Si vive d'istanti e d'istinti, ma anche distanti e distinti...

di mari05
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** è inutile se porti l'orologio se poi il tuo ritardo è mentale ***
Capitolo 2: *** il peggior errore di un uomo? Lasciare che sia un altro a far ridere la sua donna ***
Capitolo 3: *** Circondatevi di pizze, non di persone ***
Capitolo 4: *** Non lasciare che niente ti scoraggi. Persino un calcio in culo ti spinge in avanti. ***



Capitolo 1
*** è inutile se porti l'orologio se poi il tuo ritardo è mentale ***


 

è inutile se porti l'orologio se poi il tuo ritardo è mentale

 
Sua madre bussò proprio nel momento più sbagliato.


Mai Percy si sarebbe fatto vedere con le lacrime agli occhi, davanti ad un libro di biologia. Mai. Ma fu proprio quello che successe.
Sally aprì la porta della camera del figlio per dirgli se voleva qualcosa da mangiare, e lo trovò con la testa chinata sul volume, mentre cercava di farsi entrare in testa tutti i concetti che un ragazzo normalissimo avrebbe capito al momento, ma che lui doveva evidenziare, rileggere, analizzare e sottolineare prima di comprenderne qualcosa.
“Percy… che succede?” chiese la signora Jackson preoccupata.
Si fiondò dal figlio, che intanto si asciugava le lacrime e si scostava un po’ da lei. Non doveva far capire di star tremando.
“Non è niente… è solo che…” guardò il libro di biologia con odio prima di ritornare a piangere.
“Ѐ difficile?” domandò comprensiva Sally, mentre con fare protettivo lo abbracciava.
10 mesi. Per 10 mesi suo figlio era stato via, a combattere con ogni sorta di mostro sul globo terrestre, e ora si preoccupava per uno stupido argomento di biologia?
“Vuoi che ti aiuti?”, sollecitò prima di sedersi accanto a lui, su una sedia che prima era stata accanto alla porta e su cui di solito si sedeva Annabeth quando veniva.
Percy annuì.
“Allora… hai già sottolineato quello che hai capito e non capito?” era un metodo che Percy usava da anni, ormai. Sottolineava di rosso tutto quello che non capiva, dalle parole più difficili ai discorsi più complessi, e di blu quelli che invece sarebbe stato in grado di spiegare.
“Sì… ma non è andata molto bene” disse sorridendo lui, mostrandole il libro, che era interamente sottolineato di rosso.
Sally ridacchiò.
“fammi leggere un attimo e poi te lo spiego, okay? Di solito i libri tendono a mettere vocaboli un po’ troppo difficili” disse per rincuorarlo, anche se sapeva che per un ragazzo di diciassette anni un semplice paragrafo di qualsiasi libro sarebbe stato facilissimo da interpretare.
Mentre leggeva attentamente il testo, Sally si accorse che Percy continuava a guardarsi attorno come se fosse entrato lì per la prima volta: si metteva a giocherellare con la matita e le pagine di quaderno, controllava il telefono*, disegnava e muoveva in continuazione le gambe.
Forse dovrebbe ricominciare a prendere le pillole, pensò. Tanto tempo prima, Percy prendeva delle medicine per aiutarlo a concentrarsi, ma aveva smesso perché ogni volta che ne prendeva una si sentiva teso e sempre all’erta.
“A questo servono”  aveva detto la signora Jackson quando il figlio le aveva detto che non le avrebbe più prese.
Percy allora aveva sbuffato e detto: “Io quella roba non la prendo.”
Sally aveva annuito e risposto: “Se ti fa stare meglio…”
Ora, in quel momento, la signora Jackson stava seriamente pensando di ridargliele. Non si era mai accorta di quanto fosse distratto suo figlio. Cioè, sapeva che per lui era molto difficile, ma nell’ultimo mese era peggiorato parecchio.
Finito di leggere, posò il libro sulla scrivania ma, prima di spiegarne il contenuto, si avvicinò di più a Percy, gli mise una mano sulla sua spalla e con fare comprensivo disse: “E se ricominciassi con le medicine?”
Percy si immobilizzò. “No, mamma.” replicò con sicurezza.
“Ma cosa c’è che non va?” ribatté la signora Jackson, alzando il tono di voce.
“Te l’ho già detto cosa c’è che non va!” Percy scattò in piedi, arrabbiato, “mi fanno stare male”.
“Non è vero, Perseus,” sentenziò lei, decisa, alzandosi in piedi, “in realtà ti fanno stare bene. Semplicemente non sai cosa si provi.”
Si pentì immediatamente di averlo detto. Percy la guardava con i suoi occhi chiari da cucciolo, sorpreso, deluso, colpito nel profondo, arrabbiato.
“Che significa?”
Sally gli si avvicinò e gli accarezzò il viso. Si sorprese nel vedere che il figlio non si scostava.
“Significa che ti fanno stare bene, piccolo. Ti fanno stare meglio. Solo che tu sei… sei così speciale, che non riesci a capire cosa significa.”
Percy aggrottò la fronte. Si allontanò e andò in soggiorno, dove prese a camminare avanti e indietro, frustrato.
“Percy…” cercò di dire la signora Jackson, prima che il figlio esplodesse.
“COSA CAVOLO SIGNIFICA, MAMMA? Cosa significa? Che sono diverso? Che non ne sono… capace?” la voce di Percy era ferita, disgustata, triste.
“Cosa significa, ti prego, dimmelo! Vorrei sapere cose c’è che non va in me!” Si mise le mani davanti agli occhi, come per nascondere le lacrime che stavano per uscire.
Sally corse da lui, si inginocchiò e gli prese il volto coperto tra le mani.
“Non c’è niente che non vada in te, tesoro.” Sussurrò piano, mentre Percy veniva cullato dalle sue carezze.
Non c’è niente che non vada.
Tesoro.


*Lo so, i semidei non possono usare i telefoni, ma nella mia storia sì. OKAY?

Angolo autrice
Alloooooorrrrraaaaa! Che ve ne pare?
Devo dire che non è la mia migliore storia, ma forse è quella che si avvicina di più ad una ff,quindi… perché no? Voglio assolutamente continuarla, inserendo sempre più personaggi.
Spero vi piaccia!


 

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Capitolo 2
*** il peggior errore di un uomo? Lasciare che sia un altro a far ridere la sua donna ***


il peggior errore di un uomo? Lasciare che sia un altro a far ridere la sua donna
 
Il giorno seguente, a scuola, Percy si ritrovò senza aver studiato praticamente niente, stanco, con gli occhi arrossati e i vestiti meno decenti della storia dei vestiti meno decenti (sì, c’è anche la storia dei vestiti meno decenti)
Quando Annabeth lo vide davanti al portone dell’edificio scolastico, quasi non le venne un colpo.
“Percy… ma che ti è successo?” domandò.
“Mmm… niente… è che ho dormito davvero pochissimo” rispose lui stiracchiandosi.
Annabeth lo baciò. Percy la strinse di più a sé, approfondendo quello che prima era stato solo un bacio innocente.
“Hei, voi due! Entrate!” li bacchettò il professor Squirtle, un ometto bassino e scorbutico che, guarda caso, insegnava proprio biologia.
Con difficoltà, i due si staccarono e si diressero all’interno della scuola, mentre Squirtle continuava a ripetere cose del tipo: “Bah, i giovani di oggi…”
Percy raggiunse le mani di Annabeth, e, stando bene attento a non farsi vedere da nessuno di indesiderato, le sussurrò nell’orecchio:”continueremo quello che si è interrotto poco fa, non preoccuparti.”
Annabeth arrossì completamente prima di dargli un bacetto sulla guancia e andarsene.
Lei matematica e lui letteratura.
Letteratura.
Percy storse il naso. Come avrebbe detto alla Brown che non aveva aperto neanche un libro?
Ci penserò dopo, pensò mentre entrava nell’aula.
Il ragazzo fece una faccia disgustata nel vedere quell’aula di scimmie.
Davanti a lui c’erano altri sedici ragazzi che ti tiravano palline di carta imbevute di sputo senza mirare ad un luogo preciso, ma non appena Percy entrò divenne il loro bersaglio.
Si coprì la faccia mentre decine di palline di carta gli arrivavano addosso.
“Che schifo” borbottò quando la tempesta finì.
Andò a sedersi al suo posto e aspettò la prof in silenzio.
Quando entrò, accennò un sorrisetto timido.
La professoressa Brown era stata l’unica professoressa ad opporsi alla bocciatura dopo tanti mesi d’assenza e che lo aveva aiutato non solo nella sua materia, ma anche in altre come matematica, chimica e biologia.
“Buongiorno.” Disse raggiante.
Volse un fugace sguardo a Percy e storse il naso.
Aveva capito qualcosa.
Percy nascose la faccia dentro il cappuccio della felpa extralarge che portava.
“Allora” disse, aprendo il libro. “Oggi avevamo…?”
“Orgoglio e pregiudizio” disse una tipa dietro di lui. Com’è che si chiamava? Ah, sì, Amanda.
Non l’avesse mai detto.
Percy si sentì quasi costretto ad alzare la mano e a dire: “Prof?”
La Brown si voltò verso di lui e si soffermò un attimo sui suoi occhi. “Sì?”
“Be’…” Percy arrossì.
La Brown lo incitò a continuare. “Allora?”
“Io… io non…”
La prof alzò un sopracciglio. “Va bene”
Percy sapeva che la professoressa aveva capito anche se non lo aveva detto.
Con lei era così. Non voleva metterlo in imbarazzo.
La lezione trascorse lenta e noiosa.
Percy fece addirittura un paio di interventi, visto che la prof si era soffermata anche su Amleto, la lettura che avevano letto prima.
Fu contenta di vedere che il libro era piaciuto a Percy, e per questo gli fece un paio di domandi un po’ di domande a cui lui però non seppe rispondere.
“Non preoccuparti” disse, notando il suo sguardo.
Alla fine della lezione, la professoressa lo fermò per parlargli.
“Oh” mormorò Percy, “ho…fatto qualcosa?”
“No, no,” rispose sorridendo, “volevo solo sapere perché non hai completato gli esercizi su Orgoglio e Pregiudizio. Erano facili, no?”
Percy arrossì.
“Be’, io non… non mi sentivo tanto bene, ieri. Non ho fatto neanche gli altri compiti.”
La prof lo squadrò.
“Se c’è qualcosa che non va puoi parlarmene, Percy. Lo sai che non lo dirò a nessuno.”
Percy annuì, a disagio.
“Quindi…”
“Non mi sentivo bene” ripeté lui, uscendo dall’aula, notando subito dei riccioli biondi tra la folla.


“Hei! Passato il sonno?” domandò Annabeth, prima di ricevere un bacio più appassionato dell’altro.
“Mmm… sì.”
Annabeth gli cinse il collo e sorrise. Com’era bello, il suo ragazzo.
Mentre si dirigevano nell’aula di biologia, che avevano in comune, chiacchierarono un po’.
“Quindi il test di chimica è per la prossima settimana?” domandò curiosa lei.
Percy scosse le spalle, un chiaro segno che non lo sapeva.
“Sei sempre il solito, Testa d’Alghe!” disse lei ridendo.
Non ebbe il tempo di rimproverarlo che ritrovò la lingua del suo fidanzato nella sua bocca.
Caspita, quanto era bello.
“Ti amo”
“Ti amo anch’io.

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Capitolo 3
*** Circondatevi di pizze, non di persone ***


Circondatevi di pizze, non di persone

 
 
Quando tornò a casa, la stanchezza del giorno prima cominciò a farsi  sentire.
Senza neanche salutare Sally e Paul, Percy si fiondò in camera sua e si stese sul letto. Voleva solo dormire.
Già il prof di biologia gli aveva fatto una sfuriata dicendogli che “avrebbe fatto meglio a studiare che a mettere incinta la sua ragazza” (testuali parole) e l’ora successiva, quella di matematica, era stata un inferno.
Sembrava che la prof avesse il suo nome sempre sulla punta della lingua…
Comunque, Percy non voleva pensarci adesso.
Voleva solo dormire.
Ma, ovviamente, i genitori bussano sempre al momento sbagliato, e quindi, pochi attimi dopo, si era ritrovata lo Stoccafisso in camera, che lo guardava con aria comprensiva e gli chiedeva come stava.
“Mmm…” mugolò lui in risposta. Strofinò la faccia sui cuscini, un chiaro segno che non voleva fare conversazione. “sono stanco, Paul” disse ora esplicitamente, visto che il suo patrigno non aveva accennato a smuoversi di lì.
“Percy… possiamo parlare?” disse ora lui, sedendosi al bordo del letto.
E di che voleva parlare? Dei suoi voti disastrati o del fatto che il prof di biologia e quella di matematica lo odiavano e minacciavano ogni volta che sembrava avere un qualche tentennamento? Della sua “relazione troppo espansiva nei confronti della signorina Chase” come aveva detto la professoressa di filosofia, o dei ragazzi che lo avevano bombardato di petardi di carta imbevuti di saliva? Del fatto che fosse diverso? Del fatto che fosse speciale?
“Lo stiamo già facendo” rispose Percy.
Paul annuì.
“Senti, ho sentito dire da alcuni professori oggi a scuola che non ti stai impegnando molto.” cominciò lui, “Catrice Brown dice che è preoccupata che tu stia pensando di… scappare, ecco, di nuovo. È così?”
Percy strabuzzò gli occhi. “C-cosa?”
Cioè, sapeva che i professori parlavano spesso di lui e che le voci giungevano più di una volta all’orecchio di Paul, ma mai aveva pensato che le professoresse gliene parlassero liberamente.
“No, Paul, non voglio andarmene.” Mormorò lui.
“Sicuro?”
“Sì”
“Va bene…” Paul si stiracchiò, e ci fu un breve contatto con il figlio di Poseidone.
Che cose era venuto in mente al suo patrigno? E soprattutto, alla sua professoressa?
Prima di allora non gli era mai venuto in mente il fatto che la Brown potesse fingere di essere così, proprio come fanno gli psicologi, solo per aiutarlo. Mai. Ma ora…
“E quindi tu stai bene qui.” Sentenziò allora lo Stoccafisso.
“Sì.”
“E non ti da fastidio nulla.”
“Esattamente”
Paul aggrottò le sopracciglia. “Quindi se io ti citassi qualche nome di alcuni dei tuoi compagni di classe tu avresti nulla da dirmi?”
Percy indugiò un po’ sulla domanda.
“Dipende”
Paul sembrò rifletterci un po’.
“Jesse Reyez and Jack Houston”
Jesse e Jack erano i due ragazzi più stronzi di tutto il globo terrestre. Dal primo giorno in cui Percy aveva messo piede alla Goode High School, avevano lasciato stare i ragazzini indifesi e le puttane e cominciarono a bersagliarlo di insulti, e talvolta, di botte.
Più di una volta Percy era andato in infermeria dopo essere stato picchiato e aveva pregato Carla, l’infermiera, di non chiamare a casa e di nascondere i lividi in modo tale che sua madre non se ne accorgesse.
“Mmm… credo che Jack sia nel mio stesso corso di chimica.” Rispose, vago.
“Ah.”
Percy annuì. Sapeva che Paul non se l’era bevuta, ma continuava a sorreggere il suo sguardo interrogativo come aveva fatto con il cielo, anni prima.
Ci fu un lungo silenzio, riempito da sguardi fugaci ed occhiate speranzose alla porta. Lo Stoccafisso non voleva andarsene prima di aver saputo la verità.
“Sai,” disse, “lo so che ne hai passate davvero tantissime e che questo mondo ti sembrerà solo una brutta copia del tuo –credimi, lo penso anch’io– ma devi fare uno sforzo e passare questi sei mesi il meglio possibile e prendere il diploma,  poi potrai andartene dove vorrai. Io e tua madre teniamo molto a questo. Dopo il diploma potrai pure andare in uno studio di tatuaggi o a lavorare in una pizzeria, a me non interessa. Ma sappi che non riuscirai mai a vivere senza avere almeno un titolo di studio. Quindi” fece una pausa per far assimilare al figlio di Poseidone il concetto “mettiti a studiare e stai lontano dai guai.”
Si alzò e si diresse verso la porta. Prima di aprirla, si voltò verso Percy e lo squadrò a lungo prima di dire: “Si vive una volta sola, Percy. Ma se lo fai bene, una vita è abbastanza”.


Circa alle sette del pomeriggio, quando Percy oramai non ce la faceva più a cercare di capire di cosa parlasse il libro che la prof aveva assegnato per la prossima settimana, Il Grande Gatsby, Percy ricevette un messaggio.
Jason: Ehi bro! Ti va di venire a mangiare qualcosa con me, Piper e Leo?
Percy rifletté su quel messaggio. Certo che voleva. Se avesse detto di no, sarebbe rimasto altre due ore a spulciare trame da Wikipedia e altri siti sconosciuti, ma se avesse detto sì, si sarebbe trovato in una situazione più che imbarazzante.
Sapeva già che Jason e Piper si sarebbero sbaciucchiati per tutta la serata, e lui sarebbe rimasto a parlare con Leo, che diciamo non era il suo migliore amico.
Percy:Può venire anche Annabeth?
Jason: Certo!
Percy: OK *_*

Percy e Jason decisero di incontrarsi in una caffetteria in centro, casomai avrebbero preso qualcosa e poi sarebbero andati da Piper e Leo, che invece sarebbero rimasti al Campo per un po’. Ovviamente, con Percy c’era Annabeth, che, un po’ controvoglia, aveva accettato di venire. Quindi, tutti assieme si sarebbero diretti in un posticino carino a parere di Jason e avrebbero mangiato come porcellini.
Tutto filava liscio, no?
Se ci fosse stato anche il tempo, Jason e Percy avrebbero anche fumato una bella sigaretta, e avrebbero bevuto qualcosina.
Sì, liscio come l’olio, pensò, mentre si avviava verso l’uscita.
“E tu dove vai adesso?” chiese sua madre mentre stava giusto per aprire la porta.
Oh oh.
“Dove credi di andare senza avermi detto niente?” domandò di nuovo Sally, facendolo voltare di scatto.
Indossava un grembiule blu a quadri, chiaro segno che stava per mettersi a cucinare.
“Ehm… io… io e Jason andiamo a mangiare qualcosa.” Rispose vago.
“Solo tu e Jason?” chiese lei, incrociando le braccia.
“Be’, ci sono anche Annabeth e la fidanzata di Jason, Piper, e poi Leo. Nessun altro.”
Sally alzò il sopracciglio.
“Ti voglio a casa per le nove.”
Per le nove? Alle nove avrebbero mangiato, sicuramente.
“Mamma… non possiamo fare un po’ più tardi? Jason viene dalla California, è qui solo per me…”
Non era affatto vero. Erano due mesi che il figlio di Giove era al Campo Mezzosangue per costruire il tempio dedicato a Cimopolea, come le aveva promesso, tempo prima.
“Nove e mezza” rispose sicura la signora Jackson, l’aria di una che non avrebbe ceduto.
“Va bene…” borbottò lui mentre usciva di casa.


Pizza. Avevano optato per la pizza.
Erano andati tutti e cinque in una piccola pizzeria a gestione famigliare dove Jason era già stato un paio di volte con Reyna e Frank; il posto era davvero carino, anche se era poco più di una stanza.
“Questo posto è minuscolo!” si lamentò Leo, mentre si sedeva sulla sedia accanto alla porta.
“Stai zitto, Leo” lo rimproverò Piper, prima di posare gli occhi su Jason. “A me va benissimo, amore.” Si baciarono.
Percy distolse lo sguardo. Non gli piaceva affatto assistere allo scambio di saliva di due piccioncini.
“Ehi, voi due… vi dispiace farlo dopo in un posto più appartato?” scherzò Annabeth, facendo arrossire Piper come non mai.
Ordinarono le pizze, che arrivarono dopo circa una ventina di minuti.
Le gustarono parlando assieme del più e del meno, senza avere un argomento preciso su cui andare a parare.
Alla fine decisero di andare a Central Park, dove finalmente Percy e Jason avrebbero fumato l’agognata sigaretta e Leo avrebbe dato fuoco a un paio di piccioni.
Si misero sotto un albero in modo da non essere visti. Intanto Piper e Annabeth passeggiavano nel parco, parlottando e ridendo da vere amiche.
Leo stava friggendo per bene un legnetto che aveva trovato a terra, che subito dopo finì nel laghetto davanti a loro.
Jason aprì lo zaino che si era portato dietro e prese due sigarette e un accendino, ne porse una a Percy e cominciò  a fumare.
Percy si sentiva così bene.
Erano due settimane che non fumava, due settimane passate col fiato sospeso e l’ansia dell’interrogazione.
Due settimane che non viveva.
E ora, gli sembrava che tutto quanto fosse stato cancellato da un po’ di fumo.
Anche se non era così.

  

 

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Capitolo 4
*** Non lasciare che niente ti scoraggi. Persino un calcio in culo ti spinge in avanti. ***


Erano le 3:30 quando Percy tornò a casa.
L’appartamento dell’Upper East Side era buio e silenzioso, gli unici suoni provenivano dalla strada, fuori.
Due passi svelti e si sarebbe trovato nella sua camera. Avrebbe dormito, e la mattina dopo sarebbe corso a scuola senza parlare.
Così sua madre non avrebbe fatto una sfuriata colossale.
Forse.
Stava aprendo la porta della sua camera, quando…
“Chi è morto si rivede” sospirò qualcuno dietro di lui.
Percy si voltò di scatto. Dietro di lui c’era Paul, un bicchiere d’acqua in mano, in pigiama.
Percy sospirò, sollevato.
“La mamma è tanto arrabbiata?” domandò.
Paul si guardò attorno, vago.
“Be’, diciamo che si è un po’ preoccupata, ma ho cercato di addolcirle la pillola dicendole che probabilmente eri con Annabeth e che quindi non correvi rischi”
“Oh”
Non sapeva davvero cosa dire. Grazie? No, sarebbe stato troppo… diretto.
Lo Stoccafisso tutto d’un tratto si fece serio.
“Alle 3:30, Percy? Sei serio?” Percy si morse il labbro. Sapeva che Paul avrebbe fatto quel discorso. Se non lo avete capito, Paul era proprio il tipo da discorsi imbarazzanti padre-figlio. “Capisco che non hai avuto un’adolescenza come le altre e che hai bisogno di… sfogarti, ecco, ma ti prego, non così. Tua madre sì, è arrabbiata, ma soprattutto preoccupata… Guardati, poi. Puzzi di alcol e fumo”
Percy strinse i pugni. Cosa ne  voleva sapere, lui? Lui non poteva neanche immaginare come si sentisse in quel momento, come si sentisse praticamente sempre. Lui era un semplice mortale. Era normale.
“Non sono affari tuoi” si limitò a sussurrare lui.
“Non sono affari miei? Sei parte della famiglia, Percy, ricordatelo. E il fatto che io non sia il tuo vero padre non significa che io non possa arrabbiarmi.”
L’aria si stava facendo elettrica. Mai Paul si era rivolto così al figlio di Poseidone. Di solito, quando quest’ultimo tornava tardi, si limitava a guardarlo più intensamente del solito, l’aria da “non sono affari miei, me ne devi parlare tu”. Ma ora… ora era tutto così esplicito. E a Percy questo non piaceva.
Perché non poteva fingere di fare il finto tonto, non poteva recitare la parte del ragazzino ottuso.
Ora doveva parlare.
Ora doveva gridare.
“Parte della famiglia? E quale famiglia, Paul? Quella felice che vi siete costruiti tu e la mamma, escludendomi completamente da tutto? No grazie. A questo punto è meglio farsi sbranare da un segugio infernale, credimi”
E, detto questo, entrò in camera sua e si chiuse a chiave.


Decise prima di andare a dormire di fare una doccia.
Non voleva che sua madre sentisse la puzza di fumo o di qualcos’altro, quando sarebbe andato a chiamarlo, la mattina dopo, per svegliarlo.
Inoltre, voleva che l’acqua calda facesse scivolare via tutti i brutti pensieri che lo tormentavano.
Perché cavolo Paul non si faceva gli affari suoi? Non era suo padre. Non aveva niente a che fare con lui.
Fingeva di capirlo, come se la dislessia, l’iperattività e il deficit dell’attenzione fossero cose che aveva provato sulla pelle proprio come lui. Fingeva di interessarsi al suo mondo, quello popolato da mostri, giganti, titani e dèi.
Al contrario di Percy, cercava di non recitare la parte del patrigno sulle sue, ma tentava invano di essere parte presente della sua realtà, quella realtà così distorta che il figlio di Poseidone avrebbe voluto abbandonare.
Si asciugò velocemente e si stese sul letto, cercando di lasciar andare i brutti pensieri.
Ma Percy Jackson non sapeva che quella sarebbe stata la notte più brutta della sua vita.


Alloorrrarahriahraihria!
Vi lascio con questo momento in sospeso, che, non vi preoccupate, verrà colmato a breve con un altro capitolo… spero che vi sia piaciuto e mi raccomando, RECENSITE! Non voglio che sia solo Vacca a farlo.

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