Everybody hurts di Sunako_7 (/viewuser.php?uid=1009090)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 - Orizzonte ***
Capitolo 2: *** 2 - Finalmente ti vedo per quel che sei ***
Capitolo 3: *** 3 - Quello che c'è al di là ***
Capitolo 4: *** 4 - Reach out and touch faith ***
Capitolo 5: *** 5 - L’amore non perdona ***
Capitolo 6: *** 6 - The night we met ***
Capitolo 7: *** 7 - La giusta decisione ***
Capitolo 8: *** 8 - Red bird ***
Capitolo 9: *** 9 - Christmas’s magic ***
Capitolo 10: *** 10 - Un fratello è quel legame che non potrai mai spezzare, non importa quanto ci provi ***
Capitolo 11: *** 11 - Cose vecchie, cose nuove ***
Capitolo 12: *** 12 - It started out with a kiss ***
Capitolo 13: *** 13 - Il silenzio non è sempre d’oro ***
Capitolo 14: *** 14 - La cioccolata, come le paure, non si lava via con l’acqua, ma per tutto c’è un rimedio ***
Capitolo 15: *** 15 - Sei il sale sulle mie ferite, eppure non riesco a smettere ***
Capitolo 16: *** 16 - Baby can I hold you tonight ***
Capitolo 17: *** 17 - Oh Darling, what have I done ***
Capitolo 1 *** 1 - Orizzonte ***
everybody 1
Orizzonte
“Che
ci fai lì seduto? Dai vieni!”
“Dai,
siamo tutti insieme, qui ci divertiamo.”
“Non
stare da solo, non serve, qui ridiamo tutti insieme.”
“Hanno
ragione, dai!”
Il
ragazzo guardò la mano entrata nel suo campo visivo e non
seppe
bene cosa fare. Alle sue narici arrivò anche
l’odore caldo di
quella pelle, sapeva di buono, di qualcosa di confortante che avrebbe
offerto riparo e comprensione. Alzò gli occhi chiari, deciso
ad
accettarla e sollevarsi, ma la sua voce lo freddò.
“No,
lui no, non ancora.”
Era
la sua
voce, non la udiva da anni, ma l’avrebbe riconosciuta ovunque.
La
mano scomparve e l’odore divenne acre, marcescente, come di
fiori
lasciati a imputridire, dimenticati in un vaso di cristallo. Alle sue
orecchie arrivò una musica distante, le parole erano
distorte, come
se la radio non fosse sintonizzata bene sulla frequenza giusta.
I
am not the only traveler who has not repaid his debt
I've been
searching for a trail to follow again
Sì,
doveva trovare una nuova strada, il percorso giusto, ma
dov’era?
Lui non riusciva a vederlo. Non era il solo peccatore a calcare le
strade, ma in quel momento lo era, era da solo. C’era il
vuoto attorno
a sé, nessuna mano tesa, nessun viso, niente, solo il vuoto
e la
polvere che volteggiava prima di depositarsi sulle cose e su chi
era rimasto immobile.
Come lui.
Gaara
si svegliò quasi di soprassalto. Spalancò gli
occhi, con il
rimbombo del cuore nelle orecchie e in gola. Era stato solo uno
stupido sogno, ma come tutti i sogni era sembrato tanto più
vivido e
lucido della realtà. Provava un senso di oppressione al
petto al
ricordo di quella mano tesa, scacciata dalla sua voce che gli
aveva
impedito di afferrarla. Eppure, contradditoriamente, era stato felice
di udire quella voce,
perché oramai era presente solo nei propri ricordi, non
aveva altro
modo per sentirla.
Un
mugolio provenne dal suo fianco e lui si voltò a guardare la
persona
che ancora dormiva nel suo letto.
Sospirò piano, decidendosi a scendere e
raccattare qualche vestito. Aveva intenzione di andare a fare una
doccia e poi di mettere sotto i denti qualcosa; era appena
l’alba ma riposare ancora era fuori discussione,
inoltre non voleva svegliare il suo ospite e avere a che fare col suo
caratteraccio, non con quel malumore che il sogno gli aveva messo
addosso.
Dopo
una doccia, con una tazza di the caldo in mano e un piatto con dei
toast davanti, la giornata appariva sotto un’altra luce.
Gaara
si stava godendo la propria colazione con calma, immerso nella quiete
e in compagnia del suo lettore di e-book, quando sentì la
porta
d’ingresso aprirsi e richiudersi con un tonfo poco delicato.
I
passi in avvicinamento stavano sancendo la fine del silenzio.
“Cazzo
fai già in piedi? O il tuo ospite non ti ha fatto dormire
affatto? –
una risata – Ho visto un altro cappotto
all’ingresso.”
Gaara
osservò Hidan, il suo coinquilino lasciarsi cadere sulla
sedia a
fianco alla propria, ancora col riso sulle labbra.
“Ho
dormito, ma mi sono svegliato presto – spiegò
pazientemente,
spegnendo l’e-reader – tu piuttosto rientri solo
adesso. Nottata
impegnativa?” domandò osservandolo servirsi dei
toast sul tavolo.
“Puoi
dirlo forte! Con Deidara abbiamo rimorchiato un tizio fuori di testa
e abbiamo fatto roba tutti assieme, sono distrutto! È stato
un
sabato sera col botto, ora ho intenzione di dormire almeno fino a
oggi pomeriggio!” esclamò con la bocca piena,
bevendo anche il
the di Gaara.
Hidan
era fatto così: senza filtri. Parlava senza preoccuparsi di
filtrare
quello che gli passava per la testa e le sue maniere andavano di pari
passo; Gaara oramai ci aveva fatto l’abitudine dopo tutti gli
anni
di conoscenza e convivenza che li univano. In realtà non gli
dispiaceva nemmeno del tutto, era un bel contrasto col proprio
carattere riservato e schivo, anzi ad essere sinceri, doveva parecchio
a
quell’uomo irruento che si stava finendo la sua colazione.
“Bene,
sono felice che tu e Deidara abbiate passato un bel sabato sera,
anche se quel tipo doveva essere quasi da ricovero psichiatrico se tu
stesso l’hai definito fuori di testa” rispose
pacato,
strappandogli però di mano l’ultimo toast.
Hidan
fece un sorriso storto, con gli occhi viola scintillanti di
divertimento per poi passare un braccio attorno alle spalle di Gaara
e tirarselo vicino. Il viso pieno di briciole, l’espressione
sorniona e quel gesto affettuoso non riuscivano però a
cancellare
del tutto l’ombra spietata e affilata caratteristica del suo
carattere, ma che il ragazzo riservava al mondo esterno, degno di
ricevere tutto il suo disprezzo e la sua crudeltà. Tra le
mura
di
casa e con le pochissime persone a cui si era legato, le cose erano
un po’ differenti.
“Credo
che nemmeno tu possa lamentarti della tua serata –
affermò ironico
– ultimamente stai vedendo quel tipo un po’
più spesso o
sbaglio?”
Gaara
sorrise, lasciandolo fare e finendo di mangiare il toast prima di
rispondere:
“Mica
mi sono lamentato infatti – precisò –
sì, nell’ultimo mese ci
siamo visti più di frequente, è un problema se si
ferma anche a
dormire?”
Era
iniziato per caso: una sera il suo partner si era semplicemente
addormentato, troppo stanco per rivestirsi e andarsene come al
solito. Da quella volta in poi si era sempre fermato spontaneamente,
senza drammi o discorsoni, non funzionava così tra di loro;
semplicemente era apparso evidente agli occhi di entrambi quanto la
cosa fosse più conveniente. Nessun rischio di incidenti nel
mezzo
della notte per un colpo di sonno, la possibilità di bere
senza
porsi qualche limite, e poi il letto a una piazza e mezza di Gaara
era sufficientemente comodo per entrambi.
“Sai
che cazzo me ne frega! Fa’ come ti pare, come se ti avessi
mai
chiesto il permesso per far dormire Deidara qui – rise Hidan
lasciandolo andare – ero solo curioso. Non era mai successo
prima,
anzi penso di poter dire che questa è la tua relazione
più lunga…
o trombamicizia, o come diavolo vuoi chiamarla.”
Gaara
inclinò il collo su un lato, riflessivo; era vero, dopo
quasi
quattro mesi continuavano a vedersi seppur senza nessuna
regolarità
o obbligo tra di loro.
“Hai
ragione, ma non c’è molto oltre a
questo… non credo almeno. Non
saprei come definire questa cosa.”
Hidan
gli batté una mano su una spalla e si alzò in
piedi:
“Che
te ne fotte? Finché ti dà il culo va bene. Vado a
dormire, a più
tardi.”
Gaara
si ritrovò a concordare solo in parte col suo coinquilino:
normalmente non si
faceva domande, prendeva quello che veniva, però quella
volta le
cose iniziavano a sembrargli un po’ diverse. In fondo nessun
altro
aveva mai dormito nel suo letto.
***
Sasuke
entrò in cucina con solo una maglietta e dei boxer a
coprirlo,
andando verso la caffettiera elettrica per metterla in funzione senza
bisogno di aiuto. Aveva imparato a muoversi in quella casa e la
faccenda, in quella tarda mattinata domenicale, non gli fece
squillare nessun campanello d’allarme nella testa. Qualsiasi
cosa
poteva attendere la sua razione giornaliera di caffeina.
Con
una tazza fumante, si sedette di fronte a Gaara che stava leggendo e
con cui si era scambiato solo un cenno. Continuarono a rimanere in
silenzio per qualche altro minuto, ma quando Sasuke arrivò
quasi alla fine del caffè, si sentì dire:
“Non
sapevo se dovevo svegliarti o meno come altre volte, quindi ti ho
lasciato riposare. Tra l’altro mi eri sembrato un
po’ stanco
ieri.”
Sasuke
si trovò a guardare quegli occhi acquamarina sconcertanti,
che a
volte lo facevano dubitare della propria sanità mentale, per
tutto
quello che di nuovo si era ritrovato a fare in quegli ultimi mesi.
Si
rigirò in bocca l'ultimo sorso della bevanda rigorosamente
nera e senza
zucchero prima di rispondere:
“Va
bene così. Oggi non ho niente in programma, avevo bisogno di
una
giornata libera – un istante di riflessione – in
effetti avrei
dovuto avvisarti.”
Sembrava
che avesse fatto una gran fatica ad affermare quella sua mancanza, e
la realtà era proprio quella. Solitamente si sarebbe
tagliato la
lingua piuttosto che ammettere un errore o una distrazione, ma in
quei mesi con Gaara aveva imparato a farlo ogni tanto. In
realtà
entrambi facevano delle piccole concessioni all'altro, erano stati
costretti entrambi dalle circostanze: quello oppure si sarebbero
saltati alla gola.
Non
parlavano molto, al di fuori dello stretto necessario per prendere
accordi su dove e quando incontrarsi non si sentivano nemmeno al
telefono. Poi una sera si ritrovavano a bere qualcosa al bar dove si
erano conosciuti e inevitabilmente dopo finivano a scopare a casa di
Gaara, esattamente come la prima sera.
In
quei quattro mesi però qualcosa era cambiato, il suo
fermarsi a
dormire era solo il fatto più evidente, c’era
anche la maggiore
frequenza con cui si vedevano, le rare chiacchiere futili che si
scambiavano e il bisogno di non schermarsi più. Quando erano
insieme
potevano far cadere le armature che li rivestivano, Gaara gli
permetteva addirittura di carezzarlo.
Intanto
proprio questi sorrise, ironico, perché la frase di Sasuke
era
quanto di più simile alle scuse che esistesse, e sapeva bene
lo
sforzo che c’era dietro.
“Beh,
ieri sera non è che tu abbia parlato molto in
effetti” lo
punzecchiò.
Sasuke
strinse più forte il manico della tazza, irritato,
perché in
effetti la sera prima non erano nemmeno andati a bere, semplicemente
era entrato nell’appartamento, aveva baciato Gaara e si era
fatto
scopare quasi a sangue. Sì, aveva decisamente qualche
problema col
suo equilibrio e la sanità mentale.
Gaara
non gli diede tempo di replicare perché, vedendo il suo
disagio, si
premurò di ammorbidirlo, non aveva voglia di litigare o
passare il
tempo a vomitarsi addosso acidità, anche se succedeva anche
quello
tra di loro.
“Mi
sono accorto che stai attraversando un periodo stressante, che
succede? Puoi parlarmene se vuoi.”
O
puoi anche stare zitto e continuare semplicemente a chiamarmi
più
spesso per sfogarti, la scelta è tua, io sono solo qui e non
giudico.
Sasuke
lesse tra le righe e forse la cosa gli diede ancora più
fastidio.
Perché, accidenti, da quando in qua lui riusciva a capire i
sottintesi degli altri, e da quando qualcuno che non fosse Naruto
riusciva a vedere i suoi? Quegli occhi chiari erano troppo penetranti
e destabilizzanti, rifletté.
Posò
la tazza vuota sul tavolo e poggiò un piede scalzo sul
cuscino della
sedia, mentre l’altro rimaneva a terra. Si voltò a
guardare il
panorama fuori dalla finestra, qualche sparuto albero frustato dal
vento e immerso in una distesa di cemento. Osservò i rami
nudi che si
muovevano scompostamente e pensò che, quando sarebbe uscito,
forse non
sarebbe bastato il cappotto a difenderlo dal freddo pungente. In
quella cucina poteva permettersi invece il lusso di stare in mutande
e maglietta senza gelare, protetto, al sicuro.
“Tra
dieci giorni, mercoledì per l’esattezza, mi
laureo. Sono stato in
tensione per questo, la mia tesi era complicata, ho litigato col
relatore più di una volta e ovviamente non posso prendere
meno della
votazione massima. Mio padre non me lo perdonerebbe –
raccontò –
niente che non potessi gestire, naturalmente, ma ho avuto da fare.
Adesso dovrebbe essere tutto pronto, devo solo aspettare
mercoledì e
ripetere per bene il mio discorso” concluse.
Gaara
aveva ascoltato sorpreso quello sfogo, non si aspettava sul serio che
Sasuke raccogliesse il suo invito. Evidentemente doveva essere sotto
pressione ben più di quanto avesse dimostrato,
oppure… con lui si sentiva libero di parlare. Tuttavia
quest’ultima ipotesi venne
accantonata, perché apriva un ventaglio di
possibilità troppo
ampio.
Gaara
non rispose subito, era stato colto alla sprovvista da quel discorso,
inoltre si trattava di qualcosa di cui aveva solo una minima
conoscenza.
E Sasuke aveva una famiglia, con un padre molto severo, ma…
lo
aveva perlomeno.
“Prenderai
il massimo, naturalmente” replicò, asciutto.
“Naturalmente”
ribatté Sasuke, con una punta
d’acidità. Altri risultati non
erano nemmeno da prendere in considerazione come possibili.
“In
cosa ti laurei?” domandò Gaara, moderatamente
curioso. Sapeva che
l’altro era una studente, a differenza sua, ma non avevano
mai
parlato delle rispettive occupazioni.
Dal
loro scambio di battute venne fuori che Sasuke si sarebbe laureato in
architettura, alle 14 nell’aula magna della prima
università della
città, portando come argomento una complessa trattazione
sull’urbanismo, nuovi materiali e un impatto più
ecologico.
Gaara
ne rimase impressionato e affascinato: lui era scappato dalla sua
famiglia adottiva a sedici anni, quando avevano scoperto ciò
che
succedeva tra lui e suo fratello Kankuro.
Aveva
scongiurato in quel modo che li rispedissero in orfanotrofio,
permettendo almeno al fratello di sfruttare le agevolazioni che una
famiglia poteva offrire. In fondo era sempre stato Kankuro quello che
piaceva di più, quello che riusciva a mettere su una
maschera per
risultare gradevole, non Gaara col suo cipiglio scontroso e la sua
scarsa loquacità. Dopo la sua fuga, aveva mentito
sull’età e si
era arrangiato con lavoro in nero, accantonando ovviamente gli studi,
in quel modo era rimasto anche fuori dai radar dei servizi sociali.
Aveva abitato in topaie, gli unici posti che potesse permettersi con
la paga che riceveva, risparmiando su ogni centesimo. Con la maggiore
età era riuscito a trovare occupazioni più
dignitose, aveva
incontrato anche persone che lo avevano aiutato, come Hidan, ed era
riuscito a prendere il diploma frequentando le scuole serali pur
continuando a lavorare. Ora a ventitré anni si ritrovava
segretario
in uno studio legale e col sogno, nemmeno troppo segreto, di diventare
a sua volta avvocato.
Si
era iscritto come studente lavoratore alla facoltà di
giurisprudenza
solo da pochissimo, ancora non aveva dato nessun esame, né
aveva
potuto frequentare le lezioni per via del lavoro, ma stava
già
studiando. E sentire parlare Sasuke di università, di laurea
e di
quella vita spensierata da studente che non avrebbe mai avuto era
affascinante; da quei racconti scarni riusciva a immaginare come
sarebbe potuta essere anche per lui.
Avrebbe
voluto fargli domande, ascoltarlo parlare per ore, ma non chiese
nulla, né mostrò l’entusiasmo che in
realtà lo stava divorando,
bensì ascoltò col viso impassibile quel poco che
Sasuke si lasciò
sfuggire.
“Non
sono mai stato a una laurea” commentò solamente,
alla fine.
Sasuke
sollevò un sopracciglio, sorpreso da
quell’affermazione.
Chiuso
com’era nel proprio ambiente, non riusciva a concepire che
qualcuno
potesse avere uno stile di vita diverso e quell’affermazione
invece
gli sbatteva in faccia quella realtà. Esistevano davvero
persone
che non avevano genitori soffocanti, che non dovevano sempre apparire
perfette, ma potevano anche commettere errori, essere rilassati,
inseguire i propri sogni e desideri senza alcuna costrizione. Da non
credersi, quasi.
“No?
Nessuno dei tuoi amici si è laureato?”
“No,
nessuno” rispose Gaara, riflettendo che non ne aveva poi
così
tanti di amici, più che altro conoscenti.
Sasuke
si alzò per posare la tazza nel lavandino, dicendo in tono
leggero:
“Beh,
da adesso in poi potrai dire di conoscere un laureato.”
Buttò
quella frase lì, tanto per rispondere, senza pensare al
reale
significato di quelle parole o di come Gaara avrebbe potuto
interpretarle. Come al solito non si curava poi troppo di
ciò che
provavano gli altri, concentrato su se stesso e i propri bisogni,
incapace di empatizzare.
Si
portò alle spalle di Gaara e si chinò a baciargli
il collo:
“Ho
ancora qualche ora libera.”
Quello
lo disse con più attenzione, gli interessava sul serio la
reazione
del ragazzo, perché questo avrebbe decretato o meno la
soddisfazione
dei propri bisogni. E Sasuke, nei suoi ventidue anni di vita, era
inesperto su molte cose, capiva poco di se stesso e ancora meno degli
altri, ma aveva ben chiaro cosa voleva e come fare per ottenerlo.
L'angolino
oscuro:
Avevo detto che sarei tornata ed eccomi qui, stavolta niente one-shot
bensì una long *lancia coriandoli* nemmeno io credevo che da
sola sarei mai riuscita a portarla avanti, sono decisamente sorpresa ma
il merito non è solo mio, bensì di Fra aka
Happy_Pumpkin
la mia fedele zucchetta che mi sopporta oramai da più di
nove
anni. Se questa storia sta venendo pubblicata è solo grazie
a
lei, ai suoi incoraggiamenti costanti, alla pazienza di fronte ai miei
dubbi, gli scleri sull'IC, sullo stile, su *inserire argomento random*.
Insomma, mi è stata vicino e grazie alle discussioni con lei
le
mie idee si chiarivano e riuscivo ad andare avanti, quindi questa
fanfiction è interamente dedicata a lei e ho deciso di
pubblicarla proprio oggi per il giorno del suo fantameraviglioso
compleanno, surprise! *O*
Parlando di altro, questa fanfiction altro non è che il
seguito della mia one-shot If
I had a heart
non è obbligatorio leggerla per poter seguire questa long,
ma di
sicuro alcuni particolari risulteranno più chiari. La storia
riprende all'incirca quattro mesi dopo la conclusione della one-shot,
Sasuke e Gaara hanno continuato a frequentarsi, ma hanno un dialogo
quasi inesistente, ogni tanto si aprono, si lasciano sfuggire qualcosa
su loro stessi, ma nonostante i loro silenzi la relazione è
andata avanti. Sasuke si ferma addirittura a dormire e Gaara gli
permette di carezzarlo, cosa che invece normalmente non riesce a
tollerare, eppure tutto ciò basterà per
permettergli di
andare avanti? Questo lo scoprirete leggendo XD
La mia storia tratterà anche lo spinoso argomento
dell'incest,
in questo caso tra Gaara e Kankuro, lo andremo a sviscerare
più
approfonditamente mentre nella one-shot lo avevo appena accennato senza
dedicargli molto spazio. E' un argomento che mi affascina, in effetti
amo anche l'Uchihacest, e spero di essere stata all'altezza di temi
tanto delicati, ma ne parleremo meglio nei capitoli successivi. Per il
momento abbiamo questo breve prologo che ci offre una panoramica
generale della situazione, della vita dei nostri protagnisti ma
successivamente la storia si arricchirà di altri personaggi.
Tra
l'altro adoro Hidan e trovo che con Gaara funzionino maledettamente
bene *O*
La storia è quasi interamente scritta, quindi gli
aggiornamenti
saranno abbastanza regolari e ravvicinati e di certo la
concluderò, non la lascerò a metà, non
temete! Il
titolo della fanfiction Everybody
hurts
è lo stesso di una canzone dei R.E.M. sono una loro fan e
quindi
la conoscevo già, ma qualche tempo fa l'ho ascoltata e ho
avuto
un flash, mi sono detta: "E' lei! E' perfetta per la mia storia" e
già questo vi dovrebbe far capire qualcosa su come andranno
le
cose qui, angst e drammoni a manetta XD
Le due frasi in corsivo nel sogno sono invece della canzone The night we met
di Lord Huron ed è la canzone che mi ha fatto venire in
mente
come poter scrivere questa long, l'ho ascoltata a ripetizione per ore
mentre scrivevo, sì mi fisso leggermente sulle
cose XD
Il titolo del capitolo invece vuole richiamare ciò che gli
occhi
dei due protagonisti vedono, il limite oltre il quale i loro sguardi si
bloccano. Però anche se c'è il sole che nasce e
tramonta
sulla linea dell'orizzonte, che acceca, non è detto che al
di
là non ci sia nulla e che sia impossibile oltrepassarlo, ma
al
momento loro non vedono nient'altro.
Detto ciò, ho parlato un sacco e penso anche a sproposito
quindi
mi dileguo e mi auguro di riuscire a trasmettervi qualcosa e che
vogliate lasciarmi una recensione, rendendomi partecipe dei vostri
pensieri e riflessioni sulla storia, alla prossima!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** 2 - Finalmente ti vedo per quel che sei ***
every 2
Finalmente ti vedo per quel che
sei
Gaara
rimase fermo davanti al portone a rovistare nello zaino: aveva bisogno
delle
chiavi, ma ovviamente in mezzo a quel caos non le trovava. Era pieno di
fascicoli del lavoro, un paio di libri e quaderni
dell’università su cui aveva
studiato durante la pausa pranzo, più fili delle cuffiette,
carte varie,
scontrini e, solo sul fondo, riuscì a trovare ciò
che cercava. Rifletté che aveva
proprio bisogno di dargli una sistemata, ma in quell’ultima
settimana non aveva
avuto quasi tempo di respirare. Nello
studio di avvocati dove faceva il segretario tuttofare, il lavoro era
aumentato
e tutto il suo tempo libero lo passava studiando.
Mentre l’ascensore saliva,
pensò che gli sarebbe proprio piaciuto avere una vita
normale,
potersi
permettere di fare lo studente a tempo pieno, tornare a casa e trovare
una
madre con la cena pronta, la camera rassettata, i vestiti puliti, il
fratello con cui avrebbe visto la TV dopo cena. Già, il
fratello…
Uscendo dall'ascensore, si
lasciò alle spalle quei pensieri inutili, avanzando con le
spalle dritte e il
passo elastico lungo lo stretto corridoio, perché doveva
andare avanti senza
fermarsi a perdere tempo su fantasie irrealizzabili.
Entrò
nell’appartamento lasciando cappotto e zaino
all’ingresso, per poi dirigersi
verso la cucina dove trovò Deidara che si abbottonava i
pantaloni e Hidan che
si stava infilando la maglia. Decisamente erano ben diversi da una
madre
premurosa con un succulento arrosto.
“Andare
in camera è diventato noioso? Posso mangiare liberamente o
qualcosa è stato
contaminato?” domandò Gaara, pungente.
“Rompicoglioni
– borbottò Hidan – quando ti prende la
voglia chi se ne frega del luogo. E la
cena è al sicuro in forno.”
Gaara
rimase sorpreso da quell’affermazione. Era raro che si
trovassero a cenare
insieme, gli altri due facevano i barman in locali diversi,
evidentemente
doveva essere la serata libera di entrambi e c’era anche del
cibo da
condividere. Sicuramente qualcosa di semplice, Hidan non era un cuoco
sopraffino, ma a Gaara non importava e quella serata gli apparve
migliore di quanto aveva pensato solo cinque minuti prima.
Mentre
apparecchiavano, pensò che quei due stavano insieme da
parecchio, avevano una
relazione particolare, piuttosto aperta e libera; col carattere che
entrambi si
ritrovavano una qualsiasi altra opzione li avrebbe portati a lasciarsi
molto
tempo prima… o a uccidersi. Non era un’alternativa
da scartare.
“Allora,
come va con quel tipo… Sasuke, giusto? –
domandò Deidara mentre mangiavano –
Ultimamente vi ho visti più spesso.”
Si
davano sempre appuntamento al locale in cui si erano conosciuti e in
cui
Deidara lavorava, così che il biondo barman aveva avuto
occasione di vederli
più di una volta.
“Bene,
credo. In effetti, ci stiamo vedendo un po’ più
spesso, anche se in questi ultimi giorni
è piuttosto impegnato.”
Deidara
fece una smorfia, Sasuke non gli piaceva molto e non ne aveva fatto
mistero con
Gaara; lo riteneva un palo in culo complessato – sue testuali
parole. Persino
nel gay bar si guardava attorno furtivo e, prima di uscire in strada,
guardava
attentamente dalle vetrate, sicuramente per controllare che non stesse
passando
qualche sua conoscenza. No, decisamente non era un tipo che viveva con
tranquillità la sua sessualità e, avendo visto
una gran varietà di essere umani
da dietro il bancone del bar, riteneva che la stessa cosa valesse anche
per
altri aspetti della sua vita.
“Ah,
e in cosa è impegnato il principino? Sicuramente non a far
diventare il mondo un
posto più amichevole” disse Hidan. Condivideva
l’opinione del suo fidanzato,
per di più aveva incrociato Sasuke in casa un paio di volte
e l’altro si era
giusto degnato di scambiare un saluto, per poi scappare in camera di
Gaara come
se avesse il diavolo alle calcagna.
Gaara
roteò gli occhi verso il soffitto prima di rispondere:
“Tra
tre giorni si laurea, quindi ha da fare… e non mi risulta
che né io, né voi due
contribuiamo attivamente a spargere arcobaleni e fiorellini nel
mondo.”
“Cazzo
c’entra? È diverso” ribatté
Hidan, bevendo un sorso di birra.
Deidara
invece era molto più interessato al resto della risposta di
Gaara e si sedette
sulla punta della sedia, in modo da avvicinarsi di più al
ragazzo.
“Si
laurea, interessante… e ti ha invitato?”
Gaara
posò la forchetta e rimase a guardarlo, fulminato da quella
domanda che anche
lui si era fatto. Da domenica si erano rivisti solo un’altra
volta, ma anche in
quell’occasione avevano parlato dell'imminente laurea, era
palese che Sasuke
non riuscisse a pensare quasi ad altro, gli aveva addirittura ripetuto
il
discorso che avrebbe tenuto, e gli aveva anche detto nuovamente a che
ora e
dove si sarebbe tenuta la discussione.
“Non
ne sono certo – ammise Gaara – mi ha detto sia ora
che luogo, però
effettivamente non mi ha invitato o chiesto esplicitamente di andare.
Sono un po’
incerto, non mi sono mai trovato in una situazione simile.”
Aveva
difficoltà a rapportarsi con gli altri a differenza della
maggior parte della
gente, trovava difficile capire i sottintesi, i discorsi enigmatici e,
più in
generale, capiva proprio a fatica le persone. Si sentiva come in un
acquario:
galleggiava lasciandosi trasportare dalla corrente, rinchiuso in quella
grande
vasca senza riuscire a venirne fuori, per timore, forse, di non
riuscire
a respirare l’aria come facevano tutti gli altri esseri
umani. Così si limitava
a guardarli, distante, separato da loro dal vetro, entrando
occasionalmente in
contatto solo quando qualcuno decideva di bagnarsi nell’acqua
gelida che lo
avvolgeva.
“Certo
che ti ha invitato! – esclamò Deidara strappandolo
dalle sue riflessioni –
altrimenti perché dirti ora e luogo?”
“Infatti,
figurati se quello si degna di consumare la lingua se non è
necessario –
intervenne Hidan – ma dato che è un asociale non
saprà nemmeno come si fa un
invito decente. Gaara, la prossima volta trovati qualcuno di
più allegro, dammi
retta, non chiassone come Deidara però.”
Guardò il suo fidanzato con un mezzo
sorriso, ma era caldo, uno di quelli che rivolgeva solo a
pochi.
Hidan non era
certo un innamorato modello, di quelli da presentare in famiglia o con
cui
passeggiare mano nella mano, chiacchierando sul nuovo divano da
comprare – non
che Deidara desiderasse davvero un tipo così. Hidan era
irruento, impulsivo e si
gettava nelle cose a capofitto, senza pensare al rischio di potersi
fare male,
ed era anche l’unico che riuscisse a gestire Deidara e la sua
irascibilità.
Il
barman biondo non si smentì nemmeno quella volta, infatti
gli lanciò addosso il
tovagliolo e sbottò:
“Ma
vaffanculo, a volte mi sembri un morto vivente! – si rivolse
poi a Gaara,
ignorandolo – È chiaro, sei
invitato. Per il vestiario non hai problemi a
vestirti abbastanza elegante, però devi pensare al
regalo.”
Gaara
alzò una mano come a frenare l’irruenza
dell’amico, stava decisamente correndo
troppo e lui era tutt’altro che un velocista, sotto tutti i
punti di vista.
“Anche
se fosse così non posso andare, a lavoro non posso proprio
chiedere nemmeno
mezza giornata libera, c’è il delirio. Oltre al
solito lavoro, dato che tra
poco arriveranno due nuovi praticanti, devo sistemare gli archivi, fare
controlli e un sacco di altre cose noiosissime e inutili, ma che mi
portano via
un sacco di tempo” rispose, senza badare a Hidan che inveiva,
ci era abituato.
“La
laurea è alle 14, puoi sfruttare la tua pausa pranzo. Magari
non rimani fino
alla fine, ma ci vai, niente storie. Dobbiamo solo pensare al
regalo”
insistette Deidara. Per quanto non gli piacesse Sasuke, giudicava che
per Gaara
quella potesse essere una buona occasione per socializzare e uscire dal
suo
guscio, inoltre avrebbe potuto toccare con mano il futuro che lo
attendeva.
Perché era certo che sarebbe riuscito a laurearsi, diventare
un ottimo avvocato
e un giorno sarebbe stato tanto in alto da essere lui a impartire
ordini invece di eseguirli.
Gaara
aveva la testa nel pallone, era confuso e aveva la sensazione di stare
sbagliando tutto, che non fosse una grande idea andare a quella laurea,
in
fondo lui e Sasuke non avevano un rapporto poi così stretto.
Però… si vedevano
sempre più spesso, la loro intesa a letto era migliorata e
Gaara riusciva
persino a farsi carezzare da lui senza provare il bruciante desiderio
di
scappare, e poi Sasuke gli aveva parlato di sua spontanea
volontà di quella
maledetta laurea. Perché farlo se non aveva interesse che
lui vi partecipasse
in qualche modo?
Gaara
era ancora combattuto, ma gli sovvenne un sogno che faceva
ricorrentemente in
cui alcuni bambini gli proponevano di andare a giocare, lui stava per
accettare
ma all’improvviso una voce glielo impediva e lui si trovava
da solo, senza più
niente e nessuno attorno. Le mani tese, i sorrisi, il sole…
tutto sparito.
Nel
sogno la voce autoritaria era quella di suo fratello, ma lui era certo
che
Kankuro non gli avrebbe mai fatto nulla del genere nella
realtà, aveva quindi finito
per convincersi che quella voce doveva essere la propria, il suo
subconscio che
gli impediva di aprirsi e stabilire rapporti e relazioni con altre
persone,
come se fosse il suo scotto da pagare per gli errori e i peccati
commessi.
“Non
ho idea di cosa potrei regalargli” si ritrovò a
rispondere, stupendosi per
primo per la facilità con cui quelle parole gli erano
scivolate fuori dalla
bocca, sapienti pattinatrici sul ghiaccio.
“Qualcosa
che gli piaccia? A parte scopare con te, Gaara” lo prese in
giro Hidan,
accendendosi una sigaretta, ignorando Deidara che gli intimava di
andare sul
balcone.
Il
ragazzo fissò pensieroso il cibo ancora nel piatto,
ignorando gli altri che
litigavano e Hidan che alla fine usciva fuori, convinto dalla minaccia
di
Deidara di non fargli più pompini, perché sapeva
che l’altro sarebbe stato
davvero in grado di mantenere quella minaccia.
Gaara
pensò a Sasuke e si rese conto sul serio di sapere
pochissimo sul suo conto, di
certo non poteva regalargli una scorta di preservativi, doveva pensare
a
qualcos’altro; si maledisse per essere così
incapace di relazionarsi agli altri
e riuscire in una cosa tanto banale quale era fare un regalo.
“C’è
un gruppo musicale che gli piace, pensi che possa essere
un’informazione
utile?” domandò a Deidara che stava mandando
giù l’ultimo boccone. Si era
ricordato del CD che gli aveva visto una sera nello zaino e delle poche
parole
che Sasuke aveva usato per raccontargli quanto gli piacesse quella band.
“È
un punto di partenza – affermò Deidara –
magari se siamo fortunati hanno dei
concerti in programma, o possiamo trovare maglie, oggetti
vari… ora vediamo.”
Si
alzò e tornò poco dopo con il portatile acceso
che appoggiò sul tavolo,
spostando un po’ di stoviglie per mettersi poi a fare qualche
ricerca.
“Cazzo!
Un regalo mica da poco!” esclamò Hidan che era
rientrato e si era messo alle
loro spalle per vedere lo schermo, odoroso di nicotina.
Gaara
stava pensando più o meno la stessa cosa, ma in maniera
decisamente più
analitica: quella band aveva un concerto in città il mese
seguente, ma i
biglietti rimasti costavano parecchio, però quale altro
regalo avrebbe potuto
fargli?
Rimase
in silenzio qualche istante mentre Deidara cercava qualche alternativa,
ma
obiettivamente il ristretto ventaglio di possibilità era
proprio miserabile.
“Credi
di potermi anticipare almeno metà dell’affitto del
prossimo mese?” chiese al
proprio coinquilino.
Hidan
ci rifletté, poi annuì:
“Sì,
ce la posso fare. Ma tu sei sicuro di voler comprare quei biglietti?
Con
l’università dovrai affrontare molte spese, lo sai
che ti aiuterò come posso,
ma nemmeno io sono un fottuto riccone da strapazzo e ho le rate della
macchina nuova da pagare.”
“Non
preoccuparti, ce la posso fare, mi sono fatto un paio di
calcoli” lo rassicurò
Gaara. Non sarebbe stato proprio semplice, ma pensò che ne
valeva la pena,
voleva afferrare quella mano che gli era stata tesa. quella era la sua
occasione.
***
Gaara
si guardava attorno nervosamente, con le mani affondate nelle tasche
del
cappotto. I corridoi dell’università erano
affollati di parenti commossi e
orgogliosi, amici confusionari, pronti a celebrare un traguardo
importante, e
laureandi invece tesi e nervosi che avevano l’aria di volersi
trovare in qualsiasi
altro luogo all’infuori di quello. Gaara si sentiva come
sempre a disagio,
fuori posto, e cercò di non dare ascolto alla vocina
interiore che continuava a
sussurrargli di aver fatto un madornale errore, che era meglio che
girasse i
tacchi, che lì non c’era niente per lui.
Il
ragazzo però teneva duro, era convinto di stare facendo la
cosa giusta, di
doversi mettere in gioco per dare una svolta alla sua vita e di non
poter
pretendere che gli altri facessero un passo nella sua direzione se lui
stava
sempre fermo e immobile ad aspettare; era il momento di agire.
Si
passò una mano tra i capelli rossi tagliati il giorno prima
e poi si sfilò il
cappotto, inutile tra quelle mura riscaldate. Rimase in giacca e
camicia,
niente cravatta e niente di troppo ricercato: erano gli abiti che usava
anche
per andare a lavoro.
Era
affascinato da quella realtà che vedeva sotto ai suoi occhi
e si immaginò a
percorrere quei corridoi tutti i giorni, incontrare un compagno,
rivolgergli
un saluto e qualche chiacchiera sulla partita della sera prima
e… gli piacque
terribilmente quel sogno ad occhi aperti. Tuttavia lui era solo uno
studente
universitario lavoratore, quindi niente lezioni giornaliere, niente
mattinate
nelle aule colme di coetanei, solo libri ed esami da dare in solitaria.
Si
avvicinò alla sala che gli aveva indicato con Sasuke e vide
che ancora non era
piena e la gente continuava a entrare ed uscire; normale visto che lui
era
andato lì un po’ in anticipo. Si guardò
attorno, con quegli occhi chiari che
coglievano sempre ogni dettaglio, senza lasciarsi sfuggire nulla nel
tentativo
di comprendere meglio il mondo e chi lo abitava.
Poi,
lo vide.
Era
molto bello ed elegante nel suo completo giacca e cravatta, parlava con
due
adulti, probabilmente i genitori visto che gli assomigliava. La donna
aveva un
sorriso dolce, capelli lunghi e neri e lo guardava adorante, non poteva
sbagliare: quella era la madre. L’uomo invece aveva i capelli
tagliati corti,
anch’essi neri, e sia lo sguardo che la postura del corpo
intero erano piuttosto
autoritari e rigidi. Gaara si ricordò che era molto severo
col figlio, almeno
così Sasuke gli aveva accennato.
Questi
intanto stava continuando a parlare coi genitori con calma, quando
voltò la
testa nella sua direzione e fu come se avesse visto un fantasma.
I
suoi occhi si assottigliarono, le spalle si tesero al pari delle corde
di una
chitarra e, sotto la sua espressione apparentemente calma, si capiva
che era
turbato, o perlomeno Gaara lo capì. All’improvviso
comprese di aver fatto un
errore madornale nel venire lì, la mano che avrebbe voluto
sollevare in un
saluto rimase impietrita lungo il fianco; tuttavia lui non se ne
andò, ormai
era troppo tardi, non poteva tornare indietro, né fare finta
di non essere in quell'aula.
Sasuke
si avvicinava, salutando cortesemente altre persone mentre camminava e
poi gli
fu di fronte:
“Che
cazzo ci fai qui?”
Gaara
avrebbe voluto chiederselo lui stesso. Quanto si era sbagliato!
Lì non c’era
niente per lui, nessun futuro, nessuna mano tesa, solo un altro muro,
simile a
tanti altri che aveva già incontrato in vita sua. Era stato
un muro lievemente
differente, era trasparente e gli aveva regalato l’illusione
di non esistere,
di avere la possibilità di afferrare ciò che
aveva intravisto al di là.
“Sono
venuto a vederti, è un giorno importante per te”
rispose, senza mostrare però
tutto il suo turbamento, il suo viso era impassibile.
“Appunto!
– sibilò Sasuke – Non dovresti essere
qui, che diavolo ti è venuto in mente?
Cazzo, se ti vedono…” cercò di darsi
una calmata e sembrare che stessero
conversando amichevolmente, niente di più lontano dalla
realtà. Se solo Sasuke
avesse potuto, probabilmente in quel momento lo avrebbe vaporizzato.
“Se
mi vedono cosa succede? Non ho scritto in fronte che sono gay e nemmeno
che
abbiamo scopato – ribatté Gaara duro –
sembrerei solo un tuo amico, cosa c’è di
così
sbagliato? E poi che diavolo mi hai detto a fare ora e luogo della tua
laurea
se non volessi che venissi?” Stava iniziando ad arrabbiarsi
per tutta quella
sceneggiata che l’altro gli stava facendo. Ok, aveva visto un
invito dove non
c’era, ma non credeva di aver commesso un peccato
così madornale.
Sasuke
sobbalzò nel sentire quelle parole, e infilò le
mani contratte a pugno nei
pantaloni del costoso completo, si vedeva ad occhio nudo la
qualità rispetto a
quello più economico di Gaara.
“Non
provarci mai più a dire cose simili”
mormorò secco, facendo poiinvece un cenno di
saluto garbato con la testa e un mezzo sorriso a una signora.
Tornò a fissare gli occhi
chiari dell’altro e continuò “Non sei
mio amico, proprio per niente, che cazzo
dovrei dire ai miei genitori? Che ti ho conosciuto in un bar? Sei
fuori? –
compresse le labbra – nemmeno mi ricordavo di avertelo detto,
mi sarà uscito
così, per caso… che diavolo ne so! Ora te ne devi
andare prima che arrivino
anche…”
“Certo,
tu dai informazioni tanto dettagliate così, per caso, certo
Sasuke…” lo
interruppe Gaara e, vedendo che l’altro era rimasto
ammutolito, continuò “Me ne
vado, certo, non preoccuparti. Non inquinerò la tua aria con
la mia presenza –
lo guardò negli occhi – cazzo, aveva proprio
ragione Deidara: sei un gay
represso, un pessimo gay represso. Sì, ho ridetto quella
parola, cosa vuoi
fare? Picchiarmi? Però così non daresti un grosso
scandalo proprio in questo giorno così
importante? Vaffanculo Sasuke.”
Gaara
si voltò e se ne andò senza aspettare una sua
risposta, senza vedere se le sue
parole avessero avuto un qualche effetto, ormai non gli importava
più. Era
stato caustico, cattivo, lo sapeva, ma Sasuke era riuscito a ferirlo
profondamente. Con lui si era esposto e l’altro lo aveva
trattato come se fosse
feccia della peggior specie, portatore di una malattia incurabile e
mortale:
l’essere diverso.
Diverso
per gusti sessuali, per colore della pelle, dei capelli; di una diversa
classe
sociale, religione, schieramento politico… semplicemente
diverso in qualcosa
rispetto ai rigidi standard in cui Sasuke evidentemente viveva. Se per
la sua
famiglia poteva essere un problema concepire di conoscere un amico in
qualche
posto diverso dalle istituzioni formali, la definizione di severo
assumeva
altri connotati.
Urtò
una persona mentre camminava, ma non si fermò, vide giusto
con la coda
dell’occhio che un ragazzo con i capelli raccolti in una coda
si voltava a
guardarlo, ma lui non chiese scusa né rallentò il
passo. Andò avanti, così
doveva fare; andare avanti e non guardarsi indietro e nemmeno attorno,
perché tanto
non aveva nulla attorno a sé.
All’improvviso
si sentì afferrare per una spalla e si voltò di
scatto, indispettito, vedendo
uno sconosciuto dai capelli biondi che non lo mollava.
“Ehi,
cammini proprio svelto, tu” gli disse il ragazzo, prima che
lui potesse aprire
la bocca e intimargli di lasciarlo. “Ho visto che parlavi con
Sasuke, sei un
suo amico? Perché vai via? Tra poco tocca a lui.”
Gaara
rimase spiazzato per la facilità con cui quel tipo sparava
domande e parole a
raffica, possibile che fosse amico con quello stronzo?
Calmati Gaara,
calmati. Sono
domande innocenti, genuinamente curiose, non rispondere male, sii
impassibile
come sempre, menti e poi vai via in fretta, lontano da qui.
“Sì,
ci conosciamo – rispose, sorvolando sulla questione
dell’amicizia, visto che
Sasuke era stato molto chiaro a riguardo – ero solo passato a
salutarlo, non
posso trattenermi, devo tornare a lavoro.”
Sul
viso dell’altro la delusione era evidente e ciò lo
lasciò interdetto, come si
poteva essere dispiaciuti dell’assenza di uno sconosciuto?
“Capisco,
cavoli che fregatura! Beh, comunque io sono Naruto – gli tese
la mano – magari
ci incontriamo stasera alla festa o in un’altra occasione.
Sai, oltre me Sasuke
non ha molti altri amici e sono rimasto sorpreso vedendovi parlare con
tanta
confidenza.”
“Gaara
– rispose stringendo la mano e pensando che quel tipo non
aveva capito proprio
niente – beh, vedremo. Ora devo andare.”
Si
infilò il cappotto e sentì che c’era
qualcosa nella tasca, qualcosa che non
voleva assolutamente; istintivamente tirò fuori la busta e
chiese:
“Naruto,
mi faresti un favore? Andavo di fretta e ho dimenticato di dare questa
a
Sasuke. Non so bene quando lo rivedrò, potresti
consegnargliela tu?”
Tese
una semplice busta da lettere rettangolare, bianca, senza nessuna
scritta,
anonima, come anche l’interno. Dentro c’era solo il
suo regalo, quei due biglietti
che gli erano costati un patrimonio, ma che non voleva rivedere. Non
voleva
nemmeno rivenderli e riprendere i soldi, non voleva nulla da Sasuke.
Naruto
afferrò la busta, perplesso:
“Sicuro?
Puoi dargliela alla festa… comunque va bene, gli
dirò che è da parte tua.”
“Come
preferisci, ma non serve. Scusa ora devo andare” si
incamminò mentre l’altro
ancora lo salutava, ma non gli interessava. Voleva solo fuggire via da
lì, dal
suo ennesimo fallimento e racchiudersi in se stesso, ormai lo aveva
capito: non
c’era altro modo di vivere per lui.
L'angolino oscuro:
Tutti in coro: "Sasuke sei una merdaaaaaa!!!!"
Vi sentite meglio? Io sì. Niente, Sasuke non ce la
può
fare: è così rinchiuso nel suo mondo ristretto
che non
riesce a concepire che le due vite che ha tenuto attentamente separate
possano collidere anche se per poco. Eppure Gaara gli fa
un'osservazione giustissima, perché dirgli data, ora e luogo
se
non lo voleva lì? L'inconscio aveva preso il sopravvento?
Ad ogni modo la razionalità e la paura di Sasuke hanno preso
il
sopravvento e ferisce Gaara, che se ne va da lì ben deciso a
non
voltarsi indietro tanto da travolgere qualcuno
durante la sua fuga, alla fine Naruto lo blocca e lui si disfa anche di
quei costosi biglietti, tanto è il desiderio di non avere
più a che fare con Sasuke. E se ne va, con le tasche vuote,
il
conto in banca in rosso e la consapevolezza di essere solo: persino
quando si è messo in gioco si è visto sbattere la
porta
in faccia; ora chi glielo spiega che ha solo scelto il soggetto
sbagliato e che c'è ancora speranza, che troverà
qualcuno
che lo desideri e lo ami, senza vergognarsi o reprimere quei
sentimenti? Giusto per chiarire: non è che Gaara fosse
innamorato di Sasuke, ma credeva che il loro rapporto fosse qualcosa
più di una semplice serie di scopate, tanto che si lasciava
addirittura carezzare da lui, credeva che fosse qualcosa che sarebbe
potuto crescere col tempo.
Nella prima parte del capitolo invece abbiamo scoperto qualcosina in
più su Gaara, sul suo lavoro e sul rapporto che lo lega a
Hidan
e Deidara, tra l'altro adoro alla follia questi due come coppia e mi
sono divertita a scrivere di loro, dandogli un'aria un pochino
più scanzonata e meno sanguinaria come nel manga, ma
rimangono
comunque due personaggi sopra le righe e, come Gaara fa giustamente
notare, non sono esattamente amichevoli e amorevoli verso il mondo. Se
avete letto la mia one-shot lo saprete già, ma lo dico anche
qui
per chiarezza: Gaara e Sasuke si sono incontrati al gay bar dove lavora
Deidara come barman, ed era la prima volta che Sasuke entrava in un
locale simile.
Il titolo fa riferimento al modo in cui Gaara alla fine rivaluta
Sasuke, si era illuso e invece poi lo vede chiaramente per quel che
è: un pessimo gay represso che lo ha ferito, anzi a cui ha
permesso di ferirlo che è lievemente diverso, si tratta di
sfumature, ma lo ritengo molto importante.
Bene, vi lascio, anche stavolta ho straparlato a lungo, questo angolino
è quasi più lungo del capitolo XD vi avviso che
però già dal prossimo i capitoli diventeranno un
po'
più lunghi, ma avevo bisogno di questi due capitoli un po'
più brevi, il primo come prologo e questo per focalizzare
bene
l'attenzione su queste scene. Venerdì parto per una decina
di giorni e quindi aggionerò dopo il 21, detto questo vi
lascio davvero stavolta XD e
lasciatemi un commento se vi va, mi fa sempre piacere dialogare con voi
e scambiarci opinioni.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** 3 - Quello che c'è al di là ***
Quello che
c’è al di là
Il
lunedì mattina per antonomasia è
l’emblema dello schifo più totale, di tutto
ciò che vorremmo che non esistesse e invece continua a
perseguitarci;
l’Anticristo, Satana in persona con tanto di zoccoletti
ballerini.
Insomma,
lunedì mattina.
Non
erano ancora le otto, eppure Gaara era già seduto al suo
posto dietro la
scrivania, col computer acceso, e approfittava di quei momenti di pace
prima
che l’ufficio si riempisse per risolvere alcune questioni
personali.
Era
particolarmente di malumore, ma non era una novità: era
così da giorni,
precisamente da quando era andato a quella maledetta laurea e aveva
parlato a
un ancora più maledetto Sasuke. Aveva passato il weekend a
casa, perché non
aveva soldi da spendere per andare in giro, visto che aveva investito
tutti i
suoi risparmi in quei due biglietti di un concerto a cui non sarebbe
mai
andato.
Sicuramente,
se fosse andato ai locali dove lavoravano Hidan o Deidara, loro gli
avrebbero
offerto un drink senza problemi, ma Gaara non ne avrebbe mai
approfittato, lo
avrebbe fatto sentire ancora più miserabile di quanto non
fosse. E poi era già
in debito con Hidan di metà affitto del mese successivo, non
voleva chiedere
altro all’amico, pur consapevole che se questi avesse
scoperto quanti problemi
si stava facendo gli avrebbe rifilato un cazzotto. Forse anche due.
Intanto
in quel tremendo lunedì mattina, Gaara si mise le mani sul
volto coprendosi gli
occhi, così da non vedere più lo schermo del
computer.
“No,
no, dai cazzo deve essere uno scherzo” mormorò
nell'ufficio deserto, aprendo
giusto uno spiraglio tra le dita per sbirciare, neanche stesse
guardando un
film horror.
Era
sul sito dell’università, la pagina asettica e
luminosa gli diceva che avrebbe
dovuto comprare altri due libri per poter preparare un esame;
ovviamente volumi
scritti dal professore e nuovi, appena pubblicati, eliminando in quel
modo la
possibilità di trovarli in biblioteca o nella libreria ben
fornita dello studio
in cui lavorava.
In
quel momento desiderò non aver dato i biglietti a Naruto, ma
esserseli
rivenduti e aver recuperato i soldi. Forse avevano avuto ragione Hidan
e
Deidara a dargli dell’idiota quando gliel’aveva
raccontato. Eppure una parte di
sé continuava a pensare di aver fatto la cosa giusta: a quel
modo aveva chiuso
i conti con quella stupida parte di sé che si era illusa di
poter ricevere
qualcosa di buono dagli altri, di poter magari… magari
essere amata. Adesso,
che tutte le illusioni si erano infrante come cristallo su pietra,
doveva
affrontarne le conseguenze in modo
da
non dimenticare quella lezione.
Lui era solo.
Gaara
fissò il soffitto, riflettendo su come fare per racimolare i
soldi che gli
servivano, su cosa poteva fare economie o se magari poteva cercarsi un
altro
lavoretto serale, giusto per qualche mese, il tempo per tirarsi fuori
da quelle
brutte acque. Per un attimo, un solo fatale attimo, pensò a
perché mai si
ostinasse ancora a combattere se tanto il futuro non aveva in serbo
niente di
buono per lui; qual era il senso di tutto ciò?
Le
sue riflessioni vennero interrotte da un rumore all'ingresso e su cui
spostò
l'attenzione.
La
porta del suo ufficio era sempre aperta e la sua scrivania era
posizionata in
modo da osservare direttamente quell’ingresso, assieme alla
sala d’aspetto da
cui si dipanavano altri corridoi.
Vide
entrare l’avvocato Hiashi Hyuga – l’uomo
che deteneva la maggior parte delle
quote di quello studio – assieme al fratello Hizashi e altre
due persone che
non conosceva.
“Buongiorno
avvocati” disse alzandosi per raggiungerli.
“Oh,
buongiorno Gaara, sei in anticipo” lo salutò
Hiashi, allungandogli dei plichi.
Hizashi invece, dopo il saluto, se ne andò direttamente nel
suo ufficio.
“Per
favore occupati tu di protocollare e poi archiviare tutto –
continuò l’uomo –
ma prima ti presento i nostri nuovi acquisti: mia figlia Hinata che si
è
laureata da poco e inizierà qui il suo praticantato, e
Itachi Uchiha, un
giovane avvocato che diventerà presto un nostro associato.
Lui è Gaara Sabaku,
il nostro efficiente segretario.”
Gaara
si sistemò meglio i plichi nel braccio sinistro, in modo da
poter stringere le
mani per concludere le presentazioni. Si era dimenticato che quel
fottuto
lunedì sarebbero arrivati anche loro, giusto per rendere la
giornata e il suo
futuro un po’ peggiore visto che avrebbero occupato le due
scrivanie nella sua
stanza.
Tuttavia
non mostrò nessun fastidio, rimase impassibile ad ascoltare
ancora l’avvocato
Hyuga che gli parlava dei programmi della mattina e che concluse
dicendo:
“Assicurati
di sentire l’architetto per l’appartamento
adiacente che abbiamo acquistato.
Tra un mese sarà sgombro e dovremo iniziare immediatamente i
lavori di
ampliamento, così ognuno avrà il proprio ufficio
– si rivolse poi ai due
giovani – mi spiace che per i primi tempi dobbiate adattarvi,
è una situazione
incresciosa, me ne rendo conto. Gaara vi mostrerà lo studio,
organizzate le
vostre cose e poi raggiungetemi così potremo parlare dei
vostri incarichi.”
“Perfetto,
sono sicuro che non avremo nessun problema ad adattarci” lo
rassicurò il
giovane Uchiha e Gaara rimase a fissare un istante le sue labbra che si
muovevano e lasciavano uscire una voce perfettamente impostata, priva
di
qualsiasi accentazione. Quel ragazzo lo aveva colpito: era bello, alto,
con gli
occhi scuri e i capelli neri lunghi raccolti in una semplice coda, ma
definirlo
bello era riduttivo; era affascinante, cordiale eppure anche freddo,
come se
avesse disposto una barriera tra sé e gli altri.
Gaara
poteva capirlo anche troppo bene.
Hinata,
la figlia di Hiashi, era molto diversa: indubbiamente bella con i
capelli
lunghi e scuri, gli occhi chiari e il sorriso gentile, ma priva di quel
magnetismo che aveva avvertito in Itachi o
dell’autorità che invece Hiashi
sembrava emanare alla pari del calore corporeo.
Gaara
si riscosse da quei pensieri futili e guidò i nuovi arrivati
nello studio,
mostrò loro la sala riunioni con la fornitissima libreria,
gli uffici degli
altri avvocati, l’archivio con le sue scaffalature piene di
vecchi e nuovi
fascicoli, la cucina e il bagno, finendo il piccolo tour nella stanza
che
avrebbero condiviso per qualche tempo.
Indicò
le due scrivanie poste ai lati della propria, anche se abbastanza
distanti, e
disse:
“Spero
di non disturbarvi troppo, ma purtroppo faccio molte telefonate. Se
riceverete
qualche cliente potrete usare la sala riunioni, per qualsiasi altra
cosa potete
pure chiedere a me.”
Si augurò davvero che quei due se la cavassero da soli, era
già abbastanza oberato di
lavoro per conto suo.
“Gaara,
ho bisogno che mi prenoti anche una macchina per il mio viaggio di
domani.
Voglio trovarla all’aeroporto e che sia un SUV, mi
raccomando” disse Ebisu,
affacciandosi nella stanza e andandosene senza nemmeno attendere una
sua
risposta.
Ecco per
l’appunto, nemmeno una
fottuta macchina si sanno noleggiare, spero di non diventare
così idiota quando
sarò avvocato.
“È
molto gentile signor Sabaku, ma sono certo che ce la caveremo
splendidamente”
gli disse Itachi sempre con quella voce calma e Gaara si
ritrovò a fissarlo
qualche istante, muto. Strinse più forte i fogli che gli
aveva consegnato
Hiashi e replicò:
“Può
chiamarmi Gaara, come tutti gli altri, avvocato.”
Hiashi
Hyuga era una persona molto rigorosa e osservante
dell’etichetta, Gaara non ci
teneva proprio a fare qualcosa che potesse indispettirlo visto che
quello era
un buon posto di lavoro che gli sarebbe stato utile anche dopo la
laurea. Era
meglio che le cose andassero lisce anche con i nuovi arrivati.
“Come
preferisci, Gaara” rispose Itachi per poi andarsi a sedere
alla propria
scrivania. Il ragazzo rimase invece immobile solo qualche istante,
ripensando
al suo nome pronunciato da quelle labbra sottili e con una cadenza
perfetta.
Per sua fortuna Hinata gli fece una domanda o, probabilmente, sarebbe
rimasto
imbambolato come uno stupido ancora per un pezzo.
Tornò
invece rapidamente coi piedi per terra e dopo aver risposto
tornò alla propria
postazione, afferrando il telefono, pronto ad affrontare la mole di
incarichi
dell’infernale lunedì mattina.
Prenotare
la macchina, chiamare gli architetti, chiamare un altro studio di
avvocati per
organizzare un meeting, sistemare i plichi che gli aveva dato Hiashi,
andare a
comprare materiale da cancelleria… e ricordarsi di respirare
ogni tanto.
***
Sasuke
era fermo davanti a una porta. Di nuovo.
Esattamente
come mesi prima anche quella sera era fermo lì, senza
riuscire a decidere se
varcare o meno la soglia. Sentiva una morsa alla bocca dello stomaco e
un’elettricità che gli sfrigolava nelle falangi
delle dita, come se stesse
sull’orlo di un baratro, indeciso se buttarsi e provare a
volare o tornare
indietro, sui propri passi ben conosciuti.
Forse
fu il freddo pungente a convincerlo, o forse era un gesto a cui stava
pensando
da troppo tempo; fatto sta che allungò la mano e
girò la maniglia per entrare.
Lo
accolse l’atmosfera familiare, di un luogo in cui era stato
molte volte e si
era sempre trovato bene, a suo agio. Lì dentro riusciva a
scrollarsi di dosso
la maschera pesante che doveva calzare, l’armatura con cui
tenere a distanza le
persone, impaurito dal fatto che, se si fossero avvicinate troppo,
avrebbero
scorto qualcosa del vero Sasuke e ne sarebbero rimaste orripilate. Ma
lì dentro
era diverso, lì e… con Gaara.
Quel
venerdì sera però era da solo e si guardava
attorno, nervoso e bugiardo. Perché
si era convinto ad entrare dicendosi che voleva solo bere qualcosa in
pace, in
un luogo neutrale, ma in realtà stava cercando di avvistare
delle ciocche rosso
fuoco altrettanto familiari, eppure non voleva ammetterlo con se
stesso. Non
voleva ammettere che… Gaara in qualche modo gli era mancato.
Erano
passate due settimane dal loro ultimo incontro
all’università e Sasuke era
stato preso dal vortice degli eventi, delle cose da fare, del futuro da
pianificare, aspettandosi semplicemente che un giorno avrebbe
controllato il
cellulare e vi avrebbe trovato un suo messaggio, per stare di nuovo
insieme
come prima.
I
giorni erano passati, ma il suo telefono rimaneva muto, al contrario
della
coscienza di Sasuke che aveva iniziato a pungolarlo, al pari di una
fastidiosa
zanzara ingorda di sangue. Stava zitta per ore, per giornate intere
poi, quando
meno se lo aspettava, gli spediva a tradimento le immagini di quel
giorno, in
cui Gaara se ne era andato con la schiena dritta e le spalle contratte,
il
volto impassibile che nascondeva la rabbia e la delusione.
E tu Sasuke? Tu
sei soddisfatto dal
modo in cui ti sei comportato? Ti è piaciuto vedere i suoi
occhi sgranarsi
nella comprensione di non essere desiderato? Eppure aveva ragione:
perché gli
hai dato tutte le informazioni se non lo volevi lì? Che
piccolo codardo che
sei.
Gli
parlava nella testa ma lui non riusciva a zittirla, e l’unica
cosa che era
riuscito a fare era stato tornare a quel locale. Magari lo avrebbe
incontrato
di nuovo, casualmente. Poi, quando si è più
disinibiti dall’alcool, si sa come
vanno le cose, no? Sarebbe stato semplice, e lui non avrebbe dovuto
impegnarsi
nel cercare risposte a domande che non voleva porsi, quelle a cui non
sarebbe
riuscito a replicare se mai avesse chiamato Gaara al telefono o per
messaggio.
Sì,
un incontro casuale e fortuito era la soluzione.
Come
la notte in cui si erano incontrati.
Si
avvicinò al bancone e si sedette su uno sgabello libero e
vide Deidara che si
avvicinò, lui gli avrebbe ordinato un mojito come quella
sera, dopo il primo
sorso si sarebbe voltato e… avrebbe incontrato quello
sguardo di ghiaccio che
lo perseguitava.
“Un…”
“Un
cazzo!” lo interruppe secco Deidara.
No,
c’era qualcosa che non andava, chi aveva riscritto il copione?
“Puoi
anche alzare il culo e andare fuori di qui, non sei il
benvenuto” aggiunse il
barman.
Sasuke
rimase in silenzio un attimo, spiazzato, ma il suo orgoglio si riebbe
e,
mettendo su la sua espressione più distaccata, rispose:
“È
così che tratti i clienti che pagano? E poi chi ha stabilito
la mia
indesiderabilità?”
“Io,
e puoi tenerteli i tuoi soldi – rispose per poi sorridergli
– ma se vuoi da
bere posso sempre pisciarti addosso, è gratis.”
Gli
occhi azzurri erano divertiti, ma in essi brillava una luce crudele,
perché
niente più che fare a pezzi quello stronzo avrebbe riempito
di gioia Deidara.
Gaara lo aveva ammonito dal fare alcunché se mai lo avesse
rivisto, ma quando
mai lui faceva ciò che gli veniva detto?
“Si
può sapere quale cazzo è il tuo
problema?” chiese Sasuke iniziando ad
arrabbiarsi, perché non pensava di meritare un trattamento
del genere e,
soprattutto, nessuno si era mai permesso di rispondergli
così. Nemmeno nei
litigi più spinti, il suo amico Naruto gli aveva mai rivolto
parole simili, ma…
Deidara non era suo amico.
“Tu
e la tua faccia di merda siete il mio problema, non so proprio con che
coraggio
rimetti piede qui, dopo quello che hai fatto.”
“Ho
capito, Gaara è venuto a piagnucolare da te e
quell’altro armadio, perché sono
stato cattivo e non l’ho presentato alla mia famiglia, vero?
– disse sarcastico
con un sorriso affilato – Ma che diavolo gli è
passato per il cervello, io non
lo avevo invitato!”
Avrebbe
aggiunto anche altro, ma Deidara si sporse dal bancone e lo prese per
il bavero
della camicia, strattonandolo in avanti, portando i propri occhi chiari
e
furiosi vicini ai suoi neri e increduli.
“Sciacquati
la bocca prima di nominarlo. Gaara non è una mezza sega come
te, non ha bisogno
di fingere quello che non è, e poi che cazzo ne vuoi sapere
tu di vivere senza
gli agi e i comfort comprati coi soldi di papino, eh? Gaara non ci ha
raccontato quasi niente, solo di aver frainteso; sono io che ho capito
tutto,
perché ne ho visti di gay repressi come te, a cui piace
farsi sfondare il culo,
ma guai a dirlo ad alta voce, alla luce del giorno. Ho capito che devi
averlo
trattato come una merda, e non sprecare fiato a raccontarmi bugie,
quelle
tienitele per te. Volevi che Gaara venisse o non gli avresti mai detto
giorno e
ora, solo che vederlo lì ti ha spaventato, vero? E tu sei un
cagasotto.”
Lo
lasciò andare, facendo poi una smorfia come per aver toccato
qualcosa di
sporco, capace di infettarlo. Vedendo che rimaneva zitto e che un
po’ troppa
gente li guardava, decise di finirla lì, ma si
riservò un’ultima frecciata:
“Spero
tu ti sia goduto il concerto, erano proprio ottimi posti,
vero?”
Sasuke
sembrò riacquistare il dono della parola dopo quel momento
di stasi totale e
annaspò quasi nel tentativo di trovare le parole:
“Concerto…
tu come…?” ma Deidara si era allontanato e non gli
avrebbe più parlato.
Il
ragazzo si guardò attorno, furtivo, come se
all’improvviso non si trovasse più
dentro un locale elegante dalla musica discreta e
l’illuminazione soft, bensì
dentro una fossa di leoni affamati e lui una preda fin troppo facile.
Mascherando
il suo turbamento, si rimise il cappotto e uscì fuori,
l’aria fredda magari gli
avrebbe schiarito le idee. Camminò qualche minuto,
finché non trovò una
panchina su cui si sedette, avvertendo il metallo gelido sotto le
gambe, ma si
limitò a stringere di più la sciarpa attorno al
collo e nient’altro.
La
sua mente viaggiava, tentando di trovare un incastro per i pezzi di
quel
puzzle. Buffo, era stato sempre molto bravo con quei rompicapo, da
bambino era
una delle poche cose che facesse assieme al fratello maggiore, eppure
in quel momento
non riusciva a venirne a capo.
Bugie…
La
sua vita era una bugia. E quante ne aveva raccontate a se stesso, alla
famiglia, agli amici, solo per essere in grado di andare avanti, di
essere
all’altezza delle aspettative paterne? Era stato tutto
inutile, perché sentiva
di essere sul punto di perdere il controllo. Era su un treno impazzito,
con le
rotaie storte che non riuscivano più a condurlo nella giusta
direzione e lo
schianto era imminente, nessun freno del mondo avrebbe mai potuto
evitarlo.
Eppure Sasuke ancora non era pronto, non sarebbe sopravvissuto, forse,
se non
fosse stato solo, avrebbe avuto qualche chance, ma lo era. Era da solo,
lì, a
ghiacciarsi su una panchina in una stupida sera d’inverno.
Prese
il telefono, doveva sentire la sua voce.
Uno
squillo, due, tre, quattro…
Rispondi, dai
rispondi!
“Ehi
Sasuke! Che succede? Ti hanno dato buca? Hai detto che avevi un
appuntamento”
Sasuke
sorrise, la voce roboante di Naruto riecheggiava dagli altoparlanti del
cellulare. Anche se lo avesse allontanato dall’orecchio
sarebbe riuscito a
sentirlo ugualmente, ma lui aveva bisogno del suo rumore, di sentirsi
stordire
da lui.
“Figurati
se mi può succedere una cosa simile” rispose con
la voce apparentemente uguale
al solito, in fondo era bravo a mentire e fingere e quella era solo
l’ennesima
bugia.
“Ahah
certo, certo! Latin lover dei miei stivali!” rise Naruto che
continuò a
prenderlo in giro, permettendo a Sasuke di tornare a respirare. Il
macigno che
lo aveva oppresso si stava spostando dal suo petto e la mente si
schiariva, la
nebbia che l’aveva avvolta si stava dissolvendo.
“Naruto
– interruppe le sue chiacchiere leggere – i
biglietti del concerto della
settimana scorsa come te li sei procurati?”
La
busta in cui erano racchiusi era bianca, anonima e senza scritte,
nemmeno
dentro c’era un foglietto d’accompagnamento. Sasuke
non ci aveva dato peso, ma
effettivamente i due posti erano veramente ottimi, dovevano essere
costati
parecchio, sicuramente troppo per Naruto che era ancora uno studente
squattrinato e che aveva già partecipato al regalo di gruppo
con tutti gli
altri amici.
Dall’altro
capo della cornetta ci fu il silenzio, poi quando Naruto riprese la
parola il
suo tono era cambiato, era perplesso quanto serio:
“Che
domande mi fai? Erano da parte di quel tuo amico, Gaara. L’ho
incontrato mentre
andava via e mi ha chiesto di darteli perché si era
dimenticato, te l’ho anche
detto mentre ti davo la busta!”
A
Sasuke mancò il fiato per qualche istante.
Cercò
di sforzarsi di ricordare, ma quel giorno era stato veramente troppo
nervoso e
tutti i suoi ricordi successivi al momento della proclamazione erano
confusi;
l’alcool ingerito alla festa non aveva migliorato la
situazione. Si ricordava
vagamente di Naruto che gli allungava quella busta, lui che la infilava
in
giacca e poi nient’altro.
“Sasuke?
– lo chiamò l’altro preoccupato
– Sono venuto al concerto con te perché credevo
che ti fossi sentito con Gaara e lui fosse impegnato, non vorrai dirmi
che non
lo hai nemmeno ringraziato? Che razza di stronzo che sei!”
“E
piantala di starnazzare! – esclamò Sasuke con la
voglia di mettergli le mani al
collo – Non avevo capito che erano da parte sua, pure tu
potevi darmeli in un
altro momento più tranquillo!”
Ecco,
scaricare la colpa sugli altri era un’altra cosa in cui era
dannatamente bravo.
“Sì,
certo… beh, dai chiamalo e scusalo, se è tuo
amico saprà bene quanto sai essere
stronzo.”
“Non
ne hai idea Naruto, non ne hai idea…”
L'angolino
oscuro: No, non
sono stata in vacanza
fino ad adesso, ma al mio ritorno ho avuto un po' di cose di cui
occuparmi, ma
sono di nuovo qui e anche il nostro Sasuke merdina e uno sfigatissimo
Gaara.
Con che coraggio dico che lo amo visto che gliene faccio succedere di
tutti i colori?
XD
Abbiamo
visto che tutti e due stanno cercando di andare avanti, Gaara senza
guardarsi
indietro, al contrario di Sasuke che crede che l'altro possa cercarlo
ancora o
che tutto si risolverà facilmente come al solito, senza
dover fare sforzi, o
mettersi in gioco, al contrario di Gaara che ha lottato e faticato per
ogni
cosa che aveva, forse avrebbe persino lottato per lui se solo Sasuke
glielo
avesse permesso, invece di respingerlo brutalmente, ma questo non lo
sapremo
mai, ormai quella porta si è chiusa, e il nostro segretario
non è tipo da
tornare sui propri passi. Però se ne possono sempre aprire
delle altre e chissà
dove condurranno...
Gaara fa la
conoscenza con Hinata e Itachi con cui condividerà la stanza
per qualche mese
e, ovviamente, resta affascinato dal ragazzo, che non sa essere il
fratello di
Sasuke. Per il momento lasciamolo nella sua ignoranza, immerso fino al
collo
tra i suoi problemi personali e quelli a lavoro.
Parliamo di
Sasuke... Deidara non è uno zuccherino, bensì la
solita scheggia impazzita e
non gliene manda a dire, anzi se non fossero stati in un locale
affolalto ci
sarebbe andato giù anche più pesantemente. Sasuke
ora si troverà a riflettere
sulle sue parole, sulla sua omosessualità nascosta che non
ha mai veramente
affrontata e con quel regalo inaspettato da parte di Gaara, cosa
combinerà la
nostra merdina preferita?Ho un raporto di amore/odio con lui, non posso
non
insultarlo, comprendetemi XD
L'ultima
nota e poi la chiudo qui: non ho dato una collocazione geografica
precisa alla
mia storia, è semplicemente ambientata in qualche grande
città, non sono
riuscita ad ambientarla in Giappone, in Inghilterra, Italia o qualche
altro
paese specifico, proprio non riuscivo a trovarne uno che si adattasse.
Per
questo ho lasciato il contesto vago e i miei accenni ad esami,
università,
pratiche legali e quant'altro saranno sempre piuttosto vaghi e mai
specifici,
in modo da adattarsi il più possibile a vari contesti,
magari nemmeno ci
avreste fatto caso se non ve lo avessi detto,
ma una puntigliosa della vergine come me poteva mai
evitarlo? No,
proprio no XD alla
prossima! Non
dimenticate di famri sapere che ne pensate della storia.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** 4 - Reach out and touch faith ***
Reach out and touch faith
Il
telefono è stata una delle più grandi invenzioni
dell’umanità. Essere in grado
di sentire in tempo reale qualcuno che si trova anche
dall’altra parte del
mondo è effettivamente strabiliante, se si pensa che prima
del telefono gli
unici mezzi di comunicazione erano le lettere, biglietti consegnati a
mano o
attraverso uccelli viaggiatori.
Questa
invenzione ha cambiato profondamente la società, o forse
è stata la società a
cambiare di pari passo per stare dietro alle evoluzioni della
telecomunicazione, arrivate oramai a limiti mai nemmeno immaginati. Gli
smartphone, internet e tutto ciò che vi è
correlato hanno abbattuto muri
invisibili, eppure le persone, per quanto vicine, rimangono ancora
profondamente lontane e distaccate l’una dall’altra.
Questi
pensieri scorrevano per la mente di Itachi Uchiha in un pigro
pomeriggio
invernale. Sorprendentemente aveva finito tutto il lavoro assegnato,
pur
essendo stato meticoloso come suo solito. Aveva preparato le carte
necessarie
per la sua sortita in tribunale dell’indomani e riordinato persino la scrivania,
l’unica cosa rimastagli
da fare era spegnere il computer e andarsene a casa, eppure ancora non
si
decideva.
Faceva
finta di scrivere qualcosa, lo schermo mostrava la pagina di google su
cui era
fisso da almeno cinque minuti, ma avrebbe potuto esserci anche un campo
stellato, tanto nessuno avrebbe potuto vederlo a causa della sua
angolazione.
Ciò che aveva catturato l’attenzione di Itachi non
era certo il doodle del
giorno, bensì Gaara, tanto da spingerlo a studiarlo di
sottecchi mentre fingeva
di fare altro.
In
realtà il segretario lo aveva colpito fin dalla prima volta
e, in quelle due
settimane spese a lavorare nella stessa stanza, lo aveva osservato con
più
attenzione di quanta ne dedicasse generalmente agli sconosciuti.
In
realtà gli dava fastidio, perché non si spiegava
tutto quell’interesse, ma
aveva stabilito una specie di patto con se stesso: finché
nessuno se ne fosse
accorto, avrebbe potuto indulgere in quella piccola concessione
voyeuristica.
Sicuramente
Gaara era bello con quei capelli rossi che calamitavano
l’attenzione e gli
occhi acquamarina, ma ad attirare l’avvocato erano i suoi
comportamenti e quel
poco del suo vero carattere che traspariva dai gesti e i movimenti
fatti
sovrappensiero. Come quel nervoso rigirare dell’indice
attorno a una ciocca di
capelli mentre era alle prese con una telefonata ostica. Le falangi
arrotolavano, tiravano e poi arrotolavano nuovamente quei fili rossi in
un
movimento continuo, di cui Gaara forse nemmeno si rendeva conto.
Oppure
Itachi aveva notato anche il modo in cui si mordicchiava il labbro
inferiore
quando era molto concentrato, o come arricciava la punta del naso
sottile
quando incontrava qualche difficoltà, e altri piccoli
particolari che l’avvocato
aveva diligentemente appuntato nella propria mente.
Il
ragazzo passava tantissimo tempo al telefono, ma era evidente che la
cosa non
gli piaceva e spesso Itachi si era accorto di come mantenesse la calma
di
fronte a interlocutori poco svegli, o che gli creavano problemi invece
di
risolvere quelli per cui aveva telefonato. La sua voce era impassibile,
ma i
suoi occhi… beh, quelli avrebbero potuto incenerire, o forse
congelare vista la
loro sfumatura che ricordava il ghiaccio.
In
quel momento stava discutendo, pur mantenendo i toni pacati, con il
doposcuola
a cui erano iscritti i figli più piccoli di Hizashi Hyuga,
sicuramente niente
che riguardasse le pratiche forensi, eppure il segretario doveva
risolvere
tante questioni personali degli avvocati, faccende che avrebbero potuto
rivedersi loro stessi.
Ma
perché farlo quando si poteva pagare qualcuno? Era una
questione di status
sociale che l’Uchiha comprendeva perfettamente per essere
stato cresciuto a
quel modo, ma non gli era mai piaciuto delegare o permettere ad altri
di
risolvere le sue questioni personali, quindi evitava di farlo. Era
stato uno
dei tanti motivi di screzio col padre, anche se niente avrebbe mai
potuto
equiparare la decisione di Itachi di diventare avvocato piuttosto che
architetto come lui; una faccenda che il genitore ancora non gli aveva
perdonato proprio del tutto a distanza di anni, nemmeno il fatto che il
figlio
minore avesse seguito le sue orme aveva addolcito di molto il boccone
amaro,
quel sottofondo sgradevole era sempre lì, presente,
incollato al palato.
Gaara
aveva concluso la telefonata, ovviamente in modo positivo, e si stava
massaggiando gli occhi evidentemente stanchi.
Lui
e Itachi non avevano parlato molto se non per questioni lavorative, ma
l’Uchiha
aveva notato la sua stanchezza crescente, le occhiaie scure e la pelle
pallida.
Non
era solo il troppo lavoro: quel ragazzo aveva una malattia, un qualcosa
che lo
stava corrodendo dentro a poco a poco e Itachi ne era incuriosito. Era
rimasto
colpito da lui sin dal loro primo incontro, che non era stato in
quell’ufficio
grazie alle presentazioni di Hiashi Hyuga.
Istintivamente,
senza riflettere o starlo ad osservare ancora, si alzò e si
avvicinò alla sua
scrivania ma, arrivatogli quasi di fronte, Gaara avvertì la
sua presenza, tolse
le mani dal viso e lo guardò.
Rimasero
in silenzio per qualche secondo, semplicemente fissandosi, consapevoli
del
silenzio e di essere da soli, Hinata era fuori per una commissione.
“Le
serve qualcosa, avvocato?” si decise a chiedere il segretario
per spezzare quel
momento di inspiegabile tensione.
“Mi
chiedevo se tu fossi vegetariano o seguissi qualche dieta
strana.”
Gaara
sbatté le palpebre più volte, incredulo. Era
stanco, forse esausto era la
parola più giusta, ma riteneva di non essere in un sogno e
di aver udito bene,
ne era certo, beh… quasi.
“No,
niente del genere, ma cosa c’entra?”
Itachi
fece un piccolo sorriso e piegò la testa su un lato,
guardandolo un po’ storto,
con la coda che si spostava su una spalla.
“Mi
rendo conto di quanto la mia domanda possa apparirti bizzarra, e forse
la
proposta che sto per farti lo sarà anche di più,
ma vedi… oggi durante la pausa
pranzo sono andato dai miei genitori e mia madre ha voluto a tutti i
costi
darmi del cibo da portare via, sorda a qualsiasi mia protesta, sai come
sono
fatte le mamme, no? Il punto è che quello che mi ha dato
proprio non mi piace e
io vivo da solo, non lo mangerei e trovo che sarebbe un vero spreco
gettarlo, a
te piace lo spezzatino?”
Gaara
sgranò gli occhi, incredulo per tutto quel discorso
così squisitamente
familiare e non pretenzioso; non credeva che Itachi potesse essere
così
semplice e alla mano, non dal modo in cui appariva.
Rimase
senza parole con cui rispondere, anche perché lui proprio
non sapeva come
fossero le mamme, non ne aveva mai avuta una e dubitava che quella
adottiva,
avuta giusto per qualche mese, fosse un buon modello con cui fare
paragoni.
“Ecco…
io… – mormorò confuso – la
ringrazio, ma magari ha qualche amico a cui potrebbe
darlo, perché proprio a me? E poi non so come le sia venuto
in mente che fossi
vegetariano” scherzò con un po’
più di padronanza di sé.
“Beh,
ho notato che spesso pranzi con solo una mela e dei crackers, non
volevo farti
proposte che avrebbero potuto ferire il tuo animo di amante degli
animali in
caso tu fossi stato addirittura vegano” rispose ironico,
poggiando una mano
alla scrivania.
“Ah
beh, a volte capita che non abbia tempo di prepararmi qualcosa la sera
prima e
la mattina sono sempre di fretta. Oppure, se ci riesco, a volte il mio
coinquilino se lo mangia la notte, sa è un vero
condor!”
Sorrideva
mentre mentiva spudoratamente, ma avrebbe mai potuto rivelargli che era
così al
verde da non poter fare nemmeno una spesa vagamente decente? Per cena,
a casa,
non mangiava molto di più o di diverso; se solo Hidan si
fosse accorto di
quello che combinava piuttosto che chiedergli una mano, di sicuro lo
avrebbe
riempito di botte.
Per
fortuna lavorava quasi tutte le sere e loro si incontravano di rado,
diminuendo
così i rischi che Hidan potesse scoprire ciò che
il coinquilino stava in tutti
i modi cercando di nascondere. Quello che però Gaara
ignorava era che gli occhi
di Itachi erano molto acuti. Un paio di volte era rimasto alla
scrivania per
sbrigare delle pratiche urgenti e lo aveva visto mangiare quelle cose;
gli
altri giorni solitamente usciva per la pausa pranzo ma, quando tornava,
ogni
volta nel cestino della cucina trovava sempre quegli scarti: un torsolo
e un
pacchettino di plastica un po’ unto.
Itachi
poteva non conoscere la malattia che stava corrodendo Gaara, ma era
certo che
il ragazzo non stesse mangiando adeguatamente e gli pareva che quel
maglione
gli calzasse un po’ più largo rispetto a quando si
erano conosciuti.
“Non
mi hai ancora detto se lo spezzatino ti piace, e no, non ho veramente
nessun
altro a cui potrei darlo… non vorrai davvero farmi gettare
tutto quel cibo,
vero?”
Lo
incalzò con gentilezza ma decisione, tanto che il segretario
si mordicchiò
nervosamente le labbra, ma alla fine cedette, forse oltre alla fame a
spingerlo
era stata la curiosità. Il cibo preparato da una madre
amorevole poteva avere
un sapore diverso?
“Ok,
se proprio non lo mangia… sprecare cibo è
veramente una cosa pessima.”
Il
suo orgoglio era venuto a patti con la logica e il vincitore esultante
era il
suo stomaco.
Itachi
andò alla scrivania e tornò con una busta che gli
porse e, mentre Gaara
osservava quella scatola piena con meraviglia, pensando a quanti giorni
sarebbe
andato avanti, lui lesse i titoli di alcuni libri sulla scrivania.
“Stai
per caso studiando legge?”
“Eh?
– mormorò l’altro, distratto da quel
regalo inaspettato – Sì, sono iscritto
all’università ma come studente lavoratore e
quindi non frequento le lezioni,
farò solo gli esami.”
“È
un bell’impegno, gli studi sono difficili già con
le spiegazioni dei
professori, in questo modo lo saranno ancora di più,
specialmente con tutto il
lavoro che devi svolgere.”
Gaara
si sentì stupido, perché era nuovamente senza
parole, ma non sapeva davvero
cosa rispondere dinanzi a quell’affermazione acuta e
veritiera.
“Già,
ma… voglio davvero diventare avvocato. E il lavoro qui non
è poi tanto pesante,
riesco a studiare abbastanza durante la pausa pranzo o la
sera” gli assicurò.
Era la prima volta che parlavano sul serio e Gaara si chiedeva dove
l’altro
volesse arrivare, non era abituato a raccontare così tanto
di sé.
“Beh,
se ti serve qualche consiglio puoi chiedere a me – si
offrì – ora me ne vado e
ti lascio lavorare in pace. Senza di te dubito che i figli di Ebisu o
di
Yamaguchi riuscirebbero mai a sopravvivere.”
Fece
un sorriso leggero, per far intendere che comprendeva quanto frustrante
potesse
essere a volte il suo lavoro e Gaara con sua sorpresa si
ritrovò a rispondere a
quel sorriso. Nessuno degli altri avvocati gli aveva mai offerto il suo
aiuto,
pur sapendo del percorso di studi che aveva intrapreso.
“Beh,
chissà… grazie per la sua proposta e per la cena,
avvocato.”
“Quando
siamo soli puoi anche darmi del tu e chiamarmi Itachi.”
“Ecco,
non so se…” disse incerto.
“Quando
siamo soli – ripeté – Hiashi non
avrà mica piazzato le microspie qui dentro, o
no?” aggiunse con splendida leggerezza.
“No,
credo proprio di no – convenne – allora domani ti
farò sapere com’era lo
spezzatino, Itachi”
“Ci
conto, Gaara.”
***
Sasuke
camminava con le cuffiette nelle orecchie, incurante del freddo. Ormai
era
pieno inverno e lui avrebbe potuto andare a lavoro con la macchina,
eppure in
qualche modo gli piaceva usare i mezzi pubblici e camminare. Se lo
avesse
confessato, chiunque gli avrebbe dato del pazzo: chi, sano di mente,
avrebbe
preferito stiparsi in autobus sempre troppo pieni, congelarsi, o
prendere la
pioggia in piedi ad una fermata, invece di usare comodamente la propria
automobile?
In
effetti anche Sasuke era stupito da se stesso, lui che odiava la folla
e la
confusione preferiva viaggiare a quel modo, come qualunque mortale.
Il
punto era proprio quello: quando saliva su un autobus, o doveva correre
per non
perderlo, si sentiva assolutamente normale;
non era il secondogenito di un’importante famiglia, non era
il figlio che non
poteva deludere il padre, non era il fratellino che era riuscito a
primeggiare
solo perché il fratello maggiore aveva deciso di togliersi
dalla competizione,
non era il gay che non riusciva ad accettare se stesso.
Era
solo un ragazzo che correva, sbuffava per i ritardi, condivideva disagi
e aria
con altrettante persone normali e ordinarie, che combattevano ogni
giorno le
proprie battaglie normali e ordinarie.
Forse
peccava di presunzione nel ritenersi speciale e che di conseguenza
anche i suoi
problemi lo fossero, ma d’altronde era stato allevato con
quella convinzione;
da neonato, oltre al latte, doveva aver succhiato e fatto propria anche
quell’idea.
Usò
le chiavi per aprire un cancello secondario e attraversò il
grande giardino che
circondava la bellissima e futuristica abitazione, progettata da suo
padre in
persona anni prima. Era stato considerato un folle per i suoi progetti
all’avanguardia, ma lui si era imposto senza mai fare
rimangiarsi le proprie
idee e adesso il suo nome era nominato con grande rispetto e il suo
genio era
indiscusso. Era duro per Sasuke doversi confrontare con lui ogni
giorno, con la
consapevolezza che presto avrebbe dovuto superarlo per non essere
considerato
semplicemente normale, nella sua famiglia forse non c’era
peggior onta… o forse
sì. Probabilmente essere gay superava l’essere
normale.
Vide
l’automobile del fratello nel vialetto d’ingresso e
si ricordò che quella sera
ci sarebbe stato anche lui a cena. Sbuffò.
Non
odiava Itachi, perlomeno non più, era riuscito a comprendere
che l’altro non lo
faceva apposta ad essere quello che era. Era nella sua natura essere
perfetto,
sapere sempre quale fosse la cosa più giusta da dire o da
fare, elegante e
impeccabile nella figura quanto nei modi. Sasuke aveva sempre vissuto
quel
divario tra di loro come una sfida, con
l’impossibilità di lasciarsi andare e rilassarsi
perché doveva dimostrare di
essere alla sua altezza, di poterlo superare in qualche modo. Gli
atteggiamenti
del padre non lo avevano aiutato: Fugaku aveva sempre usato Itachi come
esempio, raccomandandosi col figlio minore di essere come lui,
generando in
Sasuke una frustrazione perenne perché lui non era come
Itachi, non lo sarebbe
mai stato.
Aveva
odiato a lungo: il fratello per essere tanto irraggiungibile, il padre
che lo
desiderava diverso, se stesso per la propria incapacità.
L’unica
volta in cui era riuscito a primeggiare era stata
sull’università, ma
semplicemente perché Itachi, dopo qualche mese, aveva
annunciato che avrebbe
lasciato architettura per iscriversi a giurisprudenza.
Una
granata lanciata sulla tavola durante il pranzo domenicale
probabilmente avrebbe
fatto meno danno e meno feriti: Fugaku era scattato come se avesse
ricevuto una
ferita mortale, urlando, quando invece lui era sempre tanto compassato.
Si
sentiva tradito dal figlio in cui aveva riposto tante aspettative,
forse se
Itachi gli avesse confessato di essere un pluriomicida, di aver fatto
fuori
tutta la famiglia Uchiha, nonnina claudicante compresa, ne sarebbe
stato meno
sconvolto.
In
quell’occasione anche Itachi aveva gridato e non si era
smosso dalle proprie
opinioni, quella volta non avrebbe assecondato il genitore.
Era
andata a finire che il figlio maggiore se ne era andato di casa, Fugaku
gli
aveva tagliato i fondi, ma lui aveva preso una borsa di studio e aveva
proseguito per la propria strada senza nessun tentennamento, senza
nessun passo
indietro.
Solo
tre anni prima, quando si era laureato, le cose avevano iniziato ad
aggiustarsi. Mikoto non si sarebbe persa quel giorno per niente al
mondo e ci
aveva trascinato Fugaku, che si era riscoperto orgoglioso di quel
figlio che,
nonostante tutte le difficoltà, primeggiava sugli altri
compagni.
La
lontananza era servita anche ai due fratelli per disintossicarsi e
cercare di
costruire un rapporto con basi un po’ più solide,
invece di quelle traballanti
su cui aveva arrancato per tutta la loro vita.
Era
servito soprattutto a Sasuke per comprendere che non era colpa di
Itachi se
riusciva bene in tutto, anche lui non viveva bene la situazione; la
ribellione
al padre non era stata altro che la conseguenza di una vita passata a
reprimersi
e ignorare i propri desideri per compiacere il genitore. Sasuke aveva
anche capito
di non doversi colpevolizzare per non essere come lui, anche se anni e
anni di
complessi di inferiorità non potevano essere cancellati
così facilmente ma,
irrazionalmente, aveva avvertito molto di più
l’affetto del fratello quando
questi si era allontanato che non quando abitavano sotto lo stesso
tetto.
Itachi
lo chiamava spesso, si informava su come stesse, se Fugaku lo
opprimesse e non
si lasciava mai scoraggiare dalla laconicità alternata
all’acidità del
fratellino, lui c’era sempre. Quando Sasuke gli aveva
annunciato che si sarebbe
iscritto ad architettura era stato l’unico a chiedergli se
era veramente ciò
che desiderasse, timoroso che il ragazzo stesse scegliendo quella
facoltà
unicamente per compiacere il padre.
Sasuke
però ne era stato certo: sicuramente Fugaku aveva influito,
trasmettendogli
l’amore per la propria professione, ma lui stesso voleva
essere un architetto, pur
consapevole di quanto sarebbe stato difficile primeggiare in quel
settore sotto
la luce brillante del genitore.
Per
tutti questi motivi quella sera non gli dispiaceva sul serio rivedere
Itachi,
sebbene non si sentisse in forma e avesse paura che il fratello, con
quei suoi
occhi indagatori, vedesse ogni cosa.
Entrò
nella casa, accolto da un tepore piacevole che gli fece formicolare la
pelle
del viso per lo sbalzo di temperatura. Starnutì addirittura,
e si tolse le
scarpe umide e il cappotto prima di dirigersi nel salotto da cui
sentiva
provenire delle voci.
“Buonasera
avvocato” disse scorgendo Itachi sul divano, a fianco al
padre.
“Buonasera
architetto” rispose l’altro, sorridendo lievemente
di quel gioco che avevano di
salutarsi da quando Sasuke si era laureato, piaceva ad entrambi quella
complicità fraterna che, paradossalmente, si trovavano a
condividere da adulti
invece che da bambini.
“Stai
bene? Ho sentito starnutire e mi sembri un po’
stanco” aggiunse Itachi dopo
averlo squadrato.
“Te
l’ho detto mille volte: smettila di usare l’autobus
e prendi la macchina”
rincarò Fugaku.
Sasuke
roteò gli occhi verso il soffitto mentre dava loro le spalle
per andarsi a
sedere sulla poltrona di fronte: quei maledetti occhi di Itachi erano
veramente
troppo penetranti.
“Sto
bene, è stato solo lo sbalzo di temperatura e certo che sono
stanco, chi non lo
è il venerdì sera dopo una settimana di lavoro?
– guardò il padre – Mi trovo
bene con l’autobus, non ha senso costruire e progettare in
modo più verde, più
ecosostenibile, se poi non si cerca di limitare
l’inquinamento ambientale anche
su altri fronti.”
Fugaku
alzò una mano davanti a sé, come per fermarlo,
quando Sasuke iniziava a parlare
di ciò in cui credeva era inarrestabile, a differenza delle
altre volte in cui
bisognava tirargli fuori dalla bocca le parole con la forza.
“Sasuke
non serve che mi ripeti la tua tesi di laurea, la so a
memoria.”
Itachi
sorrise, divertito. La sua piccola ribellione aveva cambiato un
po’ tutti in
quella famiglia e in meglio, gli piaceva pensare; persino il padre, per
quanto
severo, si era leggermente ammorbidito. Non avevano mai conversato a
quel modo in
passato, pur abitando sotto lo stesso tetto e vedendosi ogni giorno.
Versò
del vino bianco in un bicchiere pulito e lo porse al fratello:
“Allora
rilassati, noi abbiamo già iniziato prima che arrivassi tu.
Raccontami un po’
come sta andando allo studio.”
Sasuke
accettò quel rinfresco e bevve un sorso
dell’ottimo vino, prima di iniziare a
raccontare. Era andato a lavorare nello studio di famiglia ovviamente,
quello
dove era cresciuto fin da piccolo e dove conosceva tutti. Non ci
sarebbe stato
granché da dire, ma la differenza era che finalmente era
entrato lì in veste di
lavoratore e non di visitatore; era decisamente qualcosa di cui parlare.
“E
tu come ti trovi dagli Hyuga? L’altra settimana quando sei
venuto a pranzo non
sono potuto venire, ero fuori città e non abbiamo avuto modo
di sentirci” chiese
poi Sasuke, poggiando il bicchiere vuoto sul tavolino.
“Tutto
bene, lavoro parecchio ma mi piace. Neji, il figlio maggiore di
Hizashi, ha
quasi completato il praticantato e quando lo finirà ci
prenderanno come soci
dello studio, mentre Hinata la figlia di Hiashi, lo ha appena
iniziato.”
“Deve
essere proprio esaltante difendere criminali che invece dovrebbero
marcire in
galera” commentò Fugaku con una sfumatura acida
nella voce. In fondo c’era
sempre quel pizzico di delusione e rammarico per quel primogenito che
non aveva
scelto di seguire le sue orme.
Itachi
non si scompose e fece un gesto elegante con le dita, per spazzare via
l’aria e
quelle parole:
“Su,
papà… lo sai bene che mi occupo di materia
civile. Sono altri gli avvocati che
si occupano di diritto penale allo studio, Ebisu si occupa addirittura
di
diritto di famiglia – sorrise leggero – piuttosto
devo rimproverare te, ancora
non avete concluso il progetto e io mi ritrovo senza un ufficio tutto
per me.”
Sasuke
li guardò interrogativo e Fugaku spiegò:
“Ci
hanno interpellati per un progetto di ristrutturazione. Lo studio Hyuga
ha
comprato l’appartamento adiacente al loro per ampliarsi, si
sta occupando Yamamoto
della faccenda, ma effettivamente è indietro a causa di
alcuni ritardi
burocratici per altri progetti. Gli ho sempre dato piena fiducia, ma un
ritardo
simile è inammissibile, abbiamo un nome e una
rispettabilità da mantenere.
Magari potrei affiancarti a lui, Sasuke” concluse,
pensieroso.
Il
figlio minore sbuffò:
“Che
noia, una semplice ristrutturazione – commentò,
lui puntava ben più in alto –
se lo ritieni opportuno però lo farò.”
“Sì,
ti servirà comunque come esperienza, ne hai
bisogno” decise Fugaku.
“Hai
bisogno di fare un po’ di gavetta fratellino”
aggiunse Itachi, divertito,
mentre Sasuke si indispettiva per quel nomignolo.
“Ehi,
ehi, chi denigra il mio bambino?” intervenne Mikoto, entrando
e andando a
mettersi alle spalle della poltrona del figlio minore per passargli le
braccia
attorno al collo e stringerlo.
“Mamma,
lasciami!” esclamò Sasuke, a quel punto realmente
in imbarazzo e a disagio.
“Perché
sei cresciuto? Eppure da piccolo eri così adorabile con
quelle guanciotte rosse
– sospirò, lasciandolo affranta, ma riprendendosi
subito – venite, è pronto. Ma
vi avverto: a tavola non voglio sentire una sola parola riguardo il
lavoro!
Piuttosto Itachi, dovresti raccontarmi della tua fidanzata.”
Il
ragazzo si accomodò in sala da pranzo, seduto di fronte al
fratello.
“Lo
trovo difficile visto che non c’è”
sorrise appena a Sasuke, che fece una
smorfia. Aveva conosciuto Konan, la sua ultima ragazza, ma sapeva che
le cose
non stavano andando bene nonostante la convivenza iniziata da poco e, a
quanto
pareva, si erano definitivamente lasciati.
Sperò
che la madre non facesse qualche domanda del genere a lui,
perché stava
diventando sempre più difficile mentire. Si era sempre fatto
scudo del suo
carattere schivo per non presentare nessuna fidanzata ai genitori, ma
fino a
quando sarebbe potuto andare avanti? A suo padre sarebbe venuto un
infarto se
si fosse presentato una sera con un ragazzo e non per presentarlo come
amico.
Osservò
tutta la sua famiglia riunita con le espressioni rilassate, finalmente
avevano
un dialogo, per quanto a volte stentato; non poteva essere lui a
distruggere
quell’armonia. Come avrebbe potuto farsi carico di una simile
responsabilità?
Deludere i genitori e venire meno alle aspettative: diventare un ottimo
architetto, trovare una moglie e sfornare qualche figlio. Vivere una
vita normale, senza uscire dai
confini
accuratamente predisposti per lui.
A
quei pensieri si sentì soffocare, e non poté
evitare di pensare a Gaara: dopo
quella sortita al bar non aveva fatto più nessun tentativo
di rintracciarlo, né
l’altro lo aveva chiamato. E Sasuke desiderò non
essere stato così stronzo il
giorno della sua laurea, nonostante si fosse sempre ripetuto di averne
avuto
tutte le ragioni.
Venne
riscosso da Mikoto che gli porgeva un piatto colmo e da Itachi che
diceva:
“Grazie
mamma, prepari sempre lo spezzatino, il mio piatto preferito.”
“Ma
figurati, è così semplice da preparare in fondo.
Com’era quello che ti ho dato
la settimana scorsa?”
“Ottimo
mamma – le sorrise – il più buono mai
fatto.”
***
Gaara
si passò una mano tra i capelli rossi, constatando
distrattamente che avrebbero
avuto bisogno di una spuntata, ma al momento non era quello
ciò che lo
preoccupava.
Fissò
i fogli davanti a sé e poi il monitor del computer, chiuse
gli occhi perché le
colonne di numeri stavano iniziando a confondersi tra loro, senza
più alcun
significato.
Era
stanco, tra pochi giorni avrebbe avuto un esonero obbligatorio e si era
illuso
di poter studiare con comodo durante la sua pausa pranzo.
Povero
illuso.
Proprio
perché aveva dovuto prendere una mattinata libera, si
trovava con del lavoro in
più da smaltire in vista della sua assenza e, come se non
bastasse, ci si era
messo anche quel concentrato di simpatia di Neji Hyuga.
Il
giorno precedente era stato dedicato alla contabilità e
Gaara si era ritrovato
a radunare e mettere ordine tra le fatture dello studio, cosa non
facile visto
che c’erano più avvocati, senza contare i due
nuovi arrivati.
Doveva
fare una nota sulle spese dello studio, dalle cose più
grosse come le bollette
o i costi di manutenzione dell’ufficio, fino alle cose
più stupide come i
materiali di cancelleria o il caffè della cucina. Oltretutto
doveva controllare
che le note spese stilate dagli avvocati coincidessero con i bonifici
arrivati
sul conto corrente, stilare poi la fattura, fare in modo che arrivasse
al
cliente, archiviare, fare copie e sistemare il tutto in modo ordinato
per
perdere meno tempo possibile quando sarebbe andato dal commercialista.
Era
un lavoro noioso ma di grande responsabilità, eventuali
ammanchi o problemi col
fisco sarebbero stati problemi suoi e, proprio quella volta, Gaara si
era
ritrovato dinanzi a dei bonifici che non riusciva a ricollegare a
nessuna nota
spese. Aveva controllato ben due volte, ormai sul punto di una crisi
isterica, quando
si era reso conto che mancavano quelle di Neji Hyuga, non gliene
consegnava da
almeno due mesi.
Il
ragazzo era impegnatissimo perché stava finendo il suo
praticantato e si stava
preparando per l’esame di abilitazione, così
veniva raramente allo studio.
Gaara
aveva provato a contattarlo tutta la giornata, anche quando era tornato
a casa,
e solo in tarda serata l’altro si era degnato di rispondere,
affermando che sì,
aveva delle note che non aveva consegnato, classificandole come cose di
poca
importanza. Gaara si era dovuto mordere la lingua per non dirgli quanto
tempo
gli avesse fatto perdere o come gli avesse complicato il lavoro, tanto
all’avvocato non sarebbe importato, lo aveva solo pregato di
portargliele
l’indomani mattina.
Neji
lo aveva fatto, peccato che si fosse presentato solo verso le undici,
gli aveva
sbattuto sulla scrivania un plico di fogli accartocciati, senza nemmeno
badare
al fatto che così li aveva mischiati ad altri documenti che
erano già sparsi.
Gli
aveva intimato di non disturbarlo più per stronzate simili,
e che avrebbe
dovuto accorgersi prima che lui non gli aveva consegnato quelle
maledette note
spese, invece di incomodarlo ad andare fin lì e mettergli
fretta perché
l’appuntamento col commercialista era vicino.
Lo
aveva guardato con quella sprezzante aria di superiorità,
respingendo in ogni
modo la propria colpa in quella faccenda, e Gaara aveva dovuto
controllarsi per
non spaccargli quella bella faccia aristocratica. Aveva stretto i
pugni,
nascosti dalla scrivania, e l’aveva semplicemente guardato
con quegli occhi
gelidi che riuscivano a fare concorrenza a quelli degli Hyuga. Poi
aveva iniziato
a fare ordine tra i vari fogli sparsi, ignorandolo, aveva questioni ben
più
urgenti da sbrigare che non sprecare tempo e fiato con lui.
Sapeva
che avrebbe dovuto rispondere in qualche modo pacato e accomodante,
come si
conveniva a un sottoposto, ma quelle parole il suo orgoglio non gli
aveva
proprio permesso di pronunciarle, consapevole che sarebbero state false
e
umilianti.
Forse
il suo orgoglio e la sua ostinazione sarebbero stati la sua rovina, ma
proprio
non voleva essere servile nei confronti di quello stronzo viziato che
se ne era
poi andato borbottando e sbattendo la porta, senza nemmeno ascoltare
ciò che la
cugina gli stava dicendo. Hinata aveva poi provato a scusarsi al posto
suo, ma
Gaara l’aveva liquidata con poche parole il più
gentili possibili sul fatto che
non doveva accollarsi responsabilità che non erano sue.
E
adesso si ritrovava ancora in alto mare, con il commercialista che lo
attendeva
nel pomeriggio e la speranza di poter studiare durante la pausa pranzo
naufragata in mezzo a quei fogli stropicciati a cui avrebbe voluto dare
fuoco.
Non era morto anni prima vivendo per strada al freddo, ma aveva
l’impressione
che sarebbe invece morto seppellito dalla carta.
“Esco
a pranzare – si sentì dire da Itachi –
hai bisogno di un’iniezione di vitalità
per tutte quelle carte? Magari un po’ di
cioccolato?”
Gaara
lo guardò, in realtà lusingato da quella proposta
accorta, ma anche
imbarazzato. Lui e Itachi ogni tanto conversavano su questioni anche
non
inerenti al lavoro; cose di poca importanza come scoprire che a
entrambi
piaceva la cioccolata o che l’Uchiha odiava la musica rap,
eppure Gaara
apprezzava molto quei momenti. Anche per quello la sceneggiata teatrale
di Neji
lo aveva fatto arrabbiare, perché Itachi era stato
lì, aveva visto e sentito
tutto; aveva visto quanto il segretario fosse considerato una
nullità o poco
più.
“No,
grazie, sono a posto così” rispose. Non voleva la
carità, respingeva qualsiasi
aiuto esterno e non riusciva ad accettare nemmeno un gesto gentile e
semplice,
come un cioccolatino comprato appositamente per lui.
Itachi
si infilò il cappotto, con un’espressione che
esprimeva i dubbi sul fatto che
Gaara fosse realmente a posto in qualcosa, ma non disse niente.
“Cos’hai
per pranzo oggi?” chiese invece.
Gaara
sospirò, gli faceva spesso quella domanda e non capiva
perché l’altro si fosse
fissato a quella maniera col cibo, in realtà non capiva
nemmeno perché gli
rivolgesse la parola o cosa ci trovasse di interessante in lui.
“Insalata
di patate.”
Era
certamente un modo più elegante per definire due patate
bollite e dovette
piacere a Itachi perché gli fece un piccolo sorriso.
Chissà – pensò Gaara
– forse
era un estimatore perverso
dell’insalata di patate, era un suo vizio, magari era un
drogato di insalata di
patate e doveva
nascondere un tale
peccato ignominioso e inconfessabile. Magari ci riempiva la vasca da
bagno e
poi ci sguazzava dentro, affondando tra i condimenti.
Gaara
sorrise a quel pensiero stupido, ma non lo cacciò
perché negli ultimi tempi
aveva avuto ben poco per cui ridere. Forse Itachi stava per chiedergli
che
diavolo avesse da sogghignare, ma la porta dello studio si
aprì e
nell’anticamera si sentì una voce squillante:
“Hinata!
Accidenti ma è fantastico! Ma se cacciassimo i vecchi e
venissimo ad abitare
qui?” Seguì una risata sguaiata e la ragazza
entrò nella stanza, arrossendo nel
constatare che c’era anche qualcun altro.
“S-scusate,
credevo non ci fosse nessuno – iniziò a dire
– ho dimenticato…”
Ma
nessuno seppe mai cosa era ritornata a prendere, perché
nella stanza si
affacciò il proprietario della risata sguaiata che,
altrettanto rumorosamente,
la interruppe:
“Gaara?!
Ma che diavolo ci fai qui? Accidenti, non ti ho più visto da
quel giorno! Come
stai?”
Gaara
osservò con orrore crescente Naruto entrare prima nel suo
campo visivo e poi
avvicinarsi a lui fino a posargli una mano sulla spalla, stringendola
affettuosamente, come se fossero stati grandi amici invece che nulla
più di
conoscenti.
“Naruto…
– mormorò, incapace di fare un sorriso o di
nascondere la sorpresa – ci lavoro
qui.”
“Ma
dai? – esclamò l’altro – Sei
anche tu un avvocato? Ma che figata! E proprio
nello studio della mia fidanzata, ad averlo saputo sarei salito a
salutarti
molto tempo prima!”
Gaara
maledisse la sfiga che continuava a perseguitarlo: non era possibile
che, con
tutte le ragazze che esistevano, Naruto stesse assieme proprio
all’unica che
lavorava nel suo ufficio. Magari se ci fossero stati solo uomini
avrebbe
scoperto che era gay o qualche altra stronzata, giusto per creargli
altri
problemi.
Non
voleva vedere quel biondo esagitato, non voleva pensare a Sasuke, non
voleva
pensare al modo in cui si era sentito umiliato e respinto quel giorno e
a
quanto, nonostante tutto, il ragazzo gli mancasse.
“Vi
conoscete?” domandò la voce pacata di Itachi.
“Oh,
ci sei anche tu! Scusa non ti avevo visto –
ridacchiò Naruto – sì, Gaara
è un
amico di Sasuke, non lo sapevi?”
A
quelle parole il segretario iniziò a sentirsi male;
perché mai Itachi doveva
conoscere Sasuke? Gli bastò guardarlo per capire che la
verità era piuttosto
palese: i loro occhi scuri simili, i capelli neri e i lineamenti
finemente
cesellati di entrambi.
È una
persecuzione, cazzo!
“Già,
tra l’altro quello stronzo ti ha chiamato per ringraziarti
dei biglietti,
vero?” domandò ancora Naruto stavolta a Gaara che
ancora non riusciva a
spiccicare parola. Era inchiodato su quella sedia, gli pareva che il
corpo
pesasse tonnellate tanto era difficile muoverlo, le gambe e le braccia
erano
intorpidite al pari della sua mente.
“Sì,
oh sì – riuscì a dire in qualche modo
– era bello?”
Concentrati,
rilassati, non sta
succedendo niente di male. Parla e comportati normalmente, altrimenti
Itachi
intuirà che qualcosa non va, quegli occhi… quegli
occhi vanno troppo a fondo.
“Sì,
fantastico! Peccato che tu non ci sia potuto andare, e poi i posti!
Accidenti,
erano ottimi, ti saranno…”
“Perfetto!
Sono veramente felice” lo interruppe Gaara, alzandosi e
posandogli una mano
sulla spalla. Quello lì parlava davvero troppo e diceva cose
che era meglio che
rimanessero taciute.
“Mio
fratello non ha molti amici, credevo di conoscerli tutti. Non credevo
che quel
giorno all’università fossi lì per
lui” disse invece Itachi, fermandosi davanti
alla sua scrivania e guardandolo.
Il
mento era appena sollevato, e un sorriso accennato era sul suo volto.
Gaara
cercò di mantenere la sua compostezza, ma era maledettamente
difficile,
sembrava che ogni cosa gli stesse crollando addosso. Certo non potevano
sapere
o immaginare che lui e Sasuke fossero andati a letto insieme o che
erano gay,
ma di sicuro si intuiva che c’era qualcosa di strano in tutta
la faccenda, e
non poteva illudersi che l’Uchiha non lo intuisse, non era
Naruto.
“Mi
hai visto?” L’idea che, tra quella folla, Itachi lo
avesse notato lo
scombussolava.
“Più
che altro mi sei venuto addosso mentre scappavi via… ma
forse non te lo ricordi.”
“No,
scusa per quel giorno, ma ero in ritardo e dovevo tornare a lavoro
– rispose
Gaara e gli parve di essersi ripreso tanto che aggiunse – io
e Sasuke ci
conosciamo da poco in realtà.”
“Oh,
davvero?” domandò Itachi, inarcando un
sopracciglio.
Oh, davvero un
amico appena
conosciuto regala ottimi biglietti, sicuramente costosi? Soprattutto se
è
evidente che quel qualcuno non naviga nell’oro e ha un lavoro
modesto? Davvero
vi conoscete da così poco? E quella tua fuga precipitosa era
solo a causa del
ritardo?
Gaara
avvertì tutte quelle domande inespresse nascoste in due
semplici parole e si
diede dell’idiota: sul serio aveva creduto di essersi ripreso
e che Itachi non
avrebbe capito ciò che gli premeva rimanesse nascosto? Non
rispose e si limitò
a fissarlo coi propri occhi chiari, senza alcuna titubanza; Itachi non
poteva
leggergli così tanto dentro, si diceva.
“Naruto,
si sta facendo tardi, la prenotazione…”
mormorò la voce pacata di Hinata.
“Oh
sì, certo. Noi dobbiamo andare, ma perché non
vieni a pranzo con noi Gaara?”
“Ti
ringrazio, ma ho parecchio lavoro da finire assolutamente prima delle
16.
Mangerò qualcosa qui alla scrivania, ma grazie
dell’invito.”
“Oh,
cavoli che schifo – borbottò Naruto – e
tu Itachi?”
“Grazie,
ma ho un amico che mi aspetta e poi non rovinerei mai un appuntamento a
Hinata
– sorrise, affascinante – a dopo, Gaara.”
Uscì
in fretta e poco dopo gli altri due lo imitarono, Naruto blaterando
qualcosa
sul fatto che dovevano assolutamente vedersi una sera o qualcosa del
genere.
Gaara,
rimasto solo, piombò sulla sedia a peso morto, sentendosi
prosciugato di ogni
forza.
Non
era possibile che, tra tutti gli studi legali della città,
nel suo fossero
arrivati la fidanzata del migliore amico di Sasuke e suo fratello. Era
qualcosa
che aveva dell’incredibile, era ridicolmente assurdo.
Sicuramente
Naruto avrebbe detto a Sasuke di averlo visto… e cosa
sarebbe successo? Avrebbe
dovuto aspettarsi di rivederlo?
No,
non lui, si rispose.
Lo
aveva cacciato, aveva calpestato e poi sputato su di loro, su qualsiasi
cosa
fossero riusciti a mettere in piedi in quei mesi; il Sasuke che
conosceva non
aveva nessun motivo di presentarsi lì a sorpresa o di
cercarlo, come non aveva
fatto da un mese a quella parte.
Ripensare
a lui lo fece arrabbiare e con una manata spazzò una pila di
fogli che volò in
aria, librandosi come tante farfalle immacolate prima di planare sulle
mattonelle anonime.
“Bravo
stronzo” sbuffò, sarebbe toccato a lui sistemare
tutto. Era lui che avrebbe
dovuto rimettere a posto le cose, raccogliere i cocci, tentare di
incollarli…
lui, non certo Sasuke. Sasuke lo aveva lasciato indietro.
L’angolino
oscuro: Più insalata di
patate per tutti, ieeee! Scusate, ma proprio non ho
resistito e ho dovuto mettere questa piccola stupidaggine,
l’idea di Itachi
drogato di insalata di patate mi faceva ridere troppo XD
Sempre parlando di
cibo, ma quant’è
accorto e adorabile Itachi che si preoccupa per Gaara? Si rende conto
di non
conoscerlo abbastanza per poter fare domande personali o intervenire e
che,
forse, l’unica cosa che può fare per lui
è assicurarsi che mangi adeguatamente,
e osservarlo da lontano of course, Itachi voyeur ci piace!
Però Gaara
è sfigatissimo e per una
suprema botta di sfiga scopre che lo stesso Itachi con cui ha iniziato
a
parlare e aprirsi un minimo altri non è che il fratello di
Sasuke, e penso che
la cosa lascerebbe spiazzato chiunque, lui è stato fin
troppo bravo a
controllarsi, ma fino a quando dureranno i nervi di Gaara sottoposti a
tutto
questo stress? Lo studio, il lavoro, Sasuke, i segreti da
mantenere… veramente
troppa roba per un solitario come lui.
Contrapposta alla
situazione di Gaara
vediamo invece la famiglia Uchiha, che per quanto incasinata rimane una
famiglia. Mi è piaciuto moltissimo scrivere di loro, anche
da quanto mostrato
da Kishimoto erano abbastanza normali, Fugaku era sì severo,
c’erano degli
screzi, ma in fondo era evidente che si volessero bene e ho voluto
ricreare la
stessa atmosfera. Hanno avuto le loro crisi, si sono persino divisi, ma
sono
riusciti a ritrovarsi, Sasuke e Itachi sono persino riusciti a
costruire un
vero rapporto. Certo per Sasuke non è facile scrollarsi di
dosso complessi e
paranoie di una vita, ma non odia il fratello.
Il titolo è
una strofa di Personal
Jesus dei Depeche mode, trovavo che calzasse bene per il capitolo, la
traduzione è “Avvicinati e tocca la
fede” perché a volte tutto quello che ci
spinge in avanti è un piccolo atto di fede, la speranza che
domani andrà tutto
meglio.
Spero che anche questo
capitolo vi
piaccia e per qualsiasi domanda, lancio di pomodori marci o altro io
sono qui,
alla prossima!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** 5 - L’amore non perdona ***
L’amore
non perdona
Itachi
bevve il cappuccino caldo, quasi bollente e capace di scottare la
lingua, ma a
lui piaceva così. Gli piaceva sentirsi riscaldare dalla
bevanda, con quel lieve
sentore amarognolo del caffè addolcito però dal
latte, e gli piaceva ancora di
più, dopo, addentare un dolcetto e leggere qualche riga di
un libro mentre
masticava.
Era
sabato mattina, il tempo era pessimo e prometteva pioggia, ma lui era
seduto
comodamente su un divanetto a gustarsi una goduriosa quanto calorica
colazione
mentre l’e-reader era aperto su un libro avvincente. Tutti i
fine settimana
andava a fare colazione in quella caffetteria, non tanto
perché fosse alla
moda, persino un po’ pretenziosa, quanto perché i
dolci erano ottimi. Nessuno
lo avrebbe mai sospettato, ma in realtà Itachi amava i
dolci; in generale seguiva
un’alimentazione piuttosto sana, però a casa sua
cioccolato e biscotti non
mancavano mai.
Sapeva
perfettamente che immagine avevano gli altri di lui, ovvero quella di
un uomo
inflessibile – un
pezzo di ghiaccio lo
aveva addirittura definito una volta una ragazza – e sapeva
altrettanto bene
che nell’immaginario comune i veri uomini non amavano i
dolci. Un po’ come suo
fratello Sasuke che, fin da piccolo, credendo di darsi un tono aveva
mostrato
apertamente di disprezzarli, pur guardandoli con bramosia, finendo poi
a
detestarli sul serio.
A
Itachi invece piacevano molto, anzi moltissimo, semplicemente evitava
di darlo
a vedere troppo apertamente, un po’ come accadeva per tutte
le altre cose che
gli interessavano.
In
parte era dovuto all’educazione rigida con cui era stato
cresciuto, in parte
perché, semplicemente, non gli piaceva esporsi; preferiva
tenere tutto per sé,
sia le cose belle che quelle spiacevoli, i suoi piccoli
segreti li chiamava. Cose di poco conto, innocenti, come
quella passione per i dolci e i gelati, altre volte cose un
po’ più grandi e
serie ma che lui teneva per sé, si confidava solo con suo
cugino Shisui,
l’unico con cui sentisse di avere davvero un rapporto di
confidenza.
Da
bambino fantasticava sempre di essere una spia, immaginava che sarebbe
stato
bravissimo, ancora meglio di 007, perché nessuno sarebbe mai
riuscito ad
estorcergli alcuna informazione. E allora il piccolo Itachi spingeva la
sua
immaginazione a dipingere inseguimenti rocamboleschi in moto, in
elicottero,
sparatorie dove i colpi della sua arma parevano infiniti, lotte a mani
nude
dove non versava nemmeno una goccia di sudore; ogni missione veniva
coronata
ovviamente dal successo e il ciak si concludeva con lui assieme a
qualche bella
donna, con le loro sagome che si stagliavano contro il tramonto nel
più
classico dei classici scenari da film.
Crescendo
aveva iniziato a sognare scenari più realistici, come la
laurea in ciò che gli
interessava o un appartamento tutto per sé, ma il vizio di
tenere segreti non
era cambiato, come anche quello di interessarsi a quelli degli altri.
Che spia
sarebbe mai stata se non fosse stato in grado di scoprire
ciò che i suoi nemici
tentavano di nascondere?
Osservava
le persone, il linguaggio del corpo più che delle parole che
uscivano dalla
bocca. Tutti erano in grado di dire una bugia più o meno
bene, ma non si
possono controllare i movimenti involontari come quello delle pupille,
o i tic
nervosi che non si era nemmeno coscienti di compiere.
Shisui,
con quell’umorismo pessimo che si ritrovava, diceva sempre
che Itachi doveva
lavorare in ospedale: avrebbe fatto risparmiare un sacco di soldi in TC
e altri
esami diagnostici. Shisui diceva un sacco di stronzate, faceva
battutacce
orrende, eppure lui le ascoltava sempre e qualche volta rideva. Giusto
qualche
volta o gli avrebbe dato troppa soddisfazione.
Finita
la colazione, Itachi spense il lettore, si avvolse bene in sciarpa e
cappotto e
uscì, in una mano la cartellina da lavoro e
nell’altra un sacchetto con altri
dolcetti.
Purtroppo
quel sabato mattina non poteva passarlo pigramente, ma doveva andare
allo
studio per recuperare delle pratiche lasciate indietro il giorno prima
e che
dovevano essere pronte per lunedì. Colpa di Shisui che lo
aveva costretto ad
uscire in anticipo per una stupida partita di basket a cui alla fine
erano
arrivati abbondantemente in anticipo, anche se Itachi doveva ammettere
– anche
se mai lo avrebbe fatto ad alta voce – di essersi divertito.
Il
vento gli scompigliava le ciocche di capelli lasciate libere dalla coda
e gli
feriva gli occhi che iniziarono a lacrimare, ma lo studio era vicino e
non valeva
la pena prendere la macchina; Sasuke sarebbe stato felice di quella sua
decisione ecologica.
Pensando
al fratello e alla cena di famiglia di qualche sera prima, gli fu
impossibile
non fare un bilancio del loro rapporto. Itachi si era sempre mantenuto
a
distanza da Sasuke, perché sapeva quanto potesse risultare
frustrante e
irritante la sua abilità nel riuscire bene in tutto quello
in cui si applicava.
Ingenuamente aveva creduto che, se non gli fosse stato troppo attorno,
Sasuke
avrebbe potuto risentire di meno del confronto tra loro, nonostante il
padre lo
avesse sempre alimentato.
Così
a diciannove anni Itachi si era ritrovato iscritto a una
facoltà che non gli
piaceva, con un fratello sconosciuto e ostile sotto lo stesso tetto e,
forse,
persino lui era uno sconosciuto per se stesso. Andarsene di casa,
ribellandosi,
era stata la decisione migliore che potesse prendere, per sé
e per la sua
famiglia; era stata dura all’inizio e probabilmente senza la
presenza di Shisui
sarebbe stato quasi impossibile.
A
distanza di anni però poteva dirsi moderatamente felice e
piuttosto soddisfatto
della propria vita e dei rapporti con la famiglia: il padre si era
ammorbidito
nei confronti dei figli, sua madre era soddisfatta del riavvicinamento
tra gli
uomini della sua vita, e lui e Sasuke parlavano, si vedevano a cena o
per un
cinema, avevano insomma costruito un rapporto reale, sebbene nella loro
relazione ci fossero ancora punti oscuri e cose che entrambi ignoravano
l’uno
dell’altro. Come Gaara, ad esempio.
Itachi
ripensò alla rivelazione ricevuta il giorno prima grazie
all’intervento di
Naruto: Gaara e il fratello si conoscevano, erano addirittura amici
secondo
l’uragano biondo, e Itachi non aveva mai dimenticato
l’espressione sconvolta e
persa sul viso di Gaara quando lo aveva urtato il giorno della laurea,
un’espressione difficilmente attribuibile a un ritardo in
ufficio per quanto
Hiashi Hyuga sapesse essere inflessibile.
Il
suo amore per i segreti tornava a galla, perché era evidente
che il segretario
ne avesse uno, forse anche più di uno, ma quegli occhi di
ghiaccio non si
lasciavano sfuggire niente, come la sua bocca che pareva avere una
risposta
pronta per tutto. Ma Itachi era troppo incuriosito da quel ragazzo per
demordere e, al di là della curiosità, gli
piaceva. Era testardo, solitario e
lavorava tantissimo senza mai un lamento, se non qualche occhiata
frustrata che
lanciava quando credeva di non essere visto. Stava lottando per il suo
sogno,
così come lui aveva lottato per il proprio mettendosi
persino contro il padre,
e a Itachi piacevano i lottatori.
Per
lui fu una sorpresa entrare in ufficio e trovare proprio
l’oggetto dei suoi
pensieri dietro alla scrivania, con una felpa larga, dai polsini un
po’
consumati e dei jeans stinti dall’aria vissuta, un
abbigliamento ben diverso da
quello semplice ma impeccabile con cui lo vedeva sempre.
“Hai
preso residenza qui allo studio?” gli domandò
iniziando a togliersi sciarpa e
cappotto.
Gaara,
che era saltato in piedi non appena la porta si era aperta, si
grattò il mento,
chiaramente a disagio:
“No,
avevo delle cose da smaltire e sono venuto stamattina pensando che non
ci
sarebbe stato nessuno, tutto qui.”
“Ah
sì? Abbiamo avuto lo stesso pensiero, lo sai? Abbiamo un
sacco di cose in
comune” replicò con tono leggero. Ma lo
guardò e non c’era traccia di quella
leggerezza nei suoi occhi, bensì una domanda inespressa.
Come un fratello
che
entrambi conosciamo… e tu, esattamente, in che rapporti sei
con lui?
Tuttavia
Itachi non fece accenno a ciò, ma guardando i libri e i
fogli sulla scrivania,
aggiunse:
“E
quella roba? Non è certo di lavoro.”
Gaara
era sempre più a disagio, così teso da sembrare
che i suoi nervi fossero sul
punto di spezzarsi, e ciò non poteva che incuriosire
maggiormente l’Uchiha.
“No,
è che… in realtà ho finito col lavoro,
ma visto che avevo la roba dietro ne ho
approfittato per mettermi a studiare. Qui è così
tranquillo e io lunedì ho un
esonero, se tu devi lavorare io posso andare nella sala riunioni per
non
disturbarti.”
Le
sue parole così pacate, logiche e ponderate, in netto
contrasto con l’ansia
mascherata dal suo corpo, facevano intuire a Itachi che il ragazzo non
gli
stesse dicendo esattamente la verità, e si chiese,
incuriosito, quale essa
fosse.
Di
certo Itachi non avrebbe mai immaginato, né Gaara gli
avrebbe mai raccontato,
che il giorno prima Hidan, annoiato, aveva avuto la grande idea di
prendergli il
portatile per vedersi un porno e beccarsi anche abbastanza virus da
friggergli
il computer. Il computer di cui Gaara aveva assolutamente bisogno per
studiare.
Hidan
lo aveva subito portato da un tecnico, ma questi aveva stabilito che
sistemare
un portatile così vecchio sarebbe stato costoso e non ne
valeva la pena,
l’unica alternativa era prenderne un altro. Peccato solo che
Hidan quel mese
non potesse permettersi di comprare un pc nuovo per sostituire quello,
dato che
era al verde dopo aver anticipato al coinquilino metà
dell’affitto e altri
soldi per alcune spese improvvise. Quando la sera Gaara aveva scoperto
ciò che
era successo si era infuriato, ma non era stato capace di prendersela
con
l’amico, che in fondo era sinceramente dispiaciuto,
perché, in fondo, la colpa
di quella situazione era sua e di quei maledetti biglietti. Se non li
avesse
mai comprati non si sarebbe trovato senza soldi, costretto a chiedere
aiuto
economico al coinquilino e trovarsi comunque nei guai di fronte a un
imprevisto
banale come quello. Se solo non si fosse fidato di Sasuke, se solo non
si fosse
illuso, se solo…
Consapevole
di ciò non aveva rimproverato Hidan, si era limitato a
sfogarsi lanciando
contro il muro quell’ammasso di plastica e circuiti inutili
quando era rimasto
solo, per poi cercare una soluzione in attesa del prossimo stipendio.
La
più semplice e immediata era usare il computer
dell’ufficio, peccato che
proprio quel giorno ci fosse anche Itachi, la persona che lui voleva
evitare il
più possibile, visto quello che era accaduto il giorno
prima. Preferiva non
vederlo, era abbastanza certo che non avrebbe fatto domande
inopportune, non si
chiamava Naruto in fondo, ma era meglio non rischiare.
No,
Gaara non avrebbe mai detto niente di tutto ciò, quindi
quelle frasi pacate,
logiche e ponderate erano state l’unica alternativa.
“Figurati,
stiamo insieme tutti i giorni e nemmeno le tue telefonate
all’agenzia di
disinfestazione per conto di Yamaguchi mi hanno mai dato fastidio,
benché non
mi piaccia sentir parlare di scarafaggi e annessi o nemmeno degli
scarichi
intasati a villa Hyuga – gli sorrise per poi appoggiarsi con
un fianco alla
scrivania e porgergli il sacchetto aperto – dolce?”
Gaara
lo guardò sorpreso: si ricordava persino di quelle
telefonate assurde che
facevano parte del variegato monte di incombenze che gli avvocati dello
studio
gli scaricavano addosso. Fissò poi sospettoso il sacchetto,
con diffidenza
quasi, ma il suo stomaco lo incitò ad accettare, era
lì da ore e quel giorno non
aveva nemmeno il pranzo.
“Grazie”
disse prendendone uno e addentandolo, trovandolo davvero squisito,
anche a lui
piacevano i dolci. Guardò poi Itachi e, riflettendo,
aggiunse “Penso che se ti
mettessi a testa in giù e ti scrollassi, ti scapperebbero
caramelle e
pasticcini da tutte le tasche, ne hai sempre uno” sorrise con
la bocca sporca
di glassa.
Itachi
fu preso in contropiede, non si aspettava che gli altri notassero
qualcosa di
lui, aveva imparato che alla gente non piaceva spendere energie in
qualcosa di
così complicato come interessarsi al prossimo. Ma era
evidente che quel
segretario fosse un po’ fuori dall’ordinario.
“Probabile
– sorrise, prendendone uno a sua volta – per
riuscirci però dovresti mettere su
un po’ di muscoli, sei magrolino. Anzi, mi sembri dimagrito
rispetto a quando
ci siamo conosciuti. Stai bene, vero?”
Quella
domanda seria, accompagnata da uno sguardo acuto e forse in buona parte
preoccupato,
bloccarono Gaara, che smise persino di masticare. Era da un pezzo che
nessuno
gli faceva più una domanda tanto interessata.
“Sì
– rispose mandando giù boccone e turbamento
– è solo un periodo un po’
stressante tra lavoro e studio, sto cercando un equilibrio. Grazie
però per
l’interessamento e per il dolce, era ottimo.”
Ed
era finito, come sembrava conclusa anche quella chiacchierata.
Infatti
Itachi finì il proprio con un ultimo morso, dopo di che si
alzò dalla scrivania
dicendo:
“Ok,
se hai bisogno di qualche aiuto per lo studio sono qui almeno un paio
d’ore,
buono studio.”
Concluse
quella frase allungando una mano verso il suo volto, portando via un
residuo di
glassa vicino all’angolo della bocca; un gesto delicato, con
cui gli sfiorò
anche il labbro inferiore, ma maledettamente troppo veloce, almeno
così pensò
Gaara .
Rimase
infatti paralizzato a fissarlo mentre si accomodava alla propria
scrivania,
come se non fosse successo nulla, ma per lui non era stato
così. Con il
fantasma di quel tocco sulla pelle era difficile concentrarsi
nuovamente su
quei termini giuridici vuoti e pomposi.
Alla
fine in qualche modo Gaara era riuscito a concentrarsi e la presenza di
Itachi
si era rivelata utile, oltre che piacevole. Aveva infatti trovato il
coraggio
per interromperlo un paio di volte per dei chiarimenti e, anche in quel
momento, l’Uchiha era chino sopra di lui a spiegargli un
passaggio. Quando finì,
guardò l’orologio e disse:
“Io
ho finito il mio lavoro, ma se vuoi posso rimanere ancora un
po’ per aiutarti,
poi devo proprio andare, ho un appuntamento.”
“No,
vai pure, anzi scusami per averti trattenuto” si
affrettò a rassicurarlo Gaara,
a disagio all’idea che l’altro sprecasse tempo per
lui. Quel giorno anzi era
stato veramente fantastico nei suoi confronti, lo aveva aiutato
moltissimo e non
aveva nemmeno mai tirato in ballo Sasuke.
“Come
vuoi, comunque sei ben preparato, non avrai problemi lunedì,
conosco il
professore, credimi” lo incoraggiò, posandogli
persino una mano su una spalla.
“Grazie
di tutto” rispose Gaara, senza il desiderio di rifuggire quel
contatto come gli
succedeva abitualmente con gli altri.
Rimasero
così, a guardarsi negli occhi in silenzio, con quel braccio
teso che faceva da
ponte tra di loro, l’unico contatto fisico che si fossero mai
concessi. La
pioggia ticchettava lieve contro i vetri, la luce plumbea riempiva la
stanza e
loro sembravano caduti entrambi in trance, storditi dai rispettivi
sguardi e
dal calore irraggiato da una semplice mano poggiata su una spalla.
Il
momento fu spezzato dal cellulare di Gaara, fino ad allora muto.
Sullo
schermo apparve un numero evidentemente non registrato in rubrica e il
ragazzo
si mosse per prendere il telefono, spezzando così il
contatto tra loro. Rispose
un po’ trepidante; gli occhi di Itachi erano davvero scuri,
come quello di
Sasuke, rifletté.
“Sì,
pronto?”
Silenzio,
poi una voce, la sua voce, non era
cambiata.
“Gaara?
Sei tu?”
La
stanza iniziò a vorticargli attorno e ringraziò
di essere seduto, o
probabilmente si sarebbe trovato a contare i granelli di polvere sul
pavimento.
Era
tutto sbagliato, lui non poteva avere il suo numero, perché
si rifaceva vivo
dopo sette anni? Perché in quel momento?
Avrebbe
potuto mentire, ma non lo fece.
“Sì,
sono io” mormorò in risposta, ignorando Itachi che
osservava la sua faccia
sconvolta, ignorando i libri, il computer, il mondo intero, esisteva
solo lui
all’altro capo del telefono.
***
Gaara
era nervoso, molto nervoso.
Era
domenica pomeriggio e lui avrebbe dovuto essere sepolto tra i libri,
per
l’esonero dell’indomani mattina, invece si trovava
in un locale con davanti una
tazza di caffè di cui non aveva nessuna voglia. Ticchettava
ritmicamente con le
dita sul tavolo, ogni volta che la porta si apriva sussultava e
tratteneva il
respiro, lanciava occhiate ansiose tutt’attorno; in sostanza
si comportava
peggio di un animale braccato.
In
realtà si sentiva davvero un animale in trappola: dopo aver
creduto di essere
scomparso, che nessuno lo avrebbe più ritrovato, dopo sette
anni la caccia si
era conclusa e lui era lì ad attendere il proprio
inseguitore.
Si
guardò gli abiti e valutò criticamente il polsino
un po’ scolorito della
camicia e il maglione che aveva indossato al di sopra mostrava lievi
segni di
infeltrimento; doveva assolutamente comprare al più presto
qualche abito nuovo
per andare a lavorare, non poteva assolutamente presentarsi come un
barbone,
Hiashi lo avrebbe licenziato di sicuro. Alzò lo sguardo e
notò le lucine
colorate e le decorazioni natalizie del locale, a breve la
città ne sarebbe
stata piena, al ragazzo non piaceva particolarmente quella festa, ma
con la
gratifica natalizia forse sarebbe riuscito a concedersi qualche spesa.
All’improvviso
la porta lo strappò da quei pensieri futili con cui aveva
cercato di distrarsi
e Gaara quella volta si ritrovò a trattenere il respiro
molto più a lungo,
perché lui era
lì, era arrivato.
Questi
lo individuò subito tra la folla e si diresse nella sua
direzione, così il segretario
ebbe modo di notare quanto fosse diventato più alto, le sue
spalle erano larghe
e massicce e il sorriso era sincero al di là dei denti
bianchi.
Gaara
ebbe un capogiro per il torrente di ricordi che lo investì:
flash gli
scorrevano per la mente, come in un carosello impazzito che
però non aveva
fine. Tutte le volte che si era aggrappato a quelle spalle, in cui
aveva
trovato rifugio nel suo petto, quelle labbra carnose che aveva
arrossato coi
baci e i morsi, il suo sapore sulla lingua, le sue mani calde che
lenivano le
ferite e gli carezzavano il corpo…
Era
bloccato in quella trappola, la tagliola affondava con sublime lentezza
nelle
sue carni e lui era incapace di muoversi, con gli occhi sgranati e la
mente
impazzita che faticava a reagire ai ricordi seppelliti in
profondità, assieme
alle emozioni che ritornarono prepotenti, come se non si vedessero dal
giorno
prima invece che da anni.
“Gaara…
accidenti!” esclamò l’altro chinandosi
ad abbracciarlo, tirandolo su in modo da
farlo più comodamente.
Gaara
lo assecondò, con le gambe di gelatina, e chiuse gli occhi
mentre poggiava
delicatamente le mani sulle sue spalle ancora fasciate dal cappotto.
“Kankuro…”
sussurrò solamente. Gli sembrava di avere la gola foderata
di spine, persino
far uscire quelle poche sillabe era stato uno sforzo doloroso.
Il
ragazzo lo allontanò quel tanto che bastava per osservarlo,
senza interrompere
la loro stretta, i suoi occhi castani brillavano e il sorriso luminoso
non
accennava a voler scemare.
“Sei
cresciuto, però sei rimasto sempre bassetto… e
senti qua come sei magro! E i
capelli, sono più lunghi… Accidenti non so bene
cosa dire, sto sparando un
sacco di stupidaggini, scusa ma sono nervoso –
ridacchiò – Dai, sediamoci.
Abbiamo un sacco di cose da dirci.”
Gaara
si rilassò un po’ nell’apprendere quanto
anche l’altro fosse nervoso,
d’altronde era impensabile il contrario, il loro non era un
semplice incontro
tra fratelli.
Lo
osservò rimanere con un semplice maglione e poi ordinare una
bevanda calda a
una cameriera di passaggio, dopo di che si guardarono negli occhi e il
minore
rispose:
“Beh,
è passato tempo, era impensabile che rimanessimo uguali
– sorrise appena – ti
trovo bene.”
Kankuro
poggiò un gomito sulla spalliera della poltroncina su cui
era seduto, lo guardò
con un sorriso un po’ sghembo, replicando:
“Sempre
di poche parole, eh? In questo non sei affatto cambiato
però. Io me la cavo
bene, ho un buon lavoro, e poi… – un istante di
pausa – no, dimmi di te, sono
curioso.”
Gaara
si inumidì le labbra secche bevendo un sorso di
caffè, in realtà aveva anche
troppe cose da dirgli e non sapeva da dove iniziare, perché
un assurdo senso di
felicità lo stordiva. Kankuro lo aveva ritrovato, di sicuro
non si sarebbero
più lasciati e, con lui a fianco, in qualche modo sarebbe
andato tutto bene.
Venne a galla la sua parte infantile, quella che si era sempre fidata
ciecamente del suo fratellone, che lo aveva adorato e aveva sempre
fatto tutto
quello che gli diceva, anche quando la notte, nello stesso letto, aveva
sentito
le sue mani su di sé.
“Sto
bene, ho un buon lavoro – tralasciò tutti i casini
vari perché non era davvero
il momento per loro – anch’io sono curioso e vorrei
dirti e chiederti molte
cose, ma prima di tutto dimmi come hai fatto a ritrovarmi… e
perché proprio
ora?”
Kankuro
si adombrò un attimo, ma fu solo una nuvola passeggera che
però lasciò il suo
segno su un sorriso che non era più così tanto
solare.
“Ho
assunto un investigatore privato, ho rintracciato anche nostra sorella.
Temari,
te la ricordi? Forse no, avevi solo quattro anni quando ci separarono e
ci
mandarono in due orfanotrofi diversi. Comunque lei vive in
un’altra città non
lontana da qui, è sposata e sembra felice; voleva venire
anche lei oggi, ma ho
pensato che fosse meglio andare per gradi, dopotutto anche noi non ci
vediamo
da anni – lo guardò stringendo tra le mani la
propria tazza appena portata
dalla cameriera – in realtà è da
parecchio che pensavo di rintracciarvi, adesso
c’è stata una giusta combinazione di eventi tra
cui una certa disponibilità
economica e… anche altre cose.”
Gaara
aggrottò la fronte, cercando di sforzarsi, ma aveva solo
qualche vago ricordo
di quella sorella che aveva persino dimenticato di avere.
Approvò la scelta di
Kankuro di venire da solo, al momento gli interessava esclusivamente
lui e
quanto aveva da dirgli.
“Era…
bionda? – domandò incerto e all’assenso
dell’altro continuò – No, ho solo
qualche vaghissimo ricordo, però mi fa piacere sapere che
sta bene. A quanto
pare ce la siamo cavata tutti e tre in qualche modo.”
Kankuro
posò la tazza sul tavolino con un po’ troppa foga
e il caffè tracimò, come un
cavallone marino abbattutosi sugli inutili argini di porcellana. Gaara
osservò
perplesso quello scatto rabbioso, le gocce scure sul legno chiaro e il
fratello
chiaramente alterato.
“Perché
sei scappato? Non avresti dovuto! Hai la minima idea di quanto mi sia
preoccupato? Eri minorenne, cazzo! Ho addirittura immaginato che ti
avessero
venduto al mercato nero del traffico d’organi – si
stropicciò gli occhi – non
serviva che scappassi!”
Gaara
si sentì ferito dalle sue parole, capiva la sua
preoccupazione, ma perché
Kankuro doveva sminuire ciò che aveva fatto unicamente per
lui e il suo
benessere?
“Non
serviva, dici? Dopo che ci avevano scoperti hai sentito anche tu i
nostri
genitori adottivi discutere su come ci avrebbero rimandato in collegio,
sul
fatto che ero sempre io a portarti sulla cattiva strada,
perché ero io il
ragazzo difficile e scontroso, quello che faceva a botte e che veniva
frustato
all’orfanotrofio. Perché avrebbero dovuto farlo se
non me lo fossi meritato? –
replicò secco, ricordandogli ciò che avevano
udito di nascosto – Io non volevo
tornare là neanche morto, ed ero certo che se fossi sparito
non ci avrebbero
rimandato te solo, tu gli piacevi sul serio Kankuro. Tu piacevi sempre
alla
gente, io no.”
Un
oscuro presentimento iniziò ad attanagliargli lo stomaco:
Kankuro stava seduto
comodamente, rilassato, senza un briciolo di quel nervosismo che aveva
decantato all’inizio mentre lui si sentiva i palmi delle mani
sudati e un vago
senso di nausea.
“Gaara,
ti sei preoccupato inutilmente, avresti dovuto parlarmene. È
vero, mi hanno
tenuto con loro dopo che te ne sei andato, anzi ho abitato con loro
fino a un
paio di mesi fa, ma sarebbe bastato che gli parlassi e non ci avrebbero
mai
rispediti all’orfanotrofio – gli sorrise
– appunto perché gli piacevo avrei
potuto rigirarmeli e convincerli a fare quello che volevo, in fondo non
era
mica successo niente di così grave.”
Così
come hai convinto
me?
Gaara
credeva di aver sofferto nella sua vita, prima in orfanotrofio, poi
quando era
scappato trovandosi da solo, e infine con Sasuke, ma quello che stava
sperimentando in quel momento travalicava tutto ciò. Provava
una sensazione di
irrealtà mista a panico che pareva averlo avvolto come una
coperta soffocante,
la stessa sensazione di quando si ha un incubo, ci si rivolta tra le
lenzuola e
non si riesce a svegliarsi.
“Niente
di grave? Ci hanno scoperti a fare sesso, due fratelli! –
esclamò seppur a
bassa voce – Quello è niente per te?”
A
quel tempo anche Gaara lo aveva pensato, aveva creduto addirittura che
fosse
giusto. In fondo lui e Kankuro si volevano bene, quello era solo un
altro modo
per dimostrarselo, per rinforzare quel legame fondamentale tra di loro.
Se per
Kankuro era così importante ficcarglielo nel culo o farselo
succhiare per
essere rassicurato sulla forza del loro legame, Gaara lo accontentava,
perché
per il fratello avrebbe fatto qualunque cosa. E l’altro in
fondo si era preso
cura di lui, gli aveva anche dato piacere, non si era limitato a
pretenderlo,
lo aveva stretto, lo aveva carezzato così come carezzava e
disinfettava le sue
ferite all’orfanotrofio e… gli aveva sussurrato
che lo amava.
“Gaara,
era solo un gioco… ammetto che mi è sfuggito di
mano, sarebbe dovuto finire
quando ci hanno adottati, ma non ci sono riuscito ed è
andato oltre e mi
dispiace di questo. In questi anni ho anche avuto paura di averti
potuto
traviare in qualche modo” sospirò, pinzandosi con
due dita la radice del naso.
Che
rumore fa un cuore quando si rompe?
Per
qualcuno è il classico e banale crack, per altri
un’esplosione, per Gaara fu il
silenzio assoluto. Per qualche istante non udì nulla. Non
c’era l’acciottolio
di piatti e tazze, non c’era il chiacchiericcio di fondo di
un locale pieno,
qualche risata più alta o un tono di voce più
acuto, vedeva le labbra di
Kankuro muoversi ma non sentiva nessuna parola. Durò solo
qualche attimo, che
però si dilatò abbastanza per far rivivere al
ragazzo quanto successo dalla
prima volta in cui il fratello lo aveva toccato sino ad allora, tutta
la fatica
fatta, il dolore e le delusioni subiti, gli sforzi per emergere e non
lasciarsi
sopraffare, eppure aveva sopportato tutto. Gaara era sempre andato
avanti
perché sapeva di essere stato amato, era convinto che se era
stato amato una
volta allora c’era la possibilità che sarebbe
accaduto di nuovo, e invece adesso
scopriva di essere stato solo, l’unico ad aver messo in gioco
dei sentimenti.
“Un
gioco?” mormorò.
“Beh
sì, il nostro era un orfanotrofio-collegio maschile, in
pratica non potevamo
uscire e sai com’è a
quell’età… avevo diciassette anni
– borbottò Kankuro a
disagio, grattandosi la testa – tu ne avevi quindici ed era
lo stesso anche per
te, no? Poi tu non parlavi con nessun’altro oltre a me, non
avevi nessun amico,
dovevi pur sfogarti pure tu, no? Era più semplice limitare
la faccenda a noi
due.”
“Avevi
detto di amarmi…”
“Certo
che sì! Sei mio fratello, certo che ti voglio bene, anche
più di quanto ne
possa volere a un fratello normale… Gaara, perché
tutte queste storie? Voglio
dire… – lo guardò e si accorse di
quanto l’altro fosse genuinamente sconvolto –
Tu…”
La
voce gli morì in gola, perché solo in quel
momento si rese conto degli errori e
delle conseguenze della sua superficialità, della sua voglia
di sperimentare il
sesso e avere una valvola di sfogo in un’esistenza altrimenti
grigia e
squallida. Nella sua foga di adolescente, in tutto quell’anno
in cui lui e
Gaara avevano esplorato quell’universo sconosciuto, non gli
aveva mai parlato
chiaramente, aveva dato per scontato che l’altro capisse cosa
gli passava per
la testa. Non aveva considerato che Gaara aveva un carattere diverso,
Gaara era
sempre troppo serio e prendeva tutto alla lettera, Gaara non si
lasciava
sfiorare nemmeno una mano da nessuno a parte lui, Gaara che era molto
più
fragile e confuso di un adolescente normale.
Il
ragazzo in questione nel frattempo era muto, cercando di ricostruire
quel
puzzle di cui finalmente aveva tutti i pezzi. All’epoca non
si era fatto
domande, aveva accettato e ricambiato quello che credeva amore, solo
allontanandosi e vivendo per davvero nel mondo aveva capito quanto per
la
società un legame come il loro potesse essere riprovevole.
Lo aveva accettato
come una delle regole da rispettare per vivere in un consesso civile,
come non
attraversare col rosso o non uccidere, ma in cuor suo non aveva mai
rinnegato
quell’amore, né lo aveva mai completamente
dimenticato.
Buffo
che in realtà non ci fosse proprio niente da rinnegare o da
dimenticare,
semplicemente perché quell’amore, quel legame in
realtà non era mai esistito.
Gaara
osservò nuovamente il fratello, quella volta con occhi
più analitici, più
freddi e impersonali, e notò un particolare prima ignorato.
“Ti
sei sposato?” domandò, c’era un anello
al suo anulare sinistro.
Kankuro
si morse un labbro e si coprì la mano, quasi con fare
colpevole.
“No,
non ancora. Questo è l’anello di fidanzamento, mi
sposo a maggio” rispose senza
riuscire a guardarlo in faccia.
“Capisco
– replicò Gaara con voce piatta – questa
è una delle cose che fanno parte della
giusta combinazione di eventi che ti ha spinto a cercare di nuovo me e
Temari?”
“Sì,
ho avuto il desiderio di riavere la mia famiglia il giorno del mio
matrimonio”
ammise alzando la testa per sbirciarlo, trovando il suo viso
impassibile. Il
fratello non mostrava la minima traccia di rabbia o biasimo e
ciò lo sollevò;
ingenuamente pensò che forse tutto si poteva risolvere, in
fondo era stato solo
un fraintendimento. Un fraintendimento durato anni, ma che ora era
chiarito,
no?
“Capisco”
ripeté Gaara.
Il
suo volto era una maschera scolpita nella pietra, a nessun costo
avrebbe
permesso alle sue labbra di assumere una piega amara o agli occhi di
intristirsi e alla fronte di corrucciarsi. Guardò la persona
che aveva davanti,
un egoista che lo aveva cercato in passato per soddisfare i propri
desideri, e
che lo aveva cercato nuovamente per lo stesso motivo, non per
preoccupazione o
affetto fraterno; no, solamente per averlo vicino nella foto ricordo
del
matrimonio, per illudersi di avere davvero qualcosa alle spalle da
poter
chiamare famiglia.
Gaara
sfilò il portafogli dalla tasca, lasciò qualche
moneta sul tavolino per pagare
il proprio caffè e iniziò a rivestirsi.
“Che
diavolo fai?” esclamò Kankuro scattando in piedi.
“Sono
molto felice per te, spero che quel giorno non piova. Ora devo andare,
ho da
fare” rispose Gaara abbottonandosi il cappotto.
“Ma…
ma che dici? Perché vai via?” domandò
l’altro, incredulo e confuso per quella
freddezza. Gli posò una mano sul braccio, ma Gaara fu veloce
a sottrarsi dalla
sua presa.
“Non
mi toccare – sibilò, guardandolo con occhi gelidi
e duri – e non cercarmi più,
cancella il mio numero di telefono, non ho niente da dire né
a te, né a tua
sorella.”
Detto
questo lo superò, senza aspettare una sua replica; in fondo
quali parole
avrebbero mai potuto rimettere a posto le cose, restituirgli
quell’illusione
che gli aveva dato forza negli anni?
Gaara
uscì al freddo e alzò gli occhi al cielo scuro,
era carico di nuvole grosse,
pesanti, così gonfie che sembrava che si sarebbero
schiantate sulla terra da un
momento all’altro e forse per Gaara era già
successo: il cielo gli era crollato
addosso, ferendolo con le sue schegge, perché aveva compreso
di non essere mai
stato amato, da nessuno.
L’angolino oscuro: Finalmente
la questione incest è esplosa come un frutto troppo maturo,
e a Gaara è esplosa
proprio in faccia, investendolo in pieno. Penso sia chiaro
ciò che è accaduto
esattamente, il modo in cui Gaara si è lasciato trascinare
dalla situazione,
senza trovarla compromettente. Per nessuno dei due lo è,
visto come sono
cresciuti isolati dal mondo esterno, anche se i motivi che li spingono
sono
diverso. Per Kankuro è per l’appunto un gioco, un
modo per esplorare in
sicurezza la sessualità, cosa altrimenti difficile in
quell’ambiente; per Gaara
è invece una dimostrazione di affetto da parte
dell’altro, il fratello è
l’unica persona di cui si fida, da cui si lascia toccare e
non vede perché
respingerlo, nella sua ottica non sta accadendo nulla di male. Solo
successivamente, immergendosi in una realtà diversa,
capirà che le cose non
stanno così, eppure non rinnegherà
l’amore provato, semplicemente se lo lascia
alle spalle, alla ricerca di qualcun altro che possa amarlo di nuovo.
Peccato
che però quell’amore non sia mai esistito da parte
di Kankuro e questo fa
crollare le basi su cui Gaara aveva costruito la propria vita.
Spero che il mio modo di trattare la questione non sia stato
superficiale
e di aver messo bene in luce una tematica tanto delicata che mi
affascina.
Piaciuto Itachi drogato di dolci? Mi piace descriverlo meno austero e
con
qualche sfaccettatura che lo renda meno perfetto, decisamente
più reale e umano
come tutti. Tra l’altro grasse risate con Itachi bambino che
sognava di essere
una spia XD niente, anche in una AU la cosa lo perseguita.
Lasciatemi un commento e fatemi sapere cosa ne
pensate di questa roba che
ho tirato su, grazie.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** 6 - The night we met ***
I
had all and then most of you
Some
and now none of you
Take
me back to the night we met
I
don't know what I'm supposed to do
Haunted
by the ghost of you
Oh,
take me back to the night we met
(Lord
Huron)
The
night we met
Hinata
si stiracchiò sentendo scrocchiare con delizia alcune
vertebre della schiena,
si concesse anche un lungo sbadiglio e uno sbuffo, per poi raccogliere
con un
dito una piccola lacrima dall’angolo degli occhi chiari.
Quel
lunedì non era uscita per pranzare fuori ed era rimasta in
ufficio, godendosi
un po’ di solitudine visto che non c’era nemmeno
Gaara e pensò di aver preso
raramente una scelta migliore.
Si
era tolta le scarpe e aveva mangiato guardando una puntata del suo
telefilm
preferito in streaming, aveva fatto un giro su internet per cercare il
regalo
di Natale per Naruto, il tutto riscaldata e coccolata dal caldo
maglione e dai
termosifoni perfettamente funzionanti.
Fuori
c’era un vento gelido e forse avrebbe iniziato a nevicare
presto, al massimo
entro l’indomani, ed Hinata sorrise a quel pensiero. Le
piaceva la neve e,
soprattutto, le piaceva la neve durante il periodo natalizio, il modo
in cui le
luci degli addobbi per strada rilucevano nel biancore. Adorava le
ghirlande
sulle porte dei negozi e delle abitazioni, i colori degli abeti
decorati,
l’atmosfera di gaiezza, l’odore delle spezie e
della cioccolata, le case
riscaldate piene di amici e parenti, i pupazzi di neve storti nei
giardini e
nei parchi; adorava tutto ciò.
Pur
essendo cresciuta in una famiglia molto rigida e tradizionale, Natale
era
sempre stato speciale, era il momento in cui persino il suo austero
padre si
concedeva uno o due bicchierini di liquore in più,
ritrovandosi con le guance
rosse e a sorridere assieme a loro davanti a qualche gioco da tavola, a
cui
finiva immancabilmente per perdere. Non aveva mai capito se fosse per
incapacità, o se invece gli piaceva vedere lei e sua sorella
felici della
vittoria.
Quell’anno
ci sarebbe stato anche Naruto al suo fianco, quindi tutto sarebbe stato
ancora
più speciale.
Era
persa in queste fantasticherie quando sentì la porta dello
studio aprirsi, si
affacciò perché dalla sua scrivania non riusciva
a vedere l’ingresso e fu così
che scorse entrare un Gaara intirizzito, con le guance e il naso rossi
quasi
quanto i suoi capelli.
“Bentornato!
Come stai? Com’è andato
l’esonero?” gli domandò, interessata.
Anche
se avevano parlato pochissimo e lui insistesse a usare un tono formale,
Hinata
trovava quel ragazzo interessante e a volte le sembrava di scorgere sul
suo
viso tanta di quella malinconia che avrebbe voluto abbracciarlo per
scacciarla,
o perlomeno avere tanto coraggio da dirgli qualcosa di gentile.
In
quel momento però Gaara sembrava un po’ distratto
e ci mise qualche istante per
risponderle, tanto che prima entrò nella stanza e
attaccò a un gancio il
cappotto.
“Credo
bene, tra qualche giorno usciranno i risultati”
replicò con voce pacata.
“Sono
certa che sarai andato benissimo, ti sei così impegnato
– lo rassicurò, poi
vedendolo strano chiese – sei stanco? Hai mangiato qualcosa
per pranzo?”
Gaara
la guardò finalmente, ma con un’espressione
perplessa, un po’ instupidita,
quasi sembrava non avesse compreso le domande.
In
realtà il ragazzo aveva sentito e capito tutto, ma quel
semplice quesito così
interessato lo aveva colpito tanto da congelarlo sul posto.
Era
stanco? Aveva mangiato a pranzo? E la sera prima? Aveva studiato dopo
essere
tornato a casa dall’incontro con Kankuro? Aveva visto o
parlato con Hidan o
Deidara? Aveva dormito? Cosa aveva scritto quella mattina
all’esonero?
Non
ricordava niente, nemmeno di essere stato
all’università, ma doveva averlo
fatto per forza, vero?
Prese
un respiro profondo che sembrò più un singulto e
vide Hinata preoccuparsi, ma
non aveva parole con cui rassicurarla perché era lui stesso
preoccupato, quasi
spaventato. Si rese conto di aver vissuto quelle ultime ventiquattro
ore in
trance e di essere ritornato in se stesso, schiantato di nuovo faccia a
faccia
con la realtà solo in quel momento.
“Scusa,
sono… credo di essere ancora agitato e di non aver smaltito
lo stress” rispose,
dicendo l’unica cosa sensata che gli fosse venuta in mente.
La
ragazza si rilassò e gli sorrise:
“Ti
capisco, a me veniva almeno un attacco di panico prima di ogni esame e
anche
dopo non riuscivo a rilassarmi per giorni, per fortuna sono cambiata o
non mi
sarei mai laureata… o forse sarei morta di gastrite
– scherzò – stavo per
andarmi a fare un the, ti va?”
Gaara
era sorpreso da quella gentilezza, proprio in quel momento in cui si
sentiva
tanto fragile e scoperto, come una ferita impossibile da far chiudere o
su cui
applicare una sutura; si sentiva incapace di guarire dalla
malattia che lo
affliggeva.
“Non
voglio disturbarti, insomma… – si morse un labbro
– mi scusi, senza accorgermi
le ho dato del tu.”
Hinata
scosse la testa, sorridendo:
“Mio
padre deve aver proprio fatto terrorismo psicologico –
scherzò – lo so, in
fondo ci vivo ancora assieme, ma non preoccuparti. Non se la
prenderà se quando
siamo soli mi chiami per nome o mi dai del tu, noi in fondo lo facciamo
con te.
Ora siediti e rilassati un attimo, torno col the zuccherato, ti
farà bene.”
Gaara
cercò di mettere su un sorriso per lei, un qualcosa che
sembrasse almeno grato
e, dopo che fu uscita, fece come gli aveva suggerito:
sprofondò nella propria
poltrona, chiudendo gli occhi, cercando di non pensare a nulla.
Non
fu semplice perché i ricordi del pomeriggio precedente gli
tornavano in mente
con prepotenza, urlando per essere guardati, ascoltati, analizzati in
ogni
minimo dettaglio, come se viverli non fosse stato sufficiente.
Non
riusciva nemmeno a trovare un aggettivo per descrivere e capire meglio
lo stato
d’animo in cui si trovava. Si sentiva svuotato, come se nel
suo corpo ci fosse
stato un rubinetto e Kankuro lo avesse aperto, facendo defluire da lui
qualunque sentimento. Era abulico, completamente inerte e senza alcun
desiderio
di fare qualcosa e cambiare quello stato, non ne vedeva nemmeno un
motivo in
fondo.
Se
quella mattina si era alzato, era andato a fare l’esonero e
poi si era recato
in ufficio, era stato solo perché l’attitudine
alla sopravvivenza era radicata
così profondamente da essere riuscita a mettersi alla guida
e pilotare quel
corpo privo di anima. Al momento c’era lei al posto del
conducente e a Gaara
andava bene così, finché non capiva cosa fare
della propria vita era meglio lasciarla
fare.
Fu
sempre grazie a lei se riuscì a sorridere a Hinata con
più convinzione quando
gli porse il the caldo e mettersi poi al lavoro. Sulla sua scrivania
c’erano
fascicoli e note che gli avvocati avevano scaricato durante la sua
mattinata
d’assenza e doveva riuscire a smaltirli, incastrandoli con
gli impegni
appuntati sulla sua agenda. Come se ciò non fosse
sufficiente, quel pomeriggio
sarebbe venuto persino l’architetto per prendere delle misure
necessarie per i
lavori di ampliamento. Gaara non aveva nemmeno la forza vitale per
arrabbiarsi
e imprecare, così si limitò a mettersi
all’opera.
Si
interruppe solo quando rientrò Itachi per rispondere alle
sue domande
sull’esonero, inventando qualcosa perché aveva
proprio un buco nero sulle
ultime ventiquattro ore. Gli sembrò che l’Uchiha
lo fissasse perplesso, ma si
trattò di un attimo prima che entrambi tornassero ai propri
lavori.
Fu
solo verso metà pomeriggio che Gaara venne distratto
nuovamente, questa volta
dal citofono che annunciava l’arrivo
dell’architetto.
Mentre
questi saliva le scale, lui finì di scrivere una mail per
poi spedirla e aprì
un cassetto della scrivania per cercare le chiavi
dell’appartamento. Sentì la
porta aprirsi, dei passi avvicinarsi e, ancora chinato, disse:
“Salve,
sono subito da lei. Solo un attimo.”
Quelle
maledette chiavi parevano sparite, eppure era solo un cassetto, mica il
portale
per Narnia!
Finalmente,
dopo alcuni secondi lunghi anni, trovò il mazzo sepolto tra
cumuli di cartacce
e buste da lettera ancora nuove, si alzò in piedi ma si
bloccò, guardando il
nuovo arrivato nella cornice della soglia.
Non
poté impedire ai propri occhi di spalancarsi con violenza,
perché era troppo.
Onestamente era troppo persino per lui. Non era possibile che nel giro
di un
giorno e mezzo gli fosse crollato il mondo addosso a causa di Kankuro,
l’unico
che avesse mai amato, e ritrovarsi adesso davanti Sasuke,
l’unico con cui era
riuscito ad aprirsi un minimo dopo il fratello.
Doveva
essere un fottuto scherzo, doveva essere su una candid camera! Non
c’erano
altre spiegazioni, quella colossale presa per il culo non poteva essere
la sua
vita.
“Ciao,
Gaara.”
La
sua voce era chiara, sicura, non mostrava nessun turbamento al pari del
suo
viso; il suo bellissimo viso da schiaffi,
corresse la mente di Gaara.
“Ciao”
replicò, senza riuscire ad aggiungere altro, nemmeno
pronunciare il suo nome
pareva possibile.
“Quindi
papà ha mandato te alla fine” disse invece Itachi,
giungendo inconsapevolmente
in suo soccorso. O forse no, forse aveva notato alla perfezione il
turbamento
di Gaara, il modo in cui si era irrigidito; d’altronde con
quegli occhi scuri
sembrava sapere sempre tutto.
“Già,
quindi è questo il tuo ufficio” ribatté
Sasuke, scambiando anche un cenno di
saluto con Hinata.
“Sì,
almeno finché non ti dai una mossa col progetto di
ampliamento… architetto” il
sorriso di Itachi era ironico e le sue parole squisitamente pungenti
tanto che
Sasuke roteò gli occhi al soffitto, sbuffando appena.
Gaara
lo osservò fare quei gesti sconosciuti, il modo in cui i due
interagivano e gli
fu chiaro una volta di più che quei due erano
fratelli… fratelli normali, che
condividevano un rapporto altrettanto normale, fatto
d’affetto, complicità. Non
era stato il sesso o l’illusione di un amore a tenerli uniti.
Strinse
più forte le chiavi nella mano e domandò:
“Quindi
da adesso sarai tu ad occuparti dei lavori?”
Sasuke
riportò l’attenzione su di lui, scrutandolo:
“Già,
l’altro architetto deve seguire troppi progetti.
D’ora in poi sarò io il
responsabile.” Si slacciò il cappotto, inutile in
quella stanza riscaldata e lo
osservò ancora.
“Bene,
andiamo allora” replicò Gaara, che aveva
riacquistato l’usuale compostezza.
Sasuke
lo osservò allontanarsi dalla scrivania e dirigersi verso
l’uscita, e lo seguì
perplesso:
“Credevo
che fosse il segretario dello studio ad occuparsi di queste faccende, o
almeno
così mi ha detto mio padre.”
“Non
ti hanno riferito niente di sbagliato – disse Gaara, fermo
sul pianerottolo,
mentre infilava le chiavi nel portone – sono io il
segretario.” Detto questo
entrò nell’appartamento vuoto e decisamente
più freddo rispetto all’altro.
“Tu?
– esclamò Sasuke sorpreso – Naruto mi
aveva detto che eri un avvocato, che…”
Si
morse le labbra, rendendosi conto di essersi lasciato sfuggire troppo,
come se
ne era accorto anche Gaara, ovviamente, e ciò
contribuì solo a farlo sentire
peggio.
Perché
Sasuke sapeva ormai da un po’ che lui lavorava in quello
studio, eppure nemmeno
quell’informazione lo aveva spinto a cercarlo, era venuto
lì unicamente per
lavoro.
“Naruto
capisce quello che vuole” rispose, pensando che solo lui
avrebbe potuto credere
che loro due fossero amici. Di sicuro, avendoli visti assieme, Itachi
aveva
notato la tensione tra loro e il suo cervello arguto avrebbe tratto le
sue conclusioni;
probabilmente non si sarebbe spinto a immaginare che erano stati a
letto
insieme, ma che tutto non era idilliaco come avevano fatto credere
sì.
“Fa’
quello che devi, ti serve una mano?” aggiunse Gaara,
professionale e
distaccato, erano lì per lavoro in fondo. Se tutta la sua
vita stava andando a
rotoli, voleva che almeno sul piano lavorativo tutto andasse liscio e
senza
intoppi.
Sasuke
posò a terra lo zaino che aveva avuto in spalla fino a quel
momento, dopo di
che agganciò il cappotto alla maniglia di una porta, con
gesti tranquilli,
senza alcuna fretta. Aveva bisogno di quegli istanti per riflettere.
In
quel periodo di lontananza aveva avuto voglia di rivedere Gaara,
chiamarlo
persino, ma l’unico tentativo fatto si era rivelato un
disastro e la discussione
con Deidara non gli aveva reso le cose più semplici. Era in
lotta con se
stesso, tra i propri desideri e il comune buonsenso con cui condiva i
progetti
per il futuro, ovviamente approvati da Fugaku.
Quando
Naruto gli aveva raccontato che Gaara lavorava dagli Hyuga, Sasuke si
era
dovuto frenare per non correre subito là con qualche scusa,
perché finalmente
aveva il pretesto perfetto per rivederlo, nessuno avrebbe mai potuto
biasimarlo
per quell’incontro. In fondo non poteva certo sottrarsi al
lavoro, no? Se poi
nel mezzo rientrava anche la possibilità di rivedere il
ragazzo a cui aveva
pensato negli ultimi tempi, anche di nascosto da se stesso…
beh, non vedeva
proprio come avrebbe potuto evitarlo.
Il
pensiero che Gaara fosse un avvocato lo aveva ulteriormente sollevato.
Perché
per lavorare dagli Hyuga alla sua giovane età doveva per
forza essere un genio
come Itachi, o avere qualche raccomandazione; entrambi gli scenari
presupponevano una certa stabilità economica e quindi Sasuke
aveva smesso di sentirsi
in colpa per i costosi biglietti del concerto a cui era andato senza di
lui,
senza nemmeno sapere che fossero un suo regalo.
Invece
ora scopriva che era il segretario, non un avvocato, e lo vedeva
stanco, con le
occhiaie scavate e in generale molto più sciupato di quanto
ricordasse. Il
senso di colpa riprese a pungolarlo e lui non sapeva più
bene come comportarsi,
la sua sicurezza si era incrinata come un vaso caduto in terra. Si era
immaginato il loro incontro, aveva pianificato i loro dialoghi, aveva
deciso
cosa dire per portare la conversazione dove voleva, ma adesso era
spiazzato e
l’atteggiamento distaccato e professionale
dell’altro non lo aiutavano. Sasuke
non era proprio in grado di improvvisare, poco avvezzo
com’era ai rapporti
sociali in generale, infatti ogni sua mossa era accuratamente pensata e
valutata, non faceva o diceva mai niente senza un motivo, al contrario
di
Naruto che pareva avere come scopo nella vita spendere più
energie possibili in
futilità. Perché, come poteva tornare utile a
lui, un Uchiha, chiacchierare con
uno sconosciuto alla fermata dell’autobus, o aiutare la
classica vecchina ad
attraversare la strada?
“Sì,
ho le planimetrie, ma devo comunque prendere delle misure per essere
certo che
siano accurate, è un lavoro per due” rispose
aprendo lo zaino.
Bugia.
Avrebbe potuto farlo da solo, anche se ci avrebbe impiegato
più tempo, ma era
l’unica cosa che gli era venuta in mente per non farlo andare
via subito.
Gaara
gli si avvicinò, rimboccandosi le maniche del maglione e,
sotto le sue
istruzioni, iniziarono a lavorare in silenzio.
L’atmosfera
era tesa, Sasuke doveva ricontrollare gli appunti almeno due volte per
essere
certo di non aver scritto male, a Gaara ogni tanto scappavano di mano
gli
oggetti o sbatteva, come se fosse distratto e non si accorgesse di
ciò che lo
circondava.
“Non
ti ho ancora ringraziato per quei biglietti” disse ad un
certo punto Sasuke,
spezzando il silenzio ma senza guardarlo, troppo attento ad annotare
qualcosa
su un quaderno.
Il
segretario lo fissò, inarcando lievemente un sopracciglio:
“Eppure
io non ho cambiato numero di telefono.”
Touché.
Sasuke
strinse con più forza la penna, come la prima sera in cui si
erano incontrati
Gaara riusciva sempre a zittirlo con risposte argute e lui si sentiva
di nuovo
un ragazzino alle prime armi, invece del giovane uomo che portava con
orgoglio
il cognome Uchiha, guardando il mondo dall’alto della sua
torre dorata.
Alzò
gli occhi e si ritrovarono a fissarsi, entrambi intenzionati a non
cedere per
primo, cercando nel frattempo di scrutare e capire qualcosa
dell’altro.
“Insomma
lavori con mio fratello” disse Sasuke, cercando di trovare
qualche altro
appiglio di conversazione.
“Già,
e con la fidanzata del tuo migliore amico… devo dire che non
ci sono proprio
limiti alla sfortuna, eh?”
Gaara
era stato lapidario; non aveva proprio intenzione di rendergli le cose
semplici
o di mandare avanti quella conversazione, eppure lui sentiva di dover
dire
qualcosa.
“Quel
giorno…” iniziò a dire Sasuke, ma Gaara
non gli diede modo di continuare.
Alzò
una mano davanti a sé, come se quel palmo dalla pelle secca
potesse davvero
bloccare o mettere un freno a ciò che l’altro si
era deciso a dire.
“Lascia
stare, sei già stato sufficientemente chiaro.”
Non
aveva voglia di ascoltarlo di nuovo, di sentirsi dire anche da lui
quanto si
fosse sbagliato, quanto ciò che avevano condiviso fosse
stato solo del sesso e
niente di più; non ne aveva la forza. Già per
rimanere lì con lui aveva dato
fondo alle sue riserve di calma e nervi saldi, ma se Sasuke avesse
iniziato a
parlare non era certo che la debole diga che tratteneva i suoi
sentimenti
avrebbe retto a un’ulteriore pioggia.
“No,
aspetta, non mi fraintendere…” mormorò
Sasuke, lasciando cadere a terra
quaderno e penna per raggiungerlo. Gli posò istintivamente
una mano su una
spalla, ma non andò avanti perché
provò una scossa nel sentirlo di nuovo
vicino, nel condividere la stessa aria, magari stava persino respirando
quella
che lui lasciava fuoriuscire dalla sua bocca.
“Non
l’ho già fatto?” ribatté
Gaara con le labbra piegate in un sorriso amaro.
Aveva
frainteso alla grande, aveva creduto che ci potesse essere qualcosa tra
loro.
Aveva frainteso anche con Kankuro; a quanto pareva il fraintendimento
dominava
la sua vita e guidava le sue azioni.
Non
scostò quella mano che lo stringeva, perché
nonostante tutto gli piaceva
sentirla su di sé, il calore che si irraggiava al di sotto
degli strati di
vestiti, e i ricordi che sottintendeva. Ma quei ricordi facevano anche
male,
per quello alzò le braccia per spingere contro il suo petto
e allontanarlo, ma
Sasuke non glielo permise: avanzò di un altro passo e,
continuando a
stringerlo, lo baciò.
Posò
le labbra sulle sue e non si lasciò scoraggiare dalla loro
immobilità; con gli
occhi chiusi, il sangue che rimbombava nelle orecchie e il naso pieno
del
profumo della sua pelle, Sasuke continuò a baciarlo.
Vezzeggiò delicatamente le
sue labbra, le leccò, le succhiò sentendole
diventare più tiepide, in grado di
modellarsi contro le proprie come cera riscaldata a cui dare la forma
desiderata.
A
poco a poco Gaara iniziò a rispondere a quel bacio e le mani
che avevano voluto
respingere, si aggrapparono al maglione con forza, con disperazione.
Era
così bello, così confortante sentirsi stringere a
quel modo, e Sasuke era caldo
in mezzo a tutto quel freddo che lo circondava che semplicemente Gaara
lo
ricambiò senza alcuna remora, quasi… felice.
Tuttavia,
quando avvertì l’altro baciargli e leccargli il
collo mentre le sue mani si
intrufolavano sotto la maglia per toccargli il petto, un sottile senso
di
disagio iniziò a strisciargli dentro. Sasuke era
l’unico oltre a Kankuro a cui
avesse mai permesso di carezzarlo e in quel momento le immagini dei due
ragazzi
si fusero, fino a diventare una. Gaara vedeva il fratello
diciassettenne
intrufolarsi nel suo letto, sussurrargli rassicurazioni
all’orecchio prima di
infilare le mani nel suo pigiama e, allo stesso tempo, vedeva i capelli
neri
dell’Uchiha, le sue orecchie chiare arrossate e avvertiva la
sua erezione
contro la coscia. Era immobile, bloccato contro il muro, si sentiva in
trappola
ed iniziò a respirare in modo più concitato,
spaventato perché i suoi muscoli
non volevano saperne di rispondere ai comandi.
Fu
solo quando vide Sasuke slacciargli i pantaloni e abbassarli per poi
iniziare a
fare lo stesso su di sé, che qualcosa si ruppe finalmente
dentro di lui.
Era
la pioggia di parole, di azioni incoscienti, di sentimenti mai spiegati
che
cadeva senza tregua e aveva ingrossato il fiume, sfondando infine la
diga
malandata e questa si ruppe, lasciando scorrere il fiume di fango e
detriti,
che andarono a ricoprire ogni cosa con la loro furia. La furia con cui
Gaara
spintonò Sasuke e lo allontanò da sé,
per poi urlargli:
“Ma
sei impazzito? Che cazzo ti passa per la testa?”
Voleva
fare sesso in quell’appartamento vuoto e gelido, con Itachi e
tutti gli altri a
solo un muro di distanza, voleva… voleva semplicemente sesso
da lui.
Esattamente come Kankuro.
A
nessuno importava dei suoi sentimenti, era un oggetto, qualcuno da
usare e da
cui ritornare perché era semplice, lui non avrebbe detto di
no, affamato di
attenzioni e di amore com’era. Un oggetto senza sentimenti
che nessuno avrebbe
mai amato.
Ma
quella volta Gaara aveva detto quel no, perché non voleva
essere così, non
voleva lasciarsi trascinare in quell’ennesimo errore,
perché era stanco di
gente egoista che prendeva pezzi di sé, come avvoltoi
ingordi.
Sasuke
per poco non cadde a terra, in bilico com’era.
Guardò Gaara, i suoi occhi
lucidi, le spalle che tremavano, i pantaloni a metà coscia,
i propri con
bottone e zip aperti, e si rese conto di cosa stava per fare. Forse per
la
prima volta in vita sua aveva agito unicamente in base
all’istinto, e
rendersene conto lo stava facendo vergognare di se stesso.
Però quando lo aveva
toccato e poi baciato non aveva capito più nulla,
semplicemente si era sentito
bene, aveva ritrovato quelle sensazioni che aveva creduto perse e si
era mosso
per non perderle di nuovo. Così, semplicemente.
Si
arrabbiò, perché lui stava per dirgli che gli
dispiaceva, per una volta aveva
dato ascolto solo ai propri desideri, si era fatto avanti, si era
esposto, lo
aveva baciato e Gaara invece lo aveva respinto. Lo aveva allontanato
con
violenza, al pari di un appestato, e adesso lo guardava
dall’alto in basso,
come se fosse lui a doversi sentire offeso, mentre con
quell’aria oltraggiata
si rimetteva a posto i vestiti.
“Non
mi sembrava che quella volta nel cesso del bar avessi fatto tutte
queste
storie. Cosa c’è, hai trovato un altro da
sbatterti?” gli disse, cattivo,
perché voleva ferirlo sul serio, inconsapevole di averlo
già fatto.
Gaara
trattenne per un attimo il respiro, schiaffeggiato da quelle parole,
che lo
facevano sentire ancora più un oggetto, come se ogni cosa
ruotasse attorno al
sesso, come se per davvero per lui non esistesse altro che quello.
“Sta’
zitto, non sai un cazzo di me!”
Sasuke
sorrise riabbottonandosi i pantaloni, l’erezione scomparsa:
“So
che non sono stato io a rimorchiarti quella sera, bensì il
contrario. Hai
esperienza a riguardo.”
Non
seppe bene in che modo, successe tutto troppo in fretta, ma Sasuke si
ritrovò
steso sul pavimento freddo e polveroso con Gaara a cavalcioni sopra che
lo
prendeva per il bavero della maglia e la stringeva, come se avesse mai
potuto
strozzarlo attraverso il tessuto.
Gli
occhi erano gelidi e furiosi, due pozze di ghiaccio in cui si
sentì affogare e,
nel gelo che lo invase, Sasuke comprese di essersi comportato di nuovo
da
coglione, esattamente come il giorno della laurea.
Come
era arrivato a quel punto? Era stato felice di avere
un’occasione per rivederlo
senza esporsi troppo, aveva fatto dei piani: doveva solo ristabilire un
dialogo
con lui, dargli un appuntamento per bere qualcosa e riprendere le cose
dove le
avevano interrotte. Invece aveva lasciato che il suo orgoglio ferito
avesse la
meglio, lo aveva insultato per fargli male, gli aveva praticamente dato
della
puttana, ma mai nessuno lo aveva respinto, per di più in
modo tanto deciso.
Mentre guardava i suoi occhi furiosi si disse, in uno sprazzo di
lucidità e
onestà, che era un coglione, aveva fatto una
cazzata… e non era nemmeno la
prima.
“Ti
avevo detto di stare zitto, stronzo. Non sai quanto… quanto
vorrei tornare alla
notte in cui ci siamo incontrati, vorrei aver preso un altro percorso,
non
averti rivolto la parola, colpito da quanto sembrassi perso –
le mani di Gaara
tremavano, ed era evidente lo sforzo per tenerle ferme e non picchiarlo
– avrei
dovuto riconoscerti per quello che eri: un frocio represso. Un fottuto
represso, incapace di accettare che gli piace il cazzo, spaventato
persino
dalla propria ombra per timore che qualcuno lo scopra… come
se essere gay possa
rendere meno degni di vivere. Perché hai dovuto umiliare
anche me? Io non sono
come te, tu continua pure a raccontarti le tue favolette Sasuke, ma
fallo
lontano da me” concluse, senza più astio nella
voce ma con una nota così amara
da sentirne il sapore in bocca.
Si
rialzò e, vedendo che l’altro rimaneva ancora a
terra, esclamò:
“Alzati,
vattene! Muovi il culo!”
Sasuke
si rimise in piedi, sconvolto, preso alla sprovvista e ferito da quelle
parole
che lo schiaffeggiavano con le loro verità. Aveva umiliato
se stesso e anche
l’altro, era vero, e non capiva come fosse arrivato a quel
punto. Non capiva
più nulla in realtà.
“Gaara,
io…” mormorò, confuso.
Il
ragazzo allora infilò nello zaino gli oggetti sparsi visto
che lui non sembrava
volersi muovere, glielo mise in mano assieme al cappotto per poi
sospingerlo
verso la porta.
“Gaara
aspetta, io…” Sasuke non ebbe tempo di aggiungere
alcunché, perché la porta gli
venne richiusa in faccia e lui rimase da solo sul pianerottolo, ancora
incredulo. In realtà forse non avrebbe detto nulla,
perché in fondo non sapeva
proprio quali parole avrebbero mai potuto fare la differenza a quel
punto.
C’era
un’unica consapevolezza: anche lui avrebbe voluto tornare
alla notte in cui si
erano incontrati, ma per tornare a casa con lui infinite volte.
***
Itachi
guardò il piattino davanti a sé,
giocherellò un po’ con la panna cotta,
divertendosi come ogni volta a stuzzicarla col cucchiaino e vederla
tutta
tremolante.
“Sembrano
le tettone di una modella di playboy mentre corre su una
spiaggia.”
Itachi
sbuffò, il momento di contemplazione era finito e lui prese
una cucchiaiata di
dolce, portandoselo alla bocca mentre fulminava il cugino con
un’occhiata
assassina.
“Sei
sempre il solito coglione, Shisui.”
Il
ragazzo in questione rise, per poi prendere un sorso di birra dal
boccale ormai
quasi vuoto.
“Mica
è colpa mia, erano dieci minuti che ci giocavi, anche se
devo ammettere che era
ipnotizzante… esattamente come un paio di tette che
sobbalzano, o vorresti
negarlo?”
Sorrise
malizioso, mentre per l’appunto guardava un paio di tipe
niente male che
passavano davanti al loro tavolo, quel locale era davvero interessante.
Tuttavia
riportò la sua attenzione sul cugino, che gli pareva ancora
più serio del
solito quella sera.
Ovviamente
questi non lo aveva degnato di una risposta, limitandosi a far sparire
con cura
metodica la panna cotta fino a lasciare il piatto quasi immacolato, era
difficile credere che ci fosse stato un tripudio di salse là
sopra, come anche
che quel bastardo fosse così in forma con tutti i dolci che
spazzolava.
“Ora
che hai assunto la tua dose giornaliera di carboidrati e grassi ti
è passato il
malumore? E pensare che siamo venuti qui solo perché come
fanno i dolci qui non
li trovi da nessun’altra parte. È una vita che ti
propongo di andare in quel
gay bar vicino alla libreria, c’è un barman biondo
che sa il fottuto fatto suo
in quanto a cocktail! È un po’ sciroccato, ma me
lo farei lo stesso e poi con
lo shaker è un dio!”
Itachi
sospirò appena dopo aver ascoltato lo sfogo del cugino, si
poggiò meglio contro
lo schienale della sedia e guardò l’uomo che gli
sedeva di fronte.
“Diciamo
che si inizia a ragionare e comunque sì, un bel seno ha
sempre il suo fascino –
rispose in modo decisamente più educato dell’altro
– la prossima volta andiamo
dove vorrai tu e vedrò questo mago dei cocktail, va
bene?”
“Perfetto
– gli sorrise Shisui – E invece dimmi, tu sei
così nero perché l’altro giorno
Konan è venuta a portare via le ultime cose da casa
tua?”
La
ragazza in questione era l’ex di Itachi, con cui questi si
era addirittura
trovato a convivere per un breve periodo prima che entrambi decidessero
di
chiudere una relazione priva di senso, perché si erano
accorti di essere due
estranei sotto lo stesso tetto.
Itachi
aveva mostrato di prenderla filosoficamente, senza scomporsi come al
solito, ma
Shisui sapeva bene che era solo una facciata. Per Itachi era stata una
bella
batosta, specialmente dopo averla presentata al fratello e averle
aperto le
porte di casa propria, l’unico posto dove si concedesse di
essere unicamente se
stesso, senza nessuna maschera patinata o sorriso di circostanza.
Shisui
sapeva anche quello perché era uno dei pochi, forse
addirittura l’unico, a cui
Itachi concedesse di vederlo senza filtri.
“No
figurati, non ci siamo nemmeno incontrati. Io ero a lavoro, lei quando
ha
finito mi ha lasciato le sue chiavi nella cassetta della
posta” rispose
incrociando le braccia davanti al petto.
Shisui
non insistette, sapeva anche della passione del cugino per i propri
segreti, di
quanto fosse geloso di ogni cosa che lo riguardasse. Quindi non
c’era niente di
vantaggioso nello smascherare quella piccola bugia, tanto entrambi
sapevano che
lo era.
“Capisco,
certo, liscio come l’olio” commentò,
accendendosi una sigaretta e lasciando che
il fumo della prima boccata aleggiasse davanti al suo viso. Attraverso
quella
cortina lo scrutò, Itachi non era l’unico ad avere
una vista acuta e un amore
per i dettagli “Allora cos’è che ti
preoccupa?”
Itachi
provò un vaghissimo senso di inquietudine e
riuscì ad immaginare come dovessero
sentirsi le persone che quotidianamente venivano studiate da lui,
scioccamente
pensò che anche Shisui sarebbe stata un’ottima
spia. In un universo parallelo
forse lo erano davvero, e grazie al loro lavoro nell’ombra
avrebbero impedito
una guerra, o una cosa eroica a caso.
Bevve
un sorso della sua birra fredda, ed era un bel contrasto con la bocca
ancora
dolce.
“Sasuke.
Sono preoccupato per Sasuke” ammise.
L’aria
sorniona e divertita sul viso di Shisui scomparve e anche lui divenne
serio,
perché Itachi non si preoccupava per delle sciocchezze e
quel problema
riguardava il fratello, quella persona per cui Itachi avrebbe fatto
qualsiasi
cosa.
“Cos’è
successo? Ancora tuo padre?” domandò, ma era quasi
certo che il motivo fosse un
altro, ormai c’era una certa stabilità in quella
famiglia.“No,
con lui tutto a posto – disse Itachi, sperimentando
l’aliena sensazione del
disagio – forse è solo una mia impressione, ma mi
sembra a pezzi. Ogni tanto ha
la testa tra le nuvole ed è sempre assorto, a pensare a
chissà cosa, non è da
lui. L’altra sera è venuto a casa mia,
l’ho stracciato alla playstation eppure
non ha nemmeno chiesto una rivincita, era spento.”
Guardò
il cugino, sapendo che l’altro non lo avrebbe preso in giro,
né avrebbe
sminuito i suoi dubbi, se ci fosse stato qualcosa da fare lo avrebbe
avuto a
fianco, altrimenti avrebbe semplicemente continuato a prestargli il suo
orecchio. Era veramente fortunato a poter contare su di lui, ma non
glielo
aveva mai detto o si sarebbe montato la testa; non serviva in
realtà, Shisui
leggeva anche i suoi silenzi.
Questi
intanto finì la sigaretta e poi schiacciò il
mozzicone, ordinando un’altra
birra a una cameriera di passaggio.
“Possibile
che abbia qualche problema… di cuore, diciamo? Magari gli
piace una persona e
questa gli ha rifilato il due di picche – ipotizzò
– In fondo a lavoro non ha
problemi, a casa nemmeno, con gli amici probabilmente no, altrimenti
Naruto ti
avrebbe già dato il tormento per costringerti a fare da
paciere. Una relazione
sentimentale è l’unica cosa che mi venga in
mente.”
Itachi
lo fissò a bocca aperta, facendo desiderare a Shisui di
immortalare quel
momento con una fotografia, ma se avesse tirato fuori il cellulare
l’altro
glielo avrebbe fatto mangiare di sicuro, quindi per quella volta decise
di
sorvolare e di non uscirsene nemmeno con una delle sue solite battute
di
spirito.
“Sasuke?
Ma… no, che vai a pensare? – mormorò
Itachi, ripresosi dopo l’arrivo della
cameriera – non mi ha mai parlato di nessuna ragazza,
né ne ha mai portate a
casa.”
Shisui
si concesse un sorso di birra fresca e un sorriso divertito, che sapeva
avrebbe
irritato il cugino che infatti lo fulminò con lo sguardo.
Lui lo ignorò e anzi
si sporse nella sua direzione, poggiando i gomiti sul tavolino. I loro
visi
erano vicini e Shisui allungò un braccio per sfiorare con
delicatezza una sua
mano.
“Direi
che già questo è significativo, no? Ha ventidue
anni, il variegato mondo del
sesso gli interessa eccome, come a qualsiasi altro ragazzo.”
Itachi
rifletté su quell’affermazione, dandosi
mentalmente del cretino per essersi
fatto cogliere impreparato dall’altro, odiava davvero quel
sorrisetto
supponente e divertito. Scosse appena la testa e la coda
sbatté tra le scapole,
ma non scostò la mano su cui i polpastrelli di Shisui
danzavano leggeri.
“Pensi
che sia gay?” domandò.
“Non
è un ipotesi da escludere, vista la nostra famiglia. Magari
sta venendo a patti
con quest’idea solo ora che ha incontrato qualcuno di
interessante, ma la mia
non è altro che un’ipotesi.”
“Già,
sarà un gene o qualcosa del genere…”
mormorò Itachi pensoso. Il suo cervello
stava lavorando in velocità per far coincidere i tasselli,
per vedere se quella
potesse essere davvero la soluzione al suo enigma. Su una cosa Shisui
aveva
ragione: Sasuke non poteva essere immune ai richiami del sesso alla sua
età.
La
colpa era di Itachi che faticava a vederlo nelle vesti di giovane uomo
o
adulto, il suo affetto gli riproponeva sempre l’immagine di
quel fratellino, la
cui più grande aspirazione era stargli alle calcagna, in
attesa di un suo gesto
di considerazione.
Intanto
Shisui parlava, divertito:
“In
effetti potresti avere ragione, guarda noi due, ci piacciono sia uomini
che
donne. So per certo che anche nostro cugino Ryuji è
omosessuale, di sicuro Anne
è lesbica e Mike è andato a San Francisco a
trovare la madre proprio la
settimana del gay pride, curioso non trovi?”
ridacchiò.
“Anne…
cosa?” esclamò Itachi ripensando alla cugina
impeccabile che a ogni riunione
famigliare portava un uomo diverso. Scosse la testa “Sei un
pettegolo, non
voglio nemmeno sapere come fai a sapere tutte queste cose.”
“Semplice,
non sei l’unico con cui esco e chiacchiero, sai? Secondo te
come avrei scoperto
tutti i locali della città e sapere quali sono i migliori?
– sorrise sornione –
Comunque dai, ritorniamo a Sasuke” disse ma fece una smorfia
perché Itachi gli
rifilò un pizzico sulla mano che teneva vicino alla sua.
Sapeva perfettamente
che Shisui era solare, espansivo e aveva molti amici, al contrario suo.
Non che
gli importasse, ma gli dava fastidio sentirselo ricordare, ma adesso
non doveva
perdersi dietro quei pensieri oziosi, doveva pensare a Sasuke.
Quando
lui si era ritrovato a fare i conti con la propria
sessualità confusa – perché
si era reso conto che sì, le tette lo interessavano
parecchio, ma anche un
torace piatto non lo lasciava affatto indifferente – non era
stato solo. C’era
sempre stato Shisui al suo fianco, non che fosse stato facile
confidarsi col
carattere che si ritrovava, ma in qualche modo ci era riuscito ed aveva
scoperto di non essere l’unico ad avere quei dubbi. Anche il
cugino, ben prima
di lui, aveva capito di essere bisessuale, ma era più grande
di tre anni e
aveva superato già da un pezzo la fase delle incertezze e
delle paure. Era sicuro
di sé e di ciò che gli piaceva, ed era stato
sempre un punto fermo nella vita
di Itachi, a cui si era avvicinato ulteriormente. Sì, loro
due erano veramente
vicini, molto vicini.
Inoltre,
a differenza di Sasuke, Itachi aveva un carattere più calmo
e posato,
estremamente razionale a differenza del fratello minore che mostrava
solo
all’apparenza un’imperturbabilità
stoica, necessaria per celare un temperamento
invece molto emotivo.
Shisui
lo osservò mentre si estraniava a riflettere, ma non lo
disturbò né lo
interruppe, limitandosi a bere la sua birra e osservare la curva della
sua
guancia, lo scalino candido della mandibola che diventava collo, i
muscoli e i
tendini coperti dalla sua pelle chiara, ora leggermente arrossata dal
caldo del
locale e dall’alcool. Non gli dispiaceva affatto stare in
silenzio a guardarlo.
“In
effetti c’è una cosa che mi ha dato da pensare
– disse poi Itachi,
interrompendo quel momento di assorto silenzio – allo studio
c’è un segretario,
giovane e direi anche piuttosto interessante. Mi ha colpito fin da
subito, sono
incuriosito da lui, e poco tempo fa ho scoperto grazie a Naruto che
è un amico
di Sasuke.”
Gli
raccontò della prima volta in cui lo aveva visto il giorno
della laurea, della
sua espressione turbata, di come avesse scoperto il suo legame col
fratello e
infine il loro incontro avvenuto qualche giorno prima. Shisui lo
ascoltò senza
interromperlo, solo ogni tanto sul suo viso si susseguivano espressioni
dubbiose o sorprese e, quando l’altro finì, non
parlò subito ma contemplò il
fondo del proprio bicchiere, aveva quasi finito anche quello.
“Già
il fatto che quell’asociale di Sasuke possa avere un amico al
di fuori di
quelli storici che conosce da anni è strano, se poi ci
aggiungiamo la tensione
palese nel momento in cui si sono rivisti, lo sbigottimento di questo
Gaara nel
ritrovarselo davanti all’improvviso o quella che pareva una
fuga il giorno della
laurea, direi che c’è più di qualcosa
che non torna – riassunse alla fine
Shisui guardandolo – cosa vuoi fare? Purtroppo avere a che
fare con tuo
fratello non è semplice: se gli chiedi chiaro e tondo se
è gay o se c’è
qualcosa che non va con quel ragazzo, di sicuro si offenderà
e se sei fortunato
ti eviterà solo per un paio di mesi. Se prendi la questione
più alla larga
troverà il modo per aggirarla e non rispondere e non puoi
nemmeno andare da lui
e dire ‘Sai, Sasuke, io sono
bisessuale e
per la cronaca anche Shisui. Se hai qualche dubbio su di te possiamo
essere i
tuoi guru’. No, con lui non
funzionerebbe.”
Itachi
sospirò, massaggiandosi un attimo gli occhi stanchi. In
poche parole il cugino
aveva riassunto alla perfezione la situazione e tutti i suoi dubbi a
riguardo.
“Esattamente,
per questo sono preoccupato. Non mi ero mai trovato in una situazione
in cui
non sapere cosa fare – ammise di malavoglia – e
soprattutto con Sasuke, finora
è sempre stato un libro aperto per me.”
Shisui
gli sorrise, indulgente, e gli strinse nuovamente una mano. Poteva
capire la
sua frustrazione e confusione, Itachi sapeva sempre cosa fare, quella
era una
situazione totalmente nuova per lui, ma non doveva essere
necessariamente una
cosa negativa.
“Facciamo
così: perché non mi presenti Gaara? Magari se lo
vedo posso indagare
discretamente su di lui in giro, se capiamo se è gay avremo
già fatto un passo
in avanti. Almeno saremo preparati per quando Sasuke
scoppierà” gli propose.
Perché alla fine, in un modo o nell’altro, Sasuke
che si teneva tutto dentro,
arrivava al punto di massima tensione e poi scoppiava, velenoso e
incattivito
come una pentola impazzita piena di vapore ustionante.
Itachi
lo guardò perplesso, non aveva certo problemi ad agire
nell’ombra, però pensò a
Gaara, a tutti i problemi che aveva; era evidente che il ragazzo non
fosse
sereno e che stesse attraversando un periodo davvero tosto. Nonostante
la
preoccupazione per il fratello, era anche interessato a non aumentare
il carico
di problemi del segretario, e questi pensieri, queste premure,
rivolte a qualcuno di diverso da Sasuke o Shisui lo
stranivano. Non erano consone al suo carattere.
“Beh,
intanto potrei fartelo conoscere. Magari con una sola occhiata riesci a
stabilire che è un etero omofobo e noi rideremo per tutte
queste congetture
sciocche – scherzò – uno dei prossimi
giorni puoi salire in ufficio prima di
andare a pranzo insieme, così sembrerà un
incontro casuale, breve e non
compromettente per nessuno.”
“Ma
sì, sì… quanti problemi che ti fai,
Itachi – rise, finendo la sua birra per poi
agitare il bicchiere – ne prendiamo un’altra,
o…?”
Non
concluse la frase che rimase ad aleggiare tra di loro, come nebbia, o
come
fumo, isolandoli dal resto delle persone nel locale.
“O…
puoi sempre berne una a casa mia” suggerì Itachi,
con tono casuale, come se
davvero non gli importasse e una scelta valesse l’altra.
Gli
occhi di Shisui invece brillarono, divertiti, carichi di promesse e
aspettative:
“Ci
sto, la tua birra è sempre la più
buona.”
Si
alzarono ed uscirono assieme, due ombre scure che camminavano fianco a
fianco
tra la neve immacolata, lasciando le loro orme su quel tappeto bianco
senza
preoccuparsi di cancellarle; non avevano paura di quel sentiero che li
avrebbe
condotti ad incontrare i propri desideri, lo avevano accettato
già molto tempo
fa.
L’angolino
oscuro: Sasuke, Sasuke…
ma che combini? Un casino dietro l’altro,
ecco cosa e mi vai a complicare ulteriormente la vita di Gaara. Penso
che sia
chiaro che Sasuke ha perso la bussola, se mai ce l’ha avuta,
e nel suo agitarsi
randomico per stare a galla colpisce gli altri buttandoli a terra,
è troppo
confuso e non si conosce, non conosce se stesso né
ciò che vuole davvero.
Abbiamo visto anche
Gaara
dopo il suo confronto con Kankuro e non se la sta cavando proprio alla
grande,
se poi si vede comparire anche Sasuke davanti e lo osserva mentre
interagisce
normalmente con suo fratello, beh… ne ha di cose a cui
pensare.
Itachi e Shisui sono
un
amore, anche qui non penso di dover dire molto sulla situazione tra di
loro,
no? XD
Mentre scrivevo di
Itachi
alle prese con la panna cotta mi veniva troppo da ridere, Shisui poi me
lo
immagino con questa vena comica diciamo… un po’
discutibile XD però nonostante
questo Itachi sarebbe perso senza di lui.
Il titolo del capitolo
è
anche quello della canzone dei Lord Huron, tra l’altro
è sempre la stessa
canzone che faceva da colonna sonora all’incubo di Gaara del
primo capitolo, ed
è stata un po’ il leitmotiv che mi ha accompagnato
durante tutta la stesura di
questa prima parte della storia.
Grazie a tutti quelli
che
continuano a seguire queste tormentate vicende anche se silenziosi,
spero
sempre di riuscire a regalarvi qualche emozione.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** 7 - La giusta decisione ***
La
giusta decisione
Il
mondo al di fuori della finestra era ostile e spettrale. Un Dio
inascoltato
stava riversando le sue lacrime su una terra piena di uomini sordi, che
oramai
da tempo avevano smesso di prestare le orecchie alle sue preghiere o di
levare
le proprie verso di lui. I loro cuori erano così freddi che
quelle gocce di
pioggia non riuscivano a posarsi a terra se non sotto forma di neve.
Neve
bianca, candida, gelida, che ammantava ogni cosa, rendendo
più difficile
camminare, guidare o andare in bicicletta. Ma, in fondo,
perché affannarsi
nell’uscire di casa se poi gli occhi erano sempre incollati a
un cellulare, un
tablet, un libro, ignorando l’essere umano che sedeva di
fianco, ignorando
chiunque al di fuori del proprio guscio?
Non
aveva forse ragione quel Dio lontano a piangere
nell’osservare i suoi amati
figli ignorarsi, interessati solo a farsi la guerra e intessere
relazioni
superficiali per appagare i loro bisogni momentanei?
“Allora,
Sasuke… raccontami qualcosa di te.”
Non
c’era bisogno di stare in strada per avvertire
un’atmosfera ostile e gelida.
Anche in quella stanza opportunamente riscaldata, dai mobili in legno
che
contribuivano a dare un senso di calore e familiarità, con
poltroncine
imbottite e comode, c’era
altrettanto
gelo e chiusura.
Sasuke
voltò la testa per spostare lo sguardo dalla finestra
all’uomo seduto di fronte
a lui, vestito con un comodo cardigan e pantaloni di velluto.
Squadrò ogni suo
dettaglio, senza trovare niente di rilevante o che gli facesse intuire
qualcosa
sul suo carattere: i suoi abiti erano anonimi, non portava anelli
né orologi,
anche gli occhiali avevano una montatura sobria.
La
cosa lo irritò, benché si fosse messo lui stesso
in quella posizione di
svantaggio, doveva essersi proprio bevuto il cervello con tanto di
olivetta per
aver deciso di rivolgersi a uno psicologo.
“Non
so proprio cosa ci sia interessante che potrei dirle.”
L’uomo
fece un lieve sorriso e accavallò una gamba. Quel paziente
era singolare: aveva
rifiutato di dare il suo cognome e voleva pagare solo in contanti,
affermando
che non gli interessava niente della fattura. Si era persino
intestardito nel
non volergli dare il numero di cellulare, ma alla fine lo aveva
convinto
dicendogli che per qualsiasi contrattempo aveva bisogno di un contatto.
Inoltre
era molto più difficile risalire
all’identità di qualcuno da un numero di
cellulare che non da una mail.
Quella
rivelazione lo aveva fatto capitolare e, a denti stretti, gli aveva
dettato il
suo numero.
Non
era certo la prima né ultima persona che si vergognava a
chiedere l’aiuto di un
professionista come lui, facendo poi di tutto per mantenere segreta la
sua
privacy, ma di sicuro era stato il più testardo.
Lo
aveva accettato come paziente pur non conoscendo il suo cognome, era
solo una
questione di tempo in fondo, doveva prima guadagnarsi la sua fiducia.
“Se
avessi voluto sentire qualcosa di interessante avrei chiamato un mio
amico –
gli rispose, poggiando un gomito sul bracciolo e piegando il braccio
per
poggiare la testa sulla mano – qualsiasi cosa che ti passa
per la testa andrà
bene. Per esempio puoi parlarmi dei tuoi amici, o di cosa ci fosse di
tanto
interessante fuori dalla finestra.”
Sasuke
fece una smorfia e accavallò a sua volta le gambe in una
posa fintamente
rilassata, in realtà era teso come la corda di un violino,
ma cercava di
dissimulare.
“Non
mi chiederà dei miei genitori o dei sogni che
faccio?”
“Oh
no, buon dio, no! – rise lo psicologo divertito –
Freud e le sue teorie sui
sogni e sui genitori sono abbastanza superate, quindi sta’
pur certo che non ti
chiederò se sogni peni giganti che entrano in vagine o se
provi un affetto
insano verso tua madre. È solo una chiacchierata tra noi
due, qualsiasi cosa
rimarrà qui, anche se tu dovessi aver commesso un
omicidio… ma tu non ne hai commesso
uno, vero Sasuke?”
“No,
certo che no” rispose il ragazzo, ammorbidito dal suo tono
divertito nonostante
le proprie resistenze.
“Bene,
avrei avuto un po’ di paura a incontrarti
altrimenti” sorrise ancora l’uomo.
Quel
ragazzo era il più classico esempio di persona che rifiutava
l’aiuto di cui
aveva bisogno, e che aveva chiesto in uno sprazzo di annebbiamento
dell’orgoglio. Era palese che non voleva trovarsi
lì, ricorreva a battutine
acide, atteggiamenti e frasi denigratorie verso la sua professione, nel
tentativo di convincersi che lo psicologo era un ciarlatano e lui non
ne aveva
nessun bisogno, perché stava bene, non esisteva nessun
problema.
Invece
quel problema c’era, ed era piuttosto grosso, era solo
compito dello psicologo
portarlo delicatamente alla luce, come un archeologo alle prese col
ritrovamento di un antichissimo e fragile reperto.
“Se
avesse avuto così tanta paura avrebbe potuto rifiutare di
vedermi” minimizzò
Sasuke, sempre sulla difensiva.
“No,
non funziona così – lo contraddisse –
sei un mio paziente ora, ho un dovere nei
tuoi confronti e oltre a questo anche un interesse a farti stare
meglio, anche
se avessi avuto paura. Sono qui per te, Sasuke, unicamente per te. Per
questo
di qualsiasi argomento vorrai parlarmi, qualsiasi cosa grande o piccola
sarà
ben accetta, perché è tua. Puoi anche stare a
guardare fuori dalla finestra per
l’intera ora, è una tua decisione; io sono
qui.”
Il
ragazzo si morse un labbro e guardò nuovamente fuori dalla
finestra. Nascosta
dalle gambe accavallate, tormentava una pellicina del pollice, della
mano che
teneva in grembo. Fuori la neve continuava a cadere e ad accumularsi,
ma prima
o poi sarebbe sparita, sciolta dal caldo e dal sole primaverili, che
invece niente
potevano fare contro i cumuli di ghiaccio che racchiudeva in
sé.
Quell’uomo
diceva di essere lì per lui e, benché lo fosse
solo perché lo pagava per
esserci, trovava la cosa… piacevole. Gli piaceva
l’idea di poter essere
semplicemente ascoltato e non giudicato.
“Io
a volte ho paura di me stesso – sbottò
istintivamente, per una volta aveva
parlato senza riflettere – non mi capisco più, o
forse non mi sono mai capito.”
Lo
psicologo non batté ciglio, bensì gli sorrise
incoraggiante:
“Bene,
e c’è qualcosa in particolare che ti spaventa di
te stesso? E non intendo le
occhiaie di prima mattina.”
Sasuke
si ritrovò a dover nascondere un sorriso. Era una battuta
stupida, da quattro
soldi, ma lo aveva portato a sorridere, forse perché lo
aveva preso alla
sprovvista. Nel suo immaginario gli psicologi erano noiosissimi,
intenti a
scrivere su un block-notes senza nemmeno guardarti in faccia, mentre
questo
tizio non gli staccava gli occhi di dosso, usava le mani per reggersi
il mento
o grattarsi la testa e usava una lieve ironia di fondo in tutte le sue
frasi.
Ancora
si chiedeva dove fosse la fregatura.
“Credo…
il fatto di non capirmi, non capisco cosa voglio da me e dagli altri e
riesco a
ferire le persone con una facilità sorprendente ogni volta
che apro la bocca.”
Non
pensava solo a Gaara e al loro ultimo disastroso incontro, ma anche a
tutte le
volte in cui Naruto aveva nascosto dietro un sorriso la delusione o la
tristezza, il modo in cui Itachi lo aveva sempre cercato nonostante i
suoi
rifiuti e solo perché… gli volevano bene. Senza
contare poi tutti gli altri
amici o semplici conoscenti che erano stati punti dalle sue parole.
“Finora non
me ne è mai importato molto, ma adesso sento che
c’è qualcosa di diverso e non
capisco perché sia accaduto così
all’improvviso” aggiunse.
L’uomo
sospirò:
“Parli
di capire, capire e ancora capire, perché vuoi tenere tutto
sotto controllo?
Alcune cose non sono spiegabili con la logica, come si possono capire i
sentimenti, Sasuke?”
Il
ragazzo lo guardò irritato:
“Me
lo dica lei, la pago apposta!”
“No,
tu mi paghi per ascoltarti e il mio lavoro è ascoltarti e
farti presente ciò
che non va, ed è il tuo approccio ai problemi che in questo
caso non funziona.
L’animo umano non è un’equazione
matematica da comprendere e risolvere.”
“Mi
sta dicendo un sacco di parole inutili, io ho bisogno di una soluzione
e basta.”
“Finora
non ho sentito nessun problema, quindi quale soluzione vorresti?
Desidereresti
una bacchetta magica per il tuo carattere spigoloso? Vorresti che
nessuno ti
fraintendesse più così da non rimanere ferito
dalle tue parole che dici, ma
soprattutto da quelle che non dici?”
Sasuke
che si era già alzato con la ferma intenzione di andarsene,
mandare al diavolo
lui, il suo cardigan anonimo, le poltroncine imbottite e se stesso per
la
malsana idea di andare lì, si bloccò, inchiodato
da quell’ultima frase.
Già,
lui non parlava.
Ogni
cosa era chiara nella sua testa, peccato che non lo fosse anche nella
testa
degli altri. Ripensò a Gaara, a come si era arrabbiato e
aveva frainteso, ma
poteva dargli torto visto il modo in cui lo aveva trattato? Non gli
aveva detto
niente di tutti i pensieri che gli aveva dedicato, della voglia che
aveva avuto
di rivederlo, di rimettere le cose a posto. Gli era saltato addosso e
si era
anche risentito perché l’altro lo aveva respinto.
Sentì
un fiotto d’acido salirgli dallo stomaco nel ripensare a quel
pomeriggio, ma
soprattutto nel trovarsi ad ammettere con se stesso di essere stato lui
a
sbagliare. Era dovuto scendere dal piedistallo e fare i conti con la
propria
fallacità, non era così immune dagli errori come
gli piaceva credersi e tutto
ciò… beh sì, tutto ciò era
piuttosto destabilizzante.
Così
tanto che uno poteva persino ritrovarsi nello studio di uno psicologo!
“Credo
di essere gay, e questa è la prima volta che lo dico ad alta
voce” disse guardandolo
dritto in faccia, sfidandolo a mostrarsi scandalizzato o disgustato, ma
l’uomo
semplicemente sorrise incoraggiante e gli fece un applauso.
“Bravo,
bisogna festeggiare! Cioccolatino?” propose alzandosi e
prendendone una
scatola.
“Eh?
N-no” rifiutò Sasuke, iniziando a chiedersi se a
furia di avere a che fare con
gente poco sana anche gli psicologi finivano per impazzire.
“Peccato,
vorrà dire che ne mangerò uno anche per te
– disse risedendosi – allora, è
crollato il mondo dopo il tuo coming-out?”
Sasuke
lo squadrò ancora un po’ perplesso e, senza
rendersene conto, diede un’occhiata
in giro.
“Non
direi.”
“Allora
puoi continuare a parlarmi di tutto quello che vuoi, anche i dettagli
più
scabrosi, perché continuerà a non succedere
niente di male.”
“Lei
è pazzo.”
“Forse
– concesse lo psicologo – mai sentito parlare di
lucida follia?” domandò con un
sorriso.
Sasuke
si passò le mani tra i capelli e lo fissò mentre
sedeva sereno e
imperturbabile, col tavolino tra di loro su cui campeggiava la scatola
di
cioccolatini.
“C’è
fondente?”
“Cerca,
è così che funziona Sasuke; se non cerchi non
saprai né otterrai mai niente.”
“Confermo,
lei non è normale” borbottò, allungando
però una mano a prendere la scatola.
***
Itachi
stava dividendo la propria attenzione tra Gaara e il cellulare.
Digitò
frettolosamente qualcosa sullo schermo e vide che il suo messaggio era
stato
visualizzato subito.
-
Shisui
non salire, ci ho ripensato, non è il caso, è una
stupidaggine.
-
Ehi,
e vuoi sprecare così il nostro meraviglioso piano
“Scova il gay”? Noooo non se
ne parla!
Itachi
occhieggiò Gaara, quel giorno gli pareva di umore peggiore
del solito e le
occhiaie lo stavano facendo assomigliare pericolosamente a un panda o
un tasso.
Sapeva
che quella mattina il ragazzo era passato in università a
vedere i risultati
dell’esonero, lo aveva passato anche se con un voto
assolutamente nella media,
niente di eccezionale né in negativo né in
positivo. Itachi ne era rimasto
sorpreso perché il segretario era veramente ben preparato
per quell’esame, lo
aveva verificato personalmente.
Aveva
pensato che l’emozione gli doveva aver giocato qualche brutto
tiro, tuttavia,
vedendolo così spento e abbattuto, aveva capito che il suo
problema non era il
voto: il segreto che Gaara si portava dietro lo stava corrodendo al
punto di
spezzarlo, per quello non se la sentiva più di portare
avanti la strategia
concordata col cugino, sebbene ciò potesse andare a
discapito di Sasuke. In
quel momento Gaara aveva la precedenza.
-
E
da dove esce questo nome idiota? L’hai ribattezzato solo tu
così. Se sali in
ufficio ti picchio, Shisui.
-
Oh
sìììììì,
Itachi non sai quanto volessi provare il sadomaso con te! Natale
è
vicinissimo ti regalerò un frustino!
-
Non
ho parole per quanto sei idiota!
-
Lo
so, lo so, ti voglio bene anch’io, dai aprimi sono arrivato.
Itachi
non fece in tempo a minacciarlo ancora per messaggio che
sentì il ronzio del
citofono. Vide Gaara accigliarsi e dire:
“Chi
diavolo sarà? Speriamo non qualche cliente in
anticipo.”
A
volte succedeva che arrivassero prima o che durante le lunghe attese in
anticamera decidessero che Gaara, invece di essere il segretario dello
studio,
fosse il loro psicologo e gli riversassero addosso tutti i problemi
della loro
vita o che li avevano spinti a rivolgersi a un avvocato. Era un ruolo
che
ovviamente il ragazzo non voleva rivestire, ma si trovava costretto ad
annuire
mentre faceva buon viso a cattivo gioco e cercava una maniera cortese
per
evidenziare il fatto che stava lavorando e non era pagato per
ascoltarli. Era
logico comprendere come la prospettiva che gli rovinassero persino la
pausa
pranzo non lo rendesse esattamente felice.
“Dovrebbe
essere mio cugino, deve salire a portarmi una cosa” si
premurò a informarlo
Itachi, ormai rassegnato ad assistere all’incontro tra i due.
“Ah,
meno male” rispose Gaara visibilmente sollevato, premendo su
un pulsante per
aprire il portone. Non era un cliente inopportuno e nemmeno Sasuke, per
quanto
si trattasse sempre di un Uchiha, ma probabilmente Itachi sarebbe
uscito tra
poco assieme a lui per andare a pranzo, lasciandolo finalmente da solo
e in
pace.
Era
stanco, stanco del lavoro, di sentire la gente e risolvere i loro
stupidi
problemi; era stanco dei propri e non riusciva a smettere di chiedersi
perché
diavolo si ostinasse ad andare avanti.
Scrollò
col mouse il documento che stava leggendo, domandandosi anche
perché la gente
continuasse a litigare e a farsi cause stupide, buone solo a sperperare
denaro,
soprattutto perché poi toccava a lui protocollare gli atti
d’ufficio ed
espletare tutta la burocrazia accessoria.
Vide
con la coda dell’occhio Itachi alzarsi per andare ad aprire
la porta,
confabulare a bassa voce con qualcuno appena entrato e, poco dopo,
entrarono
assieme nell’ufficio.
“Gaara,
noi usciamo – gli disse l’avvocato posando un
pacchetto sulla scrivania –
comunque lui è mio cugino Shisui Uchiha.”
Il
segretario sollevò gli occhi dallo schermo e
osservò un ragazzo alto, dagli
occhi scuri quanto i capelli corti e mossi, era molto bello e
assomigliava a Itachi
sebbene sul suo viso ci fosse un largo sorriso amichevole.
“Piacere,
Gaara” disse alzandosi in piedi e tendendo la mano al di
sopra della scrivania.
“Oh,
piacere mio, scusa il disturbo” rispose il ragazzo
stringendogliela. Nonostante
le dita fredde la sua presa era salda e piacevole.
“Figurati”
mormorò asciutto, non sapendo che altro dire.
L’altro
però non sembrò scoraggiarsi e anzi
continuò, con voce divertita:
“In
realtà ero curioso di conoscerti, Itachi mi ha parlato di te
e del tuo aiuto,
se non ci fossi stato lo avrebbero licenziato il secondo giorno
probabilmente.”
“Shisui!
Ma che… – esclamò Itachi, irritato, per
poi rivolgersi al segretario – scusalo,
è caduto dal seggiolone più volte da
piccolo.”
Gaara,
nonostante tutto, sorrise per quella battuta, per quel modo che i due
avevano
di approcciarsi, denotava una grande confidenza e
complicità, proprio come ci
si aspettava da una famiglia con rapporti normali.
Il
suo sorriso scomparve.
“Itachi
è bravissimo, anche senza di me se la sarebbe cavata, ne
sono certo” rispose,
ed era vero. Non doveva nemmeno prenotargli il taxi o fare altre
stronzate che
un qualsiasi essere dotato di pollice opponibile avrebbe potuto
risolversi da
sé. Tutti tranne gli altri avvocati dello studio
evidentemente.
“Dai
Shisui, andiamo. Lasciamo respirare Gaara almeno durante la pausa,
è quello che
lavora più di tutti qua dentro” si intromise
Itachi. Le sue parole
rispecchiavano ciò che pensava, d’altronde lui non
era il tipo da parlare a
vanvera o sprecare complimenti senza fondamento, quelle poche volte in
cui li
elargiva.
Shisui
però non gli diede retta, adocchiò il contenitore
posato sulla scrivania vicino
al mouse e in cui c’era una forchetta dispersa in mezzo a dei
fagioli e un po’
di verdura, non gli sembrava un pranzo degno di nota.
“Perché
non vieni a mangiare con noi? Tanto oggi offre Itachi!”
“Grazie,
ma sarà per un’altra volta. Oggi ho un
po’ di cose da sbrigare durante la pausa.”
Nel rispondere, Gaara non mostrò la sorpresa dovuta a
quell’invito proferito in
maniera spontanea, aveva avuto l’impressione che quel ragazzo
avrebbe davvero
provato piacere per la sua presenza.
Forse
la compagnia di quello Shisui poteva essere divertente,
un’uscita con quei due
poteva davvero essere un bel diversivo alla sua triste routine, ma non
quel
giorno. Forse nemmeno in quella vita in generale visto il suo stato
d’animo
attuale.
“Non
preoccuparti Gaara, adesso lo porto via – lo
rassicurò Itachi – ma se qualche
volta vogliamo andare a pranzo insieme mi farebbe piacere.”
Il
segretario annuì semplicemente, nuovamente sorpreso da
quell’ennesima proposta
inaspettata e li osservò uscire con un mezzo sorriso sulle
labbra, anche perché
i due continuavano a rimbeccarsi.
Quando
furono da soli nell’ascensore Itachi gli diede una spinta:
“Ti
avevo detto di non venire! E poi che cose ti metti a dire? Bastava che
ti
presentassi e basta.”
Shisui
sospirò e alzò gli occhi verso l’alto,
osservando il piccolo schermo dove si
avvicendavano i numeri dei piani. Non disse una parola, né
l’altro lo stimolò,
consapevole che il cugino stava cercando il modo adatto per dirgli
qualcosa che
probabilmente non gli sarebbe piaciuto. Avvertì un brivido
corrergli per la
schiena, non dovuto alla giornata gelida, e infilò le mani
nelle tasche del
cappotto, attendendo. Shisui non gli avrebbe risparmiato niente, lo
sapeva.
Si
accomodarono in un locale poco distante, piuttosto semplice e affollato
da
altri lavoratori come loro che lasciavano gli uffici dove lavoravano
diligentemente, al pari di industriose api operaie e, sempre come tali,
sciamavano fuori in cerca di una boccata d’aria invece che di
polline.
I
due ragazzi erano uno di fronte l’altro, tra di loro i
bicchieri, la bottiglia
d’acqua, i tovaglioli, ma non osservarono niente di tutto
ciò, troppo presi a
guardarsi.
Itachi
incrociò le mani sul tavolo, non fece nessun altro
movimento, sembrava
imperturbabile e sereno, una maschera perfetta in attesa del verdetto.
“È
gay” rispose semplicemente Shisui alla sua domanda silenziosa.
All’improvviso
l’aria sembrò densa, come uno zuccheroso sciroppo,
e Itachi rimase qualche
istante in apnea perché mandarla giù ai polmoni e
poi portarla fuori era
diventato difficile. Respirò con la bocca, dopo di che si
morse delicatamente
l’unghia di un dito.
“Come
fai ad esserne certo?”
“Perché
l’ho visto in un gay bar qualche volta e lì non ci
vai per caso.”
Itachi
sapeva che il cugino frequentava senza problemi certi posti, a
differenza sua
che ci andava molto raramente, e credette subito alle sue parole.
Pensò alla
variegata fauna di quei locali e provò un moto di paura per
Sasuke perché lì,
mescolati a gente comune, si nascondevano predatori, uomini senza
scrupoli,
puttane che cambiavano anche più di un cazzo in una serata,
gente malata che
pretendeva di scopare senza preservativo e tanti altri che si sarebbero
potuti
approfittare senza problemi di un inesperto come Sasuke. Certo, il
fratello non
era uno stupido, nemmeno qualcuno capace di dare confidenza, ma
c’era anche chi
quella confidenza se la prendeva con la forza.
“Parlami
di lui” disse al cugino; in che cerchia rientrava Gaara? Cosa
nascondeva dietro
ai suoi modi pacati ed educati, dietro quegli occhi chiarissimi e a
volte
inquietanti?
Shisui
si guardò un attimo attorno, intuì la
preoccupazione del cugino e non perse
altro tempo a rispondergli.
“Non
lo conosco personalmente, l’ho notato qualche volta, in fondo
con quei capelli
rossi è un bersaglio facilmente individuabile, oltre ad
essere piuttosto
ambito, ho visto parecchi girargli attorno. Però lui mi
sembra un tipo
tranquillo, l’ho sempre visto al bancone del bar, beveva da
solo e
chiacchierava col barista, un tipo biondo, Deidara, te ne ho anche
parlato, è
quello che prepara quei cocktail divini. Probabilmente sono amici visto
che lui
sta da anni con un tizio strambo che si chiama Hidan che lavorava
lì prima di
andare da un’altra parte. Adesso sta in un altro posto un
piano bar, mi sembra,
non vado spesso là perché è troppo da
fighetti ed è costoso.”
“Shisui,
non mi interessa la tua vita notturna o l’elenco dei tuoi bar
e barman
preferiti” lo interruppe Itachi, tamburellando le dita sul
tavolo.
“Sì,
sì – sospirò questi – non
c’è molto altro da dire. L’ho sempre
visto al bancone
a bere, a volte scambia qualche parola con altri e chiacchiera con
Deidara. Una
volta sola un tizio gli stava dando fastidio, questo era ubriaco ed era
impossibile
non notarlo perché parlava a voce alta, Gaara molto
semplicemente gli ha
intimato di lasciarlo in pace e se ne è andato, senza fare
casini e deve essere
stato piuttosto duro perché quello non lo ha seguito.
Insomma pare un tipo
tranquillo, sicuramente ogni tanto avrà anche dato
più confidenza a qualcuno,
ma non è che io stia là tutte le sere, anche se,
ora che ci penso, è da
parecchio che non lo vedo. Come ti ho detto, quei capelli sono
piuttosto
riconoscibili.”
Itachi
si passò una mano sul labbro inferiore, sentendo sotto al
polpastrello le
pellicine secche a causa del freddo. La cameriera portò le
loro ordinazioni, ma
nessuno dei due iniziò a mangiare.
“In
sostanza mi stai dicendo che è a posto e che se Sasuke e lui
hanno avuto una
relazione non dovrebbe esserci stato qualche problema… ma
allora perché tra
loro i rapporti sono così tesi? –
guardò il cugino – Quando Gaara ha scoperto
che ero suo fratello è sbiancato e quando si è
trovato davanti Sasuke pareva
aver vinto un fantasma, era turbato. Non sono reazioni
normali.”
“Beh,
magari hanno litigato e non sono rimasti in buoni rapporti, capita
– rispose
Shisui pratico, iniziando a mangiare – non è
semplice avere a che fare con
Sasuke. Non pensare al modo in cui è con te o coi suoi
amici, lui è davvero
chiuso e inflessibile e secondo me la risposta ai tuoi dubbi sta nella
fuga di
Gaara il giorno della sua laurea. Se veramente era lì per
lui, come pensi che
abbia reagito il tuo fratellino chiuso, che non ha mai parlato con
nessuno
della sua omosessualità, e per cui la cosa più
importante al mondo è non
deludere tuo padre? Come può aver mai reagito vedendo il suo
amante così vicino
alla propria famiglia?”
“Di
merda” sospirò Itachi, bevendo un sorso
d’acqua.
Per
quanto i rapporti nella sua famiglia fossero migliorati, Fugaku
rimaneva un
uomo molto severo e all’antica e i sentimenti di
inferiorità di Sasuke non
potevano certo scomparire dal giorno alla notte, si erano di sicuro
mitigati,
ma il ragazzo provava ancora il bisogno di dimostrarsi perfetto e
migliore di
chiunque. Una combinazione letale che faceva a cazzotti con i dubbi e
le
incertezze che un giovane alle prese con una sessualità
incerta, soffocata dal
bisogno di mostrarsi conforme agli standard della società e
del loro padre.
“Ma
se è come dici perché lo ha invitato per poi
cacciarlo?” domandò ancora Itachi,
voleva capire e trovare un modo per aiutare il fratello.
“Che
ne so? Qui stiamo facendo solo ipotesi – rispose Shisui a
bocca piena – anche
quelle fatte finora sono speculazioni e basta. Magari Gaara voleva
fargli una
sorpresa, magari è stata una coincidenza ed era
lì per un altro motivo, magari
Sasuke ci ha ripensato quando lo ha visto. Non possiamo rispondere a
certe
domande, è impossibile. L’unica cosa sicura
è che sono in pessimi rapporti. Tu
che vuoi fare?”
Bella
domanda e, per una volta, Itachi non aveva una risposta.
“Shisui,
manda giù prima di parlare e poi hai un pezzo
d’insalata tra i denti” lo
rimbeccò, senza reale irritazione, in fondo il cugino gli
piaceva proprio
perché era tanto diverso da lui, persino nel modo di stare a
tavola.
Ignorò
i suoi borbottii e rifletté, senza sentire nemmeno il gusto
di ciò che stava
mangiando.
“Non
lo so – ammise e per lui era difficile confessare la sua
impotenza – per il
momento rimarrò a guardare come si evolve la situazione.
Sasuke ha in mano il
progetto di ampliamento dello studio, quindi saranno costretti a
rivedersi.”
“Mmhh…
e per quanto riguarda te? – all’occhiata
interrogativa dell’altro aggiunse – Ricordo
male o mi avevi detto che Gaara ti interessava?”
Itachi
rimase interdetto da quell’affermazione, ulteriore segno che
tutta quella
storia lo stava scombussolando più del dovuto. Nemmeno
quando Konan aveva
annunciato che se ne sarebbe andata era rimasto tanto colpito. Non
notò
l’occhiata più attenta di Shisui, il suo
interrompersi mentre mangiava per
puntare la sua completa attenzione su di lui e la sua risposta.
“Beh,
è bello, interessante, lo ammetto, ma se ha una storia con
Sasuke come posso
intromettermi?”
“Itachi,
sei troppo altruista, specialmente se si tratta di tuo fratello, se ne
avesse
bisogno gli doneresti persino il cuore per trapiantarlo –
sospirò Shisui per
poi avvicinare la testa alla sua – va bene amare il proprio
fratello, ma devi
pensare anche a te stesso, non puoi negarti una scopata per lui.
Nemmeno tu sei
felice, e la vita di Sasuke è di Sasuke, tu non puoi sempre
spianargliela, è un
adulto ormai. Deve prendersi la piena responsabilità dei
suoi errori e
accettarne le conseguenze, e Gaara è una di queste. Se non
stanno insieme,
perché non dovresti farti avanti se ti piace, e poi da
quello che ho visto una
botta di felicità non guasterebbe nemmeno a quel ragazzo.
Pareva che gli fosse
morta tutta la famiglia, cane e gatto compresi.”
“Vaffanculo
Shisui” sospirò Itachi, senza rabbia.
Semplicemente il cugino lo metteva sempre
di fronte ad alcune domande scomode che altrimenti avrebbe evitato. Era
più
comodo trincerarsi dietro alla scusa di Sasuke per non doversi esporre.
Shisui
lo comprese alla perfezione e per quello gli sorrise, continuando a
mangiare
soddisfatto. Voleva bene a tutti i suoi cugini, ma Itachi era speciale
e non
solo perché ogni tanto facevano sesso, per lui la sua
felicità veniva prima di
quella di tutti gli altri e in quel momento finire a letto con Gaara lo
avrebbe
reso felice. Non ci vedeva niente di male o di compromettente, niente
che
avrebbe potuto turbare in modo significativo il suo futuro, solo un
qualcosa di
passeggero ma piacevole.
Rimasero
in silenzio, ognuno preso nei propri pensieri quando
all’improvviso Itachi
domandò:
“Cosa
c’era nel pacchetto che mi hai portato?”
Era
stata la scusa con cui Shisui era salito, ma era stata una cosa che
aveva
improvvisato sul momento.
“Oh,
già – disse questi sorridendo –
preservativi, che altro?”
Itachi
rimase con la forchetta a mezz’aria, guardandolo:
“Io
ti ammazzo” sibilò.
“Ma
se la confezione è addirittura nuova!”
protestò l’altro, mentre Itachi pregava
che nessuno andasse a sbirciare sulla sua scrivania o avrebbe dovuto
cambiare
lavoro per la vergogna.
“Puoi
lasciarli in ufficio, magari ti serviranno prima o poi con
Gaara” continuava a
blaterare quell’idiota, ignaro del pericolo.
“Io
ti ammazzo sul serio.”
L’angolino
oscuro:
Dopo tutti questi casini a quanto pare Sasuke ha fatto la prima azione
sensata,
si è rivolto a qualcuno per chiedere aiuto. In questo
momento così confuso e
travagliato ha bisogno di qualcuno che gli faccia luce e gli permetta
di
distinguere il cammino da seguire, un aiuto per trovare quelle risposte
di cui
ha bisogno e che nessun’altro può fornirgli,
adesso è tutto nelle sue mani e
deve essere lui a scegliere cosa fare.
Il
“segreto” di Gaara viene svelato da Shisui e Itachi
è forse sulla strada giusta
per scoprire la verità, ma sarà davvero
così semplice? E soprattutto cosa farà
Itachi con questo interesse che prova verso Gaara?
Continuerà a mettere Sasuke
davanti a sé e ai propri bisogni? Insomma entrambi i
fratelli Uchiha si trovano
davanti delle decisioni importanti da prendere, quale sarà
quella giusta? Per
il momento godetevi questo spezzone di vita e complicità tra
i due cugini, e
non perdete d’occhio Shisui…
Alla
prossima, se vi va fatemi sapere che ne pensate della storia.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** 8 - Red bird ***
Red
bird
Gaara
concluse la mail senza nemmeno i saluti formali tipici di questa
comunicazione
scritta e la inviò subito, così da non farsi
prendere da eventuali
ripensamenti.
Sapeva
di essere stato maleducato, ma persino avere a che fare con Sasuke
tramite un computer
lo irritava. Non riusciva proprio a passare sopra a quanto era successo
tra
loro l’ultima volta in cui erano stati da soli, faccia a
faccia, a come lo avesse
fatto sentire una puttana; una puttana stronza per di più.
Forse anche Gaara a
sua volta aveva oltrepassato la misura, non
si era risparmiato nel ricambiare gli insulti, ma aveva perso la testa
nel
sentirsi offendere a quel modo, specialmente da
quell’ipocrita patentato di Sasuke,
poi!
Purtroppo non poteva tagliare del
tutto i contatti con lui, doveva averci a che fare per lavoro e non
poteva
proprio evitarlo. Finora si erano scambiati mail riguardo il progetto,
i preventivi
e un’altra lunga serie di cose noiose, ma sicuramente presto
si sarebbero anche
dovuti rivedere e l’idea non gli piaceva, gli strizzava lo
stomaco in una
ferrea morsa di disagio.
Si
dava dello stupido perché non riusciva a essere indifferente
come avrebbe
voluto: quello stronzo di un Uchiha nonostante tutto gli era entrato
dentro più
di quanto avesse creduto.
Cercò
di togliersi dalla mente Sasuke e osservò Hinata mentre si
affaccendava per
decorare la loro stanza, finendo per fare un mezzo sorriso. Solitamente
nel
periodo natalizio appariva giusto qualche sparuta decorazione, ma
quell’anno la
ragazza si stava veramente impegnando per far diventare quel sobrio
studio,
tutto legno e professionalità, un tripudio di lucine
colorate e roba verde di
cui Gaara nemmeno sapeva il nome.
Si
alzò vedendo che stava per usare la scala e, senza che gli
venisse chiesto o
dire nulla, andò a tenerla ferma mentre lei saliva.
“Oh,
Gaara grazie. Sei molto gentile, non volevo disturbarti”
rispose lei.
“Figurati,
mica hai intenzione di passare il Natale in ospedale, sarebbe una vera
tragedia
per te, vero?”
“Vero,
vero… – ridacchiò Hinata, fissando
delle decorazioni sopra la porta – adoro
questo periodo dell’anno, Naruto mi chiama la maniaca del
Natale, ma anche a
lui piace.” Sorrise dolcemente ripensando al suo fidanzato.
“Sono
contento per te” rispose Gaara, asciutto.
“Scommetto
che tu invece lo odi” replicò lei. Tuttavia, prima
che il ragazzo rispondesse,
si aprì il portone dell’appartamento e Itachi
entrò nell’anticamera,
rabbrividendo mentre li raggiungeva, in tempo per udire
quell’ultima frase.
“Chi
è che odia cosa?” domandò iniziando a
togliersi cappotto e guanti.
“Il
natale, io lo amo, ma stavo dicendo a Gaara che mi sembra uno di quelli
che
invece lo odia. Nevica ancora fuori?”
“No,
ha smesso, ma è tutto imbiancato. Forse sarà il
caso che tu esca prima se vuoi
arrivare puntuale a quella cena – le rispose per poi
rivolgersi all’altro
ragazzo – allora, odio o amore?” sorrise.
Gaara
osservò il suo viso arrossato dal freddo, un fiocco di neve
che si stava
sciogliendo tra i suoi capelli scuri e realizzò di fissarlo
imbambolato senza
rispondere.
“Beh,
non so – mormorò, fingendo di pensarci ancora
– forse indifferenza e basta.”
“Oh,
ma è così bello stare con la famiglia e gli amici
davanti al caminetto, a
mangiare cose buone – disse Hinata sognante –
persino mio padre si
ammorbidisce, dovresti vederlo! Tu invece cosa fai con la tua
famiglia?”
Gaara
si irrigidì a quelle parole. Cosa poteva mai significare il
Natale per uno come
lui che una famiglia non ce l’aveva mai avuta?
Cercò di dissimulare e si voltò
per prendere dei chiodini che servivano alla ragazza.
“Direi
niente, non siamo in buoni rapporti – disse soltanto e, per
evitare che gli
esprimessero una qualche forma di dispiacere o scuse, si
affrettò ad aggiungere
– credo che faremo la solita cena con il mio coinquilino e i
suoi amici. E li
ritroverò ancora ubriachi sul divano la mattina
dopo.”
Rise
appena ricordandosi dell’anno prima, in cui si era dovuto
barricare in camera
perché Yahiko, uno di quegli amici di Hidan, voleva che
facesse da giudice in
uno spogliarello integrale tra tutti loro. Alla fine aveva desistito,
ma aveva
fatto l’offeso tutto il resto della serata, salvo poi non
ricordarsi
assolutamente niente una volta passata la sbronza.
Nessuno
degli altri due replicò e ci fu un momento di silenzio,
superato però grazie a
Itachi che disse:
“Noi
quest’anno andremo a sciare, non vedo l’ora di
rimettere i piedi sullo
snowboard!”
“Oh,
che bella cosa. Quindi sei bravo con la tavola?”
domandò Hinata.
“Per
niente – replicò – ma proprio per quello
non voglio darmi per vinto, ci
riuscirò ad ogni costo.” Era esaltante aver
trovato qualcosa in cui non
eccellesse al primo colpo, una bella sfida per uno come lui che
solitamente
riusciva in tutto senza dover fare troppi sforzi.
“Cerca
solo di non tornare con le ossa rotte” scherzò
Gaara.
“Non
preoccuparti, non ho intenzione di lasciarvi soli –
osservando Hinata scendere
dalla scala e le sue decorazioni, sorrise malizioso –
vischio, allora hai
cattive intenzioni per caso?”
“Oh?
N-no, no – si affrettò lei a replicare –
è solo che è così carino con quelle
bacche bianche.”
“Mh,
farò finta di crederti” continuò a
prenderla in giro Itachi.
“Che
significato ha?” domandò Gaara incuriosito, dato
che non capiva a cosa si
stessero riferendo.
“Per
tradizione se due persone si fermano sotto al vischio devono baciarsi,
ma sul
serio: l’ho usato solo perché lo trovo carino.
Itachi, smettila di ridacchiare”
disse lei facendosi rossa e parlando più velocemente del
solito.
Gaara
la osservò: con le sue guance colorate,
l’espressione imbarazzata, le mani che
non volevano saperne di stare ferme, Hinata era assolutamente
adorabile, la
quintessenza della normalità, di tutto ciò di
buono e rassicurante poteva
ancora esistere.
“Beh,
allora dovrai stare attenta se non vuoi che Naruto si
arrabbi” disse, unendosi
a quella presa in giro. Per la prima volta dopo parecchio si sentiva
bene, gli
piacque ritrovarsi a scherzare e ridere in modo tanto naturale. Ogni
pensiero
negativo sembrava lontano, era forse quella la magia del Natale?
Alla
fine Hinata era uscita in anticipo e anche gli altri avvocati
l’avevano imitata
poco dopo. Quel giorno il tempo era veramente pessimo, ma Gaara, prima
di poter
dichiarare concluso il suo lavoro, doveva assolutamente finire un giro
di
telefonate e mail, oltre a preparare il materiale da dover spedire
l’indomani.
Anche Itachi sembrava piuttosto indaffarato nelle sue scadenze
improrogabili,
tanto che i due si ritrovarono ad uscire assieme
dall’ufficio, forse gli ultimi
di tutto il palazzo.
“Che
programmi hai per la serata? O dovrei dire pomeriggio visto che sono
solo le
diciotto?” domandò Itachi mentre entravano
nell’ascensore. Mai nessuno usciva
tanto presto, ma quel giorno pareva tutto diverso, l’aria
prometteva neve e una
sottile elettricità pareva suggerire che sarebbe potuto
succedere qualsiasi
cosa prima che spuntasse di nuovo l’alba; una tempesta era
alle porte.
“Non
so, suppongo che andrò a casa. Niente di speciale,
tu?” chiese Gaara a sua
volta, fissando perplesso uno sticker con il faccione di babbo natale
attaccato
persino lì dentro, vicino alla pulsantiera. Hinata non aveva
davvero limiti,
era certo che fosse stata lei.
“Credo
che andrò a prendermi una cioccolata calda, è
veramente il tempo ideale e non
ho altri impegni – replicò guardando le sue
ciocche rosse sfavillare in quello
spazio ristretto sotto la luce artificiale – vuoi farmi
compagnia?”
Gaara
girò la testa di scatto, sorpreso da quella proposta
inaspettata. Si domandò
perché l’altro gliel’avesse fatta, non
avevano mai passato del tempo seduti,
rilassati a chiacchierare semplicemente del più e del meno.
Ogni tanto si
scambiavano qualche battuta o si ritagliavano un paio di minuti per
scambiare
due parole tra un lavoro e l’altro, ma nulla di
più.
“Sì,
mi farebbe piacere.”
La
risposta era uscita con naturalezza e fu lui il primo a rimanerne
sconcertato,
però non se la rimangiò, bensì lo
seguì fuori dall’ascensore e poi dal palazzo
mentre Itachi gli sorrideva e gli raccontava di un posto lì
vicino dove
facevano un’ottima cioccolata calda, la sua preferita in
effetti.
Non
nevicava ancora, le strade e i marciapiedi erano stati ripuliti dalla
nevicata
della mattinata, ma ogni altra cosa era ammantata di bianco e
l’aria era così
gelida che spingeva ad alzare i baveri dei cappotti e a camminare
velocemente
per togliersi di lì. Tuttavia non fecero che pochi passi
prima che Gaara si
sentisse afferrare per un braccio e, voltandosi irritato pronto a
inveire,
rimase invece sconcertato vedendo Kankuro.
“Dobbiamo
parlare” gli disse questi.
Gaara
aprì la bocca e la richiuse un paio di volte prima di
riuscire a emettere un
fiato, aveva l’impressione che tutto quel freddo avesse
creato un tappo di
ghiaccio invisibile che era stato difficile scalzare.
“Credo
che ci siamo già detti tutto” rispose infine, con
la sua solita voce pacata che
niente rivelava del suo turbamento interiore.
“No,
proprio per niente. Non te ne saresti dovuto andare a quel modo
l’ultima volta,
né bloccare il mio numero.”
A
quel punto Itachi non riuscì più a essere il
solito spettatore impassibile e si
fece avanti, preoccupato per quello sconosciuto che gli pareva un
po’ troppo
agitato. Si faceva infatti sempre più vicino a Gaara e non
pareva intenzionato
a lasciar andare la presa sul suo braccio, mentre lo fissava con uno
sguardo
acceso che proprio non piaceva a Itachi, come non gli piacevano
l’aria
scioccata e il pallore del segretario.
“E
tu saresti? Se Gaara non vuole parlarti avrà le sue
ragioni.”
Tentò
di essere conciliante, quando in realtà avrebbe solo voluto
prendere il collega
per mano e trascinarlo via da lì, ma non conosceva la
situazione e non voleva
tirare conclusioni affrettate, sebbene raramente il suo istinto lo
aveva
tradito.
“Lui
è…” iniziò a dire in effetti
Gaara, interrotto però bruscamente da Kankuro.
“Sono
suo fratello, chi sei tu piuttosto?”
“È
un mio collega – rispose Gaara, strattonando via il braccio
dalla presa
finalmente – e vedi di darti una calmata. Quello incazzato
dovrei essere io.”
I
due fratelli si fissarono in silenzio, Kankuro con
l’espressione più corrucciata
che mai e l’altro capì che non avrebbe rinunciato
tanto facilmente quella
volta.
“Itachi,
scusami. Sarà per una prossima volta, ok?”
L’Uchiha
si sentì tagliato fuori in modo definitivo e ineluttabile,
tuttavia non cedette
subito nemmeno di fronte all’evidenza e sondò
quegli occhi chiari; non gli
piacque vedere l’agitazione che giaceva celata.
“Sicuro
che sia tutto a posto?” Si era un po’ rilassato
nell’apprendere che quello non
era un amante rancoroso, bensì il fratello, però
giusto qualche ora prima aveva
anche sentito che non avevano un bel rapporto.
“Sì,
scusami ancora. Ci vediamo domani, buona serata”
tagliò corto Gaara, non
badando più ai sentimenti o alle preoccupazioni di Itachi.
Si incamminò nella
direzione opposta alla sua, stando ben attento a non sfiorare Kankuro,
né
voltandosi per vedere se lo stesse seguendo.
Con
gli occhi puntati a terra e le mani in tasca, camminò svelto
fino ad entrare in
un parchetto deserto; in fondo chi, sano di mente, ci si sarebbe mai
avventurato in una sera come quella? Le siepi, i prati, le panchine,
tutto era
ammantato di neve candida, persino alcuni sentieri non erano sgombri e
fu lì,
in quel luogo quasi irreale dove ogni suono era attutito dalla bianca
coltre
spessa, che Gaara si voltò a fronteggiare il fratello,
decisamente irritato.
“Si
può sapere che diavolo vuoi ancora da me?”
“Accidenti
Gaara, qui si gela e io sono stato un’ora ad aspettarti fuori
dal portone, non
possiamo andare in un locale?”
“No,
se vuoi parlare possiamo farlo anche qui.”
Non voleva essere circondato
da altra gente
come l’altra volta, perché temeva che stavolta la
loro discussione sarebbe
stata ancora più delicata. “Come hai fatto a
scoprire dove lavoro? No, aspetta non
dirmelo… l’investigatore privato. Posso dirti che
la cosa mi dà parecchio
fastidio?”
L’idea
che un estraneo frugasse tra le pagine della sua vita lo faceva sentire
violato, specialmente se poi il risultato era ritrovarsi
inaspettatamente di
nuovo faccia a faccia col fratello. Non erano bastate le mail con
Sasuke quel pomeriggio,
non c’era proprio pace per il ragazzo, e lui che si era
illuso di potersi
rilassare almeno un attimo assieme a Itachi! Povero sciocco.
“Scusami,
ma era l’unico modo di rintracciarti visto che non rispondevi
alle mie chiamate.”
“Forse
perché non volevo parlarti e non voglio ancora adesso, mi
hai costretto in
pratica!” tacque e serrò forte le labbra.
“Come
ti ho costretto a fare certe cose in passato, è questo che
vuoi dire?” ribatté
Kankuro, stringendo le mani a pugno. E a Gaara sembrò di
sentirselo in faccia
quel pugno, tale era stata la violenza delle sue parole.
“No,
no, aspetta… non mettermi in bocca cose che non ho mai
nemmeno pensato. Di
certo sei stato tu a infilarti nel mio letto e a incitarmi, ma io
l’ho sempre
fatto perché ti volevo bene, perché
pensavo… – gli morì la voce e non
riuscì a
continuare – Ma perché stiamo parlando ancora di
questa storia? Basta Kankuro,
basta” mormorò.
Il
fiato si congelava in bianche nuvolette davanti alla sua bocca prima di
dissolversi e lui voleva che succedesse la stessa cosa coi suoi
ricordi. Gli
sarebbe piaciuto se avessero potuto svanire e lasciarlo come un uomo
nuovo,
ripulito dalle colpe e dai peccati del passato. Ma Kankuro non aveva
intenzione
di lasciar stare, continuava ad aggrapparsi a quella discussione come
un cane
con l’osso, in un’ossessiva e dannosa ricerca di
una risposta.
“Ne
parlo perché dobbiamo chiarire, io pensavo che lo fosse,
invece tu l’altra
volta mi hai sbattuto giustamente in faccia le mie colpe e le
conseguenze delle
mie azioni sconsiderate – gli posò una mano sulla
spalla – cosa pensavi di noi Gaara?”
Il
ragazzo lo guardò con gli occhi chiari, ma non quanto la
neve che aveva
ricominciato a scendere dal cielo. Osservò i suoi lineamenti
da adulto
confrontandoli con quelli dell’adolescente che lo aveva
stretto tra le braccia,
la persona che era stata tutto il suo mondo, e vide che era diverso;
esattamente come diverse erano le sue convinzioni dalla
realtà.
“Pensavo
mi amassi, perché io ti amavo. Ti amavo e non
perché eri mio fratello, ma mi
sbagliavo a quanto pare.”
A
quel punto tenere nascosta la verità non sarebbe servito
più, doveva dirla ad
alta voce, ascoltarla e accettare il suo fallimento, che tutto il suo
mondo era
crollato miseramente e ciò che gli rimanevano in mano erano
solo cocci inutili.
Kankuro
esalò un respiro profondo, non era stato facile sentirsi
dire direttamente
quelle parole che aveva solo immaginato, ma le sue orecchie per quanto
gelate funzionavano
e avevano udito quella confessione dal sapore di una condanna.
“Mi
dispiace, io… è tutta colpa mia.”
“Perché
mi sei venuto a cercare, solo per avermi al tuo matrimonio, solo per
illuderti
di avere davvero una famiglia? Ma così hai spezzato la mia
di illusione, hai
reso inutili e vani tutti i miei sacrifici, fatti solo
perché ti amavo.” Gaara
non riuscì più a trattenere un singhiozzo,
parlare lo aveva lacerato, aveva
generato un maremoto di tristezza che stava rapidamente mutando in
rabbia,
perché lui non aveva mai chiesto niente di tutto
ciò, lui non aveva mai chiesto
nulla fin dal principio. “Nonostante tutte le
difficoltà ti pensavo e mi dicevo
di aver fatto la scelta giusta, ma tu con le tue parole
l’altra volta mi hai
fatto capire che è stato tutto inutile, le mie azioni quanto
i miei sentimenti
– gliela urlò addosso quella rabbia, incapace
ormai di contenersi – e ora vieni
qui e ti addossi la colpa giusto per lavarti la coscienza, ma non serve
a
niente. A me non serve! Non lo volevo, io non volevo più
niente da te!”
“Gaara
aspetta, possiamo rimediare, possiamo aggiustare ogni cosa
adesso…”
Kankuro
non riuscì a finire la frase perché Gaara lo
prese per il bavero del cappotto e
lo strattonò a sé, baciandolo. Posò le
labbra gelide sulle sue altrettanto
fredde e gliele leccò con la lingua umida e calda; gli diede
un vero e proprio
bacio come quelli che si scambiavano in passato, quelli che lui gli
aveva
insegnato a dare, solo che stavolta il fratello lo ricambiò
a malapena.
Gaara
lo lasciò andare e, fissandolo negli occhi sorpresi, disse:
“No,
non c’è niente da poter riparare, e questo
è il motivo. Non siamo una famiglia,
non siamo amanti, non siamo nemmeno amici; noi non siamo niente,
Kankuro, se
non due estranei che in passato hanno condiviso qualcosa che non
avrebbe mai
dovuto esserci tra due fratelli. Ora lasciami in pace, sposati, senti
pure tua
sorella, perché non hai altra famiglia all’infuori
di lei, io non esisto.”
Lo
lasciò andare e Kankuro mormorò solo un
“Gaara” soffocato tra i denti, ma non
lo fermò, lo osservò andare via, con i capelli
striati di bianco, le spalle
curve e la sua figura sottile si confuse con le ombre e la neve che
aveva
ripreso a scendere dal cielo. Lo osservò immobile
finché quel fratello perduto
non scomparve per sempre dalla sua vita, in modo definitivo, e di
ciò poteva
incolpare solo se stesso. Ma nessun biasimo o pena avrebbero mai potuto
riportare indietro quel ragazzo, quel fratello che era svanito tra la
neve.
Gaara
camminò senza nemmeno vedere dove stesse andando, non
c’era quasi nessuno per
strada che potesse vedere le sue guance striate dalle lacrime che
sembravano in
grado di cristallizzarsi e rimanere lì, eterne. Intravide
una cabina del
telefono e vi ci si infilò.
Il
telefono era fuori servizio, le pareti erano piene di scritte e
c’era anche un
vetro rotto, ma lui non notò niente di tutto questo. Si
lasciò cadere seduto piegando
le ginocchia, vi posò sopra la testa e pianse senza
limitarsi, senza soffocare
i singhiozzi che gli scuotevano il torace,
perché… perché era troppo. Aveva
giunto il suo limite, Kankuro aveva aggiunto l’ultima goccia
a un vaso già
colmo e pronto a straripare.
Maledisse
lui, l’investigatore che aveva fatto il suo lavoro, se stesso
per la propria
stupidità, per essersi cullato nell’illusione che
qualcuno lo avesse amato, di
valere qualcosa per qualcuno, che ci fosse ancora qualcosa di bello in
serbo
per lui. A cosa erano serviti i suoi sforzi? A che pro ammazzarsi
ancora di
lavoro e studio? Tanto era tutto inutile.
A
poco a poco si rese conto di riuscire a udire della musica in quella
piccola
cabina, c’era un locale lì vicino e stavano
suonando qualcosa dal vivo.
A
una ridicolmente piccola distanza c’era gente che stava
assieme, c’erano
risate, calore, amicizia, sentimenti dove invece lui era freddo e
vuoto… e
allora perché cantavano cose tanto tristi? Perché
non erano felici loro che
potevano? Che spreco…
There's
a black bird
perched outside my window
I hear him calling
He sees all my sins
He reads my soul
Come
join the murder
Come
fly with black
We'll
give you freedom
From
the human trap
Come
join the murder
Sì,
Gaara
avrebbe voluto unirsi, avrebbe voluto davvero che lo liberassero dal
peso dei
suoi peccati, dalla trappola della vita da cui lui stesso non riusciva
a
districarsi; troppo codardo. Voleva essere libero e finalmente volare
come
quell’uccellino nero, anche se le sue piume sarebbero state
rosse per i capelli
e il sangue.
“Basta,
basta così” mormorò in una gelida e
squallida cabina abbandonata, dove nessuno
lo avrebbe mai udito, dove nessuno avrebbe mai asciugato le sue lacrime.
Come
join the murder
Come
fly with black
***
Sasuke si
guardava le mani, quasi affascinato. Era incredibile quante cose si
potessero
fare grazie a uno stupido pollice messo in una posizione diversa dalle
altre
dita. Si afferravano oggetti, si poteva cucinare, disegnare, dipingere,
carezzare, ma anche stringere un coltello e ferire, sebbene non fossero
sempre
necessari oggetti per fare del male, bastavano anche solo delle parole.
“Allora
Sasuke, di cosa mi vuoi parlare oggi?”
Lo
psicologo lo strappò dalle sue elucubrazioni e lui
alzò lo sguardo dalle
proprie mani curate, posate elegantemente in grembo.
“Non
lo
so, niente di particolare.”
Non era
la sua prima seduta, ma ogni volta iniziava allo stesso modo, con il
terapeuta
che doveva incitarlo e ricordargli di avere una lingua capace di
articolare
parole e frasi di senso compiuto. Sasuke si era ritrovato a
raccontargli più di
quanto avesse preventivato e la cosa non era stata poi così
difficile, una
volta superato il primo scoglio. Anzi, era stata quasi liberatoria,
peccato che
appena uscito da lì calzasse di nuovo la propria maschera e
vanificava il
lavoro fatto, come se non fosse veramente lui a partecipare a quelle
sedute,
bensì un altro se stesso, come era un altro quello a cui
piacevano gli uomini e
un altro ancora quello che sapeva fare l’architetto.
Il
problema era che si era perso tra tutti questi se stesso e non sapeva
più quale
fosse l’originale, il primo che aveva generato gli altri.
“Ti
piacciono le frittelle?” domandò l’uomo.
“Frittelle?
– domandò Sasuke perplesso – Che
c’entrano?”
“Niente,
ma è un argomento come un altro di cui parlare.”
Il
ragazzo sospirò, forse non si sarebbe mai abituato alle
uscite strambe
dell’uomo, tra i due sembrava lui quello pazzo.
“Quelle
salate sì, non mi piacciono i dolci” lo
assecondò, curioso di vedere fin dove
sarebbero arrivati.
“Proprio
per niente? Nemmeno da piccolo?”
“Da
piccolo sì, anzi ne mangiavo parecchi con mio fratello,
poi…” si interruppe,
assorto.
“Poi?”
“Poi
niente, non mi sono più piaciuti.”
“Così,
all’improvviso? C’è stata
un’indigestione, qualche cosa che ti ha dato
fastidio?”
“Che
c’è?
A una persona non possono all’improvviso stare sul cazzo i
dolci?” sbottò
Sasuke, irritato.
Li aveva
sempre adorati quei maledetti dolci e, ancora di più, quelle
rare volte in cui
sul divano con Itachi facevano sparire una scatola intera di biscotti.
Però un
giorno aveva sentito il padre rifiutare un dessert a una cena formale,
dicendo
che non era da uomini e in effetti Fugaku non ne mangiava mai. Aveva
notato che
anche il fratello se li concedeva quando lui non era in casa, quindi
aveva
concluso che in effetti era una cosa deprecabile per un uomo e aveva
iniziato a
rifiutarli, nonostante il desiderio.
Sognava
che suo padre se ne accorgesse e lo lodasse per la sua bravura,
perché era più
bravo di Itachi, nemmeno quando era solo a casa andava a cercarli nella
dispensa. Ma Fugaku non si era mai accorto di nulla, ovviamente, e lui
si era
ritrovato ad odiare le cose zuccherate, senza più ricordare
il motivo
originale, almeno fino a quel momento.
Osservò
irritato lo psicologo, sapendo che a lui non importava che gli
raccontasse i
ricordi che venivano a galla durante le sedute, quelle cose che Sasuke
aveva
sepolto profondamente dentro di sé. Per lui era sufficiente
che il ragazzo ne
prendesse coscienza.
“Ho
fatto
un sogno, vuole sentirlo?” propose per cambiare argomento e
per punzecchiarlo,
ovviamente.
“Perché
no?”
“Ma
come?
Non aveva denigrato Freud e le sue interpretazioni dei sogni,
definendole
anacronistiche e semplicistiche?” disse Sasuke non senza una
punta di
compiacimento, certo di averlo colto in fallo.
“E
non lo
nego – rispose l’uomo – infatti a me non
interessa il sogno, quanto l’effetto
che il sogno ha avuto su di te, il motivo per cui ti ha colpito e ti ha
spinto
a parlarmene.”
Sasuke
fece una smorfia, sentendo in bocca un gusto acre, quello della polvere
dopo
essere stato sbattuto in terra dal suo piedistallo. Aveva sempre
guardato tutti
dall’alto in basso, compiacendosi della propria
capacità di dare risposte
argute, dei suoi silenzi che sconcertavano gli interlocutori e della
superiorità che ne conseguiva, ma con quell’uomo
non funzionava nessuna delle
sue tattiche.
Sasuke
era consapevole di essere in guerra, peccato che lui fosse sia il
nemico da
distruggere che gli eroi che andavano in soccorso a baionette spianate.
Sarebbe
stato tutto più semplice se avesse deposto le armi,
sventolato bandiera bianca
e si fosse deciso ad aprire quella bocca solo per lasciare uscire i
pensieri
più profondi invece di battutine sarcastiche e frecciatine
inutili. Eppure
proprio non ci riusciva, non riusciva a darsi tregua e abbattere
così
facilmente le trincee in cui si era sempre riparato e protetto negli
anni.
“Ho
sognato di andare al cinema con Gaara” si risolse a dire
finalmente. Aveva già
accennato in altre sedute del ragazzo, così come della
propria omosessualità,
ma non aveva sviscerato nessuno dei due argomenti e lo psicologo non lo
aveva
forzato.
“Fammi
ricordare, quel Gaara che hai trattato di merda più di una
volta?” gli domandò.
“Ehi,
ma
non dovrebbe essere dalla mia parte?” protestò
Sasuke.
“Lo
sono,
ma oltre all’inutilità
dell’interpretazione dei sogni sono anche convinto del
bisogno di dire le cose come stanno, specialmente con te.
Quindi… cosa facevate
nel sogno?”
Sasuke
fece uno sbuffo a metà tra l’irritato e lo
scocciato e guardò fuori dalla
finestra un paio di minuti prima di parlare di nuovo.
“Andavamo
a vedere un film e basta, compravamo anche i pop-corn.”
“E
ti è
piaciuto andare al cinema con lui?” domandò lo
psicologo, cambiando il registro
della conversazione, adesso più calma e cauta.
“Sì”
ammise e quella semplice sillaba fece fatica a uscire fuori, pareva
volersi
aggrappare a tutti i costi a qualche sporgenza, forse alla trachea,
all’ugola o
ai denti, a qualsiasi cosa pur di impedirgli di pronunciarla.
“Sì, mi è
piaciuto. Eravamo tranquilli e ci siamo divertiti.”
“Lo
hai
più visto o sentito nella realtà?”
“Per
mail, mi occupo di un progetto per conto dello studio in cui lavora.
Dopo… dopo
l’ultima volta ci siamo sentiti unicamente per mail per
discutere del progetto,
nient’altro.”
“E
perché?” domandò lo psicologo e Sasuke
pensò che fosse proprio scemo.
“Ma
come
perché? Secondo lei come diavolo faccio a parlargli dopo
quanto è successo?”
“Prendere
il telefono e fare il suo numero è un inizio. Non mi hai
raccontato bene cos’è
successo tra voi, ma se senti di aver sbagliato qualcosa puoi scusarti
e
ripartire da lì. O magari lui ti chiuderà la
chiamata in faccia; è un’opzione –
ammise giocherellando con un bottone del maglione – ma se non
ci provi, come
fai a sapere qual è quella giusta?”
Sasuke
rimase interdetto e si chinò per poggiare gli avambracci
sulle ginocchia,
riflettendo.
“Non
è
così semplice ammettere di avere sbagliato.”
“Mai
detto che lo fosse, infatti. E non devi farlo se non te la senti,
semplicemente
tieni presente che è un’opzione, non devi
scartarla per forza a priori come fai
sempre.”
Sasuke
fece un respiro profondo, un po’ più sollevato
perché l’uomo non lo costringeva
a fare nulla, solo a pensare che fosse possibile cambiare le proprie
abitudini,
uscire dal seminario in cui si era confinato. C’era sempre
un’alternativa,
doveva solo imparare a vederla.
“Ci
penserò” rispose semplicemente.
“Bene,
Sasuke e ora dimmi, a che punto sei coi regali di Natale? Io devo
ancora
farli!”
“Cosa?
–
esclamò stupito – Ma mancano solo pochi
giorni!” Lui li aveva pronti da
settimane, accuratamente ricercati, pensati e impacchettati in attesa
di essere
consegnati. Non avrebbe mai affrontato il caos degli ultimi giorni, tra
gente
che pareva pazza e si accaparrava qualsiasi cosa pur di non presentarsi
a mani
vuote, quando invece sarebbe stata la cosa migliore invece di elargire
regali
inadatti e tristi.
“Forse
sono un po’ masochista” ridacchiò
l’uomo.
“No,
è
pazzo. Lei è pazzo” sospirò Sasuke
guardando il soffitto, però poi guardò di
nuovo lui e gli sorrise. Semplicemente perché gli andava di
farlo.
L’angolino
oscuro:
Scrivere questo capitolo mi ha quasi ucciso,
mentre descrivevo Gaara e la sua disperazione stavo male per lui,
eppure non
riuscivo a smettere, volevo sviscerare quel momento, il suo rapporto
assurdo
con Kankuro, il crollo delle sue convinzioni e fino a che punto un
animo umano
può reggere. Immagino di aver trovato una risposta, quel Come join the murder della canzone non
si riferisce ad un
assassinio generico, e il desiderio di Gaara di essere libero
è molto chiaro. La canzone è questa, ascoltatela Come Join
The Murder - The White Buffalo & The Forest Rangers
Stavolta
la chiudo qui perché, davvero, non sono in grado di
aggiungere molto altro a
parte che in contrasto con la scena disperata di prima è
stato bello descrivere
questo Sasuke che inizia a muovere i primi passi e ad aprirsi.
Alla
prossima.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** 9 - Christmas’s magic ***
every 9
Christmas’s
magic
Gaara
era
sprofondato nella sua poltrona e fissava il soffitto, spingendosi
pigramente
con i piedi per farla girare sulle rotelle, cullato da quei movimenti
continui
che però stavano iniziando a fargli girare la testa. Forse
anche quei due
bicchieri di spumante bevuti a stomaco vuoto potevano avere la loro
parte di
colpa.
Era
l’ultimo giorno di lavoro prima della pausa natalizia e, come
da tradizione, in
ufficio avevano fatto un piccolo rinfresco e un brindisi tutti assieme.
Avevano
tratteggiato un breve bilancio dell’anno appena passato, si
erano scambiati
complimenti, frecciatine, auguri, chiacchiere varie e Hiashi aveva
consegnato a
Gaara anche un’anonima busta bianca con la gratifica
natalizia.
Quella
riunione non era durata poi molto e gli avvocati erano poi andati via,
lasciandogli il compito di chiudere l’ufficio e sistemare le
ultime cose; era
rimasta solo Hinata che stava finendo di truccarsi in bagno per un
appuntamento
con Naruto, mentre lui era lì, intento a non fare niente e a
non pensare a niente
una volta tanto.
Quegli
ultimi giorni li aveva vissuti immerso in una vasca gigante. Lui non
era altro
che un pesce d’esposizione in un acquario, che guardava le
vite degli altri al
di là del muro d’acqua e plexiglass. Era stato
anche uno spettatore della
propria vita, si era osservato dall’esterno mentre compiva i
gesti quotidiani:
fare la doccia, vestirsi, lavorare, rispondere alle domande, fare finta
di
essere vivo mentre in realtà si sentiva solo un guscio vuoto
e morente.
“Gaara,
io vado.”
Il ragazzo
distolse lo sguardo dal soffitto e vide Hinata sulla soglia della
porta; non
l’aveva proprio sentita e sì che aveva degli
stivaletti coi tacchi alti!
“Ok,
divertiti e passa un buon Natale” le augurò,
alzandosi per raggiungerla.
“Grazie”
mormorò lei, senza però fare alcun accenno a
volersene andare. Anzi giocherellò
con i manici di una bustina che stringeva in mano e arrossì
inspiegabilmente,
ma alla fine trovò il coraggio per allungare un braccio e
tendere quella busta
verso il segretario.
“Questo è
un pensiero per te. Spero tu non ti offenda o pensi che sono sfacciata,
ma…
avevo voglia di fartelo” disse tutto d’un fiato.
“Hinata…
– mormorò Gaara stupefatto –
perché dovrei offendermi? Sono felice, ma anche
molto sorpreso e imbarazzato visto che io non ho niente per
te” rispose,
prendendo istintivamente il regalo. Lo guardò e si
sentì terribilmente in
difetto: Hinata era una ragazza molto accorta e generosa, forse avrebbe
dovuto
prenderle un pensiero, anche se sarebbe stato difficile visto che era
ancora col
conto corrente in rosso e tante preoccupazioni occupavano la sua testa.
Però,
al di là dell’imbarazzo, il sentimento prevalente
era la felicità: qualcuno
aveva pensato a lui, non era una cosa da poco, specialmente dopo quanto
accaduto nell’ultimo periodo.
“Oh no,
no. Non devi disturbarti, questo è solo un pensierino, non
l’ho nemmeno
comprato, ma l’ho fatto io… avevo solo voglia di
farti un regalo per
ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me in questi mesi.
Senza il tuo
appoggio penso che mi sarei scoraggiata e forse non sarei arrivata a
questo
punto” gli assicurò, forse più
imbarazzata di lui.
“Se l’hai
fatto con le tue mani allora è ancora più
importante, e tu sei più forte di
quanto credi” le rispose Gaara, quasi commosso.
Era stato
preso alla sprovvista da quelle attenzioni, non era molto facile
parlare. Per
quello non aggiunse altro e, senza ulteriori indugi, scartò
il pacco e si
ritrovò in mano una morbida sciarpa di lana grigio scuro, un
colore sobrio,
come quello degli abiti che portava abitualmente. Hinata
però aveva intrecciato
tra le fibre scure alcune rosse, rosse come i suoi capelli, e Gaara
pensò che
non stonavano affatto, anzi rendevano il capo ancora più
elegante.
“È
meravigliosa, grazie – disse a corto di parole – e
tu sei veramente bravissima.”
Hinata
sbatté le mani tra di loro, esaltata da quei complimenti e
felice di vedere
un’espressione così serena sul viso di Gaara;
nell’ultimo periodo e
specialmente nell’ultima settimana, le era sembrato davvero
giù. Di sicuro una
sciarpa non avrebbe risolto tutti i suoi problemi, però
poteva essere un
bell’aiuto.
Gliela
prese dalle mani e gliel’avvolse attorno al collo, per poi
constatare:
“Ti sta
benissimo, sono così felice di averci azzeccato.”
Gaara la
toccò, meravigliato da quanto fosse morbida e profumata, gli
sembrava che la
ragazza oltre ai fili di lana avesse intrecciato l’odore di
buono, di caldo e
accogliente, l’affetto che sembrava mettere in ogni suo gesto.
“Grazie,
Hinata” disse il segretario. Sull’onda di
quell’euforia le diede un bacio sulla
guancia che divenne all’istante rossa e bollente. Il ragazzo
ridacchiò e,
alzando un dito verso l’alto, indicò i rametti di
vischio che pendevano sopra
le loro teste, così che anche Hinata scoppiò a
ridere e, scherzando, entrambi
promisero di mantenere quel segreto con Naruto.
Si
scambiarono poi gli auguri e Gaara tornò alla scrivania con
una meravigliosa
sciarpa attorno al collo e una sensazione di leggerezza nuova nel petto.
Si
sedette e prese la busta con la gratifica, fissandola, facendosi
mentalmente un
po’ di conti per vedere se poteva prenderle qualcosa per
ringraziarla anche se
in ritardo, perché Hinata proprio non si era resa conto di
quanto quel piccolo
gesto fosse stato in realtà importante per lui.
Stava lì
a fissare la busta, con un gomito sulla scrivania e la testa appoggiata
sulla
mano, completamente assorto, quando una voce lo fece sobbalzare.
“Stai
pensando a quanto sei ricco? Ti ritroverò a fare il bagno
tra le banconote?”
“Itachi!
– esclamò Gaara, balzando in piedi spaventato
– Accidenti! Pensavo di essere
solo, mi hai quasi fatto venire un infarto, ma
dov’eri?”
Itachi
rise, divertito dalla sua reazione:
“In sala
riunioni a fare una telefonata, tu invece che fai ancora qui? Bella la
sciarpa,
Hinata?”
Gaara se
la tolse, imbarazzato per la reazione avuta, sia per essersi fatto
beccare a
sognare a occhi aperti come un idiota.
“Già, non
mi aspettavo che mi facesse un regalo e stavo pensando a poter
ricambiare in
qualche modo. Purtroppo non sono ricco e il bagno al massimo posso
farlo tra le
bollette – scherzò – stai andando
via?”
“Tra poco
– affermò guardandolo ancora – non
capisco perché ti sei sorpreso così tanto
nel vedermi. Non potevo certo andarmene senza salutarti, no?”
Gaara si
grattò la testa, imbarazzato, prima di rendersi conto che
quella di Itachi era
una presa in giro leggera, tipica dell’ironia sottile che
pareva appartenere
solo a lui.
“Sarà
colpa dello spumante – ironizzò, incrociando le
braccia davanti al petto –
Allora sei pronto a romperti qualche osso sulle piste da sci?”
Si
ricordava bene di quel pomeriggio poco lontano, in cui loro due e
Hinata si
erano ritrovati a chiacchierare mentre lui reggeva la scala alla
ragazza,
intenta a decorare la stanza. Si era sentito bene, spensierato
addirittura, ma
qualche ora dopo aveva rivisto Kankuro e tutto era collassato su se
stesso.
Quell’ingenua felicità effimera gli era esplosa in
faccia come un fuoco
d’artificio ed era svanita nel buio della notte, lasciando
come ricordo di sé
solo un flebile filo di fumo.
“Spero
sempre di tornare tutto intero, sono ottimista o solo molto fiducioso
nelle mie
capacità – sorrise Itachi, per poi allungargli una
busta – ma prima… è il mio
turno dei regali, anche se non sono vestito di rosso, né ho
una barba bianca.”
Gaara
rimase impalato a fissarlo, incapace di muoversi o parlare,
l’unico movimento
fu fatto dalle sue braccia che cedettero e rimasero inerti lungo i
fianchi.
Guardava alternativamente la busta e Itachi, senza dire niente, il suo
cervello
pareva annientato da quello che era un semplice gesto; anche Hinata in
fondo
gli aveva fatto un regalo, no? Però perché era
riuscito a ringraziarla e a
prenderlo seppur emozionato, mentre ora la cosa pareva molto diversa?
Deglutì, con
il pomo d’adamo che si mosse con chiarezza sotto la sua pelle
pallida, dopo di
che fece un colpo di tosse per schiarirsi la voce, che uscì
comunque bassa,
sempre pacata ma diversa dalla solita.
“Itachi,
ma… cosa? Non serviva” riuscì a dire in
qualche modo senza incespicare con le
parole.
“Dai,
prendi questa cosa prima che mi senta il babbo natale più
idiota del mondo.”
In effetti la sua reazione lo
aveva stupito,
aveva pensato che Gaara ne sarebbe rimasto sorpreso ma non a quei
livelli. “E
non mi ha costretto nessuno, è stato un impulso del momento
e l’ho seguito.”
E il
segretario non poteva sapere quanto ciò fosse inusuale per
Itachi, così attento
e abituato a pianificare tutto e a riflettere su ogni azione. In
qualche modo
alla fine allungò il braccio per prendere la busta,
mormorando un
ringraziamento.
Prese il
pacchetto elegantemente incartato con della vivace carta colorata e
percepì della
morbidezza sotto le proprie dita. Sentiva del rimorso
all’idea di strapparla,
anche se dentro ci fossero state aria o cartacce ne sarebbe stato
ugualmente
felice: Itachi aveva pensato a lui e aveva scelto qualcosa
sull’onda di quel
pensiero.
Incitato
dagli occhi scuri che lo fissavano, si decise ad aprire il pacchetto,
cercando
però di romperlo meno possibile e fu così che
alla fine tirò fuori un
morbidissimo maglione che dispiegò davanti a sé.
“È
veramente molto bello, non so come ringraziarti” disse ed era
vero. Il tessuto
era pregiato, non uno di quei capi con il 2% di lana se si era
fortunati, ma
era probabilmente un capo costoso e di classe, uno di quelli che
avrebbe potuto
indossare lo stesso Uchiha.
“Spero
che la taglia sia giusta, ma se vuoi puoi cambiarlo – rispose
Itachi,
osservando i suoi occhi ravvivarsi dopo giorni di buio –
Ammetto che mi hai
messo in difficoltà, sei un po’ troppo magro, devi
riprendere peso con queste
feste” aggiunse con leggerezza e un sorriso, ma
l’evidente dimagrimento del
ragazzo lo aveva impensierito veramente. Aveva avuto anche
l’intenzione di
dirgli qualcosa, ma lo aveva frenato la consapevolezza di non avere
ancora
tanta confidenza da poter dire cose simili. E lo aveva sorpreso il
desiderarla
tale confidenza.
“No,
penso sia perfetto e non preoccuparti, ho solo bisogno di un
po’ di riposo da
questo periodo stressante” rispose Gaara. Sapeva benissimo di
aver perso troppo
peso, conseguenza inevitabile dell’aver dovuto fare economie,
gli si vedevano
addirittura le costole, fortunatamente nascoste dalle camicie e altri
morbidi
abiti invernali. Le cose si sarebbero aggiustate, si ripeteva, bastava
solo
tenere duro ancora un po’, benché
nell’ultimo periodo ogni cosa gli stesse
remando contro e lui aveva perso quella scintilla, quella forza che lo
aveva
spinto a sperare nel futuro, ritrovandosi ad andare avanti per pura
inerzia. Però
poi succedeva che ti facevano dei regali inaspettati e iniziavi a
pensare che
forse non era tutto perso, ma c’era la paura che fosse solo
una presa in giro,
che uscito da lì avrebbe trovato un altro disastro pronto ad
abbatterlo.
“Mi sento
in difetto, non ho preso nessun regalo per te o Hinata –
disse ancora Gaara
stringendo tra le dita il maglione vellutato – mi
dispiace.”
“Non
devi. Non è stato un periodo facile per te, specialmente
l’ultima settimana
anche se non ne conosco i motivi.”
I suoi
occhi indagatori avevano fatto centro un’altra volta, ne fu
testimone l’espressione
sorpresa del segretario, ma Itachi non gli lasciò tempo per
parlare, per
tentare di negare o sminuire quell’evidenza. “Vuoi
farmi un regalo, vuoi
ricambiare in qualche modo? Bene, di là in frigo
c’è una bottiglia di spumante
e degli snack che saranno andati a male per quando torneremo, finiamoli
noi.
Stai qui con me e facciamo il nostro brindisi. Regalami un
po’ del tuo tempo,
Gaara.”
Il
ragazzo sentì dei brividi rincorrersi sotto la pelle, il suo
nome gli era sembrato
così bello detto dalle sue labbra, da qualcuno che lo stava
cercando, che gli
comunicava che l’unica cosa che desiderava da lui era un
po’ del suo tempo e la
sua presenza.
Quando
aveva creduto che al mondo non interessasse più niente di
lui, ecco lì che
compariva qualcuno a stravolgere quell’idea. Magari Itachi
non aveva niente da
fare quel pomeriggio, magari non sarebbero mai stati amici o non si
sarebbero
mai frequentati al di fuori dello studio, ma a Gaara non
importò. In quel
momento sapere che esisteva qualcuno che lo voleva era tutto
ciò di cui aveva
bisogno per non lasciarsi andare.
“Mi
sembra un’ottima idea” gli rispose e si sorrisero,
complici, felici di essere
dove erano.
In breve
la scrivania di Gaara, invece che dei soliti fascicoli e fogli sparsi,
fu piena
di squisiti snack e con una bottiglia di ottimo spumante che riempiva i
loro
bicchieri. Il segretario aveva anche indossato il regalo di Itachi per
dimostrargli che gli andava bene e quanto gli fosse piaciuto.
Avrebbero
potuto andare nella spaziosa sala riunioni, con le sue comode poltrone
imbottite, ma avevano preferito rimanere lì, nel loro
ufficio, con le loro
sedie con le rotelle dallo schienale duro, un ambiente familiare che
avevano
condiviso in quei mesi.
“E
comunque non hai nemmeno la pancia di babbo natale; mi spiace dirtelo,
ma
esiste qualcosa per cui non sei adatto” rise Gaara, bevendo
un sorso dal suo
bicchiere ormai vuoto.
“Vero, lo
ammetto, sono colpevole vostro onore – scherzò
Itachi riempiendolo di nuovo –
ma tu non sei esattamente un bambino che sbircia dalle scale, per
beccare il
vecchio ciccione che si cala dal caminetto.”
“Colpevole”
replicò un po’ più serio. Itachi non
poteva sapere quanto avesse ragione,
per Gaara non
c’era mai stato nessun bel
Natale da passare in famiglia, forse c’erano stati, ma lui
era stato poco più
di un neonato e non li ricordava. Ricordava invece bene quelli in
orfanotrofio,
la desolazione dell’istituto in contrasto con le strade
illuminate o i film
passati in televisione, c’era stato solo Kankuro vicino a
lui, l’unica famiglia
che aveva e che ingenuamente credeva che non lo avrebbe mai lasciato.
Itachi vide
il suo sottile cambiamento dopo il clima più allegro e forse
fu colpa della
bottiglia ormai vuota, forse fu colpa della sua curiosità
sempre presente e
della testa più leggera, ma si ritrovò a chiedere:
“Con tuo
fratello, l’altra settimana, è andato tutto bene?
Mi eravate sembrati piuttosto
tesi.”
Vide
chiaramente Gaara irrigidirsi, le dita che stringevano troppo forte il
bicchiere fino a sbiancarsi, gli occhi che sembravano troppo chiari,
troppo
grandi, in grado di divorare quel viso dai lineamenti sottili fino a
non
lasciarne più nulla.
Aveva
fatto una domanda scomoda, ma non se la rimangiò e rimase a
guardarlo, bevendo
pigramente, in attesa.
“Sì, non
siamo in buoni rapporti, ma non ci saranno più
problemi” rispose Gaara alla
fine. Aveva ceduto dietro l’insistenza di quegli occhi scuri,
anche se subito
maledisse la lingua sciolta dall’alcool, apparentemente
incapace di impedire alle
parole di scivolare fuori dalla bocca. Maledette traditrici che non
volevano
rimanere sigillate, volevano essere ascoltate, comprese, non
più ignorate.
“In che
senso? Nessun problema della serie che passerete addirittura il natale
assieme,
o nessun problema perché ti sei disfatto del
cadavere?” indagò ancora Itachi,
con quella sottile ironia che ammorbidì di poco Gaara, tanto
che si ritrovò a
rispondere:
“Della
serie che non ho più nessuno da poter considerare un
fratello – ammise – anche
se forse non l’ho mai visto così.”
Bevve
immediatamente il resto dello spumante, per riempirsi la bocca e
impedirsi di
aggiungere altro dopo quella confessione azzardata per i suoi standard.
Kankuro
era stato più di un fratello: l’amante,
l’amico, il confidente, il suo punto
fermo… la sua più bella e tragica illusione.
Itachi
inarcò appena le sopracciglia, sorpreso da quella frase che
nascondeva molteplici
significati, ma decise di non approfondire ulteriormente,
bensì domandò:
“E i
vostri genitori che ne dicono? Saranno dispiaciuti, immagino.”
Sua madre
lo era, quando lui e Sasuke non erano legati da nessun rapporto se non
dalle
spire del rancore e dell’astio.
Gaara
posò il bicchiere vuoto e, con un sorriso che non aveva
nulla di divertito
quanto di derisorio, sparò secco:
“Sono
morti, dubito che gli possa interessare di qualcosa. Ho vissuto in un
orfanotrofio.”
Itachi sussultò, il
segretario aveva ragione a
guardarlo a quel modo, come a chiedergli se fosse davvero un avvocato
tanto
abile visto che non lo aveva intuito da solo. Era semplice, avrebbe
solo dovuto
unire i pezzi del puzzle, sarebbero dovuti essere più che
evidenti per uno come
lui e, invece, lo aveva costretto a dirlo ad alta voce.
“Sono
stato inopportuno, mi spiace” disse guardandolo negli occhi,
senza nascondersi.
Era raro che Itachi sbagliasse, ma qualora accadeva non era tanto
vigliacco da
non riconoscere le proprie responsabilità.
Gaara non
fu compiaciuto da quelle scuse, desiderò invece non aver
risposto in modo tanto
astioso; se lui navigava in un mare di problemi di merda, non sarebbe
certo
stato meglio iniziando a spanderla tutt’intorno o a trattare
male gli altri.
Itachi non era nella sua testa, avrebbe potuto intuirlo, ma in quel
momento lui
non stava parlando con l’avvocato, ma con il giovane uomo e
le cose erano ben
diverse.
“No,
scusami tu – si ritrovò infatti a dire –
non avrei dovuto essere così acido,
ma… ammetto che non sono argomenti di cui parlo volentieri,
anzi in realtà non
ne parlo proprio mai.”
Itachi
annuì col capo, come a prendere coscienza di
quell’ulteriore informazione e
disse:
“Forse
non è nemmeno giusto che tu ti tenga tutto dentro. A volte
fa bene buttare
fuori un po’ di roba vecchia, o non hai nessuno con cui
parlarne?”
Osservò
la scrivania ingombra di vassoietti, la bottiglia vuota così
come i bicchieri e
rifletté su quanto si fosse trovato bene a chiacchierare con
lui, raramente gli
accadeva con qualcuno all’infuori di Shisui. Si morse un
labbro per non
lasciarsi sfuggire parole compromettenti, pronunciate troppo presto in
quel
loro strano rapporto che pareva non decidersi a imboccare una direzione.
Potresti
parlare con me, di tutto quello che
vuoi.
Gaara
intanto rifletteva su quella domanda. Se solo avesse voluto, avrebbe
potuto
parlarne con Hidan, o persino con Deidara. Non erano due persone
abituate ai
sentimentalismi, alle confessioni con fazzoletti umidi alla mano,
tantomeno
erano delicate, eppure era certo che per lui ci sarebbero state, come
lo
avevano aiutato in passato. A modo loro chiaramente, come quella volta
che
Deidara aveva messo del lassativo nel drink di un tizio che lo
infastidiva al
bar.
“Ho degli
amici, buoni amici, ma preferisco comunque tenere certe cose per me
– affermò
per poi sorridere e cambiare registro – e proprio tu ti metti
a dare certi
consigli? Non mi sembri il tipo che si mette a fare confessioni o a
raccontare
tutto di sé.”
Itachi
rise piano:
“Touché.
Mi hai scoperto, mi dichiaro nuovamente colpevole –
alzò le mani davanti a sé –
mi piace avere i miei segreti e che rimangano tali.”
“Ah sì?
Sarei proprio curioso di conoscerli” replicò per
poi prendere la bottiglia e
rendersi conto che era vuota. “Peccato, è
finita” mormorò.
“La
prossima volta andremo a bere in un locale, con tutto
l’alcool che vorremo”
propose Itachi.
Gaara
scoppiò a ridere nell’immaginare
l’impassibile Uchiha sbronzo marcio e non appena
brillo come ora, chissà se aveva la sbronza triste,
malinconica oppure
euforica? Sarebbe stato davvero divertente scoprirlo.
“Ci sto.”
Nel
vederlo così sorridente, diverso rispetto al fantasma senza
vita che osservava
ogni giorno muoversi in quell’ufficio, Itachi si
domandò come sarebbe stato
Gaara se avesse avuto una vita diversa. Se avesse avuto dei genitori o
un
fratello da non dover allontanare, uno che si prendesse cura di lui.
Avrebbe
visto più spesso il sorriso sul suo viso, si sarebbe
lanciato più spesso in
battute sagaci? Sarebbe stato ancora quello che rimaneva da solo al
bancone di
un bar a fissare un drink solitario, senza parlare con nessuno? Sarebbe
stato
più facile per lui aprirsi e magari… innamorarsi?
Si morse
nuovamente un labbro, non era ubriaco, ma quell’alcool aveva
allentato i suoi
freni inibitori, solitamente rigidamente sotto controllo, e si era
lanciato in
pensieri troppo pericolosi per continuare a soffermarvicisi.
Doveva
pensare a Sasuke, che aveva un qualche tipo di rapporto con Gaara. Lui
ci si
era avvicinato solo perché incuriosito dal segretario, col
desiderio di capire
di più sul conto del fratello e di entrambi, giusto?
Gli
apparve in mente il viso sornione di Shisui e non riuscì a
mettergli una mano
sulla bocca e impedirgli di parlare, così come non riusciva
a farlo nemmeno
nella vita reale.
Ne
sei proprio sicuro, Itachi? Per Sasuke, solo
per Sasuke, dici? E io dovrei credere a questa stronzata, ma
soprattutto come
fai a crederci tu? Esiste anche la tua felicità, non fare il
solito martire del
cazzo o ti vengo a prendere a calci.
Itachi
si
alzò in piedi, forse un po’ bruscamente, ma
l’altro sembrò non farci caso,
intento a scegliere una tartina da addentare.
“Sarà
meglio che vada, ho ancora la valigia da preparare e domani
parto” disse con
quello che sperava fosse il suo tono di voce abituale.
Gaara
lasciò perdere gli snack che non rivestivano più
tanto interesse ai suoi occhi
e si alzò a sua volta.
“Oh,
certo, io tolgo di mezzo questa roba, poi chiudo e me ne vado
anch’io. Spero di
rivederti a gennaio tutto intero” scherzò.
Itachi
gli sorrise e, col cappotto già allacciato, si
avvicinò alla porta dove si
fermò per sistemare la sciarpa e intimare allo Shisui nella
sua testa di stare
zitto; era irritante quanto quello vero. In fondo lui non stava
fuggendo, la
sua era solo una ritirata strategica e poi aveva davvero una valigia da
riempire.
“Suppongo
che avrai mie notizie in qualsiasi caso” rispose, smettendo
di armeggiare con
la sciarpa per osservare il ragazzo che lo aveva raggiunto e gli stava
di
fronte.
“Sta’
tranquillo, se ti dovessero ricoverare in ospedale ti porterei del
cioccolato e
non degli stupidi fiori.” Gli sorrise, complice,
perché non erano in molti a
sapere dell’amore di Itachi per i dolci, ma lui lo aveva
capito semplicemente
osservandolo.
L’Uchiha
sollevò appena gli occhi al soffitto, fingendo un disappunto
che in realtà non
provava ma, così facendo, vide un rametto di vischio pendere
sopra le loro
teste.
Al
diavolo!
Guardò
Gaara e all’improvviso nessuno dei due rideva più.
Si fissarono in silenzio,
vicini ma ancora separati di un paio di passi che Itachi
compì prima di chinare
la testa, per avvicinarla lentamente al suo viso con un chiaro intento.
Il
ragazzo non si spostò, anche se ne avrebbe avuto tutto il
tempo: Itachi si
muoveva con lentezza, come se dovesse conquistare ogni centimetro che
li divideva.
I loro occhi non si abbassarono, gli sguardi rimasero avvinti da
un’intensità
sconcertante ed entrambi sentirono sul viso il respiro
dell’altro, il suo
odore, il calore della pelle, finché le loro labbra non si
unirono.
Itachi
gli posò una mano sulla guancia dallo zigomo affilato,
mentre delicatamente gli
dischiudeva la bocca con la lingua e andava a scoprire il suo sapore;
quello di
Gaara, al di là dell’alcool e di ogni altra cosa,
in un bacio lento, accorto,
emozionante, che li ubriacò più dello spumante
bevuto.
Continuarono
a baciarsi e Gaara non riuscì più a rimanere
passivo come nella lenta scivolata
con cui Itachi si era avvicinato; le sue mani si aggrapparono alle
spalle dell’Uchiha
foderate dal cappotto e si godette quel bacio, che era morbido e andava
a
lenire le sue ferite. Si stava eccitando, ma non gli interessava
davvero, persino
quello scivolava in secondo piano. Perché voleva solo quel
bacio, quel
contatto, quell’istante sublime e nient’altro.
La
perfezione di un attimo.
Lentamente
si sciolsero dal loro abbraccio, aprirono gli occhi e Itachi
sollevò un angolo
della bocca, divertito:
“Ha fatto
proprio bene Hinata a mettere il vischio, non trovi?”
Gaara
ripensò al bacio sulla guancia che aveva dato alla ragazza
giusto un’ora prima
e si ritrovò a sorridere per la differenza tra i due baci
scambiati lì sotto.
“Assolutamente
d’accordo – fece un passo indietro – buon
natale, Itachi.”
Non
voleva parlare, chiedere spiegazioni, era stato bello e tanto gli
bastava, e
anche l’avvocato sembrava pensarla alla stessa maniera,
perché gli carezzò solo
lievemente una guancia prima di dirgli “Buon natale a te,
Gaara” per poi voltarsi
e uscire.
Guardando
le sue spalle fasciate dal cappotto elegante che si allontanavano, le
stesse
che aveva stretto qualche istante prima, Gaara realizzò che
Itachi gli aveva
fatto il regalo più bello che ci potesse essere: la speranza.
C’era ancora
speranza che esistesse qualcosa di bello anche per lui.
***
“Hidan,
se lo bruci anche quest’anno giuro che ti infilo nel forno e
poi vi faccio
esplodere!”
“Ah
ma
non rompere il cazzo! Era solo appena colorito un po’ troppo,
bastava grattare
via la superficie, esagerato dei miei coglioni!”
Gaara
ridacchiava mentre ascoltava il suo coinquilino e Deidara bisticciare
come al
solito, erano una garanzia, qualcuno avrebbe potuto trovarli irritanti
e spacca
timpani, ma non lui. Le loro continue rimbeccate significavano casa.
“Tu
che
cazzo hai da ridere? Dovresti stare dalla mia parte, sei o no il mio
coinquilino?” lo minacciò Hidan, puntandogli
minacciosamente contro un
forchettone. Peccato che la sua aria da duro venisse smorzata da un
guantone da
forno colorato, più macchie varie di olio e altri condimenti
sulla felpa.
“Rido
perché lo scorso anno a causa della tua tequila bum-bum
eravamo già sbronzi
prima di cena e non bastava grattare l’arrosto, ma bisognava
togliergli almeno
due centimetri di roba” replicò Gaara senza
scomporsi. Continuò invece ad
apparecchiare la tavola, niente di troppo ricercato in
realtà: aveva messo al
centro, posate, tovaglioli, bicchieri e piatti di plastica, ognuno poi
avrebbe
pensato per sé, di sicuro non era la classica tavolata
natalizia. A nessuno
interessava che ci fossero centrotavola, candele e altri aggeggi
inutili, se ci
fossero stati probabilmente avrebbero passato la serata a tirarseli.
“Fanculo,
non mi sembra che sia avanzato lo stesso” borbottò
Hidan.
“Fame
alcolica, tutto qua” replicò Deidara, intento a
preparare dei cocktail,
beccandosi in risposta un dito medio dall’altro, che venne
puntato anche a
Gaara quando questi concordò.
“E
poi dato
che sta quasi sempre qui – aggiunse Gaara – credo
di poter considerare anche Deidara
coinquilino, specialmente dopo averlo visto nudo l’altra
mattina mentre andava
in bagno.”
“Il
mio
corpo e un’opera d’arte, dovresti essermi grato
– sbuffò questi –
però… in
effetti potrei smetterla di pagare un affitto inutile.”
Lo disse
così, buttando quell’affermazione nel mezzo della
conversazione come se fosse
una cosa senza importanza, ma le sue mani non riuscivano proprio a
stare ferme
e il suo sguardo non si posava su Hidan.
Quest’ultimo
si tolse il guantone da forno e lo fissò, con gli occhi
violetti che
brillavano, divertiti. Osservò i suoi movimenti nervosi, i
capelli che adorava
tirare durante il sesso e quella boccaccia che non stava mai zitta e
non aveva
alcun filtro col cervello.
“Bah,
fanculo… uno organizza una fottuta cena di natale e si
ritrova a convivere.
Potevi pensarci prima, con quei soldi ci saremmo fatti una
vacanza.”
Deidara
lo fulminò, anche se per una volta non era realmente
arrabbiato, non poteva
dargliela vinta così facilmente:
“Non
ti
ficco nel forno solo perché c’è
l’arrosto e perché non mi va di portarti al
pronto soccorso. Preferisco passare il natale in un altro
modo.”
A
dispetto delle sue parole, gli passò un bicchiere con uno
dei suoi squisiti
cocktail. Si sorrisero, complici, compagni da una vita, consapevoli che
se
erano arrivati fin lì senza ammazzarsi sul serio era solo
perché si amavano. A
modo loro, ma l’amore c’era e Gaara non faticava a
riconoscerlo.
Si
voltò,
imbarazzato per aver assistito a quel momento intimo, molto
più che vedere
Deidara nudo. Fece finta di dover fare qualcosa nell’altra
stanza, così li
lasciò soli, liberi di baciarsi, fare altre dichiarazioni o
forse insultarsi,
quei momenti di pace non duravano mai molto tra di loro.
Stava
liberando il divano da riviste e qualche cartaccia, preparando la
playstation
perché di sicuro si sarebbero sfidati a qualche gioco dopo
cena, tutti troppo
ubriachi per poter giocare decentemente, ma quello non li aveva mai
fermati.
Poco dopo
sentì un braccio poggiarsi sulle sue spalle e, voltando la
testa, vide Hidan a
fianco. Gli porgeva un bicchiere e gli faceva quel suo sorriso un
po’ storto
irresistibile.
“Non
lamentarti se quello poi rompe i coglioni, te la sei cercata.”
“Non
accadrà” rispose semplicemente, prendendo il
cocktail per poi far tintinnare il
bicchiere col suo in un brindisi.
Hidan
ancora lo stringeva e, a quel modo, poté sentire quanto
Gaara fosse dimagrito,
guardandolo in viso notò anche le sue occhiaie
più pronunciate e gli zigomi più
sporgenti. Si diede del coglione per essersene accorto solo ora, ma in
quell’ultimo periodo si erano visti solo di sfuggita pur
abitando assieme, ma
la cosa non lo aveva preoccupato. Era già successo in
passato, per di più era
sicuro che se ci fossero stati dei problemi Gaara gliene avrebbe
parlato,
peccato essersi dimenticato che l’altro in pratica era
un’ostrica travestita da
essere umano.
“Ehi,
stai bene, sì? È un sacco che non abbiamo dieci
minuti per farci una
chiacchierata e tra poco un’orda di cafoni
invaderà casa.” Forse aveva
sottovalutato la rottura con quel tizio… come si
chiamava… Sasuke? Aveva
pensato che Gaara sarebbe passato oltre senza problemi, in fondo era
uno tosto.
“Ti
ricordo che sono amici tuoi – gli fece presente il ragazzo
dai capelli rossi
con un sorriso divertito per poi sospirare appena –
è stato un periodo tosto
per entrambi. Il lavoro e l’università mi hanno
risucchiato ogni energia.”
Non
menzionò Kankuro, nemmeno Hidan che era la persona che
conosceva più cose su di
lui sapeva della sua esistenza e Gaara non aveva intenzione di cambiare
le cose
proprio ora, specialmente visto che, a quanto pareva, il sipario era
calato
definitivamente sui due fratelli.
Non disse
nulla nemmeno dei risvolti con Sasuke o Itachi, perché non
sapeva nemmeno lui
come spiegarli, dato che era il primo a non capirli.
Hidan
intanto lo scrutava attentamente:
“È
per
questo che non sei più uscito con nessuno? Dovresti dare una
chance a Yahiko,
gli sei sempre piaciuto, anche se è un po’ un
cazzone non è male.”
Gaara
sorrise e scosse la testa, consapevole dell’interesse mai
nascosto da
quell’amico di Hidan. Lo reputava bello e simpatico,
nonostante fosse un po’
fuori di testa, ma non aveva mai voluto approfondire perché
era certo che non
sarebbero mai andati d’accordo.
“Mi
spiace, ma io non sono disposto a fare il passivo e lui
nemmeno.”
“E
andrete avanti a pompini!” esclamò Hidan con foga,
rischiando di rovesciare il
suo cocktail.
“Tu
lo
accetteresti?” domandò Gaara, bevendo invece
tranquillamente il proprio.
L’altro
ci pensò su un attimo, poi scosse la testa:
“Cazzo,
no! Come fai a rinunciarci? Però… ah, fanculo,
fate come vi pare.”
Gaara fu
divertito dal suo disagio nel manifestare interesse e gli
batté una mano sulla
spalla, pensando che, se fosse stato in grado di fidarsi e lasciarsi
andare,
sarebbe stato tutto più semplice. Non era mai riuscito a
farsi penetrare o
carezzare da qualcuno all’infuori di Kankuro, solo con Sasuke
le cose erano
andate diversamente. Gli piaceva sentire le sue mani sul proprio corpo,
che
sembravano disegnarlo con cura, senza dimenticare alcuna linea o
angolo, ma…
era tutto finito, inutile pensarci ancora.
I due
amici continuarono a chiacchierare di cose più leggere e
divertenti,
immaginando vari scenari catastrofici causati da Deidara nella loro
futura
convivenza a tre. Finirono i drink, ma continuarono a ridere insieme
grazie alla
complicità nata faticosamente negli anni, almeno
finché a Gaara non squillò il
cellulare. Lo tirò fuori dalla tasca e, con sorpresa, vide
che a chiamarlo era
proprio Sasuke.
Fissò
lo
schermo lampeggiante e il suo primo impulso fu di rifiutare la
chiamata, oppure
di rispondere, mandarlo a quel paese e poi riagganciare.
Il tempo
si dilatò, quei pochi secondi di chiamata parvero infiniti e
il nome che
continuava ad apparire sembrava una pistola contro, che lo sfidava a
reagire o
scappare, ma lui era bloccato. Gli si era inceppato qualche meccanismo
dentro.
“Rispondi
e mandalo a farsi fottere, visto che gli piace pure”
sbottò Hidan. Non era
normale tutta quell’indecisione da parte di Gaara,
evidentemente c’era ancora
qualcosa in sospeso, meglio che si parlassero e la chiudessero una
volta per
tutte.
Fu
l’intervento dell’amico a dare a Gaara la spinta
necessaria per premere il dito
sul bottone giusto. Sentiva di andare incontro a un’altra
catastrofe, ma poteva
anche sbagliarsi, l’unica cosa certa era che, se non avesse
risposto, non lo
avrebbe mai saputo.
“Pronto?”
disse dirigendosi verso la propria camera, mentre Hidan gli faceva dei
gestacci
per indicare dove mandare Sasuke.
Questi
non rispose subito, tanto da far pensare a Gaara che quella chiamata
fosse
partita per errore, ma le sue parole successive fugarono quel dubbio:
“Credevo
che non mi avresti risposto.”
“Avevo
il
cellulare nell’altra stanza, l’ho sentito per
caso” mentì Gaara. Mai gli
avrebbe confessato quanto era stato difficile rispondere, né
quanto lo
scombussolasse sentire di nuovo la sua voce.
“Capisco
– disse Sasuke – immagino starai festeggiando, ti
ho disturbato.”
Nessun
accenno di scuse o di dispiacere, come sempre.
“No,
nessun disturbo – affermò Gaara, con la voce che
non tradiva la minima
incertezza – come mai mi hai chiamato?”
Udì
un
rumore in sottofondo, come di qualcosa che cadeva a terra, ma non vi
badò,
tutta la sua attenzione era protesa in attesa di quella risposta;
Sasuke non lo
aveva mai chiamato nemmeno quando si frequentavano, limitandosi a
più freddi e
impersonali messaggi.
“Beh,
ecco… – disse ed era difficile riconoscere
l’Uchiha in quel tono incerto – ho
immaginato che una telefonata fosse più indicata di una mail
per fare gli
auguri di natale.”
Gaara si
sedette sul letto, tentando di processare quell’informazione.
Tra tutte le cose
che gli potevano accadere, non aveva mai contemplato che Sasuke potesse
telefonargli per degli stupidi auguri. D’altronde non aveva
nemmeno immaginato
che Itachi potesse fargli un regalo o baciarlo e, a quel ricordo,
arrossì
appena, ringraziando che l’altro non lo stesse vedendo.
“Allora
auguri di buon natale, Sasuke” rispose soltanto, passandosi
le dita sulle
labbra che entrambi i fratelli avevano baciato e, pensandoci,
rabbrividì.
“Grazie,
auguri anche a te, Gaara” replicò automaticamente.
Sulla
linea regnò il silenzio, se fossero stati nella stessa
stanza forse in quel
momento si sarebbero fissati negli occhi e basta, ma erano lontani, non
solo
fisicamente.
“Come
va
sulla neve?” domandò Gaara. Avrebbe potuto
benissimo salutarlo e poi chiudere
la telefonata, invece di prolungare quello strazio imbarazzato ricolmo
di
disagio. Però Sasuke lo aveva chiamato, aveva fatto un primo
passo e poteva
immaginare quanto gli fosse costato con quell’orgoglio che si
ritrovava, quindi
lui poteva anche fare una domanda per cercare di sbrogliarsi da quella
situazione di stallo.
“Come
fai… ah, certo, Itachi – si disse Sasuke
– tutto bene, è piuttosto divertente,
anche se quest’anno sono venuti tutti allo chalet e stiamo un
po’ stretti. E
vorrei tanto ammazzare mio cugino Shisui, lui è…
lascia stare, nemmeno lo
conosci.”
Si
interruppe bruscamente, forse si era reso conto di aver parlato troppo,
di cose
che lui stesso giudicava stupide.
“No,
lo
conosco. L’ho visto solo una volta, ma mi è
sembrato un tipo che non sta mai
zitto – intervenne Gaara – posso immaginare bene
perché ti irriti.”
Di nuovo
aveva salvato la conversazione e non sapeva se darsi del cretino o se
esserne
felice. Quella telefonata e quel dialogo lo stavano scombussolando, se
poi
pensava anche a quel bacio con Itachi la testa minacciava di esplodere.
Sentì
delle voci in lontananza, gli amici di Hidan erano arrivati, la casa si
stava
per riempire di caos e allegria, discorsi e risate, e lui si
ricordò nuovamente
quanto lui e Sasuke fossero lontani caratterialmente, fisicamente e in
qualsiasi altro modo esistente. Eppure, nonostante tutto, erano
riusciti a trovare
un punto di incontro; come erano arrivati ad essere nuovamente tanto
distanti?
Davvero erano stati inutili e privi di significato quei mesi in cui si
erano
frequentati?
“Sto
andando da uno psicologo.”
La voce
di Sasuke fu secca, brutale, una fucilata in pieno petto che
lasciò Gaara a
bocca aperta, shockato e pieno di domande. Cosa significava quella
frase? Che
Sasuke aveva riconosciuto di avere un problema, che voleva risolverlo e
non
nasconderlo come polvere sotto al tappeto? E perché glielo
stava dicendo, in
che modo rientrava lui in quel quadro?
“Io…”
mormorò, ma l’architetto lo interruppe:
“Lo
so
che magari non te ne frega niente e non sai quanta fatica sto facendo a
dirti
queste cose, ma… devo farlo. Ho sbagliato tutto con te
– rimase in silenzio –
scusami, Gaara.”
Il
ragazzo si stese sul letto, incredulo. Sasuke si era scusato ed aveva
ammesso
le sue colpe, doveva essere proprio ubriaco o quel terapista doveva
essere
davvero bravo, oppure era un altro regalo di natale?
“Sono…
mi
fa piacere per te – disse Gaara – il tuo psicologo
deve essere davvero un mago,
eh?”
Non aveva
resistito a quell’occasione di stuzzicarlo, di rispondergli
per le rime come
facevano prima, sempre in lotta per avere l’ultima parola.
Sasuke però non
ribatté, anzi rise piano e Gaara immaginò le sue
labbra sorridenti, come se le
avesse avute davanti agli occhi in quel momento.
“Si
può
dire anche così, ma ho ancora molto lavoro da fare e adesso
smettila di gongolare,
so che lo stai facendo – entrambi risero, poi lui
continuò – possiamo rivederci
quando torno? Magari un caffè, o un
cinema…”
Lasciò
la
frase in sospeso e Gaara si morse le labbra perché davvero
non sapeva cosa
rispondere, anche il fatto che Sasuke volesse rivederlo era
sorprendente e si
ritrovò a pensare che l’ipotesi che lo psicologo
fosse davvero un mago non era
poi così priva di fondamento. Tuttavia rifletté
anche sul fatto che Sasuke
aveva ancora del lavoro da fare, per sua stessa ammissione, poteva
essere
saggio iniziare a rivedersi già da ora? Magari lui intendeva
solo come amici o
per una chiacchierata, ma Gaara aveva un’altra impressione e
poi, in fondo, non
esistevano solo i problemi di Sasuke. Anche lui aveva il suo carico di
dubbi e
paure che non potevano essere cancellati con un colpo di spugna
così
all’improvviso, non bastavano solo delle scuse, ed erano
successe altre cose da
quando avevano smesso di vedersi.
Tra
queste c’era Itachi; cos’era stato quel bacio? Solo
un meraviglioso regalo o
c’era altro?
“Credo
che non sia il caso di affrettare le cose, hai molte cose da risolvere
per
conto tuo e anch’io ho le mie questioni – rispose
alla fine, lucido e razionale
– però… tanto a gennaio dovremo
rivederci per il progetto, no?”
Udì
solo
silenzio all’altro capo della cornetta e immaginò
che Sasuke si fosse offeso
per il suo rifiuto, ciò lo rassicurava sulla
bontà della sua decisione, ma lo
rendeva anche dispiaciuto. Tuttavia, quando l’architetto
rispose, la sua voce
era serena, forse si era preso solo qualche istante per riflettere,
dato che
poi gli diede ragione:
“Certo,
è
giusto. Beh, sarà meglio che ti saluti, abbiamo entrambi
persone che ci
attendono.”
“Già
–
convenne – buon natale, Sasuke.”
“Buon
natale, Gaara.”
Il
telefono prese a tubare e i due ragazzi distanti, ma inconsapevolmente
sulla
stessa linea di pensiero, si ritrovarono a fissare due soffitti diversi
e a
chiedersi quale fosse la cosa giusta da fare.
L’angolino
oscuro: Adoro il natale, per me ci
dovrebbero essere lucine e
decorazioni da novembre fino ad almeno marzo, quando
diventerò presidente della
galassia mi impegnerò a promulgare una legge a riguardo
muahahah
Scherzi a parte, spero
vi
sia piaciuto questo capitolo, ho cercato di imprimervi
un’atmosfera del tutto
diversa rispetto al precedente, un’idea di speranza, che
qualcosa di buono ci
possa ancora essere, ancora non è tutto perduto.
Mi sono sciolta col
bacio
di Gaara e Itachi, come ho scritto è la perfezione di un
attimo. In quel
momento era ciò che entrambi volevano più di ogni
altra cosa, non continuare
ciò che avevano iniziato, finire a letto o altro, ma solo
assaporare quel bacio
e quel momento che si sono regalati, proprio loro due che raramente si
concedono di buttarsi in qualcosa senza ragionarci.
Sasuke non
è scomparso di
scena, direi che lo psicologo vale ogni centesimo dato che lo abbiamo
visto
fare qualcosa di impensabile solo qualche mese fa: parlare. Cercare di
comunicare e stabilire una connessione, cosa che aveva sempre
rifuggito; sono
orgogliosa della sua crescita, ho sempre voglia di prenderlo a calci,
ma
stavolta con orgoglio XD
Piccola comunicazione
di
servizio: non so esattamente quando riuscirò ad aggiornare.
Sto per affrontare
un trasloco/trasferimento piuttosto grosso, la mia testa è
tutta proiettata lì,
cercherò di fare del mio meglio e, se l’aereo non
cascherà come un ferro da
stiro, ci sentiremo il prima possibile, se nel frattempo mi vorrete
lasciare
una recensione per farmi sapere cosa ne pensate della storia finora mi
farete
felice, a presto!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** 10 - Un fratello è quel legame che non potrai mai spezzare, non importa quanto ci provi ***
every 10
Un
fratello
è quel legame che non potrai mai spezzare, non importa
quanto ci provi
Itachi
stava davanti alla porta chiusa senza sapere cosa fare. In
quell’ultimo periodo
gli stava succedendo un po’ troppo spesso di ritrovarsi
indeciso, proprio lui,
la persona in grado di portare fino in fondo anche le scelte
più difficili,
perché certo che conducessero alla strada giusta, verso il
suo obiettivo.
Il vero
problema, forse, era che per una volta quell’obiettivo non
era chiaro. Era
avvolto da una foschia che nessun sole o vento riuscivano a diradare, e
il
ragazzo non era avvezzo a una tale condizione.
Senza
volerlo, aveva ascoltato la conversazione telefonica del fratello,
dalle sue
parole aveva intuito che stava parlando con Gaara e non era riuscito a
fare a
meno di rimanere a origliare; la sua sete di segreti non aveva fine.
Eppure,
ora, una parte di sé desiderava non averlo mai fatto.
Era lì,
davanti a quella porta chiusa, l’intento iniziale di chiamare
Sasuke per uscire
a sciare vacillava; forse avrebbe dovuto semplicemente fare dietrofront
e fare
finta di nulla, ma quando mai era riuscito a ignorare il fratello e i
suoi
problemi?
Mai,
anche in passato quando sembrava indifferente a quello che gli
accadeva, in
realtà lo teneva sempre sott’occhio da lontano.
Fu così
che si decise a bussare ed entrò, vedendo Sasuke su una
sedia e a terra vicino
a lui una bottiglia d’acqua che l’altro non si
decideva a raccogliere. Forse
non se ne era nemmeno accorto perché, quando alzò
lo sguardo Itachi, questi
notò quanto fosse immerso nei suoi pensieri, lontano miglia
e miglia da lì.
“Cosa
succede, Sasuke?” gli chiese istintivamente, senza alcun
filtro ad ammorbidire
quella domanda.
Il
ragazzo lo guardò, con le mani incrociate in grembo,
l’espressione spaesata e
la testa che gli turbinava. Erano passati solo un paio di minuti dalla
telefonata con Gaara, non era pronto ad affrontare e mentire al
fratello e ai
suoi maledetti occhi indagatori.
Sicuro
di doverli affrontare e mascherarti,
Sasuke?
La
voce
dello psicologo risuonò chiara nella sua testa, eppure lui
rispose
automaticamente:
“Niente,
va tutto bene.”
Poteva
una menzogna essere più palese di così? Itachi lo
riteneva poco probabile e
quella volta decise di ignorare le regole non scritte del codice
Uchiha: si
fece più avanti e affrontò nuovamente il fratello
a viso aperto. Basta
nascondersi, basta fingere che tutto fosse a posto, basta pretendere di
essere
ciò che non si era.
“Che
pessima bugia, Sasuke – scosse la testa – avanti,
parlami. Ho voglia di
ascoltarti.”
Il più
giovane lo fissò con gli occhi sgranati. Quelle stesse
parole gliele aveva
dette lo psicologo, anche lui aveva detto di aver voglia di ascoltarlo,
solo…
quello in fondo era il suo lavoro ed era pagato per farlo, Itachi no.
Itachi
aveva scelto di ascoltarlo, di dedicargli tempo, di vincere
l’imbarazzo e
quella freddezza di fondo che gli aveva sempre impedito di confidarsi
realmente, di raggiungere quel livello di profondità comune
nei fratelli.
La neve
cadeva leggera fuori dalla finestra, nei corridoi si sentiva lo
scalpiccio dei
passi, mezze risate, stralci di conversazioni e il calore di
quell’elegante
chalet in legno, animato dalle persone che lo riempivano. I due
continuavano ad
osservarsi in silenzio, il disagio era palpabile, come una cappa solida
che li
avvolgeva, ma Itachi non indietreggiava, rimaneva lì, a
dargli tutto il tempo
necessario, ad aspettarlo.
“Non… non
è tutto a posto, ma – mormorò Sasuke in
difficoltà – non è il momento adatto,
non siamo soli.”
Itachi
sospirò appena, incrociò le braccia davanti al
petto e rispose, lieto che il
fratello non lo stesse respingendo:
“Se è
solo quello il problema si risolverà presto: ero venuto ad
avvisarti di
prepararti per uscire tra poco, per partecipare alla fiaccolata
notturna sugli
sci. Gli zii sono già usciti coi figli più
giovani, mancavamo solo noi più
grandi e i nostri genitori. Dirò a mamma che hai mal di
testa e non te la senti
e che io rimarrò con te; ci crederà, in fondo
aveva notato già a pranzo che eri
pallido e hai mangiato poco.”
Pratico
ed efficiente, due caratteristiche che contraddistinguevano sempre
Itachi e il
ragazzo stesso si sentì meglio, perché a quel
modo sentiva di riprendere almeno
un po’ dell’abituale controllo, benché
non fosse certo di dove quella
chiacchierata li avrebbe condotti.
“Ma è
importante, avevamo detto che si saremmo stati…”
tentò di dire Sasuke, in un debole
tentativo di evitare il loro confronto.
“Tu sei
più importante – affermò Itachi, serio
– tu per me sei più importante, Sasuke.
Ti aspetto di là.”
Uscì,
senza nemmeno attendere una sua risposta e al minore parve di scorgere
sul suo
viso un accenno di rossore. Forse, se si fosse specchiato, avrebbe
visto la
stessa cosa sul proprio.
A Sasuke
sembrava di essere nello studio dello psicologo, se si voleva escludere
il
bicchiere di whisky in mano e l’atmosfera sicuramente
più elegante e lussuosa.
Tuttavia era seduto sempre su una poltroncina, aveva
l’interlocutore di fronte
a sé, l’unica differenza era che gli occhi
intelligenti e attenti non erano
nascosti dietro a delle lenti.
E poi era
suo fratello.
Perché
sentirsi così agitato e nervoso?
Bevve un
sorso del drink che Itachi gli aveva preparato, godendosi
l’ottimo liquore, il
tepore del caminetto che scoppiettava e si trovò a
riflettere che non si erano
mai trovati in una situazione del genere. Non aveva mai nemmeno chiesto
scusa e
ammesso di aver sbagliato, eppure nemmeno un’ora prima lo
aveva fatto con
Gaara; quel natale gli stava regalando un sacco di prime volte.
“Mamma ti
ha creduto senza problemi?”
“Ovviamente
– sorrise Itachi – non è passata a
salutarti perché le ho detto che stavi
riposando.”
Posò il
bicchiere sul tavolinetto tra di loro, dopo di che intrecciò
le mani
posandosele su una coscia e lo guardò, in attesa.
Sasuke
continuava a rimanere in silenzio, consapevole che toccava a lui
iniziare, ma
non riusciva a staccare gli occhi dai cubetti di ghiaccio nel suo
whisky, era
davvero interessante osservare il loro movimento randomico quando
scuoteva il
bicchiere. Tuttavia le sue osservazioni, sicuramente degnissime di una
pubblicazione scientifica, vennero interrotte da Itachi:
“Non
voglio costringerti a parlare, ma credo che tu abbia bisogno di farlo,
per
questo sono così insistente, come mai prima. So di stare
forzando i tuoi tempi,
ma sono mesi che covi qualcosa, come una malattia, e negli ultimi tempi
si è
aggravata. Non voglio che l’infezione dilaghi e ritrovarmi in
futuro a
incolparmi per non aver fatto nulla quando c’era ancora
tempo, frenato dalla
vergogna o dall’inabilità a parlare –
sospirò – Sì, Sasuke. Noi due non siamo
per niente bravi a comunicare, a volte vorrei avere anche solo un
briciolo
dell’abilità di Shisui.”
Sasuke lo
guardò esterrefatto: un’ammissione del genere era
qualcosa di stupefacente,
quasi quanto un’invasione aliena, e si chiese se il fratello
non si fosse
scolato uno o più drink prima di sedersi nel salotto con lui.
“Non ti
sembra di essere un po’ melodrammatico? –
ironizzò – E poi per invidiare anche
solo un’unghia di nostro cugino devi avere la febbre
alta.”
“Forse –
disse Itachi per entrambe le domande – ma le cose stanno
così, quindi… parlami,
ti ascolto.”
Il
bicchiere di Sasuke andò a fare compagnia al suo sul
tavolino, dopo di che il
ragazzo incrociò le braccia davanti al petto e
guardò in giro per la stanza,
fissandosi poi sulla finestra dove si intravedevano le luci delle altre
abitazioni nella notte scura.
Chissà
come doveva apparire quel luogo dall’alto, con quelle case
coperte di neve
eppure illuminate, immerse nel verde, con qualche umano affaccendato al
di
fuori. Magari sarebbe sembrato un grande presepe naturale, e loro tutti
i
personaggi della recita natalizia che fingevano di essere i pastori,
gli
artigiani, i musicanti, i re magi…
Sasuke
non era un attore, ma aveva sempre interpretato un ruolo. Quello del
bambino
composto, serio, che odiava i dolci e fare confusione con altri bambini
per
dimostrarsi all’altezza dell’impeccabile fratello e
ricevere anche lui gli
elogi paterni. Aveva continuato con quella recita
nell’adolescenza e l’età più
adulta, aggiungendo o togliendo alcuni elementi sul copione, come la
rabbia, il
risentimento, o l’interesse per fidanzate mai realmente
desiderate, ma aveva
sempre seguito le battute già scritte, senza uscire dal
ruolo.
Per uno
strappo alle regole era riuscito a capire e scoprire il suo interesse
per gli
uomini, ma lo aveva tenuto celato, interpretando il suo personaggio con
maggior
convinzione di prima, col bisogno di convincersene lui per primo,
perché… se
quello non era lui, allora chi era lo sconosciuto sotto la maschera?
“Sono
gay, Itachi.”
Era tempo
di scoprirlo.
Il
maggiore inspirò più profondamente e socchiuse
gli occhi, ma a parte questo non
fece altro. Non saltò, non sobbalzò, tantomeno
scappò inorridito, rimase a
guardare il fratello e gli sorrise leggermente:
“Non ti
farò domande stupide come ‘Ne
sei certo’ o
altro, se sei arrivato a dirmelo lo sei – iniziò a
dire – e posso immaginare
quanto questo ti stesse logorando. Non è facile ammettere
una cosa simile,
ancor meno in una famiglia rigida e legata alle tradizioni come la
nostra, ma
sono felice che tu abbia deciso di fidarti di me.”
Fu invece
Sasuke a sobbalzare e a piantare le dita nei braccioli imbottiti,
pareva sul
punto di saltare addosso all’altro per sbranarlo, ma
ovviamente non fece nulla
di ciò, limitandosi a fissarlo e mordersi le labbra.
“Tutto
qui?” sputò acido.
“Tutto
qui cosa? – rispose Itachi invece tranquillo – Ti
aspettavi che ti dessi del
mostro, dello scherzo della natura, come nostro padre ogni volta che
sente
nominare i gay? Mi deludi, Sasuke… pensavo avessi capito che
io e lui siamo
molto diversi. Oppure non ti aspettavi che io fossi così
comprensivo, cercavi
un motivo per essere arrabbiato con me?” indagò,
senza smettere di guardarlo e
vedendolo fremere.
Sasuke era
un concentrato di rabbia e frustrazione che però non sapeva
dove dirigere e
spesso finiva per riversarsela addosso, complicandosi inutilmente la
vita,
Itachi lo sapeva. Come sapeva che il fratello senza quel sostegno di
livore e
ira non sapeva stare, era ciò che lo aveva mantenuto in
piedi durante tutti gli
anni del loro conflitto, e adesso anche lui doveva scontare le
conseguenze dei
suoi sbagli passati.
“Cazzo,
Itachi…” sbottò Sasuke dando un pugno a
un bracciolo maltrattato. Accavallò le
gambe e tornò a far sfrecciare lo sguardo per la stanza
prima di posarlo di
nuovo sull’altro. “Non lo so, non lo so davvero
cosa mi aspettassi da te, io
non ci sto capendo più niente da un pezzo –
sospirò – so solo che sono stanco
di fingere, tutto qui.”
Itachi
ammirò il suo coraggio, perché ce ne voleva per
arrivare a quel punto e
ammettere la verità, invece lui, quel coraggio, non lo
aveva. Infatti,
cogliendo l’occasione, avrebbe potuto rivelargli la propria
bisessualità, la
notizia avrebbe persino potuto dare sollievo al fratello, ma Itachi
preferiva
rimanere nell’ombra coi suoi segreti. Forse più
avanti, si disse, in fondo quel
momento doveva essere solo di Sasuke.
“Non deve
essere stato facile reggere un simile segreto da solo e trovare la
forza di
ammetterlo – disse Itachi – ma credo che il tuo
problema non sia finito qui, ma
che tu abbia qualche screzio con un ragazzo, giusto?”
“Già –
mormorò – io, non…”
Sasuke
non riuscì a completare la frase che rimase ad aleggiare tra
di loro, unendosi
al profumo di legna e pino, gli odori tipici dell’inverno, ma
soprattutto di
quello chalet dove soggiornavano sin da quando erano bambini.
“Hai dei
problemi con Gaara” lo soccorse Itachi, prendendosi la
responsabilità di fare
quel nome proibito.
Quel nome
deflagrò con la violenza di una bomba e Sasuke non era
pronto. Non era corso a
cercare riparo in una trincea, non si era protetto il viso con le
braccia, non
aveva fatto nulla, era rimasto fermo a ricevere la detonazione e i
frammenti
che volavano tutt’intorno. Li sentì premere nella
carne e, guardandosi, si
stupì di non trovare i suoi abiti tinti di rosso, nel
costume di un grottesco
babbo natale.
“Tu
come…?”
“Era
palese che ci fosse qualcosa che non andava tra voi” gli
spiegò Itachi. In quel
momento provò odio per se stesso, per il dolore che gli
aveva procurato pronunciando
il nome di Gaara, e per il modo ipocrita in cui si stava giustificando,
dicendosi che a volte bisognava rompere qualcosa per poi renderlo
più bello e
migliore saldandolo in una nuova forma.
“Tu
sapevi già di me” disse ancora Sasuke, chiedendosi
fin dove riuscissero a
vedere quei occhi, refrattari alle sue bugie e alle illusioni in cui
gli altri
invece cadevano.
“No, era
un sospetto – rispose Itachi, accomodandosi meglio
– non ti ho detto nulla
finora perché volevo lasciarti la tua privacy, ma oggi ho
capito che non era la
strada giusta da seguire. Siete stati insieme?”
domandò ancora a bruciapelo,
sentendo improvvisamente il cuore in gola. Sapeva, comprendeva che
quella
risposta avrebbe decretato inevitabilmente anche il proprio futuro,
perché lui,
per Sasuke, avrebbe fatto qualsiasi cosa.
“Sì, no,
sì… cioè… è
complicato”
balbettò il più giovane, passandosi una mano sul
viso
per poi sospirare, non sapendo come spiegare quel casino che
c’era tra di loro.
“Ci siamo conosciuti per caso mesi fa, ci siamo frequentati,
ma
poi… diciamo
che potrei non essermi comportato in maniera ineccepibile nei suoi
confronti.
Sì, diciamo così” concluse. Era
difficile ammettere
le proprie responsabilità,
anche se quella volta era stato più tenero con se stesso
rispetto alla
telefonata.
“Ineccepibile,
interessante sinonimo per
dire stronzo – Itachi sorrise appena, conosceva abbastanza il
fratello da
sapere quanto potesse diventare caustico – almeno oggi gli
hai chiesto scusa.”
“Itachi!
– esclamò l’altro imbarazzato
– Da quando in qua origli?”
“Beh,
ammetto che non è stato proprio etico –
replicò con un filo di imbarazzo – ma
ero venuto a chiamarti, ti ho sentito al telefono e non sono riuscito
ad
evitarlo. Devo però confessarti che non me ne pento:
è stata quella telefonata
ad avermi spinto a farti certe domande e ci ha condotti fin qui. Direi
che per
questa volta puoi perdonarmi, o no?”
Sasuke
sprofondò nella poltrona, con la fronte corrucciata e la
faccia funerea. Non
era stato per niente facile dire certe cose a Gaara, sentirle ad alta
voce e
rendersi conto che erano vere; non era certo felice che le avesse udite
anche
il fratello. Si stava confidando con lui, ma faticava a tenere a bada
il
proprio orgoglio che premeva per uscire e prendere il controllo per
soffocare
il senso d’inferiorità sempre pronto a divorarlo.
“Diciamo
di sì” concesse, con un’aria lontana
dall’apparire magnanima.
“Non
accadrà di nuovo, ne puoi stare certo – gli
assicurò Itachi che poi bevve un
sorso di whisky – quindi come stanno adesso le cose tra
voi?”
“Se hai
origliato hai sentito anche la mia proposta di vederci, e la mia
risposta
successiva. Visto che sei così bravo arrivaci da solo
– sputò acido, per poi
sospirare – scusa.”
“No,
penso di essermelo meritato” ammise Itachi, chiedendosi come
avrebbe reagito se
avesse saputo del bacio tra lui e Gaara, ma soprattutto
dell’interesse che
cercava di negare nei confronti del segretario. “Quindi ha
rifiutato?”
Sasuke
prese a sua volta il bicchiere e in un sorso lo finì,
sentendo che bruciava
maledettamente in gola, ma ne aveva bisogno e si alzò per
prendersene un altro.
“Non
proprio – disse dando le spalle all’altro mentre
trafficava davanti all’angolo
bar – ha detto che forse è presto e che ho altre
cose da risolvere per conto
mio. Immagino avrai sentito anche che vado da uno psicologo.”
Itachi
fissò la sua schiena leggermente curvata in avanti; quando
era diventato tanto
alto? Se chiudeva gli occhi gli sembrava di vedere ancora il moccioso
che lo
seguiva come un’ombra, invece di quel giovane adulto che
cercava il proprio
posto nel mondo.
“Sì, ho
sentito – confermò – credo tu abbia
preso una buona decisione, così avrai
l’opportunità di chiarire tutti i tuoi dubbi e
conoscerti meglio, anche se è la
cosa più difficile che esista. Molto spesso quello che
troviamo non ci piace e
allora ci si trova davanti a un bivio: scegliere se accettarsi o se
continuare
a mentire a se stessi, rinnegando ciò che si è.
Ma io so che sei coraggioso,
farai la scelta giusta.”
Pensò
anche che la risposta di Gaara era proprio tipica del ragazzo: pacata e
assennata, eppure immaginava che per lui non fosse stato facile dirla.
Non
dedicò ulteriore energia mentale al segretario,
perché in quel momento era
dedicato unicamente al fratello che continuava a dargli le spalle; la
loro
discussione non era ancora finita e forse la parte più
difficile stava
arrivando ora.
Sasuke
infatti ricominciò a parlare, ma lo fece lentamente, come se
stesse scegliendo
con cura le parole o, forse, per mascherare il tremolio nella voce.
“Non sono
coraggioso, affatto. Sono un codardo e anche bugiardo,
perché sono anni che ho
dubbi, anni che provo interesse per gli uomini, credevo addirittura di
essermi
innamorato di Naruto, ma ho continuato a negare tutto. Facevo finta che
questa
parte di me non esistesse, solo una volta ho ceduto e ho avuto una
brevissima
relazione, ma mi sentivo così in colpa, avevo paura di dove
avrebbe potuto condurmi
quella strada e me ne sono tirato fuori, finché…
finché Naruto non mi ha
presentato Hinata e lì è andato tutto in pezzi;
ho conosciuto Gaara e forse
l’ho portato sul fondo con me. Ho paura, Itachi, del me
stesso codardo e
bugiardo che ha sempre tenuto il controllo, perché non so
dove mi porterà e non
so se riuscirò a impedirglielo. Però non so
nemmeno se ce la faccio a
continuare a mentire, non so se sarò in grado di trovare una
fidanzata che
piaccia ai nostri genitori, sposarla, andarci a letto e fare un figlio
o due.
All’idea mi viene voglia di inghiottire un pacco di lamette e
basta. Come
faccio a vivere così, nella menzogna? E come posso non
farlo, vivere appieno la
mia natura, amare un altro uomo come se niente fosse? Non
sarò mai perfetto
come te.”
Itachi
non lo aveva interrotto, aveva lasciato che le parole taglienti di
Sasuke
incidessero più a fondo la ferita in modo da far sgorgare
tutto il pus, il
marcio che lo stava avvelenando, così che una volta pulita
quella ferita
potesse richiudersi, lo avrebbe aiutato anche a mettere i punti se
necessario.
Tuttavia, sentendo quelle ultime parole, non riuscì
più a stare fermo e
lasciare che l’altro si torturasse.
Scattò in
piedi e lo raggiunse in pochi, rapidi passi. Per completare la lunga
lista
delle prime volte di quel giorno, lo abbracciò: rimase alle
sue spalle e gli
passò le braccia attorno al busto, stringendolo contro il
proprio. I suoi
capelli corti gli solleticarono il collo e Itachi avvertì
l’odore di shampoo,
dell’acqua di colonia leggera che lui stesso gli aveva
regalato e aumentò la
stretta.
Sasuke
non lo allontanò, lo lasciò fare, e Itachi
avvertì il suo respiro difficoltoso,
la cassa toracica che non si contraeva bene, così gli
portò una mano sul viso,
lasciandola lì ad asciugare le lacrime silenziose che non
poteva vedere.
“Non
dirlo mai più. Mai più, Sasuke – gli
intimò a bassa voce – io non sono
coraggioso, rimango sempre nascosto e non mi espongo. Altrimenti ti
avrei già
parlato tempo fa, quando ho iniziato ad avere i miei sospetti oppure,
quando tu
mi hai confessato di essere gay, avrei potuto confessarti allo stesso
modo di
essere bisessuale.” Avvertì chiaramente i suoi
lineamenti distorti che, sotto
al palmo della sua mano, si distendevano in un’espressione
sorpresa, ma non gli
diede modo di interromperlo. “Sì, sono bisessuale
e nella nostra famiglia non è
certo l’unico segreto che c’è. La cugina
di mamma, Makoto, te la ricordi? Ha
una relazione col cognato da anni. Mentre lo zio Ryuta ha fatto
abortire la sua
amante molto più giovane di lui e questo non è
quasi niente. Se solo volessi
potrei andare avanti a lungo a parlare di questi segreti, di
perversioni
grottesche e azioni tutt’altro che nobili che la nostra
famiglia nasconde.
Alcune cose si sanno, ma si fa finta di niente per una stupida idea di
decoro,
e queste stesse persone si permettono di riempirsi la bocca di giudizi
per
stabilire cosa possa essere morale o no. Stupidi ipocriti arroganti,
che
vogliono solo apparire irreprensibili, quando in realtà sono
marci. Ti ho detto
questo perché voglio che tu capisca
di
non avere niente che non va, mettitelo bene in testa, sei solo un
normale
ragazzo che ha capito che gli interessano altri ragazzi. Tu non devi
vivere
come vogliono gli altri, come vuole papà o come pensi che
vorrei io, ma solo
come vuoi tu… cazzo, avrei dovuto dirti queste cose molto
tempo fa invece di
tenerti a distanza, ma mi dicevo che lo facevo per il tuo
bene… che stupido,
come puoi ammirare uno stupido cieco come me? – una smorfia
ironica gli
percorse il viso, era difficile ammettere i propri errori e accettarne
le
conseguenze – Se vorrai mai fare coming out io ti
sosterrò, oppure puoi vivere
la tua sessualità senza rivelarla al mondo, qualsiasi
decisione prenderai sarà
quella giusta, perché sarà quella che ti
farà stare bene e io sarò al tuo
fianco, così come Shisui ha fatto per me. Senza
quell’idiota forse non sarei
mai arrivato fino qui, insieme siamo cresciuti e abbiamo capito molte
cose di
noi stessi” concluse quel lungo sfogo con un respiro
profondo, salutando senza
troppo rammarico uno dei suoi segreti, in fondo non era stato
così traumatico,
specialmente se poteva aiutare Sasuke.
Questi
intanto rimase in silenzio, preso ad assorbire quella mole di notizie
piuttosto
indigesta. Sentiva il calore di Itachi, il suo profumo unito a quello
lieve
delle sigarette che fumava di nascosto dal padre, ma lui sapeva del suo
vizio
da parecchio, anche quello era un altro dei suoi segreti svelati.
Chiuse gli
occhi, godendosi quell’abbraccio, perché non lo
avevano mai fatto prima? Era
così bello, erano davvero due idioti!
Quando
sollevò nuovamente le palpebre focalizzò davanti
a sé le bottiglie costose
dell’angolo bar e le mani candide del fratello sul suo
maglione scuro, ne
strinse una.
“Potevi
scegliere un mentore diverso, ti ha attaccato la sua idiozia.”
Itachi
sorrise e poggiò la bocca contro la sua nuca, lasciandosi
sommergere dai suoi
capelli setosi e neri quanto i propri.
“Forse
hai ragione, ma ormai è andata così.”
“È tutto
vero?” gli domandò Sasuke più serio e
Itachi non fece nessuna battuta, nemmeno
per sdrammatizzare.
“Sì,
tutto. Sì, sarò sempre al tuo fianco,
sì sono bisessuale e sì, la nostra
famiglia è tutto meno che perfetta.”
“Cazzo!
Se si sapesse…”
“Se si sapesse
la Terra continuerebbe lo stesso a ruotare e nessun fulmine divino si
abbatterebbe su di noi – disse Itachi, pragmatico –
e a questo proposito ti
consiglio di non perderti la cena di capodanno. Nostro cugino Ryuji ha
intenzione di fare coming out davanti a tutta la famiglia.”
Sasuke si
sciolse dall’abbraccio e si ruotò di scatto per
guardarlo in faccia, dimentico
degli occhi umidi e arrossati o qualsiasi altro segno che potesse
testimoniare
il suo cedimento.
“Sul
serio? No, non ci credo!” esclamò pensando a quel
ragazzo tanto riservato e
dall’aria perennemente malinconica.
“Fallo,
vedrai che dovremo chiamare almeno un’ambulanza”
rise Itachi, asciugandogli
l’ultimo alone di lacrime sul viso.
Lo guardò
e gli sorrise, felice di poterlo aiutare concretamente e di non essere
solo una
figura distante per quel fratello amato in un modo che non era
possibile
esprimere a parole.
Pensò a
Gaara e fu felice di avergli dato almeno un bacio, perché
d’ora in poi il
segretario sarebbe stato solo un suo collega, magari amico, ma niente
di più.
Sorrise
di nuovo a Sasuke, soffocando la propria tristezza, perché
era giusto così.
Qualsiasi cosa per te,
fratellino.
L’angolino
oscuro: Eccomi qui, sono tornata in
pista più o meno. Riprendiamo
esattamente dove ci eravamo fermati al capitolo scorso, dalla
telefonata di
Gaara e Sasuke. Ho scelto di dedicare un capitolo intero a questo
momento tra
fratelli perché ho pensato che fosse molto importante per
far capire
esattamente come fossero le dinamiche tra di loro, ma anche per dargli
un’opportunità di confrontarsi per bene, senza
più maschere, mettendosi a nudo
e rivelandosi.
Itachi ha compreso
bene
quanto sia profondo l’interesse del fratello per Gaara e
decide di tirarsi
indietro per non intralciarlo, ma Gaara cosa ne penserà?
Sarà d’accordo? O
magari Itachi cambierà di nuovo idea? Eheheh non vi dico
nulla XD
Spero che questo
capitolo
ad alto livello Uchiha vi sia piaciuto e ci sentiamo alla prossima!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** 11 - Cose vecchie, cose nuove ***
Cose
vecchie, cose nuove
Un
solo
istante, una ridicola manciata di secondi, minuscoli scatti della
lancetta di un
orologio. Cosa sono queste minuscole sciocchezze di fronte
all’enorme e
aberrante concetto di infinito? Eppure sono sufficienti per cambiare le
sorti
di una singola vita, di quella di più persone, di una
città, di uno stato, di
un continente addirittura. Non è necessario scomodare i
grandi signori del
tempo per scuotere le fondamenta, ma bastano pochi secondi per prendere
una
decisione definitiva, per togliere la spoletta a una granata, per
premere un
grilletto, per dire una parola e non avere più la
possibilità di tornare
indietro.
Perché le
granate non si possono disinnescare, le pallottole non possono tornare
a
dormire nei caricatori, le parole non possono essere rimangiate,
né fraintese.
Quella
sera era stato sufficiente un istante, una voce flebile e tutto era
cambiato.
Itachi
aveva lo sguardo puntato fuori dal finestrino dell’auto, era
preoccupato.
Il cugino
Ryuji, come anticipato, aveva fatto coming-out alla cena di capodanno,
davanti
alla famiglia riunita, con tutti i numerosi nonni, zii, cugini e
fratelli; così
tanti che ad ogni riunione non si sapeva mai bene quanti si fosse. Ogni
tanto
qualcuno era assente, qualche ragazzo giovane riusciva a trovare un
pretesto
per evitare quelle tediosi riunioni, o un parente più
anziano stava poco bene,
eppure quella sera era parso che ci fossero proprio tutti. E i loro
occhi scuri,
pieni di condanna, si erano puntati su Ryuji che aveva chiuso la bocca
e aveva
le mani che tremavano, ma continuava a stare in piedi e a fissarli a
sua volta,
deciso ad andare fino in fondo.
Non era
un tipo particolarmente brillante, a volte ci si dimenticava di lui nel
marasma
di cugini di vario grado ed età; aveva una voce pacata, modi
quieti e gentili,
era allergico a un sacco di cose e si spaventava facilmente, era il
bersaglio
preferito degli scherzi, eppure quella sera aveva dimostrato il
coraggio di un
leone. Aveva sparato la sua verità scomoda, in una famiglia
dove i segreti
erano la norma e – Itachi pensava – forse il
biasimo più grande era dovuto al
fatto di aver rotto quell’usanza, piuttosto che
all’essere gay.
A
preoccupare Itachi, mentre viaggiava in auto e guardava fuori dal
finestrino,
non era tanto la salute della nonna svenuta e per cui avevano dovuto
chiamare
un’ambulanza, tantomeno la sorte del cugino, minacciato dal
padre di essere
diseredato se non avesse acconsentito a un matrimonio con una ragazza
scelta da
lui il giorno seguente. Ryuji non si era scomposto: sempre con quella
sua voce
pacata e le mani tremanti, aveva fatto presente che era quasi
trentenne, aveva
un lavoro stabile al di fuori della famiglia Uchiha ed era
indipendente, non
aveva bisogno di eredità e cose del genere. Quel ragazzo se
la sarebbe cavata,
era più tosto di tanti altri adulti che invece facevano la
voce grossa.
A
impensierire Itachi, in realtà, era Sasuke.
Non lo
aveva perso di vista un attimo durante le fasi più
drammatiche della serata,
quando tutti avevano iniziato ad accusare Ryuji di essere uno sporco
frocio,
qualcosa di ben più disonorevole di un truffatore o un
assassino, oppure che
voleva rovinare la famiglia, che li avrebbe resi lo zimbello della
città, che
era contro natura, che, che… un’infinita e stupida
sequela di accuse ipocrite.
Sasuke,
come altri cugini e qualche adulto, era rimasto semplicemente in
silenzio,
senza denigrarlo, ma nemmeno prendendo le sue difese, a quello ci
avevano
pensato la madre dell’accusato, qualcuna delle sue sorelle e
quell’incosciente
di Shisui.
Itachi
era rimasto in disparte a sua volta, ad osservare il fratello e temere
che
quello spettacolo potesse turbarlo nel particolare momento emotivo che
stava
vivendo: come poteva Sasuke non immedesimarsi nei panni del cugino? Se
avesse
fatto coming-out, anche lui avrebbe ricevuto lo stesso trattamento.
Purtroppo
il caos generale e una casa affollata non erano le condizioni ideali
per
discussioni private, quindi Itachi si era limitato a chiedere al
fratello se
stesse bene, ricevendo una semplice risposta affermativa.
Quando
l’ambulanza era andata via e la situazione pareva essersi
calmata un po’, quasi
tutti erano andati via, Sasuke gli aveva detto che avrebbe raggiunto
Naruto e
altri amici. Lui era rimasto con Shisui che alla fine lo aveva convinto
a salire
in macchina, con la scusa che dovevano far svagare Ryuji, che sembrava
sul
punto di collassare dopo che era finita la scarica
d’adrenalina.
“Ah!
Grandioso! – rise infatti Shisui, esaltatissimo, prendendo
una curva troppo
stretta – Volevo dire anch’io che ero bisessuale,
ma quando è tornata un po’ di
calma non era rimasto quasi nessuno, e pretendo anch’io di
avere un pubblico
che mi ascolti! Mi rifarò alla prossima cena.”
“Dubito
che ce ne sarà un’altra molto presto”
affermò Ryuji, che conosceva già le tendenze
del cugino, anche se ignorava quelle di Itachi. “Piuttosto
dove stiamo
andando?”
“Oh, un
bel posto, non preoccupatevi, in fondo dobbiamo festeggiare capodanno,
non è
ancora mezzanotte, anche se i fuochi d’artificio li abbiamo
già fatti” rise
sguaiatamente, come se davvero avessero assistito a uno spettacolo di
cabaret e
non ad un dramma.
“Le tue
battute peggiorano di anno in anno” lo rimbeccò
infatti Itachi, girandosi
finalmente a guardarlo. Vide dipingersi sul suo viso un sorriso
malizioso che
lo lasciò perplesso, a domandarsi se davvero fosse
così sbagliato
sdrammatizzare in una situazione come quella. Di sicuro rimuginare e
isolarsi
nei propri pensieri non avrebbe aiutato nessuno, si rispose,
riscuotendosi
dall’apatia che lo aveva colto. Si rivolse a Ryuji che stava
sul sedile
posteriore:
“Non
preoccuparti, se c’è una cosa in cui Shisui
eccelle è la conoscenza dei locali
e della vita notturna, potrebbe scriverci una guida, ci
divertiremo.”
Pregò
solo che il cugino non avesse scelto un locale di spogliarelli o
qualcosa
simile ma, conoscendolo, non era da escludere. Sospirò,
riflettendo che avrebbe
potuto essere pericoloso per il suo segreto, ma dubitava che Ryuji
avrebbe
capito qualcosa e lui non aveva certo intenzione di confessarlo o
mettersi a rimorchiare
davanti a loro; in fondo era capodanno, tutti facevano qualche pazzia,
anche se
fosse entrato in un locale dichiaratamente gay non sarebbe successo
nulla alla
sua reputazione.
Per il
resto del viaggio parlarono di cose leggere, evitando di menzionare
nuovamente
la cena e Ryuji si rilassò; lo aveva mascherato bene
– d’altronde era un Uchiha
– ma la prova a cui si era sottoposto lo aveva lasciato
piuttosto scosso e
ferito.
Dopo aver
parcheggiato, si diressero verso un locale dall’entrata
discreta, ovviamente
decorata in tema festoso e, dopo essersi chiusi la pesante porta alle
spalle,
Itachi udì con sorpresa una debole musica
d’atmosfera e guardò sorpreso Shisui.
Questi scrollò le spalle e sorrise:
“Ho
pensato che questo posto vi sarebbe piaciuto. È un piano bar
e suonano dal
vivo, stasera c’è anche una cantante.”
Fece strada ai due verso un ragazzo sorridente che chiese
se avessero
una prenotazione e Shisui rispose affermativamente.
Itachi lo
guardò sorpreso e si diede dell’idiota. Sotto al
sorriso inossidabile, le
battute penose e l’aria rilassata e svagata, sapeva bene che
c’era un cervello
straordinariamente acuto e due occhi attenti; perché si
sorprendeva ancora?
Shisui aveva semplicemente previsto come sarebbe andata la serata,
così aveva
pensato a un modo per aiutare Ryuji e lasciarsi alle spalle
un’ambiente ostile
che lo aveva fatto sentire indesiderato e diverso. Quindi cosa
c’era di meglio
che portare un ragazzo che amava la musica, che aveva addirittura
sognato di
andare al conservatorio ed era gay in un raffinato e discreto locale
come
quello con musica dal vivo? Persino lui si sarebbe riuscito a rilassare
lì.
Dopo aver
lasciato i cappotti al guardaroba, si accomodarono al loro tavolino
rotondo,
con una candela al centro, simile agli altri circostanti.
Il locale
era piuttosto grande e veramente bello, con le sue pareti dai colori
caldi, le
tende ariose che dividevano l’ambiente, dando
l’impressione che ci fossero
tante sale invece di una unica. Le luci erano morbide, la musica non
era tanto
alta da impedire una conversazione e ogni cosa lì dentro
suggeriva atmosfera e
privacy, ma soprattutto relax. Si poteva allentare la cravatta,
togliere la
maschera dal viso e concedersi il lusso di essere chi si voleva.
“Grazie”
disse semplicemente Ryuji, con la voce sempre pacata ma con le mani che
ormai
non tremavano più.
Ordinarono
da bere e rimasero in silenzio, semplicemente ascoltando la musica
finché Ryuji
non si alzò per andare in bagno, lasciando i due da soli.
A quel
punto Itachi allungò una mano per prendere un cartoncino con
scritto “Riservato”
e lo lesse ad alta voce
mentre guardava il cugino.
“Non male
questo posto” aggiunse poi.
“Di’ la
verità: eri sicuro che vi avrei portato in un locale di
spogliarelli, vero?”
rise Shisui, divertito nel vedere l’espressione sorpresa
dell’altro.
“Sì, era
una delle ipotesi che mi è passata per la mente –
confessò Itachi posando il
cartoncino – e ammetto che stavolta ti sei superato. Penso
che fosse proprio
quello di cui Ryuji aveva bisogno, magari conosce anche qualcuno
stasera.”
“Non è
mica l’unico ad averne bisogno – lo corresse, serio
– tu hai qualcosa che non
va da giorni. Non è questo il momento adatto per parlarne,
ma una delle
prossime sere magari ti porto davvero a vedere uno
spogliarello.”
Itachi
rimase in silenzio, non sapeva se perché sorpreso da
quell’ennesima
dimostrazione di intuito da parte del cugino, o per lo sfoggio di
proposte
balorde. Semplicemente sospirò piano, poi si
stropicciò delicatamente le
palpebre con la punta delle dita:
“Che
cazzo di capodanno!”
“Puoi
dirlo forte!”
Un paio
di minuti più tardi tornò Ryuji, raccontando di
un ragazzo bellissimo che aveva
incrociato camminando e Shisui, curioso, gli fece un sacco di domande.
Itachi
ascoltava e basta, non che gli interessasse l’esatta
sfumatura di biondo dei
capelli di quel tipo, ma gli piaceva vedere il cugino a proprio agio,
un giorno
gli sarebbe piaciuto poter vedere Sasuke allo stesso modo, libero di
esprimere
pensieri e desideri con cui non essere più in guerra.
Sentì una
presenza al suo fianco e, con la coda dell’occhio, intravide
l’elegante gilet
nero di un cameriere, si voltò pronto a ricevere la propria
ordinazione e
ringraziare, ma quello che gli scivolò fuori dalla bocca non
fu un grazie.
“Gaara…?”
“Itachi?”
I due si
fissarono, in silenzio. Gaara aveva la divisa da cameriere, con
grembiule al
ginocchio, gilet, cravatta e tutto il resto, e reggeva un vassoio su
cui erano
posati i loro cocktail. Guardava l’Uchiha con gli occhi
sgranati, forse, se
avesse visto un salmone seduto al suo posto, sarebbe sembrato meno
sorpreso.
L’Uchiha
invece lo osservava con le labbra appena dischiuse e lo sguardo
attento, era
solo da pochi giorni che non si vedevano, ma sembrava passata
un’eternità e,
soprattutto, ora era tutto diverso.
“Da
quando lavori qui? In studio non ti piace più?”
domandò, ironico. Aveva
riacquistato l’abituale autocontrollo e la sua mente aveva
vagliato qualche
ipotesi e, nascosto dal sarcasmo, c’era un quesito reale.
Possibile che dopo il
loro bacio Gaara avesse deciso di cambiare lavoro? Quando si erano
salutati non
gli era parso sconvolto o turbato, ma le cose potevano essere cambiate.
Anche il
ragazzo si riscosse e, scuotendo appena la bella testa rossa, rispose:
“No, è
solo per stasera. Un cameriere si è ammalato e un mio amico
che lavora qui mi
ha chiesto di sostituirlo.”
Ricordandosi
appunto del ruolo che ricopriva, posò i bicchieri sul
tavolino e notò anche
Shisui, salutandolo.
“Gaara,
ma che sorpresa – replicò questi – ti
presento un altro nostro cugino, Ryuji.”
Il
cameriere gli sorrise, per poi guardare di nuovo Itachi:
“Se
continua così prestò conoscerò tutta
la tua famiglia.”
“Già”
replicò questi asciutto pensando al fratello.
“Beh,
devo andare, buona serata” si congedò Gaara
tornando verso il bancone del bar a
passo spedito, senza fare altre domande o osservazioni magari
inopportune, se
erano tutti in quel locale non era solo per la buona musica.
Infatti
Ryuji assottigliò gli occhi osservando il cameriere
allontanarsi e poi Itachi
che lo aveva riconosciuto:
“Voi
due…?” iniziò, incerto su come fare una
domanda simile proprio a quel cugino
tanto riservato e dall’aria algida e impeccabile.
“Ma no –
rispose questi con un sorriso morbido, nient’affatto nervoso
– siamo solo
colleghi in ufficio.”
“Ah ecco,
mi pareva strano!” replicò Ryuji, soddisfatto
della spiegazione logica con cui
risultò più chiaro anche il dialogo a cui aveva
assistito. Inconsapevolmente
aveva dato riprova di quello che il mondo pensava del primogenito di
Fugaku
Uchiha: uno splendido uomo che corrispondeva in tutto e per tutto agli
standard
della società.
Shisui
invece non si staccava dal suo cocktail, bevendone un lungo sorso e,
quando
posò il suo bicchiere ormai mezzo vuoto, iniziò a
parlare d’altro; almeno
sarebbe stato certo di non scoppiare a ridere.
La
mezzanotte era vicina e il locale era pieno, i camerieri camminavano
veloci,
estremamente affaccendati perché tutti volevano da bere,
divertirsi, staccare
la spina specialmente quella sera.
La fine
dell’anno porta con sé un ventaglio molto ampio di
sentimenti: c’è un po’ di
tristezza per il tempo che inesorabilmente scorre senza tregua,
rimpianto per
le cose non fatte, per le occasioni perse o quelle soltanto rimandate.
Nel
correre quotidiano spesso si perde di vista ciò che
è realmente importante, si
trascurano gli affetti, la famiglia, se stessi, giustificandoci con un “C’è tempo”
o “La prossima volta”.
Ma non
c’è poi così tanto tempo, le occasioni
possono essere limitate, e non è detto
che se noi siamo disposti ad attendere qualcuno o qualcosa anche la
controparte
faccia la stessa cosa. Per quello col nuovo anno si fanno tanti
propositi, c’è
sempre la speranza di essere più felici, più
aperti, più pronti, semplicemente
migliori.
Itachi,
mentre si stringeva nel cappotto e alzava gli occhi al cielo, non fece
propositi, non si augurò una vita lunga e felice,
né domandò altro per sé.
Mentre i fuochi d’artificio esplodevano nella notte e
coloravano il buio,
Itachi pensò a Sasuke e desiderò vederlo sereno e
realizzato, solo questo, non
voleva nient’altro. Girò appena la testa di lato e
osservò le luci colorate
riflettersi sul viso di Shisui.
Lui
sarebbe stato bene, non aveva bisogno di nulla.
Lo
spettacolo pirotecnico finì e la gente iniziò a
rientrare nel locale perché
nessuno voleva rimanere lì, a gelare senza alcun motivo, ma
Itachi fumò una
sigaretta in solitaria, bisognoso di un po’ di tregua da
tutto quel caos a cui
non era abituato. La sua vita era sempre scivolata sui binari oliati da
un
padre autoritario, poi, ad un certo punto del tragitto, aveva azionato
uno
switch, aveva cambiato direzione, dirigendosi dove aveva scelto lui, ma
non
c’era stato nessuno scossone degno di nota nemmeno allora.
Nell’ultimissimo
periodo invece si ritrovava a fare e pensare cose inaspettate, che poco
avevano
di quell’ordine familiare a cui era abituato. Forse Sasuke
non era l’unico a
cui avrebbe fatto bene uno psicologo.
Rientrò
nel locale piacevolmente riscaldato, notando che adesso la musica era
molto più
alta, i brani più ritmati e la cantante incitava i clienti a
seguirla, ad
alzarsi in piedi, ballare perché ehi,
è
capodanno, bisogna fare festa!
Itachi
non si lasciò irretire e tornò al proprio tavolo,
dove trovò però Ryuji intento
a chiacchierare con un ragazzo, con un’espressione ben
diversa da quella dello
zombie rassegnato e sconfitto con cui era entrato lì.
Lui si
mise a parlare con Shisui, ma il suo sguardo non stava mai fermo troppo
a
lungo, vagava a cercare nella folla una familiare testa rossa,
dicendosi che
era solo curioso di vederlo in un ambiente del genere. Gaara non stava
fermo un
attimo, tra le mani quel vassoio pesante pareva non svuotarsi mai,
sempre colmo
di bicchieri a volte pieni, altre vuoti, ma lui sostava al bancone
giusto il
tempo di poggiarlo e prenderne un altro per poi ripartire, un novello
salvatore
di tutte quelle gole riarse.
Quando
finalmente il ritmo si allentò un po’, Itachi lo
vide sedersi un attimo su uno
sgabello vicino al bancone e bere dell’acqua servitagli da un
barman, un tizio
alto coi capelli chiari portati all’indietro dal gel.
Notò anche la familiarità
con cui parlavano, i sorrisi tra di loro e infine le mani del barista
che
arruffarono la chioma rossa e Gaara che glielo permetteva senza
sottrarsi.
“A quanto
pare quel suo amico che lavora qui è Hidan”
sentì dire da Shisui.
Si voltò
verso di lui, nascondendogli la sgradevole quanto stupida sensazione di
colpa,
come un bambino lasciatosi sorprendere col cucchiaio nel barattolo di
cioccolata; non aveva alcun motivo di provare quella sensazione, si
disse.
“Conosci
quel tizio?” gli domandò invece, avvicinandosi per
non dover alzare troppo la
voce con la musica più alta.
“Sì, te
ne avevo anche accennato – gli confermò
– sta insieme a Deidara, il barman che
lavora in quel locale dove avevo visto Gaara, ricordi?”
Itachi
annuì, ricordando quella conversazione col cugino, i
sospetti su quanto
successo tra Sasuke e l’altro, le supposizioni e il suo
timore di non essere in
grado di aiutare il fratello in quell’occasione; certo che
ricordava tutto.
Shisui lo
osservò, bevve un altro sorso del proprio cocktail, infine
propose:
“Perché
non vai a salutarlo? Tra non molto penso che ce ne andremo, Riuji mi
sembra
felice all’idea di andarsene a casa.”
Indicò col mento l’altro cugino che era
ancora alle prese con il ragazzo di prima.
Itachi
guardò l’orologio, erano passate da poco le due,
il locale a poco a poco si era
calmato e la gente iniziava ad andare via per concludere la serata da
qualche
altra parte.
Itachi
annuì, in fondo non c’era niente di male nel
salutare il suo collega e fargli
gli auguri di buon anno. Si diede poi dello sciocco: da quando doveva
aver
paura di parlare con Gaara o trovare una giustificazione per farlo? Il
fatto
che fosse il ragazzo verso cui Sasuke provava un interesse non lo
rendeva tabù.
Vide il
cameriere riprendere il vassoio e andare verso i tavoli, ma quando
tornò verso
il bancone si alzò per andare da lui.
“La
serata è ancora lunga per te?”
“Itachi!”
esclamò Gaara, voltandosi. Non lo aveva sentito avvicinarsi,
niente di strano
con la musica e il frastuono generale, ma ritrovarselo
all’improvviso così
vicino lo aveva fatto sobbalzare. “Beh sì, ci
vorranno almeno le cinque prima
di andare via, ma lo sapevo già. Però adesso sto
per andare a fare una pausa –
gli rispose – tu stai per andare via?”
“Già,
però posso farti compagnia in pausa prima” disse
Itachi per poi mordersi le
labbra. Quella proposta gli era scivolata fuori di bocca con una
facilità
impressionante.
Gaara
sembrò soppesare le sue parole e, scuotendo appena la testa,
rispose:
“Avevo
intenzione di prendere una boccata d’aria fuori, non voglio
farti gelare.”
“È
un’occasione perfetta per fumare una sigaretta, qui dentro
purtroppo non si
può”
“Ah, beh
in questo caso… –
gli sorrise – C’è uno
spiazzo sul retro, con l’ingresso per i dipendenti, ci
vediamo lì?”
A Itachi
piacque quella specie di appuntamento improvvisato, ma non ebbe modo di
rispondergli perché intervenne quel barista che Shisui aveva
chiamato Hidan.
“E bravo
Gaara! Sei riuscito a rimorchiare, Yahiko ci rimarrà male
– rise sguaiato per
poi squadrare Itachi – ed è anche meglio
dell’ultimo palo in culo che ti sei
portato a casa!”
Nel giro
di pochi secondi Gaara passò dallo sbiancare come un
lenzuolo al diventare un
tutt’uno coi capelli, strinse forte il vassoio vuoto tra le
mani e sbottò:
“Stai
zitto, coglione! – poi rivolto a Itachi – Non
badare al mio coinquilino, hanno
dimenticato di fornirgli un cervello alla nascita.”
Il suo
sguardo però non riusciva più a sostenere quello
dell’Uchiha, ma si poggiava
nervosamente sul barman, come se avesse potuto comunicargli
telepaticamente
qualcosa o incenerirlo, probabilmente entrambe le opzioni lo avrebbero
soddisfatto.
Hidan
però sembrava sordo a tutto ciò e
replicò:
“Però mi
hanno dato un cazzo grosso, meglio così – poi tese
una mano a Itachi – sono
Hidan, il suo coinquilino, penso che ci rivedremo.”
Itachi
non si lasciò scomporre minimamente dai suoi modi o dalle
informazioni che
aveva involontariamente appreso su Sasuke e strinse la mano che gli
veniva
porta, dicendo:
“Sono
Itachi e credo di essere il fratello del palo in culo che hai
nominato.”
All’improvviso
sembrò che attorno al bancone fosse scoppiata una bolla di
silenzio e i tre si
guardavano, senza sapere che dire. Gaara era sbiancato nuovamente e
aveva
poggiato una mano sul bancone in cerca di sostegno. Itachi sapeva,
sapeva e…
“Beh, per
fortuna non è una cosa di famiglia.” Fu il
commento di Hidan che poi, con una
scrollata di spalle si rimise al lavoro, chiamato da un altro cameriere.
Lasciò i
due da soli e Itachi notò perfettamente il turbamento di
Gaara, immaginò cosa
gli stesse passando per la testa e per quello gli posò una
mano sulla spalla
dicendo:
“Tranquillo,
ci vediamo qui fuori tra un paio di minuti.” Si
allontanò e lo lasciò lì, da
solo, con un vassoio vuoto in mano e il cuore pieno di paure, affatto
tranquillo.
Gaara
si
strinse meglio la sciarpa attorno al collo, quella che gli aveva
regalato
Hinata; non usciva più di casa senza.
Guardò lo
spiazzo pieno di macchine dei dipendenti e ascoltò i suoni
della città che
ancora non aveva smesso di festeggiare. Anche lui aveva avuto quella
intenzione: prendersi qualcosa da mangiare, una birra e godersi in pace
la sua
più che meritata pausa.
Peccato
che di tranquillo in quel momento non ci fosse proprio nulla e non
aveva
nemmeno più voglia di bere o mangiare. Voleva solo capire
come diavolo fosse
possibile avere addosso un concentrato di sfiga così potente
perché,
seriamente, non c’era altro modo per definirlo.
Itachi
sapeva tutto. In fondo dopo il bacio che si erano scambiati non
c’era modo di
nascondere i loro orientamenti sessuali, ma non era quello il problema
quanto
Sasuke. Cosa avrebbe dovuto dirgli a riguardo? E poi perché
lo aveva baciato se
sapeva che erano stati assieme?
Troppe
domande a cui non poteva rispondere da solo.
Aveva
anche pensato di non presentarsi e continuare a lavorare, ma poi si era
detto
di non fare il codardo: lo avrebbe comunque rivisto in ufficio e tanto
valeva
discutere subito, quando potevano essere solo loro due.
Sentì un
rumore ed alzò lo sguardo dai propri piedi, vide Itachi
avanzare verso di lui,
ben coperto dall’elegante cappotto scuro. Gli si
fermò davanti e per Gaara fu
davvero difficile alzare la testa e non indietreggiare davanti ai suoi
occhi
tanto scuri e belli. Non c’era vischio quella volta, eppure
rimasero entrambi
immobili a fissarsi mentre l’aria attorno a loro diventava
tesa, pesante,
difficile da inspirare; probabilmente era colpa del freddo che gelava
anche i
respiri che uscivano dalle loro bocche. Eppure quegli sbuffi bianchi
non
impedivano ai loro occhi di celarsi, di impedire all’altro di
scrutare e
tentare di scoprire più verità di quella
raccontata dalle parole.
“Tu sai…”
iniziò Gaara, ma si morse un labbro, incapace di continuare.
Itachi
guardò i suoi occhi dal colore freddo quasi quanto il gelo
che azzannava la
loro pelle, ma vi vide agitazione, nessuna calma, nemmeno quella
apparente.
“Sì,
durante queste vacanze Sasuke mi ha confessato di essere gay
e… di aver avuto
un qualche tipo di relazione con te” gli spiegò,
vedendo la sorpresa prendere
il posto dell’agitazione.
Gaara
infatti schiuse la bocca dalle labbra sottili, le sopracciglia rade si
inarcarono e ci mise qualche istante a trovare delle parole da dire.
“Lui… lui
ti ha raccontato tutto?” domandò, ancora incredulo
nonostante tutto. Quello
psicologo doveva essere veramente un genio per essere riuscito a far
prendere a
Sasuke decisioni come quella di richiamarlo chiedendogli scusa, o
aprirsi col
fratello.
Itachi
allungò un braccio e gli carezzò una guancia
fredda con le proprie dita lunghe,
ma altrettanto povere di calore; non era riuscito a trattenersi. Gaara
era
spaventato, era più che evidente, e lui si rese
improvvisamente conto che
avrebbe voluto rassicurarlo, baciarlo
ancora e rassicurarlo, ma… non poteva.
“Non
proprio tutto, mi ha detto di non essersi comportato bene nei tuoi
riguardi e
non ho chiesto i dettagli, non ne avevo bisogno. So però che
ti ha chiesto di
rivedervi.”
Gaara
annuì piano per timore che Itachi spostasse la mano che
teneva sulla sua
guancia, un freddo ma morbido cuscino in cui affondare.
“Sì, ma…
non è il momento – inghiottì un blocco
d’aria – non so se lo sarà mai, io non
so se…” La sua voce sfumò fino a
perdersi nell’oscurità, facendo quasi dubitare
che avesse mai parlato.
Itachi
ritrasse il braccio e infilò le mani nelle tasche del
cappotto, sorridendogli:
“Lo
scoprirete insieme, credo che ci sia ancora un po’
d’interesse da entrambe le
parti, altrimenti gli avresti già detto di no. Tu non sei
uno che gioca con le
persone.”
“Come fai
a dirlo? Ci conosciamo da poco e fino a una settimana fa non sapevi
nemmeno che
ero gay o di tuo fratello… come puoi dire che non sto
giocando con lui?”
domandò Gaara, ma in realtà la domanda che gli
era rimasta incastrata in gola
era “Cosa pensi di me Itachi? Come
mi
vedono i tuoi occhi?”
Un
piccolo sorriso piegò le labbra dell’Uchiha, che
però non sembrava affatto
divertito:
“Ho un
po’ di esperienza, Gaara. Sono una persona curiosa e mi
piacciono i segreti, per
questo so che tu ne tieni qualcuno dentro di te, ma ciò non
fa di te una brutta
persona o qualcuno che vorrei tenere lontano da Sasuke, anzi forse
è stato
proprio fortunato ad incontrare te tra tutti.”
Gaara si
rabbuiò, perché era consapevole di portare dentro
di sé molta oscurità e non
era certo che ciò non avesse contagiato lui e le persone che
lo circondavano,
poteva davvero credere di non essere un veleno?
“E il
nostro bacio? Rimarrà anche quello un segreto?”
Sparò a
bruciapelo quella domanda perché aveva la sensazione che
Itachi stesse tirando
su un bel muro tra di loro, un muro di cui non avrebbe avuto bisogno se
non ci
fosse stato Sasuke. Non era certo che ciò gli piacesse.
“Beh, non
vedo perché dovremmo raccontarlo – rispose
l’avvocato, preso un po’ in
contropiede – era solo un bacio sotto il vischio.”
Gaara si
fece avanti di un paio di passi, gli strinse le mani attorno alle
braccia e
alzò il viso verso il suo, guardandolo a soli pochi
centimetri di distanza,
sentendo persino l’odore di alcool nel suo respiro, mischiato
a quello del suo
dopobarba e di sigaretta.
“Era
davvero solo un bacio sotto il vischio, Itachi? –
domandò, serio – Perché ho la
stramaledetta impressione di essere trattato come un pacco e di venire
scaricato a tuo fratello? Cos’è, ha il diritto di
prelazione?” concluse, con la
rabbia più che evidente nella voce.
“Non è
così” sospirò Itachi posando la fronte
contro la sua, cercando di zittire le
voci nella sua testa che strepitavano per baciarlo, per stringerlo e
fregarsene
delle conseguenze. “Ti trovo interessante, non lo nego, ma se
prima tu e Sasuke
non farete chiarezza non voglio mettermi in mezzo, perché
voglio bene a mio
fratello e non voglio rendergli la vita più complicata di
quello che è –
allontanò il viso per guardarlo meglio – non sto
dicendo che devi per forza
stare con lui, che sei destinato a lui o cazzate simili. Semplicemente
che
finché non chiarirete io sarò solo Itachi, il tuo
collega, il tuo amico e il
fratello di Sasuke, non puoi essere arrabbiato per questo,
Gaara.”
Il
ragazzo chiuse gli occhi e sospirò profondamente, cercando
di processare quelle
informazioni, quell’esempio di amore fraterno mai
sperimentato. Perché un
fratello maggiore si tira indietro piuttosto che fare qualcosa che
potrebbe
ferire il minore, giusto? Si rese conto una volta in più di
quanto fosse
sbagliato ciò che aveva fatto Kankuro a lui, e Itachi aveva
ragione: non poteva
proprio arrabbiarsi.
“Sasuke è
uno stronzo fortunato ad averti come fratello” rispose, ma
aveva un mezzo
sorriso sulle labbra ad ammorbidire un insulto forse più che
meritato.
“Oh beh,
punti di vista” rise Itachi, certo che l’altro non
si sarebbe professato così
fortunato tanto facilmente. Guardò di nuovo Gaara che adesso
gli sorrideva e
sembrava aver accettato le sue ragioni senza rancore, e
pensò di non essersi
sbagliato: quel ragazzo era cristallino e pulito quanto i suoi occhi.
“Sono
felice di averti visto stasera, a capodanno, e di aver parlato con te
come
prima cosa dell’anno nuovo.”
“È un
punto di vista – replicò Gaara, ironico
– è stata una coincidenza bella grossa,
non avrei mai immaginato di vederti qui stasera.”
“Già, è
stato un capodanno atipico.”
Aveva
assistito a un coming-out disastroso, consolato un cugino a terra, e
infine
aveva chiarito con la fiamma del fratello; insomma una serata
rimarchevole.
Peccato che dentro di sé non fosse tutto in ordine.
“Ho persino conosciuto
anche il tuo coinquilino… a proposito chi è
Yahiko? Devo mettere in guardia
Sasuke?” scherzò, spostando l’argomento
su argomenti più leggeri e ironici.
Gaara
fece una smorfia e si infilò le mani più a fondo
nelle tasche:
“Oh, di
quello che dice Hidan dovresti ascoltarne solo un 10% e scremarlo dalle
parolacce ovviamente – disse visto che aveva definito Sasuke
un palo in culo,
non che avesse tutti i torti in fondo – e vale anche per
Yahiko. È solo un suo
amico che ogni tanto ci prova con me, niente di che. Ormai è
più un’abitudine
che un reale interesse.”
“Oh, e
come mai non hai mai ceduto a questo inossidabile ammiratore?
È così brutto?”
domandò interessato. Gaara aveva dimostrato di avere
standard piuttosto alti: di
Sasuke si potevano dire molte cose ma non che fosse poco affascinante o
sgradevole.
“Ma no,
no – rise Gaara – semplicemente perché
è contrario all’idea di fare il passivo
e io pure. Siamo incompatibili” gli rivelò e vide
perfettamente il momento in
cui le sue parole andarono a segno. Infatti Itachi sgranò
gli occhi per poi
aggrottare le sopracciglia e aprire le labbra in una domanda muta,
limitandosi
a fissarlo.
“Incompatibili,
certo…” mormorò dopo un po’.
Con Sasuke invece erano stati più che compatibili
e ciò voleva dire solo che… che era Sasuke ad
essere passivo e quel pensiero
continuava a rimbalzargli nella testa come una pallina da tennis
impazzita.
Forse per la prima volta in vita sua Itachi aveva scoperto un segreto
che
avrebbe preferito che rimanesse tale.
“Beh,
dopo questa penso che farò meglio ad andare prima che
congeliamo e diano te per
disperso – disse, dopo essere riuscito ad accantonare quelle
nuove informazioni
– ci vediamo a lavoro.”
“Sì, ci
vediamo a lavoro” lo salutò Gaara, ma nel momento
in cui l’altro si stava per
voltare e andarsene lo richiamò.
Itachi si
girò e Gaara si avvicinò a rapidi passi, gli
posò le mani sulle spalle e lo
baciò senza dire nulla. Semplicemente lo baciò e
l’altro lo ricambiò
passandogli le braccia attorno alla vita. Le loro bocche erano roventi
e
qualunque punto del viso dove le labbra si posavano sembrava
sciogliersi, come
se loro in realtà non fossero altro che stupidi pupazzi di
neve in attesa del
sole.
La città
continuava a festeggiare, a essere un calderone di rumori, di gente, di
vita e
loro invece erano lì, fermi in un piazzale pieno solo di
macchine vuote, a
baciarsi; semplicemente a baciarsi.
Lentamente
Gaara si sciolse dall’abbraccio, lasciò andare le
sue mani che aveva finito per
cercare e, guardandolo, disse:
“Non ti
avevo fatto gli auguri di buon anno nuovo. A Natale me li hai fatti tu,
adesso
era il mio turno – gli sorrise – ora siamo pari,
non trovi?”
Itachi si
passò un dito sulle labbra umide per quel bacio inaspettato
e bello, era
davvero un bacio di buon anno o piuttosto di addio?
“Già,
siamo pari – concordò – buon anno,
Gaara.”
“Buon
anno, Itachi.”
***
Sasuke
stava riscoprendo una passione sfrenata per le finestre. Non era una
nuova
forma di stravagante feticismo o di fissazione dovuta al lavoro, quando
di
necessità fisiologica. Nell’ultimo mese si era
trovato ad affrontare troppe
conversazioni difficili e a volte anche sgradite, così per
lui era diventato
automatico cercare con lo sguardo una finestra, una possibile via di
fuga, uno
squarcio sul mondo esterno che gli assicurava che non sarebbe morto
soffocato
tra le parole che faticavano a uscire fuori dalla gola.
Quel
pomeriggio era sulla solita poltrona nello studio dello psicologo, il
loro primo
incontro da prima di Natale e di cose da raccontare ce ne erano fin
troppe,
peccato che lui avesse i soliti problemi a iniziare a parlare di
sé.
Lo
psicologo non lo forzò, bensì iniziò a
fare discorsi generici a chiedergli cosa
avesse mangiato durante il cenone natalizio, o a raccontargli quanto
fosse
buono il dolce che preparava sua suocera. Era una strega, eppure quel
dolce era
meraviglioso, ma lei da buona strega intendeva portarsi la ricetta
nella tomba,
o forse era più indicato dire al rogo?
Sasuke
faceva una smorfia a quelle battutacce, che sarebbero calzate a
pennello anche
in bocca a Shisui, eppure a poco a poco si rilassava e si ritrovava a
partecipare alla conversazione fino a ritrovarsi ad essere
l’unico a parlare. E
ogni volta non sapeva se arrabbiarsi per essersi fatto raggirare da
simili
stupidi trucchetti, o essere felice perché l’altro
era in grado di farlo aprire
e buttare fuori ciò che lo aveva avvelenato per anni. Sasuke
aveva ancora le
idee confuse riguardo cosa fosse la cosa migliore per lui, per quello,
quando
gli raccontò di Gaara e della sua risposta alla proposta di
vedersi, si ritrovò
a dargli ragione.
“Certo,
ci sono rimasto male – ammise, anche se sentì lo
stomaco bruciare a quella
frase – però ho ancora delle cose da sistemare. E
poi in fondo ha detto lui
stesso che ci saremmo rivisti per lavoro, quindi non era proprio un no
secco.
Forse tra i due lui è il più lucido tra
noi.”
“O
forse
ha solo detto la cosa giusta al momento giusto. Non sopravvalutare gli
altri e
non sottovalutare nemmeno i problemi che possono avere, nessuno ha
tutte le
risposte in tasca, nemmeno tuo fratello. Per te le sue rivelazioni sono
state
una sorpresa, ma soprattutto sentirlo ammettere di avere commesso
errori;
pensavi sul serio che fosse infallibile?”
“Lei
non
conosce Itachi, tutto qui” sospirò, pensando che
gli aveva parlato del dialogo
con fratello ancor prima di quello con Gaara, forse era significativo.
“Lo
conosco dalle tue parole e, lasciati dire, che finora lo hai mitizzato
un po’
troppo. È un bene che tu riacquisisca una prospettiva
più umana nei suoi
confronti. Tuo fratello ha delle passioni, cose che odia e altre che
sopporta,
commette errori e non ha tutte le risposte, come ogni altra
persona.”
“Quindi
nemmeno lei ha tutte le risposte? E io allora perché dovrei
continuare a venire
qui?” lo provocò Sasuke. Il suo spirito di
autodifesa cercava sempre varchi e
aperture in cui intrufolarsi per ferire, stuzzicare e provocare,
perché proprio
non riusciva a rassegnarsi ad alzare bandiera bianca e lasciare che
Sasuke
vivesse senza la corazza di spine che si era costruito negli anni.
Lo
psicologo non si scompose, bensì sorrise e
accavallò morbidamente una gamba
prima di rispondere:
“Certo
che non le ho, Sasuke, altrimenti sarei Dio e di certo passerei il mio
tempo in
spiaggia a bere daiquiri – ignorò il sorrisetto
apparso sulle labbra del suo
paziente – io infatti non sono qui per darti
risposte, ma per aiutare te a trovare le tue, o meglio a tirarle fuori
da te
stesso. Perché le sai già, il problema
è ascoltarle e convincerti ad
accettarle, è per questo motivo che dovresti continuare a
venire da me.”
Sasuke si
sentì alla stregua di un palloncino bucato, un pezzetto di
plastica svuotata e
dimenticata sul pavimento. Si era gonfiato credendo di averlo colto in
fallo,
ma quello stupido uomo ogni volta rigirava la frittata e gliela
sbatteva in
faccia, facendogliela rimangiare condita da tutta l’arroganza
che lo
accompagnava sempre.
Aggrottò
la fronte e incrociò le braccia davanti al petto, tornando a
fissare la
finestra.
“Allora
mi aiuti, che diavolo di risposta dovrei trovare per quello che
è successo a
capodanno? Un mio cugino ha fatto coming-out davanti a tutta la
famiglia,
nostra nonna si è sentita male e abbiamo dovuto chiamare
un’ambulanza, suo
padre urlava che lo avrebbe diseredato, sua madre lo difendeva e altri
parenti
si mostravano schifati, guardando come se avesse una malattia mortale,
come se
fosse un rifiuto, una cosa sporca che non dovrebbe stare a tavola. Lo
hanno
accusato di essere contro natura, un disonore e… e avrei
potuto essere io
quello. Qual è la risposta a questo?”
“Che
il
mondo è pieno di ipocriti, Sasuke – rispose lo
psicologo con la sua voce sempre
controllata – o pensi che tutti i tuoi parenti siano
irreprensibili e nessuno
nasconda qualche segreto o due? Uno di quelli che a tutti piace
condannare per
sentirci migliori, perché è a questo che serve la
gogna. Ma parlami ancora di
come ti sei sentito, invece. Hai parlato con questo tuo
cugino?”
Il
ragazzo sospirò e si passò la mano tra i capelli,
bella domanda. Aveva sentito
addosso gli occhi di Itachi per tutto il tempo, sapeva che si stava
preoccupando per lui e, se da un lato la cosa da un lato lo aveva
indispettito
perché lo aveva fatto sentire un bambino bisognoso di essere
protetto,
dall’altro ne era stato felice, appunto perché
aveva suo fratello vicino,
pronto a lottare per lui. Era diviso a metà, ed era una
sensazione familiare,
perché gli pareva di vivere così ogni secondo
della sua vita, lacerato tra il
bisogno di essere il Sasuke che era sempre stato finora, quello
impeccabile che
corrispondeva agli standard della famiglia e della società,
e il Sasuke che premeva
per essere lasciato libero di respirare, quello a cui piaceva Gaara e
stare in
giro con gli amici a fare gli stupidi.
“No,
non
ho parlato con Ryuji, non l’ho difeso, né
l’ho accusato, avevo paura – confessò
– avevo paura che se fossi intervenuto in qualche modo gli
altri avrebbero
potuto leggere in me attraverso lui. Così sono stato in
disparte come un
codardo, mentre gli gettavano addosso valangate di merda e pensavo che
io non
avrò mai il suo coraggio. Anche se una parte di me avrebbe
voluto andargli vicino,
baciarlo davanti a tutti e mostrare quello che sono. Ero
così arrabbiato, ero
furioso, avrei voluto picchiarli tutti quegli ipocriti del
cazzo… non sono così
ingenuo, so bene che hanno tutti segreti.”
“Bene,
quindi rabbia, molta rabbia… e dove hai intenzione di
dirigerla questa rabbia?
Ora è questa la risposta da trovare, Sasuke. La rivolgerai
verso di te, ti
biasimerai per quello che sei, per i desideri che provi o continuerai
ad essere
arrabbiato con loro? Li disprezzerai, li eviterai; cosa
farai?”
Il
ragazzo lo guardò, con le unghie che affondavano nel
maglione morbido.
“Ho
solo
queste due opzioni?”
“Dimmelo
tu.”
Stavolta
Sasuke non tornò a guardare la finestra, ma puntò
lo sguardo sui propri piedi
che lo avevano condotto sino lì, nello studio di uno
psicologo, a chiedersi chi
diavolo fosse a ventitré anni.
“Non
lo
so, forse dovrei lasciare andare la rabbia e basta, ma…
– una pausa lunga,
difficile – io senza rabbia non so stare.”
“Cos’è
la
rabbia per te?”
“Tutto.”
Quella volta riuscì a rispondere subito, senza esitazione,
perché quella
risposta gli era molto chiara. “È ciò
che mi ha sempre dato la forza e
l’energia per andare avanti. La rabbia contro mio fratello
per essere tanto
superiore, la rabbia contro mio padre, colpevole di non considerarmi
abbastanza, la rabbia verso i miei amici meno intelligenti di me. La
rabbia è
il mio carburante e io senza non so come andare avanti, cosa sarei
senza? Come
farei senza? – lo guardò – Io non
conosco altro. Quando non sono arrabbiato mi
sento vuoto, come un teatro senza pubblico e senza attori. A cosa serve
costruire un teatro bellissimo, lussuoso, pieno di comfort se poi non
lo usa
nessuno? E io mi sento così, come quel teatro.” Si
stropicciò gli occhi,
vergognandosi per quelle parole, per quel paragone così
stupido, che diavolo
gli era venuto in mente di dire?
“Hanno
fatto l’inaugurazione?” domandò invece
lo psicologo, nient’affatto turbato.
“Eh?”
Sasuke lo
guardò, ripetendosi per l’ennesima volta che quel
tizio aveva davvero qualche
rotella fuori posto.
“Hanno
fatto l’inaugurazione? La gente sa che quel bellissimo e
capiente teatro è
aperto ed è pronto ad ospitare Shakespeare,
Molière, Sofocle? Se nessuno lo sa
come puoi pretendere che la gente ci entri?”
Sasuke lo
fissò, con un labbro che tremava appena. Se lui continuava a
respingere le
persone come poteva pretendere che queste continuassero ad avvicinarsi
a lui,
ferendosi nel tentativo di conquistarsi uno spazio, o almeno ad avere
un
accesso?
“No,
nessuna inaugurazione” rispose.
“Bene,
allora rimbocchiamoci le maniche, bisogna fare le pulizie, chiamare il
fioraio,
il servizio di catering, abbiamo un sacco di lavoro da fare”
gli sorrise.
Sasuke
sospirò e reclinò la testa
all’indietro, fissando qualche istante il soffitto
prima di sorridere all’uomo:
“Ok,
basta solo che gli ipocriti rimangano fuori.”
“Fare
gli
inviti è un tuo compito, Sasuke. Sei tu a decidere chi entra
e chi sta fuori –
lo rassicurò – sta a te, sta sempre tutto a te,
non dimenticarlo.”
L’angolino
oscuro: Miracolo di Natale, sono
riuscita ad aggiornare
e stavolta siamo alle prese con l’anno nuovo e il carico di
valutazioni,
speranze e buoni propositi che porta con sé. A quanto pare
tra Gaara e Itachi c’è
solo un arrivederci, un congelare le cose, in attesa di vedere in che
modo si
risolverà la situazione con Sasuke, mentre lui, come dice il
buon psicologo, ha
ancora molto lavoro da fare per fare l’inaugurazione del suo
teatro.
Come sempre
spero vi sia piaciuto, se vi va di farmi un regalo per Natale
lasciatemi
qualche parola per farmi sapere che ne pensate della storia XD a presto!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** 12 - It started out with a kiss ***
Coming
out of my cage
And I've been doing just fine
It started out with a kiss
How did it end up like this
It was only a kiss, it was only a kiss
(The Killers)
It
started out with a kiss
Shisui
girò la chiave e spense la macchina. Si tolse la cintura di
sicurezza, ma non
scese subito. Alzò lo sguardo per cercare qualche finestra
illuminata al quinto
piano, sebbene fosse già certo che lui fosse in casa.
Lo aveva
chiamato una volta, ma l’altro non aveva risposto,
così non gli erano rimaste
molte alternative e aveva deciso di andare a trovarlo di persona. Non
gli
piaceva mettere Itachi all’angolo con una visita inaspettata,
ma Sasuke non era
l’unico ad aver bisogno di una sgrullata che gli rimettesse
in ordine le idee.
Era preoccupato perché era evidente che Itachi fosse confuso
ma, soprattutto,
perché il cugino non era abituato ad esserlo e,
più di altri, poteva avere
difficoltà ad uscire da quella situazione.
Quel
ragazzo così dotato, apparentemente perfetto e infallibile
in realtà, se
lasciato a se stesso, senza nessuno che si preoccupasse per lui e gli
facesse
sputare fuori le cose, si sarebbe consumato fino a sparire, troppo
preso invece
dal preoccuparsi per gli altri, trascurandosi.
Shisui scese
dalla macchina e fortunatamente al portone incrociò una
coppia di ragazzi che
stavano uscendo, così da non dovere nemmeno citofonare, gli
avrebbe fatto una
bella sorpresa bussandogli direttamente alla porta.
Suonò il
campanello e attese almeno un minuto prima che gli venisse aperto,
rivelando un
Itachi perplesso che lo squadrava dalla soglia.
“Shisui?”
Il
ragazzo sorrise, divertito dall’averlo stupito e rispose:
“In carne
ed ossa! Mi fai entrare o rimaniamo sul pianerottolo?”
Itachi
parve riscuotersi dalla sua immobilità e si
scostò dalla soglia, richiudendo la
porta dietro di lui.
“Che ci
fai qui? Non ti aspettavo.”
“Lo so –
rispose Shisui togliendosi il cappotto – magari se
rispondessi al cellulare…”
“È in
camera, non l’ho sentito. Io ero in sala con la
playstation.”
Il cugino
lo squadrò, notando i pantaloni morbidi e il maglione largo
che indossava,
abiti sciatti con cui non si sarebbe mai presentato in pubblico, ma che
adorava
per stare in casa quando nessuno poteva vederlo, aveva addirittura
lasciato i
capelli sciolti.
Shisui
trattenne un sospiro, non era esattamente un buon segno nemmeno che il
cugino passasse
la giornata a giocare: entrambi adoravano i videogiochi, ma Itachi non
era mai
stato come lui, capace di perdere la concezione del tempo davanti allo
schermo.
“Non mi
hai ancora detto perché sei qui – aggiunse Itachi,
per poi aggrottare la fronte
– è successo qualcosa?”
“Ma no,
ma no” lo rassicurò Shisui andando ad accomodarsi
sul divano, osservando la
partita in pausa e poi il cugino in piedi davanti a lui. “Non
ci vediamo da
capodanno.”
“Sono
passati solo tre giorni, non tre mesi” sorrise Itachi,
incrociando le braccia
davanti al petto.
“E a me
mancavi come se fossero passati tre anni, ok? Non si può?
C’è qualche regola
che lo vieta?” ribatté Shisui, facendo una smorfia
contrariata con le labbra.
Itachi
sorrise più apertamente, come era solito fare in sua
compagnia e disse:
“Sei
sempre il solito.”
Sparì in
cucina e torno poco dopo con due bottiglie di birra, gliene
offrì una e si
sedette al suo fianco, guardandolo:
“Bene,
ora sei qui e siamo insieme, sei soddisfatto?” lo
punzecchiò.
Shisui
fece tintinnare la bottiglia contro la sua prima di bere un sorso.
“Quasi”
rispose portandogli una ciocca di capelli scuri dietro
l’orecchio, nemmeno lui
che pur lo conosceva da quando era bambino lo aveva visto spesso senza
coda.
“Hai
sentito Ryuji?” domandò invece Itachi per cambiare
argomento, anche se non
respinse il suo tocco ma lasciò che gli carezzasse i
capelli, sfiorando un
orecchio e il collo.
“Sì, sta
relativamente bene. Si sta sentendo col ragazzo che ha conosciuto
quella sera,
ha bloccato il numero del padre che continuava a chiamarlo per
minacciarlo, ma
ha il sostegno della madre, quindi direi che gli è andata
meglio di quanto
pensasse. Ah, la nonna è stata dimessa, ma quella vecchia
strega ci seppellirà
tutti, stanne certo – rise – tu in questi giorni di
vacanza sei stato chiuso in
casa facendo l’eremita?”
“Già”
replicò solamente, bevendo un altro sorso di birra e
fissando lo schermo
luminoso della tv, congelato in attesa del suo ritorno.
Shisui si
morse un labbro, serrando con forza le mani attorno alla bottiglietta
fresca,
sentendo qualche goccia di condensa inumidirgli i polpastrelli.
“Come sta
Sasuke?” domandò, certo che il fratello fosse
l’unico che si fosse premurato di
sentire.
Itachi
non rispose subito, sembrò prendersi il suo tempo,
disegnando col dito alcune
forme astratte sul vetro appannato.
“Tutto
sommato bene, credo – disse alla fine – non mi ha
detto molto al telefono e non
ci siamo ancora rivisti, ma nonostante tutto credo stia bene, o
perlomeno starà
bene.”
Il
silenzio era rotto solo dal ticchettio di un orologio appeso alla
parete, dalla
strada sottostante si udiva qualche clacson solitario, un eco distante
di chi
non poteva fare a meno di stare zitto nemmeno dietro un volante.
Anche
Shisui in quel momento non riuscì a tacere e prese il mento
del cugino tra le
dita, in modo da voltargli il viso nella sua direzione e guardarlo
negli occhi.
“E tu? –
chiese – Tu come stai, Itachi?”
Il
ragazzo sbatté le palpebre, nessun altro movimento
solcò il suo viso
impassibile. Non avevano bisogno di parole: entrambi sapevano che se
Itachi
quei giorni si era isolato era stato perché bene non lo
stava affatto,
probabilmente non sapeva nemmeno come affrontare la cosa.
“Cosa ti
turba? Si tratta di Sasuke e Gaara?” domandò
ancora Shisui, non riusciva ad
immaginare quale altro problema ci fosse, e poi lui aveva notato
chiaramente
l’interesse del cugino per il segretario dai capelli rossi.
“Sì”
esalò Itachi. Tirò indietro la testa per
sottrarsi alla sua presa, ma continuò a
guardarlo negli occhi; la sua fuga era terminata, ora sarebbe andato
fino in
fondo alla questione. Sapeva che altrimenti il cugino non gli avrebbe
dato
tregua, per l’affetto e la preoccupazione che nutriva nei
suoi confronti; in
fondo era grazie a lui, al suo carattere e ai suoi modi, se Itachi si
poteva
definire un adulto equilibrato, una persona che aveva lottato e poi
fatto la
pace con se stessa.
“Provo un
interesse nei confronti di Gaara, l’ho anche baciato
l’ultimo giorno a lavoro,
prima che Sasuke mi raccontasse quanto successo, anche se avevo
già i miei
sospetti. Eppure, nonostante questo, l’ho baciato e non
volevo fermarmi lì.”
“E
allora? – sbottò Shisui, irritato nel vederlo
così indeciso – Qual è il
problema? Sasuke? Non mi sembra stiano insieme, né escono o
si frequentano in
qualche forma, che c’è di male se ti fai avanti?
Cazzo, ti fai decisamente
troppi scrupoli! Itachi, devi pensare un po’ di
più a te stesso.”
Itachi lo
guardò in silenzio qualche istante, poi gli fece una carezza
tra i capelli
corti e mossi che gli piacevano tanto, così diversi dai suoi
lunghi e lisci.
“Se ci
fosse una situazione incerta tra me e un’altra persona tu
riusciresti mai a metterti
in mezzo?” Vide chiaramente la risposta sul viso di Shisui,
perché non c’era
nemmeno bisogno di parole per qualcosa di tanto scontato.
“No, per l’appunto, e
io non posso fare la stessa cosa a Sasuke, anche se non è
così facile tirarmi
indietro. Non fraintendermi: non sono certo innamorato, né
altro, è solo un
interesse; il problema è che non si tratta solo di
attrazione fisica, lo trovo
simpatico, mi piace parlargli, forse in altre circostanze sarebbe
potuto
diventare qualcosa di più serio. Ma non è destino
e io devo farmene una
ragione: Sasuke e Gaara devono chiarire ciò che è
rimasto in sospeso tra loro.
Nel frattempo io non posso vivere attaccato all’ipotesi che
tra loro non
succederà più nulla, devo andare avanti, ma
ammetto che il mio carattere si
ribella all’idea di arrendermi senza lottare, tutto
qui.”
Shisui
sospirò, nient’affatto soddisfatto da quella
situazione e dalle conclusioni del
cugino, che come sempre tendeva a razionalizzare troppo senza lasciare
spazio
ai sentimenti, e ovviamente a sacrificarsi in nome dell’amore
che provava per
il fratello.
“E Gaara
che ne dice? Perché immagino che ne abbiate parlato
l’altra sera e che Sasuke
non saprà mai del vostro bacio”
domandò, ricordandosi bene quanto fosse stato
strano durante il viaggio di ritorno in macchina.
Itachi
sorrise perché Shisui sapeva bene come funzionava la sua
testa e indovinava
sempre le sue azioni con precisione quasi chirurgica.
“Non
saprà nulla, non ce n’è bisogno, e
Gaara ha capito il mio punto di vista. Poi
non è detto che si mettano assieme o scoppi
l’amore, ma devono fare chiarezza
sui loro sentimenti prima di tutto.”
Non gli
raccontò di quell’ultimo bacio bello e inaspettato
che Gaara gli aveva
regalato, volle tenere quello splendido segreto per sé,
timoroso che delle
parole avrebbero sminuito il suo valore.
“Non è
giusto lo stesso, dovresti essere felice e basta, te lo
meriti!” esclamò Shisui
perché, nonostante tutto,
per lui la
felicità di Itachi veniva prima di ogni altra cosa. Era
sempre stato così, per
lui avrebbe venduto anche l’anima al diavolo.
Itachi
rimase interdetto di fronte alla veemenza con cui il cugino gli
esprimeva i
suoi sentimenti, riusciva sempre a sorprenderlo con la sua schiettezza,
dopo
tutti gli anni passati assieme ancora non gli riusciva di abituarcisi.
Gli
passò di nuovo le dita tra i capelli, dicendo:
“Starò
bene.”
Ne era
certo, in fondo non era mai stato veramente solo, non poteva esserlo
con lui a
fianco.
Shisui
però si scansò, non parlò,
bensì si fece avanti e gli mise una mano sulla nuca
mentre posava le labbra sulle sue. Lo baciò con forza, non
fu affatto delicato
o cauto, mentre le dita si intrecciavano a quei fili di inchiostro
capaci di
tenere avvinti, di legare a sé con la loro malia.
Gli
schiacciò le labbra con le proprie, le leccò e le
morse senza dargli tregua o
modo di sottrarsi, anche se avesse voluto. Ma Itachi non lo voleva,
accolse
invece quel bacio, rispondendo con la stessa urgenza, quasi una fame
che lo
stava divorando senza che se ne accorgesse.
Afferrò
il suo maglione poco al di sotto della gola come per avvicinarlo di
più, perché
non era ancora abbastanza, nonostante i nasi affondati nelle guance, le
labbra
che facevano male e i capelli che ormai si confondevano in un unico
oceano
scuro.
Shisui
era stato il suo primo uomo, negli anni avevano continuato ad andare a
letto
insieme senza nessun obbligo o complicazione, come se fosse stato
naturale
quanto respirare. Al di là delle altre relazioni
più o meno serie, a volte
semplicemente si trovavano a baciarsi e poi a fare sesso, senza che
questo
inficiasse la loro amicizia o creasse tensioni e imbarazzi. Non a loro,
non al
rapporto profondo che condividevano, in cui l’amore aveva
accezioni ancora
diverse da quelle già note.
“Stai
cercando di consolarmi?” ironizzò Itachi guardando
le sue labbra rosse e gonfie
che aveva ancora voglia di mordere.
“Veramente
starei cercando di scoparti – rise piano Shisui –
poi, se questo può fare bene
anche al tuo umore, direi che non guasta.”
“Addirittura
scoparmi? E chi ti dice che sarai tu a farlo?” Lo
provocò, passando la punta
del naso sul suo collo, sfiorando appena la pelle morbida della gola
coi denti.
“Perché
l’ultima volta sei stato tu a farlo, tutto qui, ma posso
sempre concederti
l’occasione per rifarti con un bis dopo.”
Rabbrividì
a quel semplice gesto, alla capacità del cugino di eccitarlo
semplicemente
sfiorandolo. Ogni volta tra di loro era sempre diversa, per i
sentimenti che li
accompagnavano, per i desideri, le posizioni e lo scambio dei ruoli,
non c’era
nulla di convenzionale nel loro rapporto.
“Non devo
scappare da nessuna parte, domani non lavoro e nemmeno tu, quindi direi
che è
possibile” rispose Itachi sempre con quel tono apparentemente
impassibile. In
realtà era eccitato, intrigato dall’idea di
spogliarsi e spogliarlo, vedere di
nuovo il suo corpo asciutto premuto contro il proprio e passare ore tra
le
lenzuola, a strapparsi gemiti e a reclamare piacere con le loro mani e
bocche
affamate.
“E la tua
partita alla play?” lo punzecchiò Shisui, mentre
però iniziava già a
sollevargli il maglione.
“Direi
che non me ne frega proprio un cazzo” stabilì
Itachi per poi baciarlo e, in
quel modo, zittirlo.
Non ci fu
più spazio per le parole che scivolarono via inutili come i
loro vestiti che
disseminarono a terra, sterili semi da cui non sarebbe nato nulla.
Furono
sul letto, assieme, i loro corpi che si conoscevano e non avevano
bisogno di
indicazioni o suggerimenti; le mani già sapevano quali
strade seguire, i
sentieri che li avrebbero portati alla loro meta, godendosi
però il viaggio.
Ogni volta con Shisui il paesaggio che vedeva dai finestrini cambiava,
non era
mai uguale, e loro ne godevano finché le bocche ansimanti
non appannavano i vetri
e ogni altra cosa veniva dimenticata, soverchiata dal piacere che si
regalavano.
Quando
Shisui entrò dentro Itachi ogni cosa venne dimenticata,
perché quel culo che
quasi artigliava mentre si muoveva, osservando le proprie falangi
sparire nei
muscoli contratti, era il fulcro di tutto.
Non
esistevano fratelli, storie potenzialmente esplosive, rimpianti,
rimorsi o
sacrifici, il loro stare insieme aveva spazzato via tutto. Shisui
traghettò
Itachi al di là del suo mare di confusione e dubbi, lo
strinse forte
ricordandogli chi era e promettendogli, senza bisogno di parlare, che
era al
suo fianco e lo sarebbe sempre stato.
Solo dopo
l’orgasmo, dopo essersi scambiati baci lenti e pigri,
soddisfatti, si
guardarono negli occhi per poi stendersi tra le coperte sfatte e
osservare
invece il soffitto.
Solo
allora la mente di Itachi riprese a funzionare, a formulare parole e
pensieri
coerenti. Ripensò un attimo alle parole di Gaara, alla
rivelazione sulla
passività di Sasuke, e scoppiò a ridere
perché quella sera si era tanto
meravigliato, ma quel giorno lui si era ritrovato a fare la stessa
cosa,
godendo maledettamente nel sentirsi riempire da un cazzo.
Sì, probabilmente
anche lui sarebbe stato più che compatibile con Gaara.
“Ehi, fai
ridere anche me” protestò Shisui con la voce
ancora un po’ affannata.
“Niente,
un pensiero sciocco – voltò la testa per guardare
lui invece del soffitto –
preferisco farti godere di nuovo invece che ridere.”
Shisui
finse di pensarci intensamente, con gli occhi assottigliati e la fronte
aggrottata:
“Direi
che ci sto, mi sembra un’ottima alternativa”
decretò infine riprendendo a
baciarlo, ma col sorriso sulle labbra di entrambi.
***
Se Gaara
avesse aumentato l’andatura anche solo di poco, la sua
camminata veloce sarebbe
diventata una corsa vera e propria. Schivava la gente che lo
circondava,
cercando varchi in cui infilarsi per superare quelle persone che
sembravano
oziare e avere tutto il tempo del mondo per fare pochi metri. Peccato
invece
che lui non avesse tutto il tempo del mondo, non ne aveva affatto in
realtà,
anzi, era in stramaledetto ritardo!
Aveva
preso una mattinata di permesso per poter sostenere un esame,
però la cosa era
andata per le lunghe. Il professore, solitamente puntuale, aveva deciso
di
cambiare abitudini proprio quella mattina e, oltre al suo ritardo,
erano
saltati fuori tanti altri piccoli disguidi che avevano portato Gaara a
essere
interrogato solo dopo la pausa pranzo.
Nonostante
la tensione e la fretta di dover tornare a lavoro, era andato molto
bene, tanto
che l’assistente aveva insistito perché fosse
interrogato anche dal professore,
quindi il ragazzo aveva dovuto attendere ulteriormente invece di
arraffare il
proprio libretto e scappare via.
Per tutta
quella serie di motivi si ritrovava ad un passo dal mettersi a correre
quando mancavano
pochi minuti alle sedici e trenta, impaziente di tornare in ufficio.
Proprio
quel giorno non era solo in ritardo per il lavoro, ma anche per un
appuntamento.
Doveva
rivedersi con Sasuke e, se la cosa di per sé gli metteva
già addosso un certo
nervosismo, l’essere anche in ritardo non gli rendeva le cose
più semplici. Gli
aveva mandato un messaggio per avvisarlo, ma non aveva ricevuto
risposta e
nella sua mente venivano proiettati diversi scenari sulle possibili
cause e le
relative conseguenze, ovviamente uno più disastroso
dell’altro.
Era
appena entrato nel portone del palazzo e si dirigeva verso
l’ascensore, quando
vide uscire da lì Hiashi Hyuga col fratello.
“Gaara,
pensavamo ci avessi abbandonato, come mai questo ritardo?”
domandò l’avvocato,
serio, molto esigente riguardo la puntualità e il rispetto
degli impegni.
Il
segretario ovviamente lo aveva avvisato, ma non era sceso nei dettagli
e,
quindi cercando di controllare la voce affannata, rispose:
“Mi
spiace, ma stamattina il professor Sarutobi è arrivato in
ritardo e io sono
stato interrogato solo dopo la pausa pranzo. Inoltre
l’assistente ha insistito
perché passassi anche dal professore e sono venuto appena ho
potuto.”
Era
evidente agli occhi di entrambi che avesse corso dato che aveva ancora
un po’
di fiatone e i capelli scombinati.
“Il
professor Sarutobi? – disse Hizashi, decisamente
più morbido del fratello
sebbene sempre molto serio – Non è da tutti venire
interrogati da lui, devo
dedurre che l’esame sia andato particolarmente bene
allora.”
“Beh,
ho
preso il massimo” annunciò Gaara, provando una
certa soddisfazione
nell’affermarlo ad alta voce e vedere il volto di Hiashi
contrarsi in un lieve
moto di sorpresa.
“Bene,
mi
fa piacere – disse questi – la prossima volta che
hai un esame sarà meglio che
tu ti prenda l’intera giornata per evitare certi
inconvenienti.”
Gaara
rimase interdetto, solitamente era difficile che gli concedessero di
prendersi
anche una mattinata libera, quindi quella proposta aveva un sentore di
fantascientifico.
“Certo,
farò così, il prossimo è tra due
settimane” rispose subito, prima che cambiasse
idea.
Gli
avvocati gli riferirono di alcuni appunti urgenti che gli avevano
lasciato
sulla scrivania e il segretario fu libero di andare. Si era ripreso e
il
fiatone era scomparso, peccato che adesso fosse diviso a
metà tra la stanchezza
e il nervosismo per sapere che fine avesse fatto Sasuke.
Entrò
nello studio e aveva fatto giusto un paio di passi quando si vide
venire
incontro Hinata, curiosa riguardo al suo esame. La ragazza si
congratulò con
entusiasmo, rivelandogli che lei la prima volta era stata addirittura
bocciata
e, chiacchierando, entrarono assieme nel loro ufficio.
Gaara si
era tolto giusto la sciarpa e si stava sbottonando il cappotto quando
rimase
bloccato a fissare la scrivania di Itachi, occupata però da
un altro Uchiha.
“Sasuke…”
mormorò guardandolo e non capacitandosi che fosse ancora
lì: in tutte gli
scenari immaginati il giovane architetto se ne era sempre andato via.
“Ho
pensato di aspettarti e mettermi a lavorare un po’ visto che
avevo il
portatile, e poi c’era anche la scrivania libera”
gli spiegò, in uno sfoggio di
splendida logica. Poggiò poi una mano sulle labbra e lo
guardò; era passato
veramente troppo tempo dall’ultima volta in cui si era
specchiato in quegli
occhi chiari che lo avevano sempre lasciato senza fiato.
Gaara
finì di togliersi il cappotto e lo appese, per poi
avvicinarsi alla sua
scrivania e osservarlo alzarsi in piedi. Rimasero qualche istante a
guardarsi
negli occhi, separati solo dal ripiano in legno, prima che il
segretario
dicesse:
“Capisco,
scusa per il ritardo, ma non è dipeso da me. Comunque potevi
anche lasciarmi i
documenti e andare via, non era necessario che rimanessi fino a
quest’ora.”
Professionale,
pacato e gentile, Gaara era stato impeccabile e la sua risposta offriva
ben
pochi appigli all’altro che invece avrebbe voluto avere uno
spunto per
approfondire la conversazione. In fondo aveva aspettato più
di un’ora perché
voleva vederlo, quella del lavoro ea solo un’ottima scusa,
almeno con se stesso
riusciva ad ammetterlo.
“Volevo
farti vedere una modifica al progetto. Ho aggiunto una vetrata, in
questo modo
ci sarà il 25% di luce in più, il che
inciderà positivamente sui consumi
energetici annuali, e ci sarà solo una minima variazione del
budget preventivato.”
Gaara
annuì e fece un piccolo sorriso di fronte a quello sfoggio
di professionalità,
era evidente quanto l’Uchiha si impegnasse nel proprio lavoro.
“Certo,
ricordo che il tuo argomento di laurea fosse un’architettura
a minor impatto
ambientale. Fammi vedere allora, ma sono certo che andrà
benissimo.”
Fece il
giro della scrivania per poter vedere assieme a lui lo schermo del
computer e
Sasuke si sedette nuovamente per richiamare poi la schermata del
progetto,
cercando di non apparire nervoso, anche se non era semplice. Gaara si
ricordava
tutto quello di cui gli aveva parlato, e la cosa lo fece sentire in
difetto
perché lui invece non aveva dato peso alle poche
informazioni che l’altro si era
lasciato scappare durante il tempo passato assieme.
Accantonò
quei pensieri e prese invece a illustrargli il progetto, incontrando
come
previsto la sua approvazione. Gli consegnò poi dei documenti
necessari per
chiedere l’autorizzazione per i lavori che al massimo entro
una settimana
sarebbero iniziati. Nel frattempo Hinata li aveva salutati ed era
uscita per
una commissione e loro due erano rimasti da soli nella stanza, in un
silenzio
teso perché avevano esaurito ogni argomento di lavoro.
Gaara
stava per allontanarsi e andare alla propria scrivania ricolma di
appunti e
fascicoli, ma Sasuke lo bloccò dicendo:
“Prima
ho
sentito che parlavi di un esame, di cosa si trattava?”
Non aveva
trovato nessun appiglio per avviare una conversazione e così
aveva tirato fuori
lui la pistola e ne aveva sparato uno, sperando che fosse abbastanza
forte da
sostenere il peso dei silenzi e delle tensioni tra di loro.
“Sto
frequentando l’università, legge ovviamente. Oggi
avevo un esame, per quello ho
fatto tanto tardi” gli spiegò Gaara, un
po’ sulle spine. Non sapeva davvero
cosa aspettarsi da Sasuke e dal loro incontro. L’ultima volta
che si erano
visti l’Uchiha lo aveva baciato e poi gli aveva dato della
puttana; era passato
del tempo, Sasuke stava andando da uno psicologo e in effetti gli
sembrava
diverso. La sua espressione, la postura del corpo non ricordavano a
Gaara il
giovane arrogante che aveva conosciuto. Tuttavia anche quello poteva
essere un
inganno e lui voleva andarci cauto.
“Mentre
lavori? È un impegno piuttosto gravoso –
affermò Sasuke, sinceramente
impressionato – non frequenti le lezioni però, in
effetti non ti ho mai visto
all’università e le facoltà di
architettura e legge sono vicine.”
“No
infatti non seguo le lezioni, do solo gli esami, è
l’unico modo – confermò
infatti Gaara – in realtà questo è il
mio primo anno. Tu hai concluso e io ho
iniziato, sono un ritardatario.”
Sasuke
sorrise appena, scuotendo la testa:
“Ma
no,
capita. Sono felice che tu abbia comunque trovato un modo per fare
quello che
volevi.” Si morse un istante un labbro, chiedendosi se non
stesse esagerando,
ma lo squillo del cellulare interruppe i suoi pensieri.
Gaara lo
osservò in silenzio mentre rispondeva a un cliente.
Guardò le mani robuste con
cui lo aveva carezzato e con cui adesso si tirava indietro i capelli
corti ma
scuri come quelli di Itachi, e a quel punto per lui fu impossibile
contenere la
scarica di ricordi che aveva tenuto a bada finora.
Ripensò
ai mesi trascorsi frequentando Sasuke, la loro rottura, le settimane
passate a
scambiarsi fredde mail di lavoro, pensò anche ai baci che
c’erano stati con
Itachi, la loro discussione la notte di capodanno e capì che
l’avvocato aveva
avuto ragione. Doveva prima di tutto chiarire le cose con Sasuke,
altrimenti
non sarebbe mai riuscito a lasciarsele alle spalle e a fare chiarezza
dentro di
sé.
Quegli
ultimi mesi erano stati esplosivi sotto tanti punti di vista e Gaara
aveva il
bisogno di trovare dei punti fermi da piantare dopo che la sua vita era
stata
stravolta e mandata all’aria. Non sapeva cosa gli riservava
il futuro, non
sapeva se esisteva un futuro per lui e Sasuke, ma se non avesse
chiarito non ci
sarebbe stato un futuro e basta.
“Scusa
l’interruzione” disse Sasuke mettendo via il
cellulare.
“Figurati
– rispose Gaara per poi decidersi a dire – a
proposito di telefonate… mi ha
sorpreso quella che mi hai fatto a Natale. Mi ha fatto anche piacere,
in
realtà.”
Sarebbe
stato ipocrita negare che era stato piacevole ricevere le sue scuse o
sapere di
essere ancora nei suoi pensieri, si era persino arrischiato a prendere
in
considerazione l’eventualità che la decisione di
Sasuke di rivolgersi a uno
psicologo dipendesse in parte anche da lui.
“Ah,
beh,
non era… insomma – mormorò
l’architetto in evidente difficoltà – ti
dovevo
delle scuse e poi volevo sentirti. Chiamarti per gli auguri mi era
sembrata una
buona idea.”
A
capodanno non aveva avuto tutto quel coraggio e si era limitato a un
messaggio.
Una cosa da niente e banale per una persona qualunque, ma non per lui,
per
Sasuke quelli erano passi da gigante, dopo una vita passata a ignorare
gli
altri.
“Hai
fatto bene” gli assicurò Gaara. Era stato il primo
step verso il loro
chiarimento, un’impresa titanica per due come loro incapaci
di comunicare.
“Gaara,
io…” disse Sasuke facendo un paio di passi per
avvicinarsi ma bloccandosi
perché l’altro era indietreggiato. Lo
guardò spaesato, senza riuscire a capire
cosa fare, una parte di sé aveva anche paura che le cose
fossero così rovinate
tra loro che solo un miracolo avrebbe potuto sistemarle.
“Scusa,
io…” mormorò Gaara in
difficoltà. Il suo era stato un gesto istintivo, ma
all’improvviso l’immagine di Sasuke si era fusa con
quella di Itachi e lui
aveva avuto paura che lo baciasse di nuovo. Era confuso, incerto, e non
comprendeva
i propri sentimenti; i rumori di passi, degli altri avvocati che si
muovevano
nello studio non lo aiutavano certo a rilassarsi in un dialogo
così spinoso.
“Non
è il
momento, né il luogo per parlare”
affermò alla fine.
“Già
–
concordò Sasuke – possiamo vederci da qualche
parte fuori?”
“Penso
che sia la cosa migliore.”
Sasuke si
morse un labbro perché gli era venuto istintivo chiedergli
di vedersi al bar
dove si erano conosciuti, sarebbe stato bello poter tornare alla notte
in cui
si erano incontrati, ma non era certo che quel suo sentimento fosse
condiviso.
“Un
caffè
o una birra una di queste sere?” propose invece.
“Una
birra andrà benissimo” decise Gaara. Aveva
già preso il caffè con Kankuro e non
era andato bene, meglio cambiare bevanda.
Il
telefono sulla sua scrivania iniziò a squillare e lui
sospirò, non c’era più
tempo per pensare agli affari personali.
“Ci
mettiamo d’accordo per messaggio, ok?” disse
andando a rispondere.
Sasuke
annuì e radunò la propria roba mentre lo
osservava lavorare. In quel momento
realizzò che Gaara parlava, mangiava, sorrideva, si muoveva,
respirava in modo
autonomo, senza bisogno di nessuno e lui voleva scoprire di
più su di lui;
voleva scoprire come fosse respirare la stessa aria assieme.
L’angolino
oscuro: Ogni tanto ritornano.
È passato un pezzo dall’ultimo
aggiornamento, mi domando anche se a qualcuno importi dal momento che
ho pochi
riscontri per questa storia, ma non importa, andrò avanti
perché la amo, amo
tutti i miei personaggi e il loro lottare nella vita di tutti i giorni.
Per questo capitolo
non ho molto da dire, è
abbastanza di passaggio, la natura della relazione tra Itachi e Shisui
è
chiarita, come se ci fossero stati dubbi a riguardo, ma…
è veramente tutto qui?
Gaara ha deciso che c’è bisogno di andare fino in
fondo alla questione e quindi
dà una seconda chance a Sasuke, ma non significa che
finiranno di nuovo
insieme, è giusto un nuovo inizio, vediamo come il nostro
Uchiha problematico
riuscirà a gestirla. Titolo e parole a inizio capitolo sono
della canzone Mr.
Brightside dei The Killers.
Per oggi è
tutto, alla prossima!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** 13 - Il silenzio non è sempre d’oro ***
Il
silenzio non è sempre d’oro
“Insomma,
alla fine sono andato da mio padre e gli ho detto che mi rifiutavo di
seguire
il progetto per il nuovo grattacielo, una costruzione bellissima, ma un
ammasso
di cemento e lamiere che avrebbe distrutto l’armonia del
quartiere con quel
grande parco poco distante. E che se voleva che me ne occupassi,
pretendevo di
rifare daccapo tutto a modo mio.”
“E lui
che ha risposto?”
“Ok. Mi
ha risposto solo ok e di sbrigarmi.”
L’incredulità
sul viso di Sasuke era ancora lampante, malgrado stesse raccontando un
evento
accaduto tre giorni prima. Eppure per lui era davvero difficile credere
a ciò
che era accaduto, nonostante lo avesse vissuto in prima persona e con
la
scrivania invasa dalle carte del suo nuovo progetto, a testimonianza
della
realtà dei fatti.
Lo
psicologo si alzò e prese la scatola dei cioccolatini che
tirava fuori ogni
volta c’era qualcosa che valeva la pena festeggiare. La
posò sul tavolino in
mezzo a loro e, accomodandosi di nuovo sulla poltroncina, disse:
“Ottimo,
direi che è veramente una gran cosa, proprio da festeggiare.
Ho fatto il
rifornimento di cioccolatini fondenti, prendi pure senza timore
– lo informò –
fino a un paio di mesi fa gli avresti mai imposto un simile ultimatum,
o
avresti seguito un progetto che andava contro i tuoi ideali?”
Sasuke frugò
con lo sguardo nella scatola aperta davanti a sé, optando
poi per prendere
quello con la carta verde ripieno al caffè, il suo
preferito. Ne aveva mangiato
più di uno da quando aveva iniziato il suo percorso
terapeutico.
“No,
sarei stato zitto e avrei eseguito le direttive senza ribellarmi per
paura di
deluderlo” ammise rigirandosi tra le dita il cioccolatino,
senza ancora
scartarlo.
“Cos’è
cambiato?”
Sasuke
sospirò piano, guardando poi fuori dalla finestra.
“Io. Sono
io ad essere cambiato.”
“Nel
senso che non hai più paura di deluderlo o non ti importa se
lo fai?”
Il
ragazzo fece una smorfia che doveva essere un sorriso amaro e si mise
in bocca
il cioccolatino, sentì il gusto amarognolo stemperato dalla
crema al caffè che
gli invadeva il palato e chiuse gli occhi, godendosi quel momento.
Quando
anche le ultime tracce di cioccolato si furono sciolte,
guardò nuovamente
l’uomo che gli sedeva di fronte e, con una calma che non
avrebbe mai immaginato
di possedere, rispose:
“Ancora
non mi è del tutto chiaro. Credo che avrò sempre
paura del suo giudizio, in
fondo mio padre è la figura che ha sempre dominato la mia
vita. Però, forse,
inizio a contemplare l’idea che per renderlo felice non devo
essere io
infelice, posso trovare un compromesso e per farlo non posso continuare
a
soffocare le mie idee, le mie convinzioni e i miei desideri…
sto sbagliando,
forse?”
Era
calmo, lui che in realtà era sempre nervoso e agitato, ma si
nascondeva dietro
alla maschera della compostezza e
dell’imperturbabilità. Era evidente che quel
percorso, fatto nel tentativo di accettarsi e capire chi fosse, gli
stesse
insegnando anche a venire a patti con l’ansia o perlomeno a
gestirla, per non
dover più ricorrere a ipocrisie e altre mistificazioni per
non vedere verità
scomode o difficili da accettare.
“No, se
per te questo metodo sta funzionando, allora va bene – gli
rispose lo psicologo
– non esiste un unico modo per fare le cose nel modo giusto.
L’unico modo
giusto è quello che va bene per te e la tua situazione,
perché come noi siamo
tutti diversi l’uno dall’altro, lo sono anche le
nostre vite. Non devi per
forza spiattellare la verità in faccia a tutti se
ciò ti fa sentire a disagio,
anche se sono sicuro che i tuoi amici sarebbero felice di
ascoltarti.”
Sasuke
rifletté sulle sue parole e poi si allungò a
prendere un altro cioccolatino,
senza bisogno di sollecitazioni.
“Non è
una cosa così grandiosa, eppure mi sento fiero di me stesso,
molto più che per
altri risultati prestigiosi che ho ottenuto… mi sa che mi
sto rammollendo,
specialmente se penso di raccontare a Naruto che sono gay”
ironizzò, scartando
e mettendosi in bocca l’altro dolce.
“No,
semplicemente hai fatto qualcosa per te stesso, per difendere qualcosa
in cui
credi veramente. Hai lottato per le tue idee, Sasuke, e hai anche
vinto;
onestamente io riesco a immaginare pochissime cose più
soddisfacenti di questa.
E nemmeno il tuo amico penserebbe che tu sia un rammollito –
gli diede qualche
istante per metabolizzare quello parole, poi cambiò discorso
e chiese – quindi
ora ti occuperai solo di questo progetto?”
Il
ragazzo scosse la testa:
“No, o
lei si occupa solo di un paziente alla volta? –
ironizzò, ma senza la voglia di
pungolarlo usata nei primi tempi – Questo è il
più grosso al momento, ma ne
seguo altri, ad esempio la ristrutturazione per l’ampliamento
dello studio di
avvocati dove lavora mio fratello.”
“E Gaara
– aggiunse lo psicologo – non mi hai più
detto nulla di lui, ti va di
parlarmene?”
Non
forzava mai nessun argomento, negli ultimi incontri Sasuke non aveva
mai
nominato l’altro ragazzo e lui aveva rispettato la sua
volontà, ma giudicava
che quel giorno fosse una buona occasione per domandare. Decidere se
rispondere
toccava a Sasuke, come per ogni altra cosa.
“Non c’è
molto da dire – ammise l’architetto – ci
siamo rivisti ai primi di gennaio come
le avevo detto, abbiamo parlato e lui ha accettato di uscire una sera
per una
birra e parlare un po’. Però in questo periodo
è molto impegnato tra studio ed
esami, si è iscritto all’università
come studente lavoratore, sa? Quindi non ho
insistito, ma ci siamo sentiti per messaggio, gli ho augurato buona
fortuna
prima di un esame che aveva ieri e lui mi ha fatto sapere come era
andato. Ci
siamo visti brevemente un paio di volte perché i lavori di
ristrutturazione
sono iniziati, ma abbiamo discusso solo di questo.”
Lo
psicologo lo osservò giocherellare con le cartine vuote dei
cioccolatini,
guardare fuori dalla finestra e infine fissarsi le mani alla fine del
racconto.
“E come
stai vivendo la cosa? Mi sembra un ragazzo molto impegnato”
commentò solamente.
“Già, lo
è. Sinceramente non so se al posto suo sarei riuscito a fare
le stesse cose, io
ho solo studiato senza lavorare, eppure ricordo che in alcuni periodi
mi
chiudevo addirittura in casa per preparare un esame e non riuscivo a
fare
altro. Per questo motivo non sto insistendo, anche
se…” si morse un labbro.
“Se?” lo
incoraggiò.
Sasuke
strinse con forza le labbra e le sue orecchie divennero rosse, come se
fosse
stato una pentola a pressione che però si rifiutava di
lasciar uscire il
vapore.
“Ho
voglia di vederlo – sbottò infine –
vorrei riprendere i discorsi lasciati in
sospeso, ma non posso pretendere che lui segua i miei desideri e basta,
credo
di volere qualcosa di più di una scopata da lui. Anche se
all’epoca non me ne sono
reso conto, avevamo iniziato a costruire quel qualcosa: mi fermavo a
dormire da
lui, a poco a poco avevamo iniziato a parlare di altro oltre al sesso o
alle
frecciatine ironiche, ma poi è andato tutto a puttane, anzi,
ce l’ho mandato io.”
Sospirò e
poggiò la nuca contro lo schienale imbottito, fissando il
soffitto. Non era
affatto piacevole ammettere i propri sbagli, assumersi le proprie
responsabilità, ma lo faceva, non si nascondeva
più dietro ad un dito.
Probabilmente gli sarebbe venuta una gastrite come conseguenza, ma lo
trovava
un giusto compromesso.
“Pensi di
essere innamorato?”
Sasuke
rifletté a lungo, sempre con lo sguardo puntato sul soffitto
bianco,
distinguendo anche una piccola ragnatela in un angolo e chiedendosi se
il
proprietario non si stesse facendo grasse risate sentendo tutti i
giorni casi
umani come lui.
“Non
credo di aver ben chiaro cosa sia l’amore, a parte
l’affetto che provo per la
mia famiglia o i miei amici, quindi penso di no. Semplicemente mi
piace, mi
trovo a pensare a lui, a quanto sia piacevole stare in sua compagnia e
a
desiderare passare più tempo con lui – lo
guardò – è amore questo?”
“Lo
scoprirai – sorrise ambiguo lo psicologo – come
scoprirai tante altre cose. Per
il momento va anche bene che prendiate le cose con calma, in fondo hai
altre
cose a cui dedicarti, altri progetti.”
Sasuke
sbuffò perché trovava irritante la mancanza di
risposte dirette dell’uomo,
d’altra parte era stato chiaro: lui non forniva risposte, era
Sasuke a doverle
trovare.
“E quali
progetti? Sentiamo.”
“Dobbiamo
ancora finire di pulire quel bel teatro, togliere di mezzo alcuni
vecchi
scatoloni polverosi e fare gli inviti, il primo è stato per
tuo fratello, non
pensi che anche il tuo amico Naruto se ne meriterebbe uno?”
Sasuke lo
guardò con un evidente disgusto e storse le belle labbra
come se avesse
addentato un frutto acerbo:
“Lei fa
veramente schifo con le metafore, lo sa?”
“Forse,
ma quella del teatro non è mia, lo sappiamo
entrambi.”
Sasuke
ripensò a quella volta in cui quelle parole assurde gli
erano sfuggite di
bocca, un paragone davvero poetico e improbabile detto da lui.
“Fanculo”
sospirò soltanto, tornando a fissare il soffitto e gli
sembrò che la ragnatela
vibrasse, evidentemente quello stronzo di ragno si stava veramente
ammazzando
dalle risate.
***
Gaara
guardò il liquido ambrato che aveva nel bicchiere e
annusò discretamente quel
superbo whisky, distinguendo il delicato aroma di miele avvolto da un
sottofondo legnoso discreto. Deidara e Hidan gli avevano insegnato a
distinguere un liquore di qualità o anche un cocktail degno
di quel nome da uno
scadente; erano strambi e con qualche rotella fuori posto, ma nel loro
lavoro
erano dei professionisti. Anche il sapore del whisky era altrettanto
eccellente
e lui centellinò ogni sorso mentre discorreva con chi lo
circondava.
Quel
giorno Itachi e Neji Hyuga, il nipote di Hiashi e figlio di Hizashi,
erano
diventati a tutti gli effetti soci dello studio, era ufficiale. Per
quel motivo,
una volta usciti dall’ufficio, erano andati a bere qualcosa
per festeggiare e
Gaara era stato incluso nell’invito per
l’insistenza di Itachi e Hinata. Aveva
accettato anche se un po’ titubante, inoltre
l’espressione arcigna di Neji
faceva capire chiaramente quanto detestasse la sua presenza
lì. Gli altri
avvocati erano più tranquilli, non lo riconoscevano come un
loro pari, ma lo
trattavano con la solita familiarità, a volte condita anche
da un velo di
condiscendenza che il segretario mal sopportava. Stringeva i denti e
faceva
finta di niente, dicendosi che era solo questione di tempo prima che
potesse
fregiarsi del loro titolo e smettere di essere trattato con quella
gentile
indifferenza.
Il lounge
bar dove si trovavano era piuttosto lussuoso coi suoi divani bianchi e
i
lampadari di cristallo che scendevano dal soffitto, inondando la sala
con le
loro gocce di luce; nemmeno il locale dove lavorava Hidan era tanto
pretenzioso
e per Gaara era la prima volta in un posto del genere. Non
dimostrò il suo
disagio, mascherandolo sotto il solito velo di
imperturbabilità, si limitava a
intervenire nella conversazione se interpellato e a godersi il suo
drink,
amando la sensazione di leggerezza alla testa che gli stava regalando.
Fino a
nemmeno mezz’ora prima aveva avuto la certezza che non
sarebbe mai più riuscito
a rilassarsi, o a non essere tormentato da miliardi di preoccupazioni
diverse.
Una volta
finito quel piccolo intermezzo di festeggiamenti, ognuno
andò nella propria
direzione: i vari avvocati avevano le loro famiglie ad attenderli, in
particolar modo quella sera gli Hyuga si sarebbero riuniti per una cena
formale
per festeggiare il giovane Neji. Alla fine Gaara si ritrovò
da solo con Itachi
e rimasero un istante in silenzio a guardarsi, senza sapere bene come
dissipare
quel velo di tensione tra di loro, mentre la gente attorno a loro
continuava a
camminare, incurante dei loro turbamenti.
Erano
passate due settimane da quanto accaduto a capodanno e i due avevano
ripreso a
lavorare come sempre, a volte si trovavano persino a chiacchierare come
se
niente fosse successo tra di loro, come se quei baci e le emozioni che
li
avevano accompagnati non fossero mai esistiti. Per Gaara era stato
strano, ma
si era adeguato e poi aveva veramente troppe cose a cui badare per
andarsi a
cercare anche altre preoccupazioni.
“Beh,
ancora congratulazioni. Immagino che stasera festeggerai anche
tu” si decise
finalmente a dire il segretario, spezzando quel silenzio teso.
Itachi fissò
il suo naso rosso al pari delle guance e sorrise, pensando che il
freddo stava
sicuramente giocando lo stesso scherzetto anche al suo viso.
“No, in
realtà no. Non ho detto a nessuno che oggi sarei diventato
associato – gli
rivelò – abbiamo una bevuta in sospeso noi due,
vuoi farmi compagnia?”
Gaara lo
fissò perplesso e strinse più forte con la mano
una cinghia dello zaino che
teneva in spalla. Gli eventi avevano dimostrato che loro due
più l’alcool
potevano essere una combinazione pericolosa, ma non credeva che
l’Uchiha avesse
chissà cosa in mente, probabilmente voleva solo parlare.
Forse non era una
cattiva idea, almeno avrebbero potuto chiarire meglio la situazione tra
di
loro, invece di fare finta di niente.
“Basta
che mangiamo anche qualcosa o dovrai portarmi a casa in
spalla” scherzò,
sebbene quel whisky a stomaco vuoto gli aveva già fatto
girare la testa.
“Penso
che pur di vederti mangiare sarei disposto a qualsiasi cosa”
sorrise Itachi,
incamminandosi.
“Esagerato”
sbuffò Gaara seguendolo, pensando però che in
effetti l’altro gli allungava
sempre un cioccolatino quando ne prendeva uno per sé.
Itachi
avanzò sul marciapiede gelato in silenzio, con le mani
affondate nelle tasche
del cappotto, ma dopo un paio di passi girò la testa verso
di lui, verso quella
chioma esuberante che nemmeno le luci fioche dei lampioni riuscivano a
smorzare.
“Un po’
scherzavo, ma ero anche serio. Ti trovo sempre molto magro, quasi
troppo. Il
maglione che ti ho regalato a natale ti va ancora piuttosto morbido.
Non voglio
essere ficcanaso o presuntuoso, mi preme solo che tu stia
bene.”
Forse
l’aperitivo aveva sciolto anche a lui la mente e la lingua,
la verità era che
avrebbe voluto dirgli quelle cose da parecchio, ma si era sempre tirato
indietro per rispettare la sua privacy; quella sera però le
parole erano
scivolate fuori di bocca con naturalezza, così come la
proposta di continuare
la serata assieme.
Gaara non
rispose e continuò a camminare con la testa chinata, il viso
quasi
completamente nascosto dalla morbida sciarpa di Hinata.
Entrò nel locale,
rabbrividendo per lo sbalzo di temperatura, e continuò a
seguire l’avvocato
fino a un tavolo libero a cui si accomodarono. Il locale era un pub
piuttosto
informale, con della musica che risuonava dalle casse disposte
strategicamente
qua e là, un posto ben diverso da quello in cui erano stati
prima. Gaara lesse
il menù e, vedendo la vasta scelta di cibo,
sospirò per poi alzare lo sguardo
su Itachi e finalmente rispondere:
“Sto
bene, Itachi. Nei mesi passati la mia vita ha subito qualche grosso
scossone e
ne ho risentito, adesso va meglio, ma io ho un sacco di cose di cui
occuparmi. Mi
sembra che in ufficio la mole di lavoro sia aumentata e questo
è periodo di
esami all’università, a volte la sera sono
così stanco che non ho nemmeno
voglia di mangiare. Devo solo tenere duro, finito il periodo di esami,
andrà
meglio e riuscirò a rilassarmi, non serve che ti preoccupi,
ma… grazie per
l’interessamento.”
Aveva
atteso per rispondergli perché si vergognava ad ammettere le
sue debolezze, ma
di fronte alla sua genuina preoccupazione espressa in modo
così accorto non era
riuscito a fare finta di nulla.
I suoi
problemi economici non erano finiti, doveva ancora restituire una certa
somma a
Hidan, ma il periodo critico era passato, ora poteva tornare a fare una
spesa
adeguata, peccato che gli mancassero le forze e la voglia di cucinare,
limitandosi ad aprire una scatoletta o due. Poi studiava
finché non crollava
dal sonno e il giorno seguente era identico al precedente.
Aveva
così tante cose a cui badare che non era nemmeno
più uscito con Sasuke nonostante
se lo fossero ripromessi, si sentiva lievemente in difetto ad averlo
fatto
prima con Itachi, ma era un caso che quella sera fossero lì
insieme, non era
stato pianificato nulla.
“Ogni
tanto potresti venire a fare la pausa pranzo con me, così
risolveresti il
problema” gli propose Itachi, affabile.
Gaara
scosse la testa:
“Scusa,
ma quelle due ore sono veramente preziose. A volte riesco a studiare
più
durante la pausa che non la sera. Magari dopo che sarà
finita la sessione.”
“Ma
certo, scusa ancora se mi sono intromesso, sono solo felice che le cose
ti
vadano meglio – fece una pausa e si umettò le
labbra prima di chiedere – anche
Sasuke c’entra qualcosa coi problemi che ti hanno
travolto?”
Gaara
sospirò riaprendo il menù per scegliere e decise
di non mentire, pur non
scendendo nei particolari:
“In
pratica è iniziato tutto da quando abbiamo rotto, da
lì in poi è stato un
continuo, una serie di sfortunate coincidenze.”
Era la
pura verità, non portava nemmeno più rancore a
Sasuke per quanto successo, se
ne era reso conto dopo aver ricominciato a rivederlo per via del
lavoro.
D’altra parte, se così non fosse stato, non
avrebbe mai accettato di uscire di
nuovo con lui. Si sentì strano a parlarne con Itachi, suo
fratello, ma in un
certo senso era liberatorio.
Arrivò un
cameriere a prendere le ordinazioni, costringendoli a interrompere la
conversazione e, solo quando furono nuovamente soli, con le birre
davanti,
Itachi parlò nuovamente:
“Mi
spiace che mio fratello sia stato il principio di un periodo tanto
difficile
per te, ora come va tra di voi?”
Gaara
scrollò le spalle per minimizzare le sue parole:
“Te l’ho
detto è stata solo una serie di pessime e sfortunate
coincidenze – tacque un
attimo – non so bene. Avevamo detto di uscire, ma sono
così impegnato che
sinceramente non ho avuto neanche modo per pensarci. Ci siamo visti
solo
brevemente per lavoro e ogni tanto ci scambiamo dei messaggi, ma non so
bene
cosa significhi tutto ciò, è ancora tutto molto
confuso.” Lo guardò negli
occhi, serio “Ti ha detto qualcosa su di me?”
Itachi
bevve un sorso della sua birra, nascondendo le labbra dietro al
bicchiere
assieme al sorriso spontaneo che le aveva piegate: Gaara era
interessato alla
sua risposta, si preoccupava di ciò che pensava Sasuke.
“No, solo
che vi sentite – rispose – ammetto di aver sentito
poco mio fratello
ultimamente, anche lui è molto impegnato con un grosso
progetto.”
“Il
grattacielo giusto?” intervenne Gaara.
Itachi
inarcò appena le sopracciglia:
“Già, il
grattacielo” sorrise. A quanto pareva Sasuke aveva raccontato
all’altro più
cose di quanto gli avesse fatto intendere, forse il momento del loro
appuntamento era più vicino di quanto entrambi pensassero.
“Posso
chiederti come mai non hai detto niente alla tua famiglia della
promozione?” si
arrischiò a chiedere Gaara, bevendo un sorso di birra e
prendendo una manciata
di noccioline mentre attendeva la cena.
“Mi
sembra giusto, finora ho fatto io le domande indiscrete –
replicò Itachi con
leggerezza – forse mi andava solo di tenere la cosa per me
per qualche tempo.
Faccio fatica a raccontare quello che mi riguarda, anche le cose belle,
ma
glielo dirò, non temere.”
“I tuoi
amati segreti, giusto?” replicò Gaara ed entrambi
sorrisero, perché ne
condividevano uno. “Che tipi sono i tuoi genitori?
– domandò poi il segretario,
incuriosito – Di tua madre non so nulla, se non che
è molto bella, di tuo padre
so che è molto severo, o almeno così mi ha
accennato Sasuke una volta.”
“Stai
tentando di capire che razza di mostri devono essere per aver creato
due figli
come noi? – ironizzò Itachi – Mia madre
è piuttosto affettuosa e ironica, ma
non ha mai mancato di sgridarci se ce lo meritavamo, credo sia il
giusto grado
di dolcezza e severità. Mentre mio padre… beh,
diciamo che lui è un uomo
vecchio stampo, inflessibile. Non è semplice averci a che
fare, ci ha sempre
pungolati per non adagiarci sugli allori e dare il massimo,
è stato anche
crudele a volte. Non che intendesse farlo coscientemente, ma lo
è stato.”
Si sentì
un po’ in difficoltà a parlare così
apertamente dei propri genitori,
specialmente di Fugaku, ma forse ciò poteva aiutare Gaara a
capire meglio
alcune scelte di Sasuke. Avrebbe voluto chiedergli a sua volta dei
genitori, ma
scelse di non toccare un argomento così delicato
ricordandosi che l’altro era cresciuto
in orfanotrofio.
Gaara a
sua volta non gliene parlò spontaneamente, bensì
iniziò a mangiare lentamente
il piatto che gli avevano appena portato. Per un paio di minuti
rimasero in
silenzio, ma poi la curiosità di Itachi ebbe la meglio:
“Ho
notato che Neji non ti vede proprio di buon occhio, è
successo qualcosa in
passato?”
Gaara
mandò giù un boccone e si finse pensieroso:
“Evidentemente
ancora non ha superato il fatto di essere stato sedotto e
abbandonato.”
Scoppiò a
ridere di fronte alla faccia sbigottita di Itachi e il suo scherzo non
durò a
lungo, così si affrettò a chiarire con ancora il
sorriso sulle labbra “Scherzo
ovviamente, figurati se potrebbe mai succedere una cosa simile
– poi si fece
serio – all’inizio era normale. Non era certo
gentile come Hinata, ma era normale,
molto educato e formale. È cambiato quando ho annunciato la
mia intenzione di
iscrivermi all’università, un giorno
sbottò dicendo che stavo facendo una
stupidaggine, che ero in ritardo per gli studi e che era inutile. Per
quanti
sforzi avrei fatto non sarei mai riuscito a diventare niente
più che un segretario,
quello è il mio posto.”
Conoscendo
la persona in questione, Itachi non faticò a credere alle
sue parole e domandò:
“Tu cosa
hai risposto?”
“Gli ho
detto cortesemente di pensare ai suoi affari, io avrei pensato ai
miei.”
“Non ti
sei lasciato abbattere, continua così, diventerai un ottimo
avvocato.”
Era raro
che Itachi si complimentasse con qualcuno, ma più passava il
tempo più trovava
lati da ammirare in Gaara, dalla sua ironia affilata alla
serietà e all’impegno
che metteva in ogni cosa.
“Figurati
se le parole di un ragazzo come lui possono mai toccarmi. Dopo aver
vissuto per
strada ed essere arrivato fino qui da solo, nessun Neji al mondo
potrà mai
scoraggiarmi.”
Si rese
conto di aver rivelato un po’ troppo e si affrettò
a riempirsi la bocca per
evitare di dire cose di cui si sarebbe potuto pentire. Itachi in
effetti lo
guardò stranito e domandò:
“Hai
vissuto per strada?”
Attese
che l’altro mandasse giù il boccone e lo
guardò negli occhi chiari, finché
Gaara non si decise a parlare:
“A sedici
anni sono scappato dalla famiglia adottiva da cui stavo da qualche mese
e mi
sono arrangiato come ho potuto. Non è qualcosa di cui parlo
volentieri, scusa.”
Itachi
capì che non si sarebbe sbottonato più di
così e lo rispettò. Lo guardò con
rinnovata ammirazione, perché quel ragazzo aveva vissuto
qualcosa che lui non
riusciva nemmeno a concepire. Era fuggito dalla sicurezza di una casa,
provvedendo
poi a sostenersi quando non era nemmeno maggiorenne; una bella
differenza con
lui che era andato via di casa a diciannove anni, aiutato da una madre
che ogni
tanto gli passava del denaro all’insaputa del padre. Si era
addirittura creduto
tanto forte per essersi arrangiato solo con quei soldi e la borsa di
studio ma,
davanti a Gaara e alle sue esperienze, si rese conto di potersi
considerare
ancora un privilegiato.
“Sappi
che ti stimo ancora di più” disse per concludere
quel discorso e vide le guance
del ragazzo colorirsi, ma quella volta non era colpa del freddo.
“Sono
contento che la cena ti stia piacendo – cambiò
discorso – spero che tu abbia
spazio per il dolce, qui sono ottimi.”
“Conoscendoti
non ne avevo dubbi, Itachi” sorrise, ricambiato
dall’altro. Erano entrambi felici
di trovarsi lì e di essere riusciti a trovare una nuova
intesa.
***
Sasuke guardò la
distesa di roba che invadeva
il pavimento, tanto che, chi fosse entrato nella stanza, avrebbe potuto
pensare
che non esistevano mattonelle ma ogni cosa poggiava su cartacce
multicolor,
briciole e bottiglie vuote.
“Naruto,
la tua camera è davvero un porcile, lo sai vero?”
sbuffò, spostando un cartone
della pizza vuoto per potersi sedere più comodamente.
Stavano giocando assieme
alla playstation, dopo aver strappato con forza e ostinazione un
po’ di spazio
al mare di lerciume per poggiare dei cuscini a terra davanti alla
televisione.
“Quante
storie per due cartacce” mugugnò
l’altro, osservando una busta di patatine fare
capolino da sotto il letto.
“Mi
sorprende che Hinata non ti sgridi, lei è così
ordinata! Anzi, aspetta… mi
sorprendo che si sia messa con te, prima di tutto.”
“Ho molte
qualità nascoste” ridacchiò Naruto,
senza scomporsi minimamente di fronte alle
battute sarcastiche dell’amico.
“Ah,
quindi ha un animo da speleologo, perché queste
qualità sono nascoste davvero
in profondità – lo rimbeccò ancora
– vorrei proprio sapere quali sono.”
“Per
esempio il cazzo grosso” rispose Naruto in assoluta
serietà, con lo sguardo
concentratissimo sulla partita.
Sasuke
invece si voltò a fissarlo, senza parole, dimenticandosi di
ogni altra cosa che
stava facendo, permettendo addirittura all’amico di vincere
visto che in
pratica aveva smesso di giocare.
“Evvai,
ho vinto! Ti ho stracciato Sasuke puzzone!” esultò
euforico visto che non
succedeva spesso.
L’architetto,
leso nell’orgoglio, gli tirò quel cartone della
pizza, beccandolo con lo
spigolo in pieno stomaco.
“Idiota!
– esclamò – Mi ero distratto un attimo
per l’enorme cazzata che hai detto, non
esaltarti a questo modo.”
“Sei solo
invidioso perché sai che è vero” rise
Naruto, ignorando il reale turbamento
dell’amico.
Sasuke
infatti ripensò alle docce fatte insieme a scuola dopo gli
allenamenti e il
disagio provato, i suoi tentativi di non sbirciarlo, di ignorare le
sensazioni
nel vedere un altro corpo maschile nudo, la profonda vergogna e il
senso di
colpa che lo mangiavano vivo assieme alla testardaggine con cui negava
le
proprie inclinazioni. Si era persino fidanzato con una sua amica
d’infanzia che
era da sempre innamorata di lui, ma non aveva funzionato, dopo poco
l’aveva
lasciata, disgustato da se stesso e anche più spaventato.
Si alzò,
calciando via il cuscino su cui era seduto e si diresse verso la porta
senza
dire una parola. In quel momento delicato della sua vita sentiva di
essere
troppo esposto, che se avesse aperto la bocca anche solo per mandarlo a
fanculo
sarebbe stato troppo, non sarebbe più riuscito a
richiuderla, con conseguenze
disastrose.
Naruto
rimase interdetto, si aspettava qualche rispostaccia, un proseguo del
battibecco, come facevano sempre per poi scoppiare a ridere insieme.
Avrebbero
continuato a giocare, ordinato una pizza e chiacchierato fino a tardi.
Non
capiva proprio perché Sasuke all’improvviso stesse
reagendo in quella maniera,
ma non perse tempo e lo seguì, bloccandolo in corridoio.
“Ehi, che
c’è? Non è una tragedia avercelo
piccolo, dai. Sakura non se ne è mai
lamentata” gli disse, tentando ancora di scherzare, ma si
rese conto che non
era la strategia giusta. Aveva poggiato una mano sulla sua spalla e
guardava la
schiena e la nuca dai capelli scuri dell’amico, avvertendo
sotto al proprio
palmo quanto stesse fremendo, quasi fosse un animale pronto a spiccare
il salto
e sbranare la preda.
Sasuke
però non fece niente di tutto ciò, si
limitò a scrollarsi di dosso la mano e a
riprendere a camminare.
Naruto,
testardo come al solito, gli fece fare solo un paio di passi prima di
bloccarlo
di nuovo, ma stavolta lo spinse contro il muro costringendolo a
guardarlo in
faccia.
Osservò
la sua pelle ancora più pallida del solito, gli occhi duri e
le labbra tanto
compresse da diventare invisibili. Era accaduto qualcosa di grave che
non aveva
compreso, ma non avrebbe mai permesso che il suo migliore amico se ne
andasse
via in quelle condizioni: Sasuke nel suo incessante bisogno di
dimostrare di
essere autosufficiente, di non avere bisogno di niente e nessuno, aveva
provato
più volte in passato ad allontanarlo. In realtà
Naruto aveva sempre creduto che
l’altro lo stesse mettendo alla prova, testando se davvero il
loro legame fosse
così forte come il biondo esagitato proclamava. Naruto
però, in ogni occasione,
gli aveva sempre dimostrato che non lo avrebbe mai lasciato indietro,
non si
sarebbe svegliato una bella mattina decidendo di averne abbastanza di
quell’Uchiha borioso e acido. Era stato difficile rimanergli
accanto,
percorrere la strada di cocci che conduceva da Sasuke, ma lui ci era
riuscito,
coi piedi sanguinanti e il sorriso sulle labbra si era guadagnato la
sua
fiducia. Non aveva quindi intenzione di tollerare un simile
comportamento da
parte sua, non se lo sarebbe lasciato scappare come acqua tra le dita;
era
intollerabile capire di ignorare qualcosa su Sasuke, qualcosa che
l’altro non
gli aveva confidato.
“Adesso
ti calmi e mi dici che cazzo ti è preso – gli
disse serio, col volto vicino al
suo – che c’è? Ti è
già arrivato il ciclo questo mese? O hai bisogno di una
scazzottata?”
Sasuke
fissò quegli occhi azzurri tanto sinceri che non
nascondevano l’irritazione,
così come erano incapaci di celare qualsiasi altro
sentimento. Naruto era così:
non aveva paura di esporsi, non era come lui e lo odiò per
questo. Un fiotto
improvviso di odio gli salì da dentro e gli corrose la gola,
perché in quel
momento si sentiva braccato e ferito come una gazzella inseguita da un
ghepardo. Odiava sentirsi così fragile, si era riscoperto
sensibile alle
opinioni delle poche persone a cui teneva, in quel momento odiava
Naruto perché
lo stava costringendo a rivelare qualcosa che avrebbe distrutto il
rapporto tra
di loro. Ma era troppo per Sasuke, troppo odio da contenere, gli
scivolava
dalle labbra, colava dal naso, dalle orecchie, creava rivoli sulla sua
pelle,
giù per il collo, impregnando i suoi abiti, il petto, tutto
il suo corpo fino a
rivestirlo.
“Sono
gay, Naruto. Un fottuto frocio che sa bene quanto hai grosso il cazzo
perché te
lo guardavo.”
Vide la sorpresa
sbocciare nei suoi occhi azzurri, lasciando poi il passo alla
comprensione, era
certo che il disgusto sarebbe arrivato di lì a poco.
Chissà cosa avrebbe detto
il suo psicologo, se sarebbe stato fiero del suo modo di fare gli
inviti,
probabilmente no, gli avrebbe detto che aveva ancora molta strada da
fare e non
gli avrebbe offerto nessun cioccolatino.
Chi
se ne frega, tanto nessuno entrerà mai in
quel fottuto teatro.
Sasuke
decise di andare fino in fondo, di lanciare le ultime bombe per rompere
del
tutto quel ponte, il legame che aveva resistito per tanti anni; era
doloroso, ma
lui era deciso ad andare fino in fondo, perché non vedeva
proprio come la loro
amicizia potesse sopravvivere dopo la sua rivelazione.
“Levati
di torno e fammi andare” disse ancora, sempre con la voce
grondante veleno.
Naruto
però non sembrava intenzionato a spostarsi, gli stava ancora
di fronte, troppo
vicino e con le braccia distese lungo il corpo. Il disgusto ancora non
gli
aveva distorto i lineamenti, né gli occhi e Sasuke ne rimase
interdetto, perché
l’amico sembrava più che altro confuso
e… dispiaciuto. Aprì di nuovo la bocca
per intimargli nuovamente di levarsi, ma Naruto lo precedette e lo
abbracciò
con forza.
“Scusascusascusascusascusa
– sciorinò tutto d’un fiato –
è colpa mia, tutta colpa mia che sono troppo
bello. Potrai mai perdonarmi?”
Sasuke era
immobile tra le sue braccia, sembrava una statua di marmo incapace di
muoversi,
per qualche istante non respirò nemmeno.
Prese poi
un respiro profondo e alzò lo sguardo al soffitto, mentre
sentiva la testa
dell’amico posarsi sulla sua spalla, i capelli biondi che gli
solleticavano il
collo e la sua stretta ferrea, perché Naruto non lo avrebbe
mai lasciato
andare. Gli parve di vedere un po’ sfocato, sicuramente gli
era entrata un po’
di polvere negli occhi e glieli stava facendo lacrimare, con quella
camera
sporca in cui era stato non c’era da stupirsene.
“Sei un
idiota di proporzioni olimpioniche” mormorò con
voce stranamente nasale.
“Vero?”
replicò Naruto e Sasuke sentì che sulle sue
labbra c’era un sorriso.
Sasuke
guardò la pizza fumante nel cartone davanti a lui. Alla fine
Naruto aveva
decretato che davanti a del cibo ogni cosa sarebbe stata più
semplice e aveva
ordinato la pizza condita con ogni cosa, se avesse potuto ci avrebbe
fatto
mettere anche il cuoco.
Mentre
aspettavano, avevano dato una ripulita a quella che Naruto continuava a
chiamare
camera e Sasuke porcile, così alla fine si erano sistemati
sul letto rifatto
con lenzuola pulite e col cartone tra di loro.
“Allora,
raccontami” lo incoraggiò Naruto senza guardarlo,
perché impegnato a seguire i
filamenti di mozzarella e gli altri condimenti che minacciavano di
strabordare
dalla fetta.
Sasuke
non aveva molta fame, anzi aveva proprio lo stomaco chiuso, ma prese lo
stesso
un pezzo consapevole che l’amico altrimenti lo avrebbe
assillato, come anche se
non avesse parlato.
“Non c’è
molto da dire, sono gay ma non ho mai avuto il coraggio di ammetterlo e
solo
adesso ci sto riuscendo… più o meno.”
Naruto lo
fissò, pensoso mentre masticava velocemente e innaffiava i
bocconi con qualche
sorso di coca-cola.
“Quel più
o meno che vuol dire? A Itachi lo hai detto?”
“Sì, solo
a lui” confermò Sasuke, dando un piccolo morso
alla fetta e rigirandoselo tra
la bocca senza voglia.
Naruto ne
prese un’altra e la attaccò con molto
più entusiasmo:
“Beh, in
effetti non ti ci vedo a parlarne con Fugaku –
affermò – ad ogni modo sono solo
fatti tuoi chi ti piace portarti a letto, la tua vita sessuale non
riguarda gli
altri.”
Notò
l’occhiata sbalordita dell’amico e, ridacchiando,
aggiunse “Cosa
c’è? Ti aspettavi che ti dicessi che
dovevi sbandierarlo al mondo, comprare un’inserzione suo
giornale e cose
simili? Naaa, queste cose potrebbero funzionare con me,
perché non me ne frega
niente, non per te, non hai il mio carattere per tua
sfortuna.”
“Punti di
vista” replicò Sasuke, ma senza essere caustico
come al solito, era ancora
troppo impressionato dall’accortezza mostrata
dall’altro.
Rimasero
in silenzio un po’, mangiando e basta finché
Naruto, arrivato a più di metà
pizza e altrettanta bibita, si voltò a guardarlo con
un’espressione strana,
divertita e quasi compiaciuta:
“Quindi
Gaara non era un tuo amico.”
Sasuke
posò la fetta che teneva ancora in mano e si pulì
con un tovagliolo le dita un
po’ unte, chiedendosi chi avesse rapito quel tonto del suo
migliore amico,
sostituendolo con quel ragazzo perspicace e profondo.
“No, non
era un amico” confermò a fatica, quasi
ringhiandole quelle parole.
“E non vi
siete lasciati molto bene, immagino” continuò
Naruto nel suo sfoggio intuitivo.
“No,
infatti – rispose Sasuke per poi guardarlo – come
l’hai capito?”
Naruto si
grattò la punta del naso e poi si pulì la faccia
sporca col tovagliolo prima di
rispondere:
“Beh,
sai… stavo facendo vagare la mente tra i ricordi –
disse ignorando l’altro
borbottare qualcosa a proposito di viaggi corti – ora che mi hai detto che ti
piacciono gli
uomini, alcune cose mi sono risultate più chiare e mi sono
ricordato di Gaara.
La sua faccia era molto simile alla mia ogni volta che Sakura mi dava
un due di
picche, almeno prima che mi arrendessi con lei e ti ci mettessi tu. Tra
l’altro
non deve essere stato facile per te, fidanzarti con lei
intendo.”
Dimostrò
di comprendere persino i motivi che avevano spinto Sasuke a quella
decisione,
benché l’altro non
avesse detto una sola
parola a riguardo.
L’Uchiha
si vergognò di fronte a quell’ennesima
dimostrazione di affetto e comprensione,
pur sapendo che Naruto aveva un sacco di qualità, non lo
credeva capace di
parlare con tanto tatto, visto che solitamente apriva la bocca e diceva
quello
che gli passava per la testa senza alcun filtro.
Chinò la
testa, osservando quella pizza invitante che proprio non riusciva a
mandare
giù, era quasi difficile quanto parlare e dire finalmente la
verità.
“No, non
è stato facile, ma stavo cercando di ingannare me stesso e
di negare quello che
provavo. Sono stato stronzo – ammise con molta fatica
– e anche con Gaara, però
lo sto sentendo di nuovo e vorrei provare a sistemare le
cose.”
“No non
sei stronzo, sei solo un idiota – Naruto gli
restituì l’insulto che l’altro
solitamente riservava a lui – dovevi parlarmene tempo fa, che
senso ha avere un
amico fantastico come me se poi non mi parli. Ti avrei anche concesso
di
guardarmi il pene da vicino.”
“A chi cazzo
vuoi che interessi il tuo pene? – scattò Sasuke
inviperito – E non gongolare
così tanto o ti prendo a pugni.”
Naruto
rise, prendendo un’altra fetta di pizza:
“In
futuro vedi di venirmi a raccontare come va e soprattutto di chiedermi
consigli, sei un disastro in questioni amorose o relazionali.”
“Ha
parlato l’esperto” borbottò Sasuke.
“Io
intanto sono fidanzato – gli fece notare – mangia o
la finisco tutto io.”
Sasuke
sospirò e prese una fetta, forse iniziava ad avere fame, in
fondo dopo essersi
svuotato di quei pesi aveva un certo vuoto da colmare.
Mangiarono
in silenzio un altro po’, almeno fino all’ennesima
folgorazione di Naruto.
“Sasuke?”
“Che
c’è?”
“Ma com’è
il sesso tra uomini?”
Il
ragazzo quasi si strozzò con il boccone e si
attaccò alla bottiglia di
coca-cola per mandarlo giù, guardandolo con la faccia rossa
per lo sforzo.
“Ma sei
scemo? Che diavolo vai a chiedere?” disse tra un colpo di
tosse e l’altro.
“Eddaiiii!
Sono curioso!” esclamò invece Naruto col suo
solito sorriso.
“Scordati
che io parli di sesso con te” disse lapidario, alzandosi.
“Su dai,
non essere timido. Sasuke? Sasuke dove vai? Ehi, riporta le tue pallide
chiappe
Uchiha qui, non ti lascerò andare finché non mi
avrai raccontato tutto, Sasuke
non scappare via! Sasuke!”
Lo
inseguì ridendo e braccandolo per riportarlo in camera di
peso, perché Naruto
non aveva nessuna intenzione di lasciare andare via l’amico
per alcuna ragione
al mondo, sarebbe sempre stato al suo fianco, che Sasuke lo volesse o
meno.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** 14 - La cioccolata, come le paure, non si lava via con l’acqua, ma per tutto c’è un rimedio ***
every 14
La
cioccolata, come le paure, non si lava via
con l’acqua, ma per tutto c’è un rimedio
Mikoto
guardò con sincero affetto i tre uomini che sedevano a
tavola assieme a lei.
Non aveva più senso parlare di ragazzi, perché i
suoi figli oramai si erano
lasciati alle spalle ogni brandello di adolescenza, trasformandosi in
splendidi
giovani uomini di cui era tremendamente orgogliosa.
Lo era
anche di suo marito perché, pur continuando a rimanere la
persona di saldi
principi che aveva conosciuto, era riuscito a cambiare, ad ammorbidirsi
per
riuscire ad accettare le decisioni diverse di Itachi o per dire a
Sasuke quanto
lo ritenesse capace e valido. Non sarebbe mai riuscito ad ammettere
apertamente
il suo affetto, ma i figli lo sapevano e lo accettavano, leggendolo in
tutti i
gesti di riguardo che riservava loro.
Sì,
Mikoto era decisamente orgogliosa di tutti loro.
Itachi
era stato in grado di difendere i suoi sogni e le sue aspirazioni
diventando un
avvocato, dopo anni di silenzio era riuscito a ricostruire un rapporto
con il
padre, inoltre era diventato associato di uno studio legale importante.
Quella
sera infatti erano al ristorante per festeggiare
quell’evento, di cui erano
stati informati solo dopo qualche giorno.
Così
tipico di Itachi, pensò la donna, sapeva bene che il figlio
preferiva tenere
per sé tutto ciò che lo riguardava e che, dietro
lo sguardo acuto e il sorriso
pacato, si nascondevano molte cose.
Guardò
Sasuke e rifletté che anche lui teneva per sé il
proprio mondo interiore, ma a
differenza di Itachi lo faceva per paura. Timore di essere giudicato,
di essere
considerato di poco valore, perché il suo secondogenito era
più sensibile e
fragile di quanto pensasse o gli piacesse ammettere. Tuttavia qualcosa
stava
cambiando in lui, gli vedeva una nuova sicurezza nelle spalle diritte e
nello
sguardo che non si nascondeva più sotto la frangia scura. Le
sembrava anche più
sereno e il suo cuore ne era felice, perché riteneva la sua
famiglia il suo
bene più prezioso.
Posò la
propria mano su quella che Sasuke teneva sul tavolo, confondendosi
quasi col
candore della tovaglia ricamata, gli sorrise nel vedere il suo sguardo
sorpreso
ma non tolse la mano, né la spostò lui.
“Direi
che ci vuole un brindisi” affermò prendendo il
bicchiere con l’altra libera.
“Mamma,
io direi che invece non serve affatto” affermò
Itachi.
“Tu sta’
zitto, non hai voce in capitolo – lo rimbeccò la
donna seppur col sorriso sulle
labbra – ancora non ti ho perdonato di non avermi detto
subito della
promozione, sai?”
“Qualcosa
mi dice che non basterà una vita intera a farti perdonare
– scherzò Sasuke
alzando il bicchiere – a te fratello, con i nostri migliori
auguri.”
I
bicchieri tintinnarono tra loro e tutti bevvero l’ottimo vino
bianco
sapientemente rinfrescato. Il cameriere portò loro i piatti
e, mentre gustavano
le pietanze, Itachi non poté fare a meno di pensare a quando
aveva festeggiato
lo stesso evento con Gaara pochi giorni prima. Erano stati in un pub
poco
pretenzioso, il cibo era stato più semplice e avevano avuto
birra nei loro
bicchieri, eppure gli era piaciuta moltissimo quella serata,
chiacchierare con
lui, scoprire qualcosa in più sul suo conto e sul carattere.
Iniziando
a mangiare, raccontò alla famiglia dei futuri progetti dello
studio, nonché un
paio di aneddoti divertenti causati dai lavori di ristrutturazione
nell’appartamento a fianco, come quando
l’impeccabile Hiashi Hyuga aveva
infilato per sbaglio un piede in un secchio di cemento, così
lo avevano visto
comparire in ufficio con solo una scarpa e una gamba del pantalone
arrotolata
fino a metà polpaccio.
“In
conclusione ha stabilito che non entrerà più
nell’altro appartamento finché non
sarà finito e che a controllare l’andamento dei
lavori sarà esclusivamente il
nostro segretario” sorrise Itachi concludendo il racconto,
perché l’elegante
Hiashi sporco di cemento ed evidentemente imbarazzato nonché
infuriato era
stato uno spettacolo memorabile.
Sasuke
drizzò le orecchie sentendo nominare Gaara anche se di
sfuggita, si morse le
labbra perché in realtà ci sarebbero state tante
cose che avrebbe voluto
chiedere a Itachi, ma non era quello il momento adatto. Probabilmente,
anche se
lo fosse stato, non gliele avrebbe domandate: il suo orgoglio Uchiha
era ancora
piuttosto tenace.
I quattro
continuarono a chiacchierare piacevolmente e verso la fine, sazi e
soddisfatti
dal locale e dalla reciproca compagnia, Mikoto disse:
“Ci voleva
questa serata, erano più di due settimane che non ci
vedevamo e l’ultima volta,
a capodanno… beh, non è stata esattamente una
classica cena in famiglia.”
Un velo
di imbarazzato disagio calò sul tavolo e Sasuke si mosse
scomposto sulla sedia,
cercando una nuova posizione. Non avevano ancora mai parlato di quanto
successo
quella sera, ma il nuovo anno aveva portato molto lavoro a cui badare e
non
avevano avuto occasione di rivedersi prima di quella sera.
Dall’espressione che
fece Fugaku fu palese che avrebbe anche continuato a non parlarne senza
alcun
problema, sia quella sera che in futuro.
“Già, non
so che diavolo sia saltato in mente a quel ragazzo –
commentò suo malgrado,
oramai l’argomento era stato tirato in ballo – i
suoi genitori erano già sul
punto di divorziare, questa è stata la classica goccia di
troppo che ha fatto
traboccare il vaso. Il padre non vuole più saperne, mentre
la madre lo difende…
che brutte faccende” sospirò.
“Mi
sembra quantomeno esagerato affibbiare tutti i problemi di una coppia
alle
azioni del figlio – intervenne Itachi, pacato come sempre
– si sarebbero
separati anche senza il coming out di Ryuji. E se per essere felice lui
ha
sentito il bisogno di fare quella confessione, allora ha fatto
bene” concluse.
“Itachi,
ma come fai a dire una cosa simile? Ha mandato sua nonna in ospedale,
rovinato
a tutti il capodanno, portato scompiglio e vergogna sulla nostra
famiglia. La
notizia si è già diffusa, come pensi che altre
famiglie possano giudicarci?”
replicò Fugaku a cui non era certo piaciuto il coming out di
quel nipote.
Mikoto
non diceva nulla, ma si limitava a fissare marito e figli e le parve
che Sasuke
fosse un po’ più pallido di prima, ma forse era
solo una sua impressione.
Itachi
invece era impassibile, si limitò a prendere un altro sorso
di vino prima di
rispondere:
“E
allora? Dovremmo essere superiori alle voci e i pettegolezzi da mercato
della
gente, non sono i gusti sessuali di una persona a definire quello che
è. Per me
Ryuji è lo stesso ragazzo timido e impacciato con cui
giocavo da bambino, anche
se era più grande di me, e che dopo mi aiutava con i compiti
di arte; non è
certo diventato un mostro all’improvviso.”
Fugaku
scosse la testa, evidentemente contrariato:
“Come fai
a dire non sono le nostre inclinazioni a definire quello che siamo?
Come potrai
mai fare una famiglia con un altro uomo? – disse a bassa
voce, nemmeno si
trattasse di una bestemmia in un luogo sacro – Cosa mi
rispondi? Senza una
moglie e dei figli cos’è un uomo? Non è
giusto, né corretto.”
“Non
tutti hanno gli stessi desideri, ma per un genitore la
felicità di un figlio
non dovrebbe avere la priorità su tutto? Se ti dicessi che
io sono più felice
al fianco di un uomo che di una donna, cosa faresti? Anche tu
minacceresti di
diseredarmi o lasceresti che altri parenti mi ricoprano di insulti
com’è
accaduto a Ryuji?” replicò Itachi serafico.
Fugaku lo
fissò interdetto, dietro quelle
parole e lo sguardo pacato c’era una sfida più che
evidente che lui però non
aveva intenzione di raccogliere, non sarebbe retrocesso dalle sue idee,
non
quella volta, era troppo per una mente tradizionale come la sua.
“Itachi
stai dicendo un mucchio di sciocchezze, come se fosse mai possibile! I
miei
figli gay, che assurdità! – scosse la testa per
negare e allontanare con
fermezza una simile eventualità – Certo, non
è stato bello che alcuni tuoi zii
lo abbiano insultato a quel modo, ma nemmeno lui si è
comportato bene.”
“Capisco”
replicò Itachi asciutto. Finì il vino nel
bicchiere e poi fece un sorriso
morbido al padre, aggiungendo “Hai ragione, è
proprio un’eventualità
impossibile.”
Per tutto
quel dialogo non aveva mai guardato Sasuke, ma non ne aveva avuto
bisogno per
sapere che il fratello stringeva i pugni sotto la tovaglia mentre si
sentiva
morire.
Sasuke
dopo essersi lavato le mani si bagnò anche il viso.
Slacciò un altro bottone
della camicia che portava senza cravatta e sentì le
goccioline fresche
scivolare lungo il collo. Avrebbe voluto mettere tutta la testa sotto
il getto
e poi scrollarsi, lanciando acqua tutt’attorno e liberarsi
allo stesso modo dei
suoi pensieri; purtroppo era impossibile, quelli non erano idrosolubili.
Aveva
lasciato il resto della famiglia al tavolo alle prese col dolce e si
era
rifugiato in bagno, tanto lui non l’avrebbe mangiato, la sua
avversione per le
cose zuccherose era nota.
Si stava
asciugando con una salvietta, quando vide la porta aprirsi e suo
fratello
entrare con una vistosa macchia di cioccolato sulla giacca.
“Itachi?”
mormorò perplesso, mai lo aveva visto sporcarsi al contrario
suo.
“Che c’è?
Sono stato sbadato, capita” replicò
l’altro facendo spallucce e andando al
lavandino al suo fianco, notando il suo volto pallido e i capelli umidi
sulla
fronte.
Sasuke si
portò una mano sul viso, non era sicuro di poter controllare
i suoi muscoli facciali
dopo l’improvvisa comprensione che lo aveva colto.
“Certo, e
pensare che ti credevo repellente allo sporco –
sospirò – sto bene, non serviva
che venissi”
Non
serviva che ti sporcassi apposta per avere
una scusa plausibile per seguirmi nei bagni; non serviva che ti
preoccupassi
per me; non serviva, ma… grazie.
Itachi
gli tolse la mano dal viso e si ritrovò a fissare i suoi
occhi scuri
evidentemente turbati e, delicatamente, gli carezzò i ciuffi
di capelli che gli
facevano da frangia.
“Quanta
importanza che ti dai” ironizzò facendolo sbuffare
e alzare lo sguardo al soffitto.
“Ma hai ragione – continuò – e
mi spiace che tu abbia dovuto sentire certe cose
da nostro padre; conoscendolo non potevo aspettarmi niente di diverso,
è stato anzi
fin troppo conciliante. Mi spiace ancora di più
perché avrei potuto rivelarmi,
dire che anch’io non sono quell’esempio di fulgida
eterosessualità che crede,
ma… non ce l’ho fatta. Avevo le parole sulla punta
della lingua, ma non ci sono
riuscito.”
Fu
difficile ammettere quella sua debolezza e lo fu maggiormente farlo
continuando
a guardarlo negli occhi, vedendo sbocciare lo sconcerto e la paura nei
suoi.
Sasuke infatti
afferrò il bavero della sua giacca con entrambe le mani,
stringendolo forte ed
esclamò:
“Sei
impazzito? Non devi, non devi assolutamente, tu…”
Rimase
senza parole, con la gola che si contraeva dolorosamente ed era
incapace di
seguire i suoi comandi. Poggiò la fronte contro la sua
spalla, sentendo i suoi
capelli lunghi contro la guancia. “Non devi arrivare a tanto
per me, Itachi,
non voglio che ti rovini la vita, perché è questo
che accadrebbe se papà
sapesse la verità – disse con la voce attutita
dalla stoffa – ci vuole bene, ma
una cosa simile va oltre la sua comprensione, stasera l’ho
capito con
chiarezza. Mi fa male sapere che non potrà mai accettarmi
del tutto, che gli dovrò
sempre tenere nascosta questa parte di me, ma… va bene
così. Io sto imparando
ad accettarmi e poi ho te; te che sai tutto e mi sento già
fortunato così.”
Fu
davvero difficile ammettere quelle verità, non che si fosse
mai illuso di
potersi confessare coi genitori, soprattutto con Fugaku, ma quella sera
ne
aveva avuto la prova inconfutabile e non era stato così
semplice inghiottire
quel boccone amaro.
Però poi
arrivava Itachi e gli diceva che per lui sarebbe stato anche disposto a
distruggere quel rapporto col padre faticosamente ricostruito,
perché giudicava
il loro e lo stesso Sasuke più importante, forse
più importante di qualsiasi
altra cosa. Si sentì così stupido per averlo
odiato in passato, per quelle
energie sprecate inutilmente oltre al tempo che nessuno gli avrebbe mai
restituito.
Itachi
gli poggiò una mano sulla nuca, spingendoselo di
più contro, intrecciando le
dita lunghe ed aggraziate coi suoi capelli scuri, un abbraccio
incompleto ma
perfetto per loro che erano tanto disabituati al contatto fisico e ad
esprimere
l’affetto.
“Allora
va bene così, io ci sarò sempre.”
“Lo so,
lo so” mormorò Sasuke. Rialzò la testa
e poggiò lievemente le labbra contro la
sua guancia, sentendo l’odore della sua pelle e
dell’acqua di colonia discreta
ma presente che gli piaceva tanto.
Itachi invece
gli scompigliò i capelli per poi risistemarglieli, un
sorriso aleggiava sul suo
viso solitamente composto mentre diceva:
“Sarà
meglio tornare di là, o ci daranno per dispersi.”
“Ok –
rispose Sasuke lasciandolo fare come voleva – ma la tua
macchia?”
Itachi si
guardò la giacca, poi fece spallucce:
“Ci
penserà la lavanderia, in fondo dove si è mai
visto togliere del cioccolato
solo con solo dell’acqua?”
Sasuke lo
seguì fuori dal bagno sorridendo perché, in
fondo, prima era stato Itachi a
seguirlo e lo avrebbe fatto mille volte ancora; ne era certo.
***
Sasuke
era nervoso. Ovviamente lo stava mascherando bene sotto alla solita
facciata di
stoicismo e indifferenza.
Quella
mattina, dopo non poche tribolazioni mentali, dubbi e ripensamenti,
aveva
afferrato il cellulare per chiamare Gaara. Il ragazzo era a lavoro, ma
gli
aveva risposto lo stesso e lui gli aveva augurato buona fortuna per
l’esame del
pomeriggio per poi proporgli di vedersi la sera per festeggiare, certo
che lo
avrebbe superato. Il segretario aveva tentennato qualche istante, ma
poi aveva
accettato, lasciandolo in uno stato di confusa contentezza che era
durata tutto
il giorno.
In quel
momento però Sasuke era solo nervoso: Gaara era in ritardo
di circa mezz’ora.
Seduto al bancone del locale, controllò di nuovo il
cellulare, erano le venti e
ventotto e non c’era nessun messaggio da parte sua.
Si
sentiva a disagio, stupido addirittura per essere lì da solo
ad attendere
qualcuno che non sarebbe arrivato, perché ormai era evidente
che Gaara aveva
cambiato idea, decidendo che non valeva nemmeno la pena avvertirlo.
Guardò la
pinta di birra davanti a sé e pensò che, una
volta finita, se ne sarebbe andato
e non lo avrebbe più cercato. Finora aveva scavalcato
più di una volta il suo
orgoglio perché pensava che ne valesse la pena, ma forse si
era sbagliato.
Sentì una
sorta di scontentezza cosmica, un’amarezza in bocca che
niente aveva a che fare
con la birra scura e si domandò a che pro arrivare fino a
lì, venendo illuso e
basta. Si diede poi dello stupido: non aveva iniziato quel percorso
avvalendosi
della psicoterapia per Gaara, per riparare ai suoi errori o
chissà che altro,
lo aveva fatto per se stesso, per non affondare in mezzo ai propri
problemi; il
resto era solo una diretta conseguenza dei suoi cambiamenti. Avrebbe
dovuto
farsi una ragione di questo fallimento, archiviarlo e andare avanti, in
fondo
lui e Gaara non si erano fatti nessuna promessa. Però se ci
pensava faceva
male, anzi faceva maledettamente male.
Fissava
il bicchiere in cui rimanevano pochi sorsi, quando sentì una
voce al suo fianco
dirgli:
“Scusa il
ritardo.”
Sasuke
alzò sorpreso lo sguardo e vide Gaara con le guance rosse, i
capelli più
scarmigliati del solito, il cappotto ancora addosso e la faccia di chi
aveva
avuto proprio una giornata di merda. Lo fissò qualche
istante, quasi incredulo,
avvertendo le ondate di freddo provenire dal suo corpo.
“Pensavo
non venissi più” ammise.
Gaara
rimase in maglione e si sedette sullo sgabello al suo fianco, poggiando
lo
zaino a terra e l’altra roba sopra di esso.
“Scusa,
una serie di imprevisti, mi si è anche scaricato il telefono
e non ho avuto
modo di avvisarti – gli spiegò passando la mano
tra i capelli tentando di
sistemarli – sinceramente stavo per non venire, credevo fossi
già andato via.”
Sasuke
gli mostrò il bicchiere non ancora del tutto vuoto:
“Stavo
finendo la mia birra – lo guardò – stai
bene?”
“No”
ammise secco Gaara non aggiungendo altro. Ordinò al barista
una tequila sale e
limone e questi posò sul bancone davanti a lui
l’occorrente senza dire una
parola.
Anche
Sasuke stette zitto e lo osservò posarsi del sale sul dorso
della mano, vicino
al pollice, leccarlo via per poi bere d’un fiato il liquore e
addentare infine
lo spicchio di limone.
Gaara era
turbato, non era necessaria la sua ammissione per capirlo, eppure
Sasuke lo
fissava ipnotizzato, trovando sensuali quei gesti, ricordando quando
quella
lingua e la bocca avevano indugiato il suo corpo. Si morse le labbra
tentando
di calmarsi e vide l’altro chiedere un bis così,
dopo che ebbe bevuto anche il
secondo shot, si decise a parlare o se lo sarebbe trovato ubriaco nel
giro di
dieci minuti.
“Cos’è
successo? Vuoi che ti accompagni a casa? Possiamo vederci
un’altra volta.”
Gaara si
voltò a guardarlo, con gli occhi lievemente umidi a causa
dell’alcool e
dell’acidità del limone, e sembrò quasi
risvegliarsi da una sorta di trance.
Sospirò, posando la fettina dell’agrume su un
piattino e rispose:
“Scusa”
disse guardandolo. Poi fece una mezza risata breve “Sembra
che stasera non
faccia altro che scusarmi. Ad ogni modo adesso va meglio e sinceramente
non ho
voglia di tornare a casa.”
Avrebbe
trovato solo un appartamento vuoto e, quella sera tra tante, proprio
non aveva
voglia di affrontare la solitudine. Si leccò le labbra su
cui aleggiava il
sapore acido del limone e quello pungente della tequila e dovette
trattenersi
per rimanere lucido, per non gettare alle ortiche la
razionalità e fare cose
stupide. Come baciare Sasuke e poi scoparselo, perché aveva
una fottuta voglia
di spegnere il cervello, lasciarsi andare
e dimenticare anche se per poco ogni cosa.
Non era
vero che il suo cellulare aveva la batteria scarica, lo aveva
semplicemente
spento per non ricevere altre chiamate sgradite e non era vero che
stava per
non andare all’appuntamento. Era rimasto fuori dal locale a
lungo, indeciso se
presentarsi, perché quella sera non si sentiva a posto con
se stesso, ma
l’alternativa era stata l’appartamento vuoto,
così alla fine si era fatto
coraggio appellandosi a tutta la freddezza e la razionalità
di cui disponeva.
Forse bere due tequila non era stata una grande idea, ma almeno si
sentiva meno
teso.
Sasuke lo
osservò, gli dispiacque che avesse qualche problema di cui
sicuramente non gli
avrebbe parlato, ma d’altronde nemmeno lui si era mai aperto
in precedenza. Non
poteva pretendere di diventare all’improvviso dei
chiacchieroni e di piangere
l’uno sulla spalla dell’altro; fece una smorfia a
quel pensiero, visto che in
realtà nemmeno con Naruto si confidava a quel modo, come una
piagnucolosa
adolescente.
“Ok,
allora possiamo fare quello che vogliamo” disse e vide gli
occhi chiari velarsi
di turbamento, ma quando Gaara parlò la sua voce era pacata
e non lasciava
intendere nient’altro.
“Oh,
addirittura? Che ne dici di un giro attorno al mondo?”
scherzò.
“Credo
che non torneremmo entro domani mattina, ma possiamo sempre pianificare
un
viaggio, quando hai le vacanze?” rispose Sasuke con un
sorriso, stando al gioco
ma anche serio. Forse allontanarsi dalla loro città, dalla
routine e dalla vita
di tutti i giorni non sarebbe stata una brutta idea.
Gaara
sospirò, con le sue finanze attuali il massimo che poteva
programmare era
un’escursione ai giardinetti, ma ovviamente non
rivelò niente di ciò:
“Credo ad
agosto, quando chiuderà lo studio. Se mi assentassi ora
penso che imploderebbe,
già quando mi prendo mezza giornata per gli esami al mio
ritorno sembra che io
non ci sia stato una settimana; non oso immaginare se stessi veramente
via una
settimana.”
Era stato
ironico, ma aveva detto la verità: al di là del
lavoro riguardanti le pratiche,
gli avvocati sarebbero morti senza nessuno che gli facesse prenotazioni
di
viaggi, ristoranti, gli ritirasse le camicie dalla lavanderia e tutta
un’altra
serie di stupide cose di cui si sarebbero potuti occupare da soli ma
che invece
ricadevano su Gaara.
“Mi
sembra alquanto ingiusto – osservò Sasuke
– dovrebbe esserci almeno un altro
segretario per uno studio così grande. Se stai male cosa
succede?”
“Qualche
mese fa c’era una donna, ma era un incapace. Ho sentito gli
avvocati che si
dispiacevano per la sua partenza solo perché non avrebbero
più visto le sue
tette, mentre io… – si passò una mano
sul petto più che piatto – quindi sono
rimasto da solo. Poi c’è stato
l’acquisto dell’altro appartamento, i lavori di
ampliamento ed altre spese a carico della società. Quando ho
detto a Hiashi del
mio progetto di iscrivermi all’università, mi ha
detto chiaramente che questo
non doveva interferire col lavoro o avrebbero cercato qualcun altro,
quindi
figurati se posso anche solo suggerire di assumere un secondo
segretario.”
Sasuke
non fece fatica a credere che l’altro fosse così
stanco, aveva un carico di
responsabilità molto pesante da gestire, più una
vita privata a cui badare nei
ritagli di tempo libero.
“Beh, se
vuoi un nuovo posto di lavoro puoi venire nel mio studio, qualcuno con
le tue
capacità ci può fare sempre comodo.”
Gaara lo
guardò serio, anche se la proposta era stata scherzosa, era
certo che se gli
avesse detto di sì Sasuke lo avrebbe fatto assumere senza
battere ciglio.
Questo lo lasciò interdetto: era veramente una bella
differenza rispetto a
pochi mesi prima quando non aveva tollerato la sua presenza il giorno
della
laurea, nemmeno lasciando che si confondesse tra i suoi amici o gli
altri
spettatori. Adesso invece gli paventava la possibilità di
vedersi tutti i
giorni, lavorare fianco a fianco sotto gli occhi del padre.
Anche se
apparentemente Sasuke appariva sempre uguale, con quell’aria
di strafottente
distacco dipinta in volto, in realtà era cambiato, lo
dimostravano i gesti e le
parole che, per quanto implicite, lasciavano intendere molti sottintesi.
“Ti
ringrazio, ma ho intenzione di rimanere lì, sarà
comodo una volta che mi sarò
laureato – gli spiegò – anzi,
sarà meglio per loro: se non mi assumeranno
subito faccio mettere una bomba da Deidara, sai è un
appassionato di esplosivi”
concluse scherzando.
“Beh, in
effetti non ha tutte le rotelle a posto quello”
borbottò Sasuke, ripensando al
barman biondo e a come lo aveva cacciato dal locale quando ci aveva
rimesso
piede. Nessuno aveva mai osato tanto con lui, era stato un bello shock.
Dal
bancone si spostarono a un tavolino e ordinarono qualcosa da mangiare
mentre
Gaara ripiegava su una birra, qualcosa di ben più leggero
rispetto alla tequila
con cui aveva iniziato la serata. Aveva sempre presente il proposito di
rimanere lucido e razionale, ma una parte di lui invece premeva per
perdere il
controllo. Gli pareva di avere qualcun altro dentro che non faceva che
sussurrargli di smettere di razionalizzare tutto, di cedere ai suoi
impulsi, di
prendere Sasuke e scoparselo anche lì su quel tavolino,
fregandosene delle
conseguenze, in un momento tanto delicato come quello in cui stavano
cercando
di superare il passato e vedere se poteva esistere un futuro assieme.
Era
stanco, scombussolato e triste e si maledisse per aver risposto a
quella
fottuta telefonata; se non lo avesse fatto la serata sarebbe stata
diverso, lui
stesso lo sarebbe stato.
Cercò tuttavia
di mascherare il turbamento e di continuare a conversare come aveva
fatto
finora. Parlarono di argomenti leggeri, a nessuno dei due
saltò in mente di
tirare fuori questioni che non sarebbero stati in grado di affrontare.
Fu una
serata piacevole tutto sommato e, quando venne il cameriere a portare
via i
piatti sporchi, rimasero in un silenzio lievemente imbarazzato,
guardandosi in
faccia senza nulla da dire.
“Allora…
ancora non mi hai detto com’è andato
l’esame” esordì Sasuke, riuscendo a
spezzare quel momento di disagio.
Gaara
sembrò trasalire a quelle parole e, annuendo con la testa,
replicò:
“Già, hai
ragione. È andato bene, niente di eccezionale.”
“Non ci
credo, avrai preso il massimo come negli altri due”
insistette l’Uchiha.
Gaara si
chinò a prendere lo zaino e ne tirò fuori il
libretto che gli porse:
“Puoi
controllare coi tuoi occhi”
Sasuke
aprì il libretto e notò che effettivamente
l’esame di quel pomeriggio aveva una
votazione mediocre. Non c’era da stupirsene con tutte le cose
a cui Gaara
doveva badare, evidentemente aveva avuto poco tempo per studiare,
rifletté
sfogliando le altre pagine bianche fino ad arrivare alla prima con i dati
anagrafici. Campeggiava una
fototessera che ritraeva il ragazzo serio, con quell’aria
lievemente truce che
lo contraddistingueva, lesse anche il suo indirizzo che conosceva bene
e una
data che gli fece corrucciare la fronte.
“Oggi è
il tuo compleanno?”
Gaara
riprese il libretto e lo chiuse con uno scatto irritato, per poi
riporlo nello
zaino:
“Già, il diciannove gennaio di ventiquattro anni
fa venivo al mondo.”
Guardò
Sasuke e notò la sua faccia perplessa, una domanda negli
occhi scuri che però
non arrivava a sfiorare le labbra. Desiderò che nel suo
bicchiere ci fosse
qualcosa di più forte della birra, come che quel pomeriggio
Kankuro non lo
avesse chiamato con la scusa di fargli gli auguri. Credeva di essere
riuscito a
gettarselo alle spalle, invece sentire la sua voce gli aveva fatto
tornare in
mente quanto successo l’ultima volta, la disperazione
profonda che aveva
sperimentato; quell’assoluto senso di abbandono e
inutilità che aveva
faticosamente superato si era ripresentato in tutta la sua prepotenza e
Gaara
ne era stato travolto.
Aveva
minacciato Kankuro di denunciarlo per molestie se lo avesse cercato
ancora,
aveva le conoscenze giuste grazie agli avvocati e lo avrebbe fatto
perché era
stufo di non essere ascoltato; non era più lo stesso
ragazzino che era stato
vessato in orfanotrofio e che stava sempre zitto qualunque cosa
accadesse.
Ritornò
al presente e, con le sopracciglia rade aggrottate, rispose alla
domanda muta
dell’altro:
“Non mi
piace festeggiare il mio compleanno, in orfanotrofio non lo facevamo,
eravamo
troppi. E anche adesso per me rappresenta un giorno come un altro,
è solo un
caso se ci siamo visti proprio oggi, solo perché tu mi hai
chiamato stamattina.”
Sasuke
tacque, pensieroso, e bevve un sorso dal bicchiere perché
aveva la gola arida
come il deserto.
“Capisco
e mi dispiace. A me invece piace molto, quando ero piccolo era un
giorno
speciale perché di solito Itachi lo trascorreva con me e
facevamo qualcosa
insieme, era raro avere la sua attenzione, sai?”
Quella
confessione gli era salita spontaneamente alle labbra, forse
perché anche
l’altro aveva condiviso con lui qualcosa di più
personale, tuttavia vagò con lo
sguardo per il locale, imbarazzato. Si chiedeva se Gaara non lo stesse
giudicando stupido e infantile, era più che evidente il
divario e le differenze
delle loro vite.
Gaara
però non stava pensando niente di tutto ciò, era
solo sorpreso e anche
incuriosito dalle orecchie improvvisamente rosse dell’Uchiha,
sicuramente non
era colpa del caldo nel locale.
“Mi
sembra strano da credere, Itachi ti vuole molto bene, mi sembra un
fratello
maggiore fantastico”
Lui lo
sapeva bene, sapeva maledettamente bene fin dove Itachi si sarebbe
spinto per
suo fratello.
Sasuke
tentennò un attimo prima di guardarlo di nuovo e dire:
“Lo è, ma
diciamo che fino a poco tempo fa le cose erano un po’ diverse
tra noi e in
generale in famiglia. Non è sempre facile un rapporto tra
due fratelli anche se
si vogliono bene.”
Gaara non
avrebbe potuto essere più d’accordo, ma non disse
nulla per timore di
scoprirsi, così fu Sasuke a chiedere ancora:
“Il tuo
malessere di oggi è legato al tuo compleanno?”
“Sì, una
persona mi ha chiamato per farmi gli auguri e avrei voluto che non lo
facesse,
non avrebbe dovuto.”
Strinse
forte tra le mani il bicchiere ormai vuoto, con qualche gocciolina di
condensa
superstite che gli lambiva le dita, carezzevole come la lingua di un
amante.
“Era un
tuo ex?” domandò Sasuke cauto per tastare il
terreno e capire fin dove
spingersi con lui. Gli parve di essere nei panni del suo psicologo ed
avere a
che fare con un enigma racchiuso in un vaso di finissimo cristallo.
Voleva
leggere la soluzione che si nascondeva all’interno, ma
riuscirci senza rompere
nulla era tremendamente difficile.
“In un
certo senso… – rispose Gaara e tornò a
guardare i suoi occhi – il mio primo
uomo.”
Vide Sasuke
deglutire a vuoto, i muscoli di quel bel collo pallido contrarsi, e si
domandò
perché gli avesse rivelato quei segreti, si sentiva esposto
anche se non gli
aveva detto di chi si trattava, eppure ebbe paura che l’altro
potesse leggere
qualcosa nei suoi occhi.
“Capisco
– mormorò l’architetto in
difficoltà – ne sei ancora innamorato?”
domandò
perché non capiva il motivo di tutto quel turbamento.
Ebbe
paura della risposta perché, se fosse stata affermativa,
cosa avrebbe dovuto
fare? Tirarsi indietro o insistere? Quali erano i suoi reali sentimenti
per
quel ragazzo dai capelli rossi, cosa lo spingeva verso di lui? Solo
attrazione
fisica? Erano così riduttivi i suoi sentimenti, oppure
poteva davvero definirli
in qualche altro modo più serio?
La sua
sequela di domande venne troncata dalla voce sempre pacata di Gaara:
“No, non
più. È passato molto tempo, ma… ecco,
risentirlo mi fa tornare alla mente molti
ricordi sgradevoli e mi devi scusare se stasera sono stato
scostante.”
A Sasuke
sembrò di riuscire improvvisamente a respirare molto meglio,
come quando dopo
una lunga malattia il naso si libera e si riesce di nuovo a fare
respiri
profondi, assaporando l’odore del mondo.
Alzò una
mano davanti a sé, come a respingere la sua affermazione:
“No, non
devi dire così, mi spiace solo che tu stia male, anzi sono
sorpreso che tu
abbia accettato comunque di vederci.”
Lo vide
sorridere e scrollare le spalle, non aveva altro da aggiungere
così continuò a
parlare lui: “Facciamo così: anche se a te non
piace il tuo compleanno, io
voglio farti un regalo. Puoi prenderti un fine settimana libero,
giusto?”
“Sì, ma…”
Sasuke
non lo lasciò finire e riprese:
“Allora
vieni un weekend in montagna con me. Abbiamo uno chalet di famiglia, di
solito
viene usato durante il periodo natalizio, il resto dell’anno
siamo di solito
troppo impegnati per andare. Partiamo venerdì sera e
domenica torniamo qui, che
ne dici?”
Gaara era
confuso, preso letteralmente alla sprovvista e iniziò a
cercare una via di
fuga:
“Ma no
Sasuke, non serve. Insomma io non sono nemmeno mai stato sulla
neve…”
“Perfetto,
sarebbe una nuova esperienza, mica male, no? – sorrise poi,
più serio, aggiunse
– Mi farebbe davvero piacere se accettassi, ma solo se ti va.
Se te la senti di
passare altro tempo insieme a me, io… voglio dire che le
cose tra noi sono un
po’ strane e difficili, ma ho capito che vorrei conoscerti
meglio. Mi sento
bene quando sono in tua compagnia.”
Fece un
respiro profondo e si sforzò di non spostare lo sguardo ma
di tenerlo su di lui,
nonostante si sentisse morire dall’imbarazzo. Di sicuro
quello era l’invito più
esplicito e spettacolare che avesse mai fatto per i suoi standard;
adesso era
tutto nelle mani di Gaara. Stava a lui accettarlo o meno, decidere se
mettere
piede in quel teatro di nome Sasuke.
Gaara lo
guardava con quegli occhi chiari che in quel momento sembravano ancora
più
verdi e trasparenti, chiaramente senza parole. Si passò una
mano sul viso, si
stropicciò le palpebre e poi lo guardò di nuovo;
Sasuke era ancora lì, non era
un sogno né un’allucinazione e continuava a
guardarlo con l’espressione seria e
contratta.
“Lo sai
che quello psicologo vale fino all’ultimo
centesimo?” gli domandò.
La sua
frase ebbe l’effetto di spezzare la tensione che si era
creata ed entrambi
risero, anche se Sasuke cercò di riacquistare subito il suo
cipiglio e borbottò
un “Vaffanculo” che però non
intaccò il sorriso di Gaara.
“Va bene,
ci sto. Ma un po’ più in là, ho altri
due esami, poi sarò un po’ più libero.
A
fine febbraio c’è ancora neve? Oppure è
tardi?”
Sasuke
stentava a credere alle proprie orecchie, ma era vero: Gaara aveva
accettato
l’invito, stringeva tra le dita il foglio della
partecipazione e non lo avrebbe
lasciato andare, non se ne sarebbe disfatto come carta straccia.
“Sì, sì
certo che è possibile” rispose ancora incredulo,
ma felice. Gli sembrava che
quel giorno il compleanno fosse il suo e che gli avessero fatto un
bellissimo
regalo.
Sasuke
fermò la macchina sotto casa di Gaara. Usciti dal locale lo
aveva
riaccompagnato e non aveva avuto bisogno di indicazioni
perché sapeva bene dove
l’altro abitava, si ricordava ancora bene la strada. Spense
il motore e sbirciò
il palazzo, vedendo che le finestre del suo appartamento erano tutte
scure, non
ci doveva essere nessuno.
Si voltò
a guardare Gaara che si era tolto la cintura di sicurezza e si stava
infilando
il cappotto, inutile nell’abitacolo riscaldato. La serata si
era conclusa, si
stavano per salutare con la promessa di rivedersi e di passare un
weekend in
montagna. Sasuke non avrebbe potuto immaginare un epilogo migliore per
quell’appuntamento, eppure sentiva una sorta di
insoddisfazione che proprio non
voleva andare via.
Lo guardò
e pensò che voleva baciarlo, baciarlo ancora e accompagnarlo
fino alla porta di
casa e poi oltre, fino alla soglia della sua stanza, entrarci per non
uscirne
più.
Si morse
le labbra per darsi una calmata.
Anche
Gaara avvertiva quella tensione e il desiderio che lo aveva
accompagnato tutte
quelle ore si era amplificato, sebbene fosse diverso dal passato: non
aveva più
voglia di rifugiarsi nel sesso per dimenticare e alleggerire il peso di
una
vita difficile, bensì voleva affondare in lui e continuare a
farlo, vedendo un
nuovo mattino sorgere.
“Beh,
allora grazie per la serata – gli disse guardandolo
– ci sentiamo.”
Sasuke
guardò i suoi capelli rossi che parevano più
scuri alla luce fioca dei lampioni
e rispose:
“Sì, ci
sentiamo. Buonanotte.”
Non
aspettò un suo saluto, né un gesto, non attese
ulteriormente e scivolò sul sedile
verso di lui, per baciarlo. Non voleva rovinare tutto, né
affrettare i tempi,
ma voleva un bacio, per cancellare il ricordo di quello furioso e
velenoso che
si erano scambiati l’ultima volta.
Gaara non
lo respinse anche se sulle prime rimase immobile, poi però
si lasciò andare e
ricambiò il suo bacio che era calmo, lento e non chiedeva
nulla, voleva solo
essere ciò che era: la fine perfetta per la loro serata.
Sasuke
gli posò una mano sul busto lasciato scoperto dal cappotto
ancora slacciato,
sentì le sue costole al di sotto del maglione e se ne
dispiacque: non era il
solo ad essere cambiato in quei mesi, in quel periodo erano successe
molte cose
anche a Gaara.
Fu quest’ultimo
ad allontanarsi delicatamente, ma non disse nulla, si limitò
a guardarlo.
Sasuke si
strinse nelle spalle e con un sorriso che non gli aveva mai mostrato
prima
disse:
“Buon
compleanno, scusa ma non ho fatto in tempo a prenderti
nessun’altro regalo.”
“Un bacio
come regalo, eh?” mormorò Gaara sfiorandosi le
labbra ancora umide e calde, del
calore che avevano condiviso assieme. “Beh, ne ho avuti di
peggiori – concluse
con un sorriso, chiudendo poi il cappotto – buonanotte
Sasuke.”
“Buonanotte
Gaara.”
Lo vide
scendere e dirigersi verso il portone, una figura scura che si
confondeva nel
buio della notte, ma che lui riusciva a scorgere.
Mise in
moto, pensando che non aveva più bisogno di fantasticare e
di sperare di poter
tornare indietro alla notte in cui si erano incontrati,
perché quella era stata
perfetta e da lì sarebbero ripartiti.
Intanto
Gaara, fermo davanti alla porta con le chiavi in mano,
guardò i fanali della
sua auto allontanarsi nell’oscurità e scosse la
testa:
“Maledetti
Uchiha, sono fissati col regalare baci.”
Rise da
solo, decisamente un altro rispetto al ragazzo triste che aveva deciso
di
entrare nel locale e di rivedere Sasuke. Ringraziò
però quel vecchio se stesso:
senza di lui non sarebbe esistito il Gaara che ora sorrideva e
aspettava che
gli esami finissero per poter andare sulla neve.
L’angolino
oscuro:
Se ci fosse ancora qualcuno all’ascolto chiedo
perdono per il ritardo cosmico di questo aggiornamento, ma come sempre
la vita
mette i bastoni tra le ruote anche alle migliori intenzioni.
Le cose
stanno iniziando davvero a smuoversi, non solo tra Gaara e Sasuke, ma
anche tra
i due fratelli Uchiha, in fondo tra di loro c’è un
vero affetto profondo, solo
che non sono proprio capaci di dimostrarselo. Spero di tornare presto
col
prossimo capitolo e che continuiate a seguire questa storia, alla
prossima!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** 15 - Sei il sale sulle mie ferite, eppure non riesco a smettere ***
Sei
il sale sulle mie ferite, eppure non riesco
a smettere
Sasuke
frenò dolcemente e la neve scricchiolò sotto le
ruote. Spense lo stereo che
aveva tenuto comunque a volume basso, poi girò le chiavi
della macchina, il cui
motore smise di girare, si accese la piccola luce
dell’abitacolo e lui si voltò
versò il sedile del passeggero dopo essersi tolto la cintura
di sicurezza.
Gaara era addormentato con la testa appoggiata al sedile, la bocca era
semiaperta e il leggero rumore del suo respiro si confondeva col
ticchettio del
motore che aveva iniziato a raffreddarsi.
Sasuke rimase
a fissarlo qualche istante: gli dispiaceva svegliarlo, ma non potevano
rimanere
lì a lungo, a breve il freddo avrebbe invaso
l’abitacolo, inoltre non lo aveva
portato in montagna per passare la notte in un SUV quando
c’era uno splendido
chalet ad attenderli.
Gli bastò
sfiorarlo di poco e l’altro si riscosse, sobbalzando sul
sedile. Si guardò
attorno spaesato per qualche istante prima di dire:
“Scusa,
mi sono addormentato senza accorgermene, non ti ho nemmeno fatto
compagnia
mentre guidavi.”
“Tranquillo,
sei molto stanco ed è bene che ti riposi il più
possibile per domani, le piste
da sci ci aspettano – lo informò – ora
però scendiamo e aiutami a scaricare la
roba.”
Si
infilarono in fretta i cappotti e andarono a recuperare le loro borse,
per poi
incamminarsi sul breve sentiero perfettamente pulito che li condusse
dalla
macchina allo chalet. Gaara in realtà aveva solo uno zaino
con poca roba, tutta
l’attrezzatura necessaria per la neve gliel’avrebbe
prestata Sasuke, gli aveva
detto che non aveva senso che spendesse soldi quando lui aveva
già tutto
l’occorrente. Gaara gliene era stato grato: non aveva denaro
da sprecare, ma la
cosa lo aveva comunque infastidito, perché gli ricordava il
divario tra di
loro, oltre al fatto di avere sempre avuto problemi
nell’accettare l’aiuto
altrui. Vedendo quel grande ed elegante chalet in cui entrarono, quel
disagio
non poté che acuirsi.
C’era un
grande ambiente subito dopo l’ingresso, sulla destra una
cucina con un grande
tavolo da pranzo, sulla sinistra un salotto con divani, poltrone, una
televisione e un caminetto ora spento; sul fondo una porta conduceva al
resto
dell’abitazione. Tutto l’arredamento era in legno,
ma l’effetto nel suo insieme
non era affatto grezzo, dava invece una sensazione di morbidezza e
calore; era
evidente quanto ogni dettaglio fosse stato curato per arrivare a quel
risultato.
I ragazzi
si tolsero i cappotti e li appesero, poi Sasuke iniziò a
trafficare con il
riscaldamento dato che faceva piuttosto freddo anche se non come
all’esterno.
“Ci mette
poco a riscaldarsi, ma posso anche accendere il caminetto se
vuoi” propose
guardando il suo ospite.
“Emh… non
serve, va bene anche così” rispose Gaara, sempre
più a disagio.
Il suo
palazzo era vecchiotto e il riscaldamento centralizzato, si andava da
giornate
in cui si moriva di caldo ad altre in cui si gelava quando si inceppava
la
caldaia, cioè abbastanza spesso. Invece in quello chalet
disabitato per la
maggior parte dell’anno ogni cosa era efficiente e
pulitissima; quando aveva
accettato l’invito non si era aspettato niente del genere.
D’altra parte non
era nemmeno mai stato sulla neve, che ne poteva sapere di come
funzionassero le
cose tra gente che non doveva mai preoccuparsi di arrivare a fine mese?
Sasuke
parve intuire il suo stato d’animo e decise di non dargli
modo di rimuginarci
sopra ancora, quindi disse:
“Muoviamoci,
ho fatto della spesa e bisogna sistemarla, dammi una mano.”
Gaara si
riscosse, prendendo una busta ai suoi piedi e andando verso la cucina.
Aprì un
paio di ante per vedere dove sistemare la roba, ma le trovò
piene di scatolette
e altre confezioni, anche il frigo non era vuoto. Lanciò
un’occhiata
interrogativa a Sasuke che sorrise:
“Non ci
sono i fantasmi qui, semplicemente ho avvertito il custode del nostro
arrivo.
Così ha provveduto a mettere qualcosa in dispensa, pulire e
portare la legna in
casa, anche se c’è un deposito giusto qui dietro.
Io però ho comprato qualcosa
di fresco, meglio delle scatolette, no?”
“Suppongo
di sì, anche se io ci vivo con quelle scatolette. Non sono
un gran cuoco e non
ho nemmeno tanto tempo per cucinare” rispose Gaara,
osservando l’altro prendere
gli ingredienti necessari per preparare la cena.
Fuori era
tutto buio, non si scorgeva nemmeno lo chalet vicino e la casa si stava
davvero
riscaldando velocemente; un bel contrasto con la distesa innevata che
ricopriva
ogni cosa.
“Io so
preparare giusto cose semplici, ma dovrei riuscire a non avvelenarci
stasera –
scherzò Sasuke guardandolo – perché non
vai a farti un bagno mentre cucino?”
Gaara
aveva ancora gli abiti con cui era andato a lavoro, la faccia era
sbattuta per
la stanchezza e il risveglio brusco, sicuramente un po’ di
relax lo avrebbe
aiutato a sciogliere la tensione.
“Un
bagno? Ma…”
“Ti farà
bene e poi io ci metterò un po’, non vorrei che le
tue scarse abilità da cuoco
mi contagiassero” lo prese in giro, vedendolo fare una
smorfia.
Gaara si
limitò a quella e lo seguì, finendo di vedere il
resto della casa. C’erano
molte camere da letto, Sasuke gli mostrò la sua,
più piccola ma vicina a quella
che lui abitualmente occupava quando era lì con la famiglia.
I bagni erano due
ma Sasuke lo condusse in quello più grande, gli diede un
accappatoio e tutto il
necessario per poi raccomandarsi di rilassarsi.
Una volta
solo, Gaara si sedette sul bordo della vasca, poggiando i gomiti sulle
ginocchia e prendendosi la testa tra le mani.
Che
diavolo ci faceva lì?
Era
passato circa un mese dal loro primo appuntamento, il giorno del suo
compleanno. Si erano rivisti nel suo ufficio per via dei lavori di
ampliamento
e anche un paio di volte al di fuori, a bere una birra o mangiare
qualcosa
assieme. Si mandavano messaggi seppur non quotidianamente: nessuno dei
due era
un gran chiacchierone, ma avevano scoperto di avere alcuni interesse in
comune
e qualche commento dopo la puntata settimanale del loro telefilm
preferito era
d’obbligo.
Nel frattempo
Gaara aveva concluso gli esami per quella sessione pochi giorni prima,
mentre
Sasuke era abbastanza libero dopo la consegna del progetto del nuovo
grattacielo; entrambi avevano quindi pensato che sarebbe stato il
momento
ideale per il loro weekend in montagna. Era fine febbraio e
c’era ancora
un’ottima neve, apparentemente tutti i presupposti parevano
perfetti, ma Gaara
si rese conto di aver preso la situazione troppo sottogamba.
Al di là
del fatto che non aveva mai sciato e che il giorno seguente si sarebbe
probabilmente ammazzato sulle piste, non aveva davvero capito
l’impatto che gli
avrebbe causato stare due giorni interi esclusivamente con Sasuke.
Non si
sarebbe trattato solo di condividere la stessa casa o dormire in camere
vicine,
bensì sarebbe praticamente dipeso da lui per ogni cosa. Gli
aveva prestato abiti
e attrezzature per la neve, la macchina con cui erano arrivati era la
sua e,
senza di lui, non avrebbe saputo dove andare e probabilmente sarebbe
morto,
inciampando in mezzo a qualche cumulo di neve. In quei giorni Sasuke
sarebbe
stato il suo punto di riferimento per ogni cosa.
Gaara
chiuse gli occhi e si passò le mani tra le ciocche rosse,
respirò profondamente
tentando di calmarsi. Anche quando viveva ancora con Kankuro aveva
imparato a
non dipendere da lui ma a rivedersi da solo le proprie questioni,
quando poi
era scappato ed era rimasto solo, la cosa non era più stata
una scelta bensì
una questione di sopravvivenza. Non era abituato a fare affidamento su
qualcuno, specialmente se con quel qualcuno il rapporto era ancora
lontano
dall’essere chiaro.
Lui e
Sasuke non erano amici, nemmeno amanti o tantomeno fidanzati, non
sapeva cosa
aspettarsi da lui e la faccenda lo destabilizzava, in fondo non aveva
mai avuto
una relazione seria, solo partner occasionali; era la prima volta che
si
trovava in una situazione simile, sospeso tra l’attrazione
fisica e una conoscenza
più profonda.
Si mise
in piedi e decise di non pensarci, quei dubbi non lo avrebbero portato
da
nessuna parte, meglio farsi un bagno e rilassarsi, ormai era in ballo e
non
poteva certo tirarsi indietro. Insomma, aveva affrontato situazioni ben
peggiori in vita sua, cosa sarebbe mai stato un weekend in montagna?
Aprì
l’acqua calda, versò del bagnoschiuma profumato e
iniziò a spogliarsi, incitato
dal tepore della stanza. Era rimasto in boxer e camicia slacciata
quando sentì
bussare alla porta.
“Gaara,
sei già dentro la vasca?”
Il
ragazzo chiuse i rubinetti e andò ad aprire, lo fece
istintivamente senza
pensare a mettersi qualcos’altro addosso, e vide Sasuke sulla
soglia con un
bicchiere in mano.
“Ecco… ho
pensato che un po’ di vino poteva aiutarti a
rilassarti” gli spiegò
l’architetto cercando di guardarlo in faccia, ma
inesorabilmente il suo sguardo
si perdeva sulla curva del collo, o sul petto pallido a malapena celato.
“Grazie”
rispose Gaara prendendolo.
Nessuno
dei due si mosse e rimasero a guardarsi in un’atmosfera
strana, tesa, come se
fossero in procinto di fare qualcosa di importante, essenziale quasi
quanto
respirare. Sasuke però fece un passo indietro:
“Ti
aspetto, prenditi il tempo che vuoi” disse allontanandosi e
Gaara fece in tempo
a vedere le sue guance lievemente arrossate, sicuramente non dovute al
riscaldamento.
Richiuse
la porta e finì di spogliarsi, per poi entrare
nell’acqua calda profumata. In
mezzo alla schiuma e con un bicchiere di ottimo vino rosso si
sentì molto
privilegiato, scoprì che avrebbe potuto passare anche ore
immerso lì, non
avrebbe avuto bisogno d’altro.
Bevve un
sorso che lo riscaldò piacevolmente, poi poggiò
la nuca contro la vasca,
immergendosi di più. Chiuse gli occhi e tentò di
non pensare a nulla,
lasciandosi cullare dalle piacevoli sensazioni dell’acqua
calda. La sua mente
vagava libera, passava da un pensiero all’altro, rimbalzando
come una pallina
da ping-pong in una partita infinita, ma alla fine si
soffermò sui ricordi più
recenti. Sasuke alla porta, col bicchiere in mano, il suo imbarazzo, lo
sguardo
che lo carezzava come fossero state mani e Gaara comprese che quei due
giorni
sotto lo stesso tetto sarebbero stati difficili, perché la
tensione sessuale
tra di loro era innegabile.
Dopo il
bacio la sera del suo compleanno, non ce ne erano stati altri,
né avevano fatto
sesso, ma ora la situazione era diversa: non erano andati a cena per
poi
salutarsi e finire a dormire ognuno nel proprio letto, bensì
i loro letti
sarebbero stati maledettamente vicini.
Sasuke
gli aveva fatto intendere bene anche senza parole che da parte sua
c’era molto
interesse anche da quel punto di vista, ma si era tirato indietro e
Gaara non
poté che apprezzarlo per questo. Perché, se
l’altro lo avesse baciato, non era
certo che lo avrebbe respinto o non avrebbe finito per farci sesso. Era
da mesi
che non andava a letto con qualcuno, l’ultimo era stato
Sasuke, e ora che la
sua vita sembrava essersi stabilizzata, smettendo di vorticare
impazzita, lui
aveva un po’ più di tranquillità
mentale per rendersi conto di tutti i bisogni
ignorati negli ultimi tempi.
Sdraiato
in quella vasca spaziosa in cui due persone sarebbero entrate
comodamente, non
poté evitare di immaginare Sasuke a fianco a lui, a quello
che sarebbe potuto
succedere, alle mani che avrebbero carezzato la sua pelle scivolosa per
l’acqua, i capelli umidi e le labbra invitanti.
Avvertì
distintamente la sua erezione svegliarsi ed ergersi al di sopra del
pelo
dell’acqua. Prese il vino e ne bevve un sorso, fissandola.
“E adesso
che accidenti dovrei farci con te?” sospirò
chiudendo gli occhi. Quei due
giorni avrebbero messo a dura prova i suoi nervi.
Sasuke
sentì la porta del bagno aprirsi e poco dopo quella di
un’altra stanza
chiudersi, segno che Gaara era andato nella sua camera da letto.
A quel
punto mise a cucinare le bistecche e guardò la tavola
apparecchiata con la
bottiglia di vino già aperta, le verdure che aveva preparato
mentre aspettava e
valutò con occhio critico se tutto fosse a posto, se non
fosse eccessivo.
Poi si
mandò al diavolo.
Sasuke,
è solo una fottuta tavola
apparecchiata, in una fottuta casa. Non ci sono candele sul tavolo,
né petali
di rose sparsi in giro, che diavolo dovrebbe vedere Gaara se non una
tavola
piena di cibo pronto per essere consumato? Datti una calmata o rischi
di
mandare tutto a puttane, altrimenti a che cosa sarebbe serviti gli
sforzi di
quest’ultimo mese di andarci con calma, di conoscervi e basta?
Sasuke
diede ragione alla propria coscienza che nel suo immaginario aveva la
faccia
del suo psicologo; inquietante, ma non riusciva a togliersi
quell’immagine
dalla mente.
Girò la carne
e il suo stomaco gorgogliò dinanzi all’odore
delizioso che si stava
sprigionando; in effetti era tardi, ma il viaggio era stato lungo e poi
pensò
che erano in vacanza, non avevano alcun orario da rispettare. Anche se
il
giorno seguente dovevano andare sulle piste da sci, potevano alzarsi
quando
volevano, nessuna sveglia li avrebbe buttati fuori dalle coperte
all’alba.
Domani
mattina posso svegliarlo io, magari
portargli il caffè a letto
–
iniziò a riflettere, ma un'altra voce si intromise.
Certo,
magari lo bevete assieme, tu ti siederai
sul materasso, lui ti chiederà se hai freddo e se vuoi
metterti sotto le
coperte, tu accetterai e poi… addio piste da sci.
Sasuke
scrollò con forza la testa, dandosi del coglione per quelle
trame da filmino
porno di quarta categoria. La verità era che Gaara gli
piaceva, aveva voglia di
fare sesso con lui e vederlo mezzo nudo prima non aveva aiutato i suoi
propositi di freddezza, ma non voleva essere il primo a farsi avanti se
l’altro
non si dimostrava altrettanto bendisposto. Forse Gaara avrebbe pure
accettato
di finire a letto insieme, in fondo era già successo in
passato, ma quello che
Sasuke aveva capito con più chiarezza in quel periodo era
che voleva qualcosa
di più da lui.
Gli
piaceva parlargli, quel loro tenersi sempre sul filo dello scontro, il
modo in
cui si tenevano testa perché erano entrambi orgogliosi e
testardi, nonostante
ciò avevano iniziato a venirsi incontro, a lasciare
all’altro un piccolo
spiraglio in cui infilarsi; lo stavano imparando insieme e questo gli
piaceva
moltissimo. Inoltre Gaara era un tipo tosto, ironico, con un sacco
d’interessi
e Sasuke si era dato dello stupido per non averli scoperti quando si
frequentavano mesi prima. All’epoca era davvero un coglione
per essersi
limitato ad andarci a letto, quando c’era così
tanto da scoprire in quel
ragazzo.
Non
devi incolparti così: eri diverso, non eri
pronto, tutto qui. Ora sta a te, a questa tua nuova coscienza, non
rovinare
tutto o comunque cercare di ottenere quello che desideri sul serio,
perché ora
sai ciò che vuoi, giusto? Non hai più bisogno di
mentirti o nasconderti, non
più, Sasuke, stai conquistando la tua libertà.
La voce
del suo psicologo gli risuonò con forza in testa e lui fece
una smorfia
irritata, si sentiva davvero uno psicopatico con tutte quelle voci che
gli
parlavano, se la situazione non si fosse chiarita presto, la prossima
vacanza
l’avrebbe fatta in una stanza con le pareti imbottite.
Mise le
bistecche sui piatti e, mentre le portava a tavola, vide Gaara venire
verso di
lui con il bicchiere vuoto in mano, i capelli ancora un po’
umidi, il viso
arrossato probabilmente dal calore del bagno e un’espressione
distesa.
“Hai
avuto veramente un’ottima idea, sto meglio – lo
informò per poi guardare la
tavola – ma quanta roba hai preparato?”
Sasuke
scrollò le spalle, gli riempì di nuovo il
bicchiere e fece lo stesso col
proprio dicendo:
“Niente
di che, dovresti vedere che combina mia madre” si morse la
lingua dandosi dello
stupido, era veramente una cosa intelligente da dire a uno cresciuto in
orfanotrofio!
Gaara
però non sembrò essersela presa, anzi sorrise e
si accomodò:
“Mi
sorprende che tu e Itachi non siate due ciccioni allora –
prese il vino –
mangiamo? Ho veramente fame e tutto sembra buonissimo.”
Sasuke si
sedette a sua volta, sollevato, e avvicinò il bicchiere al
suo, facendo
tintinnare il vetro.
“Alla tua
prima volta sulla neve” disse per poi bere così
come l’altro.
“Già,
devo veramente ringraziarti per avermi invitato.”
L’architetto
fece una smorfia mentre tagliava la bistecca:
“Non
serve che mi ringrazi, te l’ho detto che questo era il tuo
regalo di
compleanno. In realtà ne sto approfittando, avevo bisogno di
una pausa, e non
venivo qui da Natale.”
Gaara
mandò giù un boccone trovando tutto squisito,
pensando che Sasuke aveva molte
altre qualità nascoste che gli stava finalmente permettendo
di scoprire. Era un
peccato che pochi avessero questa opportunità dato il suo
carattere chiuso, ma
si ritrovò a riflettere che avrebbero potuto dire lo stesso
di lui.
“Già, a Natale
tu eri qui” disse guardandosi intorno e cercando di
immaginare come doveva
essere stata la casa in quei giorni, piena di parenti,
nonché lo stato d’animo che
lo aveva spinto a telefonargli per parlargli. Una cosa banale, ma per
Sasuke la
comunicazione non era un concetto così scontato come per
tante altre persone.
Questi
intanto aveva lo sguardo puntato sul piatto, attentissimo a tagliare la
bistecca come se avesse bisogno di un grande impegno per affondare in
quella
carne tenera.
“Già, ero
in camera mia quando ti ho telefonato – rivelò,
rispondendo alla sua domanda
inespressa – poi è entrato mio fratello che aveva
origliato e gli ho raccontato
tutto. Incredibile, eh? Itachi uno spione, non il fulgido esempio di
perfezione
che appare.”
Fu
difficile raccontargli quelle cose pur ammantate da un velo di pungente
ironia;
la parte faticosa non era quella del fratello spione ovviamente, ma
Sasuke
sentiva che era inutile fare finta di niente e continuare a girare
intorno alle
questioni.
“Oh, ma
Itachi è lontano dall’essere perfetto, te lo
assicuro” rispose Gaara, con
tranquillità. Diversamente da altre volte non si sentiva
nervoso al pensiero di
toccare dei tasti delicati, forse era il vino, forse era soltanto il
momento
giusto. “Comunque mi ha raccontato della vostra discussione
– lo informò,
affrettandosi ad aggiungere – non nei dettagli ovviamente.
Solo che gli hai
rivelato del… insomma del tuo interesse verso gli uomini e
che avevamo avuto
una relazione.”
Aveva
avuto difficoltà nel pronunciare quella
parola, come se solo tre lettere fossero state in grado di marchiare a
fuoco la
pelle di una persona. Ci pensò però Sasuke a
colmare quel vuoto.
“Sì, gli
ho detto di essere gay.”
Lo aveva
detto ad alta voce al fratello, allo psicologo, a Naruto, ma mai a
Gaara che
meritava di saperlo, perché Sasuke non avrebbe
più rinnegato la sua natura, non
si sarebbe più nascosto e questo poteva aprire un ventaglio
di scenari ampio,
se lui avesse voluto.
Gaara in
effetti vide le sue spalle dritte, l’aria fiera con cui aveva
parlato, molto
diversa da quella del ragazzo schivo che si guardava intorno furtivo
ogni volta
che uscivano dal bar o semplicemente camminavano fianco a fianco per
strada,
con la frangia calata a nascondere il viso.
“Mi fa
piacere che tu sia riuscito a chiarirti con te stesso. Direi che questo
merita
un brindisi” sorrise facendo tintinnare di nuovo i loro
bicchieri.
Bevvero e
mangiarono in silenzio qualche momento, ma poi la curiosità
di Sasuke ebbe la
meglio:
“So che
non sono affari miei, ma… tu come hai capito di essere gay?
Insomma cosa ti ha
fatto definitivamente mettere una croce sopra alle donne e al fatto che
non ti
piaceranno mai?”
Non
voleva solo conoscere meglio Gaara, ma voleva anche sapere come altre
persone
avessero affrontato il suo stesso percorso. Avrebbe potuto chiedere al
fratello
come aveva scoperto della sua bisessualità, ma con lui si
sentiva inibito di
fronte a discorsi così intimi. Se poi era stato davvero
Shisui ad aiutarlo in
quel periodo, non era sicuro di voler venire a conoscenza delle gesta
del
cugino.
Gaara
posò la forchetta e prese altro vino, non era una domanda
semplice, perché
riportava alla mente ricordi scomodi e verità che dovevano
rimanere nascoste.
Tuttavia non voleva tirarsi indietro ora che Sasuke sembrava essere
più aperto
e disposto al dialogo, quindi cercò di trovare un
compromesso.
“Ecco,
all’inizio non è che ci pensassi, il sesso non era
il mio chiodo fisso a
differenza degli altri adolescenti. Semplicemente è capitato
con un altro
ragazzo e poi… dopo quell’esperienza, ho provato
anche a baciare delle ragazze,
ma non provavo niente. E non erano loro a catturare la mia attenzione,
sempre e
solo uomini, quindi direi che è stato abbastanza chiaro. Poi
io, a differenza
tua, non avevo una famiglia che mi potesse giudicare o a cui rendere
conto, è
un bel peso in meno da affrontare.”
Per tutto
il tempo non lo aveva guardato, perché pensare a Kankuro, a
quello che un tempo
credeva fosse tutto il suo mondo, l’unica persona in grado di
comprenderlo, era
difficile. L’amato fratello si era rivelato essere tutto il
contrario,
cancellando l’uomo epico di cui serbava il ricordo e quella
era la prima volta
in cui raccontava ad alta voce ciò che più si
avvicinava alla verità. Chissà
come avrebbe reagito Sasuke se gli avesse detto di aver fatto sesso col
proprio
fratello? Sicuramente ne sarebbe stato disgustato, incredulo e
costernato,
soprattutto se avesse pensato al rapporto normale e pulito che aveva
con
Itachi. Quella verità sarebbe dovuta morire con lui, anche
se a causa del
ritorno di Kankuro nella sua vita, negli ultimi mesi si era ritrovato a
pensarci più spesso del solito e a desiderare di alleggerire
quel peso che
sentiva gravare sulle spalle.
Sasuke
notò la sua difficoltà, il modo in cui rifuggiva
il suo sguardo, ma non
immaginava di certo che Gaara stesse nascondendo certi pesi, credeva
solo che
fosse in imbarazzo e a disagio per qualche ricordo non propriamente
felice.
Lo aveva
colpito il riferimento alla famiglia, segno che il segretario avesse
capito
anche cose che Sasuke non gli aveva detto, inoltre gli
ricordò la sua vita in
orfanotrofio. La curiosità era stata stimolata da quei
dettagli di un passato
sconosciuto quindi, invece di cambiare discorso, domandò
ancora:
“Adolescente?
Scusa ma quanti anni avevi quando hai avuto la tua prima
esperienza?”
Gaara
posò il bicchiere e stavolta lo guardò in faccia,
i suoi occhi erano glaciali,
duri, e la sua risposta fu altrettanto secca:
“Quindici
anni. Ho scopato per la prima volta a quindici anni, soddisfatto
ora?”
Sasuke
rimase interdetto sia dalla risposta, sia dal modo in cui
l’altro si era
rivolto, in netto contrasto con la tranquillità e la
serenità che avevano
contraddistinto quella serata, e capì di aver esagerato.
“Scusa –
era raro che lo dicesse, ma quella volta era necessario – non
intendevo
infastidirti.”
Gaara lo
guardò ancora e il ghiaccio che lo avvolgeva
sembrò sciogliersi un po’. Si posò
le mani sulle cosce e ingobbì appena le spalle, capendo di
essersi comportato
da stronzo.
“No,
scusami tu. Sei solo curioso di sentire le esperienze di qualcun altro
che ci è
passato prima di te, lo capisco. D’altronde finora avevamo
sempre evitato argomenti
tanto personali, è solo… –
cercò le parole adatte – per me è
difficile parlare
di quel periodo e di lui, tutto qui. Però puoi farmi tutte
le domande che
desideri, non mordo più, lo giuro.”
Sasuke
osservò il suo mezzo sorriso di breve durata e
giocherellò con il manico della
forchetta, indeciso. La sua natura diffidente lo spingeva a metterlo
alla
prova, per vedere se davvero Gaara avrebbe mantenuto la sua parola,
perché per
lui mettere continuamente alla prova l’affetto e la
lealtà di chi lo circondava
era naturale, quasi come un riflesso spontaneo. In quel caso
però forse avrebbe
dovuto evitare di farlo, per non spingere Gaara con le spalle al muro
e, in
quel modo, dimostrargli fiducia. Si ritrovò tuttavia a
parlare, ma non per
testarlo, bensì per pura e semplice curiosità,
qualcosa a cui si abbandonava
raramente, spesso fingendo che non gli interessasse nulla anche delle
persone a
cui voleva bene.
“Quindi è
successo con un altro ragazzo dell’orfanotrofio? Lo stesso
che ti ha chiamato
il giorno del tuo compleanno?” Ricevette in risposta un
semplice cenno
d’assenso con la testa così continuò
“Per quanto tempo ci hai vissuto?”
Gaara si
umettò le labbra con la lingua, era davvero difficile
rispondere a domande in
realtà tanto semplici e interessate, non solo curiose.
Perché Sasuke era
interessato a lui, al suo passato, a conoscerlo meglio in toto e, forse
proprio
per quel motivo, aveva paura di deluderlo, di dire qualcosa che lo
avrebbe
compromesso ai suoi occhi e avrebbe ucciso l’interesse che
provava nei suoi
confronti.
“Da che
ne ho memoria. Mi hanno detto che mia madre è morta nel
farmi nascere e che
dopo un po’ mio padre sparì, abbandonando me e i
miei fratelli, ma sinceramente
non so se sia vero o solo un’invenzione di quegli aguzzini
che mandavano avanti
l’orfanotrofio. Verso i quattro anni mia sorella venne
mandata in un altro
istituto e io e mio fratello finimmo in una specie di
orfanotrofio-collegio
maschile. Non uscivamo mai da lì, studiavamo e vivevamo
sempre tra le stesse
mura, raramente ci portavano in gita: eravamo tanti e non era semplice
organizzare escursioni. A volte uscivamo di nascosto la sera, ma le
punizioni
erano severe quando ci beccavano e io ero uno dei loro bersagli
preferiti, in
fondo non piangevo mai come piaceva a loro, né chiedevo
scusa – fece un sorriso
amaro – solo quando fummo adottati iniziammo a vivere davvero
in mezzo alla
gente. Avevo sedici anni, ma dopo qualche mese sono scappato, ho
vissuto per
strada e fatto lavori senza alcun contratto fino a che non sono
diventato
maggiorenne. Poi ho sempre lavorato e intanto studiavo per prendere il
diploma,
così sono finito dove sono ora. Insomma questa è
la mia storia, niente di
allegro o così incredibile, ma in fondo posso dire di essere
stato fortunato e
di essermela cavata.”
Non aveva
avuto intenzione di raccontare così tanto di sé,
ma una volta iniziato era
stato difficile rimettere il coperchio su una pentola ribollente e
strabordante. Così aveva lasciato che le parole
fuoriuscissero, realizzando
all’improvviso che quel weekend sarebbe stato fondamentale
per il loro futuro,
che senso aveva non mettere tutte le carte in tavola? Adesso o mai
più.
Sasuke
rimase basito da quelle rivelazioni, aveva intuito che il passato di
Gaara
fosse stato difficile, ma non avrebbe mai immaginato fino a quel punto.
Si
sentì all’improvviso così ragazzino coi
suoi problemi futili, quando di fronte
a sé aveva qualcuno che aveva letteralmente lottato per
sopravvivere e non
morire; in realtà non aveva mai smesso. Si vide coi suoi
occhi, mesi addietro,
un codardo viziato che pretendeva senza dare nulla in cambio, che lo
usava per
soddisfare il proprio personale ego e nient’altro. In fondo
il giorno della
laurea, quando Gaara era andato là solo per lui e poi se ne
era andato ferito,
Sasuke, sotto alla rabbia e alla paura di essere scoperto, non aveva
forse
provato un sottile senso di soddisfazione per il potere che riusciva a
esercitare su un’altra persona?
Forse
iniziava a convenire con gli altri quando gli dicevano scherzando che
quello psicologo
valeva ogni centesimo che prendeva.
“Mi
spiace, non volevo andare a svegliare fantasmi sepolti. Hai avuto
davvero una
vita difficile e poi ti sono capitato io in mezzo. Sicuro di non essere
stato
Hitler in una vita precedente?”
Non fece
menzione dei fratelli, perché l’altro gli aveva
sempre lasciato intendere di
non avere nessun famigliare, magari erano morti o forse si erano
allontanati;
qualunque fosse il motivo sicuramente non era niente di facile o
allegro e
Sasuke sentiva di aver già spinto abbastanza
sull’acceleratore per quella sera.
Non voleva tirare in ballo altri argomenti dolorosi solo per saziare la
sua
curiosità, magari ne avrebbero parlato un’altra
volta, perché sperava di poter
parlare con lui ancora a lungo in futuro.
Gaara
invece rimase attonito qualche secondo, per poi semplicemente scoppiare
a
ridere. Sasuke che faceva autoironia e ammetteva di essere una
merdaccia non
era certo qualcosa che accadesse tutti i giorni, peccato non averlo
registrato.
“Ma no,
ma no – disse con ancora il riso sulle labbra – in
fondo sono fortunato: mi fai
domande perché sei interessato, no?”
Sasuke
ebbe il prepotente istinto di alzarsi e andarlo a baciare, mentre
sorrideva
ancora, per sentire se avesse un sapore diverso, non lo aveva mai visto
tanto
divertito e gli piacque persino la sua risata sincera. Tuttavia si
trattenne e
mormorò soltanto:
“Già.”
Guardò la
tavola, col cuore che sbatteva contro le coste, tanto pulsava
velocemente; in
pratica si era appena confessato e si sentiva così stupido e
in imbarazzo che
cercò qualcosa per cambiare il discorso, dal momento che
l’altro non diceva più
niente.
“Visto
che abbiamo finito di mangiare lavo i piatti e poi sarà il
caso di andare a
letto, domani sarà una giornata impegnativa.”
Gaara annuì,
ora serio, e si alzò dicendo:
“Ci penso
io qui, è il minimo dopo che hai cucinato. Tu va’
pure a fare una doccia o a
dormire.”
“Ok,
grazie, farò una doccia” replicò Sasuke
per poi sparire nel corridoio.
Gaara lo
seguì con lo sguardo finché poté, per
poi mettersi al lavoro. Sapeva che avrebbe
dovuto dire qualcosa, ma si era bloccato; non aveva più
dubbi sulle reali
intenzioni dell’architetto, ma il problema era un altro:
aveva paura. Paura di
lasciarsi andare e rimanere di nuovo ferito, in fondo se lo aveva fatto
suo
fratello, un estraneo come avrebbe mai potuto avere cura di lui?
Sistemò
in fretta la cucina e si rifugiò in camera per non
incontrare di nuovo Sasuke
quella sera. Al caldo, sotto le coperte, su quel letto comodo, lo
sentì
muoversi nella stanza a fianco e desiderò…
desiderò che fosse lì, desiderò
trovare quel coraggio che gli permettesse di fare l’ultimo
passo verso di lui.
***
L’atmosfera
nel locale era distesa, esattamente quella che invitava a rilassarsi,
chiacchierare e bere perdendo di vista l’orologio. Era
piuttosto affollato
essendo venerdì sera, ma Itachi e Shisui erano comodamente
seduti ad un
tavolino con un divanetto e sorseggiavano i loro drink.
Shisui
era finalmente riuscito a portare il cugino in quel – per
loro – famoso gay bar
dove lavorava Deidara, il barman fenomenale, e dove il maggiore dei due
Uchiha aveva
scorto più volte Gaara in passato e, infine, dove
quest’ultimo e Sasuke si
erano conosciuti. Un bel po’ di coincidenze per quelle
quattro mura.
Itachi
comprese come mai il fratello avesse scelto proprio quel locale: era
discreto,
non eccessivamente rumoroso e, anche se le vetrate non erano
trasparenti per
garantire una certa privacy alla clientela, all’interno si
poteva cogliere al
massimo qualche bacio qua e là. Niente orge, frustini e
appariscenti
drag-queen, stereotipi che popolavano l’immaginario e le
paure dell’eterosessuale
medio.
I due
cugini stavano conversando senza fretta, era da parecchio che non si
vedevano, soprattutto
perché Itachi era stato oberato di lavoro, però
era felice di essersi liberato
quella sera e di aver accettato l’invito di Shisui. Era
evidente che l’altro
aveva qualcosa che non andava.
Pur
sentendosi per telefono, l’avvocato non riusciva a cogliere
le molteplici e sottili
sfumature del carattere del cugino da dietro uno schermo.
L’uomo era troppo
sfaccettato e complicato per poterci riuscire, nonostante lo conoscesse
da una
vita; a volte si chiedeva addirittura se fosse davvero così,
se lo conoscesse
davvero, a volte rimaneva ancora spiazzato da lui.
“Dovremo
tornare a casa in taxi?” gli domandò dato che
aveva perso il conto dei suoi
drink bevuti.
Shisui
assottigliò gli occhi grandi per guardarlo infine, fingendo
un’aria dotta,
esclamò:
“Risposta
esatta! Qualche problema?”
Erano
venuti con la sua macchina, ma lui non era in condizione di guidare e
anche
Itachi aveva bevuto abbastanza. Quest’ultimo
scrollò la testa, muovendo anche
la folta coda dicendo:
“Figurati,
avrei preferito saperlo, però.”
“È questo
il bello dell’imprevisto, altrimenti non usciresti con
me” sorrise l’altro, con
le sue guance rosse e l’aria rilassata che sembrava dipinta
addosso.
Itachi
rise piano e, suo malgrado, si trovò a convenire, in fondo
il cugino era la
vera e unica variabile impazzita del suo mondo accuratamente ordinato e
gli
piaceva che fosse così.
Anche
Shisui rise, ma la sua risata ebbe vita breve perché
notò perfettamente un tipo
che aveva puntato Itachi. Non era il primo della serata, ma quasi tutti
desistevano vedendoli insieme, però ce ne era stato qualcuno
di più coraggioso
che sfidava l’aria impassibile di Itachi e quella corrucciata
di Shisui per
cercare di rimorchiare l’altro in modi più o meno
espliciti. C’era stato chi
gli aveva offerto da bere, chi gli aveva lasciato un bigliettino col
numero e
chi gli aveva addirittura proposto un tour dei bagni, ma Itachi aveva
sempre
declinato senza scomporsi e il sorriso era tornato sulle labbra
imbronciate del
cugino.
Aveva immaginato
che una faccia nuova e affascinante avrebbe attirato
l’attenzione in un posto
simile, ma aveva voglia di uscire con lui ed essere libero, senza stare
attento
se si sfioravano per sbaglio o si guardavano negli occhi troppo a lungo.
“Allora,
Sasuke e Gaara sono partiti?” gli domandò
prendendo un altro sorso del proprio
drink.
Itachi
annuì:
“Sì, oggi
pomeriggio. Sasuke è passato a prenderlo e immagino saranno
ormai arrivati da
un po’.”
“Come va
tra di loro?”
Itachi si
prese qualche istante per riflettere, poi disse:
“Non ne
sono sicuro. Sasuke non mi viene a raccontare certi dettagli,
né io glieli
chiedo, e non mi sembra un argomento di discussione da tirare fuori in
ufficio
con Gaara. Credo tutto sommato bene visto che stanno partendo, Gaara mi
sembrava abbastanza contento, anche se un po’ preoccupato.
Forse non avrei
dovuto fargli vedere le foto dei lividi che mi sono fatto con lo
snowboard.”
Shisui lo
guardò, spostandogli una ciocca di capelli dietro
l’orecchio, un gesto semplice
ma che non avrebbe potuto fare in un locale qualsiasi.
“Quindi…
tu sei fuori dai giochi?”
“Non ci
sono mai entrato in realtà – sospirò
piano, lasciandolo fare – se Gaara non
avesse mai conosciuto Sasuke, sarebbe stato diverso, ma non
è così. E,
nonostante tutto, entrambi sono più presi di quanto pensano,
altrimenti anche a
distanza di mesi e di tutto quello che è accaduto, Sasuke
non sarebbe andato a
cercarlo, ma soprattutto Gaara non avrebbe accettato di frequentarlo di
nuovo,
non credi anche tu?”
Shisui
sorrise, un sorriso malinconico, strano:
“Già, la
gente è stupida. Non capisce i propri sentimenti, figurarsi
quelli di chi ci
sta intorno. E come sta il tuo cuore infranto?”
Itachi
rimase un po’ sorpreso dalla sua affermazione, ma la
archiviò come una specie
di delirio da ubriaco, senza darle l’importanza che avrebbe
meritato.
“Nessun
cuore infranto – rispose – era solo un interesse
morto quasi prima di nascere,
niente di più.”
Shisui
aggrottò appena la fronte, ma non replicò, invece
dopo qualche istante domandò:
“Ti piace
quel tizio? È da parecchio che vi scambiate degli sguardi, o
anche lui è un
altro interesse e basta?”
Itachi
smise di guardare l’uomo seduto al bancone: Shisui aveva
ragione, era almeno
mezz’ora che si lanciavano occhiate. Guardò invece
il cugino, il suo viso serio
e scosse appena la testa, chiedendo:
“In
effetti lo trovo affascinante, mi incuriosisce, ma non andrò
mai da lui, lo
sai, no?”
“Lo so?”
Itachi
rimase interdetto dinanzi a quell’interrogativo e si
limitò a guardarlo, ma non
funzionava: i suoi occhi attenti, sempre capaci di leggere negli altri,
in quel
momento erano inutili: gli restituivano solo l’espressione
contratta di quel
bel viso che era abituato a vedere sorridere. Si sentì
stringere lo stomaco nel
vederlo a quel modo, tanto che si decise a domandare senza troppi giri
di
parole:
“Mi
spieghi che diavolo succede? Che ti prende stasera?”
Non era
proprio da lui chiedere così direttamente, era un segno
della sua esasperazione
e Shisui lo sapeva bene. Incrociò le braccia davanti al
petto e lo guardò con
aria fintamente divertita:
“Il
grande principe del foro non ci arriva? Oppure la verità va
bene solo per gli
altri e tu continuerai a nasconderti dietro i tuoi segreti?”
Itachi
tacque. Quelle parole erano taglienti, facevano male, il cugino
sembrava
deriderlo ed era qualcosa che in quegli anni non aveva mai fatto. Si
irritò
perché qualcosa sfuggiva alla sua comprensione, il suo
mirabile cervello proprio
non voleva saperne di trovare il tassello mancante del puzzle e Shisui
pareva
intenzionato a non fornirglielo, limitandosi a prendersi gioco di lui.
“Vedi di
finirla o ti mollo qui” sbottò, piccato.
“Molleresti
da solo un povero ubriaco col cuore spezzato? Sei crudele,
Itachi.”
Il
ragazzo cambiò subito atteggiamento, riscoprendosi
preoccupato.
“Cosa?
Credevo non stessi uscendo con nessuno in questo periodo –
disse stringendogli
un braccio – cos’è successo?
Perché non mi hai raccontato niente?”
Shisui lo
guardò con gli occhi grandi spalancati, il che era
abbastanza comico sulla sua
faccia da ubriaco, ma nessuno dei due rise anche se le labbra del
maggiore si
piegarono in un sorriso amaro.
“Cazzo,
Itachi! – esclamò – Ma allora davvero
non hai mai capito un cazzo!”
Scosse la
testa incredulo, ma non aggiunse altro.
Itachi
avvertì un senso di disastro ineluttabile, come quando si
vede chiaramente
l’altra automobile venire addosso ma non si può
fare nulla per evitarla. Allo
stesso modo lui non sterzò, non cambiò
traiettoria, bensì andò dritto verso
quello scontro; non avrebbe potuto fare diversamente. Lo doveva a
Shisui, per
tutto quello che avevano condiviso, per il loro passato, il presente e
il
futuro, doveva gettarsi nel burrone assieme a lui e sperare che la
caduta non
fosse troppo rovinosa.
“Cos’è
che non capisco?”
Fu un
grandissimo sforzo per lui dover inghiottire l’orgoglio e
ammettere la propria
incapacità a comprendere i suoi limiti nei confronti di quel
cugino che era il
suo punto fermo.
Shisui
rimase in silenzio, la sua bocca sembrava sigillata, ma in
realtà era solo
piena di parole pericolose, affilate e taglienti come cocci di vetro
che gli
stavano squarciando la carne delicata, sentiva che presto il sangue
sarebbe
colato fuori e loro assieme a esso, non sarebbe più riuscito
a rimanere zitto.
Per quello decise di agire, di sporcare anche Itachi con il sangue e di
ferirlo
con quei cocci: lo baciò. Gli aprì la bocca con
la lingua e divise con lui quel
peso, afferrandogli la nuca con una mano, impedendo che si allontanasse
per
fargli bere la sua risposta amara fino in fondo.
“Questo è
quello che non capisci – gli sussurrò Shisui a
fior di labbra – o forse non hai
mai voluto capire niente; più comodo, non trovi?”
Itachi si
morse un labbro che già gli pulsava, perché quel
bacio non era stato morbido,
né delicato, era stato esigente, irruento e doloroso nella
sua verità; finalmente
nella sua mente la nebbia si stava diradando, ma non era sicuro di
voler vedere
cosa ci fosse al di sotto. Non avrebbe mai creduto che la situazione
potesse
essere così seria, forse già fin troppo
compromessa, ma la colpa era sua, solo
sua che non aveva capito… o forse era di Shisui che era fin
troppo bene a
mascherare i suoi sentimenti, anche più di Itachi?
“Perché,
Shisui? Perché ora, perché non mi hai mai detto
nulla?” gli domandò, nonostante
tutto.
Non
poteva fare finta di nulla, anche se sarebbe stato più
semplice, non avrebbe
mai potuto farlo con lui.
Il cugino
gli sorrise, ma era un sorriso brutto, triste, non il solito che gli
vedeva
sempre aleggiare sulle labbra e che adorava.
“Perché
finora non hai mai mostrato molto interesse verso gli altri uomini.
Oltre me
hai avuto solo altre due storie di poco conto, hai sempre preferito le
donne.
Credevo fossi davvero innamorato di Konan, le hai dato le chiavi del
tuo
appartamento, pensavo che l’avresti sposata e avrei visto
tanti mini Itachi
scorrazzare in giro – era difficile mantenere la
lucidità ubriaco com’era, ma
tenne duro –con Gaara però qualcosa è
cambiato, ora guardi gli uomini con occhi
diversi. Dovrei quindi lasciarti andare da quel tizio al bancone o da
uno di
quelli che ti hanno dato il numero senza alzare un dito? Per chi cazzo
mi hai
preso, Itachi? Pensi che continuerei ad andare a letto con mio cugino
per anni,
rispettandolo ogni volta che è fidanzato, solo per
divertimento? Che cazzo ti
sei raccontato in questi per tutto questo tempo?” Si
bloccò e gli mise un dito
sulle labbra per impedirgli di parlare mentre lo scrutava con gli occhi
lucidi
e grandi per l’alcool “No, la domanda giusta
è: ti sei mai chiesto qualcosa?
No, vedendo la tua faccia sorpresa deduco di no – scosse la
testa – cazzo,
possibile che non hai mai riflettuto sul fatto che solo a me permetti
di scoparti,
che vieni sempre a cercarmi quando una tua relazione finisce o se hai
problemi?
Cosa sono per te? Un balsamo da mettere sulle tue ferite e poi da
riporre
nell’armadietto quando non serve più?”
Sapeva di
essere ingiusto, perché Itachi teneva a lui, ma quella sera
non era lucido, il
grumo di sentimenti che per anni aveva compresso dentro di
sé stava esplodendo
e rilasciava tutt’attorno la sua scarica venefica.
Itachi
intanto era sconvolto, aveva ascoltato il suo sfogo incredulo, aveva
visto i
suoi lineamenti mutare, distorcersi, portandolo a chiedersi se era
veramente il
cugino quello che gli sedeva accanto.
Forse,
per la prima vera volta nella sua vita, era sotto shock, incapace di
processare
le informazioni ricevute e di confezionare una risposta adeguata e gli
occhi di
Shisui lo guardavano, erano grandi, scuri e dalle ciglia lunghe, gli
erano
sempre piaciuti. Ma ora lo fissavano e attendevano una risposta che lui
non
riusciva a dare, perché davvero non si era mai posto domande
sul loro rapporto.
Aveva sempre dato per scontato che Shisui ci sarebbe sempre stato, non
aveva badato
al fatto che a volte era stato fidanzato quando lo era andato a cercare
e il
cugino, che era sempre fedele e non era mai sleale con i suoi partner,
aveva
tradito; per lui, solo per lui. Ma Itachi non ci aveva mai dato peso,
aveva
preteso e basta, nella cieca illusione che non servissero spiegazioni,
che
Shisui non avesse bisogno di niente di più di quello che gli
dava.
Ora si
rendeva conto che non era così, ed era accaduto nel modo
più drammatico
possibile e lui ancora non riusciva a pensare a una risposta.
“Shisui,
io…” mormorò, ma non aggiunse altro.
Il cugino
scosse la testa e disse solo:
“Non
preoccuparti, il vero coglione qui sono io.”
Prese il
cappotto e si alzò, andandosene, senza voltarsi a guardarlo.
Itachi lo vide
barcollare lievemente, urtare anche qualcuno, ma l’altro
andava dritto verso
l’uscita e lui non lo fermava. Lo vide sparire attraverso la
porta e non si
sentì mai così solo, come in quel momento in
mezzo a tutta quella folla.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 16 *** 16 - Baby can I hold you tonight ***
Maybe
if I told you the right words
At the right time you'd be mine
(Tracy Chapman)
Baby
can I hold you tonight
Gaara
era
fermo vicino alla seggiovia e la fissava più o meno come un
gatto avrebbe
squadrato un cane: con estrema diffidenza e una certa dose di astio.
Aveva gli
sci agganciati agli scarponi rigidi che gli bloccavano la caviglia,
un’aderente
calzamaglia sotto ai pantaloni, una maglietta termica sotto la giacca,
guanti e
caschetto; tutto fornitogli da Sasuke. Si sentiva più
imbottito di un panino,
ma perlomeno non avvertiva molto il freddo e gli abiti erano comodi,
anche se
inusuali. Il problema era che iniziava a sentirsi terrorizzato
all’idea che tra
poco sarebbe davvero stato sulle
piste, nella sua mente sfrecciavano già immagini di
incidenti mortali o in cui
finiva su una carrozzina. Era cresciuto in una località
vicino al mare, la
città in cui abitava ora era in collina e vicina a dei
boschi, che diavolo ci
faceva uno come lui sulla neve?
Sasuke
gli diede una bottarella sul braccio per riscuoterlo dalle sue
riflessioni e
gli indicò i seggiolini:
“Al
prossimo saliamo, è più semplice di quanto
sembri, non si tratta mica della
filovia.”
“E che
diavoleria sarebbe?”
“Diavoleria
è il termine giusto, è un filo che penzola con un
peso alla fine. Ti metti il
filo in mezzo alle gambe, stringi e sali così. Non ti dico
le volte che ci si
dà una botta sulle palle, c’è anche
qui, ma ho pensato di evitarla per la tua
prima volta.”
Gaara
apprezzò nuovamente le premure di Sasuke, cercò
di imitare i suoi gesti e di
accomodarsi al suo fianco sul seggiolino doppio che lentamente saliva
verso
l’alto. Guardò i propri piedi con gli sci ancorati
che penzolavano nel vuoto e
provò un po’ di timore, strinse più
forte le racchette tra le mani e pensò che
la cosa migliore fosse chiudere gli occhi finché non fossero
arrivati in cima.
Dopo qualche istante però Sasuke lo chiamò,
così sollevò le palpebre per
guardarlo armeggiare con un tubetto di crema bianca che poi gli
spalmò sul
viso. Fece un piccolo scatto all’indietro col collo,
guardandolo interrogativo.
“È solo
crema solare. Mi sono dimenticato di metterla prima di scendere dalla
macchina”
“A che
serve? Mica siamo al mare” domandò Gaara, pensando
che lo stesse prendendo in
giro. Nonostante ciò non si sottrasse e lasciò
che Sasuke gli passasse la mano
calda sul viso freddo e trovò piacevole quel contrasto,
tanto che si dispiacque
quando smise.
“Il sole
picchia forte anche qui, la neve lo riflette e aumenta la sua potenza,
la crema
è indispensabile specialmente per due con la pelle chiara
come la nostra. La
rimetteremo durante la giornata, voglio farti tornare a casa tutto
intero” gli
spiegò mentre se la spalmava a sua volta e poi riponeva il
tubetto in tasca,
affrettandosi a rimettere i guanti.
Gaara lo
ascoltò meravigliato, rendendosi conto di quante cose
ignorasse del mondo;
nonostante tutti i dubbi e le incertezze, capì che quel
weekend sarebbe stato
una cosa buona, una nuova esperienza che avrebbe ingrandito il suo
modesto
bagaglio.
“Non sono
così sicuro di tornare a casa tutto intero se insisti nel
volermi far sciare”
rispose dato che le sue visioni catastrofiche non erano finite, anzi
avvicinandosi alle piste aumentavano.
Sasuke
rise e gli posò una mano sul braccio, purtroppo con tutti
gli strati di vestiti
Gaara sentì solo la pressione esercitata
e nient’altro, lo guardò negli occhi
divertiti mentre parlava.
“Ma no,
inizieremo proprio dalle basi, solo sulle piste baby. Se ci sono io,
non ti
succederà niente, in famiglia abbiamo imparato a sciare
tutti da quando eravamo
piccoli; sono bravo, sai? Fidati di me”
Gaara
avvertì il sangue affluire alle guance, si augurò
che l’altro attribuisse la
colpa al freddo e non all’emozione provocatagli da quelle
parole. Maledetto
quell’Uchiha che diceva cose tanto sconcertanti con quel
sorriso leggero;
fidarsi di lui. Poteva davvero farlo?
“E allora
come mai Itachi era pieno di lividi dopo Natale? Mi ha fatto vedere le
foto,
era impressionante” gli fece notare, non ancora convinto.
“Che
cosa?!” esclamò Sasuke sconcertato, ma non ebbe
tempo di aggiungere altro
perché erano arrivati. Alzò la sbarra di
sicurezza e spiegò in fretta a Gaara
come poggiare gli sci per non cadere, augurandosi che andasse tutto
bene. Lo
vide scivolare lentamente in avanti, allontanandosi dalla seggiovia e
tenendo
istintivamente le ginocchia incrociate, il modo migliore per finire coi
piedi
all’aria. Fortunatamente non successe così lo
raggiunse in fretta, riprendendo
il discorso di prima:
“Itachi
ti ha fatto vedere le foto dei suoi lividi?”
Gaara che
era più interessato a guardarsi attorno, a capire se tenere
i piedi aperti o
uniti e un milione di altre cose nuove, rispose con un disinteressato:
“Sì, che
c’è di male?”
“C’è che…
oh, andiamo! Le foto del suo… mio fratello che ti mostra
certe cose!”
Gaara si
decise a guardare Sasuke: le guance erano rosse, stringeva forte le
racchette
tra le mani guantate e aveva un’espressione a metà
tra lo sbalordito e lo
sconvolto.
“Cos’hanno
di così terribile le foto del suo ginocchio, a parte fare
impressione per
essere quasi nero e gonfio?” domandò continuando a
non capire. Vide però
l’atteggiamento dell’altro cambiare, tirare un
sospiro di sollievo e alzare un
attimo gli occhi al cielo. “Sasuke… cosa credevi
che mi avesse mostrato
Itachi?”
L’Uchiha
minore fece una smorfia e disegnò qualcosa nella neve con la
punta della
racchetta, evidentemente imbarazzato e desideroso di non rispondere.
“Il suo
sedere” borbottò però alla fine.
Ricordava bene di come durante le vacanze
fosse entrato nella stanza che condividevano e lo aveva trovato coi
pantaloni
calati, a mettersi una crema contro gli ematomi sul fondoschiena
violaceo. Non
era stato un bello spettacolo.
Gaara
sgranò gli occhi e gli parve che fossero sul punto di uscire
dalle orbite, aprì
e richiuse la bocca un paio di volte, stette in silenzio qualche
istante e solo
dopo quasi un minuto riuscì a dire:
“Sei un
idiota! Come ti viene in mente che tuo fratello mi possa aver mostrato
le sue
chiappe? E poi ce lo vedi a fotografarsele? Itachi? Stai
fuori!”
Se solo
fosse stato in grado di muoversi agilmente sulla neve, si sarebbe
voltato e
allontanato, ma non era possibile, Sasuke era la sua guida e punto di
riferimento per quel giorno, quindi aggrottò le sopracciglia
e aggiunse con
voce stizzita “Ora se abbiamo finito con queste idee balorde,
vuoi insegnarmi a
non ammazzarmi?”
L’architetto
evidentemente imbarazzato si morse un labbro per poi annuire:
“È solo
che… lasciamo perdere, andiamo”
Nonostante
tutto Gaara fu colpito da quell’ennesima sfaccettatura del
suo carattere, da
come tutto il divertimento e l’aspettativa fossero scomparse
dal suo viso in un
battito di ciglia, e si dispiacque di essere stato così
duro. Inoltre, se solo
avesse saputo dei baci che si erano scambiati, non avrebbe proprio
potuto dargli
dello stupido.
La sua
reazione lo rese ancora più convinto a far rimanere segreti
quei due episodi,
semmai avesse avuto l’intenzione contraria. In fondo era
qualcosa che
riguardava solo lui e Itachi, avvenuto in un periodo in cui non sentiva
più
Sasuke; erano stati bei momenti e importanti per Gaara,
perché gli avevano
mostrato che non era ancora tutto perduto come si era convinto. Quei
due baci
erano lontani nella sua memoria, ammantati da quel velo di malinconia
che hanno
sempre i bei ricordi che non torneranno mai più,
perché era certo che non
sarebbe successo di nuovo.
Per quel
motivo posò una mano sulla spalla di Sasuke e la strinse
nonostante i guanti e
i vestiti ingombranti.
“Sono
nelle tue mani, maestro. Hai detto che mi avresti riportato a casa
tutto d’un
pezzo, giusto?”
Gli
sorrise dicendogli in pratica che si fidava di lui e gli occhi di
Sasuke
parvero rianimarsi: avrebbe fatto tesoro di quella concessione e
all’improvviso
le chiappe di Itachi erano dimenticate; in realtà non erano
mai esistite.
In
un
punto tranquillo vicino alla pista baby, Sasuke aveva fatto vedere a
Gaara il
movimento base che ogni principiante doveva imparare: lo spazzaneve. Si
trattava di allargare le gambe e far convergere le punte degli sci come
un
triangolo. A quel modo si poteva procedere in sicurezza, imparando a
mantenere
l’equilibrio, inclinando i piedi a dovere si riusciva ad
acquisire più o meno
velocità o a frenare, successivamente, imparando a
distribuire il peso del
corpo, si imparava a curvare e ad assumere un certo ritmo. Erano i
movimenti
che ogni sciatore doveva imparare a padroneggiare per poter iniziare a
scendere
dalle piste con gli sci paralleli e a lanciarsi, letteralmente, in
quello sport
impegnativo ed elettrizzante.
Gaara si
mostrò un buon allievo, molto accorto, anche se un paio di
volte finì comunque
a gambe all’aria; il battesimo della neve lo
chiamò Sasuke, ridendo. Anche se
doveva stare dietro a un principiante e non scorrazzava libero sulle
piste
rosse come suo solito, si stava divertendo. Gaara era testardo e si
impegnava,
era anche autoironico e più aperto ora che era impegnato in
qualcosa di diverso
dallo schermarsi e misurare le risposte.
A Sasuke
piacque quella libertà, il modo in cui stavano vicini e
interagivano, come due
persone qualsiasi. Si guardò attorno e vide altra gente fare
le stesse cose:
chiacchieravano, sciavano, si divertivano ed erano uguali a loro. Si
rese conto
che lui e Gaara non portavano scritto addosso che erano gay, sulle loro
sgargianti tute non era impresso il marchio della diversità
e Sasuke non lo
scorgeva nemmeno sugli altri.
Magari
quella bella signora bionda e atletica non era sposata con
l’uomo che le
tendeva gli occhiali da sole, bensì poteva avere una
relazione con la donna che
aveva di fianco. C’erano miliardi di possibilità
su quella terra e nessuna di
esse era sbagliata; cosa c’era di sbagliato
nell’amare? Era così importante il
genere?
No,
non lo è. Importa solo quello che provo io
e chi ho a fianco. Giusto, doc?
Giusto, Sasuke, giustissimo. Ti sei meritato un
cioccolatino anche oggi.
Il
ragazzo sorrise tra sé e sé per quel dialogo
immaginario col suo psicologo, ma
era certo che anche nella realtà le cose sarebbero andate
proprio così. Si rese
conto di essersi perso nei propri pensieri e aver perso di vista Gaara,
ma lo
individuò subito: stava scendendo con gli sci paralleli
dalla pista baby e
stava andando abbastanza bene, anche se al pari di una lumaca per i
suoi
standard. All’improvviso però lo vide perdere
l’equilibrio, forse aveva trovato
della neve più ghiacciata o un qualche altro ostacolo sotto
gli sci, fatto sta
che finì a gambe all’aria.
Sasuke si
affrettò a raggiungerlo e, togliendosi gli sci, si
inchinò al suo fianco per
aiutarlo dato che non si muoveva.
“Ehi,
stai bene? Che è successo, stavi andando benissimo”
Gaara,
sprofondato nella neve, senza dare alcun cenno di volersi alzare, si
tirò su
gli occhiali da sci e lo guardò, sorridendogli.
“Tutto
bene, un crampo alla gamba destra, però è lieve,
sta passando”
“Accidenti
– disse Sasuke prendendogli il polpaccio e iniziando a
massaggiarglielo – ti
sei fatto male da qualche altra parte?”
“No, sto
bene. Però mi sento così stanco che penso
rimarrò qui, mi vieni a riprendere
quando si scioglie la neve?” chiuse gli occhi avvertendo il
dolore scemare.
“Scemo – sbuffò
– e come pensi che sopravvivranno a lavoro senza di
te?”
“In
qualche modo, magari ci metterebbero qualche mese per capire come
stilare una
fattura, o come prenotarsi il ristorante da soli, ma ce la
farebbero” rise
piano.
“Non ci
pensare nemmeno, non voglio avere a che fare con Hiashi Hyuuga, quindi
tornerai
a casa con me domani. Martedì voglio vedere te alla
riunione”
Gaara
puntellò i gomiti e si alzò col busto per
guardarlo, ma Sasuke aveva la testa
china sulla sua gamba e intravide giusto qualche ciuffo di capelli
scuri al di
sotto del casco. In quel momento avrebbe voluto tirarselo addosso,
sprofondare
assieme a lui nella neve, farsi ricoprire e rimanere così,
celati agli occhi
del mondo, perché non esisteva altro all’infuori
di loro. Avrebbe voluto creare
una bolla in cui rifugiarsi assieme a lui, proprio lì in
mezzo alle neve
gelida, il posto più bello del mondo.
La sua
era stata solo un’affermazione scherzosa, eppure gli aveva
smosso dentro
qualcosa, perché significava che Sasuke voleva vederlo
ancora; erano insieme ma
già pensava a quando lo avrebbe rincontrato la volta
successiva. Si stese di
nuovo nella neve, sentendola fredda contro le guance, ma gli piaceva
stare
così, a fissare il cielo un po’ ingombro di nubi,
socchiudendo appena gli
occhi.
“Vorrà
dire che martedì troverai me in ufficio” gli
rispose.
Sasuke
alzò appena lo sguardo, ma non riuscì a decifrare
la sua espressione
apparentemente impassibile, così si limitò a
massaggiarlo un altro po’, per poi
domandare:
“Come va?
È passato?”
Gaara si
mise seduto e guardò l’altro inginocchiato davanti
a lui, senza occhialoni, che
lo guardava coi suoi occhi scuri. Annuì, per poi dire:
“Sì, ma
dopo questa alzo la bandiera bianca, credo di essere proprio cotto. Non
sono
abituato a fare tutto questo esercizio, passo la maggior parte delle
giornate
dietro a una scrivania”
In fondo
era pomeriggio, a pranzo avevano mangiato una barretta energetica per
non
appesantirsi e lui si era impegnato moltissimo, infatti era riuscito
addirittura a scendere con gli sci in parallelo e non a spazzaneve,
seppur con
lentezza.
“Ok,
allora torniamo a casa” disse Sasuke alzandosi e tendendogli
una mano.
Gaara la
afferrò, ma aveva una controproposta:
“Perché
non vai a farti qualche discesa decente, mi stai dietro da stamattina,
ti sarai
anche annoiato. Io vado a prendermi qualcosa di caldo, mi rilasso e ti
aspetto,
che ne dici?”
Sasuke lo
guardò pensieroso e tentato:
“In
realtà mi sono divertito, però non mi
dispiacerebbe effettivamente fare qualche
discesa. Sei sicuro di volermi aspettare?”
“E tu
cos’hai fatto tutto questo tempo? Non hai forse aspettato
me?”
Gaara
aveva inteso fare una battuta, ma le sue parole risuonarono molto
più serie e
cariche di significati di quanto potessero apparire.
Non
mi hai forse aspettato mentre cercavo di
fidarmi nuovamente di te? Non mi hai aspettato quando ero
così arrabbiato da
credere di non volerti vedere più? Non mi stai forse
aspettando ancora adesso?
Rimasero
a guardarsi, incurante degli schiamazzi della gente, del rumore della
neve
raschiata dalle tavole e del battito dei loro cuori al di sotto dei
vestiti
pesanti. Gaara fu il primo a riscuotersi e, prendendo le racchette,
disse:
“Vado, ci
vediamo tra un po’. Pensa solo a divertirti”
Sasuke lo
osservò allontanarsi con la sua andatura lenta e misurata,
si allontanava ma si
sentiva tranquillo perché lo avrebbe ritrovato facilmente,
non stava più
andando al di là della sua portata.
Gaara
era
seduto davanti al caminetto acceso e osservava il fuoco guizzare. Aveva
ignorato
il comodo divano o le poltrone e aveva preferito il tappeto soffice,
non per
vero freddo, quanto perché gli piaceva vedere le fiamme
scoppiettare e
diffondere nell’aria un gradevole aroma di legna.
Dopo che
Sasuke era tornato dalla sua sciata col viso colorito, l’aria
eccitata e un
sorriso sincero come quello di un bambino la mattina di Natale, erano
andati a
mangiare.
Si erano
riscoperti entrambi troppo affamati per tornare prima a casa per
cambiarsi,
così erano entrati nel ristorante con le loro tute da sci e
gli scarponi
ingombranti, scoprendo di non essere gli unici in quelle condizioni.
Sasuke
l’aveva trovato divertente perché con la sua
famiglia fare una cosa del genere
era impensabile, stava scoprendo che gli piaceva quel nuovo sapore che
sentiva
contro il palato, il gusto di essere libero e fare ciò che
desiderava.
Dopo cena
erano tornati allo chalet, Gaara era andato a fare una doccia e al suo
ritorno
aveva trovato il caminetto acceso, così ci si era piazzato
davanti aspettando
che Sasuke tornasse.
Si
sentiva piacevolmente rilassato, quasi intorpidito: non aveva nessun
motivo per
stare all’erta, non aveva bisogno di essere lucido e affilato
per tenere a
mente e badare alle mille diverse incombenze lavorative o,
semplicemente, non
doveva correre dietro a niente e nessuno. Doveva solo stare
lì a godersi il
tepore del fuoco. Forse era merito della cena abbondante o forse
dell’esercizio
fisico, fatto sta che non gli dispiaceva affatto sentirsi
così una volta tanto.
Udì una
porta aprirsi e poco dopo la voce di Sasuke alle sue spalle dire:
“Hai
freddo? Ci sono dei plaid se vuoi.”
“No, sto
bene. Mi andava solo di stare solo vicino al caminetto.”
Per non
apparire ripetitivo né patetico, non aggiunse che era la
prima volta che ne
vedeva uno dal vivo e gli piaceva più di quanto avesse mai
creduto.
Non si
voltò e avvertì l’architetto trafficare
con qualcosa, per poi ritrovarselo a
fianco che gli porgeva un elegante bicchiere a tulipano con del liquido
ambrato
che sprigionava un invitante aroma.
“Direi
che un po’ di brandy ci sta più che bene,
no?”
“Hai
ragione” concordò Gaara, accettando la sua offerta
e riconoscendo che quel
liquore era di una certa qualità.
Stettero
in silenzio, seduti vicini, cullati dalle fiamme del caminetto e dal
gustoso
brandy, non sentivano bisogno di parlare, per una volta
l’assenza di parole non
indicava tensione bensì un’intesa profonda:
stavano bene semplicemente grazie
alla loro vicinanza.
Quando
finì di bere, Gaara posò il bicchiere di fianco a
sé, portò le mani all’indietro
e vi si appoggiò, stendendo le gambe che aveva tenuto
piegate fino ad allora.
Voltò la testa per vedere le fiamme danzare tra i riflessi
scuri dei capelli
Uchiha e ne rimase affascinato.
“Sono
stato bene oggi, mi sono divertito molto. Grazie per questo weekend,
direi che
è stato il migliore regalo di compleanno ricevuto.”
Anche
Sasuke posò il bicchiere e lo guardò, pensando
che i suoi capelli erano ancora
più rossi e intensi del fuoco; in effetti era rimasto
scottato da loro, da lui.
“Sono
felice di averci azzeccato. Penso che questi due giorni abbiano fatto
bene a
entrambi, non ti ho mai visto così rilassato.”
Anche
quando in passato si erano frequentati quei quattro mesi, Gaara gli era
sempre
parso sì calmo, ma mai sereno o rilassato, sempre in
battaglia contro qualcosa
o qualcuno: se stesso, il tempo, il mondo che cercava in tutti i modi
di
mettergli i bastoni tra le ruote. Solo dopo il sesso riusciva a
scorgere sul
suo viso un accenno della tensione che si scioglieva, ma durava sempre
poco.
Occhieggiò
i suoi piedi bianchi, senza calzini, e i polpacci coperti da una
morbida tuta
scura e chiese:
“Come va
con la gamba? Ti ha fatto ancora male?”
Gaara
istintivamente la piegò e fissò su di essa
l’attenzione, perché era più
semplice piuttosto che fronteggiare la verità pronunciata
dall’altro: si
sentiva bene, rilassato, la testa era leggera e non più
oppressa da mille
preoccupazioni e il merito era della persona che gli sedeva a fianco.
“No, è
stato solo un crampo passeggero. Però ammetto che i muscoli
mi fanno un po’
male e di essere piuttosto stanco, non sono proprio abituato a fare
tanto
movimento.”
Sasuke
fece un accenno di sorriso e si sedette rivolto verso di lui, gli prese
un
piede e lo usò come perno per farlo voltare sul tappeto
morbido, così che si
trovarono a fronteggiarsi. Si posò una sua gamba in grembo e
iniziò a
massaggiarla piano, partendo dalla caviglia.
“M-ma che
fai?” domandò Gaara, colto di sorpresa.
“Hai
bisogno di occhiali?” lo punzecchiò Sasuke.
“Certo
che no, lo vedo che mi stai facendo un massaggio, la domanda
è perché” replicò
appena stizzito per quel sorrisetto strafottente che gli vedeva sulle
labbra.
“Per
sciogliere un po’ di tensione muscolare. Il weekend non
è finito, domani mica
vorrai poltrire al bar come oggi pomeriggio, mi auguro. Abbiamo quasi
tutta la
giornata a disposizione prima di ripartire.”
A poco a
poco sollevava il pantalone, scoprendo quel polpaccio magro e dalla
muscolatura
asciutta che si distingueva alla perfezione sotto la pelle chiara. Vi
dedicò
solo un’occhiata di sfuggita, perché in quel
momento il viso di Gaara, la sua
espressione di sfida, con quel mento sollevato, erano impagabili.
“Ah no? –
disse questi – E se volessi stare tutto il giorno a letto? Tu
che faresti?”
Sasuke
sorrise ancora, con quel suo modo particolare di tirare su solo un
angolo della
bocca, mentre gli occhi erano il vero fulcro di quel sorriso ironico e
spiazzante.
“Ti
tirerei fuori, perché non avremmo un buon motivo per stare
in mezzo alle
coperte.”
Il viso
di Gaara si fece serio, inarcò appena le sopracciglia con i
riflessi delle
fiamme e del divertimento che si riflettevano nelle iridi color
acquamarina.
“E se
invece lo avessimo?” lo provocò.
Sasuke si
umettò le labbra con la lingua e stette un attimo in
silenzio, con le mani che
strinsero un po’ più forte il suo ginocchio.
“Ma non
lo abbiamo… almeno mi sembra” replicò,
cauto.
In realtà
avrebbero avuto almeno un milione di motivi per non voler uscire dal
letto, se
fosse dipeso da lui, ma ci stava andando coi piedi di piombo sebbene
l’altro lo
stesse sfidando.
Gaara lo
guardò e decise che gli avrebbe cancellato quel sorriso
irritante dalla faccia:
quella volta avrebbe avuto lui l’ultima parola, non Sasuke.
Senza
ulteriori indugi, senza sprecare altro fiato o tempo, chinò
il busto in avanti
e lo baciò. Posò le labbra sulle sue e le
dischiuse con la lingua, sentendo
l’inebriante sapore di brandy che vi aleggiava e gli diede
alla testa, non facendogli
capire nient’altro. Doveva essere per forza colpa del liquore
perché, anche se
si erano già baciati, Gaara non aveva mai avvertito quella
potenza, i capelli
sulla nuca che si rizzavano, le braccia che parevano tremare per i
brividi e la
sua presenza così reale e vicina.
Cosa
sta succedendo?
Si
guardarono, coi respiri concitati, le labbra appena un po’
gonfie e umide.
Gaara si era messo in ginocchio davanti a lui senza nemmeno rendersene
conto,
mentre Sasuke aveva aperto le gambe per permettergli di avvicinarsi.
Gaara
alzò un braccio e la sua mano affondò tra i
capelli scuri, scostandogli la
frangia dalla fronte; non li tirò come aveva fatto altre
volte in passato, ma
fu un movimento dolce, accorto, di cura, qualcosa di nuovo come quello
che si
stavano trovando a riscoprire e condividere.
“Abbiamo
un motivo per non alzarci dal letto domani mattina” gli
disse, osservando i
suoi occhi scuri accendersi, tuttavia l’espressione rimase
guardinga, così come
la voce quando chiese:
“Solo
domani mattina?”
La mano
di Gaara scese a disegnargli la forma delle sopracciglia, il contorno
del naso
dritto e sottile, la curva dello zigomo in una riscoperta di quei
lineamenti
che gli parevano nuovi, come se non vi avesse mai indugiato sopra prima
di quel
momento.
“Domani
mattina è un inizio – sussurrò
baciandogli una guancia e spostandosi verso la
sua bocca – l’inizio di quello che
vogliamo.”
Le loro
labbra si sfioravano, i respiri si mescolavano, come se fossero
l’unico
ossigeno di cui avevano bisogno e Sasuke si stava perdendo nel suo
calore, tra
quei capelli di fiamma che lo bruciavano e gli avevano incendiato
qualcosa
dentro.
“Voglio
te” mormorò muovendo le labbra contro le sue ad
ogni lettera. Era sempre stato
schietto e sicuro dei propri bisogni, ma mai come allora. Quando
annullarono la
distanza già inesistente e il bacio assorbì tutta
la loro attenzione, Sasuke
sentì di avere tutto quello che gli serviva.
In quei
mesi aveva sognato di poter stringere di nuovo Gaara, aveva combattuto
contro
quei desideri e se stesso, ma aveva smesso di lottare, di negarsi
ciò che poteva
renderlo felice perché non avrebbe reso felice qualcun
altro. Ora che lo aveva
tra le braccia e lo baciava, capì di non essersi mai sentito
più completo e in
pace come allora, nonostante la mente e il cuore in subbuglio.
Fino a
quel momento i loro movimenti erano stati cauti, lenti, misurati, non
privi di
una certa grazia e morbidezza, ma dopo quel bacio fu tutto diverso.
Presero a
spogliarsi con urgenza, tentando però di continuare a
baciarsi, goffi e
impacciati come ragazzini alle prime esperienze. Risero quando una
ciocca di
capelli di Sasuke si incastrò nella cerniera della maglia, o
quando per poco
non diede una ginocchiata a Gaara mentre era intento a stendere le
gambe per
togliersi i pantaloni. Eppure anche quegli imprevisti non ruppero
l’atmosfera che
si era creata, bensì sembrarono intensificarla
perché erano insieme,
impazienti, si sorridevano e in futuro avrebbero ricordato ogni
secondo, ogni
movimento di quella serata davanti al caminetto in cui si erano
riscoperti due
ragazzini ubriachi di felicità.
Con solo
i boxer indosso, Gaara si mise sopra Sasuke, con le ginocchia allargate
attorno
ai suoi fianchi, il busto chinato che sfiorava quello
dell’altro. Gli stava
leccando il collo e stava arrivando vicino all’orecchio, in
quel posto speciale
e nascosto tra il lobo e la nuca, così sensibile e dove
sembrava essersi
raccolto tutto l’odore della pelle di Sasuke che gli diede
alla testa. Lo morse
piano, vi passò la lingua sopra, lo arrossò con
cura per poi sussurrare.
“Toccami,
Sasuke.”
Aveva
sentito le sue mani posarsi incerte sulle proprie anche e poi rimanere
bloccate,
ma dopo quelle parole presero a muoversi senza più indugi,
sicure di essere
desiderate.
Sasuke
era elettrizzato: Gaara si stava lasciando carezzare da lui, non gli
aveva
posto alcun veto, anzi lo voleva e lui esultava dentro di sé
per quel privilegio
concesso solo ad un altro uomo, lo sconosciuto che lo aveva avuto per
primo.
Sentì le cicatrici sottili sulle spalle e la schiena, le
riconobbe e le carezzò
con calma, come se facessero ancora male e lui potesse lenirle coi suoi
polpastrelli caldi. Avvertì le vertebre più
sporgenti di come ricordava e ciò
lo rese più consapevole del tempo passato, di come fossero
diversi dal Sasuke e
Gaara che si erano conosciuti per caso una sera e non erano stati
all’altezza
dei loro sentimenti. Era tutto diverso, stavolta sarebbe andato tutto
bene.
Continuarono
a baciarsi, a toccarsi, mai sazi, con la mente, le mani, le orecchie,
la bocca
e il naso completamente invasi dalla presenza dell’altro.
Anche il fuoco stava
morendo, ma loro non se ne accorgevano.
A un
certo punto, però, un brandello di lucidità si
fece largo nella testa confusa
di Sasuke che sentiva l’urgenza di avere qualcosa di
più: non gli bastava più
solo baciarsi e carezzarsi, nemmeno masturbarsi a vicenda era
lontanamente
sufficiente.
“Gaara… –
ansimò
tra le labbra gonfie – io… noi,
non abbiamo niente.”
L’altro
lo guardò interrogativo, non comprendendolo e per Sasuke fu
difficile trovare
saliva nella bocca secca e razionalità nella testa per fare
un discorso più
sensato. Si mise seduto, con l’altro a cavalcioni sopra di
sé, e trovò davvero
complicato non fissarlo e concentrarsi.
“Non ti
ho invitato con queste intenzioni. Sul serio, non credevo saremmo
arrivati a
questo punto e non ho lubrificante, né preservativi,
tu?”
Gaara
sbarrò gli occhi e gli posò la fronte su una
spalla:
“Cazzo,
non ci stavo pensando. In realtà non pensavo proprio a
niente – ammise – non ne
ho, non giro nemmeno con un preservativo nel portafogli,
perché è quello il
problema, più che il lubrificante.”
Si
guardarono negli occhi, incerti, consapevoli che non si sarebbero
accontentati
di niente di meno, entrambi volevano andare fino in fondo, ma in quella
casa
non c’era niente e l’idea di separarsi per
rivestirsi e uscire pareva
intollerabile.
“Dovresti
mettere i preservativi nella lista della spesa del custode”
scherzò Gaara
baciandogli il mento, perché non riusciva a stargli lontano
a lungo.
Nonostante
tutto Sasuke rise, anche se avevano le erezioni pulsanti, il desiderio
di
andare avanti e di non fermarsi, quell’intermezzo tanto
imbarazzante li faceva
ridere, era così squisitamente umano da essere terribilmente
dolce.
Nessuno
dei due credeva che sarebbero riusciti ad arrivare a quel punto, si
erano
sorpresi a vicenda e avevano abbattuto i muri residui che li avevano
divisi.
“Io non
ho mai fatto sesso non protetto – disse Sasuke mentre
l’altro continuava a
baciargli il collo – e tu?”
Gaara
sollevò la testa e poi la scosse, guardandolo:
“Anch’io,
mai fatto senza.”
Persino
Kankuro, nel suo egoismo adolescenziale, si era premurato di pensare
alle
protezioni adeguate.
Sasuke
chinò appena la testa, imbarazzato, con le orecchie rosse
che poco avevano a
che vedere col calore della stanza.
“Beh, per
stavolta allora potremmo anche fare senza… cioè,
credo. Cazzo, non ci sto
capendo più niente” sospirò, portandosi
una mano alla fronte e stendendosi poi
sul soffice tappeto.
“Credo
proprio che stavolta sarà speciale per vari
motivi” sorrise Gaara. Vedere
Sasuke così confuso e in qualche modo arrendevole era
veramente un privilegio,
ma lo capiva: era nelle sue stesse condizioni. Voleva solo entrare
dentro di
lui, sentirsi avvolgere e suggellare quell’intesa ritrovata.
Riprese a
baciargli il collo e poi un capezzolo, mentre più in basso
le sue mani lo
masturbavano, ma Sasuke non rimase certo passivo e fece lo stesso con
lui. Ci
volle poco per entrambi per giungere all’orgasmo, era da
troppo che lo
agognavano, tuttavia la loro fame non si placò,
sembrò anzi venire solo
pungolata e Gaara non indugiò ulteriormente: raccolse un
po’ di sperma e,
grazie ad esso, iniziò a penetrare Sasuke con le dita.
Lo fece
lentamente, dandogli il tempo di abituarsi ed eccitarsi nuovamente:
anche se
non se lo erano detti, era certo che non fosse stato a letto con
nessun’altro e
non voleva fargli male, il dolore non doveva entrare a far parte del
loro
bagaglio di ricordi per quella sera.
Si
riscoprì emozionato, persino spaventato da quella
responsabilità, ma senza
alcun desiderio di scansarla. Voleva Sasuke, voleva il suo corpo, i
suoi baci,
la sua bocca da cui potevano uscire anche parole crudeli, ma anche
argute,
divertenti, preziose. Voleva i suoi contrasti e le contraddizioni che
si
portava dietro, voleva conoscerle meglio, voleva tutto di Sasuke, le
sue paure
e la sua felicità.
Quando lo
penetrò gli sembrò di non aver mai sentito niente
di tanto intenso, la sua
carne era calda, lo stringeva in un modo che era così
intenso da essere quasi
doloroso, perché come poteva esistere qualcosa di tanto
bello? Come lo si
poteva affrontare senza impazzire? Era impossibile e fu quanto successe.
“Non ti permetterò
più di allontanarmi”
Ansimò
contro il suo orecchio e avvertì le sue mani stringergli i
capelli rossi, le
gambe allacciarsi attorno ai fianchi e le spinte con cui gli andava
incontro
divenire più imperanti, urgenti. Sasuke lo pretendeva e
Gaara non si tirò
indietro, continuò ad affondare e, quando vide il suo viso
distorcersi
nell’orgasmo, il torace rimanere bloccato qualche istante,
incapace di
respirare, si lasciò andare a sua volta. Chiuse gli occhi e
non pensò a niente,
era come un’anfora vuota che veniva riempita dalle
sensazioni, dagli stimoli,
dall’odore della pelle di Sasuke, dal suo corpo che lo
accoglieva. Era in mezzo
a una tempesta, l’acqua gli scrosciava addosso e lui si
riempì sempre di più,
il livello crebbe finché fu impossibile contenere le
emozioni e, semplicemente,
traboccò. Buttò la testa all’indietro e
si riversò nel suo corpo, gemette
mentre nella testa gli esplodevano i colori.
“I fuochi
d’artificio…” mormorò perso
in un altro mondo, in un ricordo dimenticato.
Era
scappato dal collegio, c’era una festa in paese quella sera,
lui e pochi altri
si erano piazzati vicino al punto dove i fuochi d’artificio
erano stati
disposti. Le sue orecchie erano state invase dal rumore degli scoppi,
gli occhi
lacrimavano per la forza devastante dei colori e delle esplosioni che
riverberavano
contro le retine. Si era perso in quello spettacolo che lo aveva
stordito,
conquistato, fatto innamorare con la sua potenza e
maestosità.
Quella
sera accadde lo stesso quando il suo orgasmo esplose: Gaara si
ritrovò di nuovo
nell’epicentro, schiantato e sopraffatto dal mondo che
scoppiava e andava a
pezzi attorno a lui.
Quasi
crollò addosso a Sasuke, stendendosi sopra al suo corpo
mentre ancora gli era
dentro e l’altro non lo scansò, bensì
gli passò le braccia attorno al collo e
lasciò che rimanesse così, a respirarlo.
Gaara si
sentì rimpicciolire e scivolare fuori, anche se contro la
sua volontà perché
non era mai stato così bello fare l’amore o
entrare dentro a qualcuno, perché
non era stato solo il suo cazzo a farsi largo dentro di lui,
né era stato solo
lo sperma a macchiare entrambi.
Lentamente
rotolò al suo fianco, con lo sguardo fisso al soffitto,
ancora incredulo.
Il fuoco
si era spento e la stanza era in penombra, con solo una lampada accesa,
ma a
lui sembrava di avere ancora gli occhi pieni di colori e luci.
Ad un
certo punto sentì Sasuke ridacchiare, girò una
testa pesantissima verso di lui,
vedendo in effetti la sua faccia divertita e le risa che sembravano
proprio non
volere smettere.
“Per
fortuna… per fortuna… che il tappeto è
bianco.”
Gaara
rimase interdetto qualche istante, poi afferrò il
significato della sua frase e
scoppiò a ridere a sua volta. Si tenne la pancia con le mani
e gli occhi chiari
si riempirono di lacrime, si voltò su un fianco per poggiare
una mano su una
spalla di Sasuke.
“Forse…
forse sarà meglio bruciarlo.”
L’architetto
continuò a ridere mentre annuiva e andarono avanti ancora
per un po’, finché le
loro risate non diminuirono fino a cessare, finendo a guardarsi con un
sorriso
in faccia e gli occhi lucidi. Entrambi si tesero verso
l’altro per darsi un
bacio, poco più che uno sfiorarsi di labbra, ma
più significativo e pieno di quanto
potesse sembrare.
Rimasero
a fissarsi qualche altro momento, poi Sasuke si sedette dicendo:
“Sarà
meglio che vada a fare un’altra doccia.”
“Perché
invece non facciamo il bagno insieme? La vasca è
grande” propose invece Gaara e
all’altro piacque la sua proposta.
Si
alzarono su gambe che sembravano di gelatina e poco dopo erano immersi
nell’acqua calda e piena di schiuma, l’uno di
fronte all’altro.
Gaara
sorrise, un sorriso segreto come di chi la sapesse lunga e Sasuke lo
guardò
interrogativo, finché non parlò:
“Sai,
ieri sera ero qui a fare il bagno e ho immaginato che ci fossi anche tu
con me.”
“Quindi
in pratica sto esaudendo una tua fantasia?”
domandò assottigliando gli occhi.
“Fantasia
è il nome giusto, dato che mi sono eccitato e poi
masturbato. Proprio qui,
pensando a te” gli rivelò Gaara senza alcun
imbarazzo ma con un’espressione
maliziosa che l’altro trovò eccitante.
Sasuke
quindi allargò le braccia, poggiandole sul bordo della vasca
e lo fissò con
sguardo attento, interessato, dicendo:
“Perché
non mi fai vedere allora?”
“Dovrei
masturbarmi per te?”
“Sì,
esaudiresti una delle mie fantasie”
Gaara
sorrise, scostando la schiuma da sopra al suo corpo:
“Direi
che mi sembra giusto. Un compromesso.”
“Un
ottimo compromesso” ribadì Sasuke senza perdersi
un solo suo movimento.
Ehi
doc, ho imparato persino a scendere a
compromessi, incredibile, vero? Forse mi merito una fabbrica di
cioccolato
fondente e non solo un cioccolatino.
Tuttavia
la mente si Sasuke smise presto di pensare al suo psicologo,
cioccolatini o
amenità varie, rapito dallo spettacolo davanti ai suoi
occhi; rapito da Gaara
che lo fece riscoprire un ostaggio privo di desiderio di essere
liberato.
L’angolino
oscuro:
Un capitolo interamente dedicato a Sasuke e
Gaara, ci voleva, no? Forse era già abbastanza chiaro dal
capitolo precedente
come sarebbe andata a finire, però fino a che non
è successo davvero nemmeno i
protagonisti avevano la certezza di ciò che sarebbe
accaduto, solo un
presentimento e quelli… non è sempre detto che si
realizzino.
Per quanto
riguarda il riferimento alle cicatrici di Gaara, è un
particolare che ho
spiegato nella OS di cui questa long è il sequel, se volete
leggerla è qui, ma
riassumendo sono dovute a delle punizioni subite in
orfanotrofio.
Per quanto riguarda la parte sulla neve, spero di non avere scritto
castronerie perché io non ho mai sciato in vita mia e quindi
mi sono fatta consigliare dalla mia Zucchetta Felice che è
più esperta e ho fatto qualche ricerca.Spero che il
capitolo e la storia in generale continui a piacervi e appassionarvi,
io mi
sono affezionata a questi due teste dure, ma non preoccupatevi:
torneranno
anche Itachi e Shisui.
Alla prossima!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 17 *** 17 - Oh Darling, what have I done ***
Well
I've
been away from you too long
And all
my days have turned to darkness
And I
believe my heart has turned to stone
(The
White Buffalo)
Oh
Darling, what have I done
La
cucina era invasa da aromi succulenti, da far venire
l’acquolina in bocca. Il
cuoco controllò che il pollo fosse rosolato al punto giusto,
le verdure saltate
in modo da rimanere croccanti e il vino pronto per essere stappato; si
ritenne sufficientemente
soddisfatto da concedersi un po’ di relax prima che arrivasse
il suo ospite.
Itachi
si accomodò sul divano e prese il libro del momento in mano,
nonostante la
curiosità di sapere come andasse avanti e scoprire quale
scelta cruciale avrebbe
compiuto il protagonista, non riuscì a leggere nemmeno una
riga. Ripensava al
fratello e al giorno precedente. Lui era appena tornato dal tribunale e
lo
aveva trovato in ufficio a parlare con Gaara dei lavori di ampliamento,
ma i
due ragazzi erano totalmente diversi dall’ultima volta in cui
li aveva visti
insieme. Erano in piedi, vicini, rilassati, non sembravano
più due magneti che
si respingevano, bensì si attraevano. Aveva capito che il
loro weekend doveva
essere andato piuttosto bene, sebbene lo avesse già pensato
quando il lunedì
aveva visto il segretario con un’espressione serena mai
sfoggiata prima.
Una
volta finito, Sasuke lo aveva raggiunto e Itachi gli aveva proposto di
cenare
insieme la sera stessa, ma il fratello aveva fatto una di quelle
espressioni
che gli vedeva sempre da bambino, come di chi l’aveva fatta
grossa ma non
sapeva come dirlo. Itachi, controllandosi per non ridere, gli era
andato in
soccorso dicendo che anche un’altra sera sarebbe stata
perfetta e l’altro si
era subito rasserenato, senza rendersi conto di quanto fosse stato
comico quel
momento.
Per
quel motivo ora Itachi si ritrovava seduto su quel divano ad
aspettarlo, aveva
preferito una cena a casa perché aveva
l’impressione che sarebbero potuti
saltare fuori alcuni argomenti abbastanza personali.
Il
campanello suonò e lui gettò
un’occhiata all’orologio: Sasuke era puntuale,
probabilmente quello non sarebbe mai cambiato.
Andò
ad aprire e si se lo trovò di fronte con la sciarpa tirata
su fino a metà
faccia, l’espressione imbronciata per quel poco che si vedeva
e una confezione
di pasticceria tra le mani che gli rifilò in fretta, neanche
si trattasse di
una granata innescata.
“È
una torta al cioccolato – esordì –
niente glasse diabetiche che ti piacciono
tanto, forse anch’io riesco a mangiare un pezzo di
questa”
“Buonasera
Sasuke, ben arrivato. Andata bene la tua giornata? A me sì,
grazie per averlo
chiesto”
Il
ragazzo sbuffò mentre appendeva il cappotto a un gancio
vicino l’ingresso,
consapevole dei suoi modi bruschi.
“Sono
stato in ufficio fino a poco fa, oggi non ho avuto nemmeno tempo di
respirare”
Ed
era arrivato puntuale, trovando persino il tempo per passare in
pasticceria,
doveva aver veramente fatto le corse per riuscire in tutto. Itachi
sorrise, probabilmente
nemmeno quel lato così perfezionista del fratello sarebbe
mai cambiato: quel
cocciuto e giovane uomo si sarebbe ammazzato per far filare le cose nel
modo in
cui diceva lui.
Andarono
in cucina e il padrone di casa mise il dolce in frigo, dopo di che
stappò il
vino e ne offrì un bicchiere all’altro dicendo:
“Ora
puoi rilassarti un attimo allora, la cena è pronta e non
vedo l’ora di
assaggiare la torta al cioccolato fondente che hai tanto gentilmente
portato”
Gli
sorrise, sedendosi di fronte a lui e Sasuke fece una smorfia dopo aver
bevuto
un sorso.
“Non
sono certo di rilassarmi stasera”
“Ah
no?”
“No
– scrutò il fratello maggiore – non
credo che questa cena sia così
disinteressata”
Itachi
posò il bicchiere e scrollò appena la testa:
“Sasuke,
mi reputi davvero una brutta persona”
E
non ho bisogno che ci sia tu a ricordarmelo,
lo so già. Shisui mi ha mostrato la verità.
Soffocò
quella riflessione perché, almeno quella sera, doveva
smetterla di tormentarsi
a riguardo e di pensare al cugino che non sentiva da giorni, da quel
maledetto
venerdì. La sua attenzione doveva essere tutta per il
fratello, così continuò:
“Se
hai voglia di raccontarmi qualcosa sono qui, altrimenti mi sembra di
averti
costretto a parlarmi in un’unica occasione in tutti questi
anni. Col tuo
psicologo hai ancora da lavorare un po’ su questo
atteggiamento di autodifesa”
Si
alzò per controllare che le pietanze fossero
sufficientemente calde per poi
servirle, dando le spalle a Sasuke che doveva fare i conti con le sue
parole.
Itachi
era gentile, aveva modi pacati per dire la verità, ma non la
negava e la serviva
sempre ai suoi interlocutori; nessuna bugia confortante sarebbe uscita
da
quelle labbra, solo la realtà dei fatti.
“Lo
so” disse soltanto Sasuke. Non si scusò nemmeno
quella volta ma, a differenza
di altre, non fu per arroganza, bensì perché
aveva capito che non poteva, né
doveva più domandare scusa per quel che era o per il suo
carattere. Essere
quello che era non era più una colpa.
Iniziarono
a cenare e Itachi gli domandò del progetto del grattacielo,
nonostante fosse un
avvocato, aveva frequentato un anno di architettura
all’università e poi,
crescendo nella loro famiglia, era impossibile non essere comunque
avvezzi
della materia.
Sasuke
ne parlò con entusiasmo, il suo progetto aveva riscosso
grande approvazione ed
era piaciuto molto anche alle autorità cittadine che avevano
in programma la
riqualificazione di alcune aree urbane più degradate. Lo
studio Uchiha si
sarebbe occupato di quel progetto, Fugaku era stato molto compiaciuto
da quel risultato,
stabilendo che il figlio minore sarebbe stato a capo di quel futuro
lavoro.
Itachi
fu veramente felice di udire certe novità e di vedere come
finalmente Sasuke
stesse mostrando le sue qualità, ora che non erano
più offuscate dalle sue. Il
fratello era eccezionale, ma era sempre stato sminuito dal loro
confronto, cosa
che Itachi aveva sempre odiato fino a prendere la stupida decisione di
allontanarsi da Sasuke perché, se fossero stati lontani,
nessuno avrebbe mai
potuto paragonarli.
Però
mentre cenavano assieme, rilassati, si dispiacque di quella sua
decisione
passata e fu invece grato che le cose in qualche modo si fossero poi
messe a
posto, di non essere mai riuscito a uccidere l’affetto che
Sasuke provava nei
suoi confronti. Chissà se anche con Shisui avrebbe potuto
risolvere, però per
farlo occorreva che parlassero e lui non era ancora pronto.
Mangiando
la torta, parlarono di altri argomenti, dei genitori che
quell’anno avrebbero
festeggiato trent’anni di matrimonio, della festa che
avrebbero organizzato e
di altre faccende famigliari, almeno finché Sasuke non
iniziò a giocherellare
con il dolce rimasto sul piatto.
“Hai
raggiunto il tuo limite quotidiano di zucchero?”
scherzò Itachi.
Il
minore posò la forchetta e si pulì le labbra col
tovagliolo. In quel momento
non sembrava più il giovane uomo in carriera orgoglioso che
aveva parlato fino
a poco fa, quanto un ventenne incerto che non sapeva bene che direzione
far
prendere alla propria vita.
“No,
stavo pensando a una cosa – guardò il fratello
negli occhi – alla festa ci
saranno tutti. Ognuno porterà le proprie mogli, i mariti, i
fidanzati… ma io
non potrò portare Gaara”
Anche
Itachi si disinteressò della torta e incrociò le
mani davanti a sé, per posarvi
sopra il mento. Ricambiò lo sguardo del fratello, serio,
quasi marziale come
quando era in tribunale, ma poi un sorriso apparve sul suo viso e disse:
“E
così avete risolto le
cose tra di voi, bene, bene. Sono passati solo pochi giorni dal weekend
e tu
già pensi all’effetto che potrebbe fare
presentarlo in famiglia e cose simili…
quindi è più seria di quanto credessi, o
sbaglio?”
Sasuke arrossì di
botto e
sobbalzò addirittura sulla sedia, imbarazzato che il
fratello avesse potuto
leggere così tanto tra le righe. Non era stato difficile in
realtà, ma quando
aveva parlato non aveva proprio riflettuto, dicendo sinceramente
ciò che gli
era passato per la testa.
“Accidenti a te,
perché
devi metterla giù così?”
borbottò guardando fuori dalla finestra.
“E in che altro
modo
dovrei farlo, Sasuke? Ho solo detto la verità, no? Mi
sembrava avessimo
superato la fase delle bugie e della negazione”
Nascose il sorriso che
gli stava nascendo spontaneo. Era felice, era sinceramente felice per
il
fratello perché, al di là
dell’imbarazzo momentaneo, lo vedeva sereno, a
proprio agio, le spalle erano più rilassate e non si
curvavano sotto il peso
del mondo intero ora che aveva trovato qualcun altro con cui
condividerlo.
Probabilmente niente lo avrebbe reso più felice di
ciò, di vedere il suo amato
fratellino in pace con se stesso e non rimpianse di aver lasciato
andare Gaara;
era stata la decisione giusta.
Sasuke
si voltò a guardarlo, con ancora un velo di
rossore e l’espressione corrucciata:
“Tu
dici sempre e solo la verità”
Itachi
sospirò, pensando che qualcun altro avrebbe
obiettato. Bandì nuovamente il pensiero di Shisui con una
scrollata di spalle e
rispose:
“Vorrei
che fosse così, ma… allora, raccontami, va
davvero tutto bene? L’altra sera non volevi venire a cena con
me perché
dovevate uscire insieme, giusto?”
Sasuke
annuì e nel suo imbarazzato turbamento non
dedicò troppa attenzione alla frase lasciata a
metà dal fratello, ansioso di
spiegargli come fossero andate le cose e al contempo combattuto dalla
sua
naturale reticenza.
“Beh,
ecco… – mormorò
cercando di trovare un compromesso –
passando un po’ di tempo insieme da soli siamo riusciti a
trovare un’intesa,
diciamo così… sono passati solo pochi giorni, ma
mi sembra che stia andando tutto
bene. Stavo pensando che forse dovrei presentarlo di nuovo a Naruto;
per bene
stavolta”
Itachi
annuì, riprendendo a mangiare il dolce con
aria dotta, consapevole che doveva essere proprio seria se il fratello
aveva
deciso di coinvolgere il suo migliore amico, ciò faceva
presagire che avesse
intenzione di aprirsi anche con gli altri in un futuro non troppo
lontano.
“Mi
sembra un’ottima idea, credo potresti presentarlo
senza problemi anche a Hinata, lei è una Hyuga un
po’ atipica e sarebbe solo
felice per voi, Gaara non avrebbe alcun problema a lavoro. Ma per
sicurezza
chiedi pure prima a Naruto” gli disse, anticipando e
smontando qualsiasi sua
protesta, ben sapendo come funzionasse il suo cervellino un
po’ bacato.
Sasuke
infatti aprì e richiuse la bocca un paio di
volte, per poi rimanere a fissarlo mentre spazzolava via la sua
porzione di
dolce e poi ne prendeva un’altra.
“Farò
così” disse soltanto.
Itachi,
con l’aria soddisfatta di un grosso gatto
steso al sole con la pancia piena, gli sorrise e decise di stuzzicare
un po’ la
piccola vipera velenosa che gli sedeva di fronte:
“Dimmi,
Sasuke, a seguito della vostra intesa
ritrovata c’è qualcosa che devo evitare nella casa
in montagna? Tipo il divano,
il tavolo della cucina…”
“Itachi!
– esclamò l’altro saltando in piedi
– Se non
la finisci me ne vado!” lo minacciò, ma si
risedette e incrociò le braccia,
offeso, sentendo la risata profonda del fratello riecheggiare nella
stanza. Lo
sbirciò di sottecchi e lo vide con gli occhi luminosi, la
bocca sporca di cioccolato
e il viso pieno di gioia e pensò che non lo aveva mai visto
più bello o umano.
“Il
tappeto davanti al caminetto” gli rispose, con le
labbra che suo malgrado si stiravano in un sorrisetto.
“Ottima
scelta, molto romantico – si complimentò
– ti
ho mai detto di non sederti sulla poltrona verde?”
“Cazzo,
la mia preferita, ma che schifo! Me ne vado!”
esclamò saltando di nuovo in piedi, guardandolo in faccia.
Rimasero seri, a
squadrarsi, e poi all’improvviso, come se qualcuno avesse
premuto un bottone speciale
sulle loro schiene, scoppiarono a ridere contemporaneamente. Si
guardavano e
ridevano fino alle lacrime, insieme. Con le facce rosse, le briciole di
torta
al cioccolato sulla bocca e il desiderio di non essere da
nessun’altra parte se
non lì.
***
“Sei
qui, ti ho trovato finalmente”
Itachi
non si voltò avendo riconosciuto la voce, ma
continuò ad osservare l’intrico di
cavi che ancora usciva dalle prese elettriche, le finestre e le porte
montate
ma con ancora la pellicola protettiva.
“Mi
spieghi che sei venuto a fare qui?” gli domandò
Gaara cercando di non scivolare
sui fogli di giornale sparsi a terra per non sporcare il pavimento
nuovo con la
pittura fresca.
Solo
quando sentì che era al proprio fianco, Itachi
girò la testa per osservare i
suoi occhi acquamarina che lo fissavano incuriositi.
“Mah,
niente di che. Stavo solo ammirando il risultato del progetto di Sasuke
e
pensavo”
Gaara
si guardò un po’ attorno: i lavori di
ristrutturazione per l’ampliamento dello
studio erano quasi finiti, era ormai solo questione di giorni e di
sistemare
gli ultimi dettagli.
“È
venuto bene – concluse, spostando lo sguardo di nuovo
sull’avvocato – a che
pensavi? Puoi dirmelo o sono i tuoi pensieri segreti?”
Itachi
rise piano, in fondo un po’ sorpreso da come quel ragazzo
silenzioso avesse imparato
in fretta a conoscerlo; quel giorno non si sentì a disagio o
troppo esposto
dinanzi a quegli occhi chiari.
“Sciocchezze,
sciocchezze che però mi mancheranno. Tra qualche giorno mi
trasferirò in questo
ufficio e non ti vedrò o sentirò più
alle prese coi nostri clienti pazzi, gli scocciatori
o con la compagnia dell’elettricità,
l’autonoleggio e le mille persone con cui
sei costretto a parlare tutti i giorni. Sarà tutto
più silenzioso e in un certo
senso vuoto, era divertente commentare assieme a Hinata le tue
telefonate più
assurde”
Gaara
annuì con la testa e rise a sua volta:
“Vero,
hai ragione, ci vedremo sempre tutti i giorni ma non sarà lo
stesso. Anch’io
tornerò ad essere solo e l’ufficio mi
sembrerà enorme senza di voi; in realtà
anche a me piace avervi vicino”
Non
c’era più il sorriso sul suo viso, ma
un’espressione malinconica perché quella
breve parentesi stava per concludersi e, anche se nessuno stava per
morire o
per trasferirsi all’altro capo del mondo, non sarebbe
più stata la stessa cosa;
era una consapevolezza dolceamara.
Itachi
gli carezzò affettuosamente i capelli rossi e, sorridendo,
aggiunse:
“Per
fortuna non sei solo, ora hai Sasuke”
Erano
passati un paio di giorni dalla cena col fratello ma questa era la
prima volta
in cui si trovava a parlare da solo con Gaara. Questi intanto era
arrossito
lievemente e aveva chinato il capo sotto la carezza accorta di quella
mano
affusolata.
“Mi
aveva detto di averti parlato… non so cosa dire,
Itachi” ammise senza girare
attorno alla questione.
L’avvocato
strinse con un po’ più forza le ciocche rosse
prima di lasciarle andare e
riportare la mano lungo i propri fianchi fasciati da un pantalone
elegante.
“Cosa
c’è da dire, Gaara? Tu e Sasuke vi piacete, anzi
provate dei sentimenti e,
nonostante i problemi del passato, vi siete ritrovati. Non posso che
essere
felice per voi, questo è tutto quello che
c’è da dire.”
Osservò
la sua espressione incerta, come se stesse cercando le parole per
esprimere
qualcosa, ma lo anticipò “L’Itachi e
Gaara che si sono baciati mesi fa erano
due persone diverse, che avevano deciso di regalarsi un momento bello,
o di
salutare in modo altrettanto bello la possibilità di essere
qualcosa in più che
colleghi o amici – poggiò la fronte contro la sua
– potremmo parlare fino a
seccarci la gola delle infinite possibilità. Se
tu non avessi mai conosciuto Sasuke, se
Sasuke non si fosse mai comportato da stronzo, se
ci fossimo conosciuti per primi noi
due, se ti avessi baciato
prima…
posso andare avanti ancora a lungo, Gaara. Ma la realtà
è solo una: ora stai
con Sasuke e io sono felice nonché orgoglioso di voi, per
essere stati tanto
maturi, lasciandovi alle spalle le incomprensioni e a non permettere
che vi
impedissero di vedere i vostri reali sentimenti”
Non
spostò la fronte dalla sua, né l’altro
si mosse, continuando a guardarsi da
quella disturbante vicinanza. Itachi poté addirittura
riflettersi in quelle
iridi chiare, ma non gli piacque quello che vide: un
ipocrita che voleva darsi un tono e
apparire migliore di tutti gli altri. Quelle parole non potevano essere
vere
anche per lui e Shisui? Come poteva lasciare che il loro rapporto di
anni e
anni si lacerasse e finisse a quel modo, senza nessun tentativo di
aggiustare le
cose? Ci erano riusciti Gaara e Sasuke che si conoscevano solo da mesi,
Shisui
valeva davvero così poco da non meritare nemmeno un
tentativo?
I
pensieri di Itachi vennero però interrotti dalla voce di
Gaara e lui li
accantonò, ma quella volta sapeva che sarebbe stato solo per
poco.
“Quindi
è così che si comporta davvero un
fratello” sospirò abbassando le palpebre e
all’avvocato era sembrato di veder luccicare delle lacrime.
“Beh
sì, dovresti saperlo anche tu, no?” Era rimasto un
po’ interdetto da quella
reazione e dalle sue parole. Per quanto pessimo, il rapporto ormai
rotto con
suo fratello non poteva esserlo stato così orribile da non
conoscere
quell’affetto fraterno di cui lui aveva appena dato una
splendida
dimostrazione.
“Kankuro…
noi… lascia stare”
Gaara
fece un passo indietro, interrompendo il loro contatto ed
aprì nuovamente gli
occhi che risultarono però asciutti.
Kankuro.
E
così quel fantomatico fratello misterioso aveva finalmente
un nome; per quanto
sembrasse fuori dalla vita di Gaara, a Itachi parve che esercitasse
ancora una
potenza piuttosto forte, forse uno di quei passati che non si possono
semplicemente dimenticare, ma che ti lasciano una cicatrice indelebile
addosso.
Con le giuste cure la cicatrice sarebbe sbiadita, si sarebbe vista
sempre di
meno, ma se lasciata a se stessa sarebbe rimasta sempre lì,
a mostrare che la
pelle era stata lesa, che quel corpo non era completamente integro come
quando
era nato.
“Come
vuoi, ma lo sai che per qualsiasi cosa io ci sono sempre e adesso
c’è anche
Sasuke” gli ricordò. Forse non era compito suo
curare quella cicatrice, ma
poteva sempre indirizzarlo da chi possedeva i giusti medicamenti; anche
quello
era compito di un fratello maggiore.
“Già,
certo…” annuì sbrigativamente Gaara
uscendo dalla parte nuova non ancora
completata dello studio e dirigendosi nel proprio ufficio, seguito
dall’altro.
C’era silenzio, all’infuori di loro due non
c’era nessuno visto che era la
pausa pranzo.
Itachi
come d’abitudine prese il suo cappotto per uscire e Gaara gli
augurò buon
pranzo, ma lui, stringendosi la sciarpa attorno al collo, rispose:
“Mi
servirebbe più un ‘buona
fortuna’ ma
grazie lo stesso. A più tardi.”
Uscì
lasciando il segretario interdetto, perché non sapeva che
l’altro stava andando
da Shisui, non sapeva quello che si erano detti quel venerdì
sera, né quello
che Itachi stava per fare. Il problema era che non ne era completamente
sicuro
nemmeno Itachi.
***
“Mi
spiace, siamo chiusi per la pausa… oh, è lei
signor Uchiha”
Itachi
sorrise alla solerte segretaria che, sentendo la porta aprirsi, si era
alzata
per avvisare l’incauto cliente, ma si era ovviamente bloccata
riconoscendolo.
Lo aveva visto mille volte in quell’ufficio assieme al suo
capo, Shisui Uchiha.
“C’è
mio cugino? Vorrei rapirlo e portarlo a pranzo”
domandò affabile.
La
donna sospirò piano, probabilmente incantata
all’idea di poter essere rapita da
qualcuno come lui, sicuramente sarebbe stata l’ostaggio
più docile del mondo.
“Certo,
è nel suo ufficio. La annuncio e…”
“Non
serve – la interruppe Itachi sempre col suo sorriso sulle
labbra – conosco bene
la strada e poi lei si stava mettendo il cappotto per uscire, non
vorrei che
sprecasse altro tempo della sua pausa pranzo per me”
La
donna annuì, pur pensando che avrebbe speso anche tutta la
sua giornata per
lui, ma afferrò la borsetta ed uscì. Itachi,
rimasto solo, andò a chiudere a
chiave l’ingresso e prese un respiro profondo; la porta
chiusa che vedeva alla
fine del corridoio davanti a sé era la sua meta, quella e
chi c’era dietro. Era
agitato, sensazione nuova e sgradita, ma non poteva proprio
più tirarsi
indietro, aveva atteso sin troppo e sperava che non fosse tutto ormai
già
perso. Non sapeva ancora cosa dire al cugino, la sua unica certezza
è che non
potevano rimanere in silenzio e lasciar morire ciò che
c’era stato tra loro,
qualsiasi cosa fosse.
Si
guardò attorno e ricordò quando Shisui aveva
rilevato quella piccola filiale di
un’agenzia assicurativa: era sul punto di chiudere, i suoi
conti erano in
rosso, era rimasta solo una manciata di fedeli clienti e lui si era
trovato con
un solo impiegato. Tutti in famiglia gli avevano dato addosso, vedendo
in
quell’impresa nient’altro che un fallimento
assicurato, pronosticando a Shisui
il fallimento nel giro di poche settimane, mesi nel voler essere
generosi. Il
ragazzo non aveva mai prestato troppo ascolto a quelle raccomandazioni,
si
limitava a sorridere e dire “Si vedrà”.
Alla fine era stato lui a far vedere a
tutti quei miscredenti di che pasta fosse fatto, quali fossero le sue
vere
capacità. Aveva trovato sempre più nuovi clienti,
i conti si erano risistemati,
l’azienda centrale non paventava più la chiusura
della filiale che anzi negli
anni si era ingrandita, assumendo sempre più personale di
cui Shisui era il
capo.
Tutti
i famigliari all’inizio avevano fatto finta di nulla, ma di
fronte all’evidenza
si erano limitati a dire che con un Uchiha al comando era un risultato
scontato; la verità era che solo Itachi aveva sempre creduto
nel cugino. Lo
aveva incoraggiato e spronato quelle rare volte in cui si era buttato
giù, poi
lo aveva visto ributtarsi nella mischia con entusiasmo, tenacia e una
testardaggine unica. Adorava vederlo a quel modo, anzi lo amava. Per
quanto
volesse bene a Sasuke o ad altre persone, il cugino era
l’unico che riuscisse a
contagiarlo con la sua scarica di adrenalina, con quella
vitalità e il sorriso
che sembravano non scollarglisi mai di dosso.
Come
erano arrivati a quel punto? Quando aveva smesso di credere in lui?
Quando
aveva smesso di guardarlo sul serio e a darlo invece per scontato?
Avanzò
a grandi passi, senza più tentennare o perdere altro tempo,
aprì la porta e se
la richiuse alle spalle e lo vide con la testa china su alcuni
documenti.
“Non
eri uscita per… Itachi”
Shisui
rimase in silenzio a guardarlo, evidentemente spiazzato e incapace di
riprendersi con rapidità dalla sorpresa.
Itachi
si avvicinò, si tolse cappotto e sciarpa e li
posò su una sedia posta di fronte
alla scrivania, per poi accomodarsi con eleganza sull’altra.
Accavallò con
scioltezza una gamba e infine lo guardò, dicendo:
“Sì,
la tua segretaria è uscita, come gli altri. Ci siamo solo io
e te qui”
La
voce era pacata e controllata, ma le mani erano intrecciate e posate
sul grembo
altrimenti si sarebbero mosse come impazzite, per tentare di allentare
la
tensione del ragazzo.
Shisui
riuscì a rimettere su un’espressione
più controllata, anche se il ritrovarselo
davanti così all’improvviso lo avesse
scombussolato. Era passata una settimana,
esattamente il venerdì prima si erano ritrovati assieme a
bere e lui, ubriaco,
aveva parlato troppo; quei sette giorni non erano stati sufficienti per
smaltire o diluire il peso di quelle parole. Aveva rovesciato una
boccetta
intera d’inchiostro scuro, ma nemmeno una vita sarebbe
bastata per riassorbirlo
tutto e far tornare immacolata la superficie macchiata.
“Cosa
vuoi, Itachi?” si risolse a domandare alla fine.
“Parlare.
Con te”
Shisui
fece una specie di smorfia che non ricordava nemmeno lontanamente il
suo
sorriso. Si poggiò all’indietro contro la
poltroncina ergonomica e lo guardò;
se avesse avuto una cravatta se la sarebbe di sicuro allentata, ma non
le
indossava mai e i primi due bottoni della camicia erano già
aperti.
“Lo
so che non posso rimangiarmi nulla, ma davvero… lasciamo
perdere, Itachi. Ero
ubriaco ed è un periodo difficile qui a lavoro, ho
straparlato. Possiamo
limitarci a questo? E ho già detto che ero ubriaco? Davvero,
davvero ubriaco”
Itachi
con la sua giacca senza una piega e la cravatta perfettamente annodata,
guardò
i suoi occhi scuri che dicevano molto più delle sue parole.
Quegli occhi che
tante volte aveva fissato; persino da bambino aveva sempre pensato che
i suoi
fossero i più belli.
“No”
rispose soltanto.
“Che
cazzo, Itachi!” sbottò Shisui sbattendo la mano
sulla scrivania e facendo
cadere a terra una scatolina con delle graffette colorate che si
sparsero a
terra. “Vieni qui all’improvviso, dici che vuoi
parlare ma mugugni due cose in
croce. Vuoi parlare davvero? Allora apri la bocca e fallo, io ho detto
fin
troppo, cazzo!”
Nonostante
fosse difficile, continuò a guardarlo e a quel modo si
accorse di un fatto
straordinario: Itachi era in difficoltà, il rossore sulla
punta delle orecchie
che sbucavano dalla massa folta dei suoi capelli, i pollici che non
stavano
fermi un attimo, il piede della gamba accavallata che ciondolava,
niente di
tutto ciò apparteneva all’imperturbabile e calmo
ragazzo che conosceva.
“È
che non so bene cosa dire, so solo che voglio parlarti”
ammise infatti Itachi e
si odiò per quello sfoggio di mediocrità e
incapacità, soprattutto in un
momento tanto cruciale.
Shisui
invece sorrise brevemente e si appoggiò nuovamente allo
schienale. Il cugino
era lì, per lui, per risolvere il casino che aveva
combinato; nemmeno Shisui
era certo sulla cosa giusta da fare, ma forse l’unica strada
da tentare era
quella della verità, non c’era più
motivo di nascondere le cose o nascondersi.
Bisognava far cadere le ultime foglie di fico che li ricoprivano.
“Nemmeno
io so cosa dirti, per questo non ti ho chiamato in questi
giorni”
“Credevo
fossi arrabbiato con me e non volessi più vedermi”
ammise Itachi,
mordicchiandosi il labbro inferiore, altro gesto inusuale che
però piacque a
Shisui. Desiderò alzarsi, stringerlo tra le braccia con
forza, baciarlo ed
essere lui a mordere quel labbro con gentilezza, per dare piacere e
aumentare
la voglia, come aveva già fatto in passato, come entrambi
erano bravi a fare
tra di loro. Rimase però seduto, non mosse un muscolo e si
limitò a guardarlo,
non era quello il momento; adesso era il momento delle parole che,
forse,
avrebbero addirittura stabilito che il tempo di quelle carezze era
finito.
“Diciamo
che quella sera ero abbastanza incazzato, svegliarmi il giorno dopo con
i
postumi di una sbornia colossale non mi ha aiutato, ma… come
dire? Mi sono reso
conto subito della cazzata che avevo fatto. No, Itachi, non scuotere la
testa,
la cazzata l’ho fatta io. In fondo non ti ho mai detto nulla,
né i miei
comportamenti ti hanno mai fatto credere diversamente, ho avuto vari
fidanzati
e fidanzate, non ti stavo certo aspettando in monastica attesa. Non
puoi
leggermi nel pensiero se non parlo e l’altra sera, invece di
essere più
delicato, sono sbottato come un idiota. Ecco, adesso ho detto tutto e
mi sento
proprio un perfetto imbecille patetico” sospirò
guardando il soffitto e
incrociando le dita dietro la testa, facendole scomparire tra i capelli
corti e
mossi.
Il
silenzio li cullò per qualche istante, si udiva il rumore
del traffico
nonostante i doppi vetri e il ticchettio di un rubinetto che gocciolava
nelle
vicinanze, se avessero teso le orecchie forse avrebbero sentito anche i
loro
cuori che non volevano saperne di calmarsi.
“Hai
ragione, non posso leggerti nel pensiero, i miei occhi non arrivano a
tanto, ma
posso leggere altro, i tuoi comportamenti per esempio – disse
Itachi che non
voleva esularsi dalla sua parte di colpe – tu sei onesto e
fedele, eppure hai
sempre tradito tutti i tuoi partner ogni volta che ti venivo a cercare
senza
pensare a queste conseguenze. Venivo da te perché mi ero
mollato, o magari solo
perché ti volevo e non mi hai mai detto di no; io
l’ho semplicemente dato per
scontato, senza riflettere su quanto ti sarebbe costato. Non ho nemmeno
notato
che poco dopo lasciavi sempre i tuoi partner, che idiota cieco, eh?
Eppure non
è successo una volta sola. Hai mollato persino Annie,
credevo che l’avresti
sposata”
“Lo
credevo anch’io, ma non riuscivo a stare ancora con qualcuno
sapendo di averlo
tradito, mi sono preso anche qualche schiaffo delle volte”
Fece
una risata amara, passandosi una mano su una guancia, come se gli
dolesse in
quel momento; i suoi occhi erano ancora puntati sul soffitto, mentre
sapeva che
quelli di Itachi erano su di lui.
“Avrei
dovuto intuire qualcosa, non dico capire, ma qualche sospetto avrei
potuto
anche farmelo venire. Ti chiedo scusa, Shisui”
Itachi
era mortalmente serio, perché si era reso conto appieno
quanto avesse
influenzato la vita del cugino. Se fosse stato capace di tenersi il
cazzo nei
pantaloni, o perlomeno di far funzionare a dovere quel cervello che
tutti
elogiavano, a quel punto Shisui avrebbe potuto avere una moglie e dei
figli, o
semplicemente un fidanzato. Di sicuro non si sarebbe ritrovato single,
senza
uno straccio di relazione seria all’alba dei
trent’anni.
“E
cosa dovrei farmene esattamente delle tue scuse, Itachi?”
domandò decidendosi
finalmente a guardarlo, seppure con la testa inclinata. Le sue parole
non
furono acide o arrabbiate, come avrebbero giustamente potute essere,
furono
invece quasi incolore, piatte; ciò ferì
maggiormente Itachi che si trovò a
stringere forte una mano a pugno, sentendo le unghie premere contro il
palmo.
“A
un cazzo, non servono proprio a un cazzo” sputò
amareggiato, consapevole della
loro inutilità e della propria.
“Smettila
di darti tutte le colpe, sono sicuro che lo stai facendo. È
stata soprattutto
colpa mia, potevo farmi uscire il fiato prima o mettermi
l’anima in pace e
cercare di dimenticarti, invece non ho fatto niente di tutto
ciò. Mi merito ciò
che mi sta accadendo e che mi è successo – si
alzò e si andò a mettere di
fronte a lui, poggiando il bacino contro la scrivania – basta
con i rimorsi e i
rimpianti, con i se e i ma, con avrei
potuto o avrei dovuto.
Ne sono stufo marcio e non cambieranno un bel niente. Dobbiamo pensare
al
futuro, è l’unica cosa che possiamo
fare”
Si
interruppe e guardò Itachi dall’alto, scrutando i
suoi occhi scuri che però lo
fissavano in attesa. “Immagino che ormai tra di noi sia
finita, in quel senso
perlomeno… però possiamo ancora essere amici, lo
siamo sempre stati in fondo. E
poi, se non ci pensassi io a stapparti fuori di casa o a farti battute,
moriresti di solitudine e malinconia”
Si
passò una mano sul collo, tentando di sorridere a quel suo
tentativo di fare
ironia, ma non risultò affatto convincente, solo triste.
Itachi
scattò in piedi, incapace di stare ancora seduto e fermo e
gli afferrò i lembi
della giacca, stropicciandoli tra le dita.
“Shisui,
ma…”
L’Uchiha
più grande osservò come l’altro fosse
genuinamente sconvolto, forse quasi
spaventato e capì che non aveva mai pensato sul serio che
tra di loro potesse
finire, ma non poteva continuare come era sempre stato, non
più, doveva per
forza cambiare qualcosa.
“Itachi,
io ti amo e questo non posso negarlo né cambiarlo, tu mi
vuoi bene ma non mi
ami, almeno non nel senso che vorrei io e non possiamo negare nemmeno
questo –
disse prendendogli le mani tra le sue, lasciando che le loro dita si
intrecciassero – ci sarò sempre per te, solo in
modo un po’ diverso”
Itachi
deglutì a vuoto dinanzi a quella confessione tanto diretta,
senza fronzoli
eppure tremendamente bella. Molte persone gli avevano detto di amarlo,
ma mai
si era sentito tanto emozionato e vicino alle lacrime come allora.
Strinse
forte le sue dita e cercò di parlare, perché
doveva spiegarsi, non poteva
lasciare che Shisui prendesse tutte le decisioni, anche lui era un
adulto e
doveva comportarsi come tale, prendersi le proprie
responsabilità ed essere
sincero con se stesso.
“Quello
posso cambiarlo però, posso amarti. Shisui, io non voglio
perderti, solo l’idea
di non poterti più abbracciare o baciare mi fa stare male e
non mi sono sentito
così nemmeno quando Konan mi ha lasciato… ed io
pensavo di amarla davvero,
pensavo di sposarla, di passare la vita al suo fianco. Anche adesso
voglio
baciarti, sentire i tuoi capelli nelle mie mani e il profumo sottile
del tuo
dopobarba mentre mi avvicino al tuo collo. Ti ho sempre desiderato
intensamente
e, come hai detto quella sera, a nessuno tranne te ho mai permesso di
prendermi, sei l’unico che mi sia mai entrato dentro. Nemmeno
tu mi puoi
leggere nel pensiero e quindi non puoi stabilire cosa provo, non puoi
decidere
anche per me”
Shisui
chiuse gli occhi e si morse le labbra, mentre la stretta delle loro
dita
diventava quasi dolorosa. Itachi non gli stava rendendo affatto le cose
facili,
perché quello stupido doveva essere sempre tanto testardo?
“Sei
soltanto confuso e hai paura di perdermi – disse tornando a
guardarlo – non
puoi importi di amarmi, e io nemmeno voglio un amore del genere,
dettato dalla
paura; non farmi questo. Ci vogliamo bene, possiamo essere solo amici e
cugini,
non cercare di amarmi per paura o… per pietà. Non
lo voglio”
La
sua voce faticò a rimanere limpida e chiara sulle ultime
parole e Itachi
avvertì una stretta al cuore, continuava a farlo soffrire
anche quando non
voleva. Nemmeno in passato aveva voluto, ma quanto aveva sofferto
Shisui nel
vederlo spensierato e ignaro vicino ad altre persone, a dargli consigli
o a
spingerlo a chiamare quella ragazza o quel tipo che gli aveva infilato
un
biglietto col numero sotto il tergicristallo?
La
sua era davvero solo paura o pietà confuse per amore?
Iniziò
a non vederci tanto bene, tutto gli apparve distorto e offuscato, anche
l’udito
funzionava male perché non udiva altro che il rimbombo del
proprio cuore che
pareva voler fuggire dal petto, quello stupido capriccioso cuore.
“Shisui…”
mormorò e, senza nemmeno rendersene conto, le sue mani si
erano divincolate ed
erano sulle sue guance, a stringergli con delicatezza il viso e a
tirarlo
contro il proprio per baciarlo. Ci fu un attimo di resistenza da parte
di
Shisui, ma si arrese subito e alzò bandiera bianca. In fondo
non c’era mai
stata una vera battaglia: contro Itachi era inerme e indifeso come un
neonato e
desiderava solo avere più da lui, non lasciarlo andare, come
un fottuto drogato
in cerca della sua dose che non gli sarebbe bastata mai. Gli prese a
sua volta
il viso tra le mani e lo baciò con irruenza, senza
risparmiarsi. Lo spinse e
camminarono lenti, impacciati, fino a incontrare un muro contro cui lo
premette
col proprio corpo, tentando di essere più vicini che mai con
quel bacio. Voleva
penetrare dentro di lui, rendere i loro toraci un'unica cassa, le
braccia e le
gambe fuse assieme, così come le labbra che non voleva
lasciare. Confusamente
pensò che quel giorno le previsioni del tempo avevano
sbagliato: stava
piovendo, aveva tutto il viso bagnato e quella pioggia era strana, era
salata e
sembrava non voler smettere.
“Itachi…”
ansimò contro la sua bocca mentre le sue mani cercavano di
asciugargli il volto.
Si allontanò a fatica perché il minore non glielo
permetteva, ma alla fine si
ritrovò a guardare i suoi occhi lucidi, le guance rigate di
lacrime e pensò che
non aveva mai pianto per nessuno, nemmeno per Sasuke.
“Shisui,
questa non può essere pietà o paura, non
è possibile. Non ti mentirò, non ti
dirò improvvisamente che ti amo, ma ti dirò che
non voglio lasciarti, voglio
che mi dai una possibilità ora che so la verità.
Voglio che ci proviamo sul
serio, senza più segreti o bugie”
Shisui
chiuse gli occhi, ma fu comunque inutile perché
l’immagine del cugino era
impressa sulla sua retina e continuò a vederlo lo stesso,
non c’era proprio
nessun modo per sfuggirgli. Se anche si fosse cavato i globi oculari,
ci
avrebbe pensato il suo cervello a mandargli immagini e ricordi in un
film
continuo. Sollevò quindi le palpebre e passò le
dita sui suoi zigomi,
raccogliendo le tracce umide del suo affetto, si sentì
speciale perché era
stato l’unico a far piangere Itachi che ora lo guardava
speranzoso. Non era mai
stato così cristallino nel mostrare i suoi sentimenti e
Shisui si morse con
forza un labbro, lottando con la sua razionalità e il
desiderio di lasciarsi
andare; qual era la decisione giusta? Non riusciva a scegliere,
c’era troppo in
ballo, troppo da perdere o da vincere in entrambi i casi.
“Non
esiste la scelta giusta – disse Itachi che parve comprendere
il suo dilemma –
ci siamo solo noi che possiamo provarci, nessuno può fare
previsioni del
futuro. Persino io che sono tanto meticoloso e accurato nel lavoro,
quando sono
in tribunale non posso fare altro che sperare per il bene,
perché anche il
migliore dei miei lavori può essere smontato o ribaltato da
un imprevisto.
Però, quando sono lì, so di aver dato tutto me
stesso e non ho mai niente da
rimproverarmi; adesso è la stessa cosa. Non
c’è giuria, né avvocati, io e te
siamo gli unici giudici, e io non voglio lasciare niente di intentato.
Non
voglio svegliarmi domani e rimpiangere di averti lasciato andare senza
aver
lottato abbastanza. Per questo ti chiedo una possibilità,
Shisui, non
negarmela”
Lo
guardò con gli occhi ormai asciutti ma non per questo meno
espressivi o
intensi, e tacque, in attesa della sentenza. Aveva esposto la sua
arringa, lo
aveva fatto al meglio delle sue possibilità nonostante col
cugino non riuscisse
a mentire o usare le sue arti affabulatorie; ora poteva solo attendere
il
verdetto. Non si sarebbe appellato alla clemenza della corte, non
avrebbe
pregato, perché non è così che
funziona l’amore. L’amore deve essere spontaneo,
non può essere forzato: si può anche piantare il
seme, ma il terreno deve
essere fertile e pronto, altrimenti nessuna pianta sarebbe mai
germogliata, non
è qualcosa da programmare o pretendere. Per quello aveva
capito la richiesta
precedente di Shisui di non amarlo per pietà, la pensavano
allo stesso modo, ed
era certo che non gli avrebbe mai inflitto niente di tanto orribile.
Shisui
intanto lo guardava, continuando a martoriarsi il labbro,
l’espressione seria
che però si aprì in un piccolo sorriso ironico,
una lontana eco del suo solito
e smagliante sorriso, ma pur sempre un inizio.
“Fatico
a credere che tu abbia perso qualche causa in tribunale, sei
maledettamente
convincente – tornò serio – sul serio
riusciresti a convivere senza i tuoi
segreti, a essere sincero con me?”
Itachi
non rispose subito, per calibrare bene le parole: stavano camminando su
una
lastra di ghiaccio sottilissima e il minimo errore avrebbe mandato
tutto in
frantumi.
“Finora
tra di noi sei stato tu quello che si è tenuto per
sé il segreto più grosso di
tutti” gli fece notare.
Shisui
assentì col capo e sospirò piano:
“Siamo
cugini, siamo uomini… che vita potrei mai offrirti? Sempre a
nasconderci o abbandonare
le nostre famiglie per vivere alla luce del sole? Perché
forse potrebbero accettare
il fatto che siamo gay, bisessuali, trisessuali o qualche altra
diavoleria, ma
non passerebbero mai e poi mai sopra al fatto che siamo
cugini”
“Eppure
Yuri e Akane si sono sposati ed erano primi cugini, come noi”
“Non
erano due uomini, ma un uomo e una donna, anche così
c’è ancora chi li guarda
storto – gli carezzò una guancia – sei
ancora in tempo per ripensarci. Esci di
qui, rimaniamo amici e trova qualcuno di cui innamorarti sul serio,
qualcuno
che potresti presentare ai tuoi”
Sapeva
che Itachi amava profondamente i genitori e che andare contro i
desideri del
padre, passare anni senza parlargli, lo aveva segnato profondamente e,
proprio
per l’amore che provava nei suoi confronti, non voleva
costringerlo a
rinunciarvi o a fare una scelta.
Itachi
però gli posò una mano sulla nuca, affondando tra
i capelli soffici,
stringendoli con forza pur non facendo male.
“Rinneghi
i tuoi primi insegnamenti? Sei tu che mi hai fatto capire di dovermi
accettare
e di essere in grado di farlo, grazie a te ho smesso di mentire a me
stesso,
sei un ipocrita Shisui – gli disse con un sorriso
canzonatorio sulle labbra –
per me arrivi a essere anche questo”
Pensò
a Sasuke, al fatto che si era preoccupato di non poter portare Gaara a
una
stupida riunione di famiglia, dispiacendosene, eppure questo non lo
avrebbe
fermato dal continuare a frequentarlo, non più almeno. Il
fratello era
cambiato, aveva preso coscienza di sé e dei propri
sentimenti, doveva farlo
anche lui e non poteva stando lontano da Shisui.
“Cosa
vuoi che ti dica, Itachi? – sospirò, stanco
– Cosa vuoi che ti dica?”
“Di
sì. Dimmi che mi dai un’altra occasione
– lo incalzò – non ti prometto che mi
innamorerò, che magicamente tra un mese proverò i
tuoi stessi sentimenti, la
verità è che nemmeno io capisco bene cosa provo
adesso. Sei intessuto così
profondamente in ogni aspetto della mia vita che voglio capire se
è amore ma
non ho mai osato confessarmelo, o se sei un pilastro essenziale ma non
l’uomo
che amo. Se ti sto lontano non potrò mai capirlo e lo devo a
me stesso e a te.
In fondo quella sera non mi hai confessato tutto perché
volevi tentare il tutto
per tutto pur di non perdermi? Perché io non dovrei fare lo
stesso?”
Shisui
poggiò la fronte contro la sua e chiuse gli occhi, sentendo
le sue mani ancora
tra i capelli e le proprie spalle scosse da una debole risata.
“Itachi,
Itachi… come riesci a rigirare la frittata e a portare tutti
gli argomenti
dalla tua parte ha qualcosa di incredibile. Sei davvero
l’avvocato del diavolo
– spostò la testa per guardarlo – non ho
più obiezioni, vostro onore”
Era
sconfitto su tutta la linea e ormai non aveva più la forza
di lottare, né ne
vedeva il motivo. Se lo amava così tanto da diventare
addirittura un fedifrago
o un ipocrita, avrebbe anche corso il rischio di dargli
un’altra chance; in
fondo non era detto che si sarebbe ritrovato per forza col cuore
spezzato,
magari… magari, vedendolo sotto un’altra luce,
come un vero partner, i
sentimenti di Itachi sarebbero diventati più chiari e forse
lo avrebbe corrisposto.
Poteva
mettersi ancora in gioco, per lui.
“Bene,
dichiaro sciolta la seduta” scherzò Itachi,
carezzandogli i lineamenti delicati
del viso, come se li stesse vedendo per la prima volta.
“E
adesso? Qual è il verdetto? Come funziona d’ora in
avanti?” domandò invece
Shisui serio, in una strana inversione dei ruoli.
Infatti
Itachi sorrise di nuovo e, spensierato, scrollò le spalle
dicendo:
“Direi
che potremmo darci appuntamento per stasera e vedere come
andrà, ma è vietato
ubriacarsi”
Shisui
finse di pensarci su, roteando anche gli occhi verso l’alto,
poi lo guardò,
vide le sue labbra sorridenti e le baciò; una volta, due e
un’altra ancora.
“Non
stai correndo troppo?” rise Itachi.
“Mi
hai vietato di ubriacarmi, non di baciarti” gli
ricordò Shisui tra uno schiocco
di labbra e l’altro, ridendo a sua volta, adorando sentire la
sua voce a quel
modo.
Era
ancora tutto incerto e sospeso, nessuno garantiva loro che ci sarebbe
stato un
happy ending, che non avrebbero più sofferto o altri triti e
banali cliché da film,
ma erano insieme ed insieme avrebbero tentato, avrebbero scritto la
loro
storia; insieme avrebbero deciso il loro futuro.
Lo
farò per lui.
L’angolino
oscuro:
Scusate il ritardo, ma sono perdonata con questo capitolo
sostanzioso, vero? Anche se ci siamo spostati un po’ di
più verso Itachi e
Shisui, le vicende di Sasuke e Gaara fanno sempre da cornice agli
eventi. Grazie
per continuare a seguire questa storia e a lasciarmi un commento per
farmi
sapere che ne pensate, alla prossima!
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3691759
|