Everybody hurts

di Sunako_7
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 - Orizzonte ***
Capitolo 2: *** 2 - Finalmente ti vedo per quel che sei ***
Capitolo 3: *** 3 - Quello che c'è al di là ***
Capitolo 4: *** 4 - Reach out and touch faith ***
Capitolo 5: *** 5 - L’amore non perdona ***
Capitolo 6: *** 6 - The night we met ***
Capitolo 7: *** 7 - La giusta decisione ***
Capitolo 8: *** 8 - Red bird ***
Capitolo 9: *** 9 - Christmas’s magic ***
Capitolo 10: *** 10 - Un fratello è quel legame che non potrai mai spezzare, non importa quanto ci provi ***
Capitolo 11: *** 11 - Cose vecchie, cose nuove ***
Capitolo 12: *** 12 - It started out with a kiss ***
Capitolo 13: *** 13 - Il silenzio non è sempre d’oro ***
Capitolo 14: *** 14 - La cioccolata, come le paure, non si lava via con l’acqua, ma per tutto c’è un rimedio ***
Capitolo 15: *** 15 - Sei il sale sulle mie ferite, eppure non riesco a smettere ***
Capitolo 16: *** 16 - Baby can I hold you tonight ***
Capitolo 17: *** 17 - Oh Darling, what have I done ***



Capitolo 1
*** 1 - Orizzonte ***


everybody 1

Orizzonte

Che ci fai lì seduto? Dai vieni!”
Dai, siamo tutti insieme, qui ci divertiamo.”
Non stare da solo, non serve, qui ridiamo tutti insieme.”
Hanno ragione, dai!”
Il ragazzo guardò la mano entrata nel suo campo visivo e non seppe bene cosa fare. Alle sue narici arrivò anche l’odore caldo di quella pelle, sapeva di buono, di qualcosa di confortante che avrebbe offerto riparo e comprensione. Alzò gli occhi chiari, deciso ad accettarla e sollevarsi, ma la sua voce lo freddò.

No, lui no, non ancora.”
Era la
sua voce, non la udiva da anni, ma l’avrebbe riconosciuta ovunque.
La mano scomparve e l’odore divenne acre, marcescente, come di fiori lasciati a imputridire, dimenticati in un vaso di cristallo. Alle sue orecchie arrivò una musica distante, le parole erano distorte, come se la radio non fosse sintonizzata bene sulla frequenza giusta.

I am not the only traveler who has not repaid his debt
I've been searching for a trail to follow again

Sì, doveva trovare una nuova strada, il percorso giusto, ma dov’era? Lui non riusciva a vederlo. Non era il solo peccatore a calcare le strade, ma in quel momento lo era, era da solo. C’era il vuoto attorno a sé, nessuna mano tesa, nessun viso, niente, solo il vuoto e la polvere che volteggiava prima di depositarsi sulle cose e su chi era rimasto immobile. 
Come lui.


Gaara si svegliò quasi di soprassalto. Spalancò gli occhi, con il rimbombo del cuore nelle orecchie e in gola. Era stato solo uno stupido sogno, ma come tutti i sogni era sembrato tanto più vivido e lucido della realtà. Provava un senso di oppressione al petto al ricordo di quella mano tesa, scacciata dalla sua voce che gli aveva impedito di afferrarla. Eppure, contradditoriamente, era stato felice di udire quella voce, perché oramai era presente solo nei propri ricordi, non aveva altro modo per sentirla.
Un mugolio provenne dal suo fianco e lui si voltò a guardare la persona che ancora dormiva nel suo letto. 
Sospirò piano, decidendosi a scendere e raccattare qualche vestito. Aveva intenzione di andare a fare una doccia e poi di mettere sotto i denti qualcosa; era appena l’alba ma riposare ancora era fuori discussione, inoltre non voleva svegliare il suo ospite e avere a che fare col suo caratteraccio, non con quel malumore che il sogno gli aveva messo addosso.
Dopo una doccia, con una tazza di the caldo in mano e un piatto con dei toast davanti, la giornata appariva sotto un’altra luce.
Gaara si stava godendo la propria colazione con calma, immerso nella quiete e in compagnia del suo lettore di e-book, quando sentì la porta d’ingresso aprirsi e richiudersi con un tonfo poco delicato. I passi in avvicinamento stavano sancendo la fine del silenzio.

Cazzo fai già in piedi? O il tuo ospite non ti ha fatto dormire affatto? – una risata – Ho visto un altro cappotto all’ingresso.”
Gaara osservò Hidan, il suo coinquilino lasciarsi cadere sulla sedia a fianco alla propria, ancora col riso sulle labbra.

Ho dormito, ma mi sono svegliato presto – spiegò pazientemente, spegnendo l’e-reader – tu piuttosto rientri solo adesso. Nottata impegnativa?” domandò osservandolo servirsi dei toast sul tavolo.
Puoi dirlo forte! Con Deidara abbiamo rimorchiato un tizio fuori di testa e abbiamo fatto roba tutti assieme, sono distrutto! È stato un sabato sera col botto, ora ho intenzione di dormire almeno fino a oggi pomeriggio!” esclamò con la bocca piena, bevendo anche il the di Gaara.
Hidan era fatto così: senza filtri. Parlava senza preoccuparsi di filtrare quello che gli passava per la testa e le sue maniere andavano di pari passo; Gaara oramai ci aveva fatto l’abitudine dopo tutti gli anni di conoscenza e convivenza che li univano. In realtà non gli dispiaceva nemmeno del tutto, era un bel contrasto col proprio carattere riservato e schivo, anzi ad essere sinceri, doveva parecchio a quell’uomo irruento che si stava finendo la sua colazione.

Bene, sono felice che tu e Deidara abbiate passato un bel sabato sera, anche se quel tipo doveva essere quasi da ricovero psichiatrico se tu stesso l’hai definito fuori di testa” rispose pacato, strappandogli però di mano l’ultimo toast.
Hidan fece un sorriso storto, con gli occhi viola scintillanti di divertimento per poi passare un braccio attorno alle spalle di Gaara e tirarselo vicino. Il viso pieno di briciole, l’espressione sorniona e quel gesto affettuoso non riuscivano però a cancellare del tutto l’ombra spietata e affilata caratteristica del suo carattere, ma che il ragazzo riservava al mondo esterno, degno di ricevere tutto il suo disprezzo e la sua crudeltà. Tra le mura di casa e con le pochissime persone a cui si era legato, le cose erano un po’ differenti.

Credo che nemmeno tu possa lamentarti della tua serata – affermò ironico – ultimamente stai vedendo quel tipo un po’ più spesso o sbaglio?”
Gaara sorrise, lasciandolo fare e finendo di mangiare il toast prima di rispondere:

Mica mi sono lamentato infatti – precisò – sì, nell’ultimo mese ci siamo visti più di frequente, è un problema se si ferma anche a dormire?”
Era iniziato per caso: una sera il suo partner si era semplicemente addormentato, troppo stanco per rivestirsi e andarsene come al solito. Da quella volta in poi si era sempre fermato spontaneamente, senza drammi o discorsoni, non funzionava così tra di loro; semplicemente era apparso evidente agli occhi di entrambi quanto la cosa fosse più conveniente. Nessun rischio di incidenti nel mezzo della notte per un colpo di sonno, la possibilità di bere senza porsi qualche limite, e poi il letto a una piazza e mezza di Gaara era sufficientemente comodo per entrambi.

Sai che cazzo me ne frega! Fa’ come ti pare, come se ti avessi mai chiesto il permesso per far dormire Deidara qui – rise Hidan lasciandolo andare – ero solo curioso. Non era mai successo prima, anzi penso di poter dire che questa è la tua relazione più lunga… o trombamicizia, o come diavolo vuoi chiamarla.”
Gaara inclinò il collo su un lato, riflessivo; era vero, dopo quasi quattro mesi continuavano a vedersi seppur senza nessuna regolarità o obbligo tra di loro.

Hai ragione, ma non c’è molto oltre a questo… non credo almeno. Non saprei come definire questa cosa.”
Hidan gli batté una mano su una spalla e si alzò in piedi:

Che te ne fotte? Finché ti dà il culo va bene. Vado a dormire, a più tardi.”
Gaara si ritrovò a concordare solo in parte col suo coinquilino: normalmente non si faceva domande, prendeva quello che veniva, però quella volta le cose iniziavano a sembrargli un po’ diverse. In fondo nessun altro aveva mai dormito nel suo letto.


***


Sasuke entrò in cucina con solo una maglietta e dei boxer a coprirlo, andando verso la caffettiera elettrica per metterla in funzione senza bisogno di aiuto. Aveva imparato a muoversi in quella casa e la faccenda, in quella tarda mattinata domenicale, non gli fece squillare nessun campanello d’allarme nella testa. Qualsiasi cosa poteva attendere la sua razione giornaliera di caffeina.
Con una tazza fumante, si sedette di fronte a Gaara che stava leggendo e con cui si era scambiato solo un cenno. Continuarono a rimanere in silenzio per qualche altro minuto, ma quando Sasuke arrivò quasi alla fine del caffè, si sentì dire:

Non sapevo se dovevo svegliarti o meno come altre volte, quindi ti ho lasciato riposare. Tra l’altro mi eri sembrato un po’ stanco ieri.”
Sasuke si trovò a guardare quegli occhi acquamarina sconcertanti, che a volte lo facevano dubitare della propria sanità mentale, per tutto quello che di nuovo si era ritrovato a fare in quegli ultimi mesi.
Si rigirò in bocca l'ultimo sorso della bevanda rigorosamente nera e senza zucchero prima di rispondere:

Va bene così. Oggi non ho niente in programma, avevo bisogno di una giornata libera – un istante di riflessione – in effetti avrei dovuto avvisarti.”
Sembrava che avesse fatto una gran fatica ad affermare quella sua mancanza, e la realtà era proprio quella. Solitamente si sarebbe tagliato la lingua piuttosto che ammettere un errore o una distrazione, ma in quei mesi con Gaara aveva imparato a farlo ogni tanto. In realtà entrambi facevano delle piccole concessioni all'altro, erano stati costretti entrambi dalle circostanze: quello oppure si sarebbero saltati alla gola.
Non parlavano molto, al di fuori dello stretto necessario per prendere accordi su dove e quando incontrarsi non si sentivano nemmeno al telefono. Poi una sera si ritrovavano a bere qualcosa al bar dove si erano conosciuti e inevitabilmente dopo finivano a scopare a casa di Gaara, esattamente come la prima sera.
In quei quattro mesi però qualcosa era cambiato, il suo fermarsi a dormire era solo il fatto più evidente, c’era anche la maggiore frequenza con cui si vedevano, le rare chiacchiere futili che si scambiavano e il bisogno di non schermarsi più. Quando erano insieme potevano far cadere le armature che li rivestivano, Gaara gli permetteva addirittura di carezzarlo.
Intanto proprio questi sorrise, ironico, perché la frase di Sasuke era quanto di più simile alle scuse che esistesse, e sapeva bene lo sforzo che c’era dietro.

Beh, ieri sera non è che tu abbia parlato molto in effetti” lo punzecchiò.
Sasuke strinse più forte il manico della tazza, irritato, perché in effetti la sera prima non erano nemmeno andati a bere, semplicemente era entrato nell’appartamento, aveva baciato Gaara e si era fatto scopare quasi a sangue. Sì, aveva decisamente qualche problema col suo equilibrio e la sanità mentale.
Gaara non gli diede tempo di replicare perché, vedendo il suo disagio, si premurò di ammorbidirlo, non aveva voglia di litigare o passare il tempo a vomitarsi addosso acidità, anche se succedeva anche quello tra di loro.

Mi sono accorto che stai attraversando un periodo stressante, che succede? Puoi parlarmene se vuoi.”
O puoi anche stare zitto e continuare semplicemente a chiamarmi più spesso per sfogarti, la scelta è tua, io sono solo qui e non giudico.

Sasuke lesse tra le righe e forse la cosa gli diede ancora più fastidio. Perché, accidenti, da quando in qua lui riusciva a capire i sottintesi degli altri, e da quando qualcuno che non fosse Naruto riusciva a vedere i suoi? Quegli occhi chiari erano troppo penetranti e destabilizzanti, rifletté.
Posò la tazza vuota sul tavolo e poggiò un piede scalzo sul cuscino della sedia, mentre l’altro rimaneva a terra. Si voltò a guardare il panorama fuori dalla finestra, qualche sparuto albero frustato dal vento e immerso in una distesa di cemento. Osservò i rami nudi che si muovevano scompostamente e pensò che, quando sarebbe uscito, forse non sarebbe bastato il cappotto a difenderlo dal freddo pungente. In quella cucina poteva permettersi invece il lusso di stare in mutande e maglietta senza gelare, protetto, al sicuro.

Tra dieci giorni, mercoledì per l’esattezza, mi laureo. Sono stato in tensione per questo, la mia tesi era complicata, ho litigato col relatore più di una volta e ovviamente non posso prendere meno della votazione massima. Mio padre non me lo perdonerebbe – raccontò – niente che non potessi gestire, naturalmente, ma ho avuto da fare. Adesso dovrebbe essere tutto pronto, devo solo aspettare mercoledì e ripetere per bene il mio discorso” concluse.
Gaara aveva ascoltato sorpreso quello sfogo, non si aspettava sul serio che Sasuke raccogliesse il suo invito. Evidentemente doveva essere sotto pressione ben più di quanto avesse dimostrato, oppure…
con lui si sentiva libero di parlare. Tuttavia quest’ultima ipotesi venne accantonata, perché apriva un ventaglio di possibilità troppo ampio.
Gaara non rispose subito, era stato colto alla sprovvista da quel discorso, inoltre si trattava di qualcosa di cui aveva solo una minima conoscenza. E Sasuke aveva una famiglia, con un padre molto severo, ma… lo aveva perlomeno.

Prenderai il massimo, naturalmente” replicò, asciutto.
Naturalmente” ribatté Sasuke, con una punta d’acidità. Altri risultati non erano nemmeno da prendere in considerazione come possibili.
In cosa ti laurei?” domandò Gaara, moderatamente curioso. Sapeva che l’altro era una studente, a differenza sua, ma non avevano mai parlato delle rispettive occupazioni.
Dal loro scambio di battute venne fuori che Sasuke si sarebbe laureato in architettura, alle 14 nell’aula magna della prima università della città, portando come argomento una complessa trattazione sull’urbanismo, nuovi materiali e un impatto più ecologico.
Gaara ne rimase impressionato e affascinato: lui era scappato dalla sua famiglia adottiva a sedici anni, quando avevano scoperto ciò che succedeva tra lui e suo fratello Kankuro.
Aveva scongiurato in quel modo che li rispedissero in orfanotrofio, permettendo almeno al fratello di sfruttare le agevolazioni che una famiglia poteva offrire. In fondo era sempre stato Kankuro quello che piaceva di più, quello che riusciva a mettere su una maschera per risultare gradevole, non Gaara col suo cipiglio scontroso e la sua scarsa loquacità. Dopo la sua fuga, aveva mentito sull’età e si era arrangiato con lavoro in nero, accantonando ovviamente gli studi, in quel modo era rimasto anche fuori dai radar dei servizi sociali. Aveva abitato in topaie, gli unici posti che potesse permettersi con la paga che riceveva, risparmiando su ogni centesimo. Con la maggiore età era riuscito a trovare occupazioni più dignitose, aveva incontrato anche persone che lo avevano aiutato, come Hidan, ed era riuscito a prendere il diploma frequentando le scuole serali pur continuando a lavorare. Ora a ventitré anni si ritrovava segretario in uno studio legale e col sogno, nemmeno troppo segreto, di diventare a sua volta avvocato.
Si era iscritto come studente lavoratore alla facoltà di giurisprudenza solo da pochissimo, ancora non aveva dato nessun esame, né aveva potuto frequentare le lezioni per via del lavoro, ma stava già studiando. E sentire parlare Sasuke di università, di laurea e di quella vita spensierata da studente che non avrebbe mai avuto era affascinante; da quei racconti scarni riusciva a immaginare come sarebbe potuta essere anche per lui.
Avrebbe voluto fargli domande, ascoltarlo parlare per ore, ma non chiese nulla, né mostrò l’entusiasmo che in realtà lo stava divorando, bensì ascoltò col viso impassibile quel poco che Sasuke si lasciò sfuggire.

Non sono mai stato a una laurea” commentò solamente, alla fine.
Sasuke sollevò un sopracciglio, sorpreso da quell’affermazione. Chiuso com’era nel proprio ambiente, non riusciva a concepire che qualcuno potesse avere uno stile di vita diverso e quell’affermazione invece gli sbatteva in faccia quella realtà. Esistevano davvero persone che non avevano genitori soffocanti, che non dovevano sempre apparire perfette, ma potevano anche commettere errori, essere rilassati, inseguire i propri sogni e desideri senza alcuna costrizione. Da non credersi, quasi.

No? Nessuno dei tuoi amici si è laureato?”
No, nessuno” rispose Gaara, riflettendo che non ne aveva poi così tanti di amici, più che altro conoscenti.
Sasuke si alzò per posare la tazza nel lavandino, dicendo in tono leggero:

Beh, da adesso in poi potrai dire di conoscere un laureato.”
Buttò quella frase lì, tanto per rispondere, senza pensare al reale significato di quelle parole o di come Gaara avrebbe potuto interpretarle. Come al solito non si curava poi troppo di ciò che provavano gli altri, concentrato su se stesso e i propri bisogni, incapace di empatizzare.
Si portò alle spalle di Gaara e si chinò a baciargli il collo:

Ho ancora qualche ora libera.”
Quello lo disse con più attenzione, gli interessava sul serio la reazione del ragazzo, perché questo avrebbe decretato o meno la soddisfazione dei propri bisogni. E Sasuke, nei suoi ventidue anni di vita, era inesperto su molte cose, capiva poco di se stesso e ancora meno degli altri, ma aveva ben chiaro cosa voleva e come fare per ottenerlo.













L'angolino oscuro:
Avevo detto che sarei tornata ed eccomi qui, stavolta niente one-shot bensì una long *lancia coriandoli* nemmeno io credevo che da sola sarei mai riuscita a portarla avanti, sono decisamente sorpresa ma il merito non è solo mio, bensì di Fra aka Happy_Pumpkin la mia fedele zucchetta che mi sopporta oramai da più di nove anni. Se questa storia sta venendo pubblicata è solo grazie a lei, ai suoi incoraggiamenti costanti, alla pazienza di fronte ai miei dubbi, gli scleri sull'IC, sullo stile, su *inserire argomento random*. Insomma, mi è stata vicino e grazie alle discussioni con lei le mie idee si chiarivano e riuscivo ad andare avanti, quindi questa fanfiction è interamente dedicata a lei e ho deciso di pubblicarla proprio oggi per il giorno del suo fantameraviglioso compleanno, surprise! *O*
Parlando di altro, questa fanfiction altro non è che il seguito della mia one-shot If I had a heart non è obbligatorio leggerla per poter seguire questa long, ma di sicuro alcuni particolari risulteranno più chiari. La storia riprende all'incirca quattro mesi dopo la conclusione della one-shot, Sasuke e Gaara hanno continuato a frequentarsi, ma hanno un dialogo quasi inesistente, ogni tanto si aprono, si lasciano sfuggire qualcosa su loro stessi, ma nonostante i loro silenzi la relazione è andata avanti. Sasuke si ferma addirittura a dormire e Gaara gli permette di carezzarlo, cosa che invece normalmente non riesce a tollerare, eppure tutto ciò basterà per permettergli di andare avanti? Questo lo scoprirete leggendo XD
La mia storia tratterà anche lo spinoso argomento dell'incest, in questo caso tra Gaara e Kankuro, lo andremo a sviscerare più approfonditamente mentre nella one-shot lo avevo appena accennato senza dedicargli molto spazio. E' un argomento che mi affascina, in effetti amo anche l'Uchihacest, e spero di essere stata all'altezza di temi tanto delicati, ma ne parleremo meglio nei capitoli successivi. Per il momento abbiamo questo breve prologo che ci offre una panoramica generale della situazione, della vita dei nostri protagnisti ma successivamente la storia si arricchirà di altri personaggi. Tra l'altro adoro Hidan e trovo che con Gaara funzionino maledettamente bene *O*
La storia è quasi interamente scritta, quindi gli aggiornamenti saranno abbastanza regolari e ravvicinati e di certo la concluderò, non la lascerò a metà, non temete! Il titolo della fanfiction Everybody hurts è lo stesso di una canzone dei R.E.M. sono una loro fan e quindi la conoscevo già, ma qualche tempo fa l'ho ascoltata e ho avuto un flash, mi sono detta: "E' lei! E' perfetta per la mia storia" e già questo vi dovrebbe far capire qualcosa su come andranno le cose qui, angst e drammoni a manetta XD
Le due frasi in corsivo nel sogno sono invece della canzone The night we met di Lord Huron ed è la canzone che mi ha fatto venire in mente come poter scrivere questa long, l'ho ascoltata a ripetizione per ore mentre scrivevo, sì mi fisso leggermente sulle cose XD
Il titolo del capitolo invece vuole richiamare ciò che gli occhi dei due protagonisti vedono, il limite oltre il quale i loro sguardi si bloccano. Però anche se c'è il sole che nasce e tramonta sulla linea dell'orizzonte, che acceca, non è detto che al di là non ci sia nulla e che sia impossibile oltrepassarlo, ma al momento loro non vedono nient'altro. 
Detto ciò, ho parlato un sacco e penso anche a sproposito quindi mi dileguo e mi auguro di riuscire a trasmettervi qualcosa e che vogliate lasciarmi una recensione, rendendomi partecipe dei vostri pensieri e riflessioni sulla storia, alla prossima!

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Capitolo 2
*** 2 - Finalmente ti vedo per quel che sei ***


every 2

Finalmente ti vedo per quel che sei




Gaara rimase fermo davanti al portone a rovistare nello zaino: aveva bisogno delle chiavi, ma ovviamente in mezzo a quel caos non le trovava. Era pieno di fascicoli del lavoro, un paio di libri e quaderni dell’università su cui aveva studiato durante la pausa pranzo, più fili delle cuffiette, carte varie, scontrini e, solo sul fondo, riuscì a trovare ciò che cercava. Rifletté che aveva proprio bisogno di dargli una sistemata, ma in quell’ultima settimana non aveva avuto quasi tempo di respirare. Nello studio di avvocati dove faceva il segretario tuttofare, il lavoro era aumentato e tutto il suo tempo libero lo passava studiando. 
Mentre l’ascensore saliva, pensò che gli sarebbe proprio piaciuto avere una vita normale, potersi permettere di fare lo studente a tempo pieno, tornare a casa e trovare una madre con la cena pronta, la camera rassettata, i vestiti puliti, il fratello con cui avrebbe visto la TV dopo cena. Già, il fratello…
Uscendo dall'ascensore, si lasciò alle spalle quei pensieri inutili, avanzando con le spalle dritte e il passo elastico lungo lo stretto corridoio, perché doveva andare avanti senza fermarsi a perdere tempo su fantasie irrealizzabili.
Entrò nell’appartamento lasciando cappotto e zaino all’ingresso, per poi dirigersi verso la cucina dove trovò Deidara che si abbottonava i pantaloni e Hidan che si stava infilando la maglia. Decisamente erano ben diversi da una madre premurosa con un succulento arrosto.
“Andare in camera è diventato noioso? Posso mangiare liberamente o qualcosa è stato contaminato?” domandò Gaara, pungente.
“Rompicoglioni – borbottò Hidan – quando ti prende la voglia chi se ne frega del luogo. E la cena è al sicuro in forno.”
Gaara rimase sorpreso da quell’affermazione. Era raro che si trovassero a cenare insieme, gli altri due facevano i barman in locali diversi, evidentemente doveva essere la serata libera di entrambi e c’era anche del cibo da condividere. Sicuramente qualcosa di semplice, Hidan non era un cuoco sopraffino, ma a Gaara non importava e quella serata gli apparve migliore di quanto aveva pensato solo cinque minuti prima.
Mentre apparecchiavano, pensò che quei due stavano insieme da parecchio, avevano una relazione particolare, piuttosto aperta e libera; col carattere che entrambi si ritrovavano una qualsiasi altra opzione li avrebbe portati a lasciarsi molto tempo prima… o a uccidersi. Non era un’alternativa da scartare.
“Allora, come va con quel tipo… Sasuke, giusto? – domandò Deidara mentre mangiavano – Ultimamente vi ho visti più spesso.”
Si davano sempre appuntamento al locale in cui si erano conosciuti e in cui Deidara lavorava, così che il biondo barman aveva avuto occasione di vederli più di una volta.
“Bene, credo. In effetti, ci stiamo vedendo un po’ più spesso, anche se in questi ultimi giorni è piuttosto impegnato.”
Deidara fece una smorfia, Sasuke non gli piaceva molto e non ne aveva fatto mistero con Gaara; lo riteneva un palo in culo complessato – sue testuali parole. Persino nel gay bar si guardava attorno furtivo e, prima di uscire in strada, guardava attentamente dalle vetrate, sicuramente per controllare che non stesse passando qualche sua conoscenza. No, decisamente non era un tipo che viveva con tranquillità la sua sessualità e, avendo visto una gran varietà di essere umani da dietro il bancone del bar, riteneva che la stessa cosa valesse anche per altri aspetti della sua vita.
“Ah, e in cosa è impegnato il principino? Sicuramente non a far diventare il mondo un posto più amichevole” disse Hidan. Condivideva l’opinione del suo fidanzato, per di più aveva incrociato Sasuke in casa un paio di volte e l’altro si era giusto degnato di scambiare un saluto, per poi scappare in camera di Gaara come se avesse il diavolo alle calcagna.
Gaara roteò gli occhi verso il soffitto prima di rispondere:
“Tra tre giorni si laurea, quindi ha da fare… e non mi risulta che né io, né voi due contribuiamo attivamente a spargere arcobaleni e fiorellini nel mondo.”
“Cazzo c’entra? È diverso” ribatté Hidan, bevendo un sorso di birra.
Deidara invece era molto più interessato al resto della risposta di Gaara e si sedette sulla punta della sedia, in modo da avvicinarsi di più al ragazzo.
“Si laurea, interessante… e ti ha invitato?”
Gaara posò la forchetta e rimase a guardarlo, fulminato da quella domanda che anche lui si era fatto. Da domenica si erano rivisti solo un’altra volta, ma anche in quell’occasione avevano parlato dell'imminente laurea, era palese che Sasuke non riuscisse a pensare quasi ad altro, gli aveva addirittura ripetuto il discorso che avrebbe tenuto, e gli aveva anche detto nuovamente a che ora e dove si sarebbe tenuta la discussione.
“Non ne sono certo – ammise Gaara – mi ha detto sia ora che luogo, però effettivamente non mi ha invitato o chiesto esplicitamente di andare. Sono un po’ incerto, non mi sono mai trovato in una situazione simile.”
Aveva difficoltà a rapportarsi con gli altri a differenza della maggior parte della gente, trovava difficile capire i sottintesi, i discorsi enigmatici e, più in generale, capiva proprio a fatica le persone. Si sentiva come in un acquario: galleggiava lasciandosi trasportare dalla corrente, rinchiuso in quella grande vasca senza riuscire a venirne fuori, per timore, forse, di non riuscire a respirare l’aria come facevano tutti gli altri esseri umani. Così si limitava a guardarli, distante, separato da loro dal vetro, entrando occasionalmente in contatto solo quando qualcuno decideva di bagnarsi nell’acqua gelida che lo avvolgeva.
“Certo che ti ha invitato! – esclamò Deidara strappandolo dalle sue riflessioni – altrimenti perché dirti ora e luogo?”
“Infatti, figurati se quello si degna di consumare la lingua se non è necessario – intervenne Hidan – ma dato che è un asociale non saprà nemmeno come si fa un invito decente. Gaara, la prossima volta trovati qualcuno di più allegro, dammi retta, non chiassone come Deidara però.” Guardò il suo fidanzato con un mezzo sorriso, ma era caldo, uno di quelli che rivolgeva solo a pochi. 
Hidan non era certo un innamorato modello, di quelli da presentare in famiglia o con cui passeggiare mano nella mano, chiacchierando sul nuovo divano da comprare 
non che Deidara desiderasse davvero un tipo così. Hidan era irruento, impulsivo e si gettava nelle cose a capofitto, senza pensare al rischio di potersi fare male, ed era anche l’unico che riuscisse a gestire Deidara e la sua irascibilità.
Il barman biondo non si smentì nemmeno quella volta, infatti gli lanciò addosso il tovagliolo e sbottò:
“Ma vaffanculo, a volte mi sembri un morto vivente! – si rivolse poi a Gaara, ignorandolo – 
È chiaro, sei invitato. Per il vestiario non hai problemi a vestirti abbastanza elegante, però devi pensare al regalo.”
Gaara alzò una mano come a frenare l’irruenza dell’amico, stava decisamente correndo troppo e lui era tutt’altro che un velocista, sotto tutti i punti di vista.
“Anche se fosse così non posso andare, a lavoro non posso proprio chiedere nemmeno mezza giornata libera, c’è il delirio. Oltre al solito lavoro, dato che tra poco arriveranno due nuovi praticanti, devo sistemare gli archivi, fare controlli e un sacco di altre cose noiosissime e inutili, ma che mi portano via un sacco di tempo” rispose, senza badare a Hidan che inveiva, ci era abituato.
“La laurea è alle 14, puoi sfruttare la tua pausa pranzo. Magari non rimani fino alla fine, ma ci vai, niente storie. Dobbiamo solo pensare al regalo” insistette Deidara. Per quanto non gli piacesse Sasuke, giudicava che per Gaara quella potesse essere una buona occasione per socializzare e uscire dal suo guscio, inoltre avrebbe potuto toccare con mano il futuro che lo attendeva. Perché era certo che sarebbe riuscito a laurearsi, diventare un ottimo avvocato e un giorno sarebbe stato tanto in alto da essere lui a impartire ordini invece di eseguirli.
Gaara aveva la testa nel pallone, era confuso e aveva la sensazione di stare sbagliando tutto, che non fosse una grande idea andare a quella laurea, in fondo lui e Sasuke non avevano un rapporto poi così stretto. Però… si vedevano sempre più spesso, la loro intesa a letto era migliorata e Gaara riusciva persino a farsi carezzare da lui senza provare il bruciante desiderio di scappare, e poi Sasuke gli aveva parlato di sua spontanea volontà di quella maledetta laurea. Perché farlo se non aveva interesse che lui vi partecipasse in qualche modo?
Gaara era ancora combattuto, ma gli sovvenne un sogno che faceva ricorrentemente in cui alcuni bambini gli proponevano di andare a giocare, lui stava per accettare ma all’improvviso una voce glielo impediva e lui si trovava da solo, senza più niente e nessuno attorno. Le mani tese, i sorrisi, il sole… tutto sparito.
Nel sogno la voce autoritaria era quella di suo fratello, ma lui era certo che Kankuro non gli avrebbe mai fatto nulla del genere nella realtà, aveva quindi finito per convincersi che quella voce doveva essere la propria, il suo subconscio che gli impediva di aprirsi e stabilire rapporti e relazioni con altre persone, come se fosse il suo scotto da pagare per gli errori e i peccati commessi.
“Non ho idea di cosa potrei regalargli” si ritrovò a rispondere, stupendosi per primo per la facilità con cui quelle parole gli erano scivolate fuori dalla bocca, sapienti pattinatrici sul ghiaccio.
“Qualcosa che gli piaccia? A parte scopare con te, Gaara” lo prese in giro Hidan, accendendosi una sigaretta, ignorando Deidara che gli intimava di andare sul balcone.
Il ragazzo fissò pensieroso il cibo ancora nel piatto, ignorando gli altri che litigavano e Hidan che alla fine usciva fuori, convinto dalla minaccia di Deidara di non fargli più pompini, perché sapeva che l’altro sarebbe stato davvero in grado di mantenere quella minaccia.
Gaara pensò a Sasuke e si rese conto sul serio di sapere pochissimo sul suo conto, di certo non poteva regalargli una scorta di preservativi, doveva pensare a qualcos’altro; si maledisse per essere così incapace di relazionarsi agli altri e riuscire in una cosa tanto banale quale era fare un regalo.
“C’è un gruppo musicale che gli piace, pensi che possa essere un’informazione utile?” domandò a Deidara che stava mandando giù l’ultimo boccone. Si era ricordato del CD che gli aveva visto una sera nello zaino e delle poche parole che Sasuke aveva usato per raccontargli quanto gli piacesse quella band.
“È un punto di partenza – affermò Deidara – magari se siamo fortunati hanno dei concerti in programma, o possiamo trovare maglie, oggetti vari… ora vediamo.”
Si alzò e tornò poco dopo con il portatile acceso che appoggiò sul tavolo, spostando un po’ di stoviglie per mettersi poi a fare qualche ricerca.
“Cazzo! Un regalo mica da poco!” esclamò Hidan che era rientrato e si era messo alle loro spalle per vedere lo schermo, odoroso di nicotina.
Gaara stava pensando più o meno la stessa cosa, ma in maniera decisamente più analitica: quella band aveva un concerto in città il mese seguente, ma i biglietti rimasti costavano parecchio, però quale altro regalo avrebbe potuto fargli?
Rimase in silenzio qualche istante mentre Deidara cercava qualche alternativa, ma obiettivamente il ristretto ventaglio di possibilità era proprio miserabile.
“Credi di potermi anticipare almeno metà dell’affitto del prossimo mese?” chiese al proprio coinquilino.
Hidan ci rifletté, poi annuì:
“Sì, ce la posso fare. Ma tu sei sicuro di voler comprare quei biglietti? Con l’università dovrai affrontare molte spese, lo sai che ti aiuterò come posso, ma nemmeno io sono un fottuto riccone da strapazzo e ho le rate della macchina nuova da pagare.”
“Non preoccuparti, ce la posso fare, mi sono fatto un paio di calcoli” lo rassicurò Gaara. Non sarebbe stato proprio semplice, ma pensò che ne valeva la pena, voleva afferrare quella mano che gli era stata tesa. quella era la sua occasione.

 

***

 

Gaara si guardava attorno nervosamente, con le mani affondate nelle tasche del cappotto. I corridoi dell’università erano affollati di parenti commossi e orgogliosi, amici confusionari, pronti a celebrare un traguardo importante, e laureandi invece tesi e nervosi che avevano l’aria di volersi trovare in qualsiasi altro luogo all’infuori di quello. Gaara si sentiva come sempre a disagio, fuori posto, e cercò di non dare ascolto alla vocina interiore che continuava a sussurrargli di aver fatto un madornale errore, che era meglio che girasse i tacchi, che lì non c’era niente per lui.
Il ragazzo però teneva duro, era convinto di stare facendo la cosa giusta, di doversi mettere in gioco per dare una svolta alla sua vita e di non poter pretendere che gli altri facessero un passo nella sua direzione se lui stava sempre fermo e immobile ad aspettare; era il momento di agire.
Si passò una mano tra i capelli rossi tagliati il giorno prima e poi si sfilò il cappotto, inutile tra quelle mura riscaldate. Rimase in giacca e camicia, niente cravatta e niente di troppo ricercato: erano gli abiti che usava anche per andare a lavoro.
Era affascinato da quella realtà che vedeva sotto ai suoi occhi e si immaginò a percorrere quei corridoi tutti i giorni, incontrare un compagno, rivolgergli un saluto e qualche chiacchiera sulla partita della sera prima e… gli piacque terribilmente quel sogno ad occhi aperti. Tuttavia lui era solo uno studente universitario lavoratore, quindi niente lezioni giornaliere, niente mattinate nelle aule colme di coetanei, solo libri ed esami da dare in solitaria.
Si avvicinò alla sala che gli aveva indicato con Sasuke e vide che ancora non era piena e la gente continuava a entrare ed uscire; normale visto che lui era andato lì un po’ in anticipo. Si guardò attorno, con quegli occhi chiari che coglievano sempre ogni dettaglio, senza lasciarsi sfuggire nulla nel tentativo di comprendere meglio il mondo e chi lo abitava.
Poi, lo vide.
Era molto bello ed elegante nel suo completo giacca e cravatta, parlava con due adulti, probabilmente i genitori visto che gli assomigliava. La donna aveva un sorriso dolce, capelli lunghi e neri e lo guardava adorante, non poteva sbagliare: quella era la madre. L’uomo invece aveva i capelli tagliati corti, anch’essi neri, e sia lo sguardo che la postura del corpo intero erano piuttosto autoritari e rigidi. Gaara si ricordò che era molto severo col figlio, almeno così Sasuke gli aveva accennato.
Questi intanto stava continuando a parlare coi genitori con calma, quando voltò la testa nella sua direzione e fu come se avesse visto un fantasma.
I suoi occhi si assottigliarono, le spalle si tesero al pari delle corde di una chitarra e, sotto la sua espressione apparentemente calma, si capiva che era turbato, o perlomeno Gaara lo capì. All’improvviso comprese di aver fatto un errore madornale nel venire lì, la mano che avrebbe voluto sollevare in un saluto rimase impietrita lungo il fianco; tuttavia lui non se ne andò, ormai era troppo tardi, non poteva tornare indietro, né fare finta di non essere in quell'aula.
Sasuke si avvicinava, salutando cortesemente altre persone mentre camminava e poi gli fu di fronte:
“Che cazzo ci fai qui?”
Gaara avrebbe voluto chiederselo lui stesso. Quanto si era sbagliato! Lì non c’era niente per lui, nessun futuro, nessuna mano tesa, solo un altro muro, simile a tanti altri che aveva già incontrato in vita sua. Era stato un muro lievemente differente, era trasparente e gli aveva regalato l’illusione di non esistere, di avere la possibilità di afferrare ciò che aveva intravisto al di là.
“Sono venuto a vederti, è un giorno importante per te” rispose, senza mostrare però tutto il suo turbamento, il suo viso era impassibile.
“Appunto! – sibilò Sasuke – Non dovresti essere qui, che diavolo ti è venuto in mente? Cazzo, se ti vedono…” cercò di darsi una calmata e sembrare che stessero conversando amichevolmente, niente di più lontano dalla realtà. Se solo Sasuke avesse potuto, probabilmente in quel momento lo avrebbe vaporizzato.
“Se mi vedono cosa succede? Non ho scritto in fronte che sono gay e nemmeno che abbiamo scopato – ribatté Gaara duro – sembrerei solo un tuo amico, cosa c’è di così sbagliato? E poi che diavolo mi hai detto a fare ora e luogo della tua laurea se non volessi che venissi?” Stava iniziando ad arrabbiarsi per tutta quella sceneggiata che l’altro gli stava facendo. Ok, aveva visto un invito dove non c’era, ma non credeva di aver commesso un peccato così madornale.
Sasuke sobbalzò nel sentire quelle parole, e infilò le mani contratte a pugno nei pantaloni del costoso completo, si vedeva ad occhio nudo la qualità rispetto a quello più economico di Gaara.
“Non provarci mai più a dire cose simili” mormorò secco, facendo poiinvece  un cenno di saluto garbato con la testa e un mezzo sorriso a una signora. Tornò a fissare gli occhi chiari dell’altro e continuò “Non sei mio amico, proprio per niente, che cazzo dovrei dire ai miei genitori? Che ti ho conosciuto in un bar? Sei fuori? – compresse le labbra – nemmeno mi ricordavo di avertelo detto, mi sarà uscito così, per caso… che diavolo ne so! Ora te ne devi andare prima che arrivino anche…”
“Certo, tu dai informazioni tanto dettagliate così, per caso, certo Sasuke…” lo interruppe Gaara e, vedendo che l’altro era rimasto ammutolito, continuò “Me ne vado, certo, non preoccuparti. Non inquinerò la tua aria con la mia presenza – lo guardò negli occhi – cazzo, aveva proprio ragione Deidara: sei un gay represso, un pessimo gay represso. Sì, ho ridetto quella parola, cosa vuoi fare? Picchiarmi? Però così non daresti un grosso scandalo proprio in questo giorno così importante? Vaffanculo Sasuke.”
Gaara si voltò e se ne andò senza aspettare una sua risposta, senza vedere se le sue parole avessero avuto un qualche effetto, ormai non gli importava più. Era stato caustico, cattivo, lo sapeva, ma Sasuke era riuscito a ferirlo profondamente. Con lui si era esposto e l’altro lo aveva trattato come se fosse feccia della peggior specie, portatore di una malattia incurabile e mortale: l’essere diverso.
Diverso per gusti sessuali, per colore della pelle, dei capelli; di una diversa classe sociale, religione, schieramento politico… semplicemente diverso in qualcosa rispetto ai rigidi standard in cui Sasuke evidentemente viveva. Se per la sua famiglia poteva essere un problema concepire di conoscere un amico in qualche posto diverso dalle istituzioni formali, la definizione di severo assumeva altri connotati.
Urtò una persona mentre camminava, ma non si fermò, vide giusto con la coda dell’occhio che un ragazzo con i capelli raccolti in una coda si voltava a guardarlo, ma lui non chiese scusa né rallentò il passo. Andò avanti, così doveva fare; andare avanti e non guardarsi indietro e nemmeno attorno, perché tanto non aveva nulla attorno a sé.
All’improvviso si sentì afferrare per una spalla e si voltò di scatto, indispettito, vedendo uno sconosciuto dai capelli biondi che non lo mollava.
“Ehi, cammini proprio svelto, tu” gli disse il ragazzo, prima che lui potesse aprire la bocca e intimargli di lasciarlo. “Ho visto che parlavi con Sasuke, sei un suo amico? Perché vai via? Tra poco tocca a lui.”
Gaara rimase spiazzato per la facilità con cui quel tipo sparava domande e parole a raffica, possibile che fosse amico con quello stronzo?

Calmati Gaara, calmati. Sono domande innocenti, genuinamente curiose, non rispondere male, sii impassibile come sempre, menti e poi vai via in fretta, lontano da qui.
“Sì, ci conosciamo – rispose, sorvolando sulla questione dell’amicizia, visto che Sasuke era stato molto chiaro a riguardo – ero solo passato a salutarlo, non posso trattenermi, devo tornare a lavoro.”
Sul viso dell’altro la delusione era evidente e ciò lo lasciò interdetto, come si poteva essere dispiaciuti dell’assenza di uno sconosciuto?
“Capisco, cavoli che fregatura! Beh, comunque io sono Naruto – gli tese la mano – magari ci incontriamo stasera alla festa o in un’altra occasione. Sai, oltre me Sasuke non ha molti altri amici e sono rimasto sorpreso vedendovi parlare con tanta confidenza.”
“Gaara – rispose stringendo la mano e pensando che quel tipo non aveva capito proprio niente – beh, vedremo. Ora devo andare.”
Si infilò il cappotto e sentì che c’era qualcosa nella tasca, qualcosa che non voleva assolutamente; istintivamente tirò fuori la busta e chiese:
“Naruto, mi faresti un favore? Andavo di fretta e ho dimenticato di dare questa a Sasuke. Non so bene quando lo rivedrò, potresti consegnargliela tu?”
Tese una semplice busta da lettere rettangolare, bianca, senza nessuna scritta, anonima, come anche l’interno. Dentro c’era solo il suo regalo, quei due biglietti che gli erano costati un patrimonio, ma che non voleva rivedere. Non voleva nemmeno rivenderli e riprendere i soldi, non voleva nulla da Sasuke.
Naruto afferrò la busta, perplesso:
“Sicuro? Puoi dargliela alla festa… comunque va bene, gli dirò che è da parte tua.”
“Come preferisci, ma non serve. Scusa ora devo andare” si incamminò mentre l’altro ancora lo salutava, ma non gli interessava. Voleva solo fuggire via da lì, dal suo ennesimo fallimento e racchiudersi in se stesso, ormai lo aveva capito: non c’era altro modo di vivere per lui.








L'angolino oscuro:  Tutti in coro: "Sasuke sei una merdaaaaaa!!!!"
Vi sentite meglio? Io sì. Niente, Sasuke non ce la può fare: è così rinchiuso nel suo mondo ristretto che non riesce a concepire che le due vite che ha tenuto attentamente separate possano collidere anche se per poco. Eppure Gaara gli fa un'osservazione giustissima, perché dirgli data, ora e luogo se non lo voleva lì? L'inconscio aveva preso il sopravvento?
Ad ogni modo la razionalità e la paura di Sasuke hanno preso il sopravvento e ferisce Gaara, che se ne va da lì ben deciso a non voltarsi indietro tanto da travolgere qualcuno durante la sua fuga, alla fine Naruto lo blocca e lui si disfa anche di quei costosi biglietti, tanto è il desiderio di non avere più a che fare con Sasuke. E se ne va, con le tasche vuote, il conto in banca in rosso e la consapevolezza di essere solo: persino quando si è messo in gioco si è visto sbattere la porta in faccia; ora chi glielo spiega che ha solo scelto il soggetto sbagliato e che c'è ancora speranza, che troverà qualcuno che lo desideri e lo ami, senza vergognarsi o reprimere quei sentimenti? Giusto per chiarire: non è che Gaara fosse innamorato di Sasuke, ma credeva che il loro rapporto fosse qualcosa più di una semplice serie di scopate, tanto che si lasciava addirittura carezzare da lui, credeva che fosse qualcosa che sarebbe potuto crescere col tempo.
Nella prima parte del capitolo invece abbiamo scoperto qualcosina in più su Gaara, sul suo lavoro e sul rapporto che lo lega a Hidan e Deidara, tra l'altro adoro alla follia questi due come coppia e mi sono divertita a scrivere di loro, dandogli un'aria un pochino più scanzonata e meno sanguinaria come nel manga, ma rimangono comunque due personaggi sopra le righe e, come Gaara fa giustamente notare, non sono esattamente amichevoli e amorevoli verso il mondo. Se avete letto la mia one-shot lo saprete già, ma lo dico anche qui per chiarezza: Gaara e Sasuke si sono incontrati al gay bar dove lavora Deidara come barman, ed era la prima volta che Sasuke entrava in un locale simile.
Il titolo fa riferimento al modo in cui Gaara alla fine rivaluta Sasuke, si era illuso e invece poi lo vede chiaramente per quel che è: un pessimo gay represso che lo ha ferito, anzi a cui ha permesso di ferirlo che è lievemente diverso, si tratta di sfumature, ma lo ritengo molto importante.
Bene, vi lascio, anche stavolta ho straparlato a lungo, questo angolino è quasi più lungo del capitolo XD vi avviso che però già dal prossimo i capitoli diventeranno un po' più lunghi, ma avevo bisogno di questi due capitoli un po' più brevi, il primo come prologo e questo per focalizzare bene l'attenzione su queste scene. Venerdì parto per una decina di giorni e quindi aggionerò dopo il 21, detto questo vi lascio davvero stavolta XD e lasciatemi un commento se vi va, mi fa sempre piacere dialogare con voi e scambiarci opinioni.

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Capitolo 3
*** 3 - Quello che c'è al di là ***


Quello che c’è al di là

 

 

 

Il lunedì mattina per antonomasia è l’emblema dello schifo più totale, di tutto ciò che vorremmo che non esistesse e invece continua a perseguitarci; l’Anticristo, Satana in persona con tanto di zoccoletti ballerini.
Insomma, lunedì mattina.
Non erano ancora le otto, eppure Gaara era già seduto al suo posto dietro la scrivania, col computer acceso, e approfittava di quei momenti di pace prima che l’ufficio si riempisse per risolvere alcune questioni personali.
Era particolarmente di malumore, ma non era una novità: era così da giorni, precisamente da quando era andato a quella maledetta laurea e aveva parlato a un ancora più maledetto Sasuke. Aveva passato il weekend a casa, perché non aveva soldi da spendere per andare in giro, visto che aveva investito tutti i suoi risparmi in quei due biglietti di un concerto a cui non sarebbe mai andato.
Sicuramente, se fosse andato ai locali dove lavoravano Hidan o Deidara, loro gli avrebbero offerto un drink senza problemi, ma Gaara non ne avrebbe mai approfittato, lo avrebbe fatto sentire ancora più miserabile di quanto non fosse. E poi era già in debito con Hidan di metà affitto del mese successivo, non voleva chiedere altro all’amico, pur consapevole che se questi avesse scoperto quanti problemi si stava facendo gli avrebbe rifilato un cazzotto. Forse anche due.
Intanto in quel tremendo lunedì mattina, Gaara si mise le mani sul volto coprendosi gli occhi, così da non vedere più lo schermo del computer.
“No, no, dai cazzo deve essere uno scherzo” mormorò nell'ufficio deserto, aprendo giusto uno spiraglio tra le dita per sbirciare, neanche stesse guardando un film horror.
Era sul sito dell’università, la pagina asettica e luminosa gli diceva che avrebbe dovuto comprare altri due libri per poter preparare un esame; ovviamente volumi scritti dal professore e nuovi, appena pubblicati, eliminando in quel modo la possibilità di trovarli in biblioteca o nella libreria ben fornita dello studio in cui lavorava.
In quel momento desiderò non aver dato i biglietti a Naruto, ma esserseli rivenduti e aver recuperato i soldi. Forse avevano avuto ragione Hidan e Deidara a dargli dell’idiota quando gliel’aveva raccontato. Eppure una parte di sé continuava a pensare di aver fatto la cosa giusta: a quel modo aveva chiuso i conti con quella stupida parte di sé che si era illusa di poter ricevere qualcosa di buono dagli altri, di poter magari… magari essere amata. Adesso, che tutte le illusioni si erano infrante come cristallo su pietra, doveva affrontarne le conseguenze in  modo da non dimenticare quella lezione.

Lui era solo.
Gaara fissò il soffitto, riflettendo su come fare per racimolare i soldi che gli servivano, su cosa poteva fare economie o se magari poteva cercarsi un altro lavoretto serale, giusto per qualche mese, il tempo per tirarsi fuori da quelle brutte acque. Per un attimo, un solo fatale attimo, pensò a perché mai si ostinasse ancora a combattere se tanto il futuro non aveva in serbo niente di buono per lui; qual era il senso di tutto ciò?
Le sue riflessioni vennero interrotte da un rumore all'ingresso e su cui spostò l'attenzione.
La porta del suo ufficio era sempre aperta e la sua scrivania era posizionata in modo da osservare direttamente quell’ingresso, assieme alla sala d’aspetto da cui si dipanavano altri corridoi.
Vide entrare l’avvocato Hiashi Hyuga – l’uomo che deteneva la maggior parte delle quote di quello studio – assieme al fratello Hizashi e altre due persone che non conosceva.
“Buongiorno avvocati” disse alzandosi per raggiungerli.
“Oh, buongiorno Gaara, sei in anticipo” lo salutò Hiashi, allungandogli dei plichi. Hizashi invece, dopo il saluto, se ne andò direttamente nel suo ufficio.
“Per favore occupati tu di protocollare e poi archiviare tutto – continuò l’uomo – ma prima ti presento i nostri nuovi acquisti: mia figlia Hinata che si è laureata da poco e inizierà qui il suo praticantato, e Itachi Uchiha, un giovane avvocato che diventerà presto un nostro associato. Lui è Gaara Sabaku, il nostro efficiente segretario.”
Gaara si sistemò meglio i plichi nel braccio sinistro, in modo da poter stringere le mani per concludere le presentazioni. Si era dimenticato che quel fottuto lunedì sarebbero arrivati anche loro, giusto per rendere la giornata e il suo futuro un po’ peggiore visto che avrebbero occupato le due scrivanie nella sua stanza.
Tuttavia non mostrò nessun fastidio, rimase impassibile ad ascoltare ancora l’avvocato Hyuga che gli parlava dei programmi della mattina e che concluse dicendo:
“Assicurati di sentire l’architetto per l’appartamento adiacente che abbiamo acquistato. Tra un mese sarà sgombro e dovremo iniziare immediatamente i lavori di ampliamento, così ognuno avrà il proprio ufficio – si rivolse poi ai due giovani – mi spiace che per i primi tempi dobbiate adattarvi, è una situazione incresciosa, me ne rendo conto. Gaara vi mostrerà lo studio, organizzate le vostre cose e poi raggiungetemi così potremo parlare dei vostri incarichi.”
“Perfetto, sono sicuro che non avremo nessun problema ad adattarci” lo rassicurò il giovane Uchiha e Gaara rimase a fissare un istante le sue labbra che si muovevano e lasciavano uscire una voce perfettamente impostata, priva di qualsiasi accentazione. Quel ragazzo lo aveva colpito: era bello, alto, con gli occhi scuri e i capelli neri lunghi raccolti in una semplice coda, ma definirlo bello era riduttivo; era affascinante, cordiale eppure anche freddo, come se avesse disposto una barriera tra sé e gli altri.
Gaara poteva capirlo anche troppo bene.
Hinata, la figlia di Hiashi, era molto diversa: indubbiamente bella con i capelli lunghi e scuri, gli occhi chiari e il sorriso gentile, ma priva di quel magnetismo che aveva avvertito in Itachi o dell’autorità che invece Hiashi sembrava emanare alla pari del calore corporeo.
Gaara si riscosse da quei pensieri futili e guidò i nuovi arrivati nello studio, mostrò loro la sala riunioni con la fornitissima libreria, gli uffici degli altri avvocati, l’archivio con le sue scaffalature piene di vecchi e nuovi fascicoli, la cucina e il bagno, finendo il piccolo tour nella stanza che avrebbero condiviso per qualche tempo.
Indicò le due scrivanie poste ai lati della propria, anche se abbastanza distanti, e disse:
“Spero di non disturbarvi troppo, ma purtroppo faccio molte telefonate. Se riceverete qualche cliente potrete usare la sala riunioni, per qualsiasi altra cosa potete pure chiedere a me.”
Si augurò davvero che quei due se la cavassero da soli, era già abbastanza oberato di lavoro per conto suo.
“Gaara, ho bisogno che mi prenoti anche una macchina per il mio viaggio di domani. Voglio trovarla all’aeroporto e che sia un SUV, mi raccomando” disse Ebisu, affacciandosi nella stanza e andandosene senza nemmeno attendere una sua risposta.

Ecco per l’appunto, nemmeno una fottuta macchina si sanno noleggiare, spero di non diventare così idiota quando sarò avvocato.
“È molto gentile signor Sabaku, ma sono certo che ce la caveremo splendidamente” gli disse Itachi sempre con quella voce calma e Gaara si ritrovò a fissarlo qualche istante, muto. Strinse più forte i fogli che gli aveva consegnato Hiashi e replicò:
“Può chiamarmi Gaara, come tutti gli altri, avvocato.”
Hiashi Hyuga era una persona molto rigorosa e osservante dell’etichetta, Gaara non ci teneva proprio a fare qualcosa che potesse indispettirlo visto che quello era un buon posto di lavoro che gli sarebbe stato utile anche dopo la laurea. Era meglio che le cose andassero lisce anche con i nuovi arrivati.
“Come preferisci, Gaara” rispose Itachi per poi andarsi a sedere alla propria scrivania. Il ragazzo rimase invece immobile solo qualche istante, ripensando al suo nome pronunciato da quelle labbra sottili e con una cadenza perfetta. Per sua fortuna Hinata gli fece una domanda o, probabilmente, sarebbe rimasto imbambolato come uno stupido ancora per un pezzo.
Tornò invece rapidamente coi piedi per terra e dopo aver risposto tornò alla propria postazione, afferrando il telefono, pronto ad affrontare la mole di incarichi dell’infernale lunedì mattina.
Prenotare la macchina, chiamare gli architetti, chiamare un altro studio di avvocati per organizzare un meeting, sistemare i plichi che gli aveva dato Hiashi, andare a comprare materiale da cancelleria… e ricordarsi di respirare ogni tanto.

 

 

***

 

 

 Sasuke era fermo davanti a una porta. Di nuovo.
Esattamente come mesi prima anche quella sera era fermo lì, senza riuscire a decidere se varcare o meno la soglia. Sentiva una morsa alla bocca dello stomaco e un’elettricità che gli sfrigolava nelle falangi delle dita, come se stesse sull’orlo di un baratro, indeciso se buttarsi e provare a volare o tornare indietro, sui propri passi ben conosciuti.
Forse fu il freddo pungente a convincerlo, o forse era un gesto a cui stava pensando da troppo tempo; fatto sta che allungò la mano e girò la maniglia per entrare.
Lo accolse l’atmosfera familiare, di un luogo in cui era stato molte volte e si era sempre trovato bene, a suo agio. Lì dentro riusciva a scrollarsi di dosso la maschera pesante che doveva calzare, l’armatura con cui tenere a distanza le persone, impaurito dal fatto che, se si fossero avvicinate troppo, avrebbero scorto qualcosa del vero Sasuke e ne sarebbero rimaste orripilate. Ma lì dentro era diverso, lì e… con Gaara.
Quel venerdì sera però era da solo e si guardava attorno, nervoso e bugiardo. Perché si era convinto ad entrare dicendosi che voleva solo bere qualcosa in pace, in un luogo neutrale, ma in realtà stava cercando di avvistare delle ciocche rosso fuoco altrettanto familiari, eppure non voleva ammetterlo con se stesso. Non voleva ammettere che… Gaara in qualche modo gli era mancato.
Erano passate due settimane dal loro ultimo incontro all’università e Sasuke era stato preso dal vortice degli eventi, delle cose da fare, del futuro da pianificare, aspettandosi semplicemente che un giorno avrebbe controllato il cellulare e vi avrebbe trovato un suo messaggio, per stare di nuovo insieme come prima.
I giorni erano passati, ma il suo telefono rimaneva muto, al contrario della coscienza di Sasuke che aveva iniziato a pungolarlo, al pari di una fastidiosa zanzara ingorda di sangue. Stava zitta per ore, per giornate intere poi, quando meno se lo aspettava, gli spediva a tradimento le immagini di quel giorno, in cui Gaara se ne era andato con la schiena dritta e le spalle contratte, il volto impassibile che nascondeva la rabbia e la delusione.

E tu Sasuke? Tu sei soddisfatto dal modo in cui ti sei comportato? Ti è piaciuto vedere i suoi occhi sgranarsi nella comprensione di non essere desiderato? Eppure aveva ragione: perché gli hai dato tutte le informazioni se non lo volevi lì? Che piccolo codardo che sei.
Gli parlava nella testa ma lui non riusciva a zittirla, e l’unica cosa che era riuscito a fare era stato tornare a quel locale. Magari lo avrebbe incontrato di nuovo, casualmente. Poi, quando si è più disinibiti dall’alcool, si sa come vanno le cose, no? Sarebbe stato semplice, e lui non avrebbe dovuto impegnarsi nel cercare risposte a domande che non voleva porsi, quelle a cui non sarebbe riuscito a replicare se mai avesse chiamato Gaara al telefono o per messaggio.
Sì, un incontro casuale e fortuito era la soluzione.
Come la notte in cui si erano incontrati.
Si avvicinò al bancone e si sedette su uno sgabello libero e vide Deidara che si avvicinò, lui gli avrebbe ordinato un mojito come quella sera, dopo il primo sorso si sarebbe voltato e… avrebbe incontrato quello sguardo di ghiaccio che lo perseguitava.
“Un…”
“Un cazzo!” lo interruppe secco Deidara.
No, c’era qualcosa che non andava, chi aveva riscritto il copione?
“Puoi anche alzare il culo e andare fuori di qui, non sei il benvenuto” aggiunse il barman.
Sasuke rimase in silenzio un attimo, spiazzato, ma il suo orgoglio si riebbe e, mettendo su la sua espressione più distaccata, rispose:
“È così che tratti i clienti che pagano? E poi chi ha stabilito la mia indesiderabilità?”
“Io, e puoi tenerteli i tuoi soldi – rispose per poi sorridergli – ma se vuoi da bere posso sempre pisciarti addosso, è gratis.”
Gli occhi azzurri erano divertiti, ma in essi brillava una luce crudele, perché niente più che fare a pezzi quello stronzo avrebbe riempito di gioia Deidara. Gaara lo aveva ammonito dal fare alcunché se mai lo avesse rivisto, ma quando mai lui faceva ciò che gli veniva detto?
“Si può sapere quale cazzo è il tuo problema?” chiese Sasuke iniziando ad arrabbiarsi, perché non pensava di meritare un trattamento del genere e, soprattutto, nessuno si era mai permesso di rispondergli così. Nemmeno nei litigi più spinti, il suo amico Naruto gli aveva mai rivolto parole simili, ma… Deidara non era suo amico.
“Tu e la tua faccia di merda siete il mio problema, non so proprio con che coraggio rimetti piede qui, dopo quello che hai fatto.”
“Ho capito, Gaara è venuto a piagnucolare da te e quell’altro armadio, perché sono stato cattivo e non l’ho presentato alla mia famiglia, vero? – disse sarcastico con un sorriso affilato – Ma che diavolo gli è passato per il cervello, io non lo avevo invitato!”
Avrebbe aggiunto anche altro, ma Deidara si sporse dal bancone e lo prese per il bavero della camicia, strattonandolo in avanti, portando i propri occhi chiari e furiosi vicini ai suoi neri e increduli.
“Sciacquati la bocca prima di nominarlo. Gaara non è una mezza sega come te, non ha bisogno di fingere quello che non è, e poi che cazzo ne vuoi sapere tu di vivere senza gli agi e i comfort comprati coi soldi di papino, eh? Gaara non ci ha raccontato quasi niente, solo di aver frainteso; sono io che ho capito tutto, perché ne ho visti di gay repressi come te, a cui piace farsi sfondare il culo, ma guai a dirlo ad alta voce, alla luce del giorno. Ho capito che devi averlo trattato come una merda, e non sprecare fiato a raccontarmi bugie, quelle tienitele per te. Volevi che Gaara venisse o non gli avresti mai detto giorno e ora, solo che vederlo lì ti ha spaventato, vero? E tu sei un cagasotto.”
Lo lasciò andare, facendo poi una smorfia come per aver toccato qualcosa di sporco, capace di infettarlo. Vedendo che rimaneva zitto e che un po’ troppa gente li guardava, decise di finirla lì, ma si riservò un’ultima frecciata:
“Spero tu ti sia goduto il concerto, erano proprio ottimi posti, vero?”
Sasuke sembrò riacquistare il dono della parola dopo quel momento di stasi totale e annaspò quasi nel tentativo di trovare le parole:
“Concerto… tu come…?” ma Deidara si era allontanato e non gli avrebbe più parlato.
Il ragazzo si guardò attorno, furtivo, come se all’improvviso non si trovasse più dentro un locale elegante dalla musica discreta e l’illuminazione soft, bensì dentro una fossa di leoni affamati e lui una preda fin troppo facile.
Mascherando il suo turbamento, si rimise il cappotto e uscì fuori, l’aria fredda magari gli avrebbe schiarito le idee. Camminò qualche minuto, finché non trovò una panchina su cui si sedette, avvertendo il metallo gelido sotto le gambe, ma si limitò a stringere di più la sciarpa attorno al collo e nient’altro.
La sua mente viaggiava, tentando di trovare un incastro per i pezzi di quel puzzle. Buffo, era stato sempre molto bravo con quei rompicapo, da bambino era una delle poche cose che facesse assieme al fratello maggiore, eppure in quel momento non riusciva a venirne a capo.

Bugie…
La sua vita era una bugia. E quante ne aveva raccontate a se stesso, alla famiglia, agli amici, solo per essere in grado di andare avanti, di essere all’altezza delle aspettative paterne? Era stato tutto inutile, perché sentiva di essere sul punto di perdere il controllo. Era su un treno impazzito, con le rotaie storte che non riuscivano più a condurlo nella giusta direzione e lo schianto era imminente, nessun freno del mondo avrebbe mai potuto evitarlo. Eppure Sasuke ancora non era pronto, non sarebbe sopravvissuto, forse, se non fosse stato solo, avrebbe avuto qualche chance, ma lo era. Era da solo, lì, a ghiacciarsi su una panchina in una stupida sera d’inverno.
Prese il telefono, doveva sentire la sua voce.
Uno squillo, due, tre, quattro…

Rispondi, dai rispondi!
“Ehi Sasuke! Che succede? Ti hanno dato buca? Hai detto che avevi un appuntamento”
Sasuke sorrise, la voce roboante di Naruto riecheggiava dagli altoparlanti del cellulare. Anche se lo avesse allontanato dall’orecchio sarebbe riuscito a sentirlo ugualmente, ma lui aveva bisogno del suo rumore, di sentirsi stordire da lui.
“Figurati se mi può succedere una cosa simile” rispose con la voce apparentemente uguale al solito, in fondo era bravo a mentire e fingere e quella era solo l’ennesima bugia.
“Ahah certo, certo! Latin lover dei miei stivali!” rise Naruto che continuò a prenderlo in giro, permettendo a Sasuke di tornare a respirare. Il macigno che lo aveva oppresso si stava spostando dal suo petto e la mente si schiariva, la nebbia che l’aveva avvolta si stava dissolvendo.
“Naruto – interruppe le sue chiacchiere leggere – i biglietti del concerto della settimana scorsa come te li sei procurati?”
La busta in cui erano racchiusi era bianca, anonima e senza scritte, nemmeno dentro c’era un foglietto d’accompagnamento. Sasuke non ci aveva dato peso, ma effettivamente i due posti erano veramente ottimi, dovevano essere costati parecchio, sicuramente troppo per Naruto che era ancora uno studente squattrinato e che aveva già partecipato al regalo di gruppo con tutti gli altri amici.
Dall’altro capo della cornetta ci fu il silenzio, poi quando Naruto riprese la parola il suo tono era cambiato, era perplesso quanto serio:
“Che domande mi fai? Erano da parte di quel tuo amico, Gaara. L’ho incontrato mentre andava via e mi ha chiesto di darteli perché si era dimenticato, te l’ho anche detto mentre ti davo la busta!”
A Sasuke mancò il fiato per qualche istante.
Cercò di sforzarsi di ricordare, ma quel giorno era stato veramente troppo nervoso e tutti i suoi ricordi successivi al momento della proclamazione erano confusi; l’alcool ingerito alla festa non aveva migliorato la situazione. Si ricordava vagamente di Naruto che gli allungava quella busta, lui che la infilava in giacca e poi nient’altro.
“Sasuke? – lo chiamò l’altro preoccupato – Sono venuto al concerto con te perché credevo che ti fossi sentito con Gaara e lui fosse impegnato, non vorrai dirmi che non lo hai nemmeno ringraziato? Che razza di stronzo che sei!”
“E piantala di starnazzare! – esclamò Sasuke con la voglia di mettergli le mani al collo – Non avevo capito che erano da parte sua, pure tu potevi darmeli in un altro momento più tranquillo!”
Ecco, scaricare la colpa sugli altri era un’altra cosa in cui era dannatamente bravo.
“Sì, certo… beh, dai chiamalo e scusalo, se è tuo amico saprà bene quanto sai essere stronzo.”
“Non ne hai idea Naruto, non ne hai idea…”

 

 

 

 

 
L'angolino oscuro:  No, non sono stata in vacanza fino ad adesso, ma al mio ritorno ho avuto un po' di cose di cui occuparmi, ma sono di nuovo qui e anche il nostro Sasuke merdina e uno sfigatissimo Gaara. Con che coraggio dico che lo amo visto che gliene faccio succedere di tutti i colori? XD
Abbiamo visto che tutti e due stanno cercando di andare avanti, Gaara senza guardarsi indietro, al contrario di Sasuke che crede che l'altro possa cercarlo ancora o che tutto si risolverà facilmente come al solito, senza dover fare sforzi, o mettersi in gioco, al contrario di Gaara che ha lottato e faticato per ogni cosa che aveva, forse avrebbe persino lottato per lui se solo Sasuke glielo avesse permesso, invece di respingerlo brutalmente, ma questo non lo sapremo mai, ormai quella porta si è chiusa, e il nostro segretario non è tipo da tornare sui propri passi. Però se ne possono sempre aprire delle altre e chissà dove condurranno...
Gaara fa la conoscenza con Hinata e Itachi con cui condividerà la stanza per qualche mese e, ovviamente, resta affascinato dal ragazzo, che non sa essere il fratello di Sasuke. Per il momento lasciamolo nella sua ignoranza, immerso fino al collo tra i suoi problemi personali e quelli a lavoro.
Parliamo di Sasuke... Deidara non è uno zuccherino, bensì la solita scheggia impazzita e non gliene manda a dire, anzi se non fossero stati in un locale affolalto ci sarebbe andato giù anche più pesantemente. Sasuke ora si troverà a riflettere sulle sue parole, sulla sua omosessualità nascosta che non ha mai veramente affrontata e con quel regalo inaspettato da parte di Gaara, cosa combinerà la nostra merdina preferita?Ho un raporto di amore/odio con lui, non posso non insultarlo, comprendetemi XD
L'ultima nota e poi la chiudo qui: non ho dato una collocazione geografica precisa alla mia storia, è semplicemente ambientata in qualche grande città, non sono riuscita ad ambientarla in Giappone, in Inghilterra, Italia o qualche altro paese specifico, proprio non riuscivo a trovarne uno che si adattasse. Per questo ho lasciato il contesto vago e i miei accenni ad esami, università, pratiche legali e quant'altro saranno sempre piuttosto vaghi e mai specifici, in modo da adattarsi il più possibile a vari contesti, magari nemmeno ci avreste fatto caso se non ve lo avessi detto,  ma una puntigliosa della vergine come me poteva mai evitarlo? No, proprio no XD  alla prossima! Non dimenticate di famri sapere che ne pensate della storia.

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Capitolo 4
*** 4 - Reach out and touch faith ***


Reach out and touch faith

 

 

 

Il telefono è stata una delle più grandi invenzioni dell’umanità. Essere in grado di sentire in tempo reale qualcuno che si trova anche dall’altra parte del mondo è effettivamente strabiliante, se si pensa che prima del telefono gli unici mezzi di comunicazione erano le lettere, biglietti consegnati a mano o attraverso uccelli viaggiatori.
Questa invenzione ha cambiato profondamente la società, o forse è stata la società a cambiare di pari passo per stare dietro alle evoluzioni della telecomunicazione, arrivate oramai a limiti mai nemmeno immaginati. Gli smartphone, internet e tutto ciò che vi è correlato hanno abbattuto muri invisibili, eppure le persone, per quanto vicine, rimangono ancora profondamente lontane e distaccate l’una dall’altra.
Questi pensieri scorrevano per la mente di Itachi Uchiha in un pigro pomeriggio invernale. Sorprendentemente aveva finito tutto il lavoro assegnato, pur essendo stato meticoloso come suo solito. Aveva preparato le carte necessarie per la sua sortita in tribunale dell’indomani e riordinato  persino la scrivania, l’unica cosa rimastagli da fare era spegnere il computer e andarsene a casa, eppure ancora non si decideva.
Faceva finta di scrivere qualcosa, lo schermo mostrava la pagina di google su cui era fisso da almeno cinque minuti, ma avrebbe potuto esserci anche un campo stellato, tanto nessuno avrebbe potuto vederlo a causa della sua angolazione. Ciò che aveva catturato l’attenzione di Itachi non era certo il doodle del giorno, bensì Gaara, tanto da spingerlo a studiarlo di sottecchi mentre fingeva di fare altro.
In realtà il segretario lo aveva colpito fin dalla prima volta e, in quelle due settimane spese a lavorare nella stessa stanza, lo aveva osservato con più attenzione di quanta ne dedicasse generalmente agli sconosciuti.
In realtà gli dava fastidio, perché non si spiegava tutto quell’interesse, ma aveva stabilito una specie di patto con se stesso: finché nessuno se ne fosse accorto, avrebbe potuto indulgere in quella piccola concessione voyeuristica.
Sicuramente Gaara era bello con quei capelli rossi che calamitavano l’attenzione e gli occhi acquamarina, ma ad attirare l’avvocato erano i suoi comportamenti e quel poco del suo vero carattere che traspariva dai gesti e i movimenti fatti sovrappensiero. Come quel nervoso rigirare dell’indice attorno a una ciocca di capelli mentre era alle prese con una telefonata ostica. Le falangi arrotolavano, tiravano e poi arrotolavano nuovamente quei fili rossi in un movimento continuo, di cui Gaara forse nemmeno si rendeva conto.
Oppure Itachi aveva notato anche il modo in cui si mordicchiava il labbro inferiore quando era molto concentrato, o come arricciava la punta del naso sottile quando incontrava qualche difficoltà, e altri piccoli particolari che l’avvocato aveva diligentemente appuntato nella propria mente.
Il ragazzo passava tantissimo tempo al telefono, ma era evidente che la cosa non gli piaceva e spesso Itachi si era accorto di come mantenesse la calma di fronte a interlocutori poco svegli, o che gli creavano problemi invece di risolvere quelli per cui aveva telefonato. La sua voce era impassibile, ma i suoi occhi… beh, quelli avrebbero potuto incenerire, o forse congelare vista la loro sfumatura che ricordava il ghiaccio.
In quel momento stava discutendo, pur mantenendo i toni pacati, con il doposcuola a cui erano iscritti i figli più piccoli di Hizashi Hyuga, sicuramente niente che riguardasse le pratiche forensi, eppure il segretario doveva risolvere tante questioni personali degli avvocati, faccende che avrebbero potuto rivedersi loro stessi.
Ma perché farlo quando si poteva pagare qualcuno? Era una questione di status sociale che l’Uchiha comprendeva perfettamente per essere stato cresciuto a quel modo, ma non gli era mai piaciuto delegare o permettere ad altri di risolvere le sue questioni personali, quindi evitava di farlo. Era stato uno dei tanti motivi di screzio col padre, anche se niente avrebbe mai potuto equiparare la decisione di Itachi di diventare avvocato piuttosto che architetto come lui; una faccenda che il genitore ancora non gli aveva perdonato proprio del tutto a distanza di anni, nemmeno il fatto che il figlio minore avesse seguito le sue orme aveva addolcito di molto il boccone amaro, quel sottofondo sgradevole era sempre lì, presente, incollato al palato.
Gaara aveva concluso la telefonata, ovviamente in modo positivo, e si stava massaggiando gli occhi evidentemente stanchi.
Lui e Itachi non avevano parlato molto se non per questioni lavorative, ma l’Uchiha aveva notato la sua stanchezza crescente, le occhiaie scure e la pelle pallida.
Non era solo il troppo lavoro: quel ragazzo aveva una malattia, un qualcosa che lo stava corrodendo dentro a poco a poco e Itachi ne era incuriosito. Era rimasto colpito da lui sin dal loro primo incontro, che non era stato in quell’ufficio grazie alle presentazioni di Hiashi Hyuga.
Istintivamente, senza riflettere o starlo ad osservare ancora, si alzò e si avvicinò alla sua scrivania ma, arrivatogli quasi di fronte, Gaara avvertì la sua presenza, tolse le mani dal viso e lo guardò.
Rimasero in silenzio per qualche secondo, semplicemente fissandosi, consapevoli del silenzio e di essere da soli, Hinata era fuori per una commissione.
“Le serve qualcosa, avvocato?” si decise a chiedere il segretario per spezzare quel momento di inspiegabile tensione.
“Mi chiedevo se tu fossi vegetariano o seguissi qualche dieta strana.”
Gaara sbatté le palpebre più volte, incredulo. Era stanco, forse esausto era la parola più giusta, ma riteneva di non essere in un sogno e di aver udito bene, ne era certo, beh… quasi.
“No, niente del genere, ma cosa c’entra?”
Itachi fece un piccolo sorriso e piegò la testa su un lato, guardandolo un po’ storto, con la coda che si spostava su una spalla.
“Mi rendo conto di quanto la mia domanda possa apparirti bizzarra, e forse la proposta che sto per farti lo sarà anche di più, ma vedi… oggi durante la pausa pranzo sono andato dai miei genitori e mia madre ha voluto a tutti i costi darmi del cibo da portare via, sorda a qualsiasi mia protesta, sai come sono fatte le mamme, no? Il punto è che quello che mi ha dato proprio non mi piace e io vivo da solo, non lo mangerei e trovo che sarebbe un vero spreco gettarlo, a te piace lo spezzatino?”
Gaara sgranò gli occhi, incredulo per tutto quel discorso così squisitamente familiare e non pretenzioso; non credeva che Itachi potesse essere così semplice e alla mano, non dal modo in cui appariva.
Rimase senza parole con cui rispondere, anche perché lui proprio non sapeva come fossero le mamme, non ne aveva mai avuta una e dubitava che quella adottiva, avuta giusto per qualche mese, fosse un buon modello con cui fare paragoni.
“Ecco… io… – mormorò confuso – la ringrazio, ma magari ha qualche amico a cui potrebbe darlo, perché proprio a me? E poi non so come le sia venuto in mente che fossi vegetariano” scherzò con un po’ più di padronanza di sé.
“Beh, ho notato che spesso pranzi con solo una mela e dei crackers, non volevo farti proposte che avrebbero potuto ferire il tuo animo di amante degli animali in caso tu fossi stato addirittura vegano” rispose ironico, poggiando una mano alla scrivania.
“Ah beh, a volte capita che non abbia tempo di prepararmi qualcosa la sera prima e la mattina sono sempre di fretta. Oppure, se ci riesco, a volte il mio coinquilino se lo mangia la notte, sa è un vero condor!”
Sorrideva mentre mentiva spudoratamente, ma avrebbe mai potuto rivelargli che era così al verde da non poter fare nemmeno una spesa vagamente decente? Per cena, a casa, non mangiava molto di più o di diverso; se solo Hidan si fosse accorto di quello che combinava piuttosto che chiedergli una mano, di sicuro lo avrebbe riempito di botte.
Per fortuna lavorava quasi tutte le sere e loro si incontravano di rado, diminuendo così i rischi che Hidan potesse scoprire ciò che il coinquilino stava in tutti i modi cercando di nascondere. Quello che però Gaara ignorava era che gli occhi di Itachi erano molto acuti. Un paio di volte era rimasto alla scrivania per sbrigare delle pratiche urgenti e lo aveva visto mangiare quelle cose; gli altri giorni solitamente usciva per la pausa pranzo ma, quando tornava, ogni volta nel cestino della cucina trovava sempre quegli scarti: un torsolo e un pacchettino di plastica un po’ unto.
Itachi poteva non conoscere la malattia che stava corrodendo Gaara, ma era certo che il ragazzo non stesse mangiando adeguatamente e gli pareva che quel maglione gli calzasse un po’ più largo rispetto a quando si erano conosciuti.
“Non mi hai ancora detto se lo spezzatino ti piace, e no, non ho veramente nessun altro a cui potrei darlo… non vorrai davvero farmi gettare tutto quel cibo, vero?”
Lo incalzò con gentilezza ma decisione, tanto che il segretario si mordicchiò nervosamente le labbra, ma alla fine cedette, forse oltre alla fame a spingerlo era stata la curiosità. Il cibo preparato da una madre amorevole poteva avere un sapore diverso?
“Ok, se proprio non lo mangia… sprecare cibo è veramente una cosa pessima.”
Il suo orgoglio era venuto a patti con la logica e il vincitore esultante era il suo stomaco.
Itachi andò alla scrivania e tornò con una busta che gli porse e, mentre Gaara osservava quella scatola piena con meraviglia, pensando a quanti giorni sarebbe andato avanti, lui lesse i titoli di alcuni libri sulla scrivania.
“Stai per caso studiando legge?”
“Eh? – mormorò l’altro, distratto da quel regalo inaspettato – Sì, sono iscritto all’università ma come studente lavoratore e quindi non frequento le lezioni, farò solo gli esami.”
“È un bell’impegno, gli studi sono difficili già con le spiegazioni dei professori, in questo modo lo saranno ancora di più, specialmente con tutto il lavoro che devi svolgere.”
Gaara si sentì stupido, perché era nuovamente senza parole, ma non sapeva davvero cosa rispondere dinanzi a quell’affermazione acuta e veritiera.
“Già, ma… voglio davvero diventare avvocato. E il lavoro qui non è poi tanto pesante, riesco a studiare abbastanza durante la pausa pranzo o la sera” gli assicurò. Era la prima volta che parlavano sul serio e Gaara si chiedeva dove l’altro volesse arrivare, non era abituato a raccontare così tanto di sé.
“Beh, se ti serve qualche consiglio puoi chiedere a me – si offrì – ora me ne vado e ti lascio lavorare in pace. Senza di te dubito che i figli di Ebisu o di Yamaguchi riuscirebbero mai a sopravvivere.”
Fece un sorriso leggero, per far intendere che comprendeva quanto frustrante potesse essere a volte il suo lavoro e Gaara con sua sorpresa si ritrovò a rispondere a quel sorriso. Nessuno degli altri avvocati gli aveva mai offerto il suo aiuto, pur sapendo del percorso di studi che aveva intrapreso.
“Beh, chissà… grazie per la sua proposta e per la cena, avvocato.”
“Quando siamo soli puoi anche darmi del tu e chiamarmi Itachi.”
“Ecco, non so se…” disse incerto.
“Quando siamo soli – ripeté – Hiashi non avrà mica piazzato le microspie qui dentro, o no?” aggiunse con splendida leggerezza.
“No, credo proprio di no – convenne – allora domani ti farò sapere com’era lo spezzatino, Itachi”
“Ci conto, Gaara.”

 

***

 

Sasuke camminava con le cuffiette nelle orecchie, incurante del freddo. Ormai era pieno inverno e lui avrebbe potuto andare a lavoro con la macchina, eppure in qualche modo gli piaceva usare i mezzi pubblici e camminare. Se lo avesse confessato, chiunque gli avrebbe dato del pazzo: chi, sano di mente, avrebbe preferito stiparsi in autobus sempre troppo pieni, congelarsi, o prendere la pioggia in piedi ad una fermata, invece di usare comodamente la propria automobile?
In effetti anche Sasuke era stupito da se stesso, lui che odiava la folla e la confusione preferiva viaggiare a quel modo, come qualunque mortale.
Il punto era proprio quello: quando saliva su un autobus, o doveva correre per non perderlo, si sentiva assolutamente normale; non era il secondogenito di un’importante famiglia, non era il figlio che non poteva deludere il padre, non era il fratellino che era riuscito a primeggiare solo perché il fratello maggiore aveva deciso di togliersi dalla competizione, non era il gay che non riusciva ad accettare se stesso.
Era solo un ragazzo che correva, sbuffava per i ritardi, condivideva disagi e aria con altrettante persone normali e ordinarie, che combattevano ogni giorno le proprie battaglie normali e ordinarie.
Forse peccava di presunzione nel ritenersi speciale e che di conseguenza anche i suoi problemi lo fossero, ma d’altronde era stato allevato con quella convinzione; da neonato, oltre al latte, doveva aver succhiato e fatto propria anche quell’idea.
Usò le chiavi per aprire un cancello secondario e attraversò il grande giardino che circondava la bellissima e futuristica abitazione, progettata da suo padre in persona anni prima. Era stato considerato un folle per i suoi progetti all’avanguardia, ma lui si era imposto senza mai fare rimangiarsi le proprie idee e adesso il suo nome era nominato con grande rispetto e il suo genio era indiscusso. Era duro per Sasuke doversi confrontare con lui ogni giorno, con la consapevolezza che presto avrebbe dovuto superarlo per non essere considerato semplicemente normale, nella sua famiglia forse non c’era peggior onta… o forse sì. Probabilmente essere gay superava l’essere normale.
Vide l’automobile del fratello nel vialetto d’ingresso e si ricordò che quella sera ci sarebbe stato anche lui a cena. Sbuffò.
Non odiava Itachi, perlomeno non più, era riuscito a comprendere che l’altro non lo faceva apposta ad essere quello che era. Era nella sua natura essere perfetto, sapere sempre quale fosse la cosa più giusta da dire o da fare, elegante e impeccabile nella figura quanto nei modi. Sasuke aveva sempre vissuto quel divario tra di loro come una sfida, con l’impossibilità di lasciarsi andare  e rilassarsi perché doveva dimostrare di essere alla sua altezza, di poterlo superare in qualche modo. Gli atteggiamenti del padre non lo avevano aiutato: Fugaku aveva sempre usato Itachi come esempio, raccomandandosi col figlio minore di essere come lui, generando in Sasuke una frustrazione perenne perché lui non era come Itachi, non lo sarebbe mai stato.
Aveva odiato a lungo: il fratello per essere tanto irraggiungibile, il padre che lo desiderava diverso, se stesso per la propria incapacità.
L’unica volta in cui era riuscito a primeggiare era stata sull’università, ma semplicemente perché Itachi, dopo qualche mese, aveva annunciato che avrebbe lasciato architettura per iscriversi a giurisprudenza.
Una granata lanciata sulla tavola durante il pranzo domenicale probabilmente avrebbe fatto meno danno e meno feriti: Fugaku era scattato come se avesse ricevuto una ferita mortale, urlando, quando invece lui era sempre tanto compassato. Si sentiva tradito dal figlio in cui aveva riposto tante aspettative, forse se Itachi gli avesse confessato di essere un pluriomicida, di aver fatto fuori tutta la famiglia Uchiha, nonnina claudicante compresa, ne sarebbe stato meno sconvolto.
In quell’occasione anche Itachi aveva gridato e non si era smosso dalle proprie opinioni, quella volta non avrebbe assecondato il genitore.
Era andata a finire che il figlio maggiore se ne era andato di casa, Fugaku gli aveva tagliato i fondi, ma lui aveva preso una borsa di studio e aveva proseguito per la propria strada senza nessun tentennamento, senza nessun passo indietro.
Solo tre anni prima, quando si era laureato, le cose avevano iniziato ad aggiustarsi. Mikoto non si sarebbe persa quel giorno per niente al mondo e ci aveva trascinato Fugaku, che si era riscoperto orgoglioso di quel figlio che, nonostante tutte le difficoltà, primeggiava sugli altri compagni.
La lontananza era servita anche ai due fratelli per disintossicarsi e cercare di costruire un rapporto con basi un po’ più solide, invece di quelle traballanti su cui aveva arrancato per tutta la loro vita.
Era servito soprattutto a Sasuke per comprendere che non era colpa di Itachi se riusciva bene in tutto, anche lui non viveva bene la situazione; la ribellione al padre non era stata altro che la conseguenza di una vita passata a reprimersi e ignorare i propri desideri per compiacere il genitore. Sasuke aveva anche capito di non doversi colpevolizzare per non essere come lui, anche se anni e anni di complessi di inferiorità non potevano essere cancellati così facilmente ma, irrazionalmente, aveva avvertito molto di più l’affetto del fratello quando questi si era allontanato che non quando abitavano sotto lo stesso tetto.
Itachi lo chiamava spesso, si informava su come stesse, se Fugaku lo opprimesse e non si lasciava mai scoraggiare dalla laconicità alternata all’acidità del fratellino, lui c’era sempre. Quando Sasuke gli aveva annunciato che si sarebbe iscritto ad architettura era stato l’unico a chiedergli se era veramente ciò che desiderasse, timoroso che il ragazzo stesse scegliendo quella facoltà unicamente per compiacere il padre.
Sasuke però ne era stato certo: sicuramente Fugaku aveva influito, trasmettendogli l’amore per la propria professione, ma lui stesso voleva essere un architetto, pur consapevole di quanto sarebbe stato difficile primeggiare in quel settore sotto la luce brillante del genitore.
Per tutti questi motivi quella sera non gli dispiaceva sul serio rivedere Itachi, sebbene non si sentisse in forma e avesse paura che il fratello, con quei suoi occhi indagatori, vedesse ogni cosa.
Entrò nella casa, accolto da un tepore piacevole che gli fece formicolare la pelle del viso per lo sbalzo di temperatura. Starnutì addirittura, e si tolse le scarpe umide e il cappotto prima di dirigersi nel salotto da cui sentiva provenire delle voci.
“Buonasera avvocato” disse scorgendo Itachi sul divano, a fianco al padre.
“Buonasera architetto” rispose l’altro, sorridendo lievemente di quel gioco che avevano di salutarsi da quando Sasuke si era laureato, piaceva ad entrambi quella complicità fraterna che, paradossalmente, si trovavano a condividere da adulti invece che da bambini.
“Stai bene? Ho sentito starnutire e mi sembri un po’ stanco” aggiunse Itachi dopo averlo squadrato.
“Te l’ho detto mille volte: smettila di usare l’autobus e prendi la macchina” rincarò Fugaku.
Sasuke roteò gli occhi verso il soffitto mentre dava loro le spalle per andarsi a sedere sulla poltrona di fronte: quei maledetti occhi di Itachi erano veramente troppo penetranti.
“Sto bene, è stato solo lo sbalzo di temperatura e certo che sono stanco, chi non lo è il venerdì sera dopo una settimana di lavoro? – guardò il padre – Mi trovo bene con l’autobus, non ha senso costruire e progettare in modo più verde, più ecosostenibile, se poi non si cerca di limitare l’inquinamento ambientale anche su altri fronti.”
Fugaku alzò una mano davanti a sé, come per fermarlo, quando Sasuke iniziava a parlare di ciò in cui credeva era inarrestabile, a differenza delle altre volte in cui bisognava tirargli fuori dalla bocca le parole con la forza.
“Sasuke non serve che mi ripeti la tua tesi di laurea, la so a memoria.”
Itachi sorrise, divertito. La sua piccola ribellione aveva cambiato un po’ tutti in quella famiglia e in meglio, gli piaceva pensare; persino il padre, per quanto severo, si era leggermente ammorbidito. Non avevano mai conversato a quel modo in passato, pur abitando sotto lo stesso tetto e vedendosi ogni giorno.
Versò del vino bianco in un bicchiere pulito e lo porse al fratello:
“Allora rilassati, noi abbiamo già iniziato prima che arrivassi tu. Raccontami un po’ come sta andando allo studio.”
Sasuke accettò quel rinfresco e bevve un sorso dell’ottimo vino, prima di iniziare a raccontare. Era andato a lavorare nello studio di famiglia ovviamente, quello dove era cresciuto fin da piccolo e dove conosceva tutti. Non ci sarebbe stato granché da dire, ma la differenza era che finalmente era entrato lì in veste di lavoratore e non di visitatore; era decisamente qualcosa di cui parlare.
“E tu come ti trovi dagli Hyuga? L’altra settimana quando sei venuto a pranzo non sono potuto venire, ero fuori città e non abbiamo avuto modo di sentirci” chiese poi Sasuke, poggiando il bicchiere vuoto sul tavolino.
“Tutto bene, lavoro parecchio ma mi piace. Neji, il figlio maggiore di Hizashi, ha quasi completato il praticantato e quando lo finirà ci prenderanno come soci dello studio, mentre Hinata la figlia di Hiashi, lo ha appena iniziato.”
“Deve essere proprio esaltante difendere criminali che invece dovrebbero marcire in galera” commentò Fugaku con una sfumatura acida nella voce. In fondo c’era sempre quel pizzico di delusione e rammarico per quel primogenito che non aveva scelto di seguire le sue orme.
Itachi non si scompose e fece un gesto elegante con le dita, per spazzare via l’aria e quelle parole:
“Su, papà… lo sai bene che mi occupo di materia civile. Sono altri gli avvocati che si occupano di diritto penale allo studio, Ebisu si occupa addirittura di diritto di famiglia – sorrise leggero – piuttosto devo rimproverare te, ancora non avete concluso il progetto e io mi ritrovo senza un ufficio tutto per me.”
Sasuke li guardò interrogativo e Fugaku spiegò:
“Ci hanno interpellati per un progetto di ristrutturazione. Lo studio Hyuga ha comprato l’appartamento adiacente al loro per ampliarsi, si sta occupando Yamamoto della faccenda, ma effettivamente è indietro a causa di alcuni ritardi burocratici per altri progetti. Gli ho sempre dato piena fiducia, ma un ritardo simile è inammissibile, abbiamo un nome e una rispettabilità da mantenere. Magari potrei affiancarti a lui, Sasuke” concluse, pensieroso.
Il figlio minore sbuffò:
“Che noia, una semplice ristrutturazione – commentò, lui puntava ben più in alto – se lo ritieni opportuno però lo farò.”
“Sì, ti servirà comunque come esperienza, ne hai bisogno” decise Fugaku.
“Hai bisogno di fare un po’ di gavetta fratellino” aggiunse Itachi, divertito, mentre Sasuke si indispettiva per quel nomignolo.
“Ehi, ehi, chi denigra il mio bambino?” intervenne Mikoto, entrando e andando a mettersi alle spalle della poltrona del figlio minore per passargli le braccia attorno al collo e stringerlo.
“Mamma, lasciami!” esclamò Sasuke, a quel punto realmente in imbarazzo e a disagio.
“Perché sei cresciuto? Eppure da piccolo eri così adorabile con quelle guanciotte rosse – sospirò, lasciandolo affranta, ma riprendendosi subito – venite, è pronto. Ma vi avverto: a tavola non voglio sentire una sola parola riguardo il lavoro! Piuttosto Itachi, dovresti raccontarmi della tua fidanzata.”
Il ragazzo si accomodò in sala da pranzo, seduto di fronte al fratello.
“Lo trovo difficile visto che non c’è” sorrise appena a Sasuke, che fece una smorfia. Aveva conosciuto Konan, la sua ultima ragazza, ma sapeva che le cose non stavano andando bene nonostante la convivenza iniziata da poco e, a quanto pareva, si erano definitivamente lasciati.
Sperò che la madre non facesse qualche domanda del genere a lui, perché stava diventando sempre più difficile mentire. Si era sempre fatto scudo del suo carattere schivo per non presentare nessuna fidanzata ai genitori, ma fino a quando sarebbe potuto andare avanti? A suo padre sarebbe venuto un infarto se si fosse presentato una sera con un ragazzo e non per presentarlo come amico.
Osservò tutta la sua famiglia riunita con le espressioni rilassate, finalmente avevano un dialogo, per quanto a volte stentato; non poteva essere lui a distruggere quell’armonia. Come avrebbe potuto farsi carico di una simile responsabilità? Deludere i genitori e venire meno alle aspettative: diventare un ottimo architetto, trovare una moglie e sfornare qualche figlio. Vivere una vita normale, senza uscire dai confini accuratamente predisposti per lui.
A quei pensieri si sentì soffocare, e non poté evitare di pensare a Gaara: dopo quella sortita al bar non aveva fatto più nessun tentativo di rintracciarlo, né l’altro lo aveva chiamato. E Sasuke desiderò non essere stato così stronzo il giorno della sua laurea, nonostante si fosse sempre ripetuto di averne avuto tutte le ragioni.
Venne riscosso da Mikoto che gli porgeva un piatto colmo e da Itachi che diceva:
“Grazie mamma, prepari sempre lo spezzatino, il mio piatto preferito.”
“Ma figurati, è così semplice da preparare in fondo. Com’era quello che ti ho dato la settimana scorsa?”
“Ottimo mamma – le sorrise – il più buono mai fatto.”

 

***

 

Gaara si passò una mano tra i capelli rossi, constatando distrattamente che avrebbero avuto bisogno di una spuntata, ma al momento non era quello ciò che lo preoccupava.
Fissò i fogli davanti a sé e poi il monitor del computer, chiuse gli occhi perché le colonne di numeri stavano iniziando a confondersi tra loro, senza più alcun significato.
Era stanco, tra pochi giorni avrebbe avuto un esonero obbligatorio e si era illuso di poter studiare con comodo durante la sua pausa pranzo.
Povero illuso.
Proprio perché aveva dovuto prendere una mattinata libera, si trovava con del lavoro in più da smaltire in vista della sua assenza e, come se non bastasse, ci si era messo anche quel concentrato di simpatia di Neji Hyuga.
Il giorno precedente era stato dedicato alla contabilità e Gaara si era ritrovato a radunare e mettere ordine tra le fatture dello studio, cosa non facile visto che c’erano più avvocati, senza contare i due nuovi arrivati.
Doveva fare una nota sulle spese dello studio, dalle cose più grosse come le bollette o i costi di manutenzione dell’ufficio, fino alle cose più stupide come i materiali di cancelleria o il caffè della cucina. Oltretutto doveva controllare che le note spese stilate dagli avvocati coincidessero con i bonifici arrivati sul conto corrente, stilare poi la fattura, fare in modo che arrivasse al cliente, archiviare, fare copie e sistemare il tutto in modo ordinato per perdere meno tempo possibile quando sarebbe andato dal commercialista.
Era un lavoro noioso ma di grande responsabilità, eventuali ammanchi o problemi col fisco sarebbero stati problemi suoi e, proprio quella volta, Gaara si era ritrovato dinanzi a dei bonifici che non riusciva a ricollegare a nessuna nota spese. Aveva controllato ben due volte, ormai sul punto di una crisi isterica, quando si era reso conto che mancavano quelle di Neji Hyuga, non gliene consegnava da almeno due mesi.
Il ragazzo era impegnatissimo perché stava finendo il suo praticantato e si stava preparando per l’esame di abilitazione, così veniva raramente allo studio.
Gaara aveva provato a contattarlo tutta la giornata, anche quando era tornato a casa, e solo in tarda serata l’altro si era degnato di rispondere, affermando che sì, aveva delle note che non aveva consegnato, classificandole come cose di poca importanza. Gaara si era dovuto mordere la lingua per non dirgli quanto tempo gli avesse fatto perdere o come gli avesse complicato il lavoro, tanto all’avvocato non sarebbe importato, lo aveva solo pregato di portargliele l’indomani mattina.
Neji lo aveva fatto, peccato che si fosse presentato solo verso le undici, gli aveva sbattuto sulla scrivania un plico di fogli accartocciati, senza nemmeno badare al fatto che così li aveva mischiati ad altri documenti che erano già sparsi.
Gli aveva intimato di non disturbarlo più per stronzate simili, e che avrebbe dovuto accorgersi prima che lui non gli aveva consegnato quelle maledette note spese, invece di incomodarlo ad andare fin lì e mettergli fretta perché l’appuntamento col commercialista era vicino.
Lo aveva guardato con quella sprezzante aria di superiorità, respingendo in ogni modo la propria colpa in quella faccenda, e Gaara aveva dovuto controllarsi per non spaccargli quella bella faccia aristocratica. Aveva stretto i pugni, nascosti dalla scrivania, e l’aveva semplicemente guardato con quegli occhi gelidi che riuscivano a fare concorrenza a quelli degli Hyuga. Poi aveva iniziato a fare ordine tra i vari fogli sparsi, ignorandolo, aveva questioni ben più urgenti da sbrigare che non sprecare tempo e fiato con lui.
Sapeva che avrebbe dovuto rispondere in qualche modo pacato e accomodante, come si conveniva a un sottoposto, ma quelle parole il suo orgoglio non gli aveva proprio permesso di pronunciarle, consapevole che sarebbero state false e umilianti.
Forse il suo orgoglio e la sua ostinazione sarebbero stati la sua rovina, ma proprio non voleva essere servile nei confronti di quello stronzo viziato che se ne era poi andato borbottando e sbattendo la porta, senza nemmeno ascoltare ciò che la cugina gli stava dicendo. Hinata aveva poi provato a scusarsi al posto suo, ma Gaara l’aveva liquidata con poche parole il più gentili possibili sul fatto che non doveva accollarsi responsabilità che non erano sue.
E adesso si ritrovava ancora in alto mare, con il commercialista che lo attendeva nel pomeriggio e la speranza di poter studiare durante la pausa pranzo naufragata in mezzo a quei fogli stropicciati a cui avrebbe voluto dare fuoco. Non era morto anni prima vivendo per strada al freddo, ma aveva l’impressione che sarebbe invece morto seppellito dalla carta.
“Esco a pranzare – si sentì dire da Itachi – hai bisogno di un’iniezione di vitalità per tutte quelle carte? Magari un po’ di cioccolato?”
Gaara lo guardò, in realtà lusingato da quella proposta accorta, ma anche imbarazzato. Lui e Itachi ogni tanto conversavano su questioni anche non inerenti al lavoro; cose di poca importanza come scoprire che a entrambi piaceva la cioccolata o che l’Uchiha odiava la musica rap, eppure Gaara apprezzava molto quei momenti. Anche per quello la sceneggiata teatrale di Neji lo aveva fatto arrabbiare, perché Itachi era stato lì, aveva visto e sentito tutto; aveva visto quanto il segretario fosse considerato una nullità o poco più.
“No, grazie, sono a posto così” rispose. Non voleva la carità, respingeva qualsiasi aiuto esterno e non riusciva ad accettare nemmeno un gesto gentile e semplice, come un cioccolatino comprato appositamente per lui.
Itachi si infilò il cappotto, con un’espressione che esprimeva i dubbi sul fatto che Gaara fosse realmente a posto in qualcosa, ma non disse niente.
“Cos’hai per pranzo oggi?” chiese invece.
Gaara sospirò, gli faceva spesso quella domanda e non capiva perché l’altro si fosse fissato a quella maniera col cibo, in realtà non capiva nemmeno perché gli rivolgesse la parola o cosa ci trovasse di interessante in lui.
“Insalata di patate.”
Era certamente un modo più elegante per definire due patate bollite e dovette piacere a Itachi perché gli fece un piccolo sorriso. Chissà – pensò Gaara –  forse era un estimatore perverso dell’insalata di patate, era un suo vizio, magari era un drogato di insalata di patate  e doveva nascondere un tale peccato ignominioso e inconfessabile. Magari ci riempiva la vasca da bagno e poi ci sguazzava dentro, affondando tra i condimenti.
Gaara sorrise a quel pensiero stupido, ma non lo cacciò perché negli ultimi tempi aveva avuto ben poco per cui ridere. Forse Itachi stava per chiedergli che diavolo avesse da sogghignare, ma la porta dello studio si aprì e nell’anticamera si sentì una voce squillante:
“Hinata! Accidenti ma è fantastico! Ma se cacciassimo i vecchi e venissimo ad abitare qui?” Seguì una risata sguaiata e la ragazza entrò nella stanza, arrossendo nel constatare che c’era anche qualcun altro.
“S-scusate, credevo non ci fosse nessuno – iniziò a dire – ho dimenticato…”
Ma nessuno seppe mai cosa era ritornata a prendere, perché nella stanza si affacciò il proprietario della risata sguaiata che, altrettanto rumorosamente, la interruppe:
“Gaara?! Ma che diavolo ci fai qui? Accidenti, non ti ho più visto da quel giorno! Come stai?”
Gaara osservò con orrore crescente Naruto entrare prima nel suo campo visivo e poi avvicinarsi a lui fino a posargli una mano sulla spalla, stringendola affettuosamente, come se fossero stati grandi amici invece che nulla più di conoscenti.
“Naruto… – mormorò, incapace di fare un sorriso o di nascondere la sorpresa – ci lavoro qui.”
“Ma dai? – esclamò l’altro – Sei anche tu un avvocato? Ma che figata! E proprio nello studio della mia fidanzata, ad averlo saputo sarei salito a salutarti molto tempo prima!”
Gaara maledisse la sfiga che continuava a perseguitarlo: non era possibile che, con tutte le ragazze che esistevano, Naruto stesse assieme proprio all’unica che lavorava nel suo ufficio. Magari se ci fossero stati solo uomini avrebbe scoperto che era gay o qualche altra stronzata, giusto per creargli altri problemi.
Non voleva vedere quel biondo esagitato, non voleva pensare a Sasuke, non voleva pensare al modo in cui si era sentito umiliato e respinto quel giorno e a quanto, nonostante tutto, il ragazzo gli mancasse.
“Vi conoscete?” domandò la voce pacata di Itachi.
“Oh, ci sei anche tu! Scusa non ti avevo visto – ridacchiò Naruto – sì, Gaara è un amico di Sasuke, non lo sapevi?”
A quelle parole il segretario iniziò a sentirsi male; perché mai Itachi doveva conoscere Sasuke? Gli bastò guardarlo per capire che la verità era piuttosto palese: i loro occhi scuri simili, i capelli neri e i lineamenti finemente cesellati di entrambi.

È una persecuzione, cazzo!
“Già, tra l’altro quello stronzo ti ha chiamato per ringraziarti dei biglietti, vero?” domandò ancora Naruto stavolta a Gaara che ancora non riusciva a spiccicare parola. Era inchiodato su quella sedia, gli pareva che il corpo pesasse tonnellate tanto era difficile muoverlo, le gambe e le braccia erano intorpidite al pari della sua mente.
“Sì, oh sì – riuscì a dire in qualche modo – era bello?”

Concentrati, rilassati, non sta succedendo niente di male. Parla e comportati normalmente, altrimenti Itachi intuirà che qualcosa non va, quegli occhi… quegli occhi vanno troppo a fondo.
“Sì, fantastico! Peccato che tu non ci sia potuto andare, e poi i posti! Accidenti, erano ottimi, ti saranno…”
“Perfetto! Sono veramente felice” lo interruppe Gaara, alzandosi e posandogli una mano sulla spalla. Quello lì parlava davvero troppo e diceva cose che era meglio che rimanessero taciute.
“Mio fratello non ha molti amici, credevo di conoscerli tutti. Non credevo che quel giorno all’università fossi lì per lui” disse invece Itachi, fermandosi davanti alla sua scrivania e guardandolo.
Il mento era appena sollevato, e un sorriso accennato era sul suo volto.
Gaara cercò di mantenere la sua compostezza, ma era maledettamente difficile, sembrava che ogni cosa gli stesse crollando addosso. Certo non potevano sapere o immaginare che lui e Sasuke fossero andati a letto insieme o che erano gay, ma di sicuro si intuiva che c’era qualcosa di strano in tutta la faccenda, e non poteva illudersi che l’Uchiha non lo intuisse, non era Naruto.
“Mi hai visto?” L’idea che, tra quella folla, Itachi lo avesse notato lo scombussolava.
“Più che altro mi sei venuto addosso mentre scappavi via… ma forse non te lo ricordi.”
“No, scusa per quel giorno, ma ero in ritardo e dovevo tornare a lavoro – rispose Gaara e gli parve di essersi ripreso tanto che aggiunse – io e Sasuke ci conosciamo da poco in realtà.”
“Oh, davvero?” domandò Itachi, inarcando un sopracciglio.

Oh, davvero un amico appena conosciuto regala ottimi biglietti, sicuramente costosi? Soprattutto se è evidente che quel qualcuno non naviga nell’oro e ha un lavoro modesto? Davvero vi conoscete da così poco? E quella tua fuga precipitosa era solo a causa del ritardo?
Gaara avvertì tutte quelle domande inespresse nascoste in due semplici parole e si diede dell’idiota: sul serio aveva creduto di essersi ripreso e che Itachi non avrebbe capito ciò che gli premeva rimanesse nascosto? Non rispose e si limitò a fissarlo coi propri occhi chiari, senza alcuna titubanza; Itachi non poteva leggergli così tanto dentro, si diceva.
“Naruto, si sta facendo tardi, la prenotazione…” mormorò la voce pacata di Hinata.
“Oh sì, certo. Noi dobbiamo andare, ma perché non vieni a pranzo con noi Gaara?”
“Ti ringrazio, ma ho parecchio lavoro da finire assolutamente prima delle 16. Mangerò qualcosa qui alla scrivania, ma grazie dell’invito.”
“Oh, cavoli che schifo – borbottò Naruto – e tu Itachi?”
“Grazie, ma ho un amico che mi aspetta e poi non rovinerei mai un appuntamento a Hinata – sorrise, affascinante – a dopo, Gaara.”
Uscì in fretta e poco dopo gli altri due lo imitarono, Naruto blaterando qualcosa sul fatto che dovevano assolutamente vedersi una sera o qualcosa del genere.
Gaara, rimasto solo, piombò sulla sedia a peso morto, sentendosi prosciugato di ogni forza.
Non era possibile che, tra tutti gli studi legali della città, nel suo fossero arrivati la fidanzata del migliore amico di Sasuke e suo fratello. Era qualcosa che aveva dell’incredibile, era ridicolmente assurdo.
Sicuramente Naruto avrebbe detto a Sasuke di averlo visto… e cosa sarebbe successo? Avrebbe dovuto aspettarsi di rivederlo?
No, non lui, si rispose.
Lo aveva cacciato, aveva calpestato e poi sputato su di loro, su qualsiasi cosa fossero riusciti a mettere in piedi in quei mesi; il Sasuke che conosceva non aveva nessun motivo di presentarsi lì a sorpresa o di cercarlo, come non aveva fatto da un mese a quella parte.
Ripensare a lui lo fece arrabbiare e con una manata spazzò una pila di fogli che volò in aria, librandosi come tante farfalle immacolate prima di planare sulle mattonelle anonime.
“Bravo stronzo” sbuffò, sarebbe toccato a lui sistemare tutto. Era lui che avrebbe dovuto rimettere a posto le cose, raccogliere i cocci, tentare di incollarli… lui, non certo Sasuke. Sasuke lo aveva lasciato indietro.

 

 

 

 

 

L’angolino oscuro: Più insalata di patate per tutti, ieeee! Scusate, ma proprio non ho resistito e ho dovuto mettere questa piccola stupidaggine, l’idea di Itachi drogato di insalata di patate mi faceva ridere troppo XD
Sempre parlando di cibo, ma quant’è accorto e adorabile Itachi che si preoccupa per Gaara? Si rende conto di non conoscerlo abbastanza per poter fare domande personali o intervenire e che, forse, l’unica cosa che può fare per lui è assicurarsi che mangi adeguatamente, e osservarlo da lontano of course, Itachi voyeur ci piace!
Però Gaara è sfigatissimo e per una suprema botta di sfiga scopre che lo stesso Itachi con cui ha iniziato a parlare e aprirsi un minimo altri non è che il fratello di Sasuke, e penso che la cosa lascerebbe spiazzato chiunque, lui è stato fin troppo bravo a controllarsi, ma fino a quando dureranno i nervi di Gaara sottoposti a tutto questo stress? Lo studio, il lavoro, Sasuke, i segreti da mantenere… veramente troppa roba per un solitario come lui.
Contrapposta alla situazione di Gaara vediamo invece la famiglia Uchiha, che per quanto incasinata rimane una famiglia. Mi è piaciuto moltissimo scrivere di loro, anche da quanto mostrato da Kishimoto erano abbastanza normali, Fugaku era sì severo, c’erano degli screzi, ma in fondo era evidente che si volessero bene e ho voluto ricreare la stessa atmosfera. Hanno avuto le loro crisi, si sono persino divisi, ma sono riusciti a ritrovarsi, Sasuke e Itachi sono persino riusciti a costruire un vero rapporto. Certo per Sasuke non è facile scrollarsi di dosso complessi e paranoie di una vita, ma non odia il fratello.
Il titolo è una strofa di Personal Jesus dei Depeche mode, trovavo che calzasse bene per il capitolo, la traduzione è “Avvicinati e tocca la fede” perché a volte tutto quello che ci spinge in avanti è un piccolo atto di fede, la speranza che domani andrà tutto meglio.
Spero che anche questo capitolo vi piaccia e per qualsiasi domanda, lancio di pomodori marci o altro io sono qui, alla prossima!

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Capitolo 5
*** 5 - L’amore non perdona ***


L’amore non perdona

 

 

Itachi bevve il cappuccino caldo, quasi bollente e capace di scottare la lingua, ma a lui piaceva così. Gli piaceva sentirsi riscaldare dalla bevanda, con quel lieve sentore amarognolo del caffè addolcito però dal latte, e gli piaceva ancora di più, dopo, addentare un dolcetto e leggere qualche riga di un libro mentre masticava.
Era sabato mattina, il tempo era pessimo e prometteva pioggia, ma lui era seduto comodamente su un divanetto a gustarsi una goduriosa quanto calorica colazione mentre l’e-reader era aperto su un libro avvincente. Tutti i fine settimana andava a fare colazione in quella caffetteria, non tanto perché fosse alla moda, persino un po’ pretenziosa, quanto perché i dolci erano ottimi. Nessuno lo avrebbe mai sospettato, ma in realtà Itachi amava i dolci; in generale seguiva un’alimentazione piuttosto sana, però a casa sua cioccolato e biscotti non mancavano mai.
Sapeva perfettamente che immagine avevano gli altri di lui, ovvero quella di un uomo inflessibile –  un pezzo di ghiaccio lo aveva addirittura definito una volta una ragazza – e sapeva altrettanto bene che nell’immaginario comune i veri uomini non amavano i dolci. Un po’ come suo fratello Sasuke che, fin da piccolo, credendo di darsi un tono aveva mostrato apertamente di disprezzarli, pur guardandoli con bramosia, finendo poi a detestarli sul serio.
A Itachi invece piacevano molto, anzi moltissimo, semplicemente evitava di darlo a vedere troppo apertamente, un po’ come accadeva per tutte le altre cose che gli interessavano.
In parte era dovuto all’educazione rigida con cui era stato cresciuto, in parte perché, semplicemente, non gli piaceva esporsi; preferiva tenere tutto per sé, sia le cose belle che quelle spiacevoli, i suoi piccoli segreti li chiamava. Cose di poco conto, innocenti, come quella passione per i dolci e i gelati, altre volte cose un po’ più grandi e serie ma che lui teneva per sé, si confidava solo con suo cugino Shisui, l’unico con cui sentisse di avere davvero un rapporto di confidenza.
Da bambino fantasticava sempre di essere una spia, immaginava che sarebbe stato bravissimo, ancora meglio di 007, perché nessuno sarebbe mai riuscito ad estorcergli alcuna informazione. E allora il piccolo Itachi spingeva la sua immaginazione a dipingere inseguimenti rocamboleschi in moto, in elicottero, sparatorie dove i colpi della sua arma parevano infiniti, lotte a mani nude dove non versava nemmeno una goccia di sudore; ogni missione veniva coronata ovviamente dal successo e il ciak si concludeva con lui assieme a qualche bella donna, con le loro sagome che si stagliavano contro il tramonto nel più classico dei classici scenari da film.
Crescendo aveva iniziato a sognare scenari più realistici, come la laurea in ciò che gli interessava o un appartamento tutto per sé, ma il vizio di tenere segreti non era cambiato, come anche quello di interessarsi a quelli degli altri. Che spia sarebbe mai stata se non fosse stato in grado di scoprire ciò che i suoi nemici tentavano di nascondere?
Osservava le persone, il linguaggio del corpo più che delle parole che uscivano dalla bocca. Tutti erano in grado di dire una bugia più o meno bene, ma non si possono controllare i movimenti involontari come quello delle pupille, o i tic nervosi che non si era nemmeno coscienti di compiere.
Shisui, con quell’umorismo pessimo che si ritrovava, diceva sempre che Itachi doveva lavorare in ospedale: avrebbe fatto risparmiare un sacco di soldi in TC e altri esami diagnostici. Shisui diceva un sacco di stronzate, faceva battutacce orrende, eppure lui le ascoltava sempre e qualche volta rideva. Giusto qualche volta o gli avrebbe dato troppa soddisfazione.
Finita la colazione, Itachi spense il lettore, si avvolse bene in sciarpa e cappotto e uscì, in una mano la cartellina da lavoro e nell’altra un sacchetto con altri dolcetti.
Purtroppo quel sabato mattina non poteva passarlo pigramente, ma doveva andare allo studio per recuperare delle pratiche lasciate indietro il giorno prima e che dovevano essere pronte per lunedì. Colpa di Shisui che lo aveva costretto ad uscire in anticipo per una stupida partita di basket a cui alla fine erano arrivati abbondantemente in anticipo, anche se Itachi doveva ammettere – anche se mai lo avrebbe fatto ad alta voce – di essersi divertito.
Il vento gli scompigliava le ciocche di capelli lasciate libere dalla coda e gli feriva gli occhi che iniziarono a lacrimare, ma lo studio era vicino e non valeva la pena prendere la macchina; Sasuke sarebbe stato felice di quella sua decisione ecologica.
Pensando al fratello e alla cena di famiglia di qualche sera prima, gli fu impossibile non fare un bilancio del loro rapporto. Itachi si era sempre mantenuto a distanza da Sasuke, perché sapeva quanto potesse risultare frustrante e irritante la sua abilità nel riuscire bene in tutto quello in cui si applicava. Ingenuamente aveva creduto che, se non gli fosse stato troppo attorno, Sasuke avrebbe potuto risentire di meno del confronto tra loro, nonostante il padre lo avesse sempre alimentato.
Così a diciannove anni Itachi si era ritrovato iscritto a una facoltà che non gli piaceva, con un fratello sconosciuto e ostile sotto lo stesso tetto e, forse, persino lui era uno sconosciuto per se stesso. Andarsene di casa, ribellandosi, era stata la decisione migliore che potesse prendere, per sé e per la sua famiglia; era stata dura all’inizio e probabilmente senza la presenza di Shisui sarebbe stato quasi impossibile.
A distanza di anni però poteva dirsi moderatamente felice e piuttosto soddisfatto della propria vita e dei rapporti con la famiglia: il padre si era ammorbidito nei confronti dei figli, sua madre era soddisfatta del riavvicinamento tra gli uomini della sua vita, e lui e Sasuke parlavano, si vedevano a cena o per un cinema, avevano insomma costruito un rapporto reale, sebbene nella loro relazione ci fossero ancora punti oscuri e cose che entrambi ignoravano l’uno dell’altro. Come Gaara, ad esempio.
Itachi ripensò alla rivelazione ricevuta il giorno prima grazie all’intervento di Naruto: Gaara e il fratello si conoscevano, erano addirittura amici secondo l’uragano biondo, e Itachi non aveva mai dimenticato l’espressione sconvolta e persa sul viso di Gaara quando lo aveva urtato il giorno della laurea, un’espressione difficilmente attribuibile a un ritardo in ufficio per quanto Hiashi Hyuga sapesse essere inflessibile.
Il suo amore per i segreti tornava a galla, perché era evidente che il segretario ne avesse uno, forse anche più di uno, ma quegli occhi di ghiaccio non si lasciavano sfuggire niente, come la sua bocca che pareva avere una risposta pronta per tutto. Ma Itachi era troppo incuriosito da quel ragazzo per demordere e, al di là della curiosità, gli piaceva. Era testardo, solitario e lavorava tantissimo senza mai un lamento, se non qualche occhiata frustrata che lanciava quando credeva di non essere visto. Stava lottando per il suo sogno, così come lui aveva lottato per il proprio mettendosi persino contro il padre, e a Itachi piacevano i lottatori.
Per lui fu una sorpresa entrare in ufficio e trovare proprio l’oggetto dei suoi pensieri dietro alla scrivania, con una felpa larga, dai polsini un po’ consumati e dei jeans stinti dall’aria vissuta, un abbigliamento ben diverso da quello semplice ma impeccabile con cui lo vedeva sempre.
“Hai preso residenza qui allo studio?” gli domandò iniziando a togliersi sciarpa e cappotto.
Gaara, che era saltato in piedi non appena la porta si era aperta, si grattò il mento, chiaramente a disagio:
“No, avevo delle cose da smaltire e sono venuto stamattina pensando che non ci sarebbe stato nessuno, tutto qui.”
“Ah sì? Abbiamo avuto lo stesso pensiero, lo sai? Abbiamo un sacco di cose in comune” replicò con tono leggero. Ma lo guardò e non c’era traccia di quella leggerezza nei suoi occhi, bensì una domanda inespressa.

Come un fratello che entrambi conosciamo… e tu, esattamente, in che rapporti sei con lui?
Tuttavia Itachi non fece accenno a ciò, ma guardando i libri e i fogli sulla scrivania, aggiunse:
“E quella roba? Non è certo di lavoro.”
Gaara era sempre più a disagio, così teso da sembrare che i suoi nervi fossero sul punto di spezzarsi, e ciò non poteva che incuriosire maggiormente l’Uchiha.
“No, è che… in realtà ho finito col lavoro, ma visto che avevo la roba dietro ne ho approfittato per mettermi a studiare. Qui è così tranquillo e io lunedì ho un esonero, se tu devi lavorare io posso andare nella sala riunioni per non disturbarti.”
Le sue parole così pacate, logiche e ponderate, in netto contrasto con l’ansia mascherata dal suo corpo, facevano intuire a Itachi che il ragazzo non gli stesse dicendo esattamente la verità, e si chiese, incuriosito, quale essa fosse.
Di certo Itachi non avrebbe mai immaginato, né Gaara gli avrebbe mai raccontato, che il giorno prima Hidan, annoiato, aveva avuto la grande idea di prendergli il portatile per vedersi un porno e beccarsi anche abbastanza virus da friggergli il computer. Il computer di cui Gaara aveva assolutamente bisogno per studiare.
Hidan lo aveva subito portato da un tecnico, ma questi aveva stabilito che sistemare un portatile così vecchio sarebbe stato costoso e non ne valeva la pena, l’unica alternativa era prenderne un altro. Peccato solo che Hidan quel mese non potesse permettersi di comprare un pc nuovo per sostituire quello, dato che era al verde dopo aver anticipato al coinquilino metà dell’affitto e altri soldi per alcune spese improvvise. Quando la sera Gaara aveva scoperto ciò che era successo si era infuriato, ma non era stato capace di prendersela con l’amico, che in fondo era sinceramente dispiaciuto, perché, in fondo, la colpa di quella situazione era sua e di quei maledetti biglietti. Se non li avesse mai comprati non si sarebbe trovato senza soldi, costretto a chiedere aiuto economico al coinquilino e trovarsi comunque nei guai di fronte a un imprevisto banale come quello. Se solo non si fosse fidato di Sasuke, se solo non si fosse illuso, se solo…
Consapevole di ciò non aveva rimproverato Hidan, si era limitato a sfogarsi lanciando contro il muro quell’ammasso di plastica e circuiti inutili quando era rimasto solo, per poi cercare una soluzione in attesa del prossimo stipendio.
La più semplice e immediata era usare il computer dell’ufficio, peccato che proprio quel giorno ci fosse anche Itachi, la persona che lui voleva evitare il più possibile, visto quello che era accaduto il giorno prima. Preferiva non vederlo, era abbastanza certo che non avrebbe fatto domande inopportune, non si chiamava Naruto in fondo, ma era meglio non rischiare.
No, Gaara non avrebbe mai detto niente di tutto ciò, quindi quelle frasi pacate, logiche e ponderate erano state l’unica alternativa.
“Figurati, stiamo insieme tutti i giorni e nemmeno le tue telefonate all’agenzia di disinfestazione per conto di Yamaguchi mi hanno mai dato fastidio, benché non mi piaccia sentir parlare di scarafaggi e annessi o nemmeno degli scarichi intasati a villa Hyuga – gli sorrise per poi appoggiarsi con un fianco alla scrivania e porgergli il sacchetto aperto – dolce?”
Gaara lo guardò sorpreso: si ricordava persino di quelle telefonate assurde che facevano parte del variegato monte di incombenze che gli avvocati dello studio gli scaricavano addosso. Fissò poi sospettoso il sacchetto, con diffidenza quasi, ma il suo stomaco lo incitò ad accettare, era lì da ore e quel giorno non aveva nemmeno il pranzo.
“Grazie” disse prendendone uno e addentandolo, trovandolo davvero squisito, anche a lui piacevano i dolci. Guardò poi Itachi e, riflettendo, aggiunse “Penso che se ti mettessi a testa in giù e ti scrollassi, ti scapperebbero caramelle e pasticcini da tutte le tasche, ne hai sempre uno” sorrise con la bocca sporca di glassa.
Itachi fu preso in contropiede, non si aspettava che gli altri notassero qualcosa di lui, aveva imparato che alla gente non piaceva spendere energie in qualcosa di così complicato come interessarsi al prossimo. Ma era evidente che quel segretario fosse un po’ fuori dall’ordinario.
“Probabile – sorrise, prendendone uno a sua volta – per riuscirci però dovresti mettere su un po’ di muscoli, sei magrolino. Anzi, mi sembri dimagrito rispetto a quando ci siamo conosciuti. Stai bene, vero?”
Quella domanda seria, accompagnata da uno sguardo acuto e forse in buona parte preoccupato, bloccarono Gaara, che smise persino di masticare. Era da un pezzo che nessuno gli faceva più una domanda tanto interessata.
“Sì – rispose mandando giù boccone e turbamento – è solo un periodo un po’ stressante tra lavoro e studio, sto cercando un equilibrio. Grazie però per l’interessamento e per il dolce, era ottimo.”
Ed era finito, come sembrava conclusa anche quella chiacchierata.
Infatti Itachi finì il proprio con un ultimo morso, dopo di che si alzò dalla scrivania dicendo:
“Ok, se hai bisogno di qualche aiuto per lo studio sono qui almeno un paio d’ore, buono studio.”
Concluse quella frase allungando una mano verso il suo volto, portando via un residuo di glassa vicino all’angolo della bocca; un gesto delicato, con cui gli sfiorò anche il labbro inferiore, ma maledettamente troppo veloce, almeno così pensò Gaara .
Rimase infatti paralizzato a fissarlo mentre si accomodava alla propria scrivania, come se non fosse successo nulla, ma per lui non era stato così. Con il fantasma di quel tocco sulla pelle era difficile concentrarsi nuovamente su quei termini giuridici vuoti e pomposi.

 

Alla fine in qualche modo Gaara era riuscito a concentrarsi e la presenza di Itachi si era rivelata utile, oltre che piacevole. Aveva infatti trovato il coraggio per interromperlo un paio di volte per dei chiarimenti e, anche in quel momento, l’Uchiha era chino sopra di lui a spiegargli un passaggio. Quando finì, guardò l’orologio e disse:
“Io ho finito il mio lavoro, ma se vuoi posso rimanere ancora un po’ per aiutarti, poi devo proprio andare, ho un appuntamento.”
“No, vai pure, anzi scusami per averti trattenuto” si affrettò a rassicurarlo Gaara, a disagio all’idea che l’altro sprecasse tempo per lui. Quel giorno anzi era stato veramente fantastico nei suoi confronti, lo aveva aiutato moltissimo e non aveva nemmeno mai tirato in ballo Sasuke.
“Come vuoi, comunque sei ben preparato, non avrai problemi lunedì, conosco il professore, credimi” lo incoraggiò, posandogli persino una mano su una spalla.
“Grazie di tutto” rispose Gaara, senza il desiderio di rifuggire quel contatto come gli succedeva abitualmente con gli altri.
Rimasero così, a guardarsi negli occhi in silenzio, con quel braccio teso che faceva da ponte tra di loro, l’unico contatto fisico che si fossero mai concessi. La pioggia ticchettava lieve contro i vetri, la luce plumbea riempiva la stanza e loro sembravano caduti entrambi in trance, storditi dai rispettivi sguardi e dal calore irraggiato da una semplice mano poggiata su una spalla.
Il momento fu spezzato dal cellulare di Gaara, fino ad allora muto.
Sullo schermo apparve un numero evidentemente non registrato in rubrica e il ragazzo si mosse per prendere il telefono, spezzando così il contatto tra loro. Rispose un po’ trepidante; gli occhi di Itachi erano davvero scuri, come quello di Sasuke, rifletté.
“Sì, pronto?”
Silenzio, poi una voce, la sua voce, non era cambiata.
“Gaara? Sei tu?”
La stanza iniziò a vorticargli attorno e ringraziò di essere seduto, o probabilmente si sarebbe trovato a contare i granelli di polvere sul pavimento.
Era tutto sbagliato, lui non poteva avere il suo numero, perché si rifaceva vivo dopo sette anni? Perché in quel momento?
Avrebbe potuto mentire, ma non lo fece.
“Sì, sono io” mormorò in risposta, ignorando Itachi che osservava la sua faccia sconvolta, ignorando i libri, il computer, il mondo intero, esisteva solo lui all’altro capo del telefono.

 

***

 

Gaara era nervoso, molto nervoso.
Era domenica pomeriggio e lui avrebbe dovuto essere sepolto tra i libri, per l’esonero dell’indomani mattina, invece si trovava in un locale con davanti una tazza di caffè di cui non aveva nessuna voglia. Ticchettava ritmicamente con le dita sul tavolo, ogni volta che la porta si apriva sussultava e tratteneva il respiro, lanciava occhiate ansiose tutt’attorno; in sostanza si comportava peggio di un animale braccato.
In realtà si sentiva davvero un animale in trappola: dopo aver creduto di essere scomparso, che nessuno lo avrebbe più ritrovato, dopo sette anni la caccia si era conclusa e lui era lì ad attendere il proprio inseguitore.
Si guardò gli abiti e valutò criticamente il polsino un po’ scolorito della camicia e il maglione che aveva indossato al di sopra mostrava lievi segni di infeltrimento; doveva assolutamente comprare al più presto qualche abito nuovo per andare a lavorare, non poteva assolutamente presentarsi come un barbone, Hiashi lo avrebbe licenziato di sicuro. Alzò lo sguardo e notò le lucine colorate e le decorazioni natalizie del locale, a breve la città ne sarebbe stata piena, al ragazzo non piaceva particolarmente quella festa, ma con la gratifica natalizia forse sarebbe riuscito a concedersi qualche spesa.
All’improvviso la porta lo strappò da quei pensieri futili con cui aveva cercato di distrarsi e Gaara quella volta si ritrovò a trattenere il respiro molto più a lungo, perché lui era lì, era arrivato.
Questi lo individuò subito tra la folla e si diresse nella sua direzione, così il segretario ebbe modo di notare quanto fosse diventato più alto, le sue spalle erano larghe e massicce e il sorriso era sincero al di là dei denti bianchi.
Gaara ebbe un capogiro per il torrente di ricordi che lo investì: flash gli scorrevano per la mente, come in un carosello impazzito che però non aveva fine. Tutte le volte che si era aggrappato a quelle spalle, in cui aveva trovato rifugio nel suo petto, quelle labbra carnose che aveva arrossato coi baci e i morsi, il suo sapore sulla lingua, le sue mani calde che lenivano le ferite e gli carezzavano il corpo…
Era bloccato in quella trappola, la tagliola affondava con sublime lentezza nelle sue carni e lui era incapace di muoversi, con gli occhi sgranati e la mente impazzita che faticava a reagire ai ricordi seppelliti in profondità, assieme alle emozioni che ritornarono prepotenti, come se non si vedessero dal giorno prima invece che da anni.
“Gaara… accidenti!” esclamò l’altro chinandosi ad abbracciarlo, tirandolo su in modo da farlo più comodamente.
Gaara lo assecondò, con le gambe di gelatina, e chiuse gli occhi mentre poggiava delicatamente le mani sulle sue spalle ancora fasciate dal cappotto.
“Kankuro…” sussurrò solamente. Gli sembrava di avere la gola foderata di spine, persino far uscire quelle poche sillabe era stato uno sforzo doloroso.
Il ragazzo lo allontanò quel tanto che bastava per osservarlo, senza interrompere la loro stretta, i suoi occhi castani brillavano e il sorriso luminoso non accennava a voler scemare.
“Sei cresciuto, però sei rimasto sempre bassetto… e senti qua come sei magro! E i capelli, sono più lunghi… Accidenti non so bene cosa dire, sto sparando un sacco di stupidaggini, scusa ma sono nervoso – ridacchiò – Dai, sediamoci. Abbiamo un sacco di cose da dirci.”
Gaara si rilassò un po’ nell’apprendere quanto anche l’altro fosse nervoso, d’altronde era impensabile il contrario, il loro non era un semplice incontro tra fratelli.
Lo osservò rimanere con un semplice maglione e poi ordinare una bevanda calda a una cameriera di passaggio, dopo di che si guardarono negli occhi e il minore rispose:
“Beh, è passato tempo, era impensabile che rimanessimo uguali – sorrise appena – ti trovo bene.”
Kankuro poggiò un gomito sulla spalliera della poltroncina su cui era seduto, lo guardò con un sorriso un po’ sghembo, replicando:
“Sempre di poche parole, eh? In questo non sei affatto cambiato però. Io me la cavo bene, ho un buon lavoro, e poi… – un istante di pausa – no, dimmi di te, sono curioso.”
Gaara si inumidì le labbra secche bevendo un sorso di caffè, in realtà aveva anche troppe cose da dirgli e non sapeva da dove iniziare, perché un assurdo senso di felicità lo stordiva. Kankuro lo aveva ritrovato, di sicuro non si sarebbero più lasciati e, con lui a fianco, in qualche modo sarebbe andato tutto bene. Venne a galla la sua parte infantile, quella che si era sempre fidata ciecamente del suo fratellone, che lo aveva adorato e aveva sempre fatto tutto quello che gli diceva, anche quando la notte, nello stesso letto, aveva sentito le sue mani su di sé.
“Sto bene, ho un buon lavoro – tralasciò tutti i casini vari perché non era davvero il momento per loro – anch’io sono curioso e vorrei dirti e chiederti molte cose, ma prima di tutto dimmi come hai fatto a ritrovarmi… e perché proprio ora?”
Kankuro si adombrò un attimo, ma fu solo una nuvola passeggera che però lasciò il suo segno su un sorriso che non era più così tanto solare.
“Ho assunto un investigatore privato, ho rintracciato anche nostra sorella. Temari, te la ricordi? Forse no, avevi solo quattro anni quando ci separarono e ci mandarono in due orfanotrofi diversi. Comunque lei vive in un’altra città non lontana da qui, è sposata e sembra felice; voleva venire anche lei oggi, ma ho pensato che fosse meglio andare per gradi, dopotutto anche noi non ci vediamo da anni – lo guardò stringendo tra le mani la propria tazza appena portata dalla cameriera – in realtà è da parecchio che pensavo di rintracciarvi, adesso c’è stata una giusta combinazione di eventi tra cui una certa disponibilità economica e… anche altre cose.”
Gaara aggrottò la fronte, cercando di sforzarsi, ma aveva solo qualche vago ricordo di quella sorella che aveva persino dimenticato di avere. Approvò la scelta di Kankuro di venire da solo, al momento gli interessava esclusivamente lui e quanto aveva da dirgli.
“Era… bionda? – domandò incerto e all’assenso dell’altro continuò – No, ho solo qualche vaghissimo ricordo, però mi fa piacere sapere che sta bene. A quanto pare ce la siamo cavata tutti e tre in qualche modo.”
Kankuro posò la tazza sul tavolino con un po’ troppa foga e il caffè tracimò, come un cavallone marino abbattutosi sugli inutili argini di porcellana. Gaara osservò perplesso quello scatto rabbioso, le gocce scure sul legno chiaro e il fratello chiaramente alterato.
“Perché sei scappato? Non avresti dovuto! Hai la minima idea di quanto mi sia preoccupato? Eri minorenne, cazzo! Ho addirittura immaginato che ti avessero venduto al mercato nero del traffico d’organi – si stropicciò gli occhi – non serviva che scappassi!”
Gaara si sentì ferito dalle sue parole, capiva la sua preoccupazione, ma perché Kankuro doveva sminuire ciò che aveva fatto unicamente per lui e il suo benessere?
“Non serviva, dici? Dopo che ci avevano scoperti hai sentito anche tu i nostri genitori adottivi discutere su come ci avrebbero rimandato in collegio, sul fatto che ero sempre io a portarti sulla cattiva strada, perché ero io il ragazzo difficile e scontroso, quello che faceva a botte e che veniva frustato all’orfanotrofio. Perché avrebbero dovuto farlo se non me lo fossi meritato? – replicò secco, ricordandogli ciò che avevano udito di nascosto – Io non volevo tornare là neanche morto, ed ero certo che se fossi sparito non ci avrebbero rimandato te solo, tu gli piacevi sul serio Kankuro. Tu piacevi sempre alla gente, io no.”
Un oscuro presentimento iniziò ad attanagliargli lo stomaco: Kankuro stava seduto comodamente, rilassato, senza un briciolo di quel nervosismo che aveva decantato all’inizio mentre lui si sentiva i palmi delle mani sudati e un vago senso di nausea.
“Gaara, ti sei preoccupato inutilmente, avresti dovuto parlarmene. È vero, mi hanno tenuto con loro dopo che te ne sei andato, anzi ho abitato con loro fino a un paio di mesi fa, ma sarebbe bastato che gli parlassi e non ci avrebbero mai rispediti all’orfanotrofio – gli sorrise – appunto perché gli piacevo avrei potuto rigirarmeli e convincerli a fare quello che volevo, in fondo non era mica successo niente di così grave.”

Così come hai convinto me?
Gaara credeva di aver sofferto nella sua vita, prima in orfanotrofio, poi quando era scappato trovandosi da solo, e infine con Sasuke, ma quello che stava sperimentando in quel momento travalicava tutto ciò. Provava una sensazione di irrealtà mista a panico che pareva averlo avvolto come una coperta soffocante, la stessa sensazione di quando si ha un incubo, ci si rivolta tra le lenzuola e non si riesce a svegliarsi.
“Niente di grave? Ci hanno scoperti a fare sesso, due fratelli! – esclamò seppur a bassa voce – Quello è niente per te?”
A quel tempo anche Gaara lo aveva pensato, aveva creduto addirittura che fosse giusto. In fondo lui e Kankuro si volevano bene, quello era solo un altro modo per dimostrarselo, per rinforzare quel legame fondamentale tra di loro. Se per Kankuro era così importante ficcarglielo nel culo o farselo succhiare per essere rassicurato sulla forza del loro legame, Gaara lo accontentava, perché per il fratello avrebbe fatto qualunque cosa. E l’altro in fondo si era preso cura di lui, gli aveva anche dato piacere, non si era limitato a pretenderlo, lo aveva stretto, lo aveva carezzato così come carezzava e disinfettava le sue ferite all’orfanotrofio e… gli aveva sussurrato che lo amava.
“Gaara, era solo un gioco… ammetto che mi è sfuggito di mano, sarebbe dovuto finire quando ci hanno adottati, ma non ci sono riuscito ed è andato oltre e mi dispiace di questo. In questi anni ho anche avuto paura di averti potuto traviare in qualche modo” sospirò, pinzandosi con due dita la radice del naso.
Che rumore fa un cuore quando si rompe?
Per qualcuno è il classico e banale crack, per altri un’esplosione, per Gaara fu il silenzio assoluto. Per qualche istante non udì nulla. Non c’era l’acciottolio di piatti e tazze, non c’era il chiacchiericcio di fondo di un locale pieno, qualche risata più alta o un tono di voce più acuto, vedeva le labbra di Kankuro muoversi ma non sentiva nessuna parola. Durò solo qualche attimo, che però si dilatò abbastanza per far rivivere al ragazzo quanto successo dalla prima volta in cui il fratello lo aveva toccato sino ad allora, tutta la fatica fatta, il dolore e le delusioni subiti, gli sforzi per emergere e non lasciarsi sopraffare, eppure aveva sopportato tutto. Gaara era sempre andato avanti perché sapeva di essere stato amato, era convinto che se era stato amato una volta allora c’era la possibilità che sarebbe accaduto di nuovo, e invece adesso scopriva di essere stato solo, l’unico ad aver messo in gioco dei sentimenti.
“Un gioco?” mormorò.
“Beh sì, il nostro era un orfanotrofio-collegio maschile, in pratica non potevamo uscire e sai com’è a quell’età… avevo diciassette anni – borbottò Kankuro a disagio, grattandosi la testa – tu ne avevi quindici ed era lo stesso anche per te, no? Poi tu non parlavi con nessun’altro oltre a me, non avevi nessun amico, dovevi pur sfogarti pure tu, no? Era più semplice limitare la faccenda a noi due.”
“Avevi detto di amarmi…”
“Certo che sì! Sei mio fratello, certo che ti voglio bene, anche più di quanto ne possa volere a un fratello normale… Gaara, perché tutte queste storie? Voglio dire… – lo guardò e si accorse di quanto l’altro fosse genuinamente sconvolto – Tu…”
La voce gli morì in gola, perché solo in quel momento si rese conto degli errori e delle conseguenze della sua superficialità, della sua voglia di sperimentare il sesso e avere una valvola di sfogo in un’esistenza altrimenti grigia e squallida. Nella sua foga di adolescente, in tutto quell’anno in cui lui e Gaara avevano esplorato quell’universo sconosciuto, non gli aveva mai parlato chiaramente, aveva dato per scontato che l’altro capisse cosa gli passava per la testa. Non aveva considerato che Gaara aveva un carattere diverso, Gaara era sempre troppo serio e prendeva tutto alla lettera, Gaara non si lasciava sfiorare nemmeno una mano da nessuno a parte lui, Gaara che era molto più fragile e confuso di un adolescente normale.
Il ragazzo in questione nel frattempo era muto, cercando di ricostruire quel puzzle di cui finalmente aveva tutti i pezzi. All’epoca non si era fatto domande, aveva accettato e ricambiato quello che credeva amore, solo allontanandosi e vivendo per davvero nel mondo aveva capito quanto per la società un legame come il loro potesse essere riprovevole. Lo aveva accettato come una delle regole da rispettare per vivere in un consesso civile, come non attraversare col rosso o non uccidere, ma in cuor suo non aveva mai rinnegato quell’amore, né lo aveva mai completamente dimenticato.
Buffo che in realtà non ci fosse proprio niente da rinnegare o da dimenticare, semplicemente perché quell’amore, quel legame in realtà non era mai esistito.
Gaara osservò nuovamente il fratello, quella volta con occhi più analitici, più freddi e impersonali, e notò un particolare prima ignorato.
“Ti sei sposato?” domandò, c’era un anello al suo anulare sinistro.
Kankuro si morse un labbro e si coprì la mano, quasi con fare colpevole.
“No, non ancora. Questo è l’anello di fidanzamento, mi sposo a maggio” rispose senza riuscire a guardarlo in faccia.
“Capisco – replicò Gaara con voce piatta – questa è una delle cose che fanno parte della giusta combinazione di eventi che ti ha spinto a cercare di nuovo me e Temari?”
“Sì, ho avuto il desiderio di riavere la mia famiglia il giorno del mio matrimonio” ammise alzando la testa per sbirciarlo, trovando il suo viso impassibile. Il fratello non mostrava la minima traccia di rabbia o biasimo e ciò lo sollevò; ingenuamente pensò che forse tutto si poteva risolvere, in fondo era stato solo un fraintendimento. Un fraintendimento durato anni, ma che ora era chiarito, no?
“Capisco” ripeté Gaara.
Il suo volto era una maschera scolpita nella pietra, a nessun costo avrebbe permesso alle sue labbra di assumere una piega amara o agli occhi di intristirsi e alla fronte di corrucciarsi. Guardò la persona che aveva davanti, un egoista che lo aveva cercato in passato per soddisfare i propri desideri, e che lo aveva cercato nuovamente per lo stesso motivo, non per preoccupazione o affetto fraterno; no, solamente per averlo vicino nella foto ricordo del matrimonio, per illudersi di avere davvero qualcosa alle spalle da poter chiamare famiglia.
Gaara sfilò il portafogli dalla tasca, lasciò qualche moneta sul tavolino per pagare il proprio caffè e iniziò a rivestirsi.
“Che diavolo fai?” esclamò Kankuro scattando in piedi.
“Sono molto felice per te, spero che quel giorno non piova. Ora devo andare, ho da fare” rispose Gaara abbottonandosi il cappotto.
“Ma… ma che dici? Perché vai via?” domandò l’altro, incredulo e confuso per quella freddezza. Gli posò una mano sul braccio, ma Gaara fu veloce a sottrarsi dalla sua presa.
“Non mi toccare – sibilò, guardandolo con occhi gelidi e duri – e non cercarmi più, cancella il mio numero di telefono, non ho niente da dire né a te, né a tua sorella.”
Detto questo lo superò, senza aspettare una sua replica; in fondo quali parole avrebbero mai potuto rimettere a posto le cose, restituirgli quell’illusione che gli aveva dato forza negli anni?
Gaara uscì al freddo e alzò gli occhi al cielo scuro, era carico di nuvole grosse, pesanti, così gonfie che sembrava che si sarebbero schiantate sulla terra da un momento all’altro e forse per Gaara era già successo: il cielo gli era crollato addosso, ferendolo con le sue schegge, perché aveva compreso di non essere mai stato amato, da nessuno.

 

 

 

 

L’angolino oscuro: Finalmente la questione incest è esplosa come un frutto troppo maturo, e a Gaara è esplosa proprio in faccia, investendolo in pieno. Penso sia chiaro ciò che è accaduto esattamente, il modo in cui Gaara si è lasciato trascinare dalla situazione, senza trovarla compromettente. Per nessuno dei due lo è, visto come sono cresciuti isolati dal mondo esterno, anche se i motivi che li spingono sono diverso. Per Kankuro è per l’appunto un gioco, un modo per esplorare in sicurezza la sessualità, cosa altrimenti difficile in quell’ambiente; per Gaara è invece una dimostrazione di affetto da parte dell’altro, il fratello è l’unica persona di cui si fida, da cui si lascia toccare e non vede perché respingerlo, nella sua ottica non sta accadendo nulla di male. Solo successivamente, immergendosi in una realtà diversa, capirà che le cose non stanno così, eppure non rinnegherà l’amore provato, semplicemente se lo lascia alle spalle, alla ricerca di qualcun altro che possa amarlo di nuovo. Peccato che però quell’amore non sia mai esistito da parte di Kankuro e questo fa crollare le basi su cui Gaara aveva costruito la propria vita.
Spero che il mio modo di trattare la questione non sia stato superficiale e di aver messo bene in luce una tematica tanto delicata che mi affascina.
Piaciuto Itachi drogato di dolci? Mi piace descriverlo meno austero e con qualche sfaccettatura che lo renda meno perfetto, decisamente più reale e umano come tutti. Tra l’altro grasse risate con Itachi bambino che sognava di essere una spia XD niente, anche in una AU la cosa lo perseguita.
Lasciatemi un commento e fatemi sapere cosa ne pensate di questa roba che ho tirato su, grazie.

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Capitolo 6
*** 6 - The night we met ***


I had all and then most of you
Some and now none of you
Take me back to the night we met
I don't know what I'm supposed to do
Haunted by the ghost of you
Oh, take me back to the night we met

(Lord Huron)

 

The night we met

 

 

 

Hinata si stiracchiò sentendo scrocchiare con delizia alcune vertebre della schiena, si concesse anche un lungo sbadiglio e uno sbuffo, per poi raccogliere con un dito una piccola lacrima dall’angolo degli occhi chiari.
Quel lunedì non era uscita per pranzare fuori ed era rimasta in ufficio, godendosi un po’ di solitudine visto che non c’era nemmeno Gaara e pensò di aver preso raramente una scelta migliore.
Si era tolta le scarpe e aveva mangiato guardando una puntata del suo telefilm preferito in streaming, aveva fatto un giro su internet per cercare il regalo di Natale per Naruto, il tutto riscaldata e coccolata dal caldo maglione e dai termosifoni perfettamente funzionanti.
Fuori c’era un vento gelido e forse avrebbe iniziato a nevicare presto, al massimo entro l’indomani, ed Hinata sorrise a quel pensiero. Le piaceva la neve e, soprattutto, le piaceva la neve durante il periodo natalizio, il modo in cui le luci degli addobbi per strada rilucevano nel biancore. Adorava le ghirlande sulle porte dei negozi e delle abitazioni, i colori degli abeti decorati, l’atmosfera di gaiezza, l’odore delle spezie e della cioccolata, le case riscaldate piene di amici e parenti, i pupazzi di neve storti nei giardini e nei parchi; adorava tutto ciò.
Pur essendo cresciuta in una famiglia molto rigida e tradizionale, Natale era sempre stato speciale, era il momento in cui persino il suo austero padre si concedeva uno o due bicchierini di liquore in più, ritrovandosi con le guance rosse e a sorridere assieme a loro davanti a qualche gioco da tavola, a cui finiva immancabilmente per perdere. Non aveva mai capito se fosse per incapacità, o se invece gli piaceva vedere lei e sua sorella felici della vittoria.
Quell’anno ci sarebbe stato anche Naruto al suo fianco, quindi tutto sarebbe stato ancora più speciale.
Era persa in queste fantasticherie quando sentì la porta dello studio aprirsi, si affacciò perché dalla sua scrivania non riusciva a vedere l’ingresso e fu così che scorse entrare un Gaara intirizzito, con le guance e il naso rossi quasi quanto i suoi capelli.
“Bentornato! Come stai? Com’è andato l’esonero?” gli domandò, interessata.
Anche se avevano parlato pochissimo e lui insistesse a usare un tono formale, Hinata trovava quel ragazzo interessante e a volte le sembrava di scorgere sul suo viso tanta di quella malinconia che avrebbe voluto abbracciarlo per scacciarla, o perlomeno avere tanto coraggio da dirgli qualcosa di gentile.
In quel momento però Gaara sembrava un po’ distratto e ci mise qualche istante per risponderle, tanto che prima entrò nella stanza e attaccò a un gancio il cappotto.
“Credo bene, tra qualche giorno usciranno i risultati” replicò con voce pacata.
“Sono certa che sarai andato benissimo, ti sei così impegnato – lo rassicurò, poi vedendolo strano chiese – sei stanco? Hai mangiato qualcosa per pranzo?”
Gaara la guardò finalmente, ma con un’espressione perplessa, un po’ instupidita, quasi sembrava non avesse compreso le domande.
In realtà il ragazzo aveva sentito e capito tutto, ma quel semplice quesito così interessato lo aveva colpito tanto da congelarlo sul posto.
Era stanco? Aveva mangiato a pranzo? E la sera prima? Aveva studiato dopo essere tornato a casa dall’incontro con Kankuro? Aveva visto o parlato con Hidan o Deidara? Aveva dormito? Cosa aveva scritto quella mattina all’esonero?
Non ricordava niente, nemmeno di essere stato all’università, ma doveva averlo fatto per forza, vero?
Prese un respiro profondo che sembrò più un singulto e vide Hinata preoccuparsi, ma non aveva parole con cui rassicurarla perché era lui stesso preoccupato, quasi spaventato. Si rese conto di aver vissuto quelle ultime ventiquattro ore in trance e di essere ritornato in se stesso, schiantato di nuovo faccia a faccia con la realtà solo in quel momento.
“Scusa, sono… credo di essere ancora agitato e di non aver smaltito lo stress” rispose, dicendo l’unica cosa sensata che gli fosse venuta in mente.
La ragazza si rilassò e gli sorrise:
“Ti capisco, a me veniva almeno un attacco di panico prima di ogni esame e anche dopo non riuscivo a rilassarmi per giorni, per fortuna sono cambiata o non mi sarei mai laureata… o forse sarei morta di gastrite – scherzò – stavo per andarmi a fare un the, ti va?”
Gaara era sorpreso da quella gentilezza, proprio in quel momento in cui si sentiva tanto fragile e scoperto, come una ferita impossibile da far chiudere o su cui applicare una sutura; si sentiva incapace di guarire dalla
malattia che lo affliggeva.
“Non voglio disturbarti, insomma… – si morse un labbro – mi scusi, senza accorgermi le ho dato del tu.”
Hinata scosse la testa, sorridendo:
“Mio padre deve aver proprio fatto terrorismo psicologico – scherzò – lo so, in fondo ci vivo ancora assieme, ma non preoccuparti. Non se la prenderà se quando siamo soli mi chiami per nome o mi dai del tu, noi in fondo lo facciamo con te. Ora siediti e rilassati un attimo, torno col the zuccherato, ti farà bene.”
Gaara cercò di mettere su un sorriso per lei, un qualcosa che sembrasse almeno grato e, dopo che fu uscita, fece come gli aveva suggerito: sprofondò nella propria poltrona, chiudendo gli occhi, cercando di non pensare a nulla.
Non fu semplice perché i ricordi del pomeriggio precedente gli tornavano in mente con prepotenza, urlando per essere guardati, ascoltati, analizzati in ogni minimo dettaglio, come se viverli non fosse stato sufficiente.
Non riusciva nemmeno a trovare un aggettivo per descrivere e capire meglio lo stato d’animo in cui si trovava. Si sentiva svuotato, come se nel suo corpo ci fosse stato un rubinetto e Kankuro lo avesse aperto, facendo defluire da lui qualunque sentimento. Era abulico, completamente inerte e senza alcun desiderio di fare qualcosa e cambiare quello stato, non ne vedeva nemmeno un motivo in fondo.
Se quella mattina si era alzato, era andato a fare l’esonero e poi si era recato in ufficio, era stato solo perché l’attitudine alla sopravvivenza era radicata così profondamente da essere riuscita a mettersi alla guida e pilotare quel corpo privo di anima. Al momento c’era lei al posto del conducente e a Gaara andava bene così, finché non capiva cosa fare della propria vita era meglio lasciarla fare.
Fu sempre grazie a lei se riuscì a sorridere a Hinata con più convinzione quando gli porse il the caldo e mettersi poi al lavoro. Sulla sua scrivania c’erano fascicoli e note che gli avvocati avevano scaricato durante la sua mattinata d’assenza e doveva riuscire a smaltirli, incastrandoli con gli impegni appuntati sulla sua agenda. Come se ciò non fosse sufficiente, quel pomeriggio sarebbe venuto persino l’architetto per prendere delle misure necessarie per i lavori di ampliamento. Gaara non aveva nemmeno la forza vitale per arrabbiarsi e imprecare, così si limitò a mettersi all’opera.
Si interruppe solo quando rientrò Itachi per rispondere alle sue domande sull’esonero, inventando qualcosa perché aveva proprio un buco nero sulle ultime ventiquattro ore. Gli sembrò che l’Uchiha lo fissasse perplesso, ma si trattò di un attimo prima che entrambi tornassero ai propri lavori.
Fu solo verso metà pomeriggio che Gaara venne distratto nuovamente, questa volta dal citofono che annunciava l’arrivo dell’architetto.
Mentre questi saliva le scale, lui finì di scrivere una mail per poi spedirla e aprì un cassetto della scrivania per cercare le chiavi dell’appartamento. Sentì la porta aprirsi, dei passi avvicinarsi e, ancora chinato, disse:
“Salve, sono subito da lei. Solo un attimo.”
Quelle maledette chiavi parevano sparite, eppure era solo un cassetto, mica il portale per Narnia!
Finalmente, dopo alcuni secondi lunghi anni, trovò il mazzo sepolto tra cumuli di cartacce e buste da lettera ancora nuove, si alzò in piedi ma si bloccò, guardando il nuovo arrivato nella cornice della soglia.
Non poté impedire ai propri occhi di spalancarsi con violenza, perché era troppo. Onestamente era troppo persino per lui. Non era possibile che nel giro di un giorno e mezzo gli fosse crollato il mondo addosso a causa di Kankuro, l’unico che avesse mai amato, e ritrovarsi adesso davanti Sasuke, l’unico con cui era riuscito ad aprirsi un minimo dopo il fratello.
Doveva essere un fottuto scherzo, doveva essere su una candid camera! Non c’erano altre spiegazioni, quella colossale presa per il culo non poteva essere la sua vita.
“Ciao, Gaara.”
La sua voce era chiara, sicura, non mostrava nessun turbamento al pari del suo viso; il suo bellissimo viso da schiaffi, corresse la mente di Gaara.
“Ciao” replicò, senza riuscire ad aggiungere altro, nemmeno pronunciare il suo nome pareva possibile.
“Quindi papà ha mandato te alla fine” disse invece Itachi, giungendo inconsapevolmente in suo soccorso. O forse no, forse aveva notato alla perfezione il turbamento di Gaara, il modo in cui si era irrigidito; d’altronde con quegli occhi scuri sembrava sapere sempre tutto.
“Già, quindi è questo il tuo ufficio” ribatté Sasuke, scambiando anche un cenno di saluto con Hinata.
“Sì, almeno finché non ti dai una mossa col progetto di ampliamento… architetto” il sorriso di Itachi era ironico e le sue parole squisitamente pungenti tanto che Sasuke roteò gli occhi al soffitto, sbuffando appena.
Gaara lo osservò fare quei gesti sconosciuti, il modo in cui i due interagivano e gli fu chiaro una volta di più che quei due erano fratelli… fratelli normali, che condividevano un rapporto altrettanto normale, fatto d’affetto, complicità. Non era stato il sesso o l’illusione di un amore a tenerli uniti.
Strinse più forte le chiavi nella mano e domandò:
“Quindi da adesso sarai tu ad occuparti dei lavori?”
Sasuke riportò l’attenzione su di lui, scrutandolo:
“Già, l’altro architetto deve seguire troppi progetti. D’ora in poi sarò io il responsabile.” Si slacciò il cappotto, inutile in quella stanza riscaldata e lo osservò ancora.
“Bene, andiamo allora” replicò Gaara, che aveva riacquistato l’usuale compostezza.
Sasuke lo osservò allontanarsi dalla scrivania e dirigersi verso l’uscita, e lo seguì perplesso:
“Credevo che fosse il segretario dello studio ad occuparsi di queste faccende, o almeno così mi ha detto mio padre.”
“Non ti hanno riferito niente di sbagliato – disse Gaara, fermo sul pianerottolo, mentre infilava le chiavi nel portone – sono io il segretario.” Detto questo entrò nell’appartamento vuoto e decisamente più freddo rispetto all’altro.
“Tu? – esclamò Sasuke sorpreso – Naruto mi aveva detto che eri un avvocato, che…”
Si morse le labbra, rendendosi conto di essersi lasciato sfuggire troppo, come se ne era accorto anche Gaara, ovviamente, e ciò contribuì solo a farlo sentire peggio.
Perché Sasuke sapeva ormai da un po’ che lui lavorava in quello studio, eppure nemmeno quell’informazione lo aveva spinto a cercarlo, era venuto lì unicamente per lavoro.
“Naruto capisce quello che vuole” rispose, pensando che solo lui avrebbe potuto credere che loro due fossero amici. Di sicuro, avendoli visti assieme, Itachi aveva notato la tensione tra loro e il suo cervello arguto avrebbe tratto le sue conclusioni; probabilmente non si sarebbe spinto a immaginare che erano stati a letto insieme, ma che tutto non era idilliaco come avevano fatto credere sì.
“Fa’ quello che devi, ti serve una mano?” aggiunse Gaara, professionale e distaccato, erano lì per lavoro in fondo. Se tutta la sua vita stava andando a rotoli, voleva che almeno sul piano lavorativo tutto andasse liscio e senza intoppi.
Sasuke posò a terra lo zaino che aveva avuto in spalla fino a quel momento, dopo di che agganciò il cappotto alla maniglia di una porta, con gesti tranquilli, senza alcuna fretta. Aveva bisogno di quegli istanti per riflettere.
In quel periodo di lontananza aveva avuto voglia di rivedere Gaara, chiamarlo persino, ma l’unico tentativo fatto si era rivelato un disastro e la discussione con Deidara non gli aveva reso le cose più semplici. Era in lotta con se stesso, tra i propri desideri e il comune buonsenso con cui condiva i progetti per il futuro, ovviamente approvati da Fugaku.
Quando Naruto gli aveva raccontato che Gaara lavorava dagli Hyuga, Sasuke si era dovuto frenare per non correre subito là con qualche scusa, perché finalmente aveva il pretesto perfetto per rivederlo, nessuno avrebbe mai potuto biasimarlo per quell’incontro. In fondo non poteva certo sottrarsi al lavoro, no? Se poi nel mezzo rientrava anche la possibilità di rivedere il ragazzo a cui aveva pensato negli ultimi tempi, anche di nascosto da se stesso… beh, non vedeva proprio come avrebbe potuto evitarlo.
Il pensiero che Gaara fosse un avvocato lo aveva ulteriormente sollevato. Perché per lavorare dagli Hyuga alla sua giovane età doveva per forza essere un genio come Itachi, o avere qualche raccomandazione; entrambi gli scenari presupponevano una certa stabilità economica e quindi Sasuke aveva smesso di sentirsi in colpa per i costosi biglietti del concerto a cui era andato senza di lui, senza nemmeno sapere che fossero un suo regalo.
Invece ora scopriva che era il segretario, non un avvocato, e lo vedeva stanco, con le occhiaie scavate e in generale molto più sciupato di quanto ricordasse. Il senso di colpa riprese a pungolarlo e lui non sapeva più bene come comportarsi, la sua sicurezza si era incrinata come un vaso caduto in terra. Si era immaginato il loro incontro, aveva pianificato i loro dialoghi, aveva deciso cosa dire per portare la conversazione dove voleva, ma adesso era spiazzato e l’atteggiamento distaccato e professionale dell’altro non lo aiutavano. Sasuke non era proprio in grado di improvvisare, poco avvezzo com’era ai rapporti sociali in generale, infatti ogni sua mossa era accuratamente pensata e valutata, non faceva o diceva mai niente senza un motivo, al contrario di Naruto che pareva avere come scopo nella vita spendere più energie possibili in futilità. Perché, come poteva tornare utile a lui, un Uchiha, chiacchierare con uno sconosciuto alla fermata dell’autobus, o aiutare la classica vecchina ad attraversare la strada?
“Sì, ho le planimetrie, ma devo comunque prendere delle misure per essere certo che siano accurate, è un lavoro per due” rispose aprendo lo zaino.
Bugia. Avrebbe potuto farlo da solo, anche se ci avrebbe impiegato più tempo, ma era l’unica cosa che gli era venuta in mente per non farlo andare via subito.
Gaara gli si avvicinò, rimboccandosi le maniche del maglione e, sotto le sue istruzioni, iniziarono a lavorare in silenzio.
L’atmosfera era tesa, Sasuke doveva ricontrollare gli appunti almeno due volte per essere certo di non aver scritto male, a Gaara ogni tanto scappavano di mano gli oggetti o sbatteva, come se fosse distratto e non si accorgesse di ciò che lo circondava.
“Non ti ho ancora ringraziato per quei biglietti” disse ad un certo punto Sasuke, spezzando il silenzio ma senza guardarlo, troppo attento ad annotare qualcosa su un quaderno.
Il segretario lo fissò, inarcando lievemente un sopracciglio:
“Eppure io non ho cambiato numero di telefono.”

Touché.
Sasuke strinse con più forza la penna, come la prima sera in cui si erano incontrati Gaara riusciva sempre a zittirlo con risposte argute e lui si sentiva di nuovo un ragazzino alle prime armi, invece del giovane uomo che portava con orgoglio il cognome Uchiha, guardando il mondo dall’alto della sua torre dorata.
Alzò gli occhi e si ritrovarono a fissarsi, entrambi intenzionati a non cedere per primo, cercando nel frattempo di scrutare e capire qualcosa dell’altro.
“Insomma lavori con mio fratello” disse Sasuke, cercando di trovare qualche altro appiglio di conversazione.
“Già, e con la fidanzata del tuo migliore amico… devo dire che non ci sono proprio limiti alla sfortuna, eh?”
Gaara era stato lapidario; non aveva proprio intenzione di rendergli le cose semplici o di mandare avanti quella conversazione, eppure lui sentiva di dover dire qualcosa.
“Quel giorno…” iniziò a dire Sasuke, ma Gaara non gli diede modo di continuare.
Alzò una mano davanti a sé, come se quel palmo dalla pelle secca potesse davvero bloccare o mettere un freno a ciò che l’altro si era deciso a dire.
“Lascia stare, sei già stato sufficientemente chiaro.”
Non aveva voglia di ascoltarlo di nuovo, di sentirsi dire anche da lui quanto si fosse sbagliato, quanto ciò che avevano condiviso fosse stato solo del sesso e niente di più; non ne aveva la forza. Già per rimanere lì con lui aveva dato fondo alle sue riserve di calma e nervi saldi, ma se Sasuke avesse iniziato a parlare non era certo che la debole diga che tratteneva i suoi sentimenti avrebbe retto a un’ulteriore pioggia.
“No, aspetta, non mi fraintendere…” mormorò Sasuke, lasciando cadere a terra quaderno e penna per raggiungerlo. Gli posò istintivamente una mano su una spalla, ma non andò avanti perché provò una scossa nel sentirlo di nuovo vicino, nel condividere la stessa aria, magari stava persino respirando quella che lui lasciava fuoriuscire dalla sua bocca.
“Non l’ho già fatto?” ribatté Gaara con le labbra piegate in un sorriso amaro.
Aveva frainteso alla grande, aveva creduto che ci potesse essere qualcosa tra loro. Aveva frainteso anche con Kankuro; a quanto pareva il fraintendimento dominava la sua vita e guidava le sue azioni.
Non scostò quella mano che lo stringeva, perché nonostante tutto gli piaceva sentirla su di sé, il calore che si irraggiava al di sotto degli strati di vestiti, e i ricordi che sottintendeva. Ma quei ricordi facevano anche male, per quello alzò le braccia per spingere contro il suo petto e allontanarlo, ma Sasuke non glielo permise: avanzò di un altro passo e, continuando a stringerlo, lo baciò.
Posò le labbra sulle sue e non si lasciò scoraggiare dalla loro immobilità; con gli occhi chiusi, il sangue che rimbombava nelle orecchie e il naso pieno del profumo della sua pelle, Sasuke continuò a baciarlo. Vezzeggiò delicatamente le sue labbra, le leccò, le succhiò sentendole diventare più tiepide, in grado di modellarsi contro le proprie come cera riscaldata a cui dare la forma desiderata.
A poco a poco Gaara iniziò a rispondere a quel bacio e le mani che avevano voluto respingere, si aggrapparono al maglione con forza, con disperazione.
Era così bello, così confortante sentirsi stringere a quel modo, e Sasuke era caldo in mezzo a tutto quel freddo che lo circondava che semplicemente Gaara lo ricambiò senza alcuna remora, quasi… felice.
Tuttavia, quando avvertì l’altro baciargli e leccargli il collo mentre le sue mani si intrufolavano sotto la maglia per toccargli il petto, un sottile senso di disagio iniziò a strisciargli dentro. Sasuke era l’unico oltre a Kankuro a cui avesse mai permesso di carezzarlo e in quel momento le immagini dei due ragazzi si fusero, fino a diventare una. Gaara vedeva il fratello diciassettenne intrufolarsi nel suo letto, sussurrargli rassicurazioni all’orecchio prima di infilare le mani nel suo pigiama e, allo stesso tempo, vedeva i capelli neri dell’Uchiha, le sue orecchie chiare arrossate e avvertiva la sua erezione contro la coscia. Era immobile, bloccato contro il muro, si sentiva in trappola ed iniziò a respirare in modo più concitato, spaventato perché i suoi muscoli non volevano saperne di rispondere ai comandi.
Fu solo quando vide Sasuke slacciargli i pantaloni e abbassarli per poi iniziare a fare lo stesso su di sé, che qualcosa si ruppe finalmente dentro di lui.
Era la pioggia di parole, di azioni incoscienti, di sentimenti mai spiegati che cadeva senza tregua e aveva ingrossato il fiume, sfondando infine la diga malandata e questa si ruppe, lasciando scorrere il fiume di fango e detriti, che andarono a ricoprire ogni cosa con la loro furia. La furia con cui Gaara spintonò Sasuke e lo allontanò da sé, per poi urlargli:
“Ma sei impazzito? Che cazzo ti passa per la testa?”
Voleva fare sesso in quell’appartamento vuoto e gelido, con Itachi e tutti gli altri a solo un muro di distanza, voleva… voleva semplicemente sesso da lui. Esattamente come Kankuro.
A nessuno importava dei suoi sentimenti, era un oggetto, qualcuno da usare e da cui ritornare perché era semplice, lui non avrebbe detto di no, affamato di attenzioni e di amore com’era. Un oggetto senza sentimenti che nessuno avrebbe mai amato.
Ma quella volta Gaara aveva detto quel no, perché non voleva essere così, non voleva lasciarsi trascinare in quell’ennesimo errore, perché era stanco di gente egoista che prendeva pezzi di sé, come avvoltoi ingordi.
Sasuke per poco non cadde a terra, in bilico com’era. Guardò Gaara, i suoi occhi lucidi, le spalle che tremavano, i pantaloni a metà coscia, i propri con bottone e zip aperti, e si rese conto di cosa stava per fare. Forse per la prima volta in vita sua aveva agito unicamente in base all’istinto, e rendersene conto lo stava facendo vergognare di se stesso. Però quando lo aveva toccato e poi baciato non aveva capito più nulla, semplicemente si era sentito bene, aveva ritrovato quelle sensazioni che aveva creduto perse e si era mosso per non perderle di nuovo. Così, semplicemente.
Si arrabbiò, perché lui stava per dirgli che gli dispiaceva, per una volta aveva dato ascolto solo ai propri desideri, si era fatto avanti, si era esposto, lo aveva baciato e Gaara invece lo aveva respinto. Lo aveva allontanato con violenza, al pari di un appestato, e adesso lo guardava dall’alto in basso, come se fosse lui a doversi sentire offeso, mentre con quell’aria oltraggiata si rimetteva a posto i vestiti.
“Non mi sembrava che quella volta nel cesso del bar avessi fatto tutte queste storie. Cosa c’è, hai trovato un altro da sbatterti?” gli disse, cattivo, perché voleva ferirlo sul serio, inconsapevole di averlo già fatto.
Gaara trattenne per un attimo il respiro, schiaffeggiato da quelle parole, che lo facevano sentire ancora più un oggetto, come se ogni cosa ruotasse attorno al sesso, come se per davvero per lui non esistesse altro che quello.
“Sta’ zitto, non sai un cazzo di me!”
Sasuke sorrise riabbottonandosi i pantaloni, l’erezione scomparsa:
“So che non sono stato io a rimorchiarti quella sera, bensì il contrario. Hai esperienza a riguardo.”
Non seppe bene in che modo, successe tutto troppo in fretta, ma Sasuke si ritrovò steso sul pavimento freddo e polveroso con Gaara a cavalcioni sopra che lo prendeva per il bavero della maglia e la stringeva, come se avesse mai potuto strozzarlo attraverso il tessuto.
Gli occhi erano gelidi e furiosi, due pozze di ghiaccio in cui si sentì affogare e, nel gelo che lo invase, Sasuke comprese di essersi comportato di nuovo da coglione, esattamente come il giorno della laurea.
Come era arrivato a quel punto? Era stato felice di avere un’occasione per rivederlo senza esporsi troppo, aveva fatto dei piani: doveva solo ristabilire un dialogo con lui, dargli un appuntamento per bere qualcosa e riprendere le cose dove le avevano interrotte. Invece aveva lasciato che il suo orgoglio ferito avesse la meglio, lo aveva insultato per fargli male, gli aveva praticamente dato della puttana, ma mai nessuno lo aveva respinto, per di più in modo tanto deciso. Mentre guardava i suoi occhi furiosi si disse, in uno sprazzo di lucidità e onestà, che era un coglione, aveva fatto una cazzata… e non era nemmeno la prima.
“Ti avevo detto di stare zitto, stronzo. Non sai quanto… quanto vorrei tornare alla notte in cui ci siamo incontrati, vorrei aver preso un altro percorso, non averti rivolto la parola, colpito da quanto sembrassi perso – le mani di Gaara tremavano, ed era evidente lo sforzo per tenerle ferme e non picchiarlo – avrei dovuto riconoscerti per quello che eri: un frocio represso. Un fottuto represso, incapace di accettare che gli piace il cazzo, spaventato persino dalla propria ombra per timore che qualcuno lo scopra… come se essere gay possa rendere meno degni di vivere. Perché hai dovuto umiliare anche me? Io non sono come te, tu continua pure a raccontarti le tue favolette Sasuke, ma fallo lontano da me” concluse, senza più astio nella voce ma con una nota così amara da sentirne il sapore in bocca.
Si rialzò e, vedendo che l’altro rimaneva ancora a terra, esclamò:
“Alzati, vattene! Muovi il culo!”
Sasuke si rimise in piedi, sconvolto, preso alla sprovvista e ferito da quelle parole che lo schiaffeggiavano con le loro verità. Aveva umiliato se stesso e anche l’altro, era vero, e non capiva come fosse arrivato a quel punto. Non capiva più nulla in realtà.
“Gaara, io…” mormorò, confuso.
Il ragazzo allora infilò nello zaino gli oggetti sparsi visto che lui non sembrava volersi muovere, glielo mise in mano assieme al cappotto per poi sospingerlo verso la porta.
“Gaara aspetta, io…” Sasuke non ebbe tempo di aggiungere alcunché, perché la porta gli venne richiusa in faccia e lui rimase da solo sul pianerottolo, ancora incredulo. In realtà forse non avrebbe detto nulla, perché in fondo non sapeva proprio quali parole avrebbero mai potuto fare la differenza a quel punto.
C’era un’unica consapevolezza: anche lui avrebbe voluto tornare alla notte in cui si erano incontrati, ma per tornare a casa con lui infinite volte.

 

***

 

Itachi guardò il piattino davanti a sé, giocherellò un po’ con la panna cotta, divertendosi come ogni volta a stuzzicarla col cucchiaino e vederla tutta tremolante.
“Sembrano le tettone di una modella di playboy mentre corre su una spiaggia.”
Itachi sbuffò, il momento di contemplazione era finito e lui prese una cucchiaiata di dolce, portandoselo alla bocca mentre fulminava il cugino con un’occhiata assassina.
“Sei sempre il solito coglione, Shisui.”
Il ragazzo in questione rise, per poi prendere un sorso di birra dal boccale ormai quasi vuoto.
“Mica è colpa mia, erano dieci minuti che ci giocavi, anche se devo ammettere che era ipnotizzante… esattamente come un paio di tette che sobbalzano, o vorresti negarlo?”
Sorrise malizioso, mentre per l’appunto guardava un paio di tipe niente male che passavano davanti al loro tavolo, quel locale era davvero interessante. Tuttavia riportò la sua attenzione sul cugino, che gli pareva ancora più serio del solito quella sera.
Ovviamente questi non lo aveva degnato di una risposta, limitandosi a far sparire con cura metodica la panna cotta fino a lasciare il piatto quasi immacolato, era difficile credere che ci fosse stato un tripudio di salse là
sopra, come anche che quel bastardo fosse così in forma con tutti i dolci che spazzolava.
“Ora che hai assunto la tua dose giornaliera di carboidrati e grassi ti è passato il malumore? E pensare che siamo venuti qui solo perché come fanno i dolci qui non li trovi da nessun’altra parte. È una vita che ti propongo di andare in quel gay bar vicino alla libreria, c’è un barman biondo che sa il fottuto fatto suo in quanto a cocktail! È un po’ sciroccato, ma me lo farei lo stesso e poi con lo shaker è un dio!”
Itachi sospirò appena dopo aver ascoltato lo sfogo del cugino, si poggiò meglio contro lo schienale della sedia e guardò l’uomo che gli sedeva di fronte.
“Diciamo che si inizia a ragionare e comunque sì, un bel seno ha sempre il suo fascino – rispose in modo decisamente più educato dell’altro – la prossima volta andiamo dove vorrai tu e vedrò questo mago dei cocktail, va bene?”
“Perfetto – gli sorrise Shisui – E invece dimmi, tu sei così nero perché l’altro giorno Konan è venuta a portare via le ultime cose da casa tua?”
La ragazza in questione era l’ex di Itachi, con cui questi si era addirittura trovato a convivere per un breve periodo prima che entrambi decidessero di chiudere una relazione priva di senso, perché si erano accorti di essere due estranei sotto lo stesso tetto.
Itachi aveva mostrato di prenderla filosoficamente, senza scomporsi come al solito, ma Shisui sapeva bene che era solo una facciata. Per Itachi era stata una bella batosta, specialmente dopo averla presentata al fratello e averle aperto le porte di casa propria, l’unico posto dove si concedesse di essere unicamente se stesso, senza nessuna maschera patinata o sorriso di circostanza.
Shisui sapeva anche quello perché era uno dei pochi, forse addirittura l’unico, a cui Itachi concedesse di vederlo senza filtri.
“No figurati, non ci siamo nemmeno incontrati. Io ero a lavoro, lei quando ha finito mi ha lasciato le sue chiavi nella cassetta della posta” rispose incrociando le braccia davanti al petto.
Shisui non insistette, sapeva anche della passione del cugino per i propri segreti, di quanto fosse geloso di ogni cosa che lo riguardasse. Quindi non c’era niente di vantaggioso nello smascherare quella piccola bugia, tanto entrambi sapevano che lo era.
“Capisco, certo, liscio come l’olio” commentò, accendendosi una sigaretta e lasciando che il fumo della prima boccata aleggiasse davanti al suo viso. Attraverso quella cortina lo scrutò, Itachi non era l’unico ad avere una vista acuta e un amore per i dettagli “Allora cos’è che ti preoccupa?”
Itachi provò un vaghissimo senso di inquietudine e riuscì ad immaginare come dovessero sentirsi le persone che quotidianamente venivano studiate da lui, scioccamente pensò che anche Shisui sarebbe stata un’ottima spia. In un universo parallelo forse lo erano davvero, e grazie al loro lavoro nell’ombra avrebbero impedito una guerra, o una cosa eroica a caso.
Bevve un sorso della sua birra fredda, ed era un bel contrasto con la bocca ancora dolce.
“Sasuke. Sono preoccupato per Sasuke” ammise.
L’aria sorniona e divertita sul viso di Shisui scomparve e anche lui divenne serio, perché Itachi non si preoccupava per delle sciocchezze e quel problema riguardava il fratello, quella persona per cui Itachi avrebbe fatto qualsiasi cosa.
“Cos’è successo? Ancora tuo padre?” domandò, ma era quasi certo che il motivo fosse un altro, ormai c’era una certa stabilità in quella famiglia.“No, con lui tutto a posto – disse Itachi, sperimentando l’aliena sensazione del disagio – forse è solo una mia impressione, ma mi sembra a pezzi. Ogni tanto ha la testa tra le nuvole ed è sempre assorto, a pensare a chissà cosa, non è da lui. L’altra sera è venuto a casa mia, l’ho stracciato alla playstation eppure non ha nemmeno chiesto una rivincita, era spento.”
Guardò il cugino, sapendo che l’altro non lo avrebbe preso in giro, né avrebbe sminuito i suoi dubbi, se ci fosse stato qualcosa da fare lo avrebbe avuto a fianco, altrimenti avrebbe semplicemente continuato a prestargli il suo orecchio. Era veramente fortunato a poter contare su di lui, ma non glielo aveva mai detto o si sarebbe montato la testa; non serviva in realtà, Shisui leggeva anche i suoi silenzi.
Questi intanto finì la sigaretta e poi schiacciò il mozzicone, ordinando un’altra birra a una cameriera di passaggio.
“Possibile che abbia qualche problema… di cuore, diciamo? Magari gli piace una persona e questa gli ha rifilato il due di picche – ipotizzò – In fondo a lavoro non ha problemi, a casa nemmeno, con gli amici probabilmente no, altrimenti Naruto ti avrebbe già dato il tormento per costringerti a fare da paciere. Una relazione sentimentale è l’unica cosa che mi venga in mente.”
Itachi lo fissò a bocca aperta, facendo desiderare a Shisui di immortalare quel momento con una fotografia, ma se avesse tirato fuori il cellulare l’altro glielo avrebbe fatto mangiare di sicuro, quindi per quella volta decise di sorvolare e di non uscirsene nemmeno con una delle sue solite battute di spirito.
“Sasuke? Ma… no, che vai a pensare? – mormorò Itachi, ripresosi dopo l’arrivo della cameriera – non mi ha mai parlato di nessuna ragazza, né ne ha mai portate a casa.”
Shisui si concesse un sorso di birra fresca e un sorriso divertito, che sapeva avrebbe irritato il cugino che infatti lo fulminò con lo sguardo. Lui lo ignorò e anzi si sporse nella sua direzione, poggiando i gomiti sul tavolino. I loro visi erano vicini e Shisui allungò un braccio per sfiorare con delicatezza una sua mano.
“Direi che già questo è significativo, no? Ha ventidue anni, il variegato mondo del sesso gli interessa eccome, come a qualsiasi altro ragazzo.”
Itachi rifletté su quell’affermazione, dandosi mentalmente del cretino per essersi fatto cogliere impreparato dall’altro, odiava davvero quel sorrisetto supponente e divertito. Scosse appena la testa e la coda sbatté tra le scapole, ma non scostò la mano su cui i polpastrelli di Shisui danzavano leggeri.
“Pensi che sia gay?” domandò.
“Non è un ipotesi da escludere, vista la nostra famiglia. Magari sta venendo a patti con quest’idea solo ora che ha incontrato qualcuno di interessante, ma la mia non è altro che un’ipotesi.”
“Già, sarà un gene o qualcosa del genere…” mormorò Itachi pensoso. Il suo cervello stava lavorando in velocità per far coincidere i tasselli, per vedere se quella potesse essere davvero la soluzione al suo enigma. Su una cosa Shisui aveva ragione: Sasuke non poteva essere immune ai richiami del sesso alla sua età.
La colpa era di Itachi che faticava a vederlo nelle vesti di giovane uomo o adulto, il suo affetto gli riproponeva sempre l’immagine di quel fratellino, la cui più grande aspirazione era stargli alle calcagna, in attesa di un suo gesto di considerazione.
Intanto Shisui parlava, divertito:
“In effetti potresti avere ragione, guarda noi due, ci piacciono sia uomini che donne. So per certo che anche nostro cugino Ryuji è omosessuale, di sicuro Anne è lesbica e Mike è andato a San Francisco a trovare la madre proprio la settimana del gay pride, curioso non trovi?” ridacchiò.
“Anne… cosa?” esclamò Itachi ripensando alla cugina impeccabile che a ogni riunione famigliare portava un uomo diverso. Scosse la testa “Sei un pettegolo, non voglio nemmeno sapere come fai a sapere tutte queste cose.”
“Semplice, non sei l’unico con cui esco e chiacchiero, sai? Secondo te come avrei scoperto tutti i locali della città e sapere quali sono i migliori? – sorrise sornione – Comunque dai, ritorniamo a Sasuke” disse ma fece una smorfia perché Itachi gli rifilò un pizzico sulla mano che teneva vicino alla sua. Sapeva perfettamente che Shisui era solare, espansivo e aveva molti amici, al contrario suo. Non che gli importasse, ma gli dava fastidio sentirselo ricordare, ma adesso non doveva perdersi dietro quei pensieri oziosi, doveva pensare a Sasuke.
Quando lui si era ritrovato a fare i conti con la propria sessualità confusa – perché si era reso conto che sì, le tette lo interessavano parecchio, ma anche un torace piatto non lo lasciava affatto indifferente – non era stato solo. C’era sempre stato Shisui al suo fianco, non che fosse stato facile confidarsi col carattere che si ritrovava, ma in qualche modo ci era riuscito ed aveva scoperto di non essere l’unico ad avere quei dubbi. Anche il cugino, ben prima di lui, aveva capito di essere bisessuale, ma era più grande di tre anni e aveva superato già da un pezzo la fase delle incertezze e delle paure. Era sicuro di sé e di ciò che gli piaceva, ed era stato sempre un punto fermo nella vita di Itachi, a cui si era avvicinato ulteriormente. Sì, loro due erano veramente vicini, molto vicini.
Inoltre, a differenza di Sasuke, Itachi aveva un carattere più calmo e posato, estremamente razionale a differenza del fratello minore che mostrava solo all’apparenza un’imperturbabilità stoica, necessaria per celare un temperamento invece molto emotivo.
Shisui lo osservò mentre si estraniava a riflettere, ma non lo disturbò né lo interruppe, limitandosi a bere la sua birra e osservare la curva della sua guancia, lo scalino candido della mandibola che diventava collo, i muscoli e i tendini coperti dalla sua pelle chiara, ora leggermente arrossata dal caldo del locale e dall’alcool. Non gli dispiaceva affatto stare in silenzio a guardarlo.
“In effetti c’è una cosa che mi ha dato da pensare – disse poi Itachi, interrompendo quel momento di assorto silenzio – allo studio c’è un segretario, giovane e direi anche piuttosto interessante. Mi ha colpito fin da subito, sono incuriosito da lui, e poco tempo fa ho scoperto grazie a Naruto che è un amico di Sasuke.”
Gli raccontò della prima volta in cui lo aveva visto il giorno della laurea, della sua espressione turbata, di come avesse scoperto il suo legame col fratello e infine il loro incontro avvenuto qualche giorno prima. Shisui lo ascoltò senza interromperlo, solo ogni tanto sul suo viso si susseguivano espressioni dubbiose o sorprese e, quando l’altro finì, non parlò subito ma contemplò il fondo del proprio bicchiere, aveva quasi finito anche quello.
“Già il fatto che quell’asociale di Sasuke possa avere un amico al di fuori di quelli storici che conosce da anni è strano, se poi ci aggiungiamo la tensione palese nel momento in cui si sono rivisti, lo sbigottimento di questo Gaara nel ritrovarselo davanti all’improvviso o quella che pareva una fuga il giorno della laurea, direi che c’è più di qualcosa che non torna – riassunse alla fine Shisui guardandolo – cosa vuoi fare? Purtroppo avere a che fare con tuo fratello non è semplice: se gli chiedi chiaro e tondo se è gay o se c’è qualcosa che non va con quel ragazzo, di sicuro si offenderà e se sei fortunato ti eviterà solo per un paio di mesi. Se prendi la questione più alla larga troverà il modo per aggirarla e non rispondere e non puoi nemmeno andare da lui e dire ‘Sai, Sasuke, io sono bisessuale e per la cronaca anche Shisui. Se hai qualche dubbio su di te possiamo essere i tuoi guru’. No, con lui non funzionerebbe.”
Itachi sospirò, massaggiandosi un attimo gli occhi stanchi. In poche parole il cugino aveva riassunto alla perfezione la situazione e tutti i suoi dubbi a riguardo.
“Esattamente, per questo sono preoccupato. Non mi ero mai trovato in una situazione in cui non sapere cosa fare – ammise di malavoglia – e soprattutto con Sasuke, finora è sempre stato un libro aperto per me.”
Shisui gli sorrise, indulgente, e gli strinse nuovamente una mano. Poteva capire la sua frustrazione e confusione, Itachi sapeva sempre cosa fare, quella era una situazione totalmente nuova per lui, ma non doveva essere necessariamente una cosa negativa.
“Facciamo così: perché non mi presenti Gaara? Magari se lo vedo posso indagare discretamente su di lui in giro, se capiamo se è gay avremo già fatto un passo in avanti. Almeno saremo preparati per quando Sasuke scoppierà” gli propose. Perché alla fine, in un modo o nell’altro, Sasuke che si teneva tutto dentro, arrivava al punto di massima tensione e poi scoppiava, velenoso e incattivito come una pentola impazzita piena di vapore ustionante.
Itachi lo guardò perplesso, non aveva certo problemi ad agire nell’ombra, però pensò a Gaara, a tutti i problemi che aveva; era evidente che il ragazzo non fosse sereno e che stesse attraversando un periodo davvero tosto. Nonostante la preoccupazione per il fratello, era anche interessato a non aumentare il carico di problemi del segretario, e questi pensieri, queste premure, rivolte a qualcuno di diverso da Sasuke o Shisui lo stranivano. Non erano consone al suo carattere.
“Beh, intanto potrei fartelo conoscere. Magari con una sola occhiata riesci a stabilire che è un etero omofobo e noi rideremo per tutte queste congetture sciocche – scherzò – uno dei prossimi giorni puoi salire in ufficio prima di andare a pranzo insieme, così sembrerà un incontro casuale, breve e non compromettente per nessuno.”
“Ma sì, sì… quanti problemi che ti fai, Itachi – rise, finendo la sua birra per poi agitare il bicchiere – ne prendiamo un’altra, o…?”
Non concluse la frase che rimase ad aleggiare tra di loro, come nebbia, o come fumo, isolandoli dal resto delle persone nel locale.
“O… puoi sempre berne una a casa mia” suggerì Itachi, con tono casuale, come se davvero non gli importasse e una scelta valesse l’altra.
Gli occhi di Shisui invece brillarono, divertiti, carichi di promesse e aspettative:
“Ci sto, la tua birra è sempre la più buona.”
Si alzarono ed uscirono assieme, due ombre scure che camminavano fianco a fianco tra la neve immacolata, lasciando le loro orme su quel tappeto bianco senza preoccuparsi di cancellarle; non avevano paura di quel sentiero che li avrebbe condotti ad incontrare i propri desideri, lo avevano accettato già molto tempo fa.

 

 

 

 

 

 

L’angolino oscuro: Sasuke, Sasuke… ma che combini? Un casino dietro l’altro, ecco cosa e mi vai a complicare ulteriormente la vita di Gaara. Penso che sia chiaro che Sasuke ha perso la bussola, se mai ce l’ha avuta, e nel suo agitarsi randomico per stare a galla colpisce gli altri buttandoli a terra, è troppo confuso e non si conosce, non conosce se stesso né ciò che vuole davvero.
Abbiamo visto anche Gaara dopo il suo confronto con Kankuro e non se la sta cavando proprio alla grande, se poi si vede comparire anche Sasuke davanti e lo osserva mentre interagisce normalmente con suo fratello, beh… ne ha di cose a cui pensare.
Itachi e Shisui sono un amore, anche qui non penso di dover dire molto sulla situazione tra di loro, no? XD
Mentre scrivevo di Itachi alle prese con la panna cotta mi veniva troppo da ridere, Shisui poi me lo immagino con questa vena comica diciamo… un po’ discutibile XD però nonostante questo Itachi sarebbe perso senza di lui.
Il titolo del capitolo è anche quello della canzone dei Lord Huron, tra l’altro è sempre la stessa canzone che faceva da colonna sonora all’incubo di Gaara del primo capitolo, ed è stata un po’ il leitmotiv che mi ha accompagnato durante tutta la stesura di questa prima parte della storia.
Grazie a tutti quelli che continuano a seguire queste tormentate vicende anche se silenziosi, spero sempre di riuscire a regalarvi qualche emozione.

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Capitolo 7
*** 7 - La giusta decisione ***


La giusta decisione

 

 

Il mondo al di fuori della finestra era ostile e spettrale. Un Dio inascoltato stava riversando le sue lacrime su una terra piena di uomini sordi, che oramai da tempo avevano smesso di prestare le orecchie alle sue preghiere o di levare le proprie verso di lui. I loro cuori erano così freddi che quelle gocce di pioggia non riuscivano a posarsi a terra se non sotto forma di neve. Neve bianca, candida, gelida, che ammantava ogni cosa, rendendo più difficile camminare, guidare o andare in bicicletta. Ma, in fondo, perché affannarsi nell’uscire di casa se poi gli occhi erano sempre incollati a un cellulare, un tablet, un libro, ignorando l’essere umano che sedeva di fianco, ignorando chiunque al di fuori del proprio guscio?
Non aveva forse ragione quel Dio lontano a piangere nell’osservare i suoi amati figli ignorarsi, interessati solo a farsi la guerra e intessere relazioni superficiali per appagare i loro bisogni momentanei?
“Allora, Sasuke… raccontami qualcosa di te.”
Non c’era bisogno di stare in strada per avvertire un’atmosfera ostile e gelida. Anche in quella stanza opportunamente riscaldata, dai mobili in legno che contribuivano a dare un senso di calore e familiarità, con poltroncine imbottite e comode,  c’era altrettanto gelo e chiusura.
Sasuke voltò la testa per spostare lo sguardo dalla finestra all’uomo seduto di fronte a lui, vestito con un comodo cardigan e pantaloni di velluto. Squadrò ogni suo dettaglio, senza trovare niente di rilevante o che gli facesse intuire qualcosa sul suo carattere: i suoi abiti erano anonimi, non portava anelli né orologi, anche gli occhiali avevano una montatura sobria.
La cosa lo irritò, benché si fosse messo lui stesso in quella posizione di svantaggio, doveva essersi proprio bevuto il cervello con tanto di olivetta per aver deciso di rivolgersi a uno psicologo.
“Non so proprio cosa ci sia interessante che potrei dirle.”
L’uomo fece un lieve sorriso e accavallò una gamba. Quel paziente era singolare: aveva rifiutato di dare il suo cognome e voleva pagare solo in contanti, affermando che non gli interessava niente della fattura. Si era persino intestardito nel non volergli dare il numero di cellulare, ma alla fine lo aveva convinto dicendogli che per qualsiasi contrattempo aveva bisogno di un contatto. Inoltre era molto più difficile risalire all’identità di qualcuno da un numero di cellulare che non da una mail.
Quella rivelazione lo aveva fatto capitolare e, a denti stretti, gli aveva dettato il suo numero.
Non era certo la prima né ultima persona che si vergognava a chiedere l’aiuto di un professionista come lui, facendo poi di tutto per mantenere segreta la sua privacy, ma di sicuro era stato il più testardo.
Lo aveva accettato come paziente pur non conoscendo il suo cognome, era solo una questione di tempo in fondo, doveva prima guadagnarsi la sua fiducia.
“Se avessi voluto sentire qualcosa di interessante avrei chiamato un mio amico – gli rispose, poggiando un gomito sul bracciolo e piegando il braccio per poggiare la testa sulla mano – qualsiasi cosa che ti passa per la testa andrà bene. Per esempio puoi parlarmi dei tuoi amici, o di cosa ci fosse di tanto interessante fuori dalla finestra.”
Sasuke fece una smorfia e accavallò a sua volta le gambe in una posa fintamente rilassata, in realtà era teso come la corda di un violino, ma cercava di dissimulare.
“Non mi chiederà dei miei genitori o dei sogni che faccio?”
“Oh no, buon dio, no! – rise lo psicologo divertito – Freud e le sue teorie sui sogni e sui genitori sono abbastanza superate, quindi sta’ pur certo che non ti chiederò se sogni peni giganti che entrano in vagine o se provi un affetto insano verso tua madre. È solo una chiacchierata tra noi due, qualsiasi cosa rimarrà qui, anche se tu dovessi aver commesso un omicidio… ma tu non ne hai commesso uno, vero Sasuke?”
“No, certo che no” rispose il ragazzo, ammorbidito dal suo tono divertito nonostante le proprie resistenze.
“Bene, avrei avuto un po’ di paura a incontrarti altrimenti” sorrise ancora l’uomo.
Quel ragazzo era il più classico esempio di persona che rifiutava l’aiuto di cui aveva bisogno, e che aveva chiesto in uno sprazzo di annebbiamento dell’orgoglio. Era palese che non voleva trovarsi lì, ricorreva a battutine acide, atteggiamenti e frasi denigratorie verso la sua professione, nel tentativo di convincersi che lo psicologo era un ciarlatano e lui non ne aveva nessun bisogno, perché stava bene, non esisteva nessun problema.
Invece quel problema c’era, ed era piuttosto grosso, era solo compito dello psicologo portarlo delicatamente alla luce, come un archeologo alle prese col ritrovamento di un antichissimo e fragile reperto.
“Se avesse avuto così tanta paura avrebbe potuto rifiutare di vedermi” minimizzò Sasuke, sempre sulla difensiva.
“No, non funziona così – lo contraddisse – sei un mio paziente ora, ho un dovere nei tuoi confronti e oltre a questo anche un interesse a farti stare meglio, anche se avessi avuto paura. Sono qui per te, Sasuke, unicamente per te. Per questo di qualsiasi argomento vorrai parlarmi, qualsiasi cosa grande o piccola sarà ben accetta, perché è tua. Puoi anche stare a guardare fuori dalla finestra per l’intera ora, è una tua decisione; io sono qui.”
Il ragazzo si morse un labbro e guardò nuovamente fuori dalla finestra. Nascosta dalle gambe accavallate, tormentava una pellicina del pollice, della mano che teneva in grembo. Fuori la neve continuava a cadere e ad accumularsi, ma prima o poi sarebbe sparita, sciolta dal caldo e dal sole primaverili, che invece niente potevano fare contro i cumuli di ghiaccio che racchiudeva in sé.
Quell’uomo diceva di essere lì per lui e, benché lo fosse solo perché lo pagava per esserci, trovava la cosa… piacevole. Gli piaceva l’idea di poter essere semplicemente ascoltato e non giudicato.
“Io a volte ho paura di me stesso – sbottò istintivamente, per una volta aveva parlato senza riflettere – non mi capisco più, o forse non mi sono mai capito.”
Lo psicologo non batté ciglio, bensì gli sorrise incoraggiante:
“Bene, e c’è qualcosa in particolare che ti spaventa di te stesso? E non intendo le occhiaie di prima mattina.”
Sasuke si ritrovò a dover nascondere un sorriso. Era una battuta stupida, da quattro soldi, ma lo aveva portato a sorridere, forse perché lo aveva preso alla sprovvista. Nel suo immaginario gli psicologi erano noiosissimi, intenti a scrivere su un block-notes senza nemmeno guardarti in faccia, mentre questo tizio non gli staccava gli occhi di dosso, usava le mani per reggersi il mento o grattarsi la testa e usava una lieve ironia di fondo in tutte le sue frasi.
Ancora si chiedeva dove fosse la fregatura.
“Credo… il fatto di non capirmi, non capisco cosa voglio da me e dagli altri e riesco a ferire le persone con una facilità sorprendente ogni volta che apro la bocca.”
Non pensava solo a Gaara e al loro ultimo disastroso incontro, ma anche a tutte le volte in cui Naruto aveva nascosto dietro un sorriso la delusione o la tristezza, il modo in cui Itachi lo aveva sempre cercato nonostante i suoi rifiuti e solo perché… gli volevano bene. Senza contare poi tutti gli altri amici o semplici conoscenti che erano stati punti dalle sue parole. “Finora non me ne è mai importato molto, ma adesso sento che c’è qualcosa di diverso e non capisco perché sia accaduto così all’improvviso” aggiunse.
L’uomo sospirò:
“Parli di capire, capire e ancora capire, perché vuoi tenere tutto sotto controllo? Alcune cose non sono spiegabili con la logica, come si possono capire i sentimenti, Sasuke?”
Il ragazzo lo guardò irritato:
“Me lo dica lei, la pago apposta!”
“No, tu mi paghi per ascoltarti e il mio lavoro è ascoltarti e farti presente ciò che non va, ed è il tuo approccio ai problemi che in questo caso non funziona. L’animo umano non è un’equazione matematica da comprendere e risolvere.”
“Mi sta dicendo un sacco di parole inutili, io ho bisogno di una soluzione e basta.”
“Finora non ho sentito nessun problema, quindi quale soluzione vorresti? Desidereresti una bacchetta magica per il tuo carattere spigoloso? Vorresti che nessuno ti fraintendesse più così da non rimanere ferito dalle tue parole che dici, ma soprattutto da quelle che non dici?”
Sasuke che si era già alzato con la ferma intenzione di andarsene, mandare al diavolo lui, il suo cardigan anonimo, le poltroncine imbottite e se stesso per la malsana idea di andare lì, si bloccò, inchiodato da quell’ultima frase.
Già, lui non parlava.
Ogni cosa era chiara nella sua testa, peccato che non lo fosse anche nella testa degli altri. Ripensò a Gaara, a come si era arrabbiato e aveva frainteso, ma poteva dargli torto visto il modo in cui lo aveva trattato? Non gli aveva detto niente di tutti i pensieri che gli aveva dedicato, della voglia che aveva avuto di rivederlo, di rimettere le cose a posto. Gli era saltato addosso e si era anche risentito perché l’altro lo aveva respinto.
Sentì un fiotto d’acido salirgli dallo stomaco nel ripensare a quel pomeriggio, ma soprattutto nel trovarsi ad ammettere con se stesso di essere stato lui a sbagliare. Era dovuto scendere dal piedistallo e fare i conti con la propria fallacità, non era così immune dagli errori come gli piaceva credersi e tutto ciò… beh sì, tutto ciò era piuttosto destabilizzante.
Così tanto che uno poteva persino ritrovarsi nello studio di uno psicologo!
“Credo di essere gay, e questa è la prima volta che lo dico ad alta voce” disse guardandolo dritto in faccia, sfidandolo a mostrarsi scandalizzato o disgustato, ma l’uomo semplicemente sorrise incoraggiante e gli fece un applauso.
“Bravo, bisogna festeggiare! Cioccolatino?” propose alzandosi e prendendone una scatola.
“Eh? N-no” rifiutò Sasuke, iniziando a chiedersi se a furia di avere a che fare con gente poco sana anche gli psicologi finivano per impazzire.
“Peccato, vorrà dire che ne mangerò uno anche per te – disse risedendosi – allora, è crollato il mondo dopo il tuo coming-out?”
Sasuke lo squadrò ancora un po’ perplesso e, senza rendersene conto, diede un’occhiata in giro.
“Non direi.”
“Allora puoi continuare a parlarmi di tutto quello che vuoi, anche i dettagli più scabrosi, perché continuerà a non succedere niente di male.”
“Lei è pazzo.”
“Forse – concesse lo psicologo – mai sentito parlare di lucida follia?” domandò con un sorriso.
Sasuke si passò le mani tra i capelli e lo fissò mentre sedeva sereno e imperturbabile, col tavolino tra di loro su cui campeggiava la scatola di cioccolatini.
“C’è fondente?”
“Cerca, è così che funziona Sasuke; se non cerchi non saprai né otterrai mai niente.”
“Confermo, lei non è normale” borbottò, allungando però una mano a prendere la scatola.

 

***

 

Itachi stava dividendo la propria attenzione tra Gaara e il cellulare. Digitò frettolosamente qualcosa sullo schermo e vide che il suo messaggio era stato visualizzato subito.


-          Shisui non salire, ci ho ripensato, non è il caso, è una stupidaggine.
-          Ehi, e vuoi sprecare così il nostro meraviglioso piano “Scova il gay”? Noooo non se ne parla!

 Itachi occhieggiò Gaara, quel giorno gli pareva di umore peggiore del solito e le occhiaie lo stavano facendo assomigliare pericolosamente a un panda o un tasso.
Sapeva che quella mattina il ragazzo era passato in università a vedere i risultati dell’esonero, lo aveva passato anche se con un voto assolutamente nella media, niente di eccezionale né in negativo né in positivo. Itachi ne era rimasto sorpreso perché il segretario era veramente ben preparato per quell’esame, lo aveva verificato personalmente.
Aveva pensato che l’emozione gli doveva aver giocato qualche brutto tiro, tuttavia, vedendolo così spento e abbattuto, aveva capito che il suo problema non era il voto: il segreto che Gaara si portava dietro lo stava corrodendo al punto di spezzarlo, per quello non se la sentiva più di portare avanti la strategia concordata col cugino, sebbene ciò potesse andare a discapito di Sasuke. In quel momento Gaara aveva la precedenza.


-          E da dove esce questo nome idiota? L’hai ribattezzato solo tu così. Se sali in ufficio ti picchio, Shisui.
-          Oh sìììììì, Itachi non sai quanto volessi provare il sadomaso con te! Natale è vicinissimo ti regalerò un frustino!
-          Non ho parole per quanto sei idiota!
-          Lo so, lo so, ti voglio bene anch’io, dai aprimi sono arrivato.

 Itachi non fece in tempo a minacciarlo ancora per messaggio che sentì il ronzio del citofono. Vide Gaara accigliarsi e dire:
“Chi diavolo sarà? Speriamo non qualche cliente in anticipo.”
A volte succedeva che arrivassero prima o che durante le lunghe attese in anticamera decidessero che Gaara, invece di essere il segretario dello studio, fosse il loro psicologo e gli riversassero addosso tutti i problemi della loro vita o che li avevano spinti a rivolgersi a un avvocato. Era un ruolo che ovviamente il ragazzo non voleva rivestire, ma si trovava costretto ad annuire mentre faceva buon viso a cattivo gioco e cercava una maniera cortese per evidenziare il fatto che stava lavorando e non era pagato per ascoltarli. Era logico comprendere come la prospettiva che gli rovinassero persino la pausa pranzo non lo rendesse esattamente felice.
“Dovrebbe essere mio cugino, deve salire a portarmi una cosa” si premurò a informarlo Itachi, ormai rassegnato ad assistere all’incontro tra i due.
“Ah, meno male” rispose Gaara visibilmente sollevato, premendo su un pulsante per aprire il portone. Non era un cliente inopportuno e nemmeno Sasuke, per quanto si trattasse sempre di un Uchiha, ma probabilmente Itachi sarebbe uscito tra poco assieme a lui per andare a pranzo, lasciandolo finalmente da solo e in pace.
Era stanco, stanco del lavoro, di sentire la gente e risolvere i loro stupidi problemi; era stanco dei propri e non riusciva a smettere di chiedersi perché diavolo si ostinasse ad andare avanti.
Scrollò col mouse il documento che stava leggendo, domandandosi anche perché la gente continuasse a litigare e a farsi cause stupide, buone solo a sperperare denaro, soprattutto perché poi toccava a lui protocollare gli atti d’ufficio ed espletare tutta la burocrazia accessoria.
Vide con la coda dell’occhio Itachi alzarsi per andare ad aprire la porta, confabulare a bassa voce con qualcuno appena entrato e, poco dopo, entrarono assieme nell’ufficio.
“Gaara, noi usciamo – gli disse l’avvocato posando un pacchetto sulla scrivania – comunque lui è mio cugino Shisui Uchiha.”
Il segretario sollevò gli occhi dallo schermo e osservò un ragazzo alto, dagli occhi scuri quanto i capelli corti e mossi, era molto bello e assomigliava a Itachi sebbene sul suo viso ci fosse un largo sorriso amichevole.
“Piacere, Gaara” disse alzandosi in piedi e tendendo la mano al di sopra della scrivania.
“Oh, piacere mio, scusa il disturbo” rispose il ragazzo stringendogliela. Nonostante le dita fredde la sua presa era salda e piacevole.
“Figurati” mormorò asciutto, non sapendo che altro dire.
L’altro però non sembrò scoraggiarsi e anzi continuò, con voce divertita:
“In realtà ero curioso di conoscerti, Itachi mi ha parlato di te e del tuo aiuto, se non ci fossi stato lo avrebbero licenziato il secondo giorno probabilmente.”
“Shisui! Ma che… – esclamò Itachi, irritato, per poi rivolgersi al segretario – scusalo, è caduto dal seggiolone più volte da piccolo.”
Gaara, nonostante tutto, sorrise per quella battuta, per quel modo che i due avevano di approcciarsi, denotava una grande confidenza e complicità, proprio come ci si aspettava da una famiglia con rapporti normali.
Il suo sorriso scomparve.
“Itachi è bravissimo, anche senza di me se la sarebbe cavata, ne sono certo” rispose, ed era vero. Non doveva nemmeno prenotargli il taxi o fare altre stronzate che un qualsiasi essere dotato di pollice opponibile avrebbe potuto risolversi da sé. Tutti tranne gli altri avvocati dello studio evidentemente.
“Dai Shisui, andiamo. Lasciamo respirare Gaara almeno durante la pausa, è quello che lavora più di tutti qua dentro” si intromise Itachi. Le sue parole rispecchiavano ciò che pensava, d’altronde lui non era il tipo da parlare a vanvera o sprecare complimenti senza fondamento, quelle poche volte in cui li elargiva.
Shisui però non gli diede retta, adocchiò il contenitore posato sulla scrivania vicino al mouse e in cui c’era una forchetta dispersa in mezzo a dei fagioli e un po’ di verdura, non gli sembrava un pranzo degno di nota.
“Perché non vieni a mangiare con noi? Tanto oggi offre Itachi!”
“Grazie, ma sarà per un’altra volta. Oggi ho un po’ di cose da sbrigare durante la pausa.” Nel rispondere, Gaara non mostrò la sorpresa dovuta a quell’invito proferito in maniera spontanea, aveva avuto l’impressione che quel ragazzo avrebbe davvero provato piacere per la sua presenza.
Forse la compagnia di quello Shisui poteva essere divertente, un’uscita con quei due poteva davvero essere un bel diversivo alla sua triste routine, ma non quel giorno. Forse nemmeno in quella vita in generale visto il suo stato d’animo attuale.
“Non preoccuparti Gaara, adesso lo porto via – lo rassicurò Itachi – ma se qualche volta vogliamo andare a pranzo insieme mi farebbe piacere.”
Il segretario annuì semplicemente, nuovamente sorpreso da quell’ennesima proposta inaspettata e li osservò uscire con un mezzo sorriso sulle labbra, anche perché i due continuavano a rimbeccarsi.
Quando furono da soli nell’ascensore Itachi gli diede una spinta:
“Ti avevo detto di non venire! E poi che cose ti metti a dire? Bastava che ti presentassi e basta.”
Shisui sospirò e alzò gli occhi verso l’alto, osservando il piccolo schermo dove si avvicendavano i numeri dei piani. Non disse una parola, né l’altro lo stimolò, consapevole che il cugino stava cercando il modo adatto per dirgli qualcosa che probabilmente non gli sarebbe piaciuto. Avvertì un brivido corrergli per la schiena, non dovuto alla giornata gelida, e infilò le mani nelle tasche del cappotto, attendendo. Shisui non gli avrebbe risparmiato niente, lo sapeva.
Si accomodarono in un locale poco distante, piuttosto semplice e affollato da altri lavoratori come loro che lasciavano gli uffici dove lavoravano diligentemente, al pari di industriose api operaie e, sempre come tali, sciamavano fuori in cerca di una boccata d’aria invece che di polline.
I due ragazzi erano uno di fronte l’altro, tra di loro i bicchieri, la bottiglia d’acqua, i tovaglioli, ma non osservarono niente di tutto ciò, troppo presi a guardarsi.
Itachi incrociò le mani sul tavolo, non fece nessun altro movimento, sembrava imperturbabile e sereno, una maschera perfetta in attesa del verdetto.
“È gay” rispose semplicemente Shisui alla sua domanda silenziosa.
All’improvviso l’aria sembrò densa, come uno zuccheroso sciroppo, e Itachi rimase qualche istante in apnea perché mandarla giù ai polmoni e poi portarla fuori era diventato difficile. Respirò con la bocca, dopo di che si morse delicatamente l’unghia di un dito.
“Come fai ad esserne certo?”
“Perché l’ho visto in un gay bar qualche volta e lì non ci vai per caso.”
Itachi sapeva che il cugino frequentava senza problemi certi posti, a differenza sua che ci andava molto raramente, e credette subito alle sue parole. Pensò alla variegata fauna di quei locali e provò un moto di paura per Sasuke perché lì, mescolati a gente comune, si nascondevano predatori, uomini senza scrupoli, puttane che cambiavano anche più di un cazzo in una serata, gente malata che pretendeva di scopare senza preservativo e tanti altri che si sarebbero potuti approfittare senza problemi di un inesperto come Sasuke. Certo, il fratello non era uno stupido, nemmeno qualcuno capace di dare confidenza, ma c’era anche chi quella confidenza se la prendeva con la forza.
“Parlami di lui” disse al cugino; in che cerchia rientrava Gaara? Cosa nascondeva dietro ai suoi modi pacati ed educati, dietro quegli occhi chiarissimi e a volte inquietanti?
Shisui si guardò un attimo attorno, intuì la preoccupazione del cugino e non perse altro tempo a rispondergli.
“Non lo conosco personalmente, l’ho notato qualche volta, in fondo con quei capelli rossi è un bersaglio facilmente individuabile, oltre ad essere piuttosto ambito, ho visto parecchi girargli attorno. Però lui mi sembra un tipo tranquillo, l’ho sempre visto al bancone del bar, beveva da solo e chiacchierava col barista, un tipo biondo, Deidara, te ne ho anche parlato, è quello che prepara quei cocktail divini. Probabilmente sono amici visto che lui sta da anni con un tizio strambo che si chiama Hidan che lavorava lì prima di andare da un’altra parte. Adesso sta in un altro posto un piano bar, mi sembra, non vado spesso là perché è troppo da fighetti ed è costoso.”
“Shisui, non mi interessa la tua vita notturna o l’elenco dei tuoi bar e barman preferiti” lo interruppe Itachi, tamburellando le dita sul tavolo.
“Sì, sì – sospirò questi – non c’è molto altro da dire. L’ho sempre visto al bancone a bere, a volte scambia qualche parola con altri e chiacchiera con Deidara. Una volta sola un tizio gli stava dando fastidio, questo era ubriaco ed era impossibile non notarlo perché parlava a voce alta, Gaara molto semplicemente gli ha intimato di lasciarlo in pace e se ne è andato, senza fare casini e deve essere stato piuttosto duro perché quello non lo ha seguito. Insomma pare un tipo tranquillo, sicuramente ogni tanto avrà anche dato più confidenza a qualcuno, ma non è che io stia là tutte le sere, anche se, ora che ci penso, è da parecchio che non lo vedo. Come ti ho detto, quei capelli sono piuttosto riconoscibili.”
Itachi si passò una mano sul labbro inferiore, sentendo sotto al polpastrello le pellicine secche a causa del freddo. La cameriera portò le loro ordinazioni, ma nessuno dei due iniziò a mangiare.
“In sostanza mi stai dicendo che è a posto e che se Sasuke e lui hanno avuto una relazione non dovrebbe esserci stato qualche problema… ma allora perché tra loro i rapporti sono così tesi? – guardò il cugino – Quando Gaara ha scoperto che ero suo fratello è sbiancato e quando si è trovato davanti Sasuke pareva aver vinto un fantasma, era turbato. Non sono reazioni normali.”
“Beh, magari hanno litigato e non sono rimasti in buoni rapporti, capita – rispose Shisui pratico, iniziando a mangiare – non è semplice avere a che fare con Sasuke. Non pensare al modo in cui è con te o coi suoi amici, lui è davvero chiuso e inflessibile e secondo me la risposta ai tuoi dubbi sta nella fuga di Gaara il giorno della sua laurea. Se veramente era lì per lui, come pensi che abbia reagito il tuo fratellino chiuso, che non ha mai parlato con nessuno della sua omosessualità, e per cui la cosa più importante al mondo è non deludere tuo padre? Come può aver mai reagito vedendo il suo amante così vicino alla propria famiglia?”
“Di merda” sospirò Itachi, bevendo un sorso d’acqua.
Per quanto i rapporti nella sua famiglia fossero migliorati, Fugaku rimaneva un uomo molto severo e all’antica e i sentimenti di inferiorità di Sasuke non potevano certo scomparire dal giorno alla notte, si erano di sicuro mitigati, ma il ragazzo provava ancora il bisogno di dimostrarsi perfetto e migliore di chiunque. Una combinazione letale che faceva a cazzotti con i dubbi e le incertezze che un giovane alle prese con una sessualità incerta, soffocata dal bisogno di mostrarsi conforme agli standard della società e del loro padre.
“Ma se è come dici perché lo ha invitato per poi cacciarlo?” domandò ancora Itachi, voleva capire e trovare un modo per aiutare il fratello.
“Che ne so? Qui stiamo facendo solo ipotesi – rispose Shisui a bocca piena – anche quelle fatte finora sono speculazioni e basta. Magari Gaara voleva fargli una sorpresa, magari è stata una coincidenza ed era lì per un altro motivo, magari Sasuke ci ha ripensato quando lo ha visto. Non possiamo rispondere a certe domande, è impossibile. L’unica cosa sicura è che sono in pessimi rapporti. Tu che vuoi fare?”
Bella domanda e, per una volta, Itachi non aveva una risposta.
“Shisui, manda giù prima di parlare e poi hai un pezzo d’insalata tra i denti” lo rimbeccò, senza reale irritazione, in fondo il cugino gli piaceva proprio perché era tanto diverso da lui, persino nel modo di stare a tavola.
Ignorò i suoi borbottii e rifletté, senza sentire nemmeno il gusto di ciò che stava mangiando.
“Non lo so – ammise e per lui era difficile confessare la sua impotenza – per il momento rimarrò a guardare come si evolve la situazione. Sasuke ha in mano il progetto di ampliamento dello studio, quindi saranno costretti a rivedersi.”
“Mmhh… e per quanto riguarda te? – all’occhiata interrogativa dell’altro aggiunse – Ricordo male o mi avevi detto che Gaara ti interessava?”
Itachi rimase interdetto da quell’affermazione, ulteriore segno che tutta quella storia lo stava scombussolando più del dovuto. Nemmeno quando Konan aveva annunciato che se ne sarebbe andata era rimasto tanto colpito. Non notò l’occhiata più attenta di Shisui, il suo interrompersi mentre mangiava per puntare la sua completa attenzione su di lui e la sua risposta.
“Beh, è bello, interessante, lo ammetto, ma se ha una storia con Sasuke come posso intromettermi?”
“Itachi, sei troppo altruista, specialmente se si tratta di tuo fratello, se ne avesse bisogno gli doneresti persino il cuore per trapiantarlo – sospirò Shisui per poi avvicinare la testa alla sua – va bene amare il proprio fratello, ma devi pensare anche a te stesso, non puoi negarti una scopata per lui. Nemmeno tu sei felice, e la vita di Sasuke è di Sasuke, tu non puoi sempre spianargliela, è un adulto ormai. Deve prendersi la piena responsabilità dei suoi errori e accettarne le conseguenze, e Gaara è una di queste. Se non stanno insieme, perché non dovresti farti avanti se ti piace, e poi da quello che ho visto una botta di felicità non guasterebbe nemmeno a quel ragazzo. Pareva che gli fosse morta tutta la famiglia, cane e gatto compresi.”
“Vaffanculo Shisui” sospirò Itachi, senza rabbia. Semplicemente il cugino lo metteva sempre di fronte ad alcune domande scomode che altrimenti avrebbe evitato. Era più comodo trincerarsi dietro alla scusa di Sasuke per non doversi esporre.
Shisui lo comprese alla perfezione e per quello gli sorrise, continuando a mangiare soddisfatto. Voleva bene a tutti i suoi cugini, ma Itachi era speciale e non solo perché ogni tanto facevano sesso, per lui la sua felicità veniva prima di quella di tutti gli altri e in quel momento finire a letto con Gaara lo avrebbe reso felice. Non ci vedeva niente di male o di compromettente, niente che avrebbe potuto turbare in modo significativo il suo futuro, solo un qualcosa di passeggero ma piacevole.
Rimasero in silenzio, ognuno preso nei propri pensieri quando all’improvviso Itachi domandò:
“Cosa c’era nel pacchetto che mi hai portato?”
Era stata la scusa con cui Shisui era salito, ma era stata una cosa che aveva improvvisato sul momento.
“Oh, già – disse questi sorridendo – preservativi, che altro?”
Itachi rimase con la forchetta a mezz’aria, guardandolo:
“Io ti ammazzo” sibilò.
“Ma se la confezione è addirittura nuova!” protestò l’altro, mentre Itachi pregava che nessuno andasse a sbirciare sulla sua scrivania o avrebbe dovuto cambiare lavoro per la vergogna.
“Puoi lasciarli in ufficio, magari ti serviranno prima o poi con Gaara” continuava a blaterare quell’idiota, ignaro del pericolo.
“Io ti ammazzo sul serio.”

 

 

 

 

L’angolino oscuro: Dopo tutti questi casini a quanto pare Sasuke ha fatto la prima azione sensata, si è rivolto a qualcuno per chiedere aiuto. In questo momento così confuso e travagliato ha bisogno di qualcuno che gli faccia luce e gli permetta di distinguere il cammino da seguire, un aiuto per trovare quelle risposte di cui ha bisogno e che nessun’altro può fornirgli, adesso è tutto nelle sue mani e deve essere lui a scegliere cosa fare.
Il “segreto” di Gaara viene svelato da Shisui e Itachi è forse sulla strada giusta per scoprire la verità, ma sarà davvero così semplice? E soprattutto cosa farà Itachi con questo interesse che prova verso Gaara? Continuerà a mettere Sasuke davanti a sé e ai propri bisogni? Insomma entrambi i fratelli Uchiha si trovano davanti delle decisioni importanti da prendere, quale sarà quella giusta? Per il momento godetevi questo spezzone di vita e complicità tra i due cugini, e non perdete d’occhio Shisui…
Alla prossima, se vi va fatemi sapere che ne pensate della storia.

 

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Capitolo 8
*** 8 - Red bird ***


Red bird

 

 

Gaara concluse la mail senza nemmeno i saluti formali tipici di questa comunicazione scritta e la inviò subito, così da non farsi prendere da eventuali ripensamenti.
Sapeva di essere stato maleducato, ma persino avere a che fare con Sasuke tramite un computer lo irritava. Non riusciva proprio a passare sopra a quanto era successo tra loro l’ultima volta in cui erano stati da soli, faccia a faccia, a come lo avesse fatto sentire una puttana; una puttana stronza per di più. Forse anche Gaara  a sua volta aveva oltrepassato la misura, non si era risparmiato nel ricambiare gli insulti, ma aveva perso la testa nel sentirsi offendere a quel modo, specialmente da quell’ipocrita patentato di Sasuke, poi!
Purtroppo non poteva tagliare del tutto i contatti con lui, doveva averci a che fare per lavoro e non poteva proprio evitarlo. Finora si erano scambiati mail riguardo il progetto, i preventivi e un’altra lunga serie di cose noiose, ma sicuramente presto si sarebbero anche dovuti rivedere e l’idea non gli piaceva, gli strizzava lo stomaco in una ferrea morsa di disagio.
Si dava dello stupido perché non riusciva a essere indifferente come avrebbe voluto: quello stronzo di un Uchiha nonostante tutto gli era entrato dentro più di quanto avesse creduto.
Cercò di togliersi dalla mente Sasuke e osservò Hinata mentre si affaccendava per decorare la loro stanza, finendo per fare un mezzo sorriso. Solitamente nel periodo natalizio appariva giusto qualche sparuta decorazione, ma quell’anno la ragazza si stava veramente impegnando per far diventare quel sobrio studio, tutto legno e professionalità, un tripudio di lucine colorate e roba verde di cui Gaara nemmeno sapeva il nome.
Si alzò vedendo che stava per usare la scala e, senza che gli venisse chiesto o dire nulla, andò a tenerla ferma mentre lei saliva.
“Oh, Gaara grazie. Sei molto gentile, non volevo disturbarti” rispose lei.
“Figurati, mica hai intenzione di passare il Natale in ospedale, sarebbe una vera tragedia per te, vero?”
“Vero, vero… – ridacchiò Hinata, fissando delle decorazioni sopra la porta – adoro questo periodo dell’anno, Naruto mi chiama la maniaca del Natale, ma anche a lui piace.” Sorrise dolcemente ripensando al suo fidanzato.
“Sono contento per te” rispose Gaara, asciutto.
“Scommetto che tu invece lo odi” replicò lei. Tuttavia, prima che il ragazzo rispondesse, si aprì il portone dell’appartamento e Itachi entrò nell’anticamera, rabbrividendo mentre li raggiungeva, in tempo per udire quell’ultima frase.
“Chi è che odia cosa?” domandò iniziando a togliersi cappotto e guanti.
“Il natale, io lo amo, ma stavo dicendo a Gaara che mi sembra uno di quelli che invece lo odia. Nevica ancora fuori?”
“No, ha smesso, ma è tutto imbiancato. Forse sarà il caso che tu esca prima se vuoi arrivare puntuale a quella cena – le rispose per poi rivolgersi all’altro ragazzo – allora, odio o amore?” sorrise.
Gaara osservò il suo viso arrossato dal freddo, un fiocco di neve che si stava sciogliendo tra i suoi capelli scuri e realizzò di fissarlo imbambolato senza rispondere.
“Beh, non so – mormorò, fingendo di pensarci ancora – forse indifferenza e basta.”
“Oh, ma è così bello stare con la famiglia e gli amici davanti al caminetto, a mangiare cose buone – disse Hinata sognante – persino mio padre si ammorbidisce, dovresti vederlo! Tu invece cosa fai con la tua famiglia?”
Gaara si irrigidì a quelle parole. Cosa poteva mai significare il Natale per uno come lui che una famiglia non ce l’aveva mai avuta? Cercò di dissimulare e si voltò per prendere dei chiodini che servivano alla ragazza.
“Direi niente, non siamo in buoni rapporti – disse soltanto e, per evitare che gli esprimessero una qualche forma di dispiacere o scuse, si affrettò ad aggiungere – credo che faremo la solita cena con il mio coinquilino e i suoi amici. E li ritroverò ancora ubriachi sul divano la mattina dopo.”
Rise appena ricordandosi dell’anno prima, in cui si era dovuto barricare in camera perché Yahiko, uno di quegli amici di Hidan, voleva che facesse da giudice in uno spogliarello integrale tra tutti loro. Alla fine aveva desistito, ma aveva fatto l’offeso tutto il resto della serata, salvo poi non ricordarsi assolutamente niente una volta passata la sbronza.
Nessuno degli altri due replicò e ci fu un momento di silenzio, superato però grazie a Itachi che disse:
“Noi quest’anno andremo a sciare, non vedo l’ora di rimettere i piedi sullo snowboard!”
“Oh, che bella cosa. Quindi sei bravo con la tavola?” domandò Hinata.
“Per niente – replicò – ma proprio per quello non voglio darmi per vinto, ci riuscirò ad ogni costo.” Era esaltante aver trovato qualcosa in cui non eccellesse al primo colpo, una bella sfida per uno come lui che solitamente riusciva in tutto senza dover fare troppi sforzi.
“Cerca solo di non tornare con le ossa rotte” scherzò Gaara.
“Non preoccuparti, non ho intenzione di lasciarvi soli – osservando Hinata scendere dalla scala e le sue decorazioni, sorrise malizioso – vischio, allora hai cattive intenzioni per caso?”
“Oh? N-no, no – si affrettò lei a replicare – è solo che è così carino con quelle bacche bianche.”
“Mh, farò finta di crederti” continuò a prenderla in giro Itachi.
“Che significato ha?” domandò Gaara incuriosito, dato che non capiva a cosa si stessero riferendo.
“Per tradizione se due persone si fermano sotto al vischio devono baciarsi, ma sul serio: l’ho usato solo perché lo trovo carino. Itachi, smettila di ridacchiare” disse lei facendosi rossa e parlando più velocemente del solito.
Gaara la osservò: con le sue guance colorate, l’espressione imbarazzata, le mani che non volevano saperne di stare ferme, Hinata era assolutamente adorabile, la quintessenza della normalità, di tutto ciò di buono e rassicurante poteva ancora esistere.
“Beh, allora dovrai stare attenta se non vuoi che Naruto si arrabbi” disse, unendosi a quella presa in giro. Per la prima volta dopo parecchio si sentiva bene, gli piacque ritrovarsi a scherzare e ridere in modo tanto naturale. Ogni pensiero negativo sembrava lontano, era forse quella la magia del Natale?

 
Alla fine Hinata era uscita in anticipo e anche gli altri avvocati l’avevano imitata poco dopo. Quel giorno il tempo era veramente pessimo, ma Gaara, prima di poter dichiarare concluso il suo lavoro, doveva assolutamente finire un giro di telefonate e mail, oltre a preparare il materiale da dover spedire l’indomani. Anche Itachi sembrava piuttosto indaffarato nelle sue scadenze improrogabili, tanto che i due si ritrovarono ad uscire assieme dall’ufficio, forse gli ultimi di tutto il palazzo.
“Che programmi hai per la serata? O dovrei dire pomeriggio visto che sono solo le diciotto?” domandò Itachi mentre entravano nell’ascensore. Mai nessuno usciva tanto presto, ma quel giorno pareva tutto diverso, l’aria prometteva neve e una sottile elettricità pareva suggerire che sarebbe potuto succedere qualsiasi cosa prima che spuntasse di nuovo l’alba; una tempesta era alle porte.
“Non so, suppongo che andrò a casa. Niente di speciale, tu?” chiese Gaara a sua volta, fissando perplesso uno sticker con il faccione di babbo natale attaccato persino lì dentro, vicino alla pulsantiera. Hinata non aveva davvero limiti, era certo che fosse stata lei.
“Credo che andrò a prendermi una cioccolata calda, è veramente il tempo ideale e non ho altri impegni – replicò guardando le sue ciocche rosse sfavillare in quello spazio ristretto sotto la luce artificiale – vuoi farmi compagnia?”
Gaara girò la testa di scatto, sorpreso da quella proposta inaspettata. Si domandò perché l’altro gliel’avesse fatta, non avevano mai passato del tempo seduti, rilassati a chiacchierare semplicemente del più e del meno. Ogni tanto si scambiavano qualche battuta o si ritagliavano un paio di minuti per scambiare due parole tra un lavoro e l’altro, ma nulla di più.
“Sì, mi farebbe piacere.”
La risposta era uscita con naturalezza e fu lui il primo a rimanerne sconcertato, però non se la rimangiò, bensì lo seguì fuori dall’ascensore e poi dal palazzo mentre Itachi gli sorrideva e gli raccontava di un posto lì vicino dove facevano un’ottima cioccolata calda, la sua preferita in effetti.
Non nevicava ancora, le strade e i marciapiedi erano stati ripuliti dalla nevicata della mattinata, ma ogni altra cosa era ammantata di bianco e l’aria era così gelida che spingeva ad alzare i baveri dei cappotti e a camminare velocemente per togliersi di lì. Tuttavia non fecero che pochi passi prima che Gaara si sentisse afferrare per un braccio e, voltandosi irritato pronto a inveire, rimase invece sconcertato vedendo Kankuro.
“Dobbiamo parlare” gli disse questi.
Gaara aprì la bocca e la richiuse un paio di volte prima di riuscire a emettere un fiato, aveva l’impressione che tutto quel freddo avesse creato un tappo di ghiaccio invisibile che era stato difficile scalzare.
“Credo che ci siamo già detti tutto” rispose infine, con la sua solita voce pacata che niente rivelava del suo turbamento interiore.
“No, proprio per niente. Non te ne saresti dovuto andare a quel modo l’ultima volta, né bloccare il mio numero.”
A quel punto Itachi non riuscì più a essere il solito spettatore impassibile e si fece avanti, preoccupato per quello sconosciuto che gli pareva un po’ troppo agitato. Si faceva infatti sempre più vicino a Gaara e non pareva intenzionato a lasciar andare la presa sul suo braccio, mentre lo fissava con uno sguardo acceso che proprio non piaceva a Itachi, come non gli piacevano l’aria scioccata e il pallore del segretario.
“E tu saresti? Se Gaara non vuole parlarti avrà le sue ragioni.”
Tentò di essere conciliante, quando in realtà avrebbe solo voluto prendere il collega per mano e trascinarlo via da lì, ma non conosceva la situazione e non voleva tirare conclusioni affrettate, sebbene raramente il suo istinto lo aveva tradito.
“Lui è…” iniziò a dire in effetti Gaara, interrotto però bruscamente da Kankuro.
“Sono suo fratello, chi sei tu piuttosto?”
“È un mio collega – rispose Gaara, strattonando via il braccio dalla presa finalmente – e vedi di darti una calmata. Quello incazzato dovrei essere io.”
I due fratelli si fissarono in silenzio, Kankuro con l’espressione più corrucciata che mai e l’altro capì che non avrebbe rinunciato tanto facilmente quella volta.
“Itachi, scusami. Sarà per una prossima volta, ok?”
L’Uchiha si sentì tagliato fuori in modo definitivo e ineluttabile, tuttavia non cedette subito nemmeno di fronte all’evidenza e sondò quegli occhi chiari; non gli piacque vedere l’agitazione che giaceva celata.
“Sicuro che sia tutto a posto?” Si era un po’ rilassato nell’apprendere che quello non era un amante rancoroso, bensì il fratello, però giusto qualche ora prima aveva anche sentito che non avevano un bel rapporto.
“Sì, scusami ancora. Ci vediamo domani, buona serata” tagliò corto Gaara, non badando più ai sentimenti o alle preoccupazioni di Itachi. Si incamminò nella direzione opposta alla sua, stando ben attento a non sfiorare Kankuro, né voltandosi per vedere se lo stesse seguendo.
Con gli occhi puntati a terra e le mani in tasca, camminò svelto fino ad entrare in un parchetto deserto; in fondo chi, sano di mente, ci si sarebbe mai avventurato in una sera come quella? Le siepi, i prati, le panchine, tutto era ammantato di neve candida, persino alcuni sentieri non erano sgombri e fu lì, in quel luogo quasi irreale dove ogni suono era attutito dalla bianca coltre spessa, che Gaara si voltò a fronteggiare il fratello, decisamente irritato.
“Si può sapere che diavolo vuoi ancora da me?”
“Accidenti Gaara, qui si gela e io sono stato un’ora ad aspettarti fuori dal portone, non possiamo andare in un locale?”
“No, se vuoi parlare possiamo farlo anche qui.”
Non voleva essere circondato da altra gente come l’altra volta, perché temeva che stavolta la loro discussione sarebbe stata ancora più delicata. “Come hai fatto a scoprire dove lavoro? No, aspetta non dirmelo… l’investigatore privato. Posso dirti che la cosa mi dà parecchio fastidio?”
L’idea che un estraneo frugasse tra le pagine della sua vita lo faceva sentire violato, specialmente se poi il risultato era ritrovarsi inaspettatamente di nuovo faccia a faccia col fratello. Non erano bastate le mail con Sasuke quel pomeriggio, non c’era proprio pace per il ragazzo, e lui che si era illuso di potersi rilassare almeno un attimo assieme a Itachi! Povero sciocco.
“Scusami, ma era l’unico modo di rintracciarti visto che non rispondevi alle mie chiamate.”
“Forse perché non volevo parlarti e non voglio ancora adesso, mi hai costretto in pratica!” tacque e serrò forte le labbra.
“Come ti ho costretto a fare certe cose in passato, è questo che vuoi dire?” ribatté Kankuro, stringendo le mani a pugno. E a Gaara sembrò di sentirselo in faccia quel pugno, tale era stata la violenza delle sue parole.
“No, no, aspetta… non mettermi in bocca cose che non ho mai nemmeno pensato. Di certo sei stato tu a infilarti nel mio letto e a incitarmi, ma io l’ho sempre fatto perché ti volevo bene, perché pensavo… – gli morì la voce e non riuscì a continuare – Ma perché stiamo parlando ancora di questa storia? Basta Kankuro, basta” mormorò.
Il fiato si congelava in bianche nuvolette davanti alla sua bocca prima di dissolversi e lui voleva che succedesse la stessa cosa coi suoi ricordi. Gli sarebbe piaciuto se avessero potuto svanire e lasciarlo come un uomo nuovo, ripulito dalle colpe e dai peccati del passato. Ma Kankuro non aveva intenzione di lasciar stare, continuava ad aggrapparsi a quella discussione come un cane con l’osso, in un’ossessiva e dannosa ricerca di una risposta.
“Ne parlo perché dobbiamo chiarire, io pensavo che lo fosse, invece tu l’altra volta mi hai sbattuto giustamente in faccia le mie colpe e le conseguenze delle mie azioni sconsiderate – gli posò una mano sulla spalla – cosa pensavi di noi Gaara?”
Il ragazzo lo guardò con gli occhi chiari, ma non quanto la neve che aveva ricominciato a scendere dal cielo. Osservò i suoi lineamenti da adulto confrontandoli con quelli dell’adolescente che lo aveva stretto tra le braccia, la persona che era stata tutto il suo mondo, e vide che era diverso; esattamente come diverse erano le sue convinzioni dalla realtà.
“Pensavo mi amassi, perché io ti amavo. Ti amavo e non perché eri mio fratello, ma mi sbagliavo a quanto pare.”
A quel punto tenere nascosta la verità non sarebbe servito più, doveva dirla ad alta voce, ascoltarla e accettare il suo fallimento, che tutto il suo mondo era crollato miseramente e ciò che gli rimanevano in mano erano solo cocci inutili.
Kankuro esalò un respiro profondo, non era stato facile sentirsi dire direttamente quelle parole che aveva solo immaginato, ma le sue orecchie per quanto gelate funzionavano e avevano udito quella confessione dal sapore di una condanna.
“Mi dispiace, io… è tutta colpa mia.”
“Perché mi sei venuto a cercare, solo per avermi al tuo matrimonio, solo per illuderti di avere davvero una famiglia? Ma così hai spezzato la mia di illusione, hai reso inutili e vani tutti i miei sacrifici, fatti solo perché ti amavo.” Gaara non riuscì più a trattenere un singhiozzo, parlare lo aveva lacerato, aveva generato un maremoto di tristezza che stava rapidamente mutando in rabbia, perché lui non aveva mai chiesto niente di tutto ciò, lui non aveva mai chiesto nulla fin dal principio. “Nonostante tutte le difficoltà ti pensavo e mi dicevo di aver fatto la scelta giusta, ma tu con le tue parole l’altra volta mi hai fatto capire che è stato tutto inutile, le mie azioni quanto i miei sentimenti – gliela urlò addosso quella rabbia, incapace ormai di contenersi – e ora vieni qui e ti addossi la colpa giusto per lavarti la coscienza, ma non serve a niente. A me non serve! Non lo volevo, io non volevo più niente da te!”
“Gaara aspetta, possiamo rimediare, possiamo aggiustare ogni cosa adesso…”
Kankuro non riuscì a finire la frase perché Gaara lo prese per il bavero del cappotto e lo strattonò a sé, baciandolo. Posò le labbra gelide sulle sue altrettanto fredde e gliele leccò con la lingua umida e calda; gli diede un vero e proprio bacio come quelli che si scambiavano in passato, quelli che lui gli aveva insegnato a dare, solo che stavolta il fratello lo ricambiò a malapena.
Gaara lo lasciò andare e, fissandolo negli occhi sorpresi, disse:
“No, non c’è niente da poter riparare, e questo è il motivo. Non siamo una famiglia, non siamo amanti, non siamo nemmeno amici; noi non siamo niente, Kankuro, se non due estranei che in passato hanno condiviso qualcosa che non avrebbe mai dovuto esserci tra due fratelli. Ora lasciami in pace, sposati, senti pure tua sorella, perché non hai altra famiglia all’infuori di lei, io non esisto.”
Lo lasciò andare e Kankuro mormorò solo un “Gaara” soffocato tra i denti, ma non lo fermò, lo osservò andare via, con i capelli striati di bianco, le spalle curve e la sua figura sottile si confuse con le ombre e la neve che aveva ripreso a scendere dal cielo. Lo osservò immobile finché quel fratello perduto non scomparve per sempre dalla sua vita, in modo definitivo, e di ciò poteva incolpare solo se stesso. Ma nessun biasimo o pena avrebbero mai potuto riportare indietro quel ragazzo, quel fratello che era svanito tra la neve.
Gaara camminò senza nemmeno vedere dove stesse andando, non c’era quasi nessuno per strada che potesse vedere le sue guance striate dalle lacrime che sembravano in grado di cristallizzarsi e rimanere lì, eterne. Intravide una cabina del telefono e vi ci si infilò.
Il telefono era fuori servizio, le pareti erano piene di scritte e c’era anche un vetro rotto, ma lui non notò niente di tutto questo. Si lasciò cadere seduto piegando le ginocchia, vi posò sopra la testa e pianse senza limitarsi, senza soffocare i singhiozzi che gli scuotevano il torace, perché… perché era troppo. Aveva giunto il suo limite, Kankuro aveva aggiunto l’ultima goccia a un vaso già colmo e pronto a straripare.
Maledisse lui, l’investigatore che aveva fatto il suo lavoro, se stesso per la propria stupidità, per essersi cullato nell’illusione che qualcuno lo avesse amato, di valere qualcosa per qualcuno, che ci fosse ancora qualcosa di bello in serbo per lui. A cosa erano serviti i suoi sforzi? A che pro ammazzarsi ancora di lavoro e studio? Tanto era tutto inutile.
A poco a poco si rese conto di riuscire a udire della musica in quella piccola cabina, c’era un locale lì vicino e stavano suonando qualcosa dal vivo.
A una ridicolmente piccola distanza c’era gente che stava assieme, c’erano risate, calore, amicizia, sentimenti dove invece lui era freddo e vuoto… e allora perché cantavano cose tanto tristi? Perché non erano felici loro che potevano? Che spreco…

 There's a black bird perched outside my window
I hear him calling
He sees all my sins
He reads my soul

Come join the murder
Come fly with black
We'll give you freedom
From the human trap
Come join the murder

Sì, Gaara avrebbe voluto unirsi, avrebbe voluto davvero che lo liberassero dal peso dei suoi peccati, dalla trappola della vita da cui lui stesso non riusciva a districarsi; troppo codardo. Voleva essere libero e finalmente volare come quell’uccellino nero, anche se le sue piume sarebbero state rosse per i capelli e il sangue.
“Basta, basta così” mormorò in una gelida e squallida cabina abbandonata, dove nessuno lo avrebbe mai udito, dove nessuno avrebbe mai asciugato le sue lacrime.

Come join the murder
Come fly with black

 

***

 

Sasuke si guardava le mani, quasi affascinato. Era incredibile quante cose si potessero fare grazie a uno stupido pollice messo in una posizione diversa dalle altre dita. Si afferravano oggetti, si poteva cucinare, disegnare, dipingere, carezzare, ma anche stringere un coltello e ferire, sebbene non fossero sempre necessari oggetti per fare del male, bastavano anche solo delle parole.
“Allora Sasuke, di cosa mi vuoi parlare oggi?”
Lo psicologo lo strappò dalle sue elucubrazioni e lui alzò lo sguardo dalle proprie mani curate, posate elegantemente in grembo.
“Non lo so, niente di particolare.”
Non era la sua prima seduta, ma ogni volta iniziava allo stesso modo, con il terapeuta che doveva incitarlo e ricordargli di avere una lingua capace di articolare parole e frasi di senso compiuto. Sasuke si era ritrovato a raccontargli più di quanto avesse preventivato e la cosa non era stata poi così difficile, una volta superato il primo scoglio. Anzi, era stata quasi liberatoria, peccato che appena uscito da lì calzasse di nuovo la propria maschera e vanificava il lavoro fatto, come se non fosse veramente lui a partecipare a quelle sedute, bensì un altro se stesso, come era un altro quello a cui piacevano gli uomini e un altro ancora quello che sapeva fare l’architetto.
Il problema era che si era perso tra tutti questi se stesso e non sapeva più quale fosse l’originale, il primo che aveva generato gli altri.
“Ti piacciono le frittelle?” domandò l’uomo.
“Frittelle? – domandò Sasuke perplesso – Che c’entrano?”
“Niente, ma è un argomento come un altro di cui parlare.”
Il ragazzo sospirò, forse non si sarebbe mai abituato alle uscite strambe dell’uomo, tra i due sembrava lui quello pazzo.
“Quelle salate sì, non mi piacciono i dolci” lo assecondò, curioso di vedere fin dove sarebbero arrivati.
“Proprio per niente? Nemmeno da piccolo?”
“Da piccolo sì, anzi ne mangiavo parecchi con mio fratello, poi…” si interruppe, assorto.
“Poi?”
“Poi niente, non mi sono più piaciuti.”
“Così, all’improvviso? C’è stata un’indigestione, qualche cosa che ti ha dato fastidio?”
“Che c’è? A una persona non possono all’improvviso stare sul cazzo i dolci?” sbottò Sasuke, irritato.
Li aveva sempre adorati quei maledetti dolci e, ancora di più, quelle rare volte in cui sul divano con Itachi facevano sparire una scatola intera di biscotti. Però un giorno aveva sentito il padre rifiutare un dessert a una cena formale, dicendo che non era da uomini e in effetti Fugaku non ne mangiava mai. Aveva notato che anche il fratello se li concedeva quando lui non era in casa, quindi aveva concluso che in effetti era una cosa deprecabile per un uomo e aveva iniziato a rifiutarli, nonostante il desiderio.
Sognava che suo padre se ne accorgesse e lo lodasse per la sua bravura, perché era più bravo di Itachi, nemmeno quando era solo a casa andava a cercarli nella dispensa. Ma Fugaku non si era mai accorto di nulla, ovviamente, e lui si era ritrovato ad odiare le cose zuccherate, senza più ricordare il motivo originale, almeno fino a quel momento.
Osservò irritato lo psicologo, sapendo che a lui non importava che gli raccontasse i ricordi che venivano a galla durante le sedute, quelle cose che Sasuke aveva sepolto profondamente dentro di sé. Per lui era sufficiente che il ragazzo ne prendesse coscienza.
“Ho fatto un sogno, vuole sentirlo?” propose per cambiare argomento e per punzecchiarlo, ovviamente.
“Perché no?”
“Ma come? Non aveva denigrato Freud e le sue interpretazioni dei sogni, definendole anacronistiche e semplicistiche?” disse Sasuke non senza una punta di compiacimento, certo di averlo colto in fallo.
“E non lo nego – rispose l’uomo – infatti a me non interessa il sogno, quanto l’effetto che il sogno ha avuto su di te, il motivo per cui ti ha colpito e ti ha spinto a parlarmene.”
Sasuke fece una smorfia, sentendo in bocca un gusto acre, quello della polvere dopo essere stato sbattuto in terra dal suo piedistallo. Aveva sempre guardato tutti dall’alto in basso, compiacendosi della propria capacità di dare risposte argute, dei suoi silenzi che sconcertavano gli interlocutori e della superiorità che ne conseguiva, ma con quell’uomo non funzionava nessuna delle sue tattiche.
Sasuke era consapevole di essere in guerra, peccato che lui fosse sia il nemico da distruggere che gli eroi che andavano in soccorso a baionette spianate.
Sarebbe stato tutto più semplice se avesse deposto le armi, sventolato bandiera bianca e si fosse deciso ad aprire quella bocca solo per lasciare uscire i pensieri più profondi invece di battutine sarcastiche e frecciatine inutili. Eppure proprio non ci riusciva, non riusciva a darsi tregua e abbattere così facilmente le trincee in cui si era sempre riparato e protetto negli anni.
“Ho sognato di andare al cinema con Gaara” si risolse a dire finalmente. Aveva già accennato in altre sedute del ragazzo, così come della propria omosessualità, ma non aveva sviscerato nessuno dei due argomenti e lo psicologo non lo aveva forzato.
“Fammi ricordare, quel Gaara che hai trattato di merda più di una volta?” gli domandò.
“Ehi, ma non dovrebbe essere dalla mia parte?” protestò Sasuke.
“Lo sono, ma oltre all’inutilità dell’interpretazione dei sogni sono anche convinto del bisogno di dire le cose come stanno, specialmente con te. Quindi… cosa facevate nel sogno?”
Sasuke fece uno sbuffo a metà tra l’irritato e lo scocciato e guardò fuori dalla finestra un paio di minuti prima di parlare di nuovo.
“Andavamo a vedere un film e basta, compravamo anche i pop-corn.”
“E ti è piaciuto andare al cinema con lui?” domandò lo psicologo, cambiando il registro della conversazione, adesso più calma e cauta.
“Sì” ammise e quella semplice sillaba fece fatica a uscire fuori, pareva volersi aggrappare a tutti i costi a qualche sporgenza, forse alla trachea, all’ugola o ai denti, a qualsiasi cosa pur di impedirgli di pronunciarla. “Sì, mi è piaciuto. Eravamo tranquilli e ci siamo divertiti.”
“Lo hai più visto o sentito nella realtà?”
“Per mail, mi occupo di un progetto per conto dello studio in cui lavora. Dopo… dopo l’ultima volta ci siamo sentiti unicamente per mail per discutere del progetto, nient’altro.”
“E perché?” domandò lo psicologo e Sasuke pensò che fosse proprio scemo.
“Ma come perché? Secondo lei come diavolo faccio a parlargli dopo quanto è successo?”
“Prendere il telefono e fare il suo numero è un inizio. Non mi hai raccontato bene cos’è successo tra voi, ma se senti di aver sbagliato qualcosa puoi scusarti e ripartire da lì. O magari lui ti chiuderà la chiamata in faccia; è un’opzione – ammise giocherellando con un bottone del maglione – ma se non ci provi, come fai a sapere qual è quella giusta?”
Sasuke rimase interdetto e si chinò per poggiare gli avambracci sulle ginocchia, riflettendo.
“Non è così semplice ammettere di avere sbagliato.”
“Mai detto che lo fosse, infatti. E non devi farlo se non te la senti, semplicemente tieni presente che è un’opzione, non devi scartarla per forza a priori come fai sempre.”
Sasuke fece un respiro profondo, un po’ più sollevato perché l’uomo non lo costringeva a fare nulla, solo a pensare che fosse possibile cambiare le proprie abitudini, uscire dal seminario in cui si era confinato. C’era sempre un’alternativa, doveva solo imparare a vederla.
“Ci penserò” rispose semplicemente.
“Bene, Sasuke e ora dimmi, a che punto sei coi regali di Natale? Io devo ancora farli!”
“Cosa? – esclamò stupito – Ma mancano solo pochi giorni!” Lui li aveva pronti da settimane, accuratamente ricercati, pensati e impacchettati in attesa di essere consegnati. Non avrebbe mai affrontato il caos degli ultimi giorni, tra gente che pareva pazza e si accaparrava qualsiasi cosa pur di non presentarsi a mani vuote, quando invece sarebbe stata la cosa migliore invece di elargire regali inadatti e tristi.
“Forse sono un po’ masochista” ridacchiò l’uomo.
“No, è pazzo. Lei è pazzo” sospirò Sasuke guardando il soffitto, però poi guardò di nuovo lui e gli sorrise. Semplicemente perché gli andava di farlo.

 

 

 

 

L’angolino oscuro: Scrivere questo capitolo mi ha quasi ucciso, mentre descrivevo Gaara e la sua disperazione stavo male per lui, eppure non riuscivo a smettere, volevo sviscerare quel momento, il suo rapporto assurdo con Kankuro, il crollo delle sue convinzioni e fino a che punto un animo umano può reggere. Immagino di aver trovato una risposta, quel Come join the murder della canzone non si riferisce ad un assassinio generico, e il desiderio di Gaara di essere libero è molto chiaro. La canzone è questa, ascoltatela Come Join The Murder - The White Buffalo & The Forest Rangers
Stavolta la chiudo qui perché, davvero, non sono in grado di aggiungere molto altro a parte che in contrasto con la scena disperata di prima è stato bello descrivere questo Sasuke che inizia a muovere i primi passi e ad aprirsi.
Alla prossima.

 

 

 

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Capitolo 9
*** 9 - Christmas’s magic ***


every 9

Christmas’s magic

 

 

 

Gaara era sprofondato nella sua poltrona e fissava il soffitto, spingendosi pigramente con i piedi per farla girare sulle rotelle, cullato da quei movimenti continui che però stavano iniziando a fargli girare la testa. Forse anche quei due bicchieri di spumante bevuti a stomaco vuoto potevano avere la loro parte di colpa.
Era l’ultimo giorno di lavoro prima della pausa natalizia e, come da tradizione, in ufficio avevano fatto un piccolo rinfresco e un brindisi tutti assieme. Avevano tratteggiato un breve bilancio dell’anno appena passato, si erano scambiati complimenti, frecciatine, auguri, chiacchiere varie e Hiashi aveva consegnato a Gaara anche un’anonima busta bianca con la gratifica natalizia.
Quella riunione non era durata poi molto e gli avvocati erano poi andati via, lasciandogli il compito di chiudere l’ufficio e sistemare le ultime cose; era rimasta solo Hinata che stava finendo di truccarsi in bagno per un appuntamento con Naruto, mentre lui era lì, intento a non fare niente e a non pensare a niente una volta tanto.
Quegli ultimi giorni li aveva vissuti immerso in una vasca gigante. Lui non era altro che un pesce d’esposizione in un acquario, che guardava le vite degli altri al di là del muro d’acqua e plexiglass. Era stato anche uno spettatore della propria vita, si era osservato dall’esterno mentre compiva i gesti quotidiani: fare la doccia, vestirsi, lavorare, rispondere alle domande, fare finta di essere vivo mentre in realtà si sentiva solo un guscio vuoto e morente.
“Gaara, io vado.”
Il ragazzo distolse lo sguardo dal soffitto e vide Hinata sulla soglia della porta; non l’aveva proprio sentita e sì che aveva degli stivaletti coi tacchi alti!
“Ok, divertiti e passa un buon Natale” le augurò, alzandosi per raggiungerla.
“Grazie” mormorò lei, senza però fare alcun accenno a volersene andare. Anzi giocherellò con i manici di una bustina che stringeva in mano e arrossì inspiegabilmente, ma alla fine trovò il coraggio per allungare un braccio e tendere quella busta verso il segretario.
“Questo è un pensiero per te. Spero tu non ti offenda o pensi che sono sfacciata, ma… avevo voglia di fartelo” disse tutto d’un fiato.
“Hinata… – mormorò Gaara stupefatto – perché dovrei offendermi? Sono felice, ma anche molto sorpreso e imbarazzato visto che io non ho niente per te” rispose, prendendo istintivamente il regalo. Lo guardò e si sentì terribilmente in difetto: Hinata era una ragazza molto accorta e generosa, forse avrebbe dovuto prenderle un pensiero, anche se sarebbe stato difficile visto che era ancora col conto corrente in rosso e tante preoccupazioni occupavano la sua testa. Però, al di là dell’imbarazzo, il sentimento prevalente era la felicità: qualcuno aveva pensato a lui, non era una cosa da poco, specialmente dopo quanto accaduto nell’ultimo periodo.
“Oh no, no. Non devi disturbarti, questo è solo un pensierino, non l’ho nemmeno comprato, ma l’ho fatto io… avevo solo voglia di farti un regalo per ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me in questi mesi. Senza il tuo appoggio penso che mi sarei scoraggiata e forse non sarei arrivata a questo punto” gli assicurò, forse più imbarazzata di lui.
“Se l’hai fatto con le tue mani allora è ancora più importante, e tu sei più forte di quanto credi” le rispose Gaara, quasi commosso.
Era stato preso alla sprovvista da quelle attenzioni, non era molto facile parlare. Per quello non aggiunse altro e, senza ulteriori indugi, scartò il pacco e si ritrovò in mano una morbida sciarpa di lana grigio scuro, un colore sobrio, come quello degli abiti che portava abitualmente. Hinata però aveva intrecciato tra le fibre scure alcune rosse, rosse come i suoi capelli, e Gaara pensò che non stonavano affatto, anzi rendevano il capo ancora più elegante.
“È meravigliosa, grazie – disse a corto di parole – e tu sei veramente bravissima.”
Hinata sbatté le mani tra di loro, esaltata da quei complimenti e felice di vedere un’espressione così serena sul viso di Gaara; nell’ultimo periodo e specialmente nell’ultima settimana, le era sembrato davvero giù. Di sicuro una sciarpa non avrebbe risolto tutti i suoi problemi, però poteva essere un bell’aiuto.
Gliela prese dalle mani e gliel’avvolse attorno al collo, per poi constatare:
“Ti sta benissimo, sono così felice di averci azzeccato.”
Gaara la toccò, meravigliato da quanto fosse morbida e profumata, gli sembrava che la ragazza oltre ai fili di lana avesse intrecciato l’odore di buono, di caldo e accogliente, l’affetto che sembrava mettere in ogni suo gesto.
“Grazie, Hinata” disse il segretario. Sull’onda di quell’euforia le diede un bacio sulla guancia che divenne all’istante rossa e bollente. Il ragazzo ridacchiò e, alzando un dito verso l’alto, indicò i rametti di vischio che pendevano sopra le loro teste, così che anche Hinata scoppiò a ridere e, scherzando, entrambi promisero di mantenere quel segreto con Naruto.
Si scambiarono poi gli auguri e Gaara tornò alla scrivania con una meravigliosa sciarpa attorno al collo e una sensazione di leggerezza nuova nel petto.
Si sedette e prese la busta con la gratifica, fissandola, facendosi mentalmente un po’ di conti per vedere se poteva prenderle qualcosa per ringraziarla anche se in ritardo, perché Hinata proprio non si era resa conto di quanto quel piccolo gesto fosse stato in realtà importante per lui.
Stava lì a fissare la busta, con un gomito sulla scrivania e la testa appoggiata sulla mano, completamente assorto, quando una voce lo fece sobbalzare.
“Stai pensando a quanto sei ricco? Ti ritroverò a fare il bagno tra le banconote?”
“Itachi! – esclamò Gaara, balzando in piedi spaventato – Accidenti! Pensavo di essere solo, mi hai quasi fatto venire un infarto, ma dov’eri?”
Itachi rise, divertito dalla sua reazione:
“In sala riunioni a fare una telefonata, tu invece che fai ancora qui? Bella la sciarpa, Hinata?”
Gaara se la tolse, imbarazzato per la reazione avuta, sia per essersi fatto beccare a sognare a occhi aperti come un idiota.
“Già, non mi aspettavo che mi facesse un regalo e stavo pensando a poter ricambiare in qualche modo. Purtroppo non sono ricco e il bagno al massimo posso farlo tra le bollette – scherzò – stai andando via?”
“Tra poco – affermò guardandolo ancora – non capisco perché ti sei sorpreso così tanto nel vedermi. Non potevo certo andarmene senza salutarti, no?”
Gaara si grattò la testa, imbarazzato, prima di rendersi conto che quella di Itachi era una presa in giro leggera, tipica dell’ironia sottile che pareva appartenere solo a lui.
“Sarà colpa dello spumante – ironizzò, incrociando le braccia davanti al petto – Allora sei pronto a romperti qualche osso sulle piste da sci?”
Si ricordava bene di quel pomeriggio poco lontano, in cui loro due e Hinata si erano ritrovati a chiacchierare mentre lui reggeva la scala alla ragazza, intenta a decorare la stanza. Si era sentito bene, spensierato addirittura, ma qualche ora dopo aveva rivisto Kankuro e tutto era collassato su se stesso. Quell’ingenua felicità effimera gli era esplosa in faccia come un fuoco d’artificio ed era svanita nel buio della notte, lasciando come ricordo di sé solo un flebile filo di fumo.
“Spero sempre di tornare tutto intero, sono ottimista o solo molto fiducioso nelle mie capacità – sorrise Itachi, per poi allungargli una busta – ma prima… è il mio turno dei regali, anche se non sono vestito di rosso, né ho una barba bianca.”
Gaara rimase impalato a fissarlo, incapace di muoversi o parlare, l’unico movimento fu fatto dalle sue braccia che cedettero e rimasero inerti lungo i fianchi. Guardava alternativamente la busta e Itachi, senza dire niente, il suo cervello pareva annientato da quello che era un semplice gesto; anche Hinata in fondo gli aveva fatto un regalo, no? Però perché era riuscito a ringraziarla e a prenderlo seppur emozionato, mentre ora la cosa pareva molto diversa?
Deglutì, con il pomo d’adamo che si mosse con chiarezza sotto la sua pelle pallida, dopo di che fece un colpo di tosse per schiarirsi la voce, che uscì comunque bassa, sempre pacata ma diversa dalla solita.
“Itachi, ma… cosa? Non serviva” riuscì a dire in qualche modo senza incespicare con le parole.
“Dai, prendi questa cosa prima che mi senta il babbo natale più idiota del mondo.”
In effetti la sua reazione lo aveva stupito, aveva pensato che Gaara ne sarebbe rimasto sorpreso ma non a quei livelli. “E non mi ha costretto nessuno, è stato un impulso del momento e l’ho seguito.”
E il segretario non poteva sapere quanto ciò fosse inusuale per Itachi, così attento e abituato a pianificare tutto e a riflettere su ogni azione. In qualche modo alla fine allungò il braccio per prendere la busta, mormorando un ringraziamento.
Prese il pacchetto elegantemente incartato con della vivace carta colorata e percepì della morbidezza sotto le proprie dita. Sentiva del rimorso all’idea di strapparla, anche se dentro ci fossero state aria o cartacce ne sarebbe stato ugualmente felice: Itachi aveva pensato a lui e aveva scelto qualcosa sull’onda di quel pensiero.
Incitato dagli occhi scuri che lo fissavano, si decise ad aprire il pacchetto, cercando però di romperlo meno possibile e fu così che alla fine tirò fuori un morbidissimo maglione che dispiegò davanti a sé.
“È veramente molto bello, non so come ringraziarti” disse ed era vero. Il tessuto era pregiato, non uno di quei capi con il 2% di lana se si era fortunati, ma era probabilmente un capo costoso e di classe, uno di quelli che avrebbe potuto indossare lo stesso Uchiha.
“Spero che la taglia sia giusta, ma se vuoi puoi cambiarlo – rispose Itachi, osservando i suoi occhi ravvivarsi dopo giorni di buio – Ammetto che mi hai messo in difficoltà, sei un po’ troppo magro, devi riprendere peso con queste feste” aggiunse con leggerezza e un sorriso, ma l’evidente dimagrimento del ragazzo lo aveva impensierito veramente. Aveva avuto anche l’intenzione di dirgli qualcosa, ma lo aveva frenato la consapevolezza di non avere ancora tanta confidenza da poter dire cose simili. E lo aveva sorpreso il desiderarla tale confidenza.
“No, penso sia perfetto e non preoccuparti, ho solo bisogno di un po’ di riposo da questo periodo stressante” rispose Gaara. Sapeva benissimo di aver perso troppo peso, conseguenza inevitabile dell’aver dovuto fare economie, gli si vedevano addirittura le costole, fortunatamente nascoste dalle camicie e altri morbidi abiti invernali. Le cose si sarebbero aggiustate, si ripeteva, bastava solo tenere duro ancora un po’, benché nell’ultimo periodo ogni cosa gli stesse remando contro e lui aveva perso quella scintilla, quella forza che lo aveva spinto a sperare nel futuro, ritrovandosi ad andare avanti per pura inerzia. Però poi succedeva che ti facevano dei regali inaspettati e iniziavi a pensare che forse non era tutto perso, ma c’era la paura che fosse solo una presa in giro, che uscito da lì avrebbe trovato un altro disastro pronto ad abbatterlo.
“Mi sento in difetto, non ho preso nessun regalo per te o Hinata – disse ancora Gaara stringendo tra le dita il maglione vellutato – mi dispiace.”
“Non devi. Non è stato un periodo facile per te, specialmente l’ultima settimana anche se non ne conosco i motivi.”
I suoi occhi indagatori avevano fatto centro un’altra volta, ne fu testimone l’espressione sorpresa del segretario, ma Itachi non gli lasciò tempo per parlare, per tentare di negare o sminuire quell’evidenza. “Vuoi farmi un regalo, vuoi ricambiare in qualche modo? Bene, di là in frigo c’è una bottiglia di spumante e degli snack che saranno andati a male per quando torneremo, finiamoli noi. Stai qui con me e facciamo il nostro brindisi. Regalami un po’ del tuo tempo, Gaara.”
Il ragazzo sentì dei brividi rincorrersi sotto la pelle, il suo nome gli era sembrato così bello detto dalle sue labbra, da qualcuno che lo stava cercando, che gli comunicava che l’unica cosa che desiderava da lui era un po’ del suo tempo e la sua presenza.
Quando aveva creduto che al mondo non interessasse più niente di lui, ecco lì che compariva qualcuno a stravolgere quell’idea. Magari Itachi non aveva niente da fare quel pomeriggio, magari non sarebbero mai stati amici o non si sarebbero mai frequentati al di fuori dello studio, ma a Gaara non importò. In quel momento sapere che esisteva qualcuno che lo voleva era tutto ciò di cui aveva bisogno per non lasciarsi andare.
“Mi sembra un’ottima idea” gli rispose e si sorrisero, complici, felici di essere dove erano.
In breve la scrivania di Gaara, invece che dei soliti fascicoli e fogli sparsi, fu piena di squisiti snack e con una bottiglia di ottimo spumante che riempiva i loro bicchieri. Il segretario aveva anche indossato il regalo di Itachi per dimostrargli che gli andava bene e quanto gli fosse piaciuto.
Avrebbero potuto andare nella spaziosa sala riunioni, con le sue comode poltrone imbottite, ma avevano preferito rimanere lì, nel loro ufficio, con le loro sedie con le rotelle dallo schienale duro, un ambiente familiare che avevano condiviso in quei mesi.
“E comunque non hai nemmeno la pancia di babbo natale; mi spiace dirtelo, ma esiste qualcosa per cui non sei adatto” rise Gaara, bevendo un sorso dal suo bicchiere ormai vuoto.
“Vero, lo ammetto, sono colpevole vostro onore – scherzò Itachi riempiendolo di nuovo – ma tu non sei esattamente un bambino che sbircia dalle scale, per beccare il vecchio ciccione che si cala dal caminetto.”
“Colpevole” replicò un po’ più serio. Itachi non poteva sapere quanto avesse ragione, per  Gaara non c’era mai stato nessun bel Natale da passare in famiglia, forse c’erano stati, ma lui era stato poco più di un neonato e non li ricordava. Ricordava invece bene quelli in orfanotrofio, la desolazione dell’istituto in contrasto con le strade illuminate o i film passati in televisione, c’era stato solo Kankuro vicino a lui, l’unica famiglia che aveva e che ingenuamente credeva che non lo avrebbe mai lasciato.
Itachi vide il suo sottile cambiamento dopo il clima più allegro e forse fu colpa della bottiglia ormai vuota, forse fu colpa della sua curiosità sempre presente e della testa più leggera, ma si ritrovò a chiedere:
“Con tuo fratello, l’altra settimana, è andato tutto bene? Mi eravate sembrati piuttosto tesi.”
Vide chiaramente Gaara irrigidirsi, le dita che stringevano troppo forte il bicchiere fino a sbiancarsi, gli occhi che sembravano troppo chiari, troppo grandi, in grado di divorare quel viso dai lineamenti sottili fino a non lasciarne più nulla.
Aveva fatto una domanda scomoda, ma non se la rimangiò e rimase a guardarlo, bevendo pigramente, in attesa.
“Sì, non siamo in buoni rapporti, ma non ci saranno più problemi” rispose Gaara alla fine. Aveva ceduto dietro l’insistenza di quegli occhi scuri, anche se subito maledisse la lingua sciolta dall’alcool, apparentemente incapace di impedire alle parole di scivolare fuori dalla bocca. Maledette traditrici che non volevano rimanere sigillate, volevano essere ascoltate, comprese, non più ignorate.
“In che senso? Nessun problema della serie che passerete addirittura il natale assieme, o nessun problema perché ti sei disfatto del cadavere?” indagò ancora Itachi, con quella sottile ironia che ammorbidì di poco Gaara, tanto che si ritrovò a rispondere:
“Della serie che non ho più nessuno da poter considerare un fratello – ammise – anche se forse non l’ho mai visto così.”
Bevve immediatamente il resto dello spumante, per riempirsi la bocca e impedirsi di aggiungere altro dopo quella confessione azzardata per i suoi standard. Kankuro era stato più di un fratello: l’amante, l’amico, il confidente, il suo punto fermo… la sua più bella e tragica illusione.
Itachi inarcò appena le sopracciglia, sorpreso da quella frase che nascondeva molteplici significati, ma decise di non approfondire ulteriormente, bensì domandò:
“E i vostri genitori che ne dicono? Saranno dispiaciuti, immagino.”
Sua madre lo era, quando lui e Sasuke non erano legati da nessun rapporto se non dalle spire del rancore e dell’astio.
Gaara posò il bicchiere vuoto e, con un sorriso che non aveva nulla di divertito quanto di derisorio, sparò secco:
“Sono morti, dubito che gli possa interessare di qualcosa. Ho vissuto in un orfanotrofio.”
Itachi sussultò, il segretario aveva ragione a guardarlo a quel modo, come a chiedergli se fosse davvero un avvocato tanto abile visto che non lo aveva intuito da solo. Era semplice, avrebbe solo dovuto unire i pezzi del puzzle, sarebbero dovuti essere più che evidenti per uno come lui e, invece, lo aveva costretto a dirlo ad alta voce.
“Sono stato inopportuno, mi spiace” disse guardandolo negli occhi, senza nascondersi. Era raro che Itachi sbagliasse, ma qualora accadeva non era tanto vigliacco da non riconoscere le proprie responsabilità.
Gaara non fu compiaciuto da quelle scuse, desiderò invece non aver risposto in modo tanto astioso; se lui navigava in un mare di problemi di merda, non sarebbe certo stato meglio iniziando a spanderla tutt’intorno o a trattare male gli altri. Itachi non era nella sua testa, avrebbe potuto intuirlo, ma in quel momento lui non stava parlando con l’avvocato, ma con il giovane uomo e le cose erano ben diverse.
“No, scusami tu – si ritrovò infatti a dire – non avrei dovuto essere così acido, ma… ammetto che non sono argomenti di cui parlo volentieri, anzi in realtà non ne parlo proprio mai.”
Itachi annuì col capo, come a prendere coscienza di quell’ulteriore informazione e disse:
“Forse non è nemmeno giusto che tu ti tenga tutto dentro. A volte fa bene buttare fuori un po’ di roba vecchia, o non hai nessuno con cui parlarne?”
Osservò la scrivania ingombra di vassoietti, la bottiglia vuota così come i bicchieri e rifletté su quanto si fosse trovato bene a chiacchierare con lui, raramente gli accadeva con qualcuno all’infuori di Shisui. Si morse un labbro per non lasciarsi sfuggire parole compromettenti, pronunciate troppo presto in quel loro strano rapporto che pareva non decidersi a imboccare una direzione.

Potresti parlare con me, di tutto quello che vuoi.
Gaara intanto rifletteva su quella domanda. Se solo avesse voluto, avrebbe potuto parlarne con Hidan, o persino con Deidara. Non erano due persone abituate ai sentimentalismi, alle confessioni con fazzoletti umidi alla mano, tantomeno erano delicate, eppure era certo che per lui ci sarebbero state, come lo avevano aiutato in passato. A modo loro chiaramente, come quella volta che Deidara aveva messo del lassativo nel drink di un tizio che lo infastidiva al bar.
“Ho degli amici, buoni amici, ma preferisco comunque tenere certe cose per me – affermò per poi sorridere e cambiare registro – e proprio tu ti metti a dare certi consigli? Non mi sembri il tipo che si mette a fare confessioni o a raccontare tutto di sé.”
Itachi rise piano:
“Touché. Mi hai scoperto, mi dichiaro nuovamente colpevole – alzò le mani davanti a sé – mi piace avere i miei segreti e che rimangano tali.”
“Ah sì? Sarei proprio curioso di conoscerli” replicò per poi prendere la bottiglia e rendersi conto che era vuota. “Peccato, è finita” mormorò.
“La prossima volta andremo a bere in un locale, con tutto l’alcool che vorremo” propose Itachi.
Gaara scoppiò a ridere nell’immaginare l’impassibile Uchiha sbronzo marcio e non appena brillo come ora, chissà se aveva la sbronza triste, malinconica oppure euforica? Sarebbe stato davvero divertente scoprirlo.
“Ci sto.”
Nel vederlo così sorridente, diverso rispetto al fantasma senza vita che osservava ogni giorno muoversi in quell’ufficio, Itachi si domandò come sarebbe stato Gaara se avesse avuto una vita diversa. Se avesse avuto dei genitori o un fratello da non dover allontanare, uno che si prendesse cura di lui. Avrebbe visto più spesso il sorriso sul suo viso, si sarebbe lanciato più spesso in battute sagaci? Sarebbe stato ancora quello che rimaneva da solo al bancone di un bar a fissare un drink solitario, senza parlare con nessuno? Sarebbe stato più facile per lui aprirsi e magari… innamorarsi?
Si morse nuovamente un labbro, non era ubriaco, ma quell’alcool aveva allentato i suoi freni inibitori, solitamente rigidamente sotto controllo, e si era lanciato in pensieri troppo pericolosi per continuare a soffermarvicisi.
Doveva pensare a Sasuke, che aveva un qualche tipo di rapporto con Gaara. Lui ci si era avvicinato solo perché incuriosito dal segretario, col desiderio di capire di più sul conto del fratello e di entrambi, giusto?
Gli apparve in mente il viso sornione di Shisui e non riuscì a mettergli una mano sulla bocca e impedirgli di parlare, così come non riusciva a farlo nemmeno nella vita reale.

Ne sei proprio sicuro, Itachi? Per Sasuke, solo per Sasuke, dici? E io dovrei credere a questa stronzata, ma soprattutto come fai a crederci tu? Esiste anche la tua felicità, non fare il solito martire del cazzo o ti vengo a prendere a calci.
Itachi si alzò in piedi, forse un po’ bruscamente, ma l’altro sembrò non farci caso, intento a scegliere una tartina da addentare.
“Sarà meglio che vada, ho ancora la valigia da preparare e domani parto” disse con quello che sperava fosse il suo tono di voce abituale.
Gaara lasciò perdere gli snack che non rivestivano più tanto interesse ai suoi occhi e si alzò a sua volta.
“Oh, certo, io tolgo di mezzo questa roba, poi chiudo e me ne vado anch’io. Spero di rivederti a gennaio tutto intero” scherzò.
Itachi gli sorrise e, col cappotto già allacciato, si avvicinò alla porta dove si fermò per sistemare la sciarpa e intimare allo Shisui nella sua testa di stare zitto; era irritante quanto quello vero. In fondo lui non stava fuggendo, la sua era solo una ritirata strategica e poi aveva davvero una valigia da riempire.
“Suppongo che avrai mie notizie in qualsiasi caso” rispose, smettendo di armeggiare con la sciarpa per osservare il ragazzo che lo aveva raggiunto e gli stava di fronte.
“Sta’ tranquillo, se ti dovessero ricoverare in ospedale ti porterei del cioccolato e non degli stupidi fiori.” Gli sorrise, complice, perché non erano in molti a sapere dell’amore di Itachi per i dolci, ma lui lo aveva capito semplicemente osservandolo.
L’Uchiha sollevò appena gli occhi al soffitto, fingendo un disappunto che in realtà non provava ma, così facendo, vide un rametto di vischio pendere sopra le loro teste.

Al diavolo!
Guardò Gaara e all’improvviso nessuno dei due rideva più. Si fissarono in silenzio, vicini ma ancora separati di un paio di passi che Itachi compì prima di chinare la testa, per avvicinarla lentamente al suo viso con un chiaro intento. Il ragazzo non si spostò, anche se ne avrebbe avuto tutto il tempo: Itachi si muoveva con lentezza, come se dovesse conquistare ogni centimetro che li divideva. I loro occhi non si abbassarono, gli sguardi rimasero avvinti da un’intensità sconcertante ed entrambi sentirono sul viso il respiro dell’altro, il suo odore, il calore della pelle, finché le loro labbra non si unirono.
Itachi gli posò una mano sulla guancia dallo zigomo affilato, mentre delicatamente gli dischiudeva la bocca con la lingua e andava a scoprire il suo sapore; quello di Gaara, al di là dell’alcool e di ogni altra cosa, in un bacio lento, accorto, emozionante, che li ubriacò più dello spumante bevuto.
Continuarono a baciarsi e Gaara non riuscì più a rimanere passivo come nella lenta scivolata con cui Itachi si era avvicinato; le sue mani si aggrapparono alle spalle dell’Uchiha foderate dal cappotto e si godette quel bacio, che era morbido e andava a lenire le sue ferite. Si stava eccitando, ma non gli interessava davvero, persino quello scivolava in secondo piano. Perché voleva solo quel bacio, quel contatto, quell’istante sublime e nient’altro.
La perfezione di un attimo.
Lentamente si sciolsero dal loro abbraccio, aprirono gli occhi e Itachi sollevò un angolo della bocca, divertito:
“Ha fatto proprio bene Hinata a mettere il vischio, non trovi?”
Gaara ripensò al bacio sulla guancia che aveva dato alla ragazza giusto un’ora prima e si ritrovò a sorridere per la differenza tra i due baci scambiati lì sotto.
“Assolutamente d’accordo – fece un passo indietro – buon natale, Itachi.”
Non voleva parlare, chiedere spiegazioni, era stato bello e tanto gli bastava, e anche l’avvocato sembrava pensarla alla stessa maniera, perché gli carezzò solo lievemente una guancia prima di dirgli “Buon natale a te, Gaara” per poi voltarsi e uscire.
Guardando le sue spalle fasciate dal cappotto elegante che si allontanavano, le stesse che aveva stretto qualche istante prima, Gaara realizzò che Itachi gli aveva fatto il regalo più bello che ci potesse essere: la speranza.
C’era ancora speranza che esistesse qualcosa di bello anche per lui.

 

***

 

“Hidan, se lo bruci anche quest’anno giuro che ti infilo nel forno e poi vi faccio esplodere!”
“Ah ma non rompere il cazzo! Era solo appena colorito un po’ troppo, bastava grattare via la superficie, esagerato dei miei coglioni!”
Gaara ridacchiava mentre ascoltava il suo coinquilino e Deidara bisticciare come al solito, erano una garanzia, qualcuno avrebbe potuto trovarli irritanti e spacca timpani, ma non lui. Le loro continue rimbeccate significavano casa.
“Tu che cazzo hai da ridere? Dovresti stare dalla mia parte, sei o no il mio coinquilino?” lo minacciò Hidan, puntandogli minacciosamente contro un forchettone. Peccato che la sua aria da duro venisse smorzata da un guantone da forno colorato, più macchie varie di olio e altri condimenti sulla felpa.
“Rido perché lo scorso anno a causa della tua tequila bum-bum eravamo già sbronzi prima di cena e non bastava grattare l’arrosto, ma bisognava togliergli almeno due centimetri di roba” replicò Gaara senza scomporsi. Continuò invece ad apparecchiare la tavola, niente di troppo ricercato in realtà: aveva messo al centro, posate, tovaglioli, bicchieri e piatti di plastica, ognuno poi avrebbe pensato per sé, di sicuro non era la classica tavolata natalizia. A nessuno interessava che ci fossero centrotavola, candele e altri aggeggi inutili, se ci fossero stati probabilmente avrebbero passato la serata a tirarseli.
“Fanculo, non mi sembra che sia avanzato lo stesso” borbottò Hidan.
“Fame alcolica, tutto qua” replicò Deidara, intento a preparare dei cocktail, beccandosi in risposta un dito medio dall’altro, che venne puntato anche a Gaara quando questi concordò.
“E poi dato che sta quasi sempre qui – aggiunse Gaara – credo di poter considerare anche Deidara coinquilino, specialmente dopo averlo visto nudo l’altra mattina mentre andava in bagno.”
“Il mio corpo e un’opera d’arte, dovresti essermi grato – sbuffò questi – però… in effetti potrei smetterla di pagare un affitto inutile.”
Lo disse così, buttando quell’affermazione nel mezzo della conversazione come se fosse una cosa senza importanza, ma le sue mani non riuscivano proprio a stare ferme e il suo sguardo non si posava su Hidan.
Quest’ultimo si tolse il guantone da forno e lo fissò, con gli occhi violetti che brillavano, divertiti. Osservò i suoi movimenti nervosi, i capelli che adorava tirare durante il sesso e quella boccaccia che non stava mai zitta e non aveva alcun filtro col cervello.
“Bah, fanculo… uno organizza una fottuta cena di natale e si ritrova a convivere. Potevi pensarci prima, con quei soldi ci saremmo fatti una vacanza.”
Deidara lo fulminò, anche se per una volta non era realmente arrabbiato, non poteva dargliela vinta così facilmente:
“Non ti ficco nel forno solo perché c’è l’arrosto e perché non mi va di portarti al pronto soccorso. Preferisco passare il natale in un altro modo.”
A dispetto delle sue parole, gli passò un bicchiere con uno dei suoi squisiti cocktail. Si sorrisero, complici, compagni da una vita, consapevoli che se erano arrivati fin lì senza ammazzarsi sul serio era solo perché si amavano. A modo loro, ma l’amore c’era e Gaara non faticava a riconoscerlo.
Si voltò, imbarazzato per aver assistito a quel momento intimo, molto più che vedere Deidara nudo. Fece finta di dover fare qualcosa nell’altra stanza, così li lasciò soli, liberi di baciarsi, fare altre dichiarazioni o forse insultarsi, quei momenti di pace non duravano mai molto tra di loro.
Stava liberando il divano da riviste e qualche cartaccia, preparando la playstation perché di sicuro si sarebbero sfidati a qualche gioco dopo cena, tutti troppo ubriachi per poter giocare decentemente, ma quello non li aveva mai fermati.
Poco dopo sentì un braccio poggiarsi sulle sue spalle e, voltando la testa, vide Hidan a fianco. Gli porgeva un bicchiere e gli faceva quel suo sorriso un po’ storto irresistibile.
“Non lamentarti se quello poi rompe i coglioni, te la sei cercata.”
“Non accadrà” rispose semplicemente, prendendo il cocktail per poi far tintinnare il bicchiere col suo in un brindisi.
Hidan ancora lo stringeva e, a quel modo, poté sentire quanto Gaara fosse dimagrito, guardandolo in viso notò anche le sue occhiaie più pronunciate e gli zigomi più sporgenti. Si diede del coglione per essersene accorto solo ora, ma in quell’ultimo periodo si erano visti solo di sfuggita pur abitando assieme, ma la cosa non lo aveva preoccupato. Era già successo in passato, per di più era sicuro che se ci fossero stati dei problemi Gaara gliene avrebbe parlato, peccato essersi dimenticato che l’altro in pratica era un’ostrica travestita da essere umano.
“Ehi, stai bene, sì? È un sacco che non abbiamo dieci minuti per farci una chiacchierata e tra poco un’orda di cafoni invaderà casa.” Forse aveva sottovalutato la rottura con quel tizio… come si chiamava… Sasuke? Aveva pensato che Gaara sarebbe passato oltre senza problemi, in fondo era uno tosto.
“Ti ricordo che sono amici tuoi – gli fece presente il ragazzo dai capelli rossi con un sorriso divertito per poi sospirare appena – è stato un periodo tosto per entrambi. Il lavoro e l’università mi hanno risucchiato ogni energia.”
Non menzionò Kankuro, nemmeno Hidan che era la persona che conosceva più cose su di lui sapeva della sua esistenza e Gaara non aveva intenzione di cambiare le cose proprio ora, specialmente visto che, a quanto pareva, il sipario era calato definitivamente sui due fratelli.
Non disse nulla nemmeno dei risvolti con Sasuke o Itachi, perché non sapeva nemmeno lui come spiegarli, dato che era il primo a non capirli.
Hidan intanto lo scrutava attentamente:
“È per questo che non sei più uscito con nessuno? Dovresti dare una chance a Yahiko, gli sei sempre piaciuto, anche se è un po’ un cazzone non è male.”
Gaara sorrise e scosse la testa, consapevole dell’interesse mai nascosto da quell’amico di Hidan. Lo reputava bello e simpatico, nonostante fosse un po’ fuori di testa, ma non aveva mai voluto approfondire perché era certo che non sarebbero mai andati d’accordo.
“Mi spiace, ma io non sono disposto a fare il passivo e lui nemmeno.”
“E andrete avanti a pompini!” esclamò Hidan con foga, rischiando di rovesciare il suo cocktail.
“Tu lo accetteresti?” domandò Gaara, bevendo invece tranquillamente il proprio.
L’altro ci pensò su un attimo, poi scosse la testa:
“Cazzo, no! Come fai a rinunciarci? Però… ah, fanculo, fate come vi pare.”
Gaara fu divertito dal suo disagio nel manifestare interesse e gli batté una mano sulla spalla, pensando che, se fosse stato in grado di fidarsi e lasciarsi andare, sarebbe stato tutto più semplice. Non era mai riuscito a farsi penetrare o carezzare da qualcuno all’infuori di Kankuro, solo con Sasuke le cose erano andate diversamente. Gli piaceva sentire le sue mani sul proprio corpo, che sembravano disegnarlo con cura, senza dimenticare alcuna linea o angolo, ma… era tutto finito, inutile pensarci ancora.
I due amici continuarono a chiacchierare di cose più leggere e divertenti, immaginando vari scenari catastrofici causati da Deidara nella loro futura convivenza a tre. Finirono i drink, ma continuarono a ridere insieme grazie alla complicità nata faticosamente negli anni, almeno finché a Gaara non squillò il cellulare. Lo tirò fuori dalla tasca e, con sorpresa, vide che a chiamarlo era proprio Sasuke.
Fissò lo schermo lampeggiante e il suo primo impulso fu di rifiutare la chiamata, oppure di rispondere, mandarlo a quel paese e poi riagganciare.
Il tempo si dilatò, quei pochi secondi di chiamata parvero infiniti e il nome che continuava ad apparire sembrava una pistola contro, che lo sfidava a reagire o scappare, ma lui era bloccato. Gli si era inceppato qualche meccanismo dentro.
“Rispondi e mandalo a farsi fottere, visto che gli piace pure” sbottò Hidan. Non era normale tutta quell’indecisione da parte di Gaara, evidentemente c’era ancora qualcosa in sospeso, meglio che si parlassero e la chiudessero una volta per tutte.
Fu l’intervento dell’amico a dare a Gaara la spinta necessaria per premere il dito sul bottone giusto. Sentiva di andare incontro a un’altra catastrofe, ma poteva anche sbagliarsi, l’unica cosa certa era che, se non avesse risposto, non lo avrebbe mai saputo.
“Pronto?” disse dirigendosi verso la propria camera, mentre Hidan gli faceva dei gestacci per indicare dove mandare Sasuke.
Questi non rispose subito, tanto da far pensare a Gaara che quella chiamata fosse partita per errore, ma le sue parole successive fugarono quel dubbio:
“Credevo che non mi avresti risposto.”
“Avevo il cellulare nell’altra stanza, l’ho sentito per caso” mentì Gaara. Mai gli avrebbe confessato quanto era stato difficile rispondere, né quanto lo scombussolasse sentire di nuovo la sua voce.
“Capisco – disse Sasuke – immagino starai festeggiando, ti ho disturbato.”
Nessun accenno di scuse o di dispiacere, come sempre.
“No, nessun disturbo – affermò Gaara, con la voce che non tradiva la minima incertezza – come mai mi hai chiamato?”
Udì un rumore in sottofondo, come di qualcosa che cadeva a terra, ma non vi badò, tutta la sua attenzione era protesa in attesa di quella risposta; Sasuke non lo aveva mai chiamato nemmeno quando si frequentavano, limitandosi a più freddi e impersonali messaggi.
“Beh, ecco… – disse ed era difficile riconoscere l’Uchiha in quel tono incerto – ho immaginato che una telefonata fosse più indicata di una mail per fare gli auguri di natale.”
Gaara si sedette sul letto, tentando di processare quell’informazione. Tra tutte le cose che gli potevano accadere, non aveva mai contemplato che Sasuke potesse telefonargli per degli stupidi auguri. D’altronde non aveva nemmeno immaginato che Itachi potesse fargli un regalo o baciarlo e, a quel ricordo, arrossì appena, ringraziando che l’altro non lo stesse vedendo.
“Allora auguri di buon natale, Sasuke” rispose soltanto, passandosi le dita sulle labbra che entrambi i fratelli avevano baciato e, pensandoci, rabbrividì.
“Grazie, auguri anche a te, Gaara” replicò automaticamente.
Sulla linea regnò il silenzio, se fossero stati nella stessa stanza forse in quel momento si sarebbero fissati negli occhi e basta, ma erano lontani, non solo fisicamente.
“Come va sulla neve?” domandò Gaara. Avrebbe potuto benissimo salutarlo e poi chiudere la telefonata, invece di prolungare quello strazio imbarazzato ricolmo di disagio. Però Sasuke lo aveva chiamato, aveva fatto un primo passo e poteva immaginare quanto gli fosse costato con quell’orgoglio che si ritrovava, quindi lui poteva anche fare una domanda per cercare di sbrogliarsi da quella situazione di stallo.
“Come fai… ah, certo, Itachi – si disse Sasuke – tutto bene, è piuttosto divertente, anche se quest’anno sono venuti tutti allo chalet e stiamo un po’ stretti. E vorrei tanto ammazzare mio cugino Shisui, lui è… lascia stare, nemmeno lo conosci.”
Si interruppe bruscamente, forse si era reso conto di aver parlato troppo, di cose che lui stesso giudicava stupide.
“No, lo conosco. L’ho visto solo una volta, ma mi è sembrato un tipo che non sta mai zitto – intervenne Gaara – posso immaginare bene perché ti irriti.”
Di nuovo aveva salvato la conversazione e non sapeva se darsi del cretino o se esserne felice. Quella telefonata e quel dialogo lo stavano scombussolando, se poi pensava anche a quel bacio con Itachi la testa minacciava di esplodere.
Sentì delle voci in lontananza, gli amici di Hidan erano arrivati, la casa si stava per riempire di caos e allegria, discorsi e risate, e lui si ricordò nuovamente quanto lui e Sasuke fossero lontani caratterialmente, fisicamente e in qualsiasi altro modo esistente. Eppure, nonostante tutto, erano riusciti a trovare un punto di incontro; come erano arrivati ad essere nuovamente tanto distanti? Davvero erano stati inutili e privi di significato quei mesi in cui si erano frequentati?
“Sto andando da uno psicologo.”
La voce di Sasuke fu secca, brutale, una fucilata in pieno petto che lasciò Gaara a bocca aperta, shockato e pieno di domande. Cosa significava quella frase? Che Sasuke aveva riconosciuto di avere un problema, che voleva risolverlo e non nasconderlo come polvere sotto al tappeto? E perché glielo stava dicendo, in che modo rientrava lui in quel quadro?
“Io…” mormorò, ma l’architetto lo interruppe:
“Lo so che magari non te ne frega niente e non sai quanta fatica sto facendo a dirti queste cose, ma… devo farlo. Ho sbagliato tutto con te – rimase in silenzio – scusami, Gaara.”
Il ragazzo si stese sul letto, incredulo. Sasuke si era scusato ed aveva ammesso le sue colpe, doveva essere proprio ubriaco o quel terapista doveva essere davvero bravo, oppure era un altro regalo di natale?
“Sono… mi fa piacere per te – disse Gaara – il tuo psicologo deve essere davvero un mago, eh?”
Non aveva resistito a quell’occasione di stuzzicarlo, di rispondergli per le rime come facevano prima, sempre in lotta per avere l’ultima parola. Sasuke però non ribatté, anzi rise piano e Gaara immaginò le sue labbra sorridenti, come se le avesse avute davanti agli occhi in quel momento.
“Si può dire anche così, ma ho ancora molto lavoro da fare e adesso smettila di gongolare, so che lo stai facendo – entrambi risero, poi lui continuò – possiamo rivederci quando torno? Magari un caffè, o un cinema…”
Lasciò la frase in sospeso e Gaara si morse le labbra perché davvero non sapeva cosa rispondere, anche il fatto che Sasuke volesse rivederlo era sorprendente e si ritrovò a pensare che l’ipotesi che lo psicologo fosse davvero un mago non era poi così priva di fondamento. Tuttavia rifletté anche sul fatto che Sasuke aveva ancora del lavoro da fare, per sua stessa ammissione, poteva essere saggio iniziare a rivedersi già da ora? Magari lui intendeva solo come amici o per una chiacchierata, ma Gaara aveva un’altra impressione e poi, in fondo, non esistevano solo i problemi di Sasuke. Anche lui aveva il suo carico di dubbi e paure che non potevano essere cancellati con un colpo di spugna così all’improvviso, non bastavano solo delle scuse, ed erano successe altre cose da quando avevano smesso di vedersi.
Tra queste c’era Itachi; cos’era stato quel bacio? Solo un meraviglioso regalo o c’era altro?
“Credo che non sia il caso di affrettare le cose, hai molte cose da risolvere per conto tuo e anch’io ho le mie questioni – rispose alla fine, lucido e razionale – però… tanto a gennaio dovremo rivederci per il progetto, no?”
Udì solo silenzio all’altro capo della cornetta e immaginò che Sasuke si fosse offeso per il suo rifiuto, ciò lo rassicurava sulla bontà della sua decisione, ma lo rendeva anche dispiaciuto. Tuttavia, quando l’architetto rispose, la sua voce era serena, forse si era preso solo qualche istante per riflettere, dato che poi gli diede ragione:
“Certo, è giusto. Beh, sarà meglio che ti saluti, abbiamo entrambi persone che ci attendono.”
“Già – convenne – buon natale, Sasuke.”
“Buon natale, Gaara.”
Il telefono prese a tubare e i due ragazzi distanti, ma inconsapevolmente sulla stessa linea di pensiero, si ritrovarono a fissare due soffitti diversi e a chiedersi quale fosse la cosa giusta da fare.

 

 

 

 

L’angolino oscuro: Adoro il natale, per me ci dovrebbero essere lucine e decorazioni da novembre fino ad almeno marzo, quando diventerò presidente della galassia mi impegnerò a promulgare una legge a riguardo muahahah
Scherzi a parte, spero vi sia piaciuto questo capitolo, ho cercato di imprimervi un’atmosfera del tutto diversa rispetto al precedente, un’idea di speranza, che qualcosa di buono ci possa ancora essere, ancora non è tutto perduto.
Mi sono sciolta col bacio di Gaara e Itachi, come ho scritto è la perfezione di un attimo. In quel momento era ciò che entrambi volevano più di ogni altra cosa, non continuare ciò che avevano iniziato, finire a letto o altro, ma solo assaporare quel bacio e quel momento che si sono regalati, proprio loro due che raramente si concedono di buttarsi in qualcosa senza ragionarci.
Sasuke non è scomparso di scena, direi che lo psicologo vale ogni centesimo dato che lo abbiamo visto fare qualcosa di impensabile solo qualche mese fa: parlare. Cercare di comunicare e stabilire una connessione, cosa che aveva sempre rifuggito; sono orgogliosa della sua crescita, ho sempre voglia di prenderlo a calci, ma stavolta con orgoglio XD
Piccola comunicazione di servizio: non so esattamente quando riuscirò ad aggiornare. Sto per affrontare un trasloco/trasferimento piuttosto grosso, la mia testa è tutta proiettata lì, cercherò di fare del mio meglio e, se l’aereo non cascherà come un ferro da stiro, ci sentiremo il prima possibile, se nel frattempo mi vorrete lasciare una recensione per farmi sapere cosa ne pensate della storia finora mi farete felice, a presto!

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Capitolo 10
*** 10 - Un fratello è quel legame che non potrai mai spezzare, non importa quanto ci provi ***


every 10

Un fratello è quel legame che non potrai mai spezzare, non importa quanto ci provi

 

 

Itachi stava davanti alla porta chiusa senza sapere cosa fare. In quell’ultimo periodo gli stava succedendo un po’ troppo spesso di ritrovarsi indeciso, proprio lui, la persona in grado di portare fino in fondo anche le scelte più difficili, perché certo che conducessero alla strada giusta, verso il suo obiettivo.
Il vero problema, forse, era che per una volta quell’obiettivo non era chiaro. Era avvolto da una foschia che nessun sole o vento riuscivano a diradare, e il ragazzo non era avvezzo a una tale condizione.
Senza volerlo, aveva ascoltato la conversazione telefonica del fratello, dalle sue parole aveva intuito che stava parlando con Gaara e non era riuscito a fare a meno di rimanere a origliare; la sua sete di segreti non aveva fine. Eppure, ora, una parte di sé desiderava non averlo mai fatto.
Era lì, davanti a quella porta chiusa, l’intento iniziale di chiamare Sasuke per uscire a sciare vacillava; forse avrebbe dovuto semplicemente fare dietrofront e fare finta di nulla, ma quando mai era riuscito a ignorare il fratello e i suoi problemi?
Mai, anche in passato quando sembrava indifferente a quello che gli accadeva, in realtà lo teneva sempre sott’occhio da lontano.
Fu così che si decise a bussare ed entrò, vedendo Sasuke su una sedia e a terra vicino a lui una bottiglia d’acqua che l’altro non si decideva a raccogliere. Forse non se ne era nemmeno accorto perché, quando alzò lo sguardo Itachi, questi notò quanto fosse immerso nei suoi pensieri, lontano miglia e miglia da lì.
“Cosa succede, Sasuke?” gli chiese istintivamente, senza alcun filtro ad ammorbidire quella domanda.
Il ragazzo lo guardò, con le mani incrociate in grembo, l’espressione spaesata e la testa che gli turbinava. Erano passati solo un paio di minuti dalla telefonata con Gaara, non era pronto ad affrontare e mentire al fratello e ai suoi maledetti occhi indagatori.

Sicuro di doverli affrontare e mascherarti, Sasuke?
La voce dello psicologo risuonò chiara nella sua testa, eppure lui rispose automaticamente:
“Niente, va tutto bene.”
Poteva una menzogna essere più palese di così? Itachi lo riteneva poco probabile e quella volta decise di ignorare le regole non scritte del codice Uchiha: si fece più avanti e affrontò nuovamente il fratello a viso aperto. Basta nascondersi, basta fingere che tutto fosse a posto, basta pretendere di essere ciò che non si era.
“Che pessima bugia, Sasuke – scosse la testa – avanti, parlami. Ho voglia di ascoltarti.”
Il più giovane lo fissò con gli occhi sgranati. Quelle stesse parole gliele aveva dette lo psicologo, anche lui aveva detto di aver voglia di ascoltarlo, solo… quello in fondo era il suo lavoro ed era pagato per farlo, Itachi no. Itachi aveva scelto di ascoltarlo, di dedicargli tempo, di vincere l’imbarazzo e quella freddezza di fondo che gli aveva sempre impedito di confidarsi realmente, di raggiungere quel livello di profondità comune nei fratelli.
La neve cadeva leggera fuori dalla finestra, nei corridoi si sentiva lo scalpiccio dei passi, mezze risate, stralci di conversazioni e il calore di quell’elegante chalet in legno, animato dalle persone che lo riempivano. I due continuavano ad osservarsi in silenzio, il disagio era palpabile, come una cappa solida che li avvolgeva, ma Itachi non indietreggiava, rimaneva lì, a dargli tutto il tempo necessario, ad aspettarlo.
“Non… non è tutto a posto, ma – mormorò Sasuke in difficoltà – non è il momento adatto, non siamo soli.”
Itachi sospirò appena, incrociò le braccia davanti al petto e rispose, lieto che il fratello non lo stesse respingendo:
“Se è solo quello il problema si risolverà presto: ero venuto ad avvisarti di prepararti per uscire tra poco, per partecipare alla fiaccolata notturna sugli sci. Gli zii sono già usciti coi figli più giovani, mancavamo solo noi più grandi e i nostri genitori. Dirò a mamma che hai mal di testa e non te la senti e che io rimarrò con te; ci crederà, in fondo aveva notato già a pranzo che eri pallido e hai mangiato poco.”
Pratico ed efficiente, due caratteristiche che contraddistinguevano sempre Itachi e il ragazzo stesso si sentì meglio, perché a quel modo sentiva di riprendere almeno un po’ dell’abituale controllo, benché non fosse certo di dove quella chiacchierata li avrebbe condotti.
“Ma è importante, avevamo detto che si saremmo stati…” tentò di dire Sasuke, in un debole tentativo di evitare il loro confronto.
“Tu sei più importante – affermò Itachi, serio – tu per me sei più importante, Sasuke. Ti aspetto di là.”
Uscì, senza nemmeno attendere una sua risposta e al minore parve di scorgere sul suo viso un accenno di rossore. Forse, se si fosse specchiato, avrebbe visto la stessa cosa sul proprio.

 
A Sasuke sembrava di essere nello studio dello psicologo, se si voleva escludere il bicchiere di whisky in mano e l’atmosfera sicuramente più elegante e lussuosa. Tuttavia era seduto sempre su una poltroncina, aveva l’interlocutore di fronte a sé, l’unica differenza era che gli occhi intelligenti e attenti non erano nascosti dietro a delle lenti.
E poi era suo fratello.
Perché sentirsi così agitato e nervoso?
Bevve un sorso del drink che Itachi gli aveva preparato, godendosi l’ottimo liquore, il tepore del caminetto che scoppiettava e si trovò a riflettere che non si erano mai trovati in una situazione del genere. Non aveva mai nemmeno chiesto scusa e ammesso di aver sbagliato, eppure nemmeno un’ora prima lo aveva fatto con Gaara; quel natale gli stava regalando un sacco di prime volte.
“Mamma ti ha creduto senza problemi?”
“Ovviamente – sorrise Itachi – non è passata a salutarti perché le ho detto che stavi riposando.”
Posò il bicchiere sul tavolinetto tra di loro, dopo di che intrecciò le mani posandosele su una coscia e lo guardò, in attesa.
Sasuke continuava a rimanere in silenzio, consapevole che toccava a lui iniziare, ma non riusciva a staccare gli occhi dai cubetti di ghiaccio nel suo whisky, era davvero interessante osservare il loro movimento randomico quando scuoteva il bicchiere. Tuttavia le sue osservazioni, sicuramente degnissime di una pubblicazione scientifica, vennero interrotte da Itachi:
“Non voglio costringerti a parlare, ma credo che tu abbia bisogno di farlo, per questo sono così insistente, come mai prima. So di stare forzando i tuoi tempi, ma sono mesi che covi qualcosa, come una malattia, e negli ultimi tempi si è aggravata. Non voglio che l’infezione dilaghi e ritrovarmi in futuro a incolparmi per non aver fatto nulla quando c’era ancora tempo, frenato dalla vergogna o dall’inabilità a parlare – sospirò – Sì, Sasuke. Noi due non siamo per niente bravi a comunicare, a volte vorrei avere anche solo un briciolo dell’abilità di Shisui.”
Sasuke lo guardò esterrefatto: un’ammissione del genere era qualcosa di stupefacente, quasi quanto un’invasione aliena, e si chiese se il fratello non si fosse scolato uno o più drink prima di sedersi nel salotto con lui.
“Non ti sembra di essere un po’ melodrammatico? – ironizzò – E poi per invidiare anche solo un’unghia di nostro cugino devi avere la febbre alta.”
“Forse – disse Itachi per entrambe le domande – ma le cose stanno così, quindi… parlami, ti ascolto.”
Il bicchiere di Sasuke andò a fare compagnia al suo sul tavolino, dopo di che il ragazzo incrociò le braccia davanti al petto e guardò in giro per la stanza, fissandosi poi sulla finestra dove si intravedevano le luci delle altre abitazioni nella notte scura.
Chissà come doveva apparire quel luogo dall’alto, con quelle case coperte di neve eppure illuminate, immerse nel verde, con qualche umano affaccendato al di fuori. Magari sarebbe sembrato un grande presepe naturale, e loro tutti i personaggi della recita natalizia che fingevano di essere i pastori, gli artigiani, i musicanti, i re magi…
Sasuke non era un attore, ma aveva sempre interpretato un ruolo. Quello del bambino composto, serio, che odiava i dolci e fare confusione con altri bambini per dimostrarsi all’altezza dell’impeccabile fratello e ricevere anche lui gli elogi paterni. Aveva continuato con quella recita nell’adolescenza e l’età più adulta, aggiungendo o togliendo alcuni elementi sul copione, come la rabbia, il risentimento, o l’interesse per fidanzate mai realmente desiderate, ma aveva sempre seguito le battute già scritte, senza uscire dal ruolo.
Per uno strappo alle regole era riuscito a capire e scoprire il suo interesse per gli uomini, ma lo aveva tenuto celato, interpretando il suo personaggio con maggior convinzione di prima, col bisogno di convincersene lui per primo, perché… se quello non era lui, allora chi era lo sconosciuto sotto la maschera?
“Sono gay, Itachi.”
Era tempo di scoprirlo.
Il maggiore inspirò più profondamente e socchiuse gli occhi, ma a parte questo non fece altro. Non saltò, non sobbalzò, tantomeno scappò inorridito, rimase a guardare il fratello e gli sorrise leggermente:
“Non ti farò domande stupide come ‘Ne sei certo’ o altro, se sei arrivato a dirmelo lo sei – iniziò a dire – e posso immaginare quanto questo ti stesse logorando. Non è facile ammettere una cosa simile, ancor meno in una famiglia rigida e legata alle tradizioni come la nostra, ma sono felice che tu abbia deciso di fidarti di me.”
Fu invece Sasuke a sobbalzare e a piantare le dita nei braccioli imbottiti, pareva sul punto di saltare addosso all’altro per sbranarlo, ma ovviamente non fece nulla di ciò, limitandosi a fissarlo e mordersi le labbra.
“Tutto qui?” sputò acido.
“Tutto qui cosa? – rispose Itachi invece tranquillo – Ti aspettavi che ti dessi del mostro, dello scherzo della natura, come nostro padre ogni volta che sente nominare i gay? Mi deludi, Sasuke… pensavo avessi capito che io e lui siamo molto diversi. Oppure non ti aspettavi che io fossi così comprensivo, cercavi un motivo per essere arrabbiato con me?” indagò, senza smettere di guardarlo e vedendolo fremere.
Sasuke era un concentrato di rabbia e frustrazione che però non sapeva dove dirigere e spesso finiva per riversarsela addosso, complicandosi inutilmente la vita, Itachi lo sapeva. Come sapeva che il fratello senza quel sostegno di livore e ira non sapeva stare, era ciò che lo aveva mantenuto in piedi durante tutti gli anni del loro conflitto, e adesso anche lui doveva scontare le conseguenze dei suoi sbagli passati.
“Cazzo, Itachi…” sbottò Sasuke dando un pugno a un bracciolo maltrattato. Accavallò le gambe e tornò a far sfrecciare lo sguardo per la stanza prima di posarlo di nuovo sull’altro. “Non lo so, non lo so davvero cosa mi aspettassi da te, io non ci sto capendo più niente da un pezzo – sospirò – so solo che sono stanco di fingere, tutto qui.”
Itachi ammirò il suo coraggio, perché ce ne voleva per arrivare a quel punto e ammettere la verità, invece lui, quel coraggio, non lo aveva. Infatti, cogliendo l’occasione, avrebbe potuto rivelargli la propria bisessualità, la notizia avrebbe persino potuto dare sollievo al fratello, ma Itachi preferiva rimanere nell’ombra coi suoi segreti. Forse più avanti, si disse, in fondo quel momento doveva essere solo di Sasuke.
“Non deve essere stato facile reggere un simile segreto da solo e trovare la forza di ammetterlo – disse Itachi – ma credo che il tuo problema non sia finito qui, ma che tu abbia qualche screzio con un ragazzo, giusto?”
“Già – mormorò – io, non…”
Sasuke non riuscì a completare la frase che rimase ad aleggiare tra di loro, unendosi al profumo di legna e pino, gli odori tipici dell’inverno, ma soprattutto di quello chalet dove soggiornavano sin da quando erano bambini.
“Hai dei problemi con Gaara” lo soccorse Itachi, prendendosi la responsabilità di fare quel nome proibito.
Quel nome deflagrò con la violenza di una bomba e Sasuke non era pronto. Non era corso a cercare riparo in una trincea, non si era protetto il viso con le braccia, non aveva fatto nulla, era rimasto fermo a ricevere la detonazione e i frammenti che volavano tutt’intorno. Li sentì premere nella carne e, guardandosi, si stupì di non trovare i suoi abiti tinti di rosso, nel costume di un grottesco babbo natale.
“Tu come…?”
“Era palese che ci fosse qualcosa che non andava tra voi” gli spiegò Itachi. In quel momento provò odio per se stesso, per il dolore che gli aveva procurato pronunciando il nome di Gaara, e per il modo ipocrita in cui si stava giustificando, dicendosi che a volte bisognava rompere qualcosa per poi renderlo più bello e migliore saldandolo in una nuova forma.
“Tu sapevi già di me” disse ancora Sasuke, chiedendosi fin dove riuscissero a vedere quei occhi, refrattari alle sue bugie e alle illusioni in cui gli altri invece cadevano.
“No, era un sospetto – rispose Itachi, accomodandosi meglio – non ti ho detto nulla finora perché volevo lasciarti la tua privacy, ma oggi ho capito che non era la strada giusta da seguire. Siete stati insieme?” domandò ancora a bruciapelo, sentendo improvvisamente il cuore in gola. Sapeva, comprendeva che quella risposta avrebbe decretato inevitabilmente anche il proprio futuro, perché lui, per Sasuke, avrebbe fatto qualsiasi cosa.
“Sì, no, sì… cioè… è complicato” balbettò il più giovane, passandosi una mano sul viso per poi sospirare, non sapendo come spiegare quel casino che c’era tra di loro. “Ci siamo conosciuti per caso mesi fa, ci siamo frequentati, ma poi… diciamo che potrei non essermi comportato in maniera ineccepibile nei suoi confronti. Sì, diciamo così” concluse. Era difficile ammettere le proprie responsabilità, anche se quella volta era stato più tenero con se stesso rispetto alla telefonata.
Ineccepibile, interessante sinonimo per dire stronzo – Itachi sorrise appena, conosceva abbastanza il fratello da sapere quanto potesse diventare caustico – almeno oggi gli hai chiesto scusa.”
“Itachi! – esclamò l’altro imbarazzato – Da quando in qua origli?”
“Beh, ammetto che non è stato proprio etico – replicò con un filo di imbarazzo – ma ero venuto a chiamarti, ti ho sentito al telefono e non sono riuscito ad evitarlo. Devo però confessarti che non me ne pento: è stata quella telefonata ad avermi spinto a farti certe domande e ci ha condotti fin qui. Direi che per questa volta puoi perdonarmi, o no?”
Sasuke sprofondò nella poltrona, con la fronte corrucciata e la faccia funerea. Non era stato per niente facile dire certe cose a Gaara, sentirle ad alta voce e rendersi conto che erano vere; non era certo felice che le avesse udite anche il fratello. Si stava confidando con lui, ma faticava a tenere a bada il proprio orgoglio che premeva per uscire e prendere il controllo per soffocare il senso d’inferiorità sempre pronto a divorarlo.
“Diciamo di sì” concesse, con un’aria lontana dall’apparire magnanima.
“Non accadrà di nuovo, ne puoi stare certo – gli assicurò Itachi che poi bevve un sorso di whisky – quindi come stanno adesso le cose tra voi?”
“Se hai origliato hai sentito anche la mia proposta di vederci, e la mia risposta successiva. Visto che sei così bravo arrivaci da solo – sputò acido, per poi sospirare – scusa.”
“No, penso di essermelo meritato” ammise Itachi, chiedendosi come avrebbe reagito se avesse saputo del bacio tra lui e Gaara, ma soprattutto dell’interesse che cercava di negare nei confronti del segretario. “Quindi ha rifiutato?”
Sasuke prese a sua volta il bicchiere e in un sorso lo finì, sentendo che bruciava maledettamente in gola, ma ne aveva bisogno e si alzò per prendersene un altro.
“Non proprio – disse dando le spalle all’altro mentre trafficava davanti all’angolo bar – ha detto che forse è presto e che ho altre cose da risolvere per conto mio. Immagino avrai sentito anche che vado da uno psicologo.”
Itachi fissò la sua schiena leggermente curvata in avanti; quando era diventato tanto alto? Se chiudeva gli occhi gli sembrava di vedere ancora il moccioso che lo seguiva come un’ombra, invece di quel giovane adulto che cercava il proprio posto nel mondo.
“Sì, ho sentito – confermò – credo tu abbia preso una buona decisione, così avrai l’opportunità di chiarire tutti i tuoi dubbi e conoscerti meglio, anche se è la cosa più difficile che esista. Molto spesso quello che troviamo non ci piace e allora ci si trova davanti a un bivio: scegliere se accettarsi o se continuare a mentire a se stessi, rinnegando ciò che si è. Ma io so che sei coraggioso, farai la scelta giusta.”
Pensò anche che la risposta di Gaara era proprio tipica del ragazzo: pacata e assennata, eppure immaginava che per lui non fosse stato facile dirla.
Non dedicò ulteriore energia mentale al segretario, perché in quel momento era dedicato unicamente al fratello che continuava a dargli le spalle; la loro discussione non era ancora finita e forse la parte più difficile stava arrivando ora.
Sasuke infatti ricominciò a parlare, ma lo fece lentamente, come se stesse scegliendo con cura le parole o, forse, per mascherare il tremolio nella voce.
“Non sono coraggioso, affatto. Sono un codardo e anche bugiardo, perché sono anni che ho dubbi, anni che provo interesse per gli uomini, credevo addirittura di essermi innamorato di Naruto, ma ho continuato a negare tutto. Facevo finta che questa parte di me non esistesse, solo una volta ho ceduto e ho avuto una brevissima relazione, ma mi sentivo così in colpa, avevo paura di dove avrebbe potuto condurmi quella strada e me ne sono tirato fuori, finché… finché Naruto non mi ha presentato Hinata e lì è andato tutto in pezzi; ho conosciuto Gaara e forse l’ho portato sul fondo con me. Ho paura, Itachi, del me stesso codardo e bugiardo che ha sempre tenuto il controllo, perché non so dove mi porterà e non so se riuscirò a impedirglielo. Però non so nemmeno se ce la faccio a continuare a mentire, non so se sarò in grado di trovare una fidanzata che piaccia ai nostri genitori, sposarla, andarci a letto e fare un figlio o due. All’idea mi viene voglia di inghiottire un pacco di lamette e basta. Come faccio a vivere così, nella menzogna? E come posso non farlo, vivere appieno la mia natura, amare un altro uomo come se niente fosse? Non sarò mai perfetto come te.”
Itachi non lo aveva interrotto, aveva lasciato che le parole taglienti di Sasuke incidessero più a fondo la ferita in modo da far sgorgare tutto il pus, il marcio che lo stava avvelenando, così che una volta pulita quella ferita potesse richiudersi, lo avrebbe aiutato anche a mettere i punti se necessario. Tuttavia, sentendo quelle ultime parole, non riuscì più a stare fermo e lasciare che l’altro si torturasse.
Scattò in piedi e lo raggiunse in pochi, rapidi passi. Per completare la lunga lista delle prime volte di quel giorno, lo abbracciò: rimase alle sue spalle e gli passò le braccia attorno al busto, stringendolo contro il proprio. I suoi capelli corti gli solleticarono il collo e Itachi avvertì l’odore di shampoo, dell’acqua di colonia leggera che lui stesso gli aveva regalato e aumentò la stretta.
Sasuke non lo allontanò, lo lasciò fare, e Itachi avvertì il suo respiro difficoltoso, la cassa toracica che non si contraeva bene, così gli portò una mano sul viso, lasciandola lì ad asciugare le lacrime silenziose che non poteva vedere.
“Non dirlo mai più. Mai più, Sasuke – gli intimò a bassa voce – io non sono coraggioso, rimango sempre nascosto e non mi espongo. Altrimenti ti avrei già parlato tempo fa, quando ho iniziato ad avere i miei sospetti oppure, quando tu mi hai confessato di essere gay, avrei potuto confessarti allo stesso modo di essere bisessuale.” Avvertì chiaramente i suoi lineamenti distorti che, sotto al palmo della sua mano, si distendevano in un’espressione sorpresa, ma non gli diede modo di interromperlo. “Sì, sono bisessuale e nella nostra famiglia non è certo l’unico segreto che c’è. La cugina di mamma, Makoto, te la ricordi? Ha una relazione col cognato da anni. Mentre lo zio Ryuta ha fatto abortire la sua amante molto più giovane di lui e questo non è quasi niente. Se solo volessi potrei andare avanti a lungo a parlare di questi segreti, di perversioni grottesche e azioni tutt’altro che nobili che la nostra famiglia nasconde. Alcune cose si sanno, ma si fa finta di niente per una stupida idea di decoro, e queste stesse persone si permettono di riempirsi la bocca di giudizi per stabilire cosa possa essere morale o no. Stupidi ipocriti arroganti, che vogliono solo apparire irreprensibili, quando in realtà sono marci. Ti ho detto questo perché voglio che tu capisca  di non avere niente che non va, mettitelo bene in testa, sei solo un normale ragazzo che ha capito che gli interessano altri ragazzi. Tu non devi vivere come vogliono gli altri, come vuole papà o come pensi che vorrei io, ma solo come vuoi tu… cazzo, avrei dovuto dirti queste cose molto tempo fa invece di tenerti a distanza, ma mi dicevo che lo facevo per il tuo bene… che stupido, come puoi ammirare uno stupido cieco come me? – una smorfia ironica gli percorse il viso, era difficile ammettere i propri errori e accettarne le conseguenze – Se vorrai mai fare coming out io ti sosterrò, oppure puoi vivere la tua sessualità senza rivelarla al mondo, qualsiasi decisione prenderai sarà quella giusta, perché sarà quella che ti farà stare bene e io sarò al tuo fianco, così come Shisui ha fatto per me. Senza quell’idiota forse non sarei mai arrivato fino qui, insieme siamo cresciuti e abbiamo capito molte cose di noi stessi” concluse quel lungo sfogo con un respiro profondo, salutando senza troppo rammarico uno dei suoi segreti, in fondo non era stato così traumatico, specialmente se poteva aiutare Sasuke.
Questi intanto rimase in silenzio, preso ad assorbire quella mole di notizie piuttosto indigesta. Sentiva il calore di Itachi, il suo profumo unito a quello lieve delle sigarette che fumava di nascosto dal padre, ma lui sapeva del suo vizio da parecchio, anche quello era un altro dei suoi segreti svelati. Chiuse gli occhi, godendosi quell’abbraccio, perché non lo avevano mai fatto prima? Era così bello, erano davvero due idioti!
Quando sollevò nuovamente le palpebre focalizzò davanti a sé le bottiglie costose dell’angolo bar e le mani candide del fratello sul suo maglione scuro, ne strinse una.
“Potevi scegliere un mentore diverso, ti ha attaccato la sua idiozia.”
Itachi sorrise e poggiò la bocca contro la sua nuca, lasciandosi sommergere dai suoi capelli setosi e neri quanto i propri.
“Forse hai ragione, ma ormai è andata così.”
“È tutto vero?” gli domandò Sasuke più serio e Itachi non fece nessuna battuta, nemmeno per sdrammatizzare.
“Sì, tutto. Sì, sarò sempre al tuo fianco, sì sono bisessuale e sì, la nostra famiglia è tutto meno che perfetta.”
“Cazzo! Se si sapesse…”
“Se si sapesse la Terra continuerebbe lo stesso a ruotare e nessun fulmine divino si abbatterebbe su di noi – disse Itachi, pragmatico – e a questo proposito ti consiglio di non perderti la cena di capodanno. Nostro cugino Ryuji ha intenzione di fare coming out davanti a tutta la famiglia.”
Sasuke si sciolse dall’abbraccio e si ruotò di scatto per guardarlo in faccia, dimentico degli occhi umidi e arrossati o qualsiasi altro segno che potesse testimoniare il suo cedimento.
“Sul serio? No, non ci credo!” esclamò pensando a quel ragazzo tanto riservato e dall’aria perennemente malinconica.
“Fallo, vedrai che dovremo chiamare almeno un’ambulanza” rise Itachi, asciugandogli l’ultimo alone di lacrime sul viso.
Lo guardò e gli sorrise, felice di poterlo aiutare concretamente e di non essere solo una figura distante per quel fratello amato in un modo che non era possibile esprimere a parole.
Pensò a Gaara e fu felice di avergli dato almeno un bacio, perché d’ora in poi il segretario sarebbe stato solo un suo collega, magari amico, ma niente di più.
Sorrise di nuovo a Sasuke, soffocando la propria tristezza, perché era giusto così.

Qualsiasi cosa per te, fratellino.

 

 

 

L’angolino oscuro: Eccomi qui, sono tornata in pista più o meno. Riprendiamo esattamente dove ci eravamo fermati al capitolo scorso, dalla telefonata di Gaara e Sasuke. Ho scelto di dedicare un capitolo intero a questo momento tra fratelli perché ho pensato che fosse molto importante per far capire esattamente come fossero le dinamiche tra di loro, ma anche per dargli un’opportunità di confrontarsi per bene, senza più maschere, mettendosi a nudo e rivelandosi.
Itachi ha compreso bene quanto sia profondo l’interesse del fratello per Gaara e decide di tirarsi indietro per non intralciarlo, ma Gaara cosa ne penserà? Sarà d’accordo? O magari Itachi cambierà di nuovo idea? Eheheh non vi dico nulla XD
Spero che questo capitolo ad alto livello Uchiha vi sia piaciuto e ci sentiamo alla prossima!

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Capitolo 11
*** 11 - Cose vecchie, cose nuove ***


Cose vecchie, cose nuove

 

Un solo istante, una ridicola manciata di secondi, minuscoli scatti della lancetta di un orologio. Cosa sono queste minuscole sciocchezze di fronte all’enorme e aberrante concetto di infinito? Eppure sono sufficienti per cambiare le sorti di una singola vita, di quella di più persone, di una città, di uno stato, di un continente addirittura. Non è necessario scomodare i grandi signori del tempo per scuotere le fondamenta, ma bastano pochi secondi per prendere una decisione definitiva, per togliere la spoletta a una granata, per premere un grilletto, per dire una parola e non avere più la possibilità di tornare indietro.
Perché le granate non si possono disinnescare, le pallottole non possono tornare a dormire nei caricatori, le parole non possono essere rimangiate, né fraintese.
Quella sera era stato sufficiente un istante, una voce flebile e tutto era cambiato.
Itachi aveva lo sguardo puntato fuori dal finestrino dell’auto, era preoccupato.
Il cugino Ryuji, come anticipato, aveva fatto coming-out alla cena di capodanno, davanti alla famiglia riunita, con tutti i numerosi nonni, zii, cugini e fratelli; così tanti che ad ogni riunione non si sapeva mai bene quanti si fosse. Ogni tanto qualcuno era assente, qualche ragazzo giovane riusciva a trovare un pretesto per evitare quelle tediosi riunioni, o un parente più anziano stava poco bene, eppure quella sera era parso che ci fossero proprio tutti. E i loro occhi scuri, pieni di condanna, si erano puntati su Ryuji che aveva chiuso la bocca e aveva le mani che tremavano, ma continuava a stare in piedi e a fissarli a sua volta, deciso ad andare fino in fondo.
Non era un tipo particolarmente brillante, a volte ci si dimenticava di lui nel marasma di cugini di vario grado ed età; aveva una voce pacata, modi quieti e gentili, era allergico a un sacco di cose e si spaventava facilmente, era il bersaglio preferito degli scherzi, eppure quella sera aveva dimostrato il coraggio di un leone. Aveva sparato la sua verità scomoda, in una famiglia dove i segreti erano la norma e – Itachi pensava – forse il biasimo più grande era dovuto al fatto di aver rotto quell’usanza, piuttosto che all’essere gay.
A preoccupare Itachi, mentre viaggiava in auto e guardava fuori dal finestrino, non era tanto la salute della nonna svenuta e per cui avevano dovuto chiamare un’ambulanza, tantomeno la sorte del cugino, minacciato dal padre di essere diseredato se non avesse acconsentito a un matrimonio con una ragazza scelta da lui il giorno seguente. Ryuji non si era scomposto: sempre con quella sua voce pacata e le mani tremanti, aveva fatto presente che era quasi trentenne, aveva un lavoro stabile al di fuori della famiglia Uchiha ed era indipendente, non aveva bisogno di eredità e cose del genere. Quel ragazzo se la sarebbe cavata, era più tosto di tanti altri adulti che invece facevano la voce grossa.
A impensierire Itachi, in realtà, era Sasuke.
Non lo aveva perso di vista un attimo durante le fasi più drammatiche della serata, quando tutti avevano iniziato ad accusare Ryuji di essere uno sporco frocio, qualcosa di ben più disonorevole di un truffatore o un assassino, oppure che voleva rovinare la famiglia, che li avrebbe resi lo zimbello della città, che era contro natura, che, che… un’infinita e stupida sequela di accuse ipocrite.
Sasuke, come altri cugini e qualche adulto, era rimasto semplicemente in silenzio, senza denigrarlo, ma nemmeno prendendo le sue difese, a quello ci avevano pensato la madre dell’accusato, qualcuna delle sue sorelle e quell’incosciente di Shisui.
Itachi era rimasto in disparte a sua volta, ad osservare il fratello e temere che quello spettacolo potesse turbarlo nel particolare momento emotivo che stava vivendo: come poteva Sasuke non immedesimarsi nei panni del cugino? Se avesse fatto coming-out, anche lui avrebbe ricevuto lo stesso trattamento.
Purtroppo il caos generale e una casa affollata non erano le condizioni ideali per discussioni private, quindi Itachi si era limitato a chiedere al fratello se stesse bene, ricevendo una semplice risposta affermativa.
Quando l’ambulanza era andata via e la situazione pareva essersi calmata un po’, quasi tutti erano andati via, Sasuke gli aveva detto che avrebbe raggiunto Naruto e altri amici. Lui era rimasto con Shisui che alla fine lo aveva convinto a salire in macchina, con la scusa che dovevano far svagare Ryuji, che sembrava sul punto di collassare dopo che era finita la scarica d’adrenalina.
“Ah! Grandioso! – rise infatti Shisui, esaltatissimo, prendendo una curva troppo stretta – Volevo dire anch’io che ero bisessuale, ma quando è tornata un po’ di calma non era rimasto quasi nessuno, e pretendo anch’io di avere un pubblico che mi ascolti! Mi rifarò alla prossima cena.”
“Dubito che ce ne sarà un’altra molto presto” affermò Ryuji, che conosceva già le tendenze del cugino, anche se ignorava quelle di Itachi. “Piuttosto dove stiamo andando?”
“Oh, un bel posto, non preoccupatevi, in fondo dobbiamo festeggiare capodanno, non è ancora mezzanotte, anche se i fuochi d’artificio li abbiamo già fatti” rise sguaiatamente, come se davvero avessero assistito a uno spettacolo di cabaret e non ad un dramma.
“Le tue battute peggiorano di anno in anno” lo rimbeccò infatti Itachi, girandosi finalmente a guardarlo. Vide dipingersi sul suo viso un sorriso malizioso che lo lasciò perplesso, a domandarsi se davvero fosse così sbagliato sdrammatizzare in una situazione come quella. Di sicuro rimuginare e isolarsi nei propri pensieri non avrebbe aiutato nessuno, si rispose, riscuotendosi dall’apatia che lo aveva colto. Si rivolse a Ryuji che stava sul sedile posteriore:
“Non preoccuparti, se c’è una cosa in cui Shisui eccelle è la conoscenza dei locali e della vita notturna, potrebbe scriverci una guida, ci divertiremo.”
Pregò solo che il cugino non avesse scelto un locale di spogliarelli o qualcosa simile ma, conoscendolo, non era da escludere. Sospirò, riflettendo che avrebbe potuto essere pericoloso per il suo segreto, ma dubitava che Ryuji avrebbe capito qualcosa e lui non aveva certo intenzione di confessarlo o mettersi a rimorchiare davanti a loro; in fondo era capodanno, tutti facevano qualche pazzia, anche se fosse entrato in un locale dichiaratamente gay non sarebbe successo nulla alla sua reputazione.
Per il resto del viaggio parlarono di cose leggere, evitando di menzionare nuovamente la cena e Ryuji si rilassò; lo aveva mascherato bene – d’altronde era un Uchiha – ma la prova a cui si era sottoposto lo aveva lasciato piuttosto scosso e ferito.
Dopo aver parcheggiato, si diressero verso un locale dall’entrata discreta, ovviamente decorata in tema festoso e, dopo essersi chiusi la pesante porta alle spalle, Itachi udì con sorpresa una debole musica d’atmosfera e guardò sorpreso Shisui. Questi scrollò le spalle e sorrise:
“Ho pensato che questo posto vi sarebbe piaciuto. È un piano bar e suonano dal vivo, stasera c’è anche una cantante.”  Fece strada ai due verso un ragazzo sorridente che chiese se avessero una prenotazione e Shisui rispose affermativamente.
Itachi lo guardò sorpreso e si diede dell’idiota. Sotto al sorriso inossidabile, le battute penose e l’aria rilassata e svagata, sapeva bene che c’era un cervello straordinariamente acuto e due occhi attenti; perché si sorprendeva ancora? Shisui aveva semplicemente previsto come sarebbe andata la serata, così aveva pensato a un modo per aiutare Ryuji e lasciarsi alle spalle un’ambiente ostile che lo aveva fatto sentire indesiderato e diverso. Quindi cosa c’era di meglio che portare un ragazzo che amava la musica, che aveva addirittura sognato di andare al conservatorio ed era gay in un raffinato e discreto locale come quello con musica dal vivo? Persino lui si sarebbe riuscito a rilassare lì.
Dopo aver lasciato i cappotti al guardaroba, si accomodarono al loro tavolino rotondo, con una candela al centro, simile agli altri circostanti.
Il locale era piuttosto grande e veramente bello, con le sue pareti dai colori caldi, le tende ariose che dividevano l’ambiente, dando l’impressione che ci fossero tante sale invece di una unica. Le luci erano morbide, la musica non era tanto alta da impedire una conversazione e ogni cosa lì dentro suggeriva atmosfera e privacy, ma soprattutto relax. Si poteva allentare la cravatta, togliere la maschera dal viso e concedersi il lusso di essere chi si voleva.
“Grazie” disse semplicemente Ryuji, con la voce sempre pacata ma con le mani che ormai non tremavano più.
Ordinarono da bere e rimasero in silenzio, semplicemente ascoltando la musica finché Ryuji non si alzò per andare in bagno, lasciando i due da soli.
A quel punto Itachi allungò una mano per prendere un cartoncino con scritto “Riservato” e lo lesse ad alta voce mentre guardava il cugino.
“Non male questo posto” aggiunse poi.
“Di’ la verità: eri sicuro che vi avrei portato in un locale di spogliarelli, vero?” rise Shisui, divertito nel vedere l’espressione sorpresa dell’altro.
“Sì, era una delle ipotesi che mi è passata per la mente – confessò Itachi posando il cartoncino – e ammetto che stavolta ti sei superato. Penso che fosse proprio quello di cui Ryuji aveva bisogno, magari conosce anche qualcuno stasera.”
“Non è mica l’unico ad averne bisogno – lo corresse, serio – tu hai qualcosa che non va da giorni. Non è questo il momento adatto per parlarne, ma una delle prossime sere magari ti porto davvero a vedere uno spogliarello.”
Itachi rimase in silenzio, non sapeva se perché sorpreso da quell’ennesima dimostrazione di intuito da parte del cugino, o per lo sfoggio di proposte balorde. Semplicemente sospirò piano, poi si stropicciò delicatamente le palpebre con la punta delle dita:
“Che cazzo di capodanno!”
“Puoi dirlo forte!”
Un paio di minuti più tardi tornò Ryuji, raccontando di un ragazzo bellissimo che aveva incrociato camminando e Shisui, curioso, gli fece un sacco di domande. Itachi ascoltava e basta, non che gli interessasse l’esatta sfumatura di biondo dei capelli di quel tipo, ma gli piaceva vedere il cugino a proprio agio, un giorno gli sarebbe piaciuto poter vedere Sasuke allo stesso modo, libero di esprimere pensieri e desideri con cui non essere più in guerra.
Sentì una presenza al suo fianco e, con la coda dell’occhio, intravide l’elegante gilet nero di un cameriere, si voltò pronto a ricevere la propria ordinazione e ringraziare, ma quello che gli scivolò fuori dalla bocca non fu un grazie.
“Gaara…?”
“Itachi?”
I due si fissarono, in silenzio. Gaara aveva la divisa da cameriere, con grembiule al ginocchio, gilet, cravatta e tutto il resto, e reggeva un vassoio su cui erano posati i loro cocktail. Guardava l’Uchiha con gli occhi sgranati, forse, se avesse visto un salmone seduto al suo posto, sarebbe sembrato meno sorpreso.
L’Uchiha invece lo osservava con le labbra appena dischiuse e lo sguardo attento, era solo da pochi giorni che non si vedevano, ma sembrava passata un’eternità e, soprattutto, ora era tutto diverso.
“Da quando lavori qui? In studio non ti piace più?” domandò, ironico. Aveva riacquistato l’abituale autocontrollo e la sua mente aveva vagliato qualche ipotesi e, nascosto dal sarcasmo, c’era un quesito reale. Possibile che dopo il loro bacio Gaara avesse deciso di cambiare lavoro? Quando si erano salutati non gli era parso sconvolto o turbato, ma le cose potevano essere cambiate.
Anche il ragazzo si riscosse e, scuotendo appena la bella testa rossa, rispose:
“No, è solo per stasera. Un cameriere si è ammalato e un mio amico che lavora qui mi ha chiesto di sostituirlo.”
Ricordandosi appunto del ruolo che ricopriva, posò i bicchieri sul tavolino e notò anche Shisui, salutandolo.
“Gaara, ma che sorpresa – replicò questi – ti presento un altro nostro cugino, Ryuji.”
Il cameriere gli sorrise, per poi guardare di nuovo Itachi:
“Se continua così prestò conoscerò tutta la tua famiglia.”
“Già” replicò questi asciutto pensando al fratello.
“Beh, devo andare, buona serata” si congedò Gaara tornando verso il bancone del bar a passo spedito, senza fare altre domande o osservazioni magari inopportune, se erano tutti in quel locale non era solo per la buona musica.
Infatti Ryuji assottigliò gli occhi osservando il cameriere allontanarsi e poi Itachi che lo aveva riconosciuto:
“Voi due…?” iniziò, incerto su come fare una domanda simile proprio a quel cugino tanto riservato e dall’aria algida e impeccabile.
“Ma no – rispose questi con un sorriso morbido, nient’affatto nervoso – siamo solo colleghi in ufficio.”
“Ah ecco, mi pareva strano!” replicò Ryuji, soddisfatto della spiegazione logica con cui risultò più chiaro anche il dialogo a cui aveva assistito. Inconsapevolmente aveva dato riprova di quello che il mondo pensava del primogenito di Fugaku Uchiha: uno splendido uomo che corrispondeva in tutto e per tutto agli standard della società.
Shisui invece non si staccava dal suo cocktail, bevendone un lungo sorso e, quando posò il suo bicchiere ormai mezzo vuoto, iniziò a parlare d’altro; almeno sarebbe stato certo di non scoppiare a ridere.

 

La mezzanotte era vicina e il locale era pieno, i camerieri camminavano veloci, estremamente affaccendati perché tutti volevano da bere, divertirsi, staccare la spina specialmente quella sera.
La fine dell’anno porta con sé un ventaglio molto ampio di sentimenti: c’è un po’ di tristezza per il tempo che inesorabilmente scorre senza tregua, rimpianto per le cose non fatte, per le occasioni perse o quelle soltanto rimandate. Nel correre quotidiano spesso si perde di vista ciò che è realmente importante, si trascurano gli affetti, la famiglia, se stessi, giustificandoci con un “C’è tempo” o “La prossima volta”.
Ma non c’è poi così tanto tempo, le occasioni possono essere limitate, e non è detto che se noi siamo disposti ad attendere qualcuno o qualcosa anche la controparte faccia la stessa cosa. Per quello col nuovo anno si fanno tanti propositi, c’è sempre la speranza di essere più felici, più aperti, più pronti, semplicemente migliori.
Itachi, mentre si stringeva nel cappotto e alzava gli occhi al cielo, non fece propositi, non si augurò una vita lunga e felice, né domandò altro per sé. Mentre i fuochi d’artificio esplodevano nella notte e coloravano il buio, Itachi pensò a Sasuke e desiderò vederlo sereno e realizzato, solo questo, non voleva nient’altro. Girò appena la testa di lato e osservò le luci colorate riflettersi sul viso di Shisui.
Lui sarebbe stato bene, non aveva bisogno di nulla.
Lo spettacolo pirotecnico finì e la gente iniziò a rientrare nel locale perché nessuno voleva rimanere lì, a gelare senza alcun motivo, ma Itachi fumò una sigaretta in solitaria, bisognoso di un po’ di tregua da tutto quel caos a cui non era abituato. La sua vita era sempre scivolata sui binari oliati da un padre autoritario, poi, ad un certo punto del tragitto, aveva azionato uno switch, aveva cambiato direzione, dirigendosi dove aveva scelto lui, ma non c’era stato nessuno scossone degno di nota nemmeno allora. Nell’ultimissimo periodo invece si ritrovava a fare e pensare cose inaspettate, che poco avevano di quell’ordine familiare a cui era abituato. Forse Sasuke non era l’unico a cui avrebbe fatto bene uno psicologo.
Rientrò nel locale piacevolmente riscaldato, notando che adesso la musica era molto più alta, i brani più ritmati e la cantante incitava i clienti a seguirla, ad alzarsi in piedi, ballare perché ehi, è capodanno, bisogna fare festa!
Itachi non si lasciò irretire e tornò al proprio tavolo, dove trovò però Ryuji intento a chiacchierare con un ragazzo, con un’espressione ben diversa da quella dello zombie rassegnato e sconfitto con cui era entrato lì.
Lui si mise a parlare con Shisui, ma il suo sguardo non stava mai fermo troppo a lungo, vagava a cercare nella folla una familiare testa rossa, dicendosi che era solo curioso di vederlo in un ambiente del genere. Gaara non stava fermo un attimo, tra le mani quel vassoio pesante pareva non svuotarsi mai, sempre colmo di bicchieri a volte pieni, altre vuoti, ma lui sostava al bancone giusto il tempo di poggiarlo e prenderne un altro per poi ripartire, un novello salvatore di tutte quelle gole riarse.
Quando finalmente il ritmo si allentò un po’, Itachi lo vide sedersi un attimo su uno sgabello vicino al bancone e bere dell’acqua servitagli da un barman, un tizio alto coi capelli chiari portati all’indietro dal gel. Notò anche la familiarità con cui parlavano, i sorrisi tra di loro e infine le mani del barista che arruffarono la chioma rossa e Gaara che glielo permetteva senza sottrarsi.
“A quanto pare quel suo amico che lavora qui è Hidan” sentì dire da Shisui.
Si voltò verso di lui, nascondendogli la sgradevole quanto stupida sensazione di colpa, come un bambino lasciatosi sorprendere col cucchiaio nel barattolo di cioccolata; non aveva alcun motivo di provare quella sensazione, si disse.
“Conosci quel tizio?” gli domandò invece, avvicinandosi per non dover alzare troppo la voce con la musica più alta.
“Sì, te ne avevo anche accennato – gli confermò – sta insieme a Deidara, il barman che lavora in quel locale dove avevo visto Gaara, ricordi?”
Itachi annuì, ricordando quella conversazione col cugino, i sospetti su quanto successo tra Sasuke e l’altro, le supposizioni e il suo timore di non essere in grado di aiutare il fratello in quell’occasione; certo che ricordava tutto.
Shisui lo osservò, bevve un altro sorso del proprio cocktail, infine propose:
“Perché non vai a salutarlo? Tra non molto penso che ce ne andremo, Riuji mi sembra felice all’idea di andarsene a casa.” Indicò col mento l’altro cugino che era ancora alle prese con il ragazzo di prima.
Itachi guardò l’orologio, erano passate da poco le due, il locale a poco a poco si era calmato e la gente iniziava ad andare via per concludere la serata da qualche altra parte.
Itachi annuì, in fondo non c’era niente di male nel salutare il suo collega e fargli gli auguri di buon anno. Si diede poi dello sciocco: da quando doveva aver paura di parlare con Gaara o trovare una giustificazione per farlo? Il fatto che fosse il ragazzo verso cui Sasuke provava un interesse non lo rendeva tabù.
Vide il cameriere riprendere il vassoio e andare verso i tavoli, ma quando tornò verso il bancone si alzò per andare da lui.
“La serata è ancora lunga per te?”
“Itachi!” esclamò Gaara, voltandosi. Non lo aveva sentito avvicinarsi, niente di strano con la musica e il frastuono generale, ma ritrovarselo all’improvviso così vicino lo aveva fatto sobbalzare. “Beh sì, ci vorranno almeno le cinque prima di andare via, ma lo sapevo già. Però adesso sto per andare a fare una pausa – gli rispose – tu stai per andare via?”
“Già, però posso farti compagnia in pausa prima” disse Itachi per poi mordersi le labbra. Quella proposta gli era scivolata fuori di bocca con una facilità impressionante.
Gaara sembrò soppesare le sue parole e, scuotendo appena la testa, rispose:
“Avevo intenzione di prendere una boccata d’aria fuori, non voglio farti gelare.”
“È un’occasione perfetta per fumare una sigaretta, qui dentro purtroppo non si può”
“Ah, beh in questo caso… –  gli sorrise – C’è uno spiazzo sul retro, con l’ingresso per i dipendenti, ci vediamo lì?”
A Itachi piacque quella specie di appuntamento improvvisato, ma non ebbe modo di rispondergli perché intervenne quel barista che Shisui aveva chiamato Hidan.
“E bravo Gaara! Sei riuscito a rimorchiare, Yahiko ci rimarrà male – rise sguaiato per poi squadrare Itachi – ed è anche meglio dell’ultimo palo in culo che ti sei portato a casa!”
Nel giro di pochi secondi Gaara passò dallo sbiancare come un lenzuolo al diventare un tutt’uno coi capelli, strinse forte il vassoio vuoto tra le mani e sbottò:
“Stai zitto, coglione! – poi rivolto a Itachi – Non badare al mio coinquilino, hanno dimenticato di fornirgli un cervello alla nascita.”
Il suo sguardo però non riusciva più a sostenere quello dell’Uchiha, ma si poggiava nervosamente sul barman, come se avesse potuto comunicargli telepaticamente qualcosa o incenerirlo, probabilmente entrambe le opzioni lo avrebbero soddisfatto.
Hidan però sembrava sordo a tutto ciò e replicò:
“Però mi hanno dato un cazzo grosso, meglio così – poi tese una mano a Itachi – sono Hidan, il suo coinquilino, penso che ci rivedremo.”
Itachi non si lasciò scomporre minimamente dai suoi modi o dalle informazioni che aveva involontariamente appreso su Sasuke e strinse la mano che gli veniva porta, dicendo:
“Sono Itachi e credo di essere il fratello del palo in culo che hai nominato.”
All’improvviso sembrò che attorno al bancone fosse scoppiata una bolla di silenzio e i tre si guardavano, senza sapere che dire. Gaara era sbiancato nuovamente e aveva poggiato una mano sul bancone in cerca di sostegno. Itachi sapeva, sapeva e…
“Beh, per fortuna non è una cosa di famiglia.” Fu il commento di Hidan che poi, con una scrollata di spalle si rimise al lavoro, chiamato da un altro cameriere.
Lasciò i due da soli e Itachi notò perfettamente il turbamento di Gaara, immaginò cosa gli stesse passando per la testa e per quello gli posò una mano sulla spalla dicendo:
“Tranquillo, ci vediamo qui fuori tra un paio di minuti.” Si allontanò e lo lasciò lì, da solo, con un vassoio vuoto in mano e il cuore pieno di paure, affatto tranquillo.

 

Gaara si strinse meglio la sciarpa attorno al collo, quella che gli aveva regalato Hinata; non usciva più di casa senza.
Guardò lo spiazzo pieno di macchine dei dipendenti e ascoltò i suoni della città che ancora non aveva smesso di festeggiare. Anche lui aveva avuto quella intenzione: prendersi qualcosa da mangiare, una birra e godersi in pace la sua più che meritata pausa.
Peccato che di tranquillo in quel momento non ci fosse proprio nulla e non aveva nemmeno più voglia di bere o mangiare. Voleva solo capire come diavolo fosse possibile avere addosso un concentrato di sfiga così potente perché, seriamente, non c’era altro modo per definirlo.
Itachi sapeva tutto. In fondo dopo il bacio che si erano scambiati non c’era modo di nascondere i loro orientamenti sessuali, ma non era quello il problema quanto Sasuke. Cosa avrebbe dovuto dirgli a riguardo? E poi perché lo aveva baciato se sapeva che erano stati assieme?
Troppe domande a cui non poteva rispondere da solo.
Aveva anche pensato di non presentarsi e continuare a lavorare, ma poi si era detto di non fare il codardo: lo avrebbe comunque rivisto in ufficio e tanto valeva discutere subito, quando potevano essere solo loro due.
Sentì un rumore ed alzò lo sguardo dai propri piedi, vide Itachi avanzare verso di lui, ben coperto dall’elegante cappotto scuro. Gli si fermò davanti e per Gaara fu davvero difficile alzare la testa e non indietreggiare davanti ai suoi occhi tanto scuri e belli. Non c’era vischio quella volta, eppure rimasero entrambi immobili a fissarsi mentre l’aria attorno a loro diventava tesa, pesante, difficile da inspirare; probabilmente era colpa del freddo che gelava anche i respiri che uscivano dalle loro bocche. Eppure quegli sbuffi bianchi non impedivano ai loro occhi di celarsi, di impedire all’altro di scrutare e tentare di scoprire più verità di quella raccontata dalle parole.
“Tu sai…” iniziò Gaara, ma si morse un labbro, incapace di continuare.
Itachi guardò i suoi occhi dal colore freddo quasi quanto il gelo che azzannava la loro pelle, ma vi vide agitazione, nessuna calma, nemmeno quella apparente.
“Sì, durante queste vacanze Sasuke mi ha confessato di essere gay e… di aver avuto un qualche tipo di relazione con te” gli spiegò, vedendo la sorpresa prendere il posto dell’agitazione.
Gaara infatti schiuse la bocca dalle labbra sottili, le sopracciglia rade si inarcarono e ci mise qualche istante a trovare delle parole da dire.
“Lui… lui ti ha raccontato tutto?” domandò, ancora incredulo nonostante tutto. Quello psicologo doveva essere veramente un genio per essere riuscito a far prendere a Sasuke decisioni come quella di richiamarlo chiedendogli scusa, o aprirsi col fratello.
Itachi allungò un braccio e gli carezzò una guancia fredda con le proprie dita lunghe, ma altrettanto povere di calore; non era riuscito a trattenersi. Gaara era spaventato, era più che evidente, e lui si rese improvvisamente conto  che avrebbe voluto rassicurarlo, baciarlo ancora e rassicurarlo, ma… non poteva.
“Non proprio tutto, mi ha detto di non essersi comportato bene nei tuoi riguardi e non ho chiesto i dettagli, non ne avevo bisogno. So però che ti ha chiesto di rivedervi.”
Gaara annuì piano per timore che Itachi spostasse la mano che teneva sulla sua guancia, un freddo ma morbido cuscino in cui affondare.
“Sì, ma… non è il momento – inghiottì un blocco d’aria – non so se lo sarà mai, io non so se…” La sua voce sfumò fino a perdersi nell’oscurità, facendo quasi dubitare che avesse mai parlato.
Itachi ritrasse il braccio e infilò le mani nelle tasche del cappotto, sorridendogli:
“Lo scoprirete insieme, credo che ci sia ancora un po’ d’interesse da entrambe le parti, altrimenti gli avresti già detto di no. Tu non sei uno che gioca con le persone.”
“Come fai a dirlo? Ci conosciamo da poco e fino a una settimana fa non sapevi nemmeno che ero gay o di tuo fratello… come puoi dire che non sto giocando con lui?” domandò Gaara, ma in realtà la domanda che gli era rimasta incastrata in gola era “Cosa pensi di me Itachi? Come mi vedono i tuoi occhi?”
Un piccolo sorriso piegò le labbra dell’Uchiha, che però non sembrava affatto divertito:
“Ho un po’ di esperienza, Gaara. Sono una persona curiosa e mi piacciono i segreti, per questo so che tu ne tieni qualcuno dentro di te, ma ciò non fa di te una brutta persona o qualcuno che vorrei tenere lontano da Sasuke, anzi forse è stato proprio fortunato ad incontrare te tra tutti.”
Gaara si rabbuiò, perché era consapevole di portare dentro di sé molta oscurità e non era certo che ciò non avesse contagiato lui e le persone che lo circondavano, poteva davvero credere di non essere un veleno?
“E il nostro bacio? Rimarrà anche quello un segreto?”
Sparò a bruciapelo quella domanda perché aveva la sensazione che Itachi stesse tirando su un bel muro tra di loro, un muro di cui non avrebbe avuto bisogno se non ci fosse stato Sasuke. Non era certo che ciò gli piacesse.
“Beh, non vedo perché dovremmo raccontarlo – rispose l’avvocato, preso un po’ in contropiede – era solo un bacio sotto il vischio.”
Gaara si fece avanti di un paio di passi, gli strinse le mani attorno alle braccia e alzò il viso verso il suo, guardandolo a soli pochi centimetri di distanza, sentendo persino l’odore di alcool nel suo respiro, mischiato a quello del suo dopobarba e di sigaretta.
“Era davvero solo un bacio sotto il vischio, Itachi? – domandò, serio – Perché ho la stramaledetta impressione di essere trattato come un pacco e di venire scaricato a tuo fratello? Cos’è, ha il diritto di prelazione?” concluse, con la rabbia più che evidente nella voce.
“Non è così” sospirò Itachi posando la fronte contro la sua, cercando di zittire le voci nella sua testa che strepitavano per baciarlo, per stringerlo e fregarsene delle conseguenze. “Ti trovo interessante, non lo nego, ma se prima tu e Sasuke non farete chiarezza non voglio mettermi in mezzo, perché voglio bene a mio fratello e non voglio rendergli la vita più complicata di quello che è – allontanò il viso per guardarlo meglio – non sto dicendo che devi per forza stare con lui, che sei destinato a lui o cazzate simili. Semplicemente che finché non chiarirete io sarò solo Itachi, il tuo collega, il tuo amico e il fratello di Sasuke, non puoi essere arrabbiato per questo, Gaara.”
Il ragazzo chiuse gli occhi e sospirò profondamente, cercando di processare quelle informazioni, quell’esempio di amore fraterno mai sperimentato. Perché un fratello maggiore si tira indietro piuttosto che fare qualcosa che potrebbe ferire il minore, giusto? Si rese conto una volta in più di quanto fosse sbagliato ciò che aveva fatto Kankuro a lui, e Itachi aveva ragione: non poteva proprio arrabbiarsi.
“Sasuke è uno stronzo fortunato ad averti come fratello” rispose, ma aveva un mezzo sorriso sulle labbra ad ammorbidire un insulto forse più che meritato.
“Oh beh, punti di vista” rise Itachi, certo che l’altro non si sarebbe professato così fortunato tanto facilmente. Guardò di nuovo Gaara che adesso gli sorrideva e sembrava aver accettato le sue ragioni senza rancore, e pensò di non essersi sbagliato: quel ragazzo era cristallino e pulito quanto i suoi occhi.
“Sono felice di averti visto stasera, a capodanno, e di aver parlato con te come prima cosa dell’anno nuovo.”
“È un punto di vista – replicò Gaara, ironico – è stata una coincidenza bella grossa, non avrei mai immaginato di vederti qui stasera.”
“Già, è stato un capodanno atipico.”
Aveva assistito a un coming-out disastroso, consolato un cugino a terra, e infine aveva chiarito con la fiamma del fratello; insomma una serata rimarchevole. Peccato che dentro di sé non fosse tutto in ordine. “Ho persino conosciuto anche il tuo coinquilino… a proposito chi è Yahiko? Devo mettere in guardia Sasuke?” scherzò, spostando l’argomento su argomenti più leggeri e ironici.
Gaara fece una smorfia e si infilò le mani più a fondo nelle tasche:
“Oh, di quello che dice Hidan dovresti ascoltarne solo un 10% e scremarlo dalle parolacce ovviamente – disse visto che aveva definito Sasuke un palo in culo, non che avesse tutti i torti in fondo – e vale anche per Yahiko. È solo un suo amico che ogni tanto ci prova con me, niente di che. Ormai è più un’abitudine che un reale interesse.”
“Oh, e come mai non hai mai ceduto a questo inossidabile ammiratore? È così brutto?” domandò interessato. Gaara aveva dimostrato di avere standard piuttosto alti: di Sasuke si potevano dire molte cose ma non che fosse poco affascinante o sgradevole.
“Ma no, no – rise Gaara – semplicemente perché è contrario all’idea di fare il passivo e io pure. Siamo incompatibili” gli rivelò e vide perfettamente il momento in cui le sue parole andarono a segno. Infatti Itachi sgranò gli occhi per poi aggrottare le sopracciglia e aprire le labbra in una domanda muta, limitandosi a fissarlo.
“Incompatibili, certo…” mormorò dopo un po’. Con Sasuke invece erano stati più che compatibili e ciò voleva dire solo che… che era Sasuke ad essere passivo e quel pensiero continuava a rimbalzargli nella testa come una pallina da tennis impazzita. Forse per la prima volta in vita sua Itachi aveva scoperto un segreto che avrebbe preferito che rimanesse tale.
“Beh, dopo questa penso che farò meglio ad andare prima che congeliamo e diano te per disperso – disse, dopo essere riuscito ad accantonare quelle nuove informazioni – ci vediamo a lavoro.”
“Sì, ci vediamo a lavoro” lo salutò Gaara, ma nel momento in cui l’altro si stava per voltare e andarsene lo richiamò.
Itachi si girò e Gaara si avvicinò a rapidi passi, gli posò le mani sulle spalle e lo baciò senza dire nulla. Semplicemente lo baciò e l’altro lo ricambiò passandogli le braccia attorno alla vita. Le loro bocche erano roventi e qualunque punto del viso dove le labbra si posavano sembrava sciogliersi, come se loro in realtà non fossero altro che stupidi pupazzi di neve in attesa del sole.
La città continuava a festeggiare, a essere un calderone di rumori, di gente, di vita e loro invece erano lì, fermi in un piazzale pieno solo di macchine vuote, a baciarsi; semplicemente a baciarsi.
Lentamente Gaara si sciolse dall’abbraccio, lasciò andare le sue mani che aveva finito per cercare e, guardandolo, disse:
“Non ti avevo fatto gli auguri di buon anno nuovo. A Natale me li hai fatti tu, adesso era il mio turno – gli sorrise – ora siamo pari, non trovi?”
Itachi si passò un dito sulle labbra umide per quel bacio inaspettato e bello, era davvero un bacio di buon anno o piuttosto di addio?
“Già, siamo pari – concordò – buon anno, Gaara.”
“Buon anno, Itachi.”

 

***

 

Sasuke stava riscoprendo una passione sfrenata per le finestre. Non era una nuova forma di stravagante feticismo o di fissazione dovuta al lavoro, quando di necessità fisiologica. Nell’ultimo mese si era trovato ad affrontare troppe conversazioni difficili e a volte anche sgradite, così per lui era diventato automatico cercare con lo sguardo una finestra, una possibile via di fuga, uno squarcio sul mondo esterno che gli assicurava che non sarebbe morto soffocato tra le parole che faticavano a uscire fuori dalla gola.
Quel pomeriggio era sulla solita poltrona nello studio dello psicologo, il loro primo incontro da prima di Natale e di cose da raccontare ce ne erano fin troppe, peccato che lui avesse i soliti problemi a iniziare a parlare di sé.
Lo psicologo non lo forzò, bensì iniziò a fare discorsi generici a chiedergli cosa avesse mangiato durante il cenone natalizio, o a raccontargli quanto fosse buono il dolce che preparava sua suocera. Era una strega, eppure quel dolce era meraviglioso, ma lei da buona strega intendeva portarsi la ricetta nella tomba, o forse era più indicato dire al rogo?
Sasuke faceva una smorfia a quelle battutacce, che sarebbero calzate a pennello anche in bocca a Shisui, eppure a poco a poco si rilassava e si ritrovava a partecipare alla conversazione fino a ritrovarsi ad essere l’unico a parlare. E ogni volta non sapeva se arrabbiarsi per essersi fatto raggirare da simili stupidi trucchetti, o essere felice perché l’altro era in grado di farlo aprire e buttare fuori ciò che lo aveva avvelenato per anni. Sasuke aveva ancora le idee confuse riguardo cosa fosse la cosa migliore per lui, per quello, quando gli raccontò di Gaara e della sua risposta alla proposta di vedersi, si ritrovò a dargli ragione.
“Certo, ci sono rimasto male – ammise, anche se sentì lo stomaco bruciare a quella frase – però ho ancora delle cose da sistemare. E poi in fondo ha detto lui stesso che ci saremmo rivisti per lavoro, quindi non era proprio un no secco. Forse tra i due lui è il più lucido tra noi.”
“O forse ha solo detto la cosa giusta al momento giusto. Non sopravvalutare gli altri e non sottovalutare nemmeno i problemi che possono avere, nessuno ha tutte le risposte in tasca, nemmeno tuo fratello. Per te le sue rivelazioni sono state una sorpresa, ma soprattutto sentirlo ammettere di avere commesso errori; pensavi sul serio che fosse infallibile?”
“Lei non conosce Itachi, tutto qui” sospirò, pensando che gli aveva parlato del dialogo con fratello ancor prima di quello con Gaara, forse era significativo.
“Lo conosco dalle tue parole e, lasciati dire, che finora lo hai mitizzato un po’ troppo. È un bene che tu riacquisisca una prospettiva più umana nei suoi confronti. Tuo fratello ha delle passioni, cose che odia e altre che sopporta, commette errori e non ha tutte le risposte, come ogni altra persona.”
“Quindi nemmeno lei ha tutte le risposte? E io allora perché dovrei continuare a venire qui?” lo provocò Sasuke. Il suo spirito di autodifesa cercava sempre varchi e aperture in cui intrufolarsi per ferire, stuzzicare e provocare, perché proprio non riusciva a rassegnarsi ad alzare bandiera bianca e lasciare che Sasuke vivesse senza la corazza di spine che si era costruito negli anni.
Lo psicologo non si scompose, bensì sorrise e accavallò morbidamente una gamba prima di rispondere:
“Certo che non le ho, Sasuke, altrimenti sarei Dio e di certo passerei il mio tempo in spiaggia a bere daiquiri – ignorò il sorrisetto apparso sulle labbra del suo paziente – io infatti non sono qui per darti risposte, ma per aiutare te a trovare le tue, o meglio a tirarle fuori da te stesso. Perché le sai già, il problema è ascoltarle e convincerti ad accettarle, è per questo motivo che dovresti continuare a venire da me.”
Sasuke si sentì alla stregua di un palloncino bucato, un pezzetto di plastica svuotata e dimenticata sul pavimento. Si era gonfiato credendo di averlo colto in fallo, ma quello stupido uomo ogni volta rigirava la frittata e gliela sbatteva in faccia, facendogliela rimangiare condita da tutta l’arroganza che lo accompagnava sempre.
Aggrottò la fronte e incrociò le braccia davanti al petto, tornando a fissare la finestra.
“Allora mi aiuti, che diavolo di risposta dovrei trovare per quello che è successo a capodanno? Un mio cugino ha fatto coming-out davanti a tutta la famiglia, nostra nonna si è sentita male e abbiamo dovuto chiamare un’ambulanza, suo padre urlava che lo avrebbe diseredato, sua madre lo difendeva e altri parenti si mostravano schifati, guardando come se avesse una malattia mortale, come se fosse un rifiuto, una cosa sporca che non dovrebbe stare a tavola. Lo hanno accusato di essere contro natura, un disonore e… e avrei potuto essere io quello. Qual è la risposta a questo?”
“Che il mondo è pieno di ipocriti, Sasuke – rispose lo psicologo con la sua voce sempre controllata – o pensi che tutti i tuoi parenti siano irreprensibili e nessuno nasconda qualche segreto o due? Uno di quelli che a tutti piace condannare per sentirci migliori, perché è a questo che serve la gogna. Ma parlami ancora di come ti sei sentito, invece. Hai parlato con questo tuo cugino?”
Il ragazzo sospirò e si passò la mano tra i capelli, bella domanda. Aveva sentito addosso gli occhi di Itachi per tutto il tempo, sapeva che si stava preoccupando per lui e, se da un lato la cosa da un lato lo aveva indispettito perché lo aveva fatto sentire un bambino bisognoso di essere protetto, dall’altro ne era stato felice, appunto perché aveva suo fratello vicino, pronto a lottare per lui. Era diviso a metà, ed era una sensazione familiare, perché gli pareva di vivere così ogni secondo della sua vita, lacerato tra il bisogno di essere il Sasuke che era sempre stato finora, quello impeccabile che corrispondeva agli standard della famiglia e della società, e il Sasuke che premeva per essere lasciato libero di respirare, quello a cui piaceva Gaara e stare in giro con gli amici a fare gli stupidi.
“No, non ho parlato con Ryuji, non l’ho difeso, né l’ho accusato, avevo paura – confessò – avevo paura che se fossi intervenuto in qualche modo gli altri avrebbero potuto leggere in me attraverso lui. Così sono stato in disparte come un codardo, mentre gli gettavano addosso valangate di merda e pensavo che io non avrò mai il suo coraggio. Anche se una parte di me avrebbe voluto andargli vicino, baciarlo davanti a tutti e mostrare quello che sono. Ero così arrabbiato, ero furioso, avrei voluto picchiarli tutti quegli ipocriti del cazzo… non sono così ingenuo, so bene che hanno tutti segreti.”
“Bene, quindi rabbia, molta rabbia… e dove hai intenzione di dirigerla questa rabbia? Ora è questa la risposta da trovare, Sasuke. La rivolgerai verso di te, ti biasimerai per quello che sei, per i desideri che provi o continuerai ad essere arrabbiato con loro? Li disprezzerai, li eviterai; cosa farai?”
Il ragazzo lo guardò, con le unghie che affondavano nel maglione morbido.
“Ho solo queste due opzioni?”
“Dimmelo tu.”
Stavolta Sasuke non tornò a guardare la finestra, ma puntò lo sguardo sui propri piedi che lo avevano condotto sino lì, nello studio di uno psicologo, a chiedersi chi diavolo fosse a ventitré anni.
“Non lo so, forse dovrei lasciare andare la rabbia e basta, ma… – una pausa lunga, difficile – io senza rabbia non so stare.”
“Cos’è la rabbia per te?”
“Tutto.” Quella volta riuscì a rispondere subito, senza esitazione, perché quella risposta gli era molto chiara. “È ciò che mi ha sempre dato la forza e l’energia per andare avanti. La rabbia contro mio fratello per essere tanto superiore, la rabbia contro mio padre, colpevole di non considerarmi abbastanza, la rabbia verso i miei amici meno intelligenti di me. La rabbia è il mio carburante e io senza non so come andare avanti, cosa sarei senza? Come farei senza? – lo guardò – Io non conosco altro. Quando non sono arrabbiato mi sento vuoto, come un teatro senza pubblico e senza attori. A cosa serve costruire un teatro bellissimo, lussuoso, pieno di comfort se poi non lo usa nessuno? E io mi sento così, come quel teatro.” Si stropicciò gli occhi, vergognandosi per quelle parole, per quel paragone così stupido, che diavolo gli era venuto in mente di dire?
“Hanno fatto l’inaugurazione?” domandò invece lo psicologo, nient’affatto turbato.
“Eh?”
Sasuke lo guardò, ripetendosi per l’ennesima volta che quel tizio aveva davvero qualche rotella fuori posto.
“Hanno fatto l’inaugurazione? La gente sa che quel bellissimo e capiente teatro è aperto ed è pronto ad ospitare Shakespeare, Molière, Sofocle? Se nessuno lo sa come puoi pretendere che la gente ci entri?”
Sasuke lo fissò, con un labbro che tremava appena. Se lui continuava a respingere le persone come poteva pretendere che queste continuassero ad avvicinarsi a lui, ferendosi nel tentativo di conquistarsi uno spazio, o almeno ad avere un accesso?
“No, nessuna inaugurazione” rispose.
“Bene, allora rimbocchiamoci le maniche, bisogna fare le pulizie, chiamare il fioraio, il servizio di catering, abbiamo un sacco di lavoro da fare” gli sorrise.
Sasuke sospirò e reclinò la testa all’indietro, fissando qualche istante il soffitto prima di sorridere all’uomo:
“Ok, basta solo che gli ipocriti rimangano fuori.”
“Fare gli inviti è un tuo compito, Sasuke. Sei tu a decidere chi entra e chi sta fuori – lo rassicurò – sta a te, sta sempre tutto a te, non dimenticarlo.”
 

 

 

L’angolino oscuro: Miracolo di Natale, sono riuscita ad aggiornare e stavolta siamo alle prese con l’anno nuovo e il carico di valutazioni, speranze e buoni propositi che porta con sé. A quanto pare tra Gaara e Itachi c’è solo un arrivederci, un congelare le cose, in attesa di vedere in che modo si risolverà la situazione con Sasuke, mentre lui, come dice il buon psicologo, ha ancora molto lavoro da fare per fare l’inaugurazione del suo teatro.
Come sempre spero vi sia piaciuto, se vi va di farmi un regalo per Natale lasciatemi qualche parola per farmi sapere che ne pensate della storia XD a presto!

 

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Capitolo 12
*** 12 - It started out with a kiss ***


 

Coming out of my cage
And I've been doing just fine
It started out with a kiss
How did it end up like this
It was only a kiss, it was only a kiss

(The Killers)

It started out with a kiss

 

 

Shisui girò la chiave e spense la macchina. Si tolse la cintura di sicurezza, ma non scese subito. Alzò lo sguardo per cercare qualche finestra illuminata al quinto piano, sebbene fosse già certo che lui fosse in casa.
Lo aveva chiamato una volta, ma l’altro non aveva risposto, così non gli erano rimaste molte alternative e aveva deciso di andare a trovarlo di persona. Non gli piaceva mettere Itachi all’angolo con una visita inaspettata, ma Sasuke non era l’unico ad aver bisogno di una sgrullata che gli rimettesse in ordine le idee. Era preoccupato perché era evidente che Itachi fosse confuso ma, soprattutto, perché il cugino non era abituato ad esserlo e, più di altri, poteva avere difficoltà ad uscire da quella situazione.
Quel ragazzo così dotato, apparentemente perfetto e infallibile in realtà, se lasciato a se stesso, senza nessuno che si preoccupasse per lui e gli facesse sputare fuori le cose, si sarebbe consumato fino a sparire, troppo preso invece dal preoccuparsi per gli altri, trascurandosi.
Shisui scese dalla macchina e fortunatamente al portone incrociò una coppia di ragazzi che stavano uscendo, così da non dovere nemmeno citofonare, gli avrebbe fatto una bella sorpresa bussandogli direttamente alla porta.
Suonò il campanello e attese almeno un minuto prima che gli venisse aperto, rivelando un Itachi perplesso che lo squadrava dalla soglia.
“Shisui?”
Il ragazzo sorrise, divertito dall’averlo stupito e rispose:
“In carne ed ossa! Mi fai entrare o rimaniamo sul pianerottolo?”
Itachi parve riscuotersi dalla sua immobilità e si scostò dalla soglia, richiudendo la porta dietro di lui.
“Che ci fai qui? Non ti aspettavo.”
“Lo so – rispose Shisui togliendosi il cappotto – magari se rispondessi al cellulare…”
“È in camera, non l’ho sentito. Io ero in sala con la playstation.”
Il cugino lo squadrò, notando i pantaloni morbidi e il maglione largo che indossava, abiti sciatti con cui non si sarebbe mai presentato in pubblico, ma che adorava per stare in casa quando nessuno poteva vederlo, aveva addirittura lasciato i capelli sciolti.
Shisui trattenne un sospiro, non era esattamente un buon segno nemmeno che il cugino passasse la giornata a giocare: entrambi adoravano i videogiochi, ma Itachi non era mai stato come lui, capace di perdere la concezione del tempo davanti allo schermo.
“Non mi hai ancora detto perché sei qui – aggiunse Itachi, per poi aggrottare la fronte – è successo qualcosa?”
“Ma no, ma no” lo rassicurò Shisui andando ad accomodarsi sul divano, osservando la partita in pausa e poi il cugino in piedi davanti a lui. “Non ci vediamo da capodanno.”
“Sono passati solo tre giorni, non tre mesi” sorrise Itachi, incrociando le braccia davanti al petto.
“E a me mancavi come se fossero passati tre anni, ok? Non si può? C’è qualche regola che lo vieta?” ribatté Shisui, facendo una smorfia contrariata con le labbra.
Itachi sorrise più apertamente, come era solito fare in sua compagnia e disse:
“Sei sempre il solito.”
Sparì in cucina e torno poco dopo con due bottiglie di birra, gliene offrì una e si sedette al suo fianco, guardandolo:
“Bene, ora sei qui e siamo insieme, sei soddisfatto?” lo punzecchiò.
Shisui fece tintinnare la bottiglia contro la sua prima di bere un sorso.
“Quasi” rispose portandogli una ciocca di capelli scuri dietro l’orecchio, nemmeno lui che pur lo conosceva da quando era bambino lo aveva visto spesso senza coda.
“Hai sentito Ryuji?” domandò invece Itachi per cambiare argomento, anche se non respinse il suo tocco ma lasciò che gli carezzasse i capelli, sfiorando un orecchio e il collo.
“Sì, sta relativamente bene. Si sta sentendo col ragazzo che ha conosciuto quella sera, ha bloccato il numero del padre che continuava a chiamarlo per minacciarlo, ma ha il sostegno della madre, quindi direi che gli è andata meglio di quanto pensasse. Ah, la nonna è stata dimessa, ma quella vecchia strega ci seppellirà tutti, stanne certo – rise – tu in questi giorni di vacanza sei stato chiuso in casa facendo l’eremita?”
“Già” replicò solamente, bevendo un altro sorso di birra e fissando lo schermo luminoso della tv, congelato in attesa del suo ritorno.
Shisui si morse un labbro, serrando con forza le mani attorno alla bottiglietta fresca, sentendo qualche goccia di condensa inumidirgli i polpastrelli.
“Come sta Sasuke?” domandò, certo che il fratello fosse l’unico che si fosse premurato di sentire.
Itachi non rispose subito, sembrò prendersi il suo tempo, disegnando col dito alcune forme astratte sul vetro appannato.
“Tutto sommato bene, credo – disse alla fine – non mi ha detto molto al telefono e non ci siamo ancora rivisti, ma nonostante tutto credo stia bene, o perlomeno starà bene.”
Il silenzio era rotto solo dal ticchettio di un orologio appeso alla parete, dalla strada sottostante si udiva qualche clacson solitario, un eco distante di chi non poteva fare a meno di stare zitto nemmeno dietro un volante.
Anche Shisui in quel momento non riuscì a tacere e prese il mento del cugino tra le dita, in modo da voltargli il viso nella sua direzione e guardarlo negli occhi.
“E tu? – chiese – Tu come stai, Itachi?”
Il ragazzo sbatté le palpebre, nessun altro movimento solcò il suo viso impassibile. Non avevano bisogno di parole: entrambi sapevano che se Itachi quei giorni si era isolato era stato perché bene non lo stava affatto, probabilmente non sapeva nemmeno come affrontare la cosa.
“Cosa ti turba? Si tratta di Sasuke e Gaara?” domandò ancora Shisui, non riusciva ad immaginare quale altro problema ci fosse, e poi lui aveva notato chiaramente l’interesse del cugino per il segretario dai capelli rossi.
“Sì” esalò Itachi. Tirò indietro la testa per sottrarsi alla sua presa, ma continuò a guardarlo negli occhi; la sua fuga era terminata, ora sarebbe andato fino in fondo alla questione. Sapeva che altrimenti il cugino non gli avrebbe dato tregua, per l’affetto e la preoccupazione che nutriva nei suoi confronti; in fondo era grazie a lui, al suo carattere e ai suoi modi, se Itachi si poteva definire un adulto equilibrato, una persona che aveva lottato e poi fatto la pace con se stessa.
“Provo un interesse nei confronti di Gaara, l’ho anche baciato l’ultimo giorno a lavoro, prima che Sasuke mi raccontasse quanto successo, anche se avevo già i miei sospetti. Eppure, nonostante questo, l’ho baciato e non volevo fermarmi lì.”
“E allora? – sbottò Shisui, irritato nel vederlo così indeciso – Qual è il problema? Sasuke? Non mi sembra stiano insieme, né escono o si frequentano in qualche forma, che c’è di male se ti fai avanti? Cazzo, ti fai decisamente troppi scrupoli! Itachi, devi pensare un po’ di più a te stesso.”
Itachi lo guardò in silenzio qualche istante, poi gli fece una carezza tra i capelli corti e mossi che gli piacevano tanto, così diversi dai suoi lunghi e lisci.
“Se ci fosse una situazione incerta tra me e un’altra persona tu riusciresti mai a metterti in mezzo?” Vide chiaramente la risposta sul viso di Shisui, perché non c’era nemmeno bisogno di parole per qualcosa di tanto scontato. “No, per l’appunto, e io non posso fare la stessa cosa a Sasuke, anche se non è così facile tirarmi indietro. Non fraintendermi: non sono certo innamorato, né altro, è solo un interesse; il problema è che non si tratta solo di attrazione fisica, lo trovo simpatico, mi piace parlargli, forse in altre circostanze sarebbe potuto diventare qualcosa di più serio. Ma non è destino e io devo farmene una ragione: Sasuke e Gaara devono chiarire ciò che è rimasto in sospeso tra loro. Nel frattempo io non posso vivere attaccato all’ipotesi che tra loro non succederà più nulla, devo andare avanti, ma ammetto che il mio carattere si ribella all’idea di arrendermi senza lottare, tutto qui.”
Shisui sospirò, nient’affatto soddisfatto da quella situazione e dalle conclusioni del cugino, che come sempre tendeva a razionalizzare troppo senza lasciare spazio ai sentimenti, e ovviamente a sacrificarsi in nome dell’amore che provava per il fratello.
“E Gaara che ne dice? Perché immagino che ne abbiate parlato l’altra sera e che Sasuke non saprà mai del vostro bacio” domandò, ricordandosi bene quanto fosse stato strano durante il viaggio di ritorno in macchina.
Itachi sorrise perché Shisui sapeva bene come funzionava la sua testa e indovinava sempre le sue azioni con precisione quasi chirurgica.
“Non saprà nulla, non ce n’è bisogno, e Gaara ha capito il mio punto di vista. Poi non è detto che si mettano assieme o scoppi l’amore, ma devono fare chiarezza sui loro sentimenti prima di tutto.”
Non gli raccontò di quell’ultimo bacio bello e inaspettato che Gaara gli aveva regalato, volle tenere quello splendido segreto per sé, timoroso che delle parole avrebbero sminuito il suo valore.
“Non è giusto lo stesso, dovresti essere felice e basta, te lo meriti!” esclamò Shisui perché, nonostante tutto,  per lui la felicità di Itachi veniva prima di ogni altra cosa. Era sempre stato così, per lui avrebbe venduto anche l’anima al diavolo.
Itachi rimase interdetto di fronte alla veemenza con cui il cugino gli esprimeva i suoi sentimenti, riusciva sempre a sorprenderlo con la sua schiettezza, dopo tutti gli anni passati assieme ancora non gli riusciva di abituarcisi. Gli passò di nuovo le dita tra i capelli, dicendo:
“Starò bene.”
Ne era certo, in fondo non era mai stato veramente solo, non poteva esserlo con lui a fianco.
Shisui però si scansò, non parlò, bensì si fece avanti e gli mise una mano sulla nuca mentre posava le labbra sulle sue. Lo baciò con forza, non fu affatto delicato o cauto, mentre le dita si intrecciavano a quei fili di inchiostro capaci di tenere avvinti, di legare a sé con la loro malia.
Gli schiacciò le labbra con le proprie, le leccò e le morse senza dargli tregua o modo di sottrarsi, anche se avesse voluto. Ma Itachi non lo voleva, accolse invece quel bacio, rispondendo con la stessa urgenza, quasi una fame che lo stava divorando senza che se ne accorgesse.
Afferrò il suo maglione poco al di sotto della gola come per avvicinarlo di più, perché non era ancora abbastanza, nonostante i nasi affondati nelle guance, le labbra che facevano male e i capelli che ormai si confondevano in un unico oceano scuro.
Shisui era stato il suo primo uomo, negli anni avevano continuato ad andare a letto insieme senza nessun obbligo o complicazione, come se fosse stato naturale quanto respirare. Al di là delle altre relazioni più o meno serie, a volte semplicemente si trovavano a baciarsi e poi a fare sesso, senza che questo inficiasse la loro amicizia o creasse tensioni e imbarazzi. Non a loro, non al rapporto profondo che condividevano, in cui l’amore aveva accezioni ancora diverse da quelle già note.
“Stai cercando di consolarmi?” ironizzò Itachi guardando le sue labbra rosse e gonfie che aveva ancora voglia di mordere.
“Veramente starei cercando di scoparti – rise piano Shisui – poi, se questo può fare bene anche al tuo umore, direi che non guasta.”
“Addirittura scoparmi? E chi ti dice che sarai tu a farlo?” Lo provocò, passando la punta del naso sul suo collo, sfiorando appena la pelle morbida della gola coi denti.
“Perché l’ultima volta sei stato tu a farlo, tutto qui, ma posso sempre concederti l’occasione per rifarti con un bis dopo.”
Rabbrividì a quel semplice gesto, alla capacità del cugino di eccitarlo semplicemente sfiorandolo. Ogni volta tra di loro era sempre diversa, per i sentimenti che li accompagnavano, per i desideri, le posizioni e lo scambio dei ruoli, non c’era nulla di convenzionale nel loro rapporto.
“Non devo scappare da nessuna parte, domani non lavoro e nemmeno tu, quindi direi che è possibile” rispose Itachi sempre con quel tono apparentemente impassibile. In realtà era eccitato, intrigato dall’idea di spogliarsi e spogliarlo, vedere di nuovo il suo corpo asciutto premuto contro il proprio e passare ore tra le lenzuola, a strapparsi gemiti e a reclamare piacere con le loro mani e bocche affamate.
“E la tua partita alla play?” lo punzecchiò Shisui, mentre però iniziava già a sollevargli il maglione.
“Direi che non me ne frega proprio un cazzo” stabilì Itachi per poi baciarlo e, in quel modo, zittirlo.
Non ci fu più spazio per le parole che scivolarono via inutili come i loro vestiti che disseminarono a terra, sterili semi da cui non sarebbe nato nulla.
Furono sul letto, assieme, i loro corpi che si conoscevano e non avevano bisogno di indicazioni o suggerimenti; le mani già sapevano quali strade seguire, i sentieri che li avrebbero portati alla loro meta, godendosi però il viaggio. Ogni volta con Shisui il paesaggio che vedeva dai finestrini cambiava, non era mai uguale, e loro ne godevano finché le bocche ansimanti non appannavano i vetri e ogni altra cosa veniva dimenticata, soverchiata dal piacere che si regalavano.
Quando Shisui entrò dentro Itachi ogni cosa venne dimenticata, perché quel culo che quasi artigliava mentre si muoveva, osservando le proprie falangi sparire nei muscoli contratti, era il fulcro di tutto.
Non esistevano fratelli, storie potenzialmente esplosive, rimpianti, rimorsi o sacrifici, il loro stare insieme aveva spazzato via tutto. Shisui traghettò Itachi al di là del suo mare di confusione e dubbi, lo strinse forte ricordandogli chi era e promettendogli, senza bisogno di parlare, che era al suo fianco e lo sarebbe sempre stato.
Solo dopo l’orgasmo, dopo essersi scambiati baci lenti e pigri, soddisfatti, si guardarono negli occhi per poi stendersi tra le coperte sfatte e osservare invece il soffitto.
Solo allora la mente di Itachi riprese a funzionare, a formulare parole e pensieri coerenti. Ripensò un attimo alle parole di Gaara, alla rivelazione sulla passività di Sasuke, e scoppiò a ridere perché quella sera si era tanto meravigliato, ma quel giorno lui si era ritrovato a fare la stessa cosa, godendo maledettamente nel sentirsi riempire da un cazzo. Sì, probabilmente anche lui sarebbe stato più che compatibile con Gaara.
“Ehi, fai ridere anche me” protestò Shisui con la voce ancora un po’ affannata.
“Niente, un pensiero sciocco – voltò la testa per guardare lui invece del soffitto – preferisco farti godere di nuovo invece che ridere.”
Shisui finse di pensarci intensamente, con gli occhi assottigliati e la fronte aggrottata:
“Direi che ci sto, mi sembra un’ottima alternativa” decretò infine riprendendo a baciarlo, ma col sorriso sulle labbra di entrambi.

 

***

 

Se Gaara avesse aumentato l’andatura anche solo di poco, la sua camminata veloce sarebbe diventata una corsa vera e propria. Schivava la gente che lo circondava, cercando varchi in cui infilarsi per superare quelle persone che sembravano oziare e avere tutto il tempo del mondo per fare pochi metri. Peccato invece che lui non avesse tutto il tempo del mondo, non ne aveva affatto in realtà, anzi, era in stramaledetto ritardo!
Aveva preso una mattinata di permesso per poter sostenere un esame, però la cosa era andata per le lunghe. Il professore, solitamente puntuale, aveva deciso di cambiare abitudini proprio quella mattina e, oltre al suo ritardo, erano saltati fuori tanti altri piccoli disguidi che avevano portato Gaara a essere interrogato solo dopo la pausa pranzo.
Nonostante la tensione e la fretta di dover tornare a lavoro, era andato molto bene, tanto che l’assistente aveva insistito perché fosse interrogato anche dal professore, quindi il ragazzo aveva dovuto attendere ulteriormente invece di arraffare il proprio libretto e scappare via.
Per tutta quella serie di motivi si ritrovava ad un passo dal mettersi a correre quando mancavano pochi minuti alle sedici e trenta, impaziente di tornare in ufficio. Proprio quel giorno non era solo in ritardo per il lavoro, ma anche per un appuntamento.
Doveva rivedersi con Sasuke e, se la cosa di per sé gli metteva già addosso un certo nervosismo, l’essere anche in ritardo non gli rendeva le cose più semplici. Gli aveva mandato un messaggio per avvisarlo, ma non aveva ricevuto risposta e nella sua mente venivano proiettati diversi scenari sulle possibili cause e le relative conseguenze, ovviamente uno più disastroso dell’altro.
Era appena entrato nel portone del palazzo e si dirigeva verso l’ascensore, quando vide uscire da lì Hiashi Hyuga col fratello.
“Gaara, pensavamo ci avessi abbandonato, come mai questo ritardo?” domandò l’avvocato, serio, molto esigente riguardo la puntualità e il rispetto degli impegni.
Il segretario ovviamente lo aveva avvisato, ma non era sceso nei dettagli e, quindi cercando di controllare la voce affannata, rispose:
“Mi spiace, ma stamattina il professor Sarutobi è arrivato in ritardo e io sono stato interrogato solo dopo la pausa pranzo. Inoltre l’assistente ha insistito perché passassi anche dal professore e sono venuto appena ho potuto.”
Era evidente agli occhi di entrambi che avesse corso dato che aveva ancora un po’ di fiatone e i capelli scombinati.
“Il professor Sarutobi? – disse Hizashi, decisamente più morbido del fratello sebbene sempre molto serio – Non è da tutti venire interrogati da lui, devo dedurre che l’esame sia andato particolarmente bene allora.”
“Beh, ho preso il massimo” annunciò Gaara, provando una certa soddisfazione nell’affermarlo ad alta voce e vedere il volto di Hiashi contrarsi in un lieve moto di sorpresa.
“Bene, mi fa piacere – disse questi – la prossima volta che hai un esame sarà meglio che tu ti prenda l’intera giornata per evitare certi inconvenienti.”
Gaara rimase interdetto, solitamente era difficile che gli concedessero di prendersi anche una mattinata libera, quindi quella proposta aveva un sentore di fantascientifico.
“Certo, farò così, il prossimo è tra due settimane” rispose subito, prima che cambiasse idea.
Gli avvocati gli riferirono di alcuni appunti urgenti che gli avevano lasciato sulla scrivania e il segretario fu libero di andare. Si era ripreso e il fiatone era scomparso, peccato che adesso fosse diviso a metà tra la stanchezza e il nervosismo per sapere che fine avesse fatto Sasuke.
Entrò nello studio e aveva fatto giusto un paio di passi quando si vide venire incontro Hinata, curiosa riguardo al suo esame. La ragazza si congratulò con entusiasmo, rivelandogli che lei la prima volta era stata addirittura bocciata e, chiacchierando, entrarono assieme nel loro ufficio.
Gaara si era tolto giusto la sciarpa e si stava sbottonando il cappotto quando rimase bloccato a fissare la scrivania di Itachi, occupata però da un altro Uchiha.
“Sasuke…” mormorò guardandolo e non capacitandosi che fosse ancora lì: in tutte gli scenari immaginati il giovane architetto se ne era sempre andato via.
“Ho pensato di aspettarti e mettermi a lavorare un po’ visto che avevo il portatile, e poi c’era anche la scrivania libera” gli spiegò, in uno sfoggio di splendida logica. Poggiò poi una mano sulle labbra e lo guardò; era passato veramente troppo tempo dall’ultima volta in cui si era specchiato in quegli occhi chiari che lo avevano sempre lasciato senza fiato.
Gaara finì di togliersi il cappotto e lo appese, per poi avvicinarsi alla sua scrivania e osservarlo alzarsi in piedi. Rimasero qualche istante a guardarsi negli occhi, separati solo dal ripiano in legno, prima che il segretario dicesse:
“Capisco, scusa per il ritardo, ma non è dipeso da me. Comunque potevi anche lasciarmi i documenti e andare via, non era necessario che rimanessi fino a quest’ora.”
Professionale, pacato e gentile, Gaara era stato impeccabile e la sua risposta offriva ben pochi appigli all’altro che invece avrebbe voluto avere uno spunto per approfondire la conversazione. In fondo aveva aspettato più di un’ora perché voleva vederlo, quella del lavoro ea solo un’ottima scusa, almeno con se stesso riusciva ad ammetterlo.
“Volevo farti vedere una modifica al progetto. Ho aggiunto una vetrata, in questo modo ci sarà il 25% di luce in più, il che inciderà positivamente sui consumi energetici annuali, e ci sarà solo una minima variazione del budget preventivato.”
Gaara annuì e fece un piccolo sorriso di fronte a quello sfoggio di professionalità, era evidente quanto l’Uchiha si impegnasse nel proprio lavoro.
“Certo, ricordo che il tuo argomento di laurea fosse un’architettura a minor impatto ambientale. Fammi vedere allora, ma sono certo che andrà benissimo.”
Fece il giro della scrivania per poter vedere assieme a lui lo schermo del computer e Sasuke si sedette nuovamente per richiamare poi la schermata del progetto, cercando di non apparire nervoso, anche se non era semplice. Gaara si ricordava tutto quello di cui gli aveva parlato, e la cosa lo fece sentire in difetto perché lui invece non aveva dato peso alle poche informazioni che l’altro si era lasciato scappare durante il tempo passato assieme.
Accantonò quei pensieri e prese invece a illustrargli il progetto, incontrando come previsto la sua approvazione. Gli consegnò poi dei documenti necessari per chiedere l’autorizzazione per i lavori che al massimo entro una settimana sarebbero iniziati. Nel frattempo Hinata li aveva salutati ed era uscita per una commissione e loro due erano rimasti da soli nella stanza, in un silenzio teso perché avevano esaurito ogni argomento di lavoro.
Gaara stava per allontanarsi e andare alla propria scrivania ricolma di appunti e fascicoli, ma Sasuke lo bloccò dicendo:
“Prima ho sentito che parlavi di un esame, di cosa si trattava?”
Non aveva trovato nessun appiglio per avviare una conversazione e così aveva tirato fuori lui la pistola e ne aveva sparato uno, sperando che fosse abbastanza forte da sostenere il peso dei silenzi e delle tensioni tra di loro.
“Sto frequentando l’università, legge ovviamente. Oggi avevo un esame, per quello ho fatto tanto tardi” gli spiegò Gaara, un po’ sulle spine. Non sapeva davvero cosa aspettarsi da Sasuke e dal loro incontro. L’ultima volta che si erano visti l’Uchiha lo aveva baciato e poi gli aveva dato della puttana; era passato del tempo, Sasuke stava andando da uno psicologo e in effetti gli sembrava diverso. La sua espressione, la postura del corpo non ricordavano a Gaara il giovane arrogante che aveva conosciuto. Tuttavia anche quello poteva essere un inganno e lui voleva andarci cauto.
“Mentre lavori? È un impegno piuttosto gravoso – affermò Sasuke, sinceramente impressionato – non frequenti le lezioni però, in effetti non ti ho mai visto all’università e le facoltà di architettura e legge sono vicine.”
“No infatti non seguo le lezioni, do solo gli esami, è l’unico modo – confermò infatti Gaara – in realtà questo è il mio primo anno. Tu hai concluso e io ho iniziato, sono un ritardatario.”
Sasuke sorrise appena, scuotendo la testa:
“Ma no, capita. Sono felice che tu abbia comunque trovato un modo per fare quello che volevi.” Si morse un istante un labbro, chiedendosi se non stesse esagerando, ma lo squillo del cellulare interruppe i suoi pensieri.
Gaara lo osservò in silenzio mentre rispondeva a un cliente. Guardò le mani robuste con cui lo aveva carezzato e con cui adesso si tirava indietro i capelli corti ma scuri come quelli di Itachi, e a quel punto per lui fu impossibile contenere la scarica di ricordi che aveva tenuto a bada finora.
Ripensò ai mesi trascorsi frequentando Sasuke, la loro rottura, le settimane passate a scambiarsi fredde mail di lavoro, pensò anche ai baci che c’erano stati con Itachi, la loro discussione la notte di capodanno e capì che l’avvocato aveva avuto ragione. Doveva prima di tutto chiarire le cose con Sasuke, altrimenti non sarebbe mai riuscito a lasciarsele alle spalle e a fare chiarezza dentro di sé.
Quegli ultimi mesi erano stati esplosivi sotto tanti punti di vista e Gaara aveva il bisogno di trovare dei punti fermi da piantare dopo che la sua vita era stata stravolta e mandata all’aria. Non sapeva cosa gli riservava il futuro, non sapeva se esisteva un futuro per lui e Sasuke, ma se non avesse chiarito non ci sarebbe stato un futuro e basta.
“Scusa l’interruzione” disse Sasuke mettendo via il cellulare.
“Figurati – rispose Gaara per poi decidersi a dire – a proposito di telefonate… mi ha sorpreso quella che mi hai fatto a Natale. Mi ha fatto anche piacere, in realtà.”
Sarebbe stato ipocrita negare che era stato piacevole ricevere le sue scuse o sapere di essere ancora nei suoi pensieri, si era persino arrischiato a prendere in considerazione l’eventualità che la decisione di Sasuke di rivolgersi a uno psicologo dipendesse in parte anche da lui.
“Ah, beh, non era… insomma – mormorò l’architetto in evidente difficoltà – ti dovevo delle scuse e poi volevo sentirti. Chiamarti per gli auguri mi era sembrata una buona idea.”
A capodanno non aveva avuto tutto quel coraggio e si era limitato a un messaggio. Una cosa da niente e banale per una persona qualunque, ma non per lui, per Sasuke quelli erano passi da gigante, dopo una vita passata a ignorare gli altri.
“Hai fatto bene” gli assicurò Gaara. Era stato il primo step verso il loro chiarimento, un’impresa titanica per due come loro incapaci di comunicare.
“Gaara, io…” disse Sasuke facendo un paio di passi per avvicinarsi ma bloccandosi perché l’altro era indietreggiato. Lo guardò spaesato, senza riuscire a capire cosa fare, una parte di sé aveva anche paura che le cose fossero così rovinate tra loro che solo un miracolo avrebbe potuto sistemarle.
“Scusa, io…” mormorò Gaara in difficoltà. Il suo era stato un gesto istintivo, ma all’improvviso l’immagine di Sasuke si era fusa con quella di Itachi e lui aveva avuto paura che lo baciasse di nuovo. Era confuso, incerto, e non comprendeva i propri sentimenti; i rumori di passi, degli altri avvocati che si muovevano nello studio non lo aiutavano certo a rilassarsi in un dialogo così spinoso.
“Non è il momento, né il luogo per parlare” affermò alla fine.
“Già – concordò Sasuke – possiamo vederci da qualche parte fuori?”
“Penso che sia la cosa migliore.”
Sasuke si morse un labbro perché gli era venuto istintivo chiedergli di vedersi al bar dove si erano conosciuti, sarebbe stato bello poter tornare alla notte in cui si erano incontrati, ma non era certo che quel suo sentimento fosse condiviso.
“Un caffè o una birra una di queste sere?” propose invece.
“Una birra andrà benissimo” decise Gaara. Aveva già preso il caffè con Kankuro e non era andato bene, meglio cambiare bevanda.
Il telefono sulla sua scrivania iniziò a squillare e lui sospirò, non c’era più tempo per pensare agli affari personali.
“Ci mettiamo d’accordo per messaggio, ok?” disse andando a rispondere.
Sasuke annuì e radunò la propria roba mentre lo osservava lavorare. In quel momento realizzò che Gaara parlava, mangiava, sorrideva, si muoveva, respirava in modo autonomo, senza bisogno di nessuno e lui voleva scoprire di più su di lui; voleva scoprire come fosse respirare la stessa aria assieme.

 

 

 

L’angolino oscuro: Ogni tanto ritornano. È passato un pezzo dall’ultimo aggiornamento, mi domando anche se a qualcuno importi dal momento che ho pochi riscontri per questa storia, ma non importa, andrò avanti perché la amo, amo tutti i miei personaggi e il loro lottare nella vita di tutti i giorni.
Per questo capitolo non ho molto da dire, è abbastanza di passaggio, la natura della relazione tra Itachi e Shisui è chiarita, come se ci fossero stati dubbi a riguardo, ma… è veramente tutto qui? Gaara ha deciso che c’è bisogno di andare fino in fondo alla questione e quindi dà una seconda chance a Sasuke, ma non significa che finiranno di nuovo insieme, è giusto un nuovo inizio, vediamo come il nostro Uchiha problematico riuscirà a gestirla. Titolo e parole a inizio capitolo sono della canzone Mr. Brightside dei The Killers.
Per oggi è tutto, alla prossima!

 

 

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Capitolo 13
*** 13 - Il silenzio non è sempre d’oro ***


Il silenzio non è sempre d’oro

 

“Insomma, alla fine sono andato da mio padre e gli ho detto che mi rifiutavo di seguire il progetto per il nuovo grattacielo, una costruzione bellissima, ma un ammasso di cemento e lamiere che avrebbe distrutto l’armonia del quartiere con quel grande parco poco distante. E che se voleva che me ne occupassi, pretendevo di rifare daccapo tutto a modo mio.”
“E lui che ha risposto?”
“Ok. Mi ha risposto solo ok e di sbrigarmi.”
L’incredulità sul viso di Sasuke era ancora lampante, malgrado stesse raccontando un evento accaduto tre giorni prima. Eppure per lui era davvero difficile credere a ciò che era accaduto, nonostante lo avesse vissuto in prima persona e con la scrivania invasa dalle carte del suo nuovo progetto, a testimonianza della realtà dei fatti.
Lo psicologo si alzò e prese la scatola dei cioccolatini che tirava fuori ogni volta c’era qualcosa che valeva la pena festeggiare. La posò sul tavolino in mezzo a loro e, accomodandosi di nuovo sulla poltroncina, disse:
“Ottimo, direi che è veramente una gran cosa, proprio da festeggiare. Ho fatto il rifornimento di cioccolatini fondenti, prendi pure senza timore – lo informò – fino a un paio di mesi fa gli avresti mai imposto un simile ultimatum, o avresti seguito un progetto che andava contro i tuoi ideali?”
Sasuke frugò con lo sguardo nella scatola aperta davanti a sé, optando poi per prendere quello con la carta verde ripieno al caffè, il suo preferito. Ne aveva mangiato più di uno da quando aveva iniziato il suo percorso terapeutico.
“No, sarei stato zitto e avrei eseguito le direttive senza ribellarmi per paura di deluderlo” ammise rigirandosi tra le dita il cioccolatino, senza ancora scartarlo.
“Cos’è cambiato?”
Sasuke sospirò piano, guardando poi fuori dalla finestra.
“Io. Sono io ad essere cambiato.”
“Nel senso che non hai più paura di deluderlo o non ti importa se lo fai?”
Il ragazzo fece una smorfia che doveva essere un sorriso amaro e si mise in bocca il cioccolatino, sentì il gusto amarognolo stemperato dalla crema al caffè che gli invadeva il palato e chiuse gli occhi, godendosi quel momento.
Quando anche le ultime tracce di cioccolato si furono sciolte, guardò nuovamente l’uomo che gli sedeva di fronte e, con una calma che non avrebbe mai immaginato di possedere, rispose:
“Ancora non mi è del tutto chiaro. Credo che avrò sempre paura del suo giudizio, in fondo mio padre è la figura che ha sempre dominato la mia vita. Però, forse, inizio a contemplare l’idea che per renderlo felice non devo essere io infelice, posso trovare un compromesso e per farlo non posso continuare a soffocare le mie idee, le mie convinzioni e i miei desideri… sto sbagliando, forse?”
Era calmo, lui che in realtà era sempre nervoso e agitato, ma si nascondeva dietro alla maschera della compostezza e dell’imperturbabilità. Era evidente che quel percorso, fatto nel tentativo di accettarsi e capire chi fosse, gli stesse insegnando anche a venire a patti con l’ansia o perlomeno a gestirla, per non dover più ricorrere a ipocrisie e altre mistificazioni per non vedere verità scomode o difficili da accettare.
“No, se per te questo metodo sta funzionando, allora va bene – gli rispose lo psicologo – non esiste un unico modo per fare le cose nel modo giusto. L’unico modo giusto è quello che va bene per te e la tua situazione, perché come noi siamo tutti diversi l’uno dall’altro, lo sono anche le nostre vite. Non devi per forza spiattellare la verità in faccia a tutti se ciò ti fa sentire a disagio, anche se sono sicuro che i tuoi amici sarebbero felice di ascoltarti.”
Sasuke rifletté sulle sue parole e poi si allungò a prendere un altro cioccolatino, senza bisogno di sollecitazioni.
“Non è una cosa così grandiosa, eppure mi sento fiero di me stesso, molto più che per altri risultati prestigiosi che ho ottenuto… mi sa che mi sto rammollendo, specialmente se penso di raccontare a Naruto che sono gay” ironizzò, scartando e mettendosi in bocca l’altro dolce.
“No, semplicemente hai fatto qualcosa per te stesso, per difendere qualcosa in cui credi veramente. Hai lottato per le tue idee, Sasuke, e hai anche vinto; onestamente io riesco a immaginare pochissime cose più soddisfacenti di questa. E nemmeno il tuo amico penserebbe che tu sia un rammollito – gli diede qualche istante per metabolizzare quello parole, poi cambiò discorso e chiese – quindi ora ti occuperai solo di questo progetto?”
Il ragazzo scosse la testa:
“No, o lei si occupa solo di un paziente alla volta? – ironizzò, ma senza la voglia di pungolarlo usata nei primi tempi – Questo è il più grosso al momento, ma ne seguo altri, ad esempio la ristrutturazione per l’ampliamento dello studio di avvocati dove lavora mio fratello.”
“E Gaara – aggiunse lo psicologo – non mi hai più detto nulla di lui, ti va di parlarmene?”
Non forzava mai nessun argomento, negli ultimi incontri Sasuke non aveva mai nominato l’altro ragazzo e lui aveva rispettato la sua volontà, ma giudicava che quel giorno fosse una buona occasione per domandare. Decidere se rispondere toccava a Sasuke, come per ogni altra cosa.
“Non c’è molto da dire – ammise l’architetto – ci siamo rivisti ai primi di gennaio come le avevo detto, abbiamo parlato e lui ha accettato di uscire una sera per una birra e parlare un po’. Però in questo periodo è molto impegnato tra studio ed esami, si è iscritto all’università come studente lavoratore, sa? Quindi non ho insistito, ma ci siamo sentiti per messaggio, gli ho augurato buona fortuna prima di un esame che aveva ieri e lui mi ha fatto sapere come era andato. Ci siamo visti brevemente un paio di volte perché i lavori di ristrutturazione sono iniziati, ma abbiamo discusso solo di questo.”
Lo psicologo lo osservò giocherellare con le cartine vuote dei cioccolatini, guardare fuori dalla finestra e infine fissarsi le mani alla fine del racconto.
“E come stai vivendo la cosa? Mi sembra un ragazzo molto impegnato” commentò solamente.
“Già, lo è. Sinceramente non so se al posto suo sarei riuscito a fare le stesse cose, io ho solo studiato senza lavorare, eppure ricordo che in alcuni periodi mi chiudevo addirittura in casa per preparare un esame e non riuscivo a fare altro. Per questo motivo non sto insistendo, anche se…” si morse un labbro.
“Se?” lo incoraggiò.
Sasuke strinse con forza le labbra e le sue orecchie divennero rosse, come se fosse stato una pentola a pressione che però si rifiutava di lasciar uscire il vapore.
“Ho voglia di vederlo – sbottò infine – vorrei riprendere i discorsi lasciati in sospeso, ma non posso pretendere che lui segua i miei desideri e basta, credo di volere qualcosa di più di una scopata da lui. Anche se all’epoca non me ne sono reso conto, avevamo iniziato a costruire quel qualcosa: mi fermavo a dormire da lui, a poco a poco avevamo iniziato a parlare di altro oltre al sesso o alle frecciatine ironiche, ma poi è andato tutto a puttane, anzi, ce l’ho mandato io.”
Sospirò e poggiò la nuca contro lo schienale imbottito, fissando il soffitto. Non era affatto piacevole ammettere i propri sbagli, assumersi le proprie responsabilità, ma lo faceva, non si nascondeva più dietro ad un dito. Probabilmente gli sarebbe venuta una gastrite come conseguenza, ma lo trovava un giusto compromesso.
“Pensi di essere innamorato?”
Sasuke rifletté a lungo, sempre con lo sguardo puntato sul soffitto bianco, distinguendo anche una piccola ragnatela in un angolo e chiedendosi se il proprietario non si stesse facendo grasse risate sentendo tutti i giorni casi umani come lui.
“Non credo di aver ben chiaro cosa sia l’amore, a parte l’affetto che provo per la mia famiglia o i miei amici, quindi penso di no. Semplicemente mi piace, mi trovo a pensare a lui, a quanto sia piacevole stare in sua compagnia e a desiderare passare più tempo con lui – lo guardò – è amore questo?”
“Lo scoprirai – sorrise ambiguo lo psicologo – come scoprirai tante altre cose. Per il momento va anche bene che prendiate le cose con calma, in fondo hai altre cose a cui dedicarti, altri progetti.”
Sasuke sbuffò perché trovava irritante la mancanza di risposte dirette dell’uomo, d’altra parte era stato chiaro: lui non forniva risposte, era Sasuke a doverle trovare.
“E quali progetti? Sentiamo.”
“Dobbiamo ancora finire di pulire quel bel teatro, togliere di mezzo alcuni vecchi scatoloni polverosi e fare gli inviti, il primo è stato per tuo fratello, non pensi che anche il tuo amico Naruto se ne meriterebbe uno?”
Sasuke lo guardò con un evidente disgusto e storse le belle labbra come se avesse addentato un frutto acerbo:
“Lei fa veramente schifo con le metafore, lo sa?”
“Forse, ma quella del teatro non è mia, lo sappiamo entrambi.”
Sasuke ripensò a quella volta in cui quelle parole assurde gli erano sfuggite di bocca, un paragone davvero poetico e improbabile detto da lui.
“Fanculo” sospirò soltanto, tornando a fissare il soffitto e gli sembrò che la ragnatela vibrasse, evidentemente quello stronzo di ragno si stava veramente ammazzando dalle risate.

 

***

 

Gaara guardò il liquido ambrato che aveva nel bicchiere e annusò discretamente quel superbo whisky, distinguendo il delicato aroma di miele avvolto da un sottofondo legnoso discreto. Deidara e Hidan gli avevano insegnato a distinguere un liquore di qualità o anche un cocktail degno di quel nome da uno scadente; erano strambi e con qualche rotella fuori posto, ma nel loro lavoro erano dei professionisti. Anche il sapore del whisky era altrettanto eccellente e lui centellinò ogni sorso mentre discorreva con chi lo circondava.
Quel giorno Itachi e Neji Hyuga, il nipote di Hiashi e figlio di Hizashi, erano diventati a tutti gli effetti soci dello studio, era ufficiale. Per quel motivo, una volta usciti dall’ufficio, erano andati a bere qualcosa per festeggiare e Gaara era stato incluso nell’invito per l’insistenza di Itachi e Hinata. Aveva accettato anche se un po’ titubante, inoltre l’espressione arcigna di Neji faceva capire chiaramente quanto detestasse la sua presenza lì. Gli altri avvocati erano più tranquilli, non lo riconoscevano come un loro pari, ma lo trattavano con la solita familiarità, a volte condita anche da un velo di condiscendenza che il segretario mal sopportava. Stringeva i denti e faceva finta di niente, dicendosi che era solo questione di tempo prima che potesse fregiarsi del loro titolo e smettere di essere trattato con quella gentile indifferenza.
Il lounge bar dove si trovavano era piuttosto lussuoso coi suoi divani bianchi e i lampadari di cristallo che scendevano dal soffitto, inondando la sala con le loro gocce di luce; nemmeno il locale dove lavorava Hidan era tanto pretenzioso e per Gaara era la prima volta in un posto del genere. Non dimostrò il suo disagio, mascherandolo sotto il solito velo di imperturbabilità, si limitava a intervenire nella conversazione se interpellato e a godersi il suo drink, amando la sensazione di leggerezza alla testa che gli stava regalando. Fino a nemmeno mezz’ora prima aveva avuto la certezza che non sarebbe mai più riuscito a rilassarsi, o a non essere tormentato da miliardi di preoccupazioni diverse.
Una volta finito quel piccolo intermezzo di festeggiamenti, ognuno andò nella propria direzione: i vari avvocati avevano le loro famiglie ad attenderli, in particolar modo quella sera gli Hyuga si sarebbero riuniti per una cena formale per festeggiare il giovane Neji. Alla fine Gaara si ritrovò da solo con Itachi e rimasero un istante in silenzio a guardarsi, senza sapere bene come dissipare quel velo di tensione tra di loro, mentre la gente attorno a loro continuava a camminare, incurante dei loro turbamenti.
Erano passate due settimane da quanto accaduto a capodanno e i due avevano ripreso a lavorare come sempre, a volte si trovavano persino a chiacchierare come se niente fosse successo tra di loro, come se quei baci e le emozioni che li avevano accompagnati non fossero mai esistiti. Per Gaara era stato strano, ma si era adeguato e poi aveva veramente troppe cose a cui badare per andarsi a cercare anche altre preoccupazioni.
“Beh, ancora congratulazioni. Immagino che stasera festeggerai anche tu” si decise finalmente a dire il segretario, spezzando quel silenzio teso.
Itachi fissò il suo naso rosso al pari delle guance e sorrise, pensando che il freddo stava sicuramente giocando lo stesso scherzetto anche al suo viso.
“No, in realtà no. Non ho detto a nessuno che oggi sarei diventato associato – gli rivelò – abbiamo una bevuta in sospeso noi due, vuoi farmi compagnia?”
Gaara lo fissò perplesso e strinse più forte con la mano una cinghia dello zaino che teneva in spalla. Gli eventi avevano dimostrato che loro due più l’alcool potevano essere una combinazione pericolosa, ma non credeva che l’Uchiha avesse chissà cosa in mente, probabilmente voleva solo parlare. Forse non era una cattiva idea, almeno avrebbero potuto chiarire meglio la situazione tra di loro, invece di fare finta di niente.
“Basta che mangiamo anche qualcosa o dovrai portarmi a casa in spalla” scherzò, sebbene quel whisky a stomaco vuoto gli aveva già fatto girare la testa.
“Penso che pur di vederti mangiare sarei disposto a qualsiasi cosa” sorrise Itachi, incamminandosi.
“Esagerato” sbuffò Gaara seguendolo, pensando però che in effetti l’altro gli allungava sempre un cioccolatino quando ne prendeva uno per sé.
Itachi avanzò sul marciapiede gelato in silenzio, con le mani affondate nelle tasche del cappotto, ma dopo un paio di passi girò la testa verso di lui, verso quella chioma esuberante che nemmeno le luci fioche dei lampioni riuscivano a smorzare.
“Un po’ scherzavo, ma ero anche serio. Ti trovo sempre molto magro, quasi troppo. Il maglione che ti ho regalato a natale ti va ancora piuttosto morbido. Non voglio essere ficcanaso o presuntuoso, mi preme solo che tu stia bene.”
Forse l’aperitivo aveva sciolto anche a lui la mente e la lingua, la verità era che avrebbe voluto dirgli quelle cose da parecchio, ma si era sempre tirato indietro per rispettare la sua privacy; quella sera però le parole erano scivolate fuori di bocca con naturalezza, così come la proposta di continuare la serata assieme.
Gaara non rispose e continuò a camminare con la testa chinata, il viso quasi completamente nascosto dalla morbida sciarpa di Hinata. Entrò nel locale, rabbrividendo per lo sbalzo di temperatura, e continuò a seguire l’avvocato fino a un tavolo libero a cui si accomodarono. Il locale era un pub piuttosto informale, con della musica che risuonava dalle casse disposte strategicamente qua e là, un posto ben diverso da quello in cui erano stati prima. Gaara lesse il menù e, vedendo la vasta scelta di cibo, sospirò per poi alzare lo sguardo su Itachi e finalmente rispondere:
“Sto bene, Itachi. Nei mesi passati la mia vita ha subito qualche grosso scossone e ne ho risentito, adesso va meglio, ma io ho un sacco di cose di cui occuparmi. Mi sembra che in ufficio la mole di lavoro sia aumentata e questo è periodo di esami all’università, a volte la sera sono così stanco che non ho nemmeno voglia di mangiare. Devo solo tenere duro, finito il periodo di esami, andrà meglio e riuscirò a rilassarmi, non serve che ti preoccupi, ma… grazie per l’interessamento.”
Aveva atteso per rispondergli perché si vergognava ad ammettere le sue debolezze, ma di fronte alla sua genuina preoccupazione espressa in modo così accorto non era riuscito a fare finta di nulla.
I suoi problemi economici non erano finiti, doveva ancora restituire una certa somma a Hidan, ma il periodo critico era passato, ora poteva tornare a fare una spesa adeguata, peccato che gli mancassero le forze e la voglia di cucinare, limitandosi ad aprire una scatoletta o due. Poi studiava finché non crollava dal sonno e il giorno seguente era identico al precedente.
Aveva così tante cose a cui badare che non era nemmeno più uscito con Sasuke nonostante se lo fossero ripromessi, si sentiva lievemente in difetto ad averlo fatto prima con Itachi, ma era un caso che quella sera fossero lì insieme, non era stato pianificato nulla.
“Ogni tanto potresti venire a fare la pausa pranzo con me, così risolveresti il problema” gli propose Itachi, affabile.
Gaara scosse la testa:
“Scusa, ma quelle due ore sono veramente preziose. A volte riesco a studiare più durante la pausa che non la sera. Magari dopo che sarà finita la sessione.”
“Ma certo, scusa ancora se mi sono intromesso, sono solo felice che le cose ti vadano meglio – fece una pausa e si umettò le labbra prima di chiedere – anche Sasuke c’entra qualcosa coi problemi che ti hanno travolto?”
Gaara sospirò riaprendo il menù per scegliere e decise di non mentire, pur non scendendo nei particolari:
“In pratica è iniziato tutto da quando abbiamo rotto, da lì in poi è stato un continuo, una serie di sfortunate coincidenze.”
Era la pura verità, non portava nemmeno più rancore a Sasuke per quanto successo, se ne era reso conto dopo aver ricominciato a rivederlo per via del lavoro. D’altra parte, se così non fosse stato, non avrebbe mai accettato di uscire di nuovo con lui. Si sentì strano a parlarne con Itachi, suo fratello, ma in un certo senso era liberatorio.
Arrivò un cameriere a prendere le ordinazioni, costringendoli a interrompere la conversazione e, solo quando furono nuovamente soli, con le birre davanti, Itachi parlò nuovamente:
“Mi spiace che mio fratello sia stato il principio di un periodo tanto difficile per te, ora come va tra di voi?”
Gaara scrollò le spalle per minimizzare le sue parole:
“Te l’ho detto è stata solo una serie di pessime e sfortunate coincidenze – tacque un attimo – non so bene. Avevamo detto di uscire, ma sono così impegnato che sinceramente non ho avuto neanche modo per pensarci. Ci siamo visti solo brevemente per lavoro e ogni tanto ci scambiamo dei messaggi, ma non so bene cosa significhi tutto ciò, è ancora tutto molto confuso.” Lo guardò negli occhi, serio “Ti ha detto qualcosa su di me?”
Itachi bevve un sorso della sua birra, nascondendo le labbra dietro al bicchiere assieme al sorriso spontaneo che le aveva piegate: Gaara era interessato alla sua risposta, si preoccupava di ciò che pensava Sasuke.
“No, solo che vi sentite – rispose – ammetto di aver sentito poco mio fratello ultimamente, anche lui è molto impegnato con un grosso progetto.”
“Il grattacielo giusto?” intervenne Gaara.
Itachi inarcò appena le sopracciglia:
“Già, il grattacielo” sorrise. A quanto pareva Sasuke aveva raccontato all’altro più cose di quanto gli avesse fatto intendere, forse il momento del loro appuntamento era più vicino di quanto entrambi pensassero.
“Posso chiederti come mai non hai detto niente alla tua famiglia della promozione?” si arrischiò a chiedere Gaara, bevendo un sorso di birra e prendendo una manciata di noccioline mentre attendeva la cena.
“Mi sembra giusto, finora ho fatto io le domande indiscrete – replicò Itachi con leggerezza – forse mi andava solo di tenere la cosa per me per qualche tempo. Faccio fatica a raccontare quello che mi riguarda, anche le cose belle, ma glielo dirò, non temere.”
“I tuoi amati segreti, giusto?” replicò Gaara ed entrambi sorrisero, perché ne condividevano uno. “Che tipi sono i tuoi genitori? – domandò poi il segretario, incuriosito – Di tua madre non so nulla, se non che è molto bella, di tuo padre so che è molto severo, o almeno così mi ha accennato Sasuke una volta.”
“Stai tentando di capire che razza di mostri devono essere per aver creato due figli come noi? – ironizzò Itachi – Mia madre è piuttosto affettuosa e ironica, ma non ha mai mancato di sgridarci se ce lo meritavamo, credo sia il giusto grado di dolcezza e severità. Mentre mio padre… beh, diciamo che lui è un uomo vecchio stampo, inflessibile. Non è semplice averci a che fare, ci ha sempre pungolati per non adagiarci sugli allori e dare il massimo, è stato anche crudele a volte. Non che intendesse farlo coscientemente, ma lo è stato.”
Si sentì un po’ in difficoltà a parlare così apertamente dei propri genitori, specialmente di Fugaku, ma forse ciò poteva aiutare Gaara a capire meglio alcune scelte di Sasuke. Avrebbe voluto chiedergli a sua volta dei genitori, ma scelse di non toccare un argomento così delicato ricordandosi che l’altro era cresciuto in orfanotrofio.
Gaara a sua volta non gliene parlò spontaneamente, bensì iniziò a mangiare lentamente il piatto che gli avevano appena portato. Per un paio di minuti rimasero in silenzio, ma poi la curiosità di Itachi ebbe la meglio:
“Ho notato che Neji non ti vede proprio di buon occhio, è successo qualcosa in passato?”
Gaara mandò giù un boccone e si finse pensieroso:
“Evidentemente ancora non ha superato il fatto di essere stato sedotto e abbandonato.”
Scoppiò a ridere di fronte alla faccia sbigottita di Itachi e il suo scherzo non durò a lungo, così si affrettò a chiarire con ancora il sorriso sulle labbra “Scherzo ovviamente, figurati se potrebbe mai succedere una cosa simile – poi si fece serio – all’inizio era normale. Non era certo gentile come Hinata, ma era normale, molto educato e formale. È cambiato quando ho annunciato la mia intenzione di iscrivermi all’università, un giorno sbottò dicendo che stavo facendo una stupidaggine, che ero in ritardo per gli studi e che era inutile. Per quanti sforzi avrei fatto non sarei mai riuscito a diventare niente più che un segretario, quello è il mio posto.”
Conoscendo la persona in questione, Itachi non faticò a credere alle sue parole e domandò:
“Tu cosa hai risposto?”
“Gli ho detto cortesemente di pensare ai suoi affari, io avrei pensato ai miei.”
“Non ti sei lasciato abbattere, continua così, diventerai un ottimo avvocato.”
Era raro che Itachi si complimentasse con qualcuno, ma più passava il tempo più trovava lati da ammirare in Gaara, dalla sua ironia affilata alla serietà e all’impegno che metteva in ogni cosa.
“Figurati se le parole di un ragazzo come lui possono mai toccarmi. Dopo aver vissuto per strada ed essere arrivato fino qui da solo, nessun Neji al mondo potrà mai scoraggiarmi.”
Si rese conto di aver rivelato un po’ troppo e si affrettò a riempirsi la bocca per evitare di dire cose di cui si sarebbe potuto pentire. Itachi in effetti lo guardò stranito e domandò:
“Hai vissuto per strada?”
Attese che l’altro mandasse giù il boccone e lo guardò negli occhi chiari, finché Gaara non si decise a parlare:
“A sedici anni sono scappato dalla famiglia adottiva da cui stavo da qualche mese e mi sono arrangiato come ho potuto. Non è qualcosa di cui parlo volentieri, scusa.”
Itachi capì che non si sarebbe sbottonato più di così e lo rispettò. Lo guardò con rinnovata ammirazione, perché quel ragazzo aveva vissuto qualcosa che lui non riusciva nemmeno a concepire. Era fuggito dalla sicurezza di una casa, provvedendo poi a sostenersi quando non era nemmeno maggiorenne; una bella differenza con lui che era andato via di casa a diciannove anni, aiutato da una madre che ogni tanto gli passava del denaro all’insaputa del padre. Si era addirittura creduto tanto forte per essersi arrangiato solo con quei soldi e la borsa di studio ma, davanti a Gaara e alle sue esperienze, si rese conto di potersi considerare ancora un privilegiato.
“Sappi che ti stimo ancora di più” disse per concludere quel discorso e vide le guance del ragazzo colorirsi, ma quella volta non era colpa del freddo.
“Sono contento che la cena ti stia piacendo – cambiò discorso – spero che tu abbia spazio per il dolce, qui sono ottimi.”
“Conoscendoti non ne avevo dubbi, Itachi” sorrise, ricambiato dall’altro. Erano entrambi felici di trovarsi lì e di essere riusciti a trovare una nuova intesa.

 

***

 

 Sasuke guardò la distesa di roba che invadeva il pavimento, tanto che, chi fosse entrato nella stanza, avrebbe potuto pensare che non esistevano mattonelle ma ogni cosa poggiava su cartacce multicolor, briciole e bottiglie vuote.
“Naruto, la tua camera è davvero un porcile, lo sai vero?” sbuffò, spostando un cartone della pizza vuoto per potersi sedere più comodamente. Stavano giocando assieme alla playstation, dopo aver strappato con forza e ostinazione un po’ di spazio al mare di lerciume per poggiare dei cuscini a terra davanti alla televisione.
“Quante storie per due cartacce” mugugnò l’altro, osservando una busta di patatine fare capolino da sotto il letto.
“Mi sorprende che Hinata non ti sgridi, lei è così ordinata! Anzi, aspetta… mi sorprendo che si sia messa con te, prima di tutto.”
“Ho molte qualità nascoste” ridacchiò Naruto, senza scomporsi minimamente di fronte alle battute sarcastiche dell’amico.
“Ah, quindi ha un animo da speleologo, perché queste qualità sono nascoste davvero in profondità – lo rimbeccò ancora – vorrei proprio sapere quali sono.”
“Per esempio il cazzo grosso” rispose Naruto in assoluta serietà, con lo sguardo concentratissimo sulla partita.
Sasuke invece si voltò a fissarlo, senza parole, dimenticandosi di ogni altra cosa che stava facendo, permettendo addirittura all’amico di vincere visto che in pratica aveva smesso di giocare.
“Evvai, ho vinto! Ti ho stracciato Sasuke puzzone!” esultò euforico visto che non succedeva spesso.
L’architetto, leso nell’orgoglio, gli tirò quel cartone della pizza, beccandolo con lo spigolo in pieno stomaco.
“Idiota! – esclamò – Mi ero distratto un attimo per l’enorme cazzata che hai detto, non esaltarti a questo modo.”
“Sei solo invidioso perché sai che è vero” rise Naruto, ignorando il reale turbamento dell’amico.
Sasuke infatti ripensò alle docce fatte insieme a scuola dopo gli allenamenti e il disagio provato, i suoi tentativi di non sbirciarlo, di ignorare le sensazioni nel vedere un altro corpo maschile nudo, la profonda vergogna e il senso di colpa che lo mangiavano vivo assieme alla testardaggine con cui negava le proprie inclinazioni. Si era persino fidanzato con una sua amica d’infanzia che era da sempre innamorata di lui, ma non aveva funzionato, dopo poco l’aveva lasciata, disgustato da se stesso e anche più spaventato.
Si alzò, calciando via il cuscino su cui era seduto e si diresse verso la porta senza dire una parola. In quel momento delicato della sua vita sentiva di essere troppo esposto, che se avesse aperto la bocca anche solo per mandarlo a fanculo sarebbe stato troppo, non sarebbe più riuscito a richiuderla, con conseguenze disastrose.
Naruto rimase interdetto, si aspettava qualche rispostaccia, un proseguo del battibecco, come facevano sempre per poi scoppiare a ridere insieme. Avrebbero continuato a giocare, ordinato una pizza e chiacchierato fino a tardi. Non capiva proprio perché Sasuke all’improvviso stesse reagendo in quella maniera, ma non perse tempo e lo seguì, bloccandolo in corridoio.
“Ehi, che c’è? Non è una tragedia avercelo piccolo, dai. Sakura non se ne è mai lamentata” gli disse, tentando ancora di scherzare, ma si rese conto che non era la strategia giusta. Aveva poggiato una mano sulla sua spalla e guardava la schiena e la nuca dai capelli scuri dell’amico, avvertendo sotto al proprio palmo quanto stesse fremendo, quasi fosse un animale pronto a spiccare il salto e sbranare la preda.
Sasuke però non fece niente di tutto ciò, si limitò a scrollarsi di dosso la mano e a riprendere a camminare.
Naruto, testardo come al solito, gli fece fare solo un paio di passi prima di bloccarlo di nuovo, ma stavolta lo spinse contro il muro costringendolo a guardarlo in faccia.
Osservò la sua pelle ancora più pallida del solito, gli occhi duri e le labbra tanto compresse da diventare invisibili. Era accaduto qualcosa di grave che non aveva compreso, ma non avrebbe mai permesso che il suo migliore amico se ne andasse via in quelle condizioni: Sasuke nel suo incessante bisogno di dimostrare di essere autosufficiente, di non avere bisogno di niente e nessuno, aveva provato più volte in passato ad allontanarlo. In realtà Naruto aveva sempre creduto che l’altro lo stesse mettendo alla prova, testando se davvero il loro legame fosse così forte come il biondo esagitato proclamava. Naruto però, in ogni occasione, gli aveva sempre dimostrato che non lo avrebbe mai lasciato indietro, non si sarebbe svegliato una bella mattina decidendo di averne abbastanza di quell’Uchiha borioso e acido. Era stato difficile rimanergli accanto, percorrere la strada di cocci che conduceva da Sasuke, ma lui ci era riuscito, coi piedi sanguinanti e il sorriso sulle labbra si era guadagnato la sua fiducia. Non aveva quindi intenzione di tollerare un simile comportamento da parte sua, non se lo sarebbe lasciato scappare come acqua tra le dita; era intollerabile capire di ignorare qualcosa su Sasuke, qualcosa che l’altro non gli aveva confidato.
“Adesso ti calmi e mi dici che cazzo ti è preso – gli disse serio, col volto vicino al suo – che c’è? Ti è già arrivato il ciclo questo mese? O hai bisogno di una scazzottata?”
Sasuke fissò quegli occhi azzurri tanto sinceri che non nascondevano l’irritazione, così come erano incapaci di celare qualsiasi altro sentimento. Naruto era così: non aveva paura di esporsi, non era come lui e lo odiò per questo. Un fiotto improvviso di odio gli salì da dentro e gli corrose la gola, perché in quel momento si sentiva braccato e ferito come una gazzella inseguita da un ghepardo. Odiava sentirsi così fragile, si era riscoperto sensibile alle opinioni delle poche persone a cui teneva, in quel momento odiava Naruto perché lo stava costringendo a rivelare qualcosa che avrebbe distrutto il rapporto tra di loro. Ma era troppo per Sasuke, troppo odio da contenere, gli scivolava dalle labbra, colava dal naso, dalle orecchie, creava rivoli sulla sua pelle, giù per il collo, impregnando i suoi abiti, il petto, tutto il suo corpo fino a rivestirlo.
“Sono gay, Naruto. Un fottuto frocio che sa bene quanto hai grosso il cazzo perché te lo guardavo.”
Vide la sorpresa sbocciare nei suoi occhi azzurri, lasciando poi il passo alla comprensione, era certo che il disgusto sarebbe arrivato di lì a poco. Chissà cosa avrebbe detto il suo psicologo, se sarebbe stato fiero del suo modo di fare gli inviti, probabilmente no, gli avrebbe detto che aveva ancora molta strada da fare e non gli avrebbe offerto nessun cioccolatino.

Chi se ne frega, tanto nessuno entrerà mai in quel fottuto teatro.
Sasuke decise di andare fino in fondo, di lanciare le ultime bombe per rompere del tutto quel ponte, il legame che aveva resistito per tanti anni; era doloroso, ma lui era deciso ad andare fino in fondo, perché non vedeva proprio come la loro amicizia potesse sopravvivere dopo la sua rivelazione.
“Levati di torno e fammi andare” disse ancora, sempre con la voce grondante veleno.
Naruto però non sembrava intenzionato a spostarsi, gli stava ancora di fronte, troppo vicino e con le braccia distese lungo il corpo. Il disgusto ancora non gli aveva distorto i lineamenti, né gli occhi e Sasuke ne rimase interdetto, perché l’amico sembrava più che altro confuso e… dispiaciuto. Aprì di nuovo la bocca per intimargli nuovamente di levarsi, ma Naruto lo precedette e lo abbracciò con forza.
“Scusascusascusascusascusa – sciorinò tutto d’un fiato – è colpa mia, tutta colpa mia che sono troppo bello. Potrai mai perdonarmi?”
Sasuke era immobile tra le sue braccia, sembrava una statua di marmo incapace di muoversi, per qualche istante non respirò nemmeno.
Prese poi un respiro profondo e alzò lo sguardo al soffitto, mentre sentiva la testa dell’amico posarsi sulla sua spalla, i capelli biondi che gli solleticavano il collo e la sua stretta ferrea, perché Naruto non lo avrebbe
mai lasciato andare. Gli parve di vedere un po’ sfocato, sicuramente gli era entrata un po’ di polvere negli occhi e glieli stava facendo lacrimare, con quella camera sporca in cui era stato non c’era da stupirsene.
“Sei un idiota di proporzioni olimpioniche” mormorò con voce stranamente nasale.
“Vero?” replicò Naruto e Sasuke sentì che sulle sue labbra c’era un sorriso.

 

Sasuke guardò la pizza fumante nel cartone davanti a lui. Alla fine Naruto aveva decretato che davanti a del cibo ogni cosa sarebbe stata più semplice e aveva ordinato la pizza condita con ogni cosa, se avesse potuto ci avrebbe fatto mettere anche il cuoco.
Mentre aspettavano, avevano dato una ripulita a quella che Naruto continuava a chiamare camera e Sasuke porcile, così alla fine si erano sistemati sul letto rifatto con lenzuola pulite e col cartone tra di loro.
“Allora, raccontami” lo incoraggiò Naruto senza guardarlo, perché impegnato a seguire i filamenti di mozzarella e gli altri condimenti che minacciavano di strabordare dalla fetta.
Sasuke non aveva molta fame, anzi aveva proprio lo stomaco chiuso, ma prese lo stesso un pezzo consapevole che l’amico altrimenti lo avrebbe assillato, come anche se non avesse parlato.
“Non c’è molto da dire, sono gay ma non ho mai avuto il coraggio di ammetterlo e solo adesso ci sto riuscendo… più o meno.”
Naruto lo fissò, pensoso mentre masticava velocemente e innaffiava i bocconi con qualche sorso di coca-cola.
“Quel più o meno che vuol dire? A Itachi lo hai detto?”
“Sì, solo a lui” confermò Sasuke, dando un piccolo morso alla fetta e rigirandoselo tra la bocca senza voglia.
Naruto ne prese un’altra e la attaccò con molto più entusiasmo:
“Beh, in effetti non ti ci vedo a parlarne con Fugaku – affermò – ad ogni modo sono solo fatti tuoi chi ti piace portarti a letto, la tua vita sessuale non riguarda gli altri.”
Notò l’occhiata sbalordita dell’amico e, ridacchiando, aggiunse  “Cosa c’è? Ti aspettavi che ti dicessi che dovevi sbandierarlo al mondo, comprare un’inserzione suo giornale e cose simili? Naaa, queste cose potrebbero funzionare con me, perché non me ne frega niente, non per te, non hai il mio carattere per tua sfortuna.”
“Punti di vista” replicò Sasuke, ma senza essere caustico come al solito, era ancora troppo impressionato dall’accortezza mostrata dall’altro.
Rimasero in silenzio un po’, mangiando e basta finché Naruto, arrivato a più di metà pizza e altrettanta bibita, si voltò a guardarlo con un’espressione strana, divertita e quasi compiaciuta:
“Quindi Gaara non era un tuo amico.”
Sasuke posò la fetta che teneva ancora in mano e si pulì con un tovagliolo le dita un po’ unte, chiedendosi chi avesse rapito quel tonto del suo migliore amico, sostituendolo con quel ragazzo perspicace e profondo.
“No, non era un amico” confermò a fatica, quasi ringhiandole quelle parole.
“E non vi siete lasciati molto bene, immagino” continuò Naruto nel suo sfoggio intuitivo.
“No, infatti – rispose Sasuke per poi guardarlo – come l’hai capito?”
Naruto si grattò la punta del naso e poi si pulì la faccia sporca col tovagliolo prima di rispondere:
“Beh, sai… stavo facendo vagare la mente tra i ricordi – disse ignorando l’altro borbottare qualcosa a proposito di viaggi corti –  ora che mi hai detto che ti piacciono gli uomini, alcune cose mi sono risultate più chiare e mi sono ricordato di Gaara. La sua faccia era molto simile alla mia ogni volta che Sakura mi dava un due di picche, almeno prima che mi arrendessi con lei e ti ci mettessi tu. Tra l’altro non deve essere stato facile per te, fidanzarti con lei intendo.”
Dimostrò di comprendere persino i motivi che avevano spinto Sasuke a quella decisione, benché l’altro non  avesse detto una sola parola a riguardo.
L’Uchiha si vergognò di fronte a quell’ennesima dimostrazione di affetto e comprensione, pur sapendo che Naruto aveva un sacco di qualità, non lo credeva capace di parlare con tanto tatto, visto che solitamente apriva la bocca e diceva quello che gli passava per la testa senza alcun filtro.
Chinò la testa, osservando quella pizza invitante che proprio non riusciva a mandare giù, era quasi difficile quanto parlare e dire finalmente la verità.
“No, non è stato facile, ma stavo cercando di ingannare me stesso e di negare quello che provavo. Sono stato stronzo – ammise con molta fatica – e anche con Gaara, però lo sto sentendo di nuovo e vorrei provare a sistemare le cose.”
“No non sei stronzo, sei solo un idiota – Naruto gli restituì l’insulto che l’altro solitamente riservava a lui – dovevi parlarmene tempo fa, che senso ha avere un amico fantastico come me se poi non mi parli. Ti avrei anche concesso di guardarmi il pene da vicino.”
“A chi cazzo vuoi che interessi il tuo pene? – scattò Sasuke inviperito – E non gongolare così tanto o ti prendo a pugni.”
Naruto rise, prendendo un’altra fetta di pizza:
“In futuro vedi di venirmi a raccontare come va e soprattutto di chiedermi consigli, sei un disastro in questioni amorose o relazionali.”
“Ha parlato l’esperto” borbottò Sasuke.
“Io intanto sono fidanzato – gli fece notare – mangia o la finisco tutto io.”
Sasuke sospirò e prese una fetta, forse iniziava ad avere fame, in fondo dopo essersi svuotato di quei pesi aveva un certo vuoto da colmare.
Mangiarono in silenzio un altro po’, almeno fino all’ennesima folgorazione di Naruto.
“Sasuke?”
“Che c’è?”
“Ma com’è il sesso tra uomini?”
Il ragazzo quasi si strozzò con il boccone e si attaccò alla bottiglia di coca-cola per mandarlo giù, guardandolo con la faccia rossa per lo sforzo.
“Ma sei scemo? Che diavolo vai a chiedere?” disse tra un colpo di tosse e l’altro.
“Eddaiiii! Sono curioso!” esclamò invece Naruto col suo solito sorriso.
“Scordati che io parli di sesso con te” disse lapidario, alzandosi.
“Su dai, non essere timido. Sasuke? Sasuke dove vai? Ehi, riporta le tue pallide chiappe Uchiha qui, non ti lascerò andare finché non mi avrai raccontato tutto, Sasuke non scappare via! Sasuke!”
Lo inseguì ridendo e braccandolo per riportarlo in camera di peso, perché Naruto non aveva nessuna intenzione di lasciare andare via l’amico per alcuna ragione al mondo, sarebbe sempre stato al suo fianco, che Sasuke lo volesse o meno.

 

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Capitolo 14
*** 14 - La cioccolata, come le paure, non si lava via con l’acqua, ma per tutto c’è un rimedio ***


every 14

La cioccolata, come le paure, non si lava via con l’acqua, ma per tutto c’è un rimedio

 

 

Mikoto guardò con sincero affetto i tre uomini che sedevano a tavola assieme a lei. Non aveva più senso parlare di ragazzi, perché i suoi figli oramai si erano lasciati alle spalle ogni brandello di adolescenza, trasformandosi in splendidi giovani uomini di cui era tremendamente orgogliosa.
Lo era anche di suo marito perché, pur continuando a rimanere la persona di saldi principi che aveva conosciuto, era riuscito a cambiare, ad ammorbidirsi per riuscire ad accettare le decisioni diverse di Itachi o per dire a Sasuke quanto lo ritenesse capace e valido. Non sarebbe mai riuscito ad ammettere apertamente il suo affetto, ma i figli lo sapevano e lo accettavano, leggendolo in tutti i gesti di riguardo che riservava loro.
Sì, Mikoto era decisamente orgogliosa di tutti loro.
Itachi era stato in grado di difendere i suoi sogni e le sue aspirazioni diventando un avvocato, dopo anni di silenzio era riuscito a ricostruire un rapporto con il padre, inoltre era diventato associato di uno studio legale importante. Quella sera infatti erano al ristorante per festeggiare quell’evento, di cui erano stati informati solo dopo qualche giorno.
Così tipico di Itachi, pensò la donna, sapeva bene che il figlio preferiva tenere per sé tutto ciò che lo riguardava e che, dietro lo sguardo acuto e il sorriso pacato, si nascondevano molte cose.
Guardò Sasuke e rifletté che anche lui teneva per sé il proprio mondo interiore, ma a differenza di Itachi lo faceva per paura. Timore di essere giudicato, di essere considerato di poco valore, perché il suo secondogenito era più sensibile e fragile di quanto pensasse o gli piacesse ammettere. Tuttavia qualcosa stava cambiando in lui, gli vedeva una nuova sicurezza nelle spalle diritte e nello sguardo che non si nascondeva più sotto la frangia scura. Le sembrava anche più sereno e il suo cuore ne era felice, perché riteneva la sua famiglia il suo bene più prezioso.
Posò la propria mano su quella che Sasuke teneva sul tavolo, confondendosi quasi col candore della tovaglia ricamata, gli sorrise nel vedere il suo sguardo sorpreso ma non tolse la mano, né la spostò lui.
“Direi che ci vuole un brindisi” affermò prendendo il bicchiere con l’altra libera.
“Mamma, io direi che invece non serve affatto” affermò Itachi.
“Tu sta’ zitto, non hai voce in capitolo – lo rimbeccò la donna seppur col sorriso sulle labbra – ancora non ti ho perdonato di non avermi detto subito della promozione, sai?”
“Qualcosa mi dice che non basterà una vita intera a farti perdonare – scherzò Sasuke alzando il bicchiere – a te fratello, con i nostri migliori auguri.”
I bicchieri tintinnarono tra loro e tutti bevvero l’ottimo vino bianco sapientemente rinfrescato. Il cameriere portò loro i piatti e, mentre gustavano le pietanze, Itachi non poté fare a meno di pensare a quando aveva festeggiato lo stesso evento con Gaara pochi giorni prima. Erano stati in un pub poco pretenzioso, il cibo era stato più semplice e avevano avuto birra nei loro bicchieri, eppure gli era piaciuta moltissimo quella serata, chiacchierare con lui, scoprire qualcosa in più sul suo conto e sul carattere.
Iniziando a mangiare, raccontò alla famiglia dei futuri progetti dello studio, nonché un paio di aneddoti divertenti causati dai lavori di ristrutturazione nell’appartamento a fianco, come quando l’impeccabile Hiashi Hyuga aveva infilato per sbaglio un piede in un secchio di cemento, così lo avevano visto comparire in ufficio con solo una scarpa e una gamba del pantalone arrotolata fino a metà polpaccio.
“In conclusione ha stabilito che non entrerà più nell’altro appartamento finché non sarà finito e che a controllare l’andamento dei lavori sarà esclusivamente il nostro segretario” sorrise Itachi concludendo il racconto, perché l’elegante Hiashi sporco di cemento ed evidentemente imbarazzato nonché infuriato era stato uno spettacolo memorabile.
Sasuke drizzò le orecchie sentendo nominare Gaara anche se di sfuggita, si morse le labbra perché in realtà ci sarebbero state tante cose che avrebbe voluto chiedere a Itachi, ma non era quello il momento adatto. Probabilmente, anche se lo fosse stato, non gliele avrebbe domandate: il suo orgoglio Uchiha era ancora piuttosto tenace.
I quattro continuarono a chiacchierare piacevolmente e verso la fine, sazi e soddisfatti dal locale e dalla reciproca compagnia, Mikoto disse:
“Ci voleva questa serata, erano più di due settimane che non ci vedevamo e l’ultima volta, a capodanno… beh, non è stata esattamente una classica cena in famiglia.”
Un velo di imbarazzato disagio calò sul tavolo e Sasuke si mosse scomposto sulla sedia, cercando una nuova posizione. Non avevano ancora mai parlato di quanto successo quella sera, ma il nuovo anno aveva portato molto lavoro a cui badare e non avevano avuto occasione di rivedersi prima di quella sera. Dall’espressione che fece Fugaku fu palese che avrebbe anche continuato a non parlarne senza alcun problema, sia quella sera che in futuro.
“Già, non so che diavolo sia saltato in mente a quel ragazzo – commentò suo malgrado, oramai l’argomento era stato tirato in ballo – i suoi genitori erano già sul punto di divorziare, questa è stata la classica goccia di troppo che ha fatto traboccare il vaso. Il padre non vuole più saperne, mentre la madre lo difende… che brutte faccende” sospirò.
“Mi sembra quantomeno esagerato affibbiare tutti i problemi di una coppia alle azioni del figlio – intervenne Itachi, pacato come sempre – si sarebbero separati anche senza il coming out di Ryuji. E se per essere felice lui ha sentito il bisogno di fare quella confessione, allora ha fatto bene” concluse.
“Itachi, ma come fai a dire una cosa simile? Ha mandato sua nonna in ospedale, rovinato a tutti il capodanno, portato scompiglio e vergogna sulla nostra famiglia. La notizia si è già diffusa, come pensi che altre famiglie possano giudicarci?” replicò Fugaku a cui non era certo piaciuto il coming out di quel nipote.
Mikoto non diceva nulla, ma si limitava a fissare marito e figli e le parve che Sasuke fosse un po’ più pallido di prima, ma forse era solo una sua impressione.
Itachi invece era impassibile, si limitò a prendere un altro sorso di vino prima di rispondere:
“E allora? Dovremmo essere superiori alle voci e i pettegolezzi da mercato della gente, non sono i gusti sessuali di una persona a definire quello che è. Per me Ryuji è lo stesso ragazzo timido e impacciato con cui giocavo da bambino, anche se era più grande di me, e che dopo mi aiutava con i compiti di arte; non è certo diventato un mostro all’improvviso.”
Fugaku scosse la testa, evidentemente contrariato:
“Come fai a dire non sono le nostre inclinazioni a definire quello che siamo? Come potrai mai fare una famiglia con un altro uomo? – disse a bassa voce, nemmeno si trattasse di una bestemmia in un luogo sacro – Cosa mi rispondi? Senza una moglie e dei figli cos’è un uomo? Non è giusto, né corretto.”
“Non tutti hanno gli stessi desideri, ma per un genitore la felicità di un figlio non dovrebbe avere la priorità su tutto? Se ti dicessi che io sono più felice al fianco di un uomo che di una donna, cosa faresti? Anche tu minacceresti di diseredarmi o lasceresti che altri parenti mi ricoprano di insulti com’è accaduto a Ryuji?” replicò Itachi serafico.
 Fugaku lo fissò interdetto, dietro quelle parole e lo sguardo pacato c’era una sfida più che evidente che lui però non aveva intenzione di raccogliere, non sarebbe retrocesso dalle sue idee, non quella volta, era troppo per una mente tradizionale come la sua.
“Itachi stai dicendo un mucchio di sciocchezze, come se fosse mai possibile! I miei figli gay, che assurdità! – scosse la testa per negare e allontanare con fermezza una simile eventualità – Certo, non è stato bello che alcuni tuoi zii lo abbiano insultato a quel modo, ma nemmeno lui si è comportato bene.”
“Capisco” replicò Itachi asciutto. Finì il vino nel bicchiere e poi fece un sorriso morbido al padre, aggiungendo “Hai ragione, è proprio un’eventualità impossibile.”
Per tutto quel dialogo non aveva mai guardato Sasuke, ma non ne aveva avuto bisogno per sapere che il fratello stringeva i pugni sotto la tovaglia mentre si sentiva morire.

 

Sasuke dopo essersi lavato le mani si bagnò anche il viso. Slacciò un altro bottone della camicia che portava senza cravatta e sentì le goccioline fresche scivolare lungo il collo. Avrebbe voluto mettere tutta la testa sotto il getto e poi scrollarsi, lanciando acqua tutt’attorno e liberarsi allo stesso modo dei suoi pensieri; purtroppo era impossibile, quelli non erano idrosolubili.
Aveva lasciato il resto della famiglia al tavolo alle prese col dolce e si era rifugiato in bagno, tanto lui non l’avrebbe mangiato, la sua avversione per le cose zuccherose era nota.
Si stava asciugando con una salvietta, quando vide la porta aprirsi e suo fratello entrare con una vistosa macchia di cioccolato sulla giacca.
“Itachi?” mormorò perplesso, mai lo aveva visto sporcarsi al contrario suo.
“Che c’è? Sono stato sbadato, capita” replicò l’altro facendo spallucce e andando al lavandino al suo fianco, notando il suo volto pallido e i capelli umidi sulla fronte.
Sasuke si portò una mano sul viso, non era sicuro di poter controllare i suoi muscoli facciali dopo l’improvvisa comprensione che lo aveva colto.
“Certo, e pensare che ti credevo repellente allo sporco – sospirò – sto bene, non serviva che venissi”

Non serviva che ti sporcassi apposta per avere una scusa plausibile per seguirmi nei bagni; non serviva che ti preoccupassi per me; non serviva, ma… grazie.
Itachi gli tolse la mano dal viso e si ritrovò a fissare i suoi occhi scuri evidentemente turbati e, delicatamente, gli carezzò i ciuffi di capelli che gli facevano da frangia.
“Quanta importanza che ti dai” ironizzò facendolo sbuffare e alzare lo sguardo al soffitto. “Ma hai ragione – continuò – e mi spiace che tu abbia dovuto sentire certe cose da nostro padre; conoscendolo non potevo aspettarmi niente di diverso, è stato anzi fin troppo conciliante. Mi spiace ancora di più perché avrei potuto rivelarmi, dire che anch’io non sono quell’esempio di fulgida eterosessualità che crede, ma… non ce l’ho fatta. Avevo le parole sulla punta della lingua, ma non ci sono riuscito.”
Fu difficile ammettere quella sua debolezza e lo fu maggiormente farlo continuando a guardarlo negli occhi, vedendo sbocciare lo sconcerto e la paura nei suoi.
Sasuke infatti afferrò il bavero della sua giacca con entrambe le mani, stringendolo forte ed esclamò:
“Sei impazzito? Non devi, non devi assolutamente, tu…”
Rimase senza parole, con la gola che si contraeva dolorosamente ed era incapace di seguire i suoi comandi. Poggiò la fronte contro la sua spalla, sentendo i suoi capelli lunghi contro la guancia. “Non devi arrivare a tanto per me, Itachi, non voglio che ti rovini la vita, perché è questo che accadrebbe se papà sapesse la verità – disse con la voce attutita dalla stoffa – ci vuole bene, ma una cosa simile va oltre la sua comprensione, stasera l’ho capito con chiarezza. Mi fa male sapere che non potrà mai accettarmi del tutto, che gli dovrò sempre tenere nascosta questa parte di me, ma… va bene così. Io sto imparando ad accettarmi e poi ho te; te che sai tutto e mi sento già fortunato così.”
Fu davvero difficile ammettere quelle verità, non che si fosse mai illuso di potersi confessare coi genitori, soprattutto con Fugaku, ma quella sera ne aveva avuto la prova inconfutabile e non era stato così semplice inghiottire quel boccone amaro.
Però poi arrivava Itachi e gli diceva che per lui sarebbe stato anche disposto a distruggere quel rapporto col padre faticosamente ricostruito, perché giudicava il loro e lo stesso Sasuke più importante, forse più importante di qualsiasi altra cosa. Si sentì così stupido per averlo odiato in passato, per quelle energie sprecate inutilmente oltre al tempo che nessuno gli avrebbe mai restituito.
Itachi gli poggiò una mano sulla nuca, spingendoselo di più contro, intrecciando le dita lunghe ed aggraziate coi suoi capelli scuri, un abbraccio incompleto ma perfetto per loro che erano tanto disabituati al contatto fisico e ad esprimere l’affetto.
“Allora va bene così, io ci sarò sempre.”
“Lo so, lo so” mormorò Sasuke. Rialzò la testa e poggiò lievemente le labbra contro la sua guancia, sentendo l’odore della sua pelle e dell’acqua di colonia discreta ma presente che gli piaceva tanto.
Itachi invece gli scompigliò i capelli per poi risistemarglieli, un sorriso aleggiava sul suo viso solitamente composto mentre diceva:
“Sarà meglio tornare di là, o ci daranno per dispersi.”
“Ok – rispose Sasuke lasciandolo fare come voleva – ma la tua macchia?”
Itachi si guardò la giacca, poi fece spallucce:
“Ci penserà la lavanderia, in fondo dove si è mai visto togliere del cioccolato solo con solo dell’acqua?”
Sasuke lo seguì fuori dal bagno sorridendo perché, in fondo, prima era stato Itachi a seguirlo e lo avrebbe fatto mille volte ancora; ne era certo.

 

***

 
Sasuke era nervoso. Ovviamente lo stava mascherando bene sotto alla solita facciata di stoicismo e indifferenza.
Quella mattina, dopo non poche tribolazioni mentali, dubbi e ripensamenti, aveva afferrato il cellulare per chiamare Gaara. Il ragazzo era a lavoro, ma gli aveva risposto lo stesso e lui gli aveva augurato buona fortuna per l’esame del pomeriggio per poi proporgli di vedersi la sera per festeggiare, certo che lo avrebbe superato. Il segretario aveva tentennato qualche istante, ma poi aveva accettato, lasciandolo in uno stato di confusa contentezza che era durata tutto il giorno.
In quel momento però Sasuke era solo nervoso: Gaara era in ritardo di circa mezz’ora. Seduto al bancone del locale, controllò di nuovo il cellulare, erano le venti e ventotto e non c’era nessun messaggio da parte sua.
Si sentiva a disagio, stupido addirittura per essere lì da solo ad attendere qualcuno che non sarebbe arrivato, perché ormai era evidente che Gaara aveva cambiato idea, decidendo che non valeva nemmeno la pena avvertirlo. Guardò la pinta di birra davanti a sé e pensò che, una volta finita, se ne sarebbe andato e non lo avrebbe più cercato. Finora aveva scavalcato più di una volta il suo orgoglio perché pensava che ne valesse la pena, ma forse si era sbagliato.
Sentì una sorta di scontentezza cosmica, un’amarezza in bocca che niente aveva a che fare con la birra scura e si domandò a che pro arrivare fino a lì, venendo illuso e basta. Si diede poi dello stupido: non aveva iniziato quel percorso avvalendosi della psicoterapia per Gaara, per riparare ai suoi errori o chissà che altro, lo aveva fatto per se stesso, per non affondare in mezzo ai propri problemi; il resto era solo una diretta conseguenza dei suoi cambiamenti. Avrebbe dovuto farsi una ragione di questo fallimento, archiviarlo e andare avanti, in fondo lui e Gaara non si erano fatti nessuna promessa. Però se ci pensava faceva male, anzi faceva maledettamente male.
Fissava il bicchiere in cui rimanevano pochi sorsi, quando sentì una voce al suo fianco dirgli:
“Scusa il ritardo.”
Sasuke alzò sorpreso lo sguardo e vide Gaara con le guance rosse, i capelli più scarmigliati del solito, il cappotto ancora addosso e la faccia di chi aveva avuto proprio una giornata di merda. Lo fissò qualche istante, quasi incredulo, avvertendo le ondate di freddo provenire dal suo corpo.
“Pensavo non venissi più” ammise.
Gaara rimase in maglione e si sedette sullo sgabello al suo fianco, poggiando lo zaino a terra e l’altra roba sopra di esso.
“Scusa, una serie di imprevisti, mi si è anche scaricato il telefono e non ho avuto modo di avvisarti – gli spiegò passando la mano tra i capelli tentando di sistemarli – sinceramente stavo per non venire, credevo fossi già andato via.”
Sasuke gli mostrò il bicchiere non ancora del tutto vuoto:
“Stavo finendo la mia birra – lo guardò – stai bene?”
“No” ammise secco Gaara non aggiungendo altro. Ordinò al barista una tequila sale e limone e questi posò sul bancone davanti a lui l’occorrente senza dire una parola.
Anche Sasuke stette zitto e lo osservò posarsi del sale sul dorso della mano, vicino al pollice, leccarlo via per poi bere d’un fiato il liquore e addentare infine lo spicchio di limone.
Gaara era turbato, non era necessaria la sua ammissione per capirlo, eppure Sasuke lo fissava ipnotizzato, trovando sensuali quei gesti, ricordando quando quella lingua e la bocca avevano indugiato il suo corpo. Si morse le labbra tentando di calmarsi e vide l’altro chiedere un bis così, dopo che ebbe bevuto anche il secondo shot, si decise a parlare o se lo sarebbe trovato ubriaco nel giro di dieci minuti.
“Cos’è successo? Vuoi che ti accompagni a casa? Possiamo vederci un’altra volta.”
Gaara si voltò a guardarlo, con gli occhi lievemente umidi a causa dell’alcool e dell’acidità del limone, e sembrò quasi risvegliarsi da una sorta di trance. Sospirò, posando la fettina dell’agrume su un piattino e rispose:
“Scusa” disse guardandolo. Poi fece una mezza risata breve “Sembra che stasera non faccia altro che scusarmi. Ad ogni modo adesso va meglio e sinceramente non ho voglia di tornare a casa.”
Avrebbe trovato solo un appartamento vuoto e, quella sera tra tante, proprio non aveva voglia di affrontare la solitudine. Si leccò le labbra su cui aleggiava il sapore acido del limone e quello pungente della tequila e dovette trattenersi per rimanere lucido, per non gettare alle ortiche la razionalità e fare cose stupide. Come baciare Sasuke e poi scoparselo, perché aveva una fottuta voglia di spegnere il cervello, lasciarsi andare  e dimenticare anche se per poco ogni cosa.
Non era vero che il suo cellulare aveva la batteria scarica, lo aveva semplicemente spento per non ricevere altre chiamate sgradite e non era vero che stava per non andare all’appuntamento. Era rimasto fuori dal locale a lungo, indeciso se presentarsi, perché quella sera non si sentiva a posto con se stesso, ma l’alternativa era stata l’appartamento vuoto, così alla fine si era fatto coraggio appellandosi a tutta la freddezza e la razionalità di cui disponeva. Forse bere due tequila non era stata una grande idea, ma almeno si sentiva meno teso.
Sasuke lo osservò, gli dispiacque che avesse qualche problema di cui sicuramente non gli avrebbe parlato, ma d’altronde nemmeno lui si era mai aperto in precedenza. Non poteva pretendere di diventare all’improvviso dei chiacchieroni e di piangere l’uno sulla spalla dell’altro; fece una smorfia a quel pensiero, visto che in realtà nemmeno con Naruto si confidava a quel modo, come una piagnucolosa adolescente.
“Ok, allora possiamo fare quello che vogliamo” disse e vide gli occhi chiari velarsi di turbamento, ma quando Gaara parlò la sua voce era pacata e non lasciava intendere nient’altro.
“Oh, addirittura? Che ne dici di un giro attorno al mondo?” scherzò.
“Credo che non torneremmo entro domani mattina, ma possiamo sempre pianificare un viaggio, quando hai le vacanze?” rispose Sasuke con un sorriso, stando al gioco ma anche serio. Forse allontanarsi dalla loro città, dalla routine e dalla vita di tutti i giorni non sarebbe stata una brutta idea.
Gaara sospirò, con le sue finanze attuali il massimo che poteva programmare era un’escursione ai giardinetti, ma ovviamente non rivelò niente di ciò:
“Credo ad agosto, quando chiuderà lo studio. Se mi assentassi ora penso che imploderebbe, già quando mi prendo mezza giornata per gli esami al mio ritorno sembra che io non ci sia stato una settimana; non oso immaginare se stessi veramente via una settimana.”
Era stato ironico, ma aveva detto la verità: al di là del lavoro riguardanti le pratiche, gli avvocati sarebbero morti senza nessuno che gli facesse prenotazioni di viaggi, ristoranti, gli ritirasse le camicie dalla lavanderia e tutta un’altra serie di stupide cose di cui si sarebbero potuti occupare da soli ma che invece ricadevano su Gaara.
“Mi sembra alquanto ingiusto – osservò Sasuke – dovrebbe esserci almeno un altro segretario per uno studio così grande. Se stai male cosa succede?”
“Qualche mese fa c’era una donna, ma era un incapace. Ho sentito gli avvocati che si dispiacevano per la sua partenza solo perché non avrebbero più visto le sue tette, mentre io… – si passò una mano sul petto più che piatto – quindi sono rimasto da solo. Poi c’è stato l’acquisto dell’altro appartamento, i lavori di ampliamento ed altre spese a carico della società. Quando ho detto a Hiashi del mio progetto di iscrivermi all’università, mi ha detto chiaramente che questo non doveva interferire col lavoro o avrebbero cercato qualcun altro, quindi figurati se posso anche solo suggerire di assumere un secondo segretario.”
Sasuke non fece fatica a credere che l’altro fosse così stanco, aveva un carico di responsabilità molto pesante da gestire, più una vita privata a cui badare nei ritagli di tempo libero.
“Beh, se vuoi un nuovo posto di lavoro puoi venire nel mio studio, qualcuno con le tue capacità ci può fare sempre comodo.”
Gaara lo guardò serio, anche se la proposta era stata scherzosa, era certo che se gli avesse detto di sì Sasuke lo avrebbe fatto assumere senza battere ciglio. Questo lo lasciò interdetto: era veramente una bella differenza rispetto a pochi mesi prima quando non aveva tollerato la sua presenza il giorno della laurea, nemmeno lasciando che si confondesse tra i suoi amici o gli altri spettatori. Adesso invece gli paventava la possibilità di vedersi tutti i giorni, lavorare fianco a fianco sotto gli occhi del padre.
Anche se apparentemente Sasuke appariva sempre uguale, con quell’aria di strafottente distacco dipinta in volto, in realtà era cambiato, lo dimostravano i gesti e le parole che, per quanto implicite, lasciavano intendere molti sottintesi.
“Ti ringrazio, ma ho intenzione di rimanere lì, sarà comodo una volta che mi sarò laureato – gli spiegò – anzi, sarà meglio per loro: se non mi assumeranno subito faccio mettere una bomba da Deidara, sai è un appassionato di esplosivi” concluse scherzando.
“Beh, in effetti non ha tutte le rotelle a posto quello” borbottò Sasuke, ripensando al barman biondo e a come lo aveva cacciato dal locale quando ci aveva rimesso piede. Nessuno aveva mai osato tanto con lui, era stato un bello shock.
Dal bancone si spostarono a un tavolino e ordinarono qualcosa da mangiare mentre Gaara ripiegava su una birra, qualcosa di ben più leggero rispetto alla tequila con cui aveva iniziato la serata. Aveva sempre presente il proposito di rimanere lucido e razionale, ma una parte di lui invece premeva per perdere il controllo. Gli pareva di avere qualcun altro dentro che non faceva che sussurrargli di smettere di razionalizzare tutto, di cedere ai suoi impulsi, di prendere Sasuke e scoparselo anche lì su quel tavolino, fregandosene delle conseguenze, in un momento tanto delicato come quello in cui stavano cercando di superare il passato e vedere se poteva esistere un futuro assieme.
Era stanco, scombussolato e triste e si maledisse per aver risposto a quella fottuta telefonata; se non lo avesse fatto la serata sarebbe stata diverso, lui stesso lo sarebbe stato.
Cercò tuttavia di mascherare il turbamento e di continuare a conversare come aveva fatto finora. Parlarono di argomenti leggeri, a nessuno dei due saltò in mente di tirare fuori questioni che non sarebbero stati in grado di affrontare. Fu una serata piacevole tutto sommato e, quando venne il cameriere a portare via i piatti sporchi, rimasero in un silenzio lievemente imbarazzato, guardandosi in faccia senza nulla da dire.
“Allora… ancora non mi hai detto com’è andato l’esame” esordì Sasuke, riuscendo a spezzare quel momento di disagio.
Gaara sembrò trasalire a quelle parole e, annuendo con la testa, replicò:
“Già, hai ragione. È andato bene, niente di eccezionale.”
“Non ci credo, avrai preso il massimo come negli altri due” insistette l’Uchiha.
Gaara si chinò a prendere lo zaino e ne tirò fuori il libretto che gli porse:
“Puoi controllare coi tuoi occhi”
Sasuke aprì il libretto e notò che effettivamente l’esame di quel pomeriggio aveva una votazione mediocre. Non c’era da stupirsene con tutte le cose a cui Gaara doveva badare, evidentemente aveva avuto poco tempo per studiare, rifletté sfogliando le altre pagine bianche fino ad arrivare alla  prima con i dati anagrafici. Campeggiava una fototessera che ritraeva il ragazzo serio, con quell’aria lievemente truce che lo contraddistingueva, lesse anche il suo indirizzo che conosceva bene e una data che gli fece corrucciare la fronte.
“Oggi è il tuo compleanno?”
Gaara riprese il libretto e lo chiuse con uno scatto irritato, per poi riporlo nello zaino:
“Già, il diciannove gennaio di ventiquattro anni fa venivo al mondo.”
Guardò Sasuke e notò la sua faccia perplessa, una domanda negli occhi scuri che però non arrivava a sfiorare le labbra. Desiderò che nel suo bicchiere ci fosse qualcosa di più forte della birra, come che quel pomeriggio Kankuro non lo avesse chiamato con la scusa di fargli gli auguri. Credeva di essere riuscito a gettarselo alle spalle, invece sentire la sua voce gli aveva fatto tornare in mente quanto successo l’ultima volta, la disperazione profonda che aveva sperimentato; quell’assoluto senso di abbandono e inutilità che aveva faticosamente superato si era ripresentato in tutta la sua prepotenza e Gaara ne era stato travolto.
Aveva minacciato Kankuro di denunciarlo per molestie se lo avesse cercato ancora, aveva le conoscenze giuste grazie agli avvocati e lo avrebbe fatto perché era stufo di non essere ascoltato; non era più lo stesso ragazzino che era stato vessato in orfanotrofio e che stava sempre zitto qualunque cosa accadesse.
Ritornò al presente e, con le sopracciglia rade aggrottate, rispose alla domanda muta dell’altro:
“Non mi piace festeggiare il mio compleanno, in orfanotrofio non lo facevamo, eravamo troppi. E anche adesso per me rappresenta un giorno come un altro, è solo un caso se ci siamo visti proprio oggi, solo perché tu mi hai chiamato stamattina.”
Sasuke tacque, pensieroso, e bevve un sorso dal bicchiere perché aveva la gola arida come il deserto.
“Capisco e mi dispiace. A me invece piace molto, quando ero piccolo era un giorno speciale perché di solito Itachi lo trascorreva con me e facevamo qualcosa insieme, era raro avere la sua attenzione, sai?”
Quella confessione gli era salita spontaneamente alle labbra, forse perché anche l’altro aveva condiviso con lui qualcosa di più personale, tuttavia vagò con lo sguardo per il locale, imbarazzato. Si chiedeva se Gaara non lo stesse giudicando stupido e infantile, era più che evidente il divario e le differenze delle loro vite.
Gaara però non stava pensando niente di tutto ciò, era solo sorpreso e anche incuriosito dalle orecchie improvvisamente rosse dell’Uchiha, sicuramente non era colpa del caldo nel locale.
“Mi sembra strano da credere, Itachi ti vuole molto bene, mi sembra un fratello maggiore fantastico”
Lui lo sapeva bene, sapeva maledettamente bene fin dove Itachi si sarebbe spinto per suo fratello.
Sasuke tentennò un attimo prima di guardarlo di nuovo e dire:
“Lo è, ma diciamo che fino a poco tempo fa le cose erano un po’ diverse tra noi e in generale in famiglia. Non è sempre facile un rapporto tra due fratelli anche se si vogliono bene.”
Gaara non avrebbe potuto essere più d’accordo, ma non disse nulla per timore di scoprirsi, così fu Sasuke a chiedere ancora:
“Il tuo malessere di oggi è legato al tuo compleanno?”
“Sì, una persona mi ha chiamato per farmi gli auguri e avrei voluto che non lo facesse, non avrebbe dovuto.”
Strinse forte tra le mani il bicchiere ormai vuoto, con qualche gocciolina di condensa superstite che gli lambiva le dita, carezzevole come la lingua di un amante.
“Era un tuo ex?” domandò Sasuke cauto per tastare il terreno e capire fin dove spingersi con lui. Gli parve di essere nei panni del suo psicologo ed avere a che fare con un enigma racchiuso in un vaso di finissimo cristallo. Voleva leggere la soluzione che si nascondeva all’interno, ma riuscirci senza rompere nulla era tremendamente difficile.
“In un certo senso… – rispose Gaara e tornò a guardare i suoi occhi – il mio primo uomo.”
Vide Sasuke deglutire a vuoto, i muscoli di quel bel collo pallido contrarsi, e si domandò perché gli avesse rivelato quei segreti, si sentiva esposto anche se non gli aveva detto di chi si trattava, eppure ebbe paura che l’altro potesse leggere qualcosa nei suoi occhi.
“Capisco – mormorò l’architetto in difficoltà – ne sei ancora innamorato?” domandò perché non capiva il motivo di tutto quel turbamento.
Ebbe paura della risposta perché, se fosse stata affermativa, cosa avrebbe dovuto fare? Tirarsi indietro o insistere? Quali erano i suoi reali sentimenti per quel ragazzo dai capelli rossi, cosa lo spingeva verso di lui? Solo attrazione fisica? Erano così riduttivi i suoi sentimenti, oppure poteva davvero definirli in qualche altro modo più serio?
La sua sequela di domande venne troncata dalla voce sempre pacata di Gaara:
“No, non più. È passato molto tempo, ma… ecco, risentirlo mi fa tornare alla mente molti ricordi sgradevoli e mi devi scusare se stasera sono stato scostante.”
A Sasuke sembrò di riuscire improvvisamente a respirare molto meglio, come quando dopo una lunga malattia il naso si libera e si riesce di nuovo a fare respiri profondi, assaporando l’odore del mondo.
Alzò una mano davanti a sé, come a respingere la sua affermazione:
“No, non devi dire così, mi spiace solo che tu stia male, anzi sono sorpreso che tu abbia accettato comunque di vederci.”
Lo vide sorridere e scrollare le spalle, non aveva altro da aggiungere così continuò a parlare lui: “Facciamo così: anche se a te non piace il tuo compleanno, io voglio farti un regalo. Puoi prenderti un fine settimana libero, giusto?”
“Sì, ma…”
Sasuke non lo lasciò finire e riprese:
“Allora vieni un weekend in montagna con me. Abbiamo uno chalet di famiglia, di solito viene usato durante il periodo natalizio, il resto dell’anno siamo di solito troppo impegnati per andare. Partiamo venerdì sera e domenica torniamo qui, che ne dici?”
Gaara era confuso, preso letteralmente alla sprovvista e iniziò a cercare una via di fuga:
“Ma no Sasuke, non serve. Insomma io non sono nemmeno mai stato sulla neve…”
“Perfetto, sarebbe una nuova esperienza, mica male, no? – sorrise poi, più serio, aggiunse – Mi farebbe davvero piacere se accettassi, ma solo se ti va. Se te la senti di passare altro tempo insieme a me, io… voglio dire che le cose tra noi sono un po’ strane e difficili, ma ho capito che vorrei conoscerti meglio. Mi sento bene quando sono in tua compagnia.”
Fece un respiro profondo e si sforzò di non spostare lo sguardo ma di tenerlo su di lui, nonostante si sentisse morire dall’imbarazzo. Di sicuro quello era l’invito più esplicito e spettacolare che avesse mai fatto per i suoi standard; adesso era tutto nelle mani di Gaara. Stava a lui accettarlo o meno, decidere se mettere piede in quel teatro di nome Sasuke.
Gaara lo guardava con quegli occhi chiari che in quel momento sembravano ancora più verdi e trasparenti, chiaramente senza parole. Si passò una mano sul viso, si stropicciò le palpebre e poi lo guardò di nuovo; Sasuke era ancora lì, non era un sogno né un’allucinazione e continuava a guardarlo con l’espressione seria e contratta.
“Lo sai che quello psicologo vale fino all’ultimo centesimo?” gli domandò.
La sua frase ebbe l’effetto di spezzare la tensione che si era creata ed entrambi risero, anche se Sasuke cercò di riacquistare subito il suo cipiglio e borbottò un “Vaffanculo” che però non intaccò il sorriso di Gaara.
“Va bene, ci sto. Ma un po’ più in là, ho altri due esami, poi sarò un po’ più libero. A fine febbraio c’è ancora neve? Oppure è tardi?”
Sasuke stentava a credere alle proprie orecchie, ma era vero: Gaara aveva accettato l’invito, stringeva tra le dita il foglio della partecipazione e non lo avrebbe lasciato andare, non se ne sarebbe disfatto come carta straccia.
“Sì, sì certo che è possibile” rispose ancora incredulo, ma felice. Gli sembrava che quel giorno il compleanno fosse il suo e che gli avessero fatto un bellissimo regalo.

 

Sasuke fermò la macchina sotto casa di Gaara. Usciti dal locale lo aveva riaccompagnato e non aveva avuto bisogno di indicazioni perché sapeva bene dove l’altro abitava, si ricordava ancora bene la strada. Spense il motore e sbirciò il palazzo, vedendo che le finestre del suo appartamento erano tutte scure, non ci doveva essere nessuno.
Si voltò a guardare Gaara che si era tolto la cintura di sicurezza e si stava infilando il cappotto, inutile nell’abitacolo riscaldato. La serata si era conclusa, si stavano per salutare con la promessa di rivedersi e di passare un weekend in montagna. Sasuke non avrebbe potuto immaginare un epilogo migliore per quell’appuntamento, eppure sentiva una sorta di insoddisfazione che proprio non voleva andare via.
Lo guardò e pensò che voleva baciarlo, baciarlo ancora e accompagnarlo fino alla porta di casa e poi oltre, fino alla soglia della sua stanza, entrarci per non uscirne più.
Si morse le labbra per darsi una calmata.
Anche Gaara avvertiva quella tensione e il desiderio che lo aveva accompagnato tutte quelle ore si era amplificato, sebbene fosse diverso dal passato: non aveva più voglia di rifugiarsi nel sesso per dimenticare e alleggerire il peso di una vita difficile, bensì voleva affondare in lui e continuare a farlo, vedendo un nuovo mattino sorgere.
“Beh, allora grazie per la serata – gli disse guardandolo – ci sentiamo.”
Sasuke guardò i suoi capelli rossi che parevano più scuri alla luce fioca dei lampioni e rispose:
“Sì, ci sentiamo. Buonanotte.”
Non aspettò un suo saluto, né un gesto, non attese ulteriormente e scivolò sul sedile verso di lui, per baciarlo. Non voleva rovinare tutto, né affrettare i tempi, ma voleva un bacio, per cancellare il ricordo di quello furioso e velenoso che si erano scambiati l’ultima volta.
Gaara non lo respinse anche se sulle prime rimase immobile, poi però si lasciò andare e ricambiò il suo bacio che era calmo, lento e non chiedeva nulla, voleva solo essere ciò che era: la fine perfetta per la loro serata.
Sasuke gli posò una mano sul busto lasciato scoperto dal cappotto ancora slacciato, sentì le sue costole al di sotto del maglione e se ne dispiacque: non era il solo ad essere cambiato in quei mesi, in quel periodo erano successe molte cose anche a Gaara.
Fu quest’ultimo ad allontanarsi delicatamente, ma non disse nulla, si limitò a guardarlo.
Sasuke si strinse nelle spalle e con un sorriso che non gli aveva mai mostrato prima disse:
“Buon compleanno, scusa ma non ho fatto in tempo a prenderti nessun’altro regalo.”
“Un bacio come regalo, eh?” mormorò Gaara sfiorandosi le labbra ancora umide e calde, del calore che avevano condiviso assieme. “Beh, ne ho avuti di peggiori – concluse con un sorriso, chiudendo poi il cappotto – buonanotte Sasuke.”
“Buonanotte Gaara.”
Lo vide scendere e dirigersi verso il portone, una figura scura che si confondeva nel buio della notte, ma che lui riusciva a scorgere.
Mise in moto, pensando che non aveva più bisogno di fantasticare e di sperare di poter tornare indietro alla notte in cui si erano incontrati, perché quella era stata perfetta e da lì sarebbero ripartiti.
Intanto Gaara, fermo davanti alla porta con le chiavi in mano, guardò i fanali della sua auto allontanarsi nell’oscurità e scosse la testa:
“Maledetti Uchiha, sono fissati col regalare baci.”
Rise da solo, decisamente un altro rispetto al ragazzo triste che aveva deciso di entrare nel locale e di rivedere Sasuke. Ringraziò però quel vecchio se stesso: senza di lui non sarebbe esistito il Gaara che ora sorrideva e aspettava che gli esami finissero per poter andare sulla neve.

 

 

 

 

L’angolino oscuro: Se ci fosse ancora qualcuno all’ascolto chiedo perdono per il ritardo cosmico di questo aggiornamento, ma come sempre la vita mette i bastoni tra le ruote anche alle migliori intenzioni.
Le cose stanno iniziando davvero a smuoversi, non solo tra Gaara e Sasuke, ma anche tra i due fratelli Uchiha, in fondo tra di loro c’è un vero affetto profondo, solo che non sono proprio capaci di dimostrarselo. Spero di tornare presto col prossimo capitolo e che continuiate a seguire questa storia, alla prossima!

 

 

 

 

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Capitolo 15
*** 15 - Sei il sale sulle mie ferite, eppure non riesco a smettere ***


Sei il sale sulle mie ferite, eppure non riesco a smettere

 

 

Sasuke frenò dolcemente e la neve scricchiolò sotto le ruote. Spense lo stereo che aveva tenuto comunque a volume basso, poi girò le chiavi della macchina, il cui motore smise di girare, si accese la piccola luce dell’abitacolo e lui si voltò versò il sedile del passeggero dopo essersi tolto la cintura di sicurezza. Gaara era addormentato con la testa appoggiata al sedile, la bocca era semiaperta e il leggero rumore del suo respiro si confondeva col ticchettio del motore che aveva iniziato a raffreddarsi.
Sasuke rimase a fissarlo qualche istante: gli dispiaceva svegliarlo, ma non potevano rimanere lì a lungo, a breve il freddo avrebbe invaso l’abitacolo, inoltre non lo aveva portato in montagna per passare la notte in un SUV quando c’era uno splendido chalet ad attenderli.
Gli bastò sfiorarlo di poco e l’altro si riscosse, sobbalzando sul sedile. Si guardò attorno spaesato per qualche istante prima di dire:
“Scusa, mi sono addormentato senza accorgermene, non ti ho nemmeno fatto compagnia mentre guidavi.”
“Tranquillo, sei molto stanco ed è bene che ti riposi il più possibile per domani, le piste da sci ci aspettano – lo informò – ora però scendiamo e aiutami a scaricare la roba.”
Si infilarono in fretta i cappotti e andarono a recuperare le loro borse, per poi incamminarsi sul breve sentiero perfettamente pulito che li condusse dalla macchina allo chalet. Gaara in realtà aveva solo uno zaino con poca roba, tutta l’attrezzatura necessaria per la neve gliel’avrebbe prestata Sasuke, gli aveva detto che non aveva senso che spendesse soldi quando lui aveva già tutto l’occorrente. Gaara gliene era stato grato: non aveva denaro da sprecare, ma la cosa lo aveva comunque infastidito, perché gli ricordava il divario tra di loro, oltre al fatto di avere sempre avuto problemi nell’accettare l’aiuto altrui. Vedendo quel grande ed elegante chalet in cui entrarono, quel disagio non poté che acuirsi.
C’era un grande ambiente subito dopo l’ingresso, sulla destra una cucina con un grande tavolo da pranzo, sulla sinistra un salotto con divani, poltrone, una televisione e un caminetto ora spento; sul fondo una porta conduceva al resto dell’abitazione. Tutto l’arredamento era in legno, ma l’effetto nel suo insieme non era affatto grezzo, dava invece una sensazione di morbidezza e calore; era evidente quanto ogni dettaglio fosse stato curato per arrivare a quel risultato.
I ragazzi si tolsero i cappotti e li appesero, poi Sasuke iniziò a trafficare con il riscaldamento dato che faceva piuttosto freddo anche se non come all’esterno.
“Ci mette poco a riscaldarsi, ma posso anche accendere il caminetto se vuoi” propose guardando il suo ospite.
“Emh… non serve, va bene anche così” rispose Gaara, sempre più a disagio.
Il suo palazzo era vecchiotto e il riscaldamento centralizzato, si andava da giornate in cui si moriva di caldo ad altre in cui si gelava quando si inceppava la caldaia, cioè abbastanza spesso. Invece in quello chalet disabitato per la maggior parte dell’anno ogni cosa era efficiente e pulitissima; quando aveva accettato l’invito non si era aspettato niente del genere. D’altra parte non era nemmeno mai stato sulla neve, che ne poteva sapere di come funzionassero le cose tra gente che non doveva mai preoccuparsi di arrivare a fine mese?
Sasuke parve intuire il suo stato d’animo e decise di non dargli modo di rimuginarci sopra ancora, quindi disse:
“Muoviamoci, ho fatto della spesa e bisogna sistemarla, dammi una mano.”
Gaara si riscosse, prendendo una busta ai suoi piedi e andando verso la cucina. Aprì un paio di ante per vedere dove sistemare la roba, ma le trovò piene di scatolette e altre confezioni, anche il frigo non era vuoto. Lanciò un’occhiata interrogativa a Sasuke che sorrise:
“Non ci sono i fantasmi qui, semplicemente ho avvertito il custode del nostro arrivo. Così ha provveduto a mettere qualcosa in dispensa, pulire e portare la legna in casa, anche se c’è un deposito giusto qui dietro. Io però ho comprato qualcosa di fresco, meglio delle scatolette, no?”
“Suppongo di sì, anche se io ci vivo con quelle scatolette. Non sono un gran cuoco e non ho nemmeno tanto tempo per cucinare” rispose Gaara, osservando l’altro prendere gli ingredienti necessari per preparare la cena.
Fuori era tutto buio, non si scorgeva nemmeno lo chalet vicino e la casa si stava davvero riscaldando velocemente; un bel contrasto con la distesa innevata che ricopriva ogni cosa.
“Io so preparare giusto cose semplici, ma dovrei riuscire a non avvelenarci stasera – scherzò Sasuke guardandolo – perché non vai a farti un bagno mentre cucino?”
Gaara aveva ancora gli abiti con cui era andato a lavoro, la faccia era sbattuta per la stanchezza e il risveglio brusco, sicuramente un po’ di relax lo avrebbe aiutato a sciogliere la tensione.
“Un bagno? Ma…”
“Ti farà bene e poi io ci metterò un po’, non vorrei che le tue scarse abilità da cuoco mi contagiassero” lo prese in giro, vedendolo fare una smorfia.
Gaara si limitò a quella e lo seguì, finendo di vedere il resto della casa. C’erano molte camere da letto, Sasuke gli mostrò la sua, più piccola ma vicina a quella che lui abitualmente occupava quando era lì con la famiglia. I bagni erano due ma Sasuke lo condusse in quello più grande, gli diede un accappatoio e tutto il necessario per poi raccomandarsi di rilassarsi.
Una volta solo, Gaara si sedette sul bordo della vasca, poggiando i gomiti sulle ginocchia e prendendosi la testa tra le mani.
Che diavolo ci faceva lì?
Era passato circa un mese dal loro primo appuntamento, il giorno del suo compleanno. Si erano rivisti nel suo ufficio per via dei lavori di ampliamento e anche un paio di volte al di fuori, a bere una birra o mangiare qualcosa assieme. Si mandavano messaggi seppur non quotidianamente: nessuno dei due era un gran chiacchierone, ma avevano scoperto di avere alcuni interesse in comune e qualche commento dopo la puntata settimanale del loro telefilm preferito era d’obbligo.
Nel frattempo Gaara aveva concluso gli esami per quella sessione pochi giorni prima, mentre Sasuke era abbastanza libero dopo la consegna del progetto del nuovo grattacielo; entrambi avevano quindi pensato che sarebbe stato il momento ideale per il loro weekend in montagna. Era fine febbraio e c’era ancora un’ottima neve, apparentemente tutti i presupposti parevano perfetti, ma Gaara si rese conto di aver preso la situazione troppo sottogamba.
Al di là del fatto che non aveva mai sciato e che il giorno seguente si sarebbe probabilmente ammazzato sulle piste, non aveva davvero capito l’impatto che gli avrebbe causato stare due giorni interi esclusivamente con Sasuke.
Non si sarebbe trattato solo di condividere la stessa casa o dormire in camere vicine, bensì sarebbe praticamente dipeso da lui per ogni cosa. Gli aveva prestato abiti e attrezzature per la neve, la macchina con cui erano arrivati era la sua e, senza di lui, non avrebbe saputo dove andare e probabilmente sarebbe morto, inciampando in mezzo a qualche cumulo di neve. In quei giorni Sasuke sarebbe stato il suo punto di riferimento per ogni cosa.
Gaara chiuse gli occhi e si passò le mani tra le ciocche rosse, respirò profondamente tentando di calmarsi. Anche quando viveva ancora con Kankuro aveva imparato a non dipendere da lui ma a rivedersi da solo le proprie questioni, quando poi era scappato ed era rimasto solo, la cosa non era più stata una scelta bensì una questione di sopravvivenza. Non era abituato a fare affidamento su qualcuno, specialmente se con quel qualcuno il rapporto era ancora lontano dall’essere chiaro.
Lui e Sasuke non erano amici, nemmeno amanti o tantomeno fidanzati, non sapeva cosa aspettarsi da lui e la faccenda lo destabilizzava, in fondo non aveva mai avuto una relazione seria, solo partner occasionali; era la prima volta che si trovava in una situazione simile, sospeso tra l’attrazione fisica e una conoscenza più profonda.
Si mise in piedi e decise di non pensarci, quei dubbi non lo avrebbero portato da nessuna parte, meglio farsi un bagno e rilassarsi, ormai era in ballo e non poteva certo tirarsi indietro. Insomma, aveva affrontato situazioni ben peggiori in vita sua, cosa sarebbe mai stato un weekend in montagna?
Aprì l’acqua calda, versò del bagnoschiuma profumato e iniziò a spogliarsi, incitato dal tepore della stanza. Era rimasto in boxer e camicia slacciata quando sentì bussare alla porta.
“Gaara, sei già dentro la vasca?”
Il ragazzo chiuse i rubinetti e andò ad aprire, lo fece istintivamente senza pensare a mettersi qualcos’altro addosso, e vide Sasuke sulla soglia con un bicchiere in mano.
“Ecco… ho pensato che un po’ di vino poteva aiutarti a rilassarti” gli spiegò l’architetto cercando di guardarlo in faccia, ma inesorabilmente il suo sguardo si perdeva sulla curva del collo, o sul petto pallido a malapena celato.
“Grazie” rispose Gaara prendendolo.
Nessuno dei due si mosse e rimasero a guardarsi in un’atmosfera strana, tesa, come se fossero in procinto di fare qualcosa di importante, essenziale quasi quanto respirare. Sasuke però fece un passo indietro:
“Ti aspetto, prenditi il tempo che vuoi” disse allontanandosi e Gaara fece in tempo a vedere le sue guance lievemente arrossate, sicuramente non dovute al riscaldamento.
Richiuse la porta e finì di spogliarsi, per poi entrare nell’acqua calda profumata. In mezzo alla schiuma e con un bicchiere di ottimo vino rosso si sentì molto privilegiato, scoprì che avrebbe potuto passare anche ore immerso lì, non avrebbe avuto bisogno d’altro.
Bevve un sorso che lo riscaldò piacevolmente, poi poggiò la nuca contro la vasca, immergendosi di più. Chiuse gli occhi e tentò di non pensare a nulla, lasciandosi cullare dalle piacevoli sensazioni dell’acqua calda. La sua mente vagava libera, passava da un pensiero all’altro, rimbalzando come una pallina da ping-pong in una partita infinita, ma alla fine si soffermò sui ricordi più recenti. Sasuke alla porta, col bicchiere in mano, il suo imbarazzo, lo sguardo che lo carezzava come fossero state mani e Gaara comprese che quei due giorni sotto lo stesso tetto sarebbero stati difficili, perché la tensione sessuale tra di loro era innegabile.
Dopo il bacio la sera del suo compleanno, non ce ne erano stati altri, né avevano fatto sesso, ma ora la situazione era diversa: non erano andati a cena per poi salutarsi e finire a dormire ognuno nel proprio letto, bensì i loro letti sarebbero stati maledettamente vicini.
Sasuke gli aveva fatto intendere bene anche senza parole che da parte sua c’era molto interesse anche da quel punto di vista, ma si era tirato indietro e Gaara non poté che apprezzarlo per questo. Perché, se l’altro lo avesse baciato, non era certo che lo avrebbe respinto o non avrebbe finito per farci sesso. Era da mesi che non andava a letto con qualcuno, l’ultimo era stato Sasuke, e ora che la sua vita sembrava essersi stabilizzata, smettendo di vorticare impazzita, lui aveva un po’ più di tranquillità mentale per rendersi conto di tutti i bisogni ignorati negli ultimi tempi.
Sdraiato in quella vasca spaziosa in cui due persone sarebbero entrate comodamente, non poté evitare di immaginare Sasuke a fianco a lui, a quello che sarebbe potuto succedere, alle mani che avrebbero carezzato la sua pelle scivolosa per l’acqua, i capelli umidi e le labbra invitanti.
Avvertì distintamente la sua erezione svegliarsi ed ergersi al di sopra del pelo dell’acqua. Prese il vino e ne bevve un sorso, fissandola.
“E adesso che accidenti dovrei farci con te?” sospirò chiudendo gli occhi. Quei due giorni avrebbero messo a dura prova i suoi nervi.

 
Sasuke sentì la porta del bagno aprirsi e poco dopo quella di un’altra stanza chiudersi, segno che Gaara era andato nella sua camera da letto.
A quel punto mise a cucinare le bistecche e guardò la tavola apparecchiata con la bottiglia di vino già aperta, le verdure che aveva preparato mentre aspettava e valutò con occhio critico se tutto fosse a posto, se non fosse eccessivo.
Poi si mandò al diavolo.

Sasuke, è solo una fottuta tavola apparecchiata, in una fottuta casa. Non ci sono candele sul tavolo, né petali di rose sparsi in giro, che diavolo dovrebbe vedere Gaara se non una tavola piena di cibo pronto per essere consumato? Datti una calmata o rischi di mandare tutto a puttane, altrimenti a che cosa sarebbe serviti gli sforzi di quest’ultimo mese di andarci con calma, di conoscervi e basta?
Sasuke diede ragione alla propria coscienza che nel suo immaginario aveva la faccia del suo psicologo; inquietante, ma non riusciva a togliersi quell’immagine dalla mente.
Girò la carne e il suo stomaco gorgogliò dinanzi all’odore delizioso che si stava sprigionando; in effetti era tardi, ma il viaggio era stato lungo e poi pensò che erano in vacanza, non avevano alcun orario da rispettare. Anche se il giorno seguente dovevano andare sulle piste da sci, potevano alzarsi quando volevano, nessuna sveglia li avrebbe buttati fuori dalle coperte all’alba.

Domani mattina posso svegliarlo io, magari portargli il caffè a letto – iniziò a riflettere, ma un'altra voce si intromise.
Certo, magari lo bevete assieme, tu ti siederai sul materasso, lui ti chiederà se hai freddo e se vuoi metterti sotto le coperte, tu accetterai e poi… addio piste da sci.
Sasuke scrollò con forza la testa, dandosi del coglione per quelle trame da filmino porno di quarta categoria. La verità era che Gaara gli piaceva, aveva voglia di fare sesso con lui e vederlo mezzo nudo prima non aveva aiutato i suoi propositi di freddezza, ma non voleva essere il primo a farsi avanti se l’altro non si dimostrava altrettanto bendisposto. Forse Gaara avrebbe pure accettato di finire a letto insieme, in fondo era già successo in passato, ma quello che Sasuke aveva capito con più chiarezza in quel periodo era che voleva qualcosa di più da lui.
Gli piaceva parlargli, quel loro tenersi sempre sul filo dello scontro, il modo in cui si tenevano testa perché erano entrambi orgogliosi e testardi, nonostante ciò avevano iniziato a venirsi incontro, a lasciare all’altro un piccolo spiraglio in cui infilarsi; lo stavano imparando insieme e questo gli piaceva moltissimo. Inoltre Gaara era un tipo tosto, ironico, con un sacco d’interessi e Sasuke si era dato dello stupido per non averli scoperti quando si frequentavano mesi prima. All’epoca era davvero un coglione per essersi limitato ad andarci a letto, quando c’era così tanto da scoprire in quel ragazzo.

Non devi incolparti così: eri diverso, non eri pronto, tutto qui. Ora sta a te, a questa tua nuova coscienza, non rovinare tutto o comunque cercare di ottenere quello che desideri sul serio, perché ora sai ciò che vuoi, giusto? Non hai più bisogno di mentirti o nasconderti, non più, Sasuke, stai conquistando la tua libertà.
La voce del suo psicologo gli risuonò con forza in testa e lui fece una smorfia irritata, si sentiva davvero uno psicopatico con tutte quelle voci che gli parlavano, se la situazione non si fosse chiarita presto, la prossima vacanza l’avrebbe fatta in una stanza con le pareti imbottite.
Mise le bistecche sui piatti e, mentre le portava a tavola, vide Gaara venire verso di lui con il bicchiere vuoto in mano, i capelli ancora un po’ umidi, il viso arrossato probabilmente dal calore del bagno e un’espressione distesa.
“Hai avuto veramente un’ottima idea, sto meglio – lo informò per poi guardare la tavola – ma quanta roba hai preparato?”
Sasuke scrollò le spalle, gli riempì di nuovo il bicchiere e fece lo stesso col proprio dicendo:
“Niente di che, dovresti vedere che combina mia madre” si morse la lingua dandosi dello stupido, era veramente una cosa intelligente da dire a uno cresciuto in orfanotrofio!
Gaara però non sembrò essersela presa, anzi sorrise e si accomodò:
“Mi sorprende che tu e Itachi non siate due ciccioni allora – prese il vino – mangiamo? Ho veramente fame e tutto sembra buonissimo.”
Sasuke si sedette a sua volta, sollevato, e avvicinò il bicchiere al suo, facendo tintinnare il vetro.
“Alla tua prima volta sulla neve” disse per poi bere così come l’altro.
“Già, devo veramente ringraziarti per avermi invitato.”
L’architetto fece una smorfia mentre tagliava la bistecca:
“Non serve che mi ringrazi, te l’ho detto che questo era il tuo regalo di compleanno. In realtà ne sto approfittando, avevo bisogno di una pausa, e non venivo qui da Natale.”
Gaara mandò giù un boccone trovando tutto squisito, pensando che Sasuke aveva molte altre qualità nascoste che gli stava finalmente permettendo di scoprire. Era un peccato che pochi avessero questa opportunità dato il suo carattere chiuso, ma si ritrovò a riflettere che avrebbero potuto dire lo stesso di lui.
“Già, a Natale tu eri qui” disse guardandosi intorno e cercando di immaginare come doveva essere stata la casa in quei giorni, piena di parenti, nonché lo stato d’animo che lo aveva spinto a telefonargli per parlargli. Una cosa banale, ma per Sasuke la comunicazione non era un concetto così scontato come per tante altre persone.
Questi intanto aveva lo sguardo puntato sul piatto, attentissimo a tagliare la bistecca come se avesse bisogno di un grande impegno per affondare in quella carne tenera.
“Già, ero in camera mia quando ti ho telefonato – rivelò, rispondendo alla sua domanda inespressa – poi è entrato mio fratello che aveva origliato e gli ho raccontato tutto. Incredibile, eh? Itachi uno spione, non il fulgido esempio di perfezione che appare.”
Fu difficile raccontargli quelle cose pur ammantate da un velo di pungente ironia; la parte faticosa non era quella del fratello spione ovviamente, ma Sasuke sentiva che era inutile fare finta di niente e continuare a girare intorno alle questioni.
“Oh, ma Itachi è lontano dall’essere perfetto, te lo assicuro” rispose Gaara, con tranquillità. Diversamente da altre volte non si sentiva nervoso al pensiero di toccare dei tasti delicati, forse era il vino, forse era soltanto il momento giusto. “Comunque mi ha raccontato della vostra discussione – lo informò, affrettandosi ad aggiungere – non nei dettagli ovviamente. Solo che gli hai rivelato del… insomma del tuo interesse verso gli uomini e che avevamo avuto una relazione.”
Aveva avuto difficoltà nel pronunciare quella parola, come se solo tre lettere fossero state in grado di marchiare a fuoco la pelle di una persona. Ci pensò però Sasuke a colmare quel vuoto.
“Sì, gli ho detto di essere gay.”
Lo aveva detto ad alta voce al fratello, allo psicologo, a Naruto, ma mai a Gaara che meritava di saperlo, perché Sasuke non avrebbe più rinnegato la sua natura, non si sarebbe più nascosto e questo poteva aprire un ventaglio di scenari ampio, se lui avesse voluto.
Gaara in effetti vide le sue spalle dritte, l’aria fiera con cui aveva parlato, molto diversa da quella del ragazzo schivo che si guardava intorno furtivo ogni volta che uscivano dal bar o semplicemente camminavano fianco a fianco per strada, con la frangia calata a nascondere il viso.
“Mi fa piacere che tu sia riuscito a chiarirti con te stesso. Direi che questo merita un brindisi” sorrise facendo tintinnare di nuovo i loro bicchieri.
Bevvero e mangiarono in silenzio qualche momento, ma poi la curiosità di Sasuke ebbe la meglio:
“So che non sono affari miei, ma… tu come hai capito di essere gay? Insomma cosa ti ha fatto definitivamente mettere una croce sopra alle donne e al fatto che non ti piaceranno mai?”
Non voleva solo conoscere meglio Gaara, ma voleva anche sapere come altre persone avessero affrontato il suo stesso percorso. Avrebbe potuto chiedere al fratello come aveva scoperto della sua bisessualità, ma con lui si sentiva inibito di fronte a discorsi così intimi. Se poi era stato davvero Shisui ad aiutarlo in quel periodo, non era sicuro di voler venire a conoscenza delle gesta del cugino.
Gaara posò la forchetta e prese altro vino, non era una domanda semplice, perché riportava alla mente ricordi scomodi e verità che dovevano rimanere nascoste. Tuttavia non voleva tirarsi indietro ora che Sasuke sembrava essere più aperto e disposto al dialogo, quindi cercò di trovare un compromesso.
“Ecco, all’inizio non è che ci pensassi, il sesso non era il mio chiodo fisso a differenza degli altri adolescenti. Semplicemente è capitato con un altro ragazzo e poi… dopo quell’esperienza, ho provato anche a baciare delle ragazze, ma non provavo niente. E non erano loro a catturare la mia attenzione, sempre e solo uomini, quindi direi che è stato abbastanza chiaro. Poi io, a differenza tua, non avevo una famiglia che mi potesse giudicare o a cui rendere conto, è un bel peso in meno da affrontare.”
Per tutto il tempo non lo aveva guardato, perché pensare a Kankuro, a quello che un tempo credeva fosse tutto il suo mondo, l’unica persona in grado di comprenderlo, era difficile. L’amato fratello si era rivelato essere tutto il contrario, cancellando l’uomo epico di cui serbava il ricordo e quella era la prima volta in cui raccontava ad alta voce ciò che più si avvicinava alla verità. Chissà come avrebbe reagito Sasuke se gli avesse detto di aver fatto sesso col proprio fratello? Sicuramente ne sarebbe stato disgustato, incredulo e costernato, soprattutto se avesse pensato al rapporto normale e pulito che aveva con Itachi. Quella verità sarebbe dovuta morire con lui, anche se a causa del ritorno di Kankuro nella sua vita, negli ultimi mesi si era ritrovato a pensarci più spesso del solito e a desiderare di alleggerire quel peso che sentiva gravare sulle spalle.
Sasuke notò la sua difficoltà, il modo in cui rifuggiva il suo sguardo, ma non immaginava di certo che Gaara stesse nascondendo certi pesi, credeva solo che fosse in imbarazzo e a disagio per qualche ricordo non propriamente felice.
Lo aveva colpito il riferimento alla famiglia, segno che il segretario avesse capito anche cose che Sasuke non gli aveva detto, inoltre gli ricordò la sua vita in orfanotrofio. La curiosità era stata stimolata da quei dettagli di un passato sconosciuto quindi, invece di cambiare discorso, domandò ancora:
“Adolescente? Scusa ma quanti anni avevi quando hai avuto la tua prima esperienza?”
Gaara posò il bicchiere e stavolta lo guardò in faccia, i suoi occhi erano glaciali, duri, e la sua risposta fu altrettanto secca:
“Quindici anni. Ho scopato per la prima volta a quindici anni, soddisfatto ora?”
Sasuke rimase interdetto sia dalla risposta, sia dal modo in cui l’altro si era rivolto, in netto contrasto con la tranquillità e la serenità che avevano contraddistinto quella serata, e capì di aver esagerato.
“Scusa – era raro che lo dicesse, ma quella volta era necessario – non intendevo infastidirti.”
Gaara lo guardò ancora e il ghiaccio che lo avvolgeva sembrò sciogliersi un po’. Si posò le mani sulle cosce e ingobbì appena le spalle, capendo di essersi comportato da stronzo.
“No, scusami tu. Sei solo curioso di sentire le esperienze di qualcun altro che ci è passato prima di te, lo capisco. D’altronde finora avevamo sempre evitato argomenti tanto personali, è solo… – cercò le parole adatte – per me è difficile parlare di quel periodo e di lui, tutto qui. Però puoi farmi tutte le domande che desideri, non mordo più, lo giuro.”
Sasuke osservò il suo mezzo sorriso di breve durata e giocherellò con il manico della forchetta, indeciso. La sua natura diffidente lo spingeva a metterlo alla prova, per vedere se davvero Gaara avrebbe mantenuto la sua parola, perché per lui mettere continuamente alla prova l’affetto e la lealtà di chi lo circondava era naturale, quasi come un riflesso spontaneo. In quel caso però forse avrebbe dovuto evitare di farlo, per non spingere Gaara con le spalle al muro e, in quel modo, dimostrargli fiducia. Si ritrovò tuttavia a parlare, ma non per testarlo, bensì per pura e semplice curiosità, qualcosa a cui si abbandonava raramente, spesso fingendo che non gli interessasse nulla anche delle persone a cui voleva bene.
“Quindi è successo con un altro ragazzo dell’orfanotrofio? Lo stesso che ti ha chiamato il giorno del tuo compleanno?” Ricevette in risposta un semplice cenno d’assenso con la testa così continuò “Per quanto tempo ci hai vissuto?”
Gaara si umettò le labbra con la lingua, era davvero difficile rispondere a domande in realtà tanto semplici e interessate, non solo curiose. Perché Sasuke era interessato a lui, al suo passato, a conoscerlo meglio in toto e, forse proprio per quel motivo, aveva paura di deluderlo, di dire qualcosa che lo avrebbe compromesso ai suoi occhi e avrebbe ucciso l’interesse che provava nei suoi confronti.
“Da che ne ho memoria. Mi hanno detto che mia madre è morta nel farmi nascere e che dopo un po’ mio padre sparì, abbandonando me e i miei fratelli, ma sinceramente non so se sia vero o solo un’invenzione di quegli aguzzini che mandavano avanti l’orfanotrofio. Verso i quattro anni mia sorella venne mandata in un altro istituto e io e mio fratello finimmo in una specie di orfanotrofio-collegio maschile. Non uscivamo mai da lì, studiavamo e vivevamo sempre tra le stesse mura, raramente ci portavano in gita: eravamo tanti e non era semplice organizzare escursioni. A volte uscivamo di nascosto la sera, ma le punizioni erano severe quando ci beccavano e io ero uno dei loro bersagli preferiti, in fondo non piangevo mai come piaceva a loro, né chiedevo scusa – fece un sorriso amaro – solo quando fummo adottati iniziammo a vivere davvero in mezzo alla gente. Avevo sedici anni, ma dopo qualche mese sono scappato, ho vissuto per strada e fatto lavori senza alcun contratto fino a che non sono diventato maggiorenne. Poi ho sempre lavorato e intanto studiavo per prendere il diploma, così sono finito dove sono ora. Insomma questa è la mia storia, niente di allegro o così incredibile, ma in fondo posso dire di essere stato fortunato e di essermela cavata.”
Non aveva avuto intenzione di raccontare così tanto di sé, ma una volta iniziato era stato difficile rimettere il coperchio su una pentola ribollente e strabordante. Così aveva lasciato che le parole fuoriuscissero, realizzando all’improvviso che quel weekend sarebbe stato fondamentale per il loro futuro, che senso aveva non mettere tutte le carte in tavola? Adesso o mai più.
Sasuke rimase basito da quelle rivelazioni, aveva intuito che il passato di Gaara fosse stato difficile, ma non avrebbe mai immaginato fino a quel punto. Si sentì all’improvviso così ragazzino coi suoi problemi futili, quando di fronte a sé aveva qualcuno che aveva letteralmente lottato per sopravvivere e non morire; in realtà non aveva mai smesso. Si vide coi suoi occhi, mesi addietro, un codardo viziato che pretendeva senza dare nulla in cambio, che lo usava per soddisfare il proprio personale ego e nient’altro. In fondo il giorno della laurea, quando Gaara era andato là solo per lui e poi se ne era andato ferito, Sasuke, sotto alla rabbia e alla paura di essere scoperto, non aveva forse provato un sottile senso di soddisfazione per il potere che riusciva a esercitare su un’altra persona?
Forse iniziava a convenire con gli altri quando gli dicevano scherzando che quello psicologo valeva ogni centesimo che prendeva.
“Mi spiace, non volevo andare a svegliare fantasmi sepolti. Hai avuto davvero una vita difficile e poi ti sono capitato io in mezzo. Sicuro di non essere stato Hitler in una vita precedente?”
Non fece menzione dei fratelli, perché l’altro gli aveva sempre lasciato intendere di non avere nessun famigliare, magari erano morti o forse si erano allontanati; qualunque fosse il motivo sicuramente non era niente di facile o allegro e Sasuke sentiva di aver già spinto abbastanza sull’acceleratore per quella sera. Non voleva tirare in ballo altri argomenti dolorosi solo per saziare la sua curiosità, magari ne avrebbero parlato un’altra volta, perché sperava di poter parlare con lui ancora a lungo in futuro.
Gaara invece rimase attonito qualche secondo, per poi semplicemente scoppiare a ridere. Sasuke che faceva autoironia e ammetteva di essere una merdaccia non era certo qualcosa che accadesse tutti i giorni, peccato non averlo registrato.
“Ma no, ma no – disse con ancora il riso sulle labbra – in fondo sono fortunato: mi fai domande perché sei interessato, no?”
Sasuke ebbe il prepotente istinto di alzarsi e andarlo a baciare, mentre sorrideva ancora, per sentire se avesse un sapore diverso, non lo aveva mai visto tanto divertito e gli piacque persino la sua risata sincera. Tuttavia si trattenne e mormorò soltanto:
“Già.”
Guardò la tavola, col cuore che sbatteva contro le coste, tanto pulsava velocemente; in pratica si era appena confessato e si sentiva così stupido e in imbarazzo che cercò qualcosa per cambiare il discorso, dal momento che l’altro non diceva più niente.
“Visto che abbiamo finito di mangiare lavo i piatti e poi sarà il caso di andare a letto, domani sarà una giornata impegnativa.”
Gaara annuì, ora serio, e si alzò dicendo:
“Ci penso io qui, è il minimo dopo che hai cucinato. Tu va’ pure a fare una doccia o a dormire.”
“Ok, grazie, farò una doccia” replicò Sasuke per poi sparire nel corridoio.
Gaara lo seguì con lo sguardo finché poté, per poi mettersi al lavoro. Sapeva che avrebbe dovuto dire qualcosa, ma si era bloccato; non aveva più dubbi sulle reali intenzioni dell’architetto, ma il problema era un altro: aveva paura. Paura di lasciarsi andare e rimanere di nuovo ferito, in fondo se lo aveva fatto suo fratello, un estraneo come avrebbe mai potuto avere cura di lui?
Sistemò in fretta la cucina e si rifugiò in camera per non incontrare di nuovo Sasuke quella sera. Al caldo, sotto le coperte, su quel letto comodo, lo sentì muoversi nella stanza a fianco e desiderò… desiderò che fosse lì, desiderò trovare quel coraggio che gli permettesse di fare l’ultimo passo verso di lui.

 

***

 

L’atmosfera nel locale era distesa, esattamente quella che invitava a rilassarsi, chiacchierare e bere perdendo di vista l’orologio. Era piuttosto affollato essendo venerdì sera, ma Itachi e Shisui erano comodamente seduti ad un tavolino con un divanetto e sorseggiavano i loro drink.
Shisui era finalmente riuscito a portare il cugino in quel – per loro – famoso gay bar dove lavorava Deidara, il barman fenomenale, e dove il maggiore dei due Uchiha aveva scorto più volte Gaara in passato e, infine, dove quest’ultimo e Sasuke si erano conosciuti. Un bel po’ di coincidenze per quelle quattro mura.
Itachi comprese come mai il fratello avesse scelto proprio quel locale: era discreto, non eccessivamente rumoroso e, anche se le vetrate non erano trasparenti per garantire una certa privacy alla clientela, all’interno si poteva cogliere al massimo qualche bacio qua e là. Niente orge, frustini e appariscenti drag-queen, stereotipi che popolavano l’immaginario e le paure dell’eterosessuale medio.
I due cugini stavano conversando senza fretta, era da parecchio che non si vedevano, soprattutto perché Itachi era stato oberato di lavoro, però era felice di essersi liberato quella sera e di aver accettato l’invito di Shisui. Era evidente che l’altro aveva qualcosa che non andava.
Pur sentendosi per telefono, l’avvocato non riusciva a cogliere le molteplici e sottili sfumature del carattere del cugino da dietro uno schermo. L’uomo era troppo sfaccettato e complicato per poterci riuscire, nonostante lo conoscesse da una vita; a volte si chiedeva addirittura se fosse davvero così, se lo conoscesse davvero, a volte rimaneva ancora spiazzato da lui.
“Dovremo tornare a casa in taxi?” gli domandò dato che aveva perso il conto dei suoi drink bevuti.
Shisui assottigliò gli occhi grandi per guardarlo infine, fingendo un’aria dotta, esclamò:
“Risposta esatta! Qualche problema?”
Erano venuti con la sua macchina, ma lui non era in condizione di guidare e anche Itachi aveva bevuto abbastanza. Quest’ultimo scrollò la testa, muovendo anche la folta coda dicendo:
“Figurati, avrei preferito saperlo, però.”
“È questo il bello dell’imprevisto, altrimenti non usciresti con me” sorrise l’altro, con le sue guance rosse e l’aria rilassata che sembrava dipinta addosso.
Itachi rise piano e, suo malgrado, si trovò a convenire, in fondo il cugino era la vera e unica variabile impazzita del suo mondo accuratamente ordinato e gli piaceva che fosse così.
Anche Shisui rise, ma la sua risata ebbe vita breve perché notò perfettamente un tipo che aveva puntato Itachi. Non era il primo della serata, ma quasi tutti desistevano vedendoli insieme, però ce ne era stato qualcuno di più coraggioso che sfidava l’aria impassibile di Itachi e quella corrucciata di Shisui per cercare di rimorchiare l’altro in modi più o meno espliciti. C’era stato chi gli aveva offerto da bere, chi gli aveva lasciato un bigliettino col numero e chi gli aveva addirittura proposto un tour dei bagni, ma Itachi aveva sempre declinato senza scomporsi e il sorriso era tornato sulle labbra imbronciate del cugino.
Aveva immaginato che una faccia nuova e affascinante avrebbe attirato l’attenzione in un posto simile, ma aveva voglia di uscire con lui ed essere libero, senza stare attento se si sfioravano per sbaglio o si guardavano negli occhi troppo a lungo.
“Allora, Sasuke e Gaara sono partiti?” gli domandò prendendo un altro sorso del proprio drink.
Itachi annuì:
“Sì, oggi pomeriggio. Sasuke è passato a prenderlo e immagino saranno ormai arrivati da un po’.”
“Come va tra di loro?”
Itachi si prese qualche istante per riflettere, poi disse:
“Non ne sono sicuro. Sasuke non mi viene a raccontare certi dettagli, né io glieli chiedo, e non mi sembra un argomento di discussione da tirare fuori in ufficio con Gaara. Credo tutto sommato bene visto che stanno partendo, Gaara mi sembrava abbastanza contento, anche se un po’ preoccupato. Forse non avrei dovuto fargli vedere le foto dei lividi che mi sono fatto con lo snowboard.”
Shisui lo guardò, spostandogli una ciocca di capelli dietro l’orecchio, un gesto semplice ma che non avrebbe potuto fare in un locale qualsiasi.
“Quindi… tu sei fuori dai giochi?”
“Non ci sono mai entrato in realtà – sospirò piano, lasciandolo fare – se Gaara non avesse mai conosciuto Sasuke, sarebbe stato diverso, ma non è così. E, nonostante tutto, entrambi sono più presi di quanto pensano, altrimenti anche a distanza di mesi e di tutto quello che è accaduto, Sasuke non sarebbe andato a cercarlo, ma soprattutto Gaara non avrebbe accettato di frequentarlo di nuovo, non credi anche tu?”
Shisui sorrise, un sorriso malinconico, strano:
“Già, la gente è stupida. Non capisce i propri sentimenti, figurarsi quelli di chi ci sta intorno. E come sta il tuo cuore infranto?”
Itachi rimase un po’ sorpreso dalla sua affermazione, ma la archiviò come una specie di delirio da ubriaco, senza darle l’importanza che avrebbe meritato.
“Nessun cuore infranto – rispose – era solo un interesse morto quasi prima di nascere, niente di più.”
Shisui aggrottò appena la fronte, ma non replicò, invece dopo qualche istante domandò:
“Ti piace quel tizio? È da parecchio che vi scambiate degli sguardi, o anche lui è un altro interesse e basta?”
Itachi smise di guardare l’uomo seduto al bancone: Shisui aveva ragione, era almeno mezz’ora che si lanciavano occhiate. Guardò invece il cugino, il suo viso serio e scosse appena la testa, chiedendo:
“In effetti lo trovo affascinante, mi incuriosisce, ma non andrò mai da lui, lo sai, no?”
“Lo so?”
Itachi rimase interdetto dinanzi a quell’interrogativo e si limitò a guardarlo, ma non funzionava: i suoi occhi attenti, sempre capaci di leggere negli altri, in quel momento erano inutili: gli restituivano solo l’espressione contratta di quel bel viso che era abituato a vedere sorridere. Si sentì stringere lo stomaco nel vederlo a quel modo, tanto che si decise a domandare senza troppi giri di parole:
“Mi spieghi che diavolo succede? Che ti prende stasera?”
Non era proprio da lui chiedere così direttamente, era un segno della sua esasperazione e Shisui lo sapeva bene. Incrociò le braccia davanti al petto e lo guardò con aria fintamente divertita:
“Il grande principe del foro non ci arriva? Oppure la verità va bene solo per gli altri e tu continuerai a nasconderti dietro i tuoi segreti?”
Itachi tacque. Quelle parole erano taglienti, facevano male, il cugino sembrava deriderlo ed era qualcosa che in quegli anni non aveva mai fatto. Si irritò perché qualcosa sfuggiva alla sua comprensione, il suo mirabile cervello proprio non voleva saperne di trovare il tassello mancante del puzzle e Shisui pareva intenzionato a non fornirglielo, limitandosi a prendersi gioco di lui.
“Vedi di finirla o ti mollo qui” sbottò, piccato.
“Molleresti da solo un povero ubriaco col cuore spezzato? Sei crudele, Itachi.”
Il ragazzo cambiò subito atteggiamento, riscoprendosi preoccupato.
“Cosa? Credevo non stessi uscendo con nessuno in questo periodo – disse stringendogli un braccio – cos’è successo? Perché non mi hai raccontato niente?”
Shisui lo guardò con gli occhi grandi spalancati, il che era abbastanza comico sulla sua faccia da ubriaco, ma nessuno dei due rise anche se le labbra del maggiore si piegarono in un sorriso amaro.
“Cazzo, Itachi! – esclamò – Ma allora davvero non hai mai capito un cazzo!”
Scosse la testa incredulo, ma non aggiunse altro.
Itachi avvertì un senso di disastro ineluttabile, come quando si vede chiaramente l’altra automobile venire addosso ma non si può fare nulla per evitarla. Allo stesso modo lui non sterzò, non cambiò traiettoria, bensì andò dritto verso quello scontro; non avrebbe potuto fare diversamente. Lo doveva a Shisui, per tutto quello che avevano condiviso, per il loro passato, il presente e il futuro, doveva gettarsi nel burrone assieme a lui e sperare che la caduta non fosse troppo rovinosa.
“Cos’è che non capisco?”
Fu un grandissimo sforzo per lui dover inghiottire l’orgoglio e ammettere la propria incapacità a comprendere i suoi limiti nei confronti di quel cugino che era il suo punto fermo.
Shisui rimase in silenzio, la sua bocca sembrava sigillata, ma in realtà era solo piena di parole pericolose, affilate e taglienti come cocci di vetro che gli stavano squarciando la carne delicata, sentiva che presto il sangue sarebbe colato fuori e loro assieme a esso, non sarebbe più riuscito a rimanere zitto. Per quello decise di agire, di sporcare anche Itachi con il sangue e di ferirlo con quei cocci: lo baciò. Gli aprì la bocca con la lingua e divise con lui quel peso, afferrandogli la nuca con una mano, impedendo che si allontanasse per fargli bere la sua risposta amara fino in fondo.
“Questo è quello che non capisci – gli sussurrò Shisui a fior di labbra – o forse non hai mai voluto capire niente; più comodo, non trovi?”
Itachi si morse un labbro che già gli pulsava, perché quel bacio non era stato morbido, né delicato, era stato esigente, irruento e doloroso nella sua verità; finalmente nella sua mente la nebbia si stava diradando, ma non era sicuro di voler vedere cosa ci fosse al di sotto. Non avrebbe mai creduto che la situazione potesse essere così seria, forse già fin troppo compromessa, ma la colpa era sua, solo sua che non aveva capito… o forse era di Shisui che era fin troppo bene a mascherare i suoi sentimenti, anche più di Itachi?
“Perché, Shisui? Perché ora, perché non mi hai mai detto nulla?” gli domandò, nonostante tutto.
Non poteva fare finta di nulla, anche se sarebbe stato più semplice, non avrebbe mai potuto farlo con lui.
Il cugino gli sorrise, ma era un sorriso brutto, triste, non il solito che gli vedeva sempre aleggiare sulle labbra e che adorava.
“Perché finora non hai mai mostrato molto interesse verso gli altri uomini. Oltre me hai avuto solo altre due storie di poco conto, hai sempre preferito le donne. Credevo fossi davvero innamorato di Konan, le hai dato le chiavi del tuo appartamento, pensavo che l’avresti sposata e avrei visto tanti mini Itachi scorrazzare in giro – era difficile mantenere la lucidità ubriaco com’era, ma tenne duro –con Gaara però qualcosa è cambiato, ora guardi gli uomini con occhi diversi. Dovrei quindi lasciarti andare da quel tizio al bancone o da uno di quelli che ti hanno dato il numero senza alzare un dito? Per chi cazzo mi hai preso, Itachi? Pensi che continuerei ad andare a letto con mio cugino per anni, rispettandolo ogni volta che è fidanzato, solo per divertimento? Che cazzo ti sei raccontato in questi per tutto questo tempo?” Si bloccò e gli mise un dito sulle labbra per impedirgli di parlare mentre lo scrutava con gli occhi lucidi e grandi per l’alcool “No, la domanda giusta è: ti sei mai chiesto qualcosa? No, vedendo la tua faccia sorpresa deduco di no – scosse la testa – cazzo, possibile che non hai mai riflettuto sul fatto che solo a me permetti di scoparti, che vieni sempre a cercarmi quando una tua relazione finisce o se hai problemi? Cosa sono per te? Un balsamo da mettere sulle tue ferite e poi da riporre nell’armadietto quando non serve più?”
Sapeva di essere ingiusto, perché Itachi teneva a lui, ma quella sera non era lucido, il grumo di sentimenti che per anni aveva compresso dentro di sé stava esplodendo e rilasciava tutt’attorno la sua scarica venefica.
Itachi intanto era sconvolto, aveva ascoltato il suo sfogo incredulo, aveva visto i suoi lineamenti mutare, distorcersi, portandolo a chiedersi se era veramente il cugino quello che gli sedeva accanto.
Forse, per la prima vera volta nella sua vita, era sotto shock, incapace di processare le informazioni ricevute e di confezionare una risposta adeguata e gli occhi di Shisui lo guardavano, erano grandi, scuri e dalle ciglia lunghe, gli erano sempre piaciuti. Ma ora lo fissavano e attendevano una risposta che lui non riusciva a dare, perché davvero non si era mai posto domande sul loro rapporto. Aveva sempre dato per scontato che Shisui ci sarebbe sempre stato, non aveva badato al fatto che a volte era stato fidanzato quando lo era andato a cercare e il cugino, che era sempre fedele e non era mai sleale con i suoi partner, aveva tradito; per lui, solo per lui. Ma Itachi non ci aveva mai dato peso, aveva preteso e basta, nella cieca illusione che non servissero spiegazioni, che Shisui non avesse bisogno di niente di più di quello che gli dava.
Ora si rendeva conto che non era così, ed era accaduto nel modo più drammatico possibile e lui ancora non riusciva a pensare a una risposta.
“Shisui, io…” mormorò, ma non aggiunse altro.
Il cugino scosse la testa e disse solo:
“Non preoccuparti, il vero coglione qui sono io.”
Prese il cappotto e si alzò, andandosene, senza voltarsi a guardarlo. Itachi lo vide barcollare lievemente, urtare anche qualcuno, ma l’altro andava dritto verso l’uscita e lui non lo fermava. Lo vide sparire attraverso la porta e non si sentì mai così solo, come in quel momento in mezzo a tutta quella folla.

 

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Capitolo 16
*** 16 - Baby can I hold you tonight ***


 

Maybe if I told you the right words
At the right time you'd be mine

(Tracy Chapman)

 

Baby can I hold you tonight

 

 

 

Gaara era fermo vicino alla seggiovia e la fissava più o meno come un gatto avrebbe squadrato un cane: con estrema diffidenza e una certa dose di astio.
Aveva gli sci agganciati agli scarponi rigidi che gli bloccavano la caviglia, un’aderente calzamaglia sotto ai pantaloni, una maglietta termica sotto la giacca, guanti e caschetto; tutto fornitogli da Sasuke. Si sentiva più imbottito di un panino, ma perlomeno non avvertiva molto il freddo e gli abiti erano comodi, anche se inusuali. Il problema era che iniziava a sentirsi terrorizzato all’idea che tra poco sarebbe davvero stato sulle piste, nella sua mente sfrecciavano già immagini di incidenti mortali o in cui finiva su una carrozzina. Era cresciuto in una località vicino al mare, la città in cui abitava ora era in collina e vicina a dei boschi, che diavolo ci faceva uno come lui sulla neve?
Sasuke gli diede una bottarella sul braccio per riscuoterlo dalle sue riflessioni e gli indicò i seggiolini:
“Al prossimo saliamo, è più semplice di quanto sembri, non si tratta mica della filovia.”
“E che diavoleria sarebbe?”
“Diavoleria è il termine giusto, è un filo che penzola con un peso alla fine. Ti metti il filo in mezzo alle gambe, stringi e sali così. Non ti dico le volte che ci si dà una botta sulle palle, c’è anche qui, ma ho pensato di evitarla per la tua prima volta.”
Gaara apprezzò nuovamente le premure di Sasuke, cercò di imitare i suoi gesti e di accomodarsi al suo fianco sul seggiolino doppio che lentamente saliva verso l’alto. Guardò i propri piedi con gli sci ancorati che penzolavano nel vuoto e provò un po’ di timore, strinse più forte le racchette tra le mani e pensò che la cosa migliore fosse chiudere gli occhi finché non fossero arrivati in cima. Dopo qualche istante però Sasuke lo chiamò, così sollevò le palpebre per guardarlo armeggiare con un tubetto di crema bianca che poi gli spalmò sul viso. Fece un piccolo scatto all’indietro col collo, guardandolo interrogativo.
“È solo crema solare. Mi sono dimenticato di metterla prima di scendere dalla macchina”
“A che serve? Mica siamo al mare” domandò Gaara, pensando che lo stesse prendendo in giro. Nonostante ciò non si sottrasse e lasciò che Sasuke gli passasse la mano calda sul viso freddo e trovò piacevole quel contrasto, tanto che si dispiacque quando smise.
“Il sole picchia forte anche qui, la neve lo riflette e aumenta la sua potenza, la crema è indispensabile specialmente per due con la pelle chiara come la nostra. La rimetteremo durante la giornata, voglio farti tornare a casa tutto intero” gli spiegò mentre se la spalmava a sua volta e poi riponeva il tubetto in tasca, affrettandosi a rimettere i guanti.
Gaara lo ascoltò meravigliato, rendendosi conto di quante cose ignorasse del mondo; nonostante tutti i dubbi e le incertezze, capì che quel weekend sarebbe stato una cosa buona, una nuova esperienza che avrebbe ingrandito il suo modesto bagaglio.
“Non sono così sicuro di tornare a casa tutto intero se insisti nel volermi far sciare” rispose dato che le sue visioni catastrofiche non erano finite, anzi avvicinandosi alle piste aumentavano.
Sasuke rise e gli posò una mano sul braccio, purtroppo con tutti gli strati di vestiti Gaara sentì solo la pressione esercitata  e nient’altro, lo guardò negli occhi divertiti mentre parlava.
“Ma no, inizieremo proprio dalle basi, solo sulle piste baby. Se ci sono io, non ti succederà niente, in famiglia abbiamo imparato a sciare tutti da quando eravamo piccoli; sono bravo, sai? Fidati di me”
Gaara avvertì il sangue affluire alle guance, si augurò che l’altro attribuisse la colpa al freddo e non all’emozione provocatagli da quelle parole. Maledetto quell’Uchiha che diceva cose tanto sconcertanti con quel sorriso leggero; fidarsi di lui. Poteva davvero farlo?
“E allora come mai Itachi era pieno di lividi dopo Natale? Mi ha fatto vedere le foto, era impressionante” gli fece notare, non ancora convinto.
“Che cosa?!” esclamò Sasuke sconcertato, ma non ebbe tempo di aggiungere altro perché erano arrivati. Alzò la sbarra di sicurezza e spiegò in fretta a Gaara come poggiare gli sci per non cadere, augurandosi che andasse tutto bene. Lo vide scivolare lentamente in avanti, allontanandosi dalla seggiovia e tenendo istintivamente le ginocchia incrociate, il modo migliore per finire coi piedi all’aria. Fortunatamente non successe così lo raggiunse in fretta, riprendendo il discorso di prima:
“Itachi ti ha fatto vedere le foto dei suoi lividi?”
Gaara che era più interessato a guardarsi attorno, a capire se tenere i piedi aperti o uniti e un milione di altre cose nuove, rispose con un disinteressato:
“Sì, che c’è di male?”
“C’è che… oh, andiamo! Le foto del suo… mio fratello che ti mostra certe cose!”
Gaara si decise a guardare Sasuke: le guance erano rosse, stringeva forte le racchette tra le mani guantate e aveva un’espressione a metà tra lo sbalordito e lo sconvolto.
“Cos’hanno di così terribile le foto del suo ginocchio, a parte fare impressione per essere quasi nero e gonfio?” domandò continuando a non capire. Vide però l’atteggiamento dell’altro cambiare, tirare un sospiro di sollievo e alzare un attimo gli occhi al cielo. “Sasuke… cosa credevi che mi avesse mostrato Itachi?”
L’Uchiha minore fece una smorfia e disegnò qualcosa nella neve con la punta della racchetta, evidentemente imbarazzato e desideroso di non rispondere.
“Il suo sedere” borbottò però alla fine. Ricordava bene di come durante le vacanze fosse entrato nella stanza che condividevano e lo aveva trovato coi pantaloni calati, a mettersi una crema contro gli ematomi sul fondoschiena violaceo. Non era stato un bello spettacolo.
Gaara sgranò gli occhi e gli parve che fossero sul punto di uscire dalle orbite, aprì e richiuse la bocca un paio di volte, stette in silenzio qualche istante e solo dopo quasi un minuto riuscì a dire:
“Sei un idiota! Come ti viene in mente che tuo fratello mi possa aver mostrato le sue chiappe? E poi ce lo vedi a fotografarsele? Itachi? Stai fuori!”
Se solo fosse stato in grado di muoversi agilmente sulla neve, si sarebbe voltato e allontanato, ma non era possibile, Sasuke era la sua guida e punto di riferimento per quel giorno, quindi aggrottò le sopracciglia e aggiunse con voce stizzita “Ora se abbiamo finito con queste idee balorde, vuoi insegnarmi a non ammazzarmi?”
L’architetto evidentemente imbarazzato si morse un labbro per poi annuire:
“È solo che… lasciamo perdere, andiamo”
Nonostante tutto Gaara fu colpito da quell’ennesima sfaccettatura del suo carattere, da come tutto il divertimento e l’aspettativa fossero scomparse dal suo viso in un battito di ciglia, e si dispiacque di essere stato così duro. Inoltre, se solo avesse saputo dei baci che si erano scambiati, non avrebbe proprio potuto dargli dello stupido.
La sua reazione lo rese ancora più convinto a far rimanere segreti quei due episodi, semmai avesse avuto l’intenzione contraria. In fondo era qualcosa che riguardava solo lui e Itachi, avvenuto in un periodo in cui non sentiva più Sasuke; erano stati bei momenti e importanti per Gaara, perché gli avevano mostrato che non era ancora tutto perduto come si era convinto. Quei due baci erano lontani nella sua memoria, ammantati da quel velo di malinconia che hanno sempre i bei ricordi che non torneranno mai più, perché era certo che non sarebbe successo di nuovo.
Per quel motivo posò una mano sulla spalla di Sasuke e la strinse nonostante i guanti e i vestiti ingombranti.
“Sono nelle tue mani, maestro. Hai detto che mi avresti riportato a casa tutto d’un pezzo, giusto?”
Gli sorrise dicendogli in pratica che si fidava di lui e gli occhi di Sasuke parvero rianimarsi: avrebbe fatto tesoro di quella concessione e all’improvviso le chiappe di Itachi erano dimenticate; in realtà non erano mai esistite.

 

In un punto tranquillo vicino alla pista baby, Sasuke aveva fatto vedere a Gaara il movimento base che ogni principiante doveva imparare: lo spazzaneve. Si trattava di allargare le gambe e far convergere le punte degli sci come un triangolo. A quel modo si poteva procedere in sicurezza, imparando a mantenere l’equilibrio, inclinando i piedi a dovere si riusciva ad acquisire più o meno velocità o a frenare, successivamente, imparando a distribuire il peso del corpo, si imparava a curvare e ad assumere un certo ritmo. Erano i movimenti che ogni sciatore doveva imparare a padroneggiare per poter iniziare a scendere dalle piste con gli sci paralleli e a lanciarsi, letteralmente, in quello sport impegnativo ed elettrizzante.
Gaara si mostrò un buon allievo, molto accorto, anche se un paio di volte finì comunque a gambe all’aria; il battesimo della neve lo chiamò Sasuke, ridendo. Anche se doveva stare dietro a un principiante e non scorrazzava libero sulle piste rosse come suo solito, si stava divertendo. Gaara era testardo e si impegnava, era anche autoironico e più aperto ora che era impegnato in qualcosa di diverso dallo schermarsi e misurare le risposte.
A Sasuke piacque quella libertà, il modo in cui stavano vicini e interagivano, come due persone qualsiasi. Si guardò attorno e vide altra gente fare le stesse cose: chiacchieravano, sciavano, si divertivano ed erano uguali a loro. Si rese conto che lui e Gaara non portavano scritto addosso che erano gay, sulle loro sgargianti tute non era impresso il marchio della diversità e Sasuke non lo scorgeva nemmeno sugli altri.
Magari quella bella signora bionda e atletica non era sposata con l’uomo che le tendeva gli occhiali da sole, bensì poteva avere una relazione con la donna che aveva di fianco. C’erano miliardi di possibilità su quella terra e nessuna di esse era sbagliata; cosa c’era di sbagliato nell’amare? Era così importante il genere?

No, non lo è. Importa solo quello che provo io e chi ho a fianco. Giusto, doc?
Giusto, Sasuke, giustissimo. Ti sei meritato un cioccolatino anche oggi.

Il ragazzo sorrise tra sé e sé per quel dialogo immaginario col suo psicologo, ma era certo che anche nella realtà le cose sarebbero andate proprio così. Si rese conto di essersi perso nei propri pensieri e aver perso di vista Gaara, ma lo individuò subito: stava scendendo con gli sci paralleli dalla pista baby e stava andando abbastanza bene, anche se al pari di una lumaca per i suoi standard. All’improvviso però lo vide perdere l’equilibrio, forse aveva trovato della neve più ghiacciata o un qualche altro ostacolo sotto gli sci, fatto sta che finì a gambe all’aria.
Sasuke si affrettò a raggiungerlo e, togliendosi gli sci, si inchinò al suo fianco per aiutarlo dato che non si muoveva.
“Ehi, stai bene? Che è successo, stavi andando benissimo”
Gaara, sprofondato nella neve, senza dare alcun cenno di volersi alzare, si tirò su gli occhiali da sci e lo guardò, sorridendogli.
“Tutto bene, un crampo alla gamba destra, però è lieve, sta passando”
“Accidenti – disse Sasuke prendendogli il polpaccio e iniziando a massaggiarglielo – ti sei fatto male da qualche altra parte?”
“No, sto bene. Però mi sento così stanco che penso rimarrò qui, mi vieni a riprendere quando si scioglie la neve?” chiuse gli occhi avvertendo il dolore scemare.
“Scemo – sbuffò – e come pensi che sopravvivranno a lavoro senza di te?”
“In qualche modo, magari ci metterebbero qualche mese per capire come stilare una fattura, o come prenotarsi il ristorante da soli, ma ce la farebbero” rise piano.
“Non ci pensare nemmeno, non voglio avere a che fare con Hiashi Hyuuga, quindi tornerai a casa con me domani. Martedì voglio vedere te alla riunione”
Gaara puntellò i gomiti e si alzò col busto per guardarlo, ma Sasuke aveva la testa china sulla sua gamba e intravide giusto qualche ciuffo di capelli scuri al di sotto del casco. In quel momento avrebbe voluto tirarselo addosso, sprofondare assieme a lui nella neve, farsi ricoprire e rimanere così, celati agli occhi del mondo, perché non esisteva altro all’infuori di loro. Avrebbe voluto creare una bolla in cui rifugiarsi assieme a lui, proprio lì in mezzo alle neve gelida, il posto più bello del mondo.
La sua era stata solo un’affermazione scherzosa, eppure gli aveva smosso dentro qualcosa, perché significava che Sasuke voleva vederlo ancora; erano insieme ma già pensava a quando lo avrebbe rincontrato la volta successiva. Si stese di nuovo nella neve, sentendola fredda contro le guance, ma gli piaceva stare così, a fissare il cielo un po’ ingombro di nubi, socchiudendo appena gli occhi.
“Vorrà dire che martedì troverai me in ufficio” gli rispose.
Sasuke alzò appena lo sguardo, ma non riuscì a decifrare la sua espressione apparentemente impassibile, così si limitò a massaggiarlo un altro po’, per poi domandare:
“Come va? È passato?”
Gaara si mise seduto e guardò l’altro inginocchiato davanti a lui, senza occhialoni, che lo guardava coi suoi occhi scuri. Annuì, per poi dire:
“Sì, ma dopo questa alzo la bandiera bianca, credo di essere proprio cotto. Non sono abituato a fare tutto questo esercizio, passo la maggior parte delle giornate dietro a una scrivania”
In fondo era pomeriggio, a pranzo avevano mangiato una barretta energetica per non appesantirsi e lui si era impegnato moltissimo, infatti era riuscito addirittura a scendere con gli sci in parallelo e non a spazzaneve, seppur con lentezza.
“Ok, allora torniamo a casa” disse Sasuke alzandosi e tendendogli una mano.
Gaara la afferrò, ma aveva una controproposta:
“Perché non vai a farti qualche discesa decente, mi stai dietro da stamattina, ti sarai anche annoiato. Io vado a prendermi qualcosa di caldo, mi rilasso e ti aspetto, che ne dici?”
Sasuke lo guardò pensieroso e tentato:
“In realtà mi sono divertito, però non mi dispiacerebbe effettivamente fare qualche discesa. Sei sicuro di volermi aspettare?”
“E tu cos’hai fatto tutto questo tempo? Non hai forse aspettato me?”
Gaara aveva inteso fare una battuta, ma le sue parole risuonarono molto più serie e cariche di significati di quanto potessero apparire.

Non mi hai forse aspettato mentre cercavo di fidarmi nuovamente di te? Non mi hai aspettato quando ero così arrabbiato da credere di non volerti vedere più? Non mi stai forse aspettando ancora adesso?
Rimasero a guardarsi, incurante degli schiamazzi della gente, del rumore della neve raschiata dalle tavole e del battito dei loro cuori al di sotto dei vestiti pesanti. Gaara fu il primo a riscuotersi e, prendendo le racchette, disse:
“Vado, ci vediamo tra un po’. Pensa solo a divertirti”
Sasuke lo osservò allontanarsi con la sua andatura lenta e misurata, si allontanava ma si sentiva tranquillo perché lo avrebbe ritrovato facilmente, non stava più andando al di là della sua portata.

 

Gaara era seduto davanti al caminetto acceso e osservava il fuoco guizzare. Aveva ignorato il comodo divano o le poltrone e aveva preferito il tappeto soffice, non per vero freddo, quanto perché gli piaceva vedere le fiamme scoppiettare e diffondere nell’aria un gradevole aroma di legna.
Dopo che Sasuke era tornato dalla sua sciata col viso colorito, l’aria eccitata e un sorriso sincero come quello di un bambino la mattina di Natale, erano andati a mangiare.
Si erano riscoperti entrambi troppo affamati per tornare prima a casa per cambiarsi, così erano entrati nel ristorante con le loro tute da sci e gli scarponi ingombranti, scoprendo di non essere gli unici in quelle condizioni. Sasuke l’aveva trovato divertente perché con la sua famiglia fare una cosa del genere era impensabile, stava scoprendo che gli piaceva quel nuovo sapore che sentiva contro il palato, il gusto di essere libero e fare ciò che desiderava.
Dopo cena erano tornati allo chalet, Gaara era andato a fare una doccia e al suo ritorno aveva trovato il caminetto acceso, così ci si era piazzato davanti aspettando che Sasuke tornasse.
Si sentiva piacevolmente rilassato, quasi intorpidito: non aveva nessun motivo per stare all’erta, non aveva bisogno di essere lucido e affilato per tenere a mente e badare alle mille diverse incombenze lavorative o, semplicemente, non doveva correre dietro a niente e nessuno. Doveva solo stare lì a godersi il tepore del fuoco. Forse era merito della cena abbondante o forse dell’esercizio fisico, fatto sta che non gli dispiaceva affatto sentirsi così una volta tanto.
Udì una porta aprirsi e poco dopo la voce di Sasuke alle sue spalle dire:
“Hai freddo? Ci sono dei plaid se vuoi.”
“No, sto bene. Mi andava solo di stare solo vicino al caminetto.”
Per non apparire ripetitivo né patetico, non aggiunse che era la prima volta che ne vedeva uno dal vivo e gli piaceva più di quanto avesse mai creduto.
Non si voltò e avvertì l’architetto trafficare con qualcosa, per poi ritrovarselo a fianco che gli porgeva un elegante bicchiere a tulipano con del liquido ambrato che sprigionava un invitante aroma.
“Direi che un po’ di brandy ci sta più che bene, no?”
“Hai ragione” concordò Gaara, accettando la sua offerta e riconoscendo che quel liquore era di una certa qualità.
Stettero in silenzio, seduti vicini, cullati dalle fiamme del caminetto e dal gustoso brandy, non sentivano bisogno di parlare, per una volta l’assenza di parole non indicava tensione bensì un’intesa profonda: stavano bene semplicemente grazie alla loro vicinanza.
Quando finì di bere, Gaara posò il bicchiere di fianco a sé, portò le mani all’indietro e vi si appoggiò, stendendo le gambe che aveva tenuto piegate fino ad allora. Voltò la testa per vedere le fiamme danzare tra i riflessi scuri dei capelli Uchiha e ne rimase affascinato.
“Sono stato bene oggi, mi sono divertito molto. Grazie per questo weekend, direi che è stato il migliore regalo di compleanno ricevuto.”
Anche Sasuke posò il bicchiere e lo guardò, pensando che i suoi capelli erano ancora più rossi e intensi del fuoco; in effetti era rimasto scottato da loro, da lui.
“Sono felice di averci azzeccato. Penso che questi due giorni abbiano fatto bene a entrambi, non ti ho mai visto così rilassato.”
Anche quando in passato si erano frequentati quei quattro mesi, Gaara gli era sempre parso sì calmo, ma mai sereno o rilassato, sempre in battaglia contro qualcosa o qualcuno: se stesso, il tempo, il mondo che cercava in tutti i modi di mettergli i bastoni tra le ruote. Solo dopo il sesso riusciva a scorgere sul suo viso un accenno della tensione che si scioglieva, ma durava sempre poco.
Occhieggiò i suoi piedi bianchi, senza calzini, e i polpacci coperti da una morbida tuta scura e chiese:
“Come va con la gamba? Ti ha fatto ancora male?”
Gaara istintivamente la piegò e fissò su di essa l’attenzione, perché era più semplice piuttosto che fronteggiare la verità pronunciata dall’altro: si sentiva bene, rilassato, la testa era leggera e non più oppressa da mille preoccupazioni e il merito era della persona che gli sedeva a fianco.
“No, è stato solo un crampo passeggero. Però ammetto che i muscoli mi fanno un po’ male e di essere piuttosto stanco, non sono proprio abituato a fare tanto movimento.”
Sasuke fece un accenno di sorriso e si sedette rivolto verso di lui, gli prese un piede e lo usò come perno per farlo voltare sul tappeto morbido, così che si trovarono a fronteggiarsi. Si posò una sua gamba in grembo e iniziò a massaggiarla piano, partendo dalla caviglia.
“M-ma che fai?” domandò Gaara, colto di sorpresa.
“Hai bisogno di occhiali?” lo punzecchiò Sasuke.
“Certo che no, lo vedo che mi stai facendo un massaggio, la domanda è perché” replicò appena stizzito per quel sorrisetto strafottente che gli vedeva sulle labbra.
“Per sciogliere un po’ di tensione muscolare. Il weekend non è finito, domani mica vorrai poltrire al bar come oggi pomeriggio, mi auguro. Abbiamo quasi tutta la giornata a disposizione prima di ripartire.”
A poco a poco sollevava il pantalone, scoprendo quel polpaccio magro e dalla muscolatura asciutta che si distingueva alla perfezione sotto la pelle chiara. Vi dedicò solo un’occhiata di sfuggita, perché in quel momento il viso di Gaara, la sua espressione di sfida, con quel mento sollevato, erano impagabili.
“Ah no? – disse questi – E se volessi stare tutto il giorno a letto? Tu che faresti?”
Sasuke sorrise ancora, con quel suo modo particolare di tirare su solo un angolo della bocca, mentre gli occhi erano il vero fulcro di quel sorriso ironico e spiazzante.
“Ti tirerei fuori, perché non avremmo un buon motivo per stare in mezzo alle coperte.”
Il viso di Gaara si fece serio, inarcò appena le sopracciglia con i riflessi delle fiamme e del divertimento che si riflettevano nelle iridi color acquamarina.
“E se invece lo avessimo?” lo provocò.
Sasuke si umettò le labbra con la lingua e stette un attimo in silenzio, con le mani che strinsero un po’ più forte il suo ginocchio.
“Ma non lo abbiamo… almeno mi sembra” replicò, cauto.
In realtà avrebbero avuto almeno un milione di motivi per non voler uscire dal letto, se fosse dipeso da lui, ma ci stava andando coi piedi di piombo sebbene l’altro lo stesse sfidando.
Gaara lo guardò e decise che gli avrebbe cancellato quel sorriso irritante dalla faccia: quella volta avrebbe avuto lui l’ultima parola, non Sasuke.
Senza ulteriori indugi, senza sprecare altro fiato o tempo, chinò il busto in avanti e lo baciò. Posò le labbra sulle sue e le dischiuse con la lingua, sentendo l’inebriante sapore di brandy che vi aleggiava e gli diede alla testa, non facendogli capire nient’altro. Doveva essere per forza colpa del liquore perché, anche se si erano già baciati, Gaara non aveva mai avvertito quella potenza, i capelli sulla nuca che si rizzavano, le braccia che parevano tremare per i brividi e la sua presenza così reale e vicina.

Cosa sta succedendo?
Si guardarono, coi respiri concitati, le labbra appena un po’ gonfie e umide. Gaara si era messo in ginocchio davanti a lui senza nemmeno rendersene conto, mentre Sasuke aveva aperto le gambe per permettergli di avvicinarsi.
Gaara alzò un braccio e la sua mano affondò tra i capelli scuri, scostandogli la frangia dalla fronte; non li tirò come aveva fatto altre volte in passato, ma fu un movimento dolce, accorto, di cura, qualcosa di nuovo come quello che si stavano trovando a riscoprire e condividere.
“Abbiamo un motivo per non alzarci dal letto domani mattina” gli disse, osservando i suoi occhi scuri accendersi, tuttavia l’espressione rimase guardinga, così come la voce quando chiese:
“Solo domani mattina?”
La mano di Gaara scese a disegnargli la forma delle sopracciglia, il contorno del naso dritto e sottile, la curva dello zigomo in una riscoperta di quei lineamenti che gli parevano nuovi, come se non vi avesse mai indugiato sopra prima di quel momento.
“Domani mattina è un inizio – sussurrò baciandogli una guancia e spostandosi verso la sua bocca – l’inizio di quello che vogliamo.”
Le loro labbra si sfioravano, i respiri si mescolavano, come se fossero l’unico ossigeno di cui avevano bisogno e Sasuke si stava perdendo nel suo calore, tra quei capelli di fiamma che lo bruciavano e gli avevano incendiato qualcosa dentro.
“Voglio te” mormorò muovendo le labbra contro le sue ad ogni lettera. Era sempre stato schietto e sicuro dei propri bisogni, ma mai come allora. Quando annullarono la distanza già inesistente e il bacio assorbì tutta la loro attenzione, Sasuke sentì di avere tutto quello che gli serviva.
In quei mesi aveva sognato di poter stringere di nuovo Gaara, aveva combattuto contro quei desideri e se stesso, ma aveva smesso di lottare, di negarsi ciò che poteva renderlo felice perché non avrebbe reso felice qualcun altro. Ora che lo aveva tra le braccia e lo baciava, capì di non essersi mai sentito più completo e in pace come allora, nonostante la mente e il cuore in subbuglio.
Fino a quel momento i loro movimenti erano stati cauti, lenti, misurati, non privi di una certa grazia e morbidezza, ma dopo quel bacio fu tutto diverso. Presero a spogliarsi con urgenza, tentando però di continuare a baciarsi, goffi e impacciati come ragazzini alle prime esperienze. Risero quando una ciocca di capelli di Sasuke si incastrò nella cerniera della maglia, o quando per poco non diede una ginocchiata a Gaara mentre era intento a stendere le gambe per togliersi i pantaloni. Eppure anche quegli imprevisti non ruppero l’atmosfera che si era creata, bensì sembrarono intensificarla perché erano insieme, impazienti, si sorridevano e in futuro avrebbero ricordato ogni secondo, ogni movimento di quella serata davanti al caminetto in cui si erano riscoperti due ragazzini ubriachi di felicità.
Con solo i boxer indosso, Gaara si mise sopra Sasuke, con le ginocchia allargate attorno ai suoi fianchi, il busto chinato che sfiorava quello dell’altro. Gli stava leccando il collo e stava arrivando vicino all’orecchio, in quel posto speciale e nascosto tra il lobo e la nuca, così sensibile e dove sembrava essersi raccolto tutto l’odore della pelle di Sasuke che gli diede alla testa. Lo morse piano, vi passò la lingua sopra, lo arrossò con cura per poi sussurrare.
“Toccami, Sasuke.”
Aveva sentito le sue mani posarsi incerte sulle proprie anche e poi rimanere bloccate, ma dopo quelle parole presero a muoversi senza più indugi, sicure di essere desiderate.
Sasuke era elettrizzato: Gaara si stava lasciando carezzare da lui, non gli aveva posto alcun veto, anzi lo voleva e lui esultava dentro di sé per quel privilegio concesso solo ad un altro uomo, lo sconosciuto che lo aveva avuto per primo. Sentì le cicatrici sottili sulle spalle e la schiena, le riconobbe e le carezzò con calma, come se facessero ancora male e lui potesse lenirle coi suoi polpastrelli caldi. Avvertì le vertebre più sporgenti di come ricordava e ciò lo rese più consapevole del tempo passato, di come fossero diversi dal Sasuke e Gaara che si erano conosciuti per caso una sera e non erano stati all’altezza dei loro sentimenti. Era tutto diverso, stavolta sarebbe andato tutto bene.
Continuarono a baciarsi, a toccarsi, mai sazi, con la mente, le mani, le orecchie, la bocca e il naso completamente invasi dalla presenza dell’altro. Anche il fuoco stava morendo, ma loro non se ne accorgevano.
A un certo punto, però, un brandello di lucidità si fece largo nella testa confusa di Sasuke che sentiva l’urgenza di avere qualcosa di più: non gli bastava più solo baciarsi e carezzarsi, nemmeno masturbarsi a vicenda era lontanamente sufficiente.
“Gaara… –  ansimò tra le labbra gonfie – io… noi, non abbiamo niente.”
L’altro lo guardò interrogativo, non comprendendolo e per Sasuke fu difficile trovare saliva nella bocca secca e razionalità nella testa per fare un discorso più sensato. Si mise seduto, con l’altro a cavalcioni sopra di sé, e trovò davvero complicato non fissarlo e concentrarsi.
“Non ti ho invitato con queste intenzioni. Sul serio, non credevo saremmo arrivati a questo punto e non ho lubrificante, né preservativi, tu?”
Gaara sbarrò gli occhi e gli posò la fronte su una spalla:
“Cazzo, non ci stavo pensando. In realtà non pensavo proprio a niente – ammise – non ne ho, non giro nemmeno con un preservativo nel portafogli, perché è quello il problema, più che il lubrificante.”
Si guardarono negli occhi, incerti, consapevoli che non si sarebbero accontentati di niente di meno, entrambi volevano andare fino in fondo, ma in quella casa non c’era niente e l’idea di separarsi per rivestirsi e uscire pareva intollerabile.
“Dovresti mettere i preservativi nella lista della spesa del custode” scherzò Gaara baciandogli il mento, perché non riusciva a stargli lontano a lungo.
Nonostante tutto Sasuke rise, anche se avevano le erezioni pulsanti, il desiderio di andare avanti e di non fermarsi, quell’intermezzo tanto imbarazzante li faceva ridere, era così squisitamente umano da essere terribilmente dolce.
Nessuno dei due credeva che sarebbero riusciti ad arrivare a quel punto, si erano sorpresi a vicenda e avevano abbattuto i muri residui che li avevano divisi.
“Io non ho mai fatto sesso non protetto – disse Sasuke mentre l’altro continuava a baciargli il collo – e tu?”
Gaara sollevò la testa e poi la scosse, guardandolo:
“Anch’io, mai fatto senza.”
Persino Kankuro, nel suo egoismo adolescenziale, si era premurato di pensare alle protezioni adeguate.
Sasuke chinò appena la testa, imbarazzato, con le orecchie rosse che poco avevano a che vedere col calore della stanza.
“Beh, per stavolta allora potremmo anche fare senza… cioè, credo. Cazzo, non ci sto capendo più niente” sospirò, portandosi una mano alla fronte e stendendosi poi sul soffice tappeto.
“Credo proprio che stavolta sarà speciale per vari motivi” sorrise Gaara. Vedere Sasuke così confuso e in qualche modo arrendevole era veramente un privilegio, ma lo capiva: era nelle sue stesse condizioni. Voleva solo entrare dentro di lui, sentirsi avvolgere e suggellare quell’intesa ritrovata.
Riprese a baciargli il collo e poi un capezzolo, mentre più in basso le sue mani lo masturbavano, ma Sasuke non rimase certo passivo e fece lo stesso con lui. Ci volle poco per entrambi per giungere all’orgasmo, era da troppo che lo agognavano, tuttavia la loro fame non si placò, sembrò anzi venire solo pungolata e Gaara non indugiò ulteriormente: raccolse un po’ di sperma e, grazie ad esso, iniziò a penetrare Sasuke con le dita.
Lo fece lentamente, dandogli il tempo di abituarsi ed eccitarsi nuovamente: anche se non se lo erano detti, era certo che non fosse stato a letto con nessun’altro e non voleva fargli male, il dolore non doveva entrare a far parte del loro bagaglio di ricordi per quella sera.
Si riscoprì emozionato, persino spaventato da quella responsabilità, ma senza alcun desiderio di scansarla. Voleva Sasuke, voleva il suo corpo, i suoi baci, la sua bocca da cui potevano uscire anche parole crudeli, ma anche argute, divertenti, preziose. Voleva i suoi contrasti e le contraddizioni che si portava dietro, voleva conoscerle meglio, voleva tutto di Sasuke, le sue paure e la sua felicità.
Quando lo penetrò gli sembrò di non aver mai sentito niente di tanto intenso, la sua carne era calda, lo stringeva in un modo che era così intenso da essere quasi doloroso, perché come poteva esistere qualcosa di tanto bello? Come lo si poteva affrontare senza impazzire? Era impossibile e fu quanto successe.
“Non ti permetterò più di allontanarmi”
Ansimò contro il suo orecchio e avvertì le sue mani stringergli i capelli rossi, le gambe allacciarsi attorno ai fianchi e le spinte con cui gli andava incontro divenire più imperanti, urgenti. Sasuke lo pretendeva e Gaara non si tirò indietro, continuò ad affondare e, quando vide il suo viso distorcersi nell’orgasmo, il torace rimanere bloccato qualche istante, incapace di respirare, si lasciò andare a sua volta. Chiuse gli occhi e non pensò a niente, era come un’anfora vuota che veniva riempita dalle sensazioni, dagli stimoli, dall’odore della pelle di Sasuke, dal suo corpo che lo accoglieva. Era in mezzo a una tempesta, l’acqua gli scrosciava addosso e lui si riempì sempre di più, il livello crebbe finché fu impossibile contenere le emozioni e, semplicemente, traboccò. Buttò la testa all’indietro e si riversò nel suo corpo, gemette mentre nella testa gli esplodevano i colori.
“I fuochi d’artificio…” mormorò perso in un altro mondo, in un ricordo dimenticato.
Era scappato dal collegio, c’era una festa in paese quella sera, lui e pochi altri si erano piazzati vicino al punto dove i fuochi d’artificio erano stati disposti. Le sue orecchie erano state invase dal rumore degli scoppi, gli occhi lacrimavano per la forza devastante dei colori e delle esplosioni che riverberavano contro le retine. Si era perso in quello spettacolo che lo aveva stordito, conquistato, fatto innamorare con la sua potenza e maestosità.
Quella sera accadde lo stesso quando il suo orgasmo esplose: Gaara si ritrovò di nuovo nell’epicentro, schiantato e sopraffatto dal mondo che scoppiava e andava a pezzi attorno a lui.
Quasi crollò addosso a Sasuke, stendendosi sopra al suo corpo mentre ancora gli era dentro e l’altro non lo scansò, bensì gli passò le braccia attorno al collo e lasciò che rimanesse così, a respirarlo.
Gaara si sentì rimpicciolire e scivolare fuori, anche se contro la sua volontà perché non era mai stato così bello fare l’amore o entrare dentro a qualcuno, perché non era stato solo il suo cazzo a farsi largo dentro di lui, né era stato solo lo sperma a macchiare entrambi.
Lentamente rotolò al suo fianco, con lo sguardo fisso al soffitto, ancora incredulo.
Il fuoco si era spento e la stanza era in penombra, con solo una lampada accesa, ma a lui sembrava di avere ancora gli occhi pieni di colori e luci.
Ad un certo punto sentì Sasuke ridacchiare, girò una testa pesantissima verso di lui, vedendo in effetti la sua faccia divertita e le risa che sembravano proprio non volere smettere.
“Per fortuna… per fortuna… che il tappeto è bianco.”
Gaara rimase interdetto qualche istante, poi afferrò il significato della sua frase e scoppiò a ridere a sua volta. Si tenne la pancia con le mani e gli occhi chiari si riempirono di lacrime, si voltò su un fianco per poggiare una mano su una spalla di Sasuke.
“Forse… forse sarà meglio bruciarlo.”
L’architetto continuò a ridere mentre annuiva e andarono avanti ancora per un po’, finché le loro risate non diminuirono fino a cessare, finendo a guardarsi con un sorriso in faccia e gli occhi lucidi. Entrambi si tesero verso l’altro per darsi un bacio, poco più che uno sfiorarsi di labbra, ma più significativo e pieno di quanto potesse sembrare.
Rimasero a fissarsi qualche altro momento, poi Sasuke si sedette dicendo:
“Sarà meglio che vada a fare un’altra doccia.”
“Perché invece non facciamo il bagno insieme? La vasca è grande” propose invece Gaara e all’altro piacque la sua proposta.
Si alzarono su gambe che sembravano di gelatina e poco dopo erano immersi nell’acqua calda e piena di schiuma, l’uno di fronte all’altro.
Gaara sorrise, un sorriso segreto come di chi la sapesse lunga e Sasuke lo guardò interrogativo, finché non parlò:
“Sai, ieri sera ero qui a fare il bagno e ho immaginato che ci fossi anche tu con me.”
“Quindi in pratica sto esaudendo una tua fantasia?” domandò assottigliando gli occhi.
“Fantasia è il nome giusto, dato che mi sono eccitato e poi masturbato. Proprio qui, pensando a te” gli rivelò Gaara senza alcun imbarazzo ma con un’espressione maliziosa che l’altro trovò eccitante.
Sasuke quindi allargò le braccia, poggiandole sul bordo della vasca e lo fissò con sguardo attento, interessato, dicendo:
“Perché non mi fai vedere allora?”
“Dovrei masturbarmi per te?”
“Sì, esaudiresti una delle mie fantasie”
Gaara sorrise, scostando la schiuma da sopra al suo corpo:
“Direi che mi sembra giusto. Un compromesso.”
“Un ottimo compromesso” ribadì Sasuke senza perdersi un solo suo movimento.

Ehi doc, ho imparato persino a scendere a compromessi, incredibile, vero? Forse mi merito una fabbrica di cioccolato fondente e non solo un cioccolatino.
Tuttavia la mente si Sasuke smise presto di pensare al suo psicologo, cioccolatini o amenità varie, rapito dallo spettacolo davanti ai suoi occhi; rapito da Gaara che lo fece riscoprire un ostaggio privo di desiderio di essere liberato.

 

 

 

L’angolino oscuro: Un capitolo interamente dedicato a Sasuke e Gaara, ci voleva, no? Forse era già abbastanza chiaro dal capitolo precedente come sarebbe andata a finire, però fino a che non è successo davvero nemmeno i protagonisti avevano la certezza di ciò che sarebbe accaduto, solo un presentimento e quelli… non è sempre detto che si realizzino.
Per quanto riguarda il riferimento alle cicatrici di Gaara, è un particolare che ho spiegato nella OS di cui questa long è il sequel, se volete leggerla è qui, ma riassumendo sono dovute a delle punizioni subite in orfanotrofio. 
Per quanto riguarda la parte sulla neve, spero di non avere scritto castronerie perché io non ho mai sciato in vita mia e quindi mi sono fatta consigliare dalla mia Zucchetta Felice che è più esperta e ho fatto qualche ricerca.Spero che il capitolo e la storia in generale continui a piacervi e appassionarvi, io mi sono affezionata a questi due teste dure, ma non preoccupatevi: torneranno anche Itachi e Shisui.
Alla prossima!

 

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Capitolo 17
*** 17 - Oh Darling, what have I done ***


Well I've been away from you too long
And all my days have turned to darkness
And I believe my heart has turned to stone

(The White Buffalo)

 

 

Oh Darling, what have I done

 

 

La cucina era invasa da aromi succulenti, da far venire l’acquolina in bocca. Il cuoco controllò che il pollo fosse rosolato al punto giusto, le verdure saltate in modo da rimanere croccanti e il vino pronto per essere stappato; si ritenne sufficientemente soddisfatto da concedersi un po’ di relax prima che arrivasse il suo ospite.
Itachi si accomodò sul divano e prese il libro del momento in mano, nonostante la curiosità di sapere come andasse avanti e scoprire quale scelta cruciale avrebbe compiuto il protagonista, non riuscì a leggere nemmeno una riga. Ripensava al fratello e al giorno precedente. Lui era appena tornato dal tribunale e lo aveva trovato in ufficio a parlare con Gaara dei lavori di ampliamento, ma i due ragazzi erano totalmente diversi dall’ultima volta in cui li aveva visti insieme. Erano in piedi, vicini, rilassati, non sembravano più due magneti che si respingevano, bensì si attraevano. Aveva capito che il loro weekend doveva essere andato piuttosto bene, sebbene lo avesse già pensato quando il lunedì aveva visto il segretario con un’espressione serena mai sfoggiata prima.
Una volta finito, Sasuke lo aveva raggiunto e Itachi gli aveva proposto di cenare insieme la sera stessa, ma il fratello aveva fatto una di quelle espressioni che gli vedeva sempre da bambino, come di chi l’aveva fatta grossa ma non sapeva come dirlo. Itachi, controllandosi per non ridere, gli era andato in soccorso dicendo che anche un’altra sera sarebbe stata perfetta e l’altro si era subito rasserenato, senza rendersi conto di quanto fosse stato comico quel momento.
Per quel motivo ora Itachi si ritrovava seduto su quel divano ad aspettarlo, aveva preferito una cena a casa perché aveva l’impressione che sarebbero potuti saltare fuori alcuni argomenti abbastanza personali.
Il campanello suonò e lui gettò un’occhiata all’orologio: Sasuke era puntuale, probabilmente quello non sarebbe mai cambiato.
Andò ad aprire e si se lo trovò di fronte con la sciarpa tirata su fino a metà faccia, l’espressione imbronciata per quel poco che si vedeva e una confezione di pasticceria tra le mani che gli rifilò in fretta, neanche si trattasse di una granata innescata.
“È una torta al cioccolato – esordì – niente glasse diabetiche che ti piacciono tanto, forse anch’io riesco a mangiare un pezzo di questa”
“Buonasera Sasuke, ben arrivato. Andata bene la tua giornata? A me sì, grazie per averlo chiesto”
Il ragazzo sbuffò mentre appendeva il cappotto a un gancio vicino l’ingresso, consapevole dei suoi modi bruschi.
“Sono stato in ufficio fino a poco fa, oggi non ho avuto nemmeno tempo di respirare”
Ed era arrivato puntuale, trovando persino il tempo per passare in pasticceria, doveva aver veramente fatto le corse per riuscire in tutto. Itachi sorrise, probabilmente nemmeno quel lato così perfezionista del fratello sarebbe mai cambiato: quel cocciuto e giovane uomo si sarebbe ammazzato per far filare le cose nel modo in cui diceva lui.
Andarono in cucina e il padrone di casa mise il dolce in frigo, dopo di che stappò il vino e ne offrì un bicchiere all’altro dicendo:
“Ora puoi rilassarti un attimo allora, la cena è pronta e non vedo l’ora di assaggiare la torta al cioccolato fondente che hai tanto gentilmente portato”
Gli sorrise, sedendosi di fronte a lui e Sasuke fece una smorfia dopo aver bevuto un sorso.
“Non sono certo di rilassarmi stasera”
“Ah no?”
“No – scrutò il fratello maggiore – non credo che questa cena sia così disinteressata”
Itachi posò il bicchiere e scrollò appena la testa:
“Sasuke, mi reputi davvero una brutta persona”

E non ho bisogno che ci sia tu a ricordarmelo, lo so già. Shisui mi ha mostrato la verità.
Soffocò quella riflessione perché, almeno quella sera, doveva smetterla di tormentarsi a riguardo e di pensare al cugino che non sentiva da giorni, da quel maledetto venerdì. La sua attenzione doveva essere tutta per il fratello, così continuò:
“Se hai voglia di raccontarmi qualcosa sono qui, altrimenti mi sembra di averti costretto a parlarmi in un’unica occasione in tutti questi anni. Col tuo psicologo hai ancora da lavorare un po’ su questo atteggiamento di autodifesa”
Si alzò per controllare che le pietanze fossero sufficientemente calde per poi servirle, dando le spalle a Sasuke che doveva fare i conti con le sue parole.
Itachi era gentile, aveva modi pacati per dire la verità, ma non la negava e la serviva sempre ai suoi interlocutori; nessuna bugia confortante sarebbe uscita da quelle labbra, solo la realtà dei fatti.
“Lo so” disse soltanto Sasuke. Non si scusò nemmeno quella volta ma, a differenza di altre, non fu per arroganza, bensì perché aveva capito che non poteva, né doveva più domandare scusa per quel che era o per il suo carattere. Essere quello che era non era più una colpa.
Iniziarono a cenare e Itachi gli domandò del progetto del grattacielo, nonostante fosse un avvocato, aveva frequentato un anno di architettura all’università e poi, crescendo nella loro famiglia, era impossibile non essere comunque avvezzi della materia.
Sasuke ne parlò con entusiasmo, il suo progetto aveva riscosso grande approvazione ed era piaciuto molto anche alle autorità cittadine che avevano in programma la riqualificazione di alcune aree urbane più degradate. Lo studio Uchiha si sarebbe occupato di quel progetto, Fugaku era stato molto compiaciuto da quel risultato, stabilendo che il figlio minore sarebbe stato a capo di quel futuro lavoro.
Itachi fu veramente felice di udire certe novità e di vedere come finalmente Sasuke stesse mostrando le sue qualità, ora che non erano più offuscate dalle sue. Il fratello era eccezionale, ma era sempre stato sminuito dal loro confronto, cosa che Itachi aveva sempre odiato fino a prendere la stupida decisione di allontanarsi da Sasuke perché, se fossero stati lontani, nessuno avrebbe mai potuto paragonarli.
Però mentre cenavano assieme, rilassati, si dispiacque di quella sua decisione passata e fu invece grato che le cose in qualche modo si fossero poi messe a posto, di non essere mai riuscito a uccidere l’affetto che Sasuke provava nei suoi confronti. Chissà se anche con Shisui avrebbe potuto risolvere, però per farlo occorreva che parlassero e lui non era ancora pronto.
Mangiando la torta, parlarono di altri argomenti, dei genitori che quell’anno avrebbero festeggiato trent’anni di matrimonio, della festa che avrebbero organizzato e di altre faccende famigliari, almeno finché Sasuke non iniziò a giocherellare con il dolce rimasto sul piatto.
“Hai raggiunto il tuo limite quotidiano di zucchero?” scherzò Itachi.
Il minore posò la forchetta e si pulì le labbra col tovagliolo. In quel momento non sembrava più il giovane uomo in carriera orgoglioso che aveva parlato fino a poco fa, quanto un ventenne incerto che non sapeva bene che direzione far prendere alla propria vita.
“No, stavo pensando a una cosa – guardò il fratello negli occhi – alla festa ci saranno tutti. Ognuno porterà le proprie mogli, i mariti, i fidanzati… ma io non potrò portare Gaara”
Anche Itachi si disinteressò della torta e incrociò le mani davanti a sé, per posarvi sopra il mento. Ricambiò lo sguardo del fratello, serio, quasi marziale come quando era in tribunale, ma poi un sorriso apparve sul suo viso e disse:

“E così avete risolto le cose tra di voi, bene, bene. Sono passati solo pochi giorni dal weekend e tu già pensi all’effetto che potrebbe fare presentarlo in famiglia e cose simili… quindi è più seria di quanto credessi, o sbaglio?”

Sasuke arrossì di botto e sobbalzò addirittura sulla sedia, imbarazzato che il fratello avesse potuto leggere così tanto tra le righe. Non era stato difficile in realtà, ma quando aveva parlato non aveva proprio riflettuto, dicendo sinceramente ciò che gli era passato per la testa.

“Accidenti a te, perché devi metterla giù così?” borbottò guardando fuori dalla finestra.

“E in che altro modo dovrei farlo, Sasuke? Ho solo detto la verità, no? Mi sembrava avessimo superato la fase delle bugie e della negazione”

Nascose il sorriso che gli stava nascendo spontaneo. Era felice, era sinceramente felice per il fratello perché, al di là dell’imbarazzo momentaneo, lo vedeva sereno, a proprio agio, le spalle erano più rilassate e non si curvavano sotto il peso del mondo intero ora che aveva trovato qualcun altro con cui condividerlo. Probabilmente niente lo avrebbe reso più felice di ciò, di vedere il suo amato fratellino in pace con se stesso e non rimpianse di aver lasciato andare Gaara; era stata la decisione giusta.

Sasuke si voltò a guardarlo, con ancora un velo di rossore e l’espressione corrucciata:

“Tu dici sempre e solo la verità”

Itachi sospirò, pensando che qualcun altro avrebbe obiettato. Bandì nuovamente il pensiero di Shisui con una scrollata di spalle e rispose:

“Vorrei che fosse così, ma… allora, raccontami, va davvero tutto bene? L’altra sera non volevi venire a cena con me perché dovevate uscire insieme, giusto?”

Sasuke annuì e nel suo imbarazzato turbamento non dedicò troppa attenzione alla frase lasciata a metà dal fratello, ansioso di spiegargli come fossero andate le cose e al contempo combattuto dalla sua naturale reticenza.

“Beh, ecco… –  mormorò cercando di trovare un compromesso – passando un po’ di tempo insieme da soli siamo riusciti a trovare un’intesa, diciamo così… sono passati solo pochi giorni, ma mi sembra che stia andando tutto bene. Stavo pensando che forse dovrei presentarlo di nuovo a Naruto; per bene stavolta”

Itachi annuì, riprendendo a mangiare il dolce con aria dotta, consapevole che doveva essere proprio seria se il fratello aveva deciso di coinvolgere il suo migliore amico, ciò faceva presagire che avesse intenzione di aprirsi anche con gli altri in un futuro non troppo lontano.

“Mi sembra un’ottima idea, credo potresti presentarlo senza problemi anche a Hinata, lei è una Hyuga un po’ atipica e sarebbe solo felice per voi, Gaara non avrebbe alcun problema a lavoro. Ma per sicurezza chiedi pure prima a Naruto” gli disse, anticipando e smontando qualsiasi sua protesta, ben sapendo come funzionasse il suo cervellino un po’ bacato.

Sasuke infatti aprì e richiuse la bocca un paio di volte, per poi rimanere a fissarlo mentre spazzolava via la sua porzione di dolce e poi ne prendeva un’altra.

“Farò così” disse soltanto.

Itachi, con l’aria soddisfatta di un grosso gatto steso al sole con la pancia piena, gli sorrise e decise di stuzzicare un po’ la piccola vipera velenosa che gli sedeva di fronte:

“Dimmi, Sasuke, a seguito della vostra intesa ritrovata c’è qualcosa che devo evitare nella casa in montagna? Tipo il divano, il tavolo della cucina…”

“Itachi! – esclamò l’altro saltando in piedi – Se non la finisci me ne vado!” lo minacciò, ma si risedette e incrociò le braccia, offeso, sentendo la risata profonda del fratello riecheggiare nella stanza. Lo sbirciò di sottecchi e lo vide con gli occhi luminosi, la bocca sporca di cioccolato e il viso pieno di gioia e pensò che non lo aveva mai visto più bello o umano.

“Il tappeto davanti al caminetto” gli rispose, con le labbra che suo malgrado si stiravano in un sorrisetto.

“Ottima scelta, molto romantico – si complimentò – ti ho mai detto di non sederti sulla poltrona verde?”

“Cazzo, la mia preferita, ma che schifo! Me ne vado!” esclamò saltando di nuovo in piedi, guardandolo in faccia. Rimasero seri, a squadrarsi, e poi all’improvviso, come se qualcuno avesse premuto un bottone speciale sulle loro schiene, scoppiarono a ridere contemporaneamente. Si guardavano e ridevano fino alle lacrime, insieme. Con le facce rosse, le briciole di torta al cioccolato sulla bocca e il desiderio di non essere da nessun’altra parte se non lì.

 

***

 

“Sei qui, ti ho trovato finalmente”
Itachi non si voltò avendo riconosciuto la voce, ma continuò ad osservare l’intrico di cavi che ancora usciva dalle prese elettriche, le finestre e le porte montate ma con ancora la pellicola protettiva.
“Mi spieghi che sei venuto a fare qui?” gli domandò Gaara cercando di non scivolare sui fogli di giornale sparsi a terra per non sporcare il pavimento nuovo con la pittura fresca.
Solo quando sentì che era al proprio fianco, Itachi girò la testa per osservare i suoi occhi acquamarina che lo fissavano incuriositi.
“Mah, niente di che. Stavo solo ammirando il risultato del progetto di Sasuke e pensavo”
Gaara si guardò un po’ attorno: i lavori di ristrutturazione per l’ampliamento dello studio erano quasi finiti, era ormai solo questione di giorni e di sistemare gli ultimi dettagli.
“È venuto bene – concluse, spostando lo sguardo di nuovo sull’avvocato – a che pensavi? Puoi dirmelo o sono i tuoi pensieri segreti?”
Itachi rise piano, in fondo un po’ sorpreso da come quel ragazzo silenzioso avesse imparato in fretta a conoscerlo; quel giorno non si sentì a disagio o troppo esposto dinanzi a quegli occhi chiari.
“Sciocchezze, sciocchezze che però mi mancheranno. Tra qualche giorno mi trasferirò in questo ufficio e non ti vedrò o sentirò più alle prese coi nostri clienti pazzi, gli scocciatori o con la compagnia dell’elettricità, l’autonoleggio e le mille persone con cui sei costretto a parlare tutti i giorni. Sarà tutto più silenzioso e in un certo senso vuoto, era divertente commentare assieme a Hinata le tue telefonate più assurde”
Gaara annuì con la testa e rise a sua volta:
“Vero, hai ragione, ci vedremo sempre tutti i giorni ma non sarà lo stesso. Anch’io tornerò ad essere solo e l’ufficio mi sembrerà enorme senza di voi; in realtà anche a me piace avervi vicino”
Non c’era più il sorriso sul suo viso, ma un’espressione malinconica perché quella breve parentesi stava per concludersi e, anche se nessuno stava per morire o per trasferirsi all’altro capo del mondo, non sarebbe più stata la stessa cosa; era una consapevolezza dolceamara.
Itachi gli carezzò affettuosamente i capelli rossi e, sorridendo, aggiunse:
“Per fortuna non sei solo, ora hai Sasuke”
Erano passati un paio di giorni dalla cena col fratello ma questa era la prima volta in cui si trovava a parlare da solo con Gaara. Questi intanto era arrossito lievemente e aveva chinato il capo sotto la carezza accorta di quella mano affusolata.
“Mi aveva detto di averti parlato… non so cosa dire, Itachi” ammise senza girare attorno alla questione.
L’avvocato strinse con un po’ più forza le ciocche rosse prima di lasciarle andare e riportare la mano lungo i propri fianchi fasciati da un pantalone elegante.
“Cosa c’è da dire, Gaara? Tu e Sasuke vi piacete, anzi provate dei sentimenti e, nonostante i problemi del passato, vi siete ritrovati. Non posso che essere felice per voi, questo è tutto quello che c’è da dire.”
Osservò la sua espressione incerta, come se stesse cercando le parole per esprimere qualcosa, ma lo anticipò “L’Itachi e Gaara che si sono baciati mesi fa erano due persone diverse, che avevano deciso di regalarsi un momento bello, o di salutare in modo altrettanto bello la possibilità di essere qualcosa in più che colleghi o amici – poggiò la fronte contro la sua – potremmo parlare fino a seccarci la gola delle infinite possibilità. Se tu non avessi mai conosciuto Sasuke, se Sasuke non si fosse mai comportato da stronzo, se ci fossimo conosciuti per primi noi due, se ti avessi baciato prima… posso andare avanti ancora a lungo, Gaara. Ma la realtà è solo una: ora stai con Sasuke e io sono felice nonché orgoglioso di voi, per essere stati tanto maturi, lasciandovi alle spalle le incomprensioni e a non permettere che vi impedissero di vedere i vostri reali sentimenti”
Non spostò la fronte dalla sua, né l’altro si mosse, continuando a guardarsi da quella disturbante vicinanza. Itachi poté addirittura riflettersi in quelle iridi chiare, ma non gli piacque quello che vide:  un ipocrita che voleva darsi un tono e apparire migliore di tutti gli altri. Quelle parole non potevano essere vere anche per lui e Shisui? Come poteva lasciare che il loro rapporto di anni e anni si lacerasse e finisse a quel modo, senza nessun tentativo di aggiustare le cose? Ci erano riusciti Gaara e Sasuke che si conoscevano solo da mesi, Shisui valeva davvero così poco da non meritare nemmeno un tentativo?
I pensieri di Itachi vennero però interrotti dalla voce di Gaara e lui li accantonò, ma quella volta sapeva che sarebbe stato solo per poco.
“Quindi è così che si comporta davvero un fratello” sospirò abbassando le palpebre e all’avvocato era sembrato di veder luccicare delle lacrime.
“Beh sì, dovresti saperlo anche tu, no?” Era rimasto un po’ interdetto da quella reazione e dalle sue parole. Per quanto pessimo, il rapporto ormai rotto con suo fratello non poteva esserlo stato così orribile da non conoscere quell’affetto fraterno di cui lui aveva appena dato una splendida dimostrazione.
“Kankuro… noi… lascia stare”
Gaara fece un passo indietro, interrompendo il loro contatto ed aprì nuovamente gli occhi che risultarono però asciutti.

Kankuro.
E così quel fantomatico fratello misterioso aveva finalmente un nome; per quanto sembrasse fuori dalla vita di Gaara, a Itachi parve che esercitasse ancora una potenza piuttosto forte, forse uno di quei passati che non si possono semplicemente dimenticare, ma che ti lasciano una cicatrice indelebile addosso. Con le giuste cure la cicatrice sarebbe sbiadita, si sarebbe vista sempre di meno, ma se lasciata a se stessa sarebbe rimasta sempre lì, a mostrare che la pelle era stata lesa, che quel corpo non era completamente integro come quando era nato.
“Come vuoi, ma lo sai che per qualsiasi cosa io ci sono sempre e adesso c’è anche Sasuke” gli ricordò. Forse non era compito suo curare quella cicatrice, ma poteva sempre indirizzarlo da chi possedeva i giusti medicamenti; anche quello era compito di un fratello maggiore.
“Già, certo…” annuì sbrigativamente Gaara uscendo dalla parte nuova non ancora completata dello studio e dirigendosi nel proprio ufficio, seguito dall’altro. C’era silenzio, all’infuori di loro due non c’era nessuno visto che era la pausa pranzo.
Itachi come d’abitudine prese il suo cappotto per uscire e Gaara gli augurò buon pranzo, ma lui, stringendosi la sciarpa attorno al collo, rispose:
“Mi servirebbe più un ‘buona fortuna’ ma grazie lo stesso. A più tardi.”
Uscì lasciando il segretario interdetto, perché non sapeva che l’altro stava andando da Shisui, non sapeva quello che si erano detti quel venerdì sera, né quello che Itachi stava per fare. Il problema era che non ne era completamente sicuro nemmeno Itachi.

 

***

 

“Mi spiace, siamo chiusi per la pausa… oh, è lei signor Uchiha”
Itachi sorrise alla solerte segretaria che, sentendo la porta aprirsi, si era alzata per avvisare l’incauto cliente, ma si era ovviamente bloccata riconoscendolo. Lo aveva visto mille volte in quell’ufficio assieme al suo capo, Shisui Uchiha.
“C’è mio cugino? Vorrei rapirlo e portarlo a pranzo” domandò affabile.
La donna sospirò piano, probabilmente incantata all’idea di poter essere rapita da qualcuno come lui, sicuramente sarebbe stata l’ostaggio più docile del mondo.
“Certo, è nel suo ufficio. La annuncio e…”
“Non serve – la interruppe Itachi sempre col suo sorriso sulle labbra – conosco bene la strada e poi lei si stava mettendo il cappotto per uscire, non vorrei che sprecasse altro tempo della sua pausa pranzo per me”
La donna annuì, pur pensando che avrebbe speso anche tutta la sua giornata per lui, ma afferrò la borsetta ed uscì. Itachi, rimasto solo, andò a chiudere a chiave l’ingresso e prese un respiro profondo; la porta chiusa che vedeva alla fine del corridoio davanti a sé era la sua meta, quella e chi c’era dietro. Era agitato, sensazione nuova e sgradita, ma non poteva proprio più tirarsi indietro, aveva atteso sin troppo e sperava che non fosse tutto ormai già perso. Non sapeva ancora cosa dire al cugino, la sua unica certezza è che non potevano rimanere in silenzio e lasciar morire ciò che c’era stato tra loro, qualsiasi cosa fosse.
Si guardò attorno e ricordò quando Shisui aveva rilevato quella piccola filiale di un’agenzia assicurativa: era sul punto di chiudere, i suoi conti erano in rosso, era rimasta solo una manciata di fedeli clienti e lui si era trovato con un solo impiegato. Tutti in famiglia gli avevano dato addosso, vedendo in quell’impresa nient’altro che un fallimento assicurato, pronosticando a Shisui il fallimento nel giro di poche settimane, mesi nel voler essere generosi. Il ragazzo non aveva mai prestato troppo ascolto a quelle raccomandazioni, si limitava a sorridere e dire “Si vedrà”. Alla fine era stato lui a far vedere a tutti quei miscredenti di che pasta fosse fatto, quali fossero le sue vere capacità. Aveva trovato sempre più nuovi clienti, i conti si erano risistemati, l’azienda centrale non paventava più la chiusura della filiale che anzi negli anni si era ingrandita, assumendo sempre più personale di cui Shisui era il capo.
Tutti i famigliari all’inizio avevano fatto finta di nulla, ma di fronte all’evidenza si erano limitati a dire che con un Uchiha al comando era un risultato scontato; la verità era che solo Itachi aveva sempre creduto nel cugino. Lo aveva incoraggiato e spronato quelle rare volte in cui si era buttato giù, poi lo aveva visto ributtarsi nella mischia con entusiasmo, tenacia e una testardaggine unica. Adorava vederlo a quel modo, anzi lo amava. Per quanto volesse bene a Sasuke o ad altre persone, il cugino era l’unico che riuscisse a contagiarlo con la sua scarica di adrenalina, con quella vitalità e il sorriso che sembravano non scollarglisi mai di dosso.
Come erano arrivati a quel punto? Quando aveva smesso di credere in lui? Quando aveva smesso di guardarlo sul serio e a darlo invece per scontato?
Avanzò a grandi passi, senza più tentennare o perdere altro tempo, aprì la porta e se la richiuse alle spalle e lo vide con la testa china su alcuni documenti.
“Non eri uscita per… Itachi”
Shisui rimase in silenzio a guardarlo, evidentemente spiazzato e incapace di riprendersi con rapidità dalla sorpresa.
Itachi si avvicinò, si tolse cappotto e sciarpa e li posò su una sedia posta di fronte alla scrivania, per poi accomodarsi con eleganza sull’altra. Accavallò con scioltezza una gamba e infine lo guardò, dicendo:
“Sì, la tua segretaria è uscita, come gli altri. Ci siamo solo io e te qui”
La voce era pacata e controllata, ma le mani erano intrecciate e posate sul grembo altrimenti si sarebbero mosse come impazzite, per tentare di allentare la tensione del ragazzo.
Shisui riuscì a rimettere su un’espressione più controllata, anche se il ritrovarselo davanti così all’improvviso lo avesse scombussolato. Era passata una settimana, esattamente il venerdì prima si erano ritrovati assieme a bere e lui, ubriaco, aveva parlato troppo; quei sette giorni non erano stati sufficienti per smaltire o diluire il peso di quelle parole. Aveva rovesciato una boccetta intera d’inchiostro scuro, ma nemmeno una vita sarebbe bastata per riassorbirlo tutto e far tornare immacolata la superficie macchiata.
“Cosa vuoi, Itachi?” si risolse a domandare alla fine.
“Parlare. Con te”
Shisui fece una specie di smorfia che non ricordava nemmeno lontanamente il suo sorriso. Si poggiò all’indietro contro la poltroncina ergonomica e lo guardò; se avesse avuto una cravatta se la sarebbe di sicuro allentata, ma non le indossava mai e i primi due bottoni della camicia erano già aperti.
“Lo so che non posso rimangiarmi nulla, ma davvero… lasciamo perdere, Itachi. Ero ubriaco ed è un periodo difficile qui a lavoro, ho straparlato. Possiamo limitarci a questo? E ho già detto che ero ubriaco? Davvero, davvero ubriaco”
Itachi con la sua giacca senza una piega e la cravatta perfettamente annodata, guardò i suoi occhi scuri che dicevano molto più delle sue parole. Quegli occhi che tante volte aveva fissato; persino da bambino aveva sempre pensato che i suoi fossero i più belli.
“No” rispose soltanto.
“Che cazzo, Itachi!” sbottò Shisui sbattendo la mano sulla scrivania e facendo cadere a terra una scatolina con delle graffette colorate che si sparsero a terra. “Vieni qui all’improvviso, dici che vuoi parlare ma mugugni due cose in croce. Vuoi parlare davvero? Allora apri la bocca e fallo, io ho detto fin troppo, cazzo!”
Nonostante fosse difficile, continuò a guardarlo e a quel modo si accorse di un fatto straordinario: Itachi era in difficoltà, il rossore sulla punta delle orecchie che sbucavano dalla massa folta dei suoi capelli, i pollici che non stavano fermi un attimo, il piede della gamba accavallata che ciondolava, niente di tutto ciò apparteneva all’imperturbabile e calmo ragazzo che conosceva.
“È che non so bene cosa dire, so solo che voglio parlarti” ammise infatti Itachi e si odiò per quello sfoggio di mediocrità e incapacità, soprattutto in un momento tanto cruciale.
Shisui invece sorrise brevemente e si appoggiò nuovamente allo schienale. Il cugino era lì, per lui, per risolvere il casino che aveva combinato; nemmeno Shisui era certo sulla cosa giusta da fare, ma forse l’unica strada da tentare era quella della verità, non c’era più motivo di nascondere le cose o nascondersi. Bisognava far cadere le ultime foglie di fico che li ricoprivano.
“Nemmeno io so cosa dirti, per questo non ti ho chiamato in questi giorni”
“Credevo fossi arrabbiato con me e non volessi più vedermi” ammise Itachi, mordicchiandosi il labbro inferiore, altro gesto inusuale che però piacque a Shisui. Desiderò alzarsi, stringerlo tra le braccia con forza, baciarlo ed essere lui a mordere quel labbro con gentilezza, per dare piacere e aumentare la voglia, come aveva già fatto in passato, come entrambi erano bravi a fare tra di loro. Rimase però seduto, non mosse un muscolo e si limitò a guardarlo, non era quello il momento; adesso era il momento delle parole che, forse, avrebbero addirittura stabilito che il tempo di quelle carezze era finito.
“Diciamo che quella sera ero abbastanza incazzato, svegliarmi il giorno dopo con i postumi di una sbornia colossale non mi ha aiutato, ma… come dire? Mi sono reso conto subito della cazzata che avevo fatto. No, Itachi, non scuotere la testa, la cazzata l’ho fatta io. In fondo non ti ho mai detto nulla, né i miei comportamenti ti hanno mai fatto credere diversamente, ho avuto vari fidanzati e fidanzate, non ti stavo certo aspettando in monastica attesa. Non puoi leggermi nel pensiero se non parlo e l’altra sera, invece di essere più delicato, sono sbottato come un idiota. Ecco, adesso ho detto tutto e mi sento proprio un perfetto imbecille patetico” sospirò guardando il soffitto e incrociando le dita dietro la testa, facendole scomparire tra i capelli corti e mossi.
Il silenzio li cullò per qualche istante, si udiva il rumore del traffico nonostante i doppi vetri e il ticchettio di un rubinetto che gocciolava nelle vicinanze, se avessero teso le orecchie forse avrebbero sentito anche i loro cuori che non volevano saperne di calmarsi.
“Hai ragione, non posso leggerti nel pensiero, i miei occhi non arrivano a tanto, ma posso leggere altro, i tuoi comportamenti per esempio – disse Itachi che non voleva esularsi dalla sua parte di colpe – tu sei onesto e fedele, eppure hai sempre tradito tutti i tuoi partner ogni volta che ti venivo a cercare senza pensare a queste conseguenze. Venivo da te perché mi ero mollato, o magari solo perché ti volevo e non mi hai mai detto di no; io l’ho semplicemente dato per scontato, senza riflettere su quanto ti sarebbe costato. Non ho nemmeno notato che poco dopo lasciavi sempre i tuoi partner, che idiota cieco, eh? Eppure non è successo una volta sola. Hai mollato persino Annie, credevo che l’avresti sposata”
“Lo credevo anch’io, ma non riuscivo a stare ancora con qualcuno sapendo di averlo tradito, mi sono preso anche qualche schiaffo delle volte”
Fece una risata amara, passandosi una mano su una guancia, come se gli dolesse in quel momento; i suoi occhi erano ancora puntati sul soffitto, mentre sapeva che quelli di Itachi erano su di lui.
“Avrei dovuto intuire qualcosa, non dico capire, ma qualche sospetto avrei potuto anche farmelo venire. Ti chiedo scusa, Shisui”
Itachi era mortalmente serio, perché si era reso conto appieno quanto avesse influenzato la vita del cugino. Se fosse stato capace di tenersi il cazzo nei pantaloni, o perlomeno di far funzionare a dovere quel cervello che tutti elogiavano, a quel punto Shisui avrebbe potuto avere una moglie e dei figli, o semplicemente un fidanzato. Di sicuro non si sarebbe ritrovato single, senza uno straccio di relazione seria all’alba dei trent’anni.
“E cosa dovrei farmene esattamente delle tue scuse, Itachi?” domandò decidendosi finalmente a guardarlo, seppure con la testa inclinata. Le sue parole non furono acide o arrabbiate, come avrebbero giustamente potute essere, furono invece quasi incolore, piatte; ciò ferì maggiormente Itachi che si trovò a stringere forte una mano a pugno, sentendo le unghie premere contro il palmo.
“A un cazzo, non servono proprio a un cazzo” sputò amareggiato, consapevole della loro inutilità e della propria.
“Smettila di darti tutte le colpe, sono sicuro che lo stai facendo. È stata soprattutto colpa mia, potevo farmi uscire il fiato prima o mettermi l’anima in pace e cercare di dimenticarti, invece non ho fatto niente di tutto ciò. Mi merito ciò che mi sta accadendo e che mi è successo – si alzò e si andò a mettere di fronte a lui, poggiando il bacino contro la scrivania – basta con i rimorsi e i rimpianti, con i se e i ma, con avrei potuto o avrei dovuto. Ne sono stufo marcio e non cambieranno un bel niente. Dobbiamo pensare al futuro, è l’unica cosa che possiamo fare”
Si interruppe e guardò Itachi dall’alto, scrutando i suoi occhi scuri che però lo fissavano in attesa. “Immagino che ormai tra di noi sia finita, in quel senso perlomeno… però possiamo ancora essere amici, lo siamo sempre stati in fondo. E poi, se non ci pensassi io a stapparti fuori di casa o a farti battute, moriresti di solitudine e malinconia”
Si passò una mano sul collo, tentando di sorridere a quel suo tentativo di fare ironia, ma non risultò affatto convincente, solo triste.
Itachi scattò in piedi, incapace di stare ancora seduto e fermo e gli afferrò i lembi della giacca, stropicciandoli tra le dita.
“Shisui, ma…”
L’Uchiha più grande osservò come l’altro fosse genuinamente sconvolto, forse quasi spaventato e capì che non aveva mai pensato sul serio che tra di loro potesse finire, ma non poteva continuare come era sempre stato, non più, doveva per forza cambiare qualcosa.
“Itachi, io ti amo e questo non posso negarlo né cambiarlo, tu mi vuoi bene ma non mi ami, almeno non nel senso che vorrei io e non possiamo negare nemmeno questo – disse prendendogli le mani tra le sue, lasciando che le loro dita si intrecciassero – ci sarò sempre per te, solo in modo un po’ diverso”
Itachi deglutì a vuoto dinanzi a quella confessione tanto diretta, senza fronzoli eppure tremendamente bella. Molte persone gli avevano detto di amarlo, ma mai si era sentito tanto emozionato e vicino alle lacrime come allora. Strinse forte le sue dita e cercò di parlare, perché doveva spiegarsi, non poteva lasciare che Shisui prendesse tutte le decisioni, anche lui era un adulto e doveva comportarsi come tale, prendersi le proprie responsabilità ed essere sincero con se stesso.
“Quello posso cambiarlo però, posso amarti. Shisui, io non voglio perderti, solo l’idea di non poterti più abbracciare o baciare mi fa stare male e non mi sono sentito così nemmeno quando Konan mi ha lasciato… ed io pensavo di amarla davvero, pensavo di sposarla, di passare la vita al suo fianco. Anche adesso voglio baciarti, sentire i tuoi capelli nelle mie mani e il profumo sottile del tuo dopobarba mentre mi avvicino al tuo collo. Ti ho sempre desiderato intensamente e, come hai detto quella sera, a nessuno tranne te ho mai permesso di prendermi, sei l’unico che mi sia mai entrato dentro. Nemmeno tu mi puoi leggere nel pensiero e quindi non puoi stabilire cosa provo, non puoi decidere anche per me”
Shisui chiuse gli occhi e si morse le labbra, mentre la stretta delle loro dita diventava quasi dolorosa. Itachi non gli stava rendendo affatto le cose facili, perché quello stupido doveva essere sempre tanto testardo?
“Sei soltanto confuso e hai paura di perdermi – disse tornando a guardarlo – non puoi importi di amarmi, e io nemmeno voglio un amore del genere, dettato dalla paura; non farmi questo. Ci vogliamo bene, possiamo essere solo amici e cugini, non cercare di amarmi per paura o… per pietà. Non lo voglio”
La sua voce faticò a rimanere limpida e chiara sulle ultime parole e Itachi avvertì una stretta al cuore, continuava a farlo soffrire anche quando non voleva. Nemmeno in passato aveva voluto, ma quanto aveva sofferto Shisui nel vederlo spensierato e ignaro vicino ad altre persone, a dargli consigli o a spingerlo a chiamare quella ragazza o quel tipo che gli aveva infilato un biglietto col numero sotto il tergicristallo?
La sua era davvero solo paura o pietà confuse per amore?
Iniziò a non vederci tanto bene, tutto gli apparve distorto e offuscato, anche l’udito funzionava male perché non udiva altro che il rimbombo del proprio cuore che pareva voler fuggire dal petto, quello stupido capriccioso cuore.
“Shisui…” mormorò e, senza nemmeno rendersene conto, le sue mani si erano divincolate ed erano sulle sue guance, a stringergli con delicatezza il viso e a tirarlo contro il proprio per baciarlo. Ci fu un attimo di resistenza da parte di Shisui, ma si arrese subito e alzò bandiera bianca. In fondo non c’era mai stata una vera battaglia: contro Itachi era inerme e indifeso come un neonato e desiderava solo avere più da lui, non lasciarlo andare, come un fottuto drogato in cerca della sua dose che non gli sarebbe bastata mai. Gli prese a sua volta il viso tra le mani e lo baciò con irruenza, senza risparmiarsi. Lo spinse e camminarono lenti, impacciati, fino a incontrare un muro contro cui lo premette col proprio corpo, tentando di essere più vicini che mai con quel bacio. Voleva penetrare dentro di lui, rendere i loro toraci un'unica cassa, le braccia e le gambe fuse assieme, così come le labbra che non voleva lasciare. Confusamente pensò che quel giorno le previsioni del tempo avevano sbagliato: stava piovendo, aveva tutto il viso bagnato e quella pioggia era strana, era salata e sembrava non voler smettere.
“Itachi…” ansimò contro la sua bocca mentre le sue mani cercavano di asciugargli il volto. Si allontanò a fatica perché il minore non glielo permetteva, ma alla fine si ritrovò a guardare i suoi occhi lucidi, le guance rigate di lacrime e pensò che non aveva mai pianto per nessuno, nemmeno per Sasuke.
“Shisui, questa non può essere pietà o paura, non è possibile. Non ti mentirò, non ti dirò improvvisamente che ti amo, ma ti dirò che non voglio lasciarti, voglio che mi dai una possibilità ora che so la verità. Voglio che ci proviamo sul serio, senza più segreti o bugie”
Shisui chiuse gli occhi, ma fu comunque inutile perché l’immagine del cugino era impressa sulla sua retina e continuò a vederlo lo stesso, non c’era proprio nessun modo per sfuggirgli. Se anche si fosse cavato i globi oculari, ci avrebbe pensato il suo cervello a mandargli immagini e ricordi in un film continuo. Sollevò quindi le palpebre e passò le dita sui suoi zigomi, raccogliendo le tracce umide del suo affetto, si sentì speciale perché era stato l’unico a far piangere Itachi che ora lo guardava speranzoso. Non era mai stato così cristallino nel mostrare i suoi sentimenti e Shisui si morse con forza un labbro, lottando con la sua razionalità e il desiderio di lasciarsi andare; qual era la decisione giusta? Non riusciva a scegliere, c’era troppo in ballo, troppo da perdere o da vincere in entrambi i casi.
“Non esiste la scelta giusta – disse Itachi che parve comprendere il suo dilemma – ci siamo solo noi che possiamo provarci, nessuno può fare previsioni del futuro. Persino io che sono tanto meticoloso e accurato nel lavoro, quando sono in tribunale non posso fare altro che sperare per il bene, perché anche il migliore dei miei lavori può essere smontato o ribaltato da un imprevisto. Però, quando sono lì, so di aver dato tutto me stesso e non ho mai niente da rimproverarmi; adesso è la stessa cosa. Non c’è giuria, né avvocati, io e te siamo gli unici giudici, e io non voglio lasciare niente di intentato. Non voglio svegliarmi domani e rimpiangere di averti lasciato andare senza aver lottato abbastanza. Per questo ti chiedo una possibilità, Shisui, non negarmela”
Lo guardò con gli occhi ormai asciutti ma non per questo meno espressivi o intensi, e tacque, in attesa della sentenza. Aveva esposto la sua arringa, lo aveva fatto al meglio delle sue possibilità nonostante col cugino non riuscisse a mentire o usare le sue arti affabulatorie; ora poteva solo attendere il verdetto. Non si sarebbe appellato alla clemenza della corte, non avrebbe pregato, perché non è così che funziona l’amore. L’amore deve essere spontaneo, non può essere forzato: si può anche piantare il seme, ma il terreno deve essere fertile e pronto, altrimenti nessuna pianta sarebbe mai germogliata, non è qualcosa da programmare o pretendere. Per quello aveva capito la richiesta precedente di Shisui di non amarlo per pietà, la pensavano allo stesso modo, ed era certo che non gli avrebbe mai inflitto niente di tanto orribile.
Shisui intanto lo guardava, continuando a martoriarsi il labbro, l’espressione seria che però si aprì in un piccolo sorriso ironico, una lontana eco del suo solito e smagliante sorriso, ma pur sempre un inizio.
“Fatico a credere che tu abbia perso qualche causa in tribunale, sei maledettamente convincente – tornò serio – sul serio riusciresti a convivere senza i tuoi segreti, a essere sincero con me?”
Itachi non rispose subito, per calibrare bene le parole: stavano camminando su una lastra di ghiaccio sottilissima e il minimo errore avrebbe mandato tutto in frantumi.
“Finora tra di noi sei stato tu quello che si è tenuto per sé il segreto più grosso di tutti” gli fece notare.
Shisui assentì col capo e sospirò piano:
“Siamo cugini, siamo uomini… che vita potrei mai offrirti? Sempre a nasconderci o abbandonare le nostre famiglie per vivere alla luce del sole? Perché forse potrebbero accettare il fatto che siamo gay, bisessuali, trisessuali o qualche altra diavoleria, ma non passerebbero mai e poi mai sopra al fatto che siamo cugini”
“Eppure Yuri e Akane si sono sposati ed erano primi cugini, come noi”
“Non erano due uomini, ma un uomo e una donna, anche così c’è ancora chi li guarda storto – gli carezzò una guancia – sei ancora in tempo per ripensarci. Esci di qui, rimaniamo amici e trova qualcuno di cui innamorarti sul serio, qualcuno che potresti presentare ai tuoi”
Sapeva che Itachi amava profondamente i genitori e che andare contro i desideri del padre, passare anni senza parlargli, lo aveva segnato profondamente e, proprio per l’amore che provava nei suoi confronti, non voleva costringerlo a rinunciarvi o a fare una scelta.
Itachi però gli posò una mano sulla nuca, affondando tra i capelli soffici, stringendoli con forza pur non facendo male.
“Rinneghi i tuoi primi insegnamenti? Sei tu che mi hai fatto capire di dovermi accettare e di essere in grado di farlo, grazie a te ho smesso di mentire a me stesso, sei un ipocrita Shisui – gli disse con un sorriso canzonatorio sulle labbra – per me arrivi a essere anche questo”
Pensò a Sasuke, al fatto che si era preoccupato di non poter portare Gaara a una stupida riunione di famiglia, dispiacendosene, eppure questo non lo avrebbe fermato dal continuare a frequentarlo, non più almeno. Il fratello era cambiato, aveva preso coscienza di sé e dei propri sentimenti, doveva farlo anche lui e non poteva stando lontano da Shisui.
“Cosa vuoi che ti dica, Itachi? – sospirò, stanco – Cosa vuoi che ti dica?”
“Di sì. Dimmi che mi dai un’altra occasione – lo incalzò – non ti prometto che mi innamorerò, che magicamente tra un mese proverò i tuoi stessi sentimenti, la verità è che nemmeno io capisco bene cosa provo adesso. Sei intessuto così profondamente in ogni aspetto della mia vita che voglio capire se è amore ma non ho mai osato confessarmelo, o se sei un pilastro essenziale ma non l’uomo che amo. Se ti sto lontano non potrò mai capirlo e lo devo a me stesso e a te. In fondo quella sera non mi hai confessato tutto perché volevi tentare il tutto per tutto pur di non perdermi? Perché io non dovrei fare lo stesso?”
Shisui poggiò la fronte contro la sua e chiuse gli occhi, sentendo le sue mani ancora tra i capelli e le proprie spalle scosse da una debole risata.
“Itachi, Itachi… come riesci a rigirare la frittata e a portare tutti gli argomenti dalla tua parte ha qualcosa di incredibile. Sei davvero l’avvocato del diavolo – spostò la testa per guardarlo – non ho più obiezioni, vostro onore”
Era sconfitto su tutta la linea e ormai non aveva più la forza di lottare, né ne vedeva il motivo. Se lo amava così tanto da diventare addirittura un fedifrago o un ipocrita, avrebbe anche corso il rischio di dargli un’altra chance; in fondo non era detto che si sarebbe ritrovato per forza col cuore spezzato, magari… magari, vedendolo sotto un’altra luce, come un vero partner, i sentimenti di Itachi sarebbero diventati più chiari e forse lo avrebbe corrisposto.
Poteva mettersi ancora in gioco, per lui.
“Bene, dichiaro sciolta la seduta” scherzò Itachi, carezzandogli i lineamenti delicati del viso, come se li stesse vedendo per la prima volta.
“E adesso? Qual è il verdetto? Come funziona d’ora in avanti?” domandò invece Shisui serio, in una strana inversione dei ruoli.
Infatti Itachi sorrise di nuovo e, spensierato, scrollò le spalle dicendo:
“Direi che potremmo darci appuntamento per stasera e vedere come andrà, ma è vietato ubriacarsi”
Shisui finse di pensarci su, roteando anche gli occhi verso l’alto, poi lo guardò, vide le sue labbra sorridenti e le baciò; una volta, due e un’altra ancora.
“Non stai correndo troppo?” rise Itachi.
“Mi hai vietato di ubriacarmi, non di baciarti” gli ricordò Shisui tra uno schiocco di labbra e l’altro, ridendo a sua volta, adorando sentire la sua voce a quel modo.
Era ancora tutto incerto e sospeso, nessuno garantiva loro che ci sarebbe stato un happy ending, che non avrebbero più sofferto o altri triti e banali cliché da film, ma erano insieme ed insieme avrebbero tentato, avrebbero scritto la loro storia; insieme avrebbero deciso il loro futuro.

Lo farò per lui.

L’angolino oscuro: Scusate il ritardo, ma sono perdonata con questo capitolo sostanzioso, vero? Anche se ci siamo spostati un po’ di più verso Itachi e Shisui, le vicende di Sasuke e Gaara fanno sempre da cornice agli eventi. Grazie per continuare a seguire questa storia e a lasciarmi un commento per farmi sapere che ne pensate, alla prossima!

 

 

 

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