Le Bestie della Luna.

di FridaMooney98
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Safiria corse in camera e sbatté la porta, in lacrime. Isobel stava ancora urlando, al piano di sotto, tra le grida concitate di suo padre. Saf tentò invano di ignorarle, gettando i vestiti a terra ed entrando in bagno. “La malattia mi costringerà a rimanere segregata in questa casa per il resto della mia vita! Possibile che non volete capire?! Uccidetemi ora!” Aveva gridato poco prima e ancora quelle dolorose parole le rimbombavano in testa. Voleva morire. Non poteva vedere il mondo da dietro un vetro per tutta la vita, non poteva aspettare cha sua sorella Isobel tornasse da scuola tutte le sere per farsi raccontare cosa volesse dire vivere davvero. Aprì il rubinetto d’ottone della vasca da bagno con un gesto secco, aspettando che si riempisse, picchiettando con il piede sulla zampa di leone. Nel grande specchio di fronte a se, Safiria si scrutò a lungo il volto a cuore incorniciato da un groviglio di boccoli neri come la pece, che le ondeggiavano sui fianchi. “Non posso più vivere così, non voglio più vivere così!” Quelli erano i pensieri che spesso si affollavano nella sua mente. Ma guardandosi adesso negli occhi azzurri umidi di pianto e freddi come il ghiaccio, sentiva solo silenzio, il vuoto incolmabile che aveva riempito le sue giornate da quella primavera di tredici anni prima. Fermò il getto d’acqua calda prima che straripasse fuori dal bordo della vasca antica e vi si immerse. Quel tepore la rilassò per qualche minuto. Singhiozzò, lasciando che ogni muscolo si sciogliesse dalla tensione. Le grida al piano inferiore erano cessate e nella vecchia villa era calato un silenzio ovattato, sempre più opprimente; nemmeno le foglie del giardino emettevano il minimo rumore. Safiria non si dava pace, non sopportava quell’innaturale silenzio. Adesso, quanto desiderava uscire e passeggiare all’aria aperta. La sua malattia, che anni fa fu scambiata erroneamente per Malattia del Sole, sembrava invece l’unico caso al mondo: qualsiasi medico di altissimo livello l’avesse visitata in tutti quegli anni, non aveva saputo diagnosticarle una vera malattia. Era solo destinata a rimanere lontana dai raggi del sole o la sua pelle avrebbe preso fuoco. Letteralmente. Safiria alzò una mano, ammirando la leggera ombra rosata dell’ustione coperta di schiuma bianca, e si perse nei ricordi.

“Fa caldo: -Mamma, vieni a vedere che bel fiore ha raccolto Isobel!- Safiria ha sei anni e sta correndo incontro alla madre, una donna dal volto sfocato, indistinto. Anche il paesaggio è distorto, nebbioso, confuso nei suoi ricordi. Lei sa però che è semplicemente il giardino di casa sua, della vecchia villa. La piccola Safiria alza gli occhi al cielo e scorge il sole dietro le nuvole. È così caldo e piacevole che si ferma per assaporare il suo tepore sulla pelle. Una figura attira la sua attenzione: alta, completamente vestita di bianco, così candido da accecarla. Da dietro un albero le tende una mano chiara, la invita a raggiungerla. Il volto è sfocato anch’esso, ma si riconoscono due affascinanti occhi dorati. Sembra un elegante angelo. Ma Safiria esita, sopraffatta dall’inquietudine: la figura trema e si dissolve, non prima di rivolgerle un sorriso. Un brivido di freddo attraversa Safiria, scuotendola. Alza nuovamente gli occhi al cielo: la figura bianca non è sparita, è sopra di lei. Le cala addosso ad una spaventosa velocità, le mani protese, ma l’impatto non avviene. Safiria è invasa da una sensazione di terrore quando la figura, diventata incorporea e nebulosa, la avvolge in spire di fumo biancastro. Questa volta il sole sembra brillare più intensamente. Il fumo penetra nella pelle della bambina, fino ad avvolgerle il cuore. La nebbia si dissolve solo quando Safiria cade in ginocchio, piangendo. Poi accade tutto molto in fretta. Una fitta lancinante agli occhi costringe la piccola a chinarsi in avanti, i pugni premuti sulle palpebre serrate; urla dal dolore, le fa male guardare. Sua madre accorre ma la pelle inizia a bruciarle terribilmente, come divorata dalle fiamme. Poi il buio. La mattina dopo si risveglia in una stanza d’ospedale piccola e buia, solo lo spiraglio della porta socchiusa le permette di scorgere le bende candide che la avvolgono e la flebo accanto al lettino, nella penombra.”

Il pianto di quel giorno, Safiria non lo dimenticò mai. E nemmeno quello della notte, molti mesi dopo, in cui fu dimessa dall’ospedale: la notte in cui scoprì che sua madre era morta avvolta dalle fiamme che si erano innalzate dal suo stesso corpo. Era davvero crudele, il destino. Safiria si alzò dalla vasca, scrollandosi l’acqua dai capelli e avvolgendosi nell’asciugamano bianco. Seppur insolitamente lievi, sulle braccia, le gambe, la schiena, il collo, il viso, ovunque sul suo corpo si allargavano chiazze rosate, visibili sulla pelle pallida e inconfondibili. Quelle tracce di ustioni erano il ricordo indelebile di quell’episodio e ovunque scappasse, Safiria non poteva nascondersi da esse. Si stese sul letto dalla testiera in ferro battuto e dal baldacchino leggero, semplice come la stessa stanza, avvolta perennemente da un manto di ombre scure. Le grosse finestre erano coperte da pesantissime tende azzurre, l’unico sipario che la sfuggiva alla morte. -Safiria. Apri, ti prego.- La voce di Isobel la raggiunse da dietro la porta di legno scuro. Safiria non si mosse, la mano serrata in un pugno. Quasi le si spezzò un unghia. -Safiria parliamone! Ti ho portato il the che ti piace, aprimi!- Safiria spalancò la porta, lasciandola entrare. Isobel corse nella stanza, come se temesse un ripensamento da parte della sorella. -Posa il vassoio e vattene, Isobel.- Sibilò lei. -Non ho nessuna voglia di parlare, ora.- Guardò a lungo la sorella, in silenzio. Si somigliavano innegabilmente: i capelli neri di Isobel, anche se corti, erano le stesse onde di Safiria; le stesse mani, le stesse gambe dritte. Il viso di Isobel però, Safiria lo considerava di gran lunga il più bello della famiglia: gli occhi neri come il carbone, affascinanti e misteriosi, gli zigomi alti, le lunghe ciglia nere e le labbra perfette. -Safiria, penso che tu debba delle scuse a papà.- Cominciò Isobel, incrociando le braccia al petto. Safiria rise, una risata cattiva, senza allegria. -Io? Io non devo chiedere scusa a nessuno.-                                                                                                                                                                                               -L'hai ferito gridando quelle cose.- L’apostrofò la sorella. Safiria continuò a ridere. -L'avrei offeso pregandolo di ammazzarmi? Non dovrei essere io quella offesa? Nessuno ha voglia di assecondare il mio unico desiderio realizzabile!-  Poi puntò uno sguardo glaciale in quello di Isobel, che arretrò automaticamente di un passo. -Non voglio litigare con te Bel, vattene.- Una lacrima silenziosa scivolò sulla guancia della sorella e Safiria si sentì crudele. Non era Isobel che doveva piangere, non aveva nessun motivo per farlo. O almeno lei non voleva esserlo. -Scusami. Lo sai come sono fatta. Ho solo voglia di restare sola.- Le diede le spalle. Sentì l’altra aprire la porta: -Saf, parla con papà. Ascoltatevi, anche se è difficile.- E uscì. Poco prima che la porta si chiudesse Mirtillo sgattaiolò in camera, miagolando. Seguì Safiria nel bagno illuminato dal lampadario barocco che pendeva dal soffitto. Anche lì, la finestra era coperta da una spessa tenda rossa. La giovane afferrò la spazzola sedendosi alla specchiera di legno e iniziò a pettinare i capelli bagnati come meglio poteva, districando nodo per nodo. Quella villa così grande e singolare racchiudeva lo spirito barocco e variopinto della vecchia Alsazia, con la facciata a graticcio di pietra grezza. Ogni arredo possedeva un fascino ottocentesco che le ricordava la pomposa Francia del diciannovesimo secolo. Mirtillo miagolò piano, attirando l’attenzione di Safiria. -Aspetta, adesso ti do da mangiare. Fammi mettere qualcosa addosso.- Gli grattò sotto il mento, tra le sue fusa. L’armadio a parete della stanza era quasi vuoto, tranne qualche mensola dov’erano stipati i pochi vestiti di Safiria. Erano davvero pochi poiché, comunque fosse, non avrebbe avuto nessuno a cui mostrarli. Infilò la biancheria, un paio di calzettoni di lana e un lungo maglione bianco e uscì dalla stanza, seguita da Mirtillo che miagolava allegro. -Non c'è da essere tanto allegri Mirtillo. Mio padre darà di matto di nuovo, vedendomi scendere.- Invece nel salone non vi era nessuno. Scrutò la penombra, le finestre serrate da spesse persiane. -Papà non c'è.- Concesse un mezzo sorriso al gatto, quasi invisibile nel buio della sala. I suoi occhi gialli la fissavano, mentre lei raggiungeva l’interruttore e illuminava la stanza.

-Due notti che perlustrate il villaggio, Damian, e ancora niente!-
Rodolf si aggirava inquieto per la stanza. La vecchia canonica della chiesa di Turckeheim era il loro rifugio da solo un giorno, eppure Damian già la sentiva propria. -Pazienta, vecchio mio. Damian non si è mai sbagliato in fatto di presentimenti.- Sollevò lo sguardo, Aaron. Damian lo guardò negli occhi scuri, massaggiandosi il mento. -Invece di tediarti per questo, trovami un rasoio, caro zio Rodolf. Devo farmi la barba. E compra del vino! Siamo nella capitale del vino alsaziano o mi sbaglio?- Sentenziò. -Voi due siete troppo sicuri di voi stessi!- Scrollò la testa, lo zio. -Accidenti a voi... Ma perchè mai vi ho seguito?!- Nella stanza buia cadde il silenzio. Rodolf Lancaster appoggiava la ricerca dei due singolari nipoti per dovere, più che per affetto, ma non si era dimostrato un viaggio semplice per un essere umano come lui. Accampandosi dove trovavano rifugio o alloggiando in poveri motel, i tre erano giunti in Alsazia, spinti solo dall’importanza delle ricerche. Damian seguì con lo sguardo la luce del sole, che passando dai fori della tapparella si proiettava sul muro opposto in fasci lucenti. Bisognava coprirli meglio quella notte, subito dopo essere tornati dal giro di perlustrazione. Le “sensazioni” di Damian li avevano condotti in quel paesino, alla ricerca di un nuovo esemplare. Sperando nella buona riuscita dell’indagine, Damian e suo fratello sorrisero, i loro denti brillanti che luccicavano nel buio. Al tramonto, l’unico suono nella stanza era l’eco dei loro cuori che acceleravano accogliendo il buio.

ANGOLO AUTRICE: Salve! Sono Frida :) Grazie di essere arrivati fino a qui! Spero che Saf vi abbia incuriositi tanto quanto continua ad incuriosire me! Ci vediamo al prossimo capitolo, che pubblicherò il prossimo giovedì. Tanti baci, Ciao!

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Capitolo 2
*** 2 ***


-Ecco.- Mirtillo si gettò sulla ciotola verde. Safiria rimase a braccia conserte a guardarlo, pensierosa. Sarebbe stato bello nascere gatto: loro non avevano pensieri, erano liberi di fare ciò che volevano. Almeno il suo, pensò. Alzò la testa verso la finestra oscurata della cucina, mentre la luce del sole si attenuava. Dentro di lei il cuore prese a battere velocemente: tramonto. Ogni volta che il sole calava una strana agitazione, un’impazienza vertiginosa, le si insinuava nelle viscere e spariva solo con gli ultimi bagliori, quando il buio della notte avvolgeva la villa. -Oh, sei tu.- Sentendo la voce, Safiria si voltò. -Ora me ne vado.- Disse, sostenendo caparbiamente lo sguardo di suo padre. -Safiria. So che per te è difficile…- Safiria lo incenerì con lo sguardo: -No, non lo puoi sapere.- L'avvocato di successo Morgan Hall, nel suo elegante pigiama blu, camminò per la cucina con sguardo assorto: -Hai ragione, non lo so.- La ragazza rimase stupita dalla franchezza del padre. Scrutò i suoi corti capelli brizzolati, la barba ben curata, il portamento disinvolto. -Ma so cosa vuol dire essere tuo padre, e non pensare che per me sia facile. Tantomeno per tua sorella.- Il suo tono era calmo ma severo. -Sei vittima, è vero. Ma questo non ti giustifica a comportarti come tale, non nella mia famiglia.- La guardò negli occhi, dello stesso azzurro ghiaccio. -Non puoi passare tutta la vita a piangerti addosso!- Safiria batté un pugno sul tavolo: -Cosa dovrei fare!? Uscire e bruciare!? Invitare dentro una casa buia qualche amica che non ho? Non capisci che così non vivrò mai?!- Morgan rimase zitto a guardarla. Le lacrime presero a scivolare sulle guance della giovane, ansimante di rabbia. -Safiria.- Il padre si avvicinò a grandi passi. Lei chiuse gli occhi, pronta a ricevere lo schiaffo che meritava. Invece si sentì avvolgere da un abbraccio gentile. Rimase immobile, gli occhi sbarrati. -Mi dispiace, dimmi tu cosa fare.- Disse lui, con voce strozzata. -Io non pretendo che tu sia felice, ma quantomeno serena. Non sai cosa ho provato quando oggi mi hai gridato di ucciderti.- Safiria non lo abbraccio ma affondò il viso nel suo pigiama blu. Isobel, sentendo le grida, era accorsa al piano di sotto: ferma sulla soglia, sorrideva. Mirtillo le si strusciò sulla caviglie: -Vieni, lasciamoli soli.- Lo prese in braccio e sparì in camera sua. -Non puoi aiutarmi…- Col viso premuto nel petto del padre, la voce di Safiria ruppe il silenzio, soffocata. Le lacrime non si fermavano e tenne lo sguardo fisso difronte a se. -Nessuno può aiutarmi. La mamma voleva aiutarmi. Ed è morta.- Morgan l’afferrò per le spalle, esclamando concitato: -No Safiria! Non puoi vivere con questo peso! Non è stata- -Colpa mia?- Safiria lo interruppe ridendo sommessamente. Lasciò ricadere la testa sul braccio del padre e continuò. -Si invece, la colpa è mia. Non posso vivere con questo peso? In effetti non vivo, hai ragione. La mia vita è finita quel giorno e quando mamma ci ha… mi ha lasciata.- Morgan le prese il viso ma lei non lo guardò. -Lasciami stare papà.- Gli scostò le mani con freddezza e se ne andò. Si ritrovò chiusa in camera, nel silenzio più assoluto. I calzettoni verdi scivolavano sul pavimento di legno mentre raggiungeva lentamente la portafinestra. Con un gesto secco allontanò le pesanti tende e lasciò che la pallida luce della luna invadesse la stanza, tingendo tutto di un bagliore argenteo: una magnifica notte di luna piena. Aprì la porta a vetri e scivolò sulla terrazza, respirando a pieni polmoni la brezza notturna che scompigliava le fronde degli alberi. Sulle loro cime, le foglie iniziavano a tingersi di rosso e di giallo, Safiria le distingueva bene anche al buio. La luna si rifletteva nel laghetto a pochi metri dalla villa e l’intero giardino sembrava danzare tra le ombre nere. Con un agile balzo, Safiria scavalcò la balaustra e si lasciò cadere.



Damian alzò lo sguardo verso la collina su cui svettava Villa Hall. Le sue sensazioni si erano acuite nell’avvicinarsi a quel luogo, doveva essere poco distante. Con passo felpato si incammino nel bosco silenzioso, fino ai cancelli di un grande giardino rigoglioso. Nonostante le erbacce crescessero tutt’intorno al cancello, l’interno era ben curato e gli giungeva alle narici un profumo di erba appena tagliata. Il suo olfatto sensibile identificò d’un tratto un profumo diverso, più intenso. Sapeva che un odore del genere poteva giungere solo dall’essere che stava cercando. Ma c’era qualcosa di diverso. Alzò un sopracciglio incuriosito, strisciando nell’ombra, fino a scorgere la facciata della villa. Un rampicante verde ne ricopriva due lati, arrivando fino al tetto di tegole scure. Il profumo si fece più forte quando Damian voltò l’angolo, sul retro della casa. Alzò lo sguardo giusto in tempo per vedere una figura scavalcare la balaustra di ferro battuto della terrazza e saltare nel vuoto. Fece un passo avanti istintivamente, quasi scoprendosi alla luce della luna. Ma la figura non atterrò pesantemente a terra come credette: con un fruscio sparì, inghiottita dalle fronde dell’albero sottostante.                                                                                                           


Safiria tese le mani e afferrò il robusto ramo della quercia sotto la terrazza. Dondolò per qualche secondo e lasciò a presa, atterrando agilmente su di un ramo più basso. Con un balzo fu a terra, le gambe piegate e le mani nell’erba fresca. Alzò la testa in un nugolo di onde nere e setose, tirandosi in piedi. Damian si nascose dietro un albero, il respiro sospeso. Si affacciò per guardarla: era una ragazzina dai capelli scuri. Seguì i suoi movimenti mentre si spazzava il terriccio dai fianchi morbidi. Safiria godette della sua misera libertà temporanea. Le calze di lana non coprivano abbastanza i suoi piedi da impedirle di sentire la terra fredda del giardino. Una lacrima sola le rigava una guancia. L’asciugò con un gesto rabbioso e inspirò velocemente. Dopo aver dato uno sguardo alle finestre della casa, alzò le braccia e si stirò con un gesto felino, riprendendo a camminare nella notte. Il giardino aveva nuove meraviglie da mostrarle ma il suo posto preferito era il laghetto delle ninfee, che riluceva come uno specchio d’argento nelle tenebre. Damian si premette un pugno sullo stomaco: l’aveva trovata, probabilmente. Era un giovane e forte esemplare, le sue sensazioni non avevano mai mentito. Ma era femmina. La seguì nell’ombra, accompagnato dal particolare profumo di lavanda: si dirigeva verso un laghetto. La ragazza si passò una mano tra i ricci, pensierosa e i suoi occhi acuti studiarono le calle bianche sulla sponda. Si sedette sulla roccia a pochi passi dall’acqua cristallina. Un gatto nero dagli occhi gialli superò Damian, accoccolandosi sulle ginocchia della giovane. -Buona sera, Mirtillo.- Fece lei con voce calda e malinconica. Il gatto miagolò. -Stasera mi fai compagnia? Insolito.- Lo accarezzò. In quell’attimo, Mirtillo lanciò uno sguardo severo a Damian che serrò la mascella. Ci mancava il gatto da guardia a tenerlo d’occhio, pensò. Nel laghetto un pesce guizzò sulla superfice, creando una decina di anelli concentrici. Un soffio di vento delicato ne increspò la superficie, trasportando un sensuale profumo di gelsomino vicino alla ragazza. Safiria ne rimase incantata, poi aggrottò la fronte: non c’erano piante di gelsomino fiorite in quella parte del giardino. Si alzò di scatto e scrutò il buio alle sue spalle, drizzando le orecchie. Mirtillo, seduto sulla roccia, continuava a fissare il ragazzo, con insistenza. Damian si immobilizzò: lei l’aveva visto? Di certo, se era un esemplare già maturo, aveva sentito il suo odore. Perché non ci aveva pensato? Di solito era estremamente più efficiente durante la caccia. Imprecò mentalmente, arretrando il più silenziosamente possibile. La guardò ancora, constatando che si era accorta di lui: si avvicinava con indecisione tra i cespugli: -C’è qualcuno?- Damian inghiottì a vuoto: perché esitava? Avrebbe potuto prenderla adesso, come aveva sempre fatto! Se fosse stata ragionevole poteva spiegarle chi era e perché fosse li, convincerla a seguirlo. Ad ogni modo sapeva che non gli avrebbe creduto, si sarebbe sicuramente spaventata e lui non era certo il tipico gentiluomo che ispira fiducia. No, non doveva farsi scoprire. Come potrebbe una ragazzina sopportare un peso simile? Era la prima volta che aveva a che fare con una giovane femmina e si sentì improvvisamente impreparato. Si appiattì contro il cancello nero e trattenne il fiato, in attesa. Safiria continuò a cercare con lo sguardo nell’ombra ma era troppo buio anche per lei e a malapena riusciva a individuare i contorni degli alberi. Sospirò e tornò sui suoi passi, scuotendo la testa. Per quella notte ritenne più saggio tornare in casa e magari dormire un po’. Il micio la seguì con lo sguardo e lanciò un’occhiataccia a Damian, per poi sparire nel portico della villa. Sbuffando, il ragazzo sgattaiolò davanti alla terrazza, guardando la giovane. Prima di arrampicarsi nuovamente sulla quercia, lei diede un ultimo sguardo al giardino. Damian ammirò i suoi occhi azzurri, brillanti alla luce della luna argentata, prima che lei si issasse sul ramo nodoso della quercia e raggiungesse la portafinestra della villa, lasciandolo solo nella notte. Ancora con la mente annebbiata, Damian scavalcò i cancelli e corse alla canonica, convinto solo di dover tenere quella ragazza lontana dagli affari dei Cacciatori il più a lungo possibile.


​Salve! Grazie a tutti i lettori arrivati fino a qui, spero di trovarvi nei prossimi capitoli :D Alla prossima, Baci!

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Capitolo 3
*** 3 ***


Safiria chiuse a chiave la porta finestra e tirò le tende, accuratamente. Indossata la sottile camicia da notte di seta rosa antico si lasciò cadere sul letto, semi nascosto dalle tende azzurre del baldacchino. Rimase sveglia a scrutare il soffitto per interminabili minuti, addormentandosi solo un’ora dopo. Sognò quell’intenso profumo di gelsomino, quasi lo sentisse realmente. E sognò di trovare un fiore nero ad emanarlo: quando sfiorò i suoi petali setosi questo si trasformò in una spaventosa serpe nera, pronta ad avvolgerla nelle sue spire. Si svegliò con un urlo alle prime luci dell’alba, sudata e scossa dai brividi. -Safiria?- Isobel entrò nella stanza, sedendosi sul letto della sorella. La sua borsa piena di libri giaceva sulla soglia della stanza.                               -Buon giorno.- Si tirò a sedere, Safiria. -Ti ho sentita urlare. È successo qualcosa?- La guardò preoccupata la sorella maggiore. -Un incubo, Bel. Niente di che.- Deglutì lei, passandosi una mano nei capelli umidi. Si alzarono e scesero le scale, senza parlare. Al tavolo del salone, Morgan stava spalmando della marmellata sul suo toast: -Buon giorno ragazze.- Sorrise, affascinante come sempre. -Buon giorno signor avvocato.- Isobel lo baciò sulla guancia. -Nuovo completo papà? Più bello di quello di ieri.- Commentò Safiria, cercando di mascherare il risentimento del giorno prima. -Grazie piccola. Ti ho lascato il caffè sul bancone.- Baciò la figlia sulla fronte e afferrò la ventiquattrore. Isobel tenne lo sguardo incollato alla sorella, mentre questa accompagnava il padre alla porta e lo salutava con la mano; era sollevata, padre e figlia erano tornati quelli di sempre. Ma sapeva anche che quella pace sarebbe finita molto presto: il loro orgoglio non facilitava di certo le cose. Mirtillo apparve in quel momento, miagolando affamato. -Oh no, mio caro. Devo andare a scuola!- Corse verso la sorella che le teneva la porta aperta, nascosta nell’ombra del corridoio. Fuori il sole brillava e il vento trasportava i caotici suoni del paese. -Divertiti all’università.- Provò a sorriderle, Safiria. -Grazie Saf. Ho comprato un nuovo film horror ieri. Lo trovi in camera mia accanto al televisore. Guardalo se vuoi!- E raggiunse il padre in macchina. Safiria chiuse la porta con un calcetto e il sorriso le morì sulle labbra: di nuovo sola, al buio. Mirtillo miagolò arrabbiato. -Insomma, gatto egoista! Non vedi che sto tentando di deprimermi!- Lo fulminò con lo sguardo. In cucina, afferrò le crocchette e le versò nella ciotola verde di Mirtillo che rizzò la coda soddisfatto. -Non c’è di che.- Mormorò Safiria. Una volta in camera si sfilò la camicia da notte e infilò la tuta da ginnastica, correndo nel seminterrato. Là sotto aveva creato una piccola palestra per allenare i muscoli: per non ammalarsi il dottore le aveva detto di muoversi. Negli anni si era accorta di quanto fosse portata per l’esercizio fisico: veloce, precisa, agile. A volte si stupiva di sé stessa e per quanto sua sorella fosse convinta che non fosse del tutto normale, non poteva farne a meno. Iniziò svogliatamente a sciogliere i muscoli, uno a uno. Con agilità si issò sulla trave e svolse gli esercizi di equilibrio, rilassata. Quasi due ore dopo giaceva sul tappetino, ansimante dopo l’intensa attività fisica che si era imposta. Non le pesava: un po’ della sua rabbia si placava in quel modo, ormai aveva imparato. Saf guardò l’orologio: da li a poco sarebbe arrivato il Professor Cloude a farle lezione, come ogni settimana. Doveva assolutamente lavarsi e cambiarsi, per poi ripassare la lezione di fisica del giorno precedente.

 

-Dove sei stato ieri notte? Ti avevo detto di limitarti alla zona est del paese, io avrei fatto quella a ovest. - Chiese Aaron, vedendo il fratello assorto nei suoi pensieri. -Oh, sulla collina, non mi sono allontanato molto.- Rispose vago. Rodolf rientrò in quel momento, reggendo un sacchetto della spesa. -Ottimo zio, gran bella mossa.- Sviò il discorso, Damian, afferrando un panino dalle mani dello zio. Aaron lo guardò di sottecchi, sospettoso. -Ebbene, Damian?- L’altro alzò lo sguardo, piantando gli occhi grigi in quelli neri del fratello: -Che vuoi che ti dica?- Lo zio si sedette senza fiatare, in soggezione: pregò che i due non cominciassero a litigare. -Hai trovato qualcosa, vero? Te lo leggo negli occhi.- Ringhiò Aaron. Damian mostrò i denti, i canini gli graffiavano il labbro inferiore: - Fatti gli affari tuoi.- Aaron si alzò in piedi, gli occhi luccicanti di sfida: -Non osare parlarmi in questo modo! Dimmi ciò che hai visto!- Damian si voltò di scatto: -Ho trovato una femmina!- Nella canonica piombò un silenzio teso. Il giovane imprecò tra sé e sé. Aaron lo fissò a lungo prima di sedersi e addentare il suo pezzo di pane. Rodolf sorrise, incoraggiante: -Bene! È rarissimo trovare una femmina, siamo stati fortunati. Allora si va da lei, domani notte?-. Damian strinse i pugni: -Lasciatela in pace, è troppo giovane. Voglio aspettare. Tra qualche anno magari…-                                                                                                                                           -Tu vuoi aspettare?- Lo interruppe Aron. -Tu, Damian, devi fare ciò che è giusto. Più tempo passa più lei diventa forte, rischierebbe di fare del male alla sua famiglia. Come pensi sia meglio comportarsi? È pur sempre una Bestia della Luna.- Damian si morse le labbra e aggrottò le sopracciglia a disagio. Sentire quelle parole gli diede una fitta. Era vero, lei era una Bestia della Luna come tutti gli altri esemplari: una creatura semiumana, maledetta sotto la luce della luna. –Fratello, è così giovane. Non avevamo mai trovato un esemplare tanto immaturo, fino ad ora. Nessuno diventa forte in così pochi anni.- Aron scosse la testa: -Non ha importanza. Se il suo odore per noi è già chiaro e percepibile vuol dire che è già matura. Non possiamo permetterci scrupoli.- Damian non avrebbe fermato il fratello, non poteva: la speranza che lei potesse rimanere fuori da tutto era morta con la sua rivelazione. Aron, come fratello maggiore, assumeva tutte le decisioni e per Damian era impossibile opporsi, tantomeno riusciva a mentire. -Però, lasciami qualche notte. Fammi comunicare con lei in modo meno traumatico.- Sentenziò. Aron sospirò scuotendo la testa. -Insomma, fai come vuoi. Ma tra una settimana noi ripartiremo e lei verrà con noi, che ti piaccia o meno.- Damian annuì. Prima dell’alba di quel piovoso lunedì, la giovane avrebbe scoperto chi era veramente.

Il professor Cloude, elegante e raffinato come sempre, si risedette davanti a Safiria, nel tavolo del soggiorno. -Non ti stai concentrando, Safiria. Che cos’hai?- Lei lo guardò sospirando: -È troppo difficile questo capitolo.- Voltò pagina, sospirando. –Mh. Non ci capisco niente.- Lui sorrise: -Non ho più dubbi a riguardo.- Si lisciò la barba bionda, sistemandosi gli occhiali sul naso. Era un uomo piacevole: sulla trentina, sorridente, ordinato e rassicurante nella sua semplicità. La luce delle lampadine si rifletteva sulla sua capigliatura rossiccia che sembrava prendere fuoco. -Mi concentrerei meglio studiando letteratura, però…- Cloude rise: -Solo perché sei brava nelle lingue non significa che tu debba trascurare la fisica.- La ammonì. Safiria annuì e provò a rileggere il paragrafo che aveva davanti agli occhi. Si massaggiò le tempie e lanciò uno sguardo al pendolo della biblioteca della villa, che segnava mezzogiorno. -Sei di nuovo distratta.- La sgridò con fare severo il professore. -Lo so, scusi.- Cloude incrociò le braccia al petto, osservandola con dolcezza: -Avanti, sputa il rospo. Perché oggi sei così sovrappensiero?- Safiria incrociò le braccia a sua volta: -Ho litigato con mio padre, di nuovo. Soddisfatto?-               -Litigate sempre, cosa è cambiato dalle altre volte?- Saf sospirò: -Non è cambiato nulla, solo mi sento estremamente stanca.- Guardò il soffitto bianco perdendosi nei propri pensieri. –Prima mio padre mi portava in centro, dopo il tramonto. Dopo che conobbi Irina e cercai di scappare per vederla, mi impedì ogni altro contatto con il mondo esterno. Ma questo lo sai già.- Stettero in silenzio poi Cloude le scompigliò i ricci e quel tocco la fece lievemente sobbalzare: -Per oggi basta così allora. So che per domani saprai questo paragrafo a memoria!- Lei rise, sprezzante della minaccia sottointesa: -Proverò a dormire con il libro sotto il cuscino, se la rassicura.- Lo sguardo del giovane professore si fece eloquente e lei sbuffò. Lo accompagnò alla porta, riparandosi dietro l’ombra del portico e socchiudendo gli occhi per non essere accecata dalla luce. -Per qualsiasi cosa Safiria, puoi parlarne con me.- Le sorrise. Lei si perse per un secondo nei suoi occhi castani, sentendo la gola seccarsi. -Lo so, grazie.- Sussurrò, perdendo momentaneamente la sua sfacciataggine. -Vorrei che cercassi di considerarmi un amico, non solo un noioso professore.- Lei sorrise tra sé e sé: di certo aveva pensato parecchie volte a lui come qualcosa di più. -Non è niente davvero, mi passerà.- Liquidò la faccenda. Lui la scrutò per un attimo e poi si voltò, salutandola con una mano. E per la seconda volta, quel giorno, lei richiuse la porta con un calcetto. Si sistemò il maglioncino azzurro e stette qualche secondo in uno dei suoi soliti momenti di immobilità. Poi si riscosse e corse in camera, quasi volando sulle scale. I jeans neri si impigliarono nel corrimano e finì quasi per cadere: -Dannazione! Per poco non mi rompevo i pantaloni buoni.- Mirtillo le si parò di fronte, gli occhi gialli e intelligenti fissi nei suoi. -Beh? Che c’è?- Lo guardò lei. Nello sguardo del gatto, qualcosa la turbava profondamente, come se lui sapesse un segreto che lei ignorava. Scuotendo la testa lo prese in braccio e filò in camera sua, ignorando la suoneria del suo telefono al piano di sotto.

-Safiria non risponde al cellulare.- Sussurrò Isobel. La pausa pranzo stava per terminare e la sorella ancora non rispondeva. Julien la raggiunse, sbattendo la borsa a destra e a manca: -Bel, stiamo per andare in classe, vieni?- Lei sorrise, chiudendo il cellulare e ficcandolo nella tasca. -Certo Julien, arrivo subito.- Prese il caffè e la seguì nei corridoi di linoleum della scuola. -A proposito Bel, come sta la tua sorellina? È da Marzo che non la vedo.- Isobel la prese a braccetto: -Sta bene per quanto può star bene. Vivere nell’ombra non è particolarmente divertente.-                                                                                                                                          -Le piace ancora leggere romanzi?-                                                                                              
-Oh si. Legge continuamente! Sa così tante cose… A volte riesce a stupirci con la sua arguzia.- Julien rise: -Immagino come possa essere conversare con una persona che vive di cultura!- Il viso della bella Isobel si incupì: -D’altronde, che altro potrebbe fare?- Stettero in silenzio ed entrarono in classe, accolte dal rumoroso chiacchiericcio degli studenti. Un bel ragazzo sorrise a Isobel che ricambiò cortese, prendendo posto con il blocco per gli appunti in mano. Quando entrò il professore di estetica, Bel non ebbe più il tempo di pensare alla sorella e si concentrò sulla lezione.

Mirtillo agitò la coda contrariato, seduto sul letto di Safiria. La ragazza tese nuovamente la mano verso la tenda, tremante. Anche questa volta la ritirò poco prima di sfiorarla. -Dannazione! Codarda che non sei altro!- Si rimproverò. Allungò la mano e finalmente riuscì ad afferrare un lembo di tenda: con delicatezza lo scostò leggermente, non senza un lieve tremore. Un sottile fascio di luce si proiettò sul muro. Safiria sospirò e sbirciò nello spiraglio: il giardino era un’esplosione di colori vivaci. Riuscì ad intravedere la macchina blu del professore che scompariva dietro gli alberi. Sorrise ma gli occhi cominciarono a lacrimarle all’istante. Resistette per un minuto poi ributtò la tenda al suo posto, gemendo. -Non guardarmi con quel muso, gatto!- Ordinò a Mirtillo, che non si mosse. Le sarebbe piaciuto vedere il professor Cloude sotto i raggi del sole ma era ovvio che non ci sarebbe mai riuscita: doveva essere bellissimo. Afferrando un libro, Safiria si preparò a passare un altro pomeriggio nella solitudine della villa. Era trasportata nella lettura quando, dopo nemmeno un paio d’ore, il suo cellulare riprese a suonare. Con un sospiro, posò il libro aperto sulla scrivania di legno e corse in salone. -Pronto?- Rispose al telefonino nero. -Safiria, insomma! Non si risponde?- Isobel la sgridò con voce acuta.                   -Ah, eri tu a disturbarmi.- Fece lei, con fare annoiato.                                                                       -Bell’ingrata, io ti chiamavo per sapere se stavi bene!-                                                                     -Non c’è pericolo che mi investano o mi borseggino, Bel.- Rispose ironica. Per tutta risposta Isobel le riattaccò il telefono in faccia. -Stupida!- Commentò Bel. Julien la guardò ridendo: -Che caratterino!- Isobel non capì a chi delle due si riferisse.

La sera sembrava non arrivare mai e Safiria si rigirò nel divano del salone, impaziente. L’orologio batté le cinque ma suo padre e Isobel non sarebbero tornati prima delle sei. Stufa di starsene seduta, la ragazza si alzò di colpo e decise di apparecchiare tavola. Sistemò bene posate e bicchieri e per ingannare il tempo, iniziò a cucinare. Già si immaginava la faccia di suo padre nel vederla. Avrebbe detto di sicuro: -La scansafatiche della casa si è degnata di muovere il deretano!- E lei lo avrebbe guardato male. Chiuse il forno proprio quando la porta di casa si aprì. -Buona sera. Ben tornati.- Guardò appena i due. Isobel la guardò senza rispondere e lei si ricordò della telefonata. La raggiunse e le diede un leggerissimo bacio sulla guancia, cosa davvero insolita: -Suvvia, sorella maggiore, non avrai intenzione di tenermi il broncio.- Bel la spinse via ridendo: -Per tua fortuna no! E comunque posso tranquillamente comportarmi da bambina! Ho solo ventitré anni!- Poi si girò stupita: -Papà, hai visto? Tua figlia cucina!- Il padre posò la valigetta, correndo in cucina a controllare. Safiria preparò la battuta ma, con sorpresa delle due ragazze, Morgan sorrise commosso. -Grazie, Saf. Significa molto per me.- Safiria evitò il suo sguardo. La cena si rivelò deliziosa e i tre chiacchierarono per tutto il tempo. Al tramonto, Safiria si premette una mano sul cuore per reprimere la sensazione di agitazione che le soffocava il petto: -Di nuovo quella strana sensazione?- Domandò il padre. Saf annuì, sovrappensiero, osservandosi la mano dalle macchie rosate. Si accarezzò il contorno della bruciatura sulla guancia con l’indice, seguendone il profilo da sotto l’occhio destro fino al collo, per sparire nel maglioncino azzurro. –Sicura che non sia la tua immaginazione?- Saf alzò un sopracciglio, eloquente. –Guarda che non ci sarebbe nulla di strano! Da piccola dicesti che un angelo bianco ti aveva fatto un incantesimo per farti vivere al Chiaro di Luna.- La guardò Bel, seria. Safiria deglutì e non rispose. Il silenzio invase la stanza, fino a che la giovane non posò le proprie stoviglie sul lavandino. -Penso che andrò a letto, domani il professor Cloude mi deve verificare su storia.- Salutò con la mano e corse in camera. Fuori era buio e, stranamente, Mirtillo non era in casa.

-Damian, dove stai andando?- Rodolf fermò il nipote sulla porta della chiesa. Damian si girò svelto, tappando la bocca allo zio: -Silenzio, Rodolf! Vuoi svegliare Aaron?- Bisbigliò. Indietreggiò nel vialone. -Ti prego zio, non lo svegliare! Acqua in bocca, chiaro?- Sussurrò. Poi, senza dare spiegazioni, corse a perdifiato su per la collina, diretto a villa Hall. Giunto nel giardino si appostò davanti alla terrazza di lei, sperando che uscisse anche quella notte. Il gatto nero era comodamente accucciato sulla balaustra e lo scrutava dall’alto, la coda che sferzava l’aria. Damian lo fissò di rimando, ringhiando piano. Il gatto non batté ciglio e si voltò addirittura dall’altra parte, ignorandolo. Lui rimase a bocca aperta: quel gatto aveva una gran faccia tosta! Poi il profumo di lavanda gli giunse alle narici, accompagnato dal rumore di passi sulla terrazza. -Allora eri qua fuori, gatto.- Safiria passò una mano sul pelo nero e morbido di Mirtillo, che miagolò affettuoso. Suo padre era appena andato a dormire e Isobel stava probabilmente studiando, così Safiria era libera di uscire senza essere scoperta. Come ogni sera, si calò a terra usando i rami spessi della quercia sotto il terrazzo. Le gambe nude incontrarono dolcemente l’erba e i lembi della camicia da notte rosa si inumidirono. Se la sistemò meglio, tirandola fino alle ginocchia. Mirtillo le si strofinò contro e lei lo prese in braccio. –Stasera non sono triste, credo.- Gli disse. Il micio miagolò allegro. -Non mi sorprendi! Mirtillo, tu non sai cosa sia la tristezza.- Sorrise. Damian la seguì con lo sguardo: sembrava tranquilla, poteva permettersi di rompere la sua quiete? Al suo tempo, quando vennero a raccontargli la verità, nessuno si curò del suo stato d’animo: poteva capire quanto fosse frustrante rovinarsi così la serata. Ancora una notte, poi le avrebbe parlato. Sgusciò di nuovo fra gli alberi e fece per andarsene. -C’è qualcuno?- La voce di lei lo raggelò: l’aveva sentito. Lei si avvicinò agli alberi. -Sento profumo di gelsomino. Sei per caso un giardiniere fissato con questa pianta?- Damian sollevò un sopracciglio divertito. -Perché non vogliamo gelsomini nel nostro giardino, grazie.- Concluse, lei. Damian prese un profondo respiro e le rivolse la parola, titubante: -Spero tu non sia allergica, allora.- Safiria scrutò le ombre senza vedere nulla: -Oh cielo, allora c’è davvero qualcuno.-

Siamo arrivati al fatidico incontro! Quali risvolti nasceranno in questa notte movimentata? Ci vediamo al prossimo capitolo, mille baci, Frida.

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Capitolo 4
*** 4 ***


Safiria arretrò verso la quercia e si appiattì contro il tronco ruvido. -Non ti spaventare per favore.- La pregò, Damian. Saf deglutì, tirandosi indietro i capelli con un gesto nervoso. Dall’ombra, avanzò una figura alta e scura. -No-Non ti avvicinare!- Balzò lei, come una gatta spaventata. La luce bianca della luna colpì Damian, offrendolo agli occhi spalancati della ragazza. -Chi sei? Cosa vuoi da me?- Incrociò lo sguardo di due penetranti occhi grigi come un cielo carico di pioggia. Tra la barba scura di lui fece capolino un sorriso storto: -Sono Damian. Damian Lancaster. Non volevo spaventarti.- Lei sostenne a malapena quello sguardo e si fece forza, anche se la sua voce doveva tradire innegabilmente il suo sgomento: -Come sei entrato? Lo sai che questa è proprietà privata?- Lanciò uno sguardo all’abbigliamento di Damian e sbarrò ancora di più gli occhi. In effetti quella giacca vecchia e consunta e quei logori jeans scuri non dovevano sembrarle molto rassicuranti, pensò lui. -Sei un vagabondo?- Damian scoppiò a ridere: i denti bianchissimi fendettero il buio. Safiria deglutì nuovamente.                 -Si, sono una specie di vagabondo, ma non sono qui per chiederti soldi o ospitalità. Vorrei solo parlare con te.- Safiria soppesò la richiesta senza battere ciglio: -E di cosa dovrei mai parlare io, Safiria Hall, con un vagabondo come te?- -Scortese da parte tua trattare così un gentiluomo.- Damian soffocò una risata: la ragazza era una testa calda. -Non ti ho proposto nulla di osceno.-  -Non ancora.- Aggiunse Safiria sibilando.                                                                                                                        Lui lasciò cadere anche quella frecciatina: -Safiria, un nome particolare. Ha un significato?-                                                        -Fatti gli affari tuoi.- La ragazza sentì montare dentro un forte nervosismo. Quel profumo inebriante di gelsomino doveva provenire per forza da quell’uomo e la distraeva. -Se non mi ascolti non potrò aiutarti.- Damian si fece serio. Non aveva tempo di giocare, aveva cinque notti e poi lei non avrebbe più avuto pace.                                                                                          -Aiutarmi? Tu?- Safiria alzò un sopracciglio, piegando le labbra in un sardonico sorriso. -Cosa sai?- Damian la scrutò un istante, ammirando quella fredda maschera di disprezzo che le si dipingeva lentamente sul viso. La spontaneità della paura apparsa poco prima nei suoi occhi si stava spegnendo. Non sembrava avere più nulla di vero, di umano. -So che il sole non è il tuo migliore amico.- Le sorrise. Safiria distolse lo sguardo storcendo la bocca in una smorfia di dolore. -Sei venuto qui per vedere questo singolare scherzo della natura?- Lo sguardo di lui si addolcì. Lei lo vide avvicinarsi con fare rassicurante e arretrò bruscamente. -Safiria, posso spiegarti cosa ti è successo.- Safiria irruppe improvvisamente in una cristallina risata senza sentimento e Damian rimase interdetto. -Spiegarmi cosa è successo…- Continuò a ridere. -Centinaia di medici in decine di paesi hanno provato a spiegare ciò che è accaduto tredici anni fa. Ma vuoi sapere la verità, Damian Lancaster?- Piantò quegli sconvolgenti occhi azzurri bagnati di lacrime in quelli di lui: -Io non voglio spiegarmi cosa accadde. Io non lo voglio sapere.- Damian deglutì: -Safiria devi ascoltarmi…-                                                                                                             -Vattene da casa mia.- Le parole lo colpirono come stilettate di ghiaccio. -Vattene e non azzardarti a tornare. Chiunque tu sia, non mi importa, sparisci.- Lui avanzò verso di lei e Safiria iniziò ad urlare: -Vattene, vattene! Tu non sai niente di me! Tu non sai quello che ho passato! Non sai com’è la mia vita!- Singhiozzò spingendolo via tra una nuvola di capelli color cenere. Le piccole mani bianche di lei si infransero contro Damian con una forza inaspettata e lui finì contro la vegetazione dietro di lui. Lei gli diede le spalle, scossa da tremiti incontrollati. -Se tu mi permettessi di raccontarti il mio passato, la mia vita, forse non mi cacceresti più così!- Le gridò di rimando. Strinse i denti e cercò di calmarsi: -Safiria, io sono come te.- Lei si voltò di scatto, lo sguardo perso. -Sono come te.- Ripeté lui avvicinandosi. -Cosa?- Farfugliò incredula, Safiria.

Lui sospirò, cercando di riordinare i pensieri: -Ho visto la stessa figura bianca che hai visto tu, avevo solo tre anni, e da quel momento il sole mi è diventato fatale.- Safiria lo fissò, rapita e sconvolta e si fece inconsapevolmente più vicina: -Come sai della figura bianca?-                                                                                                                                                                          -L’abbiamo vista tutti, è lui a trasmetterci questo stato.-                                                                                                                  -Tutti? Tutti chi? Cosa vorresti dire? Chi è lui?!- Quasi urlò, lei. Il cuore le batteva velocissimo e la testa aveva cominciato a girare talmente forte da farle perdere l’orientamento. A malapena capiva dove si trovasse e iniziò a temere che quell’uomo fosse solo un miraggio. Lo vide passarsi una mano sugli occhi: -Siamo più numerosi di quanto tu possa immaginare, Safiria.- Lei non sapeva se crederci; se l’avesse fatto senza che quelle parole fossero state vere, ne sarebbe morta. Damian la guardava in silenzio, ammirando il suo viso che mutava espressione con la marea di emozioni che l’attraversavano. -Tu… Tu…- Balbettava lei, affondandosi una mano nei capelli. Damian sapeva che conquistare la sua fiducia sarebbe stato arduo, ma aveva solo cinque notti e doveva farsele bastare: -Puoi credermi, Safiria? Mi permetterai di spiegarti?- Le chiese, cercando il suo sguardo. Saf si riscosse, fissandolo negli occhi e mordicchiandosi il labbro inferiore: -Io non lo so. Non posso ma… Devo… Devo pensare.- Balbettò. Domani, pensò lui, domani mi crederà. -Va bene. Me ne vado.- Dichiarò con un tono fin troppo sbrigativo. Fece per voltarsi quando sentì le dita calde e sottili di Saf chiudersi intorno al suo polso. Si fermò, tornando a guardarla: era ferma, il viso nascosto dai capelli scuri, le spalle rigide. Damian percepì l’odore delle sue lacrime e si sentì tremendamente in colpa. -Se tu sparisci, sono sicura che non tornerai mai più.- Damian spalancò gli occhi ma la lasciò continuare: -Sparirai e mi convincerò che è tutto frutto della mia immaginazione e che la solitudine mi sta facendo diventare pazza.- Inspirò profondamente, scossa da singhiozzi silenziosi. -Ma se sei quello che dici di essere e se ciò che mi hai raccontato è vero…- E alzò lo sguardo su di lui: -Allora aiutami.- Damian rimase a fissare quegli occhi azzurri per infiniti secondi, colpito da quelle parole: lei gli aveva comunicato tutta la sua sprezzante diffidenza indossando una maschera, per poi mostrargli la sua profonda fragilità con due semplici parole. -Io non ti sto mentendo e voglio dimostrartelo.- Le rispose, con voce pacata. Safiria sentì il suo cuore mancare un battito per l’emozione. Lasciò la mano dell’uomo, ritirandosi come se si fosse scottata. Quegli occhi grigi la rassicuravano, nonostante ciò che stava intorno non paresse affatto affidabile, e gli credette. Forse gli avrebbe creduto in qualsiasi caso, tanto era il suo bisogno di cominciare a sperare. Poi lo vide voltarsi inquieto verso i cancelli della villa e, non senza una nota di panico, si accorse che se ne sarebbe andato a breve dal suo giardino. -Devo andare.- Sussurrò lui, confermando i suoi timori. Damian vide lo smarrimento in quegli occhi azzurri e velocemente aggiunse: -Parleremo domani notte. È una promessa.- E senza darle la possibilità di rispondere corse via. Aveva fiutato Aron minuti prima ma non si era accorto di quanto si stesse avvicinando a Villa Hall. Si era distratto e non poteva permetterselo proprio adesso. Solo pochi metri oltre il cancello, nel bosco, raggiunse Aron prendendolo per il braccio con forse troppa foga: -Ti avevo chiesto di lasciarci stare.- Gli ringhiò, senza comunque aggredirlo. Aron non si scompose e lo scansò senza tanti complimenti: -Parli al plurale adesso? È già nel gruppo?- Chiese, sollevando un sopracciglio. Damian socchiuse gli occhi, fissandolo di sbieco: -Ancora non sa nulla. Ma alla partenza verrà con noi, te lo garantisco.- Aron non rispose ma la minaccia era sottintesa nel suo sguardo perentorio: o la convinci tu, o lo farò io. E Damian sapeva che non sarebbe stato altrettanto gentile. Si avviarono entrambi lontano dalla collina, diretti alla vecchia canonica. Per un secondo, ad Aron parve che il fratello si trattenesse dal voltarsi a guardare la villa.

Safiria rimase ferma immobile nel giardino per lungo tempo. Le gambe le si erano incollate al suolo e i suoi occhi scrutavano frenetici le ombre del giardino, aspettando che quello strano individuo tornasse per assicurarle che non era stato un sogno. Solo quando Mirtillo cominciò a miagolare insistentemente, Safiria si riscosse. Si passo le mani sul viso, cercando di regolare il respiro, ignorando il lieve profumo di gelsomino che ancora aleggiava nell’aria fredda della notte. -Non avere paura Mirtillo, sto bene.- Sussurrò, più a se stessa che al micio. I brividi le incresparono la pelle quando, abbassandosi per prendere il suo gatto imbraccio, sfiorò la terra bagnata. Si voltò lentamente e si diresse alla grossa quercia, lasciando che Mirtillo salisse sui rami per precederla. Anche se ancora scossa e tremante, Saf riuscì a issarsi fin sul balcone, entrare in camera e chiudere la portafinestra. Chiuse accuratamente a chiave tutte le porte e tirò metodicamente le tende a coprire il vetro. Quando la stanza fu avvolta dal buio e dal silenzio, pianse. Non emise un fiato mentre sentiva le lacrime calde caderle dagli occhi e scivolarle sulle guance e sul collo. -Mamma, se ci sei, dimmi cosa fare…- Gemette, stendendosi sul letto. L’orologio in soggiorno batté l’una di notte e lei chiuse gli occhi, girandosi su un fianco e rannicchiandosi al centro del grosso letto, tra i cuscini morbidi. Non si addormentò fino a quando non vide la luce del sole contornare i lembi della tenda della stanza, rassicurandola anziché irrigidirla. Sognò un grosso corvo nero che, spalancate le ali lucenti, irradiava quell’intenso odore di gelsomino e quella sensazione di pericolo del sogno precedente. Al suo risveglio, le era chiaro chi fosse quella presenza scura nel suo inconscio e allontanò dalla mente quel sinistro presagio. -Saf?- Esclamò Isobel da dietro la porta. Safiria non rispose e si diresse lentamente in bagno. La sorella provò ad aprire ma la porta era ancora accuratamente chiusa a chiave: -Safiria, perché ti sei chiusa dentro?- Le urlò, incuriosita e preoccupata. -Arrivo. Cinque minuti e scendo.- Rispose Saf, atona. L’altra si accontentò e scese le scale verso la cucina. Safiria si guardò allo specchio e faticò a mettere a fuoco l’immagine: aveva la testa pesante, gli occhi che bruciavano e profonde occhiaie scure. Aveva dormito si e no due ore e non era mai stata così scossa. Si lavò il viso con l’acqua gelata e si legò i capelli in alto sulla testa, in uno stretto chignon. -Mirtillo?- Chiamò, non vedendo il micio. Questo sbucò da dietro le tende, senza spostarle di un centimetro, come fosse conscio della situazione di Safiria. Lei si sedette sul pavimento, al centro della stanza, accogliendo Mirtillo tra le braccia e affondando il viso nella pelliccia nera: -Tu l’hai visto vero? Quell’uomo là fuori era reale.- Gli sussurrò, cercando risposte negli occhi gialli del gatto. Mirtillo si allungò per leccarle il naso, facendo le fusa. Saf gli sorrise, improvvisamente tranquilla. La giornata era cominciata come tutte le altre e la routine rassicurò la giovane che, infilandosi la vestaglia bianca, aprì la porta e raggiunse la sua famiglia in cucina. -Buon giorno.- La salutò il padre, alzando lo sguardo dal giornale. -Vuoi il caffè, Saf?- Le si rivolse Isobel, tranquilla. Safiria si sedette al tavolo, rannicchiandosi sulla sedia di legno e annuendo allo sguardo interrogativo della sorella. Quasi non toccò cibo, mentre ascoltava il quotidiano chiacchiericcio dei due familiari. -Non ti senti bene, tesoro?- Le chiese il padre, notando il suo umore. -Non molto. Ho mal di testa.- Si giustificò, lei. Sentiva il bisogno di stare sola nonostante la paura: una parte di lei desiderava che il sole tramontasse all’istante, mentre l’altra pregava che la giornata fosse più lunga possibile. -Allora chiamerò il professor Cloude per dirgli che oggi starai a riposo.- Le sorrise il padre. -Non c’è bisogno, lo chiamerò personalmente.- Isobel le si avvicinò, sorridendo: -Per oggi hai il permesso di prendere tutti i film che vuoi dalla mia stanza, Saf!- Safiria non era una vera amante di film ma aveva capito che condividere una passione faceva stare bene Isobel. Quindi si limitò a ringraziarla. Quando il signor Hall e sua figlia furono lontani dalla villa, Saf si stese sul divano e accese il televisore. Non lo faceva spesso quando era sola ma aveva bisogno di dormire e il sottofondo creato dalla tv le conciliava il sonno come nient’altro. Prima di addormentarsi afferrò il cellulare e compose il numero del professore. -Pronto?- Lei sorrise alla voce calda del professore.       -Ciao.- Lo sentì ridacchiare: -Fammi indovinare: hai tanto mal di testa.- Saf alzò gli occhi al cielo. -Sono stato perspicace?- Continuò l’altro. -Si professore. E perspicacemente avrà capito che oggi non faremo lezione. Vero?- Lui sospirò: -Va bene, va bene. Però cerca di studiare almeno l’ultimo capitolo di storia dell’arte. E devi esercitarti con il pianoforte.-                                 -Evviva.- Fece lei, con falso entusiasmo. -Sei sicura che non vuoi che vanga lo stesso?- Le chiese, premuroso. -Ho solo tanta voglia di dormire.- Rispose in fretta. -Mhm… Per qualsiasi cosa chiamami. E… Hai bisogno di parlare?- Safiria non rispose. -A presto, professore.-                                                                                                                                                                         -A presto, Safiria.- E la conversazione si concluse. Nonostante tutto, Saf non resistette e fantasticò sulla bella voce del professore ancora qualche minuto, poi si addormentò.

Damian non riusciva a prendere sonno. Guardò ancora una volta l’orologio sulla parete e sbuffò: mezzogiorno. Doveva dormire o quella notte non sarebbe stato sufficientemente in forma. -Rodolf?- Bisbigliò per non svegliare il fratello maggiore. Lo zio si riscosse e quasi cadde dalla sedia su cui stava sonnecchiando: -Damian, cosa c’è?- Chiese allarmato. L’altro si alzò agilmente dalle coperte e sgattaiolò al suo fianco, leggero come un’ombra. -Fa silenzio e ascoltami. Mi serve uno spettro di luce. Credi di riuscire a prenderlo per me?- Rodolf sgranò gli occhi: -Razza di nipote degenerato, non vorrai per caso uccidere tuo fratello?- Damian alzò gli occhi al cielo e scosse la testa. -In nome di tuo padre non permetterò che vi facciate del male!-    -Zio ascolta! Non ho intenzione di fare niente ad Aron!- L’altro sollevò un sopracciglio ma si alzò, facendo per uscire: -Senti ragazzo, non ho intenzione di finire male, quindi vedi di non mettermi nei guai con tuo fratello.-                                                -Hai la mia parola che non ti accadrà nulla, Rodolf.- E finalmente Damian lo vide uscire chiudendo la porta dietro di se. Aron si mosse appena, ancora immerso nel sonno. Damian aveva nostalgia di casa da molti giorni ormai e sperava, infondo, che la giovane Safiria accettasse di seguirlo. Da quando l’aveva lasciata in quel giardino, non aveva smesso per un secondo di chiedersi se i suoi compagni Cacciatori l’avrebbero mai accettata nel loro piano e se, in un lontano futuro, lei stessa si sarebbe abituata al suo destino. Ma quando lo scoprirà, penso Damian, sarà più difficile di quanto si possa temere. Quella notte però, l’avrebbe convinta a fidarsi di lui, ne era certo. Gli serviva solo uno spettro di luce e un aspetto un po’ più rassicurante. Si avvicinò di soppiatto allo specchio a parete, si cosparse il viso di schiuma e, nella penombra, sfoderò il sottile rasoio che Rodolf teneva nella borsa. Guardando il suo volto riflesso digrignò i denti: una vera bestia, ecco cosa sembrava, cosa sembravano lui e suo fratello. Erano macchiati da colpe imperdonabili, da azioni terribili. Il loro corpo forte era forgiato dai combattimenti del passato e i loro lineamenti erano induriti dalla solitudine della notte e dal tempo. Ripensò al viso candido ed etereo di Safiria e si rilassò. Si ripromise di impedire a quella ragazza di assomigliargli. Impiegò poco tempo a radersi e una volta terminato si squadrò, sorridendo appena. -Ma come sei affascinante. Ti fai bello per la tua dolce fanciulla?- Ghignando, Damian ricambiò lo sguardo del fratello attraverso lo specchio: -Con una faccia come la tua potrei solo farla scappare.- Aron scosse la testa, sorridendo e tornando sotto le coperte. Se avesse anche solo immaginato che piano stupido avesse in mente il suo giovane fratello, l’avrebbe rivoltato come un calzino.


​Ciao a tutti! Chiedo venia se purtroppo ho dovuto caricare il capitolo di venerdì, la connessione internet aveva deciso di abbandonarmi per un pò! Spero seguirete questi personaggi nei capitoli avvenire ;)
​Vostra, 
​Frida

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Capitolo 5
*** 5 ***


Safiria si stiracchiò con un gesto felino sul divano, scostandosi i boccoli dal viso. Impiegò diversi minuti prima di svegliarsi completamente, non senza una vasta gamma di mugolii infastiditi. Mirtillo le si accucciò sul ventre, fissandola con gli occhi gialli. -Ehi gatto, quanto ho dormito?- Gli chiese, accarezzandolo. Il micio miagolò piano, facendole intendere che era l’ora di mangiare. Saf sentì il suo stomaco brontolare. Aveva una fame terribile e si diresse in cucina scrocchiando il collo. Mirtillo la seguì, impaziente di avere la sua razione del pomeriggio. -Si, hai ragione. Non sono affatto regolare ultimamente. Devo mettere delle sveglie per segnare i pasti.- Gli fece, scocciata, constatando di aver completamente saltato il pranzo. Versò le crocchette nella ciotola verde del gatto e pensò a cosa prendere per sé: -Non ho alcuna voglia di farmi un panino. Non mi metterò nemmeno a cucinare qualcos’altro. Ripiegherò sui biscotti.- Non resistette alla golosità e si portò via l’intero pacco di biscotti con le gocce di cioccolato. Attraversò il salone fino ad una porta di legno intagliato, entrando a passo spedito nella sala da musica buia e sedendosi al pianoforte. Appoggiò seccamente il pacchetto di biscotti sul piano, accese la lampada e alzò il copri-tastiera. Agitò teatralmente le mani e poi eseguì una serie complicata di scale e arpeggi. Cloude poteva dire quello che voleva, pensò, ma lei era davvero un portento in questo. Sorrise e prese a suonare il vecchio pezzo che il professore le aveva assegnato. Era complicato, ma profondamente noioso. Improvvisamente spostò le mani sulla tastiera e nella sala iniziarono ad aleggiare le note malinconiche del Chiaro di Luna di Beethoven. La melodia si estese in tutta la stanza, giungendo fino agli angoli bui non illuminati dalla lampada vicino al pianoforte. Saf suonò ad occhi chiusi, rievocando inconsapevolmente la notte prima. Il suo viso assunse un’espressione sofferente mentre ripensava alle parole del misterioso individuo e alle illusioni che le avevano donato. Mirtillo, nella stanza, iniziò a miagolare infastidito e Safiria si interruppe: -Scusa, scusa. So che non ti piace quando suono così…- E scacciò i pensieri, accettando di buon grado di suonare il brano preferito del suo gatto, il Preludio numero 1 in do di Bach. Il micio si acciambellò ai suoi piedi, facendo le fusa. Passò poco tempo, poi il campanello suonò improvvisamente. Saf rimase con le mani a mezz’aria, il respiro sospeso. Attese, credendo di averlo immaginato. Invece, il suono chiaro del campanello perforò nuovamente il silenzio della villa, togliendole ogni dubbio. Si alzò lentamente e raggiunse la porta d’ingresso. Guardò dallo spioncino mordendosi le labbra per l’agitazione: Cloude. Alla giovane mancò un battito. Che cos’era venuto a fare? Il professore scrutava la porta con apprensione, guardando l’orologio; lei allacciò la vestaglia e aprì, sperando che lui non notasse il rossore delle sue guance. -Professore?- Cloude si aprì in un sorriso sincero, guardandola divertito: -Ti ho svegliata?- Lei cercò di coprire il più possibile le gambe e maledisse i riccioli scompigliati che tradivano la sua lunga dormita. Vi passò una mano e si scostò per farlo entrare: -Veramente mi stavo esercitando al piano, come mi ha ordinato.- Lui scosse la testa, ridacchiando: -Ordinato… che esagerata.- La seguì in cucina. -Vuole da bere?- Lui scosse la testa: -Non disturbarti, ero passato per vedere come stavi.- -Sembra preoccupato.- Constatò lei invece, notando lo sguardo insistente del professore. -Non rispondevi ai messaggi.- Fece lui, semplicemente. Saf guardò il telefono, ancora abbandonato sul divano. -Ho lasciato il cellulare in silenzioso, ho perso la cognizione del tempo e ho dormito tutto il pomeriggio.- -Non importa, ma chiama tua sorella. Dev’essere preoccupata, è stata lei a chiamarmi.- Lei sospirò, sedendosi di fronte al professore: dunque era solo per quello che era passato a trovarla… -Sto meglio, ma mi ronzano in testa strani pensieri.- Disse, più a se stessa che a lui. Cloude aggrottò le sopracciglia: -Che genere di pensieri?- -Non esistono proprio da nessuna parte altre persone con il mio… problema?- Chiese, con fare innocente. Cloude sembrò soppesare la domanda, mentre la guardava: -No. In nessun luogo e in nessun tempo si è mai verificato un episodio come il tuo.- Rispose, infine. -E se ci fossero invece?- Insistette lei. Cloude si fece serio e il suo volto si indurì: -Perché mi stai dicendo queste cose?- Safiria non seppe cosa rispondere. Per quanto si fidasse di lui, non poteva rivelargli cosa stava accadendo in quelle notti, nel giardino di casa sua. -Sono solo pensieri, credo…- Si strinse nelle spalle, facendosi più piccola. Cloude si sporse per prenderle una mano con dolce fermezza: -Chiunque voglia convincerti di poterti aiutare, sta mentendo. La tua famiglia, i medici ed io, abbiamo cercato in ogni modo possibile di aiutarti. Se esistesse un modo, l’avremmo già scoperto.- Strinse la presa: -Qualcuno ti ha contattata? Ti importuna con queste sciocchezze?- Lei scosse velocemente la testa, deglutendo. Lui le sorrise, accarezzandole il dorso della mano con il pollice: -Meglio così. Tredici anni sono lunghi, Safiria. Ma ne hai molti di più davanti a te, non perdere comunque la speranza e fidati di noi.- Lei annuì, ritirando velocemente la mano e sciogliendo il contatto fisico. Perché Cloude aveva subito pensato che qualcuno l’avesse contattata? Era una cosa che temeva succedesse da tempo? –Prima di tutto sono quasi quattordici anni, visto che la settimana prossima festeggerò i miei vent’anni. Poi, ho finito il tema di francese, se le interessa.- Esclamò, cambiando discorso. –Bene! Allora voglio leggerlo subito!- La assecondò il professore, alzandosi in piedi. Lei gli fece strada fino in camera. Frugò lentamente tra i fogli della sua scrivania, regolando il respiro: nonostante tutto, l’uomo di cui era innamorata era solo con lei da più di dieci minuti, senza che fosse una lezione. Cloude entrò silenziosamente, appoggiandosi allo stipite della porta e osservando con tenerezza i dettagli della camera: -Si vede che è la tua stanza.- Sorrise. Safiria lo guardò da sopra la spalla, sollevando le sopracciglia, eloquente: -Ah davvero?- -Non fare quella faccia, guarda che ti conosco.- -È la prima volta che qualcuno, oltre mio padre e mia sorella, entra nella mia stanza. Si senta pure onorato.- Lo punzecchiò. Cloude si avvicinò al baldacchino e lasciò scivolare una mano sulla seta liscia della tenda, portandosene un lembo vicino al viso, ridendo: -Si sente anche, che è la tua stanza. Profuma di lavanda, proprio come te.- Saf si sentì avvampare e cercò di mascherare il turbamento tornando a frugare tra i libri. Finalmente trovò il tema e lo porse al professore, velocemente: allungò il braccio, cercando di non avvicinarsi. Cloude prese i fogli e si sedette sul materasso: -Otto pagine. Avevi tanto da dire sul tema del Caos.- Commentò, soddisfatto. -Ho letto molti libri.- Strinse le spalle lei. –Come sempre. Potresti mostrarmeli?- Le chiese. Safiria gli diede le spalle, sfilando diversi libri dalla libreria vicino alla portafinestra. Cercò di ricordare quali le avessero dato spunto e li impilò velocemente. Quando si voltò, Cloude era in piedi, vicino alla porta finestra. Safiria indietreggiò di un passo, spiazzata dal trovarsi quasi a sfiorarlo. –Mi scusi…?- Il professore rimise le mani in tasca, con fare stranamente sospetto. –Stavo guardando il bel panorama alla tua finestra. Meraviglioso.- Saf annuì, aggrottando le sopracciglia. –Oh i libri, ti ringrazio. Segnerò i nomi e lo correggerò.- Le disse lui frettolosamente, allungando le mani per prendere i pesanti volumi. Le sfiorò accidentalmente le braccia e lei si trattenne a stento dal lasciar cadere tutto e scappare. Lui sembrò accorgersi del disagio della giovane e prese velocemente i volumi, allontanandosi giusto un poco da lei. Una volta terminato di segnare la bibliografia lui si diresse alla porta per poi fermarsi, voltandosi verso di lei e sorridendo: -Sono felice che tu stia bene e che ti sia aperta con me, ci tengo molto. Spero di poter fare lezione, domani!- Poi lanciò uno sguardo alla porta finestra e uscì. Saf si voltò per seguire quello strano sguardo ma vide solo le tende scure. Alzò le spalle guardando Mirtillo, placidamente acciambellato sul letto. -Non so perché ma è dannatamente strano oggi.- Davanti alla porta di ingresso, Safiria si morse le labbra e prima che Cloude potesse uscire lo fermò: -Comunque grazie di essere passato, professore. Significa tanto per me.- Lui la guardò negli occhi, passandosi una mano tra i capelli rossi. -Ci sarò sempre, Safiria. Non dimenticarlo.- Perché di punto in bianco somigliava ad una minaccia? E il professore sparì nella sera.

Puntualmente, Isobel e Morgan irruppero in cucina conversando di fatti per nulla interessanti. Safiria sollevò gli occhi dal suo libro di scienze, annoiata. -Ben tornati.- Mugolò appena. Isobel le sorrise, lieta che quel pomeriggio l’avesse richiamata, e il padre si avvicinò per baciarla sulla testa: -Come ti senti?- Lei lasciò il libro sul tavolino e alzò le spalle: -Non ho più mal di testa. Però andrò a letto presto.- Isobel stacco un pezzo di polpettone dalla teglia per morderlo con gusto: -Adoro quando fai il polpettone!- Morgan si tolse l’elegante giacca per sedersi a tavola, servendosi: -Cucini il polpettone proprio come tua madre.- Nonostante il suo fare allegro, nella stanza calò un silenzio denso di nostalgia. Fu Saf a spezzarlo: -Ho già mangiato, ci vediamo domani.- E senza aggiungere altro, si diresse in camera. Sbarrò la stanza silenziosamente e si sedette alla scrivania, accendendo il pc. Con le dita tremanti digitò sul motore di ricerca: “Damian Lancaster”. Doveva farlo, adesso sarebbe stata molto più lucida e preparata davanti a quell’uomo. Sulla pagina principale apparvero vari link di diverse aziende, agenzie o contatti. Scorrendo ancora, sullo schermo spiccarono pomposi indirizzi e fotografie di grandi tenute delle campagne nella bella Italia, intestate alla famiglia Lancaster dal 1300. –Posso scommetterci, questa è la sua famiglia. E così quel Damian avrebbe sangue nobile, eh?... Chissà perché me l’aspettavo.- Alzò un sopracciglio, ironica. –Non puoi darmi torto, Mirtillo. Hai sentito come parla: presuntuoso, con quell’accento troppo aristocratico…- Mirtillo si limitò a strofinarsi sulle sue caviglie. Pare che il titolo nobiliare del Duca di Lancaster nell’epoca dei Plantageneti inglesi avesse radici proprio all’origine di quel cognome. Scorse le pagine, risalendo all’albero genealogico della famiglia. Era una lista interminabile di nomi che andavano a intrecciarsi e diramarsi in un complicato disegno. Safiria si concentrò, partendo dal lontano 1284. Molti nomi si ripetevano nelle generazioni: Lucas, Rodolf, James, Aron, Edward, Damian. Dopo qualche minuto arrivò alla fine dell’albero: i fratelli Tristan e Rodolf Lancaster, nati rispettivamente nel 1950 e nel 1956. Il maggiore era deceduto nel 2010. Saf aggrottò le sopracciglia e ricontrollò: l’ultimo discendente Lancaster con il nome di Damian era nato nel 1834, morto all’età di 4 anni nel tiepido Giugno italiano. Scosse la testa, scacciando i pensieri. Mirtillo le si strusciò nuovamente sulle caviglie nude, miagolando: -Lo so, sono solo troppo paranoica, gatto. Questo albero genealogico semplicemente non è aggiornato. Probabilmente hanno voluto nasconderlo, data la sua insolita situazione… O semplicemente non si tratta della sua famiglia.- Il batticuore inconfondibile le mozzò il fiato, annunciandole il tramonto. Si affrettò ad indossare la vestaglia, ansiosa. Quando fu sicura che ogni tenue raggio di sole si fosse nascosto dietro l’orizzonte, uscì sulla terrazza, accompagnata dal leggero ondeggiare delle tende mosse dalla brezza. L’autunno della gelida Alsazia si mostrava in tutti i suoi colori, rendendo infuocati gli alberi e bruna la terra. Safiria respirò a fondo, sedendosi sulla balaustra di ferro battuto e pietra, stringendo le ginocchia al petto. Mirtillo le si sedette affianco, guardando il giardino con fare altezzoso. Lei gli grattò sotto il mento, sorridendo appena: -Non sono in ansia. Arriverà, me l’ha promesso.- Quelle parole la rilassarono inaspettatamente. Chiuse gli occhi, ascoltando il rumore delle foglie sotto le carezze del vento. Passarono interminabili minuti prima che il suo naso sensibile percepisse il vellutato profumo di gelsomino che accompagnava Damian. Il suo cuore batteva freneticamente mentre si calava a terra. Si posò leggera sull’erba fredda, pochi metri distante dal suo ospite in arrivo. Damian avanzò di qualche passò ancora, sorridendole. -Buona sera, Safiria.- Aveva la voce più profonda che Safiria avesse mai sentito. Evitò il suo sguardo: -Non sapevo se saresti tornato.- Il giovane sollevò un sopracciglio scuro: -Avevo promesso che sarei tornato.- Sottolineò. Proprio un nobile. Safiria deglutì, rassicurata e spaventata da quella presenza nel suo giardino che pareva riuscisse a leggerle nella mente. Mirtillo gli trotterellò attorno, soffiando appena. Lei fece cenno verso destra: -Da quella parte c’è uno spiazzo abbastanza nascosto. Seguimi.- E si incamminò senza aggiungere altro. Il gatto nero, notò Damian, le gravitava attorno come un satellite, senza mai allontanarsi troppo. -Come si chiama il tuo gatto?- Lei non rispose ma Damian non si offese. -Anche io avevo un gatto. Era tutto rosso e anche molto pestifero. Pensa che- Safiria si voltò improvvisamente, lo sguardo di ghiaccio: -Non ho mai detto di voler fare conversazione, discutendo di cose inutili. Ti ho concesso di aiutarmi e di spiegarmi cosa sai, non di raccontarmi gli aneddoti della tua vita che reputi divertenti.- Lui spalancò gli occhi. Non che fosse arrabbiato, anzi, Safiria era in grado di suscitargli tenerezza anche in quelle situazioni; semplicemente era sbalordito dall’incredibile freddezza che la ragazza riusciva a esprimere senza mostrare altro. Doveva averci lavorato sodo per molto tempo… -Scusami, Safiria. Hai ragione.- Ammise lui, guardandola con l’espressione calma e distesa. Lei, dal suo canto, si sentì terribilmente stupida, si irrigidì ancora di più e aumentò il passo. -Mirtillo.- Damian inclinò la testa: -Scusami?- -Il mio gatto si chiama Mirtillo.- Damian sorrise osservando le spalle dritte della giovane davanti a lui. Safiria si fermò solo quando furono nel piccolo spiazzo d’erba tra grossi alberi. Su un lato, una struttura di legno sorreggeva un rampicante rigoglioso che quasi aveva nascosto la panchina scura. Safiria si strinse nella vestaglia e si sedette, accavallando le gambe: -Avanti, parla e vediamo se sei davvero chi dici di essere.- Lo guardò. Damian posò la sua borsa di tela al suolo e tirò fuori quella che sembrava una piccola torcia quadrata. -Questo si chiama spettro di luce.- Safiria non capì ma lasciò che il giovane continuasse. -Lo spettro di luce è in grado di riprodurre la luce solare, seppur con una minore intensità.- La ragazza si irrigidì, incrociando le braccia. -Perché hai quel coso?- Deglutì a fatica. Damian sollevò lo sguardo su di lei e sorrise: puntò l’oggetto contro il proprio avambraccio nudo e accese la luce. Safiria scattò in piedi. –Dannazione…- Sussultò Damian, cadendo in ginocchio. Il suo braccio prese a fumare lentamente, fino a che delle piccole striature rosse non apparvero sulla pelle. Safiria si avvicinò senza pensare: -Basta, smettila, smettila subito!- Damian spense l’oggetto e lo getto a terra, tornando a respirare. Safiria si inginocchiò davanti a lui: -Maledizione, ma sei impazzito?!- Era visibilmente scossa e i suoi occhi correvano sulle lievi bruciature del braccio di Damian. –Va tutto bene. Non preoccuparti.- Le sorrise lui, ancora ansimante. -Perché l’hai fatto?- Damian soffiò sulle bruciature ed estrasse una bottiglia dalla borsa di tela. Versò l’acqua fredda sulle ferite e fece segno alla ragazza: -Prendi quella crema bianca e le bende dalla borsa e aiutami.- Safiria non se lo fece ripetere e si apprestò a fasciargli l’avambraccio con delicatezza. Così vicini, Safiria notò dettagli di Damian che prima, con fugaci occhiate, non aveva scorto. Non riusciva ad indovinare la sua età, sembrava giovane e adulto allo stesso tempo; la sua pelle era scura, quasi ambata e della barba folta della notte precedente rimaneva solo l’ombra appena accennata; i capelli corti gli ricadevano disordinatamente sulla fronte come una fitta coltre bruna e i vestiti erano puliti, seppur lisi e scoloriti. Damian alzò lo sguardo su di lei, che si riscosse imbarazzata: -Hai fatto questa pazzia per convincermi, vero?- Non riusciva a crederci. –Si. E ci sono riuscito.- Rise lui. Safiria si allontanò e sospirò. -Ti credo, Damian Lancaster.- Lui si tirò su per poi sedersi sulla panchina, appoggiandosi allo schienale. -Credo sia il momento di raccontarti quello che mi accadde, allora.- Safiria si mise in ascolto, seduta a debita distanza. Damian chiuse gli occhi e cominciò a parlare.
-Avevo tre anni e stavo giocando con i miei fratelli, nella tenuta di casa mia. Eravamo fuori da ore e stavamo giocando a nascondino, un pomeriggio come tanti. Ricordo bene di aver visto quella figura bianca con il cappello seguirci per interi minuti. Sembrava volesse giocare con noi. Il primo a rivolgergli la parola è stato mio fratello maggiore, Aron.- Irrigidì la mascella. -Io e mia sorella vedemmo quella creatura muoversi velocemente nell’erba, avvolgere mio fratello come un serpente.- Safiria si avvicinò a Damian, le lacrime agli occhi. Ma lui continuò, una smorfia di dolore sul volto. -Sentii le urla di mio fratello mentre il fuoco cominciava a bruciare la sua pelle. La figura bianca lo spinse contro di noi, non so perché ma capii che saremmo vissuti al Chiaro di Luna per sempre. Mia sorella cercò di trascinarmi lontano ma non riuscivo a muovermi e piangevo, sentivo un dolore terribile. Non poté fare altro che lasciarmi e correre a chiamare aiuto. Quando tornò con i nostri uomini io e mio fratello stavamo bruciando.- Respirò a fondo, aprendo gli occhi e tornando a guardare Safiria. La giovane si asciugò velocemente le lacrime. –È davvero come ricordo… Non avrei mai pensato di sentire la mia stessa storia accaduta ad un altro.- Damian le sorrise. –È sempre terribile ricordare. Ma come vedi siamo vivi. E anche mio fratello è riuscito a sopravvivere.- Saf si abbracciò le gambe: -cosa successe dopo?- -Ci portarono dentro casa avvolgendoci dentro delle tende bagnate e il fuoco si spense velocemente una volta all’ombra. Rimanemmo immobili per mesi e mesi prima di riuscire a muoverci. La nostra pelle era piagata e i nostri visi irriconoscibili.- Safiria volse lo sguardo al cielo: -Poi la guarigione miracolosa.- Damian annuì e si guardò le mani. -Come è successo a te le piaghe divennero cicatrici sempre più sottili, poi lievi macchie, fino a sparire quasi del tutto. Ad ogni modo, mio fratello fu il primo ad alzarsi da quel letto. Ma non riuscì nemmeno a guarire che non appena uscì nel giardino riprese a fumare. Scappò dentro casa prima di prendere fuoco di nuovo. Ci dichiararono morti quello stesso anno per non rivelare nulla alla gente del paese.- Safiria si morse le labbra: -Terribile…- Damian sorrise: -In seguito non ce la cavammo così male. Vennero a cercarci e fummo affidati a persone competenti.- -Vennero a prendervi? Persone competenti?- Alzò le sopracciglia, Safiria. Damian si fece serio: -Io ora sono per te quella persona competente che tanti anni fa venne da me.- -E sei venuto a prendermi?- Sussurrò Safiria, gli occhi spalancati. -Non ho scelta se non quella di cercare chi ha la nostra stessa maledizione, Safiria. Uniti viviamo nel migliore dei modi, da soli deperiamo in fretta.- La giovane non credeva alle sue orecchie e si alzò per allontanarsi da lui: -Stai dicendo che mi porterai via? Che devo fidarmi di te e crederti quando dici che ci sono molte persone come noi laddove mi vuoi portare?!- Damian aveva lo sguardo serio e severo: -Credi ancora che io ti stia mentendo?- -Beh scusami se non credo ciecamente alle parole di uno straniero che non conosco.- Sibilò lei, incrociando le braccia al petto. -Mi sono ustionato un braccio per convincerti a fidarti di me!- Ribatté lui, alzandosi e raggiungendola. Lei alzò il viso per guardarlo negli occhi con la sua solita, fredda caparbietà: -No, ti sei ustionato un braccio per convincermi che abbiamo lo stesso problema, non per convincermi che sei affidabile.- Si guardarono negli occhi per qualche secondo, muti e stizziti, poi Damian sospirò e tirò su le sue cose, riponendole nel sacchetto di tela: -Direi che per oggi abbiamo finito.- Safiria lo seguì mentre raggiungeva a grandi passi il cancello. -Non abbiamo finito! Fermati e raccontami tutto.- Esclamò lei, affrettando il passo per raggiungerlo. -No, per stanotte è abbastanza.- -Ho detto fermati.- Ordinò lei, mettendosi fra lui e il cancello. Damian si fermò con la borsa sulla spalla, sospirando. -Io non sono sicura di volermi fidare di te, Damian. Ma in qualche modo non voglio che tu sparisca. Se esci da questo giardino come posso avere la certezza che tornerai?- Chiese lei, gli occhi lucidi. Damian meditò un attimo su quella domanda, poi allungò una mano e prese quella della ragazza. -Sei davvero testarda. Ti prometto che tornerò domani notte.- E le accarezzò la testa con dolcezza, salutandola. Safiria, dopo una attimo di smarrimento totale, si scostò, incrociando le braccia e facendosi da parte. Voleva scappare, o aggredirlo. Tremava come una foglia. -Allora vai.- Balbettò, contrariata. Lui sorrise e si allontanò dalla villa con il profumo di lavanda dei suoi capelli ad accompagnarlo. Mirtillo, dai cespugli, fissò lo straniero con gli occhi gialli densi di curiosità. 
  
Safiria lo guardò sparire nella vegetazione. Sentiva le guance bruciarle per l’imbarazzo e si morse le labbra nervosamente, trattenendo le lacrime. Come aveva potuto anche solo sfiorarla in quel modo? Si sentiva profondamente a disagio e scosse la testa per scacciare le sensazioni opprimenti che le avvolgevano la mente. Sentiva il calore della mano di Damian e il suo profumo addosso, tra i capelli. Doveva farsi una doccia e tornare come prima. Si voltò in fretta e corse in camera, salendo agilmente sull’albero. Chiuse a chiave tutte le porte e le finestre, in un rituale nuovo ma necessario. Si spogliò e si sedette nella vasca vuota, aprendo l’acqua il più bollente possibile. Strofinò a lungo la pelle nivea prima di riuscire a cancellare l’odore penetrante di Damian. Gettò nella cesta i suoi vestiti e prese una maglia bianca. Rimase ferma a guardarla: la maglia di sua madre. Se la rigirò nelle mani e sorrise. Era la sua preferita, lunga e morbida. Safiria la indossò con riverenza lisciandola sui fianchi: -Mamma, sono così spaventata…- Trattenne le lacrime e si abbracciò le spalle, in silenzio. Si sdraiò sul letto ripensando a quanto la sua vita fosse impazzita, a come le sue certezze stessero pian piano sgretolandosi nel passato. Il grattare insistente di Mirtillo sul balcone la riscosse solo qualche ora dopo e lei si affrettò ad aprirgli: -Mi dispiace gatto, mi ero completamente dimenticata di te. Sei sparito prima, dove sei stato?- Il micio saltò sul letto e si acciambellò sul cuscino, facendo le fusa. Saf si rigirò una ciocca tra le dita, agitata, mentre con un ultimo sguardo si soffermava sul giardino buio.

Quando Damian raggiunse la vecchia canonica trovò Aron sulla porta, lo sguardo fiammeggiante. Lo trascinò dentro, tempestandolo di domande. -Parla Damian, cosa hai fatto?- Ringhiò per l’ennesima volta Aron. Damian non accennò a rispondere mentre si teneva stretto il braccio per non mostrarlo al fratello maggiore. -Rodolf, ti leggo in faccia che l’hai aiutato, qualsiasi cosa questo stupido abbia fatto. Parla!- Lo zio sussultò, incrociando le braccia: -Non tirarmi in mezzo, Aron. Non mi impiccio degli affari di tuo fratello, per chi mi hai preso?- -Dannazione, state ordendo un complotto contro di me? Parlate, o sarò costretto a trarre risposte in un’altra maniera!- Damian tremò nel profondo a quelle parole e si sedette sulla branda: -Parlerò. Ma voglio la tua parola che ascolterai senza giudicare.- Aron si quietò, osservando il fratello dall’alto, e annuì. Damian srotolò seccamente le bende e mostrò al fratello le bruciature. -L’ho convinta a fidarsi di me.- Sapeva che era una mezza bugia ma non poteva permettersi di dire il vero: Aron era impaziente di natura. E aggressivo. -Ho usato uno spettro di luce per mostrarle gli effetti. Ora mi crede, verrà con noi.- Aron strinse gli occhi a due fessure: -Perché sei arrivato a tanto? Una giovane Bestia della Luna non deve essere un ostacolo per la nostra causa, se fa la difficile bisogna agire di conseguenza.- Guardò di nuovo il braccio segnato di Damian e il suo sguardo si fece meno duro: -Hai percepito qualcosa vero?- Damian si irrigidì. Non aveva sentito assolutamente nulla di diverso rispetto agli altri esemplari che avevano conosciuto. –Il suo nome è Safiria. Credo sia quello che stiamo cercando da tempo.- Mentì. Aron sorrise: -Lo sapevo! Fratello, sono fiero di quello che hai fatto. Ero sicuro che non avresti mai escogitato una cosa così stupida senza un motivo valido come questo.- Damian sorrise di rimando. Già, perché fare una cosa così stupida solo per convincerla? Non era mai arrivato a tanto per convincere un esemplare a seguirlo ma con Safira era diverso. Voleva che partisse con loro ed era un desiderio totalmente egoistico. Rodolf gli diede una pacca affettuosa sulla spalla: -Anche io sono orgoglioso di te. E sono sicuro che anche tuo padre lo sarebbe.- Damian lo guardò dispiaciuto. Si alzò e scrutò tra gli spiragli della finestra la notte scura: -Tristan mi avrebbe capito molto meglio di quanto mi stia capendo da solo, in questo momento.- Sussurrò. Rodolf non seppe cosa rispondere. Poco lontano dalla canonica, Damian vide la figura nera di Mirtillo osservarlo, gli occhi gialli luccicanti. Il giovane sollevò un sopracciglio, sorpreso, ma sorrise: -Ti conviene tornartene a casa, prima che ti faccia fuori, gatto impiccione.- Mirtillo sbadigliò e trotterellò da dove era venuto.
       
​Ed eccoci qui! Grazie a tutti quelli che sono arrivati fino a qui, è grazie a voi che continuo a pubblicare! Ammetto che per un momento ho pensato di interrompere la pubblicazione, molti impegni mi riempono le giornate di lavoro e la testa di pensieri... Ma finché lettori impavidi leggeranno questa storia non ho intenzione di mollare! Grazie davvero di cuore e mille baci, Frida.

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Capitolo 6
*** 6 ***


Morgan Hall rientrò velocemente in camera, chiudendosi la porta alle spalle. Sospirò, premendosi le dita sulle tempie. Il viso curato non rivelava i suoi cinquant’anni, solitamente: quella sera invece, li dimostrava tutti. Raggiunse il telefono poggiato sulla scrivania e compose quel numero che ormai conosceva a memoria. –Pronto?- La voce attenta e calma di Cloude lo raggelava ogni volta. Era sempre sveglio, anche quando lo chiamava a notte fonda. –Cloude, anche questa notte Safiria è stata fuori a lungo. Ho cronometrato, un’ora e ventitré minuti.- Lo sentì sospirare. –Questo pomeriggio ho installato una videocamera di sorveglianza dietro le tende della sua stanza. L’ho osservata uscire e rientrare.- Morgan raggelò: -I patti non erano questi… Non voglio che sia messa in gioco anche la sua privacy, non è affatto corretto.- -Signor Hall, lei mi ha chiesto di aiutarla a sorvegliare Safiria e visto che vostra figlia mi sta particolarmente a cuore, lo sto facendo nel modo più accurato possibile.- Morgan non poté contraddirlo. –Se davvero qualcuno sta comunicando con lei, non posso tralasciare l’ipotesi che ci siano i Cacciatori dietro tutto questo.- Quello che Morgan temeva di più stava accadendo? I Cacciatori gli avevano trovati? -E cosa possiamo fare per impedirgli di avvicinarsi ancora?- Cloude stette in silenzio per qualche minuto e nella stanza il tempo sembrò dilatarsi. Morgan sapeva cosa avrebbe voluto rispondere Cloude: portare Safiria lontano, nascosta e… Imprigionata. La sicurezza di sua figlia era la priorità dopotutto, la libertà le era stata negata tempo addietro. Quale sarebbe stata la cosa giusta da fare? –Per adesso, non le permetta più di uscire da quella stanza. Con una certa discrezione, ovviamente… Io proporrei di scovare chi la sta importunando e fare in modo che non sia più una minaccia.- Rispose Cloude, infine. –Stai dicendo che vorresti far fuori tutti i Cacciatori della Gilda? Sai bene quanto sia vasta, eliminerebbero te prima di farti trovare una pista.- Cloude sospirò: -No, certo non posso attaccare la Gilda li dov’è più forte. Però posso colpire i loro seguaci uno ad uno.- -Risaliranno a te. Lo scopriranno.- Cloude rise sprezzante: -Mi sta sottovalutando, Signor Hall. Lei pensi a finanziarmi, il resto lo lasci a me. Safiria è l’unica cosa che conta, per me. L’unica cosa che conta.- E riattaccò. Morgan si sedette sul letto tenendosi la testa tra le mani. Quell’uomo era un folle ma mai come in quel momento aveva bisogno di lui.

Safiria non dormì affatto, quella notte. La mattina non provò neppure ad alzarsi dal letto, la testa pesante e le gambe rigide. Isobel bussò a vuoto parecchio prima di stancarsi e lasciar perdere la sorella. Safiria sentì i due uscire di casa, rumorosamente, poi il silenzio. Si rigirò fino a quando il suo stomaco non la costrinse a scendere in cucina. Mirtillo la seguì paziente, questa volta senza insistere per avere il cibo. La giovane, chiusa in se stessa, era riuscita a zittire ogni pensiero fino a quel momento.  La vista del suo riflesso nel grande specchio del soggiorno, però, la riscosse. Corse in cucina, una mano premuta sulla bocca, sconvolta. Poi, come il rompersi di una diga, tutta la tensione di quelle notti le rovinò addosso. Il peso era insopportabile, aveva la nausea. –Dannazione, dannazione!- Safiria sbatté le mani sul bancone, le lacrime che le sgorgavano copiose dagli occhi azzurri. Si accasciò al suolo, piangendo come da tempo non faceva. I singhiozzi erano così forti da scuoterle il petto, fino a farlo dolere. Perché succedeva? Perché la sua vita non poteva essere come quella di tutti gli altri? Chi doveva ascoltare? Cosa doveva fare? Il senso di solitudine e smarrimento la schiacciava: sola, sola contro tutto il mondo. Da una parte la sua famiglia, l’uomo che amava, la sua casa, i ricordi di sua madre; dall’altra uno sconosciuto, un mondo di cui non sapeva nulla, in cui non sapeva se credere, un’illusione che diveniva una strana realtà. Quando sarebbe arrivato il momento, cosa avrebbe fatto? Che strada avrebbe intrapreso? Lasciare ogni sua certezza, il luogo che le aveva permesso di vivere… Per cosa? Anche se cercava di negarlo sapeva, nonostante tutto, che l’avrebbe fatto: avrebbe lasciato tutto pur di vivere una vita diversa. Anche se dovesse attenderla la morte, alla fine della strada. Quando le lacrime smisero di uscire e il suo corpo si fermò dal tremare, Saf si alzò, come un automa, si pulì il viso e si apprestò a svolgere le sue mansioni quotidiane. Quel pomeriggio rimase seduta sul divano, fissando la televisione accesa senza vederla. Avrebbe atteso Cloude per la lezione delle cinque, avrebbe finto che tutto andasse bene. Ma quando il professore suonò alla porta, non riuscì a muoversi. Perché avrebbe dovuto? Come poteva fingere quando quell’uomo meraviglioso le donava il suo tempo? Tanto, se ne sarebbe andata, non meritava la sua attenzione. Cloude continuò a suonare per alcuni minuti. Poi Saf sentì un rumore di chiavi e si alzò di scatto. Cloude spalancò la porta, il volto adombrato dalla preoccupazione. Quando i suoi occhi incontrarono quelli di Safiria sembrò rilassarsi ma non accennò a muoversi. Safiria lo fissò: -Perché lei ha una chiave di casa mia? Da quando ne ha una?- Cloude si morse l’interno della guancia, a disagio: -è una precauzione, nel caso accadesse qualcosa…- Safiria indietreggiò involontariamente: -Mio padre non me ne ha parlato. Me lo avrebbe detto, sono sempre sola in questa casa, per la mia sicurezza il patto era che solo lui e Isobel avessero una copia della chiave.- Safiria sentiva che qualcosa non andava. Cloude le nascondeva la verità e questa era una certezza che la feriva. –Non farne una tragedia, è solo una chiave!- Sorrise il professore. Safiria alzò il mento: -Oggi non voglio fare lezione.- -Non sei malata, questo è sicuro. Non vedo perché non dovremmo fare lezione.- Alzò un sopracciglio lui. Quando chiuse la porta dietro di se, Safiria deglutì, a disagio. –Questa è casa mia. Vorrei essere io a decidere, per favore.- Cloude si avvicinò, lo sguardo dolce. Safiria si sentì avvampare: quegli occhi non avrebbero mai smesso di farle quell’effetto? Lui le prese la mano, avvicinandosi ancora. –Non essere così arrabbiata con me, mi ferisce profondamente.- La sua voce era miele. Saf annuì, incapace di muoversi. Lui continuò con quel tono dolce, come se parlasse ad un bambino: –Andiamo a fare lezione, poi non mi avrai più fra i piedi.- Saf si sentì stupida. Si stava comportando come una pazza, sicuramente Cloude non avrebbe mai avuto cattive intenzioni, lui non sapeva nulla di tutta questa storia, voleva solo il suo bene. Saf sospirò, passandosi le dita tra i capelli: -Mi scusi, non so cosa mi sia preso. Sono solo molto stressata.- Cloude si avviò verso il salotto, senza dar peso a tutto ciò: -Non ti preoccupare, le giornatacce capitano a tutti. Ora veloce! Prendi il libro di letteratura inglese, ultimo capitolo.-

Damian si svegliò di soprassalto, invaso da un senso di pericolo come da tanto non lo sentiva. Aron era sdraiato accanto a lui, addormentato. Doveva essere tardo pomeriggio e da li a poco il sole sarebbe calato. Si tirò a sedere, madido di sudore. Nella stanza non c’era nulla di anomalo. Scrutò con non poca difficoltà l’esterno della canonica dalle fessure delle finestre, tutto era al suo posto. Tornò a sedersi, scolando mezza bottiglia d’acqua in una sorsata. Probabilmente stava sognando, si disse. Non riuscì più a prendere sonno e aspettò l’arrivo della notte. Rodolf rientrò poco dopo il tramonto, portando la colazione ai due nipoti. Damian scosse Aron con poca gentilezza e questo lo fulminò con lo sguardo: -Sono sveglio, non c’è bisogno che mi stacchi una spalla.- Come se fosse possibile. Aron era molto più grosso di lui. E più forte. Mangiarono in silenzio, poi Damian si apprestò ad uscire, diretto a villa Hall. Aron lo osservò: -Fai il tuo dovere. E non deludermi, fratello.-

-------------- Dopo una lunghissima, lunghissima pausa, ecco un nuovo capitolo! Purtroppo sono successe tante cose e ho dovuto lasciare da parte questa storia, nonostante mi stia tanto a cuore. Spero di essere nuovamente attiva e di riuscire a pubblicare un capitolo a settimana! Grazie a chiunque sia giunto fino a qui, Frida

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Capitolo 7
*** 7 ***


Safiria terminò di cenare lentamente, senza fretta. Sapeva che quella sera Damian si sarebbe ripresentato. Ma quanto sarebbe stato disposto ad aspettare, prima di portarla via? Safiria si strinse su se stessa, sentendo lo stomaco contorcersi. Sarebbe accaduto prima o poi, Damian l’avrebbe portata via con se. E lei l’avrebbe accettato senza fiatare. Quando fece per alzarsi, Morgan la fermò. L’aveva osservata per tutta la cena. –Isobel, vai in camera tua.- La sorella maggiore si voltò verso Safiria con un’espressione interrogativa ma fece come il padre le aveva ordinato. –Va bene… Buonanotte Saf.- E cercò di sorriderle. Safiria ricambiò senza entusiasmo, attese che la sorella se ne fosse andata, poi si voltò verso suo padre, lo sguardo imperturbabile. –Safiria, dobbiamo discutere di una cosa molto importante. Anche se avrei preferito che tu me ne avessi parlato molto tempo fa...- Saf capì all’istante ma lasciò che il padre continuasse. –Da mesi ormai sono a conoscenza delle tue uscite notturne.- -Non sono mai uscita dal confine del giardino. Non provo a scappare.- Morgan annuì: -Lo so. Perché non me ne hai parlato?- Saf si abbandonò sullo schienale: -Cosa potevo dirti? Non avresti mai approvato, hai troppa paura che io cerchi di andarmene. Avresti blindato la porta finestra della mia camera. E qualsiasi altra uscita.- Morgan si sentiva un padre terribile. Non poteva in alcun modo difendersi da quelle accuse, erano tutte vere. Ma adesso, doveva trovare il modo di non permetterle più di uscire, come Cloude aveva detto. Non senza fatica, Morgan si alzò e fissò sua figlia negli occhi: -Proprio così, ho paura che tu te ne vada. Per questo non posso permettere che questa cosa vada avanti. Per il tuo bene, non uscire più dalla tua camera. O sarò costretto a chiuderla a chiave, come tu hai detto.- Safiria da subito non fece una piega. Rimase a fissarlo in silenzio, senza muoversi. Poi parlò, con una calma quasi inquietante: -Uscirò comunque. In un modo o nell’altro uscirò da questa casa ogni notte. Che ti piaccia o no.- Morgan strinse i denti. Sapeva che sarebbe stata testarda e sapeva che, probabilmente, a spingerla all’esterno era il suo desiderio di rivedere quelle persone che tanto volevano portarla via. Cloude aveva ragione, doveva impedirlo. –Non mi lascerai altra scelta, Safiria. O rispetti la mia decisione o rimarrai chiusa nella tua stanza tutta la notte, dal tramonto all’alba.- Safiria continuò a sostenere lo sguardo del padre, che perse le staffe. Sposto rumorosamente il tavolo e prese la figlia per un polso. Safiria non tentò di resistere, suo padre la trascinò su per le scale senza troppo sforzo. La spinse in camera e la portò alla porta finestra. Davanti ai suoi occhi girò la chiave di ottone nella serratura e una volta estratta se la infilò in tasca. Lasciò la figlia e andò nel piccolo bagno. Safiria sentì scattare la chiave anche in quella finestra. Morgan cercò di calmarsi e guardò Saf, ancora immobile, seduta sul letto. –Questo potevi evitarlo. Potevi evitare di farmi fare questo, Safiria.- Poi uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Per un ultima volta, Saf sentì la chiave ruotare nella serratura. Poi il silenzio.

A una trentina di chilometri da Villa Hall, in un anonimo appartamento di un anonimo condominio, Cloude assistette a tutta la scena, illuminato solo dalla luce lattiginosa del computer. Attraverso le tende scure, sul monitor apparve Morgan Hall, intento a chiudere Safiria in camera. Il professore si avvicinò allo schermo e un sorriso soddisfatto si profilò sul suo volto.

Safiria non si alzò dal letto per parecchio. Rimase a pensare al gesto di suo padre, cercando di comprenderlo. Perché aveva atteso mesi per poi rinchiuderla? Che fosse a conoscenza dei suoi recenti incontri con Damian? Cercò di riflettere, di trovare una soluzione. Lasciò che il suo sguardo vagasse per la stanza ma il tempo passava e non aveva idee valide. Ormai era chiaro che le sarebbe toccato scassinare la serratura. Dopotutto suo padre aveva dimenticato che aveva ancora a disposizione internet e di certo avrebbe trovato dei tutorial validi. “Proprio così, ho paura che tu te ne vada.” Una piccola fitta al cuore. Quasi le venne da sorridere, tanto quella situazione le sembrava tragica.  D’un tratto, sentì dei colpetti al vetro della porta finestra. Si voltò di scatto. Le tende erano tirate ma sapeva perfettamente di chi fosse l’imponente ombra al di là di esse. Andò alla porta e aprì uno spiraglio, deglutendo: Damian. Lui le rivolse uno sguardo interrogativo, alludendo alla porta chiusa. Saf scostò le tende e gli fece segno di non poter uscire. Damian sorrise e, anche lui mimando, le chiese di aspettare. Frugò in tasca, lo sguardo concentrato, per poi dedicarsi alla serratura. Safiria osservò la sua testa china, le spalle ricurve sulla porta e si sentì improvvisamente meno sola. Dopo qualche secondo si udì uno scatto e la porta si aprì. –Devo dire che questa casa non è particolarmente sicura. Chiunque sarebbe riuscito a scassinare questa serratura.- Sussurrò lui, entrando silenziosamente nella stanza. Safiria lo lasciò passare: -Lo avrei fatto da me, se tu non fossi arrivato fin qui.- Si voltò verso di lui, che già stava curiosando nella stanza. –Allora sei ricca.- Ghignò. Safiria alzò gli occhi al cielo. –Guarda che baldacchino. Insomma, un vero pezzo d’antiquariato. Non ne vedevo uno così dal mille…- Si fermò. Quando si voltò verso la ragazza, lei già lo stava fissando con sguardo interrogativo: -Mille e?- Lui si grattò la testa. –Hai paura che io scopra quanti anni hai?- Inarcò un sopracciglio lei. –Io ne ho diciannove. Quasi venti, a dire il vero.- -Avrei giurato che tu fossi più vecchia.- Scherzò. Lei non fece una piega, non capendo che fosse una battuta: dopotutto, l’unico suo criterio di paragone era Isobel, che non sembrava più vecchia di lei nonostante lo fosse. Se Damian le aveva dato più anni di quelli che aveva, non significava nulla. –Non hai risposto alla mia domanda.- Continuò. Damian sapeva che rivelarle la sua data di nascita l’avrebbe scossa, quindi cercò di cambiare discorso: -Perché sei chiusa in camera tua?- Saf si morse il labbro. Damian percepiva la sua tensione. –Mio padre è molto protettivo con me. Sa che esco di casa la notte e ha deciso che la cosa non poteva continuare.- Damian annuì, a disagio. Dopotutto, poteva capire il padre di Safiria e anzi, ammirava che si preoccupasse per lei; nella sua infanzia, pensò, nessuno si era mai preoccupato troppo. –So che cerca di proteggermi. Se non fosse stato per lui, penso me ne sarei già andata. O forse sarei morta… è difficile dirlo.- Damian incrociò le braccia: -Dopotutto per quello che sa lui devi solo stare lontana dal sole. C’è di peggio nella vita che non potersi abbronzare.- Safiria alzò le spalle: -Penso tu abbia ragione. Forse se abitassi in una grande città e avessi molti amici, non finirei più per impazzire.- Si guardò intorno, stringendosi le braccia attorno al petto: -Penso che la mia vita sarebbe diversa se mia madre fosse viva. Mio padre non sarebbe così apprensivo e non si ostinerebbe a rimanere in questa casa, in questo stupido, piccolo paesino pieno di pregiudizi e… Che stai facendo?- Damian si era bloccato improvvisamente e annusava l’aria nella stanza. Quasi del tutto coperto dal profumo di Safiria, si avvertiva un odore pungente, quasi metallico. Seguì l’odore, dalla porta fino al baldacchino, poi accanto alla scrivania. –Qualcuno è stato in questa stanza.- Saf lo guardò senza capire: -Mio padre. Mia sorella Isobel, spesso.- Damian scosse la testa. Era un odore intruso, ne aveva sentiti tanti come quello. –Non è tuo padre. Men che meno tua sorella.- La traccia olfattiva era rimasta chiara laddove l’intruso si era appoggiato. –L’unico che è entrato, escludendo loro, è il mio insegante privato.- Damian imprecò. Come al solito, quei tizi invadenti erano riusciti a raggiungere l’esemplare prima di lui, anche in un posto piccolo e sperduto come quello. –Sono sempre un passo avanti a noi, è frustrante!- Si voltò verso la ragazza: -Devi venire via con me. Stanotte.- Safiria rimase impietrita. Era troppo presto! Non si aspettava un ordine simile, così improvviso. –Sicuramente sanno già che sono qui…- Bisbigliò lui, frugando tra i libri. Aprì i cassetti, sollevò i cuscini e scosse le tende. Con un piccolo tonfo, la microcamera cadde a terra, scivolando dal suo riparo. Safiria la fissò, gli occhi sbarrati. Non si mosse quando Damian la calpestò con forza, frantumandola. Cloude. Il professor Cloude l’aveva messa li. Quella consapevolezza le trapassò il petto dolorosamente. Perché? Perché voleva spiarla? Sapeva dei suoi incontri con Damian? Safiria sentì il suo corpo divenire gelido, senza forze. Perché? Le gambe cedettero e non riuscì a controllarsi. Perché Cloude? Damian si affrettò ad afferrarla, prima che raggiungesse il suolo, rischiando di sbattere la testa. Lui approfittò di quel momento per trascinarla fuori dalla stanza. La fece sedere sulla terrazza, la schiena poggiata alla balaustra. Lei rimase immobile, lo sguardo vuoto. Il giovane rientrò in camera e cominciò a frugare: una sacca, i pochi vestiti di Saf vi entrarono senza sforzo, il cappotto e gli stivali. A Saf non sarebbe servito altro. Ignorò il cellulare nero, consapevole che avrebbero potuto rintracciarla. Si caricò la sacca in spalla e tornò da Safiria: -Ora devi ascoltarmi, Safiria.- Lei spostò lo sguardo su di lui, senza espressione. –Dobbiamo andarcene. Persone molto poco affidabili potrebbero trovarci, non escludendo che potrebbero già essere qui. Dobbiamo portarti in un luogo sicuro, adesso.- Sentenziò. Un colpo provenne dalla camera e Damian si voltò di scatto, frapponendosi fra la ragazza e la portafinestra. Morgan Hall, ansante, apparve sulla soglia, il telefono ancora stretto nella mano destra. –Safiria, fermati!- Il suo richiamo era più una supplica che un ordine. Gli occhi di Morgan saettarono su Damian, terrorizzati: -Ho già chiamato… la polizia!- Il giovane espirò, comprendendo che l’uomo non era uno di quei bastardi, era il padre. Per un attimo ebbe una stretta allo stomaco: stava portando via una figlia a quel pover’uomo. –Safiria vieni qui!- Gridava Morgan. Damian scosse la testa e si voltò verso la ragazza. Non aveva tempo di esitare. –Andiamo, Safiria.- Lei non rispose ma oppose una lieve resistenza. Damian le tolse le mani di dosso, indietreggiando di un passo: -è una scelta tua, hai ragione. Ma cerca di scegliere in fretta e fai la cosa giusta, te lo chiedo per favore.- Il tempo per Safiria si fermò. Guardò suo padre avvicinarsi ed ebbe l’impulso di colpirlo. Morgan le afferrò il polso, incitandola a tornare in casa. Lei guardò quella casa, quella prigione densa di meravigliosi ricordi. Ripensò alla sua infanzia, a Isobel, a sua madre. Quasi senza accorgersene, i suoi occhi cercarono quelli di Damian e quando incontrò quello sguardo serio capì: aveva già deciso. Si divincolò dalla stretta del padre: -Tu sapevi di Cloude.- Era un’accusa, senza timore né dubbio. Morgan strabuzzò gli occhi. Cercava le parole ma Safiria non aveva bisogno di ascoltarne nemmeno una: - Addio papà.- Damian le fu accanto e lei lasciò che lui la sollevasse, prendendola in braccio. Morgan corse verso di loro, cercando lo sguardo di sua figlia. Saf gli rivolse un ultimo sguardo vuoto, tanto freddo da inchiodarlo al suolo. –Saluta Isobel da parte mia.- Impotente, Morgan fissò la schiena di quell’uomo che gli stava portando via tutto. Damian scavalcò la balaustra e si lasciò cadere, incredibilmente, atterrando senza sforzo sull’erba umida. Saf non era abbastanza in sé nemmeno per stupirsi di quell’azione disumana. Lui si guardò attorno e, nascondendosi nell’ombra, avanzò verso il bosco. Si tenne lontano dalla strada, cercando di non fare rumore. Sentì una macchina sgommare verso villa Hall solo parecchi minuti dopo, quando già era in vista della chiesa. Probabilmente si trattava dell’osservatore proprietario di quella microcamera. Spalancò la porta della canonica e Rodolf scattò in piedi, lanciando un gridolino. –Dobbiamo andare. Ora!- Esclamò lui. Safiria sobbalzò contro il suo petto, riscuotendosi. –Cosa… Che posto è questo?- Si divincolò, allontanandosi di colpo da Damian. Lui non la stava guardando, cercando di recuperare tutte le loro cose per non lasciare alcuna traccia. –Dov’è Aron?- Chiese, la voce bassa ma autoritaria. Rodolf si sbrigò ad aiutarlo: -A est. Ha detto che sarebbe rimasto a pattugliare la strada.- -Allora sarà qui a breve. Avrà visto di certo qualcuno di quei bastardi. È passata una loro auto pochi minuti fa.- Rodolf annuì, correndo fuori dalla canonica con le borse in spalla. Safiria, rimasta a bocca aperta, non capiva più nulla. Era stato tutto così veloce che non sapeva come reagire. Damian sembrò solo allora accorgersi di lei. Il suo sguardo si addolcì nel vederla in quello stato: era sconvolta, gli occhi sgranati, le labbra e le spalle che tremavano e si torceva le dita spasmodicamente. La circondò con un braccio, spingendola fuori con delicatezza. Un’auto nera inchiodò di fronte a loro e Aron si sporse dal finestrino: -Non c’è tempo da perdere! Damian!- Lui spalancò la portiera posteriore e si trascinò dietro Safiria. Poco prima che la portiera si richiudesse dietro di loro, una sinuosa figura nera si infilò nell’auto. Aron spinse sull’acceleratore. -Maledizione, gatto!- Imprecò Damian quando Mirtillo si accomodò sulle gambe di Safiria. Lei lo strinse a se, sconvolta e Damian la fissò preoccupato. –Safiria, andrà tutto bene.- Lei lo guardava senza vederlo. Rodolf, sul sedile del passeggero, si reggeva terrorizzato, gridando ogni qual volta Aron imboccava una curva ad una velocità impressionante. La macchina sfrecciò per tutta Turckeheim fino ad imboccare una strada secondaria, diretta verso sud. –Dovremo sparire dalla circolazione per un po’, ma non mi preoccuperei.- Sentenziò Aron. Damian annuì: -In casa c’era solo una microcamera. Doveva esserci un solo osservatore, non ho sentito l’odore di nessun’altro.- Rodolf sospirò, sentendo la macchina rallentare ad una velocità più rassicurante: -Oh allora pensate di tornare in Italia per un po’?- Damian sollevò un sopracciglio: -Nessuno ha parlato dell’Italia!- -Beh, siamo già sulla strada. Se non è necessario tornare a rintanarci in Norvegia, perché non prenderci una vacanza!- Aron si intromise, abbaiando di tacere. Nella macchina cadde un silenzio teso e fu lo stesso Aron ad interromperlo: -Andremo in Italia. Ma ci tratterremo solo qualche settimana.- Rodolf esultò mentre Damian si accasciava sempre di più tra i sedili di pelle. –Chiedo scusa- La voce atona di Safiria stupì tutti. Damian si voltò verso di lei, che fissava il finestrino. –Posso sapere dove siamo diretti? Cosa c’è in Italia?- Aron aprì la bocca per rispondere ma Damian sbatté un piede sul suo sedile: -Presentati, Aron. E sii gentile con Safiria, per favore.- Il fratello maggiore irrigidì i muscoli per qualche secondo, come se fosse pronto a strangolare Damian. Poi, inaspettatamente Aron allungò una mano dietro di sé: -Sono Aron, il fratello maggiore di Damian. è un piacere conoscerti.- Safiria rimase a guardare la mano, contrariata, senza comunque aspettarsi una risposta. Infine la strinse, non senza sospirare. –E io sono lo zio Rodolf! Rodolf Lancaster.- Si girò lo zio. Safiria strinse anche la sua, poi tornò ad abbandonarsi sul sedile, accarezzando Mirtillo, addormentato sul suo grembo. –Come ti senti?- Saf alzò gli occhi su Damian: -Tu come pensi che mi senta?- -Mi spiace che tu debba vivere  tutto questo.- Saf si sentiva sfinita. –Non so che cosa mi sia saltato in mente decidendo di seguirti.- Sussurrò, gli occhi che si riempivano di lacrime. Damian non rispose, sentendosi dannatamente in colpa. Era stato lui, lui e le sue percezioni, a portarli li. Saf chiuse gli occhi, appoggiandosi alla portiera, lontano da lui e dal suo profumo. Per un po’, si lasciò cullare dal movimento dell’auto, poi si addormentò.




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