Notte e Nebbia (Nacht und Nebel)

di yonoi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Come un abbraccio per chi arriva da lontano ***
Capitolo 2: *** Nei territori intimi della sua nostalgia ***
Capitolo 3: *** La strana faccenda dell'amore oltre la morte ***
Capitolo 4: *** Sulla soglia della paura e dell'incanto ***
Capitolo 5: *** Dieci anni, il più grande ***
Capitolo 6: *** A suo agio nella solitudine del mondo ***
Capitolo 7: *** De profundis clamavi ***
Capitolo 8: *** Le cose brutte che solo i bambini vedono ***



Capitolo 1
*** Come un abbraccio per chi arriva da lontano ***


1. Come un abbraccio per chi arriva da lontano
 
Estate 1920

 
Il giorno in cui Hansi Wallemberg giunse alla piccola casa ariosa che l’avrebbe ospitato per la prima estate priva di angosce della sua vita, la grossa pendola in legno antico della Iolanda aveva appena esaurito i rintocchi delle tre. Era un arnese monumentale dell’altro secolo, che segnava le ore con un rumore di ferraglia sconclusionata, ogni volta sul punto di sfasciarsi in un mucchio di segatura fine, sminuzzata dai tarli.   
         Era un’estate d’afa che spegneva ogni voce, anche i rintocchi e il guazzabuglio degli ingranaggi, e persino il rumore del campanello alla porta: il silenzio di quel pomeriggio denso, annegato di luce, lo circondò immediatamente come un sasso caduto in acqua, senza lasciare traccia.
         Da quel fiotto di luce a picco sulla strada, Hansi e suor Vincenzina, una ragazza alta e piantata come una torre di lentiggini rosse, che l’aveva accompagnato durante tutto il viaggio in treno dalla Germania, s’erano ritrovati sotto la volta di un ingresso incombente, che sapeva di vecchia cantina e di polvere, e soprattutto buio.
         Pallida ombra di un bambino di cinque anni, in piedi sulla soglia col sudore incollato che iniziava a raffreddarsi nella penombra, Hansi tese l’orecchio verso una porta che, dal suo metro scarso d’altezza, sembrava destinata a restare chiusa per sempre. Era una porta in legno ritinta da più mani di una vernice scura: e ogni mano l’aveva resa ancora più tetra, e pesante a tal punto che ad Hansi parve impossibile che il campanello suonato da suor Vincenzina buttandoci sopra tutto il peso della stanchezza, potesse richiamare qualcuno dall’interno. Suonare un’altra volta era fuori discussione, sia perché Hansi Wallemberg al campanello relegato lassù in alto non ci arrivava affatto, sia perché immaginava, al di là, solamente altro freddo.
         In quel tempo affondato nel silenzio più completo, nell’attesa che qualcuno venisse ad aprire la porta, Hansi si strinse più fortemente a un grosso ritratto in cornice, dal vetro annerito di ditate e lunghi sguardi, che teneva con sé come una protezione.
         Avvertiva il bisogno di aggrapparsi a qualcosa: perché sapeva bene, e lo sapeva con la certezza inesorabile con cui le cose si sanno senza bisogno che nessuno te le spieghi, che per suor Vincenzina il viaggio terminava su quella soglia al limite tra la luce ed il buio: lei che per tutto il viaggio s’era tenuto accanto quel bimbetto ostinato, badando ad acchiapparlo lesta per la collottola se solo muoveva un passo, a quel punto avrebbe mollato la presa, lasciandolo ruzzolare solo sulle sue gambe. Una volta che quella porta nella penombra si fosse spalancata, aperta da qualcuno di certo sconosciuto e sicuramente ostile, soltanto a lui sarebbe toccato proseguire, entrare in una casa che non era la sua, restarci addirittura per un’intera estate.
         Un’estate soltanto, aveva assicurato la suora durante il viaggio: ma nei battiti dell’anima inquieta di Hansi Wallemberg, quel tempo di un’estate si allargava sempre più a dismisura, tanta era la paura di dover rimanere in quel luogo per sempre.
         Solamente al pensiero, Hansi già rimpiangeva la stretta con cui la suora l’aveva acchiappato in più occasioni per la giacchetta, strattonandogli un braccio quando aveva più paura che gli sfuggisse, e poi per la collottola totalmente indifesa: perché i capelli di Hansi erano talmente sottili e chiari, una peluria appena, che la presa di ferro della brava sorella arrivava direttamente alla carne e ai nervi, e lo immobilizzava con gli occhi spalancati come un coniglio in trappola.
          Hansi Wallemberg era partito dalla Germania quasi due giorni prima, un treno di bambini destinati a diverse città ugualmente ignote, nell’ambito di un piano di aiuti della Croce Rossa a favore dei Paesi più disastrati dalla guerra. Insieme a lui, altri trenta bambini spaventati erano scesi alla stazione di Bologna Centrale, radunati da un drappello di crocerossine svolazzanti. Con gli occhi abbagliati dal sole improvviso, dopo le ore lunghe dentro ai vagoni, la colonia dei bimbi si era radunata nell’atrio della Stazione, addossandosi l’uno all’altro per proteggersi. I più vispi si guardavano intorno incuriositi, le sorelle maggiori sistemavano i panni ai fratelli più piccoli, asciugavano nasi, aggiustavano trecce e inseguivano berretti volati nella calca.  
         La Stazione Centrale era sembrata ad Hansi un enorme casolare di polvere, abbandonato tra le file liquide dei binari, sotto a un sole assoluto, in un silenzio totale.  
         Nella penombra dell’atrio, alcune coppie e famiglie erano già in attesa. Per Hansi e un gruppo di treccine intimidite si trattò invece d’esser consegnati a domicilio, e affrontare la caligine muta della città alle tre del pomeriggio.
         Con la giacchetta nera incollata alla schiena, lo stomaco impastato dalla nausea del viaggio, per mano a suor Vincenzina che sudava a larghe macchie, Hansi aveva attraversato la città calcinata dalla calura, da un’umidità che si appiccicava addosso e rendeva i contorni dell’orizzonte palpitanti e ricurvi. Non un’anima viva, sotto ai portici di mattoni rossi e gialli che ingrandivano i passi, e davano l’impressione di essere inseguiti: per quelle strade in pietra spazzate dalla solitudine tra le case, così diverse dai viottoli del paese dov’era cresciuto fino ad allora, e dove ogni sentiero non era mai solitario, ma sempre accompagnato dal sussurro nascosto di un torrente o di un bosco.
         Fu in quel momento che, per la prima volta, Hansi sperimentò quel senso di abbandono che lo accompagnerà sempre, come una seconda anima più profonda: ed era la certezza d’essere solo al mondo, indifeso di fronte alla complessità dell’esistenza, e che questo fosse, in realtà, il destino di ognuno.
         Di nuovo, suor Vincenzina si attaccò al campanello: rispose, questa volta, il pigolio di un orologio a cucù ritardatario, e ancora uno strepito di ingranaggi disordinati, un cigolio di rotelle che arrancavano dietro allo scorrere del tempo.
         Seguì un nuovo intervallo lunghissimo di silenzio. E poi, da quella porta pitturata di scuro, appena percettibile poi sempre più distinto, un rumore di passi ruzzolati ed inciampi, una risata allegra: per una strana impressione che non riuscirà mai a spiegarsi, Hansi si sentì abbracciato dalla Iolanda ancor prima che questa si affacciasse sulla soglia, accompagnata da un altro schiamazzo squinternato di orologio in ritardo.
         Preso alla sprovvista, Hansi riparò dietro alla grossa cornice di quel ritratto che portava sempre con sé e che, insieme alla tensione, gli aveva stancato le braccia per tutto il viaggio. Dal suo rifugio, sollevando appena uno sguardo, Hansi riportò una prima impressione assai curiosa di quella che sarebbe diventata la mutti Iolanda, la sua mamma italiana.
         Nella cornice luminosa della porta, per prima cosa lo raggiunse il tepore di un impasto a riposo, che lievitava quieto sotto a uno strofinaccio.
         Sorridendo, la Iolanda si allungò sulla porta, piccole mani di nervi che si asciugava stropicciando nel grembiule, un abitino impolverato di vaniglia, una traccia di noce moscata dietro all’orecchio: insieme a lei scapparono fuori tutti gli odori, l’amarognolo del lievito, il fresco della farina, l’attaccaticcio di marmellata di albicocche, dal barattolo aperto sul tavolo di cucina. La teglia già imburrata, il forno che si andava lentamente scaldando, erano il preludio a una delle crostate memorabili della Iolanda: lei ne aveva sotto alle dita, perché le piaceva rubare qualche pezzetto di pasta ancora cruda, come fanno i bambini per sentire i cristalli di zucchero disfarsi, scricchiolando sotto i denti.
         Sembravano albicocche anche gli spicchi delicati delle sue orecchie, che spandevano arancio nel riverbero denso di luce del pomeriggio. Per il resto era piccola, il riflesso in controluce se la mangiava tutta: ne rimaneva solo quel tepore accogliente, come un abbraccio per chi arriva da lontano.
         In quel momento le sopracciglia erano arcuate, un po’ per la sorpresa e un poco per la moda delle donne di città.
         Dalla sua postazione circospetta, Hansi sgranò gli occhi: la figura di lei gli ricordava certi bastoncini di zucchero sui banchetti delle fiere luminose del suo paese, quando ancora suo padre lo portava sulle spalle, e a lui pareva di padroneggiare il mondo intero dall’altezza delle montagne.
         La voce della donna somigliava a un liquore, qualcosa che scendeva fino in fondo  alle orecchie e vi restava a lungo: anche se le parole non avevano inizio, per Hansi, né una fine, e anche se la lingua era quella cantilena già sentita degli stranieri, che durante il viaggio gli era sembrata così allarmante, sempre gesticolata a voce così alta da far l’effetto di una minaccia.
         Ora, in quella luce che la circondava tutta nel vano della porta, lasciando intravedere una cucina densa di sapori e fermenti, e un giardino verde simile al suo paese, nella voce della donna che sorrideva piegandosi su di lui, quegli accenti sembravano più comprensibili. Hansi ebbe l’impressione di riuscire a capire addirittura il senso esatto delle parole:
         -“Benvenuto, willkommen, piccolo Hans. Entrate, accomodatevi”-
         Hansi restò a fissarla, sbalordito da dietro la pesante cornice che lo proteggeva sempre. Suor Vincenzina in retroguardia gli chiudeva la strada, mentre dinanzi a lui era il garbo incantevole della donna di città: abbagliato, Hansi Wallemberg si trovò dentro casa, appollaiato sul divano del salotto senza neanche sapere come c’era arrivato.
         Da un vassoio di legno, appoggiato su un tavolo dell’identica tinta minacciosa della porta, la donna di città serviva qualche cosa di luminoso e di fresco: dentro a grossi bicchieri punteggiati di goccioline di freddo, con una grazia innata versava ai suoi ospiti limonata da una caraffa, e la sua voce liquida in una domanda:
         -“Avete fatto buon viaggio?”-  
         Sprofondata nella frescura del divano, suor Vincenzina tornò a prendere spazio:
         -“Ti prego, non parlarmene”- la sua voce risentiva di tutto il peso del viaggio e infatti era sassosa, ancora con i tacchi impigliati nell’acciottolato della strada -“due giorni chiusi in treno, con tutti quei bambini, è stato più il tempo che abbiamo passato fermi, che quello che abbiamo viaggiato. Saranno ormai due anni che è finita la guerra e ancora, dappertutto, rotaie e ponti a pezzi. Veramente, ho pensato di non riuscire a farcela”-
         -“Lui è il piccolo Hans?”- ignorando le lamentele della buona sorella, la Iolanda allungò il bicchiere pieno ad Hansi, avvolgendolo col suo sorriso e con lo sguardo. Il viso di lei era un piccolo cuore nella penombra, con occhi che occupavano tutto quanto lo spazio: perché la lolanda amava guardare in profondità, attraverso le sue mani che toccavano il mondo, preparavano il cibo e indagavano il significato delle cose mescolando ingredienti, lasciando riposare, aggiungendo qua e là un pizzico di qualcosa, cavando via la buccia e le tensioni inutili, e forgiando frammenti di vita accogliente. In quel momento la Iolanda percepiva fortemente il turbamento di Hansi, e non le premeva altro.
         Suor Vincenzina, nel frattempo, proseguiva:
         -“… lui è il vostro piccolo affido per questa estate. Qui ci sono tutti i documenti del caso. Hansi starà con voi fino ai primi di ottobre, dopo di che è previsto il suo rientro in famiglia”- Esaurita dal viaggio, suor Vincenzina alternava ogni frase a uno sbadiglio, e gli sbadigli ai brividi per il sudore che si asciugava in macchie di freddo:
         -“Hansi viene dalla montagna, un paesetto che a vederlo sembra una cartolina, eppure con la guerra si è ridotto a un villaggio fantasma di vecchi, mutilati e mezzi matti: quasi nessuno è riuscito a tornare dal fronte, e chi è tornato ha perso una gamba, un braccio, mezza faccia”- E qui suor Vincenzina, per decenza o per scrupolo, si decise ad abbassare la voce in un sussurro: non fosse mai che il bambino, che pure di italiano non ne sapeva nulla, afferrasse qualcosa, per magia o per intuito. Prima di continuare si aggiustò sul divano, più vicina all’orecchio attento della Iolanda: non prima di avere allungato ad Hansi un’occhiata, che ottenne l’unico effetto di farlo interessare ancora di più a quello che si andava dicendo: 
         - “Ad oggi, il padre di Hansi risulta tra i dispersi, anche se lui è convinto che possa tornare a casa da un momento all’altro. È anche vero che molti son riusciti a tornare quando ormai nessuno se l’aspettava più. Per questo, Hansi non voleva saperne di partire, abbiamo dovuto costringerlo per il suo bene - e qui, la buona suora ritenne opportuno ribadire il concetto alzando il dito indice, contro ogni obiezione -“in realtà, lui voleva rimanere al paese per aspettare il padre, e non lasciare sola sua madre”- l’indice di abbassò, tornò in grembo come disarmato d’un tratto.
         -“Un motivo ben futile”- osservò la Iolanda, a sua volta indirizzando un’occhiata complice al mucchietto di abiti e cornice al valore che le sedeva di fronte.
         Mentre suor Vincenzina parlava, il bambino scrutava i volti, coglieva le emozioni dietro ai toni di voce, collegava veloce i gesti e le espressioni: tentava una sorta di traduzione simultanea, afferrando in realtà molto di più di quanto si potesse immaginare.
         All’inizio si era sentito disarmato: il fascino raggiante della donna straniera gli era venuto incontro, e lui aveva pensato che poteva fidarsi, che nulla di male poteva venirgli dalla bellezza.
         Ora, mentre la suora continuava a parlare, e parlava di lui senza neanche guardarlo, solamente levandogli il bicchiere dalla mano perché non lo rompesse, Hansi sentì avvampare sulla faccia il dispetto: d’un tratto si convinse che se la suora e la straniera parlavano così tanto, questo voleva dire che in quella casa lui doveva rimanerci non soltanto un’estate, ma per sempre.
         Per sempre, e Hansi sentì qualcosa cadere e andare in pezzi, e non era il bicchiere scintillante di gelo della donna straniera, ma un cedimento improvviso, da qualche parte in fondo alla spina dorsale. Per sempre, mentre le dita delle sue mani impallidivano e diventavano fredde, e la frescura della penombra e della bibita non c’entravano per niente. Devo tornare a casa, se non ci torno adesso non mi lasceranno più andare. Devo essere a casa quando arriverà papà, lui s’era raccomandato di aver cura della mamma e io l’ho lasciata sola, e nessuno ha voluto capire o stare a sentire.
         Mentre Hansi Wallemberg inseguiva i suoi pensieri, suor Vincenzina andava avanti per conto suo: -“Da quando ha saputo che il marito è disperso, la madre di Hansi s’è ammalata per la tristezza. All’inizio stava ancora dietro alle bestie, all’orto e al bambino. Solamente la sera si sedeva sull’uscio, come quando aspettava il marito dal pascolo. Ma poi il tempo è passato senza che lui tornasse, e anche il tempo trascorso sull’uscio si è allungato, oramai passa il giorno e la notte sempre là. E’ così in tutto il paese: i reduci li trovi a bere dal mattino alla sera, la birreria è l’unico posto che fa il tutto esaurito, a parte il cimitero, perché ultimamente ce n’è tanti che s’ammazzano, li trovi appesi qua e là, o si sparano addosso per storie di vicinato. O perché sentono nella testa degli ordini, che so io, delle voci…”-
         La suora raccontava, e dalla sua posizione strategica sul divano, Hansi Wallemberg si aggirava di soppiatto con lo sguardo, in cerca di possibili vie di fuga. Il salottino buono si stringeva attorno al tavolino di legno scuro, con i bicchieri freddi, la caraffa lucente e una fila di biscotti disciplinati e fragili, rinchiusi in una scatola scoperchiata per l’occasione dalla Iolanda. Dietro al divano e a due poltroncine foderate, con i centrini all’uncinetto sulle spalle, le pareti alte e bianche parevano alzarsi sempre più, all’infinito: tutt’intorno la luce del pomeriggio estivo, una luce senz’ombre, senza nessuna piega dove andare a nascondersi.
         Tra le due poltroncine, presidiate con garbo dalla padrona di casa, e con piglio da sentinella da suor Vincenzina, una porta finestra si apriva su quel giardino intravisto all’ingresso, e che sembrava far capolino dappertutto. Ad Hansi, la sola vista del verde trasmetteva da sempre tranquillità e sicurezza: ma in quel momento, il bambino era più interessato a scoprire se da là si poteva fuggire, e correre fino a casa nel minor tempo possibile. Gli ostacoli erano tanti: si trattava anzitutto di sottrarsi alla presa di suor Vincenzina, perché la brava suora era immersa nel divano e in tutti i suoi discorsi, ma sempre vigile e lesta ad acchiapparlo per la collottola. Se provi a fermarmi io mordo, io picchio tutti quanti, anche la donna straniera, pensava Hansi, cercando di farsi coraggio con l’astio. Ma lo sapeva bene: anche se fosse riuscito a scappare in quel giardino così simile ai boschi del suo paese, questo non significava essere già a casa. Ci saranno cancelli, si disarmava Hansi, forse una recinzione, e chilometri aguzzi di filo spinato - e ai suoi occhi persino quel giardino immerso in un quieto dormiveglia assumeva i contorni tetri di una prigione.
         Un’altra porta s’intravedeva dal salotto, socchiusa sugli odori dolci della cucina: da uno spiraglio si spandeva una pozza di luce, dello stesso arancione di quella marmellata che attendeva la lenta crescita della pasta sotto allo strofinaccio. Nel silenzio di quella luce, la cucina appariva talmente confortevole, un richiamo irresistibile per le ossa stanche e affamate di Hansi Wallemberg. Scappando da quella parte, però, era sicuro di inoltrarsi sempre più dentro alla casa, e magari trovarsi prigioniero per sempre, vittima di una fetta di crostata stregata.
         L’unica via d’uscita era quindi la porta paurosa dell’ingresso, quella buia e verniciata in fondo a un corridoio altrettanto sinistro. Ma il problema era sempre quello: anche se fosse riuscito a sfuggire alla presa di suor Vincenzina, e a disarmare tutti i chiavistelli del caso, una volta per strada Hansi Wallemberg non avrebbe saputo dove andare.   
         “Io non la so, la strada per ritornare a casa”, ragionava tra sé Hansi, disposto a tutto tranne che arrendersi, “però se punto i piedi con tutte le mie forze, e se comincio a mordere, a dar calci ma forte, allora capiranno, e la donna straniera smetterà di sorridere e non mi vorrà più. E torneremo indietro, e forse già domani arriveremo al paese”. Hansi già si congratulava con se stesso, per il suo perfetto piano di guerra. Si asserragliò dietro al baluardo del ritratto, preparandosi a resistere fino all’estremo.
         La Iolanda, dal canto suo, continuava a sorridere. Proprio in quel momento, e quasi intercettando i pensieri di Hansi, notò che il ragazzino, esausto e scolorito nella giacchetta del viaggio, non badava a nient’altro che a restare aggrappato a quella vecchia cornice: dentro c’era una foto, un ritratto che lui non lasciava guardare e neppure avvicinare. Dalla cornice smozzicata dal tanto andare in giro pendeva un nastro consunto, e una pesante decorazione a forma di croce. Quando Hansi si accorse delle occhiate incuriosite della Iolanda, strinse ancor più le braccia, concentrando tutta la rabbia in uno sguardo basso, da bestiola feroce.
          -“Porta sempre con sé il ritratto del padre. Anche in treno, non c’è stato modo di farglielo posare, nemmeno per un istante”- dimentica della stanchezza, suor Vincenzina si sfogava raccontando le peripezie del viaggio: la partenza da quel paese remoto della Germania e l’impresa di staccare Hansi dalla banchina, a pugni, calci e lacrime, sferrati dal ragazzino e ripartiti equamente tra lei e padre Grünewald, il parroco del villaggio, che aveva avuto la bontà o la pena di occuparsi del caso.
         Puntare i piedi e mordere qualunque cosa gli capitasse sotto i denti, non era servito ad evitare ad Hansi Wallemberg lo scorno della partenza: imbarcato di peso, non appena era riuscito a mettere i piedi a terra, aveva somministrato uno spintone unanime a tutti i bambini e le suore presenti, e si era messo a correre a capofitto per gli scompartimenti, mentre il treno iniziava a scrollarsi e a prendere la rincorsa della partenza; suor Vincenzina aveva cominciato a sudare da quel momento in poi, per il terrore che Hansi aprisse una portiera, si lanciasse di sotto mentre lei lo inseguiva per le carrozze ingombre di bambini e bagagli, altre crocerossine impegnate a sedare il contagio dei pianti, ancora le proteste dei signori viaggiatori di prima classe, travolti nella fuga verso un’improbabile via d’uscita.
         Solo una volta giunto all’estremo limite del convoglio, ai sacchi di carbone e alla locomotiva lanciata in velocità, Hansi si era arreso all’ineluttabilità della sua situazione, lasciandosi catturare - non senza morderlo - da un grosso macchinista col sorriso da orco: tra le risate degli addetti alle macchine, era stato riconsegnato alla suora trafelata e scomposta dalla corsa e dall’angoscia. 
         Una volta rientrato nello scompartimento, mentre suor Vincenzina recuperava il fiato e il velo di traverso, si era rassegnato all’ordine di sedere composto, per poi chiudersi in un silenzio assoluto. A suor Vincenzina, quel silenzio era parso molto più preoccupante della rabbia violenta che l’aveva travolto prima della partenza, perché era un silenzio buio, come un muro levato da Hansi intorno a sé, per non farsi raggiungere.
         Anche in quel momento, mentre suor Vincenzina terminava la sua arringa, Hansi esibiva una perfetta indifferenza, ma in realtà raccoglieva le forze necessarie per puntare i piedi e costringere la straniera e la suora a rispedirlo in Germania. Più il tempo passava, e più quel salottino gli sembrava un luogo infido, e sempre più lontana la sua vera casa, quella vicina al bosco, dove c’era sua madre e dove si parlava una lingua che si capiva: quest’altra casa, invece, seppellita nel dedalo di piazzette e di vie di una città estranea, sempre di più pareva una spelonca paurosa, popolata di insidie proprio come le caverne dei draghi delle fiabe. 
         Eppure, a un certo punto, fu la curiosità ad avere la meglio: ciò che era molto strano, e che fece sgranare ad Hansi i suoi occhi vigilanti, in direzione dello spiraglio socchiuso della cucina, era che proprio come nelle caverne dei draghi, da quella soglia usciva fumo. Una spirale densa serpeggiava lentamente nel salottino, sgattaiolando insieme a un odore di bruciaticcio. Una spira soltanto, poi divennero due, sempre più attorcigliate, e salirono fino a formare una nebbia, una caligine condensata e preoccupante.
         La Iolanda se ne accorse guardando Hansi negli occhi: un po’ turbata dai racconti della suora - tutte cose che, peraltro, già sapeva a memoria - s’era chinata verso di lui per tranquillizzarlo, e per tranquillizzare se stessa provando ad allungargli una prima carezza: e Hansi l’aveva interpellata con un’occhiata stupefatta, lanciando alle sue spalle un punto interrogativo carico di sgomento.   
         Voltandosi, a quel punto si era sbigottita anche la Iolanda, sentendo il puzzo e il fumo venirle in mezzo ai piedi, e anche suor Vincenzina aveva perso a un tratto il filo del discorso:
         -“Iolanda, che succede?”-
         Subito, la Iolanda aveva spalancato la porta della cucina, e si era precipitata a cavar via dal forno, acceso per la torta, una teglia ormai carbonizzata di pane vecchio: l’aveva messa ad ammorbidirsi mano a mano che il forno si scaldava, e ora, a parte quella cortina vaporosa, restavano soltanto poche croste annerite.
         Facendo capolino prudente sulla soglia, Hansi l’aveva vista sparire in mezzo al fumo, e poi la scena s’era schiarita nuovamente mentre la donna apriva ridendo le finestre, spalancava altre porte, cavava via dal forno certi tozzi anneriti, e di nuovo non la finiva più di ridere. Mentre suor Vincenzina era rimasta sbalordita sulla porta, incerta se aspettare che la nebbia svaporasse per riprendere il filo delle sue traversie, Hansi aveva seguito la Iolanda in cucina: anche adesso, ad attrarlo, era qualcosa di inspiegabile.
         Di cosa si trattasse, non avrebbe saputo dirlo.
         Nell’anima di Hansi, che a cinque anni era - e sarebbe rimasto sempre - un fardello di sensazioni in umanità, c’era il timore di rimanere imprigionato in quella casa estranea, ma c’era soprattutto, da sempre, una spinta a difendere quanti aveva vicino, si trattasse del vitellino da macello trascinato al mercato, del gattino trovato dentro ad una pozzanghera, oppure della fine signora di città, vittima assai probabile delle fauci di un drago: anche se la signora, col suo abitino di vaniglia e i bicchieri di ghiaccio, il sorriso gentile e i biscottini in scatole di metallo tagliente, non lo convinceva del tutto.
         Fu quell’impulso a proteggere la vita in tutte le sue forme, per averla sentita tremare tra le dita come le piccole cavallette dei prati, le farfalle che pizzicavano sul palmo per poi disfarsi in polvere, fu il desiderio di custodire quel mistero di meraviglia a spingere Hansi Wallemberg nella cucina della Iolanda: col suo ritratto sempre ingombrante tra le braccia, il cavaliere Hansi arrivò fino al drago - e alla bocca spalancata del forno - dove una dama simile a un bastoncino di zucchero tossiva, ridacchiava, cacciava via il fumo con uno strofinaccio. Non sentì neanche la voce della suora sulla soglia, che stava approfittando della sua distrazione per salutare e andarsene:
         -“Buone cose, Iolanda. Allora, io vado!”-
         Quando Hansi se ne accorse, per puntare i piedi e resistere, mordere e calciare forte, era già troppo tardi. Una volta diradato il fumo e lo scompiglio restò davanti a lui soltanto la Iolanda col suo odore di zucchero. Di nuovo l’aria limpida e tersa della cucina, e quella lingua dagli accenti musicali, che tanto lo aveva innervosito durante il viaggio e che ora capiva, anche senza bisogno d’intendere le parole, perché la donna semplicemente lo invitava a non avere paura, con tutta la dolcezza di un solo sussurro: non avere paura né dei draghi che vivono nascosti dentro al forno, né della porta verniciata di scuro, né di alcun'altra cosa.
         E poi, improvvisamente, un po’ per il trasporto, la confusione o forse per entrambe le cose, lo strofinaccio scivolò improvvisamente di mano alla Iolanda, cadendo umido e in pieno sul ritratto a cui Hansi si aggrappava come un naufrago. La caduta improvvisa lo sorprese, non fece neppure in tempo a tirarsi indietro. La Iolanda si tuffò a recuperarlo ma poi ebbe un’idea, e cominciò a passarlo, leggero, sopra al vetro: lo straccio si annerì subito, da tanto che quel vetro non veniva toccato, e sotto al nero apparve, più distinto e marcato, il volto di Richard Wallemberg, come se stesse prendendo vita in quel momento, e fosse sul punto di saltar fuori dalla cornice. Tra lo sguardo stupito della Iolanda e quello incantato di Hansi, che contemplava il volto chiaro e netto del padre e quasi gli parlava, tant’era fresco e pareva fotografato adesso, passò un sorriso fragile. Poi Hansi ricordò che quel ritratto apparteneva a lui solo, e che nessuno aveva il diritto di passarci sopra neanche un occhio: lo strappò via di scatto, ma quando la Iolanda di nuovo gli sorrise, e lo prese per mano per accoglierlo nelle stanze della sua casa, Hansi Wallemberg non oppose resistenza.
         Non si fidava completamente, della donna di città. Tuttavia fu decisa, dentro di lui, una tregua: tra il timore del luogo, la rabbia nei confronti di suor Vicenzina e delle sue mani che acchiappavano i coppini come tenaglie, e quel bisogno di tenerezza invincibile che lui faceva sempre finta che non ci fosse. E che invece era era così grande, e talmente pressante, che un solo gesto affettuoso avrebbe convinto Hansi a seguire chiunque in capo al mondo.
         Pochi minuti dopo, Hansi dormiva di schianto nella penombra della camera da letto dei Drusiani, sempre aggrappato al suo ritratto rinvigorito: un sonno interminabile, vegliato sulla soglia dalla Iolanda e Arrigo Drusiani, da poco rincasato dopo il turno di servizio in  Questura, e subito costretto a muoversi in punta di piedi.
         -“C’è il bambino, silenzio!”- gli aveva intimato la Iolanda, mentre lui si trovava ancora sulla soglia. E Arrigo Drusiani, ridotto al silenzio ancor prima di mettere piede in casa, s’era lasciato accompagnare fino alla penombra della camera da letto: ed era rimasto a lungo, assieme alla Iolanda, a guardare il bambino riposare, stupito e intenerito come se Hansi fosse nato in quel momento.
 

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Capitolo 2
*** Nei territori intimi della sua nostalgia ***


2. Nei territori intimi della sua nostalgia
Quella sera, già tardi, quando Hansi Wallemberg si destò finalmente a casa dei Drusiani, lo fece lentamente, senza muoversi e con la cautela necessaria per far sì che nessuno, in casa, se ne accorgesse: voleva avere il tempo per guardarsi intorno ed esplorare il territorio, confidando nella propria capacità di intuire molte cose dalla prima impressione.
         Si trovò sprofondato in un letto a baldacchino grande come la piazza principale del suo paese. La stanza era immersa in un’oscurità silenziosa e remota, a tratti interrotta da una calura di cicale tagliata in spicchi di luce dalle persiane chiuse: dietro alle persiane, si agitava il verde di quel giardino onnipresente. Le siepi dei gelsomini, gli oleandri taglienti, gli alti pini marittimi circondavano la casa con il loro respiro denso.
         Sopra di lui il soffitto di panneggi e di polvere del letto a baldacchino, cortine di velluto che ad Hansi ricordarono gli addobbi nella chiesa di padre Grünewald, viola per la Quaresima e rosso insanguinato per le feste dei martiri. Per l’immaginazione estremamente viva di Hansi, quegli addobbi creavano angoli misteriosi, con la complicità delle candele accese, delle volute attorcigliate degli incensi: pareva di avvertire, impigliato in quegli anfratti, un fruscio d’ali simile a uccelli catturati, un fremito di angeli.
         L’arredamento della stanza da letto dei Drusiani seguiva lo stesso stile lugubre e sovraccarico: un grande armadio a muro, dello stesso legno scuro delle cassepanche di casa sua - Hansi preferì non pensare a certe casse da morto intraviste nella bottega del falegname Goller, che stavano diritte e ordinate sulla parete come guardie d’onore - e un comò con la specchiera maculata dal tempo e dall’umidità. Sopra al comò e a un centrino inamidato e dritto anche lui sull’attenti, il primo di una serie di orologi bizzarri, sparsi qua e là per casa, che scandivano il tempo ciascuno per conto proprio, con una mirabile discordanza di orari: per cui uno suonava sempre al meno un quarto, un altro dopo la mezza, un altro era indietro di almeno quattro ore, un altro avanti di tre. Una volta acquisita dimestichezza con le singole imprecisioni, l’ora esatta si ricavava agevolmente, e l’unico fastidio per chi ancora non ci aveva fatto l’abitudine, era la coda di suonerie che si agitava una di seguito all’altra.
         Proprio in quel momento, l’orologio che troneggiava sul comò della stanza da letto segnò l’ora precisa in cui Hansi era arrivato: le tre del pomeriggio. Col rintocco partì una musichetta metallica, e da una porticina sbucò fuori una coppia di damerini in parrucca, lei con la crinolina, lui con un mozzicone di codino tenuto da un nastro di velluto. Mentre i due ballerini volteggiavano un valzer, prima di scomparire risucchiati di nuovo nel ventre dell’orologio, la pendola dell’ingresso mise in moto i suoi circuiti ritardatari, e scandì le sette in punto col solito rumore di corde strattonate e ingranaggi confusi.
         Seguì un’altra serie di suonerie che Hansi non era riuscito a sentire al suo arrivo, perché ovattate dal portone dell’ingresso: il risultato era un inseguimento di squilli e campanelli, di corde e contrappesi, e valzer d’ingranaggi che si perdevano per corridoi apparentemente infiniti. A mettere fine al tutto, lo strepito convulso dell’orologio a cucù, che arrivava buon ultimo, da un angolo recondito che forse era la cucina.
         Come richiamate da quel clamore che in realtà proveniva da ogni angolo della casa, Hansi si trovò davanti due facce stupite, che lo fissavano tenendosi vicine, per alleviare lo smarrimento di fronte alla novità: una era la donna che l’aveva accolto al suo arrivo, col grembiule e le dita dolci, i capelli sollevati sulle albicocche delle orecchie, le sopracciglia arcuate perché così erano tutte le donne della città, ma anche per lo stupore che in quel momento spalancava gli occhi della Iolanda.     
         Poi c’era, accanto a lei, un uomo in uniforme, con gli stessi occhi dalle profondità tristi che Hansi aveva già visto sul volto di suo padre e di altri come lui, il giorno in cui era andato con sua madre a vederli partire per il fronte, sul treno decorato di canzoni e di fiori.
         Il bambino fu impressionato dalla sua aria disarmata, al punto da indovinarne gli incubi nascosti e le pene segrete: in quell’attimo di assoluta limpidezza che segue al risveglio, riuscì a intercettare la corrente sotterranea che si agitava nell’animo di Arrigo Drusiani, tenente di fanteria durante la Grande Guerra, che a due anni dal congedo non riusciva a prender sonno più di un’ora di seguito, e anche in quell’ora era tormentato da incubi angosciosi - dalla guerra che gli era entrata nella carne a tal punto che di notte gli usciva col sudore, insieme con le urla, l’odore aspro di polvere e ancora la paura.
         Abituato ai volti grezzi, sbozzati alla meglio della gente del villaggio, Hansi fu affascinato dal volto taciturno di Arrigo Drusiani, dai suoi lineamenti pensierosi e gentili, dagli occhi neri e morbidi, come Hansi non ne aveva mai visti.
         Arrigo, dal canto suo, era intenerito dalla piccolezza di quel bambino che più volte, da quando era rientrato dal suo turno di servizio, s’era fermato ad osservare quasi in punta di piedi, mentre dormiva reso più fragile dal sonno, eppure irrigidito da una tensione che non cedeva al riposo.
         -“È veramente piccolo”- aveva sussurrato inquieto, alla Iolanda -“forse non mangia abbastanza”-
         -“L’hanno mandato qua apposta. Lo faremo mangiare, giocheremo con lui. Racconteremo storie. E poi ci vorrà tempo, quello che è necessario”-
         Sprofondato nel baldacchino monumentale, col materasso alto sul quale anche agli adulti toccava arrampicarsi, Hansi appariva solo un mucchietto d’ossa avvolto negli stracci degli abiti. Un mucchietto d’ossa con gli occhi, adesso che finalmente si era ridestato da quel sonno di sasso, e il suo sguardo era di nuovo grande come tutta la stanza: si raggomitolò ulteriormente, nel tentativo di rendersi invisibile, sotto alla coperta che la donna di città gli aveva sistemato, rincalzandolo ai fianchi quando già riposava, perché non prendesse freddo malgrado il caldo tormentoso del pomeriggio. Da sotto a quel guscio, gli tornarono in mente tutti i motivi per cui non doveva fidarsi - l’estraneità del luogo, della lingua, dei volti, la lontananza incommensurabile da casa.
         Decise che la coperta non era una protezione sufficiente: così scivolò pian piano fino alla sponda opposta, e Arrigo e la Iolanda videro un serpentone di flanella sgusciare, e poi saltare e scomparire sotto al letto. C’era parecchio spazio là sotto, oltre ai gatti di polvere e a una frescura deteriorata, che molto probabilmente saliva dalla cantina: era qualcosa di molto simile a una trincea inespugnabile, o almeno così la immaginava Hansi. Dei padroni di casa, emergevano solo le piccole pantofole eleganti di lei - con i tacchetti alti e un ciuffo di piume tra le dita, praticamente delle scarpette da ballo - e gli scarponi stanchi dell’uomo in uniforme. Là sotto non spuntavano né sorrisi né facce, e solo per questo Hansi si sentiva al sicuro: c’era però, in quei volti intravisti di sfuggita, qualcosa che lo attraeva, un pungolo di curiosità irresistibile. D’un tratto, Hansi ebbe la netta sensazione che l’uomo in uniforme e la donna di città sarebbero rimasti a lungo nella sua vita, e che quindi valeva la pena di osservarli, e cominciare a far loro spazio nella memoria.
         Si allungò un poco verso la fessura di luce tra il letto e il pavimento, e buttò fuori un occhio in perlustrazione.
         Lo incuriosivano le sopracciglia della Iolanda, un sottile arco appuntito che ad Hansi parve tracciato con una penna aguzza, appena tinta d’inchiostro. Non andava ancora a scuola, Hansi Wallemberg, ma la penna e il calamaio gli erano familiari, e già sapeva la pazienza necessaria a tracciare le lettere senza inciampare in sgorbi e macchie senza rimedio: sui banchi della piccola aula della canonica, aveva visto più volte la conca per l’inchiostro, gli scarabocchi fatti per sbaglio o per rabbia dai ragazzi più grandi. Due passi più in là, nella sacrestia immersa nella foschia degli incensi, la penna e il calamaio erano in legno antico, eredità dei parroci di quel luogo sperduto: servivano ad aggiornare i registri delle nascite e delle morti, a segnare le offerte per le messe in suffragio. La prima stilografica, unica nel paese e in tutta la valle, Hansi l’aveva vista nella mano dell’herr doktor Gasser, che giorno e notte trottava nel polverone dissestato delle sterrate con un vecchio calesse, un cappello tirolese unto dalle intemperie, l’orologio al panciotto e una borsa con dentro strani arnesi e il quaderno delle ricette. Veniva nelle case e subito si faceva silenzio, le donne preparavano un catino d’acqua tiepida per permettere all’herr doktor di sciacquarsi le mani dopo la visita. Ma il momento culminante, quello che maggiormente impressionava Hansi, veniva quando l’herr doktor Gasser sedeva al tavolo di famiglia, e con tutta la sua stanchezza, che poteva sembrare anche solennità, cavava fuori l’ultimo arnese del mestiere: la penna stilografica, per scrivere la ricetta. Prima di andarsene, già che c’era, dava un’occhiata alle bestie, tirava il bianco degli occhi alle vacche, apriva la bocca ai cavalli, auscultava il belato flebile delle pecore. Gli era sufficiente guardare in faccia il paziente, bestia o cristiano che fosse, e scambiar poche parole per far diagnosi. Tutto ciò richiedeva una grande perizia, ma agli occhi ingenui di Hansi la professione medica pareva semplicissima: per cui aveva già deciso che anche lui, da grande, sarebbe diventato un herr doktor. Magari non avrebbe portato quel ridicolo cappello tirolese, ma di sicuro avrebbe posseduto anche lui una stilografica Waterman.
         Tutto questo accadeva prima che scoppiasse la guerra, e che suo padre fosse richiamato nell’esercito: ora quello che Hansi desiderava di più al mondo era un fucile vero, mica un pezzo di legno come quelli con cui i mocciosi del paese si davano battaglia, imitando il fischio radente delle pallottole con urla da selvaggi. Il fucile che piaceva ad Hansi sparava stando in silenzio, senza nessun bisogno di fargli il verso. 
         Altro oggetto del desiderio, gli stivali alti e lucidi come quelli che erano toccati in sorte a Richard Wallemberg, non scelti su misura ma cavati da un mucchio di calzature casuali al momento di arruolarlo: e quello era stato l’unico momento fortunato del soldato semplice Wallemberg, perché ad altri coscritti erano stati assegnati scarponi troppo grandi, oppure striminziti e con le suole già bucate da altri. La fortuna di Wallemberg padre era stata di breve durata, e al momento attuale era molto probabile che fucile e stivali, già vagheggiati a lungo nei sogni di Hansi, fossero già passati in eredità a qualcun altro.       
         Ma questo Hansi non lo sapeva, e avrebbe fatto finta di non saperlo per lungo tempo.  
         Restava comunque il fatto che sopracciglia come quelle della donna di città, tracciate con l’inchiostro di china o con la stilografica, al paese non s’erano mai viste, almeno fino ad allora: ciò da un lato accentuava il senso della distanza, dall’altro metteva voglia di studiarle da vicino.
         Dalla sua postazione strategica, Hansi notò un altro particolare: la donna di città teneva in mano un libro, di piccole dimensioni ma pesante e compatto, una sorta di mattoncino fatto di pagine. Dentro a quel mattoncino frugava e si affannava, cercando qualche cosa che evidentemente non riusciva a trovare: sfogliava quelle pagine trasparenti e sottili con una fretta e furia che quelle si dolevano, emettendo lamenti e scrocchi di carta straccia. L’uomo in uniforme la guardava rovistare e voltare le pagine come se le strappasse, mentre le sopracciglia di lei si lanciavano sempre un poco più in alto, le guance si riempivano di fossette arrossate, persino i ricci stretti nelle onde dei pettini si arrotolavano sempre più su se stessi, e le davano un’aria divertita e impacciata. Si divertiva anche l’uomo in uniforme: fu proprio lui, a un tratto, a levare lo sguardo per rivolgere ad Hansi un sorriso rassicurante, colmo di sottintesi. Hansi vide quel sorriso riempire tutta la stanza, al posto della paura.
         Finalmente, la Iolanda pescò una parola dall’alta marea del dizionario italiano-tedesco: -“Zu fressen! - andare a mangiare!”-
         Hansi era deliziato dal modo in cui la donna straniera ce la metteva tutta, e dai suoi tentativi di comunicare con lui in quel modo maldestro. Perché fressen si usava, al paese, per nutrire le bestie, mentre per i cristiani si adoperava essen: termine che evocava la tavola imbandita, la tovaglia di bucato e il sedere composti, coi gomiti di fuori. Con la coda dell’occhio dell’immaginazione, si vide con la testa infilata nella greppia come le mucche nella stalla di suo padre, e si coprì la bocca con entrambe le mani per non farsi beccare a ridere in flagrante.
         Per quanto soffocata, la risata di Hansi scappò da sotto al letto, e sortì nella coppia Drusiani l’effetto di un mortaretto scoppiato sotto alle scarpe: alla Iolanda si fermarono persino i ciuffi sulla punta delle pantofoline color cipria. Restò immobile col libro spalancato davanti, le sopracciglia sul punto di volare dalla finestra per la sorpresa. Arrigo, che il tedesco lo conosceva un poco dai suoi tempi di guerra, rise insieme ad Hansi:
         -“Certo che se tu pensi di parlargli così, siamo davvero a posto”- e come se fosse la cosa più naturale del mondo, gli scarponi di Arrigo varcarono la soglia: percorsero i pochi passi fino al baldacchino trasformato in trincea, poi il loro proprietario piegò le ginocchia e alla fine apparvero anche i suoi occhi, divertiti e sempre un po’ tristi.
         Come passando sotto a un reticolato, il tenente Drusiani s’infilò sotto al letto, facendo ruzzolare qua e là i gatti di polvere, scompaginando il mondo a qualche piccolo ragno terrorizzato. Hansi fece appena in tempo a stupirsi, che l’uomo in uniforme gli rivolse la parola nella lingua della sua nascita, la prima che aveva udito quand’era venuto al mondo, quella che si era chinata su di lui sorridendo quando ancora i suoi occhi non vedevano che ombre: quella che possedeva lo sguardo semplice e lineare di sua madre, con le sopracciglia di paglia tenera; quella che nel suo cuore era ancora ricolma della voce di Richard Wallemberg.
         -“Sei il benvenuto, Hansi. Non avere paura. Io sono Arrigo, lei è la Iolanda. Starai con noi per un po’. Hai fame? Vieni a mangiare…”-
         Le conoscenze linguistiche del tenente Drusiani, malgrado i lunghi mesi trascorsi in trincea ad un tiro di schioppo - è proprio il caso di dirlo - dai contingenti austriaci, non andavano oltre lo stretto indispensabile. E in realtà, essendo gli Austriaci il nemico per eccellenza, con cui comunicare tutt’al più a cannonate, secondo l’opinione dei Comandi superiori Arrigo non avrebbe mai dovuto imparare neanche quelle poche parole ridotte all’osso. Di fatto, il tenente Drusiani dovette attendere la fine della guerra per imparare la lingua tedesca sul campo: perché nei giorni che seguirono, una volta superato il senso di soggezione che provava nei confronti dell’uomo in uniforme, Hansi Wallemberg cominciò a tempestarlo di domande, e pareva davvero una di quelle mitragliatrici automatiche che gli Austriaci piazzavano sopra alle loro alture, per crepitare sopra a ogni foglia che si muoveva.
         Di indole taciturna, quando si trattava della guerra e del fronte Hansi emergeva dai meandri della sua solitudine, e voleva sapere tutto: tutto quello che era accaduto, e tutto quello che non gli era mai stato raccontato. E ascoltava, Hansi Wallemberg, con tutto se stesso, completamente risucchiato dalle storie e degli effetti speciali della sua immaginazione: soprattutto, aveva l’impressione di ritrovare, nei racconti dell’italiano, le tracce di suo padre, di cui nessuno al paese era in grado di dire nulla.
         Fu in quel periodo che Hansi dimenticò una volta per tutte il suo desiderio di diventare un herr doktor: il cappello tirolese, così come lo ricordava, gli sembrò ancor più ridicolo, e la penna stilografica, il senso di potere che nascevano dal silenzio e dall’umile rispetto dei compaesani gli parevano, a un tratto, una misera cosa. La priorità del momento era diventare un soldato, anche un soldato semplicissimo ma con un fucile vero, e non con proiettili immaginari dei quali bisognava imitare la voce. Poi ci avrebbe pensato il suo incredibile coraggio a fargli vivere le stesse avventure di Arrigo, e già che c’era a conquistare il mondo intero. Il paradosso era che i racconti di Arrigo erano il più possibile depurati da ogni idea di grandezza, perché la guerra aveva sortito nel suo spirito l’effetto di spegnere gli ideali, e sostituirli con gli incubi.
         Quella sera, tuttavia, ben prima che i racconti trovassero il loro tempo, Hansi accettò semplicemente l’invito dell’uomo in uniforme a uscire dalla tana sotto al letto a baldacchino, per sedere a tavola nella luminosa cucina della Iolanda. Era l’ora di cena e la cucina era accogliente, colma di quella luce che filtrava dal crepuscolo nel giardino. Hansi ci arrivò stretto per mano ad Arrigo, dal quale sembrava non volersi più separare.
         Il rumore di sottofondo delle stoviglie, il tintinnio dei bicchieri sulla tovaglia, le sedie avvicinate trascinandole al tavolo, ricordavano ad Hansi le sere di casa sua, quando ancora in famiglia ci si trovava per cenare tutti insieme, con addosso l’odore dei prati e del fieno, e il silenzio della stanchezza. E anche questo era prima che suo padre partisse per chissà dove, con il fucile carico e gli stivali lustri, e che sua madre cominciasse ad attenderlo, seduta inutilmente sulla soglia di casa.
         Da una grande finestra, il giardino che ovunque circondava la casa come un’isola in mezzo al mare pareva quasi entrare, alzando i pini magri come alberi maestri, le foglie come vele finalmente spiegate alla brezza serale, dopo le ore trascorse a penzolare nella calura.
         Nonostante le ore trascorse a stomaco vuoto, e tamponate alla meglio da certe gallette umide di suor Vincenzina, Hansi non toccò cibo. Seduto educatamente a tavola, si limitava a guardarsi intorno come se non capisse neppure dov’era. Contemplava la sua porzione con aria afflitta come se fosse al cinematografo, e nel piatto si proiettasse qualche drammone a fosche tinte. Gli inviti della Iolanda in forma di sorrisi, tradotti in parole da Arrigo, non riuscirono a smuoverlo da quello stato di sogno.
         In quel momento, complice quell’immagine di famiglia riunita a tavola, Hansi s’era smarrito nella nostalgia più profonda di casa sua, degli odori e delle abitudini: soltanto in quel momento si rendeva conto della distanza - nello spazio e nel tempo - che ormai lo separava dalla cucina di sua madre. Fu così per lungo tempo: anche quando, dopo lo spaesamento dei primi giorni, riuscì lentamente a prendere confidenza, sempre all’ora dei pasti ritornava il momento critico dei ricordi: quel ritirarsi nei territori intimi della sua nostalgia, che gli serrava l’anima e, in stretta prossimità, gli chiudeva lo stomaco.
         Per quella prima sera, i coniugi Drusiani decisero di non dar peso a quello che, più che un rifiuto dettato da infantile ostinazione, pareva solamente un sintomo di stanchezza. Imputarono l’inappetenza alla fatica del viaggio, alle troppe emozioni, alla lontananza da casa. Decisero che due giorni di viaggio accidentato non potevano cancellarsi con il riposo di qualche ora. Per questo era opportuno che il bambino recuperasse: smaltito il sonno, l’appetito sarebbe seguito naturalmente.
         Una volta stabilito che la necessità più urgente di Hansi era il riposo, iniziarono i preparativi del caso: per non farlo sentire troppo solo, decisero di sistemare un letto tutto per lui nella stanza col baldacchino. Arrigo si ricordò di possedere una brandina pieghevole, e si prese la briga di cercarla in cantina, tra le sue carabattole della guerra mondiale. Hansi, che lo seguiva come un’ombra nervosa, si limitò a sovrintendere in silenzio all’allestimento, abbracciato come al solito al ritratto del padre. Terminate le operazioni di montaggio e di spolvero, acconsentì ad acquartierarsi insieme all’ultima reliquia di Richard Wallemberg, accettò il bacio di buonanotte della Iolanda, e non protestò quando si spensero le luci.
         Attese in tutta calma, finché non udì Arrigo e la Iolanda prepararsi per la notte. Osservò la Iolanda liberare i suoi lunghi capelli dai pettini, dalle forcine innumerevoli, e nella lunga treccia che si andava sciogliendo, ritrovò i bagliori dei minerali grezzi che affioravano dai costoni delle montagne, e risentì il tepore di umidità dei boschi.
         Vide Arrigo chinarsi sulla piccola branda, per guardarlo dormire. E risentì qualcosa che già aveva attirato la sua attenzione quando l’uomo in uniforme si era disteso accanto a lui nella trincea immaginaria, sotto al baldacchino: la traccia di un odore che evocava un ricordo lontano, qualcosa che doveva richiamare a fatica dagli angoli più riposti della memoria.
         All’improvviso, ecco l’immagine che cercava: Hansi ha circa due anni, e due braccia in piena luce lo sollevano in alto. Un volteggio nell’aria, tenuto saldamente da quelle braccia solide e da una risata allegra, divertita, serena. Richard Wallemberg amava giocare così con suo figlio, farlo volare come un piccolo aeroplano, e poi stringerlo forte. E il gioco, in realtà, era una scusa per poterlo abbracciare, perché il piccolo Hansi si considerava già grande a sufficienza per scacciare gli abbracci. Richard Wallemberg, allora, lo faceva volare e poi riposare sulla sua spalla appuntita e un po’ scomoda, che aveva quell’odore difficile da cogliere, da recuperare altrove: solo molti anni dopo, Hansi capì che si trattava di una lozione, forse una saponetta, e quanto gli sarebbe piaciuto ritrovarla.
         Di quel ricordo, il bambino conservava un’ultima impressione: il piccolo Hansi di due anni aveva aperto gli occhi, e dalla spalla su cui si appoggiava s’era imbattuto in una siepe luminosa e appuntita, i capelli del padre tagliuzzati a casaccio dal barbiere militare, minuti come scintille. In controluce sul balcone di casa, poco prima di partire per non fare ritorno, Richard Wallemberg appariva avvolto da un riverbero soffuso ed irreale, come se già fosse cosa di un altro mondo. Circondato da una pioggia di schegge luminose, ancor prima di essere abbattuto in azione.
         Dall’altezza dei suoi pochi mesi su una spalla, Hansi era rimasto affascinato da quel bagliore ch’era in realtà dissolvenza, e con le piccole mani s’era messo a tirare i capelli di suo padre. E più tirava, più da quella siepe ispida nasceva una risata.
         Quella sera Hansi Wallemberg, il cui bisogno di affetto era tale da vincere persino la paura infantile dell’ignoto, riconobbe l’odore di suo padre nella carne di Arrigo Drusiani. E ritrovò la strada dei boschi tra i capelli impervi della Iolanda, che erano ruvidi come la corteccia degli abeti, lungo i sentieri dove l’unico fruscio era quello dei suoi passi. Hansi ricordò il senso di timore che provava avventurandosi nel bosco, dove una quiete soprannaturale lo avvolgeva, come salita a un tratto dalle profondità dalla terra. Sopra di lui, i rami intrecciavano il cielo, lasciavano cadere la luce come polvere. Al crepuscolo, invece, il bosco si trasformava nel regno misterioso dei gufi dagli occhi gialli, coi loro voli bassi e i richiami paurosi.
         La paura del buio e del troppo silenzio, Hansi la superò proprio quella sera, la prima in una città distante ben due giorni di viaggio da casa sua. A metà della notte, quando l’oscurità è più fitta e la paura anche, abbandonò la branda e il ritratto in cornice per andare a metter radici nel letto a baldacchino, accanto alla Iolanda e ad Arrigo Drusiani, là dove lo guidavano le tracce dei suoi ricordi: i viottoli del bosco, l’odore di suo padre. 
         E così lo trovarono al mattino tra loro, coperto dalle trecce sciolte della Iolanda, col viso abbandonato sulla spalla di Arrigo. Arrigo e la Iolanda non si dissero niente, destandosi quasi insieme, col bambino nel mezzo: e intrecciando le dita sopra di lui rimasero a contemplarlo a lungo, di nuovo provando la netta sensazione che Hansi fosse nato proprio in quella casa, e da un giorno soltanto.

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Capitolo 3
*** La strana faccenda dell'amore oltre la morte ***


3. La strana faccenda dell’amore oltre la morte
 
Arrigo Drusiani e Iolanda Silvestri erano, a quel tempo, sposi recenti. Ancora in fase di reciproca conoscenza, al punto che talvolta si sentivano così impacciati da darsi ancora del lei, si erano da poco stabiliti nella casa che Luigi Silvestri, il padre della sposa, aveva ereditato da una prozia buonanima: un appartamento con giardino al pianoterra, ancora ingombro delle masserizie della defunta, dei tavoli pesanti e i tendaggi polverosi, nella stanza da letto l’enorme baldacchino, con le cortine grevi e piene di rumori.   
         Collegata da strade ancora in parte sterrate, che si perdevano in prati e nell’aperta campagna, la casa si trovava in un quartiere fuori porta, che aveva cominciato il suo sviluppo abitativo agli inizi del secolo, con gli smalti colorati delle villette liberty, le scalinate in ferro battuto rampicante, le torrette in miniatura che ad Hansi, durante le sue prime passeggiate con la Iolanda, ricorderanno i campanili affusolati, i castelli e le leggende di streghe del suo paese. 
         Del tutto estranea ai dinamismi del nuovo stile, la casa ereditata dalla prozia Silvestri esibiva un aspetto da rudere, non solo per il fatto che si trattava di una delle costruzioni più antiche: Arrigo Drusiani non dimenticò mai il senso di inquietudine che aveva percepito durante il sopralluogo prima del matrimonio, il peso di afflizione che gravava su quegli spazi, che parevano disabitati da secoli.
         Il primo impatto con i pavimenti sconnessi e l’odore di cantina che saliva da sotto, i muri gonfi e le macchie di umidità e di muffa, l’impressione che l’erba incolta del giardino entrasse fino in casa, a ciuffi tra le mattonelle della cucina, avrebbe scoraggiato chiunque, ma non la Iolanda: con il suo entusiasmo di sposa novella, era entrata spalancando porte e finestre rimaste sigillate dai tempi in cui la prozia Silvestri, dopo aver perso tutti i lumi della ragione, s’era rinchiusa in casa ad aspettare la morte, con addosso un abito di pizzo dell’altro secolo, e le scarpe di vernice nera da funerale.
         La Iolanda non era disposta a farsi impressionare dalla tristezza: ne fece le spese la piccola porta di legno che dalla cucina, a quel tempo più simile a una grotta, conduceva al giardino. Il legno si disfò in pezzi, la maniglia rimase in mano alla Iolanda: ma lei era già fuori, nell’erba alta e nel viscido umore delle lumache, tra lucertole simili a rettili preistorici, nell’aria perturbata da nugoli di zanzare.
         Immersa in quella vegetazione pluviale, la trovò suo marito: la vide come se fosse anche lei uno strano fiore, nata improvvisamente da quel viluppo verde con il cappello bianco, la corolla del volto, il gambo esile del corpo. Ed era così bianca da provare timore all’idea di sfiorarla.
         -“Ti mangeranno viva”- Arrigo già iniziava a schiaffeggiarsi sul collo, dai tempi pestilenziali delle pulci in trincea avendo maturato una totale insofferenza verso qualsiasi tipo di insetto -“Tra l’altro, non abbiamo ancora visto l’interno. Se è come qua fuori, non promette niente di buono”-
         -“Che bisogno c’è di vedere, mio caro?”- lo quietò la Iolanda, assaporando i profumi tutti insieme -“Tanto, la prendiamo. Il giardino è bellissimo, non senti quanta vita? Noi ne abbiamo bisogno, e ne avranno bisogno i bambini”-
         -“I bambini?”- Arrigo Drusiani, grandi occhi nerissimi e un temperamento allegro sciupato dalla guerra, era rimasto senza parole per un istante: perché di bambini non si era mai parlato prima di allora, tra quei due sposi affascinati l’uno dall’altra, eppure così timidi che talvolta inciampavano nelle loro stesse emozioni, e inciampando finivano per darsi ancora del lei. Nei momenti più critici, addirittura del voi.
         Quanto a quel vecchio rudere, e a quella boscaglia che l’assediava tutt’intorno, ben pochi posti al mondo, esclusa forse la prima linea del fronte, erano parsi ad Arrigo così desolati, impregnati di un disfacimento senza rimedio. Eppure, suo malgrado, aveva ceduto all’entusiasmo della sua sposa: un po’ perché amava la sua indole bizzarra, sempre propensa a cogliere strani significati e a trattare le cose come se avessero un’anima. E un po’ perché non era in grado di proporre un’alternativa concreta.
         Raggiunse la Iolanda facendosi strada tra grovigli di radici, e fiori istupiditi dai loro stessi aromi: -“La prendiamo”- le disse, e le strinse la mano un poco per convincersi, e forse anche per sentirsi rassicurato, perché nel tepore che emanava dalla pelle liscia della Iolanda lui avvertiva una forza, la capacità di proteggerlo da qualsiasi timore. Ciò che gli sembrava di particolare malaugurio in quel luogo, non era tanto lo sfacelo dell’abbandono, quanto piuttosto il fatto che la prozia Silvestri, nei suoi ultimi anni, s’era reclusa nella penombra verde mare delle persiane abbassate, a parlare coi morti. Aveva cacciato via anche l’ultima serva che le era rimasta accanto, una vecchia stranita che parlava coi gatti, portandogli di notte gli avanzi in mezzo ai prati. A questa compagnia, aveva preferito quella eterea dei morti, con i quali parlava vagando per le stanze, discutendo i dettagli del proprio trapasso. Finché, dimentica di se stessa, aveva varcato la soglia della solitudine ultima: e dopo una settimana di decomposizione avanzata, era stata ritrovata nel catafalco del letto dalla serva allertata dai vicini di casa, per via degli odori pestilenziali e dei colombi, che piovevano a frotte sui davanzali delle finestre.  
         Ancora più sinistre, erano certe voci sulle presunte cause di quella morte reclusa: stando alle dicerie, la prozia Silvestri s’era ben meritata di morire di solitudine, perché evocava i morti e il diavolo in persona, con le corna e la coda, e tutto per ritrovare, vecchia e pazza com’era, un amante scomparso da più di cinquant’anni. Era un’enormità a cui Arrigo Drusiani si rifiutava di credere: che la povera donna, non avendo più nessuno, andasse a cercare tra i morti qualcuno che aveva amato, probabilmente l’unico, più che una storia di streghe, pareva una fiaba triste. Per scrupolo di coscienza, tuttavia, il tenente Drusiani s’era preso la briga di sparpagliare l’esca di domande casuali qua e là tra le vicine: soprattutto perché nel quartiere si mormorava di bambini scomparsi senza lasciare traccia. Secondo le dicerie più tetre, le loro ultime tracce erano andate a ingrassare il lussureggiante giardino della prozia.
         Dalle indagini svolte tra i cortili e la parrocchia, risultò che l’inquietante vicenda, cresciuta attorno alla casa alla stessa velocità di quel giardino che tutt’intorno la proteggeva, aveva fondamenta ancora più vacillanti dell’antica dimora. Si trattava, a tutti gli effetti, di una storia di fantasmi, strano frutto del fascino che quella casa esercitava sul vicinato: il genere di storie che fiorivano attorno ai vecchi ruderi e alle case abbandonate, e che si andava avanti a raccontare per lungo tempo, senza neanche sapere com’erano iniziate.
         Arrigo archiviò l’inchiesta con un certo sollievo: tuttavia, per buona pace della sua coscienza, trascorse un intero pomeriggio a scavar buche in giardino, frugando la terra con apprensione e in profondità, con la scusa di togliere le erbacce e dissodare, per mettere a dimora l’oleandro e una siepe nuova di gelsomino. E poi le ortensie azzurre, rosa come di carne, che la Iolanda aveva portato insieme al suo corredo di sposa novella, a metri di tovaglie e lenzuola ricamate, e a una collezione di orologi sconclusionati, nessuno dei quali azzeccava l’ora esatta, neanche per puro caso.    
         Dai lavori di scavo, Arrigo non cavò altro che un mucchio di lumache dai corpi di terra molle e i gusci di madreperla, con un odore salino capace di evocare il mare nella pianura. Trovò anche una scatola di biscotti metallica ricolma delle lettere d’amore della prozia: erano custodite in fasci di buste bianche e senza alcun recapito, legate da nastri avorio che immediatamente si disfecero in polvere, lasciando tra le dita di Arrigo una cipria pallida. Né Luigi Silvestri e neppure la Iolanda, a quel tempo nel pieno di una giovinezza appassionata, che ignorava le pene tristi dei vecchi, furono in grado di fornire spiegazioni: né tanto meno di riconoscere l’uomo appannato del ritratto trovato in fondo alla scatola, sotto ai fasci di lettere sepolte, come se quella fosse l’unica maniera escogitata dalla prozia per riuscire a spedirle.
         Questo ritrovamento riconciliò Arrigo con le vicissitudini della vecchia Silvestri: dopo molte ricerche, riuscì ad identificare nelle vesti sfuocate dell’uomo del ritratto, l’uniforme austriaca delle Guerre d’Indipendenza, con le due bandoliere incrociate sul petto. E si meravigliò del suo stesso destino, che gli faceva ritrovare un Austriaco nel giardino di casa, dopo averne incontrati migliaia in prima linea.
         Infine, arrivò a convincersi che era ora di farla finita coi fantasmi: quelli della prozia, e i suoi personali. Fu in quel periodo che iniziarono i lavori di restauro: con l’aiuto dei muratori ingaggiati da Luigi Silvestri, Arrigo intraprese un’opera di ripulitura totale. E lui stesso iniziava a sentirsi più libero man mano che raschiava dai muri le macchie di umidità, strappava via le erbacce dalle mattonelle sconnesse, sfrondava ragnatele e liberava gli spazi ariosi dal superfluo.   
         Per un certo periodo, era stato tutto un andirivieni di carretti dei sulfaner[1] nello stradello: senza rimpianti, Arrigo aveva aiutato i robivecchi a caricare quel campionario di reliquie dell’altro secolo, i mobili infragiliti dai tarli, che scuotevano nuvole di segatura a spostarli, le pile ingiallite dei piatti che s’incrinavano solamente a toccarli. Solo la pendola decrepita dell’ingresso, e il letto con il suo baldacchino funereo, non si riuscì a spostarli, parevano inchiodati al pavimento dai secoli: l’idea di farli a pezzi risultò, alla fine, più triste che imparare a conviverci senza tormento.
         Rimasero nella casa, a ricordo del suo passato, il ritratto dell’Austriaco e il fascio di lettere senza indirizzo della prozia. Nessuno si prese la briga di leggerle: ma la Iolanda trovava troppo triste l’idea di disfarsi di quei cimeli, come se questo significasse gettar via, insieme coi fantasmi, gli ultimi ricordi della vecchia Silvestri.
         Fu così che Arrigo dovette rassegnarsi all’idea di tenere un Austriaco in casa: anche se si trattava di un ritratto sbiadito, palesemente innocuo a parte la fastidiosa abitudine di fissare i vivi negli occhi, e di inseguirli ovunque con quello sguardo annerito, dall’angolo del salotto dov’era stato incorniciato ed appeso, per esplicito desiderio della Iolanda. Era un quadretto esiguo, quasi una miniatura, ma talmente inquietante che Arrigo, di lì a poco, si era già stancato di tutta quella faccenda dell’amore oltre la morte, e s’era ripromesso di farlo scomparire alla prima occasione.
         Ancora in quel periodo, aveva promesso solennemente a se stesso di cancellare dalla memoria quel poco di tedesco che aveva imparato al fronte, e che suonava ai suoi orecchi come una sassaiola di ricordi e tormenti: ma questo fu molto prima che quella lingua ispida tornasse ad inseguirlo come gli occhi dell’Austriaco, correndo per le stanze con la voce di Hansi Wallemberg, e le sue continue richieste di tenerezze e lunghe storie.
 
[1] Sulfaner, in dialetto bolognese: rigattiere, robivecchi

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Capitolo 4
*** Sulla soglia della paura e dell'incanto ***


4. Sulla soglia della paura e dell’incanto

Il mattino seguente, iniziò per Hansi Wallemberg l’avventura di un mondo nuovo. La donna di città l’aveva lasciato riposare fino a tardi per smaltire la fatica, l’angoscia che lo aveva sbalordito in quel viaggio verso una destinazione più volte spiegata dalla pazienza di padre Grünewald, ma in realtà mai compresa. Hansi in realtà si era svegliato molto presto, con l’impressione di essersi smarrito strada facendo: non ricordava più dove doveva svegliarsi, se a casa sua al paese, oppure tra i sobbalzi del sedile di terza classe. Ci mise un po’ a riprendere il tragitto della memoria, finché ritrovò le cortine del letto a baldacchino, i cordoni pesanti come gli addobbi quaresimali del padre Grünewald, l’orologio con le figurine in parrucca. Dalle finestre, che la Iolanda aveva già provveduto a spalancare per dare aria alle camere prima che salisse il caldo, si udiva il canto solitario delle cicale.
         Ad Hansi piaceva quell’atmosfera raccolta, così simile a un grembo: gli ricordava la quiete delle sue valli, quando cadeva il vento e non restava altro che quella potente assenza di rumori e di suoni. Disteso sull’erba ai piedi della montagna, su quei pendii che col trascorrere delle ore allungavano ombre e mutavano i colori, ascoltava la segreta armonia nascosta dietro al silenzio, il fruscio degli ingranaggi che mandavano il mondo avanti. Anche adesso, dalla sua nicchia protetta, gli pareva di udire un cigolio metallico, che forse non era il ritmo solenne del mondo, ma soltanto un rumore di cinghie ingarbugliate, di molle che saltavano in fondo al corridoio, in una stanza che lui ancora non conosceva.
         A un certo punto gli accordi, le molle e chissà quali meccanismi contorti saltarono del tutto, e da quella stanza remota si levò il frastuono di un orologio a cucù, che strepitava tutte le ore del mondo senza riuscire a fermarsi. Colto alla sprovvista, Hansi si acquattò nel letto a baldacchino, ma ad avere la meglio fu la curiosità: quel frastuono da giostra in fondo era bizzarro, magari divertente, forse valeva la pena di andare a vedere.
         Si avventurò, Hansi Wallemberg, lasciando la stanza e il canto lento delle cicale, il dondolio degli alberi del giardino appesi al vento. In mezzo al corridoio, lo avvolse di nuovo il silenzio. Il cucù col suo pigolio squinternato s’era zittito a un tratto. Dopo un breve intervallo, come sorto dal nulla incominciò a diffondersi, appena percettibile, un tintinnio di campane, note simili a gocce che cadevano una di seguito all’altra: una cascata di suoni, che guidò i passi di Hansi fino in fondo alla casa, in una stanza circondata da grandi armadi scuri, e mensole che risalivano le pareti fino quasi al soffitto.
         Dalle ante socchiuse, in fila colorata e un po’ caotica sulle mensole, s’intravedeva una fantasmagoria di oggetti, soprattutto giocattoli, e di nuovo orologi di tutte le possibili e immaginabili forme, rintocchi e dimensioni. E ancora, per la stanza, cavallucci a dondolo, marionette di legno, bambole nella culla, a gruppi sulle sedie in abiti d’altri tempi. Ce n’era persino una a grandezza naturale, un adulto posticcio che spaventò molto Hansi perché aveva le braccia snodate col fil di ferro, e al posto delle gambe una gabbia da uccelli, dritta su un piedistallo: come ebbe modo di spiegargli la Iolanda, non appena si rese conto dei suoi timori, si trattava di un semplice manichino da sarta, dove la lunga massa di capelli color paglia serviva a preparare acconciature e cappelli; e la gabbia da uccelli serviva a modellare la ricca impalcatura di gonne a crinolina del secolo passato.        
         La macchina da cucire, un modello a pedali in smalto nero con un motivo di rose rosse, stava tra il manichino e un piccolo tavolo arruffato di stoffe, velette per cappelli, fiori di panno lenci.
         Al centro della stanza un tavolo più grande, più massiccio e più scuro. Là, una lunga treccia posata su una spalla e una schiena sottile erano intente a girare la manovella di una scatola sonora, anch’essa in legno finemente intarsiato: un carillon da cui usciva, come un ricamo a macchina, la fragile delicatezza di quella melodia. Sulla sommità del carillon, una ballerina col tutù e la coroncina girava con un ritmo altrettanto meccanico. Poco più in là, tra pezzi d’ingranaggi e una ciotola di colla il cui odore di mandorla riempiva tutta la stanza, c’era uno spazio libero sul grande tavolo scuro, con una sedia che evidentemente attendeva qualcuno: sopra a una tovaglietta spiegata con cura, un vassoio da colazione col caffelatte, su un piattino una fetta di quella crostata che, ancora il giorno prima, si stava preparando quando Hansi era arrivato.  
         Proprio Hansi era l’atteso di quel momento.
         Come se avesse occhi sensibili sulle spalle, tra le scapole che si muovevano appena seguendo il movimento della piccola manovella, la Iolanda intercettò la sua presenza non appena il bambino si affacciò sulla soglia: anche se il ragazzino si muoveva in punta di piedi, all’inizio per non guastare la musica, poi per le emozioni suscitate da quel luogo dello stupore.
         Incerto tra la curiosità e il turbamento, Hansi restava immobile, e non osava entrare.
         Dal grande tavolo scuro, dove stava rimettendo con pazienza in funzione un antico carillon, la Iolanda si volse appena verso di lui: chinò il capo, invitandolo ad avvicinarsi con un cenno della mano. Forse perché assorbita dalle minuzie del lavoro, s’era però dimenticata di sorridere, e l’effetto che ottenne fu di apparire stranamente minacciosa: dovette alzarsi ed accogliere il bambino sulla soglia, prenderlo per la mano con il sorriso più invitante, per convincerlo a varcare la soglia della paura e dell’incanto. 
         Tenendolo per mano, lo accompagnò per la stanza dedicata alla sua arte di riparare le cose: gli mostrò i cucù con gli uccellini di tutti i colori, le pendole con le figurine danzanti, che uscivano al rintocco delle ore ballando il valzer; le bambole vestite da dame d’altri tempi e persino certi arnesi che, a vederli di sfuggita, lo avevano spaventato, ma in realtà erano solo attrezzi per il restauro.
         Ad Hansi tornò in mente quella grande bottega che aveva visitato l’unica volta in cui era stato in città, al tempo in cui suo padre non era ancora svanito nelle nebbie del fronte, e della guerra, al paese, non si sapeva niente. Con un gruppo di montanari che conosceva la strada, erano partiti prima che fosse giorno: su un carretto i fagotti delle erbe e i formaggi da vendere al mercato, l’alba solo un barlume livido sull’orizzonte.
         Avevano percorso i sentieri in parte a piedi, in parte spingendo il carro nei passi più scoscesi: le donne con lo scialle ricamato dei giorni di festa, gli uomini col cappotto buono della domenica, che però contava poco contro il vento e la pioggia.
         Una tenebra pungente li aveva accompagnati per tutta la giornata, perché la città era tetra, snodata intorno a un fiume come un serpente di nebbia: e gli era sembrata ben più severa e ostile di questa città di portici rossi e gialli dove si trovava adesso, che pure era straniera e di cui conosceva a malapena il nome. A ripensarci, s’era sentito molto più forestiero percorrendo quei viali di pioggia interminabile, le mura dei palazzi e le infinite cancellate, coi draghi sugli stemmi e maschere mostruose che sputavano l’acqua piovana dalle grondaie.
         Di quel giorno ricordava il gemito del vento impigliato negli angoli, l’assenza di pietà nei volti delle persone che sfilavano a capo chino come ombre, i lampioni di ferro battuto e pendente, il giorno che non riusciva a levarsi da terra. E poi, improvvisamene, da una via laterale, la luce calda di una bottega artigiana, aperta sulla strada. Uno splendore talmente inatteso e travolgente da dissipare persino l’angustia della pioggia: Hansi s’era fermato, senza neppure accorgersi che il gruppo dei paesani, con i suoi genitori, proseguiva la strada col carretto e le spalle ricurve sotto l’acqua. Attratto dal conforto di quella luce, era entrato in un laboratorio grande come la stanza da lavoro della Iolanda: in quel luogo raggiante, scaldato da una stufa come quelle della montagna, si fabbricavano bambole. S’imbottivano i corpicini con l’ovatta, si dipingevano col pennello i piccoli volti, si montavano occhi spalancati ed azzurri, in modo che potessero aprirsi e poi chiudersi.
         Hansi era rimasto impressionato dalla perizia dei lavoranti che aveva visto all’opera attorno a un grande tavolo: semplicemente assemblando dei pezzi anatomici - gambe e braccia ammucchiati dentro a grosse ceste, lunghe ciocche di riccioli, occhietti come biglie - riuscivano a dar vita ad un essere umano in miniatura. Da sempre affascinato dalla bellezza in tutte le sue forme, Hansi si era lasciato trasportare dall’incanto finché frau Lise, sua madre, non era tornata in fretta a recuperarlo. Per cavarlo da lì, aveva dovuto strattonarlo fino in strada, e ad Hansi era sembrato di cadere di nuovo, a capofitto, nel buio.
         Nel frattempo, la Iolanda continuava a mostrargli una meraviglia dopo l’altra, guidando la sua attenzione con lunghe occhiate e cenni gentili del capo, le dita della mano che illustravano le magie del carillon, muovendosi come una danza.
         Erano prodigiosi anche gli odori di quella stanza: il tepore della crostata con la sua fragranza di frutta, l’aroma vertiginoso della colla di mandorle. Il ritmo del carillon era colmo di una nostalgia inafferrabile.  
         A un certo punto la Iolanda, con un gesto più ampio, invitò Hansi a servirsi dal vassoio già pronto per la prima colazione. Dopo aver rinunciato alle insidie del dizionario tedesco - italiano, aveva compreso che la migliore strategia per comunicare con il bambino passava attraverso il silenzio, l’intensità degli sguardi, la semplicità del gesto. Soprattutto, confidava nel potere di suggestione della stranezza, e nel fascino degli oggetti del suo laboratorio, per distrarre Hansi Wallemberg dalla malinconia: dimenticando la sua tristezza per un istante, magari si sarebbe ricordato d’aver fame, addentando un boccone, tra una stramberia e l’altra, senza neanche accorgersene.
         Non era, in realtà, così facile. Hansi s’era lasciato avvicinare al tavolo, aveva sfiorato il carillon con un dito soltanto, poi s’era azzardato a dare un giro di manovella, a toccare la piccola ballerina in tutù che vorticava incessante su quelle note meccaniche. Ma quanto al mangiare, continuava a fissare il bricco del caffelatte con aria preoccupata, e la fetta nel piatto come se quell’innocua crostata casalinga potesse saltargli addosso da un momento all’altro. Un’altra serie di occhiate, ben più apprensive, le riservava al manichino a grandezza naturale, con quella gabbia angosciante al posto delle gambe. All’immaginazione fin troppo incendiaria di Hansi Wallemberg, quella gabbia evocava l’idea di un supplizio: “È veramente orribile”, ripeteva a se stesso, “e di sicuro stanotte, col buio, verrà a prendermi”.
         Fu in quel momento che la Iolanda ebbe un’intuizione improvvisa. Da una delle mensole che si arrampicavano nell’ombra della parete, levò un’altra scatola, stavolta scura e piatta, dalla quale spuntava come un fiore inconsueto una tromba di ottone simile a quelle viste da Hansi nelle fiere: quando al paese si radunava la banda con la grancassa simile a una pancia smisurata, i clarini lucenti, i tromboni dalla bocca simile a una voragine, roba da aver paura di andarci a finire dentro. Osservò la Iolanda appoggiare sul piatto della scatola un disco, un oggetto schiacciato e abbastanza simile alle cacche di mucca - Hansi, al solo pensiero, rise tra sé - e come il disco iniziò a girare, dal trombone di ottone uscì fuori, sottile poi sempre con maggiore pienezza, una voce che aveva tutte le vibrazioni del rapimento: a bocca aperta proprio come i paesani alla fiera, Hansi trattenne il fiato mentre una voce femminile e dolcissima, e una melodia che non era di questo mondo, intonavano Un bel dì vedremo, dalla Madama Butterfly. Ascoltando quel canto, si aveva l’impressione di sentirsi levare in alto.
         Hansi non comprendeva nessuna delle parole, ma non aveva dubbi: quella voce incorporea e priva di peso umano era carica, al tempo stesso, di tutta la possibile sofferenza dell’anima. E per quanto Hansi Wallemberg di certe cose, all’epoca, sapesse poco e niente, lo comprese all’istante: era un canto d’amore, non poteva essere altro.
         Durante l’ascolto, nella stanza da lavoro della Iolanda era sceso un religioso silenzio: gli orologi a cucù, che ogni tanto impazzivano per gli ingranaggi guasti e iniziavano a strepitare senza fermarsi, i carillon con le loro canzoncine meccaniche, persino le cicale che facevano capolino dalla brezza di una piccola finestra, si erano zittiti. E restarono a lungo nello stesso silenzio di Hansi e della Iolanda, con le mani nel grembo.
         Al termine, Hansi Wallemberg aveva le lacrime agli occhi per l’emozione: per farsi consolare, cadde diritto in trappola accettando il fazzoletto che la Iolanda gli passava sulla faccia per pulirgli naso e lacrime, e la fetta di crostata che la donna di città, come se niente fosse, gli allungò dal vassoio. La Iolanda, che in mezzo ai suoi giocattoli pareva anche lei una grande bambola, gliela offrì con un gesto talmente delizioso, che il bambino restò incantato, e prima ancora di realizzare cosa stava accadendo, già stava sgranocchiando. E dopo, già che c’era, trangugiò il caffelatte con la fame di secoli che aveva in arretrato.
******

Quella mattina, Hansi fece conoscenza col grammofono della Iolanda, e con l’arte di lei nel riparare le cose: arte che si estendeva a tutto il possibile, dagli abiti ai giocattoli, e fino alla pazienza richiesta dai meccanismi infinitesimali degli orologi, dei cavallucci a dondolo, dei grandi occhi spalancati delle bambole. E comprendeva anche l’arte di cucinare, perché quella serviva a riassettare le anime.    
         In quel laboratorio popolato da oggetti sorprendenti, Hansi approdò a una nuova concezione del tempo. In montagna le ore trascorrevano lente, vagando per i prati finché al tramonto la luce si levava da terra, e restava a bruciare sulle vette più alte, con brandelli di rosa, scarlatto, viola intenso. Allora si alzava il vento, e lo scampanellio delle mucche disperse lungo i pendii dei pascoli si faceva più limpido, più netto il suono e depurato da ogni altro rumore. Il bosco rilasciava i suoi aromi pungenti, e le vette bruciavano come dita di fiamme: giù al paese, restava qualche cencio violetto appeso alle finestre, fili di rosa pallido impigliati alla cipolla rossa del campanile. Nelle viuzze strette tra l’odore del fieno e il tintinnio delle posate sulla tavola, era già notte fonda. 
         Il tempo della città, invece, era diverso. In casa dei Drusiani, a scandirne il ritmo erano gli orologi sincronizzati come una danza, in una piroetta sonora dietro l’altra. Solamente la sera quella festa di suoni si faceva più ovattata: i tetti si accendevano di rosso come un incendio, mentre in casa nascevano, negli angoli, le ombre. Dal soffitto, scendevano creando strani effetti: le bambole sulle mensole allungavano i capelli fino a terra, i pizzi delle gonne come tele di ragno. Il manichino da sarta ammiccava nella penombra con la sua faccia pallida, i chiodi nel corsetto e la sottana di legno, minacciando incubi notturni. Per fortuna, a quell’ora, la stanza da lavoro chiudeva i battenti, e il centro della casa si spostava in cucina.
         La cucina della Iolanda era anch’essa un luogo di sortilegi, che iniziava ad animarsi nel tardo pomeriggio, quando si avvicinava l’ora prevista per il rientro di Arrigo. Durante il giorno i pasti erano semplici spuntini, sbocconcellati in fretta dalla padrona di casa per non perdere la concentrazione necessaria: seduta al grande tavolo nel centro della stanza, le ciglia basse e le dita minuziose, proseguiva il lavoro senza badare al tempo, né alla luce che scivolava lungo i muri, facendosi incandescente nel mezzogiorno, poi rovente nell’afa del primo pomeriggio. Finché la luce iniziava pian piano a ritirarsi. E quando la bizzarra corte degli orologi si metteva in moto e scandiva i rintocchi delle sei, la Iolanda si ridestava come da un sogno, e interrompeva qualsiasi attività: abbandonava viti, colle e meccanismi, tessuti e imbottiture, come sospinta da un richiamo irresistibile.
         Le luci si spegnevano nella stanza da lavoro, e si accendevano svelte e affaccendate in cucina: per Hansi era un sollievo, perché il buio che calava dai grandi armadi scuri lo inquietava non poco. Si sentiva alle spalle l’ombra del manichino con quello sguardo vacuo impalato su un piedistallo, e quell’impalcatura per gonfiare le gonne che più la si guardava, meno c’erano dubbi: era assolutamente uno strumento di tortura, e non sapere in che cosa consistesse il tormento, non faceva che accrescere il timore. Alla luce del giorno, protetto dall’energia della donna di città, dal suo lavoro concentrato e metodico, Hansi Wallemberg si sentiva al sicuro. Di sera, insieme con l’oscurità e il maggiore silenzio, la paura iniziava a salire su per la schiena come un alito freddo, finché arrivava al cervello e occupava tutto lo spazio: ed era la paura tipica dei bambini, quella che non si può raccontare a nessuno.
         L’unico modo che Hansi aveva per controllarla era far finta che non ci fosse: relegarla in un luogo isolato della mente, e intanto rifugiarsi in qualche stanza bene illuminata, possibilmente in compagnia di qualche adulto che fosse più forte dei brutti sogni. Per questo si aggrappava alla gonna della Iolanda mentre attraversavano il buio del corridoio, e riprendeva a respirare in profondità una volta arrivato, incolume, in cucina. La Iolanda sentiva sul fianco la stretta delle piccole nocche, e allora gli posava sul capo una carezza, gli scompigliava appena quella peluria bianca che erano i suoi capelli, rasati alla meno peggio e talmente splendenti che alla luce del sole facevano male agli occhi. Hansi si abbandonava, sentendo dal calore di quella mano scendere una tranquillità profonda, che durava fin quando il manichino da sarta non gli tornava in mente: ogni volta più grande, orribile e ghignante.
         Dentro di sé, Hansi Wallemberg sapeva di essere solo coi suoi terrori: provava a non pensarci - e anche quello sforzo, in realtà, era una forma di angoscia - mentre iniziavano i preparativi per la cena, e la cucina si riempiva della luce calda e rassicurante del lampadario, del tepore odoroso di umidità e di terra che veniva dal giardino, del cibo sul tagliere di legno chiaro, tagliato in forme sottili, impastato e condito dalle mani veloci, abili della Iolanda.
         Hansi osservava i gesti, rapito dai movimenti di quel polso sottile, e delle lunghe dita della padrona di casa: aveva dita lunghissime, la donna di città, capaci di infilarsi nei tragitti degli ingranaggi, e intercettare il guasto. Era come se quelle dita possedessero occhi nascosti sui polpastrelli: era così anche quando trafficava in cucina, e Hansi la guardava saggiare la consistenza della farina che scendeva ripida dal setaccio, modellare l’ombelico tondo dei tortellini, tagliare parallele e precise le tagliatelle.
         Quando tutto era pronto - la tavola apparecchiata col cestino del pane, le verdure condite sul piatto di portata, la minestra che terminava la cottura e riempiva la casa di odori a fuoco lento, s’inaugurava un altro momento memorabile nella giornata di Hansi Wallemberg: sempre tenendo stretta la mano alla Iolanda, percorreva a ritroso il corridoio nell’ultima luce del crepuscolo, fino alla stanza col baldacchino.
         La Iolanda sedeva al tavolo da toilette, davanti ad uno specchio così ampio e profondo che agli occhi di Hansi non sembrava nemmeno più una semplice lastra con un riflesso, ma l’ingresso a una nuova dimensione del mondo. Il bambino sedeva accanto alla donna di città, e dinanzi ai suoi occhi incominciava a svolgersi un complesso cerimoniale.
         Per prima cosa, la Iolanda sciacquava il viso e le mani, quelle sue lunghe dita nel grande catino bianco. Era come se volesse rimuovere ogni traccia del giorno, e rinnovare un’integrità misteriosa, non toccata da alcuna fatica o preoccupazione. Poi picchiettava l’acqua di rose sulle guance, con un buffo piumino color di carne e polvere cospargeva di cipria il viso, il collo e tutto quel che c’era intorno: si percepiva il palpito di una segreta emozione, in quelle nuvole brevi che spiccavano il volo attorno ai lineamenti del suo viso assorto. Sul tavolo da toilette si posava una sabbia fine, che ad Hansi ricordava la brina delle prime gelate nelle sue valli. Dopo la cipria, un poco di rosso sulle guance. Talvolta, la Iolanda anneriva il fondo di un piattino con un fiammifero, e con quel nero fumo si faceva gli occhi più grandi.
         Come la prima sera, Hansi osservava la treccia della donna di città sciogliersi sotto ai colpi decisi della spazzola, gonfiarsi in una massa di capelli ondulati che pareva quasi viva, simile al dorso di un animale selvatico. La Iolanda li spazzolava così a lungo, con gesti lenti e precisi, che quella chioma si gonfiava come la schiena di un gatto che fa le fusa, riempiendosi di bagliori lucenti. Con l’abilità delle sue dita rapide, la donna di città di nuovo la intrecciava, la raccoglieva in un nodo morbido sulla nuca, lasciava qualche ciocca perdersi lungo il collo. 
         Hansi era affascinato da quel rituale preparatorio: il risultato lo lasciava senza fiato, perché, complici la penombra e la magia dello specchio, la Iolanda appariva come una creatura di un altro mondo, di una bellezza impossibile.
         Più o meno in quel momento, scattava la serratura della porta di casa. Una traccia di rosso, che non era di trucco, passava allora rapida sul volto della Iolanda, illuminandola tutta: dalla punta dei capelli, fino alle lunghe dita con gli occhi sui polpastrelli. Lei allora si levava, avvolta in quella luce che la seguiva come uno strascico vorticoso da sposa. Prendeva la rincorsa rapida in corridoio, e andava a ricevere Arrigo che rincasava puntualmente a quell’ora.   

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Capitolo 5
*** Dieci anni, il più grande ***


5. Dieci anni, il più grande
 
A quel tempo, Arrigo Drusiani era un semplice tenente di fanteria, temprato negli ideali dell’Accademia militare appena in tempo per la maggiore età e la guerra: inviato subito al fronte senza alcuna esperienza, e consumato nell’anima fino al giorno dell’Armistizio, era riuscito nell’impresa fortunosa di riportare a casa, con la smobilitazione, la vivacità degli occhi e la prontezza di spirito. Oltre a ciò, aveva riportato l’abitudine inedita di alzarsi in piena notte e camminare nel sonno, una scorta di incubi affannosi e lo stesso grado di tenente con cui era partito.
         Al fronte, nelle alterne vicende sotto al fuoco di tutti i giorni, si era adoperato per proteggere i suoi, più che per occupare postazioni strategiche segnate su mappe illusorie. Avvertendo il proprio peso di responsabilità, s’era imposto di aver cura di quei granelli d’umanità racimolati ai quattro angoli del Paese: i contadini abituati a vangare nel fango, che in trincea era livido, contagioso, ma pur sempre della stessa terra delle campagne; gli operai dalle dita abili a riparare qualsiasi congegno meccanico, dalle minuzie degli apparecchi telefonici fino alla Canterina, l’unica mitragliatrice automatica in dotazione, in realtà più soggetta a incepparsi nel gelo che a sparare diritto; e poi i manovali che non riuscivano a lavorare senza cantare, i padri di molti figli, le reclute incaute. Arrigo se l’era giurato ancor prima di vederli, quei volti impauriti e attenti, come di ragazzi al primo giorno di scuola: li riporterò a casa a uno a uno.
         Per questo, s’era spezzato la schiena insieme a loro a trascinare i pezzi d’artiglieria in montagna, a liberare i cingoli dai pantani, a spalare la neve dalle ridotte sepolte da inverni senza fine, senza rumore, senz’altro che il cielo bianco, e il rigore di legno grigio degli assiderati; per non esporre i suoi a perdite insensate, s’era più volte opposto agli ordini altrettanto insensati dei Comandi; e non senza imbarazzo, s’era prestato a leggere agli analfabeti le lettere ricevute da casa, a scrivere alle mogli, alle madri, alle morose, a correggere frasi sbozzate nelle calligrafie incerte della terza elementare.
         In breve, aveva “fraternizzato in modo eccessivo” con i soldati. Non solo: ma in più occasioni i suoi, depurati dall’illusione degli ideali e affinati da una lunga consuetudine con la morte, avevano fraternizzato persino con il nemico. Di questi episodi di vita quotidiana s’era persa ogni traccia: e sia per le avvertenze del tenente Drusiani, che diffidava i suoi dal parlarne per lettera, sia perché i fatti erano accaduti in modo così spontaneo da non fare notizia, nessuna eco era riuscita a varcare i sentieri allagati dalle piogge, i ponti sui torrenti divelti dalle esplosioni, la melma chilometrica delle trincee affondate come ferite lungo i crinali dell’avanzata.
         Durante tutto il conflitto, soltanto rare voci, non confermate, su “fatti d’inaudita gravità, punibili con la fucilazione” erano pervenute al Quartier generale: al momento e nell’incalzare degli eventi, nessuno s’era preso la briga di accertarle, di indagare i responsabili, di passare per le armi truppe già decimate dalla guerra di posizione, da assalti sanguinosi per conquistare una vetta, un brandello di muro, quattro case sparute. 
         Nel frattempo, a Natale, nel silenzio immerso nei boschi ammantati di neve, si potevano leggere i cartelli di tregua scritti dagli Italiani: “Austriaci, a Natale state anche voi in pace. Noi non spareremo”. In quella notte, non esplodeva un colpo: Italiani ed Austriaci spianavano tovaglie di pezze colorate, cucinavano nel tepore delle ridotte, leggevano le lettere ricevute da casa, con buona pace del Quartier Generale.
         Per un certo periodo, la compagnia di Arrigo fu acquartierata su postazioni a pochi metri dalle trincee austriache, e non erano rari i lanci di sigarette, di pane tra le due linee. Capitò che una notte, sotto a una pioggia battente che imperversava da giorni, il sergente La Valle, percorrendo i camminamenti durante l’ultimo turno di sentinella, sentisse dei lamenti dalla trincea austriaca, come un pianto continuo.
         Era venuto a svegliarlo, nel fragore della pioggia torrenziale che riempiva di umidità la baracca, impregnava le coperte dell’odore marcio del legno, e dava l’impressione di dormire in mare aperto. Arrigo s’era trovato davanti quel volto scarno, dello stesso colore di cenere dell’inverno: “- Venga a sentire, sior tenente, mi sembra che ci sia un ferito”-
         Tra i molteplici compiti inattesi del fronte c’era stata anche, per Arrigo, la necessità di districarsi tra i dialetti dei soldati: la stessa necessità gli aveva poi insegnato a sviscerare la lingua cupa degli austro-ungarici, anch’essa complicata da inflessioni e pronunce delle località più remote dell’Impero.
         In quell’ultimo spicchio di notte, quando il buio e il freddo si fanno più pungenti perché prossimi all’alba, Arrigo si mise in ascolto insieme alla sentinella, uno scintillio d’occhi tesi sotto alla pioggia:
         -“Non sento niente, sergente. O non c’è nessuno o è già morto”-   
         - “Si fidi, sior tenente, io l’ho sentito bene”-      
         E infatti, dopo poco, s’era udita una voce tenue, assottigliata al punto che ogni volta sembrava sul punto di finire, eppure perseverava con la sola forza nella disperazione. A distanza di anni, in certe notti di pioggia interminabile, ad Arrigo capitava ancora di sentirla, quella voce che giungeva dalla trincea austriaca come da un altro mondo, insieme all’odore di disfacimento portato dalla pioggia: come se intorno, per chilometri, non ci fosse più niente di vivo se non quell’unica voce, un cigolio del vento, un lamento dei morti.
         -“E’ uno di loro. Si lamenta per la fame”- 
         -“Ci credo, sior tenente. Sono accerchiati da settimane. O si arrendono o fanno la fine del topo”-
         -“I loro comandanti li lasceranno crepare, piuttosto”-
         -“Proprio come i nostri”-
         Arrigo si voltò a fissare La Valle, il suo viso tranquillo, fermo, da contadino. Quello si tirò indietro:
         -“Mi scusi, sior tenente”-
         -“Bene, può continuare il suo turno di guardia” - Arrigo indovinò l’ora osservando la striscia di luce sudicia che s’allargava sull’orizzonte - “Coraggio, che manca poco al cambio”- 
         Fece per ritirarsi, ma notò la sentinella che rimaneva là. Come pietrificata, in ascolto a quel pianto.
         -“Mi ha sentito, sergente?”-
         La Valle si ridestò, come da un incantesimo: -“Signorsì, sior tenente. Ma allora, non si fa niente?”-
         -“Cosa dovremmo fare? Questo non ci riguarda”-
         -“Io ho una fetta di pane, avanzata dal rancio”-
         -“Farò conto di non avere sentito”-
         -“Mi g’ho anca del pecorino, appeso sopra alla branda. Se non l’hanno mangiato i topi, ma io l’ho legato in alto”-
         -“Non ho sentito, sergente”-
         -“Potrei fare un involto. Basterebbe una pezza”-
         -“Intelligenza con il nemico. Non ci provi neppure”-
         -“Quello continua a piangere. A me pare un tosetto”-
         -“C’è la Corte marziale”- 
         -“Ho quattro figli a casa, sior tenente. Lei faccia come crede”-
         Arrigo si arrese: -“In tenda dovrei avere della salsiccia. Dò il segnale di tregua, un minuto soltanto”-
         -“Grazie, sior tenente. L’è un povero tosetto, mi ricorda mio figlio. Dieci anni, il più grande”-
         -“Se non è un bambino di dieci anni ma un’imboscata, la riterrò personalmente responsabile”-
         -“Si fidi, sior tenente, mi son padre di famiglia e li conosco, i pianti dei piccoli”- La Valle era già scappato a frugare in baracca, e non era più stanco, non sentiva più il peso della mantella fradicia, della schiena bagnata, dei piedi come nudi da una pozzanghera all’altra. Vennero altri soldati, tirarono fuori i loro rimasugli di pane dalle tasche degli zaini, dell’uniforme, dai nascondigli vari. Si fabbricò un involto con un pezzo di stoffa, poi all’ultimo momento lo si disfò per metterci dentro dell’altra roba. Tutti, di colpo, avevano un figlio da sfamare, un fratello minore, un compagno di scuola. Il pensiero di un possibile attacco a sorpresa non sfiorava nessuno.
         Si levava il mattino, pochi cenci di nuvole, e di nuovo pioveva interminabilmente: eppure gli Italiani erano tutti fuori come in pieno sole, strappati dalla cuccia tiepida delle tende, a seguire in silenzio il lancio dell’involto verso le postazioni avversarie.
         Arrivò ad impigliarsi in cima a un terrapieno, con grande disappunto di voci tra gli Italiani. Si diede del cretino a chi aveva tirato, l’atmosfera già logora di nervi si riscaldò, e forse fu per il chiasso, o forse per il tremito avvertito dal filo spinato, che gli occupanti di fronte si misero sull’avviso: si calmò il pianto, si udirono voci interrogative. Arrigo intervenne, col suo tedesco breve: -“Andate a prenderlo, è pane! Noi non spariamo, non sparate neppure voi!”-
         Ci misero un po’ a fidarsi. Attesero, e gli Italiani attendevano con loro, silenziosi e ammucchiati attorno alle feritoie, con il fiato sospeso. Dopo un po’, un austriaco uscì dalla sua postazione, e un altro insieme con lui: scivolarono rapidi sul bordo del terrapieno, e acchiapparono il pane con una presa ch’era più fame che paura. Persino da lontano, si vedeva chiaramente ch’erano ragazzini, inesperti a tal punto da uscire senz’armi e senza coprirsi le spalle, solamente con gli occhi lucidi per la fame: ed erano occhi grandi, che mangiavano il volto in mancanza di altro. Non proprio dieci anni, ma appena qualcuno in più: “l’età di mio nipote”, “di mio fratello”, “di mio figlio maggiore”. “Mandano i ragazzini al macello, quei maiali”, “è una vergogna”, “uno schifo”, “ammazziamoli tutti”.
         Tacquero solamente le reclute italiane, stessi visi sparuti, stessi occhi che mordevano di fame senza dirlo a nessuno. Si tenevano in disparte, educati com’erano a restare in silenzio quando parlano gli adulti.
         Nessuno sparò un colpo contro i due disarmati, esposti al fuoco di tutti: né i tiratori austriaci, né le vedette italiane. Poco dopo, qualcosa urtò i sacchi di ghiaia, a due passi da Arrigo. Era un semplice involto legato con lo spago, evidentemente lanciato con mira più precisa, anche se nessuno, in realtà, l’aveva visto partire.
         Il sergente La Valle mosse per andare a ritirarlo, ma Arrigo lo prevenne: -“Se davvero ha quattro figli, si risparmi la pelle: io non ci tengo affatto ad averla sulla coscienza”-      
         -“Se sparano, sior tenente, l’avrò io, sulla coscienza”-
         -“Lei ne avrebbe uno solo, mentre io ne avrei cinque: sei, contando sua moglie”-
         Per fortuna, l’involucro conteneva soltanto un pugno di sigarette. Sulla carta, gli austriaci avevano scritto “Danke italiani, pace”.
         La voce nella pioggia, non la udirono più. Se l’affamato aveva mangiato quel pane, o se i due adolescenti se l’erano spartito senza misericordia, se era uno dei due, un terzo oppure nessuno, non si poté appurarlo. L’incognita, e il tormento di quel pianto d’angoscia rimasero soltanto nei brutti sogni di Arrigo, che tornava a udirlo nelle notti battenti di pioggia, specialmente d’inverno, quando più lungo è il buio, e dalle profondità emergono i ricordi. Da ultimo, s’era fatto più straziante e vicino da quando Hansi Wallemberg era arrivato in casa con i suoi capelli chiari, così accecanti come gli erano sembrati quelli dei due soldati in quel mattino remoto: quando entrambi s’erano trovati sotto il tiro delle due postazioni, con le mani disarmate rese lunghe dalla fame, con il capo scoperto su cui s’era posato, uscito da chissà dove, forse un raggio di sole.  
 
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Capitolo 6
*** A suo agio nella solitudine del mondo ***


Dopo il conflitto, Arrigo si era adoperato per ricondurre a casa la sua compagnia di uomini sfiduciati dalla stanchezza, falciati dalle perdite, apparentemente sconfitti in tutti i modi possibili. Di nuovo s’era fatto carico dei suoi, per dar pace a se stesso: proprio come il giorno in cui era arrivato al fronte fresco di nomina e con l’uniforme ben stirata, e i soldati si erano aggrappati a lui subito, e lui a loro come alla sola certezza, presenza viva e affettiva, unico riferimento e barlume di chiarezza. Di giorno in giorno, s’erano consegnati la vita nelle mani, s’erano sostenuti facendo fronte comune non contro al nemico ma all’assedio dell’abitudine, che li aveva ridotti a consumare il rancio nelle trincee con i morti, quando non c’era modo di trasportarli fuori; e a bere l’acqua putrida delle fosse comuni durante il più lungo attacco, quand’erano rimasti accerchiati in una valle piena solo dell’eco dell’artiglieria tra le montagne.
         Tutto s’era concluso da un giorno all’altro, con l’annuncio di una vittoria che li aveva colti del tutto impreparati e sembrò subito estranea, come la vincita ad una lotteria incomprensibile: qualcosa che non aveva nulla a che vedere con gli sforzi prodigati per mesi.
         -“Abbiamo vinto, sior tenente”- commentava il sergente La Valle -“anche se no gho mica capio come abbiamo fatto”-
         Ad Arrigo, la vittoria rimase impressa nella memoria con l’immagine delle lunghe colonne di prigionieri in transito per le piazze, a gruppi polverosi nelle periferie di paesi morti: come fantasmi dai volti grigi e le uniformi senza colore, le mani umiliate e scarne a riparare le strade, gli sventramenti dei ponti, a riempire di ghiaia le brecce e a collocare i lastroni con pazienza, in silenzio o cantando nelle loro lingue remote.
         I volti debilitati e le divise logore, esattamente come le loro: in tutto questo, Arrigo non vedeva differenze, come del resto non le vedeva neppure la gente, che a Bologna e nelle altre città e nelle campagne si fermava alla spicciolata per guardarle passare, quelle colonne tristi dirette alla stazione, ai lavori forzati. E nessuno inveiva contro quella gente stanca perché tutti erano stanchi, e la pace veniva ad aprire un tempo atteso di cui, in realtà, non si sapeva che fare: né cosa fare di sé, né da dove cominciare.
         Nel tentativo di riscattare i suoi dal disorientamento che li aveva colti all’annuncio della smobilitazione, Arrigo era rimasto aggrappato agli ultimi relitti della guerra, rinviando ogni decisione sulla sua vita futura: restare sotto le armi oppure congedarsi, e in quel caso che fare. Per lui non c’era ancora una casa a cui tornare, con la Iolanda ad abbracciarlo sulla soglia: e la sua famiglia d’origine era un posto assai meno accogliente dell’esercito.
         S’era così smarrito nei meandri delle pratiche, dei verbali necessari per fare decorare al valore i suoi soldati, i vivi e i morti. Con la sua bella calligrafia d’altri tempi, aveva inoltrato richieste di pensioni per gli invalidi, di assegni per i superstiti. Aveva visitato i feriti senza illusioni, li aveva assistiti solo col suo silenzio al capezzale delle febbri, delle ferite infette, nella dispersione dei grandi ospedali della città: dove giungevano le mogli, le madri dalle campagne con le uova nei panieri e soltanto col dialetto, senza saper parlare con i medici e gli ufficiali di sanità, senza averne il coraggio.
         Toccava al signor tenente reperire informazioni, trattenere i chirurghi indaffarati ed esausti, andare a cercare la suora per una medicazione, recuperare un bicchiere, un catino per il vomito. Assorbito da tutte queste necessità, Arrigo s’era dimenticato di sé stesso: mentre la decisione di restare nell’esercito prendeva forma da sé, non essendoci un altro posto dove andare, e soprattutto dove poter essere accolto. Negli ultimi mesi decisivi per la guerra era stato informato della malattia di suo padre, ma la situazione del fronte gli aveva impedito di ottenere una licenza in tempo per rivederlo. La stessa notizia dell’infermità di Emilio Drusiani, un uomo taciturno che l’amava più di se stesso, gli era giunta in ritardo, dopo lo sfondamento del fronte in quella valle remota e indimenticabile, dove lui e i suoi uomini si erano ridotti a bere l’acqua dei morti. 
         Dopo quattro settimane di fuoco di sbarramento, quando già le facce iniziavano a somigliare a quelle dei caduti, si era aperta una breccia ed erano arrivati i rinforzi e il rancio, i collegamenti con le retrovie, i muli della posta: il sergente La Valle aveva appreso il lieto evento della nascita del suo quinto figlio, e rifaceva i conti e non si dava pace, perché non ricordava d’essere stato a casa in licenza, in quel periodo. Con due mesi di ritardo, Arrigo aveva appreso dell’infermità di suo padre, da una lettera gelida scritta dalla sorella, che sottolineava soprattutto la sua assenza. Subito aveva chiesto una licenza straordinaria, e altrettanto rapidamente il permesso gli era stato negato:
         -“Ma dove vuole andare, Drusiani”- il colonnello Riccadonna era intento a firmare le circolari per le famiglie dei caduti, in totale duecentocinquanta -“siamo in piena offensiva, le linee sono interrotte, ci vogliono due giorni soltanto per uscire dalla zona operativa. Con tutto il rispetto per suo padre, ad assisterlo ci penserà la famiglia. A ciascuno il suo compito”- 
         -“Faccio rispettosamente notare che era comunque mio dovere chiedere”-
         -“Il suo dovere è qui, Drusiani. E adesso, si levi dai piedi”- 
         Quando finalmente era riuscito a rientrare a Bologna, dopo un viaggio estenuante su una tradotta deviata senza misericordia: una volta per il bombardamento dei binari, due volte perché la stazione era un cumulo di macerie, tre volte per dar la precedenza ai rincalzi diretti al fronte. Con l’uniforme buona già annerita di polvere, la barba e la faccia già lunghe un’altra volta, Arrigo era arrivato giusto in tempo per assistere alla spicciolata dei parenti che uscivano dalla Certosa.
         Mentre zii e cugini si avvicinavano per stringergli la mano, la sorella fece addirittura finta di non vederlo. Quando proprio non poté più ignorare la sua presenza, gli si rivolse con durezza: -“È arrivato finalmente, l’eroe. Facile fare gli eroi fuori da casa propria. L’hai fatto morire tu, nostro padre, per il dolore di non averti rivisto, nell’unico momento in cui era nel bisogno”-
         Quel pomeriggio, finché ci fu luce, Arrigo si trattenne nei viali bianchi del cimitero. Camminò nel respiro leggero dei cipressi, nelle loro ombre lunghe mentre scendeva la sera: simile al ritirarsi del mare su una spiaggia era la sera in cielo, con il sole che si disfaceva all’orizzonte e il cielo terso come una tavola di luce. Spesso l’aveva visto stemperarsi così, nelle nebbie del fronte, ma mai con tanta quiete, e talmente indolore.
         Tra le aiuole ordinate, per i sentieri nitidi di ghiaia e nel ristagno aromatico dei fiori, s’aspettò di sentire le campanelle impercettibili dei mughetti. Pensò ai corpi dei morti, che avvizzivano lentamente tra le corolle, nelle fodere rosse, in quel silenzio confortante anche per i vivi: e d’un tratto lo colse la nostalgia del sonno, del riposo profondo, senza i risvegli di soprassalto e il crepitio, i tuoni cupi del fronte.
         Smarrendosi per i chiostri pieni d’ombre, per i corridoi di polvere dove a tratti giungevano ventate imputridite, continuò per un tempo imprecisato a cercare suo padre: e si sentiva stranamente rinfrancato, smaltendo per il solo beneficio del silenzio la stanchezza e la pena, che si portava addosso da chissà quanto tempo.
         Scoprì di trovarsi a suo agio nella solitudine del mondo, e che non esiste luogo più adatto all’uomo del profondo di sé: c’era un fondo dell’anima in cui nulla poteva entrare, né la rabbia né l’ansia, né la stanchezza fisica, e neppure il dolore. Là poteva cogliere tutti i significati: i propri sentimenti e il ricordo di suo padre, lo sguardo del Crocifisso che lo stava osservando dalla parete di fronte, con il volto reclino, il corpo dissanguato aperto in un abbraccio. 
         Lo ridestò dai suoi pensieri il custode, un omino affondato in un grembiule grigio, dietro ad una carriola colma di terra smossa: -“Soldato, è ora di chiudere. Cerca mica qualcuno?”-
         Soltanto in quel momento, Arrigo realizzò che dopo avere cercato per tutto il pomeriggio l’ultimo segno della presenza di suo padre, lo aveva ritrovato nell’intimità di se stesso: in un luogo raggiante come la pozza di foglie morte ai suoi piedi, dove si rispecchiava il volto buono del Cristo, e poi quel cielo immenso, di velluto e d’arancio. Là poteva ancora sentire la sua voce, rivedere i suoi gesti, i suoi occhiali rotondi mentre gli correggeva i compiti nelle sere d’inverno.
         -“Cercavo Emilio Drusiani”-
         -“Una tomba nuova? E’ lontano, soldato, bisogna prendere l’altro ingresso. E’ così lontano che le consiglio di tornare domani. Perché adesso si chiude”-
         Arrigo non tornò. Sul piazzale ormai buio, guardò il custode chiudere i cancelli di ferro battuto, i viali dei cipressi, i corridoi e le scale abitate dalle figure del dolore, dalle donne velate di marmo dei sacrari, dalle culle impietrite dei bambini prematuri. Restavano nell’aria migliaia di lumini accesi nella notte, come gli occhi dei morti. Gli restava nell’anima un principio di calore: lo sguardo di suo padre così come lo ricordava, la presenza del Cristo che l’aveva accompagnato per i corridoi umidi, con le palpebre chine come per l’imbarazzo di leggergli nel cuore. Quella sera stessa, Arrigo si presentò al Comando di presidio, per chiedere di tornare subito in prima linea:
         -“Ma tenente, lei ha una licenza straordinaria di cinque giorni”- persino all’imboscato dell’ufficio amministrativo, che il fronte non l’aveva mai visto neppure da lontano, la richiesta pareva assurda.  
         -“Non ne ho più bisogno, posso rientrare subito”-
         -“Cinque giorni di licenza non capitano spesso”-
         -“Ho intenzione di ripartire questa notte stessa”-
         -“Ci pensi bene, tenente, non le ricapiterà tanto presto”-
         -“Ci ho pensato, e mi auguro che non capiti più”.
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Capitolo 7
*** De profundis clamavi ***


Dopo la licenza, breve ed ulteriormente accorciata dagli eventi, rientrando al suo reparto Arrigo aveva sperimentato la sensazione inedita di ritrovarsi a casa in quell’ambiente infernale, nell’aria pestilenziale dei troppi corpi ammassati nei baraccamenti, nelle trincee che puzzavano di tutti i rifiuti umani, del vomito convulso degli avvelenati col gas, della melma del rancio. Quello era il suo posto, e ne aveva avuto conferma nel momento in cui gli erano venuti incontro, silenziosi, i suoi uomini. Il sergente La Valle gli aveva consegnato un pacchetto con qualche sigaretta, e le firme di tutti: un cimitero di croci peggio della Certosa, essendo i più analfabeti, e incapaci di scrivere persino il loro nome. Arrigo si era sentito confortato dalla loro presenza, umile e senza parole: avvertendo il loro calore mentre gli si stringevano intorno timidi e volonterosi, intuì che l’avrebbero abbracciato volentieri ma non osavano farlo, perché lui era il sior tenente, e loro erano rispettosi. La Valle precisò che alcune sigarette erano state inviate da “quelli di là”, e in particolare dallo standschutzen[1]  Halle, insieme con le sue sincere condoglianze. Arrigo non poté fare a meno di pensare che gli Austriaci, il nemico per eccellenza, si erano dimostrati alla fine più comprensivi di sua sorella.
         Con il sottotenente Halle, s’erano conosciuti in un pomeriggio di tregua per seppellire i morti. Dopo l’ennesima avanzata degli Italiani, stroncata a pochi metri dall’uscita della trincea, e dopo l’uguale tentativo di sfondamento da parte del nemico, le due postazioni continuavano a fronteggiarsi identiche, senza aver preso un palmo di terra all’avversario: la situazione di stallo si protraeva da mesi, con variazioni dovute solo al numero dei morti che restavano presi nel fuoco di sbarramento. Si era d’estate e i corpi, già dopo poche ore, iniziavano a gonfiarsi e a odorare di fiori marci.
         -“C’è il rischio di epidemie, e oltretutto il morale della truppa ne risente”- Sull’attenti e impeccabile davanti al colonnello, Arrigo sapeva di poter contare su quest’ultimo argomento, oltre che sull’uniforme stirata per l’occasione, per ottenere un ordine di tregua temporanea: una pausa di sonno, di cibo e di silenzio che avrebbe - quella sì - ristorato il morale, ben più della raccolta pietosa dei morti.
         Il colonnello Riccadonna, per una volta, acconsentì: -“Provveda lei stesso a stabilire i termini della tregua. Temporanea, s’intende. Stanotte stessa riceverete gli ordini per la nuova offensiva”- 
         Di questo passo, non avremo finito di cavar fuori i morti - pensò Arrigo tra sé - che già ci toccherà di raccattarne dei nuovi. Con una pezza bianca, gli Italiani approntarono una sorta di bandiera, che fece capolino sul vallo della trincea. Subito si aprì il fuoco dalla postazione di fronte: della pezza rimasero più buchi che stoffa, in più punti restando addirittura bruciata. Gli Italiani ridevano, la prospettiva della tregua rendeva il clima disteso, da gita fuori porta:
         -“Fritz non ha mica capito”- sghignazzava La Valle -“colpa della tua mutanda, che è tutto fuorché bianca. Sei abituato a fartela sotto, a quanto pare ”-
         La recluta che aveva offerto la pezza arrossì con violenza, mentre Arrigo ordinava di tornare ad esporre quel cencio miserando:
         -“Sergente, lasci a Fritz il tempo di capire che chiediamo una tregua. Senza tanti commenti”-
         -“Quelli, sior tenente, capiscono solo gli ordini, e sparano su tutto ciò che si muove. Sono una brutta razza”-
         -“Per l’appunto, sergente, la tenga su ben ferma, questa bandiera della miseria, e lasci a Fritz il tempo di vederla. E già che siamo in argomento, veda di curare di più la pulizia dei suoi uomini”- 
         Di nuovo, la bandiera fu centrata da un tiro di tale precisione da spezzarla di netto tra le mani del sergente. La Valle restò cupo a fissare il bacchetto che gli era rimasto in mano per miracolo:
         -“Hanno ottimi cecchini”- si preoccupò il ragazzo della pezza.
         -“Soprattutto, ho il sospetto che non abbiano interesse ad un cessate il fuoco”-
         -“Non è il caso di esporsi oltre. Va bene, rinunciamo”- In quel momento, Arrigo notò del movimento dalle postazioni austriache. Un drappo chiaro si allungava fuori dal vallo, simile al loro per il numero di macchie: c’erano addirittura delle croste attaccate, tracce nere di sangue.
         -“A ripensarci bene, preferisco la tua mutanda”- osservò il sergente, tetro -“ Meglio quello che uno si fa addosso da vivo, che le pezze dei morti”-
         In breve, s’erano sparpagliati a gruppi silenziosi per recuperare i corpi, che erano talmente prosciugati dal sole da essere senza odore, e quasi senza peso come ossi di seppia: o al contrario talmente impregnati di pioggia, che occorreva scavare in profondità per sviscerarli dal fango, dove si disfacevano solamente a toccarli. In questo caso, il tanfo era insopportabile.
         Si frugava in quel carnaio cercando le piastrine di riconoscimento: si provava a dare un nome a spoglie così consunte che persino le uniformi risultavano ignote, e non si capiva a quale dei due eserciti appartenevano. A volte era il brandello bluastro di una giubba, gusci di munizioni, e allora il gruppo degli Italiani si sbracciava: -“Fritz! Komme hier, da questa parte, Fritz!”- oppure erano gli Austriaci ad agitare le mani: -“Italiani! Italiani!”- 
         Al riparo dei morti, spesso si ritrovavano dei feriti da giorni, con i visceri bianchi raccolti nelle mani, e con gli occhi che scintillavano di febbre. Anche in questi casi, l’azione delle intemperie, unita a ciò ch’era stato spremuto fuori dai corpi, rendeva irriconoscibili le uniformi, creando non pochi problemi di identificazione: né altro si poteva cavare dai feriti, che avevano ormai perso nel delirio dell’infezione persino la memoria ultima del loro nome. 
         Scoprire una traccia di vita anche minima in quel regno dei morti, provocava l’effetto di un improvviso risveglio: Italiani ed Austriaci s’affannavano insieme per i feriti ch’erano, fino a prova contraria, di tutti. Approntavano fasciature con pezze di ogni sorta, anche tolte ai cadaveri, dai mucchi di macerie cavavano le stecche per gambe e braccia rotte. Gli stessi defunti venivano cacciati dalle lettighe, per fare spazio ai vivi.
         Anche Arrigo a un certo punto, mentre veniva sera e ormai scadeva il termine del silenzio e della tregua, si ritrovò chinato, con lo stomaco contratto, sulla poltiglia di carni e ossa di un ferito. Cavò fuori il suo pacchetto di medicazione, affondando le bende e le mani in quel disastro:  le garze s’intridevano, subito si perdevano in quella materia nera, calda, che scricchiolava. Si sentì letteralmente cadere il sangue dalla testa quando avvertì il contatto con una sporgenza rotonda, molto probabilmente un osso di quell’uomo:
         -“Non voglio vederlo”- pensò rapidamente -“non fatemelo vedere”-
         In quell’attimo di nebbia, mentre la vista si scomponeva in macchie scure, si sentì sostenere le spalle da qualcuno. Avvertì la fermezza, la forza di quel sostegno che gli impediva di cadere, e a cui, per un istante, poteva abbandonarsi. C’era una voce incognita che veniva da lontano, e aveva una cadenza straniera eppure nota: -“Alles gut, tutto bene, italiano?”-
         E Arrigo rispondeva alles gut, come in sogno.
         Poi vide accanto a sé altre mani affaccendate, ed erano lunghe e abili, esperte nell’avvolgere bende e compresse di garze. Come già era accaduto, le garze si disfavano, una volta imbevute sparivano in quello squarcio che pareva senza fondo, senza fine, senza rimedio. Arrigo recuperò il pacchetto di medicazione del ferito, tagliò brandelli di stoffa e cominciò a passarli all’altro soccorritore, che avvolgeva e fasciava senza perdersi d’animo, né prestargli attenzione. A un certo punto il flusso di sangue si arrestò, si allentò la premura delle lunghe mani abili, e il loro proprietario sorrise incoraggiante. Pareva giovanissimo, adesso, e un po’ turbato. Un viso magro e serio, occhiali di metallo rotondi, da studente. Per la tensione le mani, che andava ripulendo sopra una zolla d’erba, iniziarono a tremare.  
         Arrigo guardò il ferito, notò il colore trapassato del volto, il naso che si affilava, gli occhi già spenti e molli: fece un cenno col capo all’altro soccorritore, che si allungò a guardar meglio, e le braccia gli caddero, le spalle si piegarono sotto il peso della stanchezza. Soltanto il ventre del ferito sussultava ed emetteva un rantolo come di cose rotte, e carico di tutto lo sfacelo del mondo.
          Si appoggiarono un istante per riposare, uno di fianco all’altro, e il morente tra loro. Soltanto allora, Arrigo notò che si trovavano in un avvallamento, in una fossa simile a una ferita aperta nel ventre della terra. Sopra di loro, il cielo già tendeva al tramonto, e un pulviscolo caldo si posava sulle cose: ovunque era silenzio, un silenzio che si allungava tra le pause, ormai sempre più lunghe, del respiro dell’uomo. Arrigo cercava scampo, qua e là, con lo sguardo: non riusciva a guardare in faccia il soccorritore, perché a quel punto pensava che la cosa più ovvia era piantare una pallottola in testa a quel disgraziato, e aveva paura di leggere, nello sguardo dell’altro, la stessa convinzione. Di sfuggita, notò che sia il soccorritore, che aveva gli occhi rossi e il viso tirato, sia il ferito a terra, che si sfiniva con quel rumore di sfasciume, portavano l’uniforme bluastra degli standschutzen austriaci:
         -“Tocca a te”- pensò allora sentendosi subito sollevato -“tocca a te, mi dispiace” - Qualsiasi cosa fosse, decidere o eseguire. Non lo sfiorava affatto il pensiero che forse toccava proprio a lui, perché era lui il nemico. Osservò ancora l’Austriaco mentre si prendeva il viso tra le mani, quelle sue mani abili che non erano riuscite a salvare nessuno: 
         -“Idiota”- pensò, e di nuovo gli si strinse lo stomaco -“sai quanti ce n’è, da piangere?”-
         Pensò alla stranezza della morte in tempo di pace, quando si piange tanto per la perdita di uno solo, mentre qui erano in tanti, e non piangeva nessuno. E questo lo pensava soprattutto per se stesso, perché lui si sentiva gli occhi inariditi, e l’anima così secca che neppure quando i morti erano stati amici, gli riusciva di spremere un po’ di dispiacere. Poi rifletté sul potere salvifico dell’abitudine, e concluse che quel dolore moltiplicato per gli infiniti chilometri del fronte, li avrebbe distrutti tutti centinaia di volte, se non vi fosse stata quella beata indifferenza. Forse proprio il distacco, quell’apatia che pareva un’assenza dell’anima, aveva il compito di conservarla integra nel disastro.
         Restarono là ancora per un tempo infinito, con le spalle appoggiate al calore della terra. L’orizzonte era limpido, lunghi stracci di cenere su un cielo di sangue vivo. Persino i loro volti apparivano filtrati da una luce rosata, persino il morto in mezzo pareva recuperato a un’apparenza di vita. Come svegliandosi di soprassalto da un sogno, l’Austriaco si riscosse: 
         -“Alles gut, italiano, sì?”- gli allungò una sigaretta e aveva una voce bianca piena di inflessioni lontane, chissà da dove veniva, in quale remoto paese aveva vissuto la sua infanzia recente. Si avvicinò per accenderla, e aveva occhi limpidi, come Arrigo non ne aveva mai visti. Le sue lunghe mani continuavano a tremare, mentre il respiro sempre più rotto del morente incominciava a diventare insopportabile. Arrigo pensò che ormai la tregua terminava, solo pochi minuti e avrebbero ripreso vigore i doveri e gli ordini, primo tra tutti quello di far prigioniero il nemico: e questo era già un buon motivo per andarsene, per non sentir più il rantolo che scaturiva dal ventre del ferito, come dalle viscere della terra. Oppure c’era sempre quell’altra soluzione, ma bisognava averne il coraggio. L’Austriaco lo guardò, e Arrigo capì che stava pensando la stessa cosa:
         -“Io no”- si affrettò a dire -“Io non sparo a un ferito a terra. Non se ne parla neppure. Non siamo un maledetto plotone di esecuzione”- e di nuovo sapeva che parlava a sé stesso, a quella parte di sé più ragionevole che diceva: qualcuno dovrà farlo. Vuoi farlo fare a un ragazzo? Quasi avesse colto i suoi pensieri interni, anche l’altro parlò:
         -“Fai tu, italiano nemico”-
         -“Io non sono nemico di nessuno”- già deciso ad andarsene, Arrigo si levò e iniziò a raccattare intorno le sue cose, il fucile, l’elmetto. Con la stessa rapidità, lo standschutzen mise una mano nel cinturone. Arrigo si aggrappò al fucile per istinto, iniziò a indietreggiare tenendolo sotto tiro. In quegli ultimi istanti tra il gesto dell’Austriaco e il timore di Arrigo, il ferito morì.
         Senza badare all’arma puntata contro di lui, lo straniero cavò fuori dalla cintura un minuscolo libro: era talmente piccolo che stava tutto nel palmo, tra le sue lunghe dita. Ad Arrigo ricordò il messale di sua madre, le pagine col bordo dorato che tagliavano, i santini dagli occhi tristi, un ciuffo di segnalibri scoloriti. Mentre continuava a tenerlo sotto tiro, vide l’altro raccogliersi in ginocchio e iniziare a pregare ad alta voce dal libro: -“De profundis clamavi ad Te, Domine. Domine, exaudi vocem meam…”-
         Arrigo restò interdetto. Guardò il cielo discendere fino in fondo nel buio, mentre sul corpo a terra si allungava l’ombra china del compagno, come una protezione. La voce dell’Austriaco era ferma e sicura, sembrava aver superato tutta l’angoscia:
         -“Fiat aures tuas intendentes in vocem deprecationis meae…”- 
         Sì, tendi l’orecchio alla sua supplica, ovunque Tu sia, pensò Arrigo. E intendi anche il mio lamento.
         In breve, lasciò l’arma, e s’inginocchiò a sua volta davanti al piccolo libro:
         -“Si iniquitates observaveris, Domine, quis sustinebit?”- Se consideri le colpe, Signore, chi potrà sussistere? diceva il Salmo, ed entrambi erano consapevoli, in quel momento, della verità di quelle parole.
         “Ma presso di te è il perdono, perciò avremo il tuo timore”. E la sera scendeva su di loro silenziosa, ed erano notturni i piccoli fiori bianchi sull’orlo della buca, che proprio ora s’aprivano in piccole stelle fragili.
         Non li aveva mai visti, Arrigo, che pure conosceva ogni brandello e ogni resto di quella terra scardinata dalle esplosioni, violata in profondità: eppure essi sbocciavano proprio sotto ai suoi occhi, con quei petali candidi e al centro un cuore di carne.
         -“Io spero nel Signore: l’anima mia spera nella sua parola. L’anima mia attende il Signore, più che le sentinelle l’aurora”- così pregavano insieme, ed entrambi sapevano il freddo e la fatica di vegliare di notte, nell’assillo del vento e nell’insidia soporifera della neve, che nel buio risplende come un manto di luce, eppure non possiede altro calore che quello dell’insensibilità, e poi del congelamento. E sapevano anche la fiducia instancabile, la pazienza dell’anima che nella desolazione, quando la notte è al culmine, sente nascere il giorno, e scruta l’orizzonte in attesa del primo spiraglio luminoso.
         Quando ormai terminarono era di nuovo notte, e il morto pesava come tutti i morti del mondo, mentre lo trasportavano: e ognuno dei due cercava di assumere su di sé quel peso incalcolabile, per non appesantire il carico dell’altro.
         Lo lasciarono infine in una fossa già ammucchiata da altri corpi, che più si riempiva e più affiorava in superficie un fondo d’acqua putrida, un misto di liquami che la terra spurgava come un pianto dirotto.
         La fossa era a ridosso delle linee italiane, e malgrado il tanfo opprimente che saliva dai morti, Arrigo riconobbe l’odore di minestra col sugo, e il sudore di troppi uomini insieme, l’andirivieni delle voci e dei dialetti:
         -“Vattene via, italiano”- l’Austriaco, più alto di lui di un palmo, lo spinse senza riguardo in direzione dei suoi. Il tono della sua voce non era più infantile, come se fosse cresciuto durante il tragitto, per la decisione presa: perché anche per lui, terminata la tregua, tornava in vigore l’ordine di catturare il nemico.
         -“Via, via, italiano”- ripeté lo straniero, e sorrise: allineati e candidi, sembrava avere ancora i denti da latte, e il viso dietro agli occhiali si animò di tante fossette chiare. E forse fu per un eccesso di solitudine, per il bisogno di ritrovare un volto amico in quell’anonimato di carne a perdita d’occhio, che Arrigo riconobbe uno dei due adolescenti ispidi per la fame, che s’erano avventurati, non molto tempo prima, a recuperare un pezzo di pane in una notte di pioggia senza fine. Negli ultimi momenti rimasti, si presentarono:
         -“Tenente Arrigo Drusiani”- tese la mano Arrigo, ricordandosi il proprio nome a malapena.
         -“Standschutzen Halle”- rispose il ragazzo, tirandosi indietro un passo. Guardò la mano tesa, che non poteva stringere, e preferì salutarlo continuando a sorridere, mentre si allontanava: -“ Addio, italiano, vattene”-
         E quel sorriso era così limpido e terso che rimase nell’aria ancora per molto tempo: una tiepida impronta, dopo che il buio ebbe cancellato le tracce dello standschutzen Halle, mentre nella trincea italiana fermentava già la nuova offensiva, e gli ordini venivano urlati da ogni parte, e ovunque “sior tenente! Sior tenente!”. E Arrigo avrebbe voluto domandare all’Austriaco ancora tante cose, qual era il suo nome, e quanti pochi anni aveva. Che cosa faceva nella sua vita da civile, se andava ancora a scuola, se era un figlio amato. E se a piangere per la fame di quella notte era stato proprio lui, oppure l’uomo che avevano tentato di soccorrere, e per il quale avevano pregato nella buca. 
         Dopo la guerra, Arrigo si dimenticò a lungo di lui. Non lo trovò tra i morti, né tra i soccorritori dei feriti a venire, non ne seppe più nulla nel caos della smobilitazione. Malgrado ciò, a distanza di molti anni, l’episodica amicizia del tenente Drusiani con lo standschutze Halle giunse per vie traverse, mai del tutto chiarite, a conoscenza delle Autorità militari italiane: e con grande clamore fu censurata come condotta riprovevole e indegna di un ufficiale, con riserva di vagliarne l’imputabilità per alto tradimento. 
         Accadde quando il colonnello Riccadonna, con un’avventatezza che non riuscì a perdonarsi, ebbe l’idea di proporre Arrigo Drusiani per la decorazione al merito, e un avanzamento di grado: poiché credeva più alla sostanza dei fatti che alle male lingue del Circolo Ufficiali, formulò la richiesta senza tener conto della capacità distruttiva delle invidie, né delle vie infinite della mormorazione.  
         Fu così che del tutto inaspettatamente, accanto ai “fulgidi esempi di attaccamento al dovere”, nel fascicolo personale del Drusiani apparvero altresì, come scheletri emersi da chissà quali armadi, appunti e segnalazioni secondo cui il tenente “si mescolava alle truppe senza tenere nella dovuta considerazione il proprio rango e il ruolo di comando”, “era solito intrattenere eccessiva confidenza con i subordinati, con una spiccata preferenza per le giovani reclute”, fino all’estremo più grave: “in più occasioni ha intrattenuto contatti non autorizzati con le Forze armate avversarie”.
         Il colonnello Riccadonna rimase sbigottito: forte della sua esperienza maturata non solo sui terreni di guerra, ma anche su quelli ben più infidi dei Comandi, mai avrebbe pensato d’andare a scoperchiare un tale nido di vipere. Si scusò con Arrigo, che grazie al suo intervento, invece d’esser decorato e promosso capitano, fu convocato d’urgenza al Comando di Presidio, per rendere conto della sua “intelligenza con il nemico”.  
         Le alte sfere s’impegnarono in una lunga disanima per soppesare i meriti del tenente Drusiani, confrontandoli con l’enormità dei suoi demeriti. Si valutò con “grave e ponderata coscienza” se sussistevano gli estremi per un deferimento in piena regola alla Corte marziale, che valesse da esempio per tutti coloro che, all’epoca, erano contagiati dalla peste del disfattismo: come precisarono gli alti papaveri del Comando, molti dei quali avevano deciso le sorti del conflitto a tavolino, “anche volendo sorvolare sulle accuse più imbarazzanti”, doveva in ogni caso “considerarsi lesiva dell’eroico sacrificio dei nostri caduti”, anche solo l’idea di decorare un ufficiale che aveva dimostrato di non comprendere affatto “l’anelito profondo delle Terre Irredente a riunirsi entro i sacri confini della Patria”. 
         Fu soltanto per l’impegno profuso dal colonnello Riccadonna, che Arrigo riuscì a cavarsela con un semplice congedo volontario, e la rinuncia definitiva alla carriera nell’esercito: per la prima di tante volte a venire, Arrigo Drusiani si trovò in mezzo alla strada dopo aver perso tutto, ma con il beneficio dell’integrità di coscienza.
         Il colonnello Riccadonna, che lo amava come un figlio e non riusciva a darsi pace per l’accaduto, brigò per arruolarlo nel corpo delle Guardie Regie per la Pubblica Sicurezza, la polizia dell’epoca: Arrigo poté entrarci con quel grado di tenente ch’era ormai destinato a rimanergli addosso come una seconda pelle, per il resto della sua vita.
 
 
[1] Gli standschutzen erano un corpo militare volontario formato prevalentemente da uomini molto giovani o già anziani, incaricati della difesa del territorio del Tirolo.

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Capitolo 8
*** Le cose brutte che solo i bambini vedono ***


Nell’ora in cui Arrigo rientrava dal servizio, e cominciava trafficare con la serratura un poco dissestata della porta, in mano un mazzo di chiavi che ad Hansi pareva in grado di aprire tutti gli usci del mondo, qualcosa nell’atmosfera della casa si trasformava. Persino la luminosità delle lampade si faceva più intensa all’unisono con l’emozione della Iolanda, che le correva fin sulla punta delle dita e le rendeva bianche, più sensibili del solito mentre salutava Arrigo con un cenno del capo: gli occhi un poco socchiusi per la timidezza e la gioia, le lunghe ciocche sul collo che, come abbandonandosi ad una carezza, piegavano il capo di lei in un grazioso inchino.
         Man mano che le ciglia si posavano sulle guance, dal suo volto abbassato si levava un sorriso. Da quel sorriso, saliva una piccola fiamma che le accendeva il volto, un rossore di gioia trattenuta sotto alla cipria.
         Rispondendo al saluto, Arrigo s’inchinava alla donna di città: appoggiava la tempia sull’incarnato pallido della guancia di lei, come per sussurrarle all’orecchio qualcosa. Là rimaneva un poco e Hansi, mezzo metro più sotto, vedeva per un attimo i suoi capelli lucidi, nerissimi e ordinati con la riga a sinistra, fermarsi tra le onde morbide della sua sposa, come per riposare. Lo vedeva baciare la fronte di lei posandole le braccia attorno alle spalle, e la Iolanda si rifugiava in quell’abbraccio facendosi più piccola, le mani abbandonate sopra al petto di Arrigo: e quello era il suo riposo.
         -“Avete avuto una buona giornata?”- al colmo dell’emozione, alla Iolanda s’attorcigliavano le parole: non sapendo più come dirle, riesumava un retaggio ch’era già appartenuto al riserbo di sua madre, e ancor prima di sua nonna, e si rivolgeva al marito dandogli del voi. Arrigo, a sua volta, al termine di una giornata di burocrazie e di noie, servizi di pattuglia, rapporti in triplice copia affastellati sul suo tavolo in Questura, tornando a casa inciampava nel fascino di lei come fosse la prima volta: col risultato di tornare anch’egli indietro nel tempo, precisamente al giorno in cui s’erano incontrati, avvicinati con  emozione e cautela, e poi riconosciuti come bisognosi l’uno dell’altra.
         Anche per il tenente Drusiani, rifugiarsi nel voi appariva la soluzione migliore contro l’imbarazzo dei ricordi:
         -“La mia giornata si è fatta splendida a partire da questo istante. Così spero di voi, bella signora”- Arrigo sorrideva, baciandole le punta delle dita. Hansi, che pure non comprendeva una sola parola, era meravigliato da quell’accoglienza, che al paese non usava perché mariti e mogli si parlavano poco, e la sera tornavano assieme dal lavoro ugualmente sudati, taciturni e sfiniti dopo il taglio del fieno, i lavori nel frutteto, la cura degli animali.
         Sulla via del ritorno, si usavano l’un l’altra l’unica cortesia di andare assieme per la polvere dei sentieri, con gli attrezzi e le braccia cadenti, spesso senza neanche guardarsi: tanto marito e moglie si conoscevano già, le facce e i vestiti erano sempre quelli, novità da vedere non ce n’erano mai.
         Ad Hansi era sembrata magnifica quella danza che ogni sera si rinnovava tra Arrigo e la Iolanda. A lungo li aveva osservati tenendosi in disparte, all’inizio incantato poi oppresso dalla tristezza, perché si sentiva escluso da quel cerchio di calore che correva tra l’uomo in uniforme e la donna di città: come un’incandescenza che si arroventava con la forza dei loro sguardi.
         Stringendosi in un angolo che all’improvviso era diventato più freddo, si era ricordato del ritratto in cornice, che aveva dimenticato chissà dove per tutto il giorno. Non sapendo a cosa aggrapparsi si strinse a se stesso, e con tutta la forza che gli era possibile, si fece una promessa: “Una cosa così”- e non riusciva a esprimersi con maggior precisione - “la voglio per me, a tutti i costi”. Voglio che ci sia qualcuno ad aspettarmi quando tornerò a casa, e sarò triste e stanco, pensava tra sé Hansi Wallemberg, cogliendo a un tempo il proprio sentimento interiore, e la stanchezza appena increspata dal sorriso di Arrigo:
         Da grande farò il soldato, e avrò anche questo: e intendeva l’amore e lo voleva vero, alla stessa maniera con cui voleva un fucile che sparasse sul serio, non soltanto un giocattolo capace di sparare con l’immaginazione.   
         Messi insieme i suoi sogni, si lasciò prendere per mano dalla Iolanda, e la seguì in cucina, dietro alla traccia rassicurante del cibo già pronto per la cena. Istintivamente, afferrò con l’altra mano quella di Arrigo, e già si vedeva grande al pari di loro, soldato col fucile e l’amore di una donna di città. Eppure, quando si trovò di nuovo seduto a tavola, in cima a due cuscini altrimenti non ci arrivava, il suo entusiasmo si esaurì improvvisamente: tornò la nostalgia per le sere di casa, quando suo padre accendeva tutt’intorno le lampade, colmando l’unica stanza di un tepore giallo nel quale Hansi si sentiva rassicurato. In quel cerchio di luce, le pareti di legno si animavano di bagliori, diffondendo l’aroma della resina e della minestra che frau Lise girava lenta sul focolare.
         Ricordava il conforto delle sere d’inverno, seduto sulla panca che girava attorno alla stube, la grande stufa bianca accovacciata al centro della stanza, come un pacifico animale a riposo. Una volta completata l’accensione delle lampade, e ricacciato il buio negli angoli del soffitto e sotto ai mobili, suo padre cavava dalla dispensa una forma di pane, e iniziava a tagliare grosse fette precise, che poi spettava ad Hansi sminuzzare in crostini e molliche nelle scodelle. A quel punto, frau Lise si avvicinava col tegame stretto da una presina, e con il volto attento e il cucchiaio di legno cominciava a versare quella minestra densa, corposa come la luce che l’avvolgeva alle spalle: uno scialle di luce si posava sulle spalle di Lise e Richard Wallemberg, li proteggeva dalle tenebre e dalle cose brutte che ci vivono dentro,  e che solo i bambini vedono.
         In piedi accanto al tavolo, stretti uno accanto all’altra nel chiarore piovigginoso della lampada, Hansi li rivedeva: la treccia di sua madre, come una coroncina ispida intorno alla testa, lasciava sfuggire piccole increspature. I capelli di suo padre avevano la scriminatura da una parte, come quelli di Arrigo. Eppure, i suoi genitori non gli erano mai sembrati così distanti: volti di cera immobile, come una vecchia foto dai bordi ingialliti. Abiti senza colore e senza nessuno dentro, e in testa capigliature di erba secca: simili agli spaventapasseri impalati nei campi che aveva attraversato durante il viaggio in treno, quand’erano scomparse a un tratto le montagne e la pianura aveva cominciato a distendersi, piatta e disabitata. Soltanto qualche spiga calpestata qua e là, dimenticata dopo la mietitura.
         I covoni legati come sagome tozze, accovacciate nel cielo bianco di sole.
         All’improvviso gli tornò in mente quella strana figura inchiodata che aveva visto nel laboratorio della Iolanda, e che era ancora là, nell’oscurità di quella stanza chiusa: quel pensiero gli si era annidato nella mente e non aveva mai smesso di essere presente, nella forma di un’irrequietezza dolorosa che pungeva la schiena. “Dev’essere così, la morte vista in faccia”, pensò Hansi, arrampicato sui cuscini come su un mucchio di spine, “con gli occhi spalancati che non vedono niente, e i capelli di paglia”. E ripensando ai suoi, a quel punto Hansi Wallemberg fu colto dall’angoscia: forse loro sono già morti, e io non posso saperlo.
         D’un tratto era sbiancato, in maniera talmente spettrale ed evidente che la Iolanda e Arrigo si fermarono l’una col mestolo a mezz’aria, e l’altro col coltello che misurava attento una fetta di pane. La donna di città e l’uomo in uniforme si fissarono perplessi, rifugiandosi l’uno negli occhi dell’altra. Sostarono un istante per prendere coraggio, poi scattarono subito, per correre ai ripari.
         La Iolanda, per prima, si levò dal suo posto e si avvicinò ad Hansi, facendo scorrere tra i suoi capelli una mano simile al tocco rassicurante di frau Lise. Hansi, però, che era sul punto di piangere e non voleva farlo, si rifugiò sotto al tavolo. Intervenne a quel punto Arrigo Drusiani, e seppe farlo nel mondo giusto:
         -“Ascolta”- disse ad Hansi, nella sua lingua natale, e con i suoni di casa sua. Non gli ordinò di mangiare, neppure di tornare a sedere composto. Semplicemente, “ascolta”: e lo calò immediatamente dentro a una storia. Appallottolando alcune molliche sulla tovaglia, approntando trincee arricciate di tovaglioli, reticolati di stuzzicadenti e grissini come pezzi di artiglieria, cominciò a raccontare: e Hansi si trovò trasportato di colpo dai luoghi tormentosi della sua nostalgia, alle battaglie avventurose sulla prima linea del fronte.
         Arrigo raccontava, e il bambino riemergeva, lento, da sotto il tavolo: e più che osservare il teatro delle ostilità approntato sulla tovaglia, scrutava attentamente gli occhi neri e avvincenti dell’uomo in uniforme, lasciandosi piano piano rassicurare, staccando ancor più lentamente l’anima dal timore, e immergendosi in quelle scene descritte con particolari così vivi, che pareva che stessero accadendo in quel momento: tutto questo serviva - ma ad intuirlo fu soltanto la Iolanda - non soltanto a distrarre il bambino dalle sue angosce, ma anche a sollevare Arrigo dalle proprie.
         Hansi fissava Arrigo intensamente negli occhi, e quello che domandava senza dire parole era: “Mi proteggerai? Come un soldato in guerra, mi guarderai le spalle?”. E dentro di sé sentiva sbocciare un’altra promessa: a sua volta avrebbe guardato le spalle ad Arrigo, a costo di affrontare quel manichino da sarta orribile della Iolanda a colpi di baionetta. Intanto, e senza accorgersene, aveva finito tutto il piatto di minestra, le polpette con il contorno di piselli, le fettine di mela che la Iolanda, scaltra almeno quanto lui era distratto, aveva provveduto a infilargli nel piatto. Era come se quei sapori facessero parte della battaglia.
         Dopo cena s’erano trasferiti in giardino, nella sera che lentamente prendeva il posto del caldo del giorno. Fu a quel punto che Arrigo, esaurito il repertorio di storie adatte ai bambini, con il supporto tattico dell’immaginazione, e di qualche vecchio libro rimasto nella memoria, scoprì il proprio talento di narratore: si meravigliò di se stesso per quell’estro inatteso e quella sera andò avanti a raccontare per ore, conquistandosi la devozione assoluta di Hansi Wallemberg.
         La Iolanda ed Arrigo, e il bambino tra loro, sedevano sul grande dondolo arrugginito, sopra ai cuscini gonfi del caldo del pomeriggio, protetti dalla siepe del gelsomino. Piccoli fiori bianchi versavano aromi in un filo di brezza, le ortensie azzurre e color carne della Iolanda succhiavano ombra da terra. E i racconti continuavano sottovoce, perché il cielo d’estate, tramontando a fatica in un lago di luce così simile al sangue, suggeriva il silenzio dello stupore. Sui muri delle case, che s’alzavano intorno al giardino già buio, quel bagliore evocava scenari d’incendi, traiettorie di pallottole e cortine di fuoco. L’umido delle aiuole evocava la terra affranta delle trincee.
         Finché ci fu luce sufficiente per lavorare, la Iolanda andò avanti con le riparazioni: c’era da sistemare l’imbottitura sbocconcellata di una bambola, rimodellare quel corpicino con l’ovatta, ricucire uno ad uno, con pazienza, gli strappi inferti da qualche bambino entusiasta. Non era molto contenta, la Iolanda, della piega avventurosa che aveva preso la serata. Temeva che suo marito e Hansi si contagiassero a vicenda: e che più tardi, in quella notte che stava per iniziare, e scivolava rapida come se avesse fretta di cader loro addosso, Arrigo Drusiani sarebbe stato catturato nel sonno dai suoi soliti incubi. Col risultato di confondersi la testa più del normale, e magari di spaventare anche il bambino. 
         Hansi, dal canto suo, pendeva dalle labbra dell’uomo in uniforme, e dagli occhi di lui, nei quali intuiva un’oscura preoccupazione. In quel momento provava un amore totale per quell’uomo dai tratti sereni e regolari, che non assomigliava per nulla a suo padre però glielo ricordava, che sorrideva ma aveva gli occhi pieni di ombre, che l’avrebbe protetto, ma sembrava richiedere a sua volta protezione. Uno strano sodalizio si stava instaurando tra l’uomo in uniforme e il figlio del soldato semplice Wallemberg: un’alleanza che trovò conferma nelle ore che seguirono, insieme ai più fondati timori della Iolanda.
******
Quando fu troppo buio per riuscire a vedere al di là del proprio naso, e il nugolo di zanzare che li aveva tormentati sin dalle prime ore era ormai diventato un esercito schierato, la Iolanda li spinse entrambi dentro casa. Mentre si coricava sulla vecchia branda da campo, Hansi tese le braccia all’uomo in uniforme, e con la solennità propria di un giuramento, gli rivelò il suo segreto: da grande farò il soldato, sussurrò buttando le braccia al collo di Arrigo, e aggrappandosi a lui proprio come a quel sogno. Avrebbero combattuto insieme per la Patria, adulti fianco a fianco, proprio come avevano fatto in quella sera di lunghe storie, in cui Hansi aveva avuto vent’anni come il tenente Drusiani, la stessa divisa addosso e un fucile vero. Ma in realtà, a parte i sogni, quel che voleva dire all’uomo in uniforme era semplicemente “non mi lasciare mai”.
         Di lì a breve, si ripeté lo schema della notte precedente: Hansi fece soltanto finta di addormentarsi, e non appena tacquero i rumori nella stanza, e i respiri iniziarono a farsi regolari, saltò giù dalla branda, correndo rapidissimo caso mai ci fosse in giro il manichino della Iolanda, pronto ad acchiapparlo e a farne un solo boccone. Si arrampicò in fretta e furia sul letto a baldacchino, urtando mille dolori e un alluce contro i bordi di legno massiccio: là si scavò una nicchia tra la schiena di Arrigo, che emergeva sul fianco simile a una montagna, e il ruscello della camicia da notte della Iolanda, la lunga treccia sciolta che si gonfiava sul cuscino, come un animale morbido.
         Arrigo e la Iolanda si riassestarono nel sonno, accogliendo l’intruso.
         Hansi si abbandonò contro la barriera difensiva della schiena di Arrigo, che si stagliava sopra di lui nell’oscurità, più solida e più consistente del buio. Malgrado il caldo torrido di quella notte estiva, si lasciò avvolgere dai capelli della Iolanda, che parevano dotati di vita propria, una forma d’intelligenza capace di allungarsi e coprire tutt’intera la magrezza di Hansi.
         Protetto dalla coltre della donna di città, non gli restava altro che prendere sonno. Eppure, di lì a poco, cominciò a rigirarsi nel letto: percepiva un senso di oscura eccitazione, come se intuisse che qualcosa stava per accadere.
         Le orecchie tese a cogliere il minimo rumore, Hansi ascoltava la notte attraversare in punta di piedi la stanza: lo scricchiolio dei grilli ed un filo di brezza muovevano le tende fragili alla finestra. Nella stanza si riversava una luce pallida, eppure dotata di una strana fosforescenza: simile a un palloncino da fiera appeso a un filo, s’impigliava tra gli alberi una luna rotonda, eppure inspiegabilmente aguzza.
         In lontananza, lo strepito di un’auto che traballava sul lastricato, il cigolio di un tram trascinato lontano. Il trotto più cadenzato di un carro, lungo strade che dall’estrema periferia si smarrivano nell’aperta campagna. Là il buio era simile a un pozzo senza fondo, pensò Hansi col compiacimento voluttuoso di chi vuol farsi paura da solo: e pensava alle lunghe notti delle sue valli, cupe come voragini. 
         Nel giardino, la luna continuava a passare appesa a un filo di foschia lattiginosa. D’un tratto si levò un vortice di vento: la foschia si addensò in un lampo contorto, che ruppe il cielo in due parti e rischiarò la stanza di una luce senz’ombre. Parevano fuggite tutte insieme, le ombre, verso il soffitto e sotto alla mole del letto a baldacchino. La Iolanda non si mosse, e non si mosse Arrigo - anche perché, in quel momento, la sua schiena alta e simile a una trincea protettiva non era più al suo posto. Hansi Wallemberg se ne accorse nel breve istante in cui un lampo illuminò la stanza, come in pieno giorno.
         Sorpreso, si levò a sedere nel letto, e proprio allora il tuono cadde con uno schianto. Rimbalzò contro i tronchi degli alberi in giardino, e una folata gelida lo mandò a rotolare proprio in mezzo alla stanza. Hansi era intimorito, non tanto per l’imperversare della tempesta: in montagna, i temporali erano ben più violenti, si schiantavano contro ai bastioni rocciosi e sulle teste dei boschi, rimbombando da un capo all’altro della valle e fin dentro allo stomaco; le folate di vento spogliavano i frutteti con un solo strattone, levavano il pelo ai prati e muggivano contro i muri delle case, ma poi tutto finiva appena faceva giorno. E di tutto quel tumulto fragoroso, restava solo un fruscio d’acqua nelle grondaie, e il verde nuovo dell’erba: gocce che risplendevano come corone in testa ai fiori dei campi, e ragnatele simili a collane di luce tra i filari ordinati dei meli rosa e gialli.
         Per vincere la paura dei lampi che rompevano il cielo come ferite, dei tuoni che precipitavano come valanghe, bastava ad Hansi Wallemberg non rimanere solo: in mancanza dei suoi, starsene rannicchiato tra Arrigo e la Iolanda poteva anche essere un’alternativa valida. Arrigo, però non c’era. La donna di città, pur immersa nel sonno, si era accorta del turbamento di Hansi, e l’aveva attirato a di sé per rassicurarlo:   
         -“Non preoccuparti” - aveva sussurrato, con il tono di voce un poco stuporoso di chi parla nel sonno - è il diavolo in carrozza, che porta a spasso sua moglie”-
         Se Hansi Wallemberg avesse capito l’italiano, forse avrebbe pensato che il tenente Drusiani se n’era andato anche lui a spasso, tuonando e sotto l’acqua. Ma siccome al bambino arrivò solo un bisbiglio, e per di più era convinto che l’uomo in uniforme si fosse allontanato già da un bel po’di tempo, per non far preoccupare la donna di città, e per non rimanere lui stesso nell’angoscia, decise di affrontare un terrore più grande: scivolò quindi fuori dal letto a baldacchino, e si avventurò scalzo nel corridoio, colonna vertebrale di tutte le stanze e di tutti i possibili pericoli. Sfidando la paura di trovarsi a faccia a faccia col manichino della Iolanda, s’incamminò portando con sé il ritratto in cornice, soltanto per avere qualcosa a cui stringersi. Male che andasse, poteva sempre romperlo in testa a qualche spettro. Nel corridoio, l’umidità era tale che aveva l’impressione di camminare in una palude.
         Al suo paese, in Germania, in una radura isolata c’era un lago d’acqua morta: uno specchio nero e immobile che in paese si diceva profondo fino all’inferno, e capace di sciogliere, per il grado di acidità dei suoi componenti, la carcassa di un cavallo nello spazio d’un giorno. Si trattava, in realtà, di un sito vulcanico: l’apparenza dell’acqua era fuligginosa per via della roccia lavica, e un’insolita concentrazione salina la rendeva completamente priva di vita. L’atmosfera del luogo era così mortifera da diventare silenzio: intorno al lago regnava la più totale assenza di rumori e di voci, non si udiva neppure il verso di un uccello, o il fruscio frettoloso di qualche animale del bosco. Neppure gli insetti si levavano in volo su quella superficie amorfa e senza riflesso.
         C’erano dappertutto solo erbe infestanti, canne palustri dai colori velenosi. Piante mai viste altrove che si aggrappavano alle caviglie degli incauti, come per trascinarli a morire sul fondo di quelle acque viscose.
         Di storie su quel posto ne giravano tante, tutte raccapriccianti. E siccome era un luogo evitato dagli uomini e scansato anche dalle bestie, chi voleva ammazzarsi ci andava volentieri: ultimamente, quelli ch’erano ritornati dopo aver perso in guerra la testa e la parola, ci capitavano spesso, e non tornavano più indietro. Le acque si chiudevano sulle loro teste stanche, e dopo continuavano a ribollire per giorni.
         Quel posto era a due giorni di treno da lì, pensava Hansi Wallemberg, forse anche più distante: eppure, aveva proprio la netta sensazione di stare camminando sul filo di quelle sponde, e che strane piante acquatiche, dalle lunghe braccia flaccide, s’avvolgessero strette attorno alle sue caviglie, per non lasciarlo più andare.
         In realtà, erano solo spifferi che passavano a tutta velocità sotto alle porte, o da qualche finestra dimenticata aperta. Hansi cercava di non pensare al manichino della Iolanda, all’effetto che avrebbero fatto quegli occhi vacui illuminati dallo spettro di un lampo. Cercava di non pensarci, e intanto ci pensava.      
         Quando infine trovò Arrigo Drusiani in fondo al corridoio, in piedi e con il viso stranamente impassibile di fronte al portone di casa, ad Hansi non sembrò vero di poterlo raggiungere e di aggrapparsi a lui, con tutte le sue forze. Quello che lo sorprese, fu accorgersi che Arrigo era perso in un altro mondo: i suoi occhi erano neri e larghi come il lago dalle acque morte, le ciglia spalancate come, attorno alle sponde, i boschetti irti di canne. Più precisamente, sembrava che stesse fissando davanti a sé qualcosa di assolutamente terrificante.
         Inseguendo ciò che lui solo vedeva, Arrigo si scrollò di dosso Hansi Wallemberg con un passo soltanto, infilò il portone di casa, uscì nell’infuriare a capofitto del temporale. Ad Hansi parve strano vederlo uscire così, senza nessun riparo, ma Arrigo varcò l’uscio incurante di tutto, e il bambino non poté far altro che seguirlo.
         Il suo comportamento era così bizzarro, che non c’erano dubbi: il tenente Drusiani camminava nel sonno, forse stava sognando di trovarsi in prima linea, e a meno che Hansi Wallemberg non si mettesse a scuoterlo di proposito, non l’avrebbero destato neanche le cannonate. Non quelle della sua battaglia immaginaria, e tanto meno gli echi di un temporale d’estate. La cosa più sinistra è che dormiva con le palpebre leggermente dischiuse, quasi con gli occhi aperti: le sue lunghe ciglia subito si coprirono di goccioline leggere. Se fosse stato sveglio forse avrebbe tremato, pensando che solo ai morti piove l’acqua negli occhi.
         In breve, si trovarono fradici e alluvionati in mezzo alla strada, nel punto in cui dalla casa Silvestri - così era conosciuta in tutto il vicinato la casa della Iolanda - si arrivava sulla via principale. In quel quartiere che all’epoca non era più città, e non ancora campagna, l’illuminazione pubblica era ancora parziale, e i sistemi di scolo ancora improvvisati: la strada, in quel momento, era così allagata che le pietre del lastricato scintillavano come rocce di un fiume in piena. Detriti di ogni genere, ramoscelli e fogliame portati alla deriva dal nubifragio, correvano a precipizio al posto dei birocci e dei tram, delle rare automobili che in pieno giorno ruzzolavano sul selciato. Mentre il temporale si stava allontanando, rotolando via gli ultimi tuoni, ad Hansi pareva di trovarsi nei pressi di quel lago dei morti, vicino al suo paese.
         Istintivamente, come per sottrarlo a un pericolo, prese per mano Arrigo. L’unico pensiero che in quel momento occupava la mente di Hansi, ancor prima del timore, era che avrebbe fatto di tutto per impedire a quell’uomo di abbandonarlo, come aveva fatto suo padre. Dietro di loro, la casa Silvestri spiccava nel buio: le finestre sembravano illuminate a giorno, come se all’interno fosse in corso una festa, in un tripudio di lampade e candelieri accesi.
         Probabilmente sono io che me lo immagino, pensò Hansi stringendo Arrigo con decisione. E tirandolo a sé piano per non destarlo, incominciò a guidarlo seguendo quel richiamo: finché non venne loro incontro la Iolanda che risplendeva come le luci della sua casa, fradicia anche lei, con i capelli sciolti come corde di pioggia.
         Più tardi, mentre Arrigo si stendeva di nuovo sul letto a baldacchino, e la Iolanda trafficava negli armadi cercando roba pulita, e poi in cucina a riscaldare un po’ di latte per conciliare il sonno a tutta la famiglia, Hansi si strinse forte all’uomo in uniforme:
         -“Volevi andare via?”- gli domandò soltanto.
         -“Io non andrò mai via. Ho soltanto sognato d’essere in un altro posto”- ancora un  po’ scosso, Arrigo passò una mano tra i capelli di Hansi, come per portar via il bagnato e la paura. Hansi gli buttò al collo le braccia lunghe e magre, ma ben determinate:
         -“Non te ne devi andare. Io non voglio, e verrò a cercarti in qualunque posto”- e parlava pensando anche a Richard Wallemberg, e a come, in quel caso, non era riuscito a impedirgli di andarsene. Fu allora che si ricordò del ritratto, che aveva trascinato con sé sotto alla pioggia: la cornice era intatta, il nastro con la medaglia sempre più inzaccherato, ma il guaio era che l’acqua era passata sotto, e in quantità tale da deturpare la foto in modo irrimediabile. La stampa su cartoncino s’era quasi sciolta, e una piccola pozza s’era rappresa sul viso un po’ altezzoso e senza sorriso di Richard Wallemberg, mischiando il bianco e nero e riducendo il tutto a una poltiglia senza più forma.
         Hansi stringeva la cornice senza parole, mentre pensava che la foto di suo padre aveva fatto la stessa fine dei tanti che s’erano buttati nel lago dalle acque acide.
         Con cautela, le lunghe dita della donna di città riuscirono a estrarre la carta frolla e fragile, e ad appendere con due mollette quel viso altero per farlo asciugare. Arrigo aggiunse due mollette per contrappeso, perché non s’arricciasse in una smorfia ancora più odiosa di quella che il militare aveva per conto suo, e che al tenente Drusiani non andava a genio per nulla: ma questo ad Hansi Wallemberg non l’avrebbe mai detto, né allora né mai.
         Hansi non fece parola dello sconvolgimento che provava all’idea di smarrire anche l’ultima traccia di Richard Wallemberg: quella fotografia neanche troppo recente era ridotta a una macchia, senza più somiglianze di occhi e di sguardi. La cosa più terribile era che se voleva recuperare i lineamenti di suo padre, ora poteva solo cercarli in qualche luogo incerto della memoria: e anche là, quel volto in bianco e nero era ormai sbiadito dal tempo, dai molti fatti avvenuti, da una dimenticanza che ad Hansi pareva grave, ma era inevitabile.
         Nel tempo che rimase di quella lunga notte, Hansi sognò suo padre: se lo vide davanti mentre rientrava nella loro casa al paese, simile a una folata di vento e di pioggia che aveva d’improvviso annullato il tepore familiare della stube. Penetrato da un gelo improvviso dell’anima, Hansi era rabbrividito. Guardando in faccia Richard Wallemberg, l’aveva visto com’era in quella foto fradicia, con gli occhi in poltiglia proprio come, al villaggio, la gente immaginava gli annegati del lago, quelli che non si riusciva mai a ripescare perché in quell’acqua caustica subito si disfavano. Dibattendosi contro l’oscurità di quella visione, Hansi Wallemberg si destò di soprassalto, scoppiando in lacrime contro il petto di Arrigo.
         Arrigo e la Iolanda erano troppo esausti, per ridestarsi nuovamente in quella notte che pareva non aver fine: ma l’uomo in uniforme, istintivamente, sentì Hansi agitarsi, e forse anche un singhiozzo arrivò fino alle profondità del suo sonno. Abituato com’era, in trincea, a dormire restando sveglio, senza muoversi né destarsi aprì le braccia ad Hansi, e gliele chiuse intorno. Dopo lunghi minuti trascorsi con gli occhi spalancati nel buio, Hansi si addormentò lasciandosi cullare dal tepore di Arrigo, dal ritmo di quel cuore sopra cui riposava, regolare e tranquillo.
 

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