Back for Love 3

di Sospiri_amore
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Riepilogo ***
Capitolo 2: *** IERI: L'ultimo saluto ***
Capitolo 3: *** OGGI: Non ho più voglia di nascondermi dietro una foto ***
Capitolo 4: *** OGGI: La sveglia suona ***
Capitolo 5: *** OGGI: Domande ***
Capitolo 6: *** OGGI: Ciao, come stai? ***
Capitolo 7: *** OGGI: Caffè con vista ***
Capitolo 8: *** OGGI: Il tempo cambia le persone? ***
Capitolo 9: *** OGGI: Un boccone amaro ***
Capitolo 10: *** OGGI: Quando il telefono squilla ***
Capitolo 11: *** OGGI: Un passato da scoprire ***
Capitolo 12: *** OGGI: Andare incontro al passato ***
Capitolo 13: *** OGGI: Una candelina in più ***
Capitolo 14: *** OGGI: Riconoscere un amore ***
Capitolo 15: *** OGGI: Natale in famiglia (prima parte) ***
Capitolo 16: *** OGGI: Natale in famiglia (seconda parte) ***
Capitolo 17: *** OGGI: Birra calda ***
Capitolo 18: *** OGGI: La lunga stanza bianca ***
Capitolo 19: *** OGGI: Una voce che credevo dimenticata ***
Capitolo 20: *** OGGI: Il primo giorno ***
Capitolo 21: *** OGGI: Ascoltare parole ***
Capitolo 22: *** OGGI: In missione ***
Capitolo 23: *** OGGI: La casa delle bambole ***
Capitolo 24: *** OGGI: Ciambella al cioccolato ***
Capitolo 25: *** OGGI: Come un serial killer ***
Capitolo 26: *** OGGI: Perdersi tra le costellazioni ***
Capitolo 27: *** OGGI: Aspettative ***
Capitolo 28: *** OGGI: Poche Parole ***
Capitolo 29: *** OGGI: Bugie e finestre ***
Capitolo 30: *** OGGI: Pensieri e ossessioni ***
Capitolo 31: *** OGGI: Il canto delle sirene ***
Capitolo 32: *** OGGI: Tra Brindisi, danze e parole ***
Capitolo 33: *** OGGI: Come un soprammobile ***
Capitolo 34: *** OGGI: Un aiuto inaspettato ***
Capitolo 35: *** OGGI: Cin cin ***
Capitolo 36: *** OGGI: Il terrore ***
Capitolo 37: *** OGGI: Ansia che paralizza ***
Capitolo 38: *** OGGI: Vagare nella confusione ***
Capitolo 39: *** OGGI: Crollare ***
Capitolo 40: *** OGGI: Cassetti vuoti ***
Capitolo 41: *** OGGI: Scotch marrone ***
Capitolo 42: *** OGGI: Ora o mai più ***
Capitolo 43: *** OGGI: Usare il cervello ***
Capitolo 44: *** OGGI: Scoperte ***
Capitolo 45: *** OGGI: La spia ***
Capitolo 46: *** OGGI: Domare l'oscurità ***
Capitolo 47: *** OGGI: Il matrimonio ***
Capitolo 48: *** OGGI: Immagini e parole ***
Capitolo 49: *** EPILOGO - DOMANI: Davanti allo specchio ***
Capitolo 50: *** COME È NATA LA TRILOGIA BACK FOR LOVE - Curiosità e spiegazioni ***



Capitolo 1
*** Riepilogo ***


Se capitate su questo libro, sappiate che questo è il TERZO volume di una trilogia.

Cercate "Back For Love 1", oppure andate al mio profilo per trovare entrambi i libri.

 

Vi consiglio vivamente di leggere gli altri per capire la storia.

 

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IL PRIMO CAPITOLO di questo libro, è ambientato al passato (a differenza dei primi due libri, dove il primo capitolo era ambientato al presente). Quindi farete un salto nel passato per poi continuare la storia nel presente. In particolare continuerete la storia dal momento della mostra fotografica.

 

Elena se ne è andata via da New Heaven appena finite le scuole superiori, da ragazza ha lasciato gli USA per l'Europa. Tutte le persone a cui ha voluto bene l'hanno tradita, umiliata e usata.

Dopo quattordici anni, ormai adulta, Elena incontrerà di nuovo le persone che più ha amato e odiato nella sua vita, si confronterà con loro rivivendo ricordi dolorosi.

Torneranno James, Jo, Nik, Adrian, Lucas, Kate, Stephanie, Rebecca più altri personaggi che complicheranno e ingarbuglieranno la vita di Elena.

 

Come mai Elena è tornata in America?

Chi è il padre di suo figlio?

Elena riuscirà a staccarsi dal passato?

Chi si sposerà? 

Riusciranno i vecchi amici a trovare l'armonia di un tempo?

Elena riuscirà ad amare ancora?

 

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Capitolo 2
*** IERI: L'ultimo saluto ***


IERI:
Lultimo saluto




Non è che non lo sappia, è da anni che mamma mi prepara per questo momento. Ci sono stati alti e bassi, momenti duri ma a volte ho avuto anche un po' di speranza. 

Io ne ho avuta molta, troppa forse vista la situazione.

Fino a qualche anno fa non capivo perché mamma non riuscisse più a farmi il bagno oppure perché non mi portasse al parco. Ero piccola, non badavo molto a quello che facevano i miei genitori, perlopiù pensavo a giocare, a disegnare a correre. 

Invece adesso capisco.

Capisco benissimo perché mamma non riesce a fare molte cose.

 

Sta morendo.

 

Potenzialmente tutti stiamo morendo. Dall'istante che emettiamo il primo vagito ci avviciniamo pian piano alla nostra fine. Sì, lo so che siamo destinati ad invecchiare e avere le rughe, ma mamma non ci arriverà mai. Lei sta peggio, lei ha un male incurabile che me la porterà via presto. Non avrà mai i capelli bianchi, credo che vorrebbe averli, come lamentarsi delle zampe da gallina e delle braccia flaccide. Lei vorrebbe ritrovarsi seduta su una sedia a parlare ai propri nipoti, consigliarli e magari asciugare le loro lacrime. Lei vorrebbe addormentarsi davanti alla TV mentre aspetta una mia visita la domenica con tutta la famiglia. Lei vorrebbe cucinare una torta da mangiare di nascosto con papà, fregandosene della dentiera, dell'età e di quello che pensa la gente.

Lei vorrebbe essere vecchia, vorrebbe molte cose, ma non può.

Mamma non si lamenta mai, vorrebbe invecchiare e anche se non lo dice so che è così.

 

La puzza di disinfettante è la cosa che mi da più fastidio insieme al bip delle macchine. Battito del cuore. Saturazione. Parametri vitali.

A volte peggiorano.

A volte sono stabili.

Non migliorano mai.

Papà lavora direttamente in ospedale, deve tradurre un testo in inglese, mi pare un romanzo. Mamma vorrebbe dargli una mano, lo capisco da come lo guarda, ha sempre detestato stare ferma a non fare nulla. 

 

Mamma fissa i suoi piedi.

Papà fissa lo schermo.

Io fisso il pavimento.

 

Nessuno di noi ha il coraggio di guardare le proprie paure, credo che potremmo scoppiare tutti a piangere se smettessimo di fingere di pensare ad altro. Se mamma si rendesse effettivamente conto di non vedermi crescere, se papà capisse che la donna che ama sta per andarsene e se io comprendessi che mamma sta morendo, potremmo crollare come un castello di carte. 

La mia vita ha fondamenta fragili destinate a sbriciolarsi.

Meglio far finta di nulla.

 

«Hai molto ancora?», chiede mamma a papà.

«Sto controllando delle mail. Devo consegnare il testo la prossima settimana, sai che non sono bravo ad organizzarmi», le risponde senza togliere gli occhi dal portatile.

«Già. Ti sei ricordato della lavanderia? Ho portato le coperte di lana a lavare. Non voglio che le tengano loro, ricordati di prenderle», dice mamma.

«Certo. Certo». Papà è distratto schiaccia tasti uno dopo l'altro.

 

Mamma sorride. So che le fa piacere vedere papà lavorare, vede un po' di se stessa in lui, sono fatti della stessa pasta. Si conoscono da sempre, hanno fatto la stessa università a Boston. Lì si sono conosciuti, hanno migliorato la lingua e sono diventati traduttori. 

Mamma me lo racconta sempre, le piace ricordare quando era giovane e bella.

Per me lei è sempre bella, ma credo che lei non si ritrovi più quando si guarda allo specchio: guance scavate, capelli rasati, occhiaie profonde. 

 

«Hai sentito Hanna e Roger? Sai quando arrivano?», chiede mamma.

«Kate mi ha detto che arriveranno nel pomeriggio. Vengono direttamente qui in ospedale», le rispondo io.

Mamma mi guarda, non sorride più. Ogni volta che si rivolge a me i suoi occhi si riempiono di tristezza, una melanconia profonda, infinita:«Grazie amore. Ho voglia di vederli. Almeno scambierò due chiacchiere con qualcuno che mi ascolta, non come tuo padr...», dice mamma provando a sghignazzare, ma le esce una smorfia strana accompagnata da un suono cupo, un rantolo, sembra uno spasmo di dolore.

«Tutto bene mamma?», mi lancio su di lei, le stringo la mano.

«Margherita? Margherita?», urla papà buttando il computer su una sedia.

«Sto bene. S-Solo che a volte fa male», dice mentre stringe i denti e contrae i muscoli.

Anche se so che può sembrare impossibile mamma è diventata più pallida.

Papà schiaccia il pulsante per chiamare i medici, ma la luce rossa sopra al letto non si accende. Lo schiaccia di nuovo. Nulla.

«Vado a vedere che succede. Credo che si sia rotto il campanello. Torno subito con un dottore, magari ti danno altra morfina». Papà furioso esce dalla stanza, detesta quando le cose non vanno come lui vuole. Mentre sbatte la porta riversa una sequela di parolacce e insulti al campanello mal funzionante e all'incompetenza dell'ospedale.

 

Mamma sorride o almeno ci prova.

 

«Lui fa così quando tiene ad una persona. Non è capace di esprimere i suoi sentimenti. Si arrabbia, poi ci ripensa e capisce. Se a volte ti sembra distante ricordati di stargli più vicino, vuol dire che ha un ingorgo di emozioni. Una specie di tappo che deve sbloccare», mi dice con calma.

Annuisco. Quando mamma mi spiega le cose capisco sempre tutto.

 

Rantolo.

Mamma si tende.

La sua fronte si imperla di sudore.

Con un fazzoletto le asciugo il volto.

 

«Sei forte lo sai? Hai solo tredici anni Elena, ma sembri una piccola donna. Non molte ragazzine riuscirebbero a fare quello che fai tu. Grazie». Mamma prova ad accarezzarmi una guancia, ma non riesce ad alzare il braccio, ci sono troppi tubicini attaccati.

«Stai tranquilla mamma. Non ti muovere altrimenti ti fai male», le dico mentre le metto il braccio a posto.

«Il male. Il male lo conosciamo bene noi due. Vero? È una cosa brutta, è una cosa spaventosa. Devi scappare da tutto ciò che ti fa male, devi andare lontano se qualcuno ti farà male. Non devi assecondarlo, devi lasciarlo. Non permettere a nessuno di farti male, mai», mi dice con un filo di voce.

«Certo mamma, lo so. Non permetterò a nessuno di farmi soffrire», le rispondo decisa.

«Se dovesse succedere, se capitasse che una persona ti faccia soffrire devi stare lontano. Nessun gesto è giustificato, mai. Lo stesso vale per te, non fare soffrire mai nessuno, non permettere che la rabbia offuschi il tuo cervello e la tua intelligenza. Sii forte come sei adesso», mi dice con un filo di voce.

 

Il respiro di mamma aumenta di intensità.

Mi stringe la mano con forza.

 

«Non permetterò a nessuno di farmi male, mai. Mai... mamma. Mamma», le dico con gli occhi lucidi.

«S-sarai una brava donna, donerai amore. Ricorda di lottare e combattere, non farti buttare giù da nessuno. Sei speciale quando sei te stessa, sei meravigliosa quando sei semplice. Ama. Ama, sempre». La voce di mamma è un lamento leggero, una cantilena. Il suo petto si alza e si abbassa velocemente, i bip delle apparecchiature suonano forte. Mi assordano.

 

Non riesco a dire nulla, non riesco a proferire parola.

Mamma sta morendo ed io sto rovinando questo momento.

 

Vorrei spiegarle che l'adoro, che lei è tutto per me, che è il mio faro, che è il mio modello. Vorrei abbracciarla e sentire le sue risate, vorrei sentirla canticchiare stonata una canzone mentre balla goffamente. Vorrei poter litigare per il film da guardare in televisione, vorrei lamentarmi della cena bruciacchiata, vorrei arrabbiarmi perché si impiccia delle mie cose. Dio, quante cose vorrei fare con lei, eppure adesso non riesco neppure a dirle ti amo, non riesco a sfiorarle il volto, non riesco a fare nulla.

Sono paralizzata dal dolore, il mio cuore è incrinato e scricchiola paurosamente.

 

La carnagione di mamma è virata sul verde, le occhiaie paiono più nere della notte, la bocca è contratta in una smorfia di dolore, gli occhi sembrano annebbiati, si muovono a destra e a sinistra come se cercassero qualcosa, come se non riuscissero più a vedere.

«Mamma. Mamma. Sono qui. Sono io, Elena. Mamma», le urlo a pochi centimetri dal volto.

«E-Elena. N-non permettere a nessuno di farti del male. S-se dovesse succedere s-scappa e lotta. Allontanati, ma affronta il male. Non permettere che il male v-vinca, trasformalo in a-amore. L'amore v-vince tutto. Non avere paura. Sarò per sempre vicino a te», mi dice flebile come se la sua voce provenisse da lontano, da molto lontano.

 

Le macchine impazziscono.

I suoni si susseguono uno dopo l'altro.

Mamma ha le convulsioni.

Trema.

Tremo.

 

Questa è la fine.

Urlo.

Papà entra come un razzo in camera sbattendo la porta, dietro di lui un paio di dottori e diverse infermiere si lanciano su mia madre. 

Mi spostano.

Controllano i parametri vitali in picchiata.

Mi spingono.

Aumentano la dose dei medicinali.

Mi strattonano.

Massaggio cardiaco.

 

Un bip lungo, infinito, certo come il giorno e la notte.

 

Fine.

Questa è la fine di tutto.

Mamma non c'è più.

Mamma è morta.

Mamma è morta ed io non le ho detto quanto avrei voluto vederla con i capelli bianchi tenere in braccio i suoi nipotini, non le ho detto che avrei voluto litigare su cosa cucinare il giorno di Natale, non le ho detto che mi mancherà tantissimo.

Un tonfo secco mi squarcia il petto, la mia anima e il mio cuore sono lacerati, strappati, violentati. Mani di dottori e infermiere mi accarezzano, cercano di darmi conforto, cercano di sollevarmi anche se mi sento ancorata a terra con tutto il peso della volta celeste sulle mie spalle. Scricchiolo. Ansimo. Forse piango.

Non so quanto passi prima che mi renda conto che mamma non c'è più, forse un secondo, forse una vita. Osservo un corpo grigio e sofferente nel letto, vedo papà piangere mentre lo abbraccia. Vuoto, sento solo vuoto e tanto freddo.

 

Non voglio più amare e poi perdere.

Non voglio più lasciarmi andare.

Non voglio più soffrire.

 

Mamma ha detto di scappare dal male, mamma ha detto di andare via.

Non avere paura. Sarò per sempre vicino a te.

Mamma ha detto che il male va allontanato.

Non avere paura. Sarò per sempre vicino a te.

Mamma vuole che vada via. Devo andarmene, non posso restare un secondo di più.

 

Senza dire nulla spalanco la porta della stanza correndo come una furia, le urla di papà sono un'eco lontano. Faccio lo slalom tra pazienti in carrozzella con teste rasate, tubi penzolanti da flebo, sguardi tristi, nessuna speranza.

Non posso restare, non voglio guardare.

Non posso più amare, non devo soffrire.

Le gambe si muovono come non mai, i muscoli sono tesi.

Ho bisogno di aria, di luce.

Scendo le scale due alla volta indifferente agli sguardi perplessi degli ospiti che con inutili fiori o cesti di frutta vanno a trovare pazienti vicino alla fine più di quanto pensino. 

 

Basta.

Non voglio stare più male, non permetterò a nessuno di farmi soffrire.

 

Attraverso la hall dell'ospedale in diagonale tagliando la strada a medici e infermiere, spingo con forza le porte di vetro che portano all'esterno. Il grande parcheggio grigio saturo di automobili sembra un campo coltivato, ma che non da nessun frutto. Metallo, freddo, nebbia.

Con il fiato corto mi avvicino alla rampa di accesso delle ambulanze, giro a destra verso una piccola aiuola spelacchiata con radi ciuffi verdi. Quattro metri quadri di natura forzata.

Senza un perché mi sdraio tra i sassi, la terra e l'erba striminzita.

Senza un perché mi metto a fissare il cielo carico di nebbia.

Guardo in alto, ma non vedo un paradiso.

Guardo in alto e non vedo nulla.

Solo grigio.

 

Un pensiero mi assilla.

Mamma è morta.

Mamma è morta.

Le sue ultime parole mi rimbalzano nel cervello come fossero miliardi di palle che saltano in una stanza vuota.

Non avere paura. Sarò per sempre vicino a te.

Non avere paura. Sarò per sempre vicino a te.

Non avere paura. Sarò per sempre vicino a te.

 

Mamma io ho paura e non staremo mai più vicine.

Mai.

 

 

--------

 

 

Questo è l'evento che ha condizionato la Elena tredicenne e che ha continuato a perseguitarla negli anni successivi.

Questo è l'ultimo capitolo del passato, dal prossimo si tornerà ai giorni nostri, ovvero durante la mostra.

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Capitolo 3
*** OGGI: Non ho più voglia di nascondermi dietro una foto ***


OGGI:
Non ho più voglia di nascondermi
dietro una foto

(sono passati quattordici anni
dal ballo scolastico)

 





È chiaro il mio intento, sono andata alla mostra per incontrare tutti loro. Non posso più nascondermi, non posso più stare nell'ombra. È ora di mettere le cose in chiaro, una volta per tutte.

 

Decine di persone ammirano le foto di Kate, chiacchierano o si fermano a osservarle. Scatti rubati in un monastero Tibetano, ritratti di donne contadine vietnamite, distese immense della Mongolia, squarci di metropoli europee e panoramiche cittadine del Sud America. Est. Ovest. Nord. Sud. Tutto il mondo racchiuso in quelle foto, le foto migliori di Kate, quelle che hanno vinto premi o hanno attirato l'attenzione del pubblico e della stampa internazionale.

Capolavori, immagini forti e molto intense, tutte hanno un senso per il pubblico, tutte tranne una. Gli ospiti non credo capiscano, tralasciano l'unica foto che per me ha importanza lì dentro. Sono ritratti: James, Jo, Stephanie, Lucas, il professor Martin, Rebecca, Adrian. Poi ci sono anch'io, con i miei lunghi capelli castani, le lentiggini e l'espressione sorpresa. Non sono mai riuscita a risultare naturale in fotografia.

Ricordo tutto di quel momento: il fruscio della toga, la gara appena conclusa, gli abbracci, le lacrime e la voglia che quel momento non finisse mai perché quello è stato un momento di felicità vero, l'ultimo, prima che tutto cambiasse. 

È la foto che Kate ci ha scattato subito dopo la gara di Dibattito contro il Saint Jude l'ultimo anno al Trinity, quando credevo ancora che James mi amasse e che i miei compagni fossero miei amici. 

 

Quattordici anni.

Sono passati quattordici anni da quel momento.

 

Sento l'amarezza per essere stata così fragile e ingenua, per aver perso ciò che contava davvero. Il desiderio di avere una vita come quella di un romanzo mi ha illusa che la vita fosse semplice e lineare, facile come leggere le parole in una riga, colorata come la copertina di un libro. Come se una volta trovato l'amore nulla più succedesse, finisce il libro e tutti vivono felici e contenti. Eppure la difficoltà non è trovare e conquistare l'oggetto del desiderio è doverlo coltivare, capire e vederlo crescere. 

Quattordici anni fa ho dato per scontate amicizie e considerato certezze altri amori. Quella è la sera in cui ho perso la mia migliore amica, da allora Kate non ha voluto avere più niente a che fare con me. Non mi ha mai cercata, non mi ha mai voluto parlare. Le ho scritto diverse lettere che sono sempre tornate indietro sigillate.

Ho sbagliato.

Ho chiesto scusa.

Ma Kate non ha voluto ascoltarmi. 

Non ha mai voluto scusarmi per il torto che le ho fatto.

Dopo un po' ho smesso di cercarla anche io.

 

Quattordici anni di silenzio poi l'invito a questa mostra. Un invito personale accompagnato da un biglietto: Elena non devi mancare. 

Chissà cosa vuole?

 

Stringo un bicchiere di champagne, quasi tutte le bollicine sono sparite. Non mi piace berlo, le uniche volte che ne ho bevuto troppo ho combinato solo guai. Guai che hanno condizionato il mio passato e travolgono il mio presente. Per tranquillizzarmi sfioro con le dita la sottile giuntura sullo stelo di vetro, mentre gli occhi, instancabili, si muovono alla ricerca di particolari nella foto appesa sulla parete di fronte a me.

Sono aggrappata a quel bicchiere come fossi sull'orlo di un precipizio, quello è il mio unico appiglio. Niente e nessuno riuscirebbe a scollarlo dalle mie mani.

 

«Mamma». Una voce acuta mi strappa dai miei pensieri. «Mamma, ho fame». Anche se Sebastian ha solo cinque anni mi si avvinghia alla gamba con tanta forza che mi fa oscillare. Delle gocce di champagne mi cadono per terra.

«Adesso vado a prenderti qualcosa amore». Adocchio subito il tavolo con il buffet in mezzo alla folla.

«Piccolo furfante! Mi scappi sempre». Nik gli sta facendo il solletico, una risata cristallina, pura e felice, si leva da Sebastian. Adoro vedere le fossette sulle sue guance, gli occhi grigi illuminarsi e i ricci arruffarsi sulla sua testa del mio piccolo.

«È proprio bella la mostra di Kate, i suoi scatti sono così intensi... Tutto bene Elena?», mi chiede Nik mentre prende il bimbo in braccio.

«Sì, tutto bene...», rispondo. Le dita non smettono di torturare il calice.

«Hai visto come eravamo belli?». Nik indica la foto che da troppo tempo sto fissando, poi dolcemente mi bacia sulla bocca e mi sussurra: «Sei sempre stata la più bella e lo sarai per sempre». 

«Uffa, ho fame», dice Sebastian spazientito.

«Prendo qualcosa da mangiare per questo piccolo furfante e poi sono da te, non scappare Elena», mi dice Nik schiacciando l'occhio.

Abbozzo un sorriso ad entrambi, poi torno a fissare quella foto.

 

Scappare.

Nik lo sa bene quanto sia brava a scappare.

 

Mi ha rincorsa per anni, mi ha cercata. Quando ha saputo che non avrei frequentato Yale è come impazzito. Credo abbia provato rabbia all'inizio, credo non capisse come potessi perdere un'occasione simile. Non potevo frequentare il college, non potevo dopo tutto quello che mi è successo la sera del ballo di fine anno al Trinity. 

Nik non mi ha mai mollata.

Un biglietto di auguri a Natale.

Una telefonata al mio compleanno.

Con delicatezza senza imporre nulla.

Nik c'è sempre stato, anno dopo anno, anche se un oceano ci divideva.

È stato il primo che ha saputo di Sebastian e nonostante tutto mi ha sempre appoggiata.

È grazie a lui che adesso ho mio figlio, l'unica cosa che conta nella mia vita, il mio vero amore.

Sono scappata per quattordici anni e anche sé molte cose sono cambiate, io resto sempre la stessa. Più forte, ma sempre la stessa. Più sicura, ma sempre la stessa.

Quando ho paura il mio primo istinto è quello di scappare.

 

Ora no.

 

Osservo gli sguardi dei miei ex amici nella foto. Rivedo riflessi nelle loro pupille tutta l'ambizione e la cattiveria che non avevo mai notato prima o, come dice Nik, che non ho voluto mai vedere prima. Non c'è ombra di spensieratezza, solo tanta solitudine.

Anche se molte cose sono cambiate quando ripenso a tutti loro non posso fare a meno di sentire un peso enorme nel mio petto. Mi sembra di soffocare.

Bugie create ad arte per ingannarmi, sfruttarmi. Menzogne ideate per sfruttare la mia ingenuità. Illusioni ritagliate sulla forma dei miei desideri per manipolarmi. Baci falsi, abbracci vuoti. 

Il mio cuore distrutto.

Una lacrima scivola veloce sulla guancia per poi cadere dentro il calice e perdersi tra le poche bollicine rimaste. Una lacrima di rabbia per aver creduto alle loro bugie, amato inutilmente e perso tempo dietro alle menzogne che mi hanno raccontato.

 

«Non credevo saresti venuta». Una voce fin troppo familiare mi scuote dai miei pensieri. Non mi muovo, sentire quella voce è come venire accoltellata direttamente al cuore, come se fossi tornata diciottenne. Come se fossi ancora dietro quell'angolo del Trinity ad origliare.

«Perché sei venuta?», mi chiede James.

Non voglio che sappia come mi sento veramente, non merita nessuna mia attenzione: «Semplice curiosità», gli rispondo glaciale, poi mi volto a guardare la foto appesa alla parete dandogli di nuovo le spalle.

«Vattene. Questo è un momento felice per Kate, non puoi farle questo», mi dice.

«Guarda che mi ha invitato la tua amica. Ho pensato fosse carino esserci». Non mi muovo dalla mia posizione, sono una statua, il mio sguardo è incollato alla foto.

Rumore di tacchi. Un leggero brusio arriva alle mie spalle.

«Ma guarda chi si vede. La feccia è tornata». Era da anni che nessuno mi chiamava così, solo Rebecca si sentiva in diritto di farlo, si è sempre sentita superiore a me.

Schierati lì vicino ci sono tutti gli altri, Jonathan, Adrian, Lucas, Stephanie e Kate, sembrano soldati di un esercito pronti a colpire con la loro divisa da 3000 $, scarpe fatte a mano e gioielli luccicanti. Manichini imbellettati pronti a sfoderare le loro armi, sono pronti ad attaccarmi per distruggere, li conosco bene. 

 

Sento dentro di me animarsi un mostro assopito per troppo tempo. Un groviglio di rabbia, frustrazione e dolore sta prendendo vita. Non ho più voglia di stare male, non ho più voglia di sentirmi soffocare ogni volta che penso a tutti loro. Voglio poter essere libera di vivere senza i fantasmi dei miei amori passati, voglio poter crescere mio figlio senza paura. Voglio provare ad essere felice.

 

Sebastian mi corre incontro, lo prendo in braccio. Ha la bocca sporca di briciole, Nik porta in mano un piattino colmo di patatine: «Ha voluto solo queste. Le altre cose non gli piacevano», mi dice sgranocchiandone una.

«Va bene, l'importante è che abbia la pancia piena questo mostriciattolo», dico io sorridendo a mio figlio.

 

Grida silenziose.

Occhi sbarrati.

Bocche spalancate.

Rebecca, Jonathan, James, Adrian, Lucas, Stephanie e Kate non dicono niente, ma intuisco i pensieri di tutti loro. Mi osservano come fossi un fantasma, un incubo direttamente dal loro passato. Sento le urla che crescono dentro ai loro cuori, leggo sui loro volti la rabbia e il fastidio che provano ad avermi lì. 

Godo.

Godo del fatto che siano sorpresi.

Godo del fatto che abbiano paura di me.

Io sono l'unica che li conosce per quello che sono, non possono mentirmi. Possono fingere di essere persone per bene, ma nel profondo sanno di essere il peggio che possa esistere, dei mostri, dei bastardi senz'anima. 

 

Guardano me.

Guardano mio figlio Sebastian.

Poi guardano Nik.

Stentano a credere che lui avrebbe mai potuto amarmi.

Non lo credevano perché io non ho mai voluto farglielo sapere.

Posso leggere nei loro occhi i milioni di dubbi che hanno, le domande che vorticano nel loro cervello.

Il mio sorriso sicuro è l'unica risposta che meritano.

Sì, sto con Nik.

Sì, lo abbiamo tenuto nascosto.

Sì, non volevamo che vi intrometteste nella nostra storia.

 

«Perché diavolo sei venuta e perché lui è con te?», mi ringhia James accennando con la testa a Nik.

«Sono un socio anziano dello studio McArthur, Martin & Spencer, credo potresti rivolgerti a me quando parli», dice Nik con un sorriso sghembo.

«Cosa significa Nik? Se avevi invitato quella lì potevi dircelo in ufficio. Ci vediamo tutti i giorni, siamo colleghi», sbotta Rebecca.

«E perché mai. Non credo siano affari vostri se frequento Elena o meno. Il lavoro è il lavoro, la vita privata non c'entra nulla con voi», risponde Nik mentre pulisce dalle guance di Sebastian delle briciole di patatine.

«Non siamo più al Trinity. Non farci la morale con i tuoi giochi di parole. Ci conosciamo da anni, potevi dirci che l'avevi invitata», sbraita Lucas stringendo la mano a Stephanie.

«A dire il vero l'ho invitata io, come ho invitato tutti voi. Ho insistito, ho voluto fortemente che foste qui. Ho voluto che i protagonisti di quella foto fossero contemporaneamente tutti insieme e nella stessa stanza». Kate si mette in mezzo e guarda tutti negli occhi con determinazione, non sembra la timida ragazzina che ho conosciuto tanti anni fa. Con un gesto rapido estrae dalla borsa dei cartoncini che ci consegna ad ognuno di noi.

Lo apro.

È una partecipazione di nozze.

 

 

 

«Congratulazioni, tu e Jane siete fantastiche». Jo abbraccia Kate, la stritola. Da come si parlano capisco che tra di loro non si sono mai interrotti i rapporti, sono ancora amici.

Il resto di noi guarda interdetta Kate, non capiamo perché ci voglia tutti ad un evento tanto importante.

«E perché dovrei perdere un giorno della mia vita per venire al tuo stupido matrimonio?», chiede Rebecca ondeggiando distrattamente il suo calice di champagne.

«Perché vi volevo ringraziare, volevo farvi sapere che la mia vita adesso è perfetta. Mi sono sentita sempre diversa e lontana anni luce da ognuno di voi, ero in difetto, ero quella che non conta. Quando ho scattato quella foto le cose sono cambiate, l'intera mia vita ha avuto uno scossone. Grazie a quello scatto ora sono dove sono e mi piaccio». Kate solleva il calice per un brindisi, con i suoi occhi azzurri scruta ognuno di noi.

«Felice della tua unione, ma non credo che...», Lucas viene interrotto da Kate.

«Le vostre bugie, le vostre menzogne e cattiverie, le angherie, i vostri piani subdoli mi hanno resa più forte. L'affetto e il sostegno di alcuni mi ha dato la spinta ad andare avanti. Siete tutti collegati, uniti da un intreccio di relazioni che mi ha aiutata ad emergere. Siete stati il mio trampolino verso quella che sono, nel bene e nel male. Grazie a voi ho conosciuto Jane, la mia dolce metà. Grazie a voi ho capito molte cose, ho capito cosa desidero, cosa mi serve e cosa non voglio. L'invito è il minimo che posso fare per ringraziarvi». Kate beve un sorso di champagne schioccando alla fine le labbra soddisfatta. Sorride enigmatica.

 

Disorientata.

Confusa.

Guardinga.

Non abbasso lo sguardo, non chino la testa. Nik è al mio fianco, Sebastian è vicino a me.

James, Lucas, Adrian, Jonathan, Stephanie e Rebecca sembrano mastini pronti ad azzannare, ma io non ho la minima intenzione di farmi abbattere da loro.

Se Kate mi vuole al suo matrimonio è perché ha un piano in testa, ne sono certa. Non siamo più ragazzini, ognuno di noi sa benissimo cosa è in grado di fare l'altro.

Non ho più voglia di nascondermi, sono venuta alla mostra di Kate perché non ho più paura del loro giudizio.

Tutti loro hanno rubato quattordici anni della mia serenità.

Tutti loro pagheranno per il male che mi hanno fatto. 

Se si intrometteranno nella mia vita sarà guerra, non farò sconti per nessuno.

Questa volta non scappo, sono pronta ad affrontarli uno ad uno, questa volta saranno loro a soffrire.

 

----------------

 

 

Finalmente svelato il mistero! In parte almeno.

L'uomo che accompagna Elena è Nik.

L'uomo che parla a Elena è James.

Forse i più scontati, ma gli unici che avrebbero mai potuto interpretare quei ruoli.

Molte domande sono ancora aperte.

L'invito di Kate nasconde qualcosa?

C'è da fidarsi?

Nei prossimi capitoli si spiegheranno altre cose e inizieranno a complicarsene altre.

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Capitolo 4
*** OGGI: La sveglia suona ***


OGI:
La sveglia suona

 





La quantità di latte che beve Sebastian la mattina ha dell'incredibile. È sempre stato goloso, fin da neonato era capace di svuotare un biberon in pochi minuti. 

Mi piace stare a guardarlo quando fa colazione con la sua tazza colma di cereali davanti al naso e adoro notare l'attenzione che mette in ogni gesto. Non ama sporcarsi, non vuole macchiare il suo pigiama preferito, quello con i robot azzurri. Una lenta e misurata attenzione, cosa che io alla sua età non avevo per niente. Si vede che ha preso da suo padre.

 

«Mamma alla fine andiamo al matrimonio della tua amica?», mi chiede mentre lancia una dorata croccante manciata di cereali nel latte.

«Mancano ancora diversi mesi al matrimonio, adesso è fine dicembre. Vedremo come andranno le cose». La tazza di tè tra le mie mani aspetta di essere riempita per la terza volta.

«Dici che posso fare un disegno? Si può regalare un disegno a un matrimonio?», mi chiede Sebastian.

«Certo. Kate e la sua fidanzata saranno contente, i tuoi disegni sono sempre molto belli».

«Posso chiederti una cosa? Però prometti di non arrabbiarti?», mi chiede a voce bassa.

Quando Sebastian fa così è perché c'è qualcosa che non capisce.

«Certo amore, dimmi pure».

«Perché non ho mai visto Kate? Nik mi ha detto che abita a Boston come noi e che andavate a scuola insieme. Perché non è mai venuta a trovarci?». Il muso di Sebastian è nascosto dietro la tazza, mi spia dal basso cercando di interpretare le mie espressioni.

 

Sorrido.

Sorrido il più dolcemente possibile.

 

«Kate è una fotografa molto importante, viaggia in tutto il mondo. Ha sempre molti impegni. Io ho il mio lavoro, non ho molto tempo libero, lo sai», gli dico cercando di non trasmettergli il magone che sento nel cuore.

«Un po' come con nonno Bruno? Il fatto che non sia mai venuto a trovarci, intendo». La faccia rossa di Sebastian mi ricorda tanto la mia. Sa benissimo che mi intristisco ogni volta che il nome di mio padre esce in qualche discorso.

«Esatto. Il nonno è il direttore della casa editrice dove lavora. Ha montagne e montagne di cose da tradurre, libri da leggere e fogli da scrivere». Con le mani mimo una montagna immaginaria, Sebastian segue i miei gesti con attenzione. 

«Potremmo andare noi a trovarlo. La domenica stiamo in casa a fare nulla, mi piacerebbe conoscere il nonno. Credi che anche lui vorrebbe conoscere me? Poi puoi aiutarlo tu a tradurre, fate lo stesso lavoro voi due». Sebastian si infila una cucchiaiata di cereali in bocca masticandolo con calma e attenzione.

 

Come gli spiego che quello che fa sua madre non è neanche lontanamente paragonabile a quello che fa suo nonno? 

Tradurre manuali di lavatrici, acquari, forni e lavastoviglie, non è lo stesso che tradurre un romanzo vincitore di premi o testi universitari di alto prestigio. Non che ci sia niente di male nel mio lavoro, mi permette di pagare l'affitto e mantenere mio figlio, ma il prestigio e l'impegno sono profondamente diversi.

 

«Vedremo amore. In questo periodo la mamma ha molto da fare». Cerco di tagliare il discorso andando verso lavandino, rinuncio alla mia terza tazza di tè piuttosto che continuare a parlare con lui di questi argomenti. So benissimo che Sebastian soffre di questi miei silenzi, ma è troppo piccolo per capire le dinamiche che mi hanno portata a questo punto. Dimenticare quattordici anni di silenzi non è facile, soprattutto se di mezzo c'è il mio piccolo. Come posso andare da papà e dirgli: Ciao, ti presento tuo nipote. Scusa se te l'ho tenuto nascosto, scusa se non ho risposto alle tue chiamate. Sī, hai ragione, il tempo vola. Come stai?, come se nulla fosse.

È da anni che non ci parliamo più, quattordici anni. Una vita.

Gli spedisco ogni anno una cartolina a Natale tanto per fargli sapere che sono viva.

Lui fa lo stesso. Mi basta guardare il timbro sul francobollo per capire che l'ha scritta lui.

New Heaven. 

 

Lo scricchiolio dei cereali è l'unico rumore che si sente oltre all'acqua che scorre dal rubinetto zampillando e colpendo le tazze. Un senso di colpa mi pervade da capo a piedi, mi sento una cattiva madre incapace di provvedere a mio figlio. Un milione di domande mi affollano il cervello. E se fossi rimasta a Madrid? E se avessi accettato quel lavoro come insegnante di Italiano? E se non avessi tenuto Sebastian?

 

Ho un brivido di terrore.

L'idea di stare senza il mio cucciolo mi fa star male.

 

Corro da lui, gli scompiglio i ricci e lo riempio di baci. Sebastian si lascia coccolare, anche se è un bimbo introverso e riservato adora quando lo strapazzo di tenerezze. Le sue corte braccia si avvinghiano al mio collo, con un gesto rapido lo sollevo. I suoi occhi grigi incontrano i miei. Assomigliano a quelli di papà. Trattengo il magone come faccio ogni giorno da quattordici anni.

 

«Mamma, devo andare in... in... in...», mi dice con la faccia rossa mentre sento che stringe le gambe con forza intorno alla mia vita.

«Allarme rosso. Allarme rosso», dico con voce robotica, come fossi un computer parlante. Sebastian adora tutto ciò che è composto da viti, bulloni e microchip. 

Come un lampo sfreccio per la cucina verso il bagno. In meno di dieci secondi è seduto sul water. 

«Grazie mamma», mi dice con voce rilassata mentre prende un libretto da leggere.

«Ti lascio in pace. Chiamami quando hai finito», gli dico uscendo dal bagno.

 

Impossibile non amarlo.

Totalmente incontrollabile, istintivo e puro.

Semplice e onesto.

 

«Il furfante ha occupato il bagno?», Nik cerca di annodarsi la cravatta, ma senza lo specchio il risultato è pessimo.

«Se vuoi faccio io?», gli dico mentre prendo i due lembi che cadono morbidi sulla sua camicia bianca.

Nik accenna un sorriso:«Mi piaci di più di mattina. Le tue lentiggini sembrano più vivaci».

«Devono essere l'unica cosa che ho di sveglio. Me ne tornerei di nuovo a letto». Giro due volte il lembo della cravatta più lungo, poi lo piego e lo faccio passare nell'asola che si è venuta a creare. «Ecco. Niente male, direi».

«Sono sicuro che sia perfetto. Se vuoi puoi stare a casa oggi. Le tue traduzioni possono aspettare. Non devi consegnarle tra tre settimane?». Le sue labbra sfiorano la mia fronte mentre le mani raccolgono dolcemente il mio viso.

«No. Non voglio fare le cose all'ultimo momento. Se consegno il lavoro prima mi daranno un bonus così potrò comprare la bicicletta nuova a Sebastian, sai quanto ci tenga».

«Te l'ho detto un milione di volte. Non serve che tu lavori, posso darti tutto quello che vuoi, non devi essere così testarda», mi dice Nik.

 

Detesto quando fa così.

Possibile che non capisca che non voglia fare la mantenuta di nessuno?

Ho un mio lavoro.

Voglio lavorare.

Punto.

 

«Nik, smettila. È troppo presto per parlare di queste cose». Con evidente malumore lo allontano, mi infastidisce non essere capita, soprattutto su questa cosa. 

«Ci conosciamo da sedici anni, me lo ricordo bene che ti ho stesa con un libro», dice ironico.

«Idiota», provo a colpirlo, ma con rapidità mi afferra i polsi per farmi girare su me stessa appoggiando il suo petto alla mia schiena. È dietro di me, sento il suo respiro caldo colpire il mio orecchio e la nuca.

«Sedici anni per catturati. Anche se stiamo insieme da dieci mesi, sai benissimo quello che provo per te». Nik mi bacia il collo e i capelli, sento le sue braccia stringermi, avvolgermi.

 

Mi sento bene con lui.

Sono tranquilla.

Nik è quello di cui ho bisogno ora, ma non ho intenzione di affrettare le cose.

 

«Potresti esserti fissato con me. Potresti soffrire di una sindrome ossessiva nei miei confronti», gli dico con finto tono allarmato.

Nik ride di gusto poi mi fa fare una piroetta bloccandomi per i fianchi. I nostri occhi sono uno di fronte all'altro, il rassicurante azzurro delle sue iridi è come un tonico, un rinvigorente. «Neanche sapere del matrimonio di Kate ti ha fatto venire voglia di organizzare il tuo? Non vorresti l'abito bianco?».

«Dai, smettila. La tua sembra una fissazione. Non credo che il matrimonio ora sia la cosa più importante, essere amici o amanti è diverso. Non è detto che le cose tra di noi vadano bene per sempre». Non ho intenzione di affrettare nulla. Sebastian adora Nik, io sto bene, ma un anello al dito è una cosa seria e importante. Tra di noi le cose stanno iniziando ad andare bene, non voglio aggiungere ulteriore pressione.

«Non mi parevi della stessa idea ieri sera, in camera da letto». Nik mi bacia, sento le sue labbra premere sulle mie, l'odore di dopobarba e la pelle liscia scivolano nelle mie narici e sulle mie guance.

«Confermo, sei un grosso idiota», gli dico sghignazzando mentre gli mordo le labbra.

«Non è che stai accantonando l'idea di diventare mia moglie per l'incontro dell'altra sera? Rivedere James può...», sussurra Nik tra un bacio e l'altro.

«No. Non mi ha fatto nessun effetto», sbotto allontanando il mio viso dal suo.

«È solo che credevo che rivederlo potesse averti scatenato vecchi ricordi». Nik mi studia cerca di interpretare i miei sguardi.

«Credevi male. Togliti dalla testa fantasie, viaggi mentali e altro. Ho chiuso con il mio passato, sono andata alla mostra di Kate perché era ora che si sapesse di noi due. Capito?». Voglio chiarire con lui prima che qualche malinteso possa rovinare la nostra storia.

 

Il cellulare di Nik squilla.

 

«Devo correre allo studio, Caroline mi ha mandato un messaggio. Pesci molto grossi in arrivo nel mio ufficio», mi dice Nik mentre cerca di infilarsi la giacca con una mano sola e con l'altra risponde al messaggio della sua segretaria.

«Se non ci fossi io ti scorderesti perfino di prendere questa». Allungo a Nik la sua valigetta che sta proprio vicino ai miei piedi.

«Un bacio portafortuna? Ricominciamo la mattina, ok?», mi chiede con un sorriso. I suoi occhi azzurri risplendono come tutte le decine di mattine negli ultimi dieci mesi.

Alzando gli occhi al cielo gli do un bacio a stampo sulla bocca.

Nik mi schiaccia l'occhio poi corre per il salotto con il cappotto appallottolato sul braccio, il cappello storto in testa e la valigetta stretta nella mano.

 

Sorrido.

Mi piace la nostra piccola routine quotidiana.

 

«Mammaaa. Mammaaa». Sebastian mi chiama dal bagno.

Corro da lui pronta a lavarlo, lo trovo con i piedi a penzoloni dal water che mi guarda con i suoi occhi grandi occhi in attesa che lo sollevi.

Mentre lo aiuto a sistemarsi, lavarsi e spazzolare i denti non posso fare a meno di pensare quanto sia fortunata ad avere il mio piccolo principe a riempirmi la vita. Il suo muso buffo, il suo amore incondizionato mi hanno salvata dal baratro in cui ero caduta. Sola per Madrid in cerca di stabilità cercavo una ragione di vita. Sebastian ha ribaltato il mio punto di vista. Da figlia a madre. Da ragazzina a donna.

«Mamma mi pettino da solo», mi dice prendendo la spazzola provando a districare i riccioli sulla sua testa.

Ipnotizzata dai suoi gesti scomposti mi perdo nei miei pensieri cercando di non rimanere invischiata nella melma di dolore che in fondo al mio cuore ristagna immobile. La mia immagine riflessa rimanda un viso che ho imparato ad amare, giorno dopo giorno, senza provare disgusto nei miei confronti. La mia incapacità di intuire i piani dei miei ex amici al Trinity mi ha segnata, è come fosse una cicatrice che deturpa la mia anima. Il volto di una donna è quello che vedo, il mio, ma mi sento così fragile che è come fossi fatta di cristallo. Con le dita picchietto le lentiggini sul mio naso, lo percorro per tutta la lunghezza. Un brivido mi parte dalla base della schiena, una sensazione dimenticata riaffiora, memorie di carezze lontane.

 

Tump.

Tump.

 

Il cuore batte più forte solo per un secondo.

 

Tump.

Tump.

 

Un calore dimenticato.

 

Tump.

Tump.

 

Due occhi verdi mi osservano.

 

Tump.

Tump.

 

Soffoco.

Soffoco in ciò che credevo di aver rimosso per sempre.

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Capitolo 5
*** OGGI: Domande ***


OGGI:
Domande




Le vetrine dei negozi sono colme di luci e decorazioni natalizie. Renne, faccione barbuti sorridenti, palline rosse fiammanti, oro e argento, nastri colorati e luci scintillanti. Boston sembra indossi il suo abito più luminoso e appariscente. 

Con il mio termos di tè in mano corro sul marciapiede verso il mio minuscolo ufficio nella zona bene della città. Venticinque metri quadrati con una grande finestra, niente di eccezionale, ma per costarmi solo 250 dollari al mese e per essere vicino al centro mi va più che bene.

Con il cappello calato fin sopra gli occhi seguo il flusso di persone che ogni giorno percorre la stessa strada per andare nei loro uffici a qualche ultimo piano di qualche grattacielo fatto di acciaio e vetro. Nik non lavora molto lontano da qui, in quindici minuti, con il taxi, posso raggiungerlo. A volte abbiamo pranzato insieme, ma è capitato raramente. Nik è sempre molto impegnato con lo studio legale e anche se adesso è un socio anziano, con più responsabilità amministrative e di rappresentanza, ha molto lavoro da fare. Certo può scegliersi i clienti e i casi, ma la fatica è molta, non può permettere che lo studio faccia una brutta figura, il suo cognome appare come secondo:McArthur, Martin e Spencer. Lo studio legale è parte integrante di lui.

 

«Buongiorno Elena». Mauro, il cameriere del ristorante Petit, mi saluta in italiano sventolando un grande straccio umido. Schizzi d'acqua volano da tutte le parti bagnando di striscio i passanti che borbottano infastiditi per l'improvvisa pioggia fuori programma.

«Ciao, anche oggi devi pulire queste vetrate?», gli chiedo mentre cerco di catturare un po' di calore dal termos che tengo in mano.

«I vetri devono essere sempre puliti, altrimenti il padrone si arrabbia. Il ristorante Petit è uno dei migliori della città. Per questo lo fa fare a me, sono il migliore. Sono vecchio, ma nessuno ha il mio talento», dice battendo forte la mano sul petto. Il suo forte accento pugliese, la pelle piena di rughe e le mani piene di calli, tipiche di chi non ha mai fatto un giorno di vacanza in vita sua, raccontano più di quello che creda.

«Ci credo, lo so bene che sei il migliore. Come sta tuo Luca? Lo vedi per Natale?».

«Purtroppo no. Da quando mio nipote è assistente del suo professore non ha un attimo libero. L'importante è che sia felice», dice con orgoglio come ogni qual volta che parla di Luca.

«Se vuoi puoi venire da noi, se non hai niente da fare passa a casa mia. A Sebastian farebbe molto piacere».

«Il giorno di Natale lavoro. Sai, pagano bene», dice mentre pulisce con vigore la vetrata del ristorante.

«Va bene. Se cambi idea sai dove trovarmi», gli dico indicando la finestra al primo piano. «Adesso vado, ci vediamo dopo, va bene?», gli dico con gentilezza mentre ripenso alla fatica che deve sopportare pur di pagare gli studi universitari di suo nipote Luca, un ottimo ragazzo con una borsa di studio parziale in ingegneria informatica.  

Mauro si inchina mostrandomi i suoi capelli candidi come la neve e un sorriso sincero che solo un uomo onesto, come ce ne sono pochi al giorno d'oggi, farebbe.

 

Apro il portone del palazzo velocemente, una raffica di vento gelido corre per le vie della città. Percorro la ripida rampa di scale che mi porta nel mio piccolo ufficio, per fortuna lì il riscaldamento ha reso la stanza calda. Sulla scrivania ho un plico di manuali da tradurre, il mio portatile, qualche penna e fogli scarabocchiati di appunti. Per terra, vicino all'ingresso ci sono gli scatoloni con i vecchi cataloghi dei miei clienti. 

Mi metto subito al lavoro, voglio consegnare le traduzioni il prima possibile per avere il bonus che mi permetterà di comprare la bicicletta a Sebastian.

Con le mani ancora intirizzire dal freddo accendo il mio portatile poi ascolto i messaggi in segreteria. Di solito l'ufficio centrale a Madrid mi lascia le indicazioni via messaggio vocale o con le mail, visto il fuso orario è difficile sentirsi con regolarità. In attesa che il computer sia in funzione sfoglio distrattamente gli appunti presi il giorno prima per ricordarmi a che punto del lavoro sono arrivata.

 

Alla porta qualcuno bussa.

 

L'orologio segna le nove e trenta, di solito il postino lascia la posta nella cassetta delle lettere, solo se deve farmi firmare qualche ricevuta si scomoda ad arrivare fino alla mia porta. Probabilmente l'ufficio centrale mi ha mandato qualche pacco di depliant o un nuovo lavoro di qualche cliente. 

«Arrivo», dico ad alta voce mentre mi dirigo verso l'ingresso.

Apro la porta.

Trattengo il fiato. 

 

Davanti a me non c'è il postino, ma a Rebecca con tacchi vertiginosi, un cappotto blu notte, una sciarpa di seta, borsetta griffata e orecchini di diamanti. Sembra uscita da una rivista.

 

«Buongiorno», mi dice con aria schifata mentre entra con prepotenza nel mio ufficio.

«A cosa devo questa tua gradita sorpresa?», le chiedo.

«Curiosità», dice prendendomi in giro, è la stessa parola che ho risposto a James durante la mostra fotografica di Kate. Evidentemente quei due sono ancora amici e confidenti.

«Parliamo chiaro e fuori dai denti. Che diavolo vuoi? Perché sei venuta a trovarmi?», le chiedo mentre mi accomodo alla mia scrivania iniziando ad aprire documenti e schede da tradurre sul mio portatile.

«Volevo avere conferma del fatto che la promessa mancata di Yale lavorasse in un pulcioso ufficio guadagnando due soldi e si portasse a letto uno degli avvocati più importanti della città». Rebecca da un piccolo calcio agli scatoloni vicino all'ingresso. 

«Vattene». Non ho intenzione di darle corda.

«La tua uscita dell'altro giorno alla mostra di Kate è stata inopportuna, vorrei sapere che intenzioni hai? Sei riuscita a tenerci nascosto che te la intendi con il tuo ex professore». Rebecca è di fronte alla mia scrivania con le braccia conserte, mi guarda con disprezzo.

«Credo non ti sia chiaro il fatto che non ho voglia di parlare con te. Vattene», non merita la mia attenzione.

 

Due pugni sbattono sulla mia scrivania.

Rebecca mi guarda furiosa, i suoi capelli lisci come seta coprono parte del suo volto deformato dalla rabbia. Sembra in preda a una crisi di nervi vera e propria. 

 

«Spunti dal nulla. Per quindici anni nessuno ha saputo più nulla di te e che fine tu abbia fatto, neanche tuo padre. Eravamo amiche, avevamo Yale. Perché l'hai fatto?», mi urla in faccia.

La osservo per qualche secondo poi sghignazzo divertita.

Rebecca si ricompone. È stranita dalla mia reazione, lo capisco da come mi guarda. Con la testa inclinata da un lato cerca di interpretarmi: «Ma chi diavolo sei? Te ne stai lì seria a fissarmi, ridi delle mie parole».

«Mi hai chiamata feccia l'altro giorno alla mostra. Secondo te devo credere a questa tua sceneggiata d'amore nei miei confronti? Avrai una laurea a Yale, ma ricordati che io so bene cosa sei in grado di fare. Non ho più sedici anni e non sono più una sprovveduta. So come ragionano le persone, ma soprattutto so come ragioni tu».

«Sei una persona orrenda. Sono venuta per...». La interrompo.

«Sei venuta per impicciarti dei fatti miei, sei venuta per sapere se sono un pericolo per te e i tuoi progetti. Sei venuta per sapere se sono ancora migliore di te o no». Non nascondo il mio sarcasmo, voglio esattamente che sappia cosa provo.

Rebecca sbatte i pugni sul tavolo, dire che è infuriata è poco.

«Allora sei spuntata così per caso. Per caso sei la compagna di Nik che casualmente lavora con James, me e Jo. Prova ad essere sincera, stai con Nik solo perché vuoi essere una di noi come hai sempre voluto in passato», mi urla in pieno volto.

 

Mi alzo in piedi, non ho intenzione di tirarmi indietro e dargliela vinta. Voglio che sappia che non elemosino la sua amicizia e che non voglio niente da lei. Ognuno di loro ha rovinato il mio passato, non voglio che distruggano il mio presente. Deve sapere tutto, non voglio che sorga il minimo dubbio, non voglio bugie o segreti.

 

«Dopo New Heaven sono stata a Parigi per un anno, ma poi ho trovato amici spagnoli e con loro mi sono trasferita a Madrid. Mi sono costruita una vita e una famiglia, il destino mi ha riportata a Boston, un puro è semplicissimo caso. L'azienda per cui lavoro aveva bisogno di un supporto in città visto l'ampliamento aziendale. Non sono qui per te, Jo, a James o Kate. Sono qui per me. Capito? Per me e mio figlio, perché il mio lavoro mi ha portata qui. Togliti dalla testa qualsiasi idea distorta, smettila subito». Ringhio. I denti sono serrati. Lo sguardo fermo. Sono come una leonessa che difende i suoi cuccioli, Rebecca non deve nemmeno avvicinarsi a me, non deve provare a coinvolgermi nei suoi piani meschini.

«Balle, sono tutte balle», mi dice scettica.

«Se vuoi ti lascio il contatto della sede in Spagna. Ecco», le allungo il biglietto da visita della mia titolare. 

Rebecca lo prende e lo rigira per qualche secondo tra le mani.

Mi guarda .

Rilegge il biglietto da visita.

«Se stai mentendo...». 

La zittisco subito.

«Non ho voglia di giocare con te. Non siamo più al Trinity. Sono un'altra persona, voglio solo essere lasciata in pace e vivere la mia vita. Io non mi intrometterò nella tua e tu non intromettermi nella mia», le dico diretta senza filtri.

 

Rebecca mi osserva con attenzione, non sa esattamente cosa fare. Le mani rigirano velocemente il biglietto da visita tra le mani mentre si morde il labbro nervosamente. Io non mi tiro indietro, non tollererò nessuna intromissione da parte sua e da parte di nessuno di loro.

 

«Quindi non stai con Nik per per impicciarti nello studio?», mi dice sottovoce senza smettere di studiare le mie mosse.

«Sto con Nik perché voglio Nik. Ci frequentiamo da dieci mesi circa e prima o poi dovevate sapere di noi due. La mostra di Kate è stata l'occasione migliore. Eravate tutti lì, vi ho beccati in un colpo solo. In questo modo niente pettegolezzi o passaparola inutili». 

 

Mi siedo sulla sedia della mia scrivania. Passo più volte le mani sui capelli cercando di dare loro un ordine. Discutere con Rebecca ha prosciugato parte delle mie energie, rivivere emozioni che non provavo da anni mi ha sfiancata. Piccoli flashback delle litigate con Rebecca mi tornano in mente come le volte che è stata gentile con me, anche se probabilmente il più delle volte l'ha fatto con uno scopo. La melma vischiosa appiccicata alle pareti della mia anima si smuove.

Risate.

Bugie.

Intrighi.

Ogni attacco nei miei confronti, ogni sgarbo fatto i quattordici anni prima mi smuove la parte più oscura e profonda. Il dolore che ho compresso e celato in tutto questo tempo scalpita e freme. Una infinita tristezza mi sale dallo stomaco avvolgendosi stretta intorno alla mia gola. Reminiscenze di un'amicizia travagliata, di una lotta continua, di una sfida senza tregua scuotono tutto il mio corpo. Soffoco. Soffoco al pensiero del giorno del ballo. Soffoco al pensiero delle sue risate di scherno nei miei confronti. 

Gli occhi mi si riempiono di lacrime come se fossi una bimba piccola.

Di fronte a me ho la mia nemica per eccellenza e un contrasto di sentimenti mi fa vacillare. Odio. Malinconia. Odio. Odio. Odio profondo.

 

«Credo che questa sarà l'ultima volta che ci affronteremo. Se le cose stanno come dici le nostre vite si sfioreranno e basta», mi dice a Rebecca con voce pacata.

«Sì, non voglio niente da te. Non voglio niente da nessuno di voi. Lasciatemi in pace e basta». Con la testa china e le unghie che affondano nella carne delle mani trattengo la tempesta che sento dentro.

Rebecca non aggiunge altro.

 

I suoi tacchi risuonano sul pavimento in ceramica.

Il suono riecheggia.

La maniglia si apre.

Silenzio.

Silenzio.

Rebecca è ferma sull'uscio, mi da le spalle.

Silenzio.

 

«Lo sai che sparendo da New Heaven hai spezzato il cuore a molte persone?», mi dice con un filo di voce colmo di tristezza. La voce le trema, credo stia piangendo. Forse mi sbaglio.

 Poi se ne va.

 

Impietrita sulla sedia aspetto che il tempo riprenda a scorrere. Aspetto che le parole di Rebecca si disperdano come una goccia di inchiostro nel mare. Le cose non dette pesano come macigni. I silenzi urlano come sirene. Il mostro addormentato dentro di me affila le unghie e mi ferisce. 

Soffoco.

Soffoco.

Soffoco.

 

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Capitolo 6
*** OGGI: Ciao, come stai? ***


OGGI:
Ciao, come stai?




Non avrei mai creduto che rivedere Rebecca da così vicino potesse smuovere la corazza che mi sono costruita negli anni. Sentirmi così fragile è una sensazione che non amo e che mi fa tornare in mente quello che sono stata, ma che adesso non sono più. Il tempo passato e le persone che ne hanno fatto parte sono immagini sbiadite, anche se la sofferenza che ho provato per colpa loro è reale e concreta.

 

C'è una Elena bloccata e impaurita.

C'è una Elena emancipata e determinata.

A volte litigano.

A volte si scontrano.

A volte convivono.

 

Stare da sola dai diciotto anni mi ha permesso di crescere e imparare a vivere per davvero. Ho detto addio ai capricci, basta ai drammi, ho imparato a sopravvivere con i soldi che guadagnavo e ho attinto solo in casi disperati ai soldi che Geltrude mi ha dato prima di partire. Mi sono spaccata la schiena, ho sfruttato tutto ciò che sapevo fare, ho dovuto adeguarmi a vivere in case sovraffollate o catapecchie. La comodità e la tranquillità non sono state mie compagne di viaggio.

Parigi è la città in cui ho vissuto per qualche mese dopo essere scappata da New Heaven. Il lavoro di lavapiatti nella grande metropoli francese mi stava stretto, era molto faticoso e per nulla soddisfacente. Non avevo un futuro lì. Nuovi amici mi hanno convinta a seguirli a Madrid dove ho ricominciato a stare bene e a fidarmi delle persone. Ho capito che l'amicizia è sacrificio e dedizione, che non si può volere amore se non si è in grado di donarlo. 

 

Fattorino.

Baby sitter.

Donna delle pulizie.

 

Ho fatto di tutto e di più a Madrid. Lo stipendio da fame che guadagnavo non mi permetteva una vita regolare e agiata alla quale ero abituata, vivevo alla giornata senza programmare il mio futuro. Stringevo i denti e andavo avanti, non ho mai pensato una sola volta di tornare indietro da papà, mai. 

Saper parlare perfettamente inglese e italiano mi ha aiutata molto. Per diversi anni ho lavorato sottopagata come guida turistica a Madrid, un lavoro divertente che mi ha permesso di conoscere persone nuove e non stare chiusa in qualche locale a pulire birra dai tavoli e lucidare bicchieri a ripetizione.

Un giorno, durante un mio giro per la città, ho incontratola titolare della Palabra Traducción, una società specializzata in traduzioni di acquari, elettrodomestici e articoli provenienti da tutto il mondo. Un caso fortuito che mi ha permesso di mettere da parte un po' di soldi e quindi mi ha dato la possibilità di decidere di tenere Sebastian quando ho scoperto di essere rimasta incinta. Suo padre Miguel, mio vecchio e carissimo amico madrileno, mi è stato vicino anche se era chiaro fin da subito che un'avventura di una sera non avrebbe mai potuto trasformarsi in una relazione stabile. Ci abbiamo provato per qualche mese, ma lo stile di vita mio e di un neonato non poteva legare con quello frenetico di uno chef in ascesa come Miguel. 

Miguel ama alla follia Sebastian.

Sebastian adora Miguel.

Miguel e io ci siamo fatti la promessa di non perderci mai di vista per l'amore di nostro figlio, per questo una o due volte alla settimana ci colleghiamo su Skype a chiacchierare, in questo modo la distanza tra Sebastian e suo padre sembra meno anche se lavora in ristoranti dall'altra parte del mondo.

 

La Elena emancipata e determinata è in grado di curare e crescere un bimbo di cinque anni.

La Elena emancipata e determinata è capace di mantenere rapporti pacifici con il suo ex compagno, padre di suo figlio.

La Elena bloccata e impaurita non è in grado di saper gestire le emozioni legate a quando era adolescente.

 

«Mamma. Mamma, stasera Nik non c'è?». Sebastian stringe un orsetto di pezza marrone, il suo preferito.

«Sai che lavora molto, ha cose importanti da fare. Non so se passa da noi stasera oppure se è tornato nel suo appartamento. Dopo lo chiamo. Magari si è addormentato sulla scrivania del suo ufficio. Immagina come russa». Ridacchiando imito dei suoni simili al verso di un maiale.

Sebastian ride.

«Mamma lo sai che sembri triste quando non giochi con me?», mi dice mentre tortura una ciocca dei miei capelli.

«Non sono triste. Sono una mamma mangia manine molto affamata», gli dico mentre fingo di mangiargli le mani paffute. Non voglio che mi veda giù di morale, non voglio che la visita di Rebecca nel mio ufficio stravolga la mia vita e quella di mio figlio.

Con calma gli rimbocco le coperte, gli canto una canzoncina che mi cantava mamma quando ero piccola. Anche se sono stonata non mi vergogno, anzi cerco di far sorridere il mio piccolo ad ogni acuto o nota che sbaglio. Sebastian si attacca al mio braccio vuole una dose extra di coccole mentre abbraccia la foto incorniciata del padre. Con calma lo stringo, spengo la luce e lo riempio di baci finché non lo sento rilassarsi e lo vedo chiudere gli occhi. Prendo la foto che tiene tra le braccia cercando di fare meno rumore possibile, è ora che il mio piccolo si riposi un po'. 

La casa sembra spegnersi quando Sebastian dorme. I giochi sono sparpagliati per il salotto, le urla sono sparite, pezzetti di carta pasticciati sono ammucchiati in un angolo. Inizio a raccogliere tutto cercando di dare una parvenza di ordine anche se vorrei stravaccarmi sul divano a guardare un film. 

 

La porta scatta.

Nik è tornato.

Oggi avrebbe dovuto restare nel suo appartamento, almeno secondo quello che mi ha detto in giornata.

 

Con un paio di robot giocattoli in mano gli faccio un cenno con la mano per salutarlo, non voglio alzare troppo la voce rischierei di svegliare Sebastian.

Nik ha l'aria stanca, lo capisco anche se cerca di nascondersi dietro gli occhiali e la grande sciarpa che gli avvolge il collo. Se non lo conoscessi bene direi che sembra tutto nella norma, ma ogni suo gesto ha un significato preciso e io lo interpreto alla perfezione. Nik è turbato. 

Sempre mostrandomi le spalle Nik si toglie il cappotto, si slaccia le scarpe e allenta la cravatta. Passa diversi secondi a stropicciarsi gli occhi prima di guardarmi e rivolgermi la parola. Con un sorriso forzato mi viene incontro abbracciandomi stretta. Sa di freddo. È come se l'aria gelida dell'inverno fosse penetrata nella sua carne.

 

«Vuoi fingere che tutto vada bene o vuoi dirmi che ti passa nella testa?», gli chiedo.

«Sono solo stanco. Ho un milione di cose da fare allo studio legale e la testa fatica a staccarsi dagli impegni e preoccupazioni». Nik mi stringe, sembra non voglia staccarsi più da me.

«Hai cenato?».

«Caroline mi ha portato una zuppa e un tramezzino. Sono a posto così, non ho fame». Come fosse un sacco di patate Nik si lascia andare sul piccolo divano del mio salotto sfiorando una torre fatta con le costruzioni da Sebastian.

«Sicuro che non vuoi parlare? Hai discusso con qualche avvocato dello studio?», chiedo con insistenza. Non vorrei mai che Rebecca avesse riferito informazioni sbagliate o rigirato la frittata a suo vantaggio, da lei me lo aspetterei un atteggiamento del genere.

«No. No. Ci sono dei nuovi clienti e un contratto strano. Charlie dice che non vede nulla di anormale, ma a me tutta questa storia puzza. Sono due imprenditori edili che vogliono finanziare un progetto della nuova società di Lucas. Ti avevo detto che Lucas ha investito milioni di dollari per la costruzione di un Hotel di lusso. Questi qua spuntano di punto in bianco dal nulla con una valanga di soldi. All'apparenza sembra tutto regolare, ma ho voluto approfondire. Sto aspettando informazioni più precise, tutto qui. L'attesa mi logora». Nik si stropiccia la faccia, i suoi occhi azzurri sembrano spenti. Anche se non vuole dimostrarlo è sfinito.

«Non so come aiutarti», gli dico mentre gli prendo una mano.

«Non puoi. Voglio solo sganciarmi dai milioni di pensieri che mi frullano in testa. Parliamo d'altro, ok? Come sta il piccolo? Tu stai bene? In questi giorni sembri pensosa».

 

Con dolcezza accarezzo le guance di Nik. Qualche capello bianco è spuntato sulle sue tempie, il tempo passa per tutti. Delle piccole rughe sono comparse intorno ai suoi occhi che però non smettono di essere un rifugio rassicurante per quando sono triste. Il tempo ha cambiato anche il mio aspetto i miei zigomi sono più evidenti come le occhiaie quando sono particolarmente stanca. Guardo Nik e vedo un uomo fantastico capace di dare tanto amore, capace di amarmi nonostante sia tremendamente imperfetta. Imperfetta perché incapace di dirgli di Rebecca, incapace di raccontare cosa mi turba.

La Elena insicura sta vincendo.

Mi impedisce di parlare.

Mi impedisce di dirgli che soffoco ogni volta che penso al Trinity.

Mi impedisce di raccontargli cosa mi hanno fatto James e gli altri.

Nik non sa nulla del giorno del ballo di quattordici anni fa.

Ho sempre mentito.

Continuo a mentirgli.

 

«Ho molto lavoro niente di particolare, sto aspettando delle mail», mento spudoratamente, «Adesso riposa un po', preparo una tisana rilassante per tutti e due, poi andiamo a dormire. Va bene?».

«Grazie Elena. Lo sai che ti amo, no?». Nik mi bacia la mano con cui lo accarezzo poi sprofonda nel divano chiudendo gli occhi cercando di trovare un po' di pace tra le decine di pensieri che lo confondono.

 

Tentenno.

Accenno un sorriso.

Gli occhi mi si riempiono di lacrime.

Mi sento uno schifo.

 

Mi dirigo verso la cucina per mettere due tazze d'acqua nel forno a microonde. 

Un tasto e pochi secondi.

Elena non pensare.

L'acqua è bollente.

Scarto due bustine di tisane e le metto a mollo.

Elena non pensare ai tuoi silenzi.

Il profumo dei fiori si sparge per tutta la cucina.

Un cucchiaino di miele in ogni tazza.

Elena non pensare ai tuoi silenzi con Nik.

 

«Già di ritorno?». Nik allunga le mani per prendere la tazza incandescente.

«Più veloce di un fulmine», dico scherzando. Mi accomodo vicino a Nik raccogliendo le gambe sulla seduta del divano. 

Soffio il fumo bollente.

Sto zitta.

Lo stesso fa Nik.

 

«Mi ci voleva proprio. Inizio a stare meglio», dice mentre beve a piccoli sorsi la tisana.

«Una bella dormita e vedrai che i brutti pensieri andranno via», dico a Nik anche se in verità lo sto dicendo più a me stessa.

«Guarda che non sono Seb. Ho qualche anno in più del piccolo», mi dice ridacchiando.

«Se vuoi ti canto una ninna nanna. Stella stellin...». 

Nik mi tappa la bocca ridendo:«No. Hai molte qualità, ma il canto non è tra queste».

Sghignazzo.

«Non dovevi controllare le mail? Magari ti scrivono da Madrid per il lavoro, controlla così ti togli ogni dubbio e dormi serena», mi dice Nik assaporando la tisana.

«Hmm... già... faccio subito». Prendo il mio cellulare, anche se non mi piace leggere la posta elettronica in quel modo, preferisco dal PC, non posso tirarmi indietro. Non voglio che Nik pensi che sia pensosa o preoccupata per qualcosa.

 

Click.

Scorro.

Click.

Cerco.

Click.

Aspetto.

 

In arrivo otto mail.

Leggo.

 

Lavoro.

Lavoro.

Pubblicità.

 

Poi.

Una mail diversa dalle altre.

C'è scritto: Invito al compleanno di Maggie Voli.

 

Sbianco.

Click.

 

Ciao Elena, come stai?

Sono Tess, ho pensato di scriverti qui perché non so se avessi voglia di sentirmi per telefono, ho recuperato la tua mail lavorativa, spero non ti dispiaccia. 

Kate ci ha detto che sei a Boston e che sei andata alla sua mostra. Nonostante tuo padre non voglia contattarti credo che la cosa che desideri più al mondo sia poterti riabbracciare. Lo stesso vale per me, abbiamo molte cose da raccontarci.

Mi renderebbe davvero felice poterti invitare alla festa di compleanno di Maggie. Settimana prossima compie nove anni. 

Ti allego tutte le informazioni per raggiungerci.

 

Ti prego, vieni a trovarci.

La nostra vita è vuota senza di te.

Tess.

 

Il cuore perde infiniti battiti.

L'aria è più pesante del piombo.

Affogo nella confusione.

 

Maggie Voli.

Ho una sorella che non sapevo di avere.

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Capitolo 7
*** OGGI: Caffè con vista ***


OGGI:
Caffè con vista





La scuola di Sebastian è vicino al mio ufficio, ma oggi il tragitto mi sembra infinitamente lungo. Ho la testa persa in pensieri troppo complicati per poterne parlare con qualcuno è come se sotto pelle mi scorresse dell'energia elettrica che mi smuovesse da capo a piedi, il problema è che non capisco se è una sensazione positiva o meno.

Seb mi tiene per mano mentre saltella allegro sui grandi lastroni che ricoprono la strada verso la scuola materna. Io faccio fatica a concentrarmi, ho passato la notte a discutere con Nik. Certo sono inezie, ma è stata la prima e propria litigata che abbiamo fatto in dieci mesi di frequentazione. Lui è preso dai suoi problemi in ufficio. Io sono presa dai drammi che come sempre accompagnano la mia vita.

 

Silenzi.

Pensieri.

 

Nik detesta quando sono troppo concentrata su me stessa. Ha paura. Crede che l'incontro alla mostra fotografica con i miei ex compagni di scuola abbia smosso emozioni che ho sepolto e voluto dimenticare, uno su tutti è l'amore che ho provato per James da ragazza. Ho cercato di spiegargli che si sbagliava di grosso, ho provato a dirgli che James non c'entra nulla, ma Nik non mi ha voluto credere. 

 

Ha alzato la voce.

Ho alzato la voce.

Mi ha detto cose orrende.

Gli ho detto cose orrende.

 

Alla fine ci siamo addormentati arrabbiati, confusi e tristi.

Nik è preoccupato da troppi impegni lavorativi e ha sfogato su di me la sua ansia. Non pensa quello che ha detto. 

Io sono preoccupata per gli incontri e le novità capitatami e ho sfogato su di lui la mia ansia. Non penso a quello ho detto.

Tutto questo forse dovrebbe farmi stare meglio.

No. 

 

Un pensiero però mi frulla nella testa come una fragile e colorata farfalla capace di illuminare il magma confuso che alberga nella mia anima.

Ho una sorella.

Ho una sorella di nove anni.

Ho una sorella di nove anni che si chiama Maggie Voli.

 

Non ho detto nulla a Nik, non sono riuscita.

Per questo gli sono sembrata pensosa, perché voglio prima capire cosa devo fare e come muovermi. È una situazione delicata, ho Sebastian da proteggere, non voglio che il mio piccolo soffra. Piedi di piombo. Conoscendo Nik si sarebbe attivato portandomi di peso a New Heaven, avrebbe organizzato un incontro con Tess e mio padre, avrebbe fatto tutto giusto. Perfetto. Lineare. Come in un libro a lieto fine.

 

Io non voglio una vita da cartolina.

Io voglio la mia vita: stropicciata, imperfetta e caotica.

 

«Mamma lo sai che un robot gigante potrebbe distruggere i palazzi della città? Se poi avesse dei razzi affonderebbe anche le navi nel mare». Sebastian fende l'aria con le mani sibilando con le labbra per imitare i missili.

«Sì amore», gli rispondo frettolosa.

«Poi immagina un robot che ha cinque... no, sei. Aspetta. Dodici braccia che si staccano e prendono a pugni i cattivi. Mamma? Mamma?». Sebastian mi tira il cappotto con un po' troppa insistenza.

«Adesso basta. Dobbiamo entrare a scuola», sbotto.

Seb rimane a bocca aperta, è raro che gli risponda in questo modo.

 

Se potessi mi prenderei a calci.

 

«Scusa amore». Mi accuccio vicino a lui sistemandogli la sciarpa di lana che ha intorno al collo:«Oggi sono stanca e ho molti pensieri che mi fanno diventare antipatica».

«Non fa niente. Stavo solo dicendo di un robot gigante, non è importante», dice mogio.

«Scherzi? Io adoro i robot, soprattutto quelli giganti. Se poi hanno diec... undic...».

«Dodici», mi corregge Sebastian.

«Ecco dodici braccia, credo siano il massimo. Potrebbero... potrebbero... non so...».

«Distruggere tutti i mostri cattivi?», mi suggerisce il mio piccolo.

«Sì. Oppure mettere a posto tutti i giochi che lascia in disordine in casa», gli dico schiacciando l'occhio.

«Mamma! Sarebbe un robot gigante noiosissimo, ci sei già tu che sistemi tutto», dice con un candore impossibile da non amare.

«Andiamo furbone, i tuoi amichetti ti aspettano». Sollevo di peso il mio piccolo ometto mentre salgo i pochi gradini che mi portano verso l'ingresso della scuola materna.

 

La semplicità di mio figlio mi spiazza. Un bacio. Un abbraccio sincero. Bastano queste cose a farmi stare meglio. Una giornata storta come questa può ripartire se l'unica cosa a occupare la mia testa sono i grandi e tondi occhi grigi di Sebastian, i suoi ricci impertinenti e i robot giganti distruttori di metropoli partoriti dalla sua fantasia.

Un vento da nord mi colpisce in pieno volto, piccoli spifferi si infilano tra le asole del cappotto e la trama della sciarpa. Mi avvolgo con le braccia mentre aumento il passo.

 

Il cellulare squilla.

Rispondere significherebbe esporre le mani al freddo e non ne ho minimamente voglia.

Il cellulare squilla di nuovo.

Lo prendo per guardare chi è.

Nik mi sta chiamando.

 

«Pronto», dico con voce neutra.

«Mi dispiace, mi dispiace per ieri sera. Ero nervoso e ho voluto vedere quello che non c'è. Scusa», mi dice tutto in un fiato.

«Non fa nulla. Colpa mia. Ho un sacco di cose da fare e spesso perdo la testa». Sono felice di sentire Nik così sereno.

«Che ne dici se mandassimo in aria i nostri programmi e pranzassimo insieme oggi? Ho organizzato una cosa carina», mi dice tutto pimpante come fosse un bimbo in un negozio di caramelle.

 

Sorrido. Come posso resistere a tanto amore?

 

«Certo, cosa avevi in mente?», gli chiedo complice.

«Vieni nel mio ufficio dopo le undici. Ok?».

«Credi sia il caso? Non vorrei che i tuoi colleghi pensino che mi impicci nella loro vita», gli chiedo. Non voglio sceneggiate da parte da Rebecca o da qualcun altro di loro, mi sono ripromessa di non intromettermi e ho tutta l'intenzione di stare tranquilla.

«Non preoccuparti di loro. Se ti daranno fastidio ci penserò io», dice ironico.

«Non ho bisogno della bàlia. Non fare lo scemo. Ci vediamo dopo», gli dico prima di buttare giù.

 

Cambio di rotta.

Oggi niente ufficio, mi concederò qualche ora di relax in una libreria vicino allo studio legale. Forse un po' di leggerezza servirà a far chiarezza nei miei pensieri.

Con una corsa, più per riscaldarmi, mi dirigo verso la metropolitana. Un flusso continuo  di persone esce ed entra dalla Metro pronti ad iniziare una nuova giornata di lavoro. Uomini in completo blu con cuffiette alle orecchie. Ragazze con borse piene di libri scolastici. Operai che tornano dal turno di notte. Turisti con fotocamera attorno al collo.

Decine di storie di intrecciano. Nessuna si incontra con le altre.

Tutti paiono presi dai loro programmi, tutti sono troppo occupati a guardarsi dentro.

Pensare a quanto siano stanchi. Alle bollette da pagare. Al capoufficio rompiscatole. All'ultimo esame che devono dare. A quale foto scattare.

Io sono una di loro. In piedi, attaccata ad un palo per non cadere, fisso la mia immagine che si riflette ad alternanza sui vetri grigi della metropolitana tra una fermata e l'altra.

 

Maggie Voli.

Chissà come sarà?

Mi assomiglierà un po'?

Sa che esisto?

 

Trascinata dal un fiume di gambe e braccia esco dal mio vagone, percorro un paio di rampe di scale per poi ritrovarmi all'aria aperta. Una selva di negozi perfettamente tirati a lucido, insegne eleganti e gente in tacchi e completi costosi sfilano per i marciapiedi.

Come fossi un'intrusa mi dirigo spedita verso la libreria che conosco. Sono pronta a passare qualche ora al calduccio tra l'odore di carta e l'abbraccio di personaggi che imparerò a conoscere e amare dopo pochi capitoli.

Avventure sui mari. Amore combattuto. Litigi. Inganni e malignità. Sorprese e colpi di scena. 

Anche se ho trentatré anni sono rimasta un inguaribile romantica. Una fissata con le storie d'amore capace di comprarsi tre libri e passare ore a leggerli come fossi ritornata sedicenne. Certe cose non cambiano mai, per fortuna.

 

L'orologio della libreria segna le undici spaccate. Mi alzo malvolentieri dalla morbida poltrona che mi ha coccolata per tutta la mattinata, ma non voglio fare tardi. Devo andare da Nik, non voglio deluderlo.

Appena metto piede per strada il freddo mi pizzica le guance arrossate dal calore del negozio e un formicolio mi prende le gambe. Mi muovo velocemente, non voglio congelarmi. A passo veloce attraverso la strada e percorro circa cinquecento metri tra palazzi di vetro e acciaio, è il quartiere degli affari dove le persone che contano passano buona parte della loro vita.

 

Eccomi.

 

Un enorme edificio alto e scintillante mi aspetta. Tra le innumerevoli targhe esposte all'ingresso ne noto una: Ufficio legale McArthur, Martin e Spencer. 

Sono stata diverse volte lì sotto ad aspettare Nik per andare a pranzo, di nascosto da tutti, quando non si era sparsa la voce che ci frequentassimo. Non ho mai attraversato quel confine. Non ho mai aperto quella porta.

Ora è il momento.

Prendo un bel respiro.

Un portiere mi apre la porta a vetro.

Un passo, poi una nuvola d'aria calda mi avvolge.

Un passo.

Professionisti che fanno la fila davanti agli ascensori.

Cartelle in pelle.

Tacchi e calze in seta.

Io con il mio cappotto verde militare, sciarpa colorata e cappello di lana calato fin sopra gli occhi sembro una matta a confronto. 

 

«Elena? Elena sei tu?». Una voce che conoscerei tra mille mi chiama.

Jo. Il mio vecchio amico.

«Ciao Jonathan». 

«C-cosa ci fai qui?», mi chiede confuso. Con i capelli neri corti e perfettamente tagliati, la pelle liscia e un completo blu notte sembra la versione elegante del ragazzo che ho conosciuto. «Ho un appuntamento allo studio legale. Sono in ritardo», mi dice mentre controlla sul suo Rolex l'ora.

«A dire il vero anche io devo andare da Nik». Le guance mi si colorano di rosso, una vampata di calore mi parte dai piedi fino alla punta dei capelli.

«Ah, già. Nik», dice asciutto.

Con un gesto rapido mi tolgo il cappello e la sciarpa che mi avvolge. Il rossore e l'imbarazzo sono al massimo.

Jo mi osserva per diversi secondi come se avesse davanti agli occhi uno spettro o qualcosa di anomalo:«I tuoi occhi, sono... sono... tu sei... sei...».

«Invecchiata? Piena di rughe?», dico con ironia sperando di sdrammatizzare la situazione.

«No. Forse in cuor mio l'avrei desiderato di vederti brutta e cambiata, invece sei come allora, come quattordici anni fa. Mi hai sempre spiazzato Elena. Hai sempre spiazzato tutti». Il tono serio di Jo, la sua voce profonda lasciano trasparire tutte le emozioni che prova. È confuso. È felice. È infastidito. Tutto allo stesso tempo.

«Credo sia ora di andare». Non aggiungo altro, mi dirigo verso gli ascensori mentre gli occhi si inumidiscono e i ricordi dell'affetto che ho provato per lui si mischiano all'eco delle sue parole dette la sera del ballo. Non posso dimenticare che mi ha tradita. Non posso fingere che tutto vada bene.

L'ascensore colmo di persone ci ingloba. Stretta tra sconosciuti cerco di controllare la valanga di emozioni che mi turbina dentro.

 

Gli abbracci di Jo.

Le sue parole di confronto.

L'estate insieme a New Heaven.

Le giornate passate a studiare.

I sogni condivisi.

Risate, tante risate.

Alla fine tutto è un miraggio, una chimera.

 

Dlin.

L'ascensore si ferma.

Venticinquesimo piano.

Studio legale McArthur, Martin e Spencer.

 

Jonathan esce per primo, mi aspetta lì fuori. 

Lo raggiungo.

Un grande atrio con pavimento in marmo ci accoglie. Un paio di ragazze portano i clienti dai vari avvocati dello studio. Pareti di vetro dividono gli spazi e gli uffici: scrivanie, sedie, cassettiere di ottima fattura condite da avvocati incravattati. Giovani tirocinanti trasportano faldoni e fogli di carta da una parte all'altra. Il ricordo dei mesi trascorsi a lavorare per Nik, con Stephanie e Jo, mi fa sorridere. Non ho mai corso da una parte all'altra come quella volta.

Tutti parlano, sussurrano, discutono. Non c'è calma, un fermento diffuso e stratificato corre tra tutti, i loro gesti sono misurati e controllati, i loro sguardi sono attenti e puntuali.

«Vieni», mi dice Jo.

«Va bene», gli rispondo.

Lo seguo per poco perché, come se un pensiero lo avesse colto all'improvviso, si gira verso di me prendendomi le spalle. La sua cartella in pelle cade sul pavimento di marmo:«Perché te ne sei andata? Perché non hai detto niente a nessuno? Io... io...». 

Davanti a me ho il ragazzo che ho sempre conosciuto, quello incapace di esprimere fino in fondo il proprio pensiero, quello che mi ha sempre capita, marche adesso sembra non conoscermi.

«Avevo delle cose da fare». Non aggiungo altro. Non merita di sapere altro. Mi ha venduta, mi ha usata per avere Yale. Non aveva bisogno della fama per il college, bastava la sua intelligenza e la sua dedizione e allo studio per riuscire. Infatti, eccolo qui, bello, di successo e felice. Io non gli servivo, non ero altro che un peso per lui.

«Ma...», prova a dire. 

Jo viene interrotto da una persona che credevo non avrei più rivisto in vita mia.

«Avvocato Kurtz. Non si sarà dimenticato della riunione di stamattina?». Andrew con indosso un completo gessato e i capelli pieni di gel mi fissa con insistenza poi con finta ingenuità: «Oh, ma guarda! Elena, quanto tempo. Che bella sorpresa. Adesso i grandi hanno da fare, dopo magari ci beviamo un caffè. Con una vista del genere tutto sembra più bello, non trovi?», mi dice indicando lo skyline della città che si vede dalle vetrate.

Accanto ad Andrew ci sono Lucas e George McArthur, il padre di James. Rebecca è poco distante, mi fissa infuriata.

 

Stringo i denti e sorrido.

Questa volta non scappo.

 

... continua nel prossimo capitolo...

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Capitolo 8
*** OGGI: Il tempo cambia le persone? ***


OGGI:
Il tempo cambia le persone?




 

... controllate di aver letto il capitolo precedente. 

Continua quel momento...

 

Lo studio legale sembra un alveare. Ogni avvocato, tirocinante e aiutante ha un ruolo preciso. Si muove su una rotta predefinita, ha mansioni specifiche e ha scadenze. Poche chiacchiere e molto lavoro.

Lucas mi squadra con indifferenza, Rebecca mi volta le spalle, mentre Andrew ride di gusto. Jo li ha raggiunti e parlotta con loro mentre non smette di fissarmi. Il padre di James, George, è sorpreso. Di certo non si sarebbe aspettato una mia visita dopo tanti anni. È l'unico che mi accoglie con gentilezza allungando la mano stringendola con vigore.

«Quanti anni sono passati? Dieci?», mi chiede mentre mi scruta con attenzione ricordandomi terribilmente il modo di fare di James quando cercava, da ragazzo, di interpretare i miei sbalzi rumore.

«Quattordici anni. Mese più. Mese meno», gli dico ricambiando la stretta di mano.

«Sono passati così tanti anni? Si vede che è ora che vada in pensione». Sul suo viso compare un sorriso amaro:«Non amo molto pensare al passato, i ricordi possono fare molto più male di quanto uno creda. Non sempre il tempo guarisce le ferite». Colgo nello sguardo di George un lampo di tristezza.

«Già, soprattutto quando si perde qualcuno di importante». Il riferimento a Demetra è palese.

«Bentornata», mi dice con inaspettata dolcezza mentre stringe la mascella e gli occhi diventano lucidi e acquosi. Poi se ne va.

 

Se il tempo non guarisce del tutto il dolore può di certo mitigare e smussare gli angoli più appuntiti del carattere di una persona. Arrotondare gli spigoli e lisciare le ruvidezze. Non in tutti, ma in molti casi il tempo è un toccasana.

 

Andrew mi si avvicina cingendomi la vita:«Ho saputo che hai un figlio. Adoro le mammine, le trovo molto sexy. Inoltre il tempo ti ha migliorata, non hai più l'aria della provincialotta». 

«Non ho paura di te. Non mi importa nulla di quello che mi dici. Se mi tocchi di do un pugno in faccia». Non scherzo, non ho più sedici anni e la paura di non essere accettata non è tra me mie priorità. Non mi userà a suo piacimento.

«Eppure l'ultima volta che ci siamo visti le tue labbra hanno sfiorato le mie. Un dolce, dolcissimo sapore. Cosa succederebbe se i tuoi ex amici sapessero quello che è successo la sera del ballo?», mi sussurra viscidamente in un orecchio.

«Nulla. Non succederebbe nulla. Prima di tutto i miei ex amici saprebbero perché me ne sono andata da New Heaven, perché sono sparita, visto che non hanno idea del perché non mi sia fatta più sentire. Soprattutto capirebbero che dietro a tutto questo ci sei tu. Come credi la prenderebbero se venissero informati che i loro piani di gloria per Yale sono stati rovinati da te? Vedo che sei in affari con loro adesso, potrebbero cambiare idea. Non trovi?». 

«Non scherzare. Ho investito molti soldi nel progetto dell'albergo di Lucas e non ho intenzione di perdere l'affare. Lui costruisce e io partecipo come socio di minoranza con un nuovo ristorante d'élite all'interno della struttura, sarà un locale unico a Boston», mi dice ringhiando, «Su queste cose non scherzo, mai».

«Perfetto. Tu non intrometterti nella mia vita e io terrò la bocca chiusa. Non ho voglia di rivangare il passato». Non aggiungo altro, lo lascio lì solo a stringere i pugni consapevole che non sono più la timida sprovveduta di un tempo.

 

Caroline mi raggiunge. La riconosco dalle foto che Nik mi ha fatto vedere sul suo cellulare, lavorano da così tanti anni insieme che lei è una preziosa risorsa per lo studio legale. La donna ha il fiato corto, tiene in mano tre grossi faldoni che a malapena riesce a sostenere. È molto minuta, sembra in equilibrio precario sui tacchi a spillo, pronta a cadere da un momento all'altro.

 

«Lei deve essere la Signora Voli. Piacere di conoscerla, il Signor Martin mi ha detto che sarebbe venuta oggi», mi dice la donna cercando di stringermi la mano.

«Per prima cosa dammi del tu. Adesso fatti aiutare, ne prendo uno». Prelevo dalle braccia delle donna uno dei tre faldoni. È pesantissimo.

«Grazie, non dica... cioè, non dire al Signor Martin che mi hai aiutata, non credo sarebbe felice», dice mentre un paio di avvocati di passaggio le mollano delle buste e un fascicolo tra le braccia, sopra i faldoni, senza degnarla di uno sguardo.

«Nik?! Nik non ti sgriderebbe mai per una cosa del genere», le dico mentre mi incammino nel corridoio al suo fianco stupita per come l'abbiano trattata male i due avvocati di prima.

«Lo so. Lo so. Ho talmente paura di deluderlo che non so cosa farei se succedesse». La piccola donna arranca, ha la faccia rossa e sembra sul punto di scoppiare.

«Ti assicuro che Nik perdona sempre. Sono la prova vivente che ha infinita pazienza». Raggiungiamo una scrivania molto ampia. Appoggiamo lì il materiale mentre Caroline lo sistema con dovizia e precisione.

«Lo sai che quando ero una aiutante segretaria appena diplomata e lavoravo a fianco del Signor Martin, lui mi ha parlato di te. Ho la memoria di ferro io, quindici anni fa lui era un insegnante del Trinity Institute, ricordo che mi ha detto che c'era una studentessa promettente e sperava avrebbe studiato per diventare avvocato. Era estasiato. Mi ha detto il tuo nome: Elena Voli», mi dice sorridendo.

«Magari ti sbagli», le dico arrossendo.

«No, figurati. Ho trentasei anni non sono da ospizio. Mi ricordo date, nomi e fascicoli. Per questo molti avvocati dello studio vengono a chiedere il mio aiuto», dice fiera mentre tira su con il naso e picchietta l'indice sulla sua tempia.

 

La guardo con attenzione. Non sarebbe affatto una brutta donna se si sistemasse i capelli, rimodernasse il guardaroba e avesse più fiducia in se stessa. Sembra una di quelle piccole ballerine che si trovano sulle scatole di porcellana, fragile e delicata, con caviglie e polsi finissimi. Peccato abbia uno stile così vecchio e fuori moda.

 

«Non credi che invece ti sfruttino? Sei hai questo dono dovresti usarlo solo quando ti fa comodo, non per facilitare il lavoro ad avvocati troppo pigroni», le dico come se parlassi ad un'amica.

«Lo dice sempre il Signor Martin che devo smetterla di lavorare gratuitamente per i tirocinanti, ma sai una cosa...», mi dice piano ad un orecchio, «... mi piace sentirmi utile».

 

Sorrido. È tipico di Nik prendersi a cuore le storie personali della gente con cui lavora, non avrebbe potuto essere altrimenti con Caroline.

 

«Se ti posso aiutare fammi sapere, hai ancora cose pesanti da spostare? Credo di essere in anticipo per l'appuntamento con Nik», le dico mentre guardo l'orologio al polso.

«No, sei in perfetto orario. Il Signor Martin desidera mangiare presto a pranzo per poi dedicarsi al lavoro durante il pomeriggio», dice mentre inciampa nei tacchi a spillo che sembra non saper indossare.

Lucas, George, Rebecca, Jonathan e Andrew passano di fianco a noi senza degnarci della minima attenzione. Stanno parlando seri mentre sfogliano progetti di alberghi e fogli pieni di numeri.

Caroline arrossisce mentre li fissa passare, inciampa e rovescia parte del caffè sulla sua scrivania.

«Tutto bene?», le chiedo mentre sollevo la tastiera del computer prima che il caffè la raggiunga.

«S-sono il solito disastro». Ha la voce rotta dal pianto e le guance rosse come rubini.

«Stai tranquilla». Accarezzo la schiena della donna cercando di calmarla.

 

Insieme spostiamo al sicuro i documenti e le cose più importanti prima di asciugare la grande chiazza marrone che sgocciola inesorabile sul pavimento. In pochi minuti riusciamo a fare spazio e raccogliere il caffè sparso.

 

«Che succede qui? Caroline, dove si trova la pratica Patterson e figli? Le ho chiesto di portarmela con urgenza».

Una voce tonante mi fa sobbalzare. È Charlie Spencer il miglior amico di Nik e socio anziano dello studio.

«S-Signor Spencer, mi scusi. Eccola qui». Caroline prende un grosso faldone e lo allunga verso l'avvocato.

«Che non si ripeta più una cosa del gener...». Charlie viene interrotto.

«Cosa non deve più ripetersi?». Nik spunta da un lungo corridoio con un paio di tirocinanti a seguito. Con un gesto della mano li allontana, i due obbediscono senza fiatare.

«Ho chiesto a Caroline una pratica e lei ha preferito stare qui a perdere tempo con le sue amiche piuttosto che fare il suo lavoro», l'avvocato è molto duro. Il ricordo che ho di Charlie è molto diverso, molto più alla mano e meno autoritario di adesso.

«Caroline è la mia segretaria e non deve fare il lavoro della tua. La prossima volta chiedi ai tuoi assistenti di muoversi a cercare quello che vuoi. Se non ti piacciono puoi mandarli via. Sei il capo adesso», dice asciutto Nik schiacciando l'occhio all'amico che brontola per qualche secondo, ma poi sorride. 

«Non è colpa mia sei hai la segretaria migliore dell'intero studio legale», dice l'avvocato Spencer prendendo il faldone che Caroline tiene in braccio.

La donna arrossisce.

«Cambiando discorso, Chuck ti ricordi di Elena Voli?», dice Nik mentre mi prende per mano avvicinandomi a sé.

«La famosa ragazza misteriosa. Sono girate parecchie voci dopo la tua uscita a sorpresa alla mostra fotografica di Kate Husher. Hai rubato il cuore a uno degli scapoli d'oro più ambiti di Boston, non c'è che dire, complimenti». Charlie mi stringe la mano mentre da una spallata a Nik come fossero due ragazzetti adolescenti.

«Smettila Chuck». Nik da una pacca sulla testa dell'amico.

 

Ecco, era così che mi ricordavo quei due.

Sono felice che siano ancora amici e che il tempo non abbia cambiato le cose tra di loro.

 

«Adesso si spiega perché negli ultimi mesi non volevi farmi compagnia la sera. Ho dovuto sobbarcarmi la presenza di belle ragazze e feste fino a tarda notte. Una faticaccia tremenda», dice mentre scoppia a ridere.

«Non avevi un'importante pratica da analizzare?», dice ironico Nik all'amico per chiudere il discorso.

«Sissignore», risponde Charlie. Con un gesto rapido mi prende la mano e la sfiora con le labbra poi se ne va verso il suo studio fischiettando.

 

Nik mi abbraccia.

Sento L suo volto immergersi nei miei capelli.

Da ogni suo movimento, da ogni suo silenzio, da ogni suo sospiro capisco che è terribilmente dispiaciuto per la litigata della sera prima. 

 

«Anche io ti chiedo scusa», gli sussurro a bassa voce.

«Ho una sorpresa per te, voglio passare un po' di tempo senza pensieri. Come vedi qui è una giungla bisogna tenere gli occhi aperti e i sensi in allerta». Nik mi accarezza le guance poi mi bacia sulla bocca con molta dolcezza.

«Hmm... s-scusi... hmmm... S-Signor Martin...». Caroline con la faccia rossa tossicchia di fianco a noi.

Nik ed io incrociamo i nostri sguardi per un paio di secondi, quel tanto che basta per sorridere dell'imbarazzo della donna. Nonostante sia impacciata e maldestra non è possibile non adorarla, sembra un tenero coniglietto imbranato.

«Dica pure», le chiede Nik.

«Le ricordo che oggi pomeriggio passeranno i dirigenti della TechEnergy per il contratto delle palestre in franchising, inoltre ci sono da revisionare i contratti degli assistenti e discutere con i soci anziani del bilancio trimestrale. Le ho messo le giacche ritirate dalla lavanderia nel piccolo armadio qui fuori, ho spedito la corrispondenza interna scritta da lei, ho mandato gli inviti per la festa dello studio e ho innaffiato le piante del suo ufficio». Caroline parla così veloce che faccio fatica a cogliere tutto.

«Grazie Caroline. Come farei senza di te?», le dice Nik sfoderando uno dei suoi sorrisi migliori.

«Non c'è di che Signor Martin», dice la donna. È felice come se fosse una bimba il giorno di Natale, poi si lancia a capofitto sulla sua scrivania a sistemare pratiche e fogli pieni di scritte.

 

Nik mi prende per mano.

Andiamo davanti a una porta con inciso a caratteri dorati il suo nome.

Fa scattare la serratura, ma non apre la porta.

«Chiudi gli occhi», mi sussurra da dietro mentre sento il suo corpo sfiorare il mio. 

«Mi devo fidare?», gli chiedo maliziosa.

Nik non risponde. Le mani appoggiate sui miei fianchi scivolano lente sul ventre per poi risalire per le braccia finendo con l'accarezzarmi le spalle. La sua bocca è vicina al mio orecchio, lo sento respirare. Lo sento sfiorare il naso sul mio collo. Lo lascio fare mentre mi rilasso e cerco di svuotare la mente dalle mille paranoie che mi riempiono il cervello.

Con delicatezza Nik appoggia le mani sul mio viso coprendomi gli occhi.

«Elena, tu ti puoi fidare sempre di me. Capito?», mi dice mentre sento il cigolio lieve della porta aprirsi davanti a noi.

Facciamo qualche passo uno attaccato all'altra. Io ho ancora gli occhi chiusi.

Le mani di Nik scivolano sul mio corpo fermandosi salde sui miei fianchi.

Un profumo inaspettato mi riempie le narici: intenso, aromatico.

Apro gli occhi.

Sono senza parole.

L'ufficio di Nik è uno splendore.

 

 

... continua nel prossimo capitolo...

(Non odiatemi ma è veramente lunga come scena 

ho dovuto dividerla in tre parti)

 

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Capitolo 9
*** OGGI: Un boccone amaro ***


OGGI:
Un boccone amaro




 

... controllate di aver letto il capitolo precedente. 

Continua quel momento...

 

Rose.

Centinaia di rose rosse a grandi mazzi sono sparse in un angolo dell'ufficio di Nik insieme a orchidee di color rosa e bianco. Sono disposte con logica sopra un tavolino tutte affiancate come per creare un muro di colore rosso poi, su sgabelli più bassi e per terra, continuando a formare una specie di angolo fiorito, ci sono mazzi più piccoli. Gli altri fiori, in vasi di vetro sparsi a caso, completano quel piccolo paradiso incantato. Sullo sfondo c'è la grande vetrata che si affaccia sui tetti, palazzi e grattacieli di Boston.

 

Adesso capisco. Quello era il profumo intenso e inaspettato che mi ha inebriato le narici poco prima: fiori, decine, centinaia di fiori. 

 

In mezzo a quella foresta colorata c'è una coperta morbida e soffice, candida come se avesse appena nevicato. Un cesto di picnic svetta in mezzo alla distesa morbida. Dei cuscini aspettano solo di essere usati da me e a Nik.

 

Sono senza fiato.

È tutto talmente... talmente... perfetto.

Non ho parole.

Non so cosa dire.

Tutta quella bellezza mi mette in soggezione, soprattutto perché mi sento inadeguata, non in linea. È come se fossi in un ristorante elegante con indosso una tuta e i bigodini nei capelli. Nik con il suo completo di alta sartoria, i capelli ordinati, la pelle liscia è stupendo. Favoloso. Il principe azzurro.

«Che ne dici? Sono perdonato?», mi chiede mentre mi accompagna verso quella piccola foresta fatata.

«Direi che devo farti arrabbiare un po' più spesso», gli dico mentre sfioro i petali scarlatti e annuso il profumo intenso dei fiori. «Potevi dirmelo, mi sarei messa in ghingheri». Arrossisco leggermente.

«Lo sai che le tue lentiggini, il tuo viso e il tuo corpo sono la cosa più bella che esista», mi dice mentre mi porta verso i cuscini appoggiati sul vello bianco.

«Sei un farabutto, lo sai? Mi dici queste cose sperando che abbocchi come fossi una tizia qualsiasi conosciuta in un locale. Cosa diceva prima il tuo collega Charlie? Che gli è mancata la tua compagnia nei Night Club?». Sbatto le ciglia maliziosa cercando di provocarlo.

 

Nik seduto al mio fianco mi fissa.

Accenna a un sorriso.

I suoi occhi azzurri sembrano quelli di un lupo che punta la preda.

Si allenta la cravatta.

Appoggiando le mani sulla coperta bianca si avvicina piano, piano a me.

Immobile lo osservo avvicinarsi.

Le sue labbra baciano la punta del mio naso.

Un calore improvviso avvampa le mie guance.

 

«Non ho più voglia di quei locali. Ho tutto quello che ho sempre desiderato». Con una lentezza controllata, provocante e sensuale, mi bacia sulle guance sfiorando la bocca e il mio collo. 

Ansimo.

Con piccoli morsi dolci e intensi mi lambisce le labbra baciandomi con passione.

Mi sciolgo. 

In balìa degli abbracci e delle mani di Nik mi rilasso, svuoto la testa riuscendo a liberarmi dalla miriade di paranoie che negli ultimi giorni hanno affollato il mio cervello.

«L'ho sempre detto che sei un mascalzone. Vuoi sedurmi per... per...». Non riesco a finire la frase, ci baciamo con talmente tanta foga che le parole non servono a nulla.

Mi siedo a cavalcioni sopra di lui infilando le mani nei capelli di Nik, gli tolgo gli occhiali mentre avvicino il mio corpo al suo. Nik mi solleva leggermente facendo scivolare la mia schiena sul morbido tappeto bianco infilando le mani sotto la camicetta. 

 

Ogni dito, ogni polpastrello stringe la mia carne. 

Ogni cellula del suo corpo mi desidera.

Ogni cellula del mio corpo lo desidera.

 

«Ti amo, Elena. Ti ho sempre amata. Voglio che questo sia il nostro posto segreto, una cosa nostra, solo mia e tua. Un posto segreto tutto nostro», mi sussurra in un orecchio, poi scivola sul mio collo mentre slaccia la camicetta e con le labbra sfiora il mio corpo.

 

Posto segreto.

Il nostro posto segreto.

 

Posto segreto?

Stop.

Che succede?

Una valanga di ricordi riemergono da non so dove, immagini sfuocate confuse, come se una cascata di fotografie investisse i miei occhi. Emozioni sepolte che riemergono prepotenti, pulsioni represse che squarciano il mio presente.

Un campo da tennis abbandonato.

Un picnic.

Una coperta su cui sederci.

James ed io a sedici anni.

James ed io e il nostro posto segreto a New Heaven.

 

Io ho già vissuto tutto questo.

Io ho già vissuto questo momento con un'altra persona.

 

Perché Nik ha usato le stesse parole?

 

Nik mi parla e mi bacia, ma non sento più nulla.

Ho i brividi.

Un magone parte dalla base dello stomaco.

Mi sento male.

 

Allontano Nik da me. Lo fisso confusa: «C-cosa hai detto?», gli chiedo.

«Io... hmmm... questo è il nostro posto segreto o qualcosa del genere», mi dice mentre prova a baciarmi la bocca.

Lo fermo.

«Perché mi dici questo? A che gioco stai giocando?», gli chiedo.

«Che ti prende Elena? Non capisco». Nik si siede e mi guarda con aria confusa, con le mani si liscia i capelli poi si sistema la giacca e la cravatta.

«T-tu hai dett...».

 

La porta bussa.

Tre sonori tocchi.

 

Toc.

Toc.

Toc.

 

«Avanti», dice Nik con tono alto in modo tale da farsi sentire.

«... Ma...». Sono mezza svestita, seduta su un tappeto circondata da fiori. Non è il caso di far entrare nessuno. Non voglio che un estraneo mi veda in quello stato. D'istinto prendo il mio maglione e cerco di coprirmi come meglio posso.

 

La porta si apre.

 

«Nik ti ho portato i fascicoli completi come mi hai chiest...». James è sulla porta con un plico di fogli in mano. È bloccato. Ci guarda come se si trovasse davanti un orrendo mostro a tre teste, come se ci fosse un essere disgustoso seduto su quel tappeto circondato dalle rose.

«Lasciali sulla mia scrivania», gli dice Nik infilandosi gli occhiali. «Puoi andare James, grazie».

«P-prego». James esce come un fulmine.

 

Io sono pietrificata.

Ammutolita.

Mi sento usata, umiliata.

 

«A che gioco stai giocando? Hai organizzato tutto questo per fare in modo che ci vedesse? Come facevi a sapere che mi aveva organizzato un picnic?». La mia voce è ferma come non lo è mai stata.

«Nessun gioco. Sto solo mettendo in chiaro come stanno le cose». Nik apre il cesto da picnic. Toglie due piccole confezioni di frutta fresca tagliata a cubetti, un paio di tramezzini e due calici di cristallo.

«E come stanno le cose? Dimmi un po'». Mi infilo il maglione, un brivido di freddo mi percuote tutto il corpo.

«Tu ed io. Basta. Loro non devono entrare nella nostra vita. Non devono impicciarsi e non devono fare domande. Non siamo più al Trinity», dice mentre cerca di stappare una bottiglia di vino rosso. Non riesce, le mani gli tremano troppo.

«Che diavolo stai dicendo?», gli chiedo urlando.

 

Nik butta la bottiglia per terra, il tappo salta senza preavviso rovesciando parte del contenuto sul pavimento inzuppando il tappeto. Una macchia rossa di spande sul candido vello.

 

«Caroline ha saputo che James ha chiesto informazioni su di te qui in ufficio, le hanno riferito che Rebecca, Jo, Lucas, Stephanie e Adrian si sono incontrati una sera per parlare di te. Di te e me. Capito?». Nik è furioso. 

«E anche se l'hanno fatto, che ti importa? Sono sparita per quattordici anni, non hanno saputo più nulla di me da un momento all'altro. Non ti pare normale che discutano di questa cosa? Soprattutto dopo che hanno saputo che noi due siamo una coppia». Con forza gli ficco l'indice nel petto facendolo indietreggiare. 

«Perché credi ieri sera ti abbia chiesto se pensavi ancora a lui? Non mi fido di loro, sono ottimi avvocati, ma umanamente sono uno schifo. Chissà cosa stanno organizzando per farci dividere». Nik pare in preda a una furia incontrollabile. Con un calcio lancia un vaso di fiori per terra mentre sbatte per terra parte delle rose.

«Ma cosa stai dicendo? Non stanno facendo nulla. Nulla. Sei tu che stai rovinando tutto, non ti riconosco più», gli dico mentre lo blocco per le braccia cercando di calmare la rabbia che cresce dentro di lui.

«Stavamo così bene noi due senza loro. Perché? Perché sei voluta andare alla mostra di Kate?». Nik sta piangendo. I suoi occhi azzurri, un tempo un rifugio sicuro, sembrano due ferite nel cielo. Uno squarcio nel paradiso.

«Io... io... non potevamo nasconderci per sempre», gli dico con un filo di voce mentre lo accarezzo. I miei occhi sono colmi di lacrime.

«No, Elena. No. Potevamo restare io e te per sempre. Solo noi due e Sebastian se solo tu avessi voluto». La voce di Nik risuona di una tristezza mai sentita prima, di un dolore celato per giorni, settimane, ma che alla fine è esploso distruggendo i momenti belli creati insieme e demolendo le poche certezze della mia vita.

 

I polpastrelli di Nik raccolgono una mia lacrima.

 

«Bastava che tu fossi stata sincera con me. Bastava che mi dicessi tutto. Invece... so che hai segreti, so che non mi dici tutto. Lo vedo dal tuo sguardo è come se ti spegnessi, come se la tua felicità sparisse e un'ombra cupa e nera ti calasse come un velo sul tuo viso». Nik mi osserva, è distrutto.

 

Mi manca il fiato.

Non è la prima persona a dirmi che quando ho un pensiero che occupa i miei pensieri divento più chiusa e silenziosa. 

Quattordici anni fa, un ragazzo mi ha detto lo stesso.

Quattordici anni fa l'ho perso per lo stesso motivo.

 

«Mi dispiace, ma... ma quello che dovevo dirti te l'ho detto. Se non ti racconto qualcosa di me è perché credo che sia giusto tenere dei pensieri solo miei. Non riesco, Nik. Non riesco a dire delle cose, mi dispiace». Con la mano sulla maniglia tentenno un attimo: «Ora... ora credo sia meglio che vada. Ci sentiamo più tardi». Prendo il cappotto, la sciarpa e la mia borsa ed esco dall'ufficio di Nik. 

 

Mi manca l'aria. 

Mi manca l'aria.

 

Senza salutare Caroline percorro il corridoio, a testa bassa cammino rapida. Non ho voglia di vedere nessuno, non ho voglia di parlare con anima viva.

Con isteria schiaccio il pulsante per chiamare l'ascensore. Anche se il display mi dice che si trova al quarto piano continuo a schiacciare fino a quando non sento lo scampanellio che indica che le porte si stanno aprendo.

 

Fortunatamente è vuoto.

Salgo.

Schiaccio il pulsante zero.

Un secondo.

Due secondi.

Le porte scorrevoli si muovono, si sta chiudendo.

Tre secondi.

Mancano meno di venti centimetri per chiudersi.

 

Una mano le blocca.

 

Le porte scorrevoli si riaprono.

Una persona sta salendo.

Un uomo.

 

James.

 

Se prima nell'ufficio di Nik stavo per soffocare, adesso sono in apnea come se fossi immersa nel mare più buio e spaventoso, come se le mie paure più profonde prendessero vita.

James si mette alla mia destra mentre con calma schiaccia il numero zero sulla tastiera dell'ascensore. Le porte si chiudono. La discesa inizia.

 

«Ti farò solo una domanda e voglio una risposta». James non mi guarda, sembra un manichino che fissa avanti a sé.

«Vedrò dal tipo di domanda che mi farai», gli dico.

 

Ventesimo piano.

 

«Perché te ne sei andata senza dirmi nulla? Perché sei sparita?», mi chiede James senza emozione.

«Avevo bisogno di cambiare aria», gli dico.

 

Diciassettesimo piano.

 

«Menti. Voglio una risposta. Perché te ne sei andata senza dirmi nulla? Perché sei sparita?», mi richiede.

«Avevo bisogno di cambiare aria», gli ripeto con decisione. Dopo quello successo con Nik non ho voglia di discutere, non ho le forze. Quello che mi chiede smuove ricordi che voglio reprimere che mi hanno fatto così male che non voglio neanche pensarci.

 

Quattordicesimo piano.

 

«Ho avuto decine di donne dopo di te, meglio di te. Mi hanno supplicate di amarle di stare con loro. Le ho usate. Le ho scopate a mio piacere. Nessuna mi ha mai mollato, nessuna a parte te». James gioca con un gemello dei suoi bottoni, i capelli castani seguono le onde naturali donandogli fascino ed eleganza allo stesso tempo. Il profilo dritto, la bocca carnosa e l'espressione più adulta, hanno trasformato il ragazzo che conoscevo in un uomo.

«Buon per te. Spero ti sia divertito», gli rispondo secca. Non ho più diciassette anni e non pendo più dalle sue labbra. Il passato deve restare tale, un incubo a cui non voglio pensare più.

 

Decimo piano.

 

«Sei sempre stata un'egoista. Hai sempre pensato solo a te stessa. La tua fuga è stata dettata dal desiderio di attirare l'attenzione. Volevi ti venissi a cercare, ma non l'ho mai fatto. Non meritavi tanto». Il tono di James è duro. Mi ricorda terribilmente l'immagine che ho di lui da adolescente, pieno di rabbia e frustrazione.

«Eppure adesso sei qui». Parlo senza pensare. Dico la prima cosa che mi viene in mente. Non c'è malizia, non c'è nessuno scopo. Parole che scivolano tra le mie labbra.

 

Sesto piano.

 

James mi guarda con disprezzo. Mi guarda come nessuno ha mai fatto prima. Il verde dei suoi occhi è lo stesso di quattordici anni fa, lo stesso capace di farmi tremare le gambe. Mi sento piccola e inutile. Mi sento fragile. L'armatura che protegge i miei sentimenti è in frantumi, ha subito così tanti colpi ultimamente che le sottili lamiere che la compongono si sono frantumate in un decimo di secondo. La linea morbida delle sue labbra, la fronte corrugata e la pelle chiara come la luna sono come l'arma capace di sconfiggere un supereroe. James è la mia criptonite.

 

Terzo piano.

 

«Mi hai abbandonato senza motivo. Non avevo altri che te», mi dice scrutandomi con intensità, soffermandosi su ogni mia lentiggine come se volesse essere sicuro che io sia la Elena che ha conosciuto anni fa.

«Ricorda James, non faccio mai nulla senza motivo». Le mie parole sono sentenza. Non serve aggiungere altro.

 

Piano terra.

Le porte scorrevoli si aprono.

 

«Addio James», gli dico mentre esco dall'ascensore.

«Addio», mi risponde rimanendo immobile.

 

Poi le porte si chiudono e io non sento più nulla.

La chiave di volta dei miei ricordi più dolorosi è andata via, lontana dal mio sguardo.

Posso solo raccogliere i cocci della mia armatura e provare a ricostruirla più forte.

Posso solo tornare a fingere di non stare male.

 

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Capitolo 10
*** OGGI: Quando il telefono squilla ***


OGGI:
Quando il telefono squilla






Fisso fuori dalla finestra e nonostante ci sia molta gente per strada è come fossi cieca e sorda. I suoni sono attutiti dalle finestre del mio ufficio, doppi vetri che mi isolano da tutto e tutti. Il vapore del mio fiato sui vetri ghiacciati appanna la mia visuale.

Non fa niente, non mi importa di quello che succede fuori visto che ho un terremoto che mi scuote dentro. Ronzano nel mio cervello le parole di Nik e James, è come si confondessero, come se fossero la stessa persona, come se fossero fusi in un unico animo. 

Entrambi hanno giocato con i miei sentimenti, mi hanno usata per dimostrare non so cosa, quasi fossi un oggetto di loro proprietà. 

Nik organizza un picnic nel suo ufficio solo per mettersi in mostra con James. 

James mi fa il terzo grado in ascensore rivangando momenti passati e archiviati.

 

Sono confusa.

Se aggiungiamo a questo la mail di Tess siamo a posto.

Ho una sorellina piccola che non sapevo di avere.

 

E pensare che ero quasi riuscita a smetterla con i drammi, eppure da quando sono andata alla mostra di Kate mi ritrovo talmente invischiata che mi sembra di camminare nel miele. Ogni mio passo è rallentato, tutto è più faticoso e faccio fatica a respirare. Sprofondo.

 

Il computer portatile acceso sulla scrivania emette piccoli trilli, sono le mail di lavoro. Le ignoro. Sono talmente indietro che dovrò portarmi le traduzioni a casa e lavorare la notte. Il problema è che con la testa che mi ritrovo, persa in pensieri contorti, mi riesce difficile concentrarmi su una cosa troppo a lungo. Lavoro male. Non porto a termine una traduzione. Mischio i documenti. Un vero caos.

 

Tra i vetri appannati dal mio respiro noto dei nuvoloni grigi che minacciano neve. Istintivamente chiudo i lembi del maglione che indosso come se volessi proteggermi dal freddo. Non posso sentire quel gelo perché sono al chiuso, ma un brivido mi trapassa da capo a piedi come fossi nuda per strada. 

Un freddo intimo, privato.

Un freddo senza fine.

Confusione, ho solo tanta confusione.

 

Con il palmo della mano pulisco il vapore che mi impedisce di vedere con chiarezza la strada. Mauro entra ed esce dal Petit portando grossi sacchi della spazzatura verso i cassonetti. Instancabile pulisce il marciapiede davanti al ristorante raccogliendo le cartacce di maleducati o erbacce spuntate tra le crepe dell'asfalto. Il suo movimento è l'unica cosa che riesce a distrarmi in questo momento, l'energia di quel vecchietto è terapeutica, mi fa sentire meno sola.

È come se fosse una macchia di colore in un quadro grigio.

La nota viva che riesce, con semplicità, a dare energia a tutto il resto.

 

Mi affaccio. «Mauro. Mauro», lo chiamo agitando una mano in aria forse perché ho voglia di staccarmi dai miei pensieri dato che non devo dirgli qualcosa di preciso.

L'uomo si ferma. Guarda a destra e sinistra, poi si accorge di me. Mi saluta con vigore, come fa sempre:«Non sapevo fossi in ufficio. Come sta il piccolo?».

«Bene. È molto eccitato di passare il suo primo Natale qui a Boston, non vede l'ora».

«Luca passa il Natale lavorando. Il suo professore lo vuole portare come assistente in una serie di conferenze», dice orgoglioso, «Sono cose di computer e diavolerie simili. Le cose moderne che piacciono ai giovani».

Sorrido, mi fa sempre molta tenerezza quando parla del nipote:«Quindi per il 25 Dicembre sei libero?».

Il vecchio allarga le braccia sconsolato, alza leggermente le spalle.

«Vieni da noi. Sebastian ti adora. Un Natale italiano a Boston, non male come idea?», gli dico mentre sento il mio cellulare squillare da dentro l'ufficio.

«Va bene», noto una certa commozione sul volto di Mauro. Passare qualche ora con lui farà bene a me e anche al mio piccolo.

«Adesso vado, il lavoro mi chiama», gli dico mimando con il pollice e l'indice una cornetta telefonica invisibile. «Dopo scendo, devo pagare l'affitto al tuo capo».

Mauro annuisce.

 

Chiudo la finestra bloccando l'aria ghiacciata fuori.

 

Prendo il cellulare, è l'ufficio di Nik.

Rispondo, è da un paio di giorni che non ci sentiamo.

 

«Pronto».

«Pronto Elena. Sono Caroline». Una voce femminile diversa da quella che mi aspetto è dall'altra parte dell'apparecchio.

«C-Caroline?», sono colta alla sprovvista.

«Scusa se ti chiamo, ma... ma...». La donna tentenna e parla a bassa voce.

«È successo qualcosa a Nik? Sta male?», gli chiedo preoccupata.

«Sì... cioè... No. Lui è molto cambiato dopo quello successo qui nello studio legale. Lavoriamo insieme da anni e raramente l'ho visto così. In ufficio c'è un'aria tremenda, molto tesa. Tra cause difficili e problemi personali tra gli avvocati».

 

Caroline si riferisce a Nik e James come è ovvio.

 

«Mi dispiace». Sono sincera, ma non so cosa altro dire.

«Il regalo di Nik, le rose e tutto il resto, era dettato dal cuore. Ci abbiamo messo ore per organizzarlo. Mentre lui sistemava i fiori io preparavo il cesto del picnic. Era molto emozionato, mi ha detto che voleva che tutto fosse perfetto. Credimi quando ti dico che lui ti ama, dice cose talmente belle su di te». Caroline parla con molto impeto.

«Grazie. Il fatto è che ci sono altre cose in ballo, non è tutto così semplice».

«Lascia perdere il passato. Guarda avanti. Se avessi la fortuna di essere amata come lo sei tu non mi farei scappare un uomo d'oro come Nik». Caroline è sincera, diretta. Siamo entrate subito in sintonia, è come se la conoscessi da sempre. Capisco il suo intento, ma non so se le cose con Nik torneranno più come prima. Lo vedo con occhi diversi.

«Grazie, lo terrò presente», le rispondo.

«Ti ricordi cosa mi hai detto in ufficio l'altro giorno? Mi hai detto che Nik perdona sempre. Non riesci proprio a perdonarlo tu per una volta? Non so cosa sia successo l'altro giorno, all'improvviso ho sentito urlare e tu sei scappata». Le parole di Caroline risuonano nell'aria come se ci fosse un'eco che fa rimbalzare i suoni sulle pareti del mio cervello.

 

Perdonare.

Scappare.

 

Come faccio a spiegarle che tutte e due le cose che mi chiede sono tra le più difficili per me. Scappare è legato al mio essere, è un istinto di sopravvivenza che mi ha permesso più volte di sopravvivere. 

Perdonare è come voler dire dimenticare. Impossibile.

 

«Ci penserò. Grazie per avermi chiamata. Ciao». Riaggancio.

 

Mi odio.

Possibile che non riesca a farmi scivolare addosso le cose?

Possibile che tutto mi colpisca e mi ferisca in questo modo?

 

Provo a mettermi a tradurre l'ultimo acquario della nuova serie. Ho davanti a me il testo, ma continuo a rileggerlo senza arrivare al dunque. Lo schermo illumina il mio volto stanco e pensoso, incapace di liberarsi dai suoi fantasmi.

Controllo rapidamente le mail sperando di trovare l'ispirazione. Scorro in cerca di un perché, di qualcosa che mi faccia smuovere e mi dia la carica giusta, ma trovo solo le mail della mia titolare e dei clienti che seguo in Connecticut.

 

Poi leggo.

 

Invito al compleanno di Maggie Voli.

 

... Ciao Elena, come stai?...

 

... Kate ci ha detto che sei a Boston e che sei andata alla sua mostra...

 

... Mi renderebbe davvero felice poterti invitare alla festa di compleanno di Maggie...

 

... La nostra vita è vuota senza di te...

 

Mi sento uno schifo. Con le mani mi copro il volto. Come ho potuto abbandonare mio padre per quattordici anni? Come ho potuto tenere lontano suo nipote? Come ho potuto dimenticare quello che mi ha insegnato mia madre? 

 

L'amore vince tutto.

L'amore è il motore della vita.

 

Piango. I singhiozzi fanno sussultare il mio petto come mai prima. Mi sento piccola come avessi l'età di Sebastian. Come quando a cinque anni si è ancora capaci di esprimere con sincerità e senza malizie i propri sentimenti.

Se voglio rendere la mia vita migliore devo darmi una mossa, smetterla di piangermi addosso e affrontare il mio passato. 

Un passo alla volta.

Non posso più scappare da chi sono stata e da cosa sono adesso.

Devo fare i conti, soffrire davvero e non aver paura delle conseguenze.

La vita è troppo breve per essere sprecata in questo modo, da vigliacchi.

 

Papà. 

Devo vedere il mio testardo, cocciuto, pasticcione papà.

Voglio abbracciarlo, chiedergli scusa. 

Voglio che conosca Sebastian e se ne innamori.

Voglio conoscere mia sorella e cercare di farmi perdonare da Tess.

Sono stata così cieca e stupida, così terrorizzata. Credevo che quello che ero stata fino ad allora potesse cambiare con l'arrivo di Tess e quindi distruggere la mia identità. Avevo paura che l'arrivo di una nuova donna per mio padre avrebbe eliminato il ricordo di mia madre. La mia reazione è la cosa peggiore che potessi fare. Ho infangato ciò che mamma mi ha insegnato.

 

Affrontare.

Lottare.

Amare.

Accettare.

Sorridere.

 

Sempre.

 

Con le mani umide e il trucco sciolto mi infilo il cappotto, sciarpa e guanti.

Adesso so quello che devo fare. Ho trascinato questa storia troppo a lungo, devo fare in modo che tutto vada nella direzione che avrebbe dovuto prendere quattordici anni fa. 

 

Esco dal mio ufficio sbattendo la porta.

Per strada trovo Mauro che fischiettando pulisce la grande vetrata del ristorante. 

Lo travolgo come una furia, gli saetto così vicino che quasi gli faccio perdere l'equilibrio.

Entro nel locale dove un paio di ragazze stanno girando le sedie sui tavoli per pulire il pavimento. Un ragazzo sta sistemando calici e bicchieri di cristallo sul bancone. 

Li saluto al volo, mi precipito verso una piccola porta sul retro dove trovo il direttore del ristorante.

 

«Buongiorno. Sono venuta a pagare l'affitto», dico ad alta voce tutta pimpante.

L'uomo mi accoglie con una faccia tra lo stranito e il divertito, di certo non si aspettava un ingresso del genere: «Certo. Certo, Signora Voli. Lasci che prenda il registro, il proprietario ci tiene che le cose siano fatte in regola».

Saltello sul posto come se stessi allenandomi per la maratona.

L'uomo si mette gli occhiali e apre un registro dove annota, mese dopo mese, le entrate del mio affitto. Con dovizia segna il giorno e il mese:«Sono 200$?», mi chiede mentre conta le banconote che gli ho allungato.

«Sì», dico con la voce un po' più alta del normale.

«Posso permettermi di dirle una cosa? Oggi mi sembra più radiosa. Nelle ultime settimane l'ho vista più pensosa. Sono felice che le cose vadano meglio», mi dice mentre mi stringe la mano.

«Grazie. Diciamo che ho urgenza di fare una cosa e sono elettrizzata. Spaventata, ma elettrizzata», dico senza filtri.

«Bene. Ci vediamo il mese prossimo», dice il Direttore sorridendo del mio entusiasmo.

Senza aggiungere altro mi accompagna alla porta del suo ufficio salutandomi con una lieve pacca sulla spalla. Le cameriere in sala ridono appena mi vedono correre per il ristorante, il ragazzo al bancone per poco non rovescia un vassoio colmo di cristallerie che tiene in mano.

Mentre varco la porta del locale cerco il mio cellulare dalla borsa. 

Cerco nella rubrica telefonica un numero. 

Lo osservo bene. 

Lo conosco a memoria.

Prendo un grosso respiro.

Stringo i denti.

Schiaccio.

La telefonata è partita.

 

Aspetto.

 

Aspetto.

 

Una voce risponde dall'altra parte.

Una voce che non sento da quattordici anni: «Pronto? Chi parla», mi chiede.

«Buongiorno Geltrude, sono Elena. Elena Voli», dico sperando che la donna abbia una reazione positiva alla mia telefonata.

«Cara ragazza, ti sembra questo il modo di contattarmi? È da undici mesi che non ricevo una tua lettera. Dove sei sparita? Questo lo considero un vero e proprio affronto», mi dice con un modo unico che la caratterizza e la rende speciale per quello che è.

«Sono a Boston, vivo qui. Ho bisogno di lei. Va bene se passo tra un paio di giorni con una mia amica? L'ho chiamata perché deve aiutarmi con mio padre», le dico tutto in un fiato.

La vecchia borbotta. C'è qualche secondo di silenzio: «Ti sembra il modo di darmi notizie simili. Perché non mi hai avvisata prima?».

«La prego. Ho bisogno di lei».

«Solo se mi porti una vaschetta di gelato e il piccolo Sebastian. Voglio vedere dal vivo il piccolo, chissà quanto è cresciuto dall'ultima foto che mi hai mandato», mi dice sbuffando.

«Sarà fatto», le dico mentre gli occhi mi si riempiono di lacrime.

 

È ora di mettere in ordine i guai che ho combinato.

È ora di sistemare tutto quello che ho lasciato in sospeso.

Un passo l'ho fatto, Geltrude sarà al mio fianco quando incontrerò mio padre.

Devo contattare solo un'altra persona, un'amica che mi potrà sostenere come nessuno mai.

È ora di chiedere scusa anche a Kate.

 

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Capitolo 11
*** OGGI: Un passato da scoprire ***


OGGI:
Un passato da scoprire




Per rimettere sui giusti binari la mia vita devo fare una cosa per volta. 

Prima di tutto devo chiarire con le persone che più ho amato e devo cercare di ricominciare ad avere un rapporto con loro. Certo è difficile, soprattutto se si considera che sono passati molti anni, troppi, ma non voglio deprimermi prima del necessario, per una volta voglio vedere le cose con ottimismo.

 

Basta lagne.

 

Lo studio fotografico di Kate è a Coolidge Corner un quartiere ben diverso dal centro città. Qui c'è meno traffico, l'atmosfera è più rilassata, c'è un fantastico teatro Art Déco e decine di ristoranti dall'aria invitante. 

 

L'aria di neve gonfia il cielo, grosse nuvole coprono il sole. Una leggera brina ghiacciata spira da Nord. 

 

Avvolta nel mio sciarpone extralarge di lana cerco il numero civico 41, l'indirizzo l'ho preso dal sito internet di Kate. È facile trovarlo, proprio vicino alla uscita della metropolitana. Una grossa insegna appesa sulla porta mi fa capire che sono arrivata, la scritta Studio fotografico Husher è inciso su una lastra di ferro grezza.

Non ho idea se Kate sia nel suo studio o sia in viaggio, non so neanche se abbia voglia parlarmi o meno. So solo che devo vederla il prima possibile.

 

Schiaccio il campanello.

La porta si apre dopo pochissimo.

 

«Buongiorno, posso esserle utile?». Un ragazzo allampanato con un paio di occhiali dalla montatura nera mi accoglie.

«Cercavo la Signora Husher», gli dico cercando di darmi un tono, anche se con la mia sciarpa avvolta due volte intorno al collo e il cappello di lana calato sugli occhi non devo fare una grande impressione.

«Ha un appuntamento?», mi chiede con risolutezza.

«No. Effettivamente, no».

«Mi dispiace. La Signora Husher è molto impegnata e...».

Non lo lascio terminare: «Si, ok. Ho capito. Dici questa cosa a tutti gli scocciatori, ma ti chiedo un favore. Puoi dare un foglietto a Kate? Deciderà lei se farmi entrare o meno». Estraggo dalla borsa la mia agenda e strappo un foglietto. Poi scrivo:

 

Puoi regalare dieci minuti del tuo tempo alla tua ex amica perfetta?

 

Piego il foglietto e lo allungo al ragazzo.

«Non credo che la Signora Husher apprezzerà. Sta lavorando su un progetto importante e...».

«Fidati. Se Kate ti dirà di mandarmi via io lo farò senza problemi. Ok?», gli dico con un sorriso. 

Il ragazzo tentenna un attimo, poi se ne va con il biglietto in mano e chiudendo la porta.

 

Non ho idea se Kate voglia vedermi o meno.

Non ho idea se sia arrabbiata per il fatto che non l'abbia accompagnata a New York.

In quattordici anni non ha voluto sapere nulla di me, l'invito alla mostra fotografica potrebbe essere un segno di apertura, ma anche no. Del resto lei mi conosce come le mie tasche e sa benissimo come ragionano Rebecca e tutti gli altri. 

 

E se avesse un piano?

E se escogitasse qualcosa?

 

Elena, fermati.

Stop.

 

Devo smetterla di pensare male.

Devo smetterla di essere negativa.

Gli anni del Trinity sono passati, non voglio credere che Kate sia diventata meschina e perfida.

 

La porta dello studio fotografico si apre.

Il ragazzo con gli occhiali mi fa cenno di seguirlo e senza aspettarmi mi indirizza attraverso una grande sala dai soffitti alti piena zeppa di teli colorati, cavalletti e molta attrezzatura per scattare foto. Da lì andiamo lungo un corridoio con diverse porte, alla fine di questo c'è una scala che porta al piano superiore dove c'è un piccolo pianerottolo adibito a sala d'aspetto.

Il ragazzo mi indica una poltrona bianca: «Si accomodi qui, la signora Husher la chiamerà al più presto». Senza aggiungere altro se ne va giù per le scale.

 

L'ambiente è ordinato, pulito e molto curato: dalle luci dall'aria minimale, alla tappezzeria vintage, fino alle maniglie delle porte in bronzo antico, tutto pare fare parte di uno schema organizzato e pensato. Uno stile retrò con inserti moderni.

Favoloso.

 

«Quindi ti sei decisa». Kate è sulla soglia del suo studio con le braccia conserte. 

La osservo per qualche secondo, sono ancora imbacuccata nella sciarpa e avvolta dal cappotto, mi serve un attimo per prendere fiato per cercare di non crollare tutto in un botto.

«S-sì. Quattordici anni, più o meno», le dico mentre inizio a liberarmi dei capi che mi stanno facendo sudare.

«Alla buon ora. E come mai?», mi chiede.

«Ho bisogno di te», le dico schietta.

«Certo. Ovvio. Fammi indovinare, hai problemi con Nik? Vuoi parlarmi di quanto ami James? Oppure vuoi raccontarmi come Rebecca ti sta ostacolando la tua vita perfetta? Il repertorio varia un pochino, ma alla fine la storia è sempre la stessa». Kate mi scruta con i suoi occhi azzurri, duri, forti, gli occhi di una donna che ha girato il mondo e non gioca più a essere una ragazzina, ma vuole crescere e diventare migliore.

«Ho bisogno di te perché mi manchi. Tutto qui. Mi manchi come mi mancherebbe avere il mio braccio destro. Mi manchi come mi mancherebbe avere il sole nel cielo. Sei sempre stata vicina a me, nel momento in cui tu avevi bisogno ti ho abbandonata...».

«... Mi hai abbandonata per due baci di James. Mi hai abbandonata per cercare di diventare ciò che non avresti mai potuto essere. Adesso vieni qui e cerchi di farmi credere che sei pentita? Ci hai messo quattordici anni per capirlo?». Kate mi si scaglia addosso.

«Sì. Ho sbagliato. Io ci ho messo molto tempo per ammettere a me stessa di aver fatto un errore, ma tu in tutto questo tempo non sei riuscita a metterti il cuore in pace? Sei una donna di successo, hai il lavoro che ami, ti stai per sposare, eppure non sei riuscita a liberati dei tuoi fantasmi. Se è stato difficile per te immagina quanto possa esserlo stato per me. Mi sono trovata senza la mia migliore amica da un momento all'altro, l'unica che mi accettasse per quella che ero. Ho sbagliato, te lo dirò un milione di volte se servirà a farti stare bene, ma non posso cancellare quello che ho fatto», le dico con impeto, con energia, con tutto il sentimento che possiedo.

 

Kate mi squadra. Cammina avanti e indietro sulla porta del suo studio.

Capisco da come mi guarda che non mi vuole credere, che non si fida.

 

«Lo sai perché ti ho invitata alla mia mostra? Perché volevo che sapessi che ero felice anche senza te, che riuscivo a camminare con le mie gambe senza Elena appiccicata al mio fianco. Sai quanto è stata dura per me riuscire a fare quello che ho fatto? Avevo paura della mia ombra, della gente, del mondo». Gli occhi di Kate sono umidi.

«Mi dispiace». Sono sincera, non so cos'altro dire. Ha ragione, ha ragione su tutto.

«Perché oltre il danno c'è la beffa. Mi abbandoni e poi sparisci da New Heaven. Credi che le lettere che mi hai spedito i primi anni bastassero a farti perdonare? Hai abbandonato tutti per non so quale capriccio», mi urla in faccia.

 

Tremo.

Il ricordo di quei giorni riemerge con forza.

Le parole di James, le sue risate di scherno, le offese di Rebecca, l'indifferenza di Adrian, i complotti di Jo, il voltafaccia di Stephanie, l'arroganza di Lucas, il bacio di Andrew.

È tutto così difficile da confessare.

Mi sento così stupida ad aver creduto a tutti loro che non ho la faccia per confessarlo, per raccontarlo. Mi sento male al solo pensiero.

 

«Perché te ne sei andata? Mi hai abbandonata per due volte, come se per te non avessi importanza, come se quello che mi avevi fatto con New York non fosse abbastanza crudele». Kate è a un passo da me. Urla come raramente l'ho sentita fare. Rovescia su di me tutta la frustrazione provata e accumulata anno dopo anno. Mi fissa con intensità, si aspetta una risposta chiara e netta, non vuole mezze bugie o verità parziali. Si aspetta che io sia sincera e aperta, vuole che riesca ad aprire il mio cuore e sappia raccontare ciò che provo per davvero. Non vuole sentirsi dire ciò che dovrei dire, frasi di circostanza vuote e senza senso, vuole sapere la parte scomoda della mia storia, briciole della mia vita, i pilastri della mia fuga da New Heaven.

 

Io taccio.

Tremo e taccio.

 

«Vattene. Se non hai nulla di aggiungere puoi andartene». Kate mi gira le spalle sta entrando nel suo studio. Dopo tanti anni non ha tempo da perdere, non ha più voglia di giocare e sopportare i miei sbalzi d'umore.

 

Non posso perderla di nuovo.

Non posso permettere a ciò che è successo di impedirmi di vivere.

Non posso sbagliare, non questa volta.

 

«James mi ha usata», urlo. A occhi chiusi e con i pugni stretti dico quello che nessuno ha mai saputo, ciò che ho costudito nel profondo del mio cuore per molto tempo.

«Che cosa significa? Non ha senso». Kate è infastidita e confusa allo stesso tempo.

«Il giorno del ballo di fine anno Andrew...», le dico.

Kate mi interrompe: «Aspetta. Aspetta. Aspetta. Che diavolo c'entra quel pazzo di Andrew?».

Alzo le spalle rassegnata: «Sai che mi trovo sempre in situazioni complicate».

«Complicate? Pare tu ti diverta a incasinarti la vita. Prova ad immaginare come mi senta nel momento in cui mi dici che Andrew c'entra con tutta questa storia. Ma lasciamo perdere, continua».

«Andrew mi ha fatta nascondere dietro l'angolo di una parete vicina al Teatro del Trinity, quella verso il corridoio.  Mi ha fatta mettere lì perché voleva che sentissi una cosa», le dico sempre a testa bassa.

«Cosa?».

«La gentilezza di Rebecca e di tutti gli altri nei miei confronti era motivata. Quando al parco Franklin, nel magazzino dell'anfiteatro, sono rimasta da sola con Nik... ti ricordi?», le chiedo.

«Sì. Era successo quel casino con Andrew, ti ricattava per le foto di Rebecca», aggiunge lei.

«Ecco... in quel momento Nik mi ha quasi baciata. C'è stato solo un momento di tenerezza tra di noi, ma senza che succedesse nulla. Lucas e James ci hanno visto e hanno pensato bene di sfruttare la mia influenza sul professor Martin per avere successo a Yale. Se loro manipolavano me potevano manipolare Nik».

 

Kate mi guarda con la bocca spalancata, non credo si aspettasse una cosa del genere.

 

«L'aiuto nello studiare, le gentilezze, le moine, i baci. Era tutto falso. Tutti loro erano d'accordo con il farmi diventare importante per poi sfruttare la mia fama. Dalla gara di dibattito alla elezione di reginetta. Anche il fatto che non avessi il caricatore del cellulare il weekend di New York, è stato James a nasconderlo. Volevano... volevano che non avessi più amici. Volevano potermi usare come una marionetta. In questo modo Yale sarebbe stata loro come lo era il Trinity. Per questo me ne sono andata, non avevo più niente, non avevo te e il ragazzo che ho amato di più nella mia vita mia ha tradita. Tutti erano d'accordo, nessuno escluso».

«T-tutti? Tutti chi?». Kate sembra furiosa.

«Rebecca. Adrian. Lucas. James e... e... anche Jonathan e Stephanie», dico con un filo di voce.

 

Kate indietreggia. È sconvolta. Scuote la testa come se la cosa appena raccontatale fosse una bestemmia, un'eresia. Un'energia compressa per troppo tempo la scuote. Non può credere, non vuole credere.

La capisco, mi sembra di vedere me quattordici anni fa la sera del ballo.

 

«Io... tu... ma perché non mi hai detto queste cose prima? Dovevi correre da me quella sera. Dovevi raccontarmi tutto anni fa», mi urla Kate.

«Non volevi vedermi. Ti sei rifiutata in tutti i modi. Se fossi venuta da te come avresti reagito? Mi avresti appoggiata o ti saresti rifiutata? Ho sempre combinato un sacco di guai, drammi, complicazioni, ti stesso l'hai detto poco fa. Io... io... non credevo di meritare il tuo perdono». Nel dire le ultime parole scoppio a piangere, è più forte di me.

Mi sembra di essermi tolta un macigno dalle spalle ora che qualcuno sa di questa storia.

 

Kate mi abbraccia.

Il suo profumo è come aprire un vaso che riporta in vita un passato troppo lontano.

Le gite in barca.

Le spiagge in Italia.

Mamma e Hanna a chiacchierare.

I racconti di Roger.

I Ketchup sugli spaghetti di Kate.

I pisolini sulle sdraio.

Risate.

Tante risate.

 

La morte di mamma.

 

Ciò che sono stata, quella spensieratezza che ha accompagnato tutta la mia infanzia ha creduto il posto a qualcosa di diverso, più intenso. Da madre di Sebastian, oggi, non oso neanche immaginare come possa essersi sentita mia mamma all'idea di dover abbandonarmi per sempre per colpa della malattia. Il dolore provato per la sua perdita è una ferita non ancora rimarginata.

 

 «Forse sarei stata dura con te anni fa, ero molto arrabbiata, ma... ma... non sei l'unica ad essere stata tradita quella sera. Jo è ancora uno dei miei migliori amici, conosce Jane benissimo. Sarà il mio testimone di nozze. Non posso accettarlo. Io non riesco a immaginare che complotti contro te e abbia usato il mio colloquio a New York per... per... e poi Stephanie, dopo tutto quello che abbiamo passato...». Kate è sconvolta.

 

Non avevo mai riflettuto su questa cosa prima di adesso, anche lei è stata tradita da quelli che credeva suoi amici, in modo particolare da Jonathan e Stephanie, due pezzi importanti della sua vita. Il suo migliore amico e il suo primo amore.

 

«Quello che ti posso dire è che non serve nascondersi o mentire a se stessi. Il male per essere stati traditi esce sempre fuori. Ho provato per quattordici anni a fingere, ma da quando sono tornata tutto sembra esattamente come allora. Basta. Basta. Non ne posso più, voglio vivere serena con mio figlio».

«Quindi cosa facciamo?», mi chiede mentre si asciuga gli occhi.

«Diamo importanza a ciò che conta e liberiamoci dei pesi inutili. Tutti loro per me non contano più nulla. Solo di poche persone mi importa. Papà mi aspetta da anni. Aspetta da tempo le mie scuse. Inoltre ho scoperto da poco di avere una sorellina e tra un po' è il suo compleanno», le dico con gli occhi lucidi e la felicità che trasuda da ogni poro della mia pelle, «Ho bisogno della mia amica perfetta. Ti va di venire con me?».

 

Kate si illumina. Ride.

 

Quando Kate è felice, io sono felice.

 

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Capitolo 12
*** OGGI: Andare incontro al passato ***


OGGI:
Andare incontro al passato






 

Il treno che collega Boston a New Heaven ci impiega poco più di due ore e mezza in tutto. Sebastian ha sempre adorato viaggiare, suo padre Miguel l'ha sempre portato in giro quando stava a Madrid. Zaino in spalla e via. Niente programmi. Niente cartine. Bastava un paio di biglietti del treno, un sacco a pelo, una bottiglietta d'acqua e un buon libro da leggere.

Credo che al mio piccolo manchino un po' queste cose, anche se è un bambino molto calmo e preciso ha un lato selvaggio che poteva sfogare nei weekend di campeggio con il padre. 

 

«Mamma c'è la neve», urla Seb appiccicando la faccia al finestrino.

Kate ride.

«Adesso siediti. Sono le dieci del mattino, è ora dello spuntino». Tiro fuori da un piccolo zaino una vaschetta piena di frutta tagliata a cubetti che allungo a Sebastian.

«Grazie mamma», mi dice mentre si tuffa a capofitto sulla vaschetta fermandosi di tanto in tanto a guardare i candidi fiocchi cadere dal cielo.

«Lo sai Elena che non ti ho mai immaginata come madre? Non che non pensassi che tu non saresti stata brava, ma l'ultima cosa a cui avrei pensato di te è che ti piacessero i bimbi», mi dice Kate.

«La vita giochi scherzi strani a volte. Forse mi immaginavi troppo presa nei miei drammi per potermi impegnare a fondo con un figlio. Sto imparando a farne a meno, dei guai in generale anche se è dura», le rispondo schiacciando l'occhio ironica mentre appoggio la testa allo schienale del mio sedile osservando il magnifico spettacolo che la neve ci sta regalando.

«No. Non è quello. Non credevo potessimo essere diverse da come eravamo. A diciott'anni ero convinta che quello che fino ad allora ero stata lo sarei stata per sempre. Forse mi piace crederci un po' ancora. Non sono nostalgica, ma la vita allora ci consentiva di essere tutto, di fare di tutto. Adesso che ho passato i trenta mi sento come se la parte più viva di me fosse svanita. Certo ho Jane che amo alla follia, ho il mio lavoro, ma mi manca quella spensieratezza, quella leggerezza. Era bello preoccuparsi dei tuoi drammi, non si poteva stare mai tranquilli con te nei paraggi». 

 

Kate è seduta di fronte a me sorridente. 

Mi chiedo come abbia fatto in tutti questi anni senza di lei. Nessun amico, nessuna persona è mai stata capace di entrare in sintonia con i miei pensieri come lei. Sono bastati pochi giorni di chiacchiere, telefonate e una montagna di lacrime per riunirci spiritualmente come amiche e come donne.

 

«A volte mi piace immaginare se la nostra vita fosse andata diversamente. Ti sei mai chiesta se ti fossi laureata a Yale che cosa saresti adesso? Saremmo rimaste amiche? Tu staresti con James? Io avrei fatto la fotografa di reportage?», chiede a raffica.

«Vedi che sei tu che vuoi stuzzicarmi? Le ipotesi, le fantasia su cosa avrei potuto essere sono potenzialmente infinite, ma non mi interessano. Non ho una Laurea a Yale perché nel profondo non ho mai voluto essere avvocato. Non sto con James perché non era giusto per me. Adesso come adesso ho tutto ciò che desidero: una famiglia. Amore puro e vero. La mia piccola peste è l'unica cosa buona che ho fatto in vita mia». Spettino i ricci di Sebastian che sta cercando di infilare un pezzo di mela in bocca al suo robot giocattolo.

«Non consideri Nik. Lui fa parte ancora della tua vita?», mi chiede Kate prendendomi per mano.

 

Nik.

Ci siamo sentiti per telefono, ma  ci siamo detti poco, è molto preso dal lavoro e dai casi che segue. Non ha voluto chiarire quello che è successo nel suo ufficio e io non gli ho domandato nulla. 

Mi manca.

Mi manca la sua presenza e il suo ottimismo.

Mi manca il suo affetto.

Mi manca, ma non so se è il momento di vederci.

Adesso voglio concentrarmi su papà, Tess e Maggie, il resto verrà dopo.

 

Abbozzo un sorriso. Non so cosa rispondere a Kate.

«Vedrai che tutto andrà a posto», mi dice mentre inizia a giocare con Sebastian innescando una lotta tra il robot con pezzetti di mela incastrati nella bocca metallica e un triceratopo in plastica verde fluorescente. Quei due vanno così d'accordo che sembra si conoscano da sempre.

 

Dopo nemmeno quindici minuti il treno arriva in stazione.

 

Fa freddo anche a New Heaven. Il gelo penetra attraverso i guanti di lana, ma la neve della campagna qui non c'è. 

Sebastian, Kate ed io corriamo lungo tutto il binario per poi infilarci in fretta e furia dentro la piccola sala d'aspetto. Riusciamo a bloccare un taxi che ci porterà prima a comprare il gelato per Geltrude e successivamente a casa della vecchia.

«Sei emozionata di essere qui?», mi chiede Kate in un orecchio.

«Credo di avere un po' paura».

«Io sono qui per te. Per voi», dice Kate prendendo in braccio Seb per farlo sedere sul sedile posteriore del taxi.

 

Poi.

 

Un uomo con un lungo cappotto blu si para davanti al taxi con le braccia spalancate, non vuole farci partire.

«Ma che diavolo succ...». Non finisco la frase, riconosco immediatamente l'uomo anche se ha più rughe e più capelli grigi di quanto ricordassi.

«Michael!», urlo emozionata. Esco dal taxi correndo incontro all'autista della Signora McArthur stritolandolo per qualche secondo.

«È un piacere rivederla Signorina Elena. La macchina vi aspetta, andiamo», dice con gli occhi gonfi di lacrime e il solito viso gentile impossibile da non amare.

 

Il tassista furioso scende dal mezzo sbraitando. Vuole partire, lavorare e quindi guadagnare, non gli va di perdere dei clienti.

Micheal allunga una banconota da 100 dollari all'uomo che con la bocca spalancata per lo stupore se la intasca senza dire nulla.

 

Michael prende il mio zaino, saluta con il baciamano Kate e si inginocchia per guardare in faccia Sebastian che con decisione gli allunga la mano muovendola su e giù con energia.

 

«Adesso andiamo, la Signora non vede l'ora di incontrarvi», dice l'uomo indicandoci una Rolls  Royce ultimo modello con i vetri oscurati. 

Sebastian pare impazzito, non è abituato a salire su macchine del genere: «Ma... ma... si può trasformare in un Robot?», chiede mentre osserva i cerchioni lucidi e le finiture luccicanti in metallo.

«Non dirlo a nessuno, ma ci sto lavorando. Sto mettendo a punto un paio di modifiche per farlo volare, ma sono un po' bloccato. Hai qualche idea?».

Sebastian inizia a parlare, niente potrebbe fermarlo, pare un fiume in piena la sua fantasia non ha limiti.

 

Ridiamo tutti per la spontaneità del piccolo.

 

Michael guida dalla stazione attraverso le strade di New Heaven che riconosco via dopo via. Alcuni palazzi sono cambiati, altri sono stati ristrutturati, altri abbandonati. La piccola cittadina ha subito modifiche, diverse zone si sono popolate di casette altre hanno diversi negozi moderni e alla moda. Attraversiamo il centro città passando di fronte al Trinity.

 

«Sebastian, guarda! Quella è la scuola in cui andavamo io e Kate», dico al mio piccolo.

«Mamma, sembra un castello. Tu eri la principessa?», mi chiede Seb mentre ammira la magnifica struttura in grandi mattoni della scuola.

«La mamma non ha bisogno di una corona per essere una regina e nemmeno di un castello. Tu sei il mio tesoro più prezioso», dico a Sebastian sbaciucchiandolo.

«Ma che dici mamma? Le principesse hanno sempre una corona e anche il principe».

 

Già, un principe.

 

Kate mi guarda, sa benissimo a cosa stia pensando. 

 

James. 

Rebecca.

Lucas.

Adrian.

Stephanie.

Jo.

Nik.

 

Era da quattordici anni che non percorrevo quella via e non vedevo il grosso cortile del Trinity.

Era quattordici anni che tutti i ricordi legati a quel posto esplodessero dentro di me.

 

Quando ho conosciuto Jo.

Il primo giorno in mensa.

Il mio armadietto pieno di schifezze.

Le lezioni di Dibattito.

I baci.

Il Club di Teatro.

La foto di Adrian e Miss Scarlett.

La festa degli ex studenti.

Lo spettacolo di fine anno.

La chiamata di Demetra.

Il vuoto senza James.

La rabbia.

Le menzogne di Andrew.

Lo studio.

L'elezione di reginetta di fine anno.

Il ballo.

 

Michael mi osserva preoccupato dallo specchietto retrovisore, l'ultima volta che è stato lì è stato durante la festa del ballo. Lui mi ha portata via, lui mi ha salvata da tutto quello schifo. Non so come avrei potuto fare senza di lui.

 

Gli sorrido per tranquillizzarlo. Anche se soffro quando ripenso a quel periodo non posso essere che felice di essermene andata da New Heaven. Ho conosciuto nuove persone, esplorato una parte di mondo meravigliosa e ho avuto mio figlio. Non potrei desiderare di meglio.

 

Sebastian pare in preda a una curiosità incontenibile, il fatto che percorriamo le vie e le strade in cui io ho vissuto da ragazza sembra eccitarlo parecchio.

È un continuo: lì che c'è? Quello cos'è? Mamma, sei mai andata in quel posto?

Kate si diverte un sacco mentre cerca di rispondere al posto mio a tutte quelle domande.

 

In meno di cinque minuti la macchina si trasforma in un baraccone rumoroso. Tra urla, chiacchiere e risate sembra un circo ambulante.

 

«Michael, hai sbagliato strada. La gelateria è da quella parte», dico all'autista mentre vedo sfilare rapida lo svincolo che dovevamo prendere.

«Signorina Voli, ho pensato io al gelato per la Signora. Il dottore le ha vietato dolci e cibi troppo grassi, sa l'età avanza e non le fa bene mangiare troppe schifezze. Gelato di soia senza zucchero. Non è certo la stessa cosa, ma George McArthur non vuole che la madre si ingozzi di dolciumi», dice l'uomo sghignazzando.

«Ok». Anche io non posso fare a meno di ridere immaginandomela a mangiare quella specie di pseudo gelato.

 

L'auto rallenta.

Il cancello della villa è di fronte a noi.

 

Nulla sembra cambiato, mi sembra di non essermene mai andata da lì. Il vialetto con i sassi candidi e perfettamente ordinati, l'erba tagliata corta e i grandi alberi potati senza nemmeno un ramo fuori posto.

Michael parcheggia davanti l'ingresso:«Andate pure. La domestica vi accoglierà».

Kate, Sebastian ed io corriamo alla porta suonando il campanello. Fa così freddo che abbiamo tutti voglia di entrare per scaldarci un pochino.

 

La porta si apre.

 

Geltrude McArthur è davanti a noi.

 

«Benvenuti», dice in tono serio e solenne.

«Buongiorno Geltrude», dico alla donna andando ad abbracciarla.

 

Non scherzo quando dico che mi è mancata.

Quella vecchia scorbutica è molto importante per me. Le lettere che ci siamo spedite per tutti questi anni, i consigli che mi ha dato, la vicinanza che mi ha dimostrato. Negli ultimi mesi, da quando sono a Boston, l'ho un po' accantonata, ma mai dimenticata.

 

«Vedo che le buone maniere non le hai imparate nonostante tutto questo tempo. Una stretta di mano delicata, ma vigorosa, sarebbe andata più che bene. Tutte queste smancerie sono superflue», mi dice mentre con eleganza saluta Kate.

 

Sebastian è come paralizzato. Osserva la vecchia senza capire bene cosa debba fare, poi abbozza un inchino rischiando di cadere per terra.

 

Geltrude accenna a un sorriso cercando di non farsi vedere, prende per mano il piccolo e lo porta verso il grande salone dell'ingresso, lo stesso in cui ho messo ad asciugare i miei libri quando aiutavo Demetra con le lezioni di Italiano. Lo stesso giorno in cui ho scoperto che James e La Signora McArthur erano parenti. Una vita fa.

 

Un grosso pacco color blu elettrico è posizionato su un tavolino davanti al camino. Le fiamme riflettono sulla carta lucida creando giochi di luce multicolore.

«Questo è per te. Tua mamma mi ha detto che ti piacciono i Robot e cose simili, spero che ti piaccia», dice Geltrude al piccolo con una dolcezza che raramente ho sentito nella sua voce.

Sebastian non sa che fare, scalpita sul posto:«Posso aprirlo? Posso aprirlo?».

«Certo, vai pure», gli dico dandogli una piccola pacca sul sedere.

 

Come un Barbaro lanciato a sconfiggere il nemico, Sebastian si lancia sul pacco blu distruggendo la carta e spargendola da tutte le parti.

 

Diverse confezioni di mattoncini da costruire a tema spaziale svettano sul tavolo uno sopra l'altro. Astronavi, astronauti, robot meccanici, navicelle. Un intero set per costruire il mondo che il mio piccolo ama alla follia.

Insieme guardiamo tutti i particolari, osserviamo le fotografie mentre rigiriamo i vari pacchetti. Sebastian pare impazzito, urla ad ogni scatola, urla a ogni cosa che gli piace. È la cosa più bella che abbia mai visto in vita sua.

 

«Geltrude, non doveva e...», ma mi interrompo subito.

La Signora McArthur e Kate confabulano una nelle orecchie dell'altra come fossero due vecchie comari. Mi guardano. Mi squadrano. Mi osservano con un po' troppa insistenza.

«Che state dicendo voi due?», chiedo curiosa e anche un po' preoccupata, la vecchia sarebbe capace di tutto.

«Niente», si affretta a dire Kate.

«Solo che il piccolo ha l'aria sveglia, è molto carino e sembra ben educato. Mi chiedo da chi abbia preso visto che tu... tu... sei... insomma, sai come sei», dice seria la donna con aria altezzosa.

 

 

In passato mi sarei offesa, probabilmente avrei tenuto il muso per una battuta del genere, ma in fondo al mio cuore so che la Signora McArthur è felice di vedermi e quello, seppur contorto, è il suo modo di dimostrarmelo.

 

Mi sento finalmente a casa.

Grazie a Kate, Sebastian e Geltrude mi sento amata come non mai.

Adesso, per rendere tutto perfetto, manca solo papà.

 

 

 

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Capitolo 13
*** OGGI: Una candelina in più ***


OGGI:
Una candelina in più




Geltrude nonostante abbia quasi ottant'anni si muove come fosse una ragazzina. Non si fa problemi a essere inseguita da Sebastian con in mano una astronave di mattoncini piena di alieni. Hanno corso, urlato, la vecchia l'ha preso addirittura in braccio e tenuto sulle gambe per raccontagli una storia dopo l'altra. Certo, principi e principesse non interessano al mio piccolo, Geltrude ha dovuto modernizzare un po' le favole classiche, ma alla fine l'ha conquistato. 

 

Kate ha scattato diverse fotografie a quella assurda, improbabile coppia di giocherelloni. 

Questa giornata resterà nella mia memoria per sempre. Era da tempo che non mi sentivo così rilassata.

 

Perfino il pranzo nella grande sala da pranzo con arazzi, mobili in ebano, tappeti persiani, cristallerie e posate d'argento non ha scoraggiato Sebastian. Ha mangiato la sua zuppa e poi l'arrosto con patate come se quella fosse casa di suoi perenti. 

Geltrude la nonna. 

Kate la zia.

 

«Credi che il nonno sarà felice di incontrarmi?», chiede Sebastian prima di addentare una patata perfettamente arrostita.

«Ovviamente. Che domande? Chi non sarebbe felice di incontrarti? Sei simpatico, gentile e molto carino. Sembri un angioletto con tutti quei ricci», dice la Signora McArthur mentre sorseggia un po' di vino rosso.

«Il nonno Bruno sarà felice di vederti come noi saremo felici di incontrare lui, Tess e Maggie». Accarezzo Sebastian sulla testa infilando le dita tra i suoi riccioli.

«Ma poi ci pensi? Hai una zia che è poco più grande di te», dice Kate ridacchiando.

«Credi che dovrò fare quello che mi dice? Se è mia zia dovrò ubbidirle?». Sebastian, con la patata infilata sulla forchetta, osserva pensieroso il soffitto.

«No. Non importa in questo caso. Siete piccoli entrambi, tu devi ascoltare quello che ti dice mamma e basta», gli spiego ridacchiando.

 

Sebastian pare convinto. Finisce il suo pranzo senza aggiungere altro, è troppo concentrato a fissare lo schieramento di personaggi spaziali posizionati in fila davanti al suo piatto.

 

Geltrude è tutta pimpante, si informa su tutto ciò che riguarda il piccolo, pare un fiume in piena.

 

Ha amici?

Come si trova nella sua nuova scuola?

Parla anche l'italiano?

Che sport fa?

Gli piace Boston?

Qual è il suo colore preferito?

 

Durante tutto il pranzo non la smette di fare una domanda dopo l'altra. Nel momento in cui mi chiede che numero di scarpe porti Sebastian la guardo malissimo: «Geltrude, adesso basta».

«Cara ragazza, volevo conoscere meglio questo splendido giovanotto. Ho perso cinque anni della sua vita. Voglio recuperare», dice come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

 

Kate per poco non soffoca per le risate. Delle gocce di vino le escono dalle labbra a getto. 

 

«C'è tutto il tempo. Oggi credo sia meglio concentrarsi su nonno Bruno. Non trova?», le dico.

«Sì. Sì. Però voglio vedere tuo figlio più spesso. Non vorrai privare una povera vecchietta della piacevole compagnia di un giovane e fresco virgulto?». Gli occhi di Geltrude sembrano quelli del diavolo. Quando fa quella faccia non promette nulla di buono.

Scuoto la testa rassegnata, quando la vecchia si mette in testa una cosa non posso far altro che cercare di contenerla, per quanto possibile.

 

La cameriera arriva in tavola con le coppe di gelato, delle stupende decorazioni floreali decorano le coppe in argento.

 

«Gelato di soia?», Geltrude contorce la bocca, «Ci ha messo lo zampino Micheal, non è vero?».

Kate ed io alziamo le spalle divertite mentre la osserviamo mangiare il gelato controvoglia mentre borbotta infastidita.

 

Il pranzo finisce così. Come finirebbe una qualsiasi domenica dai nonni, dagli zii. 

Buon cibo.

Tante chiacchiere.

Armonia.

 

Tutti e quattro ci spostiamo nel piccolo studio al piano superiore, vicino alla sala dove Demetra provava le arie della Boheme. Lo stesso in cui James mi ha accusata di avergli nascosto la malattia della madre, lo stesso in cui mi ha mollata spezzandomi il cuore in miliardi di pezzi.

 

Mi fa strano essere lì, in quella stanza, con altri sentimenti, con positività ed energia costruttiva.

Da ragazza avrei avuto una crisi, probabilmente avrei fatto una scenata, eppure adesso i ricordi paiono sfumati, confusi. La rabbia per tutto quello che mi hanno fatto è una cosa lontana. 

 

Il confronto alla mostra di Kate.

Le domande di Rebecca.

Lo stupore di Jo.

La discussione con Nik.

L'impertinenza di James.

Sono tutte cose che hanno sbloccato qualcosa in me. È come se mi avessero mostrato cosa non voglio più essere, cosa non voglio per me e mio figlio.

 

Sebastian stanco e assonnato per il viaggio, per le sorprese e per il troppo mangiare, si accomoda su una poltrona a sfogliare dei fumetti e libri. Lo conosco come le mie tasche, tra meno di un quarto d'ora cascherà addormentato tra i cuscini.

 

Geltrude ci mostra un paio di vasi in porcellana acquistati durante un'asta: «Sono di epoca vittoriana, vengono direttamente da Londra». 

Kate li osserva ammirata: «Mi piacerebbe cimentarmi nella fotografia di oggetti d'arte. Creare set fotografici che possano valorizzarli. Il colore blu intenso, le decorazioni e la grana della porcellana sono favolosi. Con la luce adeguata splenderebbero come diamanti».

Geltrude pare soddisfatta, ci mostra altri pezzi delle sue innumerevoli collezioni che spaziano da antichi dipinti a oggetti vintage in argento.

«Che cosa c'è il quella teca?», chiede Kate attratta da una vetrinetta posta sopra una console in legno color oro dall'aria antica e preziosa.

«Ci sono le cose di Demetra». Geltrude si avvicina alla teca di vetro che racchiude forse il suo tesoro più grande.

 

Sullo sfondo c'è un pannello ricoperto di velluto rosso. Ordinate una di fianco all'altra ci sono appese le chiavi che Demetra ha preso dai vari viaggi con il marito George. 

La sua piccola mania.

La sua ribellione.

Sembrano un quadro moderno, una scultura contemporanea. Una collezione senza valore per qualcuno, ma tremendamente importante per Geltrude.

In una scatola di cartone sono impilare le lettere d'amore che la Demetra ha scritto al marito, quelle che io e James abbiamo trovato nello sgabuzzino quando abbiamo provato a mettere in ordine tutte le sue cose. 

Lì di fianco è adagiato il primo libretto dell'opera in cui ha cantato Demetra e anche l'ultimo, quello in cui avrebbe dovuto recitare a New Heaven. Un paio di orecchini con rubini, i preferiti della donna, una prima edizione di Piccole Donne, una scatola di legno laccata verde, dei disegni di un bambino. Sono i disegni di James.

 

«Riconosco diverse cose. Li ho trovati con James», indico alla donna la scatola, i disegni e le lettere, «Le altre cose dove le ha prese?».

«Visto che tu e mio nipote non avete finito il lavoro, ci hanno pensato i miei domestici», risponde stizzita.

«Mi dispiace, le avevo dato la parola», le dico sinceramente pentita.

«Su cara ragazza, non ti crucciare per il passato. Adesso hai il futuro da crescere e far diventare un uomo. Il lavoro importante ti tocca adesso». Geltrude indica il piccolo Sebastian che con le braccia aperte e una gamba a penzoloni dorme beatamente.

«Mi è venuta un'idea. Un'associazione culturale di Boston promuove i miei viaggi e ha finanziato parte dei miei reportage in tutto il mondo. Il loro scopo è far conoscere la bellezza della diversità e la complessità delle emozioni. È grazie a loro che ho potuto realizzare tra i miei migliori servizi fotografici. Potrei creare un progetto legato a questo: la memoria dell'arte. Raccontare la storia di Demetra e di altre donne che hanno vissuto la loro arte con passione autentica. Uscirebbe una mostra favolosa». Kate saltella sul posto come avesse appena vinto alla lotteria.

«Interessante. Sarebbe un modo grandioso per onorare Demetra. Non credo che George abbia problemi, però voglio sentire prima James, non vorrei mai offenderlo», dice la vecchia.

«Se dovesse servire a tranquillizzarlo dica pure che non centro nulla, che non avrò niente a che fare con il progetto. Non voglio che pensi che mi impicci», dico decisa.

«Intanto io preparo il progetto per la Wons Association, quando poi lei mi darà il via libera manderò tutto il materiale cartaceo. Se dovessero stanziare i fondi potremmo portare queste cose nel mio studio e fotografarle». Kate batte le mani alla velocità della luce.

«Faccia piano con quelle mani. Rischia di svegliare il piccolo». Geltrude sgrida Kate cercando di mascherare la soddisfazione per la splendida idea avuta dalla mia amica.

 

 

Sono arrivate le quattro del pomeriggio. Sebastian è sveglio da mezz'ora buona. 

Il tempo di rilassarci è finito.

Geltrude, Kate, Seb ed io saliamo sulla capiente Rolls Royce guidata da Michael.

Destinazione: il compleanno di Maggie Voli.

 

Nella mia testa mi sono immaginata molte volte come sarebbe andata la riconciliazione tra me e papà. Non che avessi le idee chiare su come o su quando, ma adesso mi sembra tutto surreale. 

La luce sta calando, anche se è pomeriggio le corte giornate invernali lasciano poco spazio al sole. Kate sta sistemando le impostazioni sulla sua fotocamera digitale mentre Geltrude e il mio piccolo discutono sulla quantità di dolci che ci saranno alla festa.

 

A quanto pare quei due hanno trovato un altro argomento che li accomuna.

 

«Vedrai che l'adorerai. Maggie è fantastica», mi dice Kate in un orecchio. 

Mi dispiace un po' che lei la conosca meglio di me, che sappia come è fatta, che conosca il suono della sua voce e che le voglia già bene. Mi dispiace non perché io sia gelosa, mi dispiace perché sono stata una stupida a perdere così tanto tempo dietro alle mie fissazioni, paure e dolori.

 

Ho perso nove anni della vita con mia sorella.

 

Papà e Tess hanno preso una casa vicino a quella di Roger e Hanna, riconosco il quartiere. Le case ordinate e curate fanno sempre il loro effetto, danno l'idea di pace e serenità. Di calma.

Un grappolo di palloncini colorati svolazza in aria ancorato a una cassetta postale. Posso leggere chiaramente il cartello: Compleanno di Maggie.

 

«Papà sa che esiste Sebastian?». Ho le lacrime agli occhi, le mani non hanno sensibilità. Ho paura.

Kate fa cenno di no con la testa: «Non gli ho detto nulla. Non credo spettasse a me dirglielo».

«Perfetto. Perfetto. Perfetto», dico istericamente.

«Ah, dimenticavo. Tanto per tranquillizzarti ho detto ai miei genitori che sarei venuta da sola, Jane aveva un catering importante. Non sanno che ci sei anche tu con il piccolo».

 

Spalanco gli occhi terrorizzata.

 

«So che non hai avuto il coraggio di rispondere alla mail di Tess, quindi ho pensato sarebbe stata fantastica questa sorpresa», dice Kate tutta pimpante.

 

Sbianco.

Il mio cuore ha smesso di battere.

Salivazione azzerata.

Mi sembra di dover sostenere un esame di chimica senza aver studiato.

 

La macchina si ferma.

 

Kate e Geltrude escono per prime, Sebastian mi guarda mentre aspetta una mia reazione: «Mamma ricordati il regalo per Maggie».

«Certo tesoro», gli dico prendendolo per mano.

 

La strada che porta all'ingresso di casa è poca. Ogni mio passo, ogni mio gesto è come avvenisse a rallentatore. Tutto pare amplificato, mi sento fuori dal tempo e dallo spazio comuni. Ho così paura che qualcosa possa andare storto che tremo.

 

Non posso più scappare.

C'è in gioco la felicità di mio figlio.

 

Tess ha accesso molte luci colorate adornando con palloncini e ghirlande di carta pure l'esterno. Sento urla di bambini e risate che provengono dall'interno.

 

Kate suona il campanello.

 

Geltrude si sistema il bavero del capotto.

 

Sebastian sbircia curioso.

 

Io sono impietrita.

 

La porta si apre.

 

Una bambina molto esile con una cascata di capelli gonfi, un sorriso smagliante sporco di cioccolata e due occhi grigi ci accoglie.

 

Maggie.

Maggie è davanti a me.

Guardo i suoi occhi grigi e vedo i miei.

 

«Ciao zia Kate e...». 

 

La bimba si blocca di colpo appena mi vede.

Urla.

Urla e salta.

Urla e salta dalla felicità.

Mi corre incontro abbracciandomi stretta.

 

«Elena. Mia sorella Elena», grida a squarciagola.

Geltrude arretra qualche passo. I decibel raggiunti potrebbero incrinare un vetro antiproiettile. 

Sebastian si tappa le orecchie: «Mamma, ma perché urla?».

«Mamma?». Una voce bassa, profonda che conosco alla perfezione irrompe e squarcia il silenzio che ho costruito per quattordici anni.

 

Papà è lì.

Lì di fronte a me.

Immobile.

Con la mano stretta intorno alla maniglia della porta mi guarda come se si trovasse di fronte a un fantasma. 

Osserva me, le mie lentiggini e i miei occhi.

Poi guarda Sebastian, il piccolo bimbo riccio dagli occhi grigi.

 

Piange.

 

Piango.

 

«Non sapevo che...», dice lui indicando il piccolo.

«Non sapevo che...», dico io mentre accarezzo la testa di Maggie.

 

Papà si mette in ginocchio per osservare da vicino Sebastian, lo accarezza come se si trovasse di fronte un miraggio, una cosa inaspettata.

«Ciao nonno Bruno, io sono Sebastian», dice il piccolo, «Aveva ragione la mamma, hai tanta barba».

«Purtroppo sta diventando sempre più grigia», dice papà muovendo le guance e scuotendo la testa mentre le lacrime gli riempiono il viso.

«Non importa. Se vuoi te la coloro, sono bravo con i pennarelli».

«Mi piacerebbe blu o forse starebbe meglio verde?», gli chiede mentre lo bacia.

«Cosa ti starebbe bene verde? Chi è arriv...». Tess non finisce la frase. Appena mi vede mi abbraccia stretta ripetendomi nelle orecchie un milione di volte grazie.

 

In un secondo abbiamo annullato il dolore della lontananza.

In un secondo abbiamo creato amore.

 

«Basta con tutte queste smancerie. Questa è una festa, no? Datemi subito una fetta di torta le chiacchiere si fanno meglio a pancia piena», dice Geltrude infilandosi in casa.

 

Il finale perfetto per una giornata perfetta con la mia famiglia deliziosamente imperfetta. Come me.

 

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Capitolo 14
*** OGGI: Riconoscere un amore ***


OGGI:
Riconoscere un amore





La cosa migliore che succede quando fai pace con un'amica che non vedi da tempo è conoscere i suoi amici. Se per la legge dell'attrazione ti piace ciò che ti assomiglia, gli amici della tua vecchia amica, di conseguenza, ti piaceranno sicuramente.

 

Così è con Kate.

 

Adoro tutto di lei, mi piace come ragiona, vive e pensa. Mi piace la gente che frequenta e il suo modo di vedere il mondo. Su tutto questo, però, adoro una cosa in particolare che lei ama: Jane, la sua futura moglie.

Jane è una pasticciera di alto livello che collabora con diversi servizi di catering che lavorano per matrimoni, conferenze, ristoranti e feste private. Dire che è un'artista sarebbe riduttivo.

 

Creme vellutate.

Muffin opulenti.

Sculture di cioccolato.

Biscotti fragranti.

Frutta candita.

Impasti profumati.

 

Non saprei neanche fare un elenco di tutto quello che i miei occhi e le mie papille gustative hanno ammirato e assaggiato nel suo piccolo laboratorio. Una fucina di sapori, profumi e colori che sono un invito alla golosità e ai peccati di gola: il rosso delle ciliegie, il bianco della farina, il giallo dei limoni, il verde della menta, il marrone del cacao. 

Senza contare lo splendido arsenale di strumenti che sembrano armi pronte a cucinare il dolce perfetto.

 

Sono estasiata.

 

«Seb impazzirà quando vedrà tutto questo. Una cosa buona l'ha presa da me. I dolci, li ama come li amo io», dico a Jane mentre inzuppo un biscotto ripieno di marmellata alle fragole in una calda tazza di cioccolata e panna.

 

Jane ride. Gli occhi a mandorla della donna si chiudono in due fessure, il luccichio della luce bianca delle lampade si riflette sull'iride nera come la pece. Il sorriso ampio e sincero trasmette perfettamente quello che prova, il viso pulito e i gesti misurati mi mettono molta serenità. È come se la conoscessi da sempre.

 

«Dovresti assaggiare la sua cheese cake ai frutti di bosco. Giuro, non esiste niente di più buono al mondo». Kate immerge le dita in una ciotola piena di panna montata gustandola subito dopo con uno schiocco delle labbra.

«Ma l'altro giorno non avevi detto che i miei macarons al pistacchio erano la cosa più buona avessi mai assaggiato? Hai già cambiato idea?», chiede Jane a Kate roteando minacciosamente un cucchiaio di legno nella sua direzione.

«Se fosse per lei stai sicura che metterebbe il Ketchup su tutto. Una volta l'ha messo sui marshmallow e mi ha obbligato a mangiarli», dico con la bocca impastata di cioccolato e biscotti ritornando con la mente alla guerra di cibo fatta a casa sua a New Heaven.

 

Jane guarda Kate con la bocca aperta come se avessi appena offeso qualche divinità pagana dei dolci.

 

«Ero giovane e inesperta. Diciamo che ho provato a sperimentare gusti nuovi», prova a giustificarsi Kate mentre ridacchia. «Del resto quella era una situazione straordinaria, una specie di penitenza per il fatto che tu Elena ti fossi comportata da stupida». Kate mi lancia un lampone in testa che rimbalza dolcemente per poi cadere sul pavimento.

 

Jane fulmina con lo sguardo Kate che come un robot programmato scatta a pulire la piccola macchiolina rossa per terra.

 

«Io non vengo nel tuo studio a scattare foto, toccare luci o spostare fondali. Lo stesso devi fare tu. Detesto la sporcizia e il disordine quando cucino», dice Jane con fare autoritario.

«Scusa». Kate ha la stessa faccia di quando Hanna la sgridava da ragazzina per qualcosa, un misto tra un cane bastonato e una scimmietta pronta a combinarne un'altra.

 

Rido.

Quelle due insieme sono uno spasso.

 

«Se vuoi ti passo la ricetta dei marshmallow e Ketchup. Non sono male», dice Kate ironica.

Jane, di tutta risposta, da un pizzicotto a Kate che reagisce con una linguaccia per poi abbracciarla dandole un dolce bacio sulle labbra. I corpi, i gesti e i movimenti di entrambe paiono una danza. È come se fossero due parti di un intero.

 

Con discrezione abbasso lo sguardo concentrandomi sulle delizie che mi ritrovo davanti immergendo il cucchiaino nelle densa e corposa cioccolata e i pochi residui di panna rimasti. 

La complicità di Kate e Jane risveglia in me il desiderio di aver qualcuno al mio fianco. Credo sia normale, il paragone nasce spontaneo, soprattutto dopo che ci si trova di fronte all'amore, quello vero.

 

Con Nik le cose sono congelate.

Ci siamo sentiti diversi giorni fa, ma non si è sbloccato nulla siamo sempre fermi allo stesso punto. 

Troppo lavoro. 

Troppi pensieri. 

La costruzione dell'Hotel di Lucas pare stia causando più problemi del previsto, almeno così mi dice Caroline. A volte mi manda dei messaggi per farmi sapere come sta Nik, dice che dorme poco ed è molto nervoso.

Non voglio stressarlo più del dovuto, tra poco sarà Natale e voglio godermi questi giorni in tranquillità con la mia famiglia, poi si vedrà.

 

La cioccolata è finita. Delle sottili linee color marrone attraversano la ciotola in tutte le direzioni e nonostante con il cucchiaino cerchi di raccoglierle, non riesco nel mio intento.

 

«Vuoi che te ne faccia un'altra tazza?», mi chiede Jane.

«No. No. Tranquilla, rischio di ingrassare trenta chili se dovessi dare retta al mio stomaco. La prossima volta vengo con Sebastian così ci abbufferemo insieme», le dico mentre sento i pantaloni stringermi intorno alla vita. Ho mangiato decisamente troppo.«Dovresti aprire un locale tutto tuo, credo che faresti un mucchio di soldi».

 

Kate e Jane si guardano per qualche secondo.

L'atmosfera è leggermente più tesa di prima, non vorrei aver detto qualcosa che non dovevo dire.

 

«Hai ragione, ma ultimamente abbiamo avuto un po' di spese extra tra il matrimonio e la casa nuova. Dobbiamo solo aspettare ancora un pochino, poi Jane potrà avere i fondi per aprire il suo locale. Devo vendere il mio appartamento, sto finendo di pagare il mutuo del mio studio. Le cose non sono facili, si deve lottare per ottenere le cose e i soldi non crescono sugli alberi», dice Kate mentre avvicina a sé la sua compagna.

Jane, con le labbra tese, sorride forzatamente anche se leggo molta tristezza nei suoi occhi.

«Neanche in affitto trovi nulla?», chiedo ad entrambe.

Kate fa cenno di no con la testa.

«Gli affitti dei negozi o degli uffici in centro costano un capitale. A noi serve un locale attrezzato oppure a norma. Non è facile, ma ci stiamo lavorando. Per ora cucino dove mi chiamano, guadagno bene, ma come diceva Kate abbiamo molte spese da sostenere», dice Jane.

«Mi dispiace», dico con sincerità.

«Figurati Elena, si tratta solo di aspettare il momento giusto. Noi siamo brave ad aspettare... soprattutto io. Ho aspettato le tue scuse per quattordici anni, che vuoi che siano ore, giorni o mesi a confronto?». Kate prende un altro lampone e me lo tira facendolo rotolare sul tavolo in acciaio pieno delle mie briciole e gocce di cioccolata ormai raffreddata.

 

Kate scappa mentre Jane la rincorre, stanno ridendo come due bimbe ed io con loro.

 

«Adesso vado. Ho un po' di cose da fare per organizzare il pranzo di Natale prima di andare a prendere Sebastian a scuola. Quindi siamo d'accordo: Jane il dolce, Kate il vino ed io preparo l'arrosto. Papà e Tess si occupano degli antipasti insieme a Maggie, mentre Hanna e Roger portano la pasta al forno», dico mentre conto sulle dita le varie voci così da essere sicura di non dimenticare niente.

«Sì, ho già pensato a tutto. Resterete stupiti del dessert», dice Jane orgogliosa.

«In totale siamo in nove persone. Voi due. Papà, Tess e Maggie. Hanna e Roger. Sebastian ed io... ah, credo che verrà anche Mauro, un signore italiano che lavora vicino al mio ufficio. Non ha nessuno il giorno di Natale».

«Più siamo, meglio è!», dice Jane pimpante.

«Ma... Nik non viene?», mi chiede a Kate osservandomi con attenzione per cercare di capire la mia reazione.

«È molto impegnato», dico asciutta, «Ho voglia di stare in famiglia, per ora è la cosa più importante».

 

Esco dal piccolo laboratorio di Jane con ben chiaro in mente cosa devo fare. Tenermi occupata in questo periodo è la medicina migliore. Non ho voglia di pensare alle cose che non vanno. Ho voglia di costruire, fare, creare.

Mi sento come non mi sentivo da anni. 

Ho fiducia. Fiducia in me stessa, fiducia nelle persone che mi circondano. È come mi fossi liberata da un bozzolo opprimente, come se strati di polvere accumulati dentro al mio cuore avessero lasciato spazio a sangue ed energia nuova.

Le strade addobbate a festa mi mettono allegria, gli scampanellii dei negozi, l'odore del freddo e le facce infreddolite dei passanti mi fanno sentire viva. Viva e grata. Grata perché quello che ho, che ho avuto la possibilità di conoscere e avere di nuovo vicino, mi riempie e mi stimola. Ho desiderio di fare le cose per bene. 

 

Mi fermo in un negozio di casalinghi, devo comprare dei bicchieri di vetro, a casa li ho tutti spaiati. Ne scelgo dodici con un sottile bordo dorato che si abbinano benissimo a un servizio di piatti che ho comprato anni fa sperando, nell'inconscio, di poterli utilizzare con la mia famiglia. Un set di tovaglioli rossi con dei ricami oro, dei sottobicchieri in sughero, una brocca in cristallo e un piccolo centrotavola con agrifoglio sono i miei ultimi acquisti.

 

Piena di buste tintinnanti, pesanti e ingombranti mi dirigo verso la metropolitana, voglio passare da casa per appoggiare gli oggetti comprati prima di andare a prendere Sebastian a scuola. 

 

Le scale della Metro, con la copertura antiscivolo in plastica gialla, attutiscono i miei passi mentre cerco di darmi un ritmo provando a far sembrare il trasporto di tutte le cose meno scomodo.

 

Il mio treno arriverà tra dieci minuti.

Ho un po' di tempo, mi siedo su una panchina.

 

Con le mani che tamburellano sulla borsa e con i due grossi sacchetti appoggiati a terra tra le gambe, mi guardo intorno. Qualche persona telefona, un paio leggono il giornale, gli altri passeggiano avanti e indietro in attesa del treno.

 

Non so che fare.

Apro la borsa in cerca del cellulare, potrei controllare le mail intanto che aspetto.

 

Un foglio piegato attira la mia attenzione, da un lato c'è un disegno con Robot e navicelle spaziali di Sebastian dall'altro riconosco la mia calligrafia.

 

Sorrido malinconicamente.

 

Lo apro e lo leggo.

 

Cara mamma.

Eccomi qui anche quest'anno. Dall'ultima lettera sono cambiate molte cose, del resto come succede ogni anno da un bel po' di tempo a questa parte. La cosa buffa è che ogni volta che ti scrivo credo che le cose non potrebbero andare differentemente da come stanno andando eppure anche oggi mi ritrovo ad essere sorpresa di come la vita cambi le carte in tavola e stravolga tutto.

Ti ricordi la lettera di sei anni fa quando ti ho detto che sarebbe nato tuo nipote? Ti ricordi com'ero spaventata?  Allora pensavo che quel panico e quella paura non se ne sarebbero mai andati, eppure, adesso eccomi qui. Diversa, ma uguale. Uguale, ma diversa.

 

I sentimenti mutano e fanno mutare. 

 

Non credevo avrei mai potuto amare ancora, invece ho scoperto nuovi tipi di amori, forze diverse, piccoli universi che rendono più infinito il mio animo e lo completano.

Per anni ho creduto che solo un uomo potesse farmi stare bene e che quella persona idealizzata la avrei trovata prima o poi, avessi dovuto scalare montagne o solcare oceani. Non volevo credere che la vita fosse diversa dai libri che ho tanto amato. Ho stupidamente perso tempo a crogiolarmi nel dolore cercando qualcuno che mi capisse, litigando con i ricordi dolorosi del passato. 

Ci ho impiegato un po', ma alla fine ci sono arrivata. Il senso di tutto questo correre, lavorare, andare, muoversi, fare è uno solo: donare. 

 

Donare tempo per chiacchierare con un signore anziano.

Donare le proprie scuse a chi hai deluso.

Donare onestà a chi ha sempre creduto in te.

Donare un sorriso a un bimbo.

 

Sono piccoli gesti d'amore che rendono migliore la vita degli altri e di conseguenza la mia. Piccoli gesti che possono essere le fondamenta per i sentimenti di altre persone.

 

La vita va costruita, non demolita.

La vita va celebrata.

 

Per questo sono fiera di dirti che da questa lettera ci sarà una nuova protagonista a fare parte dei miei racconti. 

Ho una sorella. 

Sì, hai capito bene. 

Maggie è nata nove anni fa e io l'ho scoperto poco tempo fa. È stupenda, salta da una parte all'altra. Pare un grillo. Ha una massa riccia di capelli castani e la pelle color caramello. I suoi occhi sono uguali a quelli di papà, di Seb e ai miei. Parla così veloce che a volte faccio fatica a seguirla. È nitroglicerina allo stato puro. Esplosiva.

Papà e Tess l'hanno chiamata Maggie in tuo onore, perché un nome carico d'amore come il tuo non poteva altro che esprimere l'immenso sentimento che provano per la loro piccola.

Questo...

 

Il treno è arrivato.

 

Piego il foglio e lo ficco nella borsa. 

Riesco a salire sul vagone senza danneggiare il contenuto delle borse mentre il dondolio ipnotico del pavimento in lamiera mi culla tra i dolci pensieri che corrono nella mia testa. I vetri mostrano le pareti scure e grigie della metropolitana, il silenzio rotto dallo stridere delle ruote di ferro sui binari e qualche colpo di tosse non riescono a distrarmi. Sono persa nel mio mondo intimo e personale, un caldo focolare dove gli affetti fondamentali della mia vita sono tutti presenti.

 

Poche fermate e sono arrivata.

 

Seguo la piccola folla che prende le scale mobili e che si destreggia tra i corridoi che portano alla strada. L'aria fredda mi arriva come uno schiaffo liberando le narici dell'odore di plastica e chiuso della metropolitana.

 

Piccoli fiocchi di neve scivolano sul mio cappotto.

 

Con un saltello supero il piccolo gradino del marciapiede per poi raggiungere il semaforo che abitualmente supero prima di arrivare a casa. 

 

Rosso.

 

Verde.

 

Seguendo l'onda delle persone intorno a me attraverso la strada accompagnando ogni mio passo al tintinnio dei cristalli appena comprati. 

Mancano pochi metri al mio palazzo.

Come se vedessi tutto per la prima volta alzo lo sguardo dritta di fronte a me.

Una vetrina mi colpisce, non l'avevo mai notata. Risplende tra il piccolo negozio di alimentari e il ristorante cinese, quello in cui a volte compro la cena per me e Sebastian.

 

Articoli di belle arti dal 1957.

 

Mi fermo.

Osservo da vicino la vetrina.

 

Pennelli, tubetti di colore ad olio, spatole, tele, tavolozze, gessi e molto altro sono ben disposti davanti a me, sembrano chiamarmi, mi seducono, mi sussurrano.

 

Quel negozio è sempre stato lì e in un anno non l'ho mai visto?

Arretro un passo sbattendo gli occhi come per essere sicura di vederci bene.

Poi sorrido.

Mondi pieni di colori, mani macchiate, pennelli usati, tele intonse, odore di vernice e matite temperate invadono la mia immaginazione.

 

...Cara mamma, oggi è un giorno speciale. Ho ritrovato un amore che non vedevo da quattordici anni e che mi è mancato più di quanto potessi credere. 

Oggi credo di aver ricominciato ad amare.

Oggi amo e voglio amare per sempre.

 

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Capitolo 15
*** OGGI: Natale in famiglia (prima parte) ***


OGGI:
Natale in famiglia (prima parte)




Sebastian è ricoperto dalla carta con cui ho impacchettato la sua bici nuova, i nastri li ha avvolti intorno alla vita come fossero una cintura, dice che non vuole buttare via nulla del regalo, nemmeno la carta ormai ridotta a brandelli. 

Il metallo verde e blu, le ruote nere, il manubrio con grosse maniglie, le marce e il campanello tintinnante sono la cosa più bella che il mio piccolo abbia mai visto. La bicicletta diventerà la sua astronave, il suo Robot spaziale, la sua moto che sfreccerà al parchetto tra bambini urlanti e i giochi della sua fantasia.

 

«È ora di andare a cambiarsi, tra un po' il nonno e Kate saranno qui. Non vorrai farti trovare in questo stato?», gli dico provando a sfilare un nastro dalla vita.

«Perché? Non sono bello?», mi chiede guardandosi la pancia mentre cerca di tenere sulle spalle un grosso pezzo di carta da pacchi.

«Sei stupendo, ma credo che le persone che arriveranno porteranno gli altri regali di Babbo Natale. Se hai le mani occupate con questi come farai ad aprirli?».

 

Seb ci pensa un attimo. Mi sembra di vedere i meccanismi girare vorticosi nella sua testolina.

 

«Ok. Mi cambio i vestiti, però i pacchi li apro solo io e la mia bicicletta non la tocca nessuno», dice convinto incrociando le braccia al petto e spargendo per il salotto decine di coriandoli di carta.

«Vai in camera furbacchione», gli dico mentre lo srotolo e gli sfilo tutte le cose che si è messo addosso.

Sebastian corre in camera mentre io, china a carponi, cerco di ripulire la stanza prima che arrivino gli ospiti.

 

È Natale, l'arrosto è nel forno, i regali per gli ospiti sono sotto l'albero e per la casa si respira un'aria di festa come poche volte l'ho sentita. La foto di mamma, sulla mensola vicino all'ingresso, l'ho abbellita con un piccolo albero di Natale in vetro. Lei ha sempre adorato questa festa, era elettrizzata all'idea di organizzare il pranzo e stare con i parenti e amici. Quest'anno vale lo stesso per me, sono euforica.

 

Mi infilo un morbido vestito in lana che arriva alle ginocchia, sistemo il collo che ricade abbondante sulle spalle. Un paio di scarpe basse e dei collant decorati rendono il mio abbigliamento completo. Sebastian mi porge una collana che ha fatto con la creta alla scuola materna. Gli avevo promesso che l'avrei indossata, così faccio. 

 

«Sei bellissima, mamma», mi dice il mio piccolo sbaciucchiandomi. «Non ti mettere il nero sugli occhi, mi piaci di più senza».

«Prometto che mi metto poco trucco. Ok? A mamma ne serve un pochino per sembrare più bella», gli dico pensando alle mie occhiaie che hanno bisogno urgente di un correttore.

Sebastian annuisce poi, come fa sempre, cambia discorso: «Posso andare in bicicletta per il corridoio?».

 

Il mio sguardo di fuoco gli fa capire che non è il caso di fare una cosa del genere.

 

«Solo un pochino? Piccolo piccolo?».

«Vai a sistemare in salotto i giochi che vuoi fare con Maggie e non ti azzardare a usare la bici in casa. Chiaro?». Non ammetto repliche, rischia di distruggere casa e di farsi molto male.

Sebastian se ne va sbuffando e borbottando qualcosa.

 

Anche se il mio viso è serio, dentro sto ridacchiando. Mi diverte molto vederlo crescere e provare a manipolarmi a suo vantaggio. La sua ingenuità e candore sono impagabili.

 

Il trillo del timer mi ricorda che devo verificare la cottura della carne.

 Corro in cucina, il profumo che esce esce dal forno è delizioso. Tutto procede bene, la tavola è apparecchiata, le lucine sull'albero sono accese e di sottofondo ci sono vari motivetti a tema natalizio che rallegrano l'atmosfera.

 

Ho appena il tempo di mettere un filo di trucco che il campanello di casa suona.

Papà, Tess, Maggie, Roger e Hanna sono arrivati con un carico extra di pacchetti e buon cibo da mangiare in compagnia. Sebastian corre loro incontro abbracciandoli il più stretto possibile, mentre Maggie si lancia sui pacchetti ben disposti sotto l'albero.

 

«Mamma, Babbo Natale è arrivato anche qui», urla la bimba senza smettere di saltare per la gioia.

«Stai calma tesoro. Adesso apriamo tutti i pacchetti». 

 

Tess appoggia gli antipasti in cucina mentre papà prende i cappotti di tutti per appoggiarli in camera mia sul lettone. Roger si mette a giocare con Sebastian invece Hanna è già pronta ad organizzare l'intero pranzo e, se potesse, la tavola imbandita. Le vecchie abitudini non cambiano mai.

 

«Ti informo che la pasta al forno ha solo bisogno di una scaldata è praticamente cotta. Vuoi che apra il vino per farlo respirare? Dove hai messo i calici? Non credi che dovresti spostare i piatti verso destra?». Hanna osserva tutto ciò che trova e dice la sua senza farsi troppi problemi come se di trovasse di fronte una ragazzina di sedici anni.

«Per me le cose vanno bene disposte in quel modo, ma se credi che...». 

Provo a dire, ma Hanna mi interrompe.

«Credo sarebbe meglio rivedere tutto. Ci penso io», dice prima di sparire in salotto a stravolgere il tavolo apparecchiato.

 

Tess ha l'aria stanca.

 

«Tutto bene? Mi sembri esausta», le chiedo mentre metto in ordine le borse di plastica e i vari contenitori con il cibo.

«Tra la casa e le lezioni supplementari di Maggie la vita è difficile. I miei genitori lavorano ancora e non hanno molto tempo libero. Durante le vacanze natalizie mi sfinisco più di quando vado a lavorare tutto il giorno».

«Ma hai visto dei miglioramenti nella piccola? Riesce a leggere meglio adesso?», le chiedo.

«La dislessia non è niente di invalidante, rende le cose un po' più difficili. Tutto qui. Maggie deve faticare molto a fare cose semplici come il leggere, ma vediamo quanto si applica e quanto vuole riuscire. Solo che diventa faticoso per tutti. Fortuna abbiamo l'Associazione S.U.N. che ci aiuta», dice Tess. «Il mese prossimo facciamo una raccolta fondi per aiutare i bimbi che hanno difficoltà sia fisiche che verbali. Se hai qualcosa da regalarci per l'asta di beneficenza ci faresti un grande favore».

«Certo. Troverò sicuramente qualche oggetto che possa andare bene. Sono felice di aiutare dei bimbi in difficoltà», le dico mentre l'abbraccio stretta.

«Non è il caso di Maggie, le lezioni di supporto non sono una spesa che non possiamo affrontare, ma il supporto psicologico e l'aiuto a noi genitori fa sempre comodo. Serve per non sentirci soli».

 

Maggie è una bimba fortunata. Tess e papà la seguono molto e la amano a dismisura, le piccole difficoltà che la vita gli ha riservato le supererà grazie all'aiuto della sua famiglia, me compresa, e con infinita pazienza.

 

«Mammaaaaa. Regaliiiii». Sebastian e Maggie urlano dal salotto.

Tess ed io scoppiamo a ridere.

 

Non facciamo neanche in tempo a raggiungere il resto della ciurma già pronta a scattare verso i pacchetti che il campanello di casa suona. Kate e Jane sono arrivate, con loro c'è anche il buon vecchio Mauro.

 

«L'abbiamo trovato sotto casa, credo sia lui l'ultimo ospite», dice Kate spingendo leggermente il vecchio dentro casa che con il cappello in mano e l'aria imbarazzata saluta tutti.

L'uomo mi bacia la mano poi appoggia una busta con i regali per terra mentre con un inchino elegantissimo saluta il resto della famiglia. Sebastian gli corre incontro abbracciandolo, lo stesso fa Maggie anche se non lo conosce per niente, ma sa benissimo che più ospiti ci sono e più è alta la possibilità di avere regali.

 

In meno di dieci minuti tutti chiacchierano, si gustano un buon bicchiere di vino, ridono e i bambini giocano con i regali ricevuti. Sebastian, con infilato il caschetto e i para ginocchia per la bici, fa rimbalzare una palla da basket mentre tiene sotto braccio una grande confezione di pennarelli. Maggie si infila mollette colorate tra i ricci ribelli mentre stringe un paio di bambole e un sacchetto gigante di caramelle. I vestiti, bellamente abbandonati in un angolo dai piccoli, aspettano solo di essere lavati e stirati prima di essere usati.

 

«Grazie per i regali», dico a papà abbracciandolo.

«Figurati. Sono piccolezze», dice mentre scompiglia i ricci di Sebastian «Tu come stai? Sei serena?».

«Sì. Più tardi ci colleghiamo con Miguel così lo conosci. È un bravo padre, anche se è lontano a lavorare tiene molto a Seb», gli dico mentre gli sistemo intorno al collo la sciarpa in lana che gli ho regalato.

«Per crescere un figlio serve l'aiuto di qualcuno, non sai mai cosa può capitare. Io ne sono la doppia prova: prima mi è mancata Margherita e adesso le difficoltà di Maggie. Se non avessi Tess credo che sarei impazzito».

«Non posso forzare i miei sentimenti. Miguel è il padre di Sebastian, tutto qui. So benissimo che Sebastian ha bisogno di stabilità, ma non posso forzare una famiglia. Credo debba arrivare naturalmente, non trovi? L'amore non si compra».

Papà mi bacia sulla fronte poi mi abbraccia stretta,

 

Quanto mi è mancato tutto questo.

Come ho fatto a passare così tanti anni senza questo calore e comprensione?

 

Kate porta in tavola gli antipasti aiutata da Hanna che dirige le manovre come se si trattasse di un gala aristocratico. Ogni singolo pezzo deve essere posizionato nell'esatto punto da lei stabilito. Jane ride mentre osserva quelle due discutere su ogni piccola cosa.

Mauro chiacchiera con Roger di architettura e dei bei palazzi di Boston. I racconti del vecchio rivangano i momenti in cui arrivò in città, di come molte cose siano cambiate e di come altre siano ormai una istituzione. Il porto, la città vecchia, i palazzi storici. Racconti di vita e aneddoti su una città che cambia senza cambiare mai.

 

Sono le tredici.

È ora di pranzare.

 

Stretti nel tavolo allungato del mio salotto ci accomodiamo per iniziare il pasto. 

Dieci persone affamate che riempiono i loro piatti con verdure ripiene, rustici, tartine stuzzichini e tutto quello che è possibile ingurgitare. Nessuno si fa problemi, c'è chi mangia voracemente, chi assaggia a piccoli bocconi, chi chiacchiera senza sosta, chi ascolta. 

Dieci persone di età diverse con storie da raccontare diverse. Dall'ultima canzoncina imparata alla scuola materna, all'ultimo progetto commissionato, ai pettegolezzi sui vicini, fino a battutine di dubbio gusto.

Dieci persone che non hanno un legame di sangue, ma che sono più uniti di molte famiglie e che si vogliono bene sinceramente.

 

Li osservo tutti: le rughe sui volti, le guance piene, i capelli più grigi o radi, i gesti famigliari, le espressioni facciali. Posso leggere dentro ognuno di loro, posso capire quello che provano perché non c'è menzogna, non c'è malizia dietro ai loro modi di fare. 

Non conosco tutti i presenti così bene, non tutti fanno parte della mia vita da sempre, ma è come se fossero parte della famiglia perché se c'è sintonia le anime si incastrano alla perfezione.

 

Tutti e dieci siamo un puzzle finito e completo.

 

La pasta al forno di Hanna è un successo, non ne rimane traccia. Sebastian e Maggie si contendono le crosticine appiccicate alla teglia dandosi piccole spallate per recuperare il gustoso tesoro. Il mio arrosto viene assaggiato appena, non perché non sia buono, ma come capita ogni volta, tutti abbiamo mangiato troppo e non c'è spazio per una briciola di cibo in più. 

 

Le pance di tutti sembrano mongolfiere.

 

I bimbi giocano per terra con i regali ricevuti in giornata, rotolando, urlando e discutendo giocosamente tra di loro. Papà versa un goccio di liquore all'anice in piccoli bicchieri di vetro agli uomini mentre Hanna, Tess e Jane sparecchiano.

Io me ne sto seduta tranquilla a fare beatamente nulla. Mi voglio godere ogni singolo secondo di questa giornata senza ansie, problemi o pensieri negativi.

 

Ma visto che secondo la regola universale che pare definire la mia vita: la pace non rimane mai tale a lungo, qualcosa disturba questo momento idilliaco.

 

Il campanello di casa squilla.

 

Malvolentieri vado ad aprire sapendo che sarà qualcuno di scocciante e fastidioso.

 

Apro.

 

Trattengo a stento le risate.

 

«Cara ragazza, che cos'è quella faccia? Fammi entrare, muoviti». Geltrude McArthur entra prepotente in casa, dietro di lei c'è Michael pieno di sacchetti che arranca.

 

Avevo ragione si tratta di una presenza scocciante e fastidiosa, ma impossibile da non amare.

Adesso sì che è Natale. Ho tutta la mia stramba famiglia al completo.

Non potrei desiderare di meglio.

 

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Capitolo 16
*** OGGI: Natale in famiglia (seconda parte) ***


OGGI:
Natale in famiglia (seconda parte)





«Geltrude non doveva portare così tanti regali, Sebastian ha già avuto le costruzioni qualche settimana fa. Non le sembra un po' eccessivo?», chiedo alla vecchia sapendo già che non mi darà ragione.

«Cara ragazza. Non ho nipoti, adoro comprare giocattoli e visto che il dottore non mi concede di appagare i miei desideri mangiando dell'ottimo gelato e dolciumi, devo compensare questa mancanza con acquisti folli, sconsiderati e assurdi. Quindi i regali per i piccoli fanno parte di una terapia per sollevare il mio umore. Sai, sono vecchia e malandata, non credo tu voglia far soffrire un'anziana donna sola». 

 

Come era ovvio alla fine ha sempre ragione lei.

La solita Geltrude.

 

Non ha fatto in tempo a mettere un piede in casa che il suo carisma e la sua personalità hanno invaso la stanza, rendendo l'atmosfera ancora più grottesca di quanto già non fosse. 

 

Ha distribuito doni a tutti impartendo ordini come fosse un vecchio generale in pensione. 

Ha voluto sapere da cosa fosse composto il menù lamentandosi per ogni piatto come fosse una critica gastronomica. 

Mi ha sgridata diverse volte in merito al mio pessimo gusto in fatto di mobili e arredamento in generale come fosse un'arredatrice affermata. 

 

Solo con i piccoli si mostra paziente, docile e comprensiva tanto che Sebastian e Maggie hanno iniziato a chiamarla nonna Geltry.

 

Nonna Geltry.

Se io provassi a chiamarla così credo mi sbranerebbe.

 

Kate ha sempre avuto un ottimo legame con la vecchia tanto che le presenta subito la sua futura moglie. Il fatto che Jane sia una pasticciera di così alto livello l'ha resa, agli occhi dell'anziana, una persona degna di rispetto e lode. Geltrude già l'adora.

Hanna, di solito maniaca del controllo, pare allentare la sua presa autoritaria con la vecchia in giro, papà e Roger ridono come matti quando Geltrude inizia a lanciare frecciatine, Tess ascolta con attenzione le parole e ammira i modi sofisticati della donna. 

 

L'unico serio è Mauro.

 

Segue i movimenti della donna spiandola da dietro le teste degli altri ospiti, la scruta come se si trovasse nella stessa stanza con un alieno. Ha un atteggiamento molto strano.

 

«Tutto bene Mauro?», chiedo in italiano a bassa voce all'uomo, «Sembri preoccupato».

«Non sono preoccupato cara Elena. Il mio cuore è stato rapito dalla tua ospite», mi dice mentre di sistema il nodo della cravatta e si liscia i capelli bianchi.

«La-la Signora McArthur?», sbotto senza ritegno. 

«Quindi quella piacevolissima presenza è sposata? Peccato», dice mogio abbassando le spalle con il volto cupo.

«No. No. No. Geltrude è vedova da moltissimi anni... ma.. ma... ma è... ecco... come dire. Credo sia più grande di te», dico con un certo imbarazzo. Non mi era mai capitato di vedere flirtare un uomo di una certa età.

«Ho settantadue anni. Sono in forma. Lavoro. Non saranno una manciata di anni a far diminuire il mio interesse. La signora è di classe, non ci sono più donne di quel tipo, guarda che portamento. Guarda che eleganza».

 

Giuro che mi sembra di vedere i cuoricini uscire dagli occhi dell'uomo proprio come fosse in un cartone animato.

 

«Se vuoi te la present...».

Vengo interrotta bruscamente.

«Certo. Ovvio». L'uomo si mette con le spalle aperte, il sorriso smagliante, il sopracciglio alzato e con passo fluido raggiunge la McArthur che sta chiacchierando con Sebastian e Maggie.

 

«Buonasera Madame. Sono Mauro Frisoli, piacere di conoscerla». Con un inchino affettato e un movimento misurato agguanta la mano della donna che lo guarda con gli occhi spalancati.

«Che vuole? Non vede che ho da fare?», risponde acida la donna.

«Volevo conoscerla, tutto qui. Elena non mi aveva detto che frequentasse donne tanto affascinanti», dice Mauro con voce profonda e sguardo ammaliante.

Geltrude lo fissa per qualche secondo, ha la bocca spalancata e un'espressione dipinta sul volto tra lo stranito e il disgustato.

 

Meglio intervenire.

 

«Credo sia meglio lasciarla giocare con i bambini. Geltrude adora stare con loro». Prendo per un braccio Mauro cercando di allontanarlo garbatamente.

«Adoro le donne con spirito materno e tanta dolcezza», replica Mauro con voce suadente.

 

Il colorito tra il viola e il rosso della vecchia non promette nulla di buono.

 

«Perfetto. Già. Ecco... perché non vai da mio padre e Roger, loro possono raccontarti molte cose su... su... su New Heaven», dico all'uomo mentre lo porto lontano. «Conoscere la cittadina in cui vive la Signora McArthur potrebbe farti capire meglio la sua personalità», dico a bassa voce sperando che ascolti le mie parole.

«Certo. Conoscendo le sue abitudini potrò far breccia nel suo cuore», dice tutto pimpante come fosse un ragazzino di diciassette anni alla sua prima cotta.

Papà e Roger, trattengono a stento le risate , requisiscono l'uomo infarcendolo con discorsi e parole, quel tanto che basta per tenerlo buono e lontano da Geltrude.

 

Tiro un sospiro di sollievo.

Non avrei mai voluto vederli litigare.

 

Geltrude pare non averla presa bene, nonostante stia giocando con i piccoli non riesce a fare a meno di sbirciare nella direzione di Mauro e borbottare parole incomprensibili. I modi di fare diretti e semplici dell'uomo l'hanno infastidita più di quanto avrei mai pensato.

 

«Che ne dici se portiamo il dolce di Jane? Forse addolciremo la nonnina», dice Kate.

Tess, Hanna ed io annuiamo contemporaneamente, c'è bisogno di allontanare l'attenzione dalla vecchia e dalle avance di Mauro.

Jane si precipita in cucina tornando poco dopo con un vassoio degno dei sogni di qualsiasi zucchero-maniaco.

 

Torri di macarons.

Cioccolatini allo zabaione.

Schegge di torrone.

Pane dolce con uvette, fichi secchi e mandorle.

Cremosi al cioccolato.

Mignon alla crema e frutta candita.

Montagne di dolci alle noci e nocciole.

 

Tutti siamo sbalorditi.

Sebastian molla i giocattoli per sedersi buono al suo posto, Maggie salta come un grillo da una parte all'altra della stanza cercando di avvicinarsi il più possibile all'imponente composizione di Jane. Hanna si toglie gli occhiali per lucidarli, non riesce a credere a quello che vede. Papà, Roger e Mauro battono le mani mentre Tess aiuta la Signora McArthur ad accomodarsi su una sedia. Non che la vecchia abbia bisogno d'aiuto normalmente, ma la visione di quella montagna golosa l'ha paralizzata.

È come se avesse davanti agli occhi l'incarnazione di una sua fantasia.

 

«Ho pensato di fare tante piccole cose piuttosto che un dolce solo. Così ognuno può assaggiare diversi dessert. Mi è sembrata la cosa migliore», dice Jane appoggiando in mezzo al tavolo la sua creazione. 

La luce si riflette sulle glasse, fa risaltare i colori tenui dei macarons, rende traslucida la crema e illumina la texture perfettamente liscia del cioccolato.

 

Ho la bava alla bocca e non sono la sola.

 

Per spiegare quello che è successo nei dieci minuti successivi alle parole di Jane, l'unica immagine che mi viene in mente sono le cavallette che si lanciano a divorare le primizie in un campo in primavera.

In dieci minuti venti mani si susseguono a assaggiare, sbocconcellare, mordere, succhiare, leccare, sgranocchiare, spizzicare e triturare ogni singolo dolce presente.

Dieci minuti di paradiso puro.

 

«Jane sei magnifica», dice Tess.

«Uno spettacolo, davvero», continua Roger.

«Confermo. Cara ragazza avrai un futuro. Te lo dico io, io me ne intendo di dolci». La Signora McArthur si lecca le dita soddisfatta.

«Nonna Geltry vuoi giocare con me?», chiede Maggie avvinghiata al braccio della donna.

«Non essere asfissiante. Lascia riposare la Signora. Hai ricevuto così tanti regali che potresti giocare per un anno intero senza mai annoiarti». Tess accarezza con dolcezza i ricci sulla testa della figlia.

«Ma voglio che mi legga quei libri che mi ha portato», piagnucola la bimba.

«Credo che la mamma abbia ragione. Vieni qui con me amore, se vuoi possiamo leggerli insieme», dice papà a Maggie che con le sottili braccia sui fianchi scuote la testa.

«Non. Sei. Capace. Sei pure stonato».

 

Tess e papà si guardano confusi.

 

«Ho portato alla bimba dei libri di musica. Spartiti. Spartiti per pianoforte delle più famose arie della storia della lirica», dice Geltrude mentre prende un paio di testi per mostrarli a Tess e papà. 

«G-grazie, ma non...».

Tess viene interrotta dalla vecchia.

«Diversi studi ipotizzano che un allenamento di tipo musicale basato sul ritmo ha ripercussioni positive sulla capacità di lettura di ragazzi dislessici. Non per vantarmi, ma so suonare discretamente il pianoforte, conosco molti testi e storie che Maggie potrebbe assimilare. Inoltre ho molto tempo libero, pazienza e il desiderio di aiutare questa giovane fanciulla».

«Che donna!», sentenzia Mauro gonfiando il petto.

Geltrude lancia uno sguardo schifato all'uomo riuscendo a zittirlo, poi ricomincia a parlare a Tess e papà:«Credo che un paio di pomeriggi a settimana potrebbero andare. Inoltre posso aiutare la piccola con i compiti durante quei giorni. Sono un'eccellente maestra, del resto mio figlio è uno degli avvocati più importanti di Boston anche grazie ai miei insegnamenti».

 

Credo che quella donna potrebbe vendere ghiaccio agli eschimesi e diventare milionaria.

 

 «Non so se... insomma... l'associazione S.U.N. ci ha aiutato parecchio. Credo che andarcene o lasciare il programma potrebbe avere risvolti negativi su Maggie», dice papà mentre guarda Tess per capire cosa fare.

«Facciamo un periodo di prova. Qualche lezione e vediamo come va?», propone Geltrude.

Tess e papà ci pensano un attimo, quel tanto che basta che i loro sguardi si fondano per comunicare tra di loro e dirsi molto più di quello che le parole possano esprimere.

«Ok. Facciamo una prova», dice Tess.

«Evviva». Maggie inizia a saltare come una pazza scatenando l'ilarità di tutti. «Nonna Geltry mi canti la canzone di prima?».

«Certo cara. Tu devi battere le mani per tenere il ritmo, chiaro?».

Maggie annuisce.

«Questo è Casta Diva della protagonista nella Norma di Vincenzo Bellini. Bellini era italiano come lo sei in parte anche tu», dice la vecchia accarezzando la bimba sulle guance.

 

Casta Diva che inargenti

Queste sacre antiche piante,

A noi volgi il bel sembiante

Senza nube e senza vel.

 

Tempra o Diva,

Tempra tu de' cori ardenti,

Tempra ancor lo zelo audace,

Spargi in terra quella pace

Che regnar tu fai nel ciel.

 

La voce della McArthur non è paragonabile a quella di Demetra, non c'è la stessa maestria e talento, ma il sentimento c'è tutto. Maggie ascolta estasiata battendo le mani con entusiasmo la cantilena, quasi filastrocca, che Geltrude canta con attenzione.

È come se quelle due stessero parlando una qualche lingua segreta, come se quelle strofe ripetute servissero in qualche modo ad aiutare la bimba.

Tess e papà si tengono per mano commossi nel vedere la loro piccola concentrarsi e divertirsi allo stesso tempo. Hanna e Roger canticchiano in coro l'aria che conoscono a memoria mentre Mauro osserva ammirato la Signora McArthur.

 

«Certo che è strana quella donna. Non è della famiglia eppure si impegna tanto per dei bimbi che conosce a malapena», dice Jane a bassa voce.

«È capace di dare tutto se non di più, solo che ha un modo un po' strano di dimostrarlo», dico ridacchiando. «Una volta...».

 

Vengo interrotta, Sebastian viene verso di me correndo.

 

«Mamma. Mamma. Il tuo cellulare stava squillando», mi dice allungandomi l'apparecchio per poi scappare a giocare.

Prendo il telefonino tra le dita.

Schiaccio il pulsante per accenderlo.

Un messaggio vocale in segreteria.

Una voce ansiosa e sconclusionata.

Una sensazione sgradevole e ansiosa.

 

"Elena. So che non è il momento giusto... cioè... scusa. Prima di tutto Buon Natale. Come sta Seb? Ecco. Ho bisogno di parlarti. Non so a chi rivolgermi, tutto sembra.... sembra... io... scusa, mi sento uno schifo. Ho... ho bisogno... Credo di aver combinato un disastro. Non so a chi altro chiedere. Chiamami appena puoi. Ciao".

 

Nik.

Non sembra l'uomo che ho conosciuto.

Nik mi ha lasciato questo messaggio.

Non è da lui comportarsi in questo modo.

Nik ha bisogno d'aiuto.

Se ha fatto tutto questo vuol dire solo una cosa: Nik è in grossi guai.

 

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Capitolo 17
*** OGGI: Birra calda ***


OGGI:
Birra calda






Nik mi ha chiesto di vederci in un locale di mia scelta, il giorno che preferissi e all'orario che volessi. La cosa mi ha lasciata parecchio disorientata perché non è certo da lui perdere il controllo, anzi, lui è quello che lo ha sempre mantenuto in ogni situazione capitatagli.

L'ho sentito così turbato che mi ha spaventato. La voce roca. Le parole bisbigliate. È come se si sentisse minacciato da qualcosa o qualcuno, solo che non ha voluto dirmi nulla di più.

 

Boston, il 30 dicembre, è come una ricca donna aristocratica vestita del miglior abito.

Le luci natalizie accese di sera sui lampioni, intorno agli alberi nei viali, ricordano a tutti che l'ultimo dell'anno è alle porte, suggeriscono giorni di festa per tutti con abiti luccicanti e sorrisi smaglianti in qualche locale addobbato a festa.

 

Ho preferito uscire a quest'ora per incontrare Nik così Sebastian dorme tranquillo e neanche si accorgerà del fatto che non ci sono e a casa lo controlla la baby sitter.

 

Alle dieci e mezza sono seduta sul bancone di un pub irlandese poco lontano da casa mia. Non è niente di particolarmente ricercato, perlopiù un ritrovo per giovani professionisti in cerca di un paio d'ore di svago, tra una partita a biliardo e una bella birra fresca. 

 

Con una bionda ghiacciata che aspetta solo di essere sorseggiata, mi guardo intorno in cerca di Nik. È in ritardo. Le luci gialle illuminano la sfilata di bicchieri alle spalle del barista che serve gli avventori senza perdersi in troppe chiacchiere. Seduto vicino a me c'è un uomo dall'aria stravolta con un grosso cartone ai piedi pieno di fogli, penne e altre cianfrusaglie da ufficio. Beve un bicchiere dietro all'altro. Deve essere stato appena licenziato perché borbotta 'scusa amore, ho perso il lavoro', con diverse intonazioni, come si esercitasse prima di dare l'infausta notizia a qualcuno di molto caro.

 

Immergo le labbra nella schiuma amara e sorseggio la birra fredda.

 

«È da molto che sei arrivata?». Nik è dietro di me, se ne sta con il bavero del cappotto alzato e il cappello calato bene sulla testa.

«Sicuro di stare bene?», gli chiedo preoccupata. Non mi piace il suo aspetto, ha l'aria affaticata. L'ombra della barba incolta, le occhiaie marcate e lo sguardo sfuggente sono un segnale poco rassicurante.

«Sì. Sì. No. Insomma, è un periodo negativo. Prima ho perso te e adesso...».

«Non mi hai persa. Credo sia necessario chiarire cosa è successo nel tuo ufficio e essere sinceri fino in fondo. Ultimamente mi sono successe molte cose che mi hanno fatto cambiare il modo di vedere le cose».

«Mi mancate molto. Sebastian come sta?», mi chiede accennando un sorriso evitando palesemente di continuare il mio discorso.

«Sta bene. È un po' raffreddato, ma è normale visto il periodo». Lo prendo per mano avvicinandolo allo sgabello vuoto vicino a me: «Siediti. Parliamo con calma».

«No. Preferirei un posto più tranquillo, lontano da orecchie indiscrete», mi dice indicando con un cenno della testa l'uomo mezzo ubriaco vicino a me.

Non replico, ma sono stupita dell'atteggiamento di Nik, quel tizio con lo scatolone di fianco a me non ha l'aria molto losca, tutt'altro.

 

Ci dirigiamo in un piccolo tavolo nell'angolo più scuro e isolato del locale. Uomini e donne si scambiano battute intorno a tavoli da biliardo, una pinta di birra o mentre si sfidano a freccette. L'atmosfera è rilassata, gli avventori sono rumorosi e vivaci come dovrebbero essere, non riesco a capire l'ansia di Nik e i suoi atteggiamenti guardinghi.

 

«Che diavolo succede?», gli chiedo tutto d'un fiato.

«Ti ha seguita qualcuno? Da quando ti ho chiamata hai detto a qualcuno che venivi qui?», mi chiede senza smettere di fissarmi insistentemente.

«Ho fatto quello che mi hai detto. Ho tenuto la bocca chiusa con tutti. Capito? Sembra quasi che non ti fidi di me?».

«Il fatto è che stanno succedendo molte cose strane e io... io... non riesco più a capire cosa debba fare». Nik mi stringe le mani, pare un uomo condannato al patibolo in procinto di esalare l'ultimo o respiro.

«Facciamo così. Parti dall'inizio. Forse raccontandomi quello che è successo ti si chiariranno le idee», gli dico cercando di trasmettergli calma anche se inizio a preoccuparmi un po' anche io.

 

Nik prende fiato poi ingoia in un solo sorso il liquido ambrato dentro al suo bicchiere.

 

«Circa un mese fa ti ho detto che stavo lavorando a un caso importante. Tutto lo studio è impegnato perché sono coinvolti politici e uomini d'affari importanti. Il giro di soldi è immenso. Quando dico immenso intendo dire proprio grande, si tratta di milioni di dollari». Nik mi bisbiglia vicino al volto.

«Sì, mi ricordo. Caroline ti aveva detto non so cosa al telefono... ah, già. Avevi una riunione o qualcosa del genere», gli dico ricordando il momento in cui accadde la telefonata qualche settimana fa.

«Ecco. Sì. Qualcosa non andava già da allora, ma né George McArthur e nemmeno Charlie Spencer sono mai riusciti a condividere le mie preoccupazioni. Dicono che sono paranoico».

 

Un gruppo di ragazzi un po' alticci urla tra una palla in buca e l'altra.

Nik salta dalla sedia.

 

«Lucas vuole aprire un hotel di lusso in centro a Boston in una zona in forte rivalutazione immobiliare e di altissimo flusso turistico di alto livello. Ha comprato vecchi negozietti che demolirà per poi costruire il suo impero. Per iniziare questo progetto ha avuto bisogno dell'appoggio politico di Adrian, visto che lavora nell'ufficio del sindaco, e dell'influenza di Andrew, che conosce tutti in città. Lucas manterrebbe la quota di maggioranza, mentre Andrew e Adrian sarebbero soci di minoranza, ricoprirebbero ruoli più rappresentativi che altro».

«Andrew non mi pare un grande acquisto. Sai cosa ha fatto. Anzi. Cosa a fatto a me quattordici anni fa», gli dico senza peli sulla lingua.

«Il passato non conta se c'è di mezzo un investimento personale da sette milioni di dollari. Andrew ha dovuto ipotecare i locali della sua famiglia. Lascia perdere che sia viscido, non c'entra il giudizio personale con tanti dollari in ballo. Lo stesso ha fatto Adrian. Tra qualche anno vuole candidarsi come deputato al congresso ed ha bisogno di fondi. Con l'hotel avrebbe una miniera di soldi in tasca. Sempre», mi spiega a Nik.

«Non vedo quale sia il problema allora». Scrollo le spalle confusa mentre stringo il bicchiere di birra tra le mani senza smettere un secondo di torturarlo.

«Il problema nasce quando due tizi venuti da chissà dove comprano le restanti quote dell'hotel presenti sul mercato. Hanno pagato in contanti. Chi paga milioni di dollari in contanti?». Nik si ficca le dita tra i capelli. «Lucas possiede il 43% delle quote societarie, Andrew e Adrian hanno il 6% a testa. Lo studio a McArthur ha investito parte dei fondi e gestirà un 7%. Il restante 38% era per decine di altri piccoli investitori, ma nessuno ha potuto fare offerte. Cinque minuti dopo aver aperto le trattative si presentano questi con un'offerta talmente allettante che Lucas e gli altri non hanno potuto rifiutare».

«Quindi questi misteriosi investitori posseggono il 36%? In termini pratici cosa significa? Non vedo il problema», gli chiedo cercando di mettere qualche punto fermo alla discussione.

«Significa che Lucas non potrà prendere nessuna decisione importante senza prima interpellare loro. Sono i secondi soci più importanti. Possono mettere i bastoni tra le ruote e far fallire il progetto, modificarlo o peggio mandare a gambe all'aria Lucas, Adrian, Andrew e lo studio legale McArthur», mi dice Nik stringendo i denti e sbattendo un pugno sul tavolo.

 

Guardo Nik per qualche secondo. Non l'ho mai visto così, sembra un altro uomo. È come se tutte le sue fragilità fossero venute a galla distruggendo la splendida persona che è.

 

Prendo le sue mani tra le mie cercando di calmarlo. «Nik. Nik. Sono qui per te. Adesso prendi un respiro, rilassati. Voglio solo capire bene tutto». Accarezzo il volto di Nik sentendolo spingere nella mia direzione come se cercasse un sostegno, un appoggio per poter andare avanti. «La tua paura è che quei due siano persone... persone...».

«Delinquenti. Truffatori. Non saprei come definirli. La cosa che mi fa ribollire il cervello è che l'investigatore dello studio legale non ha trovato nulla. Nulla di compromettente. Ci credi? Come fanno due imprenditori sconosciuti nel settore ad avere milioni di dollari in contanti? Dove li tengono? È assurdo».

«Ma questi tizi hanno fatto qualcosa per ritardare o bloccare il progetto? Non lo so, qualche cosa strana che potrebbe dare l'idea che vogliano far saltare tutto quanto», gli chiedo.

 

Nik mi fissa mordendosi il labbro.

Cerca di sistemarsi il nodo della cravatta annodato storto, poi si liscia i capelli.

 

«No. Non hanno fatto niente. Nulla. Vengono in ufficio, firmano le carte, chiacchierano con i soci e vanno via. Niente di niente», mi dice con un certo imbarazzo.

«Allora perché hai dubbi? Forse vogliono davvero solo investire nell'hotel e fare più soldi. Forse hanno capito che si tratta di un buon affare e hanno colto la palla al balzo». Sorrido cercando di alleggerire l'atmosfera tesa che si è venuta a creare.

«È quello che dicono Charlie Spencer e George McArthur. Dicono che sono troppo stressato e devo calmarmi. Io però non la vedo chiara questa storia, per niente limpida».

«Ma... ma...». Non so bene che dire, la storia che mi ha appena raccontato non ha molto senso ai miei occhi, ma non essendo esperta in vendite, contratti e finanziamenti non so bene cosa pensare. Una cosa però è certa: se Nik è preoccupato deve esserci qualche altra ragione e non me la vuole dire.

 

Un paio di ragazzi al centro del locale intonano una canzone irlandese muovendo a ritmo i boccali colmi di birra sopra la loro testa. Gli avventori si uniscono al coro urlando e battendo le mani a ritmo sul bancone o sui tavoli di legno. L'euforia è palpabile, tutti si stanno divertendo.

Tutti tranne io e Nik che immobili ci fissiamo.

 

«Dimmi cosa c'è che non va. Il motivo vero», gli chiedo a bruciapelo.

Nik estrae dalla tasca interna della giacca un piccolo registratore nero con un paio di cuffiette. Le allunga verso di me: «Ascolta la registrazione. L'ho lasciato acceso per caso dopo una riunione. Senti tutto quello che viene detto fino al minuto 35 e 22 secondi».

 

Prendo le cuffiette e le infilo.

Nik porta avanti la registrazione fino al minuto 33 e 35 secondi.

Click.

La registrazione è partita.

 

Ascolto con attenzione tenendo le cuffiette ben premute dentro le orecchie.

 

Voci.

Struscii di giacche.

Parole garbate.

Riconosco la voce di Jo che saluta con tono formale.

Rumore di sedie spostate.

Una voce femminile si congeda con eleganza, è Rebecca.

Passi.

Suoni che non distinguo.

Voci sovrapposte si salutano.

Passi.

Molti passi.

Una porta sbatte.

 

Silenzio.

Sembra non esserci più nessuno.

 

Poi.

 

Rumori di carte spostate.

Sedie strisciano per terra.

 

Sbianco.

 

Delle voci maschili parlano.

Parlano in italiano.

 

- Non vedo l'ora di fregare questi idioti - dice il primo.

- Tra poco avremo una montagna di soldi - dice l'altro.

 

Risate divertite, poco rassicuranti.

 

Rumore di porta che si apre all'improvviso.

Passi.

- Ho dimenticato la mia valigetta - dice Nik con gentilezza - Vi auguro ancora una volta una buona giornata -

 

Fruscio.

Un colpo.

La valigetta è chiusa.

Struscii.

 

Silenzio.

Minuto 35 e 22 secondi.

L'audio è finito.

 

«Parlano italiano, vero?», mi chiede Nik appena mi tolgo le cuffiette delle orecchie.

 

Annuisco.

Mi sento pallida e le gambe sono deboli.

 

«Mi hai insegnato qualche parola in italiano. Ricordi? Mi chiamavi sempre idiota quando ti infastidivo o ti provocavo», Nik ripete più volte la parola idiota scandendo le lettere.

«Io te lo dicevo in tono affettuoso, era un gioco tra di noi. Quei due invece... invece... il loro modo di parlare era diverso», gli dico a bassa voce con il suo stesso tono preoccupato.

«So che non volevi offendermi, ci mancherebbe. Però so anche che idiota può essere usato in modo negativo. Che hanno detto di preciso?».

«Il primo ha detto che non vedono l'ora di fregarvi e che siete idioti. Il secondo ha detto che faranno molti... no, anzi... faranno una montagna di soldi».

 

Nik trattene il respiro.

Perde il fiato.

I suoi occhi azzurri, un tempo rifugio sicuro, paiono sfaldarsi e perdersi.

 

«Sei nei guai?», gli chiedo interpretando il pallore sul suo viso.

«Ho firmato io i documenti. È un problema mio», dice con voce assente.

«Devi dire tutto agli altri soci, potrebbero... potrebbero...».

«Non possono far nulla, è solo un audio. Non prova niente, in tribunale non varrebbe come prova, un giudice non la accetterebbe mai. Non viene detto esplicitamente il soggetto, non dicono chiaramente nulla», Nik pare vuoto, come se l'anima l'avesse abbandonato, come se un involucro fatto di carne e ossa fosse seduto davanti a me.

«Quindi cosa farai?», gli chiedo con impeto.

«Cosa farò?! Nulla. Aspetterò la mia fine, quella dello studio McArthur, quella di Lucas, Adrian e Andrew. Li ho rovinati. Firmando quelle carte, accettando quel 'offerta ho rovinato la vita a tutti».

«Ma...».

Nik mi interrompe.

«Niente ma, Elena. Adesso ho capito, devo solo aspettare la fine», dice Nik senza espressione. «Finisci la tua birra, Sebastian ti sta aspettando. È ora che tu vada».

 

Con un groppo in gola provo ad assaggiare la bionda ormai senza schiuma nel bicchiere di fronte a me.

A fatica ingoio il sorso che tengo in bocca.

Il sapore mi disgusta.

La birra è calda.

Irrimediabilmente calda.

 

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Capitolo 18
*** OGGI: La lunga stanza bianca ***


OGGI:
La lunga stanza bianca





L'assistente di Kate con la montatura degli occhiali nera e l'espressione seria controlla l'agenda mentre parla a raffica ricordando alla mia amica gli impegni dei prossimi giorni. 

 

Shooting fotografico.

Pianificazione del libro con le foto dell'ultimo viaggio.

Scelta del pranzo per il matrimonio.

Intervista per il Boston Tribune.

Incontro in banca per firma del mutuo del nuovo appartamento.

Riunione con il fotografo Bressan.

Scelta dell'abito per matrimonio.

 

Più innumerevoli pranzi, cene e party esclusivi in tutta la città.

 

Io impazzirei se fossi in Kate, non sopravviverei a tanti impegni, adoro starmene a casa con Sebastian cenando con tranquillità mentre guardiamo i cartoni animati.

La mia amica invece sembra assorbire tutte quelle informazioni come se fosse la cosa più normale del mondo mentre controlla le sue macchine fotografiche sbirciando dal visore e mettendo a fuoco un soggetto immaginario.

 

«Ho capito, grazie. Credo che tu possa andare adesso, tornerò nello studio oggi alle 15.00, massimo alle 16.00. Prendi nota delle telefonate e rispondi alle mail. Prepara i due set per il servizio di moda. Dovrebbe arrivare il materiale preso a noleggio verso mezzogiorno», dice Kate seria.

L'assistente prende nota poi, senza aggiungere altro, si dilegua.

 

Fisso la mia amica ammirata.

 

«Grazie per essere qui oggi, credo che la tua presenza mi sarà molto utile», mi dice Kate.

«Figurati. Dopo il disastro combinato quattordici anni fa non potevo tirarmi indietro. Sono in debito con te», gli dico mentre mi infilo il giaccone.

«Come ti ho già detto la Wons Association ha supportato molti dei miei progetti, molte volte è riuscita a farmi accedere in paesi in cui è difficile avere il visto. Sono riuscita a fare foto in posti e a persone che altrimenti non avrebbero mai potuto raccontare la loro storia. L'appuntamento di oggi è importantissimo, devo esporre il progetto al comitato».

«Quindi non è detto che accettino di finanziare il progetto La memoria dell'arte?», gli chiedo mentre la seguo verso l'ingresso.

«Il fatto che mi abbiano chiesto di parlare alla commissione significa che l'idea gli è piaciuta. Adesso devo convincerli». Kate apre la porta dello studio incamminandosi rapida verso la metropolitana.

«Speriamo bene. Credo che un tributo a Demetra sia una cosa che riempirebbe d'orgoglio Geltrude».

«Non dirmi che con questo progetto non hai pensato a James perché non ci credo e...».

 

Vibrazione.

Un messaggio da Nik: Riunione terminata. Per ora è tutto tranquillo, i due soci non hanno fatto obiezioni o critiche. Hanno firmato il progetto definitivo.

 

Kate mi guarda: «È Nik? Che dice?».

«Per ora tutto a posto, niente nubi all'orizzonte», dico io mettendo a posto il cellulare in borsa e infilandomi dietro una piccola fila di persone pronte ad accedere alla metropolitana.

«Vedrai che si tratta di un grande malinteso. Probabilmente Nik è un po' paranoico è stressato, forse questa storia è un modo per attirare la tua attenzione. Del resto sa quanto tu adori i drammi». Kate mi da una gomitata mentre schiaccia l'occhio divertita.

«Figuriamoci! Non farebbe mai una cosa del genere. È poi io non adoro i drammi... non come una volta, almeno. Credo anch'io sia un po' affaticato dal lavoro. Se ci sono novità ti faccio sapere», le dico con il sorriso.

 

Non sono entrata nello specifico con Kate. Non me la sono sentita, più che altro perché non avrei saputo darle informazioni precise. Non mi ricordo i dati e i numeri che mi ha dato Nik l'altra sera al pub e poi, andando al sodo, credo che alla mia amica importasse capire cosa fosse successo più che particolari senza importanza.

Non ho voluto nascondere la mia apprensione alla mia amica, non sarebbe stato giusto.

La nuova persona che sono vuole sincerità a tutti i livelli.

 

«Tornando al discorso di prima, non credi che il fatto di organizzare questa mostra e set fotografico su Demetra risveglierà l'amore sepolto che hai per James?». Kate mi abbraccia sbaciucchiandomi come fosse una ragazzina.

«Certo, come no», dico ironica. «Prima di tutto ho promesso che starò fuori l'organizzazione della mostra e così farò. Secondo, cosa da non trascurare, Geltrude ha chiesto il permesso a George e James. Loro hanno accettato. Sanno che sei tu a fare le foto, quindi se sta bene a loro, sta bene anche a me», dico risoluta. 

«Ma non hai appena detto che saresti stata fuori dall'organizzazione della mostra?», mi chiede Kate.

«Certo, è quello che farò», dico convinta.

«E allora perché sei qui con me pronta ad accompagnarmi al colloquio con la Wons Association? Questo non ti sembra aiutarmi ad organizzare tutto quanto?». Kate è divertita trattiene a stento le risate.

«Sì, ecco... hmmm.... cioè...», dico confusa.

Kate ride come una pazza, la gente intorno a noi, in attesa del treno, si gira a guardarla con aria interrogativa.

«Senti cara saputella, vuoi o non vuoi che ti accompagni?», le dico con il broncio e l'aria fintamente arrabbiata.

«Certo. Come farei senza di te», mi dice Kate prendendo i a braccetto facendo scomparire ogni traccia di malumore.

 

Il vagone della metropolitana corre veloce, il dondolio è ipnotico e mi rilassa a tal punto che faccio un paio di sbadigli a bocca spalancata. Non troviamo posto a sedere perché è pieno di persone che vanno verso il centro. È l'orario di punta e quindi ci tocca stare in piedi anche se vorrei lasciarmi cullare e chiudere per qualche minuto gli occhi.

Non ho dormito molto in questi giorni, il pensiero di Nik preoccupato ha occupato le mie notti. Lì, da sola nel letto, pronta a dormire senza riuscire a lasciarmi andare del tutto è diventata prassi. Incubi. Sogni ripetitivi. Uno strazio. Solo quando sono in compagnia di Kate riesco a rilassarmi forse perché sa cosa sta succedendo e mi pare di non essere l'unica a portare sulle spalle questo fardello.

 

Kate mi strattona il cappotto.

Siamo arrivate alla nostra fermata.

 

Seguiamo la fiumana di persone cercando di prendere l'uscita che ci interessa. Kate mi trascina da una parte all'altra visto che conosce la strada. Imbocchiamo la scalinata sud per poi passare attraverso il grosso atrio tra piccoli negozi per turisti e bar affollati.

L'aria fresca che filtra dall'uscita principale verso i corridoi e il ventre, vivo e pulsante, della metropolitana mi da quella scossa che serve per svegliarmi.

 

Siamo in strada pronte ad andare al colloquio.

 

«Ricorda. Parlo io. Conosco la commissione, è da anni che mi finanziano», dice Kate secca.

«Tranquilla, sono la tua spalla», le dico prendendola a braccetto.

«I membri della commissione mi ascolteranno e poi riferiranno ai responsabili, cioè a quelli che sganciano effettivamente i soldi. A quanto pare sono una vecchia coppia di ricconi di Boston che hanno la passione per l'arte. Non li ho mai incontrati direttamente, ma solo tramite esterni», mi spiega Kate portandomi verso una palazzina di inizio 1900 con i mattoni rossi in vista e vecchie finestre con la montatura in ebano.

«Quindi potrebbe essere chiunque?», le chiedo mentre mi tolgo il cappello cercando di dare una forma decente si capelli.

«Io ho avuto un colloquio con la moglie, la donna. Una persona squisita. Mi ha fatto il terzo grado quattordici anni fa durante il primo incontro. Senza di loro non sarei mai riuscita ad arrivare dove sono adesso, mi hanno dato tanta di quell'aiuto che neanche immagini». Kate si schiarisce un paio di volte la gola prima di suonare il campanello.

 

È tesa, come è facile immaginare, vuole fare bella figura, ma soprattutto vuole riuscire ad ottenere il finanziamento.

 

Una ragazza in un tubino nero ci accoglie, è molto bella, sembra quasi una modella visto come cammina sui tacchi con incedere sicuro e fermo. I capelli color rosso rame e gli occhi verdi sono così intensi che sembrano dipinti.

Senza dire nulla ci scorta lungo un corridoio pieno di ritagli di giornale incorniciati con articoli che parlano dei progetti che l'Associazione ha portato avanti negli anni. Si tratta di eventi culturali, mostre, libri e tutto ciò che ruota intorno all'arte e ai giovani artisti. Uno spettacolo per gli occhi.

 

«Vi stanno aspettando», dice la ragazza aprendoci una porta per poi tornare sui suoi passi senza dire altro.

 

Entriamo in una grande stanza bianca, insolitamente lunga e illuminata fiocamente. Ci fermiamo poco dopo la porta. Dalla parte opposta alla nostra c'è una scrivania dietro cui sono accomodati due uomini e una donna. Non riesco a vederli in faccia, non riesco a capire nulla dei loro volti, c'è troppa poca luce.

 

Ho i brividi.

Mi sento a disagio.

 

«Prego Signorina Husher, si accomodi», dice un uomo.

Kate si siede su una sedia poco distante da noi. Io resto in piedi cercando di non dare nell'occhio, anche se impossibile: la stanza è così vuota che se volasse una mosca la noteremmo tutti.

«In collegamento video ci sono i finanziatori, hanno voluto assistere alla nostra discussione. Resteranno in silenzio e solo se avranno dubbi faranno qualche domanda. Come ben sa entrambi credono molto nel suo talento e hanno apprezzato l'idea di creare una mostra che celebri le donne che grazie all'arte sono riuscite ad emanciparsi e vivere del loro talento», dice la donna dietro la scrivania.

«Sì, ho voluto raccogliere le storie di donne straordinarie che grazie alle loro capacità hanno arricchito il mondo dell'arte a 360°. Opera, pasticceria, artigianato, scrittura, pittura, cucina, danza. Credo che raccogliere oggetti che rappresentino il percorso di queste eccellenze, esporli e fotografarli, possa essere uno stimolo per le nuove generazioni sempre in cerca di modelli positivi», dice Kate sicura.

«Perfetto, credo che i finanziatori non potranno essere che felici nel sentire queste parole», dice l'altro uomo.

«Credo che potremmo procedere a...».

 

La donna dietro la scrivania viene interrotta dall'uomo seduto alla sua destra, il primo che ha parlato. Bisbigliano.

 

«come non detto. Prima di procedere alla stesura del contratto e alla parte burocratica, i finanziatori mi chiedono di domandarle chi è la donna che l'accompagna, Signorina Husher. Vogliono sapere che ruolo ha e perché è presente», dice la donna dietro la scrivania con voce neutra.

 

Kate si gira di scatto, mi fissa con l'aria stranita. 

Credo che neanche lei si aspettasse una cosa del genere.

 

«Mi chiamo Elena Voli. Sono un'amica di Kate Husher e sono qui solo per supporto. Non ho nessun ruolo all'interno del progetto. Conoscevo Demetra McArthur abbastanza bene da spingere Kate a creare questo progetto per onorare il ricordo della donna speciale, della cantante d'Opera che ho conosciuto molti anni fa. Demetra è stata come una seconda madre per me. Tutto qui», dico con semplicità.

 

Silenzio.

I tre dietro la scrivania parlottano.

Kate gira avanti e indietro la testa con l'aria confusa.

Io non so che fare, spero di non aver rovinato tutto.

 

«Gentilissima Elena Voli, i finanziatori vorrebbero chiarire il suo ruolo all'interno di questo progetto. Quando si tratta di soldi è sempre meglio sapere con chi si a che fare. Non hanno nulla contro di lei, vogliono solo conoscerla meglio», dice sempre la donna con voce ferma.

«Se questo dovesse servire per rendere possibile la realizzazione della mostra farò il possibile. Che debbo fare?». Mi avvicino a Kate appoggiandole la mano sulla spalla per tranquillizzarla, sta tremando come una foglia.

«Se non le dispiace potete attendere nel salottino all'ingresso. Prepareremo la sala per un colloquio più personale tra lei e i finanziatori», dice uno dei due uomini.

 

Kate si alza di scatto e mi prende per mano.

Insieme percorriamo il corridoio con i ritagli di giornale per poi ritrovarci in un piccolo salotto proprio di fronte alla postazione della segretaria con i capelli rossi rame.

 

«Che significa? Che devo fare?», chiedo preoccupata a Kate lasciando libere le emozioni che mi vorticano dentro.

«Devi essere te stessa. No. No. La versione migliore di te stessa. Ricordati che non devi mentire. Cioè, se serve menti. Non in modo plateale... insomma cerca di controllarti e non andare nel panico». Kate spara parole a raffica.

«Non andare nel panico come sei tu adesso?».

«No. Cioè, sì. In poche parole sii naturale, evita di cedere alle provocazioni e porta molto rispetto. Ci servono quei soldi», dice Kate.

«Ok. Ok. Ok», ripeto più volte cercando di auto convincermi che farò bella figura.

«Quattordici anni fa l'ho sostenuto pure io. Ti tartassano di domande, ma alla fine lo fanno solo per capire chi di trovano davanti. Non farti spaventare... non troppo almeno», mi dice mentre mi scuote per le spalle.

«Capito. Chiaro. Ricev...». Mi interrompo.

 

Vibrazione nella tasca, prendo il cellulare.

Ho ricevuto un messaggio.

È Nik: Ho nuovi audio da farti sentire. Appena puoi vieni nel mio ufficio. Baci, Nik.

 

No.

Adesso no.

Questo messaggio mi confonde ancora di più.

 

«Tutto chiaro, Elena? Adesso vai dai quei due vecchi ricconi e convincili, stregali, ammaliali», mi dice Kate incitandomi.

 

Trattenendo il fiato seguo la segretaria che con eleganza mi fa cenno di seguirla.

 

Ho paura di sbagliare.

Ho paura di rovinare tutto.

Un miliardo di pensieri mi vorticano nella testa. 

 

Devo dare il giusto peso alle cose.

Adesso Kate ha bisogno di me.

 

Prendo il cellulare in tasca e rispondo al messaggio di Nik: Oggi ho da fare, ci vediamo domani nel tuo ufficio. 

Lo spengo.

 

Poi entro nella lunga stanza bianca, mi siedo sulla sedia su cui prima c'era Kate e aspetto.

 

 

... continua nel prossimo capitolo...

 

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Capitolo 19
*** OGGI: Una voce che credevo dimenticata ***


OGGI:
Una voce che credevo dimenticata





... inizia nel capitolo precedente...

 

Nella lunga stanza bianca non c'è nessuno. La donna e i due uomini seduti dietro la scrivania non ci sono più, la luce è sempre soffusa, un lieve ronzio aleggia nell'aria. 

Picchietto le dita sulle gambe in attesa di capire cosa succederà. Kate è stata vaga sul suo colloquio di molti anni fa, non abbiamo avuto molto tempo di parlare. A quanto ho capito i finanziatori sono persone molto circospette che prestano molta attenzione a coloro a cui finanziano i progetti. Non ho idea di cosa aspettarmi, ma non voglio rovinare la mostra di Kate.

 

Un bip arriva da un punto indefinito.

Un cursore color verde lampeggia nella parete di fronte alla mia proprio sulla parete bianca dietro la scrivania vuota.

Fisso il puntino luminoso cercando di capire di cosa si tratti, mi alzo muovendomi con attenzione. Un passo alla volta. 

Poi.

Delle lettere compaiono in successione, una dopo l'altra.

Di scatto mi giro verso la parete opposta, un sottile filo di luce verdognolo taglia l'aria. Minuscole particelle di polvere che fluttuano nell'aria lo attraversano dandogli consistenza. Un proiettore è accesso, da lì arriva il ronzio che sento.

 

Qualcuno sta scrivendo.

Qualcuno sta scrivendo a me e il testo lo leggo sul muro.

 

'Buongiorno Signorina Voli. Scusi per il metodo con cui la contatto, 

ma l'anonimato è fondamentale. 

Avere molti soldi mi rende un bersaglio appetibile e troppo spesso la generosità con cui finanzio progetti è fraintesa: non mantengo nessuno, 

ma do la possibilità alle buone idee di prendere vita'.

 

Queste sono le parole che leggo sulla parete bianca difronte a me.

È ridicolo.

Sembra di stare in un film di 007.

 

La frase proiettata sulla parete si cancella.

Escono parole nuove.

 

'È spaesata? Perché continua a guardarsi intorno?'

 

Mi blocco.

A passi molto lenti mi avvicino alla sedia su cui ero seduta senza smettere di lanciare occhiatacce in giro.

 

'Guardi che può parlare. È in video conferenza, io la vedo benissimo.'

 

«Non crede sia un tantino bizzarro fare in questo modo? Non potrebbe parlarmi a faccia a faccia? Non ho intenzione di spillarle soldi, né a lei e nemmeno a sua moglie, rubare il vostro tempo o infastidirvi. Credo sia semplice cortesia». Cerco di moderare i termini, ma è talmente assurda questa situazione che mi sento molto a disagio. Per prima cosa non so con chi stia parlando e secondo non ho idea di dove debba guardare. 

Mi sento ridicola.

 

'Non sono un bellezza, non perde nulla nel non vedere il mio volto. 

Sto tutelando la mia famiglia, tutto qui. 

La gente che frequento di solito non apprezzerebbe tutto questo mio impegno in progetti, a loro avviso, futili e senza fini di lucro.'

 

«Quindi ha paura di quello che pensano gli altri? Dei pettegolezzi?», chiedo sfacciatamente maledicendomi per la mia impertinenza.

 

Il cursore verde lampeggia un po'. 

Spero di non averlo offeso.

 

'Non mi dica che non tocca quello che pensano gli altri di lei. Non ci credo. 

Tutti sono influenzati dalle opinioni altrui. 

Immagino che adesso lei si stia contenendo per fare in modo che la mostra della Signorina Husher prenda vita. 

In un certo senso è come se mi stesse mentendo per paura di offendermi.'

 

Questo tizio è troppo paranoico, non ho idea cosa gli sia capitato nella vita, ma deve imparare a rilassarsi un po'.

 

«Senta, io non sono brava a fingere. Sono un libro aperto. Sono testarda, impulsiva e mi lascio trasportare dalle sensazioni che provo. Sempre. Le assicuro che ho fatto la mia scorta di pettegolezzi e drammi durante le scuole superiori dove frequentavo gente con i soldi e cognomi importanti. Non mi è mai importato nulla di possedere oggetti firmati, macchine di lusso o cose simili. Sono qui per Kate e Demetra, solo per quello. Voglio rendere onore a una donna meravigliosa e a un'amica che per anni ho perso di vista», dico ad alta voce girando su me stessa cercando di capire dove cavolo debba guardare per farmi ascoltare al meglio.

 

Il cursore verde lampeggia.

 

'Ha appena detto che ha perso di vista la Signorina Husher per anni. 

Come mai adesso è qui? Mi sembra un po' strano'.

 

«È una storia lunga, talmente lunga che la farei addormentare se gliela raccontassi. Le basti sapere che ho spezzato il cuore a Kate per un errore commesso molti anni fa, ho trovato il coraggio di chiederle scusa e adesso voglio fare di tutto pur di renderla felice». Parlo con impeto, con passione. Voglio che quello strambo riccone con la mania del controllo accetti di finanziare la mostra.

 

'Non sono abituato a essere trattato in questo modo. 

...

Di solito gli artisti che vengono da noi sono docili. 

Lei mi sembra molto diretta. 

È sempre stata così? Per quel che conosco la

Signorina Husher mi sembra molto diversa da lei'.

 

Nella mente mi scorrono le immagini delle avventure passate con Kate, di tutte le risate fatte insieme, di come siamo diverse, ma perfettamente compatibili. Delle serate passate a chiacchierare del nulla, dei silenzi gonfi d'amore e delle sue parole in grado di farmi stare meglio. Di come mi ha aiutata quando mamma è morta, di quando al Trinity mi è stata vicina anche se stavo sbagliando. 

Come faccio a spiegare a un tizio che ha paura di se stesso, che ha timore a mostrare il proprio volto, che si nasconde dietro a una tastiera e che in più di quattordici anni non si è mai fatto vedere da nessuno, come faccio a una persona così a spiegargli cos'è l'amore?

 

«Senta, ho avuto la fortuna di conoscere l'amore, l'amicizia, l'affetto. Lei sa cosa sono queste cose?». Ho me mani sui fianchi e parlo direttamente alla proiezione sulla parete.

 

Il cursore verde lampeggia, non risponde.

 

Non mi importa di esagerare. È ridicolo che quel tizio provi a psicanalizzarmi mentre mi spia da uno schermo come fosse un ratto nascosto nella tana.

 

«Mia madre mi ha insegnato ad amare, mi ha fatto capire che l'amore vince su tutto. Vince su quattordici anni di distanza. Sconfigge il dolore e l'incomprensione. Ci ho messo un po' a capirlo, ma alla fine ci sono arrivata. Non ho mai mentito riguardo i miei sentimenti verso le persone della mia vita a cui ho voluto bene. Lo stesso con Kate. Sì, abbiamo litigato. Sì, siamo state separate. È l'adesso che conta. Kate vuole fare questa mostra più di qualsiasi altra cosa e io voglio aiutarla a ottenere questa possibilità perché è l'unica che può raccontare la vita di donne straordinarie attraverso le sue foto». Mi sembra di essere in un comizio nel momento esatto in cui la folla viene incitata.

 

Il cursore verde lampeggia.

 

«Perché... Perché non dice nulla?», dico con un tono un po' più alto della media.

 

Il cursore lampeggia, poi delle lettere cominciano a scorrere rapide.

 

'Il suo modo di fare mi ricorda una persona che ho amato molto tempo fa.

Mi sembra di rivederla, è come se l'avessi qui davanti agli occhi'.

 

Arrossisco leggermente, non mi sarei aspettata una risposta simile, ma del resto tutta questa situazione è paradossale: «Se quindi conosce questo sentimento può immaginare cosa io provi per la mia migliore amica. Non rinunci a questo progetto, non rinunci alla mostra perché ho la lingua lunga o maniere poco formali». 

 

'Secondo lei potrei mai rinunciare a qualcosa che desiderio venga realizzata più di ogni altra cosa?'.

 

Sono disorientata.

Prima sembrava che non volesse finanziare il progetto, mentre adesso sembra che la cosa gli interessi parecchio: «Io non capisco, ma...», provo a dirgli.

 

'Aspetti un attimo'

 

Per una manciata di secondi nessuna altra lettera compare sulla parete di fronte a me. In piedi, nella penombra, con le mani conserte osservo il cursore lampeggiare. Secondi in cui cerco di interpretare quello che mi sta succedendo, l'assurda situazione che sto vivendo.

 

D'improvviso un video parte. 

La musica e l'audio sono di bassa qualità, sembra un video vecchio, di molti anni fa fatto con una videocamera amatoriale.

Per un attimo non metto a fuoco cosa viene proiettato sulla parete, le increspature del muro rendono l'immagine leggermente deformata.

 

Solo un battito di cuore per capire cosa sta risuonando per la stanza.

Solo un battito di ciglia per focalizzare l'attenzione sulle immagini.

 

Demetra.

Demetra che canta.

È un video di Demetra da giovane che canta un'aria su un palco. Indossa un lungo abito verde, ha i capelli raccolti. Posso distinguere il volto dolce della donna, i lineamenti fini e gli occhi chiari, impossibili da dimenticare. I movimenti delicati e i sorrisi sinceri, piccoli particolari che riportano alla memoria ciò che ho conosciuto di Demetra e gli ultimi attimi in cui ho sentito la sua voce.

 

Un magone parte dalla base dello stomaco.

Non ho mai posseduto nessun video dove lei cantasse, il suono della sua voce mi riporta a quando sedicenne studiavo a casa della Signora McArthur, a quando la aiutavo a correggere la pronuncia, a quando James era lì vicino a me facendomi sentire perfetta.

Un amore immaturo capace però di colmare il vuoto che sentivo.

Un vuoto reso meno doloroso grazie alla dolcezza di Demetra.

Una dolcezza spentasi troppo presto.

 

Piango.

Con le mani sul volto cerco di nascondere ciò che non riesco a controllare.

Non voglio che il finanziatore spii la mia reazione, non sono una cavia da laboratorio, un animale da sezionare e torturare. 

Se lui non vuol farsi vedere, io non voglio fargli vedere ciò che provo.

 

La voce di Demetra sfuma. Le note si affievoliscono. L'audio è finito, lascia spazio al ronzio del proiettore e a nient'altro.

 

Con le mani ancora sul volto sbircio la parete bianca.

Il cursore verde è ritornato.

Delle lettere escono una dopo l'altra.

 

'L'ho amata molto. Anche lei mi ha amato.

Secondo lei potrei rinunciare a una mostra che celebri un tale talento?'

 

«Io... io...». Non so che pensare, non credevo che Demetra potesse avere un amante o un corteggiatore segreto. L'ho immaginata fedele a George, innamorata e felice.

 

'Io accetto di finanziare il progetto solo se lei mi promette una cosa'

 

«Mi dica», gli chiedo mentre mi asciugo i residui di lacrime sulle guance confusa più che mai.

 

'Vorrei che mi raccontasse di Demetra, vorrei che parlassimo di lei. 

Vorrei poterla ricordare con maggiore accuratezza. A volte mi sembra che il tempo cancelli ciò che è stato, man mano il tempo passa mi accorgo che tendo a dimenticare. Non voglio dimenticare quando ho amato, vorrei poterlo sentire ancora. 

Solo per qualche minuto».

 

«Non so se... non credo sia una buona idea. Lei ha una famiglia da proteggere e...», tentenno non so che fare.

 

'Sono una persona sola che cerca di afferrare ricordi che scivolano tra le dita. 

Voglio fermare il tempo nell'esatto istante in cui il mio cuore e la mia mente mi regalano l'immagine di una delle donne che io abbia più amato nella ma vita. 

Voglio solo un po' del suo tempo, Signorina Voli, tutto qui'.

 

Le parole proiettate sulla parete mi sembrano una supplica. Una richiesta di un uomo che fugge da una realtà che lo ha stancato e cerca sollievo in ciò che ha vissuto in gioventù, da giovane.

Mi fa un'immensa tristezza la sua solitudine.

Mi dispiace percepire la sua disperazione.

 

«Va bene, verrò a trovarla a patto che finanzi il progetto di Kate. Io sarò me stessa, quindi non si aspetti una persona docile. Non ho problemi a dire quello che penso», dico con decisione mentre sventolo l'indice in aria.

 

'Troverà le carte firmate dalla segretaria all'ingresso, la mostra di farà... un'ultima cosa, Signorina Voli... io desidero che lei sia se stessa, non mi aspetterei niente di diverso da un tipo come lei».

 

Il cursore verde sparisce.

Il ronzio cessa.

 

Kate ha la sua mostra ed io ho preso un impegno che mi porterà a ricordare ciò che è stato, spero solo che i ricordi non facciano troppo male. 

 

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Capitolo 20
*** OGGI: Il primo giorno ***


OGGI:
Il primo giorno





«Vuoi ancora del latte?», chiede Kate a Seb.

Il piccolo con le labbra sporche di schiuma fa cenno di no mentre addenta una fetta di crostata ai mirtilli.

«Grazie per averci offerto la colazione, ogni tanto è bello viziarsi», dico alla mia amica mentre sorseggio con calma la mia tazza di tè.

«Mammfa dovremmffo ffarlfo pfiù spfeffsso». Sebastian è incomprensibile con la bocca piena, ma riesce a strapparmi un sorriso tra uno sputacchio e l'altro.

«Quando vuoi. La zia Kate è pronta ad esaudire ogni tuo desiderio», gli dice mentre infila le dita tra i ricci di mio figlio. «Questa colazione è perché tua mamma è riuscita a convincere una persona a realizzare una mostra. Io devo scattare molte foto. Non potrei chiedere di meglio».

Seb mi sorride, ha i denti pieni di marmellata ai mirtilli.

«Bastava un semplice, grazie», dico a Kate mentre inzuppo un biscotto al burro nel tè bollente.

«Sorbirti le chiacchiere di un vecchio spasimante di Demetra non mi sembra proprio il massimo. Al mio colloquio, più di dieci anni fa, ho dovuto compilare un test. Rispondere a delle domande scritte. Più o meno quello che è successo a te, solo senza l'ausilio della tecnologia. Una solfa interminabile. Perché fai questo viaggio. Perché vuoi andare lì. Cosa ti spinge a fare foto. Come hai iniziato. La finanziatrice mi ha dato i fondi per girare il sud est asiatico e fare le foto necessarie per la mia prima mostra. Da allora non mi hanno più chiesto nulla di personale, però mi hanno sempre sostenuta in ogni mio progetto, son come i miei angeli custodi». Kate parla mentre cerca di raccogliere i pochi granelli di zucchero rimasti sul fondo della tazzina di caffè.

«Credo che il finanziatore sia rimasto turbato dal soggetto della mostra, del resto come ti sentiresti se volessi organizzare un evento e come portata principale ti venissero proposti i dolci di Jane? Non ti sembrerebbe bizzarra la coincidenza? Penseresti che si tratti di qualcosa di strano, no?».

Kate scrolla le spalle: «Può darsi. Non so. Del resto non mi importa molto, sei tu che devi sorbirti i racconti lacrimevoli di un vecchio riccone rimbambito».

«Chi è rimbambito?», chiede Sebastian riemergendo dalla sua tazza di latte.

«Un amico della zia. Un vecchio amico un po' strano», dico al mio piccolo mentre lo pulisco dalle briciole appiccicate sul volto.

Kate ridacchia.

«Adesso porto alla scuola materna questo golosone, poi vado in centro per quel lavoro che avevo in sospeso». Anche se non lo dico esplicitamente mi sto riferendo a Nik e agli audio che devo sentire e tradurre.

Kate mi bacia sulle guance: «Ci sentiamo stasera. Jane voleva organizzare una cena. Ti faccio sapere tutto più tardi».

«Ok. A dopo», le dico mentre infagotto Sebastian con una grande sciarpa e cappello di lana.

 

Il locale è talmente pieno che devo fare lo slalom per uscire senza rovesciare tazze di avventori o tamponare tavolini affollati. Sebastian mi sta appiccicato muovendosi a piccoli passi con la paura di venire sommerso.

 

«Elena. Elena». Kate urla dall'altra parte del locale. Sembra impazzita, soprattutto perché non riesco a capire nulla di quello che dice, gesticola e si agita, ma i suoni arrivano distorti.

 

Prendo il cellulare dalla borsa e lo agito verso l'alto. Spero capisca cosa in mente, non posso restare un minuto di più lì dentro, il mio piccolo rischia di venire schiacciato dalla folla. 

 

Neanche dieci secondi e il mio telefonino trilla.

Rispondo però solo dopo aver messo piede in strada, all'aperto.

 

«Scusa Elena. Mi ero dimenticata di chiederti una cosa», mi dice Kate cercando ti sovrastare il vocio del locale.

«Era una cosa così urgente da non poter aspettare?», le rispondo mentre cammino verso la scuola di Sebastian tenendo ben stretta la mano del piccolo.

«No. Ho aspettato fin troppo... ecco... vuoi essere la nostra damigella d'onore? Insomma, quella che si occupa di aiutare la sposa a scegliere e organizzare tutto? In questo caso siamo due spose, ma... ecco... aiutarci a scegliere i vestiti, addobbi floreali e cose così. Non abbiamo molto tempo. Molte cose le segue Jane, altre io, ma per certe cose non siamo portate. Siamo nel panico».

«Io non so nulla di matrimoni. Non sono neanche sposata e a dirla tutta sono andata a poche cerimonie. Non so se...».

Kate mi interrompe.

«Ti prego. Ti prego. Ti prego. Ti prego. Ti prego», mi dice con tono lagnoso e divertito allo stesso tempo.

Ci penso in attimo, quel tanto che basta per capire che Kate non me lo chiederebbe se non avesse bisogno di aiuto. «Ok. A patto che come damigella non debba indossare un vestito di tulle rosa pieno di fiocchetti».

«A dire il vero pensavo più al lilla. Credo ti donerebbero tutti quegli strati voluminosi e fruscianti», dice ridendo.

«Sei fortunata che Seb sia qui con me, altrimenti ti avrei detto le peggio cose, cara simpaticoni».

«Ti voglio bene», mi dice.

«Pure io, rompiscatole che sei altro».

 

Sebastian mi guarda divertito, sa benissimo che quando faccio così con Kate è perché stiamo giocando. Si è abituato presto a vederla gironzolare per casa insieme a Jane, come sentire al telefono nonno Bruno, Tess, Maggie e nonna Geltry.

È felice di avere una famiglia che lo ama e lo segue, non che il mio affetto sia poco, ma di certo non gli basta. Purtroppo Sebastian vede troppo poco suo padre, la lontananza fa soffrire il mio piccolo, anche se non vuole dimostrarlo, e sentire tante persone che gli vogliono bene lo rende più sicuro e sereno.

 

Dopo un grande abbraccio, baci e sorrisi sinceri, lascio Sebastian a scuola a giocare con i suoi amici e ascoltare storie o canzoni dalle maestre. Mi sento sicura quando è con altri bimbi, mi piace il fatto che si diverta e passi un po' di tempo con suoi coetanei.

Lo osservo correre verso un gruppo di bimbi, i suoi ricci ondeggiano ribelli, i suoi occhi sono pieni di energia vitale. È bellissimo, lo amo da impazzire.

 

Adesso basta perdersi in pensieri e fantasie.

La realtà reclama il suo spazio.

Lo studio McArthur, Martin & Spencer mi aspetta.

 

Prendo la linea B della metropolitana, in poche fermate raggiungo il centro. Non ho molta voglia di andare ad ascoltare le registrazioni di Nik, ho parecchie cose da fare nel mio ufficio, ma non posso tirarmi indietro, non sarebbe giusto.

A testa china seguo il magma di impiegati rampanti che raggiungono gli uffici. Tacchi, valigette in pelle, orli di cappotti blu e neri, sono l'unica cosa che vedo, sono l'unica cosa che attira la mia attenzione. Quello è un mondo che non mi appartiene e a cui io non voglio fare parte, quello in cui non voglio entrare. Mi sento così distante da tutta quella frenesia, come se fossi in un universo parallelo rinchiusa in una bolla fatta di nulla.

 

Asfalto.

Gambe che si muovono.

Marciapiede.

Piedi che aspettano di attraversare.

Gradini in pietra.

Rumori di suole in cuoio che scalpitano.

Pavimento in marmo.

 

Sono all'ingresso del palazzo dove risiede lo studio legale.

Mi dirigo agli ascensori, una piccola fila ben ordinata ne riempie uno per poi partire rapido ai piani superiori.

Faccio un paio di passi e mi ritrovo davanti alla porta chiusa di un ascensore.

Schiaccio la freccia verso l'alto.

 

Aspetto.

Aspetto mentre guardo la punta degli stivaletti che indosso.

Aspetto senza pensare a nulla nello specifico.

Aspetto senza smettere di guardare in basso, lontana da tutto ciò che mi circonda.

 

Dlin. Dlon.

La porta scorrevole si apre.

 

Prima di raggiungere l'angolo più lontano dall'entrata prenoto la mia fermata: venticinquesimo piano. Il resto delle persone fa lo stesso posizionandosi con calma uno di fianco all'altro, io mi ritrovo in fondo con la schiena appoggiata ad un grande specchio con la schiena di uno sconosciuto di fronte a me.

 

Poi.

Un profumo di muschio e vaniglia. Una nota dolce e semplice allo stesso tempo. Un profumo buono e gustoso, famigliare e avvolgente. Note fresche e calde allo stesso tempo, senza asprezza o note pungenti. Un profumo capace di farmi vacillare, di svegliarmi dal torpore in cui sono caduta.

 

Abbracci.

Occhi verdi.

Baci.

Labbra carnose.

Carezze.

Mani ansiose.

 

Immagini sepolte nella memoria saltano fuori all'improvviso, inaspettatamente.

Battito di cuore accelerato. Salivazione azzerata. Sensi in allerta.

 

James.

Questo è il profumo di James.

 

Senza alzare la testa sento la mia pelle cambiare colore più volte.

Un profumo tanto buono muove sensazioni assopite.

 

«Credo sia destino incontrarci qui. Forse dovresti prendere le scale la prossima volta, mi infastidisce vederti», mi dice James a bassa voce e con tono sprezzante.

«Non sono qui per te. Devo aiutare Nik per un lavoro», gli rispondo acida.

«Da quando in qua uno degli avvocati migliori di Boston ha bisogno che la sua fidanzata lo aiuti? Certi lavoretti sarebbe meglio farli a casa, in camera da letto. Non trovi?». 

 

Infuriata mi giro di scatto verso di lui pronta a distruggerlo, quando James mi interrompe prontamente.

 

«Niente urla, sceneggiate o altro. Non siamo nei corridoi del Trinity, ma siamo in uno stimatissimo palazzo pieno di uffici prestigiosi. Certe cose qui non si fanno», dice James fissandomi negli occhi.

«Non dirmi cosa fare e cosa non fare. Hai detto bene, non siamo a scuola quindi tu non sei padrone di niente e nessuno. Io faccio ciò che mi pare e piace, non ho bisogno della tua approvazione. Se ti ho detto che devo aiutare Nik per un lavoro, vuol dire che devo aiutare a Nik per un lavoro. Punto. Fine. È la verità». 

 

Siamo uno di fronte l'altra e nonostante cerchiamo di tenere il tono di voce bassa tutte le persone presenti dell'ascensore si continuano a girare a guardarci.

 

«Il Professore ha bisogno di un servizietto della sua alunna preferita? Dimmi, quanto ci hai messo per portartelo a letto? Prima o dopo avermi confessato, al ballo di fine anno, che te la intendevi con lui? Sei solo una bugiarda, hai sempre mentito a tutti». James stringe le mascelle, pare rabbioso.

 

Elena, calma.

Elena, calma.

 

Prendo un bel respiro.

Non posso cedere alle sue provocazioni.

Non voglio dargliela vinta.

Non voglio che di senta padrone delle mie emozioni.

 

«Qual è il problema? Paura del confronto con lui? Non ti senti all'altezza?», gli dico con una smorfia divertita e da vera stronza

 

Ecco.

Forse non dovevo dire una cosa del genere.

No.

No.

Forse ho un po' esagerato.

 

James mi guarda con la bocca spalancata, credo che neanche lui si aspettasse un'uscita del genere. Certe cose le avrebbe dette Rebecca o Andrew, non io.

Cavolo, ma perché quando sono nelle vicinanze di uno di loro regredisco a livello di adolescente insopportabile?

 

Dlin. Dlon.

L'ascensore è arrivato al venticinquesimo piano.

 

James esce senza dire nulla, ha il passo veloce.

Io lo seguo attraverso l'atrio cercando di mantenere una certa distanza, le cose sono partite male, non vorrei peggiorarle ulteriormente.

 

«Ciao Elena». Jonathan mi saluta, ha la stessa faccia sorpresa di quando mi ha incontrata la prima volta.

«Ciao». Taglio corto.

«Hei. Fermati. Quanta fretta», mi dice prendendomi a braccetto.

«Scusa devo andare da Nik e...».

«Il tuo fidanzato può aspettare», mi dice sfoggiando un sorriso ampio e sincero.

«Nik ed io non siamo fidanzati, siamo solo amici», dico spiccia.

«Cosa? Ma credevo che voi due foste una coppia e...».

«È una storia lunga e molto complicata». Non ho voglia di spettegolare con lui come facevamo quando eravamo ragazzi. Lui non sa nulla della mia vita e io non so niente della sua.

«Cosa è una storia lunga e molto complicata?». Rebecca spunta da chissà dove con la solita aria infastidita e acida.

«Niente. Nulla. Voglio solo andare da Nik». Stacco con forza il braccio da Jo che mi guarda interdetto. Rebecca mi squadra come se si trovasse un essere deforme davanti agli occhi.

 

Perfetto.

Io sono scappata da New Heaven sperando che le cose negative della mia vita cambiassero e dopo quattordici anni ricasco nelle stesse dinamiche come se lo studio legale fosse il Trinity a Institute, come se io avessi diciassette anni e fossi in competizione con Rebecca e compagnia bella.

 

Iniziamo bene.

 

Ottimo primo giorno, Elena.

Continua così.

 

Respirando a pieni polmoni mi dirigo verso l'ufficio di Nik, sperando che almeno lì possa trovare un po' di pace e tranquillità, sperando di ritrovare lucidità e buon senso.

 

... continua nel prossimo capitolo...

 

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Capitolo 21
*** OGGI: Ascoltare parole ***


OGGI:
Ascoltare parole





... inizia nel capitolo precedente...

 

Caroline è seduta alla sua scrivania, si sta sistemando il rossetto. Non la conosco bene, ma vederla truccata di tutto punto mi fa un certo effetto. La sua corporatura esile e minuta, i capelli a caschetto perfettamente lisci e il trucco da bambolina l'hanno trasformata, non sembra la donna che ho conosciuto qualche settimana fa.

Mi avvicino con passo veloce dato che ho voluto seminare Jo e Rebecca, ho voluto allontanarmi il più possibile da eventuali discussioni o malintesi.

Caroline non mi nota minimamente, è troppo impegnata a guardarsi allo specchio.

 

«Ciao Caroline», dico con un filo di voce cercando di attirare la sua attenzione.

Caroline preme le labbra tra di loro per spalmare uniformemente la tinta rossa prima di rivolgermi la parola. «Ciao Elena», mi dice con un po' troppa euforia. «Qual buon vento ti porta qui?».

 

Sono confusa.

L'ultima volta che l'ho sentita per telefono era preoccupata per Nik, mi aveva parlato con il cuore, come l'avevo conosciuta. Adesso sembra un'altra ragazza.

 

«Ho un appuntamento con Nik. Devo... devo...». 

Vengo interrotta.

«Ah, già. Devi fare quella cosa segreta», dice le ultime parole muovendo in aria le dita come se fossero tra virgolette. «Nik è un po' paranoico ultimamente, mi ha obbligato a fare ricerche e ascoltare le sue strane fissazioni. Credo abbia bisogno di una donna, per fortuna sei arrivata, non ne potevo più». Caroline ridacchia, la voce risuona per tutto il corridoio, molti avvocati si fermano a guardarla.

 

Sono in imbarazzo per lei.

 

«Ti trovo... come dire... diversa». Non saprei che altre parole usare.

«Sì. Ho voluto cambiare il mio look. Ero stanca di sembrare la brutta copia di una zitella. Ho ancora qualche anno prima dei quaranta e non sono per niente male. Perché non dovrei mettere in mostra ciò che possiedo?», mi dice con una certa aggressività.

«Hai fatto bene. L'importante è che tu ti senta bene con te stessa», le dico con sincerità, anche perché l'unica a cui deve rendere conto è se stessa.

«Dovresti vedere gli sguardi dei tirocinanti e di alcuni avvocati», mi sussurra piano, «Mi mangiano con gli occhi, non sono più quella che tutti evitano. Tutti mi vogliono». Caroline si alza in piedi mostrandomi la minigonna che indossa e che mette in risalto le gambe esili e definite. Non c'è che dire, sta molto bene.

«Sei... sei... sei molto provocante». Sono in difficoltà, non so che pensare.

«Del resto non tutte possono permettersi di indossare capi del genere». Caroline mi squadra dall'alto in basso soffermandosi sui miei pantaloni neri attillati e gli stivaletti bassi. 

 

Non sono certo elegante o sensuale, non è il mio stile, ma ho un abbigliamento adeguato al luogo in cui mi trovo: formale e professionale.

 

«Credo sia meglio che io vada da Nik», dico per tagliare corto. Non ho voglia di inimicarmi nessuno, tantomeno la segretaria di un mio amico che, a quanto pare, sembra soffrire di personalità multipla.

«Certo, vai pure. Mi trovi qui o a bere un caffè nella saletta con qualche nuovo amico», mi dice con aria indifferente.

 

Lascio Caroline ad occuparsi delle sue ciglia finte mentre entro nell'ufficio di Nik. Lo trovo impegnato a leggere dei fogli, è così concentrato che neanche si accorge di me.

Lo osservo per qualche secondo.

È il solito caro Nik che conosco da sempre.

Impegno, dedizione e passione.

Non ha paura di faticare per ottenere ciò che vuole, non ha paura di lavorare. Ogni suo gesto, ogni suo movimento è carico di significato, sa quello che fa. 

 

Non credevo mi fosse mancato tanto, solo adesso mi rendo conto del vuoto che ho da quando non ci frequentiamo più.

 

«Ciao», sussurro.

Nik sobbalza dalla sedia, non credo si aspettasse di trovarmi lì.

«Scusa, non ti ho sentita entrare. Non mi ha avvisato Carolin... lasciamo perdere Caroline, sembra impazzita ultimamente. Del resto tutto sta andando a rotoli, ci mancava solo la sua nuova fissa per la moda». Nik agita le mani come se parlasse di cose astratte.

«Devi ammettere che sta meglio, il trucco è un po' eccessivo, ma...».

Nik mi interrompe.

«Sta meglio? Una persona che si spalma due tonnellate di trucco in faccia non sta bene. Vuole nascondersi, indossare una maschera... stupidaggini... ma cambiamo discorso. Tu come stai? Il piccolo Seb?». Nik mi viene incontro abbracciandomi stretta. Affondo la testa nel suo petto assaporando la dolcezza e la forza delle sue braccia. Le mani di Nik sfiorano le mie spalle per poi posizionarsi solide sui miei fianchi.

 

Ho il cuore che batte forte.

 

«Sta bene. Stiamo bene. Sono successe molte cose, come ti ho già accennato per telefono. Ti basti sapere che ho riallacciato i rapporti con mio padre, Tess e ho conosciuto Maggie, mia sorella».

«Sono fiero di te. È la cosa più giusta, l'unica cosa che tu potessi fare», mi dice mentre mi massaggia le braccia.

«Cosa che tu avevi già in programma di farmi fare, fare pace con papà, intendo. Non è così?», gli dico maliziosa.

«Era uno dei miei obiettivi. Farti ricucire i rapporti con Bruno era una priorità, scommetto che sarei riuscito a convincerti prima o poi», mi dice ridendo.

«È quali altri obiettivi avevi in mente per me?».

«Hmm... adesso come adesso il mio scopo è ricostruire ciò che ho rotto. Purtroppo la gelosia gioca brutti scherzi ed io ho oltrepassato la soglia consentita. Se poi le cose riprenderanno tra di noi ho un paio di idee piuttosto carine che potremmo sviluppare insieme». Nik mi bacia la fronte poi mi accarezza le guance con il dorso della mano.

 

Mi sto sciogliendo.

È da settimane che non lo vedo, non ho avuto problemi a stare lontana da lui, eppure adesso sento l'impellente bisogno di baciarlo.

 

Maledetti ormoni.

 

«C-credo sia meglio concentrarci sugli audio che volevi farmi sentire», gli dico mentre con eleganza mi allontano dai suoi abbracci per sedermi sulla sedia di fronte alla scrivania.

«Eccoli». Nik mi passa tre chiavette USB che tiene in tasca.

«Devo ascoltare queste tre registrazioni?», gli chiedo prendendole in mano.

Nik arrossisce. «Diciamo che sono un pochino più di tre».

 

Quella faccia non mi piace, non mi piace per niente.

 

«Dimmi immediatamente quante sono le registrazioni». Sono un po' spaventata, credevo si sarebbe trattato di un lavoro semplice, un paio di pomeriggi al massimo tre.

Nik tentenna, incrocia le dita delle mani mentre si morde le labbra.

«Nik? Quante registrazioni sono?», richiedo con più insistenza.

«Tante. Ti basti sapere che sono tante», mi dice serio.

«Ma sei impazzito? Non posso passare i prossimi mesi a sentire le vostre conversazioni. Ho un lavoro che mi permette di vivere e che non posso abbandonare». Sbatto le mani sul tavolo, non posso credere che mi voglia incastrare in questo modo.

«Lo so. Lo so. Devo... voglio solo capire che sta succedendo, ok? L'affare procede bene, sembrano tutti felici e contenti, eppure... non mi fido di quei due. Tutti quei soldi. La loro pacatezza. Non ha senso». Un'ombra cupa cala sul volto di Nik rattristandolo.

 

Detesto quando fa il vago.

Nik non è mai vago, se si comporta così vuol dire che sta macchinando qualcosa.

 

«Cosa diavolo hai in mente? Non me la racconti giusta. Cosa vuoi? Vai dritto al sodo, non ho tempo da perdere», gli chiedo fuori dai denti, diretta ed esplicita.

«Voglio che tu inizi a lavorare per me. Un paio di mesi, forse tre, a libro paga dello studio legale. Assistenza sanitaria, convenzione odontoiatrica, contributi pagati. Tutto ciò che un dipendente desidera in un contratto».

«Ma stai scherzando? Non posso... io... come faccio?». Credo che Nik si sia bevuto il cervello, non posso mollare i miei progetti per assecondarlo nelle sue farneticazioni e idee malate.

«Sei una libera professionista, puoi dire al tuo capo che ti prendi un paio di mesi di riposo o che vai in vacanza. Ho bisogno di te, della tua lucidità e della tua capacità di capire l'italiano», mi dice con decisione. 

 

Nik non ammette un no come replica. Lo capisco da come mi guarda, lo capisco dal fuoco che arde nei suoi occhi. Non molla la presa, non lo farà mai. Quando Nik vuole una cosa non c'è nulla che possa fermarlo, va dritto per la sua strada senza fermarsi mai, senza aver paura degli ostacoli o delle difficoltà.

 

«Non è facile. Sto aspettando in questi giorni il nuovo materiale direttamente dalla Spagna. Non posso mollarli in questo momento. I clienti Americani stanno aumentando e...».

Nik mi interrompe.

«Oltre allo stipendio ti darò un bonus da quindicimila dollari a prescindere se scoprirai qualcosa o meno. Pensaci bene, con due stipendi molto generosi più tutti quei soldi metteresti da parte un bel gruzzolo per gli studi di Sebastian. Qui in America l'istruzione migliore costa parecchi soldi», mi dice con un sorrisetto diabolico stampato in faccia.

 

Lo detesto.

Nik sa benissimo che non navigo nell'oro e che ogni dollaro che guadagno lo uso per rendere la vita di Sebastian il più semplice possibile. Certo, non posso permettermi una macchina o di portare il mio piccolo al ristorante tutte le settimane, ma quel poco che abbiamo ci basta.

Mi aletta la sua proposta, ma non vorrei incastrarmi in una cosa più grande di me. Non ho voglia di grane e grattacapi, non ho voglia di mettermi nei guai, ma tutti quei soldi potrei investirli in un fondo per Sebastian. Tra quindici anni, se mio figlio vorrà andare al College, potrà usare gli interessi maturati da quei quindicimila dollari. Non saranno molti, ma potranno aiutarlo almeno un po'.

 

«Se io dovessi accettare, parlo ipoteticamente, in cosa consisterebbe il mio lavoro? Non credo che tutti quei soldi giustifichino un impegno così semplice come ascoltare delle registrazioni». Guardo di traverso Nik per cercare di interpretarlo, sembra una sfinge.

«Ipoteticamente parlando, si tratterebbe di seguire i due imprenditori italiani, acquisire informazioni, oltre che ascoltare ogni loro singola parola. Essere la loro ombra senza farsi beccare», mi spiega con aria furba.

«Ma non potevi rivolgerti ad un investigatore privato? Non credo di essere capace a fare quello che mi chiedi».

 

Non mi ci vedo con impermeabile e lente di ingrandimento.

No.

Non sono capace.

 

«Elena, non mi fido di nessuno. Nessuno. Il mio istinto dice che c'è qualcosa che non va. È come se quei due recitassero una parte, come se aspettassero il momento giusto per affondare i denti nel collo della preda. Nemmeno Caroline mi ascolta... dice che... ho provato a chiedere il suo aiuto, ma è così cambiata che non sembra nemmeno più la stessa. Ho bisogno di qualcuno che non sia legato allo studio e alle dinamiche presenti qui». Nik si è messo di fronte a me. Mi fissa.

«Questa storia è ridicola», dico alzandomi in piedi e camminando avanti e indietro cercando di capire cosa fare. «E come giustificheresti il mio lavoro ai tuoi soci? Cosa dovrei fare, trasferirmi qui da te a lavorare?». Alzo le spalle confusa, non sono brava a tenere i segreti e soprattutto non voglio mentire.

Nik mi blocca. Con un gesto lento e misurato sistema dietro l'orecchio una ciocca di capelli. «Potremmo fingere di essere ancora una coppia. Potremmo dire che mi stai traducendo dei testi dall'italiano che mi servono per una conferenza che devo tenere tra qualche mese a New York. Un piacere che la mia fidanzata sta facendo a me».

«Dovrei mentire doppiamente? Sia per quanto riguarda il lavoro e per quello che siamo noi... noi...», chiedo con un filo di voce.

«Che fai, accetti il lavoro?», bisbiglia con delicatezza nel mio orecchio. Sento il respiro accelerato di Nik farsi più intenso.

«Credo sarebbe una pessima idea. Pessima... pessima...». Il cuore batte talmente forte che ho paura esca dal petto.

«Domani avrai il contratto», mi dice tra un sussurro e l'altro mentre le sue labbra giocano con il lobo del mio orecchio.

 

Non ho parole.

Ansimo al suo tocco.

 

Nik infila le mani tra i capelli afferrando la mia nuca, con l'altra mano spinge il mio corpo verso il suo. Io, con le mani a penzoloni nel vuoto, mi lascio guidare. Non oppongo resistenza, lo lascio fare perché è quello che voglio. 

Nik mi bacia il collo, mi muove la testa come fossi una marionetta nelle sue mani, mi morde le labbra per poi baciarmi come faceva ogni qual volta avevamo voglia di stare insieme. 

 

La pelle liscia del volto di Nik scivola sulla mia.

Il mio corpo si incastra perfettamente al suo.

L'azzurro degli occhi di Nik mi confonde.

Un profumo diverso.

Bacio Nik.

Un profumo diverso scatena ricordi lontani.

Abbraccio Nik.

Il ricordo di un profumo di muschio e vaniglia invade le mie narici.

Stringo Nik.

Sono vicina a Nik, voglio Nik, eppure mi sento così lontana.

 

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Capitolo 22
*** OGGI: In missione ***


OGGI:
In missione





Con i capelli arruffati davanti al volto cerco di riprendermi. L'odore del tè caldo che scivola tra la massa intrecciata arriva fino alle narici. Inspiro con piacere.

Sebastian sgranocchia i suoi cereali con attenzione e metodo, lo capisco dai rumori che produce: sacchetto che scricchiola, mano che arraffa una piccolissima quantità di cereali pronti a tuffarsi nel latte, cucchiaio che sbatte rapido nella ciotola. 

Ogni quindici secondi la sequenza di ripete.

Seb detesta quando i cereali diventano troppo molli, per questo compie decine di volte tutto il procedimento.

 

Tra poco esplodo.

 

Mi verrebbe voglia di urlare, quei rumori mi infastidiscono e urtano, vorrei solo silenzio. Mi sento come una sedicenne problematica dopo una sbornia epocale, peccato che io ieri non abbia fatto nessuna festa, ma solo uno dei miei più grandi errori nella mia vita.

Ho fatto sesso con Nik nel suo ufficio, ma soprattutto ho accettato di lavorare per lui.

 

Pessima mossa.

 

Bevo il tè cercando di dimenticare il mal di testa e la valanga di pensieri che affollano e si spintonano nel mio cervello. Cerco di estraniarmi dalla realtà per fuggire in un mondo ideale, come quello dei romanzi che leggevo da ragazza. Lì tutto è perfetto. Lì va a finire sempre tutto bene. Lì niente può... può...

 

«Sebastian, metti i cereali che vuoi mangiare nella ciotola. Non stare a metterne uno alla volta», gli dico in italiano.

Il mio piccolo sa che quando parlo in italiano con quel tono sono di pessimo umore ed è meglio non contraddirmi.

Seb ubbidisce, rovescia tre grosse manciate di cereali nella tazza iniziando a mangiare il più velocemente possibile.

 

Ecco, mi sento una pessima madre.

Uno schifo.

Vorrei tuffarmi nel letto e basta.

Oggi non sono in grado di fare nulla.

 

«Scusa amore. La mamma ha molto lavoro e... e...», provo a giustificarmi.

«Non fa nulla. Tanto ho finito di mangiare. Vado in bagno che poi passa la mamma di Samuel, oggi abbiamo la visita al museo, mi porta lei. Ti ricordi?», mi chiede.

 

L'avevo dimenticato.

Fortuna Seb me l'ha ricordato.

 

«Certo. Certo. Vai a vestirti così non rischi di fare tardi».

Sebastian esce dalla cucina come un razzo, non gli piace quando sono di cattivo umore.

Del resto neanche io mi sopporto, figuriamoci il mio piccolo.

 

Affondo le labbra in un biscotto pieno di zucchero velo che Jane ha cucinato per noi. Lo assaporo a lungo esplorando il sapore di cannella e gustando i piccoli pezzetti di mandorle. 

 

Silenzio.

Finalmente in cucina c'è silenzio.

Anzi, c'è troppo silenzio.

Il mal di testa mi esplode più forte.

L'assenza di rumori mi impedisce di distrarmi facendomi concentrare su ciò che non voglio affrontare: una promessa fatta ad un amico che non credo di riuscire a portare avanti. 

 

Stupida Elena.

 

Appoggio la fronte sul piano del tavolo e batto lievemente la superficie. 

Su e giù.

Su e giù.

Inizio ad inspirare.

Cerco ti trovare pace.

 

«Mamma mi dai la merendina? Tra poco arriva la mamma di Samuel», mi chiede Sebastian che vestito di tutto punto mi guarda dall'ingresso della cucina.

 

Sono la mamma peggiore che esista.

Con indosso la mia vestaglia azzurra, i capelli stravolti e la faccia sconvolta sembro una pazza appena fuggita da un manicomio.

 

«Ecco, te la metto io nello zainetto». Infilo una banana e un pacchetto di cracker nella tasca posteriore dello zainetto a forma di Robot.

«Mi allacci le scarpe, quelle non riesco bene a chiuderle», mi dice con voce mesta.

 

Ho gli occhi lucidi.

Mi sento uno straccio.

 

«Non ti preoccupare, amore, la mamma ti aiuta. Oggi sono solo stanca», gli dico mentre stringo i lacci delle sue scarpette.

 

Il campanello suona.

La mamma di Samuel è arrivata.

Le apro il portone.

 

Sebastian si lancia sulla porta saltellando come un grillo. Gli infilo il cappotto, sciarpa e cappello, poi apro la porta. Senza neanche salutarmi corre verso le scale pronto ad andare dal suo amichetto.

 

«Ciao», urlo per la rampa di scale facendo riecheggiare il mio saluto per tutto la palazzina.

«Ciao mamma», mi urla Sebastian. Dopo pochi secondi lo sento ridacchiare con Samuel, emozionati e felici per la gita al museo della città.

 

Per fortuna Seb è piccolo, gli basta poco per riprendersi, nonostante abbia una madre lunatica e facile agli sbalzi d'umore. Qualsiasi errore io commetta lui mi amerà sempre, come io amerò lui qualsiasi cosa combini.

Del resto la vita è fatta di alti e bassi, di scontri, di giornate storte e di momenti sereni. Nessuno può programmare o prevedere cosa succederà, per questo vivo ogni giorno pensando al presente, cercando di evitare di farmi condizionare troppo dal passato.

Non sempre riesco.

 

Ho detto che ci provo.

 

Ecco, oggi è uno di quei giorni in cui non riesco.

Le scelte fatte ieri, anche se in un passato recente, condizionano negativamente il mio oggi.

 

Basta lagne.

Ora devo riprendermi, ho una missione per conto di Nik.

 

Doccia.

Shampoo.

Asciugare.

Crema.

Phon.

Trucco leggero.

Capelli raccolti.

Jeans.

Maglione.

Scarpe da ginnastica.

Occhiali da sole.

Cappello nero.

Cappotto nero.

 

Devo essere il più anonima possibile.

Nessuno deve notarmi, Nik vuole che pedini i due soci nell'affare di Lucas. Mi ha dato una cartella con tutti gli indirizzi e le informazioni necessarie. Devo verificare che non ci sia niente di anomalo o almeno provarci.

 

Sulla metropolitana che mi porta verso Palmer Street rileggo il fascicolo che mi ha dato Nik cercando di riassumere le informazioni principali e ripassare tutti i dati.

 

Giorgio Bottari: 35 anni, romano, capelli neri, occhi marroni, corporatura normale.

Molto socievole e loquace. Non ha mai sollevato problemi durante i contratti o le firme. Veste molto elegante, pare attratto dal genere femminile. Tende a flirtare con le donne.

Vive in un appartamento con il socio Salti, non si segnalano denunce o reati a lui contestati. Risiede negli U.S.A. Con regolare permesso di soggiorno.

 

Sandro Salti: 37 anni, padovano, capelli biondi, occhi marroni, corporatura esile.

Piuttosto silenzioso, parla raramente. Non ha mai sollevato problemi durante i contratti o le firme. Veste in modo elegante e curato. Non socializza facilmente. 

Vive in un appartamento con il socio Bottari, non si segnalano denunce o reati a lui contestati. Risiede negli U.S.A. Con regolare permesso di soggiorno.

 

Ufficio aziendale del Signor Bottari e Salti è situato 

in Palmer Street al numero 135, secondo piano.

Banca di appoggio per pagamenti Santander Bank.

 

Nulla di anomalo da segnalare. I soggetti seguono una routine rigida e ripetitiva. 

Si recano spesso in centro per seguire i diversi affari che portano avanti. 

Hanno il supporto e la fiducia di altri imprenditori in campo immobiliare della città.

 

Rigiro per le mani le foto di Bottari e Salti cercando di memorizzare i particolari del loro volto per poterli identificare una volta avvistati. Nella testa provo ad abbinare le voci che ho sentito nelle registrazioni per farmi un'idea di chi o cosa stia cercando.

Fatica sprecata, c'è troppa gente sulla metropolitana, non riesco a concentrarmi. Solo quando scendo riesco a ritrovare la lucidità persa.

 

Non posso sbagliare c'è in ballo il buon nome dello studio legale, la carriera di Nik e un po' di soldi per il futuro di Sebastian.

 

Mi avvio verso Palmer Street sperando di avvistare due imprenditori. Seguo parte del flusso dei passanti che si muove rapido nella mia stessa direzione. Siamo in un quartiere centrale, vicino allo studio legale, dove ci sono parecchie banche e locali di lusso che non sono certo per le mie tasche. 

Cammino per diversi minuti cercando di non dare nell'occhio stando con la testa bassa e l'aria il più neutra possibile anche se sento il cuore che batte all'impazzata.

Arrivata al civico 135, in una strada laterale e meno frequentata, mi trovo davanti un palazzo recentemente restaurato dall'aria elegante e importante. Si trova di fronte ad un café con una grande vetrina dal quale posso monitorare chi entra e chi esce per farmi un'idea più chiara di quei due.

 

Non potrei chiedere di meglio.

 

Ordino una tazza di tè al bergamotto e mi siedo ad un tavolino vicino alla vetrina, fingendo di leggere i documenti di Nik, mentre sbircio il portone di legno e la piccola scalinata della palazzina.

Non ho idea quanto ci voglia, non sono esperta in pedinamenti, ma in base ai fogli dell'investigatore dello studio legale Bottari e Salti dovrebbero arrivare verso le 9.30 in ufficio. Sono abitudinari e metodici, quindi devo aspettare solo un'ora prima che arrivino.

 

Speriamo bene.

 

Decido di rilassarmi e godermi la tazza calda di tè in attesa di qualche novità.

 

Per ora a parte un paio di signore uscite a fare a spesa e una coppia vestita di tutto punto pronta ad andare al lavoro, non ho notato molto movimento. Mi sembra poco frequentato, soprattutto se penso che c'è un ufficio in quell'edificio.

Sembra una elegante palazzina del centro e nulla più.

 

Prendo nota delle mie osservazioni, su un taccuino.

Bevo il tè.

Diversi avventori si siedono in tavolini vicino al mio, c'è chi sorseggiando una tazza di caffè, c'è chi sta mettendo qualcosa sotto i denti.

 

Niente.

Nulla.

 

Le 9,30 sono passate da un pezzo. Con le mani che reggono la testa mi metto platealmente a fissare il portone.

Più lo guardo e più mi viene sonno.

Una noia mortale.

Sul marciapiede di fronte all'edificio passa gente che vive il quartiere, persone normali: una signora porta a spasso il cane, un uomo vernicia le sbarre del cancellino di casa sua, una donna butta la spazzatura. 

 

Nient'altro.

Zero assoluto.

 

Sto per addormentarmi del tutto quando ad un certo punto la mia attenzione viene attirata da qualcosa di strano.

 

Una limousine lunga e nera dai vetri oscurati si ferma proprio in mezzo alla strada di fronte al 135. Resta con il motore acceso. 

Allungandomi dalla mia sedia cerco di capire chi stia guidando, ma intravedo la sagoma con capello di un autista. Nessun segno particolare, nessun tratto distintivo. 

L'orologio appeso sulla parete del bar segna le 10.20.

Dal portone di legno del palazzo escono due persone, due uomini. Sono Bottari e Salti.

 

Che cavolo fanno lì dentro?

Quando sono arrivati?

Credevo di dover aspettare il loro arrivo, non di dover monitorare le loro uscite.

 

Bottari, con un cappotto scuro e i capelli neri perfettamente pettinati, sembra infastidito perché parla in modo acceso al suo socio, il Signor Salti. Quest'ultimo con l'aria mogia e la faccia afflitta ascolta senza proferire parola.

 

«Merda», dico a voce forse un po' troppo alta. Scatto dalla mia sedia fuori dal locale fregandomene degli sguardi stupefatti dei clienti seduti attorno a me.

Appena arrivo sul marciapiede mi abbasso come se mi stessi allacciando la stringa della scarpa, anche se in verità si tratta di una scusa per affacciarmi e leggere la targa della limousine che sta aspettando i due imprenditori.

 

Bottari e Salti parlano animosamente, ma non riesco a sentire i loro discorsi.

 

Cercando di non dare nell'occhio estraggo il cellulare per fare una foto.

Con noncuranza circumnavigo un pick up parcheggiato sul lato della strada che mi impedisce di avere una visuale completa. Mi appoggio sul retro del mezzo che dista solo un paio di metri dal sedere della limousine.

 

I due uomini aprono a portiera della limousine, stanno per entrare.

 

Mi abbasso.

Preparo il cellulare per scattare.

Prendo un respiro e...

 

«Elena! Che ci fai qui?», una voce squillante mi blocca sul più bello.

 

Stephanie.

Stephanie con un passeggino sta camminando sul marciapiede vicino al mio.

 

Sento il rombo della limousine.

Bottari e Salti se ne stanno andando.

 

Mi alzo in piedi cercando di ricompormi e provando a catturare qualche informazione in più sulla macchina che si è appena allontanata, ma non riesco a leggere nessuna lettera o numero della targa. È troppo lontana.

 

Stephanie mi guarda con aria stupita, non credo si sarebbe mai aspettata di vedermi mezza accasciata, nascosta dietro un pick up a fare chissà cosa.

 

Sorrido mentre cerco di trattenere il fastidio di essere stata interrotta è bloccata sul più bello.

 

«Ciao Stephanie, come va? Cercavo... cioè... una mia amica mi ha parlato bene di questo café. Ho voluto fare un salto per testarne la qualità. In questo periodo ho una fissa per locali del genere». Ridacchio cercando di rendere almeno vagamente credibile le mie parole.

«In effetti fanno una cheese cake niente male. Te l'ha detto Jane? So che è una pasticciera», mi chiede Stephanie che non smette di giocare con i capelli che le cadono morbidi sulle spalle. Ha gli occhi lucidi, sembra triste, non saprei come altro descrivere l'espressione del suo volto.

 

Per un attimo mi fermo, elimino dalla testa il fascicolo di Nik, il pedinamento finito male e tutte le paranoie che da stamattina mi frullano nella testa.

Faccio spazio tra i ricordi, tra ciò che conoscevo della donna che adesso ho davanti a me.

Quello sguardo, quel modo di fare l'ho già visto, io lo conosco.

Mi ricorda Stephanie quando avrebbe voluto entrare al Club di canto, mi ricorda Stephanie quando subiva le cattiverie di Lucas, mi ricorda Stephanie quando non aveva il coraggio di dire ciò che pensava.

 

Stephanie ha nominato Jane, la fidanzata di Kate.

Come fa a sapere che è una pasticciera?

Durante la mostra fotografica Kate non ha mai fatto cenno al lavoro della sua futura moglie.

 

«Può darsi», le rispondo vaga cercando di captare altri segnali.

 

Stephanie abbassa la testa, sembra sull'orlo di piangere. Trema. «Scusa. Mi dispiace... io... io...».

Faccio un passo verso lei, l'istinto mi suggerisce di consolarla, ma poi mi blocco appena ripenso che anche lei ha complottato contro di me insieme a tutti gli altri.

 

Il bimbo dentro al passeggino piange.

 

«È affamato. C-Credo sia ora di dargli lo spuntino della mattina. Ti va di accompagnarmi a casa? Non a-abito molto lontano». Le sue parole, tra una lacrima e l'altra, sembrano quasi una supplica.

«Certo, come no», dico con aria assente. «Scrivo un messaggio e sono subito da te».

 

Prendo il cellulare e digito a Nik: Bottari e Salti sono saliti su una limousine misteriosa, erano già in ufficio prima che arrivassi. Ne sai qualcosa? A chi potrebbe appartenere?

 

Stephanie muove il passeggino avanti e indietro cercando di consolare il pianto del suo piccolo. Mi fissa. 

La raggiungo appena spedito il messaggio. 

Insieme iniziamo a passeggiare.

 

... continua nel prossimo capitolo...

 

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Capitolo 23
*** OGGI: La casa delle bambole ***


OGGI:
La casa delle bambole





... inizia nel capitolo precedente...

 

 

Seduta su un pomposo divano di velluto rosso aspetto che Stephanie finisca di dare da mangiare la frutta al suo piccolo. Un bambino di sette, forse otto mesi, che sgambetta felice ogni qual volta sua madre gli allunga un cucchiaio colmo di quella dolce polpa.

 

Un caminetto con decorazioni in marmo occupa buona parte della parete di fronte a me, diversi ciocchi ardono vivacemente regalando calore alla stanza. Un ritratto di Lucas e Stephanie, uno di fianco all'altra, è appeso appena sopra la mensola del camino, sembra uno di quei ritratti vecchio stile che andava nelle casate nobili cento e passa anni fa.

Delle tende bianche con ricami floreali a filo bianco adornano le finestre, porcellane e argenterie, perfettamente lucidate, sostano su mobili, nelle vetrinette e su qualsiasi piano di appoggio possibile ed inimmaginabile. 

Una domestica si muove lentamente nella casa pulendo superfici già linde e sistemando centrini ricamati. I movimenti misurati della donna sembrano andare a ritmo con il ticchettare della pendola all'ingresso che rumorosamente impone la sua presenza risuonando in tutta la stanza.

I suoni che emette il piccolo sono l'unica cosa che stona con tutto il resto. Gridolini, pernacchie e versetti sembrano l'unica cosa viva lì dentro.

 

Mi pare di stare dentro una casa delle bambole dove tutto è come dovrebbe essere, o perlomeno, come dovrebbe essere se vivessimo in una realtà distorta dove solo i maniaci del controllo possano sentirsi a loro agio.

Se Stephanie e Lucas vedessero casa mia gli verrebbe un colpo, dire che è l'opposto è poco.

 

«Come si chiama?», chiedo a Stephanie.

«Lui è Lucas Junior. Ha da poco compiuto gli otto mesi», mi risponde con dolcezza mentre aiuta il piccolo a pulirsi della frutta che gli sporca il viso. «È un amore, è il mio angelo. Anche sua sorella Victoria lo adora, a volte lo tratta come fosse un bambolotto, non capisce che non si tratta di un giocattolo. Diciamo che vorrebbe strapazzarlo un po' troppo».

«Quanti anni ha Victoria?», chiedo.

«Compirà quattro anni a fine novembre. Anche lei è molto piccola, ma ha già il suo bel carattere», dice ridacchiando. «Tuo figlio invece?».

«Sebastian ha cinque anni. Questo è l'ultimo anno di scuola materna, l'anno prossimo andrà alle scuole elementari. Cresce così in fretta che a volte non mi accorgo siano passati già così tanti anni da quando è nato», le dico con naturalezza sperando di sciogliere un po' quella strana atmosfera che si è venuta a creare, sembra di stare sospesi in un limbo, in una dimensione tra l'immaginario e la realtà.

 

Una bolla, ecco, mi sembra di stare dentro una bolla.

 

«È molto bello tuo figlio ed è fortunato ad averti come madre. Credo si divertirà un sacco con te. A volte mi chiedo se io sia in grado di crescerli. Sono così piccoli e fragili che... che...». Stephanie mi guarda con la stessa aria che aveva poco prima, triste.

«Capita a tutte. Se hai bisogno di aiuto basta chiedere alle persone giuste. Ci sono professionisti che possono aiutarti, essere madre può diventare  molto faticoso. Psicologi, badanti, educatrici. La loro esperienza potrebbe farti comodo». 

 

Conosco la stanchezza sul volto di Stephanie, è la stessa che avevo io quando Seb era piccolo: le notti in bianco, i pianti inconsolabili, i pannolini da cambiare. Una faticaccia se affrontata da sola.

 

«No, non è quello. Ho una tata che mi aiuta e due domestiche in casa. Alla fine devo fare poco, il minimo per i miei bimbi. È che a volte credo di non aver niente da offrire a Victoria e Lucas Junior. Mi sento... mi sento...». Stephanie si alza di colpo, il piccolo si sta agitando, sgambetta con forza. Passeggiando avanti e indietro Stephanie colpisce con lievi pacche la schiena di Lucas Junior che tornato improvvisamente rilassato e tranquillo appoggia il capo sulla spalla della madre dopo aver fatto un ruttino.

La domestica in silenzio ritira il piattino con la frutta frullata per poi sparire.

 

Ho l'ansia.

Se vivessi in quella casa credo impazzirei, mi sentirei braccata.

 

Stephanie appoggia il piccolo su un tappeto colorato pieno di sonagli colorati e rumorosi. Anche se Lucas Junior non è proprio stabile, come ogni bimbo della sua età, prova a tutti i costi a prendere i giocattoli e quando ci riesce urla eccitato.

È dolcissimo.

 

Stephanie mi fissa con intensità.

 

«Lo so che Rebecca te l'ha già chiesto. Non rispondermi se non vuoi, non insisterò. Perché te ne sei andata da New Heaven?», mi chiede con pacatezza.

 

Non so cosa risponderle.

Giuro.

Da un lato sento un vulcano pronto ad eruttare dentro di me, ho voglia di riversarle addosso tutto il fastidio e il dolore provato per tanti anni, dall'altro non riesco far altro che fissare i movimenti scoordinati del piccolo e trovarlo delizioso.

 

«È stato giusto così». È l'unica cosa che mi viene da dire.

Stephanie accenna un sorriso, è molto dolce, mi ricorda la ragazza che ho conosciuto, quella capace di ascoltare e portare la calma nel gruppo.

«A volte mi chiedo se... non che lo vorrei, ma ci penso. Penso a come stavo bene quando eravamo amiche noi tre: tu, io e Kate. Non che non voglia bene a Rebecca, è come una sorella per me, ma è diverso. Le cose che facevamo erano diverse. Mi piaceva vedere il mondo dal vostro punto di vista». Stephanie aiuta Lucas Junior a scuotere un pupazzo pieno di piccoli palline colorate scatenando la felicità del bimbo.

«Sei tu che hai scelto. Hai preferito Lucas, hai voluto questo. Non so se era la cosa giusta per te, ma ognuno è responsabile e padrone delle proprie scelte», dico schietta e sincera.

«È stato giusto così», mi dice Stephanie riprendendo la frase detta da me poco prima.

 

Sorrido.

 

«Non sono mai stata coraggiosa e non lo sarò mai. Anche se tutto questo mi opprime credo di non poterne fare a meno. Non potrei fare a meno dei miei figli, non potrei fare a meno di Lucas. Vi ho amate molto, anche se in modo diverso. Siete state la mia possibilità di cambiamento, io però ho preferito rimanere quella che ero. Fa meno paura», dice con serietà e calma allo stesso tempo. È come se un velo di malinconia la pervadesse, come se ogni suo gesto e pensiero fossero scollegati, come se i movimenti del corpo non corrispondessero a quello che prova.

 

Le emozioni che provo e che ribollono nella mia anima si fanno sempre più confuse. 

Il desiderio di abbracciarla e consolarla è più forte di quanto potessi immaginare: il ricordo delle chiacchierate passate insieme; i pomeriggi passati in piscina con lei, Kate e Jo; gli abbracci; le canzoni cantate a squarciagola. Tutto questo lontano e vago sentimento sovrasta la rabbia provata per le sue menzogne, per i suoi complotti.

Il ricordo di ciò che ero con lei come amica mi consola, è come una calda coperta.

 

«Credo tu sia un'ottima madre, devi solo avere più fiducia in te stessa», le dico cercando di coprire gli occhi umidi mentre gioco con il piccolo che sembra interessato alle stringhe delle mie scarpe.

«Mi sei mancata. Mi è mancata Kate. Non sono l'unica che la pensa così, Jonathan ha perso una delle sue migliori amiche quando sei partita. Quando te ne sei andata è cambiato tutto, è come se fosse mancato qualcosa a tutti». 

 

Percepisco Stephanie fissarmi, anche se non la vedo sento il suo sguardo su di me. 

Resto impassibile a giocare chinata con Lucas Junior.

Non voglio farle vedere che le sue parole mi turbano.

 

«Yale è stata dura, eravamo tutti così spaventati. Tutto quello che pensavamo sarebbe successo al College è andato diversamente. Il mondo fa paura, confrontarsi con la realtà è stato più difficile di quanto pensassimo. È come se tu fossi stata la nostra realtà al Trinity e improvvisamente non ci sei stata più. Una casa crolla senza fondamenta. Qualsiasi cosa sia successa, qualsiasi pensiero ti abbia portato ad andartene da New Heaven sappi che, se vuoi, adesso io sono qui». La mano di Stephanie si appoggia sulla mia spalla. 

Un tepore piacevole e rassicurante si irradia nel mio corpo.

È come una medicina.

 

Due grosse lacrime scivolano sul mio volto precipitando sul tappeto persiano sotto ai miei piedi. Sempre chinata verso il piccolo Lucas Junior respiro affannosamente.

 

Non crollare, Elena.

Non crollare.

Mi ripeto.

 

«Grazie, lo terrò presente», le dico mentre cerco di riprendermi dall'enorme valanga di confusione che mi sommerge.

 

Il cellulare vibra nella mia tasca.

 

È il momento perfetto, in questo modo ho tutto il tempo per riprendermi ed evitare di farmi vedere con le lacrime agli occhi da Stephanie.

«Scusa. Rispondo un attimo», le dico mentre inizio a digitare sul display del cellulare.

 

È un messaggio di Nik: Appena puoi chiamami. Voglio capire se la limousine è una pista da seguire o meno.

 

«Se hai da fare vai pure. Non voglio tenerti in ostaggio», mi dice Stephanie prendendo in braccio suo figlio.

«Sì, in effetti ho un lavoro da finire», le dico mentre prendo il giaccone e lo infilo.

«Mi piacerebbe rivederti. Potremmo far giocare Victoria e Sebastian, un giorno o l'altro», mi dice mentre fa cenno alla domestica di sistemare i giocattoli sparsi da Lucas Junior sul tappeto persiano.

«Vedrò di fare il possibile, abbiamo sempre un sacco di impegni». Cammino rapida per il salotto evitando di toccare o spostare anche il più piccolo oggetto, mi sembrerebbe di violare tanta perfezione e ordine.

«È stato bello scambiare due chiacchiere con te», mi dice mentre mi apre la porta di casa.

 

Sorrido.

Accarezzo la mano del piccolo.

Poi mi incammino per la strada.

Un vento freddo penetra nelle ossa.

 

Non mi volto.

Vado dritta.

Non posso rimanere invischiata nella ragnatela dei ricordi.

Non posso crollare, non ora.

 

Appena svolto l'angolo chiamo Nik.

Mi risponde immediatamente.

 

«Ciao Nik. Sono per strada, cosa devo fare ora?», gli chiedo cercando di trovare un po' di calma. L'incontro con Stephanie mi ha turbata molto rivoltando ciò che credevo ormai un capitolo archiviato.

«Bottari e Salti erano già in ufficio, quindi aspettavano la limousine. Hai visto la targa?», mi chiede Nik.

«No. Rischiavo di farmi vedere. Non che mi conoscano però non volevo bruciare la mia copertura», dico parole prese in prestito da tutti i libri e dai film polizieschi che ho visto in vita mia. Suona un po' ridicolo, ma rende l'idea.

«Hai fatto bene. Il fatto che siano saliti su una limousine non vuol dire nulla, potrebbe essere loro oppure di un cliente. Hai notato niente di strano?».

«Prima di salire in macchina discutevano animatamente. Bottari sembrava infastidito, ma erano troppo lontani. Con il rumore del traffico e della città era impossibile sentire qualcosa». Cammino rapida cercando di concentrarmi sulle parole di Nik.

«Dobbiamo entrare nel loro ufficio, capire che cosa nascondano», dice a bassa voce.

«Cosa?», urlo bloccandomi di colpo. «Sei impazzito?».

«Calmati Elena. Non ti preoccupare, ho un piano», mi dice Nik con sicurezza.

«Ti rendi conto che potremmo finire in prigione. È un reato bello e buono se ci scoprissero, ti sei bevuto il cervello? Chi baderebbe a mio figlio? Non si può entrare negli uffici di altre persone». Dico le parole tra i denti, anche se vorrei gridarglielo in faccia.

«Elena, calmati. Domani vieni da me e ti spiegherò tutto». Nik attacca.

 

Con il cuore in gola per l'affanno, l'ansia e la paura cerco di distrarmi per non pensare alle cose assurde che mi ha detto quello scellerato di Nik. Come crede possibile che si possa entrare nell'ufficio di quei due senza essere beccati?

 

I pensieri negativi mi ancorano al terreno, l'idea di poter perdere Sebastian mi distrugge.

 

Solo un tepore mi scalda nell'inverno delle emozioni che sto vivendo.

Un tepore che parte da una spalla, la stessa che ha sfiorato Stephanie per qualche secondo.

Un tepore legato all'amicizia che ci legava e al pensiero di quel sentimento che mi provoca molta nostalgia.

 

La tempesta di neve del mio passato pare calmarsi.

Un pallido raggio di sole fa capolino.

 

Tremo.

 

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Capitolo 24
*** OGGI: Ciambella al cioccolato ***


OGGI:
Ciambella al cioccolato




Caroline mi porta un bicchiere d'acqua, credo che la mia faccia pallida l'abbia spaventata. Con la minigonna inguinale e i sottili tacchi a spillo cammina rapida tra la sua scrivania e l'ufficio di Nik. Sembra amorevole e gentile, proprio come quando l'ho conosciuta, forse è ritornata la Caroline di un tempo, dolce e premurosa.

 

«Grazie, ne avevo proprio bisogno. Oggi andare in giro per la città è uno strazio. La bufera di neve di questa notte ha intasato il traffico su strada e la metropolitana pareva scoppiare», le dico mentre sorseggio piano l'acqua fresca.

«Guarda che l'ho fatto perché avevo paura tu svenissi qui ai miei piedi. Come avrei fatto ad alzarti? Sei il doppio di me!», mi dice con aria strafottente.

 

Alzo le sopracciglia verso l'alto, non credo di aver capito bene.

Mi ha dato della cicciona?

Non sono filiforme, ma nemmeno grassa.

Sono felice delle mie curve e delle mie forme.

E anche se fossi sovrappeso? 

A lei cosa le importerebbe?

 

Trattengo gli insulti che stanno venendo a galla.

Non voglio litigare.

 

«Nik arriverà tardi per colpa della neve, mi ha detto di darti questo», mi dice acida mentre si rimira nell'anta di vetro del mobile che racchiude parte dei faldoni e dei documenti dell'ufficio.

Caroline mi allunga un registratore, delle cuffie, un blocco di appunti e delle trascrizioni. «Nik mi ha detto di portarti nell'ufficio qui a fianco, quello senza finestra», mi dice con un ghigno.

«Perfetto», le dico con aria di sfida prima di strapparle dalle mani tutto il materiale.

 

Alla prossima battuta la stritolo, la disintegro.

 

Caroline mi guida ancheggiando verso una porta anonima senza targhetta, con l'unghia laccata di rosso picchietta la superficie di legno: «Qui starai comoda. In fondo al corridoio trovi la cucina dello studio legale con frutta, bibite e tutto quello che ti serve. Caffè. Tè. Tisane. Insomma, vai e prendi quello che ti serve. Io sono alla mia scrivania, se puoi evita di disturbarmi. Grazie». Poi se ne va.

 

Le sorrido tanto per fare, non ho voglia di essere gentile con lei.

 

Borbottando parole poco lusinghiere ed entro nella stanza. Come preannunciato da Caroline non ci sono finestre, ma in compenso la stanza è ben illuminata e c'è un grazioso divano a due posti perfetto per mettermi comoda ad ascoltare le registrazioni. Appoggio sulla scrivania le trascrizioni delle conversazioni dei due investitori italiani con i vari avvocati dello studio e tutto il materiale appena ricevuto.

 

Prendo un profondo respiro.

Devo concentrarmi. 

Lo faccio per il futuro di Sebastian, i soldi di questo lavoro servono per la sua istruzione.

 

Apro il blocco degli appunti, mi infilo le cuffie, mi siedo sul divano e, con le gambe incrociate, inizio ad ascoltare.

Sulla gamba destra tengo il blocco dove posso annotare le varie parole che riesco a tradurre, mentre su quella sinistra seguo la conversazione leggendo le trascrizioni come se fossi a teatro e dovessi controllare che gli attori dicano le battute correttamente.

Mi sembra di tornare ai giorni in cui ascoltavo Demetra studiare le parti della Boheme, mi sembra di essere tornata una ragazzina.

 

Play.

Registrazione 1.

 

Voci.

James parla.

Rebecca parla.

George McArthur fa una battuta.

Tutti ridono.

Scambio di fogli.

Lunga discussione su appalti per i lavori dell'hotel.

Lucas espone il progetto.

Jo continua la presentazione.

Le voci si alternano e susseguono.

Gli investitori dicono di voler comprare le quote sul mercato. Vogliono garanzie che l'albergo sarà fruttuoso.

Andrew parla del locale annesso, dei vip e delle celebrità che lo frequenteranno.

Lucas elenca i materiali di lusso che verranno usati per la costruzione.

Rumore di fogli.

L'avvocato Spencer propone di acquistare parte delle quote da parte dello studio in buona fede.

George McArthur approva.

Nik propone contratto.

Rebecca illustra punti salienti. 

 

Sono già venti minuti che ascolto e non c'è minimamente traccia di parole in italiano. Per quanto facile possa sembrare il lavoro risulta piuttosto noioso e ripetitivo. Parlano di cose che capisco a malapena e che mi interessano meno che meno.

 

Lucas parla di incassi e proiezioni a lungo termine.

Gli investitori paiono interessati, fanno molte domande.

James legge parte del contratto.

Jo prosegue.

Fogli e colpi di tosse.

Cherlie Spencer elogia Lucas e la sua idea.

Un cellulare squilla, è quello di un investitore.

Parole confuse.

Voci sovrapposte.

 

Poi.

Una frase in italiano.

 

Mando indietro il nastro rapidamente e riascolto le parole.

È il mio agente, deve avere notizie per quella cosa che ti ho detto - dice uno.

Non qui, non ora. Fino a che non sarà finita questa storia non possiamo fare altri lavori - dice l'altro.

 

Annoto le frasi con cura segnando il numero della registrazione e il minuto in cui viene pronunciata.

Rileggo più volte quel breve scambio di battute, ma non capisco il significato. Probabilmente di tratta di altri affari in ballo. L'agente di cui parlano potrebbe essere chiunque, un esperto in marketing, un broker. Non ci sono informazioni rilevanti.

Riascolto il nastro.

Niente.

Non mi sembra dicano niente di compromettente.

 

Merda.

Se questo è il tenore delle conversazioni non caverò un ragno dal buco.

 

Meglio farmi una tazza di tè, ho bisogno di un po' di lucidità per poter continuare ad ascoltare tutti quei nastri.

 

Raccolgo il materiale che Caroline mi ha dato e lo infilo in borsa. Nik è stato chiaro: mai lasciare incustodito nulla, neanche per un secondo. Se gli altri avvocati sapessero quello che sto facendo scoppierebbe un pandemonio.

 

Esco dalla piccola stanza cercando di dare meno nell'occhio possibile.

Caroline sta flirtando con un paio di tirocinanti e ride come un'oca giuliva, non mi ha notata. Meglio così.

Raggiungo la cucina dello studio legale dove due grossi frigoriferi con l'anta trasparente mettono in mostra una selva di frutta, verdura, succhi e snack salutari. Ben disposte su due ripiani ci sono scatole contenenti ciambelle e altre golosità. Il caffè riposa in una grande caraffa di vetro mentre delle bustine di tè e tisane sono poste ordinatamente in una scatola di legno.

Spulcio con l'indice le varie carte colorate in cerca di una bevanda che mi possa dissetare e svegliare allo stesso tempo.

Ho bisogno di energia.

 

Tè nero.

 

Arraffo la bustina mentre cerco un rubinetto dove possa riempire il bicchierone di carta formato extralarge che tengo in mano.

 

«L'acqua è qui dietro». Jo appoggiato allo stipite della porta mi osserva divertito. «È incredibile come certe cose non cambino. I tuoi gesti, come ti muovi, sono uguali a quando eri una ragazza».

«Del resto sono sempre io. No?», un piccolo rubinetto di design in acciaio esce dal muro dietro la porta. Raccolgo un po' d'acqua nel bicchierone per poi metterla qualche secondo in uno dei tre forni a microonde presenti nella cucina.

«L'acidità mi pareva minore, ma potrei sbagliarmi. Del resto chi mai potrebbe dire di conoscere una persona fino in fondo?», mi dice mentre addenta una ciambella glassata al cioccolato presa dal cartone vicino a me.

 «Anche tu non sei cambiato. Ciambella al cioccolato, ci avrei scommesso cento dollari che avresti scelto quella. Sei prevedibile». Inzuppo la busta di tè nero nell'acqua incandescente annusando con piacere il profumo acre e pungente.

«Lo so. È sai perché so che tu sai? Perché questa fantastica, meravigliosa, gustosissima ciambella è la stessa che avresti scelto tu. Ripiena al cioccolato. Glassa al cioccolato. Decorazioni al cioccolato. Vedi? Ho ragione io. Sei la stessa di quattordici anni fa», mi dice soddisfatto Jo.

 

Mi nascondo dietro al bicchierone di tè cercando di cambiare discorso.

 

«Come ti trovi qui allo studio legale? Hai raggiunto ciò che volevi? Mi pare che tu sia diventato un avvocato di successo. Abiti costosi. Scarpe fatte a mano. Quell'aria di ragazzo di periferia sembra andata via del tutto. Non era questo che volevi?». Il mio tono non è accomodante. Se penso che tutto quello che possiede era disposto a ottenerlo a discapito mio, mi fa infuriare.

«Me la passo bene, non mi lamento», dice con aria pomposa, «Parliamo di te, invece. Tu e Nik? Direi che la cosa è piuttosto strana. Non è che per caso vi frequentavate già al Trinity?».

 

Osservo Jo per qualche secondo.

Lo fisso.

Voglio capire fino a che punto una persona possa diventare più stupida visto che il suo livello di idiozia sta raggiungendo i livelli massimi.

 

Sorrido.

 

La cosa che mi diverte di più è che lui non sa che sono a conoscenza del complotto che tutti loro hanno organizzato alle mie spalle. È talmente evidente che Jo si riferisca al quasi-bacio tra me e a Nik nel magazzino del parco Franklin a New Heaven, lo stesso che hanno visto James e Lucas, lo stesso che ha fatto iniziare tutta la loro messa in scena nei miei confronti.

 

«Eravamo amici, ottimi amici. Abbiamo avuto sempre una connessione speciale io e Nik. Del resto è così difficile trovare uomini intelligenti e sinceri. L'ho detto a James la sera del ballo. Gli ho detto che purtroppo avevo litigato con Nik e che la cosa mi faceva soffrire, visto il grande legame. Credo sia stata una delle ultime cose che gli ho detto prima di andarmene da New Heaven», dico con finta noncuranza.

 

Jo freme. 

Si inumidisce le labbra.

Fa sempre così quando qualcosa lo interessa, in questo caso credo non veda l'ora di conoscere il perché del mio allontanamento.

 

«Rimanendo in tema... perché te ne sei andata da New Heaven?», mi chiede mentre pulisce le mani sporche di cioccolata con un tovagliolino di carta. Non smette di squadrarmi come se cercasse di leggere nella mia testa.

«Che cosa buffa. Tutti mi fanno la stessa domanda. Rebecca. James. Stephanie. Adesso tu. Avete una fissa per me?», dico sarcastica.

«Non fare la sciocca. Eravamo amici e te ne sei andata senza motivo. Rispunti fuori dopo anni con un figlio e per di più accompagnata a Nik. Nicholas Martin, il tuo ex professore nonché socio di questo studio. Mi sembra tutto alquanto bizzarro, non trovi?».

«No. Assolutamente, no. Almeno non tanto quanto quello che è successo a te. Fammi indovinare. Voti alti a Yale. Primo della classe in tutti i tuoi corsi. Tirocinio prestigioso. Cartiera folgorante. Dimentico niente?».

 

Jonathan fa cenno di no con aria seria.

 

«Perfetto. Quindi se non ricordo male da ragazzo avevi dei sogni e a quanto vedo sei riuscito a portarli a termine tutti», gli dico tra un sorso di tè e l'altro.

«Cosa significa questo discorso, non capisco», mi dice asciutto.

«Significa che io su di te avrei scommesso. Ho sempre creduto che, in un modo o nell'altro, avresti fatto tutto quello che ti eri prefissato di fare. Mi hai detto per mesi, quando eri un ragazzo, che avresti voluto diventare avvocato per aiutare i poveri, le donne sfruttate come tua madre, la gente imbrogliata dai potenti. Eppure eccoti qui, bello e splendente a fare il galletto in mezzo ad altri galli. Come mi hai detto prima? Che nessuno può dire di conoscere una persona fino in fondo, vero? Ti rispondo subito. Sì. Nessuno può conoscere nessuno, soprattutto se questo tradisce se stesso, i suoi ideali, oltre che gli altri», parlo con il dito puntato nel petto di Jo. 

 

Spingo.

Premo.

Con quel dito voglio che sappia quanto mi abbia delusa.

 

«Sai, grattando questa patina di rispettabilità e potere che ti sei creato, sotto sotto, c'è ancora quell'adolescente di periferia ambizioso e disposto a tutto pur di raggiungere i suoi obiettivi. Forse non sei mai stato diverso da così: un arrampicatore sociale. Forse io ti ho voluto vedere diverso da come eri. Molti anni fa la pensavo diversamente, ma... ehi... tutti possono sbagliare. No?». Con un gesto rapido gli tolgo un capello dalla giacca poi gli sistemo il nodo della cravatta già perfettamente annodato.

«Ma... ma...», dice con un filo di voce.

«Niente ma. Stai tranquillo, adesso sei esattamente quello che eri destinato a diventare. Dovresti essere felice di essere uno che conta. Perché sporcarti con quei pezzenti da quattro soldi? Loro non possono pagarti cene raffinate o auto lussuose. Soldi. Potere. Successo. Lo hai sempre saputo, ti sei raccontato bugie solo per convincerti che saresti stato migliore. Ma, indovina un po', non lo sei», gli dico con finta allegria.

 

Jo è immobile, fissa la parete alle mie spalle. Trema.

So benissimo di averlo ferito.

Ho toccato le corde giuste per farlo star male.

 

Con la mia borsa sotto braccio e il tè caldo in mano esco dalla cucina dello studio legale.

Percorro il corridoio che mi porta alla stanza senza finestra dove posso riprendere a lavorare in pace.

Jo è ancora lì fermo nella cucina, immobile a fissare quel muro.

Sembra una statua.

Un misto di rabbia e tristezza percorre il mio corpo. Essere crudele non è nella mia natura. No, non mi piace, mi ricorda quando ero una persona meschina e meschina.

 

Ho gli occhi lucidi.

Mi detesto quando non riesco a controllare le mie emozioni.

 

«Ciao Elena». La voce di Nik mi travolge. L'aria fredda che porta da fuori, i fiocchi di neve che hanno inumidito il suo cappotto e il suo naso rosso dal gelo mi riportano alla realtà. «Tutto bene?», mi chiede accarezzandomi il viso.

Annuisco anche se il mio desiderio più grande in quell'istante è scappare il più lontano possibile.

Fuggire.

Nascondermi.

Sprofondare.

 

... continua nel prossimo capitolo...

 

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Capitolo 25
*** OGGI: Come un serial killer ***


OGGI:
Come un serial killer






... inizia nel capitolo precedente...

 

Nik si toglie il cappotto umido e lo appende proprio di fianco alla scrivania di Caroline.

«Ci sono messaggi per me? Mi ha cercato qualcuno?», chiede Nik alla sua segretaria.

Caroline gli allunga un paio di foglietti senza neanche degnarlo di uno sguardo.

Nik li prende bofonchiando qualcosa.

 

Entrambi entriamo nel suo ufficio.

 

«A volte la strozzerei. Da quando è così... così... è insopportabile». Nik butta i foglietti sulla sua scrivania cercando di recuperare la calma. «Scusa. Scusa per il mio atteggiamento, ma stamattina non ne va una giusta. Macchina bloccata nel garage per la neve e metropolitana stracolma. Tu come stai? Caroline ti ha dato il lavoro che devi fare?».

«Sì, mi sono messa nell'ufficio qui di fianco al tuo», gli dico ripensando alle battutine poco simpatiche sul mio peso che Caroline mi ha fatto stamattina.

«Perfetto... hai avuto qualche difficoltà?», mi chiede allungando le mani verso le mie e stringendole con trasporto.

«Sì. Cioè, no. Non ho avuto delle vere e proprie difficoltà, più che altro è una cosa molto lunga. Ascoltare tutte le conversazioni è piuttosto noioso», dico con sincerità.

Nik mi guarda sorpreso: «Passami le trascrizioni».

 

Passo il plico fitto di fogli che ho messo nella mia borsa.

Nik lo sfoglia.

Sorride.

 

«Non hai visto queste note?», mi chiede tamburellando le dita su piccole scritte fatte a matita sul margine del foglio.

«No. A dire il vero non ci avevo fatto caso. Che sono?».

«Indicano il minuto e i secondi precisi in cui parlano in italiano. Le ho messe io per facilitarti il compito», mi dice con candore come fosse la cosa più ovvia del mondo.

 

Arrossisco.

Mi sento molto stupida.

 

«Io... io... non avevo capito, scusa». Ho la sensazione che un filo di vapore esca dalle mie orecchie e che la mia faccia stia prendendo fuoco.

«Tranquilla, meglio aver chiarito subito», mi dice Nik sorridendo.

 

Ok. Perfetto.

Mi sembra di essere tornata al Trinity dove lui è il professore ed io l'allieva maldestra.

 

«Tornando a discorsi più importanti...». Nik si alza e controlla che sia chiusa la porta poi si accuccia vicino a me: «Dobbiamo capire di chi fosse quella limousine che hai visto. Potrebbe essere un buco nell'acqua, dobbiamo vederci chiaro».

«Non voglio commettere reati. Non posso rischiare. Quello che vuoi fare è contro ogni morale, io non me la sento, non entrerò nel loro ufficio di nascosto». Su questo non transigo, non voglio passare anni in galera per una sciocchezza simile.

Nik mi accarezza con dolcezza: «Non vorrei mai ti succedesse qualcosa di brutto, non ti preoccupare. Devi solo darmi una mano. Hai voglia di recitare una parte con me?».

«Che diavolo hai in mente, quanto fai quella faccia vuol dire che hai un piano in mente», gli dico divertita, ma allo stesso tempo preoccupata.

«Facciamo così, venerdì andiamo...».

Interrompo Nik.

«Venerdì vado a New Heaven da mio padre, passo il weekend con lui e tutti gli altri».

«Quindi questo fine settimana non passeremo un po' di tempo insieme?», mi chiede a bassa voce baciandomi il collo e accarezzando le mie cosce e i miei fianchi.

 

Mi irrigidisco, sa benissimo che sono molto sensibile al suo fascino. Seduta sulla sedia con lui in ginocchio davanti a me fremo.

 

«No. Mi dispiace. Nulla da fare, ho impegni con la mia famiglia».

«Se vuoi potremmo... adesso... io e te...», mi dice con fare malizioso.

 

Contegno, Elena.

Per quanto mi piaccia baciarlo questo non è il momento giusto.

 

«Torno nel mio ufficio a leggere le trascrizioni», dico allontanandomi da lui il più velocemente possibile. Afferrò i fogli sulla scrivania di Nik cercando di ricompormi.

«Perfetto. Quando vuoi io sono qui». Nik mi sposta una ciocca di capelli incastrandola dietro al mio orecchio. È a pochi centimetri da me, sento il suo respiro caldo scivolarmi sulle guance.

 

Non posso restare altrimenti so già come finirebbe.

 

Senza lasciarmi andare alle sue carezze esco dall'ufficio richiudendomi il più velocemente possibile alle spalle la porta.

 

Prendo fiato più volte.

Cerco di darmi un contegno visto che nel corridoio dello studio legale transitano un sacco di persone, avvocati e clienti.

 

Caroline è troppo impegnata a scrivere al computer per accorgersi di me, è così veloce che quasi quasi non riesco a vedere le due dita pigiare i tasti. Con aria seria osserva lo schermo, è così meticolosa e attenta che sembra un'altra donna da quella di stamattina.

Non voglio disturbarla.

Striscio contro il muro cercando di raggiungere il più velocemente possibile l'ufficio senza finestra. 

Mancano una manciata di centimetri.

Allungo la mano.

Sto per aprire.

 

Un rumore cadenzato di tacchi si interrompe poco lontano da me.

 

Non c'è neanche bisogno che mi giri a guardare, so benissimo di chi si tratta.

Rebecca.

Posso sentire il suo sguardo infuriato squadrarmi da capo a piedi.

Me la immagino con le braccia conserte e l'aria scocciata.

Sono sicura sia arrabbiata con me.

 

«Ciao Rebecca», dico senza girarmi.

«Mi spieghi perché sei sempre qui in ufficio? Dalla discussione che avevamo fatto un po' di tempo fa avevo capito che non ti volevi intromettere nella nostra vita. Qui lavoriamo, non perdiamo tempo. Sembra che tu ti diverta a metterci il bastone tra le ruote», dice con stizza cercando di controllare il volume della voce per non farsi sentire dai colleghi.

«A dire il vero non mi interessa ciò che fai. Sono qui per lavorare pure io. Ho avuto un problema nel mio ufficio, stanno ristrutturando, e Nik mi ha offerto questa stanza. Quella senza finestre», le dico indicando la porta vicino a me.

 

Sto mentendo.

Questa è la scusa concordata con Nik per non destare troppi sospetti.

In questo modo risulterà più credibile quando ritornerò nel mio ufficio a fare le traduzioni.

 

«E perché attacchi Jo e disturbi Stephanie a casa sua? Ha un figlio piccolo da accudire e una bimba che va a scuola, ha molte cose da fare, non hanno tempo di discutere con te». Rebecca minacciosa mi si avvicina, ha lo sguardo infuocato come una leonessa quando deve difendere i suoi cuccioli.

«Tanto per chiarire è stato Jonathan a cercarmi e parlarmi per primo. Io volevo solo fare una pausa con una tazza di te. Jo ha iniziato con le battute proprio come facevamo da ragazzi, peccato che io sia un po' cresciuta da allora. Non mi ha fatto ridere. Per niente».

Rebecca schiuma.

«Per quanto riguarda Stephanie sappi che l'ho incontrata per strada e lei mi ha chiesto di accompagnarla a casa. Io ho acconsentito, visto che aveva l'aria afflitta. Tutto qui». Con le braccia conserte la osservo senza abbassare lo sguardo. 

«Stephanie non è afflitta. Ha... ha una vita perfetta, ha un marito perfetto. Loro sono perfetti», dice con voce acuta e vagamente stridula. I capelli color miele paiono arruffassi, le vene sul collo sembrano ingrossarsi. 

«Credi quello che vuoi, ma a me non importa», le dico sbuffando.

«Non ti importa? Chissà com'è che sei sempre in mezzo ai piedi. Ammettilo, lo fai apposta. Ti diverti a far soffrire le persone. Jonathan e Stephanie hanno sentito molto la tua mancanza quando te ne sei andata, anche se non lo dicevano apertamente era chiaro che fosse così. Queste tue uscite e spacconate non fanno altro che peggiorare la situazione».

«Senza offesa, Rebecca, ma non me ne frega nulla se hanno o stanno soffrendo. Chiaro? Sono fatti loro. Ora ho da fare, devo andare a lavorare». Le parlo come fosse una bimba piccola, scandisco le parole con calma come se non capisse.

Rebecca mi guarda stranita, di certo non si aspettava una risposta simile:«Tu sei malvagia», mi dice schifata.

«Certo. Certo. Hai sempre ragione tu. Posso andare ora?», le dico con un sorriso finto e l'aria annoiata.

 

Rebecca sbatte il piede nervosa, non sa cosa dire.

Se potesse mi prenderebbe a sberle, sta muovendo nervosa le mani facendo tintinnare i suoi bracciali d'oro.

«Addio Elena». Rebecca, girando di scatto sui tacchi, se ne va.

 

Finalmente libera.

Non posso credere che quella arpia mi voglia far sentire in colpa perché me ne sono andata da New Heaven quattordici anni fa. Non deve assolutamente permettersi di impormi cosa debba pensare o meno. 

Sapevo che avrei dovuto avere a che fare con loro, ma non credevo mi avrebbero assillato in questo modo.

 

Basta.

 

Imbocco il corridoio.

Lascio i documenti a Caroline che non ha neanche il tempo di rispondermi con una battutina perché non la degno di uno sguardo.

Ascensore.

Fortunatamente è vuoto.

Arrivo in pochi secondi al piano terra.

Attraverso l'atrio e mi dirigo verso l'uscita.

La neve ha cessato di cadere, diversi mucchi bianchi e ghiacciati occupano i marciapiedi. Gli spazzaneve hanno fatto il loro compito e il traffico pare aver ripreso il flusso normale. 

Un soffio d'aria si infila dietro la schiena.

Mi copro cercando di respirare il più possibile aria fresca.

Tremo.

Il cielo bianco di nuvole bianche di neve pare più basso e vicino, la luce è così bianca che non riesco a capire che ore siano.

 

Prendo il cellulare.

Sono le 11.15.

 

«Un messaggio vocale?». Parlo da sola mentre noto un piccolo 1 lampeggiare sullo schermo.

Clicco e ascolto avvicinando l'orecchio all'altoparlante del cellulare.

 

-Elena, ho bisogno d'aiuto. Sto impazzendo. Non so più cosa fare. Tutto mi sembra così strano. Vieni. Vieni a casa mia appena puoi.-

 

Kate?

Perché Kate mi ha lasciato un messaggio del genere?

 

Corro subito verso la metropolitana sperando che i treni siano meno pieni e più puntuali. Provo a chiamare la mia amica, ma non risponde. 

Corro e telefono.

Telefono e corro.

La biglietteria è aperta e pare più libera di stamattina, anche i corridoi sotto terra sono più agevoli. Nessuna folla. 

Becco la linea gialla al volo, le porte si chiudono alle mie spalle per un soffio. Ansante per la corsa mi attacco ad un palo in attesa che il treno sotterraneo compia le fermate che mi distanziano dalla casa di Kate.

Con il cellulare in mano provo a chiamarla.

 

Niente.

Non risponde.

 

Merda, non so cosa possa essere successo, ma la cosa non mi piace per niente.

 

Con lo sguardo ben attento al cartellone luminoso che indica le fermate saltello sul posto come fossi pronta a spiccare il volo. In prossimità dell'arrivo mi piazzo davanti alla porta impedendo agli altri passeggeri di scendere per primi.

 

3.

2.

1.

 

Salto con un balzo felino sulla banchina della fermata, con una sgommata raggiungo le scale mobili che salgo a due a due. Corro per il corridoio che porta all'uscita e verso le scalinate.

Come una furia esco verso la strada.

Qui la neve è più alta, non essendo un quartiere centrale non sono passati ancora gli spazzaneve. Fregandomene del fatto che mi bagnerò completamente i pantaloni saltello nei mucchi ghiacciati come un coniglio in cerca della tana. I gestori e proprietari di locali, che con lunghe pale cercano di liberare il passaggio dalla neve, mi osservano incuriositi e divertiti allo stesso tempo. Vedere una donna muoversi in quel modo, goffamente e con il fiato corto, non è certo cosa da tutti i giorni.

 

Arrivo finalmente al portone del condominio di Kate.

Suono il campanello più volte.

 

Non risponde nessuno.

 

Mi cimento in una nuova raffica.

 

«C-chi è?». La voce di Kate arriva ovattata e metallica dal citofono.

«Kate? Kate, sono io, Elena. Ho ricevuto il messaggio, che succede?», le dico a voce alta.

 

Il portone di apre.

 

Percorro le due rampe ti scale a fatica. Ho i pantaloni inzuppati, le scarpe sono fradice. I muscoli delle gambe mi fanno male, in più sono completamente disidratata.

La porta dell'appartamento di Kate è socchiusa.

La spalanco e mi lancio dentro.

Le tapparelle sono abbassate e la poca luce che filtra dall'esterno non basta a illuminare. Cammino a tentoni calpestando pezzi e palle di carta. Sembra che la bufera di stanotte abbia fatto visita al l'appartamento della mia amica.

 

«Kate? Dove sei?», chiedo.

Un mugolio arriva dalla camera da letto.

Seguo il suono.

Mi muovo lenta perché ho paura di scivolare o far cadere qualcosa.

Un nuovo mugolio.

Apro la porta della camera.

La luce azzurra di un computer illumina la mia amica che, afflosciata a terra come un sacco di patate, mugola triste.

 

«Che succede? Kate!». Sono subito di di lei, la prendo per le spalle e la scuoto leggermente.

«Non so più cosa fare. Lo capisci, ho deluso Jane», mi dice con un filo di voce.

«Ma...». Non sto capendo.

Kate mi indica ciò che la circonda.

 

Decine di ritagli di immagini di abiti da sposa sono attaccati ovunque: alle pareti, alle sponde del letto, sulle ante dell'armadio. Abiti voluminosi, bianchi, ricamati, semplici, corti, lungi, a balze, colorati, ogni tipologia di abito possibile e immaginabile è in quella stanza.

Su ognuno di loro svetta la fotografia ritagliata del volto di Kate o Jane.

Articoli di giornale, appunti, liste e X rosse risaltano su alcune immagini.

 

Inquietante.

Molto, molto inquietante.

Sembra la stanza di un serial killer pronto a colpire.

 

«Ma che diavolo succede?», chiedo senza smettere di guardarmi intorno.

«Ho fallito. Io... io...», Kate scoppia a piangere.

«Io, cosa?». Esorto la mia amica a continuare.

«Io non so scegliere che abito da sposa comprare», dice con tono drammatico e mesto.

 

Stop.

Cosa?

 

«Aspetta. Aspetta. Tu mi hai chiamata, hai fatto tutta questa scena, hai conciato casa tua in questo modo per dirmi che non sai che cosa indossare il giorno del tuo matrimonio? È solo un abito da sposa». Sono basita, possibile che sia impazzita del tutto all'improvviso.

«Solo un abito da sposa? Lo prendo bianco o avorio?». Kate stacca l'immagine di due bellissimi abiti, identici, ma con una sfumatura di colore diverso. «Mi sta meglio lungo o corto? Essendo due donne dovremmo indossare la gonna entrambe? Velo o non velo? Decorazioni? Paillettes? Strascico?». La voce di Kate sta aumentando di volume. «Coroncina? Fiori? Tiara?». Stridii acuti escono dalle labbra di Kate. «Rose? Gigli? Margherite?». Con le mani nei capelli e lo sguardo spiritato si butta in ginocchio. «Cosa devo fare?», urla piangendo.

 

Trattengo a stento le risate.

Kate è impazzita del tutto.

 

«Forse dovresti andare in un negozio e provare dei vestiti. No?», le dico con calma cercando di farla ragionare.

«L'ho già fatto. Sono entrata in ogni boutique, negozio e centro commerciale di Boston e di New Heaven. Non c'è ne è uno che mi piaccia. Zero. Nulla. Mi sposo tra tre mesi. Sono in ritardo. Jane ha già il suo, mentre io...», mi dice sconsolata.

«Vedrai che il tuo abito c'è, dobbiamo solo trovarlo. Ok?», le dico mentre l'abbraccio stretta divertita del fatto che per una volta non sia io a creare i drammi, ma la mia amica. «Altrimenti potresti indossare un paio di jeans, una maglietta e delle infradito. Faresti sicuramente colpo, nessuno se lo aspetterebbe. Saresti molto chic».

 

Kate mi guarda per qualche secondo.

Un sorriso radioso non tarda ad arrivare.

 

«Cretina», mi dice.

«Oca», le rispondo.

 

Elena e Kate, le amiche perfette.

 

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Capitolo 26
*** OGGI: Perdersi tra le costellazioni ***


OGGI:
Perdersi tra le costellazioni




 

... controllate se avete letto il capitolo precedente...

 

Finalmente il weekend è iniziato. 

Mi sono lasciata Boston alle spalle per andare a New Heaven da papà. Domenica ci sarà una raccolta di fondi per l'associazione che segue Tess aiutandola a gestire meglio la sua dislessia. 

Ho portato dei vecchi bijoux e due borse in cuoio che non uso mai, sono praticamente nuove, serviranno a raccogliere qualche dollaro per la pesca di beneficenza in favore dei bimbi e delle loro famiglie. Anche Sebastian ha voluto contribuire, ha una piccola borsa piena di pupazzi con cui non gioca più. Kate donerà una macchina fotografica reflex perfettamente funzionante con tanto di flash e treppiedi.

 

«Oggi dobbiamo proprio andare da La Signora McArthur? Non sono dell'umore adatto». Kate ha il muso, un po' perché Jane non è potuta venire perché deve lavorare e un po' perché la sua ossessione per gli abiti da sposa sta diventando una mania.

«Ma scusa, non devi raccogliere il materiale per la mostra? Inaugura tra poco, dovrai passare dalla Signora McArthur per le cose di Demetra», dice papà mentre ci accompagna in macchina.

«Lo so è che vorrei fare altro», si lagna a Kate.

«Oggi sembri una bimba, fai più capricci di Seb», dico io.

«Hei! Io non faccio capricci, ok?». Sebastian mette il muso. Il suo broncio è adorabile, tutti scoppiamo a ridere.

«Giuro che la smetto. Non credevo che una cosa tanto semplice all'apparenza potesse crearmi tanta ansia», dice Kate mentre riempie di pizzicotti e solletico il piccolo che ride come un pazzo.

«Vedrai che troverai l'abito che più ti rappresenta, ne sono certo», dice papà mentre si immette nel viale della Signora McArthur. «Adesso andate, passo più tardi a prendervi. Mandami un messaggio con un po' di anticipo così riesco a organizzarmi con gli spostamenti».

«Va bene». Abbraccio papà dandogli un sonoro bacio sulla guancia, lo stesso fa Sebastian.

 

Geltrude ci sta aspettando sulla porta d'ingresso. Indossa un abito molto elegante color blu scuro con una gonna lunga, una spilla antica d'oro chiude il colletto ricamato. I capelli grigi raccolti sulla nuca in un elegante chignon la trasformano in una signora d'altri tempi.

 

«Ciao Seb», dice al mio piccolo che le corre incontro abbracciandola stretta.

I due iniziano a confabulare e ridere tra di loro.

 

Sembrano due bambini pronti a combinare qualche marachella.

 

«Buongiorno, grazie per averci accolti», dico alla vecchia.

«Certo che potevi portare prima questo splendore. Non ti sembra passato troppo tempo dall'ultima volta che ci siamo visti?», mi dice acida.

«Ma se ci siamo viste su Skype qualche giorno fa», le rispondo indispettita.

«Quella diavoleria non mi piace. È asettica», mi dice dura.

«E cosa dovrei fare, portare Sebastian tutti i fine settimana?».

«Non sarebbe una cattiva idea». Geltrude prende Seb per mano invitandolo ad entrare.

 

Alzo lo sguardo al cielo.

Quella vecchia è insopportabile.

 

Kate ed io li seguiamo quei due mentre saltellano sulle scale verso lo studio al piano superiore. 

 

«Ma come fa? Io mi spezzerei le ginocchia a saltellare come fa lei», mi sussurra Kate indicandomi la gonna svolazzante della Signora McArthur.

«Un bicchiere di latte tutte le mattine e attività fisica regolare. Ho ossa forti», ci urla Geltrude a un paio di metri di distanza da noi.

 

Kate mi guarda sconvolta, si tocca le orecchie con la mano aperta. È stupita del fatto che ci abbia sentito da così distante. 

Io no. 

Quella vecchia rompiscatole è indistruttibile, scommetto che in una gara a braccio di ferro mi batterebbe.

 

Lo studio pare una succursale della scuola materna di Sebastian. 

I mobili spostati hanno creato un grande spazio dove sono ben disposti libri, giochi, un piccolo tavolo con pennarelli e fogli bianchi da colore. Il mio piccolo si butta su dei cubetti colorati che si diverte a mettere uno sopra l'altro per poi farli cadere rumorosamente sul pavimento.

 

Geltrude lo guarda estasiata.

 

Kate ed io ci avviciniamo con discrezione agli oggetti di Demetra, dalla parte opposta della grande stanza, vicino alla vetrinetta con le chiavi e tutto il resto.

Estraggo dalla borsa un taccuino su cui ho appuntato le note di Kate ed inizio a leggerle ad alta voce. Kate scatta foto e mi indica gli appunti da segnare in modo tale da avere più chiaro cosa le può servire e cosa le piacerebbe fotografare.

Mettiamo un po' di ordine in tutto quel marasma di oggetti.

 

«Siete già al lavoro?», la voce di George McArthur giunge all'improvviso. Sia io che Kate trasaliamo.

«Buongiorno», gli dico sorpresa mentre gli stringo la mano, non credevo sarebbe stato presente.

«Ho voluto assistere alla scelta del materiale da esporre. Conoscevo bene mia moglie, sarebbe stata orgogliosa di partecipare ad una mostra tanto ispirata», dice l'uomo fissando con intensità gli oggetti all'interno della vetrinetta.

«Ringrazio la sua famiglia per il tempo che ci dedicate. Poter raccontare la storia di Demetra sarà sicuramente di ispirazione per le generazioni future», dice Kate.

«L'arte è un tassello fondamentale nella vita, come la serenità e la salute. Non si può vivere cercando di raggiungere solo una di queste cose, ci vuole equilibrio e Demetra era riuscita a trovare il suo, anche se l'arte che più amava non poteva viverla quanto avrebbe voluto», dice l'uomo.

 

Un fiume carico di tristezza mi investe.

Pensare alla passione di Demetra e all'amore per il canto, mi incupisce.

 

«Vi serve altro? Le cose qui presenti vi bastano?», ci chiede cortese.

«Avrei un'idea. Non so se possib...».

 

Una voce interrompe Kate.

 

«Ciao papà». James sbuca dalla porta che conduce al piccolo studio, lo stesso in cui mi aveva accusata di avergli mentito, dopo la morte di sua madre. «Ciao Kate. Ciao Elena», dice neutro.

«Ciao figliolo. Stavo giusto parlando con le tue amiche per capire cosa potesse servire loro. La mostra si avvicina, dobbiamo prendere delle decisioni», dice con voce ferma, ma cortese.

«Sì, è ora di mettere in chiaro le cose». James guarda tutti i presenti negli occhi fermandosi un po' troppo sui miei.

 

Arrossisco.

 

«Avevo in mente, se possibile, di aggiungere qualche accessorio moda. Le foto che ho di Demetra la mostrano sempre con abiti stupendi e lussuosi, gioielli e accessori vintage di alto pregio. Non li metteremo in mostra, però mi piacerebbe fotografarli», dice Kate mentre controlla sul suo taccuino gli appunti.

«Certo. Ottima idea. Non so se hai già un'idea precisa o se posso suggerirne una io», dice George.

«Pensavo al vestito che ha indossato all'ultima festa degli ex studenti del Trinity. Le stava così bene e l'abito era favoloso. Mi ricordo che avete ballato e tutta la sala vi ammirava», dice Kate con impeto.

George sorride malinconico: «Quello va benissimo, ti farò avere anche i gioielli che indossava. Li porterò personalmente a Boston sul set fotografico. Avevo in mente un'altra cosa. Posso proporla?», chiede garbato.

«Come no. Ovviamente», risponde Kate.

«Vado a prendere una cosa, con permesso». L'uomo si inchina leggermente prima di uscire dalla stanza.

 

Imbarazzo.

C'è molto imbarazzo vista la situazione.

James ed io siamo a faccia a faccia.

Kate, per allontanarsi, si mette a scattare foto alla vetrinetta anche se non ne ha bisogno.

James è di fronte a me.

Mi fissa.

 

«Mamma. Mamma». Sebastian mi corre incontro come una furia.

Lo prendo in braccio al volo estremamente sollevata per aver interrotto quel momento imbarazzante tra me e James. «Che c'è campione?».

«Guarda che belli questi robot. Saltano e camminano», mi dice eccitato. In mano stringe due robottini di latta a molla, di quelli che facevano una volta. Hanno l'aria consumata, ma non per questo non hanno fascino, anzi, sembrano avere vita propria.

«Lo sai che ci giocavo quando ero bimbo. Ho chiesto a mia nonna di darteli, così adesso ci puoi giocare tu», dice James con pacatezza e gentilezza.

 

Trattengo il fiato.

 

Sebastian guarda James come se lo vedesse per la prima volta in vita sua. Non tarda ad arrivare un sorriso smagliante e grato per lo splendido regalo fattogli. «Lo sai che se lo metti a pancia in giù gira su se stesso?».

«Davvero?», dice James con l'aria stupita cercando di non smontare l'entusiasmo di mio figlio.

«Guarda, si fa così». Sebastian si slaccia dal mio abbraccio per poi sedersi per terra con le gambe incrociate. Con le dita piccole e un po' goffe carica la molla del robot, tenendo bloccate le gambe di latta, poi appoggia il giocattolo a terra a pancia in giù. Le gambe robotiche iniziano a muoversi freneticamente facendo girare il giocattolo su se stesso.

Sebastian batte le mani felice mentre James carica l'altro robot facendolo cadere apposta. «Credo di aver perso la mano. Mi aiuti tu?», chiede al mio piccolo.

Sebastian, gonfiando il letto, mostra a James come fare senza tralasciare una spiegazione dettagliata e minuziosa su ogni singolo passaggio.

 

È incredibile come il candore e la purezza di Sebastian riescano ad incantare tutti quanti.

Osservo James, ormai uomo, muoversi con calma e accortezza per non turbare mio figlio, lo osservo sorridergli con sincerità, mostrando il lato più umano di se, quello che avevo imparato ad amare molti anni prima. Lo scintillio nei suoi occhi pare quello di un bimbo, la genuinità dei suoi modi mi ipnotizzano.

Mi ritrovo ad essere assorta e stregata dai loro movimenti come fossi una spettatrice, una curiosa, una spugna avida di sensazioni. I loro rumori pacati, lo scricchiolio gentile dei meccanismi nel giocattolo, le parole sussurrate da James e Sebastian, mi portano lontana, su una nuvola, mi rilassano. È come se un dolce massaggio partisse dalla nuca per espandersi nella schiena e nella testa.

 

Potrei stare così per sempre.

Rilassata.

Tranquilla.

Serena.

 

«Eccomi qui». George irrompe e squarcia la pace sensoriale creata. Porta in mano una grande busta di tela bianca con una gruccia che sporge dalla parte superiore.

 

Cerco di ricompormi e togliermi quellaria imbambolata avuta fino a pochi secondi prima. Prendo Sebastian facendolo accomodare su una poltrona vicino a me.

 

«Che cos'è papà?», chiede James aiutando suo padre con l'ingombrante involucro.

«Ho pensato che questo potesse rappresentare a pieno tua madre. Tienilo tu, aprilo. Io devo spiegare a Kate la storia che c'è dietro a questo abito», dice a George al figlio mentre si avvicina a Kate che inizia prendere appunti appena l'uomo inizia a parlare.

 

James mi guarda, non sa cosa fare con in mano quella grande busta.

 

«Ti aiuto io», gli dico prendendo la gruccia che pende storta alzandola più in alto possibile sopra la mia testa. «Tu apri la cerniera e togli il vestito. Così non lo sgualciamo».

 

Zip.

Una lunga corsa accompagna le dita di James che con attenzione fa scivolare la lampo lungo tutto l'involucro.

Sporgendomi di lato cerco di sbirciare l'abito, avendo le braccia in alto e la custodia in faccia non riesco a vedere molto.

 

«Oh, mio Dio», dice con un sussulto James.

 

La mia testa fa capolino da un lato.

Mi sporgo più che posso.

 

Trattengo il fiato.

 

D'istinto guardo James. I suoi occhi paiono più umidi e rossi di quanto lo fossero pochi minuti fa. Con la bocca semiaperta osserva l'abito che ha davanti, lo squadra come se cercasse di capire se quello che vede è reale o meno.

 

È l'abito da sposa di Demetra.

Bianco, elegante, pizzo e cristalli lo impreziosiscono. Un dolce scollo a cuore accompagna la linea del vestito che morbido e leggermente ampio si allarga verso il basso.

Quello è l'abito con cui ha sposato George.

Lo so perché Geltrude tiene una foto del figlio e della nuora, novelli sposi, sul tavolino vicino al camino.

 

«Vuoi una mano a toglierlo da qui dentro?», gli chiedo a voce bassa.

James annuisce.

 

Insieme lo sfiliamo prestando attenzione a non rovinarlo.

 

«Adesso Elena abbassa le braccia, ti faranno male se le tieni così in alto e con quel peso», mi dice James riferendosi alla gruccia che spingo sopra la mia testa.

 

James mi prende i gomiti spingendo verso il basso.

Seguo le sue direttive senza dire nulla.

James porta la gruccia all'altezza delle mie clavicole.

Sento il legno premere sul mio maglione.

James muove l'abito facendo scivolare la stoffa sul mio corpo.

Immobile tengo la gruccia ferma.

James segue la linea del vestito con le mani sfiorando involontariamente anche la mia vita.

Trattengo il fiato.

James si inginocchia davanti a me smuovendo con movimenti delicati la base del vestito  facendo scintillare le decine di pietruzze attaccate.

Osservo e non fiato.

 

«Lo tengo io, adesso», mi dice con voce ferma e sussurrata. 

 

James prende la gruccia dalle mie mani tenendolo sempre all'altezza delle mie clavicole, con l'altra mano smuove la lunga manica di pizzo facendola aderire al mio braccio. Con piccoli tocchi precisi la muove come se la volesse attaccare al mio maglione.

 

Il cuore batte.

Batte così forte che ho paura si veda attraverso i vestiti.

Ho paura che possa far ondeggiare l'abito di Demetra che sfiora il mio corpo.

 

«Stupendo. Bellissimo. Non l'avevo mai visto dal vivo, mamma non voleva lo toccassi. Era molto affezionata», dice James.

«Hai ragione, è magnifico», dico con la salivazione azzerata e completamente in balia dei movimenti misurati del mio interlocutore. 

 

James sorride, quel suo solito sorriso sghembo, quello che mi ha fatto perdere la testa quattordici anni fa. Con la testa inclinata mi osserva, si sofferma sui miei occhi. Con la mano libera sposta una ciocca dei miei capelli incastrandola dietro l'orecchio, proprio come facevo io con lui quando eravamo ragazzi. Con l'indice sfiora la piega del collo per poi risalire verso il mento. Con un piccolo salto porta il dito sulla punta del mio naso muovendosi con una lentezza disarmante sulla costellazione di lentiggini che cospargono il mio volto.

 

Tremo. 

Soffoco. 

Annego.

 

Non mi sono sentita più viva di così.

 

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Capitolo 27
*** OGGI: Aspettative ***


OGGI:
Aspettative






«Respira Elena. Prendi fiato e non andare in iper ventilazione». Kate mi massaggia la schiena.

 

Adesso svengo.

 

Sebastian, mano nella mano con Maggie, saltella felice sul marciapiede. Papà e Tess chiacchierano con loro. Non si sono accorti della mia strana espressione che pare essersi cementata sul mio volto da un giorno a questa parte. È come se la mia bocca fosse contorta in una smorfia e le sopracciglia sollevate verso l'alto.

In poche parole come se fossi tra lo stupito e lo sconvolto, molto sconcertata e piuttosto confusa.

Quello che è successo ieri con James mi ha lasciato senza parole.

 

Non ho chiuso occhio.

Ho perso appetito.

Sono tesa come una corda di violino.

 

Possibile che io sia così facilmente influenzabile da James dopo tanti anni?

 

«È normale. Non hai mai chiuso con lui. È come se tu tornassi una adolescente irragionevole, soprattutto se lui si comporta gentilmente con te. È più che normale», mi dice Kate prendendomi per mano.

«No. Non lo è. Mi sento così fragile, ma ti sembra normale?», la mia voce ha note stridule e più stonate del solito.

Kate ridacchia.

«Vorrei vedere te al mio posto. Ti assicuro che non è una bella sensazione», le dico mentre mi asciugo il sudore dai palmi delle mani. «Inoltre oggi George e James verranno all'asta di beneficenza con Geltrude. Si prospetta un altro giorno sfiancante».

«Del resto non sono io che sono scappata senza spiegare niente a nessuno. Non credi sia l'ora di finire tutta questa storia? O forse non ti vuoi liberare perché...». La faccia maliziosa di Kate mi si parla davanti all'improvviso.

«Perché cosa? Ma sei matta. No. No. È che non so come affrontarlo, devo solo trovare il modo di non farmi addolcire dai suoi modi gentili. Quando James vuole sa come vendersi... ogni volta mi frega. Ma ti sembra possibile? Ho più di trent'anni e mi sento una bimba».

«Per me devi troncare con il passato e non lo hai ancora fatto del tutto. Se non avessi i tuoi turbamenti con James, Nik, Rebecca e compagnia bella ti sentiresti vuota. Un po' ti piace, non puoi vivere senza drammi», mi dice schietta.

Grugnisco.

 

Anche se mi scoccia ammetterlo ha ragione. È come se mi crogiolassi nelle mie fantasie e cercassi volontariamente di incasinarmi la vita. 

Prima Nik con la nostra relazione non-relazione poco chiara: stiamo insieme, ci lasciamo, torniamo insieme. 

Poi Rebecca che mi lancia frecciatine su frecciatine acide. 

Jonathan che fa l'amicone come se fossimo ancora due ragazzini. 

Stephanie che mi rende partecipe della sua vita e della tristezza che permea ogni suo istante.

Infine James che prima mi tratta male sul l'ascensore comportandosi da bulletto e ieri che pare uno zuccherino, dolce e amorevole.

 

Se fossi sana di mente li manderei tutti a quel paese per vivere la mia vita in tranquillità, eppure non riesco a liberarmi di nessuno. È come se dei sottili fili indistruttibili mi legassero a loro, come se il destino si divertisse a farci incontrare e scontrare.

 

Forse Kate ha ragione, devo recidere il cordone che mi unisce a tutti loro e tenere solo ciò che mi fa star bene e allontanare ciò che mi fa soffrire.

Ma non è facile, non lo è per niente.

 

L'edificio che costeggia la biblioteca universitaria di New Heaven è addobbato a festa. L'associazione S.U.N ha fatto le cose in grande: centinaia di palloncini colorati decorano l'esterno dell'edificio, striscioni e cartelli richiamano l'attenzione dei passanti. Sembra una grande festa di paese, una di quelle che riunisce la comunità rendendola più unita. Profumi e aromi deliziosi solleticano il mio palato, bancarelle con specialità e golosità sono una di fianco all'altra. Decine di famiglie scivolano lente incastrandosi tra di loro, sbirciando, assaggiando e comprando cibo, giochi e ninnoli.

Per qualche minuto mi metto ad osservare tutto come se tutti i miei pensieri fossero microscopici e non avessero importanza. L'atmosfera rilassata e festosa mi mette di buon umore.

 

«Sono commercianti e ambulanti della città. Oggi aprono i loro banchetti e offrono, a prezzo ridotto, le loro specialità. Il resto lo danno in beneficenza per l'associazione. In un modo o nell'altro tutti hanno parenti che hanno ricevuto aiuto, sia che si tratti di un bimbo con difficoltà a scuola o un adolescente problematico», mi urla Tess mentre una chiassosa banda passa di fianco a noi percuotendo, fischiando e pizzicando decine di strumenti musicali.

Annuisco stupita. Non mi sarei mai aspettata di trovare tanto amore, con un semplice gesto possono aiutare molte persone.

 

Sono felice di partecipare, credo sia una causa giusta.

 

Maggie e Seb paiono impazziti.

Vorrebbero fermarsi ad ogni bancarella, assaggiare ogni cosa e comprate tutto ciò che attira la loro attenzione. Devo trattenere il mio piccolo perché pare in preda a una psicosi: saltella, urla, indica, corre e gesticola come un pazzo.

Di solito così tranquillo e così misurato, oggi sembra una furia.

Un chiosco che vende zucchero filato multicolore attrae Seb come fosse un pezzo di ferro con una calamita. Con i palmi appiccicati alla bancarella e gli occhi fuori dalle riviste fissa ipnotizzato il movimento circolare del commerciante.

 

«Ne vuoi uno? Se ti prendo questo però dopo non puoi mangiare altre schifezze altrimenti ti viene il mal di pancia», gli dico cercando di attirare la sua attenzione.

«Che vuoi che sia un po' di zucchero filato, non fa di certo male». Geltrude è dietro di noi. Con il portafoglio in mano indica al commerciante di farne due per i bambini.

«Buongiorno Geltrude. Come sempre prova a smontare la mia autorità davanti a mio figlio. A volte vorrei insegnarli a fare la cosa giusta», le dico un po' acida e divertita allo stesso tempo.

«Figuriamoci. Una festa è una festa. Non succede mica tutti i giorni», mi dice la donna prendendo le due nuvole dolci consegnandole a Sebastian e Maggie, prima però ne assaggia un pezzo da entrambi.

«Non dirlo a mio figlio», mi sussurra schiacciando l'occhio.

 

George arriva un secondo dopo, con lui c'è James che spinge un signore di una certa età sulla sedia a rotelle.

 

«Buongiorno Elena. Buongiorno Kate. Ciao Bruno», George bacia Tess poi scompiglia i capelli di Maggie e Seb che, troppo impegnati a mangiare lo zucchero filato, non si accorgono neanche del suo arrivo. «Niente dolci, mamma. Sai che il dottore te li ha proibiti».

Geltrude alza gli occhi al cielo leccandosi le labbra per rimuovere gli ultimi residui di zucchero.

«Vi presento Montogomery Samuel II. La sua famiglia è tra le fondatrici di questa comunità, è grazie a loro che questa cittadina ospita una delle migliori università della nazione. È grazie a te che tutto funziona come dovrebbe andare», dice George battendo amichevolmente la mano sulla spalla dell'uomo.

«Sono cose più vecchie di noi due messi assieme. Io non ho fatto nulla, ho avuto avi più saggi e furbi di me, non darmi il merito per ciò che non ho fatto», dice con voce pacata. 

«Caro Samuel, non fare il modesto. Tutti sanno quanto ti prodighi per aiutare i tuoi concittadini», dice Geltrude.

«Invece di parlare di me, perché non mi presentate queste belle fanciulle e questi adorabili bambini». L'uomo si sporge leggermente dalla sedia a rotelle dando un pizzicotto sulla guancia di Sebastian e Maggie. Con i capelli bianchi come la neve, la barba folta, sembra una versione di Babbo Natale più in forma.

«Loro sono Elena Voli e Kate Husher, abbiamo frequentato il Trinity Institute insieme», dice James.

«Kate Husher la fotografa. Apprezzo molto i suoi scatti, credo che l'arte dovrebbe essere valorizzata di più. Purtroppo nel nostro mondo si sta perdendo il gusto per il bello». La voce profonda dell'uomo è rassicurante, ma allo stesso tempo le sue parole, seppur semplici, paiono certezze. È come se il significato di ogni sillaba pronunciata avesse un peso diverso, come se la gravità carpisse quei suoni ancorandoli al terreno per renderli verità inoppugnabili.

 

«Io ed Elena stiamo lavorando ad una mostra, inaugurerà tra poco. Una cosa organizzata all'ultimo, ma che mi sta dando molte soddisfazioni», dice Kate.

«Elena Voli. Elena voli», ripete il vecchio fissandomi, «È un piacere conoscerla».

 

Un lieve rossore mi colora le guance.

Il modo di fare del Signor Montgomery è affascinante. Sembra uno di quegli uomini di una volta, mi ricorda un po' Mauro l'inserviente che lavora al ristorante sotto il mio ufficio. Persone così ce ne sono poche in giro.

 

«Sapete che è la prima volta che partecipo a questo evento qui a New Heaven? Mi rammarico di ciò, ma a volte essere nella mia posizione rende difficile approcciarsi con la gente. Le persone hanno aspettative che spesso non vengono soddisfatte e credono che avere soldi possa aiutarle. Sento il peso di tutto questo, a volte». Il Signor Montogomery muove la mano verso le bancarelle e le decorazioni colorate. «Ho sempre pensato che un buon assegno potesse bastare, ma credo che partecipare e conoscere persone nuove possa essere un nuovo stimolo, non trovate?».

«Coraggio Samuel, non è mai tardi per fare cose nuove. Tra un po' ci troveremo io e te a giocare a carte tutti i giorni, anche io mi dovrò abituare a una nuova vita. È quasi tempo che io vada in pensione», dice George iniziando a spingere la sedia a rotelle.

«Così presto?», dice papà affiancando i due uomini.

«È ora di lasciare spazio ai giovani. Mio figlio è un ottimo avvocato, James è preparato». George sorride mentre si incammina verso l'ingresso dell'edificio decorato a festa.

Maggie, Sebastian, Geltrude e Tess seguono il trio ridacchiando tra di loro

Kate ed io li seguiamo.

James è dietro di noi.

 

George McArthur va in pensione?

È chi lo avrebbe mai pensato. Non è poi così vecchio, è in forma e ha una carriera più che brillante. Di certo non mi aspettavo un'uscita del genere.

 

«Vado dai piccoli, non vorrei che Geltrude li riempisse di dolci per poi mangiarli lei». Kate è frettolosa, si allontana camminando all'indietro e parlando allo stesso momento.

 

Mi lascia sola.

La cosa mi puzza.

Dopo nemmeno due passi a James è dietro di me.

 

«Quanto può essere strano il destino a volte. Sembra che le aspettative rovinino la vita alle persone più dei fatti stessi, più della realtà delle cose», dice James.

«Ti riferisci alle parole del Signor Montgomery di prima?», gli chiedo cercando di mascherare l'imbarazzo che mi crea stando vicino a lui.

«Più o meno. Lui ha sempre avuto paura che la gente potesse approfittarsi di lui e che si aspettasse sempre qualcosa in cambio. Soldi. Potere. Per questo ha sempre avuto paura di farsi conoscere». 

 

James ed io entriamo nella grande sala dove decine di banchetti mettono in mostra un mercatino pieno di oggetti offerti per l'associazione. C'è l'imbarazzo della scelta, si può trovare di tutto da vecchi libri, quadri, piatti, vestiti e giocattoli.

 

«Credo sia normale per un uomo nella sua posizione». Rispondo mentre tengo tra le mani una di quelle palle di vetro con la neve dentro. La giro e rigiro più volte con delicatezza.

«Le aspettative tendono a confondere e ad essere fraintese, tu dovresti saperne qualcosa», mi dice James asciutto.

«In che senso?». Non mi piace per niente il tono che sta usando.

 

James sorride.

Non sembra felice, sembra infastidito.

 

«Ieri a casa di mia nonna. È bastato solo che mi comportassi come tu volevi che io fossi per fare in modo che le tue aspettative venissero confermate. Hai avuto ciò che volevi. Hai avuto ciò che desideravi, anche se credo non lo ammetteresti mai». James prende dalle mie mani la palla di vetro agitandola con forza. La neve turbina al suo interno per poi calmarsi e posarsi sul fondo.

«Cosa stai dicendo? Cosa diavolo vuoi dire?», gli chiedo con tutta la rabbia che covo dentro.

«Voglio dire che non vivi assaporando ciò che veramente ti circonda, ma insegui le tue aspettative. Così facevi da ragazza e così fai adesso. Lo hai sempre fatto e lo farai sempre. Sei così prevedibile. Credevo che con il tempo fossi cresciuta, ma invece sei ancora lì, a quando avevi diciott'anni», mi dice con tono sarcastico James riprendendo a camminare tra le bancarelle.

«Tu non sai niente, non sai nulla di me». Prendo James per un braccio obbligandolo a fermarsi e guardarmi in faccia quando dice queste cose.

«So solo che è divertente giocare con te, ma alla fine diventa noioso. Le tue aspettative sono le stesse che avevi con Jo, con me e con tutti noi. Ripeto, sei prevedibile». 

 

Lo prenderei a schiaffi.

Gli torcerei il collo.

Sento un mostro animarsi dentro me.

 

«Eppure non credo tu potessi prevedere quando me ne sono andata da New Heaven. Anche quello fa parte delle mie aspettative? Forse in quel caso io ho deluso le tue. Se non mi sbaglio sei tu che credi di conoscermi, ma invece non sai nulla di più di quello che ti fa comodo», gli ringhio in faccia.

 

James stringe le mascelle.

 

Io stringo i pugni.

 

«Credo che andrò da solo tra i banchetti», dice James girandosi dall'altra parte e mostrandomi la schiena.

«Io andrò da quest'altra. Se ti capitasse di rincontrarmi evita di rivolgermi la parola», gli urlo affinché possa sentirmi.

«Non ti preoccupare, Elena, non deluderò questa tua aspettativa. Non sia mai, detesto deluderti», mi dice James allontanatisi da me ed io allontanandomi da lui.

 

Infuriata con me stessa distruggo i ricordi passati che mi tengono ancorata a James. Li strappo trasformandoli in piccoli coriandoli di carta senza forma. 

La rabbia che provo è lo stimolo a recidere quei fili invisibili che mi tengono ancorata al mio passato.

 

La bolla che mi ha avvolta sta esplodendo lasciandomi sola, inerme.

 

Sola in mezzo a sconosciuti.

Sola tra oggetti appartenuti ad altri e ordinatamente esposti.

Sola mi ritrovo a dover nuovamente affrontare le mie paure.

 

Non voglio più aspettative.

Non ho più aspettative.

 

Voglio vivere il presente.

 

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Capitolo 28
*** OGGI: Poche Parole ***


OGGI:
Poche parole





L'assistente di Kate porta gli scatoloni sul set fotografico, vengono direttamente dalla casa di Geltrude. Parte delle lettere d'amore scritte per George, le chiavi che Demetra ha rubato, spartiti, gioielli di scena, i libretti delle opere in cui ha cantato la donna e diversi oggetti appartenutegli riempiono ben presto il pavimento.

Un ingombrante porta abiti è appeso ad un gancio, contiene l'abito da sposa di Demetra. Un manichino in legno dall'aria antica aspetta solo di essere vestito.

 

«Elena prendi la scatola verde e mettila sul quel ripiano, i riflessi della luce sul legno colorato dovrebbero far risaltare i gioielli. Almeno lo spero», mi dice Kate mentre cerca di dare ordine a quel caos.

«Tu porta le lettere e mettile in quell'angolo», dice Kate al suo assistente.

«Elena sposta il manichino sulla sinistra. Sì, proprio lì. Dopo ti aiuto a vestirlo, voglio solo dare equilibrio alla composizione». Kate osserva tutto da tre metri di distanza, ci dirige come fossimo strumenti di un'orchestra. Con diverse gelatine prova i vari colori davanti ai faretti cercando quello che più di addice alla composizione generale.

«C'è un colore dominante, ed è freddo. Guarda i gioielli, gli oggetti selezionati e il bianco dell'abito da sposa. Ricorda un ghiacciaio, una foresta imbiancata. Devo trovare la luce giusta altrimenti sembrerà una camera mortuaria». Kate si avvicina tocca, sposta, sistema, poi si allontana.

Io eseguo senza proferire favella, lo stesso fa il suo assistente.

 

È bellissimo vedere lavorare Kate.

Ha una costanza e concentrazione al di fuori del normale.

 

Kate si avvicina alle lettere d'amore, ne apre un paio leggendone il contenuto solo per pochi secondi. L'intimità che racchiudono è più viva di qualsiasi ricordo o racconto possibile. Sposta i gioielli preziosissimi da una parte all'altra senza trovare una collocazione precisa. Si avvicina. Inquadra. Si allontana.

Si capisce che Kate non è soddisfatta.

 

«Se vuoi puoi appoggiare i gioielli sulle lettere, oppure sulla scatola di legno laccata di verde», dice George sbucando all'improvviso.

 

Mi guardo intorno per vedere se è venuto da solo.

James è all'ingresso troppo occupato in una conversazione telefonica per accorgersi di noi.

Meglio così.

 

«Ho già provato entrambe le soluzioni, non sono un gran che. Il brutto dei gioielli è che riflettono troppo la luce e non è semplice fotografarli soprattutto in una composizione articolata come questa», spiega Kate.

George si avvicina osservando con interesse gli oggetti esposti. «E se aggiungessimo questo?». L'uomo estrae un fazzoletto blu notte dal taschino della giacca, lo appallottola come fosse un nido e poi adagia i preziosi di Demetra come fossero piccoli esseri viventi.

«Favolos...».

Kate si interrompe.

 

Estrae dalla tasca il cellulare.

 

«Ops», dice Kate guardandomi con aria supplichevole.

«Che succede?», le chiedo. Quando la mia amica ha quella faccia non promette nulla di buono.

«Finanziatori. Sai quella storia... hai capito, no?». Kate fa la vaga, so benissimo dove vuole andare a parare, la chiacchierata con i misteriosi finanziatori della mostra.

«Oggi non posso. Dopo pranzo ho un appuntamento con Nik, non posso saltarlo è una cosa importante», le dico schietta.

«Ti prego. Ti prego. Ti prego», mi ripete fino allo sfinimento. «Io ne avrò qui per tutto il giorno e probabilmente anche stanotte. Devi solo andare e fare una chiacchierata, raccontare come vanno le cose. Tutto qui».

«Ci impiegherò una vita. Non puoi chiedere di rimandare?», le chiedo.

Kate fa cenno di no con la testa.

 

Merda.

Ho promesso a Nik che lo avrei aiutato per tutta quella faccenda dell'albergo di Lucas. Non posso tirarmi indietro, non adesso.

 

«Kate ti giuro che non posso dividermi. Ho un impegno improrogabile dopo pranzo e...». 

George McArthur mi interrompe. «Se vuoi ti accompagno io. Devo andare in ufficio, ho la machina qui fuori che mi aspetta. Non mi costa nulla portarti dove vuoi».

«Deve andare verso il centro, proprio nella vostra direzione». Kate sorride battendo velocemente le mani. Con gli occhi spalancati annuisce.

 

La detesto.

Detesto tutti.

Con la fortuna che mi ritrovo non riuscirò a combinare nulla e Nik si infurierà con me.

 

«Ok», dico con la faccia lunga.

«Bene, ti aspetto fuori». George si inchina leggermente e raggiunge l'uscita. James lo segue senza smettere di parlare al telefono.

 

Kate mi corre incontro abbracciandomi.

Mi stritola.

«Grazie. Vedrai che non ci vorrà molto, devi solo descrivergli il materiale raccolto e spiegare che abbiamo sette storie di sette donne magnifiche da raccontare. Elena, mi togli un peso, non devo compilare scartoffie e posso concentrarmi di più sul mio lavoro». Kate fa ballonzolare la macchina fotografica davanti al mio volto.

 

Grugnisco.

Non ho voglia di stare in quella stanza bianca a parlare con un muro, leggere parole e sentirmi vulnerabile.

 

«Va bene, andrò dai finanziatori. Però, per farti perdonare, domani sera mi aspetto che Jane mi cucini il dolce più cioccolatoso che possa esistere sul pianeta. Capito?», le dico con finta aria minacciosa.

Kate mi sbaciucchia.

 

Sorrido.

 

Infilandomi il cappotto e avvolgendomi nella sciarpa lascio la mia amica a concentrarsi sulle foto. Ho il tempo limitato, Nik mi aspetta ad un orario preciso, e il passaggio in auto di George McArthur è sicuramente un aiuto prezioso. Meglio approfittarne.

 

Salgo sulla lussuosa limousine che mi aspetta con il motore acceso.

James è alle prese con la sua telefonata di lavoro mentre il padre osserva silenzioso fuori dal finestrino la città che pare più luminosa del solito, un sole giallo e abbagliante fa scintillare le vetrine e i vetri delle auto.

L'autista, silenzioso e riservato, guida fino all'indirizzo che gli ho detto.

Nessuno mi rivolge la parola, nemmeno quando James smette di parlare al cellulare rendendosi improvvisamente conto che sono in macchina con lui e suo padre.

Senza scomporsi mi osserva. Pochi secondi. Poi si mette anche lui a guardare fuori dal finestrino muto e assorto.

 

Non mi sento a disagio.

Certo, non vorrei essere lì con James, ma dopo l'ultima sceneggiata fatta alla festa di beneficenza non mi aspetto altro da lui. È un uomo incapace di gestire qualsiasi emozione come del resto è sempre stato. Lo ha dimostrato alla festa di fine anno al Trinity e anche qualche giorno fa a New Heaven. James non fa mai nulla per nulla, se non ha il suo tornaconto non mostra il minimo interesse. James non è in grado di darmi altro, e come una stupida ho dovuto sbatterci la faccia per rendermene conto.

Quello che c'è stato tra di noi è solo fumo negli occhi e io non devi perdermi in quella nebbia.

Non posso.

 

La Limousine si ferma proprio di fronte all'ingresso dell'ufficio dei finanziatori. Saluto con una stretta di mano George che mi sorride affabile mentre James non mi calcola minimamente.

Scendo senza voltarmi indietro.

Il rumore potente della macchina si allontana velocemente lasciandomi da sola di fronte  al portone dell'associazione Wons. Non faccio nemmeno in tempo ad alzare il braccio per bussare sulla porta che la splendida segretaria dai lunghi capelli rossi e gli occhi verde smeraldo mi invita ad entrare. Con eleganza e ancheggiando sinuosa mi porta nella lunga stanza bianca. Neanche lei dice nulla, sorride e basta. Sorride e mi fa accomodare su una sedia di fronte a una parete spoglia che ho imparato a conoscere bene. Il ronzio del proiettore è lo stesso dall'altra volta, la luce soffusa pure.

Il cursore lampeggia.

Aspetto.

 

Buongiorno. Ho piacere che sia venuta qui. 

Sono curioso di conoscere e poi riferire alla mia socia i progressi 

nell'organizzazione della mostra.

 

«Buongiorno a lei. Grazie per l'invito. I giorni scorsi abbiamo avuto la possibilità di andare dalla suocera di Demetra McArthur per prendere diversi oggetti appartenuti a quest'ultima», dico ad alta voce sentendomi molto stupida, come l'altra volta.

 

Per quanto riguarda le altre artiste? 

Avete tutto il materiale necessario?

 

«Sì. Le famiglie e le dirette interessate sono state felici di aiutarci. In poco tempo abbiamo raccolto tutto quello che serviva a Kate. Alcuni di questi oggetti verranno esposti, mentre altri fotografati e poi inseriti nel catalogo», dico ad alta voce.

 

Avete pensato di inserire testi? Sarebbero interessanti delle interviste o comunque qualche testo che racconti la vita straordinaria di ognuna di loro.

 

«Kate ha contattato degli amici di una casa editrice indipendente. Sono bravi a raccogliere il materiale, sanno come muoversi. Sono gli stessi che hanno scritto i testi per il libro di Kate, l'ultima pubblicazione, quella della sua mostra». 

Osservo le lettere proiettate sulla parete sparire. Il cursore lampeggia. Il finanziatore sta scrivendo.

 

Per ora avete sforato il budget?

 

«No, signore», rispondo in automatico.

 

Non vorrei sembrarle taccagno, ma i soldi hanno una certa importanza. 

Non mi piace lavorare con chi non conosca il valore del denaro e non lo sappia dosare e amministrare. 

 

«Ha ragione. Faccia conto che io lavoro gratuitamente per Kate, è la mia più cara amica, ho piacere ad aiutarla. Il resto dei conti lo può verificare quando e come vuole». Non mi piace parlare in questo modo, mi sembra di rendere sterile l'intero progetto, soldi e conti non sono l'anima della mostra, ma servono per fare in modo che le cose vadano come debbano andare.

 

In che modo si mantiene? 

Come può dedicare tanto tempo a un progetto 

così impegnativo senza retribuzione?

 

«Lavoro da libera professionista come traduttrice. Traduco manuali di elettrodomestici, acquari e altri oggetti di uso quotidiano», rispondo senza la minima vergogna, il mio lavoro è onesto e legale, non mi va che di impicci in affari che non lo riguardino.

 

Il cursore lampeggia a vuoto per un po'. 

Attesa.

Le lettere scorrono rapide una dopo l'altra.

 

Credevo avesse frequentato Yale, del resto conosce 

bene la famiglia McArthur, da come mi ha detto l'altra volta, 

immagino abbia seguito le lezioni del Trinity Institute. 

Il suo lavoro le permettere di mantenersi?

 

«Le dispiace se le faccio io una domanda?», dico alla parete illuminata mentre mi alzo dalla sedia. Mi ha rotto le scatole questo terzo grado.

 

Dica pure.

 

«Perché è così ossessionato dai soldi? Cosa le importo se ho zero, cento, mille dollari sul mio conto? Le assicuro che il denaro non ha che un valore puramente pratico. Con i soldi non si compra altro che oggetti. Gli oggetti possono rendermi felice e piacermi, ma credo siano altre le cose importanti nella vita», dico tutto ad un fiato.

 

Mi scusi per la mia sfacciataggine. 

Ormai credo di aver perso la speranza, non è facile 

trovare donne come lei al giorno d'oggi.

Credo che suo marito o il suo compagno sarà 

felice di avere accanto a lei una donna così posata e ragionevole.

 

Io posata e ragionevole?

Si vede proprio che quel tizio non mi conosce per nulla.

Se solo sapesse come veramente sono non credo gli piacerei poi tanto.

 

«Non sono poi così equilibrata. Grazie comunque per i complimenti. Non ho un marito, ho una frequentazione esco con un vecchio amico, ci siamo persi di vista per molti anni, come con Kate, ma alla fine ci siamo ritrovati», dico con un certo imbarazzo.

 

Ha trovato quel che cercava quando se ne è andata? 

A volte vedere le cose da una certa distanza può servire.

 

«Ho capito che non posso scappare per sempre e non posso restare legata ad un passato che mi ha fatto soffrire». Cammino avanti e indietro, non perché sia nervosa, ma perché sono curiosa. Quella stramba conversazione, seppur inverosimile, è una specie di confessionale: in poco tempo, in poche parole si deve riuscire a raccontare tanto.

 

Capisco. Anche se so che non ha la minima importanza

mi dispiace abbia sofferto. 

Purtroppo anche il mio passato è un fardello enorme.

Questa mostra ha risvegliato i ricordi più belli che io abbia mai vissuto

 e che adesso non ci sono più.

Le dispiace se proietto un vecchio video, 

mi piacerebbe salutarla come l'altra volta.

 

«Con piacere», dico mentre la voce di Demetra risuona e riecheggia potente in tutta la lunga stanza bianca. 

Con gli occhi chiusi e il respiro che segue il crescendo della canzone mi perdo in mille pensieri. Immagini di un tempo andato, nostalgia forse, rimpianto probabilmente. 

L'eco delle parole diDemetra disperata che mi chiamava dall'ospedale.

Le lacrime versate per lei e mia madre.

Malinconia.

 

Mi piacerebbe essere vicino a lei. 

Mi piacerebbe condividere con lei le emozioni che sto provando.

 

«Quando vuole». Sorrido delicatamente. Le mie parole sovrastano l'aria cantata da Demetra che sta sfumando nel silenzio.

 

Un giorno forse ci incontreremo.

Le persone hanno aspettative che spesso non vengono soddisfatte,

Da me la gente si aspetta sempre qualcosa

 

Aspettative?

Come mai questa frase non mi giunge nuova?

 

La festa di beneficenza.

L'amico di George McArthur.

Il Signor Montgomery.

Possibile che ci sia lui dietro la tastiera?

 

Tutto bene Signora Voli?

 

Il cursore lampeggia dopo le ultime parole.

 

«Sì. Sì, ora va tutto bene», sorrido entusiasta, sono quasi sicura il Signor Montgomery sia il misterioso finanziatore, del resto conosceva benissimo il lavoro di Kate, le sue mostre e le sue foto. Gli indizi portano a lui. Inoltre ha dei modi davvero gentili che solo un uomo educato e dotato di buon cuore può avere. «Se non le dispiace adesso dovrei andare, ho un appuntamento».

 

Si figuri. 

A presto.

 

 

«A presto».

 

Con il cuore più leggero esco dalla lunga stanza bianca. La segretaria dai lunghi capelli rossi mi guarda sorpresa, sono così veloce che non fa in tempo ad aprirmi la porta d'uscita.

Sapere con chi sto parlando mi mette di buon umore, mi rende più facile occuparmi della mostra. Mi rende più facile parlare di Demetra e ricordarla.

 

Adesso però non devo perdere tempo, Nik mi sta spettando, devo raggiungerlo il prima possibile. Ha un piano per capire se Giorgio Bottari e Sandro Salti stanno mentendo ed io non devo fare tardi.

 

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Capitolo 29
*** OGGI: Bugie e finestre ***


OGGI:
Bugie e finestre





Grazie al passaggio di George McArthur non sono in ritardo per l'appuntamento che ho con Nik, sempre che le cose non remino contro di me.

 

Metropolitana semivuota.

Treno arrivato dopo pochi secondi.

Ho trovato posto a sedere.

Nessun intralcio.

 

Tutto troppo bello per essere vero.

 

Percorro le scale dell'uscita a due a due, nonostante sia nei tempi non mi piace far aspettare. Nik mi aspetta all'uscita è appoggiato a un palo della luce, si guarda intorno. Sembra rilassato.

 

Sicuramente lo è più di me.

Nelle ultime ore ho vissuto un altalena di emozioni che normalmente mi avrebbero mandato fuori di testa. 

James e i sui sbalzi d'umore. 

La festa di beneficenza a New Heaven. 

L'organizzazione della mostra. 

Per fortuna, tra tutte queste variabili impazzite, le cose sembrano aver preso una piega positiva, sono quasi certa che il finanziatore della mostra di Kate sia il Signor Montgomery, il che rende tutto più semplice e meno inquietante. Parlate ad un muro bianco non è una cosa normale.

Nonostante certe cose inizino ad ingranare c'è un pensiero fisso, come un'ombra che mi segue, che mi frulla per la testa. Nik ha un piano per cercare di capire se Giorgio Bottari e Sandro Salti hanno qualcosa in mente e vogliano boicottare il progetto di Lucas. Più passa il tempo è più mi accorgo che non abbiamo niente in mano e che le preoccupazioni di Nik sembrino più una sua fissazione che altro.

Staremo a vedere.

 

«Ciao. Sei puntualissima», mi dice Nik abbracciandomi. «Hai l'aria stravolta. Stai bene?».

«Sì. Ho dovuto fare una cosa per la mostra di Kate. Un imprevisto che però sono riuscita a risolvere».

Nik mi sorride.

 

Ci incamminiamo lungo la strada che ormai conosco bene. L'ho percorsa quel giorno che ho pedinato i due tizi e poi ho incontrato per caso Stephanie. I palazzi di ottima fattura, le piante curate e i marciapiedi puliti, sono il chiaro segnale che ci troviamo in un quartiere dove abita gente con i soldi.

 

«La cosa che devi fare è molto semplice. Prima di tutto entriamo nel loro ufficio, ho preso un appuntamento con una scusa, poi ti apposti vicino ad una finestra che si affaccia sul vicolo e la apri», mi spiega Nik.

«Aprire? Devo spalancarla?».

«No. Devi fare scattare il gancio che la tiene chiusa. Non devi toccare il telaio e nemmeno il vetro. Senza farti vedere, con più naturalezza possibile, devi far scattare il blocco». Nik parla senza smettere di guardarsi intorno.

«E poi?», gli chiedo.

«E poi basta».

«Ma che senso ha tutto questo?». Non sono sicura di aver capito cosa possa servirgli una cosa del genere.

«Serve a me. Stasera potrò entrare nel loro ufficio dalle scale antincendio poste sul retro. Spulcerò nei loro archivi e nei loro cassetti. Così avrò chiaro, una volta per tutte, se quei due ci stanno imbrogliando o meno».

«Sei sicuro? E se avessero un antifurto? E se passasse una guardia privata o se avessero altri sistemi di sicurezza?», gli chiedo preoccupata.

«La visita di oggi serve come sopralluogo. Mentre siamo lì capiremo come muoverci e se dovesse essere troppo pericoloso lascerò perdere». Nik pare sicuro. Un po' troppo per i miei gusti.

 

Dentro di me spero che un enorme allarme, una sirena o qualsiasi altra cosa lo convinca a desistere. Il suo piano mi sembra troppo semplice, troppo banale, per finire bene.

 

«Sai che quando ci sono io le cose non vanno mai bene. Attiro guai».

Nik ride di gusto: «Non attiri guai. È solo che a volte ti trovi nel posto sbagliato e nel momento sbagliato. Fidati, questo non è uno di quelle volte».

«Speriamo bene». Tiro un lungo sospiro cercando di mantenere la calma.

Nik mi stringe la mano.

 

La scalinata che porta all'ingresso dell'edificio mi pare infinita. Ogni venatura del marmo, ogni gradino, mi sembrano il lungo percorso del condannato a morte verso il patibolo. Allo stesso modo tengo la testa abbassata. Allo stesso modo ho il cuore che mi batte forte.

 

E se non riuscissi ad aprire la finestra?

E se uno dei due uomini mi vedesse?

E se sbagliassi tutto?

 

Anche se so che sto facendo qualcosa di sbagliato, anche se so che tutto ciò è moralmente deprecabile, non riesco a fare a meno di pensare che la paura che sto provando possa servire per donare un futuro migliore al mio piccolo. Possa servire per costruire solidi basi e per una vita migliore.

 

Nik suona il campanello.

Una voce gracchiante risponde.

Il trillo elettrico scorre nella serratura.

Il portone è aperto.

 

L'edificio è elegante sia fuori che dentro, pare costruito con i migliori materiali esistenti sul pianeta. Un piccolo atrio color avorio ci accoglie, un tavolino rettangolare è appoggiato alla parete delle scale, un vaso di fiori freschi svetta impettito. Sulla sinistra un ascensore con porte a vetro decorate in ferro battuto aspetta solo di essere usato. Un tappeto blu notte ricopre le scale che maestose portano ai piani superiori.

 

Una signora di una certa età, con in braccio un cagnolino minuscolo, ci squadra dall'alto al basso. Indossa un paio di tacchi a spillo vertiginosi, borsa di pregio e un cappotto finemente lavorato. 

 

Nik sorride sfoderando tutto il suo fascino.

Io, come fossi paralizzata, alzo gli angoli della bocca cercando di risultare più naturale possibile.

 

«Andiamo», mi sussurra Nik spingendo la sua mano dietro la mia schiena.

Non oppongo resistenza, andiamo a passo lento ma deciso verso l'ascensore.

 

Sento lo sguardo della donna farmi i raggi X.

 

«In questo palazzo abitano famiglie o professionisti. Bottari e Salti sono gli unici ad avere un ufficio. Non ti sembra strano? Ci sono decine di uffici liberi in centro, perché sono venuti qui?», bisbiglia Nik.

«Forse volevano avere più privacy. Forse non gli piacevano gli altri uffici», ipotizzo io.

Nik mi guarda come avessi appena detto una scemenza colossale: «Se sono grandi agenti immobiliari avrebbero il loro vantaggio a stare al centro dei affari. Alcune zone di Boston pullulano di uffici prestigiosi».

 

La porta si apre.

Saliamo.

Nik schiaccia il pulsante 2.

 

La porta si chiude mentre la Signora con il cane ci osserva con insistenza e senza pudore.

 

«È chiaro quello che devi fare?», mi dice Nik mentre mi prende per le spalle.

Annuisco.

«Mantieni la calma, vedrai che andrà tutto bene». Nik mi bacia la fronte.

 

L'ascensore si ferma.

Siamo arrivati.

Il corridoio si apre davanti a noi. È ordinato e pulito come l'atrio al primo piano. Un lungo tappeto blu notte ricopre parte del pavimento, quadri di nature morte sono attaccati alle pareti. Nik mi prende a braccetto portandomi verso la porta in fondo, quella a sinistra.

Ogni nostro passo viene attutito dal tappeto.

Silenzio.

Ogni rumore sparisce, si sente solo il mio respiro affannato per l'ansia.

 

«Andrà tutto bene». Nik schiaccia il campanello che squilla più forte di quanto mi aspettassi. 

Rumori di passi provengono dalla stanza chiusa.

La porta si apre, Bottari ci accoglie con un sorriso.

 

«Buongiorno», dice Nik stringendogli la mano.

«Benvenuti, vi stavamo aspettando». Bottari ci invita ad entrare. L'ufficio è molto semplice e dall'aria moderna: due grandi scrivanie con portatile, diversi schedari appoggiati alla parete sul fondo, un grande lampadario dalle forme geometriche pende dal soffitto, stampe colorate rallegrano la stanza. Ogni particolare è curato, ogni dettaglio e accessorio è di ottimo gusto. Sembra di stare dentro la foto di una rivista di design. 

La grande stanza ha delle porte che essendo chiuse non mi permettono di vedere quello che c'è oltre. 

Non hanno una segretaria.

Non hanno telefono fisso, non in quella stanza, almeno.

 

All'apparenza sembra tutto perfetto.

 

Salti ci raggiunge. Ha l'aria più seria del collega, i capelli biondi e il fisico asciutto ed esile lo fanno sembrare uno di quei gatti d'appartamento abituati a stare comodi, come se detestassero interruzioni nella loro routine quotidiana. Non pare molto felice di averci lì, ma forse è la mia impressione.

Bottari, al contrario, è loquace e molto affabile. Scherza con Nik mentre ci fa accomodare su delle sedie in pelle di fronte alla sua scrivania. Il collega lo raggiunge, si mette in piedi con le braccia conserte ad osservarci.

 

«Siamo felici che vi siate rivolti a noi per il vostro progetto», dice Bottari mentre schiaccia dei tasti sul suo computer.

«Sì, è da un po' che ne parliamo. Credo sia ora di dare forma alla nostra relazione. Vero cara?». Nik mi prende la mano, poi la bacia.

 

Forma alla nostra relazione?

Che cavolo sta dicendo Nik.

 

«Formare una famiglia è una cosa importante. Vorrei anche io trovare la donna giusta, ma a quanto pare ogni donna lo è. Amo amare, è questo il mio problema», dice Bottari ridendo sguaiatamente.

Nik ride come se lo divertisse, anche se è ovvio che non sia così.

Io sorrido forzatamente guardando in cagnesco Nik cercando di capire a che gioco stia giocando.

«Io ed Elena ci conosciamo da molti anni. Dopo un distacco prolungato abbiamo deciso di sposarci. Per questo siamo qui, vorremmo sapere se avete una casa giusta per noi», dice Nik sfoggiando tutto il suo carisma.

 

Sbianco.

Sposarmi?

Ma è matto?

 

Cerco di trattenere, anche se impossibile, il rossore e il sudore che sta imperlando la mia fronte. Ho il respiro affannato.

 

«È una scelta coraggiosa di questi tempi, molti matrimoni naufragano», dice Salti in piedi dietro il suo collega.

«Noi crediamo nel nostro amore», dice Nik.

 

Sorrido cercando di apparire più naturale possibile.

 

«Vi ho mandato una lista di richieste che io e la mia compagna desidereremmo avere nella nostra futura casa. Elena, da buona italiana, ci tiene molto alla cucina, la vorrebbe spaziosa e dotata di elettrodomestici di primissima qualità», dice Nik.

«Come ogni donna per bene dovrebbe desiderare. Non c'è niente di meglio che un buon piatto cucinato dalla donna che si ama», dice Bottari in Italiano rivolgendosi direttamente a me. 

«Ovviamente», gli rispondo sbattendo le ciglia mentre cerco di contenermi.

 

Quel viscido schifoso mi fa ribrezzo. 

Se potessi lo prenderei a sberle.

 

«Mi chiedevo se la zona che vi ho indicato possa andare bene. So che è molto difficile trovare case libere», dice Nik avvicinandosi alla scrivania e mostrando ai due uomini un foglio con scritto decine di appunti e una mappa di Boston che teneva in borsa. I due guardano ciò che Nik gli mostra, paiono molto interessati.

 

Questo è il momento giusto.

Prendo dalla tasca il cellulare e con discrezione mi alzo come se dovessi fare una telefonata.

Con lo sguardo basso fingo di schiacciare i tasti.

Cammino avanti e indietro per un po'.

Adocchio una finestra che affaccia sul vicolo dove c'è la scala antincendio.

Porto il telefono all'orecchio.

Mi avvicino alla finestra.

Mi appoggio con la spalla allo stipite.

Sbircio la scrivania, Nik sta ancora parlando con i due soci.

 

Respiro.

Le mani mi sudano.

Il gancio della finestra a ghigliottina è a pochi centimetri da me, basta che allunghi la mano. 

 

Elena, stai calma.

 

Con un movimento deciso mi metto davanti alla finestra e con la mano libera sfioro il gancio che subito si apre. Lo riavvicino alla chiusura, in questo modo sarà più difficile notare che è aperta.

 

«Elena, tutto bene?», parole in Italiano arrivano dalle mie spalle. 

È Salti.

 

Sobbalzo per lo spavento.

Sono pallida.

Salivazione azzerata.

 

Merda, e se mi avesse vista?

 

«Tutto bene. Volevo sapere se mio f-figlio sta bene, o-oggi sta con la baby sitter, per fortuna Sebastian non ha più la febbre», mento con il sorriso.

«È importante curare la famiglia», mi dice con aria seria sempre parlando in Italiano. «Le piace stare qui, a Boston intendo? Non le manca l'Italia?».

«Ho viaggiato molto. Mi piace scoprire posti nuovi, a dire il vero mi mancano tutti i posti in cui sono stata, in cui ho vissuto. Ho passato molti anni in Europa, in diversi paesi», gli rispondo cercando di allontanarmi dalla finestra per raggiungere Nik alla scrivania.

«In Spagna si sta bene, ma come il mio paese non c'è nessun posto. La luce, gli odori, i sapori. Ha notato anche lei che mangiare cibi italiani, ma in luoghi diversi e lontani dalla terra d'origine, paiano cambiare sapore?», mi dice Salti con cortesia leggermente più rilassato di come sia apparso fino ad ora.

«Finiscila Sandro. Non tediare la nostra ospite con le tue fissazioni sul cibo. Mi scusi Elena, a volte può diventare logorroico è piuttosto fastidioso», mi dice Bottari.

«Non si preoccupi, nessun fastidio», dico io.

 

Nik ci guarda confuso, non capisce niente di quello che stiamo dicendo e la cosa lo mette molto a disagio.

Meglio tornare a parlare inglese.

 

«Se abbiamo finito credo sia il caso di andare. Sebastian sta meglio, ma è meglio che io ritorni a casa», dico a Nik che coglie subito lo spunto per andarcene da lì.

«Certo cara, ti riaccompagno io», mi dice prendendomi per mano.

Salti e Bottari ci seguono mentre a passo rapido raggiungiamo la porta d'uscita.

«Grazie. Spero che troviate la casa che tanto desideriamo», dico mentre esco nel corridoio riprendendo a respirare più normalmente. L'ansia mi stava soffocando.

«Faremo il possibile». Bottari con eleganza mi prende la mano e la bacia, «Mi auguro che sia presente alla festa in programma tra qualche giorno. Sarebbe fantastico poter parlare un po' con lei, da italiano a italiana».

«Certamente, non mancherei per nulla al mondo», dico mentre Nik stringe le mani ai due uomini prima che la porta dell'ufficio si chiuda alle nostre spalle.

 

Festa?

Di quale festa sta parlando?

Non ho idea di cosa stia parlando.

 

Nik chiama l'ascensore. Non mi rivolge la parola, sembra teso come me.

La porta di vetro e ferro battuto si apre. 

Entriamo.

 

«Sei stata brava sisma con la finestra», mi dice con entusiasmo.

«Avevo paura che Salti mi avesse vista».

«Non ti preoccupare. Stasera entrerò nel loro ufficio e capirò cosa nascondono quei due», mi dice fissandomi con intensità. «A proposito, George McArthur andrà presto in pensione. Ha organizzato una festa, la stessa a cui ti hanno invitata, credo che adesso tu sia obbligata a partecipare», mi dice Nik accarezzandomi una guancia. «So che non ami queste cose, ma potresti fare un'eccezione... per me?».

Con calma sfiora le sue labbra sulle mie.

 

Nik è una cosa reale.

Nik è il mio presente.

Non devo farmi confondere dal passato.

 

«Ok», gli dico cercando di allontanare i fantasmi dei miei sentimenti.

 

Chiudo gli occhi mentre Nik mi bacia e l'ascensore ci porta al piano terra.

Chiudo gli occhi e provo a fingere che tutto vada bene.

 

Tutto andrà bene.

 

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Capitolo 30
*** OGGI: Pensieri e ossessioni ***


OGGI:
Pensieri e ossessioni





Come sempre la cena cucinata da Jane è favolosa. Anche se è una esperta pasticciera se la cava molto bene anche ai fornelli con piatti di ogni tipo. 

L'arrosto perfettamente cotto riposa nel vassoio circondato da piccole patate novelle, uno sformato con spinaci e formaggio aspetta solo di essere mangiato, il vino colora di rosso i calici mentre croccanti grissini fatti in casa sono ben ordinati in un cestino.

Sebastian si lecca i baffi mentre Jane inizia a preparare i piatti.

 

Nonostante tutto questo ben di Dio non riesco ad avere fame.

Il pensiero di Nik che si arrampica sulla scala antincendio ed entra nell'ufficio di quei due mi fa torcere le budella.

 

Kate mi fissa da quando sono arrivata, lei è capace di leggermi meglio di chiunque altro. 

Sa che qualcosa mi turba.

Sa che quando sono in questo stato sta per succedere qualcosa di brutto.

 

«Vuoi una o due fette di arrosto? L'ho fatto ripieno di verdure e frutta secca. È una vecchia ricetta che mia madre mi ha insegnato quando ero piccola», mi chiede Jane con la mano allungata verso il mio piatto vuoto.

«Una. Basta una fetta, grazie», le dico cercando di mantenere la voce calma.

«A me dai tante patate? Mi piacciono molto», dice Seb saltellando sulla sedia.

«Certo. Finisco il piatto di tua madre, poi servo te», dice Jane con un sorriso.

 

Kate, con il calice di vino in mano, mi osserva. 

 

In pochi minuti ci ritroviamo tutti con il piatto pieno a gustare le delizie cucinate da Jane.

Tutti tranne io.

La carne in bocca non ha sapore, il gustoso ripieno speziato pare insipido.

Mi sembra di mangiare polistirolo.

Ingoio il boccone a fatica.

«Delizioso», le dico con cortesia mentre mi butto sul calice di vino che mi pare senza gusto.

«Grazie. Mia madre lo faceva sempre quando avevamo ospiti. Questo arrosto è sempre stato lo stesso per anni, una certezza. Guai se mancava un ingrediente, mia mamma sarebbe andata fuori di testa. Mi mancano le sue ansie ingiustificate», dice Jane ridacchiando.

«Non c'è più la tua mamma?», chiede Sebastian mentre mastica un boccone di sformato.

«No, purtroppo è mancata anni fa. Era molto ammalata e i dottori non hanno trovato la medicina giusta», dice Jane con dolcezza al mio piccolo.

«Un po' come la nonna Margherita. Vero mamma?», mi chiede Sebastian cogliendomi impreparata, non lo stavo ascoltando.

«Scusa, cosa hai detto?». Provo a concentrarmi di più su cosa sta succedendo piuttosto che su quello che la mia mente mi suggerisce di pensare.

«La mamma di Jane è morta perché era ammalata. Come la nonna Margherita. Giusto?», mi richiede Seb.

«Certo. Certo. A volte non si riesce a curare una malattia, l'importante è volere sempre bene ai propri famigliari e amici, in questo modo non li dimenticherai mai, saranno sempre vicini a te». Dico cercando di recuperare la mia disattenzione.

«Io ti voglio sempre bene, mamma. E voglio bene anche a Jane e Kate. Però ci sono persone che non mi piacciono. È sbagliato?», mi chiede Sebastian.

 

Jane e Kate abbozzano un sorriso, la purezza del piccolo è capace di mettere di buon umore tutti. 

 

«È normale. Anche a mamma non piacciono delle persone. A volte capita di non trovarsi d'accordo con gli altri, ma è anche normale cambiare idea. A volte succede che persone che non ci piacciono inizino a diventare simpatiche».

«Perché?», mi chiede Sebastian con una patata infilzata nella forchetta.

«Perché noi cambiamo e le persone cambiano. Nessuno è uguale a se stesso, sempre. La vita, le amicizie e le esperienze modificano ciò che siamo», gli dico.

«Anche tu sei cambiata? Come eri prima di essere così?». 

 

A volte le domande di mio figlio sono meglio di qualsiasi terapia, è capace di farmi ragionare e tornare con i piedi per terra meglio di chiunque altro.

 

«Se ti dicessi che sono sempre stata così seppur fossi diversa, lo capiresti?», gli dico mentre accarezzo i suoi ricci scuri.

Sebastian ci riflette un attimo, poi, sconfitto, fa cenno di no con la testa. «È una cosa strana. Non capisco», dice mogio.

«Figurati che neanche io l'ho capita. Tua mamma resta sempre un mistero per me», dice Kate ridacchiando.

 

Per qualche attimo i pensieri negativi sono andati a farsi friggere.

Per qualche istante mi è sembrato che le cose potessero andare bene.

I profumi e i colori del cibo hanno preso vita per poi sfuggirmi e non interessarmi più, la gamba si muove nervosa e le chiacchiere dei commensali sono un vociare confuso.

 

«Tutto bene Elena?», mi chiede Kate a bassa voce mentre Jane sta facendo delle facce buffe a Sebastian.

«Sì. Sto aspettando solo una telefonata di Nik. Ha una cosa importante da fare e finché non mi chiama non riesco a stare con il cuore in pace», le rispondo con un filo di voce.

«Se hai bisogno di aiuto ricorda che a me puoi dire tutto». Kate mi fissa, i suoi occhi chiari paiono due riflettori capaci di illuminare qualsiasi mia zona buia.

«Lo so. Grazie. Vedrai che tra un attimo starò megl...».

 

Sento il cellulare vibrare in tasca.

Numero sconosciuto.

Il movimento ripetitivo e incessante del telefonino mi scuote, è come se mi trovassi nel bel mezzo di un terremoto. 

Scatto in piedi.

 

«Vado... vado... vado a rispondere», dico alla mia amica.

Kate mi indica la cucina, in questo modo non disturberò nessuno con le mie chiacchiere.

 

Nik mi dirà che sta bene.

Nik mi dirà che sta bene.

Nik mi dirà che sta bene.

 

Ripeto la frase come un mantra sperando che riesca ad allontanare l'ansia che sto vivendo.

 

«Pronto?», chiedo.

Silenzio.

«Pronto?», dico a voce più alta.

«Parlo con Elena Voli?», è una voce maschile con una strana inflessione.

«Sì, sono io. Chi parla?».

«Sono Mauro, il tuttofare del ristorante Petit». Adesso riconosco la voce e allegra dell'uomo.

«Buonasera. Come sta?», gli chiedo non palesando una certa confusione. Non è mai successo che mi chiamasse per telefono.

«Mi dispiace infastidirti, ma c'è una cosa che... ecco insomma...». L'anziano tituba.

«Mi dica pure, non si faccia problemi».

«Vede, è da un po' che non vieni nel tuo ufficio. Mi chiedevo se va tutto bene. Ho ritirato dei pacchi e delle buste che tengo nel mio sgabuzzino e... e...», mi dice l'uomo in italiano.

«Ha ragione, mi sono completamente dimenticata. Che disastro che sono!». Mi scappa una risatina, mi sono scordata di passare dal mio ufficio e ritirare la corrispondenza.

«Non ti preoccupare, sono cose da niente. C'è una cosa più importante. Ecco... ecco...».

«Che succede Mauro? Ho dimenticato qualcos'altro?».

«In effetti, sì. L'affitto. Ha dimenticato di pagare l'affitto del suo ufficio. Il direttore del ristorante è un po' scocciato». Percepisco tutto l'imbarazzo di Mauro nel dirmi questa cosa.

 

Tiro un sospiro di sollievo.

 

«Passerò domani mattina. Mi è sfuggito di mente. Ho molte cose da fare e quindi ho la testa tra le nuvole». Cerco in tutti i modi di rassicurarlo, la mia dimenticanza poteva costarmi l'ufficio e rallentarmi il lavoro.

«Sapevo che era tutto a posto. L'ho detto al Direttore che sei una brava ragazza, lo sapevo», dice più sereno Mauro. Posso immaginare il suo sorrido mentre mi parla.

«Grazie per la fiducia. Se per te va bene ti lascio la busta con i 250$ al ristorante. La fattura la passo a prendere un'altra volta».

«Certo. Va benissimo, la porterò io al Direttore».

«Grazie mille, Mauro. Non so come avrei fatto se avessi perso l'ufficio. Le devo un favore», gli dico sincera.

Mauro sta in silenzio per un po', ma poi parte a raffica dicendo una parola dietro l'altra: «Potresti organizzare un altro pranzo e invitare la Signora McArthur. Mi piacerebbe rivederla».

«Farò tutto il possibile, organizzerò il tutto appena ne avrò l'occasione», gli dico, anche se sono certa che Geltrude non la prenderà affatto bene.

 

La telefonata si interrompe.

 

Non so quale angelo debba ringraziare per avere persone così affettuose e gentili nei miei confronti. Mauro, Kate, Jane sono ormai parte integrante della mia vita a Boston, persone a cui fare affidamento nei momenti difficili.

 

«Era Nik?», mi chiede Kate appoggiata allo stipite della porta della cucina.

«No, era Mauro. Mi sono dimenticata di ritirare dei documenti in ufficio. Mi ha chiamata per avvisarmi».

«Con la testa che ti ritrovi è già bello che tu non ti scordi di metterti le scarpe», dice Kate ironica, anche se so che ha perfettamente ragione.

«La solita simpaticona. Non c'è che dire, sei uno spas...».

 

Il citofono suona più volte.

 

Kate guarda me con aria stupita poi chiede a Jane:«Aspettavi qualcuno?».

«No. Vedrai che sarà qualche nostro vicino», dice Jane mentre mette altre patate nel piatto di Sebastian.

Kate prende la cornetta del citofono.

Sta zitta per qualche secondo.

Clicca il pulsante per aprire il portone del palazzo.

 

Mi guarda. Ha l'aria confusa.

 

«È Nik. Sta salendo. Ma come faceva a sapere che sei qui?», mi chiede.

«Devo averglielo accennato io. Scusa. Non volevo...».

Kate mi interrompe.

«Stai tranquilla, se questo serve a tranquillizzarti va più che bene». Kate mi abbraccia lasciandomi da sola davanti alla porta d'ingresso.

 

Sono tesa.

Perché a Nik è venuto qui?

Forse sta scappando da qualcuno?

Come mai è già di ritorno, forse è saltato il piano?

 

La porta si spalanca.

Nik con l'aria affaticata e la fronte imperlata di sudore è di fronte a me.

 

Non sembra promettere nulla di buono.

 

«Ciao a tutti. Scusate l'intrusione», dice con gentilezza.

Sebastian lo saluta sventolando la mano mentre a Jane e Kate sorridono cordiali.

«T-tutto bene?». Sono terrorizzata ed eccitata allo stesso tempo.

«Sì. Cioè, no. C'è un posto più tranquillo dove parlare?», dice con l'aria nervosa.

 

Prendo Nik per mano, andiamo in cucina accostando leggermente la porta per non disturbare la cena.

 

«Sei entrato? Come mai sei tornato così presto? Ti ha visto qualcuno? Hai trovato qualcosa?». Faccio le domande così veloci che Nik scoppia in una risatina.

«Calma. Calma. Adesso ti racconto tutto». Nik si toglie il cappotto e la sciarpa appoggiandoli ordinatamente su una sedia. «La cosa più importante è che non mi ha visto nessuno. Sono riuscito ad entrare come avevo programmato, non ci sono antifurto o allarmi di nessun tipo».

«Bene». Accarezzo su e giù le braccia di Nik.

«Sono entrato così presto perché ho colto l'occasione più propizia. I dirimpettai dell'ufficio di Salti e Bottari sono usciti per cena, li ho visti lasciare l'immobile verso le 20.00. Il vicolo era buio a quell'ora e quindi ho pensato fosse meglio togliermi ogni dubbio il prima possibile». 

 

Nik ha la bocca asciutta, lo capisco da come fa scioccare le labbra. Senza pensarci prendo un bicchiere dal mobile della cucina e lo riempio con l'acqua del rubinetto.

 

«Grazie», mi dice ingoiando l'acqua fresca in un solo sorso. «Sono entrato, Elena. Sono entrato ed ho aperto ogni cassetto, scaffale, mobiletto presente nel loro ufficio. Ho guardato da tutte le parti, non ho tralasciato nulla».

«Quindi?», chiedo con il cuore in gola per l'ansia.

«Niente. Non hanno niente. Zero. Nessun documento. Nessun archivio. Niente di niente. Hanno solo delle ricevute dei mobili che ci sono nel loro ufficio. Tutto quello che abbiamo visto è preso in affitto», Nik ha l'aria confusa più di me.

«Ma cosa significa? Non capisco».

«Significa che quei due non sono chi dicono di essere e tutto quello che ci hanno raccontato è una menzogna. La loro società non esiste o almeno non è quello che dice. Credo che abbiano a che fare con giri loschi, come sospettavo».

«Devi subito avvertire subito Lucas e gli altri investitori. Devono sapere che quei due sono dei farabutti», gli dico con impeto.

«Elena, il contratto è già stato firmato. Io non ho prove che potrei usare in tribunale. Potrebbe esserci una spiegazione logica a tutto questo, non so quale possa essere, ma non ci vorrebbe poi molto a confezionarne una su misura. Ricorda che devo tutelare i miei clienti e l'interessi dello studio. Siamo tutti coinvolti in questo affare, nessuno deve perderci altrimenti sarò messo alla gogna». Nik è serio, molto serio. Raramente l'ho visto così determinato.

«E adesso cosa dobbiamo fare?».

«Tenerli d'occhio, non credere alle loro parole e soprattutto fingere di fidarci di Bottari e Salti. La festa per il pensionamento di George sarà un'ottima occasione per capire di che pasta sono fatti».

«Ma...».

 

Jane irrompe in cucina, la sua testa mora sbuca da dietro la porta.

 

«Senti Nik, se hai fame puoi restare a cena. Abbiamo un sacco di cibo inoltre ho fatto una cheesecake spettacolare», dice la donna sfoderando un sorriso sincero.

«Volentieri. Ho un certo languorino. Grazie Jane». Nik sembra ritornato quello di sempre: calmo, controllato e tranquillo.

«Ma...», provo a controbattere. Voglio capire le nostre prossime mosse, voglio parlare e ragionare su tutta questa faccenda.

«Ogni cosa a suo tempo. Abbiamo ore intere per parlare domani in ufficio. Adesso proviamo a goderci la serata». Nik mi bacia le labbra, poi mi accarezza il volto. «Andiamo con gli altri».

«Sì», rispondo mogia.

 

Un pensiero su tutti mi tormenta.

Una nuova ossessione.

Se Salti e Bottari sono due impostori, due delinquenti legati alla malavita, che cosa ci guadagnano diventando soci di Lucas?

 

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Capitolo 31
*** OGGI: Il canto delle sirene ***


OGGI:
Il canto delle sirene




Ho passato due giorni a rimuginare, quello che mi ha detto Nik non promette nulla di buono. Quei due sembrano mal intenzionati, non ho idea se Bottari e Salti stiano mentendo o meno, ma tutta la loro storia puzza. 

Quando sono in questo stato mi si legge lontano un miglio che qualcosa mi turba per questo ho preferito portare Sebastian dal nonno, passerà un po' di tempo con Maggie e Tess senza contare che andrà anche da Geltrude. Non voglio che il mio piccolo mi veda nervosa e agitata, tutto questo stress non gli fa affatto bene.

 

Kate, in preda ad un attacco di ansia per la mancanza di controllo assoluto sull'organizzazione della mostra, rilegge per l'ennesima volta tutti i punti stilati su una lista lunghissima. Hai quasi tutto il materiale che serve per l'allestimento, gli mancano solo un paio di scatoloni che a quanto pare il corriere ha smarrito. Questo piccolo inconveniente l'ha trasformata in una iena capace di sbranare ogni operatore telefonico addetto al trasporto.

 

«Cosa significa che l'indirizzo era scritto male? Ma il foglio non è stampato dal computer?». Kate cammina avanti e indietro come una pazza. La mia camera da letto pare una pista da corsa vista la velocità dei suoi passi.

 

Ridacchio.

Senza smettere di guardarmi allo specchio mi provo, uno dopo l'altro, i capi che ho appesi nell'armadio.

 

«Se non mi fa arrivare i pacchi entro lunedì mattina giuro che la denuncio!», sbraita Kate. «Non mi importa se lei non c'entra nulla. Tra la sua azienda e me, c'è un contratto che esigo venga rispettato. Detto questo la saluto». Kate chiude la telefonata cliccando il pulsante con tutta la forza che possiede.

 

Povera Kate.

Mi sembra di vedere fumi di vapore incandescente uscirle dalle orecchie e dal naso, la sua faccia pare ustionata da tanto è rossa.

 

«Ma ti sembra possibile? Erano le ultime due consegne che quei beoti dovevano fare e hanno confuso gli indirizzi». Con le braccia conserte si siede per terra a gambe incrociate.

«Vedrai che si risolverà tutto. Secondo la tua lista sei a buon punto, non ti preoccupare», le dico con calma cercando di farla ragionare mentre getto l'ennesimo vestito sul letto aumentando così la pila di indumenti ammonticchiati. 

«Il problema è che la mia lista fa schifo. Dovrebbero fare corsi di come si fanno le liste al College. Ogni giorno aggiungo cose che ho dimenticato di mettere i giorni prima. Risultato? Ho sempre cose nuove da fare».

«Respira. Rilassati. Respira. Rilassati». Cerco di usare la mia parte migliore, quella calma e ragionevole, anche se il suggerimento alla mia amica vale soprattutto per me.

«Mi dici di stare calma, ma guardati tu. Non me la dai mica a bere, si vede benissimo che sei tesa per la festa di stasera? Hai svuotato l'armadio, non ti piace niente, sembra quasi che tu voglia saltare la serata con Nik». Gli occhi a fessura di Kate e la sua espressione concentrata sugli affari miei sono il segnale che per quanto cerchi di mascherare le mie emozioni non riesca minimamente nel mio intento.

 

Mi accascio al pavimento stringendo in pugno una camicetta in cotone decorata con degli orrendi fiori rosa.

 

«Non avrai intenzione di mettere quella? Non mi sembra molto adatta a una serata elegante».Kate indica la mia camicia mezza stropicciata.

Faccio cenno di no con la testa.

«Mi vuoi dire che ti prende? È dall'altra sera che sembri su un altro pianeta», mi chiede Kate avvicinandosi a me. 

 

È inutile mentirle, non avrebbe senso, inoltre parlare con lei mi aiuterebbe ad alleviare il peso che sento dentro.

 

«Sai quella faccenda di Nik e l'albergo di Lucas? Ecco, a quanto pare i due tizi non sono ciò che dicono di essere. Le cose si complicano e sai che quando succedono cose del genere io attiro guai più di un parafulmine in un giorno di tempesta». Lancio l'orrenda camicetta sopra gli altri abiti abbandonati sul letto. 

«Scusa la franchezza, ma non sono affari tuoi. Per quanto tu voglia bene a Nik non credo che i suoi problemi di lavoro debbano diventare i tuoi. Stanne fuori e vedrai che tornerai come prima».

 

Kate ha ragione. So benissimo che tutta questa faccenda non mi riguarda, ma Nik ha chiesto il mio aiuto ed io non riesco a starne fuori. È un po' come con la mostra di Kate, non riesco a non darle una mano, è più forte di me.

 

«Ci proverò», le dico poco convinta.

«Questa sera cerca di divertirti. Vestiti bene, truccati e sistema i capelli al meglio, vedrai che ti sentirai meglio», mi dice Kate.

«Prometto che farò di tutto per rilassarmi e buttare via tutto lo stress solo a patto che tu faccia lo stesso. Smettila di guardare quel foglio e smettila di controllare la lista. Tutto andrà per il meglio», le dico io.

 

Kate ed io ci guardiamo per pochi secondi.

Ci basta poco per capire che nessuna delle due smetterà di essere ansiosa, preoccupata e agitata.

 

«Ci vorrebbe un miracolo», diciamo in coro per poi scoppiare a ridere come due pazze.

Kate prende la lista gettandola il più lontano possibile mentre io agguanto un paio di vestiti facendoli poi volare per la stanza.

«Ci vorrebbe un miracolo o...», dice Kate tra una risata e l'altra, «... o Rebecca».

«Già, lei riuscirebbe a trovarmi il look adatto in cinque minuti e ti aiuterebbe ad organizzare la mostra in un batter d'occhio. Elena, non indosserai mica questo straccetto. Kate, ti riscrivo questa lista orrenda. Elena, cerca di indossare i tacchi con classe. Kate, ci vuole organizzazione». Le risate sono così forti che mi manca il respiro.

 

Kate si rotola per terra per via della mia imitazione di Rebecca, io sono piegata in due tenendomi la pancia. Andiamo avanti così per diversi minuti non riuscendo a respirare tra uno scoppio di risata e l'altro. Sembriamo due ragazzine molto sciocche, ma non ce ne frega, ci stiamo divertendo un sacco.

 

Poi riprendiamo il controllo e ritorniamo le solite Kate ed Elena, forse con un po' di leggerezza in più.

 

«Se ci fosse Rebecca le cose stasera non andrebbero così. Ti ricordi durante la festa in maschera a casa sua? Oddio, quanti anni sono passati?», chiede a Kate.

«Aveva fatto una tabella di marcia con segnate le ore precise e quello che dovevamo fare. Era tutto così organizzato che non erano ammesse repliche. Vestiti. Trucco. Capelli. Tutto già deciso da lei», rispondo io.

«È stata la prima volta che ho parlato a tu per tu con Stephanie, mi ha truccata e vestita lei... Cavoli, quanto era bella e dolce», mi dice Kate con un sospiro malinconico. «Il primo amore non si scorda mai».

 

Il primo amore.

Possibile che Kate possa parlare di Stephanie tranquillamente mentre io non riesca nemmeno a pronunciare il nome di James? Il solo pensare a lui mi viene il voltastomaco.

 

«La serata poi è andata diversamente da come ci aspettavamo. Ti ricordi di sua madre quando è entrata in camera?», mi chiede Kate.

«Intendi quella storia dei cioccolatini?».

Kate annuisce: «Chissà se poi Rebecca ha smesso di... di... di stare male. Nonostante tutto quello che è successo tra di noi, mi dispiacerebbe per lei».

«Non lo so. Spero abbia risolto i suoi problemi, ma con quella strega di sua madre credo sia difficile», dico io.

 

Kate si sdraia per terra, mi metto vicino a lei.

 

«Ne abbiamo passate tante. Se ci ripenso mi sembra la vita di un'altra persona. Ti capita mai di sentirti così?», mi chiede Kate.

«A volte non sono nemmeno sicura che certe cose siano successe. Le emozioni si confondono. I ricordi paiono sfuggirmi e affievolirsi. A volte invece sono chiari e forti e mi fanno soffocare», le dico dopo un profondo sospiro.

«Lo stesso vale per me». Kate mi guarda accennando un sorriso.

 

Sorrido pure io.

 

«Che ne dici se ti aiuto per stasera? Non sono esperta, ma in due dovremmo farcela», mi dice Kate.

«Ok. Va bene. Diamoci una mossa». Batto le mani mentre mi alzo pronta a prepararmi per la festa con Nik.

 

Indossare.

Togliere.

Lanciare.

Vestiti lunghi.

Sbuffare.

Accostare.

Guardare.

Stringere.

Abiti corti.

Sandali.

Lagnarsi.

Alzare.

Tirare.

Specchiare.

Scarpe con tacco.

Rimirare.

 

Kate è di fianco a me. È sudata.

Abbiamo provato così tante combinazioni di abiti che siamo stanche come avessimo fatto la maratona. Alla fine abbiamo deciso che un abito lungo, nero e attillato il giusto con un paio di sandali eleganti sarebbe andato più che bene. Accessori semplici, ma d'effetto, e capelli raccolti in uno chignon alto, per dare un po' di rigore. Uno sciale di seta, decorato a mano, comprato in Spagna anni fa serve per completare il tutto.

 

«Direi che sei perfetta. Elegante, semplice, affascinante. Farai un figurone», mi dice Kate.

«Non credi che avrò freddo, ho le braccia scoperte. Non vorrei essere polemica, ma è inverno». Guardo fuori dalla finestra, il cielo grigio e scuro non promette bene.

«Ma scusa, vorresti stare al party con il giaccone?». Kate indica il mio giaccone color verde militare appeso al gancio.

«Non sarebbe una cattiva idea», dico io.

«Muoviti! Indossa questa vestaglia e sistemati il volto. Sai che con il trucco non me la cavo proprio, dovrai fare tutto da sola. Intanto io sistemo i vestiti sparsi per la stanza».

 

Seduta davanti al piccolo specchio da tavolo mi spalmo un po' di fondotinta e correttore, più che altro per coprire le occhiaie. Una riga di eye-liner nero sopra ad un ombretto perlato, dose abbondante di mascara e del fard rosa per dare un po' di colore. Rossetto a volontà.

Un trucco elementare, banale probabilmente, ma perfetto per me.

 

Il campanello di casa squilla.

Nik è arrivato.

 

Kate, con diversi vestiti in mano, mi sorride: «Sei uno schianto, stasera sarai la più bella. Vedrai che andrà tutto bene, devi solo riuscire a non farti coinvolgere in cose che non ti riguardano».

«Ci proverò», le dico indossando un lungo cappotto nero.

«Finisco di sistemare qui, poi me ne vado, ok?», mi dice Kate mentre cerca un posto dove appendere una gonna color lampone.

«Grazie ancora Kate». Abbraccio la mia amica prima di dirigermi verso l'ingresso ticchettando sui miei sandali e facendo ondeggiare la gonna.

 

Percorro le scale che portano al portone il più velocemente possibile. Un paio di volte rischio di capitombolare, ma per fortuna riesco a reggermi alla meglio.

Nik mi aspetta con un mazzo di fiori in mano e una bottiglia dall'aria costosa dall'altra.

 

«Credo non sia il caso di bere stasera, Bottari e Salti sono la nostra priorità», gli dico indicando la bottiglia che tiene in mano.

«Questa delizia è il regalo per George, per il suo pensionamento, mentre queste sono per te». Nik mi allunga un mazzo di rose rosse perfettamente disposte e allineate. Sono così belle da sembrare finte.

«Grazie». Annuso il profumo dei fiori per poi ammirarli in tutto il loro splendore.

«Bottari e Salti sono convinti che ci sposeremo, quindi ho pensato che sarebbe opportuno che tu indossassi questo. Solo per finzione». 

 

Nik estrae una scatoletta in velluto blu.

La fa scattare.

Un anello d'oro con un grande diamante centrale e piccole pietre luccicanti su tutta la parte esterna scintillano sotto i miei occhi.

 

Sono senza fiato.

 

«Ma... ma... ma tra noi c'è... insomma, non siamo neanche una coppia... non stiamo insieme... o forse sì... abbiamo fatto sesso, niente più... ecco... forse è un po' eccessivo... noi stiamo lavorando oggi... dobbiamo capire se quei due... io vengo pagata per questo...», dico parole a caso con la faccia incandescente.  

«Forse stasera potrebbe essere l'occasione adatta per cercare di capire cosa c'è tra di noi. Non trovi? E poi si tratta di una messa in scena per Bottari e Salti», mi dice Nik con dolcezza. «Adesso andiamo, altrimenti rischiamo di fare tardi».

 

Con la salivazione azzerata, la faccia rossa, un mazzo di rose in mano, salgo sulla macchina di Nik. Abbagliata dal luccicare dell'anello che tengo sul mio dito non riesco a connettere, tutto sembra perdere senso. 

Mi sento come Ulisse attratto dal canto delle sirene.

L'anello è così bello che confonde i miei pensieri.

Il risplendere dei diamanti è come una soave melodia.

Anche se so che il sentimento che provo per Nik non è chiaro e limpido, non posso fare a meno di convincermi che sia lui il mio presente, quello che devo seguire per allontanare le mie aspettative.

 

Lo assecondo.

Fisso l'anello.

La melodia delle sirene mi avvolge.

Mi lascio trascinare dal bel canto, eppure, in fondo al cuore, vorrei aver qualcuno che mi leghi al palo più alto della nave prima che questa affondi del tutto.

 

... continua nel prossimo capitolo...

 

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Capitolo 32
*** OGGI: Tra Brindisi, danze e parole ***


OGGI: 
Tra Brindisi, danze e parole



 

... continua la scena del capitolo precedente...

 

Il rumore del motore dell'auto di Nik ronza potente. Non c'è molto traffico in questa parte di Boston visto che è lontana dal centro e porta alle zone più verdi e meno frenetiche della città. La lunga strada rettilinea che conduce alla villa, dove si terrà la festa, è affiancata da alberi secolari che spogli delle loro foglie paiono stringersi gli uni agli altri per sentire meno freddo in un febbraio ghiacciato e pungente.

La moquette pulita, gli interni in radica lucidi della macchina sono illuminati fiocamente dal cruscotto che emana bagliore giallognolo. Basta quel soffio di luce per far risplendere l'anello che ho al dito. Un macigno. Uno splendore.

Ipnotizzata dal riflesso fosforescente dei catarifrangenti posti sul ciglio della strada appoggio la testa allo schienale del sedile cercando di allontanare l'inquietudine che alberga nel mio cuore. 

 

Non so se ho molte emozioni o ne ho poche. 

Non so se sono felice o triste.

Mi sento invischiata in qualcosa che mi avvolge e mi trascina verso il basso.

 

Guardo Nik, il suo profilo serio, gli occhiali, i capelli perfettamente pettinati, piccole rughe intorno alla bocca. Ha un'espressione seria e concentrata. Ripenso alla prima volta che l'ho incontrato, alle sue lezioni al Trinity, a tutte le volte che mi ha salvata dall'abisso. Mi ricordo di come era lui e di come ero io. Mi ricordo di noi e adesso mi sembra di non rivedere più nulla di ciò che eravamo.

 

«Andrà tutto bene. Bottari e Salti sono stati invitati alla festa per il pensionamento di George perché il contratto stipulato con loro è un grosso investimento da parte dello studio e di tutti i soci. Lo stesso vale per te. Sei la mia compagna e in quanto tale l'invito era d'obbligo», mi dice Nik senza togliere gli occhi dalla strada.

«Spero di non commettere errori», dico io con voce neutra.

Nik sghignazza: «Non puoi commettere errori perché non c'è niente che tu debba fare. Sii te stessa e andrà tutto bene».

 

Come fosse facile.

L'unica cosa che sento adesso è sgomento, ansia e tanta stanchezza.

 

Una leggera nebbia avvolge la strada, gli alberi si sono diradati lasciando spazio a piccole colline che movimentano il paesaggio. Intravedo il mare o perlomeno la luna che si riflette sull'acqua. Nik guida in quella direzione, verso un piccolo promontorio a strapiombo sul mare dove una villa illuminata a festa pare un faro per marinai in cerca di un porto.

 

Siamo arrivati.

Tra meno di dieci minuti Nik parcheggerà ed io dovrò iniziare una recita che non so se ho voglia di fare.

Chiudo gli occhi e respiro profondamente, cerco di trovare il ritmo giusto che metta d'accordo il battito del mio cuore, la velocità dei miei pensieri e l'energia che sento sempre spegnersi dentro me.

Sono come una macchina ingolfata.

Non riesco ad andare né avanti e nemmeno indietro.

Mi sento come un maratoneta che corre sul posto senza muove un passo, impossibilitato a finire la sua gara. 

 

«Siamo arrivati», mi dice Nik tenendo aperta la portiera dal mio lato. «Madame».

Gli sorrido.

Una scalinata ricoperta di lanterne in vetro e legno di diverse dimensioni illuminano il tragitto. La luce tremula delle decine di candele dona alla vecchia villa un'aria magica. Parte della facciata è ricoperta di edera e infissi in legno massiccio adornano le finestre. 

Nik mi porta all'ingresso dove un uomo e una donna ritirano i nostri cappotti ponendoli in una stanzetta adibita a guardaroba.

Mi infilo lo sciallo sulle spalle, l'aria frizzante e fredda che viene dal mare mi fa rabbrividire leggermente.

 

«Andiamo da George, voglio dargli subito la bottiglia». Nik mi prende per mano mentre cammina sicuro per l'atrio pronto a spalancare due enormi porte decorate con vetri colorati in stile mosaico.

 

Trattengo il fiato.

 

La sala della festa è un tripudio di luci con candele, rami presi dalla spiaggia e adornati con fiori selvatici che decorano i tavoli sparsi, tende in pizzo bianco scendono molli dalle vetrate che si affacciano su una grande terrazza che sembra tuffarsi in mare. La luna proietta i suoi raggi nella stanza perdendosi tra la luce bianca dei lampadari in vetro soffiato appesi al soffitto.

 

«Bello vero? George scappa sempre qui i fine settimana, quando non va da sua madre a New Heaven. Credo potrei viverci in un posto così», mi dice Nik guardandosi attorno.

«Hai perfettamente ragione è un incanto», dico io.

 

Decine di persone vestite di tutto punto vorticano in danze elaborate in mezzo alla sala accompagnate da una piccola orchestra. Facce sorridenti e strette di mano. Gioielli scintillanti e sete pregiate. 

Mi sento un po' fuori luogo, anche se sono vestita bene c'è una notevole differenza tra il mio abito e quello delle altre donne presenti. È come se si capisse che vengo da un altro mondo, come se tutto quello che mi circonda non mi appartenesse e fosse estraneo a me.

Mi sento come la Elena diciassettenne alla festa degli ex studenti del Trinity: impacciata e stonata. 

 

«Ciao George». Nik stringe vigoroso la mano all'uomo che con un abbraccio lo stringe a sé. «Un piccolo regalo extra. Visto che sarai presto in pensione ho pensato che questa potrebbe allietare le tue giornate». 

Il Signor McArthur prende la bottiglia esaminando con attenzione l'etichetta: «Caro mio, solo se la berrai in mia compagnia».

«Non vedevo l'ora che tu me lo proponessi. Brinderemo il prima possibile», dice Nik ridendo.

«Sono felice che anche tu sia venuta, mia cara». George si inchina leggermente stringendomi la mano. «Voglio che sia una bella festa e che tutti si divertano, del resto una persona va in pensione una sola volta nella vita».

 

Un cameriere sbuca all'improvviso con un vassoio carico di calici di champagne ghiacciati. Nik me ne porge uno poi fa un brindisi all'amico e collega.

 

«Vedo che qui si inizia già a fare baldoria». Adrian arriva brandendo il suo calice. Indossa uno splendido smoking nero perfettamente cucito sul suo corpo. I riccioli ribelli che aveva da ragazzo sono domati e curati come lo sguardo, non più dolce e sincero come un tempo, ma più cupo e smaliziato.

Vicino a lui ci sono un paio di signorotti dalla parlantina facile, macchiette senza colore capaci solo di fare salotto e rintronare noi tutti con lunghe sequenze di parole vuote.

 

Nik pare ascoltarli con interesse, lo stesso fa George.

Io non ci provo neanche e, a quanto pare, nemmeno Adrian. Ha la faccia rivolta verso me e non mi stacca gli occhi da dosso.

 

«La cara Elena è qui. Credevo non avremmo mai avuto modo di parlare faccia a faccia. A quanto mi ha riferito Becca ti immischi ancora in faccende che non ti riguardano», mi dice mentre beve il contenuto del suo calice in un sorso.

«Non mi impiccio in nulla. Sono tutte paranoie di Rebecca. Sono temporaneamente all'ufficio legale McArthur, Martin e Spencer perché stanno ristrutturando il mio e Nik mi ha offerto una stanza».

«Il buono e gentile Professor Martin, come potrebbe non darti una mano? Forse non ero l'unico a farmi una professoressa al Trinity, a quanto pare», dice con una voce piena di rabbia e disgusto.

 

Idiota. Vedo che il tempo l'ha trasformato in un idiota pallone gonfiato.

 

«Ho sentito parecchie cose carine su di te e sui tuoi baci con il professore». Adrian allude al  bacio che ci stavamo dando io e Nik nel magazzino del parco Franklin, lo stesso che James e Lucas hanno visto e su cui hanno costruito il loro piano per usarmi.

 

Lo strozzo.

 

«Ti sbagli, non ho mai avuto una storia con Nik, non ne avrei avuto il coraggio. Del resto non tutti sono in grado di portarsi a letto una loro insegnante e passarla franca», dico io con sprezzo. «Solo chi ha un cognome importante come il tuo o soldi a palate può permettersi il silenzio di una scuola intera. Del resto fai politica, no? Deve essere la tua specialità imbrogliare, mentire e fare buon viso a cattivo gioco, oppure mi sbaglio?».

«Mi stai minacciando? Vuoi rievocare storie passate solo per darmi fastidio? Una scopata con una donna qualsiasi non influirà con la mia carriera, figuriamoci se successa più di quindici anni fa». Adrian è di fronte a me. Mi fissa con intensità, posso scrutare i suoi occhi scuri e vedere tutta la rabbia che sta provando. «Del resto te ne sei andata lasciando tutti con l'amaro in bocca, poi torni accoppiata a Nicholas. Tutto molto strano per una che dice che non vuole impicciarsi nelle vite altrui».

«Quello che non hai capito è che né tu e nessun altro potrete mettermi i piedi in testa perché vi conosco per quello che siete. Menti quando dici che una scopata con una donna qualsiasi non ha avuto la minima importanza nella tua vita. Menti quando fingi di non avere sentimenti per il tuo passato. Io lo so e questo ti terrorizza, come terrorizza Rebecca e tutti gli altri». Bevo un sorso di champagne. «Stai tranquillo, non ho la minima intenzione di dire nulla di voi perché per me nessuno di voi ha la minima importanza. Siete polvere, niente di più».

 

Adrian stringe la mascella. Gli occhi acquosi e le dita serrate intorno al calice tradiscono i suoi sentimenti. Credo si senta improvvisamente fragile, vulnerabile, avermi lì presente lo fa vacillare.

 

«Che bella sorpresa. Non sapevo saresti venuta pure tu». Andrew mi appoggia la mano intorno al braccio baciando la mia spalla scoperta. «Vedo che hai ritrovato un tuo vecchio amico, chissà quante cose belle avete da dirvi».

«Non toccarmi», dico tra i denti.

«Volevo solo essere galante», dice Andrew palesemente ubriaco. James è di fianco a lui e non mi degna nemmeno di uno sguardo.

«Ti ho detto di non toccarmi», dico con voce più alta facendo girare Nik e George McArthur nella nostra direzione.

 

La mia faccia è rossa.

Sto per esplodere.

 

«Buonasera carissimo. Ero troppo preso in una conversazione con questi amabili Signori per accorgermi di te. Ciao, Andrew. Come stai?». Nik sfodera il suo sorriso più amabile per quel mostro che non la smette di tenermi a braccetto.

«Il piacere è mio. Avevo voglia di rivedere il tuo bel faccino, mi sei mancato», dice Andrew con la voce strascicata e il fiato che puzza d'alcool.

George ride di gusto: «Bravo. Vedo che qualcuno ha colto lo spirito di questa festa. Bere e divertirsi. Niente facce lunghe. Adesso vieni con me, ho promesso di brindare con Nicholas e assaggiare questo splendido liquore, una bocca in più fa sempre comodo», dice George ad Andrew mentre si allontana verso un tavolo colmo di bicchieri vuoti.

 

Nik mi solleva lo scialle coprendo la spalla scoperta.

 

«Vado con George e Andrew. Ti dispiace se ti lascio un attimo da sola?», mi chiede Nik.

«No, figurati. Mi guardo intorno e magari mangio qualcosa. Ho molta fame», gli dico indicando il tavolo del buffet.

«Mi dispiace per quello che ti ha fatto Andrew, purtroppo sai come possa risultare sgradevole a volte».

«Adesso, vai. Mi trovi qui al tuo ritorno». Spingo via Nik verso George e Andrew.

Le mie dita premono sul suo completo rimanendo a mezz'aria anche quando Nik si è allontanato.

Solo pochi secondi.

Un attimo.

La mia mano è ancora sollevata in aria.

 

James la prende.

La prende prima che io possa abbassarla.

 

James fissa l'anello al mio dito.

 

Sono paralizzata.

 

«Bene. Presto avremo un matrimonio felice tra Nik ed Elena», dice James ad Adrian.

«Spero di non essere invitato. Sai quanto detesti partecipare ad eventi senza la minima importanza, purtroppo essere un politico ha degli svantaggi», dice Adrian adocchiando due ragazze che ancheggiano sensuali poco lontane da noi. «Anche se a volte bazzicare nella politica ha i suoi vantaggi», dice sghignazzando mentre si sistema il nodo della cravatta prima di andare verso le due donne.

 

Io ho la salivazione azzerata.

Vorrei spiegare a James che non è come sembra.

Vorrei dire che le cose non stanno come lui pensa.

Vorrei, ma non vorrei.

Del resto neanche io so come stanno le cose.

Amo Nik?

Sarei veramente disposta a sposarlo?

 

Non lo so.

 

«A quando il lieto evento?», mi chiede James.

«N-non abbiamo ancora deciso», mento.

«Posso avere l'onore di un ballo?».

«Certo, anche se in quattordici anni non ho mai imparato a ballare», dico con un certo imbarazzo.

 

James mi prende per mano portandomi nella zona della sala dove altre coppie ballano. Ci fermiamo nel perimetro vicino alle grandi vetrate che danno sulla balconata che si affaccia sul mare.

 

James sorride mentre appoggia le mani sui miei fianchi iniziando a farmi ondeggiare delicatamente.

Il suo è un sorriso dolce, calmo, triste.

 

«Sono soddisfatto», dice lui.

«Di cosa?», gli chiedo con un filo di voce.

«Che tu mi abbia dato retta», dice James.

«Su cosa? Non capisco?».

«Sono felice che tu ti sia concentrata sul tuo presente e non sulle tue aspettative. Il matrimonio con Nik è una cosa buona», mi dice mentre la musica inizia ad aumentare di intensità.

«G-già», gli rispondo a testa china.

«Un giorno, forse, quando saremo più saggi e calmi, potresti provare a spiegarmi perché sei sparita da New Heaven», dice lui.

 

Di scatto alzo il volto. 

Ho gli occhi gonfi di lacrime.

I ricordi legati a quella sera al Trinity urlano e scalciano, sono come un fiume in piena pronto a rompere gli argini.

 

«Non sei ancora pronta, vero?», mi dice stringendo più forte la sua mano intorno alla mia senza smettere di danzare.

 

Faccio cenno di no con la testa. Non riuscirei a reggere in questo momento.

Crollerei e non posso.

Devo prima chiarire la questione di Bottari e Salti, ho preso un impegno con Nik e non potrei mai tradirlo.

 

«Aspetterò», mi dice James trascinandomi nel mezzo della sala facendomi vorticare e trasportandomi, per pochi attimi, lontana dalle mie ansie e paure. I suoi occhi verdi illuminati dai lampadari in vetro soffiato, dai riflessi della luna e dalle decine di candele sparse nella stanza paiono universi da scoprire.

 

Mi perdo, per un soffio.

Mi confondo, per un attimo.

 

Poi il bagliore dell'anello che ho al dito mi riporta alla realtà dei fatti.

Una realtà dalla quale non posso e forse, non voglio, scappare.

 

... continua nel prossimo capitolo...

 

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Capitolo 33
*** OGGI: Come un soprammobile ***


OGGI:
Come un soprammobile 






... continua la scena del capitolo precedente... 

 

È incredibile come il tempo e lo spazio paiano contrarsi quando non si è concentrati sul presente, su quello che si vive al momento. Sono qui con James, ma lo sento più lontano di quanto stavo a Madrid. 

Io mi sento più distante da lui.

 

La musica finisce.

James fa un leggero inchino e poi se ne va.

Non dice nulla.

Non mi guarda.

 

Dopo uno smarrimento iniziale mi riprendo. Sfoggiando un sorriso di circostanza mi allontano dalla zona della sala dove si balla per andare verso il buffet, forse a stomaco pieno riuscirò a mettere ordine i miei pensieri.

 

Una tavola imbandita ad arte mi accoglie: ostriche perlescenti, caviale e scampi rosso corallo sono serviti da eleganti camerieri in livrea e guanti bianchi, frutta fresca esotica è adagiata in vassoi d'argento, ricche salse e pietanze dall'aria saporita sono ordinatamente disposte una di fianco all'altra pronte per essere mangiate. 

Mi riempio il piatto con delle tartine più simili ad un oggetto di design che a semplici bocconcini farciti, una bella selezione di frutta dolce e colorata e due pasticcini neri come la notte e stracolmi di cioccolato fondente.

Dopo i primi bocconi mi sento già meglio, sento lo zucchero scorrermi nelle vene e donarmi quella lucidità che sembrava venutami meno.

 

«Vedo che come sempre pensi solo a mangiare». Rebecca è a pochi metri da me, vicino a lei c'è Jonathan, Lucas e Stephanie. Neanche a dirlo sono tutti bellissimi, eleganti e tirati a lucido da capo a piedi.

Sorrido cercando di non mostrare troppo i denti impiastricciati di cioccolato nero fondente dei pasticcini.

«Come stai Elena? Che piacere vederti». Stephanie mi bacia sulle guance con delicatezza per poi rimettersi al suo posto di fianco al marito.

«Non credevo saresti venuta. Ho sempre una strana sensazione quando sei in mezzo ai piedi, forse perché hai causato solo guai a tutti noi», dice Lucas diretto e senza mezzi termini.

 

Lo squadro da capo a piedi mentre finisco di ingoiare il goloso boccone al cioccolato.

Blocco con un movimento deciso un cameriere che passa con un vassoio colmo di champagne di fianco a me. Agguanto un calice bevendo un grande sorso sentendo le bollicine solleticarmi la gola e scivolarmi lisce e vellutate nello stomaco.

 

«È un enorme piacere anche per me vedervi. Potrei dire lo stesso di voi, caro Lucas, dal mio punto di vista», dico.

«Elena, smettila», mi redarguisce Jo.

«Scusa? Ti ho chiesto qualcosa?», rispondo acida.

«Modera il linguaggio. Sei una ospite, mica la padrona di casa», risponde a tono Rebecca.

«Se non mi sbaglio non lo sei neanche tu. Questa è una casa dei McArthur e a quanto ne so non sei riuscita a accalappiare l'unico rampollo che ti interessasse. Credo che i tuoi piani per diventare la primadonna siano falliti», le dico con un sorrisetto.

«Non tirare troppo la corda, altrimenti...», dice Lucas.

«Altrimenti cosa? Mi umilierete nei corridoi? Spargerete voci infondate sul mio conto? Cercherete di rovinare la mia carriera scolastica? ... hmm... Fatto. Fatto. Fatto. Che dire, le opzioni si sono ridotte notevolmente», dico.

«Mi vuoi dire perché sei tanto arrabbiata con noi? Giuro, non lo capisco», sbotta Jo mettendosi di fronte a me e fissandomi. Stephanie sembra farsi piccola di fianco al marito mentre Rebecca stringe i pugni stizzita.

«Mi hai annoiato. Mi avete annoiato. Chiaro? Non tutti vogliono essere come voi. Non tutti desiderano essere ammirati. Non ti è chiaro il concetto?», gli dico senza arretrare di un passo.

«Ma... ma... una volta eravamo amici. Credevo tu fossi la stessa di quando ti ho conosciuta, invece sei cambiata», mi dice Jo a mezza voce.

«A quanto vedo non sono l'unica». Squadro Jo da capo a piedi soffermandomi sui gemelli in oro e la camicia fatta a mano.

«Finiscila. Mi hai detto che non ti saresti intromessa nelle nostre vite, invece adesso eccoti qui a rovinare la festa di George», dice Rebecca.

 

Una mano si appoggia sul mio braccio proprio nel momento in cui sto per rispondere a quella zitella acida.

È Bottari.

Indossa un completo blu di alta sartoria, una cravatta di seta e sfoggia un sorriso smagliante come fosse un venditore di auto pronto a rifilarci qualche catorcio.

 

«Che piacere, cara Elena», dice in italiano Bottari mentre Salti, più riservato, mi saluta con un cenno della testa. «Sono felice che sia venuta anche lei, è sempre un piacere avere a che fare con persone tanto gradevoli». 

Bottari mi bacia la mano.

 

Rebecca, Jo, Stephanie e Lucas paiono pietrificati, di certo non si aspettavano tanta confidenza tra me e quei due.

 

«Buonasera anche a te, socio di maggioranza», dice ridendo Bottari a Lucas che con cordialità gli stringe la mano.

«Speravo sareste venuti, questa festa non sarebbe stata la stessa senza di voi», dice Lucas con formalità, «Non credevo conosceste Elena, è una sorpresa».

«Diciamo che siamo in affari anche con lei. Non so se posso anticipare... posso dare la notizia?». Bottari mi guarda, pare un bimbo desideroso di raccontare cosa gli è capitato, si sta trattenendo a stento.

Annuisco cercando di trattenere l'imbarazzo.

«Elena e Nik stanno cercando un appartamento e si sono rivolti a noi». Bottari batte le mani entusiasta.

Jo e Rebecca mi guardano con la bocca spalancata.

«Congratulazioni. Sono felice che vogliate costruire una famiglia», dice Stephanie con un leggero imbarazzo.

 

Mi sento talmente a disagio che vorrei scappare.

In che guaio mi sono cacciata? 

Non che ci sia niente di male nella convivenza e nel matrimonio, ma non sono certo una mia priorità, adesso come adesso. Tutta questa faccenda sta diventando insolitamente pesante, asfissiante. 

Da qualsiasi parte mi giri vedo gente osservarmi, scrutarmi e giudicarmi. 

 

«Grazie, Stephanie». La voce di Nik giunge da poco lontano. È lì di fianco a me. «Vedo che i segreti non si possono tenere troppo a lungo in ufficio», dice ridendo Nik.

«Siamo felici per te e per il fatto che tu abbia trovato la donna giusta», replica Lucas con una smorfia.

«Le sorprese non sono finite». Nik prende la mia mano mettendo in mostra l'anello che ho al dito.

 

Attimi di silenzio.

Fiato trattenuto.

 

Rebecca esamina con attenzione il gioiello insieme a Stephanie, entrambe elogiano la bellezza del pezzo. Lucas pare indifferente, mentre Bottari esulta in modo chiassoso a differenza di Salti che sorride con freddezza.

 

Jo mi fissa.

Non ha smesso di fissarmi da quando ci siamo incontrati.

 

«Quindi sposi lui?», mi chiede Jo con aria stupita.

«A quanto pare», dico io cercando di mantenere il controllo.

«A quando il lieto evento?», mi chiede Stephanie.

«Hmm...». Non ho idea di cosa rispondere.

«Ci piacerebbe a Settembre. Le giornate sono ancora calde, ma non troppo. Non vorrei mai che la sposa rischi di scottarsi il giorno del proprio matrimonio, Elena ha una pelle così delicata che si arrossa subito. Inoltre ho tutto il tempo di arredare e completare il nostro nido d'amore, vorrei che l'appartamento fosse finito per quel periodo. Per il vestito che ho scelto per la mia piccola serve qualche mese di lavorazione, quindi credo che Settembre sia la data ideale», dice Nik posando la mano sulla mia spalla.

 

Ok, adesso vomito.

Cos'è tutta questa sdolcinata attenzione nei miei confronti?

Nik sta esagerando.

 

«La data però non è fissata, tutte le location che ci interessano sono occupate», rispondo io cercando di riportare la conversazione su un piano decente.

«Non c'è porta che non si possa aprire a uno come me». Nik mi bacia la guancia. «Vedrai che la sala bianca dello Yacht Club sarà felicissima di accogliere una sposa in più».

«Cavoli, so che ci vogliono minimo due anni per avere un posto allo Yacht Club. La sala ricevimenti è favolosa, il governatore ha dato lì la sua festa dopo l'elezione», dice Stephanie.

«Essendo socio da anni posso vantare certi privilegi», dice Nik, «Voi siete mai stati allo Yacht Club?», chiede Nik ai due italiani.

«No», risponde Bottari.

«Potremmo organizzare una colazione così da poter discutere le proposte per l'appartamento», dice Nik.

«Con piacere», risponde Bottari sempre più entusiasta.

 

Il mio sguardo furente si posa su Nik.

 

«Adesso credo sia il caso di allenarci con il ballo. Purtroppo Elena non è un'esperta ballerina, vorrei che durante il ricevimento dopo il matrimonio, noi si possa intrattenere gli ospiti con una coreografia degna di nota», dice Nik trascinandomi verso la parte della sala dove di balla e salutando con la mano Bottari e Salti.

 

Adesso è troppo.

Ma con chi crede di avere a che fare Nik?

Non ho la minima intenzione di apparire una sciocca davanti a nessuno, tantomeno davanti a Rebecca e gli altri.

 

La musica parte, un valzer cadenzato.

Le coppie intorno a noi si muovono leggiadre.

 

«Ma sei scemo? Che ti prende?», dico in preda all'ira.

«Stai calma. Devo in qualche modo ottenere la fiducia di quei due. A quanto ho visto sembrano apprezzare tutte le moine che faccio e soprattutto quando ti tratto da... da...». Nik non finisce la frase.

«Da cosa? Cosa stai insinuando?», chiedo.

«Insomma, Bottari è un latin lover. Tratta le donne come oggetti, è chiaro che preferisce confrontarsi con gente più simile a lui. Se ti tratto come tu fossi un soprammobile senza identità, Bottari si sentirà in vena di chiacchierare e potrei scoprire cose in più sul suo conto. Del resto va molto d'accordo con Lucas, credo la pensino allo stesso modo sulle donne», mi dice Nik mentre mi fa roteare sulla pista.

«Io... io... io... non credere che tollererò questo tuo modo di fare troppo a lungo. Io non sono e non sarò mai il soprammobile di nessuno. Capito?». Non voglio fraintendimenti, non mi piace essere trattata come una scema.

«Chiaro. Limpidissimo», Nik trattiene a stento le risate.

«Adesso perché ridi? Giuro che non ti capisco», chiedo diretta a Nik cercando di interpretare i suoi sbalzi d'umore.

«Hai visto la faccia di Rebecca quando ha visto il tuo anello? Credo che le sia venuto un mezzo infarto. Lo sanno tutti che ha organizzato il giorno del suo matrimonio fin da quando era piccola, peccato non abbia nessuno al proprio fianco. Jo invece sembrava sul punto di svenire. Credo abbia ancora una cotta per te», dice Nik.

 

La musica dell'orchestra risuona per la sala. Decine di abiti scintillanti ondeggiano, scarpe lucide e nere scivolano sul pavimento in accompagnamento. Un'armonia fatta di ritmo e suono regala vivacità alla stanza.

 

Osservo Nik e non lo riconosco.

Dov'è finito il caro amico, il professore, il mio amore platonico?

Ho tra le mie braccia un uomo che non conosco, diverso da come lo immaginassi e disposto a tutto pur di raggiungere il suo scopo.

 

«Non dire sciocchezze. Jonathan non mi ha mai amata, forse mi ha voluto bene, ma non c'è stato mai niente di più tra noi. Un tempo eravamo amici, molto amici. Poi però le cose sono cambiate», dico io cercando di non schiacciare i piedi a Nik.

«Le cose sono cambiate da quando te ne sei andata da New Heaven?», mi chiede Nik.

«Sì. Da allora tutto è cambiato».

 

Nik mi avvicina a sé. 

La sua presa è più forte.

I giri iniziano a diventare più intensi.

 

«Perché te ne sei andata? Non me l'hai mai detto. Visto che stiamo per sposarci dovresti dirmelo, non trovi? Sarebbe un bel regalo di nozze e un gesto di fiducia nei miei confronti». Nik mi sussurra le parole all'orecchio.

«T-te l'ho già detto, ero stanca del Trinity e non volevo Y-Yale... e poi non stiamo davvero per sposarci, tutta questa è una messa in scena per Bottari e Salti».

«Potrebbe diventare reale se tu lo volessi. Da come fissavi l'anello in macchina, credo che l'idea non ti paia poi così assurda». Nik non si stacca da me. 

«Nik, no. No, noi non siamo... non siamo...», dico a mezza voce.

«Non siamo cosa?», mi chiede con un sussurro prima di baciarmi sulla bocca in mezzo alla sala circondati da ballerini che, tra sete fruscianti e scarpe ticchettanti, paiono omaggiarci con le loro danze.

 

Non siamo cosa?

La domanda di Nik risuona nel mio cervello non trovando il coraggio di esplodere e uscire allo scoperto. Conosco la risposta, ma non ho il coraggio di dirla.

La penso, ma poi l'accantono.

 

Non siamo sinceri, l'uno con l'altro.

Non siamo sinceri.

Non sono sincera.

Non sei sincero.

 

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Capitolo 34
*** OGGI: Un aiuto inaspettato ***


OGGI:
Un aiuto inaspettato





Sono passati tre giorni dalla festa per il pensionamento di George, le cose allo studio legale sono andate bene: nessuno mi ha rivolto la parola o infastidita. È come se io non esistessi e la cosa a me va più che bene. Nik si comporta come se nulla fosse o perlomeno finge che le bugie che stiamo dicendo siano una cosa normale.

Se penso che tra qualche giorno mi tocca pranzare con Bottari e Salti allo Yacht Club mi sento male. Detesto i posti così formali dove tutti sono sempre perfettamente acconciati, vestiti e truccati. Rebecca o Stephanie starebbero bene lì, non io.

Nik dice che fa tutto questo per capire cosa nascondino quei due, ma a me la cosa non quadra. Ci sta mettendo un po'  troppo impegno a organizzare il nostro matrimonio fasullo. L'anello, le voce sparsa in giro, l'appartamento. Ci manca solo che si presenti in ufficio con l'abito da sposa che devo indossare.

 

Per fortuna oggi pranzo con Kate, in questo modo posso liberare la testa dalla confusione che regna sovrana nel mio cervello.

 

La panchina di metallo su cui sono seduta è ghiacciata, anche se siamo a inizio Febbraio, e splende un bel sole, l'aria non accenna a scaldarsi. Kate mi ha promesso di portarmi in un posto carino, spero che almeno lì faccia un bel calduccio così da poter scaldare il mio didietro infreddolito.

 

«Eccoti, non ti trovavo più», dice Kate che tiene in mano almeno una decina di riviste dall'aria molto pesante.

«Come vedi sono puntuale», le dico balzando in piedi.

«Qui vicino c'è una pasticceria che vende i dolci di Jane. Potremmo andare lì. È un ambiente carino», dice Kate cercando di mantenere in equilibrio le grosse riviste.

«Ok. Pranzo dolce e zuccheroso. Sai che non dico mai di no a una scorpacciata di delizie di Jane. Facciamo presto, ho una oretta scarsa, poi devo tornare in ufficio».

 

Ci incamminiamo lungo la strada principale. Kate arranca. Prendo dalle sue mani parte delle riviste, sono tutte a tema sposa. 

Speravo non avremmo parlato di matrimonio o cose simili, ma a quanto pare è ancora alla ricerca del suo abito da sposa. 

 

«Vedo che la tua insicurezza su cosa indossare sta diventando patologica, ma non avevi deciso quel modello che mi hai fatto vedere l'altro giorno?», le dico mentre la seguo in una via laterale dove passano meno persone.

«Non mi piace più. Elena, devo a tutti i costi decidermi entro questa settimana. Se voglio che riescano a fare un miracolo e consegnarmi l'abito pronto devo prendere una decisione, oppure mi sposerò in jeans e maglietta».

«Le grandi rivendite specializzate possono...».

Kate mi interrompe: «Ci sono già stata e non mi piaceva nulla, inoltre ci vogliono sei sette mesi per prenotare e far fare l'abito, a meno che non prenda quelli in saldo, ma vista la mia bassezza nessuno pare essere adatto a me. Oggi devo decidere e tu mi aiuterai».

«Per questo hai voluto pranzare con me, vuoi corrompermi con i dolci. In questo modo sai che non potrei dirti mai di no», dico ridendo.

«Cara mia, in guerra o in amore... o meglio, per un matrimonio... tutto è lecito». Kate mi schiaccia l'occhio complice prima di spingere una porta a vetri di un piccolo locale dall'aria semplice e rustica.

 

L'interno non è enorme, sembra una piccola locanda europea con mobili vintage e grandi quadri appesi alle pareti. Lampadari in ferro battuto smaltato di bianco e una grande vetrina colma di dolci di ogni tipo, donano un'aria rustica e semplice al locale.

 

«Intanto appoggiamo queste, poi decidiamo cosa mangiare», mi dice Kate lasciando il suo carico su un tavolino rotondo lontano dalla vetrina circondato da una piccola panca ad angolo coperta con cuscini ricamati a mano.

La seguo a ruota, lascio le riviste per affacciarmi affamata alla vetrina con dolci di ogni tipo.

 

«In questa pasticceria si servono i dolci più buoni di Boston, fatti dai migliori pasticcieri. Ci sono quelli di Jane...», mi dice Kate indicandomi un ripiano colmo di piccoli bocconcini dall'aria golosa e torte glassate multicolori, «...Inoltre ci sono dolci di una ragazza specializzata in pasticceria Indiana o quelli di un pasticciere Giapponese. Sono tutti professionisti molto promettenti».

 

Io non la ascolto neanche più, non so cosa scegliere, sembra tutto dannatamente buono.

 

La commessa ci guarda divertita, deve essere abituata a facce sbavanti come la mia: «Che ne dite se vi faccio un vassoietto con degli assaggi? Avete delle preferenze», ci chiede garbatamente.

«Cioccolato, ma va bene tutto: crema, frutta secca, marmellate, dolci al cucchiaio, torte o budini», dico con l'acquolina in bocca.

«Ho capito, vi creerò un vassoio speciale», ci dice la commessa.

 

Kate ed io ci sediamo al nostro tavolino.

La mia amica inizia a spulciare un paio di riviste riempiendomi la testa con informazioni su taglie, tessuti, ricami e perline. Ci sono appunti su diverse pagine, alcuni segnalibri e post-it con note. La dedizione e l'attenzione con cui cerca l'abito perfetto ha del maniacale.

 

«Mi piace questa gonna, ma è troppo voluminosa e sul mio fisico starebbe male. Inoltre il pizzo non mi piace è troppo luccicante. Questa ha la lunghezza giusta e pure lo strascico, eppure il tessuto così lucido non mi piace», dice Kate.

Annuisco anche se non ho idea di cosa stia blaterando.

«Potrei optare per dei pantaloni, ma guarda, hanno tutti dei tagli orrendi. E cosa mi metterei sopra? Un bustino? Un corpetto? Non ho abbastanza seno per riempirlo come dovrei, potrei mettere una camicia in seta, ma così tutta bianca sembrerei una gelataia».

Sorrido cercando di non apparire troppo annoiata.

«Il velo. Ecco, mi piace questo, ma presuppone un abito importante è molto femminile. Troppo femminile. Vorrei il giusto compromesso, qualcosa di delicato, ma non lezioso. Semplice, ma raffinato. Chiedo molto?», mi chiede la mia amica con gli occhi sbarrati.

 

Per fortuna arriva il pranzo accompagnato da due tazze di tè fumante.

Il vassoio è colmo di bocconcini dall'aria gustosa, creme opulente e fragranti squisitezze.

 

Appena inizio a mangiare smetto di ascoltare Kate, non riesco proprio a concentrarmi. Lei continua nella sua litania che sembra più uno sfogo che altro.

 

«Facciamo così. Entro questo fine settimana decidi. Ti aiuto io. Poi butti via tutto: foto, riviste, appunti. In questo modo ti liberi da tutti i tuoi pensieri. Ok?», le dico mentre addento un biscotto allo zenzero.

Kate si nasconde dietro la tazza sconsolata: «Va bene. È solo che vorrei l'abito perfetto».

«Ma che ti importa, in fin dei conti sposerai la donna che ami. È questo l'importante, no?».

«Già. Lo so che hai ragione, ma vorrei vedere te al mio posto. È più stressante organizzare tutto questo che una mostra o un reportage fotografico». Kate mangia un bignè allo zabaione.

«Se ti dicessi che Nik sta cercando un appartamento per noi, ha sparso in giro la voce che siamo fidanzati, come la prenderesti?», dico con ironia.

Kate ridacchia: «Sì, certo. Tu e Nik fidanzati. Ma se non sai nemmeno se lo ami o meno, come potresti fidanzarti con lui?».

 

Prendo il portafogli dalla borsa.

Lo apro.

Faccio scorrere la cerniera di una tasca, avvolto in un piccolo panno c'è l'anello che mi ha dato a Nik.

Lo mostro alla mia amica.

 

«Merda», urla a Kate facendo girare la commessa e gli altri clienti nella nostra direzione.«C-come. Quando. Perché».

«È una lunga, lunghissima storia», le dico con un sospiro mentre metto via l'anello.

«Per la serie: i drammi di Elena», mi dice Kate con ironia.

«Hmm... più o meno... ecco... sì», le dico con tutta la sincerità che ho in corpo.

«Hai quaranta minuti prima che tu debba tornare in ufficio. Devi dirmi tutto nei minimi dettagli. Tutto». Kate si abbassa e mi fissa pronta ad ascoltare per filo e per segno il guaio in cui mi sono cacciata.

 

Tra un sorso di tè, un dolce al cucchiaio ai frutti di bosco e uno al cioccolato, le racconto per filo e per segno ogni singolo attimo degli ultimi giorni, aggiornandola sulle paranoie di Nik e sul suo piano per incastrare Bottari e Salti.

Non smetto di parlare nemmeno quando usciamo dal locale per dirigerci verso il grattacielo dove c'è lo studio legale.

Non smetto di parlare per strada, quando attraversiamo la strada, quando schiviamo i passanti. 

Non smetto di parlare e di raccontare alla mia amica i dubbi che provo e la strana sensazione che qualcosa di più grosso stia per accadere.

 

«Molla tutto. Te l'ho già detto l'altra volta. Staccati. Devi imparare a far scorrere il tuo passato. Liberati da tutti i tuoi fantasmi, non puoi aggrapparti così forte a ciò che c'è stato. Questo vale per Nik come per James», mi dice Kate prendendomi per le spalle e fissandomi negli occhi.

«Non lo faccio apposta, lo giuro».

«Ti ti dico solo di non farti incastrare in guerre non tue. Con l'anello Nik ha superato un limite che non doveva oltrepassare», mi dice Kate.

 

Kate ha ragione, perfettamente ragione.

 

«Lo so. Adesso purtroppo devo andare». Abbraccio la mia amica più stretta che posso prima di salutarla con un bacio.

 

Adesso mi sento un pochino più libera, sfogarmi con lei mi ha fatto bene.

 

Entro nel grande atrio del grattacielo, ho ancora in mente le parole di Kate e la sua esortazione a lasciar perdere. Il rumore dei miei tacchi si perde nel frastuono delle voci che riempiono lo spazio. Decine di professionisti chiacchierano tra di loro in attesa di rientrare nei loro uffici.

Con strette delle riviste da sposa mi metto davanti un ascensore in attesa che mi porti ai pieni alti.

 

Riviste da sposa?

Come mai le ho io?

 

Mi sono dimenticata di ridarle a Kate.

 

Prendo il cellulare dalla borsa e scrivo un messaggio prima che pensi di averle dimenticale al locale o perse da qualche parte.

 

- Ciao Kate, ho io...

Con il cellulare ancora in mano l'ascensore arriva.

- ... io le tue riviste...

Entro e mi posiziono in un angolo con la testa abbassata.

- ... riviste, te le riporto domani dopo il lavoro...

L'ascensore di riempie.

- ... lavoro. Passo a salutarti con Seb.

 

Inviato.

 

Metto il cellulare in borsa poi abbraccio le riviste che tengo in mano.

Alzo la testa.

 

James e Rebecca sono di fronte a me.

 

«Vedo che stai cercando l'abito giusto. Se ti vuoi sposare a settembre sei in ritardo, le migliori sartorie ci mettono un anno a completare un abito decente. Ma forse tu ti accontenti di poco. In qualche discount troverai ciò che cerchi», mi dice Rebecca con il suo solito tono simpatico e affabile da acida arpia.

«Rebecca, smettila. Non sono affari tuoi», dice James tra i denti.

«Se ti interessa saperlo sono per Kate, ha avuto qualche contrattempo e deve fare delle modifiche con il suo abito e...».

Rebecca mi interrompe bruscamente. 

«Kate è senza abito? Ma è una sciagura. Si sposa il 15 marzo, tra meno di un mese e mezzo. Qual'è il tema del matrimonio? Che colori hanno scelto per l'evento?», mi chiede allarmata.

«Becca non ti intromettere e ...».

Anche James viene zittito.

«Visto che a quanto deduco Elena è la damigella d'onore chiedo a lei queste informazioni. Detesto i matrimoni organizzati male mi fanno venire una emicrania pazzesca, senza contare che magari si tratterà di una cerimonia con un buffet organizzato male...». Rebecca è in iper ventilazione pare sull'orlo dello svenimento.

«A dire il vero non sono la damigella d'onore. Almeno, non credo. Kate non mi ha mai chiesto nulla. Non so, magari è un'altra sua amica».

«La sposa si fa aiutare per l'abito, i fiori e l'organizzazione dalla persona di cui si fida maggiormente. Se ha chiesto a te vuol dire che tu sei... sei... la sua damigella d'onore», Rebecca mi parla come avessi tre anni, «Sei una pessima damigella d'onore. Se fossi in Kate non avrei mai affidato un ruolo tanto importante a te».

 

L'ascensore è arrivato al piano dello studio legale. 

Scendiamo tutti e tre.

 

James strattona Rebecca allontanandola da me: «Scusa Elena. Ho detto a tutti di lasciarti in pace, di non intromettersi con la tua vita, ma evidentemente qualcuno non deve averlo capito», dice alla sua amica rimproverandola.

«Ma James, il matrimonio sarà un fallimento, un affronto alla moda. Elena non ha il minimo gusto e tantomeno Kate!». Rebecca prende un taccuino nella sua borsetta, strappa un foglietto e scrive come una pazza. «Ecco, questo è il nome e l'indirizzo di una stilista bravissima, giovane, ma molto promettente. Vai da lei con Kate».

«Ma...». Sono stupita dalla sua impulsività anche se, effettivamente, quando si parla di abbigliamento Rebecca pare infiammarsi.

«Niente, ma. Vai e vedrai che troverai l'abito giusto...», mi dice ad alta voce Rebecca mentre James la allontana a forza da me verso il corridoio principale. 

«Non so se riuscirò a trovarlo», le dico spiazzata dalla sua disponibilità.

«Ripensa agli abiti che ho scelto io per lei e...». Rebecca non finisce la frase, la urla per il corridoio. James la porta nel suo ufficio chiudendo la porta alle sue spalle.

 

Con la bocca spalancata aspetto di riprendermi da quando appena successo.

 

Rebecca è stata gentile con me?

C'è da fidarsi?

Possibile che le interessi tanto aiutare Kate?

 

Stringo il foglietto appena ricevuto tra le mani.

Lo leggo.

Alice Drobawy, Millenium Street 32.

Una piccola nota laterale attira la mia attenzione: azzurro, cerca il colore dei suoi occhi.

 

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Capitolo 35
*** OGGI: Cin cin ***


OGGI:
Cin cin







... vi avviso, il capitolo è molto lungo...

 

 

Sono ancora con il biglietto di Rebecca tra le mani.

 

Alice Drobawy.

 

Rileggo il nome scritto a mano cercando di capire se possa fidarmi o meno. Conoscendo Rebecca non mi stupirei se volesse fregarmi in qualche modo, ma allo stesso tempo, lo slancio con cui mi ha dato il nome, la sua spontaneità mi fa pensare che forse non stia macchinando nulla contro di me e il matrimonio di Kate.

 

Alice Drobawy.

 

Cammino a passo di lumaca per il corridoio che mi porta al mio piccolo ufficio dove mi aspettano diverse registrazioni da ascoltare. La frenesia, i movimenti veloci delle persone accanto a me paiono accelerate. Sembrano strisce che scorrono, macchie di colori informi. 

Ogni mio passo ha un peso specifico maggiore del piombo.

Arranco.

Mi sento scollegata proprio come mi capita ogni volta che non so cosa devo fare.

 

Devo andare con Kate in questo negozio?

E se la proprietaria fosse in combutta con Rebecca?

 

Di sicuro Rebecca non può aver organizzato già tutto, sempre nel caso si tratti di uno scherzo. Il fatto che a Kate serva il vestito è uscito per caso nella conversazione in ascensore, l'idea però potrebbe essere balenata in testa a Rebecca all'improvviso.

Devo capire se fidarmi o meno, per questo la tempistica è tutto, da quello che ho imparato con Bottari e Salti, il modo migliore per avere informazioni è muoversi per primi e andare di persona.

 

«Ciao, Elena». Caroline sta scrivendo al computer.

«Ciao». Le rispondo senza espressione mentre la mia mente progetta piani e strategie.

«Hai visto un fantasma? Sei più pallida del solito», mi dice con sufficienza. «Il tuo fidanzatino ti sta aspettando in ufficio».

«Cosa?», chiedo con l'aria stralunata.

«Nik. L'avvocato Martin. Il tizio con cui ti sei fidanzata ti aspetta in ufficio», Caroline parla con voce annoiata.

«Ah, sì... scusa. Stavo pensando ad altro». Mi blocco davanti alla sua scrivania tenendo tra le mani il biglietto di Rebecca.

«La porta è di la», mi dice sgarbata indicando con il dito la porta dell'ufficio di Nik.

 

Elena, riprenditi.

 

«Certo. Certo. Scusa ancora», le dico prima di entrare nell'ufficio di Nik.

 

Il sole di febbraio colpisce il pavimento in marmo dell'ufficio di Nik. Le strisce grigie e nere, intrecciate tra loro, paiono centinaia di serpenti arrotolati su loro stessi. Immobili, addormentati. Il legno della scrivania riflette e mostra le venature che corrono per tutta la superficie. 

Nik cammina avanti e indietro, sta parlando al telefono.

Mi fa un cenno con la mano.

Mi siedo nella sedia di fronte alla scrivania e aspetto.

 

«... va bene... grazie per l'informazione. Era quello che mi serviva sapere. No. No. Andrò da solo, non voglio rischiare che ti possa bruciare o farti scoprire... sì, andrò io in fondo a questa faccenda una volta per tutte... ok, va bene... ci sentiamo più tardi». Nik chiude la chiamata poi si accomoda sulla sua sedia.

 

Nik mi guarda, sembra euforico.

 

«Che succede?», gli chiedo.

«Forse ho trovato qualcosa. Salti e Bottari hanno un appuntamento strano oggi pomeriggio al porto. Potrebbe essere la pista che stavamo cercando. L'investigatore dell'ufficio lo ha scoperto da poco», mi dice a bassa voce riuscendo a stento a trattenere le emozioni.

«Ma non avevi detto che il vostro investigatore non aveva trovato nulla? Come mai adesso ha questa nuova informazione?».

«Perché il magazzino non era intestato alla loro società, ma solo a Salti», mi dice come fosse la cosa più ovvia del mondo.

«Cosa vuoi fare adesso?», gli chiedo un po' preoccupata.

«Casualmente mi farò trovare lì. Casualmente assisterò al loro incontro strano». Nik pare al settimo cielo.

«Ma non è pericoloso?».

«Elena, finalmente avrò una volta per tutte in mano quei due», dice mentre si alza in piedi per avvicinarsi a me.

«Ho solo paura che possa succederti qualcosa di brutto», gli dico mentre lo abbraccio.

«Non ti preoccupare, appena sono a casa ti chiamo. Anzi, passo dal tuo appartamento, così saluto pure Sebastian». Nik mi bacia le guance.

«No, Seb è a casa del suo amichetto Samuel. Pigiama party», gli dico mentre gioco con il nodo della sua cravatta.

«Meglio. Così avremo tutta la sera per noi. Ti piace come idea?». Nik mi bacia la bocca con delicatezza.

«Io... io...».

 

Sono confusa. 

Il pensiero di quel dannato bigliettino datomi da Rebecca mi fa impazzire.

 

«Facciamo così. Oggi pomeriggio non riesco a sentire le registrazioni devo andare in un negozio per vedere se c'è una cosa per il matrimonio di Kate. Non so quanto ci metto visto che ho diverse commissioni. Possiamo sentirci per telefono. Potrei essere distrutta stasera e...».

 

Toc. Toc.

Qualcuno bussa la porta interrompendo le mie parole.

 

«Certo che Caroline ha un tempismo perfetto», dice Nik sbuffando.

«Non ti preoccupare, possiamo continuare a parlare dopo», gli dico accennando un sorriso.

 

«Avanti». Nik si sistema la giacca e gli occhiali pronto ad accogliere Caroline.

 

Ma.

C'è sempre un ma.

 

Non entra Caroline, ma Andrew.

 

«Scusa, Nik. Scusa il disturbo...», dice Andrew interrompendosi appena mi vede.

«Nessun problema, dimmi pure», risponde Nik invitandolo ad entrare.

Andrew tiene in mano una scatola: «Sono felice che tu sia qui, Elena. A dire il vero mi fa comodo. In questo modo faccio tutto in una volta sola».

«Che cosa vuoi?», gli chiedo diretta senza tante manfrine. 

«Ecco... insomma...», Andrew pare imbarazzato, sembra addirittura arrossire, «Volevo scusarmi con il mio comportamento inappropriato alla festa organizzata da George per il suo pensionamento. Mi hanno riferito che io sia stato leggermente molesto con alcune Signore e... ecco... visto che ho i ricordi un po' annebbiati, non sono in grado di ricordare se ho infastidito Elena o meno. Per questo sono venuto qui da te, Nik, volevo chiederti... chiedervi... scusa. Visto che siamo soci in affari e sono in ballo molto soldi, non vorrei compromettere nulla». Andrew allunga una scatola di legno con dei sigari cubani.

Nik ride: «Stai tranquillo, eri solo un po' alticcio. Mi fa piacere questo regalo, molti miei clienti apprezzeranno queste delizie», dice mentre prende la scatola esaminando i sigari perfettamente adagiati e avvolti nella carta velina.

«L'altra sera non eri diverso da come sei di solito», ribatto acida.

Nik sghignazza mentre Andrew si irrigidisce imbarazzato.

 

È ora che io lasci l'ufficio, voglio andare da Alice Drobawy il prima possibile e togliermi ogni dubbio.

 

«Nik, io vado nel posto che ti ho detto prima, appena finisci la tua cosa chiamami così possiamo metterci d'accordo per stasera», dico pronta a lasciare l'ufficio.

«A proposito di stasera. Ho organizzato una cena in un mio ristorante con gli altri dell'ufficio. Una cosa informale. Vengono pure Bottari, Salti, Stephanie e Adrian. Ovviamente siete invitati anche voi», dice Andrew, «Nuovo menù da testare. A quanto pare devo estendere le mie scuse anche a Rebecca e Stephanie. Credo di aver avuto un po' la mano pesante con loro».

«Veramente abbiamo impegni che...»., provo a dire, ma Nik mi interrompe.

«Ci saremo di sicuro», dice Nik stringendo la mano ad Andrew.

«Perfetto. Vi aspetto intorno alle venti, questo è l'indirizzo». Andrew allunga un biglietto da visita: Ristorante Empereur. «L'ho ristrutturato da poco».

«A stasera allora», dice Nik mente osserva Andrew uscire dall'ufficio.

 

Io.

Adesso.

Lo.

Strozzo.

 

«Che cavolo ti salta in testa? Accetti un invito da Andrew?».

«Ci saranno Bottari e Salti stasera. È un colpo di fortuna. Se non dovessi scoprire nulla dal loro incontro strano al porto di Boston avrò modo di avere più informazioni durante la cena, da una chiacchierata rilassata si possono carpire molte informazioni. Se invece scoprissi qualcosa oggi pomeriggio avrò l'occasione di smascherarli davanti a tutti», mi dice Nik già pronto ad indossare il suo cappotto.

«Mi sembra tutto dannatamente complicato. Non sarebbe meglio passare la serata in tranquillità?», chiedo.

«Elena, fidati. Aspettami al ristorante. Adesso vai a fare le tue commissioni, vedrai che qualunque cosa accada tutto si risolverà per il meglio». Nik mi abbraccia forte poi prende la sua valigetta ed esce di corsa dall'ufficio.

 

Mi sento come un cane abbandonato sul ciglio della strada.

Possibile che Nik sia così ostinato e fissato?

Il suo modo di fare mi irrita sempre di più.

 

Elena, calma.

Lascialo perdere.

 

Non ho voglia di stare a farmi il sangue amaro. Se Nik ha voglia di giocare a guardia e ladri con Bottari e Salti che vada pure, io ho di meglio da fare.

Devo capire se il negozio che mi ha indicato Rebecca è affidabile e se lì posso trovare l'abito giusto per Kate.

 

Esco dall'ufficio senza esitazione. 

Non saluto Caroline che mi squadra dall'alto al basso.

Evito un paio di tirocinanti barcollanti pieni di fascicoli.

Ascensore.

Arrivo al piano terra in pochissimo tempo.

L'atrio è semi deserto, la maggior parte degli impiegati sono negli uffici.

Chiedo alla guardia di chiamarmi un taxi, non ho voglia di cambiare tre linee di metropolitana per raggiungere il negozio di Alice Drobawy.

Cammino avanti e indietro.

Aspetto.

Guardo fuori le vetrate, il sole splende.

Aspetto.

La guardia del palazzo mi avvisa che il taxi è arrivato.

Esco.

Salgo.

 

«Mi porti in Millenium Street 32. Grazie», dico all'autista.

L'uomo parte senza esitazione immettendosi rapido nel traffico. A quest'ora del giorno le strade sono più libere quindi non trova grossi ostacoli durante il viaggio. Passiamo attraverso i quartieri finanziari con grossi palazzi per poi dirigerci verso la zona più vecchia della città, nella zona opposta a dove abito io. Sfiliamo per piccole vie con abitazioni e locali di nuova generazione non molto lontani dallo studio fotografico di Kate.

 

Dopo una ventina di minuti siamo arrivati.

Millenium Street 32.

 

Pago il tassista.

Scendo.

 

Davanti a me c'è una piccola boutique con una grande vetrina finemente decorata. Due manichini in legno vestiti con graziosi abiti colorati. Si nota a colpo d'occhio che sono fatti a mano, le finiture e i dettagli sono unici. 

 

Sono impressionata.

Stai a vedere che Rebecca ha voluto veramente darci una mano.

 

Osservo con attenzione l'interno del negozio. Non vedo molto. Noto parecchi capi appesi alle grucce, ma non mi pare di scorgere abiti da sposa, puzzi, tulle o cose simili.

Metto le mani intorno agli occhi per cercare di ripararmi dalla luce e cercare di capire meglio di che tipo di negozio si tratti.

 

«Se ti interessa puoi entrare, senza impegno ovviamente». Una ragazza dalla pelle color caramello mi sorride, indossa uno splendido abito color corallo in stile anni '50 e una bandana contiene una lunga massa di capelli neri.

«Hmm... grazie». Non voglio svelarle le mie carte, preferisco fingere di essere una acquirente qualsiasi.

 

Il negozio è molto curato, alcuni vestiti sono appesi sulle pareti e altri sono esposti in stand sparsi per la stanza. Non è molto grande, ma è accogliente, mi trasmette emozioni positive.

 

«Faccio tutto a mano, sono una sarta e stilista. Puoi trovare dei modelli già fatti, ma se preferisci posso cucire le parti che più ti piacciono tra di loro. Ho dei modelli di gonne, pantaloni già pronte che puoi abbinare a top o bluse. Io assemblo il tutto come piace a te adattandoli alla forma del tuo fisico. In questo modo il vestito ti calzerà a pennello», mi dice la ragazza con un sorriso.

«Guardo quello che è esposto, poi ti faccio sapere», le dico mentre i miei occhi cadono su un capo all'altro, sono tutti bellissimi.

La ragazza si dirige ad un grande tavolo di lavoro pronta ad armeggiare con la sua macchina da cucire lasciandomi il tempo di dare un'occhiata.

 

Sono in paradiso.

Ogni capo è realizzato alla perfezione, ogni stoffa e decoro sono di alta qualità e tutto è molto curato. La morbidezza, la delicatezza dei pizzi, i colori vibranti, i tagli moderni e originali sono tutto ciò che Kate ha sempre cercato.

Peccato che non si tratti di abiti da sposa.

 

«Posso chiederti una cosa?», mi avvicino con discrezione al tavolo di cucito.

«Certo, dimmi pure», mi risponde cortese Alice.

«Se io portassi una mia amica a scegliere un abito potresti aiutarla? Si deve sposare tra un mese e mezzo e non ha trovato nulla che le piacesse».

«Non vorrei apparire poco modesta, ma io sono in grado di cucire tutto alla perfezione», dice con una irriverente impertinenza impossibile da non adorare. «Se vuole un abito a meringa, moderno, a sirena, in pizzo io lo faccio. Tutto, io cucio tutto».

«Credo che lei volesse qualcosa di diverso. Credo che l'azzurro sia il colore che le sta meglio. Ovviamente non voglio che sembri la fata turchina, ma fare in modo che sia presente quel colore nell'ambito», dico ad Alice che pare in preda ad una visione estatica.

«Vieni con me». La ragazza mi porta sul retro del negozio che, colmo di rotoli di stoffe, scatole con bottoni, nastri e decorazioni, è affollato e stracolmo di oggetti. «Guarda questa seta bianca», mi dice mostrandomi una seta di una morbidezza mai sentita prima, sembra borotalco fluido. Dei riflessi azzurri, color ghiaccio, lo rendono più simile all'acqua che a un tessuto senza risultare pacchiano o di cattivo gusto.

«È stupenda». Non ci sono parole per descrivere quello che sto vedendo è meraviglioso.

«Facciamo, così. Porta la tua amica, così vediamo se posso aiutarla», mi dice Alice.

«Contaci! Ti dispiace se adesso do un'occhiata? Mi piacerebbe vedere se  trovo qualcosa anche per me». Non voglio perdere l'occasione di provare abiti stupendi». Mi sento un po' sciocca, superficiale, ma non posso farne a meno. Mi sento come una bimba in un negozio di caramelle, pupazzi e cuccioli.

 

Passo le due ore successive a indossare, toccare, provare decine di abiti. Sono uno più bello dell'altro. Mi innamoro di ogni capo finché non vedo quello successivo. Alice è uno spasso, ha sempre la battuta pronta e non si fa problemi a dirmi come mi sta un vestito. È molto sincera e diretta, proprio come piace a me.

Dopo abiti lunghi, corti, pantaloni, bluse e giacche, finalmente trovo l'abbinamento che più mi convince: una lunga gonna che scende morbida lungo i fianchi e un top con scollatura a cuore, spalline in tulle intrecciato e qualche cristallo per decorarlo. Il colore scelto è un rosa antico più scuro del solito, la stoffa ha riflessi luminosi, ma non troppo.

 

«Se porti i capelli sciolti vedrai che starai benissimo, basta qualche boccolo. Sarai una damigella d'onore con i fiocchi», mi dice Alice che ormai conosce tutta l'avventura, mia e di Kate, per la ricerca dell'abito da sposa perfetto. 

«Grazie. Ci hai salvate, Kate ti adorerà», le dico abbracciandola, «Adesso vado, il taxi che ho chiamato poco fa è arrivato. Voglio passare da casa a darmi una sistemata, ho un appuntamento a cena stasera».

Alice mi saluta caldamente prima di chiudere la porta del suo negozio.

 

Sono quasi le 18.00.

Devo sbrigarmi se voglio fare tutto.

 

Corsa in taxi.

Sfrecciare per le vie della città.

Incrociare le dita sperando di fare in tempo.

Passano i minuti.

Arrivo sotto casa mezz'ora dopo.

Corro per le scale del mio palazzo.

Mi lancio dentro casa.

Cammino e mi spoglio.

Apro l'acqua della doccia.

Indosso la cuffia.

 

Ahia! L'acqua scotta.

 

Mi lavo e in dieci minuti riesco a fare tutto.

Mi asciugo.

Crema.

Metto uno smalto perlato bianco.

Sventolo mani.

Con accortezza inizio a truccarmi.

Ombretto dorato.

Abbondante mascara.

Fondotinta, correttore e tutto il resto.

Ancora un po' di mascara.

Corro in camera.

Apro l'armadio in cerca di un tubino color petrolio molto elegante e una giacchetta abbinata.

Lo indosso.

 

Chiamo un taxi.

 

Faccio una lunga treccia che arrotolo in uno chignon.

Scarpe con il tacco.

Borsetta abbinata.

Bracciali dorati.

Cappotto corto in lana.

Mi guardo allo specchio, non sono male.

 

Sono pronta.

 

Esco di casa.

Il taxi mi sta aspettando.

19.45.

Merda, sono in ritardo.

 

«Ristorante Empereur. Grazie», dico con il fiatone all'autista mentre cerco nello specchietto che tengo in mano di vedere se il trucco è in uno stato decente o meno.

 

Elena, respira.

Elena, non succede niente se ritardi di qualche minuto.

 

Il taxi fa il possibile, ma c'è parecchio traffico. Molte persone stanno tornando a casa o cercando di raggiungere il centro città per passare una serata in compagnia di amici o con persone care. 

Il mio respiro è ormai tornato normale. Mi ritrovo a fissare fuori dal finestrino auto, negozi e persone sui marciapiedi. Con le dita gioco con la chiusura a scatto della borsetta.

Chiudo.

Apri.

Chiudi.

Apri.

 

Un pensiero affiora nella mia mente, così, all'improvviso.

 

Nik.

 

Non ho sentito Nik per tutto il pomeriggio.

Guardo il mio cellulare: nessuna chiamata persa, nessun messaggio.

 

Provo a chiamarlo.

Squilla.

Squilla, ma non risponde.

 

Riprovo.

Non risponde.

 

Lo troverò al locale.

 

Dopo nemmeno cinque minuti il taxi riesce a raggiungere una delle vie più eleganti di Boston tra i negozi più famosi e i locali alla moda della città. Il Ristorante Empereur è tra uno di questi.

 

Il taxi si ferma.

Sono passate le otto da venti minuti buoni, non sono troppo in ritardo, almeno lo spero.

 

Il locale ha una insegna molto elegante, l'ingresso è curato, si vede che sono finiti da poco i lavori di ristrutturazione perché tutto luccica e splende.

Mi avvicino all'ingresso dove un uomo alto e robusto mi guarda in cagnesco: «Il locale è chiuso», mi dice torvo.

«Ho un appuntamento, Andrew mi sta aspettando», dico con un filo di voce.

«Nome?».

«Elena Voli».

L'uomo guarda un foglio che tiene in mano poi, senza preavviso, spalanca la porta d'ingresso.

 

Entro.

 

Il pavimento è tirato a lucido, decine di cristalli sul lampadario pendono dal soffitto. Una ragazza mi accoglie indicandomi la sala principale che sembra quella di un castello principesco: gli stucchi, le rifiniture, le tende, i tavoli e le sedie, tutto è il meglio che si possa avere, il massimo della qualità possibile ed immaginabile.

 

Sono senza fiato.

 

Tutti sono già arrivati: Rebecca, James, Jo, Lucas, Stephanie, Adrian, Bottari e Salti. Andrew mi viene incontro inchinandosi con eleganza.

 

Nik non c'è.

 

«Credevo non sareste più venuti. Dov'è Nik?», mi chiede mentre mi accompagna alla tavolata.

«Ha avuto un impegno, a-arriverà il prima possibile», mento il meglio che posso.

«L'importante è che ci sia tu, lui ha i sigari, questa cena è per te e per farmi perdonare», dice Andrew ridendo mentre si siede tra Rebecca e Stephanie di fronte a me. Mi accomodo vicino a Adrian. Il posto vuoto di fianco a me è quello dove avrebbe dovuto sedersi Nik.

«Hai molto da farti perdonare, mio caro. Fai in modo che questa cena sia all'altezza», dice Rebecca mentre sorseggia dello champagne.

 

Controllo il cellulare.

Niente.

Nik non mi ha richiamata.

 

Bottari mi fissa serio, troppo serio.

 

«Mi sono permesso di creare un menù di degustazione insieme al mio chef. Sono piatti semplici, ma dal grande sapore, spero ne apprezzerete il gusto», dice Andrew.

«Ho voglia di sapori nuovi, non vedo l'ora di iniziare», dice Lucas.

 

Sono preoccupata.

Perché Nik non è qui?

 

Salti gioca nervosamente con il tovagliolo.

Ogni tanto mi lancia occhiate cupe.

 

«Perfetto. Diamo il via alla cena». Andrew batte le mani.

Quattro camerieri portano piatti coperti da una cloche argentata.

 

Guardo il cellulare.

Cerco tra i messaggi.

Niente di niente.

 

«Uno. Due. Tre», dice Andrew. I camerieri alzano la cloche.

Un profumo speziato e aromatico invade le mie narici.

Profumi conosciuti che risvegliano in me ricordi.

 

«Un piatto semplice, ma genuino. Rivisitazione del Cocido madrileño e patata bravas. È il cavallo di battaglia del mio nuovo chef».

 

Andrew mi fissa.

 

Sto per svenire.

 

Andrew alza il calice.

 

Quel piatto lo conosco, lo conosco benissimo.

 

Andrew sorride.

 

Solo una persona può averlo cucinato.

 

«Cin cin», dice Andrew parlando nella mia direzione. «Un brindisi al passato, al presente e al futuro. Agli amici, agli affari e anche, perché no, ai nemici. A quelle persone che vuoi distruggere e annientare. A quelle persone che non hai mai smesso di dare la caccia nonostante il tempo... ma soprattutto a voi cari colleghi e soci. Cin cin».

 

Andrew sta parlando a me.

Andrew ha detto quelle parole a me soltanto.

Sono una sua nemica.

Lo capisco dall'aria beffarda che ha stampato in volto.

Non ha mai smesso di odiarmi per tutto questo tempo e questa cena né è la prova.

Il piatto che ho sotto gli occhi è un chiaro segnale.

Solo una persona può averlo cucinato, una soltanto.

Miguel, il padre di Sebastian.

Il padre di mio figlio.

 

Trattengo il fiato.

Arranco.

Guardo il piatto che conosco alla perfezione poi fisso la sedia vuota accanto a me.

 

Nik non c'è.

Nik non c'è.

 

Andrew infilza un pezzo di carne, osserva il condimento scivolare sui rebbi della forchetta. 

Lo addenta.

Andrew sorride glaciale mentre mastica.

 

Tremo.

Ho paura.

C'è lui dietro a tutto.

 

Nik non c'è per colpa sua.

 

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Capitolo 36
*** OGGI: Il terrore ***


OGGI:
Il terrore




Il cibo che mangio sembra carta vetrata. 

L'ottimo cibo cucinato da Miguel pare bitume.

 

Guardo Andrew e non so cosa fare.

Guardo Bottari e Salti e non so cosa dire.

 

Le mani non tremano come mi sarei aspettata, sono solo fredde. Non riesco a fare altro che stare immobile sulla sedia e fingere di gustare il cibo. 

Non tremo. 

Non piango. 

Ho solo molta paura.

 

E se facessi la mossa sbagliata?

Che Andrew stia ricattando Miguel?

Bottari e Salti c'entrano con tutta questa storia?

Perché Nik non è qui con noi?

 

«Tutto bene Elena? Non hai detto nulla durante tutta la cena. Come sta tuo figlio?». Timidamente Stephanie mi rivolge la parola.

«Senza offesa Stephanie, ma visto i precedenti non credi sia meglio che Elena se ne stia zitta? La cena è ottima e vorrei concluderla senza intoppi», dice acida Rebecca mentre infilza un pezzo di manzo stufato.

«Tutto bene. Ho solo una forte emicrania. Credo di aver bisogno di una boccata d'aria», dico con un filo di voce.

«Ti accompagno nel mio ufficio al piano di sopra», dice Andrew, «C'è una grande finestra e anche un divano dove ti puoi sdraiare». La sua finta educazione è più viscida di un serpente strisciante.

 

Mi alzo senza rivolgere lo sguardo a nessuno.

Andrew mi prende a braccetto.

 

«Continuate pure la cena senza di me. Voglio sincerarmi che Elena stia bene, la vedo parecchio pallida», dice Andrew al resto dei commensali che annuiscono. Il mio colorito verdognolo deve averli convinti.

 

Adesso vomito.

 

Usciamo dall'elegante stanza principale del ristorante passando di fronte al bancone dell'ingresso. Andrew apre una porta in legno massiccia, finemente decorata con motivi rococò, dopo aver digitato un codice su un piccolo pannello, simile a una tastiera del telefono applicato sulla parete.

 

Sento le mie mani farsi più fredde.

 

Una scala ricoperta da moquette bordeaux ci si para davanti.

Andrew mi fa un cenno con la mano: vuole che io salga.

Percorro ogni gradino senza perdere l'attenzione sul mio accompagnatore, non abbasso la guardia. 

 

Il mio cuore pare fermarsi ad ogni respiro.

 

In cima alla scala c'è una grande stanza con pavimento in parquet e mobili dall'aria lussuosa, ma estremamente pomposi: divano e poltrone dorati, cristalli e specchi ovunque, tende rosse e pesanti, un grande letto con lenzuola di seta nere campeggia maestoso tra pareti in marmo scuro. Sembra la stanza di intrattenimento di una donna di malaffare.

 

Andrew si accomoda su una sedia, più simile ad un trono, dietro ad una scrivania pesante e ricoperta da putti dorati scolpiti a mano.

 

Se non fossi nello stato emotivo in cui mi trovo gli scoppierei a ridere in faccia, tutta quella ostentazione è ridicola.

 

«Accomodati, dolcezza. Non ho voglia di doverti sorreggere in caso di svenimento». Andrew apre un piccolo frigo bar alle sue spalle ed estrae una bottiglia di acqua. 

Mi riempie un bicchiere e me lo porge.

 

Nonostante sia decisa a non dargliela vinta sento le mie gambe diventare gelatina. Mi accomodo di fronte a lui cercando di mantenere viva l'attenzione, non voglio che mi manipoli a suo piacimento.

 

«Sai quanto ho aspettato questo momento?». Andrew si sporge verso di me allungando le mani sul piano del tavolo, «Anni. Mesi. Giorni. È stato... stato... oddio, no... aspetta... sono curioso di sapere cosa hai capito. Sono così eccitato da tutta questa storia». Andrew sembra un bimbo il giorno di Natale.

«Mi fai ribrezzo. Dov'è Nik?», gli chiedo rigida nella mia posizione.

«Un passo alla volta. Un passo alla volta, mia cara. Salti subito al finale quando l'importante è capire tutto quello che c'è stato nel mezzo», mi dice Andrew indispettito. «Dimmi cosa frulla nel tuo cervello».

 

Prendo un profondo respiro.

 

«La cena l'ha cucinata Miguel, il padre di mio figlio. L'hai convinto a partecipare al tuo piano diabolico. Cosa gli hai promesso? Soldi? Fama?», gli chiedo.

«Più o meno, ma non pensare sia solo questo. Miguel è un uomo solido e di principi, sai benissimo che non potrei convincerlo solo con mero denaro. Gli ho dato di più».

«Cosa?». Sento la rabbia sprizzare da ogni poro della mia pelle.

«Gli ho offerto la possibilità di vivere vicino alla persona che ama di più al mondo. Il piccolo e tenero Sebastian», dice viscido.

 

Trattengo il fiato.

Spalanco gli occhi.

 

«Lascia stare mio figlio, lui...».

 

Andrew mi interrompe: «Non mi interessa tuo figlio come non mi interessa Miguel. Loro sono assolutamente privi di interesse per me. Certo il padre di tuo figlio è una scoperta piacevole, un ottimo chef, ma non è... come dire... portato ai complotti come te. È un uomo troppo semplice, non mi divertirei a giocare con lui».

«Allora cosa diavolo vuoi da me?». Mi sporgo verso di lui, la mia faccia è deformata dalla rabbia.

 

Andrew mi osserva divertito, si dondola sulla sua sedia senza smettere di sfiorarsi le labbra con le dita. 

Sembra un mostro che pianifica le sue mosse.

Sembra il male pronto a colpire.

 

«Voglio che tu sappia tutto quello che ti ho fatto. Voglio che tu sappia che ogni cosa nella tua vita ti è successa perché io ho voluto che fosse così. Voglio che tu sappia che il tuo amato figlio è reale grazie a me. Voglio che tu sappia che i tuoi ultimi quattordici anni sono stati un trastullo per me per portarmi dove io volevo che tu mi portassi».

«Quello che dici non ha senso». Sbatto i pugni sul piano del tavolo, mi alzo in piedi avvicinandomi a lui minaccioso.

«Facciamo così, parto dall'inizio, così ti è tutto più chiaro». Andrew si alza per dirigersi verso un bar colmo di bottiglie di liquore. Prende un calice di vetro e appoggia sulla sommità una specie di griglia d'argento con sopra un cubetto di zucchero. Riempie uno strano alambicco con ghiaccio e un liquore trasparente. Dal rubinetto, che sporge da quella piccola struttura, fuoriescono piccole gocce che cadendo sullo zucchero riempiono il bicchiere poco alla volta. Goccia dopo goccia. «Assenzio. Per goderlo a pieno si deve aspettare. Il liquido scioglie lo zucchero che addolcisce l'alcol trasformandolo. Pazienza, ecco il segreto».

 

Ancora in piedi osservo il mostro che mi trovo davanti senza dire nulla. Lo studio lo scruto cercando di prevedere ogni sua mossa.

 

«Quattordici anni fa, dopo che hai saputo che i tuoi ex amici ti avevano usata, mi aspettavo tu volessi giocare con me per fargliela pagare. Amicizie distrutte e amori infranti erano un bel incentivo per manipolare e pianificare strategie per Yale. Tu però sei scappata. La cosa mi ha dato leggermente fastidio». 

 

Andrew si accomoda vicino a me sedendosi sul bordo della scrivania.

 

«Immagina quando ho scoperto che non c'eri alla festa, durante l'incoronazione della reginetta tu eri assente. Una vera disdetta. Anche i tuoi ex amici erano disorientati. James era come impazzito credeva che... che... ma questa è un'altra storia».

 

Andrew pare divertito.

 

«Si è saputo dove fossi solo il giorno dopo che eri partita, ci ha avvisato tuo padre. Tutti insieme abbiamo cercato di capire come mai avessi fatto una cosa del genere. Jonathan non se ne capacitava, Stephanie era sconvolta, anche Rebecca a suo modo era delusa. Ti lascio solo immaginare James... Io, però, a differenza loro, sapevo. Io conoscevo il motivo della tua fuga. Mi sono chiesto, e se rispuntasse all'improvviso? E se spifferasse tutto? Non volevo che rovinassi la mia amicizia con Rebecca e gli altri, del resto mi sono quasi affezionato a loro come uno scienziato con le proprie cavie da laboratorio».

 

Le gocce cadono nel bicchiere riempiendolo con calma e lentezza.

 

«Ti ho cercata, ti ho scovata. Prima a Parigi, poi a Madrid. Facevi la guida turistica, un lavoraccio. Non sembravi intenzionata a tornare e questo mi ha tranquillizzato. Ma sai, non mi piace essere troppo tranquillo, tendo ad annoiarmi facilmente. Avevo molto tempo libero, niente sotterfugi, niente manipolazioni, ero un po' abbacchiato e per questo ho iniziato a riflettere su di te e sulla nostra amicizia. Del resto tu, Nik e tutti gli altri mi avete incastrato con quella storia del Masques. La cosa mi ha dato parecchio fastidio. Ecco, diciamo che me la sono legata al dito».

 

Andrew controlla il livello di liquore nel bicchiere.

 

«Ho pensato parecchio a come fare per incastrarvi, fare qualcosa di epico che vi distruggesse e che rendesse me immensamente potente e ricco. Ti giuro, ho pensato ad ognuno di voi e ho capito che non dovevo colpirvi sui vostri punti deboli, da ragazzo avevo sbagliato strategia, ma dovevo colpirvi sui vostri punti forti. L'onestà di Nik. La forza di Lucas. L'ambizione di Jo. La tenacia di Rebecca. La riservatezza di Stephanie. L'adattabilità di Adrian. La tempra di James e la tua innata e stupida vocazione per il sacrificio e i drammi. Kate l'ho lasciata stare, non ha mai avuto molto interesse per lei».

«Che cosa vuoi dirmi con tutte queste parole?», gli chiedo mentre sento il cuore martellarmi nel cuore.

 

Andrew fa un cenno con la mano per zittirmi, osserva il bicchiere quasi colmo. Chiude il piccolo rubinetto dell'alambicco, toglie la griglia in argento e prende il calice con il liquido perlaceo che ondeggia sinuoso nel bicchiere. Lo sorseggia con calma e una certa delicatezza. «Delizioso».

 

«Andrew!», urlo più forte che posso, urlo tutta la rabbia che sento dentro.

 

Andrew mi guarda divertito: «Sei troppo affrettata, dolcezza, devi imparare a prendere la vita con un po' più di calma».

«Dimmi cosa hai escogitato oppure io...», lo minaccio con l'indice puntato.

«Tu cosa? Cosa? Avvisi i miei ospiti al tavolo giù in sala? Vai alla polizia... e per quale motivo?», mi chiede con un ghigno stampato in faccia.

«Sei un farabutto. Bottari e Salti sono tuoi complici, io...».

«Bottari e Salti sono solo la punta dell'iceberg. Sono lo spauracchio, c'è molto di più dietro». Andrew beve in un sorso il liquido perlaceo schioccando le labbra dopo aver finito.

«Smettila di torturarmi, dimmi che cosa hai fatto e cosa vuoi». Sono a pochi centimetri da lui, sento il profumo erbaceo e alcolico dell'Assenzio uscire dalla sua bocca.

«Il tuo lavoro come traduttrice te l'ho trovato io. La Palabra Traduction è un piccolo investimento che sta dando buoni frutti, non molti, ma quel tanto che basta per avere un buon giro d'affari. È incredibile quante poche aziende valide ci siano in questo settore. Hai capito Elena? Hai lavorato per me in tutti questi anni. Ogni soldo che hai preso era mio. E, indovina un po'? Chi può mai aver deciso il tuo trasferimento, poco più ti un anno fa, a Boston? Io». Andrew batte le mani divertito.

 

Indietreggio un passo.

 

«La cosa spassosa è che sei un'ottima traduttrice, quindi ho fatto bene ad investire in te.   Grazie, Elena». Andrew allarga le braccia. «Ricapitolando: buon lavoro e vita serena. Tutto secondo i piani, tutto perfetto. Ma tu, dolcezza, fai una cosa meravigliosa sei anni fa: rimani incinta di uno chef. Un colpo di fortuna. Miguel è uno chef e la mia famiglia opera nel settore. Cosa potrei volere di più? Convincerlo a lavorare in un ristorante stellato nella città in cui, casualmente, vive suo figlio è un gioco da ragazzi. Da pochi mesi è nei miei libri paga».

 

Indietreggio un altro passo.

 

«Non dimentichiamoci di te, mia star. Arrivi a Boston poco più di un anno fa. Trovi un ufficio in centro, abbastanza vicino allo studio legale McArthur, Martin e Spencer. Ti sei mai chiesta come mai costasse così poco? 250 dollari sono un ottimo affare per te considerando che in quella zona l'affitto medio è di 1300 dollari, se non di più», mi dice Andrew.

«Il ristorante Petit. L'ufficio è sopra il ristorante Petit», bisbiglio.

«Indovina di chi è gli ristorante e gli uffici sopra il locale?». Andrew saltella è come stesse per esplodere dalla felicità.

 

Indietreggio un altro passo.

 

«Considerando la tua incapacità di non farti mai gli affari tuoi, la debolezza che Nik ha nei tuoi confronti, il gioco è fatto. Ho ottenuto ciò che volevo. Tu sei in pugno e tutti gli altri pagheranno cara la loro noiosa e insulsa vita», dice Andrew.

«Cosa hai in mente? Cosa diavolo vuoi?», gli chiedo con la voce rotta totalmente paralizzata.

«Dolcezza, non credo sia giusto svelarti tutto subito. Sarebbe poco divertente, non trovi? La cosa importante è che tu non dica niente a nessuno perché il gioco sta per compiersi ed io vorrei che tutto filasse liscio. Se così non fosse sappi che ho nelle mie mani non solo il tuo destino, ma quello di Miguel e il futuro di tuo figlio».

«M-mi stai minacciando?», gli chiedo terrorizzata.

«Tieni la bocca chiusa. Se farsi così, tutto andrà bene». 

 

Andrew mi prende il volto tra le mani poi mi sciocca un rapido bacio sulla bocca. Con vigore prende il mio collo tra le mani massaggiandolo con calma, senza stringere. 

 

Sono bloccata.

Sono nel panico.

 

«Adesso vattene. Fingi che tutto vada come è sempre andato», mi dice.

 

Senza farmelo ripetere mi dirigo verso le scale ricoperte da moquette bordeaux.

 

«A proposito, dolcezza, nel caso ti interessasse Nik è in prigione». Andrew si guarda l'orologio al polso: «In questo momento George McArthur lo sta facendo uscire su cauzione».

«I-in prigione?», dico scioccata.

«La polizia lo ha arrestato dopo aver visionato un video: Nik che entra di nascosto nell'ufficio di Bottari e Salti da una finestra. Un vero peccato che un avvocato così promettente si riduca a fare il topo di appartamenti». Andrew si dirige verso di me. «Immagina se la polizia avesse il video integrale, quello in cui ti si vede aprire la finestra dell'ufficio di quei due. Saresti complice di Nik e finiresti in prigione pure tu. Mi dispiacerebbe per il piccolo Sebastian».

 

Il sangue non scorre più nelle mie vene. 

Il terrore, quello vero, scuote ogni mia cellula. 

Per la prima volta dopo anni sento l'impulso di scappare.

Scappare lontano.

Scappare con Sebastian.

Scappare e basta.

 

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Capitolo 37
*** OGGI: Ansia che paralizza ***


OGGI:
Ansia che paralizza





Il taxi arriverà tra poco.

 

Non sono riuscita a continuare la cena insieme agli altri dello studio legale, non me la sono sentita.

Ho la nausea, il cibo pare rivoltarsi nel mio stomaco. 

 

Tutto quello che mi ha detto Andrew mi pare solo un brutto incubo.

Se quello che afferma è vero, i miei ultimi quattordici anni di vita sono una menzogna, frutto di un gioco perverso, il risultato di una ossessione malata. 

 

Il mio lavoro.

Il mio ufficio in centro.

Il trasferimento a Boston.

 

Tutto deciso da Andrew.

Tutto pianificato a lungo termine.

 

Anche la nascita di Sebastian è merito suo, in un certo senso. Se non avessi avuto il lavoro alla Palabra Traduction non avrei mai potuto crescere mio figlio da sola. Certo ci sono i soldi che ci passa Miguel, ma servono per coprire le rette della scuola e poco più. 

L'affitto basso del mio ufficio, il lavoro di traduttrice che mi permette di essere autonoma è solo parte di un grande e patetico scherzo.

 

E Bottari e Salti?

Nik?

Loro che c'entrano con me?

 

Il freddo della notte pare aggrapparsi alle mie gambe. Il tubino che indosso sotto il cappotto non riesce a scaldarmi come dovrei. 

 

Tremo.

 

Tremo per quello che è appena successo.

Tremo per il mio futuro incerto appeso a sottilissimi fili pronti a rompersi da un momento all'altro.

 

Il taxi è arrivato.

Più lontana sarò dal ristorante di Andrew e più mi sentirò tranquilla.

 

I sedili in pelle mezzi consumati dell'auto mi paiono la cosa più comoda su cui mi possa sedere. Il tassista fa partire il tassametro con un gesto deciso, il suono metallico della leva abbassata mi fa sobbalzare per lo spavento. L'uomo non mi degna della minima attenzione, per lui sono un'anonima passeggera con l'aria un po' sfatta e il colorito verdognolo. Con lo sguardo perso sulla strada, l'uomo ruota una manopola in cerca di una stazione musicale che gracchia le ultime hit della stagione. 

 

Mi sento in un limbo senza forma.

 

Le strade deserte di Boston paiono quelle di una città abbandonata. Attraversiamo il quartiere Irlandese dove i pub sono pieni di avventori che, con la loro Guinness in mano, seguono qualche partita alla televisione tra una zuppa o un panino alla carne. 

Non ci sono suoni nel veicolo, ma solo il rombo del motore e musica distorta dalle casse della radio del taxi.

 

Con le mani giocherello con la chiusura della mia borsetta.

La apro.

La chiudo.

 

La apro.

 

Senza un motivo preciso guardo il cellulare che è scivolato fluido dall'interno di raso della borsetta fino alle mie cosce.

 

Otto chiamate.

Otto chiamate senza risposta.

L'icona della cornetta del telefono, con di fianco il numero otto, mi avvisa che qualcuno mi ha chiamata più volte.

 

Una speranza si accende nel mio cuore.

 

E se le parole di Andrew fossero tutte bugie?

Potrebbe essere stato Nik a chiamarmi.

Andrew potrebbe aver mentito per il solo gusto di farmi soffrire, nessuno mai potrebbe fare quello che ha fatto lui. Nessuno mai avrebbe una tale costanza, cattiveria e ossessione nei miei riguardi. 

Nik sta bene.

Nik sta bene.

 

Mento a me stessa sperando che l'illusione possa diventare realtà, proprio come quando i bimbi fingono di credere a Babbo Natale nonostante sappiano benissimo che il panciuto vecchietto non esiste.

 

Nik sta bene.

Nik sta ben...

 

Il cellulare squilla.

Un numero sconosciuto appare sul mio schermo.

 

La pancia mi fa male.

Le mani mi sudano.

Non è il numero di telefono di Nik. 

No.

 

«P-pronto?», chiedo con la salivazione azzerata.

«Elena? Scusa il disturbo. Sono George, George McArthur», dice la voce dall'altra parte.

«Buonasera, George». Sono stupita, di certo non mi aspettavo di trovare lui quando ho risposto.

«Dove sei? Sei ancora al ristorante?», mi chiede.

«No. Sto andando a casa con un taxi, ho lo stomaco sottosopra, ho preferito andarmene».

«Perfetto. Vieni all'appartamento di Nik, ti stiamo aspettando». Poi butta giù, senza aggiungere altro.

 

Non posso aspettare.

Cambio di rotta, devo andare a casa di Nik il prima possibile.

 

Il tassista non batte ciglio, cambia direzione invertendo il veicolo e passando all'altra carreggiata. Barcollo un attimo, ma riprendo subito l'equilibrio.

 

Le mani sono aggrappate ai sedili consumati.

Gli occhi sono fissi sulla strada.

1.

2.

3.

1.

2.

3.

1.

2.

3.

...

Conto senza fermarmi.

Conto per non impazzire d'ansia.

 

Ci vogliono meno di dieci minuti prima di arrivare all'appartamento di Nik. 

George mi aspetta per strada, mi fa cenno con una mano per farsi raggiungere dal taxi.

 

«Si avvicini a quell'uomo», dico all'autista.

Il tassista ubbidisce.

George allunga una banconota da cento dollari all'autista attraverso la portiera: «Il resto lo tenga per mancia». Poi mi prende per mano e mi aiuta a scendere dal veicolo che parte subito dopo sgommando.

 

George è serio, era da tempo che non lo vedevo così, sembra preoccupato.

 

Vorrei dirgli che so che Nik è stato arrestato.

Vorrei dirgli che è tutta colpa mia.

Vorrei dirgli tante cose, ma ho un groppo in gola.

 

Se Andrew è riuscito ad incastrare me e far arrestare Nik, di cos'altro potrebbe essere capace? Non voglio che George finisca nei guai per colpa mia. Non posso permetterlo, lui non c'entra nulla.

 

«È successa una cosa... una cosa grave», esordisce George mentre mi spinge con delicatezza verso l'ingresso del palazzo dove abita Nik.

 

Lo fisso impietrita, ammutolita.

 

«Nicholas ha fatto una cosa che non doveva fare e adesso è nei guai, guai seri».

 

Il portone è aperto.

Entriamo per poi dirigerci verso l'ascensore.

 

«Non voglio tenerti sulle spine troppo a lungo, ma... ma... Nik è stato arresto con l'accusa di effrazione, violazione di domicilio e furto».

 

Impallidisco e trattengo il fiato.

 

«Credimi, neanche io mi sarei aspettato una cosa del genere... adesso andiamo, Nik ci sta aspettando».

 

George schiaccia il pulsante sulla tastiera.

L'ascensore parte e il mio stomaco si contorce durante tutto il tragitto, la mia anima diventa come carta velina e la mia forza si dissolve ogni secondo che passa.

 

Un passo.

Ansia.

Un passo.

Paura.

Un passo.

Terrore.

Un passo.

 

Toc.

Toc.

 

Nik apre la porta di scatto.

Di fronte a me non ho l'uomo che conosco, ma una copia sfatta e sfinita. La camicia aperta e stropicciata, i capelli in disordine e due profonde occhiaie scavate sotto gli occhi.

 

Non so cosa sto provando.

Non lo so davvero.

Se tutto questo fosse colpa mia?

Se tutto questo fosse stato causato dal mio rifiuto di andare con Andrew a Yale?

 

«Elena». Nik mi abbraccia, mi stritola.

«N-Nik...».

«Come stai? ...George ti ha detto? ...Si risolverà tutto, stai tranquilla...». Nik mi inonda con le sue parole, parla così veloce che capisco a fatica cosa stia dicendo.

«Calmati Nicholas. Elena non sa nulla, le ho accennato a grandi linee cosa è successo, credo sia il caso che sia tu a raccontargli tutto», dice l'uomo mentre si toglie il cappotto.

 

Nik mi prende per mano facendomi accomodare sul divano della sala:«Ti ricordi che dovevo andare al porto? Il detective dello studio legale mi aveva detto che Salti e Bottari avevano questo magazzino non intestato all'azienda. Pensavo che lì potesse trovarsi qualcosa per incastrali... quei bastardo... ma invece sono io quello caduto nella trappola».

«Nik smettila di farneticare. Lascia fuori Salti e a Bottari. È grazie a questa tua ossessione e che sei finito nei guai», urla George verso Nik. «Lascia perdere quei due, non c'entrano nulla. Nulla. Sono due uomini d'affari che a te non sono mai andati giù. Anche Charlie, l'avvocato Spencer... ti ricordi? Il tuo miglior amico, crede che tu sia andato oltre con le tue farneticazioni».

 

Nik stringe la mascella.

Credo che se potesse urlerebbe pure lui, ma pare riuscire a trattenersi.

 

«Attieniti ai fatti, non coinvolgere Elena nelle tue fantasie», finisce di dire George con voce più calma.

«Stavo dicendo... sono andato al porto, ma invece di trovare le persone che stavo cercando una manciata di agenti mi aspettava per arrestarmi. A quanto pare hanno per le mani un video in cui risulta che io sia entrato nell'ufficio di Bottari e Salti», dice Nik asciutto.

 

Con le labbra spalancate lo ascolto. 

Non ho il coraggio di dire che so come stanno le cose, che potrei toglierli dal dubbio, che potrei rivelare che probabilmente c'è Andrew dietro a tutto. 

Non ho prove.

Non ho niente in mano che dimostri che i due investitori italiani siano collegati ad Andrew. Niente che confermi che le mie supposizioni siano vere.

 

«Mi hanno portato al distretto, fatto riempire scartoffie, foto segnaletiche e tutto il resto lo puoi immaginare». Nik liquida la sua storia così senza aggiungere altro. Rassegnato. Sconfitto.

«Raccontala giusta. Dille che se non fosse stato per Caroline saresti finito in guai ancora più grossi. Spiegale che ho dovuto pagare una cauzione e insabbiare il tuo arresto affinché questa notizia non nuoccia allo studio legale. Il mio studio legale, lo stesso che ho affidato a te, il mio pupillo», sbraita George verso Nik.

«Mi dispiace. Quante volte devo dirtelo? Questa storia mi è sfuggita di mano. Ok? Ho fatto tutto questo per te e lo studio legale, l'unica mia ragione di vita. Farei di tutto per proteggerlo e quello che ho fatto è stata l'unica scelta possibile», dice Nik a muso duro a George.

«Hai rubato, Nik. Come hai potuto rubare?», dice George con la voce tremante.

«Si sono inventati tutto. Non ho rubato nessun assegno, è tutta una loro messa in scena. Quello che tenevo in mano era una ricevuta per l'affitto dei mobili che avevano nel loro ufficio. Non possono dimostrare che l'abbia preso io quell'assegno, dal video non si capisce. L'immagine è troppo sgranata», risponde Nik furente.

«Quindi Salti e a Bottari mentono quando denunciano la sparizione di un assegno da centomila dollari dal loro ufficio? Casualmente la loro denuncia per furto arriva il giorno dopo la tua effrazione. Se non sei stato tu chi vuoi che sia stato?». George prende per le spalle a Nik scuotendolo. 

 

Mi sembra di rivedere la scena all'ospedale quando George e James si urlavano cattiverie in faccia, quando il peggio dei due esplodeva incontenibile. 

Demetra era morta da poco ed io, come allora, mi sento inerme. Inutile.

 

Un tremito mi parte dallo stomaco per diramarsi in ogni direzione. È come se qualcuno avesse lanciato un sasso in mezzo ad una pozza e le onde si propagassero all'infinito, anch'io mi sento così. Ho un buco nero che comprime il mio stomaco che inesorabile risucchia ogni mia energia.

 

Le gambe mi cedono.

Fortunatamente non arrivo a terra, Nik mi prende al volo.

 

«Elena. Elena». Dice Nik preoccupato.

George arriva con una bottiglietta d'acqua e sorreggendomi la testa mi aiuta a bere un sorso. «Adesso calmati. Abbiamo esagerato, a volte capita di discutere anche se si vuole bene a qualcuno. Vedrai che lo tiro fuori dai guai, non ti preoccupare».

«Va tutto bene, troppe notizie tutt'e insieme». Cerco di allentare la situazione con una battuta anche se non ho minimamente voglia di ridere.

 

Nik mi stritola. «Te l'ho detto Elena, risolverò tutto», mi sussurra in un orecchio.

 

«Adesso porto Elena a casa. Il mio autista ha la macchina parcheggiata qui sotto. Una buona notte di riposo la rimetterà in sesto». George prende il mio cappotto e mi aiuta a indossarlo. «Tu, Nicholas Martin, sei agli arresti domiciliari. Chiaro? Non puoi uscire, non puoi andare da nessuna parte. Non farti venire strane idee. Capito?».

«Non mi muovo di qui», ringhia Nik.

 

Con calma mi alzo in piedi, le ginocchia tremano, ma sono abbastanza solide per tenermi in piedi. Mi abbottono il cappotto mentre George chiama il suo autista.

 

«Elena. Elena. Devi farmi un favore. Capito?». Nik parla veloce sembra non prendere il fiato tra una parola e l'altra.

«Nik... io... io...». I pensieri corrono veloci tra le minacce di Andrew e il racconto dell'arresto di Nik.

«No. Tranquilla. Una cosa semplice. Caroline. Cerca Caroline. Ho chiamato lei quando ero in stato d'arresto, ma non è mai venuta. Caroline non mi abbandonerebbe mai, nonostante tutto quello che è successo nell'ultimo periodo. Lei non si è presentata al distretto, ma a chiamato a George per tirarmi fuori dai guai». Nik mi bacia frettolosamente sulle guance visto che George sta arrivando per portarmi a casa. «Cerca Caroline», mi sussurra con un filo di voce.

 

Con l'ansia che mi paralizza, il terrore che scorre nel sangue faccio cenno di sì con la testa, anche se non ho la minima idea da dove partire e cosa effettivamente io debba fare.

 

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Capitolo 38
*** OGGI: Vagare nella confusione ***


OGGI:
Vagare nella confusione





Non ho fatto nulla.

Nulla di quello che mi ha chiesto Nik.

Nulla di quello che avrei potuto fare.

Non ho gli strumenti per riuscire da questo caos e non ho la minima intenzione di imbarcarmi in una guerra che non potrei vincere: Andrew è più forte e più potente di qualunque persona conosca, la sua furbizia arriva a livelli che la mia ingenua semplicità non riesce nemmeno ad immaginare. Non riesco proprio a concepire il marcio che vive in lui.

 

Riempio lo scatolone con tutti i documenti che ho nel mio piccolo ufficio in centro. Un furgone mi aspetta per strada pronto a caricare tutti i fogli, poster e scatolame vario che ho accumulato in questi mesi. 

 

Un anno di bugie.

Un lavoro falso.

 

Possibile che non mi sia accorta di nulla?

Perché non ho colto i segnali?

 

Un lavoro fantastico pagato bene.

Il trasferimento a Boston vicino a mio padre e ai miei affetti.

Un ufficio con affitto basso in centro città.

 

Sono una povera sciocca.

 

I depliant con le traduzioni del mio ultimo lavoro giacciono ancora incartati vicino all'ingresso. La Palabra Traduction ha sempre fatto così. Lo facciamo per cortesia nei tuoi riguardi, mi diceva la mia capa a Madrid, solo adesso capisco che erano solo fandonie. Altra cenere che mi gettava negli occhi per non farmi vedere l'ovvio, per non farmi capire di essere manovrata da Andrew.

 

Il portatile è già nella sua custodia, gli schedari svuotati, le cartacce chiuse in un sacco della spazzatura. Voglio lasciare questo posto il prima possibile. Il traslocatore mi aiuterà a portare tutta questa roba a casa, per un po' allestirò lì il mio ufficio, fino a che avrò trovato un nuovo appartamento. Sarà dura stare senza lavoro, senza un'entrata che mi permetta di essere autonoma economicamente. Sono disposta a fare qualsiasi lavoro pur non di ricevere denaro da Andrew. Non voglio che mi paghi mai più.

 

La porta bussa.

Si apre.

 

«Arrivo subito. Entri pure e prenda gli scatoloni all'ingresso», dico ad alta voce mentre controllo per l'ultima volta i cassetti della scrivania in cerca di qualcosa di dimenticato.

«Elena, che succede?», una voce in Italiano fin troppo famigliare mi raggiunge.

 

È Mauro, l'inserviente del ristorante Petit.

Il ristorante di Andrew.

 

«Devo andare. Il mio tempo qui è finito. Mi dispiace», gli dico asciutta.

«Il direttore del ristorante è molto dispiaciuto che tu te ne vada, mi ha mandato per chiederti se non hai cambiato idea», mi chiede con i suoi soliti modi gentili.

«No. Non ho cambiato idea. Vi ringrazio di tutto, ma...».

 

Mauro mi interrompe.

 

«Hai l'aria così abbattuta. Sei sicura di stare bene. Il tuo viso è scavato. È come se un velo grigio ti coprisse», mi dice prendendomi per mano e bloccando la mia ossessiva ricerca di oggetti inesistenti dimenticati negli schedari.

 

Un groppo mi si ferma in gola.

Come faccio a spiegargli tutto?

 

«Ho molti pensieri. Ho un amico nei guai e il lavoro non va come dovrebbe», provo a sintetizzare.

«Sai cosa si dice dei guai? Se li condividi con gli amici pesano di meno. Non dovresti tenerti tutto dentro, non ti fa bene». Mauro mi accarezza con premura come un nonno farebbe alla propria nipote.

«Lo so, ma a volte non è il caso di sbandierare in giro ciò che più ci affligge. Non trovi?». Metto in spalla la borsa con il portatile facendo tintinnare le chiavi tra le dita.

Mauro sorride dolcemente.

 

Il traslocatore arriva.

Gli indico le cose da portare nel furgone e, senza dire parole, l'uomo inizia a sgombrare il locale.

 

Abbraccio Mauro, resto qualche secondo ferma in cerca di calore e tranquillità.

 

«Mi raccomando saluta Luca e digli di finire l'università. Lavori tanto per pagare i suoi studi, almeno questo te lo deve», gli dico provando a scherzare.

Mauro è commosso. Gli occhi lucidi tra le pieghe delle rughe sembrano ambre luccicanti: «Sarà un ottimo... anzi il migliore esperto in computer e informatico di Boston. Se non fosse così lo prenderò a calci nel sedere», mi risponde ridacchiando.

 

Il buon vecchio tuttofare che si prodiga per pagare la retta universitaria al nipote.

L'uomo instancabile e gentile, una delle migliori persone che io abbia mai conosciuto.

 

Mi mancherà.

 

«Addio, Mauro», dico in italiano senza avere il coraggio di guardarlo in faccia.

«Ciao», mi risponde con voce commossa.

 

Chiudo la porta alle spalle.

Inserisco le chiave nella toppa e me ne vado.

Esco per l'ultima volta dal piccolo ufficio che è stato un rifugio per l'ultimo anno della mia vita. Anche se non ho un legame affettivo molto forte con quel luogo mi sento derubata, come sé quella parte della mia vita fosse esistita per concessione di Andrew.

La mia vita è una messa in scena.

 

«Signora Voli dovrebbe firmare questa ricevuta. Nel giro di un'ora sarà tutto a posto». Il traslocatore ci ha messo poco a caricare il furgone, del resto erano poche cose. Porterà tutto al mio appartamento, il portiere del palazzo lo aiuterà a sistemare.

«Perfetto. Grazie per l'aiuto».

L'uomo mette in moto il veicolo non preoccupandosi di lasciarmi lì, sola, a fissare il vuoto. Un vuoto che corrode le pareti della mia anima.

 

Elena, reagisci.

Non puoi stare ferma sul marciapiede.

Muovi un passo, poi un'altro.

Kate ti aspetta.

 

Kate.

È da giorni che non vedo Kate, non sono neanche andata a restituirle le sue riviste da sposa. Con la scusa di occuparmi di Sebastian e con la bugia di Nik ammalato e chiuso in casa sono riuscita ad evitarla, non tanto perché non la voglia vedere, ma più che altro perché lei è in grado di leggermi come nessun altro. Non voglio che capisca che sono turbata, non voglio che si preoccupi di nulla.

 

Prendo la metropolitana.

Mi sento vuota.

L'assillo che Andrew spii ogni mia mossa mi ha messo una paranoia tremenda.

 

E se quella vecchietta con il cane mi stesse seguendo?

E se quei ragazzi con lo skateboard fossero spie di Andrew?

E se il venditore ambulante non fosse chi sembra?

 

Tutti mi paiono architettare, confabulare e osservare ogni mia mossa.

Mi gira la testa.

Le immagini iniziano a vorticare.

Attaccata al palo della metropolitana cerco di reggermi, ma non riesco. Il vagone traballa veloce sulle rotaie. Crollo su un sedile vuoto cercando di mantenere un minimo di dignità vista la situazione imbarazzante.

Lo stomaco brontola con cattiveria.

Non so da quanto non mangio.

Non ho fame.

Credo di non avere fame.

Il cibo è come fosse spazzatura, come se ingoiassi cenere, niente mi soddisfa.

Lo stomaco brontola di nuovo.

Cerco bella borsetta qualcosa da mangiare, ma l'unica cosa che trovo è una caramella di frutta mezza schiacciata e appiccicosa.

Non potrei mangiarla neanche se volessi.

La testa gira.

Ingoio la saliva che ho in bocca, mi pare di sentirla risuonare dentro il mio stomaco vuoto.

 

Elena, tra poche fermate sei arrivata.

Sii forte.

 

Appena il vagone si ferma mi precipito sulla banchina sotto lo sguardo stupito dei passeggeri. Cerco un negozietto, un chiosco, qualsiasi cosa venda del cibo.

 

Eccolo.

 

Un piccolo negozio che vende dolciumi dall'aria stantia proietta la sua insegna sui pavimenti in plastica delle gallerie della metropolitana.

Il cibo esposto non mi ispira per niente, la vetrina non è molto invitante.

 

Lo stomaco brontola più aggressivo che mai.

 

Prendo una specie di biscotto gigante ripieno di marmellata di fragole, l'unica cosa dall'aria sana lì dentro.

 

Un morso.

Trattengo i conati.

Un altro morso.

Ingoio a fatica il boccone.

Un morso ancora.

Lo stomaco pare acquietarsi.

 

La testa ha smesso di girare.

Pericolo scampato.

 

Elena, fallo per Kate.

Non mollare.

 

Esco dal sottosuolo masticando il dolce in cerca di aria fresca. Il biscotto non è proprio il massimo, ma almeno mi ha dato gli zuccheri necessari per tirare avanti.

Mi ripeto, come fosse un mantra: Alice Drobawy, Millenium Street 32.

Lo dico così tante volte che non saprei.

Ho bisogno di tenere occupato il cervello se non voglio impazzire.

 

«Ciao». Kate mi urla dall'altro lato della strada proprio di fronte il negozio di Alice.

 

Agito la mano prima di attraversare di corsa la strada.

 

«Non vedevo l'ora arrivasse questo giorno. Alice è dentro che lavora. Ci siamo conosciute prima, mentre ti aspettavo. Voleva mostrarmi cosa aveva in mente, ma ho preferito aspettare te per non farle ripetere tutto due volte ». Kate è talmente entusiasta che non sta più nella pelle.

«Guarda che potevi entrare, del resto il vestito lo devi scegliere e indossare tu», le dico cercando di imitare il suo entusiasmo.

 

Kate mi trascina dentro il negozio.

Tutto è rimasto uguale all'ultima volta che ci sono stata: un'esplosione di colori e tessuti.

 

«Bentornate», ci dice Alice sempre bellissima e con un look originale e curato. «Ho conosciuto Kate e mi sono fatto un'idea su cosa le potrebbe piacere».

Senza aspettare una nostra risposta la ragazza inizia a togliere capi da tutti gli stendini mettendoli in mostra davanti a noi.

 

Bluse.

Corpetti.

Giacché.

Top.

Camice.

Body.

Gonne.

Sottogonne.

Pantaloni.

 

Una valanga di indumenti, tutti favolosi, riempiono ogni spazio possibile ed inimmaginabile. Sembra un paradiso, l'albero della cuccagna per ogni appassionata di moda.

Kate si mette a discutere con Alice sulla possibilità di unire due parti, chiede consiglio su cosa le possa stare bene, si fa aiutare a decidere cosa comprare.

Alice prende misure, fa girare Kate, la sveste, la riveste come fosse una bambola. La guarda da ogni angolazione possibile rimuginando sulle sue scelte. Infila spilli, mette pinze. Solleva. Gira. Appiattisce. Alza.

 

Quelle due sembrano in sintonia.

La schiettezza di Alice si amalgama perfettamente con la praticità di Kate.

 

Ed io.

Io osservo.

Annuisco.

Faccio finta di essere interessata. Non per cattiveria e menefreghismo, ma perché proprio non riesco a concentrarmi su quello che dicono.

 

«Questo è il tuo modello. Allora Kate, niente gonna lunga visto che non sei molto alta. Ti farò un bel vestito che metta in mostra le tue spalle, ma non sia troppo scollato. Darei un po' di volume qui...», Alice tocca l'orlo della gonna che sta indossando Kate, «... visto che in fin dei conti si tratta di un abito da sposa. Stringo un po' sui fianchi e, se per te va bene, metterei dei cristalli azzurri che richiamano il colore dei tuoi occhi».

«Ovviamente realizzato con quella bellissima seta con quei riflessi unici che mi hai mostrato prima», finisce di dire Kate saltellando sul posto in preda a una incontenibile euforia.

 

Kate ed Alice battono tra di loro la mano dandosi il cinque.

Io sorrido felice per aver aiutato la mia amica anche se oggi non ho fatto un gran che.

 

Alice inizia a mettere a posto tutti i capi sparsi per il negozio andando, di tanto in tanto, a prendere appunti su un foglio dove annota spunti e idee per l'abito di Kate.

«Tra un paio di settimane puoi venire a provare l'abito. Si tratta del capo base su cui costruirò tutto il resto. In questo modo potremo fare modifiche o aggiungere parti».

Kate batte le mani: «Perfetto, non vedo l'ora», le dice con voce squillante mentre usciamo dalla boutique.

 

Aria fresca.

 

«Alice è favolosa. Non vedo l'ora di presentarla a Jane, adorerà le sue creazioni. Devo dire che sono stupita dal talento di questa ragazza...». Kate parla a raffica. «... Stento a credere che così giovane riesca a fare cose del genere e...». Kate mi trascina senza smettere di parlare. «... tutto nel suo negozio è favolo. Non sapevo cosa scegliere. Hai presente quel top lavanda, quello con le perline applicate? Ecco, di quello mi piaceva la forma, ma...».

 

Kate ammutolisce all'improvviso.

 

«Che succede?», le chiedo stupita dalla sua reazione.

Non mi risponde, mi da una spallata per indicare di fronte a noi.

 

Jo.

Jonathan è in mezzo alla strada con le mani in tasca.

Ci fissa.

 

«C-ciao», dico io confusa.

«Che ci fai qui?», gli chiede Kate con inaspettata durezza.

«Rebecca ha saputo del tuo appuntamento con Alice. Alice cuce ogni abito di Rebecca, sono molto amiche», dice asciutto Jo.

«Non hai risposto alla mia domanda», dice Kate senza mostrare la minima emozione.

«Voglio sapere, perché l'hai fatto?», chiede Jonathan.

«Fatto cosa?». Kate è ironica, lo percepisco dalle sfumature nella sua voce.

«Perché improvvisamente non sono più adatto ad essere il tuo testimone di nozze», urla Jo infuriato, «Sono o non sono il tuo migliore amico?».

«No. Non lo sei», urla Kate.

 

Jonathan indietreggia qualche passo.

Guarda la mia amica come si trovasse un alieno davanti a se.

 

«È colpa sua, vero? Elena ha rovinato anche te?». Jo si avvicina a passi lunghi verso Kate.

«No, caro mio. Ti sei rovinato da solo. Mi fai schifo sei una delle cose più disgustose che io conosca», dice Kate a Jo che impallidisce a sentire quelle parole.

 

Io, in disparte, osservo tutto e taccio.

Vedere Kate così infuriata mi fa male.

Mi fa male perché è colpa mia.

Il racconto di quello successomi quattordici anni fa ha rovinato la loro amicizia. In queste settimane non avevo mai pensato al dolore provato da Kate nel sapere che Jonathan fosse un bastardo manipolatore. Lo considerava il suo migliore amico e adesso, per colpa mia, Kate sta rovinando il proprio matrimonio.

 

Il disgustoso biscotto mangiato poco prima contorce il mio stomaco.

Ingoio la saliva che ho in bocca.

Una forte acidità risale per l'esofago.

Spero di non vomitare.

 

... continua nel prossimo capitolo...

 

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Capitolo 39
*** OGGI: Crollare ***


OGGI:
Crollare






... continua dal capitolo precedente...

 

Kate fissa Jo.

Jo fissa Kate.

Sembra uno scontro a fuoco tra due pistoleri come nei vecchi film western. 

Nessuno abbassa gli occhi.

Nessuno cede il passo.

 

Le mie gambe vacillano.

 

«È da settimane che rimandi il nostro incontro, da quando Elena è tornata sono cambiate parecchie cose. Cosa diavolo ti è successo?», chiede Jo all'amica.

«Niente. Ho solo cambiato idea, tutto qui. Non ti voglio come testimone, non mi sembra un dramma», dice Kate cercando di riprendere possesso del marciapiede che Jo pare occupare con il suo corpo.

«Siamo stati amici per anni. Abbiamo passato momenti in cui ci sentivamo poco, visti gli impegni di entrambi, ma gli ostacoli che la vita ci parava davanti li abbiamo superati insieme, sempre. Possibile che mi annunci questa tua decisione con una lettera? Non pensi che sarebbe stato meglio dirmelo di persona?». Jo sventola un foglio.

«Non volevo disturbarti», dice asciutta Kate con un sorrisetto stampato in volto.

 

Jo mi guarda schifato.

So benissimo che pensi che sia colpa mia, il cambiamento di Kate nei suoi confronti deve essere coinciso con il mio ravvicinamento alla mia amica.

Come posso dargli torto.

Se fossi stata zitta non avrei compromesso nulla tra di loro, ma per ristabilire un rapporto con Kate non potevo fare altrimenti.

 

«M-mi dispiace». Parlo rivolto a Jo cercando di non dare segni di cedimento.

«Non ti devi scusare di nulla. Non è colpa tua». Kate mi prende a braccetto pronta ad attraversare la strada per andare a prendere la metropolitana. Non ha voglia di ascoltare Jo. È convinta, niente potrebbe smuoverla dalle sue convinzioni.

 

Le mie gambe sono fragili, sembrano cannucce. Le muovo rapide, ma ho la certezza che presto cederanno sotto al mio peso. Il sapore dolciastro del biscotto alla marmellata mangiato prima mi ritorna in bocca.

 

«Che diavolo è successo? Cosa?». Jo mi blocca per le spalle, i suoi occhi neri come la notte paiono infuocati.

«Hei. Lasciala stare!». Kate prova a staccare le mani di Jo dal mio corpo, ma con scarsi risultati.

 

Vengo scossa.

 

«Che cosa hai detto a Kate? Cosa?». Jo mi prende per un braccio mentre con l'altro allontana Kate che come fosse una tigre infuriata lotta come una matta.

 

Vengo strattonata.

 

Jo non molla la presa. Mi cinge la vita avvicinandomi a sé come se cercasse di guardarmi negli occhi per capire che cosa stia accadendo. Faceva sempre così quando da ragazzi qualcosa mi turbava, allora bastava un suo sguardo per farmi sentire a casa, eppure, adesso, ho davanti un estraneo, un uomo disperato, che non capisce cosa stia succedendo. 

 

Vengo smossa.

 

«Lasciala andare, brutto idiota!», urla Kate sferrando un calcio negli stinchi a Jo.

Jo mi lascia di colpo prendendosi il polpaccio tra le mani e saltellando per l'improvviso dolore.

Senza nessuna logica e nessuna finalità pratica i due iniziano ad insultarsi in alternanza aumentando, parola dopo parola, il tono della voce.

 

«Cretina».

«Sfigato».

«Perdente».

«Venduto».

 

Il mio stomaco si contorce.

Vedo doppio.

 

«Invasata».

«Lecchino».

«Nullità».

«Prepotente».

 

Il mio stomaco sobbalza.

Sto male.

Sto male.

 

«Sai cosa ti dico doppi occhi, che se vuoi Elena come amica, tienitela. Ti abbandonerà come ha fatto in passato e...».

Kate interrompe Jo malamente: «Come mi hai osato chiamare? Ripetilo se hai il coraggio. Sei un vigliacco, uno schifoso e...».

 

Io non vedo più.

Non capisco più nulla.

Sono piegata in avanti vomitando quel poco che ho nello stomaco.

Tremo.

Mi accascio.

Sento freddo.

Alla fine c'è il buio.

 

Sono svenuta.

 

Buio.

Buio.

L'immagine di mia madre che cucina è davanti a me. Riconosco i mobili che avevamo a Milano, le piastrelle marroni e la grande porta finestra. Il volto di mamma è confuso, è un'immagine sfuocata, come se non la ricordassi più. Il colore dei suoi capelli mi pare più chiaro di come fosse in realtà, ma non sono certa. Provo a raggiungerla, ma non riesco, sono seduta su una sedia dietro a un tavolo. Ho fame, la tavola è imbandita, eppure tutto ciò che provo a mangiare ha un sapore nauseabondo. 

Mi sento stanca, affaticata.

Chiudo gli occhi.

Buio.

Buio.

 

«Elena? Elena? Mi senti». La voce di Kate arriva da lontano come se parlasse attraverso un lungo tubo che distorce i suoni.

«Elena, apri gli occhi se riesci». Una voce sconosciuta mi chiama.

 

Apro a fatica gli occhi.

La mia bocca pare sabbia del deserto.

 

«D-dove sono?», chiedo con un filo di voce.

«Sei svenuta in strada. Jo ed io ti abbiamo portata qui nella piccola infermeria dello studio legale. Sei disidratata, per questo sei stata male», mi dice Kate.

 

Sento la mano indolenzita, un piccolo tubo immette liquidi nel mio corpo, goccia dopo goccia.

 

«S-scusate. Non volevo», dico io.

«Non ti preoccupare. Avevo la macchina a due passi, ho preferito portarti qui piuttosto che in ospedale. Niente scartoffie o lungaggini, l'infermiera dello studio legale ti ha assistita subito». Jo indica una signora vestita con un camice bianco che gentilmente mi misura la pressione.

«Ci hai fatto prendere un colpo. Non avevo notato che hai l'aria così sbattuta, se stavi male potevi dirmelo, potevamo andare un altro giorno da Alice», mi dice Kate con premura mentre mi accarezza.

«Alice? La mia Alice? L'hai trovato il vestito per la cerimonia?». La voce squillante ed energica di Rebecca spunta da dietro una tenda che divide la stanza. Con un gesto rapido viene smossa mostrandomi una Rebecca perfettamente truccata in tailleur blu. Vicino a lei c'è James.

«Sì. Grazie Rebecca per averci passato il contatto. È stata gentilissima e molto utile», le risponde Kate.

 

Ho la testa rintronata.

Vorrei dire molte cose, ma l'unica cosa che mi viene naturale da fare è piangere.

 

Kate mi asciuga gli occhi con un fazzoletto di carta mentre tutti gli altri sono ammutoliti.

 

Mi sento uno straccio.

Mi sento uno schifo.

Mi vergogno della mia debolezza.

 

«Non ti preoccupare vedrai che tra poco starai meglio. Il mio consiglio è: riposo, liquidi e un buon libro. Senza contare un massaggio al centro benessere e una seduta dal parrucchiere. Non hai idea di quanto faccia bene curar...».

Rebecca viene interrotta da Jo. «Forse è meglio se la lasciamo stare», dice mentre mi sposta un paio di ciocche dal volto fermandosi qualche secondo a fissarmi negli occhi.

 

Non riesco a guardarlo.

Abbasso la testa.

 

«Non preoccuparti Elena, hai bisogno solo di idratarti. Potrebbe essere un virus gastrointestinale, ma non hai febbre, oppure... oppure... mia cara, sei incinta? Il vomito e le nausee improvvise sono il primo segnale», mi chiede l'infermiera come se nulla fosse mentre sistema gli strumenti di lavoro.

 

Incinta?

No. Assolutamente no.

 

Kate, Jonathan, Rebecca e James trattengono il fiato.

Hanno gli occhi sbarrati. Non credo si aspettassero un'uscita del genere.

 

«Ho problemi di stomaco ultimamente. Ho mangiato un biscotto dalla dubbia provenienza. L'ho comprato in un chiosco della metropolitana». Nello stesso istante in cui finisco di parlare il mio stomaco brontola sonoramente.

 

Ecco.

Il mio essere dannatamente me stessa spunta sempre nei momenti meno appropriati.

 

Rebecca ride: «Non ti smentisci mai. Stai sempre a pensare al cibo. Non che da te possa aspettarmi nulla di nuovo».

Kate mi abbraccia stretta: «Per fortuna è una stupidata, niente di grave. Mi si è fermato il cuore nel vederti crollare a terra».

Jo mi tiene la mano.

James è uscito dalla stanza, non lo vedo da nessuna parte.

 

Ho il magone.

Seppur mi senta uno schifo, non posso che essere grata a tutti loro.

Nonostante quello successo negli anni passati, le bugie, i complotti e le menzogne, non posso fare a meno di sentirmi a mio agio in mezzo a quello strano gruppo.

 

«Adesso finisci la flebo in pace. Non ti è successo nulla. Passo più tardi», dice l'infermiera uscendo dalla piccola stanza e trascinando con se Kate, Jo e Rebecca che la seguono senza opporsi.

 

Silenzio.

Improvvisamente c'è solo silenzio.

 

Sdraiata sul lettino cerco di controllare i battiti accelerati del mio cuore, le braccia stanche provano a muoversi nonostante la fatica. Le dita sfiorano le labbra secche e tagliuzzate. 

Come ho fatto a ridurmi così?

Se fosse successo con Sebastian?

Non oso immaginare lo spavento del mio piccolo, mi si accappona la pelle a visualizzare una opzione del genere.

 

La porta cigola.

Si apre.

 

Un profumo erbaceo si diffonde nella stanza.

 

James sta entrando con un piccolo vassoio con una tazza fumante di tè e un paio di dolci dall'aria golosa.

Non dice nulla.

Prende una sedia e appoggia il vassoio su un piccolo tavolino di fianco a me. Con calma apre due bustine di zucchero e le mette nella tazza calda per poi mischiare con un ritmo cadenzato il liquido.

James soffia sulla tazza incandescente.

 

«Dovrai aspettare un po', è troppo caldo per berlo ora», mi dice.

«Grazie, non dovevi disturbarti», gli dico con la voce flebile.

James mi osserva con attenzione poi si alza. Sistema la tenda della finestra per filtrare la luce chiara che entra dall'esterno. «Anche Nik è a casa. A quanto pare ha degli esami da fare. Mi ha assicurato per telefono che non è nulla di grave, ma deve stare a riposo per un po'».

 

Trattengo il fiato.

 

«È strano. Non ha mandato nessun certificato medico in ufficio e non ha contattato nessuno. Se non fosse stato per la mia telefonata risulterebbe un fantasma», dice James.

 

Lo stomaco mi si contorce.

 

«La cosa più strana comunque è che anche Caroline è sparita. Ha preso gli arretrati delle ferie che le spettavano. Caroline non ha mai preso un giorno di ferie in vita sua, a meno che non stesse veramente male. Nik manca e Caroline sparisce. Curioso». James si siede sulla sedia di fianco alla brandina e mi porge la tazza di tè.

 

Afferro la tazza nascondendomi dietro essa.

 

«Caso vuole che tu sia arrivata qui mezza svenuta, disidratata e in evidente stato di panico. Jo, Rebecca e Kate non devono essere così attenti per non averlo capito, ma io ti conosco bene. Saranno passati molti anni, ma quella faccia la riconoscerei ovunque». James mi passa il piatto con due ciambelle al cioccolato.

 

Ne afferro una e la mordo.

Con la bocca piena non sono obbligata a rispondere.

 

«Se non fosse che ti conoscessi, mi fidassi ti Nik e fossi assolutamente certo della fedeltà di Caroline per lo studio legale, credo che stia succedendo qualcosa di strano, molto strano», dice James.

 

Mastico e inghiotto un boccone dietro l'altro.

Non guardo James che in silenzio aspetta una mia risposta, una risposta qualsiasi.

 

La lancetta dei secondi ticchetta.

Il cibo nella mia bocca mi da nuova energia.

I sorsi di tè riempiono il silenzio.

 

Non parlo, non ho intenzione di dirgli nulla di Andrew e tantomeno di Nik.

 

«Bene. Ho capito. Farai scena muta. Ricorda però, quando avrai voglia di toglierti il peso che porti dentro sai dove trovarmi», mi dice James prima di uscire dalla piccola infermeria.

 

Sono di nuovo sola.

 

Merda.

Merda.

Merda.

 

Mi stacco la flebo dalla mano, delle piccole gocce di sangue scivolano sul pavimento. Con le gambe ancora deboli mi dirigo verso la mia borsa. Mi aggrappo dove riesco, non perché abbia paura di cadere, ma per precauzione, la flebo e il cibo ingerito mi stanno donando nuova energia. Raggiungo l'appendiabiti e cerco il cellulare nella borsa.

 

Scorro la rubrica.

Chiamo.

 

Dopo due squilli ottengo risposta.

 

«Ciao Elena, hai saputo qualcosa?». Nik pare arrabbiato, frustrato. Lo capisco benissimo, non è il tipo da stare con le mani in mano a ciondolare per casa.

«Caroline non c'è più, non è in ufficio», gli dico con la voce spezzata dalla paura.

«Come non c'è più? Cosa significa?», mi chiede urlando.

«Non lo so. James mi ha detto che è andata in vacanza e non si presenta in ufficio da quando non ci sei tu», dico piangendo.

«Scusa. Scusa. Non dovevo trattarti male, ma questa situazione rasenta il ridicolo. Caroline non lascerebbe mai la sua scrivania, lei è sempre stata vicina a me... perché adesso mi ha fatto una cosa del genere? Prima non si presenta al commissariato e adesso questo». Nik respira affannosamente.

«Non lo so, Nik. Non capisco più nulla».

«Cerca di andare alla sua scrivania. Cerca indizi o cose che potrebbero collegarla a questa storia. Potrebbe essere nei guai... potrebbe essere in pericolo... non mi perdonerei mai se le succedesse qualcosa», dice Nik parlando a raffica.

«E se lei centrasse con tutta questa storia?». Singhiozzo così forte che a malapena respiro.

«No. No. No. Non è possibile. Non Caroline. No. No. Dobbiamo trovarla, lei può aiutarmi, lei sa tutto di me. Lei... lei...», Nik pare confuso come me. 

«Nik io non ho più la forza. Ho paura. Ho paura per me e mio figlio», sussurro tra le lacrime.

«Solo questo, Elena. Solo questo, poi giuro che non ti chiederò più nulla. Non puoi lasciarmi con il fiato sospeso, non puoi lasciarmi senza farmi sapere che fine ha fatto Caroline».

 

Tremo.

Piango.

Vorrei scappare.

 

«Solo questo, Nik. Poi basta. Io non ne voglio sapere più nulla. Capito?», gli dico cercando da lui conferma alla promessa fattomi.

«Te lo giuro, Elena. Questo ultimo favore e poi da me non avrai più notizie», dice serio Nik.

 

Chiudo la chiamata.

 

Con tutta la forza che possiedo cerco di ricompormi. Prendo sotto braccio la giacca, la borsa. Mi lego i capelli in uno chignon mentre mi ripulisco il trucco sciolto dal volto con un paio di fazzolettini umidi.

 

Questa storia è andata avanti troppo a lungo.

Nik non può chiedermi di fare cose fuori dalla mia portata.

Io non sono lui.

Io non sono capace.

Ho un problema più grande da risolvere adesso: Andrew.

Devo smetterla di giocare e devo iniziare a pensare a me stessa.

Devo smetterla di essere una ragazzina di diciassette anni, ho un figlio da proteggere.

Devo scappare.

Scappare è l'unica soluzione.

 

... continua nel prossimo capitolo...

 

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Capitolo 40
*** OGGI: Cassetti vuoti ***


OGGI:
Cassetti vuoti





Sento le parole di Nik rimbombare nel cervello: Te lo giuro, Elena. Questo ultimo favore e poi da me non avrai più notizie.

 

Ultimo favore.

Certo, come no.

 

Mi pare di cadere sempre nello stesso errore, possibile che non riesca a dire di no?

Possibile che ogni volta finisca in qualche guaio?

 

La piccola infermeria è al diciannovesimo piano, esattamente un piano sotto lo studio legale. Ne possono usufruire una serie di uffici convenzionati del palazzo, una comodità non da poco che mi ha evitato lungaggini in ospedale.

 

Le gambe stanno meglio, non tremano più. Tampono come riesco il poco sangue che fuoriesce dalla ferita che mi sono procurata quando mi sono tolta la flebo. 

Devo andarmene da lì il prima possibile, devo raggiungere la scrivania di Caroline senza dare troppo nell'occhio.

Mi lego i capelli in uno chignon alto, mi allaccio il cappotto cercando di togliere tutti i pelucchi per apparire meno trasandata. Borsa a tracolla. Sorriso smagliante.

 

Socchiudo la porta e sbircio.

Nessuno passa per il corridoio.

 

Cerco di orientarmi come meglio posso. Un cartello appeso alla parete indica la direzione da prendere per gli ascensori. La seguo evitando di incrociare gli sguardi delle persone che incontro sul mio percorso.

Io non so chi siano.

Loro non hanno idea di chi sia. Io.

Fin qui le cose sono facili.

 

Ascensore.

 

Schiaccio il pulsante con la freccia verso l'alto per salire.

Aspetto qualche secondo.

 

Trattengo il fiato.

 

Sento voci conosciute alle mie spalle lungo il corridoio che porta nella mia direzione

È Kate che parla con l'infermiera.

 

Mi guardo a destra e a sinistra in cerca di una via di fuga.

 

La porta vicino a me indica le scale che vanno da piano a piano. 

Mi tuffo sull'uscio chiudendolo più velocemente possibile alle spalle.

 

Ho il fiatone.

 

Senza indugi corro per i gradini fino alla porta che mi permetterà di accedere al piano dello studio legale.

 

Mi concentro.

Inspiro.

Spingo la porta.

 

La luce bianca che viene dalle vetrate colpisce i pavimenti lucidi di marmo. Stagisti, avvocati e clienti si muovono tra gli uffici e da una scrivania all'altra dell'ufficio McArthur, Martin e Spencer. La segretaria all'ingresso, addetta all'accoglienza, mi saluta con un cenno della testa.

 

«Devo prendere una cosa nell'ufficio di Nik», dico con scioltezza come fosse la cosa più naturale del mondo.

«Prego, faccia pure», mi dice la donna con gentilezza continuando a scartabellare su un foglio.

 

Mi stacco dal bancone incrociando le dita.

Non devo incontrare Jo, Rebecca o James. 

Devo riuscire a raggiungere la scrivania di Caroline il prima possibile.

 

Con passo deciso cammino a testa bassa mentre sbircio la rubrica dal mio telefonino.

Devo sentire Nik per capire cosa cercare, devo capire come muovermi.

 

Il cellulare squilla.

Dopo nemmeno un secondo Nik risponde: «Dove sei?».

«A cinque metri dal scrivania di Caroline. Che cosa devo cercare?», gli chiedo.

«Qualche indizio. La mia Caroline non mi tradirebbe mai. Mai. Deve aver lasciato un segno del suo passaggio, sa benissimo che la cercherei e qualunque cosa sia successa non rinuncerebbe mai a farmelo sapere», mi dice deciso.

«Ok. Appena trovo qualcosa ti faccio sapere». Butto giù, sono alla scrivania di Caroline.

 

Gli stagisti neanche mi calcolano, sono troppo presi a correre da un ufficio all'altro. Ne approfitto per sedermi e iniziare ad aprire i cassetti.

 

I primi due sono pieni di fascicoli dell'ufficio.

Un'altra con cancelleria varia.

Gli altri sono tutti vuoti.

Vuoti.

Non c'è nulla di nulla.

 

Sembra che Caroline non sia mai passata di lì.

 

Il piano del tavolo è ordinato e pulito.

Niente che possa darmi informazioni utili.

Computer.

Blocco appunti.

Matite e penne in un contenitore.

 

Intonso.

Lindo.

 

Non so che fare.

 

Prendo il cellulare.

 

«Nik. Nik.», dico appena lo sento rispondere al telefono, «Non c'è niente, nulla. Ho guardato dappertutto». Parlo a bassa voce, nonostante non mi abbia vista ancora nessuno non voglio dare troppo nell'occhio.

 

Nik tace.

 

«Nik, che devo fare? Maledizione parla!», gli ringhio cercando di non alzare troppo il volume della voce.

«A-apri il secondo cassetto a sinistra. Il mobiletto sotto il computer», mi dice serio.

«Ma non c'è nulla, ho già guardato», gli rispondo scocciata.

«Fallo e basta», mi risponde secco.

 

Apro il cassetto.

Vuoto.

Come dicevo io.

 

Nik parla veloce: «Appoggia la mano sotto il cassetto. Nella parte che non si vede».

Scettica faccio quello che mi dice. 

La mano scivola alla cieca sul ripiano inferiore del cassetto muovendosi lentamente in cerca di non so cosa. 

 

Destra.

Niente.

Centro.

Niente.

Sinistra.

 

Uno scricchiolio.

Un sacchettino di plastica è attaccato lì sotto.

 

Mi abbasso per guardare.

Una piccola busta di plastica, attaccata con dello scotch di carta, avvolge un paio di chiavi.

Con attenzione le stacco.

 

«Nik. Ci sono delle chiavi, le ho prese e...».

 

Una voce mi interrompe.

 

«Che cosa hai preso Elena?». Charlie Spencer il collega e migliore amico di Nik mi guarda divertito da dietro la scrivania. Vicino a lui c'è James.

 

Con un gesto rapido infilo il pacchettino con le chiavi dentro la manica e sorridendo cerco di accampare qualche scusa credibile che possa giustificare il fatto che stessi a carponi dietro la scrivania di Caroline.

 

«Matite. Le matite dell'ufficio legale. Nik è molto affezionato a queste». Con un movimento secco ne estraggo un paio dal portapenne sulla scrivania di Caroline e le infilo in borsa. «Oggi vado a trovarlo. Mi ha detto che non riesce a lavorare senza queste matite».

 

Charlie ride mentre James mi guarda stranito.

 

«Adesso devo andare. H-ho un appuntamento». Infilo il cellulare in tasca e cercando di allontanarmi il più presto da quel posto mi lancio nel corridoio diretta agli ascensori.

Il cuore batte forte. 

 

Un passo.

Una mano mi ferma bloccandomi per un braccio.

 

«Tutto bene, Elena?», mi chiede James fissandomi negli occhi. «Sicura tu non mi debba dire nulla».

«N-no. Figuriamoci. Tutto a posto. Ho solo bisogno di riposo. Passo da Nik e poi vado a casa», gli rispondo staccandomi da lui e dirigendomi, a passi veloci, verso gli ascensori.

Non ho il coraggio di guardarlo negli occhi.

 

Vattene, scappa.

Mi ripeto senza voltarmi indietro.

Elena, vai via.

 

Ascensore.

Ascensore.

Scende veloce.

 

Senza neanche rendermene conto sono per strada. Il grande palazzo di vetro è alle mie spalle, imponente e maestoso, mentre sembra spiarmi con centinaia di occhi di vetro. 

 

Compongo il numero di Nik mentre mi incammino sul marciapiede mischiandomi tra i passanti.

 

«Sono fuori, ho preso le chiavi, te le porto a casa?», gli chiedo mentre mi dirigo verso la metropolitana.

«No. Non ci farei nulla con quelle chiavi visto che non posso uscire da qui. Vai a casa di Caroline. Sincerati che stia bene e nel caso non ci fosse entra a casa sua. Mi ha lasciato qualcosa, lo so», mi dice sicuro.

«Ma..».

 

Nik mi interrompe.

 

«Avevamo un patto, in caso di problemi ci saremmo lasciati un messaggio, una cosa che solo io e lei avremmo capito. Secondo cassetto a sinistra. Lo abbiamo sempre saputo che ci saremmo stati l'uno per l'altra e lì, in quel cassetto, c'era il messaggio: le chiavi. Quelle chiavi sono un messaggio per me, per dirmi che devo andare nel suo appartamento. Non so cosa le sia successo, ma evidentemente non si fida della gente che c'è in ufficio», mi spiega Nik.

«Non voglio finire nei guai per una tua fissazione, sia chiaro. Non voglio grane, capito?», gli dico dura.

«Fidati, Elena. Lei deve sapere chi c'è dietro a tutta questa storia. Probabilmente sa più cose di quanto non creda. Ti mando il suo indirizzo via messaggio», mi dice prima di riattaccare il telefono.

 

L'entrata della metropolitana è davanti a me.

Non so che fare.

Stringo il sacchettino che avvolge le due chiavi.

Lo rigiro tra le dita.

 

Se Caroline sa che ad organizzare tutto c'è Andrew potrebbe essere sua complice.

Se Caroline fosse complice vuol dire che l'arresto di Nik è colpa sua.

Se Caroline fosse colpevole dovrei fidarmi del suo messaggio a Nik?

Le chiavi sono una trappola?

 

Penso.

 

E se Caroline fosse una vittima?

Nik né è convinto.

 

Penso.

 

Il vagone che devo prendere per casa di Caroline è appena arrivato.

L'aria smossa dal convoglio mi fa svolazzare alcune ciocche.

Le porte scorrevoli scattano di fronte a me.

 

Devo decidere.

 

Passano secondi e per la testa mi ronzano mille immagini. Dubbi.

 

Il vagone emette un suono acuto, le porte si stanno per chiudere.

Scatto e salto.

Le porte scorrevoli si chiudono come una trappola dietro le mie spalle.

Parto.

 

La decisione è stata presa, andrò nell'appartamento di Caroline.

 

Il vagone è semi deserto, molti pendolari sono ancora al lavoro. Ci sono turisti interessati a raggiungere i locali del quartiere irlandese per farsi una bevuta o adolescenti affaccendati a farsi selfie da spedire agli amici.

 

Nove fermate.

Nove fermate e poi sarò arrivata.

 

Nik mi ha scritto un messaggio dove dice di cercare una vecchia casa vicino al Green Market, in Glover Street, proprio nel quartiere popolare vicino alla fermata della metropolitana.

La troverò facilmente, le insegne luminose mi indicheranno la strada del negozio e quindi l'abitazione di Caroline. Non posso sbagliarmi.

 

Giocherello senza sosta con le chiavi trovate allo studio legale, le giro tra le dita come fossi in preda a una trance o fossi ipnotizzata. I miei occhi sono vuoti. Quello che sento dentro traspare fuori. 

Il dondolio della metropolitana è l'unica cosa reale, è l'unica cosa che mi fa restare in contatto con la realtà.

 

Nove fermate sono passate.

Nove fermate e sono arrivata.

 

Esco dalla fermata trovandomi su una strada piuttosto trafficata. Un cartello indica il Green Market a soli cento metri da dove sono io. Seguo le indicazioni camminando sul marciapiede che costeggia tutti gli edifici della zona.

La strada è leggermente in salita. In lontananza riconosco l'insegna del supermercato. È il mio faro, il mio punto di riferimento, la mia meta.

Raggiungo il negozio in poco tempo, lì vicino noto una vecchia casa dall'aria trascurata con un basso recinto in legno grezzo e un microscopico giardino con un paio di cespugli.

 

Ho le chiavi in mano.

Sulla porta d'ingresso della casa di Caroline ci sono due serrature che potrebbero corrispondere alle chiavi che stringo, almeno credo.

Mi avvicino e suono il campanello sperando di trovarla in casa.

Suono ancora.

Aspetto.

Suono.

Aspetto.

Faccio una lunga scampanellata.

 

Niente, nessuna risposta.

 

Indietreggio un passo per guardare le finestre, non ci sono luci accese o altri segni che possano suggerirmi che c'è qualcuno in casa.

 

Prendo un respiro profondo.

 

Provo a girare la maniglia.

La porta è chiusa.

 

Estraggo le chiavi dal sacchetto.

Prima infilo quella piccola nella serratura in basso, poi uso quella grande per la serratura superiore.

Entrambe scattano.

La porta è aperta.

 

«C'è qualcuno? Caroline? Posso entrare? Sono Elena», dico ad alta voce mentre mi richiudo la porta alle spalle.

 

L'aria nella stanza sa di chiuso, non è un odore insopportabile, ma si capisce che la casa non viene abitata da qualche giorno. Le imposte sono serrate e fanno filtrare un po' di luce dall'esterno. A parte il ronzio del frigorifero non c'è altro rumore per la casa. La posta giace sul pavimento d'ingresso proprio vicino all'uscio d'entrata, la spia rossa della TV è accesa e il telecomando è abbandonato sul divano. 

Non sembra che la casa sia stata abbandonata per sempre, è come se si trovasse sospesa, immobile, in attesa che la padrona ritorni a viverla.

Faccio un paio di passi, il pavimento il legno scricchiola.

 

Trattengo il fiato.

 

Una cosa colpisce la mia attenzione, una sedia del tavolo della grande stanza, che funge da cucina e sala, si trova di fronte a me, proprio davanti l'ingresso. Quella sedia è fuori posto, non dovrebbe essere lì. Aguzzo la vista, mi sembra ci sia qualcosa appoggiato sopra.

Allungo la mano.

Provo a prenderla e...

 

...il cellulare squilla.

Salto sul posto emettendo un urletto isterico.

 

È Nik.

 

«Cavoli, mi fai prendere un infarto», gli dico a bassa voce.

«Dove sei?», mi chiede.

«Sono da Caroline, a casa sua».

«Lei c'è? Come sta?», mi chiede ansioso.

«No, non c'è. Però c'è qualcosa di strano, molto strano», gli dico mentre prendo una spessa busta bianca appoggiata sulla sedia fuori posto.

«Deve essere il suo messaggio per me», dice Nik tutto eccitato.

«Aspetta, controllo di cosa si tratta e poi ti dico», rispondo a Nik mentre con la luce dello schermo illumino la lettera che ho tra le mani.

 

Con un pennarello nero c'è scritto: Per L'avvocato Nicholas Martin.

 

Apro la busta.

Basta che legga poche righe per sentirmi mancare.

Poche righe e tutto inizia ad avere senso.

 

«Elena. Elena. Che c'è? Cosa hai trovato?». Sento la voce di Nik urlare dal mio telefonino.

 

Non ho il coraggio di parlare.

 

«Elena, merda. Dimmi che succede», Nik mi urla sempre più forte.

 

Ho paura, ho molta paura ma non posso farlo capire a Nik.

Mento.

Mento a Nik perché è l'unica cosa che possa fare.

Non posso dirgli la verità, la vita di mio figlio potrebbe essere in pericolo.

 

«C'è un biglietto di scuse. Caroline ti chiede scusa perché a quanto pare si è innamorata e se ne è andata via. Tutto qui, Nik. Non c'è nient'altro. Non c'è niente dietro a tutta questa storia», gli dico con la voce impastata e la testa confusa.

 

Nik non risponde subito, passano diversi secondi prima che emetta qualche suono:«Quindi Caroline mi ha abbandonato?».

«Mi dispiace. Sì, Caroline ti ha abbandonato. Addio, Nik», poi chiudo la chiamata con la mano tremante.

 

Nella penombra, con il ronzio del frigorifero a farmi compagnia, immobile come un palo e in balia delle paure più profonde, osservo la vera lettera che Caroline ha scritto per Nik. 

La leggo e i brividi mi paralizzano.

La leggo e il terrore torna ad affacciarsi nel mio cuore.

 

Carissimo Nik,

Prima di adesso non ho mai avuto il coraggio di chiamarti così, nonostante tu abbia insistito per anni. Ho sempre evitato di farlo perché l'ammirazione che avevo per te è sempre stata la benzina che mi ha spinta ad andare avanti.

Credo di averti amato per anni.

Credo di averti amato da sempre.

Mi sono ripetuta milioni di volte che avrei dovuto dirtelo, ma c'era sempre qualcosa che mi frenava: la paura di perderti, la mia insicurezza.

 

Ho sbagliato, ti chiedo scusa.

 

Non perché non ti abbia confessato i miei sentimenti, ma perché io sono la causa della tua rovina. 

Sei in prigione per colpa mia.

Ho creduto alle parole di uno sciacallo, alle sue stupide regole che mi hanno illusa sarei diventata più forte e più attraente. Ho pensato che se fossi cambiata ti avrei conquistato. 

Non ho il coraggio di dirtelo in faccia, proprio non ci riesco.

Per questo ti ho scritto questa lettera.

Andrew è la causa del mio cambiamento.

Andrew mi ha mentito.

Andrew ha mentito a tutti.

Con tutti intendo tutto lo studio McArthur, Martin e Spencer.

Ha mentito a Lucas.

Ha mentito per rovinare tutti voi.

Salti e Bottari sono suoi complici, avevi ragione a non fidarti di loro, l'ho capito troppo tardi.

 

Io non posso far niente per fermarli, ma tu sì.

Sei un ottimo avvocato, il migliore. Nella busta troverai delle chiavette USB con video e registrazioni intime tra me e Andrew. Sono registrazioni che Andrew non immagina siano state fatte, da me non si sarebbe mai aspettato una cosa del genere. Me ne vergogno molto, ti prego, non mi giudicare una poco di buono. Avevo bisogno d'amare e ho creduto alle menzogne di un mostro.

 

Un ultima cosa, guarda bene a chi dare la tua fiducia. Credo ci sia una talpa o un complice all'interno dell'ufficio. Andrew era sempre al corrente di tutto di quello che succedeva da noi.

 

Mi raccomando distruggi Andrew e perdonami, se puoi.

Tua, Caroline.

 

Con gli occhi lucidi e la paura di crollare, scappo dalla casa di Caroline tenendo tra le mani la lettera appena trovata. 

 

L'unica cosa a cui penso è mio figlio.

L'unica persona che voglio salvare è lui.

Questa storia sta diventando sempre più grossa.

Non posso farcela.

Devo andarmene anche io.

Devo andarmene da Boston il prima possibile.

 

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Capitolo 41
*** OGGI: Scotch marrone ***


OGGI:
Scotch marrone





Quando sono di fretta e cerco qualcosa non riesco mai a trovarla.

Succede sempre così.

Giro.

Guardo.

Non trovo ciò che voglio.

Anche adesso mi sta accadendo, mi manca poco per finire.

Quel maledettissimo scotch marrone si è come volatilizzato nel nulla.

 

Gli scatoloni con i vestiti sono quasi pronti, mancano gli asciugamani e qualche coperta, ma il più è fatto. Per fortuna le stoviglie erano già nell'appartamento quando siamo arrivati, di mio c'è solo qualche tazza e il bollitore, non devo impazzire ad impacchettare ogni singolo piatto e bicchiere presente in casa. Lo stesso vale per i mobili che mi circondano: appartamento già arredato. Una comodità per me che venivo da Madrid, un prezzo più che onesto. Peccato che dietro a tutte le mie scelte ci fosse Andrew. Già. Una vita troppo perfetta per essere vera.

 

Una vita che sta cadendo in frantumi.

 

Raccolgo i documenti lavorativi e scolastici, i passaporti, mio e di Sebastian, in una borsa di cuoio, insieme a tutte le fatture e bollette pagate. In bella vista sul tavolo c'è la domanda per togliere mio figlio dalla scuola materna. Dieci fogli che accuratamente compilati mi permetteranno di iscrivere Sebastian in una nuova scuola, in un nuovo paese.

 

Quale paese?

Quale nazione?

Non lo so.

 

Ho pensato all'argentina, Sebastian parla spagnolo, potrebbe inserirsi più facilmente lì, anche se credo che portarlo in Italia sia la scelta più comoda per me, un po' per la lingua, un po' perché posso muovermi nei piccoli paesi senza destare sospetto o la curiosità delle persone. Andrew avrebbe più problemi a trovarmi.

 

Chiudo l'ultimo scatolone con gli ultimi indumenti, ma non trovo lo scotch marrone.

Provo a guardare sotto il tavolino da caffè in salotto, dietro ai libri accatastati, tra i sacchetti della spazzatura.

Non lo trovo.

 

Conto fino a dieci.

Respiro profondamente.

 

Elena, non fissarti.

Salterà fuori quando meno te lo aspetti.

 

Devo fare altro.

Non devo fissarmi.

 

Decido di rivedere tutte le stanze per capire se ho dimenticato di prendere qualcosa di importante.

Il bagno è vuoto, qualche cosmetico di prima necessità e lo spazzolino da denti stazionano sopra una mensola di vetro. Tutto il resto l'ho già impacchettato. Il salotto pare un magazzino, ma a parte i libri non ho molte altre cose da portare via. La camera di Sebastian sembra così vuota senza tutti i suoi giocattoli e disegni attaccati alle pareti. Controllo per sicurezza nell'armadio, aprendo ogni cassetto per vedere se ho dimenticato qualcosa.

Niente, non c'è più niente.

Manca solo la mia camera. Il letto matrimoniale ha ancora le lenzuola e una coperta che toglierò domani mattina come ultima cosa prima che il camion dei traslochi arrivi. I bijoux sono tutti in una busta di raso che ho messo in una valigia di plastica nera. I vestiti sono piegati e inscatolati. Non mi resta nient'altro da prendere. Nulla.

 

Che strano.

Ho cambiato molte case, molte città e molti paesi, eppure questo ennesimo spostamento è quello che mi fa più male.

Lascio gli affetti ritrovati, le ansie mai risolte e i dubbi, molti dubbi.

Andrew mi ha usata per i suoi porci comodi, più per ripicca che per altro. 

Bottari e Salti sono suoi complici. 

Nik con la sua cocciutaggine, il suo affetto per me, mi ha confusa. 

Caroline e la sua ingenuità, illusa da Andrew per gioco, per sfregio. 

James e tutti gli altri che come sempre si sono rivelati le mie cartine tornasole dell'umore, capaci di farmi uscire dai gangheri e di innervosirmi. Sono passati quattordici anni e non riesco a perdonarli. No.

Mauro, il tuttofare gentile e disponibile.

Kate indaffarata con la mostra e il suo matrimonio. La mia dolce e cara a Kate. 

Papà, Tess e la mia piccola sorellina Maggie, un mondo d'amore. 

Quella scorbutica di Geltrude capace di scrollarmi di dosso tutto i dubbi mettendomene addosso cento nuovi.

 

Lascio questa vita.

La devo lasciare per sempre.

Devo lasciare Andrew dietro le mie spalle, devo allontanarmi da lui e fuggire via.

Solo così posso poter sperare che Sebastian abbia un futuro migliore, solo così posso sperare che la mia vita ritorni di nuovo mia.

 

Sono le dieci e trenta del mattino.

 

Prendo la borsa ed estraggo la lettera che Caroline ha scritto per Nik.

Una dichiarazione d'amore.

Un saluto.

Una confessione.

 

So benissimo che dovrei portarla a Nik, ma non ho il coraggio. Mi chiederebbe di cercarla, sarebbe straziato dal dolore ed io sarei di nuovo in gabbia. Non riuscirei a dirgli di no. Non sono mai riuscita a dirgli di no e lui ha fatto lo stesso con me.

Lo faceva anche quando frequentavo il Trinity.

Lo faceva perché è semplice credere ad una illusione e fingersi innamorato.

Vivere un affetto fa paura, Nik ha sempre avuto paura di affrontare i propri sentimenti.

Siamo così simili, lui ed io.

Illusi.

Sognatori.

A livello pratico, nella coppia, un vero disastro.

Lettori di romanzi d'amore che non sanno riconoscere i propri sentimenti.

Bambini in cerca di conferme, anche se quello che ci fa star bene è sotto il nostro naso e non riusciamo a vederlo.

 

Nik.

Nik è nei guai seri.

 

Mi gira la testa ogni volta che ci penso.

Sono tre giorni che non esco di casa se non per accompagnare Sebastian a scuola. Il resto del tempo l'ho passato a fare scatoloni e organizzare la nostra partenza. La mia fuga.

 

Spalanco la finestra della camera per inspirare la fredda aria di febbraio. Sento pungere le guance, è l'aria frizzante e secca.

 

Prendo la lettera di Caroline piegandola con cura e mettendola nella mia scatola di legno dove tengo le lettere che scrivo ogni anno a mia madre. Cosa le scriverò nella prossima? Che sono scappata per l'ennesima volta? Che Andrew mi ha manipolata?

 

Non lo so.

A questo punto della mia vita non so più nulla.

 

Cerco lo scotch marrone.

Non lo trovo.

Provo a guardare vicino agli ultimi scatoloni chiusi in camera, ma non c'è.

Apro le ante del mio armadio per vedere se accidentalmente l'ho dimenticato su qualche ripiano quando sento il campanello di ingresso suonare.

 

Non aspetto nessuno.

 

Il campanello squilla di nuovo.

 

Con cautela mi avvicino alla porta sbirciando dallo spioncino. È Kate. Riconosco la sua faccia anche se la sua immagine è deformata dalla lente.

«Elena. Elena. So che ci sei. Aprimi!», dice mentre batte sulla porta.

 

Merda, non so che fare.

Se Kate vedesse gli scatoloni capirebbe che qualcosa non va.

Non posso rischiare di rovinare tutto.

 

Infilo la catenina nel binario della porta, in questo modo posso evitare che Kate metta piede in casa. Con calma giro la chiave e apro la porta uno spiraglio, quel tanto che basta per infilare il volto.

«Ciao Kate, che c'è?», dico ostentando una nonchalance da attrice professionista.

«Sei sparita da giorni. Anzi sei sparita dal giorno in cui sei stata all'infermeria dell'ufficio legale. Che cavolo ti è preso? Ti stacchi da sola la flebo ed esci. Ma chi sei, Rambo?». Kate è furiosa, non ci vuole molto a capirlo, ha la faccia rossa.

«Scusa. Ho molte cose da fare e...».

Kate mi interrompe: «Che cosa ci sarà di così urgente, non lo so. La mostra deve essere allestita, i finanziatori vogliono incontrarti, hai saltato l'ultimo incontro. Che ti prende?».

«Te lo detto. Ho molto da fare e...».

Kate mi interrompe di nuovo: «Il tuo volto pare quello di uno zombie, hai le occhiaie e una cera orribile. Mangi? Vedi di non farmi preoccupare che non voglio altri stress», mi dice tenendo il broncio.

 

Stress, se sapesse lo stress sto passando io credo che le verrebbero i capelli bianchi.

 

«Hai ragione, devo solo riposare un po'. In queste notti faccio fatica a dormire. Adesso, se non ti dispiace, vado a sdraiarmi così recupero qualche ora di sonno», le dico sbadigliando forzatamente.

Kate mi guarda stranita spalancando gli occhi: «Cosa? No!». Con un gesto rapido infila il piede tra la porta e lo stipite impedendomi di chiuderla fuori. «Fammi entrare», mi dice imperativa.

«Kate, veramente ho bisogno di stare da sola e tranquilla. Cerca di capirmi, non ho voglia di parlare», le dico scocciata.

«Non mi muovo di qui», dice categorica incrociando le braccia al petto.

«Kate, smettila», le dico con un certo nervosismo.

«Cosa vorresti fare, schiacciarmi il piede?». Kate non arretra dalla sua posizione e neanche io.

«Vattene», le urlo con tutta la voce che possiedo.

«No», dice Kate seria. «Non me ne vado finché non mi dici cosa ti sta succedendo. Sto qui tutto il giorno, non mi muovo. Tanto prima o poi dovrai andare a prendere Seb, ed allora sarai costretta ad uscire».

 

Kate ha lo sguardo duro, fermo. Si vede lontano un miglio che non ha intenzione di mollare la sua posizione.

 

«Sei una vipera. Sei testarda. Sei cocciuta. Sei più fastidiosa di una zanzara», le dico sfinita.

«Sono solo tua amica e sono preoccupata. Tutto qui», mi risponde Kate.

«Non capiresti. È tutto così dannatamente complicato che non so da che parte iniziare. Ti giuro, è come un grande gomitolo fatto da decine di nastri che non riesco a districare», le dico con un filo di voce.

«Apri, fammi entrare. Non tenermi chiusa fuori. Insieme... insieme ne abbiamo passate di cotte e di crude. Vedrai che riuscirò ad aiutarti pure questa volta», mi dice accarezzandomi il volto.

 

Kate, la mia cara e pazza amica. Una delle poche persone su cui possa contare veramente. Ho necessità di parlare con qualcuno, ho bisogno di liberare il peso che sento dentro, ma ne lei e nemmeno io abbiamo gli strumenti per affrontare Andrew e i suoi misfatti.

 

«Kate. Non è il caso, credimi».

«Apri. Questa. Porta», mi dice fissandomi negli occhi.

 

Ci penso un attimo.

Poi.

 

«Sposta il piede. Devo chiudere per poter togliere la catena di sicurezza», le dico mentre spingo delicatamente la sua scarpa dal pavimento.

«Non fare scherzi. Se mi chiudi fuori passo tutto il tempo a suonare il campanello e urlare», mi dice minacciosa mentre si allontana dall'ingresso.

 

Con un sorriso amaro socchiudo la porta.

Kate sa sempre come prendermi.

Sfilo il gancio della catena di sicurezza.

Cerco di fare mente locale su cosa mi è successo nell'ultimo periodo.

Apro la porta e...

 

...e...

 

... e una orda invade il mio appartamento.

Corpi.

Voci.

Gesti.

 

Una cascata di suoni e odori famigliari.

Tacchi che scattano sul pavimento.

Cravatte che svolazzano.

 

Con la bocca spalancata osservo inerme l'invasione.

Non ho parole.

 

Kate è davanti a tutti loro e mi guarda con sguardo severo.

Tutti mi guardano con sguardo severo.

 

James.

Rebecca.

Jo.

Stephanie.

Lucas.

Adrian.

 

In un attimo mi ritrovo proiettata al giorno della mostra di Kate, quando erano lì davanti a me dopo quattordici anni.

In un secondo le emozioni sopite si animano come mostri famelici.

Lo stress e la rabbia paiono nutrire La bestialità che sento crescere dentro me.

 

Kate mi ha tradita.

Kate ha tradito la mia fiducia.

 

«Andatevene immediatamente», urlo a sgarciagola.

«No. Nessuno se ne andrà finché non ci dici che sta succedendo a te e a Nik». James picchia con le nocche su una pila di scatole del trasloco facendo rotolare per terra lo scotch marrone che era appoggiato sopra.

«Andatevene», ringhio furiosa.

«No, Elena. Basta. Basta. Non puoi fuggire, non reggeresti questa volta. È ora di raccontare tutto, devi dire loro quello che hai detto a me. Per questo li ho portati», mi dice Kate con le lacrime agli occhi, «L'altro giorno ti ho vista svenire, crollare, stare male. Non so cosa ti stia accadendo, ma credo che la chiave di tutto sia quello che è successo quattordici anni fa».

 

Con il magone e il fiato corto urlo.

Urlo la mia disperazione.

Non ho più la forza di fuggire.

Non ho più la forza per fare nulla.

 

Basta.

Basta.

È ora di farla finita.

È ora di affrontare il male che mi è stato fatto.

Ora o mai più.

 

... continua nel prossimo capitolo...

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Capitolo 42
*** OGGI: Ora o mai più ***


OGGI:
Ora o mai più





... continua la scena del capitolo precedente...

 

(CAPITOLO MOLTO MOLTO LUNGO. HO PREFERITO NON DIVIDERLO)

 

Stretta in me stessa cammino avanti e indietro. Il mio appartamento è piccolo, a malapena riusciamo a stare comodi io e Sebastian, figuriamoci con tutte quelle persone e gli scatoloni stipati in ogni angolo.

 

Ho la gola secca e brucia.

Ho urlato fino allo sfinimento.

Mi sento in trappola e non posso fuggire.

Mi sento oppressa e non riesco a parlare.

 

Cammino avanti e indietro e li fisso tutti.

James.

Rebecca.

Jo.

Stephanie.

Lucas.

Adrian.

E Kate, la mia cara amica Kate.

 

«Elena, calmati. Siamo qui per aiutarti. Cosa significano questi scatoloni?». Kate prova ad intercettare il mio sguardo, ma l'unica cosa che ottiene è un mio grugnito.

«Cerca di prendere fiato. È ora di dirci cosa ti turba, non puoi andare avanti così. Hai un aspetto orrendo, sembra che tu non stia mangiando da giorni, le tue occhiaie paiono disegnate con un pennarello. Elena. Elena. Parla. Vedrai che starai meglio».

«Non parlo con te. Mi hai tradita. Deve essere l'aria di New Heaven che contagia le persone perché non riesco a capacitarmi di come tu abbia potuto farmi una cosa del genere», le dico senza tante cerimonie.

 

James si piazza di fronte a me bloccando la mia camminata ansiosa.

 

«L'ho costretta io. Ci sono troppe cose che non tornano. Nik che non torna in ufficio. Tu che sparisci dall'infermeria e ti trovo a curiosare tra i cassetti di Caroline. Che diavolo sta succedendo? Perché Kate ci ha chiesto di venire tutti qui?». James mi fissa con durezza. «Mi avevi promesso che quando saresti stata pronta ci avresti spiegato tutto della tua fuga di quattordici anni fa e adesso stai per fare la stessa cosa. Ora è il momento per parlare». 

 

Stephanie trattiene le lacrime, mentre Jo scalpita sul posto. Lucas e Rebecca mi guardano con freddezza, mentre Adrian pare confuso. 

 

«Non potevo far altro che chiamarli e portarli da te. Liberati di quello che provi. Butta tutto fuori. Te ne prego, Elena», mi supplica Kate.

 

Nessuno di loro ha idea di cosa mi frulli nella testa. 

Immagini confuse di rincorrono: i baci di James, le confidenze con Jonathan, le chiacchiere con Stephanie, le litigate con Rebecca, le discussioni con Lucas e le risate con Adrian. Poi Kate. Una vita insieme, una vita vissuta come fossimo sorelle.

Le immagini cambiano.

Bugie.

Tradimenti.

Sotterfugi.

Falsità.

Tanta falsità.

 

Andrew.

 

«Ho bisogno di un bicchiere d'acqua», dico con voce roca andando verso la cucina.

Nessuno mi ferma, ma sento gli sguardi di tutti seguire ogni mia mossa.

Bevo in un sorso il liquido trasparente. Appoggio le mani sul piano della cucina cercando di prendere fiato.

 

Ora o mai più, mi ripeto un milione di volte prima ti trovare il coraggio di tornare in sala.

 

Tutti sono nella stessa posizione in cui li ho lasciati, immobili come statue di gesso.

 

«Vorrei che mi lasciaste finire di parlare prima di dire qualsiasi cosa. Ve lo chiedo come favore personale. Anche se non mi sopportate o mi detestate, vi chiedo questa gentilezza», dico a tutti i presenti che annuiscono silenziosi.

 

Prendo fiato.

Riempio i polmoni con più aria possibile.

 

È l'ora.

 

«Mio padre e Nik non sanno perché me ne sono andata da New Heaven e non ho frequentato Yale. Nessuno lo sa a parte Kate. Le ho parlato qualche mese fa dopo molti anni e ho chiarito cosa mi abbia spinto a fare una cosa del genere visto che anche lei era coinvolta in tutta questa faccenda».

 

Le facce di tutti assumono un'espressione tra il sorpreso e lo stranito.

 

«Ricordate il ballo di fine anno? Ricordate tutto quello successo l'ultimo anno? Credo che per farvi capire il perché del mio gesto sia il caso che pensiate al momento esatto in cui James è arrivato davanti all'ingresso del Teatro della scuola prima che venisse eletta la reginetta», dico io.

 

Resto in silenzio per qualche secondo vedendo la perplessità dipinta sui loro volti.

 

«James ed io avevamo discusso poco prima nel parcheggio della scuola. Lui mi rimproverava il fatto di aver discusso con Nik e di aver perso la fiducia di un professore tanto importante. Era furioso. Le nostre strade si sono separate in quel momento».

 

James annuisce. Ha la fronte aggrottata come se cercasse di ricordare. «Se non mi sbaglio eri andata a prendere una cosa in macchina, poi mi hai scritto un messaggio che l'avevi dimenticata a casa».

 

Sento il mio cuore battere più forte di un tamburo.

Sento le mani formicolarmi per l'ansia.

 

«Era una bugia. Non sono mai tornata a casa». Ho la voce roca e carica di rabbia.

«Cosa? Perché hai fatto una cosa del genere?», chiede Jo confuso.

 

Osservo tutti negli occhi.

Sto per scoppiare a piangere.

 

«Una persona mi ha convinto a farlo, a scrivere quel messaggio. Una persona che doveva consegnare una cosa a Rebecca». Sto tremando come una foglia, le lacrime mi cadono copiose sulle guance al pensiero di quei momenti prima che la mia vita cambiasse per sempre.

 

Non riesco più ad andare avanti.

I denti battono tra di loro.

Mi sembra di scoppiare.

Kate è di fianco a me e mi sorregge per la vita.

 

«Ma cosa stai blaterando? Quella sera... quella sera nessuno mi ha portato nulla», dice Rebecca con un certo fastidio.

«Aspetta... aspetta... una persona... una persona c'è stata», dice Stephanie. I suoi grandi occhi guardano il vuoto come se cercasse di ricordare il particolare mancante. «Ma... ma... no. No. Vuoi dire che... che... o mio Dio! No. Elena, tu... tu...». Stephanie indietreggia qualche passo andando a sbattere contro una pila di libri. 

 

I nostri sguardi si incrociano per un decimo di secondo e il ricordo di quel momento esplode in lei. Le sue guance passano dal rosso acceso al verde cadaverico. Sembra stia per svenire.

 

«Chi c'era? Io non ricordo», dice Lucas mentre aiuta la moglie a ricomporsi tra le lacrime e i tremori. 

«Nessuno. Non c'era nessuno a parte noi», dice Rebecca secca.

«Mi ricordo di James, Lucas e Adrian. C'era anche Stephanie, Rebecca e... e...». Jo si paralizza fissandomi incredulo. Con la faccia inclinata da un lato mi osserva come se quello che sta per dire non fosse veramente successo, ma un incubo diventato realtà.

«..e quella sera con noi c'era anche un'altra persona: Andrew», dice asciutto James impallidendo all'istante. Con la testa china fissa le sue scarpe, i capelli, di solito ordinati e pettinati, scivolano davanti al suo volto coprendogli il volto.

 

Stringo la mascella.

La pancia si contorce.

Stritolo il polso di Kate.

Una rabbia primitiva avvolge la mia anima.

 

«Andrew?! Ah, sì. Andrew», dice Rebecca con un sorrisetto rendendosi immediatamente conto, subito dopo, di cosa sia successo quella famosa notte. «Merda! L-Lui ti ha detto che... che...».

«Ma... ma...», dice Adrian che sembra ritornato il ragazzo di un tempo, timido e impacciato.

 

Tesa come una corda di violino li osservo.

Ognuno di loro ha capito.

Ha capito perché me ne sono andata.

 

«No, Rebecca. Ho avuto il dispiacere di sentirlo con le mie orecchie. Ogni vostra parola, ogni vostra insinuazione, ogni vostra bugia. Ho sentito tutto quello che avete combinato alle mie spalle per mesi solo per avere potere a Yale. Mi avete usata per attirare l'attenzione della stampa, del rettore e di Nik, solo per poter accedere a Yale con la fama che avevate al Trinity. Perché a tutti voi non bastava essere come gli altri studenti. No. Dovevate essere speciali e chi se ne frega se avete giocato con la vita di una ingenua e sfigata provincialotta facile da manipolare. Mi avete fatto litigare con mio padre per difendere un amore basato sulle menzogne. Avete distrutto quattordici anni della mia amicizia con Kate. Ma a voi che vi importa degli altri, se le cose non riguardano voi non siete contenti, giusto? La cosa divertente è che vi ho difesi con Andrew, credevo non potesse essere possibile che voi poteste farmi quello che mi avete fatto, eppure...». 

Sfilo davanti a ognuno di loro.

Ogni passo è guidato dal mio istinto.

«... Ho passato minuti dietro l'angolo ad origliare, a sentire amici che mi infamavano, persone di cui mi fidavo. Ero lo specchietto per le allodole, dovevo attirare l'attenzione per voi, per rendervi importanti. La gara di dibattito truccata. Il caricatore del cellulare rubato. Le moine e le falsità raccontate. Avete fatto tutto questo per cosa?», chiedo con voce dura.

 

Sono come un fiume in piena.

Mi sento più leggera.

Vorrei prenderli a schiaffi.

Vorrei vederli soffrire.

Vorrei avere la rivincita che mi merito.

 

Lucas sembra vacillare quando mi avvicino a lui: «Un combattente senza paura destinato al successo», dico ad alta voce.

Adrian mi fissa sbigottito:«Un ragazzo dal cuore d'oro», la mia voce aumenta d'intensità.

Poi passo a Stephanie: «Quella che credevo un'amica, una sorella», grido.

Mi lancio verso Jo con l'indice puntato: «Uno dei miei migliori amici», urlo.

Rebecca mi guarda con la bocca spalancata: «Quella che consideravo la mia migliore nemica», strillo.

James non alza la testa, immobile fissa ancora i suoi piedi: «Il ragazzo che amavo... hai capito? Il ragazzo che amavo. L'unica persona che io volessi. L'unica a cui ero legata e che desideravo. Mi hai illusa, mi hai usata». La mia voce esplode nella mia gola roca e straziante.

 

L'enormità dei quattordici anni, i segreti trattenuti, le paure celate, fuoriescono lasciando vuoti strutturali nella mia anima. Buchi e voragini fanno vacillare le mie fondamenta, il mio essere si sta sfaldando. Senza questa rabbia sarò ancora me stessa? 

 

James è immobile.

È come un palo avvolto nella tempesta.

Rigido.

Fermo a testa china.

Non vedo i suoi occhi verdi.

Non vedo ciò che prova.

 

«Merda, James, dì qualcosa!», gli urlo in faccia mentre lo spingo per le spalle verso la parete dietro di lui.

Un tonfo sordo accompagna lo sbattere del suo corpo contro la parete.

Stringo le dita intorno alla stoffa della sua giacca, piccole pieghe, simili a crepe, saettano dalla mia presa decisa. Mi sembra di poterlo distruggere. Mi sembra di potergli fare male.

 

«È... è solo colpa mia. Tutta colpa mia», dice con voce strascicata. «Gli altri mi hanno seguito più per fedeltà che altro. Forse anche per paura di perdere la mia amicizia, non so. È stato un gioco, credo. Non mi ricordo più perché volessimo a tutti i costi avere successo a Yale. Ansia. Inadeguatezza. Forse timore di non sentirci all'altezza».

«Un gioco? Uno stupidissimo gioco? Stai scherzando, vero?», gli urlo in faccia.

 

James mi guarda.

I suoi occhi paiono neri. La pupilla è dilatata. L'occhio è acquoso. È come se una patina li ricoprisse, come se non riuscissi a vedere il solito James.

 

«Ti ho amata, molto, e ti ho persa. Ti ho vista cambiare. Ti ho vista trasformarti in quello che non eri. Ti ho vista diventare uguale a me, una stronza senza anima. Ti ho vista persa. Vagare nella confusione. Allora ero convinto che solo io avrei potuto salvarti, il mio Ego, la mia vanità mi hanno accecato. Ero convinto che avremmo potuto tornare quelli di un tempo se io ti avessi aiutata a ritornare te stessa. Non sapevo ancora che Andrew ti avesse plagiata, non sapevo stessi così male per colpa mia. L'ho capito tardi, troppo tardi. Quando... quando... quando ti ho vista baciare Nik nel magazzino del Parco Franklin...».

 

Interrompo malamente James.

 

La voce trema come il mio corpo:«Non ho mai baciato Nik. Capito? Stupido idiota. Mai. Tra me e lui c'era un affetto, un legame fraterno, speciale. Come chiami la vicinanza tra due disperati in cerca di stabilità? Come lo chiami l'affetto tra due anime fragili? Io e Nik siamo due sognatori, due eterni romantici. Siamo sempre stati due illusi, crediamo nel lieto fine e che tutto andrà sempre bene. Quel non-bacio era la prova che tra me e lui non poteva funzionare. Mai. Nik non era la mia realtà, il mio salvagente nel mare in tempesta. Tu eri la terra, il miraggio, l'isola di cui avevo bisogno».

 

James è rigido come se non sapesse cosa fare. È in balìa della mia furia e non sa come reagire.

 

«M-mi dispiace», dice Jo che è appena dietro di me, «Mi dispiace per quello che ho fatto. Io credevo che avrei potuto frequentare Yale se li avessi seguiti, credevo avrei realizzato i miei sogni se fossi stato come loro. Scusa Kate. Non ho capito nulla, nulla. L'allontanamento tra te ed Elena è stata una vigliaccata, uno schifo», dice alla mia amica.

 

Kate lo osserva in silenzio, ha le braccia incrociate e lo sguardo severo.

 

«Eri il mio migliore amico. Sei la prima persona che ho conosciuto al Trinity, c'era un legame speciale tra di noi, ci prendevamo cura l'uno dell'altro», dico a Jo scuotendo la testa disgustata.

 

Jonathan si morde il labbro come volesse trattenere le parole.

 

«Con te mi confidavo, in te credevo. Il tuo tradimento è peggiore di altri. Con Lucas e Adrian non ho mai avuto molta confidenza. Li rispettavo, li ammiravo a tratti. Persone diverse da me, ma con molte cose da insegnarmi... ma tu, caro mio, eri come un fratello». 

 

Jonathan è di fronte a me, sta tremando.

 

«Io... io... ti amavo... oppure credevo di amarti. I ricordi sono così confusi. Ero così legato a te, eppure tu volevi James. Già, tutti volevano essere come lui, me compreso. Se fossi stato James avrei potuto averti, invece no. No. Ero l'amico. Ero il confidente. Lo so che è meschino quello che ho fatto, ma quando mi hanno detto del bacio con Nik non ho capito più nulla. Da vigliacco ho ascoltato le malignità senza avere il coraggio di difenderti, ho preferito seguire le mie ambizioni piuttosto che avere un'amica».

 

Stephanie raggiunge Jo e lo prende a braccetto.

 

«Sai cosa vuol dire scappare dalle proprie paure. Hai sofferto molto, ti conosco bene e so che hai dovuto affrontare sfide enormi in tutta la tua vita. Come Jo sono imperdonabile e ho seguito i miei amici per paura di non essere accettata. Volevo essere parte di un gruppo. Volevo essere di nuovo quella che ero sempre stata perché con te e Kate tutto aveva un sapore nuovo e mi s-spaventava. Quando mi hanno informato su quello che volevano farti non mi sono opposta. N-Non li ho fermati e non vi ho avvisate. Già... come al solito non ho preso posizione e questo mi ha fatto perdere due amiche importanti. Scusa, Elena. S-Scusa, Kate». Stephanie ha gli occhi che riversano lacrime, singhiozza e pare vicina allo svenimento.

 

James raggiunge Stephanie, lo stesso fanno Lucas e Adrian. Solo Rebecca se ne sta in disparte a fissarmi con disappunto.

 

«Che cosa hai risolto tenendoti dentro queste cose per tutto questo tempo? Ti credi speciale? Un'eroina? Sì, siamo stati meschini, tremendi, il peggio che potesse esserci, ma tu hai fatto lo stesso con noi. È inutile che ci giriamo in torno, quando te ne sei andata è come se avessi sganciato una bomba nucleare e questo lo sapevi bene». 

Rebecca mi raggiunge e si piazza di fronte a me. 

«Ho dovuto raccogliere i cocci di James, perché nonostante dicesse di non amarti tutti noi sapevamo benissimo che era legato a te. Non ci vuole certo un genio per capire quanto fosse geloso del bacio o non-bacio, chiamalo come vuoi, con Nik. Come cavolo poteva pensare di competere con un professore intelligente, laureato e destinato al successo? Per riconquistarti non gli sarebbe bastato il suo cognome o i suoi soldi. No. Il piano per incastrarti era una messa in scena, una trovata per giustificare la sua vicinanza a te. Non lo avrebbe mai ammesso, non era esplicito, ma a tutti faceva comodo. Aiutare te era come aiutare noi stessi. Ci siamo impegnati nello studio con la scusa di incastrarti. Ci siamo comportati bene con gli altri studenti con la scusa di incastrarti. Siamo stati il meglio che potevamo mai essere con la scusa di incastrarti. Nei mesi in cui ti abbiamo aiutata a studiare, durante tutto quel periodo, James ti era vicino, ti voleva tutta per sé. Credo che James in fondo fosse geloso pure di Kate e della vostra complicità. Seppur contorto, sbagliato, assurdo e impensabile, quello era il suo modo per averti e per starti vicino. Il nostro modo per averti ed illuderci di essere migliori di quanto fossimo in realtà». 

Rebecca scuote i lunghi capelli biondi con un colpo deciso della testa.

«È stato un mistero la tua scomparsa, abbiamo pensato fossi morta, ti avessero rapita, ti fosse capitato qualcosa di brutto. Jonathan non si dava pace. Elena. Elena. Eri la sua ossessione. Sì, tutti in un modo o nell'altro erano ossessionati da te... me compresa. Contenta di sentirmelo dire?».

«Ma cosa stai dicendo?», le chiedo confusa.

 

Le parole di Rebecca mi stupiscono, non sono sicura di aver capito.

Cosa significa quello che mi sta dicendo?

 

«Sei sempre stata ciò che io non sono mai stata. Hai conquistato il ragazzo che mi piaceva, hai conquistato tutti. I tuoi modi di fare così sinceri e onesti, forse ingenui a volte, ma sempre fatti con il cuore. Ti ricordi quando mi hai sfidata in mensa? Quando sei arrivata davanti a me mangiando il risotto? Ecco, non hai idea di come ti invidiai, di come avrei voluto avere la tua forza. Eri così carina e determinata, eri ciò che a me mancava. Quando poi James mi ha raccontato di te e Nik... io... tu... tu non potevi fare questo. Io potevo tradire, tu no. Io potevo essere cattiva, tu no. Come potevi fare del male a James, mio fratello in amicizia? Io non sono riuscita a tollerarlo e... sì... ho complottato, ho detto cattiverie, sono stata semplicemente me stessa... ma c'è un piccolo problema: se tu fossi restata a New Heaven, dopo aver sentito le nostre chiacchiere, avresti fatto pace con Kate in meno di una settimana, tuo padre ti avrebbe perdonata come avrebbe fatto anche Nik, avresti frequentato Yale e avresti vissuto la vita a cui aspiravi. Dimmi la verità, perché te ne sei andata? Perché qualche malignità, le cattiverie non possono bastare a farti fare quello che hai fatto».

 

Fisso Rebecca schifata.

Cosa intende dire che me ne sono andata per capriccio o per attirare l'attenzione?

Che la mia fuga da New Heaven fosse programmata?

 

«Credi che l'abbia fatto per qualche motivo in particolare? Illuminami, visto che sembri sapere tutto, istruiscimi», le dico a muso duro.

«Perché te ne sei andata?», insiste Rebecca.

«Non ha senso ciò che dici... io... io..?», le rispondo confusa.

«Perché te ne sei andata?», continua a chiedermi.

«Smettila. Smettila di chiedermelo». Cammino avanti e indietro cercando di trovare spazio nella sala piena di persone e scatoloni.

«Perché?», mi urla Rebecca in pieno volto.

 

Affogo.

Sommersa.

Nelle.

Paure.

 

«Perché non volevo Yale. Non ho mai voluto il Club di Dibattito. Non ho mai voluto Nik.  Non volevo New Heaven. Non volevo la fama. Non ho mai voluto altro che essere amata e voi avete giocato con me quando vi ho dato tutta me stessa, nel bene e nel male. Volevo solo amore. Volevo solo amore e voi mi avete tolto la possibilità di scegliere. O era Yale o niente. O era New Heaven o niente. O era Dibattito o niente. Non potevo essere me stessa perché non rientrava nei vostri piani e tutto ciò che era diverso da voi non doveva esistere. Ho sacrificato me stessa per amore e in cambio non ho ricevuto nulla, solo bugie», urlo le parole straripano dalla mia bocca come fossero ammassi marci della mia anima, come se il male che sento dentro esplodesse violento.

 

Poi il nulla.

Un vuoto ronzio invade il mio cervello.

 

Rebecca mi guarda con tristezza, non l'ho mai vista così commossa, sembra una bambina piccola e indifesa. Giocherella con un bracciale dorato che ha al polso, piange: «Non posso fare altro che chiederti scusa. Io... io non ho capito nulla di te. Scusa».

Stephanie l'abbraccia, lo stesso fa Jo e Adrian. James mi fissa per pochi secondi, ha la faccia stravolta, poi raggiunge gli amici stringendoli più forte che può.

Kate si sta asciugando le lacrime mentre mi viene incontro per abbracciarmi.

 

Le mie gambe vacillano.

Il mio cuore sussulta.

La mia anima è senza forma.

 

Abbraccio Kate affondando la faccia nei suoi capelli.

 

«Non vorrei fare il guastafeste. Lo so che mi taccerete di mancare di sensibilità, ma come ben sapete sono un uomo pratico. Prima di tutto mi scuso con te, Elena, e anche con Kate. Certo siamo stati un po' duri, ma la vita va avanti». Lucas si è messo in mezzo alla sala e sta parlando a tutti. «Questi ricordi sono molto toccanti, ma credevo fossimo venuti qui per un'altro motivo. Che fine ha fatto Nik? Cosa c'entra la sua segretaria Caroline? Non credo che tutto questo centri con il presente». Lucas apre le braccia come se quello che chiedesse fosse la cosa più ovvia del mondo.

 

Kate si stacca da me.

Adrian abbraccia Stephanie.

Rebecca stringe la mano a Jo.

James mi fissa.

 

Aspettano tutti una mia risposta.

Trattengo il fiato.

Non ho il coraggio di dire quel nome.

Non ho il coraggio di raccontare ciò che è successo.

 

«Nik è agli arresti domiciliari e Caroline è scappata», dico senza tanti fronzoli.

«Cosa?», dicono tutti come fossero un grande coro.

«Tutto per colpa mia, per quello che è successo quattordici anni fa», dico io.

«In che modo? Cosa diavolo hanno in comune gli eventi del passato e ciò che sta accadendo adesso?», chiede Lucas.

 

Abbasso lo sguardo.

Mi mordo il labbro.

Stringo i pugni.

 

«Andrew. C'è Andrew dietro a tutto. Mi vuole far pagare il fatto che non abbia fatto gruppo contro di voi. Mi vuole far pagare il fatto di averlo ignorato», dico con un filo di voce.

«Ma cosa ti ha fatto?», chiede Kate preoccupata.

«Cosa ci ha fatto. Siamo tutti coinvolti. Siamo tutti nei guai. Guai seri».

 

Il terrore che per giorni ha attanagliato il mio cuore si espande a macchia d'olio tra tutti i presenti. 

Nessuno è al sicuro.

Nessuno è intoccabile.

Andrew ci ha fregato tutti quanti e nessuno se ne è mai accorto.

 

Nessuno è più al sicuro, tantomeno io.

 

Ho paura.

 

-----------

 

Fatemi sapere come vi sembra il capitolo.

Ciao!

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Capitolo 43
*** OGGI: Usare il cervello ***


OGGI:
Usare il cervello






QUESTI ULTIMI CAPITOLI SARANNO ABBASTANZA LUNGHI.

 

«Quel bastardo. Giuro che se me lo ritrovo tra le mani lo strozzo». Lucas sbraita, pare impazzito. Gli ho raccontato cosa mi ha fatto Andrew e che probabilmente sono coinvolti Salti e Bottari i suoi soci in affari. «Se tu te ne fossi andata saremmo finiti nei guai. Se Kate non ci avesse portati qui sarebbe scoppiato un casino».

«Mi dispiace, ma ero terrorizzata», dico sfinita.

 

James guarda fuori dalla finestra da venti minuti buoni parlottando con Jo. Rebecca e Adrian stanno in silenzio mentre Stephanie è pallida come un cencio. Kate mi tiene per mano con l'aria spaventata.

 

«Ho investito tutti i miei soldi in questo progetto. Ho una famiglia e due figli da crescere, non hai pensato a noi quando Andrew ti ha minacciata?», mi rimprovera a Lucas.

«È sconvolta, non infierire. Adesso cerchiamo di non peggiorare la situazione», gli dice Kate zittendolo.

 

Io sono sfinita è da ore che parliamo e ripetiamo le stesse cose. Non ne posso più. Lucas è spaventato e arrabbiato, il progetto dell'albergo e del locale sono suoi, è stato lui a volere Andrew come socio di minoranza. 

Stephanie non sembra essere su questo pianeta, l'idea che la sua vita venga stravolta l'ha destabilizzata. Gli altri non sono da meno, fanno ipotesi di ogni tipo, immaginano scenari possibili, ma l'unica cosa certa è che non sappiamo nulla e non abbiamo certezze su quello che sta succedendo.

Purtroppo nessuno di noi può leggere nella mente di Andrew.

 

«Credo siano chiare due cose. Non dobbiamo far capire a Andrew che sappiamo cosa ha detto ad Elena e non possiamo restare con le mani in mano», dice James con piglio deciso.

«Cosa intendi con non possiamo restare con le mani in mano?», mi intrometto bruscamente.

«Intende dire che non possiamo permettere a Andrew di rovinarci la vita. Abbiamo un vantaggio, lui non sa che noi sappiamo. Ogni ora, ogni minuto è importante. Dobbiamo affidare le nostre ricerche a persone di fiducia. Estrema fiducia», dice Jo.

«Direi che siamo a cavallo. Caroline ha detto che probabilmente c'è una spia, un doppiogiochista nel vostro ufficio. Chi mi dice che non sia uno di voi? Magari sta già complottando con Andrew per rovinarmi la vita e...».

 

James mi interrompe.

 

«Non essere ridicola. Nessuno farebbe mai una cosa del genere. Nessuno di noi è una spia», mi dice come fossi una bimba piccola.

«Certo. Come no. Visti i vostri precedenti non devo far altro che affidare a voi la vita mia e di mio figlio... hmm... vediamo un po'», picchietto il dito sul mento fingendo di pensare, «Direi che... no. Non mi fido di voi».

«Ecco, ti impunti quando non dovresti farlo. Ti abbiamo chiesto scusa per come ci siamo comportati da ragazzi. Basta. Il passato adesso non conta, conta il presente, conta quello che ha fatto Andrew», dice James scocciato.

«È qui che ti sbagli. Il passato conta, eccome. E se non ti dispiace vorrei tenere un po' di rabbia nei vostri confronti perché forse non basta chiedere: scusa, mi dispiace. O cose simili. È con i gesti che si dimostrano molte cose», fisso James cercando di contenere il desiderio di prenderlo a schiaffi, mi solleticano le mie mani.

«E noi cosa stiamo facendo? Potevamo andarcene e lasciarti finire il tuo ridicolo trasloco, dirti addio e concentrarci sui nostri affari. Siamo qui perché vogliamo stare qui. Siamo qui perché non possiamo salvarci se non aiutiamo anche te. Siamo tutti collegati, volenti o nolenti». James ha le braccia conserte, è imperscrutabile.

«Certo, il solito egoista», bisbiglio a bassa voce mentre mi giro verso Kate.

«Cosa? Cosa hai detto?», mi chiede irritato a James.

 

Apro le braccia come fossi innocente, spalanco gli occhi e lo guardo con finto stupore.

 

Jo trattiene James.

Credo che se potesse sarebbe lui a prendermi a schiaffi adesso.

 

«Caro sotuttoio, ti sfugge un particolare. Io non conosco nessuno, non ho un cognome importante e ho un bimbo da proteggere. Cosa faccio? Porto Sebastian in giro per la città a fare chissà cosa? Pedinamenti, domande e ricerche?», dico a tutti con una certa irruenza.

«Ha ragione. I piccoli non devono essere coinvolti. Io porterò Victoria e Lucas Junior dai nonni a New Heaven, in questo modo saranno protetti», dice Stephanie decisa.

«E tu andrai con loro da mia madre», le ordina Lucas.

Stephanie osserva il marito per qualche secondo. C'è fierezza nel suo sguardo: «No. Starò qui con te e con tutti loro, ho un debito con Elena e non ho intenzione di lasciare nessuno. Sarò artefice del mio futuro, nel bene e nel male. Il matrimonio è anche questo, condivisione di cose belle e brutte».

 

Lucas prova a ribattere, ma Rebecca parla per prima.

 

«Un cervello in più ci farà sicuramente comodo. Stephanie è dei nostri e per quanto riguarda Sebastian puoi provare a chiede a tuo padre. No?», mi dice Rebecca.

«Devono accudire la piccola Maggie, tra i corsi extra per la dislessia e il lavoro alla casa editrice, non hanno molto tempo. Dove manderebbero Seb? Non è iscritto a nessuna scuola a New Heaven. Dove lo terrebbero?».

«Una soluzione c'è...». James rimane sul vago.

 

Lo guardo incuriosita, anche perché non mi fido molto delle sue uscite.

 

«C'è sempre mia nonna. Geltrude. Lei adora il piccolo e poi ha una squadra di domestici che l'aiuterebbero, per lei non sarebbe un problema», mi dice come fosse la cosa più logica del mondo.

«È vero, sarebbe al sicuro e coccolato», dice Kate con entusiasmo.

 

Grugnisco.

Non mi va che Sebastian stia lontano da me per troppo tempo, sono legatissima a lui.

Del resto quella che James mi ha proposto è un'opzione non male e poco traumatica per mio figlio.

 

«Accetto. A patto che Geltrude segua le mie regole sull'educazione di Sebastian. Niente giochi extra. Niente schifezze e dolciumi. Niente televisione prima di andare a letto», dico inflessibile e convinta.

 

Tutti scoppiano a ridere. Sanno benissimo che Geltrude farà di testa sua, come al solito.

 

«Ok, ho capito non c'è possibilità che Geltrude faccia quello che io dica, ma forse sarebbe meglio avvisarla. Potrebbe avere impegni e...».

 

James mi interrompe.

 

«L'ho avvisata cinque minuti fa. Domani mattina passa a prendere Sebastian. È contenta, non ha nessun problema», mi dice sicuro.

 

Io lo strozzo.

Possibile che sia diventato così odioso nel giro di poche ore?

 

«Grazie per aver chiesto il mio parere solo dopo aver deciso al posto mio. Scusa, ma credo di possedere un cervello pure io», ribatto acida.

«Elena, non iniziare a mettere il bastone tra le ruote. Non siamo più ragazzini, quello che eravamo e abbiamo provato deve essere archiviato. Io sono cresciuto e ho preso una decisione logica e pratica. L'ho fatto per non perdere tempo». James mi volta le spalle mentre parla con Rebecca e Jonathan.«Dobbiamo raccogliere tutte le informazioni possibili e capire a cosa mira Andrew».

«Se vuoi guardo la chiavetta USB che Caroline ha lasciato nella busta, quella di cui ci ha parlato Elena. Credo siano registrazioni o discussioni», risponde Jo scattando rapido verso di me con la mano allungata.

 

Gli do la chiavetta sperando che le informazioni di Caroline possano darci un po' di chiarezza e indirizzarci sulla strada giusta mentre mi trattengo dal litigare con James per la sua prepotenza.

 

«Io potrei contattare quel vecchio amico di mio padre, lavorava come investigatore potrebbe fare al caso nostro. Se Caroline ha detto giusto e nell'ufficio legale c'è una talpa non possiamo usare l'agenzia che usiamo di solito, potrebbero essere corrotti», dice Rebecca con in mano il telefono già pronta a chiamare.

«Va bene. Procedete pure», dice James ai due.

 

Jo armeggia con il suo portatile, mentre Rebecca prova a contattare l'amico di suo padre. James prende un foglio e inizia prendere appunti come un forsennato. Lucas e Adrian discutono tra di loro, hanno diversi impegni di lavoro e non possono saltarli perché Andrew capirebbe immediatamente che ho spifferato tutto. Stephanie parla al telefono con la suocera organizzando lo spostamento dei suoi piccoli a New Heaven.

 

Kate se ne sta in disparte intimorita, come me non sa come rendersi utile. Tutti paiono convinti e sicuri, mentre io mi sento persa.

«Dici che ne usciremo sani e salvi?», mi chiede Kate tra i denti.

«Non ne ho la più pallida idea», le rispondo io allo stesso modo.

«Ma non è meglio avvisare Nik?».

«No. Cosa credi che farebbe una volta letta la lettera di Caroline?», le dico io.

Kate vi riflette un po': «Credi che lui la ami?».

Alzo le spalle. Non ho risposta alla sua domanda.

 

Poi.

 

«Merda. Merda. Merda», dice Jo sbattendo il pugno sul tavolo.

«Che succede?», gli chiede a James precipitandosi al suo fianco.

«I file sono protetti, serve la password. Tu la conosci?», mi chiede Jonatan.

«N-no. Non credevo servisse». Prendo la lettera in mano e rileggo il testo. Caroline non fa cenno a nessuna password nella sua lettera.

«Credi che Nik la sappia? Caroline non gli avrebbe mai lasciato la chiavetta USB se non sapesse come leggerli», dice Rebecca.

 

Con gli occhi che corrono da una parte all'altra del foglio cerco un indizio, qualcosa che mi possa suggerire la password, ma non trovo nulla. Kate si mette vicino a me provando a leggere il testo per capire qualcosa, ma anche lei non trova nulla.

 

«Allora?», insiste Lucas.

«Niente. Non c'è nulla di strano, qui», dico sconsolata.

«Andiamo da Nik, lui la conosce di sicuro. Del resto la lettera di Caroline era indirizzata a lui», dice Lucas come fosse improvvisamente ispirato da un'idea geniale.

«No!», urliamo in coro io e James. Ci fissiamo per un istante, pensiamo entrambi la stessa cosa.

«Impazzirebbe. Non riuscirebbe a stare fermo. È agli arresti domiciliari e non può uscire da casa, non può rischiare di uscire. Se venisse preso a spasso rischierebbe di andare in prigione e nessuna cauzione al mondo lo potrebbe togliere di lì. Meglio informarlo quando... quando...», non so come continuare la frase.

«... quando avremo trovato Caroline potremo avvisare Nik», dice asciutto James.

«Cosa? Cercare Caroline? Ma se è sparita? Lei non c'entra nulla con noi», Lucas pare furibondo.

«Ti sbagli, lei è la chiave di tutto», risponde James all'amico dandogli una pacca sulla schiena.

«Ma...», prova a ribattere a Lucas.

«Niente ma. Ognuno sa cosa fare. Abbiamo meno di dodici ore per ritrovare Caroline, scoprire la password e ideare un piano su come incastrare Andrew», dice James a tutti quanti. «Domani mattina, dopo che mia nonna avrà preso Sebastian e dopo che Victoria e Lucas Junior saranno al sicuro, ci incontreremo per fare il punto della situazione. Chiaro a tutti?».

«Sì», rispondono in coro tutti, me compresa.

 

Anche se non ho idea di dove sbattere la testa non posso far altro che seguire tutti loro e sperare che la caduta non sia troppo disastrosa, perché una cosa è certa qualcuno uscirà con tutte le ossa rotte: noi o Andrew?

Non lo so e non saprei rispondere.

 

L'unica cosa sola che so è che devo proteggere mio figlio.

 

Mi ritrovo a riempire la sua cameretta con qualche gioco, mettere nuove lenzuola e pensare come far passare al mio piccolo una buona serata.

James, Rebecca, Jo, stephanie, Kate, Lucas e Adrian sono andati via da mezz'ora circa. Ho poco tempo per rendere la casa abitabile e per preparare le valige che serviranno al mio piccolo domani quando Geltrude passerà a prenderlo.

 

Il solo pensiero mi strazia.

 

Durante tutto il tragitto da casa mia alla scuola materna del mio piccolo non posso far altro che ripensare a tutto quello che è successo oggi. Sono sfinita.

Mi sento così combattuta che i sentimenti che provo paiono ingarbugliati tra di loro. Da una parte i macigni nella mia anima  paiono spariti, il passato svelato è quasi un ricordo annebbiato, dall'altra parte nuovi mostri paiono riempire quelle voragini. 

 

Il terrore che possa accadere qualcosa a mio figlio o a mio padre e la sua famiglia. 

La paura che Kate possa pagarne le conseguenze, nonostante non centri nulla. 

Il dubbio che i figli di Stephanie e Lucas perdano il loro futuro.

 

Non vorrei mai che degli innocenti pagassero per colpe non loro.

Non me lo perdonerei mai.

 

«Mamma, tutto bene? Perché non mangi?», mi chiede Sebastian con i suoi grandi occhi grigi sbarrati. «Lo sai che papà mi vuole portare in campeggio appena arriverà la primavera? L'altro giorno mi ha portato in giro per la città e abbiamo trovato un posto che vende cosi per il campeggio».

«Scusa amore, è che ho la testa un po' occupata. Come ti ho detto poco fa domani mattina devi andare da Geltrude e devo organizzare un po' di cose. Sono felice per te e papà, sarete degli ottimi campeggiatori», dico asciutta mentre aspiro il brodo dal cucchiaio.

«Lo sai che papà ha detto che non lascerà più Boston per stare vicino a me? Lo sai che sta ideando un piatto e gli metterà il mio nome? L'altro giorno mi ha detto che...».

«Basta! Mangia la minestra e poi parlerai. Capito?», dico brusca.

 

Sebastian è impietrito.

 

Sono ufficialmente una pessima madre.

Ho così paura di ferirlo, con tutta questa storia, che sto buttando su di lui tutte le mie frustrazioni.

 

«Scusa amore. Mamma è una sciocca». Mi alzo e lo abbraccio, lo stringo forte, con la speranza che possa capire che l'amore che ho per lui è la cosa più importante che io possegga.

«Non fa niente, mamma. A volte anche io ho la luna storta», mi dice pigolando come un pulcino al riparo tra le ali di mamma chioccia.

 

Lo adoro.

Non potrei vivere senza di lui.

 

La serata prosegue fortunatamente come al solito, routine consolidata, a parte gli scatoloni che bloccano il passaggio e qualche imprevisto. Ritrovare gli asciugamani è un'impresa come il pupazzo preferito da Sebastian è un'impresa. 

 

Lavare i denti.

Leggere un paio di storie.

Coccole.

Una dolce ninna nanna.

Qualche carezza e Sebastian è nel mondo dei sogni.

Io lo seguo a ruota, mi butto sul letto crollando addormentata in meno di un secondo.

 

Neanche un sogno.

Vuoto assoluto.

È come se la notte non fosse passata.

Non ho riposato, mi sento tutta rotta.

La sveglia trilla.

È mattina.

La sveglia trilla sul comodino e fingo di non sentirla, non ho voglia di alzarmi, sto troppo comoda.

 

Poi.

 

Il ricordo che deve passare Geltrude mi fa scattare in piedi.

Con un pugno spengo la sveglia.

In meno di cinque minuti sono operativa.

Latte e bollitore sul fornello.

Biscotti, marmellata e pane sul tavolo.

Mi butto sotto la doccia mentre Sebastian inizia piano piano a svegliarsi.

Con addosso l'accappatoio e l'asciugamano intorno alla testa inizio a bere il mio tè incandescente mentre Sebastian striscia i piedi fino alla cucina.

 

Sembro una trottola impazzita per tutta la casa.

 

Pulisco.

Sistemo.

Preparo.

Ordino.

Faccio tutto in tempo record.

 

Appena suona il campanello di casa Sebastian ed io siamo puliti, vestiti, ordinati e pronti. Appena in tempo.

 

Michael raggiunge la porta d'ingresso con un sorriso smagliante mentre prende i borsoni con le cose di Sebastian. Il mio piccolo gli corre incontro felice del fatto che viaggerà sull'auto con lui, non vede l'ora di salirci.

Geltrude è appena dietro l'uomo e mi osserva da capo a piedi.

 

«Il maglione è messo al contrario», dice con una certa acidità la vecchia.

 

Mi osservo nel grande specchio della sala. Ha ragione.

Lo sistemo mentre maledico me stessa per essere così imbranata e distratta.

 

«Mi auguro tu abbia messo tutto nelle valige del piccolo», aggiunge la vecchia mentre osserva gli scatoloni sparsi nella sala.

«Sì. Se dovesse mancare qualcosa farò in modo che Sebastian abbia ciò che gli serve. Non mi costa nulla venire a New Heav...».

 

La Signora McArthur mi zittisce con un gesto della mano mentre continua a guardare il resto della casa.

 

«La ringrazio per la disponibilità, degli impegni improvv...».

 

La vecchia mi zittisce ancora.

 

«Spero che Sebastian non sia di distur...».

 

Geltrude insiste a farmi tacere, credo muova quella manina su e giù solo per irritarmi.

 

«Non voglio sapere nulla di quello che sta succedendo, non mi interessa. Sono affari tuoi. La tua vita ti appartiene. Non ti ho chiesto nulla quattordici anni fa e non te lo chiederò neanche adesso. Sappi solo che come donna devi imparare a camminare da sola, non sempre ci sarà un paracadute, non sempre sarai salvata. Impara a vivere la tua vita a prescindere dagli amori che ti circondano, sii te stessa sempre a discapito di tutto. Non vivere per accontentare gli altri, mai. Io l'ho capito tardi, l'ho capito quando Demetra se ne è andata. Pur di rendermi felice aveva ripreso a cantare. Non fare il suo stesso errore, non fare scelte per gli altri. Scegli per te, scegli solo quello che ti fa star bene», mi dice la donna con decisione mentre accarezza uno scatolone. «Non permettere a nessun farabutto di farti del male. Usa il cervello. Lotta. Lotta per ciò che vuoi».

«Lo farò», le dico mentre osservo la Signora McArthur uscire dal mio appartamento e attraversare il pianerottolo. «Farò come Demetra», dico a voce più alta per raggiungere Geltrude «Lei cantava non per accontentare lei o qualcun altro. Lei cantava per se stessa, perché amava ciò che faceva e non si preoccupi, distruggerò ciò che mi fa star male, ha la mia parola». 

 

Geltrude si ferma.

Si gira.

Mi osserva per pochi secondi.

Accenna un sorriso.

«Mi raccomando, fallo nero».

 

La guerra finale ha appena avuto inizio ed io non ho la minima intenzione di perderla.

 

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Capitolo 44
*** OGGI: Scoperte ***


OGGI:
Scoperte




Sebastian è partito da poco più di un'ora con Micheal e Geltrude, mi manca un sacco. Non sono abituata a non averlo tra i piedi, l'idea di non passare con lui parte del pomeriggio e della sera mi intristisce un po'. Le nostre piccole cose, la routine quotidiana, creano un senso di appartenenza che mi fa star bene.

 

Non potevo far altro, la sicurezza del mio piccolo è la cosa più importante.

 

Cammino rapida sul marciapiede, non voglio fare tardi.

L'appuntamento con tutti gli altri è in un parcheggio seminterrato che dista poche centinaia di metri dal palazzo dove c'è l'ufficio legale McArtuhr, Martin e Spencer.

Le regole che mi sono state date sono ben chiare: vestiti semplici e ordinari, niente di vistoso, restare il più anonimi possibile, arrivare da soli all'appuntamento, niente gruppetti. La cosa più importante è verificare di non essere seguiti.

Già, come se fosse facile. 

Durante tutto il tragitto ho avuto la sensazione che un paio di tizi mi pedinassero, prima ti vederli entrare di corsa in uno Starbucks per prendersi un caffè. O quando una signora con cagnolino dentro la borsetta mi ha tamponato malamente in metropolitana lanciandomi occhiate torve, solo dopo ho capito che le stavo pestando un piede senza accorgermene.

 

Dire che sono in paranoia è poco.

 

Raggiungo l'ingresso del parcheggio. Un guardiano dall'aria annoiata guarda la TV da un piccolo schermo in bianco e nero, non mi degna di attenzione. Supero la sbarra che blocca l'uscita passando dal percorso per pedoni. La discesa è abbastanza ripida, ma riesco a percorrerla senza problemi.

In lontananza sento gomme di automobili sgommare acute, portiere che sbattono e voci di uomini e donne pronti ad andare al lavoro come ogni mattina. Un via vai normale, classico per un giorno qualsiasi della settimana.

 

L'ascensore che porta ai piani interrati è di fronte a me.

Devo andare al 2 piano, parcheggio F, numero 27.

 

Senza aspettare faccio ciò che devo fare. Non penso, non voglio avere ansie inutili, voglio arrivare in fondo a questa storia il prima possibile.

 

Secondo piano interrato.

Sono arrivata.

 

Ci impiego un po' a trovare il posteggio giusto, un po' perché non conosco il luogo, un po' perché è difficile orientarsi in un posto senza caratteristiche specifiche: ogni angolo, palo e anfratto è la ripetizione dello stesso modulo, sembra di stare in un grosso labirinto.

 

«Ciao», stephanie mi saluta.

 

Osservo la grossa F mezza scolorita su un pilastro, il numero 27 è dipinto di colore nero.

 

«Ciao. Sei sola?», le chiedo.

 

Dall'ombra compaiono Jo, Rebecca, Adrian, Lucas e Kate. Non sono l'ultima.

Kate mi viene incontro abbracciandomi. La stringo forte.

 

«Sebastian è partito?», mi chiede Stephanie.

«Sì. I vostri figli?», chiedo a lei e a suo marito.

«Passerà mio padre dopo pranzo così i bambini dormiranno in macchina», mi risponde Lucas.

 

Dei passi riecheggiano nel parcheggio poco lontano da noi.

 

Come fossimo dei ratti nelle fogne ci nascondiamo nell'ombra in attesa di capire chi stia arrivando. Stretti e vicini l'uno all'altro mi sento come una bimba che gioca a nascondino con i suoi amichetti, con il fiato trattenuto, il cuore che batte e gli occhi che si muovono a destra e a sinistra in cerca di qualche segnale.

 

«C'è nessuno?», bisbiglia qualcuno. 

È James.

Lo accogliamo in silenzio consapevoli che le smancerie e le formalità sono assolutamente inutili in questo momento.

 

«Ci siamo tutti, bene. Avete avuto il tempo di trovare ciò che ci serviva? Informate tutti delle vostre scoperte e se c'è qualcosa che non va, se avete idee di qualsiasi tipo o suggerimenti», dice James deciso.

«Abbiamo ricontrollato per tutta notte i contratti, Stephanie ed io non abbiamo notato nulla di anomalo, sia le percentuali che le opzioni sono regolari. Abbiamo letto tutte le postille e non c'è niente che non vada, sono presenti le solite clausole che tutelano tutti i soci», dice Lucas.

«Noi possediamo il 44%. Andrew e Adrian il 5% a testa. Lo studio legale ha investito i fondi comuni acquistando il 8%, il 38% è di Bottari e Salti. Tutto regolare, purtroppo. Nik ha fatto un contratto inoppugnabile, non ci sono crepe di nessun tipo», aggiunge Stephanie allungando un resoconto di tre fogli con tutte le informazioni principali del contratto.

 

Lo osservo per qualche secondo. Riesco a leggere poco per via della scarsa illuminazione, riuscendo comunque a capirci poco. Kate ha la faccia confusa come la mia, non siamo ferrate per certe cose.

 

«Io ho una cosa più importante da dirvi e credo che vi farà tremare le gambe», dice Adrian cupo. «Dei miei amici particolari, hanno travato qualcosa in più su Bottari e Salti. Non crederete mai cosa hanno scoperto, è stata dura, quei due sono protetti da gente che conta, gente che ha soldi e potere. Gente come Andrew. Per questo non è uscito nulla dai precedenti riscontri. Se avessi usato i soliti canali non avrei cavato un ragno dal buco, ho dovuto forzare un po' la mano, cosa che normalmente non farei mai, ungere qualche amico e promettere favori, ma ne è valsa la pena».

 

Adrian ha delle cartellette sotto braccio, ne prendiamo una a testa.

 

All'interno ci sono fotografie di Bottari e Salti sorridenti, in posa. Alcune di queste immagini sembrano prese da sopra un palco, in altre indossano baffi finti o trucchi marcati e bizzarri. Una è la pubblicità di una marca di biscotti che vendono in Italia, Bottari sorride abbracciato a una donna che inzuppa il biscotto in una tazza di latte.

 

«Ma... ma..», balbetta Jo.

«Sì, Jonathan, sono due attori e, credo possa definirli, modelli italiani», dice Adrian avvilito. «Due mezze cartucce in cerca di notorietà qui in America, due perdenti incapaci assoldati da Andrew per impersonare due ricchi imprenditori. 

«Cosa?», urla Rebecca.

«Vuoi forse dire che sono solo due prestanome? La loro società è fasulla?», chiede Lucas.

«Fasulla, in quanti non sono imprenditori, ma perfettamente legale», risponde Adrian.

«Come è possibile che nessuno dei vostri investigatori abbia scoperto queste cose?», chiede Kate confusa quanto me.

«Ho dovuto spingere persone poco raccomandabili, ho fatto pressioni politiche per sapere. Non è stato facile, credimi. Andrew ha coperto tutto alla perfezione», spiega Adrian.

 

Osservo per alcuni minuti le immagini appena consegnatami. Non posso credere che quei due siano attori, faccio fatica a concepire una cosa del genere. Perché Andrew ha voluto loro? Perché non altri due uomini?

 

«N-non capisco?», dico con voce più alta interrompendo i discorsi di tutti gli altri.

«Cosa non capisci?», mi chiede Rebecca spazientita. «Ha preso due fantocci, li ha istruiti e gli ha intestato una società multimilionaria per avere le quote dell'hotel di Lucas», mi dice come fosse la cosa più ovvia del mondo.

«Ma perché l'ha fatto? Non bastava comprare le quote restanti? Se aveva i soldi non credo che Lucas o nessun altro si sarebbe opposto. Il 38% di Bottari e Salti più il 5% di Andrew è uguale al 43%, meno della percentuale di Lucas che ha il 44%. Non credo che Adrian o lo studio legale gli venderebbero le quote, quindi perché fare tutte queste manovre? E poi perché prendere due italiani?», chiedo a tutti i presenti.

 

James controlla i dati appena ricevuti e il fascicolo, lo stesso fa Jo. Rebecca sembra in cerca di una risposta da darmi, mentre Lucas schiuma dalla rabbia. 

 

«Qualcosa non torna, è chiaro. Andrew è entrato naturalmente nel contratto senza imporre nulla e proponendo molte idee. Non so cosa dirti Elena, mi sfugge il senso logico», mi dice Adrian.

«Quello che dobbiamo fare adesso è...».

 

Un cellulare squilla.

Un trillo rimbomba tra le pareti del parcheggio sotterraneo.

 

«Scusate, è il mio», dice Rebecca rispondendo alla chiamata.

 

La osserviamo tutti in silenzio, non sappiamo se si tratta di una telefonata di lavoro o meno. 

Kate mi si piazza di fianco, ha l'aria stanca. 

Non ho avuto neanche il tempo di sapere come sta andando l'organizzazione del matrimonio e della mostra. La sua vita è stata stravolta come quella di tutti, ma in particolare la sua ha subito un brutto colpo. Lei non è colpevole, lei è una innocente incastrata in una guerra non sua.

Ho dei sensi di colpa enormi se ripenso a Jane, ai sogni di Kate e alla loro futura vita insieme compromessa da scelte fatte da me in gioventù. Mi sento uno schifo.

 

«L'ha trovata!», esulta Rebecca. «Caroline si trova poco lontano da qui, in un paio d'ore la raggiungiamo. L'amico di mio padre, l'ex investigatore, è riuscito a trovarla. Ha detto che non è stato difficile», dice felice.

«Finalmente una bella notizia», dice Stephanie.

«Adesso dobbiamo solo andarla a prendere», aggiunge Adrian.

«Non possiamo andare tutti, desteremmo troppa attenzione», dice James. «Andrò io con Jo. Abbiamo dei contratti da far firmare a dei clienti fuori Boston, useremo questa scusa. Tutti voi potete tornare a casa e vivere la giornata come fareste di solito».

«Perfetto», risponde Jo.

«Aspettate un attimo. Io ho trovato la lettera e io sono più coinvolta di voi due in questa storia. Credo sia saggio che venga anch'io», dico con risolutezza.

«Forse non è il caso», dice James.

«Dove andate voi vengo anch'io». Non ho intenzione di farmi mettere i piedi in testa da nessuno.

 

James sbuffa.

Jo ridacchia.

 

«Vi terremo informati tramite messaggi. Non fate nulla, non dite nulla e fingete che le cose vadano come al solito. Non sappiamo cosa succederà nel nostro futuro prossimo, siamo tutti in bilico e potenzialmente invischiati in guai seri. Incrociate le dita per noi è

e sperate che Caroline collabori attivamente», dice James mentre abbraccia i suoi amici.

Kate ha gli occhi colmi di lacrime: «Mi raccomando Elena, non fare scemenze».

«Stai tranquilla», gli dico mentre le scompiglio i capelli.

«Andiamo, non abbiamo tempo da perdere», dice James a me e Jo.

 

Tutti e tre ci allontaniamo con discrezione dal resto del gruppo cercando di sembrare i più naturali possibili. Con la testa bassa e le mani in tasca seguo i miei compagni di viaggio non sapendo bene cosa mi potrà accadere e soprattutto insicura sulla riuscita della nostra missione, cioè convincere Caroline a collaborare e darci la password.

 

«Fermi, un attimo». Rebecca corre verso di noi come una pazza, ha l'aria sconvolta, sembra quasi abbia gli occhi lucidi.

 

James, Jo ed io ci fermiamo ad osservarla.

 

«Non potete andarvene prima... prima... prima che io...», Rebecca trema.

Si avvicina a noi.

Con un gesto rapido prende il volto di Jo tra le mani.

Lo avvicina al suo.

Si baciano.

Si baciano con passione, impeto, desiderio.

Si baciano come raramente ho visto due persone baciarsi.

 

Sembrano fondersi l'uno con l'altra.

 

«Ti... ti amo. Capito stupido idiota? Alla fine sono riuscita a dirtelo. Sei contento? Hai vinto tu. Ti ho sempre amato», dice Rebecca tra un singhiozzo e l'altro.

Jonathan ha un'espressione felice e sorpresa allo stesso tempo. Abbraccia Rebecca affondando il volto tra i suoi lunghi capelli biondi e restando unito a lei per un tempo infinito, forse qualche secondo, non saprei definirlo, un tempo perfetto e unico.

 

Io sono a bocca spalancata.

Lo stesso fa James.

 

«Tu sapevi di loro due?», chiedo con un filo di voce a James restando immobile nella mia posizione.

«No. Non ne avevo idea», mi risponde stranito.

 

«Nessuno l'ha mai saputo. Non volevo, io... io... ecco...», Rebecca pere timida e insicura.

«Abbiamo avuto un passato burrascoso noi due. Come cane e gatto. Era meglio non buttare benzina sul fuoco», risponde Jo accarezzando Rebecca con dolcezza.

«Adesso andate. Ho fatto quello che avrei dovuto fare da tempo», dice Rebecca allontanandosi un passo alla volta senza smettere di guardare Jo.

 

James prende l'amico per il braccio poi spinge me da dietro la schiena: «Adesso dobbiamo andare, basta distrazioni, non abbiamo molto tempo».

Senza opporre resistenza lo seguo, lo stesso fa Jo.

A passi decisi attraversiamo parte del parcheggio fino ad arrivare a una macchina scura parcheggiata. È la macchina di James.

 

«Elena, tu stai sdraiata sui sedili passeggeri finché non usciamo dalla città. Non vorrei mai che qualcuno ti veda con noi», mi dice James mentre mi apre lo sportello posteriore.

Jo si siede davanti allacciandosi la cintura.

In meno di trenta secondi James accende il motore e parte sgommando leggermente.

 

In silenzio ascolto i rumori della città.

Fisso il tettuccio della macchina color beige chiaro.

Passano minuti e non fiato.

Passano minuti e nessuno parla.

Dondolo.

Ondeggio.

A volte rischio di scivolare, ma tendendo le braccia verso i sedili anteriori riesco a reggermi.

 

C'è molta tensione.

Vedo i miei compagni di viaggio osservare continuamente la gente per strada o le macchine che viaggiano dietro di noi.

Io sto zitta.

Obbedisco a quello che mi dicono.

Non voglio creare ulteriori stress.

 

«Siamo diretti a Spy Pond, un lago a poca distanza dalla città. Stiamo per imboccare la strada provinciale adesso puoi alzarti Elena», mi dice James.

 

Scatto subito seduta, non ne posso più di stare in quella posizione, avrei corso il rischio di addormentarmi se fosse durato ancora un po'.

 

«Quanto manca?», chiedo.

«Poco più di un'ora. Se non c'è traffico facciamo in un lampo», mi risponde James.

 

Jo gioca nervoso con un bottone della sua giacca, guarda il paesaggio fuori dal finestrino. Sembra distratto. Mi ricorda me ogni volta che avevo un pensiero che mi frullava in testa, un pensiero d'amore. 

 

«Lo conservo ancora il braccialetto che mi hai regalato anni fa. Chissà quanti ciondoli dovrei attaccare per sapere cosa ti è successo in questi quattordici anni», dico a Jo.

«Non molti. Fidati, non ho avuto una vita avventurosa come la tua», mi dice.

«Visto quello che è successo poco prima, credo tu abbia avuto una vita molto avventurosa. Rebecca non è una donna che ama annoiarsi», gli dico con un po' di ironia.

«Ti sbagli. Le serate migliori sono state quelle in cui eravamo solo io e lei sul divano a guardarci un film o mangiare una fetta di pizza a cena. È molto diversa da come credi, è solo molto spaventata da quello che prova», mi dice Jo con una dolcezza disarmante.

«Credo sia esattamente come credo: fantastica, insopportabile e unica. Tre caratteristiche che ti hanno fatto innamorare di lei», dico io.

Jo sghignazza: «Se ti sentisse ti mangerebbe la faccia. La adoro quando diventa una iena».

 

Mi appoggio al sedile con un sorrisetto stampato in faccia in attesa di arrivare a destinazione.

Ripenso a tutte le volte che quei due si sono punzecchiati, derisi, offesi. Ripenso a quei momenti e solo adesso mi rendo conto di quanto si piacessero fin dall'inizio.

 

Rebecca aveva baciato Jo.

Rebecca aveva baciato Jo e poi aveva dichiarato alla preside che lui si stava approfittando di lei.

Rebecca non l'aveva fatto per il Club di Dibattito. No. L'aveva fatto perché da una come lei non ci si poteva aspettare altro che si fidanzasse con un ragazzo ricco.

Rebecca desiderava Jo.

Rebecca desiderava Jo anche quando sono arrivata a New Heaven.

Io ho distrutto i suoi sogni romantici.

Io ho guastato il suo desiderio.

Io gli ho portato via il ragazzo che amava.

Jo.

Rebecca non ha mai voluto James per davvero, lo faceva solo perché doveva farlo, per salvare le apparenze. Per conservare il suo status di regina del Trinity.

Jo era feccia e una come lei non poteva permettersi di amarlo.

 

Non ho mai capito nulla.

Non ho mai compreso Rebecca.

 

«Siamo arrivati», dice James svoltando in una piccola strada sterrata che porta a un grazioso bed & breakfast senza molte pretese. «Caroline ha preso una stanza qui».

 

Scendiamo dalla macchina stiracchiandoci leggermente. Il vento fresco e pungente che viene dal lago mi fa rabbrividire. Piccoli cespugli circondano un vialetto che porta a una scala con diversi ingressi, ognuno per ciascuna camera. Non è un posto di lusso, ma è molto grazioso e ben curato.

 

«Dobbiamo andare lì». James ci indica una stanza al piano terreno, la numero 3.

«Che cosa le diciamo?», chiede Jo mentre cammina rapido sulla ghiaia.

«Le diciamo che deve aiutarci e...».

 

Interrompo James.

 

«... e così ci chiude la porta in faccia. Ci vuole dolcezza e calma», dico io.

«Due doti che ti appartengono», mi dice con sarcasmo James.

Lo guardo malissimo.

«Adesso basta punzecchiarvi voi due. Siamo arrivati», bisbiglia Jo.

 

Il numero 3 è composto da alcuni rametti secchi intrecciati tra loro.

 

James bussa.

 

Nessuno risponde.

 

James bussa di nuovo.

 

Dei rumori provengono dall'interno.

 

La porta si apre uno spiraglio.

Parte del viso di Caroline ci spia.

 

«Andatevene», ci dice rabbiosa.

«No», dico io.

«Perché siete venuti? Io non voglio vedere nessuno». Caroline non si muove, la porta resta socchiusa.

«Nik ha bisogno di te. Vuole vederti», dico io.

«Nik ha tutto quello che gli serve per... per... per risolvere la sua situazione. Io non posso far nulla».

 

Non so cosa dirle.

Non so cosa fare per convincerla ad aiutarci.

 

Poi.

 

«Andrew mi ha imbrogliata proprio come ha fatto con te. Mi ha illusa che modificando me stessa avrei avuto forza e più potere. Mi ha manipolata. Mi ha cambiata così tanto che i miei amici a stento mi riconoscevano», le dico con calma.

«Mi sono resa ridicola. Io non ero quella... quella... sono stata così stupida», mi dice con la voce singhiozzante.

«Siamo caduti tutti nella trappola di Andrew, me compreso», dice James. «Ho perso amicizie importanti per colpa sua, mi sono lasciato abbindolare per anni. Adesso basta, è ora che paghi per il male che ha fatto, non solo a te, ma a tutti noi».

«Abbiamo bisogno di te», le dice Jo con delicatezza.

 

Allungo la mano verso la porta.

Invito Caroline ad uscire.

La donna tentenna.

Aspetta.

Ci osserva.

Poi spalanca la porta e tremante si getta tra le mie braccia.

 

«Stai tranquilla, Andrew la pagherà cara. Te lo prometto», le dico prima di aiutarla a preparare le valige e seguirci a Boston.

Un passo in più è stato fatto.

La fine di Andrew è vicina.

 

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Capitolo 45
*** OGGI: La spia ***


OGGI:
La spia




Raramente mi è capitato di avere emozioni così contrastanti dentro di me.

Da un lato sono felice di aver trovato Caroline, e in cuor mio credo che anche lei non aspettasse altro che di essere rintracciata, dall'altro sono preoccupata di come reagirà Nik quando ci rivedrà.

 

Si arrabbierà con me?

Litigherà con Caroline?

 

Non lo so.

 

L'automobile di James corre veloce sulla strada provinciale. Jo è seduto nel posto davanti mentre Caroline è di fianco a me sui sedili posteriori e non smette di torturarsi il maglione.

 

«Vedrai che non si arrabbierà? Sono io che non gli ho consegnato la tua lettera, tuttalpiù mi farà una ramanzina apocalittica, ma alla fine gli passerà», le dico cercando di tranquillizzarla.

«Non è quello. Guardami. Sono patetica. Per settimane ho fatto la donna fatale, sono stata sgarbata con tutti e ho trascurato il mio lavoro. Mi infastidisce il solo pensiero di come mi sono comportata. Con che coraggio mi presento al lavoro e davanti a Nik?», mi dice mentre allarga sempre di più un buco tra i fili della maglia di lana.

«Le famose dieci regole di Andrew, vero? Sono capaci di farti confondere», le dico con un sorrisetto.

«A dire il vero sono undici», mi dice con una certa sorpresa.

«Ah, deve essersi aggiornato. E quale sarebbe questa fantastica ultima regola?».

«Mai dubitare di Andrew. Mai tradirlo. Mai fargli del male», mi dice con un certo imbarazzo. «Credevo mi amasse, o almeno ho voluto crederlo. Ogni volta che Andrew passava in ufficio mi trattava con gentilezza, sembrava capirmi. Un fiore. Un dolcetto. Una parola carina. Poi sei arrivata tu e... e...». Caroline si blocca.

«E sono stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Hai ceduto a Andrew per colpa mia. Tu ami Nik da sempre, ma lui non ti ha mai considerata come una possibile compagna. Hai pensato che fosse una questione di aspetto fisico, per questo hai seguito le stupide regole di Andrew».

«Già», dice Caroline. «Nik ed io siamo sempre andati d'accordo. Lui mi ha sempre spronata a dare il meglio, desiderava che diventassi un avvocato, mi ha spinta a riprendere gli studi, ma io non l'ho mai fatto. Non avrei la tempra e l'energia per farlo, non sono adatta. Adoro il mio lavoro, ma soprattutto adoro Nik. Mi dispiace fartelo sapere così... insomma... voi due siete...», dice Caroline imbarazzata.

«Io e Nik ci vogliamo bene, molto bene, ma non siamo fatti per stare insieme. Ci abbiamo provato, ma non funziona. Ci siamo illusi per un po', ma alla fine i nostri caratteri sono più simili di quanto sembri e finiscono per annullarsi a vicenda. Non ti preoccupare, vivi i tuoi sentimenti come ti va, senza sensi di colpa», le dico prendendola per mano.

«Il problema non è quello che io provo, ma se Nik possa mai volermi bene. Siamo amici, ma non so se mi vede diversamente, come una probabile compagna». Il viso di Caroline è rosso pomodoro, è così minuta che sembra una bambolina. È adorabile la sua timidezza.

«Non c'è mai stato nulla tra di voi?», le chiedo.

«Una volta in California, Los Angeles, ma è successo molti anni fa. Eravamo lì per un grosso contratto, o qualcosa di simile, ci siamo fermati diversi giorni. Nik insegnava anche al Trinity allora, era un avvocato molto promettente. George aveva trasferito lo studio a New Heaven», mi dice con calore e trasporto.

«Sì, mi ricordo quel periodo. Io facevo la tirocinante nello studio insieme a Jonathan e Stephanie. 

 

Con lo sguardo sbircio James. Era da poco morta Demetra, lo stesso periodo in cui mi accusò di averlo tradito mentendogli, lo stesso periodo in cui mi lasciò spezzandomi il cuore.

 

«Nik aveva degli impegni con dei clienti o qualcosa del genere. Io dovevo stare in albergo a controllare che le cause che seguiva a Boston andassero come lui volesse. Era molto stressato, doveva stare dietro a molte cose. Una sera tornò in albergo, pareva sfinito. Mi ha detto che era riuscito a fare quello per cui era venuto in California. Sembrava triste, anzi no, melanconico. Come se qualcosa lo turbasse, non saprei descriverlo. Mi ricordo che mi ha chiesto se mi fossi mai innamorata, gli risposi che non sapevo, ed era la verità, prima di allora non avevo mai provato un forte affetto per nessuno. Mi disse che avere qualcuno da amare e proteggere era il suo sogno più grande, voleva essere diverso da suo padre, voleva essere migliore. Credo sia stato quello il momento in cui capii di amarlo. Ci baciammo. Mi disse che gli ricordavo una persona, un'amica, a cui era molto affezionato, ma che non lo avrebbe mai amato come avrebbe voluto...». Caroline non finisce la frase è commossa.

«E poi?», chiedo curiosa.

«E poi, nulla. Fu allora che decidemmo il nascondiglio del secondo cassetto. Fu allora che facemmo il patto di stare uno vicino all'altra e aiutarci. Mi disse che di me si fidava e voleva facessi lo stesso con lui. Niente più baci, niente di niente».

 

Caroline beve un sorso d'acqua, la faccia non ha cambiato colore è come se dovesse rimanerle perennemente rossa. La donna sgarbata, maleducata e arrogante conosciuta nello studio legale è ormai sparita. Il battesimo di Andrew l'ha trasformata e resa più volitiva e determinata.

Mi rivedo molto in lei.

 

«Chissà cosa l'ha fermato dal continuare a baciarti. Probabilmente in California gli è successo qualcosa che l'ha turbato. Non capisco il suo comportamento», dico soprappensiero.

«Credo fosse un impegno particolare,  di quelli che George McArthur affidava solo a lui. In effetti, mi ricordo che...».

 

James interrompe Caroline.

 

«Signore, siamo arrivate. Mi raccomando mantenete il controllo», ci dice mentre parcheggia la macchina con cura in un posteggio vicino all'alloggio di Nik.

Jo scende rapido dalla macchina, lo stesso fa James. Caroline ed io li seguiamo per lo spiazzo fino all'ingresso del palazzo.

 

«Sei pronta?», chiedo a Caroline.

«E tu?», mi risponde con un mezzo sorriso.

 

Ho ansia.

Paura.

Mi sento più tesa di una corda di violino.

 

Come mi accoglierà Nik?

 

Jo suona il campanello.

Dopo pochi secondi il portone si apre.

Ascensore.

Ultimo piano, attico.

 

Ogni secondo che passa il cuore batte sempre più forte.

L'idea di deluderlo mi fa star male, ma siamo arrivati a un punto che non si può più tornare indietro. Abbiamo bisogno di Nik per fare in modo che Andrew venga sconfitto, abbiamo bisogno l'uno dell'altro. Solo uniti potremo sopravvivere.

 

James bussa alla porta.

Prendo per mano Caroline.

A testa bassa aspetto che Nik ci apra.

 

Uno.

Due.

Tre.

Quattro secondi.

 

La chiave gira nella toppa.

 

Prendo un grande respiro e...

 

...e Rebecca è davanti a noi con la mano sui fianchi. Ha la faccia furba, tipica di quando commette qualche malefatta.

 

«Ma che ci fai tu qui?», le chiedo acida.

«Inutile perdere tempo con spiegazioni che tutti conosciamo. Abbiamo spiegato a Nik cosa sta succedendo, in questo modo abbiamo recuperato un paio d'ore. Due ore di vantaggio non sono niente male», ci dice Rebecca mentre controlla lo smalto sulle unghie con finta indifferenza.

«Hai fatto bene», le dice James.

Jo schiaccia l'occhio a Rebecca per poi cingere la vita della donna.

 

Caroline ed io restiamo come due sacchi di patate abbandonati fuori dall'appartamento.

Non sappiamo bene cosa fare.

Ci eravamo aspettate entrambe lunghe chiacchierate, spiegazioni e rivelazioni, litigate e sceneggiate. Ci eravamo aspettate lacrime e drammi, ma niente di ciò è successo.

Nell'appartamento tutto sembra tranquillo, troppo tranquillo.

 

«Coraggio, entrate. Abbiamo comprato dei panini per tutti, a stomaco pieno si ragiona meglio», ci dice Kate mentre addenta un grande sandwich.

 

Caroline ed io facciamo qualche passo, solo un paio di metri, prima di sentire la porta chiudersi alle nostre spalle. 

Nik è seduto sul divano con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le mani che reggono la testa. Pare una statua da tanto è immobile.

 

«N-Nik», balbetta Caroline.

 

Nik alza di scatto la testa come se un allarme fosse improvvisamente scattato nel suo cervello. Con un movimento rapido si mette in piedi correndo ad abbracciare la sua amica, la sua segretaria, la persona di cui più si fida al mondo.

Nik stringe Caroline che pare sparire tra le braccia di Nik.

Entrambi piangono o forse ridono, non so, la cosa certa è che il sentimento che provano quei due è sincero e autentico.

 

«Sei una sciocca, una matta. Perché sei sparita?», le dice Nik tra un singhiozzo e l'altro.

«H-ho avuto paura», dice Caroline con il viso bagnato di lacrime.

 

Kate mi prende per mano avvicinandomi un grosso muffin al cioccolato. Mi guarda con dolcezza, con comprensione, come solo una buona amica sa fare. «Lasciali un attimo da soli, hanno parecchie cose da dirsi».

«Hai ragione». Prendo il dolce e mi allontano da Nik e Caroline. Mi siedo sul tavolo della sala dove sono sparpagliati appunti, note, fascicoli e promemoria.

Ogni cosa detta tra di noi, ogni più piccola e insignificante notizia è trascritta. Centinaia di informazioni e ipotesi che potrebbero aiutarci a capire qualcosa in più di tutta questa storia. 

 

«Abbiamo raccontato a Nik tutto quanto per evitare lungaggini. All'inizio non ha reagito bene, voleva uscire a cercare te e Caroline. Per fortuna Lucas e Adrian l'hanno fermato, avevo paura potesse succedere il finimondo», dice Kate.

Stephanie mi versa del tè caldo in una grande tazza: «Nik ha iniziato a fare quello che gli riesce meglio. Abbiamo raccolto tutte le informazioni, tutto quello che ci siamo detti, per cercare di capire come Andrew potrebbe sfruttare tutto questo. Non è chiaro a cosa miri e non è chiaro cosa voglia».

«Avete capito qualcosa in più di quanto non sappiamo?», chiedo ad entrambe.

«No», risponde Stephanie mentre Kate scuote la testa.

«Il segreto è guardare tutto da una certa distanza. Non dobbiamo concentrarci sui particolari, non dobbiamo focalizzarci su ogni singolo elemento, ma vedere cosa unisce tutto quanto». Rebecca si è seduta vicino a me con in mano un sandwich mezzo mangiucchiato.

«Fosse facile», dice James dalla parte opposta del tavolo, «È come se ci mancasse qualche elemento, come se ci sfuggisse il perché di tutto questo».

«Andrew è un farabutto», dice Adrian.

«Non solo. Conosciamo bene Andrew, lui ha sempre fatto quel che ha fatto anche per puro piacere, senza però trascurare mai un guadagno personale», dice Lucas.

«La cosa chiara è che vuole l'hotel e che qualcuno lo ha aiutato dall'interno», dice Jo.

«Ma come può prenderlo? Nessuna clausola del contratto gli permette di farlo, le percentuali che possiede sono briciole», dice Kate.

«No, se sommiamo le sue a quelle di Bottari e Salti otteniamo un bel numero. 38% più 5%  ottieni già il 43%. Sono meno di quelle di Lucas, ma hanno un peso specifico diverso in un contratto, in questo modo ha sicuramente potere maggiore di quanto ci saremmo mai aspettati all'inizio». Nik è arrivato al tavolo, ha la faccia seria. 

 

Si siede vicino a me prendendomi la mano e baciandola.

La tiene stretta.

Ci osserviamo per pochi secondi, quel tanto che basta per capirci, scusarci in silenzio e iniziare questa lotta insieme.

Nik è al mio fianco e io lo aiuterò in tutto per tutto.

 

«Quindi quale sarà la nostra prossima mossa?», chiede Rebecca spazientita mentre scombussola i fogli e i fascicoli sul tavolo. «Mi sembra di impazzire, possibile che non esista una soluzione a tutto questo?».

Lucas batte i pugni sul tavolo in preda a una crisi isterica, Stephanie prova a calmarlo. Kate è sbiancata, pare confusa più che mai mentre Adrian cammina nervoso avanti e indietro. James se ne sta a fissare alcuni fogli sul tavolo, Jo beve un grosso sorso di caffè prima di perdersi in pensieri e congetture. Nik è imperscrutabile, ha lo sguardo più cattivo che abbia mai visto in lui, i suoi stupendi occhi azzurri paiono baionette, fulmini, armi pronte ad offendere.

 

Caroline prende un portatile e mette in viva voce le registrazioni effettuate e salvate sulla chiavetta USB. Rebecca, Lucas, Adrian, Kate, Stephanie e Nik le hanno sentite quando James, Jo ed io eravamo andati a recuperare Caroline.

Le registrazioni sono confuse, sembrano state captate per caso, c'è parecchio brusio di sottofondo mentre Andrew telefona.

 

«Si tratta più di conversazioni private e senza la minima possibilità di essere usate come prova in tribunale, possono voler dire tutto o niente», dice Rebecca.

«Nessuna giuria le accetterà mai come prove, i video sono sgranati e la qualità è pessima», aggiunge Adrian.

 

Andrew parla al telefono, si sente il rumore di acqua che scorre. 

Dice che tutto sta andando secondo i piani e che presto 

tutti avranno ciò che si meritano. 

Ride in modo diabolico. 

Parla di punti forza, di fregare qualcuno in quel modo.

 

«Ho delle telecamere sul patio esterno della mia casa. Mi sono entrati i ladri in casa una volta e da allora le ho installate. Osservo ogni sera cosa registro, di solito non c'è nulla, ma quando ho visto Andrew non ho potuto fare a meno di ascoltare ciò che dicesse. Ci frequentavamo da poco... ecco... Quel giorno stava piovendo, ma si sente abbastanza chiaramente», ci spiega Caroline.

 

Andrew sembra arrabbiato. C'è del rumore di sottofondo, sembra traffico. 

Pare furioso con Bottari e Salti che non fanno quel che devono fare. 

Esige pazienza, esige controllo sul contratto di Lucas. 

Si infuria con chi lo ascolta, dice che se vuole ottenere il premio deve collaborare.

 

«Non so con chi stia parlando, ma è da qui che ho capito che Andrew aveva una talpa in ufficio. Il tono che usa, le cose di cui parla sono chiare», dice Caroline. «mi sento così stupida. Non ho voluto vedere l'ovvio, ho preferito fingere. Chiedo scusa a tutti».

«Non è colpa tua, non potevi immaginare una cosa del genere», le dice Jonathan.

«Cos'è quella cosa che tiene Andrew?», chiede Rebecca piazzandosi di fronte allo schermo e indicando una cosa nera incastrata sotto il braccio dell'uomo.

«Quello è il suo portatile, non lo molla mai. Mai. È la cosa più preziosa che possieda. Non lo connette alla rete per paura di essere hackerato», dice Caroline. «Una volta volevo controllare un sito sul suo portatile, semplicemente perché era a portata di mano, e si è infuriato. Non mi ha permesso di toccarlo».

«Strano, molto strano. Se solo riuscissimo ad averlo tra le mani potremmo...», dice a bassa voce Nik.

«È impossibile prenderlo, te lo assicuro. Lo protegge più della sua vita», gli risponde Caroline.

«Adesso non fissiamoci sui particolari, cerchiamo di capire la cosa più importante: cosa vuole Andrew?», dice Jo ad alta voce attirando l'attenzione di tutti. «La risposta è qui, ne sono sicuro», dice mentre smuove i fascicoli sul tavolo.

 

Tutti osservano ipnotici il movimenti di Jo.

Fogli mescolati.

Fascicoli aperti.

Dati.

Numeri.

Contratti.

 

Nessuno riesce a capire il piano di Andrew, nessuno riesce a capire perché mai abbia fatto tutto questo a me, perché abbia fatto del male a Caroline e cosa centri l'hotel di Lucas.

 

Mordo il mio muffin al cioccolato sentendo con piacere il boccone scivolarmi in gola. Bevo un sorso di tè cercando di svuotare la mente, ma l'unica cosa che riesco a fare è ripensare ad ogni particolare, attimo e secondo di tutta questa storia. 

I vari incontri. 

Gli scambi.

Le discussioni.

Il lavoro all'ufficio legale.

Le registrazioni.

La festa di pensionamento di George.

Le parole di Andrew.

La paura.

 

E poi tutto ad un tratto il cibo mi si ferma in gola.

La tazza di tè mi scivola dalle mani roteando in aria per poi schiantarsi a terra.

Tutti mi osservano.

 

Arranco.

 

È come se un filo rosso collegasse tutto quanto, come se un'idea spalancasse le porte del mio cervello ricostruendo ogni singolo frammento, come fosse un grande puzzle che si ricompone da solo.

 

«Voglio che tu sappia tutto quello che ti ho fatto. 

Voglio che tu sappia che ogni cosa nella tua vita ti è successa 

perché io ho voluto che fosse così. 

Voglio che tu sappia che il tuo amato figlio è reale grazie a me. 

Voglio che tu sappia che i tuoi ultimi quattordici anni sono stati un trastullo per me per portarmi dove io volevo che tu mi portassi».

 

Andrew non ha mai lasciato nulla al caso.

 

«Bottari e Salti sono italiani. Perché ha scelto attori italiani?»

 

Andrew controllava tutto.

 

Percentuali. 

Contratto. 

Il passato non conta.

Mai fare del male a Andrew.

Mai tradire Andrew.

 

Stralci di registrazioni:

Lucas elenca i materiali di lusso che verranno usati per la costruzione.

Rumore di fogli.

L'avvocato Spencer propone di acquistare parte delle quote da parte dello studio in buona fede.

George McArthur approva.

Nik propone contratto.

 

Vendetta.

Vendetta.

 

Andrew ha pianificato tutto.

 

«Adesso vattene, Elena. Fingi che tutto vada come è sempre andato»

 

Ho capito.

Ho capito, tutto.

 

«Che succede?», mi chiede Kate preoccupata per la fissità del mio sguardo.

«A-Andrew sa, sa tutto.», dico con un filo di voce.

«Cosa? Cosa stai dicendo?», mi chiede Nik.

 

Con gli occhi chiusi, il fiato corto, parlo:«Andrew ha voluto che noi adesso fossimo qui, lui sapeva che non avrei retto. Mi ha detto di non dire niente di quello che mi ha rivelato al ristorante perché voleva che facessi esattamente l'opposto. Voleva che vi dicessi tutto, voleva che voi sapeste. Ha usato Bottari e Salti, li ha fatti parlare in Italiano perché sapeva che Nik si sarebbe incuriosito e avrebbe chiesto il mio aiuto, ha fatto pagare a quei due la percentuale del contratto in contanti perché sapeva che Nik avrebbe visto del marcio. Ha puntato sulla mia incapacità di tenere segreti e sulla onestà di Nik. Ha giocato sui nostri punti forti, sulle cose che ci motivano di più: sincerità e integrità. Andrew possederà l'hotel perché sfrutterà ciò che più vi motiva».

 

Tutti mi guardano con la bocca aperta.

 

«Ma nessuno lo farebbe mai. Adrian non cederebbe per nulla al mondo le sue quote e inoltre ci sono le quote dell'ufficio legale, sono l'8%, solo se Andrew possedesse quelle potrebbe arrivare il 51% dell'hotel e quindi avere le quote di maggioranza», dice Lucas.

 

«Quanto credi ci impieghi. Nik è agli arresti domiciliari, basta che informi la stampa per fargli perdere il suo ruolo di socio», dico io.

«Anche se Nik non fosse più socio rimarrebbe sempre James, è un McArthur ha ereditato lo studio del padre. Inoltre c'è Spencer, l'altro socio, il migliore amico di Nik. Andrew non potrà mai mettere le mani su quella percentuale», dice Rebecca.

«E se Andrew ricattasse James? Se riuscisse a farlo allontanare dallo studio?», dico a tutti.

«Non riuscirebbe a convincerlo. Figuriamoci», dice Lucas.

«Nemmeno se usasse il senso di colpa che James ha verso di me? Andrew sa che James conosce il motivo del mio allontanamento da New Heaven. Ha calcolato tutto. Ha fatto in modo che quello che ci è successo quattordici anni fa esplodesse, ha fatto in modo che tutti voi sentiste il bisogno di fare qualcosa per redimervi, per chiedermi scusa. Questa è la situazione perfetta. Andrew è a conoscenza della mia innata capacità di creare drammi e conosce anche la dedizione che James ha come salvatore. Se Andrew chiedesse a James di rinunciare allo studio legale altrimenti perseguiterà me e Sebastian, secondo voi cosa farebbe James?». Le parole mi escono piano dalla bocca, con calma, come se quello fosse il centro di tutto il piano di Andrew.

 

Tutti sbiancano, conoscono la risposta.

James mi fissa serio.

 

«Andrew ha voluto colpire me. Affondare il nostro studio legale. Andrew ha creduto che punendo e manipolando la vita di Elena avrebbe avuto potere su di me. Del resto anche quando voleva incastrare Rebecca al Masques puntava direttamente a me...», dice James.

«... il più importante rampollo di Boston. Anche allora voleva te, ha sempre voluto distruggere te», dice Nik illuminato.

«Quindi Andrew ha usato Elena e ha manipolato la sua vita per l'hotel di Lucas?», chiede Kate confusa.

«No. L'hotel è un piacevole imprevisto, il guadagno in tutta questa storia. Puro piacere. Andrew ha voluto colpire James, vuole affondarlo e umiliarlo», le spiega Jo.

«Ma... ma... ma resta sempre l'avvocato Spencer il terzo socio. Lui... lui... non venderebbe mai le quote che appartengono allo studio legale», dice Stephanie.

 

Tutti ci zittiamo.

La osserviamo.

Nessuno ha il coraggio di rispondere nulla.

La risposta è ovvia.

Charlie Spencer, il migliore amico di Nik, uno dei soci di maggioranza è la spia, il traditore. Ha venduto la carrriera e le vite dei suoi colleghi per prestigio e potere.

Charlie Spencer è la spia.

Non ci sono dubbi.

 

Nik si alza in piedi: «Non sono disposto a cedere loro nulla. Anzi, mi riprenderò tutto e con gli interessi», dice furioso.

«Conta su di me», dice James con voce ferma.

«Conta su di noi», dicono in coro Lucas, Stephanie e Adrian.

Caroline prende la mano di Nik.

Tutti sono stretti in un grande abbraccio come una squadra pronta ad attaccare.

 

Io e Kate ci guardiamo per pochi secondi.

«Ho un piano», bisbiglio pianissimo alla mia amica, «Ho bisogno del tuo aiuto».

Kate mi sorride con aria furba: «Non vedevo l'ora di mettermi in azione», mi sussurra.

 

Poi, senza aggiungere altro, ci uniamo al gruppo pronte a lottare con ben chiaro un modo per incastrare Andrew.

Un modo che nessuno deve sapere. 

Un modo che mi permetterà di distruggere Andrew per sempre.

 

 

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Capitolo 46
*** OGGI: Domare l'oscurità ***


OGGI:
Domare l'oscurità





... PREPARATEVI PSICOLOGICAMENTE, 

È UN CAPITOLO MOLTO LUNGO...

(4700 parole circa)

 

 

La nebbia circonda il mio palazzo, nessuno cammina per strada, è notte fonda.

 

La solitudine provata questa settimana mi ha fatto capire molte cose, ogni volta lo dico, ma credo finalmente di essere riuscita a comprendere molte cose. 

Ogni parola scambiata, ogni accusa, scusa e paura vissuta sono tasselli importanti della mia vita. Non sarei quella che sono senza aver perso mia madre: non avrei mai vissuto a New Heaven, non avrei mai frequentato il Trinity, non avrei mai conosciuto Demetra, James e tutti gli altri, non avrei mai frequentato il Club di Dibattito, non avrei mai avuto Sebastian.

Cosa sarei se mia madre fosse viva? Non so. Ho smesso di chiedermelo perché ciò che possiedo è più prezioso di ciò che avrei potuto avere. 

 

Le illusioni sono fantasmi.

Le aspettative sono demoni.

Devo domare l'oscurità che annebbia i miei sensi.

 

Il nero che entra da fuori si fonde con il buio della stanza.

 

Non riesco a dormire, ma non sono stanca.

Giocherello distrattamente con una busta. È quella che mi ha dato Demetra poco prima che mancasse. Ho finto che questa busta non esistesse per quattordici anni, l'ho sepolta sotto le lettere che ho scritto a mia madre, ho cercato di dimenticare che quella busta fosse reale. 

E invece è ancora qui.

James ed io avremmo dovuto aprirla nel momento in cui avremmo capito di amarci, nell'istante in cui fossimo stati sinceri con i nostri sentimenti. Quel tempo è passato, il momento giusto era quattordici anni fa.

Sfioro il sigillo in ceralacca, lo stemma McArthur è perfettamente centrato.

Non merito questa busta, non mi appartiene.

Ho voluto tenerla per rimanere attaccata a un ricordo a un amore, ma adesso è tempo che io la consegni al legittimo proprietario: James. Non ho più voglia di rincorrere i fantasmi delle emozioni vissute, non voglio più essere legata al passato, voglio vivere il presente e il presente è mio figlio. Il mio presente è distruggere Andrew.

 

Ripongo la lettera di Demetra nella scatola di legno insieme alle altre lettere.

Quando tutta questa storia sarà finita James avrà la una lettera, così lui ed io potremo iniziare a vivere la nostra vita, liberi da sensi di colpa e bugie, liberi l'uno dall'altro.

Liberi di costruirci una vita lontani da ciò che siamo stati.

Potrò ricostruire una nuova vita con mio figlio.

 

C'è buio ed io non vedo l'ora che il sole sorga e mi faccia vivere questa giornata.

 

Non vedo Nik e tutti gli altri da molti giorni, hanno architettato un piano, sono convinti di poter incastrare Andrew. 

Ho un compito. Tutti abbiamo un compito.

Ho un ruolo. Tutti abbiamo un ruolo.

Devo seguire alla lettera dei comandi e compiere determinate azioni, lo stesso vale per tutti gli altri. C'è uno schema da seguire. Nik vuole che io faccia determinate cose, ma non so se le farò, non perché non mi fidi di tutti loro, anzi, ma perché è necessario fare un passo in più. È necessario avere immaginazione e in questo momento Nik pecca di lucidità e raziocinio. 

 

La molla per fermare definitivamente Andrew è dribblare e confonderlo, farsi beffe di lui come lui si è fatto beffe di noi. Kate è dalla mia parte.

 

Provo a chiudere gli occhi distesa sul letto.

Il nero che mi circonda non mi pare più così nero.

Dormo.

 

Sveglia.

Doccia.

Colazione.

Vestirmi.

Uscire.

 

Mai stata così tranquilla in vita mia.

 

Raggiungo il luogo dell'appuntamento, un centro commerciale nella zona irlandese di Boston. Ci sono volute un po' di fermate e due cambi di linea, ma alla fine ci sono arrivata.

La strada nebbiosa nasconde la grossa costruzione in cemento lasciando intravedere l'insegna al neon che lampeggia rapida. Diverse macchine sono parcheggiate, probabilmente sono quelle dei dipendenti addetti all'apertura dei negozi.

 

«Ciao», mi dice Lucas, sta tenendo per mano Stephanie, sembrano entrambi molto pallidi. Vicino a loro c'è Adrian che con il suo elegantissimo cappotto blu e cappello abbinato sembra uscito da un film noir.

«Ciao, ci siamo tutti?», chiedo.

«Mancano Kate, Nik e Caroline», dice James che sbuca da dietro un pilastro della luce.

«Certo che potevamo scegliere un posto migliore». Rebecca si guarda schifata intorno.

«Se Elena ha ragione, Andrew non avrebbe mai messo piede nello studio legale. Non vogliono essere registrati o intercettati. Meglio un luogo pubblico, in mezzo alle persone normali», le dice Jo.

«Sarà come dite voi, ma la puzza di questo posto è nauseabonda». Rebecca indica un chiosco di pesce fritto che serve colazioni poco distante da noi.

«Sta arrivando qualcuno...», dice a bassa voce Stephanie.

 

Passi riecheggiano nella nebbia.

Tre sagome si avvicinano, sono Nik, Caroline e Kate.

 

Prendo per mano la mia amica, sappiamo bene che quello che faremo tra poco potrà sembrare folle, ma è l'unico modo per poter bloccare Andrew.

Non abbiamo scelta.

 

«Siamo tutti pronti?», ci chiede Nik, «Rischio grosso ad uscire di casa, potrei finire in prigione se mi beccassero. Abbiamo poco tempo per poter bloccare Andrew, nessuno può sbagliare. Chiaro?».

Annuiamo tutti quanti.

 

L'atmosfera è strana, è come se facessimo parte di una squadra, mi sembra di essere tornata a una delle lezioni che teneva Nik al Trinity molti anni fa prima di una discussione tra gli studenti.

 

«L'appuntamento è tra mezz'ora al negozio di elettrodomestici che si trova al primo piano. Reparto televisioni e schermi», ci ricorda Nik.

«Sei sicuro che verranno? Il posto è un po' inusuale», gli chiede Adrian.

«È perfetto, non daremo nell'occhio e tutti noi saremo costretti a mantenere un certo contegno. Se devo affondare lo farò con stile, non ho intenzione di dargliela vinta. Questa è la resa dei conti, Andrew non se la perderebbe per nulla al mondo».

 

Tutti e dieci ci muoviamo attraverso il parcheggio fendendo la nebbia. 

 

I primi clienti si avventurano nel centro commerciale attratti da offerte, sconti e promozioni. C'è chi prende il carrello pronto a fare la spesa, c'è chi si perderà tra i negozi senza una meta.

Noi dieci sappiamo benissimo dove andare e cosa fare.

 

Scale mobili.

Camminare.

Fermarci.

Il negozio HobbyElectic è davanti a noi.

 

«Entriamo due o tre alla volta, gironzoliamo e all'ora pattuita fatevi trovare nel reparto apposito», dice Nik.

 

I primi che entrano sono Lucas, Stephanie e Jo.

Arrivano di fronte all'ingresso, stanno per entrare quando una mascotte gigante vestita da orso spunta all'improvviso davanti a loro. I tre si fermano atterriti, il pupazzone danza davanti a loro spingendoli a bere una bibita offerta dal negozio.

Un commesso con occhiali e apparecchio canticchia uno slogan mentre versa loro una bevanda al gusto d'arancia. 

I tre accettano il bicchiere con riluttanza, intascano qualche volantino promozionale, mentre bevono il contenuto del bicchiere per poi entrare rapidi nel negozio di elettrodomestici.

 

«Perfetto. Ci mancava quell'orso fastidioso», dice Rebecca. 

«Dobbiamo per forza fermarci a bere quella cosa?», chiede Kate osservando l'enorme testone della mascotte che ondeggia a destra e sinistra.

«Dobbiamo fingere di essere clienti. Fate come volete, ma non date troppo nell'occhio. Se necessario bevete», dice James.

 

Nik, James e Caroline sono i prossimi.

 

L'orso barcolla davanti a loro per poi finire con il sedere per terra. Si rialza, balla, tampona un paio di clienti che fortunatamente non si fanno male. Caroline, così minuta, si stringe a Nik, mentre James prende un bicchiere dal commesso con l'apparecchio e occhiali.

 

«O mio Dio. Quel ragazzino sputacchia quando parla. Credo che preferirei raparmi a zero piuttosto che bere quella cosa piena di sputacchi», dice Rebecca con aria schifata.

«Non fare la melodrammatica. Facciamo entrare quel gruppo di ragazzi poi tocca a noi due», gli dice Adrian prendendo l'amica a braccetto.

 

Se potesse Rebecca scapperebbe.

 

Rebecca si sta facendo trascinare da Adrian, spera di schivare l'ingombrante mascotte nascondendosi dietro ad altri clienti appena entrati, ma non riesce nel suo intento. L'orso la blocca, le balla davanti in modo sgraziato mentre il commesso sorridente le allunga un bicchiere di succo.

Rebecca impallidisce.

Prende il bicchiere.

Beve.

Adrian la trascina via prima che svenga sul posto.

 

«Ora tocca a noi. Entriamo e gironzoliamo poi... poi...», mi dice Kate.

«... poi faremo l'unica cosa che potrà fermare Andrew», le rispondo.

«E se gli altri si arrabbiassero? Non credo abbiano contemplato quello che stiamo per fare». Kate è preoccupata, ma allo stesso tempo decisa.

«Non c'è altra scelta».

 

Mano nella mano ci dirigiamo verso l'ingresso.

 

Un paio di ragazze davanti a noi abbracciano la grande mascotte fermandosi a farsi fare una foto con il pupazzo. Il ragazzo con l'apparecchio parla come una macchinetta, è talmente veloce che capisco a malapena ciò che dice: «Oggi abbiamo in serbo una sorpresa per tutti i nostri clienti. Una bevanda fresca e salutare per tutti voi. Entrate nel nostro negozio, gustate il succo e fatevi una foto con l'orso Johnny!». Dopo ci allunga dei volantini.

 

Kate ed io cerchiamo di intrufolarci, ma veniamo bloccate da una zampa gigante dell'orso peluche.

 

«Bevete e abbracciate Johnny!», ci intima il ragazzo con due bicchieri di succo in mano.

Kate prende il bicchiere fingendo di bere mentre io avvolgo le braccia intorno alla pancia pelosa dell'orso. 

 

Non mi sono mai sentita più in imbarazzo come in questo momento.

 

Liberata dalla asfissiante presa della mascotte ritrovo la mia amica che in un sorso beve il succo d'arancia. «È disgustoso», mi dice rabbrividendo leggermente.

Ridacchio per poi prenderla a braccetto e gironzolare verso il reparto delle lavatrici.

 

Nessuna delle due osserva veramente ciò che ci circonda. Camminiamo tra elettrodomestici splendenti, ultimi modelli tecnologici, ma l'unica cosa a cui penso è l'appuntamento che avrò tra qualche minuto con Andrew.

Le mani mi sudano, sento i vestiti starmi scomodi addosso. È come se fossi infastidita da tutto ciò che mi circonda e da tutto ciò che mi sfiora. Mi sento elettrica.

 

«Passiamo da quella parte, andiamo dove ci sono le macchine fotografiche. Già che siamo qui darò un'occhiata agli accessori, magari trovo qualche occasione», mi dice Kate indicandomi la parte opposta del negozio.

«Mancano poco più di dieci minuti all'appuntamento, non vorrei fare tardi», le rispondo.

«Non ti preoccupare, faremo in tempo».

 

Ripercorriamo la strada appena percorsa, superiamo il reparto lavatrici e ci avviciniamo all'ingresso. Il testone peloso della mascotte svetta sopra le casse poco lontano, ondeggia a destra e sinistra.

 

Poi.

 

Delle voci maschili urlano.

Frenesia.

Il commesso con l'apparecchio è piegato per terra ad asciugare il succo rovesciato.

La mascotte se ne sta ferma in un angolo e con le zampe pelose alzate, pare chiedere scusa.

Un altro commesso dal bancone con i capelli corvini corre a vedere che succede.

C'è un via vai di fazzoletti di carta.

Un vecchietto armato di straccio pulisce tutto.

Sacchetti.

Mani sgocciolanti.

 

Andrew e Charlie Spencer sono macchiati di succo. I loro preziosissimi capi hanno delle patacche color arancione sulle loro camice fatte a mano, sulle cravatte di seta e sulle loro borse in pelle. Bottari e Salti sono lì vicino basiti per quanto successo.

 

Quando si dice il Karma.

 

Kate mi trascina verso il basso è accucciata a terra: «Sono già qui? Sono in anticipo».

«Sì, avviso tutti». Prendo il cellulare e scrivo rapida un messaggio. In pochi secondi lo invio a tutti. «Torniamo indietro, andiamo nel reparto televisioni il prima possibile».

 

Senza perdere un attimo corriamo, sempre a testa chinata, tra le decine di elettrodomestici in vendita. Schizziamo tra frullatori, lettori dvd, robot da cucina, cavetti, lavastoviglie e telefoni cellulari. Facciamo lo slalom tra clienti in cerca di un'occasione e commessi che ci guardano straniti.

 

Raggiungiamo il posto giusto in pochi minuti.

Nik e gli altri sono già tutti lì, Kate ed io ci appostiamo vicino a loro cercando di ricomporci.

 

Andrew spunta poco dopo, dietro di lui ci sono l'avvocato Spencer, Bottari e Salti.

 

«Chi ha avuto la brillante idea di venire qui? Quell'odioso pupazzo mi ha versato addosso una cosa appiccicosa dall'odore nauseabondo», urla Andrew completamente macchiato con due copri scarpa blu elettrico ai piedi e il contenuto della sua borsa in una busta di plastica trasparente dove si possono vedere chiavi, fogli, penne, il portatile e delle fotografie. La borsa di pelle è irrimediabilmente macchiata.

Nella stessa situazione c'è l'avvocato Spencer che imbestialito controlla di non aver dimenticato nulla, ha in mano dei fascicoli e controlla qualcosa sul cellulare. «Se questa è una vostra idea per renderci ridicoli sappiate solo che ci avete fatto arrabbiare ancora di più».

Bottari se ne sta con le mani in tasca, pare divertito da tutta quella storia, mentre Salti è più nervoso.

 

Se fosse un'altra situazione sarei già scoppiata a ridere, quei due sono ridicoli conciati in quel modo.

 

Nik fa un passo avanti, è molto serio: «No. Vi assicuro che non centriamo nulla. Non sapevano che ci sarebbe stata quella mascotte. Te lo posso garantire». Nik ha la voce ferma.

«Fate bene a dirmi subito che volete, anche se credo sia chiaro a tutti cosa c'è in ballo», dice Andrew con una smorfia diabolica dipinta sul volto.

«Solo una cosa non mi è chiara. Perché hai voluto fare tutto questo? Perché hai voluto colpire lo studio legale?», chiede James a Andrew.

«Perché ti ho sempre detestato. Tu, con quel bel faccino sei sempre stato il cocco di turno. A New Heaven. A Boston. Non hai mai apprezzato il potere che avevi, lo hai sprecato. Con il tuo cognome potevi avere tutto invece ti sei perso dietro a quella insulsa italiana, talmente sciocca che l'ho manovrata per quattordici anni senza che capisse nulla», dice Andrew con cattiveria.

 

Vorrei prendere un televisore e spaccarglielo in testa.

Mi trattengo solo perché ci sono in ballo molte cose e non voglio rovinare tutto.

 

«Ho fatto solo quel che mi andava di fare e l'ho fatto non per il potere, ma perché ho avuto intorno a me persone che mi hanno voluto bene. I miei amici e la mia famiglia», risponde James a tono.

«A proposito di famiglia, non hai nulla da aggiungere caro Charlie? Il grande duo Martin e Spencer. Io e te. Amici fin dei tempi di Yale. Come hai potuto tradirmi così?», chiede a Nik al suo grande amico.

«Affari. Per me si tratta di affari. Ho avuto la possibilità di avere uno studio legale tutto mio, senza nessuno che mi comandi. Il mio nome era il terzo, sei benissimo cosa significa. Significa che McArthur e Martin sarebbero stati sempre più importanti e influenti di me», dice Charlie trattenendo la voce, pare su tutte le furie.

«Tu vali come me e James, tu eri un pilastro dello studio, non per niente ci chiamiamo McArthur, Martin e Spencer», dice Nik.

«Non dire scemenze! Quel poppante di James vale quanto me? Io ho anni di esperienza, mi sono fatto il culo per arrivare in cima. Lui invece non ha faticato un giorno della sua vita», risponde Charlie.

 

Il cuore batte all'impazzata, vorrei urlare.

 

«Che serviva coinvolgere tutti noi, allora? L'hotel cosa serviva?», chiede Lucas trattenuto dalla moglie per un braccio.

«Perché era divertente. Perché non sopporto nessuno di voi. Perché ci guadagno un sacco di soldi», dice Andrew con una risata diabolica.

«Sei un bastardo», dice Adrian con veemenza.

«Credevo fossimo amici e colleghi. Abbiamo frequentato Yale per anni e tu non ci hai mai riferito perché Elena fosse andata via da New Heaven, non ci hai mai detto che era per colpa tua», dice Rebecca a Andrew avvicinandosi pericolosamente a lui.

«Colpa mia? Stai scherzando, vero? Elena è una piccola e patetica donnetta da quattro soldi, non capisco neanche perché teniate tanto a lei. È divertente giocare a manipolarla, questo lo sai bene Rebecca, ma non capisco l'affetto che vi lega a lei». Andrew mi si avvicina prendendo il mio volto tra le mani, le sue mani puzzano di succo all'arancia rancido. «Anche se, grazie a lei, ho in pugno tutti voi».

 

Stringo i denti, sono pronta a scattare.

Kate mi trattiene bloccando le mie braccia.

 

«Inoltre trovo molto divertente aver giocato con tutti voi. Mi sono cucinato ben bene la timida Caroline, l'ho illusa, l'ho manovrata. È così desiderosa di essere amata che avrebbe fatto di tutto pur di avere una coccola e un abbraccio. Scoparmela è stato piuttosto divertente, ci sa fare la segretaria», dice Andrew.

«Stai zitto, schifoso», dice Caroline con gli occhi pieni di lacrime.

 

Nik e Rebecca prendono per mano la donna che singhiozza.

 

«Vogliamo arrivare al dunque», dice Bottari mentre osserva l'orologio. «Ho un provino per una pubblicità tra un paio di ore, non vorrei fare tardi».

«Facciamo presto, non ti preoccupare», dice Andrew a Bottari facendo cenno a Charlie di consegnare i documenti a tutti noi, «Questo è il nuovo contratto in cui io prenderò le quote dello studio legale, ovviamente me le cederete senza volere niente in cambio. Si chiama, donazione volontaria».

«Cosa ti fa credere che avrai l'hotel di Lucas. Cosa ti fa credere che lo studio legale ti cederà la parte che ti permetterà di avere le quote di maggioranza?», dice Adrian.

«Carissimo, ma è molto semplice. Ho solo due ostacoli da eliminare per ottenere ciò che voglio: Nik e James. Il primo è già fuori gioco: domiciliari violati, basta poco. Un po' di pubblicità negativa e i clienti dello studio legale scapperanno a meno che Nik si dimetta. Credo tu possa dire addio al tuo bel ufficio in centro, caro Nicholas. Con James è ancora più facile, credo che il caro e buon vecchio ricatto possa andare più che bene», dice Andrew camminando avanti e indietro.

«Cosa intendi?», gli chiede James.

«Posseggo un simpatico video in cui è chiaro che Elena apra il gancio della finestra per permettere successivamente a Nik di entrare e trafugare documenti dall'ufficio di Bottari e Salti. Cosa credi che sarei disposto a fare se non mi dessi quelle percentuali?». Andrew ridacchia.

«Non puoi fare una cosa del genere», urla James, «Sei uno schifoso, un lurido bastardo. Sei disposto a rovinare la vita di Elena e di suo figlio per delle percentuali?».

«A dire il vero sei tu che rovinerai la vita ad Elena se non mi crederai quelle quote», ringhia Andrew.

 

La tensione è palpabile, ma nessuno osa manifestarla.

Ci sono diversi clienti in cerca di prodotti, dipendenti che lavorano e ragazzi che gironzolano curiosi. Se qualcuno di noi desse in escandescenza scoppierebbe il finimondo rischiando di coinvolgere persone innocenti.

 

I secondi passano.

Nessuno dice niente.

La rabbia che sento crescermi dentro sta per esplodere, ma mi controllo.

Devo seguire il mio piano.

Non posso sbagliare.

 

«Credo che possiamo dire di essere d'accordo, non abbiamo più niente da dirci. Avete una settimana di tempo per firmare. Nik devi dare le dimissioni e James deve cedere le quote a me. Troverete scritto tutto tra i...».

 

Interrompo Andrew con un urlo.

 

Mezzo negozio mi guarda.

 

«Ti prego, non farlo. Ho bisogno del tuo aiuto. Come farò adesso che non ho un lavoro, la scuola di mio figlio è molto costosa e l'affitto è caro. Non posso permettermi nulla se tu non mi aiuti», mi appoggio contro il petto di Andrew facendolo indietreggiare. 

«Toglimi le mani di dosso, altrimenti io...».

«Io, cosa? Credi di avermi fatto del male, ma ho fatto due calcoli e devo ammettere che mi hai aiutata in questi quattordici anni. Prezzi agevolati e lavoro assicurato sono il sogno di tutti, mi chiedo come abbia potuto considerare tutto ciò un'offesa. Era un gesto d'amore il tuo, l'ho capito solo ora», gli dico aggrappandomi al bavero della sua giacca impregnato di succo d'arancia.

«Ma... ma..», Andrew è confuso.

 

Nik, James, Rebecca, Jo, Caroline, Lucas, Adrian e Stephanie sono impalliditi, mi osservano con la bocca spalancata. Lo stesso fanno Bottari, Salti e l'avvocato Spencer.

 

«Ma che diavolo dici? Sei impazzita? Capisco il tuo bisogno di avere un uomo al tuo fianco, ma non puoi buttarti su quell'essere viscido», mi urla Kate cercando di allontanarmi da Andrew.

«Lasciami stare», dico malamente a Kate, «Io ho bisogno di un uomo che mi mantenga e visto che Andrew ha battuto Nik, cosa altro potrei fare?».

«Elena sei impazzita?», mi dice Kate strattonandomi con forza verso di lei.

«Elena, ma che fai?», mi chiede Nik venendo verso di me.

 

Inizio a contorcermi, non voglio che Nik mi trattenga.

Sembro in preda a convulsioni.

Jo e a James provano a trattenermi, ma non ci riescono.

 

«Andrew, ti desidero. Capito? Io ti desidero. Sarò quello che vuoi: la tua schiava, la tua serva. Aiuta me e mio figlio, non ci abbandonare», lo supplico con tutte le forze.

 

Bottari ride di gusto, mentre il suo socio è arretrato qualche passo. Charlie Spencer cerca di allontanare Andrew dalle mie braccia che con la faccia sconvolta mi guarda inorridito.

 

«Come osi, Elena, tradirmi così?». Kate si mette dietro di me afferrando una mia spalla.

 

Andrew indietreggia.

 

«Lo sai che per me sei importante», dice Kate con voce solenne.

 

Jo e tutti gli altri non sanno cosa fare.

Sembra una pessima recita amatoriale.

Tutto quello che sta succedendo è totalmente senza senso.

 

«Elena, mia dolcissima Elena. Io ti amo», dice Kate stampandomi un bacio sulle labbra con tanto di schiocco.

 

Il silenzio cala su tutti.

Kate ed io rimaniamo a fissarci negli occhi per tutto il tempo che serve.

Tratteniamo il fiato per capire cosa fare.

Nessun altro parla.

C'è molta confusione.

Molti clienti ci stanno circondando e hanno assistito a tutta la sceneggiata, alcuni battono timidamente le mani, altri sono interdetti.

 

«Ma che diavolo sta succed...», chiede l'avvocato Spencer prima di essere interrotto dall'anziano commesso che con lo straccio pulisce le gocce di succo cadute per terra.

Spazzola con tanto vigore che le piastrelle color crema ritornano a brillare.

«Credo che adesso si possa andare. C'è troppa gente per i miei gusti», ringhia Andrew.

 

Bottari, Salti, Charlie e Andrew si uniscono compatti per andare verso l'uscita.

Lo stesso facciamo io e Kate tenendoci salde per mano.

Rebecca, James, Nik, Caroline, Lucas, Stephanie e Adrian trottano dietro di noi.

 

«Che cosa hai in mente, vuoi far esplodere la terza guerra mondiale?», mi bisbiglia Nik a un orecchio.

«Più o meno», gli dico con un sorrisetto.

 

La gente pare disinteressarsi a tutti noi, ognuno ritorna a fare quello che stava facendo prima. La scenata di Kate e me resterà un evento da raccontare o più probabilmente un ricordo che verrà presto dimenticato.

 

Johnny la mascotte balla felice all'uscita, il ragazzo con l'apparecchio e occhiali distribuisce succhi a chiunque entri in negozio. Curiosi si avvicinano a loro, c'è chi scatta foto all'ingombrante bestione, chi pare divertito da tutto quel teatrino.

Andrew e compagnia si apprestano ad andarsene quando...

 

Bip.

Bip.

 

Il metal detector suona.

 

Andrew si blocca di colpo.

 

«Mi scusi signore, devo verificare che non abbia preso nulla dal negozio», dice un commesso dai capelli neri come il carbone.

«Cosa? Ma lei sa chi sono io? Potrei comprare tutto quello che c'è in questo negozio senza problemi», dice Andrew infuriato.

«La prego, svuoti le sue tasche e la borsa», dice impassibile il commesso.

«Prima il vostro orso e quell'idiota mi rovesciano addosso il succo e adesso mi accusate di essere un ladro?». La faccia di Andrew è rossa mentre mostra la busta di plastica con dentro tutte le sue cose e la borsa in pelle macchiata.

«La prego. Sarò costretto a chiamare la polizia se non collabora», dice il commesso senza scomporsi.

L'avvocato Spencer sussurra all'orecchio di Andrew: «Fai come ti dice, meglio non attirare gli sbirri»

 

Andrew grugnisce, prende un profondo respiro e inizia a svuotare le tasche mettendo il portafoglio, le chiavi sul piano. Toglie ogni singolo elemento dalla busta di plastica, stando ben attento a non rovinare i documenti e far cadere il suo portatile. Apre ogni fascicolo mostrando il contenuto. Non c'è nessun prodotto del negozio, niente di niente.

 

«Andrew?», lo chiamo inaspettatamente e a voce alta.

Andrew si gira, ha la faccia annoiata e stanca. Mi guarda con disprezzo, come se osservasse un abominio della natura.

 

Pam.

Sgancio una sberla a cinque dita sulla sua guancia.

La botta risuona nell'aria.

Andrew copre il volto con una mano guardandomi stupito e spaventato allo stesso tempo.

 

«Come ti sei permessa, lurida sgualdrina». Andrew è talmente furioso che le vene gli pulsano sul collo. Bottari lo tiene per le braccia mentre Salti cerca di bloccarlo dal davanti. Charlie riempie velocemente la busta con tutte le cose di Andrew prima di trascinare tutti loro fuori dal negozio.

«Bye, bye, Andrew caro», gli dico facendo cenno con la mano mentre lo guardo allontanarsi sbraitando come un folle.

 

Chiudo gli occhi.

Respiro a fondo.

Una euforia mi parte dalla punta dei piedi fino ad arrivare all'estremità dei miei capelli.

Kate mi corre incontro abbracciandomi.

Insieme saltiamo come fossimo due bimbe al parco divertimenti.

 

«Che cosa è successo? Prima... tu... poi adesso... non capisco». James mi si avvicina.

«Abbiamo incastrato Andrew, non potrà fare del male a nessuno!», dico io con le lacrime agli occhi per la gioia.

«Ma... ma... cosa significa?», chiede Jo.

 

Kate si avvicina al bancone allunga la mano al commesso con i capelli neri come il carbone. L'uomo gli allunga una chiavetta USB.

 

«Chi è quel tizio?», chiede Nik prendendo la chiavetta da Kate.

«Quello è l'agente speciale Mike Taranti. FBI», dice Kate, «Ce l'ha presentato Mauro. È il figlio di sua cugina, ha acconsentito a darci una mano. A quanto pare tenevano d'occhio Andrew da un po', ma non avevano prove per incastrarlo».

«Senza offesa, ma chi è Mauro?», chiede Rebecca.

«Mauro è lui», dico a tutti mentre mi avvicino al commesso anziano con lo straccio per pulire per terra. «Lui è il mio amico Mauro».

 

L'uomo fa un inchino.

 

«Quindi l'inserviente era tuo complice insieme all'agente Taranti?», chiede Lucas.

«Sì, ma ho avuto bisogno di altre due persone. Ecco a voi l'orso Johnny e il giovane commesso che regala i succhi». L'enorme pupazzone e il ragazzo con l'apparecchio si mettono vicino a me. «Più precisamente Miguel, il padre di Sebastian e Luca il nipote di Mauro nonché studente ed esperto informatico... senza contare Kate. Il suo bacio è stato, come dire, un imprevisto».

«Scusa Elena, non sapevo cosa fare per perdere tempo. Mauro non era ancora venuto ad avvisarci che Luca aveva finito di prendere i file dal computer di Andrew. Dovevo inventarmi qualcosa», dice Kate ridendo come una pazza.

«V-vuoi dirmi che in questa chiavetta ci sono tutti i dati sensibili di Andrew? Tutto di tutto?», chiede Nik con gli occhi spalancati.

Il ragazzo con l'apparecchio sorride soddisfatto: «Un gioco da ragazzi. Password ridicole e un sistema protetto malissimo. Quel tale credeva che bastasse tenere il computer vicino a sè per non essere hackerato».

«Abbiamo tutte le informazioni che ci servivano. Il mio ufficio farà il resto, arriverà per caso una segnalazione anonima che per caso io riceverò e che per caso mi farà avere questa chiavetta USB», dice l'agente speciale Taranti.

«Ma come avete fatto a prendere le informazioni? Il portatile l'ha sempre avuto Andrew», chiede Jo.

«Abbiamo versato il succo addosso a Andrew quando stava entrando e mentre lo pulivamo l'agente Taranti ha scambiato il portatile. Andrew era distratto e infuriato, non ha avuto il tempo di accorgersi. Luca ha potuto così accedere e rubare le informazioni mentre voi discutevate con lui. Lo scambio dei computer è avvenuto all'uscita. Finto allarme. Svuotare le tasche. La sberla di Elena è servita a distrarre tutti, dal bancone l'agente Taranti ha ridato il portatile a Andrew», spiega Miguel completamente sudato, con la testa dell'orso Johnny in mano, ma soddisfatto dell'operato: «Quando Elena mi ha detto cosa voleva fare Andrew a lei e a nostro figlio non ci ho visto più. Doveva pagarla cara».

«Quindi... tu... tu... perché non ci hai detto il tuo piano?», mi chiede James, ha l'aria stupita.

«Perché non avrebbe funzionato. Tutto qui», dico a James mentre Rebecca, Jo, Stephanie mi corrono incontro abbracciandomi. 

 

In pochi secondi li ho tutti addosso, posso sentire i loro grazie e i loro singhiozzi di pianto. Ci siamo liberati per sempre di Andrew e questo non può che rendermi immensamente serena. Serena come raramente sia mai stata.

 

Non sono mai stata più felice in vita mia.

 

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Capitolo 47
*** OGGI: Il matrimonio ***


Oggi:
Il matrimonio

 

 

I titoli dei giornali nelle ultime settimane sono più o meno simili: Arrestato rampollo della Boston che conta, Andrew Cossé-Brissac in prigione. Lo scandalo è scoppiato. Andrew è in prigione accusato di ricatto ed estorsione, a quanto pare aveva decine e decine di dossier su personaggi illustri pizzicati nei suoi locali in compagnia di dolci ragazze. A quanto dicono i giornali molti personaggi politici, persone dello spettacolo e sportivi hanno denunciato Andrew e vuotato il sacco. Ogni giorno escono nuove indiscrezioni.

Senza contare i contatti con i peggiori delinquenti di Boston con i quali Andrew lavorava da anni permettendo loro di usare i locali della famiglia Cossè-Brissac come base per riunioni di malavitosi o come magazzino per merci non del tutto legali. 

Per questo Andrew poteva fare tutto, tutti avevano paura di lui prima che uscisse questa storia, adesso non più.

 

Andrew starà un bel po' in carcere, questo è sicuro.

 

Oggi è il 15 marzo, Kate e Jane si sposano.

La giornata non è molto soleggiata, ma i meteo sembrano regalare un filo di speranza alle spose, pare che le nuvole spariranno lasciando spazio a una fresca giornata senza piogge torrenziali.

 

Indosso il mio vestito rosa cucito da Alice, la stilista che mi ha consigliato Rebecca, una giacca con inserti dorati e scarpe molto semplici con un tacco non troppo alto, voglio stare comoda. Sebastian indossa una giacca blu dal taglio sportivo con un paio di jeans e scarpe da ginnastica. Ho provato a modellare i suoi ricci, ma con scarso risultato. Sembra una pecorella arruffata, è adorabile.

 

Miguel è vicino a me.

 

Kate l'ha invitato al matrimonio dopo tutta quella storia del pupazzo Johnny, vanno molto d'accordo quei due. Nelle settimane trascorse, da quando l'ha conosciuto, hanno legato, soprattutto Miguel e Jane, parlano di cucina e cibo tutto il tempo.

 

Sono felice che sia qui con me, che abbia conosciuto mio padre, Maggie e Tess. 

Sono felice perché è diventato un membro importante della mia famiglia allargata.

Sono felice perché Sebastian può stare con suo padre prima che trovi un nuovo lavoro in chissà quale parte del mondo.

 

«Credi che vada bene come sono vestito? Sono tutti così eleganti», mi chiede Miguel sistemandosi la cravatta che pare dargli parecchio fastidio visto che non smette di torturarla.

«Sei perfetto. Qui a New Heaven piace ostentare quel che uno possiede, credo che alcuni non aspettino altro che occasioni del genere per mettersi in mostra», gli dico accennando a due signore con vistosi cappelli piumati che passano vicino a noi. «Inoltre i genitori di Kate sono molto conosciuti e stimati in città, preparati a una sfilata di tutto rispetto».

Miguel mi sorride prima di prendere in braccio Sebastian e farlo volare in aria.

 

Quei due sono degli inguaribili giocherelloni.

 

La sala è decorata con pallidi fiori rosa e bianchi, lunghi nastri in raso ricoprono morbidi parte della struttura in metallo della serra in vetro. La luce leggera entra con delicatezza regalando un'atmosfera sospesa e senza tempo. Il chiacchiericcio leggero degli invitati prende sempre più corpo. Un piccolo leggio è posto in fondo alla sala, l'officiante è già pronto, stiamo aspettando le spose.

Papà e Tess si tengono per mano, osservano la bellezza della sala mentre la piccola Maggie si diverte a correre da una parte all'altra e saltare come un grillo cercando di prendere i nastri svolazzanti.

 

Tutto è perfetto.

Mi sento serena come non mi sentivo da tempo.

Senza le cattiverie di Andrew e l'assillo degli eventi del mio passato mi sento meglio, è come se qualcuno avesse ripulito e svuotato la casa dove albergavano i miei sentimenti, l'avesse ristrutturata e adesso me la consegnasse dandomi la libertà di viverla come più mi pare e piace.

 

Rebecca, Stephanie, Lucas, Nik, Caroline, Jo, James e Adrian.

Non vedo nessuno di loro da giorni, non ho voluto. 

Non perché fossi arrabbiata con loro, ma perché avevo bisogno di ricostruire la mia vita a prescindere dai loro malumori o entusiasmi. 

Voglio essere quella che sono e per scoprirlo non devo per forza essere legata a nessuno, devo solo disintossicarmi dai drammi e imparare ad essere di nuovo me stessa.

 

Libera.

Mi sento libera.

 

«Quella non è Stephanie, la tua amica?», mi sussurra Miguel in un orecchio.

 

Lucas e la moglie entrano nella sala, neanche a dirlo sono elegantissimi. Ci sono i loro piccoli che paiono usciti da una storia delle fate, sono così belli con i loro vestitini in tulle che sembrano pronti a spiccare il volo. 

Dietro di loro fa ingresso Adrian. Tutti lo conoscono a New Heaven, è un politico molto importante in zona, ma soprattutto tutti conoscono la sua famiglia. Con lo sguardo fiero Adrian attraversa la sala andando a stringere le mani a conoscenti e regalando sorrisi a donne estasiate dalla sua presenza.

Rebecca e Jonathan entrano mano nella mano. I pettegolezzi si sprecano tra i presenti, di certo nessuno si sarebbe aspettato una unione del genere, ma questo non può che dar forza a entrambi visto che adorano stare al centro dell'attenzione e discutere con chiunque. Per Jo e Rebecca questo matrimonio è come un parco divertimenti, stenderanno tutti con la loro dialettica.

Nik e James si appostano all'ingresso, non passeggiano per la sala come gli altri, se ne stanno in disparte a chiacchierare di chissà cosa. Paiono molto coinvolti, uniti, soprattutto dopo tutto quello che è successo con Andrew. L'uscita di Charlie Spencer dallo studio, e la relativa radiazione dall'albo degli avvocati, ha creato un po' di scompiglio, ma neanche più di tanto visto che lo studio legale e il progetto dell'albergo di Lucas hanno acquisito notevole visibilità. Gli stessi Bottari e Salti sono stati incriminati e adesso spetta loro un bel processo. Quei due attori da strapazzo volevano la fama? Gli è stata servita su un piatto d'argento.

 

«Non vai a salutarli?», mi chiede a Miguel.

«No. Adesso non è il momento, la cerimonia sta per iniziare», gli dico mentre abbraccio Sebastian.

 

Il pianoforte suona.

L'attenzione di tutti gli invitati è rivolta verso l'ingresso.

Una sensazione di sospensione e attesa ricopre i gesti di tutti, nessuno osa muoversi.

Jane e a Kate fanno il loro ingresso insieme, mano nella mano.

Si stanno guardando negli occhi con molta intensità, con una passione che raramente ho visto.

La musica segue armoniosa i movimenti delle due donne.

Un passo.

Il vestito in seta dai riflessi azzurri di Kate risplende. La luce del sole, che fa capolino tra le nuvole, irradia ogni sfumatura del tessuto facendolo scintillare. 

Note.

Un sorriso.

Jane ondeggia morbida con un vestito lungo e attillato con inserti in pizzo. Le spalline sottili mettono in mostra le spalle e il lungo collo della donna.

Sono entrambe meravigliose.

Melodia.

Dita intrecciate.

 

Questo è puro amore.

 

L'officiante accoglie Kate e Jane abbracciandole. 

Inizia subito a parlare di sentimento, di purezza dell'amore, di pregiudizi, di guerra contro ciò che spaventa. Descrive le due donne con garbo senza cadere nel retorico o nello stereotipo. Ogni singola parola è dettata dal sentimento. Ogni singola parola è frutto di un amore vero.

 

Kate e Jane si amano.

Kate e Jane adesso sono una famiglia.

Kate e Jane per sempre.

 

Mi nascondo dietro a un fazzoletto, cerco di raccogliere tutte le forze che posseggo per non scoppiare a piangere come una scolaretta commossa. Sono la damigella d'onore e devo, in qualche modo, mantenere un certo contegno.

In teoria, non è detto che riesca.

Mi ritrovo dopo due nano secondi a raccogliere litri di lacrime che fuoriescono a cascata dai miei occhi. Ci manca poco che singhiozzi.

 

Perfetto.

Come ogni matrimonio che si rispetti c'è sempre una persona che fa la figuraccia per prima. Io ho inaugurato la giornata.

 

Gli ospiti accolgono la coppia con abbracci e baci mentre ripercorrono il tappeto bianco verso l'ingresso. Si sprecano i complimenti, i consigli e ogni tipo di chiacchiera inutile. 

Kate e Jane sono frastornate, sorridono a destra e manca senza capire esattamente cosa stia succedendo.

 

«Fermi tutti». Rebecca passa a spintoni tra gli invitati iniziando a dirigere l'evento come fosse il suo. Mette in riga gli ospiti troppo irruenti e permette al fotografo di scattare foto delle due spose. Con manate neanche troppo gentili sposta le persone permettendo a Kate e Jane di raggiungere l'esterno dove faranno le foto per l'album di nozze.

 

Io osservo tutto da una certa distanza, non sarei mai stata in grado di fare una cosa del genere.

 

«Ciao, Elena». Mauro e suo nipote Luca mi abbracciano. Sono venuti anche loro alla cerimonia.

«Non piangere. Questo è un giorno di festa. Si deve mangiare e bere, divertirsi e ballare», dice Mauro con entusiasmo sfoggiando un bellissimo completo che gli dona molto. Il nipote mi sorride imbarazzato, non credo sia abituato a eventi del genere.

«Non so come ringraziarvi, quello che avete fatto per me è impagabile. Avete salvato la vita a molte persone, il loro futuro e il loro lavoro. Siete magnifici», dico a entrambi mentre stringo loro le mani.

«Figurati. Da tutta questa storia ci ho guadagnato anche io. Ho avuto un'ulteriore borsa di studio dall'associazione S.U.N., l'agente scelto Taranti l'ha contattata per me. In questo modo il nonno può andare in pensione e smetterla di preoccuparsi per il mio college», mi dice con un certo orgoglio, «L'associazione si occupa di ragazzi che hanno bisogno di aiuto a scuola. Nel mio caso hanno stanziato i fondi per pagarmi le prossime rette».

«È la stessa che aiuta mia sorella con i corsi di recupero per la dislessia», gli dico abbracciandolo, «Ti meriti tutto questo e molto ti più».

 

Com'è che si dice?

Come un fulmine a ciel sereno?

 

Geltrude arriva roteando la sua borsetta mentre spinge malamente gli ospiti per raggiungermi. Stringe Sebastian sbaciucchiandolo per poi lanciare occhiate torve nella mia direzione: «È da settimane che non ti fai vedere. Lo sai che sono vecchia? Non puoi togliere a una donna anziana il piacere di stare con questo angelo», mi dice in malo modo riferendosi a mio figlio.

Sebastian si prende tutte le coccole di Geltrude ricambiando con affetto.

«Ho avuto molto da fare», le dico con un sorrisetto stampato in volto mentre noto Mauro osservare con interesse e ardore la Signora McArthur.

«Se permette, mia cara, mi piacerebbe starle vicino durante questa giornata. Le presento il mio amatissimo nipote, Luca». Mauro si inchina poi prende a braccetto Geltrude trascinandola a spasso per la sala.

 

Trattengo a stento le risate.

La cara e vecchia Geltry non è certo abituata a essere trattata così.

 

La cerimonia è finita. Tutti gli ospiti si stanno spostando nel grande giardino botanico al coperto per il buffet degli antipasti. 

Sebastian e Miguel sono affamati, sgattaiolano davanti a tutti riempiendosi i piatti con le squisitezze che vengono proposte. Si vede che dietro l'organizzazione c'è Jane, le sue doti culinarie sono molto al di sopra della media, nessun particolare è lasciato al caso, ogni piatto è curato nei minimi dettagli. I frutti di mare sono freschi e cucinati sul momento, gli stuzzichini cremosi ed esotici, l'offerta varia e ricca. Sembra un banchetto reale.

Il fatto che tutto sia presentato in questa cornice rende tutto ancora più magico: fiori, piante, germogli, cactus. Decine di piante di ogni tipo trasformano questo momento in qualcosa di unico.

 

Il mio stomaco brontola.

 

«Eccoti qui a pensare al cibo. Mi chiedevo che fine avessi fatto visto che a quanto ne so tu sei la damigella d'onore», mi dice Rebecca fasciata in uno splendido abito color corallo e impreziosito da perline luminescenti. «Kate e Jane hanno bisogno del tuo aiuto, non puoi abbandonarle alla mandria... devi proteggerle».

«Hai ragione, ma non sono esperta. Credo debba prendere qualche lezione di recupero», dico con ironia.

Jo mi bacia sulle guance: «Sei fantastica», mi dice.

«Anche tu non scherzi» gli rispondo. Jonathan indossa uno smoking nero che gli sta d'incanto.

 

Lucas e Stephanie ci raggiungono.

 

«Dove sei sparita in queste settimane? Ti ho chiamata, ma non mi hai mai risposto», mi chiede Stephanie abbracciandomi.

«Ho voluto staccarmi un po'. Niente di personale. Volevo stare con mio figlio e chiarirmi un po' le idee», le dico con sincerità.

«Non ti ho ringraziato abbastanza, Elena. Hai salvato il futuro mio e della mia famiglia», mi dice Lucas.

Adrian compare con un calice di champagne in mano: «Ciao. Ho visto Mauro e suo nipote. C'è per caso anche l'orso Jhonny?», mi chiede guardandosi intorno.

«Miguel e Sebastian sono andati a prendere da mangiare, tra poco arriveranno», gli rispondo mentre ci spostiamo verso una parte del giardino botanico dove una piccola orchestra sta iniziando a suonare della musica d'accompagnamento. C'è molta meno gente e l'atmosfera è più rilassata.

 

Nik, Caroline e James arrivano poco dopo.

 

«Sei magnifica. Questo colore ti dona moltissimo», mi dice Caroline prendendomi per mano.

«Grazie. Anche tu sei uno spettacolo», le dico mentre l'ammiro in tutto il suo splendore. Caroline indossa un grazioso abito fino al ginocchio con una cintura e un rossetto rosso fuoco. Ricorda un po' le pin up anni '50.

«Mi ha suggerito Rebecca dove andare a prendere questo abito, conosce una stilista niente male. Ti pare un po' troppo provocante?», mi chiede arrossendo leggermente.

«Sei meravigliosa», le dico abbracciandola stretta.

 

L'orchestra continua a suonare.

Alcune coppie scendono in pista a ballare.

 

«Che ne dici se proseguiamo la nostra piccola tradizione?», mi sussurra Nik in un orecchio per poi prendermi per mano.

Con molta calma mi porta in mezzo alla piccola pista per trascinarmi in un ballo lento e armonioso. Io seguo i passi meglio che posso.

 

«Come stai? È da un po' che non ci si vede», mi chiede Nik.

«Sto bene. Tu e Caroline?». Cerco di non pestare i piedi a Nik, ma non sempre riesco ad evitarlo.

«Facciamo una cosa alla volta, con calma. Nessuno di noi due vuole affrettare le cose. Ci conosciamo da tanto di quel tempo che adesso fa un po' strano».

«Non avevi mai capito di amarla prima che lei te lo confessasse? Siete così in sintonia, vi aiutate, riuscite ad essere uno lo stimolo per l'altra. Siete perfetti», gli dico tra un ondeggio e l'altro.

«Credo di essere stato confuso per molto tempo. Confuso da una vecchia e cara amica. Credo di aver voluto amare prima di essere innamorato», mi dice.

«Mi dispiace, io... io...».

 

Nik mi interrompe.

 

«Non è colpa tua. Figurati. È iniziato tutto quando ci siamo conosciuti in libreria a New Heaven. Sembrava un film. Un romanzo. Credo che mi abbia colpito la casualità, la stranezza e le coincidenze di quel momento. È come se tutti i mesi passati successivamente al Trinity fossero diventati la materializzazione di una fantasia, di una grande storia destinata a concludersi con un lieto fine, ovviamente nella mia testa. Con il mio lavoro di avvocato sono immerso nella realtà dura e crudele, con te ho potuto dar vita a un Nik diverso», mi spiega con semplicità.

«Credo che anche io stessi scappando da ciò che sentivo. Del resto sono brava a farlo. Mi posso definire la regina della fuga dalle emozioni», gli dico sghignazzando.

 

Nik mi fa roteare mantenendomi in equilibrio.

 

«Ti ho invidiata. Ho invidiato il tuo affetto per James. Non ho mai trovato nessuna che mi facesse battere il cuore come tra di voi, non ho capito l'amore che provavo per Caroline perché ero confuso. Credo di aver desiderato di vivere la vita di altri, credo di aver voluto fuggire dal mio vero amore», mi dice Nik mentre mi avvicina a sé.

«Ma quando l'hai baciata a Los Angeles non hai capito che le volevi bene?».

 

Nik si ferma. 

Intorno a noi ci sono diverse coppie che continuano a danzare leggiadre.

 

«Ero a Los Angeles per riportare James a New Heaven. Aveva deciso di non tornare dopo la morte di Demetra, ma George mi ha ordinato di convincerlo a tornare. Un ragazzo tanto brillante non poteva perdere un anno di scuola. Sarebbe stato uno spreco», mi dice serio.

«Quindi tu hai convinto James a tornare al Trinity per l'ultimo anno di scuola? Cosa c'entra con Caroline?», gli chiedo sorpresa.

«Tutto è collegato. James mi ha raccontato di voi due. Tutto quello che avete fatto quando stavate insieme, mi ha raccontato ogni parola, ogni singolo momento vissuto con te. James era distrutto per la perdita della madre e del fatto che avesse sfogato la sua rabbia su di te. Non sapeva cosa fare, non sapeva dove sbattere la testa», mi dice tenendomi per la vita.

 

Arrossisco leggermente.

Ripenso alla lettera di Demetra e a quel terribile momento in cui James mi lasciò spezzandomi il cuore.

 

«Ho invidiato ciò che avevate perché era sincero e vero. Tra me e te c'è sempre stata una alchimia unica, un'amicizia, ma solo sentendo le sue parole ho desiderato viverla anch'io. Dopo allora ho mischiato tutto. Non ho capito che Caroline fosse giusta per me, mi sono fissato che tu fossi quella giusta. Proiettavo su di te ciò che reputavo giusto per Caroline. Insistevo affinché tu diventassi avvocato perché volevo che Caroline lo diventasse. Insistevo per stare con te quando in verità volevo Caroline. Tu eri una certezza lei un'incognita e ciò mi spaventava».

«Hai perso anni di vita di coppia. Potevi stare con Caroline e costruirti il tuo futuro con lei. Sei un idiota!», gli dico scuotendolo per le braccia cercando di farlo ridere.

 

Ma Nik non ride, ha lo sguardo triste.

 

«Tra noi due non è mai andata, non siamo destinati a stare insieme. Meglio accorgersene adesso piuttosto che intestardirci, non trovi?», gli dico cercando di intercettare il suo sguardo.

 

Nik pare nervoso.

 

«Nik. Che succede? Perché sei così strano?».

«Il picnic nel mio ufficio l'ho copiato da uno dei suoi racconti. Sapevo che James ti aveva portato al suo vecchio campo di tennis, sapevo cosa aveva fatto e l'ho copiato. Ho cercato di imitarlo quando stavo con te, ma non sono mai riuscito a essere lui», mi dice con voce seria. «Ero una sua brutta copia, non ero io».

 

Accarezzo Nik poi lo abbraccio.

L'orchestra suona ed io non sono arrabbiata, delusa o altro. 

No.

Sono felice perché mi dice ciò che pensa, mi mostra il lato migliore di sé.

Non mi importa più del passato, ciò che conta è il presente.

 

«Inoltre... sono colpevole di un'altra cosa», dice mogio.

«A cosa ti stai riferendo?», gli chiedo curiosa.

«Ho detto molte cose, ma solo una ha convinto James a tornare a New Heaven. Gli ho detto di usarti, di usare i sentimenti che aveva e provava per te per stare bene. Volevo che provasse ad essere sereno e visto che l'unico momento della sua vita in cui era stato bene era quando stava con te, gli ho suggerito di usare il ricordo di voi due come stimolo. Non credevo che parafrasasse il mio consiglio e ti facesse quello che ti ha fatto. Non volevo che ti usasse, non volevo che ti facesse soffrire per Yale». Nik ha gli occhi lucidi. L'azzurro cielo delle sue iridi pare più luminoso, limpido. 

 

Con calma prendo il volto di Nik tra le mani, un volto che ho amato e che conosco alla perfezione. Lo accarezzo.

Nik pare sconvolto. Sta male.

Lo accolgo tra le mie braccia come una sorella farebbe con un fratello ferito.

Lo accolgo senza rimpianti, rabbia e delusione.

Lo accolgo e lo amo come essere umano: imperfetto e fragile.

 

«Non pensiamo al passato. Non mi va di pensare a ciò che è stato. Viviamo questa bella festa, organizziamone altre cento, ingozziamoci di dolci e sorridiamo», dico a Nik fissandolo negli occhi. «Sorridiamo e gioiamo per tutto quello che abbiamo, il resto non conta».

 

Nik scoppia a piangere.

L'orchestra suona.

Io chiudo gli occhi e respiro.

Respiro a fondo e non mi sento più soffocare.

Libera.

Libera.

Presto sarò libera.

Sarò libera non appena avrò consegnato la lettera che tengo in borsetta.

Sarò libera non appena l'avrò consegnata a James.

 

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Capitolo 48
*** OGGI: Immagini e parole ***


OGGI:
Immagini e parole






La pace ha un odore.

La pace ha odore di fiori e del sole che scalda l'aria.

La pace ha l'odore delle persone che amo.

La pace ha l'odore di Sebastian.

 

Sgranocchio delle gustose tartine insieme a mio figlio, si diverte un sacco a imboccarmi, come farebbe un papà, mentre io interpreto una bimba capricciosa. Sbatto i piedi. Mi lamento un po'. Faccio smorfie. Sebastian mi sgrida e mi riempie la bocca con tutto il cibo che gli capita a tiro. A volte vuole che faccia il robot, in quel caso devo aprire e chiudere la bocca a comando. A volte rischio di soffocare o sputacchio pezzetti di cibo, ma alla fine ci divertiamo un sacco entrambi.

 

Siamo seduti in un grande tavolo rotondo insieme a tutti gli altri. Jo e Rebecca ci osservano divertiti, mentre Stephanie e Lucas aiutano i loro bimbi a mangiare. Caroline parla con Nik scambiandogli occhiate complici, Adrian chiacchiera con Miguel. James se ne sta zitto, mangia e sorride, sembra pensieroso.

 

Kate e Jane hanno allestito una grande sala con tavoli addobbati con fiori rosa e bianchi. Le tovaglie sono molto belle hanno inserti di pizzo che donano un'aria rustica, ma elegante, a tutta la sala. L'orchestra suona musica di accompagnamento e ogni tanto qualcuno leva un calice per fare un brindisi alle spose.

Kate e Jane camminano di tavolo in tavolo salutando gli ospiti e regalando ai presenti un piccolo cestino con marmellate fatte da Jane. Non si risparmiano battute, risate e chiacchiere, l'atmosfera è molto piacevole.

 

Tutti sorridono, tutti mangiano, tutti sono felici.

 

«Mamma, adesso puoi mangiare da sola», mi dice Seb mentre il cameriere ci serve un piatto di ravioli con ortica e formaggio d'alpeggio.

«Grazie», gli dico ironica, non so come avrei potuto fare a mangiare quel piatto se Sebastian mi avesse imboccato. Avrei rischiato il soffocamento.

«Il cibo è delizioso, si capisce subito che Jane ha ottimo gusto», dice Miguel mentre osserva con attenzione il piatto fumante.

 

I figli di Stephanie e Lucas sono stanchi, sono addormentati tra le braccia dei genitori. 

 

«Questo matrimonio è perfetto. Anche il nostro è stato bello, ma qui il cibo è migliore, un altro livello», dice Stephanie mentre mangia il suo piatto e allo stesso momento culla Lucas Junior.

«Per arrivare alla perfezione ci vuole ancora molto, ci sono un paio di appunti che...». 

Rebecca viene interrotta da Adrian: «Come è ovvio aspettarsi tu avrai organizzato già il tuo».

 

Tutti guardiamo Jo, aspettiamo una sua reazione.

 

«Prima di tutto non è detto che Rebecca ed io ci sposeremo a breve. Secondo, anche nella mia famiglia ci sono tradizioni che voglio siano presenti. In Messico i colori sgargianti sono importanti e...», prova a dire Jo.

«Non ci pensare! Colori pastello. Tiffany o madreperla. Tuttalpiù color pesca. Non sono disposta a cedere», dice Rebecca mentre infilza un raviolo e se lo infila in bocca.

«Non puoi pretenderla di averla sempre vinta, il matrimonio è anche il mio», aggiunge stizzito Jo.

«E chi ti dice che mi sposerò con te, brutto babbeo?», gli dice Rebecca a muso duro.

 

Tempo neanche tre secondi e tutto il tavolo scoppia a ridere.

 

Kate e Jane arrivano richiamate dalle nostre risate.

 

«Vedo che vi state divertendo», ci dice Jane raggiante.

«A volte la compagnia lascia a desiderare, ma credo di poter sopportare », dice Rebecca rivolta a Jo che di risposta gli fa la linguaccia.

 

Kate e Jane ridono di cuore.

 

«Vi ho portato un regalo un po' speciale», ci dice Kate mentre armeggia dentro a una cesta che ha appoggiato sul tavolo. «Vedete, quando ho organizzato il mio matrimonio ho voluto subito che ognuno di voi fosse presente, certo non conoscevo Caroline, Sebastian e Miguel, ma sono felice che ci siano anche loro».

 

Kate estrae delle scatole basse e larghe, sembrano tutte uguali.

 

«Vi ricordate quanto avete saputo del mio matrimonio?», ci chiede.

«Durante la mostra che hai fatto in città qualche mese fa», dice Nik, «Mi ricordo che ero stupito dal fatto che tu mi avessi invitato, non sei mai stata una mia studentessa anche se sapevo bene chi fossi».

«Allora credevo che foste tutti, o quasi, delle persone orrende. L'ho pensato per anni. Avete tradito, manipolato, raccontato montagne di bugie. Molte persone hanno sofferto, in modi diversi è vero, ma tutti vi siete fatti del male in un modo e nell'altro...  vi ho invitati qui perché volevo sbattervi in faccia che ero felice, che la mia vita proseguiva e che non avevo bisogno di voi. Di nessuno».

 

Kate giocherella con le scatole ordinandole una sopra l'altra.

 

«Il mio intento era invitarvi , umiliarvi e ferirvi, fare tutto ciò che voi avevate fatto a me. Volevo farvi soffrire e me ne vergogno. Io... io...», Kate scoppia a piangere, «... io avevo dimenticato quanto mi piacesse stare con voi e cosa significasse l'amicizia».

Jane abbraccia Kate stringendola più che può.

 

Tutti i presenti al tavolo, me compresa, sono sorpresi, di certo non ci aspettavamo un'uscita del genere.

 

«Ho un regalo speciale per ognuno di voi. Non è detto che sarà bellissimo, ma per me ha molto significato». Kate consegna una scatola a ciascuno di noi.

 

La confezione è in cartone riciclato bianco, una piccola targhetta riporta il mio nome. Guardo la scatoletta di Sebastian e quella degli altri, il nome varia a seconda della persona.

 

Apro il coperchio.

 

C'è una foto incorniciata.

C'è una foto di me leggermente sfuocata, ho la bocca aperta in una smorfia e l'aria vagamente divertita. Devo aver avuto sedici o diciassette anni. 

 

Non capisco.

 

Nella scatola di Sebastian c'è una foto incorniciata del mio piccolo, deve essere stata fatta con il cellulare perché la qualità e il formato sono diversi dalla mia.

 

Sono sempre più confusa.

 

«Quelle sono le vostre prime foto che vi ho scattato. Le prime immagini che ho di ognuno voi. Sono i miei primi esperimenti per cercare di cogliere ciò che siete, il mio tentativo di raccogliere in una immagine il vostro essere. Elena, quella foto è stata la mia prima in assoluto. Miss Scarlett mi aveva dato la macchina fotografica in mano e... ti ricordi che ti scattai una foto in mensa? Era una prova, un tentativo. Tu sei stata il mio primo soggetto. So che non è bella, ma... ma...».

 

Kate non finisce la frase le vado incontro avvolgendola e fregandomene se piango come una fontana. Non mi importa se è fuori luogo o esagerato. Io e Kate manifestiamo così il nostro amore, in modo impulsivo e un po' melodrammatico.

 

«Qui dove eravamo?», chiede Jo con gli occhi lucidi.

«Siamo nel parco del Trinity, mi stai spiegando come scattare. Ti sei offerto di farmi da modello», spiega Kate. «Nella tua, Stephanie, è quando cantavi. Eravamo in camera di Elena». Nella foto si vede Stephanie con la bocca aperta seduta sul letto di quella che era la mia cameretta. «Lucas sei nel corridoio del Trinity, mi ha beccato mentre ti fotografavo. Guarda che sguardo duro».

 

Tutti scoppiamo a ridere tra una lacrima e l'altra.

 

«Adrian era al teatro della scuola, quelle che spuntano sono le mani di Miss Scarlett», dice Kate con una certa commozione, «Lo stesso vale per te, Rebecca. Stavi provando la parte di Giulietta. Invece tu, Nik, stavi camminando per i corridoi con la testa china su un libro. Per quanto riguarda Miguel, Caroline e Sebastian ho usato i primi scatti che vi ho fatto, non è passato molto tempo, non sono belli, ma spero vi piacciano».

«Bello! Sto giocando con le costruzioni di Geltry», dice Sebastian con entusiasmo guardando la sua foto rubando un sorriso a tutti noi.

«E James? Qual'è la prima foto di James?», chiede Jo cercando di curiosare nella scatola dell'amico.

 

James gira la scatola e mostra il contenuto.

 

Siamo io e lui nel parcheggio della scuola vicini alla macchina che James aveva da ragazzo. 

Io me ne sto con le braccia alzate verso il volto di James.

James mi cinge la vita.

James ed io ci stiamo baciando.

 

«Avrei potuto metterne un'altra, ma quella è la prima foto che ti ho fatto. Non mi sembrava giusto barare e...».

 

James interrompe Kate.

 

«No, scherzi. Va benissimo. Sé questa è la tua prima foto non ci sono problemi», le risponde James che a testa china richiude la scatola di cartone per poi riporla sul tavolo.

 

Sono questi i momenti in cui avrei dato il peggio di me.

Sarei crollata.

Avrei avuto paura.

Adesso invece non sento più le mie fondamenta farsi fragili, non sento più il vuoto. È come se il dolore del passato avesse un senso, un ruolo, come se fosse un insegnamento per ciò che vivo e vivrò d'ora in avanti.

Ciò che ho provato con James era vero e sincero. Da quel rapporto devo tenere quello che mi ha fatto star bene e provare a insegnarlo a mio figlio. 

Ma per farlo devo togliermi l'ultimo sassolino dalla scarpa.

Togliere l'ultimo peso.

Devo liberarmi di una cosa che non appartiene solo a me, ma che devo condividere con qualcun altro.

 

«Devo scambiare due parole con James. Posso lasciare Sebastian a te?», chiedo a Miguel.

«Certo», mi dice prima di prendere in braccio nostro figlio e riempirlo di baci.

 

Mi avvicino a James, gli sfioro la spalla.

James mi guarda, i suoi occhi verdi sono umidi.

 

«Andiamo a fare due chiacchiere?», gli dico con un filo di voce.

James annuisce.

 

Con molta calma usciamo dalla sala del ricevimento per ritrovarci in un ampio atrio con delle scale che portano al piano superiore. Mi avvicino ai gradini e mi siedo. Con la mano faccio cenno a James di raggiungermi.

 

Siamo uno di fianco all'altro.

Adesso non posso più tirarmi indietro.

 

«Quello che sto per darti è la stessa cosa che volevo consegnarti la sera della festa di fine anno al Trinity. Come puoi ben immaginare sono successe parecchie cose allora, molte cose sono cambiate, ma io ho questa cosa che mi frulla in testa da più di quattordici anni», dico a James allungando la lettera di Demetra che tengo nella mia borsetta.

 

James la prende tra le mani rigirandola parecchie volte.

«Ma...», sta sfiorando la ceralacca con impresso lo stemma della sua famiglia. «... cosa significa?».

«Tua madre me l'ha consegnata durante la festa degli ex studenti del terzo anno, prima... prima... prima che morisse», gli dico con un groppo in gola.

 

James si alza di scatto.

Si sta torturando il mento con la mano mentre cammina avanti e indietro davanti a me. 

È nervoso e turbato.

 

«Tu... tu... mi hai mentito? Non capisco, perché tu non me l'abbia data prima?», mi chiede James cercando di controllare la rabbia che prova.

«Tua madre mi ha detto che quella lettera era per noi due. Avremmo dovuto aprirla solo dopo che avessimo confessato il nostro amore l'uno per l'altra». Ho le lacrime che scivolano sulle guance, sto torturando l'orlo del mio abito.

«Ma noi stavamo insieme, eravamo una coppia. Perché non me l'hai data allora?», mi chiede arrabbiato sventolando la lettera davanti al mio naso.

«Perché? Noi non abbiamo avuto il tempo di capire i nostri sentimenti. È sempre stato tutto così confuso. Noi eravamo confusi. Quello che sentivo era vero, ma non sapevo dirlo e lo stesso valeva per te. Guarda cosa mi hai combinato? Hai mentito...»,

«Anche tu mi hai mentito, a quanto vedo», dice James camminando irrequieto davanti a me.

«Uno a uno. Palla al centro. Vuoi recriminarmi questa busta? Se vuoi lo faccio anche io con tutto quello che mi hai fatto. Ti assicuro che non è una cosa molto piacevole». Sono in piedi davanti a lui, sembriamo due cani che stanno litigando, nessuno fa un passo indietro.

«Sì, ma si tratta di mia madre. Tu non avresti voluto avere una lettera dalla tua?», mi chiede James a mascella tesa con gli occhi che si riempiono di lacrime. 

 

Mi irrigidisco.

Ripenso al volto sorridente di mia madre.

Ripenso a quanto ho sofferto.

 

«Sì. Ed è per questo che sono qui, per leggere con te questa lettera e liberarmi dei fantasmi del mio passato. Sono esausta di litigi, drammi e bugie. Sono sfinita. Voglio solo vivere con tranquillità». Prendo per mano James, lo costringo a stare vicino a me. «Non hai voglia di rifarti una vita senza ossessioni e drammi? Non vuoi essere libero?».

 

Il mio cuore è sincero.

Le mie parole sono oneste.

Voglio sono trovare la pace

 

James trema leggermente, continua a fissare la lettera che stringe tra le mani, non credo neanche ascolti quello che gli sto dicendo.

 

«Perché l'ha data a te?», mi chiede con un filo di voce.

«Sapeva che non avresti avuto pazienza e che l'avresti aperta subito. Credo fosse per questo mi ha chiamato prima di morire, voleva che mantenessi la promessa, cioè che venisse aperta solo dopo che tu ed io avessimo capito di amarci», gli spiego con calma.

«Ma... noi... adesso...», mi balbetta confuso.

«L'ho capito tardi, ma credo che l'amore abbia varie sfumature. Non siamo amanti, ma possiamo diventare amici. Non siamo una coppia, ma possiamo diventare un supporto l'una per l'altro. Se questo non è amore non saprei come definirlo», dico io.

 

James è sudato.

Pare sempre più confuso.

 

«Come hai fatto a reggere tutto questo tempo? Come sei riuscita a controllare il desiderio di aprirla?», mi chiede mentre si mette seduto sui gradini delle scale.

Alzo le spalle: «Le avevo fatto una promessa. Non mi è parso così difficile».

 

James asciuga le mani sudate sui pantaloni.

 

«La apro. Adesso la apro», mi dice mentre tentenna.

«Vuoi che ti aiuti?», gli chiedo.

«No. Faccio io», mi dice.

 

Con un gesto rapido James rompe la ceralacca.

Piccole briciole rosse di cera saltano da tutte le parti.

 

La busta è aperta.

 

Con calma estrae un foglio iniziando a leggere a bassa voce. Ben presto si interrompe, le lacrime gli rigano le guance. «N-non riesco. Leggi tu», mi dice.

Prendo il foglio che James mi porge.

Prendo un profondo respiro.

 

Leggo.

 

 

Carissimi James ed Elena,

Se state leggendo questa lettera è perché avete capito cos'è l'amore. Non importa che età abbiate, non importa chi amiate, l'importante è sentire questo sentimento e viverlo fino in fondo.

Immagino che James sarà infastidito dal fatto che abbia voluto dare questa lettera ad Elena, ma tu, caro figlio, sei identico a tuo padre, vuoi tutto e subito. Non avresti aspettato il momento giusto.

 

Vi chiederete il perché di questa lettera e del perché ve la consegni a voi due. Non perché desideri programmare la vostra vita o perché voglia che stiate insieme per sempre, ma perché credo che quando una persona impari ad amare debba ripetere questo tremendo, faticoso, complicato sbaglio ogni volta che può.

 

Elena, tu hai perso tua madre per questo mi permetto di parlarti come fossi mia figlia, con lo stesso sentimento che riservo alle persone che ho più care. 

Ti ho osservata in questi mesi e sembri sempre in cerca di qualcuno a cui aggrapparti, non per reggerti con le tue gambe, ma per lasciarti andare e farti trasportare. Non permettere mai a nessuno di dirti come devi essere, non permettere mai a nessuno di umiliarti. Non c'è un modo giusto, una via facile, l'amore per se stessi è la cosa più dura da coltivare. Sii una ribelle, una guerriera. Trova persone che ti stimano e non buttarti giù. 

Sii te stessa, amati, osserva come sei con James e continua su quella strada, con o senza di lui. La gioia che provi quando lui ti prende per mano deve essere l'esempio da seguire. Circondati di persone che ti facciano star bene, stare male non è la soluzione. Tenersi tutto dentro non farà altro che distruggerti e affondarti, vivi lottando. Sempre.

 

Per quanto riguarda te, figlio mio, non posso far altro che sperare che ciò che Elena ti ha dato sia la base su cui costruirai la tua vita. 

Sei cresciuto troppo in fretta, in un ambiente a volte duro. Regole. Imposizioni. Io stessa ci sono cascata, a volte ho dimenticato chi fossi, come è successo molte volte a tuo padre. Crescere significa sottostare a regole che però non devono ingabbiarti. 

Tu non sei il college che frequenti. 

Tu non sei il tuo cognome. 

Tu non sei quello che la gente pensa di te. 

Tu sei James, qualsiasi cosa significhi essere te stesso.

Vivi con entusiasmo le tue scelte e non avere paura di quello che provi, ricorda ogni giorno l'amore che hai provato per Elena e vivi non avendo paura. La paura affonda i combattenti più valorosi, la paura va superata e trasformandosi poi in coraggio. Il coraggio di non farti intrappolare in ciò che il nostro mondo vuole da te.

 

Non so perché vi scriva questa lettera, forse sento il tempo scivolare via. Il tempo passa rapido e osservare, giorno dopo giorno, due giovani innamorati mi ha messo un po' di nostalgia per quello che sono stata con George. 

Qualsiasi cosa la vita vi riserverà non dimenticate la parte migliore di voi.

Amate tutto.

Amate sempre.

Lottate per l'amore, qualsiasi forma esso abbia.

 

Ricordate entrambi il mio infinito amore per voi.

Demetra.

 

 

La lettera di Demetra è finita.

Mi sento strana come se le parole appena lette fossero un riassunto perfetto della mia vita. In poche righe Demetra mi ha psicanalizzata, capita e mi ha dato la chiave con cui leggere la mia vita. Io ci ho messo una marea di anni ad arrivare alla stessa conclusione, lei pochi mesi.

 

Non mi viene da piangere.

Mi sento confusa.

Credo.

Non so.

 

James è immobile. Osserva le piastrelle del pavimento senza dire nulla. Stringe la busta tra le mani come se volesse aggrapparsi ad essa. Resta fermo per qualche minuto come fosse una statua.

 

«Se me lo avesse detto a voce forse non sarei stato lo stupido idiota che sono stato», dice.

«Già, credo che forse molte cose sarebbero cambiate», gli rispondo.

«E adesso. Adesso cosa faccio, non so cosa fare», mi dice mentre lancia per terra stizzito la busta in cui era contenuta la lettera.

 

Un tintinnio.

Un tintinnio.

Un oggetto sporge dalla busta.

Ne io e nemmeno James l'avevamo notato prima.

 

James si accuccia: «Che diavolo è?».

«Sembra una chiave», gli dico mentre sfilo una piccola e vecchia chiave dalla busta, ha attaccato una lunga placca verde smeraldo di legno molto sottile. Rigiro un paio di volte l'oggetto tra le mani prima di passarlo a James.

«Cosa apre?», mi chiede mentre sfiora ogni singola parte della chiave.

«Non lo so, la lettera non dice niente a riguardo», dico io mentre rileggo il foglio.

«Eppure mi ricorda qualcosa... la serratura piccola, questo pezzo di legno verde smeraldo mi pare... mi pare...», James si guarda intorno come se cercasse di ricordare.

Lo stesso faccio io.

 

Poi.

 

Verde.

Verde smeraldo.

Chiavi.

Demetra.

Le cose a cui Demetra teneva di più. 

Lo sgabuzzino.

Gli oggetti sistemati.

Una scatola verde.

Una scatola verde smeraldo che non si riusciva ad aprire.

La stessa scatola che Kate ha fotografato per la mostra che tra poco inaugurerà.

 

«Merda», dice James. «Mia nonna ha quella scatola a casa sua. Kate non l'ha voluta tenere per la mostra proprio perché non si apriva».

 

Basta un secondo, forse meno.

James ed io ci ritroviamo a correre per l'atrio verso l'ingresso. James cerca la sua automobile nel parcheggio mentre io lo seguo cercando di fare il più veloce possibile. 

Mi tolgo i tacchi e sollevo il vestito. 

Sto correndo come un fulmine.

 

Raggiungiamo la macchina di James.

Al volo mi siedo sul sedile passeggero allacciandomi la cintura.

 

Ho il fiato corto, lo stesso James.

 

Macchina accesa.

Sgommata.

Uscire dal parcheggio.

Immettersi sulla strada e andare.

Andare verso la casa di Geltrude.

Andare senza fermarsi.

 

Il cuore mi batte forte.

 

Arriviamo a villa McArthur.

Vialetto.

Frenare di colpo.

Michael ci accoglie sorpresi.

 

Non abbiamo tempo di spiegare.

Corriamo verso l'ingresso.

Percorriamo le scale che portano al piano superiore.

Ci buttiamo nello studio di Geltrude.

E...

 

... e prendiamo fiato.

James ed io stiamo boccheggiando. Non credo di aver mai corso tanto velocemente in vita mia.

 

«Eccola», mi dice James indicandomi la scatola placcata di verde che se ne sta su una mensola. James accosta la chiave trovata nella busta, il portachiavi è dello stesso colore della scatola: verde smeraldo.

«Apriamo?», gli chiedo, anche se conosco già la sua risposta.

James annuisce.

Infila la piccola chiave nella serratura e gira.

 

Click.

 

La scatola è aperta.

 

C'è un piccolo sacchetto di velluto blu con attaccato un foglietto con scritto il nome di James. Di fianco c'è un sacchetto più grande con scritto il mio nome. Sono così pressati dentro il vano della scatola che sembrano un corpo solo.

 

Con le mani tremanti prendo il mio, lo stesso fa James con il suo sacchetto.

 

Sfilo i cordini che lo tengono chiuso.

Apro il palmo della mano.

Un foglietto ripiegato cade subito dopo una chiave.

Sul portachiavi della chiave c'è scritto Hotel Hilton.

 

Leggo ad alta voce.

 

Cara Elena,

Se sei arrivata qui è perché hai voluto essere qui. Se sei arrivata qui è perché probabilmente non ci sono più, il mio cuore ha cessato di battere e questa scatola salterà fuori dopo la mia morte. 

Credo tu abbia sempre saputo che fossi ammalata, ma non volessi vederlo. Lo capivo da come ti sei sempre occupata di me. Grazie. Grazie di cuore. Il mio viaggio sarà più sereno adesso che hai insegnato l'amore a mio figlio.

Ti lascio come regalo la prima chiave che ho preso, il mio primo piccolo trofeo, la mia guerra contro le aspettative altrui. Credo che possa diventare un tuo portafortuna, un piccolo incentivo a non farti mai mettere i piedi in testa da nessuno.

Sii te stessa, sempre.

Demetra.

 

«Io... io...», sono sopraffatta dalle emozioni. Vorrei ridere, piangere, urlare. Non so se essere felice o triste. Di certo non mi sarei mai immaginata una cosa del genere.

 

James fissa il suo sacchetto.

Lo prende.

Tira i cordini.

Un foglietto cade per primo.

Lo legge.

 

Carissimo e amato figlio mio,

Per prima cosa ti chiedo scusa. Scusa perché non sono riuscita a spiegarti cosa mi turbasse, scusa perché ho preferito tenere nascosto il mio stato di salute. Sono una vigliacca, una persona fragile, sono umana. 

Ti ho visto crescere, cambiare e farti uomo. Ti ho visto ridere, arrabbiarti e diventare triste. La cosa che però mi ha reso più felice è vederti capace di amare.

Non ti chiedo di perdonarmi, non so se ne sarai mai capace, ma ti chiedo di capirmi. Ho amato così tanto è così intensamente in vita mia che non posso che essere felice.

Felice perché sei mio figlio, felice perché ciò che ho cercato di insegnarti darà buoni frutti. 

Ti lascio la cosa più preziosa che io possegga, l'anello di fidanzamento che tuo padre mi ha regalato dopo pochi giorni che ci siamo conosciuti. Ha sempre saputo di amarmi come l'ho sempre saputo anche io.

Non si può fuggire o scappare dall'amore, si deve sempre tornare indietro e accoglierlo, bisogna tornare indietro e lottare per chi o cosa si ama.

La vita e la morte sono piccoli ostacoli a questo sentimento, niente lo può fermare.

Non ascoltare nessuno, segui il tuo cuore e ricorda che l'amore è la chiave di tutto.

 

Tua madre per sempre,

Demetra.

 

Dal piccolo sacchetto blu cade un anello in oro con diversi diamanti applicati. È un anello antico, di fattura pregiata, è un anello così bello che non ne avevo mai visto uno simile in vita mia.

 

Le emozioni sono vibranti.

L'atmosfera è surreale.

Non sento più ciò che sono.

Non sento più ciò che dovrei essere.

Chiudo gli occhi stringendo la chiave.

Cerco di capire cosa provo.

Non sono triste.

Non sono delusa.

Non sono arrabbiata.

Sono serena, in pace.

In pace proprio come quando abbraccio mio figlio.

 

James singhiozza.

Piange, forse.

D'istinto mi avvicino a lui per consolarlo, ma non sta male.

Sta ridendo.

Ride, ride con il cuore.

Ride sollevato.

Ride come raramente l'ho sentita ridere.

 

«Che succede?», gli chiedo cercando di capire come si senta.

«Non mi sono mai sentito più libero in vita mia», dice mentre si allenta la cravatta e slaccia i bottoni della camicia. Con un gesto rapido si scompiglia i capelli facendo ricadere alcune ciocche sulla fronte.

 

Mi ricorda terribilmente quando, alla festa di Rebecca, James se ne stava lontano da tutti con la divisa mezza slacciata. Quando ci stavamo per baciare per la prima volta.

 

«Mia madre è sempre stata originale, solo lei poteva fare una cosa del genere. Una caccia al tesoro. Ha sempre voluto mantenere segreta parte della sua vita, quello che ha fatto alle persone, tutte le cose buone, le ha tenute nascoste per puro divertimento, per gioco, perché era fatta così», dice mentre si sdraia per terra su uno dei tappeti persiani dello studio di sua nonna.

 

Mi metto di fianco a lui abbandonando le mie scarpe poco lontano.

 

«Ed io sono uguale a lei, lo sai? Sono talmente uguale a lei che ho cercato per anni di non farlo vedere perché... perché... perché è più divertente rimanere nell'ombra e fare del bene piuttosto che urlare al mondo chi si è veramente», mi dice mentre mette le mani dietro la testa come se si trovasse in campagna a fare un pisolino sotto un albero. 

«Questa lettera e questi regali sono la riprova di quanto fosse speciale e unica», gli dico mentre ripenso a tutti i momenti passati con Demetra.

«Unica come un fiocco di neve in estate, come mi diceva sempre lei», dice James.

«Unica come un imprevisto che non ti aspetti», dico guardandolo negli occhi.

 

James si alza di scatto.

Mi prende per mano.

Pare euforico.

 

«Te lo devo dire, non posso più trattenerlo. Basta bugie. Basta menzogne», mi dice mentre mi stringe le mani.

«Cosa?», gli chiedo contagiata dal suo improvviso buonumore.

«L'associazione W.o.n.s. E quella SUN erano gestite in segreto da mia mamma e nonna. Con la morte di mamma siamo subentrati io e mio padre. La mia famiglia ha sempre supportato l'arte e l'istruzione dei bambini», mi dice prendendomi per le spalle.

«Ma... quindi i finanziatori eravate voi? Ma con chi parlavo in quella stanza?», gli chiedo stupita.

«Con me, mio padre o mia nonna... cioè con Michael. Lei dettava e lui scriveva. Abbiamo sempre fatto così per mantenere l'anonimato. Un modo un po' contorto ideato da mia madre anni fa», dice scoppiando a ridere.

«E tu me lo dici così? Come fosse la cosa più normale del mondo? Ma sei impazzito?». 

 

Non posso fare che sorridere, tutto quello che sta dicendo James è un piccolo choc. Dovrei arrabbiarmi, insultarlo o prenderlo a sberle, ma l'unica cosa che mi viene da fare è abbracciarlo per tutto il bene che ha fatto a Maggie e per l'aiuto a Kate e alle centinaia di persone e bambini della comunità.

 

Rifletto un attimo.

W.o.n.s. letto al contrario è snow, cioè neve.

SUN è sole.

Neve e sole.

 

Come un fiocco di neve in estate.

 

Non posso far altro che sorridere.

 

«E adesso che facciamo? Hai altro da confessare? Sei un alieno? Hai superpoteri?», dico ridendo mentre incrocio le gambe sollevando il vestito per non rovinarlo.

James mi guarda con attenzione sfoderando il suo tipico sorriso sghembo: «Lo sai che l'Italia Cream è ancora aperto? Ci lavora il figlio di Karl, il tuo vecchio capo. Che ne dici se andiamo a mangiarci un gelato? Io e te. Nessun altro».

 

James mi fissa.

Aspetta una mia risposta.

Ci penso un attimo.

 

Mi sento libera.

Voglio essere libera.

Non voglio più drammi.

Non voglio più star male.

Devo essere me stessa senza i fantasmi del passato.

 

Chiudo gli occhi e gli rispondo.

Chiudo gli occhi e dico l'unica cosa che potrei dire.

...

 

---------

 

Fatemi sapere cosa ne pensate del capitolo.

 

Ciao!

❤️

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Capitolo 49
*** EPILOGO - DOMANI: Davanti allo specchio ***


EPILOGO

DOMANI:
Davanti allo specchio




La spazzola scivola sui miei capelli, cerco di acconciarli.  La specchiera della mia camera da letto mi regala un'immagine diversa ogni giorno che passa.

 

Non migliore.

Non peggiore.

Semplicemente diversa.

 

Il vestito che indosso è impreziosito da cristalli, il nastro in vita nasconde la pancia che negli ultimi periodi è aumentata. Mangio di più per lo stress di questo giorno, mangerei dolci da mattina a sera, ma non posso farlo ne risentirebbe la mia salute.

 

Prendo un respiro profondo.

Mi stanno aspettando tutti giù di sotto.

Sono io la protagonista oggi.

 

Gioco con l'anello di diamanti di Demetra. Lo faccio girare intorno al dito in attesa che questo momento passi più velocemente possibile. L'ansia mi blocca le gambe, non avrei mai pensato che sarei arrivata a questo punto. 

Nell'appoggiare la spazzola colpisco, con il dorso della mano, una cornice con la foto di Geltrude e Mario insieme. La sistemo subito accarezzando il volto di entrambi sfiorando il vetro, la posiziono vicino alla chiave dell'Hotel Hilton che mi ha dato Demetra.

 

Le lacrime mi pungono gli occhi.

Mi trattengo.

Non posso rovinare il trucco, non oggi.

 

Apro il cassetto della specchiera e prendo uno dei miei cioccolatini preferiti. Lo appoggio con delicatezza di fronte alla cornice con Geltrude e Mario: «Questo è per te, cara scorbutica. Oggi fai festa pure tu», sussurro.

 

I ricordi ritornano.

Passa il tempo, ma certe cose non le scordi.

La sua immagine imbronciata, le sue battute sarcastiche sono la cosa che ricordo meglio di Geltrude. Non ricordo il suo odore, non sono ancora riuscita a sentirlo da nessun'altra parte. Era un aroma unico, come era unica lei.

«Mauro ti farà compagnia ovunque tu sarai», bisbiglio. «Mi dicevi che ti aspettava l'inferno per colpa del tuo carattere, ma io credo che in paradiso Demetra e mamma abbiano tenuto un posto per voi due. Per tutti, compresi papà, Tess e George e tutte le persone che abbiamo amato».

 

Mi spazzolo e mi sento immensamente fortunata per quello che ho.

Prendo un profondo respiro.

Non mi sentivo così tesa da quando Sebastian è diventato padre. Ho il ricordo di lui nervoso in ospedale, correre avanti e indietro, mentre sua moglie stava mettendo alla luce la mia prima nipote. 

 

Uno dei miei più grandi amori.

Il primo di nuovi amori.

 

La porta si spalanca.

Elise entra come una furia, si lancia sul mio letto senza neanche accorgersi di me. Sbatte i pugni infastidita sul materasso è piena di rabbia.

 

«Che succede cara?», le chiedo con la faccia sorpresa.

«Ciao, nonna. Scusa. Non credevo fossi qui», mi risponde stizzita.

«Non credevi fossi in camera mia a prepararmi il giorno del mio trentacinquesimo anniversario di matrimonio e del mio compleanno?». So benissimo che sta raccontando una bugia bella e buona, Elise non è mai stata brava a nascondere quella che prova.

 

Mia nipote scatta in ginocchio sul letto.

Abbraccia un cuscino.

 

«È solo che... insomma, a scuola è uno schifo e Jojo è come impazzita. Una stron... una vipera», mi dice con animosità.

«Jojo. La tua migliore amica Josephine?», le chiedo io.

«Sai benissimo a chi mi riferisco. Josephine la nipote di una delle tue migliori amiche, la nipote di Nonna Becca e Nonno Jo. Jojo quella che è cresciuta con me da quando siamo piccole», mi dice Elise. «Vuole essere la più bella, la più brava e...».

«... e cosa?», le chiedo.

«... E le piace lo stesso ragazzo che piace a me. Ecco... Jojo sa che ho una cotta per Nathan da sempre, ma da quando sono iniziate le lezioni al Trinity tutto pare cambiato. Se le tirano tutti... cioè, si atteggiano tutti da grandi, vogliono essere i migliori. Detesto quel posto», mi dice Elise gettandosi di nuovo a peso morto sul letto.

«Se vuoi parlo con nonna Jane o nonna Kate. Loro possono dire a loro nipote Nathan che...».

 

Elise mi interrompe.

 

«No. No. Voi vecchi non impicciatevi. Non sapete neanche di quello che sto parlando. Avete rughe e capelli bianchi, non sapete neanche da che parte arriva l'amore», mi dice con sfrontatezza mia nipote.

 

Sorrido.

 

«Sei sicura? Credi che la mia vita sia sempre stata con nonno James? Non ti sei mai chiesta da dove arrivasse zio Sebastian e nonno Miguel e come mai abbiano un cognome diverso?», le dico con calma.

«Nonno Miguel lavorava al ristorante con nonna Jane. Lui chef e lei pasticciera. La conosco la storia del loro ristorante di successo. I tuoi vecchi amici raccontano sempre quella storia... sempre... sempre... Lucas, Adrian e Stephanie. Sono, come dire, un po' andati», mi dice con una faccia tosta che credo di non aver mai posseduto.

«Devi sapere che io e tuo bisnonno Bruno ci siamo trasferiti qui a New Heaven da soli, dopo che mia mamma è morta», le inizio a raccontare.

«Ma il bisnonno non stava con Tess? Insomma hanno avuto zia Maggie, tua sorella», mi dice confusa.

«Sì. Sì. Però prima eravamo solo io e lui... stavo dicendo che mi sono trasferita dall'Italia e...».

 

Elise mi interrompe.

 

«Nonna, ti prego. La solita storia. Tu sei italiana. Io sono in parte italiana come mia mamma e gli zii, i tuoi tre figli. Lo so. Lo so», mi dice mettendosi il cuscino sulla faccia e iniziando a mugolare.

«Credo che il tuo maggior difetto sia trarre conclusioni affrettate. Sai che sono italiana, ma non sai cosa mi è successo da ragazza, non hai idea di chi abbia amato e cosa io abbia provato», le dico mentre mi siedo vicino a lei sul letto.

Elise sposta il cuscino e mi guarda con aria schifata: «Nonna, tu e nonno state insieme da sempre che cavolo vuoi che sia successo nella tua vita? Al massimo hai dimenticato di pagare una bolletta o ti sei persa il tuo programma preferito in televisione», mi dice sfogando su di me le sue ansie.

 

Mi ricorda una persona, la persona che ero io alla sua età.

 

«Modera il linguaggio ragazzina. Non devi mai scordarti che ogni persona ha vissuto quello che provi tu. I sentimenti, positivi o negativi, non sono una prerogativa solo tua. Se ti dico che posso capire come ti senti vuol dire che forse qualche cosa l'ho combinata pure io da ragazza», le dico cercando di calmarla.

 

Elise mi stringe, mi stritola.

 

«Scusa nonna. Con mamma e papà è più difficile parlare mentre con te mi sento più libera. Sono una testona, scusa se ti ho trattata male», mi dice mentre appoggia il suo capo al mio petto. «Lo sai che ti voglio tanto bene, vero?».

 

Bacio mia nipote sulla nuca.

 

«Lo sai che quando ero giovane ho baciato nonno Jonathan e siamo stati una coppia per qualche settimana?», le dico con malizia.

Elise scatta ha la faccia inorridita: «Che schifo, nonna. Lui è vecchio. Poi nonno Jo è sposato con Becca, insomma, loro due si vogliono bene anche se litigano come matti».

 

Ridacchio.

 

«E se ti dicessi che io e Kate non abbiamo parlato per quattordici anni? Cosa penseresti?», le sussurro piano piano.

 

«Smettila, dai. Siete sempre incollate a chiacchierare. Mi stai prendendo in giro, vero?», mi chiede guardandomi con attenzione.

 

Faccio cenno di no con la testa.

 

«Ci crederesti mai se ti dicessi che mi stavo quasi per sposare con Nik. Nonno Nicholas, te lo ricordi?», le dico mentre mi avvicino a lei. «Se avessi fatto così tu non saresti mai arrivata, perché non avrei mai sposato James e non avrei avuto i gemelli, tua madre e tuo zio», le dico.

«Nonno Nik? Il nonno Nik che diceva sempre che ero identica a te? Quello che è morto quando ero piccola?», mi chiede cercando di scavare nei suoi ricordi.

«Sì, il nonno di Terence. Quel Terence che ti prende sempre in giro, quello che ti tirava i capelli da bambina, lo stesso che adesso frequenta il terzo anno al Trinity», le dico.

«Lascia perdere quel pazzo scatenato. È un montato, un insopportabile presuntuoso. Ne combina più lui che tutti gli studenti messi insieme. Si diverte a torturarmi e non la smette di fare lo sbruffone», mi risponde incrociando le braccia al petto. «Lo odio».

«Mia cara, l'amore e l'odio sono due facce della stessa medaglia, forse in verità non lo odi come credi», le dico.

 

Elise strabuzza i suoi occhi nocciola, scuote i lunghi capelli castani mettendo in risalto le lentiggini disseminate sul volto.

 

«Ma... ma... ma vuoi scherzare? Terence è un odioso e... e... no. No, nonna. Ma sei impazzita?». Elise cerca di mitigare il rossore che si allarga sulle sue guance. «Alla fine della fiera hai comunque sposato nonno James, questo è l'importante», dice per cambiare discorso.

«Sì, ma ho avuto un figlio da Miguel, Sebastian è nato prima dei suoi fratelli. Diciamo che io e tuo nonno ci siamo detestati per un lungo, lunghissimo periodo. Devi sapere che al Trinity...».

 

Un cellulare squilla, è quello di Elise.

Ha ricevuto un messaggio.

 

«Merd... scusa nonna. Mi racconterai questa storia un'altra volta», mi dice scattando in piedi e schiacciando i tasti sul suo telefonino. «A quanto pare Jojo ha dato una sberla a quella arpia di Clarissa, la montata che frequenta nell'ultimo periodo a scuola. Una snob con la puzza sotto il naso».

«Quindi?», le chiedo.

«Quindi devo andare! Jojo è la mia migliore amica, nessuno può farle del male», mi dice come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

«Credevo non la sopportassi, per via della storia di Nathan», dico divertita dalla sua energia e spontaneità. 

«Nathan adesso non c'entra... è inutile, queste cose non le puoi capire. Adesso vado», mi dice sbaciucchiandomi la guancia. «A proposito, buon compleanno e buon anniversario di matrimonio».

 

Elise si lancia sulla porta che si apre prima che la tocchi.

James è sullo stipite e guarda Elise stupito, non si aspettava di vederla qui con me.

 

«Adesso capisco chi ti tratteneva. Gli ospiti ti stanno aspettando», mi dice James con un sorriso.

 

Elise ne approfitta per lanciarsi nel corridoio in cerca della sua migliore amica.

 

«Tutto bene?», mi chiede James sedendosi di fianco a me sul letto. «Sei bellissima».

Arrossisco: «Ho messo su qualche chilo. Organizzare la festa per il nostro anniversario e il mio compleanno mi ha sfinita, credo di aver mangiato un po' troppi dolci», gli dico prendendolo per le mani. I suoi occhi verdi sono i più belli che io abbia mai visto, lo sono anche con le rughe e i capelli bianchi.

«Sei stupenda. Di cosa ti preoccupi? Hai organizzato decine di feste per raccogliere fondi di beneficenza per le nostre associazioni, sono andate tutte benissimo. Non avere paura, io sono qui con te», mi dice abbracciandomi.

 

Un dolce profumo di muschio e vaniglia invade le mie narici.

 

«È solo che avrei voluto avere tutti qui, tutte le persone che ho amato in vita mia». Gli occhi mi si riempiono di lacrime al pensiero di mia madre, Demetra, George, papà, Tess, Mauro, Nik e Geltrude.

«Loro sono qui. Sono negli sguardi dei nostri figli e dei nostri nipoti. Sono nelle parole dei nostri amici, sono nei loro gesti», mi dice James con voce calma.

«Ti dispiace se restiamo qualche minuto insieme, solo noi? Non so se ho voglia di vedere tutti».

 

James sorride.

Ha lo sguardo furbo.

 

«Speravo che mi dicessi così. Ho un regalo per te», mi dice uscendo dalla nostra camera da letto per affacciarsi nel corridoio.

Rientra dopo pochi secondi con un vassoio d'argento ricoperto da una cloche.

«Di cosa si tratta?», gli chiedo confusa.

«Chiudi gli occhi». James sfiora le mie pupille mentre con le dita saltella da una lentiggine all'altra del mio naso.

 

Chiudo gli occhi.

Aspetto.

 

Sento James aprire la cloche.

Sento che armeggia con qualcosa.

C'è puzza di zolfo.

 

«Auguri», mi dice mentre mi allunga una merendina confezionata con infilzato un fiammifero acceso. «Oggi è anche l'anniversario del nostro primo bacio. Ti ricordi?», mi chiede visibilmente commosso.

 

Io sono senza parole. 

Osservo la fiamma ondeggiare smossa dal fiato dei miei respiri.

Il mio vecchio cuore batte di felicità.

 

«S-sai cosa ho desiderato quel giorno? Quel giorno a Teatro, intendo», gli chiedo con il magone.

James fa cenno di no con la testa: «Non devi dirlo, altrimenti non si avvera», mi dice mentre mi accarezza un braccio.

«Si è già avverato. Ho desiderato di stare con te per sempre. Ho desiderato che noi due potessimo vivere la nostra vita insieme». Le lacrime ingolfano i miei occhi.

«Alla fine il desiderio si è realizzato, quindi», mi dice sorridendo.

«Mai smettere di credere nei sogni, mai sottovalutare un imprevisto», dico io.

«Io non ti ho mai sottovalutata, mai. Sei la cosa più bella che mi sia mai capitata», mi dice James appoggiando la fronte alla mia.

 

Chiudo gli occhi.

Inspiro l'aria.

Sorrido.

 

«Ti amo, James», gli dico con le lacrime agli occhi mentre lo bacio.

«Ti amo, pivella», mi dice James. «Ti amerò per sempre».

 

---------  FINE -------

 

 

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Capitolo 50
*** COME È NATA LA TRILOGIA BACK FOR LOVE - Curiosità e spiegazioni ***


Come è nata la trilogia
di Back for Love
CURIOSITÀ E SPIEGAZIONI






Benventute a tutte,

eccomi qui a raccontare un po' di curiosità e dare spiegazioni sulla mia trilogia.

Il capitolo è lungo, prendetevi un succo e gustatevelo. 🍹🍹🍹

 

✨✨✨▶️▶️Se avete domande o curiosità, che questo capitolo non spiega, non esitate a chiedere. Commentate QUESTA parte CON DOMANDE APERTE, io vi risponderò il prima possibile. .◀️◀️✨✨✨

 

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Per prima cosa, grazie.

Grazie perché se siete arrivate fin qui meritate un premio per la costanza, pazienza e dedizione. Mai mi sarei aspettata di raggiungere tante visite e tante recensioni. La cosa mi riempie di orgoglio e sono felice di poter finalmente dirvi cosa mi frulla in testa.

 

Come ben sapete ho torturato, fatto soffrire e maltrattato alcuni (o tutti) i miei personaggi. Credo di aver semplicemente raccontato la realtà dei rapporti in modo più esasperato di quanto siano nei fatti. Ho preso spunto dalla vita quotidiana, dai film, dai libri e dai racconti di amici.

Certo, nessuno dei miei amici ha un Andrew psicopatico che vuole distruggerli, ma i rapporti di amicizia e amore, a volte contorti, sono più o meno quelli che capitano ai protagonisti dei libri. Amori traditi, confusione, rabbia, tristezza e delusione, ma anche amicizia, complicità, sentimenti e passione.

 

🏛🏙🏢🗽AMBIENTAZIONE🗽🏢🏙🏛

 

Partiamo da New Heaven, che esiste davvero e c'è veramente Yale, in verità non è una cittadina così movimentata, mi sono documentata un po', ho voluto usare la mia fantasia e creare una élite di ricconi mezzi snob che posseggono mezza città. 

Ho creato il Trinity Institute e il Saint Jude senza avere riscontri, le scuole non esistono e la struttura interna, le divise e i Club, sono stati ideati da me. Certo, nelle scuole americane ci sono i Club, ma non sempre hanno l'importanza che gli ho dato io. Avevo bisogno di una scusa per far stare i protagonisti insieme, visto che le lezioni in America le fanno in classi diverse e con diversi professori. Con il Club di Dibattito tutto tornava.

Club Dibattito -- Futuri Avvocati -- Yale.

 

Anche la divisione dei quartieri di New Heaven è stata inventata.

-Jo quartiere popolare e periferico, appartamento in palazzoni anonimi e grigi.

-Elena quartiere medio basso, appartamento in palazzina.

-Kate quartiere borghese medio alto, villetta.

-James e tutta la combriccola attici in centro o ville spaziali.

 

Alcuni nomi delle vie sono inventati, andavo a gusto e se mi suonavano bene. Lo stesso parco Franklin di New Heaven non esiste, almeno credo, come la gelateria Italian Cream. ;)

Ho sempre fatto succedere gli eventi che interessavano i protagonisti negli stessi luoghi per evitare di confondermi o sbagliare. Avendo chiare le caratteristiche di un posto facevo in modo che i protagonisti finissero sempre lì, giocavo tra le varie opzioni possibili. (Teatro della scuola, aula magna, casa di Kate, parco Franklin, Ufficio Legale, casa di Elena a Boston, casa di Geltrude, ecc).

 

👱🏻👱🏻‍♀️👨🏾‍⚖️👰🏻👨🏻‍💻👨🏻‍🎓👨🏼‍🍳PERSONAGGI👵🏻👩🏽👴🏼👩🏻‍🍳👨‍🏫👨🏻‍💼👩‍🎨

 

Ecco la parte che molte di voi aspettavano. Vi farò un elenco dei personaggi principali, come sono nati, a chi mi sono ispirata, quanto mi piacevano e cosa aggiungerei per renderli più interessanti. 

 

Elena: detto fuori dai denti l'ho detestata per il 90% del libro. 

Eh sì, insopportabile, piagnona e melodrammatica. 

Si dice che quando non sopportiamo una persona è perché rivediamo in lei le caratteristiche che non vogliamo riconoscere in noi stessi. Probabilmente con Elena è successo lo stesso, ho usato il mio lato peggiore e l'ho elevato all'ennesima potenza per renderla infantile e capricciosa.

Esteticamente la trovo molto graziosa, adoro le lentiggini e il fatto che non fosse pelle ossa, che adorasse il cioccolato. Una ragazza semplice, per me molto affascinante nel suo essere senza troppi fronzoli. Non mi sono ispirata a nessuno in particolare, volevo che tutte potessero rispecchiarsi, me compresa.

Il nome l'ho scelto a caso, volevo che iniziasse con la E per motivi personali, ho pensato ad Elena perché è nome che pure gli americani usano e quindi si sarebbe integrato bene con gli altri.

Cosa aggiungerei? Poco o niente. Il libro è narrato da lei quindi credo che più di così non potrei approfondire il personaggio.

 

James: posso dire che lo adoro? Posso dire che è tra i personaggi più fighi che esistono sulla faccia del pianeta? Ecco, l'ho detto (che liberazione).

Diciamo che mi sarebbe piaciuto essere Elena solo per James. Lo trovo un personaggio a tratti stereotipato, ma a cui io ho voluto bene davvero. Quando scrivevo le parti in cui Elena e James stavano insieme pensavo sempre a cosa lui potesse provare. 

Mi piace com'è di carattere, anche il fatto che sia un po' cattivo, mi piace che fosse innamorato di Elena e mi piace che fosse fedele agli amici, sia nel bene che nel male.

Il nome l'ho scelto perché adoro il nome James. Mi piace proprio, suona bene e si adatta al personaggio. Il cognome McArthur l'ho inventato ispirandomi all'Irlanda, visto che in Massachusetts, Boston in particolare, ci sono molti americani di origini Irlandesi.

L'immagine che ho di lui: atletico, castano chiaro e occhi verdi è ispirato al ballerino di danza classica Sergi Polunin, per me (sottolineo, per me 😍) estremamente affascinante. 

Cosa Aggiungerei? Probabilmente parlerei più del fatto che giocasse a tennis. Nel progetto iniziale c'erano diverse scene in cui faceva gare e una ragazza doveva far ingelosire Elena, essendo cara amica di James. Si trattava di un personaggio secondario molto semplice e grazioso che con i suoi modi gentili avrebbe mandato Elena giù di testa. Alla fine volevo farla innamorare di Adrian, ma lo spiegherò dopo. 

Purtroppo non è facile far incastrare tutti i tasselli e usare tutti i personaggi, se mai dovessi riscriverlo proverò ad aggiungerla. 🤔🤔🤔

 

Kate: Altro personaggio che amo. Per me lei è un personaggio di una profondità e solidità estrema. Adoro il fatto che scatti foto e che sia un po' schizzata, anche se all'inizio era timida e introversa. È cresciuta molto nei tre libri e ha maturato un amore per se stessa e per quello che fa che è da prendere come esempio.

Elena e Kate si amano come sorelle, forse di più. Sono amiche per la pelle.

L'ho immaginata piccola e minuta, la classica amica non da copertina, ma da scoprire e che non badasse tanto alle apparenze. La sua sessualità era chiara fin dall'inizio, almeno per me, non credo che la sua storia d'amore con Jane sia meno forte di altre, anzi.

Cosa aggiungerei? Svilupperei di più il rapporto con Stephanie. Purtroppo ho organizzato male i capitoli, la loro storia doveva uscire prima e creare molto più caos nel gruppo. Lucas avrebbe dovuto 'lottare' per riavere Stephanie, vincendo. Il problema è che scrivendo dal punto di vista di Elena lei doveva essere sempre presente, anche nei momenti più privati tra Kate e Stephanie. Impossibile da fare visto che Elena aveva la sua vita da portare avanti.

 

Nik: ecco un personaggio che avete tanto amato, ma a dirla tutta un po' mi stava sulle scatole. (NON MI LINCIATE). Vi spiego il perché. Era così perfetto e diceva sempre le frasi più giuste al momento giusto, non so se nella vita reale l'avrei sopportato. 

Era così convinto, così certo, così sicuro. 

Così irreale.

Niente dubbi, solido e con certezze.

Mi è piaciuto di più nel terzo libro, l'ho adorato, così casinista, insicuro e più umano.

Il suo difetto più grande era essere convinto che ci fosse solo un modo di fare le cose, il suo. Con i suoi consigli aiutava Elena, ma la destabilizzava, perché lei ragionava in modo diverso. 

D'altro canto è stato un faro nella confusione che Elena provava. Credo che non fosse l'amore che spingesse Nik ed Elena a stare insieme, ma il desiderio di avere qualcuno da amare. 

L'aspetto fisico di Nik è rassicurante e più classico: biondo con occhi azzurri. Non è bellissimo, ma affascinante, molto intelligente e nonostante si mostri comprensivo ha molta paura di quello che prova.

Cosa Aggiungerei? Nik ha vissuto un'infanzia dura, il capitolo in cui dice di avere le cicatrici sulla schiena sono uno spiraglio, non sfruttato, per approfondire il personaggio. Purtroppo non sono riuscita a inserire un capitolo (terzo libro) in cui Nik andava da suo padre per perdonarlo del male subito, accompagnato da Elena. Una sorta di catarsi in cui il personaggio avrebbe capito più i suoi sentimenti e che fondamentalmente non ha mai amato Elena.

Credo che lo Aggiungerei se riscrivessi il libro, renderebbe il personaggio più caro è più vicino, meno perfetto. 🤔🤔🤔

 

Jo: vi giuro che Becca e Jo erano destinati fin dall'inizio. Alla festa di Rebecca (primo libro) Jo è affascinato da Elena super truccata e simile a Rebecca, dice che la trova perfetta. Inoltre c'è sempre tensione tra i due, litigano e discutono. Anche se vengono da ceti sociali diversi sono molto simili, hanno gli stessi obiettivi.

Jo è il mio ideale di ragazzo: moro e occhi scuri. Mi sono sempre piaciuti ragazzi così e li trovo più affascinanti (sì, lo so che ho detto che James è stupendo, anche se con capelli chiari e occhi verdi... eppure nella vita reale mi piacciono più ragazzi simili a Jo).

Piccola chicca: Elena doveva farsi un tatuaggio con una J, il dubbio era se fosse l'iniziale fosse di James o di Jo, per questo ho scelto due nomi con la J. 😉 Ho lasciato però perdere.

Cosa Aggiungerei? Non sono riuscita a inserire il fatto che Jo abbia recuperato la ragione e aiutasse i poveri e le donne in difficoltà, come sua madre che faceva due lavori per sopravvivere. La litigata con Kate (terzo libro) è arrivata un po' tardi e ha scombussolato un po' tutto, inoltre non sapevo come mettere questa informazione.

Forse Aggiungerei più litigate con Becca, ma non volevo che il loro amore fosse troppo evidente.

 

Rebecca: che dire di lei? Io la adoro. Era talmente calata nel ruolo di cattiva che diventava ridicola. Acida. Insopportabile. Talmente fragile che aveva paura di se stessa. La copia esatta di Elena, incapace di amarsi e volersi bene.

Di base Elena e Rebecca sono identiche, non nell'aspetto, ma nelle caratteristiche emotive: impulsive, rancorose e melodrammatiche.

L'ho immaginata bionda ed esile, fissata con il cibo. Uno stereotipo bello e buono, ma che evoca in molte lettrici la classica bellona.

Cosa Aggiungerei? Probabilmente approfondirei il rapporto con la madre, Vivian. Volevo farla comparire pure nel terzo libro, ma non sapevo come e quando metterla.

 

Stephanie: So benissimo che molti la ignorano o non la considerano, ma a me piace. È così inconsistente che la sua non presenza per me vuole dire molto. È una ragazza senza spina dorsale, ma con molti sentimenti. Sicuramente la più fragile di tutti i miei personaggi che potrebbe impazzire all'improvviso e diventare una ballerina di lap dance. La sua follia celata mi affascina, forse nella mia testa, perché potenzialmente potrebbe diventare più interessante di molti altri personaggi. 

È la più bella. È più bella di Rebecca, ma non se ne rende conto.

Cosa Aggiungerei? Come già detto credo che spiegherei più la storia d'amore con Kate e lo strano rapporto di dipendenza con Lucas.

 

Lucas: Ecco, Lucas mi sta un po' sulle palle. Troppo convinto, troppo serio, troppo di tutto. L'ho creato ispirandomi a una persona a me cara come carattere, visto che entrambi sono come dei muli che vanno avanti fregandosene di quello che calpestano. A volte può essere una cosa buona, ma non sempre. Serve elasticità.

Lucas è piuttosto viscido (questa caratteristica non è legata alla persona a me cara) perché volevo che ci fosse un personaggio un po' maschilista e irritante.

Il suo aspetto è classico, ne bellissimo e nemmeno bruttissimo. Intelligente, ma incapace di avere fantasia. Solido e deciso, forse troppo.

Cosa Aggiungerei? Come già detto avevo in mente una guerra tra Kate e a Lucas per riconquistare Stephanie.

 

Adrian: lui mi piace, molto dolce. Ammetto che l'ho un po' trascurato. Credo possa diventare un personaggio più importante, ma come ho già detto è stato difficile far rientrare tutto.

Nel mio immaginario non ha colore, nel senso che potrebbe essere sia nero che bianco di pelle. È un ragazzo molto carino e affascinante a suo modo. Diverse lettrici lo vedevano bene con Kate, ma non è mai stato nei miei piani.

Cosa Aggiungerei? Sicuramente Aggiungerei più la sua presenza e spiegherei l'amicizia con James. Lo farei mettere con la compagna di tennis di James, sarebbero perfetti insieme.

 

Andrew: Che dire di lui, talmente pazzo che andrebbe chiuso in un manicomio. Lui è proprio psicopatico, nel senso che non ha empatia, vuole tutto per sé e non capisce le emozioni altrui. Vuole soldi, ma soprattutto potere. Credo possa essere la nemesi di James. 

So che ad alcune lettrici piace molto, credo sia molto affascinante la sua cattiveria, ma nella vita reale avrei molta paura di un uomo del genere. Ma ognuno ha i suoi gusti, non giudico... ☺️.

È nato quasi per caso, avevo bisogno di un supercattivo ed è nato lui nella mia mente, estremamente elegante e perfetto da risultare eccessivo. Intelligente ed estremamente carismatico, il più carismatico di tutti i miei personaggi. 

Cosa avrei aggiunto? Non so se si è capito, ma lo vedevo come bisessuale. Probabilmente dovevo accentuare più questa sua inclinazione sessuale.

 

Geltrude: la amo, ma veramente. A volte macchietta a volte saggia nonnina. È stata la vera coscienza di Elena, non le ha mai chiesto spiegazioni, ma le ha dato fiducia, sempre. Geltrude amava Elena, le ha sempre voluto bene. 

Credo che sia stata l'unica a capirla fin da subito, Elena non aveva bisogno di essere compatita, ma strigliata. Un personaggio molto sfaccettato, determinato e divertente.

Minuta, di una eleganza antica e molto conservatrice. Estremamente moderna per le idee e promotrice del Girl power.

Cosa Aggiungerei? Probabilmente approfondirei la storia con Mauro, più tira e molla, più insinuazioni e cose del genere. Mi sarebbe piaciuto esplorare l'amore della terza età.

Lo Aggiungerei se lo riscrivessi. 🤔🤔🤔

 

Demetra: di base Demetra e Margherita, la madre naturale di Elena, le ho viste come la stessa persona. Non ho potuto sviluppare Margherita, in quanto morta, allora ho sviluppato Demetra. Nostalgica, melanconica e paziente.

Demetra è sempre presente, nei discorsi, nei ricordi nelle emozioni. La storia della lettera è nata quasi per caso, non era in programma e a dirla tutta non sapevo cosa avrebbe detto, so solo che doveva esserci la chiave per aprire la scatola verde.

Voi lettrici eravate ossessionate e la cosa mi divertiva molto. 😈

Cosa Aggiungerei? Forse spiegherei meglio il rapporto con il marito, i loro sentimenti e quanto si amassero.

 

Bruno: come ho detto ad alcune ragazze nei commenti vengo da una famiglia allargata, separazioni e divorzi. Siamo in armonia in famiglia anche se siamo decisamente considerati molto strani. Per me il legame non è solo quello di sangue, ma anche di affetto e amore. Quindi il percorso naturale di Bruno era risposarsi e fare un figlio, era una tematica a cui tenevo molto. 

Volevo che Elena avesse una famiglia fuori dagli schemi, come del resto sono i suoi amici, una grande famiglia bizzarra e disfunzionale.

Cosa Aggiungerei? Non so, per ora nulla. 

 

😓COPPIE ASSURDE😅

Idee bislacche per coppie improbabili.

 

 Rebecca e Lucas: in teoria dovevano avere una storia in California a cavallo del primo e secondo libro. Un'idea malsana che per fortuna non ho mai scritto.

 

Stephanie e Charlie Spencer: Durante il tirocinio alla fine del primo libro Stephanie lavorava per Charlie a New Heaven. Volevo che nel terzo libro avessero una storia, amanti, ma non sapevo come aggiungerla. Ho lasciato perdere.

 

Adrian e Elena. a dire il vero ho pensato più volte di farlo mettere con Elena. Sì, con Elena. Credo possa essere un personaggio affascinante Adrian, ma l'ho sviluppato così poco che non avrebbe retto. Non l'ho scritta e forse ho fatto bene.

 

Bruno e la Preside Marquez: volevo una compagna per Bruno, ma la Marquez non mi sembrava il tipo adatto a lui. Ho lasciato perdere e ho inserito Tess. 

 

IMMAGINAVATE ALTRE COPPIE?

 

💋💋💋💋SESSO💋💋💋💋

 

Ho sempre creduto che mantenere un certo pudore nelle scene di sesso, che ho messo molto raramente, sia stata la scelta giusta. Non sarei in grado di scrivere scene esplicite quindi ho evitato di inserirle. Ho preferito che ogni lettrice usasse la propria fantasia e riversasse le proprie esperienze all'interno della storia.

So bene che le storie con scene descritte nei particolari attirano un sacco di lettrici, come le fanfiction, ma ho preferito muovermi in questo modo restando fedele a me stessa e senza prendere in giro nessuna di voi.

Detto questo vi saluto. Baci, Luna.

 

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