Zoostopia di Switch (/viewuser.php?uid=619656)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Wild Times ***
Capitolo 2: *** Escape from ZPD ***
Capitolo 3: *** Maybe Wilde is... innocent? ***
Capitolo 4: *** I'll scratch your back if you scratch mine ***
Capitolo 5: *** Never, never, be afraid to do what's right ***
Capitolo 6: *** Ben ***
Capitolo 7: *** Just you and me ***
Capitolo 8: *** In the name of the law ***
Capitolo 9: *** Dead end ***
Capitolo 10: *** Face to face ***
Capitolo 11: *** Puzzles ***
Capitolo 12: *** When the forces clash ***
Capitolo 13: *** A step further ***
Capitolo 1 *** The Wild Times ***
Zootopia.
Luogo
dove predatori e prede vivono in perfetta armonia.
O
almeno, così era all'inizio.
Molto,
molto tempo prima. Prima che i predatori venissero umiliati e
degradati.
Nicholas
P. Wilde, Nick per gli amici, quello lo sapeva bene. Lo viveva ogni
giorno sulla propria rossa pelliccia, e se all'inizio era stato
disarmante e strano, e umiliante, col tempo aveva imparato a farselo
scivolare addosso, tanto da non vederlo nemmeno più come una
limitazione.
Anche
se era davvero, davvero fastidioso.
Per
il semplice fatto che, quello sgradevole collare, spuntava fuori
dalla camicia rovinando la sua splendida immagine. Diamine, non
potevano almeno farlo più piccolo e discreto? No! Era un
quadrato di
plasticozza nera attaccato ad una spessa cinghia dello stesso colore,
che ledeva alla sua perfetta figura.
Infilò
un dito nel cinturino nero e lo tirò un poco verso
l'esterno,
lontano dal suo collo, prendendo un respiro più profondo che
poté,
-ma erano anni che non poteva,- poi fece scivolare la scatolina
appena verso la schiena, con uno sbuffo stizzito, guardandosi nello
specchio prima di uscire. La fissa lucina verde era ancora visibile,
ma almeno lui era fortunato: si intonava ai suoi occhi.
Cosa
non doveva fare una volpe per vivere.
Cosa
non doveva fare un predatore, per vivere.
Uscì
di casa con un sospiro, infilandosi in fretta nella calca della
città, con la testa già piena di pensieri.
Come
ogni sera, quasi sul calare del sole, le strade brulicavano di gente
che si affrettava a tornare a casa dopo l'estenuante giornata di
lavoro, chi di fretta, chi con stancante lentezza, chi già
con la
mente sulla cena e chi invece perso in ragionamenti propri.
Lui,
Nick, camminava con aria svagata, andando verso il suo lavoro, invece
di esserne appena uscito. E lo faceva con un gran sorriso soddisfatto
sul muso.
Lo
sguardo cadde su uno degli enormi manifesti che tappezzavano le
strade, con la faccia sorridente del sindaco Bellwether e il suo
slogan preferito, bello grande, proprio sotto: Zootopia,
dove chiunque può essere ciò che vuole e tutti
sono al sicuro.
Fece
schioccare la lingua contro il palato, rollando gli occhi al cielo,
parte del suo buon umore svanito. Accelerò il passo per
allontanarsi
prima possibile e lasciarselo alle spalle.
Superò
una famiglia di Lemming che camminavano in fila indiana e
svicolò
tra le gambe di una giraffa avvocato in abito elegante e valigetta
scura; rallentò solo dopo qualche metro, lasciando andare un
sospiro
sommesso, continuando a guardarsi attorno.
Riconobbe
alcuni volti nella calca: un leone gli fece un gesto cortese con la
testa, facendo muovere la folta criniera, un paio di tigri gli
sorrisero apertamente e una donnola strinse solo appena gli occhietti
nel riconoscerlo, per non essere vista.
Nick
sollevò l'angolo della bocca con rinnovato entusiasmo e
tirò dritto
con più leggerezza addosso. Era bello essere apprezzati e
sapere di
star facendo qualcosa di buono.
Era
così sereno e rilassato, che quello che successe lo
colpì come una
doccia gelata, riportandolo di colpo sulla terra: dieci metri
più
avanti, una macchina a folle velocità bruciò il
rosso e si schiantò
contro un'altra che, procedendo dall'altro verso, aveva svoltato a
destra. Ci fu il rumore del tentativo di frenata, un gran boato e
decine di urla.
Il
traffico si congelò all'istante, la folla si
fermò all'istante, e
tutti trattennero il fiato per lo spavento, non sapendo cosa fare.
Dalla
prima macchina emerse un'antilope, un po' stordita ma relativamente a
posto, mentre, dopo interminabili minuti, dalla seconda uscì
un lupo
malconcio e palesemente terrorizzato. Sul muso c'era un vistoso
taglio, ma non si poteva vedere se fosse ferito oltremodo.
“Ma
è impazzito? Non ha visto il rosso?”
urlò verso l'antilope,
tenendosi un fianco con la zampa.
Lo
spavento aveva ceduto posto alla rabbia, in un attimo.
E
altrettanto velocemente, la lucina verde del suo collare
verté verso
un rosso lampeggiante, pericolosamente: il povero lupo venne
investito da una scarica elettrica che lo attraversò tutto,
contraendo i suoi arti dal dolore, per qualche secondo. Poi
sparì e
quelli si rilassarono di contro, trascinandolo giù in
ginocchio, ma
ancora cosciente.
Nick
si sentì moralmente vicino a quel tizio senza nemmeno
conoscerlo.
Sapeva il dolore che quell'aggeggio infernale creava, quanto male
riuscisse a fare, e venne colto da pena per lui.
Nella
strada c'era un gran silenzio e tutti gli occhi erano sul lupo. Occhi
pieni di paura e occhi pieni di rimprovero. Ogni preda lo osservava
con biasimo e disprezzo, allontanandosi da lì come se fosse
una
bestia, anche se in realtà era lui la vittima.
La
polizia arrivò in quel momento sul posto e disperse la
folla,
avvicinandosi per gli accertamenti: negli occhi dei poliziotti, un
rinoceronte, una zebra e un ippopotamo, c'era la stessa aria critica
degli altri nel guardare il lupo ferito, rimessosi in piedi a fatica,
che cercava di spiegare cosa fosse successo con la pelliccia tutta
arruffata dalla corrente.
Nick
non rimase a guardare ancora. Andò via, con la coda raso
terra, e il
morale ancora più sotto.
Perché
la realtà era sempre lì, non importava quanto uno
cercasse di non
vederla: le lucine verdi dei collari erano sempre lì, sui
colli di
tutti i predatori, a ricordar loro quello che la società
pensava di
loro. Erano sbagliati, erano pericolosi.
L'avevano
deciso le prede e loro dovevano sottostare. Non potevano nemmeno
arrabbiarsi o alzare la voce, anche se erano nel giusto. Non potevano
agitarsi e provare forti emozioni.
Altrimenti,
la scarica elettrica cadeva su di loro come una punizione divina,
riportandoli immediatamente al loro posto.
Era
come essere costantemente imbrigliati e legati, schiavi nel proprio
stesso corpo.
Nick
aveva quel collare da quando aveva dodici anni, ma non riusciva a
ricordare per niente come fosse non averlo; lo aveva cancellato, il
senso di libertà, e sapeva che non lo avrebbe più
provato davvero.
Con
il cuore gonfio di amarezza, si incamminò sempre
più verso le zone
meno frequentate della città, la periferia industriale con
le
fabbriche ormai chiuse e una gran quiete.
Spuntavano
già le prime stelle, nel cielo quasi nero.
Il
capannone anonimo lo accolse come sempre con quel silenzio disarmante
e totale; la sua figura si stagliava fatiscente e logora a ridosso di
un fiumiciattolo; era un posto insignificante.
Ghignò
leggermente, mentre si avvicinava ad un piccolo gabbiotto degli
attrezzi lì vicino. Entrò a passo spedito e
fischiettando, poi dopo
qualche istante, scomparve.
Un
tripudio di colori e miriadi di lucine esplosero d'improvviso davanti
al suo muso, quando uscì dal tunnel segreto: la scritta
più grande
e luminosa formava la scritta: Wild Times, a
caratteri cubitali.
“Ehi,
ragazzi, è arrivato Nick!” urlò una
voce nel marasma, dando il
via ad una sequela di saluti.
“Ehi,
Nick!”
“Ciao,
Nick! Come va?”
“Vieni
qua, Nick!”
Tutti
lo salutavano euforici, sbracciandosi al suo passaggio, con un gran
sorrisone da parte a parte, mentre lui, anche se lusingato
dall'accoglienza, faceva la gimcana tra le attrazioni per raggiungere
il suo ufficio.
Il
Wild Times era il suo vanto, la sua raison d'etre, il boom della sua
vita. Il suo paradiso.
Era
la più grande attrazione mai inventata prima ed era
totalmente
segreta. Aveva faticato per costruirla, dopo anni di lavoretti non
proprio puliti e umiliazioni, -e c'era anche il merito della mafia se
aveva potuto farlo, ma quella era un'altra storia,- però
alla fine
aveva realizzato un'utopia vivente, un parco di divertimenti
completamente per predatori, in cui potessero essere
“liberi”,
anche se per poco.
Non
liberi al cento per cento, non poteva togliere loro i collari, ma
all'interno di quel vasto capannone, quei diabolici congegni
smettevano di funzionare, pur restando al loro posto: grazie ad un
complicato sistema informatico creato dal suo amico Benjamin,
amplificato da parete a parete, il Wild Times era come una bolla
sicura in cui ogni predatore poteva sentirsi libero di urlare,
arrabbiarsi, sovreccitarsi e divertirsi in totale libertà,
senza il
pericolo di ricevere una scossa o sentirsi giudicato o discriminato.
Le
varie attrazioni costruite da lui, Nick, e dal suo dipendente quasi
socio Finnick, permettevano le più libere espressioni dei
predatori:
come le montagne russe dell'urlo o la prova di forza del morso o la
pista di corsa in loop che correva sopraelevata per tutta la
struttura.
Le
possibilità erano infinite e grazie al passaparola, era
sempre pieno
tutte le sere; e poteva contare sulla segretezza, grazie ad una sorta
di fratellanza tra predatori.
“Ehi,
Finn” salutò entrando nell'ufficio, proprio dietro
l'attrazione
delle montagne russe dell'urlo.
Finnick,
il piccolo Fennec seduto alla scrivania, rispose con un cenno del
capo, continuando a contare i soldi dentro una cassetta di sicurezza.
“Come
va stasera?” gli domandò, attirando infine la sua
attenzione.
“Splendido.
Gli incassi vanno alla grande” ribatté l'amico,
che a dispetto
della piccola statura aveva una voce profonda e rauca. Rimise il
gruzzolo nella piccola cassaforte e la richiuse con premura,
facendola poi sparire nel fondo segreto della scrivania. Infine si
alzò e gli lasciò il posto.
“Bene!
Benissimo!” esultò Nick, strofinando le zampe tra
loro. “Adesso
ti mostro un nuovo progetto a cui sto lavorando!”
Si
sedette nella rattoppata, ma comoda, poltroncina girevole e
aprì un
paio di cassetti, rovistando tra le cartacce; con un gran sorriso
prese una cartellina logora e la sbatté sulla scrivania con
frenesia: la aprì e svelò i fogli all'interno
pieni di disegni e
scritte fitti fitti, dal tratto molto approssimativo.
“Stavo
pensando, mi è venuto in mente l'altra sera nel guardare la
tv, e oh
mio dio l'adorerai, di aggiungere un'attrazione di immersione totale!
No aspetta, fammi finire: un cinema 4D, proiezioni di paesaggi
selvaggi e naturali e rampe per correre oppure avventure mozzafiato
con movimenti in sincrono con le immagini e spruzzi d'acqua o folate
di vento... insomma, un'esperienza totale e completa, che liberi
adrenalina e eccitazione!”
Era
lui quello emozionato, alla sola idea di mettere in pratica quel
progetto. E per fortuna il collare non funzionava in quel momento o
avrebbe preso una scossa elettrica non indifferente.
“Bello,
ma non abbiamo posto anche per questo” fu
la laconica risposta dell'amico, che intanto aveva scalato una pila
di libri lì accanto per poter vedere bene di cosa lui
parlasse.
“Ma
sì! Facciamo slittare di
qualche metro la Cat-apulta e spostiamo la vasca dei gomitoli
dall'altra parte e-”
“E
non ci sarà più spazio
nemmeno per muoversi” lo interruppe Finn, scheggiando il suo
entusiasmo.
“Ma
se noi rimpic-”
“No,
Nick. L'unica soluzione è
togliere qualche attrazione. Ormai ce ne sono talmente tante,
possiamo togliere una delle più vecchie per fare posto a
questa.”
“Togl-
no! Non ci rinuncerò.
Non toglierò le montagne russe dell'urlo o il karaoke
“Howl along”
o altro! Potremmo...” si passò le zampe sul muso,
immerso in
veloci pensieri.
“Potremmo
spostarci in un
nuovo capannone, più grande” esalò alla
fine, compiaciuto della
sua idea.
Finnick
scoppiò a ridergli in
faccia, apparentemente divertito.
“Sì?
Spostiamo un'attività
clandestina, così, con facilità? E
perché non mettiamo anche dei
bei manifesti per farlo sapere a tutti?”
“Potrei
cercare di ottenere i
permessi legali, questa volta. Ormai i soldi per le pratiche li ho e
anche per i brevetti delle attrazioni. Potrei spuntarla questa
volta!”
Finnick
si chiese da dove venissero gli sprazzi di ingenua fiducia che ogni
tanto colpivano Nick, che pure era uno dei più pratici e
cinici
predatori che conoscesse; c'era in lui, forse, ancora quella volpe
con tanti progetti e sogni che voleva solo aiutare i suoi simili a
stare meglio. Quella che esisteva prima di aver sbattuto il muso
centinaia di volte nel tentativo di cercare finanziamenti per mettere
in pratica quei sogni.
“Nick”
iniziò, scuotendo
lentamente la testa, “non c'è legale che ti
sosterebbe, sono tutti
prede, se te lo fossi dimenticato; e penso tu abbia dimenticato anche
la legge a proposito dei collari, perché sapresti che non
c'è
nessuna possibilità. Ci sei già
passato.”
“I
predatori devono portare e
tenere i collari 24 ore su 24, assicurandosi anche della loro piena
funzionalità e avvisare le autorità in caso di
malfunzionamento
dello stesso.
Nessun predatore può togliere
e/o manomettere il proprio collare o il collare di un altro
predatore.
Il predatore sprovvisto del
collare sarà fermato e arrestato e la pena commutata
varierà da un
periodo di reclusione di un anno ad una pena a vita a seconda delle
aggravanti e delle circostanze, nonché un periodo di terapia
riabilitativa contro l'aggressività”
citò a memoria Nick,
comprovandogli la sua piena sanità mentale.
“Quindi dovresti
sapere che non abbiamo toccato i collari in nessuno modo, né
li
togliamo mai.”
Finnick
scese dalla pila di
libri e si incamminò verso la porta, sporgendosi poi sulla
punta
delle zampette per arrivare alla maniglia; aprì e gli fece
cenni di
seguirlo, mentre il silenzio intanto si riempiva di urla e grida
festose dal di fuori e di musichette accattivanti dei giochi.
Camminarono fianco a fianco,
guardandosi attorno. C'erano ovunque facce allegre e divertite,
un'intera famiglia di orsi polari che faceva la fila per le montagne
russe, e poi ancora lupi, tigri, leoni, furetti, pantere, leopardi e
ogni genere di predatore, impegnati a ridere e spassarsela in pace e
armonia, senza mai uno scoppio di rabbia o di violenza in alcuna
forma. Come poteva essere sbagliato, ciò che facevano?
Era così bello vedere il
piccolo led dei collari spento, innocuo, totalmente dimenticato.
“Anche
senza aver manomesso
materialmente i collari, qui dentro cessano di funzionare e non
sarebbe ben visto dalle prede. Tu fai in modo che la loro
aggressività si sfoghi, ma le prede lo vedrebbero come se tu
stessi
solo alimentando i loro istinti animali. Non finirebbe bene,
Nick”
esclamò Finnick, la rauca voce più addolcita.
La volpe sospirò, con una
scrollata di spalle. L'amico aveva ragione e lui lo sapeva bene.
Solo perché quello era il suo
paradiso, non significava che gli altri lo vedessero
come tale.
“Ok,
allora penseremo a come
aggiungere il cinema 4D con cal-”
Le
luci si spensero tutte contemporaneamente e il capannone
piombò
nell'oscurità più nera, le musichette cessarono e
un'innaturale
silenzio li circondò. Sfarfallando debolmente, le lucine dei
collari
si riaccesero una ad una come percorse da una corrente continua,
verdi e fisse, come stelle malate.
Nick,
grazie alla vista
notturna, si accorse delle facce preoccupate dei suoi clienti e del
suo amico, tutti con gli occhi sbarrati nel buio alla ricerca di una
spiegazione.
“Tranquilli,
sarà il
generato-”
“Polizia!
L'edificio è
circondato! Venite fuori con le zampe in alto e disarmati!”
gracchiò potentemente una voce amplificata da un megafono.
Si udirono centinaia di fiati
trattenuti all'unisono, nello stesso secondo. Le espressioni sorprese
si erano trasformate in maschere di orrore e paura, e non c'era
nessuno all'interno della struttura che non si stesse guardando
intorno alla ricerca di una via d'uscita, sussurrando disperatamente
in cerca di idee.
Nick era congelato sul posto.
Non riusciva ancora a crederci.
“Sono
il capitano Bogo,
ripeto: venite fuori con le zampe in alto e niente scherzi. Avete un
minuto, dopodiché irromperemo nel locale!”
“Nick!
Dobbiamo muoverci!”
lo scosse Finnick al sentire il secondo avviso, strattonandolo per la
camicia.
La volpe scrollò la testa,
uscendo dal suo stato di trance.
“Prima
gli altri!”
Con passo svelto e felpato,
corse verso la piscina dei gomitoli e ci si poggiò contro,
cercando
di spingerla con tutte le sue forze. Esalò forte, tendendo i
muscoli
allo spasmo.
“Aiutatemi! Presto!” chiese
senza fiato, continuando a spingere.
I sussurri spaventati si
spensero immediatamente, al sentire la sua disperata richiesta.
Una pantera, un orso e una tigre
si mossero nel buio per raggiungerlo e si misero ai suoi lati,
velocemente: imitarono i suoi gesti e spinsero tutti assieme la
grande struttura che dopo pochi istanti iniziò a slittare,
cigolando
cupamente.
Nick si
staccò e si inchinò
non appena sentì il dislivello sotto le zampe inferiori e
vide
perfettamente la grande maniglia argentata, che nel buio sembrava
solo grigia scura.
Tirò verso l'alto usando tutto
il corpo e il coperchio della botola saltò via come un tappo
di
sughero da una bottiglia di spumante: una gran nuvola di polvere si
sollevò e gli entrò nelle narici, facendolo
tossire.
“Finn!
Scendi per primo e
mostra loro la strada!” ordinò poi, appoggiando il
coperchio a
terra. “Voi altri, seguitelo: è un'uscita sicura,
spunterete molto
lontano da qui. Andate!”
Con
rapidità, seguendo il
Fennec, la folla si mise in fila indiana e sparì nel buco
del
terreno, silenziosamente: perfino i cuccioli erano tesi e muti,
capendo che non era un gioco e che dovevano comportarsi bene. Nick
supervisionava ancora dal capannone e si assicurava che tutti
passassero e che quelli che non vedevano non inciampassero,
distribuendo pacche rassicuranti sulle schiene di quelli nervosi.
“Tempo
scaduto” urlò la
voce amplificata, da fuori. “Facciamo irruzione!”
Il panico serpeggiò nei
predatori rimasti e Nick fece del suo meglio per velocizzare la fuga
e poter fuggire anche lui, senza però che si generasse il
caos.
Ancora un orso. Poi un leone.
Dopo il lupo c'erano ancora quattro predatori, potevano farcela.
D'improvviso,
un gran fragore
scosse il portone del capannone e le vibrazioni si propagarono nello
spazio vuoto, ancora più spaventose.
“Non
fermatevi! Via, via!”
li esortò Nick, al vederli bloccarsi nel panico.
Un secondo boato riecheggiò
subito dopo, potente come il primo. Il cigolio del legno fu
più
forte, quella volta, scricchiolando disperatamente.
Non avrebbe resistito ancora.
La testa del giaguaro sparì nel
buco e non mancava che un furetto.
Nick si sentiva percorso da
un'agitazione crescente e pregò che il collare non gli desse
la
scossa proprio in quel momento o sarebbe stato preso e tutto sarebbe
stato perduto.
Ma non lo sarebbe stato comunque
nel momento in cui la polizia fosse entrata lì?
Si
chinò per prendere il
coperchio della botola e scendere anche lui, richiudendosela dietro
per depistare, quando il portone andò letteralmente in
frantumi,
schegge impazzite che volavano ovunque, mentre urla imperiose e luce
entravano da fuori.
La polizia irruppe a ranghi
serrati, con taser e pistole tranquillanti nelle zampe, e Nick
capì
che non ce l'avrebbe fatta: spinse il coperchio con tutta la
silenziosità possibile e scivolò all'indietro,
assottigliandosi
contro la piscina dei gomitoli, trattenendo il fiato.
I suoi occhi scrutavano nel
miscuglio tra ombre e luce, seguendo con la tachicardia il via vai
frenetico dei poliziotti, che si sparpagliavano nel capannone a
macchia d'olio, cercando tracce. Vedeva i loro musi sorpresi nel
guardare le varie attrazioni, poi il disgusto nel capire cosa
fossero, gli sguardi ancora più incattiviti nel cercare un
colpevole.
D'altronde, tutto il corpo di
polizia era composto da prede.
“Arrendetevi
immediatamente.
Non c'è via di scampo!” gridò il
capitano Bogo, la sua voce molto
meno fastidiosa senza il gracchiare del megafono, ma comunque
allarmante.
Nick li sentì avvicinarsi
sempre più, ticchettii e fruscii, e si chiese se sarebbe mai
riuscito a sgattaiolare fuori e a dileguarsi inosservato.
Si ricordò in tempo della
lucina del collare e la coprì con una zampa, appena prima
che una
antilope passasse di fronte al suo nascondiglio con un taser ben
teso di fronte a sé, scrutando tutto intorno. Nick chiuse
un
secondo le palpebre, nel timore che i suoi occhi potessero
scintillare nell'oscurità.
Si rese conto che erano troppi e
che non avrebbe potuto nascondersi ancora a lungo. E non c'era tempo
per cercare una soluzione che forse nemmeno esisteva.
Prese tutta
la disperazione che
lo animava, e anche un grosso respiro, e non appena altri due
poliziotti lo ebbero oltrepassato, scattò in avanti e si
lanciò in
una folle corsa a testa bassa verso la porta distrutta da cui
entravano fasci di luce, scartando velocemente due o tre figure che
gli sbarravano la strada.
“Sospetto
in fuga! Allerta!”
urlò un ovino, le zampe che sussultavano mentre cercava di
prendere
la mira sulla rapida silhouette che sfrecciava nelle ombre e in mezzo
alle loro gambe.
Tutto intorno, non c'erano che
armi che puntavano contro Nick, che lo avrebbero fulminato o
narcotizzato. Scartò a destra per evitare un ippopotamo.
Deviò a
sinistra per scansare un elefante.
Fu la
grossa stazza del
pachiderma a trarlo in inganno, a non fargli vedere la figura appena
dietro: sbatté contro un corpo solido e massiccio con un
tonfo e
finì a gambe all'aria.
“Non
muoverti! Zampe in alto”
ordinò il grosso bufalo che torreggiava su di lui, tenendo
la
pistola puntata dritta in mezzo alla sua fronte.
“Sono
il capitano Bogo.
Identificati.”
Nick sollevò lentamente gli
arti, senza staccare il contatto visivo con lui. Qualsiasi cenno
poteva essere frainteso dal poliziotto.
“Nicholas
Piberius Wilde”
sussurrò muovendo meno possibile le labbra, le orecchie
basse e
appiattite contro la testa. “Ci deve essere un malinteso, se
mi
fate spiegare, vedrete che è tutto un equiv-”
“Signore!
Abbiamo trovato
qualcosa!” urlò a squarciagola una capra, uscendo
con aria
sconvolta dall'ufficio di Nick. Una giraffa la seguì,
anch'essa
turbata.
C'era un fondo di paura e
terrore, quando guardarono la volpe.
“Tu”
disse Bogo, rivolto ad
una gazzella lì vicino, “tienilo sotto tiro, non
osare farlo
scappare.”
Il grosso bufalo si assicurò
che i suoi uomini lo avessero in custodia prima di rimettere la
pistola nella fondina e incamminarsi verso il fondo del capannone,
dietro la biglietteria delle montagne russe, con un sinistro
ticchettio delle zampe inferiori.
Sparì oltre la porta, e per
interi minuti non si sentì più nulla.
Nick non
sentiva nulla se non il
battito del suo cuore. Erano nel suo santuario, stavano frugando tra
i suoi progetti, tra i suoi ricordi, e non avrebbero capito. Ma
poteva spiegare loro che era sbagliato giudicare senza conoscere, che
in realtà quel posto era un paradiso.
Lo avrebbero capito?
Il capitano riemerse dalla
stanza, una linea tesa sopra gli occhi che esprimeva tutta la sua
preoccupazione e serietà. Solo quando fu di fronte a lui,
Nick si
accorse di alcune gocce di sangue sulle sue dita.
“Nicholas
Wilde, ti dichiaro
in arresto per l'omicidio di un caribù”
esalò mortale Bogo,
afferrando le manette dal suo fianco.
“COSA?”
strillò Nick,
cercando di capire, reagendo inconsciamente all'arresto. Una scossa
dolorosa lo attraversò all'improvviso, vincendo ogni
reticenza.
“Hai
il diritto di rimanere in
silenzio. Tutto quello che dirai potrà essere usato contro
di te in
tribunale.”
Un paio di zampe lo afferrarono
e lo costrinsero a voltarsi, bloccando le sue dietro la schiena.
“No!
Io non- Io sono
innocente” mormorò debolmente la volpe. Gli girava
la testa. Le
manette scattarono intorno ai suoi polsi, gelide e dure.
“Hai
diritto ad un avvocato.
Se non puoi permettertelo, te ne verrà assegnato uno
d'ufficio”
continuò imperterrito il capitano, ignorando ogni sua
protesta.
Lo
trascinarono fuori,
praticamente di peso. Nella notte fresca, ma stranamente soffocante.
Vide le macchine assiepate lì
davanti, le luci dei fari che si mischiavano a quelle ad
intermittenza delle sirene, confondendolo ancora di più.
E tutto intorno c'erano
poliziotti. E tutti erano ovviamente prede.
Si sentiva schiacciato dai loro
sguardi accusatori, arrabbiati e disgustati. E ancora non riusciva a
capire, ad assimilare, ciò che davvero era accaduto.
Una zampa lo spinse nel sedile
di dietro di una macchina, decisa, ma per nulla rabbiosa. La portiera
sbatté secca al suo fianco.
“Dritto
in centrale, Trunkaby”
sentì dire alla voce di Bogo rivolto verso il poliziotto
alla guida,
prima che le sirene esplodessero in un suono lamentoso, riecheggiando
nella notte.
Nick fece
appena in tempo a
voltare il collo e guardare il suo capannone allontanarsi
velocemente, violato e invaso da chi non poteva capire.
Il suo paradiso era perduto per
sempre.
Note:
Salve!
Sono Switch, piacere, questa è
la mia prima storia in questo fandom.
Ho visto
Zootopia e me ne sono
innamorata perciò, dopo averlo visto altre quattro volte, ho
sentito
il bisogno di scrivere una ff che fosse il continuo della storia,
subito dopo che Nick è diventato poliziotto. Ma, facendo
ricerche
per i dettagli, ho scoperto che all'inizio la trama doveva essere
molto diversa, con i collari elettrici per i predatori e una forte
discriminazione verso essi. Era più cupa e più
dark e l'ho adorata.
Mi si è formata in testa come avrebbe potuto essere e non
sono più
riuscita a pensare ad altro.
Ho accantonato per il futuro il
sequel che avevo in mente e, usando alcune idee della bozza iniziale,
ho iniziato a scrivere questa storia: Zoostopia.
Tutto sarà diverso, ma i
personaggi saranno gli stessi. Con i caratteri pensati
originariamente per loro.
Il Wild
Times esisteva nello
script originale ed era una sorta di parco di divertimenti per
predatori, così come l'ho descritto, ma aveva una
differenza: Nick
toglieva loro i collari quando entravano, permettendogli totale
liberta. Nella mia storia, invece, ho deciso che i collari entrano
solo in una sorta di stand by, perché volevo che fossero
sempre un
monito presente e che nessuno avesse più provato un senso di
libertà
totale da quando furono introdotti. Per sviluppi futuri.
Spero vi piaccia, grazie per
aver letto.
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Capitolo 2 *** Escape from ZPD ***
ZPD.
Zootopia
Police Department.
Lo
scudo della società, la sua difesa.
Integrità,
Fiducia, Coraggio, recitava il suo motto, inciso su ogni distintivo.
Il
corpo di polizia di Zootopia credeva fin nel fondo del cuore a quel
precetto e tutti i suoi componenti lavoravano anima e corpo per
proteggere i cittadini.
Però,
c'era un però.
Dopo
l'entrata in vigore dei collari elettronici, vent'anni prima, un
profondo cambiamento era avvenuto in tutta la città e
immancabilmente anche nella polizia: molte, se non tutte, le cariche
importanti che prima erano ricoperte da predatori, erano state prese
dalle prede in maniera quasi naturale e obbligata; nessuno voleva
più
un sindaco o un poliziotto o un avvocato o un dottore predatore, la
fiducia era andata via via scemando ed era stata sostituita da
diffidenza e discriminazione, anche troppo velocemente.
E
tra i poliziotti serpeggiavano gli stessi pregiudizi, purtroppo.
Gli
elefanti, le giraffe, gli ippopotami, i bufali, i rinoceronti che ne
facevano parte, pensavano fosse loro compito proteggere le prede
dalle malefatte dei predatori; ecco perché per la maggior
parte
erano prede di grande taglia e stazza, adatti a contrastare
l'aggressività e l'irruenza degli indisciplinati predatori.
Ed
ecco perché una come Judy Hopps non era il classico
poliziotto.
Piccola,
esile, insignificante.
Judy
Hopps era un coniglio, il primo coniglio a far parte del corpo di
polizia di Zootopia, entrata in servizio alla centrale del primo
distretto nemmeno sei mesi prima: in quell'esiguo lasso di tempo
aveva dovuto fare del suo meglio, tutto il suo meglio, per poter
essere considerata alla pari dei suoi mastodontici colleghi.
Aveva
risolto da sola un complotto contro una banca, tre rapine, un
sequestro di gazzella e una sparatoria in centro. Da sola, tutto da
sola. Aveva lavorato
dando il
quadruplo di quanto si impegnassero gli altri, ottenendo lo stesso
livello di rispetto, per lo meno.
E
quello che si diceva su di lei non la sfiorava davvero.
Quella
mattina era arrivata in centrale presto come suo solito, inosservata:
si era seduta alla sua scrivania e ci aveva passato ore in perfetto
silenzio, intenta nel suo lavoro per quella giornata, -compilare i
fascicoli degli ultimi casi risolti,- sapendo benissimo che nessuno
l'avrebbe disturbata, che non ci sarebbero stati colleghi invadenti
in vena di chiacchiere e con una tazza di caffè in omaggio.
Non
succedeva mai, a lei.
Verso
l'ora di pranzo decise di desiderare davvero una pausa, in fin dei
conti, e si gettò giù dalla sedia, diretta verso
la macchinetta
nell'atrio, a passo spedito ed evitando di incrociare lo sguardo con
chiunque. D'altronde era quello che facevano anche gli altri.
Nessuno
voleva iniziare una discussione con “Hopps il poliziotto di
ferro”,
“senza anima Hopps” o “l'intransigente
Hopps”.
Li
aveva sentiti i suoi soprannomi, ben più di una volta,
quando i suoi
colleghi pensavano che lei non li sentisse; e se anche l'avevano
ferita, non l'aveva mai mostrato a nessuno.
Il
loro parere non le interessava, si ripeteva, e metteva tutta la sua
concentrazione nel lavoro, lasciando quelle piccole scaramucce nel
dimenticatoio nel fondo della sua mente.
Amava
il suo lavoro, amava essere una poliziotta, e nessuno avrebbe
distrutto quel sogno.
Finì
di bere il suo caffè di tarassaco e gettò la
tazzina di carta nel
cestino. Ripercorse in fretta il tragitto per la sua scrivania,
già
con la testa concentrata sulle prove da catalogare per-
“Hopps!”
urlò la voce del capitano Bogo, dalla balaustra in vetro del
piano
superiore, interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
Judy
sollevò il viso e guardò il suo capo con
un'espressione stupita:
quando Bogo usava quel tono secco, o c'era un problema o lei aveva un
problema. Ripensò in fretta a cosa potesse avere combinato
per
suscitare l'irritazione del suo superiore, ma niente le
saltò alla
memoria.
Sfilò
nel corridoio sotto gli occhi di tutti, diretta verso l'ufficio del
capo.
Il
capitano era seduto dietro la bella e grande scrivania e le
indicò
la sedia di fronte a sé, quando lei entrò; Judy
ci saltò su a
piedi uniti e si sedette composta, navigando in quella sedia troppo
grande.
Silenzio.
Bogo
occhieggiava dei fascicoli con aria preoccupata e Judy si chiese se
non avesse dimenticato qualcosa negli ultimi che gli aveva
consegnato.
“Signore,
i rapporti del caso-” provò a dire, prima che la
zampa del bufalo
scattasse in aria, mettendola a tacere con sussiego.
Judy
si afflosciò sulla sedia, in attesa che fosse lui a dirle
cosa non
andasse e perché l'avesse richiamata lì.
Il capitano controllò ancora un paio di
fogli, poi esalò un sospiro tetro e
richiuse la cartellina. Infine sollevò lo sguardo e lo
fissò su di
lei.
“Hopps”
disse, lentamente, “abbiamo un problema.”
Le
orecchie grigie della coniglietta schizzarono in aria, per il tono
preoccupato. Bogo non era un poliziotto da allarmismi, se definiva
una situazione “problema”, allora lo era.
“Siamo
stati assaliti dai giornalisti” spiegò,
stancamente.
Si
accorse solo in quel momento delle occhiaie del suo capo e si
chiese da quanto tempo fosse in piedi e da quanto in servizio, ma non
osò domandarglielo. Tuttavia la notizia non le era sembrata
così
allarmante come l'aveva dipinta lui e attese altre informazioni prima
di intervenire.
“Qualcuno
ha fatto una soffiata sul caso Wilde e non c'è un
giornalista in
città che non voglia notizie fresche di prima
mano” continuò
Bogo, spingendo verso di lei il fascicolo che aveva prima guardato
con così tanta ossessione.
Era
una cartellina gialla e sopra vi era scritto proprio il nome che il
suo capitano aveva citato: Wilde.
La
aprì e sfogliò nel silenzio, velocemente, gli
occhioni viola che
scivolavano in fretta per le pagine, estrapolando le informazioni che
le interessavano e scartando tutto il superfluo resto. Era una cosa
in cui era estremamente brava.
Parco di divertimenti per
predatori. Collari disattivati. Istinti liberi e sollecitati.
Omicidio.
Girò
il foglio successivo e si
trovò davanti al muso la foto di una volpe, maschio, sui
trent'anni
di età, con il numero di incarcerazione tra le zampe: gli
occhi
verdi erano spalancati e il pelo rosso arruffato attorno ai polsi.
Nicholas P. Wilde. Il sospettato
principale. L'unico, a dire il vero.
Lo osservò attentamente,
imprimendosi i dettagli nella mente, cercando in lui un segno di
quella sottaciuta cattiveria che sapeva vedere negli altri, ma non le
parve di scorgere nulla se non paura.
La pagina
seguente le gelò il
sangue nelle vene e nello stesso momento le cancellò
qualsiasi
empatia avesse provato verso il muso di volpe pochi istanti prima: il
referto dell'autopsia rivelava la causa della morte del
caribù,
correlato con vivide e dettagliatissime foto.
Anche troppo dettagliate per il
suo stomaco.
Morte per ripetuti e violenti
fendenti, dodici per la precisione, che avevano portato la vittima a
dissanguarsi in pochi istanti, probabilmente molto dolorosamente.
Come qualcuno potesse essersi
accanito così ferocemente su un altro essere vivente, le
sfuggiva
alla comprensione. Sembrava non esserci nessun collegamento tra il
signor Rangi Tarandus, la vittima, e quel Wilde, ma l'omicidio era
avvenuto nella proprietà della volpe, non c'erano molte
alternative
o altre piste valide come quella.
E
finalmente capì perché i
giornalisti avevano invaso la centrale a quella soffiata e cosa
avrebbe comportato per loro.
Un predatore che uccideva una
preda, aiutato dalla disattivazione del proprio collare, in un parco
a tema solo per predatori, in cui i loro istinti erano liberi e
accentuati: perfino il peggior giornalista della città,
quello che
scriveva i pettegolezzi del rione, ne avrebbe tirato fuori un pezzo
esplosivo, con quelle premesse.
Si rischiava di causare uno
scisma ancora più evidente tra predatori e prede,
probabilmente una
rivolta, prese di posizione contro i predatori che avrebbero portato
a gravi conseguenze.
Dovevano essere cauti per non
fomentare la folla e non causare isterismi, a nemmeno due giorni di
distanza dalle celebrazioni per i vent'anni del mandato del Sindaco
Bellwether; non avrebbe voluto essere nei panni del capitano, in
effetti.
Ma se l'aveva chiamata lì, un
motivo doveva esserci.
“Vuole
che parli io coi
giornalisti” provò ad indovinare, chiudendo infine
il fascicolo.
Bogo l'aveva osservata per tutto il tempo, indovinando i suoi
pensieri via via che leggeva.
“No,
Hopps, volevo solo un tuo
parere” rivelò lui, spiazzandola. Positivamente.
Si era data tanto da fare,
davvero tanto da non aver quasi riposato, e vedere il suo lavoro
ripagato, vedere che perfino il capitano si fidasse di lei e del suo
giudizio, le accendeva una scintilla di orgoglio nel cuore.
“Il
fatto è... che io non
credo Wilde sia colpevole” rivelò il capitano
sottovoce, come
fosse un segreto inconfessabile.
“Ma...
le prove! La vittima
nella sua proprietà, nel suo ufficio! Come può
pensare che non sia
colpevole?” insorse la coniglietta, saltando sulla sedia con
le
zampe dalla foga.
Si accorse dopo qualche secondo
di silenzio di aver alzato decisamente troppo la voce e si
ridimensionò sotto lo sguardo tetro, eppure quieto, del suo
superiore, che non aveva mosso un muscolo.
“Le...
le prove” mormorò,
di nuovo. “Perché pensa che Wilde non sia
colpevole?”
“Istinto”
fu la secca
risposta che ricevette.
“Con
tutto il rispetto,
signore, l'istinto non reggerà in tribunale, né
scarcererà il
sospettato. Dovrebbe anche provare che il suo istinto ha
fondamento.”
Bogo sbuffò per quella sua
indisciplinata saccenza, ma ovviamente era d'accordo con lei.
Però
avrebbero dovuto passargli sopra prima che lo ammettesse a voce alta.
“Per
questo ti ho chiamata. Ti
affido al caso Wilde, agente Hopps. Lavorerai con Trunkaby e Higgins
e indagherai ogni pista senza fermarti alle apparenze. So che sei
capace di farlo.”
Judy scattò sull'attenti, seria
e impettita, le orecchie svettanti al cielo per la concentrazione.
Quello che il capo aveva inteso, e sotto-inteso, era un lavoro di
fiducia e responsabilità non indifferente, in cui
probabilmente si
sarebbe scontrata con i pareri dei suoi colleghi, contro molti muri
impenetrabili e vicoli ciechi.
Il genere di indagine che le
faceva fremere il naso dall'eccitazione.
“Sissignore!”
rispose,
trattenendo a stento un ghigno a quella sfida.
“Bene”
concluse soddisfatto
Bogo, più rilassato. “Io rilascerò un
intervista tra poco, in cui
dirò niente, facendo credere di dire tutto.”
Judy stirò le labbra in un
rapido sorriso, prima di congedarsi formalmente e saltare
giù dalla
sedia. Era arrivata alla porta, quando le arrivò la voce del
capitano:
“Trunkaby
e Higgins hanno già
i fascicoli del caso e li ho avvisati che ci sarai anche tu in
squadra. Cerca di andare d'accordo con loro, Hopps.”
La coniglietta afflosciò le
orecchie, e rispose con un ben più mesto
“sissignore”, prima di
richiudersi la porta alle spalle e incamminarsi verso le scrivanie
dei suoi colleghi.
Trunkaby
era un elefante e
Higgins un ippopotamo, che facevano coppia in pattuglia da almeno
cinque anni: erano affiatatissimi e si fidavano ciecamente uno
dell'altro, e ovviamente non vedevano di buon occhio intromissioni di
altri poliziotti. Men che meno il suo.
Sospirò rumorosamente, vedendo
già in lontananza le loro grosse zampe attorno alla
scrivania di
Higgins, i due intenti a chiacchierare con una tazza di
caffè nella
zampa di uno e una ciambella in quella dell'altro. Ridacchiavano a
bocca aperta, dicendosi chissà cosa.
Judy si fermò proprio sotto di
loro e li salutò con un risicato buon giorno.
Come se non l'avessero sentita,
i due continuarono a parlottare tra loro, di proposito o in buona
fede. Judy tossì vistosamente e ripeté il saluto,
a voce più
elevata, le orecchie al cielo, forse per sembrare più
minacciosa e
alta anche lei.
Trunkaby
ammutolì e guardò
verso il basso, proprio sotto la sua proboscide, la piccola
coniglietta minacciosa. Judy Hopps non si rendeva nemmeno conto di
apparire sempre arrabbiata, agli occhi degli altri.
“Il
caso Wilde. Il capitano me
l'ha affidato assieme a voi. Da dove iniziamo?”
esclamò a voce
alta e imperiosa.
Higgins rollò gli occhi al
cielo e appoggiò la tazza di caffè alla scrivania.
“Non
c'è niente da iniziare.
È colpevole. Le prove sono tutte contro di lui. Tieni,
controlla”
disse, lanciandole il fascicolo tra le zampe con fare annoiato.
“Il
suo avvocato arriverà tra
poco. Se qualcuno degli avvocati d'ufficio se la sentirà di
provare
a difenderlo” aggiunse Trunkaby, ridacchiando.
Judy era combattuta. Quel Wilde
era un predatore, era molto probabile che fosse lui il colpevole, ma
condannare qualcuno a prescindere non era sbagliato?
Fece per
aprire bocca per
ribattere, ma uno spaventoso urlo e una sirena echeggiarono in
contemporanea nella centrale: le orecchie di tutti rizzarono subito
in alto in allarme e il naso della coniglietta fremette.
“Evasione!
Evasione in atto!”
urlava ancora la voce, che riconobbero come quella dell'agente Yax,
il sin troppo disteso secondino che si occupava dei sospettati
trattenuti.
Tutti gli agenti corsero verso
le celle, ma Judy, piccola e agile, scivolò tra le zampe e
arrivò
per prima, davanti a una di quelle vuote, aperta, dove l'allampanato
Yak si stava disperando, fissando il water come se gli avesse fatto
un torto.
“Che
succede?” tuonò la
voce di Bogo, accorso alle grida. La folla si scisse per permettergli
di passare.
“Il
sospettato Wilde, signore.
Si è... si è...” tentennò
Yax sotto lo sguardo severo del
capitano. “Si è scaricato nel water!”
“Cosa?”
“È
una cella per grandi mammiferi, tutto è enorme e lui... si
è
scaricato nel water.”
“Voglio
tutti gli agenti immediatamente nelle fogne! Fermate qualsia-”
Judy
aveva smesso di ascoltare il capitano molto prima e si era fiondata
in fretta verso l'angolo del secondino, frugando tra le attrezzature
per le emergenze: prese soddisfatta la larga tuta usa e getta per i
rilevamenti e ci si fiondò dentro a zampe unite e
tirò su la zip;
quello che gli altri videro fu un fagotto bianco e molle che correva
verso la cella a tutta velocità, le lunghe maniche che
sventolavano
pazzamente all'indietro: lo osservarono saltare oltre il bordo del
water e udirono lo sciacquettio dell'acqua all'interno.
“Scaricatemi”
esclamò la coniglietta, la voce attutita dalla stoffa.
“Hopps!
Non ti azzardare a farlo” la riprese Bogo.
“Scaricatemi!”
ordinò Judy, allungando la sua stessa zampa per arrivare al
pulsante
da sola.
Yax si accorse del suo sforzo e
lo premette per lei; lo scroscio dell'acqua invase ogni spazio e lo
scarico ingollò la piccola coniglietta tutta intera, poi
placidamente rimase stagnante, osservata da tutti i poliziotti nella
cella, in religioso silenzio.
“YAX!”
scoppiò Bogo, fuori
di sé.
“E
voi cosa fate lì impalati?
Correte all'inseguimento! Cercate Hopps! E cercate Wilde! Via,
via!”
Con veemenza tutti i mammiferi
partirono al trotto, facendo tremare il pavimento sotto la loro
importante mole, lasciando il capitano nella cella.
Il bufalo si voltò verso il
secondino, che in silenzio provava a infilare una zampa nel water,
forzandola per passarci. Lo Yak si accorse dello sguardo sorpreso e
seccato di Bogo e si interruppe con la gamba a mezz'aria.
“Pensavo
di scaricarmi anche
io, per fare prima” mormorò, svagatamente.
Judy
atterrò nella melma, dopo
una scivolata infinita giù per le tubature.
La sporcizia e il tanfo la
circondavano e la tuta che si era messa per proteggersi non era poi
così “protettiva” come aveva immaginato;
iniziò a respirare con
la bocca, il suo naso era troppo offeso dall'odore per collaborare.
Era tutto buio e nero lì sotto,
ma aveva dalla sua un udito fino come alleato.
Tese le
orecchie in alto,
attenta ad ogni suono. Iniziò subito a riconoscere lo
scroscio di
alcune tubature e il fischio assordante di una valvola fuori fase e
il cigolio dei tubi sotto pressione: non appena si fu abituata a
tutto quel ritmico fracasso, fu facile riconoscere la nota stonata.
Il rumore acquoso di passi che si allontanavano.
Scattò all'inseguimento senza
pensarci due volte, le orecchie come radar sensibili che le
indicavano la giusta via.
Nick stava
correndo nemmeno
avesse la morte alle calcagna, usando la sua vista notturna per
orientarsi nel dedalo di gallerie delle fogne, immerse nella cieca
penombra; voleva uscire da lì al più presto, ma
non se la sentiva
di sbucare in pieno centro da uno dei tombini.
Doveva mettere quanta più
distanza possibile dalla centrale di polizia, prima che riuscissero
ad organizzarsi per seguirlo.
Scaricarsi dal water era stata
un'idea geniale, senza essere modesto. Non una delle migliori, ma di
certo geniale.
L'espressione dello Yak era
stata impagabile, quando si era lasciato andare giù.
Avevano forse creduto che
sarebbe rimasto lì a farsi condannare per qualcosa che non
aveva
commesso? Un omicida, lui, Nicholas Wilde? Era ridicolo.
Era ovvio che qualcuno lo avesse
incastrato e toccava a lui scoprire chi fosse stato.
Era immerso
nei suoi pensieri, e
anche in quelli geografici mentre pensava da quale tombino sarebbe
stato meglio uscire, quando si accorse di qualcosa di strano. Un
rumore cadenzato che prima non c'era.
Alle sue spalle.
Si voltò e intravvide un
fagotto bianchiccio che oscillava da una parte all'altra mentre si
avvicinava velocemente, con lunghi arti che sventolavano
grottescamente e mollemente all'indietro.
Non rimase lì per chiedergli
che diamine fosse, se un mostro o un fantasma, ma con un urlo si
fiondò invece in avanti, correndo ancora più
forte di prima.
“In
nome della legge ti ordino
di fermarti!” gridò il mostro, con una strana voce
camuffata.
Il fatto che fosse una creatura
apparentemente affiliata con la polizia non lo rincuorò
affatto,
anzi; non si girò a controllare a quanta distanza fosse e
prese a
zigzagare per i cunicoli, sperando di perderlo in fretta.
“Fermati!
Sei in arresto!”
gridava a più riprese il suo inseguitore, senza arrendersi.
Sempre più vicino.
Nick
occhieggiò una via di
scampo a pochi metri da sé: saltò con foga e si
attaccò alla
scaletta e vi salì freneticamente; sbatté la
testa contro la lastra
di metallo, per la fretta, e con un'imprecazione tra i denti si
sbrigò ad aprire il tombino.
Uscì all'aria aperta, fresca,
deliziosa, profumata perfino. Ma non restò lì
immobile a godersela:
saltò fuori e lanciò il tombino al suolo,
spaventando una piccola
gazzella che passava lì vicino per il gran fragore.
Poi corse via per le strade
gremite, incurante degli sguardi dei passanti e delle espressioni di
disgusto per l'odore che emanava.
“Fermati
in nome della legge!”
sentì di nuovo, questa volta più nitidamente.
Si voltò per controllare e vide
il fagotto bianco di prima che, issatosi dal tombino, si era aperto a
metà rivelando la piccola coniglietta al suo interno. Dal
cipiglio
minaccioso.
Per un secondo, gli occhi viola
e quelli verdi si incontrarono.
“Fermo,
Wilde!”
Nick non ci
pensò nemmeno e
schizzò via saltando piccole famiglie di lemmings e
scivolando sotto
le zampe di una giraffa.
Tutta la zona, perfino il
traffico, sembrava essersi congelata per assistere all'inseguimento
in diretta. Una volpe inseguita da una coniglietta.
Nick sapeva di doverla
distanziare e più in fretta possibile. Non che quella
piccoletta
fosse una minaccia, in fin dei conti, ma era pur sempre una
poliziotta e per quello che ne sapeva, poteva anche aver richiamato i
rinforzi e segnalato la sua posizione.
“Via,
spostatevi!” gridò
gesticolando, verso i piccoli topolini che affollavano il piccolo
arco d'entrata di Little Rodentia.
Piccoli squittii di paura
riempirono l'aria mentre quelli cercavano di scappare con un fuggi
fuggi scomposto.
Nick
scivolò sotto la volta in
pietra ed entrò nel piccolo e recintato quartiere di
roditori, dove
tutto era piccolo, estremamente piccolo; perfino lui, una volpe, si
sentiva come un gigante.
Fece la gimcana tra i palazzi
alti praticamente quanto lui e per le viuzze strette tanto da dover
trattenere il fiato per passarci attraverso: gli strilli dei topolini
mentre passava e faceva tremare la terra sotto i suoi passi erano
troppo flebili perché riuscisse a sentirli, ma si scusava lo
stesso
a ripetizione, davvero contrito.
“Mi
spiace, scusate, mi scusi,
sono dispiaciuto!”
“Fermo,
criminale!”
La
coniglietta si era infilata
anche lei in Little Rodentia e gli era a pochi passi di distanza,
caparbia fino al midollo. Caricava come un piccolo rinoceronte in
carica, evitando gli ostacoli e i minuscoli civili con maestria,
molto più facilitata rispetto a lui.
La volpe trattenne il fiato e si
infilò in una stretta stradina tra due palazzi, spingendosi
sempre
più a fondo; poi rimase in silenzio, con le orecchie tese
per
ascoltare, sperando che la sua inseguitrice avesse perso le sue
tracce.
La sentì passare proprio
davanti al suo nascondiglio e sorpassarlo senza nessuna idea che lui
fosse lì. Sogghignò leggermente, già
praticamente certo di averla
fatta franca, e con l'idea di poter uscire al più presto da
lì e
raggiungere Finnick.
Un
tintinnio metallico scattò
nell'aria e qualcosa iniziò a trascinarlo via dal suo
rifugio,
dall'altra parte, tirandolo per il braccio: raschiò il muso
contro
il muro del palazzo e decise di uscire fuori di sua spontanea
volontà
o avrebbe lasciato la metà del suo bellissimo pelo contro la
parete;
saltò fuori di botto e si bloccò davanti alla
piccola coniglietta.
“La
tua puzza si sente per
chilometri!” disse lei, con uno sguardo disgustato.
“Ti
dichiaro in arresto,
Wilde” continuò alzando la zampa per mostrargli le
manette, una
attorno al suo polso e una attorno al polso della volpe.
Nick
sollevò la propria zampa
senza sforzo, tirando su senza fatica la piccola coniglietta fino a
che i loro musi non furono uno di fronte all'altro: vide il piccolo
naso rosa fremere alla fine del suo, prima degli occhioni viola che
lo fissavano con stizza.
“Tu
e quale esercito,
carotina?” chiese sarcastico, facendola ciondolare appena di
qua e
di là.
“Non
ti azzardare!” tuonò
Judy offesa, colpendolo dritto sul naso con le zampe posteriori.
Nick ululò dal dolore e cadde
all'indietro, trascinando la poliziotta giù con
sé. Dal pavimento,
i due continuarono a osservarsi in cagnesco.
“Sono
l'agente Judy Hopps e tu
sei in arresto! Aggiungeremo l'evasione e l'offesa a pubblico
ufficiale alle tue imputazioni!”
Nick non voleva tornare in
prigione e non voleva che fosse quella piccola coniglietta a
riportarcelo, assolutamente.
“Senti,
carotina... Hopps,”
iniziò, scansando con un sorriso accattivante l'occhiataccia
che lei
gli mandò, “io sono innocente. So che è
una cosa che dicono
tutti, ma io sono davvero innocente! E devo cercare le prove per
dimostrarlo, da solo!”
Judy sbuffò dal naso e si
rimise in piedi, torreggiando su di lui.
“Sì,
ho già sentito questa
canzone. Sei innocente, è stato tutto uno sbaglio, e bla bla
bla.
Dammi un motivo per cui dovrei crederti.”
“Beh,
guardami. Ti sembra
possibile che una volpe piccola come me abbia potuto uccidere un
caribù? Un caribù. Solitamente alti intorno ai
due metri e beh,
pesano almeno cinque volte quanto peso io. Ti sembra
possibile?”
esclamò Nick con veemenza, strattonandola senza volere
mentre
gesticolava.
Judy rimase
in silenzio.
Certo, quello che diceva la
volpe sembrava giusto, tuttavia poteva essere una subdola mossa per
cercare di scappare, in fin dei conti. Ma anche il capitano credeva
nella sua innocenza, perciò forse avrebbe dovuto investigare
a fondo
e cercare di capire la verità. E poi Trunkaby e Higgins lo
avevano
già condannato e non l'avrebbero aiutata a fare ulteriori
indagini.
“Cosa
pensavi di fare?”
chiese guardinga, cercando di non suonare interessata.
“Vado
a fare un paio di
domande ad un amico che sa molte cose. E di certo sa anche chi
è
stato ad incastrarmi e perché. Se poi non trovassi nulla,
allora ti
giuro che tornerò in centrale di mia spontanea
volontà!”
Judy
sollevò un sopracciglio.
“Parola
di volpe, immagino.”
“Ehi,
la parola di una volpe è
onorevole e assoluta.”
“Facciamo
così: io verrò con
te dal tuo amico e ascolterò quello che ha da dire. Se mi
sembrerà
che tu sia anche solo vagamente innocente, ti aiuterò a
cercare le
prove che ti scagionino. Ma se proverai a scappare, ti
sparerò un
proiettile soporifero talmente forte da stordirti per una settimana.
Va bene, Wilde?”
Nick sbuffò e provò ad aprire
bocca, ma si trovò inchiodato al suolo dalla determinazione
della
coniglietta e non poteva in effetti chiedere una possibilità
migliore. Tuttavia non doveva mostrarsi troppo soddisfatto dalla
situazione.
“Non
credo che sia una buona
idea, carotina. Non posso farmi vedere assieme a te. Dovrai rimanere
nascosta!”
Judy
sollevò la zampa e fece
tintinnare le manette con fare provocatorio.
“Non
hai molta scelta... non
ho le chiavi” rivelò con un sogghigno, mordendosi
le labbra per
non ridere della disperazione del suo nuovo compagno di indagini.
Note:
Buona sera.
Vi chiedo innanzitutto scusa per
l'enorme ritardo, non era mia intenzione tardare così tanto
per
pubblicare il secondo capitolo. Vi assicuro che per i prossimi non ci
metterò così tanto.
A questo
punto della trama
scartata, era previsto che Nick evadesse di prigione usando fortuna e
astuzia e io ho usato l'evasione tramite water, omaggiando
così il
film.
Mi piaceva richiamare la stessa
scena e in futuro metterò altri di questi collegamenti.
È
entrata in scena Judy ed è
diversa dalla Judy che conosciamo. È più dura e
anche un po' più
cinica. Una poliziotta di ferro, tutta d'un pezzo. Chissà se
in
futuro vedremo un po' della sua dolcezza.
Vi
ringrazio per aver letto, per
la fiducia che avete dimostrato. E io mi impegnerò al
massimo!
A presto! Abbraccio!
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Capitolo 3 *** Maybe Wilde is... innocent? ***
Collaborare,
per Nick e Judy, non fu facile.
Non
era facile e nessuno dei due in realtà lo voleva, loro
malgrado.
Nick
puzzava tantissimo, tanto per iniziare, e Judy aveva uno sguardo
truce e indisponente.
Ma
quello era il meno. Sembravano non essere d'accordo su nulla.
Una
volta usciti da Little Rodentia, la loro difficoltosa collaborazione
ebbe ufficialmente inizio: la volpe prese una direzione, il coniglio
andò in quella contraria ed entrambi sbatterono una contro
l'altro
quando le manette tirarono e poi li riportarono indietro.
Si
massaggiarono i polsi doloranti e si guardarono in cagnesco ancora
una volta.
“Devi
seguirmi” esclamò Nick tirandola verso di lui, con
sfrontatezza.
Judy
puntò le zampe a terra per resistergli, con una faccia
stizzita.
“Tu
devi seguire me!”
Nick
si inchinò quel tanto che gli bastava per fissare con
arroganza il
muso della coniglietta, un sopracciglio inarcato di puro scetticismo.
“Ah
sì? Perché tu sai dove dobbiamo andare? Tu sai
dove andare a
raccogliere informazioni? Allora avanti, carotina, mostrami la
strada!”
Judy
si erse più in su che poté, le orecchie svettanti
al cielo, e lo
guardò da sotto in su. Ne avrebbe voluto dire tante, a quel
tipo, ma
la parte razionale del suo cervello le diceva che aveva ragione e che
doveva ingoiare il boccone amaro e fare come le diceva. Almeno nei
limiti del possibile. Se le avesse chiesto qualcosa che non poteva
fare, lo avrebbe semplicemente trascinato fino alla centrale e tanti
saluti alla collaborazione.
“Va
bene” accettò a denti stretti. “Fai
strada, Wilde.”
La
volpe sorrise fastidiosamente e, rimessasi dritta le fece cenno verso
destra, iniziando ad incamminarsi.
“Potresti
chiamarmi solo Nick, sai, carotina?” disse svagatamente, di
buon
umore per aver vinto la loro diatriba.
“E
tu dovresti smetterla di chiamarmi carotina, Wilde. É
offensivo. E
implica un grado di confidenza e intimità che non
c'è e non ci sarà
affatto” rispose lei secca, caracollandogli dietro.
“Perché?
È un nomignolo carino.”
“Un
coniglio può dire ad un altro coniglio che è
carino. Detto dagli
altri è offensivo!”
“Io
ho detto che il nomignolo è carino, non tu.”
Lei
gli lanciò un'occhiataccia, ma si morse il labbro per non
replicare
ancora e terminare così quell'infinito scambio di
frecciatine.
La
differenza di altezza, la distanza di Judy nonostante le manette che
li legavano assieme e il suo non sapere dove stessero effettivamente
andando, nonché il loro reciproco astio, si erano tramutati in
un'andatura barcollante e strascicata, per le strade gremite della
città, sotto gli occhi sorpresi dei più.
Sembravano
due stizzosi ubriachi ammanettati assieme.
Sarebbe
bastato anche solo quello a renderli ben visibili, senza aggiungere
che uno era un predatore e l'altra una preda, e ancora una poliziotta
e un palese furfante.
Ne
erano ben consci entrambi.
“Basta,
non possiamo continuare così” esclamò
Judy ad un tratto, fermando
bruscamente la loro bislacca camminata.
“Non
saremmo costretti, se qualcuno non avesse perso le chiavi di
queste”
replicò Nick, facendo tintinnare la manetta al suo polso.
“Non
le avrei perse, se qualcuno non mi avesse fatto correre per mezza
Zootopia e per le fogne, nella sua evasione.”
“Sì,
sì, potremmo stare qui ore a decidere chi ha fatto un torto
a chi,
carotina, ma non ci aiuterà ad andare avanti. Allora dimmi,
cosa
proponi di fare?”
“Dammi
la zampa. Almeno cammineremo un po' meno sbilenchi.”
“Ma
sei impazzita? Guarda un po' qua, cosa ti sembra che sia
questo?”
domandò la volpe, puntando un dito verso il suo collo.
Judy
fissò per qualche secondo stranita il piccolo quadratino di
plastica
e la sua luce verde.
“Un...
collare?” azzardò, non sapendo proprio
perché lui le chiedesse
una cosa così ovvia.
“Brava.
Un collare. Vuol dire che io sono un predatore, carotina. E i
predatori e le prede non vanno zampa nella zampa a spasso verso un
roseo tramonto come se nulla fosse.”
C'era
del risentimento, nel fondo della sua voce sarcastica, che Judy
captò, ma non capì. Le leggi di Zootopia erano
giuste, erano
necessarie per una civile convivenza e una pacifica coesistenza;
perché allora quella volpe sembrava metterle in discussione?
Perché
sembrava credere che ci fosse dell'ingiustizia nei suoi confronti?
“E
poi” continuò Nick, puntando lo sguardo verso
l'orizzonte, “non
ci faciliterebbe comunque. Dobbiamo arrivare a Snowy Hills, e sarebbe
meglio prima di dare davvero troppo nell'occhio.”
“Snowy
Hills? A Tundratown? Stai scherzando? Ma è lontanissimo!
Dall'altra
parte di Zootopia!”
“Puoi
indignarti e urlare quanto ti pare. È lì che
dobbiamo andare.”
“Ma
non possiamo andarci a piedi!”
Nick
piegò la testa di lato e in effetti fu costretto a darle
ragione.
C'erano molti chilometri di distanza e se con un auto ci avrebbero
messo all'incirca mezz'ora, in due, a piedi e ammanettati assieme, ci
sarebbero volute ore. Se non li avessero presi prima.
Gli
occhi scivolarono attorno, come se stesse cercando una soluzione nei
dintorni: seguì per un attimo il via vai delle macchine,
soprattutto
un grosso pickup che trasportava verdure.
“Dobbiamo
prendere il furgone di Finn” mormorò quasi tra
sé, assorto.
Judy,
che odiava essere ignorata, lo strattonò per il polso e gli
rivolse
una espressione interrogativa e anche un filino seccata.
Nick,
per tutta risposta, si incamminò nella direzione opposta a
dove
stavano andando fino a qualche attimo prima e la trascinò a
viva
forza con sé.
“Stiamo
andando dalla parte sbagliata! Cosa pensi di fare? Insomma, dimmi
qualcosa!” strepitò la coniglietta.
“A
recuperare il furgone di Finn. Al Wild Times”
replicò asciutto
Nick, con una strana aura di orrore.
Ci
misero poco a raggiungere la zona periferica. Perfino nella loro
situazione.
L'enorme
capannone entrò nella loro visuale già da molto
lontano e Nick si
sentì stringere il cuore. Gli sembrava così
solitario, così
diroccato. Era come vederlo davvero per la prima volta.
Distolse
lo sguardo serrando forte i denti, cercando di non farsi vedere dalla
dispotica coniglietta, che non avrebbe perso quell'occasione per
immischiarsi negli affari suoi.
Tuttavia,
non poté evitare di notare il nastro giallo della polizia
che
circondava la costruzione, rendendo il tutto solo più
grottesco.
L'unica
nota positiva era la mancanza di poliziotti in vista. A parte quello
che aveva legato al polso, ovviamente.
Virarono
verso sinistra, allontanandosi dal magazzino, un po' verso il fiume.
Vicino ad un vecchio ponticello diroccato, c'era un piccolo furgone
dalle tonalità rugginose, o forse era arrugginito per
davvero, e con
un'aerografia sul fianco piuttosto fantasy, con una volpe guerriero
che reggeva una bella volpacchiotta in maniera drammatica e epica,
contornati da fulmini.
Judy
storse appena il naso al vederlo, ma non disse nulla. Nick la
trascinò verso la parte del guidatore e aprì la
portiera grigia,
palesemente presa da un furgone diverso, scostò la pila di
libri che
servivano al suo piccolo amico per arrivare a vedere oltre il
cruscotto e si arrampicò sopra il sedile.
Poi
si bloccò.
Guardava
fisso di fronte a sé, sconvolto. E rimase così
per un minuto buono.
“Che
c'è? Allora?” lo scosse Judy, la pazienza ormai
sottile sottile.
“Le
chiavi. Non ci sono le chiavi.”
Si
voltò e lo sguardo che piantò negli occhi viola
della coniglietta
era ricolmo di paura.
“Sono
al Wild Times. Nel mio ufficio” disse quasi monotono,
prendendo un
gran respiro.
Dritto
nella scena del crimine.
“Non
dovremmo essere qui” sussurrò Judy, seguendolo
comunque
silenziosamente oltre la soglia del magazzino.
Erano
passati sotto i nastri gialli e si erano intrufolati all'interno: non
era stato difficile, dato che la porta era stata buttata giù
nell'incursione; avevano cercato di rimediare con assi inchiodate
alla bell'e meglio. Avrebbero tenuto alla larga i più, ma
per due di
piccola taglia come loro non erano certo un deterrente.
“Sono
d'accordo con te, questa volta” rispose sottovoce Nick,
facendo
strada nella penombra. Evitò di guardarsi troppo in giro,
gli faceva
male, male fisico, vedere il suo paradiso con gli occhi di un
sospettato.
Tutto
era stato scoperto, violato, sporcato.
“Ma
non possiamo fare diversamente. Dobbiamo prendere le chiavi.”
Per
Judy la situazione era differente. Cercava di vedere fin dove poteva,
studiando le varie attrazioni con occhio critico, chiedendosi a quale
uso fossero predisposte e quale il loro scopo; le sembravano inutili
e una perdita di tempo.
Perché,
si chiedeva, i predatori sentivano il bisogno di un posto del genere?
Oltrepassarono
le montagne russe dell'urlo ed eccola lì, la porta
dell'ufficio. La
porta degli orrori.
Di
nuovo, Nick si bloccò, e rimase a fissarla. La lucina verde
del suo
collare si rifletteva sulla sua superficie lucida, ma il suo cervello
bloccato non registrò l'informazione: il sistema informatico
era
stato disattivato e probabilmente anche portato via.
Fu
Judy, a spezzare gli indugi: allungò la zampa verso la
maniglia e la
abbassò decisa, spalancando l'uscio.
Lentamente,
un rettangolo di stanza si svelò a loro, immersa
nell'oscurità. Un
forte odore, penetrante, invase all'istante le loro narici. Sapeva di
ferro, ma era nauseante.
Judy
entrò per prima, e Nick non poté fare altro che
seguirla, suo
malgrado. La osservò nel buio mentre cercava a tentoni
l'interruttore della luce. Capendo che stava solo rimandando
l'inevitabile, tese il braccio e premette il pulsante,
impercettibilmente.
La
luce giallognola e accecante illuminò la stanza e il
malessere si
fece più forte, in lui. Il suo ufficio, il suo amato
rifugio,
era sottosopra e in completo disordine: cassetti tolti dalle loro
guide e lasciati a terra capovolti; fogli e fogli che tappezzavano il
pavimento in legno scuro, quasi nero, trasformandolo in una confusa e
scomposta scacchiera; tutti gli oggetti preziosi della sua vita
lanciati al suolo o poggiati su ogni superficie con noncuranza. E
sangue, sangue ovunque.
Il
cuore si strinse per un secondo, prima che vedesse la sagoma a terra,
tracciata con nastro bianco contro il nero, sbozzata, senza dettagli,
ma dalla inequivocabile forma: un enorme mammifero.
Distolse
lo sguardo, disgustato. Anche se fosse stato scagionato e avesse
potuto per miracolo tenere aperto quel posto, niente sarebbe stato
più come prima. Avrebbe sempre visto quella sagoma, incisa
dietro
agli occhi.
Judy
non era così impressionata. Non era coinvolta con quel posto
e
quella non era la prima scena del crimine che vedeva,
sfortunatamente: si avvicinò con cautela, spostando lo
sguardo
attorno.
Il
naso fremette, leggermente.
Qualcosa
scattava nella sua mente e il suo talento nell'analizzare ed
estrapolare ciò che era importante davvero stava affiorando.
C'era
qualcosa di strano, lì dentro.
Il
referto diceva che la vittima era stata colpita dodici volte,
soprattutto al collo e al torace, ma gli schizzi di sangue, sebbene
estesi, non sembravano abbastanza per convalidare quel resoconto.
Sarebbero dovuti arrivare fino al soffitto, data l'altezza della
vittima e la violenza del colpo, ma così non era.
E
il corpo, ricostruendo nella mente dove dovesse essere dalle tracce,
avrebbe dovuto sbattere contro il bordo della scrivania nella caduta
verso il basso. Ma era distante almeno mezzo metro.
Sembrava
tutto molto artificioso. Quasi costruito. Perfino nel disordine,
sembrava esserci una fin troppa sistematicità.
Spostò
fugacemente lo sguardo verso la volpe al suo fianco, per un solo
secondo.
Avrebbe
dovuto dirgli cosa pensava di aver scoperto?
Non
sapeva se poteva fidarsi, ancora. C'erano ancora troppe domande e
misteri, in quella storia.
Decise
di tenere tutto per sé, per il momento, e vedere cosa la
collaborazione con Wilde avrebbe portato. Alla fine avrebbe anche
potuto trovare la conferma e le prove che era lui il colpevole, in
fin dei conti.
Nick,
ignaro, si sentiva quasi soffocare lì dentro, e decise che
ne aveva
abbastanza: si avvicinò alla scrivania e alla sua sedia
accasciata a
terra e prese a frugare, lanciando tutto ciò che trovava
sotto le
zampe. Voleva andare via da lì più in fretta
possibile.
“Ti
do una zam-”
Nick
si scostò quasi bruscamente, sovrappensiero. Si accorse solo
dall'espressione sorpresa di Judy di come avesse reagito.
“Le
ho trovate. Andiamo” mormorò frettolosamente,
mostrandole le
chiavi.
Ci
fu un secondo di tensione, poi distolsero entrambi lo sguardo e si
avviarono all'uscita. Nick si fermò di colpo appena prima
della
porta, occhieggiò intorno e corse verso la poltrona logora
dell'angolo, su cui si era accasciato uno scheggiato attaccapanni:
afferrò con riverenza un elegante cappotto scuro, lungo e un
po'
grande per essere il suo, che spolverò con pacche decise, ma
gentili.
Judy,
trascinata a viva forza, rimase basita dalla sua premura nel
stringerselo al petto mentre uscivano.
E
lui intercettò il suo sguardo.
“Era
di mio padre” si sentì in dovere di dirle,
accorato. Pieno
d'affetto e anche di dolore.
Incredibilmente,
Judy non provò a fare altre domande, nonostante
avvertisse che
fosse importante.
Uscirono
dall'edificio in silenzio, senza voltarsi.
La
centrale di polizia del primo distretto era insolitamente quieta.
Più della metà dei suoi poliziotti era fuori a
pattugliare le
strade alla ricerca del fuggitivo Wilde e della scomparsa agente
Hopps. Quella sconsiderata era andata via senza nemmeno portare con
sé la ricetrasmittente.
Bogo
sospirò forte, al pensiero. Judy Hopps sarebbe stata la
causa
dell'infarto che lo avrebbe stroncato troppo presto o della pazzia
che lo avrebbe colto ad un certo punto.
Erano
passate più di due ore dall'evasione e fino a quel momento
c'era
stato silenzio radio. E la pazienza diventava via via più
sottile.
Premette
sull'interfono, spazientito.
“McHorn!
Dammi notizie! Contatta Higgins immediatamente!”
ordinò
categoricamente. Dall'altra parte rispose un ligio
“sissignore!”.
Tamburellò
con le dita sulla scrivania, continuando a fissare il telefono con
insistenza, al limite della sopportazione.
Quello squillò una volta e Bogo
premette il pulsante del vivavoce con premura.
“Higgins
a rapporto, signore” gracchiò una voce,
leggermente distorta.
“Qual
è la situazione?”
“Il
sospettato Wilde è stato visto entrare in Little Rodentia,
seguito
dall'agente Hopps, Capitano. È stato difficile entrare e
cercare dei
testimoni.”
“Cosa
hanno detto, Higgins! E che fine ha fatto Hopps?”
“Sembra
che Wilde sia entrato per primo e che Hopps gli sia andata dietro.
C'è stato un inseguimento per il quartiere, ma poi i
testimoni sono
discordanti. Alcuni dicono di aver visto il sospettato sequestrare
l'agente, un altro che sono andati via assieme, altri che Hopps non
era nemmeno lì. Ma erano tutti troppo distanti, probabile
che non
abbiano visto bene.”
Bogo
sbatté il pugno contro la scrivania, frustrato.
“Non
voglio probabilità! Voglio fatti! Voglio sapere dove sono
andati e
voglio sapere che ne è dell'agente Hopps! Continuate a
cercare a
tappeto. Se tra un'ora non mi arriveranno buone notizie,
verrò a
raddrizzarvi le schiene, di persona. Sono stato chiaro?”
“Sì,
signore!”
La
chiamata si interruppe con un sonoro sospiro, da entrambe le parti.
Bogo si stropicciò gli occhi stanchi, poggiandosi allo
schienale
della sedia. Non dormiva da più di ventiquattro ore e sapeva
che
avrebbe dovuto prendere in mano quella situazione, presto o tardi, e
che avrebbe riposato ancora meno.
Ma
era un caso troppo importante.
L'interfono
trillò e la lucina rossa si accese.
Si
sporse in avanti, sbuffando impercettibilmente, e premette il
pulsante.
“Che
c'è?”
La
voce di McHorn replicò professionale:
“Ha
chiamato l'ufficio del sindaco, signore. L'aspettano urgentemente per
parlare del caso Wilde.”
Bogo
si accasciò ancora una volta contro lo schienale e chiuse
gli occhi.
La giornata andava decisamente di bene in meglio.
Judy
fermò il furgone in una distesa di neve, a perdita d'occhio.
Aveva
guidato attraverso Sahara Central, Downtown e poi Tundratown. Nick
aveva insistito che data la posizione delle manette, e per la
configurazione del furgone per piccoli guidatori, sarebbe stato
meglio se avesse guidato lei. Insomma, aveva trovato un sacco di
scuse.
Judy
sospettava che la volpe non sapesse semplicemente guidare e che si
vergognasse di ammetterlo. Non c'era nessuna configurazione per
piccoli guidatori, in fin dei conti, solo una pila di libri per
permettere di toccare il volante.
Comunque,
erano infine arrivati. Aveva seguito minuziosamente le sue
indicazioni e in quel momento, attraverso il parabrezza che si stava
velocemente condensando col loro fiato caldo, guardavano il locale
alla periferia di Snowy Hills, tutto candidamente avvolto dalla neve.
Come
tutto del resto.
L'enorme
insegna al neon rossa formava la scritta: Koslov's Palace. La
sua
luce tingeva la neve attorno, sembrava brillare del colore del
sangue.
“Allora,
cosa ci facciamo qua?” domandò la coniglietta,
poggiandosi al
volante per poter scrutare meglio fuori. Un leggero nevischio
scendeva dal cielo, quasi impalpabile.
“Quel
locale appartiene a Koslov. È il capo della mafia di
Tundratown, ma
ha agganci praticamente in ogni parte di Zootopia”
rivelò in un
soffio Nick, affossato nel suo sedile con malumore.
Lei
spalancò gli occhioni e si voltò a guardarlo,
sconvolta.
Un'informazione del genere, servita così, a bruciapelo. Le
fremevano
le zampe all'idea di fare irruzione e arrestare un pesce
così grande
della malavita.
“Se
c'è qualcuno che sa cosa sta succedendo, è lui.
Devo entrare a
fargli delle domande” continuò Nick. “Ma
tu non puoi ovviamente
farti vedere. Se Koslov avesse anche solo il sospetto che stessi
collaborando con la polizia o che fossi un informatore, mi farebbe
fuori senza alcun rimorso.”
“E
allora troverai qualche difficoltà. Come pensi di risolvere
il
problema di queste?” replicò Judy alzando il
braccio ammanettato,
facendo tintinnare lievemente la catena.
E
Nick, inaspettatamente, sorrise. Sollevò il cappotto che
teneva
ancora tra le braccia e lo tenne in alto.
“Con
questo” rispose tranquillamente, ghignando della sua
espressione
confusa.
Note:
Buona
sera a tutti!
Scusatemi
ancora. Ce la sto mettendo tutta per essere veloce nel pubblicare, ma
non è semplice. La storia è tutta nella testa,
completa, ma il problema sono
Judy e Nick.
Muoverli
in modo da mantenerli IC e allo stesso tempo col carattere come era
stato pensato all'inizio è molto difficile. Sto lavorando
molto
nelle loro interazioni, sono minuziosa perché sto cercando
di farli
esprimere al meglio, di renderli verosimili.
Spero
di esserci riuscita.
La
loro collaborazione è iniziata, ma i misteri sono tanti e
dovranno
cercare di andare d'accordo per arrivare fino alla fine e
chissà
come finirà.
Ho
fatto uno schizzo di mappa per farvi vedere le distanze. Abbiate
pazienza, l'ho fatta in dieci minuti, so che è orribile.
Appena ho
tempo ne farò una dettagliatissima. In internet non se ne
trovano.
Grazie
mille per la fiducia, per i preferiti, i vostri bellissimi commenti.
Grazie!
Abbraccio
|
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Capitolo 4 *** I'll scratch your back if you scratch mine ***
La
neve scricchiolò sotto le zampe per l'ultima volta, poi Nick
si
bloccò sul gradino del locale, proprio sotto la sua tettoia
innevata. Guardava l'enorme porta di legno spesso e respirava a
fondo, creando brevi nuvolette di fiato caldo che svanivano in un
istante nell'aria.
Non
c'era ormai modo di tornare indietro.
Gettò
una fugace occhiata intorno e, una volta sicuro che non ci fosse
nessuno, parlò:
“Tutto
bene, carotina? Andiamo?” chiese sottovoce.
“Andiamo!”
fu la decisa risposta, dalle sue spalle. Sebbene, appunto, non ci
fosse nessuno attorno.
C'era
solo lui, infagottato nel grande cappotto nero che risaltava come
inchiostro a contrasto con la candida neve; aveva uno strano, piccolo
rigonfiamento nella schiena però che, quando la voce della
coniglietta gli aveva risposto, si era mosso impercettibilmente.
Judy
Hopps era tenace, quello sua mamma gliel'aveva ripetuto tante volte,
mai come un complimento. Anche suo padre lo ripeteva sempre, usando
come similitudine l'edera e la sua caparbietà.
Mai,
come in quel momento, Judy sentì vere quelle parole.
Era
letteralmente avvinghiata come edera a Wilde e si reggeva con
caparbietà e tenacia per non scivolare giù con
ogni fibra del suo
essere.
Perché
la magnifica idea di quell'idiota di volpe, non era niente di geniale
e non era per niente facile.
Aveva
sollevato il cappotto come se fosse stato la risposta a tutte le
domande dell'universo e invece, aveva solo pensato di nasconderla al
di sotto. Che genio.
Lei
gli aveva fatto sarcasticamente notare che non avrebbe funzionato, e
poi lo aveva insultato per aver anche solo pensato che potesse
infilarsi là sotto insieme a lui, con quel tanfo che
emanava. Nick
aveva aperto la portiera del furgoncino, l'aveva trascinata fuori e
poi si era buttato nella neve e ci si era rotolato avanti e indietro
per interi minuti, per eliminare la puzza, nonostante le temperature
sottozero e un venticello glaciale che prendeva a schiaffi.
Tutto
per accontentarla.
Dopo
quello, Judy non se la sentì davvero di andargli contro
ancora.
Accettò con un sospiro sconfitto.
Nick
aveva cercato di convincerla che dovesse nascondersi davanti e
avvinghiarsi al suo torace, ma lei, ovviamente, aveva negato
categoricamente e proposto invece la schiena. Anche se la posizione
sarebbe stata, ed era in effetti, molto più complicata.
Schiena
contro schiena, il braccio sinistro di lui e quello destro di lei
legati dalle manette, infilati nella manica: l'avrebbe lasciato molle
lungo il fianco, per non far piegare l'articolazione di lei in modo
strano e arrecarle dolore; l'altro braccio della coniglietta era
libero e lei lo usava per ancorarsi al suo torace, usando anche il
sostegno delle gambe, che gli cingevano i fianchi. Sarebbe anche
potuta sembrare una posizione vagamente erotica, se il tutto non
fosse stato così assurdo.
Il
cappotto copriva entrambi, spuntavano solo le punte delle zampe di
Nick da sotto il bordo e la sua testa oltre il bavero alzato del
colletto. Nemmeno la sua coda, era visibile.
Era
solo un po' più grosso e curvo del solito, non potevano
accorgersene, sperava. Completava quello strano camuffamento un nero
berretto di lana di Finn, trovato nel furgone.
Comunque,
presa ormai la decisione e avendo ricevuto l'ok della poliziotta,
Nick si decise e allungò la zampa solitaria verso la
maniglia e la
abbassò: spinse con forza il pesante portone ed
entrò nel locale,
con un passo sicuro.
Rimase
un secondo lì, incorniciato dalla soglia, a guardare
l'ambiente ed i
suoi avventori: un locale scuro, denso, seppure scavato interamente
nel ghiaccio, dalle pareti al mobilio, fino al bancone del bar; le
luci smorte e rosse creavano un'atmosfera intima e riservata,
illuminando tenuemente le sottili lastre. Era tutto soffuso, velato.
Frequentato
da molti orsi polari, un paio di trichechi appoggiati al bancone, una
coppia di foche seduta in un tavolino in fondo e perfino mammiferi
non proprio dell'ambiente che sfidavano le temperature polari, come
orsi bruni, una pantera e un leone.
Chiacchieravano
e bevevano, seduti sulle sedie di ghiaccio come se fossero comode
poltroncine imbottite.
Nick
si accorse di avere attirato l'attenzione di alcuni e si
affrettò ad
entrare e chiudere la porta, oscurando così quel frammento
di luce
bianca che era filtrato al suo ingresso; si avvicinò al
bancone a
piccoli passetti, per evitare che eventuali sobbalzi potessero far
cadere la coniglietta abbarbicata alla sua schiena.
L'orso
dietro al bancone lo seguì per tutto il tragitto con lo
sguardo,
finché la volpe non si fermo oltre il bordo lucido e
splendente e
non sollevò la testa per guardarlo.
Smise
di lustrare il bicchiere con lo straccio e sollevò un
sopracciglio
nella sua direzione, come a chiedergli che cosa volesse.
“Un...
un Midnicampum holicithias” chiese Nick titubante, leggendo
il nome
scritto nel cesellato tabellone dei cocktail alle spalle del barista.
Quello
mandò anche l'altro sopracciglio in alto a seguire il
compagno e poi
aprì bocca.
“Non
ce l'abbiamo. Qualcos'altro?”
Nick
fece finta di leggere ancora, piegando la testa con fare assorto.
Posò lo sguardo su un punto qualunque e rispose:
“Un Night Howler,
doppio, liscio, bicchiere di ghiaccio.”
Non
c'era niente del genere, scritto nel listino. E sia Nick che il
barista lo sapevano.
Fin
dalla sua prima parola era stato uno scambiarsi di codici segreti,
nella sequenza giusta.
L'orso
barman poggiò il bicchiere al bancone con un colpo secco,
attirando
l'attenzione di un altro orso polare che osservava distrattamente una
macchinetta del gioco d'azzardo all'angolo, a cui un suo amico stava
giocando: intercettato lo sguardo del barista, però, smise
quella
sua copertura e occhieggiò Nick, poi di nuovo il barista che
annuì
in silenzio.
“Accomodati
nella saletta interna. Arriva tra un attimo” disse quello con
nonchalance, voltandosi per mescere il cocktail dopo avergli indicato
la porta.
Non
che fosse difficile vederla. C'era l'orso di poco prima che ci stava
proprio davanti, enorme, vestito in un elegante completo scuro che
faceva a pugni con l'ambiente distinto ma non così
raffinato: lo
squadrò da sotto in su per qualche istante e poi si fece da
un lato
e lo lasciò passare.
Oltre
la soglia, c'era un intimo studio in penombra, anch'esso scavato e
scolpito nel ghiaccio e illuminato dalle stesse luci rosse. Una
volta oltre, la porta gli si chiuse alle spalle.
Nello
stesso istante, due orsi spuntarono fuori dalle ombre e si fiondarono
su di lui, minacciosi, tendendo le zampe per perquisirlo.
Era
spacciato. Avrebbero trovato carotina aggrappata alla sua schiena e
li avrebbero uccisi entrambi. Il suo cuore accelerò o forse
era
quello frenetico della coniglietta che gli rimbombava dentro. Era
rigida, tesa, emanava un intenso calore che lo avvolgeva e schermava
contro il gelo, e lui percepiva ogni più piccola variazione
nel suo
corpo, ogni turbamento che la scuoteva, che la faceva fremere. Era
snervante, stare schiena contro schiena e condividere le emozioni
l'uno dell'altra, la paura condivisa, eppure diversa.
Era sfinente.
“Raymond!
Kevin!” ordinò secca una grossa voce e i due orsi
si fermarono
appena prima di toccarlo e si voltarono verso le loro spalle, con
riverenza.
C'era
una grande scrivania di ciliegio, pesante e spartana, ricoperta di
brina negli angoli; dietro, su una grande poltrona, era seduto un
ancor più enorme orso polare, gigantesco in confronto agli
altri due
e infinitamente più minaccioso. Il nero del suo completo era
così
vivido da spiccare nitidamente sul pelo immacolato.
Bastò
una sua sola occhiata perché i suoi scagnozzi si facessero
da parte
e si mettessero ognuno in un angolo della stanza, in silenzio.
“Non
ce n'è bisogno. È Nick. È di
famiglia!” esclamò, aprendo le
braccia per accoglierlo, un gran sorrisone sul muso.
La
volpe si avvicinò pian piano, mantenendo il contatto visivo;
se
avesse avuto anche solo un sospetto, il suo umore si sarebbe
rivoltato drasticamente.
“È
un piacere vederti, Koslov” disse con la sua più
convincente
faccia di bronzo, accostandosi per permettergli un imbarazzante e
fugace abbraccio, come da tradizione.
Che
lui non aveva mai capito, ma rispettava o sarebbe morto.
Sperò
che Koslov non sentisse il corpicino della coniglietta e si
staccò
in fretta per evitarlo.
“Cos'è
questo travestimento? E questo bozzo molliccio sulla
schiena?”
domandò invece e infatti quello, aggrottando in fretta le
sopracciglia e scoprendo parzialmente i denti. “Non avrai
mica un
microfono?”
Nick
si affrettò a togliere il berretto e sbottonò il
primo bottone del
cappotto, con un sorriso mellifluo, nascondendo la paura nel fondo
dello stomaco.
La
coniglietta si era irrigidita, ma lui non aveva tempo per pensare
anche a quello.
“No,
no, scherzi? Sono ricercato! Mi sono travestito e pensavo, sai, se
fossi assomigliato ad un armadillo... ho dovuto
improvvisare!” gli
rifilò bellamente la volpe, mettendo su una faccia
oltraggiata per
il suo sporco sospetto. Dio, se fosse sopravvissuto avrebbe fatto
domanda come attore.
Koslov
lo fissò dubbioso
per
interminabili secondi e Nick si impedì anche di deglutire
per paura
di essere scoperto.
Poi,
l'orsone ghignò all'insù, e batté una
mano contro il tavolo,
facendo trasalire sia lui che la sua piccola parassita.
“Il
buon vecchio Nick. Astuta volpe!”
Sogghignarono
tutti con quella che sembrava più una paresi facciale, in un
silenzio attonito e nervoso, in attesa della prossima mossa del boss.
Koslov si appoggiò soddisfatto contro lo schienale della
sedia e
fece segno a Nick di sedere in una piccola e dimessa poggiata contro
una parete. In genere, nessuno si sedeva in quell'ufficio tranne
Koslov, per mantenere i suoi ospiti sempre sul chi vive. Sempre sulle
spine.
Nick
si avvicinò alla sedia e si sedette lentamente, cercando di
far
coincidere la forma del loro groviglio di corpi per dare un po' di
sollievo alla coniglietta: si appoggiò allo schienale solo
leggermente, per permetterle di puntellare le ginocchia e rilassarsi
per un poco, anche se lui moriva dal mal di schiena. Ma
chissà come
soffriva lei.
“Allora,
Nick, dimmi perché sei qui” tagliò
finalmente corto il grosso
orso, smettendola con i convenevoli.
“Sai
perché sono qui. Hai sentito sicuramente cos'è
successo.”
Koslov
ghignò con l'aria di saperla lunga, quasi pregustandosi quel
momento
fisicamente.
“Oh
sì. L'omicidio. Sei stata davvero una volpe cattiva,
Nick” mormorò
stuzzicandosi un canino con la punta della lingua, come se sentisse
il sapore del sangue solo al pensare al misfatto.
Nick
sobbalzò disgustato e Judy gli rifilò un
pizzicotto al braccio per
farlo calmare, ignorato bellamente da lui che si sollevò un
poco
sulla sedia, sporgendosi verso il boss.
“Sono
stato incastrato! Andiamo, mi ci vedi ad ammazzare qualcuno?
Io?”
“Perché
no? Siamo predatori, in fin dei conti. È nel nostro DNA.
L'eccitazione della caccia, il sangue che scorre fin nella testa
mentre i sensi si acuiscono, il cuore che lo pompa rimbombando come
un tuono! Non ti solletica il desiderio anche il solo
pensarci?”
Di
nuovo, Nick sentì il battito scuoterlo con forza e si rese
conto
quella volta che era quello della poliziotta proprio dietro al suo,
che batteva impazzito di orrore e forse anche un pizzico di paura.
Credeva
forse alle parole di Koslov? Credeva che lui potesse aver ucciso
qualcuno e provato piacere nel farlo?
“Io
sono innocente! E sono qui per investigare e provarlo!”
“Oh,
ecco cosa vuoi, allora. Informazioni, Nick? Informazioni per
scagionarti?”
“Devi
sapere qualcosa. Anche dettagli che ti sembrano inutili, ma che
possono aiutarmi!”
“Forse.
Forse sì, forse no.”
Si
squadrarono in silenzio, nessuno dei due intenzionato a cedere di un
passo.
“Forse
so qualcosa, Nick. Ma, questo qualcosa ha un prezzo. Ricordi? Io
gratto la tua schiena, se tu gratti la mia.”
“Cosa
vuoi, Koslov? Non mi rimane più nulla.”
“Oh
no, non sottovalutarti così. C'è qualcosa che tu
hai e io voglio.”
Nick
spalancò gli occhi, abbassò le orecchie, colpito
da un ricordo.
“Il
sistema informatico per i collari” sussurrò tra
sé, anche se dal
sorriso sul muso di Koslov doveva averlo sentito perfettamente.
“Il
sistema per disattivare i collari. Sì, è quello
che voglio”
esclamò quello, dandogli ragione.
Quando
Koslov aveva accettato di prestargli i soldi per aprire il Wild
Times, -dato che le banche, in mano a sole prede, si erano tutte
rifiutate di darglieli,- l'orso si era interessato soprattutto al
sistema informatico che disattivava i collari e la loro funzione di
stordimento, e ne aveva fatto richiesta a Nick, nemmeno troppo
velatamente.
Ma
Benjamin si era categoricamente rifiutato di cedere alla mafia il suo
programma. Aveva minacciato Nick di disattivarglielo se avesse anche
solo provato a mostrarlo al boss o rivelato il suo nome.
E
non c'era da scherzare con Benjamin. A dispetto del suo aspetto
morbidoso e pacioccone era un genio dei computer paranoico e
complottista e non ci avrebbe messo neanche un secondo a mandare in
corto un collare e a far provare al proprietario una scarica
elettrica mica da ridere.
Forse
poteva anche uccidere, tramite collare. Meglio non scoprirlo mai, si
era detto.
“Sai
che non posso. Cla- il programmatore non vuole che si diffonda e non
vuole essere trovato. Non potrai parlargli e persuaderlo
a
dartelo.”
Anche
perché sapeva per quali affari Koslov lo avrebbe usato ed
era
proprio per quello che Ben non voleva darlo a persone di cui non si
fidava.
“È
un peccato, Nick. Allora la nostra piacevole discussione finisce qui,
tanti auguri con la polizia” disse brusco l'orso, facendo un
cenno
ai suoi due sottoposti con una zampa.
Nick
sentì il rumore di passi e si alzò in fretta,
scivolando quasi
dietro alla sedia del boss per sfuggire loro: Judy dovette essere
stata presa alla sprovvista, perché scivolò un
poco verso il basso,
sentì la sua zampa slittare senza presa sul suo torace,
prima che
gli artigliasse dolorosamente lo stomaco. Si morse l'interno della
guancia per non urlare.
“Ok!
Ok, forse... forse posso parlargliene. Lo convincerò io,
spiegherò
che ho barattato il programma con la mia libertà,
garantirò per
te!” strillò invece con urgenza, prima che Kevin e
Raymond lo
acchiappassero.
Judy
lo pizzicò come a chiedergli se facesse sul serio e Nick si
limitò
a tirare su le spalle per farle capire che no, non aveva nessuna
intenzione di cedere alla richiesta, ma che era meglio fargli credere
il contrario, se volevano sopravvivere.
Koslov
sembrò aver sentito proprio ciò che si aspettava:
rimandò i suoi
scagnozzi ai loro posti e si voltò a guardare Nick, che non
sembrava
intenzionato a spostarsi da dietro la sua sedia.
“Perfetto.
Mi fido della tua parola, sai che non ti conviene mentirmi”
soffiò
gelido l'orso, per un momento. Quello successivo sorrideva affabile,
assurdamente contento.
“Allora
ti dirò quello che so. So che questo omicidio non
è il primo che
accade al Wild Times” rivelò, lanciando la notizia
come una bomba.
“Cosa?”
strillò Nick e fu quasi certo di aver sentito anche la
coniglietta
lasciare andare un gemito di sorpresa, fortunatamente non udito da
nessun altro. Per quanto riguardava lui, era troppo sconvolto per
fare un gesto e metterla all'erta.
“Un
mese fa, nel magazzino, vicino alla vasca dei gomitoli, è
stata
uccisa una gazzella. Finnick ci ha chiamato, l'ha trovata di prima
mattina, dopo che tutti se n'erano andati”
raccontò Koslov con
estrema delizia.
Forse
nel vedere la sua espressione attonita trasformarsi in dubbio.
“Finnick
ha detto che non l'ha uccisa lui. L'ha solo trovata e non sapendo
cosa fare ci ha chiamati per... disporre del corpo. Ce ne siamo
occupati noi, tranquillo, ci ha già pagati.”
A
Nick non fregava assolutamente niente di come avesse pagato l'amico o
cosa avesse dovuto dargli o promettergli per i loro servigi.
Era
troppo sconvolto dalla notizia e da tutte le sfumature che
comportava: se era vero perché Finnick non gli aveva detto
niente?
Se era vero come era possibile che fosse successo nel suo paradiso, e
per ben due volte? Chi aveva ucciso la prima vittima e chi quella per
cui lui era stato accusato? E perché?
C'era
un serial killer, tra i suoi clienti?
Koslov
lesse le sue domande nelle sue espressioni. Si accese un sigaro con
gesti lenti, spegnendo la fiamma del cerino con un gesto secco della
zampa, e dopo aver tirato una boccata, parlò:
“Sai,
le prede sono stupide. Non c'è bisogno di
aggressività o sete di
sangue per uccidere. Serve solo una pistola. Un'arma. Nessuna
emozione. Nessuna violenza. Solo un bang. Non c'è nessuna
differenza
tra predatori e prede: tutti posso sparare ad un altro. Tutti possono
uccidere qualcun altro.”
Emise
una grande voluta di fumo dalla bocca, compiaciuto, inondando la
stanza.
Nick
non aveva capito se Koslov volesse suggerirgli che potesse essere
stata una preda ad ucciderne un'altra o se invece intendesse dirgli
che poteva essere stato chiunque e non necessariamente un cliente del
Wild Times.
Ma
allora perché ucciderli nel suo paradiso? Qual era il
motivo, se
c'era? Solo per incastrare lui? Chi lo odiava a tal punto?
Fece
per aprire bocca, per domandargli risposte più concrete, ma
contemporaneamente un lieve colpo di tosse fin troppo forte e acuto
risuonò nel silenzio, spezzandolo.
Nick
sussultò e alzò le orecchie e i suoi occhi si
spalancarono di
orrore. Koslov strinse gli occhi a fessura e Kevin e Raymond si
guardarono un secondo e poi tirarono su le spalle minacciosi,
fissando lui.
Avrebbe
potuto dire che aveva tossito a bocca chiusa, che il fumo gli era
entrato nel naso e non aveva fatto in tempo e che per quello il suono
era sembrato strano... avrebbe potuto trovare una scusa in fretta e
salvare la situazione, ma la coniglietta non era del suo stesso
avviso; forse si era stufata di stargli appesa alle spalle, forse
pensava che ormai fosse stata scoperta senza possibilità di
riparo:
velocemente sgusciò dal suo nascondiglio, sfilando il
braccio
incatenato dalla manica del cappotto assieme a quello della volpe e
scendendo in contemporanea dalla sua schiena.
Apparve
così in fretta che i tre orsi non ebbero il tempo di reagire
o forse
non si aspettavano davvero che quel bozzo nascondesse un essere
vivente, pulsante, in carne e ossa; ci furono occhi sorpresi che si
trasformarono all'istante in sguardi minacciosi mentre le zampe
correvano alle armi e un paio di occhi viola che da guardinghi e
risoluti si tramutarono in un secondo in disperazione nel constatare
che lei non arrivava alla sua arma, legata in vita al fianco destro.
Il
paio di occhi verdi erano terrorizzati, spalancati di orrore.
“Una
poliziotta?” strillò Koslov con la bava alla
bocca, spingendo
indietro la sedia con disprezzo e disgusto.
“Hai
portato la polizia nel mio locale? Da me? Hai osato tradirmi,
Nick?”
sbraitò fuori controllo, alzandosi in tutta la sua imponente
altezza, che nonostante tutto non impediva la traiettoria di tiro
delle due pistole a narcotici puntate contro di loro.
Kevin
e Raymond non li avrebbero persi di vista, né mancati,
nemmeno
volendolo.
Nick
gesticolava furiosamente cercando di spiegarsi, facendo tintinnare le
manette e balbettando per trovare le parole giuste che potessero
salvarli, ma non gliene veniva nessuna che potesse aiutarli. Nessuna
che potesse far scomparire quella rabbia omicida dalla faccia di
Koslov.
Judy
al contrario, a parte la paura per non riuscire a raggiungere l'arma,
era spavalda e inferocita, come scudo il suo piccolo distintivo
appuntato al petto.
“Sono
l'agente Hopps! Vi dichiaro in arresto! Rispondere-”
Fece
un gesto di troppo. O disse qualcosa di troppo.
Con
sibili morbidi piccoli dardi saettarono nell'aria, sparati dalle due
pistole degli scagnozzi e si conficcarono uno dopo l'altro nel
piccolo ed esile corpicino nervoso, che si contorse come al
rallentatore quando le punte penetrarono la carne.
Uno.
Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei.
Sette
colpi.
Avrebbero
svuotato i caricatori su di lei, completamente, se non si fosse
accasciata d'improvviso al suolo, inerte. Nick si sentì
trascinare
in giù per il braccio incatenato.
Era
rimasto immobile a guardarla mentre veniva colpita, mentre il
sedativo entrava in circolo nel suo corpo e la stendeva implacabile,
trasformandola in una bambola di pezza.
Non
aveva fatto niente. Non aveva provato a mettersi di fronte a lei o a
spostarla.
Niente.
E
ancora la guardava, fermo, incapace di reagire. C'era una parte del
suo cervello che si chiedeva se tutto quel sedativo in un corpo
così
piccolo non fosse pericoloso, se non potesse portarla alla morte. E
quel pensiero gli ghiacciò il sangue come tutto il freddo di
Tundratown non aveva ancora fatto.
Prese
la coniglietta tra le braccia e nel farlo, alcuni dardi si staccarono
dal suo corpo e caddero al suolo tintinnando sinistramente. Quel
suono lo rese ancora più risoluto, in un certo senso.
Allungò
la zampa verso il fianco destro della poliziotta, lui ci arrivava
benissimo, e prese la sua pistola: era piccola, per lui, ma si
sarebbe adattato in fretta.
La
puntò su Koslov e tremava, cielo se tremava, ma non la
abbassò
nemmeno per un secondo. Intanto indietreggiava sempre più
lontano
dall'entrata, stringendosi la coniglietta contro con foga. La
testolina ciondolava molle sulla sua spalla, sventolavano anche le
lunghe orecchie.
Il
cappotto di suo padre ondeggiava sbilenco dalla sua spalla, spazzando
il pavimento.
“Non
riuscirai mai a scappare da qui, Nick. Abbassa quell'arma!”
Non
aveva pensato nemmeno per un istante che la pistola potesse essere la
soluzione al suo problema, ma gli serviva per tentennare e distrarre
Koslov e gli altri dai suoi gesti, da quel suo allontanarsi a piccoli
passetti all'indietro che non era casuale, non lo era affatto.
Avevano
scordato che era già stato lì altre volte?
Avevano scordato che
conosceva due o tre cosette di quella stanza anche lui?
Toccò
la parete con la coda e si fermò. Da qualche parte, doveva
essere lì
da qualche parte.
Le
canne delle pistole di Kevin e Raymond erano buchi neri puntati
contro di lui che sembravano ingrandirsi ogni secondo di
più,
minacciando di inghiottirlo.
Non
aveva molto altro tempo. Non poteva chiederne ancora.
Abbassò
l'arma e contemporaneamente strusciò il dorso della zampa
contro il
muro, contro l'unica porzione non scavata nel ghiaccio, e qualcosa
scattò rumorosamente in contemporanea ai due proiettili
esplosi.
Volpe
e coniglio caddero nel vuoto quando il pavimento si aprì
sotto di
loro, evitando uno dei dardi per un soffio; l'altro si
conficcò nel
collo della coniglietta, ancora.
Slittarono
giù per lo scivolo di ghiaccio e si fermarono solo dopo
qualche
secondo, su un grande mucchio di neve fredda e morbida; Nick non
stette lì a godersela, si alzò in fretta e corse
per il cunicolo,
col magone e il batticuore, aguzzando le orecchie all'indietro per
sentire i rumori dei suoi inseguitori.
“Prendeteli!”
urlava Koslov a ripetizione, sempre più furioso, ancora al
di sopra
della sua testa.
Agì
d'istinto: colpì con tutta la sua forza uno dei pilastri che
sorreggevano la precaria volta di neve e ghiaccio. E lo
colpì. E lo
colpì ancora con la spalla dolorante, ma colpì.
Colpì
finché le mura non tremarono e il soffitto sopra la sua
testa non
rombò pericolosamente: non rimase a guardare ancora,
scappò a rotta
di collo nel cunicolo in salita, mentre tutto cadeva alle sue spalle
in una valanga terrificante e rischiosa in cui lui non voleva essere
ingoiato. Il cielo e la terra rimbombavano e gli si chiudevano
addosso.
Non
aveva mai corso così veloce prima di quel momento.
L'uscita
del passaggio segreto di Koslov sembrava lontano,
irraggiungibile: la porta gli apparve e sembrava davvero distante. Le
forze lo avrebbero abbandonato prima di raggiungerla? Avrebbe vinto
la valanga?
Si
tuffò letteralmente oltre, una volta raggiunta, e la
oltrepassò al
volo, stringendo la coniglietta al petto per non perdere la presa e
non perderla nella neve.
Sentì
il tonfo della valanga contro la struttura della porta e poi tutto
crollò su sé stesso.
Rimase
ad ansimare pesantemente, ascoltando il silenzio. Il respiro della
sua compagna era difficoltoso e debole, disperato; doveva portarla
via prima possibile.
Staccò
il dardo dal suo collo, tremando appena.
“Andrà
tutto bene, carotina. Ti porto in un posto sicuro”
mormorò,
alzandosi e spostandola meglio nelle braccia, uscendo all'aperto,
oltre una montagna di neve che nascondeva l'uscita del passaggio
d'emergenza.
Non
si attardò, per paura che Koslov e gli altri li stessero
aspettando
al varco e corse invece via, in direzione del furgoncino, che
fortunatamente non avevano lasciato in bella vista.
Spostò
bruscamente la pila di libri dal sedile del guidatore in quello a
fianco e ci saltò su, poggiandosi la coniglietta sulle
ginocchia con
quanto più garbo possibile.
“Ok,
Ben saprà come aiutarci” disse, girando la chiave
nel quadro,
risoluto. Il furgoncino sobbalzò un paio di volte e poi
partì a
singhiozzo, fin quando non capì come dovesse usare i pedali
e il
cambio, poi sfrecciarono più veloce possibile, slittando un
poco
sulla neve di Tundratown, diretti a tutto gas verso il Rainforest
District.
Note:
Salve
a tutti!
Ho
rifatto la cartina e adesso ne sono più soddisfatta, anche
se siamo
ancora lontani dall'essere perfetta. Mi sono basata sulle immagini
del film ed è stato difficile estrapolare i vari pezzi dai
frammenti
qua e là. Spero vi piaccia.
A
questo punto della trama scartata, chiamiamola così che fa
scena,
Nick trascinava Judy a Tundratown, in cui c'era un cattivo che poi
è
stato sostituito da Mr. Big nel film: Koslov, l'orso polare che nel
film trasporta il suddetto toporagno artico.
Un
orsone gigantesco. Non si dice molto se non che Nick va da lui per
cercare informazioni, non si sa bene come la discussione degenera e
quindi lui e Judy sono costretti a scappare, con lei priva di sensi.
Io ho costruito la mia idea di come questa scena potesse essere.
In
questo capitolo avrebbe dovuto esserci anche Bogo, volevo mantenere
la narrazione doppia tra fuggitivi e inseguitori, ma era troppo
lungo, quindi Bogo lo vedremo nel prossimo.
Vi
voglio ringraziare di cuore, ho trovato molto riscontro e seguito,
non me l'aspettavo. Grazie, davvero grazie!
Un
abbraccione!
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Capitolo 5 *** Never, never, be afraid to do what's right ***
Stava
camminando a passo marziale sui lucidi e bianchi marmi del Municipio,
con un lieve ticchettio. Gli
impiegati indaffarati che si muovevano freneticamente da un ufficio
all'altro nell'enorme androne lo scansavano quasi inconsciamente, per
la sua stazza possente e il suo sguardo disinteressato, e Bogo era
contento così, non aveva voglia di chiedere gentilmente
scusa per
potersi muovere agevolmente.
Era
già abbastanza di malumore per conto suo. E stanco.
E
avrebbe preferito trovarsi fuori di lì a dare la caccia a
Wilde e a
cercare la sua sottoposta dispersa, piuttosto che sostenere un
discorso col sindaco, che sarebbe stato più un monologo del
sindaco.
Sapeva già come sarebbe andata.
Trasse
un grande respiro, la porta designata già
visibile
alla fine del corridoio, annunciata dalla opulenta targa d'oro in cui
c'era inciso a grandi lettere: Ufficio del Sindaco.
Proprio
a fianco c'era un bel bancone della reception di lucido legno color
noce oltre il quale spuntava la testa di una giovane cerbiatta dagli
occhioni blu. Stava digitando freneticamente al computer, ma di tanto
in tanto sollevava lo sguardo su di lui, in attesa che la
raggiungesse.
“Il
sindaco l'aspetta” disse infatti con una dolce voce flautata,
quando lui le si parò davanti. Sbatté le lunghe
ciglia, con un
solare sorriso solo per lui.
Se
avesse avuto venti anni di meno quel sorriso gli avrebbe fatto un
certo effetto, ma alla sua età pensava solo a quanto
smaliziata
fosse quella giovane che gli batteva le lunga ciglia contro con fare
civettuolo; se fosse stato suo padre una cosa del genere non
l'avrebbe permessa.
Sbuffò
dal naso, contrariato dai suoi stessi pensieri: davvero a
quarantacinque anni si sentiva così vecchio? No, si disse,
ma per
una di appena vent'anni di certo.
E
poi, si ridisse, era convinto che si comportasse così con
chiunque,
o almeno con molti.
Le
rivolse un veloce grazie per non sembrare scortese, poi si
avvicinò
alla porta e aprì dopo un lieve colpo per annunciarsi, ma
senza
attendere una risposta: la luce che entrava dalla ampia finestra
dietro la scrivania lo colpì in pieno facendogli strizzare
gli occhi
e costringendolo a schermarsi il viso con una zampa mentre con
l'altra richiudeva l'uscio.
L'enorme,
luminoso e moderno ufficio era esattamente come lo ricordava,
dall'ultima sua visita non avevano mai nemmeno spostato il grande
ficus all'angolo sinistro un po' avvizzito; e ancora più
identica e
immobile era la minuscola pecora bianca che sedeva nell'imponente
sedia nera, i grandi occhioni verdi spalancati con delizia.
Accennò
anche un sorriso nella sua direzione, ma Bogo non ci cascò
affatto.
“Buon
giorno, sindaco” disse, prendendo posto di fronte a lei.
Bellwether
lasciò che il sorriso scivolasse via con esasperata e
affettata
lentezza e poi si schiarì rumorosamente la gola.
“Capitano
Bogo” soffiò con la sua vocetta zuccherosa,
scuotendo piano la
testa cotonosa, di biasimo. Sospirò teatralmente,
continuando nel
silenzio per interminabili secondi.
Bogo
si trattenne con tutte le sue forze dallo sbottare e gridarle contro
per quella estenuante attesa, che gli logorava ancora di più
i
nervi; urlare in faccia al sindaco era una delle cose che poteva
fargli perdere il posto di lavoro ad una velocità allarmante.
Nemmeno
il tempo di dire la sua frase iconica: “non mi
interessa”.
Anche
perché, in realtà gli interessava eccome.
“Sono
rimasta molto delusa nell'apprendere la notizia... un'evasione, nel
suo distretto, sotto il suo naso... non è professionale, mi
sarei
aspettata di meglio” disse petulante, sempre scuotendo la
testina.
Bogo
mise su un'espressione contrita, giusto per mostrare uno stato
d'animo adeguato, poi separò le labbra per parlare, ma la
pecorella
lo interruppe, improvvisamente infervorata.
“Un
pericoloso criminale a piede libero! Che ha allestito un parco
clandestino per permettere ai feroci predatori di sfogare e
alimentare le loro aggressive fantasie! Immagini cosa può
fare
adesso che è in fuga! Un assassino! Un uccisore di povere
prede!
Tutti
i miei cittadini sono in pericolo! Potrebbe uccidere ancora, per
cercare una via di salvezza o anche solo per divertimento.
Dovete
trovarlo, capitano! Siamo già assediati dalla stampa, se
sapessero
che il colpevole dell'omicidio è evaso dalla centrale, lei
si
giocherebbe il lavoro e io, che l'ho messa al posto dove sta,
perderei credibilità! L'opinione pubblica ci schiaccerebbe e
in
città si spargerebbe il dubbio e la paura e né io
né lei potremmo
mai più riprendere la loro fiducia, lo capisce no? Sa che
cosa c'è
domani? Sa cosa rischiamo se quella volpe si presenta ad una
manifestazione così grande e in preda alla pazzia?”
Durante
tutto il monologo valanga, Bogo aveva annuito con la testa a
più
riprese, ma alle ultime domande si sentì di dover rispondere
e fece
per prendere la parola, col suo cipiglio serio che avrebbe
terrorizzato perfino il più navigato malvivente di Zootopia,
ma non
Dawn Bellwether.
Lei
si era alzata, o meglio si era gettata giù dalla sedia,
ergendosi in
tutti i suoi cinquantasei centimetri dal suolo, lanciandogli
un'occhiata perentoria se solo avesse azzardato ad interromperla. Poi
aveva trotterellato verso la grande finestra alle sue spalle, tra
le due aste che sorreggevano due grandi bandiere col simbolo della
città, osservando il panorama di Sahara Square
dall'alto del
suo ufficio al settantasettesimo piano del Palm Tree Hotel: il
quartiere coi suoi enormi edifici sparsi in lungo e in largo
contornato dall'arido e caldo deserto difficile da conquistare e
civilizzare; era tutto rosso e arancio e ocra a perdita d'occhio,
fino all'incontro con l'azzurro più intenso e luminoso
possibile.
Pure,
proprio alle pendici di quel lussuoso albergo, scintillavano anche in
pieno giorno le luci al neon della oasi sul quale sorgeva, del
casinò
e dei pub privati, del piccolo parco dei divertimenti e dei
discutibili locali per soli adulti dai nomi allusivi. E poi, le luci
più splendenti: l'arena circolare che ospitava concerti e
manifestazioni, che si addobbava a festa per il giorno seguente.
Proprio
lì lo sguardo di Bellwether cadde e si fermò,
scintillando di
riflesso.
“Domani
sera ci saranno i festeggiamenti per i miei venti anni di mandato da
sindaco. Venti anni in cui la criminalità si è
abbassata del
diciannove percento. Venti anni in cui i predatori non hanno nuociuto
in alcun modo alle prede e se lo hanno fatto sono stati presi
immediatamente e puniti per la loro colpa. Venti anni di pura gioia e
utopia.
Ci
saranno assessori e consiglieri, tutte le personalità di
spicco
della città e quasi due terzi dei cittadini. Non posso
permettere
che un pazzo squinternato metta a repentaglio tutto questo. Tutto
quello che ho costruito. E nemmeno lei!”
Si
era voltata a guardarlo col viso trasfigurato in un'espressione
torva, con gli occhi colmi di folle determinazione. Non molti
mammiferi avevano visto quella faccia ed avevano poi mantenuto il
loro posto di lavoro.
Bogo
sentì il bisogno di deglutire ed era davvero stupido avere
soggezione di una pecorella che era metà della
metà della metà
della metà della metà di lui, ma non
poté evitare un brivido
freddo lungo la schiena.
“Quello
che è successo” riuscì finalmente a
dire, “non era possibile
prevederlo, sindaco. Il sospettato Wilde è molto
più furbo di
quanto ci aspettassimo. Ma l'agente Judy Hopps si è gettata
subito
al suo inseguimento, lei è una dei nostri migliori
agenti!”
“E
dov'è, allora? Ha già preso il colpevole? Lo ha
già sbattuto in
una cella a prova di evasione?” incalzò
Bellwether, avvicinandosi
a grandi passetti, minacciosa.
“No.
Non abbiamo nessuna notizia da quando le è corsa dietro...
li stiamo
cercando in tutta Zootopia” ammise sconfitto.
Gli
occhi del sindaco si assottigliarono ancora di più, due
linee
sottili di disappunto.
“Allora
mi vedo costretta a darle una mano io” sussurrò
cripticamente,
issandosi con tutta la dignità possibile nella sua
pantagruelica
sedia e lisciandosi quindi con zampate decise il tailleur. Poi,
pigiò
un pulsante del suo interfono e si rimise comoda, senza aggiungere
nient'altro a quella che pareva una minaccia in piena regola.
I
secondi parvero eterni in quel pesante silenzio e Bogo stava
decidendo se interromperlo o meno e chiedere spiegazioni, quando la
porta si aprì di colpo.
“Sono
qui, sindaco. Posso aiutarla?” domandò una voce
armonica, mentre
la porta si richiudeva.
“Oh,
sì, Swinton, puoi eccome. Avvicinati” disse
Bellwether, con un
lezioso sorrisino.
Giselle
Swinton sfilò sul pavimento con grazia, facendo ondeggiare
con
sensualità i fianchi generosi. Era una procace e avvenente
suina,
dalla figura elegante e un ciuffo di capelli biondi a ricaderle
morbido sul viso; gli occhi viola scintillavano nel guardare il
Capitano e le labbra ricalcate di voluttuoso rossetto rosso erano
incurvate in un languido sorriso.
Quello
show era tutto per lui e lui lo sapeva.
“Buon
giorno, capitano Bogo” soffiò quando fu arrivata
al suo fianco,
poggiandosi con nonchalance al bracciolo della sua sedia.
Lui
fece per parlare, per alzarsi e poterle così cedere il
posto, ma
ancora una volta venne interrotto.
“Bogo,
conosce già il mio vice sindaco, non c'è nessun
bisogno di
salamelecchi” tagliò corto Bellwether,
infastidita, rimandandolo a
sedere con un gesto frettoloso.
“Ti
ho chiamata per un motivo, Giselle” continuò
quando i due le
dettero la loro attenzione.
“Dobbiamo
mettere a parte il capitano del segreto del tracciatore, per via del
caso Wilde.”
La
maialina spalancò gli occhi di sorpresa, la bocca una O
perfetta di
stupore.
“Ma
sindaco, non crede che-”
La
pecora zittì anche lei con un gesto secco della zampa,
salendo sulla
sedia con quelle posteriori per l'agitazione e il nervoso.
“Non
c'è tempo! Domani ci sarà il ventennale! Voglio
Wilde dietro le
sbarre e anche ammanettato ad esse per prevenire un'altra fuga, entro
stasera!”
Swinton
annuì piano, deglutendo, e il ciuffo ondeggiò
delicatamente
seguendo i movimenti della testa.
“Capisco”
sussurrò a voce bassa. “Allora, quello che sto per
confidarle è
top secret, capitano Bogo. Nessuno al di fuori di me e del sindaco ne
è al corrente e nessun altro deve saperlo.”
Il
bufalo, che già era completamente focalizzato su di lei, al
sentire
quell'avvertimento serio si concentrò ancora di
più, sporgendosi in
avanti sulla sedia.
“Poco
tempo fa è stato indetto un esame dei collari dei predatori,
se lo
ricorderà. Tre mesi fa. È passato per un normale
controllo, ma in
realtà era più un aggiornamento”
iniziò a raccontare
Swinton, lo sguardo incatenato al suo.
“Ho
supervisionato personalmente il lavoro, ho perfino dato una mano al
professor Tarandus a impostare il programma. Ora, siamo in grado di
tracciare i collari dei predatori, con uno scarto di pochi metri,
ovunque e in ogni angolo di Zootopia.”
Quasi,
Bogo non urlò un “cosa?”, preso in
contropiede dalla
rivelazione. Non si meravigliò che una cosa del genere
dovesse
rimanere segreta, violava buona parte dei diritti costituzionali dei
mammiferi. E si sentì in dovere di ricordarlo.
“Non
potete controllare e seguire i predatori senza che lo
sappiano!”
sbottò infatti, disgustato.
“Ma
noi dobbiamo” esclamò Bellwether, che nel
frattempo si era
riseduta per bene e aveva ripreso tutta la sua compostezza.
“Non
che lo abbiamo mai fatto, sia ben chiaro. Ma avere una carta
così
potente nelle nostre zampe è essenziale, soprattutto in casi
come
questo. Noi non passiamo le giornate a scrutare e tenere sott'occhio
i predatori, no, certo che no! Non violiamo la loro privacy o la loro
libertà. Ma se fosse necessario, se qualcuno si comportasse
male e
cercasse di scappare o nascondersi, noi dovremmo poter sapere dove
trovarlo e così proteggere gli innocenti
cittadini” gli spiegò
come avrebbe fatto ad un bambino un po' sciocco.
“Potreste
almeno informarli. Informare la popolazione che in caso di delitti e
crimini i collari possono essere tracciati e quindi prevenirli e
tutelare tutti. Sia i predatori che saprebbero a cosa vanno incontro,
sia le prede che saprebbero di essere ancora più
protetti” provò
a ribattere ancora lui, logicamente.
“No,
no, capitano. No. Non sta pensando alle conseguenze. Nascerebbero
conflitti e malcontenti. Inizierebbero dibattiti su cosa sia giusto e
cosa sia etico, su diritti dei mammiferi e fin dove siano i confini
accettabili, e mi creda, né io né lei vogliamo
che simili tumulti
nascano nella popolazione. Quello che non sanno, non può
nuocergli.
Solo i malvagi e chi infrange la legge dovrà temere il
tracciatore,
gli altri potranno dormire sonni tranquilli”
incalzò sicura
Bellwether, come se quel discorso se lo fosse preparata e ripetuta in
vista di una situazione come quella.
Tuttavia,
Bogo non era ancora convinto della spiegazione. Al di là di
tutte le
loro ragioni o presunte tali, sentiva che era sbagliato trattare
tutti i predatori come criminali in potenza, da dover tenere sotto
controllo e vigilare, nel terrore di futuri problemi.
Ma
sapeva che spiegarlo all'infervorato sindaco sarebbe stato inutile. E
per quella volta, solo per ritrovare Wilde e Hopps, avrebbe accettato
di usare quel metodo ingiusto.
Solo
per sapere al più presto che ne era della sua sottoposta.
Sperando
per il meglio.
“Va
bene, fornitemi il modo e io mi metterò subito al
lavoro”
acconsentì con voce incolore, sospirando.
“Sarà
un piacere, capitano” disse Swinton, captando di sfuggita il
sorriso vittorioso di Bellwether.
Si
allontanò dalla sua sedia e sfilò ancora con
quella sua lenta
camminata sensuale, verso sinistra, verso un sottile tavolino di
legno contro la parete, su cui poggiavano un telefono vecchio stile
laccato di bianco, alcuni opuscoli sparsi e una statua geometrica
intagliata nel legno. Si assicurò di dare le spalle e che
lui non
potesse vedere cosa stesse facendo.
Bogo,
seppure ignaro, sentì un lieve rumore, un ticchettio
ritmato, e capì
dopo qualche istante cosa fosse: il disco del vecchio telefono che
tornava indietro ogni volta che Swinton lo lasciava andare dopo aver
selezionato un numero.
Il
ticchettio si ripeté ancora, a volte a lungo e a volte per
un tempo
più breve, finché non capì che quello
era un codice. Una
combinazione.
Swinton
indietreggiò di un passo e Bogo riuscì a vedere
il disco nero del
telefono tornare al suo posto per l'ultima volta: uno scatto secco
risuonò nello stesso momento nel silenzio e il piccolo
quadro
rettangolare appeso al muro poco sopra girò su sé
stesso,
morbidamente, rivelando una piccola cassaforte delle stesse
dimensioni.
Swinton
aprì sicura lo sportellino e ne tirò fuori
qualcosa, richiudendo
poi tutto velocemente perché lui non potesse vedere oltre,
nel
mucchio di documenti e oggetti in penombra che si intravvedevano.
“Questo
è il dispositivo per il tracciamento” disse
infine, tornando
indietro e mettendo nella sua zampa un oggetto simile ad uno
smartphone ultima generazione, dai bordi bianchi. Lo schermo era
nero, spento.
“Le
basterà accenderlo e selezionare pochi punti: Famiglia dei
canidi,
genere Vulpes, specie Vulpes vulpes. Arrivato alla schermata le
appariranno i nomi di tutti i predatori appartenenti alle categorie
scelte e allora le basterà premere o digitare il nome di
Wilde per
poter tracciare il suo segnale. Semplice, no?”
Bogo
osservò l'oggetto che, nonostante le sue esigue dimensioni,
conteneva le vite e i percorsi e la privacy di una parte dei
cittadini ignari, colpevoli solo della loro origine, del loro DNA.
“Semplicissimo”
sibilò in risposta. “Ma che succede se il collare
non fosse
tracciabile?” domandò poi, dubbioso.
Le
due donne si guardarono in viso, con espressione attonita, forse
credendolo pazzo. Non gli avevano forse spiegato come funzionasse non
meno di due secondi prima?
“Dimenticate
che Wilde possiede una tecnologia capace di disattivare i collari?
È
possibile che possa averla usata anche per nascondersi”
continuò,
svelando il dubbio che lo aveva assalito.
“Ah,
sì, ci stiamo occupando di quel programma per trovare il
modo di
aggirarlo, bloccarlo e distruggerlo” intervenne serafica
Bellwether, senza scomporsi minimamente.
“Nel
frattempo, se il segnale di Wilde non dovesse apparire nel monitor,
può sempre cercare di tracciare l'ultimo punto in cui
è stato
visibile prima di essere schermato, e partire da lì.
Praticamente
gliel'abbiamo consegnato dritto nelle mani, non può
sbagliare.”
Con
quello, il discorso era chiuso, Bogo lo capì forte e chiaro.
Swinton
infatti si allontanò e gli fece strada verso la porta, e lui
si alzò
dalla sedia e si apprestò a seguirla, ma prima che potesse
voltarsi
per congedarsi dal sindaco, la pecorella lo interruppe ancora una
volta.
“Capitano,
mi aspetto dei risultati quanto prima. Se non avrete preso Wilde
entro il tramonto, manderò in campo la T.U.S.K.”
annunciò con
voce dolce, eppure in qualche modo per quello più crudele.
La
T.U.S.K.
L'unità
speciale formata da soli facoceri che non rispondeva a nessuno se non
al sindaco. Rozzi. Crudeli. Senza regole. Se avesse lasciato che dei
simili elementi entrassero in campo non avrebbe più trovato
nemmeno
un atomo di Wilde.
E
di Hopps neppure.
“Non
la deluderò” esalò tra i denti,
già di un passo oltre la soglia.
Non poteva vedere il viso del sindaco, ma sapeva che era compiaciuta.
La
porta si richiuse alle sue spalle con un tonfo funereo, seppellendo
quel poco di dignità che ancora sentiva di avere. Si sentiva
sporco,
al pensiero di stare andando contro tutti i suoi principi.
Era
sporco. Aveva appena fatto un patto col diavolo. Sapeva che il
sindaco non era veramente cattivo, quello no, ma nella sua distorta
visione di giustizia, molti torti finivano per trasformarsi in
abitudine, in atti giustificati.
La
zampa di Swinton si poggiò delicatamente sul suo braccio,
strappandolo da quelle riflessioni e si accorse che gli stava
sorridendo, lì impalata al suo fianco.
“Non
c'è niente di male nell'avere dei dubbi. E le fa un grande
onore
continuare a fare ciò che fa nonostante li abbia”
gli disse a voce
bassa, attenta che nessuno, soprattutto l'avvenente gazzella
segretaria che lanciava occhiate verso il capitano, la sentisse.
Lui
ricambiò brevemente il suo sorriso, leggermente rincuorato.
Sembrava
che anche lei si sentisse in qualche modo colpevole e forse come lui
doveva sottostare agli ordini di Bellwether, pur non condividendoli.
“Lo
nasconda per adesso” mormorò lei occhieggiando
verso la zampa che
ancora teneva il tracciatore. “E non ne faccia parola con
nessuno.”
Il
capitano lo mise immediatamente nella tasca del pantalone e
cercò di
non guardarsi attorno per controllare se qualcuno lo avesse visto,
per non destare inutili sospetti.
Swinton lo
accompagnò fino
all'ascensore, intrattenendolo con lui un discorso leggero sulla
festa del giorno dopo e sul programma che ci sarebbe stato, sugli
ospiti e tutti gli spettacoli.
“Sarà
molto piacevole”
concluse, mentre aspettavano che l'ascensore arrivasse al piano.
“Non
per me. Io sono in
servizio e addetto a gestire la sorveglianza”
rivelò Bogo,
augurandosi che per l'indomani avesse già preso Wilde e che
quindi
parte delle sue preoccupazioni fossero risolte.
“È
un vero peccato” soffiò
delusa lei, senza nasconderlo.
Quando Bogo
si voltò a
guardarla, Swinton gli sorrideva maliziosa.
“Avevo
pensato di invitarla
come mio accompagnatore... ma se non può, che ne dice di un
invito a
cena, quando sarà più libero, Hector? Posso
chiamarla Hector?”
Benché esteriormente non
mostrasse cambiamenti, dentro Bogo si sentì avvampare, nel
sentirla
pronunciare il suo nome così facilmente, quasi con
sfrontatezza.
E gli piaceva. Swinton era
matura, attraente, intelligente e sfacciata, conscia della sua
sensualità e decisa. Sapeva quello che voleva.
“Mi
farebbe molto piacere,
Giselle” ribatté, dandole così risposta
ad entrambe le domande.
L'ascensore
arrivò al piano e
si aprì con un delicato trillo, liberando una decina di
mammiferi
che scalpitarono via per le loro commissioni, lasciandogli posto
libero.
Bogo salì e premette il
pulsante del piano terra.
“Passerò
a prenderla sabato
alle sette” le annunciò pacato.
Lei sorrise, mentre le porte
iniziarono a chiudersi.
“Allora
a presto, Hector.”
La discesa
fu morbida e quasi
non la sentì. Sentiva un formicolio di euforia che aveva
spazzato
via perfino la stanchezza. A quarantacinque anni avere ancora un
certo ascendente sul gentil sesso era lusinghiero.
Un secondo dopo scosse la testa,
riprendendo tutta la sua compostezza mentale.
Prima di tutto, prima di
qualsiasi altra cosa, doveva occuparsi di Wilde e Hopps.
Le porte si
aprirono quando
arrivarono al piano terra e Bogo ne uscì, tenendo il
telefonino
premuto contro l'orecchio.
Percorse il corridoio a passo
spedito.
“Sono
il capitano Bogo. Tutte
le squadre all'erta, abbiamo una pista” annunciò,
uscendo dal
palazzo, nel caldo infuocato di Sahara Square.
Note:
Buon giorno!
Questa
parte, che sarebbe dovuta
essere assieme al capitolo precedente, a causa della sua lunghezza
è
diventato un capitolo a sé.
Come
dicevo, mi piace l'idea
della doppia narrazione tra fuggitivi e inseguitori, come fosse un
film, anche se nulla del genere era presente nella bozza originale
scartata.
Tutto quello che riguarda Bogo,
che in fondo non compariva nemmeno all'inizio, è
perciò mia
invenzione.
Hector non è il suo vero nome,
non ha un nome, perciò mi sono permessa di inventarlo, per
esigenza
di trama. Se e quando gli daranno un nome canon, mi fionderò
qui a
cambiarlo.
Intanto, penso che Hector gli
stia bene.
Swinton
avrebbe dovuto essere il
sindaco nella prima versione, i maiali sono intelligenti e portati al
potere; ma quando venne scartata la bozza, anche lei venne sostituita
da Lionheart, che come leone pareva più indicato come
sindaco.
Dov'è Lionheart nella mia
storia? Eh, lo intravvedremo.
Comunque, nemmeno Swinton aveva
un nome e mi imbattevo sempre nel nome Giselle ultimamente e
così
l'ho chiamata. Anche se il concept del suo personaggio è
stato
scartato, c'è una maialina che le somiglia alla fine del
film che
controlla Bellwether in prigione.
Anche il
tracciatore non esiste,
è un congegno che ho inventato per la mia storia.
Insomma, ho inventato molto.
Spero che per voi non sia un problema.
Invece,
nella bozza originale
l'ufficio del sindaco era situato nel Palm Tree Hotel, quella
costruzione a forma di palma che vediamo a Sahara Square, e credo che
anche se non lo hanno specificato, sia rimasto lì anche nel
film
finito. La forma del corridoio, della finestra dell'ufficio e della
vista al di fuori, mi fanno pensare che si trovi agli ultimi piani
del Palm Tree Hotel.
La T.U.S.K.
era un concept
iniziale, una sorta di squadra Swat composta da soli facoceri, armati
fino ai denti, gli inseguitori designati per cercare Nick in origine.
Li ho solo menzionati, chissà se in futuro li vedremo.
Per i
più giovani, il telefono
a disco era il primo telefono noleggiabile per le case. Un telefono
fisso, con un disco al centro: per comporre un numero di telefono si
infilava il dito nel foro del numero e si tirava il disco fino ad una
linguetta di metallo e poi si lasciava andare. Quando tornava
indietro faceva un rumore caratteristico, una specie di grattato, ma
più armonico. E così si faceva per tutti i
numeri, ma ognuno era ad
una distanza diversa, perciò il grattato era più
o meno lungo, a
seconda del tempo che il disco impiegava a tornare indietro.
Da bambina lo adoravo. E adesso
mi sento vecchia a dover spiegare cosa sia.
Ok,
spiegazioni finite. Wow,
tantissime stavolta.
Io ci tengo
a ringraziarvi
ancora e sempre, sono felicissima del seguito della storia. Grazie di
cuore.
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Capitolo 6 *** Ben ***
Luce,
rumori, suoni, violenti dopo esser stata costretta e attutita contro
il tessuto nero e spesso del cappotto.
Una
luce improvvisa che l'aveva disorientata, i volti sorpresi degli orsi
polari nel vederla e poi le pistole puntate addosso e il lieve dolore
dell'ago che penetrava la carne, come la puntura di un'ape, ma tante,
troppe, e tutto era piombato in una fredda oscurità in un
secondo.
Buio.
Buio.
Buio.
“Non
riuscirai mai a scappare da qui, Nick. Abbassa quell'arma!”
Buio.
“Andrà
tutto bene, carotina. Ti porto in un posto sicuro.”
Buio.
“Ben!
Sono io, Nick! Presto!”
Buio.
“Il
freddo ha rallentato il metabolismo. Non ha assorbito molto
sedativo.”
Buio.
“È
epinefrina. Tripla dose per coniglio.”
Buio.
“Adesso?
Adesso preghiamo, Nick.”
Buio.
Buio.
Buio.
Buio.
Ma
il buio vorticava e girava senza fine, senza sopra né sotto,
e
qualcosa premeva la sua testa in una morsa dolorosa.
Era tutto molto confuso e
ovattato, quasi etereo.
“Non
mi hai ancora spiegato nulla, Finn!” urlò una voce
che conosceva,
così forte da far tremare dolorosamente
l'oscurità.
Un
respiro trattenuto e un altro decisamente pesante.
“L'ho
fatto nel tuo interesse!”
rispose un'altra voce, molto profonda e rauca, dal tono urgente.
“Davvero?
Fare le cose alle
mie spalle è nel mio interesse? Un cadavere al Wild Times
non è un
semplice problema di manutenzione. Come posso fidarmi, Finn”
esclamò Nick, ferito.
“Te
l'ho detto! Non volevo
farti preoccupare!” insisté l'altro mammifero, il
tono un po' più
alto e acuto, anch'esso afflitto.
La volpe
inspirò profondamente.
Nel silenzio una terza voce canticchiava sommessamente, molto
flebilmente. Era uno strano motivo che stonava con la
serietà della
situazione.
“Se
ti avessi detto del corpo
avresti dato di matto, avresti cercato di capire cosa fosse successo,
forse avresti anche chiuso il Wild Times... e io non potevo
permettertelo. È il tuo sogno, Nick. Devi lasciare a me il
lavoro
sporco, senza preoccuparti di nulla” mormorò il
mammifero rauco.
“Non
è il tuo lavoro! Siamo
soci, quasi, e io-”
Un mugugno flebile uscì dalle
labbra di Judy, e Nick alzò le orecchie in allerta.
“Carotina?”
chiamò con un
tono dolce che prima non aveva.
Judy
mugugnò di nuovo,
riconoscendo quel nomignolo, ormai quasi del tutto cosciente, anche
se confusa.
Aprì gli occhi, ma li richiuse
immediatamente per la troppa luce.
“Carotina,
tutto ok?”
Strizzò le palpebre forte e
provò ancora, socchiudendo piano, ma il bagliore era
così intenso
da far pulsare gli occhi nelle orbite e tutto quello che vedeva era
sfocato e ovattato, attraverso le ciglia.
C'erano tre volti sopra di lei.
Una volpe con una apparente paresi alla mascella, un grasso ghepardo
curioso e un fennec dallo sguardo torvo.
Tre predatori. Le luci sui loro
collari erano spente, nere come un abisso insidioso.
Saltò
su ignorando le vertigini
e il mal di testa, e la zampa corse immediatamente al fianco, alla
ricerca della pistola a tranquillanti, ma trovò solo la
fondina
vuota.
Gli occhi rotearono attorno
velocemente, e dolorosamente, e si accorsero della pistola poggiata
sul comodino lì affianco: si tuffò in uno
svolazzare di bianche
lenzuola e la afferrò, puntandola poi dritta davanti a
sé, il
respiro corto e breve, al limite dell'asfissia, il mal di testa che
le premeva il cranio in una morsa.
I suoni e
le luci giravano e si
mischiavano, rendendo il tutto ancora più confuso.
Aveva una forte nausea alla
bocca dello stomaco e un sapore di bile in bocca.
“Non
vi muovete!” urlò con
la voce roca, lo sguardo che saettava frenetico da uno all'altro.
Le loro espressioni stupite non
la convinsero nemmeno per un secondo.
“Cosa-”
Nick
provò a fare un passo
verso di lei, ma venne interrotto da un suo gesto inconsulto e dalla
pistola improvvisamente puntata in mezzo alla sua fronte.
“Silenzio!
E state fermi! Se
provate ad avvicinarvi vi metto a dormire!” li
minacciò, sul
crollo di una crisi isterica.
Aveva già visto alcuni
carcerati reagire in quel modo al risveglio dopo una cura di
sedativi, con rabbia e paranoia, ma in quel momento il suo cervello
non era abbastanza lucido per accorgersene e cercare di calmarsi.
Vedeva solo minacce e pericoli e
nient'altro.
“Carotina,
è tutto ok! Siamo
a casa di amici, siamo al sicuro” mormorò Nick
quieto, provando a
calmarla nonostante tutto.
Ma Judy scosse la testa forte e
indietreggiò verso la spalliera, il braccio sempre teso e
tremante
di fronte a sé, cercando uno scampo con la mano libera.
“No.
No. I predatori devono
avere i collari accesi, devono essere sempre sotto controllo”
farfugliò nel panico, osservando i loro denti puntuti, i
loro
artigli affilati.
“Nessuno
vuole farti del male!
Per favore, metti giù la pistola!” intervenne la
volpe, iniziando
a spazientirsi un pochino. C'era frustrazione nei suoi occhi, il suo
respiro era sempre più corto e breve, come quello di Judy.
“I
predatori sono pericolosi!
I collari servono a tenerli a bada! Non possono stare senza, non
potete stare senza! Siete pericolosi!”
Le orecchie
di Nick si
appiattirono contro la testa e gli occhi si spalancarono enormemente,
feriti. Mosse un passo e un altro, senza prestare attenzione alla
pistola puntata su di lui, senza guardare la coniglietta, e si
chinò
sul letto per afferrare il cappotto nero che l'aveva tenuta al caldo
fino a qualche istante prima, ormai tutto scomposto e raggomitolato.
Gli diede un paio di pacche
affettuose e dopo lo poggiò sul braccio con riverenza.
Poi finalmente alzò lo sguardo
serio su di lei e cominciò a parlare.
“Mio
padre era la volpe più
gentile che sia mai esistita. Cortese, elegante, emanava
tranquillità
da ogni gesto; non l'ho mai visto arrabbiarsi o urlare, nonostante io
non fossi il più semplice dei cuccioli. Aveva una parola
gentile per
tutti e aiutava quando poteva e tutti nel nostro quartiere lo
rispettavano.
Aveva un negozio di abiti
formali, lui stesso usciva con una cravatta diversa ogni giorno,
intonata perfettamente ai suoi completi, e ne era fiero; voleva che
sempre più mammiferi si vestissero bene, che si
comportassero con
elegante decoro, diceva.
Io non capivo, ma lo ammiravo
moltissimo e lo seguivo al lavoro e lo guardavo lavorare su quelle
giacche e quei completi, felice della sua passione.
Poi arrivarono i collari. Avevo
dodici anni, non lo scorderò mai.
Fu come se glielo avessero messo
così stretto da ucciderlo.
Si sentì... umiliato. Quel
collare per lui era come una vergogna, un marchio indelebile per una
qualche colpa che non capiva.
Perché essere punito per essere
nato predatore? Lui non lo aveva scelto, così era nato.
Provò ad andare avanti, ma le
prime ingiustizie verso i predatori cominciarono: atti di bullismo
verso i cuccioli, piccoli torti per far prendere una piccola scossa e
riderci sopra, degradazione sul posto di lavoro, approfittando del
clima; i clienti iniziarono a scarseggiare e quando mio padre
trovò
la vetrina del suo negozio ricoperta di graffiti e scritte derisorie,
chiuse.
I mesi successivi li passò
nascosto dentro casa, nella vergogna. Ho provato e riprovato a
parlarci, a farlo ragionare, a spiegargli che non doveva prenderla
così a male.
Ma lui si sentiva giudicato e
disprezzato. Gli avevano tolto la dignità, disse, lo
reputavano una
bestia e lui come bestia si era auto-ingabbiato.
Gli venne un infarto sei mesi
dopo che gli hanno messo il collare e forse sarebbe sopravvissuto, se
non si fosse consumato dalla vergogna che non lo faceva nemmeno
dormire.
Mio padre era un predatore. Il
predatore più gentile che sia mai esistito. Non osare mai
più dire
che siamo pericolosi. Non osare sputare sentenze su cose che non
capisci.
Sei libera, Hopps. Ho tagliato
le manette, puoi andare dove vuoi, anche a chiamare i tuoi amici
poliziotti, se vuoi.”
Si
voltò e la lasciò lì, con
le sue parole accorate e raccontate con voce spezzata da un profondo
dolore mai assopito ad aleggiare nel silenzio teso.
Il ghepardo e il fennec si
scambiavano occhiate tristi e nervose mentre Judy aveva abbassato la
pistola inconsciamente, ad un certo punto durante il racconto, e
guardava nel vuoto con sguardo vacuo.
Le sue orecchie si erano
afflosciate e la boccuccia era semi aperta, gli angoli verso il
basso.
Il nasino rosa fremeva piano.
C'era qualcosa, oltre le
sensazioni di panico e isteria che andavano affievolendosi, che la
fece sentire persino più male: un lancinante e profondo
senso di
colpa.
I due
predatori se ne andarono,
lasciandola sola con quel sentimento di vergogna.
Si sentiva... stupida. Si
sentiva cattiva. Sbagliata. Le parole di Nick l'avevano
schiaffeggiata, riportandole la mente alla ragione.
Sapeva che la sua reazione
eccessiva era stata colpa degli effetti collaterali dei sedativi, in
dose massiccia nel suo caso, ma sapeva anche di essere colpevole di
avere pregiudizi nel profondo, di essere stata ottusa.
Solo perché le avevano
insegnato quelle cose, non era detto che fossero vere. Non aveva lei
stessa deciso di dare una possibilità a Wilde, disgustata
dai
pregiudizi dei suoi colleghi, che avevano già deciso dovesse
essere
colpevole perché predatore?
Non si era rivelata meglio di
loro.
Anzi.
Lo sguardo
ferito della volpe le
balenava davanti agli occhi e il cuore si stringeva sempre
più.
Doveva chiedergli scusa, anche se probabilmente non sarebbe servito a
nulla. Lei non si sarebbe perdonata, se fosse stato in lui.
Affinò l'udito, cercando di
capire cosa stesse succedendo fuori dalla stanza.
Sentì chiacchiere sommesse e un
veloce ticchettio sui tasti di una tastiera. Lasciò andare
la
pistola, che cadde senza un rumore sul materasso, e poi scese con
passi felpati, avvinandosi alla porta.
Ebbe il
tempo di guardarsi
attorno, di accorgersi delle dimensioni enormi dei mobili, a misura
del tondo ghepardo che doveva essere ovviamente il padrone della
casa; la stanza adiacente era la più straordinaria, una
sorta di
postazione high-tech futuristica, tre schermi enormi e quattro
differenti tastiere, una enorme poltrona imbottita di tessuto nero e
altri complicatissimi aggeggi di cui lei non capiva assolutamente
nulla.
I muri erano ricoperti di cavi e
fili che si connettevano e serpeggiavano, srotolandosi poi composti
al suolo.
Il ghepardo
era seduto nella
poltrona e smanettava sulle tastiere velocemente, tanto che le sue
zampe quasi non si vedevano: le immagini nei tre schermi cambiavano
alla stessa velocità, tutti e tre i predatori le seguivano
con
attenzione.
“Allora,
trovato nulla?”
chiese Nick alla sua destra, poggiato coi gomiti sulla scrivania.
“È
da ieri notte che sta al
computer, dagli tregua” mormorò il piccolo fennec,
alla sinistra
della poltrona.
Il padrone di casa non sembrava
turbato dai loro scambi di battute, sembrava esserci perfettamente
abituato e continuava nel suo lavoro senza un tentennamento.
Dopo un sorso da una lattina, si
rivolse a Nick, senza voltarsi.
“Le
notizie sul tuo arresto
sono dovunque, notiziari e giornali hanno fatto a gara a chi riusciva
a spararla più grossa cercando di indovinare... sono
riuscito anche
ad accedere ad alcuni file riservati, ma nessuno fa il nome della
vittima e non capisco perché-”
“È
Tarandus. Rangi Tarandus” mormorò piano Judy,
interrompendolo.
Si
era avvicinata a loro, le orecchie ancora flosce e lo sguardo che
saettava verso il basso per non incontrare quello di Nick. Si stava
torturando le zampine l'una con l'altra, dal nervosismo.
Non
si era così accorta delle loro espressioni attonite.
“Tarandus?
Quel Tarandus?” strillò il ghepardo, rimettendosi
immediatamente a
digitare.
Apparvero
tre distinte foto di un caribù, tutte in camice da dottore e
occhiali da vista calati sul muso; le schede accanto fornivano dati
personali e un'intervista al suddetto il cui titolone citava: 'il
genio dei collari', sottotitolo 'la preda che li ha addomesticati'.
Judy
lesse in fretta, estrapolando l'essenziale in pochi secondi.
“La
vittima era l'inventore dei collari? L'inventore dei collari
è stato
trovato morto in un'attrazione clandestina in cui venivano
disattivati?” sbottò a voce decisamente alta,
incredula lei
stessa.
Si
era anche dimenticata del senso di vergogna che l'aveva stretta fino
a poco prima e guardò Nick dritto negli occhi.
“Eravate
in società?” gli chiese, puntando un dito verso lo
schermo.
“No!
Io non lo conoscevo neanche! Ben ha creato il programma che disattiva
i collari e non era nemmeno una cosa che ha a che fare coi collari
fisicamente! È più un'onda che... non so
spiegarlo, Ben aiutami!
Il
ghepardo si sporse verso di lei e le tese una delle sue zampone
grassocce.
“Sono
Benjamin Clawhauser, hacker, molto piacere.”
Scosse
la sua zampina con vigore e poi si risdraiò contro lo
schienale
imbottito della poltrona.
“Il
mio programma trasmette onde radio che interferiscono con la scheda
madre dei collari: non li rovina né li rompe, ma ostacola la
trasmissione del segnale perché i comandi base non vengano
recepiti;
perciò se un predatore si arrabbia, il sensore non lo
riconosce come
un sentimento ostile e non invia la scossa.
Più
o meno, a grandi linee, questo è quello che fa il mio
programma.”
Era
strano, quel Ben. Apparentemente rilassato, con un perenne sorriso
sornione sulle labbra, sembrava non avere un problema al mondo.
Viveva
nell'universo binario e bidimensionale del suo computer e tanto gli
bastava, a parte ciambelle e bibite gassate, a giudicare dalle
scatole e dalle bottiglie vuote che lo circondavano.
La
nuova informazione sembrava averlo emozionato e aveva iniziato a
cercare mille dati differenti, canticchiando tra sé.
Judy
si chiese se quel Ben sapesse del patto di Wilde con Koslov sul
programma dei collari e che cosa il grasso ghepardo ne potesse
pensare; certo, quello della volpe era stato un bluff, ma pensava che
avrebbe dato di matto nel saperlo.
Sembrava
troppo bonario e pacifico per permettere che la mafia avesse una cosa
così pericolosa.
Comunque,
la sua spiegazione la convinse, anche se già lo aveva fatto
il suo
sesto senso quando aveva deciso di credere a Nick.
“Ok,
ma il fatto che l'inventore dei collari sia stato ucciso al Wild
Times non può essere una coincidenza. Ci deve essere un
motivo che
collega le due cose” disse decisa, avvicinandosi alla
postazione
dei computer.
I
suoi occhietti scivolavano per le pagine scorse a grande
velocità
dall'hacker, cercando di dare il suo contributo come poteva.
“Potresti...
potresti entrare nella sua mail?” esclamò d'un
tratto, esprimendo
un pensiero a voce alta.
“Sua
di chi?” saltò su Nick.
“Sua
di Tarandus. Magari c'è qualcosa, qualcosa che
può essere
sfuggito... ad un occhio meno attento” suggerì
lei, le orecchie di
nuovo in alto di emozione repressa, certa che avrebbero trovato
qualcosa.
Ben
fece spallucce e si fece dire la mail da lei, poi iniziò a
cercare
mentre Judy ignorava lo sguardo tagliente di Nick, che poteva voler
dire tante cose come nessuna.
Il
genio del computer si scontrò contro un firewall di
protezione che
lo tenne impegnato per una decina di minuti nel quale digitò
un
numero improponibile di algoritmi, sempre più seccato.
Infine,
sbottò in una pigola espressione di gioia e non ci mise che
pochi
secondi a crackare la password, entrando finalmente nel deposito
delle mail del caribù.
Stavano
infrangendo un numero considerevole di leggi ormai, una più
una
meno, che importanza aveva.
Ben
scorse in fretta gli oggetti delle mail, leggendo a voce alta.
“Documenti,
scadenza, revisione anticipata, è tutto ok,
tranquillo” lesse,
scendendo via via, soprappensiero. Non erano nulla di allarmante,
solo strane ad una persona estranea.
Passò
alle mail inviate e lì i toni sembravano più
secchi e cupi,
soprattutto in quelle più recenti.
Le
sue sopracciglia si aggrottavano via via che le scorreva.
“C'è
un oggetto qua: 'Cernita', inviata ad un certo
ReMan@animail.com.”
L'aveva
notata perché era l'unica inviata a quell'indirizzo e anche
perché
l'ultima inviata in assoluto.
Dentro
c'era un breve messaggio di convenevoli, con la promessa di una
chiamata per organizzare un incontro per un caffè e in
allegato una
sorta di lunga lista, con la richiesta di una mano per selezionare
alcuni per il progetto di cui avevano già parlato.
“Non
sembra importante” sbottò Finnick scocciato, che
doveva mettersi
sulle punte delle zampe e sporgersi più che poteva per
riuscire
anche solo ad arrivare al livello della scrivania.
“È
molto importante, invece” dissero insieme Judy e Ben, con un
filo
di voce.
Si
guardarono e si scambiarono un sorriso complice, poi finalmente
spiegarono.
“C'è
un messaggio. Nascosto nella mail.”
L'hacker
iniziò a digitare, con una risatina chioccia, immettendo un
comando
lunghissimo che fece partire una reazione a catena di parole e numeri
che scivolavano via velocemente.
“Ho
impostato un programma di decriptazione, ci metterà un po',
ma alla
fine sapremo se c'è un messaggio. Nel frattempo cerco
l'indirizzo
del destinatario” disse prendendo un lungo sorso di cola,
prima di
rimettersi al lavoro.
Gli
altri tre se ne stavano in religioso silenzio, tutti attorno a lui,
gli occhi che saettavano da uno schermo all'altro, capendo solo un
decimo di quello che il ghepardo stesse facendo.
Ad
un certo punto, sia Finnick che Nick saltarono su con un'identica
esclamazione di sorpresa.
“Renato?”
esclamò poi Nick, scambiandosi un'occhiata col fennec.
Sullo
schermo centrale c'era una scheda anagrafica completa in ogni punto.
“Conoscete
questo” iniziò a dire Judy, ricontrollando sul
monitor per leggere
bene, “dottor Renato Manchas?”
“È
un cliente del Wild Times, un giaguaro nero. Un tempo era un dottore
molto famoso, ma con i collari... ha perso prestigio”
spiegò Nick
con voce calma, e tutti, anche Judy ormai, avevano capito cosa in
realtà quelle parole significassero.
“Quello
che non capisco è come sia possibile che Tarandus,
l'inventore dei
collari, e Renato, un predatore, si scambiassero mail. Potevano
conoscersi da prima, ma non capisco... tutto questo, quello che
è
successo, non possono essere coincidenze. Non riesco a capire. Ci
deve essere qualcosa che non capisco, ma... perché hanno
deciso di
mettere in mezzo me?”
“Forse
questo Manchas può dirci qualcosa. Andiamo a
trovarlo” propose
Judy, che aveva già memorizzato l'indirizzo.
“Andate,
tanto ne avremo ancora per un po' prima di avere il messaggio.
Probabilmente fate prima a farvelo dire da Manchas in persona, a
questo punto” si intromise Ben, con la bocca sporca di
zucchero a
velo della ciambella che aveva appena finito di masticare.
“Sempre
che abbia voglia di parlare.”
Judy
e Nick si scambiarono un'occhiata, il disagio di prima di nuovo tra
loro, chiedendosi entrambi se dovessero semplicemente andare e
lasciare il passato alle spalle.
Una
voce roca si insinuò tra loro e li sorprese.
“Andiamo”
disse Finn, sfregandosi le zampette. Sembrava essere entusiasta di
poter prendere parte all'azione, finalmente.
Di
nuovo, coniglia e volpe si scambiarono una fugace occhiata, prima di
correre a prendere le loro cose.
Mentre
Judy risistemava la pistola nella fondina, nella camera di Ben, una
sirena esplose nell'aria, facendola saltare su.
Dallo
strillo sorpreso di Nick dall'altra stanza capì che doveva
essere
stato lo stesso per lui.
Corse
fuori e si diresse alla postazione computer, sulla quale lampeggiava
una luce rossa ad intermittenza, che pulsava allo stesso ritmo della
sirena.
“Cosa
succede?” urlò Nick per sovrastare il suono,
premendosi le zampe
contro le orecchie.
Si
era rimesso il cappotto del padre, l'allarme lo aveva sorpreso mentre
si stava abbottonando, infatti il lavoro era fatto solo a
metà.
“Qualcuno
è entrato nel perimetro della casa! Sono l'unico che abita
quassù,
la sirena mi avvisa quando qualcuno si avvicina troppo e non sono
stato io ad invitarlo” spiegò a gran voce Ben, il
tondo faccione
corrucciato.
Una
zampa digitava su una tastiera e l'altra in quella a fianco: nello
stesso momento si spense la sirena e apparve su uno dei monitor la
ripresa di un circuito chiuso di sorveglianza, in bianco e nero.
Judy
trattenne il fiato, le zampine che prima avevano tenuto le orecchie
in basso per il rumore corsero alla bocca.
“Capitano
Bogo!” esclamò sorpresa e inorridita allo stesso
tempo.
Nel
mondo in bianco e nero dello schermo sfilarono una decina di
mammiferi in tenuta da poliziotto, capeggiati da un grosso bufalo dal
cipiglio scuro e dall'andatura marziale.
Tutti
stringevano le armi nelle zampe, pronti a fare fuoco.
Judy
si chiedeva come li avessero mai trovati, e soprattutto cosa dovesse
fare. Con Bogo lì fuori, le sarebbe semplicemente bastato
uscire e
spiegargli la situazione ed era quasi certa che lui avrebbe capito e
forse li avrebbe anche aiutati.
Se
fosse stato da solo, forse.
Ma
sentiva di essersi spinta troppo in là e di avere per le
zampe
troppo poche informazioni ancora per poter convincere qualcuno,
probabilmente l'intera commissione interna data la sua condotta, e
che tutto si sarebbe rivoltato contro di lei.
E
contro di Nick.
Tutte
quelle nuove informazioni sembravano solo altri indizi che lo
accusavano.
E
qualcosa le diceva che erano un po' troppo perfetti per essere veri.
“Dobbiamo
andare via” sentì dire alla sua stessa voce, e non
era la sola ad
essere sorpresa della sua uscita.
Nick
la guardava come se fosse impazzita.
Ben
intanto aveva iniziato a digitare sulle tastiere come un matto, i
morbidi rotoli di ciccia che ballonzolavano per l'impeto.
“Devo
cancellare alcuni file. Voi iniziate a scappare, c'è
un'uscita di
sicurezza dietro la vecchia cristalliera in cucina. Vi
porterà al
fiume, andate! Saranno qui tra pochi minuti”
mormorò senza nemmeno
guardarli in faccia, troppo concentrato su ciò che stava
facendo.
Dai
monitor scomparivano centinaia di informazioni al secondo, come
evaporandosi.
Finn
fece strada in tutta fretta verso la cucina, e Judy nonostante la
premura fece in tempo ad accorgersi che era più una dispensa
con
riserve per sostenere almeno due guerre, prima di mettersi a spingere
il mobile assieme al fennec e alla volpe.
Nel
muro c'era una piccola porta, ma sufficiente perché anche
Ben ci
potesse passare, a quattro zampe. Bogo
invece non ci sarebbe passato mai, pensava.
Nick
la aprì facilmente, si era aspettato un qualche codice o
sistema ad
impronte conoscendo la lieve paranoia di Ben, e fece segno a Judy di
passare per prima; lei prese la piccola torcia dalla cintura e
illuminò fiocamente il buio davanti a sé.
Lui
fu il secondo a passare e trasalì quando, invece di sentire
i passi
di Finn seguirlo, il tonfo sordo della porta riecheggiò nel
corridoio e l'oscurità si fece più densa.
“Finn?”
chiamò, voltandosi.
Oltre
la porta sentì qualcuno sbuffare e poi un cupo rumore
raschiante di
qualcosa di pesante.
“Finn!”
urlò, pestando contro la superficie legnosa.
Provò a spingere, ma
l'uscio non si mosse di un millimetro.
“Vai,
Nick. Ci pensiamo io e Ben” disse la voce roca dall'altra
parte e
ansimava come se avesse corso. Spostare quel grosso mobile da solo
non doveva essere stato facile.
“Ma-
no! Andiamo, non ce n'è bisogno!”
“Gli
farà perdere tempo. Tu vai e trova il bastardo che ti ha
incastrato.”
Nick
fu contento che fossero circondati dall'oscurità e che Judy
non
potesse vedere l'espressione sulla sua faccia, perché
pensava che
fosse brutta, molto brutta, e che svelasse anche troppo di
sé.
“Ci
vediamo dopo, Finn” mormorò, sperando che fosse
una promessa.
“Ci
vediamo dopo, capo” rispose sicuro l'amico.
Rimase
immobile ad ascoltare il silenzio, cercando di captare qualcosa.
Una
zampina piccola si insinuò nella sua e strinse forte. Poi lo
tirò
via, piano, verso tutt'altra direzione.
“Finn
è un buon amico” disse Judy, che guidava alla
fioca luce della
torcia.
Nick
annuì convinto, poi ricordandosi che lei non potesse
vederlo,
sussurrò:
“Sì,
lo è.”
La
lucina verde del collare sfarfallò debolmente e dopo qualche
altro
passo si accese definitivamente, ma era troppo fioca perché
potesse
fornire un po' di luce.
“Quando
avremo le prove che ti scagioneranno lo rilasceranno subito.
Potrebbero accusarlo tuttalpiù di intralcio alle indagini,
ma
saranno tutti troppo occupati con la mente criminale che ha
organizzato tutto questo per occuparsene” continuò
lei, con un
tono dolce.
Nick
non rispose. Era concentrato a cercare di captare suoni lontani, ma
ormai tutto quello che sentiva era il rumore dei loro passi e quello
dei loro respiri nel silenzio.
La
coniglietta ne trasse uno grande, d'un tratto.
“Ti
chiedo scusa, per prima” sussurrò. E senza
aspettare una risposta
continuò:
“Sono
stata stupida, aggressiva e ingiusta. Ero ancora scossa dagli
anestetici, ma quello che ho detto era quello che credevo, era quello
che mi hanno insegnato sui predatori. Sapevo che non mi avresti fatto
del male, ma ho detto comunque tutte quelle cattiverie, come una
idiota. E mi dispiace. Io ti credo e ti darò una mano per
scagionarti. Magari non vorrai perdonarmi, ma questo te lo devo,
Nick.”
La
volpe sorrise, senza farsi sentire. Era la prima volta che quella
strana, rigida e probabilmente solitaria poliziotta lo chiamava per
nome e il suono gli piacque.
Strinse
la sua zampina. Per la fine di quella avventura, forse lei avrebbe
imparato ad essere meno quadrata, lui ad essere un po' più
cauto e
forse sarebbero diventati amici.
Finalmente,
arrivarono alla fine della galleria. Non avevano sentito rumori alle
loro spalle, quindi presupposero entrambi che la polizia, che in quel
momento doveva essere entrata nella casa, non avesse scoperto
l'uscita di emergenza.
Judy
aprì la porta, lasciando andare la sua zampa.
Una
piccola folata di vento li accolse, insieme al tenue scroscio della
pioggia.
Uscirono
all'aperto del Rainforest District, strizzando le palpebre per
abituarsi alla luce.
Judy,
che era incosciente quando erano arrivati, rimase stupita nel capire
dove fossero. L'ultima volta che era stata all'esterno era tutto
ricoperto di bianca neve, a Tundratown.
Ed
era giorno.
Invece
in quel momento era tutto buio, le stelle splendevano oltre le luci
per le strade e lungo il fiume a pochi passi da loro.
Doveva
essere appena dopo il tramonto. Si voltò verso Nick,
cercando di
capire per quanto fosse stata ko.
“Che
ore son-”
Uno
sparo echeggiò nell'aria.
Poi
un altro.
Nick
si era tuffato in avanti, travolgendola nel bel mezzo della frase, ed
entrambi finirono nel fiume con un tonfo.
Judy
infranse la superficie traendo un gran respiro e si guardò
attorno,
strizzando le palpebre pesanti d'acqua per vedere nella
semioscurità.
“Nick?”
urlò, voltando la testa in agitazione. Batteva le zampe
freneticamente per rimanere a galla e pregava che lui riemergesse da
un secondo all'altro.
Il
forte gorgoglio del fiume sovrastava la sua voce.
Poi,
con orrore, notò la striscia di sangue che increspava la
superficie
dell'acqua e andò nel panico.
“Nick!”
Il
suono di altri spari fischiarono vicino alle sue orecchie e si
accorse con terrore di essere lei il bersaglio.
Doveva
scappare a nuoto, sparire dalla visuale, ma cercare Nick era
più
importante. Era completamente bloccata, ben visibile e bersaglio
facile.
Una
zampa afferrò una delle sue e la tirò sott'acqua
e mentre si
dibatteva con tutte le forze aprì gli occhi e
incontrò quelli verdi
di Nick. Tenendola per la zampa cominciò a nuotare,
lasciandosi
dietro una scia cremisi.
La
corrente lì sotto era sempre più forte e li
aiutò a spostarsi
velocemente, ma l'aria iniziava a mancare ed entrambi sentivano il
bisogno di respirare.
Si
trattennero finché poterono poi, quando ormai l'acqua
premeva contro
il naso e la bocca e il pericolo sarebbe stato un respiro di morte,
risalirono in fretta e riemersero.
Respirarono
a fondo, famelici, controllandosi attorno per essere certi che non ci
fossero
pericoli.
Il
borbottio del fiume era molto più forte, roboante.
“Nick,
sei ferito?” provò a chiedere Judy, ma lui non la
sentì.
D'un
tratto, l'acqua sembrò finire.
Precipitarono
assieme ad essa nella cascata gorgogliante, con un urlo senza fine,
senza peso, il cuore che ormai pulsava direttamente in gola.
Nick
strinse più forte la presa sulla zampa e tirò
Judy a sé,
coprendola col suo corpo in attesa dell'impatto.
Si
schiantarono sulla superficie schiumante sollevando grandi spruzzi,
poi più niente.
Due
colpi secchi alla porta.
“Polizia,
Nicholas Wilde vieni fuori con le zampe in alto” disse una
dura
voce, perentoria.
“Non
c'è nessun Wilde. Sono Ben, Benjamin Clawhauser, questa
è casa mia”
rispose il ghepardo dalla sua postazione, continuando a digitare come
un forsennato.
Gli
mancavano ancora pochi file da cancellare, ce la doveva fare.
Sarebbe
morto prima che qualcuno mettesse mano alle sue invenzioni e ai suoi
programmi.
Che
ci provassero a capirci qualcosa senza i suoi appunti.
“Sappiamo
chi sei. E sappiamo che Wilde è qui. È inutile
coprirlo.”
C'era
una certa sicurezza nella voce al di là della porta che
solleticò
la mente di Ben, stimolando la sua fervida immaginazione.
Era
un po' troppo sicuro, quel poliziotto, che Nick fosse lì. E
per
esserne così sicuro, non poteva essere una semplice soffiata
o una
deduzione.
Pensava
più ad un certezza matematica, ad un segnale
inequivocabile.
Cancellò
l'ultima cartella del file e si assicurò che non potesse
rimanere
nulla, smagnetizzando l'hardware.
Era
tutto perso per sempre, ma poco importava.
Aveva
trovato qualcosa di nuovo da fare.
“Nick
non c'è. Potete entrare a vedere, se non ci
credete” rispose con
un gran sorriso, premendo un pulsante sotto la scrivania per aprire
la porta a distanza.
La
squadra fece irruzione con le pistole tese, tentennarono solo un
attimo nel vedere il ghepardone comodamente seduto nella poltrona con
quella sciocca espressione da peluche.
Quando
si accorsero che il suo collare era spento, sembrarono dare tutti di
matto.
“Zampe
in aria e non un movimento. Dov'è Wilde?”
esclamò il grosso
bufalo in prima fila, puntando la sua pistola dritto sulla sua
pancia.
Ben
fece come ordinato e così Finn, tenuto sotto tiro mentre
entrava
nella stanza.
“Non
c'è nessun Wilde. Solo io e Ben, volete giocare a carte con
noi?”
domandò il piccolo fennec dalla voce profonda, sorprendendo
i
poliziotti.
“Voi,
cercate nelle stanze” fece segno il capitano ai sei
poliziotti alla
sua destra.
“Voi
siete in arresto” disse ai due predatori che se ne stavano
tranquillamente lì, come se la cosa non li riguardasse.
“Chissà
che in centrale non vi si sciolga la lingua.”
“Con
vero piacere, Capitano Bogo” chiocciò Ben,
lasciando che lo
ammanettassero.
Il
bufalo corrucciò la fronte, un freddo brivido.
“Che
ne è di Hopps?” chiese, mentre venivano scortati
fuori.
Finnick
sorrise.
“Ovunque
sia Nick” mormorò, tra sé e
sé.
Note:
Ritardo!
Ritardissimo!
Questo
capitolo è stato un autentico parto. Forse perché
dovevo mettere
indizi, ma senza svelare troppo, ed è difficile; non so, ma
ci ho
messo tantissimo a buttarlo giù e non mi convince del tutto.
Forse
dovrei rileggerlo a mente fredda, ma volevo pubblicare.
Allora,
parliamo del padre di Nick: un passato tragico, uno dei motivi per
cui questo Nick è così com'è.
Nella
bozza originale viene mostrato il padre, molto distinto ed elegante,
e poi un'immagine del piccolo Nick col collare che sta davanti al
negozio di alta sartoria “John Wilde” ricoperto di
graffiti,
tutto solo.
Quindi
non c'è una spiegazione canon di cosa sia successo, e io me
lo sono
inventato di sana pianta. Spero che la storia che ho immaginato vi
piaccia.
Ma
che ne è della mamma di Nick? Verrà menzionata
anche lei.
Prossimamente.
Poi,
ecco Ben! Ovviamente anche lui diverso dal Ben del film, sempre
tondo, mantiene un po' della sua dolcezza e svagatezza, ma questo
ghepardone è un hacker, è sveglio, forse per
necessità dato i
collari.
Io
comunque non credo che neanche nel film Ben sia quel tontolone che a
tutti piace immaginare: se è entrato in polizia, deve aver
fatto un
buon test di ingresso e una buona prova fisica. Qualcosa deve essere
cambiato in seguito, ma non penso che sia stupido o inetto.
Nella
bozza era più paranoico e meno hacker (ovviamente dato che i
collari
li toglievano e non li disattivavano come ho inventato io), e stava
praticamente in un bunker cercando collegamenti di una teoria
complottistica della pecora, assieme ad un personaggio originale che
non ho mai messo.
Io
ho smussato molto questo lato, lasciando solo una lieve paranoia che
è insita in ogni hacker, credo. Insomma spero vi piaccia
anche così.
Judy
finalmente sta facendo un'esame di coscienza; sta cambiando,
speriamo.
Tarandus...
vi eravate accorti che l'ho citato in più di un capitolo?
Il
nome di Manchas è Renato, ho cercato appositamente, e in
questa
versione l'ho reso un dottore.
E
la cascata... citazione necessaria al film. Era presente anche nella
bozza originale e deve essergli piaciuta così tanto che
l'hanno
tenuta.
Capitolo
finito in sospensione, il prossimo vi confesso che non vedo l'ora di
scriverlo. Spero di essere molto veloce, stavolta.
Grazie
di cuore, ancora e sempre,
megabbraccio
|
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Capitolo 7 *** Just you and me ***
Nick
guardava un soffitto sconosciuto, quando riprese conoscenza.
La
testa era pesante e sentiva il suo corpo bruciare, da qualche parte,
ma quello che più lo impensieriva era proprio quel soffitto
sconosciuto. Dove diamine era?
Gli
spari e poi... il fiume... erano caduti in un fiume. Quel dolore
atroce, la corrente impetuosa, li ricordava sempre più
nitidamente,
e poi... la cascata. Erano caduti nel nulla.
Carotina...
Judy, dov'era Judy?
Cercò
di muoversi e il bruciore si acuì in una fitta sull'addome
che gli
mozzò il respiro e lo costrinse di nuovo a sdraiarsi;
inspirò a
fondo, cercando di resistere al dolore improvviso e spiazzante.
“Non
devi sforzarti” disse una voce piccola alla sua sinistra.
Torse
il collo e i suoi occhi incontrarono quelli di Judy, stanchi e
preoccupati, anche se lei non voleva mostrarlo. Era seduta accanto al
letto dove lui era sdraiato e probabilmente lo aveva tenuto d'occhio
per tutto il tempo.
Lasciò
andare un sospiro di sollievo, lei sembrava stare bene.
“Dove-”
si schiarì la gola rauca. “Dove siamo?”
“Nel
mio appartamento. Ti ho portato qui dopo che sei svenuto”
rispose
la coniglietta, saltando giù dalla sedia e sparendo oltre
una porta
a sinistra, appena dopo lo specchio appeso al muro. La sentì
trafficare in quella che immaginò la cucina.
Alzò
appena la testa e ne approfittò per guardarsi un attimo
attorno: era
in una stanza che conteneva un letto e una scrivania, oltre lo
specchio di prima e un guardaroba aperto in cui la maggior parte dei
vestiti erano divise da poliziotta.
Un
ambiente pratico, ma un po' spoglio. Gli trasmetteva tristezza, senza
sapere perché.
Judy
ritornò con un bicchiere d'acqua in una zampa e una
pastiglia
nell'altra e glieli porse con gentilezza. Gli sprimacciò i
cuscini
per aiutarlo a mettersi seduto e lui mandò giù
quello che sperò
forse un antidolorifico, che gli alleviasse anche di poco gli
acciacchi che sentiva dappertutto.
Si
lasciò andare contro i cuscini con un mugugno di dolore.
“Sei
stato colpito dal proiettile di striscio, all'addome, fortunatamente
non hai perso molto sangue. L'impatto con la cascata ti ha procurato
qualche livido e forse incrinato qualche costola. Sei stato molto
imprudente” disse Judy, dandogli le spalle.
Stava
poggiando il bicchiere vuoto sulla scrivania lì accanto, ma
dal tono
lacrimoso con cui aveva parlato, trattenuto, Nick pensò
invece che
stesse cercando un pretesto per non farsi vedere in faccia.
Sorrise
brevemente, contento che lei non lo vedesse. Rimase colpito della sua
premura e si chiese se non si fosse preoccupata troppo e data la
colpa in tutto quel tempo in cui lo aveva vegliato. Sì, di
certo lo
aveva fatto.
Tuttavia
non si sentiva troppo male, considerato quello che aveva passato: il
volo senza fine gli ripassò davanti agli occhi e
così l'impatto
smorzato di poco dall'acqua che ribolliva.
Solo
il colpo di proiettile sembrava una ferita più seria, ma di
certo
non mortale.
Sentendo
di nuovo bruciare la pancia, e volendo controllare, sollevò
il
lenzuolo e vide la grossa fasciatura bianca che gli stringeva la vita,
stretta forte forte, e poi la sua pelliccia fulva.
Era
nudo.
Riabbassò
in fretta il lenzuolo e si voltò a guardare Judy, che si era
girata
in quel momento verso di lui, dopo essersi riseduta. Per qualche
secondo cercò il coraggio di parlare.
Voleva
chiederle il perché e anche il come, ma tutto ciò
che gli uscì fu:
“Sono
nudo.” Un'affermazione.
“Sì”
rispose tranquillamente la coniglia, senza scomporsi.
E
per qualche assurdo motivo quella sua calma lo imbarazzò
ancora di
più e arrossì senza ragione, con la bocca aperta
mentre cercava di
argomentare.
Dopo
qualche attimo lei sembrò capire, forse si accorse della sua
vergogna e arrossì anche lei sotto la grigia pelliccia.
“Avevi
i vestiti bagnati e... io avevo gli occhi chiusi!”
strillò girando
lo sguardo da un'altra parte. “Li ho messi ad asciugare,
saranno
pronti ormai!”
Nick
si accorse solo allora che lei si era cambiata e che indossava una
maglietta azzurra e un paio di pantaloni aderenti neri.
Era
molto carina, così informale.
“Siamo-
siamo al sicuro qui?” domandò per riportare la
conversazione in un
campo neutro.
E
poi, si chiedeva davvero se potessero concedersi tempo per riposarsi.
“Anche
io pensavo fosse sotto controllo, ma evidentemente non credevano
saremmo mai venuti nel mio appartamento... non so se in effetti sia
stata stupida o geniale a portarti qui. Ma potremo stare al sicuro
per un po', almeno finché non tornano i miei
vicini.”
Nel
dirlo, Judy si era voltata a guardare il muro nel punto in cui erano
appesi due piccoli quadretti, con un sospiro rassegnato.
“Ti
porto i vestiti” aggiunse poi, scivolando giù
dalla sedia.
Nello
stesso istante il telefonino sulla scrivania trillò,
vibrando,
facendola sobbalzare.
Sullo
schermo la foto sorridente di due conigli e sotto la scritta
“Mamma
e Papà”.
“Oh
no! Oh no!” esalò nel panico, girando in tondo.
“Devi
alzarti! Ti aiuto io, forza!” esclamò
completamente andata,
allungando le braccia verso di lui.
Mentre
il trillo riempiva il silenzio, Nick la guardava con apprensione e
stupore.
“Perché?”
“Perché
sono i miei genitori ed è una video-chiamata. Non possono
vederti!”
insisté la coniglia, afferrandogli il braccio per
convincerlo.
“E
allora? Spostati verso la porta” rispose lui con fare
accondiscendente, come avrebbe fatto con un matto.
Judy
iniziò a tirarlo con tutta la sua forza e lui si dovette
mantenere
al lenzuolo per non finire nudo a terra.
“No,
rispondo sempre seduta alla scrivania. Se cambio qualcosa se ne
accorgeranno. Tu non sai quanto siano ficcanaso! Dai, forza!”
Insisteva
con così tanto vigore, e lo strattonava con così
tanto ardore, che
alla fine si convinse.
Tirò
via il bianco lenzuolo e se lo avvolse attorno a mo' di toga, poi
più
veloce che poté senza farsi male scese dal letto e si
appoggiò a
Judy, che lo portò a piccoli, ma frettolosi passetti vicino
alla
porta per la cucina.
Il
telefono non aveva smesso di squillare e vibrare per un momento,
intanto, e Nick si chiedeva come mai non avessero ancora riattaccato.
“Fermo
lì, e non fiatare!” sussurrò Judy
mentre lo lasciava poggiato
contro il muro e correva verso la scrivania.
Si
sedette al volo, prese un gran respiro e afferrò il
telefonino.
Si
stampò un sorriso forzato e premette il tasto di risposta.
“Tesoro!
Ci hai messo tanto a rispondere, tutto bene?”
chiocciò la madre,
Bonnie, preoccupata.
Era
una coniglia di mezza età, dal pelo grigio come il suo e gli
stessi
occhi viola. Sua madre era solo meno combattiva, un po' più
docile e
mansueta.
A
volte aveva invidiato l'amabilità di sua madre, a lei
mancava quella
dolcezza.
“Ciao,
mamma. Tutto ok, sono appena tornata... un caso difficile,
sai”
cominciò ad inventare per non preoccuparli.
“Tu
lavori troppo! Dovresti prenderti una pausa, venire a fare una visita
a casa, ogni tanto” si intromise suo padre, Stu, entrando di
prepotenza nell'inquadratura.
Era
tozzo, dal pelo marrone e occhi dello stesso colore, testardo e
cocciuto come lei. Ma aveva la stessa dose di invadenza e
apprensività di sua moglie.
“Sì,
papà. Quando potrò prendermi delle vacanze
verrò. Ma ci sono molte
indagini, non posso lasciare tutto e partire.”
“Ma
devi avere dei giorni di permesso, dei giorni settimanali di pausa,
dei turni! Non puoi lavorare così tanto. Guarda l'orario! Ci
siamo
preoccupati quando non ci hai chiamato alle nove come al
solito”
mormorò Bonnie, con voce amorevole.
Aveva
ragione, ma le dava fastidio sentirselo dire.
Lavorava
tanto, sì, e lo faceva con passione che sfociava
nell'ossessione.
Per tanti motivi: cercare il rispetto dei colleghi, essere reputata
al loro stesso livello, dare il suo contributo per rendere Zootopia
un posto migliore... anche se, alla luce di quello che aveva scoperto
nelle ultime ore, sentiva che le sue certezze si stavano tutte
sgretolando sotto le zampe.
“Non
puoi venire questo fine settimana?” insisté ancora
sua madre,
approfittando del suo silenzio.
“Io...
no! Ho da fare. Vi avviserò quando-”
“Dovresti
andare a visitarli più spesso, carotina” la
interruppe Nick, con
tono pacato.
I
tre conigli alzarono le orecchie tutti nello stesso momento, i due
dentro lo schermo che si voltavano cercando di vedere oltre
ciò che
la telecamera non poteva riprendere, mentre Judy si era girata verso
destra, con uno sguardo allo stesso tempo di rimprovero e di rabbia.
“Era
una voce maschile, quella?” domandò all'improvviso
Stu, il suo
tono attonito e leggermente alterato.
Aveva
spinto via la moglie dall'inquadratura e si sporgeva più che
poteva,
forse sperando di attraversare lo schermo.
“No,
era-”
“So
cosa ho sentito. Può mostrarsi, signore?”
insisté suo padre,
ormai rosso in viso e spazientito.
“Mi
scusi, non sono presentabile al momento” rispose
tranquillamente
Nick, in completo contrasto col coniglio.
Judy
si schiaffò la zampa libera in faccia.
“Nick!”
mugugnò frustrata, voltandosi a guardarlo.
Nick
fece spallucce e con un gesto della mano indicò la sua
tenuta
effettivamente imbarazzante, con una faccia da schiaffi.
Si
stava divertendo. Si stava divertendo a metterla in imbarazzo davanti
ai suoi genitori.
Judy
si voltò per fronteggiare i due che aspettavano,
incorniciati dalla
telecamera, oltremodo sconvolti.
Suo
padre sembrava sul punto di saltare sul primo treno per Zootopia.
“Mamma,
papà, posso spiegare, non è come-”
Venne
interrotta ancora, stavolta da sua madre.
“Perché
non ce lo hai detto?” chiosò stranamente felice,
spingendo via il
marito che sembrava sempre più sull'orlo di una crisi di
nervi. “Del
tuo fidanzato?”
“Fida-
no, non è... è...”
“Avrei
dovuto capirlo. Sei diversa. Sembri più rilassata.
È sicuramente
amore” continuò Bonnie imperterrita, con un
sorrisone entusiasta,
facendosi chissà quali viaggi mentali.
“Mamma,
no! Non sono-”
“Qual
è il tuo nome, giovanotto?” domandò sua
madre a voce alta,
occhieggiando verso la parte destra della stanza, come in attesa di
una qualche apparizione mistica.
Judy,
imbarazzata oltre ogni dire si voltò per guardare Nick,
dannatamente
rilassato. Lo fulminò con lo sguardo, ma tanto
più di quello non
poteva fare.
“Sono
Nicholas Wilde, signora. Può chiamarmi Nick”
rispose lui con voce
affabile, sfoderando uno charme invidiabile, facendo ridacchiare
Bonnie.
La
frustrazione di Judy era ormai alle stelle, insieme a quella di suo
padre.
Quel
cicisbeo era nella camera di sua figlia e si permetteva di fare il
civettuolo con sua moglie. Aveva insultato un aniuomo
per molto meno.
Bonnie
sembrò accorgersi dello stato d'animo del marito e della
figlia,
perché iniziò a congedarsi:
“Si
è fatto molto tardi, meglio salutarci per oggi. E Judy,
tesoro,
perché non ci fai una sorpresa portando il signor Nick qui
per un
weekend, prossimamente?”
Judy
scoppiò in una flebile risatina isterica, che
pregò sua madre
prendesse per semplice nervosismo.
“Restereste
davvero sorpresi, in effetti” rispose enigmatica, continuando
a
ridacchiare.
Sua
madre ovviamente non colse.
“Allora
ci contiamo. Fai attenzione, tesoro, e chiama. Buona notte. E signor
Nick, per favore tratti bene la nostra Judy” si
raccomandò
gentilmente, trattenendo suo marito fuori schermo perché non
si
intromettesse.
Stavano
ingaggiando una lotta ormai.
“Lo
farò. La nostra Judy è preziosa”
mormorò Nick, sorprendendo la
diretta interessata.
Arrossì,
presa in contropiede, evitando di guardare verso la volpe.
Bonnie
sorrise, notando l'improvvisa dolcezza negli occhi della figlia, di
cui lei sembrava non essere nemmeno conscia.
“Buona
notte, allora! A presto, cari” disse prima di pigiare il
tasto per
chiudere la chiamata, l'ultima immagine lei che tappava la bocca al
marito iracondo.
E
fu silenzio.
Judy
poggiò il telefonino sulla scrivania, con un leggero tocco
sordo.
Sempre
silenzio.
Si
massaggiò piano il ponte del naso e si voltò
lentamente verso
destra, incrociò lo sguardo di Nick e rimase ferma a
guardarlo.
Lui
sorrideva innocentemente, tenendosi il lenzuolo stretto addosso.
Si
osservarono a lungo, poi:
“Ma
sei impazzito?” sbottò d'improvviso Judy, gettando
al vento la
calma.
Nick
rise, facendole andare ancora di più il sangue alla testa.
“Mio
padre sarà probabilmente già sul treno per
Zootopia, armato di
forcone. E aspetta quando vedrà che sei una volpe! Ha un
teaser
anti-volpe, sai, e non vede l'ora di usarlo!” lo
sgridò, saltando
giù dalla sedia.
Sembrava
quasi che lo stesse caricando, invece lo superò a grandi
passi e si
infilò in cucina, tornando subito indietro con le braccia
cariche
dei suoi vestiti. Glieli gettò in faccia, tranne il
cappotto, e andò
a sedersi sul letto, poggiando però il capo di suo padre con
garbo
sulla spalliera della sedia.
“Sbrigati
a rivestirti!” gli disse, voltando il viso verso la finestra,
stizzita.
Fu
difficile, con gli acciacchi e la stanchezza accumulata riuscire a
fare gesti semplici come infilarsi i vestiti, ma trattenendo il fiato
quando una fitta di dolore si presentava e poggiandosi al muro,
riuscì a rendersi presentabile in pochi minuti.
E
la barriera dei vestiti lo fece sentire decisamente meno vulnerabile.
“Sembrano
dei bravi genitori” mormorò, senza riuscire a
trattenersi.
Judy
lo sentì e alzò le orecchie, ma ancora non si
voltò.
“Sì,
lo sono. Un po' invadenti, però” rispose
controvoglia. Non voleva
parlare dei suoi genitori, era ancora arrabbiata con lui per averla
messa in imbarazzo davanti a loro e per le mille spiegazioni che
avrebbe dovuto dar loro nel futuro.
“Vogliono
vederti, gli manchi. È normale, è bello. Non dare
per scontati i
tuoi genitori, vai a trovarli ogni volta che puoi”
esclamò Nick
ormai di fronte a lei. Aveva poggiato il lenzuolo ai piedi del letto
e l'aveva raggiunta, fermandosi a due passi.
Stava
finendo di abbottonare la camicia, la cravatta ancora sciolta
poggiata attorno al collo.
Judy
sentì una malcelata nostalgia in quelle parole e le venne in
mente
che aveva scoperto che cosa ne era stato di suo padre, ma che non
sapeva dove fosse sua madre.
Allungò
le zampine e afferrò la sua cravatta, annodandola con
movimenti
lenti.
“Dov'è
tua madre?” gli domandò, senza guardarlo in viso.
“È
morta” rispose a bruciapelo Nick, senza un attimo di
esitazione.
Le
zampe le tremarono un secondo, ma ritornarono in fretta ad acconciare
il nodo.
“Ero
piccolo, ero un cucciolo. Era molto malata. Non la ricordo bene. Mi
ricordo solo il profumo che indossava e il sapore della sua torta ai
mirtilli e poi... la sua voce che mi canta una ninna nanna.
È tutto
quello che mi rimane di lei. ”
Nonostante
il tono che voleva sembrare calmo e disinteressato, c'era una fame di
quell'affetto, di quei ricordi, che tradivano la sua solitudine e la
sua nostalgia.
Judy
tirò su piano col nasino, il viso ancora inclinato e
perciò celato
allo sguardo di Nick.
Lasciò
andare la cravatta annodata e la lisciò un poco con delicate
pacche,
ammirando il suo lavoro.
Poi
scattò in avanti e gli allacciò le braccia al
collo, strette
strette, così tanto che il collare gli feriva la carne,
quasi.
Nick la
sentì respirare bruscamente e agitarsi senza sosta, come
scossa da
singulti.
“Come
siete emotivi, voi coniglietti” le disse piano, dandole una
pacca
tenera sulla testa e una sulla piccola schiena. Eppure quel contatto
gli fece piacere, era l'inizio di qualcosa.
Era
caldo. Era dolce.
“Va
tutto bene, sto bene, vedi, tutto be-”
Judy
lo lasciò andare e si tirò indietro e Nick
sentì immediatamente
che qualcosa era diverso.
Una
sensazione viscerale di libertà.
Nelle
piccole zampine lei teneva il suo nero collare e gli sorrideva, con gli
occhi umidi in attesa e il nasino rosa che fremeva con trepidazione.
Il
piccolo led verde era spento, era innocuo e disattivato... era un
semplice pezzo di plastica.
Le
zampe di Nick corsero verso il proprio collo, si infilarono nella
folta pelliccia arruffata da anni di quella tortura e scorsero via
libere in su e in giù ripetutamente senza incontrare
ostacoli.
Si
sentì libero. Si sentì euforico. Si
sentì... selvaggio.
Una
sensazione dimenticata da tempo, un benessere che non provava da
tanto, un calore al centro del petto che lo fece sentire davvero
vivo.
Un'estasi
mistica che lo commosse.
Era
come correre libero per una foresta incontaminata, tuffarsi nel
più
limpido nei laghi, volare col vento dritto
in faccia.
Aveva
chiuso gli occhi rapito da quelle sensazioni, e li spalancò
all'improvviso, fissandoli sulla coniglietta, che ancora gli
sorrideva, commossa.
“Non
puoi togliermi il collare. Le leggi... non puoi togliermi il
collare”
riuscì a dirle infine, balbettando per l'emozione mista alla
delusione che si stava impadronendo di lui.
Non
gli era venuto nemmeno in mente di chiederle come avesse fatto a
toglierlo, non era importante al momento.
Non
poteva durare, non sarebbe durato.
Ma
carotina continuava a sorridergli, senza tentennare.
“Sono
una preda e una poliziotta, posso dire di avere i ragionevoli
requisiti per togliere il tuo collare e garantire per te. E anche se
non fosse, questo coso è inutile e ingiusto e tu non devi
più
portarlo. I predatori non devono mai più portarli.”
Lo
gettò a terra e quello cadde con un ticchettio sordo, inerme.
Vedere
il collare così lontano da sé, dopo due decenni
in cui era stato la
sua gabbia e la sua catena, fece sentire Nick straordinariamente
bene, lo portò quasi sull'orlo delle lacrime.
Si
gettò sulla coniglietta e la strinse, la strinse forte.
“Grazie.
Grazie, grazie, grazie, grazie” continuava a ripeterle nello
spazio
tra le orecchie, dove poggiava il suo mento.
Judy
ridacchiò da qualche parte vicino al suo collo, al suo
libero collo,
e gli diede delle pacche sulla schiena, prima di abbracciarlo anche
lei.
“Come
siete emotive, voi volpi” gli disse, sopraffatta
dall'emozione.
Rimasero
abbracciati finché uno stomaco ululante non
gorgogliò nel silenzio,
spezzando l'atmosfera.
Si
separarono con una identica risata.
“La
tua pancia ulula come un lupo, carotina” la
canzonò Nick,
tirandosi indietro di un passo.
“Cosa?
È stato il tuo stomaco a brontolare, non negarlo!”
Judy
scese dal letto e si diresse nella piccola cucina, seguita qualche
secondo dopo da Nick.
Assemblò
una cena veloce con quello che aveva nel frigo e anche se gli aveva
detto di andare a sedersi, lui rimase lì appoggiato allo
stipite
della porta per tutto il tempo, solida compagnia.
Poi
cenarono, senza fretta.
Sapevano
che i problemi dell'omicidio, di Tarandus e Manchas, di Bogo e della
polizia non erano scomparsi, ma per qualche ora, solo per qualche
ora, volevano accantonarlo nel fondo della mente e rilassarsi. E
chiacchierare di cose vane o non parlare affatto.
Avevano
bisogno di una pausa o sarebbero crollati al suolo sfiniti.
Al
termine della cena, quando ormai i piatti sporchi erano impilati al
centro del tavolo e gli stomaci ben pieni, e la sonnolenza minacciava
di abbatterli, sentirono entrambi un colpo secco poco distante e poi
due voci urlare una contro l'altra, forti.
“Stai
zitto!”
“Tu
stai zitto!”
Nick
spalancò gli occhi e guardò Judy, che ridacchiava
della sua
espressione sorpresa.
“Sono
i miei vicini. Sono molto rumorosi e litigano in
continuazione”
sussurrò flebile, sporgendosi verso di lui.
Non
aveva mai capito che rapporto legasse le due antilopi che abitavano
accanto a lei, anche se qualche teoria se l'era fatta.
Era
un rapporto di amore e odio, il loro.
“Sono
anche dei gran ficcanaso e hanno un udito fine. Faremo meglio ad
andare a dormire. Ci svegliamo all'alba e sgattaioliamo fuori, verso
la casa di Manchas. Ok?”
Qualche
ora di sonno gli avrebbe fatto bene, gli avrebbe ridato il vigore che
serviva loro per arrivare in fondo a quella storia, avrebbe anche
aiutato le ferite.
Nick
annuì in assenso; Judy spense la luce e fu lui a guidarla al
buio
verso il letto, grazie alla sua vista notturna.
“C'è
un solo letto, ma è grande abbastanza per entrambi... per te
va
bene?” mormorò lei sporgendosi verso l'alto per
arrivare alle sue
orecchie.
“Certo”
rispose lui piano, chinandosi per arrivare alle sue.
Si
infilarono sotto le coperte senza aggiungere altro, più
vicini di
quanto avessero mai concesso a qualcuno di stare loro, preda subito
del sonno e della stanchezza.
Nick
si appoggiò al cuscino con un sospiro rilassato, non si
sentiva così
comodo da troppo tempo: aderiva così bene, c'era solo
morbido,
morbido ovunque, senza plastica o fibbie strette. Judy era a pochi
centimetri e anche lei era serena e morbida.
Ed
era strano per due solitari come loro dormire con qualcuno accanto.
Ed
era bello.
Quel
tepore, quella sensazione di tranquillità, quella sicurezza
che si
dava e riceveva in egual misura. Si addormentarono in fretta, cullati
da quelle sensazioni, in pace.
Tutto
il resto avrebbe aspettato il sorgere del sole.
Note:
Buon
giorno!
Un
capitolo pausa, come li chiamo io. Dove sembra non succedere nulla,
ma in realtà io credo che accada moltissimo.
Dunque:
come avrete notato ho cambiato la casa di Judy. Nel film non
è
niente di più che una stanza... dove va in bagno? E tutte le
case
sono così? Poveri vicini, nel caso.
L'idea
che ci fosse una seconda stanza mi è venuta
perché alla prima
visione io pensavo sul serio ci fosse: quando le viene mostrata la
stanza, la porta d'ingresso si riflette sullo specchio e io pensavo
fosse una seconda porta che portava ad un altro ambiente.
L'idea
mi è rimasta appiccicata in testa e quando ho iniziato a
progettare
questa storia ho deciso che l'avrei messa.
L'altra
stanza è della stessa lunghezza, ma più stretta;
è divisa tra
cucina e un piccolo bagno.
Il
termine aniuomo che trovate nella storia è una cosa che ho
inventato
per definire gli uomini in questo mondo zoo-antropomorfo; la versione
inglese “Animan” (penso sempre prima in inglese) mi
piace di più,
ma non si può avere tutto.
Nella bozza originale a questo punto Judy portava
Nick ferito a Bunnyburrow, che avrebbe dovuto essere nella
città di Zootopia: dato che poi lo hanno messo distante,
praticamente in campagna, non era fattibile come idea. Comunque, quando
lei lo portava dai suoi genitori e innumerevoli fratelli, loro
scambiavano Nick per il fidanzato di Judy e si inalberavano moltissimo.
A modo mio ho voluto lasciare i fraintendimenti, anche se per telefono.
Ho riso tutto il tempo, lo giuro.
Finalmente
il collare è andato! E qui c'è uno dei motivi per
cui non ho messo
l'idea iniziale che si togliessero i collari nel Wild Times: volevo
che il momento in cui Judy toglie il collare di Nick, fosse la prima
volta in assoluto da quando gliel'avevano messo in cui provava la
sensazione totale di libertà nel non averlo.
Volevo
fosse speciale e assoluta.
Avrebbe
perso se fosse successo già prima e se toglierlo fosse stato
così
semplice, no?
Dopo
questa pausa ci butteremo di nuovo nell'azione!
Un
grandissimo abbraccio, grazie di cuore!
|
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Capitolo 8 *** In the name of the law ***
La
centrale di notte sapeva di sudore rancido, alcol scaduto e
sigarette.
Gli
odori della giornata si erano accumulati, amplificati e mescolati, e
stagnavano nell'androne centrale: sospettati dall'igiene discutibile,
alcolizzati che avevano creato problemi in qualche locale e anche
squillo dei quartieri più malfamati dal persistente odore di
fumo,
decantavano nelle celle, saturando l'aria.
Bogo
entrò e si fermò un attimo nell'atrio,
inspirò appena e lasciò
andare uno sbuffo disgustato. C'era da pensare che dopo più
di
quindici anni di carriera avesse fatto il callo a quel puzzo, ma in
verità non lo aveva mai sopportato e mai l'avrebbe mandato
giù.
Si
incamminò stanco verso le macchinette, frugò
nella tasca del
pantalone e fece scivolare una manciata di monete nella fessura di
quella più a destra, poi digitò il pulsante del
caffè, pigiò un
paio di volte quello dello zucchero perché fosse amaro e
infine
confermò l'ordine: con un cigolio metallico il distributore
si mise
in funzione e una serie di gorgoglii interruppero il silenzio. Il
bicchiere scese in postazione.
Da
lontano, vicino al bancone nell'ingresso, arrivavano rumori
indistinti, chiacchiere vane di colleghi che si incontravano entrando
o uscendo, il ticchettio di un paio di zoccoli sul pavimento chiaro,
ma non si voltò a guardare chi fosse, non aveva davvero
voglia di
parlare con nessuno.
Era
sfinito. Ormai non sapeva davvero da quanto fosse sveglio e il
pulsare degli occhi nelle orbite non lo aiutava. Gli dava fastidio
perfino il tenue bagliore della macchinetta e qualsiasi rumore faceva
lo stesso effetto di una macina nel cervello.
Eppure
quello continuava ad andare, continuava a domandare.
Dov'era
Wilde? Hopps era ancora viva? Era con lui? Costretta con la forza o
di sua spontanea volontà? E cosa c'entravano il ghepardo e
il
fennec?
Domande,
solo domande. A cui non trovava risposta, nonostante il fiato sul
collo di Bellwether, altro incentivo a mettere fine a quella storia
al più presto.
Con
un bip sonoro il distributore lo distolse dalle sue riflessioni; Bogo
afferrò il caffè bollente, nero, e lo bevve di
colpo, fece
un'espressione disgustata per il retrogusto di petrolio,
stritolò la
tazzina, la gettò nel cestino lì accanto e poi si
voltò deciso.
Doveva
interrogare il panzone e il mingherlino e trovare risposte alle sue
domande.
Si
diresse verso le stanze degli interrogatori. I due erano stati
separati in due diverse per non farli comunicare tra loro e
attendevano da ore, giusto per lasciarli un po' sulle spine.
Avrebbe
cominciato dal fennec, che tra i due sembrava quello più
informato.
Era un volpide, aveva sicuramente a che fare con Wilde; molto
più
dell'altro probabilmente.
Entrò
senza bussare nella stanzetta a destra, l'ultima del corridoio,
sicuro di spaventare l'occupante, ma il fennec non batté
ciglio; si
limitò a sollevare lo sguardo torvo su di lui, che poi
riportò
dritto di fronte a sé, sull'enorme specchio un po'
scheggiato che
occupava quasi tutta la parete.
Le
stanze da interrogatorio erano diverse dalla modernissima e quasi
asettica centrale: piccole, senza finestre, grigie, lugubri tuguri
che instillavano un senso di soffocamento, arredati con pochi mobili
vecchi e zoppi che logoravano i nervi.
Erano
pensati ad oc, per fiaccare anche il più resistente dei
malviventi.
C'era
uno spesso silenzio.
Un
tocco alla porta lo ruppe per un attimo e quando si aprì
dopo il suo
comando, l'agente Yax caracollò dentro con una cartellina
stretta in
una zampa, inciampò sul nulla e sparse tutti i fogli in aria.
Bogo
sospirò forte e si passò una zampa sulla faccia,
senza muoversi
altrimenti.
Lo
yak si mise carponi, farfugliando qualcosa di indefinito, e in fretta
cercò di raccogliere tutti i fogli; poi si rizzò
di scatto e glieli
passò, alla rinfusa, e il capitano si accorse della divisa
stropicciata.
“Va
bene, agente Yax, grazie. Esci ora” mormorò nel
modo meno seccato
che gli riuscisse di fare.
Quando
la porta si richiuse, il fennec era ancora nella stessa posizione,
immobile, come se tutta quella scenetta non l'avesse vista nemmeno.
Bogo
diede una scorsa veloce ai fogli incasinati, mentre si avvicinava al
tavolo; arrivato ad uno degli ultimi lasciò andare uno
sbuffo
sarcastico dal naso e poi li lanciò sulla superficie, dando
il colpo
definitivo a quel poco di ordine che ormai avevano.
Il
fennec abbassò un secondo gli occhi sul foglio
più vicino, al
contrario rispetto alla sua prospettiva, e poi a quelli intorno,
ognuno con una sua direzione.
“Allora,
Finnick Fox...
davvero non
hai saputo trovare un soprannome più originale?”
esclamò
sarcastico Bogo, sollevando un sopracciglio.
Il piccolo
sospettato lo fissò
in silenzio.
“Qual
è il tuo vero nome?”
incalzò il buffalo, senza dargli tregua.
Il muso del volpide si aprì in
un piccolo ghigno, pura soddisfazione.
“Prova
a scoprirlo da solo.”
Bruciava, a
Bogo, che con tutte
le risorse a disposizione non fossero riusciti a scoprire la vera
identità del piccolo predatore. Poteva essere chiunque,
poteva aver
fatto qualunque cosa e il fatto che avesse bisogno di un soprannome
gli diceva che probabilmente il suo passato era costellato di
crimini.
Ma non gli diede soddisfazione.
Avrebbe usato le carte sicure nelle sue mani per farlo parlare.
“Allora
Finnick, o preferisci
Fox? Finnick, ok... sappiamo che lavori con Wilde e tanto ci basta.
Sappiamo che c'eri anche tu nel capannone, che conosci le attrazioni,
che lo hai aiutato. Sono sicuro che sai anche dove sia.”
Il fennec si limitò a rollare
gli occhi al cielo, ma ovviamente non rispose.
“Vedi,
Wilde è davvero in una
brutta situazione, su di lui pendono delle accuse molto gravi, ci
sono prove schiaccianti ed è anche evaso... quando lo
troveremo, lo
sbatteremo in galera per molto, molto tempo. Tu e il ghepardo siete
accusati di intralcio alle indagini e favoreggiamento per aver
nascosto Wilde, perciò entrambi avrete una pena di almeno
quattro
anni, per cominciare” disse Bogo, gettando una fugace
occhiata per
controllare se le sue parole sortissero un qualche effetto. Poi
continuò:
“Ma,
se collabori, possiamo
trovare un accordo con il procuratore ed evitare che tu finisca in
galera. Devi dirmi solo dove si trova Wilde.”
Inaspettatamente,
almeno per il
capitano, il piccolo predatore scoppiò in una fragorosa
risata,
gettando la testa all'indietro così violentemente che le
lunghe
orecchie sbatacchiarono con uno schiocco secco. Rise e rise, contro
la sua espressione apparentemente composta.
“Al
tuo posto mi chiederei che
fine ha fatto la coniglietta” esalò alla fine, tra
gli ultimi
sprazzi di risata, lo sguardo furbo che saettava di derisione.
Bogo lo sapeva che voleva solo
punzecchiarlo ed esasperarlo e non aveva mai abboccato a provocazioni
del genere, eppure quella volta gli costò ogni briciola di
autocontrollo che possedeva per non cadere nella trappola; la
tentazione di rovesciare il tavolo e schiacciare quel minuscolo
arrogante era così forte.
Inspirò forte, un paio di
volte.
“Wilde
avrà la pena di morte,
lo sai, vero? Non puoi salvarlo” mormorò poi
sottovoce, brutalmente.
Finnick alzò le orecchie e ogni
traccia di divertimento era sparita dal suo viso. Il suo muso si
aprì
in un ringhio, i denti puntuti sguainati.
“Nick
è innocente! Non ha
fatto niente!” urlò con la sua voce roca,
agitandosi appena sul
posto.
“Wilde
è un assassino! Ha
ucciso e lo farà ancora! E abbiamo l'ordine di sparargli a
vista,
per questo” incalzò Bogo, ormai preda della rabbia.
Il fennec
saltò sul tavolo a
zampe unite e ringhiò così forte che si sorprese,
di udire un
ruggito tanto potente da un essere così piccolo. Prima che
potesse
anche solo muoversi di un altro passo, il collare lampeggiò
di
rosso, ad intermittenza, e una scarica elettrica lo investì
da capo
a piedi, immobilizzandolo col dolore.
Bogo riacquistò in fretta il
suo senno, a vedere il piccolo predatore contrarsi nella sofferenza e
poi cadere sul tavolo inerme, mentre riprendeva fiato. Finnick
respirava a fondo, provato, poi si rialzò piano, puntando le
zampine
sulla superficie.
Provò un moto di pena così
forte che, anche se sapeva lo avrebbe fatto solo più
infuriare, si
sporse in avanti per aiutarlo.
Prima che
potesse anche solo
sfiorarlo, però, la porta della stanzetta si aprì
e uno stambecco
in un completo apparve, impettito. Sembrava molto giovane e anche
molto inesperto.
“Si
allontani dal mio cliente,
per favore” disse perentorio, entrando nella stanza e
chiudendosi
la porta dietro.
“Sono
l'avvocato Ibex,
assegnato d'ufficio al signor Finnick Fox. Non può parlare
con lui e
tutto quello che ha detto senza la presenza di un avvocato non
è
legale. Ci lasci da soli, per favore.”
Finnick si
era rimesso a sedere
e guardava il suo difensore con sospetto, mentre Bogo, capito che
ormai non avrebbe ottenuto niente, si diresse verso la porta, senza
una parola.
Poco prima di uscire, passando
vicino allo stambecco, lo sentì sussurrare:
“Ci
penserò io a farlo
parlare, non si preoccupi.”
Poi si
trovò nel corridoio
bianco. Con il mal di testa che gli schiacciava le tempie in una
morsa dolorosa e un moto di bile che risaliva dallo stomaco.
Perdere le staffe in quel
modo... che mancanza di professionalità. Si sentiva anche
colpevole
per la scossa elettrica, era stato lui a istigare il fennec.
Si passò di nuovo la zampa
sulla faccia, stropicciando gli occhi con forza.
Forse con il ghepardo non
sarebbe andata così male, anche se dubitava che il suo
avvocato non
fosse già arrivato anche lui.
Percorse un
pezzo del corridoio
al contrario, fino ad arrivare alla terzultima porta a destra, e la
aprì, piano stavolta. C'era solo un mammifero nella stanza,
nessun
avvocato.
Il ghepardo era seduto sulla
sedia, piccola per la sua mole, e canticchiava tra sé e
sé,
osservandosi attorno con aria svagata. Sembrava un bambino in attesa
ad un luna park e non un sospettato di favoreggiamento.
“Capitano
Bogo!” chiocciò
nel vederlo, ritornando poi alla sua occupazione precedente.
Tutto, in
Benjamin Clawhauser,
spiazzava Bogo. Ma la sua apparente calma anche in una situazione
come quella era ciò che più di tutto lo sorprendeva.
Come prima, un tocco lieve alla
porta annunciò l'entrata di Yax, ma questa volta il capitano
fu più
veloce e afferrò la cartellina immediatamente, chiudendogli
poi
l'uscio sul muso.
Poi si mise a leggere veloce i
pochi fogli all'interno. C'erano poche informazioni, ma per lo meno
sembravano tutte giuste; aveva fatto sparire quelle indesiderate col
suo talento come hacker.
“Anche
io ho fatto le mie
ricerche, Hector Bogo.”
Sollevò gli occhi dalla
cartella e li piantò sul grasso ghepardo, col sangue nelle
vene che
riprendeva a scorrere, dopo essersi ghiacciato per un secondo.
Non c'era stata nessuna minaccia
nella voce del predatore, anzi, sorrideva, ma in qualche modo si
sentì pressato, si sentì vulnerabile, e non gli
piacque.
Cosa riuscisse a fare quel tipo
solo con un tastiera da computer era una cosa che non voleva davvero
scoprire.
“Benjamin
Clawhauser, tu...”
“Mi
chiami solo Ben, Ben va
bene” lo interruppe l'altro, affabile.
Bogo prese un respiro e
ricominciò.
“Clawhauser”
insisté, “hai
creato tu il programma?”
Non avevano nemmeno coniato un
nome adatto a definirlo. Era solo 'il programma', come se dovesse
essere chiaro di cosa stessero parlando, come se dovesse essere
universalmente conosciuto che era 'il' e non 'un'. Il programma
definitivo.
E ovviamente sapeva benissimo di
che parlava.
Ben sorrise
fierissimo,
mostrando tutti i suoi denti aguzzi, ma senza nessuna
aggressività.
“Sì,
sì, sono stato io.”
“Parlamene.
I nostri tecnici
hanno trovato delle difficoltà quando-”
Si interruppe nel vedere lo
scintillio compiaciuto negli occhi del ghepardo e il sorriso
ridimensionarsi appena, un piccolo ghigno mesto.
“Certo,
no, non ci
riusciranno. E anche se cercassero nel mio computer non troverebbero
davvero nulla, solo vuoto cosmico. Mi spiace, non vi lascerò
toccare
il programma” annunciò solenne, con uno sguardo
serio, per la
prima volta.
Passò
in fretta e Bogo si
chiese se non se lo fosse solo immaginato. Ma quel Ben sembrava
così
intelligente e furbo, che si chiese fin dove potesse spingersi
nell'interrogatorio senza cadere in qualche trappola.
“Il
programma è una minaccia
all'integrità dei collari. Se cadesse nelle mani sbagliate
quello
che abbiamo fatto, tutti i progressi, sarebbero nulli. I predatori
avrebbero libero accesso ai loro istinti più vili e nessuno
sarebbe
al sicuro!”
Non
sorrideva più, Clawhauser.
Lo aveva fissato dritto negli occhi, e il sorriso si era spento e
quell'aria svagata era caduta.
Lo guardò, il viso tondo una
maschera impenetrabile.
“Le
prede non capiscono cosa
provochino i collari. Non possono. Ma penso che lei possa, capitano.
È la stessa sensazione che si prova ad eseguire un
ordine che va
contro la propria etica, solo perché è una
persona potente a
chiederlo. Ci si sente costretti, ci si sente sporchi, ci si
sente sbagliati.”
Sollevò un sopracciglio,
esplicito.
Bogo
sentiva il proprio battito
del cuore rimbombargli nelle orecchie e il sangue salirgli nella
testa e quella sembrava proprio paura. Gli si bloccò il
respiro.
Il ghepardo non poteva sapere.
Ma quella frase sembrava troppo perfetta per essere un caso.
“E
comunque” lo distolse da
quello stato di trance l'altro, “non ho mai permesso, e non
permetterei mai, che il programma finisse in mani sbagliate.”
Il capitano
rimase ancora in
silenzio, a fissarlo, mentre a poco a poco tornava in sé.
Sembrava sincero, sembrava
sicuro, ma sarebbe stato sciocco a fidarsi.
“Se
ci darai il programma e
Wilde, alcune accuse a tuo carico potrebbero cadere. Sicuramente non
ti farebbero più avvicinare ad un computer in vita tua, ma
è meglio
che finire in prigione. Pensaci, Clawhauser.”
“No,
mi spiace, non è
fattibile. Nick è innocente e sta cercando le prove per
sbattervele
in faccia, non posso permettervi di prenderlo prima che le abbia
trovate” confessò, anche se sapeva di stargli
dando delle
informazioni.
Wilde non stava scappando, stava
cercando prove per scagionarsi. O almeno era quello che aveva
fatto intendere ai suoi compari, vero o meno.
“Dov'è
l'agente Hopps? È con
lui, l'ha rapita?” domandò a bruciapelo, cercando
di prenderlo di
sorpresa e poter così scoprire altre notizie.
“Sta
bene, posso dirle solo
questo. Non è in nessun modo in pericolo” rispose
pacato Ben, che
sentiva la sua genuina preoccupazione per l'agente.
“Pensi
davvero che Wilde sia
innocente?”
Lo chiese, diretto, senza sapere
nemmeno perché.
“Sì,
sono certo che lo sia”
fu la serafica risposta.
“Ci
sono prove schiaccianti
contro di lui.”
“Anche
troppo. Le prove
possono essere fabbricate, lo sa?”
“Perché
qualcuno dovrebbe
cercare di incastrare Wilde?”
“Questa
è un ottima domanda,
capitano.”
Bogo sbuffò, preso in
contropiede, non sapendo davvero dove stessero andando a parare. Era
l'interrogatorio più strano che avesse mai fatto. E tuttavia
gli
risultava difficile arrabbiarsi o essere spietato con quel morbidoso
e intelligente ghepardo.
“Se
Wilde è innocente, lo
scoprirò. Indagherò a fondo e lo
aiuterò, se davvero è innocente.
Ma devi dirmi dove si trovano lui e Hopps” propose
sinceramente.
Ben lo fissò e scosse la testa,
sconsolato, poi occhieggiò verso l'angolo a destra, dove
c'era la
telecamera, prima di riportare lo sguardo su di lui.
Sapeva di essere tenuto
d'occhio, e Bogo si chiese chi fosse poi davvero a sorvegliarli.
C'era qualcun altro, di cui il ghepardo era a conoscenza?
In quel
preciso istante, il suo
telefonino trillò. Con uno sbuffo seccato lo tirò
fuori dalla
tasca.
Il numero sul display era
dell'ufficio del sindaco.
“Riprenderemo
l'interrogatorio
più tardi. Nel frattempo, puoi chiamare il tuo avvocato, se
vuoi”
disse in fretta, andando già verso la porta.
La aprì, superò l'uscio e poco
prima di richiuderla udì il sussurro di
Clawhauser, nient'altro che
un sussurro:
“Stia
attento a non perdere il
segnale, capitano.”
Rimase fermo un istante contro
la porta, nel corridoio pieno solo del trillo insistente del suo
cellulare.
Di nuovo, gli sembrò che il
ghepardo sapesse, o indovinasse, più di quanto lecito.
“Bogo”
disse infine,
portando il telefonino all'orecchio.
La vocetta stridula del sindaco
gli perforò il timpano, gli diede i brividi.
“Non
ha preso Wilde!” urlò
con tutto il fiato. “Le è fuggito dalle zampe,
come fosse un
novellino! Come diamine ha fatto? Dopo averglielo praticamente
servito su un piatto d'argento!”
Bogo non le chiese come fosse
già a conoscenza della situazione. Resistette durante tutta
la sua
sfuriata, poi si infilò in mezzo ad una pausa in cui
prendeva fiato.
“È
stato aiutato” le disse
asciutto, incamminandosi verso l'atrio.
Nel
ricevitore sentì uno sbuffò
seccato, Bellwether prese un respiro duro.
“E
io adesso aiuterò lei, di
nuovo. La sua squadra può occuparsi di altro, il caso passa
alla
T.U.S.K.! Lei li indirizzerà verso la giusta direzione e
loro si
occuperanno di tutto il resto. E voglio risultati!”
La chiamata si interruppe
bruscamente.
Era
arrivato all'atrio ormai, ed
era vuoto. C'era solo la gazzella all'accoglienza, mezzo
addormentata.
Fuori, oltre le grandi porte a
vetri era notte, notte fonda.
Non si era
mai sentito così
stanco e così combattuto come in quel momento. Ubbidire
all'ordine
del sindaco voleva dire condannare a morte certa non solo Wilde, ma
anche Hopps. E le parole del ghepardo gli tornavano alla mente,
quella sua cieca sicurezza nella innocenza della volpe. E anche come
il piccolo fennec l'aveva difesa.
A cosa doveva credere? A chi
doveva credere?
Di certo, si disse, non avrebbe
detto alla T.U.S.K. dove trovare Wilde, non prima di aver controllato
una cosa personalmente.
Oltrepassò l'ingresso e uscì e
sapeva che non avrebbe dormito nemmeno quella notte.
Judy si era
svegliata presto,
pressata contro la volpe, entrambi più avvinghiati di quanto
avessero inteso all'inizio. E Nick aveva scelto proprio quel momento
per svegliarsi.
Dopo qualche istante di
imbarazzo, si erano alzati, senza dire una parola.
E sempre in silenzio, forse per
non svegliare i vicini o forse entrambi consci di non dovere per
forza dire qualcosa, si erano preparati: al buio, quietamente,
doccia, colazione, antidolorifico per Nick, e poi erano scivolati
fuori dall'appartamento.
Mancava poco all'alba, quando
uscirono dal palazzo; c'era una lieve luminescenza ad est.
Si mossero
più in fretta
possibile; Nick, stretto nel cappotto di suo padre, resisteva al lieve
dolore con stoicismo. Lei aveva tolto la divisa e girava con abiti
civili, la fondina nascosta sotto una leggera giacca a vento.
Nel silenzio, le lunghe orecchie
si inclinarono. Afferrò un braccio di Nick e lo
tirò piano, ma con
decisione, verso il vicolo alla loro sinistra.
Prima che la volpe potesse
protestare o anche solo aprire bocca, lei lo zittì
poggiandoci una
zampina sopra; poi si sporse per un attimo, occhieggiando indietro
verso il portone del suo palazzo.
Da una
macchina appena
fermatasi, scese il capitano Bogo in persona. Serio e rigido come non
lo aveva mai visto.
Judy si
appiattì contro il muro
del vicoletto, trattenendo il fiato. Nick fece per sporgersi anche
lui, per vedere cosa le avesse scatenato quell'espressione
così
strana in viso, ma lei lo bloccò.
Sentì il cigolio del portone e
capì che stava andando al suo appartamento.
Bogo era
lì, da solo. E la
stava cercando. Non sapeva come avesse fatto a trovarla, ma non
poteva essere un caso.
Se fosse andata da lui, se gli
avesse spiegato con calma tutto quello che avevano scoperto, le
prove, le cose che non quadravano e se gli avesse fatto conoscere
Nick e gli avesse raccontato della sua bontà, del suo
carattere, era
sicura che il capitano avrebbe capito e li avrebbe aiutati.
Era un colpo di fortuna che
fosse lì, una svolta completa in tutto quel casino.
Fece per
sporgersi, per andargli
dietro, ma i suoi sensi l'avvertirono della minaccia un'istante prima
di mostrarsi e si bloccò, in bilico tra la sicurezza e il
pericolo.
Con uno stridore di gomme un
enorme blindato si fermò di fronte al palazzo e una squadra
di
cinghiali armati fino ai denti ne eruttò fuori: facendo
scuotere il
terreno sotto i loro passi, irruppero nel portone, sparendo alla
vista in un frammento di secondo.
“La
T.U.S.K.” sussurrò
spaventata, allungando una zampina verso Nick. Trovò la sua
e
strinse forte.
Poi si
lanciò in avanti,
portandolo lontano, più lontano possibile, verso una via di
salvezza.
Se mai ci fosse stata.
Note:
Buonanotte.
Voglio
innanzitutto scusarmi per
l'enorme tempo passato dall'ultimo aggiornamento. Da allora, sono
successe molte cose, non sono stata affatto bene, in molti sensi. La
vita è bella e terrificante
allo stesso tempo, e ci tiene a ricordarcelo a volte.
Ma finisco quello che inizio. E
tengo moltissimo a questa storia e a voi, e piano piano la
finirò.
Vi chiedo solo pazienza. Anzi, grazie, per averne così tanta.
Passando
alle cose importanti:
allora, capitolo dalla parte
della legge. Finn e Ben interrogati, ovviamente a modo loro.
Finn, non
so se lo sapevate, non
è il vero nome del piccolo Fennec. Finnick è un
soprannome, non si
sa quale sia quello vero, ma a quanto pare non è nulla di
così
cool. Ce lo vedo bene a chiamarsi Timothy, io, per esempio.
Il cognome Fox non compare nel
canon, gliel'ho dato io per esigenze di trama, tanto il suo nome era
già inventato.
I due
interrogatori si svolgono
in maniera diametralmente opposta: uno calmo e rilassato, l'altro
rabbia e violenza. Yin e yang.
A ben
pensarci, Finn e Bogo non
interagiscono mai nel film, ma immagino non andrebbero molto
d'accordo.
Ben e Bogo invece interagiscono
eccome, ma il capitano non mi sembra mai capace di arrabbiarsi
davvero con quel morbidoso ghepardo.
Ovviamente,
Ben è differente
qui, ma ho cercato di mantenere quella sua naturale dolcezza,
naturale calma, che lo distingue: questo Bogo, più stanco e
serio,
ne è chiaramente spiazzato. Lui non ha certo avuto un
Clawhauser
alla reception da anni a mangiare ciambelle.
Mi sono divertita, a scrivere il
capitolo. E a scrivere di Ben, lo adoro da morire. Renderlo
così
furbo e schietto mi fa impazzire di gioia.
Ultimo, ma
non ultimo: entra in
scena la T.U.S.K.
Riuscirà Bogo a tenerli a bada?
Riusciranno Nick e Judy a scappare? E a scoprire finalmente la
verità? La T.U.S.K. li prenderà?
Ma soprattutto, Ben avrà delle
ciambelle?
Questo e ancora di più, nei
prossimi capitoli.
Grazie di
cuore, davvero e
sentitamente.
Grazie
abbraccione
|
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Capitolo 9 *** Dead end ***
Il
corridoio era deserto.
Lo
sguardo spaziò sulla carta da parati beige e sui pannelli
viola in
basso, un po' rovinati.
Non
era mai stato nell'appartamento di Hopps, anche se sapeva dove fosse;
non c'era mai stato quel tipo di confidenza, anche se tra di loro
correva buon sangue e rispetto. Però sapeva perfettamente
dove
abitasse.
Trovare
l'appartamento non fu difficile, nonostante mancassero i numeri alle
porte, grazie allo zerbino color lilla con la scritta
“Welcome”
composta da carote e lettere, con un'altra grossa carota proprio
sotto.
Solo
Hopps poteva avere uno zerbino del genere, ne era certo.
Ci
si fermò sopra e poi alzò una zampa:
bussò piano, ma deciso. Un
tocco solo.
“Hopps?”
chiamò sottovoce.
Non
ci fu alcuna risposta. Ripeté di nuovo il gesto, chiamando
il nome
appena più forte.
Di
nuovo, solo silenzio.
Scrutò
a destra e sinistra, cautamente, prima di indietreggiare di un passo:
poi, con un solo colpo secco si abbatté contro la porta,
sfondandola
con facilità: si spalancò, appena sbilenca, e
Bogo si affrettò ad
entrare. Ricontrollò nel corridoio, prima di chiudersi la
porta alle
spalle, per assicurarsi che nessuno fosse uscito a controllare.
La
stanza di Hopps era in penombra, ma sicuramente vuota. Si sporse
oltre la porta alla sua destra e si accertò che anche la
cucina e il
bagno fossero vuoti.
Libero,
si disse mentalmente.
Non
che pensasse davvero di trovarla lì.
Solo
che il segnale di Wilde, prima di sparire del tutto, quadrava con
quella zona e occhieggiando intorno in cerca di indizi, capì
subito
perché: il collare di un predatore era poggiato al suolo
accanto al
letto, ovviamente disattivato.
Strinse
un'imprecazione tra i denti, avvicinandosi a grandi passi. Cosa
diamine era saltato in mente a Hopps? Levare il collare ad un
predatore?
Era
un fatto da corte marziale, all'istante e senza passare dal via.
Ma
se Wilde l'avesse costretta? E se lei in quel momento si fosse
trovata nelle sue zampe, come ostaggio o... che altro?
Non
poté impedirsi di essere preoccupato, anche se non riusciva
a
immaginare la caparbia e agguerrita Hopps in una situazione del
genere.
Il
pavimento in legno tremò sotto le zampe e un decimo di
secondo dopo
la porta venne sbalzata via una seconda volta, stavolta scardinata
del tutto: cadde con un tonfo sul pavimento, lasciando libero campo
ai cinque facoceri armati di tutto punto che l'avevano sfondata,
probabilmente a capocciate.
Contemporaneamente,
senza pensare, Bogo tirò un calcio al collare, spedendolo
sotto il
letto.
Erano
in cinque. Indossavano giubbotti antiproiettile sulle divise, con
l'acronimo T.U.S.K., Tactic Units Special Kommando, scritto in bianco
sul petto; il loro armamentario variava da piccole mitragliatrici a
pistole d'ordinanza, armi da taglio e perfino da lancio, come uno di
loro che indossava una banderuola
di Kunai sul davanti.
Uno
rimase piantonato all'entrata per trattare con eventuali scocciatori
o curiosi, uno si infilò nell'altro ambiente in cerca di
mammiferi,
gli altri tre, palesemente al comando, si avvicinarono con fare
minaccioso.
Il
più vecchio, di certo il più alto in grado, era
un cinghiale dal
pelo grigio, con l'occhio destro completamente bianco attraversato
da una cicatrice e un'attitudine marziale che traspariva da ogni
passo.
“Capitano
Bogo, sono il capitano Sirbon. Loro sono il tenente Sus e il sergente
Wart” disse con la sua voce roca, indicando il facocero e
l'altro
cinghiale che erano con lui, a mo' di saluto, presumibilmente.
Il
grosso bufalo abbassò lo sguardo verso di lui, guardandolo
in
cagnesco.
“Mi
avete seguito?”
“Ordini
del sindaco. A cui non piacerà per niente sapere che lei se
n'è
andato in giro per i fatti suoi senza avvisarci.”
“Non
devo rendervi conto di nulla. Voi lavorate per me.”
Il
cinghiale si erse in tutta la sua altezza, tirando su il grosso
cinturone nella larga vita con fare prepotente.
“Noi
non prendiamo ordini da lei. Lei prende ordini da noi”
sibilò
minaccioso. “Tenente Sus!”
Nello
stesso istante uno degli altri due, il giovane cinghiale dal pelo
castano con una bandana in fronte, rispose al nome e passò
un
telefonino dritto nelle zampe di Bogo.
“Risponda,
capitano, è per lei.”
Benché
riluttante, e con ancora molte cose da dire, Bogo portò il
cellulare
all'orecchio, intuendo già chi potesse esserci dall'altra
parte.
“Bogo!”
strillò la vocetta di Bellwether, così furente e
acuta che si
sentiva a malapena.
E
per fortuna, perché quello che seguì aveva tutta
l'aria di essere
una sequela di insulti.
Si
allontanò di qualche passo perché i tre suidi non
sentissero
nemmeno una parola.
“Sindaco...”
Una
nuova caterva di improperi.
“Sindaco...”
Lo
stridio gli stava perforando il timpano.
“Sindaco...”
Finalmente
la voce si interruppe e prese un grosso respiro. Prima che potesse
ricominciare, iniziò lui a parlare, velocemente, ma in poco
più che
un sussurro.
“Il
segnale è scomparso del tutto. L'appartamento di Hopps era
l'ultimo
posto registrato, ho preferito controllare personalmente prima di
avvisare la T.U.S.K. Temo che Wilde tenga il mio agente in
ostaggio.”
“Non
mi interessa!” fu la secca risposta dall'altra parte. Priva
di
empatia, priva di qualsiasi preoccupazione. C'era solo rabbia e
impazienza.
“Controllate
che nell'appartamento non ci sia il programma per disattivare il
collare!” ordinò bruscamente.
“Probabilmente Wilde è schermato
anche adesso ed è perciò che non riuscite a
trovarlo!”
Bogo
inghiottì a vuoto, ma non disse la verità, non
disse che il collare
di Wilde era stato disattivato e che attualmente si trovava sotto al
letto; ma non sapeva perché non lo avesse detto. Sentiva che
non era
un dettaglio da rivelare, non in quel momento, non a Bellwether.
Avrebbe
continuato a far finta di non sapere.
“Faccia
parlare il ghepardo grassone. Lui sa sicuramente dove trovare Wilde.
E voglio da lui anche i progetti del programma. Anzi, no”
Bellwether prese un grande sospiro, voluto a detta di Bogo.
“Ci
penserà la T.U.S.K. a farlo parlare.”
La
chiamata si interruppe ancora una volta bruscamente, e Bogo si
figurò
perfettamente la stizza che la minuscola pecora doveva averci messo
nel buttare giù.
I
tre erano ancora lì piantonati, con le orecchie tese verso
di lui e
si affrettò a restituire il telefonino, con un gesto secco.
Fece
per aprire bocca e riversare la sua frustrazione, quando venne
interrotto.
“Signore,
abbiamo trovato qualcosa!” disse una voce, di un giovanissimo
cinghiale che uscì dall'altra stanza di gran corsa.
“Tracce
di sangue, fresche” annunciò, porgendo una bustina
contenente un
batuffolo rosso e un pezzo di garza.
“Uno
dei due fuggiaschi è ferito” asserì
trionfante Sirbon, passando
il reperto all'agente di prima perché lo portasse ai
laboratori.
“Saranno più lenti.”
Bogo
rabbrividì e pregò mentalmente che non si
trattasse di Hopps. Poi
si chiese come potesse essersi ferito uno dei due, a casa di
Clawhauser non avevano trovato alcuna traccia. Era talmente
concentrato in quei pensieri che non aveva nemmeno reagito alle
accuse dell'altro contro la sua agente.
I
cinghiali iniziarono a raccogliere le proprie cose e a dirigersi
verso la porta, ma, notato che lui non si era mosso, Sirbon si
fermò
e si voltò a guardarlo. C'era un sorrisino soddisfatto sul
grugno
dai denti sporgenti.
“Lei
viene con noi. Si è dimenticato per chi lavora?”
domandò con
evidente disprezzo.
Bogo
si erse in tutta la sua statura e si incamminò verso la
porta, ormai
sicuro che non avevano trovato il collare e che sarebbero andati via
senza trovarlo.
“Non
l'ho dimenticato. Non mi interessa.”
Li
oltrepassò e uscì, senza degnarli di un altro
sguardo.
L'alba
era estremamente luminosa, da lassù.
La
funivia scivolava senza il minimo sobbalzo, con leggerezza, sul
Rainforest District.
Sotto
di loro scorrevano rivoli d'acqua e verdi e lussureggianti paesaggi
amazzonici, bagnati da una lieve e tenera pioggerellina.
Era
umido ed era fresco, ma non freddo. Era piacevole e rinfrescante.
“Quindi
la T.U.S.K. è una squadra speciale, formata per casi di
terrorismo o
sommosse o sparatorie?” domandò Nick spezzando il
silenzio, dopo
che lei gli ebbe spiegato più o meno tutto.
Judy
annuì lentamente.
“Sì,
e sono pericolosi. Non fanno domande, non trattano e non negoziano.
Se sei un loro bersaglio, e ti trovano, ti sparano addosso senza
tanti complimenti. E non tranquillanti o taser... hanno proiettili
veri. Uccidono senza alcun indugio e non si fanno problemi a far
sparire chiunque li intralci. Sono al limite della legalità,
se vuoi
sapere come la penso, ma sono alle direttive del sindaco,
perciò
hanno carta bianca.”
“E
sono sulle mie tracce” esalò sconvolto il volpide,
appoggiandosi
al parapetto della funivia.
“Sulle
nostre tracce” gli ricordò lei dolcemente,
poggiandogli una
zampina su un braccio.
Nick
si irrigidì un poco ed evitò di guardarla,
preferendo osservare di
sotto. Si strofinò il collo in imbarazzo, un gesto che da
quando non
aveva più il collare ripeteva sempre più spesso.
Dopo
quella notte di sonno, solo sonno, assieme, si sentiva unito a Judy,
più di quando erano stati legati da un paio di manette.
Più di
quanto avesse mai concesso a sé stesso di legarsi a qualcun
altro,
più di quanto consentito dal buon senso.
Se
all'inizio portarla appresso era stato solo un obbligo per non essere
arrestato, in quel momento, da quel momento, le avrebbe anche
affidato la sua vita senza ripensamenti.
Ma
non glielo disse.
Rimase
a guardare l'alba con quell'aria riservata, spaventato dall'idea di
confessare qualcosa di così grande.
Perché,
anche senza il collare, lui rimaneva un predatore. E lei la sua
preda.
E
il pensiero poi, che l'avesse trascinata in quel casino, mettendo in
pericolo la sua vita, lo colpì così forte allo
stomaco, che davvero
non se la sentiva di parlare.
Ma
già pensava a lasciarla al sicuro da qualche parte. Doveva
solo
trovare il momento giusto per parlargliene o per abbandonarla in un
posto sicuro. La seconda scelta, probabilmente, perché
sebbene la
conoscesse da poco meno di una giornata, sapeva benissimo che provare
a spiegarle il perché o provare a convincerla sarebbe stato
inutile.
Si
disse fiducioso che probabilmente da Manchas avrebbero trovato tutte
le risposte e che avrebbero risolto tutto in più in fretta
possibile
e che quindi tutte le accuse sarebbero cadute e loro sarebbero stati
in salvo.
Un
angolo della bocca si sollevò da solo, di fronte al suo
palese,
infantilissimo desiderio.
“Hai
detto che il tuo capitano era all'appartamento... pensi che stia
lavorando con loro?” chiese d'un tratto, colpito da quel
ricordo.
Judy
aggrottò le sopracciglia, evidentemente presa di sorpresa.
Poi i
suoi occhi si abbassarono, timorosi che lui ci leggesse dentro la
verità. Anche le sue orecchie si afflosciarono e il nasino
rosa
fremette involontariamente.
Perché
ci aveva pensato, oh quanto ci aveva pensato mentre faceva finta di
nulla e spiegava a Nick perché erano scappati con tutta
quella
premura. Ma non voleva saperlo davvero.
“Non
lo so. Il capitano Bogo... è un bravo poliziotto. Il
migliore. Non
ce lo vedo a lavorare con la T.U.S.K., ma... non andrebbe mai contro
un ordine dall'alto. Se qualcuno ha richiesto la squadra speciale e
l'ha affidata a lui, allora seguirà l'ordine e
collaborerà, che gli
piaccia o meno.”
Di
nuovo il silenzio piombò tra loro, carico di domande e
paure, ed
entrambi ringraziarono il panorama per essere una scusa e un pretesto
per non parlare.
Stavano
salendo, verso la parte più alta del Rainforest District,
dove poche
isolate case sorgevano su solitarie vette unite da lunghe e sospese
passerelle al resto del territorio. La casa di Manchas era proprio
una di quelle, ultimo ricordo della sua ottima carriera da dottore
prima dei collari.
La
funivia rallentò in prossimità di una piattaforma
in legno e Nick si
affrettò ad aprire la porta del cubicolo e a scendere,
tenendo
aperto perché anche lei potesse calarsi senza fatica. Quando
richiuse, la
funicolare continuò ad andare avanti, riprendendo
velocità,
sparendo velocemente alla vista.
Si
incamminarono verso il sentiero che da lì saliva ancora
più in
alto, una stradina solitaria, ricoperta quasi completamente
dall'edera e praticamente abbandonata a sé stessa; non
incontrarono
nessuno, dovettero solo fare attenzione alle pozze di bagnato sulle
parti sdrucciolevoli.
Quando
arrivarono al ponte sospeso che portava da Manchas, gli irrigatori
del distretto si misero in funzione e un vero e proprio acquazzone li
investì, infradiciandoli in pochi istanti.
Percorsero
perciò il traballante ponte in legno con urgenza eppure
più
attenzione possibile, arrivando alla cima del pinnacolo dall'altra
parte relativamente in fretta, ma grondanti di pioggia.
La
casa di Manchas doveva essere stata una bella villa, in passato.
Costruita seguendo la struttura di un immenso albero sicuramente
preesistente, era un'ottima fusione con il paesaggio attorno e di
certo all'inizio il dottore si era preoccupato di mantenerla in
ordine e rigogliosa. Ma quello che si presentava davanti a loro in
quel momento era un'abitazione abbandonata a sé stessa,
ricoperta di
erbacce ed edera che penzolavano come liane, rendendola spettrale. Il
resto visibile era completamente rivestito di muschio.
C'era
solo una fioca luce sotto il portico all'ingresso, ad illuminarla.
Si
avvicinarono circospetti e una volta arrivati si guardarono per un
attimo in viso, poi Judy cercò il campanello: era sepolto
sotto una
cortina di edera e lo trovò solo dopo qualche istante.
Risuonò con
un trillo secco, poi silenzio.
Si
sentiva solo il rumore della pioggia sul pontile.
Premette
ancora una volta il pulsante.
“Signor
Manchas?” chiamò titubante.
Di
nuovo non ci fu risposta.
“Renato?
Sono Nick Wilde, vorrei chiederti una cosa” provò
allora Nick,
domandandosi se forse non rispondesse perché ignaro di chi
fossero.
Ma
Manchas non rispose nemmeno quella volta e loro due iniziavano a
sentirsi esposti, lì fuori, benché soli. Si
sentivano troppo
vulnerabili.
“Pensi
che non ci sia?” domandò Judy sottovoce, senza
sapere nemmeno
perché.
“Forse.
Magari è uscito presto, magari non è nemmeno
tornato a casa.”
Non
avevano pensato a quell'eventualità. E non sapevano cosa
altro fare.
Ormai
Ben e Finn dovevano essere stati arrestati e perciò non
avrebbero
potuto aiutarli in nessun modo e se volevano trovare risposte,
Manchas era l'unica strada da percorrere.
“Entriamo”
disse risoluta Judy, prendendolo di sorpresa. Con una decisa energia
si sporse in avanti e iniziò a trafficare con la porta, con
le sue
zampine piccole e veloci.
Nick
spalancò la bocca così tanto che sentì
uno scricchiolio.
“È
violazione di domicilio!” le ricordò, a voce
bassa, proprio a lei,
la poliziotta.
Judy
sorrise mentre faceva girare il tondo pomello della porta, aprendola
appena.
“Lo
segnerò nel rapporto alla fine delle indagini.”
Vedendo
il suo sguardo torvo si affrettò ad aggiungere,
più seria:
“Non
rubiamo niente. Diamo solo un'occhiata.”
Entrarono
svelti e si chiusero la porta alle spalle. L'atrio era immerso nella
penombra, ma sembrava molto spazioso.
Per
qualche istante rimasero a gocciolare nel silenzio, formando una
pozza ai loro piedi, sul parquet.
Oltre
all'odore di pioggia e terra bagnata che si portavano addosso, e quello
di muffa della casa, ne sentirono uno nuovo, che impregnava tutta la
stanza: ferro.
Una
esalazione ferrosa e sgradevole, che avevano già sentito
prima. E un
altro odore ancora, più sottile, ma persistente, acidulo e
dolciastro.
Judy
sentì Nick trattenere il fiato e si voltò verso
la direzione del
suono, ma lei non aveva la sua vista notturna.
“Cosa?
Cosa c'è?”
Lui trasse un profondo respiro prima di risponderle.
“C'è
qualcuno lì a terra.”
Lo
aveva detto in un sussurro esile.
Cercò
a tentoni l'interruttore, benché sapesse fosse stupido e
pericoloso,
e dopo qualche istante di buio e paura le lampadine del lampadario
sfarfallarono e poi si accesero, illuminando la stanza.
Proprio
al centro, vicino ad un grosso tavolo in noce, giaceva a terra un
grande giaguaro nero, riverso a pancia in giù, immobile.
Una
enorme macchia rossa imbrattava il tappeto sotto di lui e la candida
camicia bianca che indossava.
“È...
morto?” sibilò piano Nick, pietrificato
lì dove si trovava.
Judy
si era incamminata verso il corpo, invece, e si era inchinata vicino
alla sua testa, assorta nei suoi pensieri.
Non
era la prima volta che vedeva un cadavere, in accademia i corsi
comprendevano anche dimostrazioni di dissezioni e autopsie,
perciò
lo esaminò con occhio clinico, cercando di ricordare cosa
avesse
imparato. Studiò le pupille, la rigidità degli
arti, il colorito
sotto la folta pelliccia nera. Lo sollevò appena per
studiare la
parte anteriore, dal punto in cui era fuoriuscito tutto quel sangue.
Poi
annuì leggermente in direzione di Nick, ma quello stava
rimettendo
la colazione nella fioriera vicino alla porta con tutta l'anima
annessa. Fece una lieve espressione disgustata, poi parlò a
voce
sostenuta, ma alta abbastanza perché lui la sentisse al di
sopra del
rumore che stava facendo.
“È
morto. Da più di ventiquattro ore, credo. Gli hanno sparato
in pieno
petto, tre colpi.”
Nick
si rialzò, sputò l'ultima volta cercando di
raschiare via il
saporaccio, poi la guardò ed era dannatamente serio.
“Quindi...
potrebbe essere morto alla stessa ora di Tarandus?” chiese
piano,
senza osare poggiare lo sguardo sul corpo.
Conosceva
Renato. Non erano mai stati grandi amici, ma lo conosceva. Ci aveva
parlato, avevano scherzato, conosceva il suono della sua voce, il
modo in cui sorrideva, quanto profondo poteva diventare il suo
sguardo. E invece in quel momento era... morto. Senza vita,
più
nulla, solo un guscio vuoto. Ucciso in maniera cruenta.
Per
cosa? Perché?
Lo
stomaco minacciava di rovesciarsi di nuovo ad ogni momento, se lo
avesse guardato.
Quello
che sembrava più strano, irreale, era il collare ancora al
suo
collo, ma completamente spento. Forse era quello, più di
tutto, a
rendergli surreale la scena.
Judy
si era rialzata e si passava le zampine sui pantaloni neri, assorta.
“Sì,
forse, è... molto probabile” ammise sovrappensiero.
Non
era un caso, non poteva esserlo.
Manchas
aveva scoperto qualcosa ed era stato fatto fuori per quello.
Probabilmente
a causa del suo scambio di mail con Tarandus.
“Il
computer. Cerchiamo il suo computer!” esclamò d'un
tratto,
lanciandosi già verso le altre camere.
Non
avevano nemmeno controllato che l'area fosse sicura e che non ci
fossero altri mammiferi nella casa, ma se nessuno aveva dato
l'allarme fino a quel momento, pensavano, significava che Manchas
viveva da solo.
Nick
rimase solo qualche istante nell'atrio, con il silenzio e con il
corpo, poi si mosse anche lui, stando ben attento a tenersi bene alla
larga da esso.
“Judy?”
chiamò piano, percorrendo il corridoio del pianterreno, in
legno
scuro come tutte le pareti della casa.
“Sono
qui” disse la vocina da una stanza alla sua destra e
sporgendosi
vide la coniglietta indaffarata a frugare in quello che sembrava un
ripostiglio.
“Dobbiamo
cercare il suo studio!”
Si
divisero, Judy rimase al pianterreno, mentre Nick salì
l'intarsiata
scala a chiocciola e si inoltrò nelle stanze al piano di
sopra.
C'erano
tre camere da letto, due bagni, un salottino e un piccolo studio, ma
nessuna traccia di computer. Era tutto molto impolverato, molti
mobili erano coperti da teli e lenzuola.
Notò
anche lì l'ordine che aveva trovato sotto. Non c'erano segni
di
effrazione o di colluttazione o di furto.
Passò
da una stanza all'altra cercando, ma con lo sguardo, senza osare
toccare niente. Solo nello studio si accorse finalmente di qualcosa
di strano: sul legno impolverato della scrivania c'era un segno
rettangolare, lucido e netto.
“Judy?”
chiamò di nuovo, sporgendosi oltre la balaustra della scala.
Lei
apparve dopo qualche attimo , con le orecchie verso l'alto,
incuriosita dal suo tono; lui le fece solo segno di salire.
Una
volta nello studio, le mostrò il rettangolo lucido
nell'angolo della
scrivania.
“Hanno
portato via il computer” indovinò facilmente lei,
con un sospiro.
Anche
se avessero cercato ancora, non avrebbero trovato niente. Ed erano
perciò ad un punto morto.
Stavano
lì, entrambi confusi, entrambi smarriti. Non sapevano
davvero
cos'altro fare, dove altro cercare, nemmeno cosa dire.
Judy
si sentì così inutile. Se lei era lì
con lui, oltre al credergli,
era per aiutarlo, per trovare la soluzione, per scagionarlo. Si era
illusa di riuscirci, si era illusa di potercela fare, solo lei,
perché lei era Judy, e riusciva sempre in quello che si
prefissava.
Ma
non era infallibile. E non era così speciale.
E
a pagare per la sua arroganza sarebbe stato Nick, alla fine.
Non
voleva arrendersi. Non poteva arrendersi.
“Se-
e se avesse stampato qualcosa? Magari c'è qualcosa qui, nel
suo
studio” strillò concitata, dandosi veloci occhiate
attorno.
Ci
sperò davvero e si mise a cercare nelle scaffalature dietro
la
scrivania, una parte delle quali coperte da lenzuola impolverate.
Controllò i titoli di alcuni libri e spostò con
stizza, mentre
cercava di vedere quelli dietro.
Nick
non si era mosso, però.
Era
lì impalato dove lo aveva lasciato, con le orecchie basse
schiacciate contro la testa, gli occhioni verdi fissi nel vuoto.
Era
tutto inutile. Era tutto finito. Non avrebbe mai trovato le prove che
gli servivano, avrebbe dovuto passare la vita a scappare senza sosta
o a marcire in galera per qualcosa che non aveva commesso.
Tutta
la speranza era scivolata via dal suo corpo, come la vita aveva
abbandonato Manchas.
Avevano
vinto. Chiunque ci fosse dietro tutto quello, aveva vinto.
Ma
Judy sembrava non volerlo capire.
“Basta”
sussurrò sconfitto, in un poco più di un sussurro.
“No!
Possiamo- possiamo ancora farcela, noi-”
La
coniglietta aveva già svuotato più della
metà della libreria e
continuava a frugare, a gettare alla rinfusa, a sfogliare
freneticamente i libri e le cartelle che trovava. Ne prese una e,
dopo aver girato in fretta alcune pagine, si bloccò e la
guardò
attentamente, come calamitata.
Lesse
velocemente, ma senza perdersi una parola.
“Questa
è... una ricerca di Manchas” disse, mentre ancora
leggeva,
assorta.
Era
interessantissima, era ciò che serviva in una
città come Zootopia
in quel momento.
“Sui
predatori e sui collari e... parla anche di te.”
Nick
sollevò le orecchie e si voltò a guardarla,
sorpreso.
“Parla
del Wild Times, dell'effetto sui predatori che lo frequentavano, ha
fatto molti test e molti studi, a quanto pare.”
Nick
si meravigliò. Renato andava spesso al Wild Times e non lo
aveva mai
visto fare test di nessun genere. Parlava con tutti, quello
sì, ed
era molto interessato alle attrazioni, ma non avrebbe mai pensato che
lo facesse per ricerche comportamentali.
“I
soggetti non presentano maggiore aggressività, ma anzi, alla
fine
del trattamento, dopo aver sfogato l'energia repressa con giochi
innocui e atti a far provare un senso di libertà ed euforia,
si
riscontra un livello di serotonina più elevato, che induce
in essi
un senso di pace e tranquillità” lesse a
voce alta Judy,
trepidante.
Era
entusiasta. Una ricerca di quel genere era manna dal cielo e poteva
portare l'opinione pubblica a riflettere e dibattere sui collari. Se
solo fosse stata pubblicata.
Ma
senza Manchas...
“La
porto via” disse risoluta. “Questa ricerca deve
essere resa
pubblica.”
La
chiuse con garbo e si accorse di qualcosa di sottile, ma duro, alla
fine della cartella. Tolse con attenzione i fogli e scoprì
un
piccolo CD, senza scritte sopra.
Lo
portò davanti alla faccia, studiandolo da ogni angolo.
“Pensi
che... che possa esserci qualcosa di importante?”
domandò cauta,
mentre Nick si avvicinava a passetti, più baldanzoso di
prima.
Judy
gli stava ridando fiducia, non mollava mai. E il modo in cui ormai
prendeva a cuore la causa dei predatori gli scaldava il cuore.
“Se
lo ha nascosto in questa cartella, forse sì. Ma potrebbero
essere
solo i dati della sua ricerca.”
“Io
credo che ci sia di più. Dobbiamo guardarlo.”
Si
diedero un'occhiata attorno. Non c'era più nulla da fare
lì. E
sarebbe stato pericoloso rimanere ancora.
“E
Renato?” domandò piano Nick, che non aveva
dimenticato il corpo di
sotto. Non lo avrebbe mai dimenticato, anche provandoci per
cent'anni.
Le
orecchie di Judy si abbassarono e il suo sguardo si addolcì
per un
attimo.
“Quando
saremo lontani avviseremo anonimamente. Non lo lasceremo ancora da
solo.”
Si
presero per la zampa e si incamminarono verso la scala.
Dovevano
andare via, dovevano scappare ancora. E ancora e ancora.
Note:
Salve
a tutti.
Innanzitutto
ci tengo a ringraziarvi, siete stati molto gentili. Grazie.
Poi
passo alle note, perché ce ne sono moltissime.
Prima
di tutto parliamo della trama: come molti di voi si sono accorti,
ormai non sto seguendo praticamente più la bozza originale,
questo
perché ormai non c'è molto da seguire; dopo la
visita a BunnyBurrow
(che io ho cambiato con l'appartamento di Judy) i nostri due capivano
che molti dei misteri successi nella città erano connessi,
capivano
chi c'era dietro e andavano a risolvere il caso.
Tutto
ciò non è spiegato nel dettaglio, dato che la
bozza iniziale era
molto approssimativa e fu subito scartata, perciò non si sa
quali
fossero questi misteri e quali i collegamenti.
Io
però, ho creato alcune sotto-trame e messo personaggi che
non
c'erano e ovviamente devo sviluppare le une e muovere gli altri verso
una fine convincente e definitiva.
Quindi
ormai è tutto inventato da me, e spero però che
vi piaccia.
Fin
dall'inizio vi ho detto che avrei preso un paio di idee e costruito
la mia versione attorno.
La
T.U.S.K. era un altro dei concept non sviluppati, di cui non si sa
nulla se non che sarebbero stati loro a seguire Nick nella fuga e la
foto di tre dei componenti. Quindi, per cosa stesse l'acronimo non si
sa, mi ci sono scervellata sopra, io l'ho reso: Tactic Units Special
Kommando. Davvero non so cosa avessero in mente loro.
Il
nome è un gioco di parole: si legge come task (da task
force, unità
militari o di polizia formate per fronteggiare particolari situazioni
d'emergenza), ma tusk vuol dire zanna in inglese. E loro sono tutti
facoceri.
Anche
qui, una precisazione: in inglese viene detto che sono Hogs, che
sarebbe praticamente traducibile come suidi, la famiglia a cui
appartengono i maiali e simili. Quindi sia facoceri (Warthogs), che
cinghiali (Wildhogs).
Io
li ho resi un po' e un po', dalla foto mi pareva che non fossero
tutti cinghiali né tutti facoceri, quindi ho messo squadra
mista,
poi a volte li definisco uno o l'altro come fossero sinonimi, ma so
che le due specie hanno differenze. I loro nomi li ho inventati io, non esistevano nel concept.
Arriviamo
a Manchas. La sua casa è la stessa del film.
Mi
è dispiaciuto moltissimo ucciderlo. Per quel poco che si
vede nel
film mi ha straziato il cuore, un gigantesco giaguaro con gli
occhioni terrorizzati, spaventato da tutto, che vive nel terrore.
L'avrei voluto abbracciare.
Ma
se qui è morto, c'è il suo perché.
Perdonami, Manchas!
Infine,
Judy e Nick. Parleranno, succederà, hanno ancora molto da
vivere
assieme.
Que
serà serà!
Dovevo
dire altro? Sono logorroica, perdonatemi, ma amo mettervi a parte di
come sviluppo la storia o i personaggi, se vi annoia mi scuso,
saltate le note senza problemi.
Vi
ringrazio ancora di cuore e vi mando un grande abbraccio
|
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Capitolo 10 *** Face to face ***
Bogo
non pensava che avrebbe rimesso piede in centrale così
presto.
Eppure un altro giorno era sorto, anche se non erano passate che
poche ore da quando era uscito.
Aveva
distanziato la T.U.S.K., ma sapeva che gli erano alle calcagna,
così
come lo era Bellwether: aveva rifiutato due sue chiamate solo negli
ultimi cinque minuti.
Attraversò
in fretta l'atrio e quasi si scontrò contro Yax, apparso
all'improvviso nella sua traiettoria, come sempre senza fare
attenzione a dove andasse o ad eventuali ostacoli.
Il
goffo Yak sbatté contro il petto massiccio del capitano e
confuso e
disorientato, dopo aver rimbalzato indietro di qualche passo,
alzò
lo sguardo, incontrando il suo stizzito.
Sorrise,
scostandosi il ciuffo scomposto dalla faccia.
“Sto
cercando il mio cellulare, lo ha mica visto, capitano?”
chiese con
la sua parlata strascicata, punzecchiando i nervi di Bogo.
Il
grosso bufalo prese un grosso respiro e contò mentalmente
fino a
dieci, prima di rispondere.
“No.”
E
non mi interessa, avrebbe voluto aggiungere se avesse avuto il tempo.
Invece lo lasciò lì e continuò per la
sua strada, diretto verso le
celle.
C'erano
pochi detenuti al momento, molti avevano pagato la cauzione ed erano
usciti in attesa del giudizio in tribunale; oltre al ghepardo e al
fennec, trattenuti ovviamente senza cauzione data la situazione,
c'erano un grosso leone depresso e un lupo dall'aspetto trafelato,
con un vistoso taglio sul muso che si era gonfiato.
Superò
le altre celle, senza gettare nemmeno un'occhiata dentro, e si
diresse verso le ultime, in fondo: il ghepardo sedeva ad occhi
chiusi, sul pavimento lercio a zampe incrociate, in meditazione;
mormorava una lieve nenia, una sorta di canzoncina.
Quando
sentì il rumore dei suoi zoccoli fermarsi davanti alla cella
smise
all'istante e aprì gli occhi, piantandoli nei suoi; un
sorriso
sornione si dipinse sulle sue labbra.
“La
aspettavo, capitano” disse con quella sua calma zen.
“Allora
sai già perché sono qui”
sussurrò Bogo, attento a non farsi
sentire da nessun altro.
Ben
si alzò piano da terra e si spolverò con le
manone grassocce i
pantaloni, poi con calma andò a sedersi sulla panca in legno
che
stava proprio di fronte allo spesso vetro antiproiettili della cella.
Il legno scricchiolò un po' sotto il suo peso.
“Non
le darò il programma” mormorò a sua
volta, deciso.
Bogo
sbuffò dal naso, per nulla sorpreso.
“Dimmi
almeno dov'è Wilde.”
“Questo
dovrebbe saperlo più lei di me, capitano.”
A
quel punto, la pazienza di Bogo iniziò a vacillare e
sbatté forte
le zampe contro il vetro, per resistere all'impulso di prenderlo
invece a craniate.
“La
T.U.S.K. sta per venire qui ad interrogarti. Se non parlerai con me,
loro troveranno metodi poco carini per farti parlare e io non
potrò
farci niente. Perciò te lo chiedo ancora una volta:
dov'è Wilde?”
Al
sentire quell'acronimo, Ben spalancò per un attimo i grossi
occhioni, un lampo di comprensione nel profondo. Anche lui sapeva
bene chi fossero e quali fossero i loro metodi; anzi, a dirla tutta,
sapeva più di quanto non sapessero gli altri, aveva trovato
molti
loro file segretati e video di loro “prodezze” non
proprio
pulite.
Ben
sapeva cosa succedeva ai mammiferi interrogati dalla T.U.S.K. E non
era niente di buono.
“Non
capisco. Io so che lei può trovare Nick quando vuole,
capitano. E
allora perché insiste nel chiedermelo, se sa che io invece
non lo
so?”
Nel
silenzio che seguì quella domanda si osservarono, con
pensieri
differenti, ma nemmeno troppo. Bogo valutava, tra il mal di testa e
la stanchezza, quanto davvero quel ghepardo sapesse.
E
quanto lui potesse dirgli.
“Wilde
non ha più il collare. Hopps glielo ha tolto”
sibilò in un
sussurro impercettibile.
A
Ben cadde la mandibola per la sorpresa, poi le labbra si incurvarono
velocemente in un grande sorriso soddisfatto e in qualche modo dolce.
“È
davvero una coniglietta in gamba” disse, come se fosse una
risposta.
Bogo
capì che l'altro stava implicitamente dicendogli che Hopps
non era
stata costretta, che si stava muovendo di sua spontanea
volontà, ma
poteva crederci davvero?
“Devo
capire dove sono prima che li trovi la T.U.S.K. o di loro non
rimarrà
abbastanza per capire quale sia la verità.”
Non
ottenne niente più che un'occhiata di pietà da
parte del ghepardo,
in perfetto silenzio. Il telefono nella sua tasca vibrò e
seppe
senza nemmeno guardare chi fosse. Bellwether doveva decisamente
imparare un po' di autocontrollo.
“Dammi
qualcosa, qualsiasi cosa” sussurrò come una
supplica, praticamente
sottovoce.
Ben
si alzò piano dalla panchina e camminò a piccoli
passetti verso il
vetro; li separava un confine così sottile, eppure
così
impenetrabile.
“Renato
Manchas, Tujunga Vine 7, Rainforest District”
confidò piano,
parlando direttamente nei fori del vetro.
Bogo
si sorprese, ma si astenne dal chiedere di più. Ed in
effetti non
sapeva chi fosse il mammifero a cui si riferiva, o cosa c'entrasse
con tutta quella storia, ma credeva alla luce onesta nel fondo degli
occhioni dell'hacker.
Non
ringraziò, sarebbe stato strano, ma con un cenno della testa
si
voltò e fece per andarsene.
“Addio,
capitano” sentì dire a Clawhauser, mentre era
ancora a portata di
orecchio. Si bloccò di colpo, all'altezza della cella di
Finnick e
si girò, ma Ben si era già spostato, di nuovo a
terra a meditare.
Bogo
uscì dal corridoio con una strana sensazione addosso, di
disagio. Si
convinse che fosse solo stanchezza e quando raggiunse l'ingresso se
n'era già dimenticato: nell'androne della sua centrale,
il capitano Sirbon e il tenente Sus spadroneggiavano arrogantemente,
squadrando chiunque con uno sguardo di superiorità.
Sentì montargli una grande
rabbia in corpo e ogni altra cosa venne cancellata immediatamente. Li
raggiunse in poche falcate e si piantonò di fronte a loro.
“Fuori
dalla mia centrale!”
sibilò indignato, sottovoce.
Sirbon si tirò su il cinturone,
e lo fronteggiò senza nessuna paura.
“Non
provi mai più a
disobbedire o a seminarci, capitano Bogo. Le conseguenze potrebbero
essere molto spiacevoli” lo minacciò di rimando,
senza curarsi di
abbassare la voce.
Le orecchie della gazzella
poliziotto all'accoglienza fremevano nella loro direzione, mentre
controllava inesistenti fogli con eccessiva attenzione.
Il tenente
Sus si frappose tra
loro, porgendo come prima un telefonino verso Bogo: quello glielo
strappò quasi dalla zampa e lo portò
all'orecchio, stringendo i
denti nell'attesa che la vocina stridula di Bellwether gli perforasse
i timpani.
“Hector”
disse invece una
voce gentile, calda.
“Giselle?”
rispose sorpreso,
alzando il tono più di quanto avesse voluto. I due cinghiali
sghignazzarono sguaiatamente della sua espressione; diede loro le
spalle e si allontanò di qualche passo.
“Giselle,
cosa...”
“Non
rispondeva alle chiamate
del sindaco, e sono stata incaricata di chiamarla. Non può
nemmeno
immaginare quanto Bellwether sia infuriata al momento, e sa chi ne fa
le spese? Io.”
Al di là del tono accusatorio
c'era un velato divertimento nella sua voce che non poté che
farlo
sorridere.
“Stavo
interrogando
Clawhauser, non potevo rispondere” mentì,
sentendosi solo un poco
colpevole. Poi si pentì di averlo detto, temendo che il
sindaco
potesse stare origliando la loro conversazione.
“Bene”
disse la maialina,
compiaciuta. “Ha novità che io possa riferire al
sindaco?”
“No,
per ora no. Ma siamo su
una pista. Le dica solo di avere pazienza.”
Sentì Giselle ridere
cinicamente e anche lui si trattenne a fatica. Pazienza e Bellwether
non erano due parole che andavano d'accordo nella stessa frase.
“Mi
ha chiesto di ricordarle
che il servizio d'ordine per la festa della celebrazione deve essere
all'hotel questo pomeriggio, alle quattro in punto” aggiunse
lei
con sussiego. “Per favore, non faccia tardi. O il sindaco ha
minacciato di farle cose che non posso ripeterle al telefono. E che
non vorrei le facesse davvero.”
“D'accordo,
ricevuto. La
rassicuri da parte mia, per favore” replicò Bogo.
Avrebbe voluto
dire altro, parlare un po' con lei, ma quello non era né il
luogo né
il momento adatto.
“Ci
sentiamo presto, Giselle.”
“A
presto, Hector.”
Quando si
voltò per restituire
il telefonino, trovò due ghigni derisori sui grugni dei
cinghiali
che spazzarono quella fugace sensazione di calma che lo aveva
pervaso.
Schiaffò il congegno sulla
zampa di Sus e con una espressione impassibile comunicò loro
che
avevano una pista da seguire.
“Ma,
se volete collaborare,
dovete seguire i miei comandi” aggiunse con voce pacata.
“Nessuno
scherzo, nessun
inseguimento, nessuna insubordinazione. Si lavora assieme o
niente”
finì duramente.
I due cinghiali non si
guardarono, ma avevano la stessa identica aria di sfida.
Ci fu un intenso momento di
spesso silenzio, con scambi di sguardi di tensione.
“Eeeeeeehm,
uno di voi tre ha
mica visto un telefonino?” spezzò l'atmosfera Yax,
apparso lì
vicino a loro, guardandoli a turno interrogativamente.
La porta si
spalancò sulla
penombra, ma si poteva intuire perfettamente che l'ambiente fosse
angusto. Oltre che umido e dall'odore persistente di muffa.
Nick fece strada e chiuse
l'uscio, e solo dopo aver premuto l'interruttore lasciò
andare la
zampa di Judy: entrambi guardavano dritti di fronte a sé,
nella poca
luce al neon, il piccolo tugurio nel quale erano entrati: un'unica
stanza che fungeva da camera da letto, cucina e salotto, senza alcuna
finestra. Un'unica porta che speravano entrambi fosse il bagno e che
non ci fosse invece semplicemente un water nel centro della stanza,
lì, magari nascosto al momento alla vista dal divano/letto
sfatto.
Nick fece
qualche passo in
silenzio e spostò un paio di cartoni di “Pizza
Ant” che
ingombravano il cammino. Judy era rimasta pietrificata lì
dov'era,
nel timore di poter accidentalmente far cadere una pila di lattine di
birra se si fosse mossa anche solo di un millimetro.
La volpe si girò a guardarla e
lei fece un sorriso tirato, scoprendo i dentoni di davanti.
“È...
una, una... casa, ehm,
accogliente” tentennò incerta, annuendo comunque
con convinzione.
Nick sbuffò dal naso con
ilarità, agitando la zampa.
“Non
è casa mia! È il covo
di Finn” disse con tono ovvio, davanti alla sua espressione
piena
di premura.
La
boccuccia di Judy divenne una
O perfetta di comprensione e ringraziò la pelliccia che
nascondeva
il lieve rossore delle sue guance.
“Quindi
Finn vive qui?
Originale.”
“Non
so se viva davvero qui. A
quanto ho capito ha almeno due o tre di questi rifugi sparsi per
Zootopia, ma non so se per lui siano casa. Per quanto ne so potrebbe
vivere in una bella villa con giardino, con moglie e figli e usare
questi monolocali per sfuggire quando si sente oppresso”
spiegò
Nick pulendo il letto dalle briciole e tirando le coperte in modo da
offrire una copertura sommaria.
“Ma...
siete amici, giusto?”
domandò Judy perplessa, tenendo ben stretta la cartellina
contro il
petto, azzardando di muoversi verso di lui.
Nick si voltò con un sorriso
sghembo e fece spallucce.
“Non
parliamo di cose troppo
personali o almeno Finn non lo fa. È una sua regola e io lo
rispetto
abbastanza per non insistere.”
Non era
facile capire il tipo di
rapporto che legava la volpe e il fennec: quando si erano conosciuti,
cosa li aveva legati, perché erano diventati amici?
Judy voleva sapere tutte quelle
cose e altre ancora, curiosa di quel mondo che non conosceva e di
quei mammiferi così diversi da come li aveva immaginati,
così
profondi, così... reali. Fino a quel momento non aveva mai
tenuto in
considerazione i sentimenti o le emozioni dei predatori, per
ignoranza o paura o pregiudizio.
Sorrise piano piano, mentre
pensava.
“Mi
piacerebbe conoscere
meglio questo Finn” mormorò sinceramente.
“Sì,
beh, non è il tipo
socievole, carotina, ma se lo tampini come hai fatto con me penso che
cederà per forza.”
Decisero
che non avrebbero
toccato molto e che sarebbero rimasti giusto il tempo di riordinare
le idee e indagare nel CD trovato a casa di Manchas.
Judy si sedette sul bordo del
divano-letto, rigida come uno stoccafisso.
“Ci
serve un computer.”
Nick, pratico quanto lei della
casa, controllò freneticamente attorno per trovare un
computer,
certo che Finn, per quanto disorganizzato, dovesse averne almeno uno.
Era impensabile il contrario o almeno speravano non fosse
così.
Dopo
qualche minuto di ricerca
infruttuosa e il crollo di una pila di giornalini di Playfur, Judy
poggiò la cartellina sul letto e si alzò per
dargli una mano.
“Rimpiango
i guanti in lattice
della polizia” mormorò dopo aver frugato sotto al
letto, scoprendo
suo malgrado un paio di mutande che lanciò con disgusto
dall'altra
parte della stanza. Finirono dritte sul piccolo frigo bianco sporco e lì
rimasero,
flosce e sfatte.
“Ok,
ok, penso di averlo
trovato!” esultò finalmente Nick, con la testa
infilata nel mobile
sotto il lavandino del bagno.
Judy stava
per chiedere che ci
facesse un computer in bagno, anche se non voleva saperlo poi
davvero, ma si zittì davanti al residuato bellico che Nick
le mostrò
con perplessità: era un nero pc portatile di prima generazione,
grande
come un trolley e altrettanto pesante, la cui sola batteria doveva
pesare all'incirca quanto lei dalla punta delle orecchie alle zampe.
“Funziona,
quella cosa?”
riuscì a dire quando riacquistò la voce.
Nick sorrise mestamente,
sembrava sul crollo di una crisi di nervi.
“Non
sono sicuro, forse va a
carbone.”
Lo
appoggiarono sul letto e dopo
aver connesso l'enorme caricabatteria alla presa provarono ad
accenderlo.
Emise un forte stridio meccanico
che costrinse Judy a tirare giù le orecchie e a
schiacciarsele contro la testa, si accesero un paio di
spie colorate e infine, dopo un paio di minuti, lo schermo si
illuminò: un cerchio in carica annunciò che ci
sarebbe voluto
qualche momento per la comparsa della schermata principale.
“Questo
coso sta scherzando,
spero!” sbottò alla fine Nick, dopo aver passato
cinque minuti che
si caricasse.
Il gesto inconsulto gli strappò
un esile lamento e si piegò un poco su sé stesso,
poggiando la
zampa sull'addome.
“La
tua ferita!”
Nella fretta di scappare si era
dimenticata della ferita di Nick e si chiese solo in quell'istante se
non si fosse aperta: avevano percorso un immenso tratto a piedi,
nascosti nelle ombre, certo, ma più veloci che poterono.
Nick si era
sforzato davvero tanto e fino a quel momento non si era lamentato
nemmeno una volta.
“Mentre
il rudere si decide a
partire do un'occhiata alla fasciatura. E sarebbe il caso che tu
prendessi un altro antidolorifico” esclamò la
coniglietta risoluta,
frugando nelle taschine della giacca a vento. Aveva un paio di
bustine di garze sterili e un blister di antidolorifici.
Nick stette immobile, sembrava
non respirasse nemmeno, mentre lei controllava lo stato della ferita
e gli rifaceva la fasciatura: rasserenata dal fatto che non fosse
peggiorata, gli diede infine una pastiglia, porgendogli un bicchiere
con un poco d'acqua.
Lui mandò giù in un solo
sorso. Sembrava stare bene, solo un po' stanco.
Non era
nemmeno mezzogiorno e
avevano già percorso non meno di trenta chilometri, la
colazione era
ormai un ricordo lontano e lo stress accumulato si faceva sentire
tutto.
“Senti,
riposa un po' mentre
io controllo il CD. Se scopro qualcosa di interessante ti sveglio
immediatamente” propose Judy premurosamente.
Nick fu quasi sul punto di
ringraziare, ma rifiutare la generosa offerta. Non voleva farle fare
tutto il lavoro da sola. Ma poi l'istinto di conservazione prevalse:
era stanco, la ferita pizzicava innervosendolo sempre più e
chissà
se avrebbe avuto modo in futuro di riposare.
Le rimandò un sorriso grato e
annuì piano. Con un poco di fatica si issò sul
letto e si sdraiò,
lasciando andare un leggero sospiro.
Judy si
accomodò vicino a lui,
seduta col computer tra le zampe che illuminava il suo viso con la
sua luce statica. Attese
che si
accendesse completamente.
Nick era rannicchiato al suo
fianco, ad occhi chiusi, ma il leggero fremito delle sue orecchie le
disse che non stava ancora dormendo.
Il computer si avviò con un
aumento del rumore della ventola, che nel silenzio sembrò
una
turbina d'aereo.
Eppure, Nick non aprì gli
occhi, né si mosse. Judy riuscì ad aprire lo
scomparto apposito e
infilò il CD. Ma ovviamente il computer/rudere non lo
caricò
immediatamente, perciò rimase lì immobile ad
aspettare e prima che
se ne rendesse conto, stava osservando Nick.
Le sue orecchie continuavano a
tremolare, di tanto in tanto, e si chiese se non fosse una cosa
involontaria, se magari gli capitasse anche nel sonno.
E di colpo,
l'immagine del
risveglio, nemmeno poche ore prima, le balzò davanti agli
occhi.
Tutto quel rosso, quella fulva
pelliccia davanti e intorno, calda, avvolgente. Poteva ancora
ricordare il suo odore o la sua morbidezza.
Ma erano stati i suoi occhi,
quando si era svegliato all'improvviso scoprendola mentre lo fissava,
verdi, intensi e confusi, a farle saltare un battito.
Ovviamente si era ripetuta
incessantemente che era stata solo la sorpresa. Sia per come si erano
avvinghiati, sia per l'imbarazzo di scoprirlo nello stesso istante.
Ma era stata sincera, almeno con
sé stessa?
Nick era
gentile, era
divertente, era premuroso. E leale, coraggioso, insicuro, dolce,
folle.
Tutto nascosto sotto la sua
folta pelliccia e una finta maschera di strafottenza, mentre sfidava
il mondo una notte alla volta nel suo parco dei divertimenti.
Nick era straordinario.
Un altro, al suo posto,
invischiato in un complotto così grande e pericoloso,
probabilmente
non avrebbe dimostrato la sua ostinazione, la sua risoluzione.
Più lo conosceva e più voleva
conoscerlo, sapere di più, poter fare ancora di
più per aiutarlo.
Le orecchie
di lui titillarono
ancora e quasi allungò una zampina, per toccarle.
Gli occhi verdi si spalancarono
e incontrarono i suoi, di nuovo. E il silenzio si tese.
Nick non
era riuscito ancora ad
addormentarsi. Pensava e pensava.
E sentiva, aveva sentito per
tutto il tempo, lo sguardo di Judy su di sé.
Era una
posto. Per essere una
preda era anche troppo a posto. La costanza e l'ardore con cui lo
stava aiutando, anche se non aveva nessun obbligo, anche se avrebbe
potuto andar via in qualsiasi istante, erano ammirabili. Nessuno
avrebbe messo in gioco la sua carriera e la sua vita per un estraneo;
nessuna preda avrebbe perso nemmeno mezzo minuto a difendere un
predatore.
Ma Judy sì. Con quella sua
onestà, senza rinunciare mai, trovando perfino l'energia per
sostenerlo e motivarlo.
La conosceva solo da un giorno,
ma già sentiva che non poteva fare a meno della sua
presenza. Della
sua forza, della sua caparbietà, della sua grinta.
E nel fondo
dello stomaco,
sentiva che forse stava diventando anche troppo importante.
Trovarsela appiccicata addosso
appena sveglio, specchiarsi in quei grandi occhi viola, gli aveva
quasi causato un infarto. Quel nasino rosa che fremeva contro il suo.
Era stato bello, bello e dolce,
e sbagliato. E non poteva non pensare che forse era stata colpa sua.
“Mi
dispiace, per stanotte”
riuscì a dire alla fine, riempiendo il silenzio.
Judy spalancò un po' gli occhi,
aveva capito perfettamente a cosa si riferisse.
“No,
mi scuso io... anzi,
probabilmente non è colpa di nessuno.”
L'uno aveva cercato l'altro,
forse, ma l'altro lo aveva lasciato fare.
O forse si erano cercati
entrambi, nel sonno, stringendosi forte l'uno all'altra.
Certo, ammetterlo voleva dire
grossi guai.
“Ma
era il tuo letto, avrei
dovuto lasciarti i tuoi spazi. Non sarebbe successo nulla”
insisté
Nick, abbassando lo sguardo.
“Non...
non mi è dispiaciuto”
lo interruppe Judy, sottovoce.
Non lo stava guardando, la sua
testolina era piegata verso il computer, perciò dalla sua
posizione
poteva vederla solo di tre quarti, ma il modo rigido in cui era
seduta tradiva tutto il suo imbarazzo.
E lui non poté nascondere il
suo.
Perché se quello che Judy aveva
detto significava quello che lui aveva compreso... Dio, se era
sbagliato.
Nella sua
vita, Nick aveva
incontrato molte femmine che gli erano interessante: belle,
divertenti, piacevoli. Aveva avuto flirt, una o due storie brevi e
anche una relazione importante, durata qualche anno, un buon bagaglio
di esperienza.
Ma nessuna di loro gli aveva mai
fatto mancare il respiro come faceva Judy. E il pensiero lo
terrorizzava, aveva paura di chiedersi il perché, non voleva
sapere
la risposta.
A Zootopia c'era ancora chi non
vedeva di buon occhio la relazione tra due predatori o due prede se
non erano della stessa specie: se un predatore e una preda si fossero
uniti, probabilmente sarebbe successo il finimondo.
E poi, era possibile una cosa
del genere? Non era... contro-natura? Non era sbagliata?
Anche se niente, in Judy, gli
sembrava sbagliato.
Con un bip
sonoro il computer
spezzò il silenzio, avvertendoli che era pronto per aprire i
file
del CD ed entrambi ebbero una scusa per lasciar cadere il discorso.
“Dovresti
dormire, adesso”
disse Judy, con lo sguardo incollato allo schermo.
Nick chiuse gli occhi. Ma le sue
orecchie continuarono a tremolare.
E le domande, e quelle
sensazioni, rimasero ad aleggiare per tutto il tempo, attorno a loro.
Note:
Buona notte,
Sono felice
di riuscire a
pubblicare.
Scusatemi ancora per i miei
ritardi, sono mortificata.
Allora, un
capitolo che potrebbe
sembrare piatto, ma che nasconde di più. Per ora
però non posso
dirvi di più.
Amate ormai tutti Bogo, ne sono
felicissima! Pensate se alla fine come colpo di scena vi dicessi che
è il cattivo! XD Scherzo. Adoro anche io come sta venendo
fuori.
Dovete
sapere che ormai si
muovono tutti di propria iniziativa, io non decido più
nulla. Hanno
un carattere così determinato che fanno cose che io non
avevo
pensato all'inizio, ma che mi trovo a scrivere e dopo mi dico che ci
stanno, che sono plausibili.
Un semi
confronto tra Nick e
Judy che però muore dopo poche scintille, c'è
troppo pregiudizio,
troppa paura, non ce la fanno ad affrontare qualcosa che non hanno
nemmeno capito loro stessi. O almeno così pare.
Se solo uno di loro provasse
qualcosa di più?
Comunque,
l'azione arriverà
presto, siamo pur sempre in un poliziesco!
Grazie
ancora, vi mando un
grande abbraccio
|
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Capitolo 11 *** Puzzles ***
Il
contenuto del CD consisteva in due cartelle differenti.
Una
sotto la dicitura “tesi”, era l'insieme degli studi
di Manchas,
tutti i dati raccolti, le interviste effettuate e i test fatti,
dettagliati e completi.
L'altra
cartella era soprannominata “Tame” e dentro c'erano
altre due
cartelle: in una la raccolta delle mail che Manchas e Tarandus si
erano scambiati; l'altra invece era bloccata da una password.
Judy
non aveva mai visto una cosa del genere e non sapeva come poterla
sbloccare. Era certa che se avesse potuto far vedere il CD a Ben, il
ghepardone non ci avrebbe messo molto a trovare la password, ma al
momento doveva trovarsi nelle celle della centrale e non potevano
avvicinarsi.
Decise
di ispezionare il resto dei file, per provare a trovare qualche
indizio o pista da seguire, ma dopo il decimo file degli studi di
Manchas sbadigliò piano.
Nick
era addormentato al suo fianco, le sue orecchie avevano smesso di
tremolare già da un po', sembrava completamente rilassato,
lui,
rannicchiato su sé stesso in posizione fetale.
Così
indifeso, così fiducioso.
Scrollò
la testa, cacciando via qualsiasi pensiero non richiesto al momento e
si concentrò ancora una volta sul computer; chiuse con un
click la
pagina che stava leggendo e si concentrò sulle mail tra i
due
scienziati.
Erano
tre, in tutto.
La
prima risaliva all'incirca a tre mesi prima e a mandarla era stato
Tarandus: si era presentato, non si conoscevano prima di quel
momento, apparentemente, e chiedeva a Manchas un colloquio privato
per poter parlare con lui di un progetto importante per il futuro in
cui probabilmente sarebbe servita la sua consulenza.
Tutto
molto formale e impersonale e dai toni cortesi. La risposta di
Manchas era stata sullo stesso tono, fornendo il suo numero di
telefono per potersi mettere d'accordo sull'appuntamento.
La
mail successiva era da parte di Manchas, parlava di una scoperta
fatta e di voler confrontarsi con Tarandus su alcune questioni, per
cui chiedeva la sua risposta al più presto, dato che non
riusciva a
rintracciarlo al telefono. Tarandus aveva risposto in modo conciso,
promettendo un contatto a breve.
La
terza mail era quella che loro stessi avevano letto a casa di Ben e
come allora, Judy sentì fremere il nasino, alla sola vista.
Come
allora, sentiva che c'era di più in quella mail:
“Egr.
Dott. Manchas,
Sono
dispiaciuto di non averla potuta contattare prima, purtroppo ho avuto
molto lavoro tra capo e collo e la mia salute non è stata
delle
migliori.
La
richiamerò al più presto per poter finalmente
prendere un caffè
assieme e parlare tranquillamente della sua scoperta.
Nel
frattempo, se non le dispiace, mi serve una sua consulenza su alcuni
materiali per la ricerca di cui abbiamo parlato. Mi fido molto del
suo giudizio e della sua esperienza e so che saprà
consigliarmi
bene, senza alcune pressioni. So che conosce mammiferi nei settori
giusti, che sapranno indirizzarla e aiutarla.
Se
poi volesse occuparsi lei stesso dei materiali, mi faccia sapere, ci
organizzeremo. Le lascio qui la lista, può darmi la sua
risposta
quando ci vedremo.
Distinti
saluti
Dott.
Rangi Tarandus
Microscopio Barren
Rifrattometro
Nest
Densimetro
Herd
Durometro
Hive
Disgregatore
Army
Granulometro
Bask
Polarimetro
Prickle
Respirometro
Roubiner
Mulino
Troop
Frantumatore
Lounge
Bilancia
Sounder
Centrifuga
Blessing
Cappa
chimica Flock
Estrattore
Goggle
Dispensatore
Mute
Normalizzatore
Colony
Incubatrice
Smack
Respirometro
Business
Polarimetro Troubling
Estrattore
Mustering
Bilancia
Fold
Normalizzatore
Rout
Disgregatore
Coalition
Centrifuga
Gulp
Rifrattometro
Drove
Frantumatore
Congregation
Granulometro
Train
Microscopio
Gam
Mulino
Murder
Densimetro
Turn
Cappa
chimica Descent
Durometro
School
Dispensatore
Huddle
Incubatrice
Gaze
Judy voleva alzarsi e cercare
carta e penna, per seguire un'idea che le era balenata alla mente, ma
se lo avesse fatto avrebbe di certo svegliato Nick, e voleva che
riposasse il più possibile. Certo, logicamente sapeva anche
che
dovevano sbrigarsi a risolvere quell'enigma e cercare risposte
concrete, proprio nel bene di Nick, oltre che al suo.
Stette per
qualche istante tesa,
incerta sul da farsi, quando un trillo improvviso decise per lei,
risuonando nella stanza e svegliando la volpe al suo fianco.
Nick saltò su con occhi
spaventati, incurvandosi appena per il dolore all'addome. Judy aveva
appoggiato il computer al letto e si era alzata, girando le orecchie
per capire la fonte del suono.
Il trillo continuava e
continuava, insistente.
La
coniglietta scavalcò un paio
di riviste a terra e dei vestiti informi e si diresse nell'angolo del
cucinino, spostando di fretta alcune scatole di pizza gettate alla
rinfusa: sotto, un vecchio telefono fisso trillava, incessantemente.
Judy lo fissò per qualche
istante, poi si voltò a guardare Nick e lui le
rimandò lo stesso
sguardo spaventato e sorpreso che doveva avere lei al momento.
Il suono si interruppe e ci fu
un improvviso silenzio.
Erano tutte e due vigili e
nervosi, le orecchie tese in alto a percepire qualsiasi rumore
esterno, gli occhi fissi sul telefono.
Judy lasciò andare il respiro
inconsciamente trattenuto, iniziando a ragionare di nuovo.
Con una scrollata di spalle
cercò di scacciare la paura, dandosi della sciocca.
D'altronde, la chiamata non
poteva essere per loro, di certo era stato solo un caso che fossero
lì quando aveva squillato, nessuno poteva sapere che fossero
lì...
Il telefono
trillò di nuovo. Il
coniglio e la volpe si scambiarono un'altra occhiata fugace, quasi a
voler comunicare senza parlare.
Dopo un istante, contro ogni
logica e buon senso, Judy sollevò la cornetta e la
portò lentamente
all'orecchio.
“Accendete
su ZNN, adesso”
disse una voce metallica, di sicuro di un sintetizzatore vocale.
“Chi
parla? Cosa vuole?”
strillò Judy nel ricevitore.
“Accendete
la tv su ZNN e non
fate tardi, non avete molto tempo” ribatté la voce
pacatamente,
prima di buttare giù.
Judy si
voltò a guardare Nick
con ancora la cornetta premuta contro la testa e lesse nel suo viso
la curiosità e le domande che voleva farle: lei chiuse il
telefono e
si diresse immediatamente verso il piccolo televisore poggiato contro
la parete al lato, praticamente di fronte al divano/letto: era un
vecchio modello a tubo catodico, ma sembrava ancora funzionante.
Premette il pulsante di accensione e attese, fremendo.
Il telecomando era sparito da
tempo tra le pieghe del lerciume del monolocale e non si diede
nemmeno la pena di cercarlo, cambiò i canali con i grossi
pulsanti
nel riquadro in basso del televisore, finché non
trovò il
notiziario di Zootopia News Network.
“...
notizia è
sconvolgente, ed è arrivata in redazione non più
di un'ora fa...”
stava dicendo il giornalista, un alce americano con il viso
compassato.
Judy
premette il pulsante del
volume, alzando di qualche tacca.
“Grazie
ad un blitz della polizia è stato scoperto e smantellato un
parco di
divertimenti per predatori, gestito qui a Zootopia da una volpe
corrispondente al nome di Nicholas P. Wilde. Nel parco, i collari
erano disattivati e sembra che in una di queste serate sia stato
ucciso il massimo esponente cittadino nel campo delle invenzioni, il
dottor Rangi Tarandus, padre dei collari. Wilde è sospettato
dell'omicidio ed è attualmente in fuga. È
considerato molto
pericoloso, non cercate di avvicinarlo, se doveste avvistarlo
chiamate le autorità a questo numero, è stata
posta una forte
taglia per chi lo denuncia.”
In
sovrimpressione apparvero un
numero di telefono e una foto di Nick, la foto di quando era stato
arrestato, presumibilmente, col pelo arruffato e gli occhi fuori
dalle orbite.
Judy non ebbe il tempo di
voltarsi a guardarlo per vedere la sua reazione, che il giornalista
continuò:
“Si
teme che possa essere armato e si invitano i cittadini alla massima
prudenza. Il sindaco ha fatto sapere che le migliori squadre di
poliziotti sono all'inseguimento del pericoloso ricercato e che a
breve rilascerà un'intervista per rassicurare personalmente
la
popolazione; lo svolgimento delle celebrazioni per il ventennale si
terranno, con un maggiore dispiegamento delle forze di polizia, ma il
sindaco assicura che non ci sarà alcun pericolo.
E
adesso passiamo alle notizie da Tundratown sulle condizioni del
traffico, a te la linea...”
Con un
click del pulsante, Judy
spense la tv, ma rimase qualche attimo a guardare lo schermo nero,
assorta.
Ormai tutta
Zootopia sapeva
delle accuse a Nick, del suo arresto e della sua fuga. Come potevano
sperare di potersi muovere liberamente dopo che il suo muso era stato
sbattuto sulla tv cittadina, nel notiziario più seguito?
Come potevano sperare di
chiarire il suo nome ormai, se tutti, vedendolo, avrebbero pensato
fosse colpevole?
E ultimo, ma non meno
importante, chi li aveva avvisati e perché?
Nick si
schiarì la gola,
attirando la sua attenzione. Era seduto sul letto, la faccia ancora
un po' assonnata, ma gli occhi verdi erano vigili, su di lei.
“Qualcuno
deve aver fatto una
soffiata ai giornalisti” constatò scioccamente
Judy, più per
spezzare il silenzio.
“Qualcuno
alla centrale. Solo
loro potevano sapere del Wild Times o che la vittima fosse
Tarandus”
esclamò Nick, passando una mano distratta sul collo.
Era cupo, era così serio e
irato. E Judy si sentì male, ma sapeva che aveva ragione:
qualcuno
nel suo distretto aveva venduto la notizia ai giornalisti, per lucro
probabilmente. Un suo collega, qualcuno di cui si fidava; forse lo
aveva fatto in buona fede, ma la loro situazione era peggiorata in
maniera esponenziale in pochi secondi e non sapevano che fare.
Anche trovando le informazioni
che servivano nel CD di Manchas, non sarebbero potuti uscire fuori
senza rischiare il linciaggio o l'arresto immediato, senza
possibilità di difendersi.
“Ma
non sanno che non hai più
il collare!” affermò Judy entusiasta, come se
fosse una conquista.
Bogo doveva averlo visto quando era andato al suo appartamento, lo
avevano lasciato per terra, senza il pensiero di nasconderlo
perché
non pensavano qualcuno potesse andare a cercarli lì. Ma il
capitano
probabilmente lo aveva tenuto per sé, forse lo aveva
nascosto anche
alla T.U.S.K..
Si diede della sciocca per tutta
quella speranza, ma non poteva evitare di pensare bene del suo
capitano, anche in una situazione come quella.
“Probabilmente
non hanno
voluto diffondere il panico. Se avessero rivelato che un predatore
gira senza collare per la città, sarebbe scoppiato il
caos”
rifletté più pratica la volpe, con un'alzata
mesta di spalle.
Judy non se la sentì di
replicare con una risposta poco sincera e a voler pensare
razionalmente, probabilmente Nick aveva ragione.
“Cosa
facciamo?” gli chiese,
invece.
Non si stava arrendendo. No. Non
lo avrebbe mai fatto, non era da Judy. Voleva discutere con lui per
trovare la soluzione a quell'ulteriore ostacolo, perché
insieme
potevano farcela.
Nick si
stava guardando attorno,
lentamente, forse cercando un'illuminazione, qualcosa nel lerciume
della tana di Finn che potesse aiutarli. Il suo sguardo si
fermò
infine sulle sue zampe posteriori incrociate sul letto.
“Potremmo”
iniziò a dire
senza alzare lo sguardo, “cucire un travestimento.”
E alzando la testa per
guardarla, infine, infilzò un'unghia nel piumino sotto di
sé e tirò
forte, squarciandolo: le sue dita afferrarono la bianca imbottitura e
la tirarono fuori, lasciandola cadere poi come neve sintetica.
“Un
travestimento... cotonoso”
aggiunse con un sorrisino trionfante per la sua pensata.
E Judy
sorrise di rimando,
contagiata dal suo rinnovato ottimismo. Si avvicinò al
letto, a
passettini leggeri.
“Ah,
però se speri che sia io
a cucire, stai sbagliando di grosso. Non so nemmeno come si tenga un
ago” mormorò, spostando il pc perché
lui potesse togliere il
piumino.
“Ci
penserò io. Mio padre mi
ha insegnato a cucire, era un gran sarto” rivelò
Nick assorto, gli
angoli della bocca incurvati in su da un lontano ricordo.
Judy lo osservò per un istante,
resistendo all'impulso di abbracciarlo stretto.
“Ok,
allora cercherò di
sbrigarmi anch'io con questi file” esclamò
sedendosi sul bordo del
letto, col computer sulle gambe.
“Hai
scoperto qualcosa?”
chiese Nick, sbirciando al di sopra della sua spalla.
“Forse.
La mail che abbiamo
visto da Ben era nel CD e penso ancora che contenga un messaggio.
Potrei avere un'idea di come decifrarlo, ma mi servono carta e
penna.”
Nick
lasciò andare il piumino
lacerato e tutta l'imbottitura estratta e si alzò per
frugare
velocemente in giro. Dopo qualche minuto si risedette, porgendo a
Judy un foglio che si rivelò il retro di un volantino di
pizzeria e
una matita cortissima.
“Perfetto.
Io lavorerò alla
mail e tu al travestimento. Dobbiamo farcela nel minor tempo
possibile.”
Lo stomaco di Nick brontolò
fortissimo appena ebbe finito di pronunciare la frase, con grande
imbarazzo del suo proprietario. Tutta la colazione era finita nella
fioriera di Manchas e non avevano più toccato cibo.
“E
nel frattempo mangeremo
anche qualcosa, sempre che qui ci sia qualcosa di
commestibile”
propose Judy, con un gran sorriso.
Pioveva
leggermente nel
Rainforest Disctrict. Gli irrigatori erano in funzione già
da
qualche ora e le strade erano completamente bagnate.
Bogo trovava che il clima di
quella parte della città fosse quello che detestava
maggiormente.
Una pioggerellina fastidiosa che si appiccicava alla pelle e rendeva
il pelo più pesante, era una seccatura quando si voleva
guidare e
faceva male alle ossa, per giunta.
Stava di nuovo pensando come un
vecchio.
Il pontile di legno traballava
sotto il suo peso e quello dei cinghiali della T.U.S.K.; la casa
all'indirizzo fornitogli da Clawhauser era in cima ad un pinnacolo,
collegato al resto da pontili sospesi.
Fragili pontili in legno.
Arrivarono
fortunatamente tutti
incolumi e fu Bogo a bussare forte alla porta.
“Renato
Manchas? È la
polizia, possiamo farle qualche domanda?”
Non ci fu alcuna risposta, né
rumori all'interno della casa, così riprovò
un'altra volta.
Quando una seconda risposta
venne negata, il capitano Sirbon prese il comando: mandò un
paio dei
suoi uomini a recuperare 'l'ariete'.
Bogo si oppose.
“Siamo
qui solo per una
soffiata, non potete agire in questo modo. Non abbiamo nemmeno il
mandato!”
“A
noi non servono mandati”
replicò beffardo Sirbon.
I suoi due
sottoposti arrivarono
solerti, portando in spalla un moderno ariete in metallo per le
incursioni, che passarono prontamente nelle zampe di Sirbon:
bastarono due colpi secchi vicino alla toppa della chiave e la porta
si spalancò, come per magia; irruppero tutti senza molte
cerimonie,
senza nemmeno annunciarsi.
A differenza dell'esterno
incolto e ricoperto di edera e muschio, l'interno della casa era
pulito in maniera maniacale e Bogo sentì dappertutto un
forte odore
di candeggina.
Comunque non sembrava esserci
traccia né di quel Manchas, né di nessun altro
nella casa.
Si
sparpagliarono, con le armi
in pugno e cariche, esplorando ogni angolo dell'ambiente: tre
cinghiali salirono al piano di sopra, con non pochi cigolii delle
assi in legno, mentre Bogo, Sirbon e Sus controllavano il piano
terra.
“Libero!”
“Libero!”
Libero!” riecheggiò dopo qualche istante da posti
diversi e in un
attimo tutti misero via le armi, rilassandosi all'istante.
Non c'era nulla, in quella casa,
e Bogo iniziava a pensare che Clawhauser lo avesse preso in giro.
Eppure gli era parso così sincero mentre gli parlava, non
sembrava
uno capace di mentire.
Continuò a girare ancora un
po', solo per essere certo, ma dovette arrendersi all'evidenza, era
ad un punto cieco.
Stava per
lasciarsi andare alla
rabbia, quando vide una lieve traccia di terra vicino alla fioriera
dell'ingresso. Non ci avrebbe fatto caso, in un altro momento, non
erano più di quattro pulviscoli marroni sul pavimento in
legno
scuro, quasi mimetici, ma stonavano così tanto con l'aspetto
asettico della casa, da aver catturato il suo sguardo; si
avvicinò
distrattamente, come se non volesse attirare l'attenzione, e
buttò
un'occhiata all'interno della fioriera: mancava la maggior parte del
terriccio e molte foglie delle piante erano state strappate con
forza.
Come se quello non fosse già
strano, attaccati ad una foglia sopravvissuta c'erano un paio di peli
rossi.
Si
trattenne dall'allungare la
zampa e prenderli, sapeva già senza farli esaminare che
appartenevano a Wilde e che quindi ad un certo punto la volpe era
entrata in quella casa.
Ma perché? Cosa c'entrava quel
Manchas che non erano riusciti a trovare? Era in combutta con Wilde?
Continuava a farsi domande, ma
quello che più trovava strano, era l'innaturale pulizia che
pareva
essere stata fatta di recente e non era proprio possibile che Wilde
si fosse messo a fare le pulizie di primavera mentre fuggiva.
C'era qualcosa che non tornava e
la sua mente cercava di fare i collegamenti, ma sentiva che gli
mancavano informazioni essenziali.
“Ehi,
capitano! Non c'è
niente qui!” lo distrasse la voce roca di Sirbon, con tono
arrogante.
Si voltò per fronteggiare il
cinghiale, che lo fissava vicino allo spesso tavolo in noce,
circondato dai suoi uomini.
“Non
c'è niente, ci ha
portato a fare un giro?” insisté il cinghiale,
alzando la voce.
“No,
qui c'è-”
Il suo
telefono trillò in quel
preciso momento, interrompendolo. Un trillo breve, di un messaggio.
Frugò nella tasca per controllare e trovò un sms
da nessun numero.
Guardò di nuovo, certo di
essersi sbagliato, ma nel mittente non c'era nessun numero. Non un
numero sconosciuto o privato, semplicemente uno spazio bianco, un
nulla.
Lo aprì, titubando solo un
secondo, certo che il contenuto dovesse essere altrettanto strano.
“Se
vuoi trovare la tana del Bianconiglio, segui le mie istruzioni,
Alice” diceva
il messaggio,
seguito da un indirizzo.
Sì,
era decisamente strano.
Quello era il suo cellulare
d'ordinanza e il numero era conosciuto solo ai suoi sottoposti e
all'ufficio del sindaco, tanto per cominciare.
E poi, anche se il tono del
messaggio era indubbiamente surreale, la menzione al coniglio non
poté che fargli pensare a Hopps e l'indirizzo poteva essere
il posto
dove trovarla.
“Allora?”
incalzò il
cinghiale, spazientito.
E Bogo cancellò quello che
aveva scoperto dalla punta della lingua, che la T.U.S.K. si trovasse
gli indizi da sola.
"Non c'è nulla, è stato un buco
nell'acqua” mormorò.
Sirbon ghignò soddisfatto della
sua ammissione e del suo fallimento, poi rivolse un cenno ai suoi
sottoposti.
“Troveremo
noi una pista.
Andiamo ad interrogare il ghepardo.”
Uscirono dalla casa in fila
ordinata, mormorando tra di loro il malcontento.
“Ci
vediamo in centrale,
capitano” disse Sirbon prima di sparire oltre la porta, senza
nemmeno voltarsi a guardarlo.
Bogo rimase
solo, nella casa
vuota. Osservò un paio di volte il cellulare, si
avvicinò alla
fioriera e prese il ciuffo di peli fulvo, infilandolo in una bustina
sterile che mise poi in tasca. Di nuovo guardò il telefonino
e
rilesse lo strano messaggio.
Trattenne il fiato per qualche
secondo decidendo il da farsi, poi si avvicinò deciso
all'uscita, a
grandi falcate.
Non aveva
più molte
alternative: avrebbe seguito il Bianconiglio, giù fino al
paese
delle meraviglie, e scoperto quanto profonda fosse la sua tana.
Note:
Salve a
tutti! Spero stiate
tutti bene.
Spero che
il nuovo capitolo sia
valsa l'attesa, per lo meno.
La trama va
avanti e così i
misteri: in questo capitolo c'è la mail con il messaggio
segreto, mi
ha divertita pensare a qualcosa che poteste provare a risolvere voi
stessi, mi ci sono scervellata molto. Ovviamente a crearlo ci vuole
di più, sono sicura che da risolvere risulti persino banale,
ma
spero che vi diverta. E spero di averlo fatto giusto, ho
ricontrollato 23 volte e il risultato era a posto, ma se lo avessi
riportato male sarebbe tutto vano, per voi e per me. Incrociamo le
dita.
Se trovate la soluzione non
mettetela nei commenti, però, mi raccomando.
Un
misterioso personaggio agisce
nell'ombra, aiutando Nick, Judy e perfino Bogo... ma sarà
davvero
così?
Non manca molto alla fine e
tutto sarà chiarito.
Il prossimo
capitolo sarà al
cardiopalma, non vedo l'ora!
Intanto vi
mando un abbraccio,
vi ringrazio di cuore e spero di sentirci presto.
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Capitolo 12 *** When the forces clash ***
Nel
piccolo monolocale si lavorava senza sosta.
Da
una parte c'era Nick che cuciva rapidamente i batuffoli di
imbottitura su una base di tessuto, usando un ago malandato
raccattato dal fondo di un cassetto; dall'altra Judy, carta e penna
alla zampa, gli occhi che saettavano dallo schermo del portatile al
foglio, riportava meticolosamente le parole della mail, controllando
ossessivamente che fosse tutto giusto.
Di
tanto in tanto, sollevavano la testa e si scambiavano un'occhiata
fugace e un breve sorriso, che poteva dire tutto o niente, poi
ritornavano in fretta ai loro compiti.
C'era
la pressione del tempo, non potevano rimanere ancora per molto
lì
dentro, si sentivano esposti a sapere che qualcuno conosceva la loro
ubicazione, seppure avendoli avvisati potesse essere un alleato.
Non
seppero per quanto tempo lavorarono, ma ad un tratto esultarono
simultaneamente di gioia: Nick abbandonò il costume sul
letto e si
avvicinò immediatamente a Judy, sbirciando al di sopra della
sua
spalla.
“Hai
scoperto il messaggio?”
Gli
occhi di Judy scintillavano, il suo nasino rosa fremeva.
“Penso
di sì. Ricordi l'oggetto della mail? Cernita.”
Gli
mostrò la pagina scarabocchiata, le parole segnate e
cancellate.
“Non
vuol dire selezionare qualcosa tra tante?” domandò
Nick un po'
confuso.
“Sì,
esatto. E quindi se ci pensi vuol dire scartare delle cose tra tante.
Mi sono ricordata di quando da piccola facevo giochi di enigmistica
coi miei fratelli e-”
“Sul
serio? Per divertirvi facevate giochi di enigmistica?” lo
interruppe Nick con un sopracciglio alzato e un ghigno sul muso.
Judy
rollò gli occhi al cielo e poi gli mandò
un'occhiataccia prima di
continuare.
“In
enigmistica la cernita è uno schema di doppio scarto, vuol
dire che
le lettere uguali si cancellano due a due, finché non
restano
lettere uniche e quindi un messaggio!”
Ora
le cancellazioni sulla pagina avevano più senso, ma non le
lettere
rimaste, cerchiate per risaltare sulle altre.
“Pitoaz?”
lesse Nick titubante, pronunciandola come se fosse una parolaccia.
“Che cavolo di messaggio sarebbe? Se è una parola
straniera siamo
fregati, io parlo solo il volpese.”
Judy
sorrise divertita.
“Deve
essere un codice o una-”
Si
bloccò, spalancando gli occhietti viola folgorata da
un'improvvisa
ispirazione. Cliccò in fretta sul pc, chiudendo la pagina
della
mail, frugando tra le cartelle finché non trovò
il file bloccato.
“O
una password!” concluse trionfante.
Digitò
le lettere nello spazio vuoto della schermata e premette invio: la
pagina si caricò per qualche attimo, poi apparve una scritta
che non
si era aspettata e che smorzò immediatamente il loro
entusiasmo:
“Errore,
password errata. Hai ancora due tentativi a disposizione.”
Un brivido li percorse da capo a
piedi.
“Forse
non era la password per
questo file” tentò Nick. Judy scosse la testolina,
gli occhi
ancora fissi sullo schermo.
“No,
sento che è la strada
giusta. Abbiamo un messaggio cifrato e un file bloccato, è
ovvio che
siano connessi, ma sto sbagliando qualcosa.”
In silenzio
ricontrollarono la
mail e le parole, assicurandosi di non averle trascritte male nella
fretta e aver così pregiudicato il messaggio, ma tutto
combaciava e
le lettere finali erano proprio quelle.
“Pitoaz.
Pitoaz, Pitoaz”
ripeté Nick, sentendo il suono sulla lingua alla ricerca di
qualche
significato nascosto.
Continuava a non avere senso,
tuttavia.
“E
se-” esordì Judy,
prendendo il foglio di carta. “Se lo anagrammassimo? Non
riesco a
ricordare bene, ma mi pare che alla fine si dovessero anagrammare le
lettere rimaste per trovare una parola di senso compiuto.”
Provarono tutte le combinazioni
possibili, scomponendo in sillabe, agglomerando a tre a tre,
spostando le lettere avanti e indietro, ma alla fine solo una parola
sembrava avere senso:
“Topazi.”
“Ok,
non so cosa c'entri, ma
almeno è una parola vera” disse Nick, facendo
spallucce.
“Allora
proviamo?”
Judy
digitò la nuova parola
lentamente, solo un po' dubbiosa, le labbrucce strette mentre
aspettava l'esito.
La pagina si caricò nuovamente
e la stessa schermata apparve dopo qualche secondo:
“Errore,
password errata. Hai ancora un tentativo a disposizione.”
Il panico si fece sentire
prepotentemente.
“Ok,
forse... forse è meglio
che stacchiamo un attimo e pensiamo bene. Se sbagliassimo ancora,
probabilmente non potremmo più provare o il file si
distruggerebbe
o-”
“Ok,
James Bond, non credo
proprio che il CD prenda fuoco se sbaglieremo”
rimbeccò Judy
sarcastica, rollando gli occhi al cielo.
Anche se forse, un pochino di
possibilità c'era eccome.
Comunque,
il consiglio era
ottimo in quel momento di stress, perciò si allontanarono un
momento
dal pc, rimuginando a fondo: Judy percorreva a piccoli passetti il
poco spazio a disposizione, mentre Nick controllava distrattamente il
suo costume, in realtà assorto sulla parola misteriosa.
“Le
lettere sono giuste,
abbiamo già controllato. E sono sicura che bisogna
anagrammarle per
ottenere la parola giusta, ma nessuna ha senso. Manca qualcosa, ma
cosa?” farfugliava la coniglietta senza freno, sempre
più
frustrata.
Nick
aggiustò un punto di
cucito in una parte che non lo convinceva, mentre le parole di Judy
si facevano strada dentro di lui. In effetti, sembrava sempre che
mancasse qualcosa, risposte, prove, consigli, aiuti... mancava sempre
qualcosa.
Mancava qualcosa.
Mancava qualcosa!
I suoi occhioni verdi si
spalancarono e quando Judy si voltò lo trovò
così, immobile con
gli occhi spalancati a fissare il vuoto, mentre cercava di afferrare
un'idea.
“È
giusto: manca qualcosa.
Nella parola! Passami il foglio!”
Judy si
fiondò a prenderlo,
spronata dal suo tono urgente e poi rimase lì al suo fianco
a
guardarlo mentre scarabocchiava.
“Sin
dall'inizio, la parola mi
era sembrata familiare, aveva un suono conosciuto, ma non sapevo
perché. Se aggiungiamo due O e anagrammiamo, viene
fuori...”
“Zootopia”
lesse Judy
stupita. “Ma non ha senso, non ci sono le due O in
più, non può
essere, a meno che... a meno che, non sia stato fatto
apposta!”
Si guardarono, entrambi
emozionati, entrambi sulla stessa lunghezza d'onda.
“Sì,
perché nella cernita le
due O si eliminavano necessariamente l'una con l'altra, un piano
perfetto per confondere chiunque fosse entrato in possesso della mail
e avesse provato a decifrarla.”
“Anche
un programma di
decriptaggio sarebbe caduto nella trappola, molto furbo!”
Si
avvicinarono in fretta al pc,
ma Judy si bloccò con le zampine a mezz'aria sui tasti,
timorosa.
“Siamo
sicuri? Sicuri sicuri?”
Nick allungò una delle sue
zampe e digitò la prima lettera, premendo delicatamente
sulla sua.
“Sicuri.”
Judy aggiunse il resto con un
po' più di baldanza, poi premette invio e trattenne il
respiro,
ignara che anche Nick, lì al suo fianco, lo stesse facendo.
La pagina
si caricò per la
terza volta, e forse era il magone, ma sembrò metterci
secoli: poi,
lo schermo bianco diventò improvvisamente nero e dopo un
secondo un
video partì in automatico, mostrando un caribù in
camice da
laboratorio seduto ad una grande scrivania.
“Ciao,
Renato” disse il
dottore, la sua voce era molto profonda e calma. Lo sguardo invece
era spaventato, con profonde occhiaie sotto gli occhi castani.
“Se
stai guardando il video
significa che sono sparito dalla circolazione, e spero di essere
riuscito a scappare, perché l'altra alternativa è
che sono morto.
Non sono stato completamente
sincero con te, mi vergognavo molto a raccontarti tutto quello che
avevo fatto, me ne vergogno ogni giorno; dirmi che non avevo una
scelta non mi ha alleviato la coscienza.
Sai già che in seguito alla
modifica dei collari, questi possono ora essere tracciati: non
c'è
un predatore in tutta Zootopia che si possa nascondere,
ormai.”
Judy e Nick
si scambiarono una
breve occhiata sorpresa e spaventata e le zampe di lui corsero
inconsciamente al collo; avrebbero commentato la fortuna che li aveva
colpiti nel momento in cui Judy aveva deciso di toglierglielo, se
Tarandus non fosse in procinto di continuare.
“Ovviamente
so che è
sbagliato, ma sembrava un male minore. Quello che non ti ho
raccontato è molto, molto più grave. A mia
discolpa posso dire solo
che allora non sapevo a cosa servisse la modifica richiesta.
Nell'aggiornamento dei collari è
stato inserito non solo un tracciatore, ma anche un distorsore:
è un
programma che agisce sul possessore, ancora non so in che modo, ma
che serve ad alterare lo stato mentale. Potrebbe farlo impazzire,
potrebbe renderlo aggressivo, potrebbe perfino ucciderlo. Basterebbe
solo premere un piccolo pulsante e ogni predatore della
città
sarebbe spacciato, senza possibilità di scampo.
Non ho prove a riguardo, non ho
potuto impossessarmene: nel momento stesso in cui hanno capito che
sospettavo qualcosa, mi hanno tagliato fuori. Ma so dove trovarle.
Nell'ufficio del sindaco, dietro un quadro, c'è una
cassaforte:
all'interno ci sono delle chiavette con tutti i dati e tutte le
prove: c'è tutto, nomi e conversazioni, studi e progetti. E
il
telecomando.
La combinazione è 3171984. Ho
faticato molto per trovare queste informazioni e so che mi costeranno
la vita, se mi trovano.
Ma mi fido di te, solo di te.”
A quel
punto il dottore sembrò
crollare sotto il peso di tutto quello e si incurvò, stanco,
molto
stanco, passandosi una zampa sul viso mentre prendeva un grande
sospiro.
“Non
avrei mai voluto
invischiarti in tutto questo, ma so che hai amici che possono
aiutarti. So che c'è qualcosa di grande, in movimento. So
che se non
faremo niente succederà qualcosa di brutto ai predatori.
Prendi
quelle prove e ferma tutto questo, ripara al mio errore, ti prego.
E per favore, stai attento.
Addio, Renato. E grazie.”
Il video si interruppe, ma lo
schermo rimase nero.
Gli occhi
di Judy erano
attraversati da un velo umido e anche Nick sembrava turbato.
Nel silenzio la ventola del
computer sembrava la turbina di un aereo.
Non avevano mai conosciuto
Tarandus, ma sapevano che sorte gli era toccata, e vederlo, sentirlo,
conscio di quello che gli sarebbe successo, senza poter fare nulla
per cambiarlo, era triste e ingiusto. Lui e Manchas erano finiti in
qualcosa più grande di loro e forse nessuno dei due aveva
mai saputo
la sorte dell'altro, anche se per ironia erano morti praticamente
nello stesso istante.
E adesso in tutto quello c'erano
finiti loro e la fine avrebbe potuto essere la stessa.
Nick
spezzò per primo il
silenzio, schiarendosi la gola dall'emozione; Judy sussultò
e si
voltò a guardarlo e per la prima volta, nei suoi occhioni
viola
lesse la paura.
Rimasero così per un istante.
“Non
riesco a crederci.”
“I
collari.”
“Il
sindaco!”
“Tracciati,
che scandalo!”
“Non
è possibile.”
“E
il distorsore per fare
impazzire i predatori!”
Lo sguardo di Judy si addolcì
un secondo.
“Sono
contenta di avertelo
tolto, ancora più di prima” confidò,
sincera.
Nick si
passò una mano sul
collo, di imbarazzo, e le sorrise grato.
“Se
tutto questo è vero, e
non vedo perché Tarandus avrebbe dovuto mentire a Manchas,
la cosa è
molto grave. I predatori sono in pericolo. E c'è il sindaco
dietro a
tutto, ma non capisco perché sia stato messo in mezzo
io.”
“Tu
sei il perfetto capro
espiatorio, è evidente che chi ha creato quel programma ha
intenzione di usarlo e non vuole essere incolpato: e qui entri in
scena tu. Un predatore, con un parco clandestino per i predatori in
cui i collari sono disattivati: attribuire tutto a te è
facilissimo,
probabilmente il primo omicidio e poi quello di Tarandus servivano a
incastrarti e creare la base per l'accusa finale.”
“Ma
non abbiamo prove per
scagionarmi, se non recuperiamo il materiale dentro la cassaforte. Ma
questo vuol dire...”
“Entrare
nell'ufficio del
sindaco” finì Judy per lui, ugualmente preoccupata.
Se già entrare di nascosto
nell'ufficio del sindaco dovesse essere difficile, di certo in una
giornata come quella doveva essere praticamente impossibile: tutto il
Palm Tree Hotel era di certo sotto controllo totale della polizia, in
vista delle celebrazioni del ventennale.
“Col
tuo costume avremmo più
possibilità, no?”
Nick
infilò il travestimento e
no, non avrebbero avuto più possibilità.
Lui sembrò notare il suo
mutismo e aprì le braccia, come un'esortazione.
“Allora?”
La sua testa era il doppio del
normale, una nuvola candida e così fissa da sembrare panna
montata,
che confondeva i suoi tratti somatici: il finto manto spuntava anche
fuori dal colletto e dai polsi del grande cappotto nero che
fortunatamente nascondeva l'assenza di zoccoli. Sembrava uno zucchero
a velo con gli arti e due scintillanti occhi verdi.
Judy non
sapeva se ridergli in
faccia o piangere.
“Perfetto,
sul serio” riuscì
a dire miracolosamente.
Riuscì a vedere il sopracciglio
di Nick alzarsi sarcasticamente anche sotto l'imbottitura.
“Sul
serio? Non mentire, so
che stai mentendo. Come sto, carotina?”
Lei si lasciò scappare un
sorriso, presa in castagna.
“Ok,
ok, da vicino si vede
benissimo che è finto. Hai una testa di imbottitura di
piumone!”
rise incredula, “Ma se non ti avvicini troppo a qualcuno,
andrà
tutto bene.”
“Dobbiamo
solo andare
dall'altra parte della città senza incontrare nessuno,
allora...
facile” commentò Nick, ondeggiando il testone
cotonoso. “E si
muore già di caldo, qua dentro, a Sahara Square
sarà terribile.”
Nonostante
le lamentele, la
paura, quello che sentivano e l'incertezza della riuscita, dovettero
mettere tutto nel piccolo bagaglio che si portavano dietro e lasciare
quel rifugio sicuro, alla ricerca della verità.
In quello che sembrava dovesse
essere il viaggio più lungo della loro vita.
Bogo
parcheggiò e rimase un
attimo poggiato al volante, pensieroso.
Benché fosse ancora a Downtown,
la parte più costosa e ambita di Zootopia, dove si trovava
in quel
momento era tutto fuorché alla moda. O sicuro. O pulito.
A ridosso del confine con il
Rainforest District, la zona era umida, ombrosa, semi-abbandonata e
degradata: le case erano piccole e basse, attaccate una all'altra
così che le stradine non erano altro che stretti viottoli,
molti dei
quali senza via di uscita. La polizia non passava spesso da quelle
parti e la sola vista della sua macchina d'ordinanza era bastato a
far sparire chiunque dalla circolazione.
Quando scese si diede comunque
una rapida occhiata intorno, giusto per essere sicuro che non fosse
una trappola. Vide solo un montone che si allontanava, già
un
piccolo puntino bianco.
L'indirizzo
fornitogli era poco
più avanti, alla fine di un vicolo in discesa: quando
arrivò suonò
il campanello, ma si chiese cosa avrebbe mai potuto dire se qualcuno
avesse risposto.
“Salve,
uno sconosciuto che gioca al cappellaio matto mi ha dato questo
indirizzo, mi può dire cosa sa di una volpe fuggiasca e di
una
coniglia poliziotta scomparsa?”
No, non aveva senso. Come tutto
quello che stava facendo, del resto.
La sua mente andò solo una
volta a Clawhauser, che in quel momento probabilmente era sotto le
grinfie della T.U.S.K. Lo stomaco si strinse per un attimo.
Suonò
di nuovo, con un po' più
di insistenza. Gettò veloce uno sguardo a destra e sinistra
e poi,
non vedendo cosa altro potesse fare, buttò la porta
giù.
Non aveva più tempo per giocare
e se qualcuno lo aveva mandato lì, doveva essere importante.
Ci vollero tre spallate
poderose, inferte a denti stretti per resistere al dolore, per farla
saltare dalla guida: si aprì cigolando, con un colpo secco.
L'interno era un buco
maleodorante e ingombro di sporcizia, pareva una tana di un
accumulatore seriale, c'era caos ovunque.
Facendo
attenzione entrò con la
zampa sulla pistola, per sicurezza. E per lo stesso motivo si
annunciò e chiese se ci fosse qualcuno. La sua voce si
spense
subito, senza risposta.
L'ambiente era tutto lì, perciò
escluse che qualcuno potesse essere nascosto all'interno e dopo
un'occhiata al bagno più piccolo che avesse mai visto in
vita sua,
ne fu certo. Allontanò la mano dall'arma e
ispezionò l'area,
confuso su cosa potesse mai trovare lì e arrabbiato con
sé stesso
per aver creduto ad messaggio anonimo.
Si accorse
immediatamente del
piumone squarciato e dell'imbottitura sparsa un po' ovunque, ma in
quel caos non era di certo la cosa più strana,
perciò non ci fece
caso: quello che lo interessò, tra tutto il ciarpame, era il
volantino di una pizzeria un po' stropicciato poggiato sul divano
letto aperto e sfatto, con noncuranza.
Lo prese e lo studiò, sorpreso
nel trovare una fitta serie di parole nel retro, segnate e risegnate,
cancellate, per poi trovare in fondo, in una grafia diversa, la
scritta 'Zootopia'.
Ma la prima grafia era
indubbiamente di Hopps. Aveva letto troppe volte i suoi zelanti
rapporti dei casi per non riconoscere le sue lettere tondeggianti.
Era un indizio? Un messaggio per
lui?
No, Hopps non sapeva di certo
che sarebbe arrivato. Ma era sicuramente stata lì.
Uscì
dall'appartamento come una
furia, veloce come non era mai stato prima e si guardò di
nuovo
attorno, trafelato; non c'era nessuno. Scattò in avanti per
la via,
nella direzione inversa in cui era arrivato, seguendo un istinto,
forse, qualcosa che il suo subconscio aveva già inteso prima
di lui.
Il suo sguardo angosciato si
posò su un puntino candido in lontananza e qualcosa
scattò nella
sua mente.
Ridusse la distanza in un
attimo, anche troppo per un bufalo di quarantacinque anni che si
lamentava in continuazione degli acciacchi, ma l'adrenalina gli
scorreva nelle vene e non vedeva che quel punto bianco di cotone
diventare grande, sempre più grande via via che si
avvicinava.
La pistola era già nella zampa,
ma razionalmente non sapeva quando l'avesse presa.
“Ferma,
Wilde!”
Il cotonoso
batuffolo si congelò
dalla paura, incapace perfino di girarsi ad affrontarlo.
In un secondo un paio di occhi
viola e grandi, pieni di risoluzione e sfida, lo fronteggiarono con
rammarico, insieme al foro di una pistola.
Judy Hopps stava puntando l'arma
contro il suo capitano.
Non l'aveva nemmeno vista
arrivare, non sapeva nemmeno da dove fosse spuntata, non c'era un
attimo prima, ma in quel momento era tra lui e Wilde, ritta in tutti
i suoi novanta centimetri scarsi, orecchie escluse, con la sua
pistola di ordinanza puntata dritta sulla sua faccia.
“Hopps”
riuscì a dire e il
suo tono poteva dirsi sorpreso quanto confuso. E anche enormemente
sollevato nel vedere la sua agente sana e salva.
La palla di cotone si mosse
appena e voltò la testa e Bogo riuscì a vedere
tra le cuciture mal
fatte lo sguardo colpevole e impaurito di Wilde.
Non guardava lui, era fisso
sulla piccola coniglietta che gli faceva da scudo.
“Hopps,
abbassa la tua
pistola!” ordinò Bogo, riprendendo compostezza.
“Nick
è innocente, capitano”
rispose Judy, la voce deferente in contrasto con le sue azioni. Le
sue zampe non vacillarono nemmeno per un attimo dalla posizione.
“Nick?
Ti sei lasciata
coinvolgere?”
La domanda
suonò come un'accusa
alle lunghe orecchie di Judy, ci sentì dentro accuse sporche
che non
venivano da Bogo, lo sapeva, ma dai pregiudizi di Zootopia.
“Non
è come sembra.”
“Gli
hai tolto il collare!”
“Nick
è innocente!” ripeté
convinta, quasi rabbiosa. Disperata.
Non
sembrava nemmeno la stessa
Hopps con cui aveva parlato la mattina prima. Poteva essere stata
plagiata fino a quel punto? Conosceva gli effetti della Sindrome di
Stoccolma, ma non poteva essere scattata così in fretta... o
sì?
Tanto da gettarsi davanti alla
sua pistola per proteggere Wilde col suo corpo? Non da proiettili
sedativi o altro, ma da proiettili veri, che penetravano la carne da
parte a parte, mortali.
E Hopps lo sapeva bene.
“Abbassa
la tua arma e
parliamone, allora” propose come ultima risorsa, se poteva
convincere la sua poliziotta a collaborare.
“Conosco
il suo tono da
mediatore, non funziona come me. Io e Nick adesso ce ne
andiamo.”
“Non
scappare, Hopps, non
costringermi a spararti.”
“Non
mi costringa a farlo per
prima, capitano.”
Nick era
pietrificato. Osservava
senza nemmeno respirare lo scambio tra i due poliziotti, lo scontro
tra due parti nel giusto, eppure diametralmente opposte.
Sentiva la sua fine vicina,
sempre più vicina, e voleva solo scappare e nascondersi per
sempre.
Ma era pronto ad arrendersi per
salvare Judy.
Fece un
passo in avanti, la
pistola di Bogo si sollevò su di lui, per istinto, e Judy
reagì
immediatamente alla minaccia: una detonazione riempì l'aria
e il
capitano indietreggiò di un passo, sorpreso.
Un dardo scintillava nel suo
collo nerboruto, piccolo ma nocivo.
Nell'unico secondo di lucidità
prima che le pupille si dilatassero, i suoi occhi mostrarono stupore
e amarezza, poi la pistola cadde a terra dalle zampe molli e il corpo
massiccio seguì con un tonfo.
Il sedativo
non era forte
abbastanza da addormentare uno della sua statura, sarebbe rimasto
cosciente, ma lo avrebbe intorpidito e rallentato quel tanto che
bastava alla loro fuga.
Judy non riusciva a distogliere
lo sguardo dall'unico suo occhio visibile, confuso e arrabbiato; la
mano con la pistola era mollemente al suo fianco, l'altra zampina
sulla bocca, sconvolta lei stessa dal suo gesto.
“Mi
dispiace, capitano. Mi
dispiace.”
Lo
mormorò come una nenia, per
alcuni istanti. Poi la zampa di Nick la prese per un polso e
iniziò
a portarla via, quasi di peso.
Uscì dal suo stato di trance
quando erano già distanti qualche metro e lei si
voltò verso di
lui, rapidamente.
“Andiamo
a prendere le prove!
Glielo giuro, capitano. Torneremo con le prove!”
urlò con tutta
l'aria dei piccoli polmoni.
Divenne un piccolo puntino,
sempre più piccolo.
“Mi dispiace!” fu l'ultima
cosa che Bogo sentì prima che sparissero dalla sua vista,
lasciato
lì a fissare un pezzo di strada e uno di cielo, entrambi
sfocati.
Note:
Buona sera a tutti.
Nuovo
capitolo e finalmente le
due parti della storia hanno un punto di contatto, anche se breve e
intenso: capitano e sua sottoposta si tengono sotto tiro e infine
Judy spara a Bogo. Se avete notato lei ha ancora la pistola a
sedativi, mentre il capitano ha proiettili veri; diciamo che ho
pensato che generalmente hanno quelle a sedativi o a taser, ma che in
casi speciali e pericolosi, come questo, vengano attrezzati con
proiettili veri. Judy ha reagito per prima, ma io non credo che lui
avrebbe mai sparato davvero, non vuole far loro del male.
La pista
è fresca e sembra
promettente, adesso ai due fuggiaschi tocca vedere dove li
porterà.
Alla
prossima, vi abbraccio
forte, fortissimo.
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Capitolo 13 *** A step further ***
Sahara
Square era dall'altra parte di Zootopia.
Chilometri
e chilometri di strada e poi sabbia rovente da percorrere.
Senza
un mezzo di trasporto, rivestito di un pesantissimo costume di
imbottitura di piumone e trascinandosi dietro una coniglia in piena
crisi di identità, Nick pensò che probabilmente
non sarebbe mai
arrivato vivo alla meta e di certo non in tempo per sventare
qualsiasi piano malvagio stesse per prendere atto.
Sarebbe
morto prima per un colpo di calore o un malessere e almeno tutta
quella storia sarebbe finita, pensava, e lui non avrebbe più
dovuto
preoccuparsi di nulla.
Judy
Hopps, tosta coniglietta dal sogno nel cassetto di poter dimostrare
di valere quanto chiunque altro, a dispetto della sua statura e della
reputazione calma della sua razza, era spezzata.
Qualcosa
le si era spezzato dentro, probabilmente il suo senno, e continuava a
seguire il finto montone stringendo mollemente la sua zampa, docile e
infranta, mentre la testa era preda di paure e ansie della peggior
specie.
Aveva
sparato al suo capitano.
Aveva
sparato al capitano Bogo, in pieno collo, mandandolo giù
dritto in
una paresi momentanea e vigile, costellata di allucinazioni
probabilmente; le sue dita avevano reagito di propria
volontà,
quando lo aveva visto sollevare la sua pistola, pistola con
proiettili veri, contro Nick: non avrebbe potuto permettere che gli
sparasse, che lo uccidesse, senza fare niente.
E
così il grosso bufalo si era accasciato ai suoi piedi,
inerme,
facendo tremare il terreno sotto la sua possente mole.
Quell'occhio
attento, arrabbiato e sprezzante, l'avrebbe perseguitata per sempre.
Non
era possibile che il capitano stesse male per il sedativo, continuava
a ripetersi, era grande e una piccola dose lo avrebbe solo stordito
per un po', si sarebbe solo risvegliato con un cerchio alla testa e
un lieve capogiro, per certo.
Il
peggio sarebbe arrivato dopo: Bogo avrebbe sicuramente dato loro la
caccia con furia maggiore e rabbia, implacabile e instancabile, senza
più remore o favori e una volta trovati li avrebbe gettati
nella
cella più oscura, gettando via la chiave. Chissà
che non li punisse
anche per ciò che avevano osato fargli. E loro non avrebbero
mai
trovato le prove per scagionarsi, era tutto vano, vano, sarebbero
morti provandoci o tacciati per sempre come assassini e pazzoidi.
Nemmeno
lei, una preda, avrebbe ormai potuto sperare nella clemenza, dopo
aver preso così spudoratamente e accanitamente le difese di
un
predatore.
Se
solo avesse potuto spiegare e far capire a quella dannata
città
quanto sbagliavano sui predatori.
Nick
si fermò di colpo e Judy gli andò a sbattere
contro, contro la
lanugine finta e morbida, con un tonfo sorpreso.
“Carotina,
stai bene?” domandò premuroso, voltandosi a
guardarla.
In
un'altra occasione Judy avrebbe riso degli occhi preoccupati sotto
l'enorme testa di riccioli di poliestere, ma in quel momento rimase
congelata a fissarli, in stato catatonico.
Nick
le poggiò una zampa sulla spalla e la scosse piano,
chiamandola
ancora.
“Judy,
tu mi hai salvato” disse infine, e il suo tono caldo di
gratitudine
incrinò appena la sua apatia.
Ricominciò
a camminare, trascinandola ancora, ma Judy fu un po' più
collaborativa e strinse la sua zampa con un po' di vigore.
“Tu
mi hai salvato e non parlo solo di poco fa, col tuo capitano. Mi hai
seguito e mi hai spronato e mi hai sostenuto, mi sei rimasta accanto
nonostante fosse pericoloso e folle e-” prese un respiro
profondo,
incerto lui stesso su cosa volesse dirle davvero.
“Grazie,
Judy” tagliò corto, e la presa di lei si fece
più forte per un
istante.
“Sono
sicuro che riusciremo a trovare le prove e che il tuo capitano
capirà. Ce la faremo, ne sono convinto” aggiunse
incoraggiato e
incoraggiante.
Judy
accelerò il passo e lo affianco, le spalle più
indietro e il mento
in alto, e lasciò andare un grosso sospiro;
sollevò lo sguardo e
gli lanciò un timido sorriso di scuse.
“È
già molto tardi, e Sahara Square è molto
distante, dovremo prendere
un passaggio” esclamò più baldanzosa,
indicando con un cenno
della testa davanti a loro.
L'integerrima
poliziotta stava indicando una lunga fila di macchine in sosta.
E
ormai Nick aveva capito l'antifona e non le disse la solita battuta,
non era più il caso: avrebbero preso in 'prestito' una
vettura e
l'avrebbero aggiunta alle cose da mettere a posto una volta che fosse
tutto finito, in coda a tutte le altre.
Judy
forzò la portiera con pochi gesti calcolati e si
inclinò sotto al
volante, armeggiando con fili e cavetti, con una maestria dubbia;
già
una volta Nick aveva avuto l'impulso di chiederle dove avesse
imparato cose del genere, perché era certo che non lo
insegnassero
all'accademia di polizia.
O
forse sì, per quello che ne sapeva lui.
“Mia
sorella Charlene è un meccanico” la
sentì dire con tono attutito,
assorta nel suo compito, come se gli avesse letto nella mente.
“E
mio fratello George una volta ha forzato la porta di casa, era
rimasto chiuso fuori e quella sera era uscito di nascosto e aveva
bevuto birra di manioca fino a stare male, ma ovviamente è
stato
scoperto e si è fatto tre settimane di punizione a
raccogliere
ortaggi nei campi. Comunque poi ha insegnato a tutti noi come aprire
le serrature, per gioco, anche se ognuno di noi poi l'ha usato per
scopi diversi.”
Il
motore partì con un ruggito possente e Judy si sporse un po'
per
mandargli un sorriso al contrario.
“Avere
275 fratelli e sorelle può essere una seccatura durante le
feste, ma
ha una sua utilità, come vedi, impari le cose più
disparate.”
Nick
boccheggiò sotto il costume, ma lei non poté
vederlo. Il solo
pensiero di avere 275 fratelli era inconcepibile per la sua mente di
figlio unico, casa Hopps doveva essere una bolgia, una stazione piena
in cui non si poteva mai essere da soli, nemmeno per un attimo;
però,
non poté fare a meno di chiedersi, chissà quando
dovesse essere
bello avere sempre qualcuno con cui parlare, qualcuno da abbracciare,
qualcuno di famiglia.
Un
posto pieno di affetti in cui poter ritornare, sempre, a prescindere
da tutto.
Judy
lo stava guardando con attenzione, colpita dal suo mutismo, incerta.
“Guido
io, carotina, fai posto” le disse con sussiego, facendole un
gesto
con la zampa.
Partirono
con uno spunto incerto, poi la macchina prese velocità e si
allontanarono di gran carriera, con solo poche incertezze da parte di
Nick.
Judy
sedette rigida e in silenzio per gran parte del tragitto, ma attenta
alla strada e a Nick, anche lui quieto e vigile.
Provò
a fare mente locale, quello era lo stesso Nick che ventiquattro ore
prima l'aveva fatta guidare verso Tundra Town, che non sapeva come
fare, mentre in quel momento eccolo lì a prendere il
coraggio e
provarci, dopo aver fatto pratica quando l'aveva salvata da Koslov, e
tutto sembrava così diverso, nonostante fosse passato
così poco
tempo.
Nick
era diverso. E lei era diversa. E le cose tra di loro erano diverse.
E
forse anche Zootopia era diversa, o forse lo era sempre stata e lei
se ne era accorta solo grazie a tutto quello.
Cosa
sarebbe successo una volta che tutti avessero scoperto quanto marcio
e quanto ingiusto fosse il loro mondo?
Cosa
sarebbe successo dal giorno dopo in poi?
A
Zootopia, ma soprattutto a loro due?
Sentiva
un'inquietudine crescere, come un presagio appollaiato sul cuore, che
non la faceva respirare a fondo.
Il
tragitto fu relativamente corto e arrivarono al confine con Sahara
Square facilmente, il traffico ancora molto lieve: probabilmente
nella sera si sarebbe intensificato, ma c'erano ancora molte ore
prima delle celebrazioni e fortunatamente ancora pochi controlli.
Sahara
Square era torrido, torrido da morire.
L'aria
condizionata non partì immediatamente e Nick, ingabbiato
nello
spesso costume, era infradiciato di sudore già molto prima
di poter
vedere da lontano la sagoma del Tree Palm hotel stagliarsi contro
l'orizzonte.
Lasciarono
la macchina poco distante, certi che il proprietario avrebbe avvisato
la polizia in poco tempo del 'furto', se non l'aveva già
fatto, e
percorsero l'ultima parte a piedi, cercando di non dare nell'occhio.
L'hotel
era enorme, un grattacielo di acciaio, pietra e vetro che pareva
ancora più alto in mezzo alla piattezza del deserto: la sua
forma
poi lo rendeva iconico, tutti conoscevano la gigantesca palma
scintillante nel sole, svettante verso il cielo.
Essendo
l'hotel più prestigioso e lussuoso, era normale che fosse
sempre
molto frequentato, ma in quei giorni, a causa delle celebrazioni,
molti mammiferi erano arrivati dagli angoli più remoti,
occupando
quasi tutte le stanze disponibili; c'era un gran via vai alle porte,
che li fece ragionare per la prima volta su un particolare a cui non
avevano seriamente pensato prima: come sarebbero entrati, senza dare
nell'occhio?
Rimasero
bloccati a rimuginare all'angolo del palazzo, cercando vano
refrigerio all'ombra, osservando attentamente attorno.
C'erano
ancora poche guardie in giro e ancor meno poliziotti, ma Judy era
purtroppo abbastanza conosciuta per alcuni clamorosi arresti fatti e
il travestimento di Nick non avrebbe ingannato nessuno una volta
oltrepassate le porte; una volta tolto poi, tutti avrebbero
riconosciuto il muso del ricercato numero uno del momento.
Come
poter entrare indisturbati?
Tra
le varie opzioni c'era intrufolarsi nelle cucine, ma erano entrambi
certi che anche quei locali fossero pesantemente sorvegliati, per non
rischiare avvelenamenti o manomissioni del cibo a cinque stelle.
In
quel momento arrivò un piccolo furgoncino bianco, candido e
immacolato, con un logo sul fianco a cui non prestarono davvero
attenzione: furono invece attratti dal fattorino che
spalancò le
portiere posteriori, rivelando un numero eccessivo di valigie, dalle
dimensioni notevoli; Judy sarebbe entrata facilmente anche nel
beautycase, ma erano comunque così grandi che anche Nick
avrebbe
trovato comodamente posto in una qualsiasi delle più piccole.
L'unico
problema era: come arrivarci?
Judy
voltò il capino a destra e a sinistra con frenesia,
saltellando
appena sul posto. Le serviva un'idea, un'idea al volo.
La
mente era un completo foglio bianco.
Saltellò
sempre più freneticamente, il respiro corto.
E
nel panico che la avvolgeva, l'unica idea fu un'idea stupida.
Ma
era appunto l'unica idea.
“Coprimi
un po' con quel pelo finto” ordinò a Nick,
cercando di
nascondercisi dietro.
Lui
obbedì e si accorse che lei trafficava incerta con la zip
del
giubbino leggero, ma forse sussultava per l'adrenalina.
“Quando
te lo dico, tossisci forte, ok? Un rumore improvviso e forte”
aggiunse Judy, sistemandosi meglio alle sue spalle.
Nick
era un po' confuso, forse aveva capito cosa lei volesse fare, ma non
ebbe il tempo per farle domande o fermarla, perché lei gli
diede il
segno vocale: Nick tossì forte, il suono si
amplificò grazie alla
testa di imbottitura, ma riuscì a sentire la lieve
detonazione che i
batuffoli di poliestere non riuscirono ad attutire completamente.
Un
flebile barrito riempì l'aria rovente e contemporaneamente
sentì un
tremolio sotto le zampe e Judy urlare ancora nascosta alle sue
spalle:
“Cielo,
quell'elefante si è sentito male, aiuto!”
Tutti
i mammiferi riversi in strada e anche quelli nella hall dell'hotel si
allertarono immediatamente, correndo tutti verso il pachiderma appena
caduto al suolo, chi chiamando un'ambulanza, chi cercando di prestare
immediato soccorso.
Il
pachiderma era riverso al suolo, ma ancora cosciente, l'enorme mole
avrebbe smaltito e trattato il sedativo della pistola di Hopps come
un lieve capogiro e debolezza degli arti per un'ora al massimo.
Judy
comunque non era fiera di quello che aveva fatto.
Prese
la zampa di Nick e lo trascinò di corsa verso il furgone,
approfittando del parapiglia, mormorando sotto voce:
“Gli
manderò un cestino di fiori. Anche di frutta. E ci
aggiungerò dei
palloncini” ripeté a mo' di scuse, per calmare il
suo animo
colpevole.
C'era
una grande confusione. Dentro, intorno, fuori.
Ad
un certo punto le luci si erano mescolate una con l'altra, i suoni si
erano accavallati uno sull'altro, la mente sembrava una luce ad
intermittenza, portandolo da un mondo di oblio ad una leggera
coscienza confusa e nauseante.
Hector
Bogo odiava non avere pieno controllo di sé e nelle
sporadiche prese
di coscienza odiò il mondo con ancora più
intensità di quanto non
facesse solitamente; nel delirio iniziò ad odiare anche Judy
Hopps,
e lei era quella che tollerava di più, il che era tutto dire.
Aprì
gli occhi su un soffitto luminoso tanto da essere asettico, e rimase
qualche attimo a guardare un lieve sfarfallio in una delle lampadine.
Dio,
odiava anche quello.
“Non
abbiamo tutto il giorno, bell'addormentato”
sbraitò una voce
sgradevole alla sua destra.
Torse
appena la testa confusa e posò lo sguardo sul grugno di
Sirbon,
impalato lì di fianco insieme a Wart e Sus, tutti e tre con
a stessa
identica espressione di sufficienza.
Ora,
risvegliarsi in quel modo era già abbastanza per renderlo di
malumore perennemente, senza mettere in conto ciò che era
successo
prima.
“Era
incosciente in mezzo alla strada” lo informò
Sirbon con sgarbo,
come se lui già non lo sapesse.
Ovviamente
però il facocero voleva sapere il perché.
Bogo
riuscì a frenare il forte senso di nausea quel tanto da
mettersi
seduto, così da poter torreggiare sui membri della T.U.S.K.;
era
nell'infermeria della centrale, riconobbe i muri bianco sporco e la
macchia scura sul pavimento che tutti si erano domandati almeno una
volta se fosse o no sangue rappreso.
Respirò
a fondo un paio di volte, pesantemente.
“Hopps
mi ha sparato un tranquillante” sputò fuori,
digrignando i denti
al vedere i loro brutti musi aprirsi in un ghigno.
Si
trovò a dover spiegare controvoglia tutto quello che era
successo,
le zampe strette a pugno, e lo sguardo spaventato e tuttavia deciso
di Hopps gli balenò alla mente più e
più volte, tormentandolo.
Sirbon
grugnì di perversa soddisfazione, tronfio e ancora
più odioso del
solito.
“La
poliziotta è complice, ma lo sapevamo
già” disse, con
sufficienza, tirandosi su la cintura.
Bogo
avrebbe potuto provare a difenderla, a dire che probabilmente era
soggiogata o che le avevano fatto il lavaggio del cervello, ma il mal
di testa e il senso di pressione dolorosa nelle orbite degli occhi
non gli rendeva facile provare compassione o empatia verso chi gli
aveva sparato in pieno collo, plagiata o meno.
Avrebbe
seguito Wilde e Hopps con così tanta dedizione che avrebbero
dovuto
guardarsi le spalle anche da loro stessi e una volta presi non era
certo di cosa gli avrebbe fatto.
Un
telefonino trillò nel silenzio e Bogo si accorse solo dopo
qualche
attimo che la suoneria era la sua e frugò con fastidio nelle
tasche
finché non lo trovò, portandolo all'orecchio.
“Hector!”
“Giselle?
Cosa-” rispose preoccupato per il torno allarmato di lei.
“Lo
sa che ore sono? Ho provato a chiamarla almeno dieci volte, che
è
successo?”
Bogo
corrugò la fronte nel suo solito cipiglio e
scostò appena in
telefono per osservarlo con un'occhiata attenta e osservare l'orario.
Erano
le cinque e un quarto, notò con orrore.
Era
in ritardo per il suo servizio d'ordine all'hotel di un'ora e
quindici minuti. Inqualificabile.
Avrebbe
messo anche quello sul conto di Hopps.
Riportò
in fretta il telefono all'orecchio, preparandosi alle scuse.
“Giselle,
sono mortificato, io-”
“Hector.
Corra qui, senza altre scuse. Il sindaco è fuori di
sé e ha
maltrattato il povero Lionheart malamente, solo per averle portato il
tè troppo caldo. Corra qui o non credo che
risponderà più di sé!”
Bogo
riuscì a sentire tutta l'urgenza e la preoccupazione di
Swinton,
anche da così lontano, ma il pensiero di Wilde e Hopps, di
doverli
seguire dopo averli avuti così vicini, rendeva il pensiero
di lasciare tutto più difficile.
Avrebbe
dovuto lasciare tutto nelle mani della T.U.S.K. e non poteva non
pensare che qualsiasi rabbia o remore avesse per la sua sottoposta,
non meritasse comunque un destino simile.
Avrebbe
però osato disobbedire ad un ordine diretto del sindaco?
“Le
dica che sto arrivando” soffiò fuori con
rassegnazione, suo
malgrado.
“Grazie,
Hector” fu la replica soddisfatta della maialina.
Chiuse
con più stizza di quanto avesse voluto mostrare a quei
maledetti e
si affrettò ad alzarsi per lasciare la stanza.
“Ci
penseremo noi a Wilde e alla sua poliziotta, capitano”
esclamò a
sfregio Sirbon mentre lui si dirigeva verso la porta senza far
trapelare il capogiro che ancora lo scuoteva.
“Ah,
e quasi dimenticavo: Clawhauser è scappato portandosi dietro
Finnick
Fox, ci occuperemo anche loro, data la sua incompetenza”
sibilò
minaccioso, un tono sadico che pregustava chissà quali
propositi.
Bogo
si congelò con una zampa sulla maniglia e non
poté fare a meno di
lanciare un'occhiata indietro, sorpreso.
Clawhauser
era evaso? Come- quando-... poteva credergli o era solo una scusa per
coprire qualche brutale delitto commesso contro il pacioccoso
ghepardo, al fine di insabbiare tutto?
Aprì
la porta e sparì oltre l'uscio, chiudendola con un colpo
secco.
Stava
tutto scivolandogli dalle zampe, e tra quello che voleva fare e
quello che doveva fare ormai c'era un abisso enorme.
Poteva
scegliere da quale parte saltare?
Il
telefonino vibrò brevemente e Bogo lo controllò
con sorpresa.
Un
messaggio dal 'cappellaio matto', come lo aveva ribattezzato.
“Coraggio,
capitano, i pezzi sono quasi tutti al loro posto. Presto
sarà tutto
finito.”
Il
messaggio forse voleva essere in qualche modo incoraggiante, ma
risultò invece come un orrido presagio.
Bogo
stava per rispondere in malo modo, quando un'idea gli balenò
nella
mente ancora mezzo annebbiata.
Digitò
in fretta, come se temesse di perdere quel pensiero se non lo avesse
buttato giù.
“Clawhauser?”
Attese
con uno strano magone, nel corridoio deserto, un lieve batticuore
sottopelle.
Il
telefonino vibrò di nuovo, Bogo lesse la risposta e si
allontanò a
grandi falcate, lasciando la centrale, una fretta indiavolata che lo
animava.
Note:
Buona
notte a tutti.
Sono
tornata, non vi abbandonerei mai.
Siamo
quasi in dirittura d'arrivo, ma questo non vuol dire che non ci siano
ancora tante cose da dire, anzi! I nostri stanno per infiltrarsi,
andrà tutto bene? Bogo è fuori di sé e
sta per raggiungerli senza
saperlo. E Ben è alla macchia con Finn! Vecchio e scaltro
ghepardone. Avete capito come è scappato?
Vi
abbraccio forte, al prossimo capitolo!
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