L'eroe da salvare di Akane (/viewuser.php?uid=27)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tra capo e collo ***
Capitolo 2: *** Provocazione ***
Capitolo 3: *** Inferno ***
Capitolo 4: *** corsa contro il tempo ***
Capitolo 5: *** Salvezza ***
Capitolo 6: *** Cure ***
Capitolo 1 *** Tra capo e collo ***
TITOLO:
L’eroe da salvare
AUTORE:
Akane
SERIE:
Numb3rs
GENERE:
sentimentale, azione
TIPO:
slash, leggero What if diciamo…
RATING:
rosso/NC17
PARTI:
5 o 6 capitoli
PERSONAGGI:
DonXColby(ma anche ColbyXDon direi…)
AMBIENTAZIONE:
quarta serie, nessun punto specifico
DISCLAMAIRS:
I personaggi non sono miei ma degli autori che ne detengono ogni
diritto…sig!
NOTE:
La piccola clausula che fa di questa fanfic una leggera What if
è
che Don, qua, non sta con nessuna donna (non ricordo il nome della
sua donna della quarta serie). E vi spiego perché questa
cosa
mi esce solo ora: non mi sono mai persa nessuna puntata di Numb3rs
tranne tipo le ultimissime della terza stagione, circa le ultime 4 o
5 probabilmente… avevo visto che Don aveva una relazione con
quest’agente, però non mi pareva che avessero
approfondito
oltre nelle altre puntate e che quindi fosse una cosa rimasta
lì,
così ho dimenticato la sua esistenza ed ho sempre pensato
che
Don fosse single e che si vedesse solo con qualcuna ogni tanto per i
classici istinti maschili… poi mi hanno detto che specie
nella
seconda puntata della quarta serie (che non sono ancora riuscita a
vedere ma spero di rimediare presto) tornano a mostrare quei due
più
fidanzati che mai! Proprio stasera, inoltre, mi è capitato
di
vedere una di quelle puntate della terza stagione che mi ero persa e
proprio in quella fanno vedere che stanno insieme, anche se non
è
poi tanto approfondito come rapporto. Così mi devo
correggere
e specificare che qua quei due non stanno insieme, punto e basta.
È
che Don non è come Charlie che una volta che si accorge di
essere innamorato diventa svenevolmente appiccicoso e romantico e
mostra in continuazione che sta con quella… Don è
molto
riservato in campo sentimentale, non vive molto alla luce le sue
relazioni così mi aveva tratto in inganno facendomi
dimenticare di quella donna… pazienza, succede.
Ora che
ho ampiamente spiegato i miei giri mentali, spiego anche di cosa
tratta la fic a grandi linee:
Don è
sempre quello che salva tutti, l’eroe della situazione che si
butta
a capofitto in tutti i rischi per salvare cani e porci (mentre Colby
è comunque quello che ci rimette sempre più di
tutti!),
ma se la cava sempre perché lui è troppo bravo e
furbo
per rimanere fregato e vedersela male male male. Ma se una volta
dovesse succedere? Se nemmeno tutta la sua prontezza di riflessi e la
sua bravura bastasse a salvarsi il fondoschiena bellissimo che si
ritrova? Eh già… per una volta sarebbe
l’eroe a dover
essere salvato. Quindi ora sapete anche su cosa è improntata
questa fanfic che non durerà tantissimo e che è
in mio
perfetto stile!
Dopo
questa premessa lunghissimissima, passo ad augurarvi buona lettura!
Baci
Akane
DEDICHE:
a Parsifal che le piace questa coppia… e a chi
l’apprezza
nonostante tutto (e per tutto dico le coppie ufficiali e/o altre
coppie preferite…).
RINGRAZIAMENTI:
A tutti quelli che leggeranno e commenteranno.
L'EROE
DA SALVARE
CAPITOLO
I:
TRA
CAPO E COLLO
/Tell
me it's not over - Starsailor/
Quando
il responsabile dell'FBI in persona giunse con passo sostenuto negli
uffici della squadra di Don e non lo trovò lì
insieme a
Megan e David, il suo viso articolato e tutto d'un pezzo assunse
stranamente un espressione che non fu facile interpretare se non
fosse che quello era proprio il lavoro di Megan. Nella frazione di
secondo che intercorse fra quell'espressione e la sua voce, la donna
seduta alla scrivania a sbrigare qualche cartella arretrata, si tolse
gli occhiali aguzzando lo sguardo capendo in un lampo che quella era
preoccupazione bella e buona. Non facile da interpretare come tale ma
lo era, non ebbe dubbi.
Così
si alzò subito per ascoltare la voce prorompente e
diplomatica
del gran capo in persona rivolgerle la parola e dire:
-
L'agente Eppes dov'è? - Chiese subito senza perdere tempo a
spiegarsi ulteriormente.
Megan
rimase calma imponendosi di non fasciarsi la testa prima di averla
rotta solo perché la presenza di quell'uomo lì
era
insolita.
-
Non è ancora arrivato, immagino sarà qui a
momenti. -
La sua voce non tradiva agitazione, era brava nel suo lavoro ma la
sensazione che ebbe nel dirlo non le piacque, come non le piacque lo
sguardo che ebbe l'uomo davanti a sé che strinse appena le
labbra contrariato.
-
Rintraccialo e digli che venga subito qua! -
-
Ma è successo qualcosa? - “Questo
ordine sa tanto di protezione nei confronti di Don, non è
normale.” Pensò
infatti.
-
Si. Hilton Johnson è evaso dal carcere ed ora è a
piede
libero per la città! Tutte le forze dell'ordine lo stanno
cercando ma finché non lo troveranno Eppes non è
al
sicuro. Fallo venire subito qua e che si prenda una scorta! Questo
è
un ordine! -
Non
aggiunse altro, se ne andò subito senza ascoltare probabili
domande o reazioni incredule dell'agente speciale con cui aveva
appena parlato.
-
Oh accidenti! - Imprecò diplomaticamente la donna sgranando
gli occhi e ricordandosi in un flash il politico incastrato con
fatica da Don, a cui lui in special modo aveva rovinato la vita e la
carriera incarcerandolo non solo per omicidio ma per un sacco di
altri affari sporchi di corruzione e traffici illeciti che aveva in
piedi.
-
Gliel'aveva giurata, quando è stato messo dentro! -
Ringhiò
David preoccupato per l'amico nonché capo guardando la
collega
prendere il cellulare e chiamarlo subito.
-
Dannazione, è spento! - Fece quindi chiudendo la
comunicazione
mai partita con un gesto di stizza. – Non è da
lui! Sarà
in un posto in cui non prende... - aggiunse poi guardando nervosa la
direzione da cui sperava di vederlo arrivare come ogni mattina.
-
Non l'avrà già trovato e comunque sa difendersi.
-
Cercò di rincuorarla David stringendo le mani sui fianchi
indicando che quello più ansioso era proprio lui!
-
Spero che sia così. - Disse solamente ancor più
in
pensiero Megan aggrottando le sopracciglia sapendo che tutto quello
che poteva fare, per ora, era mettersi subito al lavoro.
La
folla che di prima mattina si muoveva per le vie della
città,
non era trascurabile e già si faticava a camminare senza
essere spintonati.
I
due uomini, tuttavia, non venivano nemmeno sfiorati tanto imponenti
erano anche solo mentre camminavano per il marciapiede.
Colby
e Don dopo aver bevuto un caffé insieme al bar di fronte
all'edificio dell'FBI, si apprestavano a dirigersi a lavoro.
Come
ogni mattina che eseguivano quella routine sia che dormissero
insieme, sia che non lo facessero, tenevano entrambi il cellulare
spento. Avevano imparato a farlo solo nel tempo che correva nella
loro colazione insieme, anche se entrambi avevano fatto fatica ad
abituarsi visto che erano persone che preferivano essere sempre
rintracciabili per essere pronte in qualsiasi momento a qualsiasi
cosa.
Tuttavia
quella mezz’oretta che si concedevano ogni giorno prima di
iniziare
il lavoro, era così piacevole che non faceva avere rimpianti
a
nessuno dei due.
Fino
a quel momento, probabilmente.
Si
erano messi insieme dopo il ritorno di Colby, quando bene o male si
erano snodati tutti i dubbi sul suo ruolo e sulla sua
veridicità.
Del
resto dare la propria vita in cambio della loro salvezza era un atto
che da solo bastava a convincere tutti. Con David l’aveva
avuta più
dura ma lentamente le cose si stavano sistemando, mentre dopo un
primo screzio con Don per la sensazione che lo facesse controllare,
tutto era andato a posto. Del resto Don oltre ad essere il suo uomo
era anche il suo capo, come lo era di altri agenti, ma non solo, era
lui stesso un sottoposto e doveva fare il suo lavoro, eseguire ordini
e rispondere a certe aspettative seguendo le regole sia ufficiali che
ufficiose. Era normale che uno dal passato di Colby, tornato in
squadra, dovesse essere un minimo seguito e controllato.
Il
punto era che mentre tutti pensavano Don l’avesse fatto per
dovere
e sospetto naturale, lui l’aveva fatto, in realtà,
per
assicurarsi che si ambientasse di nuovo e fosse aiutato in tutti i
modi potesse aver bisogno.
Un
po’ lui, un po’ altri agenti della sua squadra, non
l’avevano
più fatto agire da solo.
Chiarito
in privato anche questa questione, i due erano andati via via sempre
più rafforzando il loro legame che come era naturale, aveva
i
soliti alti e bassi e le solite difficoltà. La loro, poi,
era
una relazione davvero difficile: non solo erano entrambi due uomini,
ma erano un capo squadra dell’FBI ed un suo sottoposto e,
ultimo ma
non ultimo, avevano dei caratteri davvero complessi. Nessuno dei due
era troppo incline a dimostrare normalmente i propri sentimenti e
vivere una storia come la maggior parte faceva, esternando almeno in
privato ciò che provavano. Non facevano fatica a tenere
nascosta la loro storia ed ancora non si erano detti di amarsi,
avevano solo ammesso di provare attrazione e di stare ancora
innamorandosi. Era una cosa diversa.
Nessuno
avrebbe mai capito cos’erano a meno che qualcosa non avesse
dato
una certa spinta.
L’unico
a conoscenza della loro relazione era Charlie il quale
l’aveva
capito da solo grazie alla sua mente analitica che applicava teorie
matematiche a qualunque situazione alla velocità della luce.
Non
erano rari i momenti in cui Don e Colby litigavano e poi sparivano
dalla circolazione per far pace, riapparendo magicamente allegri come
raramente li si poteva vedere, specie Don. Colby un minimo di
serenità o ironia in ciò che faceva riusciva a
mettercela, Don era molto più trattenuto e cupo, di norma.
Però
avevano quei momenti in cui si trasformavano diventando come
più
luminosi e questo apparentemente senza ragione, per chi gli stava
intorno.
A
loro non importava, era comunque impossibile capire che avessero una
relazione ed essere due agenti che di norma scoprivano i segreti
degli altri, li aiutava molto a riuscire a mantenere i loro.
Del
resto della missione di Colby nessuno era mai venuto a conoscenza,
né
aveva sospettato!
Quella
mattina avevano appena finito di bere il solito caffè
insieme
nel solito bar e come di consueto a quell’ora si apprestavano
ad
attraversare la strada abbondantemente trafficata per entrare in
ufficio ed iniziare il lavoro.
Arrivati
davanti al semaforo rosso per i pedoni, si fermarono insieme ad altre
persone pronti per ripartire appena avessero avuto il verde.
Immersi
nei loro discorsi che variavano fra i più disparati,
facevano
poco caso ai veicoli che sfrecciavano davanti a loro alzando aria che
andava a scostare la giacca primaverile di Colby. Il suo
abbigliamento trasandato da strada da fuggiasco era solo un ricordo,
ormai, visto che per l’FBI era tornato un agente serio,
ordinato e
perfetto.
Entrambi
dritti con i piedi ben piantati sul marciapiede, le mani nelle tasche
dei pantaloni stretti, jeans per Don, occhiali da sole ed espressione
distesa.
Quando
erano insieme in quel particolare istante della giornata riuscivano
ancora ad esternarsi dal resto del mondo che rimaneva fuori,
facendosi assorbire completamente dal compagno accanto che non ancora
stressato per qualche caso che avrebbero affrontato di lì a
poco, si concedeva diventando intimo per i loro standard.
Non
accadde nulla di eclatante, nulla che con maggiore attenzione si
sarebbe potuto evitare.
Semplicemente
successe.
Mentre
loro due erano immersi nella loro conversazione e nel sentire il
profumo dell’altro che veniva brevemente sovrapposto a quello
di
uno dietro di loro, fu come un battito d’ali di farfalla, una
folata di vento troppo veloce per essere prevista, un lampo a ciel
sereno.
Quel
profumo che per un istante sentirono entrambi esplose contro di loro
e da che Don era lì accanto a Colby a parlare come nulla
fosse, a che si trovò pesantemente spintonato in maniera
imprevedibile ed improvvisa, il cuore dei due agenti smise di battere
per un istante.
Mancò
un battito ma quello di Colby nello specifico parve proprio
paralizzarsi insieme alla sua mente che smetteva di ragionare vedendo
il suo uomo spinto inaspettatamente in avanti, in strada, proprio la
frazione di secondo prima che un camion sopraggiungesse ad una
velocità più che sostenuta, come tutti gli altri
veicoli.
Una
velocità mortale per una persona caduta accidentalmente in
strada.
No,
davvero non ci fu tempo per nulla, nessun pensiero coerente, nessun
rendersi conto di qualcosa, nessuna prontezza se non quella dei
riflessi di Colby che, appunto perché non riuscì
a
pensare, agì istintivamente senza riflettere prendendo il
suo
uomo per il braccio, tirandolo poi verso di sé con forza
proprio mentre il camion sfrecciava davanti a loro col clacson che
suonava.
Don
e Colby quindi si trovarono sbilanciati all’indietro ma
ancora in
piedi, col cuore in gola che aveva ripreso vorticosamente a battere e
le braccia di uno che stringevano decise e spaventate la vita e la
schiena dell’altro, aggrappato a sua volta a lui e alle sue
spalle
larghe e robuste poiché nessuna riflessione logica aveva
potuto farlo agire diversamente.
La
sensazione di vedersi la vita, per l’ennesima volta, davanti
agli
occhi non gli piacque a Don, ma questa sgradevole emozione
l’avrebbe
affrontata dopo che con rapidità si era raddrizzato e
staccato
da Colby per girarsi a guardare chi l’aveva spinto in quel
modo
apparentemente casuale ma proprio nel momento più sbagliato.
Un
incidente terribile, tutti avrebbero pensato così se lui con
l’istinto di chi diffidava di tutti tranne che della sua
squadra,
non avrebbe cercato un colpevole volontario.
-
Ma che diavolo… - Borbottò col sudore freddo che
già
cominciava a scendergli lungo la schiena insieme
all’adrenalina che
gli scorreva a fiumi in circolo. Era pronto all’azione
nonostante
la morte appena guardata in viso e come lui Colby che, messo da parte
il suo spavento, aveva trovato il responsabile che svelto e furtivo
si allontanava cercando di non farsi notare.
L’istinto
di seguirlo l’ebbero ma quando il rosso diventò
verde e la
folla intorno a loro iniziò a camminare, dovettero desistere
dal loro intento perdendolo di vista.
-
Ma quello… - Mormorò allora Don togliendosi gli
occhiali
scuri, tendendosi come una corda di violino e aggrottando le
sopracciglia in direzione dell’uomo appena intravisto, ormai
sparito. Una sensazione sgradevole lo invase e il sangue si
raggelò
nelle vene immobilizzandolo senza dargli la forza di emettere alcun
suono.
-
Cosa? – Chiese Colby capendo subito che c’era
qualcos'altro che
non andava. Lo guardò con attenzione e impazienza, quello
sguardo così accigliato non diceva nulla di buono, ormai lo
conosceva. – Sembra che hai visto un fantasma. – In
effetti senza
saperlo indovinò, in un certo senso.
-
Già… anche a me… - Rispose quindi vago
Don sperando di
rivedere quello che gli era parso un fantasma. Non poteva essere lui,
era in prigione da un po’, l’aveva messo dentro lui
stesso. Era
stato uno dei suoi nemici più ostici ma ci era riuscito e
con
enorme soddisfazione, rischiando nemmeno poco. Non era di certo lui
quello che aveva intravisto andarsene in fretta.
-
Lo conosci? – Chiese infatti Colby capendo subito di cosa
poteva
trattarsi, lasciando che la paura per averlo quasi perso scemasse da
sola senza essere riconsiderata. Soffermarsi troppo tempo su certi
sentimenti non era mai bene, si doveva avere la prontezza per andare
subito avanti. Non l’aveva perso, l’aveva salvato.
Ora era ancora
lì con lui a fissare stralunato un punto ormai riempito da
un
sacco di persone sconosciute. Pensarci troppo significava richiamare
una sensazione sgradevole e lui non voleva affatto. Aveva rischiato
grosso ma non era successo nulla, questo contava. Ora bisognava
andare avanti.
Don
semplicemente se ne dimenticò subito a causa di
ciò che
gli era parso di vedere, qualcosa di decisamente impossibile ma
abbastanza forte da fargli scordare la vita che aveva appena
rischiato, come molte altre volte del resto. Abituarsi a sfiorare la
morte non era proprio la cosa migliore, significava che la vedeva
troppe volte e che presto sarebbe anche potuto succedere davvero.
-
Sembra Johnson, un politico criminale che ho catturato diverso tempo
fa, rovinandogli la vita e la carriera. Me l’aveva giurata
più
di molti altri che ho messo dentro. – A parlare di lui
entrambi
sentirono dei brividi lungo il corpo, come a confermare che avevano
indovinato.
Ma
preferirono accantonare anche questa sgradevole sensazione senza
fasciarsi la testa prima di romperla.
Era
stata un impressione, era in carcere quel tipo, no?
Così
come la sua quasi morte… era vivo, ora, no?
Questo
contava.
Riprendendosi,
senza troppa convinzione, Don si rimise gli occhiali scuri addosso
quindi girandosi verso il suo uomo si concesse un breve
sbilanciamento con un: - Oh, grazie, eh? – appena udibile.
Più
un borbottio che altro. Colby sorrise tornando apparentemente in
sé,
senza però riuscire a cacciare del tutto quella strana
sensazione.
Qualcosa
non andava. La giornata era iniziata male e sarebbe anche potuta
finire peggio.
Di
norma non avevano quei pensieri ma lì, stranamente, li
ebbero
entrambi.
Tuttavia
non li avrebbero mai detti nemmeno sotto tortura.
-
Non potevo mica lasciarti diventare una frittella… - Disse
quindi
battendogli una mano sul braccio, ricambiando il suo sguardo da
dietro le lenti scure. – Chi mi avrebbe pagato, poi, la
colazione
ogni giorno? – Concluse con ironia che fece distendere per un
attimo entrambi in un sorriso divertito.
-
Mi sembrava una cosa simile… - Commentò su un
tono
fintamente offeso che al contrario stava perfettamente allo scherzo.
Gli scoccò un’ultima occhiata nascosta come per
ringraziarlo
anche per quel sdrammatizzare, per quel non permettergli di pensare a
ciò che sarebbe potuto essere, a cosa sarebbe quindi stato
fra
loro facendo di conseguenza partire un pesante e svenevole scambio di
miele che comunque non sarebbe mai stato da loro.
Ogni
giorno rischiavano di morire, non potevano mica pensare alla loro
separazione in tragedia ogni volta… era come uccidere il
loro
rapporto così singolare...
Andava
bene così, senza romanticherie e frasi del tipo
‘non potrei
mai vivere senza di te’ che gli avrebbero fatto venire il
diabete.
Erano
adulti ed onesti, sapevano a cosa correvano incontro stando insieme e
facendo quel lavoro.
Bisognava
sempre andare avanti e dimenticare la morte sfiorata. Alla fine ne
contava solo una, quella decisiva. Ma non era ancora il momento.
Quando
Colby e Don giunsero al loro piano si videro venire incontro Megan e
David tutti trapelati ed agitati.
Era
successo qualcosa e sommando quella consapevolezza con quanto appena
accaduto ed alla sensazione istintiva di entrambi, specie quella di
Don, furono sicuri di sapere già tutto.
-
Don! Ti abbiamo chiamato ma hai il cellulare spento! Non arrivavi
e…
- Megan cominciò pensando che lui già sapesse
tutto,
sapendo che comunque non poteva essere così
perché la
notizia era rimasta interna all’FBI per il momento e anche se
lui
era Don e di norma sapeva le cose prima di loro, non era certo un
mago.
-
Cosa è successo? – Chiese l’uomo
togliendosi di nuovo gli
occhiali scuri imitato da Colby che la guardò allo stesso
modo
del compagno, accigliato e con urgenza di sapere.
-
Hilton Johnson… - E bastò quello per avere la
conferma di
tutto.
Nuovamente
il flash lo colpì dall’ultimo scontro con lui per
giungere
veloce fino al primo, a quando si erano giurati odio. Gli
sembrò
di finire per un attimo in un altro mondo, non sentì nessuno
ma già sapeva che cosa stava dicendo Megan, gli
bastò
sentire il suo nome dopo che l’aveva visto giù in
strada ed
aveva tentato di spingerlo sotto un camion.
Azione
ingenua, tutto sommato, quasi sciocca e poco organizzata. Non da lui.
Ma forse non l’aveva nemmeno progettata. Se l’era
trovato
fortunatamente davanti e ci aveva provato senza considerare la
presenza di Colby che pronto l’aveva salvato.
-
… e così è evaso di prigione. Il capo
vuole che ti
prendi una scorta. Sei fra i più a rischio. –
Concluse
quindi riportandolo alla realtà.
-
Cosa?! – Esclamò incredulo fissandola come avrebbe
fatto con
un alieno. L’aria sempre più stralunata.
– Non se ne
parla, non mi serve… - Cominciò a protestare come
era nella
sua natura davanti ad una cosa simile.
-
Come no! Ma se ti ha quasi ucciso, ora! – Intervenne quindi
scettico e deciso Colby allarmando immediatamente tutti gli altri che
li guardarono interrogativi ed ansiosi chiedendo spiegazione. Don lo
guardò immediatamente ed in breve si intavolò un
duello
di sguardi molto sfrontato, nessuno dei due avrebbe ceduto ma non
servirono parole, si capirono subito. Cosa che non accadde per David
e Megan che invece volevano capire eccome.
-
Stavamo attraversando la strada, eravamo fermi al semaforo e qualcuno
ha pensato bene di spingerlo proprio mentre passava un camion,
è
stato per un soffio che l’ho riportato di qua! –
Spiegò
con aria di rimprovero beccandosi per questo uno sguardo assassino
dal suo capo, a poca distanza da lui.
-
Quando ti ho chiesto se lo conoscevi mi hai detto che ti era sembrato
Johnson! Guarda che coincidenza! – Esclamò quindi
sempre più
sul piede di guerra. Sapeva di avere ragione ad insistere
così,
con Don era necessario o come sempre avrebbe fatto di testa sua senza
proteggersi. E le conseguenze sarebbero state ovvie!
-
Era lui! – Fece sconcertato ed agitato David partendo
già
per la tangente con quella di setacciare subito tutta la zona intorno
all’edificio dell’FBI!
-
Non era un consiglio, quello del capo, Don. Era un ordine. Devi
prenderti qualcuno che ti guardi costantemente le spalle! Scegli chi
vuoi ma io sono d’accordo! Quello che è appena
successo è
la conferma che ne hai bisogno! Gli hai rovinato la vita, Don, te
l’ha giurata. Devi prendere le giuste misure! – Lo
rimproverò
Megan come una mamma arrabbiata per l’incoscienza ripetuta
del
figlio.
Don
l’ascoltò con metà cervello mentre con
l’altra
pensava a come prenderlo e a chi mandare dove. Non ci pensava
minimamente a stare in panchina a guardare altri che si facevano
sfuggire il suo nemico giurato!
Se
pensava di spaventarlo e metterlo fuori gioco si sbagliava di grosso!
-
Va bene, va bene… non girerò mai da solo. Ho
capito! Ora
però iniziamo la caccia all’uomo prima di perdere
altro
tempo! – Accettò solo per zittirla ed iniziare le
indagini,
senza pensare davvero di attuare quanto detto. Voleva agire
liberamente senza essere legato agli ordini di protezione di un
altro, ma prima di tutto voleva sbrigarsi e trovare quel dannato che
aveva osato sfuggirgli di nuovo!
-
Scegli chi ti farà da scorta fissa! –
Riattaccò
quindi di nuovo, conoscendo l’amico e collega.
-
Che? – Chiese quindi pensando di aver capito male, con
l’aria
perenne da ‘che cazzo dici?!’.
-
Avanti, decidi chi sarà la tua scorta o decido io!
–
-
Ma… - Provò di nuovo a protestare in perfetto
disaccordo,
come fosse un bambino, quindi a quel punto lo interruppe Colby stesso
che subentrò più deciso che mai.
-
Lo farò io. – Sparò
nell’immediato senza averci
riflettuto molto. Gli altri lo guardarono straniti della sua scelta,
quindi corresse il tiro con aria più diligente: - Se vi va
bene. – ricordandosi che loro due stavano insieme ma doveva
rimanere una cosa privata!
Don
sospirò insofferente girandosi dall’altra parte,
quindi
Megan parlò per lui prendendo le redini come tendeva a fare
in
sua assenza:
-
Ve bene. Non devi mai staccarti da lui, nemmeno la notte! Speriamo
comunque di prenderlo subito. –
“Non
sarà un dispiacere!” Riuscì
anche a pensare con una certa malizia ben mascherata mentre guardava
Don scrollare le spalle e grugnire un vago ‘si’ di
assenso. Non
che avesse avuto molta scelta in effetti.
Del
resto Colby era quello più indicato, fra tutti
l’uomo più
d’azione insieme a Don stesso, quello che nei guai riusciva a
cacciarsi anche senza impegnarsi troppo e che aveva il dono di
vedersela sempre peggio degli altri. Salvato ogni volta in corner da
Don. Comunque un agente molto valido che nell'azione pericolosa ci si
buttava a capofitto senza esitazione.
Era
giusto che per una volta fosse lui a ricambiare i favori e lo
proteggesse come si doveva.
Una
serie di sensazioni lo percorsero fra cui anche una certa incosciente
contentezza per potergli stare ufficialmente attaccato senza
risultare strano ed anomalo.
Quando
dopo di quello un cellulare cominciò a suonare tutti
guardarono in direzione della tasca di Don dal momento che pareva
venire proprio da lì, quindi il primo a stranirsi della cosa
fu lui.
-
Che c’è? – Gli chiesero vedendolo poco
convinto che il suo
cellulare potesse squillargli.
-
Non è il mio, è ancora spento! – Fece
quindi senza
perdere poi tempo e tirando fuori l’oggetto pieghevole
sconosciuto
che suonava ancora lampeggiando sul display la parola ‘numero
privato’.
-
Ecco a cosa è servito il contatto di prima, non ad
uccidermi,
sapeva che non sarebbe stato facile. Era per mettermi in tasca
questo! – Asserì mettendo immediatamente in moto
la sua
mente da agente federale, gli ci volle un millesimo di secondo per
entrare nell’ottica giusta e trovare il suo sangue freddo,
quindi
con attenzione maniacale rispose alla chiamata con gli occhi ansiosi
di tutti puntati addosso, specie quelli già sul piede di
guerra di Colby.
-
Agente Eppes! – Disse la voce al di là della linea
telefonica. Una voce familiare che Don non avrebbe mai potuto
dimenticare. – Da quanto tempo! –
Continuò poi con ironia
e finta allegria.
-
Johnson! – Borbottò invece Don, breve e conciso
come al
solito. E rabbioso.
-
Sono lieto di vedere che non hai dimenticato il mio nome. Sai,
nemmeno io ho dimenticato il tuo, così come non ho
dimenticato
il tuo viso e tutto quello che hai fatto per me. – Di secondo
in
secondo la sua voce cominciava ad assumere un tono sempre
più
teso e tagliente per diventare via via più sgradevole e
velenoso, pieno di odio.
-
Io invece sono riuscito a fare sonni tranquilli, in tutti questi
anni. Grazie al fatto che ti sapevo a marcire in prigione! –
Disse
quindi Don incisivo e sferzante consapevole che comunque quella
chiamata sarebbe stata irrintracciabile, naturalmente.
-
Lieto di saperlo. Ancora più lieto di farti sapere,
però,
che da ora i tuoi sonni diverranno pieni di incubi poiché
sono
di nuovo libero e come ormai già sai, ti sto cercando.
Voglio
ringraziarti di persona ed in modo speciale per come mi hai rovinato.
Ci tenevo a fartelo sapere perché gli ospiti più
graditi sono quelli attesi! –
-
Ma che gentile. – Fece allora Don scurendo ulteriormente il
suo
viso, poi assunse un espressione profondamente buia e risoluta, quasi
agghiacciante, che fece rabbrividire tutti quelli che lo videro e
ascoltarono la sua voce sussurrare basso e penetrante: - Visto che lo
sei voglio ricambiare anche io dicendoti che puoi fare quello che
vuoi, figlio di puttana, ma ovunque tu andrai e qualunque cosa tu
farai ti prenderò di nuovo e sarò sempre io a
rovinarti, dopo di ché ti farò visita ogni giorno
per
ricordarti a chi devi l’Inferno che passerai per la seconda
volta!
–
Questo
probabilmente non piacque a Johnson il quale dall’altro capo
del
telefono, dopo una breve pausa in cui si poté solo
immaginare
la sua espressione furente, sibilò a denti stretti
somigliando
ad un serpente:
-
Sei morto, Don Eppes. –
Infine
la comunicazione fu interrotta con quella che era non solo una
promessa ma un vero e proprio giuramento solenne da parte di
entrambi.
La
caccia all’uomo era partita, capitando a tutti
inaspettatamente tra
capo e collo, come una manna pericolosa che gravava sulla vita di
Don. Una manna pronta a cadergli addosso e portarselo via da un
momento all’altro.
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Capitolo 2 *** Provocazione ***
L'EROE
DA SALVARE
*Ecco
qua di già il secondo capitolo di questa breve fic, breve
per
alcuni miei standard. Comunque qua le cose continuano a movimentarsi
sempre più ma di capitolo in capitolo la cosa
andrà
sempre più in crescendo, fino a non riuscire più
a
respirare. O per lo meno questo è quello che io ho
progettato... Per ora ringrazio molto quelli che hanno commentato e
letto il capitolo precedente. Buona lettura. Baci Akane*
CAPITOLO
II:
PROVOCAZIONE
/What
i’ve done – Linkin Park/
- Vedi
cosa puoi fare! – Concluse Don chiudendo bruscamente e
sbrigativo
la comunicazione con suo fratello, al di là del cellulare.
- Per
me non è una buona idea… - Si inserì
subito Colby con
un tono che non nascondeva affatto la propria contrarietà.
- Cosa?
– Fece Don parcheggiando al volo l’auto, una volta
arrivato a
destinazione in un tempo più breve del normale.
Più che
una domanda parve un tuono, già sapeva che non era
d’accordo
con quanto il suo uomo avrebbe detto di lì a poco.
Colby
però non se ne preoccupò ed andò
dritto come un
carro armato dicendo né più né meno
quel che
pensava, più deciso che mai:
- Che
te ne occupi tu! Che vai ad indagare partendo da dove è
evaso,
che ti esponi così tanto! Che esci dall’edificio
sicuro e
blindato dell’FBI! – Ne aveva di cose con le quali
non era
d’accordo…
Don
parve non ascoltarlo nemmeno ed anzi scese senza nemmeno dargli
risposta, come se il vero carro armato fosse proprio lui.
Tutti
sapevano come era fatto, suo fratello e suo padre per primi.
Se si
metteva in testa una cosa era impossibile fargli cambiare idea.
Sarebbe
stato lui a prendere Johnsson, punto e basta.
Colby
lo seguì a passo spedito senza mollare:
- Don,
così fai il suo gioco! Gli renderai la vita più
facile!
– Sperava sempre di riuscire ad entrare nella sua testaccia
dura ed
infilarvi un po’ di sale, ma era una battaglia persa in
partenza ed
in fondo lo sapeva bene.
- E’
un compito che spetta a me, prendere di nuovo quel bastardo. A me. E
poi sono io che gli renderò la vita un inferno, puoi
contarci!
– Ribatté finalmente il capo gesticolando in modo
secco con
le mani, come a chiudere il discorso una buona volta e a non volerne
più riparlare.
Una
volta giunti a destinazione Colby decise di rimandare l’opera
di
convincimento lasciandolo fare, poi sarebbe ripartito
all’attacco.
Era piuttosto testardo anche lui e non voleva che il suo uomo finisse
davvero come una frittella.
Dopo
aver accertate le modalità di fuga di persona si
trovò
a dover tornare indietro con non molto in mano.
Era
stato aiutato ed il tutto organizzato molto bene tanto che non
avevano lasciato indizi su cui indagare, nessun dato utile nemmeno a
Charlie. Solo più grane.
Più
persone, uguale più pericoli.
Eppure
era come se non se ne curasse affatto, come se non sentisse davvero
il peso di quella ghigliottina che minacciava di cadergli sul collo
da un momento all’altro.
Incoscienza
o cosa?
Come
definirla?
Guardandolo
correre come un matto da una persona all’altra, da un luogo
all’altro e da una pista all’altra, Don parve a
tutti, a Colby e
Charlie per primi, come ossessionato da quell’uomo tanto da
fregarsene altamente del rischio che lui stesso correva.
E a
loro, questa sua incoscienza volontaria e consapevole dava davvero
sui nervi.
Perché
lui, per gli altri, metteva sempre troppo a repentaglio la sua vita?
Gli era
andata sempre bene, era vero, ma mettendosi così in prima
linea ogni volta, non sempre gli sarebbe andata così bene.
- Don,
hai un momento? – La voce di Charlie che lo seguiva per i
corridoi
dell’FBI non lo fece né sobbalzare né
distrarre dai
propri ragionamenti e senza alzare gli occhi dalle carte che
consultava né rallentare il passo, a cui il fratello per
starci dietro doveva quasi correre tanto che era svelto,
borbottò
un secco e deciso: - No! – che comunque non fece desistere
affatto
il moro dai capelli ricci tutti in disordine intorno al viso.
- Per
me non dovresti occupartene tu. Corri troppi rischi! Per una volta
dovresti lasciar fare a qualcun altro! – Fece quindi come se
non
gli avesse detto nulla. Don alzò la testa di scatto e quasi
seccato dal dover ripetere per l’ennesima volta la stessa
cosa in
poche ore, tralasciò il particolare che Charlie normalmente
non dimostrava mai la sua preoccupazione per lui e posò i
suoi
occhi esasperati e brucianti su quelli tanto simili ai propri ma
comunque non identici.
- Vi
siete messi tutti d’accordo? – Disse con un tono
che non tradì
per nulla la sua espressione. – Ho deciso che me ne occupo
io,
spetta a me, Johnsson l’ha giurata a me, sono io il suo
obiettivo.
Non voglio che pur di arrivare a me passi sul cadavere di tutti
quelli che mi stanno intorno! – A lui concesse una
spiegazione in
più, anche se seccato e alterato e sempre senza fermarsi.
Poi
senza dargli tempo di ribattere, chiese alleggerendo appena il tono:
- Hai qualcosa per me? – anche con un po’ di
speranza, in realtà.
- Si! –
Fece quindi Charlie ricordandosene solo in quel momento.
- E
cosa aspettavi a dirmelo? – Chiese corrugando la fronte di
nuovo
sul piede di guerra. Per quel caso avrebbe litigato con tutti,
sarebbe sicuramente finita in quel modo.
- Ecco,
secondo la teoria del XXX che dice… -
-
Charlie, ti prego, arriva subito al colpo di scena, per favore!
–
Lo interruppe sbrigativo e brusco Don citando una frase di Colby
sulle sue elucubrazioni matematiche che aveva divertito tutti.
L’altro si ridimensionò e piegando le labbra in
segno di
rassegnazione, gli concesse di essere più incisivo del
solito
dicendo la scoperta minima che per il momento aveva fatto anche in
virtù della consapevolezza che Johnsson non agiva da solo,
fornendogli la prima pista generica in mezzo a tanti buchi
nell’acqua
che l’avevano solo fatto innervosire ulteriormente. Per poi
concludere svelto e testardo almeno quanto il fratello: - Ma comunque
l’unica certezza assoluta è rappresentata dal
fatto che
appena uscirai da qua lui sicuramente in qualche modo
tenterà
di ucciderti. Ti segue e sa perfettamente i tuoi spostamenti.
– Non
ci sarebbe voluto un genio della matematica per
quell’affermazione
ed infatti non era stata portata da nessun calcolo, solo dalla
consapevolezza di quanto in un modo o nell’altro sarebbe
successo
di lì a poco.
E dalla
sensazione sgradevole che di minuto in minuto gli faceva contorcere
la bocca dello stomaco dandogli un senso di nausea destinato a
crescere sempre più.
- E
allora è ora di avere un altro contatto con lui, o non gli
arriverò mai abbastanza vicino per prenderlo. Charlie, fammi
un calcolo in base alla pianta degli edifici e delle entrate, trovami
il posto migliore in cui un cecchino si piazzerebbe per uccidere un
obiettivo che esce da qua. –
Azzardato
e folle come solo lui in certe situazioni sapeva essere. Anzi. Osava
essere.
- Non
vorrai… -
-
Esatto, voglio provocarlo. Vedrai che funzionerà e si
scoprirà
il necessario di permetterci di arrivargli più vicino.
–
Continuò
Don esponendo più sicuro che mai quello che era un piano
decisamente semplice da seguire e capire.
- Ma io
non penso che… - Si lamentò indeciso se fare
quanto di più
logico ed illogico al tempo stesso ci fosse.
-
Charlie, lo puoi fare o no? – Si fermò Don
guardandolo
diretto negli occhi da quella vicinanza che avrebbe messo in
soggezione chiunque. Aveva una luce determinata nello sguardo. Una
luce che diceva una cosa precisa: con o senza l’aiuto degli
altri
lui sarebbe andato dritto per la sua strada ed allora era meglio
seguirlo e assecondarlo per proteggerlo il più possibile!
- Si,
lo posso fare però è… -
- Che
succede? – Li raggiunse Colby allontanatosi per un momento
solo
perché il luogo in cui si trovavano era certamente sicuro.
Vedendo l’espressione preoccupata e contrariata
nonché
ansiosa di Charlie capì che Don aveva avuto un idea
azzardata
ed incosciente a cui nessuno, comunque, sarebbe riuscito ad opporsi.
-
Colby, diglielo anche tu che non è una buona idea provocare
Johnsson uscendo di qua per farsi colpire di proposito! –
Quando il
giovane comprese completamente ciò che il suo compagno
voleva
fare, gli prese quasi un colpo e avanzando ulteriormente con le mani
ai fianchi, strabuzzò gli occhi credendo di avere
allucinazioni uditive e visive.
- Vuoi
fare da esca! – La voce gli uscì più
alta del
necessario e grazie a questo anche gli altri della squadra poterono
sentire il suo 'geniale' intento.
- Si, è
esattamente la cosa più veloce ed immediata da fare! Lui
è
là fuori, ora, mi ha seguito ed ha avuto abbastanza tempo da
organizzare la prossima mossa, sicuramente un attentato per me.
Finché starò qua dentro a pensare a come beccarlo
senza
farmi beccare, non andremo da nessuna parte, nessuno farà la
sua mossa ed perdiamo tempo. La cosa più veloce è
proprio questa. Andare là fuori e lasciargli fare la sua
dannata mossa. Noi staremo tutti pronti e qualunque cosa faccia
agiremo in tempo con la nostra contro mossa! –
- Don,
è troppo rischioso, non sappiamo come intende
ucciderti… -
Si lamentò Megan dimostrando apertamente la propria
preoccupazione.
-
Esatto, non è detto che è appostato con un fucile
da
cecchino su uno degli edifici che circondano questo, pronto a
spararti appena metterai piede là fuori! – La
sostenne
Charlie anche lui chiaramente in ansia.
- E’
una probabilità. Tu non lavori su probabilità?
–
Rispose Don con la pazienza che stava raggiungendo i minimi storici!
- Su
probabilità alte, non così basse e pericolose! Mi
serve
più tempo per elaborare tanti piani quanti sono quelli che
lui
potrebbe usare per ucciderti! Sai in quanti modi si può
attentare ad una vita? – Rimbeccò Charlie alzando
a sua
volta il tono ansioso e gesticolando nervoso davanti al fratello
più
alto di lui che lo ricambiava battagliero ed infastidito di essere
contraddetto da tutti.
- Si,
li conosco più o meno tutti, grazie. È per questo
che
ti chiedo di darmi la posizione più probabile per un
cecchino
e non anche le altre! Per non perdere… -
- Altro
tempo! – Finì per lui di nuovo Charlie esasperato.
Non c’era
verso di spuntarla e sarebbero finiti per litigare inutilmente quando
invece quel che doveva fare lui era trovare un modo matematicamente
sicuro di aiutarlo.
- Don,
però ha ragione, devi considerare che è veramente
troppo azzardato buttarsi fuori così alla ceca, con la sola
consapevolezza che tenterà di ucciderti! –
Cercò di
farlo ragionare Megan con più dolcezza e diplomazia. Don
allora spostò la sua attenzione su di lei e sospirando per
trovare una calma persa diverse ore prima, si concesse un secondo per
riordinare le idee ed evitare di licenziare tutti i presenti, quindi
si passò le mani sul viso sudato per la pressione che subiva
sempre più crescente, chiuse gli occhi e capì che
non
avrebbe mai cambiato idea e che prendere Johnsson era davvero la cosa
che più contava, in quel momento. Altrimenti nessuno delle
persone che lo circondavano e che nella sua vita contavano, sarebbero
più state al sicuro.
A
partire da suo fratello.
Faceva
così non perché aveva paura per la sua vita ma
per
quella degli altri che lui amava. Non centrava né
l’orgoglio,
né il principio come forse qualcuno pensava.
E Colby
lo capì perfettamente così come Charlie, visto
che
glielo aveva anche detto brutalmente.
Non
c’era molta scelta, se voleva prenderlo in fretta quello era
il
metodo più sbrigativo ed efficace. Lasciare che lui lo
raggiungesse per primo.
-
Capisco che vi preoccupate per me e vi ringrazio, ma non
andrò
là fuori da solo e so che quando metterò piede
all'esterno non esisterà forza al mondo in grado di
spazzarmi
via ed uccidermi. So che tu, Megan, David e Colby farete il vostro
lavoro. Ed anche la matematica di Charlie lo
farà… Io devo
fare quello che va fatto o presto sarete tutti in pericolo. –
Ci fu
un breve momento di silenzio in cui ognuno pensò a qualcosa
che c’entrava con la persona al centro della discussione,
ognuno
cominciava finalmente a capire cosa si agitava in
quell’ossessione
incosciente, ognuno si sentiva toccato da quello che ora era
diventato un gesto d’altruismo e non di egoismo. Come faceva
tutto
il resto, in fondo.
Fu duro
da accettare ma non trovarono alternativa, in realtà non
aveva
affatto torto, Don.
Così
fu proprio Megan a parlare per tutti, proprio come una mamma che
prende le decisioni più difficili per la sua famiglia:
-
Ragazzi, facciamolo, allora, il nostro lavoro. E bene! Forza!
– con
questo ognuno annuì più serio che mai,
consapevole
dell’importanza che di lì in poi avrebbero avuto
le loro
gesta.
Una
volta soli, Don e Colby si scambiarono un ulteriore sguardo
significativo che disse più di mille parole, ma solo a loro
due. Dall’esterno nessuno avrebbe potuto capire
ciò che
quegli occhi così seri e consapevoli intendessero comunicare
al compagno dinnanzi.
Non
servirono parole, capendosi profondamente si girarono per andare
ognuno a prepararsi a quella che sarebbe anche potuta essere
l’ultima
azione, per qualcuno.
“Spero
solo che non lo sia…”
Pensò Colby mostrando solo a sé stesso quella
vena di
preoccupazione angosciante che non gli permetteva di essere freddo e
distaccato come sapeva essere in ambito lavorativo.
Ognuno
aveva un compito preciso, erano in molti gli uomini impiegati
discretamente in quella manovra volta a far cadere in trappola
l’uomo
che, a sua volta, ne stava ponendo una ai danni di Don Eppes.
Tutti
uno specifico ordine, ognuno appostato in modo da agire nel modo
più
veloce e preciso possibile, qualcuno che già si dirigeva nel
punto indicato dal professor Eppes.
Il più
vicino, naturalmente, era Colby il quale aveva deciso di esporsi in
prima linea accanto all’obiettivo principale, da brava
guardia del
corpo.
Ovviamente
ognuno con un giubbotto antiproiettile sotto i vestiti per evitare di
destare inutili sospetti.
Facendo
finta di parlare come sempre di quella che era la loro indagine e
quindi di seguire chissà quale traccia, sia Don che Colby,
insieme agli altri appostati nell’ombra, osservavano
attentamente
l’ambiente circostante.
Gli
altri con precisione maniacale mentre loro due con finta noncuranza.
E
trovatisi lì a dover parlare comunque di qualcosa, decisero
che nonostante tutte le riceventi collegate ad ogni uomo impiegato in
quell’azione, potevano sbilanciarsi almeno un po’.
In fondo
sarebbe potuta essere l’ultima chiacchierata fra loro e non
avevano
ancora avuto il tempo nemmeno di sfiorarsi decentemente.
Niente.
Nemmeno
dire che non avrebbero ancora voluto separarsi.
Così
fu Colby a dire la sua verità nascosta, una sorta di
linguaggio in codice che però non lo distrasse dal suo
compito:
- Se
questa volta muori giuro che ti perseguito anche dopo, non ti
farò
mai riposare in pace! – Con un pizzico di ironia che fece
sorridere
Megan e David all’ascolto, mentre Don, capendo il reale
significato
di quella frase, provò solo un gran desiderio di appartarsi
con lui in privato e per lo meno baciarlo. Certe ammissioni non erano
per lui di norma, figurarsi se si trovava ad essere ascoltato da
orecchie indiscrete!
Suo
malgrado piegò le labbra in un vago segno
d’apprezzamento ed
utilizzando il suo stesso tono, rispose sempre continuando a
camminare naturale ma sostenuto, guardando in alto verso
l’edificio
indicato da Charlie:
- Ora
mi sento più sollevato! E poi senti da che pulpito viene la
predica! – In effetti Colby fra tutti era quello che era
riuscito a
far preoccupare di più la sua squadra.
Quest’ultimo non
disse nulla e limitandosi a scuotere il capo preferì evitare
di darsi la zappa sui piedi da solo.
-
Nessun movimento sospetto. Fra poco saremo fuori portata da un
probabile cecchino posizionato là dove ha detto Charlie.
–
Disse quindi tornando serio e in argomento.
- Ma
non è detto che attenti in quel modo. – Lo
riportò
alla dura realtà Don pronto a proseguire la sua passeggiata
sul filo della morte.
La
tensione continuava a salire alle stelle e nonostante facessero di
tutto per rimanere freddi e pronti e non perdere la testa e la calma,
si sentivano davvero troppo sotto pressione. Se nessuno avesse fatto
nulla presto, sarebbero esplosi loro stessi. Come si poteva andare
avanti in una situazione simile?
Camminare
alla ceca immaginando le buche in cui sarebbero potuti inciampare ma
senza conoscerle e vedere chiaramente.
E il
pensiero sempre più fisso di stare per perdere la persona
che
al momento contava così tanto.
Rimanere
in sé nonostante tutto, con lo stomaco che si contorce e ti
provoca spasmi nauseanti, la spiacevole sensazione che presto tutto
finirà e sarà male, i sensi accentuati al
millesimo,
l’adrenalina che corre a fiumi.
Addestramento,
esperienza, abitudine, certo… e chissà quante
altre cose che
però non toglievano nulla al fatto che nessuno dovrebbe mai
trovarsi in situazioni simili.
Mentre
i due stavano per sparire dal raggio d’azione ipotizzato alla
svelta da Charlie, una specie di lampo accecò per un
brevissimo istante Colby prendendo completamente la sua attenzione ed
in successione quella di Don e degli altri.
Non ci
fu tempo nemmeno per pensarlo,
‘l’eccolo’. No, nessun pensiero,
nessun respiro, nessun ragionamento, nessuna realizzazione, nessun
ordine.
Solo lo
spazio per l’istinto, per i riflessi pronti come se si fosse
in
guerra, in un campo di battaglia.
Solo lo
spazio per agire e basta, senza nient’altro, come si
è
abituati a fare, come si fa sempre, come si fa ogni volta che si
scollega la mente per anteporre la vita di chi, in
quell’istante
fulmineo, conta molto di più di te.
Non si
sentì nemmeno un rumore di sparo, nulla.
Solo
che Colby si buttò ugualmente addosso a Don svelto come la
saetta che attraversa un cielo tempestoso un istante prima del rombo
del tuono che prorompe creando panico ed agitazione.
Nessun
rumore, come se il sonoro fosse andato via un istante.
Nulla
se non Colby che buttava giù Don coprendolo col suo corpo,
venendo lui stesso sfiorato di un soffio dal proiettile che si
conficcava nel cemento veramente troppo vicino ai due ormai a terra.
Nel
giro di un istante ci fu davvero il panico, lo spiazzo si
riempì
di agenti già pronti in precedenza, mentre altri che
aspettavano solo quello, già presero a sparare
nell’esatto
punto indicato da Charlie nel suo calcolo.
Lontano,
però.
Troppo
per un azione così improvvisata e gettata nel caos da Colby
steso su Don, nessuno capiva se stessero bene o no.
Quando
realizzarono che comunque ormai era finita e che Johnsson ormai era
sicuramente andato via, il fuoco cessò e Don stesso
gridò
un: - BASTA! – che fece desistere tutti.
Mentre
ognuno si fermava ed altri accorrevano pronti ad eseguire altri
ordini, Megan e David raggiunsero i due colleghi ancora a terra ma
interi. Quando videro Colby alzarsi e guardare subito Don sotto di
sé
per assicurarsi che stesse davvero bene, non avrebbe comunque sentito
nemmeno se quel proiettile si fosse conficcato nella sua schiena
invece che nel marciapiede a pochi centimetri da loro, tanta era alta
la tensione e la paura per aver davvero rischiato di perderlo.
Si
sentì come se gli sospendessero tutte le funzioni vitali e
solo costatando che il suo viso non presentava segni di dolore, si
sentì sollevato tanto da tornare a respirare.
- Stai
bene… - Disse quindi senza chiederglielo, vedendolo da solo.
- Ormai
è un vizio salvarmi la vita, eh? – Disse Don al
volo capendo
che alleggerire la situazione, ora, toccava a lui visto quello che
per colpa sua il suo compagno aveva passato.
La
paura della perdita della persona magari non amata ma che comunque
contava molto.
Si
rendeva conto di avergli dato un peso non indifferente ma se non
fosse stato lui accanto a proteggerlo, non l’avrebbe mai
fatto.
Solo a
lui avrebbe affidato la sua vita e più tardi, quando tutto
quell’inferno sarebbe finito, gliel’avrebbe detto
concedendosi di
scoprirsi di più.
- Che
vuoi, le brutte abitudini sono le più dure da mandar via!
–
Rispose a tono sforzandosi di tornare non solo a respirare ma anche a
vivere!
Si era
sentito davvero male, come essere buttato nello spazio aperto senza
protezione addosso.
Però
ormai era andata ed anche bene, nonostante avessero sperato in
meglio.
Era
ovvio che non sarebbero riusciti a prenderlo, nel caso fosse stato
davvero a fare il cecchino lassù, il punto era demolire un
possibile modo di attentare alla sua vita e guadagnare prove che li
conducessero a lui. Dati.
Farlo
innervosire notando quanto lui pronto fosse.
Provocarlo.
- Ora
si arrabbierà davvero, ha capito che era tutto programmato e
che in un certo senso l’ho sfidato ad uccidermi. Non solo
l’ho
provocato ma l’ho anche previsto e sventato. Sarà
su tutte
le furie, progetterà qualcosa di più avventato in
modo
da scoprirsi maggiormente e lì lo prenderemo. –
Disse poi
Don sbrigativo e razionale tornando a Johnsson con freddezza e
sicurezza, alzandosi ed ignorando la sensazione che il suo corpo,
tremando, gli mandava.
Proprio
come quella mattina, quando era quasi finito sotto un camion.
Ignorare
la sensazione della morte scampata era un vizio per lui, lo faceva in
continuazione per non cessare di fare quel lavoro e proteggere
qualcuno di importante.
- E
sarà anche più pericoloso. –
Asserì Megan
calcando sull’aspetto più grave che Don aveva
accuratamente
sminuito, come fosse una passeggiata.
- Va
con David là dove era appostato e vedete cosa ha lasciato.
Ci
sono già altri agenti. – Fece quindi tornando il
capo duro e
severo di sempre, i cui ordini non ammettevano repliche se erano
detti sotto pressione, riferendosi al fatto che sicuramente Johnsson
lassù aveva lasciato qualche prova per loro.
Quando
si trovò di nuovo solo con Colby a rientrare
nell’edificio
dell’FBI, questi gli chiese realizzando quale fosse stato il
suo
ragionamento:
-
Quindi ora diventa una roulette russa. È questo che hai
intenzione di fare? – Il tono inquisitore e sostenuto era
quello di
chi aveva appena capito le sue reali intenzioni ed ora aveva
l’istinto di fargli una lavata di capo nonostante lui fosse
un suo
superiore.
Le
porte dell’ascensore si richiusero davanti a loro
inglobandoli
nell’oggetto metallico che si levò silenzioso
trasportandoli
in alto da soli. I cuori battevano ancora forsennati, ignorati dai
proprietari.
- E’
l’unica cosa veloce ed efficace, ora. –
Però sapeva che
per farlo avrebbe di nuovo dovuto lottare per farsi ascoltare,
nonostante fosse lui il capo!
-
Charlie ti direbbe che a volte perdere un po’ di tempo per
impostare un piano più sicuro, non fa male! –
- Tu
sei stato troppo tempo con Charlie! – Lo liquidò
deciso a
non mollare l’osso. Ovviamente non lo guardava, al contrario
di
Colby che invece era completamente rivolto verso di lui e come se non
credesse alle sue orecchie lo fissava stranito asciugandosi il sudore
dal viso con l’avambraccio.
- La
soluzione non è mettersi là fuori e passeggiare
finché
lui non tenta di farti la pelle per sfuggirgli quante più
volte puoi, finché non sei tu poi a prenderlo! Non
è
così che operi, non l’hai mai fatto! Segui le
indagini in
modo umano, per favore! – Il tono sempre più
sostenuto e
alterato. Averlo quasi perso non gli era affatto piaciuto.
Don
sapeva perfettamente che Colby aveva ragione ma non poteva stare ad
aspettare idee, prove o indizi che lo portassero da quel dannato
uomo. Aspettare mentre quello faceva i suoi sporchi comodi attentando
alla sua o magari peggio alla vita di quelli che lo circondavano.
Non
poteva permetterlo, assolutamente.
Doveva
sbrigarsi, prendere la strada più breve e veloce, fare in
fretta, davvero in fretta.
Non
sapeva cosa dirgli di preciso però gli dispiaceva vederlo
così
preoccupato per lui. Sospirò stanco e si girò
verso di
lui ricambiando finalmente il suo sguardo diretto ed ansioso
nonché
battagliero. Si prese un istante per perdersi in lui e in quello che
dimostrava apertamente di provare, chiedendosi perché anche
lui non ci riusciva così bene e facilmente, poi senza sapere
cosa dire di preciso, aprì semplicemente la bocca e
parlò
posando la mano sul suo braccio, unico gesto di intimità che
in tutta la giornata gli aveva ancora concesso.
-
Perdonami se agisco così fuori dagli schemi, ma voglio solo
far finire al più presto tutto questo. – Le cose
più
vere e più semplici, nonché disarmanti, che
avrebbe
potuto sussurrargli a tu per tu in quell’istante. Colby parve
come
sciogliersi e smontando tutta la sua linea d’attacco,
sospirò
a sua volta spompandosi, scuotendo appena la testa sconsolato:
- Lo
so, ma non voglio che ti succeda nulla… - Mormorò
a sua
volta concedendosi di più dell’altro mettendogli
la mano
sulla sua. Il calore di quel contatto gli restituì un
po’ di
puro ossigeno e si concessero ancora qualche secondo così, a
fondersi con gli sguardi senza osare avvicinarsi di più.
- Non
potrei affidare la mia vita ad altre che non siano le tue mani.
–
Questo fu davvero molto di più di quello che Colby avrebbe
anche solo sognato di sentirsi dire da Don e riempiendosi
l’animo
ed il cuore di quello che significava per lui una frase simile, al
pari di un ‘ti amo’, per loro due, distese le
labbra ben
disegnate in un sorriso spontaneo e dolce che riempì il
compagno di quella forza che per qualche minuto gli era vacillata.
- Ed io
ci sarò sempre, come tu ci sei sempre per me. –
Rispose
riferendosi alle molte volte che Don stesso l’aveva coperto o
addirittura salvato.
Averlo
dalla sua parte, in quell’attimo, fu quanto di più
appagante
e importante ci fosse.
Un
breve secondo di scambi nel quale poterono solo stringere
ulteriormente quella presa l’uno sull’altro che
trasmise ad
entrambi molti brividi e li calmò, poi sentendo
l’ascensore
rallentare dovettero separarsi a malincuore tornando a girarsi.
Le loro
espressioni tornarono serie e non più brevemente distese,
quindi ogni sentimento tornò dentro la corazza che ergevano
fra loro ed il resto del mondo mentre le ante dell’abitacolo
si
aprirono gettandoli nel caos del loro piano.
La
roulette russa era appena iniziata.
|
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Capitolo 3 *** Inferno ***
L'EROE
DA SALVARE
*Ragazzi,
ecco un altro capitolo di questa fanfic. Non so chi la legga e come
la vedete, ma a me prende parecchio quindi continuerò e mi
sa
ancheche la finirò presto. Era una tentazione troppo grande
fare quel che poi ho fatto in questo capitolo, leggendo capirete e
chi mi conosce sa perché dico ciò. Comunque
ringrazio
chi ha letto e commentato fin qua. Buona lettura. Baci Akane *
CAPITOLO
III:
INFERNO
/We’re
no here – Mogwai/
Le ore
sembrarono non passare più o forse era proprio il contrario,
volarono.
Dipendeva
certamente dai punti di vista.
Per
Colby il tempo sembrò volare, mentre tentava di far
ragionare
il suo capo che voleva proteggere senza fargli fare nulla di
avventato; per Don, invece, (il suddetto capo da proteggere) le ore
andavano lentamente, fin troppo. Sembravano non muoversi più.
Nemmeno
una giornata intera era ancora passata e non avevano fatto nessun
passo ulteriore in avanti.
Charlie
chiuso insieme a Don nell’ufficio dell’FBI lavorava
instancabilmente su calcoli e teorie per poter tirare fuori qualcosa
di utile a Don affinché potesse catturare al più
presto
l’assassino in circolazione, ma la verità era che
gli ci
sarebbe voluto di più. Più tutto: tempo, dati,
indizi,
calma… l’ansia per le probabili follie che il
fratello maggiore
di lì a poco avrebbe tentato, erano deleterie per lui che
era
abituato a tirare fuori cose geniali in condizioni meno stressanti.
Certo ‘l’ansia da prestazione’
collaborando con l’FBI era
normale, per lui, però quel tipo di ansia che sfociava quasi
nell’angoscia no.
Inoltre
c’era quella stranissima sensazione crescente che oltre a lui
la
provava anche Colby. Quella sensazione che sembrava dirgli che le
cose sarebbero peggiorate, di fare in fretta, di sbrigarsi, di tirare
presto fuori qualcosa, di ottenere il risultato decisivo.
Più
si ripeteva questo con un angolo sempre più rumoroso della
sua
mente, meno andava veloce.
Don non
gli metteva pressione, certamente, ma non aveva molto in mano dopo
aver promesso di uscire da quell’edificio solo per andare a
casa a
dormire insieme a Colby.
L’idea
di poter uscire a patto di dormire con lui gli piaceva tanto da
fargli mettere da parte il pericolo e la rabbia; pensava, nonostante
tutto, che non tutto il mal venisse per nuocere e consapevole che
ormai per quel giorno non ci sarebbero state mosse da parte di
nessuno dei due, si rassegnò a seguire il consiglio della
squadra e a farsi scortare dal suo uomo all’auto.
In
ascensore si trascinò anche Charlie orinandogli di andare
anche lui a casa a dormire, concedendogli al massimo di continuare a
lavorare laggiù.
Era
sicuro che per lui non ci sarebbero stati pericoli poiché
all’epoca in cui Don catturò Johnsson rovinandolo,
Charlie
non era nemmeno una vaga idea nella sua mente. Sostanzialmente
quell’uomo non sapeva nemmeno dell’esistenza del
professore e del
suo prezioso aiuto, quindi sapeva bene che non avrebbe dovuto
preoccuparsi per lui.
Mentre
l’abitacolo di latta scendeva col solito andamento privo di
alcuna
fretta, passando i vari piani dell’alto edificio, i tre
uomini
continuarono a parlare a spada tratta del caso come se non ci fossero
altri argomenti al mondo.
- Per
oggi ormai non farà nulla, tanto vale davvero andare a
riposare. – Disse Don rassegnato, sperandoci poco lui stesso
in
quell’affermazione. Aveva l’aria molto stanca ed il
viso segnato
dal sonno che tentava di vincerlo. Quella giornata si era strapazzato
per bene, in fondo era quasi morto addirittura due volte. Quella
sensazione adrenalinica per nulla piacevole avrebbe debilitato
chiunque, persino lui.
-
Appena metterai piede fuori casa, domani mattina, aspettati qualcosa
da Johnsson. Fatti venire a prendere da qualche auto
dell’FBI… -
Rispose quindi Charlie stringendo alcune cartelle inerenti al caso
per poter continuare a lavorare a casa. Aveva anche lui un viso
segnato ma più che altro era preoccupato per il fratello e
vederlo così, nonostante tutto, a Don fece piacere
poiché
il loro rapporto si era ristabilito e sistemato solo dopo che era
venuto a collaborare per l’FBI. Prima di quel momento non era
stato
granché.
- No,
ci sarà Colby con me e poi non sono uno sprovveduto, in
tutti
questi anni di servizio ci sono state un sacco di persone che hanno
tentato di farmi fuori. Credimi che non è poi
così
facile riuscirci… - Si lamentò il maggiore con la
sua solita
aria brusca e sicura mentre Colby asseriva con la testa ricordando i
molti casi in cui era riuscito a cavarsela da solo. Non poteva che
essere d’accordo, farlo fuori fino a quel momento era stato
difficile e riuscirci ora solo perché uno più
folle
degli altri lo voleva particolarmente, non avrebbe cambiato quel
fatto. Forse avevano ingigantito tutto più di quanto non ne
valesse effettivamente la pena.
- Ok ma
perché non venite a dormire tutti e due da me? Non
è
meglio? – E per quale motivo sarebbe stato meglio? Se lo
chiesero
facendo fatica a non tossire apertamente contrariati ed imbarazzati
da quella proposta. Imbarazzati visto quanto erano contenti, invece,
di poter finalmente stare da soli con l’autorizzazione e la
benedizione di tutti!
- No
grazie, Charlie. È pericoloso per te e papà, non
voglio
coinvolgervi… - Disse quindi Don consapevole che
l’espressione di
Colby in quel momento sarebbe stata encomiabilmente trattenuta, al
contrario di quel che la sua testa pensava!
“Figurati
se mi perdo l’occasione!”
Si stava infatti dicendo fra sé e sé facendo
proprio
finta di nulla.
Fecero
effettivamente molta fatica a non ridere e quando Charlie si
rassegnò
a non insistere più senza capire a fondo la motivazione, le
porte finalmente si aprirono lasciando prendere ai due agenti
trattenuti fino allo spasmo, un po’ d’aria.
- Ti
accompagniamo? – Chiese poi Don una volta fuori
dall’FBI mentre
attraversavano il ponte dirigendosi alla propria auto. Quelle di
Colby e Don erano parcheggiate non molto distanti l’una
dall’altra
nei primi buchi trovati disponibili.
- No,
no grazie, non serve. Andate subito a riposare, io passo
all’università, spero di trovare Larry. Devo
chiedergli una
cosa… - Rispose Charlie senza più far caso allo
strano
comportamento del fratello in ascensore. Non ci aveva fatto molto
caso, preso com’era dai calcoli lasciati in sospeso e dalle
probabilità che Don, mettendo piede fuori, fosse investito
da
qualche altro cataclisma causato da Johnsson.
-
Andiamo con la mia. – Fece poi Don dirigendosi alla sua auto
tipicamente federale, scura, grossa, nera e con i vetri oscurati.
- Si. –
Rispose Colby rallentando il cammino, osservando Charlie fermarsi
indietro con un espressione strana. Era come se avesse avuto un
illuminazione dell’ultimo minuto ma una di quelle poco
piacevoli,
difficili da esporre non perché complesse ma
perché
coinvolgeva una persona che non avrebbe voluto, troppo importante per
lui. Se nelle sue ipotesi matematiche c’era di mezzo Don il
suo
compito peggiorava non solo nell’esporlo ma anche nel
verificare le
proprie idee.
-
Charlie? – Lo chiamò Colby fermandosi indietro con
lui,
osservando l’espressione sempre più preoccupata e
pensierosa
che non diceva nulla di buono. Ormai lo conosceva, sapeva di cosa si
trattava.
- No è
che… - Provò ad iniziare il moro dai capelli
ricci tutti
intorno al viso mentre entrambi con un solco contrariato sulla fronte
perdevano Don di vista per un istante che salì sulla sua
auto
al posto di guida, opposto rispetto a dove si trovavano loro in quel
momento. – E’ una specie di… non so
nemmeno come definirla… -
Qui Colby si preoccupò davvero. Lui così smarrito
che
non sapeva definire qualcosa non era normale, anzi. Forse non era mai
successo, che lui ricordasse.
Inghiottì
cercando tutto il suo sangue freddo per digerire la consapevolezza
che se anche Charlie si trovava in quelle condizioni, qualcosa troppo
presto non sarebbe andato bene.
- Prova
a dirlo… - Lo esortò ansioso consapevole di
quanto
importante fosse sapere il pensiero che vorticava nella mente veloce
e piena di nozioni e statistiche di quel ragazzo.
Entrambi
non stavano guardando più la stessa persona la cui forma
ormai
era confusa a causa del vetro oscurato. Sapevano era lì
dentro
e che stava per mettere in moto, ma in realtà non lo
avrebbero
visto chiaramente nemmeno guardandolo. Il punto era che la loro
conversazione, lo sapevano bene, era di vitale importanza per lo
stesso a cui entrambi tenevano, il protagonista di quelle brutte
sensazioni e di quelle grandi preoccupazioni.
- In
base alle probabilità che ho steso in giornata velocemente
riguardo ai modi in cui Johnsson potrebbe attentare alla sua vita,
uno con un alta percentuale è proprio l’esplosione
della sua
auto. – Riuscì a dirlo, in realtà aveva
una
definizione specifica che esisteva perfettamente nella sua mente, la
sapeva, però il fatto che potesse verificarsi proprio di
lì
a poco davanti ai loro occhi fece a pugno con la sua
emotività.
Il desiderio che così non fosse portò
l’agente che
aveva appena ascoltato quella frase simile ad un proiettile, ad
esitare e ad impedirgli di salire immediatamente sulla macchina in
questione.
Tutti e
due, uno realizzandolo ed uno ascoltandolo, avrebbero dovuto
impedirlo, certamente, specie Colby.
Non
avrebbero dovuto staccarsi da lui un secondo.
Però
fu quella preoccupazione verso Don stesso ad impedire ad entrambi di
fare la cosa giusta.
Preoccupazione
e sentimenti.
Una
combinazione deleteria che per qualcuno sarebbe costato molto.
Semplicemente
la paura che potesse davvero avverarsi combatté
violentemente
in entrambi con il desiderio e la speranza che così non
fosse.
Nella
realtà Charlie non finì nemmeno di dire
completamente
ciò che doveva, disse una parte di tutta la spiegazione che
sarebbe dovuta uscire dalle sue labbra e appena prese fiato senza
mutare espressione, girando insieme gli occhi e puntandoli sul
veicolo di Don come mossi da una forza premonitrice invisibile,
l’esplosione si levò innanzi a loro facendoli
sobbalzare
all’indietro fino a farli finire a terra, stesi, shockati e
tramortiti.
Proprio
lì, a qualche metro da loro, l’automobile di Don
con
presumibilmente lui dentro esplose in una fiammata che non ebbe
pietà
di chiunque coinvolse e colpì.
Il
cielo scuro della sera si dipinse di arancione e parve quasi il
tramonto mentre ogni effetto sonoro svanì
nell’intero
isolato.
Una
sorta di musica drammatica si levò immaginariamente come
sottofondo a quella che parve a tutti gli effetti una tragedia senza
precedenti.
Il
silenzio cadde concretamente e prima di poter reagire e capire cosa
fosse successo, passò un lasso di tempo indefinito. Tanto?
Poco?
Nessuno
avrebbe potuto dirlo.
Solo
che quell’ansia che entrambi un istante prima avevano provato
guardando in quella direzione, sembrava esplosa con l’auto.
E Don?
Anche
lui era esploso?
Quando
si fecero entrambi quella domanda fu segno che il loro cervello
permise loro di connettere di nuovo, eppure i rispettivi sensi non
erano ancora attivi, le funzioni vitali erano annullate per lo shock
e l’onda d’urto.
Però
quando la vista tornò si trovarono a terra girati verso le
fiamme che provenivano dall’auto di Don. Fiamme. Fuoco.
Silenzio.
Morte?
La
vista mostrò solo quel desolante spettacolo mentre
l’intuizione fu così crudele da far realizzare
l’irrealizzabile.
E con
un sonoro senza sonoro, la voce uscì senza che ne fossero
coscienti. Ma forse non uscì, forse non davvero.
Forse
lo immaginarono, o magari fu solo Charlie a gridare. O forse era
Colby e al contrario Charlie era quello che credeva di urlare senza
farlo davvero.
Fatto
fu che in ginocchio a terra coi fogli che volavano in aria, uno dei
due riuscì a gridare straziante il nome di Don, mentre
l’altro
aprì la bocca ma non fu in grado di emettere nemmeno un
suono.
Chi dei
due fece cosa non lo seppero mai.
La
coscienza fu crudele, gli ridonò solo la consapevolezza di
quanto accaduto ma non la lucidità per agire. Non subito.
Il
primo a riprendersi fu Colby che più abituato
dell’altro a
certe prove fisiche, si rialzò prima con quella di buttarsi
di
getto nelle fiamme che avvolgevano il veicolo di cui, ormai, non si
distingueva nemmeno il colore.
Fu
fermato da un agente accorso e poi da un altro ed un altro ancora.
Buttarsi
là dentro per tirare fuori chiunque ci fosse, sarebbe stato
solo un suicidio e mentre le sirene dei vigili del fuoco si
avvicinavano veloci, Colby continuava a lottare portando gli altri
che tentavano di fermarlo a chiedersi dove la tirava fuori quella
forza in grado di metterli in difficoltà. Voleva solo andare
da lui, dal suo uomo da cui si era separato solo un istante, un
istante.
Era
entrato, i vetri l’avevano nascosto e non l’aveva
più
visto.
Più.
L’ultima
parola che si erano scambiati… cos’era stata?
Non
capiva più nulla, assolutamente.
Solo
che voleva andare là e qualcosa glielo impediva. Nemmeno
tutta
la forza che aveva in corpo gli consentì di fare quel che
voleva con tutto sé stesso, alla fine fu schiacciato contro
l’asfalto, sorpassato dai vigili per spegnere il fuoco e da
altri
agenti di servizio che allontanavano i curiosi e chiunque tentasse di
vedere cosa fosse successo.
Probabilmente
l’unica definizione che nella mente di Charlie
arrivò, in
quel momento, fu ‘Inferno’.
“Allora
è così…” Si
disse senza sapere di preciso a cosa si riferisse. Se alla morte di
Don, se ai propri sentimenti davanti a quella tragedia oppure se alla
sua previsione inutile che, fatta tempestivamente, avrebbe potuto
salvarlo.
O
magari all’Inferno stesso.
Per uno
la cui unica religione era la matematica e la propria logica mentale,
chiedersi se l’Inferno fosse così fu sconvolgente
probabilmente più dell’innamorarsi.
Non
seppe cos’altro provò, non seppe cosa successe,
non seppe
cosa fecero gli altri, non seppe chi lo raggiunse, non seppe cosa gli
dissero, non seppe chi lo toccò, non seppe dove lo
portarono,
non seppe cosa fece Colby, non seppe cos’era ciò
che
osservava senza vedere davvero.
Non
seppe.
Non
seppe nulla.
Per un
indefinito proverbiale momento il suo cervello dal Quoziente
Intellettivo sopra la norma, veloce e sorprendente nonché
geniale, si spense.
Impossibile?
Eppure
a lui successe.
Lo
visse diversamente da Colby, il fidanzato di Don.
Lo
visse come uno che viene inavvertitamente sbalzato fuori dal proprio
corpo, quindi mente ed anima viaggiano in frequenze diverse. Lo visse
così.
Colby,
invece, lo visse pieno di sentimento, di rabbia, di dolore e di
passione. Qualunque cosa potesse esternare insieme a
quell’esplosione
che sconvolse tutti coloro lo conoscevano e lo vedevano in quelle
condizioni.
Nessuna
lacrima, solo urla, urla disperate e rabbiose, urla che lo chiamavano
senza ottenere risposta.
Urla.
Si
sentì dilaniato, come l’ennesima terribile botta
inaffrontabile.
Non
sarebbe sopravvissuto, non anche alla sua morte.
Ne
aveva passate molte, troppe. Quella volta se Don fosse morto davvero,
non ce l’avrebbe fatta.
Eppure
cosa faceva?
Ci
credeva?
Era la
vana speranza di un folle quella che gli impediva di smetterla di
chiamarlo e gli faceva guardare come l’acqua spegneva
quell’incendio?
Vana
oppure concreta?
Cosa
sperava di trovare, una volta che tutte quelle fiamme sarebbero state
spente?
Forse
fare la guerra non gli era bastato per rassegnarsi in fretta davanti
all’inevitabile dolore e all’evidenza.
Forse
Charlie era troppo razionale per non credere che dopo un esplosione
simile nessuno può sopravvivere.
Forse
la verità si sarebbe vista di lì a poco.
Quando
gli altri colleghi li raggiunsero allarmati nel giro di un istante,
tutti pensarono che ormai era tardi e mentre David andò a
tirare via Colby con la forza, abbracciandolo come solo un amico
ritrovato poteva fare, Megan andava diretta da Charlie stringendolo a
sé materna e disperata come una madre ed un amica insieme.
Cosa
credere?
Cosa
pensare?
Cosa
dire?
Cosa
fare?
Se lo
chiesero mentre non ebbero il coraggio di domandare cosa ci facesse
Don da solo nell’auto. Tanto sarebbe esplosa comunque, quella
macchina. Con o senza loro. Morte inevitabile, dunque?
Ma la
domanda, in realtà, non era affatto quella e il primo a
comprenderlo, in mezzo al dolore e alla disperazione di chi non
voleva arrendersi dal momento che non versava ancora nemmeno una
lacrima, stranamente, fu Colby.
Quando
vide lo scheletro carbonizzato dell’automobile, corse
sgusciando
dalle braccia di David senza nemmeno averle sentite. Gli altri lo
guardarono fiondarsi al posto di guida dove sicuramente, tutti ne
erano certi, avrebbe trovato i resti altrettanto carbonizzati del
corpo del loro capo, agente ed amico.
Non si
rese davvero conto di ciò che fece, aveva solo un unico
pensiero fisso.
Finché
non l’avrebbe toccato e visto sbriciolarsi sotto le sue dita,
non
ci avrebbe creduto alla sua morte.
Mai.
E fermo
immobile davanti al sedile di guida dove aveva visto sedere e sparire
Don, non vide nulla.
Nulla
se non un sedile vuoto bruciato.
Nessuna
traccia di nessun corpo morto esploso, nulla, nemmeno le ceneri.
Come se
la sua preghiera fosse stata esaudita, come se
l’intensità
del suo dolore avesse commosso qualcuno di molto in alto e
l’avesse
accontentato.
Lì
non c’era nessun cadavere, nessun corpo.
Lì
Don non c’era e mentre Colby lo realizzava una seconda
esplosione
avvenne in lui, un esplosione che sollevò in aria la sua
anima
appesantita e bruciante. Un anima ora di nuovo in sé.
La
follia che l’aveva invaso nel dolore di un solo istante
prima, ebbe
pietà di lui e la ragione tornò così
come il
sangue freddo.
Un
sangue che comunque di freddo ebbe effettivamente poco.
Quando
si staccò dai resti dell’auto dove la puzz
impediva di
respirare a pieni polmoni, la forza e la decisione si erano
rimpadroniti di lui ancora di più e con una nuova luce
spietata e determinata nello sguardo che si colpevolizzava di tutto,
andò dritto e spedito da Charlie ignorando tutti quelli che
tentarono di fermarlo e parlargli.
Andò
unicamente da lui e non per accusarlo di qualcosa come stava facendo
lui stesso in quello stato catatonico in cui non capiva cosa gli
succedeva intorno, andò là con un unico scopo
preciso.
Senza aver ottenuto ciò che voleva non se ne sarebbe andato.
Non
avrebbe mollato, a qualsiasi costo, pronto a tutto, davvero a tutto.
E di
una persona così seria, disperata, innamorata e determinata
c’era davvero da aver paura.
Davvero.
Specie
considerando che Colby non era uno qualunque!
Capendo
che Charlie non aveva ancora reagito, non considerando affatto il suo
stato d’animo, lo prese per le spalle e scuotendolo
violentemente
senza il minimo riguardo, gli gridò a poca distanza dal suo
viso:
-
TROVALO, CHARLIE! TROVALO! SEI L’UNICO CHE PUO’
RIUSCIRCI! LUI
CONTA SU DI TE! LUI SA CHE SOLO TU PUOI TROVARLO! TROVALO! –
- Ma
che stai dicendo, Colby? Calmati per favore… Don
è… - Non
ebbe il coraggio di dirlo, Megan, mentre tentava invano di staccare
il collega dal giovane che a sua volta lo guardava senza vederlo, o
meglio senza capire cosa stesse dicendo, perché gli
chiedesse
di trovare un morto. Come poteva essere?
Era
impazzito?
Lentamente
la ragione gli stava tornando davanti alle richieste illogiche ed
impossibili dell’amico.
Ma
quando Colby lo disse, anzi, lo gridò, per lui fu come
rinascere di nuovo:
- DON
NON E’ MORTO! NON C’E’ TRACCIA DI LUI IN
QUELL’AUTO! NON SO
COME DIAVOLO HA FATTO E DOVE LO HANNO PORTATO, NE’ QUANDO CI
SONO
RIUSCITI, PERO’ I FATTI PARLANO. IN QUELL’AUTO NON
C’E’
NESSUN CORPO CARBONIZZATO! DON E’ VIVO DA QUALCHE PARTE!
–
Esattamente.
Fu
davanti a queste urla che Charlie resuscitò insieme
all’anima
di suo fratello che aveva creduto essere morto.
Si era
sentito illogicamente strappare via dal mondo e dal proprio corpo, il
suo IO per un momento indefinito non c’era stato e si era
svegliato
fra le scosse violente di Colby e le sue urla rabbiose e decise. Urla
che gli ordinavano di trovarlo.
Se lui
non era morto ed era tenuto da qualcuno da qualche parte,
l’avrebbe
trovato.
Quel
che contava, per lui, era che non fosse morto.
E le
lacrime gli scesero dagli occhi sciogliendo la tensione per
l’Inferno
che aveva appena passato e superato.
Charlie
certamente non credeva in Dio, come poteva? Però il
‘grazie’
che si formò nella sua mente non seppe proprio a chi fu
rivolto, eppure non trovò importante, per una volta, cercare
risposte.
C’era
qualcosa di molto più importante da fare.
Molto
di più.
Trovare
suo fratello.
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Capitolo 4 *** corsa contro il tempo ***
L'EROE
DA SALVARE
*Ecco
subito un altro capitolo. Ho visto di nuovo Numb3rs quindi mi
è
venuta l’ispirazione per continuare, così eccomi
qua. Sono
contenta che il capitolo precedente sia piaciuto e che in molte mi
abbiate odiato (si fa per dire… no? ^_-), speravo di
riuscire a
lasciarvi tutti col fiato sospeso e ci sono riuscita, sono proprio
contenta! Bene, qua le cose procedono e si capisce cosa è
successo a Don. Ma non so se potete tirare un respiro di
sollievo…
mi pare proprio di no! Bè, comunque grazie a tutte quelle
che
hanno commentati e letto. Buona lettura. Baci Akane*
CAPITOLO
IV:
CORSA
CONTRO IL TEMPO
/
Enjoi the silence – Depeche Mode feat. Mike Shinoda /
-
Andiamo con la mia auto! – Disse Don dirigendosi spedito alla
propria macchina parcheggiata insieme a molte altre, il
‘si’ di
risposta di Colby gli arrivò lontano indicandogli che si era
fermato un attimo con Charlie. Non ritenne opportuno aspettarlo e
sentire cosa si dicevano ma se l’avrebbe fatto sicuramente
molte
cose sarebbero andate diversamente e non avrebbe dovuto subire
ciò
che nessuno dovrebbe mai passare.
Però
per sbrigarsi ad andare a casa e dedicarsi all’unica cosa
bella
della giornata, ovvero Colby, era salito subito per accendere
l’auto
ed uscire dal parcheggio. Sapeva che lui sarebbe arrivato subito ed
aveva fretta di arrivare a casa.
Lui, la
fretta, l’aveva sempre ma forse dopo quella volta avrebbe
imparato
ad averne di meno.
Quando
salì dalla parte del guidatore, dalla parte opposta rispetto
a
dove si trovavano Colby e Charlie che parlavano ancora con una strana
espressione turbata, si impose di pensare solo alla notte che si
apprestava a passare. Un piccolo squarcio di paradiso. Una volta che
tutta quella storia sarebbe finita, avrebbe avuto il resto e non
vedeva l’ora.
Già
non ne poteva più… quel Johnsson era ormai un
ossessione,
aveva vissuto tutta la giornata in funzione di quell’uomo
cercando
di immaginare le sue mosse e di coglierlo in contropiede. La sua
mente era stata rivolta così tanto verso di lui che gli era
sembrato di vederlo ovunque ogni volta girasse lo sguardo.
Anche
ora era così… ora che dall’interno del
veicolo dai vetri
oscurati aveva infilato distrattamente la chiave nel quadro
d’accensione.
I suoi
occhi stanchi e stralunati posati in un punto a caso
dell’esterno,
dalla parte del proprio finestrino, avevano messo distrattamente a
fuoco un viso a lui noto.
QUEL
viso noto.
Un viso
che l’aveva ossessionato tutto il giorno senza essere mai
riuscito
a vederlo davvero se non con la sua immaginazione.
Ed ora?
Era
davvero lui? Strabuzzò gli occhi ed in realtà
anche se
le cose sembrarono andare al rallentatore, tutto fu veloce.
Dannatamente
veloce.
Spense
la ragione ed il cervello rivolto a mille pensieri e si
lasciò
andare unicamente al suo istinto.
Istinto
di sopravvivenza, istinto di agente esperto in mille azioni
pericolose, istinto felino.
Non
pensò, non ci riuscì.
Come il
suo cuore non riuscì nemmeno a battere, quasi, sospendendo
ogni funzione vitale del corpo.
Don
mettendo a fuoco Johnsson fuori dalla sua auto, a diversi metri da
lui, mollò immediatamente le chiavi e dimenticando anche di
respirare aprì la portiera gettandosi fuori.
Non
ragionò, non realizzò che se quello era davvero
lui e
se era lì fuori a guardarlo poteva significare solo che la
sua
vita era di nuovo in pericolo e che probabilmente quella volta
sarebbe esplosa la sua auto.
Non
realizzò che quindi doveva uscire subito.
Non
realizzò che era un occasione unica per prenderlo.
Non
realizzò nulla di tutto quello che normalmente con un
po’ di
tempo in più avrebbe realizzato, molte cose in effetti.
Semplicemente
agì ancor prima di realizzare.
Agì
e si buttò fuori dall’abitacolo con una tale
velocità
che gareggiò col tempo fulmineo stesso.
Un
lampo.
In un
lampo quanti passi si possono fare, correndo con la forza della
disperazione?
Con la
voglia di vivere ancora?
Sicuramente
gran parte del merito fu del fatto che era un ottimo agente, tanto
che aveva una squadra sotto di sé. La sua esperienza sul
campo
e al lato pratico era stata preziosa allo stesso modo del suo istinto
e se così non fosse stato, quando al termine di quel lampo
brevissimo la macchina esplose, lui sarebbe morto lì dentro,
bruciato con essa.
Non
sapeva quanto era riuscito ad allontanarsi piegato fino
all’inverosimile per correre più veloce,
silenzioso per non
sprecare fiato a gridare un aiuto che non sarebbe mai arrivato in
tempo.
Concentrò
ogni parte di sé stesso per allontanarsi.
Per
sopravvivere.
E
quando le sue spalle furono completamente fuori dal veicolo nero,
questi esplose creando un boato che azzittì tutti
nell’intero
isolato. L’onda d’urto coinvolse chiunque fosse nel
raggio di
qualche metro e li fece sbalzare in aria e cadere a terra.
L’ultima
sensazione fu di calore.
Un
calore innaturale contro la schiena.
Poi
l’impatto col marciapiede non gli fece più
comprendere che
le fiamme l’avevano raggiunto insieme al botto che
l’aveva
sospinto violentemente in avanti, facendolo scontrare col suolo duro
che fermò la sua coscienza.
Dopo fu
solo nero.
Silenzio,
vuoto e buio.
Un buio
che l’avrebbe accompagnato a lungo, per un tempo a lui
indefinito,
che l’avrebbe fatto viaggiare senza coscienza in un posto
strano
alla sua stessa ricerca. Una ricerca per capire chi fosse, dove e
cosa potesse fare.
Perché
anche privo di sensi, Don rimaneva sempre Don e cercava di essere il
più attivo possibile per risolvere al lato più
pratico
possibile i problemi.
Il
fatto che non riuscisse a ritrovare sé stesso e a venir
fuori
da quella confusione maledetta, era decisamente un gran problema.
Ci
impiegò molto prima di trovarsi e ricordarsi il proprio
nome,
ci volle altrettanto per chiedersi cosa ne fosse stato di Colby e di
suo fratello, poco distanti da lui. Dopo di che i tasselli, uno dopo
l’altro, gli ridonarono la ragione mentre capiva cosa era
successo,
quando e come.
Solo
che quando il dolore lo raggiunse anche lì, ancora svenuto,
tutte le risposte sfuggirono di nuovo lasciando posto solo ad una
sofferenza allucinante destinata a crescere sempre più.
Fu il
male fisico per l’esplosione, il botto e le fiamme che lo
fecero
risvegliare e dimenticare per un attimo tutto.
La sua
mente nello stato di completa confusione non ebbe pietà di
lui
e gli parve, quando aprì a stento gli occhi, che volesse
saltargli per aria anche quella.
Gli
pulsava spaventosamente insieme al sangue che correva rude nelle
proprie vene. Ogni osso gli doleva come se fosse rotto, le forze non
gli tornarono nemmeno per girare la testa. I sensi ancora annebbiati
come la vista che non gli permise di distinguere solo luci ed ombre.
Era
steso in un posto chiuso, illuminato ma silenzioso.
O
silenziose erano le sue orecchie?
Forse
non c’era silenzio ma era lui che ancora non sentiva.
Dopo un
esplosione simile è difficile sentire subito appena apri gli
occhi.
Lui ci
era stato davanti.
Quando
uno ad uno i sensi gli tornarono ancora, l’udito non voleva
saperne
di aiutarlo ma gli bastò quel che cominciò a
sentire.
I
dolori che precedentemente gli avevano permesso di riprendere i sensi
furono surclassati dalla schiena che gli bruciava da fargli impazzire
e i lamenti biascicati uscirono dalla sua gola roca ed asciutta.
Aveva
bisogno di bere, un bisogno disperato.
Sentiva
caldo ed era in un bagno di sudore oltre che sporco. Ci si sentiva
così anche senza guardarsi e con la pelle della schiena che
minacciava di farlo svenire di nuovo se per lo meno non si sarebbe
girato alzandosi da essa, si ricordò di nuovo di tutto, come
poco prima di svegliarsi.
Di
nuovo in macchina, di nuovo Johnsson, di nuovo la corsa fuori senza
nemmeno pensare, di nuovo l’esplosione, di nuovo il volo, di
nuovo
il caldo e le fiamme.
Di
nuovo la preoccupazione per Charlie e Colby.
Cosa
era stato di loro?
E lui
dove era?
Se
fosse stato in ospedale non sarebbe coricato sulla schiena, la parte
logicamente ustionata dalle fiamme.
Quale
altra parte era lesa di lui?
Non lo
capì, sapeva solo di stare male e di voler strapparsi via la
carne da dietro pur di provare un po’ di sollievo.
Non ci
riusciva. Non ci riusciva più a pensare a Johnsson e a cosa
gli avrebbe potuto fare.
Non ci
pensò finché non riuscì a distinguerlo
lì
a poca distanza da lui, seduto accanto al letto su cui era stato
posto.
- Non
sarebbe dovuta andare così. – Iniziò la
sua voce
ormai familiare. Era calmo e pacato, dannatamente freddo.
Don
fece fatica ad ascoltarlo e a capire ciò che diceva,
cercò
di concentrarsi sulle sue parole e sull’odio che provava per
lui
per distrarsi dal dolore, ma non fu facile.
Si
dimenò per girarsi con le forze ancora scarse, ma
capì
di essere legato e di non poter assolutamente muoversi.
Le
gambe e le braccia erano aperte annodate alle estremità del
letto.
- Non
avevo progettato di rapirti per finire il lavoro qua, saresti dovuto
morire nell’esplosione. – Continuò
consapevole che Don non
sarebbe riuscito a parlare ancora per molto. Lo vedeva sofferente con
una smorfia di dolore dietro l’altra e fu una visione
piuttosto
piacevole per lui che finalmente poteva godere esattamente di
ciò
che da anni aveva sognato.
Se
avesse avuto più tempo per indagare su di lui, prima di
ucciderlo avrebbe colpito le sue persone care ma non avendo molto
tempo per la propria vendetta, si era concentrato subito su Don.
Ora,
però, l’aveva lì davanti alla sua
mercè mentre
si contorceva dal dolore da lui provocato.
La
sensazione di eccitazione che provò guardandolo conciato a
quel modo che stava male in modo evidente, gli fece venire un idea
che lo consolò dal ripiego che aveva dovuto sopportare per
la
mancanza di tempo.
Vederlo
soffrire fisicamente per mano sua era un esperienza incredibilmente
appagante e giunto a quel punto si sarebbe dedicato interamente a
questo.
A lui.
L’avrebbe
lentamente torturato infliggendogli quanto più dolore
possibile.
Ormai
era nelle sue mani, poteva farlo.
Poteva
fargli tutto quello che aveva sempre sognato in tutti quei durissimi
anni di prigionia, chiuso in quella cella ad impazzire.
- Ma
visto che ci siamo, ora mi dedicherò a te come si deve,
senza
trascurare nemmeno un dettaglio. –
L’accarezzò
spregevolmente con lo sguardo carico di odio e di follia allo stesso
tempo, Don nel dolore capì che la luce della ragione non
v’era
in lui da molto tempo e che farlo ragionare per prendere tempo, non
sarebbe servito a nulla, forse avrebbe solo accelerato i tempi.
E poi
nemmeno volendo sarebbe riuscito a parlare e a mettere vicine delle
frasi furbe e sensate con cui sopravvivere.
Il
dolore che provava era intollerabile e indescrivibile mentre
lentamente sentiva dettagli in più di sé stesso e
di
come era ridotto.
I
vestiti sulla schiena erano probabilmente bruciati e la pelle
ustionata era a diretto contatto col materasso sotto di sé,
gli sembrava di avere ancora il fuoco che se lo mangiava repentino.
Sentì di avere anche diversi lividi sul viso ottenuti con
l’impatto col marciapiede. Sicuramente c’erano
anche delle ferite
aperte. Il resto del corpo lo sentiva come se fosse stato calpestato
da un camion intero, la sensazione delle ossa rotte, la testa che gli
scoppiava, gli occhi che gli bruciavano, la gola secca che non
emetteva alcun suono, il cuore che galoppava, ogni respiro una
stilettata nel petto, il mondo circostante che girava vorticoso
nonostante fosse steso.
Eppure
in tutto quello, tutto ciò che fu in grado di pensare fu
solo
che sperava che Charlie e Colby stessero bene.
Non si
disse che l’avrebbero trovato e che presto tutto sarebbe
finito,
non cercò di capire come poteva cavarsela da solo, non
provò
a guardarsi intorno per pensare a cosa fare di concreto.
Lì
con la morte che di nuovo sembrava sorridergli più vicina di
sempre, non si abbandonò nemmeno all’idea di
andarsene da
quel mondo.
Pensò
solo a Colby e a Charlie. In special modo alla notte che non erano
riusciti a passare insieme col benestare di tutti. Avrebbe voluto
sfruttare per bene l’occasione di Colby che lo proteggeva.
Non
capì che quello, in realtà, non era altro che un
modo
per proteggere sé stesso e non morire in quel dolore
destinato
a crescere sempre più.
Non si
apprestava a sopportare stoicamente le torture che avrebbe ricevuto
di lì a poco, non si apprestava nemmeno ad agire in qualche
modo da agente. Non si apprestava a fare nulla di particolare,
nemmeno a credere che la sua squadra l’avrebbe salvato o ad
arrendersi alla propria morte.
Semplicemente
si trattava di un'unica cosa.
Stava
male.
Stava
veramente male e dopo aver realizzato in che situazione si trovava e
capito cosa sarebbe successo di lì a poco, non era riuscito
a
far nulla se non rifugiarsi nel caldo e piacevole pensiero della
persona che per lui contava così tanto da star meglio nel
pensarlo.
Don
stava così male che per la prima volta in vita sua ogni
forza
fisica, mentale ed interiore scemarono permettendogli di aggrapparsi
ad un'unica cosa. La migliore che gli permise di rimanere ancorato
alla realtà e a non svenire di nuovo.
Colby.
All’FBI
era semplicemente il caos.
Dall’inizio
di quella giornata le cose erano andate sempre peggio e proprio sotto
i loro occhi, consapevoli di quanto stava accadendo, mentre tutti si
erano adoperati per non farle degenerare fino a quel punto.
Eppure
era tutto accaduto ugualmente e non rimaneva altro che rimediare.
Sarebbe
certamente stato possibile in tempi più brevi se alcune
persone specifiche, però, non fossero
nell’agitazione e nel
panico più completo.
Ma non
tutti.
Nell’ufficio
che normalmente lasciavano a Charlie per i suoi calcoli matematici,
quest’ultimo stava lottando con sé stesso davanti
alla
lavagna, con il pennarello in mano ed un fascicolo sotto gli occhi.
Occhi
che si chiudevano ed aprivano ogni due secondi nervosi e stressati.
Una lotta non da poco, la sua.
Fra il
fratello di Don e il matematico che poteva essere determinante per
trovare l’agente rapito.
Sarebbe
andato tutto bene, liscio come l’olio e molto in fretta se le
due
persone non fossero coincise con la stessa.
Charlie
doveva semplicemente combattere con l’emotività
che metteva
i bastoni fra le ruote alla mente analitica, logica e razionale. Non
era facile lavorare in quelle condizione, mentre la sua testa era
occupata da mille pensieri e doveva fare troppe cose insieme.
Se
colui che cercava non fosse stato suo fratello le cose sarebbero
state più semplici ma dovendo fermarsi ogni momento per
ricordarsi che dipendeva anche da lui il riuscire a ritrovarlo in
fretta, non lo faceva andare veloce quanto normalmente era e quanto
avrebbe voluto.
Da un
lato le immagini su ciò che suo fratello stava passando e la
consapevolezza che comunque l’esplosione l’aveva
sicuramente
colpito lo stesso anche se non ucciso, dall’altro si
ricordava che
doveva darsi da fare, che le sue analisi e teorie matematiche
potevano trovarlo, che doveva sbrigarsi e mettere da parte i suoi
sentimenti.
Sentimenti
che erano esplosi in lui insieme all’auto di Don e che non
gli
davano tregua.
Normalmente
reagiva diversamente agli shock ma quella volta era diverso, si
trattava di suo fratello.
Come
poteva far finta di nulla e gettarsi nell’unica cosa che
riteneva
sicura e fidata nella sua vita?
Non era
riuscito a salvare Don quando avrebbe potuto, era anche colpa sua se
ora erano in quella situazione. Se l’avesse fermato in tempo
ora
lui sarebbe lì. Se lo ripeteva come una litania senza
trovare
pace, crescendo così il suo tormento.
Nella
mente si susseguivano le scene vissute solo poche ore prima. Suo
fratello che saliva sulla macchina, lui che aveva quell’idea
atroce, Colby che si fermava per chiedergli cosa fosse, lui che
glielo spiegava staccando solo un istante gli occhi dall’auto
e
questa poi che esplodeva facendoli saltare indietro.
Come
poteva non rivivere tutto?
Tutta
la paura, il dolore, la follia, il nulla. Il suo cervello si era
spento, per un lunghissimo attimo non era stato in grado di fare
nulla, non ricordava cosa aveva fatto, dove era stato. Non aveva
capito proprio niente.
Si era
davvero sospeso ed era tornato con Colby che gli diceva
l’assurdo
più inaudito.
Quando
aveva capito che Don era vivo aveva pianto e parte di sé
stesso era stata meglio, ma il dover fare qualcosa freddamente e
lucidamente non era una passeggiata visto che continuava a girarsi
verso gli uffici dietro di lui sperando di rivedere suo fratello
lì
come sempre e rendersi conto che quello era solo un sogno orrendo.
In
passato aveva capito che la sua paura era quella di avere di nuovo
paura e non poter più controllare sé stesso e
ciò
che lo circondava, ma di fatto ora si scopriva ad averne un'altra ben
peggiore dell’altra.
Una che
aveva sempre fatto in modo di ignorare e non contemplare seriamente
grazie a molti fattori.
Ma ora
non poteva più far finta di nulla.
Ora era
lì davanti ai suoi occhi, senza pietà, gigante e
crudele più che mai.
Non
aveva mai avuto un gran rapporto con Don ma da quando si erano
avvicinati così tanto, Charlie, semplicemente aveva iniziato
ad aver paura di perderlo.
Di
vederlo morire sotto i suoi occhi.
Però
doveva sforzarsi di lavorare. Doveva, non aveva scelta, non poteva
lasciarsi sopraffare tanto dai sentimenti. Quelli non avrebbero
aiutato suo fratello, la sua matematica e la sua freddezza
sì,
quindi ora doveva sforzarsi di ritrovare il suo sangue freddo.
Doveva. Non aveva scelta. Per lui.
Per
Don.
Tutti
si stavano prodigando per lui, non doveva essere da meno.
Quando
la porta si aprì di nuovo, Charlie si voltò di
scatto
pieno di una speranza che gli rendeva gli occhi lucidi e
l’espressione apertamente preoccupata e ansiosa.
Vide
Colby più nervoso di lui e capì che non lo
avevano
ancora trovato e che era lì solo per sapere se aveva
ottenuto
qualcosa.
Tornò
a girarsi di nuovo stizzito verso la lavagna.
- No,
Colby, non ho ancora finito! Non è facile se continui ad
interrompermi ogni momento! – Rispose seccato per nascondere
il
proprio stato d’animo che in realtà voleva solo
urlare.
Colby
sospirò piegando le spalle in segno di delusione, aveva
sperato in lui ma forse quella volta non ci sarebbe riuscito come
faceva sempre. Questa volta, magari, era troppo preoccupato per il
fratello e non sarebbe riuscito a lavorare come ogni volta.
E se
lui non l’avrebbe aiutato e loro avrebbero continuato a
brancolare
nel buio che sarebbe successo a Don?
Cosa?
Non
poteva pensarci.
Doveva
continuare a cercare, cercare in ogni modo, scavare e scavare
finché
non avrebbe trovato la pista giusta.
A costo
di setacciare lui stesso tutta la città, lui avrebbe trovato
Don.
Si era
allontanato un solo istante. Uno stupidissimo istante.
Per il
resto della sua vita non se lo sarebbe mai perdonato.
Mai.
Ogni
volta che si fermava davanti ad una strada sbarrata o non
completamente spianata, la sensazione di impazzire lo coglieva.
Si
sentiva in colpa quanto Charlie e come lui lottava per non lasciarsi
andare e per essere utile, per trovare qualcosa che lo portasse a Don
ma i sentimenti che provava per lui gli stavano facendo passare
l’inferno tanto da fargli dimenticare che nessuno doveva
capire ciò
che lo legava al proprio capo ora rapito.
O
sarebbe stato anche peggio, probabilmente.
Però
era consapevole di ciò che Don stava subendo, di come stava
e
di quel che pensava. Ci era passato anche lui e lo sapeva
così
bene da poter avere su di sé di nuovo quelle stesse
sensazioni.
Si
ricordava che in quei momenti aveva solo continuato a guardare fuori
nella speranza di veder arrivare lui a salvarlo. Gli si era affidato
completamente e unicamente. La fiducia nell’unica persona in
cui
aveva sempre creduto era stato tutto ciò che gli aveva
permesso di non crollare e di resistere.
Però
poi quando la fine era ormai entrata in circolo nel suo corpo, aveva
solo sperato che ne sarebbe valsa la pena e che lui non ci fosse
andato di mezzo.
Assurdamente
aveva capito chi contava davvero per lui e tutto il resto si era
annullato.
Don gli
somigliava ma non era uguale a lui.
Stavano
insieme, ormai, e nel dolore acuto ed allucinante che aveva dopo
l’esplosione a cui era miracolosamente scampato e
sopravvissuto,
non ragionava nemmeno più lucidamente.
Doveva
farcela.
Doveva.
A costo
di farsi scoprire.
-
Scusa, non voglio metterti fretta ma... – Ma non
riuscì a
concludere la frase. Che dire?
Gli
sembrava inutile anche parlare.
Charlie
si girò di nuovo capendo che probabilmente Colby stava
peggio
di lui dal momento che stava insieme a Don.
Charlie
era l’unico a saperlo.
Sospirò
cercando in sé una forza che non aveva davvero.
- Lo
so. Vedrai, lo troveremo. – Si stupì lui per primo
della
decisione che riuscì a mettere in quelle parole, come se ci
credesse davvero.
Certo,
non si era già rassegnato ma la paura continuava a divorarlo
e
se non avrebbe risolto l’analisi che stava svolgendo prima
che il
suo esaurimento si completasse, non sarebbe arrivato da nessuna
parte.
Colby
capì perfettamente lo stato in cui il ragazzo era e
apprezzò
il suo tentativo di rassicurarlo.
Aveva
ragione.
Dovevano
almeno sforzarsi di credere che sarebbero arrivati in tempo.
Si,
perché lui, il dubbio sul fatto che l’avrebbero
trovato, non
l’aveva affatto.
Il
problema era se l’avrebbero trovato ancora vivo oppure
già
morto.
|
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Capitolo 5 *** Salvezza ***
L'EROE
DA SALVARE
*Ecco
qua il quinto capitolo. Il prossimo credo sarà
l’ultimo ma
potrebbero essercene ancora due... C’è chi non
vedeva l’ora
di sapere che sarebbe successo ed eccole accontentate! Spero di non
aver deluso nessuno e che sia all’altezza. Comunque ogni
volta che
vedo Numb3rs mi ispiro un sacco! La canzone che ho scelto per il
momento clou è la stessa che è presente in una
delle
puntate della nuova serie che stanno dando ora in tv, quindi
l’avete
sentita già lì. Mi ero innamorata di quella
canzone
così l’ho cercata ed ora non riesco a non
associarla a Don e
Colby! Ringrazio tutti quelli che hanno letto e commentato lo scorso
capitolo. Buona lettura. Baci Akane*
CAPITOLO
V:
SALVEZZA
/The
little things – Danny Elfman/
Era
indeciso se cominciare dalla schiena, la parte più ustionata
e
dolorante e quindi sensibile, oppure dal davanti, dove avrebbe potuto
resistere di più.
Era una
scelta importante.
Nel
primo caso sarebbe andato fuori gioco presto visto lo stato in cui
era, nel secondo avrebbe resistito di più.
Forse
gli conveniva scegliere il davanti.
Osservandolo
assorto e concentrato come se da quella scelta dipendesse tutta la
sua vita, Johnsson rimase in piedi davanti al letto dove Don era
legato ed in condizioni già pietose di per sé.
Sicuramente
gli era venuta la febbre per l’infezione ed il dolore, sudava
copiosamente e si sforzava di non esprimere il suo terribile stato
con smorfie in viso. Si tratteneva per non dargli troppa
soddisfazione ma sapeva bene quanto già stava male.
Questo
gli dava più sollievo ma non abbastanza.
- No,
non puoi cavartela troppo in fretta. È giusto che ci
prendiamo
il tempo che ci serve, tutto quello che possiamo. Non te ne andrai
così presto! – Disse infine decidendo contento
abbassandosi
su di lui.
Lo
contemplò da vicino sperando in una reazione soddisfacente
ma
con suo sommo disappunto notò che gli occhi arrossati e
sofferenti di Don si riempirono solo di più odio. Nemmeno
l’ombra della paura.
“Mi
implorerai di smetterla, caro Eppes. Vedrai.”
Pensò
infine estraendo uno dei coltelli da professionista per quel genere
di torture su corpi umani. La pistola era nella cintola, non
l’avrebbe usata, troppo facile ucciderlo così.
Doveva
soffrire di più. Lui gliene aveva fatte tante, in fondo. Non
poteva pretendere una morte veloce ed indolore.
Si
rialzò di poco, quindi prendendo quel che rimaneva della sua
maglia, la strappò in mezzo come a creare una cerniera che
non
c’era. Aperto l’indumento scoprì il suo
torace allenato e
ben modellato.
Presto
si sarebbe ridotto diversamente…
Al
pensiero sorrise caldamente con una viscida luce di eccitazione negli
occhi.
Don
comprese in un istante tutto quel che gli sarebbe successo e
capì
che non ci sarebbe stato verso di cavarsela da solo in alcun modo,
né
con le parole né senza.
Poteva
solo resistere e aspettare Colby arrivare da quella porta.
“Forza
ragazzi. Ti prego Charlie, trovami.”
Come se
improvvisamente loro fossero la sua ultima speranza.
Lento
fra il sorriso sbieco e agghiacciante del suo rapitore,
sentì
il coltello carezzargli la pelle accaldata e sudata, aveva violente
scosse di freddo. Non riusciva a stare fermo a causa del dolore alla
schiena, sperava di sentire un po’ di sollievo in qualche
modo ma
legato a quel modo non c’era verso. Inoltre era disidratato e
le
forze gli venivano sempre meno, non avrebbe resistito a molto
già
senza bisogno di nessuna tortura.
Consapevole
in modo preciso e completo di tutta la propria situazione si
costrinse a non staccare gli occhi febbricitanti da quelli sempre
più
folli di Johnsson.
Doveva
guardarlo perché a momenti sarebbe entrato Colby, da quella
porta, e l’avrebbe ucciso. Doveva vederlo morire e lui doveva
essere l’ultima cosa che vedeva prima di andarsene.
Quella
l’ultima imposizione, l’ultima sfida,
l’ultima tortura.
Arrivò
dunque l’affondo della punta della lama proprio sulla sua
guancia,
esattamente sotto gli occhi.
-
Voglio prepararti per l’ultima operazione che
farò. Ti
caverò gli occhi. Ops, scusa, penultima. L’ultima
sarà
cavarti il cuore. Voglio che mi guardi mentre ti faccio tutto questo.
Esprimo solamente tutto ciò che provo per te e te lo
dimostro
a gesti. Sono quelli che tu vuoi. Fatti, non parole. No? Ricordo bene
come sei? Voglio che conservi questo tuo sguardo fino alla fine.
Guardami con sfacciataggine, senza la minima paura, con odio e
fervore. Fallo, alimentami. Più tu lo fai, più a
me
viene voglia di lacerarti ogni pezzo di carne. Se pensi che ci sia
ancora uno spiraglio di lucidità e sensatezza su cui fare
appello per salvarti, ti sbagli. Non c’è la minima
ragione
in me. Ormai è tutto svanito durante tutti quegli anni di
carcere. Hai idea di cosa si provi a stare là dentro?
– E
mentre le sue elucubrazioni sempre più insensate e folli
proseguivano, la mano col coltello iniziava il suo viaggio sulla
carne di Don.
Carne
intatta ancora per poco.
Affondò
sotto gli occhi, sullo zigomo, preparando una specie di scia di
lacrime ipotetiche che sarebbero potute scendere di lì a
poco,
secondo i piani insani di quell’uomo.
Nulla.
Non provava ancora nulla nel ferirlo. Ma era appena
all’inizio…
confidava di riuscire a fare di meglio.
Fece
altrettanto nell’altra guancia senza andare volutamente a
fondo.
Non voleva fargli già perdere i sensi, voleva che rimanesse
sveglio ancora un po’.
Don
naturalmente provò dolore ma rispetto a quello che
sopportava
sulla schiena era nulla, quindi non fece molte smorfie e non si
lamentò nemmeno. Il sangue cominciò a colargli
dai
graffi sul viso, scendendogli lateralmente. Da lì
andò
sul collo che non toccò consapevole dei punti deboli fatali,
quindi arrivò al petto. Lì poteva lasciarsi
liberamente
andare.
Il
sorriso si accentuò privo della luce della ragione e
sentendosi via via più eccitato ed inebriato per
l’idea di
quel che poteva fare, non diede altra tregua a Don e riprese ad
affondare la punta del coltello nella sua carne, questa volta in
mezzo ai pettorali, proprio dove dopo avrebbe approfondito per
togliergli l’organo pulsante che lo manteneva in vita. Un
organo
che al momento andava in accelerando pompando quanto più
sangue poteva viste le perdite che continuava a subire quel corpo.
Il
dolore fu maggiore, quella volta, ed un piccolo lamento gli
uscì
mentre le idee gli si facevano sempre più confuse.
Continuare
a guardarlo in viso alimentato dal proprio odio e ribrezzo gli
risultava difficile. La nausea gli contraeva lo stomaco ed ogni
muscolo lottava contro l’atrofia che lo invadeva. Voleva
urlare ma
l’orgoglio gli diceva che non era ancora al limite. Che
poteva
farcela. Che anche quel dolore sarebbe stato passeggero.
“Colby
arriverà. Arriverà.”
Eppure
non è che vacillò, quando le sue mani scesero
alla
cinta dei suoi jeans, ma la sua preghiera si fece più
intensa
e forte mentre la paura che lenta si ingigantiva in lui, gli faceva
capire che ben presto non ci sarebbe stato null’altro con cui
distrarsi. Lui era bravo a convivere con le sue paure. Paure di
tutto. Del rischio, di morire, di farsi male, di perdere i suoi amici
e familiari, di non farcela… aveva molte paure, era umano,
ma
semplicemente aveva imparato a conviverci grazie all’idea che
poteva comunque salvare qualcuno.
Ora a
cosa serviva tenere a bada la propria paura?
Ignorarla?
Ora
c’era solo lui e la propria morte e non aveva scampo.
Si vide
con gli occhi della sua predatrice mortale e capì che anche
se
fino a quel momento era stato bravo a far finta di nulla pensando
ogni volta ad altro, adesso non poteva far altro che arrendersi ad
essa. Non c’era altro che poteva fare.
Guardarla
e lasciarsi andare.
Eppure
non ancora.
Poteva
resistere.
Finché
i sensi non si sarebbero persi e lui sarebbe rimasto sveglio, avrebbe
resistito.
Nemmeno
un urlo, no, non dalla sua bocca.
Però
il coltello gli strappò i bottoni ed i boxer mostrando
parzialmente il suo inguine, anche se non del tutto per ora.
-
Voglio proseguire con una parte che ora sicuramente non ti
servirà
più. Quella che ti rende uomo. Tu sei un uomo duro, no,
Eppes?
Uno con le palle. Pur di prendere i criminali arrivi a tutto, non ti
fermi davanti a nulla. Sei uno forte, sei uno di quegli uomini eroici
con cui tutti si sentono al sicuro. Ebbene voglio vedere cosa succede
senza la parte maschile di te. –
A
quella frase ancor più fuori da ogni logica ed
umanità,
il coltello iniziò dal basso ventre a lacerargli la carne,
scendendo lento fin giù.
Sembrava
non avere fretta.
E
quelle iridi così luminose… i brividi che lo
percorsero lo
scossero insieme a lamenti più consistenti. Ma forse la
forza
di gridare nemmeno la possedeva più.
A quel
punto le idee erano così confuse da impedirgli di capire
dove
fosse arrivato il coltello ed il dolore che provava era talmente
espanso in ogni parte del suo corpo, che non sapeva cosa fosse
intatto e cosa gli dolesse maggiormente.
L’Inferno
era quello?
Se lo
chiese anche lui mentre ostinato lottava per rimanere sveglio e non
perdere i sensi.
Cosa
gli stesse facendo quel pazzo, però, non era più
in
grado di capirlo.
/The
funeral – Band of Horses/
-
Colby, questo è l’indirizzo che ho tirato fuori in
base a
tutte le informazioni che mi avete fornito ed all’ultima che
mi hai
dato poco fa. Don dovrebbe essere lì. – La voce
ansiosa e
sbrigativa di Charlie arrivò a Colby tramite il cellulare e
mentre gli diceva tutte le coordinate per arrivare al luogo da lui
trovato con i suoi calcoli, un presentimento colpì entrambi.
Era giusto. C’erano arrivati.
Ma
doveva essere il tempo, ad essere giusto, non solo il luogo.
Eppure
Charlie prima di riattaccare sentì smuoversi dentro un
sentimento di tale portata da spingerlo a dirgli anche un ultima
cosa, pensando che dirlo a lui prima che a tutti gli altri era un
azzardo poiché non avrebbe aspettato nessuno. Lo
capì
sentendo il rumore dell'auto aumentare vigorosamente.
-
Riportamelo vivo. – Non una preghiera o una richiesta. Una
specie
di ordine, qualcosa che lui doveva assolutamente eseguire.
Assolutamente.
- Si. –
Solo quello, poi Colby riattaccò interrompendo la
comunicazione cambiando marcia e schiacciando ancora sul pedale
dell'acceleratore.
La
corsa che fece fu la più spericolata della sua vita, girava
il
volante con una mano sola per essere pronta con l'altra a cambiare
marcia e prendere la pistola prima ancora di mettere piede a terra.
Superava semafori rossi e viaggiava con la sirena accesa facendosi
largo nel traffico come volesse bruciarlo.
Poco
prima di arrivare, per l’anticamera del cervello gli
passò
di avvertire anche gli altri per chiedere rinforzi e lo fece fornendo
l'indirizzo ma ormai la macchina si stava già fermando
davanti
al posto indicato da Charlie. Sarebbero arrivati tutti, certo, ma
quando tutto sarebbe già finito. Lo sapeva e non poteva
aspettare.
Frenò
bruscamente lasciando un segno di gomme sull'asfalto che si sarebbe
visto ancora a lungo, davanti a quel cancello in ferro.
Era lì.
Lui non
aspettava mai.
Così
col cuore in gola ed un emozione da fargli girare la testa e
contrarre lo stomaco corse giù dall’auto entrando
nel posto,
una vecchia fabbrica in disuso da tempo.
Il
cuore gli batteva forte e poteva sentirlo chiaramente dettare un
ritmo incessante e teso. Un ritmo che cresceva senza pietà
togliendogli il fiato. Non sentiva nulla eppure era rivolto ad ogni
indizio uditivo per capire dove fosse.
Tutto.
Sarebbe
esploso, di lì a poco, se non l’avesse trovato
subito. Non
ce l’avrebbe più fatta senza di lui ed immaginare
chissà
quali torture il suo uomo stava subendo era peggio del non averlo
lì
con lui.
Gli era
sparito da sotto gli occhi.
Era
impazzito in quelle ore e sul colmo dell’esasperazione,
completamente concentrato su quel posto e su dove Don potesse essere,
andò laddove il suo istinto lo portò, senza
ragionamenti di fondo, senza capire cosa e perché, senza
sentire chiaramente nulla di speciale.
Come
lui faceva di solito.
Buttandosi
e basta.
Nessun
urlo.
Andò
semplicemente in una delle molte stanze illuminate al contrario di
altre e senza la minima esitazione, con quel ritmo abominevole che
gli esplodeva in testa assordandolo, diede un calcio alla porta
chiusa. L’aprì con un gran fracasso e si
dimenticò
anche di identificarsi. Vide subito e si raggelò, ma il gelo
durò solo un istante. Troppo breve.
Quando
i suoi occhi scesero sulla scena che si stava consumando sul letto a
qualche metro da lui, il sangue gli andò totalmente alla
testa
e quella famosa esplosione trattenuta a stento, avvenne inesorabile e
prepotente in lui.
Johnsson
chino su Don che gli lacerava la carne del basso ventre con folle
gioia.
Sarebbe
arrivato fino in fondo, gli avrebbe tagliato… cosa? Quanto?
E il
petto? E il viso?
Dove
sarebbe arrivato?
E
com’era la sua schiena?
Quanto
era sudato?
Stava
male, aveva un colorito da panico, soffriva…
Ma fu
solo un lampo ogni considerazione.
Colby
vide solo la lama del coltello affondata sebbene superficialmente
sulla pelle dell’inguine.
Arriva
un momento nella vitadi ognuno in cui perdi totalmente il controllo,
non capisci più nulla e completamente invaso dall'ira
più
nera e violenta pensi ad una sola cosa mentre non ce la fai
più.
Stai di
nuovo perdendo chi ami?
No,
basta... non si sopravvive a questo ma prima di morire se lui muore
decidi di sfogare tutto il dolore lacerante che provi. E vuoi
vendetta. Solo vendetta.
Lo vide
e quella famosa esplosione avvenne cancellando ogni piccolo residuo
di gelo che l’aveva trattenuto.
Esplose.
E
basta.
Esplose
nel momento in cui Johnsson, vedendolo entrare, estrasse la pistola e
veloce quanto il suo lampo di rabbia omicida che gli deformava il bel
viso, tentò di sparare prima di lui.
Fu solo
un tentativo.
Gli
spari che si udirono furono tanti eppure la pistola che poi
fumò
calda fu solo una, quella di Colby.
L’altra
non sparò mai.
Con
rabbia ceca, una furia senza precedenti, accompagnato da un urlo di
chi ha creduto di aver appena visto di nuovo la morte della persona
amata, un urlo straziante e impressionante, Colby svuotò
tutto
il caricatore sul corpo di Johnsson ad un solo metro da lui che,
scuotendosi come colpito da convulsioni violente, si avvitò
su
sé stesso riuscendo a vedere solo una cosa, prima di
sconnettersi completamente col mondo e la realtà.
Solo
una cosa.
Gli
occhi aperti e coscienti di Don che parlavano più di
qualunque
altro gesto o parola. Nemmeno un sorriso. Solo un muto ‘addio
bastardo, io sono ancora vivo.’
Poi
semplicemente il vuoto per quell’uomo ormai privo di ragione,
immerso completamente nella follia.
Dopo un
secondo di stordimento in cui il silenzio calò istantaneo,
Colby si riprese subito precipitandosi al letto dove Don era legato.
Non si prese del tempo nemmeno per realizzare l’accaduto, non
un
solo pensiero sulla vita che aveva appena tolto, non il tempo per
l'adrenalina, il sangue, i battiti del cuore, i respiri per tornare
più umani; contava solo la persona che era ancora viva.
Lui che
lo guardava sofferente, stanco e confuso, ma non solo. C’era
qualcos’altro in quello sguardo stralunato che finalmente si
lasciava andare al dolore che provava e lo esprimeva libero.
Gratitudine.
Amore.
Colby
gli slegò subito i polsi permettendogli cautamente di
abbassare le braccia indolenzite, ma non fece in tempo a guardare
quanto profonde fossero le ferite, vide solo che ne aveva e che molto
sangue scendeva da esse macchiando il suo corpo in parte scoperto.
Appena
libero Don avrebbe voluto avere la forza di fare due cose: girarsi
per dar sollievo alla schiena ustionata e dire una cosa a Colby.
Non
riuscendo a farle tutte e due scelse la seconda e senza muoversi,
nonostante il male che provava, prese la mano del compagno che era
corso a chiudergli quanto poteva i pantaloni aperti. La prese e la
fermò stringendola debolmente.
Fu lì
che i loro occhi si incrociarono di nuovo e come un vago e strano
attimo di eterno, il tempo si fermò lì
sospendendo
preoccupazioni e dolori. Sospendendo tutto.
Poi la
flebile voce di Don si udì solo fino a lui, chino per
poterlo
sentire e vedere bene.
- Ti
amo. – Riassunto di tutto quel che aveva provato, pensato e
sentito
durante quell’Inferno da cui ad uscirne vincitore era stato
lui
grazie alle persone a cui teneva di più.
E senza
essersi mai lasciato andare emozionalmente, senza aver mai aperto i
suoi sentimenti se non per imprecare e gridare furibondo, Colby
liberò finalmente le sue lacrime lasciandole scendere lungo
le
guance, perdendosi sulle labbra serrate e tremanti.
Quella
sensazione non l’avrebbe mai dimenticata.
Riuscì
solo a premere leggero la bocca sulla sua calda e secca.
Solo
quello.
Dopo di
che Don poté rilassarsi e abbandonarsi allo stato stremato
in
cui era perdendo i sensi.
Come se
fosse riuscito a fare tutto ciò che doveva e voleva e fosse
finalmente contento e sereno.
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Capitolo 6 *** Cure ***
L'EROE
DA SALVARE
*Ragazzi,
dopo un bel po’ ecco a voi la fine, l’epilogo di
questa fanfic su
Numb3rs. Scusate per l’attesa ma sono fatta così,
mi faccio
sempre prendere dai sacri fuochi creativi e quindi seguo
l’ispirazione del momento che mi dice ‘scrivi
questo’ o ‘scrivi
quello’! Ok, questo discorso ha poco senso, comunque quel che
conta
è che prima o poi finisco quel che comincio e lo faccio
sempre. Volevo ringraziare tutti quelli che hanno letto, seguito e
commentato la fic, fra cui: Alida, Lilly86, Thia, Taila e Parsifal.
Spero che questa breve fine vi piaccia… mi spiace di non
aver dato
spazio al rapporto dei due fratelli, non come avrei voluto, ma per
quello c’è un'altra fanfic in vista che NON SO
quando
scriverò ma lo farò. Intanto auguro a tutti buona
lettura. Grazie. Baci Akane*
EPILOGO:
CURE
/
Time after time – Eva Cassidy /
La
prima sensazione piacevole che Don potè provare fu quella di
sentirsi finalmente pulito.
Le
lenzuola contro la pelle, la consapevolezza di essere stato curato
anche se con gli antidolorifici era tutto atrofizzato, il profumo di
sé stesso che gli arrivava inebriandogli il sonno finalmente
sereno e quei sogni piacevoli che l’avevano accompagnato per
tutto
il tempo in cui i sensi non gli erano tornati.
Poi
quella mano.
La mano
che si chiudeva sulla sua in mezzo al silenzio circostante.
Assaporò
con calma e lentezza tutte quelle percezioni che gli arrivavano nel
sonno, quindi si godette in particolare anche quella tattile.
Quella
mano sulla sua che decisa ma leggera allo stesso tempo non lo
lasciava.
Poco a
poco, con essa, tutti i sensi tornarono al proprio posto e
già
perfettamente cosciente e consapevole di chi fosse lì con
lui,
ancor prima che i suoi occhi si aprissero le sue labbra si piegarono
in un faticoso sorriso beato, uno di quei sorrisi che per Don erano
rari.
Dopo di
esso, con altrettanta calma, alzò le palpebre pesanti
aspettando paziente che il mondo offuscato e confuso riprendesse i
propri contorni e colori regolari. Non ebbe fretta nel riacquistare
la vista, lasciò tempo al tempo come straordinariamente
aveva
fatto per la propria guarigione.
Mentre
aveva dormito in quei giorni era rimasto vigile ed aveva sentito
tutto ciò che avveniva intorno a lui, ascoltando tutte le
voci
che gli parlavano. Erano venuti tutti ad assisterlo e a parlargli
nonostante pensassero fosse in coma. Lui semplicemente lasciava il
tempo giusto al suo corpo per rigenerarsi e curarsi. Gustandosi
quelle cure, quelle sensazioni che lente si erano susseguite in lui
diventando via via sempre più piacevoli per un motivo o per
l’altro.
Lo
sapeva bene che quando gli antidolorifici sarebbero finiti il dolore
sarebbe stato insopportabile per le molteplici ferite riportate,
specie per l’ustione alla schiena, ma al momento preferiva
pensare
al presente lasciando al tempo di fare il suo corso. Qualcosa che non
si era mai concesso, in effetti.
Ma ora
alla sola presenza di Colby che gli stringeva la mano silenzioso,
aveva deciso che si era ripreso abbastanza e che era ora di aprire
gli occhi.
In
precedenza tutte le volte che aveva tentato di farlo non ci era
riuscito, troppo pesanti e stanche le sue palpebre per obbedirgli, ma
ora sembravano rispondere ai suoi ordini.
Quando
finalmente le iridi castane poterono vederci bene, le roteò
stancamente di fianco in direzione della sua mano e successivamente
del proprietario di quella che gliela stringeva.
Ancora
prima di vederlo in viso sapeva già che stava sorridendo
commosso sforzandosi di non piangere di nuovo.
Si
vergognava a versare ancora delle lacrime anche perché
poteva
venire visto da chicchessia, però l’emozione di
averlo
sveglio dopo tutto quello che avevano patito, per lui era grande, di
sicuro.
Lo
sapeva e lo capiva.
Mentre
sveniva l’aveva visto piangere sciogliendo la tensione per il
pericolo di averlo quasi perso e nell’oblio in cui era
scivolato,
ricordava di aver pensato che gli dispiaceva lasciarlo in quelle
condizioni ma che sicuramente quelle lacrime, dopo tutto, gli
avrebbero fatto bene.
Probabilmente
gli erano mancate solo quelle per dimostrare tutto quello che di
devastante aveva provato in quelle ore atroci.
Aveva
pensato quasi interamente solo a lui, cullato nel sonno. Poi
lentamente aveva ricominciato a sentire il mondo esterno, le voci,
gli odori, le presenze, i tocchi…
E
adesso era lì, di nuovo sveglio, di nuovo in possesso di
sé
ma con una consapevolezza in più.
Ogni
volta che vedeva la morte in faccia cambiava qualcosa in lui, non era
mai la stessa. A volte cambiava in meglio, altre in peggio.
Questa
volta si sentiva bene.
Bene
dentro.
Come se
fosse completo.
Chi
contava per lui era lì e gli altri sarebbero arrivati
presto,
erano comunque stati tutti presenti. Si era sentito amato e
ricordando tutto ciò a cui si era aggrappato mentre stava
male
e cercava di non morire, con Johnsson, ora capiva che era solo quello
che contava.
Il
sentimento, l’amore che si dava e che si riceveva.
Qualcosa
su cui non aveva mai riflettuto, che non aveva mai considerato
davvero importante ma che ora lo era.
Ne ebbe
l’assoluta certezza scambiandosi il primo sguardo con Colby.
Lì,
seduto accanto a lui, con ancora la mano stretta alla sua, con
un’emozione concreta e commovente sullo sguardo chiaro non
staccava
gli occhi dai suoi.
Come si
poteva non vederlo, specchiandosi dentro?
Quell’amore
capace di far male ma anche di portare su in alto, dritti in
paradiso.
Quell’amore
che l’aveva riportato in vita, che l’aveva tenuto
aggrappato in
quel mondo.
Per il
dolore fisico sarebbe bastato lasciare che il tempo facesse il suo
corso ma quello interiore solo una cosa poteva
‘curarlo’.
Quell’amore
che entrambi provavano ormai identico l’uno per
l’altro.
Un
amore mai dimostrato in modo normale, mai vissuto come tutti gli
altri, un amore un po’ nascosto, un po’
nell’ombra, un po’
trattenuto ma non per vergogna bensì per carattere.
Un
amore che però sapeva salvare l’anima
all’occorrenza.
Ecco
cosa era stato capace di fare Colby per Don, oltre che arrivare in
tempo.
Gli
aveva inchiodato l’anima nel suo corpo impedendogli di
perdersi.
L’aveva
salvato in tutti i modi un uomo può essere salvato.
Tutti.
E per
una volta essere lui quello ad essere salvato e non colui che doveva
salvare, non l’eroe di turno insomma, era strano ma bello al
tempo
stesso.
Ricevere
quelle cure e quelle attenzioni da cui era sempre scappato pensando
che non fossero per lui, che non ne avesse bisogno perché
lui
era già forte e doveva portare certi pesi che altri non
dovevano, era una novità che capiva lo poteva arricchire.
Così
si arrese a ricevere, per una volta, senza dare.
Perché
per permettere a chi si ama di dare, bisogna anche saper ricevere e
lui, per una volta, la prima nella sua vita, si era messo da quella
parte lasciando a Colby il compito di dare.
Prendendo
a piene mani tutto ciò che sarebbe arrivato di lì
in
poi almeno fino a che non si sarebbe ripreso.
Dopo
quello scambio di sguardi Colby si alzò dalla sedia e
chinandosi su di lui, senza emettere alcun suono, infischiandosene
altamente del luogo in cui erano, posò le labbra sulle sue
concedendosi, quella volta, qualcosa di più di una semplice
carezza.
In
fondo aveva riposato abbastanza, ora poteva prendersi una ricompensa
maggiore per quel che aveva patito per lui!
Schiusero
appena le labbra e fondendole lasciarono le loro lingue incontrarsi a
metà strada. Non si staccarono, si intrecciarono con calma e
lentezza assaporando nei particolari ogni sapore e sensazione che
vibrò in loro dopo tutto quel tempo di astinenza e
quell’inferno passato.
Eppure
se la ricompensa è quella e ti fa sentire a quel modo,
allora
sei disposto anche a passarli, quei momenti terribili.
Ma solo
dopo lo pensi.
Solo
mentre ti curi vicendevolmente dando e prendendo in contemporanea.
Durante
quel bacio leggero di saluto curativo, l’altra mano libera di
Colby
scivolò al lato del viso di Don carezzandolo appena col
pollice, sentendolo ancora più concretamente lì
contro
di lui, su di lui, per lui.
Era
sveglio, ce l’aveva fatta, da ora sarebbe stato sempre meglio.
Il
peggio era passato e poteva tornare a respirare.
Lo capì
veramente solo con la sua bocca contro, baciandolo e fondendosi a
quel modo.
Lo capì
e gli occhi chiusi gli bruciarono nuovamente, così li
strinse
cercando di ricacciare indietro quelle lacrime che ancora una volta
premevano per uscirgli.
Non gli
era mai successo così tanto, di aver bisogno di piangere.
Si era
sempre trattenuto eppure ora non serviva più.
Non era
più solo.
Poteva
lasciarsi andare, no?
Quando
si staccarono posò la fronte sulla sua lasciando ancora le
labbra a sfiorare le sue, si sentivano i reciproci respiri contro la
pelle del viso. Aprirono febbrili gli occhi che si incrociarono
nuovamente.
Così
vicini, così uniti come prima dell’incidente non
lo erano,
non a quel modo.
Ascoltando
i battiti dei cuori che andavano come impazziti ed allo stesso ritmo,
un’ondata salì in entrambi.
Lì,
in quell’istante, occhi negli occhi, labbra su labbra,
respiro
contro respiro, cuore a cuore, pelle nella pelle…
Si
sentirono. Erano lì. Insieme. Dopo aver superato quella che
probabilmente era una delle prove più dure.
E
dunque lo dissero.
Lo
dissero insieme in un soffio quasi inudibile da chiunque altro.
- Ti
amo… - perché certe parole vanno dette anche se
pensi che
non serva, che sono difficili da dire o che ci sarà un'altra
occasione migliore.
Perché
il punto in cui si cambia e si accetta di vivere i sentimenti arriva
sempre.
E
quando arriva ti commuovi lasciando libera una lacrima fugace che ti
riga solitaria la guancia.
Proprio
come accadde a loro due in quel momento.
Da lì
tutto sarebbe stato diverso.
FINE
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