How everything started [MOMENTANEAMENTE SOSPESA]

di CassandraBlackZone
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un risveglio inaspettato ***
Capitolo 2: *** Un nuovo fratellino ***
Capitolo 3: *** I primi passi ***
Capitolo 4: *** Instabile ***
Capitolo 5: *** Il 528° libro ***
Capitolo 6: *** Black Blood ***
Capitolo 7: *** Il corridoio cremisi ***
Capitolo 8: *** Delle verità nascoste ***
Capitolo 9: *** Una condanna ***
Capitolo 10: *** La resa dei conti ***
Capitolo 11: *** Quattro anni dopo ***
Capitolo 12: *** Devo resistere ***
Capitolo 13: *** Rassegnazione ***
Capitolo 14: *** Pericolo imminente ***
Capitolo 15: *** Ricordare non deve fare male ***
Capitolo 16: *** Un forte legame ***
Capitolo 17: *** Tutta un'illusione ***
Capitolo 18: *** La fiducia perduta ***



Capitolo 1
*** Un risveglio inaspettato ***


Fu una tale sorpresa vedere quel corpo muoversi in quella cella di contenimento, che Maria si nascose velocemente dietro la schiena del nonno, impaurita.
L’uomo, con fare paterno, accarezzò dolcemente i capelli dorati della bambina, rassicurandola. «Non preoccuparti. Non ti farà niente.» le disse sorridendo.
«Ora si sveglia?» chiese lei con la voce strozzata.
«Lo farà molto presto.»
Raccolto tutto il suo coraggio, Maria uscì dal suo nascondiglio e si avvicinò al grosso cilindro di vetro. All’interno di quest’ultimo, il corpo del riccio antropomorfo nero e rosso galleggiava nel liquido verde fluorescente con gli occhi chiusi e un’espressione serena sul volto. Trovava curiosa la forma degli aculei bicolori, ma ne era soprattutto affascinata; un po’ meno lo era dei piccoli artigli delle mani e dei piedi.
Improvvisamente, non le fece più così paura. Provava più pena, vedendo tutte quelle ventose e fili attaccati su diverse parti del corpo.
«Ti ricordi come si chiama?»
Maria si voltò verso il nonno. «Shadow, giusto?» riportò l’attenzione sulla Forma di Vita Definitiva. «Shadow… the Hedgehog.»
«Esattamente. Al suo risveglio potrai giocare con lui.»
Maria rabbrividì, cercando gli occhi del nonno dietro ai suoi piccoli occhiali rotondi, invano.
«Oh, piccola mia» percepita la preoccupazione della nipotina, l’uomo le si avvicinò per darle una bacio sulla fronte. «Devi stare tranquilla. Lui è diverso. Shadow ha bisogno di qualcuno che gli faccia compagnia.»
«Fa bene ad essere spaventata» disse acido Morris, l’assistente di Gerald, che guardò dall’alto in basso la bambina. «Una ragazzina come lei non è in grado di badare al progetto Shadow.»
Maria accolse lo sguardo smeraldo, rispondendo a tono, mentre Morris sogghignò senza perdere la sua arroganza. «Pensi davvero di poter tenere testa ad uno come il progetto Shadow? Sbaglio o piagnucolavi ogni volta che Biolizard ruggiva?»
«Suvvia, Morris!» il professore diede una pesante pacca sulla spalla dell’assistente, cogliendolo di sorpresa. «Biolizard ha spaventato praticamente tutti. Soprattutto te.»
«Non mi pare il caso, professor Robotnik…» disse l’altro a denti stretti.
Gerald allargò un sadico sorriso strizzando un occhio a Maria, che ricambiò. «Morris caro, mi faresti il favore di controllare i valori del nostro Shadow?»
Morris acconsentì, tirando un sospiro di sollievo e si avviò verso l’uscita.
«Lui non mi piace» disse Maria alla chiusura delle porte automatiche. «Dovevi proprio scegliere lui, nonno?»
«Maria Robotnik, non ti facevo così spietata» ridacchiò l’uomo. « Purtroppo per te, Morris è l’unico qualificato per questo lavoro.»
«È arrogante e antipatico» disse la bambina con lo sguardo basso.
Maria ricordava fin troppo bene l’arrivo di Morris sulla colonia spaziale ARK. Le bastò un solo sguardo per capire che non sarebbero mai andati d’accordo, a partire dal suo petto gonfio di alterigia, il volto squadrato e i capelli ingellati all’indietro che trovava di cattivo gusto.
«Sì. È arrogante, antipatico, ma è anche un ragazzo brillante» Maria fece una leggera smorfia che divertì non poco il professore. «Che ne dici se ora ci facciamo una cioccolata calda?» chiese con una punta di entusiasmo.
Gli occhi della bambina si illuminarono di colpo. «Con la panna?»
Gerald la tirò su con facilità per prenderla in spalla. «Tre belle cucchiaiate.»
I due si avviarono all’uscita ridendo e pregustando già la bella tazza di cioccolata fumante.
 
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«-dow… Sha… dow…»
Nonostante muovesse le sue orecchie, un fischio assordante impediva al riccio nero di riconoscere la voce che lo chiamava. Sentiva un dolore lancinante al petto e alla testa. «Cosa diamine…» provò a parlare, ma senza sentire la sua voce.
«Shadow! Avanti, alzati!»
Riacquistato l’udito, Shadow riconobbe la voce: era Sonic, suo amico e rivale.
«Sonic? Che cosa è successo?» chiese rialzandosi.
«È quello che vorrei chiedere a te!»
«Io? Che cosa avrei fatto?» Shadow si lascò guidare dagli sguardi di Sonic che indicavano sostanzialmente tutto ciò che circondava i due ricci. Guardatosi attorno, il nero spalancò gli occhi dalla sorpresa. «No, non è possibile.»
«Bene. Almeno sai dove ci troviamo» disse Sonic inarcando un sopracciglio. «Si può sapere perché siamo qui?»
Shadow si voltò verso Sonic. «Sarei stato io?»
Il blu si portò una mano sulla fronte e sospirò «Stavamo combattendo contro Eggman» disse con tutta la pazienza che aveva. «Ma l’attacco di un robot ha sorpreso entrambi e tu hai usato il Chaos Control.»
Il nero rievocò il momento della battaglia alla base del dottor Eggman, quindi anche il suo salvataggio.
«Te lo ricordi?»
«Sì. Anche fin troppo» si toccò il petto ancora dolorante. Si era salvato per un pelo.
«Andiamo al dunque. Dove ci troviamo?»
Shadow si concesse una pausa di silenzio per poter confermare la loro posizione. Macerie a parte, gli schermi, i macchinari e le diverse consolle di comando erano familiari al riccio nero. Non c’era alcun dubbio: si trovavano sulla colonia spaziale ARK.
«Cosa?! Siamo dove sei nato tu? » chiese Sonic sorpreso.
«Tecnicamente creato» lo corresse la Forma di Vita Definitiva con amarezza.
«Nato. Creato. Non fa differenza» si difese il blu.
«Non lo è per te» Shadow si fece strada tra i rottami e i vetri rotti per raggiungere una leva. Incanalata una piccola quantità di energia caotica, la abbassò.
La stanza iniziò ad illuminarsi. Diverse luci si accesero all’istante, altre esitarono un paio di volte. Le ultime puntarono un grosso cilindro di vetro alto quattro metri e largo due. Era vuoto e impolverato.
«E quello cos’è?» domandò Sonic avvicinandosi al centro della stanza.
«È la cella di contenimento in cui sono stato creato» rispose freddo Shadow.
Sonic sfiorò con una mano il vetro, spostando uno strato di polvere. All’interno penzolavano delle ventose attaccate a dei cavi. Intravide anche dei grossi aghi che lo fecero rabbrividire. «Allora non scherzavi.»
«Ti sembro uno che scherza, impostore?» ruggì Shadow alterato. «E comunque ormai non ha alcuna importanza. Sono passati cinquant’anni.»
«Perché siamo qui?» tentò di nuovo Sonic. «Perché siamo sull’ARK, se l’abbiamo distrutta tempo fa?»
Shadow gli lanciò un’occhiata veloce. «Non ne ho idea.»
Stretti con forza i pugni, il riccio bicolore cercò invano di ricordare quel sogno dimenticato, ovvero  il giorno in cui incontrò per la prima volta la sua adorata Maria, ma le immagini vennero offuscate da numerose domande: cosa lo ha portato a teletrasportarsi lì? Perché proprio adesso? Che fosse una conseguenza dell’essere la Forma di Vita Definitiva?
Shadow scosse la testa, deluso. Non era una conseguenza, bensì una debolezza. Il solo pensiero di quella notte lo ha portato a viaggiare nello spazio e nel tempo e quindi tornare nel posto in cui tutto ebbe inizio. O per meglio dire: dove tutto ebbe fine.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
La mia immaginazione non ha freni. Nonostante sia impegnata ( e anche in crisi) con un’altra storia ho voluto ugualmente iniziarne un’altra. Sono un’idiota. Ma ormai… il danno è fatto.
Sono una fan di Shadow, poiché è un personaggio con una back story a dir poco fantastica. Con questa storia vorrei illustrarmi la mia versione del passato di Shadow e Maria. Giusto per chiarire la presenza dei due ricci, esseno un “What if”, ho lasciato che Shadow sopravvivesse dopo aver salvato la Terra dalla collisione con l’ARK. Perciò, vi prego di non uccidermi e spero che vi piaccia ugualmente questa storia ^__^.
Vi prego di segnalarmi qualsiasi tipo di errore, sia inerente al personaggio che alla grammatica.
Detto questo, grazie per aver letto questo primo capitolo!
A presto!
 
Cassandra

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Capitolo 2
*** Un nuovo fratellino ***


Maria rimase ad ascoltare la conversazione degli scienziati cercando di capire, ma fu inutile. Tutti quei discorsi legati alle funzionalità vitali, le quantità di un misterioso liquido dal nome impronunciabile e simili erano totalmente incomprensibili alla bambina di otto anni.
«Hai bisogno di qualcosa, Maria?» chiese gentilmente Stanford, il più vecchio dei due.
Maria sussultò sorpresa e imbarazzata abbassò lo sguardo, avendo incrociato quello dello scienziato sorridente. Stanford Drew era senza dubbio la persona più gentile che lei conosceva: era sempre disponibile e un gran lavoratore, ma soprattutto aveva una simpatia contagiosa che gli impediva di farsi odiare da chiunque. «Oh, scusate. Forse disturbo.»
«Niente affatto, piccola. Ti sarai annoiata ad aspettare. Ti porta tuo nonno?»
«Be’…» iniziò lei titubante. «tecnicamente sì.»
I due si guardarono perplessi, uno aggiustandosi gli occhiali sul naso e l’altro scrollando le spalle. Per comodità, Stanford si abbassò all’altezza della bambina. «Intanto dicci come possiamo aiutarti.»
«Posso vedere Shadow?» chiese diretta.
«Shadow?»
Annuì. «Ho promesso al nonno che sarei stata vicino a lui fino al suo risveglio.»
Lo scienziato batté il pugno destro sul palmo sinistro. «Ah, intendi il progetto Shadow» la corresse con un inaspettato tono nervoso.
Maria scosse la testa e quasi irritata disse: «Il suo nome non è “progetto Shadow”. Lui è Shadow the Hedgehog.»
«Oh, ok. Come vuoi» si grattò la nuca forzando un sorriso. «Be’, non credo sia una buona id-…»
«Lasciala andare. Ha il mio permesso.»
Maria aggrottò la fronte appena riconobbe la voce del tanto odiato Morris, campeggiato da altri due scienziati.
«Ma ha soprattutto il permesso del professor Robotnik. Dico bene, ragazzina?»
«Solo il permesso di mio nonno, se permetti» disse Maria squadrandolo.
Morris schioccò la lingua scocciato e si avvicinò al quadrante di fianco alla porta. Digitato il codice, si aprì automaticamente. «Prego, principessina. In bocca al lupo» sogghignò.
Maria varcò la soglia ignorandolo.
«Ricordatelo, ragazzina» le sussurrò l’uomo per fermarla. «Io e te abbiamo una scommessa in sospeso.»
Alla chiusura delle porte, la bambina dimenticò le parole di Morris e camminò accompagnata dal suono metallico dei suoi passi, senza distogliere gli occhi dal cilindro in mezzo alla stanza, come una falena attirata dalla luce.
Il riccio nero era ancora dormiente, quindi ignaro della presenza che lo stava osservando da molto vicino.
«Ciao» disse Maria con un filo di voce. «Ancora dormi?»
Silenzio.
«Il nonno mi ha detto che fra poco ti sveglierai e io dovrò giocare con te, sai?» Maria si lasciò ipnotizzare dal liquidi verde fluorescente, finché non appoggiò piano un mano sul vetro. Era freddo. «Ti devo chiedere scusa, Shadow, perché prima avevo paura di te e non dovevo. Se il nonno mi ha detto che non sei pericoloso, allora deve essere così.»
Maria percepì all’improvviso uno strano tepore attraverso la mano che la fece trasalire e quindi a staccarla dal vetro. Indietreggiato di un paio di passi, la bambina osservò la creatura antropomorfa, meravigliata, mentre quest’ultima incrociava lentamente le braccia e raccoglieva le gambe al petto, mettendosi così in posizione fetale. Un piccolo sorriso invitò Maria ad avvicinarsi e ad appoggiarsi nuovamente alla cella: pian piano quel calore divenne sempre più piacevole, più familiare. L’istinto la spinse a sorridere e ad accoglierlo come una risposta del suo nuovo amico. «Te lo prometto, Shadow. Non appena sarai fuori da qui, io ti proteggerò» Maria si appoggiò con una guancia, senza smettere di sorridere.
Intanto Morris, attraverso le telecamere di sorveglianza, osservava Maria con disprezzo.
«Se il professor Robotnik fosse qui, ti avrebbe già sgridato» scherzò Stanford. «Non capisco perché ce l’hai tanto con la signorina Maria»
Morris sbuffò sghignazzando. «Solo con la signorina Maria, dici?»
Stanford roteò gli occhi fingendo di guardare lo schermo del computer.
«È solo una ragazzina viziata e saccente che pretende di avere sempre ragione. È insopportabile.»
«Bada a quello che dici» divenne serio l’altro. «La signorina Maria è tutt’altro che insopportabile. Anzi, è una ragazzina molto dolce.»
«Oh, ho visto come mi ha accolto qualche settimana fa» disse Morris con falsa sorpresa. «È il comitato di accoglienza per eccellenza.»
«Inoltre»,riprese Stanford, « è ammirevole come lei stia affrontando la sua situazione.»
«Sì, ne sono al corrente» disse Morris ammiccando. «Lei è affetta dalla NIDS, ovvero la Sindrome di Insufficienza Neuro – Immunitario. Una malattia rara di cui non si ha ancora la cura.»
«Bene. Allora se lo sai, abbi un po’ di rispetto. Perché è sostanzialmente per questo che siamo qui.»
«Veramente siamo qui per trovare una formula dell’immortalità, caro Stanford.»
«Formula che salverà Maria e molti altri innocenti!» Stanford si alzò con rabbia dalla sedia facendola cadere all’indietro, proprio mentre Maria stava rientrando dalla stanza. Lei urlò, spaventata.
«Signorina Maria!» l’uomo si calmò all’istante e corse dalla bambina mortificato. «L’ho spaventata? Mi dispiace!»
«No, non si preoccupi. Non è successo nulla» gli sorrise Maria con gli occhi azzurri che brillavano. «Ora me ne vado in camera mia. Buon lavoro.»
Tutti gli scienziati, meno Morris, salutarono la bambina con un largo sorriso.
«Ecco cosa succede a lasciarsi trasportare dalle emozioni» sospirò Morris, attirando su di sé occhi accusatori. «Meno chiacchiere e più lavoro. Continuate a monitorare il progetto Shadow e passatemi gli ultimi aggiornamenti.»
Il silenzio piombò tra gli scienziati anelanti di saltare addosso a Morris, ma dovettero sopprimere quell’istinto e fare quanto richiesto, poiché lui, nonostante la giovane età, era l’assistente e il pupillo del professor Robotnik date le sue incredibili capacità e conoscenze del progetto.  Sebbene lo odiassero, loro erano tenuti ad obbedirgli a prescindere. Era un elemento troppo importante per quella ricerca.
Stanford strinse con forza i pugni e prese dalla sua postazione tutti i valori registrati quel giorno. «Ecco i tuoi dannati valori. Ora puoi pure andare.»
Morris sogghignò soddisfatto prendendo i fogli. «Grazie» con il cenno di una mano ordinò ai due che erano entrati con lui di seguirlo e uscirono tutti e tre, lasciando che l’insensibilità del giovane assistente scelto lasciasse l’amaro in bocca a tutti i presenti nella sala comandi.
 
I giorni passavano e gli scienziati continuavano i loro test sotto la supervisione del dottor Robotnik, mentre Maria faceva le sue visite. Che fosse per leggere un libro ad alta voce o bere la speciale cioccolata calda del nonno, la bambina coglieva qualsiasi occasione per poter stare con Shadow, mostrandosi sempre più allegra. La paura si era trasformata in risolutezza e impazienza per il suo risveglio.
«La signorina Maria si è affezionata al prog-… a Shadow» ridacchiò Stanford davanti alle immagini della piccola seduta ai piedi del cilindro.
Gerald annuì.«Sì. Non vede proprio l’ora che si svegli.»
«È davvero una bambina coraggiosa.»
«Se per coraggiosa intendi dire che ha un cuore d’oro, allora sono d’accordo.»
Stanford si tolse gli occhiali e si girò verso il professore. «Senta, forse lei non se ne rende conto, ma sta dando il permesso ad una bambina di otto anni di vedere una creatura ancora instabile. Lei non pensa che sia peric-…»
«Stanford, mi leggeresti per cortesia i dati di Shadow?» lo interruppe il dottor Robotnik.
Lo scienziato si inforcò di volata gli occhiali e fece scivolare le dita sulla tastiera e lesse:«Battito cardiaco regolare. Organi vitali in perfetto stato. Livello di energia caotica sotto controllo e livello di…»
Gerald sorprese Stanford dandogli una pesante pacca sulla spalla.«Direi che ti sei risposto da solo, no? Nel giro di quattordici giorni ogni singolo dato di Shadow è perfettamente nella norma ed è stato tutto grazie a Maria.»
«Non capisco, professore.»
«In realtà nemmeno io, caro Stanford» Robotnik si avvicinò agli schermi massaggiandosi i lunghi baffi grigi. «Ma ho come la sensazione, che lei possa essere l’anello mancante per completare il progetto.» sussurrò tra sé e sé.
 
«Sai, io sono come te. Non ho una mamma e nemmeno un papà.» disse Maria forzando un sorriso. «O almeno… è quello che il nonno mi ha detto. Lui è l’unico parente che mi è rimasto.»
Ricordare i suoi genitori era sempre doloroso per la bambina, in quanto nella sua mente non si formava alcuna immagine nitida dei due. Geraldo Robotnik e Meredith Sanders: era tutto ciò che sapeva di loro. Sebbene avesse provato svariate volte a chiedere loro notizie al nonno, quest’ultimo cambiava subito argomento o le rispondeva che lei era troppo piccola per capire.
Maria si accoccolò vicino al cilindro portandosi le ginocchia al petto e appoggiò la testa di lato sul vetro. Improvvisamente si intristì, ma continuando ugualmente a raccontare.«Ho sempre vissuto qui, sull’ARK. Io non mi lamento, lo giuro! Però… a volte mi sento sola» chiusi gli occhi, Maria si lasciò trasportare dalla dolcezza di quel calore che da giorni la consolava. Un sorriso si allargò sulla sua pelle candida. «Sai una cosa, Shadow? Tu potresti fare parte della mia famiglia assieme a mio nonno. Dopotutto lui ti ha creato, no? Quindi è come se tu fossi suo figlio e quindi io potrei essere…»
Uno strano gorgoglio indurì leggermente l’espressione della bambina, ma fu l’arrivo di un’ombra inaspettata a indurla ad alzare lo sguardo. Fu allora che li vide: due piccoli occhi color rubino erano fissi nei suoi color zaffiro.
Maria si alzò sorpresa dal pavimento e si allontanò dal cilindro, preoccupando non poco la creatura antropomorfa al suo interno. «Si è svegliato…» sussurrò la bambina incredula. «Si è svegliato!» ripeté quasi urlando.
«Ricordatevi che prima di svuotare la cella bisogna mettergli i bracciali inibitori» il professor Robotnik entrò nella stanza grave, seguito da Stanford e altri due assistenti preoccupati. «Assicuratevi di rimuovere con attenzione aghi e ventose. Non voglio che si faccia male.»
«Nonno! Si è svegliato!»
«Lo so, tesorino» Gerald accarezzò con entrambe le mani il viso della nipotina. «Sei stata brava, ma ora ce ne occupiamo noi. Stanford, stalle vicino.»
«Sissignore.»
Guidata dal sorriso di Stanford, Maria si lasciò prendere per mano, ma un brusco movimento attirò l’attenzione della piccola che si voltò d’istinto. Era Shadow, che batteva i pugni sul vetro, con gli occhi che invocavano aiuto. Il suo aiuto. Era confuso e spaventato da tutti quegli estranei che lo fissavano e parlavano uno sopra l’altro.
«Fermatevi!» prima che lo scienziato potesse riportarla nella sala comandi, Maria si liberò e corse in soccorso del riccio.
«Signorina Maria!»
«Non state così vicini! Ha paura!»
Tutti si fermarono di colpo e guardarono perplessi la bambina allarmata. Gerald si inginocchiò davanti a lei. «Piccola mia, ti ho detto che ora ci pensiamo noi. Attendavamo il suo risveglio da molto tempo e ora dobbiamo…»
«Ma vi dico che ha paura! Non potete trattarlo così!» lo ammonì la bambina.
Due colpi dietro il nonno attirarono l’attenzione di Maria. Shadow si muoveva alla ricerca della sua piccola amica, che subito si avvicinò appoggiando entrambe le mani sul vetro. «Stai tranquillo. Ci sono qui io» gli sorrise di conforto.
Il riccio ebano appoggiò a sua volta le sue mani all’altezza di quelle di Maria e allettò di rimando, tranquillizzandosi.
Il professore rimase sbalordito, ma al tempo stesso incantato da quella scena, tanto quanto lo fossero tutti gli altri. «Signore, i valori sono ritornati nuovamente regolari.» gli comunicò dalla sala comandi Stanford.
«Proprio come pensavo» disse soddisfatto. «Voialtri, allontanatevi dalla cella. Bastiamo io e mia nipote. Non dobbiamo spaventarlo. Occupatevi del resto.»
Ricevuto l’ordine, tutti rientrarono per eseguire i compiti assegnati, mentre i due Robotnik erano rimasti la sola presenza dinanzi a Shadow.
«Maria cara, continueresti a far sentire a suo agio il tuo nuovo fratellino? Così finiremo più in fretta.»
Maria si voltò verso il nonno con gli occhi spalancati. «Fratellino?»
Gerald annuì con sicurezza. «Esatto. Da oggi in poi tratterai Shadow come un fratello. Ti piace come idea?»
La bambina ci pensò su, riportando lo sguardo su uno Shadow visibilmente contento di vederla ed annuì. Sì. Era quello che voleva: un fratello. «Sì! Certo che mi piace!» urlò entusiasta.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
Essendo una mia versione del passato di Shadow, molte cose saranno diverse dalla storia originale. Lo dico fin da subito perché ho un serbo un po’ di colpi di scena che spero vi piaceranno. Detto ciò, non spoilerò nulla. Un capitolo di passaggio che forse non ha nulla di speciale, ma che spero non vi abbia annoiato.
Alla prossima!
 
Cassandra

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Capitolo 3
*** I primi passi ***


Sonic starnutì così rumorosamente da far cadere dei pannelli di metallo appoggiati al muro della stanza, alzando una gran quantità di polvere.
«Sei il riccio più veloce del mondo. Certo, a far danni!» si lamentò Shadow tossicchiando.
«Il tuo repertorio di battute è davvero pessimo, lo sai?» rispose il blu tirando su col naso e sfregandosi le braccia. «Cavolo, qui dentro fa freddo.»
«Che cosa ti aspettavi da una colonia spaziale abbandonata nello spazio?»
«Allora saprai sicuramente dirmi perché respiriamo qua dentro, genio.»
«Stai parlando dell’ARK.» lo ammonì il nero. «Non di un’insulsa navicella spaziale.»
«Oh, bella risposta. Gelida tanto quanto questa stanza!»
Ignorata l’infantilità del rivale, Shadow si avvicinò a sua volta alla cella. Lo sguardo cadde proprio sugli aghi penzolanti. Come Sonic, Shadow rabbrividì e d’istinto si sfregò le braccia, come se la carne ricordasse.
«Shadow, tutto a posto?» chiese il blu. «Sei come… impallidito di colpo.»
Il nero sussultò involontariamente e si allontanò da Sonic di un paio di passi, sorprendendolo.
«Senti, non è per metterti fretta, ma vorrei tornare indietro. Non so se mi spiego. Perciò facciamo in fretta e diamo un’occhiata in giro, ok?»
«Aspetta, per quale motivo dovremmo esplorare l’ARK?» domandò Shadow irritato.
Sonic si grattò la tempia destra con l’indice. «Be’, se ci hai teletrasportato qui ci deve essere un motivo, no?»
Shadow lo fissò, impassibile e ammutolito.
«Be’? Che c’è? Ho detto qualcosa che non va?»
«Sì» gli rispose.
«Sì? Sì cosa?» osò chiedere l’altro.
«Sì. Sto bene. Non avevo risposto alla tua domanda» lasciando Sonic senza parole, Shadow salì sul cilindro di vetro, accovacciandosi. Lo spazio fra il soffitto e il cilindro era poco più di mezzo metro. «Allora? Lo facciamo questo giro di perlustrazione oppure no?»
Scrollatosi di dosso la preoccupazione, l’eroe velocista saltò a sua volta. «Perché sei salito qua?»
Il riccio ebano indicò la base circolare di metallo proprio sopra di loro. Una piccola fessura che corrispondeva al diametro invitava i due ricci ad aprirla. «Dammi una mano.»
Posti uno da una parte e uno dall’altra, Shadow e Sonic forzarono la base con entrambe le mani e, dopo vari tentativi, si aprì con uno scatto.
«Cosa c’è qua sopra, Shadow?»
«Questa stanza è posta agli ultimi piani. Le porte sono bloccate, perciò è meglio passare da qui. Inoltre arriveremo prima al cuore dell’ARK» rispose Shadow.
Sonic annuì e lo seguì, senza protestare.
 
                                                                                                                                                                                                                                  
 
Per Maria il momento della rimozione degli aghi fu un’immagine insostenibile, ma per il bene di Shadow lei continuò a sorridergli e parlargli dolcemente, fino alla fine dei test.
Bracci meccanici si avvicinarono con cautela ai polsi e alle caviglie del riccio nero per infilare i quattro bracciali inibitori d’oro. Infine la cella venne svuotata completamente, disorientando Shadow che cadde sul pavimento, poiché era ancora incapace di restare in piedi.
«Ora che succederà?» chiese preoccupata la bambina al nonno.
«Devo solo controllare di persona la salute di Shadow» Gerald arruffò scherzosamente i capelli della nipotina imbronciata. «Ti devo ringraziare, Maria. Sei stata bravissima.»
Maria si sentì gonfia di orgoglio e felice di essere stata d’aiuto, ma soprattutto era contenta di aver fatto qualcosa per il suo nuovo fratellino. «Hai visto, Shadow? È andato tutto bene!» sicura che avrebbe condiviso il suo entusiasmo con Shadow, si appoggiò nuovamente al vetro, ma dovette subito ritirare le mani, al che vide il riccio tremare, con le orecchie e gli aculei abbassati e le ginocchia strette al petto. Era terrorizzato. «Nonno!» chiamò la bambina preoccupata.
«Piccola mia, è normale che sia così» le disse il professor Robtnik.
«No, non va bene! È ancora spaventato! Ho fallito, nonno.»
«No, tesorino. Ti sbagli. Ora ascoltami. Verrai con me in infermeria così da aiutarlo di nuovo a rimanere calmo» Gerald asciugò le lacrime della bambina con i pollici e le sorrise. «D’accordo? Diglielo.»
Maria tentò di nuovo e si avvicinò. «Shadow. Non devi avere paura. Il nonno sarà gentile con te. Ci sarò anche io.»
Al suono della voce della bambina, Shadow alzò lo sguardo. Un piccolo sorriso si disegnò sul suo viso. Lo so. Così interpretò Maria, con il cuore che le si stringeva. Due parole che pronunciate le avrebbero infuso felicità, ma anche speranza.
«Trasferite la cella al piano di sopra» ordinò Gerald alla sala comandi. «Ora lo visiterò.»
Aperta la botola soprastante, il cilindro iniziò ad alzarsi lentamente. Nonno e nipote superarono di volata la sala comandi per raggiungere l’ascensore, seguiti da Stanford che elencò al professore eventuali nuovi dati.
All’apertura delle porte c’era Morris ad aspettarli che, con grande sorpresa di Maria, sembrò essere più serio del solito, ma soprattutto meno spaccone. Il risveglio della Forma di vita Definitiba era in primo piano sotto tutti i punti di vista.
«Secondo i test è tutto nella norma. Non ci sono state complicazioni» iniziò Morris. «Il progetto Shadow…»
Gerald lo squadrò alzando un sopracciglio.
«Volevo dire… Shadow, è perfettamente in salute.»
«Questo lo valuterò io di persona. Ti ringrazio, Morris. Che mi dici dei bracciali inibitori?»
«Sono stati inseriti correttamente e per ora sembrano fare il loro lavoro.»
«Ottimo.»
«Inibitori?» domandò Maria confusa. «A che servono?»
«Servono affinché Shadow stia meglio, mia cara.»
Risposta vaga e spicciola. Proprio come per i suoi genitori. Maria si arrese all’idea di chiedere qualcos’altro e si limitò a rimanere in silenzio durante tutto il tragitto.
Arrivati all’infermeria, Un forte odore di alcol e medicine disorientò Maria, ma appena avvistò Shadow corse verso di lui. In tutta risposta, il riccio nero si rialzò a tentoni, appoggiandosi al vetro. «Ciao, Shadow! Visto? È tutto a pos-…»
«Non così in fretta, ragazzina» prima che Maria potesse raggiungere la cella, Morris la prese dal colletto del suo vestito e la tirò leggermente indietro.
«Ehi! Lasciami!» si divincolò lei. «Devo stare vicino a Shadow!»
«Abbi pazienza, principessina. La cella sta per essere aperta» le disse lo scienziato con la stessa serietà innaturale di prima. «Vedi di seguire almeno le procedure di sicurezza.»
Pur sapendo di essere nel torto, Maria rispose a Morris facendogli la linguaccia, mentre un trillo continuo rimbombò nella stanza. Dalla cella fuoriuscì una cortina di fumo e il rumore di uno scatto allarmò la bambina: era il vetro del cilindro che si apriva.
«Shadow sta uscendo. Preparatevi a far scendere la cella di contenimento» disse Morris attraverso un comunicatore da polso.
Man mano che il fumo si estingueva, Maria poté riconoscere il profilo del riccio nero, che di tanto in tanto barcollava e cercava un sostegno. Appena la figura divenne ben visibile, gli occhi di Maria brillarono.
«Morris, lascia pure che si avvicini» gli ordinò Gerald appoggiandogli una mano su una spalla.
L’assistente obbedì e lasciò che Maria corresse verso il riccio. «Shadow!» lo chiamò.
Shadow sorrise e cercò di correre, ma senza riuscirci. Ormai prossimo a cadere, venne salvato in tempo dalla bambina poco più alta di lui. Sotto le sue piccole mani, il pelo sembrava avvolgerle le dita per quanto era morbido. Sul viso era così piacevole, che quasi era tentata di rimanere in quella posizione ancora per un po’, ma la voce del nonno la riportò alla realtà, staccandosi a malincuore da quel fugace abbraccio.
«Morris, avvicinami una barella. Non facciamolo stancare troppo» disse l’uomo.
«Sissignore.»
All’arrivo di Morris, Shadow si nascose dietro Maria e ringhiò, aggrottando la fronte. «Perfetto. Non sto simpatico nemmeno alla palla di pelo» scherzò velenoso l’assistente.
«È solo un po’ spaventato. Niente di più» cercò di alleggerire l’atmosfera Gerald. «Bene. È ora di visitarlo.» Con un cenno della mano invitò Maria ad aiutare Shadow a sedersi sulla barella. Diversamente da Morris, nei confronti del dottor Robotnik cercò di capire se fidarsi basandosi sull’odore e lanciando qualche occhiata a Maria per avere una conferma.
«Lui è mio nonno» gli disse con un sorriso. «Gerald Robotnik. Io sono Maria.»
Shadow inclinò leggermente la testa di lato, comunicando la sua incomprensione.
«Ma… lui mi capisce, nonno?» chiese la bambina delusa. «Nella cella capiva quel che dicevo. Perché adesso no?»
«Tesoro mio, lui ancora è incapace di leggere, parlare, ma soprattutto capire. Come puoi vedere da come si atteggia lui si affida ai sensi» Gerald avvicinò una mano al riccio nero. Quest’ultimo iniziò ad annusarla e, dopo un paio di tentativi, si lasciò accarezzare, diventando docile. «Visto? Per ora è come un animale indifeso. Col tempo cambierà.»
«Aspetta… Lui parlerà?»
«Certamente.»
Maria fissò esterrefatta Shadow, che intanto si attaccò al suo braccio destro, innocente. «Potrà… parlare.»
«Ci vorrà del tempo, ma lo farà»  preso dalla tasca lo stetoscopio, appoggiò il disco in mezzo al pelo bianco sul petto e annuì. Facendo attenzione controllò le articolazione di braccia e gambe. Per ultimo esaminò la bocca, armato con una piccola torcia. «Fai: Ahhh.»
Con grande sorpresa di Maria, Shadow imitò il nonno emettendo anche un suono profondo. I denti erano forti e sani, con canini ben appuntiti.
Robotnik sorrise soddisfatto. «Perfetto. Per ora è sufficiente così. Il nostro Shadow è in ottima salute.»
Maria esultò urlando e alzando le braccia. Shadow la imitò, ma senza emettere alcun suono. «Ehi, non vale! Con il nonno hai detto qualcosa però!»
Shadow inclinò di nuovo la testa, continuando a tenere le braccia in alto, posizione che fece ridere a crepapelle la bambina e il vecchio scienziato.
«Credo proprio che ci sarà da divertirsi» disse Gerald tenendosi una mano sulla pancia.
«Lo penso anche io!»
«Maria. Che ne dici di portare Shadow nella tua stanza? Ho ancora dei lavori da sbrigare.»
«Poi dopo stai un po’ con me e Shadow?»
«Certamente.»
Senza perdere il suo entusiasmo, Maria aiutò Shadow a scendere. Miracolosamente non cadde o perse l’equilibrio, ma Maria lo tenne comunque sottobraccio per sostenerlo. «Forza, Shadow! Ti mostro la tua nuova camera da letto!»
Riccio e umana presero a camminare verso l’uscita, accompagnati dalla dolce voce della bambina fino a destinazione.
Intanto nell’infermeria, Morris e Gerald confrontarono i propri dati raccolti. «Credo che lei stia prendendo questa faccenda troppo alla leggera, professore» disse Morris senza staccare gli occhi dai fogli.
«Non so di cosa tu stia parlando.»
«La Forma di vita Definitiva si è svegliata. Se ne rende conto? È a un passo dalla perfezione e lei la lascia a giocare con le bambole con una ragazzina.»
«Lo hai visto, Morris?»
Morris scosse la testa confuso. «Come dice, scusa?»
«Shadow. Ha già imparato a camminare» ridacchiò il professore. «È davvero strabiliante.»
«Professore, io la rispetto, ma è mio dovere farle capire che Shadow è solo un mero esperimento che…»
«Morris, sei un ragazzo con un grande talento e per questo ti ho scelto, ma devi imparare ad usare quella lingua» gli rispose Gerald severo. «Tu attieniti ai miei ordini e non ci saranno problemi.»
Un inaspettato squillo allarmò i due. Era il comunicatore di Morris. «È il Presidente.» disse a denti stretti.
Gerald si sistemò il camice e portò le mani dietro alla schiena. «Accedi al comunicatore olografico.»
Con un comando vocale subito apparve la figura olografica del Presidente, seduto sulla sua scrivania. «Buonasera, professor Robotnik.»
«Buonasera, signor Presidente.»
«Ho chiamato giusto per sapere come procedeva il progetto Shadow. È ancora dormiente?»
Morris era sul punto di farsi avanti e illustrare gli ultimi aggiornamenti, ma la mano di Gerald dietro alla schiena gli ordinò di rimanere in silenzio.
«È ancora dormiente» mentì.
Il Presidente annuì visibilmente deluso. «Il tempo stringe, professore. Non che io voglia metterle fretta, ma… è passato troppo tempo.»
«Signore, stiamo cercando di evitare lo spiacevole incidente avvenuto con Biolizard. È meglio essere prudenti» si giustificò Gerald.
«Anche questo è vero.»
«Ad ogni modo, posso assicurarle che sta procedendo tutto come pianificato.»
«Era quello che volevo sentire. Bene. Buona continuazione. Mi tenga aggiornato.»
«Senz’altro, signore.»
A comunicazione chiusa, Gerald si avviò verso l’uscita, ma venne fermato da un Morris non poco arrabbiato che gli disse:«Mentire al Presidente? Davvero? Non pensa di star commettendo un errore?»
Gerald si voltò senza perdere la sua compostezza e rispose:«Archivia gli ultimi aggiornamenti.».
 
Shadow era rimasto incantato da tutto quel blu e quell’azzurro. Maria ridacchiò davanti all’innocenza del riccio che si avvicinava ala sua scrivania incuriosito dai suoi libri e la cancelleria o al suo letto, insicuro se sedersi poiché più morbido rispetto alla barella.
«D’ora in poi tu dormirai qui con me!» annunciò felice la bambina. «Il letto è abbastanza grande per tutti e due.»
Shadow si limitò a fissarla e riprese la sua perlustrazione. Qualcosa di lucido sulla scrivania attirò la sua attenzione e lo invitò ad avvicinarsi nuovamente. Erano un paio di forbici.
«No Shadow! È pericoloso!» disse allarmata Maria, togliendole dalle mani di Shadow. «Non dovresti avvicinare queste agli occhi!»
Il riccio nero incrociò le braccia al petto in disaccordo.
«È inutile che fai quella faccia. Se ti dico che è pericoloso, è pericoloso. Guarda?» Maria fece per portarsi una lama vicino ad un dito come dimostrazione, ma qualcosa afferrò velocemente l’oggetto tagliente. Era Shadow.
«Shadow! No!» Maria gli si avvicinò appena vide che la mano del riccio stringeva la lama con forza. Due gocce rosse caddero sul pavimento. «Oh no! Sanguini! Sta tranquillo, ora ti porto dei cerotti! Aspetta qu-….»
Shadow prese al volo il polso Maria scuotendo la testa. Non preoccuparti, le parlarono di nuovo gli occhi. La bambina protestò un paio di volte, finché non vide il riccio aprire delicatamente la mano.
«Ma non è… possibile» disse lei sorpresa, davanti all’assenza di tagli sul palmo. C’era solo una piccola chiazza rossa ormai secca. «Non ti sei tagliato. Come hai fatto?»
Shadow sbatté le palpebre senza capire.
«Giusto. Forma di vita… Definitiva. Tu sei diverso. Guarisci subito.» Maria tirò un sospiro di sollievo tranquillizzandosi. «Non mi spaventare mai più in questo modo, ok?»
Davanti a quel sorriso stanco Shadow inclinò la testa di lato e prese la mano della piccola Maria per portarla alla bocca e baciarla. Finalmente tutto era più chiaro.
«Tu avevi paura che mi facessi male» pensò lei ad alta voce. «Per quello hai preso le forbici.»
«Ma…» se pur bassa e roca, Maria aveva chiaramente sentito la voce profonda di Shadow, la stessa sentita in infermeria.
«Cosa?» domandò Maria incredula e con gli occhi velati di lacrime.
«Ma… Mar-…» tentò di nuovo.
«Avanti. Ci sei quasi» lo incitò la bambina prendendo le sue mani. «Forza!»
«Ma…ria. Maria. Maria!» disse Shadow tre volte di fila, allargando uno smagliante sorriso.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
E siamo al terzo capitolo. Detto fra noi, non sono molto soddisfatta di questo capitolo. Magari è una mia impressione perché non vedo l’ora di arrivare alle parti più “emozionanti” o comunque interessanti. Però pensandoci… è appena iniziata ed è evidente che ho bisogno di svilupparla lentamente affinché venga fuori una bella storia( dico bene? XD Sì, dico bene ahaha). Boom, io mi giustifico così XD
Spero vi sia piaciuto questo capitolo e perdonatemi se i prossimi capitoli arriveranno un po’ tardi, ma domani partirò per tornare nel mio paese e ci resterò per ben due settimane :) Spero di riuscire ad aggiornare appena avrò a disposizione un PC (Intanto durante il viaggio scrivo a mano XD).
Ci vediamo alla prossima!
 
Cassandra

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Capitolo 4
*** Instabile ***


Gerald lasciò cadere cartelle e fogli vari, sorprendendo Maria e Shadow. Le sue mani tremavano e la sua bocca era semiaperta intenta a dire qualcosa.
«Nonno!» chiamò la bambina. «Ha parlato! Shadow ha parlato!»
«Incredibile…» sussurrò l’uomo. «È davvero incredibile!»
Maria prese per mano il riccio e si avvicinò al nonno ancora meravigliosamente scosso davanti alla soglia. «Dai, Shadow! Parla di nuovo!»
Shadow guardò insicuro prima Maria e poi il professore. «Forza, figliolo. Non avere paura.» gli disse tranquillo quest’ultimo.
La creatura corvina rimase in silenzio davanti a quei due sorrisi che lo incitavano a fare la cosa straordinaria che aveva appena fatto, a sua insaputa. Alzati gli occhi, incrociò lo sguardo invisibile del suo creatore e aprì la bocca, sperando di dire ciò che lui voleva. Puntandogli un indice disse:«No…Non-… Nonno. Nonno!»
I due Robotnik si portarono contemporaneamente le mani davanti alla bocca, dimostrando la loro felicità attraverso versi incomprensibili che confondevano non poco il povero Shadow.
«Nonno? Maria?» disse il riccio, eccitando i due ancora di più. Aveva imparato anche a formulare delle domande.
«Ha imparato a parlare in meno di ventiquattro ore! È strabiliante!» esultò Gerald abbracciando Maria. «Tu sei strabiliante!»
Nonno e nipote risero senza smettere di abbracciarsi, mentre Shadow rimase a guardarli, cercando di capire il loro comportamento. 
«L’abbraccio. Il gesto d’affetto più ipocrita che esista.»
Il riccio nero sobbalzò e indietreggiò, avendo riconosciuto la voce di Morris alle sua spalle. Indeciso, alzò i pugni.
Morris sorrise davanti al vano tentativo della creatura di sembrare più minaccioso e gli si avvicinò.«E vuoi sapere perché, topastro?» approfittando della sua confusione, lo scienziato lo prese per attirarlo verso di sé e, abbracciandolo, gli sussurrò:«Perché facendolo è impossibile vedere l’espressione dell’altro. Capisci cosa intendo, vero?»
«Lascia stare Shadow, Morris!» urlò Maria.
Alla vista della sua piccola amica, Shadow spinse l’uomo lontano da lui e corse verso di lei.
Morris si massaggiò il ventre dolorante. Il riccio gli aveva sferrato una gomitata, eppure la sensazione che provò fu quella di ricevere un pugno ben assestato. Non se lo aspettava. «Accidenti, piccoletto. Sarai pure uno scricciolo, ma sei piuttosto forte. Dovrò aggiungerlo ai dati» ridacchiò per mascherare la sua preoccupazione.
«Hai bisogno di qualcosa, Morris?» domandò Gerald sospettoso.
«Noi abbiamo sempre bisogno di lei, professore» rispose velocemente. «È richiesta la sua presenza in laboratorio. Ed è urgente.»
Il dottor Robotnik si accarezzò i baffi ed annuì. «Va bene. Allora andiamo.»
«Ma nonno! Avevi promesso che avremmo passato del tempo insieme» disse Maria delusa.
«Piccola mia, so bene quello che ho detto, ma cerca di capirmi.»
Maria abbassò lo sguardo, rendendo ancora più difficile la posizione del professore. «Ma avevi promesso…»
Gerald avvicinò delicatamente le sue mani al viso candido della nipote per poterlo accarezzare. Odiava fare la parte del cattivo. Lo odiava veramente, specialmente con la sua piccola Maria, nonché sua unica ragione di vita.«Maria, tesoro. tu lo sai perché siamo qui, vero? Sai cosa sta facendo il nonno?»
La bambina si morse il labbro inferiore e una sensazione di vuoto di manifestò proprio nel suo stomaco. Erano i sensi di colpa. Lentamente annuì.
«Bene. Se lo sai, allora mi lascerai continuare il mio lavoro?»
Annuì, più sicura.
L’uomo stampò sulla sua fronte un lungo bacio e vi appoggiò la sua per sussurrarle:«Hai il mio permesso per due abbondanti cioccolate calde con panna. Così insegnerai a Shadow cosa sono le cose dolci, eh? Che ne dici?»
Maria alzò lo sguardo e rispose con un ampio e sincero sorriso. «Sì! Sono sicura che gli piacerà!»
«Lo penso anche io.»
Un bacio veloce e un ti voglio bene scherzoso bastarono a far sentire più leggero Gerald, che poté tranquillamente salutare la bambina e il suo esperimento ben riuscito.
Rimasti soli nella stanza, il silenzio calò tra i due scienziati. Morris squadrò severo il suo mentore, sicuro che lo avrebbe intimorito. Quest’ultimo si limitò a rispondere con una risatina. «È inutile che mi guardi in quel modo. Di certo funziona con gli altri. Con me non se ne parla.»
Il giovane assistente rilassò i muscoli facciali e scrollò le spalle, arresosi. «Be’, ci ho provato.»
«Allora, tonando a noi. Per quale motivo hai mentito?» chiese Gerald, riferendosi all’urgenza in laboratorio. In genere riceveva sempre prima una chiamata dal suo comunicatore da polso.
«Stavo per chiederle la stessa cosa» rispose arrogante Morris.
«Ne abbiamo già parlato, ragazzo mio. E non ho intenzione di tornare sulla questione.»
«Avrò anche mentito sul laboratorio, ma non ho mentito sull’urgenza.»
Gerald alzò un sopracciglio confuso e si avvicinò a Morris. «Spiegati meglio.»
Il giovane scienziato inspirò profondamente prima di parlare. «Non l’ho detto a nessuno perché mi sembrava doveroso dirlo prima a lei.»
«Dirmi cosa?» insistette. «Vai al punto.»
Morris tirò fuori il suo palmare e lo diede al professore, che subito glielo tolse di mano. «I valori sono in continua crescita.» disse il primo. «Shadow è altamente instabile.»
Gerald scosse lentamente la testa preoccupato. Proprio come aveva detto il suo assistente, ogni valore era pericolosamente troppo alto. In poche parole, era un pericolo. «Come è potuto succedere? Dove abbiamo sbagliato? Eppure sembra…»
«L’apparenza inganna, professore. Credo sia il caso di andarlo a prendere.»
 
«Salve, signorina Maria! È suo nonno che la porta qui?»
«Janet, ti ho già detto di smetterla con questa signorina! Devi solo chiamarmi Maria, hai capito?»
La ragazza allargò uno smagliante sorriso, mostrando con orgoglio i fili metallici del suo apparecchio. «Va bene, come vuoi. Cosa posso fare per te?»
Gli occhi color nocciola di Janet erano concentrati sull’espressione sbarazzina della bambina in cerca della cioccolata calda, ma qualcosa la indusse a spostare il suo sguardo per guardare dietro la schiena della piccola. Aveva visto una testa rossa e nera che cercava invano di nascondersi. «Ehi, chi è il tuo nuovo amichetto?» chiese sistemandosi una ciocca di capelli rossi.
«Oh, si chiama Shadow!» malgrado la resistenza del riccio, Maria riuscì a mostrare alla cuoca dell’ARK il timido riccio bicolore.
Janet rimase sorpresa alla vista della creatura antropomorfa, ma si intenerì davanti alla timidezza di quest’ultima. «Ciao,piccolo» disse mostrando di nuovo il suo sorriso argentato. «Siete venuti qui per la cioccolata calda speciale, vero?»
Shadow venne spinto leggermente da Maria, costringendolo così ad avvicinarsi al bancone. Per quanto gli fosse possibile, il riccio poté vedere del movimento dietro ad esso. Donne e uomini che si scambiavano padelle e piatti, comunicando con vari gesti e semplici occhiate. Il suo piccolo naso percepì così tanti odori, che non sapeva distinguere quali fossero quelli buoni e quali quelli cattivi.
«Abbiamo avuto un permesso speciale dal nonno!»
Janet ridacchiò. «Lo sospettavo. Datemi qualche minuto e saranno pronte. Hai ancora il comunicatore d’emergenza?»
«Certo!» Maria frugò nella tasca del suo vestito e vi tirò fuori un piccolo comunicatore da polso che il nonno le diede per precauzione. «Ce l’ho sempre con me!»
«Perfetto! Allora ti chiamo appena saranno pronte!»
«Grazie, Janet! Sei sempre la migliore! Forza, Shadow! Di’ ciao a Janet.»
Shadow si lasciò guidare da Maria e la imitò. «Ciao» disse privo di espressione.
«Oh, allora parli! Bene! Qualcuno si è guadagnato panna extra.»
Salutata per l’ultima volta la ragazza, Maria e Shadow si allontanarono dalla cucina per camminare un po’, in attesa della cioccolata. Dopo un po’ la bambina si accorse che il suo fratellino camminava scalzo. «Shadow, tu non hai freddo?»
Silenzio e incomprensione.
«Freddo. Hai presente? Quando fai così» Maria iniziò a strofinarsi le braccia e a battere i denti.
Shadow rimase a guardarla, senza capire.
«Credo che avremo molto lavoro da fare, mio caro Shadow.»
Cogliendo alla sprovvista Maria, Shadow iniziò a correre per raggiungere una strana luce che lo attirò. Girato l’angolo del lungo corridoio milioni di luci lo invitarono ad avvicinarsi al vetro. Erano le stelle, che annegavano in un lago nero che era lo spazio. In mezzo ad esso c'era il maestoso pianeta Terra, ciò che interessava maggiormente al riccio ebano. Tutto quell’azzurro, quel bianco e quel verde li trovava uno spettacolo affascinante, per non parlare della sua perfetta forma sferica.
«Ti piace? Si chiama Terra» gli disse Maria appena lo raggiunse. «È il pianeta da cui io e il nonno veniamo.»
«Maria. Nonno. Terra» sussurrò Shadow appoggiando le mani sul vetro.
«Esatto. È un bel posto, sai? Chissà, magari un giorno potremo andarci insieme!»
Gli occhi di Shadow si persero in quei colori brillanti del tutto nuovi per lui. La curiosità di sapere di più sulla Teha (così aveva capito), lo spingeva a tirare la manica del vestito della piccola amica e a picchiare con un indice il vetro in direzione di essa.
«Vedo che ti interessa molto, eh? Magari dopo la cioccolata ti racconterò un po’ di cose!»
Un suono acuto avvisò Maria che Janet la stava chiamando. «Che tempismo! Aspettami qui, Shadow! Vado a prendere le cioccolate e torno!»
Ancora incantato da quell’arcana bellezza, Shadow si limitò ad annuire, senza preoccuparsi dell’assenza di Maria, ma non appena non avvertì la presenza dell’amica, scosse la testa confuso.
Il povero riccio si era ritrovato improvvisamente solo in quell’enorme stanza cilindrica.

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Shadow si avvicinò al vetro e spostò con una manata uno spesso strato di polvere, lasciando così filtrare una tenue luce azzurra. Ed eccola là: la Terra, pianeta che più di cinquant’anni orsono aveva suscitato in lui un’imbarazzante stupore che preferiva dimenticare.
«Così questo è il cuore dell’ARK?» chiese Sonic guardandosi attorno. «Poco polveroso, eh?»
«Non è il cuore» gli rispose il nero. «Siamo arrivati semplicemente nell’Osservatore.»
«Osservatore?»
Annuì. «È così che Maria lo chiamava.»
«Oh, è da qui che vedevate la Terra?»
Shadow squadrò Sonic in silenzio.
«Che c’è?»
«A volte la tua perspicacia mi spaventa. Ero convinto che fosse Miles quello intelligente.»
«Frena un attimo. Che cosa hai appena detto?» domandò Sonic malizioso.
Shadow sospirò.«Ho detto che pensavo fosse Miles quello intel-…»
«Non quello. Prima.» canticchiò l’altro.
Alzato un sopracciglio, il riccio bicolore capì dove il blu volesse andare a parare. «Scordatelo.» disse grave.
Sonic ridacchiò. «Per me è più che sufficiente.»
I due ricci superarono l’intera stanza per raggiungere l’ennesimo corridoio. Rispetto agli altri il pavimento era immacolato, senza alcuno scomodo ostacolo che li impedisse di camminare.
«Allora, Shadow? Ti è venuto in mente qualcosa? Hai presente…»
«Sai, Sonic? Fai troppe domande, ultimamente» lo rimproverò Shadow.
«Io non faccio domande! Io sono solo…»
«Preoccupato? Si era capito.»
Più continuavano a camminare, più i ricordi di Shadow diventavano nitidi, quasi come se li potesse rivivere di persona. Ad ogni passo la sua mente ritornava a quel giorno in cui Maria l’aveva momentaneamente lasciato da solo, a quelle terribili emozioni che a quel tempo non sapeva cosa fossero e all’unica soluzione che era riuscito a trovare: entrare da una porta che era simile a quella della stanza di Maria.

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«Maria!» chiamarono all’unisono Gerald e Morris, appena videro la bambina nei pressi della cucina.
«Nonno?» chiese la piccola sorpresa. «Che ci fai qui? Credevo avessi un affare importante da sbrigare.»
«Oh, sì. Sto facendo una cosa molto importante, ma mi serve Shadow.» il professore si guardò attorno. «Dov’è Shadow?»
«Gli ho detto di aspettarmi all’Osservatore, così potevo venire a prendere le ciocc-…»
«Sciocca ragazzina!» urlò alterato Morris. «Come puoi lasciare da solo il progetto Shadow?!»
Maria sobbalzò leggermente, rischiando di far cadere le due tazze bollenti.
«Signor Bernett! Si controlli!» lo sgridò Janet irritata. «Maria rischiava di scottarsi!»
«Morris, non è il momento di fare l’isterico, ok? Dobbiamo pensare a Shadow.» Gerald si inginocchiò davanti alla nipote per tranquillizzarla.«Perdonalo Maria, ma è davvero urgente. Shadow ha bisogno di noi. Portaci da lui.»
Maria annuì con decisione e iniziò a correre, guidando i due scienziati, ma appena arrivarono all’Osservatore, la tenera immagine del riccio sorpreso non era più lì.
«Non è qui» disse a denti stretti Morris. «Il progetto Shadow non è qui, dannazione!»
«Ma era lì… Giuro che era lì, nonno! Stava ammirando tranquillo la Terra!» si giustificò Maria allarmata. «Io lo giuro… Nonno.»
«Maria, adesso calmati. Non può essere andato lontano. Dobbiamo assolutamente cercarlo. Ne va della sua salute.»
La bambina tirò su col naso. «Shadow è malato? Ma avevi detto che stava bene.»
«Be’, purtroppo mi sono sbagliato, tesoro. Lo devo ancora curare. Capisci, vero?»
Maria annuì senza pensarci due volte. «Allora cerchiamolo.»
Poiché solo due corridoi portavano all’Osservatore, l’unica ed ovvia soluzione era che Shadow fosse entrato nel corridoio da cui Maria, Morris e Gerald non erano usciti. I Robotnik chiamarono Shadow a squarciagola, mentre Morris si affidò solo all’osservazione acuta, che gli servì per inquadrare una porta aperta a cento metri di distanza da lui. «Credo di averlo trovato!» urlò.
I tre entrarono senza indugio, affaticati, mentre Shadow era seduto su una pila di libri, con in mano il secondo volume di un romanzo d’avventura.
«Shadow! Per fortuna sei qui!» disse sollevata Maria. «Ti avevo detto di aspettarmi all’Osservatore. Mi hai spaventata.»
«Maria!» disse entusiasta il riccio, che subito si precipitò dalla bambina per abbracciarla. «Perdonami, Maria. Non volevo spaventarti.»
Ammutoliti. Se pur Maria e Gerald l’avessero già sentito parlare, sentirlo pronunciare con voce chiara e alla perfezione una frase li lasciò letteralmente senza parole. Per non parlare di Morris, che non trovava nemmeno la forza di essere arrabbiato.
«Shadow? Tu… cos’hai detto?» tentò Maria.
«Scusa sei ti ho spaventato. Avevo solo… paura. Allora sono corso via.» parlò di nuovo la Forma di Vita Definitiva.
«Shadow, lo sai cosa stai facendo, vero?» provò di nuovo Maria.
Vedendo Maria di nuovo sorpresa, Shadow si intristì, convinto di non aver fatto la cosa giusta.«Non capisco. Sto sbagliando qualcosa? Credevo che leggendo avrei potuto…»
«Leggendo? Tu stavi leggendo?» si avvicinò Gerald.
Il riccio annuì. «Pensavo di trovare la stanza di Maria, ma mi sono ritrovato qui.» indicò le cinque enormi librerie. «Pensavo che leggendo tutti questi libri avrei potuto parlare. Proprio come volevate voi. Nonno e Maria.»
«Ma… ma questo…» iniziò il professore, ancora sconvolto. «questo è…»
«Impossibile.» finì Morris, camminando verso Shadow. «Vuoi forse farmi credere che tu hai letto ogni singolo libro della biblioteca privata del professore, eh? In così poco tempo?»
«Sì, Morris.» rispose aggressivo Shadow. «Ho letto tutti e 527 libri presenti in questa stanza.»
Umano e intelligenza artificiale si scambiarono degli sguardi minacciosi, ma senza lasciarsi impietosire. Morris aveva trovato il suo degno avversario.
«Tu, piccolo topastro. Vedi di abbassare la cresta oppure te ne pentirai amaram-…»
L’espressione si addolcì, la rabbia venne sostituita da una piacevole sensazione di calore e un profumo dolce calmarono la creatura iraconda. Maria si era gettata al collo di Shadow per abbracciarlo. «Pensavo che avrei dovuto aspettare molto e invece… finalmente possiamo parlare!»
Sebbene Shadow ormai sapesse parlare, in quel momento si ritrovò impreparato. Il battito del cuore e il respiro della sua piccola amica, gli impedivano di agire come voleva e perciò si limitò a ricambiare quell’affettuoso abbraccio.
«Incredibile.»
Sentita la voce del dottor Robotnik, Maria e Shadow si voltarono verso di lui, ammirando il suo sorriso soddisfatto.
«Quello che stavo per dire era incredibile, per l’ennesima volta. Ragazzo mio, sei un vero e proprio pozzo di sorprese.» ridacchiò l’uomo.
«Pozzo di sorprese… l’ho letto in un libro. Significa che non se lo aspettava?» chiese insicuro il riccio.
«Precisamente.» Gerald appoggiò le mani sulle spalle della sua creatura. «Ora ho bisogno che tu venga con noi, Shadow. Sono davvero contento di quello che ho appena visto, ma dobbiamo assicurarci che tu stia veramente bene e soprattutto…» lanciò un’occhiata a Maria. «Che tu possa restare vicino a Maria.»
Shadow si voltò verso Maria. Quella bambina, così minuta e fragile, era rimasta al suo fianco per tutto il tempo. Lui lo sapeva. Percepiva perfettamente la sua presenza, anche se non era ancora cosciente, e l’idea che le potesse succedere qualcosa, o peggio, che lui stesso le potesse fare qualcosa, non se lo sarebbe mai perdonato. Ne era certo.
«Io... voglio proteggerla.» disse Shadow prendendola per mano. «Come lei ha protetto me. Io proteggerò lei.»
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
Chiedo umilmente scusa per il terribile ritardo. È passato più di un mese e sono riuscita ad aggiornare solo ora. Purtroppo non sono riuscita a scrivere durante le due settimane in cui sono stata nel mio paese (ho fatto veramente un sacco di cose e non ho avuto davvero il tempo), senza contare che al mio ritorno sono stata poco bene e perciò non ho avuto la forza di scrivere.
Ed eccoci qui. Al quarto capitolo. Finalmente Shadow parla e ha mostrato nuovamente la sua strabiliante capacità di apprendimento (chi non la vorrebbe, eh? )
Cercherò di essere la più attiva possibile!
A presto!
 
Cassandra

 

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Capitolo 5
*** Il 528° libro ***


Diversamente dal suo risveglio, Shadow appariva più tranquillo e consapevole di ciò che gli stavano facendo.  Si lasciò guidare per ritornare nella sua cella di contenimento, cosicché gli scienziati potessero iniziare ogni sorta di test.
«Non gli faranno del male, vero nonno?» chiese Maria aggrappata al camice dell’uomo.
«Stai tranquilla. Starà bene» la consolò lui con un tenero abbraccio.
Shadow venne inizialmente attraversato da una serie di scariche elettriche che poco per volta aumentavano di intensità. Solo dopo alla quindicesima iniziò a sentire qualcosa e quindi a comunicare una reazione da archiviare nei dati. Dopodiché, seguirono svariate scansioni, in cui il povero riccio dovette stare perfettamente immobile e infine fu la volta di un’ulteriore immersione nel liquido amniotico artificiale.
«Diminuite la densità» ordinò Gerald. «Non serve quella iniziale.»
La consistenza viscosa del liquido pareva sgradevole a Shadow, poiché la sua espressione si indurì all’istante appena la sua pelle andò a contatto con esso. Fortunatamente, non era necessario immergere anche la testa.
«Come mai dovete fare tutti questi test, nonno?»
«Per assicurarci che tutto sia nella norma, piccola mia. Come hai potuto vedere, ha imparato a fare molte cose in poche ore. Non voglio mentirti, ma… davvero non me lo aspettavo, perciò è meglio essere prudenti, onde evitare che accada ciò che è successo a Biolizard.»
L’idea che Shadow potesse finire come il precedente esperimento portò la piccola Maria a scuotere la testa. Shadow era diverso, non doveva, ma soprattutto non poteva assolutamente fare la fine dell’enorme salamandra. «No. Lui non verrà ibernato. Lui è perfetto.» disse Maria quasi arrabbiata.
Gerald sogghignò davanti alla determinazione della nipote, che molto probabilmente aveva preso dalla sua defunta madre. Ingenua, delicata e sensibile, ma che nel momento opportuno dimostrava uno spirito combattivo invidiabile. «Assomigli sempre di più a tua madre.» sorrise. Maria avvertì la mano del nonno accarezzarle i capelli e si voltò verso di lui. «Sono molto fiero di te.»
I due Robotnik si scambiarono due sorrisi malinconici: uno, perché negli occhi della bambina rivedeva la sua dolce nuora, mentre l’altro, perché sperava di non essere uno scomodo peso per il nonno e per tutti coloro che lavorano assiduamente nell’ARK.
«Nonno, stai bene?»
Il professore rimase così spiazzato dalla strana domanda della bambina, che finì col ridacchiare nervosamente. «Certo, Maria. Io sto bene. Perché me lo chiedi?»
Maria abbassò lo sguardo per riflettere. Presa la grande e rugosa mano del nonno disse:«Be’, non voglio che tu… che voi vi stanchiate troppo. Io… io lo so perché fate tutto questo e io…»
Gerald non poteva ascoltare oltre. Il suo cuore non avrebbe potuto reggere. Inginocchiatosi, abbracciò Maria con tutta la forza che aveva, costringendola a rimanere in silenzio e quindi a ricambiare l’abbraccio.
«Sto bene, tesorino. Davvero. Non ti devi preoccupare» le pizzicò le guance il professore. «Grazie.»
«Mi dispiace disturbarla, dottore» si intromise Stanford, intenerito da quella scena. «ma volevo avvertirla che i test sono terminati con successo.»
Sistematosi il camice, Gerald ritornò concentrato sulla sua creatura artificiale. «Ebbene? Come sono i valori ora?»
Stanford annuì. «Ora sono tutti ritornati nella norma. Le anomalie sono del tutto scomparse.»
«Bene. Era quello che volevo sentire.»
«Date le circostanze, abbiamo preparato un’incubatrice», riprese lo scienziato, «in modo tale da monitorare Shadow per un paio di giorni e…»
«Oh, non serve, Stanford. Ho già un’incubatrice.»
Stanford si tolse gli occhiali sorpreso. «Davvero? L’ha fatta portare nel suo studio?»
«No.» Gerald appoggiò le mani sulle spalle di Maria, confusa. «L’incubatrice è la stanza di Maria.»
Il povero scienziato rimase con la bocca aperta, senza parole. Gli era già stato difficile accettare che Maria potesse stare vicino ad un progetto delicato come Shadow durante il suo stato dormiente, ma lasciarlo persino restare al suo fianco dopo il suo risveglio gli sembrava troppo. «Dottore, detesto contraddirla, ma… non credo sia una buona idea.» disse il più delicato possibile.
«Se per contraddire intendi dare consigli, be’… allora sei perdonato. Grazie del consiglio, ma credo di sapere ciò che faccio» gli rispose tranquillo Gerald. «Mia nipote è totalmente in grado di gestire Shadow. Io ho fiducia in lei. E poi hanno già legato. Non c’è nulla di cui preoccuparsi.»
«Non è tanto la piccola Maria a preoccuparmi, ma… Shadow
Disgusto e paura. Maria riuscì perfettamente a percepirli nonostante Stanford si fosse impegnato a mascherarli. «Che cosa vuoi dire?» gli chiese la piccola visibilmente alterata. «Non credevo che lo odiassi anche tu, Stanford. Perché?»
«No! Io non lo odio assolutamente!» si giustificò. «È solo che…»
«Il piccolo Stanford ha paura» all’appello non poteva di certo mancare Morris, che entrando con la sua consueta arroganza attirò, come sempre, l’attenzione di tutti. «E oserei dire che ha più paura di quel topastro, che della salamandra da una tonnellata.»
Arrivato al limite della sopportazione, Stanford si avvicinò a Morris per prenderlo per il colletto della camicia, allarmando non poco i presenti.«Molto divertente, Morris. Si dà il caso che entrambi gli esperimenti sono un pericolo!» urlò. «Uno come il progetto Shadow dovrebbe restare rinchiuso! E non andare a zonzo per la Colonia Spaziale!»
«Stanford, caro. Ricordi che ti ho detto riguardo alle emozioni?» lo ammonì scherzosamente Morris. «Vedi di stare sereno e di darti una calmata. Non devi dare spettacolo.»
Per quanto odiassero ammetterlo, tutti, meno Stanford, rimasero in silenzio, sorpresi di vedere quello scienziato da tutti considerato il più calmo e diligente della squadra perdere il controllo.
Scioccato lui stesso per la sua condotta, si allontanò velocemente da Morris per poi sussurrare delle scuse confuse.
«Invece di dare di matto, fammi il piacere di contattare questi reparti e comunicare gli aggiornamenti. Ci riesci da solo?» disse ironico l’assistente pupillo.
Stanford gli strappò la cartella di mano e uscì tenendo la testa bassa.
«Nonno, che cosa è successo a Stanford?» domandò preoccupata Maria. «Lui non è mai stato così…»
«Non ne ho idea, tesoro. È stato inaspettato. Ma deduco sia normale. Dopotutto sono necessari nervi saldi per mandare avanti questo progetto.»
Gerald ricordava bene il giorno in cui scelse i membri della sua squadra. Ci vollero dei mesi, ma non fu di certo difficile scegliere al primo colpo Stanford Drew. Ciò di cui aveva bisogna era esperienza, ottime referenze, un buon lavoratore e con forza d’animo, cosa che il professore vide subito in Stanford.
Durante la creazione di Biolizard, Stanford aveva dimostrato tutte quelle qualità, fino alla fine. Così sembrava anche per il progetto Shadow, ma giorno dopo giorno, si potevano notare dei segni di cedimento, sebbene quasi impercettibili. Perlomeno, fino a quel giorno.
«Cosa che evidentemente non ha. Per questo ha avuto un crollo.» Morris scrollò le spalle con finta compassione, poi si sedette sulla postazione e iniziò ad armeggiare con leve e tastiere, senza guardare. «Come mi disse lei, professore, non è una cosa da tutti.»
Test terminati. Avviata sequenza di arresto. Così parlò una voce elettronica.
«Bene, principessina. Puoi pure andare a prendere il tuo cagnolino.»
Maria lo squadrò senza ricambiare quel disgustoso sorrisetto che aveva l’uomo. All’apertura delle porte, corse subito alla soglia, per accogliere Shadow.
«Maria!» salutò Shadow alla vista dell’amica.
«Shadow!»
I due erano pronti ad abbracciarsi , ma il solo tocco leggero della bambina sul riccio, fece grugnire di dolore quest’ultimo.
«Shadow, va tutto bene?» chiese Maria indietreggiando.
«Sì, non ti preoccupare» rispose sorridendo, sofferente. «Fra poco starò bene.»
I bisbigli tra gli scienziati non tardarono ad arrivare. C’era chi rimase affascinato dalla straordinaria capacità della creatura artificiale e chi invece ne era sorpresa, quasi spaventato.
«Sì, Maria. Te lo confermo anche io. Ho dovuto fare questi test a malincuore, ma prometto che non saranno più necessari» disse Gerald di conforto. «Devo solo verificare un’ultima cosa.»
«Gli farà male?» domandò la bambina sulla difensiva.
«Assolutamente no» con un semplice gesto della mano, Morris si avvicinò con un paio di scarpe rosse, enre e bianche e un paio di guanti dai medesimi colori.
«Che cosa sono?»
«Dei regali per Shadow, mia cara.» ringraziato l’assistente, il professore li porse alla creatura bicolore. «Leggere 527 libri e saper parlare non sono le sole capacità che ti rendono speciale.» gli sorrise facendo l’occhiolino.
Shadow esitò nel prendere i doni del suo creatore. Sebbene all’apparenza parevano pesanti, in realtà erano incredibilmente leggeri. «Non capisco. Di che capacità parla?» chiese il riccio, confuso.
«Vieni con me e lo scoprirai.»
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L’Osservatore non era l’unica stanza impolverata. Anche la biblioteca da cui i due ricci erano entrati era del tutto trascurata, compreso tutto ciò che c’era al suo interno. Senza contare l’odore della carta ammuffita che la invadeva. Soffocante.
«Quindi hai letto tutti questi libri?» chiese Sonic avvicinandosi ad una libreria di legno. Arricciò il naso appena vide sollevarsi uno strato di polvere sotto il suo respiro. «Tutti e 527?»
Shadow sospirò annoiato. «Quante volte te lo devo ripetere! Sì, li ho letti subito dopo la mia creazione.»
«Nascita.»
Il nero fulminò con lo sguardo il blu.
«Senti, dalle mie parti creazione si usa per una macchina o comunque qualcosa di non organico»
Shadow rimase a fissarlo impassibile.
«Non mi dire che…», iniziò Sonic, «sei una macchina?!»
«E poi critichi le mie freddure» rispose l’altro roteando gli occhi.
«Almeno lo ammetti che lo sono.»
«Piantala. E comunque sai bene che ho distrutto tutti gli androidi a mia immagine e somiglianza.»
Sonic alzò le mani in segno di arresa e disse:«Touché.»
«Mi stupisce che tu sapessi quel termine.»
«Merito di Tails.»
«Lo sospettavo.»
I due ricci continuarono a camminare per la stanza alla ricerca dell’ignoto, poiché Shadow ancora non aveva compreso quell’improvviso viaggio nel tempo e nello spazio. L’unica cosa che aveva intuito era un inaspettato ripercorrere del suo passato un tempo perduto. O dimenticato.
«Posso dire una cosa, Shadow?»
«Purché sia una cosa intelligente.»
«Oh, lo è eccome. Credo.»
«Spara.»
Sonic prese il primo libro che gli capitò a tiro e iniziò a sfogliarlo. La copertina rigida blu lo aveva attirato. «Sai, ho come la sensazione che ti stia conoscendo meglio ora, che su Mobius.»
Shadow innalzò un sopracciglio perplesso.«Non ti seguo. Rouge ti avrà sicuramente raccontato di me.»
«Sì, certo. In base alle informazioni di cui disponeva Eggy. Ovvero poco e niente. Ciò che intendo dire è che è la prima volta che scopro questo… lato di te.»
Continuando ad essere confuso, Shadow lasciò che il suo silenzio lo comunicasse al suo rivale.
«Oh, andiamo Shadow. Non farmelo dire…»
«Dire cosa? Sei tu quello che mi deve dire qualcosa.»
«Il posto da cui sei nato, l’Osservatore, la cioccolata, la libreria e il 528° libro. Cosa ti fanno venire in mente queste cose?»
Shadow era pronto a riformulare la domanda più aggressivo, ma qualcosa lo bloccò all’istante. «Che cosa hai detto?»
Sonic si portò una mano al viso. «Il posto da cui sei nato, l’Osservatore, la cioc-…»
«Non quelli. L’ultima cosa. Che intendi con 528° libro?»
D’impulso Sonic allargò leggermente un sorriso e indicò con gli occhi la scrivania. Su quest’ultima la polvere non mancava, ma fu un libro dalla copertina rigida nera e rossa a spiccare nel campo visivo del riccio ebano. Un libro che non ricordava assolutamente di aver letto.
«Sei assolutamente sicuro che tutti i libri negli scaffali siano 527?» domandò il riccio blu.
Annuì. «Li ho ricontati appena rientrati qui.»
«Esibizionista.»
«Ma quello… non l’ho mai visto. Come ho fatto a non accorgermene?»
«Eri troppo preso a cercare una risposta a questo tragico viaggio.» Sonic si avvicinò alla scrivania e prese in mano il misterioso libro bicolore. «Inconsapevole del fatto che ce l’avevi davanti agli occhi praticamente da sempre.»
Shadow fissò a lungo l’oggetto e spalancò gli occhi, incredulo. «No… non è possibile.» bisbigliò.
«Cosa? Lo hai riconosciuto?»
Shadow prese al volo il libro e iniziò a rimuovere la polvere e, con grande sorpresa dei due, la verità su di esso venne a galla. Non si trattava di un libro, bensì di una scatola rivestita di velluto.
«Oh, la polvere mi ha ingannato» sogghignò Sonic. «Che c’è dentro?»
Ignorando il blu, Shadow si apprestò a sollevare il coperchio forzando la piccola serratura con facilità. Al suo interno vi era il dischetto di una registrazione olografica. Per Shadow, così recitava la scritta rossa su di esso. Era la calligrafia di Maria.
Maria. Shadow si maledisse più volte in silenzio e digrignando i denti dalla rabbia. Aveva stupidamente compreso la ragione del suo ritorno alla Colonia Spaziale ARK.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
Vorrei innanzi tutto ringraziare a tutti per i complimenti che ho ricevuto in merito a questo storia. Ammetto che non mi aspettavo che a qualcuno sarebbe piaciuta davvero  questa storia (Ebbene sì, non ho molta fiducia in me stessa XD ahia!), ma sapere ciò mi da la forza di continuare e di migliorare! Davvero grazie!
Non so quanti capitoli avrà in tutto. Ma non penso più di 15 (ho sparato un numero). Tutto dipenderà dalle modifiche che io do man mano che scrivo.
Ecco il quinto capitolo, che spero vi sia piaciuto come i precedenti. Ormai le cose si stanno facendo sempre più interessanti e le parti “fighe” che avevo in mente stanno per arrivare! :D *urla dalla felicità*
Detto questo, ci vediamo, spero molto presto, alla prossima!
Baci!
 
Cassandra 

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Capitolo 6
*** Black Blood ***


La piccola Maria faticava a seguire la scia che scorrazzava per tutta la stanza. Ai suoi occhi quest’ultima appariva come un grosso pacco regalo azzurro decorato con chilometri di nastro rosso. «Ma è velocissimo! Come fa?!» urlò entusiasta appoggiando le mani sul vetro.
«La velocità è nel suo DNA, piccola mia» le rispose Gerald soddisfatto. «E con quelle scarpe lo è ancora di più.»
«Sta volando, nonno! Shadow vola!»
Pavimento, pareti e soffitto. Capito ormai come utilizzare i piccoli propulsori disposti nella suola, Shadow sfruttò al meglio ogni tipo di superficie, finendo anche con imparare a levitare per qualche secondo. Era come se li potesse controllare con la semplice forza del pensiero. Praticamente senza alcuno sforzo.
Si sentiva grosso modo a suo agio. Non immaginava di avere una simile capacità, cosa che non gli dispiaceva per niente. Più prendeva velocità, più si divertiva e si sentiva… libero.
«Sembra felice! Gli piace correre!» affermò Maria con convinzione.
«Oh, assolutamente» annuì Gerald.
«Ma tu lo sapevi che lo poteva fare?»
«Certo. È la capacità che maggiormente mi aspettavo di vedere.»
«Professore, credo che così possa bastare» disse Morris.
«Perfetto. Allora fermate tutto.»
Notate le porte aperte, Shadow scese con uno slancio dal soffitto e si fiondò per uscire. In un attimo si ritrovò davanti ad una Maria piacevolmente sorpresa.
«Oggi non smetti di stupirmi! Sei… sei… non lo so!» lo accolse la bambina sorridente.
Shadow rispose a quell’inaspettato entusiasmo con un’espressione confusa. «Lo credi davvero? Sono andato bene?»
«Sei stato fortissimo! Andavi così veloce che non riuscivo a seguirti! È un’abilità formidabile!»
«Concordo con Maria» Gerald si avvicinò al riccio inginocchiandosi. Era piacevolmente soddisfatto del risultato. «Formidabile davvero.»
Shadow si sentì incredibilmente leggero. Quelle parole lo avevano reso in un certo senso… felice. Tuttavia, non era ancora convinto di star facendo la cosa giusta. «Grazie» rispose semplicemente.
«Per oggi abbiamo finito di tormentarti con tutti questi test» lo scienziato si avvicinò alla sua creatura per darle due belle pacche sulla spalla. «Sono fiero di te, figliolo. Ora puoi riposarti.»
«No! Io e Shadow dobbiamo ancora bere la nostra cioccolata calda!» si intromise Maria.
Lo scienziato ridacchiò divertito. «Hai ragione, piccola mia. Non siete ancora riusciti a bere la vostra cioccolata» allo schiocco della dita di Gerald, una giovane assistente si avvicinò sorridente con un vassoio. Su quest’ultimo c’erano due belle tazze fumanti di cioccolata con una generosa spruzzata di panna. «Per questo ho provveduto personalmente. »
«Ecco a voi» disse la donna allungando ai piccoli fratelli le tazze.
«Grazie mille, nonno! Ci voleva proprio!» disse entusiasta la bambina, già pronta a gustarsi la bevanda dolce.
«Attenta, Maria. È bollente.»
«Lo so, nonno! Stai tranquillo!»
Shadow osservò la felicità con cui Maria soffiava sulla tazza, impaziente. Lui invece lasciò che le sue mani percepissero il calore e che il suo naso riconoscesse l’odore. Gli era difficile spiegare cosa sentisse o provasse. Dolcezza o amarezza? Felicità o sdegno? Pur avendo letto tutte quelle emozioni sui libri del suo creatore, il riccio non riusciva ad esprimere nessuna di esse.
«Shadow, che cosa aspetti? Se si raffredda non è più buona» lo incitò Gerald, accortasi che Shadow non beveva.
«Ok» Shadow si avvicinò la tazza alla bocca. Capì subito che quest’ultima era nettamente più sensibile rispetto alle mani, perciò agì lentamente e, non appena la sua lingua andò a contatto con l’intruglio marrone, qualcosa di inaspettato scattò in lui.
«Allora, Shadow? Ti piace?» chiese Maria, che intanto si leccava le labbra. «Buona, vero?»
Shadow fece girare nella bocca il sorso, ma nonostante lo facesse passare ovunque, quella strana sensazione rimaneva sempre sulla punta della lingua. Alla fine, deglutì deciso. «È… È…» iniziò insicuro e alquanto sorpreso. «È… buono.»
I due Robotnik si scambiarono due smaglianti sorrisi.
«È buono. Ma com’è possibile?» Shadow sorseggiò per la seconda,la terza e quarta volta, finché non finì completamente la cioccolata. Panna compresa. «Come mai mi piace? È per via della panna?»
«Shadow, figliolo, ti piace perché è dolce» gli rispose allegro Gerald. «È piacevole, vero?»
Shadow fissò assorto il fondo della tazza vuota. Così quella era la dolcezza, pensò.«Sì. È piacevole.»
«E aspetta di assaggiare anche il salato!» disse Maria. «Stasera ti divertirai!»
«Stasera?»
«Colazione, pranzo e cena. Sono tre pasti importanti per noi esseri viventi» riprese Gerald.
«La cioccolata che cos’era?»
«Di solito la chiamiamo merenda, ma in questo caso è più uno strappo alla regola.»
Ricevuto un occhiolino dal nonno, Maria gli sorrise imbarazzata.
«Bene. Ora i grandi purtroppo devono parlare di cose da grandi, perciò ragazzi miei, dovete andare.»
Maria annuì e, lasciata sul vassoio la tazza vuota, prese per mano Shadow. «Dai, Shadow! Andiamo in camera mia! Abbiamo tutto il tempo per parlare, finalmente!» disse con gli occhi che ridevano.
Shadow imitò la bambina e le prese l’altra mano libera, sorridendo. Le sue piccole mani, così delicate al tatto del riccio, parevano più calde della sua prima cioccolata. Non era un calore che gradualmente diventava sgradevole, bensì un calore costante che si espandeva in tutto il suo corpo fino alla punta delle sue orecchie. Sì, poteva dirlo. Era felice. Felice di poter stare ufficialmente accanto alla sua Maria. «Sì, Maria. Finalmente.»

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Shadow non trattene la sua forza quando sbatté Sonic contro la libreria. Quest’ultimo, si ritrovò con un dolore lancinante alla spalla, la polvere nei polmoni e lividi provocati dai grossi libri che gli caddero addosso.
«Shad! Sei matto?! Che ti prende?!» chiese il riccio blu ancora intrappolato.
«Come diamine facevi a sapere che era di Maria, eh?» ringhiò il riccio nero. «Mi nascondi qualcosa, impostore?!»
«Nascondere? Come faccio a nascondere qualcosa se è la prima volta che entro in questa stanza?!» Sonic tentò di liberarsi dalla presa di Shadow. Sapeva che il riccio rivale era forte, lo aveva provato sulla sua pelle svariate volte, ma quella fu la prima volta che testò la sua forza guidata dalla rabbia. Pericoloso, fu tutto ciò che riuscì a pensare mentre sentiva il collo pulsare sotto la mano del nero. «Shadow, ragiona!»
Al richiamo del blu, Shadow lo lasciò andare, quasi confuso.
«Quando vuoi impazzisci, eh? Dov’è finita la tua maschera di ferro?» domandò ironico Sonic, massaggiandosi il collo dolorante.
«È colpa tua!» si giustificò alla svelta Shadow. «Dovevi… avvisarmi.»
Sonic alzò un sopracciglio, esprimendo la sua incomprensione, ma anche un inaspettato divertimento. «Come, scusa? Avvisarti? E di cosa, sapientone?»
Shadow si girò incrociando le braccia, ma soprattutto cercando di nascondere il suo imbarazzo. Mai avrebbe pensato che in una situazione del genere avrebbe potuto perdere il controllo, ma soprattutto che si sarebbe giustificato in quel modo. Decisamente vergognoso, pensò.
«Be’, perlomeno posso dire che sei normale» disse Sonic ridacchiando.
«Scusa, che vuoi dire?»
«Ah, lascia perdere. Guarda il dorso della scatola.»
Il riccio bicolore obbedì e lesse ad alta voce:«MR . Ovvero… Maria Robotnik.»
«Esatto. Mentre esaminavamo la stanza la scatola era piena di polvere e pensavo fosse un libro. Anzi, il diario di Maria avendo visto le iniziali.»
Shadow annuì avendo le idee più chiare. «Ora capisco.»
«Bene, scuse accettate. Alla fine la scatola conteneva un regalo da parte di Maria, perciò mi sembra chiaro il motivo per cui siamo qua.»
I due ricci antropomorfi si guardarono negli occhi, finché Sonic non parlò. «Che cosa successe cinquant’anni fa?»
Shadow abbassò lo sguardo sulla scatola. Con un indice passò sulle due lettere dorate, ripetendo nella sua testa il nome e il cognome della sua piccola amica. Immagini piacevoli di lui e lei che ridevano e scherzavano gli passarono davanti, ma vennero ben presto soffocate dalle fiamme e dalla disperazione della bambina che lo chiamava in lacrime.
«No» disse con la voce strozzata. «No...» ripeté a denti stretti.
«Shadow? Tutto bene?»
Inspirato profondamente, Shadow non rispose alla preoccupazione di Sonic e fece per uscire dalla stanza. «Se vogliamo sapere cosa c’è nel messaggio, dobbiamo spostarci in un’altra stanza. Ti va di proseguire o ti vuoi riposare ancora?»
Sonic sogghignò dimenticandosi della sua ennesima apprensione e scosse la testa. «Andiamo.»

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«Tutto ciò di cui ho bisogno è solo una risposta a questa domanda…» Gerald si portò le mani dietro la schiena e si concentrò sulle immagini di Shadow registrate durante i test, tutte accompagnate dai vari grafici e diagrammi che illustravano i valori con le relative percentuali. «Ora Shadow sta bene?»
«Guanti e scarpe hanno avuto fin da subito un impatto positivo su di lui» iniziò Morris. «Sono riusciti a sostenere alla perfezione tutte le sue prestazioni, ma soprattutto la sua… »
«Bene, per me è più che sufficiente» il professore si avvicinò alla postazione principale per spegnere apparecchiature e monitor. «Signore e signori, per oggi abbiamo finito. Potete pure congedarvi» annunciò. «Ci vediamo domani.»
L’intero staff presente in laboratorio accolse le parole del professore confuso e sorpreso, ma applaudì ugualmente, prima di uscire bisbigliando.
Alla chiusura delle porte, le uniche due persone rimase furono Gerald e Morris, che rimasero in silenzio, in attesa che i passi si allontanassero.
«Non ho alcuna intenzione di chiedere spiegazioni» parlò l’assistente.
«Però lo vorresti» ridacchiò lo scienziato aggiustandosi gli occhiali. «Perché non lo fai?»
«Professore, quando mi diede la possibilità di lavorare per lei la prima cosa che mi chiese fu di non fare domande riguardanti l’esperimento. O almeno, di non fare domande riguardanti il BB
Gerald si girò di scatto, serio e leggermente irritato. «Come fai a dirlo con così tanta leggerezza?»
«Perché non so di cosa si tratta e non so perché la spaventa tanto parlarne» rispose Morris sincero. «Tutto ciò che so è che lei ci fa analizzare questa misteriosa sostanza, ci chiede di tenerla sotto controllo, ma senza rivelarci la sua provenienza.»
Gerald si avvicinò ad una postazione e si sedette. «E allora cosa vuoi che faccia?»
Morris fece lo stesso. «Le voci girano, professore, e non sono affatto belle. Non potrà nasconderlo per sempre. Prima o poi la verità verrà fuori» sospirò. «Qualunque cosa sia.»
Gerald soffocò una risata alzandosi dalla sedia. «E dimmi, quali sarebbero queste voci?»
Morris alzò lo sguardo per poi riabbassarlo. «Ripeto. Non credo le gradirebbe.»
«In tal caso, ragazzo mio,» il professore arruffò la testa dell’assistente. «non mi interessa minimamente.» sorrise malinconico. «Lo sai, mi ricordi tanto mio figlio. Avete praticamente lo stesso carattere.»
Il giovane assistente arrossì lievemente. «Grazie… credo.»
«Solo senza la maschera che indossi. Ti sentiresti più leggero. Lo so che non sei così.»
Morris finse di sistemare la cartella dei dati e si alzò per dirigersi verso l’uscita. «Non so di cosa sta parlando. Io sono stato scelto per questa ricerca. La mia priorità e unicamente Shadow. Non ho tempo per altri secondi fini.»
«Preoccuparsi per un povero vecchio non è un secondo fine?» lo fermò Gerald alla porta.
«Ci vediamo domani mattina alle otto in punto al laboratorio D» e uscì.
Robotnik rimase in piedi con gli occhi fissi sulla porta, in attesa che anche i passi di Morris si dissolvessero. Assicuratosi di essere da solo, con un comando vocale bloccò la porta, affinché nessuno potesse entrare.
«Puoi anche uscire, ora. So che sei stato qui tutto il tempo» disse tranquillo, con lo sguardo rivolto verso l’alto.
Nessuna risposta.
«Volevi assicurarti che le cose andassero bene, giusto? Be’, come puoi vedere abbiamo bisogno di altro tempo.»
«Quanto tempo?» una voce grave fece trasalire il professore per quanto era forte, indietreggiando man mano che un’aura oscura si espandeva sul pavimento. Tutto ciò che era attorno a lui venne inghiottito da quell’innaturale mare nero, luci comprese, ma per sua grande sorpresa, risparmiò una mezzaluna per lui.
«A quanto pare lo spettacolo continua» continuò la voce divertita. «Cosa non ti convince ancora, professore
«È quasi tutto perfetto. Shadow ha già sviluppato delle grandi capacità.»
«Ma
«Ma… ho ancora bisogno del tuo sangue. Del tuo sangue nero.»
 
Shadow sussultò improvvisamente, spaventando Maria, che era immersa nella lettura.«Shadow! Che combini? Mi ha fatto perdere il segno!» disse la bambina ridacchiando.
«Scusami, Maria. Ho solo… avuto una strana sensazione.»
«Una strana sensazione?» chiese lei inarcando un sopracciglio. «La stessa sensazione che hai provato quando hai mangiato mezzo limone?»
Al solo pensiero di quel frutto all’apparenza invitante fece rabbrividire il povero riccio bicolore. Ricordare il sapore era persino peggio. «Ti prego, Maria. Non farmelo ricordare. Il pollo, le patate e le verdure erano veramente buoni, ma… il limone. Quel maledetto limone…»
Maria scoppiò involontariamente a ridere. Ne era certa, l’immagine dell’espressione del suo fratellino che combatteva con l’asprezza dell’agrume non l’avrebbe mai dimenticata. «Sei uno sciocchino! Non avresti dovuto mangiarlo tutto in un boccone!»
«Be’, se qualcuno mi avesse avvertito prima forse non lo avrei fatto» rispose lui stizzito.
«Va bene, lo ammetto. Volevo vedere la tua reazione» Maria tirò fuori la lingua scherzosamente.
«Ah sì? Vediamo come reagisci a questo!» approfittando della vulnerabilità di Maria, Shadow iniziò a farle il solletico sulla pancia, provocandole delle risate del tutto incontrollate.
«No, Shadow! Ti prego! Non respiro!» implorò lei con un sorriso alto fino agli zigomi.
«Non se ne parla! Questa è la mia vendetta!»
I due fratelli continuarono a divertirsi come non mai facendosi il solletico o lanciandosi cuscini a vicenda, ma ben presto quel gioco innocente finì nel momento in cui Maria sentì un dolore lancinante alla testa, che la portò ad inginocchiarsi sofferente.
«Maria!» urlò Shadow preoccupato e con il terrore negli occhi. «Maria! Va tutto bene? Che ti succede?!»
«Shadow… le pillole» disse lei con un filo di voce. «Nei… cassetti laggiù. Ti prego.»
Shadow sfrecciò subito alla scrivania. Con le mani che gli tremavano, aprì i cassetti e appena adocchiò un flaconcino arancione lo prese e lo portò a Maria.
«Quante?»
«Tre…»
Insostenibile per i suoi occhi, Shadow prese al volo una bottiglietta d’acqua e tirò fuori tre triangolini dal flaconcino.
Ancora in preda al dolore, Maria avvicinò piano una mano per prendere prima le pastiglie e poi l’acqua. L’effetto fu immediato. La fronte aggrottata si rilassò all’istante, il respiro tornò regolare e la paura svanì. «Caspita. Questo era forte» disse appena si riprese. «Ma per fortuna sto bene.»
Pur vedendola sorridere, Shadow non trovava la forza per farlo. Le sue orecchie erano abbassate e lo sguardo perso in quel sorriso palesemente falso.
«Shadow, non guardarmi così. A volte mi succede, ma grazie a queste medicine poi tutto mi passa.»
«Da quanto tempo.»
«Come, scusa?»
Shadow appoggiò le mani su quelle di Maria. Quest’ultima le sentiva chiaramente tremare. «Da quanto tempo ti succede?» chiese di nuovo.
Maria abbassò lo sguardo e, forzando un sorriso, prese per mano il riccio. «Da sempre, Shadow. Mi succede da sempre.»
«Perché?»
«Be’, il nonno dice che ho un omino cattivo» la bambina si puntò un indice sulla tempia. «Proprio qui.»
«Un… omino?»
Annuì. «Il nonno dice che si chiama NIDS. E questo piccoletto si diverte nel mio corpo. Ogni tanto mi gioca qualche scherzetto e mi fa sentire debole, mi fa ammalare o, come adesso, mi urla nella testa.»
Shadow rimase in silenzio, si sentiva terribilmente in colpa ed era impaurito. Le aveva promesso che l’avrebbe protetta e invece… non era neanche passato un giorno e già aveva rischiato di perderla.
«Cattivo NIDS!» urlò Maria picchiettandosi leggermente la tempia e attirando l’attenzione di Shadow. «Guarda che cosa hai fatto! Hai rattristato Shadow! Fai di me ciò che vuoi, ma lascialo stare, ok?»
«Maria?»
Maria prese tra le mani la testa di Shadow e vi stampò sulla fronte un lungo bacio. Il calore delle sue labbra rilassò inaspettatamente il riccio. «Stai tranquillo. Ho detto a NIDS di fare il bravo. Così tu non ti preoccuperai più per me. Va bene?»
Tensione e paura si dissolsero quando Shadow incrociò gli occhi color del mare di Maria. No, non mentiva più . poteva veramente stare tranquillo.
«Va bene, Maria. Ti credo.»
«Bravo il mio Shadow! Che ne dici se andiamo a letto? Sarai stanco.»
«Ok. Ah, Maria.»
«Sì?»
Prima che potesse accorgersene, Maria si ritrovò tra le braccia di Shadow, che la stringeva forte a sé. I loro cuori battevano all’unisono. «Non ho più freddo, Maria.»
Maria ricambiò l’abbraccio, affondando il viso nel suo petto. Quel calore, così piacevole e rilassante, era lo stesso calore che lei percepì quando si avvicinò per la prima volta a lui. Quando finalmente divennero amici.
«Con te vicino, non ho più freddo.»
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
Un mese. Ho aggiornato dopo un mese. Non so cosa dire se non perdonatemi e mi posso giustificare solo con una parola: vacanze. Ebbene sì, alla fine sono stata ancora via e andrò ancora via fra qualche giorno per uno stage. Avete il permesso di picchiarmi se volete DX Ma eccoci qua, con un nuovo capitolo. Da qui in poi vi avverto che ci saranno lacrime *risata malefica*  o meglio… non so se piangerete, ma… lo spero davvero *altra risata malefica*
Scherzo ahahah non mi piace vedere la gente piangere, però aspettatevi delle scene strappalacrime.
Detto questo, scusatemi ancora per il terribile ritardo, vi ringrazio per la pazienza e ci vediamo alla prossima.
 
Baci,
 
Cassandra

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Capitolo 7
*** Il corridoio cremisi ***


Dal risveglio di Shadow, la Forma di Vita Definitva, passarono poco più di tre mesi. La vita sull’ARK non era mai stata così tranquilla. Sebbene l’ambiente fosse diventato più movimentato del solito, gli scienziati lavoravano sereni e rilassati, senza alcuna preoccupazione e, con la medesima calma, salutavano con piacere e sincero sollievo il riccio antropomorfo. Paura e tensione nei confronti di quest’ultimo erano ormai un mero ricordo.
«Buongiorno, Shadow. Dormito bene?»
Shadow alzò lo sguardo e accennò un sorriso. Era Kelly, scienziata di prim’ordine incaricata al laboratorio di sperimentazione. «Buongiorno, Kelly. Sì, ho dormito bene.»
La donna adocchiò la porta su cui il riccio era appoggiato. Era l’infermeria.«Aspetti Maria, dico bene?»
«Sì. Oggi ha una radiografia.»
Annuì. «Capisco.»
«Poi tocca a me.»
«Devi fare anche tu una radiografia?»
«Non lo so. Credo che saranno i soliti test» intravisto un progetto che Kelly teneva sottobraccio, Shadow venne attirato dalla strana forma cristallina dell’oggetto disegnato su di esso. Chaos Drive: così lesse il riccio. «Nuovi progetti in corso?» chiese Shadow, sorprendendo Kelly.
«Oh, sì. Non ci fermiamo mai. Tutto grazie al dottor Robotnik. Di questo passo raggiungeremo il nostro scopo senza problemi!» disse entusiasta la scienziata.
«Il professore è senza dubbio il migliore.»
«Professore? Da quando in qua mi chiami professore, giovanotto?»
Preso alla sprovvista, Shadow si allontanò dalla porta appena sentì lo scatto e alzò i pugni d’istinto, mentre Gerald uscì dalla porta allargando un sorriso e con le braccia dietro la schiena. «Ecco io…» iniziò il primo.
«Kelly, mi hanno comunicato che i documenti di tre giorni fa sono piuttosto urgenti. Ti conviene andare.»
«Oh, certo! Mi scusi, professore! Buona continuazione»  salutato con un inchino un po’ barcollante, si apprestò a raggiungere il suddetto laboratorio di cui lei era la responsabile.
«È un tipino molto timido, ma… è davvero in gamba» commentò annuendo Gerald. «L’unico suo difetto è la goffaggine, però non mi dispiace.»
«L’importante è come esegue le sue mansioni» puntualizzò Shadow incrociando le braccia. «Poco importa che abbia la camicia abbottonata male, una scarpa diversa dall’altra e i capelli ricci raccolti con una matita carboncino.»
Gerald alzò un sopracciglio sorridendo divertito. «Sei riuscito a notare tutti questi dettagli in meno di dieci minuti? Notevole.»
Shadow scrollò le spalle. «Non era così indeducibile.»
«Shadow il detective ha colpito di nuovo?» Maria uscì dalla stanza con le mani sui fianchi sogghignando divertita. «A Shadow Holmes non sfugge mai niente!» esultò puntando un dito contro il riccio.
«Shadow… Holmes? Che significa?»
«Te lo spiego quando avrai finito! Amerai Arthur Conan Doyle!»
«Va bene, dottoressa Watson. Puoi pure aspettare Shadow all’Osservatore. Non ci impiegheremo molto.»
«Va bene! Lestrade!» Maria corse ridendo prima che potesse sentire le proteste del vecchio professore.
«Che birbante» ridacchiò l’uomo. «La mia birbante.»
Senza smettere di sorridere, Gerald fece entrare Shadow nella stanza dell’infermeria, la stessa in cui il riccio venne liberato dalla cella. Entrambi seduti su un lettino, il professore iniziò le stesse procedure di quel giorno, ma aggiungendo altri test, tra cui l’esame del sangue e il prelievo di un altro campione di quest’ultimo.
«Bene. Battito cardiaco regolare. Ottima respirazione. Nessun problema alle articolazioni. Come ti trovi con le scarpe e i guanti, Shadow?»
«Bene, professore.»
Gerald smise di scrivere, attonito. «Ragazzo mio, perché continui a chiamarmi professore?»
Il nero evitò lo sguardo del suo creatore fingendo di sistemarsi un guanto. «Be’… mi sento più a mio agio. Tutto qui. Tecnicamente non siamo parenti. Non condividiamo lo stesso sangue.»
Un breve silenzio calò tra i due. Nel giro di quei mesi, Shadow aveva avuto modo di imparare quanto gli fosse possibile, finendo col capire determinate cose tra cui, appunto, il concetto di famiglia. Un argomento che lo toccò particolarmente, in quanto lui era una semplice creatura artificiale.
«Ma non mi fraintenda! Io considero lei e Maria delle persone molto importanti, ma… non credo di essere degno di far parte della vostra famiglia.»
Gerald si intenerì davanti all’innocenza della sua creatura. «Oh, Shadow. Ma non devi preoccuparti di certe cose. Io non ti obbligo assolutamente a chiamarmi nonno, ma l’importante è che tu sappia che noi ti vogliamo bene» il professore allargò un sorriso appoggiando le mani sulle spalle di Shadow. Quest'ultimo lo evitò di nuovo, insicuro.
«C’è qualcos’altro che ti preoccupa, vero?»
Shadow sgranò gli occhi. «Come fa a saperlo?»
«Elementare, mio caro Shadow Holmes. Tu sei un libro aperto per me. Avanti, che cosa ti preoccupa?»
Shadow si morse il labbro inferiore, insicuro.«Chi è veramente NIDS?» chiese diretto.
Quasi involontariamente, Gerald si alzò dal lettino e guardò sorpreso Shadow. «Da chi lo hai sentito?»
Shadow scese a sua volta, guardando finalmente negli occhi il professore. «Chi è veramente l’omino NIDS?»
Gerald si rilassò di punto in bianco e sbottò un sorriso di apparente sollievo. «Gli attacchi di Maria, dico bene? Si sono ripresentati.»
«Come fa a dirlo con così tanta leggerezza? Lei lo sapeva?»
«Certo che lo so, Shadow. Lei è qui a causa della… del piccolo NIDS.»
Il riccio bicolore si risedette. «Non è piccolo. Vero?»
Dissentì piano.«No. Purtroppo non lo è.»
«Maria è qui perché deve curarla da questo NIDS, vero? »
«Precisamente.»
Con qualche esitazione e paura, Shadow finalmente chiese:«E… ha trovato la cura?»
Lentamente quel sorriso di speranza svanì dal volto dello scienziato, seguito da un profondo sospiro, che allarmò non poco Shadow. «Ci sto ancora lavorando, Shadow. La cura è quasi nelle mie… nelle nostre mani. Ci siamo molto vicini.»
«E non potete trovarla più velocemente? Finora NIDS non ha più dato noia a Maria, ma se dovesse ritornare? Che dovrei fare?»
«Shadow, non è così facile. Noi non siamo veloci e perfetti come t-…»
«Io non sono perfetto, professore!» ruggì Shadow alterato. «Io non lo sono… Tutti me lo dicono qui dentro. Sono tutti convinti, ma la verità è che se mi dovessi ritrovare in quella situazione io non credo che…»
«Shadow, quel che successe quella sera in camera di Maria non fu colpa tua, credimi.»
Shadow si voltò verso il professore, confuso davanti al suo sorriso comprensivo. «Ma lei come… ?»
«Maria era molto preoccupata per te. Mi ha detto delle fitte alla testa una settimana dopo l’accaduto.»
Capita la situazione, Shadow si calmò abbassando nuovamente lo sguardo.
«Succede, figliolo. Non ti devi preoccupare.»
«Lei non si dovrebbe preoccupare per me» strinse i pugni con forza. «Sono io che dovrei prendermi cura di lei.»
Gerald sghignazzò divertito, mentre pose le fiale di vetro in una centrifuga. « Sai, è la stessa identica cosa che ha detto Maria quel giorno.»
Shadow lo seguì con lo sguardo rimanendo in silenzio.
«E sai cosa le ho risposto? Che voi dovete prendervi cura a vicenda, Shadow. Né più né meno.»
Riccio e umano lasciarono che il rumore della centrifuga riecheggiasse nella stanza per una trentina di secondi. Giusto il tempo che servì a Shadow per raccogliere il suo coraggio e quindi chiedere:«Me lo dica, professore. Qual è realmente il mio scopo?»
Senza voltarsi, Gerald mormorò delle cifre e rispose:«Sai, a volte le tue domande dirette mi spaventano.»
«E ogni volta cerca di evitarle.»
«Io non le evito, figliolo. Ti ho sempre risposto.»
«Ogni cosa ha il suo tempo non è una risposta» bisbigliò Shadow incrociando le braccia al petto. «Io ho il diritto di saperlo. Perché non me lo dice? Continua a dire che sono perfetto, ma anche che non sono pronto. Allora… che cosa sono?»
Appoggiati carta e penna, Gerald si avvicinò al riccio imbronciato. «Shadow. Il tuo momento arriverà, fidati di me. Ma per ora…», si voltò verso la porta,«il tuo compito è quello di stare accanto a Maria. Di essere suo fratello. È tutto ciò che posso dirti.»
Shadow sbuffò irritato.
«Puoi farlo. Vero, Shadow?»
Il riccio annuì senza esitazione. Gli occhi fissi in quelli di Gerald.«Ovvio, Professore. Maria è importante per me.»
 «Bene. Sei pronto? Oggi è il secondo giovedì del mese. Dopo questa iniezione sei libero per tutto il giorno.»
Shadow annuì riluttante, mentre il professore tirò fuori dalla tasca del camice una fiala contenente un viscoso liquido scuro. Istintivamente, il nero deglutì. Fra tutti i test che il suo creatore gli faceva ogni settimana, l’iniezione era l’unica che lo preoccupava maggiormente.
«Suvvia, Shadow. Non fa così male» lo consolò l’uomo.
«Non è il dolore a preoccuparmi, professore» spiegò Shadow tenendo d’occhio la fiala. L’etichetta recitava BB. «È che… mi da una strana sensazione.»
«Una strana sensazione?»
«Sì…»
«È l’effetto del medicinale, Shadow. Non c’è niente di cui preoccuparsi» rispose senza esitare lo scienziato, già pronto con la siringa. «Forza. Dammi il tuo braccio.»
 
Più si massaggiava il braccio, più quel formicolio aumentava. Fin dal giorno in cui Gerald iniziò quella serie di iniezioni, Shadow si sentiva terribilmente a disagio. Non le sopportava, specialmente nei primi giorni, poiché appena il misterioso intruglio viscoso gli entrava in circolo, quello iniziava a muoversi per tutto il corpo e lui lo percepiva benissimo. Senza contare che di notte, faticava a prendere sonno per causa sua.
Questo ti aiuterà ad essere più stabile, così gli aveva detto la prima volta lo scienziato, ma pur sapendolo, al riccio continuava a non piacere. Ma ciò che lo irritava più di quella sostanza, era la profonda delusione di non aver ricevuto, per l’ennesima volta, una risposta alle sue domande.
«Che fastidio…» bisbigliò a denti stretti. «Cosa gli costa rispondermi?»
«Che cosa ti da fastidio, Shadow?» Con le braccia dietro la schiena e il suo sguardo sbarazzino, Maria sorrise dolcemente al fratellino imbronciato.
Shadow rimosse alla svelta l’accaduto e sbottò un sorriso a Maria«Niente… le solite iniezioni.»
«Oh, capisco! Però ho notato che ultimamente non ti creano poi così tanti problemi. Le prime volte ti grattavi come se fossi stato punto da una zanzara!» la bambina finse di grattarsi sulle braccia.
«Zanzara? Quei piccoli insetti che mi hai fatto vedere lunedì scorso?»
«Esatto! La Terra ne è piena! Sono davvero fastidiose!»
Invitato da Maria, Shadow si avvicinò al vetro dell’Osservatore. La Terra. Ricordava bene la prima volta che la vide. Ne era rimasto davvero affascinato, ma ora che sapeva di cosa si trattava, non la trovava più così… speciale.
«È bella ogni giorno che passa» disse Maria malinconica. «È davvero stupenda.»
Shadow osservò il pianeta impassibile. «Ma Maria… non è cambiata affatto, invece. È sempre la stessa.»
La piccola scosse la testa, senza smettere di sorridere. «E invece lì sotto sta cambiando. Le persone cambiano. Ed è bellissimo.»
«Davvero?» il riccio bicolore appoggiò le mani sul vetro e continuò a fissare lo sferoide oblato, ma tutto ciò che vide furono le nuvole spostate di pochi millimetri. «Maria… io non vedo proprio nulla…»
«Per te è difficile capire, perché non sei mai stato sulla Terra. Sì, ti ho raccontato qualcosina che so, ma non tutto. Non sono brava come il nonno.»
«Oh… capisco…» disse Shadow un po’ deluso.
«Ricordi quello che ti dissi la prima volta che ti portai qua?» Maria prese per mano Shadow. «Che un giorno ci saremo andati insieme.»
Shadow annuì in silenzio, attorcigliando le sue dita a quelle dell’amica.
«Ma fino ad allora… ce l’hai!» Maria diede una pacca sulla testa di Shadow e si precipitò in mezzo alla stanza dell’Osservatore.
«Ce…l’ho? Che cosa?» domandò Shadow tastandosi il corpo.
«Il nonno mi aveva proibito di fare questo tipo di giochi, ma oggi ha detto che sono in forma! Perciò mi merito una bella corsetta! Chi viene preso deve rincorrere l’altro e viceversa!»
Shadow si guardò la mano.
«Però niente scarpe potenziate, chiaro? Se no bari!» Accompagnata dalle sue risate, Maria iniziò a correre.
«Maria! Aspetta!» Shadow fece lo stesso, attenendosi alle regole della bambina.
Le voci allegre dei due riecheggiavano tra gli immensi corridoi, attirando su di loro lo sguardo di chiunque fosse sulla loro strada, strappandogli un sorriso al loro passaggio.
«Avanti, Shadow! Non riesci a prendermi?»
«Se solo… potessi usare le mie scarpe!» disse Shadow tra un sospiro e l’altro.
«E invece non puoi!» gli rispose Maria facendogli la linguaccia.
Noncuranti del loro percorso, i due fratelli continuarono a correre a perdifiato, senza che le risa li abbandonassero, finché entrambi non notarono qualcosa di strano. Il consueto colore argentato delle pareti era diventato improvvisamente un rosso bordeaux.
«Che succede? Dove siamo?» si domandò Maria appena si fermò.
«Non ne ho idea, Maria» seguì Shadow.
«Non avevo mai visto questo corridoio. Chissà se il nonno lo conosce.»
Il misterioso corridoio continuava sempre dritto per circa un centinaio di metri, finché non girava a destra.
«Che ne dici? Diamo un’occhiata?»
«Fermati, Maria!» prima che Maria potesse fare un passo, Shadow la fermò prendendola per un polso. «Non credo sia una buona idea. Torniamo indietro.»
Maria guardò prima Shadow e poi la sua mano e sorrise. «Bravo, Shadow! Mi hai presa!»
«Maria, sono serio. Non… mi piace questo posto» insistette il nero. Forse era il medicinale che ancora faceva effetto nel suo corpo o semplicemente era il suo istinto a dirgli che era meglio non procedere oltre. C’era qualcosa di strano in quel corridoio e a lui non piaceva per niente.
«Dai, Shadow! Che vuoi che ci sia! Appena vediamo che qualcosa non va torniamo indietro, promesso!» lo implorò Maria. «Non ho mai fatto questo giro prima d’ora e io mi sto divertendo davvero tanto! Tu no?»
Shadow si concesse qualche secondo per riflettere. In effetti la curiosità lo stava stuzzicando un po’. «Be’… non l’ho mai fatto…»
«Visto? Allora andiamo! Tanto se staremo insieme andrà tutto bene!»
Shadow doveva proprio dirlo, Maria era visibilmente piena di energie. Non l’aveva mai vista così vivace e la cosa non dispiaceva affatto al riccio. Tuttavia, l’intraprendenza della bambina ancora lo preoccupava per ciò che avrebbero potuto trovare girato quell’angolo.
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«Shadow! Ehi Shadow! Ti vuoi fermare?!» urlò Sonic irritato.
«Che c’è, Sonic? Vuoi che ti tenga la mano?» domandò Shadow con il falsetto.
«Fai poco lo spiritoso! E non fare quella voce! Sei inquietante!»
Shadow si voltò malizioso.«E chi scherzava, impostore?»
«Dacci un taglio! Qua non si vede un accidente!» si lamentò Sonic, sempre più angosciato dal comportamento del riccio rivale, ma soprattutto da quel corridoio privo di illuminazione.
Dopo essere passati nuovamente nell’Osservatore, i due ricci attraversarono una serie di corridoio argentanti , fino ad arrivare ad un corridoio color cremisi, che, agli occhi del blu, al primo impatto era l’esatta rappresentazione della gola di chissà quale creatura.
«Certo che hai una bella fantasia quando sei spaventato» gli disse il nero divertito.
«Io non sono spaventato! È solo che… Mette i brividi questo posto…» si difese invano Sonic. «Stento a credere che la prima volta che venisti qui non fossi minimamente a disagio.»
«Oh, lo ero eccome» rispose con tranquillità Shadow.
«Sul serio? E me lo dici così?»
«Scusa, cosa avrei dovuto risponderti?»
I due rimasero in silenzio per una ventina di metri, finché Sonic non confessò sincero:«Shadow, questo posto mi fa paura.»
«Lo sapevo già, impostore.»
Avvistato un quadrante, Shadow si avvicinò ad esso e, come per la sala della sua cella di contenimento, vi incanalò una piccola quantità di energia caotica e in un attimo le luci del corridoio si accesero, alleviando la tensione di Sonic. Il macabro rosso scuro era diventato un bel bordeaux piacevole agli occhi.
«Oh, ti devo la vita, Shads! » disse Sonic sollevato, mentre il riccio bicolore era impegnato ad osservare l’angolo del corridoio. D’impulso, strinse i pugni.
«Che cosa?»
Shadow si girò distrattamente verso un Sonic perplesso. «Eh?»
«Hai bisbigliato qualcosa, ma non ho capito che hai detto.»
«Io non ho proprio detto nulla.»
Sonic scrollò le spalle. «Ok, allora non era importante. Andiamo avanti?»
«Sì, dobbiamo sbrigarci prima che le luci si spengano. Non credo dureranno a lungo.»
Il riccio blu allargò un sorriso.«Bene, allora non sarà un problema se… ce l’hai
Prima che Shadow potesse accorgersene, Sonic aveva già girato l’angolo di corsa, lasciando dietro di sé la sua consueta scia blu.
«Catch me, if you can, Faker! »
Stuzzicato dalla sfida di Sonic, Shadow sorrise a sua volta e si mise in posizione, pronto a correre. «Perlomeno questa volta posso barare.»
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
Ed eccoci qui con il settimo capitolo. Non se che dire al riguardo se non che questo è un capitolo dove non succede nulla di particolare, ma vi posso assicurare che già dal prossimo le cose cambieranno radicalmente. Cosa succederà ai nostri piccoli fratellini? Be’… lo scoprirete nel prossimo capitolo che spero con tutto il cuore di aggiornare fra meno di un mese…
Non so come scusarmi per l’imbarazzante ritardo. Dopo lo stage ho avuto modo di fare una serie di lavoretti che mi hanno permesso di mettere da parte un po’ di soldini prima di riprendere la scuola. Inoltre, non so come ringraziarvi per le vostre recensione. Mi danno la forza e la voglia necessaria per andare avanti.
Detto questo, vi ringrazio nuovamente per la pazienza e ci vediamo alla prossima!
 
Baci
 
Cassandra

 

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Capitolo 8
*** Delle verità nascoste ***


Girato l’angolo, Shadow e Maria dovettero percorrere altri due corridoi senza smettere di fissare quel colore insolito, ma ciò che cominciava a preoccupare i due era l’assenza di porte e di scienziati.
«Ok, ora lo devo ammettere. La cosa si sta facendo piuttosto inquietante» ammise Maria, aggrappata al braccio del riccio nero. «Non riesco a capire dove ci troviamo. Tu che dici, Shadow?»
Shadow continuava a camminare, come se non avesse sentito la voce di Maria. I suoi occhi erano fissi su un punto cieco della fine del corridoio. Preoccupata, la bambina riprovò:«Shadow, va tutto bene? Mi hai sentita?»
Shadow si fermò di colpo e si girò verso Maria scombussolato. «Eh? Hai detto qualcosa, Maria?»
«Voglio tornare indietro, Shadow» disse Maria spaventata. «Avevi ragione. Non era una buona idea.»
«Ma ormai siamo quasi arrivati.»
Maria spalancò gli occhi confusa. «Arrivati? Dove?»
Il riccio guardò nuovamente la fine del corridoio. Se prima l’istinto gli diceva di non andare oltre, quello stesso istinto ora lo stava invitando a proseguire. C’era qualcosa che lo attirava e lui lo percepiva benissimo.
«Shadow?»
«Ti fidi di me, Maria?» le chiese Shadow sorridendole e porgendole la mano.
La piccola fissò a lungo la mano, per poi prenderla decisa. «Sì. Mi fido.»
Una cinquantina di metri li divideva dall’ultimo angolo da girare. Gli occhi di Maria si illuminarono davanti ad una porta di metallo argentata.
«Avevi ragione! Siamo arrivati!» disse lei entusiasta e sollevata.
«Visto? Ti avevo detto di non preoccuparti.»
La bambina si avvicinò all’enorme porta blindata. «Caspita! Non ho mai visto una porta così grande! Chissà che cosa c’è dentro!»
Shadow si avvicinò sospettoso. «Non saprei. Potrebbe esserci qualsiasi cosa.»
«Shadow, guarda!» tirato per un braccio l’amico, Maria gli indicò un piccolo pannello di controllo su cui vi era un riconoscitore di impronte.
«Ok. Direi che non possiamo entrare» disse Shadow con finta delusione.
«No, guarda bene! Di chi è questa impronta, eh?»
Shadow seguì con lo sguardo l'indice della bambina e si sorprese quanto lei. Sul pannello vi era il rilievo di una grossa mano. Istintivamente, il riccio guardò la sua.
«È la tua, Shadow!» confermò al posto suo Maria.
«Ma com’è possibile? Perché questa stanza dovrei aprirla io?»
«Magari è una sorpresa che voleva farti il nonno! Forse è la tua nuova stanza! Entriamo?»
Shadow guardò Maria allarmato. «Non credo che il professore sarebbe d’accordo.»
«Oh andiamo! Non sei curioso? Se è qui vuol dire che è pronta, no?» senza esitazione, Maria prese il braccio destro di Shadow.
«No, Maria! Non farlo!» supplicò il riccio nero, ma fu troppo tardi. La macchina aveva già riconosciuto l’impronta e le porte si aprirono con uno scatto, investendo i due con una folata di vento.
«Mamma che freddo!» disse Maria strofinandosi le braccia.
Shadow aguzzò la vista, convinto di poter riconoscere gli oggetti nella penombra, ma senza risultati.«È buio. Forse non hanno ancora messo le luci.»
«Oh, allora significa che non hanno ancora finito di sistemarla. Che disdetta» delusa, Maria era pronta a ripercorrere il tragitto a ritroso, ma si fermò, poiché Shadow era rimasto immobile davanti alla porta aperta. Il suo sguardo era assente e fissava il vuoto all’interno della stanza.
«Shadow? Che ti prende?» tentò di chiamarlo la bambina, ma senza ricevere risposta. Shadow era ancora incantato.«Shadow?»
Improvvisamente, Shadow corse dritto nella stanza lasciandosi dietro la consueta scia rossa, mentre Maria era rimasta da sola e disorientata davanti alla soglia.
 
 
Due bip brevi, uno lungo e altri due brevi. Gerald rimase alquanto sorpreso quando il suo comunicatore suonò proprio quel segnale. Specialmente perché veniva da quella stanza. Che cosa poteva essere successo?
«I Chaos Drives saranno ultimati a breve» gli disse Stanford con un sorriso soddisfatto. «Di questo passo finiremo molto presto.»
Poiché Morris era impegnato al laboratorio di Kelly, Stanford si offrì come volontario per sostituirlo. I dati raccolti durante quei tre mesi dovevano essere archiviati entro quella sera.
«Perfetto» disse il professore, scorrendo vecchi grafici per mascherare la sua preoccupazione. «Siamo davvero a buon punto.»
«Qualcosa non va?» domandò lo scienziato acuto.
«Oh, nulla caro Stanford. Stavo solo… pensando a Maria» rispose Gerald sbottando un sorriso.
«E fa bene ad essere preoccupato per lei. Visto che va in giro con quella cosa
Pronto a prendere in mano il comunicatore, Gerald lo lasciò cadere nella tasca del camice per squadrare il suo assistente temporaneo. «Shadow non è un oggetto, Stanford» alzatosi dalla sua postazione, Gerald si avvicinò a Stanford con le mani dietro alla schiena. «So bene perché ti sei offerto di sostituire Morris. Mi sembrava che avessimo chiuso la questione settimane fa.»
Stanford sbuffò, aggiustandosi gli occhiali sul naso. «E se le dicessi che il motivo è un altro? Ad esempio: mi sono offerto perché penso che sarei un assistente migliore di Morris?»
«Sarebbe stato più plausibile, ma non me lo aspetterei da uno come te, Stanford Drew.»
I due scienziati si guardarono in silenzio, con una calma spaventosa, senza far trasparire alcun tipo di emozione. Alla fine il più anziano cedette e sospirò. «Ascolta, Stanford. Mi rendo conto che lo stress di cui tu e tutti gli altri siete sottoposti sta diventando insostenibile, ma… dovete cercare di resistere.»
«Professore, mi rincresce molto doverla smentire, ma io vi posso assicurare che lo stress non sta avendo alcun sopravvento su di me.»
«E allora cosa ti spinge ad odiare così tanto Shadow? Lui è la Forma di Vita Definitiva per eccellenza. Tutti hanno accettato la sua presenza,tranne te.»
 «Io voglio solo che lei apra gli occhi, professore. Il progetto Shadow è solo un’entità artificiale con l’unico scopo di renderci accessibili alla cura contro la NIDS. Se ne è forse dimenticato?»
«Che cosa vorresti insinuare con questo?»
Stanford schioccò la lingua scocciato. «Quella creatura va distrutta il prima possibile. Ogni giorno diventa sempre più forte e pericolosa. Tuttora lo è più di Biolizard e se dovesse perdere il controllo?»
Gerald scosse la testa. «No. Non succederà. Shadow è diverso.»
«Quanto diverso? Solo perché ha in circolo il BB? Ovvero il Sangue Nero?»
Gerald rabbrividì scioccato. Vano fu il suo tentativo di rimanere impassibile, poiché indietreggiò per raggiungere una sedia barcollando. In quello stesso momento, il comunicatore suonò di nuovo. Era lo stesso segnale.
«Dovrebbe rispondere. Sembra abbastanza urgente.»
«Come fai a saperlo?» chiese Gerald ignorandolo. «Credevo… di aver criptato i file.»
Stanford si alzò e si voltò togliendosi gli occhiali. Il suo sguardo sbarazzino e sempre allegro non c’era più. Al suo posto, due occhi gravi e accusatori si erano posati sul vecchio professore. Quest’ultimo se lo chiedeva incredulo: dov’era quel brillante scienziato vivace e pieno di energie di cui lui andava fiero? Chi era quella persona davanti a lui? Non lo riconosceva.
«Si è forse dimenticato chi sono io, professore? Sebbene non mi piaccia essere modesto, dovrebbe sapere che le mie capacità sono al di sopra di qualunque scienziato presente qui. A parte lei» sogghignò divertito.
«Che cosa vuoi dire con questo?» domandò adirato.
«Che la lascerò giocare al bravo padre di famiglia ancora per un po’, ma stia pur certo che molto presto tutto questo finirà e torneremo alle nostre vite di sempre» con un cenno della mano, indicò le cartelle degli ultimi dati archiviati e si avviò all’uscita, senza dire una parola.
Ad aspettarlo fuori c’era Morris, appoggiato al muro e con le braccia incrociate al petto. Era visibilmente adirato e deluso. Stanford soffocò una risata. «Emozioni, eh? Non eri tu che ti vantavi tanto di non averne, Morris?»
«Questa volta hai proprio esagerato, Drew.»
«Com’è che di punto in bianco mi chiami per cognome? Ho forse avuto finalmente il tuo rispetto?»
«Non direi. A casa mia chiamare per nome è sinonimo di fiducia e unità.»
«Oh, proprio tu parli di fiducia? Tu che hai per nemico tutto lo staff scientifico?»
«Almeno io ho il coraggio di dire le cose in faccia.»
«Perché? Quello che ho fatto con il professore non era dire le cose in faccia
Incapace di trattenersi, Morris prese per le spalle Stanford e lo sbatté contro la parete. «Smettila di prendermi per i fondelli! Che cosa hai in mente, eh?!» urlò.
«Lo sai? Facendo così alimenteresti solo le voci che girano su di te. Non ti conviene farlo.»
«Che si fottano le voci. A che gioco stai giocando?»
«Se per giocare intendi finire al più presto il progetto, allora sto facendo il tuo stesso gioco.»
«Fai poco lo spiritoso con me. Tu sei uno scienziato di tutto rispetto. Le tue ricerche hanno avuto un successo mai visto nei diversi rami della scienza, ricevendo svariati riconoscimenti.»
«Oh, è un onore sentirtelo dire. Cerchi di comprare la mia simpatia?»
«Allora perché?» riprese Morris aggressivo. « Che cosa hai mente? A cosa è dovuto questo tuo cambiamento?»
Stanford si limitò a sorridere e con uno spintone allontanò Morris. «Lo sai? Io e te siamo uguali. Entrambi siamo entrati qui dentro indossando una maschera solo… io sono quello buono e tu il cattivo. Ironia della storte, non trovi?»
«Non sei affatto divertente.»
«Però è la verità, non trovi? Ad ogni modo ho tutto il tempo di restare nell’ombra. Non ho alcuna fretta. Appena ne avrò l’occasione, tutto questo finirà.» 
Inaspettatamente, Morris non disse nulla e lasciò che Stanford andasse per la sua strada. Cosa avrebbe potuto dire? Che cosa avrebbe potuto fare? Gli ordini del professore erano chiari: lasciare che lui stesso si mostrasse da solo per quello che era.
«Anche se dovessi impiegarci degli anni» urlò Stanford prima di ridere, con la convinzione di aver già vinto.
 
 
«Shadow! Aspetta!» senza pensarci, Maria entrò a sua volta, ma il buio l’avvolse in un attimo assieme alla paura. «Shadow, dove sei?!» lo chiamò a gran voce.
La temperatura era notevolmente bassa e indossare un vestito smanicato di cotone non aiutava la povera Maria, che cercava di scaldarsi sfregandosi le mani. Ogni suo passo riecheggiava sinistro, comunicandole l’immensità della stanza, che la percepiva più grande dell’Osservatore. Lo scatto delle porte la fece trasalire e fu allora che si girò e la vide: l’oscurità.
Guidata dal battito del suo cuore, Maria iniziò a correre, senza preoccuparsi di ciò che poteva trovarsi davanti. Seppur il respiro le andava a mancare, lei continuò senza mai voltarsi. «Shadow, ti prego! Rispondimi! Io… ho paura» implorò la bambina ormai prossima alle lacrime, ma un fascio di luce a pochi metri da lei attirò la sua attenzione e la invitò a sorridere. «Shadow?» provò lei speranzosa.
Rivoltasi verso Maria, la luce si avvicinò rimbalzante e disse:«Maria?» era Shadow.
Appena la torcia elettrica illuminò il volto del riccio, La piccola saltò addosso a quest’ultimo per abbracciarlo. «Non farlo mai più, hai capito? Non mi devi lasciare da sola! Mi hai spaventata a morte!»
«Maria… così soffoco…»
«Non mi importa! Così impari!»
Shadow ricambiò l’abbraccio disperato dell’amica, ma appena sentì la sua pelle gelida e il suo respiro affannoso si allarmò. «Ma hai corso, Maria?! Inoltre sei freddissima! Aspetta» staccatosi da lei, Shadow la avvolse subito con una coperta che teneva sottobraccio. «Ecco. Con questa starai meglio.»
Maria accolse il gesto del riccio con un  ultimo e lungo sospiro di sollievo. «Si può sapere perché sei corso via lasciandomi indietro?» chiese lei con i denti battenti.
Shadow alzò un sopracciglio. «Ma che cosa stai dicendo? Abbiamo raggiunto lo sgabuzzino insieme dove abbiamo trovato la torcia!» rispose innocente.
Maria sbatté le palpebre sorpresa. «Shadow, appena le porte si sono aperte tu ti sei messo a correre ad alta velocità!»
Il riccio nero era pronto a ribattere, ma non sopportava di vedere la sua sorellina in lacrime, perciò si limitò a dire:«Scusami, Maria. Davvero.»
«Va bene, ti perdono. Ma questa volta mi terrai la mano per tutto il tempo, d’accordo?»
Shadow le prese subito la mano. «D’accordo.»
Finalmente riuniti, Maria poté stare tranquilla, ma le era difficile credere alle parole di Shadow. Se pur lo conoscesse da solo qualche mese, Maria sapeva che lui non le avrebbe mai potuto mentire. Allora cosa lo ha spinto a correre? Che cosa nasconde questa stanza? Ricordare lo sguardo spento dell’amico indusse la bambina a farsi delle domande e a capire che c’era davvero qualcosa di strano in quella stanza, anche se tutto ciò che c’era al suo interno erano solo enormi parallelepipedi di metallo, tutti messi perfettamente in fila.
«Per fortuna non ci sono andata a sbattere» disse Maria. «Chissà cosa contengono.»
«Trovata la torcia ho provato ad aprirne uno, ma nulla. Sono ben sigillati.»
«Shadow, ma tu non hai freddo?»
Sorrise. «Tranquilla. Sto benone. Guarda» Shadow puntò con la torcia una porta aperta. A fianco c’era lo stesso identificatore di impronte dell’entrata. «È lì che ho trovato la torcia e la coperta.»
«Capito.»
«E lì», puntò qualche metro più in là a destra,«c’è un’altra porta.»
Diversamente dalle prime due porte, quest’ultima era di forma circolare di metallo nero opaco, con al centro un occhio che ricordava quello di un rettile, giallo e minaccioso, con la pupilla sfumata di rosso.
«Shadow…» iniziò Maria stringendogli con forza la mano. «Quella porta non mi piace.»
«Ma Maria è solo una porta» ridacchiò il nero. «Non c’è nulla di cui preoccuparsi.»
«Ascolta Shadow, magari non te ne sei accorto, ma tu mi hai veramente lasciata indietro prima» disse Maria preoccupata. «Hai guardato la stanza con uno sguardo… spento e poi sei corso via.»
Shadow la guardò senza capire per poi scuotere la testa. «E invece io ti ripeto che eravamo insieme. Sei tu che sei andata via, mentre ti prendevo la coperta.»
«E io ti dico che non è co-!» Maria si bloccò all’istante appena sentì un sibilo sinistro rimbombare nelle sue orecchie. «C-che cos’è?»
Shadow chiuse gli occhi per concentrarsi sul suono. «Non ne sono sicuro,ma… sembra che venga…» d’impulso, si voltò verso la porta circolare.
Maria lo prese subito per un braccio.«No… noi non entreremo là dentro, Shadow! Torniamo indietro!» lo implorò, ma fu tutto inutile. Stava succedendo di nuovo. «Shadow, perché non mi rispondi?»
«No, non posso» le rispose freddo, rimanendo rivolto verso la porta.
«Cosa? Perché non puoi?» la voce della piccola Maria era irraggiungibile alle orecchie del riccio nero, poiché di nuovo le posò quegli occhi privi di vita e stregati da un’entità ancora misteriosa.
«Devo andare. Mi sta chiamando.»
«Chi ti sta chiamando, Shadow?!» trascinata contro la sua volontà, Maria cercò di staccarsi dal riccio, ma senza riuscirci.
«Mi sta chiamando» ripeté lui avvicinando la sua mano all’identificatore.
«Shadow, non farlo!»  
Riconosciuta l’impronta, l’occhio si illuminò e le porte si aprirono con uno scatto. Maria rabbrividì davanti all’inaspettato calore che seguì.  Shadow si liberò della bambina con uno strattone e avanzò.
«Fermati, Shadow! Non entrare!» provò Maria vanamente, ma vedendo che l’amico la ignorò per la seconda volta, camminò decisa sulla soglia e urlò:«SHADOW!»
Questa volta fu inevitabile, in quanto Shadow, riconosciuta la voce dell’amica, si portò le mani alla testa. «Ma-Maria? Che è successo?» domandò incerto.
«Lo hai fatto ancora!» gli disse tra le lacrime. «Non dovevamo venire qui. Ti comporti in modo strano. Sei come… incantato.»
Shadow le si avvicinò impotente. «Maria, scusami. Ti giuro che non so di cosa tu stia parlando io… non so che dire se non… ATTENTA!» percepito un bip sordo, Shadow tirò dentro Maria, prima che venisse schiacciata dalla porta. Entrambi tirarono un sospiro di sollievo. «C’è mancato davvero poco. Stai bene, Maria?»
Annuì piano. «Si è chiusa come l’altra. Ma perché?»
«Non lo so. Perlomeno qua c’è luce» malgrado Shadow cercasse di alleggerire la situazione, la presenza di quegli innumerevoli  container verticali non li fece stare tranquilli. Ora che erano ben visibili, i due notarono che su ognuno di essi vi era stampato un numero.
«Saranno dei pezzi per i macchinari del professore» provò Maria curiosa.
«Può essere. Ma perché metterli in un posto così lontano?»
All’improvviso, quello stesso sibilo che allarmò i due fratelli era più percettibile all’interno di quella misteriosa stanza. Era un suono così penetrante e insopportabile da dare la sensazione che fosse proprio dietro le loro spalle.
«Di nuovo quel suono. Ma che cos’è?»
«Non promette nulla di buono» Shadow prese per mano Maria. «Credo che per oggi ne abbiamo avuto abbastanza di avventure. Troviamo un’uscita.»
Felice di sentire quelle parole, Maria annuì e insieme camminarono tra i container alla ricerca di un’altra porta da cui uscire, cercando di ignorare quel sibilo. Intrappolati come in un labirinto,i due fratelli girarono diversi angoli all’apparenza tutti uguali a passo veloce e sostenuto, finché finalmente non trovarono quello che da lontano pareva un corridoio.
«Un’uscita!» esultò Maria, ma Shadow rallentò, insicuro. «Che succede, Shadow?»
«C’è qualcosa di strano… » disse il riccio strabuzzando gli occhi. «C’è qualcuno là.»
Effettivamente, dal corridoio si stava avvicinando una figura molto alta e con le spalle larghe, ma difficile da identificare. Avanzato di qualche passo, Shadow poté distinguere un lungo mantello nero, cappuccio compreso.
«Forse ci può aiutare. Ehi sign-…»
«Non chiamarlo» Shadow si voltò verso Maria e la zittì all’istante con una mano. «Non sappiamo nemmeno chi è.»
Poiché impossibilitata a parlare, Maria comunicò con Shadow attraverso gli occhi. Erano sbarrati e tremavano davanti alla maestosità della misteriosa creatura dietro a Shadow. Quest’ultimo, si sorprese quanto lei della presenza.
«Come diavolo hai fatto?!» ringhiò Shadow proteggendo Maria con un braccio. «Chi sei tu?»
Avendo il cappuccio completamente abbassato, per i due era impossibile vedere cosa si nascondeva sotto ad esso, ma potevano perfettamente sentire quel sibilo che li aveva spaventati per tutto il tempo.
«Allora… eri tu ha emettere quel suono. Che cosa vuoi da noi?»
«Shadow… ho paura» disse Maria aggrappata al braccio del riccio. Per quanto ci provasse, la piccola bambina non riusciva a togliere gli occhi di dosso alla figura incappucciata.
«Stammi vicino, Maria. Io ti proteggerò» la rassicurò Shadow, ma nulla le impedì di provare quella sensazione sgradevole, ma che in qualche modo la catturava e la incuriosiva. Fu allora che lo vide: l’occhio dorato infido, con la pupilla iniettata di sangue, che scrutava la sua fragile anima a sua insaputa.
«L’occhio… l’occhio della porta» disse Maria con un filo di voce. «L’occhio… giallo.»
«Occhio? Quale occhio?» chiese Shadow. Lui non vedeva nessun occhio in quel cappuccio vuoto. Maria scosse la testa spaventata e indietreggiò. «Maria?» la chiamò il riccio preoccupato.
«Mi… sta fissando» la bambina si lasciò cadere all’indietro chiudendo gli occhi, ma Shadow riuscì a prenderla in tempo.
«Maria! Maria rispondimi!»
«In questo modo potremo parlare» disse grave l’incappucciato.  La sua voce risuonava nella testa del riccio. «Finalmente ci incontriamo. Shadow the Hedgehog.»
Shadow prese in braccio l’amica addormentata e squadrò con odio l’ospite indesiderato. «Chi diavolo sei tu? Che cosa hai fatto a Maria?» domandò minaccioso.
«Non ha alcuna importanza. Io e te abbiamo ben altro a cui pensare ora, Shadow.»
«Come conosci il mio nome?»
L’uomo avanzò verso Shadow alzando il braccio. Il nero arretrò alla vista dell’arto deforme a tre dita. «Quanto ho aspettato questo momento. Mostrami le tue capacità, Forma di Vita Suprema.»
Pur impegnandosi nel mostrarsi temibile, l’insicurezza di Shadow era ben percettibile. Davanti a quella creatura a lui sconosciuta si sentiva perso e vulnerabile: il suo cuore batteva a mille e il corpo diventava sempre più caldo. Il riccio antropomorfo avvertiva una sgradevole sensazione muoversi nelle viscere e una presenza ambigua attorno a sé. «Non ti avvicinare…» disse a denti stretti, mentre l’essere lo ignorava, sogghignando sadico.
«Ti ho detto… DI NON AVVICINARTI!»  così come Shadow lanciò l’urlo, la schiera di container iniziò a tremare, interrompendo l’avanzata dell’incappucciato, che subito ritirò il braccio appena vide il corpo del porcospino bicolore illuminarsi. Scariche elettriche incontrollate colpirono il soffitto e vari container.
Imprigionato nella luce, Shadow non riuscì più a vedere la figura in nero, ma la cosa più importante fu poter vedere il volto sereno della sua Maria. Stretta fra le braccia l’amica, Shadow chiuse gli occhi. «La prego, professore. Ci aiuti» sussurrò, prima di sparire.
 
 
Anomalie improvvise allarmarono non poco gli scienziati che, abbandonata la progettazione dei Chaos Drives, vi cercavano rimedio dalle loro postazioni.
«C’è una forte attività di energia caotica che sta… vagando nell’ARK!»
«È impossibile prevedere la sua posizione!»
«È troppo veloce! Non riesco a starle dietro!»
I numerosi insuccessi scatenarono il panico totale nel laboratorio.
«Si può sapere che cosa sta succedendo?» disse Stanford entrando. «Qual è l’emergenza?»
«Professore Drew! Un’enorme quantità di energia caotica incontrollata sta… sta…» iniziò Kelly balbettando.
«Kelly, respira. E dimmi con calma cosa sta succedendo» avvicinatosi allo schermo principale aggrottò la fronte alla vista di una massa rimbalzare in diversi settori dell’ARK. «Quella sarebbe energia caotica? Ma da dove arriva?»
«Qualcuno è riuscito ad identificare la fonte. Viene dai Chaos Drives terminati, ma sono nel settore Z, che…»
«Che è accessibile solo al professor Robotnik, ma non può essere lui. Ci ho appena parlato» Stanford studiò le varie traiettorie di quella sfera. Era visibilmente instabile e sorprendentemente visibile. Che cosa poteva essere?
«Dobbiamo chiamarlo?» domandò Kelly, interrompendo il filo dei suoi pensieri.
«No, è estremamente impegnato. Ce la caveremo da soli» pronto a dare ordini, Stanford si ammutolì appena vide luci e monitor spegnersi e riaccendersi a intermittenza. «Cosa sta succedendo?»
La situazione peggiorò appena delle scariche elettriche si manifestarono nella stanza, accompagnate da una sfera di energia. Tutti si ripararono sotto ai tavoli urlando. Meno Stanford, che rimase incantato davanti a quel fenomeno. Dei sobbalzi di sorpresa riecheggiarono nel laboratorio non appena apparvero sul pavimento Shadow e Maria abbracciati fra di loro.
«Oddio! Sono Shadow e Maria!» urlò Kelly avvicinandosi all’istante preoccupata. «Shadow, rispondimi! Va tutto bene?»
Shadow faticava ad aprire gli occhi e si sentiva terribilmente debole, ma tutto ciò a cui pensava era la salute di Maria. Il corpo di quest’ultima era rovente al tatto del riccio e il suo respiro era corto. Comunicava il suo dolore attraverso piccoli lamenti.«Vi prego… salvate Maria» sussurrò il nero debolmente.
La scienziata mise una mano sulla fronte della bambina e sbiancò. «Santo cielo, è bollente!»
«Kelly, portala immediatamente in infermeria.»
Kelly annuì all’ordine dell’assistente temporaneo e corse subito fuori con Maria in braccio, mentre Stanford, facendosi strada tra gli scienziati sbigottiti, si mise davanti ad uno Shadow impotente e privo di forze con le braccia incrociate al petto e il volto impassibile.  «Mettete Shadow in una cella di contenimento. Preparate le ventose per l’elettroshock.»
 
 
ANGOLO DELL’ALUTRICE:
Bene. Bene. Bene. Ora le cose si complicheranno un bel po’ *risata malefica*
Credo di essere soddisfatta di questo capitolo. Credo che molte cose stiano emergendo. Voglio solo avvertirvi di una cosa: essendo questa la mia versione dei fatti, vi chiedo di dimenticare la storia narrata dai videogiochi perché molte cose saranno decisamente diverse, a partire dal tempo trascorso insieme di Maria e Shadow ( no spoiler :P ahah).
Dunque, spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Come al solito vi chiedo di segnalarmi ogni tipo di errore e… ci vediamo alla prossima!
 
Cassandra

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Capitolo 9
*** Una condanna ***


I due ricci rivali correvano fianco a fianco alla stessa supervelocità, lasciando che il ricordo dei loro precedenti scontri li motivasse ad impegnarsi ancora di più. Sul volto di Sonic era piazzato un bel sorrisone a trentadue denti, mentre Shadow si limitò ad un leggero ghigno di approvazione.
«Mi mancava questa sensazione. A te no, Shadow?» chiese il blu con aria di sfida.
«Di che sensazione parli?»
Sonic si voltò verso il nero facendogli l’occhiolino. «Di competizione. Era da un sacco che non lo facevamo.»
«Non posso che essere d’accordo con te, impostore» Shadow interruppe la corsa per tirare un calcio a Sonic, che prontamente lo schivò. «Ehi! Così è sleale!» lo ammonì il blu ridendo.
«Volevo vedere se eri pronto» il riccio bicolore ingranò la marcia, quel tanto che bastava per superare l’eroe.  «Ora non abbiamo tempo di giocare.»
«Ah no?»
Shadow fece roteare gli occhi in risposta al sorriso malizioso dell’altro. «Seguimi. Qui non dobbiamo sbagliare» Sonic annuì e stette dietro a Shadow mantenendosi ad una certa distanza, in modo tale da prevedere i suoi spostamenti.
Il riccio ebano si muoveva seguendo la mappa mentale che aveva di quella zona. Evitò determinati corridoi e girò angoli giudiziosamente affinché non passassero davanti a quella stanza. Sebbene fossero passati anni e non percepisse più le sgradevoli sensazioni di quel giorno, la preoccupazione non lo aveva abbandonato e lo invitava a stare all’erta, qualora potesse succedere un imprevisto. In più, era quasi convinto di non essere sotto il controllo di qualcuno.
«Ehi, Shad. Manca ancora molto?»  si intromise il blu nei suoi pensieri. «Giusto per fartelo sapere: le luci iniziano a spegnersi.»
 Shadow rispose fermandosi e alzò gli occhi. Effettivamente le luci si spegnevano ad intermittenza, comunicando l’imminente esaurimento dell’energia caotica. «Maledizione. Non ce la faremo mai.»
Così come si fermarono, le luci si spensero, facendo risprofondare i due ricci nella tenue oscurità e l’aspetto macabro del corridoio, conferitegli dal bordeaux annerito, aveva ripreso il potere di intimidirli.
«Oh, non di nuovo!» si lamentò il blu portandosi le mani alla testa. «E ora che si fa?»
Guidato dalla sua voce, Shadow lo raggiunse. «Non abbiamo altra scelta. Proseguiremo camminando.»
Sonic sbuffò irritato.«Fai sul serio?»
«A meno che non hai la vista notturna, direi proprio di sì.»
L’altro si rassegnò stiracchiandosi. «Quindi dove si va?» domandò girovagando con lo sguardo, finché i suoi occhi non incrociarono qualcosa che spiccava nel buio e in un corridoio vicino a loro: era un bel giallo acceso. «E quello cos’è?» guidato dalla sua curiosità, Sonic corse verso il corridoio, non sfuggendo all’attenzione di Shadow. «Sonic, dove vai?!»
Raggiunto l’oggetto misterioso, il riccio blu aggrottò la fronte appena si trovò davanti allo spaventoso occhio dorato, notando l’incredibile somiglianza a quello di un rettile. «Mamma mia, quanto è brutto. Eppure mi è familiare»  Fintanto che cercava di ricordare, Sonic esaminò più da vicino la porta su cui il bulbo oculare giaceva al centro: era perfettamente circolare e di un bel nero opaco, purtroppo rovinato da un leggero strato di polvere facile da rimuovere con un gesto della mano.
Invaso dal pulviscolo, Sonic agitò le braccia finendo con spostare la sua attenzione dalla porta a quello che, al primo impatto, pareva una consolle di comando rettangolare posta lì vicino. Avvicinatosi ad essa, concluse che era un rilevatore di impronte e fischiò dalla sorpresa, appena vide l’impronta in rilievo bianco sulla macchina. «Ma com’è possibile?» d’impulso guardò la sua mano. «Che sia una coincidenza? O magari è di Shadow?»  assorto nelle sue perplessità, non avvertì la presenza che lo allontanò prendendolo per il collo: era Shadow.
«Shadow, che diamine! Che cos-…»
«Non avvicinarti a quella porta!» urlò il nero aggressivo.
Sonic alzò le mani innocente. «Ok, tranquillo! Non ho fatto nulla! Sono sorpreso di vedere finalmente una porta qui.»
«No, non deve esserci» sussurrò Shadow più per se stesso che per Sonic. Gli occhi color rubino tremavano dalla rabbia dinnanzi alla porta. Dinanzi al ricordo. «Non può essere qui! Per raggiungerla avremmo dovuto passare da un’altra stanza!» urlò più agitato.
«Shadow, ora calmati. Finché non l’apriamo non succederà nulla, no?»
«Non è questo il punto» Shadow si avvicinò alla porta, squadrando con odio l’occhio, ma ripreso il controllo di sé inspirò profondamente, così da poter ragionare con calma. Saltare a conclusioni affrettate non sarebbe servito a nulla, soltanto a perdere del tempo prezioso. Ma come poteva non far riemergere quel dannato giorno, in cui mise in pericolo la persona più importante della sua esistenza?«Non è… questo il punto» ripeté soffocando la sua sofferenza.
«Shadow?» provò il blu, ma il nero lo ignorò per avvicinarsi all’uscio color cenere. «È inutile. Per quanto io ci provi il passato non cesserà mai di tormentarmi» la sua voce, che fino a quel momento era furente, spaventata e persa, era ritornata ad essere pacata, placida e misteriosa, mentre il suo passato si faceva largo nei suoi pensieri.
Il professor Gerald e Maria stavano sicuramente ridendo di lui, pensò, in quel posto da lui conosciuto come Aldilà. Privato della sua famiglia e della sua casa. Ingannato più volte per un tornaconto personale, per avidità e per vendetta. La sua intera esistenza aveva ruotato intorno a quell’illusione di poter fare del bene, di poter fare qualcosa di importante, finché l’ipocrisia, il terrore e il potere finirono col corromperlo. Shadow lasciò che un riso amaro lo contagiasse a tal punto da reputare quelle nozioni inutili e fuori luogo. Sapeva già  di essere un fallimento. Sapeva già di aver perso tutto. «Questa è la mia condanna» mormorò ridendo. «un circolo vizioso da cui io non uscirò mai.»
« Adesso basta» sbottò Sonic, stanco di sentire il rivale afflitto.«Senti, Shadow. Non so cosa ti stia succedendo. Non è da te abbatterti così! Reag-…» il respiro di Sonic andò a mancare in un attimo e si ritrovò ad annaspare in cerca di aria invano. Il pugno del riccio nero aveva colpito in modo impeccabile la cassa toracica. L’immagine dei polmoni perforati dalle sue stesse costole allarmarono non poco l’eroe in difficoltà.
«Cosa? Non ti sento, Sonic. Che cosa stavi dicendo? Che devo reagire?» Shadow si avvicinò a Sonic per tirarlo su, prendendolo per un aculeo. Malgrado quest’ultimo cercasse di trattenere il più possibile il sangue nella sua bocca, due gocce gli sfuggirono, conferendogli un aspetto pietoso che raramente mostrava. «E secondo te cosa ho fatto per tutto questo tempo?»
«Non era… quello che intendevo» disse il blu a fatica.
«Le tue parole di conforto sono patetiche e del tutto inefficaci. Cosa vuoi saperne tu di quello che ho passato all’interno dell’ARK, eh? Tu non sai niente di me!»  ormai accecato da inaspettata follia, Shadow scagliò un secondo pugno che scaraventò Sonic sull’identificatore di impronte, distruggendolo. In preda al dolore, l’eroe ricordò il giorno in cui lui e il rivale combatterò fianco a fianco per distruggere l’ARK e quindi fermare la sua collisione contro la Terra. Ovviamente, non aveva dimenticato quel gancio destro, potente quanto bastava per fargli perdere i sensi.
Ora, quello stesso pugno della medesima potenza era pronto a colpirlo una terza volta, ma il suono gracchiante della macchina in corto circuito bloccò istantaneamente Shadow, che fissò la porta incredulo. « Ma cosa…» iniziò indietreggiando.
Sebbene gli facesse male, Sonic sopirò profondamente e con sincero sollievo, per poi voltarsi verso ciò che lo aveva salvato da morte certa. La sua reazione fu tale e quale a quella del riccio bicolore. «Che succede alla porta?»
Ad ogni scarica elettrica l’immagine della porta circolare scompariva a singhiozzi, lasciando il tempo ai due di riconoscere una semplice porta blindata. All’unisono pensarono: “Un ologramma.”
«Allora non avevi tutti i torti, Shad. Non doveva veramente essere qui» Sonic si rialzò tenendosi una mano sul petto. «Perciò potevi anche risparmiarti di suonarmele.»
«Che scherzo è questo?» disse Shadow digrignando i denti. «Chi ha messo questo ologramma?»
Due scintille segnarono la completa distruzione dell’identificatore e con uno scatto metallico la misteriosa porta si aprì, attirando a sé i due ricci, risucchiandoli. «Che diavolo succede?!» Sonic cercò disperatamente di aggrapparsi al pavimento e di allontanarsi correndo, ma non c’era verso. Quel poco contatto che aveva non gli servì ad evitare quel vortice che lo inghiottì in un istante.
Il riccio solitario, invece, resistette il più possibile per poter imprimere l’immagine di quella porta nella sua mente insieme a centinai di volti e mille perché, per poi venir risucchiato a sua volta, seguito da un suo grido d’aiuto.
 
___________________________________________________________________________________________________ 
 
Paura e sofferenza graffiavano gradualmente le orecchie della piccola Maria che, ancora dormiente, si svegliò di colpo, avendo riconosciuto la voce di quell’urlo. «Shadow» il nome le morì in gola.
Il secondo richiamo spinse la bambina a scendere dal letto. Solo dopo aver toccato il pavimento freddo coi piedi nudi si decise a guardarsi intorno. Il forte odore di alcol etilico e i lettini in pelle color cioccolato le fecero capire che si trovava nell’infermeria B, posta ad un piano inferiore rispetto all’infermeria in cui il nonno era solito visitarla. «Che cosa ci faccio qui?» si chiese tastandosi il corpo con le mani: aveva addosso un camice bianco che le arrivava fino alle ginocchia.
Osservatore, acchiapparella e corridoi. Tantissimi corridoi. Maria elencò mentalmente cosa aveva fatto prima di finire lì, ma dopo il misterioso labirinto cremisi tutto il resto era offuscato da uno schermo di luce accecante. Cercò di sforzarsi, ma qualcosa le impediva di ricordare, come se inconsciamente  non volesse. Era così terribile? Aveva visto qualcosa che non avrebbe dovuto? Maria se lo stava chiedendo mentre la paura la assaliva, ma un calore piacevole e familiare la soccorse in tempo, pronto a calmarla.
D’impulso Maria si strinse le spalle e il ricordo di Shadow che l’abbracciava con fare protettivo divenne nitido nella sua testa. «Devo andare da Shadow» disse decisa e, trovate le sue scarpe, uscì correndo dalla stanza, ignorando l’infermiera che la chiamava appena entrò da un’altra porta.
 
 
La forza con cui Shadow urlava ad ogni scossa fece rabbrividire tutti gli scienziati presenti nel laboratorio. Pena e rammarico trapelavano dai loro occhi, ma anche l’amara consapevolezza che era la cosa giusta da fare. Il livello di energia caotica rilasciata dal corpo di Shadow era talmente alta che avrebbe potuto anche distruggere vari laboratori dell’ARK, cosa che fortunatamente non era successa. In mezzo a quell’atmosfera di sconforto e leggero terrore, Stanford sorrideva compiaciuto e soddisfatto.
Il povero riccio antropomorfo era legato a mani e piedi da delle spesse manette di metallo in una posizione simile ad una crocifissione e imprigionato all’interno di una cella di contenimento. Sudava, il che era una cosa totalmente nuova per lui, ma ciò che lo sorprese e lo spaventò maggiormente era provare dolore. Quelle scariche elettriche non si limitavano a colpire la carne, ma le sentiva fino all’osso, fino agli organi interni, provocandogli dei fastidiosi conati di vomito. Cinque? Sette? Ormai aveva perso il conto di quante volte era stato colpito da quei fulmini artificiali, sebbene ogni volta il voltaggio crescesse.
Stanford avanzò di due passi per poter ammirare da vicino la creatura in agonia. I suoi occhi erano concentrati sul petto che si gonfiava a fatica e la testa che debolmente dissentiva in cerca di pietà. «Vuoi che smetta, non è così?» Shadow esitò prima di annuire, speranzoso. «Ma hai idea di quello che hai fatto, progetto Shadow? Hai rischiato di ucciderci tutti.»
Shadow si morse il labbro inferiore chiudendo gli occhi sofferente. Che avesse fatto qualcosa di sbagliato questo lo sapeva già, dalla stanza dei container, quando lasciò che quell’energia estranea entrasse nel suo corpo, ma in cuor suo sapeva che non l’avrebbe potuto rifiutare, neanche volendo, poiché l’unico pensiero del riccio era Maria. Per qualche strano motivo sentiva che quel potere era l’unico modo per salvarla, potere che sentiva di saper usare e di reputarlo parte integrante del suo corpo. O almeno, così pensò in un primo momento, finché qualcosa non andò storto: era instabile, incapace di controllarlo, finendo così col ferire Maria e gli abitanti dell’ARK.
Quella punizione era più che lecita, se l’era meritata, ma ormai il dolore stava diventando insostenibile persino per una creatura invulnerabile come Shadow.
«Ti senti troppo in colpa per poter rispondere?» riprese Stanford, con falsa apprensione palesemente evidente. «E fai bene ad esserlo. Tu sei una minaccia e io l’ho sempre saputo» pensò ai suoi colleghi, deluso. «A differenza di altri
Alla vista della mano dello scienziato alzarsi, Shadow sussultò scuotendo quanto poteva la testa. Era pronto ad ordinare di aumentare il voltaggio.
«Basta!» strozzata dalle lacrime e con le mani che tremavano, Kelly corse alla postazione e spense il macchinario, lasciando che Shadow potesse rilassare la schiena incurvata. Avvicinatasi alla cella, la donna vi appoggiò le mani: il vetro era rovente al primo contatto. «Stai bene?»
Esausto, Shadow si limitò ad annuire accennando un mezzo sorriso. «Grazie» sussurrò.
«Non avresti dovuto farlo, Kelly» disse a denti stretti Stanford. «Non ti ho ordinato di spegnerlo.»
«Così lo uccidi!» urlò con tutto il fiato e il coraggio che aveva. «Non è giusto! Non puoi farlo!»
«Sì che posso. Sono io che comando in questo laboratorio e alla luce di quello che ho visto questa è la soluzione migliore. Accendilo.»
Kelly allargò le braccia con gli occhi che urlavano giustizia. «Non te lo permetterò. Il professore non vuole questo.»
«Be’, il professore non c’è in questo momento. Quindi devi ubbidirmi!»
«Che cosa sta succedendo qui dentro?»
Un sobbalzo collettivo accolse le figure del professor Gerald e Morris visibilmente scossi.
«Professore, le posso spiegare» iniziò pacato Stanford, ma dovette interrompersi appena i due si avvicinarono alla vista di Shadow imprigionato.
«Cosa ci fa Shadow in una cella di contenimento in quello stato?! Liberatelo! Liberatelo immediatamente!»
Al comando disperato di Gerald, le manette vennero subito rimosse e la cella aperta, liberando Shadow. L’uomo si precipitò subito verso la sua creatura, inginocchiandosi. «Shadow! Shadow mi senti?! Oddio, cosa ti hanno fatto!» Il riccio nero percepiva sulla sua pelle le mani del suo creatore che tremavano e rispose a quel gesto con un sospiro di sollievo. L'incubo era finalmente finito.
«Cosa ti è saltato in mente, Drew?!» ruggì Morris. «A momenti distruggevi il progetto!»
«Oh, scusami Morris se ho pensato prima all'incolumità di tutti noi! Se non lo avessi fermato ora saremmo tutti morti!» Stanford sogghignò divertito. «Razza di egoista.»
«Tu, brutto fig-...»
«Morris, adesso basta» lo ammonì grave il professore. «Non è il momento per queste scenate.»
«Shadow!» seppur delicata e flebile, la voce della piccola Maria era così carica di disperazione da riuscire a farsi strada tra la folla. Raggiunta la cella, le lacrime scivolarono copiosamente sulle sue guance alla vista del fratellino ferito. «Oh Shadow… che cosa ho fatto! Mi dispiace!» prima che potesse raggiungere il nonno, Kelly la fermò prendendola per un braccio. «Lasciami! Lasciami andare, Kelly! È stata colpa mia!»
«È pericoloso, Maria. Non avvicinarti» le disse Kelly addolorata.
«Bugiarda! Lasciami! Lasciami ho detto!»
Posato Shadow tra le braccia di Morris, Gerald si avvicinò alla nipote agitata. Notato il camice, cercò di nascondere la sua preoccupazione. «Maria, tesoro, ora cerca di calmarti, ok? Starà bene, credimi.»
«È colpa mia, nonno! Sono stata io a fargli questo!» ammise la bambina tra lacrime e singhiozzi. «Non avrei dovuto insistere.»
«Insistere su cosa, piccola mia?» Gerald cercò di tranquillizzarla accarezzandole le spalle. Quest’ultima tirò su col naso e dopo aver preso un bel respiro profondo disse tutto ad un fiato:« Finita la visita abbiamo giocato ad acchiapparella tra i corridoi. Poi ad un certo punto siamo entrati in uno strano corridoio e…» cercò quel ricordo perduto, ma senza riuscirci. «E poi mi sono sentita male. E lui ha fatto qualcosa di… incredibile.» Il vecchio professore ascoltò paziente la nipote annuendo e continuando a rassicurarla con un sorriso. «Mi ha salvata, nonno. Qualsiasi cosa abbia fatto, lo ha fatto per causa mia.»
«Tranquilla, tesoro. Ti ringrazio di essere stata sincera con me, ma ho bisogno che mi racconti meglio ciò che è succeso prima che ti sentissi male. Puoi?»
Maria era pronta a rispondere, ma Morris si intromise allarmato. «Professore, la temperatura di Shadow sta salendo a vista d’occhio.»
«D’accordo» rispose Gerald, prendendo le mani di Maria per baciarle. «Vedrai che Shadow starà bene. Adesso è meglio che torni in infermeria con Kelly, va bene? Ci vediamo più tardi.»
La bambina non poté fare altro che annuire e lasciare che Kelly le prendesse la mano.
«Ti ringrazio per avermi chiamato, Kelly» le sorrise il professore. «Te ne sono veramente grato.»
«Era mio dovere» rispose la donna, accennando un sorriso.
«Per quanto riguarda tutti gli altri, per oggi potete pure andare a riposare. Vi chiamerò per eventuali aggiornamenti.» Gerald fulminò con lo sguardo Stanford, cercando di mantenere un profilo basso. «Noi due dobbiamo parlare»
Lo scienziato alzò le spalle.«Quando vuole lei, professore.»
Quel periodo di apparente tranquillità era già giunto al termine. Ora, al suo passaggio, tutti gli scienziati avevano ripreso a squadrare la creatura artificiale che avrebbe dovuto essere la tanto attesa Forma di Vita Definitiva: c’era chi si domandava se potesse finire come con il primo progetto, Biolizard, accompagnato da una serie di complicazioni che ha causato numerosi incidenti e feriti o se potesse addirittura finire peggio. Inquietudine e dubbio avevano ripreso a preoccupare gli scienziati e specialisti presenti, tutti meno Stanford, che mentre si allontanava da quel concentrato di negatività, componeva il numero del Presidente sul suo comunicatore da polso.
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
Tutto qua? Dopo due mesi tutto qui? Poco ma sicuro molti di voi arrivati qui lo hanno pensato ^^”
O magari ( e lo spero) è felice di vedere un nuovo capitolo.
Mi scuso per questo imbarazzante ritardo, ma la scuola mi ha tenuta impegnata fin dal primo giorno. Intanto nel tempo libero scrivevo, ma ogni volta non ero soddisfatta e perciò finivo col cancellarlo tutto e riscriverlo. Alla fine, questo è il risultato.
Spero di non avervi annoiato e di avervi incuriosito un po’. Mi scuso in anticipo per eventuali errori di battitura o grammaticali ( sicuramente ce ne saranno a bizzeffe. Me lo sento) e ci vediamo al prossimo capitolo, che spero con tutto il cuore di riuscire a pubblicare prima di due mesi.
A presto!
 
Cassandra

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Capitolo 10
*** La resa dei conti ***


«Io l’avevo avvertita» borbottò Morris. «Sapevo che non ci potevamo fidare di Drew! Così rovinerà l’intero progetto e… » Gerald zittì l’assistente portandosi alla bocca l’indice destro e lo invitò a sedersi accanto a lui. «Così lo svegli» mormorò.  Morris si avvicinò al professore con una sedia e contemplò assieme a lui il corpo di Shadow e, per un istante, si inorridì di fronte alle scottature che ricoprivano il petto, ma polsi e caviglie lo portarono a distogliere lo sguardo: quelle profonde lesioni provocate dalle manette troppo strette erano il simbolo della ribellione e della disperazione del riccio. «Dobbiamo liberarci di lui» disse grave Morris. «È l’unica soluzione.»
Gerald finì di medicare l’ultima ustione e sorrise con amarezza.«Morris Bernett, non ti facevo così spietato.»
«La smetta di scherzare. Deve trovare un modo per rispedirlo sulla Terra. E subito!»
Una chiamata d’emergenza placò momentaneamente la collera di Morris, lasciando che il professore rispondesse al comunicatore. «Qui Robotnik. Ditemi tutto.»
«Chiedono di lei nel laboratorio dell’ala nord. È il Presidente
Il mentore guardò l’allievo che subito dissentì, visibilmente preoccupato.
«Professore?»
«Sì, sto arrivando. Ditegli che richiamerò fra venti minuti. Ho un’altra urgenza» chiusa la comunicazione, Gerald si sistemò il vestiario schiarendosi la voce.
«Lo sa che ha liquidato il Presidente, vero? Qual è quest’urgenza?» Morris ricevette subito la risposta appena entrarono nel laboratorio Maria accompagnata da Kelly. «Sta scherzando, spero.»
«Maria, tesoro. Avvicinati.»
Nonostante il sorriso amorevole del nonno, la bambina esitò, lasciando che Kelly le infondesse il coraggio necessario per avanzare. I suoi enormi occhioni color del mare erano diventati d’un tratto piccoli e sfuggenti, poiché guidati dal terrore e dal rimorso.
«Ora puoi pure andare, Kelly. Qua ci penso io» la donna annuì e uscì dal laboratorio. Ora che era senza un supporto morale, Maria cercò conforto nell’intrecciare le dita fra di loro. «Maria», iniziò l’uomo pacato, «ora Shadow sta bene. Lo vuoi vedere?»
Maria annuì debolmente con gli occhi rossi e lucidi e, con il nonno al suo fianco, avanzò per raggiungere il lettino su cui il suo fratellino era sdraiato. Bende mediche e cerotti iniziarono a preoccuparla, ma il volto sereno di lui alleggerì il cuore della piccola. «Sta… dormendo?»
Annuì. «Come sai lui è speciale. Le ferite spariranno in pochissimo tempo. Non crucciarti, piccola mia.»
Maria tirò su col naso. «Però è stata colpa mia, nonno.»
«Maria, vorrei che mi raccontassi con calma cosa è successo dopo la vostra visita. Puoi?»
I due Robotnik si sedettero una davanti all’altro. L’uomo lasciò che la bambina facesse mente locale prima di raccontare. «Come ti ho detto, usciti dall’infermeria ci siamo messi a giocare ad acchiapparella. All’inizio correvamo senza preoccuparci di dove stavamo andando, finché non ci siamo imbattuti in uno strano corridoio.»
«Perché era strano?»
Maria si morse il labbro inferiore nervosamente. «Era… un corridoio dalle pareti rosso scuro.»
Alle ultime due parole Gerald reagì alzando un sopracciglio, mentre Morris alzò la testa dal suo apparente dormiveglia. «Sei sicura?» chiese il primo mantenendo la calma.
«Sì. In realtà Shadow non voleva entrare. Diceva che si sentiva strano, ma io ho insistito! Così ci siamo andati. Poi… abbiamo visto una porta nera. Non ricordo come fosse, ma so che mi faceva paura e…» come accadde nell’altra infermeria, Maria non ricordò cosa le successe prima di sentirsi male, lasciando così Gerald sulle spine, ma comunque soddisfatto.
«Tranquilla, Maria. Va bene così. Ti ringrazio per esserti aperta con me» Gerald strinse forte a sé la sua adorata nipotina, sciogliendo le sue tensioni e quindi invitandola a ricambiare.
«Mi dispiace, nonno. Non arrabbiarti con Shadow. Lui voleva solo…»
«Proteggerti. Sì, lo so.»
«Era così calda.»
«Hm? Che cosa?»
Maria alzò la testa per mostrare al nonno due occhi colmi di serenità e privi del precedente terrore, sorridendo. «La luce che avvolgeva Shadow. Era calda e rassicurante.»
Il professore rispose baciando la fronte candida di Maria. «Grazie, Maria. Perdonami, ma ora devo proprio andare. Faresti compagnia a Shadow mentre sono via?»
Senza pensarci due volte, Maria si sedette accanto a Shadow e gli prese una mano. «Ovviamente.»
 
 
«Se ti stai chiedendo cosa ci faccio qui, caro Morris, la risposta è semplice. Sono io che ho fatto chiamare il Presidente.»
La calma di cui disponeva Morris in quel momento era dovuta al semplice fantasticare di lui che prende a pugni in faccia Stanford, tra sadiche risate e sincero compiacimento, ma dovette trattenere anche la sua immaginazione, sicché il Presidente era al loro cospetto, per niente contento.
I suoi gomiti erano entrambi appoggiati sulla scrivania, le sue mani intrecciate fra loro e i suoi occhi erano furenti e accusatori nei confronti dell’illustre scienziato. «Esigo delle spiegazioni, Robotnik. Subito» ordinò.
«Riguardo a cosa? Se posso chiedere» domandò Gerald, per niente intimorito dall’immenso ologramma.
«Mi pare ovvio, no?» seguì Stanford, che prontamente fece scorrere le immagini delle telecamere di sorveglianza dell’ARK, divise sul grande schermo. Gerald e Morris rimasero allibiti davanti a quella forte attività di energia caotica che si spostava da un laboratorio all’altro sottoforma di sfera elettrica. Seppur per pochi millesimi di secondi, era possibile distinguere la figura di Shadow che appariva e scompariva.
«Ma quello…»
«È stata tutta opera di Shadow» riprese Stanford. «Come può vedere, signore, il livello di energia caotica supera la norma. Il progetto Shadow ha usufruito di essa, mettendo così in pericolo tutti noi.» Il Presidente rimase senza parole davanti a quelle urla di terrore e confusione. «Vedo con piacere che n’è sorpreso. Be’, sappia che è grazie a loro. Loro, signore, hanno posto fiducia in quella creatura artificiale, lasciando che andasse a zonzo per l’ARK senza problemi e finendo col reputarla parte della famiglia. Inaccettabile e inappropriato per il progetto!» il dito accusatore di Stanford puntò aggressivo il professore e l’assistente ammutolendoli. Quest’ultimo cercò di contenere la sua rabbia stringendo più che poteva i pugni. «E sempre loro non hanno voluto rinchiuderlo in una cella di contenimento, finché non fosse stabile e inoltre…»
«Adesso basta» lo fermò il Presidente irritato, mentre Stanford gli sorrise scabroso. «Ho accettato la chiamata nonostante i miei impegni e…»
«Oh, signore, sono sicuro che i suoi impegni abbiano una certa importanza, ma questo è…»
«Silenzio!» tuonò il Presidente, battendo violentemente un pugno sulla scrivania. «Spegni immediatamente e taci. Hai capito, Drew?»
«S-sissignore. Mi scusi.»
«La mia pazienza ha un limite e così anche il mio tempo» schiaritosi la voce, il Presidente si rivolse verso Gerald. «Il motivo per cui mi trovo qui non era per queste immagini, che spero vivamente, professore, mi spiegherà» tornò su Stanford, severo. «Ma sono qui per queste.»
Il Presidente premette un bottone e automaticamente apparve un grosso ologramma che ritraeva Morris con la schiena appoggiata al muro, vicino all’infermeria B.
«Credo… di non capire» provò lo scienziato, mostrandosi il più possibile rilassato.
«Oh, lo capirai molto presto.»
«Emozioni, eh? Non eri tu che ti vantavi tanto di non averne, Morris?»
Improvvisamente Stanford si irrigidì alla sua apparizione e capì di che registrazione si trattasse. Giratosi verso Morris, lo fulminò con lo sguardo. «Che diavolo succede?»
Morris ricambiò, allargando un mezzo sorriso, sadico.«Quello che vedi, Drew.»
«Visto che sei stato tu ad inviarmele», si intromise il Presidente, «Morris Bernett, ti do tranquillamente la parola.»
Lo scienziato annuì e fece un passo avanti, pronto ad esprimersi. «Come ha potuto vedere, signore, il qui presente Stanford Drew si è dimostrato contrario al progetto Shadow.»
«M-ma questo non vuol dire niente» cercò di giustificarsi Stanford.« Io ho semplicemente espresso un mio parere! Magari nel modo sbagliato, certo, ma io sono solo preoccupato per…»
«Hai avuto la tua occasione per parlare, Drew» lo ammonì il Presidente. «Ora devi tacere» rivoltosi verso Morris, gli diede il permesso di proseguire.
Le immagini andarono avanti, preoccupando sempre di più Stanford, che indietreggiò alle sue ultime parole.«Anche se dovessi impiegarci degli anni.»
A fine registrazione, il Presidente squadrò deluso Stanford, tremante e nel panico. «S-signore, posso spiegare…»
«Visto che ci tieni tanto a parlare, allora spiega tu stesso questi» Sul grande schermo del laboratorio apparvero una serie di documenti a nome del professor Robotnik, che suscitò non poco sgomento allo scienziato appena vide la provenienza di essi. «Ma quelli vengono dal...»
«Dal tuo computer. È esatto» proseguì Morris, sorridente. «Credevi di essere l'unico ad esserne capace?»
«Tu... Lurido bastar-...»
«Entrate pure» all’ordine di Morris, due uomini armati fecero irruzione prima che Stanford potesse saltargli addosso e lo bloccarono prendendolo per le braccia.
«Lasciatemi! Lasciatemi immediatamente!» lo scienziato si dimenò aggressivo con una forza tale da mettere in difficoltà i due agenti, che dovettero chiedere ulteriore aiuto.
«Hai decriptato il database personale del professore illegalmente, copiando spudoratamente i documenti di progettazione di Shadow» Morris si avvicinò a Stanford, mantenendosi a debita a distanza.« Direi che questo è un chiaro segno di sabotaggio, ma soprattutto di tradimento.»
«Professor Stanford Drew. Date le circostanze e le prove qui presentate, dichiaro ufficialmente la tua espulsione da questo progetto e che quindi verrai riportato sulla Terra seduta stante» annunciò il Presidente. « Qualsiasi cosa dirai sarà usata contro di te.»
«Voi non capite!» obbiettò Stanford urlando. «Questo progetto è un totale fallimento! Un fallimento vi dico!» Per niente sorpresi, il Presidente e i due scienziati osservarono in silenzio Stanford che veniva trascinato via con la forza da ben quattro uomini, ma ciò che disse, prima che le porte li divise, allarmò non poco i tre. «L’instabilità di Shadow ci ucciderà tutti! Il sangue nero! Il sangue nero!»
La voce di Stanford sparì pian piano nei corridoi, lasciando il tempo al Presidente di scegliere le domande per le dovute spiegazioni, ma dopo quella scena pietosa che lo aveva irritato e stancato,  preferì di gran lunga chiudere la chiamata dicendo:«Si tenga ben stretto Morris Bernett, professore. È un valido e fedele collaboratore che pur di difendere il suo nome ha compiuto un gesto alquanto pericoloso.»
Gerald sogghignò annuendo. «Oh, ma io ero già consapevole delle capacità del giovane Morris» si avvicinò al suo assistente per sorridergli. «Non ho mai dubitato.»
 «Professor Robotnik. Come Bernett io ho stima di lei, ma soprattutto»,il Presidente gli puntò un indice, «ho fiducia in lei. In nome delle diverse occasioni in cui lei mi ha aiutato in passato, le do la completa libertà per concludere la ricerca. Sono sicuro che risolverà questa instabilità»
Gerald si schiarì la voce e fece un profondo inchino. «La ringrazio, signore. Non la deluderò.»
Il Presidente sorrise sollevato.«Lei non lo ha mai fatto.»
Alla scomparsa dell’ologramma, Morris si abbandonò su una sedia vicina e sospirò profondamente, gettando così la sua maschera di ferro. «È fatta» mormorò.
«Lo hai fatto veramente portare via con la forza?» chiese Gerald, per niente sorpreso.
«Sì» rispose l’altro senza alzare lo sguardo.
«Era necessario?»
Esitò.«No.»
«Perché lo hai fatto?»
«Tienilo d’occhio. Lei mi ha chiesto questo e io l’ho fatto.» Questa volta l’assistente rivolse al mentore uno sguardo stanco, ma comunque soddisfatto di ciò che aveva fatto.«Sebbene ero diffidente nel credere che Stanford potesse essere quel tipo di persona, lei lo ha smascherato. Com’è ha fatto?»
Gerald scrollò le spalle. «Ho i miei trucchi.»
«Ha sempre tenuto un profilo basso. Si è sempre dimostrato docile» schioccò la lingua. «È uno un gamba.»
«Non abbastanza da fregare te» Il professor Robotnik diede due belle pacche sulle spalle di Morris. «Ma ora siamo al sicuro, giusto? Il pericolo è passato» salutato il giovane scienziato, era pronto per uscire dal laboratorio e proseguire il lavoro, ma venne fermato da una confessione inaspettata.
«Non ho letto i documenti» disse tutto ad un fiato Morris. «Quando li ho recuperati non li ho letti e non dirò nulla riguardo al Sangue Nero.»
Gerald si voltò, continuando a sorridere. «Hai sentito la nostra conversazione?»
Morris arrossì imbarazzato.«Non era mia intenzione, mi creda.»
«Ti credo, stai tranquillo.» ridacchiò.«Interpretare la parte del vecchietto sorpreso non è cosa per me. Sono stato convincente?»
«Professore. Se qualcosa la preoccupa o se ha bisogno di parlare con qualcuno, lei sa che può contare su di me.» incalzò Morris,  visibilmente apprensivo e avvolto dai sensi di colpa.
Gerald si voltò quanto bastava per vedere l’espressione dell’assistente d’impulso sorrise.
Speranza e ammirazione; quegli occhi emanavano la stesa energia che lo travolse il giorno del loro primo incontro, dove un giovane Morris Bernett di soli dodici anni gli disse fiducioso che da grande avrebbe lavorato al suo fianco.
«Se mi è permesso, professore, vorrei farle una domanda.»
«Chiedi pure.»
«Il motivo per cui lei ha comunicato il risveglio di Shadow solo questa settimana, era dovuto al BB?»
Assentì sincero. «Se il Presidente dovesse scoprire l’esistenza del BB io potrei…»
«Va bene, basta così. Per me è sufficiente.»
In un battito di ciglia, Gerald si ritrovò davanti il giovane Morris, il sognatore dodicenne, tutto imbronciato, deciso a non voler sentire la verità pur di non perdere la fiducia nel suo eroe. Eroe. Tutti nell’ARK lo definivano l’eroe che avrebbe trovato la cura per la NIDS, la formula che avrebbe salvato l’umanità. Ma se lui era davvero un eroe, allora perché anche solo pensare la parola nella testa gli suonava così aliena? Perché lo divertiva tanto da considerarla una barzelletta? Perché si reputava… indegno di esserlo?
«Ora posso farti io una domanda, Morris?»
Morris l’adulto si alzò dalla sedia come un cadetto davanti al sergente.«Certamente.»
L’uomo si girò completamente, e spense dall’interruttore tutte le luci, tranne l’unica lampada al neon che illuminava lui stesso, conferendogli un aspetto spettrale e grave. «Se io ti dicessi che non sono l’uomo che tu tanto stimi, bensì un uomo tutt’altro che buono?»
 
 
Rosso e nero circondavano uno Shadow confuso, mentre un fastidioso formicolio lo costringeva a grattare nervosamente entrambe le braccia. Il vuoto sotto i suoi piedi gli provocava una terribile nausea e non sapere dove si trovava lo spaventava a tal punto da non provare ad avanzare in quel misterioso spazio infinito.
«D-Dove sono! Che cosa mi è successo?» il silenzio era la sua unica compagnia, che non aiutava di certo a sentirlo al sicuro. «C’è nessuno?! Professore! Maria!» chiamare a gran voce era inutile e sempre più preoccupante, poiché non riceveva mai una risposta. «Dove siete finiti tutti. Sono… solo.»
Il tempo pareva passare inesorabile, tempo che Shadow teneva ascoltando il suo respiro andare all’unisono con il battito del suo cuore. La speranza lo abbandonava poco per volta e sapeva che da lì a poco quella sgradevole sensazione che aveva sotto la pelle lo avrebbe ben presto consumato fino a renderlo insensibile, ma per sua grande sorpresa qualcosa attirò la sua attenzione: una figura alta e marrone era a pochi metri da lui e gli dava le spalle.
«Ehi! Ehi, tu! Puoi aiutarmi?»
Quella non rispose e rimase immobile.
«Per favore. Io non voglio restare qui. Io ho…»
«Paura?» una voce rauca e profonda riecheggiò nella testa del riccio nero, cosa che non era affatto nuova per lui. «Tu non puoi provare paura
L’entità misteriosa si voltò per mostrare ciò che era, ovvero un lungo mantello con il cappuccio vuoti da cui Shadow cercò di vedere, se presente, il volto nascosto, ma ciò che vide apparire lentamente lo portò ad indietreggiare. «No… no» mormorò scuotendo la testa, mentre tre occhi gialli iniettati di sangue lo fissarono minacciosi.
«Shadow the Hedgehog. Il tuo destino è segnato. Il tempo è quasi giunto.»
«S-Stai lontano da me!»
«Non puoi scappare da me. E sai perché? Tu e io siamo una cosa sola!»
Ecccolo. L’arto deforme a tre dita, lo stesso che aveva cercato di afferrarlo nella sala dei container era sul punto di raggiungere la sua faccia quando…
«NO!» l’urlo di Shadow venne soffocato da una mano guantata di bianco, mentre l’altra cercava disperatamente di bloccare le braccia. Gli occhi velati di lacrime e la forte luce della lampada impedivano al riccio bicolore di riconoscere il profilo in controluce, ma si rilassò appena non vide i tre occhi: era solo Morris, disgustato dalla scena a cui aveva assistito. «Datti una calmata, topastro. O la sveglierai.»
Con il fiato ancora corto, Shadow seguì lo sguardo dello scienziato. La dolce Maria sonnecchiava serena ai piedi del letto, nella speranza di poter proteggere nel sonno il fratellino.
Shadow si dimenò quanto poteva per liberarsi dalla presa di Morris, ma era ancora molto debole per riuscirci. Lo scienziato ridacchiò sadico.«E tu saresti la Forma di Vita Suprema? Ma fammi il piacere. Ho proprio paura che la perfezione di cui tanto andava fiero il professore sia solo una leggenda.»
Shadow lo squadrò furente, infiammando i suoi occhi rossi.
«Cos’è una minaccia? Dubito che riuscirai a competere con me in queste condizioni. Ma rallegrati. Ne ho parlato con il professore della tua bravata e indovina un po’? Verranno apportate delle modifiche.» Morris si avvicinò a Shadow, mantenendosi ad una distanza di pochi centimetri dal suo naso. «Oppure chissà. Anche una sostituzione.»
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
Succede sempre così…. SEMPRE. Ogni volta che arrivo alla fine di una storia vado in paranoia e finisco per fare disastri… Non so come scusarmi per il terribile ritardo… Finite le vacanze di Natale la scuola ci ha dato dentro con gli esami e i progetti e perciò non ho avuto proprio il tempo di proseguire. Inoltre in casa abbiamo una new entry: il nostro primo cagnolino <3 che ci ha dato davvero molto da fare in questi mesi.
Ebbene… eccoci al decimo capitolo e, come sopracitato, la storia è quasi giunta al termine.
Non so come descrivere questo capitolo ad essere sincera. So solo di aver avuto un’enorme difficoltà nel trovare la scusa perfetta per mandare via Stanford. Sono consapevole della presenza di numerosi buchi nella trama, ma spero di poterli riempire proseguendo.
Commenti, purché costruttivi, sono ben accetti così che io possa migliorare nella scrittura in futuro.
Detto questo, spero che il capitolo vi sia piaciuto e aspettatevi tante sorprese nei prossimi capitoli.
Alla prossima!
Baci
 
Cassandra

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Capitolo 11
*** Quattro anni dopo ***


Colpi di laser e spindash aiutarono Shadow a riprendere i sensi, ma fu la voce di Sonic che lo aiutò a svegliarsi del tutto, accompagnato da quella odiosa sensazione di déjà-vu.
«Alla buon’ora, Shad! Un aiutino qui sarebbe gradito!» urlò il blu, appena vide il nero alzarsi barcollando.
«Dove… siamo?» la luce delle enormi lampade al neon impedivano a Shadow di riconoscere quelli che erano puntatori laser, ma una scia rossa pronta a colpire nella sua direzione lo portò ad agire e quindi a distruggere la macchina con un balzo. Quei pochi secondi passati a mezz’aria gli bastarono per capire dove fossero e, riconosciute le pareti celesti metallizzate dell’ampia stanza, urlò convinto:«La palestra!»
«Palestra?» gli si avvicinò Sonic. «Ti allenavi qui?»
«Purtroppo. A destra!» afferratolo per un braccio, Shadow lanciò il riccio rivale verso una coppia di puntatori posti ad un angolo, che li distrusse con l’ennesimospindash.
«Nice
«Un momento» il riccio bicolore iniziò a correre schivando la pioggia di laser, accortosi che mancava qualcosa. «Dov’è la scatola?!» chiese preoccupato.
«Non lo so!» fuori un altro puntatore. «Ho avuto un po’ da fare, sai com’è! Ma quanti sono?!»
«Maledizione» Shadow si guardò attorno, sperando di poter adocchiare la scatola in quel mare che era il pavimento, ma non passò molto tempo prima che si accorgesse della macchia nera appoggiata alla parete dell’altro lato della stanza rispetto a lui. «Eccola!» attivati i propulsori alla massima potenza, Shadow si precipitò per recuperarla, ma a pochi metri di distanza, un fascio laser si stava avvicinando pericolosamente ad essa: ad occhio, non sarebbe mai riuscito a raggiungerla.«No!»
A tempo record, il riccio blu anticipò il raggio a costo di atterrare strisciando sulle ginocchia e sorprendendo Shadow. «Uh, questo lascerà il segno per un po’» si lamentò massaggiandosi le giunture. «Shadow, dobbiamo uscire da qui. Ora!»
«La porta è nascosta e può essere aperta solo dalla postazione di controllo esterna.»
«E quindi che si fa?!»
«A meno che…» chiusi gli occhi, Shadow fece mente locale fino a quando un ricordo non riaffiorò nel momento in cui non percepì un bip costante a lui familiare. «Laggiù» seguito dalla sua controparte, Shadow si avvicinò ad una parete apparentemente simile alle altre, ma arrivati davanti ad essa, il suono persistente era ben udibile ad entrambi. «Shadow, quando vuoi fai pure la tua magia» disse il blu nervoso.
«Adesso è l’ora di farla finita!» caricato il pugno, il riccio ebano andò a colpire una placca di metallo che nascondeva un pannello di controllo e le macchine si fermarono, accompagnate da uno spegnimento immediato delle luci. A fianco del pannello si aprì di scatto una porta.
Tirato un sospiro di sollievo, i due ricci, esausti, si scambiarono un pugno in segno di vittoria e varcarono la soglia della porta per ritrovarsi in quella che era la postazione di controllo. Tra quelle tastiere sofisticate e una serie di schermi lampeggiavano diverse luci di svariati colori.
«Aspetta… com’è possibile che questa palestra sia in funzione dopo così tanto tempo?» domandò Sonic confuso.
«Una domanda del genere l’avresti dovuto fare davanti alla porta che ci ha risucchiati» puntualizzò Shadow.
L’altro schioccò le dita. «You’re right
«Comunque sia non ne ho idea. E io comincio davvero a stancarmi.»
«Siamo in due, fratello» Shadow lo fulminò con lo sguardo rubicondo, ammutolendolo. «Oh, andiamo. Scherzavo.»
«Fai poco lo spiritoso o giuro che ti lascio qui» Shadow gli allungò una mano.
«Disse colui che può usare il Chaos Control a suo piacimento» borbottò il blu, porgendogli la scatola di velluto.
«Sai bene che non è vero» i due ricci passarono la stanza per raggiungere una porta che, al loro passaggio, si aprì e li portò nuovamente in un corridoio, che per la gioia di Sonic era illuminata e le pareti erano argentate. «Oh bene. Bye-bye, bloody walls.»
«Forza, non perdiamo altro tempo» Shadow scelse una delle due direzione e prese a camminare, distraendo il rivale dall’apparente momento di relax.
«Sai già dove andare?»
«Assolutamente no» rispose il riccio bicolore sincero.
«Fai sul serio?»
«Così serio da non saperti dire perché persino questo corridoio è completamente illuminato.»
«Sì, è vero, anche questo è strano, ma… ehi! Lo hai detto appena arrivati qui, no? Stiamo parlando dell’ARK, dopotutto. Magari nasconde qualche… che ne so… generatore di emergenza o roba simile.»
Shadow si rivolse verso Sonic, ma non per ammonirlo, bensì per annuire alla sua supposizione. «Ti ho già detto che la tua perspicacia mi spaventa più del solito?»
«Sì, con una vena ironica come adesso, ma… sì» disse con una certa soddisfazione l’eroe.
«Non è da escludere, ma è comunque strano che io non lo sappia.» Shadow strinse i denti frustrato e deluso. La rabbia ormai l’aveva consumata del tutto nel giro di quelle ore. «Così come non sapevo di quella porta»  forse Sonic aveva ragione, cominciò a pensare, forse si era davvero lasciato guidare inconsapevolmente da quelle emozioni che credeva di aver dimenticato; emozioni che lo portarono a teletrasportarsi nel suo passato ormai ridotto in macerie.
«Non preoccuparti, Shad. Troveremo una soluzione» sebbene il sorriso del rivale blu fosse sincero e convinto di poter aiutare il riccio ebano combattuto, quest’ultimo gli rispose con un leggero sogghigno falso e spento. «E ci aiuterà quella registrazione. Ne sono sicuro.»
Subito Shadow adocchiò la scatola, nonché l’unica cosa che lo avrebbe aiutato a venire a capo di quell’avventura, ma anche l’unico ricordo che gli restava della sua migliore amica. «Sei la nostra unica speranza. Maria.»
Un leggero clic seguito da un bip sordo e costante allarmarono i due ricci. «Che… cosa succede?» chiese Sonic.
«Non lo so proprio.» Il suono intanto continuava a riecheggiare nel corridoio, monocorde. «E non so dire se è una cosa buona o meno.»
«E se… fosse una bomba?!»
«Scordatelo! Io non la distruggo!»
«Meglio lei che noi!»
«Attento a quello che dici oppure io giuro che…» appena Shadow avvicinò la scatola al viso di Sonic, quella smise di suonare. «Ma cosa?» allontanatosi, riprese a suonare.
«Ok. Forse… non è una bomba» obbiettò il blu.
Shadow riprovò un paio di volte per verificare e, avanzato in direzione del corridoio, sussultò dalla sorpresa quando il suono divenne più veloce. «Non è una bomba. È munita di un sistema di monitoraggio» annunciò sicuro.
Sonic si grattò dietro la nuca, confuso. «Cioè… è come un metal-detector?»
«Qualcosa del genere. Devo averlo attivato in qualche modo» i due si guardarono speranzosi. «Questo ci aiuterà a uscire da qui.»
«Ma come hai fatto? Hai premuto qualche pulsante o roba simile?»
«No» rispose l’altro, sgranando gli occhi appena comprese. «Ma ho detto qualcosa prima che si attivasse.»
Sonic chiuse gli occhi incrociando le braccia per pensare e dopo qualche secondo schioccò le dita. «Maria! Hai detto Maria!»
Annuì. «Per quanto possa essere assurdo, doveva essere la parola di sblocco.»
«Un momento. Ma nella biblioteca abbiamo pronunciato il nome più volte. Perché ora invece…»
«Evidentemente perché ora siamo più vicini al luogo che dobbiamo raggiungere» lo anticipò il nero.
 L’eroe blu fece un verso d’approvazione. «Allora che cosa aspettiamo? Andiamo!»
Ormai sicuri di proseguire, Sonic e Shadow si affidarono alla misteriosa scatola, muovendosi in base al suono che produceva. Finalmente le cose stavano prendendo una piega positiva e questa volta Shadow ne era sicuro e lo percepiva benissimo. Sentiva che al suo fianco c’era la sua adorata Maria.
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Maria si svegliò con un sussulto non tanto per lo spavento, ma più per la sorpresa, avendo sentito un forte rumore provenire da fuori.  Raggiunta a tentoni l’interruttore della lampada sul comodino lo premette e la luce la colpì violenta, cogliendola impreparata. La ragazzina stropicciò gli occhi per togliere le ultime tracce di sonno e, dopo aver sbadigliato, decise di alzarsi. «Che ore sono?» spostò il suo cerchietto blu che oscurava l’orologio: segnava le sette e quarantacinque del mattino. «Caspita. Oggi sono mattinieri.»
Come ogni mattina, la prima cosa che Maria fece appena i suoi piedi toccarono il tappeto blu notte fu di inspirare profondamente ad occhi chiusi stiracchiandosi, senza dimenticare di sorridere per augurarsi una bella giornata. Poi passò all’igiene personale e al vestiario e siccome si sentiva particolarmente felice, optò per uno dei suoi outfit preferiti che consisteva in tre semplici elementi: un vestito azzurro che arrivava alle ginocchia con le maniche lunghe, un top blu con le maniche a sbuffo e un paio di scarpe color cobalto con il tacco basso.
L’ultimo tocco finale era darsi un’occhiata allo specchio facendo un giro su se stessa. «Bene, sono pronta! Oh! Stavo dimenticando il cerchietto!» preso l’accessorio, Maria lo mise accuratamente fra i capelli dorati. «Perfetto! Così va meglio!» avvicinato il viso, lasciò che un sorriso si allargasse da uno orecchio all’altro, poiché notò con piacere che i suoi capelli, dall’altezza delle spalle, si erano allungati fino a raggiungere metà schiena, proprio come aveva sempre desiderato. «Ce ne avete messo di tempo, eh? Bricconcelli» ridacchiò entusiasta.
Prima di uscire dalla stanza prese al volo da un cassetto della scrivania un astuccio rettangolare rosso con la cerniera e, un po’ esitante, un flaconcino contenente le sue medicine e corse fuori, dove salutò felice chiunque incontrasse.
«Maria!» la voce squillante di Kelly attirò l’attenzione di Maria impegnata a parlare con uno scienziato di passaggio. Il suo stile stravagante era sempre lo stesso, a parte la montatura degli occhiali che cambiò da ovali a perfettamente rotondi. «Ma come, sei già sveglia?»
«Buongiorno Kelly! Be’ ecco, la verità è che sono stata svegliata.»
Kelly allargò un mezzo sorriso. «Oh cielo. Hanno iniziato presto.»
«Già. Infatti quando mi sono svegliata Shadow non c’era.»
«Eppure quella stanza dovrebbe essere insonorizzata» la scienziata sospirò scuotendo la testa. «L’unica ipotesi è che Morris l’ha equipaggiata di altri strumenti.»
Al nome di Morris, Maria scurì subito in volto. «Shadow non dovrebbe sforzarsi così tanto» disse delusa e arrabbiata, mentre la donna le si avvicinò per incoraggiarla.
«Sai bene che ne ha bisogno, Maria»la piccola Robotnik si lasciò accarezzare. «Senti. Forse ora è il momento della sua pausa. Perché non vai a trovarlo?»
«Dici… che posso?»
«Me lo chiedi ogni volta. Certo che puoi.»
«E che non voglio distrarlo.»
«Tu non sei affatto una distrazione. Tu sei sua sorella maggiore» Kelly stampò un morbido bacio sulla fronte di Maria, facendo attenzione a non lasciarle un segno col rossetto. «Ehi, sbaglio o sei diventata più alta?»
A quel complimento Maria arrossì dalla felicità e prima di correre dal suo fratellino disse: «Credo di sì. Allora vado! Grazie mille, Kelly!»
La scienziata la salutò con la mano e intanto che riprendeva la sua strada verso il laboratorio pensò con dolcezza: come sono volati via questi quattro anni.
 
Maria ricordava bene come vedeva quella stanza celeste a otto anni. La supervelocità di Shadow le aveva dato la sensazione che l’enorme sala fosse un grosso pacchetto regalo, ma ora  quell’immagine sbarazzina era stata sostituita da una pioggia rossa e delle scie giallo-dorate ancora più difficili da tenere d’occhio con lo sguardo: Shadow era diventato ancora più veloce, superando persino la velocità degli stessi raggi laser.
Era senza dubbio meravigliata davanti alle capacità del riccio, ma in qualche modo era anche stranita davanti a quel tipo di allenamento a cui si stava sottoponendo da ben quattro anni. Tutto era iniziato dopo il giorno dell’incidente, quando, per ordine del professor Robotnik, non poté vedere Shadow per un’intera settimana. Inizialmente pensò che fosse tutta colpa sua, ma il nonno le spiegò, senza entrare troppo nei dettagli come sempre, che Shadow doveva essere assolutamente riprogrammato.
Passati i sette giorni, Shadow sembrava essere tornato quello di prima, il riccio amichevole che aveva conosciuto, ma gli anni passarono e i due cominciarono a passare meno tempo insieme.
«Ma guarda. Principessa, sei già sveglia?»
Maria chiuse gli occhi per calmarsi.«Buongiorno, Morris» disse ironica, senza minimamente voltarsi.
«Oh, adoro quando mi parli così. Vedo che sei di buon umore oggi, eh?»
«Sì, perché indossa il suo vestitino preferito.»
«Nonno!» il professor Robotnik invitò la nipotina con le braccia aperte, che lo subito lo abbracciò. «Buongiorno, nonno.»
«Buongiorno anche a te, piccola mia. Sei venuta a vedere come se la passa Shadow, dico bene?»
 «Non l’ho più visto in camera mia e perciò mi sono preoccupata.»
«Questa mattina ha voluto iniziare presto.»
«Shadow?»
Annuì. «Ad ogni modo, ora è il momento che si fermi. Morris, richiamalo dentro.»
Morris avanzò verso una postazione per parlare al microfono. «Basta così, Shadow. Fai una pausa.»
A macchine spente, il riccio bicolore si avvicinò alla porta e, attraversata quest’ultima,  sobbalzò alla vista di Maria.
«Ciao, Shadow!»
«Maria?» sorpreso ma felice, Shadow corse per abbracciare la sua migliore amica, per poi sollevarla di peso.
«Dai, Shadow! Sai che non mi piace quando fai così!» ridacchiò la ragazzina imbarazzata.
«Sai che non è vero» Shadow rimise giù Maria con cautela, contagiato dalla sua risata. «Come mai sei già sveglia?»
«Risveglio brusco» ammise lei.
«Oh, no » incalzò subito l’altro. «Sono stato io? Mi dispiace!»
«No, non ti preoccupare! Tanto ho dormito abbastanza. Come stai?»
Shadow allargò le braccia. «Mi sento in forma. Ho fatto un buon allenamento.»
«Come sempre, del resto» si intromise Gerald. «Ben fatto, figliolo.»
«Grazie. Professore.»
«Già che sei qui, Maria. Ti dispiace se ti visito ora? Così sei libera tutto il giorno.»
«Non è una cattiva idea. Senti, nonno. Shadow per caso deve ancora allenarsi?» chiese speranzosa Maria.
Gerald notò cosa teneva tra le mani la nipotina e sorrise, avendo compreso le sue intenzioni. «Sai cosa? Penso che per oggi lui possa fare una pausa.»
Shadow rizzò le orecchie. «Dice sul serio?»
«Te lo sei meritato.»
Maria non riuscì a trattenersi dalla gioia e iniziò a saltellare, battendo le mani. «Ma è fantastico! Grazie nonno!» prese le mani del riccio confuso, se le portò al petto. «Shadow, appena avrò finito con la visita ritroviamoci in biblioteca! Ho una bella sorpresa per te!»
«Va bene, Maria» le sorrise lui stringendo a sua volta le mani.
«Allora è deciso. Finiti gli ultimi controlli sarai libero. Per quanto riguarda noi, si va in infermeria» i due Robotnik uscirono dalla stanza di controllo mano nella mano, lasciando Shadow alle cure di Morris che, rimasti soli, era già pronto a sgridarlo. Shadow lo sapeva dal rumore irritante che faceva con la lingua, in segno di disappunto.
«Che cosa c’è?» iniziò il nero incrociando le braccia al petto.
«Credi davvero di aver fatto un bel allenamento, eh?» rispose a tono lo scienziato. «Migliorare del solo 30% per te è un grande traguardo? Ti devo ricordare la percentuale di ieri?»
Shadow abbassò lo sguardo grave.
«Allora?»
«40%» borbottò.
«Esattamente. Hai avuto un calo del 10% e hai il coraggio di definirlo un buon allenamento?»
«Il numero di nemici colpiti l’ho superato» cercò di giustificarsi il riccio.
«La qualità e più importante della quantità. Devi saper impiegare l’energia del Chaos al meglio.»
«È quello che sto facendo!»
«Be’, non è abbastanza!»
Creatura artificiale e umano si  fissarono aggressivi, per niente intenzionati ad uscire dalla conversazione sconfitti, ma purtroppo il primo fu costretto ad abbassare la cresta appena l’altro gli disse:«Ricordi cosa ci siamo detti anni fa in infermeria?»
Shadow divenne subito docile. Come poteva dimenticare quel giorno? Morris lo aveva in pugno in un momento di debolezza, ma era il momento in cui lui doveva prendere la decisione più importante della sua esistenza. Doveva scegliere fra due opzioni: venir abbattuto per essere sostituito oppure dimostrare che lui era il solo e unico progetto Shadow, l’unico che poteva restare al fianco del professor Robotnik.
Ferito, indifeso e soggiogato, Shadow si lasciò guidare da quella paura e da quel senso di inferiorità che mai si sarebbe sognato di provare. Lui non poteva, lui non voleva essere sostituito.
«Tu sei il suo orgoglio» continuò l’uomo, come se gli avesse letto nel pensiero. «E in un certo senso sei al mondo anche grazie a Maria.»
Shadow alzò lo sguardo e non poteva credere che quello stesso Morris lo stesse incoraggiando per la prima volta, nominando persino il nome di Maria, poiché solito affibbiarle dei nomignoli sgradevoli.
«Tu la vuoi salvare, non è vero?»
Il riccio bicolore gonfiò il petto e lanciò uno sguardo di sfida allo scienziato. «Sì. Io la voglio salvare.»
«E allora dimostralo. Tu hai la fortuna di essere sotto le ali di due grandi essere umani, ma hai avuto anche la sfortuna di essere sotto le mie» Morris si inginocchiò per scrutare meglio la determinazione negli occhi di Shadow. «ali nere, che non ti lasceranno andare facilmente finché non sarai la Forma di Vita Definitiva.»
 
«Shadow, tutto bene?» chiese Maria, accortasi dello sguardo perso del fratellino.
«Sì, scusa. Stavo pensando» ammise mortificato. Per un attimo vagò con lo sguardo e quasi si sorprese di trovarsi seduto sulla scrivania di legno del professore. Era come se si trovasse per la prima volta in biblioteca, ma la verità era che non ebbe il tempo per passarci da quando iniziò gli allenamenti di potenziamento.
«Oggi non devi pensare. È il tuo giorno libero!»
«Hai ragione, scusa.»
Maria sorrise davanti a quel tenero imbarazzo, ma abbassò lo sguardo, quando un pensiero le cominciò a balenare nella testa, un pensiero che necessitava di essere condiviso. «Sai Shadow… Ho come l’impressione che tu sia cambiato.»
Shadow perse un battito del cuore. «Che cosa intendi?» chiese allarmato.
«Non fraintendere» si corresse subito. «È che… ti trovo più maturo.»
Il riccio ebano alzò un sopracciglio. «Ed è… un bene?»
«Assolutamente! Nel giro di pochi anni hai imparato tante cose e sai fare un sacco di cose! Ormai sei perfetto!»
Perfetto. Quella parola risuonava ancora estranea a Shadow, anche ora che erano passati quattro anni. Lui non si sentiva affatto perfetto e cominciava a pensare che Morris avesse ragione sul fatto che lui doveva assolutamente migliorare giorno per giorno per poterlo essere, così da poter essere d’aiuto al professore e soprattutto a Maria.
«Shadow? Ho detto qualcosa che non va?»
Shadow scosse la testa e riportò l’attenzione su Maria. «No, niente affatto.»
«Non era mia intenzione confonderti è solo che…» si morse il labbro inferiore, nervosa. «Mi sento così egoista a dirti questo. A quanto pare sto cambiando anche io.»
«Ma tu stai cambiando di bene in meglio! Guardati! Sei diventata più alta, i tuoi capelli sono finalmente lunghi come hai sempre desiderato e poi sei diventata…» esitò prima di proseguire, lasciando che le sue guance di infiammassero. « bellissima.» Un imbarazzante silenzio calò nella biblioteca, finché Maria non si lasciò andare in una fragorosa risata, che di certo non aiutò il riccio a calmarsi. «M-Maria, per favore. Così non mi aiuti.»
«Almeno la tua sincerità è rimasta la stessa» disse la ragazzina asciugandosi le lacrime. «Comunque, ti ringrazio. Sei davvero molto gentile.»
Arrossì ancora di più. «Io ho solo detto la verità. E poi», Shadow posò una mano su quella di Maria, «tu non sei affatto egoista. Perché lo pensi?»
Maria accennò un sorriso malinconico, stringendo la mano di lui. «Non trovi che sia da egoisti chiedere che venissi esonerato dagli allenamenti?»
In un attimo Shadow si spogliò di tutte le preoccupazioni e si concesse uno sbuffò divertito. Se questo significa essere egoisti, pensò, allora io sono la perfidia in persona.
«Te lo ricordi, Shadow? Il giorno in cui ti sei svegliato tu sei entrato qui, mentre io ero andata a prendere le cioccolate calde» ridacchiò nostalgica. «Avevi fatto preoccupare tutti quanti.»
«Be’, ero ancora… in fase di sviluppo. Non sapevo quello che facevo.»
«Ma avevi già dimostrato di avere grandi capacità. Sapevi già parlare e hai letto tutti questi libri» disse Maria allargando le braccia.
«Già. Tutti e 527» riccio e umana si guardarono per ridacchiare e ricordare all’unisono il giorno del loro primo incontro.
«E guardati ora. Sei uno Shadow tutto nuovo. Da oggi»
Shadow aggrottò la fronte perplesso. «In che senso da oggi?»
Con un piccolo ghigno, Maria mostrò finalmente l’astuccio che si era portata appresso e, aperta la cerniera, tirò fuori la videocamera che vi era all’interno.
«Oh, no…» Shadow immerse il viso nelle mani, avendo compreso dove volesse andare a parare la ragazzina.
«Questa volta non hai scampo, Shadow. Che ti piaccia o no!» disse Maria divertita, che intanto accese l’apparecchio già pronto per registrare e, rivolto l’obiettivo e lo schermino verso di lei, iniziò:«Ciao Shadow! Un altro anno è passato e, dopo vari tentativi, sono finalmente riuscita a convincerti!»
«No che non ci sei riuscita!» urlò fuori campo Shadow.
«Poche storie, mio caro Shadow. Questa volta ti ho in pugno» Maria lanciò uno sguardo malizioso ad un riccio nervoso. «E finalmente non ti dovrò filmare di nascosto come faccio di solito da quando il nonno mi ha regalato la videocamera.»
«Tu cosa?!»
«Non arrabbiarti con me, almeno oggi che è un giorno speciale!» riportò lo sguardo in camera. «Sì. È molto speciale. Buon compleanno, Shadow the Hedgehog!»
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
Ebbene sì. Sono riuscita ad aggiornare il capitolo prima. Quasi non ci posso credere.
Siamo arrivati all’undicesimo capitolo. Non posso credere nemmeno a questo, ma soprattuto che mi sto avvicinando alla fine. Come avrete visto ho dato veramente un’interpretazione tutta mia del passato, questo si era già capito dalla mia introduzione di personaggi nuovi, ovvero Morris e Stanford ( e altri), ma la cosa nuova, a parer mio, è stato il tempo che Shadow ha trascorso con Maria. Molti potrebbero non essere d’accordi, dire che non sono fedele alla vera storia di Shadow, ma… ehi, io me la sono immaginata così e ho voluto condividerla con voi qui su EFP.
Spero che questo capitolo non vi abbia annoiato o in qualche modo deluso, anche perché il bello deve ancora arrivare e temo che dovrete aspettare un po’. Voglio sviluppare i prossimi capitoli al meglio e curare bene i dettagli.
Detto ciò… ci vediamo presto!
 
Baci,
 
Cassandra

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Capitolo 12
*** Devo resistere ***


Il professor Robotnik appoggiò gli occhialini rotondi laddove c’era dello spazio sulla scrivania, così da poter affondare meglio il volto tra le mani. Era stanco, tremendamente stanco. Frustrato, ma era soprattutto arrabbiato. Rabbia: fra le tre istigatrici lei era la causa principale delle fitte di dolore che accoltellavano il suo cranio, mentre la stanchezza e la frustrazione si occupavano di dolori minori nel resto del corpo accompagnate dalla vecchiaia. Nell’insieme era un dolore indescrivibile e insopportabile che faticava a gestire ormai da diversi anni, ma Gerald disponeva di un asso nella manica, ovvero la testardaggine, caratteristica comune a tutti i Robotnik da diverse generazioni, impedendogli di mollare non prima di aver trovato una soluzione definitiva.
Lanciò uno sguardo fugace sui vari schermi olografici davanti a lui e sui fogli sparsi sulla scrivania, ma ognuno di essi riportava lo stesso risultato: 
 
CONDIZIONE CRITICA
TASSO DI MORTALITÀ: + 23%

 
«Maledizione» mormorò al fine di cancellare quella scritta rossa dalla sua mente, ma senza riuscirci.
Era ormai evidente che la malattia si stava pericolosamente evolvendo, poiché anno dopo anno la salute di Maria peggiorava sempre di più. Ben presto vari farmaci sperimentali smisero di avere effetto su di lei e sebbene apparisse in salute e piena di energie, la NIDS prendeva il sopravvento o  indisturbata o aggressiva all’improvviso sia con i sintomi da lui scoperti che con altri apparsi nell’ultimo anno. «Che cosa devo fare?» disse tra le dita. «Che cosa?»
«Potrebbe cominciare col riposarsi un attimo» l’arrivo di Morris non sorprese più di tanto il professore, al che rimase in quella posizione di preghiera. «Le ho portato del tè.»
«Sarebbe stato meglio del caffè.»
L’assistente posò il vassoio vicino al mentore. «Diversamente dal caffè, le foglie di tè e alcune erbe hanno le proprietà necessarie per rilassarla. La presenza di caffeina serve solo a ridurre la stanchezza.»
Sbottato un sorriso, Gerald allungò una mano verso la tazza fumante e un forte odore di erbe aromatiche solleticò il suo olfatto. Ne aveva riconosciute cinque su, a naso, otto. «Da quando sei esperto di tè?»
«Da quando ho visto che ne aveva bisogno.»
«Ovvero?»
«Dal primo giorno in cui ho iniziato a lavorare per lei.»
Il professore appoggiò piano le labbra sulla tazza e iniziò a sorseggiare l’intruglio naturale, lasciando che scivolasse caldo nella sua gola e gli infondesse quei pochi secondi di piacere. Al quarto sorso si sentì incredibilmente meglio. «È davvero buono. Ti ringrazio, Morris.»
«So bene che lei è preoccupato per Maria» recuperò diversi documenti per rimetterli nelle proprie cartelle, evitando il più possibile di leggere i valori o anche solo vedere il volto della bambina. «Ma deve anche pensare alla sua di salute.»
All’ultimo sorso l’uomo posò la tazza sul vassoio e fissò per un po’ la poltiglia che si era formata in fondo ad essa. «Zenzero. C’era anche dello zenzero.»
«Non cambi discorso, per favore.»
«È il prezzo che devo pagare per salvare la sua vita» rispose minaccioso Gerald. «Non ho altra scelta.»
Morris abbassò lo sguardo, senza smettere di sistemare la documentazione.
«Dorme troppo poco, diversi cibi le danno la nausea, si affatica molto e…»
«Professore, lo so. In questi due mesi non è cambiato nulla» sospirò. «Tranne per il fatto che sta peggiorando.»
Gerald si portò nuovamente le mani al viso, appoggiando i gomiti sul tavolo. «Non so davvero cosa fare» digrignò i denti. «Maria. La mia piccola Maria…»
Morris chiuse gli occhi e si morse il labbro inferiore. In tutti quegli anni il giovane scienziato era riuscito a inquadrare il professor Robotnik con estrema facilità. Così come quest’ultimo gli aveva sfilato la maschera, anche lo stesso Morris era riuscito a strappargliela di dosso: di giorno lo scienziato dallo spirito positivo e dall’aspetto fiero, di notte un vecchio stanco e disperato, in procinto di arrendersi.
“Se io ti dicessi che non sono l’uomo che tu tanto stimi, bensì un uomo tutt’altro che buono?” Quella domanda riemerse dai pensieri di Morris all’improvviso, come se gli volesse ricordare chi effettivamente era Gerald Robotnik. Era tutto vero. Lui non era un uomo buono. Non era uno scienziato dalla mente brillante e stimato da tutti. Lui era soprattutto un nonno amorevole, che pur di salvare la vita della sua nipotina era pronto a sacrificarsi e usare ogni sorta di mezzo, a costo anche di andare contro la GUN.
Il giorno in cui avvenne lo spiacevole incidente con Shadow e il congedo forzato di Stanford Drew, Gerald confessò a Morris le accese discussioni che ebbe con l’organizzazione militare mai accennate al Presidente. Avendo letto i vari risultati degli esperimenti, essa non poneva alcuna fiducia nell’impresa di Gerald, poiché li riteneva potenzialmente pericolosi e quindi una minaccia per la Terra e, sempre grazie a lei e alla sua lingua velenosa, ben presto girarono voci scomode riguardo non solo Shadow, ma anche il suo stesso creatore. Se prima Morris doveva tener d’occhio solo Stanford, ora doveva sorvegliare l’intera ARK.
Il giovane assistente era pronto a rivolgere al vecchio professore parole di conforto, ma dovette subito chiudere la bocca appena quello si alzò inspirando profondamente per poi dire:«Domani è un altro giorno. È sarà sicuramente migliore» Morris accolse sorpreso quel morbido sorriso che esprimeva inaspettata serenità, come se quell’unica inspirazione lo avesse aiutato a riacquistare del tutto la fiducia.
Inforcati gli occhiali, Gerald si voltò verso Morris.  «Me lo ha insegnato Maria. Aiuta ad affrontare le difficoltà della giornata.»
Morris distolse lo sguardo tossicchiando. «Per quanto detesti ammetterlo, Maria è consapevole della situazione in cui si trova» chiuse l’ultima cartelletta di documenti. «È normale che cerchi dei modi per andare avanti.»
«Oggi è il compleanno di Shadow» cambiò subito discorso il professore. «Per quello gli ho dato il permesso di interrompere gli allenamenti.»
L’altro schioccò la lingua in segno di disappunto. «Compleanno? Ma se non cresce nemmeno? È solo una perdita di tempo.»
«Una piacevole perdita di tempo. Di cui lei ha davvero bisogno»  il silenzio che seguì venne interrotto da una chiamata inaspettata dal comunicatore di Gerald, che scurì subito in volto e disse grave:«È la GUN.»
«Vuole che risponda io?» avanzò Morris.
«No, ci penso io. Oggi hai fatto più del dovuto. Ti ringrazio» lo congedò il professore con un sorriso. «Puoi andare.»
Per quanto il giovane scienziato desiderasse rimanere al suo fianco, purtroppo dovette rispettare il volere di Gerald salutandolo con un faccia attenzione prima di lasciare la stanza.
Rimasto solo, Gerald spense il comunicatore e lasciò che l’ologramma di un uomo in piedi con le mani dietro la schiena si materializzasse davanti a lui. Come sempre, tutto ciò che era visibile era una divisa militare pluridecorata, mentre il resto era avvolto nell’oscurità.
«Ce ne ha messo di tempo per rispondere, professore» parlò una voce palesemente contraffatta.
«Buongiorno, Comandante. È un vero piacere vederla» il professore chinò la testa, senza fare effettivamente un inchino.
«Siamo di buon umore, vedo» continuò l’uomo avendo colto la vena ironica dell’altro.
«Ebbene sì. Il sole splende e gli uccellini cinguettano. Come sempre.»
«Trova divertente ogni nostro incontro?»
«Trovo divertente che da quattro anni a questa parte io continui a parlare con un fantoccio» Il Comandante ammutolì, lasciando che il professore gongolasse in quei pochi secondi che li separava. «Ve l’ho detto, no? Potrei decidere di collaborare se si mostra per quello che è, Comandante, o chiunque lei sia. La mia risposta è sempre la stessa. Io continuerò con le mie ricerche finché sarò in vita. I vostri futili tentativi di screditarmi non mi spaventano per niente.»
«Quindi non ha alcuna intenzione di collaborare?» riprese l’altro impassibile.
«Precisamente» pronto ad andarsene, Gerald diede le spalle al presunto Comandante per avviarsi verso l’uscita, ma la profonda e falsa risata del capo della GUN lo fermò.
«Mostrarmi per quello che sono, eh? Proprio come il suo viscido alleato?»
Gerald stette il più immobile possibile, senza far trasparire alcun tipo di emozione. «Non so di cosa sta parlando.»
«Evitare l’argomento non l’aiuterà, mi creda.»
«Ascoltarla invece sì?»
«Noi della GUN abbiamo informazioni che ci permetteranno di fermare definitivamente le sue ricerche, persino con il permesso del Presidente.»
Gerald sospirò esasperato, portandosi una mano dietro la nuca. «Sempre la stessa solfa. Invece di continuare a minacciarmi perché non agite, eh? Cosa state aspettando?»
«Non è ovvio?» il Comandante alzò il braccio destro e rivolse a Gerald la mano con il pollice all’ingiù. «Voglio vederla affondare lentamente.»
Robotnik soffocò una risata nervosa, scuotendo la testa.«Sadici come sempre. Voi siete solo capaci di distruggere tutto ciò che vi è incomprensibile. Siete a dir poco patetici.»
«Incomprensibile, dice? Non è difficile capire che il suo progetto altro non è che un’arma mortale.»
«Shadow non è un’arma» ringhiò il professore furente. «È colui che salverà l’umanità e se voi continuerete ad ostacolarmi giuro che…»
«Eccolo, finalmente. Il vero Gerald Robotnik» il Comandante applaudì con fare sarcastico, gustandosi l’inaspettata bile che lo stesso professore non aveva previsto. «Lo sa? Me lo sono sempre chiesto e forse questa è l’occasione giusta per porle questa domanda: lei, professore, si considera un uomo buono?»
Gerald digrignò i denti senza proferire parola e lasciò che un sorriso bianco si allargasse sul volto oscurato del suo provocatore.
«Bene, professore. A questo punto chiuderei la nostra conversazione qui e la lascio con questo quesito che la tormenta, deduco… da anni.»
Il professore fulminò con lo sguardo, per quanto gli fosse possibile, il Comandante, ancora trionfante, ma consapevole della sua ennesima sconfitta.
«E ricordi bene: i segreti, prima o poi, vengono a galla.»
 
 
Maria gongolava felice tenendo gelosamente stretta al petto la sua videocamera. Era più che soddisfatta del risultato e non vedeva l’ora di sistemare ogni singolo filmato girato fino a quel giorno. «Sai che prima o poi te la soffierò da sotto il naso?» Shadow si intromise nella contentezza della ragazzina.
«Non se ne parla! Ci dormirò assieme, se necessario!»
«Che cos’altro hai filmato, Maria?»
Maria gli strizzò un occhio spigliata. «È un segreto.»
Shadow incrociò le braccia al petto mettendo il muso, ma invece di spaventare la giovane Robotnik, la divertì rievocandole un altro ricordo, ovvero la scoperta delle forbici.
«Non so cosa mi fosse preso!» rispose il riccio impacciato. «Insomma, mi ero appena svegliato!»
«E per la prima volta ti sei preso cura di me.»
Il riccio ebano si addolcì e sciolse le braccia, ricordando a sua volta quel giorno e sorrise. «È vero.»
I due fratelli smisero di camminare all’unisono appena si accorsero che avevano raggiunto l’Osservatore. La ragazzina si precipitò subito al vetro appoggiando le mani su di esso, per ammirare come da rituale la maestosità della sua amata Terra. Shadow si mise al suo fianco, fissando il pianeta impassibile.
Era tutto inutile. Più continuava a fissare quell’enorme geoide, più non provava nulla di quello che invece sua sorella maggiore provava. Ogni volta che lei si fermava a fissarla, i suoi occhi brillavano di un azzurro accesso, erano sempre innocenti e accecati da quella bellezza come fosse la prima volta. Sebbene gli piacesse vederla con quell’espressione serena sul volto, Shadow ancora ignorava l’amore incondizionato che lei aveva per quel pianeta mai visitato.
«Ancora non ti convince, eh?» lo scosse Maria sarcastica.
«Che vuoi dire?» si limitò a chiedere l’altro, mentendo.
Accortasi dell’ulteriore imbarazzo del riccio bicolore, Maria fece semplicemente spallucce. «Niente. Pensavo ad alta voce.»
Shadow alzò un sopracciglio, ricevendo una linguaccia come risposta, che lo obbligarono a sogghignare.
«Ascolta Shadow, io vado a riportare un attimo la macchina fotografica in camera» ruppe il silenzio la giovane Robotnik.
«Ti accompagno.»
«No, non ti preoccupare! Tu aspettami qui, ok?»
«Oh, d’accordo»
Salutato Shadow non un sorriso, Maria corse verso il corridoio che l’avrebbe portata nella sua camera. Il riccio si rivolse nuovamente alla Terra appena i passi della ragazzina scomparvero nel vuoto e sospirò pesantemente, sfinito. «Maledizione…» sussurrò massaggiandosi la testa con una mano, percependo il suo imminente arrivo.
«È dura, non è vero?» disse una voce profonda nella sua testa. «È piuttosto irritante, se mi è permesso dirtelo
«Qui l’unico irritante sei tu» ringhiò minaccioso Shadow verso il suo riflesso. Quest’ultimo cominciò a scurirsi fino a diventare una vera e propria ombra di se stesso. In mezzo al volto si aprì un grosso occhio dorato da rettile.
«Non ci siamo, Shadow the Hedgehog. Ormai dovresti esserti abituato alla mia presenza.»
Shadow schioccò la lingua irritato.«Di che presenza parli? Tutto ciò che sai fare e mostrarti con degli insulsi trucchetti dell’illusione. Fatti vedere per quello che sei, se ne hai il coraggio.»
«E lasciare che tu trema dalla paura e usi inconsapevolmente il tuo potenziale? Come quattro anni fa
Shadow lo fulminò con gli occhi furenti. «Tu brutto…»
«Tu non sei ancora all’altezza per stare davanti al mio cospetto. Sei ancora debole.»
Quella che doveva essere la giornata più rilassante della sua vita, dove l’avrebbe passata in compagnia di Maria, era diventata di punto in bianco la più frustrante. Come se i continui rimproveri di Morris non fossero abbastanza a rovinare la vita della povera creatura artificiale, si era anche intromessa l’entità misteriosa del corridoio cremisi, che aveva cominciato a fargli visita dal giorno dell’incidente. Essa, che si presentava come un’enorme figura oscura dai tre occhi, inizialmente disturbò il sonno del riccio ebano, procurandogli non poche nottate insonne, per poi palesarsi anche durante il giorno sottoforma di allucinazione. Ma con il passare del tempo, Shadow si abituò alle sue continue apparizioni, ignorandolo e riuscendo più volte a liberarsene, anche a costo di svegliarsi con l’emicrania: chi o cosa fosse, gli importava ben poco.
«Però ammetto che la tua forza di volontà è da ammirare. Il professor Robotnik sta facendo il suo lavoro.»
«Non osare pronunciare il suo nome.Tu non ne hai il diritto!»
«Oh, ragazzo mio. Ne ho più di quanto immagini.»
«Bugiardo!» guidato dall’ira, Shadow sferrò un pugno  e in un battito di ciglia l’ombra era ritornata ad essere il suo riflesso. La mano, ancora a contatto con il vetro, pulsava comunicando l’intensità dell’impatto. Se fosse stato un essere umano l’avrebbe rotta, invece le falangi si raddrizzarono all’istante e il sangue venne riassorbito dalla pelle, persino quello lasciato sui guanti.
«Hai ancora molta strada da fare, Shadow the Hedgehog, ma soprattutto poco tempo. È quasi giunto il momento.»
Shadow ritrasse la mano intatta e digrignò i denti all’avvertimento della voce prima che abbandonasse la mente della Forma di Vita Definitiva, lasciandolo finalmente rilassare ogni singolo muscolo del corpo.
Portatosi entrambe le mani al viso, Shadow si appoggiò con la schiena sul vetro sfinito, sia fisicamente che mentalmente. Per quanto ancora poteva resistere? Per quanto ancora poteva nasconderlo al professore? Fra quelle e molte altre preoccupazioni, solamente una turbava Shadow, inducendolo a stringere i pugni e sussurrare con rabbia:«Sono ancora così debole?»
 
 Maria premette con forza la bocca con una mano, così da evitare l’ennesimo conato di vomito, pur sapendo che non sarebbe uscito nulla: quella mattina non aveva mangiato, poiché il cibo si era rifiutato di essere ingerito, compresi i liquidi, che vennero subito espulsi al primo sorso.
La ragazza fece molta fatica a prendere gli ultimi medicinali prescritti dal professor Robotnik, che le  diedero un lieve sollievo per circa due ore. Un nuovo record, pensò sarcastica. La situazione stava precipitando, lei lo sapeva fin troppo bene, e purtroppo il cibo non era l’unico fardello che stava portando in tutti quegli anni. Oltre al cibo, Maria si sentiva costantemente debole, sveniva almeno cinque o sei volte al giorno per un nonnulla, forti vampate di calore le impedivano di prendere sonno e di tanto in tanto aveva degli attacchi di cuore ignari a Gerald e a Shadow.
«Shadow…» mormorò piano lei, ancora in attesa che la nausea passasse. D’un tratto Maria pensò intensamente al suo fratellino, a tutti i sacrifici che stava facendo pur di essere la creatura perfetta che tanto desiderava il nonno. L’intera ARK stava dando anima e corpo per quelle ricerche e di conseguenza, pensò, anche lei doveva fare la sua parte.
Tenendo a mente quell’unico pensiero, Maria alzò la testa dalla tavoletta del water e si avvicinò allo specchio. Aveva un aspetto orribile, dai capelli arruffati al sudore che impregnava la fronte, ma fortunatamente non ci mise molto a risistemarsi. La ragazza prese il flaconcino e prese due capsule per ingoiarle in una volta, aiutandosi con quel poco di saliva che aveva.
Inspirato profondamente, ignorò il dolore al petto ed espirò fuori tutta l’aria che aveva in corpo e fissò decisa il suo riflesso. «Forza, Maria. Non puoi arrenderti ora. Devi resistere. Fallo per loro
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
Quattro mesi. Non posso credere che l’ultimo aggiornamento risalga a febbraio… Non so cosa dire se non che mi dispiace per questo tremendo ritardo, non era assolutamente previsto. Ho avuto una serie di impegni e di imprevisti che mi hanno impedita di continuare a scrivere. E non solo, ho avuto un vero e proprio blocco che mi ha obbligato a cancellare più volte questo capitolo e riscriverlo. Non so dire se sono soddisfatta o meno di questo capitolo, ma… diciamo che ho fatto del mio meglio e spero, e mi rivolgo a tutte le persone che stanno seguendo la storia, di non aver deluso le aspettative.
Ormai manca poco. Mi sto pian piano avvicinando alla fine. Forse mancano due capitoli, non lo so, dipende tutto da cosa sento e da cosa voglio scrivere.
Molto probabilmente ci saranno errori di battitura e di grammatica, perciò non esitate a segnalarmeli e io provvederò subito a correggerli.
Finisco col ringraziare tutti coloro che hanno recensito il capitolo precedente. GRAZIE davvero. E' sempre un piacere ricevere delle recensioni e dei complimenti che spesso e volentieri mi sorprendo di ricevere (di nuovo... ho davvero una bassa autostima di me stessa ^^"), ma mi danno sempre la forza necessaria per continuare a scrivere e le critiche costruttive mi aiutano a migliorare sempre di più.
Detto questo, mi dispiace ancora tanto per questo ritardo, spero di non avere altri problemi, ma soprattutto un altro dannatissimo blocco.
 
Grazie per la pazienza e ci si vede presto.
 
Cassandra

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Capitolo 13
*** Rassegnazione ***


«Morris, mi hai sentito?» Lo scienziato sobbalzò dalla sorpresa e ritrasse subito le mani dalla tastiera. La lettera R aveva riempito ben undici righe di testo. «Bisogna archiviare il file» ripeté Kelly per la quarta volta.
Morris imprecò a bassa voce e riportò velocemente i dati cartacei per poi salvarli nel database. «Ok. Fatto.»
La donna sospirò aggiustandosi gli occhiali sul naso e si avvicinò al collega, ancora visibilmente scosso. Per cosa, lei non lo sapeva. «Si può sapere che cos’hai oggi? Non sei mai stato così distratto.»
«E tu da quando ti preoccupi per me?» incalzò l’altro con finta malizia.
«Non dire scemenze. Voglio semplicemente finire alla svelta il lavoro» Kelly buttò un occhio sui fogli alla postazioni di Morris e si rattristò. «Un altro fallimento, eh?»
Lui rimase in silenzio e chiuse la cartella contenente l’ultima visita di Maria. «Il professore sta facendo il possibile. Perlomeno ora ha dei nuovi dati su cui lavorare per altri farmaci. Sebbene i numeri dicono che lei sta male, la marmocchia ce la sta mettendo tutta per resistere.»
Kelly forzò un sorriso annuendo. «Maria è una ragazza molto forte e matura. Pur avendo solo dodici anni sa a cosa va incontro e fa di tutto per aiutarci.»
Per quanto odiasse ammetterlo, Morris non poté infierire su ciò che Kelly aveva detto, perché era tutto vero. In quei quattro anni non solo la vera natura del professore erano venuti a galla, ma anche l’inaspettata determinazione della dodicenne; ogni anno Maria era stata sottoposta a una seria di operazioni potenzialmente pericolose, ma che avrebbero potuto migliorare le sue condizioni e lei aveva acconsentito guardando sinceramente uno per uno negli occhi.
Nessuno, persino Morris, avrebbe potuto immaginare che in quel corpicino così esile potesse nascondersi uno spirito così forte. Nonostante i numerosi fallimenti, la piccola Robotnik aveva sempre incoraggiato gli scienziati, ma soprattutto Gerald, affranti a ritentare e a non arrendersi.
Lo scienziato ruppe il silenzio porgendo alla donna la cartella di Maria. «Quando puoi riportala allo studio del professore, ma solo quando non c’è lui.»
«E perché?»
«Non è il caso di farlo sentire ancora in colpa, non credi? Proprio ora che ha riacquistato la fiducia. Fammi questo piacere e poi torna qui»
Kelly dovette sbattere più volte le palpebre prima di riuscire a parlare. «Mi hai appena chiesto un favore? Gentilmente?»
Morris si bloccò nell’atto di riprendere a scrivere e sbuffò. «Senti, Kelly. Non è il momento di soffermarsi in queste sciocchezze. Abbiamo del lavoro da sbrigare.»
Kelly rispose con un sguardo basso e si sedette alla postazione accanto a Morris. «Ha avuto un altro esaurimento?» l’uomo si appoggiò allo schienale per poi annuire. «E tu sei preoccupato.»
«Come tutti, no?»
«Ma è evidente che tu lo sei più di noi messi insieme e…» Kelly venne interrotta bruscamente da Morris che si alzò picchiando entrambi i pugni sulla scrivania e rivolgendo alla scienziata uno sguardo truce. Quest’ultima non reagì alle due provocazioni e rimase impassibile.
«E questo cosa te lo fa pensare, eh?» disse lui a denti stretti, ancora intento a spaventarla, ma senza riuscirci.
Kelly sospirò pesantemente, come un’insegnante stufa della testardaggine del proprio studente. «Emozioni, eh?»
Morris rilassò i muscoli per poi allontanarsi dalla scrivania, sbigottito. Scosse la testa per dimenticare il volto compiaciuto di Stanford. «Non è divertente, Kelly.»
«Non era mia intenzione. Volevo solo dire che per quanto tu ti ostini a nasconderle sei pur sempre un essere umano» avvicinatasi alla postazione di Morris, Kelly salvò gli ultimi dati e spense il computer. «Il peso che porti sulle spalle lo percepiamo sia io che l’intera l’ARK, ma tu più di tutti, poiché sei il più vicino al professore»
Morris lasciò che Kelly spegnesse il resto dei macchinari, senza proferire una parola. «E anche perché sei molto simile a lui» lo scienziato rimase spiazzato da quelle parole e incrociò gli occhi della collega che le comunicavano compassione.
«Direi… che per oggi abbiamo finito» disse lui per spezzare l’incantesimo. «Ricordati di quel favore. Finisco io di spegnere le luci.» Kelly annuì stringendo la cartella e uscì dalla stanza.
Morris si portò una mano fra i capelli e si risedette sulla sedia, sfinito. Assicuratosi di essere rimasto solo, tirò fuori dal camice un vecchio portafogli da cui tirò fuori a sua volta una fotografia e subito sorrise.
«Allora anche tu sorridi» Lo scienziato nascose il tutto velocemente e si rialzò di scatto. «È raro vedertelo fare con sincerità»
Morris schioccò la lingua irritato appena si ritrovò davanti Shadow appoggiato alla porta e con le braccia incrociate al petto. «Che ci fai qui, topastro? Ero convinto che fossi con la marmocchia per oggi.»
«È andata nella sua stanza» rispose il nero chiudendo gli occhi. «Metterci venti minuti per riporre una videocamera è troppo, vero?»
L’uomo fece per aprire bocca, ma si limitò a schiarirsi la voce. «Notevole. I farmaci hanno fatto sì che resistesse fino adesso.» Il riccio aprì gli occhi per fissare un punto sul pavimento con uno sguardo spento e rassegnato, attirando l’attenzione dell’uomo intento a non mostrarsi comprensivo. «In ogni caso, è un buon risultato. Il suo corpo reagisce bene.»
«Sicuramente è un risultato migliore del mio» borbottò il nero.
«Come scusa?»
Shadow si avvicinò a Morris squadrandolo accigliato, ma anche sicuro. L’ennesimo incontro con la creatura lo aveva indotto a prendere una decisione senza alcuna possibilità di tornare indietro. Sei ancora debole. Quelle tre parole risuonavano nella testa di Shadow facendogli ribollire il sangue dalla rabbia. Il tempo stringeva e non poteva permettersi altre distrazioni. «Mi rendo conto che le mie prestazioni siano state al di sotto degli standard che vi eravate prefissati per me.»
Morris inarcò un sopracciglio interessato. «Va avanti.»
Shadow strinse con forza i pugni e annunciò con fierezza:«So di non essere abbastanza forte, ma soprattutto di non essere pronto per diventare la creatura perfetta che il professore desidera. Oggi ho imparato la lezione» gli occhi color rubino del riccio bicolore rispecchiarono in quelli verdi di Morris tali da accecare quest’ultimo. «Ho bisogno che tu mi renda più forte il più in fretta possibile.»
Lo scienziato sghignazzò divertito e, abbassatosi alla sua altezza, avvicinò la fronte del riccio alla sua. «Finalmente. Era quello che volevo sentire.»
 
Kelly scosse la testa ad ogni valore scritto nella cartella di Maria e la chiuse all’istante, sofferente. Era al corrente della pessima situazione della piccola Maria, ma non credeva che fosse arrivata fino a quel punto. «Dove stiamo sbagliando? Perché non riusciamo a venirne a capo?» si chiese bisbigliando. Raggiunta la porta dello studio di Gerald cercò di non  pensare a quelle domande e a sorridere, ma si dovette fermare appena sentì il professore imprecare.
«Tutto questo non era previsto!» urlò lui. «Non era quello che mi avevi promesso!»
Il silenzio che seguì preoccupò non poco la donna che avvicinò l’orecchio per capire se ci fosse qualcuno assieme a lui.
«Continui a dirmi che il tempo stringe, ma se non mi dici quando accadrà io non posso fare ciò che mi chiedi!» La voce di Gerald si faceva sempre più minacciosa e Kelly non poteva credere che fosse proprio la sua. Non lo aveva mai sentito parlare così prima d’ora. «Senti, le cose non si stanno mettendo bene. Se vuoi quei dannati smeraldi allora… Come?»
Al secondo silenzio la scienziata si allarmò in cerca di un riparo, ma in quel corridoio non vi erano porte che lei potesse aprire senza una determinata tessera magnetica.
«C’è qualcuno fuori?»
Kelly  si allontanò dalla porta, maledicendo i suoi tacchi, prima che quest’ultima si aprisse all’improvviso.«Oh professore, cade proprio a fagiolo» disse con estrema calma lei.
«Kelly. Eri tu» era ritornato il solito Gerald. «Avevi bisogno di qualcosa, cara?»
«Semplicemente consegnarle gli ultimi dati che abbiamo archiviato io e Morris» Kelly consegnò tra le mani del professore una cartelletta color indaco.
«Ti ringrazio. Per caso lui ti ha dato un’altra cartella per me?»
Dissentì subito. «No, professore. Mi ha dato solo questa. Vuole che gliela chieda?»
«Oh capisco. No, non importa. Vorrà dire che me la porterà lui stesso. Ottimo lavoro. Per oggi hai finito.»
«Nessun problema, professore. Grazie mille» fatto un leggero inchino si avviò camminando il più tranquilla possibile e cercando di dimenticarsi quanto aveva sentito, mentre Gerald, insospettito, la osservava andare via con la cartella di Maria stretta al petto.
 
 
Nonostante ad ogni respiro le facesse male il petto, Maria continuò a correre per raggiungere l’Osservatore. Senza accorgersene era rimasta nella sua stanza per più di venti minuti e sapeva fin troppo bene che Shadow si sarebbe preoccupato: le nausee non le avevano dato pace e, come le aveva detto il nonno, al posto delle solite due capsule ne avrebbe dovuto prendere quattro. «Devo… devo sbrigarmi.»
Raggiunto l’ultimo corridoio pensò velocemente ad una scusa plausibile, ma tutto ciò che riuscì a dire fu che la videocamera le era caduta a terra, ma Maria smise di parlare appena vide che il suo migliore amico non era lì ad aspettarlo. «Ma… dove è andato? Shadow!» pronta a ricominciare a correre, la ragazzina cadde a causa di un forte scossone. «Che sta succedendo?!» si chiese prima che il secondo terremoto la sorprese, seguito dal suono di colpi laser a lei familiare.
«Cerchi la palla di pelo,vero?» Rialzatasi velocemente, Maria non si lasciò intimorire dalla figura di Morris appoggiata sul vetro con le braccia conserte. «Spiacente di rovinarvi la giornata, ma ha deciso di allenarsi.»
«Che cosa gli hai detto?» incalzò subito Maria visibilmente arrabbiata.
Morris sogghignò davanti all’apparente fermezza della bambina e le si avvicinò infilandosi le mani nelle tasche del camicie. «E cosa te lo fa pensare che sia colpa mia?»
«Tu sei l’unico che lo sfrutta.»
«Sfruttare? Mi spiace deluderti ma è stato proprio lui a venire da me e a chiedermi di allenarsi.»
Maria rilassò le sopracciglia inarcate e scosse la testa incredula. «Lui cosa?»
Morris accolse l’espressione delusa della bambina con un sorriso malizioso. «Rassegnati. Shadow non può permettersi delle distrazioni e tu lo dovresti sapere.»
«Ti sbagli. In questi quattro anni non ha fatto altro che sforzarsi, anche lui ha…»
«Bisogno di riposo? No, niente affatto. Lui non avrebbe nemmeno bisogno di dormire, ma il professore si ostina a trattarlo come fosse una creatura mortale, cosa che non è.» l’uomo avvicinò la mano destra al viso di Maria e strinse tra il pollice e l’indice le guance, irritandola non poco.
«Non toccarmi» ringhiò lei. «O giuro che ti stacco le dita a morsi.»
La minaccia della ragazzina non sembrò spaventare l’uomo che intanto continuava a fissarla con sufficienza. «Nonostante tu sappia che la tua situazione non è delle migliori hai ancora la forza di essere così tenace.»
«Noi Robotnik siamo fatti così. Difficilmente ci arrendiamo» rispose a tono Maria ancora tra le grinfie di Morris.
«Tenace e anche spavalda. Sei davvero ammirevole» l’uomo si portò all’altezza degli occhi il volto di Maria. Questi parevano brillare di un verde intenso. «Vediamo per quanto resisterai, Maria.»
I colpi laser provenienti dalla palestra separarono i due che rimasero in silenzio, finché la ragazzina non lo ruppe dicendo:«Tu non sei Morris, vero?»
L’uomo inarcò un sopracciglio, più divertito che sorpreso.«E perché mai sostiene ciò?»
«Perché in quattro anni Morris non mi ha mai chiamata per nome.»
«Maria? Maria dove sei?!» dai uno dei corridoi che circondavano l’Osservatore riecheggiava la voce preoccupata di Kelly, che stava raggiungendo l’enorme stanza. Maria era pronta a chiamarla, quando uno scossone la fece cadere a terra. «Maria! Allora eri qui! Oh santo cielo, stai bene?!»
La ragazzina annuì dolorante e si rialzò con l’aiuto della donna. «È successo qualcosa?»
Kelly tirò un sospiro di sollievo. «Non ti vedevamo in giro da un bel po’ e non avendoti trovata nella tua stanza ci siamo preoccupati.»
«Oh caspita mi dispiace! Non era mia intenzione! Sono solo…» Maria abbassò lo sguardo intristendosi. « Ero solo con Shadow. Ora ha ripreso ad allenarsi.»
«Oh Maria» la donna invitò la ragazzina ad abbracciarla e con fare materno le accarezzò i capelli. «Mi dispiace molto. Ma in fondo sai che è importante, vero? Per tutti noi.»
Maria annuì sforzandosi di non piangere, ma quel momento di consolazione venne interrotto dall’allarme dell’orologio di Maria: era il momento di fare un’altra visita. «Devo andare da mio nonno.»
«Allora ti accompagno» Kelly tese una mano a Maria che la prese distrattamente, poiché era impegnata a fissare con la coda dell’occhio la figura di Morris svanire lentamente.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
Ed eccomi qui. Con il tredicesimo capitolo.
Inutile dire quanto sono dispiaciuta per questo tremendo ritardo. Sono passati di nuovo dei mesi. Non voglio annoiarvi, perciò per farla breve ho avuto un bel po’ di problemi personali che mi hanno distrutta e blocchi che mi hanno davvero impedito di proseguire a scrivere.
Arrivata a questo punto della storia ho avuto davvero difficoltà e tutt’ora sto pensando a come finirla (sebbene io non voglia finirla, perché bene o male lo sappiamo tutti…). Difatti questo capitolo non mi convince e mi dispiace per tutti coloro che (forse) lo aspettavano da molto, perché purtroppo non trovaranno i soliti colpi di scena a cui sono abituati.
Di colpi di scena ce ne saranno ancora, ve lo garantisco, devo solo capire come metterli su.
Detto ciò, vi chiedo ancora scusa per questo ritardo e ci vediamo alla prossima.
 
Baci
 
Cassandra

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Capitolo 14
*** Pericolo imminente ***


«Chaos Spear!» incanalata un po’ di energia caotica, Shadow la concentrò nelle sue mani per poter creare delle lance e le scagliò contro tre puntatori laser, distruggendoli prima che potessero sparare.
Diversamente da quella mattina, nel giro di mezz’ora aveva imparato involontariamente quella nuova tecnica, incrementato la sua velocità e i suoi sensi, riuscendo così ad anticipare qualsiasi attacco più di quanto non facesse già. «Cambio arma» i puntatori sopravvissuti si ritirarono al comando del riccio e presero il loro posto delle mitragliatrici, che lo attaccarono subito con una raffica di colpi laser più letali dei primi; per Shadow fu nuovamente una passeggiata, poiché lui camminava tranquillo sotto quella pioggia rossa, muovendosi quanto bastava per schivare i colpi.
La Forma di Vita Definitiva si concesse quel momento di apparente tranquillità per ripensare a ciò che Morris gli disse in laboratorio prima di riprendere ad allenarsi, parole che lo motivarono ancora di più, ma al tempo stesso lo preoccupavano. «Ascoltami bene, topastro. Sarò sincero con te e anche se dovrei tenertelo nascosto credo che tu abbia il diritto di saperlo. È da un po’ di tempo che l’ARK non è sicura, forse da un anno, qualcuno sta cercando di rovinarci. Questo è l’unico favore che ti chiedo: non fidarti di nessuno che non sia io, il professor Robotnik e Maria. Sono stato chiaro?»
Shadow sperava che Morris non dicesse sul serio, ma appena sentì il nome di Maria il dubbio lo assalì all’istante. Per quanto gli riguardava, la talpa poteva essere chiunque all’interno dell’ARK, poiché l’intera equipe di scienziati non lo vedeva di buon occhio per via dell’incidente di quattro anni fa. Gi unici che si salvavano erano proprio Morris e i Robotnik, ma forse poteva aggiungere anche Kelly, l’unica ad essersi presa cura di lui; in ogni caso le persone di cui poteva veramente fidarsi le poteva anche solo contare con le dita delle mani.
«Livello 51 completato con successo» l’interfaccia vocale della palestra riportò Shadow alla realtà, che sussultò alla vista della lancia dorata che aveva tra le mani.
«Ma quando è successo?» si domandò perplesso. Non si ricordava minimamente di averle create, ma soprattutto di aver distrutto le dieci armi.
«Proseguire con il livello 52?»
«No. Termina allenamento.»
«Allenamento terminato
Shadow osservò i macchinari venir prelevati da dei bracci meccanici per l’ennesima riparazione e, rimasto solo in quell’enorme stanza di metallo, sospirò pesantemente. Il riccio ebano lasciò che il silenzio soffocasse i suoi pensieri, ma senza alcun risultato. Quell’improvvisa perdita di coscienza lo aveva scosso e, sfortunatamente, ricordato quel giorno in cui lui e Maria si avventurarono nel corridoio cremisi. «Sei stato tu, non è vero?» domandò alzando lo sguardo, ma non ricevette alcuna risposta, solo l’eco della sua stessa domanda. «Taciturno come sempre, eh?»
Stanco di perdere tempo, Shadow si avviò verso l’uscita, finché la porta non si chiuse di scatto. Il riccio rimase a fissare la parete vuota per poi spostare lo sguardo sulla finestra della sala comandi, dov’era possibile intravedere la silhouette di una persona in piedi. «Scusa, Morris. Ho richiesto io di annullare il prossimo livello. Ho bisogno di uscire un attimo.»
La figura non si mosse e rimase in silenzio.
«Mi hai sentito, Mo-…» d’istinto Shadow fece un balzo indietro e un braccio meccanico si piantò proprio nel punto da cui lui aveva saltato. Altri sei bracci seguirono il primo e cominciarono ad inseguire il riccio, che intanto li schivava il più velocemente possibile. «Che diamine stai facendo, Morris?! Fermali!» alzato nuovamente lo sguardo, Shadow non vide più nessuno alla sala comandi e così i bracci proseguirono, senza lasciare un attimo di tregua al povero riccio, e i puntatori laser riparati si unirono alla caccia.
Azionati i propulsori delle sue scarpe alla massima potenza, Shadow si scagliò contro qualsiasi cosa fosse pronto ad attaccarlo. Evitò prontamente i bracci meccanici e li conficcò sia nel pavimento che alle pareti con dei calci potenti. I laser rischiarono di colpirlo diverse volte, ma abituatosi alla loro velocità li anticipò ancor meglio dell’allenamento appena superato.
Dal soffitto uscirono delle piccole sfere che si avvicinarono in massa al riccio bicolore, alcune per esplodere e altre nell’intento di tramortirlo con delle scariche elettriche ad alto voltaggio. Alla comparsa improvvisa di una di queste ultime, le lance di energia caotica si formavano con facilità e con una potenza tale da distruggerne dieci in un colpo solo. «Maledizione! Che cosa sta succedendo?!»
Le macchine cominciarono drasticamente ad aumentare, prestazioni comprese, come se lo avessero sentito e misero il loro obiettivo non poco in difficoltà. Le sfere fluttuanti erano le più pericolose, poiché a prima vista il voltaggio pareva essere aumentato e Shadow ne ebbe ben presto la prova.
Due sfere erano finalmente riuscite ad attaccarsi dietro al riccio e a rilasciare una potente scarica elettrica che lo indussero ad urlare di dolore e quindi a richiamarne altre.
Shadow si sforzò di creare anche solo una lancia per poter distruggere le sfere che subito si staccarono dalla sua schiena. Quest’ultima gli bruciava ad ogni respiro e di tanto in tanto aveva uno spasmo muscolare involontario per via dell’elettricità residua, ma purtroppo per lui non era ancora finita: nel momento in cui si inginocchiò sfinito, altre sfere si apprestarono ad attaccarlo, ma per sua grande sorpresa esse si limitarono a circondarlo.
«E allora? Tutto qui quello che sapete fare?» disse Shadow ansimante, cercando di essere ironico.
Quattro bracci meccanici scesero dal soffitto e presero il riccio ebano da mani e braccia per poi sollevarlo.
Sebbene non lo credeva possibile, Shadow era incapace di muoversi. Lui sapeva che quelle scariche elettriche non erano poi così tanto pericolose e che quindi da lì a poco avrebbe dovuto recuperare le forze, ma ciò non accade. Forse le funzioni di quelle piccole diavolerie erano ben oltre la scossa elettrica. Seppur continuava a chiederselo, lui si sentiva sempre più debole.
Arrivato in mezzo alla stanza, quattro sfere lo raggiunsero e si posizionarono ai quattro arti, o per meglio dire, ai quattro bracciali inibitori. «Che… volete fare?» cercò di chiedere Shadow con un fil di voce, mentre dalle sfere uscirono dei piccoli bracci che si attaccarono all’unisono sui bracciali. «Aspettate. Ferme! Non lo fate!» Shadow supplicò invano.
In un attimo tutte le armi si ritirarono e lasciarono cadere il riccio assieme ai quattro bracciali. All’impatto con il terreno Shadow si sentì terribilmente frastornato e il suo corpo inerme non lo aiutava affatto. Anche la sua vista non era delle migliori, in quanto i bracciali riusciva a distinguerli solo come quattro macchie gialle. Respirava a fatica e con irregolarità, ma a lui non importava: per l’ennesima volta aveva avuto la prova della sua debolezza.
Questa volta il silenzio aveva davvero annebbiato la sua mente. Ogni suo pensiero, ogni sua preoccupazione e paura erano come svaniti e con loro anche tutti gli sforzi che aveva fatto finora. Shadow si era come svuotato, persino dell’amore che aveva per il professor Robotnik e Maria.
 
Maria
 
Seppur lontana e offuscata, Shadow intravide quella che pareva essere Maria, con il suo bel vestitino azzurro, il suo cerchietto color cobalto e il suo portamento aggraziato. «Ma-… Maria.»
Lei gli sorrise con un’espressione tranquilla sul volto e se ne stava lì, ferma a fissarlo.
Il riccio nero raccolse tutte le forze che aveva e finalmente riuscì almeno a sollevare un braccio e a tenderlo verso la ragazzina. «Ti prego… Aiutami.»
Inaspettatamente, Maria venne inghiottita da delle lingue di fuoco sotto gli occhi increduli di Shadow. Lui ritrasse subito la mano, scoprendo che Maria non era altro che frutto della sua immaginazione e soprattutto che non si trattavano di semplici fiamme, bensì della sua energia caotica. «Che… che cos’è?» Shadow si portò entrambe le mani al volto e osservò atterrito quello strano flusso dorato e rossastro che usciva da esse e che ben presto avrebbe riempito la stanza. «Cosa mi sta succedendo? Aiuto! Qualcuno mi aiuti!»
Il riccio nero tentò di rialzarsi, ma senza risultati. Era come impiantato al terreno e più si divincolava, più sentiva le sue forze venir meno, mentre il flusso aumentava radicalmente di volume. Sentiva terribilmente caldo e un dolore lancinante in tutto corpo, colpendo anche all’interno, dolore che non aveva mai provato prima d’ora. Le lacrime cominciarono a scendere copiosamente dagli occhi, segno che il povero Shadow stava ormai raggiungendo il suo limite.
«Per favore. Fatelo smettere! Maria! Maria dove sei?!» La voce gli usciva strozzata e ogni respiro era aria rovente che gli graffiava la gola. «Professore… Nonno, aiutami!»
 
 
«Maria, tesoro. Entra pure» Gerald accolse Kelly con un sorriso e la nipotina a braccia aperte e la baciò teneramente sulla testa. «Grazie di essere venuta.» il rumore sordo di un’esplosione lo ammutolì.
«È Shadow, nonno» lo tranquillizzò la bambina. «Ha ripreso ad allenarsi.»
L’uomo alzò le sopracciglia. «Ma io ero convinto che…»
Lei rispose scuotendo la testa e accennando un sorriso. «Ho compreso che per lui è importante e poi credo che l’abbia capito.»
«Capito cosa?» La ragazzina tirò fuori dalle tasche il flaconcino arancione e in quel momento sia Kelly che Gerald capirono. «È… successo di nuovo?» chiese lui cercando di essere il più risoluto possibile.
«Proprio qualche minuto fa.»
Il professor Robotnik sospirò, cercando di sorridere. «Va bene, Maria. Ti ringrazio per avermelo detto. Allora in questo caso dovrò farti un’altra visita, ma quella potrà aspettare per un po’.»
«In che senso?»
L’uomo si avvicinò al suo portatile e dopo una serie di comandi, in un attimo apparve un ologramma. «C’è qualcuno che ti vorrebbe salutare.»
Maria non riuscì a contenere la sua felicità e si portò le mani alla bocca. «Oh mamma, da quanto tempo! Abraham!»
«Ciao Maria!» davanti alla ragazzina si era materializzato un bambino sorridente poco più basso di lui: era Abraham Tower, che aveva tre anni in meno di Maria e una caratteristica che lo distingueva, ovvero l’eterocromia delle iridi, che lo fece nascere con l’occhio sinistro verde e quello destro marrone. I due si conobbero poco più di tre anni fa grazie all’amicizia che Gerald aveva con i genitori di lui ed essendo entrambi figli unici si considerarono fratelli fin da subito. Nonostante il loro unico modo per vedersi fosse attraverso un comunicatore olografico e tre volte alla settimana, Maria e Abraham sfruttavano sempre al meglio il tempo a loro disposizione per parlare.
«Dimmi Abraham! Come ti vanno le cose?»
«Va tutto bene qui! A scuola oggi mi sono divertito un sacco!»
«Che bello! Sono felice per te! Fai sempre il bravo, vero?»
«Certamente! Tu invece come stai?»
Maria esitò per qualche secondo per dire entusiasta:«Sto benissimo! L’ultima visita è andata bene!»
Intanto Kelly e Gerald si erano allontanati per lasciare spazio ai due ragazzini. La giovane scienziata si concesse un sorriso di tanto in tanto.
«Starei a guardarli per ore. Fanno molta tenerezza» disse Gerald a Kelly.
«Sì. Ha perfettamente ragione.»
«A causa delle condizioni di Maria nell’ultimo anno era difficile che si potessero vedere come prima. Oggi ho pensato che potesse essere il giorno giusto per farli incontrare, ma a quanto pare…» Il professore abbassò lo sguardo lasciando trapelare la sua preoccupazione con il silenzio.
«Io penso che abbia fatto bene.» Gerald si girò verso la donna ancora sorridente. «Le serviva proprio una distrazione. Proprio come concedere Shadow almeno un po’ di tempo libero.»
L’uomo venne attirato dalle risate gioviali dei due ragazzini e sorrise di conseguenza. «Se me lo dici tu, allora ho fatto davvero bene.»
Kelly abbassò lo sguardo sulle cartelle che aveva in mano e dopo una serie di ripensamenti, tese a Gerald la cartella di Maria. «Professore, questa è la cartella degli ultimi dati di Maria che io e Morris abbiamo trascritto. Scusi l’attesa.»
Gerald ringraziò con un leggero inchino e la prese. «Scusate voi. Vi sto facendo lavorare davvero molto. Specialmente voi due. Ma come ben sai, mi posso fidare di poche persone.»
Lei annuì. «Per via della talpa.»
«Esattamente.»
«Ah! La sai la novità? Oggi Shadow compie gli anni!»
Al nome di Shadow, Abraham smise di ridere. «Sh-Shadow? Parli del riccio?»
«Sì! Oggi compie quattro anni! Fa strano dirlo, anche perché non si direbbe. È davvero molto maturo per la sua età e ha imparato un sacco di cose in questi anni e…»
«Mi spaventa.» Come il ragazzino, anche Maria perse quell’entusiasmo e lo guardò confusa, mentre Abraham si era imbronciato. «Shadow mi spaventa, Maria.»
Maria scosse la testa e cercò di sorridere. «Ma cosa stai dicendo? Shadow non è spaventoso, lo hai conosciuto! È solo che lui è un po’ timido, tutto qui. So che l’ultima volta ti sembrava un po’ scorbutico, ma è per via dei vari test che sta facendo e…»
«Maria, tu credi davvero che lui sia buono?»
«Come dici, scusa?»
Il silenzio calò tra i due, cosa che allarmò i due scienziati rimasti in disparte. «Che cosa succede? Si è interrotta la comunicazione?» ipotizzò Kelly.
Abraham abbassò gli occhi e si sfregò nervosamente le braccia. «Che cosa intendevi dire, Abraham?» ruppe il ghiaccio Maria.
«Qui da me non si fa altro che parlare di Shadow e… la maggior parte delle cose non sono belle. Io non ne capisco molto, ma vedo le loro facce e quindi…»
«Sono tutte bugie» mormorò Maria stringendo con forza i pugni. «Sono tutte bugie!»
Abraham sobbalzò quando la giovane Robotnik gli urlò contro. «S-scusa, Maria. Ti prego non ti arrabbiare con me. Sono loro che ne parlano così!»
«Perché dovete essere tutti contro Shadow? Lui non ha fatto niente di male! Quel che accaduto anni fa è stato un incidente!»
«No, questo non va affatto bene» Gerald e Kelly si avvicinarono di corsa a Maria per calmarla. «Maria, adesso stai esagerando. Abraham non ha alcuna colpa.» le disse il vecchio professore, ma Maria scansò le mani del nonno pronto ad appoggiarle sulle sue spalle.
«No! Sono stanca, nonno! Non solo qui sull’ARK lo evitano e lo temono, ma anche sulla Terra!» Maria lasciò che le lacrime rigassero le sue guance. «Loro non lo conoscono come lo conosco io! Non sanno che Shadow è…» tutto accadde così in fretta che Maria non ebbe nemmeno il tempo di urlare, ma solo di cadere con gli occhi spalancati.
«Maria!» Gerald la prese prima che la testa picchiasse sul pavimento. «Maria, che ti prende? Rispondimi ti prego!»
Una fitta di dolore aveva colpito Maria prima al petto e poi alla testa, come se qualcosa le avesse trafitto il cuore e il cervello. Tutto ciò che riuscì a fare fu portarsi le mani alla bocca, onde evitare che vomitasse Dio solo sa cosa.
«Che succede a Maria? Maria!» chiamò disperato Abraham.
«Mi dispiace, Abraham. Non volevo che la vedessi in questo stato. Ora ti dobbiamo lasciare. Ti prometto che ti richiameremo. Kelly, interrompi la comunicazione.»
«Subito!» anche Kelly si scusò con il bambino e fece scomparire il suo ologramma.
«Maria, ti prego. Dimmi qualcosa! Non mi spaventare così!»
Maria cercò di rialzarsi, ma senza riuscirci. Sentiva il suo corpo molto pesante e caldo. Le parole non le uscivano dalla bocca, solo lamenti, ma al di là del dolore sentiva che c’era qualcosa non andava, che la disturbava.
«Aiutami, Kelly. Dobbiamo portarla subito in infermeria!»
«Sh-…Shadow.» anche se con un fil di voce, finalmente Maria aveva parlato.
«Oh Maria. Grazie al cielo! Non ti preoccupare, tra poco starai meglio.»
«Shadow. È… successo qualcosa a Shadow!» Maria si alzò di scatto davanti agli occhi increduli dei due adulti e, raggiunta a fatica la scrivania, prese il flaconcino di medicine e ne inghiottì quattro in una volta sola.
«Maria non ti sforzare! Ti prego sied-…»
«Allarme. Allarme. Settore D-45 a rischio. Settore D-45 a rischio
L’interfaccia vocale continuò a ripetere il messaggio, mentre l’allarme lampeggiava ad intermittenza.
«Settore D-45? Ma… è dove si trova Shadow.» disse Kelly.
«Oh no. Shadow! Io… devo andare da Shadow!»
«Scordatelo Maria!» Gerald prese con entrambe le mani le spalle di Maria per guardarla dritta negli occhi. Per la prima volta aveva urlato a sua nipote. «Guardati! Hai avuto un’altra ricaduta! Io non lascerò che tu vada lì in queste condizioni!»
Maria cominciò a singhiozzare, ma senza smettere di pensare al riccio in pericolo.
«Ti prego. Rimani qui con Kelly. Ti porterò Shadow, te lo prometto.» Calmatosi, Gerald stampò un lungo bacio sulla fronte della ragazzina. Quest’ultima era rovente. «Kelly. Portala via.»
Lo scienziato corse verso l’uscita in soccorso della sua creatura. Quando le porte si chiusero, Maria si lasciò andare in un pianto disperato, maledicendosi per le sue condizioni che le impedivano di andare da Shadow.
«Perché? Dimmi perché, Kelly!» chiese urlando tra i singhiozzii. «Perché non sono più forte? PERCHÉ?!»  
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
I brividi. Mentre scrivevo questo capitolo ho avuto i brividi.
Magari esagero, però… sono abbastanza soddisfatta di questo capitolo. O forse semplicemente, ora che sono arrivata a questo punto, sono tesa ma allo stesso tempo elettrizzata per questa parte della storia. Ci sono tanti buchi che ora tapperò e che spero siano abbastanza coerenti.
La fine si avvicina. Ora lo posso dire.
Detto questo, spero che il capitolo vi sia piaciuto e come sempre vi chiedo di segnalarmi ogni sorta di errore ( che ovviamente non mancheranno mai…)
Grazie e a presto!
 
Cassandra

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Capitolo 15
*** Ricordare non deve fare male ***


Se c’era una cosa che Sonic odiava con tutto sé stesso era camminare. La sensazione del piede che si appoggiava pesante sul terreno, un passo che durava più di un millesimo di secondo e il cuore che non pompava sufficientemente veloce il sangue da fargli provare l’adrenalina in tutto il corpo. Lo aveva già dovuto sorbire nel corridoio bordeaux, al buio per giunta, e non era stato per nulla piacevole, non che lo fosse anche ora che erano tra corridoi meno immensi e illuminati.
«Shadow. Dammi una buona ragione per non mettermi a correre» disse il riccio blu spazientito, mentre il nero era occupato a seguire i segnali della scatola di velluto. «Potresti almeno fingere di ascoltarmi?!»
«Se non la pianti di lamentarti giuro che te la faccio venire io la voglia di correre» disse grave la Forma di Vita Definitiva.
«Perfetto! Allora continuerò ad insultarti!»
Shadow era pronto ad accanirsi contro un Sonic altrettanto voglioso di azione, ma riprese subito il controllo e sospirò, sorprendendo l’eroe. «Ascoltami bene, Sonic» cominciò il primo lentamente. «Non te lo ripeterò una seconda volta, perciò presta molta attenzione. Sono stato chiaro?»
Sonic abbassò a sua volta la guardia, si portò le mani dietro la testa e chiuse gli occhi. «Accidenti, Shads. Così mi passa la voglia di stuzzicarti» socchiuso l’occhio destro, Sonic sperava di vedere qualche reazione, ma Shadow era rimasto serio davanti all’ironia del primo. «Ok, mi arrendo. Sputa il rospo.»
Il riccio ebano spostò lo sguardo verso l’incrocio distante qualche metro da loro. Improvvisamente i suoi ricordi lo portarono a sentire i passi di qualcuno che si avvicinava correndo e una risata che aumentava sempre di più e fu allora che la vide: Maria. Allegra e piena di energie, dove i suoi lunghi capelli dorati erano i protagonisti di quel ricordo. Lei correva spensierata evitando di scontrarsi con gli scienziati che la salutavano con un sorriso e quando finalmente passò a fianco a Shadow, questi la seguì con lo sguardo.
La ragazzina si fermò come se si fosse accorta della presenza che la stava osservando da lontano e si voltò; gli occhi color rubino dell'intelligenza artificiale incrociarono quelli color cielo dell’umana e rimasero a fissarsi a lungo, lui impassibile e lei sorridente, finché quest’ultima non svanì lentamente dalla mente di Shadow.
«Shadow, qualcosa non va?» chiese l’eroe, riportandolo del tutto alla realtà. «Che cosa hai visto?»
«Vorrei… passare in un posto prima di proseguire» Shadow si voltò verso Sonic supplichevole. «È la mia unica richiesta.»
Il riccio blu annuì subito, senza nemmeno contestare. Da quando erano ormai divenuti alleati quella era assolutamente la prima volta che Shadow gli aveva chiesto un favore e gentilmente per giunta. Gli dava una strana sensazione, ma soprattutto provava davvero una gran pena. «Non c’è assolutamente nessun problema. Da che parte?»
Il riccio bicolore fece strada e i due proseguirono per il corridoio fino a raggiungere l’incrocio e ciò che si trovarono davanti dopo aver girato a destra inquietò non poco il blu, mentre il nero non ne rimase per niente sorpreso. Il pavimento di quel corridoio era disseminato da macerie di metallo come nella prima stanza in cui i due ricci si risvegliarono dopo il Chaos Control, ma con qualcosa in più: le pareti erano macchiate da schizzi irregolari color bordeaux e tempestato da fori di proiettili.
«Non… non ci posso credere. Quello è…» balbettò Sonic.
«Sì. È quello che pensi» Shadow cominciò a camminare e un nuovo ricordo si manifestò ad ogni passo man mano che avanzava. Di nuovo sentì dei passi, ma non erano più di una sola persona, bensì di una decina o forse una ventina di persone che correvano a perdifiato e al posto delle risate ci furono solo urla di terrore e richieste disperate di aiuto.
Shadow si lasciò trapassare dagli scienziati dell’ARK, che intanto scappavano, mentre degli uomini vestiti di nero li sparavano senza alcuna pietà con tutto ciò che avevano, incuranti del sangue innocente che stavano versando.
«Shadow!» alla voce di Sonic, urla, spari e tutto quell'orrore scomparvero e Shadow si ritrovò nuovamente in mezzo a quella desolazione dimenticata da Dio. «Meno male. Cominciavi davvero a spaventarmi!»
«Che...che cosa è successo?» chiese Shadow confuso. La voce gli moriva in gola.
«Te ne stavi qui fermo e non riuscivo a smuoverti! Eri come impiantato al terreno! Sei sicuro di stare bene?»
Shadow si guardò attorno disorientato, ma comunque sollevato di non trovarsi più in quell’incubo di cinquant’anni fa. Era tutto un’illusione. «Sì, tranquillo. Sto bene. Possiamo andare. Se mi dovesse ricapitare di nuovo, hai il permesso di darmi un pugno.»
Sonic sogghignò per sciogliere la tensione. «Con molto piacere.»
I due ricci si fecero strada tra le macerie, ignorando ormai totalmente le macabre chiazze scure sulle pareti e avvistata la porta interessata, Shadow la indicò con un indice. «Eccola. Siamo arrivati.»
Raggiunta la stanza non si dovettero preoccupare di forzare la porta in quanto era socchiusa, perciò Shadow vi avvicinò la mano tranquillamente e, dopo aver esitato un paio di volte, si decise ad aprirla.
L’odore di chiuso invase le narici dei due rivali e l’oscurità impediva loro di vedere l’interno. L’unica cosa che riuscivano a distinguere grazie alla luce del corridoio era un tappetto azzurro e quella che pareva essere una scrivania del medesimo colore. «Dici che la luce funziona?» chiese Sonic con una mano davanti alla bocca.
«Scopriamolo» Shadow cercò a tentoni sulla parete alla sua sinistra l’interruttore e dopo pochi secondi il blu e le sue sfumature li circondarono. Era come se all’improvviso si ritrovassero in mezzo al mare, cosa non molto piacevole per l’impavido Sonic the Hedgehog.
«Oh caspita. È molto… blu.»
«Ti viene voglia di nuotarci dentro.»
«No way! Non scherziamo!»
Shadow ridacchiò divertito. «Andiamo, faker. Dov’è finito il tuo senso dell’umorismo?»
Sonic incrociò le mani al petto schioccando la lingua irritato, ma era comunque felice di vedere il rivale più tranquillo e a suo agio.
Come per la libreria, in quella camera da letto si respirava perlopiù polvere, ma a Shadow non importava, poiché essa era carica di ricordi indimenticabili. «Questa era la stanza di Maria.»
Sonic si sedette sul letto senza staccare gli occhi da tutto quel blu. «Ah capito. Quindi è qui che dormivate.»
Intanto Shadow si era avvicinato alla scrivania su cui vi avvistò subito un paio di forbici arrugginite: era lo stesso paio con cui si era ferito. «Ricordo che dopo la mia nascita Maria mi portò subito qui e iniziai a perlustrarla. Era tutto nuovo per me» sorrise. «Ero veramente ridicolo. Queste furono la prima cosa che presi in mano e Maria mi sgridò subito ripetendomi che erano pericolose. E fu anche la prima volta che scoprì le mie abilità.»
Sonic sorrise a sua volta immaginandosi la scena. «Perciò anche tu eri un fessacchiotto come noi comuni mortali» avvistato un orsacchiotto di peluche, il blu lo prese e iniziò ad agitarlo tra le mani. «E magari scambiasti questo per un orso vero.»
«Ti è tornato di colpo il buon umore, eh?» lo zittì il nero. «Però non posso darti torto. È successo. Anche con gli altri.»
Sonic osservò gli altri peluche che era appoggiati sui cuscini. C'era un anatroccolo arancione, un gatto peloso viola con la lingua di fuori e due occhi che erano tutt'altro che felini. Infine c'era una bambola di porcellana con la testa sproporzionata rispetto al corpo minuto vestito di pizzo bianco, i capelli arruffati di un rosso spento e gli occhi sbarrati e fuori dalle orbite. Il riccio blu inorridì alla vista di quest'ultima. «I primi due sono accettabili, ma quell'obbrobrio se fosse stato per me l'avrei già gettata nello spazio.»
Appoggiate sia le forbici che la scatola di velluto sulla scrivania, Shadow squadrò sospettoso Sonic.«Obbrobrio? Sempre opera di Tails?»
L'altro alzò le spalle e agitò le gambe con fare innocente. «Beccato» inavvertitamente Sonic diede un calcio col tallone a qualcosa che si trovava sotto il letto. «Ma cosa…»
Shadow si avvicinò al letto, mentre il riccio blu cercò l’oggetto misterioso sotto i suoi piedi. «Che succede?»
«Aspetta un attimo… presa!» come se una scatola non bastasse, tra le mani di Sonic ce ne era una seconda, ma questa volta di carta e di color verde acqua; era talmente impolverata che Sonic dovette passarci con la mano almeno tre volte. «Urca. Non è solo impolverata ma è anche appiccicosa.»
Shadow non ci mise molto a riconoscerla e la rubò dalle mani del rivale prima ancora che potesse aprirla. «Questa scatola... io me la ricordo!»
«Ah sì? E che cos'è?»
Il riccio nero si sedette a fianco di Sonic e tolse il coperchio, rivelando così cosa c'era all'interno di essa: varie cartacce di alluminio e plastica, sia di dolci che di cioccolata. Shadow sorrise istintivamente.
«Wow. Sono un bel po' di dolci. Chissà che indigestione.»
Shadow non resistette e scoppiò in una fragorosa risata, spaventando non poco il riccio blu. «Sì. È stata proprio una bella indigestione!» disse Shadow lasciandosi trasportare dal ricordo.
Sonic era inizialmente stranito dalla risata di Shadow, ma si abituò a poco a poco, poiché venne contagiato da essa. Era una scena davvero insolita e soprattutto mai vista dall'eroe blu, ma anche piacevole da guardare. «Non mi dire che li avete mangiati tu e Maria?»
Il riccio ebano annuì cercando di soffocare l'ultima risata prima di raccontare. «Mi svegliò nel cuore della notte dicendomi che aveva voglia di mangiare qualcosa di dolce. Una vera e propria sorpresa.»
«E perché? Solitamente ai bambini piacciono i dolci. Che c'è di strano?»
Shadow scosse la testa. «Nel caso di Maria era diverso. In quel periodo faceva fatica a mangiare per via della malattia, soprattutto i dolci. Perciò ne ero sì sorpreso, ma anche felice.»
«Oh capisco.»
«Di certo non mi aspettavo che mi chiedesse di intrufolarci nelle cucine per rubare tutti quei dolci.»
Sonic alzò un sopracciglio diffidente. «Maria? Sicuro che parliamo della stessa Maria?»
«Sconvolgente, vero? Ma dopotutto si tratta della famiglia Robotnik. Temo sia nel sangue» i due rivali cominciarono a ridere all'unisono, poiché entrambi avevano pensato sia a Gerald Robotnik che al dottor Eggman.
«E come siete riusciti ad entrare?» chiese Sonic curioso.
«Non è stato difficile visto che la lasciavano sempre aperta. Sebbene continuassi a dirle che era sbagliato e che non dovevamo essere lì, lei continuava a ripetere che aveva fame» Shadow si abbandonò di nuovo al ricordo e allargò un sorriso malinconico. «Ero così felice di sentirglielo dire e così non potei far altro se non aiutarla. Quella notte stessa ci mangiammo tutto.»
«E poi?»
Shadow si portò entrambi le mani al ventre. «Ci venne un mal di pancia talmente forte che siamo dovuti stare tutto il giorno a letto!»
Sonic scoppiò nuovamente a ridere, seguito da Shadow e i due si lasciarono cadere sul letto, alzando un polverone. «Immagino che Gerald si sia arrabbiato!»
«Ovviamente, ma era contento quanto me» nel silenzio che seguì il riccio ebano chiuse gli occhi e riportò alla mente quel giorno in cui i due stavano accoccolati sul letto doloranti, ma felici di stare insieme. «Che fosse nella buona o nella cattiva sorte io non ho mai abbandonato Maria e lei ha fatto lo stesso con me. Era una buona amica.»
«E una buona sorella.»
Shadow si voltò verso un Sonic sorridente ed annuì. «Sì, è vero.»
«E vedi di non dimenticarlo.»
Shadow si rivolse all'eroe confuso. «Ma che dici? Io non potrei mai dimenticarla.»
«Quello che intendo dire è che devi attaccarti a questo tipo di ricordi e basta. Ricordati della gentilezza di Maria, del fare paterno di Gerald e di tutte le cose belle e divertenti che hai fatto con loro. Tutto il resto non conta! Devi dimenticarti di tutto ciò che ti ha fatto soffrire. So che è difficile, ma devi farlo.»
Shadow si alzò dal letto senza staccare gli occhi di dosso al rivale, serio come non lo aveva mai visto. Gli era così difficile credere che quelle parole fossero uscite proprio da Sonic the Hedgehog, l'eroe spavaldo, ironico, testardo e sempre propositivo lo stava consolando per la prima volta.
No, non era la prima volta. Quell'assurda e scomoda situazione in cui si trovavano era solo una fra le tante in cui Shadow aveva ricevuto quella gentilezza. Non perché se ne fosse dimenticato o non curato, ma semplicemente non la vedeva, non voleva vederla e tutto perché era solo convinto che lui non potesse più riceverne.
Pensiero alquanto insensato se non anche immaturo, ma per tutto quel tempo Shadow, l'Ultimate Lifeform, era fortemente convinto che dopo tutto ciò che aveva causato in passato non se la meritasse da nessuno, nemmeno da uno come Sonic.
Anche l'eroe si alzò con un balzo e dopo essersi stiracchiato porse a Shadow un pugno con la mano destra, lasciando quest'ultimo ammutolito.«Sono sicuro che se Maria ti vedesse ora sarebbe molto orgogliosa di te.»
Il nero sogghignò divertito e rispose al gesto colpendolo con un altro pugno.«Ti ringrazio, Sonic. Ne avevo davvero bisogno.»
I due si scambiarono uno smagliante sorriso e non il solito sorriso fra rivali, ma fra due amici, che fino ad ora avevano combattuto le avversità insieme.
Il bip sordo e costante della scatola di velluto attirò l'attenzione di Sonic e Shadow, che si voltarono verso la scrivania: era il momento di proseguire.
«Sei pronto?» chiese il blu.
Shadow annuì deciso. «Sì. Torniamo a casa.»
Usciti dalla stanza di Maria, i due si lasciarono nuovamente guidare per raggiungere la fatidica meta imposta dall'ultimo regalo della bambina. Ormai erano molto vicini. «Bene. Se vuoi ora possiamo metterci a correre, così faremo più in fretta. Che ne dici?» propose Shadow.
Sonic ci rifletté su per poi rifiutare l'offerta. «No. Voglio camminare.»
«Ma come? Non hai fatto altro che lamentarti perché volevi correre. Cosa ti ha fatto cambiare idea?»
«Vorrei che mi raccontassi altre cose su di te e Maria.» Shadow sbatté più volte le palpebre incredulo dalla richiesta del blu. « Non vorrai farmi credere che le forbici, la bambola assassina e l'indigestione sono state le vostre uniche avventure, eh?»
Il riccio bicolore sogghignò scuotendo la testa. «Assolutamente no.»
«E allora spara, forza! Voglio vederti di nuovo ridere! Non so quando mi ricapiterà un'occasione del genere.»
«Sei veramente un idiota.»
Sonic gli fece l'occhiolino scherzosamente.«Dimmi qualcosa che non so. Stupiscimi.»
Shadow ci pensò su, cercando qualche episodio particolare che avrebbe allietato la loro camminata e quando lo trovò, disse entusiasta:«Ora ti racconto perché odio così tanto il limone.»

ANGOLO DELL'AUTRICE:
Prima di cominciare voglio solo dirvi una cosa.
BUON ANNO A TUTTI AMICI DI EFP!
Il 2017 è passato e si spera che questo 2018 sia un bellissimo anno (per quanto mi riguarda il 2017 è stato un anno un po' particolare, perciò spero davvero che vada meglio.)
È stato strano scrivere questo capitolo, ma mi è stato abbastanza facile immaginare tutta la scena e sono abbastanza soddisfatta di come è uscito fori. Inizialmente doveva essere un intermezzo fra ciò che stava succedendo nella palestra con Shadow e Maria, ma mentre scrivevo mi sono accorta che avevo già raggiunto tre pagine di Word e indi per cui ho deciso di fare un capitolo focalizzato sui due ricci che ho abbandonato sull'ARK.
Diciamo che mi sono presa una “pausa” prima del finale.
Vi dirò la verità. Ho davvero paura di scrivere gli ultimi capitoli (che ad occhio e croce saranno due massimo tre...) Anzi, forse lo avrà già detto qualche capitolo fa o a qualcuno rispondendo alle recensioni, ma so che prima o poi dovrò affrontare questo finale.
Detto questo, spero che questo capitolo vi sia piaciuto e vi auguro ancora un felice anno nuovo <3
A presto!

Cassandra

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Capitolo 16
*** Un forte legame ***


Per quanto ci provasse, Morris non riusciva a bypassare il sistema, poiché ogni codice da lui inserito veniva respinto da quello che pareva essere un virus. Ad ogni accesso negato l'uomo imprecava a denti stretti, senza togliere gli occhi di dosso dall'orrore che stava accadendo nella palestra.
Una densa cortina di energia caotica stava riempiendo la stanza e Shadow era ormai una macchia informe in mezzo a quel mare dorato prossimo al cremisi. Lo scienziato era atterrito davanti a quella scena e cercò di non immaginare il disastro che avrebbe potuto causare tutta quell'energia: ovvero la totale distruzione dell'ARK.
«Dannazione! Come è potuto succedere?!» tra i vani tentativi di riaprire la porta e l'assordante allarme di pericolo, Morris cercava di capire chi mai avrebbe potuto fare una cosa così tanto pericolosa e folle come privare a Shadow dei suoi bracciali inibitori, gli unici freni che impedivano la fuoriuscita di energia caotica. La lista dei sospettati era infinita, poiché tutti all'interno della colonia spaziale sapevano quell'importante dettaglio, ma chi, fra essi, poteva essere la famosa talpa di cui gli aveva parlato il professor Robotnik.
Dato l'ottimo risultato di Shadow al cinquantunesimo livello, Morris gli consentì di prendersi una pausa e chiuso il programma di allenamento, uscì dalla sala comandi, ma dopo nemmeno dieci minuti il suo palmare lo avvertì che il sistema era stato hackerato. Ritornato indietro di corsa, la porta della palestra era bloccata, le armi totalmente fuori controllo e quindi impossibile da fermare, obbligando l'uomo ad assistere impotente alla tortura del riccio ebano.
Intanto la temperatura nella sala comandi aumentava sempre di più, il che non aiutava per niente lo scienziato, ancora impegnato a eliminare il virus. «Perché non funziona?!»
«Che cosa sta succedendo?!» Gerald entrò nella sala comandi affannato e visibilmente preoccupato. «Dov'è Shadow?!»
«Non riesco a farlo uscire, professore! La porta è bloccata! I suoi bracciali...» Gerald si avvicinò al vetro della palestra e al primo contatto ritrasse subito le mani, poiché era rovente. «Ho provato a chiamarlo più volte, ma è come svenuto.»
«Non è possibile. Quella è energia caotica.»
«E anche di quantità esorbitante. È in continua crescita.»
«Che aspetti! Fermala!» ruggì il professore.
«È quello che sto cercando di fare! Ma qualcuno è riuscito ad hackerare il sistema!»
Un violento terremoto allarmò i due e uno degli schermi li avvertì rumorosamente che l'energia di Shadow stava ormai raggiungendo un punto critico.
«La talpa. È quella maledetta talpa!» Gerald scagliò un pugno sulla tastiera con una forza sufficiente a spaventare il suo discepolo.«Dobbiamo assolutamente forzare la porta e rimettergli i bracciali inibitori. E dobbiamo farlo in fretta.»
«È inutile. Le ho provate tutte!» si lamentò Morris. «Ho inserito ogni codice possibile, ma...»
«Non hai messo i miei.»
«Come dice?»
Gerald allungò le mani su un'altra tastiera e iniziò a far scivolare le sue dita sui tasti, riuscendo ad abbattere le difese del virus uno alla volta davanti agli occhi increduli del giovane scienziato. «Guarda e impara, Morris. I virus non hanno segreti per me.»
All'improvviso una lingua di energia caotica colpì la finestra della sala trovandola, mettendo ancora di più sotto pressione i due scienziati, come se il costante aumento di temperatura non bastasse.
«È stato bravo. Molto bravo, ma io lo sono di più. Non manderà a monte il mio piano, non ora che sono così vicino.»
«E lo porterà al termine, professore. Ne sono certo.» mentre il professor Robotnik era concentrato a distruggere il virus, Morris avanzò verso il vetro per controllare i danni della crepa, allarmandosi non poco, poiché si trattava di un vetro all'avanguardia, antiproiettile e infrangibile con pochissime possibilità di rompersi o, come in quel caso, di creparsi. Quell'energia che stavano studiando da anni aveva veramente una forza dirompente, che superava il limite del possibile. «Resisti, topastro. Ti tireremo fuori da lì.»


Kelly si portò entrambe le mani alla bocca alla vista del display del termometro che recitava in rosso ben 40.3 °C.«Maledizione. In quindici minuti è salita di altri tre gradi. Questo non va affatto bene.»
«Non mi importa» disse con un fil di voce Maria sdraiata sul letto. «Io... voglio andare da Shadow.»
La ragazzina era del tutto pallida e priva di sudore, nonostante la sua temperatura corporea fosse così alta e in continuo aumento. Si sentiva strana, come se quel calore venisse dall'interno e si fosse esteso in tutto il corpo, causandole forti dolori e l'impossibilità di muoversi.
Tutto era cominciato quando suo nonno era uscito dall'infermeria. Forti conati di vomito e mal di testa furono i primi sintomi che indicarono la perdita dell'efficacia dei farmaci di Gerald.
«Non se ne parla, Maria. Tu devi assolutamente restare qui» disse Kelly cercando di essere autoritaria, ma invano, poiché la voce le usciva strozzata. «Tuo nonno tornerà presto. Te lo prometto.»
«Tu non capisci, Kelly! Shadow ha bisogno di me! Io... io lo sento!» si oppose per l'ennesima volta la giovane Robotnik. «Shadow mi sta chiamando e io non sono lì con lui!» Maria si alzò dal letto con uno sforzo immane, ignorando il dolore e la stanchezza, ma appena toccò il pavimento con i piedi nudi, cadde sulle ginocchia per via del freddo che le percorse sulla schiena.
«Maria!» la scienziata si avvicinò subito alla ragazzina per aiutarla a rialzarsi, ma quest'ultima rifiutò il suo aiuto scansando la sua mano.
«Non mi toccare! Tu sei come tutti gli altri!» urlò Maria con tutto il fiato che aveva.
«Che cosa stai dicendo? Sei troppo debole, Maria. È meglio se ti...»
«Anche tu hai paura di Shadow! Come tutti gli altri! Solo io e il nonno gli vogliamo bene veramente! Solo noi due teniamo a...» come successe durante la chiamata con il piccolo Abraham, una ricaduta colse impreparata Maria, che subito si portò le mani alla testa urlando di dolore e con le lacrime agli occhi.
«Oh no, Maria!» la giovane scienziata si precipitò sulla scrivania e a tentoni prese una siringa con un tranquillante. «Stai tranquilla, Maria. Andrà tutto be-... ah!»
Come Kelly le si avvicinò di nuovo, Maria la spinse via per poter scappare correndo dall'infermeria.
«No! Maria!»
Per sua grande sorpresa, Maria era riuscita ad ingannare la donna senza problemi, che, ancora scossa, le stava ordinando di tornare indietro, ma lei non si fermò, nemmeno quando sentì i suoi tacchi raggiungerla rapidamente. «Oh no. Tu non mi prenderai.»
Fortunatamente quel piano dell'ARK Maria lo conosceva alla perfezione. Sapeva dove fosse ogni cosa, compresi gli ascensori e avvistato un incrocio pregò che il suo fiato reggesse ancora qualche secondo. «Forza. Ce la posso fare.»
«Maria, ti prego! Cerca di ragionare!» tentò di nuovo la scienziata.
Girato a sinistra, la ragazzina ringraziò il cielo che l'ascensore posto proprio all'angolo dell'incrocio fosse libero e vi ci fiondò subito, chiudendo in tempo le porte. Intanto Kelly, non accortasi di nulla, proseguì la sua strada, chiamandola invano.
Maria si portò la mano destra al cuore, percependo il suo battito cardiaco accelerato, ma non se ne preoccupò, in quanto era più sollevata di avercela fatta. Solo dopo aver ripreso abbastanza fiato si accorse che fingere un malore fosse stato un colpo basso, ma in cuor suo sapeva che se non lo avesse fatto non sarebbe riuscita a scappare per raggiungere Shadow.
A tre piani di distanza Maria chiuse gli occhi e si concentrò al massimo respirando il più lentamente possibile e liberando la mente, così da poter raggiungere la palestra e dopo qualche secondo lo poteva vedere nitidamente: Shadow era immerso in un mare di fuoco e incapace di reagire, supplicando tra le lacrime di fermarlo.
La piccola Robotnik riaprì gli occhi di scatto affannosamente, come se per un momento avesse provato una terribile sensazione di soffocamento. «Resisti, Shadow. Sto arrivando.»

TEMPERATURA CRITICA RAGGIUNTA.
LIVELLO DI OSSIGENO IN CALO.
EVACUARE IL SETTORE D-45.

Nel giro di pochi minuti la situazione nella sala comandi era peggiorata. Sia Morris che Gerald faticavano a respirare e annaspavano continuamente in cerca di aria. La temperatura saliva all'aumento dell'energia caotica di Shadow, che non dava segno di diminuire.
Gerald aveva sottovalutato la natura del virus, in quanto dopo esser riuscito ad abbattere una decina di barriere, esso rispose con tutte le armi attaccando il vetro che li separava dalla palestra. Usare la forza bruta poteva essere un'opzione, se non fosse che quella porta fosse stata creata a posta affinché non potesse essere distrutta molto facilmente.
«Maledizione. Di questo passo non riusciremo mai a tirarlo fuori. Questa talpa non è una persona normale» affermò rassegnato Morris, ormai stremato.
«Mi deludi, Morris. Ti arrendi così facilmente?» a differenza di Morris che si era accasciato a terra affaticato, Gerald non si era ancora staccato dalla sua postazione e continuava a inserire tutti i codici possibili per distruggere le difese del virus, a costo di spaccarsi la schiena o di bruciarsi le dita sulla tastiera rovente. « Noi Robotnik siamo fatti così. Difficilmente ci arrendiamo.»
Inserite le ultime venti cifre, Gerald premette con fermezza il tasto Invio e Morris rimase allibito davanti alla porta spalancata, alle armi ritirate e allo spegnimento dell'allarme. Ce l'aveva davvero fatta. «Professore, lei è davvero impossibile!» urlò entusiasta il giovane scienziato.
«Non è ancora il momento di esultare, Morris» lo zittì Gerald, impegnato ad osservare il flusso di energia caotica che lentamente cercava di entrare nella sala comandi. Erano come grossi tentacoli rossi e dorati, che cercavano un qualunque appiglio per poter espandersi. Era così densa da sembrare davvero una creatura a sé. «Questo non va affatto bene. Così non possiamo avvicinarci a Shadow.»
Morris annuì deluso. «Ho sentito che è altamente pericolo toccare l'energia caotica.»
«Durante lo sviluppo di Biolizard qualcuno ha inavvertitamente toccato l'energia, riportando delle ferite simili a delle bruciature. Hanno anche affermato che la sensazione da loro provata non era affatto piacevole.»
«E allora cosa suggerisce di fare?»
«Devi recuperare delle tute ignifughe e sperare che possano bastare a resistere in quell'Inferno.»
«S-Shadow.»
Il professor Robotnik si voltò verso la porta e si spaventò alla vista di Maria che cercava di reggersi in piedi tenendosi alla porta della sala comandi. «Maria! Che cosa ci fai qui?» l'uomo si precipitò subito dalla nipote per aiutarla. Rabbrividì quando sentì che tutto il corpo era estremamente caldo.
«Shadow...» ripeté lei, ignorando completamente la presenza dell'uomo. I suoi occhi erano fissi sulla porta bloccata da numerosi tentacoli di energia caotica, i quali sembravano stregare Maria, invitandola a proseguire.
«Sei veramente testarda, principessina» disse Morris alterato rialzandosi. «Date le tue condizioni saresti dovuta restare dov'eri!»
«Morris, non è il momento!» Lo ammonì Gerald.
«Sei un'incosciente!» il giovane scienziato prese per mano Maria, sempre con lo sguardo perso nei i tentacoli, e si stranì appena la sentì bollente, ma ripresosi si apprestò ad uscire dalla sala. «Adesso basta con questi capricci e...»
«Shadow! Sto arrivando!»
L'urlo della ragazzina colse impreparato Morris che la lasciò inavvertitamente, mentre lei corse verso la porta.
«No Maria! È troppo pericoloso!» le urlò Gerald a pieni polmoni pronto a raggiungerla, ma si bloccò davanti a ciò che riteneva impossibile, più di quella situazione: Maria era appoggiata alla porta della palestra, mentre l'energia la attraversava senza causarle nessuno tipo di danno.
«Ma cosa...» iniziò Morris sbattendo più volte le palpebre. «Professore! Com'è possibile?!»
«Io... io non lo so davvero» rispose insicuro il professore.
«Shadow! Shadow rispondimi! Sono io, Maria!» la ragazzina chiamò a gran voce il fratellino, assottigliando gli occhi nella speranza di vederlo e quando finalmente avvistò una macchiolina scura, iniziò a piangere. «Shadow! Ti ho trovato! Shadow!» pronta per correre verso di lui, venne fermata da Gerald che la prese per il polso, dimenticandosi dell'energia caotica. L'uomo rimase davanti alla porta lasciandosi trapassare dai tentacoli e capì che non era del tutto incorporea, poiché riusciva a percepire un leggero tepore.
«È... davvero innocua?» domandò Morris ancora diffidente.
«Totalmente innocua» affermò con certezza Gerald. «È... incredibile.»
«Lui sa che siamo qui» disse Maria, come rinsavita da un incantesimo. Voltatasi verso il nonno, i suoi occhi erano rossi e gonfi per le lacrime. Tuttavia, senza perdere quello scintillio di determinazione, un tratto sempre presente nel suo sguardo. «Shadow sente che siamo qui e sta cercando di dirci che non potrà resistere a lungo se noi non lo tiriamo fuori.»
«No ti sbagli, Maria» Gerald si inginocchiò davanti alla nipote e appoggiò entrambe le mani sulle sue spalle. «Lui sa che tu sei qui.»
Maria spalancò gli occhi confusa, mentre il nonno le sorrise per tranquillizzarla. «Io l'ho sempre saputo» l'uomo avvicinò la fronte di Maria alla sua. «l'ho sempre saputo.»
La piccola Robotnik sorrise a sua volta e chiuse gli occhi senza staccarsi dal nonno, ma non durò per molto, poiché lei sentì le sue forze venir meno e si lasciò cadere all'improvviso tra le braccia dell'uomo.
«Professore, i valori!» Morris indicò uno schermo sulla consolle. «Stanno scendendo!»
Come aveva detto il suo assistente, Gerald poteva benissimo vedere i valori dell'energia caotica scendere poco per volta. Un'ottima e inaspettata notizia, ma le condizioni di sua nipote erano passate al primo posto.
«Shadow... ce la sta mettendo tutta» disse Maria con gli occhi socchiusi. «Non vuole... che nessuno si faccia male.»
«Insomma, che sta succedendo?» chiese sconcertato Morris. « Come fa a dire certe cose?»
«Non posso rispondere nemmeno a questo» Gerald mise una mano sulla fronte di Maria. La temperatura stava finalmente scendendo. «Ma per fortuna si sta riprendendo.»
Il professore chiese a Morris di tenere Maria e, sistematosi il camice, si preparò ad entrare nella palestra.
«Vengo con lei» si propose subito Morris.
«No, resta con Maria. E comunque hai visto, no? L'energia è sicura. Grazie a lei» osservò Maria ormai sul punto di addormentarsi.«La chiave.»
Comprese le intenzioni del professor Robotnik, Morris annuì e lo osservò mentre correva contro l'energia caotica che pian piano si stava dileguando.
Il giovane scienziato contemplò il corpo inerme di Maria, ormai profondamente addormentata. Non riusciva davvero a credere che lei potesse influenzare così tanto una creatura come Shadow. In tutti quegli anni aveva sempre cercato di capire il legame che c'era fra di loro osservandoli, sia che fossero insieme che da soli, ma senza trovare nulla che andasse oltre l'affetto fraterno, sebbene in quel momento avesse visto qualcosa di veramente incredibile.
Morris sapeva che il professor Robotnik non si era ancora del tutto aperto con lui, che era il suo assistente fidato, colui che sapeva più di chiunque altro sull'ARK e ciò molto spesso lo faceva sentire inadeguato o non ancora all'altezza dell'incarico. Cos'è che il professore non poteva ancora rivelargli dopo tutti quegli anni? Perché la GUN non li lasciava lavorare in pace?
«Perché la chiave?» domandò Morris guardando Maria.
«Maria!» Kelly entrò trafelata nella sala comandi e con il fiato corto. Non si era fermata nemmeno un momento. «Finalmente! Ecco dov'era!»
«Razza di idiota!» la attaccò subito Morris. «Allora eri tu che dovevi occuparti di lei, eh? Ha rischiato di sentirsi nuovamente male.»
«Era riuscita a scappare dell'infermeria e poi... non lo so!» cercò di giustificarsi lei. «All'improvviso era sparita e...»
«Lascia stare. Ormai tutto si è risolto» la zittì l'uomo sempre arrogante.
La donna intanto cominciò a realizzare che in quella stanza faceva piuttosto caldo, ma ciò che la sorprese di più fu la strana nebbia all'interno della palestra. «Oh mio Dio. Quella è...»
«È proprio quello che pensi. Shadow è andato fuori controllo»,mentì l'uomo, «e il professore è andato a riprenderlo.»
«Come sarebbe a dire a riprenderlo?! L'energia caotica è...»
«Totalmente sicura.»
«Professore!» dissero all'unisono i due giovani scienziati.
Gerald entrò nella stanza impregnato di sudore, ma visibilmente soddisfatto. Dietro di lui la cortina di energia caotica si era ormai del tutto dissipata, mentre la temperatura tornava lentamente alla normalità. Shadow giaceva sfinito tra le braccia del professore, con i bracciali inibitori al loro posto. «Oh, Kelly. Ci sei anche tu.»
«Io... m-mi dispiace, professore! Mi aveva chiesto di aver cura di Maria ma, io... ho fallito» disse mortificata la scienziata.
«Parleremo dopo di questo. Ora dobbiamo subito assicurarci che stiano bene» disse Gerald con tranquillità. «Kelly, annuncia all'intera ARK che il pericolo è passato.»
La donna annuì all'ordine e uscì la sala comandi, lasciando i due uomini da soli.
«Forza. Andiamo» Gerald fu il primo ad avvicinarsi alla porta pronto per uscire.
«Professor Robotnik» lo fermò Morris «Io... vorrei dirle che...»
«Se stavi per rivolgermi delle scuse allora risparmiatele per dopo» lo ammutolì grave Gerald, senza voltarsi. «Le uniche cose che voglio da te sono delle spiegazioni, ma me le darai appena avremo finito con i ragazzi.»
«S-sissignore» rispose con la testa bassa il giovane scienziato.
«Cosa hai detto a Kelly?»
Morris esitò prima di rispondere. «Ho detto che Shadow ha perso il controllo. Non ho detto nulla riguardo al virus o ai bracciali.»
Gerald si voltò leggermente per approvare l'operato di Morris annuendo. «Perfetto. Hai fatto bene.»
«Grazie.»
«Ascoltami, Morris. Ora come ora tu sei l'unico di cui mi possa fidare, ma solo dopo che avrò sentito la tua versione dei fatti. Sono stato abbastanza chiaro?»
«Sì professore.»
Allietata l'atmosfera, mentore e discepolo camminarono fianco a fianco per dirigersi verso l'infermeria centrale, dove avrebbero visitato Maria e lasciato Shadow in una cella di contenimento.

ANGOLO DELL'AUTRICE:
Ed eccomi qui con il sedicesimo capitolo. Non saprei cosa dire al riguardo, anche perché rischierei di ripetere le stesse cose, come ad esempio le mie scuse per il mio solito ritardo, grazie ai miei vari ripensamenti. Tutto sommato devo ammettere che sono abbastanza soddisfatta di come è uscito fuori, ma lascerò i commenti a voi lettori.
Come sempre vi chiedo di segnalarmi ogni tipo di errore, soprattutto se ho utilizzato correttamente i termini “tecnici” riguardante il virus. Non ho proprio fatto una ricerca approfondita al riguardo, mi sono fidata del mio istinto, ma nel caso avessi sbagliato, fatemelo sapere.
Detto questo, spero che questo capitolo vi sia piaciuto e ci vediamo (si spera) presto!

Cassandra

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Capitolo 17
*** Tutta un'illusione ***


Rosso. Le pareti celesti attorno a Shadow erano state inghiottite da un rosso così accesso da accecarlo anche se chiudeva gli occhi. Rosso che lui stesso emanava e che non riusciva e non poteva fermare. Ogni suo sforzo era stato del tutto inutile, poiché ogni volta che provava a divincolarsi le sue forze venivano meno, rendendolo del tutto inerme e vulnerabile. Il dolore che provava ad ogni respiro era indescrivibile, ogni crampo era come se i muscoli venissero tirati simultaneamente e fossero in procinto di spaccarsi del tutto.
«Quanto sei patetico, Shadow. Cerchi ancora di resistere? Pur sapendo che ora non puoi più fermarti.»
Come se quell'agonia non fosse abbastanza, a completare la tortura era ritornato il buon vecchio ospite del povero riccio nero: sempre incorporeo, sempre una voce martellante nella sua testa.
«Non combatterlo. Accettalo. Fai in modo che questo tuo potenziale si liberi» continuò profonda la voce.
«P-potenziale? Questo... non è... il mio potenziale» rispose Shadow cercando di ignorare il più possibile il dolore. «Che cosa... mi hai fatto?»
Il sogghigno maligno dell'essere riecheggiava nella testa di Shadow, irritando quest'ultimo voglioso di ribellarsi. «Certo che lo è. Dentro di te nascondi un potere straordinario che da tempo hanno cercato di limitare. Guardati. Sei splendido. Per cui forza, Shadow. Non esitare.»
Prendendolo come un ordine, il corpo di Shadow reagì facendo fuoriuscire più velocemente l'energia caotica, triplicando il dolore. «Basta! Smettila! Io... io non voglio!» supplicò.
«Non dirmi che sei preoccupato per i patetici esseri umani che ci sono qui, vero?» la voce rise di nuovo, più beffarda che mai, mentre Shadow digrignava i denti furioso. «Cos'hanno fatto per te, dimmelo? Per loro tu sei solo un insulso esperimento, anzi, un esperimento fallito. Tu sai come ti vedono. Loro hanno paura e non vedono l'ora di liberarsi di te, perciò che senso ha preoccuparsi per loro?»
Shadow cercò di non ascoltarlo, ma senza riuscirci. La sua voce si insidiava nelle profondità della sua mente, offuscando ogni suo vano tentativo di non farlo entrare, ma la forza di volontà di cui disponeva si era come dissipata del tutto.
D'altronde come poteva dargli torto. Cos'era stato fino a quel momento per l'ARK? Che senso aveva restare in un posto dove chiunque lo incrociasse lo fissava con odio e il terrore negli occhi? Quelle e molte altre domande stavano tormentando il povero riccio bicolore ormai incapace di riconoscere quali fossero i suoi pensieri e quali no. Aveva perso la sua psiche, era sul punto di non avere più certezze a cui affidarsi, a cui chiedere ancora una volta aiuto.
«La loro esistenza non ha alcuna importanza. Compresa quella della tua patetica amichetta» la creatura era pronta a ridere di nuovo, ma si fermò appena avvertì una sottile rottura del suo collegamento con l'intelligenza artificiale.
Shadow era come rinsavito di colpo. Se fino a quel momento nulla era riuscito a farlo smuovere, quell'insulto alla sua unica ragione di vita gli aveva dato la forza necessaria per alzare prima la testa poi il busto tra lamenti e lacrime,ma il riccio ebano non demorse, continuava a pensare alla sua dolce Maria, al suo volto delicato, al suo sorriso e ai suoi occhi color del cielo.
« Sei davvero ostinato. Cerchi ancora di opporti?» disse l'altro grave, ma comunque sorpreso da quel gesto estremo.
«M-Maria» lo ignorò la Forma di Vita Definitiva.
«È tutto fiato sprecato, Shadow. Arrenditi. Tutta questa energia caotica ucciderà chiunque provi ad entrare qui dentro. Non verrà nessuno.»
Shadow si ritrovò improvvisamente schiacciato a terra, come se qualcosa lo avesse colpito violentemente sul petto, provocandogli una rottura di almeno due o tre costole, ma quel dolore e il sangue sputato dalla bocca non erano niente paragonato al suo ennesimo fallimento.
«Bene così. Ti stai finalmente arrendendo. Lo sento» gongolò felice l'essere informe. «Allora basta esitazioni! Lascia tutta l'energia che c'è in te e distruggi quest'insulsa colonia con i suoi abitanti!»
Shadow non si oppose, non ci riusciva e non ci voleva provare più. Chiusi gli occhi rilassò i muscoli, lasciando che il resto dell'energia caotica uscisse dal suo corpo. Ormai ne era certo. Era tutto finito. «Addio, Maria. Perdonami.»

«Shadow! Sto arrivando!»

Quella sottile rottura che la creatura aveva percepito era improvvisamente diventata una rottura a tutti gli effetti, cosa che la preoccupò non poco, poiché assieme ad essa l'aura di Shadow stava sovrastando la sua. «Che cosa sta succedendo? Chi osa ostacolarmi!»
Mentre la temuta creatura era impegnata ad imprecare, Shadow ne approfittò per attaccarsi a quella voce. Voleva essere sicuro che non stesse sognando e che quel suono melodioso era davvero la voce di Maria e non un'altra illusione.

«Shadow! Ti ho trovato! Shadow!»

La mente di Shadow rievocò ogni singolo momento passato assieme alla sua migliore amica, sua sorella maggiore: il loro primo incontro, la loro prima cioccolata insieme, le ore passate in biblioteca, le loro fughe notturne e le loro risate.
«Smettila, Shadow! Ti ordino di non farlo!» tentò la voce, ma fu tutto fiato sprecato, poiché Sadow non si sentì più il corpo pesante e finalmente poté muoversi. Cominciò prima con gambe e braccia e quando fu certo che il dolore fosse sopportabile provò a rialzarsi di nuovo.
«Tu non oserai!» ruggì la voce aggressiva, ma invano. L'Ultimate Lifeform era riuscita ad inginocchiarsi.
Ora più che mai Shadow riusciva ad avvertire la presenza della ragazzina che la stava aspettando fuori dalla palestra, ma poteva anche percepire la sua carne attraverso l'energia caotica pronta a bruciarla; il riccio strinse con forza i pugni, riportando dentro di sé quel calore fatale appena in tempo.
«Non è possibile. Non dovresti esserne in grado!»
«Ora... non puoi più controllarmi, bastardo!» disse a denti stretti Shadow. «Io non ti permetterò di usarmi per questo scopo, hai capito? Non lo permetterò!» concentrate tutte le forze che gli rimanevano, Shadow si concentrò per riassorbire tutta l'energia caotica e dopo qualche minuto quella densa nebbia cremisi stava ritornando dorato, poi una foschia leggera, fino a dileguarsi del tutto. La vista delle pareti celesti era un vero sollievo e il segno che era riuscito nel suo intento.
«Che tu sia maledetto, Shadow. Non hai idea di quello che hai fatto. Hai firmato la tua condanna.»
«Non mi importa» Shadow alzò lo sguardo e fissò furente davanti a sé, come se lui fosse lì presente. «Tu non mi avrai mai, Black Doom
La voce non rispose più, forse perché sorpresa che lui ora sapesse il suo nome o forse perché aveva capito che Shadow era diventato abbastanza forte da poter leggere nella sua mente. Qualunque fosse la motivazione, l'ormai non più anonimato Black Doom se ne era andato dalla mente del riccio ebano.
«Sono... libero?» domandò Shadow rivolgendo gli occhi al soffitto. Le luci erano di un bel bianco brillante che fecero sorridere l'intelligenza artificiale. Si sentiva inaspettatamente leggero, non solo col corpo ma anche con la mente. Poteva pensare con tranquillità.
«Shadow! Ragazzo mio!»
Il nero spostò lentamente la sua attenzione verso quella voce così familiare ma al tempo stesso così estranea. «Pro...fessore?» chiese poi incerto.
«Oh Shadow. Come ti senti? Stai bene?» era davvero il professor Robotnik, con il suo consueto camice bianco, ma un po' bruciatura probabilmente a causa dell'energia caotica prima che Shadow riuscisse a riassorbirla del tutto. L'uomo era visibilmente stanco, ma sollevato di vedere che lui, un essere così pericoloso, stesse bene.
«Non... non è arrabbiato?» chiese Shadow con gli occhi velati di lacrime. Il senso di colpa lo stava dilaniando, causandogli quasi più dolore dell'energia caotica. «Io... ho quasi... quasi...»
Gerald lo zittì con dolcezza avvicinandolo al suo petto. Il riccio si lasciò trasportare da quel tepore e dal battito del cuore di suo padre.«Shadow non è stata colpa tua, dico davvero. Sei stato bravissimo invece. Hai ripreso il controllo da solo e con le tue forze.»
Shadow si rilassò ancora di più appena Gerald iniziò ad accarezzargli la testa, continuando a dirgli andrà tutto bene. Sbottato un sorriso, la creatura artificiale chiuse lentamente gli occhi, ormai sicuro che poteva finalmente dormire.

Una forte luce bianca disturbò il sonno della piccola Maria, che controvoglia aprì lentamente gli occhi. Questi ultimi ci misero un po' a riconoscere il lampadario dell'infermeria. La ragazzina si portò la mano sinistra davanti al viso e sobbalzò alla vista dell'ago della flebo attaccato al dorso. «Che... che cosa è successo?» Maria quasi faticò a riconoscere la sua stessa voce e solo quando si portò l'altra mano alla bocca capì che aveva una maschera per l'ossigeno.
«Maria! Ti sei svegliata!» urlò entusiasta Kelly che subito si avvicinò al letto già il lacrime. «Ciao Maria. Come stai, piccola?»
«Kelly. Cosa... mi è successo?» domandò la giovane Robotnik ancora debole.
«Ti sei affaticata troppo, cara. Hai... avuto un'altra ricaduta» le parole morirono nella gola della giovane scienziata ormai in procinto di scoppiare a piangere. Maria poteva vederlo benissimo: Kelly non aveva dormito e a tradirla erano le due borse che aveva sotto gli occhi. Come se la ragazzina non si sentisse abbastanza in colpa, le mani della donna non avevano ancora smesso di tremare.
«Kelly io... mi dispiace. Non volevo farti preoccupare. Scusami se io...» tentò Maria, nella speranza che fosse comprensibile, ma Kelly subito le afferrò la mano attaccata alla flebo e se la portò al petto.
«Non dirlo nemmeno, Maria. Io so quanto tieni a Shadow»rispose Kelly scuotendo la testa. «L'importante è che voi stiate bene.»
«V-voi?» con l'aiuto della donna, Maria riuscì a sedersi sul letto. Dopo essersi tolta la maschera dal viso si guardò attorno e fu allora che la vide: vicino al suo letto c'era una cella di contenimento, dove al suo interno galleggiava nel liquido amniotico artificiale uno Shadow ferito e tempestato da aghi e ventose, come al loro primo incontro.
«Shadow!» chiamò subito la ragazzina immensamente felice di rivederlo, ma questi non rispose, poiché profondamente addormentato.
«Si riprenderà presto» Maria e Kelly si voltarono verso la porta dell'infermeria e sorrisero alla vista di Gerald, che stava tenendo tra le mani un vassoio con quello che dall'odore pareva essere del risotto bianco e una tazza di cioccolata. «Ben svegliata, Maria.»
Maria allargò un sorriso, cercando con tutte le forze di non piangere. «Ciao, nonno.»
L'uomo pose il vassoio sul comodino e senza esitazioni abbracciò con delicatezza la sua nipotina. «Sono davvero felice di vedere che stai bene. Mi hai fatto molto preoccupare.»
La ragazzina strinse con entrambe le mani la schiena del nonno. «Scusami, nonno. Non era mia intenzione.»
Sciolto l'abbraccio, Maria riportò la sua attenzione su Shadow. «Nonno. Era... veramente lui?» domandò intristendosi.
Il professor Robotnik annuì piano. «Purtroppo sì, mia cara. Quella luce era tutto il suo potenziale. La sua essenza, se la vogliamo chiamare così.»
«E ora è tutta ritornata dentro di lui?»
«Sì. Ed è stato tutto grazie a te.»
Maria sgranò i suoi occhi azzurri verso il nonno sorridente e orgoglioso. «In che senso grazie a me?»
Gerald allungò una mano per prendere la tazza di cioccolata e la porse alla nipote. «Shadow era fuori controllo. Aveva ormai superato i suoi limiti, ma al tuo arrivo e al tuo richiamo lui è tornato in sé. Senza di te lui non sarebbe qui» e con lui tutti noi, pensò.
Maria iniziò a sorseggiare piano la bevanda dolce. Si sorprese nel vedere che dopo il terzo sorso non si era sentita male e così continuò a berla, facendo attenzione a non scottarsi.
«Non ci vorrà molto tempo. Vedrai che domani lui starà meglio e lo faremo uscire.»
«Davvero?» dissero all'unisono Maria e Kelly, la prima entusiasta mentre la seconda preoccupata.
«C'è qualcosa che ti turba, Kelly?» domandò Gerald.
«No be'... in realtà nulla, ma... Non sarebbe meglio se Shadow non restasse ancora nella cella?»
«Se lo facessimo, la talpa ne trarrebbe vantaggio» all'appello non poteva mancare Morris, che entrò nell'infermeria alquanto alterato. «E questo non lo possiamo permettere.»
«Talpa? Quale talpa?» chiese confusa Maria. «Qui... nell'ARK?»
«Esatto» rispose semplicemente lo scienziato.
«Dici bene, Morris. Immagino che tu abbia recuperato le immagini che ti avevo chiesto.»
Annuì. «Di tutte le telecamere di sicurezza, ma tuttalpiù quelle nelle vicinanze della palestra.»
«Molto bene. Vogliamo dunque procedere?»
Morris preparò il suo palmare e in mezzo all'infermeria di materializzarono diversi ologrammi: l'interno della palestra, la sala comandi e dei corridoi.
«Fin qui tutto normale» osservò Gerald. Nella palestra c'era Shadow concentrato ad allenarsi, mentre Morris era impegnato a registrare i progressi del primo. I corridoi erano del tutto vuoti.«Direi che la talpa qui non ha fatto nulla.»
«Un momento... ma cosa?» Morris si avvicinò agli ologrammi avendo notato una piccola interferenza, finché non divenne ben visibile a tutti. «Le telecamere qui hanno cominciato a non funzionare.»
«Hai ragione» ne convenne Kelly.
«Proseguire con il livello 52? No. Termina allenamento...» continuò la registrazione.
Le immagini mostravano chiaramente che Morris aveva colto la richiesta di Shadow e, spente tutte le macchine, uscì dalla sala comandi e tutto divenne grigio.
«Ma che diamine?!» imprecò Morris cercando di risolvere le interferenze. «Non è possibile! Che sta succedendo?!»
«Questa non è una semplice interferenza» ipotizzò subito Gerald. «Deve essere stata la talpa. Guardate!»
Tutti si concentrarono sul punto indicato dal vecchio professore e appena le immagini erano abbastanza nitide, notarono una figura correre via dalla palestra, ma nessuno era riuscito a distinguerla in tempo. Le immagini seguenti mostravano Shadow alle prese con le macchine impazzite, Morris che ritornava di corsa alla sala comandi e Kelly che accompagnava Maria in infermeria.
«È più che sufficiente» ordinò Gerald massaggiandosi la fronte. «Chiunque sia, è stato decisamente più furbo di noi.»
«Ma come ha fatto a manomettere anche le telecamere?!» domandò a denti stretti Morris, ancora molto adirato.
«Qui le domande le faccio io. Ti ricordo che non sei ancora del tutto pulito, Morris» lo zittì il professor Robotnik grave.«Non ho la piena certezza che non sia stato proprio tu a mettere il virus dopo che le telecamere hanno smesso di funzionare.»
«Professore, glielo posso giurare. Io non sono la talpa che cerca» disse con determinazione Morris. «Io... le devo molto e non mi permetterei mai di sabotarla mettendo a rischio persino l'intera ARK.»
«E dimmi. Hai delle prove concrete? Dov'eri dopo esser uscito dalla palestra?»
«Lui era con me» i tre scienziati si voltarono all'unisono verso Maria, che fino a quel momento non aveva detto una parola.
«Come hai detto, piccola?» chiese perplesso Gerald. «Tu hai visto Morris?»
Lei annuì. «E non solo, ci ho parlato. Dovevo vedermi con Shadow, ma Morris mi disse che aveva ripreso ad allenarsi.»
Morris fissò incredulo la ragazzina, che non mostrava alcun segno di insicurezza. «Morris. È la verità? Hai visto Maria?» lo riportò alla realtà in vecchio Robotnik.
«S-sì, è vero» rispose il giovane scienziato, incerto.
«Se è così dove vi siete visti?»
L'uomo riportò la sua attenzione su Maria che lo accolse con il suo sguardo vispo color del cielo. «L'ho vista all'Osservatore.»
«Dice la verità, Maria?»
La ragazzina annuì di nuovo.
«Questo lo posso confermare anche io» si aggiunse Kelly. «Quando raggiunsi Maria all'Osservatore vidi Morris correre preoccupato per tornare verso la palestra.»
Alla luce dei fatti, Gerald si massaggiò il mento e dopo qualche secondo assentì. «Bene. Vedo che hai due testimoni più che attendibili. Ora ho la certezza che tu non sia la talpa» avvicinatosi al discepolo, gli pose entrambe le mani sulle spalle. «Mi spiace aver dubitato di te.»
«Non si preoccupi. È normale amministrazione.»
«Bene. Grazie a Kelly abbiamo ristabilito l'ordine e ovviamente nessuno sa ciò che è accaduto. Non è necessario creare panico visto che le cose si sono sistemante per il meglio» Gerald si avvicinò a Maria e dopo aver fatto un profondo sospiro, la baciò teneramente sulla fronte. «Mia cara Maria. So bene che quello che sto per chiederti non è una cosa bella, ma...»
Maria scosse la testa sorridendo. «Se servirà a proteggere Shadow, io non dirò nulla.»
L'uomo allargò un sorriso. «Ne sono felice.»
«Professore. Mi hanno riferito che è richiesto alla sala conferenze» disse Kelly leggendo il suo palmare. «Vogliono parlarle dei nuovi progetti appena terminati.»
«Perfetto. Allora noi andiamo. Morris, tu rimani qui per trascrivere i dati di Shadow riguardo alla sua capacità rigenerativa. Dopo raggiungici. Così lasceremo riposare anche Maria.»
«Certamente professore» Morris salutò il professor Robotnik e Kelly con un leggero inchino e, appena uscirono dalla stanza, si rivolse verso Maria rimanendo in silenzio.
«Perché mi guardi così? Sei inquietante» disse Maria coprendosi con le coperte.
«Perché hai preso le mie difese?» incalzò subito lo scienziato.
«Io non ti affatto difeso. Ho detto solo la verità.»
«Ma di quale verità parli?» Morris si avvicinò al letto incrociando le braccia. «Noi non ci siamo minimamente parlati, anzi non ci siamo nemmeno...»
«Io ho semplicemente detto quello che ho visto» stanca di discutere, la ragazzina si rimboccò le coperte e diede le spalle all'uomo da lei tanto odiato. «Io non sono una bugiarda.»
«Non ti sto dicendo che sei una bugiarda, ti ho chiesto perché lo hai fatto!»
Nessuna risposta.
«Va bene! Fa come ti pare!» Morris Si avviò verso la cella di contenimento imprecando a bassa voce e, presa al volo la cartella di Shadow, iniziò a lavorare. Dopo aver trascritto qualche dato l'uomo si era calmato poté riflettere su quanto accaduto: non riusciva a non pensare alla testimonianza di Maria, la quale aveva affermato più volte che loro due stessero parlando all'Osservatore, ma lui sapeva benissimo che non era successo.
Uscito dalla palestra Morris decise di fare un salto all'Osservatore nell'attesa che Shadow fosse pronto a riprendere gli allenamenti. A pochi metri dall'enorme stanza l'uomo aveva riconosciuto Maria ed era anche pronto ad usare la sua lingua tagliente per stuzzicarla un po', ma ciò che vide lo bloccò nel suo intento: Maria aveva gli occhi fissi nel vuoto, di un azzurro spento e parlava da sola. Morris aveva cercato di ragionare e quindi di capire cosa stesse succedendo e aveva sinceramente sperato che si trattasse di uno scherzo della ragazzina per vendicarsi, ma era come incantata davanti a qualcuno, a... qualcosa.
Purtroppo per lui il suo palmare e una scossa di terremoto gli comunicarono che stava succedendo qualcosa alla palestra e ben presto dovette dimenticarsi di quell'assurda scena. O almeno sperava di poterla dimenticare.
«Mi sono immaginato tutto, vero Maria?» disse Morris più a se stesso che alla ragazzina, scacciando dalla mente ciò che lo preoccupava più del fatto che lei stesse parlando da sola. «Dimmi anche che... non ti ho visto levitare.»

ANGOLO DELL'AUTRICE:
Ed eccoci al diciassettesimo capitolo. Non ho molto da dire a parte che mentre scrivevo il punto di vista di Shadow ho cercato il più possibile di non scoppiare in lacrime. No be'... lacrime no, ma ho provato ad immedesimarmi e spero di averlo espresso anche solo decentemente.
Posso dire quasi con certezza che dopo questo manchino tre capitoli e questa “tortura” avrà finalmente una fine.
Mi scuso nuovamente per il ritardo, ma la mia vita proprio non si decide a darmi tregua...
Detto questo spero il capitolo vi sia piaciuto e ci vediamo alla prossima!

Cassandra

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Capitolo 18
*** La fiducia perduta ***


Il Presidente non si scompose davanti alle immagini dell'incidente avvenuto nella palestra dell'ARK, non sbatté nemmeno le palpebre quando una lingua di energia caotica si avvicinò improvvisamente alla telecamera come una frusta. L'uomo era più concentrato sulla figura minuta del riccio nero che si ribellava in mezzo alla stanza, che sull'enorme quantità di energia presente in quest'ultima, lasciando quindi il compito di annotare il suo livello ad uno scienziato al suo fianco. «A che punto è?» chiese grave.
«Nel giro di una decina di minuti ha raggiunto il livello critico» rispose allarmato lo scienziato. «Ed è sempre più in crescita.»
«Queste sono tutte le immagini che ci hanno inviato dall'ARK?»
«Sissignore.»
«E questo... è davvero accaduto ieri?»
«Confermo di nuovo, signore.»
Il Presidente si portò una mano sulla fronte, mostrando finalmente un'emozione: era indignato e al tempo stesso deluso da ciò che aveva appena visto. «Va bene. Ho visto abbastanza.»
Al cenno con la mano dell'alta autorità, lo scienziato tolse subito gli ologrammi, lasciando che il primo sospirasse pesantemente. «Professor Robotnik. Che cosa sta facendo?» bisbigliò scuotendo la testa.
«Direi che la situazione ormai è chiara» il Presidente alzò lo sguardo dalla scrivania per rivolgerlo verso la figura che stava appoggiata alla porta d'ingresso con le braccia conserte: il camice che indossava era un segno evidente che fosse sempre uno scienziato, ma la toppa a forma di G cucita sulla spalla destra indicava che era di una certa importanza.
«Oh sei qui. Hai fatto presto.»
«Mi era stato detto che era urgente, perciò non ho potuto fare altro» rispose l'uomo avvicinandosi al Presidente. «Allora avevo ragione?»
«Sarò sincero. Avrei preferito che non fosse vero. Quel... progetto Shadow sembra essere una bomba pronta ad esplodere e...» sospirò di nuovo. «Perché il professor Robotnik non me ne ha parlato subito?»
«Be' mi sembra palese, no? Il professore pensava di passarla liscia non comunicandole l'accaduto. È ammirevole che volesse prima risolvere tutto lui stesso, ma con un progetto così pericoloso è... inaccettabile. Non trova?»
«Avrà avuto i suoi motivi» ribatté subito il Presidente. «Non voleva farmi preoccupare. Ma alla fine è riuscito a fermarlo, no? È questo l'importante.»
«Comprendo fin troppo bene il motivo per cui lei sta difendendo un illustre scienziato come Gerald Robotnik. Lei ha molta stima di lui, come io e il mio collega qui presente, del resto» lo scienziato superò la scrivania facendo scivolare la mano su di essa, come un serpente pronto ad attaccare, per potersi avvicinare all'orecchio del Presidente e dire persuasivo: «Ormai sono anni che glielo dico, signore. Questa volta Robotnik non ha in mente nulla di buono.»
Il Presidente rifletté a lungo sulle parole dello scienziato, che finora non aveva mai avuto torto da quando aveva cominciato a lavorare per lui diversi anni fa.
L'uomo aveva dimostrato fin da subito una grande abilità e un'intelligenza tale da poter monitorare, pur essendo sulla Terra, i progetti in corso sulla colonia spaziale ARK. Era anche diventato suo assistente personale in quanto dava ottimi consigli che lo portavano a prendere sempre le decisioni giuste, ma in quel momento stavano parlando di Gerald Robotnik: l'uomo che fino ad allora aveva sempre agito per il bene del prossimo e a cui gli sono stati conferiti svariati meriti anche da lui stesso, ma nonostante sapesse che la natura di quelle ricerche sull'ARK fossero per una malattia altamente infettiva e incurabile, il leader mondiale non riusciva ancora a capire l'impiego di tutta quella fonte di energia.
«Dunque? Che cosa ha deciso?»
«I-io...» il Presidente strinse con forza i pugni, come se volesse rifiutare quelle parole con tutte le sue forze. Doveva davvero perdere la fiducia in Gerald? Perché mai dovrebbe sabotare la ricerca?
«Se posso permettermi, vorrei dirle qualcosa che potrebbe aiutarla a prendere la decisione giusta. Rammenta il progetto Biolizard?»
L'uomo rilassò i muscoli delle braccia: come poteva dimenticarlo? È stato il primo fallimento delle ricerche, la prima volta che il professor Robotnik provò ad impiegare su un essere vivente quella energia tanto nuova quanto pericolosa. Era soprattutto la prima volta in cui l'intera squadra di scienziati aveva rischiato di perdere la vita.
Lo scienziato tentatore sogghignava soddisfatto davanti all'incertezza del leader. Lo trovava quasi divertente e non voleva di certo fermarsi; ormai era certo di averlo convinto a prendere il suo provvedimento. «Sappia, signore, che Shadow è nettamente più pericoloso di Biolizard.»
La paura e l'angoscia di quel giorno aveva fatto sì che il Presidente prendesse finalmente la decisione giusta da fare e, chiamata la segretaria attraverso il telefono, ordinò:«Ho urgentemente bisogno di parlare con il comandante della GUN.»

Il delicato odore di rose aveva solleticato il naso di Shadow e quindi invitato ad aprire gli occhi lentamente. Sentiva ancora le palpebre molto pesanti, ma si sforzò di aprirle per poter capire dove fosse, ma soprattutto da dove provenisse quel buon profumo. Tutto ciò che riusciva a vedere era un soffitto blu notte, sulla sua pelle percepiva un piacevole tepore e morbidezza inconfondibili: si trovava sul letto di Maria.
«Ma...cosa?» provò a chiedere, ma l'unica risposta che ricevette fu una piccola stretta di mano.
Il riccio nero si rivolse a fatica verso destra e non poté fare a meno di sgranare gli occhi dalla sorpresa: a fianco al letto c'era la sua Maria addormentata, che gli stringeva la mano destra con la sua. «Ma...ria?»
La ragazzina di nuovo reagì ma con una piccola smorfia e un lamento, finché non si decise a svegliarsi e quindi ad alzare il suo sguardo azzurro per incrociare quello cremisi di Shadow. «Shadow?»
L'Ultimante Lifeform si alzò con cautela per sedersi, allargando un sorriso. «Buongiorno, Maria.»
«Shadow!» Maria non si trattenne e subito saltò tra le braccia del suo fratellino, affondando il viso sulla sua morbida pelliccia. «Finalmente ti sei svegliato! Shadow!»
«Ahia! Maria ti prego! Non stringere troppo forte!» disse il riccio contorto dal dolore, ma stranamente... felice. Sì, era felice. Finalmente era di nuovo vicino alla sua Maria.
«Mi hai fatto preoccupare. Avevo paura che... non ti saresti svegliato più!» singhiozzò lei, per nulla intenzionata a lasciare l'altro.
«Perché dici questo? Io sono qui! Io sono...» per quanto si sforzasse Shadow non riusciva proprio a ricordare cosa avesse fatto prima di finire a letto, ma sopratutto perché si sentisse così stanco e dolorante. L'unica cosa che ricordava era di aver ripreso gli allenamenti con Morris, ma nulla di ciò che successe dopo.
«Ah! Scusami Shadow! Ti ho fatto male?» Maria si staccò subito da Shadow che intanto aveva smesso di lamentarsi, poiché assorto nei suoi pensieri. «Shadow, va tutto bene?»
Shadow iniziò a tastarsi il corpo e si accorse delle diverse medicazioni e bende. «Maria, che cosa mi è successo?»
Maria allargò gli occhi quanto Shadow. «Mi stai dicendo che non ti ricordi?»
Scosse piano la testa.
«Tu... ecco... » cercò di iniziare la ragazzina. Non sapeva proprio come dirlo. «Ti stavi allenando e...»
«Sei svenuto per lo sforzo.»
«M-Morris?!»
Al richiamo atterrito della giovane Robotnik lo scienziato alzò un sopracciglio. «Ragazzina, sicura di non avere la febbre? Finora non sono mai riuscito a spaventarti e ora sussulti così?»
«N-non mi hai affatto spaventata! Mi hai solo... sorpresa.»
L'uomo sogghignò avanzando verso la scrivania. Tra le mani aveva un vassoio con sopra un piatto di riso in bianco, del brodo di pollo e un bicchiere di succo d'arancia. «Sì, certo. E io ci credo. Eccoti la colazione, topastro.»
«G-grazie» Shadow abbassò lo sguardo, cercando di evitare ogni contatto visivo con lo scienziato.
«Guarda che hai fatto, principessina. Hai contagiato anche il tuo amichetto. Si può sapere che avete?»
«Che ne hai fatto del vero Morris? Lui non verrebbe mai qui a portare la colazione a Shadow» cambiò subito argomento Maria.
«Ah ah. Molto spiritosa. Appena avrai finito il professor Robotnik vuole visitarti. Sono stato chiaro?»
Shadow annuì, sempre con la testa bassa.
«Ragazzina, almeno degnati di venirmi ad aiutare con questi» Maria fece roteare gli occhi e si avvicinò alla scrivania imbronciata. «Ti sei forse dimenticata di quello che ti ha detto tuo nonno?» mormorò Morris.
«Ma che...» iniziò lei. «Di che parli?»
L'uomo la zittì indicando con lo sguardo Shadow di nuovo assorto nei suoi pensieri. «Il professore ti ha chiesto di non dire nulla riguardo all'incidente di ieri e questo includeva anche Shadow. È un bene che non riesca a ricordare.»
«Davvero non deve saperlo?»
«Shadow è instabile non solo fisicamente ma anche mentalmente. Sapere quello che è successo lo distruggerebbe. Mi hai capito?»
Maria annuì decisa e per una volta non poteva non essere d'accordo con Morris.
«Bene. Allora ti lascio in buone mani. Topastro» l'uomo lanciò un'ultima occhiataccia alla piccola Robotnik prima di uscire dalla stanza.
«Antipatico come sempre» disse Maria cercando di apparire la più acida possibile. «Lascialo perdere, Shadow. Ora devi solo pensare a mangiare. Ce la fai ad alzarti?»
«Sì, tranquilla» sebbene facesse ancora un po' fatica, il dolore ai muscoli era diventato sopportabile, affinché Shadow potesse scendere dal letto e raggiungere la scrivania senza alcun problema. «Visto?»
Maria annuì felice, mentre il riccio venne attirato dal profumino che emanava il risotto immerso nella zuppa di pollo. «Coraggio, vieni a sederti.»
Shadow accolse l'invito di Maria e si sedette sulla sedia accanto a lei. Unito un po' di brodo al riso, il riccio poté finalmente mangiare la sua colazione che, già al primo boccone, era un'esplosione di sapori pur essendo un piatto semplice. «È molto buono.»
Maria era pronta a versare dell'altro brodo di pollo quando si accorse che sotto al bicchiere di succo di frutta c'era un bigliettino. «Ma questo cosa....»
Accortosi anche lui del foglietto di carta, Shadow lo prese. Il pennarello nero recitava: Per Shadow. Un risotto speciale fatto da me che ti rimetterà in sesto in men che non si dica. Guarisci presto! «È firmato da... Janet.»
«Che meraviglia! L'ha preparato Janet per te!» urlò entusiasta Maria.
Il riccio nero accolse la felicità della ragazzina impassibile «Lei... è sempre stata gentile con me» disse incerto la Forma di Vita Definitiva, ma anche stranamente felice e forse anche... commosso. Ci pensò due volte per essere sicuro che fosse il termine giusto, poiché lo aveva letto sui libri ma mai provato di persona; o almeno fino a quel momento.
«E lo sarà sempre. Janet è la migliore.»
Shadow riprese a mangiare e le cucchiaiate che seguirono all'improvviso diventarono sempre più buoni. «Sì. È buonissimo» il profumo lo invitava a continuare a mangiare, fino a finirlo del tutto in poche cucchiaiate e pulendo il piatto con il pane. Anche il succo di frutta non ebbe scampo, poiché scivolò liscio in gola in un sorso. Era così dolce che il riccio si leccò le labbra per non lasciarsi sfuggire nemmeno una goccia.
«Caspita! Avevi proprio fame!» ridacchiò Maria.
«Oh altroché. Immagino... che ieri l'allenamento mi avesse stremato davvero molto.»
La ragazzina rise nervosamente. «Sì, può essere.»
Riposte le posate nel piatto, Shadow cambiò espressione e si rivolse alla sorella maggiore preoccupato. «Shadow? C'è qualche problema?» chiese subito Maria.
«Ti prego, Maria. Sento che c'è qualcosa che non va e l'ho capito da come hai reagito al mio risveglio. Cos'è successo veramente ieri?»
Anche il volto della giovane Robotnik cambiò a sua volta emozione, che rimase pietrificata alla domanda. Purtroppo ne era consapevole, si era tradita da sola reagendo a quel modo e ora era costretta a trovare una scusa valida e convincente. «È... come ha detto Morris. Ti stavi allenando, ma hai voluto esagerare. E sei svenuto.»
Shadow non disse nulla e continuò a fissare Maria impassibile, mentre quest'ultima strinse i pugni per darsi coraggio e affrontare il suo sguardo a testa alta. «Quindi... è vero» dopo secondi che parevano interminabili, il riccio nero sospirò per poi riportare la sua attenzione sul vassoio. «Credevo... di aver fatto di nuovo qualcosa di sbagliato.»
«No! Tu non hai mai fatto nulla di sbagliato!» urlò Maria alterata, sorprendendo non poco il fratellino, che non l'aveva mai vista arrabbiata. «Devi smetterla di pensarlo, hai capito? Io ti conosco Shadow, più di chiunque altro qui dentro. Forse persino più del nonno.»
«Maria io... non volevo farti arrabbiare. Scusami.»
«Io non sono arrabbiata» la ragazzina si inginocchiò davanti a Shadow e appoggiò entrambe le mani sulle sue. «Solo... non voglio vederti così triste per qualcosa che tu non hai fatto. Tu sei più di questo.»
«Dici... davvero?» domandò lui incerto.
«Shadow, ti fidi così poco di me?» Maria si rivolse al suo letto e vi si avvicinò per frugare sotto di esso, incuriosendo l'altro.
«Maria?»
La ragazzina si avvicinò nuovamente alla scrivania con in mano la videocamera che le aveva regalato il nonno e come l'accese l'ologramma di Shadow, assopito sul letto, si materializzò sul muro.
«Ma questo...»
«Sì, Shadow. Sei tu» Maria fece scorrere altre immagini che lei aveva registrato, mentre Shadow aggrottava la fronte perplesso, ma piacevolmente sorpreso.
«Aspetta. Ma quello... è successo l'anno scorso. Quello due anni fa!» disse il riccio nero rivolgendosi verso una Maria immersa nei ricordi. Ad ogni immagine lei allargava sempre di più il sorriso, rivivendo nella sua mente tutti i momenti passati insieme a Shadow. Dalle pause con la cioccolata calda agli gli allenamenti in palestra. Dai pomeriggi passati nella libreria alle reazioni esagerate di Shadow quando veniva ripreso e non potevano di certo mancare le scappatelle notturne con le dovute conseguenze. Quando arrivò l'indigestione di dolci Maria si lasciò scappare una risata seguita da Shadow. Ogni singolo video rappresentava un prezioso ricordo che i due fratelli rimembravano con molto piacere e nostalgia. «Non ci posso credere. Quindi hai davvero ripreso tutto quanto?»
«Certamente! Non volevo lasciarmi sfuggire nulla! Ieri, mentre dormivi, Kelly mi ha aiutato a mettere i video più belli in uno solo. Ed è tutto per te, Shadow.»
Il riccio nero accolse gli occhi ridenti della sorella più confuso di prima.«Che significa?»
Maria abbassò lo sguardo mortificata. «So che non è molto, ma spero che lo accetterai. Questo è il tuo regalo di compleanno.»
«Il mio... regalo di compleanno?»
Maria annuì sorridendo. «Ieri abbiamo parlato del fatto che siamo cambiati entrambi, ricordi?»
Shadow abbassò lo sguardo intristendosi. «Sì. Me lo ricordo.»
«Ma la sai cosa una cosa? Non è affatto vero» annunciò lei decisa. «Ieri l'ho capito.»
«Che cosa hai capito?»
Maria spense gli ologrammi, tirò fuori il dischetto e la pose tra le mani di Shadow. « Sono passati quattro anni, questo non lo possiamo negare. Io sono cresciuta molto e tu hai imparato a fare sempre più cose e forse è vero che ci siamo allontanati, ma nonostante tutto abbiamo sempre trovato il tempo per stare insieme. Il nostro rapporto e ciò che siamo noi non sono cambiati affatto e questi ricordi ne sono la prova.»
Shadow lasciò che la ragazzina strinse le sue mani con dolcezza, ma non passo molto tempo prima che lui la abbracciasse stretta forte a sé, sorprendendola. «Tu dici che non è molto, ma per me questo è il miglior regalo che potessi ricevere. Io... ti ringrazio Maria. Grazie... di esistere.»
Maria abbracciò a sua volta il fratellino, si lasciò trasportare dal tepore del corpo del fratellino e le lacrime rigarono inevitabilmente le guance: era lo stesso calore che aveva provato al risveglio di Shadow. «No, Shadow. Grazie a te di esistere.»
Sia umana e creatura artificiale speravano che quell'abbraccio non finisse mai e che rimassero in quella posizione fino al giorno dopo, ma il primo a staccarsi fu il riccio ebano che avvertì subito una strana vibrazione. «Che cosa sta succedendo?»
«Di che parli Sha-...» un forte terremoto fece cadere dalla sedia Maria.
«Maria! Stai bene?!» Shadow le si avvicinò per aiutarla a rialzarsi, mentre i tremori si intensificavano sempre di più.
«S-sì. Sto bene. Ma che succede? Perché trema tutto?»
«Non ne ho idea. Maria, vai sotto la scrivania.»
Maria obbedì subito seguita da Shadow che non staccò gli occhi dal soffitto, pregando che il lampadario non cadesse rovinosamente a terra e dopo qualche secondo le sue preghiere vennero esaudite. Finalmente il terremoto era cessato. « È... finito?» chiese insicura la ragazzina con le mani sulle orecchie.
«Credo di sì» i due uscirono da sotto la scrivania ancora all'erta, ma più sollevati.
«Secondo te che cos'era?»
«Non lo so proprio. Forse hanno testato qualcosa di nuovo o...»
«Abitanti della colonia spaziale ARK. Chiedo a tutti voi la vostra attenzione» improvvisamente la voce profonda di un uomo riecheggiò all'interno della stanza attraverso gli altoparlanti di emergenza. «Qui è il comandante della Guardian Units of the Nation che vi parla.»
« È... la GUN» disse spaventata Maria. «Ma cosa vogliono?»
«La GUN? L'organizzazione militare?»
«Per ordine del Presidente il professor Gerald Robotnik è tenuto a ricevermi seduta stante, per discutere in merito alle sue ricerche, ritenute dalla nostra equipe di scienziati altamente pericolose. Se si dovesse rifiutare o cercare di fuggire, allora saremo autorizzati a fare irruzione nell'ARK e a utilizzare le armi.»

ANGOLO DELL'AUTRICE:
Finalmente (e aggiungerei purtroppo) entra in scena anche la GUN. La fine è davvero vicina, così come lo sono anche i miei esami finali. Sono veramente sotto pressione in questo periodo e non vedo davvero l'ora che finisca. Ci ho messo due mesi per scrivere questo capitolo, perché come sempre il blocco dello scrittore mi ha colpita puntualmente. Ma ho voluto accantonare lo studio almeno per questa sera e mi sono decisa a finirlo. Spero che sia stato un capitolo almeno decente.
Ero anche contenta di poter finalmente a riprendere a leggere delle storie in arretrato, ma l'arrivo degli esami mi ha impedito di continuare... Forza, devo resistere ancora un altro po'.
Detto questo, spero che questo capitolo vi sia piaciuto e ci vediamo alla prossima.

Cassandra

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