Il giuramento che affonda nel sangue

di Roriam
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dall'aurora io cerco Te... ***
Capitolo 2: *** ... fino al tramonto Ti chiamo ***



Capitolo 1
*** Dall'aurora io cerco Te... ***


-È giunto.
-Come?
-Il momento è giunto.
-Di cosa parli? Dove sei?
-Sono qui.
-Dove?
-Io sono qui.
Davanti ai suoi occhi non c’era altro che il nero. Nero. Fermo e torbido come nel più oscuro degli abissi. Il nero dell’assenza e del nulla.
Ma ad un tratto ecco  emergere una figura sottile con lunghi capelli. Una sagoma fatta di niente, come lo scenario che l’avvolgeva.
-Non manca molto. Presto risponderai alla nostra chiamata.
I suoi capelli si accorciarono scoprendo la linea delle spalle e del collo. Poi la sua voce cambiò.
-Abbiamo riposto le nostre speranze in te. Medita su queste parole, e apri gli occhi.
Poi il dolore arrivò. Veloce e brutale. E tutto scomparve. Le voci, il nero, le due ombre. Uno sprazzo di luce e davanti ai suoi occhi comparve il soffitto della sua camera.
Ancora una volta il sogno era finito.
Yori si tirò a sedere e si tamponò la fronte umida con la manica. Anche la sua schiena era appiccicosa per via del sudore freddo, ma quello era il minore dei mali.
Succedeva da circa dodici anni, la prassi era sempre la stessa.
Chiudeva gli occhi e da principio si godeva la calma di un sonno privo di sogni. Poi all’improvviso ecco che cominciava a prendere coscienza di sé stessa e della sua reale presenza in quell’universo onirico, ecco che si accorgeva che l’oscurità intorno a lei era così intensa da imperdirle di distinguere le sue stesse mani. Poi esordiva la prima voce, che se comparata alla seconda poteva essere attribuita ad un giovane, un ragazzo. Non le rivolgeva sempre le stesse frasi, nel corso degli anni erano cambiate. E poi di colpo la sagoma di quell’individuo mutava e le parlava con una voce nuova, una voce che sarebbe potuta appartenere ad una giovane ragazza.
E poi arrivava la parte peggiore.
Era sempre il dolore a svegliarla. Ed ecco che all’improvviso si ritrovava nella sua stanza, in un lago di sudore freddo, avvolta da un’aria malsana che sapeva di ferro, e di impurità.
Suo malgrado Yori dovette respirare profondamente per quietare i battiti frenetici del cuore. Poi, senza fretta, rivolse lo sguardo al suo braccio sinistro.
Ci aveva fatto l’abitudine, ormai non urlava più terrorizzata come i primi tempi, ma ogni volta si ripeteva che non era un bello spettacolo. Era veramente spiacevole.
Erano dei piccoli segni, grandi quanto la punta di una spina e molto vicini l’uno all’altro, che descrivevano una spirale di quasi dieci centimetri. Come se un rampicante spinoso le si fosse avviluppato intorno al polso.
E poi sanguinava. Copiosamente.
Sulle lenzuola azzurrine c’erano grandi macchie di un rosso spaventoso.
L’unico lato positivo di quel terrificante episodio che si ripeteva praticamente ogni notte era che Yori sapeva cosa fare, sapeva come comportarsi. Corse in bagno e mise il polso sotto l’acqua bollente, era un’operazione dolorosa ma serviva a disinfettare e cauterizzare allo stesso tempo la ferita. Così usciva meno sangue. Poi la tamponò con del disinfettante e la fasciò con bende sterilizzate.
Un minuto dopo suonò la sveglia. Era ora di iniziare la giornata veramente.
 
Nonostante il dolore scemasse dopo il suo risveglio non scompariva, e la ferita non si rimarginava mai del tutto. Aveva solo bisogno della notte per potersi riaprire.
Mentre camminava per strada Yori sentiva il polso formicolare, ma era grata del fatto che l’uniforme scolastica nascondesse il bendaggio. Da piccola ne aveva passate tante a causa di quel segno, sia in famiglia che a scuola. Ma non volle soffermarsi su quei ricordi un secondo di più. Aveva imparato ad accettarlo, e a conviverci.
Ormai aveva smesso di farlo presente persino ai suoi genitori.
Quella mattina, dopo che la sveglia aveva suonato aveva lavato via in fretta il sangue dalle lenzuola e dal pigiama, prima che sua madre e suo padre si svegliassero. Spesso dormiva anche con il braccio fuori dal letto, la mano che sfiorava i fondo di una bacinella in cui  veniva raccolto tutto il sangue. E così evitava di lasciare tracce.
Di trucchi per non farsi scoprire ne conosceva parecchi, si può dire che gli anni passati le fossero serviti come allenamento.
E quando sfortunatamente non riusciva a far sparire il sangue prima che sua madre lo scoprisse ne attribuiva la causa all’epistassi o, quando i giorni coincidevano, alle mestruazioni.
Non le faceva piacere mentire ai suoi genitori ma era meglio così. In passato Yori era stata costretta a vivere esperienze oltremodo spiacevoli per colpa di quella specie di piaga, esperienze che l’avevano profondamente segnata, e che voleva non dovessero ripetersi mai più. Era più facile evitare che si ripetessero se nessuna delle persone che conosceva ne venisse a sapere qualcosa.
Ma per il momento non valeva la pena darsi tanto pensiero.
Mancavano ancora diverse ore prima che giungesse la notte, c’era un’intera giornata da vivere.
Yori svoltò la via e oltrepassò il cancello del liceo Shiroi Kumo, proprio in quel momento la campanella suonò ed un gruppo di amici la salutò da lontano e le fece cenno di sbrigarsi a raggiungerli. Mentre correva verso di loro si dimenticò per un istante del formicolio al polso.
 
-E poi Kanade ha cominciato passare a me, Miyoshi e Akihito dei Pocky alla fragola mentre il professor Tanaka si girava per scrivere alla lavagna.
-Ma pensa, quel soggetto non sopravvivrebbe un giorno senza smerciare snack a qualcuno.
-Così pare, ma almeno con lui non si corre il rischio di sbadigliare per la noia.
Kenji ridacchiò. –Hai ragione.
Kenji era uno degli amici della comitiva scolastica con cui Yori era solita ritrovarsi. Frequentava il terzo anno come lei ma era stato assegnato ad una sezione diversa, assieme ad un altra ragazza della comitiva, Chiaki.
Tutti i pomeriggi dopo la scuola Yori prestava servizio come volontaria presso l’orfanotrofio Asahi, e dato che Kenji passava prorpio da quelle parti per tornare a casa si offriva sempre di darle un passaggio con la sua bicicletta. E così i due si raccontavano come avevano passato la giornata sui banchi di scuola.
Alcuni isolati prima la via in cui Yori sarebbe dovuto scendere il ragazzo le raccontò di come lui e Chiaki fossero riusciti a scambiarsi bigliettini e frasi fugaci durante la lezione di inglese senza farsi beccare dalla professoressa Watanabe.
-Ha detto che i suoi genitori saranno fuori città per tutto il fine settimana, quindi potremmo restare a dormire da lei.
-Che bellezza, non vedo l’ora. Magari potremmo vederci una maratona di film horror, di sicuro Akihito ne sarebbe felice.- propose lei, ricordando come da principio nessuno di loro vedesse di buon occhio la passione dell’amico per i film dell’orrore, però poi con il tempo avevano imparato ad accettarla, finendo addirittura in qualche modo per condividerla.
Kenji finse di tremare e fece zig zag con la bici.
-Ehi, non sbandare! Devo arrivare sana e salva dai miei bambini, altrimenti nessuno finirà di leggergli la favola del falenino e della stella.
-La favola del falenino e della stella? Ma ... ce l’hai il permesso per riempire la testa di quelle povere creature con queste baggianate europee?
-Tu stai tranquillo. Di certo non passerò la mia adolescenza dietro le sbarre solo per delle favole dalla morale cristiana. Ai bambini fa bene imparare, ma nessuno ha il coraggio di insegnargli ad essere stupidi.
-Come sarebbe ... “ad essere stupidi”?
-Già: più una persona è “stupida” e più sarà facile per lei conquistare la felicità. Viceversa: più cose apprende e più sarà difficile che sia felice. Continuerà a volere cose, cose, e ancora cose. E si dimenticherà del fatto che basta molto poco, poco come la vista di un fiore che sboccia, per riuscire a sorridere.
Kenji ripeté quelle parole nella mente.
-È un bel pensiero- disse. –È tuo o è un insegnamento del tuo Dio?
-In un certo senso è una convinzione di entrambi.
-Vuoi dire che il tuo Dio desidera che i suoi seguaci siano stupidi?
-Non abusare di questa parola, Kenji. Egli non vuole che la conoscenza ci sia negata, desidera solo che i suoi fedeli non ne siano del tutto soggiogati. Ad esempio, se l’uomo non sapesse che l’oro e il petrolio sono cose preziose, se ignorasse il loro valore forse non si lascerebbe consumare dall’ambizione di possederli entrambi. Senza una tale smania il suo cuore sarebbe più leggero, non credi?
-Capisco ... allora è questo che intendi quando dici “stupidità”.
-E poi Lui non è il mio Dio.- disse Yori enfatizzando quel “mio”, che non le andava a genio. -Sono io, e sono tutte le sue creature che appartengono a Lui.
“Solo che spesso ce ne dimentichiamo...” aggiunse nella sua mente.
Poco dopo Kenji fermò la bici davanti ad un cancello al quale era affissa una targa con scritto “Asahi”, e Yori scese. I ragazzi si salutarono augurandosi di passare bene la serata, e di vedersi presto il giorno dopo per fare colazione insieme a Miyoshi, Akihito, Chiaki e Kanade. Poi Kenji proseguì e Yori lo salutò agitando il braccio sinistro, di colpo il polso riprese a formicolarle e dovette stringerlo con l’altra mano.
Ci vollero alcuni istanti ma poi la sensazione si fece meno intensa e lei si voltò e varcò il cancello.
L’orfanotrofio Asahi non era diverso da una qualunque casa di periferia di modeste dimensioni, dato che ospitava in tutto trentacinque persone tra bambini, adolescenti, responsabili e inservienti. Ma la cosa che Yori trovava in assoluto più bella in quel posto era il cortile. Era un misero prato fatto di erba incolta, pochi fiori selvatici, sassolini nella terra e con un albero sostanzialmente giovane nel centro dell’area.
Era perfetto.
Ovviamente non era mai stato coltivato nulla in quello spazio, a Yori sarebbe piaciuto ma era un tipo di suolo che non lo consentiva. Non tutti i terreni sono pronti ad accogliere i semi piantati da mani estranee.
Si accontentava di camminarci a piedi nudi nelle giornate calde, di insegnare ai bambini a costruire collane con i fiori, di giocare con loro alla battaglia nel fango e a saltare nelle pozzanghere nei giorni di pioggia.
Anche dalle cose all’apparenza più superflue si poteva trarre qualcosa di bello.
Ed era un peccato che la maggioranza delle persone si fermasse invece solo all’apparenza.
-Sorellona Yori!.- disse una squillante voce multipla.
Yori si voltò e due braccia esili e corte le strinsero la vita, e poi altre due le si attaccarono ad un fianco, e altre due all’altro, due le presero una mano e due l’altra.
-Bentornata sorellona!
-Non vedevo l’ora che arrivassi.
-Lo sai che oggi la maestra mi ha dato una stellina per il disegno che ho fatto? Te li faccio vedere entrambi più tardi.
-Ci finirai di leggere la favola del falenino e della stella dopo, vero?
-Ma prima giochiamo insieme con la palla, per favore!
Yori accarezzò ognuna delle loro teste minute. Li chiamò per nome e diede degli amichevoli buffetti alle loro guance rosee.
Quei cinque erano solo alcuni dei molti bambini che vivevano lì. Bastardelli abbandonati in seguito a relazioni illecite, raccolti dalla strada o salvati dalle violenze domestiche di famiglie adottive troppo insensibili. In quel posto potevano ritrovare un po’ di gioia, ma c’era bisogno di qualcuno che se ne occupasse, qualcuno che li volesse, che li amasse.
E in attesa di qualcuno che li prendesse con sé per il resto della vita toccava a persone come lei. Era felice, Yori, di dedicare un po’ del suo tempo a loro. Il tempo. Il proprio tempo regalato ad altri è uno dei regali più preziosi che si possano fare. Soprattutto se donato a coloro a cui di tempo non ne dedicano in molti.
Non lo faceva per i soldi, di certo non ne trascurava l’importanza ma se lo faceva era soprattutto per loro. Per quelle creature che erano appena in grado di sporgere la punta del naso sulla soglia della vita, perché trovassero il coraggio di protendersi ancora di più, senza paura.
Una bambina, impaziente di cominciare a giocare, la tirò per la manica e Yori ispirò aria attreaverso i denti.
-Sorellona perdonami! Ti fa male qui?- chiese tastandole delicatamente il polso.
Gli altri bambini si avvicinarono con le teste, gli occhi pieni di sincera preoccupazione.
-Per caso sei stata ferita?
-Qualcuno ti ha picchiata? Dimmi chi è stato, ci penserò io a fargliela pagare, sta’ tranquilla!
Yori ritirò con gentilezza il braccio e sorrise accarezzando loro i voti.
-Sto bene,- sorrise. –non preoccupatevi. Oggi a scuola ho sbattuto contro lo spigolo del tavolo. Mi passerà entro domani, vedrete.
-Ah, meno male!
-Sono contenta che non sia nulla di grave.
-Che sollievo! Allora vado a prendere la palla.
Poco dopo iniziarono a giocare e a chiacchierare distesi sull’erba, e a loro si aggiunsero altri bambini,  fino a che il sole non fu abbastanza basso da toccare il tetto della casa più vicina.
I pargoli la cercavano sempre. Per loro Yori era qualcuno di diverso. Non era una dei responsabili, perciò il suo compito non era esclusivamente quello di controllarli, e non la si poteva neanche considerare un’adulta rispetto a loro. Era come una sorella maggiore.
Un’amica che poteva permettersi di riprenderli senza per questo attirare su di sé il loro astio.
Non potevano fare a meno di volerle bene, di ascoltarla e di rispettarla. Senza mai smettere di volerle bene.
-Un giorno il padre lo chiamò e gli disse: “Non ti bruci un’ala da mesi, ragazzo mio, e ho paura che non te la brucerai mai. Tutti i tuoi fratelli si sono bruciacchiati ben bene volteggiando intorno ai lampioni di strada, e tutte le tue sorelle si sono scottate a dovere intorno alle lampade di casa. Su avanti, datti da fare, vai a prenderti una bella scottatura! Un falenotto forte e robusto come te senza neppure un segno addosso!”.
 
Il falenino lasciò la casa paterna ma non andò a volteggiare intorno ai lampioni di strada né intorno alle lampade di casa: continuò ostinatamente i suoi tentativi di raggiungere la stella, che era lontana migliaia di anni luce. Lui credeva invece che fosse impigliata tra i rami alti di un olmo.
 
Provare e riprovare, puntando alla stella, notte dopo notte, gli dava un certo piacere, tanto che visse fino a tardissima età. I genitori, i fratelli e le sorelle erano invece morti tutti bruciati ancora giovanissimi.
Yori chiuse il libro con entrambe le mani e ascoltò tutte le domande e i commenti che i bambini avanzarono sulla favola. Ad alcuni era piaciuta, altri non capivano perché mai le falene volessero bruciarsi, altri ancora formulavano ipotesi sulla possibile morale del racconto.
La morale di ogni favola che leggeva, lei non gliela rivelavava mai. Lasciava che ci arrivassero da soli.
La stupidità non è sinonimo di ignoranza.
E quei bambini erano molto intelligenti. Quando finalmente ci arrivavano, a volte dopo pochi giorni, altre volte dopo addirittura mesi, lei diceva semplicemente: -Giusto.
Loro non avevano bisogno di sentire altro.

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Capitolo 2
*** ... fino al tramonto Ti chiamo ***


Mentre ripassava gli appunti di inglese per il giorno dopo Yori sorseggiava una tisana bollente di miele, limone e zenzero. Sua madre la raggiunse in salotto, posò sul divano accanto alle sue ginocchia un vassoio di biscotti alla cannella e la invitò a mangiarli con lei.
Per un po’ chiacchierarono di come avevano trascorso la giornata, sgranocchiando biscotti e ridacchiando come vecchie amiche.
Yori le disse di aver letto ai bambini dell’orfanitrofio la favola della rana e del bue e lei le raccontò della riunione di quattro ore e mezzo a cui aveva dovuto partecipare al lavoro.
Sua madre si chiamava Fumie, aveva la sua stessa forma del viso, così come le linee delle labbra e del naso. Era una donna premurosa, a cui piaceva parlare, ed era capace di non urtare mai né la pazienza né la sensibilità dei suoi interlocutori. Yori era grata di aver ereditato da lei anche quest’ultima caratteristica.
-Dimmi, sono curiosa: che cos’hanno pensato i bambini della favola della rana e del bue?- le domandò Fumie mentre si aggiustava la montatura degli occhiali sul naso.
-Hanno detto tutti di non voler fare la fine della rana.- ridacchiò Yori, intingendo un biscotto nella sua tazza.
-Beh, mi pare logico. E in quanto alla morale?
-Devono rifletterci bene, ma ci sono andati vicini.
-E quale sarà la prossima che gli leggerai?
-Quella dei due passerotti litigiosi.
Yori morse il biscotto e chiuse definitivamente il quaderno.
Il libro che stava leggendo ai suoi piccoli amici aveva titolo “Storie per bambini e per adoloscenti (e non solo...) a sfondo cristiano evangelico”. Lo avevano regalato i suoi nonni a suo padre in occasione della comunione. E poi lui l’aveva passato a lei in seguito alla sua.
In effetti era bislacco come la sua famiglia praticasse il cristianesimo in un paese in cui il panorama religioso era così variegato, in cui prevalevano il buddhismo e lo shintoismo, e a tratti anche l’ateismo. Ma la storia dietro la fede di Yori e dei suoi genitori era molto interessante.
Una caratteristica che non la faceva mai passare inosservata agli occhi delle persone era il fatto che Yori fosse affetta da albinismo totale. La sua pelle e i suoi capelli avevano il colore vellutato della panna, e i suoi occhi erano di un azzurro inconsueto per una giapponese. E tutto ciò lo doveva a suo padre, Filippo, che soffriva di una lieve forma di albinismo oculare. Infatti anche i suoi occhi avevano delle pagliuzze dello stesso azzurro.
Solo che a sua figlia aveva trasmesso anche tutto il resto...
D’altra parte era più che ovvio: Filippo era nato in Italia, dove patologie di questo tipo erano senza dubbio più frequenti che in Giappone. Ed era stato in Italia, all’epoca dell’università, che aveva conosciuto Fumie, la quale fin dai tre anni era stata divisa tra l’Italia (in cui sua madre si era trasferita) e il Giappone (dove suo padre era rimasto a lavorare in seguito al divorzio dalla moglie). Continuando a frequentarsi anche Fumie aveva finito per avvicinarsi alla dottrina cristiana. Poi, quando entrambi avevano deciso di trasferirsi in Giappone, dove avevano trovato lavoro, si erano sposati nella cattedrale di Tokyo ed avevano trasmesso la propria religione anche alla figlia.
A Yori non piaceva imporre le cose. In qualunque contesto e a qualunque persona. Per questo non pretendeva che leggendo quel tipo di favole ai bambini essi sviluppassero il senso del dovere di condividere la sua stessa religione. Voleva solo che imparassero, che riflettessero, che capissero l’importanza di fare del bene al prossimo anziché il suo male.
Sostanzialmente era questo che i racconti che suo padre le leggeva da piccola insegnavano.
Non le importava essere un’inquisitrice, tantomeno desiderava ricadere nel bigottismo.
La fede c’è. Semplicemente c’è. Ed è forte. Tanto forte da salvare un’anima, ma non abbastanza da impedire agli altri di tradirla o di disconoscerla.
D’altra parte l’essere umano resta libero di agire come meglio crede, e finché le sue azioni non assumono caratteristiche maligne non c’è motivo di intralciarlo.
Yori finì di bere la sua tisana e poi si diresse in cucina per aiutare sua madre a preparare la cena, tra meno di un’ora avrebbe fatto ritorno a casa anche Filippo.
 
I suoi genitori avevano visto la fasciatura.
Era successo quando era tornata a casa in tarda mattinata, dopo aver passato la notte in bianco con i suoi amici a casa di Chiaki. Si erano portati i sacchi a pelo da stendere sul pavimento, davanti alla TV in salotto, avevano effettivamente visto film horror su film horror mentre si ingozzavano di snack da 100 yen e bevevano birra, poi avevano giocato a “Never have I ever...”, seduti a terra in cerchio con una bottiglia di Umeshu in mezzo a loro, e verso le 07:30 del mattino avevano finito per addormentarsi l’uno sulle gambe, sulla pancia, sulla schiena o sulla spalla dell’altro.
Poi, verso le 12:07, si erano svegliati con le teste che ancora un po’ giravano, avevano messo a posto tutto, si erano salutati e avevano fatto ritorno a casa traballanti.
Ovviamente anche quella notte le era successo.
Sul tardi aveva chiuso gli occhi per la stanchezza un solo istante, all’inizio del terzo film, ed era accaduto tutto come al solito.
Per pura fortuna nell’addormentarsi Yori aveva abbandonato la mano vicino all’interno coscia, e quando si era svegliata di soprassalto e Miyoshi le aveva chiesto spiegazioni aveva addossato la causa del sangue alle mestruazioni.
Così era corsa in bagno, si era fatta una doccia veloce e si era messa un cambio di vestiti prestatole da Chiaki e un assorbente per autenticare la storia del ciclo, aveva messo i suoi vestiti in una busta e aveva appallottolato tutto dentro al suo zaino, aveva usufruito del kit di medicazione che i genitori di Chiaki tenevano nell’armadietto ed era tornata in salotto, tirandosi giù le maniche, per ripulire le piccole gocce scure finite sul pavimento.
Aveva messo in conto che dovesse accadere.
E grazie al cielo i ragazzi non le avevano fatto troppe domande. Akihito le aveva dato un bicchiere d’acqua con cui prendere un analgesico contro i dolori mestruali che Miyoshi (che era nella sua stessa situazione) le aveva dato.
Era accaduto tutto così in fretta che quasi Yori non se ne era resa conto.
Ma quando era tornata a casa, con la vista appannata e la testa che le girava per il troppo alcol, non aveva fatto caso alla manica sinistra della felpa. Che era risalita.
E quando Filippo le aveva preso con delizatezza il polso e Fumie le aveva chiesto come fosse successo Yori aveva cominciato a sudare freddo, si era ritratta senza fretta ed aveva farfugliato qualcosa su come Kanade avesse messo erroreamente il ginocchio nell’incavo tra il suo avambraccio e la mano. Li rassicurò del fatto che non era nulla di grave ma che era meglio tenere la fasciatura per far sparire il gonfiore. La sola cosa che occupava i suoi pensieri era la busta di plastica nello zaino piena del sangue colato dai suoi vestiti.
Doveva farla sparire.
Dopo che sua madre le aveva preparato un impacco di ghiaccio se ne era occupata.
Non era la prima volta che se ne accorgevano. Glielo teneva nascosto da quasi dieci anni ma gli incidenti capitavano, e ogni volta si ritrovava a giustificare le bende con una scusa diversa.
A volte si chiedeva se i suoi genitori non pensassero che lei praticasse l’autolesionismo. Senza contare il polso, con il sangue che perdeva spesso si sentiva debole e diventava sempre più magra, al punto da lasciar pensare che soffrisse di disturbi alimentari. Ma finché non glielo avessero chiesto personalmente non avrebbe detto nulla a riguardo.
Yori tirò fuori da sotto il letto la tinozza dalla forma ellittica, poi controllò le condizioni della sua piaga. Come al solito i segni erano sul punto di rimarginarsi, non erano più rossi ma rosa. Ma ancora per poco.
Yori gettò le bende nel cestino e  si infilò sotto le coperte.
Se doveva accadere, meglio che accadesse alla svelta. Era pronta ad incontrare le ombre, e a sentire le loro voci ormai familiari.
 
-Sono bellissimi come sempre, non trovi?
- Sì, è proprio vero. Ora sono uniti nello stesso corpo, giusto? Non capisco a chi dei due somigli di più.
Toko osservò la ragazza candida e sottile ritratta in quella foto di medie dimensioni. In effetti adesso era quasi irriconoscibile, aveva un po’ sia dell’uno che dell’altro. Era entrambi.
E aveva dei lineamenti molto particolari, come quelli di un elfo.
-Lo sai, adesso si chiama Yori.- disse.
-Yori. Che carino. Scommetto che è il risultato della fusione dei due nomi.
-Sì, infatti. Però io la trovo bella anche così, come due che diventano uno.
-È un bel concetto.
-Pare che ora non abbia alcun ricordo del passato. E Takashiro pensa che non sia il caso, almeno per il momento, di raccontarle tutta la storia.
Tsukumo accarezzò gentilmente la fronte piumosa del passerotto appollaiato sulla sua spalla, e provò ad offrirgli un cioccolatino. L’animale beccò il dolcetto un paio di volte staccandone delle scaglie, poi cinguettò in segno di ringraziamento.
-Lo preoccupa il fatto che stavolta non siano rinati in corpi distinti?- chiese, masticando a sua volta un cioccolatino. –Posso capirlo, questo episodio ha sconvolto tutti noi.
-Più che altro vorrebbe riuscire a capirne il perché. Crede che possa significare qualcosa. Che possa essere un segno di qualcosa che sta per accadere.
-Ah sì? Qualcosa di buono per noi?
-Chissà ... È quello che si augura.
All’improvviso, al suono di una fila di nocche che troppo velocemente si scontra con un osso zigomatico, l’uccellino volò via dalla spalla del ragazzo e andò a rifugiarsi sul ramo di un albero vicino.
Toko e Tsukumo si voltarono e videro, dall’altro lato della strada, un quartetto di studenti del liceo e un uomo molto in là con gli anni. Non c’era bisogno di chiarire nulla, il solo fatto che l’uomo fosse riverso a terra lasciava intuire tutto. Poi uno dei ragazzi lo colpì alla tempia con un calcio, e un’altro gli sottrasse il bastone da passeggio e glielo piantò nel fianco, mentre gli altri due ridevano in maniera diabolica.
Toko pigiò la foto nella tasca della gonna e si alzò furente.
-Ora vado e li metto a posto io!- escamò.
Tsukumo la trattenne per un braccio. –Fermati, ci vado io. Se si trovano davanti una ragazza di sicuro non la prenderanno sul serio.
-Smettetela di picchiarlo! Allontanatevi!
I due ragazzi si voltarono e videro che i quattro delinquenti avevano smesso di dare addosso al vecchio signore, che si teneva la testa dolorante. Guardavano la ragazza dai lunghi capelli bianchi che era sopraggiunta.
-Siete un branco di codardi. Prendersela con chi non riesce a difendersi ... – continuò lei.
Uno dei ragazzi rise. –E tu chi diavolo pensi di essere, la paladina della giustizia?
-Non ti permettere di chiamarci codardi, sei tu che sei un’arrogante presuntuosa.
-E che cavolo hai fatto ai capelli? Sono orribili!
-Somigliano alla bava di ragno. Non avrai mica fatto il bagno in una vasca piena di candegina.
-Secondo me questa qui è il risultato di qualche folle esperimento di laboratorio.
-Sei stata colpita da un fulmine?
Lei non assunse alcuna espressione. –È a voialtri che un fulmine deve aver distrutto il cervello. Ci vuole una bella faccia tosta per dare addosso ad una persona anziana. Vergognatevi!
-Chiudi il becco! Vuoi essere la prossima?
-Sei una ragazzina, non incolpare noi se poi ti fai male.
Uno dopo l’altro i ragazzi fecero per avvicinarsi a lei con i pugni serrati, pronti a piantarli nel suo stomaco. E lei, colta da uno sprazzo di timore, arretrò di un passo.
Il tipo più vicino le era quasi di fronte, quando un oggetto lo colpì alla testa e lo costrinse ad allontanarsi. Al ragazzo subito dopo di lui accadde la stessa cosa. Tutti rivolsero lo sguardo a quelle palline scure grandi quanto una biglia che rotolavano a terra. Sembravano dei cioccolatini fondenti.
-Sapete, voi quattro cominciate a darmi sui nervi. Che ne dite di piantarla, ora?
L’attenzione di tutti i presenti fu attirata dai due nuovi arrivati, che si erano avvicinati dall’altro lato della strada. Anche loro avevano addosso l’uniforme della scuola superiore. Il ragazzo non faceva niente per nascondere il cioccolatino sferico che roteava nel palmo della sua mano, e la ragazza aveva in mano un cellulare che squillava.
-Ho chiamato la polizia.- spiegò.
Bastarono quelle parole per mettere in fuga i quattro teppisti, che si ricomposero e corsero via tenendosi le teste con una mano. Così i tre aiutarono il vecchio a rialzarsi e a ricomporsi, e dopo essersi accertati che stesse bene (a parte quel bernoccolo che gli stava spuntando lì, dove la punta della scarpa aveva colpito la sua fronte) lo salutarono e lo guardarono allontanarsi.
-Hai davvero chiamato la polizia?
-Certo che no: ho mentito!-. Lei ammiccò al ragazzo. –L’ho fatto solo per farli andare via.
Yori si voltò verso di loro e chinò un poco la testa in segno di ringraziamento. I due la guardarono sorpresi, e per un attimo rimasero abbagliati dal bianco catarifrangente dei suoi capelli.
-Grazie mille dell’aiuto. Scusate se ho agito in maniera tanto sconsiderata, ma nessuno li avrebbe fermati altrimenti.
Tsukumo le offrì uno dei pochi cioccolatini che ancora gli restavano. -Figurati, non devi ringraziarci.
Lei lo accettò.
-Solo, cerca di fare più attenzione. La gentilezza non deve sfociare nell’ottusità. Va bene essere disposti ad aiutare gli altri, ma quelli erano quattro e tu eri da sola, sarebbe potuta finire molto male. Non credi?- la ammonì Toko, ma poi strinse le sue spalle con le braccia. –Però preferisco le persone che aiutano gli altri, anche senza avere riguardo per sé stesse, a quelle che li ignorano.
Yori non rispose all’abbraccio, la sorpresa l’aveva un po’ irrigidita, ma neanche si ritrasse. Notò solo come fosse bello il colore ramato dei capelli della sconosciuta, che alla luce del sole aveva dei riflessi dorati.
-Sono sicura che andremo molto d’accordo. Piacere di averti conosciuto.
-Ci vediamo, Yori.
-Ehi! Come fate a ....? – tentò di dire lei.
Ma i due erano stati così veloci a svoltare l’angolo che già non si vedevano più.
 
-Arrivederci, sorellona! Ci vediamo domani.
-Grazie, era bello il racconto di oggi.
-Buonanotte, sorellona, passa una bella serata.
Yori accarezzò i capelli arruffati di tutti i bambini, e si issò la cartella della scuola in spalla.
-Buonanotte a voi, fate sogni d’oro.
Poi si avviò verso casa, mentre con la mano rispondeva ai loro saluti da lontano.
Era una bella sera di ottobre, e anche se l’aria era fredda al punto da condensare il respiro non c’era il rischio di neve. Non ancora. A Yori piaceva l’inverno, e non solo per la neve. Le piaceva la possibilità di potersi riscaldare quando la temperatura scendeva, le piaceva il fatto di poter preservare il proprio calore corporeo quando all’esterno infuriava una tempesta gelida.
In un certo senso l’inverno era sempre stato accostato, in letteratura, arte, musica e poesia, all’immagine della morte. E nonostante questo anche durante l’inverno le persone sopravvivevano, resistevano alle avversità per preservarela propria esistenza.
Anche nella morte si consumava un inno alla vita. Un canto di vittoria destinato a non avere mai fine.
Per quanto un pensiero del genere conservasse un lato lugubre, non era comunque sprovvisto di fascino.
Yori trasse un lungo respiro e il gelo le entrò nei polmoni, poi buttò fuori l’aria che aveva ispirato. La “morte” entrò ed uscì dal suo corpo con una facilità incredibile. Sarebbe stato bello se fosse stato altrettanto facile nella vita reale.
Purtroppo però non tutto è facile.
Soprattutto nella vita reale.
-Ehi sorellona!
Yori aveva appena attraversato un incrocio pedonale quando si voltò, sentendo quella frase.
-Aspetta, sorellona. Non mi hai dato un abbraccio prima di andare via. Lo hai dato a tutti, lo voglio anch’io.
Il nome di quella bambina dal sorriso dolce era Moe, viveva nell’orfanotrofio Asahi da quasi quattro anni. Evidentemente doveva averla seguita fin lì. Solo che era strano. Lei non riservava mai abbracci ai bambini quando arrivava o quando se ne andava, solo quando giocava con loro, e non tralasciava mai nessuno.
-Dai, sorellona, voglio il mio abbraccio. Non mi far aspettare.
Yori guardò con orrore il dondolio dei suoi codini castani mentre saltellava a piccoli passi sulle strisce bianche, proprio mentre il semaforo diventava rosso. La borsa le cadde di mano e la sua voce esplose in un urlo che scosse le sue stesse orecchie.
-Moe, ferma!
Si lanciò verso di lei più in fretta che poteva. Con la coda dell’occhio riusciva a cogliere il baluginio dei fanali delle macchine. Si stavano avvicinando, ne era sicura. C’era quasi. Mancavano pochi passi e l’avrebbe raggiunta.
Come aveva fatto a uscire, perché nessuno se ne era accorto? Perché non l’avevano fermata?
Era sul punto di afferrarla e trascinarla via. Quando la sua mano passò attraverso la spalla della bambina, e la piccola Moe si dissolse in una nuvola di pulviscolo luminoso.
Le ginocchia di Yori urtarono l’asfalto e lei, ancora scioccata da quello che era accaduto davanti ai suoi occhi, si riscosse solo quando sentì il suono altisonante di un clacson trapassarle il cervello. Si voltò e vide un grande camion con le luci alte dirigersi a tutta velocità verso di lei.
Yori restò immobile a guardarlo senza realmente metterlo a fuoco.
Di colpo sentì il polso bruciarle e inumidirsi, ma la cosa più terribile di tutta quella situazione così surreale era che non riusciva ad alzarsi. Nonostante tentasse di fare forza sulle punte dei piedi per tirarsi su non riusciva a tendere le gambe, erano come pietrificate, erano pesanti, non si spostavano di un centimetro.
La luce dei fari aveva inglobato qualunque cosa nel suo campo visivo, era diventata accecante. E il suolo del clacson si era fatto ancora più assordante.
Ormai non c’era più niente da fare: era prossima alla fine.
Tutto ciò aveva dell’assurdo.
Aveva soltanto avuto l’alllucinazione di Moe che le veniva incontro? Forse il troppo sangue perso a causa del suo continuo incidente notturno aveva influito a tali livelli sulla sua lucidità? E perché era un maledettissimo tir quello che le veniva incontro? C’era sempre un grande viavai di macchine in quella zona. Perché l’universo aveva fatto sì che un camion passasse di lì proprio quella sera, e in quel momento, e all’assurda velocità di 150 km/h?
Yori distolse lo sguardo. Non voleva vedere, non voleva accettarlo. Si era rassegnata al fatto che un giorno sarebbe accaduto. Un giorno. Ma non quel giorno, era troppo presto. Non era il momento giusto.
Non sono pronta. Dio, Ti prego! Non adesso.
Ormai davanti a lei c’era solo il bianco, la nemesi del suo sogno. In quel momento lo trovò un colore ancora più spaventoso del nero.

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