When the Day met the Night

di Bubbles_
(/viewuser.php?uid=92124)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


When the Day met the Night



 
Capitolo 1
 
 

Gardenia significa
Amore Segreto

 






La primavera aveva completamente conquistato la Wonder Academy.
Il profumo di fiori, tipico della stagione, aleggiava nell’aria cullato da una tiepida brezza.
Gli studenti si godevano il calore di quel primo sole, i professori diminuivano il carico di compiti in vista degli esami finali e io… io potevo godere degli allenamenti di scherma alla luce del sole, senza dover sorbirmi l’onnipresente puzza di sudore e piedi della palestra della scuola.
Bright era lì, davanti a me, vittorioso dopo un affondo ben assestato e bello come non mai.
L’osservai salutare i compagni di squadra e raggiungere la borsa lasciata sugli spalti in cerca di un asciugamano.
La bocca mi si fece improvvisamente asciutta e mi ritrovai a leccare inconsciamente le labbra.
La maglietta sudata aderiva perfettamente al suo corpo rivelandone al mondo tutto il suo splendore, dai pettorali scolpiti a quelle braccia muscolose per cui avrei fatto di tutto.
Ogni sua goccia di sudore mi sembrava perfetta. Ne osservai una in particolare, nata sulla tempia destra. Scivolò sin fino alle labbra, prima di interrompere la sua corsa nel morbido panno bianco. Quell’asciugamano aveva una fortuna sfacciata! Che cosa non avrei fatto per trovarmi nella stessa situazione, con il corpo sudato di Bright sopra il mio, i suoi capelli dorati che si muovevano con il ritmo dettato dai nostri corpi.
“Se continui così avrai una pozzanghera in mezzo alle gambe”
L’immagine di Bright e la sottoscritta che si davano da fare svanì all’istante. Saltai in aria e non riuscii a trattenere uno squittio imbarazzato.
Controllai che nessuno si fosse accorto di qualcosa prima di voltarmi rossa in volto e con intenti omicidi. Non era stato più che un sussurro, ma sapevo benissimo chi fosse il colpevole e, come previsto, Shade era proprio dietro di me.
“Abbi almeno la decenza di negare” mi canzonò con un sorriso furbo stampato sul volto e sguardo malizioso.
Negare? E a che pro? Sapevamo entrambi le cose che avrei voluto fare al suo amico, solo l’amico in questione ignorava bellamente le mie intenzioni.
Gli lanciai un’occhiata di sufficienza cercando di trasmettere tutto il mio disgusto. Non mi piaceva farmi vedere con dei tipi del genere. Non c’era nulla in lui che non urlasse la parola sfigato. Innanzitutto se ne andava in giro con quell’aria da depresso, quel suo broncio perenne non lo rendeva automaticamente affascinante, ma asociale. Indossava felpe di due taglie di troppo e quell’odioso berretto nero da cui riuscivano sempre a sfuggire delle ciocche cobalto. Come se il look da ragazzo di strada non bastasse, quel pomeriggio aveva mani e viso sporchi di terra, come ci si sarebbe potuto aspettare da ogni bravo sfigato membro del club di giardinaggio. Per completare l’opera, puzzava spesso di fumo e di terra, un mix letale per le mie povere narici. Era il tenebroso della scuola e sebbene questo fosse un tratto ricercato da molte mie coetanee, non lo era di certo per me! Il ragazzo scorbutico senza amici che passa le ore con la testa tra libri o tra piante non era di certo il mio tipo!
Invece Bright, l’amore della mia vita, lui sì che aveva tutte le qualità che cercavo in un ragazzo. Era gentile, dolce, altruista e profumava sempre di qualcosa di dolce.
Shade mi stava ancora guardando dall’alto in basso in attesa di una mia risposta. Odiavo la differenza d’altezza che c’era tra noi, mi faceva sempre sentire più piccola di quello che fossi in realtà e le mie occhiate intimidatorie non avevano lo stesso effetto se lanciate al suo petto.
“Evapora sfigato e porta con te i tuoi commenti volgari. Io, al contrario di te, ho del lavoro da fare” tamburellai la matita sul taccuino che avevo in mano a sostegno delle mie parole. Lavorare per il giornale dell’accademia aveva i suoi lati positivi.
“La tua definizione di lavoro include scopare con gli occhi il mio migliore amico?”
Il mio sorriso falso vacillò appena ormai abituata a quelle sue battutine, ma ero sicura quel leggero tic all’occhio, che sempre avevo quando lui mi infastidiva, fosse tornato a farmi visita.
“Geloso?” il segreto consisteva nel continuare a sorridere. Ero sicura le mie guance si fossero deformate permanetemene per aiutarmi a sostenere quella posa innaturale, ma non volevo assolutamente lasciar trasparire la mia irritazione.
Certo, in un mondo ideale avrei potuto pestargli un piede e girare i tacchi, ma purtroppo la nostra era una convivenza forzata. Sopportavo la sua compagnia per una sola e unica ragione. Tenevo in piedi quello stupido teatrino per l’amore della mia vita, il mio futuro principe azzurro, l’uomo con cui avrei passato i prossimi cinquant’anni… sì, insomma, sopportavo Shade solo e solamente per far piacere a Bright.
Lui e Shade si conoscevano da quanto entrambi portavano ancora il pannolino e, sfortunatamente per la sottoscritta, la loro amicizia era durata negli anni. Dove andava Bright andava Shade e visto che dove andava Bright andavo anch’io, quei fastidiosi tête-à-tête erano purtroppo più frequenti di quanto avrei voluto.
“Geloso? Di te? Preferirei andare a letto con Camelot!”
Rabbrividii a quell’immagine disgustosa. La professoressa Camelot e Shade avvinghiati l’uno all’altra… trattenni a malapena un conato.
“Ti piacciono le donne mature? Che sporcaccione Shade” risvegliatami dallo shock iniziale fu il mio turno di prenderlo in giro e, finalmente, farlo arrossire.
Lo dovevo ammettere, ogni qual volta le sue guance si imporporavano non riuscivo a non addolcirmi, in fondo anche io ero umana e il tenebroso Shade dalle guance arrossate era troppo anche per il mio cuore di ghiaccio.
“Rein! Shade!” la voce di Bright interruppe quel patetico botta e risposta a cui eravamo così abituati e ci fece voltare entrambi.
“Non una parola, sfigato” sussurrai cattiva, Shade si era completamente ripreso e mi guardava con quel suo ghigno stampato sul volto.
“Come al solito, principessa”
Anche quel giorno entrambi avremmo rispettato il nostro implicito patto.
“Scusate se ci ho messo tanto” Bright ci raggiunse e subito i battiti del mio cuore accelerarono. Averlo così vicino mi faceva sempre brutti scherzi, tra mani sudate, tachicardia e improvvise vampate di calore, probabilmente pensava fossi in menopausa.
“Non ti sta dando fastidio, vero?” scherzò dando una pacca all’amico ignaro di quanto veritiere fossero in realtà le sue parole. Bright non sospettava assolutamente nulla, per lui io e Shade eravamo semplicemente due amici che amavano rimbeccarsi ogni tanto.
“Certo che no! Stavamo solo chiacchierando” colpii Shade con fare scherzoso sulla spalla cercando di sfogare, senza farmi notare da Bright, tutta la mia rabbia repressa. Non feci in tempo a ritirare la mano dopo un pugno ben assestato e alquanto violento, che Shade mi afferrò per il polso con fare giocoso e mi tirò a sé, scompigliandomi i capelli e stringendomi in una morsa letale.
“Rein mi adora!” rimasi paralizzata nella sua presa, il suo avambraccio stretto intorno al mio collo. L’unica cosa a cui riuscivo a pensare erano le sue dita sporche di terra tra i miei capelli e quella puzza di fumo che piano mi stava avviluppando.
Mi liberai il più veloce possibile e mi fiondai su Bright avvinghiandomi a lui come ad un sostegno della metropolitana. Perché non recepiva il messaggio e mi stringeva come aveva fatto pochi secondi prima quell’altro idiota?
“È stato un piacere Shade, ma noi ora abbiamo da fare” sperando recepisse il messaggio autonomamente rivolsi tutte le mie attenzioni al mio biondino preferito.
“Pronto per l’intervista?” gli sussurrai con fare innocente mentre facevo in modo che il mio petto strusciasse in modo che di innocente aveva ben poco sul suo braccio.
Sapevo di star dando spettacolo e al peggiore pubblico possibile per di più, ma in quel momento poco mi importava di Shade. Lui sapeva benissimo quali erano le mie intenzioni con il suo migliore amico e visto che Bright era completamente inetto nel campo delle relazioni di coppia, negli ultimi tempi avevo intrapreso un approccio molto più diretto.
“Io e Rein stavamo proprio parlando di quanto eccitata fosse all’idea di questa intervista”
Mi bloccai immediatamente. Che diavolo stava facendo? Non aveva capito che se ne doveva andare?
“Eccitata?” ripeté ingenuamente Bright.
“Eccitatissima” quel pezzo di cretino ebbe persino l’audacia di far schioccare la lingua solo il sorriso che mi rivolse Bright mi trattenne da staccargliela e buttarla in pasto ai gatti.
“Oh Rein! Anche io lo sono, sarà un bellissimo articolo!”
Ebbi la tentazione di sprofondare la faccia nei palmi delle mani disperata. Grazie al cielo Bright non era poi così brillante o avrei dovuto cambiare nazionalità per la vergogna. La ragazza innamorata dentro di me non poté che sospirare sognante davanti a tanta tenerezza, ma non potevo dimenticare Shade stesse camminando sul filo del rasoio abusando pericolosamente della mia pazienza, fatto imperdonabile.
“Terzo articolo sulla squadra di scherma questo mese, perché non intervistate anche noi del club di giardinaggio?”
Perché il giardinaggio è da sfigati e ti odio con tutto il mio cuore?
“I nostri lettori adorano il club di scherma!” intonai in una perfetta imitazione di Maria Teresa di Calcutta mentre accarezzavo Bright consapevole che Shade non ci avesse mai tolto lo sguardo di dosso.
“O i vostri giornalisti adorano chi ne fa parte”
“In entrambi casi, abbiamo molto lavoro da fare!” strinsi la presa che avevo sul braccio di Bright e provai a trascinarlo lontano da quel giardiniere da strapazzo. La conversazione terminava lì per quel che mi riguardava.
“Ci vediamo stasera allora!”
Alt! Conversazione riaperta: stasera?! Mi bloccai immediatamente e Bright fu obbligato a fare lo stesso.
“Pensavo saremmo andati a vedere un film dopo l’intervista”
Un film dell’orrore preferibilmente, così da saltarti in braccio alla prima scena splatter.
“Stasera non posso, avevo già promesso a Shade una partita”
Quei due cretini, la loro stupida bromance* e l’inspiegabile amore dei ragazzi per i videogiochi!
Shade mi lanciò un’occhiata eloquentissima, non sarebbe potuto essere più chiaro neanche se si fosse tatuato in fronte “Shade vince, Rein perde”.
Ci salutò imitando vagamente un saluto militare e se ne andò con quel ghigno che tanto odiavo stampato in faccia e un’espressione soddisfatta.
Che sciocco! Avevo forse perso una battaglia, ma la guerra per il cuore di Bright era ben lontano dall’essere conclusa.
Nulla fermava una ragazza innamorata e Shade se ne sarebbe ben presto reso conto.

 
 


 
“Un disastro!”
“Una tragedia!”
“La mia vita è rovinata!”
“Sì, penso proprio affogherò i miei dispiaceri in una torta al cioccolato e fragole”
La mia migliore amica scosse la testa rassegnata scarabocchiando veloce l’ordinazione.
“Finalmente! Ti ci sono voluti solo quindici minuti per ordinare questa volta, stai migliorando Rein!”
“Ma non capisci? La mia vita è rovinata!”
“Pensavo fossimo d’accordo su questo fatto intorno alla terza o la quarta volta che me lo hai ripetuto. Ora fai la brava e cerca di non infastidire gli altri clienti. Sarò subito da te con la fetta di torta più grande che tu abbia mai visto” mi arruffò i capelli in modo affettuoso e cercò di abbracciarmi, anche se quello che ne uscì, con me seduta e lei in piedi con una pila di piatti in equilibrio nell’altra mano, fu un patetico pat-pat sulla spalla.
“Non dimenticare…”
“Tanta, tanta panna montata! Lo so!” mi fece l’occhiolino e se ne trotterellò via.
Fine era così, non camminava, saltellava. Era sempre di buon umore ed era un concentrato di energia! Forse era per quello che io e lei andavamo tanto d’accordo, riusciva sempre a tirarmi su il morale. Era effervescente e la sua presenza aveva lo stesso effetto di un’iniezione di felicità.
Lavorava nel salone da tè dei suoi da una vita. Suo padre aveva provato a metterla dietro i fornelli, cercando di trasformare quella sua passione per i dolci in una passione per la cucina. Il risultato era stato disastroso e io ne ero la testimonianza vivente, vittima di un’intossicazione alimentare per essermi fidata delle sue capacità culinarie. Inutile specificare che dopo quello spiacevole incidente non avevo mai assaggiato più nulla preparato da lei.
A quel ricordo mi passò completamente l’appetito, ma non riuscii a trattenere un sorriso. Fine riusciva sempre a farmi sentire meglio anche dopo tutto quello che era successo.
Visto che la mia vita era rovinata, tanto valeva rovinarsi anche la linea e la Sunny Bakery era il posto ideale! Se dovevo affogare le mie disperazioni tra zuccheri raffinati e farmi venire il diabete lo avrei fatto con i dolci più buoni della città!
Fine riapparve dopo qualche minuto con due fette di torta, si sedette di fronte a me e senza fare complimenti s’impossessò di quella più grande e iniziò a mangiare.
“Cos’è successo questa volta?” chiese tra un boccone e l’altro.
“Ma tu non devi lavorare?” la mia amica dai capelli magenta si guardò intorno colpevole, probabilmente alla ricerca di suo padre.
Dovette decidere che la via fosse libera perché si rilassò e ingurgitò un altro pezzo di torta.
“Il mercoledì pomeriggio non viene mai nessuno! E poi non posso lasciarti in questo stato!”
“Che tradotto significa la mia ordinazione ti ha fatto venire fame” non rispose a quell’accusa velata, si limitò a rubare una delle mie fragole e a sorridermi con tutte le labbra sporche di cioccolato.
“Allora vuoi dirmi cos’è successo o stai aspettando che mio padre mi scopra?”
Feci un lungo sospiro giocherellando svogliata con la forchetta.
“Allora?” alzai lo sguardo, Fine era diventata serissima, la torta completamente dimenticata.
“Bright mi ha detto che sono una delle sue più care amiche” sputai fuori quelle parole e ognuna mi costò enorme fatica.
“Ouch”.
“Già”.
Rimanemmo in un deprimente silenzio per parecchi secondi e io ritornai a torturare il mio dolce. Gli occhi cominciarono a pizzicarmi e il peso nel petto che fino a quel momento avevo cercato di ignorare diventò ancora più pesante. Sentii il cuscino del divanetto sprofondare accanto a me e poco dopo Fine mi stava abbracciando.
“Forse intendeva…”
“No” sussurrai piano senza neanche lasciarla finire.
Cominciò ad accarezzarmi piano la schiena cercando di trasmettermi un po’ di conforto.
“Io penso lui volesse dire…”
“No…”
“Allora forse lui…”
“No! Mi vede solo come un’amica!” l’allontanai da me con entrambe le mani lottando contro le lacrime che non volevano far altro che scappare al mio controllo.
“Io non so più cosa fare! Lui è quello giusto!”
“Tu questo non puoi saperlo! Lo conosci appena” mi guardò preoccupata che le sue parole potessero ferirmi. Quella era una delle ragioni per cui la cercavo nei momenti più difficili, non aveva mai paura di dirmi ciò che pensava anche se non mi sarebbe piaciuto.
“Forse dovresti conoscerlo meglio e capiresti lui…” le sue parole furono interrotte dal campanello che avvisava l’arrivo di un nuovo cliente. Lanciò un’occhiata alla porta prima di riportare il suo sguardo su di me.
“Torno subito, tu resta esattamente dove sei!” si alzò in fretta e raggiunse con un sorriso fabbricato il bancone.
Confusa e con le parole di Fine che mi rimbombavano nelle orecchie i miei occhi cercarono la causa di quell’interruzione e non appena la trovarono desiderai sprofondare nelle viscere delle Terra.
Che diavolo ci faceva Shade alla Sunny Bakery?
Lui non doveva assolutamente vedermi! I miei capelli erano in disordine, avevo gli occhi rossi e gonfi e non avevo assolutamente voglia di litigare. In più i miei ormoni erano impazziti, probabilmente sarei scoppiata a piangere alla prima sua frecciatina! Afferrai il menù dalle mani del ragazzino seduto al tavolo accanto al mio (ricevendo anche un bella linguaccia) e cercai inutilmente di nascondermi.
Il fatto che il mio cuore battesse a mille e che il mio naso fosse praticamente incollato alla pagina dei dessert non mi impedì di origliare la conversazione.
“Ciao! È la terza volta questa settimana!”
Quindi Shade era un cliente abituale… interessante. Mi ritrovai a ridacchiare tra me, che Shade avesse una cotta per Fine era storia vecchia, il suo amore, come il mio d’altronde, non aveva mai superato la fase platonica però.
Chiacchierarono per qualche secondo del più e del meno, Shade le fece dei complimenti per gli ottimi dolci, per i capelli, per la sua carnagione radiante (già, proprio così) e infine osò persino chiederle se avesse perso del peso… che caso disperato!
Alla fine, probabilmente resosi conto che flirtare non fosse il suo forte, decise di mettere fine a quel supplizio a cui io e altri clienti del locale stavamo assistendo e ordinò dei dolci al limone.
Pessima, pessima scelta! Tra tutto quello che poteva comprare era riuscito a scegliere il dolce che meno piaceva a Fine! Anche la torta di carote sarebbe stata meglio delle lemon squares.
Non appena i codini di Fine scomparvero in cucina, buttai in aria il menù e lo raggiunsi veloce. Al diavolo il rimanere discreta! Un cuore infranto al giorno bastava e avanzava e anche se non avevo nessuna intenzione di vedere la mia miglior amica accasata con un tale bastardo, l’anima romantica dentro di me, impietosita da i suoi pessimi metodi di corteggiamento, prese il sopravvento.
“Ma sei pazzo?” urlai piazzandomi davanti a lui con entrambe le mani sui fianchi “Sei dimagrita? Ma che razza di domanda è? Ora non farà altro che chiedersi se prima sembrava grassa! Carnagione radiante? È quello che dice il mio dottore ad ogni check up! Per non parlare delle lemon squares!”
Shade mi guardò come se fossi appena scappata da un ospedale psichiatrico, fece persino un passo indietro e alzò le mani davanti a sè in segno di resa.
“Hai sbagliato tutto, ma siamo ancora in tempo per rimediare. Ora ascoltami attentamente, appena torna tu ordinerai delle praline al cioccolato e dovrai fingere sono le tue preferite. Allora qual è il tuo dolce preferito?”
Lo stupore sul volto di Shade era stato sostituito da pura confusione. Probabilmente non stava capendo assolutamente nulla di quello che gli stavo dicendo.
“… la torta al…”
“Sbagliato! Le praline al cioccolato!” mi passai un mano tra i capelli con fare disperato e lo guardai serissima.
“Ordina delle praline al cioccolato, perchè tu adori le praline al cioccolato, vero? Fai sì con la testa... bravo! Aggiungi causalmente che la primavera è la tua stagione preferita, se ti chiede il perché, e te lo chiederà, te lo assicuro, rispondi che ne ami i colori e il fatto che il mondo si risveglia. Per finire falle i complimenti per le decorazioni all’entrata, le ha fatte lei. Sì lo so, sono tutte storte e alcune sono cadute, ma sforzati di sembrare onesto”.
Finito il mio monologo, non avevo più aria nei polmoni e tutto mi aspettavo tranne quello che mi ritrovai davanti. Shade mi guardava in modo strano, non lo avevo mai visto così. Sembrava quasi... preoccupato?
“Rein… tutto bene?”
Mi stava davvero chiedendo come stavo? Mi ricordai dello stato in cui mi trovavo e in cui nessuno mai avrebbe dovuto vedermi.
Mi sfregai inutilmente gli occhi nello stupido tentativo di nascondere il loro rossore e feci di tutto per evitare il suo sguardo.
Tutti i miei sforzi furono però vani, Shade mi afferrò il mento tra le dita e mi obbligò a guardarlo dritto negli occhi.
“Tutto bene?” ripeté serio e un po' troppo vicino per i miei gusti.
“Io… certo! Ma che domande!” con uno schiaffo allontanai la sua mano dal viso e indietreggiai nel disperato tentativo di aumentare la distanza tra di noi. Una chioma familiare spuntò dalle porte della cucina donandomi la perfetta via di fuga.
“Fine sta tornando! Fai quello che ti ho detto!”
Mi bastò che si distraesse un secondo per darmela a gambe.
Non ero pronta a mostrarmi così vulnerabile, non a lui, ed ero stanca di autocommiserarmi.
Inoltre quella sfortunata serie di eventi mi mise in testa una strana idea e più osservavo Fine e Shade parlare dalla vetrina del negozio più velocemente giravano le rotelle nella mia testa.
Certo, le possibilità di successo erano minime, ma cosa avevo da perdere? Il mio cuore era già rotto.
Nulla fermava una ragazza innamorata e finalmente me ne resi conto anch’io.









Miao!
*Bromance - secondo wikipedia una bromance è "uno stretto rapporto, non sessuale, tra due o più uomini". Tutto più chiaro ora, vero? u.u
Grazie per aver letto, sei un tesoro <3
Il titolo di questa fanfic è orrendo, mea culpa, ma la canzone merita (e anche i P!ATD). Se non sai di cosa sto parlando, clicca il titolo.
Non ho idea di perchè ho voluto scrivere una fanfic in questo fandom, forse i ricordi d'infanzia hanno preso il sopravvento.
Che dire? Le note nella descrizione sono state messe per un motivo. I personaggi saranno OOC, ma spero di mantenere qualcuna delle loro caratteristiche e naturalmente siamo in un AU (alternative universe), Fine e Rein non sono sorelle nè principesse, anche se mi piace mantenere il nomignolo. I tempi di aggiornamento saranno quelli che sono.
Mi scuso per eventuali, sicurissimi, errori.

Un bacione!


 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

Ipomea
significa Promessa




Non riuscivo a smettere di pensare a Fine.
Ero fermo sullo stesso paragrafo da almeno mezz’ora, quel giorno la mia testa era altrove, in una pasticceria appena fuori dal centro per essere esatti.
Per la prima volta da quando avevo posato gli occhi su di lei, Fine mi aveva sorriso. No, non uno dei suoi soliti sorrisi di cortesia che sempre rivolgeva ai clienti, mi aveva sorriso per davvero. Con denti e tutto!
Forse stavo esagerando, ma chi poteva biasimarmi? Corteggiavo quella ragazza da mesi e quel piccolo gesto era stato come un raggio di sole tra tante nubi scure.
Non potevo però godere appieno di quella piccola vittoria, una vocina continuava infatti a ricordarmi come non fosse del tutto meritata. Suddetta vocina si materializzò come per magia accanto a me, mandando definitivamente in fumo il mio studio di quella mattina.
Si schiarì la gola per attirare la mia attenzione e cominciò a tamburellare le unghie smaltate d’azzurro sul tavolo pieno di scritte e incisioni. Non dovetti neanche alzare lo sguardo per sapere chi mi si fosse seduto accanto. Avrei riconosciuto quel colpo di tosse tra migliaia per non parlare del suo profumo, un misto tra pesca e caramelle, che mi investì in pieno. Era tanto dolce dal diventare quasi nauseante, o forse era quel suo tono saccente a farmi venire il vomito, ancora dovevo capirlo.
Probabilmente mi stava guardando con la sua solita faccia disgustata, il naso arricciato e le labbra tese in un broncio. Sorrideva in mia presenza solo se Bright era nei paraggi. Odiava rivolgermi la parola o farsi vedere in giro con me ed ero certo maledisse il fatto di dover respirare la mia stessa aria.
D’altronde non avremmo potuto essere più diversi, eravamo come il giorno e la notte.
Rein era la tipica ragazza all’apparenza perfetta. Frequentava la gente “giusta”, andava alle feste “giuste” e si comportava in modo “giusto”. In una parola: era popolare.
Indossava orecchini di perle, gonne a ruota mai sopra il ginocchio e odiosi golfini di cachemire in tinte pastello. Quel look da brava ragazza appena uscita da un musical anni cinquanta mi dava il voltastomaco.
La cara Sandy* non era altro che una ragazzina frivola e superficiale, probabilmente figlia di due ricconi che passavano le giornate al country club e che non le avevano mai detto di no. Dietro ai vestiti, alle feste e a tutti quei club studenteschi di cui faceva parte, non vi era nulla se non una bambina viziata.
Il fatto che non rientrassi nel disegno di vita perfetta che si era costruita era motivo sufficiente per detestarmi. L’antipatia di certo era reciproca, ma negli ultimi mesi ero stato costretto a frequentarla quasi ogni giorno. A mio malgrado avevo imparato a conoscerla, ero sempre stato bravo a leggere le persone e Rein era un libro aperto. Sapevo infatti non sarebbe mai entrata in una biblioteca di sua spontanea volontà, benché meno alla ricerca della mia compagnia.
Mi ero inconsciamente avvicinato di più al libro, tanto che il mio naso quasi ne toccava le pagine e le parole diventarono sfocate.
“Bright non è qui” le sue dita si bloccarono per un momento soltanto prima di riprendere il loro tamburellio “E no, non so dov’è”.
“Ho bisogno di parlare con te”.
“Vuoi parlare con… ma che diavolo ti sei messa?” alzato lo sguardo rimasi a bocca aperta, letteralmente. Rein indossava dei grossi occhiali da sole che le coprivano metà del volto e aveva avvolto i suoi lunghi capelli turchesi in un foulard fiorato. Sembrava una fuggitiva pronta a lasciare il paese, naturalmente evitai di puntualizzarlo.
"Sono qui in incognito" si agitò sulla sedia e cominciò a mordersi nervosa le labbra, in un flash rividi la ragazza con le guance rosse e gli occhi lucidi del giorno prima. Per un attimo mi prese il panico, come dovevo comportarmi? Io e Rein non andavamo d’accordo, vero, ma questo non faceva di me una persona senza cuore e vederla così impaurita mi mise estremamente a disagio.
Per mia fortuna, quell’insicurezza scomparve veloce. Raddrizzò la schiena, puntò il mento al soffitto per farsi più alta e incrociò le braccia al petto.
“Voglio offrirti il mio aiuto” prendeva, mai chiedeva.
La ragazza saccente e altezzosa era tornata e io ne fui segretamente grato, quella era la Rein che sapevo gestire.
“Se vuoi scusami, principessa, ho cose più importanti da fare che ascoltare i tuoi deliri” recuperai il mio libro e mi alzai, non avevo assolutamente voglia di farmi prendere in giro.
Rein subito mi imitò piazzandosi proprio davanti a me. Così, in piedi, parecchi centimetri ci dividevano, ma ciò che le mancava in altezza lo recuperava con quella sua lingua tagliente.
“Non sto scherzando” dovetti ammettere che tutta quella storia cominciava ad incuriosirmi, ma preferii lasciar correre, non ero così stupido da tuffarmi volontariamente nelle fauci del lupo.
Ignorai il suo ultimo commento e mi congedai con un inchino che sapevo l’avrebbe fatta andare su tutte le furie, avviandomi verso gli scaffali pieni di libri con un sorriso beffardo in volto. Ero sicuro di averla lasciata a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua in mezzo alla sala.
Sfortunatamente lo sfrigolio delle mie sneakers sul vecchio pavimento in linoleum fu presto accompagnato dal ticchettio dei suoi tacchi, segno che mi stava seguendo.
Raggiunto lo scaffale che cercavo rimisi a posto il mio libro per afferrarne subito uno nuovo. Me lo rigirai tra le mani e lo aprii ad una pagina a caso. Lo avevo già letto un paio di volte, ma avrei fatto di tutto per ignorare quella presenza alle mie spalle.
“È maleducazione non ringraziare”.
Riuscii a trattenermi dal voltarmi, ma non potei non rispondere alla sua provocazione.
“Perché dovrei ringraziare proprio te?”
Silenzio. Un lungo, estenuante silenzio.
Per un attimo pensai addirittura se ne fosse andata, ma quando mi voltai me la ritrovai a meno di un passo di distanza.
“Com’erano le praline?” sussurrò maligna e io capii tutto quello che avrei dovuto intuire non appena l’avevo vista varcare la soglia della biblioteca. Avrei dovuto aspettarmelo, le persone come lei non facevano nulla senza niente in cambio ed io ricoprivo lo scomodo ruolo del debitore.
“Il gatto ti ha mangiato la lingua?” si tolse gli occhiali con fare teatrale e mi guardò dritto negli occhi “Non sono qui per litigare, ma per offrirti il mio aiuto”.
“E io ti ho già detto che non ho tempo da perdere” provai a superarla, ma fu tutto inutile, anticipò ogni mio movimento. Con lei davanti e con la libreria alla spalle ero in trappola.
“Perdere tempo, davvero?” con una velocità del tutto inaspettata mi rubò il libro dalle mani e me lo sventolò sotto il naso “Stai leggendo un fottuto libro di botanica”.
“Ridammelo” sibilai con voce profonda e più minacciosa di quanto mi aspettassi.
“Tu hai bisogno di me” mi puntò l’indice al petto diminuendo ancora di più la distanza tra noi “Posso far innamorare Fine di te in un batter d’occhio” sussurrò maliziosa senza però riuscire a trattenere una leggera smorfia, in fondo non era mai stata una fan dell’idea di me e Fine come coppia.
Era l’unica a conoscenza di quella mia cotta, nemmeno Bright sospettava nulla. Come Rein lo avesse scoperto rimaneva un mistero, ma era ormai del tutto inutile negare, lo sapeva da sempre.
“E tu che ci guadagni?” chiesi ben consapevole di dove sarebbe andata a finire quella conversazione.
Rein abbassò lo sguardo per un istante prima di puntarmi di nuovo addosso quei suoi occhi smisuratamente grandi, questa volta però potei leggervi un po’ di timore, abilmente nascosto da orgoglio e determinazione.
“Tu… tu potresti ricambiare il favore”.
Bingo. I ruoli si erano appena invertiti. Avevo capito quello fosse il vero motivo dietro a tutta quella messa in scena non appena aveva nominato il nome dell’amica.
“Dovrei trasformarti nella ragazza dei sogni di Bright?” non riuscii a trattenere un grugnito derisorio.
La principessa che veniva a chiedere aiuto a me!
“Io sono la sua ragazza dei sogni! Lui solo… non riesce a vederlo!” s’imbronciò proprio come avrebbe fatto una bambina e, intenerito da quell’immagine, non riuscii a trattenere un sorriso.
Non ero mai stato del tutto immune al suo aspetto, Rein era molto bella e non lo avevo mai negato, peccato bastassero poche parole e il suo fascino evaporava come neve al sole.
“Quindi mi stai offrendo il tuo aiuto, quando in realtà sei tu a voler qualcosa da me” la stavo deliberatamente prendendo in giro. Finiva sempre così, mi ripromettevo d’ignorarla e finivo inevitabilmente per punzecchiarla alla ricerca di una sua reazione. Quei nostri battibecchi mi divertivano parecchio, specialmente quando riuscivo a farla arrabbiare.
“La tua barca sta decisamente affondando per chiedere aiuto a me, principessa”.
“Quello che ancora non hai capito è che siamo sulla stessa barca, sfigato”.
Mi ammutolì con poche parole dritte al bersaglio.
Il silenzio calò tra di noi, nonostante la differenza d’altezza puntò i suoi occhi nei miei e sostenne il mio sguardo con fierezza, senza nessuna intenzione di abbassarlo e interrompere così quella che era diventata ormai una sfida. Eravamo talmente vicini da poter sentire il suo respiro solleticarmi il collo. Il suo profumo mi avvolse completamente e mi ritrovai ad osservare le numerose lentiggini che le adornavano il volto, disseminate su guance, naso e alcune, più sparse, sulla fronte.
Trattenni inconsciamente il fiato quando il suo viso si fece ancora più vicino, ma il tutto finì meno di un secondo dopo. Rein sistemò il libro che mi aveva sottratto nello scaffale alla mie spalle e si allontanò velocemente da me.
“Ti chiedo solo di pensarci” come se nulla fosse successo rindossò gli occhiali e si aggiustò il velo che le copriva la testa, ricacciando all’interno qualche ciocca sfuggita a quella prigione di tela.
Senza aggiungere altro si voltò e se ne andò, lasciandomi solo con il suo profumo che aleggiava nell’aria e il ticchettio dei suoi tacchi che diventava sempre più debole.


 




“Penso che Rein sia arrabbiata con me”.
Avevamo deciso di passare la pausa pranzo nel cortile dell’accademia. Sdraiato all’ombra di una vecchia quercia osservavo distratto il ricamo dei suoi rami sopra le nostre teste.
“È una donna, le passerà” seduto accanto a me, Bright continuava a strappare fili d’erba fingendo di ripassare la lezione, il libro di storia sulle sue ginocchia ormai completamente cosparso di piccoli cadaveri verdi.
“È due giorni che non mi parla” Bright ignorò completamente le mie perle di saggezza, la preoccupazione nella sua voce era evidente e fui obbligato a tirarmi a sedere. Subito capii da dove nascesse quella conversazione, Rein era seduta a pochi metri da noi insieme ad un ragazzo dalla carnagione scura e Bright non aveva smesso un secondo di guardarla.
Non capivo perché si tormentasse tanto per il fatto di non averla vista per qualche giorno. In fondo si conoscevano sì e no da un paio di mesi e raramente si erano visti al di fuori dell’accademia.
Osservai il mio amico per poi puntare nuovamente lo sguardo sulla chioma azzurrina della ragazza… era forse una scenata di gelosia?
“E la cosa ti preoccupa… perché?” chiesi consapevole di non essere molto d’aiuto.
“Perché è mia amica!” lo disse come se fosse una cosa talmente ovvia che quasi mi vergognai di avergli fatto una domanda così stupida.
“Non è da lei e sono preoccupato” strappò l’ennesimo filo d’erba e poi un altro ancora “Potresti andare a parlarle? Solo per vedere se va tutto bene”.
Meditai per un momento sulle parole più adatte per mandarlo a fanculo. Col diavolo che sarei andato a parlarle di mia spontanea volontà!
“Non se ne parla. Vacci tu” mi sdraiai nuovamente e mi voltai dandogli le spalle a supporto delle mie parole.
“Per favore?”.
“No”.
“Non mi parla e poi…”.
“E poi?”.
“Ha sempre preferito te a me”.
Grazie al cielo Bright non poteva vedermi in viso, la mia bocca si spalancò talmente tanto che la mascella cominciò a farmi male. Ci misi qualche secondo a riprendermi e Bright dovette interpretare quel mio silenzio come un tacito assenso perché mi diede una pacca sulla spalla e parlò con rinnovato vigore.
“Grazie Shade! Sono sicuro a te dirà tutto, le piaci molto!”.
Dovetti schiarirmi la gola per rispondergli e anche quando aprii bocca per farlo nulla ne uscì, ero ancora in stato di shock. Possibile che avessimo recitato così bene da fargli pensare d’essere diventati grandi amici?
“Ti sbagli” mormorai tra me alzandomi con qualche difficoltà “Ti sbagli di grosso, amico”.
A passo lento e svogliato raggiunsi la coppia felice, parlano fitti fitti e nessuno si accorse della mia presenza nonostante la mia ombra li avessi oscurati entrambi.
Finsi un colpo di tosse e il ragazzo si accorse finalmente di me, Rein invece preferì continuare ad ignorarmi.
“Principessa, non mi presenti il tuo amico?”
Piegò il collo all’indietro per guardarmi, si tamburellò il dito sul mento prima di sorridermi angelica.
“No”.
La sua risposta monosillabica mi lasciò senza parole. Momentaneamente perso, cercai con gli occhi Bright che mi incoraggiava da lontano con movimenti molto simili a quelli di una ragazza pon-pon.
Perché sono amico di un tale cretino?
“Dobbiamo parlare” dissi intenzionato ad arrivare al dunque.
“Sono tutte orecchie” il ragazzino di poco prima mi stava ancora guardando. Sembrava volesse incenerirmi con il solo sguardo e la cosa non mi piacque affatto.
“In privato” Rein sbuffò infastidita, si voltò verso il ragazzo e gli rivolse un sorriso genuino e gentile, un privilegio di cui pochi erano degni.
“Ti invierò l’articolo corretto questa sera, grazie mille per l’aiuto Fango”.
Se si fosse offeso per essere stato congedato così velocemente lo nascose bene, prese la mano di Rein tra le sue e vi posò un delicato bacio.
“È stato un piacere dolce Rein” si alzò e prima di allontanarsi mi lanciò un ultimo sguardo che avrebbe dovuto risultare minaccioso, ma che fu invece molto inquietante.
Senza fare complimenti mi sedetti accanto a Rein, dando le spalle al mio migliore amico. Non avevo nessuna intenzione di assistere al suo patetico tifo da stadio, avevo bisogno di tutte le mie energie per mantenere i toni di quella conversazione civili e pacifici.
“Dolce Rein?” aveva chiuso gli occhi e con il viso puntato verso il cielo si stava godendo il flebile sole primaverile. Le gambe stese davanti a sé e i gomiti fissi al suolo come sostegno.
“Fango è un po’…”
“Suonato?” Rein non riuscì a trattenere una piccola risata e quella reazione mi lasciò piacevolmente stupito. Non ero mai riuscito a farla sorridere, tanto meno ridere. Evidentemente c’era una prima volta davvero per tutto.
“Particolare” mi corresse senza però smettere di sorridere “È il tuttofare del giornale, mi stava aiutando con l’articolo. Domani andiamo in stampa! Non vedo l’ora!” aprì improvvisamente gli occhi e al loro interno notai una luce tutta nuova, era euforica e il sorriso sulle sue labbra aveva contagiato persino lo sguardo.
Non sapevo cosa diavolo fosse successo dal nostro ultimo incontro poche ore prima per averla resa così di buon umore, ma di certo la cosa giocava in mio favore. Lanciai un’occhiata alla mie spalle, Bright era sparito, ma la mia missione non era ancora conclusa.
“Dolce Rein dovremmo parlare…” come risvegliatasi da un sogno troppo bello per essere vero Rein sbatté le palpebre più volte regalandomi un’espressione di disgusto misto a sorpresa. Probabilmente si era resa conto di aver abbassato la guardia proprio in presenza del suo acerrimo nemico. Ogni traccia di felicità scomparve dal suo viso e tornò la solita vecchia Rein.
“Allora?”
“Allora cosa?” risposi sulla difensiva un po’ disorientato dopo quel repentino cambio di umore.
“Non dovevi dirmi qualcosa?” mi diedi mentalmente dello stupido, io ero lì per Bright!
“Sì, ecco...”
“Ciao Fine!” non ero riuscito neanche ad iniziare una frase di senso compiuto che al sentir nominare quel nome ero saltato in aria come se mi fosse appena esplosa una mina accanto. Cercai freneticamente la chioma magenta di Fine e quando i miei occhi si posarono nuovamente su Rein, vi trovai un sorrisetto compiaciuto che non si addiceva per niente alla parte di ragazza innocente che mi stava propinando.
“Quanto sei infantile”
“Ce la metto tutta” fece un sorriso a trentadue denti, mostrando gli incisivi leggermente più grossi del normale, e cominciò a dondolare avanti a indietro tutta soddisfatta della sua malefatta.
“Smettila di fare la bambina. Bright è preoccupato, dovresti andare a parlargli”.
Rein si bloccò immediatamente, raddrizzò la schiena e per un momento rimase immobile a guardarmi con bocca socchiusa e occhi sgranati.
“Ti… ti manda Bright? Pensa che lo sto ignorando e non ha il coraggio di venire a parlarmi?” mi sentivo uno studente vittima di una domanda trabocchetto. Non capivo cosa voleva le rispondessi, era forse arrabbiata con Bright? Consapevole che ogni parola uscita dalla mia bocca non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione, mi limitai ad annuire e quel piccolo gesto scatenò l’inferno.
“Che carino! Ma quanto è adorabile?! Allora lo ha notato! E pensare che sono solo stata molto impegnata! Pensavo non se ne sarebbe neanche accorto. Devo andare a parlargli, anzi no! Farò la misteriosa, dovrai dirgli che…” ingranò la quinta e, con occhi a forma di cuore, non fece altro che blaterare stupidaggini senza senso su quanto Bright fosse l’uomo perfetto per lei. Smisi subito di prestarle attenzione e rivolsi la mia attenzione ad una partita di calcio improvvisata da qualche ragazzo del secondo anno.
“Shade, mi stai ascoltando? Devi andare a dire a Bright…” Rein mi si piazzò davanti con fare prepotente sventolandomi una mano davanti agli occhi.
“Principessina, io non gli dirò proprio un bel niente!”
Gli occhi di Rein s’incupirono e diventarono per un attimo più grandi di quanto già non fossero, aprì la bocca pronta a rispondermi per le rime quando qualcosa le fece cambiare idea.
“Ciao Fine” credeva davvero che ci sarei cascato una seconda volta?
Ero così sicuro di me che quando Fine comparve magicamente al mio fianco per poco non saltai in aria per la sorpresa. Uno squittio davvero poco virile mi scappò dalle labbra e non potei non notare Fine lanciare un’occhiata confusa all’amica. Rein per risposta sorrise maligna e mi guardò dritto negli occhi. Potevo leggere una e una cosa soltanto nel suo sguardo: vediamo come te la cavi senza di me.
Se voleva sfidarmi, io non mi sarei fatto indietro. Il fatto che la principessa avesse avuto ragione una volta, non significava io avessi bisogno del suo aiuto. Non volevo rientrare nel suo piano malato ed ero sicuro avrei conquistato il cuore di Fine senza dover dipendere da altri.
In fondo mi aveva solo dato una dritta o due, me la sarei saputa cavare anche senza quei suoi piccoli insignificanti suggerimenti.
Stai a vedere.
Cercai di ricompormi da quella prima, sfortunata, impressione e analizzai con un’occhiata Fine e ciò che aveva portato con sé. Se Rein mi aveva insegnato qualcosa era di osservare e di sfruttare a mio vantaggio piccoli dettagli, esattamente come quel libro che Fine stava tirando fuori dalla borsa, libro che il fatto volle conoscessi come il palmo della mia mano.
“Il linguaggio segreto dei fiori”, un grande tulipano rosso primeggiava sulla copertina e io mi sentii subito più vicino a Fine. Leggere gli stessi libri sarebbe potuto essere un particolare irrilevante per un altro, ma non per me. Non riuscii a trattenere un sorriso e ringraziai mentalmente Bright per avermi spedito a risolvere i suoi bisticci con sua altezza reale. Non solo sarei riuscito a conquistare Fine, ma lo avrei fatto davanti a Rein mostrandole di non aver assolutamente bisogno del suo aiuto. Già salivavo all’idea di quella piccola, ma determinante, vittoria.
Mi schiarii la gola e partii all’attacco.
“Fine non ho potuto non notare il libro che stai leggendo” Fine, che stava parlando animatamente con l’amica, si bloccò di colpo e guardò l’incriminato che riposava tra le sue mani.
“Oh, io veramente…”
“Non sapevo fossi interessata di florigrafia. Posso consigliarti decine di libri sull’argomento! Potresti iniziare con…” cominciai ad elencarle ogni singolo libro mi passasse per la testa e man mano parlavo, più ero sicuro di aver fatto bingo. Fine mi guardava con quei suoi grandi occhi scarlatti, tutta la sua attenzione fissa su di me e per poco non iniziai a balbettare quando un leggero rossore apparve sulle sue guance.
“E sono certo tu sia familiare con l’Hanakotoba*, se vuoi posso prestarti un manuale davvero ben fatto e naturalmente puoi venire a farci visita al club di giardinaggio. Mi farebbe davvero piacere.” terminai così il mio monologo. Fine mi guardava ancora stupita, la bocca che continuava ad aprirsi per poi richiudersi, l’avevo lasciata senza parole! Mi congratulai con me stesso e spostai lo sguardo su Rein per godere della sua espressione davanti ad una così palese sconfitta. Quello che non mi aspettavo era di trovarmi davanti un sorriso divertito e canzonatorio. C'era qualcosa di strano in tutto quello.
“Grazie mille, davvero sei stato molto gentile, ma…” la voce di Fine ricatturò la mia attenzione e subito mi voltai verso di lei. Aveva iniziato a strappare fili d’erba proprio come Bright poco prima e il rossore sulle sue guance si era amplificato notevolmente. Lanciò uno sguardo all’amica come se fosse alla ricerca d’aiuto e Rein non riuscì a trattenere una risatina sciocca.
Mi sentii subito incredibilmente in difficoltà, tagliato fuori com’ero da quel dialogo silenzioso.
“Diglielo, Fine. Ha parlato per mezz’ora, tanto vale che sappia la verità”.
Fine ridacchiò a sua volta e nel disperato tentativo di metterla a sua agio risi anch’io.
“Come stavo dicendo, sei molto gentile Scot, ma purtroppo questo libro non è mio. Rein lo ha dimenticato a casa mia, glielo stavo solo riportando prima di andare agli allenamenti. Sai, io non amo molto leggere”.
Il mio castello di carta fu abbattuto da quelle poche semplici frasi, neppure il sorriso consolatorio che mi rivolse una volta terminato di parlare mi fu d’aiuto. Il mio disagio raggiunse livelli mai toccati prima, ero sicuro la mia faccia fosse diventata un grande pomodoro e ciliegina sulla torta… come diavolo mi aveva chiamato?
“Io devo scappare, il coach non vuole che arriviamo in ritardo, ma voi ragazzi avrete un sacco di cose di cui parlare se vi piacciono gli stessi libri! Rein, Scot alla prossima!” con un’ultima pugnalata al petto Fine abbracciò l’amica e saltellò via, il libro dimenticato alle sue spalle, nelle mani della vera proprietaria.
Probabilmente Rein aveva organizzato tutto, dubitavo fosse un’appassionata di composizioni floreali e, come mi aveva mostrato in pasticceria, aveva un certo talento a manipolare le situazioni e le persone a suo favore. Di tutto quello, però, ormai poco mi importava.
I fatti erano chiari: mi ero appena comportato da stupido davanti alla ragazza dei miei sogni, la quale non sapeva neanche il mio nome.
Ero un disastro vivente.
Solo allora realizzai che avevo davvero bisogno dell’aiuto di Rein e la cosa mi terrorizzò.
Quando alzai lo sguardo, le sue iridi azzurrine mi stavano aspettando pazienti.
“Allora? Abbiamo un accordo?" chiese calibrando ogni parola e le fui segretamente grato per aver deciso di non prendermi in giro "Scot?" come non detto.
La verità era che tutto era già stato deciso quel pomeriggio di pochi giorni prima. I dadi erano già stati tratti da tempo e io non me ne ero neanche reso conto.
Accettando i suoi consigli e comprando quelle dannata praline, avevo ingenuamente venduto l’anima al diavolo e ancora non avevo realizzato appieno le conseguenze di quel piccolo, all'apparenza insignificante, gesto.
Il mio demonio personale, senza corna nè forcone, tese la mano destra dritta di fronte a sè.
Senza aspettare un preciso comando, le mie dita si ritrovarono intrecciate alle sue.
"Affare fatto. Io aiuto te, tu aiuti me".
In cosa mi ero cacciato?
Chi è causa del suo mal pianga se stesso.









*Ipomea - sono impazzita per cercare una lista decente sui significati dei fiori, ne ho trovata una interessante in un blog che fa riferimento al linguaggio dei fiori giapponesi (Hanakotoba), Ipomea significa promessa
*Sandy - ovvero la co-protagonista di Grease, naturalmente qui si parla della Sandy pre-trasformazione :D
*Hanakotoba - linguaggio dei fiori giapponese


Ringrazio i tre tesori che hanno recensito lo scorso chap e le utenti che hanno inserito la storia nelle ricordate, seguite e preferite :) Grazie davvero.
Che dire? Spero il capitolo vi piaccia, la vicenda entra nel vivo ;P

Random Ramblings:
Canzoni ascoltate durante la stesura - e che non c'entrano assolutamente con la storia:
This is gospel (versione al piano)
Toy Soldiers
e in generale canzoni a muzzo dei P!ATD e dei Marianas trench.

Alla prossima e grazie per aver letto il mio sproloquio!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***



Margherita
significa Fiducia
 
 
Tante, veloci gocce cadevano davanti ai miei occhi per infrangersi senza nessuna paura al suolo.
Sbuffai per la terza volta consecutiva, il mio respiro si condensò sul vetro prima ancora d’avere lasciato del tutto le mie labbra e mi strinsi nel leggero golfino di cotone che indossavo per infondermi un po’ di calore.
“Gran bell’articolo Rein!” sforzai un sorriso più o meno sincero dando per un momento le spalle alla finestra e alla tempesta che stava imperversando là fuori. Ringraziai chiunque mi avesse parlato arrossendo appena, ricevere complimenti sui miei articoli mi rendeva sempre felice. Fare parte del giornalino scolastico dava molte soddisfazioni e non vi era nulla di più emozionante dell’andare in stampa, peccato non potessi però celebrare quell’occasione con tutti gli altri miei colleghi.  
Quel giorno la mia compagnia era richiesta altrove. Il solo pensiero di dovermi recare nel habitat naturale di Shade e di passare il pomeriggio con lui mi chiudeva lo stomaco.
Tornai ad osservare la pioggia e poco dopo mi ritrovai sola. Ad uno ad uno i miei compagni avevano perso le speranze ed avevano deciso di affrontare quel tempo tiranno.
Sbuffai per la quarta volta, o forse era la quinta, il mio naso incollato alla finestra era completamente gelato. Il perché avessimo deciso di incontrarci nella serra della scuola mi era chiaro, ma ancora faticavo ad accettarlo. Poche persone sane di mente vi ci sarebbero recate volontariamente, avremmo avuto tutta la privacy di cui avevamo bisogno. Mi aspettavo però tanti insetti, terra ovunque e un odore pungente di concime. Inoltre quel giorno avevo indossato delle adorabili ballerini celesti che non sarebbero rimaste di quel colore ancora per molto.
Forza Rein, lo stai facendo per Bright.
Con una forza tutta nuova afferrai il mio ombrello ed uscii. Subito la forza della pioggia mi travolse, rabbrividii nei miei vestiti primaverili. Strinsi il manico con entrambe le mani e a passo di marcia mi diressi verso la mia destinazione. Shade era la mia tempesta, Bright il mio arcobaleno ed ero pronta ad affrontare mille di quei temporali per averlo.
Camminai veloce evitando pozzanghere e fango e quando raggiunsi le serre avevo il fiato corto e i capelli gonfi e arricciati per l’umidità.
Il dannato covo segreto di Shade si trovava nel luogo più recluso di tutta l’accademia. Il sentiero sterrato si fece sempre più piccolo fino a scomparire definitivamente e io mi ritrovai ad affrontare l’erba alta fino alle ginocchia. Le mie scarpe in tela si inzupparono subito e ad ogni passo quella vegetazione indomata mi solleticava la pelle dei polpacci lasciati scoperti dalla gonna che tenevo più in alto possibile per evitare che si inzuppasse anche quella.
Non appena trovai riparo sotto la tettoia che precedeva l’entrata della famosa serra numero tre, un accenno di sole fece capolinea tra le nubi sempre più chiare e la pioggia improvvisamente cessò.
“Molto divertente” commentai tra me maledicendo chi lassù si faceva beffa di me. Chiusi stizzita l’ombrello e constatai con piacere d’essere in orario nonostante tutti quegli imprevisti.
Feci un lungo sospiro e mi concessi un minuto per riprendere fiato. Dovevo avere un aspetto orribile, lisciai la gonna e cercai di darmi una sistemata.
Shade probabilmente aveva proposto la sua serra come luogo d’incontro per farmi divorare da una delle sue piante carnivore. Osservai a lungo la porta in legno bianco davanti a me. La vernice era scrostata in più punti e il pomello era tutto arrugginito.
Dovevo farmi coraggio e decidermi ad entrare. Chiusi gli occhi e con l’immagine di me stessa tra le fauci di un qualsiasi vegetale geneticamente modificato entrai.
Per quella che parve un’eternità rimasi immobile ad aspettare una chissà quale catastrofe, quando, sicura che nessuno mi avrebbe mangiato, osai dare un sbirciatina, ogni paura scomparve.
Mi ero sbagliata. Mi ero sbagliata alla grande.
Altro che terriccio e puzza di concime, ero entrata in un vero capolavoro di colori. Arcobaleni di fiori pendevano dal soffitto, altri riempivano intere tavolate lunghe quanto la serra. Ve ne erano ovunque, di gialli, di rossi, di azzurri e di rosa. Tutto era stato organizzato con un’attenzione quasi maniacale, non vi era una sola foglia per terra e ogni pianta sembra bagnata e curata a dovere.
L’ombrello mi scivolò dalle dita abbracciando il suolo con un tonfo sordo. I miei piedi si mossero uno dopo l’altro senza aspettare un comando, come incantati da una melodia silenziosa. Le pareti di vetro erano imperlate di gocce e i novelli raggi di sole le illuminavano creando magnifici giochi di luce. Risi come una sciocca, tutta sola in quel piccolo paradiso, sul volto un sorriso che non faceva altro che diventare più grande ad ogni passo.
Cominciai a vagare tra quelle file di fiori saltellando da un fascio di luce all’altro, nell’aria danzavano migliaia di piccole particelle di polvere e una stranissima sensazione di pace si impossessò di me. Tutto era così calmo lì dentro, i suoni erano ovattati da quei cancelli di vetro e sembrava quasi di essere centinaia di metri sott’acqua.
All’improvviso una voce maschile si fece largo nella mia bolla. Intonava una canzone pop del momento che subito riconobbi e il perché io mi trovassi lì mi tornò in mente.
Cercando di fare meno rumore possibile mi avvicinai sempre di più a quel cantante improvvisato e quando lo raggiunsi, Shade era girato di spalle che trafficava con vasi e terriccio, nelle orecchie un paio di cuffiette. Non era perfettamente intonato, ma non era spiacevole ascoltarlo e mi ritrovai a sorridere tra me davanti ad uno spettacolo tanto buffo e inusuale.
Forse avrei dovuto interromperlo, fingere un colpo di tosse o far cadere qualcosa per rendere nota la mia presenza, ma quell’immagine mi provocò uno strano calore nel petto e non me la sentì di mettervi fine.
Inevitabilmente Shade si voltò, le sue labbra si sigillarono immediatamente e il vaso di terracotta che aveva tra le mani cadde rovinosamente al suolo spaccandosi in mille pezzi.
“Ed ecco a voi Shade nel suo habitat naturale che canta e gioca con i suoi fiorellini, che visione incantevole!” ironizzai per nascondere ad entrambi il senso di colpa che mi era nato dentro e che non mi sarei mai aspettata di provare.  
Il suo volto divenne rosso come mai lo avevo visto. Come sempre faceva quando si trovava in imbarazzo sistemò il berretto coprendosi l’intera fronte e con la scusa del vaso infranto si piegò a terra per ripulire il disastro nascondendo così il suo viso dai miei occhi attenti.
Mi piegai anch’io, ormai incapace di ignorare il rimorso. Allungai il braccio con l’intenzione di aiutarlo, ma prima che potessi afferrare uno dei cocci Shade lo allontanò da me.
“Non vorrei ti rompessi un’unghia principessa” lo disse con così tanto astio che non potei fare a meno che indietreggiare. 
“Volevo solo aiutarti” mormorai ferita.
“Non ne ho bisogno” mi guardò serio attraverso tutte quelle ciocche ribelli che gli coprivano gli occhi e io mi ritrovai ad annuire. Mi rialzai e lo lasciai ripulire da solo, aspettando paziente che finisse. In un’altra occasione gli avrei risposto per le rime, ma in quella serra, tra i suoi fiori e le sue piante, mi sentivo un’intrusa senza diritto di parola.
“È molto bello qui” azzardai dopo qualche secondo di silenzio “Ti avevo sottovalutato” ammisi mentre con i denti mi torturavo il labbro inferiore.
Shade buttò gli ultimi cocci in un cestino lì vicino e si pulì le mani sui pantaloni già sporchi di terra.
“Grazie… penso” accennò un piccolo sorriso e l’aria divenne all’improvviso meno pesante.
“Scusa, non volevo spaventarti solo eri così…” carino? Mi bloccai morsicandomi la lingua appena in tempo. Sbiancai e una vampata di calore mi investì. Cosa andavo a pensare? I fumi di tutti quei fiori dovevano avermi dato alla testa.  
“Stupido?” concluse ignorando il mio repentino cambio d’umore.
“Umano” salvata in corner.
Shade mi osservò confuso, alzando appena un sopracciglio con il suo solito fare beffardo. Alla fine decise di rispondere con un’alzata di spalle, mi porse una vecchia sedia prima di sedersi a sua volta su uno sgabello. Sorrisi sollevata accettando l’offerta, Shade aveva accettato le mie scuse, o così interpretai il suo gesto.
“Hai una bella voce… per essere un giardiniere” Shade s’irrigidì di colpo.
“Non una parola. Con nessuno. Specialmente Bright”
Mi cucii la bocca con un ago immaginario e il colore riapparve sul viso di Shade. La conversazione morì e il silenzio si fece prepotentemente spazio tra di noi. Shade mi osservava con quella sua espressione annoiata, mentre i miei occhi danzavano da una parte all’altra della stanza alla ricerca di qualcosa di più interessante del mio interlocutore. Lo faceva spesso, l’osservarmi, e se io, involontariamente, incrociavo il suo sguardo mentre ero fermo su di me, non lo distoglieva come facevano gli altri, alzava un angolo della bocca divertito e continuava a guardarmi con chissà quali pensieri in testa.   
“Suppongo tu non sia qui in gita scolastica. Abbiamo delle cose di cui parlare o sbaglio?” sussultai sulla sedia, le sue parole mi riportarono brutalmente alla realtà delle cose.
Mi schiarii la gola e passai entrambe le mani sulle cosce più volte nel tentativo di stirare le pieghe sulla gonna.
“Il piano è semplice: io ti aiuto a conquistare Fine e tu farai lo stesso con Bright” concisa e diretta, non lasciai nessun spazio ad eventuali fraintendimenti.
“Nessuno conosce Fine meglio di me e per Bright sono disposta a sopportare l’idea della mia migliore amica e te come coppia”.
“Come sei generosa” ignorai il commento di Shade e ripresi il mio monologo.
“Se accetterai dobbiamo stabilire un paio di regole” alzai l’indice e lo sguardai dritto negli occhi “Regola numero uno: Fine e Bright non dovranno mai venire a sapere di questo piccolo patto”.
Un secondo dito andò a far compagnia al primo.
“Regola numero due: devi fidarti di me. Ti chiederò di fare cose che potranno sembrarti strane, ma non lo farò per sabotarmi. Io… io mi fiderò di te” il mio sguardo era ancora incollato al suo. Volevo che ogni mia parola gli arrivasse forte e chiara.
“Regola numero tre” tre dita erano ora tese e dritte nell’aria “dobbiamo deporre l’ascia di guerra. Non ci saranno insulti, critiche o prese in giro. Se accetterai saremo complici, non nemici”.
Volevo capisse al cento per cento in che cosa si stesse cacciando, Bright non era uno stupido passatempo per me. Ero disperata per ricorrere a certi mezzi, ne ero consapevole. Shade era la mia ultima carta del mazzo.
La mia voce lasciò spazio ad un silenzio carico di cose non dette, l’aria si fece pesante e tesa. Le mie guance stavano andando a fuoco e solo allora realizzai di aver i palmi delle mani sudati.
“Ci sto”.
Tutto lì? Ci stava?
Al mio sguardo interrogativo alzò entrambe le spalle e si sistemò per l’ennesima volta il berretto.
Io avevo attraversato erba alto fino al ginocchio, rovinato un paio di bellissime ballerine e mio ero esibita in un bellissimo discorso che avrebbe potuto essere stato preparato nei giorni precedenti per evitare scene mute e lui… ci stava?
Mi alzai in piedi e mi avvicinai a lui per fronteggiarlo.
“Non è un gioco per me, Shade”
Shade mi imitò sovrastandomi con la sua dannata altezza.
“Neanche per me”.
Studiai il suo viso alla ricerca di qualsiasi cosa che avrebbe potuto contraddire le sue parole. Era serio, serissimo, le sue labbra tirare in una linea sottile prive del suo solito ghigno beffardo.
Mi sembrò sincero e io decisi di ascoltare i miei stessi consigli e di fidarmi.
“Complici?” domandai con voce emozionata porgendogli la mano destra.
“Per forza di cose” la strinse con fare annoiato prima di abbandonare veloce la presa, ma non parlò con il suo solito tono seccato e un piccolo sorriso scappò dalle sue labbra.  
“Dichiaro quindi ufficialmente attivo il piano infallibile per la seduzione e o costrizione dei nostri inconquistabili obiettivi! P.I.S.C.I.O!” con un urletto vittorioso rivelai soddisfatta il frutto di ore e ore di lavoro. Cercai l’approvazione nello sguardo di Shade, ma tutto ciò che ricevetti fu un’espressione di totale disprezzo, completamente diversa da quella di pochi attimi prima.
“Piscio? Hai davvero chiamato questo stupido accordo piscio?”.
Mi portai teatralmente una mano al cuore oltraggiata davanti a quell’infondata e volgare insinuazione.
“No! P puntato i puntato s punt– ” Shade non mi diede neanche il tempo di finire, con il palmo alzato in aria bloccò i miei farfuglii e con l’altra cominciò a massaggiarsi la tempia.
“Non ho intenzione di fare parte di qualcosa chiamato piscio”.
Sbuffai contrariata e leggermente offesa. Andai alla ricerca della lista con tutti le possibili alternative nella borsa e una volta trovata gliela sbattei in faccia.
“Che ne pensi di C.A.C.C.A ovvero “coalizione abbordaggio e conquista cuori amati”?”
“Questo sì che mi piace, incisivo ed elegante” le sue parole per un attimo mi trassero in inganno, ma mi bastò alzare lo sguardo dal foglio e incrociare il suo per capire mi stesse prendendo in giro.
“Perché devi vedere del marcio ovunque!” come risposta Shade rubò la lista che tanto gli avevo sbattuto in faccia e la strappò in due. Uno squittio di puro dolore scappò dalle mie labbra.
“Va bene! Niente acronimo! Pensavo un nome in codice avrebbe potuto aiutarci” incrociai le braccia al petto delusa, ma consapevole di aver perso quella battaglia.
“Sì perché: “Rein dobbiamo parlare di cacca oggi!” non avrebbe destato proprio nessun sospetto!”
“C.A.C.C.A!”
“È lo stesso!”
Ci guardammo in cagnesco, entrambi probabilmente con la gola dolorante per tutte quelle grida.
Il livello delle nostri voci aveva sorpassato da un pezzo quello attribuibile ad una conversazione pacifica. Eravamo nello stesso locale da meno di un quarto d’ora e ci stavamo urlando addosso come una coppia sposata da quarant’anni. Bel modo di deporre l’ascia di guerra! Feci un lungo sospiro e contai fino a dieci alla ricerca di un po’ di pazienta.
“Forse hai ragione, abbiamo bisogno di un nome un pochino più sobrio. Che ne dici di…”
“Ripetizioni?”
Ripetizioni?” ripetei scioccamente mentre le rotelline nel mio cervello cominciavano a riattivarsi.
“Tu non sei brava in storia e io ho qualche problemino in l’algebra”.
“Problemino?” quel ragazzo non sapeva contare senza le dita.
“Pensaci, Fine e Bright non sospetterebbero niente se gli dicessimo di passar del tempo insieme per aiutarci a vicenda” Shade ignorò volontariamente la mia frecciatina e io fui costretta a prendere in considerazione la sua proposta.
“Mi fa fisicamente male ammetterlo, ma è una buona idea” gli sorrisi sincera e per un attimo dovetti averlo preso alla sprovvista, i suoi occhi si spalancarono e si sistemo nervoso il berretto.
“Mal che vada abbiamo sempre P.I.S.C.I.O come riserva” mi diede un leggero colpetto con la spalla e io non potei far a meno che sorridere ancora di più.
“Grazie Shade”
“Mettiamoci al lavoro”
“Sì, mettiamo al lavoro”
 

 
“Regola numero diciassette: neanche un singolo capello verrà sacrificato per quanto buona sia la causa”.
Come fossimo arrivata alla regola diciassette in meno di mezz’ora era incomprensibile anche per la sottoscritta.
Quello che capii quel pomeriggio fu che per quanto buone le mie intenzioni fossero, quelle erano, per l’appunto, solo intenzioni. Io e Shade ci eravamo insultati per così tanto tempo che sembrava fosse l’unico mezzo a noi conosciuto per comunicare.
Dimenticata la stretta di mano e le nobili promesse fatte, ci stavamo urlando contro da almeno mezzora e se i pazzi che parlavano alle piante avevano ragione, allora ero sicura di aver traumatizzato l’intera popolazione di quella serra.
“Ho detto che voglio cambiarti look e sono disposta a farti fare lo stesso, ma non toccherai i miei capelli!” Shade sbuffò come un bambino cancellando l’ultimo punto dalla sua lista.
“Quando cominciamo?” borbottò incrociando le braccia al petto.
“Che ne dici di domani? Testerò la scusa delle ripetizioni con Fine e visto che è sabato avremo tutta la giornata libera. Possiamo andare al centro commerciale e comprare dei nuovi vestiti”.
Shade roteò gli occhi al cielo e sbuffò per le centesima volta. La matita che avevo in mano si spaccò in due, ma il sorriso plastico sul mio volto non vacillò un secondo.
“È proprio necessario? Non vedo come dei vestiti nuovi possano cambiare la situazione”
Centoquattro, centocinque, centosei…
“Tesoro, tu non ti sei mai visto allo specchio, vero?” lo insultai con voce zuccherina, incapace di trattenermi.
“Regola numero tre, Rein”
“Regola numero due, Shade. Se non vuoi che ti insulti, devi fidarti di me”.
Mento puntato al soffitto, braccia strette al petto e naso all’insù. Ero pronta a rispondere a qualsiasi sua obiezione. Potevo quasi vedere onde nere d’odio aleggiare tutto intorno a noi.
“Domani mattina alle nove. Se sei in ritardo me ne vado. Abbiamo finito?”.
Il mio corpo si rilassò e abbassai finalmente la testa, il mio collo era tutto indolenzito. Dannata differenza d’altezza!
Senza dar voce alla mia risposta, raccolsi la mia borsa da terra e rindossai le scarpe lasciate ad asciugare in un angolo.
“A domani sfi-Shade” mi morsicai la lingua e maledissi me stessa per aver instituito delle regole così stupide. Gli diedi le spalle e mi avviai verso l’uscita.
“Ciao principessa”.
Centosette, centootto, centonove…
Voltai solo la testa e gli lanciai uno sguardo di fuoco da sopra la spalla.
“Cosa?! Principessa non è un insulto” si giustificò con un ghigno stampato sul volto provando palesemente gusto nel farmi arrabbiare.
“Lo è ai tuoi occhi” scossi la testa rassegnata e troppo stanca per istigare una nuova lite abbandonai la questione.
Shade provava un piacere malato nel discutere con me e non gli avrei concesso quella soddisfazione cadendo in quella sua trappola. Avevamo litigato per tutto il pomeriggio, si sarebbe dovuto far bastare quello.
Una volta fuori ispirai a pieni polmoni l’aria fresca di quella sera. Si era fatto tardi e il sole era già basso nel cielo. Il prato era ancora umido nonostante avesse smesso di piovere da parecchio. Solo allora mi ricordai del mio ombrello, mi era caduto da qualche parte nella serra. Alzai scocciata gli occhi al cielo e rimisi piede nella mia prigione di quel pomeriggio.
Avrei recuperato il mio ombrello nel più totale anonimato, non aveva assolutamente voglia di farmi scoprire da Shade.  
Vagai tra le diverse composizioni floreali con gli occhi puntati a terra alla ricerca dell’oggetto smarrito senza però molta fortuna. Continuai la mia ricerca finché la mia testa non andò a sbattere contro un scaffale pieno di cianfrusaglie. Finalmente ferma, mi massaggiai la parte dolorante e considerai l’ipotesi di abbandonare l’ombrello. Certo era molto carino, lilla con il bordo ricamato, sarebbe stato un peccato lasciarlo marcire in quella vecchia serra.
Una leggera brezza interruppe i miei pensieri raffrescandomi e portando con sé un po’ di sollievo per le mie guance arrossate. Proveniva da una vecchia porta secondaria lasciata socchiusa che solo allora notai. Nascosta abilmente da decine di piante, era quasi completamente ricoperta di rampicanti. La brezza doveva sicuramente venire da fuori, doveva essere la porta secondaria della serra che si apriva sul retro, ma non vi ci sarebbe dovuto essere nulla là fuori se non la cinta che delimitava il terreno che apparteneva all’accademia.
Mi guardai intorno circospetta, di Shade nessuna traccia. Forse avevo un po’ di tempo per quella esplorazione improvvisata. Avevo senza dubbio letto troppi romanzi d’avventura, in quel momento mi sentii come una delle eroine dei libri che tanto amavo. Probabilmente vi avrei trovato solo un recinto ammuffito, ma valeva la pena tentare.
Spostai diverse piante per liberare la via, ma quando finalmente fui pronta per varcare la soglia di quella porta misteriosa una mano mi si posò sulla mia spalla voltandomi senza nessuna delicatezza.
“Cercavi questo?” il mio ombrello dondolò avanti e indietro in mezzo alle nostre facce.
“Sì! Ora se vuoi scusarmi…” afferrai il mio ombrello e feci per voltarmi, ma Shade me lo impedii stringendo ancora di più la presa che aveva su di me.
“Non puoi entrare lì dentro” disse con una fretta e un nervosismo con gli si addiceva per niente.
“E perché mai? Non puoi dirmi ciò che posso o non posso fare, è proprietà dell’accademia e io, come studente, po–”
“…club di giardinaggio” mi interruppi realizzando troppo tardi che Shade mi stava parlando.
Al mio sguardo confuso scosse la testa e finalmente mi liberò la spalla, lì dove prima si trovavano le sue dita erano ora ben visibili segni di terra e la cosa non mi rallegrò affatto.  
“Devi fare parte del club di giardinaggio” ripeté raggiungendo una pianta lì vicino che sembrava aver disperatamente bisogno d’acqua. Lo guardai sospettosa mentre recuperava un innaffiatoio lì vicino e si prendeva cura dei bisogni di quella poveretta.
“È un qualcosa riservato alla setta dei giardinieri?”
“Una specie” sbuffai infastidita e lanciai un sguardo triste alle mie spalle.
“Guastafeste”.
“Impicciona”.
Con una linguaccia degna di un bambino di otto anni me ne andai delusa, ma intenzionata ad arrivare in fondo alla faccenda.
D'altronde ero una giornalista. 
 
 
 
 
 
 





Ringrazio di cuore chi ha commentato lo scorso chap e chi ha deciso di seguire la storia, grazie davvero :)
Gli acronimi sono stati partoriti da ben tre teste (eh già!) quindi ringrazio Charlina e Mya_Chan per l'aiuto!
Che dire? Se avete domande sulla storia o appunti da fare io sono qui :) Un bacione e grazie per aver letto!
Ps. Mi scuso per i probabilissimi, sicurissimi orrori
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***



Ortensia
significa Orgoglio
 
 
Erano le nove - più o meno - e io mi trovavo nel parcheggio del centro commerciale.
Le nove e qualche minuto per essere più precisi. Cinquantasei se proprio volevamo essere fiscali.
Mentre mi avvelenavo i polmoni chiuso nella mia macchina avevo scoperto una cosa: fumare non aiutava affatto a diminuire lo stress. Non quello provocato da Rein per lo meno.
“Che diavolo stai facendo, Shade?” sussurrai a me stesso rigirandomi il mozzicone tra l’indice e il pollice. Feci un lungo tiro e lentamente espirai osservando pigro, e senza nessuna intenzione di muovermi, la nuvola di fumo formarsi davanti a me.
Gli occhi mi pizzicavano e l’aria cominciava a farsi pesante. Ero chiuso lì dentro da chissà quanto ad aspettare un’illuminazione dall’alto. Patetico, davvero patetico.
Rein mi stava probabilmente aspettando da qualche parte, là fuori. Forse era andata a farsi un giro tra i negozi o forse aveva deciso di tornarsene a casa. Sperai con tutto il cuore avesse veramente deciso di andarsene, che fosse stata lei tra i due quella a prendere una decisione che potesse essere definita tale. Perché, a quanto pareva, tutto ciò che io ero riuscito a fare quella mattina era stato chiudermi in macchina a fumare come un tossico, sperando che le mie preoccupazioni evaporassero via.
Perché ero lì masturbarmi il cervello? Perché sapevo che quello che stavo per fare era una grande, grandissima cazzata. Probabilmente la più grande cazzata che avessi mai fatto. Sicuramente la più grande cazzata che avessi mai fatto.
Eppure, nonostante io fossi al cento per cento consapevole di quello a cui stavo andando in contro, infilai le chiavi in tasca, tirai su il cappuccio della felpa e finalmente aprii la portiera.
Pioveva ancora. Non faceva altro da qualche giorno a questa parte.
Mi ci era voluto chissà quanto tempo ad uscire da quella macchina, ma una volta con i piedi per terra e un po’ d’aria fresca in corpo mi sentii relativamente sicuro della mia scelta. La sicurezza che solo un incosciente poteva avere.
A passi lenti mi avviai verso il centro commerciale, buttando la sigaretta alla prima occasione per evitare una delle solite paternali sul fumo che Rein tanto amava propinarmi.
La sua risata mi raggiunse ancora prima di aver voltato l’angolo e per un attimo mi bloccai sui miei passi, stupito di quanto bene la conoscessi. Un semplice colpo di tosse o una risata bastavano perché io la riconoscessi. Leggermente preoccupato per quella nuova e inquietante scoperta, promisi a me stesso di passare meno tempo possibile con lei una volta ultimato quel sadico piano.
La sua chioma turchina entrò nel mio campo di visione un secondo dopo e subito mi fu chiaro il perché ridesse. O meglio con chi.
Stava condividendo l’ombrello con un ragazzo poco più alto di lei.
Perché entrare e aspettarmi all’asciutto quando poteva bellamente flirtare con il primo che passava per strada?
Nonostante professava il suo amore per Bright ai quattro venti, era sempre circondata da ragazzi. Non sembrava farlo apposta e probabilmente non se ne rendeva neanche conto. Era un vero magnete quando si parlava di uomini e a scuola non era mai sola. Di certo non faceva nulla per dissuaderli, rideva sempre come un’oca e dava corda a chiunque cercava la sua attenzione.
Quel tipo, che ero sicuro di non aver mai visto prima, continuava a parlare e Rein, come previsto, rideva ad ogni sua parola.
Una strana rabbia cominciò a ribollirmi dentro. Mentre io ero in macchina a farmi seghe mentali su quel piano suicida, lei era lì a flirtarle con un bell’imbusto qualsiasi.
Oltre a ridacchiare come una cretina, Rein non faceva altro che accarezzarsi le braccia nel tentativo di scaldarsi un po’. Indossava un vestitino color crema a maniche corte decisamente inadatto per un tempo del genere. Ma non si rendeva conto di quel cazzo che faceva? Gli stava servendo un’occasione su un piatto d’argento!
Quando il ragazzo allungò, prevedibilmente e con tutte le ragioni di questo mondo, un braccio per abbracciarla decisi fosse ora di intervenire. Ne avevo abbastanza di quel patetico tentativo d’abbordaggio.
Feci qualche passo avanti rendendo nota la mia presenza. Prima ancora che potessi schiarirmi la gola e mugugnare un qualche saluto Rein mi fu addosso. Letteralmente.
Mi afferrò per il colletto della felpa e si sollevò in punta di piedi per guardarmi dritto negli occhi.
Feci di tutto per nascondere quel sorriso che sembrava a tutti costi voler tradirmi. Con un controllo dei muscoli facciali non indifferente, mi subii la sfuriata di Rein impassibile.
Ricordo vagamente insulti sul fatto che fossi in ritardo di un’ora, sulla terribile puzza di fumo e su quante testate sui denti meritassi. Per lo meno la sua attenzione ora era su di me.
Con la coda dell’occhio osservai quel poveretto ancora imbambolato sotto l’ombrello e non riuscii più a trattener quel sorriso. Rein andò su tutte le furie e prima che potesse mettere in pratica le sue minacce e prendermi veramente a testate me la scrollai di dosso ed entrai nell’edificio.
La mia felpa era umida e fredda e le scarpe squittivano sul pavimento ad ogni mio passo. Attraverso la porta a vetri mi accorsi di come anche Rein fosse completamente fradicia per aver abbandonato l’ombrello quei pochi secondi. Scambiò qualche parola con quello sconosciuto, senza però neanche un accenno di risata.
Finalmente lo vidi allontanarsi, lo seguii con lo sguardo e uno sbuffo infastidito mi scappò dalle labbra senza che riuscissi a trattenerlo. Lo stavo ancora guardando quando mi sentii tirare per la manica. Quando abbassai lo sguardo, gli occhi azzurri di Rein mi guardavano severi, ma non più arrabbiati.
“Se domani ho il raffreddore esigo assistenza a domicilio con cioccolatini e tè caldo consegnati direttamente a letto”.
Vagamente divertito da quella richiesta, mi liberai dalla sua presa e cominciai a camminare senza una vera meta. Rein subito mi seguì, saltellando una o due volte prima di raggiungermi.
“È un invito tra le tue lenzuola?” l’istigai ben consapevole di star camminando sul filo del rasoio, ma incapace di trattenermi.
La sua faccia si fece completamente rossa, aprì bocca per rispondere per poi chiuderla subito dopo a corto di parole. Alla fine optò per una risposta silenziosa, incrociando le braccia al petto e puntando il mento al soffitto.
Averla zittita fu una piccola vittoria personale, ma non era saggio continuare a prenderla in giro, non dopo averla fatta aspettare un’ora per colpa della mia dannata indecisione.
“Scherzavo Rein, solo cioccolatini e tè caldo. Capito. Se tutto andrà secondo i piani, te li farò consegnare direttamente da Bright”.
Al sentir nominare quel nome ogni traccia di imbarazzo scomparve, sbatté più volte le palpebre in modo non del tutto innocente e cominciò a dondolare avanti e indietro portando entrambe le mani dietro la schiena.
“Ecco, ora sì che parliamo. Avere lui tra le mie lenzuola non mi dispiacerebbe affatto” mi sorrise con una malizia che poche volte le avevo visto nello sguardo e per poco non inciampai sui miei passi.
Mi lasciò a boccheggiare incredulo fermo in mezzo alla folla. Me l’aveva fatta, di nuovo. Non era la prima volta che mi riservava frecciatine poche caste o che esprimeva apertamente ciò che avrebbe voluto fare con Bright a porte chiuse, ma ogni volta ci rimanevo fregato.
Cercai di ricompormi e affrettai il passo per raggiungerla, sorrideva soddisfatta mentre distratta si accarezzava i capelli ancora bagnati.
“A proposito di Bright, hai fatto qualche ricerca?” mi domandò continuando a guardare dritto davanti a sé.
“Lo conosco da una vita, non ho bisogno di fare ricerche” Rein si bloccò obbligandomi a fare lo stesso, si voltò vero di me con entrambe le mani sui fianchi e un’espressione che tutto comunicava tranne che fiducia.
“E allora grande esperto?”
“Ti sorprenderà sapere che il tuo amato Bright ha un lato oscuro”
Per un attimo la sicurezza di Rein vacillò, le braccia le caddero lungo i fianchi e allargò appena gli occhi confusa.
“Cosa intendi con lato oscuro?”
“Gli piacciono le cattive ragazze. Se vuoi la sua attenzione devi trasformarti in una di loro”.
Non mi sarei abituato alla velocità con cui quella ragazza cambiava umore. Ogni traccia di confusione sparì per lasciar spazio ad un grugnito derisorio e un’occhiataccia piena di fuoco.
“Non indosserò minigonne e corsetti per soddisfare chissà quale tua fantasia”.
“Fidati, tu non fai assolutamente parte delle mie fantasie” gli sorrisi falso e Rein assottigliò lo sguardo a due fessure.
“Chi mi assicura che non sia tu a volermi vedere vestita così?”
Cercai di ritrovare la calma. In fondo non saremmo arrivati da nessuna parte quel giorno se entrambi avessimo continuato a comportarci in quel modo.
“Devi fidarti di me Rein. Conosco Bright da una vita e so cosa gli piace. Non lo ammetterebbe ad anima viva, ma è sempre stato affascinato dal proibito, dalla trasgressione”.
Era tutto vero. Cosa avrei guadagnato mentendo? Se c’era qualcuno che conoscevo come le mie tasche, quello era il mio migliore amico. Bright viveva una vita fatta di regole e aspettative, gli era stato insegnato fin da piccolo a vivere in un certo modo e in quello soltanto. Voti alti, sport, volontariato, persino il suo modo di vestire e di parlare erano influenzati dalla sua famiglia. Pochi conoscevano il suo lato competitivo e la sua voglia di sperimentare e io sapevo perfettamente che tipo di ragazza lo intrigava e Rein, per sua sfortuna, era troppo simile a lui per poter attirare la sua attenzione.
“Il tuo problema non è farti notare, è farlo nel modo giusto. Per lui sei un’amica dolce e disponibile. Quasi una sorellina”.
“S-sorellina?” le palpebre di Rein cominciarono a tremare per la rabbia e io capii di averla in pugno.
“Completamente asessuata”.
Non appena quelle parole lasciarono le mie labbra Rein mi afferrò per la manica e mi trascinò verso il più vicino negozio di vestiti con una velocità disarmante.
Non era stato poi così difficile convincerla a quanto pareva.
 
 

 
“Devi abbandonare questo look da casalinga anni cinquanta. Basta gonne lunghe e ballerine. Per non parlare delle perle. Sembri una verginella che non ha mai visto un– ” Rein mi bloccò agitando entrambe la mani davanti a sé, le guance rosse e un sorriso plastico sulle labbra.
“Ho capito. Non ho bisogno che tu continui. Il concetto mi è chiaro” sillabò a denti stretti senza mai smettere di sorridere.
“Sicura?” scherzai prendendo uno o due vestiti dalla pila che aveva accumulato sul braccio.
“Cristallino” senza fare complimenti mi scaricò l’intero carico addosso e si avviò a passo veloce verso i camerini.
Non riuscii a trattenere una risata, stranamente quel gesto non mi aveva infastidito quanto invece avrebbe dovuto. Fare shopping con Rein si stava rivelando più divertente del previsto. Essere l’ultima speranza di qualcuno aveva i suoi lati positivi e io stavo cerando di sfruttarli tutti.   
Posai quella marea di roba che avevamo raccattato per il negozio in camerino e le sorrisi cercando di infonderle un po’ di sicurezza. Era un fascio di nervi, spostava il peso da una gamba all’altra e non faceva altro che toccarsi i capelli. Se continuava così, si sarebbe ritrovata pelata entro la fine della giornata.
“Tranquilla Rein. Quando avremo finito sarai una bomba” mi sentii in dovere di rassicurarla un po’, ma subito me ne pentii. Rein mi guardò schifata, tirò le labbra in una smorfia e mi chiuse la tenda in faccia. Rimasi basito, incapace di muovermi per un lunghissimo secondo. Ecco che cosa ci guadagnavo ad essere gentile.
Quando mi voltai per andarmene, parole che non ero destinato a sentire mi raggiungessero timide.
“Non voglio essere una bomba, voglio solo piacere a Bright” non fu non più di un sussurro e per un attimo sentii il cuore stringersi nel petto.
“Rein non devi farlo per forza” tentai incerto e il tutto il movimento all’interno del camerino si bloccò. Quando ormai ero sicuro non mi avrebbe risposto, la testa di Rein apparve da dietro la tenda, i capelli raccolti in uno chignon disordinato e le spalle nude.
“Stai scherzando vero? È solo un cambio look. Lo farò sudare. Altro che sorellina” e di nuovo quel sorriso malizioso. Mi fece l’occhiolino, cosa che non aveva mai fatto prima, e sparì nuovamente. Quel lato di Rein continuava a riaffiorare quel giorno nei momenti più disparati, per scomparire tra insicurezza e dubbi.
Meno di un secondo dopo la sua mano comparve agitando davanti ai miei occhi una gonna decisamente più corta di quelle che portava di solito.
“Ho bisogno di una taglia in più”
“Ti sembro un commesso?” continuò ad agitarmela in faccia finché fui costretto a prenderla e fu in quel momento che feci il fatidico errore di immaginargliela addosso. Per un attimo la mia mente si perse tra immagini di Rein piegata a raccogliere oggetti dall’identità irrilevante con addosso quella dannatissima, cortissima, gonna.
Scossi più volte la testa per eliminare quei pensieri inappropriati e ripetei più volte il nome di Fine nel disperato tentativo di riprodurre quell’immagini con lei.
“Posso esserle d’aiuto?” le mie fantasie furono interrotte da un colpetto leggero sulla spalla. Una commessa mi si era avvicinata e mi stava guardando con sguardo curioso. Probabilmente dovevo esserle sembrato un coglione: ero lì, in mezzo al negozio, con una gonna tenuta a mezz’aria e, ne ero sicuro, un’espressione allucinata e sconvolta in faccia.
“Sì, grazie. Potrei avere una taglia più grande?”
La ragazza, un biondina con grandi occhi scuri, mi sorrise gentile prima di scomparire per tornare un attimo dopo con la taglia che le avevo chiesto.
“Ecco qui. Spero sia quella giusta, tu e la tua ragazza siete davvero una bella coppia” prima che potessi anche solo metabolizzare ciò che aveva detto e dirle in ogni lingua esistente al mondo che io e Rein non eravamo una coppia e non lo saremmo mai stati, qualcuno la chiamò e io dovetti smentire il tutto al vuoto.
Ancora più confuso di prima mi diressi come un automa verso i camerini. Da dietro la tenda di Rein provenivano sbuffi e quando le lancia la gonna dall’alto seguì una serie di imprecazioni.
“Resta lì! Devi vedere come mi sta!” sospirai rumorosamente per farmi sentire e mi buttai a peso morto su uno dei divanetti preparati apposta per quei poveri sventurati ragazzi trainati dalle loro fidanzate a fare shopping. Peccato io e Rein fossimo tutto tranne che quello. Avrebbe anche potuto essere carina la situazione, con Fine dentro il camerino intenta a provare vestitini succinti in attesa della mia opinione.
Annoiato feci vagare lo sguardo finché quello non fu catturato da quell’unica cosa che avrei dovuto evitare. La tenda di Rein era leggermente spostata e da dove ero seduto potevo vedere il suo riflesso nello specchio. Deglutii a fatica, completamente consapevole che quello che stavo facendo era sbagliato. Quando però Rein si tolse la maglietta con un ennesimo sbuffo, ogni buono proposito evaporò.
Indossava la gonna che gli avevo portato e un semplicissimo reggiseno lavanda, nulla di che, ma non l’avevo mai vista così e il mio corpo non era mai stato immune al suo fascino. Mi agitai nervoso sul divano e dovetti bagnarmi le labbra improvvisamente secche. Rein indossò con una lentezza devastante una maglietta corta, facendola scivolare delicatamente prima sul seno e poi sullo stomaco. Deglutii nervoso, da un lato non vedevo l’ora si desse una mossa e mettesse fine a quella tortura dall’altro sapevo quel momento si sarebbe ripetuto nella mia mente all’infinito.
Una volta completamente vestita si guardò scontenta allo specchio, tirò più volte la gonna verso il basso e si sistemò per la centesima volta i capelli. Abbassai lo sguardo appena in tempo, quando lo rialzai la tenda era completamente tirata e Rein mi guardava impaziente, il piede che batteva nervoso a terra.
Sandy si era appena trasformata.
“Come sto?” dalla sua voce traspariva curiosità e nervosismo, continuava a guardarsi allo specchio e non rimase ferma un attimo. Io, dal mio canto, non riuscivo a smettere di guardarla. La gonna corta faceva sembrare le sue gambe ancora più lunghe e più i miei occhi facevano avanti e indietro sul suo corpo più la capacità di sillabare due sillabe di seguito sembrava abbandonarmi.
“Dovrei interpretare il tuo mutismo in modo positivo o…?”
“Positivo” mi affrettai a risponderle con voce roca e Rein scoppiò in una risatina liberatoria. Si lasciò persino scappare un respiro di sollievo.
“Decisamente positivo, o sbaglio?” mi prese in giro con leggerezza e io arrossii appena. A quanto pareva non dovevo essere stato molto discreto.
“Sono una bomba sexy?” fece una giravolta e la gonna la seguì in ogni suoi movimento, sollevandosi appena per poi tornare leggera a suo posto.
“Ci sei vicina” le sorrisi divertito, senza però distogliere lo sguardo. Rein era sempre stata una ragazza estremamente vanitosa e alla ricerca di attenzioni e si lasciò ammirare senza dire una parola, segretamente (neanche poi così tanto) compiaciuta. 
Mi mostrò un paio di altri abbinamenti che, ovviamente, approvai e finalmente si decise ad andare alla cassa.
Dopo aver speso una fortuna in pantaloni attillati, gonne corte e magliettine trasparenti si voltò con sguardo furbo verso di me. Un brivido mi percorse la schiena e indovinai dove volesse andare a parare ancor prima che aprisse bocca.
“Ora tocca a te” mi afferrò per la manica, per la duecentesima volta quel giorno, e mi trascinò verso il primo negozio di moda maschile.
Non avevo neanche entrambi i piedi dentro quella sorta di discoteca mimetizzata a punto vendita che Rein già mi aveva buttato addosso due camicie.
La seguii come un cagnolino, completamente spaesato e senza idea di dove diavolo ci trovassimo e di come era possibile scegliere un vestito con la musica così alta, le luci semi-spente e quell’odore schifosamente dolce nell’aria.
“Fine non ha preferenze particolari” canticchiò mentre decideva tra una camicia bianca e una blu.
“Allora perché siamo qui?”
“Non avere preferenze non vuol dire che abbia il gusto dell’orrido” lo disse con una tale nonchalance che non mi resi neanche conto mi stesse insultando. 
“Le piace ciò che piacerebbe ad ogni ragazza. Un ragazzo in forma con un aspetto pulito e ordinato”.
Feci per ribattere, ma Rein mi bloccò indicando prima e mie scarpe e poi la mia felpa.
“Scarpe sformate di colore ignoto sotto gli strati di schifo, felpa tre volte più grande di te e pantaloni larghi e strappati. Per non parlare di questi odiosi cappellini. Il look da rapper fallito anni novanta non è mai andato di moda. Neanche negli anni novanta” alla fine di quella ramanzine da paladina della moda si lasciò scappare un sorriso soddisfatto.
“Ti stai vendicando per prima non è vero?” chiesi mentre nuovi vestiti facevano compagnia a quelli già tra le mie mani.
“Forse, ma credo in tutto ciò che ho detto” si stava decisamente divertendo troppo per i miei gusti
Con in mano più vestiti di quanti ne avessi a casa ci dirigemmo entrambi in camerino.
Senza neanche consultarmi creò per me diversi abbinamenti e si fece da parte a braccia conserte.
Una volta solo, con la tenda tirata al massimo, lanciai un’occhiata dubbiosa ai ciò che avevo davanti. Pantaloni stretti e camicie non erano davvero il mio stile.
“Ti ho preso una taglia abbastanza larga, così da non mostrare la pancetta” Rein stava blaterando cose senza senso e io decisi fosse meglio ignorarla. Indossai la prima cosa che mi capitò sotto e mano e con titubanza mi guardai allo specchio. I pantaloni erano scomodi e attentavano alla mia mascolinità. Provai a piegarmi e subito rimpiansi quella scelta.
“Limitare al minimo i movimenti, capito”.
La camicia era decisamente troppo larga, ma a parte quel particolare rimediabile non stavo poi così tanto male. Certo, sembravo la brutta copia di un Justin Bieber qualunque, ma poteva andarmi peggio. Almeno Rein non mi aveva obbligato ad indossare orribili mocassini e maglioncini con il collo a v.
All’improvviso, senza nessun preavviso, la tenda si aprì e la faccia di Rein spuntò accanto alla mia nel riflesso.
“Ma che fai?” urlai scandalizzato con la voce tre ottave più alta.
“Uh i pantaloni ti stanno bene. La camicia è troppo grande, toglitela” aspettai invano che se ne andasse, ma invece di indietreggiare Rein mi guardò con sguardo esasperato e cominciò a sbottonarla da sé.
“Faccio da solo” le spinsi via la mano e con foga finii gli ultimi bottoni.
“Entro domani” trattenendomi da farle un linguaccia le diedi le spalle (inutilmente visto lo specchio enorme dietro di noi) e mi sfilai la camicia. Senza voltarmi, tesi il braccio indietro per passargliela, ma dopo un lunghissimo momento di silenzio fui costretto a girarmi.
Rein mi stava guardando con una strana luce negli occhi, un misto tra euforia e sgomento.
“Rein?”
“Hai gli addominali?” quasi lo urlò e spaventato indietreggiai di un passo.
Rein fece un passo avanti e io un altro indietro trovandomi con le spalle al muro. Allungò il braccio e fece l’ultima cosa che mi sarei mai aspettato da lei: bussò sulla mia pancia.
Sì, bussò. Diede due colpetti leggeri con le nocche per poi ridacchiare tra sé e allontanarsi.
“Dovevo accertarmene! Perché indossi quelle felpe? Nascondere un fisico come il tuo è un reato” se la mia bocca non aveva ancora raggiunto il pavimento poco ci mancò. Rein mi aveva appena fatto un complimento?
“Fine è una donna fortunata” batté le mani felici e se ne andò contenta.
Dopo un’infinità di cambi d’abito, battutine inquietanti da parte di Rein sulla mia pancia e tanti momenti imbarazzanti uscii finalmente dai camerini.
Dovevo solo trovare qualche t-shirt e finalmente sarei stato libero.
“Dai un’occhiata a quelle magliette laggiù” persa ogni diffidenza sul gusto personale di Rein, feci come ordinatomi.
Gironzolai alla ricerca di quale stampa accattivante. Una in particolare con una grande luna al centro attirò la mia attenzione. Controllai la taglia e una volta trovata quella giusta l’afferrai annuendo soddisfatto. Quando rialzai lo sguardo una ragazza, probabilmente qualche anno più grande di me, mi guardava con uno strano sorriso. Mi voltai come uno stupido, aspettandomi di vedere chissà cosa alle mie spalle. La sua risatina subito mi confermò d’aver fatto la figura dell’idiota.
“Ti è andato a fuoco l’armadio?” scherzò giocherellando con una pila di jeans davanti a sé.
“C-cosa?” balbettai. Sì, balbettai cazzo, come un coglione. Diedi mentalmente la colpa alla musica alta e cercai di ricompormi raddrizzando le spalle per sembrare più alto.
“Sembra tu stia svaligiando il negozio” rise di nuovo e per un attimo pensai a Rein e a quell’imbusto con l’ombrello.
“N-no, sto solo facendo…”
“Dello shopping. Dello shopping con me” Rein spuntò dal nulla, mi abbracciò il braccio e parlò con voce carica di zucchero “È stato un piacere conoscerti”.
Non mi afferrò la manica come faceva di solito, ma strinse la sua mano intorno alla mia e mi trascinò lontano senza darmi il tempo di aggiungere altro.
Mi spinse in un camerino vuoto e mi lanciò i vestiti addosso, la labbra tese in un broncio e le sopracciglia corrugate.
“Ma cos’hai?” urlai infastidito a morte dal modo in cui mi stava trattando.
“Che cazzo stavi facendo Shade? Devo forse ricordarti che siamo qui per Fine?” lo sguardo di Rein si indurì e incrociò entrambe le braccia al petto. Il sentir nominare il nome di Fine mi mandò definitivamente su tutte le furie. Come si permetteva di dubitare così di me?
“Tu puoi flirtare con chiunque respiri e io no?”.
Rein fece un passo indietro come se si fosse scottata. Strabuzzò gli occhi e si portò una mano al petto in modo teatrale.
“Io non flirto” sillabò severa con tono carico d’astio.
“Fare la cretina con ogni ragazzo che incontri si chiama flirtare a casa mia”.
Rein rimase senza parole. Aprì la bocca offesa, ma non disse nulla. Chiuse gli occhi e fece un lunghissimo respiro, prima di darmi le spalle.
“Provati i vestiti, non abbiamo tempo da perdere” la sua voce era freddissima e subito mi sentii in colpa. Non volevo dirle quelle parole, non le pensavo neanche. Sapevo non lo facesse apposta e sapevo non incoraggiava mai nessuno di quei ragazzi.
“Rein io…”
Si voltò con un sorriso sul volto, un sorriso perfetto, ma che non sarebbe mai riuscito ad ingannarmi.
“Shade non preoccuparti. Vedi, per un attimo, mi ero dimenticata che non dobbiamo essere amici. Che sciocca!” rise buttando appena indietro la testa, la mano ancora sul petto “Tu puoi pensare quello che vuoi di me. La tua opinione, d’altronde, è irrilevante” e con quello stesso sorriso, il più dolce che avesse mai finto, se ne andò.
Restai immobile, incapace di muovermi per dei lunghissimi secondi. Quando finalmente riuscii a riprendermi chiusi la tenda e cominciai a provare abito dopo abito senza davvero capire che cosa stessi facendo.
Ero arrabbiato, offeso, ma soprattutto deluso. Perché Rein aveva ragione, io e lei non eravamo amici e forse non lo saremmo mai stati.
 

 
Il resto del pomeriggio lo passammo in silenzio. Mi accompagnò alla cassa e poi fino all’uscita. Una volta davanti alle porte di vetro tirò fuori il cellulare e cominciò ad armeggiare.
“Ho bisogno del tuo numero di telefono” con qualche difficoltà, visto la marea di borse che avevo tra le mani, digitai il mio numero sul suo display. Ero sicuro mi avrebbe salvato in rubrica sotto il nome “Pezzo di cretino”.
Sorrise, di nuovo quel sorriso da Barbie che tanto mi dava sui nervi, promise di farmi uno squillo con indicazioni su come comportarmi davanti a Fine lunedì a scuola e uscì prima ancora di aspettare la mia risposta.
Quel giorno avevo scoperto che non solo Rein era vanitosa, superficiale e sciocca, ma incredibilmente permalosa e diamine se sapeva tenere il muso!
Scossi la testa irritato e mi avviai a mia volta verso la macchina. Facendomi scivolare le borse sul braccio cercai disperatamente una sigaretta tra le tasche. Una volta trovata, subito l’accesi e aspirai con avidità. Passare tutto quel tempo con Rein avrebbe avuto notevoli conseguenze sulla mia salute. Prevedevo un picco nel mio apporto giornaliero di nicotina.
Ancora perso nell’estasi di quel primo tiro con la coda dell’occhio notai quella sua dannata chioma celeste. Con quei capelli era davvero difficile da ignorare.
Seduta su una panchina, circondata da borse e con le cuffiette nelle orecchie aspettava pazientemente il bus.
Il modo in cui torna a casa non è affar tuo.
Mi maledissi, consapevole che non avrei mai potuto lasciarla lì da sola. Non dopo una giornata passata a correre tra negozi. Non con tutte quelle borse. Non con quel senso di colpa che ancora non mi aveva abbandonato.
Mi avvicinai con passo lento e mani in tasca. La sigaretta ancora una volta abbandonata qualche metro indietro.
“Rein, che fai?”
Mi guardò come se fossi un bambino deficiente, si tolse prima una cuffietta poi l’altra e indicò il cartello che indicava le varie fermate.  
“Aspetto il bus” lo disse come se fosse la cosa più ovvia al mondo e in effetti era proprio così. Mi diedi mentalmente dello stupido, ma non demorsi. In fondo mi ci ero cacciato volontariamente in quella discussione.
“Vieni. Ti porto a casa io” la sicurezza di Rein sparì. Strabuzzò gli occhi e piegò la testa confusa.
“Mi stai offrendo un passaggio?”
“Ne sono sorpreso anch’io, fidati”
Sembrò meditare la cosa, osservò prima me, poi le borse e infine l’orologio.
“Entro domani mattina” al sentirsi rivolgere le sue esatte parole saltò in piedi e cominciò a raccogliere la sua roba da terra.
“Va bene, ma solo perché il prossimo bus è fra un’ora” annuendo l’aiutai con le borse. Rein non disse nulla, si limitò a sorridere.
Un sorriso vero.
In macchina la situazione fu meno tesa di quel che mi aspettavo. Eravamo entrambi stanchi. Rein non si lamentò nemmeno per l’odore di fumo, mi chiese solo di alzare il volume di una canzone che intuii doveva piacerle particolarmente. Per il resto si limitò a darmi indicazioni con le ginocchia strette a sé e la testa appoggiata al sedile.
Eravamo fermi ad un semaforo quando la sua voce mi raggiunse timida. Aveva voltato la testa verso il finestrino e continuava ad arrotolarsi distratta una ciocca di capelli su un dito.
“Voglio che tu sappia che c’è solo Bright per me. Nessun altro”.
Ponderai ogni parola prima di risponderle, quelle parole dovevano esserle costate fatica e volevo farle capire quanto apprezzassi quel gesto.
“Rein non devi giustificarti, ho esagerato non inten–”
“No, Shade. Lasciami finire. Soprattutto voglio che tu sappia che non farei mai tutto questo se non pensassi che tu possa renderla felice”.
Ogni parola mi morì in gola. Il semaforo divenne verde, ma io rimasi immobile. Clacson impazzirono alle mie spalle e Rein si voltò confusa alla ricerca del mio sguardo.
“Nemmeno io”
 
 
 
 
 
 
 
 
 







Chi non muore si rivide :P
Ortensia nel linguaggio dei fiori significa orgoglio.
Il chap è decisamente più lungo dei precedenti e nonostante avessi altre tre milioni di robe da aggiungere ho deciso di tagliarlo così.
Un grazie gigantesco a tutte le utenti che hanno aggiunto la storia nelle seguite e preferite e chi ha recensito gli scorsi capitoli! 
Un bacione!
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***



Verbena
significa Cooperazione
 
Continuavo a rigirarmi nel letto senza riuscir a prender sonno.
Avevo passato l’intera giornata davanti allo specchio a provare un vestito dopo l’altro. Il risultato era stato catastrofico: camera mia sembrava un campo di battaglia e io avevo perso tutta la mia sicurezza e determinazione.
A tastoni cercai il cellulare sul comodino, lo schermo mi abbigliò e ci misi qualche secondo a leggere l’ora. Erano le tre e io non avevo ancora chiuso occhio.
Navigai svogliata su qualche social network e controllai gli ultimi messaggi ricevuti. La frustrazione dovuta all’insonnia si trasformò presto in tristezza man mano che la mia mente formulava un dubbio dopo l’altro.
Bright mi avrebbe notato? Gli sarei piaciuta? E se fosse stato tutto inutile?
Digitai automaticamente un nuovo messaggio, le parole comparirono una dopo l’altra sullo schermo e senza pensarci due volte lo inviai.
 
A Shade [03:04]
[Non riesco a dormire]
 
Non avevo ancora spostato il pollice dallo schermo quando mi resi conto della cavolata che avevo appena fatto. La consapevolezza di aver inviato un messaggio proprio a Shade mi investì in pieno. Mi tirai a sedere di scatto e sotterai il cellulare sotto il cuscino come a nascondere l’arma del delitto.
Fissai il vuoto davanti a me per interminabili secondi finché non riuscii a calmarmi e il mio respiro tornò regolare.
Shade probabilmente dormiva alla grande e nella piccolissima eventualità fosse stato sveglio, non mi avrebbe mai risposto. Perché mai avrebbe dovuto farlo? E poi per dirmi cosa? Che diavolo poteva farci se non riuscivo a dormire?
Quando ormai mi ero convinta che nulla era o sarebbe successo, una musichetta ovattata, che riconobbi subito come la mia imbarazzante suoneria, riempì il silenzio.
Quando sollevai il cuscino il cellulare illuminò l'intera stanza. Con un’espressione incredula lo presi in mano e osservai senza capire il nome di Shade brillare sullo schermo.
Con la gola improvvisamente secca me lo portai all’orecchio e risposi.
“Pronto?” chiesi con voce roca dopo tante ore di silenzio.
“Perché non riesci a dormire?” era sveglissimo, come se fossero state le tre di pomeriggio. Non c’era segno di stanchezza o irritazione nelle sue parole.
“I-io sono nervosa… credo”
“Hai paura?” per quanto assurdo suonasse, potevo sentirlo sorridere.
“Paura? Io? No!” mi agitai tra le lenzuola, ma chi volevo prendere in giro? “Va bene, sono terrorizzata” la sua risata seguì forte e chiara e io non riuscii a trattenere un piccolo sospiro divertito.
“Come devo comportarmi? Cosa gli dico? Lo ignoro? E se mi fa domande sul cambio look? Io non sono misteriosa! Non sono una cattiva ragazza! La cosa più trasgressiva che abbia mai fatto è stato far la pipì nella doccia! E mi sono comunque sentita in colpa!”
Shade scoppiò in una nuova risata e io lo lasciai fare. Ero consapevole di star blaterando cose a caso, mi succedeva spesso quando ero nervosa. Gli avevo persino confessato di essermi liberata la vescica in doccia offrendogli materiale da ricatto senza nessuna apparente buona ragione.
“Rein, ascoltami. Non preoccuparti, ci sarò io. Ti aiuterò io” tutti i miei farfugliamenti morirono in quel momento. Shade mi stava consolando e non era mai successo prima.
Rimanemmo in silenzio per parecchi secondi, probabilmente entrambi a disagio con quel tipo di interazione. In fondo avevamo comunicato sempre e solo con insulti da quando ci eravamo conosciuti.
“Grazie” sussurrai dando un segno di vita e sperando non avesse attaccato. Shade minimizzò con un grugnito che interpretai come un “prego” e io sorrisi sentendomi improvvisamente molto più serena.
“Cosa ci fai ancora sveglio?” cambiai argomento cercando di rendere la conversazione un po’ più leggera.
“Fa parte del mio piano malefico per scoprire tutti i tuoi più oscuri segreti. Sei incredibilmente loquace di notte” scossi la testa divertita al suo patetico tentativo di evitare la domanda. Shade non amava parlare di sé, questo la sapevo bene, ma una chiacchierata era quello di cui avevo bisogno per distrare la mente.
“Shade…” lo incitai di nuovo e lui sospirò rumorosamente.
“Milky ha deciso di dormire nel mio letto stanotte e non riesco mai a chiudere occhio quando dorme con me”.
“Milky?”
“La mia sorellina” mi lasciai scappare uno squittio eccessivamente eccitato. Non avevo idea Shade avesse una sorella più piccola! Immaginarlo fare “cose” da fratello maggiore, come raccontarle storie o rimboccarle le coperte mi provocò un forte calore nel petto e senza nessuna ragione arrossii nella solitudine della mia stanza.
"Quanti anni ha?” chiesi rotolando tra le coperte.
“Tre” Shade sospirò di nuovo, ma prima che potessi fargli una nuova domanda riprese a parlare con voce rilassata “Ha fatto i capricci finché non le ho permesso di dormire con me. Abbiamo guardato insieme uno dei suoi film preferiti e finalmente si è addormentata. Lasciando me sempre più sveglio. Questi film per bambini sono parecchio inquietanti”.
Ridacchiai e per la prima volta quella sera mi sentii serena. Ero profondamente grata che Shade condividesse quella parte della sua vita con me, qualcuno che gli aveva fatto capire non sarebbe mai stato suo amico. Mi ero davvero comportata da stupida quel giorno.
“Concordo. Gli elefanti rosa di Dumbo sono la cosa più agghiacciante che abbia mai visto” Shade rise e io mi unii a lui.
Mi raccontò dell’ossessione di Milky per un cartone pieno di frutta parlante, di come si offendeva se lui passava troppe ore lontano da lei o come bastava farle ascoltare un po’ di musica per calmarla. Più lui parlava, più le palpebre mi si facevano pesanti e più mi sentivo invadere da una strana pace dei sensi.
“Le canti qualche canzone?” chiesi con voce bassa e dolce ricordando l’episodio di pochi giorni prima nella serra.
“Il più delle volte… ha un debole per Miley Cyrus” risi appena nel cuscino, gli occhi ormai chiusi.
“Allora hai un lato tenero”
“Ne dubitavi?”
Ignorai il suo sarcasmo e mi rannicchiai nel letto, alla ricerca della posizione perfetta.
“Vorrei anch’io una sorellina…” mormorai stanca e con uno o due sbadigli nel mezzo.
Non ricordo la risposta di Shade, la sua voce calda e profonda mi cullò lenta finché finalmente mi addormentai.
“…Sono sicuro saresti una brava sorella… Rein? Rein ci sei ancora?”
 
 
Da Shade [04:13]
[La pipi nella doccia? Davvero, Rein?]
 
 
A Shade [07:38]
[Come se tu non l’avessi mai fatto…]
 

 
Sapevo l’avrei trovato lì.
Non che conoscessi a memoria le sue abitudini, semplicemente vi erano poche persone più prevedibili di lui. Era il classico ragazzo scontroso, con pochi amici e la testa sempre sui libri. Dove si sarebbe mai potuto nascondere agli occhi del mondo se non in biblioteca? E non in bella vista su un tavolo qualunque, ma tra gli ultimi due scaffali tra i libri più vecchi della collezione, ormai dimenticati da tutti, libraria compresa. Probabilmente l’ultimo prestito di quei pezzi da museo risaliva al paleozoico.
Shade se ne stava per terra, accucciato a leggere chissà quale assurdità, la schiena contro il termosifone dalla vernice scrostata.
“Guarda!” urlai senza salutarlo e con un tono di voce non adatto ad una biblioteca.
Shade alzò la testa con fare svogliato e mi osservò in silenzio per un lunghissimo secondo.
“Dove devo guardare?” chiese con voce addormentata.
Indicai le enormi occhiaie sotto i miei occhi con entrambi gli indici e sbuffai contrariata. Lo vidi aggrottare la fronte nel tentativo di veder meglio, per poi arrendersi subito dopo.
“Non vedo niente” mugugnò alzandosi e riponendo il libro che aveva in mano su uno scaffale. Solo allora notai come fosse vestito: aveva indossato gli abiti comprati il weekend appena passato. La camicia bianca gli donava, accentuava le sue braccia muscolose e l’ampio petto. Il perché si fosse nascosto per tutti quegli anni dietro felpe sformate e jeans strappati restava un mistero, nonché un atto malvagio contro l’intera popolazione femminile.
C’era qualcosa che non andava e ci misi meno di mezzo secondo a capire che cosa fosse: Shade indossava anche quel suo dannatissimo berretto. Avrei dovuto accontentarmi, per il momento. Prima o poi sarei riuscita a farlo sparire, anche a costo di rubarglielo nel sonno.
“Bei pantaloni” mi fece l’occhiolino e meno di un secondo dopo stavo andando a fuoco. Mi asciugai i palmi delle mani sui suddetti pantaloni decisamente troppo attillati e mi schiarii la gola.
“Anche tu non sei male, ma non te la caverai con un complimento” con passo lento e senza aver bisogno di parlare cominciammo ad avviarci verso l’uscita.
“Che cosa ho fatto questa volta?” non sembrava scocciato, rassegnato forse, divertito sicuramente.
“Ho due valigie sotto gli occhi ed è tutta colpa tua!” la risata di Shade morì non appena incontrò il mio sguardo. Ero serissima.
Che cosa avrebbe notato Bright per prima?
Il mio sedere fasciato in modo illegale in quei pantaloni imbarazzanti o i segni da giocatore di rugby sotto i miei occhi?
Si accettavano scommesse.
“Come può essere colpa mia?”
“Mi hai tenuto sveglia!”
Ovviamente era colpa sua.
Una volta in corridoio decine di sguardi si puntarono su di noi senza nessuna discrezione. Sapevo benissimo il perché ci stessero guardando. Le regine del gossip avrebbero avuto molto di cui parlare quel giorno. Il mio cambio look di certo non era passato inosservato e, a giudicare dagli occhi a cuoricino di ogni ragazza incontrata sul nostro cammino, neanche quello di Shade.
“Che ci facevi nascosto in biblioteca?” non che me ne importasse davvero qualcosa, ma avevo bisogno di parlare, di distrarmi da tutti quei sussurri che sembravano aumentare passo dopo passo.
“Diciamo che… ho avuto attenzioni indesiderate”
“Il mio Shade ha fatto conquiste?” scherzai dandogli un buffetto sulla guancia e lui rispose con un broncio degno di un bambino.
“Fine non ti noterà mai se passi tutto il tuo tempo a leggere”
“Hai problemi più grandi al momento: Principe azzurro a ore dodici” mi voltai immediatamente, Bright stava camminando proprio verso di noi.
“O mio dio” sillabai sbiancando “Cosa gli dico? Che faccio? Devo fare la misteriosa? E se mi chiede dei vestiti?” cominciai ad iperventilare e ci misi qualche secondo ad accorgermi che Shade mi stava parlando.
“Rimani sul vago. Sono qui io con te, ricordi? Te l’ho promesso” la sua mano mi accarezzò calma la schiena e il mio respiro tornò normale.
La ritrasse veloce non appena Bright ci fu davanti. Osservai attenta il suo viso alla ricerca di una qualsiasi reazione. Per un attimo mi sembrò di vederlo spalancare gli occhi. Aprì la bocca una, due, tre volte prima di parlare e quando lo fece, dovette schiarirsi la gola perché la voce gli uscì più acuta del solito.
“Ciao ragazzi” Bright quel giorno era più bello che mai. I denti bianchissimi, i ciuffi di capelli che cadevano morbidi sulla fronte e gli occhi che brillavano felici. Sentii il cuore gonfiarsi nel petto e dovetti usare tanta buona volontà per non lasciarmi scappare un sospiro sognante.
Shade rispose alzando le spalle e io impacciatamente lo imitai, per risposta ricevetti uno sguardo confuso e un sorriso incerto.
“Tutto bene Rein?”
Perfetto. Bright sapeva ci fosse qualcosa di sbagliato. Aveva sicuramente notato le occhiaie, per non parlare della camicetta trasparente, decisamente non da me. O il fatto che fossi sola con Shade.
Appendermi un cartello al collo con scritto “Mi piaci, cretino” sarebbe stato molto più semplice.
“Mi sembri diversa” aggiunse dopo qualche secondo.
Diversa.
Perfetto.
Avevo speso tutti i miei risparmi e mi ero ridotta a vestirmi come una teenager disadattati con una qualche sindrome d’abbandono perché Bright mi trovasse diversa. Decisamente la reazione in cui avevo sperato.
“Sono solo un po’ stanca”
“Lungo weekend?”
Sbaglio o Shade mi stava suggerendo qualcosa? Il suo tono di voce alludeva a molto più di ciò che in realtà era stato detto. Cercai un segno nel suo sguardo, ma solo quel suo sorriso sadico me ne diede conferma. Shade mi stava aiutando. In un modo contorto e decisamente da lui, ma mi stava aiutando.
“Tu non sai quanto” cercai di mantenermi sul vago. In fondo la mia risposta poteva avere qualsiasi significato: dall’assistere la nonnina malata guardando con lei telenovela spagnole, al darsi alla pazza gioia in un qualche festival fuori città.
“Che cosa hai fatto?” chiese Bright con una fretta nella voce che notai subito.
In panico il mio cervello mi fornì una serie di risposte, l’una più assurda dell’altra. Dopo aver scartato in quel dialogo silenzioso con me stessa il mio fantomatico weekend latino americano in compagnia di Ramon, un brasiliano molto seducente, agitai con nonchalance la mano e mi mostrai estremamente annoiata.
“Sai… cose” Bright evidentemente non sapeva cos’erano quelle cose. In tutta onestà, nemmeno io.
Shade si coprì il viso con entrambe le mani disperato e Dio solo sapeva quanto avrei voluto fare lo stesso.
Ignorando per un attimo il mio stato di altissimo disagio notai come anche Bright non se la stesse passando benissimo. Mi sentii malissimo, non lo avevo mai visto così nervoso e la colpa era solo mia. Mi stavo comportando da idiota, non mi avrebbe mai più rivolto la parola!
“Sì. Ecco. Cosa volevo chiederti?” si sistemò i capelli con la mano e per poco non svenni all’instante “Io… io e Shade volevamo andare al cinema un giorno di questi. La scorsa settimana me lo avevi chiesto e… sì … insomma… io... ti va di venire?”
Rimasi senza parole. La bocca aperta e la gola improvvisamente secca.
Mi stava chiedendo di uscire?
Bright mi aveva davvero chiesto di uscire?
“Se non hai delle … cose da fare, ci farebbe molto piacere se ti unissi a noi”.
“Parla per te”.
Il commento di Shade non mi sfiorò neanche. Saltai sul posto e battei emozionata le mani.
“Certo!” squittii contenta, ma un colpo di tosse alla mia destra mi fece subito ricomporre “Uhm, volevo dire certo, ma solo se posso scegliere io il film”.
“Grande! Allora ti scrivo?” Bright mi sorrise radioso, bello come non mai, e io mi sciolsi.
Annuii, incapace anche solo di aprire la bocca, e continuai a muovere la testa su e giù ancora e ancora. Quando mi risvegliai da quell’improvviso coma celebrale, Shade mi stava scuotendo in modo davvero poco delicato e di Bright non c’era nessuna traccia.
“Stavi facendo cose? Davvero Rein?” me lo scrollai di dosso e iniziai a roteare felice, neanche il perenne malumore di Shade avrebbe potuto deprimermi.
“Bright mi ha chiesto di uscire!” urlai entusiasta trascinandolo in quel mio girotondo improvvisato.
“Non per far crollare il tuo castello di carte, ma ci sarò anch’io! È tutto fuorché un appuntamento” Shade si liberò dalla mia presa e io fui costretta a fermarmi.
“Grazie Mr. Simpatia e pensare che volevo invitare Fine!”
Arrossì di colpo, in fondo avevo ancora qualche asso nella manica.
“F-fine?”
“Esatto. Quindi vedi di comportarti bene!” senza aggiungere altro mi diressi a passo deciso verso l’aula, la campanella sarebbe suonata a momenti e io non vedevo l’ora quella giornata finisse per raccontare tutto alla mia migliore amica.
Bright mi aveva chiesto di uscire, Shade pendeva dalle mie labbra e quei dannatissimi pantaloni stavano cominciando ad allargarsi, permettendomi una normale circolazione sanguigna.
La vita non era mai stata così dolce.
 

 
Non avevo smesso di parlare per un attimo, le guance mi andavano a fuoco e non avevo fatto altro che saltellare dall’inizio della pausa pranzo. Fine stava leggendo una rivista seduta ad un tavolo della mensa, con un mano girava le pagine, con l’altra mi faceva segno di andare avanti, ripetere o fermarmi.
“Mi ha chiesto di uscire! È vero amore!” roteò gli occhi e scosse rassegnata la testa.
“Sei la solita esagerata! Ci saremo anche io e Shade! Non vedo come possa essere considerato un appuntamento!”
“Dettagli Fine! Non attaccarti a queste sciocchezzuole!”
“Che cosa ha detto invece del tuo passaggio al lato oscuro?” andò subito al sodo, senza perder tempo. Avevo raccontato tutto a Fine, o meglio, tutto quello che mi era permesso raccontarle. Non sapeva nulla di Shade e del patto, ma sapeva del mio nuovo piano per conquistare Bright e come avevo previsto non ne era per niente entusiasta. Mi aveva lanciato occhiatacce tutta la mattina, non approvava assolutamente quella mia scelta di cambiare il mio guardaroba per Bright e non aveva perso occasione per ricordarmelo.
“Ha detto che sono diversa” sbuffai scontenta e le sedetti finalmente accanto. Bright non aveva esattamente reagito come avevo sperato.
Fine si limitò a scuotere di nuovo la testa senza neanche alzare gli occhi dalla sua dannata rivista. Stava cominciando a darmi seriamente sui nervi. Vero, forse Bright non aveva fatto salti di gioia, ma l’aggettivo “diversa” non aveva solo connotazioni negative.
“Diversa non vuol dire che non gli piaccia” borbottai offesa incrociando le mani al petto. Fine se ne accorse subito, chiuse la rivista e focalizzò tutta la sua attenzione su di me.
“Sai come la penso” sussurrò accarezzandomi l’avambraccio “Non dovresti cambiare per piacergli”.
“Ho solo cambiato vestiti, non diventerò un'altra persona”.
“Lo spero per te, altrimenti gli staresti mentendo” mi guardò dritta negli occhi, probabilmente alla ricerca di qualche traccia di insicurezza o senso di colpa, ma si sbagliava. Io non stavo cambiando per Bright, stavo solo accettando tanti piccoli compromessi che mi avrebbero fatta notare da lui. Era l’unico modo.
Mi sorrise dolce e senza preavviso mi abbracciò e io ricambiai senza esitazione.
“Io sono qui per te, ricorda che a me piacevi anche con l’apparecchio e il caschetto”.
“Tempi bui” rabbrividii al ricordo e Fine rise divertita prima di tornare alla sua rivista.
“Tua mamma cosa ha detto?” chiese dopo qualche secondo di silenzio.
“Che sapeva un momento così sarebbe arrivato. Lo deve aver letto in uno dei suoi libri sui genitori single e disperati”.
Mia madre aveva inizialmente pensato fosse un atto di ribellione nato da chissà quale disagio. Per evitare una crisi isterica con annesso attacco di panico, le avevo spiegato subito ci fosse dietro un ragazzo. Con ritrovata certezza nelle sue doti di madre modello, si era complimentata per a scelta della camicia ed era andata al lavoro come se niente fosse stato. Mia madre era tutto fuorché un genitore normale e ogni giorno ne avevo la conferma.
A pochi tavoli da noi, Shade e Bright discutevano di chissà cosa. Shade mi aveva già lanciato più di un’occhiataccia. I suoi sguardi potevano voler dire solo due cose: o stavano parlando di me, e in quel caso lo avrei interrogato fino allo svenimento per sapere anche il più piccolo dettaglio, o voleva parlassi di lui a Fine.
“Che ne dici dell’amico di Bright?” cercai di indirizzare la conversazione verso terreni più fruttuosi.
“Non saprei” Fine alzò svogliata gli occhi dalla sua rivista e dopo averlo individuato nella sala alzò entrambe le spalle. Dopo qualche secondo si voltò verso di me con fronte aggrottata e sguardo sospettoso.
“Pensavo fosse Bright l’amore della tua vita”.
“Ovviamente! Cosa vai a pensare?! Tu piuttosto cosa stai leggendo?” celando in modo magistrale il mio misero fallimento, le rubai la rivista di mano alla ricerca di un qualsiasi argomento di conversazione. Il cielo dovette ascoltarmi, perché quel che mi ritrovai davanti era stato scritto giusto per me. Come in ogni rivista per adolescenti che si rispettasse, vi era un test. Il fato volle quel test fosse sull’anima gemella.
“Io adoro i test! Pronta?”
“Rein, davvero?”

“Hai di meglio da fare?”
Fine non rispose e io mi schiarii la voce con fare solenne.
“E' il vostro primo appuntamento. Cosa preferisci: cioccolatini, fiori o gioielli?
“Rein...”
“Allora? A, B o C?"
 

 
Profilo B “l’atleta dal cuore d’oro”:
“Il tuo ragazzo ideale ama lo sport e l’aria aperta, esattamente come te! Appuntamento ideale? Una bella camminata in montagna o una maratona!
Cosa ancora più importante entrambi lavorate bene in squadra! Il tuo "lui" nfatti non è solamente un grande atleta, ma è buono e altruista! Ama stare in gruppo e trasmette sempre allegria!
Tutti lo adorano, ma lui ha occhi solo per te.

Insieme formate il team perfetto!”
 
Avevo tanto lavoro da fare.
Shade era il ragazzo più pigro, individualista e lunatico che avessi mai conosciuto e non sarebbe stato facile trasformalo in un atleta dal cuore d’oro.
“Ci hanno proprio preso stavolta, vero?” sprofondai il viso nei palmi della mani annuendo a malapena.
Avevo tantissimo lavoro da fare.
Che disperazione.
Dovevo prendere la situazione in mano e al più presto.
Per Bright ero solo diversa, Fine non aveva calcolato il nuovo look di Shade neanche di striscio e non avevamo ancora un piano di azione per l'imminente uscita a quattro.
Urgeva una riunione strategica e al più presto.
 
A Shade [13:34]
[Casa mia dopo scuola]
...
Da Shade [13:36]
[È una proposta indecente?]
A Shade [13:36]
[Ti piacerebbe]
 
 
 
 

Chiedo perdone per i tempi biblici e ringrazio tantissimo per le recensioni allo scorso chap!
Devo ancora finire di rispondere, ma ce la farò!
Ho dimenticato di spiegare il perché a Bright piacciano le "bad girls": volevo in un qualche modo inserire questo sua attrazione per il "lato oscuro" visto che nel cartone diventa per un periodo cattivo, giusto? ;P
Grazie mille per aver letto e alla prossima!
 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***



Glicine
significa Amicizia

 
 
 
Sopportare Rein a scuola era fattibile. Ero abituato al suo comportamento altezzoso e snob, alimentato da quel tappeto rosso steso ovunque andasse o da quel suo fare da miss perfettina.
Doverla gestire anche al di fuori era tutta un’altra storia.
Sembrava completamente a suo agio seduta accanto a me in macchina, mentre mangiava del cioccolato trovato nel cruscotto senza troppi complimenti e, con mani sporche, cambiava stazione alla radio. Si era appropriata del mio tempo, della mia musica e del mio cioccolato senza preoccuparsi neanche una volta di chiedere il permesso.
Ero dovuto passare a prenderla in un vicolo lontano dieci minuti a piedi dalla scuola per evitare sguardi indiscreti. Sapevo di stonare con l’intera immagine che vendeva di sé, ma non pensavo sarebbe arrivata a tanto per non farsi vedere con me.
Come se questo non fosse bastato, non aveva fatto altro che blaterare sciocchezze sull’uomo perfetto e come avessi tanto, “infinito” per citarla, lavoro da fare.
All’ennesima lamentela su come ero ben lontano dal prototipo di ragazzo ideale per Fine, spensi la radio esasperato e inchiodai bruscamente davanti a un semaforo rosso.
“Ehi! Mi piaceva quella canzone!”
Piaceva anche a me, dannazione!
“Smettila di parlare come una macchinetta! Che diavolo è cambiato da stamattina?”
Ignorandomi completamente Rein riaccese la radio e io, per ripicca, la spensi.
Allungò il braccio per rifarlo, ma le afferrai subito il polso bloccandola.
“Quanto sei noioso” si lamentò cercando inutilmente di raggiungere il pulsante allungando le sue dita affusolate e smaltate di blu.
“Principessa, vuoi dirmi cosa ti prende? In poche parole, tre al massimo, se possibile”.
Rein continuò a contorcersi per liberarsi dalla mia presa ed esasperato le lasciai il polso.
“È verde, genio”.
La sua frase fu subito accompagnata da un colpo di clacson alle mie spalle e fui costretto a distogliere lo sguardo per puntarlo sulla strada. Naturalmente non passarono neanche trenta secondi prima che riaccese la radio.
Qualsiasi battaglia contro quella donna era persa a priori.
Rimanemmo in silenzio per lunghi secondi, con canzoni che si susseguivano una dopo l’altra in sottofondo. Fu lei a fare il primo passo, abbassò il volume voltandosi con un’espressione scocciata verso di me.
“Shade posso farti una domanda: ti definiresti mai un atleta dal cuore d’oro?”
Per poco non tamponai la macchina davanti, frenai giusto in tempo e con la coda dell’occhio vidi Rein sobbalzare sul sedile mentre con una mano si aggrappava alla portiera.
“Un che?” sputai fuori decisamente confuso.
“Atleta dal cuore d’oro! Lasciami rispondere per te, perché, con tutto il rispetto, penso di essere un’esperta in materia: no! Non lo sei per niente!” la sua voce si fece incredibilmente acuta e cominciò a gesticolare e a saltellare su e giù dal sedile.  
“Sono più le lezioni di motoria che hai saltato per prenderti cura di quella tua stupida serra che quelle che hai frequentato. Fumi! Non esattamente quello che farebbe un grande atleta! E vieni sempre scelto per ultimo a ginnastica e vuoi sapere perché?”
Ahimè, lo sapevo benissimo il perché, ma Rein era partita in quarta e non mi diede neanche il tempo di rispondere.
“Te lo svelo io: perché hanno tutti paura di te dopo quell’incidente con Benjamin Williams”.
Benjamin fottuto Williams, bei ricordi.
Rein sembrava essersi calmata, ma io la conoscevo bene. Sarei stato un illuso a pensare che la tempesta era finita: aveva assottigliato gli occhi e incrociato le braccia al petto, due bruttissimi segni.
“In mia difesa Benjamin Williams è un odioso bastard-” 
“Hai mirato dritto in faccia”.
“E se anche fosse?”
“Gli hai rotto due denti, Shade”.
“Due? Ero sicuro fossero tre”
“Shade! Non è quello che un atleta dal cuore d’oro farebbe!”
Sì, era decisamente furiosa e no, non aveva apprezzato la mia sottile ironia. Mayday! Mayday!
Dovevo calmarla, una Rein arrabbiata non mi era di nessuno aiuto e non giovava al mio nascente mal di testa.
“Non vedo dove sia il problema” iniziai cauto “Lo sapevi anche prima che ci mettessimo d’accordo per questo assurdo piano”.
Rein sembrò perdere l’uso della lingua tutto d’un colpo. La macchina cadde nel più totale silenzio e io ormai arrivato nella sua via parcheggiai con cura prima di voltarmi verso di lei.
“Allora?”
“Io e Fine abbiamo fatto un test oggi e il profilo della sua anima gemella corrisponde a quello di un atleta dal cuore d’oro” parlò alla velocità della luce con lo sguardo puntato in alto. Terminò con uno sbuffo degno di una bambina di cinque anni e timidamente cercò il mio sguardo, probabilmente spaventata dalla mia reazione.
“Un test? Uno di quegli stupidi test su giornalini per ragazz–”
“Lo so! Lo so!” urlò interrompendomi e agitando entrambe le mani davanti a me “Ma ho realizzato che ci sono tante cose su cui dobbiamo lavorare e che cambiare il tuo aspetto non basta”.
Rimasi in silenzio, non molto a mio agio con quell’ultima sua frase. Lo avevo saputo fin dall’inizio che avrei dovuto cambiare per conquistare Fine, in fondo era l’intero obiettivo di quella esasperante collaborazione, ma c’era una parte di me che ancora si rifiutava di accettarlo, che gridava a gran voce che se io e Fine eravamo fatti l’uno per l’altra, il vero me stesso sarebbe bastato.
Rein aprì la portiera, ma prima di uscire mi diede un leggero colpo sulla spalla.
“Forza, andiamo.  Spero mamma se ne sia già andata”
“Non vuoi presentarmi a mammina?” scherzai cercando di tornare un po’ in me. Ero decisamente più a mio agio a far quel tipo di cose. Istigare Rein era facile, familiare, decisamente da Shade.
“Fidati, sarebbe imbarazzante per entrambi”.
Non che avessi davvero voglia di conoscere sua madre o suo padre. Sapevo perfettamente cosa mi aspettava: occhiate dall’alto in basso, dare del lei, falsi sorrisi e polo bianche.
Ci incamminammo verso quella che doveva essere la casa di Rein: una lussuosa villa a tre piani in un bel quartiere residenziale. Se dovevo essere onesto, nel mio immaginario me l’ero sempre immaginata più grande. La prima volta che avevo visto casa sua, dopo quel fatidico pomeriggio passato al centro commerciale con lei, ne ero quasi rimasto deluso. Mi ero sempre immaginato un grande cancello e un lungo viale.
“Shade, dove stai andando?”
Mi bloccai immediatamente e quando mi voltai Rein mi guardava curiosa. Con le chiavi in mano aveva aperto il portone dell’edificio giusto accanto alla villa.
Mi lanciò un’occhiata decisamente confusa, ma, probabilmente convinta di aver a che fare con un caso da ricovero, non disse niente, si limitò ad alzare le spalle prima di entrare.
La seguii non ancora del tutto convinto di trovarmi nel posto giusto. Rein abitava in un condominio? La principessina viveva in appartamento?
Non che ci fosse qualcosa di sbagliato, assolutamente no, ma avevo sempre avuto un’idea ben chiara di come Rein vivesse, di che ambiente frequentasse e, piano piano, quell’immagine di stava sgretolando per lasciar spazio ad una persona che non conoscevo per niente.
Salimmo due rampe di scale in silenzio, percorremmo un lungo corridoio e finalmente ci fermammo davanti a quella che doveva essere la porta di casa sua.
Rein infilò le chiavi nella toppa e diede una veloce occhiata all’interno prima di darmi il via libera.
“Meno male! Se mamma ti avesse visto non l’avrebbe mai finit–”
“Se avessi visto chi?” una donna dai lunghi capelli rossi e, tranne per quel particolare, spaventosamente simile a Rein, comparve davanti a noi bloccando l’entrata. Aveva entrambe le mani sui fianchi e un sorrisetto di scherno sul viso, anche quello dannatamente familiare.
“Mamma! C-che piacere! Che ci fai qui? Pensavo avessi il turno” Rein provò a rimediare alla gaffe appena fatta e io rimasi in silenzio da bravo spettatore.
“Stavo giusto uscendo, ma a quanto pare hai un tempismo perfetto” sorrise di nuovo e Rein non riuscì a trattenere una grugnito infastidito.
“Vedo che abbiamo compagnia” la mamma di Rein si voltò verso di me e subito mi sentii a disagio. Non ero bravo con i genitori e nonostante quella donna sembrasse decisamente più simpatica e alla mano di come me l’ero immaginata, il suo sguardo inquisitorio non era per niente facile da sostenere.
“Mamma lui è Shade, Shade lei è mam– volevo dire Elsa”.
Rein non fece in tempo a finire la frase che Elsa mi trascinò verso di sé e mi strinse forte la mano.
“Shade! Che piacere!” ogni traccia di rimprovero era scomparsa dalla sua voce, mi guardava con occhi grandi e un sorriso felice e ancora mi ritrovai a pensare a quanto simile fosse alla figlia.
“Non dirmi che sei tu il famoso ragazzo del mistero! Per colpa tua mia figlia passa le giornata a scarabocchiare cuoricini” 
“S-scusi?”
“Mamma! Ma che dici! E non è lui!”
Elsa lanciò una breve occhiata alla figlia prima di focalizzare nuovamente tutta la sua attenzione su di me.
Certo…peccato. Sei così carino!” mi fece un occhiolino, segno che rimaneva della sua idea, e mi liberò finalmente la mano.
Ci osservò entrambi con sguardo furbo per qualche secondo prima di sorridere nuovamente. Quella donna non sembrava far altro!
“Cosa farete tu e Shade, tutti soli, questo pomeriggio?” chiese enfatizzando quel “tutti soli” più di quanto un genitore sano di mente avrebbe mai dovuto fare.
“Ripetizioni!” urlammo in coro io e Rein e il ghigno di Elsa non fece altro che aumentare.
“Ho problemi in storia e Shade si è offerto di aiutarmi” aggiunse a supporto della nostra difesa Rein.
“Com’è romantico!” la donna batté eccitata le mani e la figlia alzò gli occhi al cielo esasperata. Se la situazione era imbarazzante per me, doveva essere cento volte peggio per lei.
“Vado a salvar vite, Rein ci pensi tu a Poomo?” con un piede già fuori la porta d’ingresso soffiò un bacio alla figlia, la quale annuì silenziosa alla sua richiesta.
“È stato un piacere Shade. Non fate nulla che io non farei e non aprite agli estranei!”.
Ci fece l’occhiolino e chiuse la porta dietro di sé, lasciandoci entrambi più frastornarti di quanto avrei creduto possibile da un semplice incontro con la madre di un tuo compagno di scuola.
“Ora capisci perché speravo fosse già andata?”
“Cristallino”.
“Bright non dovrà mai conoscerla”.
E per una volta le diedi ragione.
 
 

 
 
“Che lavoro fa tua mamma?” trovai il coraggio di chiedere dopo parecchi secondi di prolungato silenzio.
La testa di Rein scomparve in una credenza per rispuntar fuori subito dopo con una bustina di cibo per animali.
“Mamma è un cardiochirurgo, vorrebbe anch’io facessi medicina, ma penso ci voglia una vocazione per un lavoro del genere… Poomo! Poomo!”.
Un grosso gatto bianco dall’aria decisamente bisbetica fece la sua comparsa non appena Rein lo chiamò. Poomo, questo doveva essere il suo nome, mi squadrò da lontano qualche secondo, per poi raggiungere la sua ciotola senza più degnarmi di uno sguardo. Perfetto, anche il gatto di Rein mi snobbava.
“Che sciocca! Dimenticavo che tu vuoi studiare medicina!” Rein si portò entrambe le mani sulle guance come se avesse ricordato la combinazione della carta di credito.
“Se hai voglia di parlare e hai qualche dubbio per mia mamma, posso chiederle di dedicarti del tempo” mi sorrise prima di piegarsi a terra per riempire la ciotola. Le lamentele del gatto erano diventate troppo forti per essere ignorate.
Decisamente non abituato a quel tipo di gentilezze da parte sua decisi di sgattaiolare via per alleggerire il mio disagio e mentre Rein dava da mangiare al suo adorabile animale domestico, cominciai a guardarmi intorno. L’appartamento non era particolarmente grande e decisamente più disordinato di quanto mi sarei aspettato da una tipa come Rein, ma c’era un qualcosa di speciale in ogni stanza. Qualcosa che lo rendeva vissuto e confortevole, vi regnava un’atmosfera rassicurante. Era stato arredato sui colori dell’arancione, un grosso camino in salotto scaldava l’ambiente e tutto profumava di pulito. Non era per niente freddo o austero, il contrario di come Rein spesso appariva e mi ritrovai spaesato. Facevo molta fatica a collegare quel ambiente a lei. In fondo, quella casa era così semplice, senza pretese, tutto il contrario di Rein.
Il mio tour solitario fu interrotto dalla padrona di casa, mi fece segno di seguirla e io non me lo feci ripetere.
“Questa è la mia stanza, ma prima di entrare voglio mettere le cose in chiaro” esordì non appena fummo davanti ad una porta socchiusa con su scritto il suo nome.  
“Numero uno: non toccare niente. Numero due: non potrai usare nessuna informazione al suo interno per ricattarmi. Numero tre: l’ho già detto di non toccare niente?”.
“Come se morissi dalla voglia di vedere la tua stanza!”.
Ma chi diavolo volevo prendere in giro? Non ero sembrato convincente neanche a me stesso. Era logico che non vedevo l’ora di vedere la sua stanza e scoprire i suoi più torbidi segreti! Insomma, la camera da letto di una persona era un po’ come il suo santuario segreto.
Alzai gli occhi al cielo fingendomi esasperato e Rein per un secondo esitò, poi finalmente aprì la porta.
Mi bastò fare un passo perché tutto urlasse il suo nome. La sua camera era completamente diversa dal resto della casa, non vi era nulla di arancione, solo tanto lilla, azzurro e bianco. Era semplice, ma elegante, profumava di fiori e… Rein. Come mi aspettavo, non vi era una virgola fuori posto, tutto era doveva essere. Era come una piccola oasi firmata a suo nome.
Vi era un letto matrimoniale al centro, con le coperte piene di ricami e fantasie floreali che sembrava incredibilmente morbido. Un grosso tappetto azzurro tenue ricopriva in legno chiaro del pavimento e sulla parete opposta alla porta vi era una scrivania e un’alta libreria piena zeppa di libri.
Evidentemente Rein leggeva, e anche tanto.
Mentre io analizzavo ogni piccolo particolare, lei buttò la borsa con i libri sulla scrivania e pescò dei vestiti dall’armadio.
“Vado a cambiarmi, questi pantaloni mi stanno uccidendo! Torno subito, tu non tocc–”
“Lo so, ho capito!” mi lanciò uno sguardo preoccupato prima di sparire in quello che doveva essere un bagno comunicante con la stanza.
Immediatamente camminai verso la libreria: ero curioso di sapere che libri leggesse. Quel giorno si stava rivelando pieno di sorprese.
Rein amava leggere? Davvero? Mi aspettavo di trovare libri smielati su vampiri e licantropi, invece quel che trovai fu una collezione davvero fornita di classici e, cosa ancora più sorprendente, romanzi di horror e di satira.
Come se non fossi già completamente basito, sulla scrivania troneggiava aperto il libro sull’interpretazione dei fiori. Sì, quello che mi aveva fatto fare una figuraccia davanti a Fine, era aperto sulla pagina del Glicine.
Rein lo stava leggendo davvero e con molta attenzione, a giudicare dal numero di post-it che spuntavano da ogni dove.  
Proprio accanto al libro riposava la sua borsa di scuola, una rivista dai colori sgargianti spuntava dall’apertura. Il titolo “Come perdere dieci chili mangiando” subito mi fece capire di quali argomenti d’alto livello culturale doveva trattare. Cosa però più importante, avevo finalmente trovato la fonte della stranezza di Rein, perché quella non era una semplice rivista, ma la rivista.
Guardai prima a destra e poi a sinistra e senza più esitazione la presi e cominciai a sfogliarla.
“A proposito del test… tu l’hai fatto?” le domandai nonostante fossi al novantanove percento sicuro della risposta.  
“Non farei mai uno stupido test sull’anima gemella! Per chi mi hai preso? E poi non ci azzeccano mai!” la sua voce mi raggiunse ovattata da dietro la porta. Chiaramente la risposta era sì.
Dopo un articolo sulle ultime teen-star del momento e un altro su come eliminare le doppie punte (sorprendentemente interessante) finalmente trovai la pagina del test.
Come previsto, era stato fatto più volte: se i cerchi rossi erano le risposte di Fine, le x blu dovevano appartenere a Rein. L’avrei presa in giro fino alla morte! Sommai veloce le sue risposte e con lo sguardo cercai il profilo corrispondente.
Il tenebroso solitario” non esattamente la tipologia di ragazzo che più mi aspettavo.
“Il tuo uomo ideale non è tipo da confusione e chiacchiericcio. All’inizio potrebbe risultare burbero e scontroso, ma sotto sotto siete fatti l’uno per l’altra. L’inizio della vostra relazione non sarà facile, ma scoprirete di essere più compatibili di quanto pensiate. Il tuo lui preferisce i posti tranquilli e ti sorprenderà con lunghe conversazioni a tarda notte. Sotto quell’aria da duro, non saprebbe mai dirti di no. Morale? Le apparenze ingannano!”.
Rimasi per un attimo perplesso, rilessi quelle poche righe per altre due volte e fui obbligato ad ammettere che il tutto era decisamente meno divertente di quanto sperassi. In realtà quella descrizione era stranamente familiare e, ironia della sorte, era la cosa più possibilmente lontana da Bright.
La porta del bagno si aprì all’improvviso e io subito rimisi la rivista a posto, voltandomi con il sorriso più affabile del mio repertorio.
Rein, ancora ferma sulla soglia del bagno, indossava ora dei semplicissimi pantaloni della tuta e una larghissima felpa le cui maniche erano state arrotolate fino al gomito. Non l’avevo mai vista indossare qualcosa che non fosse un minimo formale. Sembrava più piccola e decisamente meno spaventosa vestita come una persona normale.  
“Shade tutto bene? Mi sembri un po’ strano. Sei in una casa di sole donne, potresti uscire con grande voglia di piangere, di mangiare gelato e ormoni instabili, ma stai tranquillo, gli effetti spariscono dopo qualche ora”.
“Divertente, ora possiamo metterci al lavoro?” dannazione, ora le sue battute mi facevano anche ridere! Cercando di restar impassibile cercai di sviare il discorso verso argomenti più produttivi. Stavo passando decisamente troppo tempo con Rein e non vedevo l’ora che tutto quello finesse. Perché noi ci sopportavamo, ci detestavamo con tutto il cuore… giusto?
“Certo, ho fatto una lista: le trecentoventitrè cose che devi sapere se vuoi conquistare la mia migliore amica, ovvero come far cascare Fine ai tuoi piedi” tirò fuori da chissà quale tasca una foglietto tutto stropicciato e lo lisciò più volte davanti ai miei occhi.
“Fai schifo con i nomi”.
Rein mi lanciò un’occhiataccia, ma non demorse e dopo essersi schiarita la gola cominciò a leggere.
“Numero uno: Fine adora ogni tipo di dolce, tranne quelli al limone e alle carote. Li detesta. In realtà detesta ogni tipo di verdura, ora che ci penso. La regola di base è più cioccolato c’è meglio è e come darle torto? Se vuoi conquistarla, soddisfa il suo stomaco”.
Spalancai la bocca basito e la guardai come se le fosse appena spuntata una seconda testa. Avevo chiesto io di metterci all’opera, ma non pensavo mi avrebbe tirato fuori una lista lunga quanto il codice civile.
“Non vorrai elencarmi tutti i trecentoventitrè punti, vero?”
“Numero due: non ama i film horror. Niente in realtà che possa farle paura, è una gran fifona”.
Rein faceva davvero sul serio. Disperato mi tolsi il capello per passar un mano tra i capelli e cominciai a vagare per la stanza mentre lei continuava a leggere dalla sua lista.
“Numero tre: Fine ama far sport. I suoi sport preferiti sono il calcio, il tennis, per non dimenticare la pallavolo e il …”
Mi buttai a peso morto sul letto e mi copri la testa con un cuscino (che non potei far a meno di notare profumava di Rein), rassegnandomi al mio triste destino.
Sarebbe stata una lunghissima giornata.
 

 
“Rein non penso proprio che sapere chi fosse il suo maestro preferito in seconda elementare mi possa aiutare. I tuoi consigli hanno smesso di essere utili verso il centocinquantesimo punto”.
Rein alzò finalmente la testa dal quella sua dannata lista e mi guardò come se le avessi appena ucciso il gatto, il quale, per la cronaca, era vivo e vegeto. Mi dormicchiava accanto, spaparanzato sul letto della sua padroncina.
“Q-quindi pensi che tutto questo sia inutile? Io ho lavorato per te e questo è il tuo ringraziamento?” mentre pronunciò quelle fatidiche parole il labro inferiore cominciò a tremarle.
Perché le tremava il labbro? Non stava per piangere, vero? Allora non scherzava sugli effetti di quella casa!
Non ero bravo con le ragazze che piangevano, a dire la verità non ero per niente bravo con le ragazze in generale, soprattutto non con Rein.
“No!” mi affrettai ad aggiungere “Mi sei stata utilissima e penso proprio porterò quella lista a casa con me per studiarmela per bene” ovvero bruciarla “Ma ora penso sia meglio parlare di Bright, che ne dici?”
Rein si aprì in un grande sorriso e io tirai un sospiro di sollievo, complimentando con me stesso. Ero riuscito ad evitare una crisi in modo magistrale.
Guarda e impara vecchio Shade, guarda e impara.
Si alzò dalla scrivania con ritrovata energia e raggiunse me e Poomo sul letto. Mi sedette davanti e subito afferrò uno dei tanti cuscini per stringerselo al petto.
“Allora?” mi chiese con occhi grandi e pieni di aspettativa. Sembrava una bimba pronta ad ascoltare la sua favola preferita.
All’improvviso mi resi conto che, sì Bright era il mio migliore amico, ma che non sarei mai riuscito a fare una lista di trecentoventitrè cose su di lui. Sapevo che tipo di ragazza gli piacesse, più o meno, ma non se preferiva il caffè con lo zucchero o senza.
“Rein io penso tu debba…” i suoi occhi si fecero ancora più grandi e cominciò a morsicarsi lenta il labbro, tutta la sua attenzione concentrata su di me.
“Sì?” sussurrò con voce bassa e piena di attesa.
La capacità di formulare un pensiero coerente sembrò abbandonarmi, mi ritrovai a fissare quelle labbra che lenta si stava torturano. Diverse ciocche di capelli erano sfuggite dalla coda e le contornavano il viso.
Rein non scioglieva quasi mai i capelli, erano sempre raccolti in complicate trecce e chignon eppure erano così belli sciolti.  
“I capelli” sputai fuori senza realizzare che cosa stessi dicendo.
“Cosa?”
“Sciolti. Dovresti tenere i capelli sciolti” cercai di suonare il più convincente possibile mentre mi davo mentalmente del cretino.
A Bright sarebbero piaciuti sicuramente i capelli sciolti. Forse. Molto probabilmente. C’era un buon cinquanta e cinquanta.
Rein si portò una mano alla testa e senza nessun preavviso tolse l’elastico che raccoglieva le sue ciocche azzurrine lasciandole libere e io, avendo ormai completamente perso la mia sanità mentale, mi ritrovai a fissarla con la gola secca e il battito accelerato. Sì, stava decisamente meglio con i capelli sciolti, ma quel pensiero doveva subito tornare da dove era venuto.  
“Hai qualche altro suggerimento?”.
Il vero problema di Rein è che Bright non la vedeva come nient’altro che un’amica, doveva solo fargli capire che era interessata e farlo nel modo più chiaro possibile, perché, per tutto l’affetto che provavo per Bright, non era altro che un gran tontolone.
“Tu e Bright siete perfetti l’uno per l’altra: vi piacciono le stesse cose, credete nello spirito scolastico, nel riciclaggio e siete entrambi dei saputelli irritanti. Sareste la coppia più noiosa che sia mai esistita. Devi solo riuscire a catturare il suo interesse”.
Rein sembrò pensarci su, abbassò lo sguardo e comincio a giocherellare nervosa con una ciocca. Quando rialzò gli occhi aveva le guance rosse e lo sguardo timido. Un giorno di questi mi avrebbe fatto impazzire, come poteva passare dallo sputare ordini e insulti a guardarmi così.
“Dovrei sedurlo?” ogni mio tentativo di mantenere un certo distacco andò in fumo. Il mio cuore perse un battito e non riuscii a trattenere un sorriso intenerito a quella domanda.
“È un’idea. Devi tenerlo un po’ sulle spine. Far qualcosa che non si aspetta, così, per riaccendere un po’ l’interesse” Rein sembrava fremere dalla voglia di prendere appunti ed ero sicuro stesse memorizzando ogni mia parola.
“Non preoccuparti, siamo a buon punto”.
A quelle parole le si illuminarono gli occhi. Strinse il cuscino forse a sé e mi sorrise furba.
“Bright ti ha detto qualcosa su di me oggi?” era incredibilmente brava a manipolare la conversazione per raggiungere i suoi obiettivi.
“Era senza parole e io da bravo amico gli ho suggerito l’aggettivo che stava cercando”
“Ovvero?”
“Potrei avergli detto che oggi eri dannatamente sexy”
“E lui?” Rein mi guardò sospettosa inarcando appena un sopracciglio.
“Bright non ha potuto non darmi ragione”.
Meno di un secondo dopo, Rein era tra le mia braccia.
Certo, l’urlo che aveva tirato mi aveva distrutto entrambi i timpani, ma in quel momento non riuscivo a concentrarmi su nient’altro che sul suo abbraccio stritolante.
Stranamente però, apprezzai quel ringraziamento più di quanto avrei mai potuto prevedere.
All’improvviso si staccò da me e mi guardò con gli occhi spalancati e le guance che andavano a fuoco.
“Scusa, mi sono lasciata prendere dall’entusiasmo” azzardò un sorriso e non potei far altro che sorriderle a mia volta.
“Non è successo nulla, ma che non si ripeta. La nostra relazione è strettamente professionale” scherzai e subito mi ritrovai con un braccio dolorante dopo un pugno ben assestato.
Rein si alzò con qualche difficoltà dal letto e raggiunse la borsa con i libri che ancora riposava sulla scrivania.
“Hai già studiato per il test di matematica di domani?” mi chiese voltandosi con il libro di suddetta materia in mano.
Come avrei potuto studiare per un test che mi ero dimenticato di avere?
La mia faccia dovette tradirmi perché Rein scosse la testa rassegnata mentre riprendeva il suo posto accanto a me.
“Vuoi una mano?” un sorrisetto che la sapeva decisamente troppo lunga le si disegnò sulle labbra.
“Ho qualche dubbio su una o due cose” non le avrei mai dato la soddisfazione di sapere che la mia vita dipendeva dalla sua capacità di spiegarmi gli integrali.
Come se stesse aspettando quella risposta da secoli, Rein aprì immediatamente il libro e cominciò a parlare di quali argomenti avremmo trattato per primi e fu in quel momento che ebbi un’illuminazione.
Solo allora riuscii ad ammettere a me stesso di essere stato in torto, almeno in parte.
Perché Rein era una ragazza viziata, snob, altezzosa, logorroica, maniaca del controllo e decisamente fastidiosa, ma su molte cose mi ero sbagliato.
Aveva cercato di combattere l’evidenza sin dal primo momento in cui avevo messo piede in quella casa.
E sapevo che lei non ci vedeva come amici, e che pensare di essere una qualsiasi cosa diversa da due persone che si sopportavano a malapena e che lo facevano solo per fini comuni era assurdo, ma era così che mi sentivo in quel momento.
Seduto sul letto di un’amica, circondato dal suo profumo, dalla sua quotidianità e dal suo gatto scorbutico, mentre lei mi aiutava in matematica.
E dovevo farglielo sapere, in un qualche modo. La interruppi e lei alzò gli occhi dal libro, mi guardò confusa piegando appena la testa di lato.
“Grazie, Rein”.
Il sorriso che mi regalò mi fece capire che, forse, lo stavamo diventando davvero, amici.




 






Shade filosofeggia. Già.
Ringrazio tantissimo chi ha commentato lo scorso chap e mi scuso per i millemila orrori, ho riletto ma so che dovrei farlo almeno altre tre volte ç-ç
Mi scuso anche per il ritardo, oltre al fatto che sono pigra e incredibilmente inconcludente, scrivere questi capitoli mi prende davvero tanto tempo!
Questo è pochino più lungo del precedente e mi rendo conto la storia procede a piccoli passi, ma ne sono abbastanza soddisfatta perchè ho inserito TUTTTTTO quello che volevo inserire, dalle aspettative sulla casa di Rein e suoi i genitori che aveva Shade al fatto che vuole studiare medicina.
Quindi yay.
Ultima cosa, visto che in questa storia Rein e Fine non sono sorelle, ho deciso di divedere i genitori in questo modo (Elsa è la madre di Rein e solo di Rein :P).
Spero piaccia e un grande bacione a tutti!
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


 
 
  Salice significa
Pazienza
 
 
 
 
 
Ti si vedono le mutande
Il mio primo appuntamento con Bright iniziò con queste esatte parole. Ovviamente proferite dal suo migliore amico, ovvero la mia personalissima pena terrestre per entrare in paradiso.
“E tu non guardare” mi abbassai la gonna del vestito senza batter ciglio, i miei occhi puntati all’orizzonte, alla ricerca del mio bel principe.
“Difficile non farlo quando il tuo sedere è a dieci centimetri dal mio viso.”
Mi allontanai immediatamente lanciandogli un’occhiataccia. Non avevo di certo indossato quel vestito microscopico per lui, non si meritava affatto nessuna panoramica del mio fondoschiena. Seduto sul marciapiede a gambe larghe continuò a fumare con tutta tranquillità la sua sigaretta per niente turbato dal mio sguardo furioso. 
“Per una volta comportati bene… per favore” la mia supplica non ottenne risposta se non tanti piccoli anelli di fumo.
“Tu proprio non vuoi capire! Questa è la serata più importante della tua e, soprattutto, della mia vita” mi piazzai davanti a lui, mani sui fianchi e un’espressione serissima sul volto. 
“Se stasera va male, è finita. Niente seconde occasioni. Bright è l’amore della mia vita, l’uomo che sposerò e il padre dei miei figli – niente smorfie! – non sarai tu a rovinare questa serata. Quindi, lo dico ora e non intendo ripeterlo mai più: un solo passo falso e sei morto”.
Proferii ogni singola parola il più lentamente possibile così che quel semplicissimo concetto entrasse nella sua piccola testolina. Shade per risposta buttò la sigaretta a terra e, dopo averla schiacciata col piede, con tutta la calma del mondo alzò lo sguardo e lo fissò su di me. Il suo viso era serissimo e per un attimo mi illusi di avercela fatta.
E fu un attimo bellissimo.
Poi, aprì bocca.
“Il vero passo falso è stata la scelta di quelle mutande”.
 
 
 *
 
Ero appena riuscita ad afferrare il cappuccio di Shade dopo averlo rincorso per l’intero parcheggio quando in lontananza mi sentii chiamare. Subito notai la chioma magenta della mia migliore amica, la quale stava saltellando allegramente verso di noi. Bright le camminava accanto, un sorriso divertito sul volto e entrambe le mani in tasca.
Shade doveva ringraziare la sua buona, buonissima, sorte, se Bright e Fine fossero arrivati un secondo più tardi lo avrebbero trovato con molti meno capelli e un occhio nero. Mollai a malincuore la presa e indossando il mio sorriso più falso mi preparai ad accogliere i nuovi arrivati.   
Bright sembrava appena uscito da una rivista. Indossava una polo bianca che fasciava perfettamente i suoi bicipiti abbronzati, facendoli risaltare ancora di più e i suoi capelli dorati risplendevano alla luce del tramonto. Le mie ginocchia si fecero improvvisamente deboli e il mio stomaco si capovolse. Altro che farfalle, avrei vomitato anche quelle se non mi fossi data una calmata.
Una gomitata nella milza da parte del mio vicino interruppe quella piccola crisi esistenziale riportandomi con i piedi a terra.  
“Metodi più delicati sono decisamente più apprezzati” sussurrai senza mai smettere di sorridere.
“Attenta, hai un po’ di bava sul mento”
Immediatamente portai una mano alla bocca trovandola perfettamente asciutta. Shade ridacchiò beffardo e io cominciai ad appuntarmi mentalmente più modi possibili per farlo soffrire.
Soffocarlo nel sonno era esagerato? La mia domanda stava ancora cercando risposta quando mi sentii travolgere da un piccolo terremoto dai capelli magenta. Fine mi si buttò al collo stringendomi forte a sé e facendomi dimenticare completamente di Shade. Terminato l’abbraccio si allontanò di un passo e mi squadrò dalla testa ai piedi.
“Sei bellissima con questo vestito! Non è bellissima, Bright?”
Ecco a cosa servivano le migliori amiche: a metterti in imbarazzo e a farti desiderare di non essere mai nata.
Bright sbatté più volte le palpebre e un leggero rossore gli colorò il viso.
“Io? Sì! No! Cioè, sì! Non che di solito non lo sia. Perché lo è. Voglio dire, lo è sempre. Cioè-”.
Ecco a cosa servono le migliore amiche parte due: a far ammettere alla tua cotta che ti trova bellissima.
“Entriamo a comprare i biglietti?” Shade lo interruppe, probabilmente impietosito nel vedere il suo miglior amico ridotto in quello stato. Lo afferrò per un braccio e lo trascinò dentro scuotendo rassegnato la testa.
Non appena fummo sole sia io che Fine scoppiammo in uno squittio decisamente imbarazzante, una mamma con un bambino si allontanò di qualche metro guardandoci storto.
“Hai visto la sua reazione? Non pensavo di metterlo così in imbarazzo” urlò prima che potessi farlo io.
“Ti è piaciuto però”
“Da morire” ridacchiò contenta battendo eccitata le mani. Fine poteva essere incredibilmente sadica quando voleva.
“Sei malefica”
“Lo faccio solo per te!” mi fece l’occhiolino ed entrammo anche noi. I ragazzi erano ancora in fila e io Fine ci dirigemmo verso il bar alla ricerca di popcorn.
“Sono contenta che Shade sia qui, almeno non dovrò fare da terza incomoda tutta sola” tirò un lungo sospiro e afferrò una manciata di popcorn da una delle due buste giganti che avevo appena comprato e che con un equilibrio magistrale tenevo in mano.
“A proposito di questo, dopo il film...”
“Io e Shade spariremo. Non preoccuparti, conta su di me” mi sorrise furba e finalmente prese una delle due buste prima che le facessi cadere entrambe rovinosamente a terra.
“Shade naturalmente non sa niente, quindi-”
“Mi inventerò una scusa, abbi un po’ di fiducia donna!” e ancora si portò una manciata di popcorn alla bocca senza mai smettere di sorridere. Dovevo aver fatto qualcosa di incredibilmente nobile in una vita passata per meritarmi Fine. Non solo mi avrebbe permesso di passare del tempo da sola con Bright, ma mi avrebbe aiutato a mantenere la mia parte del patto passandone lei con Shade.
“Te l’ho già detto che sei la migliore amica del mondo?”
“Solo un migliaio di volte. Ma continua, non sono mai abbastanza” se non avessimo avuto entrambe un enorme busta piena di popcorn tra le mani l’avrei abbracciata forte. Dovetti limitarmi ad un colpetto alla spalla, che lei imitò subito con decisamente più forza.
“Ehi ragazze, abbiamo i biglietti! Pronte ad entrare?”
“Prontissime!” risposi con la spalla ancora dolorante e ritrovata energia.
Avevo pianificato quel appuntamento nei minimi dettagli e ora che Fine era dalla mia parte tutto sarebbe andato liscio come l’olio.
Indossavo l’outfit perfetto, avevo passato ore a sistemarmi i capelli ed ero pronta a condividere i miei pop-corn con Bright con annesso romantico tocco di dita. Nessuno sarebbe riuscito a rovinarmi quella serata.
Neanche Shade.
Soprattutto Shade.
Tutto sarebbe stato perfetto.
 
 *
 
Tragedia.
Una vera e propria tragedia.
Seduta su uno dei tanti tavolini disposti all’entrata aspettavo silenziosa il ritorno di Bright dal bagno e di Fine e Shade dal banco di caramelle. Quel tavolo era una tentazione enorme, avevo voglia di sbatterci la testa fino a dimenticare l’ora appena passata. 
Come previsto il film era stato pieno di colpi di scena e di azione e, come previsto, mi ero ritrovata a saltare più volte sulle sedia.
Quello che non avrei potuto prevedere era che il mio corpo, automaticamente, avrebbe deciso di cercare conforto non nelle braccia del mio futuro marito, ma in quelle di Shade.
Sì. Shade. Davvero.
Mi ero ritrovata stretta a lui, il viso premuto contro il suo petto, gli occhi serrati e le mani chiuse a pugno intorno alla sua maglietta.
Cosa ancora peggiore, Shade mi aveva abbracciato. Non mi aveva respinto o deriso, con il braccio intorno al mio corpo mi aveva accarezzato lentamente i capelli e stretto forte. E per lunghissimi minuti non ero riuscita a trovare la forza di spostarmi, mi ero sentita così sicura e protetta che la mia mente non era riuscita a processare la gravità della situazione.
Solo seduta nuovamente nel mio sedile, con il profumo di Shade ancora tutto intorno e il cuore che piano piano tornava a battere regolarmente mi ero accorta di quello che era successo. Grazie a qualche forza mistica, né Bright né Shade erano stati minimamente turbati dalla cosa, totalmente catturati dallo schermo.
Io invece avevo passato il resto del film incollata al sedile nel tentativo di non fare altri exploit imbarazzanti. Avevo perso un’opportunità d’oro con Bright e fatto una figuraccia con Shade.
La risata di Fine interruppe ogni mio tentativo di amnesia autoinflitta. Ridacchiava contenta con in mano un sacchetto immenso di caramelle. Come avevo detto? “Se vuoi conquistarla, soddisfa il suo stomaco” e Shade sembrava avermi preso alla lettera.
“Rein io e Shade abbiamo esattamente gli stessi gusti!” esclamò una volta davanti a me sventolandomi sotto il naso il sacchetto pieno di caramelle.
Alzai curiosa un sopracciglio e incrociai le braccia al petto. I trecentoventitrè punti erano serviti a qualcosa, non vedevo l’ora di sbatterglielo in faccia una volta soli.  
“Non ho dovuto litigare come faccio ogni volta con te e le tue disgustose liquirizie rosse” il sorriso sul suo volto era enorme e non riuscii a non sorridere a mia volta davanti a tanta felicità per qualche caramella.
“Le ripetizioni sono servite a qualcosa” commentai divertita con gli occhi puntati su Shade, il quale non aveva fatto altro che evitare il mio sguardo per tutta la serata dopo la sua grande uscita sulle mie mutande.
“Come scusa?” chiese subito Fine mentre staccava la testa ad un coccodrillo blu.
“Rein sta parlando del film! L’epoca in cui è ambientato è proprio quella che abbiamo ripassato l’altro giorno” si affrettò a spiegare Shade trovando una spiegazione che aveva quasi senso.
“Vi è piaciuto il film?” Bright comparve alle mie spalle sorridente come sempre.
“Meglio il libro” io e Shade rispondemmo all’unisono e subito ci scambiammo uno sguardo misto tra il sorpreso e il preoccupato.
Leggevamo gli stessi libri?!
“A me è piaciuto molto! Soprattutto l’investigatore” a quella uscita di Fine non riuscii a trattenere un sospiro tra l’affranto e il disperato. L’investigatore era un vero tontolone, non ci sarebbe stata una storia senza l’aiutante!
“Il personaggio più importante è però l’aiutante” sbattei più volte le palpebre e ci misi un attimo a processare il fatto che non era stata la mia voce a parlare.
“A me sembrava un personaggio abbastanza marginale”
Non preoccuparti Bright, quando saremo sposati ti educherò io per bene!
“Scherzi? Salva l’investigatore una miriade di volte! E cosa più importante non se ne prende mai il merito” intervenni a quel punto non potendo più trattenermi. Shade alzò entrambe le sopracciglia sorpreso. Quanto avrei voluto dargli una pacca sulla schiena e scuotere con fare solenne la testa al fatto che avevamo finalmente trovato una cosa su cui eravamo d’accordo.
“Quindi il film non vi è piaciuto?” chiese Fine sempre più confusa e con il sacchetto di caramelle quasi vuoto.
“Scherzi?! Tornerò sicuramente a vederlo una seconda volta”
“Appena esce il dvd è mio!”
Parlammo uno sopra a l’altro. La mia bocca si spalancò più di quello che pensavo umanamente possibile e Shade indietreggiò addirittura di un passo per la sorpresa.
La situazione si stava facendo davvero inquietante. Essere d’accordo non su una, ma ben due cose era davvero troppo, avevamo sicuramente infranto qualche legge secolare dell’universo e saremmo stati presto puniti.
Era decisamente tempo di separarci.
Mi schiarii la gola e cercai di catturare l’attenzione di Fine, la quale sembrava molto combattuta nella scelta tra una bananina o un orsetto gommoso.
“Fine non dovevi fare quella cosa” esclamai dal nulla cercando di trasmetterle il messaggio forte e chiaro.
“Cosa? Quale cosa?” no, Fine non era mai stata un genio.
“Quella cosa che volevi chiedere a Shade di fare con te” Shade e Bright cominciavano a guardarmi come se mi fosse spuntata una seconda testa. Volevo bene a Fine, ma in quel preciso instante avrei tanto desiderato rubarle tutte le caramelle e buttarle fuori dalla finestra davanti ai suoi occhi.
“Ah! Quella cosa! Giusto… Shade devo assolutamente tornare a casa”.
Rimasi senza parole, completamente sconvolta mentre guardavo inerme la mia migliore amica scavarsi una fossa sempre più profonda.
“Subito. Dobbiamo andare, perché… Rein mi ha fatto ricordare di avere… una cosa da fare. Tu sei qui in macchina, non potresti darmi un passaggio?” Fine non era brava a dire le bugie o a inventar scuse, ma i suoi occhioni dolci erano in grado di muovere montagne. Non che ne avesse bisogno con Shade, quel ragazzo era cotto perso, l’avrebbe seguita in capo al mondo.
“Anche io sono qui in macchina posso accomp-” Shade bloccò l’amico con una pacca sulla schiena prima ancora che potesse terminare la frase e io mi ritrovai a sorridere silenziosa davanti a tutta quella fretta di zittirlo. Se solo Bright avesse saputo quello che il suo migliore amico provava per Fine di certo non avrebbe aperto bocca.
“Tranquillo amico. Tu goditi la serata, riporto io a casa Fine. Ci pensi tu a Rein?” Bright arrossì appena e mi lanciò uno sguardo in cerca di assenso e una volta ottenuto sorrise raggiante.
“Certo, ci vediamo a scuola allora”.
I ragazzi, quanto tali, si scambiarono una serie di pugni su vari punti del corpo come segno di saluto mentre io abbracciavo stretta Fine e le sussurravo all’orecchio tutte le milioni di scuse che sarebbe potuta inventarsi.
Erano già lontani quando Bright si girò verso di me con sguardo confuso.
“Voi ragazze avete sempre così tante… cose da fare”.
 
 *
 
Erano passati quasi dieci minuti da quando Fine e Shade se ne erano andati e a parte qualche breve commento sul film eravamo caduti in un bruttissimo silenzio imbarazzante.
Presto ci saremmo ritrovati a parlare del tempo e addio grande serata.
“Quindi siamo soli” esclamai dopo qualche secondo passato a fissare il tavolino che ci divideva.
“Già soli” Bright di certo non era d’aiuto.
“Io e te”
“È quello che soli vuol dire” a quel commento desiderai con tutto il cuore d’essere nel bel mezzo di una esercitazione antiincendio. Complimenti Rein, continua a comportarti come una cretina. Non vorrai smentirti e comportarti per la prima volta nella tua vita come una ragazza normale? La normalità, in fondo, è sopravvalutata.
“… giochi ti andrebbe?”  Bright aveva parlato e dal modo in cui mi guardava sembrava proprio lo avesse fatto con me e io mi ero persa ogni singola parola persa nel mio mondo.
“Scusa?”
“Ti andrebbe di fare un salto alla sala giochi giù al piano di sotto?”
La sala giochi! Perché non ci avevo pensato io? Era il luogo perfetto per sciogliere un po’ il ghiaccio.
“Certo! Preparati a essere sconfitto!” saltai in piedi e senza aspettare un secondo di più mi diressi a passo spedito verso le scale mobili.
“Posso diventare estremamente competitivo, ti avverto”
“Non riuscirai comunque a battermi” Bright dietro di me sorrideva divertito, decisamente più a suo agio di quanto lo era pochi attimi prima.
Finalmente la serata sembrava aver preso una piega decisamente più interessante.
 
 *
 
La sala giochi era davvero stata una idea geniale. Avevo subito scoperto Bright non scherzasse.  Era incredibilmente competitivo e più volte mi ero ritrovata a regalargli un punto o due, a volte anche tre, solo per vederlo gongolare tutto felice.
In fondo, perché avrei dovuto batterlo ad uno stupido videogioco quando potevo perdere e vederlo fare buffe danze della vittoria senza nessuna vergogna di trovarsi in luogo pubblico?
“Non scherzavi quando dicevi di essere bravo in questi giochi”
“Io e Shade ci abbiamo passato una buona parte del nostro tempo da piccoli” sorrise con un velo di imbarazzo e non potei far a meno di ricambiare il sorriso. Finalmente tutto stava andando come previsto. Quella sensazione di disagio iniziale ci aveva completamente abbandonati e Bright era tornato quello di sempre.
“Che ne dici di qualche foto ricordo?”
“Foto?” Bright alzò un sopracciglio confuso e io decisi che il modo migliore per spiegarmi era mostrarglielo. Così senza aggiungere nient’altro lo afferrai per la mano e lo trascinai verso la cabina delle fototessere a pochi metri dall’ultimo videogioco che avevamo provato. Il proprietario non aveva mai avuto il coraggio di buttarla finché non era diventato un pezzo storico, poteva quasi essere definita vintage. Avevo la camera tappezzata di foto di me e Fine in quella cabina e non vedevo l’ora di aggiungere alla mia collezione una foto con Bright.
Una volta dentro mi resi conto di quanto più piccola fosse in realtà. Nei miei ricordi era decisamente più spaziosa.
“Temo che ci posto solo per uno” commentai morsicandomi appena il labbro indicando con lo sguardo il piccolo sgabello al centro del cubicolo.
“Posso uscire, non devi preocc-”
“Non fare lo sciocco, voglio una foto con te non da sola” Bright impanicato stava diventando velocemente il mio Bright preferito.
Alle mie parole sembrò tranquillizzarsi io approfittati di quella ritrovata calma per spingerlo sullo sgabello e, senza lasciargli il tempo di protestare, mi sedetti a mia volta sulle sue gambe.
“Mi sbagliavo, c’è posto per entrambi” gli feci l’occhiolino e Bright arrossì come non lo avevo mai visto fare. Era bello avere tutto quel potere sulle sue reazioni. Bastava davvero poco per metterlo in imbarazzo e nonostante non avrei dovuto abusare di quel piccolo potere magico, era così divertente metterlo in difficoltà. Io e Fine condividevamo quella piccola tendenza al sadismo.
Così, cominciai ad muovermi lenta tra le sue braccia alla ricerca dalla posizione perfetta. Ogni qual volta il mio corpo sfiorava il suo più del necessario lo sentivo irrigidirsi sotto di me.
“Vuoi davvero uscire così teso nelle foto?” commentai divertita voltandomi per guardarlo finalmente in viso.
Bright era vicinissimo, come non lo era mai stato e all’improvviso ogni parola mi morì in gola. Tutta quella spavalderia scomparve e io realizzai di trovarmi tra le braccia del ragazzo sui cui avevo fantasticato per mesi. Stranamente non ero nervosa, né agitata, solo incredibilmente intrigata, quasi ipnotizzata, da quelle labbra così vicino alle mie.
Era il momento perfetto, quello che aspettavo da sempre. Eravamo soli, io tra le sue braccia, sarebbe bastato un minimo movimento da parte di uno solo di noi perché le nostre labbra finalmente si toccassero.
Le palpebre mi si fecero pesanti e involontariamente mi sporsi appena in avanti pronta ad accoglierlo.
“R-rein….”
“Sì Bright?”
“Devi inserire i soldi”.
Neanche a dirlo, non riuscii a sorridere in nessuna foto.
 
 *
 
La serata era andata bene.
Bright si era divertito, aveva vinto ad un paio di altri giochi e infine mi aveva accompagnato a casa.  Aveva sorriso per l’intero tragitto raccontandomi della sua ultima partita di scherma, di come aveva infilzato l’avversario come uno spiedino, conquistando la medaglia d’oro. Naturalmente non aveva usato né il termine infilzato né la parola spiedino.
Mi aveva persino accompagnato alla porta di casa, come un vero cavaliere. Mi aveva ringraziato per la serata e si era congedato con un timido sorriso e la promessa di uscire ancora tutti insieme.
Allora perché se tutto era andato bene, io mi sentivo così incredibilmente insoddisfatta?
La mia mente tornava a quei pochi minuti passati nella cabina: nessun bacio, nessun momento degno d’essere raccontato a Fine davanti ad un enorme fetta di torta, nessuna dichiarazione d’amore eterno.
Forse stavo esagerando.
Dopo un discorso motivazionale su quanto era stato perfetto quell’appuntamento davanti allo specchio mentre mi lavavo i denti, ero finalmente pronta a infilarmi sotto le coperte ed essere accolta nel mondo dei sogni. Non feci in tempo a mettere un solo piede sul letto che il mio cellulare cominciò a squillare illuminando tutta la stanza.
“Che vuoi Shade?” era bastato leggere il suo nome sul display per farmi tornare alla mente il suo commento poco carino sulla mia biancheria intima.
“Stai dormendo?”
“Ti sto parlando mi sembra”
“Bene. Aprimi sono qui” e attaccò.
Ci misi qualche secondo a processare le sue parole. Guardai l’orologio e quello non fece altro che confermare il mio totale stupore. Che diavolo ci faceva Shade a casa mia nel bel mezzo della notte?
Schiacciai veloce il pulsante del citofono per aprirgli e lo aspettai davanti alla porta di casa con addosso le mie ciabatte a forme di elefante e un pigiama pieno di tanti piccoli unicorni. Doveva solo provare a fare qualche commento maligno! Lo avrei preso subito a testate. Sì, Shade aveva il particolarissimo merito di riuscir a tirar fuori il mio lato più violento.
“Che ci fai qui?” chiesi a sottovoce per evitare di svegliare qualche vicino. Non avevo assolutamente bisogno di qualche ficcanaso che riferisse a mia madre che, mentre lei si spaccava la schiena la notte in ospedale, io ricevo visite a domicilio da ragazzi adolescenti dalla dubbia moralità.
“Non riuscivo a dormire”
Poverino.
“E dovevi disturbare il mio di sonno?”
“Ho portato delle caramelle” mi offrì un sorriso poco convinto e alzò il sacchetto che teneva in mano a supporto delle sue parole.
L’osservai diffidente e incrociai le braccia al petto.
“Che tipo di caramelle?”
“Un po’ tutte. Orsetti gommosi, coccodrilli, qualche marshmallow e liquirizie rosse, le tue preferite” Aveva decisamente passato il test.
Senza rispondergli rientrai in casa e quando lui non fece nessun movimento per seguirmi voltai la testa in cerca di spiegazioni.
“Non sveglieremo tua madre?” chiese con voce incredibilmente bassa, come se si fosse appena ricordata di quel piccolo, ma terrificante, particolare.
“È in ospedale, non preoccuparti” Shade sembrò riacquistare vita e si affrettò ad entrare.
Non feci in tempo a chiudere la porta di casa che Shade era già seduto sul divano in salotto.
“Fai come se fossi a casa tua” mi sentii dire con esagerato zucchero nella voce e tutto ciò che ricevetti fu uno sguardo confuso.
Lasciamo perdere.
“Com’è andata?”
Quella domanda mi prese per un attimo alla sprovvista e così decisi di prender tempo. Rubatogli il sacchetto pieno di caramelle dalle mani mi sedetti dalla parte opposta del divano, schiena contro il bracciolo e gambe strette al petto. Per quanto mi addolorasse ammetterlo, Shade era l’unico con cui potevo parlare apertamente di quello che stava succedendo. Certo, Fine mi aveva e mi avrebbe sempre aiutato ma c’era tutta quella storia del patto che rendeva parlare di Bright con lei così complicato. Ogni volta avevo paura di parlare più di quanto avrei dovuto. Quindi, se non volevo esplodere per sentimenti repressi, dovevo aprirmi con Shade, che mi piacesse o meno.
“Bene. Penso”
“Cosa vuol dire penso?”
 “È solo l’inizio, è un po’ presto per dare un giudizio, non trovi? Con Bright sto bene. È responsabile, dolce, premuroso… è perfetto
“Però?”  il fatto che Shade riuscisse a leggermi nella mente proprio come avrebbe fatto Fine mi dava ancora più fastidio.
“Perché deve esserci un però!” esclamai esasperata azzannando l’ennesima innocente caramella.
“Ti conosco, Rein”
“Un po’ troppo, Shade”
Un lungo silenzio si fece largo tra noi. Shade mi guardava dritto negli occhi con un velo di preoccupazione misto a qualcosa che non riuscii a decifrare. Poi, all’improvviso si avvicinò a me. Sentii lo stomaco contrarsi e mi ritrovai a trattenere il respiro. Solo quando mi rubò il sacchetto dalle mani e tornò a sedersi sul suo lato del divano, il mio corpo si rilassò e lasciò andare in un lungo sospiro.
“Mi aspettavo di più” ecco, lo avevo detto.
Shade alzò appena un sopracciglio e il suo solito ghigno beffardo comparve sulle sue labbra. Non prometteva nulla di buono.
“Quindi è per questo che hai scelto di uscire quando tua madre ha il turno di notte? Volevi fare le ore piccole?”.
Le sue parole ebbero un effetto istantaneo, arrossii di colpo e Shade sorrise soddisfatto. Quando avrei imparato a non reagire a quelle sue battutine?
“Non essere sciocco! Volevo… non so cosa mi aspettavo. Forse farfalle nello stomaco, mani sudate, il cuore a mille… forse un bacio. Sì, mi aspettavo un bacio e c’è stato il momento perfetto, ma… nulla” i miei occhi si erano incollati testardi a terra, non avrei mai avuto il coraggio di dire quelle parole guardandolo.
Ancora una volta un silenzio dannatamente pesante seguì le mie parole e quando Shade lo interruppe gliene fui infinitamente grata, ancora mezzo secondo e avrei tirato fuori la storia di quando alle elementari mi ero infilata un fusillo su per il naso.
“Evidentemente non era il momento, ma sono sicuro arriverà. Non preoccuparti, gli piaci deve solo metabolizzarlo. Ha iniziato a vederti come più di un’amica, lasciagli il tempo di accettarlo”.
Quelle parole mi furono di conforto, non avrebbero curato il mio malumore e quel senso di insoddisfazione, ma Shade aveva ragione.
“E a te, Casanova? Com’è andata?” c’erano due cuori innamorati in quella stanza e se Shade era venuto da me a mezzanotte passata, accettando il rischio di rimanere chiuso fuori o, ancor peggio, di incontrare mia madre, allora voleva dire che anche lui, quanto me, aveva bisogno di parlarne.
“I tuoi consigli sono stati perfetti”
“Ma?” questa volta era compito mio psicoanalizzarlo. Shade sorrise a quella domanda ma solo per un brevissimo attimo, si sfregò il viso con entrambe le mani prima di alzarsi e cominciare a camminare avanti e indietro per la stanza.
“Non hai la sensazione di imbrogliarli?” si fermò davanti a me, gli occhi preoccupati e la mascella serrata.
“Sei sempre tu. Sapere che tipo di gelato le piace o che sport pratichi non ti rende meno autentico” e l’avrei ripetuto una, dieci, cento volte perché anche io avevo bisogno di crederci.
“E se per piacerle sarei disposto a non essere me stesso?” le sue parole aleggiarono pesanti nell’aria e io rimasi muta davanti a quel suo sguardo che quasi mi supplicava di dargli una risposta.
“Shade, vieni qui” gli feci segno di avvicinarsi e lui mi si sedette accanto. Subito gli presi entrambe le mani e lo guardai dritto negli occhi.
“Perché non dovresti piacerle?” chiesi cauta, calibrando ogni parola.
“Sono sicuro tu abbia una intera lista nascosta da qualche parte per rispondere a questa domanda” sorrisi a quella battuta e scossi appena la testa.
“Shade tutto ciò che ti ho detto, dal vestire o che tipo di dolce comprarle, sono sciocchezze. Certo, il tuo nuovo look è da urlo” Shade finalmente accennò un sorriso e io trovai nuova forza per continuare “Ma sono altre le cose importanti. È vero, sei incredibilmente lunatico, un po’ solitario e permaloso – non guardarmi così, lo sai che è vero! – ma sei un ragazzo d’oro… insomma mi hai portato delle caramelle all’una di notte come segno di pace. Chi altro lo avrebbe mai fatto?”
Bright lo avrebbe mai fatto? Il cuore mi strinse in petto e cercai con tutta me stessa di ignorare quel pensiero, Shade aveva bisogno di me non c’era tempo per i miei stupidi dubbi.
“Fine imparerà a conoscerti e quando lo avrà fatto non riuscirà a lasciarti andare”.
Shade aprì bocca per rispondere, ma la chiuse subito dopo. Mi guardò in silenzio e il mio cuore cominciò a battere sempre più forte. Poi, all’improvviso, sorrise. Un sorriso vero, tutto denti. E arrossì! Fino alle orecchie come era solito fare.
“Grazie Rein. Non me lo aspettavo”
“Sono una donna piena di sorprese, dovresti averlo capito ormai” scherzai alleggerendo un po’ la situazione. Le nostre mani ancora si toccavano e sembrammo accorgercene nello stesso istante. Ci staccammo come scottati e Shade si grattò la testa in imbarazzo.
“È tardi, forse dovrei andare”
“Sì o-”
“O?”
“O potresti restare.  Non te lo chiederei se domani avessimo scuola, ma mamma non c’è e faccio sempre fatica a prender sonno quando sono sola in casa. Potresti restare qui ancora un po’? Potremmo guardare un film, almeno finché non mi viene un po’ di sonno”.
La mia era stata una richiesta impulsiva. Odiavo quando mamma aveva il turno di notte e quella domanda era scivolata fuori prima ancora che potessi capire che cosa gli stessi chiedendo.
“Va bene”
“Va bene?” ripetei come una sciocca sorpresa da quella sua risposta affermativa.
“Sì, va bene, ma niente romanticherie strappalacrime”.
Ci misi poco a svegliarmi da quello stupore. Io e Shade litigammo per un buon quarto d’ora su quale film vedere, arrivammo persino a strapparci il dvd dalle mani (lotta che persi a priori, essendo un nano contro un gigante). Solo una volta seduta sul divano, con il sacchetto quasi vuoto di caramelle in grembo e i piedi freddi al calduccio sotto le sue cosce, lusso che mi aveva gentilmente concesso, gli lanciai un coccodrillo gommoso per richiamare la sua attenzione.
“Che c’è?” chiese portandoselo alla bocca e distogliendo per un attimo gli occhi dalla televisione.
“Grazie per la compagnia”
“Quando vuoi” mi fece l’occhiolino e ripuntò gli occhi sullo schermo.
E fu incredibilmente difficile seguire il film perché il mio sguardo tornava sempre, e inevitabilmente, su di lui.
 
 
 
 
 
 
 
Chi non muore si rivede parte 2.
Grazie a tutte le lettrici (silenziose o meno) dello scorso chap! Risponderò ad ogni singola recensione non appena finito di postare questo chap (sono pessima lo so!!!). La storia piano piano procede, i tempi sono quelli che sono ma com'è che si dice? Meglio tardi che mai? Sigh.
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


 
 
Rosa Corallo significa
Desiderio 
 
 
 
 
 

 

Quella mattina mi svegliò un forte profumo di caffè nell’aria.
Caffè e … qualcosa di dolce. Di dolce e caldo, tutto intorno a me. Semi sveglio inspirai a fondo, godendo di quegli ultimi attimi di incoscienza. Il mio cervello registrò a malapena il dolore che provavo alla schiena e quel peso sconosciuto che premeva contro di me. Quel piacevole tepore e quel profumo erano tutto ciò a cui la mia mente, non ancora del tutto sveglia, voleva pensare.
Caffè e miele.
No.
Caffè e…
Caffè e pesca.
Mi faceva stare bene.
Mi piacevano le pesche.
Risvegliava in me un senso di piacevole agitazione.
Rein profumava di pesca.
Spalancai gli occhi terrorizzato, ogni traccia di sonno sparita. Come temevo, Rein era lì, accovacciata al mio fianco, i capelli sparsi sul mio petto e il respiro profondo di chi è ancora nel mondo dei sogni.
E forse mi sarei preso qualche secondo per osservarla con attenzione, perché non capitava spesso di averla così vicino e allo stesso tempo così mansueta. Sì, forse, lo avrei fatto se non fosse stato per un colpo di tosse forzato che catturò la mia totale attenzione. La madre di Rein, l’ultima persona che un ragazzo vorrebbe vedere dopo un risveglio del genere, mi osservava divertita e con un pizzico di malizia dall’altro lato della stanza, una grande tazza di caffè fumante tra le mani.
“Buongiorno” sussurrò trattenendo una risata “Caffè?”
 
 
Svegliarsi e trovarsi davanti la madre della ragazza con la quale si era appena passata la notte entrava di diritto nei peggiori risvegli di sempre. Superava persino quello in cui Milky aveva deciso di dormire nel mio letto e, malauguratamente, di farci pipì.
Non che fosse successo nulla tra me e Rein, ma la sorpresa di trovarla lì, accanto a me, come prima cosa messa a fuoco non appena aperti gli occhi il mattino mi aveva lasciato balbettante e decisamente fuori di me per un buon quarto d’ora.
Ricordavo benissimo gli eventi della sera precedente, l’uscita con Fine, la conversazione con Rein, la scelta del film, ricordavo persino i suoi piedi gelati contro le mie gambe. Rein si era addormentata meno di dieci minuti dopo l’inizio del film, impossessandosi di più di metà del divano, ed evidentemente mi ero addormentato anche io. Non solo, avevo dormito come un sasso fino al mattino nonostante quella piovra si fosse appicciata a me durante la notte, probabilmente alla ricerca di calore. Cercando di fare il minimo rumore, ero riuscito ad alzarmi senza svegliarla, evitandole il trauma della vita che invece io mi sarei dovuto portare dentro per sempre.
Se uno dei due doveva ricordare quella terrificante notte, era bene quello fossi io. Il tutto era già abbastanza strano e imbarazzante senza che Rein ci mettesse del suo.
Evadere le mille domande della madre era stato decisamente più difficile, ma il mio evidente disagio dovette intenerirla perché decise di lasciarmi libero.
Ero già fuori dalla porta quando mi sentii chiamare un’ultima volta.
“Shade, grazie per averle fatto compagnia. Sei sempre il benvenuto”.
Sorpreso mi limitai ad un segno di saluto.
Quella donna mi lasciava sempre senza parole.
Una dote che la figlia aveva decisamente ereditato.
 
 

 
Erano le dieci e qualche minuto quando finalmente varcai la soglia di casa. Mi sentivo intontito e pesante in quei vestiti che indossavo dalla sera precedente. L’unica cosa che desideravo in quel momento era una lunga doccia bollente, ma non feci in tempo a chiudere la porta dietro di me, che subito dovetti riconsiderare i miei piani.
“Shade! Gne gnato!” Milky mi si lanciò addosso e io fui costretto a prenderla al volo per evitarle una rovinosa caduta. Urlò qualcosa di incomprensibile tutta soddisfatta, sfregando il viso contro la mia camicia.
“Signorina Milky! Torni subito qui!” Dolores, la tata, apparve subito dopo. Aveva i capelli in disordine e il maglione macchiato di qualcosa di verde e disgustoso probabilmente prodotto da Milky stessa. Agitava una piccola calza rosa tra le mani. Lanciai un sguardo interrogativo alla mia sorellina la quale mi sorrise colpevole muovendo appena il piedino rimasto senza calza. Essere la tata di Milky non era una lavoro facile, per niente.
“Signorino Shade, bentornato! Sua madre era in pensiero, avrebbe dovuto avvisare!” Dolores mi guardò con aria di rimprovero e Milky, ora tra le braccia di Dolores e completamente vestita, sembrò fare lo stesso. Dolores era con la nostra famiglia da quando potevo ricordare e sapevo che anche lei doveva essere stata in pensiero.
“Mi dispiace, non lo farò più” mormorai avviandomi verso la cucina. Profumava di cannella e zucchero. Afferrai un biscotto che riposava sul tavolo, ancora caldo dal forno, e lo addentai.
“Questi non sono per lei, signorino! Sono per il compleanno dell’amichetta di Milky!” Dolores si affrettò a spostare i biscotti lontano dalle mie mani, mentre Milky, arrampicata sulla sua spalla, tendeva le mani cercando di afferrarne uno a sua volta, il piede sinistro magicamente di nuovo senza calza.
“Dolores, hanno tre anni. Mangiano la colla”
“Solo uno! E ora, vada! Sua madre vuole vederla!” mi consegnò un biscotto, il più grande del vassoio, e mi spinse fuori dalla cucina. Mi piaceva Dolores, portava un po’ di caos e musica in quella casa sempre, così, vuota. Quando era soprappensiero cantava canzoni di grandi cantanti del passato, guardava solo film in bianco e nero vecchi di un secolo e raccontava a Milky una storia ogni sera da quando aveva appena poco più di due mesi.
Senza di lei, quella casa sarebbe potuta essere scambiata per un museo dell’antiquariato, con quei corridoio silenziosi e quei quadri che ritraevano uomini e donne dimenticati, pronti a giudicarti ogni qual volta tornavi tardi da una festa. Per non parlare di quegli orribili lenzuoli, intere stanze coperte di bianco e dimenticate dal mondo.
Le risatine di Milky e la voce di Dolores diventarono sempre più deboli per lasciar spazio al rumore dei miei passi sui gradini di marmo delle scale. La camera di mamma era l’ultima in fondo al corridoio del terzo piano. Una volta davanti feci un lungo respiro e mi sforzai di sorridere nonostante avessi voluto fare tutto il contrario. Bussai più volte e dopo qualche secondo entrai.
Mamma mi aspettava sdraiata al centro del grosso letto matrimoniale che occupava una buona parte della stanza. Stava leggendo un libro, la camera quasi completamente al buio se non per la luce che proveniva dalla lampada del comodino. Non appena mi vide smise di leggere e si aprì in un sorriso. Un sorriso stanco, ma comunque felice.
“Amore, finalmente sei a casa, ti sei divertito?” aveva il viso pallido e gli occhi circondati da profonde occhiaie. I capelli scuri lasciati sciolti non facevano altro che accentuare il suo pallore.
“Vuoi che ti apra le tende, mamma? Sta piovendo”
“Mi piace la pioggia”
“Lo so” le sorrisi e tirai le tende della finestra che ricopriva l’intera parete. La stanza fu invasa da un luce grigiastra e che portava con sé le ultime tracce dell’inverno.
Mia madre si lasciò cullare un secondo dalla calma di quel momento, prima di fare segno di avvicinarmi. Le sedetti accanto, il letto talmente grande da sfiorarla a malapena.
“Come ti senti?” le chiesi, il rumore della pioggia che timido si diffondeva nella stanza.
“Un po’ stanca, come al solito” scherzò e con la mano cercò la mia. Il suo profumo mi avvolse e mi lasciai accarezzare dolcemente.
“Ti lascio riposare”
“E no signorino! Non te la caverai così, devi raccontarmi tutto” una risata genuina mi scappò dalle labbra e per un attimo mi sentii meglio. L’aria meno pesante e quella situazione più familiare.
“Ti avevo detto che sarei uscito con Bright” tentai consapevole non fosse la risposta giusta.
“Non mi avevi detto però che avresti passato la notte fuori” mi guardò con un pizzico di furbizia, le labbra tese in un sorriso “Qualcosa mi dice tu non abbia passato la notte da Bright” abbassai subito lo sguardo colpevole e mia madre si aprì in una risata delicata.
“Ero da Rein. Ci siamo addormentati dopo aver visto un film” le avevo raccontato di Rein qualche giorno prima, sapeva tutto quello che c’era da sapere su di lei, o meglio tutto quello che avevo potuto dirle.
Quando rialzai lo sguardo mia madre mi stava ancora guardando.
“Passi molto tempo con questa ragazza” commentò con il tono di qualcuno che sa qualcosa che altri non sanno.
“Mamma tu non puoi capire. Mi fa impazzire”
“Quindi ti fa impazzire?” quel tono stava cominciando davvero a darmi sui nervi.
“Un attimo è tutta gentile e quello dopo mi insulta. Io… non la capisco” mi abbandonai in uno sbuffo di frustrazione e mia madre rise di nuovo. Almeno uno dei due si stava divertendo.
“Che ci trovi di divertente in tutto questo?”
“Niente!” si affrettò a rispondere cercando di trattenere una nuova risata.
“Mamma…!”
“Niente, solo non ti ho mai visto passare così tanto tempo con una ragazza. Vai a casa sua a studiare, avete fatto shopping e ieri siete usciti insieme”
“Con altre persone!”
“Sto solo dicendo che tu e questa Re-”
“Creatura demoniaca”
“Tu e questa Rein siete molto affiatati ultimamente” terminò dolcemente, quel sorriso furbo ormai incollato alla sue labbra.
“Vado a fare una doccia, le tue idiozie stanno uccidendo gli ultimi miei neuroni sopravvissuti a Rein” mi alzai e corsi in ritirata verso la porta. Quella conversazione stava prendendo una piega troppo strana per i miei gusti
“Quando me la farai conoscere?” urlò dal letto.
“Non succederà!” la sentii ridere per l’ennesima volta e in cuor mio fui contento di essere riuscito a portarle un po’ di buon umore. Anche se a mie spese.
“Ti voglio bene mamma”
“Anche io, tesoro”
 
 

 
“Spiegami di nuovo perché sono dovuto venire a guardarti allenare?” chiesi con tono piatto, mostrandomi più irritato di quanto in realtà fossi. Non mi stava andando poi così tanto male, la squadra di pallavolo femminile aveva deciso di allenarsi all’aperto quel giorno. Poche cose sapevano rendermi più felice della scelta delle loro divise.
“Io ti avevo chiesto di allenarti con me. Sei tu che hai preferito sdraiarti sugli spalti a fumare una sigaretta tra un pisolino e l’altro” Bright aveva il fiato corto e i capelli bagnati di sudore. Dopo aver fatto il giro del campo di corsa per una miriade di volte aveva deciso di migliore la sua tecnica di affondo o un qualcosa del genere. Non ero mai stato un grande esperto di scherma e poco mi importava.
“Non ho dormito granché stanotte” mormorai a mo’ di scusa, tutta la mia attenzione sulla partita che stava avendo luogo a pochi metri da noi. Una mezza bugia era comunque una mezza verità. Bright si limitò a lanciarmi un’occhiataccia prima di riprendere ad agitare quella sua spada nell’aria.
Avevo capito ci fosse qualcosa di storto non appena Bright mi aveva chiesto di allenarmi con lui, non che ci volesse un genio ad interpretare quel suo muso lungo e sguardo preoccupato. Nonostante avrei preferito di gran lunga ignorare la cosa e continuare a godermi il gruppo di ragazze saltellante accanto a noi, il fatto che Bright fosse il mio migliore amico mi conferiva l’incarico speciale di interessarmi a lui e suoi sbalzi d’umore da donna in menopausa.
“Bright c’è qualcosa che non va? Di solito mi inviti a bere una birra o giocare alla play”.
Lunga pausa. Si fermò un secondo per poi riprendere la sua routine.
“Avevo un po’ di energia repressa”
Affondo. Passo indietro. Affondo.
“E questa energie repressa potrebbe essere in un qualche modo connessa all’appuntamento di ieri?”
Passo indietro. Affondo. Inciampo.
“Non era un appuntamento!” Bright si voltò immediatamente verso di me, il viso paonazzo e gli occhi sbarrati.
Bingo.
“Rein di certo sembrava pensarla così” finsi disinteresse, facendo un tiro prima di buttare quel che rimaneva della mia ultima sigaretta a terra.
“T-tu dici? No! Lascia stare, ieri sera non c’entra niente” cercò di ricomporsi, ma ciò che gli girava nella testa non avrebbe potuto essere più ovvio. Se dovevo imboccarlo parola per parola, lo avrei fatto.
Bright tentò di tornare ai suoi esercizi, ma quando fu evidente anche a lui che non sarebbe riuscito a concentrarsi di nuovo buttò la spada a terra e mi raggiunse sugli spalti.
“Cos’è successo dopo che me ne sono andato?” chiesi cercando di mantenere un tono il più neutro possibile.
“Io non lo so! All’improvviso ho cominciato ad essere nervoso e… Shade, ho sempre pensato Rein fosse una dei miei più cari amici. Pensavo di conoscerla e invece c’è tutto questa lato di lei che non avevo mai visto. Che mi sta succedendo?”
“Ormoni?” azzardai per spezzare un po’ la tensione, Bright sembrava genuinamente preoccupato.
“Non sei d’aiuto, amico”
“Senti Bright, per come la vedo io, non c’è nulla di sbagliato ad essere attratto da Rein. Insomma, l’hai vista?” quelle parole sorpresero anche me stesso. Non avevo mai negato Rein fosse una bella ragazza, ma ammetterlo così, in pieno giorno e senza nessuna droga in corpo, era decisamente bizzarro.
“Piace anche a te?”
“C-cosa?” per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva. Sentii il cuore battere sempre più veloce e la temperatura del mio corpo salire.
“Sì, insomma, pensi anche tu che sia attraente” a quelle parole cercai di ridarmi un po’ di contegno. Okay, quella di Bright era solo curiosità. Pura e innocente curiosità.
“Certo, ovviamente”
Si lasciò andare in un sospiro di sollievo e io feci lo stesso anche se per differenti ragioni.
“Sai, ieri abbiamo fatto una foto in una di quelle cabine per le fototessere, ce le hai presente? Eravamo così vicini, Rein seduta sulle mie gambe e… e il suo profumo era tutto intorno a me, sapeva di… di…”
“Pesca” conclusi senza neanche accorgermene.
Bright sbatté due volte le palpebre prima di annuire con esagerata enfasi.
“Sì, di pesca! È così dolce, non lo avevo mai notato prima, sai? Insomma, io non sapevo cosa fare. Non eravamo mai stati in quella situazione, vicini in un ambiente così piccolo, lontano da tutti, solo noi due”.
Per un attimo riuscii ad immaginare la scena. Rein stretta tra le braccia di Bright, le mani impacciate di lui sulle sue cosce, i loro visi a pochi centimetri l’uno dall’altro.
Le sue labbra lucide e gonfie.
Quel profumo di pesca tutto intorno.
Gli occhi pesanti e lucidi.
All’improvviso sentii uno strano peso nel petto, lo stomaco aggrovigliarsi e la bocca farsi sempre più amara.
“E sai cosa avrei voluto fare?”
“C-cosa?” chiesi con voce spezzata, un sussurro appena.
“L’avrei voluta baciare”.
 
 
Che diavolo era successo? Avevo bisogno di una birra, forse più di una, e di ventiquattro ore di sonno.
Avevo continuato ad annuire senza capire nulla finché con le mani strette a pugni e la gola secca m’inventai una scusa per andarmene il più lontano da lì.
Senza un apparente motivo avevo iniziato a sentirmi male. Era difficile da spiegare: un attimo primo l’immagine di lui e Rein insieme mi era completamente indifferente, un attimo dopo il cuore mi batteva all’impazzata e lo stomaco mi si era capovolto. Stavo camminando a passo spedito verso la macchina quando mi sentii chiamare, una voce femminile stranamente familiare.
Mi voltai e subito vidi Fine camminare nella mia direzione, il braccio teso in un saluto. Dovevo essere davvero sconvolto per non riconoscere la sua voce. La grande borsa sportiva che portava con sé, le guance arrossate e i capelli ancora umidi mi fecero capire fosse appena usciti dagli spogliatoi.
“Che ci fai qui?” mi chiese una volta raggiuntomi.
“Io e Bright abbiamo fatto un po’ di movimento”
“Questa pioggia non ci dà tregua” mi sorrise gentile e io ricambiai il gesto.
Un silenzio lontano dall’essere piacevole si fece largo tra di noi. Quella era la prima volta Fine mi parlava al di fuori del suo negozio.
La serata che avevamo trascorso insieme la sera prima era stata divertente. Certo, senza eventi degni di nota, ma era convinto le cose dovessero andare con calma. Non volevo rovinare tutto mostrandomi poco paziente. Dovevo imparare a conoscerla e lei doveva fare lo stesso con me.
Quando fu evidente ad entrambi che quel silenzio fosse durato anche troppo, decisi di prendere l’iniziativa. Non avevo ascoltato una lista di trecentoventitrè punti per perdermi un’occasione del genere.
“Ti andrebbe una caffè?” domandai più velocemente di quanto avrei voluto.
Fine strinse con entrambe la mani lo spallaccio della borsa e sorrise radiosa, “Che ne dici di una fetta di torta invece?”
 
 

 
Seduti alla Sunny Bakery aspettavamo l’arrivo di due fette di torta al triplo cioccolato. Avevo ordinato la stessa cosa perché in un attimo di panico mi ero completamente dimenticato tutte le dritte di Rein. Che diavolo avevo stretto quel patto a fare se davanti a Fine il mio cervello diventava una pappetta molliccia incapace di processare qualsiasi pensiero complesso.
L’incontro non stava poi andando così male. Sì, forse avevo miserabilmente fallito con le mie due ultime battute, ma questo mi aveva fatto capire Fine non fosse una grande amante del sarcasmo. Un po’ come Bright. Fine me lo ricordava parecchio. Sportiva, gentile con tutti e decisamente troppo ingenua per il suo bene. Avrei dovuto trattenermi e mordermi la lingua evitando battute controverse.
Quando il cameriere arrivò Fine interruppe la sua storia su come avesse obbligato il padre a inserire quella torta nel menù e s’illuminò completamente. Gli occhi le diventarono enormi e sorrise da orecchia a orecchia. Si lasciò scappare un mugolio di piacere al primo morso e io non riuscii a trattenere una piccola risata.
“Ti piace lavorare qui in pasticceria?” Fine ci mise qualche secondo a rispondere, masticando veloce il boccone che aveva in bocca.
“È divertente e aiuto un po’ papà, anche se sono stata bandita dalla cuci-” la suoneria del mio cellulare la interruppe. Il nome di Rein lampeggiava sullo schermo, rifiutai la chiamata e le feci segno di continuare. Non appena aprì bocca il cellulare riprese a suonare e di nuovo rifiutai la chiamata.
“Forse dovresti rispondere” azzardò Fine.
“Non preoccuparti, sono sicuro possa aspettare” appoggiai il telefono sul tavolo e riconcentrai la mia attenzione su Fine.
“Scusa, cosa mi stavi dicendo?”
“In cucina ero una vera frana. Una volta sono persino riuscita a far finire Rein all’ospedale. È una lunga storia e a mia discolpa era la mia prima volta ai fornelli” mentre Fine parlava la mia attenzione piano piano si spostava su altri pensieri. Il cellulare si era nuovamente illuminato e io non ero riuscito a trattenermi. Veloce lessi i messaggi che era comparsi sullo schermo.
 
Da Rein [16:22]
[Bright mi ha chiesto di uscire! E come osi rifiutare le mie chiamate?]
Da Rein [16:22]
[Non posso essere arrabbiata! Sono troppo felice!]
Da Rein [16:23]
[Chiamami quando hai tempo!]
 
Di nuovo sentii lo stomaco contrarsi e per un attimo ogni suono nel locale sparì. Fu la voce di Fine a riportarmi alla realtà.
“Shade c’è qualcosa che non va?” cercai di ricompormi velocemente e subito riposi il cellulare in tasca, quello che avrei dovuto fare fin dall’inizio.
“Scusami, mi ha scritto Rein per fissare delle ripetizioni e mi sono distratto” come avevo detto? Una mezza bugia era comunque una mezza verità.
“Come va con Rein?”
“Come posso dire, Rein è…”
“Speciale”
“Stavo per dire impegnativa, ma anche speciale le si addice” Fine, per la prima volta quel giorno, si aprì in una risata. Quel fastidioso nodo allo stomaco cominciò a sciogliersi e io a sentirmi più a mio agio.
“Sai, Rein ha sempre voluto avere una festa a sorpresa. Un anno, stanca di aspettare, ha deciso di organizzarsela. Abbiamo decorato la pasticceria per una intera giornata, esattamente come voleva lei. Non mi ha lasciato riposare neanche un minuto e quando è arrivata alla festa abbiamo dovuto nasconderci e gridare sorpresa nonostante lei avessi partecipato ad ogni preparativo”.
“È così… da Rein” commentai divertito da quel piccolo aneddoto.
“Sa quel che vuole e fa di tutto per ottenerlo, non la ferma nessuno” e io ne sapevo decisamente qualcosa.
“Sarebbe addirittura disposta a cambiare se stessa, ma non sa quanto lei valga esattamente così sia” quell’ultimo commento fu detto piano, quasi sottovoce. Fine si affrettò a fare un sorso di te nascondendosi dietro la tazza.
Sapevo benissimo di cosa stava parlando, ma era chiaro non volesse affrontare l’argomento, almeno non con me e che quelle parole le fossero sfuggite di bocca, così le chiesi di raccontarmi altre storie. Alla mia richiesta, Fine si era aperta in un enorme sorriso e aveva iniziato a raccontare. Tra una storia e l’altra avevo scoperto Rein fosse un’amante del Blues anni 50’, avesse una piccola cicatrice sul labbro inferiore ottenuta in un match di wrestling che avevano messo in scena a sei anni e andasse matta per la panna montata, tanto che vi era una torta sul menu della Sunny Bakery dedicata a lei.
Stavamo ancora parlando quando Fine s’interruppe all’improvviso. Guardò l’orologio che portava al polso e saltò in piedi.
“Il mio turno è iniziato due minuta fa! Sono già ritardo!” afferrò il suo borsone e prima di andarsene mi rivolse un sorriso gentile.
“Grazie Shade per la chiacchierata, mi dispiace interromperla così, ma mio padre mi ucciderà se non mi do una mossa”
“Non preoccuparti, continueremo un’altra volta”
“Ho tantissime altre storie da raccontarti”
“Non vedo l’ora”

 



 
La stanza era sempre più piccola. Il suo corpo era incredibilmente caldo sotto il mio. Il suo seno esposto andava su e giù, seguendo il ritmo frenetico dei suoi respiri. Mi fermai a baciarlo, succhiarlo, godendo di ogni minimo contatto con la sua pelle.
“Shade…” la sua voce era roca e carica di desiderio.
“Shade continua” una vera e propria supplica e io non sarei mai riuscito a dirle di no.
“Sei bellissima” mi ritrovai a mormorare risalendo con umidi baci il suo collo fino ad arrivare alle labbra. Le intrappolai tra le mie, soffocando così un mugolio di piacere. Il ritmo dei nostri corpi si stava facendo sempre più veloce, sempre più disordinato. I suoi capelli erano sparsi su tutto il cuscino e le sue unghie graffiavano silenziose la mia schiena.
Tutto profumava di pesca.
Mi svegliai all’improvviso. Il viso sudato, una spiacevole situazione nei pantaloni e gli occhi di chi aveva appena visto un fantasma.
No, molto peggio di un fantasma.
Sentivo ancora la pelle bruciare e avevo il respiro affannato.
Che diavolo mi stava succedendo?
 
 
 






 
 
Chi non muore si rivede parte 3, yay.
Grazie a tutte le lettrici che non hanno abbandonato questa storia, mi rendo conto di averci messo tantissimo ad aggiornare, ma questo capitolo proprio non voleva scriversi.
Detto questo, spero vi piaccia, alcune parti in realtà sono state abbastanza divertenti (come la prima scena).
Ringrazio anche Mya_chan che è sempre pronta ad aiutarmi, se oggi pubblico è principalemtne grazie a lei.
Un bacione e fatemi sapere che ne pensate!
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


 
 
Magnolia significa
Spontaneità
 
 
 

Capitolo 9


“Che diavolo ci fai nella mia serra?”
Ricevere una reazione diversa sarebbe stato del tutto atipico. Il fatto che Shade fosse più scontroso del solito non mi stupì. D’altronde il suo spettro emozionale era limitato, si estendeva da “sguardo vacuo e asociale” a “smorfia infastidita e commento acido”. Il suo schivare il mio sguardo invece era del tutto nuovo. Ubriaca di quel nuovo potere iniziai a camminare per la serra, accarezzando distratta ogni pianta si trovasse sul mio cammino.
“Secondo il New York Times, il giardinaggio è un modo per riconnetterci con le nostre origini” Shade, bocca aperta e sopracciglia corrucciate, teneva gli occhi puntati sul foglio che aveva tra le mani, il quale mi dava il diritto di trovarmi lì, ufficializzandomi come nuovo membro del club dei giardinaggio.
“Parafrasando, le mani sporche di terra, il sudore sulla fronte e l’odore inebriante delle spezie costituiscono un’esperienza spirituale. Rispettando la Madre Terra, torniamo a essere parte integrante di essa” camminavo lenta mentre seria continuavo il mio monologo “O almeno, così mi è bastato dire al Preside per inserirmi nel programma. Il New York Times si è ovviamente dimenticato della puzza di letame e del fatto che sembra attirare tutti i casi umani della Wonder Academy” l’espressione di Shade era ora di puro fastidio.
“Quindi, forse, le parole che cerchi sono “Benvenuta nella nostra serra, Rein”” suggerii malevola godendo di quella piccola tortura a cui lo stavo sottoponendo.
Incrociò le braccia e all’improvviso il suo viso cambiò, come se avesse realizzato qualcosa fino ad allora nascosto. Raddrizzò la schiena e mi guardò con aria di sfida.
“Benvenuta nella nostra serra” disse semplicemente, un piccolo sorriso sulle labbra.
“S-scusa?” quella reazione era decisamente inaspettata.
“Ora smettila di accarezzare quella pianta di ortiche e aiutami con i sacchi di terra”.
 
 
“Potevi dirmelo prima” piagnucolai mentre Shade mi tamponava più amorevolmente di quanto volessi ammettere il braccio con un panno bagnato.
“Eri davvero ridicola” ridacchiò mentre con il pollice mi accarezzava dolcemente le zone più rosse. Anche solo quel piccolo tocco mi diede sollievo. Avevo prurito ovunque la mia pelle fosse entrata in contatto con quell’odiosa, inutile pianta.
“Mi ero preparata l’intero discorso. Volevo fare un’entrata teatrale”
“Di sicuro ha lasciato il segno” Shade si riferiva alle innumerevoli bolle che si erano formate sulla mia mano e sull’avambraccio. Gli diedi un piccolo pugno sulla spalla con la mano ancora sana e mi guadagnai un sorriso.
“Devi ammettere che ti ho sorpreso”
“Non me lo aspettavo. Pensavo odiassi questo club”
“Non fraintendermi. Lo detesto. Ho gli incubi al pensiero di avere le unghie sporche di terra, ma lo devo ai miei lettori” Shade mi guardò come se mi fosse spuntata una seconda testa.
“La porta in fondo alla serra! Non ricordi? Il mio intuito giornalistico mi dice di indagare!” non importa quanto assurda quella mia ossessione suonasse, io sapevo ci fosse qualcosa.
“Il tuo intuito giornalistico non esiste. Non c’è niente dietro quella porta, solo un vecchio giardino non curato e qualche attrezzo arrugginito”
“Allora non ti dispiacerà se do un’occhiata?”
Saltai in piedi e, appena libera dalla sua presa, cercai finalmente di grattarmi. Fui subito bloccata, mi afferrò il braccio e lo avvolse più volte nel panno bagnato prima di completare il tutto con un nodo incredibilmente stretto.
“Sono seriamente ferita dalla tua mancanza di fiducia” commentai colta in flagrante, occhi puntati in basso e l’irresistibile tentazione di fargli una linguaccia.
“Ti conosco abbastanza da sapere che hai l’auto-controllo di una bambina di due anni”
Senza aspettare ulteriormente, e in mancanza di una risposta tagliente, corsi verso la fantomatica porta, l’unica e vera ragione per cui mi ero iscritta al club di giardinaggio.
“Rimarrai delusa”
Senza esitazione tirai la maniglia.
Chiusa. La porta era chiusa.
Tirai, spinsi e poi tirai di nuovo. Niente. Mi fermai per qualche secondo e provai di nuovo, con un piede fisso sulla porta e entrambe le mani sulla maniglia. Nulla.
“È chiusa!” piagnucolai accasciandomi sconfitta a terra.
“Ho notato”.
Mi alzai veloce e tornai sui miei passi. Vi era qualcosa là dietro, ne ero sicura.
“Dove sono le chiavi?” chiesi, mani sui fianchi e mento alto.
“Rein, lascia perdere. Non verrà aperta da anni” cominciò a trafficare con degli attrezzi lasciati sul piano da lavoro e subito mi infilai tra lui e il tavolo.
“Shade, ho bisogno di entrare” fu obbligato a interrompere qualsiasi cosa stesse facendo.
“Te l’ho detto, non c’è niente là dietro” sussurrò, nessuna ragione di parlare a voce più alta visto la distanza tra noi “Principessa, devi fartene una ragione. Ora mettiti i guanti e aiutami con le nuove piantine” mi sorrise dolce, con quel suo sorriso perfetto. Denti bianchi e lucenti e quella dannatissima fossetta sulla guancia sinistra.
Per un attimo quasi gli credetti Come potevo fare altrimenti? Poche sarebbero rimaste immuni e quella labbra piene e quello sguardo, che ero sicura avesse collaudato in più occasioni. Per un lunghissimo secondo dubitai del mio istinto, finché non commise un ingenuo passo falso: Shade si sistemò il berretto.
Stava palesemente mentendo. Shade si toccava quel dannato capellino solo quando era a disagio. Questo succedeva in tre specifiche occasioni: quando era messo al centro dell’attenzione, quando c’era Fine nei paraggi e quando mentiva.
Bingo.
Sarei arrivata in fondo della questione, ora più che mai. C’era qualcosa che non voleva vedessi dietro quella porta e io avrei fatto di tutto per far sì che accadesse il contrario.
“Va bene… mastro boscaiolo, insegnami tutto ciò che c’è da sapere” se dovevo fingere di credere a quella sceneggiata avrei dovuto farlo bene. Shade rimase per un attimo spiazzato, si allontanò di un passo ristabilendo una distanza accettabile tra di noi.
“Vuoi davvero farlo?” mi chiese, la sua espressione tra il divertito e il sorpreso.
“Cosa?”
“Far parte del club di giardinaggio”
“Sono o non sono iscritta? E poi se ci riesci tu, non può essere così complicato”
Shade si aprì in una risata che sembrò cancellare ogni traccia di dubbio o preoccupazione dal suo volto, di nuovo mi ritrovai a mio malgrado ad osservare quella piccola fossetta sulla sua guancia.
“Allora… al lavoro?” era più una domanda che un’affermazione e io non potei fare a meno che sorridere a mia volta.
“Sei tu il capo”
“Mi piace questa situazione”
“Non abituartici”
 
“Forse era stato il black-out o i computer risalenti al milleottocento, fatto sta che andavamo in stampa la mattina dopo e ogni singolo articolo era scomparso” chiacchieravamo da ore. Io preparavo la terra e Shade vi travasava la piantina e via così al prossimo vaso.
“Siamo stati in piedi tutta la notte. È stato un vero incubo”
“Quindi sei parte del club di giornalismo, rappresentante di classe e presidentessa del Consiglio Studentesco, dimentico qualcosa?”
“Facevo anche parte del club di teatro, ma sono troppo maniaca del controllo per andare d’accordo con gli alternativi che ne facevano parte” commentai sovrappensiero. Il terriccio nuovo profumava di primavera ed era piacevolmente morbido al tatto. Affondai le dita nella terra e per un secondo compresi la passione che aveva Shade per qual posto. La tua mente non aveva il tempo di rimuginare su vecchi problemi se le tue mani erano impegnate in un qualcosa di così primitivo e reale.
“Io non ti capisco” a quelle parole smisi di riempire il vaso e alzai lo sguardo. Shade mi guardava attento, alcune ciocche di capelli erano sfuggite dal berretto e gli cadevano pigre sugli occhi.
“Sai, non sono mai stata brava a lasciarmi andare. Tutta quella improvvisazione non faceva per m-”
“No, non quello. Perché fai tutte queste cose?”
“Sì, forse faccio parte di un club o due di troppo, ma è divertente e poi …hanno bisogno di me!”
Non mi aspettavo Shade capisse, le nostre vite erano completamente diverse. Mi piaceva avere delle responsabilità, sapere di essere importante per qualcuno, che c’era bisogno del mio aiuto.
“E non sei mai stanca? Non vorresti mai non essere… te?”
Mi bloccai. Ogni risposta maligna che avevo sulla punta della lingua mi morì in gola. Shade non mi stava criticando, sembrava davvero confuso. Preoccupato quasi.
“Cosa intendi?”
“Non ti stanchi mai delle aspettative che la gente ha di te? Non vorresti fare qualcosa di inaspettato, mandare al diavolo tutti e per una volta non essere così perfetta?”
“A volte” risposi debole, le dita affondate nella terra e lo sguardo basso “Ma sono felice, davvero, e lontana dall’essere perfetta, credimi” la mia voce si fece più forte in supporto delle mie parole.
Shade rimase in silenzio per lunghissimi secondi, poi estese il braccio verso di me, mano aperta e un sorriso furbo sul viso.
“Scommettiamo che sei in realtà quella perfettina che non credi di essere”
“Oh sono sicura un ragazzo come te ne sappia molto in materia”
“Allora ci stai?” guardai sospettosa la sua mano ancora aperta tra noi.
“Cosa ci guadagno se vinco?”
“Ti mostro il giardino dietro la porta”
“Allora abbiamo un accordo” e la sua mano incontrò la mia.
 


Da Shade 6.23
[Scendi.]

Questo messaggio mi si presentò sullo schermo del cellulare alle sei del mattino del giorno seguente. Con occhi ancora impasticciati dal sonno, ci misi qualche secondo a mettere a fuoco le parole. A questo erano seguiti altre tre sms e almeno altrettante chiamate.
“Che diavolo vuoi?” risposi irritata, la voce roca e incredibilmente alta nel silenzio della stanza.
“Vestiti e scendi. Veloce.” non feci in tempo a replicare che mi attaccò il telefono in faccia. La rabbia e sfilza di insulti che mi ero preparata per Shade furono l’unica cosa che mi spinse a mettermi qualcosa addosso e scendere in strada. Lo avrei ucciso. Quel giorno avevo mille impegni e svegliarmi all’alba non era decisamente nei miei piani.
Il sole non era nemmeno completamente sorto e l’intero vicinato riposava silenzioso nel buio del crepuscolo. L’unico rumore proveniva dal motore acceso dell’auto di Shade.
Aprii la portiera e senza aspettare nessun invito salii in macchina. Faceva freddo e nella fretta aveva dimenticato la giacca.
“Oh” il suo sguardo vagò sul mio corpo mettendomi non poco disagio.
“Cosa? I miei vestiti? Sì lo so cosa pensi del mio stile. Perdonami se alle sei del mattino ho preferito indossare ciò che ho indossato per tutta la vita invece che pantaloni di pelle e frustino” Shade rimase per un attimo perplesso, poi sembrò rinsavire e un sorrisino che non mi piaceva per niente gli spuntò sulle labbra.
“Un po’ mi mancava, sei più tu” non ero pronta ad un Shade nostalgico così presto il mattimo, in realtà non penso lo sarei mai stata.
“Che ci fai qui?” chiesi cercando di lasciar trapelare tutta la mia irritazione in quelle poche parole.
“Allaccia la cintura, oggi facciamo un gita”
“Una gita?”
“Una gita”
“Te lo scordi. Oggi ho una verifica di geografia e l’incontro con la redazione del giornale, non ho tempo per le tue sciocchezze” avevo già la mano sulla maniglia della portiera quando Shade fece scattare il meccanismo di chiusura, di fatto eliminando ogni via di uscita.
“Come immaginavo” sussurrò tra sé tamburellando le dita sul volante.
“Cosa vuoi dire?” odiavo non essere in controllo e in quella situazione non ne avevo nessuno. La sua espressione di chi la sapeva lunga e aveva appena avuto la conferma che cercava da tempo di certo non aiutava.
“È come credevo, sei troppo perfetta per marinare la scuola”
Dovetti trattenere una risata isterica quando finalmente capii che diavolo stesse succedendo.
“È per la scommessa di ieri, non è vero?” quel ragazzo mi avrebbe portato alla pazzia.
“Puoi sempre rifiutarti di venire e ritirarti dal club di giardinaggio”
Sapevo fosse stata una bruttissima idea fare quella scommessa, ma di certo non mi aspettavo di ritrovarmi in viaggio con Shade alle sei del mattino verso una destinazione ignota.
Da una parte mi sarei mangiata le mani piuttosto che darla vinta a Shade, in più morivo dalla voglia di vedere cosa ci fosse dietro quella porta. Dall’altra avevo degli impegni, non potevo prendermi una giornata per fare quello che mi pareva.
Feci un lungo respiro e lanciai un ultimo sguardo alla via deserta a quell’ora del mattino.
“Metti in moto” mi sentii ordinare mentre allacciavo veloce la cintura.
“Ai suoi ordini, principessa” il sorriso di Shade si fece ancora più grande, quanto era facile detestarlo in quel preciso momento, soprattutto perché il mio corpo mi stava tradendo. Nel mio petto sentivo l’adrenalina salire e il fantasma di un sorriso combattere per infrangere quell’espressione infastidita che custodivo con cura.
“Mia madre ti ucciderà per questo…Io ti ucciderò per questo”
“Rein… ti fidi di me?” se una volta avrei risposto no senza esitazione mi ritrovai a corto di parole. Shade non aspettò la mia risposta, mi lanciò una breve occhiata e mi sorrise sereno “Non devi essere perfetta. Non qui con me. E non devi avere il controllo della situazione. Ci sono io. Ci penso io. Ora rilassati e goditi il paesaggio. Oggi sei libera di fare e di essere qualsiasi cosa tu voglia”.
 
 
Mi svegliai con il sole già alto nel cielo e Shade che canticchiava sovrappensiero la canzone che stavano passando alla radio. In quel torpore pensai avesse davvero una bella voce. Calda e dolce.
Sorrisi con gli occhi ancora chiusi mentre mi godevo il calore della macchina e quegli ultimi attimi di incoscienza. Quel momento idilliaco durò poco, esattamente il tempo di ricordare il perché mi trovassi nel mezzo del nulla con Shade quando invece avrei dovuto essere a scuola.
Cercai a tentoni il cellulare sulle gambe e quando lo trovai aprii con malavoglia gli occhi per guardare l’ora.
“Le nove?! Siamo in viaggio da due ore e mezza?” saltai sul sedile e Shade smise immediatamente di cantare.
“Ben svegliata, principessa”
“Ho il timore tu voglia farmi perdere l’orientamento per abbandonarmi da qualche parte”
“Siamo quasi arrivati” commentò ignorando completamente il mio sarcasmo, che nascondeva in realtà una nota di preoccupazione.
“Ho dormito per tutto il viaggio?” mi stiracchiai come un gatto tirando gambe e braccia.
“Come un bambino”
“Scusa se non sono stata di compagnia, ma è quello che ti meriti per avermi sveg-”
“Guarda a destra” mi interruppe e prima che potessi formulare un insulto, il mio cervello seguì automaticamente quell’ordine.
Ogni risposta tagliente mi morì sulla punta della lingua, davanti ai miei occhi una lunga distesa cristallina. Il mare si estendeva per tutto l’orizzonte, luccicando argenteo sotto il sole alto nel cielo. Immediatamente mi sentii piena e serena, la sensazione che tutti abbiamo quando vediamo quell’infinita distesa d’acqua dopo tanto tempo.
“Mi hai portato al mare?” chiese con la voce di una bambina e gli occhioni attaccati al finestrino.
“Sono un ragazzo pieno di sorprese” commentò facendomi il verso.
“Ti ho sottovalutato” mi voltai per guardarlo e gli sorrisi contenta “Continua a cantare, mi piaceva”.
Come previsto Shade arrossì, poi senza preavviso alzò il volume della radio e iniziò a canticchiare, prima qualche parola e poi intere frasi.
In quel momento, non potei fare a meno di pensare fosse tutto perfetto.
Più o meno.
 
 
Con i piedi nudi affondati nella sabbia tiepida, mi godevo il vento tra i capelli e ispiravo a pieni polmoni l’odore inconfondibile del mare.
“Ho una voglia matta di buttarmi in acqua” commentai senza pensarci.
“Fallo” Shade mi camminava accanto, una sigaretta tra le labbra e passo lento.
“Scusa? Sarà gelata e poi non ho il costume” mi lanciò un sorriso beffardo e per un secondo ebbi la tentazione di buttare lui in acqua “Che c’è da sorridere?”
“Potrei scrivere un intero libro su di te, era esattamente la risposta che mi aspettavo. Forse avrei aggiunto qualcosa come: ho appena lavato i capelli!” provò a imitare la mia voce fallendo miseramente. Io di certo non parlavo in quel modo.
Sbuffai infastidita e aumentai il passo per mettere un po’ di distanza tra di noi. Come risposta ottenni una risatina divertita che mi fece innervosire ancora di più.
"In fondo lo sapevamo entrambi che sei una perfettina maniaca del controllo"
Shade pensava di conoscermi? Si sbagliava. Senza preavviso buttai le scarpe a terra e iniziai a togliermi la camicia, e poi la gonna. Senza voltarmi o pensare davvero a cosa stessi facendo mi avviai verso la riva.
La soddisfazione di provare che lui avesse torto era tanta che ero davvero disposta a congelare fino alla morte.
Prima ancora che i miei piedi toccassero il bagnasciuga, qualcosa mi superò di corsa e si buttò in acqua.
“Che diavolo?!" mi guardai intorno disorientata e quando vidi il sorrisino soffisfatto di Shade emergere dall'acqua capii che cosa fosse successo.
"Shade, dovevo buttarmi io! Hai rovinato il mio momento!” ogni altro insulto mi morì in gola quando si alzò in piedi. I suoi pettorali luccicavano tanto da accecarmi. L’acqua gli scivolava lenta sullo stomaco per raggiungere un paio di boxer neri dannatamente aderenti.
“Rein ti prego riprenditi, sei imbarazzante” sussurrai a me stessa mentre mi obbligavo a guardare altrove.
“Com’è l’acqu-” fui completamente scaraventata in avanti. Non preparata a quell’immediato contatto con l’acqua, ingoiai quelli che sembrano litri d’acqua e quella rimasta mi entrò tutta nel naso.
Riaffiorai tossendo come una fumatrice incallita, sputando acqua e insulti interrotti da altri colpi di tosse.
“È gelata!” urlai cercando di uscire di corsa, ma Shade mi si parò davanti “Tu sei matto! Non ero pronta!”
“Lo so, per questo è stato divertente”
“Sei malefico, ti detesto” cercai di scansarlo prima a destra poi a sinistra, ma era sfortunatamente sempre più veloce di me. I suoi addominali continuavano a luccicare in modo illegale e io decisi che se volevo evitare sbavamenti indesiderati avrei dovuto allontanarmi.
Se non potevo uscire dall'acqua, tanto valeva godermi quel momento. L’acqua era ancora fredda, ma non così fredda e il sole splendeva in un cielo azzurro e senza nuvole.
Era una giornata davvero assurda. Mi trovavo a mollo a più di due ore da casa, mentre i miei compagni stavano probabilmente insultando silenziosamente il professore di geografia.
“Sai,sarei entrata anche sola”
“So che lo avresti fatto” per qualche strana ragione gli credevo. Forse per il suo tono rilassato e soddisfatto, o forse perché avrei creduto a qualsiasi cosa mi avesse detto quando non indossava una maglietta.
“Mi conosci un po’ troppo bene per i miei gusti, lo sai?”
“Sei una persona facile da leggere”
“Può essere, ma tu sembri incredibilmente bravo” come risposta ricevetti un sorriso e così anche io mi lasciai cullare dalle onde.
L’acqua era fredda, mi bruciavano gola e occhi ed ero sicura mi sarei beccata un febbrone da cavallo, ma in quel momento stavo bene e per una volta non stavo pensando a niente. Il mio cervello era meravigliosamente vuoto.
Fu un momento bellissimo che durò circa due secondi.
Qualcosa di non meglio identificato mi sfiorò la gamba, un attimo dopo ero aggrappata alle spalle di Shade come una scimmia su un albero di banane.
Shade sputacchiò dell’acqua che involontariamente gli avevo fatto bere e cerco di divincolarsi, ottenendo il risultato opposto.
“Rein che diavolo fai?”
“Qualcosa mi ha toccato la gamba!”
“Probabilmente era una alga” cercò di riportarmi alla ragione, ma ormai era troppo tardi. Non avrei mollato la presa neanche sotto tortura.
“Rein, ascoltami, non è successo nulla” posò entrambe le mani sulle mie cosce e dolcemente mi fece scivolare intorno al suo corpo. Una volta faccia a faccia, non riuscii a non notare le sue gote imporporate e il fatto che non indossasse nessun capellino. Sì, ero cosciente di avere i riflessi di un bradipo, ma era un qualcosa che non avevo notato fino a quel momento. Un’occorrenza più unica che rara. I suoi capelli erano tutti spettinati e ebbi l’istinto di passarci la mano per renderli ancora più disordinati.
“Hai intenzione di restare attaccata a me come una cozza?” chiese con tono leggermente infastidito.
Mi rendevo conto la situazione fosse imbarazzante. Eravamo entrambi mezzi nudi e i nostri corpi si toccavano in più punti di quanto mi sarebbe piaciuto ammettere.
Dall’altro canto però ero come paralizzata. Rimasi in silenzio, mentre il calore delle sua mani sulla mia pelle era l’unica cosa a cui riuscivo a pensare.
I nostri visi erano talmente vicini che potevo vedere piccole gocce rigargli le guance per terminare la loro corsa sulle sue labbra.
“Sarebbe così facile” sussurrai cercando il suo sguardo. Sembrava aver smesso di respirare, la sua espressione era indecifrabile e i suoi occhi mi guardavano attenti e forse un po’ spaventati.
“C-cosa?”
“Se io fossi innamorata di te e-”
“Io di te” lo disse in un soffio che raggiunse caldo le mie labbra.
E mi venne da ridere. Una risata breve e amara e distolsi imbarazzata la sguardo. Shade però non rise, le sue mani si strinsero sulle mie gambe e cercò i miei occhi.
“È così assurdo?” un altro soffio.
Quelle parole mi lasciarono paralizzata. Perché sì, era impensabile, ridicolo, assurdo. C’erano Bright e Fine. E anche senza di loro, io e Shade eravamo come il giorno e la notte, due persone completamente diverse.
Però lui aveva fatto una domanda. Non era un’affermazione, ma una ricerca di conferma e io non gliela seppi dare.
Mi staccai piano, con movimenti quasi impercettibili e lui mi lasciò andare.
“Forse è ora di uscire, comincio ad avere freddo”
“Rein…”
“Mi sono anche rovinata i capelli per quella dannata porta della serra. Ora sta a te mantenere la promessa” sorrisi fingendomi esageratamente allegra e senza voltarmi mi avviai verso la riva.
Forse era solo la mia immaginazione, ma qualcosa tra di noi era cambiato e io non sapevo che altro fare se non scappare il più lontano possibile da lui.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Di nuovo, grazie a tutte le lettrici che non hanno abbandonato questa storia. Also, per favore siate gentili, non scrivo da quasi un anno e sono decisamente arrugginita.
...
Aiuto.

 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


 
 
Papavero Giallo significa

Amore
Unilaterale
 
 
 
 
 
 

Capitolo 10

 

Pioveva da esattamente una settimana.
Rein invece non mi parlava da due.
Io avevo passato le ultime tre ore della mia vita rinchiuso nella mia serra. L’odore di terra bagnata era tutto intorno a me. Potevo sentirlo sui miei vestiti, umidi e pesanti, e persino sulla pelle. La serra si era allagata e io avevo passato il pomeriggio a rattoppare buchi sul soffitto e scopare via foglie e acqua.
Come se questo non bastasse, lo avevo già detto che Rein non mi parlava da due intere settimane?
Non un sguardo, non un saluto o un messaggio da quattordici giorni esatti.
In fondo era stata una sua idea. Era suo il piano. Che diritto aveva di coinvolgermi in tutto quello e poi di smettere di parlarmi di punto in bianco?
Avevo appena finito di scopare il pavimento quando una folata di vento spalancò una finestra e spinse a terra un vaso di terracotta che si infranse in mille piccoli pezzi.
Fanculo.
Mi sedetti a terra buttando la scopa lontano da me.
Tutto era un casino. Mamma stava di nuovo male, ero completamente fradicio e Rein non mi parlava da due settimane. Quattordici fottuti giorni. Non so quante ore, minuti o secondi fossero, ma erano decisamente troppi. Più di quanti potessi sopportare.
Forse meglio così. Era stato uno stupido piano fin dall’inizio. Di certo io non avevo bisogno di lei. Di quel suo fare da maestrina, del suo perfezionismo o del suo bisogno di controllare tutto e tutti. Non avevo bisogno di quei due suoi occhi incredibilmente grandi e azzurri, o del suo profumo alla pesca, o di quel suo sorrisetto furbo mentre le guance le si coloravano di rosso.
Io non avevo bisogno di lei.
Il fatto che la sognassi la notte, che il mio cuore battesse all’impazzata ogni qual volta mi passasse di fianco in corridoio, o che la bocca mi si seccasse quando ricevo un messaggio, e che sperassi fino all’ultimo di vedere il suo nome sul display, non voleva dire assolutamente niente.
Avevo passato decisamente troppo tempo con lei, tanto che il mio stupido subconscio si trovava perso ora che era scomparsa dalla mia vita.
In fondo, era davvero meglio così. Dopo quel primo sogno mi ero ripromesso le sarei stato alla larga. Come potevo immaginare che me la sarei ritrovata iscritta al club di giardinaggio? Soprattutto, come potevo prevedere mi sarei trovato con lei in braccio mezza nuda, le sue gambe intorno alla vita, il suo seno contro il mio petto, mentre i suoi occhi mi guardavano come non avevano mai fatto?
Ma non era successo nulla. Nulla se non un “quasi-bacio”, quel momento di anticipazione, in cui i respiri si mischiano, il battito aumenta e la testa diventa calda e pesante, ma le nostre labbra non si erano mai toccate. E non lo avrebbero mai fatto.
E allora perché Rein non mi parlava da due settimane?
Avevo forse davvero rovinato tutto?
“È così assurdo?” ripetei tra me quella famosa frase che mie era scappata quel fatidico giorno.
Che idiota.
Il premio per le peggiori parole scelte nel peggior momento mi spettava di diritto.
Rein non mi parlava da due settimane perché in un momento in cui il sangue mi era confluito in altre aree oltre che al cervello, avevo deciso di parlare a caso spaventandola a morte.
Ancora ricordavo il suo sguardo completamente perso mentre cercava di sorridermi pretendendo andasse tutto bene.
Ed era davvero meglio così. Perché la mia vita era già abbastanza incasinata, non avevo bisogno di avere anche un piano strampalato, dove mentivo al mio migliore amico e alla ragazza che in teoria avrei dovuto corteggiare. Perché mentre Rein aveva smesso di parlare con me, lei e Bright invece sembravano andare alla grande. Il mio migliore amico non faceva altro che organizzare uscite con me per aggiornarmi sulla situazione. Io puntualmente gli davo buca.
Cosa potevo dirgli?
“L’idea di te e Rein mi dà talmente ribrezzo che l’ultima volta che hai accennato a baciarla sono stato male fisicamente. Questo ovviamente prima che la sognassi nel mio letto o ci ritrovassimo abbracciati quasi nudi in mare”.
Non ne sapevo neanche il perché. Ero sempre stato bravo a dissociare le due cose: Rein era attraente, ma insopportabile, il che era l’equivalente di un grande, grandissimo no su tutti i fronti. Ultimamente invece i miei ormoni sembravano aver preso il controllo.
Sentii dei rumori provenire dall’entrata e per un attimo il mio cuore smise di battere. Mi diedi mentalmente dello stupido. La mia testa si era alzata in aria come una molla nella sola speranza di vederla spuntare da dietro quella porta e quando vidi spuntare la chioma magenta di Fine non potei che rimarci deluso.
“Questa pioggia la deve smettere! Ho fatto una faticaccia per arrivare qui!” esclamò mentre con qualche difficoltà chiudeva l’ombrello.
La cosa ridicola era che non ero nemmeno più nervoso quando Fine era nei paraggi. Il mio cervello sembrava lavorare in modo binario. Il casino con Rein mi impediva di provare qualsiasi reazione con Fine.
Lo avevo notato qualche giorno prima. L’avevo incontrata un pomeriggio dopo scuola ed eravamo finiti di nuovo in pasticceria. Ora che Rein non occupava il novanta per cento delle mie giornate, avevo molto più tempo libero.
Avevamo parlato tutto il pomeriggio e io, magicamente, ero rimasto calmissimo. Non avevo più sentito le farfalle nello stomaco, le mani non erano sudate e parlare con lei non mi era più sembrata la cosa più difficile del mondo.
Mi alzai da terra e le andai incontro, ricevo raramente ospiti, ancora più raramente quegli ospiti erano ragazze che avevano appena attraversato il diluvio universale per me.
“Vedo che la pioggia ha fatto lavorare anche a te” commentò guardandosi intorno. Con sguardo curioso e mani dietro la schiena fece un mini tour della serra, cercando di evitare pozzanghere e i pezzi del vaso caduto.
“È assurdo come in anni e anni di scuola, non sia mai stata qui”
“C’è una prima volta per tutto” le sorrisi gentile mentre, recuperata la scopa da terra, ripresi a spazzare il pavimento “Hai bisogno di qualcosa?” chiesi celando la mia curiosità con sguardo fisso a terra.
“No, cioè sì” si grattò la testa imbarazzata e senza esitare si sedette su uno sgabello a pochi passi da me “Non di qualcosa, ma di qualcuno. Pensavo di trovarla qui, ma evidentemente mi sono sbagliata”.
Si portò un dito sul mento pensierosa e fece vagare lo sguardo per tutta la serra.
“A meno che non sia nascosta dentro qualche vaso penso proprio io sia nel posto sbagliato”
“Chi stai cercando?” mi ritrovai a chiedere usando la scopa come sostegno.
“Rein! Non riesco a trovarla da nessuna parte e quindi pensavo fosse con te” a quelle parole la scopa scivolò sul pavimento e io per poco non caddi a terra. Riacquistato l’equilibrio cercai di riappropriarmi anche di quel poco di dignità che mi rimaneva.
“E perché pensavi fosse con me?” chiesi e la domanda purtroppo suonò più acida di quello che avrei voluto.
“Ultimamente è sempre con te! Si è persino iscritta a questo club. Sai lei dice di odiare tutto ciò che le rovina lo smalto, ma in realtà è innamorata dei fiori. Legge persino libri a riguardo, lo sapevi? Che schiocca! Sì, certo che lo sai! Come quel libro che pensavi fosse mio, ricordi?”
E come avrei potuto mai scordarlo.
“Vagamente…” mi sedetti sullo sgabello accanto al suo e Fine posò il suo sguardo su di me. Con le gambe a penzoloni e un sorriso in volto mi guardava come se si aspettasse una grande rivelazione.
“Allora?” chiese dopo parecchi secondi di silenzio.
“Allora cosa?”
“Allora dov’è?”
“Io non ne ho idea” il suo sorriso scomparve e i suoi occhi i fecero molto più seri “In realtà non la vedo da quasi due settimane”.
“È successo qualcosa? No, aspetta. Domanda sbagliata. Cosa è successo?”
Ma era una prerogativa delle donne avere poteri da strega e riuscire a capire cose del genere?
“Non è successo assolutamente nulla” risposi sulla difensiva mentre mi alzavo in piedi e mi allontanavo di qualche passo.
“Sei sicuro?” chiese nuovamente saltando giù dallo sgabello a sua volta.
“Sì”
“Sicuro, sicuro?” il fatto che mi guardasse dal basso verso l’alto non rendeva la cosa meno intimidatoria, ma non sarebbe riuscita a far uscire una sola parola dalla mia bocca.
“Al cento per cento”
“Quindi non c’entra niente con il fatto che ti piace giusto?” tutta la mia sicurezza evaporò in mezzo secondo. Mi ritrovai a corto di parole, balbettante e leggermente più sudato di quanto lo fossi un minuto prima.
“C-cosa? A me pia- cosa?”
“Shade, puoi risparmiarti tutto questo. Io lo so, tu lo sai, quindi saltiamo questa sceneggiata e andiamo al dunque”.
Rimasi in silenzio con occhi sbarrati. Fine mi guardava spazientita con entrambe le mani sui fianchi. Poi, all’improvviso, la sua espressione cambiò, qualcosa le si accese in testa e un attimo dopo mi guardava confusa, lo sguardo quasi preoccupato.
“O forse, tu non lo sai” mormorò più per se stessa.
“Non ti sei accorto di nulla?” fece un passo nella mia direzione e io automaticamente indietreggiai.
“Accorto di cosa?” ero confuso, a corto di parole e… perché diavolo mi stava sorridendo?
“Tesoro, di cosa? Di come hai passato più tempo tu con lei quest’ultimo mese, che io, la sua migliore amica? Di come non fai altro che parlare di lei? O di come conosci a memoria qualsiasi cosa la riguardi?” si aprì in una risata leggera e mi accarezzò una guancia proprio come si fa con un bambino.
“Io…”
“Shade, sei cotto perso”
Merda.


 
 




 
Il peso di quella realizzazione rimase un attimo nell’aria prima di colpirmi come un macigno e farmi quasi perdere l’equilibrio.
“Cosa?” urlai iniziando a camminare avanti e indietro con entrambe le mani tra i capelli, il mio berretto lanciato lontano da me.
“Mi piace Rein. Oddio, mi piace Rein. Perché mi piace Rein. È ovvio che mi piaccia Rein” parlavo a vanvera marciando nella mia serra. Perché non lo avevo realizzato prima? Avevo mascherato quello che il mio corpo aveva cercato di dirmi da giorni. Forse da settimane.
Non solo questo! La ragazza che in teoria stavo corteggiando se ne era accorta prima di me. Ero un dannato disastro.
Più stavo bene con Rein, più avevo cercavo una ragione per detestarla, ma era del tutto inutile. A me Rein piaceva e parecchio. Era simpatica, divertente, intelligente e, nonostante adorasse regole ed ordine, riusciva ad essere sempre imprevedibile.
“Mi piace Rein?” il mio sguardo cercò disperato quello di Fine che annuì lasciandosi scappare una risata divertita.
Sì, diavolo, mi piaceva Rein. E mi piaceva prima di quella enorme farsa. Prima che dovesse pretendere di essere qualsiasi cosa non fosse lei. Prima di quegli stupidi vestiti scollati e attillati. Mi piaceva con le sue gonne a ruota e le sue camicette di cotone. Mi piaceva quando correva da una parte all’altra della scuola per risolvere un problema, o quando si emozionava per il nuovo numero del giornalino.
E mi piaceva quando eravamo insieme. Come riusciva a lasciarmi senza parole con quel suo sguardo furbo e quella sua lingua tagliente, le nostre discussioni che non ci vedevano mai d’accordo, e il suo agitarsi in modo spropositato ad ogni piccola presa in giro.
“Oddio. Mi piace Rein” sprofondai a terra e Fine mi fu subito accanto.
“Sì, questo lo hai detto circa una ventina di volte”
“No Fine, tu non capisci. A me piace Rein e a Rein piac-”
“Bright”
“E Bright è il m-”
“Il tuo migliore amico. Lo so, io capisco benissimo” sbuffò scocciata e fece un gesto della mano come per voler scacciare quel pensiero.
“Puoi smettere di finire ogni mia frase”
“Oh Shade, tesoro” rise di gusto e si accucciò accanto a me per guardarmi negli occhi “Ma Rein non ama Bright”.
“Qui non si sta parlano d’amore Fine”
“E invece fa tutta la differenza del mondo! Rein ha una cotta per quello che lei crede sia il ragazzo perfetto. Non per Bright, ma per l’idea che si è fatta di lui” fece una smorfia contrariata e la sua voce si fece infastidita e leggermente più alta.
“Bright è un bravissimo ragazzo, ma sappiamo entrambi non è il ragazzo adatto a lei” si guardò intorno come per cercare conferma fossimo soli prima di voltarsi nuovamente verso di me “Che rimanga tra noi, ma Rein ha cambiato il suo modo di vestire, di parlare e persino di ridere per piacere a Bright. Io non penso sia giusto. Io non vorrei mai dover cambiare per piacere a qualcuno e non vorrei nemmeno qualcuno cambiasse per me. Non credi?” il suo sguardo era serissimo e per un attimo pensai sapesse di più di quello che le sue parole lasciassero intendere.
Mi sentii subito un completo idea. Quel piano era stata una delle cose più stupide che avevo mai accettato di fare. Fine aveva perfettamente ragione, una relazione non si poteva basare su menzogne e non era giusto cambiare ciò che si era solo per piacere di più a qualcuno.
“Fine se anche tutto questo fosse vero, io- ”
“Lo è” mi corresse veloce.
“Perché mi stai dicendo tutto questo? Rein non mi parla da due settimane e…” mi bloccai e distolsi lo sguardo. Rein mi detestava. Lo aveva sempre fatto e quelle poche settimane passate insieme non volevano dire niente. Mi aveva odiato dal primissimo giorno, quando nel suo cammino verso la conquista di Bright si era ritrovata in mezzo il migliore amico di lui.
“Perché per iniziare a te lei piace proprio com’è. E poi io vi ho visti insieme, è settimane che vi osservo e con te lei è felice”.
“E come fai a saperlo?” la guardai con scetticismo.
“Sono la sua migliore amica, ricordi?” lo disse come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Evidentemente mi ero perso la memo sui poteri telepatici delle ragazze e l’implicito ruolo di una migliore amica.
“Shade… non posso prometterti che Rein sarà follemente innamorata di te, ma quando è con te ride, si diverte e non ha paura di mostrare nessun lato di sé, neanche quelli più difficili”.
A quelle parole rividi Rein con occhi gonfi e arrossati in pasticceria. Poi in biblioteca, con quel ridicolo foulard e lo sguardo che tradiva quanto nervosa fosse. Nel camerino del negozio insicura e alla ricerca di approvazione. E infine quella sua infinita lista su Fine e il bisogno maniacale di dover programmare e prevedere tutto.
Mi aveva mostrato ogni sua insicurezza e ogni suo difetto, dal suo perfezionismo al bisogno di avere tutto sotto controllo, e non si era mai vergognata di farlo, ma soprattutto, erano tutte cose che mi aveva permesso di apprezzarla ogni giorno di più.
Fine mi sorrise dolce prima di alzarsi in piedi. Dondolò sul posto sgranchendosi le gambe intorpidite e io l’imitai.
“Ora devo andare, devo ancora trovare Rein.” mi fece l’occhiolino e io ricambiai con un sorriso. Quella discussione mi aveva lasciato con più confusione in testa di prima.
Fine recuperò l’ombrello e saltellò fino alla porta. L’osservai scomparire sul viale attraverso le finestre e mi lasciai andare in un lungo sospiro liberatorio.
Mi piaceva Rein.
E adesso che facevo?


 
 
Era ormai tardo pomeriggio. Il sole stava tramontando e ancora pioveva. Tutto intorno a me era un ammasso di erba bagnata e fango. Avevo appena chiuso la porta della serra quando mi sentii chiamare.
Desiderai immediatamente di non essere mai uscito. Bright mi salutava a gran voce dalla strada principale e io non avevo nessuna via di fuga. Feci un lungo respiro e presi coraggio. Lo raggiunsi a passo veloce e una volta accanto a lui non mi fermai.
“Ciao Bright” commentai mentre lui iniziava a camminarmi accanto. Dovette correre per i primi due passi per raggiungermi.
“Shade, tutto bene amico?”
“Sono solo stufo di questa pioggia, non vedo l’ora di tornare a casa” né io né lui avevamo l’ombrello e a quanto pare la cosa non lo disturbava affatto.
“Ho bisogno di te”
“Bright non è il momento giusto” scherzai indicando il cielo, ma senza smettere di camminare. Superammo i cancelli dell’accademia e lui mi seguì verso il parcheggio.
“Shade è per Rein, io penso inizi a piacermi”
Mi bloccai e Bright fece lo stesso. Per un secondo non riuscii a muovermi. Feci un profondo respiro e con enorme fatica cercai di sorridere.
“Buon per te, amico” gli diedi una pacca spalla e ripresi a camminare raggiungendo la mia macchina. Bright era ancora fermo a pochi metri lontano da me. Mi guardava confuso, lo sguardo completamente perso.
“Bright, ne riparleremo presto. Devo tornare a casa adesso, mamma ha bisogno di me” al sentire nominare mia madre Bright si riprese. Mi raggiunse veloce, lo sguardo preoccupato.
“Tutto bene?”
“Tutto come al solito” annuì e senza preavviso mi abbracciò. Rimasi per un attimo interdetto a quel gesto inaspettato e poi lo abbracciai a mia volta.
“Scrivimi se hai bisogno” lo ringraziai con un gesto del capo ed entrai in macchina. Solo una volta che lo vidi scomparire dietro ai cancelli della scuola mi lasciai andare.
Presi a pugni il voltante, una, due, tre volte.
Perché Bright non sapeva nulla di Rein, quindi come poteva realmente piacergli?
Perché Rein era irrimediabilmente persa di lui.
Perché Bright nonostante tutto era il mio migliore amico.


 

 
 
Il campanello di casa non la smetteva di suonare. L’avevo ignorato una, due volte, ma qualcuno là fuori aveva deciso di farmi perdere la pazienza.
Una volta davanti alla porta ero pronto ad insultare chiunque mi si fosse parato davanti. Ero esausto, Dolores non era ancora tornata e Milky mi aveva fatto impazzire.
Aprii la porta con tutte le intenzioni di urlare all’ennesimo venditore porta a porta e ogni parola mi morì in gola.
“Ti ho fatto una torta”
Rein teneva con una mano il piatto con la torta, nell’altra diversi quaderni.
Era lì in silenzio davanti a me e mi guardava.
Un sorriso incerto e suoi grandi, timidi occhi azzurri.
 



 
 

Questo capitolo è corto, ma il prossimo (secondo calcolici altamente affidabili) dovrebbe essere lunghissimo. Quindi mi sembra un buon compromesso...?
E' tutto sommato il capitolo del quale sono meno convinta, ma, di nuovo, il prossimo dovrebbe essere uno dei capitoli più importanti (che ho in mente da ormai anni), quindi spero mi perdoniate.
E' più un flusso di pensieri di Shade e penso che ce ne fosse bisogno.
Ho intenzione di far durare la storia ancora due o tre capitoli dopo questo. O forse qualcuno di più, ma siamo in dirittura d'arrivo. Mi fa davvero strano dire questa cosa, avevo immaginato la storia in tutt'altro modo all'inzio e ci sono molte scene che non hanno mai visto la luce per colpa del timing con cui ho fatto accadere le cose, ma va bene così.
Spero di non avervi annoiato (nè con il capitolo, nè con questa nota autore infinita) e a presto (si spera)!





 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


 
 
Lilla significa
  Em
ozioni Crescenti
 
 
 
 
 
 

 


Capitolo 11


Strinsi al petto i quaderni che tenevo in mano, mentre osservavo quel ragazzo davanti a me come se fosse uno sconosciuto. Il suo volto era così stanco che per un attimo feci fatica a riconoscerlo. I capelli spettinati e arruffati erano liberi dal solito berretto, gli cadevano sul viso, nascondendo in parte due occhi spenti, contornati da occhiaie scure e marcate.

Non lo avevo mai visto così vulnerabile. Rimasi immobile ad osservarlo, incapace di proferire parola. Un groppo pesante mi si formò nel petto e subito capii di trovarmi nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Tutto mi urlava di andarmene, lasciargli la torta e i compiti di matematica e scappare lontano e lui forse se ne accorse, perché il suo sguardo si fece più duro, serrò la mascella e ogni traccia di fragilità scomparve dal suo volto. Io e Shade non eravamo confidenti, forse non eravamo neanche amici. Io non avrei dovuto vederlo così e questo lo sapevamo entrambi. 

Invece, contro ogni logica, lo sorpassai in silenzio e mi invitai in quella casa tanto grande quando vuota. I miei passi rimbombarono sul pavimento di marmo. Mi fermai solo una volta al centro della stanza. Volevo mettere abbastanza distanza tra me e la porta, perché il mio messaggio doveva essere forte e chiaro: io sarei rimasta e Shade non sarebbe stato più solo. 
 
“Ho fatto una torta” ripetei con voce piccola cercando il suo sguardo “E ti ho portato i compiti degli ultimi due giorni” aggiunsi quando non ebbi nessuna risposta.

Shade rimase immobile accanto alla porta ancora aperta. Gli occhi puntati su me, le braccia lungo i fianchi con i pugni serrati.  

“Posso aiutarti con i compiti, se vuoi” azzardai ancora.
 
“Rein io…” si interruppe, le parole lente e pesanti. Potevo vedere l’incredibile sforzo che stava facendo per raccogliere i pensieri nei suoi occhi corrucciati e nelle labbra tese.
 
“Shade, posso aiutarti, davvero” e non solo con i compiti. Non sapevo come, né se ne ero in grado, ma sapevo che non potevo lasciarlo solo. Avevo deciso che non me ne sarei andata nel momento in cui aveva aperto la porta ed era comparso davanti a me esausto e disorientato.
 
Shade aprì di nuovo la bocca per parlare, ma prima che potesse dire anche solo una parola il suo sguardo si spostò u qualcosa alle mie spalle. Mi voltai curiosa e mi ritrovai davanti a due grandi occhi confusi. Quella che doveva essere la sorellina di Shade era a pochi passi da me con indosso un adorabile pigiamino turchese e in mano quello che doveva essere un peluche di un gattino.
 
“Milky! Cosa ci fai sveglia?” lo Shade di qualche attimo prima era scomparso. La voce stanca era stata sostituita con un tono autoritario, ma dolce. Mi superò veloce e cercò subito di prenderla in braccio, ma la bimba si divincolò e mi corse in contro. Mi afferrò un lembo della gonna mentre continuava a fissarmi.
 
“Ciao Milky” commentai accucciandomi per guardarla in viso “Io sono Rein. Sono un’amica di tuo fratello” si aprì finalmente in un sorriso, abbandonando quell’espressione confusa, e mugugnò qualcosa con voce felice. Prima però che potessimo continuare la nostra conversazione, Shade approfittò di quel momento di calma per prenderla in braccio. Milky si aprì in mugolii di dissenso e allungò una manina nella mia direzione.
 
“Vuoi che ti porto a letto anche io?” chiesi dolce e la bimba ridacchiò di nuovo. Quando spostai lo sguardo verso Shade, lui mi osservava confuso, probabilmente incapace di capire il perché mi stessi comportando in quel modo.
 
“Non guardarmi così, è Milky che ha deciso” scherzai facendogli l’occhiolino con tutte le intenzioni di alleggerire l’atmosfera.
 
Shade non disse nulla, sistemò la sorellina tra le braccia e cominciò a salire le scale alla sue spalle. Io senza aspettare nessun invito, appoggiai torta e compiti su un tavolino lì vicino, e lo seguii.
 
Mentre salivamo gradino dopo gradino, Shade mi lanciava occhiate furtive come per controllare che davvero lo stessi seguendo e nonostante mi sentissi incredibilmente fuori luogo in quella villa così elegante e così grande, fingevo un sorriso ogni volta intercettavo il suo sguardo. Una parte di me era consapevole che ero entrata in quella casa senza nessun invito, abbandonando ogni buona regola di comportamento che mi era stata insegnata e invadendo la sua vita privata, ma sapevo anche quella fosse l’unica cosa giusta da fare. 

Lo seguii in lungo corridoio, mentre la mia mente si meravigliava davanti all’immensità delle stanze, e poi dentro una camera in penombra. Era grande quanto metà del mio appartamento, piena zeppa di giochi e con un adorabile lettino bianco al centro. Rimasi sulla soglia, rispettando quel briciolo di buona educazione che mi era rimasto, e osservai Shade rimettere a letto la sua sorellina. Per un attimo desiderai conservare quel ricordo per sempre. Il modo in cui le rimboccò le coperte, o il bacio che le diede sulla fronte prima di allontanarsi silenzioso. L’osservai fare tutto con un sorriso stanco sul viso, che però non vacillò mai. 
 
Uscii dalla stanza cercando di fare il meno rumore possibile e dopo qualche attimo Shade mi raggiunse. Chiuse la porta e quello che seguì furono parecchi secondi di totale silenzio. Fui io a mettere fine a quella tortura.

“Shade, tutto bene?” chiesi cercando il suo sguardo che non faceva altro che evitarmi.  Al suo silenzio mi avvicinai a lui e gli posai una mano sul braccio e subito lo sentii diventare teso sotto il mio tocco. 

“Shade, da quanto tempo non dormi?” chiesi di nuovo e ancora nessuna risposta.  I suoi occhi però questa volta non scapparono. Confusi, certo, ma fermi su di me. E con un coraggio che mai avrei pensato di avere, eliminai ogni distanza tra di noi e lo abbracciai. Lo strinsi forte a me. 

Shade rimase immobile, ma quella sua sorpresa durò meno di un secondo. Non appena le mie braccia lo avvolsero, la sua testa trovò la mia spalla. Si lasciò andare nell’abbraccio e lo sentii ispirare forte tra i miei capelli, per poi lasciarsi andare in un lungo sospiro. 

Si lasciò cullare tra le mie braccia e io per un attimo feci lo stesso. Mi feci avvolgere dal suo calore e dal suo profumo, ma non mi permisi di lasciarmi andare, con piedi piantati saldamente a terra e spalle dritte lo sostenni. Volevo potesse capire che non doveva portare tutto quel peso da solo, adesso c’ero io, poteva, doveva condividerlo con me.  

“Sono solo stanco” sussurrò trascinando ogni parola, il suo respiro che mi solleticava il collo.  

“Possiamo riposare un po’, allora” con un mano disegnavo motivi astratti sulla sua schiena. Lo sentii sorridere, le sue labbra sulla mia pelle. 

“Mi sei mancata” soffiò in un sussurro quasi impercettibile, voce profonda e stanca, e le mie carezze si bloccarono, incapace di processare tutta quella onestà, ma solo per un attimo. Ripresi ad accarezzarlo e, se possibile, lo strinsi ancora più forte a me. 

“Ora sono qui”.

Rimanemmo così per un’eternità, la sua testa sulla mia spalla, le mie braccia intorno al suo corpo e il suo respiro che si faceva sempre più lento. 

“Shade, ti chiedo un ultimo sforzo, va bene?” con una forza che non sapevo di avere mi staccai da lui, lo spinsi dolcemente con le mani sulle sue spalle e cercai il suo sguardo. Annuì proprio come avrebbe fatto un bambino e non riuscii a trattenere un sorriso. 

“Mi mostri dov’è camera tua?”.

Con palpebre pesanti Shade sembrò riacquistare un po’ di lucidità per condurmi verso una porta in quello stesso corridoio. Quando l’aprì, lo seguii in una stanza buia e più vuota di quello che mi aspettavo. Era un po’ più piccola di quella di Milky, ma l’assenza di oggetti dava l’impressione fosse molto più grande. Oltre ad un grande armadio in legno, vi era un letto matrimoniale al centro, una scrivania ordinata e un libreria stracolma di libri.  Nient’altro. 

Shade si fermò al ciglio del letto, prima di cercarmi nella stanza. Subito gli fui accanto e contro ogni sua protesta, lo obbligai a sdraiarsi. Gli rimboccai le coperte come gli avevo visto fare poco prima, e cauta rimasi in piedi accanto a lui. 

“Non andartene” sussurrò e io sentii il cuore battermi in gola.

“Ti sei forse scordato quanto sia difficile sbarazzarti di me?” scherzai, vidi un sorriso comparire sul suo volto e un attimo dopo Shade si era spostato verso il lato opposto del letto. 

Cauta salii anch'io e lentamente mi sdraiai accanto a lui. Io sopra le coperte e lui ben sotto. Sapevo fosse una situazione compromettente, ma in quel momento non vi era null’altro se non la consapevolezza che aveva bisogno di me lì, accanto a lui.

Rimanemmo in silenzio, il ritmo dei nostri respiri che scandiva il tempo e io mi ritrovai ad accarezzargli distratta i capelli. Avevo iniziato perché gli cadevano fastidiosamente negli occhi, ma erano così soffici e spessi tra le mie dita che mi ero ritrovata a prolungare ogni carezza. I suoi occhi mi osservano attenti, ma potevo vedere le palpebre farsi sempre più pesanti. Sapevo stesse facendo una fatica immensa nel cercar di restare sveglio. 

“Ho rovinato tutto, non è vero?” lo sentii dire all’improvviso.

“Cosa intendi?”

“Tra di noi” rimasi sorpresa, confusa quasi.

Ritirai piano la mano e abbassai lo sguardo. Sapevo perché Shade ero convinto fosse colpa sua. Nelle passate settimane avevo fatto di tutto per evitarlo. Avevo ignorato ogni suo messaggio e finto di non vederlo o cambiato direzione ogni qual volta lo incontravo nei corridoi della scuola. 
Shade mi aveva visto confusa, vulnerabile e imperfetta, e io ero scappata. 
 
E la verità è che avevo odiato ogni singolo giorno senza di lui. Mi ero sentita una persona orribile, tutto quello che avrei voluto fare era correre da lui, raccontargli la mia giornata, lamentarmi di una qualsiasi sciocchezza e arrabbiarmi alla sua inevitabile presa in giro. 

“Sai perché sono venuta? Perché avevo bisogno di te” sussurrai con occhi puntati al soffitto, non sarei riuscita a dire quelle parole guardandolo in viso “Non c’è stato giorno in cui non avrei voluto parlarti, chiederti consiglio, o semplicemente averti al mio fianco. Sei diventato parte della mia vita in un modo così naturale, che ho dovuto starti lontano per capire quanto davvero io non voglia fare a meno di te” mi aprii in una risata breve e nervosa e finalmente cercai il suo sguardo.

Shade dormiva, gli occhi chiusi e il respiro pesante e io non potei fare a meno che sorridere.

“Quello che voglio dire è che mi sei mancato anche tu Shade” 

 
*

 
Avevo sempre amato cucinare. Cucinavo spesso per mamma, che tra un turno e l’altro faceva ore senza un boccone, a volte per Fine, terrorizzata dalla possibilità che potesse lei cucinare qualcosa a me, e  quasi sempre per me stessa. Inutile dire che non avevo mai cucinato per Shade. Non solo, non avevo mai cucinato in una cucina non mia. Come il resto di quella casa, era splendida. Una cucina di prima categoria, provvista di qualsiasi cosa potessi immaginare: ripiani di quarzo, pentole di ogni dimensione, un set di coltelli da far invidia a qualsiasi televendita e un sacco di aggeggi dalla dubbia utilità. Non era stato così difficile, il frigorifero era stracolmo di cibo e Milky, la quale aveva finito il suo pisolino pomeridiano da un pezzo, era stata un’aiutante fondamentale.

Quando verso le quattro, ero uscita dalla stanza di Shade sicura lui stesse dormendo, me l’ero ritrovata sulla soglia della sua cameretta che mi guardava con occhi vispi e decisamente poco assonnati, segno che il suo pisolino si era concluso. Non ero brava con i bambini, quella era Fine, ma cercai di fare del mio meglio. Avevo promesso a Shade che l’avrei aiutato e non me ne sarei andata da quella casa finchè non fossi stata sicura di averlo fatto. 

Così io e Milky avevamo passato il resto del pomeriggio insieme, prima a guardare cartoni animati, e poi a cercare di mettere qualcosa insieme per la cena. Il suo aiuto consisteva principalmente nell’indicarmi dove trovare ciò che mi serviva e riempire le pareti di passata di pomodoro. L’arrivo poi di una donna decisamente troppo felice di vedermi, che rispondeva al nome di Dolores, avevo reso le cose ancora più facili. Dopo avermi ringraziato almeno quindici volte in due minuti per aver aiutato il “signorino Shade”, era partita alla carica. Aveva indossato un grembiule alla velocità della luce e quella che doveva essere una semplice cena, era diventato un banchetto per dieci persone.

Quando Shade fece la sua comparsa sulla soglia della cucina, Dolores era appena uscita per fare il bagnetto a Milky. Il “signorino” aveva occhi gonfi, capelli spettinati e l’adorabile segno del cuscino su tutta una guancia. Erano le nove, aveva dormito per quasi sei ore ed ero sicura avesse ancora bisogno di sonno. 

“C-che sta succedendo?” balbettò confuso camminando verso di me.

“Hai fame?” chiesi mostrandogli le numerose pentole sui fornelli. Ignorò completamente tutto quel buonissimo cibo e continuò a camminare verso di me finché non mi fu davanti. Senza esitazione mi prese una mano e ancora confuso cercò i miei occhi.

“Che ci fai qui?” 

“Mi hai chiesto di restare ricordi?” la mia mano ancora stretta tra la sua. 

Shade sembrò riflettere su quelle parole e poi finalmente si aprì in sorriso “Muoio di fame. Cosa mi hai preparato?".

Non scherzava. Mangiò come non lo avevo mai visto fare. In realtà, come non avevo mai visto nessuno fare. Sedutagli accanto l’osservai mandare giù una quantità inaudita di cibo e mentre faceva tutto questo, non smisi un attimo di toccarmi. La sua mano era sempre in contatto con me, sulla mia spalla, sul fianco per poi finalmente decidee di riposare sul mio ginocchio. Era un comportamento insolito, come se mi volesse tenere vicino a lui per paura scappassi. Non era un movimento cosciente o fatto di proposito, ma qualcosa di naturale e spontaneo e io non obbiettai. 

Parlammo del più e del meno, dei compiti che aveva da recuperare e di qualche compagno di scuola. Stavamo entrambi evitando abilmente l’elefante nella stanza e quando quello divenne troppo grande da ignorare feci un lungo sospiro e richiamai la sua attenzione. 

“Shade, adesso che stai un po’ meglio, ti va di raccontarmi cos’è successo?”.

Shade posò la forchetta e allontanò da sé il piatto ormai vuoto. Lo osservai mordersi le labbra e stringere inconsciamente la presa sul mio ginocchio. 

“Cosa sai?” i suoi occhi ovunque tranne che su di me. 

“So solo che tua madre non sta molto bene” avevo cercato le parole più delicate, quello che si era creato tra di noi era fragile e instabile.

“Mia madre ha una salute cagionevole e alcuni periodi sono peggio di altri… e questo è uno di quei periodi” fece un respiro profondo e continuò “Io e Dolores ci diamo il cambio per andare a trovarla, portarle quelle che le serve e farle compagnia. Quando non sono in ospedale mi prendo cura di Milky” parlò in modo robotico, come se fosse stata una parte recitata decine di volte. La mano sul mio ginocchio si strinse ancora di più. 

“Mio padre?” chiese come se mi avesse letto la mente “Tre giorni fa è tornato da un viaggio d’affari mentre io ero all’ospedale, ha fatto una nuova valigia ed è ripartito. Sai cosa ha lasciato?” non si aspettava una vera risposta e infatti rimasi in silenzio. Shade scosse la testa e si aprì in una breve risata sarcastica “Ha lasciato un biglietto. Proprio quello di cui suo figlio e sua figlia avevano bisogno, non trovi?”.
 
Finalmente Shade mi guardò. Si voltò verso di me e tutto ciò che vidi fu il suo viso stanco e pieno di rabbia.

Non sapevo così dire. Da persone che non potevano sopportarsi eravamo arrivati ad aprirci l’uno all’altro in un modo così onesto. Shade si era confidato con me e mi stava ora guardando senza difese. Io potevo scegliere di rifiutare quella confessione o accoglierla e visto che le parole mi mancavano, feci l’unica cosa che mi sentii di fare. Mi avvicinai di più a lui e lo abbracciai, di nuovo.

Un abbraccio maldestro quella volta, io seduta sulla mia sedia, lui sulla sua. La sua mano ancora sul mio ginocchio, le mie braccia attorto al suo collo. Lo sentii respirare tra i miei capelli e io strinsi più forte.  
 
“Rein la mia famiglia disfunzionale non è tuo problema” sussurrò al mio orecchio.

Avrei voluto dirgli che sì, lui era un mio problema. Lo era stato dal giorno in cui eravamo diventati malauguratamente amici. Che meritava una famiglia che lo supportasse, di dormire abbastanza ore la notte e di avere le preoccupazioni di ogni ragazzo della sua età. Non quel peso opprimente che si era ritrovato a gestire solo, o quasi. Invece, tutta quella raffica di parole mi si arrotolò sulla lingua e quello che ne uscì quando mi staccai da lui mi lasciò insoddisfatta e con quel familiare peso di cose non dette nel petto.
 
“Ho fatto una torta”.

A prova della mia affermazione spinsi verso di lui il piatto con su il mio dolce, decisamente non all’altezza di quello che aveva preparato Dolores. Mi feci piccola sulla sedia e osservai con eccessiva attenzione le venature del legno del tavolo. 

Shade non sembrò non curarsi della svolta che aveva preso la discussione, si tagliò un’abbondante fetta per far subito un generoso morso. Per un attimo dimenticai tutto quello che era successo e sentii un forte imbarazzo invadermi, un forte calore partire dal petto per arrivare a guance e orecchie, che ero sicura fossero diventate paonazze.  

Shade stava mangiando la mia torta e mai avrei pensato una cosa del genere potesse mettermi in imbarazzo, ma evidentemente sì. Stavo morendo di vergogna. E fosse stata troppo secca? O forse poco dolce? E se l’avesse odiata? Mi sentii all’improvviso incredibilmente vulnerabile, esposta e mi ritrovai ad osservarlo con occhi grandi e una velata preoccupazione sul viso e quando Shade si aprì in un mugolio di piacere, mi lasciai andare in un sospiro di sollievo. 

“Torta al limone, la mia preferita” la cosa peggiore? Shade sembrava essere perfettamente al corrente della mia ansia. Mi sorrise sornione e la mano che non teneva in mano la forchetta tornò sul mio ginocchio.

“L’hai fatta tutta per me?” chiese civettuolo, avendo persino l’audacia di farmi l’occhiolino. La mia preoccupazione sparì e io mi ritrovai a roteare gli occhi. 

“Goditela perché è l’ultima che ti faccio” ma il sorriso che mi si formò sulle labbra invalidò quella minaccia.
 
Shade sorrise a sua volta e per un attimo rimanemmo in silenzio, il rumore della forchetta sul piatto come unico suono. Giocò con l’ultimo boccone, ma invece di portarselo alla bocca si voltò verso di me e il suo sguardo si fece serio.

“Perché sei venuta?”.
 
“S-scusa?” mi aveva colto impreparata. Distolse veloce lo sguardo e mangiò velocemente l’ultimo pezzo di torta. Invece di posare la forchetta, si tagliò un’altra fetta e se la portò sul piatto.

“Perché sei venuta da me?” domandò nuovamente senza però guardarmi questa volta. Io rimasi per un attimo in silenzio. Combattuta sul dirgli la verità o meno. 

Perché non auto-sufficiente nelle relazioni amorose? Perché non ero in grado di mandare avanti la mia relazione (se così potevo definirla) con Bright? Perché avevo bisogno di lui per sistemare i pensieri nella mia testa? 

Sì, sì e sì. 

Era tutto vero e voleva dire una cosa ben precisa: io non era venuta lì per lui. Non inizialmente. Forse ero rimasta per lui, ma non mi trovavo in quella casa perché avevo desiderato passare del tempo con Shade. Ero lì per me. E proprio perché avevo deciso di rimanere per lui, non potevo dirgli la verità. Shade era la mia priorità in quel momento e sarebbe stato egoista parlare dei miei problemi, soprattutto quando i suoi erano decisamente più grandi dei miei. 

Avevo promesso che l’avrei aiutato e l’unico modo in cui l’avrei potuto fare era distrarlo. Offrirgli qualche ora di pausa da quel casino che era la sua vita e di certo non avrei sprecato quell’opportunità parlandogli di Bright. 

“Una sciocchezza sul compito in classe di storia. Ne riparleremo quando le cose si saranno calmate, non preoccuparti” agitai una mano in aria per minimizzare le mie parole e forzai un sorriso.

Il modo in cui Shade mi guardò, alzando appena un sopracciglio, mi fece capire non fossi la sola a sapere quella fosse una bugia. Rimase però in silenzio, si portò un altro boccone di torta alla bocca senza però mai smettere di guardarmi. 

 
*

 
Dopo aver pulito la cucina alla bene e meglio e tre fette di torta più tardi, Shade mi stava mostrando il resto della casa, ovviamente sotto mia richiesta. Come avevo immaginato, era splendida in ogni suo angolo. Era enorme, stanza dopo stanza, sembrava non finir mai, ma più stanze scoprivo, più si faceva spoglia, fredda e buia. 

Intere camere erano coperte quasi interamente da lenzuoli bianchi. La casa in sé era meravigliosa, degna dei magazine più prestigiosi, e tale rimaneva. Una bellissima casa da rivista, ordinata, elegante e incredibilmente priva di vita. 

Tenni per me quella sensazione e continuai a mostrarmi curiosa, mentre seguivo Shade per quel labirinto di scale e corridoi.  Erano le dieci passate e la mia permanenza cominciava a farsi sempre meno logica, ma nessuno dei due sembrava voler anche solo prendere in considerazione quel fatto. 

Per la prima volta da quando lo conoscevo, realizzai che passare tempo con Shade non mi dispiaceva affatto. Mi ero divertita al centro commerciale, in spiaggia e persino a piantare piantine nella sua serra. Forse poteva risparmiarsi qualche battuta nei miei confronti, ma a mala pena ricordavo perché lo avessi detestato tanto prima di far quell’assurdo patto.
 
“Sei sicuro che non hai sonno?” la mia voce suonò molto più alta di quello che in realtà fosse nel silenzio che ci circondava. Shade sbuffò con gli occhi rivolti al soffitto, ma non riuscì a trattenere un sorriso divertito.

“Per la quinta volta, sto bene".

“Perché se hai sonno, posso lasciarti riposare, oppure potr-” fui letteralmente ammutolita dalla sua mano sulla mia bocca. 

“Rein, l’ultima cosa che voglio è che tu te ne vada. Capito?” cercò un cenno di assenso e solo al mio annuire mi lasciò andare.

“Posso essere sincera al 100%? Non ho nessuna intenzione di andarmene” non c’era nessuna altra persona al mondo con cui avrei voluto essere in quel momento. Sentivo di essere nel posto giusto, al momento giusto. 

Shade per poco non inciampò. Cercò di ricomporsi velocemente, ma aumentò involontariamente il passo. 

“Bene” le orecchie gli si erano fatte bordeaux e istintivamente cercò di sistemarsi il berretto sulla testa, per non trovarvici nulla. 

“Bene” imitai con voce allegra per prenderlo un po’ in giro e con due saltelli gli fui di nuovo al fianco “Non ci posso credere che ci siamo incontrati a casa mia, quando tu vivi letteralmente in un palazzo”. 

“E ancora non hai visto niente”.

“Vuoi dirmi che c’è qualcosa di meglio dell’enorme vasca del tuo bagno?”.

“E tu come-”.

“Hai dormito per parecchie ore, sii grato abbia avuto un minimo di autocontrollo. Se mi ci fossi tuffata dentro, a quest’ora sarei ancora a mollo circondata da bolle”.

“Stai certa che non me ne sarei lamentato” fu il mio turno di arrossire e Shade fu gentile abbastanza da non far ulteriori commenti. 

Mi piaceva quell’equilibrio che si era instaurato tra noi. Non avevamo fatto altro che flirtare e prenderci in giro da quando si era svegliato. Realizzavo lontanamente che stessimo camminando sul filo di un rasoio, ma tutte quelle battute erano innocue, non nascondevano un vero interesse e mi divertivo a farlo arrossire ed ero sicura per lui fosse lo stesso. Il sorrisetto beffardo che mi lanciò me ne diede la conferma.
 
Salimmo le scale fino ad arrivare a quello che doveva essere l’ultimo piano della casa, ad attenderci però non vi era un corridoio come nei precedenti piani, ma un grande portone a due ante. Non dovetti fare nessuna domanda perché prima ancora che potessi apri bocca Shade le spalancò entrambe. Mi fece segno di entrare e io così feci.

Vedevo poco della stanza, che era completamente avvolta nel buio, se non per la luce della città che riusciva ad entrare dalla tende chiuse e che formava motivi rettangolari sul pavimento ed essendo un’intera parete ricoperta di tende, l’intera stanza era un susseguirsi di motivi di luce per tutta la sua lunghezza.
Nella penombra, potevo vedere i mobili coperti con quei familiari lenzuoli bianchi, il legno scuro del parquet e grandi lampadari adornati da cristalli riflettere quel poco di luce che riusciva ad entrare nella stanza. 

“Dove siamo?” parlai al vuoto, non riuscendo a distinguere la sagoma di Shade da nessuna parte. Ero sicura mia avesse seguito, ma quando mi voltai non era accanto a me.
 
“Quando ero piccolo, la usavamo per grandi feste, mamma adorava organizzarle e curarle in ogni piccolo particolare. Finivano sempre con un ballo. Avevo cinque, forse sei anni, e l’unica cosa che desideravo era ballare insieme ai grandi, invece ero obbligato ad andare a letto presto e perdermi quella che era per me la parte più bella della festa” la sua voce non era distante e potevo sentirlo sorridere, girai su me stessa e lo cercai con gli occhi, ma nulla.

“La casa è grande e da quando mamma si è ammalata, abbiamo iniziato ad usare sempre meno stanze. Questa è una della prima che abbiamo chiuso” potei sentire un pizzico di rammarico nella sue parole, che però aveva cercato di soffocare abilmente.

“È splendida” commentai più per gentilezza, che per vera meraviglia.  

“Non ti ho portato fin quassù per vedere una vecchia stanza impolverata” e a quelle parole tutte le tende magicamente si aprirono e io mi ritrovai con occhi grandi e spalancati e la bocca aperta a mezz'aria. 

L’intera città era lì ai miei piedi. Tutte le sue luci decoravano il buio della sera formando uno spettacolo mozzafiato. 

Mi avvicinai lentamente alle finestre che ricoprivano l’intera parete fino a trovarmi con entrambe le mani sul vetro. Potevo vedere il mio riflesso ondeggiare trai quei tanti piccoli fuochi nell’aria nera e immobile. 

Quando mi voltai lo spettacolo era altrettanto magico, i cristalli dei lampadari riflettevano tutto in torno a loro  tanti piccoli motivi astratti e in mezzo a quel gioco di specchi Shade mi guardava con un sorriso soddisfatto, ma appena accennato. 

“Ripeto: tu hai permesso che ci incontrassimo nel mio minuscolo appartamento, quando tu hai tutto…questo?” agitai le mani in aria come a supporto delle mie parole e Shade scosse divertito la testa. 

“Ehi, io amo il tuo appartamento” sussurrò a bassa voce. 

“Lo amo anche io” ammisi.

Tornai ad osservare l’orizzonte e una volta al mio fianco, Shade mi imitò. Il mio sguardo si alternava tra la città sotto di noi e il suo viso, tela di un gioco di ombre e luci. Rimanemmo così per parecchi secondi, finché non riuscii più a trattenermi. 

“Quindi il piccolo Shade amava ballare.”

“Mamma mi ha obbligato a prendere lezioni per anni” 

“Sai ballare davvero?” quasi urlai, la serenità di quel momento completamente dimenticata.

“Tu sai ballare? Allora balliamo!” Shade indietreggiò sorpreso, forse un po’ spaventato, a quel mio cambio repentino d’umore. 

“Mi hai appena confessato di saper ballare. Tu! Il ragazzo che fino a cinque secondi fa pensavo aver due piedi sinistri e il senso del ritmo di un pinguino, quindi sì! Insegnami!” il mio ragionamento non faceva una piega. 

“Non abbiamo la musica”.

“Erano principalmente balli da sala”.

“Devo davvero? Rein non stai scherzando?”.

La mia espressione di completa adorazione non vacillò per neanche un secondo. Shade si passò entrambe le mani tra i capelli prima di scuotere le spalle e fare un passo nella mia direzione. Un attimo dopo mi ritrovai con una sua mano sulla vita e l’altra incrociata alla mia.

“Sai quello che devi fare?” mi chiese mentre osservava i nostri piedi.

“Nessuna idea” ruotò gli occhi e mi sorrise rassegnato.

“Allora segui me".
 
Cominciò a contare, sempre guardando i nostri i piedi e per i primi cinque secondi cercai di imitarlo, ma i miei occhi tornavano inevitabilmente su di lui, sulla sua espressione concentrata, il labbro inferiore stretto tra i denti e le sopracciglia corrucciate. Espressione che mutò velocemente e si trasformò in una di dolore.

“Scusa” commentai mesta ripuntando il mio sguardo a terra. Shade non si lamentò, riprese a contare e questa volta cercai con tutta me stessa di concentrarmi.

“Bravissima, proprio così” le sue parole mi rilassarono e prima che potessi realizzarlo ci stavamo muovendo intorno alla stanza. La sua mano sempre stretta sulla mia vita. Quando i miei piedi sembrarono aver preso il ritmo e muoversi per conto loro, alzai lo sguardo ed ad accogliermi c’era il suo.

Shade mi osservava divertito, mi fece l’occhiolino e meno di un secondo dopo mi ritrovai piroettare su me stessa una, due, tre volte. Mi lasciai scappare uno squittio sorpreso e di nuovo mi ritrovai a girare per la stanza guidata da lui. Mi fermai giusto il tempo di sentire il suo petto contro la mia schiena, prima di essere sollevata in aria con entrambe le sue mani sulla vita.  
 
“Questo non è walzer” commentai una volta toccato terra, finalmente guardandolo negli occhi. 

“No, ma è decisamente più divertente”.
 
I nostri visi erano così vicini che la punta del mio naso sfiorava la sua e come quel giorno in mare, la mia attenzione gravitò sulle sue labbra. Pensavo ancora ogni singola parola. Sarebbe stato tutto molto più facile se per caso le nostre strade si fossero incrociate in un altro modo, se per davvero, per puro caso, mi fosse innamorata di lui. Perché con Shade potevo essere me stessa, senza ansie o paure. Potevo comportarmi senza pensare ad ogni mia singola azione o parola, era tutto così facile.

Tutto quello durò meno di un secondo, un attimo dopo ero a testa ingiù, i capelli che sfioravano terra e schiena inarcata, le sue labbra ora ben distanti dalle mie. 

Dolcemente, mi aiutò a risalire, la sua mano che piano scendeva dalla mia schiena fino a tornare alla vita e che fu presto accompagnata dall’altra. Le mie invece trovarono posto intorno al suo collo e inconsciamente i nostri corpi iniziarono ad ondeggiare al ritmo di una musica silenziosa. 

“Sei davvero un ragazzo pieno di sorprese” avevo la mente confusa e leggera per tutte quelle giravolte. Il corpo di Shade era caldo e il suo profumo dolce e penetrante mentre mi cullava in silenzio. Mi ritrovai ad appoggiare la testa sul suo petto, occhi chiusi e il suo cuore che batteva ritmato sotto di me. 

“Se avessi saputo prima di questa tua dote nascosta, mi sarei innamorata di te” scherzai giocosa realizzando le mie parole solo una volta pronunciate. Aprii immediatamente gli occhi, ma non mi mossi. Anche lui si bloccò, ma solo per un secondo. Un attimo dopo, sentii la sua risata risuonargli nel petto. 

“Sei sempre in tempo”.

“Attento a quello che dici. Con una casa del genere, potrei farci davvero un pensierino”.

“Sapevo tu fossi in grado di riconoscere le cose importanti in una relazione”.

“Sempre”.

Scherzavamo, era così che funzionava. Tutto quel flirtare era innocuo, innocente, non avrebbe mai portato a nulla. Era quello l’equilibrio che si era formato fra noi. Sì, scherzavamo giusto?

Continuammo ad ondeggiare, i nostri movimenti si fecero sempre più lenti, finché non ci fermammo del tutto. 

Avrei dovuto allontanarmi, staccarmi da lui e mettere fine a tutto quello, perché sapevo fosse sbagliato. Io e Shade eravamo amici. Nulla di più. 
Tutto quello era sbagliato e forse lo era già da un po’. Da quella giornata in spiaggia in cui avevo guardato le sue labbra e desiderato sfiorarle. Eppure, la forza mi mancò. Ero pur sempre una ragazza tra le braccia di un ragazzo che la stava toccando come se fosse la cosa più preziosa al mondo, mentre insieme danzavano su note immaginarie con la città risplendeva davanti ai loro occhi.

Quel momento era troppo magico per fare la cosa giusta. Forse in quel momento, ballare abbracciata a Shade era l’unica costa giusta da fare.  

“Milkshake".

Sorprendentemente, non dovetti fare proprio un bel nulla. Ci pensò Shade. Mi sentii spingere lontano da lui in modo incredibilmente pacato e confusa cercai la conferma di aver capito bene, notando subito quella distanza che si era formata tra noi. 

“Milkshake?”.

“Ho voglia di un milkshake, ti va?". 

“C-certo”. 

Raggiunse la porta quasi correndo e in un attimo realizzai di aver oltrepassato il limite. Non solo io e Shade eravamo solamente amici, eravamo anche perdutamente innamorati di altre persone. Non c’era spazio per quella infantile ricerca di conforto, perché altro non era che un abbandonarsi ad una sensazione piacevole, sì, ma a lungo andare pericolosa. Shade se ne era accorto prima di me. Stava scappando e forse lo avrei dovuto fare anche io.
 
 
*

 
Seduta nel retro del pick-up di Shade, lo osservavo inzuppare una patatina fritta nel suo milkshake al cioccolato. 

Non mi ero mai ritrovata in un parcheggio di un fast-food a tarda notte a mangiare schifezze. Forse c’era un qualcosa di romantico in quella situazione, come il godersi i primi caldi della stagione sotto un cielo di stelle, ma tutto si perdeva nella luci al neon della catena di cibo spazzatura accanto a noi e nell’odore di fritto che aleggiava nell’aria. 

Inutile dire che sarebbe stato impossibile dimenticare una serata del genere. 

“È disgustoso” commentai senza che venisse richiesta la mia opinione.

“Lo dici solo perché non lo hai mai provato".
 
“Lo dico solo perché è un abominio culinario".

“Patatine fritte? Buone. Milkshake? Buono. Buono più buono fa buonissimo” tese verso di me una patatina grondante di cioccolato e la mia curiosità ebbe la meglio.

“Com’è?”.

“Disgustoso”. 

Lo sentii ridere mentre cercavo di togliermi quell’orribile gusto dalla bocca con un grosso sorso di frappè. L’imbarazzo provato poco prima a casa di Shade riposava in una parte remota della mia testa. Ovviamente, avevo fatto di tutto per evitare di parlarne. Ad un certo punto mi ero persino messa a parlare a vanvera di Poomo, il mio gatto, e delle sue abitudini alimentari.  

“Indossi i tuoi vestiti” la voce di Shade mi risvegliò dai miei pensieri e mi ritrovai ad osservare la mia gonna confusa.  

“Indosso sempre i miei vestiti” il suo sguardo incredulo mi diede la conferma che quella non fosse la risposta che si aspettava. Attese paziente che la mia testa facesse due più due e quando capii cosa volesse dire annuì lento sorridendomi appena, proprio come avrebbe fatto con un bambino. 

“Sono stanca di dover vestirmi di nero” sbuffai esasperata “È un colore così deprimente! Per non parlare dei pantaloni aderenti e delle magliette scollate. Non mi si addice, non mi sento…” 

“Te stessa?”

“Già”.

Un silenzio carico di parole non dette scivolò tra noi. Né io né Shade osavamo guardarci negli occhi, ma non avevo bisogno che parlasse per sapere quello che stava pensando. 

“Abbiamo fatto una cavolata?” più che una domanda verso di lui era un modo per testare per la prima volta ad alta voce quella possibilità. 

Shade alzò entrambe le spalle e si sistemò meglio contro il lato del pick-up, allungando le gambe dritte davanti a sé. 

“L’idea era tua” a quelle parole non riuscii a trattenere un grugnito incredulo.

“Ma tu mi hai assecondato!".
 
“Lo sai come si dice no? Sul fatto di assecondare sempre i matti” il modo in cui sorrise furbo mi fece capire fossi caduta in una delle sue solite trappole. Sbuffai indispettita e mi ritrovai involontariamente a sorridere a mia volta.

Lo imitai, appoggiai la schiena e alzai lo sguardo verso il cielo. Non c’erano molte stelle, eravamo in una zona troppo illuminata perché si vedessero. 

“Il punto è…” sussurrai piano, occhi puntati in alto e mani incrociate sul ventre “Se mi presentassi domani da Bright così come sono, lui cosa farebbe?”.

Silenzio. Quel cielo sopra le nostre teste si fece ancora più immenso, ancora più nero. 

“Per me sei perfetta così come sei”.

Nessuna esitazione. Nessun sussurro. Aveva parlato con voce chiara e forte, come se credesse fermamente ad ogni singola parola e io non riuscii a trattenere un sorriso, forse un po’ triste, ma pieno di gratitudine.

“Ora dovresti dire lo stesso di me” dimenticai ogni preoccupazione e risi di gusto.

“Non lo so, quelle felpe oversize erano davvero orribili” commentai girandomi su un fianco ed ad attendermi Shade, che mi guardava anche lui sorridente. 

“Sì, abbiamo fatto un bel casino” dichiarai senza più indecisione, ufficializzando la cosa. Shade annuì e di nuovo cademmo in silenzio. Fu sempre Shade a romperlo. 

“Perché sei qui?” a quella domanda sentii il battito del cuore accelerare, non ero mai stata brava a mentire. 

“Te l’ho già detto”.

“Rein, mi hai aiutato più di quanto tu possa immaginare, ma non sei venuta per me. Sei rimasta per me, lo so, e questo lo apprezzo”

“Io…io avevo bisogno di te” la voce mi si fece piccola, piccola. Avevo fatto di tutto perché Shade fosse la mia priorità quella sera, ma in quel momento mi ritrovavo con le spalle al muro. 

“Per Bright” lo disse lui.

Annuii silenziosa. Shade lo aveva sempre saputo. In fondo, la nostra amicizia su quello si basava, il collante tra noi erano Bright e Fine. 

Mi tirai a sedere, schiena dritta e gambe incrociate. Feci un lungo sospiro e mi ritrovai a guardare qualsiasi cosa non fosse Shade.  

“È una sciocchezza, davvero. In realtà è una sciocchezza incredibilmente imbarazzante, quindi penso passerò” Shade mi aveva imitato e ora, sedutomi di fronte, mi guardava con un’espressione rassicurante nel tentativo di spingermi a parlare.

“Io e Bright… sì ecco, io e Bright… il tuo amico e io…”.

“Ok, tu e Bright, andiamo avanti”.

“Ci siamo baciati”.

“Oh”.

Persi completamente la reazione di Shade, i miei occhi che vagavano senza sosta ovunque intorno a me. Le guance che, ne ero sicura, erano diventate paonazze mi andavano a fuoco e mi ritrovai a cambiare posizione almeno tre volte prima di decidere di rimanere in ginocchio.  

“E se pensavo che questa prima parte fosse difficile da sputar fuori, sottovalutavo quando imbarazzante fosse la seconda parte di tutto ciò” stavo blaterando e non avevo idea di come Shade stesse ricevendo quella mia confessione perché in quel mio stato di semi-panico l’unica persona su cui riuscivo concentrarmi era me stessa. 

“Tu sai quanto io desiderassi baciarlo? Quante volte io abbia immaginato quell’esatto momento e altri molto più piccanti in realtà, ma sto divagando. Il punto è che tu sei testimone di quanto io non vedessi l’ora accadesse, giusto?” finalmente lo guardai negli occhi. Shade mi osservava con un’espressione indecifrabile sul volto, un misto tra rassegnazione e curiosità. 

“Ecco, allora capisci anche tu quanto difficile è stato per me quando le nostre labbra si sono finalmente toccate io non ho sentito assolutamente nulla”.

Ecco lo avevo detto. Avevo sputato quell’orribile rospo. Vivere era troppo difficile, non ne ero in grado, ero un completo fallimento. 

“Nulla?” era forse un sorriso quello che gli spuntò in viso? Se avesse osato anche solo fare un singola battuta a riguardo sarei saltata giù da quella macchina e tornata a casa a piedi.  

“Nulla. Niente farfalle, ginocchia molli, o mani sudate”.

“Nulla?” Shade sembrava sorpreso quanto me. Mi guardava incredulo mentre quello strano sorriso non faceva altro che allargarsi.  

“Non farmelo ripetere”. 

“Scusa. Continua” respirò profondamente e la sua espressione si fece più seria. Lo ringrazia con gli occhi e cercai dentro di me il coraggio di andare avanti e continuare quel racconto che stava diventato sempre più una storia degli orrori. 

“Sono rimasta immobile, con occhi aperti a desiderare solo che… finisse?” nel pronunciare quell’ultima parola non riuscii a trattenere una smorfia. Ero davvero una persona orribile. Non mi meritavo quell’anima pura che era Bright.  

Cercai una qualsiasi reazione in Shade, ma lui rimase in silenzio. Quell’espressione seria e artificiosa incollata sul suo viso, il fantasma di un sorriso abilmente tenuto nascosto. Fortunatamente, aveva capito che non vi era posto per le use battutine sarcastiche.

“Allora?” chiesi con un velo di esasperazione nella voce. 

“Le opzioni sono due: o Bright bacia male o sei tu quella che non ci sa fare.” parlò dopo un lungo sospiro, Come se stesse svelando una soluzione ovvia, ma concepita dopo una profonda analisi e io mi ritrovai a serrare la mascella e a stringere i pugni. Non ero mai stata una persona violenta, ma Shade riusciva sempre a tirare fuori quel lato me. 

“Chiedo scusa?” abbandonai ogni vergogna e quasi lo urlai “Nessuno si è mai lamentato dei miei baci!”. 

“Ovviamente non con te” sapevo Shade stesse cercando di farmi innervosire. Era una delle cose che più amava fare, ma in quel momento presi quella consapevolezza, l’accartocciai tra e mani la gettai, metaforicamente parlando, fuori dalla finestra insieme all’ultima mia briciola di ragione. 
Io mi ero aperta con lui e tutto quello che sapeva fare era insultarmi? 

“Sei incredibile! Cosa puoi saperne te?” mi ritrovai a fronteggiarlo, mento alto e petto in fuori, mentre involontariamente mi avvicinai di più a lui. 

“Hai ragione, non so nulla di baci mediocri, d’altronde io bacio alla grande” mi fece l’occhiolino – che simpatico! - e io ebbi la tentazione di cavarglielo quell’occhio. 

“Pensi di essere migliore di me?!".

“Non sono io che sono rimasto con le labbra a pesce davanti a Bright”.

Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. 

Sapevo solo che un attimo prima lo stavo guardando negli occhi con la rabbia che mi ribolliva nel petto e un attimo dopo le mie labbra erano premute contro le sue. Quasi mi feci male tanta era la forza con cui mi ero lanciata addosso a lui. 

Rimanemmo immobili, come pietrificati, ma solo per un millesimo di secondo. Non so chi iniziò il bacio vero e proprio, sapevo solo che le mie labbra iniziarono a muoversi. Sentii le palpebre farsi pesanti, incapaci di rimanere aperte, e io mi lasciai andare senza più ascoltare quella vocina nella mia testa che si faceva sempre più lontana. 

E in quell’attimo provai tutto quello che era giusto provare. Sentii lo stomaco capovolgersi, il cuore scoppiarmi nel petto da quanto veloce batteva, e ogni pensiero razionale abbandonarmi la mente. 

Le sue labbra giocavano con le mie, le tentavano, morbide e proibite e io mi lasciai guidare e forse un po’ fu io a condurre quel gioco. Gli bastò leccarmi tentatore il labbro inferiore perché subito, senza controllo, le dischiudessi. Chiusi ancora più forte gli occhi, come a voler amplificare quella miriade di sensazioni che stavo provando e involontariamente portai le braccia intorno al suo collo per stringerlo ancora di più a me. Volevo prolungare quel contatto il più possibile, perché non sapevo se mai sarei riuscita a farne più a meno. 

Quando mi sentii delicatamente allontanare, quando Shade trovò la forza, con mio grande rammarico, di porre fine a quella pazzia, io mi ritrovai ad osservarlo con occhi lucidi, labbra gonfie e cuore in gola.

“Ok, posso confermare non sia tu il problema tra i due”.

“Oh stai zitto” e prima che i pensieri potessero raggiungermi, prima che quella vocina tornasse a dirmi quanto sbagliato fosse quello che stavo facendo, mi lanciai tra le sue braccia e di nuovo cercai le sue labbra una seconda volta.

Lo baciai finché il mio corpo me lo permise. Finché quel piacevole vuoto nello stomaco si trasformò in senso di colpa. Finché la realtà non si fece prepotentemente spazio tra noi e io mi ritrovai con fiato corto e occhi sbarrati a contemplare quello che avevo appena fatto.

 
 






Chi non muore si rivede parte millesima.
Avevo promesso un capitolo più lungo del solito e... eccolo qui?
Sono abbastanza orgogliosa del risultato, questo è quello che mi piace fare! Scrivere clichés uno dopo l'altro haha <3
Scusate per il numero spropositato di scene zuccherose, ma probabilmente ne avevo bisogno.
La scena del bacio è anche quella che ha dato vita alla fic e non posso credere di averla finalmente scritta yay.
Detto questo, è stato mooolto lavoro scrivere questo chap quindi fatemi sapere se lo odiate, amate o entrambi :P


 
 
 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3080666