza saprai guidarci nel luogo che cerchiamo»
«Ma tu sai già dove stai andando Gaomaio non è vero?»
«Si: mi dirigo alla provincia di Gansu, nell’impero Han Occidentale, dove siamo alla ricerca di due portatori dei gioielli che, suppongo, siano legati a te»
«So chi cercate: nel Gansu agiscono i kwami della creazione e della distruzione: li Tikki e Plagg hanno scelto i loro portatori che combattono contro le forze mongolo che penetrano attraverso i confini e contro le ingiustizie perpetrate dai gendarmi verso il popolino; loro agiscono in favore dell’equilibrio e della stabilità.»
«Intendiamo prendere loro i gioielli così che vengano esaminati»
«Non potete: il loro potere è troppo grande per essere osservato e studiato da esseri mortali che non siano destinato a questo compito: un tale ruolo è destinato ad un ordine sacerdotale tra mille anni e più»
«Forse è meglio che tenga il tuo bracciale senza doverlo indossare, non intendo sentire le tue sciocche parole» disse Gaomiao con noncuranza e si tolse il bracciale facendo scomparire il kwami; poco prima però che il kwami sparisse gridò qualcosa che suonava come: “Non indossateli contemporaneamente!… esprimerete un desiderio!… non vi salverete!”
«Cos’ha detto?» chiese apaticamente Adriano.
«Mi sembra che alludesse a qualcosa riguardo il potere dei due… come li chiamava? Miraculus?»
«Vorrai dire Miraculum… quell’altra parola non esiste»
«Forse deriva da una lingua antichissima»
«O da una lingua non ancora nata»
«Già»
«Comunque diceva che, riunendo i due gioielli si avrebbe avuto la possibilità di esprimere un desiderio… da quello che ho capito… e che non dovevamo farlo»
«Lo faremo?»
«Ovviamente!»
 
Appena furono giunti tra le montagne della zona di Gansu tintracciavano la zona in cui i due paladini del popolo agivano e si prepararono a fronteggiarli.
«Dobbiamo attirarli»
«Non ce n’è bisogno: eccoli!» Gaomiao indicò due figure che se ne stavano all’ombra di un pesco discutendo.
Erano una ragazza e un ragazzo, entrambi con lineamenti orientali: la ragazza aveva capelli lunghissimi che le arrivavano ai fianchi e il ragazzo se ne stava a gambe incrociate appoggiandosi al tronco in una posizione rilassatissima con una lunga fascia nera che gli pendeva dal retro dei pantaloni; accarezzava disinvoltamente un piccolo cilindro di metallo mentre l’altra faceva roteare con calma un piccolo disco rosso a pois neri, dello stesso colore della sua tunica per quanto la fascia che le cingeva la vita era bianca internamente e a bordi neri.
«Sono loro?»
«Sembra di si»
Il ragazzo si guardò distrattamente attorno poi notò i due che li osservavano dall’alto dei loro destrieri.
«Voi la! Chi siete?» chiese lui balzando in piedi e ponendosi in una posa strana per affrontare un nemico: il ginocchio destro appoggiato al suolo mentre il piede sinistro poggiava solo con le dita sul terreno, la mano destra posta davanti e perfettamente aderente al suolo con le dita ben divaricate mentre la mano sinistra si propendeva verso sinistra con le dita ancora più divaricate che toccavano il suolo solo con le tre dita di mezzo mentre il cilindro era retto dal pollice e dal mignolo e passava attraverso il medio e l’anulare.
Lei si alzò con calma e pose una mano sulla schiena di lui: «Prima di attaccarli, mio amato, direi di contrattare con loro… magari vengono in pace»
«Non direi, sono armati fino ai denti cara Yuan… non mi sembrano dispositi a voler contrattare»
«Dateci i vostri gioielli e nessuno si farà male!» gridò Adriano.
«Chi sei per ordinarcelo?»
«Adriano! Figlio di Traiano, imperatore di Roma!»
«Qui il tuo potere non è influenzante!»
«Il mio potere si propaga ovunque»
«Sei come gli altri nobili allora? Orgoglioso e sciocco? Pronto a sorpassare i bisogni del popolo pur di ottenere i tuoi scopi?»
Fu in quel momento che Adriano si rese conto che qualcosa in lui stava cambiando… non aveva ancora affrontato un viaggio così lungo e si sentiva di nuovo ragazzo, come quando servì nell’esercito per combattere contro i Caledoni prima della costruzione del vallo.
«Cosa devo fare?» chiese quindi a Gaomiao.
«Sarei io il tuo consigliere? Non sei abbastanza vecchio per decidere da solo?»
«…d’accordo» esito un minuto poi: «Uccideteli!»
Dai vari nascondigli li introno spuntarono vari soldati romani che si gettarono verso i due ragazzi che, subito, furono rapidissimi e iniziarono a colpirli in ogni modo possibile stendndone ciascuno senza alcuna difficoltà.
«Ma come?!?» disse Adriano sconvolto.
«Te l’avevo detto: sono forti persino per i tuoi uomini»
«Mi hai condotti qui per nulla? Devo ottenere quei due gioielli: voglio la conoscenza eterna!»
«Quindi è questo che vuoi? La conoscenza di ogni cosa?»
«È questo il mio desiderio»
«Mi sembra legittimo… aspetta che indosso il bracciale e li affronto da pari»
Gaomiao indossò quindi il suo oggetto sacro e la luce verde apparve e con essa il kwami della conoscenza.
«Dimmi come faccio a diventare come loro?» disse a Wayzz
«Te l’ho detto: è pericoloso!»
«Ho te: tu sei come loro… giusto?»
«Si… sono poco più potenti di me ma faccio parte dei Sette Kwami Principali, uqelli che i romani potrebbero definire Dii Superi»
«Ho capito: ora Trasformami!»
«Bravo! Non c’è neanche stato bisogno di spiegatrel...»
La sua frase fu interrotta bruscamente dal risucchio che mutò il saggio in un guerriero vestito in abiti verdi e con un elmo a forma di guscio di tartaruga e uno scudo rotondo, simile a quegli scudi utilizzati dagli opliti greci.
Gaomiao si gettò verso i due e gridò ad Adriano di aiutarlo; il sovrano spronò il destriero, estrasse la lancia e si gettò verso i due miracolati accecato da una furia che non era da lui, voleva davvero così tanto riunire i due gioielli?
Ovvio che lo voleva… lui voleva ottenere la conoscenza assoluta e avrebbe compiuto il più grande crimine  pur di ottenerla…. Era un sovrano illuminato ma era anche desideroso di ottenere  ciò che desiderava.
Lo scontro fu duro e lungo: la corda della ragazza-coccinella saettava da un lato all’altro tagliando l’aria come burro mentre il disco contundente al suo termine faceva un male cane quando colpiva.
Il ragazzo ora combatteva con un bastone: Il cilindro si era rivelato in grado di cambiare dimensione e lunghezza a suo piacimento colpendo anche improvvisamente ogni cosa si trovasse sul suo cammino.
Ma alla fine Adirano e Gaomiao riuscirono ad intrappolarli in un’insenatura tra le rocce e a ucciderli entrambi con colpi di lancia e Jian che furono inferti in vari punti del corpo.
Abbandonarono i cadaveri e si impossessarono dei due gioielli: un’anello nel dito del ragazzo e un paio di orecchini alle orecchie di lei.
 
Furono riaccolti a Baia appena furono rientrati: la villa era stata abilmente sguarnita dai servitori e da chiunque altro e i due erano pronti ad agire; si diressero nella sala più grande e importante della villa e Gaomiao si sedette sui gradini dove era stato accolto appena giunto, quasi sei mesi fa.
«Ora» disse Adriano togliendosi la bisaccia dalla cinta e aprendola rivelandone i due gioielli.
Prima si mise gli orecchini che venivano nascosti dalla chioma bruna e riccia; una luce rossa brillò davanti ai suoi occhi e una creaturina simile a Wayzz apparve ai suoi occhi: era rossa con due lunghe antenne e un corpo esile, la sua fornte era decorata da un pallino nero che risaltava nella strana luce che emanava.
Lei, Adriano notò che aveva palesemente ciglia femminili, lo guardò con una strana tristezza mista a rancore.
«Perché?» gli chiese lei.
«Perché necessito di due cose: Il suo ritorno e la conoscenza completa»
«Forse non avrai tempo per chiedere tutte e due le cose… la forza è troppo potente»
«Taci spirito! Chiederò prima il ritorno di Antinoo e poi l’onniscenza»
«Cosa desideri di più?»
«Antinoo… lo amavo come non ho mai amato mia moglie che avvelenai due anni fa… lui cadde nel Nilo mentre vagavo per l’impero per conoscerne i segreti»
«Non sarai tu a deciderlo ma ciò che desideri nelal tua mente»
«Ora basta!»
Adriano estrasse l’anello dalla tasca e lo infilò della mano destra, apparve una nuova entità: simile a un gatto nero, stessa proporzione testa-corpo, stessi lunghi filamenti (le vibrisse, in questo caso), stessi enormi occhi, questa volta verdi e inespressivi.
«Le tue incarnazioni saranno migliori di come sei diventato…. Inizialmente eri così apprezzabile come persona… ora sei diventato l’ombra di te stesso con questa ricerca… hai ucciso dei ragazzini per rubare loro dei gioielli che ti condurranno alla disfatta»
La coccinella guardò con tristezza il gatto e gli si avvicinò sussurrandogli queste parole: «Tra otto reincarnazioni… sarà l’ultimo»
«Ora… TRASFORMATEMI!»
Quella parola fu come un colpo al cuore ai due kwami: una fortissima corrente li risucchiò nei rispettivi miraculous e un vento pazzesco iniziò a soffiare da luoghi ignoti dispersi nel tempo e nello spazio: gli occhi di Adriano divennero bianchi e la sua bocca si aprì e le sue parole furono come gridate dal più profondo dei pozzi: «il Rumore che ascolto nel vento e la voce del mondo che ho intorno!»
Una pausa, il suo corpo iniziò a risplendere e gli abiti iniziavano lentamente a lacerarsi mentre una sorta di enorme corrente elettrica correva dalla sua testa a tutto il corpo.
«Le persone alle quali non mento io non le perderò più!»
Alludeva al suo grande lavoro come imperatore? Oppure a ciò che aveva tenuto nascosto al popolo di Roma ma che aveva rivelato solo a pochi?
 «Il mio cuore ora batte più forte»
Gaomiao indietreggiò spaventato mentre una pusazione di energia si concentrava nella parte sinistra del torace di Adriano: Il suo cuore stava per esplodere forse? O la coccinella e la tartaruga avevano ragione: non sarebbe sopravvissuto.
«Adriano! Fermati!»
«Il mio corpo ora punta alla morte!»
Poi gli occhi, rimasti semi aperti per lo sforzo di trattenere quell’energia, si spalancarono di colpo; la sclera dominava incontrastata bianca come il latte ma vi si intravedevano energie estreme baluginare nei riflessi degli occhi… che stava succedendo nel suo corpo?
«Finalmente conosco la Sorte! Ma perché lui non è qui?»
Gaomiao Cheng, antenato della famiglia Cheng comprese, ora Adriano aveva ottenuto il desiderio che chiedeva da più tempo: la conoscenza di tutto… Antinoo, il ragazzo che aveva amato non sarebbe tornato poiché ormai si illudeva di poterlo amare ancora tanto da farlo risorgere… Adriano non amava null’altro che la conoscenza.
«Ora vedo gente a me intorno! Ma non vi sono mia madre e mio padre»
Gaomiao comprese: stava morendo.
«Ora finalmente comprendo: l’aldilà non esiste, esiste solo un ritorno in questo folle mondo»
«Vedo chi io sarò: un re dalla spada luminosa»
La sua energia divenne ancora più forte: lo stava uccidendo nel modo più doloroso.
«Un salvatore degli oppressi in un mondo che non conosciamo»
La sua voce era incrinata… perdeva lentamente il suo spirito.
«Un giovane vestito di luce, in una mano ha una spada lunga e sottile e nell’altra un bastone di ferro… vedo le ali… sono enormi»
Cadde a terra perdendo tutta la sua luce, il suo corpo iniziò a sgretolarsi e l’ultima cosa che riuscì a dire fu: «L’ulitmo è dentro di me: vedo un giovane dagli abiti e dala chioma nera… ha un mantello di pelli feline e il suo volto umano ha orecchie e baffi di gatto… i suoi occhi sono color del fiele»
Fu così che Adriano, ultimo della dinastia Flavia, morì all’insaputa del suo popolo.
Si provvide a fin che vi fosse una causa credibile: non potevi entrare in senato e dire: «Il vostro imperatore sovrano è appena morto per sovraccarico di energia e informazioni relative alle sue vite future, il cadavere non esiste più»
Si riuscì a convincere così il senatoche era morto per un problema ai polmoni senza dover per forza presentare il cadavere; le ceneri furono poste in una tomba nascosta nel cuore di un mausoleo che si era fatto costruire: la mole adriana, che era sormontata da una sua statua equestre.
Riguardo alla mole, ora si chiama Castel sant’Angelo (ci sono stato, non è male) ma la statua equestre è stata sostituita da un angelo… peccato.
Ovviamente alla morte di Adriano i due miraculous scomparvero completamente per poi riapparire in un posto completamente diverso dove potevano essere trovati da nuovi idonei portatori.
 
Dovute spiegazioni
Adriano è una brava persona, ha dato a Roma uno dei suoi periodi migliori e si faceva amare dal popolo… non stupisce il fatto che le sue future reincarnazioni saranno… semidivine?
Questo racconto mi è venuto in mente mentre ascoltavo una cover di Fullmetal Alchemist Brotherhood (infatti nelle parole dell’Adriano Ardente ho ripreso alcune strofe)  e mi sono detto: perché no? Non ho una storia per il periodo nascita culto norreno-alto medioevo che riguardi magari l’impero romano… e l’idea di        qualcuno che raggiunge il potere assoluto riunendo i due miraculous del gatto nero e della coccinella morendo nel modo più epico possibile… è perfetto!
Ho anche fatto i miei controlli storici: i rapporti che c’erano al tempo tra impero di Roma e Impero di Cina, sempre presupponendo che in quel tempo si conoscessero già… che ridere il fatto di aver scoperto che proprio sotto il dominio di Adriano hanno iniziato con le trattative commerciali! Plot Twist!
Ho anche dato un ruolo importante al personaggio di Gaomiao Cheng (mai esistito probabilmente) ovvero come antenato del ramo materno di Marinette (prima o poi salterà fuori anche l’antenato dei Dupain)  mentre per Adriano ho preso gli aspetti del carattere aggiungendoci anche una leggera ambizione verso il soprannaturale che, conoscendo il tipo, probabilmente infondo aveva.
Vi chiedete chi siano le sue future reincarnazioni? Per alcune forse ci arrivate facilmente, per altre forse no… dovete aspettare che il ciclo si concluda per vederle tutte e, ehi! Siamo solo alla prima parte… e si: anche io mi devo ricordare di pubblicare roba con più frequenze ma… ehi! Ho anche dei difetti!
Pace. Aittam

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Capitolo 7
*** Alto Medioevo (550 d.C.) IL RICONGIUNGIMENTO DELL'ARCANA COPPIA ***


IL RICONGIUNGIMENTO DELL’ARCANA COPPIA
 
Il sovrano del mondo nascosto era tornato nella terra tangibile ed ormai era troppo tardi per il re che meritava la morte.
Non avrebbe avuto alcuna pietà.
Si faceva chiamare Chapalug e prima giunse nell’ex Gallia compiendo un numero di morti esorbitanti, poi diresse il suo interesse al regno prospero nel nord: nella grande isola di Britannia.
La notte era il suo periodo preferito: amava andare in giro per i boschi oscuri armato della sua lancia distruttiva e delle sue zanne.
Si era fatto prendere la mano forse? Se lo chiese solo quando raggiunse lo specchio d’acqua che i britanni chiamavano Lago di Lammon e vide nel riflesso la sua immagine: un cavaliere dall’armatura nera come l’ossidiana, una testa di gatto con occhi luminosissimi e zanne bianchissime e luccicanti, una coda folta e robusta faceva capolino da dietro come un serpente peloso; al suo dito brillava un anello intriso di terribili poteri.
Cath Palug, così adesso era chiamato in Britannia, intendeva vendicare colui che aveva abbandonato l’antico culto in favore dei cristiani… Arthur sarebbe dovuto morire così come la sua corte intera.
 
«Padrone… credo che abbiamo un problema»
Myrddin sollevò lo sguardo dal pesante libro che stava consultando: «Dimmi Wayzz»
«Percepisco il gatto… è vicino»
«Quanto?»
«Diversi chilometri: è comunque entro i confini dell’isola… Galles Meridionale forse?»
«Chi lo porta?»
«È molto potente… anche senza miraculous sarebbe un avversario temibile»
«Chi?»
«Non lo so! Chiedilo a Duusu magari!»
«Duusu?»
Il pavone volò fluidO uscendo dalla bisaccia del mago e posandosi sulla spalla «Non saprei… lo sento anche io ma non saprei esattamente dire chi sia… non è di questo mondo?»
«Viene dal cielo? È un alieno!» gridò all’improvviso Trixx sbucando da dietro il mantello.
«Ma secondo te?» gli urlò contro Wayzz.
«Magari! Non si può mai sapere…»
«Sono dodicimila anni che va avanti con questa storia… ecco perché non andavamo mai d’accordo neanche durante gli ultimi anni d’esistenza materiale»
Myrddin scosse il capo con dolorosa rassegnazione.
«Per una volta potreste evitare di bisticciare e di darmi una mano? Per quanto ne so potrebbe essere una creatura magica o peggio… un membro del popolo dei tumuli!»
«Eeeh! Come la fai lunga! Non sarà nulla di che» iniziò a sviare il discorso Trixx agitando la zampa destra.
«I figli dei Tuatha non vanno sottovalutati: lo sai quanto me quanto possono essere vendicativi per chi abbandona la loro fede!»
«Ma il culto dei Tuatha non è mai venuto in Britannia… non adoravate quei tizi dai nomi impronunciabili?»
«Si… ma loro si arrabbiano quando abbandoni la fede per gli Antichi Dei: la Madre e il Padre intendo»
«Ma noi li conosciamo da tantissimi anni! Intendi Al…» iniziò a dire Trixx ma Duusu lo interruppe rapidissima tappandogli la bocca con la coda.
«Non pronunciare i loro nomi a chi non è meritevole!»
«E io non lo sono quindi zitto!»
«Non capisco perché… sbaglio o anche noi non conoscevamo i loro nomi prima della Guerra delle Pietre?»
«Si! E così deve essere anche qui: che si chiami Danu, Dòn o Dea Arancione non conta nulla! Lei resta innominata nella sua antica lingua»
«Lo sai no che quella lingua ora sta nascendo poco più a sud di qui vero?»
«Mi correggo: la sua futura lingua»
«Basta parlare dei vostri trascorsi di cui sono costretto a restare all’oscuro! C’è qualcosa di molto pericoloso in giro e sento che il suo obbiettivo è il ragazzo!»
«Vero… il ragazzo… l’eroe nazionale… il salvatore della patria… il ricordato anche tremila anni dopo la sua morte!»
«Arthur è in pericolo e sento che il nemico viene da sotto i tumuli»
«Io allora inizierei a vedere se è vero? Ti basta chiederlo e ti poterò in quel luogo in cui ora si trova»
«D’accordo Trixx… trasformami!»
Trixx entrò nella collana che indossava il vecchio e il suo mantello divenne arancione con i bordi bianchi e il cappuccio fu decorato da un paio di orecchie da volpe.
Il mago estrasse dal mantello il flauto.
«Venite» disse agli altri due kwami che lo seguirono mentre egli spiccava un salto invidiabile per la sua età.
Myrddin volò nel cielo notturno verso il Galles ad una velocità straordinaria.
Giunsero sulle rive del lago Lammon e li videro due ragazzini pescare con una rete.
«A me sembra tutto apposto» disse Myrddin
«No… » iniziò a dire Wayzz «…sott’acqua»
In quel momento i bambini tirarono su la rete e in essa si vide una piccola figurina nera. «Un gatto?» domandò Myrddin aumentando la propria vista.
«Così sembra… un gatto vero! Non può essere Plagg»
«Ma tu l’anello lo vedi?» chiese Duusu a Myrddin. «No… ma è probabile che il nemico sia riuscito a nasconderlo con la magia… i miei antenati sono abili in queste cose»
«Già: ricordo di averne aiutati alcuni quando erano ancora in Irlanda» disse Trixx sprofondando nei ricordi.
«Terrò d’occhio questa zona per un po’: sento che questo gatto ha qualcosa che non va»
 
Passarono alcuni giorni e il gatto crebbe: era palese che la famiglia che lo aveva preso in adozione non se ne erano accorti visto che solo i bambini ci giocavano.
E il gatto era diventato aggressivo: uccideva gli uccellini con somma crudeltà, pescava pesci di sei chili senza problemi ed aveva ormai raggiunto le dimensioni di un cane di media taglia.
«Non è più un gatto… è una cavolo di pantera quella li!» mormorò Myrddin con sconvolgente stupore. «Non è neanche un semplice gatto: più passa il tempo, più lo osservo e lo studio e più capisco che è un Daoine Sidhe: non può che esserlo!»
«Effettivamente…» Duusu era sconcertato nel vedere quel mostro… era enorme!
«Eppure percepisco Plagg in quel gatto» iniziò Wayzz «come se avesse assunto una forma corporea…»
« ma mon credo sia possibile: finché i nostri miraculous non vengono distrutti siamo troppo limitati per riprendere forma corporea» concluse Trixx per lui imitandone la voce alla perfezione.
 
Myrddin si trovava alla corte del suo pupillo quel giorno: alcuni cavalieri erano appena tornati dalla cerca del Graal senza successo.
«Sai Myrddin… inizio a pensare che sia solo una leggenda»
«Non temere Arthur: i miei piccoli informatori sanno che esiste e conoscono il suo potere»
Myrddin osservò fuori da una finestra di Camelot: il lago luccicava di una sinistra luce perlacea e strane figure si avviavano lungo una strada secondaria che si inoltrava nella foresta.
Arthur riportò il mago alla realtà: «Finché nessuno denuncia problemi legati a gatti demoniaci io non intervengo: sono stato troppo tempo lontano per guerre inutili»
«Se tu non avessi sedato quelle ribellioni forse non saresti più qui quindi non definirle inutili… e poi è dovere di un buon sovrano il saper intervenire in queste questioni»
«Perché io? Sei tu che ti occupi delle questioni magiche, di certo non io!»
«Ma io ormai sono troppo vecchio: è il momento che tu intervenga come è giusto che sia per l’intera Britannia»
«D’accordo ma attenderò»
 
Myrddin si congedò dal pupillo ma, mentre scendeva la scalinata che conduceva alla sala delle udienze gli tornò in mente ciò che aveva visto e, immediatamente, si mosse verso la foresta.
Mentre sorvolava la foresta il vecchio vide cinque figure incappucciate muoversi rapide verso il laghetto dove Gwynevre, moglie di Arthur, era solita andare a fare il bagno.
Qui le cinque figure si posero in cerchio e scoprirono il capo liberandolo dalle cappe: avevano tutte e cinque lunghi capelli sciolti che ricadevano sul petto e le loro fronti erano adornate da diademi di legno con due corna di cervo dorate e una triquerta d’argento al centro.
Esse sollevarono le braccia e pronunciarono parole che Myrddin riconobbe nella lingua antica: «Dewch yn ôl atom ni Hu Gadarn! Y cyntaf ohonom ni ymhlith ni»
Poi cantarono nella lingua odierna.
Dissero tutte: «Behold, Behold, Behold the Horned Kimg!»
Disse la più giovane: «He who came to join the maiden the young king»
Dissero tutte: «The land, the land, hall our precious land!»
Disse la più giovane: «He, the young king, who comes to bring prosperity to the land!»
Cantarono poi tutte: «The land have been sleeping for too much time while the cold winter reigns. So Hu Gadarn will awake and with his powers he shall reign. That’s the time, let use unite, the circle cannot be broken. Their souls will shine, shine to the sky, behold the king again!»
Infine terminò la più giovane riprendendo la prima strofa.
«Hu Gadarn?» chiese Trixx con un’espressione interrogativa sul volto.
«Lo ricordo… antiche leggende… una specie di dio che viene tra gli uomini guidandoli in Britannia… non ho molta memoria al riguardo»
«Tu cosa ricordi Wyzz?» chiese la volpe.
«Ricordo bene… meglio di voi almeno… lo conosciamo bene… lo conosco bene»
In quel momento tutta l’acqua ribollì di una grande forza e gli alberi parvero tendere i propri rami verso la superficie.
«C’è qualcosa che non va… percepisco enormi poteri all’opera» sussurrò inquieta Duusu mentre una spirale d’acqua si innalzava serpeggiando e assumendo una forma vagamente serpentina dalle larghe spire.
«Scappiamo» mormorò con calma inquietante il kwami del pavone mentre indietreggiava osservando il serpente d’acqua.
«Non temere uccellina! Lui non ci farà del male… quello più a rischio è Myrddin» disse la tartaruga.
«Perché?» chiese il mago.
«Egli è diventato potente con il tempo: migliaia e migliaia di anni di attività l’anno formato e cambiato in ciò che ora é… lui ci ha intrappolati» disse Wayzz.
I tre Kwami si guardarono rapidamente e si presero per mano dirigendosi lentamente verso il serpente d’acqua.
Ora qualcosa si stava formando al suo interno: un vento fortissimo stava attirando li rami, foglie, insetti e radici e pareva raccogliere tutto quel materiale strappato nel suo cuore andando a formare qualcosa di solido.
Una figura umanoide si profilò, infine, al di là della cortina d’acqua: se ne distinguevano le braccia e le gambe ed un fisico slanciato e muscoloso. La cosa più straordinaria era il capo: una normale testa umana (di dimensioni enormi) con due immense corna di cervo larghe almeno otto metri e due immense luci che baluginavano nella buia notte come torce in una caverna.
«Eccomi a voi sorelle e amici» disse una profonda voce.
I tre Kwami si posero a livello del suo volto e palarono.
Iniziò Trixx «Ave Verde Padre… come va?»
«Perdonalo! Ascolta la nostra voce e non farti guidare in azioni sconsiderate da queste adoranti»
Intervenne la più anziana delle donne incappucciate: «Come osate oh spiriti ad interrompere la nostra cerimonia!»
«Cosa volete fare?» chiese Duusu rivolta alle donne.
«Non è affare tuo» rispose la donna.
«Per chi lavorate?» chiese Wayzz.
«Non è affare tuo» rispose di nuovo
«Da dove venite?» chiese Trixx.
«Non è affare tuo» rispose ancora.
«Non vedi? Loro non vogliono dire nulla di ciò che fanno: nasci in quel periodo in cui tutto è nascosto e quindi saprai quanto me quanto le persone potenti nascondano dei propri obbiettivi e perché lo fanno» lo incalzò Trixx.
«Lo so» mormorò lento e misurato, con una profonda voce, il grande dio cornuto.
«Tu sei uno tra i più grandi della nostra specie… vuoi farti dominare da queste donne? Hanno il tuo Torques?»
«Non l’hanno»
«Se il tuo oggetto vincolante non viene usato allora perché dovresti sottostare a loro?»
«Perché mi adorano»
«Sarebbe questa la tua motivazione? Noi tutti qui siamo stati adorati con diversi nomi eppure non abbiamo ricevuto mai nulla di effettivo né abbiamo potuto intervenire per rispondere alle loro preghiere… tu più di tutti sei il più libero tra noi e puoi rifiutarti di sottostare ai loro ordini»
«Perché non dovrei ascoltarli?»
«Cosa desiderano?»
Hu Gadarn, così concluse Myrddin, uscì dalla cortina rivelandosi in tutta la sua presenza: tutto attorno a lui la natura strappata dalla corrente ricrebbe come se il tempo fosse stato velocizzato: il suolo si ricoprì di erba fresca e alta punteggiata da fiori, la corteccia degli alberi si inverdì e si ricoprì di edera e rampicanti vari mentre molti animali uscirono allo scoperto per vedere il loro signore.
«Morte» concluse lui dopo essersi concentrato.
«Ed è ciò che avranno» dise poi allargando le mani e uccidendo ognuna delle donne presenti senza risparmiane nessuna.
«Percepisco la sua presenza» mormorò poi.
«Dove?» chiese Duusu.
«La!» disse il cornuto indicando con un lungo e affusolato dito ricoperto di corteccia e rampicanti una delle cultiste riverse al suolo.
Myrddin decise di uscire in quel momento e si resse sul bastone mentre avanzava nella radura.
Hu Gadarn si voltò verso di lui e lo guardò con aria interrogativa poi chiese: «Come ti chiami?»
«Myrddin Taliesin» disse il mago visibilmente spaventato.
«Il tuo nome è famigliare… ma forse ti conobbi inizialmente come Merlino» Wayzz annuì con il capo.
«Sembri essere con loro… mi fido… ma sarò io a prendere il medaglione»
Hu Gadarn si avvicinò rapido e agile, come un animale che sta per consumare una carogna e teme che gli venga sottratta. Sollevò il capo della donna con una mano. «Eccolo» disse lui sfilandole dal capo un ciondolo con una triquerta d’argento.
«Padre?» chiese Wayzz «Non la vorrete risvegliare ora?»
«Mi manca… sono trecento anni che non la vedo… quando i Daoine Sidhe mi strapparono il suo essere… MA NON È LEI!»
Le ultime quattro parole le gridò così forte che stormi di uccelli si levarono dai rami e le piante appassirono d’improvviso.
Hu Gadarn strinse il ciondolo nella mano destra e disse, con rabbia crescente: «Dove sei… dove sei! DOVE SEI!»
La luce che brillava nei suoi occhi si allargò e si restrinse ritmicamente alle sue parole: un profondo raspare provenne dalla sua gola e il suo pomo d’Adamo pulsò mentre sollevava la testa al cielo e, stringendosi il pugno chiuso dove una triquerta di argento si frantumava, eruppe in tutta la sua furia con un urlo lacerante e lunghissimo che rimbombò nelle orecchie di Myrddin come un tamburo gigantesco e spaventoso.
Dopo quella che parve loro un’eternità egli abbassò il capo.
«Dobbiamo salvarla… ormai il tempo sta per scadere e io non posso più sopportare la sua mancanza»
«Come è possibile che sia passato così tanto tempo dalla vostra separazione? Eppure la natura continua a rifiorire… non dicevano che tu e Madre Dòn vi congiungevate ogni anno per permettere la primavera?» chiese Myrddin.
«È così… lo hanno detto anche le cultiste ma è troppo complicato»
«Andremo al Sidhe e scopriremo il perché» concordò con grande sicurezza Wayzz e, appena il kwami della tartaruga ebbe detto questo Myrddin ricordò Arthur e la sua missione.
«Verrà anche il mio protetto… deve affrontare il loro re»
«Cath Palug?» chiese Hu Gadarn.
«Chi?» domandò educatamente Myrddin.
«Cath Palug: il re attuale del popolo nascosto: pare sia il sovrano più crudele mai esistito e che abbia attuato una delle cose più terribili nella storia del mondo»
«Cioè?»
«Lo vedrai quando saremo li» disse il dio cornuto «Ora va a pendere il tuo protetto… ci servirà un sovrano puro di cuore»
 
Arthur, Myrddin e i tre Kwami (di cui Arthur venne a conoscenza) furono trasportati da Hu Gadarn in un luogo che non pareva di questo mondo: immensi alberi verdi come foglie d’estate si innalzavano mischiandosi tra loro in un magnifico soffitto di foglie e rami attraverso cui filtravano fasci di luce.
«Seguiamo la strada» disse il kwami della volpe guidando gli altri lungo una strada di pietre argentee che spuntavano tra l’erba.
«Come fa a sapere la strada?» chiese Arthur.
«Vedi figliolo: lui è la capacità di orientarsi personificata tra le altre cose… è logico che lo sappia fare»
«Ma come faremo poi a tornare indietro? Ho sentito storie di questo luogo… il tempo passa più veloce giusto?»
 «Esattamente… ma lo fa solo a mia condizione» disse Hu Gadarn con la sua voce triste e calma al tempo stesso mentre camminava dietro a tutti. «Vedi qualcosa Duusu?» chiese poi il dio cornuto.
«Si… sento alcuni Daoine Sidhe avvicinarsi»
Due soldati in armatura verde si avvicinarono con le lance puntate verso i loro avversari. «Dove osate andare?» chiesero perentori.
«Vogliamo affrontare Cath Palug» disse Arthur.
«Verrà» disse uno di loro e gettò una pietra al suolo facendo vibrare il terreno in modo inaudito.
In quel momento l’aria parve prendere forma: i due soldati scomparvero e una figura felina ed enorme avanzò dal nulla assoluto e apparve agli occhi dei sei come una gigantesca specie di gatto dal pelo nerissimo e gli occhi gialli come pepite d’oro.
Il gatto, ora grande come un rinoceronte, si avvicinò con passo lento e cadenzato e si sedette osservando di sbieco i presenti. Poi parlò.
«Cosa volete?»
«Morte nei tuoi confronti!» dissero Arthur e Myrddin.
«Come hai potuto vincolarlo in questo modo?» dissero i tre kwami.
«Liberala!» disse Hu Gadarn.
 «Lasciate che risponda a tutte e tre le domande: accetto la sfida, sono versato nelle arti magiche e lo farò solo il 31 Febbraio!»
Hu Gadarn si pose con il capo chinato e il ginocchio abbassato (come un gesto di genuflessione) ma caricò immediatamente cercando di colpire Cath Palug che, con un colpo della zampa, distrusse immediatamente il dio cornuto.
Le foglie si ricomposero subito andando a formare di nuovo il padre verde.
«Ma come hai fatto a distruggermi?»
«Oh… Il suo potere è enorme e può essere sfruttato nei modi più distruttivi… adoro la distruzione!»
«Come hai ottenuto l’anello?» chiese Trixx.
«Un regalo… un’eredità forse? Era appartenuto a un mio antenato molti anni fa… Lugh Lamfatha»
«Il dio dell’astuzia?» chiese il mago rivolgendosi al kwami della tartaruga. «Già» rispose però il gatto che, come se niente fosse, si rizzò sulle zampe posteriori e si mutò in un aspetto più umano: ora il corpo era completamente umano se non fosse per la testa, di gatto nero dagli occhi gialli e i denti lunghi come un pollice.
Il suo fisico asciutto era coperto da una spessa armatura nera con un mantello di pelliccia nera lasciata alle spalle.
Egli estrasse un piccolo cilindro da sotto il mantello e lo allungò in un bastone per poi premere un piccolo pulsante al suo apice da cui uscì una punta di freccia acuminata come un pezzo di vetro.
«Morirai Arthur!» disse, a metà tra un grido e un miagolio preparandosi a colpire.
Fu uno scatto della rapida coda, un colpo della lancia e un’artigliata della mano destra libera e Arthur non ebbe alcuna facilità nell’evitare i suoi fendenti.  
Si muovevano come due turbini: il primo colpiva ad una velocità incomparabile e il secondo tentava di evitare i suoi colpi di lancia ma sapeva che, impugnando quella spada, avrebbe conseguito la vittoria.
Il combattimento durò a lungo: Cath Palug schivava i colpi di Caliburn con facilità spaventosa mentre la lancia entrava spesso a contatto con la spada e la forza impiegata era tanta da far fumare il manico della lancia; alla fine però un colpo maldestro del gatto nero gli fece volare via la lancia dalle meni mentre Arthur gli tranciava via la mano con un colpo di spada. La mano volò a terra e con essa si portò dietro un anello nero con l’impronta verde di un gatto.
Il travestimento cadde: ora Cath Palug non era nient’altro che un esserino piccolo e disgustoso: simile a un omino non più alto di un metro, brutto e malconcio e soprattutto dalla faccia tutto tranne che adorabile. Arthur lo finì trafiggendogli il ventre con la spada e liberando una forte oscurità dal suo corpo.
L’anello, ancora nel dito medio della mano tumefatta, giaceva al suolo e fu raccolto da Hu Gadarn che, appena lo ebbe indossato, liberò il kwami che vi abitava: un gatto.
Era un gatto dalla tesa grossa due volte il corpo, occhi verdi e monocromatici e lunghe vibrisse che si dipanavano dalla bocca e delle tempie.
«Plagg?» chiese Duusu volandogli vicino.
«Secondo te?» chiese il gatto stizzito.
«Cosa ti ha fatto?» chiese lei sgusciandogli attorno e sistemandogli con la zampa le vibrisse leggermente ammaccate.
«Sfruttamento di troppo potere!» disse lui di risposta «Appena ha capito con cosa ha avuto a che fare non ha esitato e ha cominciato a torturarmi: avete idea di cosa significhi mangiare la pozione del soggiogamento completo? È come essere l’incatenato nel miraculous della farfalla!»
Tutti, inspiegabilmente, rabbrividirono.
«Non nominarlo più» ordinò Trixx.
«Ora… quale è il vostro obbiettivo?» chiese il gatto.
«Liberare un altro kwami… molto più potente»
«Come molto più potente? Non eravamo io e Tikki gli unici all’inizio del tempo che ci divertivamo a giocare con i dinosauri?»
«Questa non la sapevo» mormorò sconvolto Wayzz.
«Ah! Era divertentissimo! Eravamo solo io e lei: due unici Kwami nell’eterno universo che usano come campo da battaglia la terra! Quanti massacri di rettili preistorici abbiamo fatto durante il Medio Cretaceo!»
«Non avrei mai detto che Tikki potesse qualcosa di simile»
«Eh già! La creazione è distruttiva così come la distruzione è costruttiva giusto?»
«Mi sa tanto di massima»
«Infatti lo è: è mia!»
«Ma va a quel paese!
«Ci sono già amico mio|»
«Ma sbaglio o ci stanno lasciando indietro?»
«Io credo di si! Yey!»
I due kwami raggiunsero il gruppo che si era avviato lasciandoli indietro poco dopo aver capito che la conversazione sarebbe andata avanti per qualche altra ora e proseguirono il cammino.
 
Con la morte di Cath Palug nessun Daoine Sidhe li attaccò.
A quanto pare avevano abbandonato il suo palazzo dove, era certo, era costudito il suo tesoro più prezioso.
Giunsero quindi alle porte del palazzo: una maestosa dimora dalle mura verde semraldo con finimenti d’argento e d’oro e finestre alte e strette ma molto luminose.
Essi entrarono e non trovarono nessuno ma si lasciarono guidare da Hu Gadarn che scese scalinate e attraversò corridoi percorrendo diverse decine di metri.
Alla fine giunsero in una stanza nella parte più sotterranea: una cavità interna a forma di sfera era ricoperta, al suo initerno, da rampicanti che ricoprivano la sua intera superficie e, all’esatto centro dell’uovo d’edera fluttuava senza alcun sostegno un ciondolo a forma di triquerta d’argento legata con una sottile catenella del medesimo materiale.
Hu Gadarn comprese ciò che avrebbe dovuto fare: prese il ciondolo e lo poggiò al suolo facendolo ricadere lentamente: la triquerta fu poggiata al suolo prima in verticale e poi si distese seguita gradualmente dalla catenina che andò a formare con la sua linea la lettera A.
«Lascia che Ana venga a noi» disse Hu Gadarn e gli altri Kwami gli fecero eco.
Qualcosa risucchiò nel suolo il ciondolo e un suono di risucchio nelle profondità della terra si potè sentire alla perfezione.
«Arriva» disse il cervo mentre sollevava lentamente la testa e allargava le braccia.
«Vieni mia amata!» disse poi mentre una strana musica, come di flauti, si propagava nell’ambiente e, Myrddin ci giurò, anche in superficie e in tutto il mondo.
La barriera di rampicanti si distrusse implodendo su sé stessa ma qualcosa impedì che i presenti (soprattutto Arthur e Myrddin, gli unici mortali) venissero uccisi dal crollo: Una sfera (delle medesime dimensioni di quella contenuta nell’edera) si muoveva trasportandoli in superficie e si notava perfettamente ciò che la muoveva: una presenza nuova e sconosciuta.
Quando sorsero in superficie non erano più nel Sidhe ma a Camelot, sulle rive del lago.
Comparvero tutti spuntando letteralmente dalla terra e qualcosa di nuovo si innalzò dall’isola al centro del lago: una figura grande quanto Hu Gadarn ma diversa… più vegetale?
Essi raggiunsero l’isola e qui trovarno colei che Hu Gadarn, che in Irlanda chiamavano Donn e che in Gallia chiamavano Cernumnos: la Madre.
Era in piedi, in mezzo allo spiazzo verdissimo che ricopriva l’intera isoletta ed era bellissima: una chioma lunga e mossa in modo regolare: i capelli divisi da una riga al centro e tenuti dietro alle orecchie la rendevano di una bellezza straordinaria… soprannaturale.
La pelle, similmente a Hu Gadarn, aveva tre tipi di sfumature: una verde chiaro (più superficiale), una bruna (intermedia e più diffusa) e una arancione (più profonda e maggiormente presente negli occhi) mentre, ora che era mattina, Hu Gadarn era visibilissimo e il verde del Sidhe non si rifletteva più sulla sua pelle: ora era di un verde scuro come sfumatura superiore, bruno come sfumatura più intermedia e verde chiaro come sfumatura maggiormente interna. Entrambi avevano capelli castani con le rispettive sfumature verdi chiaro e arancioni per lei, verde scuro e verde chiaro per lui.
Le corna di Hu Gadarn erano visibilmente più grandi e più spettacolari: nel viaggio nel Sidhe aveva ridotto le sue dimensioni ma ora la sua forma era ancora più imponente rispetto a quella comparsa dall’acqua. Un vero e proprio dio primordiale della natura.
Ana gli si avvicinò e lo abbracciò «Mi sei mancato lo sai?»
«Ci avrei giurato… ti andrebbe di ballare?»
«Con in sottofondo la tua musica però»
«Sembra giusto»
Una strana melodia si innalzò dalla foresta: era la voce di ogni pianta e di ogni animale ed era, a detta degli stessi Kwami, la musica più bella che essere senziente potesse sentire e che chiunque avrebbe amato e voluto riascoltare migliaia e migliaia di volte.
Essi danzaorno al ritmo di quella musica dalle forti sonorità arcane e contemporaneamente sfrenate.
Attorno a loro ogni attività si avviò più rapida: le piante crebbero maggiormente e i loro colori divennero più vivi, la luce fu più intensa e più piacevole che mai e, ovunque si guardasse, si percepiva la sacralità della natura rappresentata dai due esseri primordiali.
«Torneremo presto» disse Ana posando il capo sul petto di Hu Gadarn.
«Torneremo» disse lui ed essi si dissolsero in foglie e essenza vitale.
«Dove vanno?» chiese Arthur.
«A consumare per la prima volto dopo tanto tempo il loro eterno matrimonio no?» disse Myrddin.
«Come?» chiese lui con una faccia leggermente inebetita.
«Il ragazzo mi ricorda molto un mio ex portatore… un ragazzo forse troppo cieco per rendersi conto di ciò che gli accadeva attorno» commentò Plagg.
«Il mito è vero: ogni anno il Dio Cornuto e la Grande Madre consumano un matrimonio ciclico: con il loro periodico atto riproduttivo ridanno vita alla primavera. Quando al cervo ricrescono le corna anche la vecchia torna ragazza» disse Trixx.
«E così è sempre stato» concluse Wayzz guardando il compagno con aria malinconica.
«Li incontreremo presto… tra 1600 anni se non sbaglio» disse infine Plagg quando il silenzio fu troppo pesante.
«Perché così tanto?» chiese Arthur.
«Ma non mi avete sempre detto che nulla è scritto al di fuori dal confinamento nella vostra prigione di pietra?» chiese poi Myrddin riprendendo le parole che Wayzz gli aveva detto tempo addietro.
«Se fosse tutto e solo così la vita sarebbe molto più semplice… noi stessi siamo in quei due ragazzi»
«Ragazzi?» chiese Arthur.
Duusu corse a tappare la bocca a Wayzz: «Taci guscio vuoto!»
 
Eilà! Vi sono mancato?
Voi nella fila infondo: Siete pregati gentilmente di abbassare quelle torce grazie!
Invece voi altri, più avanti, mettete via i forconi: non siamo in mezzo ai prati e non è estate… anche se lo vorrei.
Siamo ufficialmente usciti dal Medioevo e ci siamo allegramente tuffati nel felicissimo periodo Medievale! Siii!
Ini realtà me la sbrigherò in tre storie su questo argomento: una sul passaggio età anticaàmedioevo, uno attorno all’anno mille e uno riguardo la fine di questo bel periodo denso di avvenimenti studiati nel modo peggiore in tutte le scuole della magica Italia…
Qui entriamo in un periodo di conflitto: mi riallaccio quindi alla seconda narrazione, riferita al popolo dei Tuatha de Danann (di cui abbiamo visto i discendenti che ormai, dopo essersi distaccati così tanto dal mondo mortale, sono diventati molto meno che umani) in cui il culto ancestrale, nella zona delle isole britanniche, viene lentamente soprasseduto dalla religione cristiana e, per la cronaca, le cultrici incappucciate non sono streghe me sacerdotesse di Avalon guidate da Morgana… che pensavo di far comparire e darle il volto di Juleka ma poi ho iniziato a guardare Trollhunters e… non mi sembrava giusto nei confronti di quel gran personaggio (se vi piace la seria appena citata prima o poi inizierò a pubblicare una serie riguardo anche quel mondo creato dalla geniale mente di Del Toro)  
Parlando invece dei due dei della natura: Hu Gadarn (nome gallese) e Ana (anche qui nome gallese) ho scelto questi personaggi per confermare il fatto che esistono davvero in questo mondo e che non sono solo frutto della visione cosmogonica dei celti. Tutto si riallaccerà e non vi resta che fare teorie su chi erano inizialmente… li conoscete.
Arthur, se non lo sapete, è una delle incarnazione di Adriano (se non vi ricordate, nella sua visione compare come una delle sue successive incarnazioni) e un giorno arriveremo a dare risposta ad ogni vostro dubbio.
Intanto vi saluto… sarò più frequente ve lo prometto.

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Capitolo 8
*** 8. Metà Medioevo (1250 d.C.) MELODIA INCANTATA NELLA VALLE DI HAMELIN ***


MELODIA INCANTATA NELLA VALLE DI HAMELIN

Erano ovunque: uscivano da qualsiasi luogo e non li lasciavano in pace.
Erano praticamente onnipresenti.
Non sapevano cosa fare… tutti quei ratti davano sui nervi.
Fu in quel momento che arrivò lo straniero.
 
Era mattina presto quando il viandante si stava avvicinando al villaggio di Hamelin: aveva udito parlare di un’invasione di ratti e aveva saputo che ci sarebbe stato un lauto premio in cambio di una bella disinfestazione.
Il prezzo che avrebbe concordato sarebbe stato ottimo e ciò che più di tutto Fuchsohn desiderava era fare il suo lavoro e andarsene tranquillo con un bel gruzzoletto: metà lo avrebbe risparmiato per i suoi viaggi, un quarto lo avrebbe speso per mangiare e bere nelle osterie e il quarto rimanente per il pernottamento. 
Quando fu arrivato al centro del villaggio la prima cosa che notò era la dilagante sporcizia generale… ecco perché tutti i topi si concentravano in quella zona… non se ne meravigliò affatto.
Ma quando incontrò il borgomastro capì che il posto era così non da prima che arrivassero i topi ma subito dopo il loro giungere.
«Allora com’è possibile che quei roditori siano venuti qui?» chiese Fuchsohn.
«Non è ovvio? Opera del demonio!» urlò lui a metà tra il frustrato e lo spaventato.
«E se fosse all’opera una magia più antica… tipo non so… la natura?»
«Sciocchezze! I ratti non si concentrano in questo modo nelle città! Non siamo nemmeno una città grande!»
«Lo vedo… indagherò… ma prima desidero che mi garantiate un pagamento»
Il borgomastro arricciò il naso ma comunque chiese: «Quanto desiderate?»
«Venticinquemila fiorini»
«Siete davvero sicuro? Per una disinfestazione?»
«Oh! Ma sarà completa… e, vedendo il vostro studio non credo che siate in povertà… quel mosaico di Giustiniano I penso valga venti volte tanto… per non parlare di quella croce d’argento tempestata di diamanti! E quella papalina d’oro?»
«D’accordo! Lo farò» lo interruppe lui con aria seccata per poi congedarlo.
Quel pomeriggio Fuchsohn si preparò: si presentò agli abitanti vestito in modo abbastanza simile da come si era presentato al borgomastro: una tunica legata in vita che arrivava a metà coscia, un paio di pantaloni stretti, due stivali neri riccamente decorati, un cappello da viandante dalla lunga punta sul davanti che sovrastava il capo coperto da un cappuccio (che prima non aveva) ma, novità, tutto rigorosamente color arancione con i bordi bianchi e nero nei punti più esterni (inclusi un paio di guanti che prima non aveva) ed infine, legata al fianco, aveva una singolare arma: un flauto lungo circa mezzo metro che ricadeva alle spalle del suo portatore.
Al collo non aveva più quel ciondolo a forma di coda volpina… che lo avesse nascosto sotto gli abiti per nasconderlo alla vista del popolo?
Fuchsohn non disse una parola ma semplicemente si portò il flauto alla bocca e emise una lunga, lenta e graduata nota bassa e profonda che parve toccare tutti nel profondo ma che era rivolta a qualcun’altro: i topi.
Fuchsohn si voltò verso la dimora del borgomastro dove il residente stava in piedi dinnanzi all’uscio e si scostò con un salto nel vedere qualcosa passargli sopra le costose scarpe lucidate: un ratto nero come la pece si diresse verso il pifferaio che, vedendolo, iniziò a suonare una melodia che alternava momenti frenetici e lieti a momenti calmi e malinconici passando poi a melodie frenetiche e inquietantemente tristi a melodie lente ma felici… come a ricordare una morte attesa?
Il pifferaio iniziò a camminare suonando quelle note così accattivanti alle orecchie dei topi che, udendolo lo seguirono come animati da un desiderio di perdizione e annebbiamento che nessuno avrebbe mai dovuto provare.
Egli continuò a suonare e al primo gruppo si aggiunsero altre frotte provenienti dalle dimore davanti alle quali passavano: egli attraversò ogni strada e ogni vicolo del villaggio; allorché dovesse fare marcia indietro i topi si diradavano per farlo passare seguendo il suo suono con il movimento della testa, come inebetiti.
Essi attraversarono ogni via e da ogni porta, finestra, buco nel muro o stalla uscivano centinaia di topi che si aggiungevano alla colonia che intanto seguiva Fuchsohn senza rendersi conto minimamente di dove si recassero.
Sulle sponde della città scorreva il fiume Weser in cui gli uomini pescavano e da cui venivano merci dalle città più a nord e più a sud: Fuchsohn decise di guidare l’esercito di ratti in quella direzione.
Egli camminò sulla riva e, con calma si mise ad attraversare il fiume finché non si ritrovò con l’acqua all’altezza del petto e suonò fin quando vide l’ultimo ratto entrare nell’acqua per seguirlo nel suo viaggio di morte. Pochi minuti dopo migliaia di corpicini inermi affiorarono sulla superficie facendo la gioia di serpi d’acqua e uccelli affamati.
 
«Questo pagamento?» chiese Fuchsohn quando si fu presentato l’indomani dal borgomastro.
«Pagamento?»
«Ma va? Mica lavoro per far felici gli altri eh!»
«Lo so ma… avete usato una stregoneria… è già un miracolo se non vi processiamo per adorazione del demonio…»
«Io?!? Adorare il demonio? Ma vi sembra normale che un cultista del satanasso venga a liberarvi della vostra piaga chiedendovi anche un pagamento che per voi è minimo? Voglio dire: ventimila fiorini è pochissimo per le vostre casse da quanto noto»
«Quindi non siete…»
«…secondo la vostra visione cieca e ottusa i poteri magici si ricevono solo dal diavolo eh? E se io fossi un santo voi non ve ne accorgereste nemmeno… che tempi!»
«Ma vede… io non pensavo che…»
«…non pensava che cosa? Che io vi avrei liberato dal giogo dei topi e che vi avrei donato un periodo di felicità indescrivibile facendo ciò? Ma mi avete preso per scemo forse? Se è così avete deciso di mettervi contro l’uomo sbagliato!»
«Ma come osat…»
«…per non avermi voluto pagare» lo interruppe lui urlando «Io getterò su questa città la più terribile delle sciagure a cui potevate essere soggetti! E nessuno fermerà ciò»
Detto ciò il pifferaio uscì dallo studio inviperito e si allontanò dalla città per un giorno.
 
Due notti dopo centinaia di bambini lasciarono il loro letto e furono guidati da un’incantevole musica che proveneniva, secondo la loro immaginazione, dal regno delle fate.
Essi seguirono il suono e si ritrovarono al centro della piazza dove il pifferaio suonava accovacciato sulla fontana. Quando videro che tutti i fanciulli erano li si gettò con un salto dal lato che dava sulle foreste (il lato opposto rispetto al fiume Weser) e camminò guidando il gruppo di infanti verso un luogo che né adulto né bambino avrebbero mai potuto vedere da vivi: l’oltretomba.
Essi attraversarono le campagne coltivate e si inoltraorno nelle tetre foreste che circondavano Hamelin attraversando radure, sentieri, zone boscose e colli irti fino a raggiungere le pendici di una montagna.
Nessun lupo o orso li attaccò. Nessun drago sbucò dal sottosuolo per mangiarseli, nessuna malvagia strega cannibale li condusse nella sua casa di marzapane per mangiarseli: essi camminarono per lunghe ore cantando in coro seguendo la voce del flautista.
La luna scomparve dietro le nubi quando essi raggiunsero la metà della montagna dove un rapido e concitato susseguirsi di note del flauto fecero spalancare una fenditura nella roccia viva in cui i bambini furono guidati come da una madre amorevole.
Il pifferaio li condusse nelle profondità della terra, in una caverna buia e oscura e qui continuò verso il centro dove una giovane ragazza vestita da grigio e con una mantella di pelo di ratto sedeva su un trono intagliato nella pietra. Essa distese il braccio con calma e pronunciò tre sole parole: «Punite il popolo»
Il suolo prese letteralmente vita e parve risalire sui bambini, ancora inebetiti nell’udire la musica celestiale di Fuchsohn mentre centinaia e centinaia di topi li uccidevano senza procurare loro dolore ma, letteralmente, divorandoli.
La giovane scese dal suo trono quando di loro non rimasero che le ossa.
«Quanti ne sono morti?» chiese Fuchsohn a Mäusetochter.
«Non più di milleseicento… ma si reintegreranno subito ai defunti quelli che arriveranno grazie ai nostri ospiti»
«Continueremo così fino alla morte?»
«Come ti ho sempre detto amore mio… perché non hanno mai preso dei gatti quegli idioti?»
«Costava troppo mantenerli»
 
Hey ciaò.
Eccomi con la seconda storia … forse un po’ troppo corta?
Ho deciso che, a questo punto metterò come punto di pubblicazione un appuntamento mensile così ho il tempo di organizzarmi al meglio con le trame e gli eventi.
Vi chiedete come mai non siano comparsi i Kwami dei nostri portatori oggi? Forse perché non possono parlare in questo momento? Un po’ come è successo per Nooroo, anche Trixx e Mullo hanno avuto i loro portatori dittatoriali e il pifferaio magico era l’ideale.
All’apparenza buono e simpatico è quello che io definisco un Trickster Maligno (Lila, per fare un esempio, è l’esasperazione più versata al male che io conosca di questo archetipo) ovvero un individuo all’apparenza amichevole e simpatico ma in realtà una vera e propria fonte di pericolo e malasorte.
Per quanto riguarda Mäusetochter, la sua amabilissima signora dei topi… spero che Marniette non si riduca come lei quando finirà per possedere anche questo miraculous… speriamo bene.
Sicuramente, per tutti i miei adorati musofobici non sarà stata una passeggiata leggere l’ultima parte… dopotutti i ratti sanno essere terrificanti no?
Presto arriverà anche un piccolo racconto su una vera e propria santa… voi sapete benissimo a cosa mi riferisco no?
Citando una scena:
 “Bagnerò la Senna con il sangue dei miei nemici ed essi tremeranno udendo il mio nome!”.
                                                            Jean de l’Arc
 
A presto! (spero)

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Capitolo 9
*** Basso Medioevo (1370-1400) ARMATURA ROSSA ***


ARMATURA ROSSA
 
Spesso i cavalieri e i fanti che scendono in battaglia non si chiedono perché lo fanno: spesso sono solo spinti dal desiderio di affondare le loro lame in qualche sconosciuto corpo per poi vederlo stramazzare a terra morto nella speranza che plachi la loro frustrazione di vita…. Che periodo disgustoso era quello!
Gli inverni si facevano più freddi e rigidi mentre le estati erano più aride e afose; la peste non aveva aiutato: era giunta improvvisa e tremenda e in un solo anno si era portata via migliaia di uomini, donne e bambini senza fare distinzione tra i meritevoli e i peccatori.
La peste era solo l’ultima e la più fatale delle piaghe di quel tempo: i quattro cavalieri erano arrivati come predetti dalle scritture e l’ordine era il medesimo.
Guerra giunse in groppa al suo cavallo ed era armato scoccando frecce dal suo arco d’argento quando Carlo Magno espanse i confini della Francia e sterminò tanti popoli quanti quelli che lo accolsero.
Carestia venne poi quando, poco tempo dopo, l’Impero Carolingio fu diviso crollando su sé stesso: governante incompetenti, leggi assurde e maltrattamento della popolazione portarono alla fame e ciò portò alle malattie.
E la Pestilenza venne sul cavallo scheletrico e ricoperta di bubboni pulsanti: la Peste Nera che colpiva ogni essere e non lo lasciava vivere se non tra atroci sofferenze per poi portarlo alla morte più crudele. Il castigo divino non perdonava nessuno.
E con la Peste venne la Morte, in sella a un cavallo verdastro e con l’inferno al suo seguito; null’altro che il colpo di grazia.
L’imperatore che estendeva il suo regno dalla Sassonia al territorio dei Longobardi continuava le sue inutili scaramucce con il papa che, come esponente supremo della chiesa, ne identificava tutti i pregi ma soprattutto ogni difetto: ogni peccato capitale gli apparteneva e a quel tempo non c’era papa che non amasse bere e mangiare, frequentare i bordelli, essere elogiato per meriti non completamente suoi, poltrire tutto il giorno affidando il suo lavoro a chicchessia per poi abbandonarsi a ingiustificati eccessi d’ira per poi rifiutarsi di spendere il proprio oro per il bene della chiesa ritenendo che invece fosse lui stesso la chiesa e che quindi, spenderli per se stesso, fosse uguale… ma soprattutto il papa invidiava l’imperatore: così potente e temuto, così forte militarmente e libero di fare tutto ciò che voleva… tutte scuse.
E tutto ciò portò alla devastazione finale: la guerra più lunga e sanguinosa che il mondo avesse mai visto e, sicuramente, la più attesa.
Inghilterra e Francia si odiavano da secoli (sebbene avessero molte affinità culturali) e il re di ognuna delle due potenze desiderava il possesso di quei territori al di là di quel braccio di mare.
E a un certo punto il fin troppo intraprendente Enrico III aveva colto l’occasione: in Francia era morto Carlo IV e con lui si sarebbe estinto il ramo principale della famiglia nobile di Francia… il fatto era che Edoardo era strettamente imparentato con il sopracitato e si reputava più legittimato al trono… scoppiò la guerra e fu tremenda.
Morirono centinaia di persone, alcuni ebbero successo ma pochi ancora li ricordano mentre molti caddero ingiustamente solo per una questione di contesa regale… a loro non importava: facevano a gara a chi aveva lo scudo più grande e la spada più affilata per battere il proprio nemico e chi vinceva otteneva fama per una cinquantina buona di anni per poi finire nel dimenticatoio o tra le braccia dell’amorevole Peste Nera.
La Francia perse molti territori e fu concordata una pace piuttosto sofferta: ora gran parte dei territori a Sud e ad Est erano controllati dagli inglesi e ai Francesi rimaneva il resto.
Ma poi tutto ricominciò attorno al ‘420: il vecchio re ormai era inadatto a governare la Francia e si percepivano i primi sintomi di una malcelata follia: perciò presero il suo posto due principi di Francia che sentivano di dover succedergli e iniziarono ovviamente a litigare come cani chiusi in una piccola gabbia assieme a un osso. 
Filippo di Borgogna fu seguito da una parte del popolo francese, i borgognoni e Luigi d’Orleans, conte d’Armagnac, fu seguito dagli Armagnacchi in uno scontro civile che fu tremendo e con orrende conseguenze.
Si da il caso che i borgognoni avessero delle piccole amicizie con gli inglesi e, appena questi fiutarono l’odore di conquista, non persero tempo e scesero in aiuto di Filippo conquistando il conquistabile: l’intera Normandia e persino Parigi che fu letteralmente saccheggiata (era dal tempo dei vichinghi che non si aveva qualcosa di così devastante) e ciò portò all’atto definitivo: il Trattato di Troyes.
Enrico V, nipote di Enrico III, stava letteralmente coronando il sogno di suo nonno e la sua stessa testa: entrò nel palazzo del vecchio Carlo IV con in mano un documento da controfirmare su cui erano messi, nero su bianco, tutti gli accordi per la pace: lui avrebbe ottenuto il torno di Francia in cambio della liberazione completa.
E Carlo IV, che come già detto era ormai in preda alla follia, accettò senza rimorsi parlando di uccellini che glielo avevano consigliato mentre dormiva. E la Francia finì sotto l’Inghilterra apparentemente per sempre.
 
Jeanne dormiva in quella notte fatidica, mentre la luna splendeva attraverso la finestra della baracca in cui dimorava con i genitori. Erano contadini figli di contadini che a loro volta erano figli di contadini.
E lei si sentiva a proprio agio in quella situazione ma si sarebbe sentita meglio se ogni volta non fossero venuti quei maledetti sceriffi inglesi a importunarli con le loro tasse e le loro pretese assurde.
Quella notte Jeanne si levò dal suo giaciglio e si guardò attorno con aria assonnata prima di guardare distrattamente fuori dalla finestra con un’improvvisa curiosità: qualcosa non andava nel giardino.
Uscì per osservare ciò che accadeva fuori e lo vide: uno strano bagliore tra alcuni alberi poco fuori il recinto di casa sua.
Inizialmente ebbe paura: sapeva di strane storie che riguardavano luci che apparivano nella notte e ti guidavano o a una grande ricchezza o ad un destino tragico, dipendeva tutto dallo spirito, ma anche di presenze demoniache che avrebbero potuto possederla.
Ma Jeanne non era spaventata: era più che altro incuriosita e l’unica cosa che voleva in quel momento era capirci qualcosa.
Camminò con circospezione per qualche decina di metri prima di arrivare a pochi centimetri dai primi alberi: in genere nelle storie le luci si muovevano ma queste sembravano ferme e provenire dal suolo.
Riuscì a raggiungere le luci e vide che erano emanate da due piccoli oggetti di una strana pietra rossa a pois neri che parevano avere vita propria.
La prima cosa che pensò era: “Non toccarli! Potrebbe viverci dentro il diavolo e potrebbe prenderti!” ma l’altro pensiero che gli venne in mente fu: “Ma no dai! Sono palesemente venute dal paradiso! Hanno le livree delle coccinelle e la coccinella è l’insetto sacro alla Madonna quindi deve averle inviate lei per benedirmi” e questo pensiero guidò le sue graziose mani che afferrarono i due piccoli orecchini.
Jeanne si infilò il primo orecchino nel lobo destro e vide un globo di luce rosa apparirgli davanti agli occhi (facendogli logicamente prendere un infarto) ma, prima di scappare via e chiedere aiuto ai genitori per la troppa paura che l’aveva nuovamente presa, Jeanne si sbrigò a infilare il secondo orecchino prima che avesse altri rimorsi: doveva essere per forza una presenza angelica se l’animale che recava come simbolo era la coccinella.
E le apparve… un demone.
Fu il primo pensiero che Jeanne fece: non assomigliava per nulla a un angelo: era piccolo e rosso come il fuoco con punti neri (forse la livrea della coccinella era solo una coincidenza o un modo per mascherare la sua natura malvagia) e appena Jeanne confuse le antennine di Tikki con due corna ricurve si sbrigò a sfilarsi il crocefisso dal collo e a gridare: «Vade retro Satana! Esci da questo luogo e lascia in pace quest’anima pura!»
Ma l’effetto non ebbe luogo: il demone non iniziò a gridare in modo convulso e a maledirla: rimase fermo, impassibile e leggermente contrariato.
«Mi hanno chiamato in molti modi» esordi l’essere con una voce femminile «ad esempio mi hanno dato dello scarafaggio, della dea, del mostro, della moira ma mai e poi mai mi hanno dato del diavolo!»
Jeanne si stupì: non poteva credere che una creatura così poco umana potesse parlare e con una voce così graziosa.
«Cosa sei allora se non sei un demone? Un folletto?»
«Ehm… non credo»
«Un elfo!»
«Macché?!?»
«Allora sei un angelo! Non trovo altra spiegazione!»
«No! Sono un Kwami!»
«Una che?»
«Una Kwami! Uno spirito Quantistico! Una custode dell’universo! Una…»
«…un falso dio! Allora sei davvero un demone! Chiamo il prete»
«No! Nessuno può vedermi a parte te! E non sono un falso dio!»
«Allora cosa sei? Una santa?»
«Ehm… una specie»
«Ma non hai alcuna caratteristica umana… allora sei un angelo! Non ci sono dubbi! E solo l’angelo più potente e bello può avere una voce così adorabile»
«Ehm… grazie?»
«Ma si è ovvio! Devi essere San Michele!»
«Cosa? San Michel… OK lasciamo perdere… si! Sono San Michele! Contenta? Ora: vuoi una mano per salvare il popolo di Francia dalla devastazione imminente?»
«Come? Davvero posso farlo?»
«Tu devi solo dire “Tikki trasformami” e sarai pronta ad affrontare qualsiasi esercito»
«Ma sono solo una ragazza… di quattordici anni tra l’atro!»
«Appunto! Prima lo fai meglio eh no?»
«Nel senso che: sono una ragazza! Mi è proibito combattere!»
«Con te faremo uno strappo»
«E cosa ne penserà la gente del fatto che sia una ragazza a guidarli?»
«Talvolta il popolo è più orbo di un vecchio»
«Capito! Mi devo travestire da uomo!»
«Non intendevo che… Jeanne?! Dove sei andata?»
Tikki fluttuò verso la casa dove la ragazza si era fiondata e la trovò seduta nella cucina dei suoi genitori mentre si stava tagliando i capelli con un coltello.
«Ma che diavolo stai facendo?»
«Mi fingo un ragazzo no?»
«Non posso crederci… un’altra Mulan… Ma perché?»
«È più sicuro così! Voglio fare in modo che la gente mi segui a prescindere dal mio essere uomo o donna e voglio che ci liberino dagli inglesi»
«Stanno creando così tanti problemi?»
«Beh… si. Gli sceriffi non fanno altro che disturbarci con imposte e leggi inutili che dobbiamo rispettare altrimenti ci frustano o ancora peggio… voglio solo liberare tutti da questa brutta gatta da pelare»
«È per questo che sono qui! Forza: di ciò che devi dire!»
«Va bene: Tikki, trasformami!»
Quando la luce si fu dissipata dalla sua vista Jeanne si guardò il corpo e lo scoprì in modo molto diverso dal solito: ora indossava un’armatura rossa a pois neri con bardature d’argento e al suo fianco pendeva una spada con un pomo dei medesimi colori.
«Wow… ma dove sei finita?» chiese lei a vuoto cercando Tikki con lo sguardo ma non la trovò… forse non era più così importante: ora doveva agire.
Si incamminò verso il bosco aperto sicura che, con la protezione di quella creatura angelica, non le sarebbe successo nulla.
Giunta davanti a un grosso albero estrasse la spada e menò un fendente contro il tronco convinta di essere diventata abbastanza forte da abbatterlo con un sol colpo. Mossa fallita.
In compenso scoprì di poter fare acrobazie e salti straordinariamente elevati e di poter individuare appigli e punti che la sostenessero anche quando si trattavano di rami sottili… non era abbastanza però.
Appena si fu stancata la trasformazione si annullò e le riapparve l’angelo.
«Non mi hai dato nulla di interessante: sono solo più agile di quanto già non fossi!»
«Ti devi solo impegnare: i poteri che conferisco non sono immediati: vanno sviluppati e possono portarti a grandi abilità… in più non hai solo una spada»
«Cioè?»
«L’elsa nasconde un sottile filo resistente quanto mille corde di ragno e lo puoi manovrare facilmente essendo lunghissimo: devi solo tirare il pomo e vedrai cosa sarai in grado di fare!»
«Altro? Ad esempio: come faccio a procurarmi un cavallo?»
«Puoi rubarlo!»
«Ma sono una pulzella pura e indifesa e sicuramente non sarei in grado di compiere una simile efferatezza!»
«Allora compralo!»
«Faccio prima a conquistare il regno a piedi»
«Allora ti dovrai allenare tantissimo per potertelo creare da sola: hai in dotazione un potere straordinario: dovrai semplicemente dire “Encanté dé la Fortune” e potrai creare ciò che io ti potrò suggerire»
«Quindi tu lo creerai! Non credevo che gli angeli avessero poteri così prodigiosi!»
«Si… certo… ora è il momento che tu passi il tuo tempo allenandoti… potresti andare in giro vestita da cavaliere – rigorosamente con l’elmo in testa – offrendoti di aiutare e difendere il popolo dai soprusi del popolo inglese»
«Ma così non rischierò di finire spesso nei guai?»
«Ti aiuterò: la fortuna è dalla tua parte!»
«Vuoi dire la grazia divina?»
«Si… lei… ora andiamo!»
 
Passò un anno in cui Jeanne vagò per le città e le campagne della Francia aiutando la povera gente e lavorando presso nobili di vario genere (doveva pur portare il pane in tavola) finché non fu abbastanza forte da poter rivaleggiare con un guerriero possente due volte lei sebbene il suo corpo rimanesse quello di una giovinetta magrolina e dal viso pallido: Tikki le aveva spiegato che era tutto frutto del suo potere.
Ora Jeanne vagava sia in forma di civile (con il cappuccio ben calato sul viso così da non poter essere riconosciuta da troppe persone) e armata di arco e fu soprannominata così Jeanne de l’Arc, poiché era solita proteggere il popolo dai soprusi della gente. E in forma di cavaliere si fece conoscere come il Cavaliere Vermiglio, che agiva talvolta come silenzioso mercenario e altre come nobile difensore del genere umano.
E non combatté solo umani: affrontò draghi e demoni, orchi e streghe per la difesa della buona gente.
Passò un anno ed ebbe sviluppato i suoi poteri di creazione fino a poter creare vita dal nulla: e così dette vita al suo cavallo poco prima che scoppiasse nuovamente la guerra.
E il suo cavallo le rimase fedele e fu chiamato come l’amato che aveva perduto poco prima, ucciso da due sceriffi inglesi per aver rubato alcuni cervi.
Giunse in quel periodo nei pressi di Orleans, zona limitrofa al luogo in cui era nata e luogo in cui ora gli inglesi avevano pianta stabile e se la godevano fin troppo.
Jeanne de l’Arc allora assunse il suo aspetto di cavaliere e si recò nella piazza della città pronta a far rivoltare il popolo: chiese ad un fruttivendolo una cassetta per le mele in prestito e lui gliela diede; lei portò la sua cassetta al centro della piazza, ci salì sopra e iniziò a parlare.
Sapeva che, innanzitutto, non c’era bisogno di parlare subito della situazione nazionale: altrimenti il popolo si sarebbe annoiato o spaventato, nel timore della punizione degli sceriffi: iniziò quindi raccontando qualche barzelletta, così da alleggerire la tensione e far agire in modo più collaborativo il popolo.
Essi risero alle prime battute e risero ancora più forte alle seconde per poi ridere nuovamente e con più fragore e clamore alle terze.
Ora tutto il villaggio era riunito ad ascoltare quella misteriosa figura che, da sotto quell’armatura per nulla intimidatoria, millantava di barzellette sempre meno edulcorate e sempre più spinte e sguaiate fino alla diretta critica cittadina.
Sapevano molti che agli sceriffi ciò non sarebbe piaciuto ma anche loro si erano uniti alle risate e sembravano non farci più tanto caso e, come sotto ipnosi, si sentivano parte della comunità che avevano il compito di controllare.
Quindi Jeanne decise di ironizzare sulle guerre passate tra Inghilterra e Francia e terminò ripercorrendo gli ultimi eventi per poi fare, come se fosse un gioco o una scommessa, questa proposta: ribellarsi!
E il popolo la ascoltò e la assecondò: prima presero il tutto come una simpatica burla poi, lo spirito di gruppo si fece più forte e Jeanne estrasse la spada gridando: «Allora! Per Dio Padre Onnipotente! Facciamolo!»
E la gente afferrò tutti gli oggetti che avevano sottomano e iniziarono uccidendo gli sceriffi che, inebetiti dalle risate, si resero conto fin troppo tardi di ciò che stava accadendo loro intorno.
Jeanne gridò ancora quell’incitamento e tutti si riversarono nelle strade a caccia degli inglesi e gridando: «Morte all’Oppressore! Morte all’Oppressore!» rivolgendosi probabilmente ad Enrico IV o a qualsiasi altra persona.
E la rivolta dilagò ovunque: prima ad Orleans e poi nelle altre città limitrofe finché l’intera Francia fu travolta da queste ondate di ribellione popolare.
Nel frattempo, Jeanne, che aveva diciotto anni al tempo, vagava per le strade di Parigi radunando più uomini possibile rivelandosi talvolta come la donna che era e talvolta come il cavaliere che voleva sembrare.
E cavalcò nelle pianure e nei boschi con il suo cavallo in testa a eserciti sempre più grandi finché non ebbe alle spalle l’intero ex esercito francese.
E Orleans tornò in mano ai francesi così come altre città, di cui l’ultima fu Parigi.
Ad un certo punto Jeanne de l’Arc capitò in un paese in cui si raccontava che vivesse l’ultimo discendente dei Capetingi, gli ultimi re di Francia prima della venuta di Enrico IV e ne fu felicissima: ora sapeva cosa doveva fare: convincere il figlio del Re Folle, Carlo VI, a riprendersi il trono.
Ella si recò alla sua casa e la trovò dimessa e povera: l’unico abitante era un giovane dall’aria trasandata e scialba che la guardò subito male come a dire “Che ci fai qui, vattene subito” ma lei riuscì a convincerlo attraverso le doti di eloquenza e anche qualche astuzia femminile (forse arrivò anche a sedurlo) portandolo quindi a Orleans, dove si sarebbe disputata l’ultima grande battaglia per la difesa della Francia dall’invasore.
E Carlo VI si pose in testa al suo esercito e a fianco a sé era Jeanne de l’Arc, l’eroina di Parigi, che scrutava gli uomini a cavallo attorno a sé: era la prima volta che non portava l’elmo e tutti poterono riconoscerla quale era: una donna.
Jeanne estrasse la spada e, dall’elsa, rivelò lo Yoyo che fece volteggiare sulla tua testa al grido di: «Morte a Enrico IV!» per poi gettarsi in battaglia al fianco del nuovo re di Francia.
E durante lo scontro lei combatté contro lo stesso Enrico IV che appena la vide le chiese: «Sei tu forse Jeanne de l’Arc? Quella che chiamano “La pulzella d’Orleans”?»
«Così dicono»
«Sei quindi disposta a morire per mano mia?»
«Questo pensi quindi?»
«Esattamente! Cos’è quell’armatura? Pensi davvero di intimidirmi con quattro pezzi di ferro in croce rossi a pois neri? Sei davvero una sciocca e una sconsiderata!»
Quando ebbe detto ciò Jeanne sollevò la mano in cielo e gridò: «Encanté dé le Fortune!» e tra le sue mani apparve una croce di legno.
«Porto tra le mani la croce di nostro signore Gesù Cristo! Tu non puoi nulla contro una paladina del signore!»
«Cosa? Ma quindi il tuo ordine viene dall’alto?!»
«Esattamente!» e detto ciò abbatté la sua spada sulla calotta cranica del re dividendola in due come un melone per poi passare attraverso il collo e metà addome: il sangue schizzò ovunque come se esplodesse e tutti i soldati attorno si ritirarono spaventati; ora Jeanne si voltò e, colta da una sorta di desiderio definitivo di vendetta, ne falciò uno dopo l’altro recando in mano la croce (vera o falsa, sta a voi deciderlo) che le attribuì in seguito il titolo di santa.
Jeanne avanzò in mezzo al campo sterminato e i soldati francesi la videro: armata di arco e spada, il suo Yoyo roteava vorticosamente lasciando dietro a sé spirali di sangue che ricadevano a terra come neve d’inverno; il suo corpo intero non presentava più alcun pois nero: era solo rosso.
Essi fuggirono presi da un terrore primordiale: era una paladina di Dio eppure aveva falciato tutto l’esercito come la morte e, in quella guisa, iniziarono a sospettare che non fosse davvero una dea e che il suo corpo fosse stato preda di un demonio.
Passarono gli anni e, dopo quella schiacciante vittoria, la Francia era nuovamente libera. Quanto a Jeanne ora stava bene: non aveva accettato alcun titolo nobiliare e continuava a farsi conoscere come Jeanne de l’Arc e il popolo la amava. Si dice che anche Carlo VI la amasse e che la desiderasse alla sua corte per renderla la sua regina ma lei non accettò mai: non desiderava essere una signora vestita con strati di seta e inghirlandata con pizzi e ghirlande così da sembrare più una statua d’oro che una persona e preferiva piuttosto continuare il suo lavoro di paladina del popolo: se mai Carlo VI fosse caduto nella spirale del potere, giurò un giorno Jean, avrebbe fatto la fine degli inglesi…. Anche se pare che in determinati periodi Jeanne non prestasse servizio al popolo e rimanesse alla corte di Carlo… e ogni tanto saltava fuori qualche suo figlio bastardo che il popolo attribuiva alla maternità della donna in armatura che li difendeva.
Erano passati alcuni anni ma, come accadde per Eracle, per Achille e per Artù, ogni eroe è destinato a una fine ingiusta.
Una notte Jeanne fu rapita e condotta oltre i confini del regno capetingio: ora era in terra d’Anglia e si trovò di fronte a una corte ecclesiastica che, senza alcun processo o tribunale, come voleva a loro Magna Carta Libertatum, fu processata per eresia contro la chiesa di nostro signore Gesù Cristo dal Santo Seno di Maria.
Le ultime parole che ricordò furono le seguenti: «Io, Frederich Munster, giudice divino, dichiaro la qui presente Jeanne de l’Arc come un’eretica che ha sterminato il buon popolo d’Anglia, servo di Dio, e la condanno per stregoneria e relazioni corrotte con la stirpe di Satana e sarò io stesso a dare alle fiamme il rogo su cui il suo corpo impuro sarà esposto!»
Tikki pianse quel giorno: non si era affezionata mai così tanto ad una portatrice e pianse soprattutto per l’ingiusta fine che aveva ottenuto.
Jeanne la consolò: «Non piangere per me: ci rincontreremo presto»
«In paradiso?»
«Nel tuo paradiso»
«Come?»
«Dopotutto tu non sei un angelo vero? E nemmeno un demone? E nemmeno un santo… sei un’emanazione di Dio»
«Ma cosa… come diavolo hai fatto a… no, non c’è bisogno che io lo sappia, mi spiegherai poi, quando tutto questo sarà finito e ci incontreremo nuovamente nel mio… come lo chiamava Doosu… Valhalla? Paradiso degli eroi personale? Non lo so… Nirvana forse»
Jeanne rise e prese per l’ultima volta Tikki tra le mani, la baciò e le sussurrò: «Ci vediamo dall’altra parte mio angelo custode» e si staccò gli orecchini per poi dirigersi, con passo sicuro e rilassato, verso la porta della casa in cui l’avevano confinata e che dava direttamente sulla piazza al cui centro era stata allestita la catasta che le avrebbe dato il colpo finale.
Salì con disinvoltura le scale di legno che erano state allestite con cura per sbeffeggiarla: una salvatrice del popolo aveva bisogno di una pira trionfale no? Si pose addossata al palo centrale e si fece legare le mani e i fianchi con corde strette e fili spinati che le ferirono i polsi e la vita; le posero un mantello di porpora sulle spalle e lei non poté fare altro che chiedere al boia, con una pesante linea di sarcasmo: «Ora mi calerete anche una corona di spine e mi farete bere dell’olio di ricino con una spugna? Dividerete le mie veste e mi trafiggerete il petto? E pensare che credevo che il popolo cristiano non volesse fare gli stessi errori che condussero sulla croce il primo martire»
«Non sei una martire, sei una strega che si crede tale» disse il boia con malvagia soddisfazione.
Venne il vescovo… come si chiamava? Frederich forse? Che portava in una mano il pastorale, nell’altra una fiaccola accesa e indossava una tunica riccamente decorata con intarsi d’oro e d’argento e portava, sulle spalle, il mantello porporino delle grandi occasioni.
«Ti conduco all’inferno facendoti assaggiare le fiamme del supplizio eterno» decretò lui con voce grave e solenne e accostò la fiaccola alla pira attendendo che il ramo prendesse fuoco; presto la fiamma si innalzò come un serpente e si mosse rapida diffondendosi su tutta la pira.
La gente applaudiva e rideva e Jeanne non fece altro che chiedere, con naturalezza e tranquillità: «Ridete come i romani prima della morte di un gladiatore… siete disgustosi»
Risero più forte.
«Eppure, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo… io vi consacro perdonandovi»
Le fiamme toccarono la sua povera veste che, nel giro di tre secondi, prese violentemente fuoco incenerendosi in pochissimo tempo e rivelando il suo corpo nudo e bruciato dal fuoco agli occhi della gente mentre il suo capo ricadeva verso il basso, coprendo il volto con la sua chioma corvina con riflessi bluastri che, alla luce delle fiamme, erano come rossi “un crine da strega” dicevano molti, mentre pochi pensarono: “Anche Maria aveva gli stessi capelli”.
 
E qui si conclude la tragica storia di Jeanne de l’Arc, la prima grande eroina di Francia che ora risiede nel Valhalla personale di Tikki, dove ogni portatore si ricongiunge con quelli passati all’interno del miraculous.
Per il prossimo racconto: andiamo nel nuovo mondo e vedremo cosa succede quando raduni due miraculous e, per coincidenza, la gente ti confonde per il loro messia mentre tu non hai buone intenzioni nei loro confronti.   

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Capitolo 10
*** Prima Età Moderna (1500) L'ERRORE FATALE DEL POPOLO PIUMATO ***


L’ERRORE FATALE DEL POPOLO PIUMATO
 
La gente di Mexica si distingueva dagli antichi popoli: non viveva più nelle valli e nei boschi spostandosi a seconda della stagione e seguendo i branchi di prede. Non viveva più attorno al fuoco e cacciando vestiti solo con pelli di cervo e piume legate al capo: vivevano ora in città maestose rette da sovrani potenti e vestivano abiti di pregiata fattura e riccamente decorati. Il popolo di Mexica era il più potente del mondo.
Potenti erano le loro lance, le loro spade dentate e i loro archi, gloriose le gesta dei loro signori e affascinante era il loro credo che, come dicevano loro, era fatto di sangue e magia impastati tra loro: i loro dei erano molti e potenti, i loro padri li veneravano come i figli e i loro riti erano tra i più complessi e organizzati al mondo conosciuto.
E così pensava il giovane Micazoyolin, il Guerriero Coccinella, il sacro servitore di Xipe Totec e difensore del popolo azteco.
Se ne stava ritto e fiero alle porte del Tempio Maggiore, e osservava la magnifica città in cui era nato e cresciuto: Tenochtitlan, la degna capitale del degno impero: posta al centro del lago Texcoco e costruita su numerosissime isolette collegate tra loro da strade rialzate e palazzi grandiosi: la più grande delle città nel mondo.
Egli portava, appeso ad ogni lobo, un orecchino che aveva ottenuto sull’altare prima di essere sacrificato agli dei: gli erano comparsi in mano mentre, alla tenera età di 12 anni, stringeva con tutte le forze il pugno per evitare di pensare al tremendo dolore che lo attendeva e lo avrebbe condotto nel Tlaloclan. Appena apparvero quegli orecchini vennero interpretati dal sommo sacerdote, poco prima che il pugnale d’ossidiana trapassasse il suo sterno, come segno che il dio Xipe Totec l’avesse eletto come suo campione: il rosso era il suo colore e il mito narrava che avesse deciso di rinunciare alla sua stessa pelle pur di donare cibo e abbondanza all’uomo: egli era il dio della buona sorte che aveva garantito al popolo di Mexica il suo più grande campione.
Al suo fianco i suoi più fidati amici: Xenetotec, il Guerriero Colibrì, prescelto da Huitzolopochtli, garante del sole, e Chalamaniqan, il glorioso Eletto del Giaguaro, con il quale Mycazoyolin aveva combattuto molte battaglie che li avevano portati ad avvicinarsi abbastanza da diventare amici molto stretti: il prescelto di Tezcatlipoca, dio della notte e della magia, era il più stretto collaboratore e, assieme al tranquillo Xenetotec passavano tutto il tempo libero dalle battaglie e dalle imprese a fare ciò che amavano di più: divertirsi.
Ed ora, dopo aver passato un’intera giornata senza fare nulla di eclatante ma stando in semplice compagnia, i tre giovani guerrieri se ne stavano tranquilli ad osservare il sole che tramontava oltre le folte chiome dei grandi alberi tropicali.
Micazoyolin se ne stava appoggiato ad una colonna mentre Xenototec affilava la punta della lancia seduto ai piedi della colonna a fianco. Chalamaniqan intanto stava mezzo sdraiato sulle gradinate difronte a loro, come un giaguaro poco prima di addormentarsi, stringendo con la mano destra la lunga e spessa spada dai bordi dentati che si premurava di tenere lucida come uno specchio.
Nel frattempo Micazoyolin pensava: egli si era distinto nei campi di battaglia combattendo con onore e gloria e aveva difeso il popolo di Tenochtitlan da ogni pericolo che gli si parava dinnanzi: mostri, demoni, invasori e qualsiasi altro tipo di avversità che turbava lo status quo del glorioso impero. Un impero gestito da un vero tiranno, certo, Micazoyolin lo sapeva: Montezuma era una vera e propria bestia seduta su un trono ma, ogni volta che lo diceva a suo padre, che apparteneva alla ridottissima cerchia di persone ce avevano il diritto di guardarlo in volto, lui sosteneva che faceva ciò per garantire la calma all’interno della capitale e dei territori del grande impero: ognuno doveva sottomettersi a lui poiché solo lui sapeva come gestire le cose.
Micazoyolin era piuttosto scettico su questa visione delle cose: un imperatore non ha il diritto di esercitare il suo potere con crudeltà però… se lo diceva suo padre… piuttosto pensava che la calma che era calata sull’impero negli ultimi tempi iniziava a farsi opprimente: era come se tutto il mondo attorno a loro si stesse preparando ad un futuro grande evento.
Eppure qualcosa accadde, lontano, sulle costa orientale dello Yucatan, alcune donne videro profilarsi le vele squadrate delle imbarcazioni che venivano da oltre l’oceano e che avevano portato solo distruzione e morte: i conquistadores.
Passavano i giorni, i mesi e le stagioni e il popolo di Mexica seppe ciò che accadeva ai loro confini: un uomo veniva seminando il terrore e cavalcando draghi immortali da cui sguinzagliava cani demoniaci assetati di anime; egli indossava il mantello di piume variopinte e la pelle del serpente: egli si faceva chiamare Hernan Cortes ma tutti, nella vasta Mexica, sapevano chi in realtà fosse: il messia che attendevano da quando l’uomo era nato: Quetzalcoatl.
Eppure Micazoyolin pensava che il dio che li aveva creati e li aveva istruiti a vivere non poteva certo apparire come un demone assetato di sangue quando fosse tornato: giravano storie terrificanti su ciò che Cortes facesse: non conosceva pietà e tutto ciò che voleva era conquistare l’Impero degli Aztechi che erano temuti da tutti i popoli che abitavano in quel tempo nelle Americhe.
 
Nello stesso tempo in cui Micazoyolin pensava ciò, a diverse miglia ad Est un drappello composto da pochi uomini avanzava attraverso la giungla facendosi strada a colpi di spada e spronando le loro possenti cavalcature a proseguire: in testa vi era la possente figura di un uomo vestito con armatura, elmo piumato e mantello in groppa ad un possente stallone bianco e dietro di lui la sua brigata composta non solo da quei pochi uomini a cavallo ma anche dai numerosi indigeni che era riuscito a portare dalla sua parte prima che decidesse di farli fuori: da sotto l’elmo egli pareva serio e impassibile, come una statua di cera, e dai suoi occhi fissi e statici non traspariva alcuna emozione.
Una donna camminava al suo fianco, era di etnia Azteca e conosceva sia la lingua che egli parlava, lo Spagnolo, e ben due lingue amerinde che conosceva alla perfezione: la sua lingua natale, il Nahuatl, e il Maya.
Doña Marina, così la chiamavano i conquistadores sebbene fosse stata chiamata Malintzin nella sua famiglia natale, in un antica città ormai conquistata da Cortes da cui i genitori l’avevano allontanata per disfarsi di lei vendendola come schiava agli schiavisti Maya che, a loro volta, l’avevano consegnata agli spagnoli. Qui Doña Marina era stata battezzata con questo nome ed era rimasta una semplice prostituta al servizio dei piaceri dei conquistadores prima che lo stesso Cortes non scoprisse ciò che in realtà era in grado di fare: parlare la lingua dell’impero che aveva intenzione di conquistare allo stesso modo in cui lui parlava lo spagnolo; così egli decise di portarla con sé in ogni spedizione così che gli facesse da interprete.
Quando la sera si fece vicina ed erano ormai giunti in prossimità dello sbocco sulla Valle di Mexica, da cui si poteva vedere il lago in cui sorgeva la capitale, superarono un territorio occupato da due vulcani gemelli e giunsero ai piedi di un crinale e, dopo che la vegetazione fu diradata, i soldati ammirarono stupefatti la magnifica valle: coperta a foreste lussureggianti e abitata da innumerevoli bestie: qui intendevano vivere fino alla morte poiché era un paradiso terrestre.
Quando fu calata la notte si accamparono sulle rive del fiume e Cortès fece richiamare una sentinella a fin che andasse sulle rive del lago per trattare con i servitori dell’impero.
Il giovane, che si chiamava Pedro partì al galoppo non prima che il suo comandante gli ebbe spiegato per filo e per segno tutto ciò che doveva fare: doveva recarsi sulle rive e cercare il ponte principale che collegava la costa a Tenochtitlan e di attraversarlo; alle porte della città avrebbe sicuramente incontrato degli uomini e lui, con l’aiuto di Doña Marina, avrebbe chiesto per conto suo di poter incontrare i rappresentanti dell’imperatore Montezuma per trattate di commerci e aiuto reciproco: avrebbe dovuto spiegare che non veniva per conquistare anche la città ma voleva lasciare all’impero abbastanza territorio da poter intraprendere un’attività commerciale con la Spagna in vista di una felice intesa.
Quando Pedro raggiunse la riva e trovò il ponte principale fu ben sollevato d aver quasi completato la missione: la parte difficile era fatta, ora doveva parlare con le guardie.
Quando raggiunse le ampie porte d’ingresso fu meravigliato: “Per essere dei barbari sono davvero bravi” pensò guardando con malcelato stupore le immense mura decorate e la larghezza delle porte.
Gli si pararono davanti dodici uomini capeggiati da un tale vestito in modo alquanto ridicolo: portava un mantello e un perizoma che ricordava il pelo dei leopardi e, con la stessa livrea, il suo corpo era dipinto. Brandiva una di quelle ridicole spade spesse e dentate, completamente priva della grazia e dell’eleganza delle sottili lame spagnole.
Egli si inchinò e parlò nella sua lingua: «Vengo per conto di Hernan Cortes, Signore di Veracruz e portatore della parola del nostro Re nelle vostre terre»
Marina tradusse.
Il tizio-leopardo parlò a sua volta e Marina tradusse dicendo queste parole: «Conosciamo la fama del tuo padrone: egli ha scombussolato i nostri territori e ha portato un’intera popolazione che, fino a pochi anni fa era sotto al nostro totale controllo, a ribellarsi contro di noi alleandosi con lui: non sappiamo cosa vogliate ma ciò che sia io che l’imperatore crediamo e che vogliate conquistarci».
Pedro rispose: «Cortes mi manda a dirvi che lui non intende uccidervi: vuole intrattenere un saldo rapporto di alleanza e di commercio con il vostro popolo così da legare il nuovo continente a quello vecchio garantendo così una buona alleanza»
Marina tradusse e lui rispose: «Cosa porti a garantire le tue parole?»
Pedro estrasse una busta e la aprì e la porse all’uomo che, con volto perplesso, soppesò quella strana sostanza bianca e sottile che sembrava una foglia ma non era né verde né aveva alcuna venatura «Cos’è» chiese.
«Questa è una lettera che Cortes stesso ha fatto scrivere alla sua serva, la qui presente Doña Marina, che testimonia la nostra buona fede»
Il guerriero osservò la carta e notò che c’era scritto qualcosa, lesse e decretò che il documento sfatava ogni dubbio e l’avrebbe presentato all’imperatore.
Pedro si allontanò congedandosi da quel tale e, tra sé e sé, pensò: “Barbari”.
Quando Cortes scoprì che quell’idiota di Pedro non aveva chiesto alcuna indicazione per l’ora o il giorno e se ne era tornato immediatamente all’accampamento non esitò a sollevare il braccio e a farlo saltare in aria a colpi di cannone.
Dopodiché inviò un altro che, qualche giorno dopo tornò con queste informazioni: «Dicono che vogliono organizzare una sontuosa festa in nostro onore e che ci attendono tra otto giorni alle porte principali; potremo entrare a cavallo e armati nella loro città come pattuito e verremo trattati con tutti gli onori»
Cortes annui gravemente e lo congedò.
 
Quando Chalamaniqan riferì ciò che aveva detto all’emissario degli spagnoli a Montezuma questi approvò e decise che si sarebbe consultato con i nobili e i sacerdoti per vedere se fosse giusto prolungare le trattative diplomatiche o passare direttamente agli scontri.
Micazoyolin intanto stava discutendo con Xenetotec sul da farsi: «A mio parere stiamo solo perdendo tempo mentre i nostri avversari ne stanno guadagnando» sentenziò Xenetotec con una punta di nervosismo.
«Anche secondo me ma dobbiamo pazientare: l’imperatore sa ciò che fa e non dubito che farà le scelte migliori per il nostro benessere»
«Tu lo sopravvaluti: sta invecchiando e inizia a perdere il lume della ragione mentre gli scatti d’ira si fanno più comuni… non l’hai notato?»
«Vero anche questo ma qualche sbraitata non può decretare l’inettitudine di un uomo a governare! Oppure no amico mio?»
«Io rimango comunque scettico»
«Contento tu»
 
Il Kwami di Chalamaniqam si avvicinò fluttuando a Tikki e le sussurrò qualcosa e lei annuì di risposta.
Micazoyolin chiese spiegazioni al piccolo giaguaro ma l’essere soprannaturale si dileguò troppo rapidamente e il giovane si sedette per terra battendo un pugno sul pavimento.
«Cosa c’è?» chiese Tikki.
«Cosa ti ha detto? Perché non mi ha voluto dire cosa ti ha detto?»
«Ti stai ripetendo»
«No… non uscire dal discorso: cosa state tramando?»
«Non ti preoccupare: lo scoprirai».
Quella sera Micazoyolin notò che il suo kwami era scomparso e, a detta degli altri due campioni anche loro non riuscivano più a trovare i loro; non se ne preoccuparono troppo e, verso tarda sera, li videro ricomparire improvvisamente, come se non si fossero mai mossi dal luogo in cui erano prima di andarsene,
«Allora?» chiesero i tre giovani.
«Vi diremo tutto: siamo stati ad origliare il consiglio di Montezuma e…»
«Ma è illegale!» sentenziò Xenetotec ma Chalamaniqam gli fece cenno di tacere.
«Cosa avete sentito» chiese il guerriero giaguaro.
«Ci sono tre idee comuni in tutto il consiglio: Olomontl vorrebbe impiegare subito l’esercito e liberarsi immediatamente degli spagnoli, Tamaniqan vorrebbe studiarli da lontano, individuare subito le debolezze e trovare una strategia efficace per batterli e tuo padre, Micazoyolin, vuole continuare le trattative, ritiene che visto che è in possesso di poteri divini sia impossibile da battere»
«Ma non ha poteri divini!» disse Micazoyolin incrociando le braccia… voi avvertite qualcosa in lui?
«No… non esattamente: percepiamo qualcosa di strano però, come se ci fossero altri kwami nelle vicinanze»
«Idiozia… li avreste percepiti chiaramente. Mio padre ha detto qualcos’altro?»
«Essendo il primo sacerdote ha riferito molte cose strane: il calendario individua in questo ciclo solare il ritorno di Quetzalcoatl che, in modo anomalo, corrisponde alla descrizione di Cortes»
«Si… il dio barbuto in aspetto di serpente piumato?» chiese Chalamaniqam «Effettivamente anche l’emissario che ha inviato potrebbe essere Quetzalcoatl: aveva la barba e un copricapo di ferro adornato con piume»
«Elmo strano il loro… va beh! Sarà solo una coincidenza!»
«Ehm no: sembra che Cortes abbia dalla sua gran parte delle popolazioni indigene che ha incontrato esterne alla valle di Mexica… ha anche fondato numerose colonie, la più vicina è Veracruz che si trova a pochissimi chilometri da qua»
«Ho sentito che ha bruciato le navi pur di evitare che i suoi soldati vogliano tornare alla loro terra natale»
«È un folle… ma anche un genio! Chi avrebbe fatto una cosa simile pur di tenersi stretti i soldati?»
«Io no: ci tengo alle mie risorse di spostamento» rispose Xenetotec con pesante sarcasmo.
«Abbiamo altri problemi» introdusse il kwami di Chalamaniqam: «Non siamo nel periodo adatto per combattere»
«Vero… non si possono organizzare guerre se non durante i primi mesi dell’anno»
«In ogni caso possiamo sempre scontrarci per vie traverse: attraverso guerre diplomatiche magari» propose Tikki.
«Come faremmo a… cosa sta succedendo di fuori?»
Infatti Micazoyolin si voltò verso la porta della sala dei campioni e la spalancò per vedere ciò che stava accadendo.
«Direi che siamo in guerra» disse Xenetotec afferrando la lancia.
«No! Non può essere! Perché stanno tutti imbracciando le armi?»
Una bella ragazza passò accanto a Micazoyolin e gli rispose: «Nulla di cui preoccuparsi: è una guerra rituale»
«Ah bene» disse il guerriero coccinella con una malcelata noia «Odio queste usanze inutili».
 
Nel frattempo Cortes stava avanzando verso il lago Texoco e già iniziava a sentire la brezza lacustre che percorreva le coste.
«Tra esattamente 11 giorni saremo a Tenochtitlan» disse sfiorando con la mano guantata i crini del cavallo.
«Ci accamperemo qui per attendere gli emissari di Montezuma che ci porteranno alcune loro ricchezze»
«Abbiamo ordinato agli stregoni di recarsi a Veracruz e di allontanare gli invasori? Abbiamo avuto successo? No: loro hanno continuato ad avanzare e si sono alleati con i Tlaxcala, i nostri più antichi rivali che non siamo mai riusciti a sottomettere! Poi loro cos’hanno fatto? Con gran parte degli indigeni delle terre che hanno conquistato hanno invaso, depredato, saccheggiato, stuprato e distrutto Cholula, la più grande tra le città vicine alla Valle di Mexica e noi cos’abbiamo fato? Ci siamo preparati a fronteggiarli con le nostre armi? No! Ci siamo arresi scegliendo la diplomazia! Imperatore: perché continuare con questo gioco di alleanze quando potremmo abbatterli facilmente: il loro sangue sarebbe gradito agli dei!»
Così aveva gridato, nella sala del trono, il generale dell’esercito mentre Montezuma, con una mano appoggiata sotto la guancia, lo guardava con le palpebre a mezz’asta.
«Maestà! Mi state ascoltando?» gridò il generale che, con molta probabilità, si era fatto prendere dall’impeto.
«Si Tlanalai, ti sto ascoltando… non aggredire l’imperatore o il tuo stesso esercito si potrebbe rivoltare contro di te solo grazie ad un mio ordine».
«Maestà!» continuò lui ma Montezuma, con uno scatto felino, sollevò la mano e lo congedò.
«Avanti il prossimo» disse poi con flemma.
«Imperatore Montezuma: intendiamo chiedervi aiuto per le questioni di confine: Cortes sta inviando i suoi uomini a devastare i campi e a minacciare i contadini»
«Non mi preoccuperei… avanti il prossimo»
«Maestà… sono alle porte della città» era stato Xenetotec a parlare e, a quelle parole, il re saltò letteralmente in piedi e ordinò di aprire immediatamente le porte e di allestire un corteo d’ingresso in onore dei loro attuali alleati economici.
In quel momento Micazoyolin comprese: non era un buon re dopotutto: chi aprirebbe le porte del proprio impero a uomini che lo stanno devastando?
Cortes entrò in un corteo trionfale e vide, come i suoi compagni, la magnificenza della città più grande del mondo.
«Abili… per essere dei barbari» sentenziò un soldato al suo fianco e Hernan non poté dire altro che: «Già»
Vennero condotti al foro centrale, da cui si innalzavano immense piramidi sormontate da templi squadrati riccamente decorati e in cui tutta la città si stava concentrando: fu lì che al grande conquistatore venne un dubbio atroce: “Non è che questa è la più grande imboscata della storia militare?” si chiese guardando con sospetto i soldati aztechi armati di tutto punto.
Marina si avvicinò al conquistatore e riferì a Cortes che tra poco l’avrebbe accolto Montezuma e lei stessa avrebbe fatto da traduttrice ed egli acconsentì.
 
Micazoyolin osservò con scetticismo la discussione tra i due grandi signori e notò come Cortes tendesse ad essere molto statico e asettico nelle sue discussioni: era inquietante vedere quell’uomo che si era costruita la fama di sanguinario signore della guerra parlare con tanta calma e sterilità al suo effettivo avversario.
«Mi fa paura sinceramente… spero davvero che non sia Quetzalcoatl altrimenti abbiamo sempre venerato un dio della distruzione senza accorgercene»
«Speriamo di no» dissero i suoi compagni mentre continuavano a seguire il discorso dei due capi che, ora, si era concentrato sulla descrizione della Spagna e sulle domande che Montezuma poneva nel riguardo della nazione da cui Cortes proveniva.
Passò una settimana e il padre di Micazoyolin avrebbe dovuto organizzare la cerimonia in onore di Huitzolopochtli, il dio del sole, a cui si offriva in sacrificio il corpo di un umano.
Fu scelto uno schiavo che fu preparato adeguatamente e, il giorno della cerimonia, tutti furono presenti al Tempio del sole, anche gli spagnoli.
«Spero che duri poco: non ho la minima voglia di seguire una cerimonia in una lingua che non conosco» sentenziò Cortes alla sua gente.
«Ma signore… la messa non è recitata in latino?»
«Ma quella non è una cerimonia come un'altra: è il momento in cui nostro signore Gesù Cristo si fa pane per noi quindi, non reggerà certo il confronto di un branco di uomini vestiti di piume che ballano in cerchio e rivolgono le loro blasfeme preghiere a falsi dei dell’inferno»
«Avete ragione signore».
Videro poi un uomo venir condotto dal sacerdote verso l’altare e lo guardavano mentre si stendeva.
«Cosa vogliono fare?» chiese Cortes.
«Sacrificarlo» disse semplicemente Marina.
«Come? Lo uccideranno? Sull’altare del tempio?»
«Beh… si: ne estrarranno il cuore e faranno rotolare il suo corpo giù per la gradinata»
«Ma è una cosa terrificante! Come possono fare cose così empie per i loro dei?»
«Credono che Huitlopochtli, il dio colibrì, sia il sole che sorge ogni mattino e, dopo aver tramontato, va a combattere contro le stelle guidate dalla luna e se egli perde ciò porterà alla fine del mondo»
«Non è per nulla normale: appena prenderò il potere in questa città sarà proibita una simile pratica»
«Ci vedo delle analogie con il cristianesimo» disse Marina tra se e se e fu squadrata in malo modo dal conquistatore.
«Voglio dire… Gesù si è sacrificato per permettere a noi di continuare a vivere giusto? Loro fanno l’esatto opposto»
«Quindi non è un’analogia: è un’opposizione»
«Ehm… si!» disse lei sospirando per essere scampata alla morte per un pelo.
Nel frattempo il sacerdote aveva già trafitto il cuore dello schiavo con il pugnale d’ossidiana e ne aveva estratto il cuore che espose alla gente tra acclamazioni e grida di giubilo. Dopodiché appoggiò il corpo dell’uomo a pochi centimetri dal gradino più alto e, con un colpo del bastone, lo fece rotolare tra gli applausi della folla.
Nel frattempo Montezuma osservava il suo ospite e vide che ciò non gli era gradito.
Nei giorni seguenti tra i sudditi di Cortes iniziò a circolare una voce terrificante: gli aztechi intendevano sacrificarli tutti, uno ad uno, per soddisfare i loro dei e il capo sarebbe stato l’ultimo.
«È vero mio signore?» chiese un suo stretto compagno.
«No ma non vedo perché stare tranquilli: parliamo di un popolo imprevedibile e mosso da azioni barbariche: sarebbe la prima cosa che farebbero pur di eliminarci… stimo in guardia»
Allora Cortes ordinò di distruggere tutti gli idoli e di ripulire il sangue dai templi così da migliorarli ponendovi le effigi cristiane.
Ovviamente tutti reagirono male a ciò ma Montezuma li esortava a non ribellarsi: ormai era solito seguire Cortes ovunque andasse e il signore di Veracruz lo esortava a continuare così da poterlo sempre tenere d’occhio: ormai Montezuma aveva ceduto tutti i suoi poteri a Cortes.
L’indomani giunse una lettera che veniva da Veracruz, dove Cortes aveva lasciato alcuni uomini a governare in sua vece.
«Vi riferiamo che le coste dello Yucatan sono state raggiunte da un vasto numero di Conquistadores guidati da Panfilo de Narvajes che intende agire per conto di Pedro Velasches, governatore di Cuba, vassallo del re di Spagna e vostro superiore prima che fondaste Veracruz. Intende punirvi per l’atto di ribellarsi a Velasches fondando la città sopracitata»
Quella sera Cortes decise di uscire per schiarirsi le idee e capire se dovesse partire immediatamente o aspettare ancora alcuni giorni; in quel momento notò che uno strano ragazzo gli stava andando incontro: aveva il corpo dipinto in modo strano per il suo popolo: una pelle stranamente pallida con tre cerchi neri: due in corrispondenza dei pettorali e uno appena sopra l’ombelico; il capo era adornato da un copricapo di piume rosse decorato da gioielli d’oro con effigi che ricordavano piccoli coleotteri. 
Il signore di Veracruz ordinò a Marina di approcciarlo per conto suo e di chiedere cosa volesse dal delegato di Spagna.
Marina andò dal giovane e gli parlò in Nahuatl e lui rispose; lei disse a Cortes che intendeva conoscerlo di persona perché si dava il caso che lui fosse il campione di Mexica e dell’intero impero e Cortes acconsentì.
«Qual è il tuo nome?» gli chiese Cortes.
«Micazoyolin, sono il figlio del Primo Sacerdote» riferì Marina.
«E perché vuoi parlare con me?» chiese egli.
«Vorrei sapere che intenzioni avete con il nostro impero: se ancora di impero si può parlare» rispose lui con aria sprezzante.
«Come fai a… conosci la mia lingua?»
«Tornate pure dentro signora, saprò parlargli faccia a faccia»
In quel momento Cortes notò che qualcosa in lui era cambiato: ora i punti neri non erano più tre ma ben nove: una colonna di tre che si distribuiva sull’addome e sul torace e due colonne sui fianchi; inoltre i suoi avambracci erano diventati rossi, sul suo volto era comparsa una maschera di tintura rossa con cornice nera, il copricapo d’oro splendeva di una luce strana e da esso si dipanavano lunghe piume rosse a screziature nere; il suo perizoma era diventato giallo a pois neri.
«Ora vedi ciò che sono?»
«Lo vedo: quale demone ti concede simili poteri?»
«Almeno io i poteri di un dio li posseggo? Voi sicuramente no… torniamo alla mia domanda»
«Sai benissimo che intenzioni ho: tu sei solo un ragazzino e potrei trafiggerti con la mia spada da un momento all’altro quindi non mi farò troppi problemi: sto intortando perbene il vostro imperatore così da prendere il suo posto e potervi governare tutti e civilizzarvi»
«E quindi questo che intendevate fare fin dall’inizio? Il mio popolo potrebbe anche accettarlo poiché vi crede un dio in questa terra ma io fatico a vedere ciò che gli altri vedono»
«E se io fossi davvero il messia che attendete? E se le vostre insensate profezie si rivelassero azzeccate?»
«Non credo ad un messia che tiranneggia: non insultare i  nostri dei, non ripudiare la nostra società, non schifare le nostre tradizione e non ci guardare dall’alto in basso! Noi siamo con te in un rapporto di alleanza e sappi che io, prima di tutti, sono abbastanza influente da convincere l’Imperatore Montezuma in persona delle tue malvagie intenzioni»
«Vieni ragazzo: camminiamo» disse Cortes, come per porsi a proprio agio e iniziò a passeggiare lungo le strade della città mentre Micazoyolin gli camminava accanto continuando a parlare ma fu presto interrotto dal conquistadores.
«Tu non hai capito ragazzo: sono io l’imperatore ora: io sono il signore sia di Veracruz che di Tenochtliclan ora poiché io ho in pugno Montezuma, l’intera sua corte e tutti voi ormai: non verrà sparsa nemmeno una goccia di sangue… cosa che voi avete sempre fatto per soddisfare la sete dei vostri dei. Sarà un regno magnifico il mio, mille volte migliore di quello dei vostri antenati: sotto la croce vivrete meglio»
«Tu sei un folle! Non ci piegheremo mai agli europei, io rappresento tutti: uomini e donne, vecchi e giovani, guerrieri e contadini, nobili e schiavi! Io sono il campione sacro di Xipe Totec, io sono il baluardo del popolo azteco e non mi piegherai»
«Ah si mio giovane amico? Vieni con me allora, ti dimostrerò cosa ha veramente portato il popolo Yucatan a venerarmi e a seguirmi»
Cortes si avviò verso uno dei ponti che portava alla riva e, con tranquillità, lo attraversò seguito da uno stupefatto Micazoyolin. Giunto sulla riva si inoltrò nella giungla.
Cortes avanzò attraverso la vegetazione più fitta e, quando fu giunto davanti a un grosso albero, si chinò e raccolse due oggetti che Micazoyolin non riuscì a classificare: era stato troppo veloce nell’indossarli e, appena l’ebbe fatto, due luci – una rossa e una verdastra – gli apparvero accanto similmente al modo in cui Tikki appariva al suo fianco nei momenti opportuni.
Egli sollevò le braccia e i due kwami, che avevano l’aspetto di un serpente e di un pappagallo, si infransero contro il suo corpo e il suo aspetto mutò tanto da renderlo irriconoscibile.
Ora non indossava più un’armatura di ferro, un elmo piumato, un mantello verde cupo e un paio di pantaloni bruni: ora portava un lunghissimo mantello di piume d’Ara Macao e il suo elmo aveva assunto la forma di una testa di serpente a fauci spalancate anch’essa adornata da piume di pappagallo; i suoi occhi erano diventati neri come quelli dei serpenti e la sua pelle verdastra così come i suoi abiti, non più fatti di tessuti e metallo ma intessuti di squame e piume variopinte. Il tutto si concludeva in un aspetto terrificante e grottesco: una strana accozzaglia ibrida tra un uomo, un serpente e un uccello… Micazoyolin fu colto dal terrore: primordiale che immobilizza il capibara davanti al giaguaro: egli era davvero Quetzalcoatl!
Il giovane afferrò lo Yoyo legato al fianco e iniziò a farlo roteare vorticosamente mentre il mostro rideva di gusto: «Tu avresti affrontato demoni e eserciti? Ma hai mai affrontato un dio?»
«No! Ma c’è sempre una prima volta» rispose lui tra i denti mentre l’aria iniziava a vorticare attorno a lui; sollevò il braccio e, con uno scatto, direzionò lo Yoyo verso Cortes che, con inaspettata agilità, spalancò il mantello che si rivelò come un paio di ali mastodontiche che deviarono il flusso d’aria.
«Tu non puoi niente contro di me!» gridò lui ridendo come un pazzo mentre estraeva da chissà dove due lunghi e sottili pugnali ricurvi… come i denti di un serpente?
Presto Cortes fu su di lui ma Micazoyolin fu abbastanza rapido da evitare la pugnalata; una goccia di veleno stillava dalla punta bagnando il terreno e sfrigolando su un ciuffo di fili d’erba.
«Non puoi sfuggire alla presa della morte!» gridò lui rincorrendo la coccinella che, di contro, abbatté il suoi Yoyo sull’elmo di Cortes che però non accusò minimamente il colpo.
«Assurdo! Con questo coso ho ucciso migliaia di uomini!» disse lui tra se e se osservando il dischetto ammaccato.
«Io non sono un uomo! Sono superiore all’uomo» gridò lui mentre Micazoyolin comprendeva: era troppo veloce e potente da affrontare nell’immediato: doveva distrarlo.
«Dove hai trovato quei due Kwami?»
«Ah! È così che si chiamano? Li credevo semplici demoni… beh, erano in una foresta nell’entroterra di Cuba e li ho trovati accanto ai resti di un uomo morto da molto; probabilmente era il vecchio possessore» concluse ridendo mentre Micazoyolin capì a chi si riferiva…. Il vero Quetzalcoatl era morto quindi?
«Cosa vorresti fare? Uccidermi? Tu possiedi solo uno di questi oggetti mentre io sono in possesso di due… hai mai visto una coccinella uccidere un serpente e un pappagallo coalizzati?»
«No ma…»
«Taci e muori!» gridò Cortes e, con una velocità disumana, si gettò verso Micazoyolin perforandogli la spalla con entrambi i pugnali.
«Vivi da eroe! Muori da ignorato!» gridò lui lasciandolo cadere a terra mentre volava via con un batter d’ali. Micazoyolin spirò.
 
Quando si risvegliò era in un luogo completamente diverso: non riconosceva molti alberi o piante e il clima era più freso di quello a cui era abituato… piacevole dopotutto.
Camminò per alcuni minuti sull’erba fresca di rugiada che era letteralmente infestata da innumerevoli coccinelle e intanto si guardava attorno con stupore: era finito a Tlalaocan? Il paradiso dei sacrificati? Essere uccisi dal falso Quetzalcoatl contava come sacrificio?
Sentì una voce dietro di lui: «Credi di essere in una specie di paradiso degli eroi?»
«No: dei sacrificati… chi sei?»
«Dei sacrificati? I sacrificati possono considerarsi eroi se si sono sacrificati volontariamente… molti qui si sono sacrificati per i loro compagni, i loro amanti, la loro patria e il loro ideale… tu per cosa?»
«Sono stato ucciso da un dio»
«Ah… io sono morta bruciata… non è eclatante come la tua morte»
«Come bruciata? Cos’hai fatto?»
«Non andavo a genio alle persone e sono finita nel luogo sbagliato al momento sbagliato… mi hanno catturata, portata fuori dal mio paese e bruciata per stregoneria»
«Buffo… da noi gli stregoni sono ben visti: ci aiutano e ci proteggono»
«Da me no… da dove vieni?»
«Mexica»
«Cioè?»
«Tu invece?»
«Francia»
«Cioè?»
«Lasciamo perdere, mi sto stufando di parlarti a distanza… vuoi che mi avvicino io oppure tu?»
«A me non cambia nulla»
«Vengo io allora»
Da dietro un cespuglio uscì una ragazza dai capelli corti e dalla pelle bianchissima, indossava un’armatura rossa a pois neri e sopra una veste rossa con lo stesso design.
«Hai anche tu il miraculous della coccinella?» chiese lui stupefatto.
«Beh si… qui tutti manteniamo il nostro aspetto da kwamizzati ma se vogliamo possiamo passare agli abiti civili»
«Indossi un’armatura simile a quella del tizio che mi ha ucciso»
«Buffo… vieni che ti presento un po’ di gente. Per la cronaca: mi chiamo Jeanne d’Arc»
Si avviarono lungo un prato tagliato e, poco dopo Jeanne sollevò la mano facendo cenno ad alcuni individui seduti sotto un albero a chiacchierare.
«Venite!» gridò una voce femminile e Jeanne li raggiunse con passo deciso seguito da un incerto Micazoyolin.
«Benvenuto! Finalmente un altro maschio!» disse una voce profonda adombrata dalla chioma dell’albero.
Era un uomo all’apparenza molto vecchio visto la lunghezza della barba che presentava però una muscolatura invidiabile; il mantello era rosso a pois neri e il suo volto era decorato da ghirigori rossi e neri che sembravano tracciare una maschera attorno ai suoi occhi. Portava anche lui uno Yoyo legato alla spessa cintura e accanto a lui, appoggiata al tronco dell’albero, era presente una grossa clava.
«Mi chiamo Micazoyolin… voi come vi chiamate?»
«Ma dammi del tu! Mi sono stufato delle formalità già quindici anni prima della mia morte! Vuoi che abbia ancora voglia di avere gente attorno che mi tratta con reverenza! Siediti accanto a me ragazzo e raccontami come sei morto»
Micazoyolin lo fece e raccontò all’uomo e alle donne attorno a lui ciò che gli era successo: le altre donne erano anche loro molto simpatiche: c’era una ragazza dai capelli corti e con la frangia vestita in modo molto leggero e con un mantello trasparente; aveva molti gioielli e gli occhi circondati da strani ornamenti; diceva di chiamarsi Aset aggiungendo che però ora la gran parte della gente la conosceva come Iside.
Un’altra aveva una placca di metallo sulla fronte, come una sorta di mezzo elmo, e indossava abiti ricchi di pieghe e stretti da un cinto riccamente decorato; se ne stava con la schiena appoggiata ad uno scudo con dipinta l’effige della coccinella e si chiamava Ippolita. Accanto a lei una giovane dal corpo quasi completamente nudo e dipinto di rosso parlava con calma e regalità e spiegò a Micazoyolin di averlo riconosciuto subito: lei veniva da una regione che commerciava con gli Aztechi ancora prima che gli europei raggiungessero l’America e ricordava di essere stata a Tenochtliclan poco dopo la sua fondazione; lei si chiamava
Mudekudeku ed era l’eroina degli Himba, della Namibia.  
Un’altra ragazza sedeva accanto all’uomo che si chiamava Dagda e gli assomigliava molto: aveva capelli lunghi e scuri e portava lunghe vesti rosse e nere e giocherellava con la corda dello Yoyo che si divertiva ad avvolgere attorno all’elsa di una lunga spada e così continuò finché; quando l’intreccio si era fatto particolarmente complicato e Ippolita la avvertì con una lieve punta di sarcasmo: «Sai Brigida, se continui così sarà impossibile da utilizzare»
La giovane allora si mise subito a scioglierlo mentre la principessa delle amazzoni incrociava le braccia dietro la testa e si sdraiava: «Non cambierà mai… più vecchia di me ma anche più fissata con il ricamo»
«Anche a me piaceva annodare cose con la corda della mia arma» disse la voce di un individuo che, fino ad allora, Micazoyolin non aveva notato.
«Potevi farti vedere prima furfante! Vieni ad accogliere il nuovo arrivato: è un maschio!» gridò di risposta Brigid facendo cadere la spada accanto a sé.
Da dietro l’albero apparve un ragazzo più o meno dell’età di Micazoyolin ma dalla pelle decisamente più scura, dal fisico longilineo percorso per intero da complessissimi tatuaggi circolari rossi e neri; portava legata ai fianchi una specie di gonnellina di foglie lunghe e larghe tenute insieme da corde e tessuti (rossi a pois neri) e i suoi capelli neri e ricci erano raccolti in una crocchia che sovrastava un volto tondo e sornione in cui risaltavano due grandi occhi castani.
«Micazoyolin… lui è Maui, il nostro rompiscatole di quartiere»
«Piacere di conoscerti? Azteco? Si capisce dal nome»
«Intelligente… da quanto tempo sei qui?»
«Oh da tantissimo! Sono stato uno dei primi»
«Ah… cos’ha il tuoi Yoyo?»
«Chi ha detto che è uno Yoyo?»
«Ah… non lo è?»
«Beh no… la funzione è comunque la stessa: lo uso sia per pescare che per afferrare le cose al volo» rispose lui sciogliendo la corda che portava legata in vita rivelando che, al posto del piccolo Yoyo che tutti possedevano, maneggiava un gigantesco amo da pesca abbastanza robusto da pescare uno squalo di sei metri.
«Cavolo! E come mai è cambiato?»
«Esigenze di trama… è più funzionale»
«Ah»
«Da dove vengo io la pesca era tutto… e se non pescavi almeno un  pesce al giorno eri ritenuto meno di un semplice uomo… io da piccolo non sapevo pescare poi mi è apparsa Tikki e mi ha permesso di… diciamo… migliorare lo Yoyo»
«Che razza di…» stava per dire Jeanne quando fu interrotta dal pescatore: «Cos’è Martire? Tutti noi siamo disposti a inventare roba per facilitarci il lavoro no? Io con l’amo, tu con la doppia identità, il ragazzo qui con la questione del dio protettore! È tutto organizzato no?»
«Si Maui… si»
«In più ci terrei a dire: io sono stato tra i primi a raggiungere il paradiso di Tikki, ho vissuto quando dei vostri antenati non si parlava ancora e quando la scrittura non era ancora stata immaginata»
«Sei un eroe preistorico? Davvero? Giuro: sono qui da quasi trecento anni ma imparo sempre più roba» rise Jeanne per poi rivolgersi a Micazoyolin «Devi conoscere la prima: Huit’salamad’inna… ah eccola!»
«Sei tu Micazoyolin?» chiese una strana ragazza vestita di pellicce rosse e nere e armata di una lancia rozzamente intagliata da cui ricadeva lo Yoyo.
«Ehm… si»
«Vieni con me: ti vuole vedere»
«Chi?»
«La signora?»
«Chi?»
«Uff! Tikki idiota!»
«Ah… la signora? Seriamente? Un cosino piccolo così che si fa chiamare signora?»
«Non è “piccolo così” ora»
Micazoyolin si fece guidare dalla ragazza nel folto del bosco finché non raggiunse una grande fonte al cui centro sorgeva una piattaforma circolare rossa a pois neri… poi la piattaforma spalancò le ali e per poco Micazoyolin si prese un colpo.
«COSA! Dovreste chiamarla Mostro non Signora a questo punto! Qui è una coccinella gigante? Scherziamo?»
«Quella è solo la sua cavalcatura idiota!» rispose lei ringhiando e tirandogli un colpo in testa con la lancia e indicandole il punto in cui le elitre si aprivano, li, all’esatto centro, c’era un trono su cui era seduta una figura che tutto ricordava tranne Tikki.
Nel frattempo la coccinella si avvicinava alla riva e la figura si alzò dal trono e, con passo deciso e aggraziato, scese dalla strana cavalcatura e raggiunse i due giovani.
«Eccoti… iniziavo a temere che la tua anima si fosse bloccata da qualche parte… talvolta capita e devo intervenire per salvarla»
«T… Tikki?»
«Già»
Micazoyolin si dette due sberle e si stropicciò gli occhi per poi tornare a guardare la sua vecchia amica… era umana! O meglio: divina!
Una figura femminile ammantata da un alone rosastro e brillante, i dettagli della sua immagine erano abbastanza confusi e caratterizzati da un solo colore: il rosso vivo che risplendeva come quello di una stella morente… la sua figura era molto più che umana: il suo corpo era quello di una giovane non più che ventenne ammantata di veli trasparenti e dal corpo pressoché perfetto: i suoi capelli legati in due code, la sua pelle e i suoi abiti erano rossi mentre gli occhi brillavano di una luce azzurra; nella mano destra faceva oscillare con nonchalance lo Yoyo mentre nell’altra reggeva un corto scettro rosso circondato da filamenti di energia.
«Cosa… come è possibile? Tu sei questo?»
«Mi definiresti una dea Micazoyolin?»
«Forse di più…»
«Ti do ragione; non dovresti essere qui: sei morto troppo presto ed è il momento che tu torni in vita e ristabilisca la pace oppure muoia provandoci ma dando l’esempio e ispirando il cuore della tua gente. Vieni Micazoyolin e fatti sfiorare»
Il guerriero azteco camminò lentamente verso la dea coccinella mentre lei gli porgeva la mano e lo sfiorava sulla fronte imprimendogli un’energia che attingeva direttamente dal pozzo della vita. Si sentì rinvigorito e cadde a terra davanti a lei mormorando: «Vado… ci vediamo dopo»
 
Quando si fu risvegliato, Micazoyolin era in un posto che non conosceva: una caverna in mezzo al deserto e capì di trovarsi lontanissimo da casa.
Appena si fu alzato notò che qualcuno l’aveva nutrito, accudito e coperto durante le fredde notti.
Appena ebbe indossato gli orecchini Tikki gli apparve con la forma solita: testone sproporzionato e corpo minuscolo.
«Non sei più un essere divino?» chiese lui stupito.
«Lo sono sempre stato: il mio potere è limitato all’esterno del Miraculous… dentro mi paleso alla mia piena potenza»
«Ah… e ora dove siamo?»
«Boh»
«Non sei una dea?»
«Sono la dea della creazione! Non dell’onniscienza… se devi chiedere qualcosa del genere almeno chiedilo al Kwami giusto»
«Cioè?»
«Un tale di nome Jinn… vive in una lampada ed è ancora più vecchio di me»
«Come fa ad essere più vecchio di te se… insomma… tu hai creato tutto»
Lei rispose con una lieve punta di frustrazione: «Fermo! Attenzione! Io non ho creato nulla… o meglio, ho creato ciò che mi serviva… io sono la creazione non colei che crea… perché proprio adesso queste domande?»
«Boh Tikki! Non lo so! Forse perché siamo in mezzo ad un deserto e non so cosa fare in questo momento?»
«Forse tornare a dormire ti farebbe bene» rispose una voce che fece saltare letteralmente in aria il guerriero.
Dietro di lui un tale se ne stava appoggiato a un grosso cactus mentre si rigirava un pugnale bianco con la punta nera tra le mani.
«Chi diavolo sei?»
«Chi sei tu piuttosto che spunti nel mezzo del mio territorio mezzo morto!»
«Ma io neanche so come ci sono arrivato qui»
«E io allora cosa dovrei dirti? Che ti ci ho portato io? Non ci credo proprio»
«Mi hai accudito tu mentre ero in coma?»
«Si… avevi bisogno di riprenderti. Ora fuori di qui.»
«Ma. Io voglio sapere perché propri tu»
«Come proprio io? Sono solo un povero idiota che si trovava nei paraggi e, mentre inseguiva un corridore della strada sono inciampato nel tuo cadavere»
«Eh? Come hai fatto a non vedermi»
«La sabbia»
«Ah si… certo… la sabbia»
«il deserto non è mai uguale, cambia sempre e dove una mattina c’è una collina la sera dopo potrebbe esserci una valle»
«Già… come mai hai una pelliccia di coyote addosso»
«E tu come mai hai quei vestiti ridicoli? Ah si! Porti il kwami della coccinella: ovvio!»
«E tu porterai quello del coyote. Non ne ho mai sentito parlare»
«Oh si invece: urca se ne avrai sentito parlare»
«Mi spiace, non mi è giunta voce di un eroe coyote di recente»
«Wewecoyotl?»
«Ma quello è un dio… ed è vissuto cinquemila anni fa no?»
«Certo… continua a crederci»
«Sei tu?»
«Già»
«Il vecchio uomo coyote è vecchio quanto me?»
«No»
«Ma avrai al massimo tre anni in più di me, non di più»
«Beh, io non ho mai tolto il miraculous del coyote da quando l’ho messo la prima volta: questa roba da longevità lo sai?»
«Ah… e da quant’è che vai in giro scusa?»
«Ottomila anni o giù di li»
«E tu saresti l’unico portatore del Coyote da così tanto tempo?»
«Conosco ogni angolo del continente, ogni montagna e ogni valle, ho vagato quando i grandi elefanti lanosi con le zanne ricurve calpestavano questo suolo e ho parlato con i primi che giunsero in Nord America da Beringa… quando erano ancora barbuti come gli europei»
«Tu sei di quei tempi? Seriamente?»
«Già… ora, prima che tu te ne vada… vuoi sapere cosa ti aspetta? Un sacrificio inutile: morirai combattendo contro il dio serpente piumato e il tuo sacrificio sarà vano quanto lo è stato quello di Montezuma che ora sta morendo ucciso dal suo stesso popolo»
«Come lo sai?»
«Devi sviluppare i tuoi poteri e, più indossi il miraculous e più i tuoi poteri si sviluppano fino a raggiungere livelli di quasi onniscienza»
«Tu cosa puoi fare esattamente… oltre a vedere tutto»
«Volare, illusioni, super forza, muta forma, magia di sorta, indurre la follia… io sono colui che rappresenta la follia sacra: lo scemo del villaggio per dire!»
«Lo sciamano pazzo quindi?»
«Ehm… si credo»
«Insegnami a sviluppare i miei poteri oh grande Coyote»
«In cambio mi devi qualcosa, qualcosa di semplice… creami il più bel regalo immaginabile»
«E come?»
«Attingi al caos… l’hai mai fatto?»
«Credo di si: per evocare gli oggetti di cui mi servo per uscire dai guai in cui mi caccio»
«Fallo!»
Tra le mani di Micazoyolin apparve un flauto di canne e Coyote lo afferrò.
«Incredibile: è perfettamente conservato! Come diavolo…. Non importa, ora ho ritrovato il mio vecchissimo flauto. È il momento che tu apprenda»
Passarono alcuni mesi in cui Coyote insegnò il modo di sviscerare tutti i poteri del miraculous della coccinella: spiegò a Micazoyolin che, quando lui era ancora giovane, aveva collaborato con una squadra composta da tutti i portatori di Miraculous: apparteneva in origine alla prima popolazione che aveva ricevuto direttamente i sigilli dei Kwami ma ora di quel popolo non rimaneva altro che lui stesso; perciò sapeva così tante cose riguardo al Miraculous della coccinella: era sua sorella a portarlo, la stessa ragazza che aveva guidato l’Azteco al cospetto di Tikki.
Nel frattempo Micazoyolin stava facendo passi da gigante: non credeva che il miraculous che indossava da così tanti anni avesse così tanto potere potenziale: ora poteva letteralmente decidere cosa creare e non gli costava nemmeno troppa energia; poteva letteralmente evocare uno sciame di coccinelle luminose che era in grado di direzionare e con cui poteva eliminare i possibili danni causati durante uno scontro: poteva praticamente piegare la realtà al suo comando e non vedeva nessun altro modo per battere Cortes.
Il giorno dopo che egli imparò anche a modificare la forma dello Yoyo facendogli assumere prima quella di uno scudo, poi quella di una spada dentata e poi quella di un bastone arrivò davanti alla grotta una ragazza dai capelli neri con in testa un copricapo ricavato dalla testa di un giaguaro nero accompagnata da un kwami che somigliava a un piccolo felino – gli aztechi non conoscono ancora i gatti – che chiese di poter parlargli.
Micazoyolin era stupito di ciò: erano mesi che non vedeva qualcun altro che non fosse il vecchio Coyote e lei intanto iniziava a fargli domande a raffica: «Dove diavolo sei stato tutto questo tempo? Cos’è successo dopo che tu e Cortes siete spariti? Non hai mai pensato a noi? Cosa vuoi fare adesso? Seguirmi o restare qui? Perché non mi rispondi? Vuoi una richiesta scritta o una lettera di invito a rispondermi? Mi vuoi rispondere? Ti sei bloccato»
Fu in quel momento che Micazoyolin la riconobbe: «Mistontli»
«Bravo! mi hai riconosciuta! E allora? Vuoi venire o no?»
«Tu? La figlia di Montezuma in persona che viene qui a chiedermi di tornare a Tenochtliclan? Cos’è successo adesso? Gli spagnoli hanno…»
«…sterminato mezza città»
«Cosa?»
«E mio padre è morto»
«Ah… mi spiace»
«Non è vero: nemmeno a me se devo dirla tutta»
«Cavolo… figlia dell’anno»
«Padre del secolo! Vuoi venire o no?»
«Cosa vorresti fare?»
«Beh: prima di tutto ucciderli tutti, poi cercare di ricostruire Tenochtliclan… in qualche modo»
«E non puoi farlo da sola? Dopotutto è una sola città e tu hai un miraculous da quanto vedo. A proposito, da quanto è che ce l’hai?»
«Saranno alcuni giorni: si chiama Plagg ed è un gatto»
«Un che?»
«E io che ne so?»
«Appunto»
«Vieni?»
«No! Devo finire di sviluppare al meglio i miei poteri»
«Allora resto anche io qui: se lo fai anche tu vorrà dire ce lo farò anche io»
«Se proprio vuole signorina» rispose Coyote che intanto stava seguendo con distrazione la conversazione.
«E quel tizio chi è?»
«Coyote»
«Chi? Quel tizio li sarebbe un altro portatore? Ma per favore»
«Bada signorinella che io sono in giro da secoli e quindi dovresti portarmi rispetto! Per questa mancanza da oggi sei costretta a chiamarmi Wewecoyotl ogni volta che ti rivolgerai a me sostituendolo a Coyote o a qualsiasi altro modo per identificarmi!»
«Va bene signore»
«WEWECOYOTL PREGO!» gridò lui di risposta.
«Va vene Wewecoyotl»
«Brava… vuoi imparare a sviluppare il miraculous del gatto nero allora? Bene!»
Plagg si avvicinò al viso di Coyote e disse: «Ti riconosco: eri nella tribù ancor prima che venissimo rinchiusi… sbaglio o ho per sbaglio fatto fuori tuo padre?»
«Si, l’hai fatto»
«E ciò non ti provoca odio nei miei confronti?»
«Il tempo cancella anche l’odio… e pure mi ricordo ogni momento: venivi verso di noi anche se avevamo preso tempo il prima possibile fuggendo dal nostro accampamento; eri come un’onda di distruzione che si muoveva verso di noi devastando ogni cosa… gli animali che fuggivano, le piante che avvizzivano… l’odio nel tuo sguardo acido… la paura negli occhi dei miei fratelli e in quelli di mio padre che non si poteva muovere visto che proprio lui ti aveva provocato…»
«…Ora basta Coyote! È tutto passato… iniziamo questo gioco inutile»
«Va bene… sapevi ragazza mia che il tuo bastone può diventare una lancia? Lo vuoi imparare?»
Passarono alcune settimane e Mistontli imparava in modo rapido: il suo aspetto da kwamizzata era bellissimo, a detta di Micazoyolin risaltava le sue parti migliori: indossava una tunica nera con ricami verdastri sui bordi legata in vita da una cintura verde da cui pendeva una lunga fascia che le arrivava alle caviglie a cui erano legate attraverso gli intrecci dei sandali ciuffi di piume verdi e nere. Portava delle fasce di stoffa alle braccia e gli avambracci, così come le spalle, erano colorate di nero. Indossava in testa il suo solito copricapo di giaguaro nero da cui ricadevano piume lunghe e fluenti nere come la notte e con basi verde acido; infine portava una lunghissima treccia. Ora il suo bastone terminava con una larga e spessa punta di lancia dentata che, al solo tocco, distruggeva irrimediabilmente ogni cosa.
L’ultima lezione fu strana: tutto iniziò con Coyotel che introdusse il tutto dicendo:
«Micazoyolin, Mistontli: oggi sola teoria»
«Perché?»
«Non dovrete mai fare ciò che vi spiego?»
«E allora perché lo spieghi?»
«Per completezza… e perché, in extremis, vi aiuta»
«Cosa?»
«Ci arrivo: sapete che i vostri poteri si completano no? Tu Mistontli hai un potere prettamente negativo mentre tu, Micazoyolin, hai poteri di base positiva: se uniamo il tutto abbiamo una forza neutra e perfetta»
«Ok… va avanti» disse lei.
«Ora immaginatevi i vostri poteri come questo simbolo»
Prese un pezzo di carta e, con della pittura nera tracciò un simbolo a forma di goccia ritratta su se stessa e con della pittura bianca ne tracciò un altro che andava a completare un cerchio dopodiché, al centro della goccia nera pose una punta di pittura bianca e l’esatto opposto fece con l’altro.
«Che significa?» chiese Micazoyolin confuso.
«Beh: tu sei la goccia bianca che ha una punta di pittura nera, la tua amica qui è la goccia nera che ha una punta di pittura bianca: dentro i vostri poteri è presente una minima parte di potere opposto: tu puoi esercitare un “incantesimo” negativo e l’esatto opposto può fare lei: hanno comunque risvolti analoghi alla vostra natura»
«Cioè?» chiese Mistontli con un sorrisone che fece quasi spaventare i due tanto era eccitato.
«Allora: tu hai in possesso il “Rancore della Dea Rossa” e lui la “Piaga del Dio Nero”»
«Rancore della Dea Rossa? Vuoi dire che mi arrabbio e divento rossa?»
«Si: l’intenzione che porta alla nascita questa forza è generalmente positiva: sei portata a proteggere qualcuno – te stessa in certi casi – per sbloccarlo… lui invece deve provare un fortissimo sentimento negativo come odio o rancore: getterebbe una maledizione che porta eterna sfortuna sull’indicato al prezzo della morte del portatore: alla fine uccidere una coccinella porta sfortuna no?»
«Ah! E c’è un modo per evitare che ciò si verifichi?» chiese Micazoyolin.
«No… per Mistontli c’è la possibilità: devi bloccare la sua forza omicida ma il casino avviene quando lei è in stato di furia e tu stai maledicendo e morendo contemporaneamente»
«Come mai si chiama Maledizione del Dio Nero? Si riferisce a Tezcatlipoca? Dopotutto è come suo campione che sei stata chiamata dal popolo no?»
Prima che Mistontli rispondesse Coyote disse «No… a un altro dio… da quello che mi ha detto una volta Tikki il nome viene da un dio che verrà adorato in futuro, alla fine del mondo»
«Com’è possibile?»
«Boh… non lo so nemmeno io»
«Ora che facciamo?»
«Fuori di qui»
«Cosa?»
«E alla svelta! Sono stufo di avere due adolescenti in casa con i loro ormoni che mi appestano l’aria!»
«Ma che…»
«Via! Voglio un po’ di pace adesso! FUORI!»
«Va bene signor scorbutico»
«Mistontli! Cosa ti ho detto?»
«Nulla mio signore»
 
Gli uomini di Cortes stavano fuggendo da Tenochtlilan attraversando la strada rialzata principale ma Micazoyolin evocò una conchiglia e vi soffiò all’interno: tutti gli uomini che si erano appostati uscirono allo scoperto guidati da Mistontli e circondarono gli spagnoli sia a piedi che con navi da guerra da cui raggiunsero il ponte intrappolando i loro avversari in una tenaglia di navi che, man mano che si restringeva, restringeva anche le possibilità di sopravvivenza che spettava al popolo invasore.
Nel giro di poche ore furono pochissimi i superstiti di Cortes, incluso lo stesso, e questi furono costretti alla ritirata.
Micazoyolin fu applaudito e festeggiato e, quella sera, lui e Mistontli si baciarono per la prima volta suggellando il loro amore e la festa durò per ben tre giorni.
Il mattino dopo, quando i due portatori si svegliarono l’uno accanto all’altra, conclusero che era il caso di affrontare definitivamente Cortes, solo loro lui contro lui solo, così da fermare finalmente quell’insensata guerra e vivere finalmente in pace, crescere dei bambini magari e regnare su Tenochtliclan come nuovi imperatori.
Due settimane dopo Micazoyolin inviò il suo ara macao a Texcala, dove intanto gli spagnoli si erano stabiliti e da cui avevano iniziato a inviare continui drappelli di indigeni e conquistadores ad attaccare ad intervalli prolungati la capitale ma, fino ad ora, i due guerrieri erano riusciti a mantenere salva la regione difendendo il nuovo imperatore, un cugino di Montezuma.
Quando tornò l’ara macao portava con se una lettera che il giovane lesse senza alcuna difficoltà: il potere che aveva coltivato sotto la guida di Coyote ora lo rendeva in grado di capire qualsiasi lingua scritta e parlata.
 Cortes accettava di scontrarsi da solo contro i due paladini aztechi e li avrebbe combattuti sulla sponda settentrionale del lago Texcoco.
Micazoyolin si misero in cammino lasciando il controllo della situazione a Chalamaniqan e a Xenetotec e si incamminarono attraverso i sentieri godendosi la pace che si respirava nella foresta.
Dopo gironi di cammino e di aiuto reciproco raggiunsero il luogo pattuito e qui trovarono Cortes ad attenderli in groppa al suo cavallo.
«Combatti in modo paritario Cortes: in ogni caso il cavallo ti servirà poco… sbaglio o ti ho disarcionato con la lancia l’ultima volta?» lo avvertì Mistontli puntandogli la lancia.
«Sono un uomo d’onore» rispose lui scendendo da sella e attivando i due miraculous.
«E anche noi» risposero entrambi attivando i loro e preparandosi allo scontro.
Mistontli fu la prima a partire, veloce come una freccia volò verso il Serpente Piumato pronto a colpirlo con la lancia ma lui, con un movimento serpentino, la evitò facendola rotolare sull’erba.
«Vieni avanti coccinella!» gridò lui puntandogli il pugnale avvelenato.
«Non me lo faccio ripetere biscia d’acqua!» gridò lui facendo roteare lo yo-yo sulla sua testa che andò presto a cozzare contro l’elmo dello spagnolo.
«Banale… hai passato sei mesi lontano da casa e tutto quello che mi porti sono mosse riciclate dal nostro primo scontro?»
Lui rispose «No: osserva questo!» tirando i due dischetti che, allontanandosi, dettero vita a un bastone d’energia bianca che iniziò a usare come una lancia mentre si gettava verso Quetzalcoatl.
«Banale!» disse lui parando il colpo con il pugnale.
«Solo l’inizio!» gridò di risposta richiudendo il bastone e premendo tra loro i dischetti facendo comparire uno scudo energetico che usò per parare il colpo del pugnale.
«Sorprendente! Ma non abbastanza» gridò lui mentre, dietro di lui, Mistontli aveva attivato il cataclisma e lo stava abbattendo su un tronco appena dietro a Cortes che, al solo tocco, crollò fragorosamente al suolo colpendo di striscio Cortes.
«Indebolito eh?» chiese lei facendo ruotare la lancia pronta a colpirlo in un punto vitale. Cortes chiuse le ali sul suo corpo e il colpo finì a vuoto.
«Idiota! non puoi nulla contro di me!»
«Dei è impossibile fare fuori questo qui!» gridò la gatta verso Micazoyolin.
«Impossibile da uccidere dici? Osserva la cosa migliore che abbia mai fatto in vita mia!»
«Intendi…»
«Hai capito benissimo micetta: la Tempesta di Spade»
Cortes si voltò verso Micazoyolin con un espressione interrogativa: «Ehi tu! Cosa vuoi dire?»
«Vedrai… Quiyahatl Machuitl! La mia ultima invenzione!»
 
Mentre diceva queste sue ultime parole il cielo fu illuminato da innumerevoli luci abbaglianti e un numero imprecisato di spade iniziò a piovere addosso a Cortes che, con la rapidità datagli dai miraculous che portava, riuscì a schivare ma fu comunque ferito alle spalle dai denti di una di queste.
«Fuggi codardo! Ciascuna di queste spade è stata creata da me! Ho forgiato più di mille spade per questo!»
Cortes  continuò a correre come un pazzo attraverso la foresta mentre veniva inseguito dalla pioggia di spade.
«Ti prego! Fermati!»
«Vedila così: sono le spade di tutti gli aztechi di cui hai ordinato lo sterminio!»
Nel frattempo Mistontli lo inseguiva facendo salti altissimi aiutandosi con l’asta della lancia.
«Non sfuggirai alla furia della sfortuna!» gridava lei.
«Non temo la sorte! Mi è sempre stata favorevole!»
Micazoyolin intanto faceva roteare lo Yoyo la cui corda aveva subito una piccola modifica: ora lungo tutta la sua lunghezza erano disseminate spine lunghe come quelle di una rosa.
Si trovarono sulla cima di un crinale e, in quel punto favorevole, mentre Cortes dava l’idea di stare per arrendersi, Micazoyolin fu preso completamente alla sprovvista: il conquistadores si voltò di scatto e lanciò il pugnale che andò a trafiggere il guerriero coccinella nella milza.
«NOOOOO!» gridò Mistontli voltandosi di scatto e cercando di soccorrere il prima possibile Micazoyolin ma non riuscì ad afferrarlo prima che cadesse a terra esanime.
«Cos’hai fatto… hai tolto ciò che avevo di più caro, Ora subirai la mia ira!» aveva detto queste parole con calma e tranquillità ma, nella vibrazione della sua voce, Cortes percepiva una rabbia primordiale farsi strada e sconfiggere la calma.
«Tu non vedrai più la luce del sole! Vedrai solo me! La MORTE!» e detto ciò si scagliò verso di lui mentre i suoi lineamenti perdevano stabilità iniziando a vibrare come – oggi diremmo – un pessimo disegno in pixel art.
Mentre correva verso di lui la lancia si tingeva di un color rosso sangue partendo dalla punta e diffondendosi lungo tutta l’arma e coprendo anche la ragazza che, ora, sia per quanto riguardava il corpo che per quanto riguardava gli abiti, era diventata color sanguigno.
Cortes fu colto dal terrore più puro: al confronto della pioggia di spade questo era un’eruzione vulcanica.
Spiccò il volo con le possenti ali variopinte mentre, dietro di lui, un’ondata di distruzione era guidata dalla ragazza gatto che ora ricordava molto la dea egizia Sekhmet, che era temuta da uomini e dei per la sua distruttività ma che era in realtà Bastet, la gatta domestica.
Cortes fuggì verso nord il più possibile mentre dietro di lui quel demonio avanzava inesorabile travolgendo ogni cosa sul suo cammino: nulla sopravviveva e tutto deperiva, uomini e animali, piante e funghi… dietro di sé non cresceva nulla… terra bruciata, sale sui campi.
Ad un certo punto Mistontli fece un balzo immenso e saltò tra le ali di Cortes ma lui fu veloce e, con un  colpo di pugnale, la fece ricadere avvelenata prima che lei potesse strangolarlo.
La dove cadde Mistontli non si fermò: si rialzò e, seppur sanguinante, riuscì a correre per alcuni chilometri fino a raggiungere la costa settentrionale devastando tutto nel mentre ma, ormai stremata dalla forza, si accasciò a terra evocando un’ultima volta il Cataclisma più devastante che il mondo avesse conosciuto: fu spettacolare e terribile allo stesso tempo: creò letteralmente uno dei crateri più grandi mai esistiti – il cratere di  Chicxsulub – che, come ben sappiamo dalle sagge parole di Plagg, non causò la morte dei dinosauri visto che fu proprio lui ad andare in giro a fare esplodere rettili per divertirsi.
Fu l’ondata distruttiva più spettacolare che l’uomo poté vedere: abbastanza grande da distruggere ettari di foresta e deviare il corso dei fiumi. Nessuno sopravvisse.
Poco dopo che ebbe fatto ciò qualcuno le pose una mano sulla spalla «Mia amata» disse una voce a lei famigliare.
Si voltò: un ragazzo coperto di cenere quasi da sembrare europeo la guardava con un sorriso triste: le piume che una volta decoravano il suo capo erano annerite, i suoi occhi una volta bellissimi e fieri erano tristi e sconsolati. «Non è giusto che solo tu getti nel caos il popolo che ci invade»
Micazoyolin si alzò lentamente, affaticato dal dolore lancinante e dalla morte che era riuscito ad allontanare pur di raggiungerla.
«Io maledico il popolo che giungerà in questa terra: egli spodesterà gli antichi abitanti ma allo stesso tempo subirà la più cocente delle sconfitte: la perdita di ogni valore» e detto ciò stramazzò a terra morto mentre il suo corpo diventava sempre più scuro finendo per somigliare ad una statua di carbone.
Mistontli pianse lacrime rosse mentre abbracciava il corpo del bel guerriero mentre, anche la sua anima, si apprestava a raggiungere il paradiso dei guerrieri.
 
Il paradiso dei guerrieri che Mistontli raggiunse però non se lo immaginava così… strano.
Si ritrovò in mezzo a una foresta oscura abitata da innumerevoli gatti neri che venivano a farle le fusa. Un grosso giaguaro nero si avvicinò a lei e, sebbene inizialmente fu titubante nell’avvicinarsi, lei le pose una mano sul muso e lui parve molto rassicurato.
Gli saltò in groppa e si fece guidare dalla belva fino ad una zona in cui il bosco si diradava leggermente lasciando spazio ad una lunghissima tavolata in cui molte persone stavano parlando animatamente.
«Ehi vecchio gatto! Non chi avevi avvertito di un nuovo arrivo» gridò un tale vestito con una pesante armatura medievale «Aspetta un attimo… è una donna!»
Tutti si alzarono e, praticamente ognuno di loro, le andò incontro scortandola a uno dei posti vuoti.
«Buoni ragazzi buoni» gridò una voce famigliare dal fondo della tavola.
«Mi spieghi dove sono Plagg?»
«Oh: a casa mia! Vuoi del Camabert? Parmigiano? O la signorina preferisce dell’Emmental?»
«Tu vivi in un bosco?»
«Il bosco vive in me carina»
«Ah… e chi sono questi qui?»
«Dei polli: come te!»
Appena Mistontli si fu seduta guardò nella direzione della voce e poté finalmente vederlo: non era più il cosino con la testa sproporzionata a cui era abitata: ora era alto e bello, dalla carnagione nera come l’ebano, i capelli ancora più scuri e occhi grandi, brillanti e completamente verdi con la sottile pupilla nera al centro.
I suoi baffi ora erano lunghi un metro l’uno e la sua coda raggiungeva i tre metri di altezza tracciando un arco sopra di loro e pendendo all’altezza delle sue lunghe orecchie.
«Ma cosa… sei umano?»
«Tu sei umana: io sono un kwami… ti ho già fatto questo discorso no?»
«Ma non sei più così… tu»
«Lo capirai vedendo»
Mistontli guardò i due tizi a cui si era seduta accanto: alla sua destra c’era un ragazzo non più vecchio di lui con un bastone legato a tracolla che terminava con una lama squadrata, una coda folta e lunga ed indossava un abito che lui spiegò era legato al ruolo che aveva assunto in vita: un ninja. Il suo nome era Nekomata ed aveva preso parte ad un’antica guerra che si era svolta in un arcipelago chiamato Giappone e che aveva causato molti danni sia a livello naturale che umano; era specializzato nel marionettismo dei cadaveri.
Alla sua sinistra c’era un tizio vestito in modo regale: una lunga veste nera su cui aveva posto una toga rosso porpora con ricami neri; nella mano portava il bastone che, questa volta, aveva una torcia accesa sulla cima; indossava una corona di foglie d’oro nero e disse che il suo nome era Nero ma ora tutti lo conoscevano come Nerone, il distruttore di Roma.
Davanti a lei mangiava un altro tizio con una gran testa leonina calata sul capo e vestito con una pelle del medesimo animale; portava un’armatura nera e la sua pelle era così abbronzata da sembrare che avesse vissuto in un mondo in cui splendeva sempre il sole.
«Mi chiamo Eracle. Sono stato un grande eroe ai miei tempi? Tu invece ragazza?»
Lei rispose e si misero a parlare e si aggiunsero ai loro discorsi anche una donna vestita con una tunica pesante, una pelliccia appuntata con grossi anelli di bronzo e capelli biondo rame legati in larghe trecce; il suo nome era Freyja e veniva dal nord.
Nel frattempo due uomini, uno magro e longilineo dai capelli biondi come il sole e dallo sguardo astuto e un altro simile di corporatura ma vestito con un’armatura nera ricca di decorazioni verdi e indossante anche un elmo nero con orecchie aggiunte stavano facendo braccio di ferro e la tenzone si faceva davvero interessante: le due braccia tremavano simultaneamente e quella del biondo, che in parte era scoperta, riluceva di sudore mentre i muscoli risaltavano nella carne rosata e scalpitavano come cavalli.
Alla fine il tizio in armatura fu colto dalla stanchezza e cedette prima del biondo che, con sguardo esausto, mentre si asciugava il sudore dalla fronte, disse: «Bravo Achille… sempre vincitore morale vedo!»
«Lo puoi dire razza di barbaro!» disse lui sollevando un bicchiere ricolmo di vino.
«Ti voglio bene anche io Ellenico del cazzo!» rise l’altro brindando con il suo, ricolmo di whiskey.
Il vicino del biondo gli mise la mano sulla spalle e disse: «Ohi papà, non esagerare che poi ti si sloga di nuovo il braccio»
«Sono o non sono Lug dal lungo braccio eh? Nessuno può battere la forza che impiego nello scagliare la lancia o nel battere questo qui!» rise l’altro e trangugiò il whiskey mentre suo figlio, un uomo dai capelli lunghi e nerissimi con il corpo ricolmo di cicatrici e tatuaggi rideva di gusto asciugandosi le lacrime dagli occhi.
Alla fine Mistontli, quasi senza accorgersene, finì per trovarsi perfettamente a suo agio in quella gabbia di matti e il tutto finì in allegria, tarallucci e vino – letteralmente, alla tavola di Plagg puoi trovare sicuramente due cose: tutti i formaggi della storia e tutti gli alcolici del mondo – e quando gli fu chiesto per l’ennesima volta perché queste due cose lui rispose così: «L’alcol è distruttivo, il formaggio invece è una questione più complicata»
«Spiegala» lo spronò quella che, Mistontli aveva imparato, si chiamava Bastet ed era stata una di quelle che aveva imparato a padroneggiare il Rancore della Dea Rossa.
«Beh… diciamo che quando ti innamori di una ragazza che fa parte di una famiglia di allevatori nomadi ti viene naturale amare il formaggio, il latte, la panna e tutti gli alimenti che in genere si danno ai gatti affamati!» e detto ciò sollevò il suo bicchiere e propose un brindisi mentre tutti lo imitarono e iniziarono a cantare quelle fantastiche canzoni da bevute.
 
“C’è una locanda, una locanda, una vecchia locanda
Allegra sotto la collina grigia
E li fabbricavano una birra così scura che l’Uomo della Luna scese
Una notte per bere il suo bicchiere.
 
Lo stalliere ha un gatto ubriaco che suona un violino a cinque corde
Su e giù muoveva l’archetto
Ora un suono alto e stridulo,
ora basso come le fusa
ora uno nel mezzo
 
Ora il gatto con il suo violino suonò He Diddle,
una giga che avrebbe svegliato i morti
cigolò e suonò e accelerò la melodia
mentre il padrone scosse l’Uomo della Luna
“Sono le tre passate” lui disse.
 
Ora più veloce il violino suono Diddle Dum Diddle
Il cane iniziò a ringhiare
Le mucche ed i cavalli tirarono su la testa
Gli ospiti saltarono furi dai letti e danzarono
 
Il tondo Luna rotolò dietro la collina
Mentre Sole sporgeva la sua testa
Non credeva ai suoi occhi ardenti
All’improvviso era giorno
Tornarono tutti a letto!”
 
 
WEILLA!
Come va? Vi sono mancato? Spero di si altrimenti smetto di scrivere. No dai scherzavo: mi sono preso un po’ di tempo per capire bene come scrivere qualcosa di storicamente decente sulla società azteca; sapete è un’ambiente abbastanza lontano da noi e non ci ho mai avuto molto a che fare quindi mi sembrava doveroso approfondire… “miei Kwami! È una fa fiction” direte voi… ma io le cose le voglio scrivere bene e quindi le scrivo con roba etnica realistica.
Non dimenticate nulla mi raccomando: soprattutto il discorso di Coyote (personaggio che, piccolo spoiler, ricomparirà nella seconda serie) e fate i bravi.
 
Per cogliere meglio la citazione a Tolkien vi consiglio questo video, in particolare l’ultima canzone da cui ho tratto la traduzione un po’ raffazzonata… vi deve dare l’idea dell’atmosfera che regna nel miraculous del gatto nero:

 https://www.youtube.com/watch?v=iUKjJn0rOecn

Magari il tutto condito con gente che balla sui tavoli distruggendo le vivande come loro solito
Scusate eventuali errori di battitura ma questo non deve distrarvi troppo.

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