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di iamnotgoodwithnames
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** It's (Not) Okay ***
Capitolo 2: *** Chapter Two : A Way Out ***
Capitolo 3: *** Chapter Three : The Best You've Ever Had (It's Just A Memory) ***
Capitolo 4: *** Chapter Four : Can You Dream At All? ***
Capitolo 5: *** Chapter Five : (Not) Gone ***



Capitolo 1
*** It's (Not) Okay ***


 Chapter One :
It's (Not) Okay 


Troieshchyna, Kiev, Ucraina 

Oleksandr Petro Milkovich è un animale selvaggio fuori controllo, non ha pietà, non ha tracce d’umanità, il sadismo è la sua religione, il sangue il suo colore preferito, ha le sue regole, tre fondamentali, gli unici valori che possiede : famiglia, rispetto, lealtà.

Rispetto per quel cognome che porta con orgoglio, lealtà cieca ed incondizionata per ogni singolo membro di quella famiglia che nel crimine ha plasmato la propria esistenza; rendendolo un’attività più che redditizia.

Eccezione fatta per le tre, singole, regole fondamentali Oleksandr Petor Milkovich è la perfetta definizione di sociopatico da manuale, assoluta assenza di rimorsi, eccellente bugiardo, manipolatore esperto ed impulsivo, Mickey non saprebbe dire se sia stata la famiglia a renderlo possibile, ma a quanto pare le uniche persone verso cui sembra essere in grado di provare rispetto ed uno strano affetto sono soltanto loro.

Ne è la dimostrazaione la terra che da minuti stanno scavando, per seppellire quattro stronzi che hanno commesso l'imperdonabile errore di cercare, fortunatamente senza alcun risultato, di stuprare la cugina, Zoryana, appena sedicenne. 

Quando Maksym lo ha chiamato, alle tre e trentasette di mattina, svegliandolo bruscamente, Mickey ha ingenuamente creduto che fosse per qualche questione lavorativa rimasta in sospeso, qualche prostituta da traportare dal confine Russo o qualche stronzo che aveva provato a fotterli; non credeva certo che avrebbe dovuto trascinare un ammasso di grasso che puzzava di sigaro e merda lungo un'interminabile rampa di scale e caricarlo nel cofano della Jeep.


“це останній
(questo è l’ultimo)


Si è persino premurato di rassicurarlo Oleksandr quando Mickey ha accennato ai già tre cadaveri ammassati ai piedi dell’auto, sangue ne bagnava i vestiti ed il cugino se ne stava lì, immobile, perfettamente rilassato ad osservali con un ghigno soddisfatto stampato in volto; Mickey poteva persino giurare che fosse felice, come se fosse tornato da una gradevole passeggiata e non da un dannatissimo massacro.
La fredda precisione scrupolosa di Maksym ha elaborato la necessaria pulizia d’eventuali prove compromettenti, residui di DNA, tracce ed impronte del loro passaggio ed il trasporto dei cadaveri, due nella sua auto e due in quella di Mickey, hanno viaggiato per tre, forse quattro, ore sino a raggiungere una zona spoglia, priva di abitazioni e dalla vegetazione scarsa, si sono fermati sul ciglio della strada e Maksym ha dato ordine di cominciare a scavare.

Ed ora eccoli qui, la fastidiosa luce dei fanali puntata contro e completamente inondati di terra, Mickey getta la pala al suolo tastandosi le tasche, sfilando il pacchetto di sigarette, portandosene una alle labbra


“ми ще не закінчили
(non abbiamo ancora finito)


Lo ammonisce Maksym, passandogli una lama decisamente affilata, già grondante sangue, indicando i quattro cadaveri da seppellire


розріз руки і ноги до цих двох (taglia mani e piedi a quei due) – ordina, rigirandosi un machete tra le dita – частини від зап'ястя та кісточок і ти, починає видаляти зуби"  (parti dai polsi e dalle caviglie e tu comincia a rimuovere i denti)


Impone al fratello, lanciandogli delle tronchesi che Oleksandr afferra al volo ridacchiando cinico, chinandosi al cadavere dell’obeso che Mickey ha dovuto trascinare per almeno una quarantina di scale


хуй (cazzo) – soffia, accendendosi comunque la sigaretta – чи це необхідно? 
 (è necessario?)

Ви також хочете спробувати українську в'язницю Мік?"  (vuoi provare anche il carcere ucraino Mick?)


E la voce atona di Maksym, quel modo serioso e professionale che ha di parlare, gli basta per capire che, malgrado tutti sappiano che la polizia non oserebbe mai indagare sui Milkovich, è inutile lamentarsi, a volte ha il sospetto che sia il mezzano dei fratelli a dettare legge, ad essere designato a subentrare a capo della famiglia quando il padre morirà e la nonna sarà già sepolta da anni.
Espira nicotina Mickey, piegandosi pigramente all’obeso cadavere, ignorando il fischiettare, decisamente fuori luogo, di Oleksandr affondando la lama tra la carne, all’altezza del polso, recidendo con fatica la mano sinistra.

La procedura richiede minuti e Mickey, onestamente, credeva di poter tornare a casa una volta ammassati arti, gioelli, orologi e documenti personali rimossi e denti estratti in una dannatissima busta di plastica nera; ma si sbagliava.

A quanto pare la meticolosità di Maksym impone che i cadaveri, una volta gettati all’interno della buca, debbano bruciare come un dannato falò umano che puzza d’ogni genere d’odore sgradevole, l’intera gamma del disgusto attraversa le narici di Mickey e la domanda si forma spontanea


ми не змогли це зробити годину тому? ебет подається лайно ніж раніше?" (non potevamo farlo un’ora fa? Cazzo è servita la merda di prima?)

розсудливість Мік
 (la prudenza, Mick) – inspira il cugino, passandosi una mano tra i corti capelli biondo scuro, accendendosi una sigaretta  – це ніколи не буде достатньо (non è mai abbastanza)


E sinceramente, se non fosse così dannatamente stanco e fisicamente sfinito, un pugno dritto in quella faccia perennemente impassibile glielo tirerebbe volentieri a Maksym e al suo atteggiamento da saggio anziano o forse non lo farebbe comunque e gli mostrerebbe il medio, come sta facendo; di sicuro Serhij ha decisamente ragione a schernirlo bonariamente chiamandolo Yoda, anche se Mickey ha impiegato più di un anno a capire chi fosse.


ми маємо дев'яносто дев'ять відсотків шансів що поліція, якщо вони знайдуть трупи, не може правильно ідентифікувати їх 
 (abbiamo il novantanove per cento di possibilità che la polizia, nel caso in cui rinvenga i cadaveri, non possa identificarli adeguatamente e) – espira nicotina Maksym, guardando in tralice il fratello – якщо ти не був більш ідіотським, ніж звичайно, важкий бізнес, не бути головними підозрюваними у вбивстві, хто вони були?"  (se non sei stato più idiota del solito, impresa ardua, di non essere identificati quali possibili sospettati, chi erano?)


Oleksandr solleva le spalle, un ghigno rilassato, di completa e totale indifferenza ne plasma le sottili labbra


син сукинки"
(figli di puttana)

“бути більш конкретним"
(sii più specifico)

один (uno) – un sorriso di cinico orgoglio fa risplendere di follia le iridi azzurre di Oleksandr – він був хлопцем, якого він намагався згвалтувати нашу маленьку Ана, Я знову знайшов ублюдка" (era il tipo che aveva cercato di stuprare la nostra piccola Ana, l'ho ritrovato il bastardo)


Un moto di rabbia ne anima la voce, un fremito d’ira ne fa tremare le spalle ed il fratello minore inspira, chinandosi a spegnere il mozzicone di sigaretta tra la terra, guardandosi bene dal gettarlo al suolo, mischiandolo assieme ai resti degli arti e dei denti come ha imposto di fare anche a Mickey qualche minuto prima


Ана буде радий знати, і три інших?(Ana sarà felice di saperlo, gli altri tre?)

вони там були
 (erano lì) – scrolla le spalle con ovvietà Oleksandr – в результаті (di conseguenza) 


Mickey arcua un sopracciglio, grattandosi la punta del naso, malgrado siano passati tre anni, deve ancora abituarsi del tutto all’assoluta tranquillità con cui i Milkovich ucraini trattano gli omicidi, non che lo faccia sentire a disagio o stronzate simili, è solo questione di diversa routine in fondo


Хто-небудь бачив, як ви входите до будівлі?" (qualcuno ti ha visto entrare nell’edificio?)

ні Сим, хуй  (no Sym, cazzo) – sbuffa Oleksandr, roteando le azzurre iridi al cielo – ти закінчив розбивати стегна? ми можемо піти? весь цей рух змусило мене захотіти займатися сексом" (hai finito di rompere i coglioni? Possiamo andare? Tutto questo movimento m’ha fatto venire voglia di scopare)

що ебать Олек, Христос (che cazzo Olek, cristo) – aggrotta la fronte in una pura smorfia di sincero ribrezzo Mickey, accendendosi una seconda sigaretta – ти проклятий з твоєї голови"  (sei fottutamente schizzato)

він сказав що ненавидить піхву
 (dice quello che schifa la figa) – ridacchia, senza davvero avere l’intento di ferire il cugino, battendogli un colpo alla spalla – але краще цей шлях, менша конкуренція" (ma meglio così, meno concorrenza)


Mickey, in risposta, gli mostra semplicemente il dito medio nascondendo un ghigno divertito dietro il dorso della mano, infondo, se si escludono alcuni piccoli ed insignificanti dettagli, occultamento di cadaveri, traffico di prostituzione, omicidi casuali e cose da poco di simile conto, i Milkovich ucraini non sono poi così male; anzi sono decisamente meglio di quelli americani, sicuramente migliori di Terry o quello stronzo di suo fratello che vive nell’Indiana o di Colin e Jaime.

Quanto meno, qui, quando è in famiglia, Mickey può essere ciò che vuole senza vergogna e senza timore, potrebbe uccidere un passante a caso e nessuno lo giudicherebbe, potrebbe decidere di organizzare un’orgia e nessuno direbbe nulla, del privato ai Milkovich ucraini non importa; quel che conta è che nessuno metta in pericolo la famiglia e che ognuno agisca per il bene d’essa, svolgendo i lavori necessari e mostrando il dovuto rispetto e la necessaria lealtà.


Олек перестає робити ідіота і ми поховали їхогидний син сукинки" 
(Olek smettila di fare il coglione e seppelliamo questi luridi figli puttana)


Ordina il fratello, riportando serietà alla situazione e Mickey inspira, afferrando il manico in legno della pala, avanzando verso la fossa dei cadaveri, ricacciando conati di vomito all’odore decisamente sgradevole e pungente di morte e cenere, raccogliendo una manciata di terra aiutando i cugini a ricoprire la buca; lasciandosi sfuggire l’accenno di un sorriso spezzato a metà al fischiettare spensieratamente allegro di Oleksandr che fa sembrare tutto questo una gradevole scampagnata per boschi.

Sì, malgrado le stranezze e le indicibili cose che gli occhi di Mickey hanno avuto modo di vedere, i Milkovich ucraini, se si escludono alcune piccolezze, hanno tutte le caratteristiche d’una normale, comune e banalissima famiglia media : unione, rispetto, sostegno, lealtà e persino sincero affetto. 

E, infondo, non è poi così male l'Ucraina. 



South Side, Chicago, USA 

Casa Gallagher è sempre il solito caos, si dice Ian sbadigliando, schivando lo zaino di Liam poggiato alla base delle scale, avanzando sino al frigorifero.

Indubbiamente il fatto che Frank, da qualche anno ormai, si sia dedicato alla meditazione e ad una vita, mediamente, più sana aiuta; ma continua a restare il solito Frank di sempre, cambia la forma, ma non i disastri che si lascia dietro.

In compenso, quasi come se fosse una specie di legge implicita nel DNA della famiglia, una sorta di malsana necessità d’equilibrio, Lip e le sue costanti e periodiche ricadute nella spirale dell’alcolismo lasciano i segni che un tempo spettavano a Frank; bottiglie sparse ovunque, vuoti di memoria e risvegli in pozze di vomito o in scomode pose al suolo.
Questo, constata tristemente Ian, schivando alcune lattine di birra tra le mattonelle della cucina, è uno di quei periodi di ricaduta; nulla di grave direbbe Lip, mentendo spudoratamente.

Da quando Fiona ha deciso d’impegnarsi con maggiore costanza nella carriera e tentare la scalata della piramide sociale, uscire definitivamente dalla povertà, la gestione della casa spetta ad Ian, unico maggiorenne ed unico responsabilmente presente.

Ci sarebbe anche Carl, ormai diciottenne, ma l’addestramento lo tiene impegnato per buona parte della giornata e gli allenamenti mattutini occupano le poche ore che passa in famiglia e, di certo, Ian non vuole affatto ostacolare l’impegno del fratello.

A volte, soprattutto quando imprevisti lavorativi lo portano a trattenersi in ambulanza oltre il previsto, ricorre al miracoloso aiuto di Debbie che, senza esitare, affida Franny alle amorevoli cure di Neil e si prodiga ad aiutarlo in ogni modo; è diventata una cuoca provetta ed una donna incredibilmente determinata.


“Ian”


Sbadiglia ancora assonnato Liam, posizionandosi nella sedia preferita, quella vicino alla porta, attorno al tavolo


“colazione?”

“pronta tra qualche minuto – sorride il rosso, armeggiando tra le pentole sporche di impasto preconfezionato per pancake – vuoi un po' di succo?”


Il piccolo di casa annuisce energicamente ed Ian gli versa dell’aranciata, con polpa, che adesso si possono permettere di comprare regolarmente, nel bicchiere carezzandogli la nuca con fare quasi paterno; infondo è sempre stato così con Liam, l’unico abbastanza fortunato da non avere ricordi sgradevoli dei genitori.
Forse, riflette accertandosi che l’impasto non aderisca alla pentola, è questo il segreto della perfetta crescita del fratellino, non avere memoria alcuna dei periodi più orribili della vita trascorsa con Monica o Frank; essere come un libro colorato privo di pagine nere da strappare via.
O forse è perché ogni singolo Gallagher si è prodigato al meglio per riuscire a crescere quel piccolo dolce bambino innocente come la versione migliore di ognuno di loro e, alla fine, si dice Ian sistemando i pancake nel piatto, devono esserci riusciti davvero perché Liam, a quanto pare, ha ereditato solo il meglio dal DNA Gallagher.


“grazie”


Sorride sereno il minore dei fratelli, affondando la forchetta tra lo sciroppo d’acero ed il soffice impasto, masticando educatamente


“oggi – dice poi, deglutendo il boccone – andiamo da Vee?”

“se vuoi”

“uh uhm, c'è anche Geny?”


È incredibile la capacità mnemonica che un ragazzino di appena tredici anni possiede, malgrado siano passati anni dall’ultima volta che si siano visti Liam continua a cercare, ogni singola volta che passano a trovare Veronica per aiutarla con le gemelline, quell’unico bambino che nessuno vorrebbe sentire nominare in casa Ball o Gallagher; ma forse in quest'ultima è solo Ian a non gradirlo


“no Liam, si è trasferito”


Mormora appena il rosso mentendo, non ha idea di dove sia, china lo sguardo alla pentola sporca preferendo ignorare gli occhi rattristati del fratellino, non comprende cosa possa spingere Liam a cercare con una tale insistenza un bambino con cui avrà giocato meno di venti volte, un bambino che neppure conosce bene, un bambino che Veronica preferirebbe dimenticare e di cui Ian non vorrebbe neppure sentire il nome; motivi simili ne conviene malinconicamente gettando le pentole sporche nel lavandino.


“magari oggi c'è – insiste solare Liam, alzandosi da tavola, porgendo il piatto vuoto al fratello – mi sta simpatico”

“perché?”


Si lascia sfuggire Ian, poggiando la schiena al bordo del lavandino, il minore lo guarda con l’innocenza di un ragazzino che non comprende, sino in fondo, la domanda; aggrotta la fronte e forma un sorriso sincero tra le labbra


“perché Geny è buffo”


Ian inspira, annuendo soltanto, osservando il fratellino afferrare lo zaino e salutarlo allegro prima di uscire di casa.

Inspira ancora, afferrando il falcone dei medicinali, che assume con regolare costanza da un paio di anni ormai, sbuffando un sorriso mesto all’eco di quell’inusuale nomignolo che solo Liam usa; Geny.

Non è mai stato in grado di pronunciarne il nome completo, non ne era capace quando aveva otto anni e non lo è neppure ora, malgrado sia in grado di pronunciare parole ben più complesse per qualche motivo quel nome, quel nome strano, continua a restargli difficile; ma né Veronica, né tanto meno Ian, riescono a pronunciarlo più correttamente.

Yevgeny a Veronica ricorda Svetlana, una delusione che ha cercato di superare, una ferita che non si è mai rimarginata del tutto; un inganno troppo doloroso per poter essere dimenticato.

E ad Ian ricorda qualcuno che non è mai riuscito a cacciare dalla mente, qualcuno che forse non riuscirà mai a dimenticare, che torna, con cadenzale costanza, ad affollargli i ricordi e mettere in dubbio ogni singolo aspetto della, tranquilla e serena, vita che si è faticosamente costruito; gli ricorda qualcuno che, infondo, manca intensamente, fastidiosamente, dolorosamente, da tre anni.

Inspira nuovamente, ingollando i medicinali, aggiungendo una piccola dose in più di antidepressivo e calmante perché oggi, come ogni volta che Liam chiede di Geny, si sente sprofondare in una confusione caotica di pensieri che non trovano né origine, né ordine, e vorrebbe solo chiedere al fratello di smetterla di cercare qualcuno che non tornerà mai più; o forse è a sé che vorrebbe urlare di non pensare a qualcuno che ha lasciato andare in un addio che doveva essere la fine di ogni cosa, decisiva e definitiva fine. 

Si costringe ad ingollare un pancake ed un sorso di succo prima di afferrare la giacca e concentrarsi, con ogni forza, sulla giornata lavorativa; scacciando in un angolo memorie indesiderate che non riesce a ricordarsi di dover dimenticare. 


 


 
Allora...questa follia è la prima storia che mi decido, finalmente, a pubblicare in questo fandom e, chissà, magari a qualcuno piacerà o magari no, ma ad ogni modo la trama parte dal presupposto che siano trascorsi tre anni dagli avvenimenti della settima stagione e quindi, a logica, esclude l'ottava stagione (che comunque deve ancora uscire) sebbene prende spunto da quel che ho avuto modo di visionare nel trailer. 

Detto questo i protagonisti principali saranno, che lo dico a fare è ovvio, i Gallavich anche se lascerò abbastanza spazio anche ad altri, tipo Carl non posso ignorarlo, ed in generale quasi tutti i personaggi che conosciamo saranno presenti. 

Ovviamente seguiremo la vita di Ian a Chicago e quella di Mickey per il quale ho pensato di creare qualcosa che, sinceramente, potrebbe essere un azzardo. Sappiamo bene che Milkcovich non è un cognome americano e che, molto probabilmente, ha origine ucraine perciò la mia, folle, mente ha ben pensato di farlo volare oltre oceano e di integrare un nuovo lato della famiglia (quindi i personaggi che avete letto sopra sono OC) perché, onestamente, me lo vedevo poco in Messico e, altra piccola cosa, so che sicuramente Mickey non conosce l'ucraino; ma per questa storia ho fatto una piccola eccezione.

(nella storia è presente ucraino, ma le traduzioni sono state fatte usando un traduttore online perciò non sono affatto esatte)

Per chiunque sarà tanto clemente o folle da leggere questo delirio vi avverto che ci sarà violenza, tematiche delicate, angst, dramma (forse persino più del consueto offertoci da Shameless) e molto, tanto, seppure lento romanticismo (è pur sempre una Gallavich, anche se inizialmante non sarà presente fisicamente). 

Dopo avervi annoiato così tanto ringrazio i silenziosi lettori, critiche e commenti costruittivi sono sempre utili e gradevoli da ricevere. 

Grazie, 
alla prossima 

PS : nel caso siate curiosi vi lascio i presta volto dei personaggi che sono stati nominati in questo primo capitolo 

Oleksandr Petro Milkovich (anni 27) : http://i.imgur.com/9xVwaIF.jpg

Maksym Milkovich (anni 25) : http://www.rsdoublage.com/acteurs/ilso_marco.jpg

Serhij Kyrylo Milkovich (anni 23) : https://i.pinimg.com/originals/cd/af/cb/cdafcb19e6ae802b1bec7d53144a3e22.jpg

 

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Capitolo 2
*** Chapter Two : A Way Out ***


Chapter Two :
A Way Out

(3 ANNI PRIMA) 

Saltillo, Stato del Coahuila, 
Messico 

Fa caldo, terribilmente, asfissiantemente, caldo.
Chiuso nella spoglia camera, solo in un letto matrimoniale mal ridotto, il pavimento in mattonelle scheggiate, un televisore vecchio di secoli, la metà dei canali neppure si vedono, un soffitto ammuffito ed un bagno, con una gora d’acqua stantia alla base della doccia arrugginita, non funziona bene neppure lo scarico del gabinetto in quella topaia d’albergo in cui Mickey, per pochi pesos messicani,  si è rifugiato una settimana fa.

Ha controllato il telegiornale regionale, lo spagnolo ancora non lo capisce, ma non ha bisogno di leggere le scritte gli basta che la sua faccia non compaia in bella vista su quel dannato schermo e, per ora, nessuno ne ha parlato; magari gli è ancora rimasta un po’ di fortuna dopo tutto.
La parte difficile, però, arriva ora.

Quel fottuto pazzo di un messicano che ha lasciato in un autogrill texano aveva tutti i contatti che gli servivano, ma quando Mickey ha capito che avrebbe rischiato di farli arrestare e rispedirli dritti in carcere non ha neppure pensato al Messico; lo ha scaricato per la sopravvivenza.
Non poteva certo rischiare di tornarsene dietro le sbarre, né tanto meno poteva permettere che Ian venisse trascinato a fondo insieme a lui, egoisticamente è per loro che lo ha fatto.

Perché Mickey credeva davvero che Ian l’avrebbe seguito, sino oltre il confine, pensava davvero che avrebbero vissuto in Messico, magari vicino alla spiaggia, avrebbero visto il mare e bevuto tequila fino a svenire, se l’era creato così fottutamente bene quel futuro idilliaco che, alla fine, c’è rimasto incastrato dentro; schiacciato come un insetto.


“non sono più quella persona”


Avrebbe dovuto capirlo, avrebbe dovuto intuirlo, davvero credeva che Ian sarebbe fuggito oltre il confine, lasciandosi la famiglia, il lavoro, la vita che si era costruito alle spalle?
Credeva davvero che Ian sarebbe rimasto con lui, fino alla fine?
A fare cosa, a vivere di senti, di truffe ed inganni, con l’ansia di dover restare sempre all’erta, la borsa costantemente preparata per scappare da un posto all’altro?
Come poteva aver anche soltanto pensato che tutto questo, un futuro incerto ed instabile, potesse rendere Ian felice?
Non è come lui, dannazione non è come Mickey, un avanzo di galera, rifiuto del South Side, Mickey che non si lascia nulla alle spalle, che una vita migliore non l’ha mai avuta, non ha neppure possibilità d’averne; Ian è sempre stato la parte migliore di tutto.

E l’ha capito Mickey, lì, sul confine con il Messico, in quegli occhi verdi, in quell’ultimo bacio, un muto addio, doveva lasciarlo, dovevano abbandonarsi per sempre; il loro tempo era finito.
Si è fatto forza, si è detto che infondo non era davvero fuggito da un carcere solo perché non sopportava l’idea di vivere senza il rosso, si è detto che lo aveva fatto per se stesso, perché era un Milkovich, una testa di cazzo senza futuro, e l’ha lasciato lì; piantato su suolo Statunitense.

Infondo non gli importava un cazzo della propria vita, di quel che avrebbe fatto superato il confine, avrebbe trovato un modo per continuare a sopravvivere, ma della vita di Ian, del futuro migliore che quel rosso soltanto tra loro poteva avere, gli importava, gli importava davvero, così tanto da far male; l’ha lasciato andare verso quella felicità che meritava, una felicità che lui non poteva dargli che, forse, Mickey non era mai stato in grado di donargli davvero.

Non si è voltato indietro, ha schiacciato l’acceleratore oltrepassando la sbarra ed ha guidato, per ore, giorni, ha guidato senza sapere dove andare.

Ha guidato e guidato, annegando i pensieri nella tequila, intossicandoli di nicotina, azzittendoli alzando la musica alla radio, ha guidato e guidato finché non si è detto che i sedili erano troppo scomodi per dormire e che quei soldi, infondo, non poteva lasciarli marcire sotto il sole cocente che illuminava il parabrezza.

Li ha cambiati, legalmente, strano a dirsi, in una banca d’un paese di provincia, non c’è stato neppure bisogno d’usare il documento falso, ha preso i pesos e si è diretto nel primo albergo che ha trovato ed ora eccolo qui, a fissare un soffitto ammuffito.

È in Messico da un mese, ormai, ma ha ancora abbastanza soldi, infondo non gli servono a molto, mangia poco e beve birra scadente e le sigarette non costano troppo, ma sa che dovrà trovarsi degli agganci, qualche conoscenza utile, se vuole continuare a sopravvivere.
Ha due possibilità : tentare con un lavoro onesto oppure darsi alla criminalità.

A pensarci bene Mickey di lavori onesti non ne ha mai avuti, non sa neppure se è in grado di svolgerne, che cazzo potrebbe fare? Il barista in qualche squallido pub, il cassiere in un merdoso negozio d’alimentari?
E poi, insomma si è visto allo specchio, anche se radesse la barba incolta e si aggiustasse i capelli, la sua resterebbe comunque una faccia che grida avanzo di galera; chi mai lo assumerebbe?
E, come se non bastasse, per quanto ben fatta sia, la sua falsa carta d’identità preferirebbe non doverla mostrare troppo in giro ed è quasi certo che, in ogni colloquio, vorrebbero controllarla; soprattutto di un immigrato come lui.
Infondo dovrà pure sembrare un po’ sospetto, per un messicano qualsiasi, che un americano abbia scelto di andare a vivere nell’unica nazione che, invece, preferisce fuggire altrove piuttosto che restare dov’è.

Alla fine non è neppure una scelta troppo difficile, scontata persino, è Mickey fottuto Milkovich e nel crimine c’è cresciuto e ci morirà; la sua vita di merda non cambierà mai.


“fanculo”


Sibila tra i denti, allungando il braccio al comodino affianco al letto, afferrando il cellulare prepagato, usa e getta, assolutamente sicuro, che si è comprato qualche giorno fa.
Di preciso il perché non è certo di conoscerlo e, forse, non vuole neppure saperlo; voleva chiamare qualcuno, voleva sentire una voce familiare, qualsiasi persona che non fosse l’eco dei suoi pensieri.
Eppure poi non è riuscito a farlo, chi cazzo poteva chiamare?
Non aveva più nessuno a cui importasse ancora qualcosa di lui, se fosse vivo o morto, se stesse bene o se fosse in pericolo.

Forse, si disse per giorni, Mandy.
No, ovunque fosse quella piccola stronza che aveva deciso di lasciare il South Side, non voleva rischiare di rovinarle la giornata, qualsiasi cosa stesse facendo, e di certo non voleva rischiare di coinvolgerla in tutta quest’assurda faccenda; cazzo ci teneva a quella stronza di sua sorella. 

Magari Iggy, quel testa di cazzo costantemente strafatto, poteva chiamare lui, di certo non si sarebbe stupito di saperlo oltre il confine statunitense, né tanto meno gli avrebbe ricordato di essere stato un perfetto idiota a fuggire dal carcere, si sarebbe preoccupato un po’ per lui, in quel modo goffo che aveva sin da quando erano bambini, e gli avrebbe augurato buona fortuna; poteva chiamare lui, se soltanto quella testa di cazzo di suo fratello non fosse finito in carcere tre settimane dopo di lui.

Glielo aveva detto Svetlana.
Un giorno si presentò in prigione, non la vedeva da un po’, gli disse che doveva firmare le carte per il divorzio e che non aveva più bisogno dei soldi, che si sarebbe sposata con Veronica e che, a tempo debito, sarebbe diventata la nuova proprietaria dell’Alibi; Mickey non fiatò, firmò le carte e non la rivide mai più.
Poteva chiamare lei, infondo di cose da chiederle ne avrebbe avute, chissà se la lettera che gli aveva scritto, c’aveva impiegato ore e giorni per riuscire a scrivere qualcosa di vagamente decente, quella lettera che un giorno avrebbe dovuto far leggere a suo figlio, le era arrivata?
Avrebbe potuto chiamarla, chiederglielo, sentire la voce di Yevgeny, salutare anche lui come non aveva avuto il coraggio di fare e, magari, farsi aiutare da Svetlana; ma non poteva metterli in mezzo in quel casino, no doveva cavarsela da solo come sempre.

Per giorni quel telefono prepagato restò lì, sul mobile malridotto di quella squallida camera d’albergo, inutilizzato; forse, si dice Mickey, qualcuno da chiamare alla fine l’ha trovato.
Se considera che non ha nessun contatto utile, che non sa come potrà crearsene, forse l’unica soluzione porta il nome di Bob, o meglio Bohdanko, Milkovich; quel figlio di puttana di suo zio, quello che vive nell'Indiana, che, con molte probabilità, avrà qualche aggancio pure in Messico.
Digita frettolosamente il numero, pregando un Dio a cui non è mai fregato nulla di lui e a cui neppure crede, di aver composto quello giusto ed attende una manciata di minuti


“chi cazzo è?”


Quanta gentilezza, ghigna Mickey grattandosi il sopracciglio con l’indice


“ehi testa di cazzo, come te la passi?”

“chi cazzo sei?”



Bob non ha mai brillato d’acume, è incredibile che non sia ancora finito in carcere a vita


“cazzo, sei ancora un coglione – ironizza Mickey, afferrando il pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni – il figlio di quello stronzo di Terry, quello che trafficava la merda di cocaina che ci passavi”

“Iggy?”

“no cazzo, l’altro”

“oh – sembra cogliere Bob – non stai al gabbio?”

“stavo – lo corregge il corvino, non seguono i telegiornali? Diamine sarà stato sui notiziari di tutta la nazione per giorni – mi servono dei fottutissimi contati, chi cazzo conosci in Messico?”


Una risata gracchiata, smorzata da un colpo di tosse secca, sopraggiunge dall’altro lato della cornetta e Mickey capisce di aver sprecato una telefonata


“un cazzo di nessuno – come immaginava, tutto inutile – che cazzo ci fai in quella merda di nazione?”

“in che altro fottuto posto di merda potevo andare?”


Sputa Mickey, soffiando nicotina, che cazzo doveva fare? Il Messico era la nazione più vicina e poi non c’è l’estradizione o sì? Merda, non c’aveva pensato prima.


“e che cazzo ne so, io me ne sarei tornato in Ucraina”


È una battuta, Bob ride dall’altro capo del telefono, ma per Mickey è una soluzione, una dannatissima follia, comunque migliore di vagare per il Messico inoltre più lontano fugge e meno dovrà preoccuparsi della polizia che, sicuramente, starà continuando a cercarlo


“da chi?”


Non sa neppure se suo zio lo stia ancora ascoltando o se, invece, abbia chiuso la conversazione senza aggiungere altro, ma dall’altro capo della cornetta sente distintamente il suono di una lattina di birra aprirsi


“da quella stronza di tua nonna – soffia, c’è odio nella voce di Bob – vecchia puttana inutile, comunque meglio del merdoso Messico”

“è viva? Dove cazzo sta?”

“quella troia non l'ammazza manco la cazzo di morte, l’ultima volta stava a Troieshchyna – Mickey si memorizza l’informazione – ma dubito che la puttana si sia mossa, è il suo fottuto territorio”


Bob sghignazza cinico, tossicchiando i residui di anni di nicotina ed eccessi alcolici


“quella testa di cazzo di Terry non t’ha mai detto un cazzo, vero? Senti fa quel cazzo che ti pare, ma se fossi in te metterei il culo su un fottuto aereo e andrei da quella troia di tua nonna, Natalija Milkovich è l’unica stronza con sto nome”

“che cazzo le dovrei dire?”

“il cazzo che ti pare, pure che sei figlio di quel cretino di Terry, se c’hai fortuna non ti rispedirà qui – ride Bob, come se fosse dannatamente divertente, un gioco su cui scherzare – fossi in te partirei subito, il Messico è una merda che puzza di formaggio e negri”


Il simpatico razzismo di Bob, sbuffa Mickey, mordicchiandosi il labbro inferiore, che poi dove l’avrà visti tutti questi neri in Messico?


“fanculo – soffia poi, gettando la sigaretta in una vecchia lattina di birra – se ne parli con qualcuno giuro che trovo il modo di ucciderti, intesi?”

“cristo santo, sta calmo ragazzino – ridacchia indifferente Bob – quelle merde di federali non s’azzardano a mettere piede in casa mia e quegli stronzi dei tuoi fratelli non so manco che cazzo di fine hanno fatto”

“bene”

“oh almeno l’ucraino quella testa di cazzo di Terry te l’ha insegnato, sì?”


Urlargli contro mentre lo picchiava sino a farlo svenire quand’era appena un bambino è considerabile insegnamento?


“qualcosa – eclissa rapido Mickey, strofinandosi la punta del naso all’indice – Troieshchyna?”

“sì, la merdosa Kiev”


Dice soltanto Bob, senza aspettarsi un grazie, senza attendere un ciao, riagganciando la conversazione.
E Mickey continua a ripetersi quel nome, Natalija Milkovich, non sa quasi nulla di lei, insomma sapeva che esisteva, che era da qualche parte in Ucraina, che Terry non voleva parlarne e che ogni volta che la madre osava nominarla erano pugni e calci; il motivo Mickey non l’ha mai saputo e non glie mai interessato.

Inspira, accendendosi una seconda sigaretta, è già in una situazione di merda, sperduto in Messico, solo come non mai, senza agganci e ricercato da ogni singola forza dell’ordine statunitense; che cazzo potrebbe andare peggio se provasse davvero a volare in Ucraina?
Al massimo finirebbe in carcere, nuovamente, ma del resto non è più neppure certo di avere un motivo, uno valido, per restarne fuori.

Si solleva dal letto pigramente, strofinandosi gli occhi al palmo delle mani, una nube di nicotina ne avvolge il volto, soffia via l’aspro odore dicendosi che, infondo, Bob ha ragione : tutto sarebbe meglio del merdoso Messico. 


 

 
Salve, 
innanzitutto grazie a tutti i silenziosi lettori e a coloro che hanno già aggiunto la storia tra le preferite/seguite/ricordate; grazie per la fiducia e l'interesse. 

Ho cercato di immaginare come potesse essere proseguita la storia di Mickey in Messico, ma sinceramente non sono proprio riuscita a vederlo bene lì così è entrato in scena uno zio (un po' un OC e un po' no) ed ho provato a spiegare il processo che a portato Mickey a volare per l'Ucraina; spero possa essere comprensibile e che non vi abbia annoiato. 

Sempre nel caso siate curiosi di sapere che aspetto ha la nonna ucraina vi lascio il presta volto :

Natalija Milkovich (anni 69) : http://assets.hlntv.com/uploads/v1/file/minimagick20151208313ut7rm_original_proportions.gif 


Grazie ancora, 
​alla prossima e, come al solito, critirche e consigli sono sempre ben graditi. 
 

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Capitolo 3
*** Chapter Three : The Best You've Ever Had (It's Just A Memory) ***


Chapter Three :
The Best You've Ever Had (Is Just A Memory)

South Side, Chicago, USA 

Il sordo riecheggiare di un tonfo, proveniente dalla cucina, fa sobbalzare Carl, interrompendone il riposo ed il gradevole sogno in cui si era rifugiato, balza giù dal letto a castello serrando la mascella; se Frank è tornato il solito ubriacone inutile giura che, questa volta, lo caccerà di casa definitivamente.
Scende le scale, passando dal salotto per afferrare la mazza da baseball appesa al muro, rigirandosela tra i palmi, avanzando a passo deciso verso la cucina; dalla porta dischiusa entra l’aria rigida d’inizio primavera ed una sedia giace al suolo.
Appoggiati, o meglio aggrappati, al bordo del tavolo Ian e Lip ridono come dei bambini chiassosi, sorreggendosi con fatica in un equilibrio decisamente precario; ubriachi.


“siete dei cazzoni”


Soffia Carl, poggiando la mazza al pianale in legno della cucina, tra i fornelli, oltrepassando i fratelli, chiudendo la porta con un colpo secco che li fa sussultare e ridere ancora più rumorosamente


“quanto cazzo avete bevuto?”


Non sa neppure cosa lo domanda a fare, sono visibilmente incapaci di camminare in linea retta figuriamoci formulare frasi di senso compiuto, Lip farfuglia qualcosa di incomprensibile ed Ian solleva il braccio in aria


“già”


Urla, ovviamente ha capito perfettamente quello che il fratello gli ha detto, tra ubriachi ci si capisce, si parla una lingua comune sospira Carl, sorreggendo prontamente Ian prima che cada al suolo nel ridicolo tentativo di sedersi in un posto vuoto, chinandosi poi a raccogliere la sedia ancora a terra di cui Lip approfitta senza esitare


“cazzo – mormora il minore dei fratelli, passandosi una mano tra i capelli castani – non ti sono serviti per un cazzo gli incontri degli alcolisti anonimi?”


Sbotta poi Carl, fissando Lip che sbatte le palpebre smarrito, le iridi azzurre patinate dai fumi dell’alcol, le labbra dischiuse ed un improvviso silenzio tombale ad aleggiare tra di loro


“che cazzo hai in testa? Lo sai che Ian non può bere troppo, cazzo”

“Fiona – farfuglia il rosso in risposta, ondeggiando una mano a mezzaria – come Fiona”

“fanculo – incalza Lip, cercando di accendersi una sigaretta, fallendo i primi quattro tentativi – non rompere il cazzo”


A Carl di essere il poliziotto cattivo, in casa, non gli è mai piaciuto, ha commesso la sua buona dose di errori, di stronzate ne ha fatte, è stato persino in riformatorio, non è di certo un santo e non si è mai sentito migliore di nessuno, ma da qualche anno ormai ha cambiato strada, ha messo da parte le cattive abitudini, o almeno le peggiori, e si è dedicato con ogni forza all’addestramento per diventare cadetto nella caserma di polizia; gli sta riuscendo persino bene e gradirebbe che anche quei due stronzi irresponsabili dei suoi fratelli facessero lo stesso.

Dannazione quando era piccolo era sempre Lip il più responsabile, il più maturo, il più intelligente, da lui ogni Gallagher si aspettava un futuro, se non pieno di soldi, quando meno migliore di qualsiasi altro futuro possibile in un quartiere di merda come il loro; che cazzo gli era successo?
Perché quello che Carl aveva davanti agli occhi, ora, non è più Lip, che n'è stato dell’intelligenza? E' questo il brillante uso che ha deciso di farne, affogarla in bicchieri colmi d’alcool?
Vuole diventare come Frank? Perché vedendolo così, i capelli biondo ramato appiccicati alla fronte imperlata di sudore e le iridi chiare lucide, comincia a somigliare decisamente troppo al padre; quel padre a cui aveva giurato di non voler somigliare quand’era piccolo. 

Ed Ian, una molla impazzita che si agita scomposto alla sedia, che gesticola come un folle cercando di disegnare cerchi di fumo, che ne è stato dell’Ian che sognava di diventare un ufficiale, di quell’Ian che ha lottato contro un disturbo che rischiava di schiacciarlo, di quello stesso Ian che si è costruito una vita migliore; lontano dalla merda di futuro che lo attendeva al varco dietro l’angolo di casa, che ne è dell’Ian che Carl conosceva?
Perché questo Ian, dalle iridi verdi dilatate di insana euforia, che ha mischiato litio e alcol, che ride come se non avesse cura di se stesso, d’una risata follemente indifferente, che parla veloce senza lasciare il tempo di comprendere alcuna parola, questo Ian non è di certo quello che Carl conosceva.


“vado a pisciare”


Lo urla Lip, alzandosi con fatica dalla sedia, vacillando, ghignando trionfale nel riuscire a mantenere un precario equilibrio, voltando le spalle ai fratelli che lo osservano salire le scale, le gambe si muovono a tentativi, manca alcuni gradini e si sorregge alla parete, impiega minuti prima di riuscire nell’ardua impresa e Carl non ha provato neppure a dirglielo che, nel caso se ne fosse dimenticato, c’era un bagno proprio lì, a due passi dal tavolo della cucina; si volta a fissare Ian


“quale cazzo è il tuo problema?”


Si rende conto solo dopo del tono brusco con cui quelle parole, che neppure avrebbe voluto dire, sono uscite dalle sue corde vocali, si arruffa i capelli ed il fratello mugugna qualcosa, inciampando tra le parole, gli occhi chiusi e la nuca reclinata all’indietro


“troppi…Mick…l’ho detto”


Riesce a cogliere soltanto Carl e non c’è bisogno di un genio per capire che suo fratello sta blaterando al passato, perso in chissà quale ricordo, la mente intrappolata in memorie che riemergono senza sosta, mozzandogli il respiro nei polmoni


“Ian – soffia cauto il minore, la voce pacata ed un’innata dolcezza a formarne un'amara ombra tra le labbra – Mickey non c’è”

“e dove cazzo è?”


Sobbalza il rosso, la nuca appesantita dalla sbronza ondeggia, le iridi verdi cercano frenetiche in ogni angolo della cucina e Carl inspira, poggiandogli una mano alla spalla


“se non lo sai tu – si morde la lingua, dandosi dell’idiota, non è certo questo che dovrebbe dire, ma ha sempre avuto il dannato difetto di far fluire libero ogni pensiero – non lo sa nessuno”


Cerca di correggersi, ma Ian non è lucido, nel sangue ha più alcol che globuli rossi ed una dose di psicofarmaci che agisce come droga a contatto con i liquori, Ian è, sostanzialmente, strafatto ed ha perso la cognizione del tempo e dello spazio, passato e presente si fondono nella mente senza divisione alcuna


“che cazzo…no, è sopra…è andato via..Mickey?”


Grida alzandosi di scatto, troppo velocemente, perdendo stabilità, aggrappandosi alle spalle di Carl che cerca di sorreggerlo come meglio può, calciando la sedia al muro


“Mickey”


Urla, guardando le scale, muovendo passi incerti ancora sorretto dagli avambracci del fratello che ringrazia, e maledice al tempo steso, ogni singola possibile divinità o forza superiore, quando Fiona serve non c’è mai o forse è meglio così, si dice.
Aiuta Ian a salire le scale, passo dopo passo, come faceva lui quando Carl era un bambino che inciampava su stesso


“Mick…è…in Messico, cazzo – la realizzazione arriva quando varcano la soglia della camera da letto ed il rosso nota il materasso vuoto – ho i soldi…ce li ho”


Carl non vuole neppure sapere che genere di folle logica unisca i pensieri confusi del fratello, quel che ha intuito gli basta, lo aiuta a distendersi, sfilandogli le scarpe, i ruoli sono stati invertiti; non dovrebbero essere i maggiori a prendersi cura dei minori?


“vado da Mick – soffia Ian, cercando di alzarsi, ricadendo poi nell’istante successivo – vado ovunque…da Mickey”


A Carl fa tenerezza, una morsa al cuore, un blocco alla bocca dello stomaco ed un pugno in trachea, è una tenerezza dolorosa quella che sente, dannazione non credeva che suo fratello pensasse ancora al Milkovich, era certo che, da quel che vedeva, dopo tre anni fosse ormai una storia passata, conclusa ed archiviata; e non un caso irrisolto rimasto inosservato per così tanto tempo.
Eppure, anche dopo la notizia della fuga, anche quando i telegiornali cominciarono a parlarne, Ian sembrava turbato, certo, ma affatto sconvolto, né tanto meno preoccupato, ed ora, a Carl, sembra una persona completamente diversa e si chiede quale fosse la menzogna?
La lucidità, si risponde, era lì la menzogna, è questa che vede la verità.

Resta a fissare il fratello respirare con fatica, girarsi sul fianco, rivolgere il volto al muro, le spalle scosse da singulti silenziosi, è quasi certo che stia piangendo e Carl con le lacrime non ha mai saputo come agire


“dormi – gli dice soltanto, c’è qualcosa di sorprendentemente maturo nella sua voce – buona notte, Ian”


Gli sfiora la spalla prima di risalire lentamente al letto a castello, scivolando tra le coperte, la stanchezza è passata in secondo piano, non la sente quasi più, ed il sonno è un’ipotesi così distante, si passa un braccio sotto il capo, volgendo lo sguardo ad Ian; le iridi chiare contratte da empatica tristezza.

Forse Mickey, se fosse stato qui, avrebbe saputo come agire o forse no ed avrebbe seguito l’istinto, si sarebbe disteso affianco al fratello, avrebbe proteso l’avambraccio a cingerne i fianchi e gli avrebbe rivolto qualche parola di rude dolcezza, Ian si sarebbe calmato, avrebbe respirato, forse si sarebbe persino voltato e tutto sarebbe migliorato, perché Carl ha una buona memoria ed una sola certezza; Mickey fottutissimo Milkovich riuscivba a far stare bene suo fratello ed era il migliore, a dispetto di quanto chiunque potesse avere la presunzione di credere, in questo.
Carl lo sa, lo ha visto con i suoi occhi, li ha sentiti con le sue orecchie, c’era la notte, in quella stessa stanza, e che cos’è l’amore è da loro che lo ha imparato; da Ian e da Mickey, soprattutto da Mickey.

Non capirà mai, non importa quanto provi a farlo o a chi chieda, non riuscirà mai a capire perché quel coglione abbia scelto di svanire nel nulla e, ancora meno, perché suo fratello lo abbia lasciato andare, prima del carcera e della fuga.
Forse, sospira Carl rigirandosi tra le lenzuola, anche questo è amore, abbandonarsi perché altro non si può fare, perché dicono che quando si ama così intensamente qualcuno allora si ha la forza di lasciarlo andare prima di ferirlo o ferirsi troppo, ma Carl non riesce a trovarvi un senso e se l’amore è questo allora fa davvero schifo e tutti i poeti e le canzoni e i film sono solo una menzogna; un’illusione che spezza il cuore.

Eppure Carl continua a pensare che, infondo, valga la pena provare, infondo, tutta questa storia dell’abbandonarsi per essere più felici suona come una grandissima cazzata, perché Ian non è felice, non così, perché Ian era felice prima; perché Mickey ed Ian insieme si distruggevano per modellarsi migliori.
Ed è convinto che, se soltanto non fossero cresciuti in questa merda di South Side, se soltanto la vita non gli avesse donato solo drammi e cicatrici indelebili, se fossero stati due ragazzi del North Side, o di qualsiasi altra cazzo di zona del mondo migliore di quest’ammasso di rifiuti, Ian e Mickey non si sarebbero abbandonati; o forse no, forse tutto doveva andare esattamente così, ma Carl preferisce di gran lunga addormentarsi pensando che, alla fine, l’amore è una dannata lotta con un pizzico di fortuna.  



Troieshchyna, Kiev, Ucraina 

La situazione è alquanto assurda, ne conviene Mickey osservando un ragno morire lentamente tra le piastrelle di quella casa diroccata, che si regge ancora in piedi per miracolo, sollevando poi lo sguardo al soffitto.
Da quanto è entrato è diventato paranoico, il tetto e le pareti sono così ammuffite ed erose dal tempo che potrebbero crollargli in testa da un momento all’altro e, sinceramente, Mickey non ha alcuna intenzione di morire tra alberi e strade dimenticate da tutti; avvolto dai fumi chimici di un cadavere corroso dall’acido.
Si aggiusta la maschera antigas che ne copre parzialmente il volto, pressandola ancora di più alla pelle, Maksym è stato chiaro : la sicurezza personale prima di tutto.
Mickey di biologia e reazioni chimiche non c’ha mai capito un cazzo, ma vedendo il cugino all’opera è comunque riuscito a cogliere il nesso, più basilare, nascosto dietro quel soprannome con cui tutta Kiev e, probabilmente, la maggior parte dei criminali ucraini e buona parte di quelli russi lo conoscono : алхімік. (l’alchimista)

Controlla il telefono, constatando che il pezzo di merda ci sta mettendo più del previsto a sciogliersi, non sa neppure chi sia, sa soltanto che ha parlato un po’ troppo di cose che non lo riguardavano, che c’entra qualcosa la mafia russa, e cosa fondamentale che farlo fuori ha fruttato ingenti quantità di denaro; ad Oleksandr per premere il grilletto è bastato sapere anche meno.
Si volta ad osservarlo, euforico come un ragazzino il giorno di Natale, dalle cuffiette premute ai timpani, che il fratello lo ha costretto ad indossare per non attirare eventuali ed ipotetiche attenzioni indesiderate, giunge lieve una melodia decisamente troppo allegra, una canzone dai suoni metallici, probabilmente uno di quei generi da discoteca che anche Ian ascoltava; si morde il labbro Mickey, nascosto dietro la maschera antigas.

Era certo che, dopo tre anni di lontananza, fosse riuscito a seppellire ogni ricordo legato al rosso in qualche angolo inesplorabile della mente, ma il subconscio è una puttana che non dorme mai e Mickey si ritrova ancora a dover fare i conti con improvvise reminiscenze, flashback di un passato che dovrebbe restare tale; che vorrebbe solo dimenticare. 


“чому ж ми ще трачу тут?”  (per che cazzo siamo ancora qui?)


Esclama, la voce camuffata dalla plastica che ne copre le labbra, Oleksandr neppure lo riesce a sentire, troppo impegnato ad improvvisarsi ballerino in una dannatissima discoteca, Maksym si limita ad indicare il contenitore in polietilene


“ми ховаємо його поза 
(seppelliamolo fuori) – dice, afferrandone con estrema cautela il lato destro – і тоді ми можемо піти” (e poi possiamo andare)


Mickey inspira, chiedendosi che cazzo sia venuto a fare Oleksandr, per restarsene lì ad ascoltare musica decisamente discutibile?
Sbuffando si posiziona al lato sinistro del contenitore, fortunatamente quel folle genio di suo cugino ha ben pensato di procurarne uno decisamente maneggevole, certo è stato necessario fare a pezzi il testa di cazzo prima di gettarcelo dentro, ma a quello c’ha pensato Oleksandr, aveva un viso così sereno mentre sminuzzava pezzo dopo pezzo la vittima che, a guardarlo, sembrava quasi un bambino innocentemente impegnato nel più divertente dei giochi, probabilmente è per questo che il fratello se l’è portato dietro; infondo c’è un motivo se nel giro è conosciuto come il м'ясник. (macellaio)

Fortunatamente, questa volta, la buca se la sono preparati preventivamente, c’ha pensato Serhij che, piuttosto che dover sopportare la fastidiosa maschera antigas e macchiarsi le nuove, costosissime, scarpe si è offerto di fare il palo all’esterno


“ми закінчили?” (abbiamo finito?)


Chiede, gettando il mozzicone di sigaretta al suolo, fissando Mickey ed il fratello adagiare con cura il contenitore plastico all’interno della buca, afferrando poi la pala poggiata al muro; alla sua sinistra


“збирати 
(raccogli) – ordina Maksym, alludendo al residuo di sigaretta gettato tra i radi fili d’erba – вони не можуть…”  (non devono…)

“залишати сліди, tак, так 
(restare tracce, sì, sì) – lo scimmiotta il fratello, chinandosi di malavoglia, assecondandone il volere, ricoprendo il contenitore di terra – ми можемо піти? ебать я став бурулька тут за межами як яєчко ”  (possiamo andare? Cazzo qua fuori mi sono congelato come un coglione)

“ти є яєчко 
(tu sei un coglione) – puntualizza Maksym senza tuttavia alcuna cattiveria, la voce solitamente apatica resa quasi più umana da una strana e personale manifestazione d’affetto – Олекс зупиняє це робити музика дерьмо” (Olek smettila con questa musica di merda)


Esclama poi, volgendo l’attenzione al fratello riemerso dalla casa con la maschera antigas ancora in volto, se la sfila rapidamente, gettandola nella sacca scura che gli pende al fianco, imitato da Mickey che non vedeva l’ora di liberarsene e Maksym, il sottile ghigno che ne dischiude le labbra non può neppure essere definito sorriso, è un’ombra, una linea appena percettibile, ma è quanto si concede durante il lavoro; stringe le chiavi della Jeep nera opacizzata tra le dita e si siede al posto guida, mettendo in moto non appena i fratelli e Mickey si posizionano ai sedili.

Il corvino respira l’aria pura dell’abbandonata periferia dal finestrino dischiuso, lasciando fuoriuscire nicotina, afferrando il telefono dalla tasca dei jeans consumati, digitando rapido un messaggio di risposta : “Так, ебать, я чортів  голодний “ (cazzo, sì, ho fottutamente fame)

E la sagoma di un sorriso si plasma tra le labbra, illuminandone le iridi chiare incredibilmente espressive, non lo ammetterebbe a nessuno mai, neppure a sé stesso, ma il fatto che ci sia qualcuno ad aspettarlo, a chiedergli se pranzeranno insieme, a domandargli tra quanto tornerà, ad attenderlo a casa, è una sensazione decisamente gradevole; fa sentire meno soli, meno smarriti, contribuisce a ricacciare con forza ogni ricordo del passato in un angolo impolverato della mente.

Mickey non commetterà l’errore d’ammetterlo, mai, non questa volta, ma la presenza di Yehor, condividere un letto ed un casa insieme a qulla nuca castana perennemente arruffata e a quegli occhi verdi, maculati di grigio, dal guizzo estroso dell'artista, è uno dei lati postivi di quella gelida Ucraina piena di pazzi; pazzi con cui condivide un cognome di cui, ora come non mai, è piuttosto fiero. 


 

 

Un doveroso ringraziemento ai silenziosi lettori e a tutti coloro che aggiungono a preferite/ricordate/seguite la storia, grazie mille. 
Se avete critiche o consigli non esistate, sono sempre utili e ben accetti. 
Mi spiace che il peronaggi di Carl, forse, è un po' OOC, ma l'ho immaginato un po' più grande. 

Come al solito, se siete curiosi, vi lascio i presta volto dei nuovi personaggi presentati in questo capitolo : 

Serhij Kyrylo Milkovich (23 anni)  : https://i.pinimg.com/564x/4c/17/ce/4c17ced709b6ec8d6558f384f6e4cd95.jpg

Yehor Viktor
Prokopovich (23 anni) : http://24.media.tumblr.com/f98dbd82d7f71d662b71c4d362829614/tumblr_mr1oqn8U8w1rjn473o1_500.gif

Grazie, 
alla prossima 


 

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Capitolo 4
*** Chapter Four : Can You Dream At All? ***


Chapter Four : 
Can You Dream At All?

Indianapolis, Indiana, USA 

La sottile seta dell’elegante vestito le sfiora le spalle, ricadendole delicata lungo i fianchi, una seconda pelle fatta di raffinata stoffa violacea, fili biondi formano onde mosse che s’infrangono tra la pelliccia perlacea che ne copre le nude scapole, discendendo morbida sino a metà vita, cerca le chiavi nella pochette argentea che stringe tra le mani; un’altra giornata lavorativa conclusa, sospira aprendo la porta di casa.
Accende la luce, sfilandosi le scomode decolté perla, gettandole ai piedi del piccolo mobile in legno su cui posa le chiavi, si richiude la porta alle spalle, sfilandosi la pelliccia, lasciandola giacere al divano, inspira aggirandosi nel salaotto, i lembi del lungo vestito striscino al suolo, apre la piccola credenza degli alcolici, afferrando una bottiglia di pregiato scotch, versandosene due dita in un ampio bicchiere; rigirandoselo tra le mani.
Scivola poi lenta al divano, socchiudendo gli occhi, la testa minaccia d’implodere, ha passato le ultime tre ore ad ascoltare noiosissimi discorsi, farciti di banali luoghi comuni e finti sorrisi, sull’importanza della beneficienza, magistralmente espressi da ricchi disinteressati mascherati da filantropi; la superficialità d’una classe sociale che non ha mai vissuto la povertà.
Inspira poggiando le labbra al bicchiere, una mezza luna perlacea si forma al bordo lasciando il segno del delicato rossetto, ingolla lo scotch in un singolo sorso poggiando poi il vetro trasparente al basso tavolo di fronte al divano, afferrando le sigarette lasciate lì dal pomeriggio, accendendosene una.

Routine, abitudinaria routine, sorridere e sfilare, sorridere e fingere, è diventata una bambola da mostrare, un accessorio per uomini così ricchi da potersi comprare qualsiasi cosa, inclusa la compagnia di una donna trofeo; è questo che è diventata la sua vita.
Nei primi mesi da escort le sembrava tutto così semplice, persino gradevole, veniva pagata per presenziare al fianco di uomini facoltosi, non doveva neppure preoccuparsi del trasporto o del vestiario, pagavano tutto quegli uomini e non era neppure costretta a farvi sesso, ma se capitava allora poteva chiedere un’aggiunta al pagamento ed i soldi, tutti quei soldi che guadagnava, le permettevano di comprare cose che non sarebbe mai riuscita neppure ad immaginare di poter avere; le sembrava il lavoro perfetto.
Poi, lentamente, la monotonia, la noia, la consapevolezza, i racconti delle colleghe, i clienti arroganti, le sue vecchie coinquiline perennemente tristi, le esperienze vissute la portarono ad odiare la vita che si era costruita; ma che altro avrebbe potuto fare, tornare a servire caffè in qualche squallido locale per pochi spiccioli?

No, Mandy non aveva alcuna intenzione di rinunciare ai dollari che le gonfiavano il portafoglio, al conto in banca che si era potuta permettere di aprire, al libretto d’assegni che aveva imparato ad usare, alla sicurezza economica che non aveva mai avuto.
Restò, ingoiò l’amaro boccone della consapevolezza e restò lì, nell’Indiana, a farsi comprare come una bambola in un catalogo.
E cominciò ad essere così brava in quel lavoro, così richiesta, che i guadagni aumentarono sempre di più sino a permetterle di trasferirsi ad Indianapolis, in un quartiere agiato, in un appartamento confortevole al penultimo piano d’un grattacielo abitato da imprenditori, avvocati e dottori, in una zona tranquilla animata solo dal traffico cittadino.

Si abituò, semplicemente, si disse che il denaro era più importante della felicità e che, infondo, poteva ancora essere serena, le bastava sopportare; era cresciuta nella difficile arte della sopravvivenza, poteva affrontare anche questo.
Infondo la vita non era poi così male, era lontana dal South Side, da quello stronzo di suo padre, dalla criminalità del ghetto, dalla violenza e dai costanti festeggiamenti per qualche Milkovich uscito di galera; viveva nella stabilità che non aveva mai avuto.

A tagliare i rapporti con il passato, però, non ci riuscì, non del tutto, a lasciare Iggy fuori dalla sua vita non se la sentì e, per quanto difficile fosse, non riuscì neppure ad ignorare Mickey; andò persino a trovarlo in carcere una o due volte, poi non ce la fece più.
Vederlo lì, chiuso dietro un vetro, la barba incolta e i capelli sempre più lunghi, il volto consumato dalla tristezza che ne appannava le iridi, la faceva sentire così impotente, così inutile, e smise di fargli visita, ma continuò a chiamarlo; era più facile sentirlo se non ne vedeva i segni della stanchezza addosso. 
Provò ad essergli di conforto, come quando erano dei ragazzini abbandonati a loro stessi, provò a sostenerlo come meglio poteva, gli promise persino che quando sarebbe uscito l’avrebbe trovata lì, come ai tempi del riformatorio, ad attenderlo e Mickey la lasciò parlare, senza ascoltarla; Mandy lo capì quando ricevette quella dannatissima telefonata.

Suo fratello, quell’idiota di suo fratello, era evaso dal carcere, fuggito chissà dove, assieme ad un messicano affiliato ad una qualche gang latino americana; fu Iggy ad avvertirla, sperava che fosse andato da lei nell’Indiana.
Per giorni si disse che sarebbe andato tutto bene, che Mickey sapeva cosa faceva, che sarebbe riuscito a sopravvivere, ovunque fosse, e per giorni, mesi, attese una chiamata che mai arrivò.
Mickey era svanito, dissoltosi nel nulla, senza lasciare traccia.

L’odiò, ogni volta che accendeva la televisione, che ne leggeva le notizie in qualche giornale lasciato tra i sedili della metropolitana, l’odiò per giorni, per non aver rispettato quello che si erano detti, le promesse fatte, per essersene andato senza chiamarla, per averla abbandonata; fuggendo chissà dove lontano da lei.
L’odiò e l’aspettò odiandolo, aspettò una chiamata, un messaggio, un segno, qualsiasi cosa le facesse capire che Mickey stava bene, che ovunque fosse se la stava cavando, che non era andato via per sempre.
Ed aspettò, per giorni, mesi, aspettò inutilmente finché persino l’odio non scemò lentamente, la preoccupazione si nascoste dietro altri mille pensieri di banale routine e la quotidianità tornò ad occupare le giornate di Mandy.
Rimase, costante, quel pensiero, quella paura, quella sensazione di solitudine, di rabbia, restò tutta la confusione sopita in qualche angolo della mente; ma Mandy la ignorò, testardamente. 
Mickey se n’era andato, suo fratello era fuggito dal South Side, aveva scelto di lasciarsi la vita che aveva alle spalle, senza guardarsi indietro, e non l’avrebbe mai più rivisto; Mickey era un ricordo.

E Mandy, in quei tre lunghi anni, cercò di convincersi che, infondo, quello che suo fratello aveva fatto, la scelta che aveva intrapreso, non era diversa da quel che lei stessa fece tempo prima e si disse che, alla fine, era meglio così; lontano dal South Side si soffre meno.

Inspira Mandy, gettando la nuca all’indietro, poggiandola allo schienale del divano, fissando il bianco soffitto ed il lampadario che pende, socchiude gli occhi soffiando nubi di grigio fumo, per tre anni ha ignorato quel costante pensiero, per tre anni ha fatto quel che le è sempre riuscito meglio; vivere per lottare un altro giorno ancora e sopravvivere.
C’è riuscita, così fottutamente bene, per tre lunghissimi anni e poi, d’un tratto, all’improvviso, riemerso da lontani ricordi, quel pensiero è tornato a soffocarla, a farle mancare il respiro nei polmoni e stringerle lo stomaco in una morsa di malinconica mancanza; non può impedirsi d’incolparlo.

Chi gli ha dato il permesso, in una noiosissima mattinata invernale, di rompere la quotidianità e farle quella domanda; quell’unica domanda che non avrebbe mai dovuto porle nessuno, men che meno lui?
Chi ha dato il permesso ad Ian Gallagher di scriverle un messaggio confuso, dopo mesi di silenzio, e chiederle di lui, di Mickey?

Espira nicotina Mandy, muovendosi per inerzia, cercando il cellulare nella pochette argentea gettata all’angolo del divano, stringendolo tra le mani tremule, l’indice scivola incerto tra i cristalli liquidi


 
“Ehi Mands, come stai? È da un po’ che non ci si sente eh? Mi dispiace…scusa se sono stato uno stronzo, avrei voluto scriverti…ma non sapevo come o cosa dirti e…scusa”


Già, sospira Mandy, premendo il mozzicone consumato della sigaretta al posacenere, stronzo è l’aggettivo giusto, da quando si incontrarono l’ultima volta, il giorno dell’incidente con quel cliente dalle tendenze violente, non si sentirono più; per quanto Mandy provò a cercarlo, Ian non rispose mai a nessun messaggio

 
“è solo che…ho avuto così tanti pensieri, così tante cose per la testa che…mi dispiace e, so che non ne avrei alcun diritto, sarai incazzata con me e cazzo me lo merito, ma…Mandy io non ci riesco, devo saperlo…tu sai dov’è Mickey, vero? Sta bene? Ti prego, voglio solo saperlo…per favore…”


Piacerebbe saperlo anche a lei dove diamine è quello stronzo di suo fratello, ma la verità è che se n’è andato, così, semplicemente, senza dire nulla, senza lasciare tracce; è svanito nel nulla come la nube di fumo che si dissolve nell’aria salendo verso il soffitto.
E, in quei tre lunghissimi anni, è riuscita a farsene una ragione Mandy, a convivere con quella sgradevole sensazione d’abbandono, con quella costante paura di saperlo lontano, per sempre, chissà dove e chissà come, è riuscita a viverci, a seppellire ogni pensiero dietro quotidiana e banale routine finché non è arrivato quel massaggio; finché Ian non ha deciso di scoperchiare il vaso di Pandora e far riemergere con forza devastante ogni singola emozione.
Deglutisce a vuoto Mandy, scostandosi una ciocca bionda dietro l’orecchio, accendendosi una seconda sigaretta, le dita tremano tra i cristalli liquidi

 

“che cazzo te ne frega Ian, non hai un fottuto fidanzato perfetto? E comunque non lo so dove cazzo è”


Soffia nicotina, versandosi altro scotch al bicchiere, gettando il cellulare al divano, cercando di ignorarne l’insistente vibrazione, a quanto pare il Gallagher deve aver atteso impazientemente la sua risposta, forse è dalla mattina che attende; Mandy ne ignora le sei chiamate, ma decide di leggere comunque quel secondo messaggio

 
“mi dispiace, sono stato uno stronzo, possiamo vederci? Mi piacerebbe incontrarci...e non sto più con quel coglione”


Mandy sbuffa una risata acerba, la sigaretta pende tra le labbra perlacee, cenere cade al suolo sfiorandole la stoffa del vestivo, picchietta le dita allo schermo, incerta, rigirandosi il bicchiere nella mano libera

 
“andrò a trovare Iggy, in settimana”

“potremmo incontrarci da qualche parte”

“ci metteremo d’accordo, sì”

“fantastico, grazie Mands”


Espira nicotina, poggiandosi il bicchiere alle labbra, ingollando il liquore, digitando un rapido

 
“fanculo, Gallagher”


Reclinando la nuca al soffitto, sorridendo alle bianche pareti, infondo, quel rosso dalla parlantina fluida e lo sguardo da alieno pazzo, come lo definiva Mickey, in quei tre dannati anni, un po’ le è mancato. 




South Side, Chicago, USA 

A Svetlana è rimasto soltanto lui, suo figlio, quel figlio inatteso, che è cresciuto ignorato dentro di lei e che, da quando è nato, le ha cambiato la vita.
Tutto quello che ha fatto, errori inclusi, lo ha fatto per lui; per Yevgeny, per assicurargli un futuro migliore, una vita migliore.

Si è vista costretta a firmare gli atti di cedimento della proprietà dell’Alibi a Kevin e lasciare la casa che a lungo hanno condiviso, cacciata come una ladra da Veronica, ha visto ogni vestito, ogni giocattolo, ogni singolo pezzo della vita che con fatica si era costruita, divenire cenere; impossibilitata a reagire, non ha potuto nulla contro la minaccia di espatrio.
A lungo si è chiesta se Veronica ne avrebbe avuto davvero il coraggio, di chiamare l’immigrazione e rispedirla in Russia, senza battere ciglio, condannando quel figlio che anche lei aveva cresciuto al medesimo destino.
Per mesi si è domandata se Yevgeny fosse mai stato amato da altri che non fossero lei, se avesse ricevuto da quei genitori temporanei lo stesso amore che donavano alle piccole gemelline o se, invece, fosse solo un accessorio, un'aggiunta, un prolungamento inseparabile di Svetlana che Kevin e Veronica si erano solo limitati ad accettare come inevitabile conseguenza.

Ha trascorso ore e giorni a spiegare, il più semplicemente pensabile, il meno dolorosamente possibile, al figlio per quale motivo si fossero trasferiti in uno squallido appartamento senza mobilio, freddo e silenzioso.
Ha trascorso ore e giorni a cercarne di asciugare lacrime d’innocenza dagli occhi azzurri del figlio, sperando segretamente che potesse restare tanto ingenuo in eterno e non scoprire mai la provenienza di quei pochi soldi che gli permisero, con lentezza estenuante, di comparsi mobili, cibo e vestiti.

Ci vollero due lunghi anni per rimettere insieme i pezzi di una vita crollata sotto il peso di inganni e menzogne, bugie che Svetlana credeva essere bianche, ripartita, nuovamente, dal principio si fece forza ripercorrendo i passi iniziali; la prostituzione le fece guadagnare i soldi necessari per rincominciare, un piccolo negozio d’alimentari le permise di liberarsi del peso di uomini vili e rozzi ed aprirsi un conto in banca, un secondo lavoro serale in un pub che puzzava di fumo e cibi dai sapori asiatici le dette la possibilità di istruire il figlio e, lentamente, ogni pezzo tornò al posto giusto.

Le ci sono voluti due anni, due lunghi anni, ma alla fine Svetlana è riuscita a riconquistarsi quel diritto ad una vita migliore che ha sempre preteso di avere.
Si è falsificata i documenti, risulta cittadina americana ora, si è accertata che il figlio abbia ancora la cittadinanza per diritto di nascita ed ha scoperto che, malgrado la fuga del padre, malgrado il divorzio, Yevgeny risultava ancora un Milkovich agli occhi dello stato dell’Illinois; Svetlana non era neppure certa che Mickey l’avesse mai riconosciuto, forse si sbagliava su di lui, infondo non era poi così male come le piaceva credere.

Forse, se fosse rimasto, se non l’avessero condannato ad otto anni di carcere e se non avesse commesso la follia d’evadere, Svetlana sarebbe tornata da lui, in quella casa che credeva di odiare, ma da cui, infondo, nessuno l’aveva mai costretta ad andarsene, sarebbe rimasta con lui che, malgrado sporadiche minacce, non sarebbe riuscito a cacciarla davvero; né a rispedirla nella fredda e gelida Russia da cui era fuggita. 

Perché Mickey Milkovich aveva difetti, solo difetti direbbe Svetlana se qualcuno glielo chiedesse, ma mentirebbe mascherando la consapevolezza che, dietro quel travestimento da ragazzo duro del South Side, si nascondeva un’anima ferita, fragile, in grado di provare incondizionato, sincero e leale amore.
Perché, infondo, Mickey Milkovich era soltanto un ragazzino che, come Svetlana, aveva compiuto ogni gesto, ogni azione, in nome della crudele sopravvivenza, un ragazzino che aveva fatto tutto quel che era nelle proprie forze per prendersi cura di quelle poche persone che amava e, forse, sarebbe potuto diventare un padre migliore di quanto esso stesso potesse mai pensare.
Perché, alla fine di tutto, Mickey Milkovich non era diverso da ciò che anche Svetlana è; una donna dell’est Europa nata per lottare contro la crudeltà di un mondo che ha sempre cercato di schiacciarla, che non le ha mai mostrato rispetto, cresciuta nella consapevolezza di dover combattere per la sopravvivenza, di dover reprimere la fragile pericolosità delle emozioni dietro fredda determinazione, aggrapparsi alla vita e non permettere a niente e nessuno di calpestarla. 


мать" (mamma)


Pigola Yevgeny, stropicciandosi gli occhi stanchi, d’un intenso azzurro oceano, simili a quelli del padre, poggiandosi allo stipite della porta, cercando Svetlana all’interno del piccolo salotto


ты не можешь спать?" (non riesci a dormire?)

нет, кошмар" (no, incubo)


Biascica storpiando alcune lettere tra i denti, stringendo il peluche a forma di gatto nocciola al gracile petto, Svetlana inspira, aggirando il divano che li divide, chinandosi alle ginocchia, carezzandone i capelli, un tempo biondo platino, che stanno lentamente cominciando a degradare in un castano chiaro


ты хочешь, чтобы я рассказал тебе сказку?" (vuoi che ti racconti una storia?)


Il piccolo annuisce, lasciandosi sollevare tra le braccia della madre, raggomitolandosi al petto


мать (mamma) – bisbiglia Yevgeny, prendendo posto sotto le coperte tempestate da disegni di supereroi – расскажи мне историю мыши Мика" (racconti la storia del topo Mick?)


Chiede timidamente, aggiustandosi al materasso, stringendo le ginocchia al ventre, Svetlana ne carezza, con una dolcezza che concede solamente a lui, la pallida guancia arrosata dall’improvviso risveglio, dischiudendo le labbra in un’impercettibile sorriso mesto


Когда-то была смелая мышь..." (c’era una volta un topolino coraggioso…)


Un giorno, si dice Svetlana scostando ciuffi sottili dalla fronte del figlio, gli dirà che quella storia, quella storia che gli piace tanto, che è la sua preferita, è la storia di quel padre che non ha potuto conoscere e che non potrà mai incontrare ma che, ne è certa Svetlana, così vuole credere, gli ha voluto e gli vorrà per sempre un po' bene.



 
Ringrazio i silenziosi lettori e tutti coloro che hanno aggiunto e stanno continuando ad aggiungere la storia tra le seguite/ricordate/preferite; grazie mille a tutti. 
Spero che il capitolo non risulti troppo OOC e che non vi abbia annoiato, ma la mia mente le vite di Mandy e Svetlana le ha immaginate così, come al solito critiche e consigli sono sempre ben accetti. 
Grazie ancora, 
alla prossima. 

 

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Capitolo 5
*** Chapter Five : (Not) Gone ***


~ Chapter Five : (Not) Gone ~


Troieshchyna, Kiev, Ucraina 

Yehor si aggira per la stanza, i boxer scuri ne sfiorano la candida pelle, coprendone appena le parti intime, i castani capelli arruffati ed una domanda sulla punta della lingua, una domanda che ha cercato di respingere per anni, da quel giorno in cui lo incontrò per la prima volta, quel giorno in cui si presentò accompagnato da Serhij e gli chiese di coprire, non importava come, un tatuaggio chiaramente di artigianale fattura, tremulo e sbiadito, d’uno sgradevole color bluastro ed Yehor, per amore dell’arte, accettò senza perdere ulteriore tempo.
Fece del suo meglio, disegnando su quella pelle pallida un’opera che, col senno di poi, si adatta perfettamente al vissuto di Mickey, coprendo quel nome inciso manualmente, quel nome che per giorni incuriosì Yehor; ma il coraggio di chiedergli chi fosse quell’Ian Galagher non lo trovò mai, neppure dopo, quando divennero decisamente più intimi.

Il problema, in quei mesi, era il timore che una qualsiasi domanda sbagliata avrebbe potuto allontanare Mickey e, sinceramente, Yehor non aveva alcuna intenzione di rinunciare a quel corpo robusto sopra di lui e al sesso, al dannatamente perfetto sesso, con cui s’intratteneva nelle giornate di noia.
E poi quel sesso si tramutò in lenta, lentissima, conoscenza e, altrettanto lentamente, divenne convivenza ed Yehor a quel punto si sentì impossibilitato a chiedere, ma quel nome continuava a ronzargli tra i pensieri, infastidendolo ed incuriosendolo contemporaneamente; ma si disse che non poteva rovinare quel che avevano, qualsiasi cosa fosse.

Eppure oggi sente che è giunto il momento, a trattenere quella domanda Yehor non ci riesce più, ha bisogno di sapere, un bisogno viscerale, imporsi silenzio è impossibile ormai, inspira, catturando tutto l’ossigeno possibile


хто був?" (chi era?)


Chiede, poggiandosi allo stipite della porta, la nuca emerge timidamente dalla camera affacciandosi al corridoio, catturando le iridi di Mickey, placidamente poggiato al bordo del pianale da cucina, tra le dita una tazza, ancora poggiata alle labbra, arcua un sopracciglio


ім'я (il nome) – aggiunge Yehor, avanzando lento, sino a portarglisi di fronte – що ти татуював, перший" (quello che avevi tatuato, prima)


Mickey s’irrigidisce, il caffè vibra impercettibilmente racchiuso nella tazza, vi affonda il volto all’interno, quasi a volersi nascondere, ma non può nascondersi da un ricordo


ви були (stavate) – mormora incerto il castano, poggiando i palmi al pianale in marmo che li divide – він був...це був ваш хлопець" (eravate…vi frequentavate?)


Il Milkovich stringe la tazza tra le dita della mano destra, sino a renderne pallide le nocche, le lettere impresse alla pelle risaltano ancora di più, rendendo quasi chiaro un implicito messaggio; vaffanculo.

Dannazione era una mattinata perfetta, la primavera rendeva il clima meno rigido, non aveva impegni per la giornata, poteva rilassarsi, perdere tempo a fissare il televisore o commentare i disegni che, con infantile insicurezza, Yehor gli avrebbe mostrato per qualche futuro cliente da tatuare ed invece, a quanto pare, quell’idiota aveva deciso di rovinargliela.
Tre anni, tre fottuti anni, e mai una volta che avesse pensato di chiedergli di quel nome, quel cazzo di nome che si era fatto nascondere sotto altro inchiostro, era quasi certo che non gli importasse, che se ne fosse persino dimenticato; come diamine gli veniva in mente di domandarglielo proprio ora?

Cosa può rispondergli?
Che erano una coppia, forse?
Non ne era mai stato certo neppure lui, quel che erano non se l’è mai neppure chiesto, erano loro e a Mickey questo bastava.

Si morde il labbro inferiore, torturandoselo come i pensieri torturano la mente, memorie di tempi passati riemergono, un’onda travolgente di sensazioni, un uragano d’emozioni confuse, cos’era Ian?

Cos’erano loro?

Dov’è Ian, ora?


виправдання (scusa) – soffia sottile Yehor, affiancando il corvino, sfiorandone la spalla – Мені було просто цікаво...вам не потрібно відповідати, якщо ти не хочешero" (ero solo curioso...non rispondermi, se non vuoi)

що ти хочеш, щоб я вам розповідав?" (che cazzo vuoi che ti dica?)


Sobbalza Mickey, ritraendosi da quel lieve contatto che brucia, come fiamme infernali, diamine non credeva d’essere così sentimentale, ma la morsa alla base del ventre, il macigno alla bocca dello stomaco, quella sgradevole sensazione, qualcosa che forse somiglia al senso di colpa, è più insopportabile di un coltello conficcato tra le costole; incolpa quella testa rossa che credeva d’essersi lasciato alle spalle, è lui che l’ha reso così debolmente emotivo.
Non dovrebbe neppure sentirsi colpevole, per cosa poi?

Per essere andato avanti, per aver cercato di dimenticare Ian?

Per averne sostituito l’assenza?

Forse è questo, ragiona Mickey, il punto.

L’ha sostituito, con Yehor, un mero rimpiazzo.

No, sarà pure stronzo, si dice Mickey, ma non può negarsi di provare qualcosa, qualcosa di più intenso, reale, sincero per quella testa castana, perennemente china tra fogli colorati e matite consumate.
Forse è per questo che si sente così dannatamente colpevole, credeva che con Yehor avrebbe smesso di pensare ad Ian; definitivamente. 


нічого (niente) – sussurra il castano, passandosi una mano tra i capelli, è agitato Mickey lo nota da quegli occhi verde, macchiati di grigio, che vagano incerti da un punto all’altro della cucina – тільки...це було важливо?" (solo…era importante?)

хер (cazzo) – sibila il Milkovich, gettando la tazza, ancora colma di caffè, al lavandino, poggiandovisi contro – ти не маєш чортів, щоб робити?" (non hai qualche fottuto disegno da fare?)


Incrocia le braccia al ventre, sollevando le sopracciglia a formare archi d’imbarazzo e rabbia, quella domanda non andava posta, era l’unico limite mai espresso, oltrepassarlo era implicitamente proibito ed Yehor deglutisce a vuoto, annuendo impercettibilmente.
Non ha bisogno di sentirle da Mickey quelle parole che sono impresse in ogni centimetro del volto, che ne fanno tremare le iridi azzurre, che ne irrigidiscono ogni muscolo, chiunque fosse quell’Ian Galagher era importante, dannatamente importante, per lui ed una paura, un timore sopito, represso negli ultimi due anni con cieco ottimismo, si tramuta in un brivido che risale la spina dorsale di Yehor; se quel nome tornerà lo schiaccerà escludendolo e, anche dovesse restare un fantasma, sarà sempre costantemente presente, una memoria che aleggia tra di loro, anche se dovesse restare soltanto un nome continuerà ad essere l’unica vera minaccia.

Infondo Yehor l’aveva sempre sospettato, poteva coprire quel nome, imprime così tanto inchiostra proprio lì, in quel punto, ma non poteva fare nulla per le memorie ad esso legate, non importava quanto c’avrebbe provato, con quanta forza o intensità, non sarebbe mai riuscito a cancellare il peso di memorie distanti racchiuse nella mente di Mickey.
Non importa, cerca di dirsi Yehor, basta anche questo, i momenti sereni, le risate spensierate, quel che hanno avuto e quel che hanno ancora, basta questo si ripete ed un sorriso mesto ne plasma le carnose labbra color salmone, vorrà dire che s’impegnare a far durate tutto questo, a renderlo ricordi indelebili, a marchiarsi come inchiostro su pelle tra le memorie di Mickey, anche solo d’alcune.


ебать Еор (cazzo Eor) – esclama Mickey, afferrandogli le spalle, guardandolo dal basso di qualche centimetro di differenza – у вас є забагато дурних думок в цій проклятій голові" (ti girano troppi pensieri del cazzo in quella fottutissima testa)


Yehor gli direbbe che è colpa sua, dei suoi innumerevoli segreti e silenzi, di quel dannato passato di cui non parla mai, ma le labbra del Milkovich glielo impediscono ed un sorriso incerto s’infrange tra i denti del corvino


зробити їх мовчати" (falli stare zitti)


Soffia questi, carezzandogli di rude dolcezza la nuca, spingendone poi il capo con un buffetto lieve ed Yehor si lascia sfuggire un risolino spensierato, afferrandogli  il bordo della sottile canottiera scura


може ти можеш мені допомогти" (magari puoi aiutarmi tu)


Soffia mellifluo, umettandosi le labbra malizioso ed un sorriso sincero plasma le labbra di Mickey, non ha bisogno di nasconderlo, non vuole nasconderlo; Yehor deve vederlo, deve mostrarglielo


чи ми колись зробили це на кухні?" (l’abbiamo mai fatto in cucina?)


Chiede Yehor, sfiorando sensuale il lobo destro del corvino, le mani discendono con estenuante lentezza lungo i fianchi, perdendosi al di sotto dello scuro tessuto


ми зламали три прокляті чашки" (abbiamo rotto tre fottute tazze)

що ми хочемо сьогодні розбити?" (cosa vogliamo rompere oggi?)


Sogghigna di pura lussuria Yehor, gettando la canotta al suolo, catturando le labbra di Mickey tra le sue, lasciando che le mani del corvino s’insinuino con prepotente delicatezza tra la stoffa dei suoi boxer; mugugnando d’impaziente piacere.


 
 
South Side, Chicago, USA 
 
Ancora stenta a riconoscerla, siede al tavolo in cucina da minuti eppure ad Ian risulta ancora difficile scorgere, oltre lo scuro mascara spesso, le carnose labbra tinteggiate di viola, i lunghi capelli biondo accesso che le incorniciano, lisci come seta, il pallido volto la Mandy che era solita rubare magliette dall’armadio dei fratelli ed aggirarsi tra le strade del South Side con la fierezza e la rabbia che solo un Milkovich possiede.
È diversa, persino diversa dall’ultima volta che si sono incontrati, i jeans attillati e la sottile camicia perlacea che indossa sembrano essere ancora più costosi dell’abito che le aveva lavato l’ultima volta, in circostanze che Ian preferirebbe dimenticare; abbozza un sorriso incerto alludendo alla borsa griffata che pende dallo schienale della sedia


“te la passi bene”


Mandy esibisce quel ghigno, quell’inconfondibile ghigno di sfacciato orgoglio che i Milkovich sembrano possedere in dotazione sin dalla nascita, ed annuisce afferrando la birra tra le affusolate dita laccate di nero


“lavori ancora – tituba Ian, non è ancora riuscito ad accettare la scelta dell’amica – come…”

“escort – conclude per lui la bionda, annuendo soltanto – ma non devo più preoccuparmi di stupidi figli di puttana”

“quindi non rischierò di ricevere un’altra chiamata d’allarme rosso?”

“cazzo, no – storce le labbra Mandy, poggiandole poi al collo della bottiglia – niente più bastardi, i ricconi che frequento ora sono fottutamente noiosi e innocui, solo dannatissime cene di gala e stupide serate di beneficienza, come se gliene fregasse qualche cazzo di cosa della merda di povertà”


Ed Ian sogghigna, rigirandosi il bicchiere ricolmo di succo d’arancia tra le dita, adesso la riconosce


“vivi ancora con quelle ragazze?”

“no, mi sono spostata, adesso sono circondata da avvocati del cazzo e dottori con più soldi che educazione”

“nell’Indiana?”

“già, Indianapolis, non è male – storce il naso Mandy, poggiando la bottiglia al tavolo, guardandosi attorno – stranamente silenzioso”


Il rosso sbuffa un risolino nervoso, ingollando un sorso d’aranciata


“devo ancora abituarmici – ammette, tamburellando le dita al bordo del bicchiere – le cose vanno un po’ meglio, da qualche anno”


La bionda annuisce, continuando ad analizzare la cucina, è diversa dall’ultima volta che vi era stata, c’è ordine, pulizia, ma soprattutto nessun Gallagher urlante, né Frank a blaterare monologhi inutili, una tranquillità che la sorprende piacevolmente


“e…tu – chiede Ian, spinto da curiosità che nasconde domande che non sa come porre – il resto della banda?”


Ironizza, alludendo ai fratelli Milkovich e la bionda scrolla le spalle, scostandosi una ciocca dietro l’orecchio, cercando tra la borsa un pacchetto di sigarette, fuma ancora le slim


“come cazzo vuoi che vada? – dice retorica, portandosene una alle labbra, la fiamma dell’accendino le illumina le chiare iridi – quel pezzo di merda di Terry è in carcere, di nuovo, Joey è dietro le sbarre, a quanto pare Colin si è trasferito da quell’altro pezzo di merda di Bob, a lavorare con i cugini, l’unico che se la passa meglio è Iggy”


Soffia un sorriso nascosto dietro fumo grigio, gettando la cenere nel posacenere in plastica arancione al centro del tavolo


“convive con una tipa, una strana, una cazzo di hippie uscita dai fottuti anni ottanta – ridacchia, roteando lo sguardo al cielo – ma se è felice, cazzo buon per lui, se lo merita quel cretino strafatto”


Ian, negli insulti tra Milkovich, ha imparato a leggervi velate manifestazioni di sincero affetto, a distinguerli dai canonici insulti, è il tono con cui vengono pronunciati, la lieve incurvatura delle labbra, una luce diversa nello sguardo a permettergli d’intuirlo


“già – inspira, cercando di farsi coraggio, sanno entrambi per quale motivo sono l’uno di fronte all’altra – e…”

“no – risponde secca Mandy, mozzando la domanda prima ancora che possa scivolare dalle labbra del rosso – non l’ho più sentito”

“non sei…”

“Ian, cazzo, no, non sono preoccupata e non voglio cercarlo, ha fatto la sua scelta, se n’è andato”


Una scelta che avrebbe potuto compiere anche lui, quando ne aveva l’occasione, una scelta che non rimpiange, o almeno così si ripete il rosso, ma che altro poteva fare; lasciarsi la vita che si era faticosamente costruito alle spalle ed essere davvero come Monica?


“a volte…penso a…”

“anch’io – ammette in un soffio Mandy, la cenere s’accumula al fondo del posacenere – è una fottutissima testa di cazzo, ma è mio fratello e quello stronzo se n’è andato, senza dirmi un cazzo, ma è un fottuto Milkovich ovunque sia se la starà cavando”


Lei sa, meglio di chiunque altro, quanto Mickey sia abile nella difficile arte della sopravvivenza e legge, nelle iridi verdi dell’amico, la necessità di rassicurarlo, quella medesima necessità di cui anche lei ha bisogno, a volte, quando troppo domande le affollato, contro ogni suo volere, la mente.
Sta bene, si dice ogni volta, sa come sopravvivere, si ripete ogni giorno, dopotutto è un Milkovich; la sopravvivenza è nel loro DNA.
Ian deglutisce a vuoto fingendo di crederle, ma la titubanza che ne anima lo sguardo non può essere mascherata neppure dal più ampio dei sorrisi e Mandy decide di cambiare discorso


“e tu, invece, stai ancora quel tipo, Mr. Perfezione?”

“Caleb – la corregge con una smorfia di puro disgusto il rosso – no ed è tutto fuorché perfetto, si scopa le donne”

“non era gay?”

“sì, ma no, cioè – sospira Ian, stringendo il bicchiere tra le dita – bisessuale latente, stando a quanto dice Trevor”

“chi cazzo è Trevor?”


Già, mancano gli ultimi aggiornamenti, ridacchia nervoso il rosso, sollevando lo sguardo al volto contratto da stupore di Mandy


“uno con cui uscivo, dopo lo stronzo”

“e mio fratello in carcere – si lascia sfuggire la bionda, mordendosi poi la lingua – non…”

“Mickey era dietro a delle fottutissime sbarre, che cazzo avrei dovuto fare?”


S’agita Ian, si sente quasi in dovere di giustificarsi, di prendere le proprie difese, in fondo che poteva fare; aspettarlo?
Glielo aveva promesso, certo, aveva mentito lo sapeva lui e lo sapeva anche Mickey, aveva mentito e si era sentito indescrivibilmente male, come se avesse commesso il peggior crimine nella storia dell’umanità, il senso di colpa lo perseguitò per giorni e, tutt’ora, è ancora lì, a ricordargli quando insensibilmente meschino fu


“per te – esclama Mandy, stringendo la bottiglia così forte da rendere pallide le nocche – era dietro a delle fottutissime sbarre per te, coglione”

“non glielo ha chiesto un cazzo di nessuno”

“fanculo Ian, è un Milkovich – dice semplicemente l’amica, tra le iridi azzurre, così simili a quelle di Mickey, danzano scintille di rabbia – che cazzo t’aspettavi che facesse? Quella puttana della tua mezza sorella ti ha spedito in un fottuto carcere militare, ha provato a fotterti e nessuno, cazzo nessuno, fotte la famiglia”


Le gambe del rosso picchiettano al tavolo, in una danza nervosa, non le ha mai raccontato del casino con i militari, mai, se ne ricorderebbe altrimenti, e se non è stato lui allora può significare soltanto una cosa


“che cazzo pensavi? Che non c’avessi mai parlato? Lo stronzo è mio fratello – chiarisce Mandy, come se fosse in grado di leggere tra i pensieri dell’amico – e l’idea del cazzo è stata di Debbie, fanculo, Mickey l’ha aiutata e guarda che cazzo c’ha guadagnato, i Gallagher, i fottutissimi Gallagher”


La lingua freme tra i denti, vorrebbe ribattere Ian, dire quello che anche Lip direbbe, ma sa che ogni singola parola, ogni singola frase, è un colpo che deve incassare, infondo Mandy ha ragione, da quando le loro vite si sono intrecciate in un mix caotico e confusionario nulla è andato bene, per nessuno di loro, ed in qualche modo tutto è stato distrutto, socchiude gli occhi inspirando quanta più aria più, sente l’ossigeno mancare nei polmoni


“scusa – mormora Mandy, prima che possa farlo Ian – non è colpa tua, né di nessun altro fottutissimo Gallagher, ma…se n’è andato senza dirmi nulla, lasciandomi indietro e cazzo…mi manca”


Apre gli occhi il rosso, deglutendo a vuoto, quelle iridi azzurre non le ha mai viste velarsi di lacrime testardamente respinte come ora, istintivo s’alza avvicinandosele lento, cingendole le spalle tra gli avambracci, stringendola in un abbraccio che dice tutto quel che Ian non sarebbe in grado di dire a parole, tutte le scuse che non saprebbe neppure come pronunciare, sussurrando un lieve


“manca anche a me” 


 


 
Innazitutto ringrazio infinitamente tutti coloro che leggono, spero vi stia piacendo, e tutti coloro che aggiungono ed hanno aggiunto tra preferite/seguite/ricordate la storia, grazie mille. 
Grazie anche alle splendide recensioni che mi hanno resa immensamente felice.
Spero che i personaggi non siano troppo OOC e che il capitolo non sia stato troppo noioso, so che ci sto mettendo un po' a far ingranare la storia, ma l'azione (diciamo così) arriverà; ve lo assicuro.

Grazie ancora a tutti, 
alla prossima 

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