Sussurri - Urlo

di Raptor Pardus
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sussurri ***
Capitolo 2: *** Urlo ***



Capitolo 1
*** Sussurri ***


Sussurri

 
A volte odo sussurri.
Non ricordo quando fu la prima volta, ma ricordo il buio che vidi quando quella voce penetrò nella mia testa, dilaniando le mie cervella e moltiplicandosi come un cancro.
Ti prego, ti prego non te ne andare, ascolta! Ascolta la mia storia, lascia che io possa narrare il momento in cui la mia esistenza ha acquisito un senso.
Ricordo il buio che mi velò gli occhi, ricordo ciò che vidi attraverso il buio quel giorno: un’ombra, ammantata in un velo ancor più nero. Emanava un’aura che faceva rabbrividire, un alone intorno a sé che la separava da ogni cosa. La figura, esile nell’aspetto, curva, ma ben più alta di me, mi parlava, sussurrando, sibilando.
Diceva una sola parola, ripetuta all’infinito da infinite voci: uccidi.
 
La mia prima vittima fu un facile bersaglio, ancora mi fremono le mani al ricordo, ancora sento la salivazione aumentare solo a rievocare il piacere che mi causò.
Fu un bambino, rapito non lontano da un parco giochi in una sera di dicembre.
Nevicava, lo ricordo perfettamente.
Mi seguì come un agnellino non appena gli mostrai qualche stupido regalo, ubbidendo ad ogni mia richiesta.
Non so nemmeno quanti anni avesse, non so nemmeno il suo nome.
Ma ricordo i suoi occhi, di un verde intenso, quasi smeraldino, li ricordo mentre recidevo le sue vene partendo dai polsi e salendo fino alle spalle, scoprendo i suoi giovani piccoli muscoli sotto la chiara, pallida pelle, li ricordo mentre il buio oscurava la mia vista, e non restavano che loro, a fissarmi nell’oscurità.
 
La creatura mi appariva in sogno, ripetendo sempre le stesse parole, compiendo sempre lo stesso macabro rito.
Adesso però vi era una nuova scena nei miei incubi: un anello di fiamme, al centro del quale io mi ritrovavo immobilizzato, avvolto in garze, come una mummia.
Non riuscivo a vedermi, ma sentivo il tessuto ruvido sulla mia nuda pelle e le lingue di fuoco che lambivano il mio collo.
La figura oscura era davanti a me, ora così vicina che le nostre labbra quasi si sfioravano, e continuava a ripetere sempre la stessa parola: uccidi.
 
La seconda vittima fu una prostituta raccolta in mezzo alla strada, nel pieno della notte, una ragazzina ancora nel fiore della giovinezza, dai capelli scuri, corvini, due grandi occhi languidi, incerti.
Andammo in un campo di grano ormai maturo, dove lei mi concesse le sue grazie, e nel pieno del coito, steso per terra e bloccato al suolo dalle sue forme, la pugnalai al ventre.
Lei non vide la lama, continuando a gemere per il piacere, né percepì i suoi intestini venir vomitati fuori dal suo ventre mentre io affondavo ancor più la lama nella carne, avvicinandomi ai suoi seni acerbi.
Morì sopra di me, ancora ansimando.
 
Gli incubi divenivano sempre più ricorrenti, sempre più vividi.
Ormai iniziavo a vedere la creatura anche da sveglio.
Persi il lavoro in poche settimane, persi qualsiasi contatto umano, persi qualsiasi contatto con la realtà.
Iniziavo a non curarmi più; io, che avevo sempre avuto un’attenzione maniacale nella cura della mia immagine, adesso apparivo sciatto, trasandato, sporco.
Mentre il mio volto si ricopriva di una barba incolta, mentre i miei capelli e le mie unghie si allungavano senza controllo, iniziai a parlare al mio incubo.
Gli diedi un nome, dandogli ormai del tu, e, per la prima volta, l’incubo mutò le sue parole.
Non ci volle molto perché iniziasse a rispondere alle mie domande, e per me non ci volle molto per cedere alle sue lusinghe.
Voleva sempre più sangue, voleva sempre più vittime.
 
Iniziai a rubare per sopravvivere, divenendo sempre più ardito nei miei furti.
In un appartamento al settimo piano di un palazzo pacchianamente appariscente trovai un giovane uomo dai comportamenti ambigui, troppo intento a parlare al cellulare per accorgersi della mia presenza.
Gli calai un sacco in testa, rubai la sua auto e lo portai fuori città.
Sotto la luna piena iniziai a pugnalarlo tra le gambe, più e più volte, riducendo ad una massa informe i suoi attributi, squarciando le sue natiche e rivoltandogli il retto.
Quando non ebbe più la forza di implorare pietà gli diedi il colpo di grazia tra scapola e clavicola, abbandonando poi il cadavere in un cerchio fatto del suo stesso sangue.
Erano margherite che fiorivano tutt’intorno al nostro piccolo teatro, margherite i cui petali si tinsero presto di rosso.
 
Dormivo, vegliavo, ormai non vi era più differenza.
La realtà mi appariva un sogno, ed i miei sogni erano la mia realtà.
Profonde rughe e vistose occhiaie segnavano il mio volto contrito mentre sussurravo al mio incubo.
Egli mi dava forza, mi sosteneva, alimentava il mio ego e il mio animo mentre il mio corpo rapidamente deperiva, come un fiore che appassisce per far spazio al frutto che lo seguirà.
Ed il mio albero era il sangue, l’incubo le mie radici.
Chiesi io quale sarebbe stata la mia successiva fonte di piacere, iniziando ad avvertire il senso di dipendenza che togliere la vita mi stava causando.
Ma come potevo fermarmi, quando finalmente mi sentivo realizzato.
 
Dal balcone del mio appartamento vidi la vittima desiderata, in mezzo alle luci di chi mi stava cercando.
Era un nero, grosso come un toro, mani grandi e forti, spalle larghe e gambe lunghe.
Divorai il suo fisico marmoreo con lo sguardo e, quando il sole calò dietro i palazzi della periferia, uscii dal mio covo per cacciarlo.
Lo colpii con una spranga in testa, spappolandogli le cervella, mentre era distratto dall’aprire la porta della sua piccola casa in uno scantinato.
Mentre gemeva per il dolore, ancora cosciente, estrassi la lama e la affondai nel suo petto, aprendolo in due fino al pube, stracciando la canotta che indossava ogni giorno.
Toccai il suo cuore pulsante, caldo e umido, all’interno della sua cassa toracica, godendo irrefrenabilmente nel penetrarlo, nello strappargli l’organo dal petto e lasciarlo lì, appoggiato sulla ferita sanguinante.
Gli sfondai il cranio con la spranga, colpendolo più e più volte, mentre era ancora vivo, e lo abbandonai lì, sulle scale di casa sua, scompostamente riverso per terra in una pozza di sangue e materia grigia, nel buio della notte.
 
Ormai schiumavo dalla rabbia, artigliando e ferendo le mie stesse carni, desideroso di versare altro sangue.
Nero divenne il mio animo, e il rosso cercavo, guidato dall’essere, l’Incubo, la mia guida e il mio scudo.
Oramai la mia dimora era una discarica, ed era palese che a breve chiunque fosse passato nei dintorni, arricciando il naso al puzzo dei miei rifiuti, avrebbe chiamato chi di dovere.
Mi ero ridotto ad una bestia, dando sfogo ai miei bisogni sui muri e scordando presto i precetti base del comportamento umano.
Mi aggiravo nudo per i corridoi, dando la caccia ai piccoli animali che ormai avevo attirato in quel lerciume, divorando qualsiasi cosa si muovesse prima di finire tra le mie grinfie.
Incubo mi diceva di non perdere la strada, di continuare a portare doni al suo altare, ed io non me lo feci ripetere.
 
Una notte d’estate mi intrufolai in una villetta poco fuori città, le cui finestre erano state lasciate aperte per combattere il caldo afoso.
I proprietari si cullavano nella falsa speranza che i loro angeli custodi li avrebbero protetti, ma eluderli fu ridicolmente facile.
Il primo a cadere fu il marito, affondai i denti nella sua gola mentre ancora dormiva accanto alla moglie.
Morì soffocato dal suo stesso sangue, svegliando la moglie con i suo rantolii lamentosi.
Le urla della donna durarono poco, presto sostituite dal pianto, mentre l’afferravo e la piegavo al mio volere, possedendola come farebbe una bestia.
La uccisi all’apice dell’orgasmo, banchettando poi con le carni di entrambi i coniugi.
Solo quando finii di rifocillarmi trovai la camera della bambina, ancora intenta a dormire, protetta dalla porta socchiusa.
La rapii nel sonno, portandola nella mia tana.
 
La ragazzina implorava pietà, piangendo in continuazione.
Incubo sussurrava al mio orecchio, baciando il collo della piccola creatura davanti ai miei occhi, diceva cose ovvie, quasi non sapessi come venerarlo.
Violentai la femmina per una settimana, finché il suo corpo non cedette per la fatica e l’inedia.
Banchettai con le sue carni e quindi portai ciò che restava del suo corpo nelle fogne, avendo trovato un accesso nei piani più bassi del palazzo dove dimoravo.
Non ci volle molto perché la sostituissi con un bambino, rapito in quello stesso palazzo.
 
Forse è meglio che mi sbrighi nel raccontarti questa mia storia, non ho più molto tempo.
Incubo mi chiamava a sé ormai, tendendomi una scheletrica mano nera da uno spiraglio di luce alla fine di un tunnel immerso nell’oscurità.
Mi chiese solo di rompere il collo a quest’ultima creatura, non me lo feci ripetere.
Incubo ormai era là, fuori dalla finestra dell’appartamento, e mi chiamava con parole dolci.
Fuori pioveva, la pioggia acida attraversava il suo corpo come fosse un’ombra.
Ma rumori mi attiravano lontano da lui.
Ecco, li senti? Li senti anche tu ora, rumori di porte abbattute.
Sento la pioggia sulla mia pelle, mi accorgo solo adesso di avere un braccio proteso fuori dalla finestra.
Sento la mia pelle umida, bagnata dall’acqua, una sensazione che non provavo da tanto tempo.
Giù, per strada, luci, sirene, fari, urla.
È tutto confuso, nella mia mente, al di fuori della mia mente.
Sento il battito del mio cuore, che impazza accelerando, battendo come un martello su ferro rovente.
Brucio, mi sento male, gli angeli vendicatori ormai sono qui.
E la mia ora!
Il mio destino è compiuto.
O forse è solo tutto un delirio.
Buio e luce si fondono, vedo solo ombre.
Ondeggio, vagando per la casa, finché non inciampo in qualcosa, cadendo rovinosamente a terra.
Metto a fuoco a stento il cadavere della mia ultima vittima, e la nausea mi assale.
Corro in bagno, mi fermo sul lavandino, pronto a vomitare.
Alzo lo sguardo, e vedo il mio riflesso nello specchio di fronte a me, vedo il mostro che sono diventato, e mi disgusta.
Eppure mi piace.
Sento il fuoco dentro di me, sento la rabbia, sento la lotta che sta avvenendo tra le due parti del mio spirito.
Ma da quanto sono qui? Da quanto sto parlando? A chi?
La confusione mi assale, mi gira la testa.
Dietro di me vedo l’Incubo, lo sento, mi accarezza suadente.
Egli è parte di me.
Egli è me.
E voglio distruggerlo.
E abbandonarmi completamente a lui.
L’odio mi divora, l’odio verso me stesso, e decido che devo distruggere cosa sono diventato.
Colpisco me stesso, colpisco il mio riflesso, lo specchio si spacca, la mia fronte sanguina.
Li sento, gli angeli ormai sono dentro la casa.
Barcollo fino al cadavere del bambino, e mi accorgo che nella mia pazzia ho tracciato un pentacolo col suo sangue, sul pavimento.
Fisso i miei polsi, divorati dall’Incubo, esili, quasi morti.
In una mano stringo un frammento di vetro, nemmeno mi sono accorto di averlo raccolto.
È un attimo.
La lama improvvisata affonda nella mia pelle sottile e mi recide i tendini del polso.
Per recidermi il secondo impugno la lama con la bocca, tagliandomi le guance.
Sento il sapore del sangue in bocca, acre, marcio, e sputo il frammento nelle mie mani ormai fuori controllo, cercando di trattenerlo con gli avambracci.
Cado in ginocchio, urlando, gli occhi fuori dalle orbite, e affondo il vetro nel mio ventre.
Cado a terra, mentre gli angeli mi circondano puntandomi contro la luce delle loro torce e le loro armi, fisso il soffitto, e vedo l’Incubo che si rispecchia in me, mi fissa, e attende in silenzio.
Mi chiama, ma non parla, mi attira, mi succhia, nel buio, mi reclama.
Il mio cuore si ferma, l’Incubo mi bacia, e finalmente trovo la pace.

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Capitolo 2
*** Urlo ***


Urlo

 
La pioggia acida batteva violenta contro il parabrezza della volante blu scuro che vagava silenziosa per le vie sporche della città, piene di insegne al neon e lampade alogene in cui i suoi abbaglianti si confondevano, una minuscola goccia luminosa in un oceano di luci soffocanti che brillavano nella triste notte senza stelle.
L’auto rallentò, mentre un agente di polizia, tutto avvolto nella sua scura casacca da pioggia, faceva segno al pilota di proseguire oltre una transenna che fino ad un attimo prima bloccava la strada.
La volante proseguì silenziosa, passando pigramente davanti ad altre auto della polizia, tutte raccolte intorno all’ingresso di un grosso palazzo di venti piani, un decadente blocco di cemento ricoperto di statue oscene e insegne luminose, un ecomostro vecchio di almeno un secolo che sarebbe facilmente passato per un covo di prostitute.
Il detective Sicarius Wrine fermò la sua vettura accanto ad un comando mobile e scese dall’auto, lasciando che la pioggia scorresse sul suo trench nero e sulla sua testa.
Un giovane agente lo raggiunse e gli porse il suo berretto rigido rifoderato, ma lui rifiutò con un cenno del capo.
<< Salve detective. Non ci aspettavamo la sua presenza. >> disse l’agente, ricalcandosi rapidamente il cappello in testa per sfuggire al diluvio.
<< Qual è la situazione? >> rispose solo il detective.
<< Oh, venga. >> disse l’agente indicando la camionetta usata come comando mobile. << Non rimaniamo sotto la pioggia. >>
Wrine seguì silenziosamente l’agente, mentre questi iniziava a definire rapidamente il quadro della situazione.
<< Abbiamo trovato il ricercato in un appartamento del settimo piano, non abbiamo ancora fatto irruzione perché pensiamo abbia due ostaggi con sé, e temiamo che appena muoveremo un dito lui li farà fuori senza pensarci due volte. >>
Il portellone laterale del piccolo autocarro si aprì da solo con un sibilo, rivelando il suo interno asettico pieno di schermi e agenti intenti a controllare il perimetro attraverso i segnali di ritorno delle decine di droni sparsi per tutta la zona delle operazioni.
Un capitano, chino dietro un agente intento a fissare una planimetria, si voltò non appena il portello si aprì, e fissò torvo il detective mentre entrava e ispezionava poco convinto il veicolo.
<< Salve, Wrine. >> disse in maniera tutt’altro che amichevole.
<< Capitano Lourk. >> rispose Wrine, ignorando lo sguardo dell’ufficiale e continuando a ispezionare l’ambiente circostante.
<< Le consiglio di asciugarsi, o potrebbe mandarmi in cortocircuito l’apparecchiatura. >> continuò il capitano, chiudendo una cartellina e spostandosi dietro la postazione di un altro agente, continuando col suo tono ostile. << Ma prendersi un ombrello? No, eh? >>
<< Le dispiace se fumo? >> chiese Wrine già estraendo una piccola scatoletta argentata.
<< Sì. >> rispose secco il capitano.
Wrine aprì la scatoletta e si infilò in bocca una sigaretta fatta a mano, richiudendo poi il portasigarette metallico ed estraendo quindi uno Zippo brunito sotto lo sguardo attonito di tutti i presenti, capitano escluso.
<< Che c’è? >> chiese, quando si accorse degli sguardi sbalorditi che aveva addosso.
<< Continuate a lavorare, ragazzi. >> sbottò il capitano, facendo poi cenno a Wrine di avvicinarsi a lui << Andiamo dove quell’affare non ci intossicherà tutti. >>
Da una porta interna passarono all’abitacolo del veicolo, ed il capitano si sedette al posto di guida, socchiudendo quindi i finestrini oscurati, lasciando che il rumore scrosciante della pioggia accompagnasse le loro parole.
<< Maledetto te e le tue sigarette, l’MBC puzzerà per il resto della settimana. >> esordì Lourk, girandosi sul suo sedile e facendo sparire il volante nel cruscotto semplicemente premendo un pulsante.
<< Perché non avete ancora fatto irruzione? >> chiese Wrine chiudendo la porta e sedendosi sul sedile accanto.
<< Due ostaggi, non mi arrischio. Ha già fatto sei vittime, non ci tengo a causarne una settima. Stiamo vedendo come fare. >> rispose Lourk, riaprendo la cartellina e scorrendo nervoso i rapporti in essa contenuti.
<< Non vuoi una seconda Koresh Street, eh? >> lo pungolò Wrine, cinico.
Lourk strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche, chiudendo per un attimo gli occhi.
Wrine poteva sentire lo scricchiolare dei sui denti digrignati.
<< No, cazzo, non ci tengo ad avere una seconda Koresh Street. >> sibilò rabbioso il capitano.
<< Sappiamo se il nostro soggetto è armato? >> continuò Wrine, tornando serio.
<< No, ma temiamo lo sia. E anche se fosse, si è dimostrato abbastanza pericoloso anche da disarmato, dovevi vedere quella povera coppia. >>
<< L’ho vista, all’obitorio. >>
<< Davvero? >>
<< Sì. >>
Tra i due ci fu un attimo di silenzio.
Wrine soffiò una nuvoletta di fumo bianco fuori dal finestrino, lasciando cadere la cenere della sigaretta al di là del vetro scuro.
<< Quindi? >> chiese infine.
<< Cosa? >>
<< Dovremmo rimanere qui in attesa che questo tizio si consegni da solo? >>
<< Sto aspettando gli incursori, in realtà. >> disse Lourk, abbassando lo sguardo e grattandosi la nuca.
<< Non sono ancora arrivati? >> sbottò Wrine alzando un sopracciglio castano.
<< No. >>
<< E quando dovrebbero arrivare? >>
<< Venti minuti fa. >> mormorò Lourk, improvvisamente docile come un agnellino.
Wrine rimase a fissarlo, in silenzio, la sigaretta tra le labbra e il rumore della pioggia come compagno.
<< Prepara i tuoi agenti, guido io l’assalto. >>
<< Cosa? >> chiese Lourk, alzando la testa di scatto, quasi impaurito dalla decisione.
<< Prendo i tuoi agenti e faccio irruzione, avanti, non abbiamo tempo per aspettare i reparti speciali. >> disse Wrine, terminando la sigaretta e gettandola fuori dal finestrino.
<< Sei pazzo? Violeremmo almeno tre protocolli. >>
<< Quattro, se non mi dai la tua autorizzazione. >>
<< Lo affronti tu il prefetto? >> chiese Lourk, grattandosi i radi capelli neri, le folte sopracciglia corrugate.
<< Certo, puoi stare tranquillo, quando mai non mi sono preso le mie responsabilità? >>
<< A Koresh Street… >> sussurrò Lourk, quasi impercettibilmente, tra sé e sé.
<< Cosa? >>
<< Niente. >>
<< Comunque, non possiamo attendere oltre i reparti speciali, o qualcuno lì dentro lo troviamo morto di sicuro. >> continuò Wrine, soffiando di nuovo fuori dal finestrino.
<< E va bene, facciamolo. Ma sappi che io me ne lavo le mani. >> disse Lourk, puntando il suo grosso indice contro Wrine.
<< Nessun problema, mi prendo ogni colpa. Hai ancora quella vecchia scatola di sigari? >>
<< Quasi finita. Ho pensato di rivenderla quando il bando è passato in Senato. >>
<< Che legge del cazzo. Sei hai ancora due sigari, ce li fumiamo dopo questa operazione, che ne dici? >>
Lourk ridacchiò, complice.
<< Si può fare. >>
Lourk uscì dall’abitacolo e tornò nel vano posteriore, mentre Wrine scese dalla portella accanto a sé.
Si guardò intorno e si incamminò lentamente verso uno stretto vicolo buio, esattamente tra l’edificio che avrebbero dovuto assaltare ed il palazzo accanto, dove i balconi e le tettoie lo avrebbero protetto dalla pioggia.
Il giovane agente che gli aveva offerto il cappello poco prima gli si affiancò di nuovo.
<< Allora, signore? >> chiese, tallonandolo.
<< Allora cosa? >>
<< Si irrompe? >>
Il ragazzo fremeva d’eccitazione, Wrine non aveva nemmeno bisogno di voltarsi a guardare per capirlo.
<< Sì. >> disse il detective seccatamente.
<< L’impatto mediatico che avrà questa operazione sarà impressionante, il caso è già seguitissimo in rete. Non pensa che la gente ne parlerà per parecchio tempo? >>
<< Ammetto che l’assassino è stato abbastanza brutale nei suoi omicidi e questo ha attirato parecchia attenzione, ma la gente tende a dimenticare ciò che ascolta in tv. Tempo un anno e vedrai che nessuno si ricorderà più niente. >> rispose il detective addentrandosi nel vicolo buio e invaso dai rivoli d’acqua sporca che fluiva nelle fogne.
<< Così mi uccide, signore. >> rispose l’agente, fermandosi all’imboccatura del vicolo, uno sguardo deluso sul volto fradicio.
Wrine si fermò e si voltò, passando la mano sul trench, indeciso se estrarre di nuovo oppure no il portasigarette.
<< Senti, ragazzo… come ti chiami? >> chiese infine, estraendo lo Zippo e mettendosi a giocherellare con esso, facendolo passare tra un dito e l’altro.
<< Merrys signore, Laetus Merrys. >> disse il ragazzo fissando incuriosito l’accendino.
<< Senti Merrys, voglio raccontarti una storia. C’è un marinaio che va sempre per mare invece di starsene a casa con la moglie. Ad un certo punto, finisce su una nave da guerra e per poco non ci rimane secco durante una battaglia, ma riesce comunque a riportare la pelle a casa, e sai allora che fa? >>
<< No, signore. >>
<< Torna in mare, lasciando la moglie da sola. >>
<< E poi? >>
<< Ci rimane secco per una tempesta. >>
<< Dove vorrebbe arrivare, signore? >> chiese Merrys, visibilmente confuso.
<< Non andare in cerca di gloria, non ne vale la pena. >>
Il ragazzo rimase ammutolito, ancora più confuso di prima.
<< Cos’era quella? >> chiese dopo un po’.
<< Cosa? >>
<< La roba che stava fumando. >>
<< Non hai mai visto una sigaretta? >> chiese Wrine, inarcando un sopracciglio.
<< Oh… solo elettroniche, signore, ormai si usano solo quelle. >> rispose Merrys, sorridendo beota e annuendo deciso.
<< Avresti dovuto vedere cinquant’anni fa. >> disse Wrine, sconsolato << E meno male che hanno trovato la cura per il cancro. >>
Merrys non rispose, non sapendo con esattezza di cosa il detective stesse parlando.
<< Perché siamo qui, signore? >> chiese dopo un po’, cercando di porre fine al silenzio imbarazzato che era calato tra i due.
<< Cercavo… quelle! >> rispose il detective, alzando la testa e indicando dopo una rapida ricerca le scale antincendio dell’edificio.
Si avvicinò per guardarle meglio, cercando di capire meglio come salissero fino al settimo piano.
<< Sì, penso proprio che ci torneranno utili. >> disse dopo un po’, gli occhi verdi in alto a fissare il cielo, i corti capelli castani ormai fradici per la pioggia.
<< Che ore sono, ragazzo? >> chiese, lasciando che l’acqua scorresse sul suo viso e gli bagnasse le palpebre.
<< Uh… le tre… le tre e mezza ormai. >>
<< Bene, non attendiamo altro tempo. >>
I due si diressero nuovamente verso il comando mobile, ma un urlo li fece fermare subito prima che potessero entrare nel mezzo.
Un agente indicò in alto, sopra le loro teste, in direzione del sesto piano.
Un uomo nudo era affacciato alla grande portafinestra che dava sul vuoto, quasi in procinto di lanciarsi, un braccio bianco sporco di sangue proteso nel vuoto, gli occhi allucinati e persi, come se fosse appena uscito da un sogno.
<< Porca puttana, ora si butta! >> urlò Lourk uscendo improvvisamente dal camion per seguire la scena dal vivo.
<< Mi ricorda un vecchio film. L’androide però aveva la decenza di tenersi le mutande. >> osservò Wrine con estrema nonchalance.
L’uomo nudo ondeggiò per qualche secondo sul bordo della finestra, poi rientrò nell’appartamento.
<< A quanto pare abbiamo almeno una settima vittima, entriamo, ora! >> urlò, lanciandosi in avanti verso l’ingresso del palazzo.
Una ventina di agenti lo seguì all’interno, un immenso androne dorato in cui altri poliziotti, fortunatamente rimasti all’asciutto, erano intenti a interrogare e a rimandare nei loro appartamenti i pochi coinquilini che ancora abitavano quel rudere fatiscente.
Quattro ascensori erano presenti oltre il vecchio bancone ad anello della reception, per fortuna tutti funzionanti.
In un lungo minuto, reso imbarazzante dall’attesa all’interno degli elevatori, gli agenti furono tutti al sesto piano, pronti a fare irruzione.
<< Pistole in modalità teaser, ragazzi, evitiamo morti. Fate molta attenzione, il soggetto è pericoloso anche se disarmato. >> disse Wrine non appena tutti furono di nuovo riuniti nel corridoio del sesto piano.
Il detective guidò i suoi uomini fin davanti alla porta di un appartamento.
<< Signore, il nostro bersaglio è al piano di sopra. >> fece notare un agente.
<< Lo so. >> disse Wrine bussando energicamente alla porta. << Cinque di voi entrino qua dentro e raggiungano il piano superiore dalle scale antincendio. >>
Un nero scheletrico e scuro come la pece aprì la porta, visibilmente irritato.
<< Buona sera, polizia, necessitiamo di entrare. >> disse Wrine estraendo il distintivo dal cappotto bagnato e mostrandolo frettolosamente all’uomo prima che questi fosse travolto dagli agenti diretti alla finestra da cui si sarebbero potuti issare sulle scale.
<< Bene, altri cinque vadano all’ottavo piano e facciano lo stesso, tutti gli altri con me. >>
I poliziotti rimasti raggiunsero le scale di servizio e arrivarono davanti alla porta di accesso al pianerottolo dove avrebbero trovato l’inferno.
<< Togliete la sicura, pronti, andiamo. >> disse Wrine lanciandosi sul pianerottolo.
Già nel corridoio si sentiva puzza di morte, un puzzo così forte e nauseabondo che faceva venire i conati.
Gli uomini si ammassarono contro la porta dietro alla quale vi era il loro bersaglio, e attesero in silenzio che arrivasse Lourk insieme ad altri due agenti, uno dei quali armato con un piccolo ariete portatile.
Wrine fece un cenno a Lourk, che afferrò la radio che teneva appuntata sopra alla sua uniforme blu e nera in fibra sintetica.
<< Entriamo. >>
L’agente si lanciò con l’ariete sulla porta, un solo colpo secco ed il legno cedette, spezzandosi intorno alla serratura.
Gli uomini si riversarono all’interno attraverso la porta sfondata, mentre un rumore di vetri infranti li raggiungeva da una stanza in fondo alla casa.
Fu questione di pochi attimi.
Gli uomini furono presto in salotto, dove il pazzo li attendeva, riverso per terra, immerso in una pozza di sangue, i polsi tagliati, al centro di un pentacolo tracciato coi fluidi corporei di qualcun altro.
La scena era da incubo: l’elettricità all’interno dell’appartamento era saltata e l’unica fonte di luce erano le luminarie esterne o i rari lampi che squarciavano il cielo, sul pavimento erano ammassati rifiuti ed escrementi, e lì, davanti a loro, giaceva il cadavere di un innocente ragazzino, le pelle bianca, gli occhi vuoti, spenti.
Accanto, l’essere – perché difficilmente lo si sarebbe potuto definire uomo – si contorceva negli ultimi spasmi di vita, nudo e sporco, emettendo delirante versi inumani.
Urlò una sola, gutturale parola, prima che le sua grida divenissero prive di senso e infine si spegnessero.
Incubo.
 
<< Abbiamo fatto il possibile. >> disse Lourk, versando della crema di whiskey in due bicchieri con ghiaccio.
<< Io ancora non ho capito dove era finita la squadra speciale. >> disse Wrine, accettando il bicchiere che Lourk gli porse.
<< Bloccata sulla Hampton. Incidente stradale. >> disse l’altro, sedendosi sulla poltrona in cuoio bruno del suo studio.
<< E nel mentre quel pazzo ha ammazzato altre due persone. Che merda. >> concluse Wrine amareggiato.
<< Alla fine Koresh Street si è ripetuta, purtroppo. >> commentò Lourk sconsolato, afferrando una scura scatola dal ripiano inferiore del basso tavolo in vetro fra le due poltrone.
<< Non mi va più tanto, in realtà. >> disse Wrine, accennando col capo ai sigari contenuti nella scatola.
<< Son d’accordo. >> disse Lourk, riponendo la scatola al suo posto, senza nemmeno esitare.
Wrine bevve un sorso, facendo poi girare il liquido nel bicchiere.
<< Perché crema? >>
<< Ha un gusto più morbido, la preferisco al whiskey. >>
Ci fu di nuovo una pausa, in cui Lourk assaporò il suo primo sorso.
<< Mi dispiace… per Koresh Street. >> disse ad un certo punto Wrine << Non avrei dovuto sparare a quel marero. >>
<< Che ne sapevi che sarebbe scoppiata una sparatoria? Voglio dire, era solo il quartiere più malfamato di tutta Aéromaé. >>
<< Mi dispiace. >> sussurrò Wrine.
<< Dispiace anche a me. Avrei voluto salvarlo, quel ragazzo. Ma nessuno è infallibile. Quella sparatoria fu colpa tua quanto mia. >> rispose Lourk, tentando vanamente di consolarlo.
Calò di nuovo il silenzio, poi Lourk tentò nuovamente di parlare.
<< Io… io ho deciso di partire, dopo la pensione. >>
Wrine alzò il capo.
<< Quanto ti manca? >>
<< Oh, ho ancora un paio di anni, ma dovrei riuscire ad avere il pensionamento anticipato. >>
<< E dove te ne vai? >> chiese Wrine, grattandosi il dorso della mano per il nervosismo.
<< Pensavo Luna, o Marte. Abbastanza lontano da questo dannato pianeta, ma non troppo. >>
Wrine fissò il proprio bicchiere.
<< Perché non vai in una di quelle nuove colonie? Ho sentito che hanno trovato diversi pianeti abitabili e cercano gente. >>
<< Oh, sono troppo vecchio per certe cose. E poi, mi mancherebbe la Terra, senza poterla neanche vedere in cielo. >>
Wrine poggiò il bicchiere, ancora mezzo pieno, ed estrasse il suo accendino.
Se lo rigirò tra le mani, lo fissò per un poco, e lo lanciò in mano al vecchio poliziotto.
Lourk fissò il piccolo marchingegno brunito, lo sguardo catturato dalle piccole incisioni che ne ricoprivano una faccia.
<< Cosa ci hai inciso, matricole? >> chiese infine.
<< Sì, la mia matricola militare e i miei anni di servizio. >> rispose Wrine.
<< E perché me lo dai? >>
<< Perché era un tuo regalo. >>
Gli occhi di Lourk brillarono.
<< Oh, non pensavo lo conservassi ancora. >> esclamò, la voce tremante.
<< Le incisioni le ho aggiunte quando sono stato congedato. Non pensavo che avrei continuato a servire la Federazione così… >>
<< E invece… >>
<< E invece un vecchio bacucco mi ha convinto ad entrare in polizia, per continuare la tradizione di famiglia. >>
Lourk sorrise.
<< Sono contento che ti consideri ancora parte della famiglia. >>
<< Europa come sta? >>
<< Bene. Dice che le mancherò. >>
<< E io…? Le manco? >>
Lourk fece una pausa, assorto nei suoi pensieri.
<< Sì, a tuo modo, le manchi. >>
<< Sono contento. >> disse Wrine afferrando il bicchiere e vuotandolo in un solo sorso.
Si alzò e si avvicinò all’appendiabiti dove il suo trench ancora umido lo attendeva.
<< È tempo di andare, ormai. Porta i miei saluti a tua figlia, dille… dille che manca anche a me, a suo modo. >>
Lourk si alzò, aggiustandosi la camicia.
<< Glielo dirò. Vieni, ti accompagno alla porta. >> disse, superandolo e facendogli segno di seguirlo.
Attraversarono l’ingresso in silenzio, fino a giungere davanti alla porta che dava sulla larga strada buia.
<< Sta ancora piovendo. >> disse Lourk, ascoltando i rumori provenienti dalla strada << Sicuro di non voler aspettare che smetta? >>
<< Non serve, tranquillo. Mi piace la pioggia. >>
Lourk aprì la porta.
<< Ah, l’accendino. >> disse, tastandosi una tasca del pantalone.
<< Non serve, tienilo tu. È per questo che ti cercavo stanotte. >>
<< Pensavo fosse per il maniaco. >> commentò Lourk alzando un sopracciglio e abbozzando un mezzo sorriso.
<< Anche. >>
<< E… perché me lo restituisci? >>
<< Devo dare la caccia a un droide fuori controllo di una grossa azienda, un prototipo mal riuscito. Non penso di fare ritorno, ed inoltre ora trovo che sia un bel ricordo da portare nelle colonie. >>
Wrine si fermò un attimo, pensando a quanto aveva appena detto.
<< Di nuovo come in quel vecchio film, che coincidenza… >> disse, ridacchiando tra sé e sé.
<< Per me, la robotica è un vicolo cieco, dammi qualche anno e vedrai che tutte queste nuove aziende falliranno una dopo l’altra. Vabbè, lasciamo perdere. Vedi di non farti ammazzare. >> disse il vecchio poliziotto, porgendogli la mano << Allora è un addio, Sicarius. >>
<< Già. Addio, Augustus. >> rispose Wrine, stringendogliela vigorosamente e uscendo poi in strada, lasciando che il freddo della notte si insinuasse nelle pieghe del suo giubbotto.
Scese i pochi scalini che separavano l’abitazione dall’asfalto e raggiunse la sua vettura, parcheggiata poco distante.
Nel mentre, una lacrima solcò la sua guancia, perdendosi tra le infinite gocce di pioggia.

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