Invictus

di Sesquiplebe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 30 Aprile 1849 (Prologo) ***
Capitolo 2: *** Fuga (cap. 1) ***
Capitolo 3: *** Fuoco Eterno (Cap. 2) ***



Capitolo 1
*** 30 Aprile 1849 (Prologo) ***


Cantavano le aquile in quell'ultima giornata d'Aprile confondendosi con le urla rabbiose dei cannoni e degli uomini morenti ai piedi delle mura. Dei francesi, la cui fama di traditori conquistatori era nota ad ogni singolo italiano, si poteva osservare solo la codardia e la mediocrità di fronte ad un popolo temerario figlio di continui soprusi alla propria madre patria, figlio vendicatore.
Nonostante quegli animali fossero forti in un certo senso, nessun guerriero osò buttare a terra le proprie armi e abbandonare il campo di battaglia come prede in fuga.
L'italiana teneva le briglie del cavallo strette, ancora ferme, per respirare ancora quell'aria intrisa di una gloria mai morta. Chiuse gli occhi rallentando l'irrefrenabile tempo fuggitivo, ascoltando il canto vittorioso delle aquile che danzavano in mezzo a quegli eroi leggendari eredi di una storia mai finita. Ed ecco la calda brezza sfiorare come una carezza materna la sua pelle provocata dalle corse pesanti dei combattenti e lo scontrarsi violento delle armi.
Sollevò lentamente le palpebre mostrando uno sguardo ferino, iridi smeraldine ardenti affamate di vittoria e, chissà, pure vendetta. Catturò un profondo respiro irato trasformandolo, poi, in un grido furente udibile perfino dall'alto dei cieli. Strattonò le redine, estrasse la spada dalla cintura, e si buttò tra le fiamme.
L'animale nitriva ad ogni francese a terra, batteva gli zoccoli ad ogni francese ferito, avanzava ad ogni fila francese caduta.
Una macabra sinfonia vittoriosa echeggiava per tutta Roma, fuori e dentro, e un magnifico quadro di sangue si dipende sul terreno quasi a consacrarlo annunciando una nuova era. Il richiamo improvviso delle truppe avversarie, sulla sera, confermò l'esito già intuito dall'inizio del massacro: fuggirono a gambe levate, bestioline spaventate dal tuono del temporale. A quello spettacolo Lucia si lasciò scappare un piccolo sorrisino divertito e soddisfatto.
«Codardi eravate e codardi siete.»
Tornò dentro la città pregustandosi la festa che sarebbe stata creata tra vini pregiati, donne bellissime e discorsi di patria in onore di quella magnifica ultima giornata d'Aprile.

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Capitolo 2
*** Fuga (cap. 1) ***


L'oscurità della notte lentamente inghiottiva Roma e le sue strade avvolgendola in un leggero velo scuro, adatto a nascondere gli uomini in fuga dalla sventura. Nessuna persona osava uscire in quell'ora, solo i disperati, gli ubriaconi e i fuggitivi mettevano i piedi fuori dalle loro dimore tentando di fuggire da una dura realtà.
Giunta sera inoltrata, nel più grande silenzio, le porte della Basilica di San Pietro si spalancarono sorprendentemente producendo un fastidioso rumore cigolante che risuonò tra le colonne, lungo la via della sua salvezza. Indossava una semplice toga da prete, sporca e logora, così da confondersi con la folla inferocita. Tra le mani teneva stretto un crocifisso accarezzandone le perle argentate e pronunciando le ultime preghiere del rosario, quasi fosse il martire della storia. Accompagnato da due figure anch'esse travestite, camminò attraverso l'imponente colonnato a testa bassa, in caso in cui qualcuno passasse e disgraziatamente lo riconoscesse. Lì, alla fine del percorso, una lussuosa carrozza papale -identificabile dalle due chiavi incrociate di san Paolo oro e argento incoronate dal triregno ai lati- aspettava l'arrivo dell'ospite pronto per partire. I suoi accompagnatori aprirono la portiera aiutando, in maniera molto delicata, a far salire il viaggiatore all'interno del mezzo, il quale si sedette accanto un'ombra incappucciata. Quest'ultimo alzò gli occhi verso l'altro affinché si accertasse fosse il passeggero desiderato, dopo di che, appena questo si appoggiò al sedile, tornò a fissarsi le mani congiunte.
«Siete sicuro, Vostra Eccellenza?» domandò una voce maschile.
«Certamente, non ci sono altre soluzioni.» rispose deciso.
Dalla parte opposta due signori, un conte e una contessina, guardarono pietosi il soggetto preso in causa come se la situazione stesse davvero a cuore.
«Non vorrei essere irrispettosa e invadente, Sua Eccellenza Pio IX, ma ciò non porterà ad accentuare la furia della plebe?» Fu la donna a prendere la parola, assumendo un tono basso e sottomesso.
«Non si preoccupi, figliuola, ogni cosa verrà risolta a suo tempo.»
Nessuno proferì altro verbo, rimasero in silenzio per tutta la durata del viaggio, fatte eccezioni per alcuni discorsi futili e privi di importanza persino da essere raccontati.

Sui vespri del 25 Novembre il papa raggiunse sano e salvo Gaeta, accolto calorosamente nella fortezza della città da Ferdinando II. Un paio di guardie del corpo, fidati del re, scortarono il gruppo sceso dentro l'immenso edificio fortificato. Il castello dalla vista tipicamente medievale a causa della sua semplice estetica, si ergeva sopra un altopiano affacciato sul mare e circondato da altissime mura impenetrabili. Era talmente grande che pareva un infinito labirinto una volta varcato l'ingresso, se si escludevano le massicce torri attorno le difese e all'entrata, tutte coperte da cupole rosso aranciato. Poi un'altra, più alta, si innalzava dal centro della complessa struttura dominando l'intero paesaggio. Probabilmente si trattava di una vedetta, infondo rimaneva pur sempre una roccaforte nonostante ora fungesse da rifugio.
«Benvenuto Sua Eccellenza e benvenuto anche ai suoi compagni! Per me è un onore ospitarvi.» salutò Ferdinando quando intravide i quattro avvicinarsi a lui. Una volta abbastanza vicini si inchinò in segno di rispetto facendo cenno al ragazzo alla sua destra di compiere la stessa azione. Questo obbedì svogliatamente e, in un certo senso, contrariato, chinandosi di poco e levandosi in fretta.
«No signore, è mio l'onore di dimorare nella vostra casa. Vi ringrazio per l'ospitalità.» concluse, affrettandosi ad entrare. Di seguito il regnante si curò di porgere i saluti anche ai due nobili venuti.
«Conte Spaur! Sono felice di trovare pure lei qui. E vedo che avete portato vostra moglie.» la contessa sorrise timidamente, lasciando fosse il marito a parlare.
«Il piacere è tutto nostro! Pure io sono felice di vedere voi e il vostro adorato ragazzo.»
Sopraggiunse per quarto il personaggio misterioso, apparentemente sconosciuto sia a Ferdinando sia alla sua nazione poiché portava il viso chino e protetto da un cappuccio.
«Scusatemi, voi chi siete?»
In risposta, posò le dita sulla stoffa scadente e la calò rivelando la sua oscura identità.
«Oh mio Dio, perdonatemi Stato Pontificio.» si scusò, a prima vista dispiaciuto.
«Non importa, l'intento era quello. Mi sarei preoccupato se voi mi aveste riconosciuto, ciò significava che non sono stato capace di nascondermi bene. Noto con molto piacere che Lovino si trova con voi.» una piega soddisfatta apparve sul suo volto, portando lo sguardo a quello del Regno delle Due Sicilie.
«Io invece prego per una vostra immediata e improvvisa partenza da qui.» ribatté acidamente all'occhiata di sfida del chierico, tornando non curante del suo atto irrispettoso nel palazzo inseguito dal suo superiore affinché gli dia una giusta lezione per la sua mancata educazione. Pietro ignorò completamente il suo pseudo insulto, anzi, gli fece capire quale fosse l'effettivo stato del giovane: sull'orlo di una ribellione. Questa strana nuova ondata di libertà e indipendenza aveva infettato l'anima dei tre fratelli italiani riducendoli ad una condizione di totale pazzia, posseduti da chissà quale demonio. Necessitavano di cure, loro. Buone cure spirituali. Si riscosse dalle proprie riflessioni, riunendosi al resto nella sala da pranzo.

«Come ti è venuto in mente Lovino.» la tonalità ferma e gelida della frase lasciò intuire quanto il sovrano fosse stato infastidito, forse perfino più dell'insultato, dall'atteggiamento ribelle assunto durante il quel dannato rituale di accoglienza. Appoggiò mollemente la schiena alla porta della camera del disubbidiente sbarrandogli qualsivoglia possibilità di uscire, mentre piantava le sue orbite feroci in quelle fiere dell'italiano.
«Non osate darmi del fottuto tu, non sono il vostro schiavetto personale.» replicò Lovino furioso di fianco al letto a baldacchino, opponendosi al suo indiscusso sovrano. Il Borbone sospirò, incrociando le braccia e raddrizzando la posizione.
«Modera il linguaggio, ragazzino. Sono il tuo re e mi devi rispetto.» calcò appositamente la parola conclusiva irritando il giovane che, però, represse i suoi sentimenti istintivi: per quanto gli costava ammetterlo, quello era pur sempre il suo superiore.
«Arriverà un cazzo di giorno in cui tutto questo finirà.» L'altro si preparò a controbattere, tuttavia il bussare insistente e sgradevole di una domestica lo distrasse dalla formulazione di una giusta replica. Emise un lamento seccato sollevando la testa e successivamente spostandosi sbrigativo , girando il pomolo d'oro, si sporse all'uscio.
«Gli ospiti richiedono la vostra presenza, signore.» avvisò l'anziana in modo grezzo sparendo subito dopo non chiedendo nemmeno scusa per aver interrotto il loro discorso. A volte pensava che qualche nuova inserviente giovenciella beneducata non guastava affatto. Si volse, infine, in direzione del rimproverato, ancora lì immobile.
«Andiamo.»

Il salone superlativo dedicato ai pasti era totalmente spoglio, in armonia con l'aspetto spartano della rocca: nessun affresco, niente quadri di pittori celebri, né statue eleganti agli angoli, solo uno sconfinato bianco sporco. Dal soffitto scendevano tendaggi alternati rosso ed oro su cui era ricamato lo stemma della casata reale, unico ornamento in tutto il perimetro. Pio IX rimase pressoché schifato, troppo abituato alla vita sfarzosa papale. Ciononostante si accontentò, non importava il luogo se gli avesse salvato l'esistenza da una morte dolorosa.
La servitù, su ordine di Ferdinando, apparecchiò la tavola servendo di già i primi piatti affinché possano iniziare a mangiare anche in assenza del padrone di casa. Si accomodarono ai lati opposti intanto che il re e la sua nazione giungevano -domandando perdono per il ritardo- collocandosi l'uno al capo tavola e l'altro alla destra.
Le prelibatezze ricche proposte avevano rigorosamente seguito, come si soleva a Napoli, il libro “La cucina teorico pratica” di Ippolito Cavalcanti e furono cucinate da cuochi francesi o comunque eruditi in Francia -così assicurò il Borbone-. Durante la cena, degna di essere chiamata tale, cominciò a nascere un simposio proprio tra le ultime portate e il dolce, espandendosi, diventando sempre più vivo al termine. Molte discussioni esaminavano argomenti poveri o superflui -tra cui la loro giornata tipica e filosofie sul cibo-, dal valore talmente scarso da non necessitare alcun racconto.
«Al Nord gli austriaci hanno avuto da fare in questo anno, non credete?» tirò fuori Pio IX riflettendo sui recenti avvenimenti accaduti nell'Italia settentrionale e su questa vampata rivoluzionaria tremenda.
«Tra le cinque giornate di Milano, le ribellioni di Venezia e il Regno di Sardegna l'Austria pare averne di problemi.» continuò Ferdinando, in accordo col papa.
«Feliciano si sta dimostrando audace e coraggioso, non lo credevo capace di ciò.» Stato della Chiesa si soffermò sull'innaturale comportamento del ragazzo preso in considerazione, alludendo debolmente sia a Lucia che a Romano.
«E questo non è ancora il meglio di noi. Voi bastardi la pagherete.» recepito il messaggio velato l'italiano reagì subito attaccando sfrontatamente.
«Davvero? A quali moti siamo, i secondi o i terzi?»
«Ti frega? L'importante è non mollare mai.»
«Ma vi stancherete e, come sempre, tornerete alla vostra noiosa vita da falliti.»
«Sta' zitto, bugiardo!» la frase stizzì il siciliano. Si alzò all'improvviso non avendo resistito ad un altro insulto a lui e ai suoi fratelli, non avendo resistito alla fiamma ribelle infuocata nel suo petto, ardente di un desiderio vendicativo troppo violento. Sollevò il dito, mirandolo su Pietro.
«Tu, sarai il primo a morire tra tutti!»
Detto ciò diede le spalle agli altri se ne andò suscitando ira in Ferdinando sul punto di seguirlo e dargli la giusta punizione, però Pietro, rizzandosi in piedi, mise la mano davanti a lui arrestando la sua camminata.
«Ci penso io.»

Il ribelle sgattaiolò via da quella prigione superando, correndo più velocemente possibile, le difese invalicabili e rintanandosi fuori da lì, fuori dal dannato inferno in cui lo avevano scaraventato.
Non sopportava più tutto questo, lui.
Questa sensazione di oppressione e impotenza.
La sua evasione improvvisata lo guidò all'esterno della cinta muraria occidentale spuntando sul promontorio di Gaeta, dove si fermò. L'immenso paesaggio marittimo davanti a sé catturò il suo cuore invitandolo a tuffarsi in quella interminata vasta distesa blu notte, la cui innaturale calma si contrapponeva alla tempesta incontrollabile dentro se stesso. Osservò attentamente il fine ondeggiare delle piccole onde mosse da una docile brezza, la luna lontana riverberata sullo specchio d'acqua la cui splendida luce illuminava parte dei tetri abissi, le stelle, fiaccole celestiali, condottiere di uomini persi attraverso le tenebre, fare strada alla propria anima perduta nella via buia, e il meraviglioso cielo, l'oceano degli oceani, stendersi addormentato lungo il letto maestoso sotto di esso. La visione così toccante gli impedì di muoversi in altri posti incarcerandolo in una cella nella quale volentieri ci si sarebbe trattenuto. Si adagiò seduto sul verde prato ammirando lo scenario stupefatto, sollevato, d'un tratto nessun male parve più crucciargli. Perfino dei dolori, delle pene infernali, della sua guerra contro tutti, s'era dimenticato.
Perché, chiese infine.
Perché, la libertà appariva tanto distante alla sua vista.
Benché sapesse, che la risposta non sarebbe mai giunta.
E mentre lui si smarriva in quel paradiso una persona, oscurata dalla notte, sedette al fianco suo rimirando il panorama proteso di fronte ai suoi occhi. Ci vollero minuti interi affinché ricominciasse ad aprir bocca, intrappolato anch'egli nella vastità della scena.
«Sai, c'è stato un tempo in cui credevo davvero nella felicità e nella libertà raggiunta per mezzo di Dio. Poi ho visto ciò che è capace di fare il demonio.»
Il ragazzo ancora non parlò, troppo impegnato a godersi il momento, in seguito si degnò a proseguire la chiacchierata.
«Io ho visto uomini venir divorati dal potere, e teste di cazzo incapaci di gestirlo. Non venitemi a dire che voi sapete cos'è il male ed io no.»
«Non era questo che intendevo, Lovino. Dico che io e te non siamo poi così diversi.»
«Sarà, però siete voi ad averci mollato nella lotta.»
Pietro sospirò profondamente, riconobbe il fatto a cui si riferiva.
«Ho dovuto farlo, ho dovuto.»
«Questo non giustifica la vostra fuga.»
«Ad essere sincero, il mio vero problema, è che non sono mai stato bravo in guerra, e non mi piace.»
«Nemmeno io e i miei fratelli siamo portati, e non ci piace, eppure siamo a qui a farci in sei.» replicò più furioso Lovino.
«No, non è vero. Voi siete nati per combattere. Non per fare guerra, certamente, non siete macchine per uccidere. C'è una differenza tra l'essere soldati e l'essere guerrieri: i primi obbediscono agli ordini di un generale senza obiettare, i secondi obbediscono ai valori, ai propri ideali, nonostante ciò comporti l'infrangere regole e ordini stabiliti. Io non sono né l'uno né l'altro, rappresento solo il politico che manda i suoi soldatini ad ammazzare. A causa di questi veri motivi, vi ho mollato nel mezzo della battaglia. A causa di questi motivi, voi sapete combattere ed io no.»
Il siciliano restò muto. Non trovava le giuste parole da formulare e non comprendeva questo suo atteggiamento: se fosse davvero sincero o stesse solamente recitando una parte, come tutti. Si alzò da terra rivolgendogli lo sguardo, azione mai compiuta fino a quel momento.

«Vado nelle mie stanze, si congela qui. Venite con me?»
Pietro, allora, imitò i suoi movimenti e ritornarono nella grande rocca.
«Lo sai, vero? Se venissi attaccato sarai costretto a difendermi.»
«Si vedrà.»
Concluso il dibattito, entrambi si diressero nelle rispettive camere, incerti sul domani.

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Capitolo 3
*** Fuoco Eterno (Cap. 2) ***


Piccolo avviso: quando iniziai a scrivere il capitolo non sapevo che a quel tempo ancora non esisteva l'Impero austro-ungarico. All'inizio pensai di togliere Eliza poi, facendo ricerche più approfondite, scoprì che l'Impero Austriaco aveva tra i suoi territori parte delle terre ungheresi. Per cui non sono ancora sposati qui, sebbene si siano occupati di Feliciano insieme. Perdonatemi questo "cambio di programma" un po' forzato.

Le nuvole nereggiavano il cielo mattutino di Venezia stritolata da una cappa d'umidità tanto alta da impedire di respirare facilmente perfino sulle strade. Il tempo, cupissimo, annunciava un imminente forte diluvio sebbene i canali e le vie fradice testimoniavano il passaggio già avvenuto di un terribile temporale che, dopo lo sgomento per i suoi spaventosi fulmini, il rombo delle sue urla e gli accecanti lampi, aveva lasciato una maledetta calma insopportabile. Non vagavano anime in giro se non pochi uomini vagabondi stanchi e soffocati dalla stessa aria che li nutriva, perfino gli uccelli, soliti viaggiatori di quei cieli e accompagnatori dei solitari, non osavano cantare in quella città morente imprigionata nel silenzio.
Lì, tra la perduta gente, Feliciano camminava su un vicolo senza meta, in mezzo ad un vuoto in cui la Repubblica era irrimediabilmente caduta. Tre mesi erano passati da quando aveva lottato tenacemente contro gli austriaci e ormai stava piano piano perdendo le speranze di riprendersi la libertà sottrattigli. Eppure, nonostante sembrasse il punto di conclusione di una storia, il suo viso guardava testardo dinanzi a sé dimostrando di non essersi ancora arreso, di non essersi mai arreso. Errò lungo la sponda del Canal Grande sporgendo lo sguardo oltre il fianco opposto della laguna dove una distesa di variopinte abitazioni consolarono un poco il suo umore turbolento. Più avanti, giunto al Ponte di Rialto, lo attraversò fin sotto l'arcata poggiando gli avambracci sul parapetto e annegando le sensazioni in quella brutale tranquillità.
L'incantevole bellezza di Venezia, persino quando i suoi colori venivano spenti dalle circostanze, pareva non abbattersi mai sotto le furie della natura o dell'uomo stesso.
Le acque si estendevano placidamente sul letto del Canal Grande aprendo un varco tra le vivacissime case vicine consentendo, in questo modo, di poter allungare la vista anche alla vasta pianura azzurra che dalla sommità abbracciava dolcemente la città. Purtroppo, a causa della brutta giornata, il veneziano non poté godersi l'intero paesaggio, ma quel poco gli bastò per tornare a sorridere. Abbassò gli occhi sui pontili osservando il docile oscillare delle gondole sul pelo dell'acqua che, come attraenti sirene, lo invitavano a venire affinché, con loro, solcasse i profondi meandri della risorta Atlantide scovando nuove meraviglie in quelle già scolpite nei marmi degli archi, dei ponti, e nei vivi mattoni delle dimore. Il ragazzo, non potendo tener testa a tale richiamo, discese l'altra metà fermandosi nei pressi di una di queste barchette comprata da lui a peso d'oro anni addietro. Salì su una di esse e, sciogliendo il nodo, liberò la sua creatura. Ad ogni incantevolezza apparsa di fronte a sé un sorriso sornione dipingeva il suo volto mentre immergeva, a destra e a sinistra, i remi spingendo l'amata ove lei lo portava.

Il battere ripetitivo di zoccoli equini spezzò la quiete malata del luogo finché non si bloccarono, improvvisamente, al centro della piazza. Il cocchiere scendendo aprì la portiera del mezzo aiutando prima la donna tenendole una mano guantata, poi reggendo il bastone argenteo del signorotto austriaco per impedirgli una disgraziata caduta sulla strada bagnata. Qualche abitante curioso, sentito il rimbombo, si affacciò alla finestra, ma alla vista dei due forestieri tornarono alle loro attività chiudendo ermeticamente le persiane. I pochi passanti, invece, evitavano la coppia o indifferenti passavano avanti senza alcun saluto. L'uomo fu indignato da questo portamento incivile nei suoi confronti, però lasciò correre concentrandosi sul suo unico obiettivo per il quale aveva viaggiato ore, ed ore, ed ore interminabili: riportare a casa Feliciano. In realtà gli aveva già proposto, dopo gli eventi di pochi mesi fa, di tornare con lui ed Elizabeta, tuttavia questo si rifiutò categoricamente di seguirli affermando la sua volontà di voler essere libero. Malgrado ciò, su richiesta di lei, si decise che fosse il momento di andarlo a trovare e magari riproporgli la stessa offerta, sperando in una risposta affermativa.
Tra le costruzioni nella piazza, la cattedrale di San Marco spiccava di più rispetto al resto per la sua ineguagliabile imponenza sottolineata dallo stile bizantino e dalle colate d'oro sulla facciata. Chi aveva un occhio acuto, inoltre, poteva notare sul portale della terrazza una statua dorata del Leone di San Marco il quale reggeva, come vuole il celebre simbolo, un libro sulla zampa sinistra, su cui era scritta la frase che l'animale mitico pronunciò all'evangelista San Marco. Accanto alla chiesa sorgeva invece il sacro Palazzo Dogale, emblema politico della Repubblica Marinara e antica sede tradizionale del doge la cui forma particolare, molto orientalista, constatava la potenza commerciale della città giunta fino all'oriente dal quale prese non solo spezie e pregiate stoffe ma pure tecniche decorative e di costruzione visibili sia sul Palazzo sia sulla cattedrale: l'Est aveva portato una certa regalità singolare introvabile nella sobrietà dell'architettura classica romana. Seguendo il palazzo si capitava alla riva del bacino di San Marco e al suo molo in cui, un tempo, una fusta veneziana posteggiava perennemente poiché di guardia all'edificio una volta di grande valore. L'entrata e l'uscita della piazza era segnata da un paio di colonne provenienti da Costantinopoli, chiamate di San Marco e San Todaro, antico santo protettore di Venezia, poste leggermente prima del molo. Secondo alcuni detti si diceva che in origine fossero tre, però la terza andò perduta durante il viaggio di trasporto affondata, senza possibilità di recupero, nella fanghiglia delle lagune; delle due sopravvissute si raccontava fossero rimaste a terra, in orizzontale, per parecchi anni perché nessuna delle tecnologie di quei tempi successe nel tirarle su, data la loro grandezza, nella posizione in cui ora si presentavano agli occhi dell'austriaco. Al pensiero del progresso quasi rideva riflettendo su come in passato un'impresa del genere era considerata di grande fatica.
Conosceva Venezia molto bene grazie a Feliciano che si curò di rivelargli ogni notizia della città: sapeva delle due botteghe accanto alle colonne, dei tre incendi del palazzo, del corpo trafugato dell'Evangelista e addirittura delle sue origini mitologiche. Per lui, in apparenza, Venezia non aveva più segreti.
In lontananza, sulla laguna, una piccola figura familiare si stava pian piano avvicinando, mescolandosi tra il traffico di gondolieri e mercanti di qualsiasi dove appena attraccati al molo con merci catturate da chissà quale luogo lontano. Siccome si trattava del canale più frequentato, essendo una delle vie principali per l'area marciana, era normale trovare un continuo via vai di gondole a destra e a manca slittare su quelle acque, sebbene in quel periodo apparivano meno affollate del solito. Il sorridente veneziano, quando sbucarono alla sua vista i due, li salutò allegramente abbandonando per un momento il remo con una delle mani.
«Salve signor Roderich! Si ricorda di non dover mai oltrepassare le colonne al centro? Porta male.»
L'uomo non aveva mai creduto a certe leggende scaramantiche ritenendole superstizioni della bassa plebe. Comunque, pur di accaparrarsi la sua fiducia, ascoltò le parole varcando le colonne ai lati ed evitando la pericolosissima parte centrale. Elizabeta fremeva dalla voglia di poter riabbracciare l'adorato Feliciano dopo tanto tempo come una madre affettuosa il cui figlio, partito in guerra, aspettava, nell'angoscia soffocante di una sua probabile morte da un giorno all'altro. Per lui era del tutto differente: si trattava di un territorio ribelle che aveva agito secondo propria ragione a suo discapito, un “premio” prezioso ricevuto in regalo da Napoleone il quale aveva cominciato a mostrare evidenti rivolte, infondate oltretutto, poiché non ci fu mai una condotta condannabile dalla sua parte -il che era vero, perciò non capiva. Si trovava lì al solo scopo di risolvere il problema, così parlava a se stesso. Realmente, segretato nelle briciole d'umanità sparse sui rami secchi e intricati del suo cuore, nascondeva un certo affetto paterno soppresso dall'orgoglio. Lo vedeva ancora bambino, e la singola idea di una separazione forzata premeva l'istinto a reagire pure bruscamente, se fosse stato utile a segnargli una retta via.
Attesero ambedue sull'argine tenendo fisso lo sguardo sull'ombra sfasata divenuta gradualmente una forma che legava stretta la sua amica alla banchina. Infine, prima posando il piede destro e poi il sinistro, cautamente con un saltino rientrò nella grigia realtà in cui fu rinchiuso. La giovane non gli diede tempo di afferrare il primo respiro, regalò a Veneziano immediatamente un forte abbraccio materno causandogli uno spontaneo sorriso raggiante. Il tedesco invece, da padre severo, non mosse un muscolo. Finite le smancerie lo invitò a spostarsi accanto a lui, pronto per una discussione importante che non fece tardare.
«Vorrei che tu ora stessi ad ascoltare le mie parole senza ribattere, finché non avrò completato questo discorso. Quel che ho fatto l'ho dovuto fare, come ben vedi. I fatti stavano rotolando in una pericolosa guerra che avrebbe portato cataste di cadaveri sui campi, sulle città, ed una sofferenza inimmaginabile. Per cui in favore al tuo bene, ho dovuto agire rispondendo all'incendio un forte acquazzone efficacie. Comprendi, vero? È stato dovere
Non era assolutamente la modalità di scuse sperata dalla donna ora con l'occhio furibondo puntato sul vicino orgoglioso. Aveva avvertito quel gelido distacco, e non corrispondeva affatto alla loro decisione.
«Roderich!» intervenne quindi lei. «Queste non sono scuse, avevi promesso delle vere scuse.».
Allora lui si rivolse al viso di lei sul punto di replicare irritato, ma Feliciano frenò subito i due.
«Va bene, ho capito...ho capito.»
«Pertanto verrai, tornerai, a casa con noi?» avesse quasi fretta a sentirsi la tanto agognata sentenza, l'austriaco.
Ciononostante, il ragazzo tacque.
Chinò il capo sul terreno calpestato.
E restò così, a meditare.
Casa, che parola.
Davvero ancora poteva chiamare in tal modo quella ormai prigionia?
Casa, che casa.
Quella non era più casa sua.
Anzi, quella non era più una casa.
I suoi fratelli erano casa sua.
Roma era casa sua.
E Venezia, la sua libertà perduta.
Ecco, la libertà.
La libertà.
Sollevò la testa e si fece sfuggire un profondo sospiro, ora certo sulla scelta.
«No.» affermò diretto. «Non è più casa mia la vostra...mi dispiace. Io...rimarrò qui, dove dovrei essere.»
Le labbra tremarono a tale affermazione, non capaci di sostenere la risolutezza tirata fuori in apparenza dal nulla.
«No.» Ripeté in seguito più determinato.
Roderich venne spiazzato, e non seppe articolare altre frasi. Elizabeta alla stessa maniera non credette a quella ferma fermezza. Benché infatti fosse l'ennesimo “no” sentenziato a loro, fu il primo uscito dalla sua bocca ad essere veramente irremovibile, marcato, sincero, e lei lo accettò -contrariamente all'uomo- avendo inteso i desideri suoi più reconditi. Lui non volle capire preferendo intestardirsi.
«Non so cosa tu vorresti fare, ma devi venire con me.»
«No!» disse, alzando poco la voce. «Per favore...».
L'altra prese d'impulso il polso di lui, stringendolo energicamente, avvisando in modo implicito di smetterla all'istante. Non gli avrebbe permesso di obbligarlo a seguirli in un luogo ora estraneo al ragazzo. Roderich dopo una breve resistenza -perché l'orgoglio è sempre e in ogni caso più potente di qualsiasi sentimento- chiuse gli occhi, abbandonandosi ad un silenzioso sospiro. Riportò poi la mente alla realtà, limitandosi a risistemare gli occhiali a suo parere più storti del solito.
Una piccola leggera brezza si alzò pungente sulle loro guance pizzicandole come minuscole spillette seccanti. La temperatura parve essere diminuita tutta d'un tratto provocando lievi tremori involontari nel corpo del giovane, l'inverno già si sentiva a meno di un mese dal suo ingresso ufficiale. La superficie opaca e scura delle acque della laguna incominciò ad altalenare facendo dondolare pacatamente le gondole legate al pontile colpendo piano i fianchi pece. Qualche viandante accucciò il mento nel colletto o accostò di più il proprio cappotto accelerando il passo pur di tornare al calduccio di casa in fretta.
Il gruppo non si era minimamente sciolto, ancorché non ci fosse altro da fare. Restarono lì silenziosamente ad osservarsi, finché Elizabeta non donò un secondo abbraccio caloroso a Feliciano voltandogli le spalle sul punto di camminare via.
«Andiamocene.» ordinò lei severamente al compagno.
L'uomo esitò qualche secondo prima di obbedirle e uscire insieme, piano, dalla scena, accerchiati e schiacciati dal triste grigiume della città.
Di nuovo solo, in compagnia della sua coscienza, a pensare quanto gli sarebbe costata cara la libertà ora più vicina di quanto non lo era mai stata. Si girò sul canale guatando l'imperturbabile veduta di Venezia lasciata morire con Milano e tutto il Nord in un buio precipizio profondo. La sconfitta lo aveva enormemente colpito forzandolo a ripiegarsi e inginocchiarsi a terra, questa volta che aveva scelto di non fuggire dinanzi ad un potente nemico affrontandolo come un tempo faceva. Un fiammante fuoco latente si celava sotto quello sporco e morente grigio, un sole fiammeggiante coperto da una mandria di nuvole nere. Bastava il soffio di un vento per far esplodere tutta quella potenza. Una scintilla in un mare di polveri da sparo.
Gonfiò il petto innanzi allo vista: non si sarebbe arreso. Potessero pure passare secoli prima della vittoria, lui non avrebbe piegato nuovamente le ginocchia. Meglio il suicidio dicevano.
Nondimeno, non avrebbe percorso mai la sconsolata strada.
La libertà è la sua unica via, e quella intraprenderà fintantoché non l'avrà ottenuta.

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