L'eroe da salvare

di Akane
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tra capo e collo ***
Capitolo 2: *** Provocazione ***
Capitolo 3: *** Inferno ***
Capitolo 4: *** corsa contro il tempo ***
Capitolo 5: *** Salvezza ***
Capitolo 6: *** Cure ***



Capitolo 1
*** Tra capo e collo ***


TITOLO: L’eroe da salvare
AUTORE: Akane
SERIE: Numb3rs
GENERE: sentimentale, azione
TIPO: slash, leggero What if diciamo…
RATING: rosso/NC17
PARTI: 5 o 6 capitoli
PERSONAGGI: DonXColby(ma anche ColbyXDon direi…)
AMBIENTAZIONE: quarta serie, nessun punto specifico
DISCLAMAIRS: I personaggi non sono miei ma degli autori che ne detengono ogni diritto…sig!
NOTE: La piccola clausula che fa di questa fanfic una leggera What if è che Don, qua, non sta con nessuna donna (non ricordo il nome della sua donna della quarta serie). E vi spiego perché questa cosa mi esce solo ora: non mi sono mai persa nessuna puntata di Numb3rs tranne tipo le ultimissime della terza stagione, circa le ultime 4 o 5 probabilmente… avevo visto che Don aveva una relazione con quest’agente, però non mi pareva che avessero approfondito oltre nelle altre puntate e che quindi fosse una cosa rimasta lì, così ho dimenticato la sua esistenza ed ho sempre pensato che Don fosse single e che si vedesse solo con qualcuna ogni tanto per i classici istinti maschili… poi mi hanno detto che specie nella seconda puntata della quarta serie (che non sono ancora riuscita a vedere ma spero di rimediare presto) tornano a mostrare quei due più fidanzati che mai! Proprio stasera, inoltre, mi è capitato di vedere una di quelle puntate della terza stagione che mi ero persa e proprio in quella fanno vedere che stanno insieme, anche se non è poi tanto approfondito come rapporto. Così mi devo correggere e specificare che qua quei due non stanno insieme, punto e basta. È che Don non è come Charlie che una volta che si accorge di essere innamorato diventa svenevolmente appiccicoso e romantico e mostra in continuazione che sta con quella… Don è molto riservato in campo sentimentale, non vive molto alla luce le sue relazioni così mi aveva tratto in inganno facendomi dimenticare di quella donna… pazienza, succede.
Ora che ho ampiamente spiegato i miei giri mentali, spiego anche di cosa tratta la fic a grandi linee:
Don è sempre quello che salva tutti, l’eroe della situazione che si butta a capofitto in tutti i rischi per salvare cani e porci (mentre Colby è comunque quello che ci rimette sempre più di tutti!), ma se la cava sempre perché lui è troppo bravo e furbo per rimanere fregato e vedersela male male male. Ma se una volta dovesse succedere? Se nemmeno tutta la sua prontezza di riflessi e la sua bravura bastasse a salvarsi il fondoschiena bellissimo che si ritrova? Eh già… per una volta sarebbe l’eroe a dover essere salvato. Quindi ora sapete anche su cosa è improntata questa fanfic che non durerà tantissimo e che è in mio perfetto stile!
Dopo questa premessa lunghissimissima, passo ad augurarvi buona lettura!
Baci Akane
DEDICHE: a Parsifal che le piace questa coppia… e a chi l’apprezza nonostante tutto (e per tutto dico le coppie ufficiali e/o altre coppie preferite…).
RINGRAZIAMENTI: A tutti quelli che leggeranno e commenteranno.


L'EROE DA SALVARE
CAPITOLO I:
TRA CAPO E COLLO

/Tell me it's not over - Starsailor/
Quando il responsabile dell'FBI in persona giunse con passo sostenuto negli uffici della squadra di Don e non lo trovò lì insieme a Megan e David, il suo viso articolato e tutto d'un pezzo assunse stranamente un espressione che non fu facile interpretare se non fosse che quello era proprio il lavoro di Megan. Nella frazione di secondo che intercorse fra quell'espressione e la sua voce, la donna seduta alla scrivania a sbrigare qualche cartella arretrata, si tolse gli occhiali aguzzando lo sguardo capendo in un lampo che quella era preoccupazione bella e buona. Non facile da interpretare come tale ma lo era, non ebbe dubbi.
Così si alzò subito per ascoltare la voce prorompente e diplomatica del gran capo in persona rivolgerle la parola e dire:
- L'agente Eppes dov'è? - Chiese subito senza perdere tempo a spiegarsi ulteriormente.
Megan rimase calma imponendosi di non fasciarsi la testa prima di averla rotta solo perché la presenza di quell'uomo lì era insolita.
- Non è ancora arrivato, immagino sarà qui a momenti. - La sua voce non tradiva agitazione, era brava nel suo lavoro ma la sensazione che ebbe nel dirlo non le piacque, come non le piacque lo sguardo che ebbe l'uomo davanti a sé che strinse appena le labbra contrariato.
- Rintraccialo e digli che venga subito qua! -
- Ma è successo qualcosa? - “Questo ordine sa tanto di protezione nei confronti di Don, non è normale.” Pensò infatti.
- Si. Hilton Johnson è evaso dal carcere ed ora è a piede libero per la città! Tutte le forze dell'ordine lo stanno cercando ma finché non lo troveranno Eppes non è al sicuro. Fallo venire subito qua e che si prenda una scorta! Questo è un ordine! -
Non aggiunse altro, se ne andò subito senza ascoltare probabili domande o reazioni incredule dell'agente speciale con cui aveva appena parlato.
- Oh accidenti! - Imprecò diplomaticamente la donna sgranando gli occhi e ricordandosi in un flash il politico incastrato con fatica da Don, a cui lui in special modo aveva rovinato la vita e la carriera incarcerandolo non solo per omicidio ma per un sacco di altri affari sporchi di corruzione e traffici illeciti che aveva in piedi.
- Gliel'aveva giurata, quando è stato messo dentro! - Ringhiò David preoccupato per l'amico nonché capo guardando la collega prendere il cellulare e chiamarlo subito.
- Dannazione, è spento! - Fece quindi chiudendo la comunicazione mai partita con un gesto di stizza. – Non è da lui! Sarà in un posto in cui non prende... - aggiunse poi guardando nervosa la direzione da cui sperava di vederlo arrivare come ogni mattina.
- Non l'avrà già trovato e comunque sa difendersi. - Cercò di rincuorarla David stringendo le mani sui fianchi indicando che quello più ansioso era proprio lui!
- Spero che sia così. - Disse solamente ancor più in pensiero Megan aggrottando le sopracciglia sapendo che tutto quello che poteva fare, per ora, era mettersi subito al lavoro.

La folla che di prima mattina si muoveva per le vie della città, non era trascurabile e già si faticava a camminare senza essere spintonati.
I due uomini, tuttavia, non venivano nemmeno sfiorati tanto imponenti erano anche solo mentre camminavano per il marciapiede.
Colby e Don dopo aver bevuto un caffé insieme al bar di fronte all'edificio dell'FBI, si apprestavano a dirigersi a lavoro.
Come ogni mattina che eseguivano quella routine sia che dormissero insieme, sia che non lo facessero, tenevano entrambi il cellulare spento. Avevano imparato a farlo solo nel tempo che correva nella loro colazione insieme, anche se entrambi avevano fatto fatica ad abituarsi visto che erano persone che preferivano essere sempre rintracciabili per essere pronte in qualsiasi momento a qualsiasi cosa.
Tuttavia quella mezz’oretta che si concedevano ogni giorno prima di iniziare il lavoro, era così piacevole che non faceva avere rimpianti a nessuno dei due.
Fino a quel momento, probabilmente.
Si erano messi insieme dopo il ritorno di Colby, quando bene o male si erano snodati tutti i dubbi sul suo ruolo e sulla sua veridicità.
Del resto dare la propria vita in cambio della loro salvezza era un atto che da solo bastava a convincere tutti. Con David l’aveva avuta più dura ma lentamente le cose si stavano sistemando, mentre dopo un primo screzio con Don per la sensazione che lo facesse controllare, tutto era andato a posto. Del resto Don oltre ad essere il suo uomo era anche il suo capo, come lo era di altri agenti, ma non solo, era lui stesso un sottoposto e doveva fare il suo lavoro, eseguire ordini e rispondere a certe aspettative seguendo le regole sia ufficiali che ufficiose. Era normale che uno dal passato di Colby, tornato in squadra, dovesse essere un minimo seguito e controllato.
Il punto era che mentre tutti pensavano Don l’avesse fatto per dovere e sospetto naturale, lui l’aveva fatto, in realtà, per assicurarsi che si ambientasse di nuovo e fosse aiutato in tutti i modi potesse aver bisogno.
Un po’ lui, un po’ altri agenti della sua squadra, non l’avevano più fatto agire da solo.
Chiarito in privato anche questa questione, i due erano andati via via sempre più rafforzando il loro legame che come era naturale, aveva i soliti alti e bassi e le solite difficoltà. La loro, poi, era una relazione davvero difficile: non solo erano entrambi due uomini, ma erano un capo squadra dell’FBI ed un suo sottoposto e, ultimo ma non ultimo, avevano dei caratteri davvero complessi. Nessuno dei due era troppo incline a dimostrare normalmente i propri sentimenti e vivere una storia come la maggior parte faceva, esternando almeno in privato ciò che provavano. Non facevano fatica a tenere nascosta la loro storia ed ancora non si erano detti di amarsi, avevano solo ammesso di provare attrazione e di stare ancora innamorandosi. Era una cosa diversa.
Nessuno avrebbe mai capito cos’erano a meno che qualcosa non avesse dato una certa spinta.
L’unico a conoscenza della loro relazione era Charlie il quale l’aveva capito da solo grazie alla sua mente analitica che applicava teorie matematiche a qualunque situazione alla velocità della luce.
Non erano rari i momenti in cui Don e Colby litigavano e poi sparivano dalla circolazione per far pace, riapparendo magicamente allegri come raramente li si poteva vedere, specie Don. Colby un minimo di serenità o ironia in ciò che faceva riusciva a mettercela, Don era molto più trattenuto e cupo, di norma.
Però avevano quei momenti in cui si trasformavano diventando come più luminosi e questo apparentemente senza ragione, per chi gli stava intorno.
A loro non importava, era comunque impossibile capire che avessero una relazione ed essere due agenti che di norma scoprivano i segreti degli altri, li aiutava molto a riuscire a mantenere i loro.
Del resto della missione di Colby nessuno era mai venuto a conoscenza, né aveva sospettato!
Quella mattina avevano appena finito di bere il solito caffè insieme nel solito bar e come di consueto a quell’ora si apprestavano ad attraversare la strada abbondantemente trafficata per entrare in ufficio ed iniziare il lavoro.
Arrivati davanti al semaforo rosso per i pedoni, si fermarono insieme ad altre persone pronti per ripartire appena avessero avuto il verde.
Immersi nei loro discorsi che variavano fra i più disparati, facevano poco caso ai veicoli che sfrecciavano davanti a loro alzando aria che andava a scostare la giacca primaverile di Colby. Il suo abbigliamento trasandato da strada da fuggiasco era solo un ricordo, ormai, visto che per l’FBI era tornato un agente serio, ordinato e perfetto.
Entrambi dritti con i piedi ben piantati sul marciapiede, le mani nelle tasche dei pantaloni stretti, jeans per Don, occhiali da sole ed espressione distesa.
Quando erano insieme in quel particolare istante della giornata riuscivano ancora ad esternarsi dal resto del mondo che rimaneva fuori, facendosi assorbire completamente dal compagno accanto che non ancora stressato per qualche caso che avrebbero affrontato di lì a poco, si concedeva diventando intimo per i loro standard.
Non accadde nulla di eclatante, nulla che con maggiore attenzione si sarebbe potuto evitare.
Semplicemente successe.
Mentre loro due erano immersi nella loro conversazione e nel sentire il profumo dell’altro che veniva brevemente sovrapposto a quello di uno dietro di loro, fu come un battito d’ali di farfalla, una folata di vento troppo veloce per essere prevista, un lampo a ciel sereno.
Quel profumo che per un istante sentirono entrambi esplose contro di loro e da che Don era lì accanto a Colby a parlare come nulla fosse, a che si trovò pesantemente spintonato in maniera imprevedibile ed improvvisa, il cuore dei due agenti smise di battere per un istante.
Mancò un battito ma quello di Colby nello specifico parve proprio paralizzarsi insieme alla sua mente che smetteva di ragionare vedendo il suo uomo spinto inaspettatamente in avanti, in strada, proprio la frazione di secondo prima che un camion sopraggiungesse ad una velocità più che sostenuta, come tutti gli altri veicoli.
Una velocità mortale per una persona caduta accidentalmente in strada.
No, davvero non ci fu tempo per nulla, nessun pensiero coerente, nessun rendersi conto di qualcosa, nessuna prontezza se non quella dei riflessi di Colby che, appunto perché non riuscì a pensare, agì istintivamente senza riflettere prendendo il suo uomo per il braccio, tirandolo poi verso di sé con forza proprio mentre il camion sfrecciava davanti a loro col clacson che suonava.
Don e Colby quindi si trovarono sbilanciati all’indietro ma ancora in piedi, col cuore in gola che aveva ripreso vorticosamente a battere e le braccia di uno che stringevano decise e spaventate la vita e la schiena dell’altro, aggrappato a sua volta a lui e alle sue spalle larghe e robuste poiché nessuna riflessione logica aveva potuto farlo agire diversamente.
La sensazione di vedersi la vita, per l’ennesima volta, davanti agli occhi non gli piacque a Don, ma questa sgradevole emozione l’avrebbe affrontata dopo che con rapidità si era raddrizzato e staccato da Colby per girarsi a guardare chi l’aveva spinto in quel modo apparentemente casuale ma proprio nel momento più sbagliato.
Un incidente terribile, tutti avrebbero pensato così se lui con l’istinto di chi diffidava di tutti tranne che della sua squadra, non avrebbe cercato un colpevole volontario.
- Ma che diavolo… - Borbottò col sudore freddo che già cominciava a scendergli lungo la schiena insieme all’adrenalina che gli scorreva a fiumi in circolo. Era pronto all’azione nonostante la morte appena guardata in viso e come lui Colby che, messo da parte il suo spavento, aveva trovato il responsabile che svelto e furtivo si allontanava cercando di non farsi notare.
L’istinto di seguirlo l’ebbero ma quando il rosso diventò verde e la folla intorno a loro iniziò a camminare, dovettero desistere dal loro intento perdendolo di vista.
- Ma quello… - Mormorò allora Don togliendosi gli occhiali scuri, tendendosi come una corda di violino e aggrottando le sopracciglia in direzione dell’uomo appena intravisto, ormai sparito. Una sensazione sgradevole lo invase e il sangue si raggelò nelle vene immobilizzandolo senza dargli la forza di emettere alcun suono.
- Cosa? – Chiese Colby capendo subito che c’era qualcos'altro che non andava. Lo guardò con attenzione e impazienza, quello sguardo così accigliato non diceva nulla di buono, ormai lo conosceva. – Sembra che hai visto un fantasma. – In effetti senza saperlo indovinò, in un certo senso.
- Già… anche a me… - Rispose quindi vago Don sperando di rivedere quello che gli era parso un fantasma. Non poteva essere lui, era in prigione da un po’, l’aveva messo dentro lui stesso. Era stato uno dei suoi nemici più ostici ma ci era riuscito e con enorme soddisfazione, rischiando nemmeno poco. Non era di certo lui quello che aveva intravisto andarsene in fretta.
- Lo conosci? – Chiese infatti Colby capendo subito di cosa poteva trattarsi, lasciando che la paura per averlo quasi perso scemasse da sola senza essere riconsiderata. Soffermarsi troppo tempo su certi sentimenti non era mai bene, si doveva avere la prontezza per andare subito avanti. Non l’aveva perso, l’aveva salvato. Ora era ancora lì con lui a fissare stralunato un punto ormai riempito da un sacco di persone sconosciute. Pensarci troppo significava richiamare una sensazione sgradevole e lui non voleva affatto. Aveva rischiato grosso ma non era successo nulla, questo contava. Ora bisognava andare avanti.
Don semplicemente se ne dimenticò subito a causa di ciò che gli era parso di vedere, qualcosa di decisamente impossibile ma abbastanza forte da fargli scordare la vita che aveva appena rischiato, come molte altre volte del resto. Abituarsi a sfiorare la morte non era proprio la cosa migliore, significava che la vedeva troppe volte e che presto sarebbe anche potuto succedere davvero.
- Sembra Johnson, un politico criminale che ho catturato diverso tempo fa, rovinandogli la vita e la carriera. Me l’aveva giurata più di molti altri che ho messo dentro. – A parlare di lui entrambi sentirono dei brividi lungo il corpo, come a confermare che avevano indovinato.
Ma preferirono accantonare anche questa sgradevole sensazione senza fasciarsi la testa prima di romperla.
Era stata un impressione, era in carcere quel tipo, no?
Così come la sua quasi morte… era vivo, ora, no?
Questo contava.
Riprendendosi, senza troppa convinzione, Don si rimise gli occhiali scuri addosso quindi girandosi verso il suo uomo si concesse un breve sbilanciamento con un: - Oh, grazie, eh? – appena udibile. Più un borbottio che altro. Colby sorrise tornando apparentemente in sé, senza però riuscire a cacciare del tutto quella strana sensazione.
Qualcosa non andava. La giornata era iniziata male e sarebbe anche potuta finire peggio.
Di norma non avevano quei pensieri ma lì, stranamente, li ebbero entrambi.
Tuttavia non li avrebbero mai detti nemmeno sotto tortura.
- Non potevo mica lasciarti diventare una frittella… - Disse quindi battendogli una mano sul braccio, ricambiando il suo sguardo da dietro le lenti scure. – Chi mi avrebbe pagato, poi, la colazione ogni giorno? – Concluse con ironia che fece distendere per un attimo entrambi in un sorriso divertito.
- Mi sembrava una cosa simile… - Commentò su un tono fintamente offeso che al contrario stava perfettamente allo scherzo. Gli scoccò un’ultima occhiata nascosta come per ringraziarlo anche per quel sdrammatizzare, per quel non permettergli di pensare a ciò che sarebbe potuto essere, a cosa sarebbe quindi stato fra loro facendo di conseguenza partire un pesante e svenevole scambio di miele che comunque non sarebbe mai stato da loro.
Ogni giorno rischiavano di morire, non potevano mica pensare alla loro separazione in tragedia ogni volta… era come uccidere il loro rapporto così singolare...
Andava bene così, senza romanticherie e frasi del tipo ‘non potrei mai vivere senza di te’ che gli avrebbero fatto venire il diabete.
Erano adulti ed onesti, sapevano a cosa correvano incontro stando insieme e facendo quel lavoro.
Bisognava sempre andare avanti e dimenticare la morte sfiorata. Alla fine ne contava solo una, quella decisiva. Ma non era ancora il momento.

Quando Colby e Don giunsero al loro piano si videro venire incontro Megan e David tutti trapelati ed agitati.
Era successo qualcosa e sommando quella consapevolezza con quanto appena accaduto ed alla sensazione istintiva di entrambi, specie quella di Don, furono sicuri di sapere già tutto.
- Don! Ti abbiamo chiamato ma hai il cellulare spento! Non arrivavi e… - Megan cominciò pensando che lui già sapesse tutto, sapendo che comunque non poteva essere così perché la notizia era rimasta interna all’FBI per il momento e anche se lui era Don e di norma sapeva le cose prima di loro, non era certo un mago.
- Cosa è successo? – Chiese l’uomo togliendosi di nuovo gli occhiali scuri imitato da Colby che la guardò allo stesso modo del compagno, accigliato e con urgenza di sapere.
- Hilton Johnson… - E bastò quello per avere la conferma di tutto.
Nuovamente il flash lo colpì dall’ultimo scontro con lui per giungere veloce fino al primo, a quando si erano giurati odio. Gli sembrò di finire per un attimo in un altro mondo, non sentì nessuno ma già sapeva che cosa stava dicendo Megan, gli bastò sentire il suo nome dopo che l’aveva visto giù in strada ed aveva tentato di spingerlo sotto un camion.
Azione ingenua, tutto sommato, quasi sciocca e poco organizzata. Non da lui. Ma forse non l’aveva nemmeno progettata. Se l’era trovato fortunatamente davanti e ci aveva provato senza considerare la presenza di Colby che pronto l’aveva salvato.
- … e così è evaso di prigione. Il capo vuole che ti prendi una scorta. Sei fra i più a rischio. – Concluse quindi riportandolo alla realtà.
- Cosa?! – Esclamò incredulo fissandola come avrebbe fatto con un alieno. L’aria sempre più stralunata. – Non se ne parla, non mi serve… - Cominciò a protestare come era nella sua natura davanti ad una cosa simile.
- Come no! Ma se ti ha quasi ucciso, ora! – Intervenne quindi scettico e deciso Colby allarmando immediatamente tutti gli altri che li guardarono interrogativi ed ansiosi chiedendo spiegazione. Don lo guardò immediatamente ed in breve si intavolò un duello di sguardi molto sfrontato, nessuno dei due avrebbe ceduto ma non servirono parole, si capirono subito. Cosa che non accadde per David e Megan che invece volevano capire eccome.
- Stavamo attraversando la strada, eravamo fermi al semaforo e qualcuno ha pensato bene di spingerlo proprio mentre passava un camion, è stato per un soffio che l’ho riportato di qua! – Spiegò con aria di rimprovero beccandosi per questo uno sguardo assassino dal suo capo, a poca distanza da lui.
- Quando ti ho chiesto se lo conoscevi mi hai detto che ti era sembrato Johnson! Guarda che coincidenza! – Esclamò quindi sempre più sul piede di guerra. Sapeva di avere ragione ad insistere così, con Don era necessario o come sempre avrebbe fatto di testa sua senza proteggersi. E le conseguenze sarebbero state ovvie!
- Era lui! – Fece sconcertato ed agitato David partendo già per la tangente con quella di setacciare subito tutta la zona intorno all’edificio dell’FBI!
- Non era un consiglio, quello del capo, Don. Era un ordine. Devi prenderti qualcuno che ti guardi costantemente le spalle! Scegli chi vuoi ma io sono d’accordo! Quello che è appena successo è la conferma che ne hai bisogno! Gli hai rovinato la vita, Don, te l’ha giurata. Devi prendere le giuste misure! – Lo rimproverò Megan come una mamma arrabbiata per l’incoscienza ripetuta del figlio.
Don l’ascoltò con metà cervello mentre con l’altra pensava a come prenderlo e a chi mandare dove. Non ci pensava minimamente a stare in panchina a guardare altri che si facevano sfuggire il suo nemico giurato!
Se pensava di spaventarlo e metterlo fuori gioco si sbagliava di grosso!
- Va bene, va bene… non girerò mai da solo. Ho capito! Ora però iniziamo la caccia all’uomo prima di perdere altro tempo! – Accettò solo per zittirla ed iniziare le indagini, senza pensare davvero di attuare quanto detto. Voleva agire liberamente senza essere legato agli ordini di protezione di un altro, ma prima di tutto voleva sbrigarsi e trovare quel dannato che aveva osato sfuggirgli di nuovo!
- Scegli chi ti farà da scorta fissa! – Riattaccò quindi di nuovo, conoscendo l’amico e collega.
- Che? – Chiese quindi pensando di aver capito male, con l’aria perenne da ‘che cazzo dici?!’.
- Avanti, decidi chi sarà la tua scorta o decido io! –
- Ma… - Provò di nuovo a protestare in perfetto disaccordo, come fosse un bambino, quindi a quel punto lo interruppe Colby stesso che subentrò più deciso che mai.
- Lo farò io. – Sparò nell’immediato senza averci riflettuto molto. Gli altri lo guardarono straniti della sua scelta, quindi corresse il tiro con aria più diligente: - Se vi va bene. – ricordandosi che loro due stavano insieme ma doveva rimanere una cosa privata!
Don sospirò insofferente girandosi dall’altra parte, quindi Megan parlò per lui prendendo le redini come tendeva a fare in sua assenza:
- Ve bene. Non devi mai staccarti da lui, nemmeno la notte! Speriamo comunque di prenderlo subito. –
Non sarà un dispiacere!” Riuscì anche a pensare con una certa malizia ben mascherata mentre guardava Don scrollare le spalle e grugnire un vago ‘si’ di assenso. Non che avesse avuto molta scelta in effetti.
Del resto Colby era quello più indicato, fra tutti l’uomo più d’azione insieme a Don stesso, quello che nei guai riusciva a cacciarsi anche senza impegnarsi troppo e che aveva il dono di vedersela sempre peggio degli altri. Salvato ogni volta in corner da Don. Comunque un agente molto valido che nell'azione pericolosa ci si buttava a capofitto senza esitazione.
Era giusto che per una volta fosse lui a ricambiare i favori e lo proteggesse come si doveva.
Una serie di sensazioni lo percorsero fra cui anche una certa incosciente contentezza per potergli stare ufficialmente attaccato senza risultare strano ed anomalo.
Quando dopo di quello un cellulare cominciò a suonare tutti guardarono in direzione della tasca di Don dal momento che pareva venire proprio da lì, quindi il primo a stranirsi della cosa fu lui.
- Che c’è? – Gli chiesero vedendolo poco convinto che il suo cellulare potesse squillargli.
- Non è il mio, è ancora spento! – Fece quindi senza perdere poi tempo e tirando fuori l’oggetto pieghevole sconosciuto che suonava ancora lampeggiando sul display la parola ‘numero privato’.
- Ecco a cosa è servito il contatto di prima, non ad uccidermi, sapeva che non sarebbe stato facile. Era per mettermi in tasca questo! – Asserì mettendo immediatamente in moto la sua mente da agente federale, gli ci volle un millesimo di secondo per entrare nell’ottica giusta e trovare il suo sangue freddo, quindi con attenzione maniacale rispose alla chiamata con gli occhi ansiosi di tutti puntati addosso, specie quelli già sul piede di guerra di Colby.
- Agente Eppes! – Disse la voce al di là della linea telefonica. Una voce familiare che Don non avrebbe mai potuto dimenticare. – Da quanto tempo! – Continuò poi con ironia e finta allegria.
- Johnson! – Borbottò invece Don, breve e conciso come al solito. E rabbioso.
- Sono lieto di vedere che non hai dimenticato il mio nome. Sai, nemmeno io ho dimenticato il tuo, così come non ho dimenticato il tuo viso e tutto quello che hai fatto per me. – Di secondo in secondo la sua voce cominciava ad assumere un tono sempre più teso e tagliente per diventare via via più sgradevole e velenoso, pieno di odio.
- Io invece sono riuscito a fare sonni tranquilli, in tutti questi anni. Grazie al fatto che ti sapevo a marcire in prigione! – Disse quindi Don incisivo e sferzante consapevole che comunque quella chiamata sarebbe stata irrintracciabile, naturalmente.
- Lieto di saperlo. Ancora più lieto di farti sapere, però, che da ora i tuoi sonni diverranno pieni di incubi poiché sono di nuovo libero e come ormai già sai, ti sto cercando. Voglio ringraziarti di persona ed in modo speciale per come mi hai rovinato. Ci tenevo a fartelo sapere perché gli ospiti più graditi sono quelli attesi! –
- Ma che gentile. – Fece allora Don scurendo ulteriormente il suo viso, poi assunse un espressione profondamente buia e risoluta, quasi agghiacciante, che fece rabbrividire tutti quelli che lo videro e ascoltarono la sua voce sussurrare basso e penetrante: - Visto che lo sei voglio ricambiare anche io dicendoti che puoi fare quello che vuoi, figlio di puttana, ma ovunque tu andrai e qualunque cosa tu farai ti prenderò di nuovo e sarò sempre io a rovinarti, dopo di ché ti farò visita ogni giorno per ricordarti a chi devi l’Inferno che passerai per la seconda volta! –
Questo probabilmente non piacque a Johnson il quale dall’altro capo del telefono, dopo una breve pausa in cui si poté solo immaginare la sua espressione furente, sibilò a denti stretti somigliando ad un serpente:
- Sei morto, Don Eppes. –
Infine la comunicazione fu interrotta con quella che era non solo una promessa ma un vero e proprio giuramento solenne da parte di entrambi.
La caccia all’uomo era partita, capitando a tutti inaspettatamente tra capo e collo, come una manna pericolosa che gravava sulla vita di Don. Una manna pronta a cadergli addosso e portarselo via da un momento all’altro.

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Capitolo 2
*** Provocazione ***


L'EROE DA SALVARE
*Ecco qua di già il secondo capitolo di questa breve fic, breve per alcuni miei standard. Comunque qua le cose continuano a movimentarsi sempre più ma di capitolo in capitolo la cosa andrà sempre più in crescendo, fino a non riuscire più a respirare. O per lo meno questo è quello che io ho progettato... Per ora ringrazio molto quelli che hanno commentato e letto il capitolo precedente. Buona lettura. Baci Akane*

CAPITOLO II:
PROVOCAZIONE

/What i’ve done – Linkin Park/
- Vedi cosa puoi fare! – Concluse Don chiudendo bruscamente e sbrigativo la comunicazione con suo fratello, al di là del cellulare.
- Per me non è una buona idea… - Si inserì subito Colby con un tono che non nascondeva affatto la propria contrarietà.
- Cosa? – Fece Don parcheggiando al volo l’auto, una volta arrivato a destinazione in un tempo più breve del normale. Più che una domanda parve un tuono, già sapeva che non era d’accordo con quanto il suo uomo avrebbe detto di lì a poco.
Colby però non se ne preoccupò ed andò dritto come un carro armato dicendo né più né meno quel che pensava, più deciso che mai:
- Che te ne occupi tu! Che vai ad indagare partendo da dove è evaso, che ti esponi così tanto! Che esci dall’edificio sicuro e blindato dell’FBI! – Ne aveva di cose con le quali non era d’accordo…
Don parve non ascoltarlo nemmeno ed anzi scese senza nemmeno dargli risposta, come se il vero carro armato fosse proprio lui.
Tutti sapevano come era fatto, suo fratello e suo padre per primi.
Se si metteva in testa una cosa era impossibile fargli cambiare idea.
Sarebbe stato lui a prendere Johnsson, punto e basta.
Colby lo seguì a passo spedito senza mollare:
- Don, così fai il suo gioco! Gli renderai la vita più facile! – Sperava sempre di riuscire ad entrare nella sua testaccia dura ed infilarvi un po’ di sale, ma era una battaglia persa in partenza ed in fondo lo sapeva bene.
- E’ un compito che spetta a me, prendere di nuovo quel bastardo. A me. E poi sono io che gli renderò la vita un inferno, puoi contarci! – Ribatté finalmente il capo gesticolando in modo secco con le mani, come a chiudere il discorso una buona volta e a non volerne più riparlare.
Una volta giunti a destinazione Colby decise di rimandare l’opera di convincimento lasciandolo fare, poi sarebbe ripartito all’attacco. Era piuttosto testardo anche lui e non voleva che il suo uomo finisse davvero come una frittella.

Dopo aver accertate le modalità di fuga di persona si trovò a dover tornare indietro con non molto in mano.
Era stato aiutato ed il tutto organizzato molto bene tanto che non avevano lasciato indizi su cui indagare, nessun dato utile nemmeno a Charlie. Solo più grane.
Più persone, uguale più pericoli.
Eppure era come se non se ne curasse affatto, come se non sentisse davvero il peso di quella ghigliottina che minacciava di cadergli sul collo da un momento all’altro.
Incoscienza o cosa?
Come definirla?
Guardandolo correre come un matto da una persona all’altra, da un luogo all’altro e da una pista all’altra, Don parve a tutti, a Colby e Charlie per primi, come ossessionato da quell’uomo tanto da fregarsene altamente del rischio che lui stesso correva.
E a loro, questa sua incoscienza volontaria e consapevole dava davvero sui nervi.
Perché lui, per gli altri, metteva sempre troppo a repentaglio la sua vita?
Gli era andata sempre bene, era vero, ma mettendosi così in prima linea ogni volta, non sempre gli sarebbe andata così bene.
- Don, hai un momento? – La voce di Charlie che lo seguiva per i corridoi dell’FBI non lo fece né sobbalzare né distrarre dai propri ragionamenti e senza alzare gli occhi dalle carte che consultava né rallentare il passo, a cui il fratello per starci dietro doveva quasi correre tanto che era svelto, borbottò un secco e deciso: - No! – che comunque non fece desistere affatto il moro dai capelli ricci tutti in disordine intorno al viso.
- Per me non dovresti occupartene tu. Corri troppi rischi! Per una volta dovresti lasciar fare a qualcun altro! – Fece quindi come se non gli avesse detto nulla. Don alzò la testa di scatto e quasi seccato dal dover ripetere per l’ennesima volta la stessa cosa in poche ore, tralasciò il particolare che Charlie normalmente non dimostrava mai la sua preoccupazione per lui e posò i suoi occhi esasperati e brucianti su quelli tanto simili ai propri ma comunque non identici.
- Vi siete messi tutti d’accordo? – Disse con un tono che non tradì per nulla la sua espressione. – Ho deciso che me ne occupo io, spetta a me, Johnsson l’ha giurata a me, sono io il suo obiettivo. Non voglio che pur di arrivare a me passi sul cadavere di tutti quelli che mi stanno intorno! – A lui concesse una spiegazione in più, anche se seccato e alterato e sempre senza fermarsi. Poi senza dargli tempo di ribattere, chiese alleggerendo appena il tono: - Hai qualcosa per me? – anche con un po’ di speranza, in realtà.
- Si! – Fece quindi Charlie ricordandosene solo in quel momento.
- E cosa aspettavi a dirmelo? – Chiese corrugando la fronte di nuovo sul piede di guerra. Per quel caso avrebbe litigato con tutti, sarebbe sicuramente finita in quel modo.
- Ecco, secondo la teoria del XXX che dice… -
- Charlie, ti prego, arriva subito al colpo di scena, per favore! – Lo interruppe sbrigativo e brusco Don citando una frase di Colby sulle sue elucubrazioni matematiche che aveva divertito tutti. L’altro si ridimensionò e piegando le labbra in segno di rassegnazione, gli concesse di essere più incisivo del solito dicendo la scoperta minima che per il momento aveva fatto anche in virtù della consapevolezza che Johnsson non agiva da solo, fornendogli la prima pista generica in mezzo a tanti buchi nell’acqua che l’avevano solo fatto innervosire ulteriormente. Per poi concludere svelto e testardo almeno quanto il fratello: - Ma comunque l’unica certezza assoluta è rappresentata dal fatto che appena uscirai da qua lui sicuramente in qualche modo tenterà di ucciderti. Ti segue e sa perfettamente i tuoi spostamenti. – Non ci sarebbe voluto un genio della matematica per quell’affermazione ed infatti non era stata portata da nessun calcolo, solo dalla consapevolezza di quanto in un modo o nell’altro sarebbe successo di lì a poco.
E dalla sensazione sgradevole che di minuto in minuto gli faceva contorcere la bocca dello stomaco dandogli un senso di nausea destinato a crescere sempre più.
- E allora è ora di avere un altro contatto con lui, o non gli arriverò mai abbastanza vicino per prenderlo. Charlie, fammi un calcolo in base alla pianta degli edifici e delle entrate, trovami il posto migliore in cui un cecchino si piazzerebbe per uccidere un obiettivo che esce da qua. –
Azzardato e folle come solo lui in certe situazioni sapeva essere. Anzi. Osava essere.
- Non vorrai… -
- Esatto, voglio provocarlo. Vedrai che funzionerà e si scoprirà il necessario di permetterci di arrivargli più vicino. –
Continuò Don esponendo più sicuro che mai quello che era un piano decisamente semplice da seguire e capire.
- Ma io non penso che… - Si lamentò indeciso se fare quanto di più logico ed illogico al tempo stesso ci fosse.
- Charlie, lo puoi fare o no? – Si fermò Don guardandolo diretto negli occhi da quella vicinanza che avrebbe messo in soggezione chiunque. Aveva una luce determinata nello sguardo. Una luce che diceva una cosa precisa: con o senza l’aiuto degli altri lui sarebbe andato dritto per la sua strada ed allora era meglio seguirlo e assecondarlo per proteggerlo il più possibile!
- Si, lo posso fare però è… -
- Che succede? – Li raggiunse Colby allontanatosi per un momento solo perché il luogo in cui si trovavano era certamente sicuro. Vedendo l’espressione preoccupata e contrariata nonché ansiosa di Charlie capì che Don aveva avuto un idea azzardata ed incosciente a cui nessuno, comunque, sarebbe riuscito ad opporsi.
- Colby, diglielo anche tu che non è una buona idea provocare Johnsson uscendo di qua per farsi colpire di proposito! – Quando il giovane comprese completamente ciò che il suo compagno voleva fare, gli prese quasi un colpo e avanzando ulteriormente con le mani ai fianchi, strabuzzò gli occhi credendo di avere allucinazioni uditive e visive.
- Vuoi fare da esca! – La voce gli uscì più alta del necessario e grazie a questo anche gli altri della squadra poterono sentire il suo 'geniale' intento.
- Si, è esattamente la cosa più veloce ed immediata da fare! Lui è là fuori, ora, mi ha seguito ed ha avuto abbastanza tempo da organizzare la prossima mossa, sicuramente un attentato per me. Finché starò qua dentro a pensare a come beccarlo senza farmi beccare, non andremo da nessuna parte, nessuno farà la sua mossa ed perdiamo tempo. La cosa più veloce è proprio questa. Andare là fuori e lasciargli fare la sua dannata mossa. Noi staremo tutti pronti e qualunque cosa faccia agiremo in tempo con la nostra contro mossa! –
- Don, è troppo rischioso, non sappiamo come intende ucciderti… - Si lamentò Megan dimostrando apertamente la propria preoccupazione.
- Esatto, non è detto che è appostato con un fucile da cecchino su uno degli edifici che circondano questo, pronto a spararti appena metterai piede là fuori! – La sostenne Charlie anche lui chiaramente in ansia.
- E’ una probabilità. Tu non lavori su probabilità? – Rispose Don con la pazienza che stava raggiungendo i minimi storici!
- Su probabilità alte, non così basse e pericolose! Mi serve più tempo per elaborare tanti piani quanti sono quelli che lui potrebbe usare per ucciderti! Sai in quanti modi si può attentare ad una vita? – Rimbeccò Charlie alzando a sua volta il tono ansioso e gesticolando nervoso davanti al fratello più alto di lui che lo ricambiava battagliero ed infastidito di essere contraddetto da tutti.
- Si, li conosco più o meno tutti, grazie. È per questo che ti chiedo di darmi la posizione più probabile per un cecchino e non anche le altre! Per non perdere… -
- Altro tempo! – Finì per lui di nuovo Charlie esasperato. Non c’era verso di spuntarla e sarebbero finiti per litigare inutilmente quando invece quel che doveva fare lui era trovare un modo matematicamente sicuro di aiutarlo.
- Don, però ha ragione, devi considerare che è veramente troppo azzardato buttarsi fuori così alla ceca, con la sola consapevolezza che tenterà di ucciderti! – Cercò di farlo ragionare Megan con più dolcezza e diplomazia. Don allora spostò la sua attenzione su di lei e sospirando per trovare una calma persa diverse ore prima, si concesse un secondo per riordinare le idee ed evitare di licenziare tutti i presenti, quindi si passò le mani sul viso sudato per la pressione che subiva sempre più crescente, chiuse gli occhi e capì che non avrebbe mai cambiato idea e che prendere Johnsson era davvero la cosa che più contava, in quel momento. Altrimenti nessuno delle persone che lo circondavano e che nella sua vita contavano, sarebbero più state al sicuro.
A partire da suo fratello.
Faceva così non perché aveva paura per la sua vita ma per quella degli altri che lui amava. Non centrava né l’orgoglio, né il principio come forse qualcuno pensava.
E Colby lo capì perfettamente così come Charlie, visto che glielo aveva anche detto brutalmente.
Non c’era molta scelta, se voleva prenderlo in fretta quello era il metodo più sbrigativo ed efficace. Lasciare che lui lo raggiungesse per primo.
- Capisco che vi preoccupate per me e vi ringrazio, ma non andrò là fuori da solo e so che quando metterò piede all'esterno non esisterà forza al mondo in grado di spazzarmi via ed uccidermi. So che tu, Megan, David e Colby farete il vostro lavoro. Ed anche la matematica di Charlie lo farà… Io devo fare quello che va fatto o presto sarete tutti in pericolo. –
Ci fu un breve momento di silenzio in cui ognuno pensò a qualcosa che c’entrava con la persona al centro della discussione, ognuno cominciava finalmente a capire cosa si agitava in quell’ossessione incosciente, ognuno si sentiva toccato da quello che ora era diventato un gesto d’altruismo e non di egoismo. Come faceva tutto il resto, in fondo.
Fu duro da accettare ma non trovarono alternativa, in realtà non aveva affatto torto, Don.
Così fu proprio Megan a parlare per tutti, proprio come una mamma che prende le decisioni più difficili per la sua famiglia:
- Ragazzi, facciamolo, allora, il nostro lavoro. E bene! Forza! – con questo ognuno annuì più serio che mai, consapevole dell’importanza che di lì in poi avrebbero avuto le loro gesta.
Una volta soli, Don e Colby si scambiarono un ulteriore sguardo significativo che disse più di mille parole, ma solo a loro due. Dall’esterno nessuno avrebbe potuto capire ciò che quegli occhi così seri e consapevoli intendessero comunicare al compagno dinnanzi.
Non servirono parole, capendosi profondamente si girarono per andare ognuno a prepararsi a quella che sarebbe anche potuta essere l’ultima azione, per qualcuno.
Spero solo che non lo sia…” Pensò Colby mostrando solo a sé stesso quella vena di preoccupazione angosciante che non gli permetteva di essere freddo e distaccato come sapeva essere in ambito lavorativo.

Ognuno aveva un compito preciso, erano in molti gli uomini impiegati discretamente in quella manovra volta a far cadere in trappola l’uomo che, a sua volta, ne stava ponendo una ai danni di Don Eppes.
Tutti uno specifico ordine, ognuno appostato in modo da agire nel modo più veloce e preciso possibile, qualcuno che già si dirigeva nel punto indicato dal professor Eppes.
Il più vicino, naturalmente, era Colby il quale aveva deciso di esporsi in prima linea accanto all’obiettivo principale, da brava guardia del corpo.
Ovviamente ognuno con un giubbotto antiproiettile sotto i vestiti per evitare di destare inutili sospetti.
Facendo finta di parlare come sempre di quella che era la loro indagine e quindi di seguire chissà quale traccia, sia Don che Colby, insieme agli altri appostati nell’ombra, osservavano attentamente l’ambiente circostante.
Gli altri con precisione maniacale mentre loro due con finta noncuranza.
E trovatisi lì a dover parlare comunque di qualcosa, decisero che nonostante tutte le riceventi collegate ad ogni uomo impiegato in quell’azione, potevano sbilanciarsi almeno un po’. In fondo sarebbe potuta essere l’ultima chiacchierata fra loro e non avevano ancora avuto il tempo nemmeno di sfiorarsi decentemente.
Niente.
Nemmeno dire che non avrebbero ancora voluto separarsi.
Così fu Colby a dire la sua verità nascosta, una sorta di linguaggio in codice che però non lo distrasse dal suo compito:
- Se questa volta muori giuro che ti perseguito anche dopo, non ti farò mai riposare in pace! – Con un pizzico di ironia che fece sorridere Megan e David all’ascolto, mentre Don, capendo il reale significato di quella frase, provò solo un gran desiderio di appartarsi con lui in privato e per lo meno baciarlo. Certe ammissioni non erano per lui di norma, figurarsi se si trovava ad essere ascoltato da orecchie indiscrete!
Suo malgrado piegò le labbra in un vago segno d’apprezzamento ed utilizzando il suo stesso tono, rispose sempre continuando a camminare naturale ma sostenuto, guardando in alto verso l’edificio indicato da Charlie:
- Ora mi sento più sollevato! E poi senti da che pulpito viene la predica! – In effetti Colby fra tutti era quello che era riuscito a far preoccupare di più la sua squadra. Quest’ultimo non disse nulla e limitandosi a scuotere il capo preferì evitare di darsi la zappa sui piedi da solo.
- Nessun movimento sospetto. Fra poco saremo fuori portata da un probabile cecchino posizionato là dove ha detto Charlie. – Disse quindi tornando serio e in argomento.
- Ma non è detto che attenti in quel modo. – Lo riportò alla dura realtà Don pronto a proseguire la sua passeggiata sul filo della morte.
La tensione continuava a salire alle stelle e nonostante facessero di tutto per rimanere freddi e pronti e non perdere la testa e la calma, si sentivano davvero troppo sotto pressione. Se nessuno avesse fatto nulla presto, sarebbero esplosi loro stessi. Come si poteva andare avanti in una situazione simile?
Camminare alla ceca immaginando le buche in cui sarebbero potuti inciampare ma senza conoscerle e vedere chiaramente.
E il pensiero sempre più fisso di stare per perdere la persona che al momento contava così tanto.
Rimanere in sé nonostante tutto, con lo stomaco che si contorce e ti provoca spasmi nauseanti, la spiacevole sensazione che presto tutto finirà e sarà male, i sensi accentuati al millesimo, l’adrenalina che corre a fiumi.
Addestramento, esperienza, abitudine, certo… e chissà quante altre cose che però non toglievano nulla al fatto che nessuno dovrebbe mai trovarsi in situazioni simili.
Mentre i due stavano per sparire dal raggio d’azione ipotizzato alla svelta da Charlie, una specie di lampo accecò per un brevissimo istante Colby prendendo completamente la sua attenzione ed in successione quella di Don e degli altri.
Non ci fu tempo nemmeno per pensarlo, ‘l’eccolo’. No, nessun pensiero, nessun respiro, nessun ragionamento, nessuna realizzazione, nessun ordine.
Solo lo spazio per l’istinto, per i riflessi pronti come se si fosse in guerra, in un campo di battaglia.
Solo lo spazio per agire e basta, senza nient’altro, come si è abituati a fare, come si fa sempre, come si fa ogni volta che si scollega la mente per anteporre la vita di chi, in quell’istante fulmineo, conta molto di più di te.
Non si sentì nemmeno un rumore di sparo, nulla.
Solo che Colby si buttò ugualmente addosso a Don svelto come la saetta che attraversa un cielo tempestoso un istante prima del rombo del tuono che prorompe creando panico ed agitazione.
Nessun rumore, come se il sonoro fosse andato via un istante.
Nulla se non Colby che buttava giù Don coprendolo col suo corpo, venendo lui stesso sfiorato di un soffio dal proiettile che si conficcava nel cemento veramente troppo vicino ai due ormai a terra.
Nel giro di un istante ci fu davvero il panico, lo spiazzo si riempì di agenti già pronti in precedenza, mentre altri che aspettavano solo quello, già presero a sparare nell’esatto punto indicato da Charlie nel suo calcolo.
Lontano, però.
Troppo per un azione così improvvisata e gettata nel caos da Colby steso su Don, nessuno capiva se stessero bene o no.
Quando realizzarono che comunque ormai era finita e che Johnsson ormai era sicuramente andato via, il fuoco cessò e Don stesso gridò un: - BASTA! – che fece desistere tutti.
Mentre ognuno si fermava ed altri accorrevano pronti ad eseguire altri ordini, Megan e David raggiunsero i due colleghi ancora a terra ma interi. Quando videro Colby alzarsi e guardare subito Don sotto di sé per assicurarsi che stesse davvero bene, non avrebbe comunque sentito nemmeno se quel proiettile si fosse conficcato nella sua schiena invece che nel marciapiede a pochi centimetri da loro, tanta era alta la tensione e la paura per aver davvero rischiato di perderlo.
Si sentì come se gli sospendessero tutte le funzioni vitali e solo costatando che il suo viso non presentava segni di dolore, si sentì sollevato tanto da tornare a respirare.
- Stai bene… - Disse quindi senza chiederglielo, vedendolo da solo.
- Ormai è un vizio salvarmi la vita, eh? – Disse Don al volo capendo che alleggerire la situazione, ora, toccava a lui visto quello che per colpa sua il suo compagno aveva passato.
La paura della perdita della persona magari non amata ma che comunque contava molto.
Si rendeva conto di avergli dato un peso non indifferente ma se non fosse stato lui accanto a proteggerlo, non l’avrebbe mai fatto.
Solo a lui avrebbe affidato la sua vita e più tardi, quando tutto quell’inferno sarebbe finito, gliel’avrebbe detto concedendosi di scoprirsi di più.
- Che vuoi, le brutte abitudini sono le più dure da mandar via! – Rispose a tono sforzandosi di tornare non solo a respirare ma anche a vivere!
Si era sentito davvero male, come essere buttato nello spazio aperto senza protezione addosso.
Però ormai era andata ed anche bene, nonostante avessero sperato in meglio.
Era ovvio che non sarebbero riusciti a prenderlo, nel caso fosse stato davvero a fare il cecchino lassù, il punto era demolire un possibile modo di attentare alla sua vita e guadagnare prove che li conducessero a lui. Dati.
Farlo innervosire notando quanto lui pronto fosse.
Provocarlo.
- Ora si arrabbierà davvero, ha capito che era tutto programmato e che in un certo senso l’ho sfidato ad uccidermi. Non solo l’ho provocato ma l’ho anche previsto e sventato. Sarà su tutte le furie, progetterà qualcosa di più avventato in modo da scoprirsi maggiormente e lì lo prenderemo. – Disse poi Don sbrigativo e razionale tornando a Johnsson con freddezza e sicurezza, alzandosi ed ignorando la sensazione che il suo corpo, tremando, gli mandava.
Proprio come quella mattina, quando era quasi finito sotto un camion.
Ignorare la sensazione della morte scampata era un vizio per lui, lo faceva in continuazione per non cessare di fare quel lavoro e proteggere qualcuno di importante.
- E sarà anche più pericoloso. – Asserì Megan calcando sull’aspetto più grave che Don aveva accuratamente sminuito, come fosse una passeggiata.
- Va con David là dove era appostato e vedete cosa ha lasciato. Ci sono già altri agenti. – Fece quindi tornando il capo duro e severo di sempre, i cui ordini non ammettevano repliche se erano detti sotto pressione, riferendosi al fatto che sicuramente Johnsson lassù aveva lasciato qualche prova per loro.
Quando si trovò di nuovo solo con Colby a rientrare nell’edificio dell’FBI, questi gli chiese realizzando quale fosse stato il suo ragionamento:
- Quindi ora diventa una roulette russa. È questo che hai intenzione di fare? – Il tono inquisitore e sostenuto era quello di chi aveva appena capito le sue reali intenzioni ed ora aveva l’istinto di fargli una lavata di capo nonostante lui fosse un suo superiore.
Le porte dell’ascensore si richiusero davanti a loro inglobandoli nell’oggetto metallico che si levò silenzioso trasportandoli in alto da soli. I cuori battevano ancora forsennati, ignorati dai proprietari.
- E’ l’unica cosa veloce ed efficace, ora. – Però sapeva che per farlo avrebbe di nuovo dovuto lottare per farsi ascoltare, nonostante fosse lui il capo!
- Charlie ti direbbe che a volte perdere un po’ di tempo per impostare un piano più sicuro, non fa male! –
- Tu sei stato troppo tempo con Charlie! – Lo liquidò deciso a non mollare l’osso. Ovviamente non lo guardava, al contrario di Colby che invece era completamente rivolto verso di lui e come se non credesse alle sue orecchie lo fissava stranito asciugandosi il sudore dal viso con l’avambraccio.
- La soluzione non è mettersi là fuori e passeggiare finché lui non tenta di farti la pelle per sfuggirgli quante più volte puoi, finché non sei tu poi a prenderlo! Non è così che operi, non l’hai mai fatto! Segui le indagini in modo umano, per favore! – Il tono sempre più sostenuto e alterato. Averlo quasi perso non gli era affatto piaciuto.
Don sapeva perfettamente che Colby aveva ragione ma non poteva stare ad aspettare idee, prove o indizi che lo portassero da quel dannato uomo. Aspettare mentre quello faceva i suoi sporchi comodi attentando alla sua o magari peggio alla vita di quelli che lo circondavano.
Non poteva permetterlo, assolutamente.
Doveva sbrigarsi, prendere la strada più breve e veloce, fare in fretta, davvero in fretta.
Non sapeva cosa dirgli di preciso però gli dispiaceva vederlo così preoccupato per lui. Sospirò stanco e si girò verso di lui ricambiando finalmente il suo sguardo diretto ed ansioso nonché battagliero. Si prese un istante per perdersi in lui e in quello che dimostrava apertamente di provare, chiedendosi perché anche lui non ci riusciva così bene e facilmente, poi senza sapere cosa dire di preciso, aprì semplicemente la bocca e parlò posando la mano sul suo braccio, unico gesto di intimità che in tutta la giornata gli aveva ancora concesso.
- Perdonami se agisco così fuori dagli schemi, ma voglio solo far finire al più presto tutto questo. – Le cose più vere e più semplici, nonché disarmanti, che avrebbe potuto sussurrargli a tu per tu in quell’istante. Colby parve come sciogliersi e smontando tutta la sua linea d’attacco, sospirò a sua volta spompandosi, scuotendo appena la testa sconsolato:
- Lo so, ma non voglio che ti succeda nulla… - Mormorò a sua volta concedendosi di più dell’altro mettendogli la mano sulla sua. Il calore di quel contatto gli restituì un po’ di puro ossigeno e si concessero ancora qualche secondo così, a fondersi con gli sguardi senza osare avvicinarsi di più.
- Non potrei affidare la mia vita ad altre che non siano le tue mani. – Questo fu davvero molto di più di quello che Colby avrebbe anche solo sognato di sentirsi dire da Don e riempiendosi l’animo ed il cuore di quello che significava per lui una frase simile, al pari di un ‘ti amo’, per loro due, distese le labbra ben disegnate in un sorriso spontaneo e dolce che riempì il compagno di quella forza che per qualche minuto gli era vacillata.
- Ed io ci sarò sempre, come tu ci sei sempre per me. – Rispose riferendosi alle molte volte che Don stesso l’aveva coperto o addirittura salvato.
Averlo dalla sua parte, in quell’attimo, fu quanto di più appagante e importante ci fosse.
Un breve secondo di scambi nel quale poterono solo stringere ulteriormente quella presa l’uno sull’altro che trasmise ad entrambi molti brividi e li calmò, poi sentendo l’ascensore rallentare dovettero separarsi a malincuore tornando a girarsi.
Le loro espressioni tornarono serie e non più brevemente distese, quindi ogni sentimento tornò dentro la corazza che ergevano fra loro ed il resto del mondo mentre le ante dell’abitacolo si aprirono gettandoli nel caos del loro piano.
La roulette russa era appena iniziata.

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Capitolo 3
*** Inferno ***


L'EROE DA SALVARE

*Ragazzi, ecco un altro capitolo di questa fanfic. Non so chi la legga e come la vedete, ma a me prende parecchio quindi continuerò e mi sa ancheche la finirò presto. Era una tentazione troppo grande fare quel che poi ho fatto in questo capitolo, leggendo capirete e chi mi conosce sa perché dico ciò. Comunque ringrazio chi ha letto e commentato fin qua. Buona lettura. Baci Akane *


CAPITOLO III:
INFERNO

/We’re no here – Mogwai/
Le ore sembrarono non passare più o forse era proprio il contrario, volarono.
Dipendeva certamente dai punti di vista.
Per Colby il tempo sembrò volare, mentre tentava di far ragionare il suo capo che voleva proteggere senza fargli fare nulla di avventato; per Don, invece, (il suddetto capo da proteggere) le ore andavano lentamente, fin troppo. Sembravano non muoversi più.
Nemmeno una giornata intera era ancora passata e non avevano fatto nessun passo ulteriore in avanti.
Charlie chiuso insieme a Don nell’ufficio dell’FBI lavorava instancabilmente su calcoli e teorie per poter tirare fuori qualcosa di utile a Don affinché potesse catturare al più presto l’assassino in circolazione, ma la verità era che gli ci sarebbe voluto di più. Più tutto: tempo, dati, indizi, calma… l’ansia per le probabili follie che il fratello maggiore di lì a poco avrebbe tentato, erano deleterie per lui che era abituato a tirare fuori cose geniali in condizioni meno stressanti. Certo ‘l’ansia da prestazione’ collaborando con l’FBI era normale, per lui, però quel tipo di ansia che sfociava quasi nell’angoscia no.
Inoltre c’era quella stranissima sensazione crescente che oltre a lui la provava anche Colby. Quella sensazione che sembrava dirgli che le cose sarebbero peggiorate, di fare in fretta, di sbrigarsi, di tirare presto fuori qualcosa, di ottenere il risultato decisivo. Più si ripeteva questo con un angolo sempre più rumoroso della sua mente, meno andava veloce.
Don non gli metteva pressione, certamente, ma non aveva molto in mano dopo aver promesso di uscire da quell’edificio solo per andare a casa a dormire insieme a Colby.
L’idea di poter uscire a patto di dormire con lui gli piaceva tanto da fargli mettere da parte il pericolo e la rabbia; pensava, nonostante tutto, che non tutto il mal venisse per nuocere e consapevole che ormai per quel giorno non ci sarebbero state mosse da parte di nessuno dei due, si rassegnò a seguire il consiglio della squadra e a farsi scortare dal suo uomo all’auto.
In ascensore si trascinò anche Charlie orinandogli di andare anche lui a casa a dormire, concedendogli al massimo di continuare a lavorare laggiù.
Era sicuro che per lui non ci sarebbero stati pericoli poiché all’epoca in cui Don catturò Johnsson rovinandolo, Charlie non era nemmeno una vaga idea nella sua mente. Sostanzialmente quell’uomo non sapeva nemmeno dell’esistenza del professore e del suo prezioso aiuto, quindi sapeva bene che non avrebbe dovuto preoccuparsi per lui.
Mentre l’abitacolo di latta scendeva col solito andamento privo di alcuna fretta, passando i vari piani dell’alto edificio, i tre uomini continuarono a parlare a spada tratta del caso come se non ci fossero altri argomenti al mondo.
- Per oggi ormai non farà nulla, tanto vale davvero andare a riposare. – Disse Don rassegnato, sperandoci poco lui stesso in quell’affermazione. Aveva l’aria molto stanca ed il viso segnato dal sonno che tentava di vincerlo. Quella giornata si era strapazzato per bene, in fondo era quasi morto addirittura due volte. Quella sensazione adrenalinica per nulla piacevole avrebbe debilitato chiunque, persino lui.
- Appena metterai piede fuori casa, domani mattina, aspettati qualcosa da Johnsson. Fatti venire a prendere da qualche auto dell’FBI… - Rispose quindi Charlie stringendo alcune cartelle inerenti al caso per poter continuare a lavorare a casa. Aveva anche lui un viso segnato ma più che altro era preoccupato per il fratello e vederlo così, nonostante tutto, a Don fece piacere poiché il loro rapporto si era ristabilito e sistemato solo dopo che era venuto a collaborare per l’FBI. Prima di quel momento non era stato granché.
- No, ci sarà Colby con me e poi non sono uno sprovveduto, in tutti questi anni di servizio ci sono state un sacco di persone che hanno tentato di farmi fuori. Credimi che non è poi così facile riuscirci… - Si lamentò il maggiore con la sua solita aria brusca e sicura mentre Colby asseriva con la testa ricordando i molti casi in cui era riuscito a cavarsela da solo. Non poteva che essere d’accordo, farlo fuori fino a quel momento era stato difficile e riuscirci ora solo perché uno più folle degli altri lo voleva particolarmente, non avrebbe cambiato quel fatto. Forse avevano ingigantito tutto più di quanto non ne valesse effettivamente la pena.
- Ok ma perché non venite a dormire tutti e due da me? Non è meglio? – E per quale motivo sarebbe stato meglio? Se lo chiesero facendo fatica a non tossire apertamente contrariati ed imbarazzati da quella proposta. Imbarazzati visto quanto erano contenti, invece, di poter finalmente stare da soli con l’autorizzazione e la benedizione di tutti!
- No grazie, Charlie. È pericoloso per te e papà, non voglio coinvolgervi… - Disse quindi Don consapevole che l’espressione di Colby in quel momento sarebbe stata encomiabilmente trattenuta, al contrario di quel che la sua testa pensava!
Figurati se mi perdo l’occasione!” Si stava infatti dicendo fra sé e sé facendo proprio finta di nulla.
Fecero effettivamente molta fatica a non ridere e quando Charlie si rassegnò a non insistere più senza capire a fondo la motivazione, le porte finalmente si aprirono lasciando prendere ai due agenti trattenuti fino allo spasmo, un po’ d’aria.
- Ti accompagniamo? – Chiese poi Don una volta fuori dall’FBI mentre attraversavano il ponte dirigendosi alla propria auto. Quelle di Colby e Don erano parcheggiate non molto distanti l’una dall’altra nei primi buchi trovati disponibili.
- No, no grazie, non serve. Andate subito a riposare, io passo all’università, spero di trovare Larry. Devo chiedergli una cosa… - Rispose Charlie senza più far caso allo strano comportamento del fratello in ascensore. Non ci aveva fatto molto caso, preso com’era dai calcoli lasciati in sospeso e dalle probabilità che Don, mettendo piede fuori, fosse investito da qualche altro cataclisma causato da Johnsson.
- Andiamo con la mia. – Fece poi Don dirigendosi alla sua auto tipicamente federale, scura, grossa, nera e con i vetri oscurati.
- Si. – Rispose Colby rallentando il cammino, osservando Charlie fermarsi indietro con un espressione strana. Era come se avesse avuto un illuminazione dell’ultimo minuto ma una di quelle poco piacevoli, difficili da esporre non perché complesse ma perché coinvolgeva una persona che non avrebbe voluto, troppo importante per lui. Se nelle sue ipotesi matematiche c’era di mezzo Don il suo compito peggiorava non solo nell’esporlo ma anche nel verificare le proprie idee.
- Charlie? – Lo chiamò Colby fermandosi indietro con lui, osservando l’espressione sempre più preoccupata e pensierosa che non diceva nulla di buono. Ormai lo conosceva, sapeva di cosa si trattava.
- No è che… - Provò ad iniziare il moro dai capelli ricci tutti intorno al viso mentre entrambi con un solco contrariato sulla fronte perdevano Don di vista per un istante che salì sulla sua auto al posto di guida, opposto rispetto a dove si trovavano loro in quel momento. – E’ una specie di… non so nemmeno come definirla… - Qui Colby si preoccupò davvero. Lui così smarrito che non sapeva definire qualcosa non era normale, anzi. Forse non era mai successo, che lui ricordasse.
Inghiottì cercando tutto il suo sangue freddo per digerire la consapevolezza che se anche Charlie si trovava in quelle condizioni, qualcosa troppo presto non sarebbe andato bene.
- Prova a dirlo… - Lo esortò ansioso consapevole di quanto importante fosse sapere il pensiero che vorticava nella mente veloce e piena di nozioni e statistiche di quel ragazzo.
Entrambi non stavano guardando più la stessa persona la cui forma ormai era confusa a causa del vetro oscurato. Sapevano era lì dentro e che stava per mettere in moto, ma in realtà non lo avrebbero visto chiaramente nemmeno guardandolo. Il punto era che la loro conversazione, lo sapevano bene, era di vitale importanza per lo stesso a cui entrambi tenevano, il protagonista di quelle brutte sensazioni e di quelle grandi preoccupazioni.
- In base alle probabilità che ho steso in giornata velocemente riguardo ai modi in cui Johnsson potrebbe attentare alla sua vita, uno con un alta percentuale è proprio l’esplosione della sua auto. – Riuscì a dirlo, in realtà aveva una definizione specifica che esisteva perfettamente nella sua mente, la sapeva, però il fatto che potesse verificarsi proprio di lì a poco davanti ai loro occhi fece a pugno con la sua emotività. Il desiderio che così non fosse portò l’agente che aveva appena ascoltato quella frase simile ad un proiettile, ad esitare e ad impedirgli di salire immediatamente sulla macchina in questione.
Tutti e due, uno realizzandolo ed uno ascoltandolo, avrebbero dovuto impedirlo, certamente, specie Colby.
Non avrebbero dovuto staccarsi da lui un secondo.
Però fu quella preoccupazione verso Don stesso ad impedire ad entrambi di fare la cosa giusta.
Preoccupazione e sentimenti.
Una combinazione deleteria che per qualcuno sarebbe costato molto.
Semplicemente la paura che potesse davvero avverarsi combatté violentemente in entrambi con il desiderio e la speranza che così non fosse.
Nella realtà Charlie non finì nemmeno di dire completamente ciò che doveva, disse una parte di tutta la spiegazione che sarebbe dovuta uscire dalle sue labbra e appena prese fiato senza mutare espressione, girando insieme gli occhi e puntandoli sul veicolo di Don come mossi da una forza premonitrice invisibile, l’esplosione si levò innanzi a loro facendoli sobbalzare all’indietro fino a farli finire a terra, stesi, shockati e tramortiti.
Proprio lì, a qualche metro da loro, l’automobile di Don con presumibilmente lui dentro esplose in una fiammata che non ebbe pietà di chiunque coinvolse e colpì.
Il cielo scuro della sera si dipinse di arancione e parve quasi il tramonto mentre ogni effetto sonoro svanì nell’intero isolato.
Una sorta di musica drammatica si levò immaginariamente come sottofondo a quella che parve a tutti gli effetti una tragedia senza precedenti.
Il silenzio cadde concretamente e prima di poter reagire e capire cosa fosse successo, passò un lasso di tempo indefinito. Tanto? Poco?
Nessuno avrebbe potuto dirlo.
Solo che quell’ansia che entrambi un istante prima avevano provato guardando in quella direzione, sembrava esplosa con l’auto.
E Don?
Anche lui era esploso?
Quando si fecero entrambi quella domanda fu segno che il loro cervello permise loro di connettere di nuovo, eppure i rispettivi sensi non erano ancora attivi, le funzioni vitali erano annullate per lo shock e l’onda d’urto.
Però quando la vista tornò si trovarono a terra girati verso le fiamme che provenivano dall’auto di Don. Fiamme. Fuoco. Silenzio.
Morte?
La vista mostrò solo quel desolante spettacolo mentre l’intuizione fu così crudele da far realizzare l’irrealizzabile.
E con un sonoro senza sonoro, la voce uscì senza che ne fossero coscienti. Ma forse non uscì, forse non davvero.
Forse lo immaginarono, o magari fu solo Charlie a gridare. O forse era Colby e al contrario Charlie era quello che credeva di urlare senza farlo davvero.
Fatto fu che in ginocchio a terra coi fogli che volavano in aria, uno dei due riuscì a gridare straziante il nome di Don, mentre l’altro aprì la bocca ma non fu in grado di emettere nemmeno un suono.
Chi dei due fece cosa non lo seppero mai.
La coscienza fu crudele, gli ridonò solo la consapevolezza di quanto accaduto ma non la lucidità per agire. Non subito.
Il primo a riprendersi fu Colby che più abituato dell’altro a certe prove fisiche, si rialzò prima con quella di buttarsi di getto nelle fiamme che avvolgevano il veicolo di cui, ormai, non si distingueva nemmeno il colore.
Fu fermato da un agente accorso e poi da un altro ed un altro ancora.
Buttarsi là dentro per tirare fuori chiunque ci fosse, sarebbe stato solo un suicidio e mentre le sirene dei vigili del fuoco si avvicinavano veloci, Colby continuava a lottare portando gli altri che tentavano di fermarlo a chiedersi dove la tirava fuori quella forza in grado di metterli in difficoltà. Voleva solo andare da lui, dal suo uomo da cui si era separato solo un istante, un istante.
Era entrato, i vetri l’avevano nascosto e non l’aveva più visto.
Più.
L’ultima parola che si erano scambiati… cos’era stata?
Non capiva più nulla, assolutamente.
Solo che voleva andare là e qualcosa glielo impediva. Nemmeno tutta la forza che aveva in corpo gli consentì di fare quel che voleva con tutto sé stesso, alla fine fu schiacciato contro l’asfalto, sorpassato dai vigili per spegnere il fuoco e da altri agenti di servizio che allontanavano i curiosi e chiunque tentasse di vedere cosa fosse successo.
Probabilmente l’unica definizione che nella mente di Charlie arrivò, in quel momento, fu ‘Inferno’.
Allora è così…” Si disse senza sapere di preciso a cosa si riferisse. Se alla morte di Don, se ai propri sentimenti davanti a quella tragedia oppure se alla sua previsione inutile che, fatta tempestivamente, avrebbe potuto salvarlo.
O magari all’Inferno stesso.
Per uno la cui unica religione era la matematica e la propria logica mentale, chiedersi se l’Inferno fosse così fu sconvolgente probabilmente più dell’innamorarsi.
Non seppe cos’altro provò, non seppe cosa successe, non seppe cosa fecero gli altri, non seppe chi lo raggiunse, non seppe cosa gli dissero, non seppe chi lo toccò, non seppe dove lo portarono, non seppe cosa fece Colby, non seppe cos’era ciò che osservava senza vedere davvero.
Non seppe.
Non seppe nulla.
Per un indefinito proverbiale momento il suo cervello dal Quoziente Intellettivo sopra la norma, veloce e sorprendente nonché geniale, si spense.
Impossibile?
Eppure a lui successe.
Lo visse diversamente da Colby, il fidanzato di Don.
Lo visse come uno che viene inavvertitamente sbalzato fuori dal proprio corpo, quindi mente ed anima viaggiano in frequenze diverse. Lo visse così.
Colby, invece, lo visse pieno di sentimento, di rabbia, di dolore e di passione. Qualunque cosa potesse esternare insieme a quell’esplosione che sconvolse tutti coloro lo conoscevano e lo vedevano in quelle condizioni.
Nessuna lacrima, solo urla, urla disperate e rabbiose, urla che lo chiamavano senza ottenere risposta.
Urla.
Si sentì dilaniato, come l’ennesima terribile botta inaffrontabile.
Non sarebbe sopravvissuto, non anche alla sua morte.
Ne aveva passate molte, troppe. Quella volta se Don fosse morto davvero, non ce l’avrebbe fatta.
Eppure cosa faceva?
Ci credeva?
Era la vana speranza di un folle quella che gli impediva di smetterla di chiamarlo e gli faceva guardare come l’acqua spegneva quell’incendio?
Vana oppure concreta?
Cosa sperava di trovare, una volta che tutte quelle fiamme sarebbero state spente?
Forse fare la guerra non gli era bastato per rassegnarsi in fretta davanti all’inevitabile dolore e all’evidenza.
Forse Charlie era troppo razionale per non credere che dopo un esplosione simile nessuno può sopravvivere.
Forse la verità si sarebbe vista di lì a poco.

Quando gli altri colleghi li raggiunsero allarmati nel giro di un istante, tutti pensarono che ormai era tardi e mentre David andò a tirare via Colby con la forza, abbracciandolo come solo un amico ritrovato poteva fare, Megan andava diretta da Charlie stringendolo a sé materna e disperata come una madre ed un amica insieme.
Cosa credere?
Cosa pensare?
Cosa dire?
Cosa fare?
Se lo chiesero mentre non ebbero il coraggio di domandare cosa ci facesse Don da solo nell’auto. Tanto sarebbe esplosa comunque, quella macchina. Con o senza loro. Morte inevitabile, dunque?
Ma la domanda, in realtà, non era affatto quella e il primo a comprenderlo, in mezzo al dolore e alla disperazione di chi non voleva arrendersi dal momento che non versava ancora nemmeno una lacrima, stranamente, fu Colby.
Quando vide lo scheletro carbonizzato dell’automobile, corse sgusciando dalle braccia di David senza nemmeno averle sentite. Gli altri lo guardarono fiondarsi al posto di guida dove sicuramente, tutti ne erano certi, avrebbe trovato i resti altrettanto carbonizzati del corpo del loro capo, agente ed amico.
Non si rese davvero conto di ciò che fece, aveva solo un unico pensiero fisso.
Finché non l’avrebbe toccato e visto sbriciolarsi sotto le sue dita, non ci avrebbe creduto alla sua morte.
Mai.
E fermo immobile davanti al sedile di guida dove aveva visto sedere e sparire Don, non vide nulla.
Nulla se non un sedile vuoto bruciato.
Nessuna traccia di nessun corpo morto esploso, nulla, nemmeno le ceneri.
Come se la sua preghiera fosse stata esaudita, come se l’intensità del suo dolore avesse commosso qualcuno di molto in alto e l’avesse accontentato.
Lì non c’era nessun cadavere, nessun corpo.
Lì Don non c’era e mentre Colby lo realizzava una seconda esplosione avvenne in lui, un esplosione che sollevò in aria la sua anima appesantita e bruciante. Un anima ora di nuovo in sé.
La follia che l’aveva invaso nel dolore di un solo istante prima, ebbe pietà di lui e la ragione tornò così come il sangue freddo.
Un sangue che comunque di freddo ebbe effettivamente poco.
Quando si staccò dai resti dell’auto dove la puzz impediva di respirare a pieni polmoni, la forza e la decisione si erano rimpadroniti di lui ancora di più e con una nuova luce spietata e determinata nello sguardo che si colpevolizzava di tutto, andò dritto e spedito da Charlie ignorando tutti quelli che tentarono di fermarlo e parlargli.
Andò unicamente da lui e non per accusarlo di qualcosa come stava facendo lui stesso in quello stato catatonico in cui non capiva cosa gli succedeva intorno, andò là con un unico scopo preciso. Senza aver ottenuto ciò che voleva non se ne sarebbe andato.
Non avrebbe mollato, a qualsiasi costo, pronto a tutto, davvero a tutto.
E di una persona così seria, disperata, innamorata e determinata c’era davvero da aver paura.
Davvero.
Specie considerando che Colby non era uno qualunque!
Capendo che Charlie non aveva ancora reagito, non considerando affatto il suo stato d’animo, lo prese per le spalle e scuotendolo violentemente senza il minimo riguardo, gli gridò a poca distanza dal suo viso:
- TROVALO, CHARLIE! TROVALO! SEI L’UNICO CHE PUO’ RIUSCIRCI! LUI CONTA SU DI TE! LUI SA CHE SOLO TU PUOI TROVARLO! TROVALO! –
- Ma che stai dicendo, Colby? Calmati per favore… Don è… - Non ebbe il coraggio di dirlo, Megan, mentre tentava invano di staccare il collega dal giovane che a sua volta lo guardava senza vederlo, o meglio senza capire cosa stesse dicendo, perché gli chiedesse di trovare un morto. Come poteva essere?
Era impazzito?
Lentamente la ragione gli stava tornando davanti alle richieste illogiche ed impossibili dell’amico.
Ma quando Colby lo disse, anzi, lo gridò, per lui fu come rinascere di nuovo:
- DON NON E’ MORTO! NON C’E’ TRACCIA DI LUI IN QUELL’AUTO! NON SO COME DIAVOLO HA FATTO E DOVE LO HANNO PORTATO, NE’ QUANDO CI SONO RIUSCITI, PERO’ I FATTI PARLANO. IN QUELL’AUTO NON C’E’ NESSUN CORPO CARBONIZZATO! DON E’ VIVO DA QUALCHE PARTE! –
Esattamente.
Fu davanti a queste urla che Charlie resuscitò insieme all’anima di suo fratello che aveva creduto essere morto.
Si era sentito illogicamente strappare via dal mondo e dal proprio corpo, il suo IO per un momento indefinito non c’era stato e si era svegliato fra le scosse violente di Colby e le sue urla rabbiose e decise. Urla che gli ordinavano di trovarlo.
Se lui non era morto ed era tenuto da qualcuno da qualche parte, l’avrebbe trovato.
Quel che contava, per lui, era che non fosse morto.
E le lacrime gli scesero dagli occhi sciogliendo la tensione per l’Inferno che aveva appena passato e superato.
Charlie certamente non credeva in Dio, come poteva? Però il ‘grazie’ che si formò nella sua mente non seppe proprio a chi fu rivolto, eppure non trovò importante, per una volta, cercare risposte.
C’era qualcosa di molto più importante da fare.
Molto di più.
Trovare suo fratello.


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Capitolo 4
*** corsa contro il tempo ***


L'EROE DA SALVARE
*Ecco subito un altro capitolo. Ho visto di nuovo Numb3rs quindi mi è venuta l’ispirazione per continuare, così eccomi qua. Sono contenta che il capitolo precedente sia piaciuto e che in molte mi abbiate odiato (si fa per dire… no? ^_-), speravo di riuscire a lasciarvi tutti col fiato sospeso e ci sono riuscita, sono proprio contenta! Bene, qua le cose procedono e si capisce cosa è successo a Don. Ma non so se potete tirare un respiro di sollievo… mi pare proprio di no! Bè, comunque grazie a tutte quelle che hanno commentati e letto. Buona lettura. Baci Akane*

CAPITOLO IV:
CORSA CONTRO IL TEMPO

/ Enjoi the silence – Depeche Mode feat. Mike Shinoda /
- Andiamo con la mia auto! – Disse Don dirigendosi spedito alla propria macchina parcheggiata insieme a molte altre, il ‘si’ di risposta di Colby gli arrivò lontano indicandogli che si era fermato un attimo con Charlie. Non ritenne opportuno aspettarlo e sentire cosa si dicevano ma se l’avrebbe fatto sicuramente molte cose sarebbero andate diversamente e non avrebbe dovuto subire ciò che nessuno dovrebbe mai passare.
Però per sbrigarsi ad andare a casa e dedicarsi all’unica cosa bella della giornata, ovvero Colby, era salito subito per accendere l’auto ed uscire dal parcheggio. Sapeva che lui sarebbe arrivato subito ed aveva fretta di arrivare a casa.
Lui, la fretta, l’aveva sempre ma forse dopo quella volta avrebbe imparato ad averne di meno.
Quando salì dalla parte del guidatore, dalla parte opposta rispetto a dove si trovavano Colby e Charlie che parlavano ancora con una strana espressione turbata, si impose di pensare solo alla notte che si apprestava a passare. Un piccolo squarcio di paradiso. Una volta che tutta quella storia sarebbe finita, avrebbe avuto il resto e non vedeva l’ora.
Già non ne poteva più… quel Johnsson era ormai un ossessione, aveva vissuto tutta la giornata in funzione di quell’uomo cercando di immaginare le sue mosse e di coglierlo in contropiede. La sua mente era stata rivolta così tanto verso di lui che gli era sembrato di vederlo ovunque ogni volta girasse lo sguardo.
Anche ora era così… ora che dall’interno del veicolo dai vetri oscurati aveva infilato distrattamente la chiave nel quadro d’accensione.
I suoi occhi stanchi e stralunati posati in un punto a caso dell’esterno, dalla parte del proprio finestrino, avevano messo distrattamente a fuoco un viso a lui noto.
QUEL viso noto.
Un viso che l’aveva ossessionato tutto il giorno senza essere mai riuscito a vederlo davvero se non con la sua immaginazione.
Ed ora?
Era davvero lui? Strabuzzò gli occhi ed in realtà anche se le cose sembrarono andare al rallentatore, tutto fu veloce.
Dannatamente veloce.
Spense la ragione ed il cervello rivolto a mille pensieri e si lasciò andare unicamente al suo istinto.
Istinto di sopravvivenza, istinto di agente esperto in mille azioni pericolose, istinto felino.
Non pensò, non ci riuscì.
Come il suo cuore non riuscì nemmeno a battere, quasi, sospendendo ogni funzione vitale del corpo.
Don mettendo a fuoco Johnsson fuori dalla sua auto, a diversi metri da lui, mollò immediatamente le chiavi e dimenticando anche di respirare aprì la portiera gettandosi fuori.
Non ragionò, non realizzò che se quello era davvero lui e se era lì fuori a guardarlo poteva significare solo che la sua vita era di nuovo in pericolo e che probabilmente quella volta sarebbe esplosa la sua auto.
Non realizzò che quindi doveva uscire subito.
Non realizzò che era un occasione unica per prenderlo.
Non realizzò nulla di tutto quello che normalmente con un po’ di tempo in più avrebbe realizzato, molte cose in effetti.
Semplicemente agì ancor prima di realizzare.
Agì e si buttò fuori dall’abitacolo con una tale velocità che gareggiò col tempo fulmineo stesso.
Un lampo.
In un lampo quanti passi si possono fare, correndo con la forza della disperazione?
Con la voglia di vivere ancora?
Sicuramente gran parte del merito fu del fatto che era un ottimo agente, tanto che aveva una squadra sotto di sé. La sua esperienza sul campo e al lato pratico era stata preziosa allo stesso modo del suo istinto e se così non fosse stato, quando al termine di quel lampo brevissimo la macchina esplose, lui sarebbe morto lì dentro, bruciato con essa.
Non sapeva quanto era riuscito ad allontanarsi piegato fino all’inverosimile per correre più veloce, silenzioso per non sprecare fiato a gridare un aiuto che non sarebbe mai arrivato in tempo.
Concentrò ogni parte di sé stesso per allontanarsi.
Per sopravvivere.
E quando le sue spalle furono completamente fuori dal veicolo nero, questi esplose creando un boato che azzittì tutti nell’intero isolato. L’onda d’urto coinvolse chiunque fosse nel raggio di qualche metro e li fece sbalzare in aria e cadere a terra.
L’ultima sensazione fu di calore.
Un calore innaturale contro la schiena.
Poi l’impatto col marciapiede non gli fece più comprendere che le fiamme l’avevano raggiunto insieme al botto che l’aveva sospinto violentemente in avanti, facendolo scontrare col suolo duro che fermò la sua coscienza.
Dopo fu solo nero.
Silenzio, vuoto e buio.
Un buio che l’avrebbe accompagnato a lungo, per un tempo a lui indefinito, che l’avrebbe fatto viaggiare senza coscienza in un posto strano alla sua stessa ricerca. Una ricerca per capire chi fosse, dove e cosa potesse fare.
Perché anche privo di sensi, Don rimaneva sempre Don e cercava di essere il più attivo possibile per risolvere al lato più pratico possibile i problemi.
Il fatto che non riuscisse a ritrovare sé stesso e a venir fuori da quella confusione maledetta, era decisamente un gran problema.
Ci impiegò molto prima di trovarsi e ricordarsi il proprio nome, ci volle altrettanto per chiedersi cosa ne fosse stato di Colby e di suo fratello, poco distanti da lui. Dopo di che i tasselli, uno dopo l’altro, gli ridonarono la ragione mentre capiva cosa era successo, quando e come.
Solo che quando il dolore lo raggiunse anche lì, ancora svenuto, tutte le risposte sfuggirono di nuovo lasciando posto solo ad una sofferenza allucinante destinata a crescere sempre più.
Fu il male fisico per l’esplosione, il botto e le fiamme che lo fecero risvegliare e dimenticare per un attimo tutto.
La sua mente nello stato di completa confusione non ebbe pietà di lui e gli parve, quando aprì a stento gli occhi, che volesse saltargli per aria anche quella.
Gli pulsava spaventosamente insieme al sangue che correva rude nelle proprie vene. Ogni osso gli doleva come se fosse rotto, le forze non gli tornarono nemmeno per girare la testa. I sensi ancora annebbiati come la vista che non gli permise di distinguere solo luci ed ombre.
Era steso in un posto chiuso, illuminato ma silenzioso.
O silenziose erano le sue orecchie?
Forse non c’era silenzio ma era lui che ancora non sentiva.
Dopo un esplosione simile è difficile sentire subito appena apri gli occhi.
Lui ci era stato davanti.
Quando uno ad uno i sensi gli tornarono ancora, l’udito non voleva saperne di aiutarlo ma gli bastò quel che cominciò a sentire.
I dolori che precedentemente gli avevano permesso di riprendere i sensi furono surclassati dalla schiena che gli bruciava da fargli impazzire e i lamenti biascicati uscirono dalla sua gola roca ed asciutta.
Aveva bisogno di bere, un bisogno disperato.
Sentiva caldo ed era in un bagno di sudore oltre che sporco. Ci si sentiva così anche senza guardarsi e con la pelle della schiena che minacciava di farlo svenire di nuovo se per lo meno non si sarebbe girato alzandosi da essa, si ricordò di nuovo di tutto, come poco prima di svegliarsi.
Di nuovo in macchina, di nuovo Johnsson, di nuovo la corsa fuori senza nemmeno pensare, di nuovo l’esplosione, di nuovo il volo, di nuovo il caldo e le fiamme.
Di nuovo la preoccupazione per Charlie e Colby.
Cosa era stato di loro?
E lui dove era?
Se fosse stato in ospedale non sarebbe coricato sulla schiena, la parte logicamente ustionata dalle fiamme.
Quale altra parte era lesa di lui?
Non lo capì, sapeva solo di stare male e di voler strapparsi via la carne da dietro pur di provare un po’ di sollievo.
Non ci riusciva. Non ci riusciva più a pensare a Johnsson e a cosa gli avrebbe potuto fare.
Non ci pensò finché non riuscì a distinguerlo lì a poca distanza da lui, seduto accanto al letto su cui era stato posto.
- Non sarebbe dovuta andare così. – Iniziò la sua voce ormai familiare. Era calmo e pacato, dannatamente freddo.
Don fece fatica ad ascoltarlo e a capire ciò che diceva, cercò di concentrarsi sulle sue parole e sull’odio che provava per lui per distrarsi dal dolore, ma non fu facile.
Si dimenò per girarsi con le forze ancora scarse, ma capì di essere legato e di non poter assolutamente muoversi.
Le gambe e le braccia erano aperte annodate alle estremità del letto.
- Non avevo progettato di rapirti per finire il lavoro qua, saresti dovuto morire nell’esplosione. – Continuò consapevole che Don non sarebbe riuscito a parlare ancora per molto. Lo vedeva sofferente con una smorfia di dolore dietro l’altra e fu una visione piuttosto piacevole per lui che finalmente poteva godere esattamente di ciò che da anni aveva sognato.
Se avesse avuto più tempo per indagare su di lui, prima di ucciderlo avrebbe colpito le sue persone care ma non avendo molto tempo per la propria vendetta, si era concentrato subito su Don.
Ora, però, l’aveva lì davanti alla sua mercè mentre si contorceva dal dolore da lui provocato.
La sensazione di eccitazione che provò guardandolo conciato a quel modo che stava male in modo evidente, gli fece venire un idea che lo consolò dal ripiego che aveva dovuto sopportare per la mancanza di tempo.
Vederlo soffrire fisicamente per mano sua era un esperienza incredibilmente appagante e giunto a quel punto si sarebbe dedicato interamente a questo.
A lui.
L’avrebbe lentamente torturato infliggendogli quanto più dolore possibile.
Ormai era nelle sue mani, poteva farlo.
Poteva fargli tutto quello che aveva sempre sognato in tutti quei durissimi anni di prigionia, chiuso in quella cella ad impazzire.
- Ma visto che ci siamo, ora mi dedicherò a te come si deve, senza trascurare nemmeno un dettaglio. –
L’accarezzò spregevolmente con lo sguardo carico di odio e di follia allo stesso tempo, Don nel dolore capì che la luce della ragione non v’era in lui da molto tempo e che farlo ragionare per prendere tempo, non sarebbe servito a nulla, forse avrebbe solo accelerato i tempi.
E poi nemmeno volendo sarebbe riuscito a parlare e a mettere vicine delle frasi furbe e sensate con cui sopravvivere.
Il dolore che provava era intollerabile e indescrivibile mentre lentamente sentiva dettagli in più di sé stesso e di come era ridotto.
I vestiti sulla schiena erano probabilmente bruciati e la pelle ustionata era a diretto contatto col materasso sotto di sé, gli sembrava di avere ancora il fuoco che se lo mangiava repentino. Sentì di avere anche diversi lividi sul viso ottenuti con l’impatto col marciapiede. Sicuramente c’erano anche delle ferite aperte. Il resto del corpo lo sentiva come se fosse stato calpestato da un camion intero, la sensazione delle ossa rotte, la testa che gli scoppiava, gli occhi che gli bruciavano, la gola secca che non emetteva alcun suono, il cuore che galoppava, ogni respiro una stilettata nel petto, il mondo circostante che girava vorticoso nonostante fosse steso.
Eppure in tutto quello, tutto ciò che fu in grado di pensare fu solo che sperava che Charlie e Colby stessero bene.
Non si disse che l’avrebbero trovato e che presto tutto sarebbe finito, non cercò di capire come poteva cavarsela da solo, non provò a guardarsi intorno per pensare a cosa fare di concreto.
Lì con la morte che di nuovo sembrava sorridergli più vicina di sempre, non si abbandonò nemmeno all’idea di andarsene da quel mondo.
Pensò solo a Colby e a Charlie. In special modo alla notte che non erano riusciti a passare insieme col benestare di tutti. Avrebbe voluto sfruttare per bene l’occasione di Colby che lo proteggeva.
Non capì che quello, in realtà, non era altro che un modo per proteggere sé stesso e non morire in quel dolore destinato a crescere sempre più.
Non si apprestava a sopportare stoicamente le torture che avrebbe ricevuto di lì a poco, non si apprestava nemmeno ad agire in qualche modo da agente. Non si apprestava a fare nulla di particolare, nemmeno a credere che la sua squadra l’avrebbe salvato o ad arrendersi alla propria morte.
Semplicemente si trattava di un'unica cosa.
Stava male.
Stava veramente male e dopo aver realizzato in che situazione si trovava e capito cosa sarebbe successo di lì a poco, non era riuscito a far nulla se non rifugiarsi nel caldo e piacevole pensiero della persona che per lui contava così tanto da star meglio nel pensarlo.
Don stava così male che per la prima volta in vita sua ogni forza fisica, mentale ed interiore scemarono permettendogli di aggrapparsi ad un'unica cosa. La migliore che gli permise di rimanere ancorato alla realtà e a non svenire di nuovo.
Colby.

All’FBI era semplicemente il caos.
Dall’inizio di quella giornata le cose erano andate sempre peggio e proprio sotto i loro occhi, consapevoli di quanto stava accadendo, mentre tutti si erano adoperati per non farle degenerare fino a quel punto.
Eppure era tutto accaduto ugualmente e non rimaneva altro che rimediare.
Sarebbe certamente stato possibile in tempi più brevi se alcune persone specifiche, però, non fossero nell’agitazione e nel panico più completo.
Ma non tutti.
Nell’ufficio che normalmente lasciavano a Charlie per i suoi calcoli matematici, quest’ultimo stava lottando con sé stesso davanti alla lavagna, con il pennarello in mano ed un fascicolo sotto gli occhi.
Occhi che si chiudevano ed aprivano ogni due secondi nervosi e stressati. Una lotta non da poco, la sua.
Fra il fratello di Don e il matematico che poteva essere determinante per trovare l’agente rapito.
Sarebbe andato tutto bene, liscio come l’olio e molto in fretta se le due persone non fossero coincise con la stessa.
Charlie doveva semplicemente combattere con l’emotività che metteva i bastoni fra le ruote alla mente analitica, logica e razionale. Non era facile lavorare in quelle condizione, mentre la sua testa era occupata da mille pensieri e doveva fare troppe cose insieme.
Se colui che cercava non fosse stato suo fratello le cose sarebbero state più semplici ma dovendo fermarsi ogni momento per ricordarsi che dipendeva anche da lui il riuscire a ritrovarlo in fretta, non lo faceva andare veloce quanto normalmente era e quanto avrebbe voluto.
Da un lato le immagini su ciò che suo fratello stava passando e la consapevolezza che comunque l’esplosione l’aveva sicuramente colpito lo stesso anche se non ucciso, dall’altro si ricordava che doveva darsi da fare, che le sue analisi e teorie matematiche potevano trovarlo, che doveva sbrigarsi e mettere da parte i suoi sentimenti.
Sentimenti che erano esplosi in lui insieme all’auto di Don e che non gli davano tregua.
Normalmente reagiva diversamente agli shock ma quella volta era diverso, si trattava di suo fratello.
Come poteva far finta di nulla e gettarsi nell’unica cosa che riteneva sicura e fidata nella sua vita?
Non era riuscito a salvare Don quando avrebbe potuto, era anche colpa sua se ora erano in quella situazione. Se l’avesse fermato in tempo ora lui sarebbe lì. Se lo ripeteva come una litania senza trovare pace, crescendo così il suo tormento.
Nella mente si susseguivano le scene vissute solo poche ore prima. Suo fratello che saliva sulla macchina, lui che aveva quell’idea atroce, Colby che si fermava per chiedergli cosa fosse, lui che glielo spiegava staccando solo un istante gli occhi dall’auto e questa poi che esplodeva facendoli saltare indietro.
Come poteva non rivivere tutto?
Tutta la paura, il dolore, la follia, il nulla. Il suo cervello si era spento, per un lunghissimo attimo non era stato in grado di fare nulla, non ricordava cosa aveva fatto, dove era stato. Non aveva capito proprio niente.
Si era davvero sospeso ed era tornato con Colby che gli diceva l’assurdo più inaudito.
Quando aveva capito che Don era vivo aveva pianto e parte di sé stesso era stata meglio, ma il dover fare qualcosa freddamente e lucidamente non era una passeggiata visto che continuava a girarsi verso gli uffici dietro di lui sperando di rivedere suo fratello lì come sempre e rendersi conto che quello era solo un sogno orrendo.
In passato aveva capito che la sua paura era quella di avere di nuovo paura e non poter più controllare sé stesso e ciò che lo circondava, ma di fatto ora si scopriva ad averne un'altra ben peggiore dell’altra.
Una che aveva sempre fatto in modo di ignorare e non contemplare seriamente grazie a molti fattori.
Ma ora non poteva più far finta di nulla.
Ora era lì davanti ai suoi occhi, senza pietà, gigante e crudele più che mai.
Non aveva mai avuto un gran rapporto con Don ma da quando si erano avvicinati così tanto, Charlie, semplicemente aveva iniziato ad aver paura di perderlo.
Di vederlo morire sotto i suoi occhi.
Però doveva sforzarsi di lavorare. Doveva, non aveva scelta, non poteva lasciarsi sopraffare tanto dai sentimenti. Quelli non avrebbero aiutato suo fratello, la sua matematica e la sua freddezza sì, quindi ora doveva sforzarsi di ritrovare il suo sangue freddo. Doveva. Non aveva scelta. Per lui.
Per Don.
Tutti si stavano prodigando per lui, non doveva essere da meno.
Quando la porta si aprì di nuovo, Charlie si voltò di scatto pieno di una speranza che gli rendeva gli occhi lucidi e l’espressione apertamente preoccupata e ansiosa.
Vide Colby più nervoso di lui e capì che non lo avevano ancora trovato e che era lì solo per sapere se aveva ottenuto qualcosa.
Tornò a girarsi di nuovo stizzito verso la lavagna.
- No, Colby, non ho ancora finito! Non è facile se continui ad interrompermi ogni momento! – Rispose seccato per nascondere il proprio stato d’animo che in realtà voleva solo urlare.
Colby sospirò piegando le spalle in segno di delusione, aveva sperato in lui ma forse quella volta non ci sarebbe riuscito come faceva sempre. Questa volta, magari, era troppo preoccupato per il fratello e non sarebbe riuscito a lavorare come ogni volta.
E se lui non l’avrebbe aiutato e loro avrebbero continuato a brancolare nel buio che sarebbe successo a Don?
Cosa?
Non poteva pensarci.
Doveva continuare a cercare, cercare in ogni modo, scavare e scavare finché non avrebbe trovato la pista giusta.
A costo di setacciare lui stesso tutta la città, lui avrebbe trovato Don.
Si era allontanato un solo istante. Uno stupidissimo istante.
Per il resto della sua vita non se lo sarebbe mai perdonato.
Mai.
Ogni volta che si fermava davanti ad una strada sbarrata o non completamente spianata, la sensazione di impazzire lo coglieva.
Si sentiva in colpa quanto Charlie e come lui lottava per non lasciarsi andare e per essere utile, per trovare qualcosa che lo portasse a Don ma i sentimenti che provava per lui gli stavano facendo passare l’inferno tanto da fargli dimenticare che nessuno doveva capire ciò che lo legava al proprio capo ora rapito.
O sarebbe stato anche peggio, probabilmente.
Però era consapevole di ciò che Don stava subendo, di come stava e di quel che pensava. Ci era passato anche lui e lo sapeva così bene da poter avere su di sé di nuovo quelle stesse sensazioni.
Si ricordava che in quei momenti aveva solo continuato a guardare fuori nella speranza di veder arrivare lui a salvarlo. Gli si era affidato completamente e unicamente. La fiducia nell’unica persona in cui aveva sempre creduto era stato tutto ciò che gli aveva permesso di non crollare e di resistere.
Però poi quando la fine era ormai entrata in circolo nel suo corpo, aveva solo sperato che ne sarebbe valsa la pena e che lui non ci fosse andato di mezzo.
Assurdamente aveva capito chi contava davvero per lui e tutto il resto si era annullato.
Don gli somigliava ma non era uguale a lui.
Stavano insieme, ormai, e nel dolore acuto ed allucinante che aveva dopo l’esplosione a cui era miracolosamente scampato e sopravvissuto, non ragionava nemmeno più lucidamente.
Doveva farcela.
Doveva.
A costo di farsi scoprire.
- Scusa, non voglio metterti fretta ma... – Ma non riuscì a concludere la frase. Che dire?
Gli sembrava inutile anche parlare.
Charlie si girò di nuovo capendo che probabilmente Colby stava peggio di lui dal momento che stava insieme a Don.
Charlie era l’unico a saperlo.
Sospirò cercando in sé una forza che non aveva davvero.
- Lo so. Vedrai, lo troveremo. – Si stupì lui per primo della decisione che riuscì a mettere in quelle parole, come se ci credesse davvero.
Certo, non si era già rassegnato ma la paura continuava a divorarlo e se non avrebbe risolto l’analisi che stava svolgendo prima che il suo esaurimento si completasse, non sarebbe arrivato da nessuna parte.
Colby capì perfettamente lo stato in cui il ragazzo era e apprezzò il suo tentativo di rassicurarlo.
Aveva ragione.
Dovevano almeno sforzarsi di credere che sarebbero arrivati in tempo.
Si, perché lui, il dubbio sul fatto che l’avrebbero trovato, non l’aveva affatto.
Il problema era se l’avrebbero trovato ancora vivo oppure già morto.

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Capitolo 5
*** Salvezza ***


L'EROE DA SALVARE

*Ecco qua il quinto capitolo. Il prossimo credo sarà l’ultimo ma potrebbero essercene ancora due... C’è chi non vedeva l’ora di sapere che sarebbe successo ed eccole accontentate! Spero di non aver deluso nessuno e che sia all’altezza. Comunque ogni volta che vedo Numb3rs mi ispiro un sacco! La canzone che ho scelto per il momento clou è la stessa che è presente in una delle puntate della nuova serie che stanno dando ora in tv, quindi l’avete sentita già lì. Mi ero innamorata di quella canzone così l’ho cercata ed ora non riesco a non associarla a Don e Colby! Ringrazio tutti quelli che hanno letto e commentato lo scorso capitolo. Buona lettura. Baci Akane*


CAPITOLO V:
SALVEZZA

/The little things – Danny Elfman/
Era indeciso se cominciare dalla schiena, la parte più ustionata e dolorante e quindi sensibile, oppure dal davanti, dove avrebbe potuto resistere di più.
Era una scelta importante.
Nel primo caso sarebbe andato fuori gioco presto visto lo stato in cui era, nel secondo avrebbe resistito di più.
Forse gli conveniva scegliere il davanti.
Osservandolo assorto e concentrato come se da quella scelta dipendesse tutta la sua vita, Johnsson rimase in piedi davanti al letto dove Don era legato ed in condizioni già pietose di per sé.
Sicuramente gli era venuta la febbre per l’infezione ed il dolore, sudava copiosamente e si sforzava di non esprimere il suo terribile stato con smorfie in viso. Si tratteneva per non dargli troppa soddisfazione ma sapeva bene quanto già stava male.
Questo gli dava più sollievo ma non abbastanza.
- No, non puoi cavartela troppo in fretta. È giusto che ci prendiamo il tempo che ci serve, tutto quello che possiamo. Non te ne andrai così presto! – Disse infine decidendo contento abbassandosi su di lui.
Lo contemplò da vicino sperando in una reazione soddisfacente ma con suo sommo disappunto notò che gli occhi arrossati e sofferenti di Don si riempirono solo di più odio. Nemmeno l’ombra della paura.
Mi implorerai di smetterla, caro Eppes. Vedrai.”
Pensò infine estraendo uno dei coltelli da professionista per quel genere di torture su corpi umani. La pistola era nella cintola, non l’avrebbe usata, troppo facile ucciderlo così. Doveva soffrire di più. Lui gliene aveva fatte tante, in fondo. Non poteva pretendere una morte veloce ed indolore.
Si rialzò di poco, quindi prendendo quel che rimaneva della sua maglia, la strappò in mezzo come a creare una cerniera che non c’era. Aperto l’indumento scoprì il suo torace allenato e ben modellato.
Presto si sarebbe ridotto diversamente…
Al pensiero sorrise caldamente con una viscida luce di eccitazione negli occhi.
Don comprese in un istante tutto quel che gli sarebbe successo e capì che non ci sarebbe stato verso di cavarsela da solo in alcun modo, né con le parole né senza.
Poteva solo resistere e aspettare Colby arrivare da quella porta.
Forza ragazzi. Ti prego Charlie, trovami.”
Come se improvvisamente loro fossero la sua ultima speranza.
Lento fra il sorriso sbieco e agghiacciante del suo rapitore, sentì il coltello carezzargli la pelle accaldata e sudata, aveva violente scosse di freddo. Non riusciva a stare fermo a causa del dolore alla schiena, sperava di sentire un po’ di sollievo in qualche modo ma legato a quel modo non c’era verso. Inoltre era disidratato e le forze gli venivano sempre meno, non avrebbe resistito a molto già senza bisogno di nessuna tortura.
Consapevole in modo preciso e completo di tutta la propria situazione si costrinse a non staccare gli occhi febbricitanti da quelli sempre più folli di Johnsson.
Doveva guardarlo perché a momenti sarebbe entrato Colby, da quella porta, e l’avrebbe ucciso. Doveva vederlo morire e lui doveva essere l’ultima cosa che vedeva prima di andarsene.
Quella l’ultima imposizione, l’ultima sfida, l’ultima tortura.
Arrivò dunque l’affondo della punta della lama proprio sulla sua guancia, esattamente sotto gli occhi.
- Voglio prepararti per l’ultima operazione che farò. Ti caverò gli occhi. Ops, scusa, penultima. L’ultima sarà cavarti il cuore. Voglio che mi guardi mentre ti faccio tutto questo. Esprimo solamente tutto ciò che provo per te e te lo dimostro a gesti. Sono quelli che tu vuoi. Fatti, non parole. No? Ricordo bene come sei? Voglio che conservi questo tuo sguardo fino alla fine. Guardami con sfacciataggine, senza la minima paura, con odio e fervore. Fallo, alimentami. Più tu lo fai, più a me viene voglia di lacerarti ogni pezzo di carne. Se pensi che ci sia ancora uno spiraglio di lucidità e sensatezza su cui fare appello per salvarti, ti sbagli. Non c’è la minima ragione in me. Ormai è tutto svanito durante tutti quegli anni di carcere. Hai idea di cosa si provi a stare là dentro? – E mentre le sue elucubrazioni sempre più insensate e folli proseguivano, la mano col coltello iniziava il suo viaggio sulla carne di Don.
Carne intatta ancora per poco.
Affondò sotto gli occhi, sullo zigomo, preparando una specie di scia di lacrime ipotetiche che sarebbero potute scendere di lì a poco, secondo i piani insani di quell’uomo.
Nulla. Non provava ancora nulla nel ferirlo. Ma era appena all’inizio… confidava di riuscire a fare di meglio.
Fece altrettanto nell’altra guancia senza andare volutamente a fondo. Non voleva fargli già perdere i sensi, voleva che rimanesse sveglio ancora un po’.
Don naturalmente provò dolore ma rispetto a quello che sopportava sulla schiena era nulla, quindi non fece molte smorfie e non si lamentò nemmeno. Il sangue cominciò a colargli dai graffi sul viso, scendendogli lateralmente. Da lì andò sul collo che non toccò consapevole dei punti deboli fatali, quindi arrivò al petto. Lì poteva lasciarsi liberamente andare.
Il sorriso si accentuò privo della luce della ragione e sentendosi via via più eccitato ed inebriato per l’idea di quel che poteva fare, non diede altra tregua a Don e riprese ad affondare la punta del coltello nella sua carne, questa volta in mezzo ai pettorali, proprio dove dopo avrebbe approfondito per togliergli l’organo pulsante che lo manteneva in vita. Un organo che al momento andava in accelerando pompando quanto più sangue poteva viste le perdite che continuava a subire quel corpo.
Il dolore fu maggiore, quella volta, ed un piccolo lamento gli uscì mentre le idee gli si facevano sempre più confuse. Continuare a guardarlo in viso alimentato dal proprio odio e ribrezzo gli risultava difficile. La nausea gli contraeva lo stomaco ed ogni muscolo lottava contro l’atrofia che lo invadeva. Voleva urlare ma l’orgoglio gli diceva che non era ancora al limite. Che poteva farcela. Che anche quel dolore sarebbe stato passeggero.
Colby arriverà. Arriverà.”
Eppure non è che vacillò, quando le sue mani scesero alla cinta dei suoi jeans, ma la sua preghiera si fece più intensa e forte mentre la paura che lenta si ingigantiva in lui, gli faceva capire che ben presto non ci sarebbe stato null’altro con cui distrarsi. Lui era bravo a convivere con le sue paure. Paure di tutto. Del rischio, di morire, di farsi male, di perdere i suoi amici e familiari, di non farcela… aveva molte paure, era umano, ma semplicemente aveva imparato a conviverci grazie all’idea che poteva comunque salvare qualcuno.
Ora a cosa serviva tenere a bada la propria paura?
Ignorarla?
Ora c’era solo lui e la propria morte e non aveva scampo.
Si vide con gli occhi della sua predatrice mortale e capì che anche se fino a quel momento era stato bravo a far finta di nulla pensando ogni volta ad altro, adesso non poteva far altro che arrendersi ad essa. Non c’era altro che poteva fare.
Guardarla e lasciarsi andare.
Eppure non ancora.
Poteva resistere.
Finché i sensi non si sarebbero persi e lui sarebbe rimasto sveglio, avrebbe resistito.
Nemmeno un urlo, no, non dalla sua bocca.
Però il coltello gli strappò i bottoni ed i boxer mostrando parzialmente il suo inguine, anche se non del tutto per ora.
- Voglio proseguire con una parte che ora sicuramente non ti servirà più. Quella che ti rende uomo. Tu sei un uomo duro, no, Eppes? Uno con le palle. Pur di prendere i criminali arrivi a tutto, non ti fermi davanti a nulla. Sei uno forte, sei uno di quegli uomini eroici con cui tutti si sentono al sicuro. Ebbene voglio vedere cosa succede senza la parte maschile di te. –
A quella frase ancor più fuori da ogni logica ed umanità, il coltello iniziò dal basso ventre a lacerargli la carne, scendendo lento fin giù.
Sembrava non avere fretta.
E quelle iridi così luminose… i brividi che lo percorsero lo scossero insieme a lamenti più consistenti. Ma forse la forza di gridare nemmeno la possedeva più.
A quel punto le idee erano così confuse da impedirgli di capire dove fosse arrivato il coltello ed il dolore che provava era talmente espanso in ogni parte del suo corpo, che non sapeva cosa fosse intatto e cosa gli dolesse maggiormente.
L’Inferno era quello?
Se lo chiese anche lui mentre ostinato lottava per rimanere sveglio e non perdere i sensi.
Cosa gli stesse facendo quel pazzo, però, non era più in grado di capirlo.

/The funeral – Band of Horses/
- Colby, questo è l’indirizzo che ho tirato fuori in base a tutte le informazioni che mi avete fornito ed all’ultima che mi hai dato poco fa. Don dovrebbe essere lì. – La voce ansiosa e sbrigativa di Charlie arrivò a Colby tramite il cellulare e mentre gli diceva tutte le coordinate per arrivare al luogo da lui trovato con i suoi calcoli, un presentimento colpì entrambi. Era giusto. C’erano arrivati.
Ma doveva essere il tempo, ad essere giusto, non solo il luogo.
Eppure Charlie prima di riattaccare sentì smuoversi dentro un sentimento di tale portata da spingerlo a dirgli anche un ultima cosa, pensando che dirlo a lui prima che a tutti gli altri era un azzardo poiché non avrebbe aspettato nessuno. Lo capì sentendo il rumore dell'auto aumentare vigorosamente.
- Riportamelo vivo. – Non una preghiera o una richiesta. Una specie di ordine, qualcosa che lui doveva assolutamente eseguire. Assolutamente.
- Si. – Solo quello, poi Colby riattaccò interrompendo la comunicazione cambiando marcia e schiacciando ancora sul pedale dell'acceleratore.
La corsa che fece fu la più spericolata della sua vita, girava il volante con una mano sola per essere pronta con l'altra a cambiare marcia e prendere la pistola prima ancora di mettere piede a terra. Superava semafori rossi e viaggiava con la sirena accesa facendosi largo nel traffico come volesse bruciarlo.
Poco prima di arrivare, per l’anticamera del cervello gli passò di avvertire anche gli altri per chiedere rinforzi e lo fece fornendo l'indirizzo ma ormai la macchina si stava già fermando davanti al posto indicato da Charlie. Sarebbero arrivati tutti, certo, ma quando tutto sarebbe già finito. Lo sapeva e non poteva aspettare.
Frenò bruscamente lasciando un segno di gomme sull'asfalto che si sarebbe visto ancora a lungo, davanti a quel cancello in ferro.
Era lì.
Lui non aspettava mai.
Così col cuore in gola ed un emozione da fargli girare la testa e contrarre lo stomaco corse giù dall’auto entrando nel posto, una vecchia fabbrica in disuso da tempo.
Il cuore gli batteva forte e poteva sentirlo chiaramente dettare un ritmo incessante e teso. Un ritmo che cresceva senza pietà togliendogli il fiato. Non sentiva nulla eppure era rivolto ad ogni indizio uditivo per capire dove fosse.
Tutto.
Sarebbe esploso, di lì a poco, se non l’avesse trovato subito. Non ce l’avrebbe più fatta senza di lui ed immaginare chissà quali torture il suo uomo stava subendo era peggio del non averlo lì con lui.
Gli era sparito da sotto gli occhi.
Era impazzito in quelle ore e sul colmo dell’esasperazione, completamente concentrato su quel posto e su dove Don potesse essere, andò laddove il suo istinto lo portò, senza ragionamenti di fondo, senza capire cosa e perché, senza sentire chiaramente nulla di speciale.
Come lui faceva di solito.
Buttandosi e basta.
Nessun urlo.
Andò semplicemente in una delle molte stanze illuminate al contrario di altre e senza la minima esitazione, con quel ritmo abominevole che gli esplodeva in testa assordandolo, diede un calcio alla porta chiusa. L’aprì con un gran fracasso e si dimenticò anche di identificarsi. Vide subito e si raggelò, ma il gelo durò solo un istante. Troppo breve.
Quando i suoi occhi scesero sulla scena che si stava consumando sul letto a qualche metro da lui, il sangue gli andò totalmente alla testa e quella famosa esplosione trattenuta a stento, avvenne inesorabile e prepotente in lui.
Johnsson chino su Don che gli lacerava la carne del basso ventre con folle gioia.
Sarebbe arrivato fino in fondo, gli avrebbe tagliato… cosa? Quanto?
E il petto? E il viso?
Dove sarebbe arrivato?
E com’era la sua schiena?
Quanto era sudato?
Stava male, aveva un colorito da panico, soffriva…
Ma fu solo un lampo ogni considerazione.
Colby vide solo la lama del coltello affondata sebbene superficialmente sulla pelle dell’inguine.
Arriva un momento nella vitadi ognuno in cui perdi totalmente il controllo, non capisci più nulla e completamente invaso dall'ira più nera e violenta pensi ad una sola cosa mentre non ce la fai più.
Stai di nuovo perdendo chi ami?
No, basta... non si sopravvive a questo ma prima di morire se lui muore decidi di sfogare tutto il dolore lacerante che provi. E vuoi vendetta. Solo vendetta.
Lo vide e quella famosa esplosione avvenne cancellando ogni piccolo residuo di gelo che l’aveva trattenuto.
Esplose.
E basta.
Esplose nel momento in cui Johnsson, vedendolo entrare, estrasse la pistola e veloce quanto il suo lampo di rabbia omicida che gli deformava il bel viso, tentò di sparare prima di lui.
Fu solo un tentativo.
Gli spari che si udirono furono tanti eppure la pistola che poi fumò calda fu solo una, quella di Colby.
L’altra non sparò mai.
Con rabbia ceca, una furia senza precedenti, accompagnato da un urlo di chi ha creduto di aver appena visto di nuovo la morte della persona amata, un urlo straziante e impressionante, Colby svuotò tutto il caricatore sul corpo di Johnsson ad un solo metro da lui che, scuotendosi come colpito da convulsioni violente, si avvitò su sé stesso riuscendo a vedere solo una cosa, prima di sconnettersi completamente col mondo e la realtà.
Solo una cosa.
Gli occhi aperti e coscienti di Don che parlavano più di qualunque altro gesto o parola. Nemmeno un sorriso. Solo un muto ‘addio bastardo, io sono ancora vivo.’
Poi semplicemente il vuoto per quell’uomo ormai privo di ragione, immerso completamente nella follia.
Dopo un secondo di stordimento in cui il silenzio calò istantaneo, Colby si riprese subito precipitandosi al letto dove Don era legato. Non si prese del tempo nemmeno per realizzare l’accaduto, non un solo pensiero sulla vita che aveva appena tolto, non il tempo per l'adrenalina, il sangue, i battiti del cuore, i respiri per tornare più umani; contava solo la persona che era ancora viva.
Lui che lo guardava sofferente, stanco e confuso, ma non solo. C’era qualcos’altro in quello sguardo stralunato che finalmente si lasciava andare al dolore che provava e lo esprimeva libero.
Gratitudine.
Amore.
Colby gli slegò subito i polsi permettendogli cautamente di abbassare le braccia indolenzite, ma non fece in tempo a guardare quanto profonde fossero le ferite, vide solo che ne aveva e che molto sangue scendeva da esse macchiando il suo corpo in parte scoperto.
Appena libero Don avrebbe voluto avere la forza di fare due cose: girarsi per dar sollievo alla schiena ustionata e dire una cosa a Colby.
Non riuscendo a farle tutte e due scelse la seconda e senza muoversi, nonostante il male che provava, prese la mano del compagno che era corso a chiudergli quanto poteva i pantaloni aperti. La prese e la fermò stringendola debolmente.
Fu lì che i loro occhi si incrociarono di nuovo e come un vago e strano attimo di eterno, il tempo si fermò lì sospendendo preoccupazioni e dolori. Sospendendo tutto.
Poi la flebile voce di Don si udì solo fino a lui, chino per poterlo sentire e vedere bene.
- Ti amo. – Riassunto di tutto quel che aveva provato, pensato e sentito durante quell’Inferno da cui ad uscirne vincitore era stato lui grazie alle persone a cui teneva di più.
E senza essersi mai lasciato andare emozionalmente, senza aver mai aperto i suoi sentimenti se non per imprecare e gridare furibondo, Colby liberò finalmente le sue lacrime lasciandole scendere lungo le guance, perdendosi sulle labbra serrate e tremanti.
Quella sensazione non l’avrebbe mai dimenticata.
Riuscì solo a premere leggero la bocca sulla sua calda e secca.
Solo quello.
Dopo di che Don poté rilassarsi e abbandonarsi allo stato stremato in cui era perdendo i sensi.
Come se fosse riuscito a fare tutto ciò che doveva e voleva e fosse finalmente contento e sereno.



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Capitolo 6
*** Cure ***


L'EROE DA SALVARE

*Ragazzi, dopo un bel po’ ecco a voi la fine, l’epilogo di questa fanfic su Numb3rs. Scusate per l’attesa ma sono fatta così, mi faccio sempre prendere dai sacri fuochi creativi e quindi seguo l’ispirazione del momento che mi dice ‘scrivi questo’ o ‘scrivi quello’! Ok, questo discorso ha poco senso, comunque quel che conta è che prima o poi finisco quel che comincio e lo faccio sempre. Volevo ringraziare tutti quelli che hanno letto, seguito e commentato la fic, fra cui: Alida, Lilly86, Thia, Taila e Parsifal. Spero che questa breve fine vi piaccia… mi spiace di non aver dato spazio al rapporto dei due fratelli, non come avrei voluto, ma per quello c’è un'altra fanfic in vista che NON SO quando scriverò ma lo farò. Intanto auguro a tutti buona lettura. Grazie. Baci Akane*

EPILOGO:
CURE

/ Time after time – Eva Cassidy /
La prima sensazione piacevole che Don potè provare fu quella di sentirsi finalmente pulito.
Le lenzuola contro la pelle, la consapevolezza di essere stato curato anche se con gli antidolorifici era tutto atrofizzato, il profumo di sé stesso che gli arrivava inebriandogli il sonno finalmente sereno e quei sogni piacevoli che l’avevano accompagnato per tutto il tempo in cui i sensi non gli erano tornati.
Poi quella mano.
La mano che si chiudeva sulla sua in mezzo al silenzio circostante.
Assaporò con calma e lentezza tutte quelle percezioni che gli arrivavano nel sonno, quindi si godette in particolare anche quella tattile.
Quella mano sulla sua che decisa ma leggera allo stesso tempo non lo lasciava.
Poco a poco, con essa, tutti i sensi tornarono al proprio posto e già perfettamente cosciente e consapevole di chi fosse lì con lui, ancor prima che i suoi occhi si aprissero le sue labbra si piegarono in un faticoso sorriso beato, uno di quei sorrisi che per Don erano rari.
Dopo di esso, con altrettanta calma, alzò le palpebre pesanti aspettando paziente che il mondo offuscato e confuso riprendesse i propri contorni e colori regolari. Non ebbe fretta nel riacquistare la vista, lasciò tempo al tempo come straordinariamente aveva fatto per la propria guarigione.
Mentre aveva dormito in quei giorni era rimasto vigile ed aveva sentito tutto ciò che avveniva intorno a lui, ascoltando tutte le voci che gli parlavano. Erano venuti tutti ad assisterlo e a parlargli nonostante pensassero fosse in coma. Lui semplicemente lasciava il tempo giusto al suo corpo per rigenerarsi e curarsi. Gustandosi quelle cure, quelle sensazioni che lente si erano susseguite in lui diventando via via sempre più piacevoli per un motivo o per l’altro.
Lo sapeva bene che quando gli antidolorifici sarebbero finiti il dolore sarebbe stato insopportabile per le molteplici ferite riportate, specie per l’ustione alla schiena, ma al momento preferiva pensare al presente lasciando al tempo di fare il suo corso. Qualcosa che non si era mai concesso, in effetti.
Ma ora alla sola presenza di Colby che gli stringeva la mano silenzioso, aveva deciso che si era ripreso abbastanza e che era ora di aprire gli occhi.
In precedenza tutte le volte che aveva tentato di farlo non ci era riuscito, troppo pesanti e stanche le sue palpebre per obbedirgli, ma ora sembravano rispondere ai suoi ordini.
Quando finalmente le iridi castane poterono vederci bene, le roteò stancamente di fianco in direzione della sua mano e successivamente del proprietario di quella che gliela stringeva.
Ancora prima di vederlo in viso sapeva già che stava sorridendo commosso sforzandosi di non piangere di nuovo.
Si vergognava a versare ancora delle lacrime anche perché poteva venire visto da chicchessia, però l’emozione di averlo sveglio dopo tutto quello che avevano patito, per lui era grande, di sicuro.
Lo sapeva e lo capiva.
Mentre sveniva l’aveva visto piangere sciogliendo la tensione per il pericolo di averlo quasi perso e nell’oblio in cui era scivolato, ricordava di aver pensato che gli dispiaceva lasciarlo in quelle condizioni ma che sicuramente quelle lacrime, dopo tutto, gli avrebbero fatto bene.
Probabilmente gli erano mancate solo quelle per dimostrare tutto quello che di devastante aveva provato in quelle ore atroci.
Aveva pensato quasi interamente solo a lui, cullato nel sonno. Poi lentamente aveva ricominciato a sentire il mondo esterno, le voci, gli odori, le presenze, i tocchi…
E adesso era lì, di nuovo sveglio, di nuovo in possesso di sé ma con una consapevolezza in più.
Ogni volta che vedeva la morte in faccia cambiava qualcosa in lui, non era mai la stessa. A volte cambiava in meglio, altre in peggio.
Questa volta si sentiva bene.
Bene dentro.
Come se fosse completo.
Chi contava per lui era lì e gli altri sarebbero arrivati presto, erano comunque stati tutti presenti. Si era sentito amato e ricordando tutto ciò a cui si era aggrappato mentre stava male e cercava di non morire, con Johnsson, ora capiva che era solo quello che contava.
Il sentimento, l’amore che si dava e che si riceveva.
Qualcosa su cui non aveva mai riflettuto, che non aveva mai considerato davvero importante ma che ora lo era.
Ne ebbe l’assoluta certezza scambiandosi il primo sguardo con Colby.
Lì, seduto accanto a lui, con ancora la mano stretta alla sua, con un’emozione concreta e commovente sullo sguardo chiaro non staccava gli occhi dai suoi.
Come si poteva non vederlo, specchiandosi dentro?
Quell’amore capace di far male ma anche di portare su in alto, dritti in paradiso.
Quell’amore che l’aveva riportato in vita, che l’aveva tenuto aggrappato in quel mondo.
Per il dolore fisico sarebbe bastato lasciare che il tempo facesse il suo corso ma quello interiore solo una cosa poteva ‘curarlo’.
Quell’amore che entrambi provavano ormai identico l’uno per l’altro.
Un amore mai dimostrato in modo normale, mai vissuto come tutti gli altri, un amore un po’ nascosto, un po’ nell’ombra, un po’ trattenuto ma non per vergogna bensì per carattere.
Un amore che però sapeva salvare l’anima all’occorrenza.
Ecco cosa era stato capace di fare Colby per Don, oltre che arrivare in tempo.
Gli aveva inchiodato l’anima nel suo corpo impedendogli di perdersi.
L’aveva salvato in tutti i modi un uomo può essere salvato.
Tutti.
E per una volta essere lui quello ad essere salvato e non colui che doveva salvare, non l’eroe di turno insomma, era strano ma bello al tempo stesso.
Ricevere quelle cure e quelle attenzioni da cui era sempre scappato pensando che non fossero per lui, che non ne avesse bisogno perché lui era già forte e doveva portare certi pesi che altri non dovevano, era una novità che capiva lo poteva arricchire.
Così si arrese a ricevere, per una volta, senza dare.
Perché per permettere a chi si ama di dare, bisogna anche saper ricevere e lui, per una volta, la prima nella sua vita, si era messo da quella parte lasciando a Colby il compito di dare.
Prendendo a piene mani tutto ciò che sarebbe arrivato di lì in poi almeno fino a che non si sarebbe ripreso.
Dopo quello scambio di sguardi Colby si alzò dalla sedia e chinandosi su di lui, senza emettere alcun suono, infischiandosene altamente del luogo in cui erano, posò le labbra sulle sue concedendosi, quella volta, qualcosa di più di una semplice carezza.
In fondo aveva riposato abbastanza, ora poteva prendersi una ricompensa maggiore per quel che aveva patito per lui!
Schiusero appena le labbra e fondendole lasciarono le loro lingue incontrarsi a metà strada. Non si staccarono, si intrecciarono con calma e lentezza assaporando nei particolari ogni sapore e sensazione che vibrò in loro dopo tutto quel tempo di astinenza e quell’inferno passato.
Eppure se la ricompensa è quella e ti fa sentire a quel modo, allora sei disposto anche a passarli, quei momenti terribili.
Ma solo dopo lo pensi.
Solo mentre ti curi vicendevolmente dando e prendendo in contemporanea.
Durante quel bacio leggero di saluto curativo, l’altra mano libera di Colby scivolò al lato del viso di Don carezzandolo appena col pollice, sentendolo ancora più concretamente lì contro di lui, su di lui, per lui.
Era sveglio, ce l’aveva fatta, da ora sarebbe stato sempre meglio.
Il peggio era passato e poteva tornare a respirare.
Lo capì veramente solo con la sua bocca contro, baciandolo e fondendosi a quel modo.
Lo capì e gli occhi chiusi gli bruciarono nuovamente, così li strinse cercando di ricacciare indietro quelle lacrime che ancora una volta premevano per uscirgli.
Non gli era mai successo così tanto, di aver bisogno di piangere.
Si era sempre trattenuto eppure ora non serviva più.
Non era più solo.
Poteva lasciarsi andare, no?
Quando si staccarono posò la fronte sulla sua lasciando ancora le labbra a sfiorare le sue, si sentivano i reciproci respiri contro la pelle del viso. Aprirono febbrili gli occhi che si incrociarono nuovamente.
Così vicini, così uniti come prima dell’incidente non lo erano, non a quel modo.
Ascoltando i battiti dei cuori che andavano come impazziti ed allo stesso ritmo, un’ondata salì in entrambi.
Lì, in quell’istante, occhi negli occhi, labbra su labbra, respiro contro respiro, cuore a cuore, pelle nella pelle…
Si sentirono. Erano lì. Insieme. Dopo aver superato quella che probabilmente era una delle prove più dure.
E dunque lo dissero.
Lo dissero insieme in un soffio quasi inudibile da chiunque altro.
- Ti amo… - perché certe parole vanno dette anche se pensi che non serva, che sono difficili da dire o che ci sarà un'altra occasione migliore.
Perché il punto in cui si cambia e si accetta di vivere i sentimenti arriva sempre.
E quando arriva ti commuovi lasciando libera una lacrima fugace che ti riga solitaria la guancia.
Proprio come accadde a loro due in quel momento.
Da lì tutto sarebbe stato diverso.

FINE



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