The Sinner's Recall

di Andy Black
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Overtura ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Quel che conta davvero è se ti senti realizzato ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Aquiloni ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - The Bridge Over Troubled Water ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Ground Zero ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Cerchi Nel Grano ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - A Discapito Degli Altri ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 - Cipria ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - Montecristo No. 2 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 - Moto Perpetuo ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 - Gold ha sempre ragione ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 - Glitch ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 - Royalties ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 - Cuore Puro ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 - Alibi ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 - Perfect Pitch ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 - 3,14159 26535 89793 23846 26433 83279 50288 41971... ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 - Tessere Del Mosaico ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 - My Bad ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 - Claustrophobia ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 - Rovine ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 - Volume ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 - Trucchi del Mestiere ***
Capitolo 24: *** Primo Interludio ***
Capitolo 25: *** Capitolo 23 - Il Punto Di Non Ritorno ***
Capitolo 26: *** Secondo Interludio ***
Capitolo 27: *** Capitolo 24 - Le Strade Che Vanno All'Inferno Sono Lastricate Dal Senno di Poi ***
Capitolo 28: *** Terzo Interludio ***
Capitolo 29: *** Capitolo 25 - Un Pezzo, Due Pezzi, Un Penny E Un Decino... ***
Capitolo 30: *** Quarto Interludio ***
Capitolo 31: *** Capitolo 26 - Come Un Fiammifero In Una Stanza Buia ***
Capitolo 32: *** Capitolo 27 - Qualcuno si domanda perché qua c'è più sangue che in un racconto di Bram Stoker ***
Capitolo 33: *** Capitolo 28 - Il Cielo È Blu Petrolio ***
Capitolo 34: *** Capitolo 29 - Messo a fuoco l'obiettivo ***
Capitolo 35: *** Capitolo 30 - Occhio Per Occhio ***
Capitolo 36: *** Capitolo 31 - Vi Spiego Cos'è Una Prova Di Forza ***
Capitolo 37: *** Capitolo 32 - Come Gli Spettri ***
Capitolo 38: *** Capitolo 33 - Povere Membra ***
Capitolo 39: *** Capitolo 34 - Castigo pt. 1 ***
Capitolo 40: *** Capitolo 34 - Castigo pt. 2 ***
Capitolo 41: *** Capitolo 34 - Castigo pt. 3 ***
Capitolo 42: *** Capitolo 34 - Castigo pt. 4 ***
Capitolo 43: *** Capitolo 34 - Castigo pt. 5 ***



Capitolo 1
*** Overtura ***


0 - Overtura
 
Universo X, mille anni prima
 
Il tempo era gelido.
La cima del Monte Trave si stagliava nella tempesta di neve, alta e coraggiosa. Il forte vento brandiva i fiocchi ghiacciati e li disperdeva in piroette eleganti e gelide.
Il cielo era totalmente nero. Solo le fiaccole, attorno alla grande costruzione di pietra viva, donavano qualche lume al buio di quella notte. Il tempio illuminava la notte, almeno un po’.
Il vento si lamentava, la neve entrava nella seconda cella a destra attraverso le finestre con le sbarre.
Era la diciassettesima tempesta che contava, Lionell, con le mani e i piedi incatenati e il volto contro il muro.
 
Il rumore della frusta.
 
Sentiva il rumore della frusta battere sulla vecchia pietra della pavimentazione che i templari calpestavano dall'alba dei tempi.
Aveva fame, non mangiava dal giorno prima, e comunque quella piccola porzione di pane raffermo non faceva altro che aumentargli il buco in pancia.
Sentì il rumore della cella accanto alla sua, la prima della lunga fila, in cui vi era rinchiuso un assassino che aveva avuto il coraggio di ammazzare una guardia del tempio. Il cancello fu trascinato sul pavimento, emettendo un rumore stridulo. Lionell sentì poi il prigioniero, legato al muro proprio come lui, cominciare a supplicare il carnefice.
“Ti prego! No! Ti prego, non farmi più del male!”.
Lo scudiscio sibilò di nuovo sul pavimento, causando nell’uomo ancor più paura. Nella sua voce traspariva per intero la sua disperazione.
Sospirò, Lionell, sentendo l’ansia crescere. Trenta frustate dopo gli sarebbe toccata la stessa sorte.
 
Ancora quel rumore.
Le urla dell'assassino nella cella accanto rimbombarono nelle fredde pareti di mattoni grigi.
“Basta!” gridava.
 
Ancora.
Chiedi scusa ad Arceus per i tuoi peccati!” ribatteva il templare che brandiva la frusta.
“Scusa!”.
 
Ancora.
“Scusa a chi?!”.
 
Ancora.
“Scusa! Arceus, scusa!”.
 
Ancora.
“Scusa ad Arceus per cosa?!”.
 
Ancora.
“Per... i miei... Fermati!”.
 
Ancora.
“Scusa ad Arceus per cosa?!” ripeté la prima voce.
“Scusa Arceus! Per i miei peccati!” urlò infine l'assassino. Ci furono altre ventitré frustate ma la vittima smise di urlare intorno alla ventesima.
Lo scudiscio sibilò sul pavimento per altre due volte prima che Lionell sentisse il cancello della prima cella chiudersi, sbattendo forte sul montante di ferro battuto e rimbombando nuovamente per l'intero corridoio.
 
Ancora il rumore della frusta.
 
Pochi secondi e sarebbe stato il suo turno.
Poche volte aveva perso coscienza, come invece accadeva al suo vicino di cella. E quando succedeva ringraziava il cielo in quanto, dopo la tortura, il carnefice gettava del sale sulla schiena dei fustigati. Ogni volta che succedeva era costretto a continui spasmi di dolore.
Portò gli occhi verso il basso, mentre i capelli lunghi e la barba incolta raccoglievano le lacrime che sfuggivano ai suoi esami di coscienza.
Pensò che se non avesse mai incontrato Xavier Solomon non sarebbe finito in quella situazione.
Non ne capiva il motivo. Lui era un fautore del bene, aveva anteposto la sopravvivenza del mondo alla vita di sua figlia ed era stato punito in quel modo.
Ripensò a quell’eretica di sua figlia Rachel, di Zackary Recket, a quel traditore di Ryan Livingstone e a quella ficcanaso di Alma Ramìz. Tutti avrebbero pagato, se soltanto fosse riuscito a tornare avanti nel tempo, nel futuro.
Sentì un'altra frustata ringhiare sul pavimento prima che la cancellata della sua cella gemesse come aveva fatto quella accanto.
Aveva paura, era arrivato il suo turno.
 
Universo X, mille anni dopo, il 05 Gennaio alle 03:25
 
Il vortice temporale lo aveva portato esattamente dove voleva.
Biancavilla. Xavier Solomon poggiò qualche passo sul sentiero principale del paesino delle leggende e si guardò attorno: c’era la tranquillità più che totale, e una leggera brezza lasciava volteggiare qualche foglia secca attorno alle case coi tetti rossi.
I lampioni illuminavano di luce gialla la notte. Addolcivano il cammino dell’avventore.
Xavier si perse a guardare le abitazioni e sorrise nel ricordare come, da dove veniva lui, Biancavilla fosse diventata una discarica a cielo aperto.
Invece lì c’erano le case natali di Red e Blue. Più in fondo s’intravedeva il giardino di casa di Margi Oak.
Accanto viveva Green Oak.
Alzò quindi gli occhi, guardando la grossa collina che si ergeva poco lontana dalla spiaggetta.
L’Osservatorio imperava silenzioso, mentre le pale del mulino giravano tranquille.
S’avviò lì, sapendo perfettamente ciò che dovesse fare.
Aprì il cancelletto del giardino dell’Osservatorio, dove piccole siepi lasciavano spazio ad un’altissima quercia. Un Pidgey sonnecchiava placido nel suo nido, tra i rami più bassi .
Se Xavier non fosse stato un dannato avrebbe passato la vita a consumarsi sotto il sole di quel posto.
Cacciò una piccola sfera d'acciaio dalla tasca del lungo giaccone nero e la poggiò davanti alla serratura. Quella si attacco magneticamente alla porta e cominciò a fare il proprio dovere.
Non gli ci volle molto per entrare. Guardandosi attorno si ritrovò in quello che sembrava essere un posto dall’aria monumentale.
Ci pensò: grandi Allenatori aveva cominciato il proprio percorso proprio in quello studio.
Scrutò meglio l’ambiente, un fascio di luce proveniente da un lampione all’esterno attraversava la finestra modello vittoriano e illuminava l’anticamera, arredata con grossi scaffali carichi di libri.
Camminò lentamente, entrando nella camera a destra. Vi era un tavolo da lavoro, una saldatrice portatile e il progetto di un nuovo Pokédex. Un vecchio Packard-Bell era acceso, messo in standby, con la ventola che produceva un rumore di sottofondo abbastanza fastidioso. Xavier mosse il mouse e lo schermo s’illuminò, mostrando un manuale di montaggio per la nuova versione dell’enciclopedia Pokémon che qualcuno stava assemblando. Lo analizzò per un attimo, quindi bollò il progetto come di bassa tecnologia e sorpassò la scrivania. Altri tomi erano impilati al fianco della poltroncina in una colonna, sulla cui cima vi era una bottiglia d'acqua a metà.
Non vi guardò e proseguì oltre, vedendo il macchinario adibito al ripristino della salute dei Pokémon. Tecnologia antiquata. Infine, in fondo alla stanza, vi erano tre piedistalli vuoti. Davanti c'era una targhetta:

 
BULBASAUR - CHARMANDER - SQUIRTLE
 
Xavier li superò rapidamente e si voltò, entrando poi nell’altra stanza, molto più ordinata. Qui, sulla moquette brunastra, era poggiata una grossa scrivania in pesantissimo legno d’ebano.
La stanza era parecchio più buia e Xavier non si fece problemi nell’accendere le luci, noncurante di Green Oak che, dalla finestra di casa sua, vide tutto. L'antifurto perimetrale lo aveva destato dal suo sonno.
Quello si vestì e corse in osservatorio, ma non prima che Xavier aprisse tutti i cassetti, scartando fogli, fascicoli e un grosso malloppo di banconote. Cercava un'altra cosa.
Si allontanò dalla scrivania e si rivolse verso un alto mobile alle sue spalle, spalancando tutte le ante e gettando per terra qualsiasi cosa vi trovasse all’interno.
“Non è qui...” sospirò. Ma lo sentiva: la Pietra del Caos era lì.
Si voltò e vide una grande fotografia incorniciata di Samuel Oak attaccata, a una parete. Xavier sospirò e capì, quindi la sollevò, scoprendo la grande cassaforte che celava.
“Combinazione?” si chiese, prendendo un macchinario dalla borsa e attaccandolo alla pulsantiera d’apertura. I quattro numeri apparvero sullo schermo e a Xavier non restò che digitarli. La serratura scattò immediatamente.
Quando la porta si aprì, producendo un cigolio sinistro, uno strano odore di plastica si diffuse.
“Okay” fece di nuovo il biondo dagli occhi rossi, infilando un paio di guanti di pelle nera. Raccolse la Pietra nel Caos e la infilò in una busta rivestita d’alluminio, quindi sentì la porta d’ingresso spalancarsi.
“Chi c’è?!” urlò Green Oak, correndo a perdifiato verso la stanza.
Xavier si smaterializzò proprio nel momento in cui il Dexholder dagli occhi verdi entrò nello studio. Vide il ladro sorridere soddisfatto, prima di svanire nel nulla.
“Porca puttana!” urlò, battendo un forte pugno sulla scrivania, guardando il vuoto all’interno della cassaforte. “Ora saranno cazzi amari per tutti! Per tutti!”.
Blue entrò nell’Osservatorio, spaventata e sorpresa. “Green!” lo chiamò. "Ti sto inseguendo da cinque minuti!".
Quello rimaneva immobile, con le mani ai fianchi e la testa bassa. “C’è da avvertire Crystal ed Elm, quel cristallo è troppo pericoloso”.
La donna avanzò, stringendo la grossa giacca a vento sulla camicia da notte turchese. Aveva gli occhi spenti e struccati e i capelli spettinati, risultando lo stesso la donna più bella del mondo.
“Che cos'è successo?” chiese, confusa.
Green camminava freneticamente da una parte all'altra dell'ufficio. Solo dopo qualche secondo prese il telefono, componendo un numero. Snobbò totalmente la voce della donna.
“Rispondimi!” urlò quella.
“Hanno rubato il Cristallo del Caos, Blue”.
“E cos’era?”.
“Non c’è tempo ora... Elm! Pronto, Elm! Scusami l’orario, sono Green Oak. Sì, ripeto, scusami l’orario, ma abbiamo un grosso problema”.
 
Universo X, mille anni prima, sei secondi dopo
 
Lionell vide l’ombra della mano del templare alzarsi mentre la sua schiena, dilaniata dalle frustate del giorno precedente, era stata liberata, pronta per essere nuovamente colpita.
Non tutti sopravvivevano a quel trattamento.
Non era semplice tirare avanti e molto spesso non era neppure così voluto: avrebbe preferito morire, piuttosto che esser frustato trenta volta al giorno, come succedeva da tre anni a quella parte.
 
Ancora, colpi di frusta.
 
Il sadico torturatore s’avvicinava. Lionell sentiva nelle tempie rimbombare ogni passo dell’uomo all’interno di quella cella così umida e buia. Quando non riuscì più a percepire alcun rumore, però, si preoccupò.
 
"Che succede?".
 
Un lamento silenzioso, breve, poi la frusta cadde per terra.
Seguì un tonfo sordo.
Il torturatore era morto, perdeva sangue dalla nuca. Riusciva a vederlo con la coda dell’occhio.
E poi una voce tagliò quel silenzio come una lama di coltello.
“Lionell... Come diavolo sei finito qui?!” esclamò quella. Era un uomo; quasi sorrideva, alle sue spalle.
Aveva capito, il prigioniero. Spalancò gli occhi e la bocca e per la prima volta dopo cinque anni il suo cuore si riempì di speranza.
“Xavier! Xavier, sei tu! Aiutami!”.
L'altro si fermò, poggiando la schiena al muro, con le braccia incrociate, accanto a lui.
“Sì, ti aiuterò... ma facciamo prima un breve riassunto di quello che è successo in questi ventitré anni, ti va? Allora, sono venuto a casa tua per farti capire che tua figlia Rachel fosse il male maggiore di questo mondo, tu hai cercato di catturarla e di prendere anche Arceus quando, chiaramente, non ti spettava. Il tuo compito era soltanto prendere tua figlia e ucciderla, conservando il corpo. A quel punto sarei venuto io e avrei preso il cadavere e tu saresti tornato alla tua vita. Invece no, hai voluto strafare. Hai pensato davvero, anche solo per un momento, di poter sconfiggere Arceus?! Con le tue sole forze?! Sei un illuso, Lionell”.
“Liberami, ti prego!” piangeva quello. “Non ce la faccio più!”.
“Ti ho detto che ti aiuterò... ma ora stai calmo, sto finendo di parlare” tuonò cupa la sua voce, che rimbalzò sulla pietra delle pareti della cella. “Sai cos’è successo, intanto?! Che il mondo non è stato distrutto ma che Rachel è ancora a piede libero e tu hai fallito. Per altro sei rimasto imprigionato a più di mille anni dal tuo tempo, condannato a prendere frustate, legato e bloccato come un maiale sul girarrosto” rise. “Dov’è finita la tua grande dignità? Dovrei ammazzarti, Lionell”.
“No!” urlò quello. “Io voglio vivere! Portami di nuovo nel mio tempo, ti farò vedere che prenderò Rachel e la ammazzerò! Questa volta sarò perfetto, credimi!”.
“Sì, lo spero per te. Perché non avrai altre occasioni per andare avanti... Credimi tu”.
Lionell rimase in silenzio e vide Xavier staccarsi dalla parete, muovere alcuni passi e calciare con forza il cadavere del torturatore che, come un pesante sacco di farina, si spostò di pochi centimetri. Lo sentì passare le sue mani sulle ferite che aveva sulla schiena, provocate dalle frustate senza pietà infertegli dall’uomo esanime per terra.
Bruciavano al contatto, sentiva il dolore divorare le sue carni vive.
Sorrise e smise di toccarlo. Mise poi una mano nella tasca del soprabito di pelle nera, tirando fuori il grosso cristallo nero.
Lo poggiò giusto al centro della schiena e quindi sorrise.
“C-cosa stai facendo?!” pianse Lionell, quando l’uomo senza catene spinse con forza il cristallo nelle profondità del corpo dell’altro.
Un urlo sovraumano si levò nelle prigioni del tempio.
Il sangue colava sui fianchi di Lionell ma lentamente il dolore veniva sostituito da una stanchezza quasi fisiologica.
Stava per morire, lui, se lo sentiva.
Xavier poi gli si avvicinò, poggiando la mano sulla sua nuca, passando le dita tra i capelli ormai più bianchi che biondi, e sorrise nuovamente.
“Voglio vedere il tuo orgoglio. Voglio che mi mostri la tua dignità. Fammi vedere l’uomo che vuoi essere” concluse, afferrandolo infine per la chioma sudata e sbattendogli il volto contro il muro, con violenza immane.
Il labbro si spaccò, una ferita sulla fronte si aprì e altro sangue colò sul suo petto, poi ancor più giù, al torace, finendo per intridere i calzoni neri.
“Voglio vedere il tuo orgoglio!” ripeté Xavier, lasciandogli la testa e voltandosi, dando un altro calcio al torturatore e sparendo.
 
Stanco.
Lionell era stanco.
Era stanco nel corpo, perché era rimasto incatenato per troppo tempo a quel muro, e il poco sangue che gli era rimasto in corpo non gli consentiva di sfruttare appieno la forza residua.
Aveva ridotto anche la sua voglia di lottare, perché visibilmente avvilito dalla situazione.
Era avvilito nello spirito.
Ed era così deluso da se stesso che quasi sentiva la piccola fiammella che si stava spegnendo in lui riaccendersi, per la rabbia. Perché viveva una vita perfetta prima di conoscere quell’uomo che veniva dal futuro, dal passato, da un’altra realtà di un altro universo: aveva una moglie bellissima che amava alla follia, studiava, aveva i soldi per garantirle una vita tranquilla e aspettava una bambina che avrebbe cresciuto con amore.
Almeno prima che il suo cervello fosse riempito di parole e cose giuste da fare.
Sua moglie era una bugiarda, sua figlia era un pericolo, i suoi soldi erano solo l’illusione di una vita vana.
Avrebbe dovuto limitarsi ad ascoltarlo, forse, senza sfidare Arceus.
Senza lottare contro Recket, senza lasciare sua figlia in vita per tutto quel tempo, bastevole a lasciarle spazio di manovra per sconfiggerlo e lasciarlo lì, mille anni prima, incatenato a una parete sporca di sangue.
Aveva tutto e lui l’aveva gettato alle ortiche.
Sentiva la rabbia premere sotto lo stomaco, costringerlo a spalancare la bocca e ad urlare.
L’odio cominciava a fluire nelle vene e l’adrenalina gli aveva donato una forza che non credeva di avere prima. Strinse i pugni e tirò forte i polsi verso il corpo, spezzando le catene.
Fece lo stesso con le cavigliere, staccandole dal muro, e urlò ancora.
“Basta!” piangeva, mentre gli anelli di ferro che strusciavano sul pavimento rimbombavano in un’eco agghiacciante.
Camminava, nemmeno s’accorse di quanti cadaveri Xavier avesse lasciato sul pavimento; affondava i piedi nudi nel sangue bollente dei templari che avevano provato a difendersi. Prima, l’Oracolo, non era lì già da tempo, altrimenti avrebbe approfittato di lei per prendere il cristallo.
Avrebbe dovuto sfogare la sua rabbia in qualche modo.
Urlò ancora, la schiena bruciava, il sangue continuava a scendere copioso e, una volta arrivato fuori al tempio, un uomo in groppa a un grosso Raikou di colore nero lo aspettava sorridente.
Batté le mani tre volte, Xavier.
“Bravissimo. Ora torniamo nel tuo presente”.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Quel che conta davvero è se ti senti realizzato ***


1. Quel che conta davvero è se ti senti realizzato









“Ho fame” diceva la ragazza.
“Non c’è tempo. I Salamence saranno arrivati da più di dieci minuti li sopra!”.
“Uff, hai ragione... Andiamo...”.
Absol rizzava il pelo. Lui lo guardava. “Sta per succedere qualcosa” diceva poi.
“Non sta per succedere niente! Finiscila di mettere il tuo destino in mano ad Absol!
Affronta la vita come capita!”.
“Smettila di dirmi queste cose! Io mi fido dei miei Pokémon!”.
“Appena hai visto questo Absol ti sei dimenticato di tutto il resto del mondo!”.
“Emily, smettila!”.
“Adesso che vorrà mai?!”.
Absol ringhiava. Lui lo vedeva camminare verso sinistra: il pavimento era gravemente danneggiato e un enorme foro buco le assi del pavimento proprio al centro.
Era una voragine e due piccoli viottoli passavano alla destra e alla sinistra di esso.

Absol abbaiava, avviandosi verso sinistra. Lui guardò Emily.
“Di qua” faceva lui, prendendola per mano.
“Non seguirò quel cagnaccio!”.
Lui non capiva i motivi di quella rabbia. “Calma i toni” le diceva.
“Io parlo come mi pare, di chi mi pare!”.
“Sei arrogante! Io sto cercando di rendere le cose più veloci e sicure!”.
“E lo fai mettendo in campo un Pokémon che non ti da sicurezza in tal senso?!”.
“Ma che ne sai?! Ovunque si parla della capacità premonitoria degli Absol!”.
“Ovunque... Sono solo leggende... e poi non sono neanche ventiquattro ore che hai catturato quest’Absol e già fai l’esperto”.
“Vieni di qua” esortava lui, nuovamente, portando le mani ai fianchi.
“No. Ti dimostrerò che ti sbagli. Il pavimento qui è sicuro”.
Lui ribolliva di rabbia. “Mmmhaaaaa! Fai come ti pare! Ma non dire che non te l’avevo detto!”.
“E certo! Anzi, faresti bene a seguirmi!”.
“Io mi fido del mio Absol! Perché so riconoscere il vero potenziale dei Pokémon!”.
“Non sai riconoscere una ceppa!” rispondeva a tono lei. Camminava lentamente lungo la lingua di pavimento alla destra della tromba delle scale, osservando Zack fare altrettanto ma dall’altra parte. Sentivano entrambi dei forti scricchiolii.
Emily si fermava proprio al centro quindi si voltava verso di lui, incrociando le braccia.
Lui invece continuava, passando inerme, preceduto da Absol, fino ad arrivare alla scalinata.
“Avanti. Vieni!” le urlava, con la voce colma d’ansia.
“Vengo! Ti dimostro che questa parte di pavimento non cederà”.
La vedeva avanzare fino alla scala, col volto pieno di sé e quel sorrisino che lui contemporaneamente odiava ed amava. Emily, dal canto suo, era fiera di se stessa: aveva sfidato il fato ed aveva vinto.

Anzi no.

Zack la vedeva poggiare per l’ennesima volta il peso sulla gamba destra, e uno scricchiolio impercettibile si trasformava in una rottura fragorosa del pavimento. Emily spalancava gli occhi e cadeva giù, sepolta da quintali di legno marcio e roccia umida.
“Emily! No!” urlava Zack.










 
Adamanta, Primaluce, notte fonda

Generalmente, l’incubo finiva in quel modo.
E ogni volta si svegliava boccheggiando, Zack, spalancando gli occhi e cercando di
respirare quanto più possibile. Quella volta affondò le dita nel materasso, con le coperte alle caviglie e il freddo a mangiargli la pelle.
Guardò sua moglie Rachel dormire alla sua sinistra, ben avvolta nel piumone che avevano acquistato qualche anno prima a Timea; i suoi occhi erano aperti, in due piccole fessure.
Lo guardava, stanca, nel buio. Una linea di luce lunare penetrava dalle persiane chiuse.
“Amore...” mormorò quella. Lo vedeva rigido e impanicato. Si mosse leggermente verso il comodino, cercando a tentoni il tasto dell’abat-jour.
Quando lo trovò, un lume giallastro e caldo inondò la camera, mostrandole suo marito, quello che aveva viaggiato in lungo e in largo e aveva sfidato il mondo, col cuore fuori dal petto.
Lo vedeva ansimare, col volto umidiccio e il cuore che batteva un charleston scalmanato nel petto.
“Che succede?” domandò poi, avvicinandosi a lui e carezzandogli i capelli sudati.
“Tutto... tutto a posto...” cercò di rincuorarla lui. Respirava a pieni polmoni, guardando il soffitto, dritto davanti agli occhi.
“Sei sicuro?”.
“Sì, sì…” Stai tranquilla”.
La donna appuntì il viso, storcendo le labbra e assumendo un’espressione corrucciata, quindi sospirò. Si sollevò e si portò a sedere, poggiando la testa allo schienale del letto.
La mano stringeva quella del marito.
“Ancora quel sogno?” chiese.
Lui annuì. Percepiva il cuore perdere giri e il respiro tornare normale.
“Sì. Mi spiace molto…”.
“Non preoccuparti” sorrise l’altra. “È stato un trauma, non sono gelosa…”.
Zack annuì e sorrise leggermente, più sollevato. “Vieni qui” le disse, tirandola a sé.
Quella si piegò su di lui, baciandogli dolcemente le labbra e passando la mano calda nella barba rada.
Poi si stese, lei, poggiando la testa sul suo petto. Sentiva il cuore battere forte.
“La rivedo ogni volta che…” faceva, guardando sul soffitto la proiezione dei ricordi più oscuri che la sua mente custodiva gelosamente, fino a quando i suoi occhi si chiudevano. Sbuffò, affondò la testa nei suoi capelli profumati e fece cenno di no con la testa. “Io dovevo fare qualcosa” concluse.
“Mi spiace molto”.
Lo strinse con più vigore, sentendo come il suo corpo fosse stato divorato dal freddo di quell’inverno. Rachel sospirò e guardò l’orologio, che segnava le quattro e quarantasei del mattino. Tirò su le coperte e s’addormentarono così, con lei che lo stringeva forte e lui col profumo dei suoi capelli che lentamente rilassava i suoi nervi.

 
Kalos, Luminopoli, qualche minuto dopo

Erano le cinque da qualche paio di paia di minuti e Malva cercava di fare quanto meno rumore possibile, coi tacchi dei suoi stivali. La grande palazzina da cui stava uscendo era uno degli edifici più antichi dell'intera città, coi suoi scalini di marmo e le ringhiere di ferro battuto finemente intarsiate.
Il portiere del palazzo sonnecchiava placidamente con la testa poggiata sui palmi delle mani, e i gomiti puntellati sulla scrivania all'interno della guardiola.
Non si svegliò, quello, neppure quando il portone d'ingresso cigolò. Malva s'immise nella fredda notte della capitale, dove le occhiate dei tipi loschi si alternavano ai freddi soffi del vento. Si strinse meglio nella sua lunga giacca di pelle nera, sentendo i capelli danzare sospinti dal forte vento, che portava qualche goccia di pioggia.
Stava per scatenarsi una bufera su Kalos.
Aprì l’ombrello e si pulì la faccia con la mano guantata, sorridendo soddisfatta. Chiunque l'avesse guardata, in quel momento, avrebbe riconosciuto in lei il solito accenno di malizia che da sempre le riempiva lo sguardo.
Il rosso carminio dei suoi occhi scrutava la strada che macinava avaramente, fino ad arrivare a un taxi che aspettava silenzioso e a fari spenti accanto al kiosque à journaux.
Pareva stesse aspettando lei.
Salì rapida, allungando prima una gamba e poi l'altra all'interno della Renault Espace.
"Rue des Bourguignon, s'il vous plait".

Otto.
Furono otto i minuti che passò a guardare la sua borsa, con costanza e attenzione, prima che l'aprisse per estrarre due banconote da dieci.
Entrò nel suo appartamento subito dopo, chiudendosi alle spalle serrature e chiavistelli e levando gli stivali e posando la borsa sul tavolino. Sorrise a se stessa, guardandosi allo specchio, pensando che non avesse impiegato troppo tempo per strappare dalla bocca di Narciso il contenuto di quella riunione straordinaria a quello aveva preso parte, assieme a tutta l'Unione Lega Pokémon.
Narciso aveva sempre avuto un debole per lei; da quando aveva messo piede nella Lega Pokémon di Kalos, non era mai riuscito a staccarle gli occhi da dosso.
Lei sapeva quando il suo aereo sarebbe atterrato, e casualmente lo incontrò all'esterno della zona ristoro.
"Narcisse... Depuis combien de temps ne nous sommes-nous pas vus?!".
Quello aveva spalancato gli occhi nel vederla lì. Le aveva sorriso e si era passato una mano nei capelli, stringendo nell'altra una valigetta di pelle. Dopo che quella gli aveva chiesto da quanto tempo non si vedessero annuì.
"Beacuop...".
Era tanto, lei lo sapeva. Inizialmente imbarazzato, lui, quella era la prima volta che i due si rincontravano dopo lo scandalo che aveva visto Malva affiliata al Team Flare.
Parlarono lì, per qualche secondo, prima che a lei cadesse la borsetta.
Scenografici, entrambi si abbassarono e si sfiorarono le mani. Arrossirono entrambi, finirono a letto assieme, dopo esser corsi a casa sua. S'erano spogliati lentamente, avevano fatto lavorare muscoli e polmoni e lui ricadde sfinito diverse spinte dopo, addormentandosi su di un fianco.
Lei s'era alzata per cercare la valigetta e, una volta trovata, sbirciò gli appunti che quello aveva preso durante la riunione.
Parlavano d'un potentissimo cristallo.
Ed era proprio ciò che cercava.

 
Kanto, Biancavilla, notte fonda, qualche minuto dopo ancora

“Fermati un minuto” diceva Blue, spinta dalla furia di Green verso la finestra che dava sul cortile. Quello però non era minimamente interessato a lei: vorticava all’interno del suo studio come un uragano, in cerca di qualche possibile prova.
Aveva spostato tutti gli oggetti dalla sua scrivania, spalancato tutti i cassetti e controllato anche sugli scaffali più alti.
Fu tuttavia una ricerca a vuoto.
“Non c’è nulla, qui!” aveva esclamato, avvicinandosi al centro della stanza. Blue lo guardava preoccupata, con le braccia incrociate sotto al seno e il volto contrito.
“Calmati…”.
Green si voltò verso di lei, furibondo, quindi diede un grosso pugno sulla scrivania.
“Perché cazzo dovrei calmarmi?! Siamo nella merda, Blue!”.
Quella abbassò lo sguardo ceruleo ma spento, figlio della stanchezza del sonno interrotto di quella e altre mille notti. Non sapeva molto del cristallo che avevano trafugato ma la preoccupazione sul volto del suo uomo non la tranquillizzava.
Lo guardava, coi capelli ancora spettinati dal cuscino e le mani ai fianchi.
“Siamo in pericolo” concluse Green.
“Lo so, lo hai ripetuto trenta volte…” sbuffò l’altra, innervosita dalla situazione.
“Non fare così! Pare quasi che tu voglia biasimarmi!”.
“Non è questa la mia intenzione!” ribatté a tono Blue. “Ma non è spaccando le cose che risolveremo la situazione!”.
Green si avvicinò a lei e sospirò. Poi deglutì e abbassò lo sguardo, allungando la mano verso la lavagna appesa accanto alla porta. “Quel cristallo ha… ha proprietà distruttive. Nelle mani sbagliate potrebbe essere la causa della nostra fine!”.
“Lo so… ma insieme riusciremo a risolvere la situazione”.
Green parve non sentirla. “La causa della fine di tutto!”.
“Calmati!”.
“Dovresti essere tu ad allarmarti! Perché non capisci!” la fronteggiò lui, avvicinandosi a pochi centimetri dal suo volto. Blue però gli afferrò le spalle e lo allontanò.
“Perché non siamo ancora in pericolo! Possiamo fronteggiare la situazione soltanto quando sarà davvero un pericolo!”.
Le parole della donna lo acquietarono.
“Dobbiamo fermarci e pensare lucidamente. Un passo alla volta”.
Quello abbassò lo sguardo e annuì, portando nuovamente le mani ai fianchi.
“Insieme ce la faremo” concluse Blue. Tirandolo a se e posandogli un casto bacio sulla guancia.
Green però pareva essere da tutt’altra parte. Pensava.
Si chiedeva cos’altro sarebbe potuto succedere, di lì a breve. Elaborava i dati più velocemente che poteva, silenzioso e col respiro disturbato.
“Abbiamo perso il cristallo…”.
“E lo ritroveremo!”.
L’uomo sbuffò, si voltò e raggiunse il centro della stanza.
Blue sospirò.
Poi lo vide annuire.
“Senti, so che è tardi… ma per favore, chiama Silver”.
La donna spalancò gli occhi, stupita. Annuì, poi.
“Dammi il cellulare…”.
“Assieme riusciremo a trovare sicuramente qualcosa”.
Blue sospirò e si allontanò, col cellulare all’orecchio.
Poi Green alzò gli occhi.
Vide la telecamera poggiata nell’angolo sulla porta.

Se qualcuno è entrato qui dentro deve per forza esserci passato davanti.

Si chiese come mai non ci avesse pensato prima.
Scattò verso il pc e lo accese.
Pensò per un attimo al fatto che quel ladro fosse entrato lì e avesse preso soltanto il cristallo, lasciando denaro, macchinari e pc al loro posto.
Eppure erano irresponsabilmente alla portata di chiunque. Del resto Biancavilla affondava in una tranquillità quasi soporifera dove chiunque conosceva l’altro, vivendo in un’armonia quasi fiabesca.
Ritornò al suo dubbio, capendo che chiunque fosse penetrato nell’Osservatorio lo aveva fatto proprio per quell’oggetto. E levando Elm e il team che qualche anno prima aveva preso parte alla missione a Hoenn, nessuno poteva sapere della sua esistenza.
Tuttavia escludeva categoricamente che Dexholder e Ranger, che avevano rischiato di morire sotto le macerie, potessero aver fatto una cosa del genere.
Erano brave persone, quelle, lo sapeva.
Quando Blue tornò stringeva il cellulare tra le mani. Si sedette di fronte a Green, che intanto aveva lo sguardo concentrato, e alzò le caviglie sul tavolo, sospirando.
Il sonno la stava rapendo e forse riuscì a perdersi nel riposo meritato per qualche minuto, prima che il campanello suonasse.
“Vai tu?” domandò Green, senza neppure staccare gli occhi dal monitor.
Quella annuì, lui non lo vide, e uscì dallo studio, percorrendo il corridoio e aprendo la porta, senza neppure chiedere chi fosse.
Tanto sapeva che suo fratello si sarebbe catapultato lì il prima possibile.
Difatti era lui.
“Silver…” sorrise lei, baciandogli la guancia. I suoi occhi si riempirono d’una dolcezza quasi commovente quando suo fratello la strinse in un abbraccio colmo d’affetto.
“Blue. Come stai?” domandò quello, affondando il naso nei suoi capelli.
“Beh… non bene…” rispose lei.
Crystal era alle spalle dei ragazzi e teneva lo sguardo basso, un po’ imbarazzata. Indossava un lungo maglione di filo bordeaux, che la copriva fino alle ginocchia. I capelli erano legati alla bene e meglio in una coda alta dietro la testa.
“Che è successo?” chiese poi.
Blue li fece entrare e chiuse la porta dell’Osservatorio, facendo loro strada fino allo studio, dove Green continuava a spostare il cursore del programma di videoregistrazione, per trovare il momento adatto.
Non appena Crystal incrociò lo sguardo smeraldino dell’uomo quello sospirò.
“L’hanno rubata” disse Green.
Crystal spalancò gli occhi e strinse involontariamente il braccio di Silver.
“Come?!”.
“Sto dicendo che il Cristallo del Caos è stato trafugato, questa notte”.
La ragazza sbatté le palpebre qualche volta di troppo e sorrise, amareggiata. “Siamo nei casini...”.
“Fino al collo, Crystal”.
“E chi l’ha preso?” esordì Silver.
“Dovremmo scoprire questo” ribatté il padrone di casa.
Il fulvo e sospirò, incrociando le braccia. “Da cosa cominciamo?” domandò.
Blue si mosse lentamente e spostò con la mano il volto del ragazzo dagli occhi d’argento, mostrandogli la telecamera, ben nascosta nell’angolo in altro sopra la porta.
“Oh. Ottimo”.

 
Adamanta, Primaluce, finalmente giorno

“Papà! Sveglia, papà! Dobbiamo montare lo scivolo!”.
Zack aprì lentamente gli occhi, guardando la testolina mora di Allegra che saltellava accanto al letto. Lui sorrise e la prese in braccio, stringendola a sé.
“Gnn… Buongiorno, amore di papà... Dormito bene?” domandò, stropicciato.
Quella, ancora in pigiama e con i capelli raccolti in una treccia, si divincolò dalla presa e prese a saltare sul materasso.
“Sì! Ma dobbiamo montare lo scivolo ora! Quindi alzati!”.
“Allegra, fa’ piano... Papà ha dormito poco, stanotte” intervenne in soccorso dell’uomo Rachel, a pochi metri da loro, mentre sistemava delle camice nell’armadio spalancato.
“Già... papà ha dormito poco…” ripeté quello, voltandosi dall’altra parte e sbadigliando, nel torpore delle lenzuola e del sole della domenica mattina.
“Ma... ma papà! Me lo avevi promesso!”.
“Sì, due minuti soltanto...”.
“Uno e due! Forza!”.
Rachel sorrise. “Quelli sono i secondi, bimba...”.
Eddai!” si lamentò lei, mettendosi a sedere con braccia e gambe incrociate e il broncio. Zack aprì un occhio e la guardò, per poi sorridere.
“Ok...” sospirò, sollevandosi. “Ok... andiamo”.
“Dove vorreste andare così?!” esclamò Rachel. “Fate colazione, lavatevi i denti e vestitevi altrimenti non andrete da nessuna parte”.
“Ok, mamma” risposero in coro, facendo sorridere la donna. Poi Zack si alzò e prese Allegra sulle spalle, scendendo al piano di sotto urlando a squarciagola la sigla di un cartone animato.
Rachel guardò il letto sfatto e sorrise, con le mani ai fianchi. Aprì la finestra e pensò che la sua vita fosse totalmente cambiata da quando sua figlia era stata messa al mondo. Si guardò allo specchio e ripercorse gli ultimi anni della sua vita con la mente; nonostante fosse molto giovane, scoprì d’essere incinta qualche mese dopo la fine del periodo peggiore della sua vita, quando aveva visto suo padre venire incatenato e portato via.
Quello vero, quello biologico. La vita era strana, delle volte; lei aveva avuto due padri. Il primo, quello che l’aveva cresciuta e le aveva regalato carezze amorevoli, era in realtà suo zio.
Ma non lo seppe fino a pochi anni prima, quando tutto cadde, per poi rialzarsi solido e monumentale.
Non fu di certo grazie al suo padre biologico che aveva trovato la forza per costruirsi una famiglia. Quello era un uomo senza scrupoli, senza etica.
Un uomo che aveva provato a ucciderla.
Era ferma, immobile, quando un soffio di vento freddo le baciò il volto, penetrando attraverso la finestra aperta.
Pensò che Zack non sarebbe mai stato in grado di uccidere la loro bambina; amava lei più di ogni altra cosa.
Sorrise e scacciò il pensiero. Tirò le coperte e rifece il letto, e intanto capì che Zack era tanto un buon marito quanto un ottimo papà. Allegra adorava stare con lui.
Amava quando li trovava a giocare.
Adorava quando li vedeva dormire l’uno accanto all’altra.
Tra i due vi era un forte legame, tant’era vero che lui le stava trasmettendo la passione per i Pokémon. Con ogni probabilità sarebbe stato il fautore del suo viaggio, quando Allegra avrebbe avuto l’età.
Zack già parlava di regalarle il primo Pokémon. Pensava a qualcosa di piccolo ma che col tempo sarebbe diventato potente, come uno Squirtle o un Chicorita.
Zack aveva addirittura proposto un Onix, memore della figura epica che aveva fatto Jasmine a Olivinopoli, ma Rachel aveva opposto una strenua resistenza.
Lui aveva detto di stare scherzando, per poi voltarsi e sospirare.
Era diventato padre ma era rimasto il solito incosciente. E Allegra si stava avviando ad assomigliargli in tutto e per tutto.
Caratterialmente soltanto, certo. Lei e sua figlia erano due gocce d’acqua.
Quando ebbe finito di sistemare il letto andò verso la finestra, la chiuse e lasciò che le tende toccassero il pavimento, inondando di un sentore candido l’intero ambiente.
Si fermò davanti allo specchio e sospirò, col volto più stanco e provato rispetto a quattro anni prima. La gioia però le pervadeva il corpo.
Era sempre stata un tipo di poche parole, lei. Era naturale che un uomo come il suo dovesse avere la capacità di riempire i buchi che lei lasciava. Legò i capelli in una strana pettinatura di trincea e scese al piano di sotto.
Zack era al tavolo con Allegra, bevevano il latte e mangiavano cereali.
Passò in cucina, carezzò la testa della piccola e rispose al telefono, che aveva cominciato a squillare.
“Pronto?” fece.
“Rachel... sono Marianne”.
“Ciao, buona domenica”.
Allora, vi raggiungeremo per ora di pranzo. Thomas mi ha chiesto di dirti che tarderà un pochino, stanotte il bimbo ha ballato parecchio e Alma sta riposando ancora”.
“Cielo, poverina... immagino... Comunque non c’è problema, qui siamo ancora in alto mare... Zack s’è svegliato da poco e sta badando ad Allegra mentre io rassetto un po’...”.
“Anche Ryan è con Lenny. Sono andati a giocare con i Pokémon”.
“Uomini e ragazzini...”.
“Tutti uguali!” esclamò quella. Risero entrambe, poi attaccarono. Vide Zack portare le tazze nel lavandino. Le aveva riempite d’acqua, poi aveva preso Allegra per il pigiama, trasportandola come una valigetta, ed era salito al piano superiore.
Si lavarono, si vestirono e andarono in giardino.

E la vita scorreva tranquilla.

Di tanto in tanto uscivano, andavano a prendersi un gelato, talvolta lasciavano Allegra a Marianne, o ad Alma, e lei e Zack andavano in giro, passando qualche ora da marito e moglie.
Ricordava il giorno del suo matrimonio, Rachel.
Niente d’eccezionale. In cuor suo sapeva che Zack fosse legato molto alla tradizione e che avrebbe voluto una cerimonia in grande stile, in chiesa e con ogni sorta di ricevimento imponente, ma lei non se la sentiva. Il tasto famiglia era abbastanza dolente.
Lui avrebbe voluto qualcosa di magnifico, anche se non era abituato a vivere nel lusso; nonostante fosse stato il Campione di quella regione per assai tempo era un nomade della Pokéball e continuava a viaggiare, presentandosi in Lega soltanto durante le riunioni obbligate e le sfide dei pochi che superavano i Superquattro.
Pensò poi a quei quattro Allenatori. Credeva che fossero tipi molto strani. Sapeva che fossero tutti coetanei, tutti nati lo stesso giorno dello stesso anno. Tutti differenti.
Ebbe l’opportunità di averli come ospiti a cena qualche tempo dopo le nozze, celebrate in municipio e con un banchetto per pochi intimi, nel giardino di casa sua.
Stava divagando troppo, sciacquò le tazze e svolse gli ultimi servizietti per casa, quando poi decise di rilassarsi. Prese un libro e raggiunse gli altri due fuori, nel giardino, dove il resto dell’allegra brigata era già alle prese con il montaggio dello scivolo.
Zack stringeva dadi e bulloni e Allegra manteneva il disegno delle istruzioni.
Quel ragazzo non era propriamente un maestro con gli attrezzi tra le mani, al contrario di suo fratello Ryan.
“Ma il disegno è al contrario!” esclamò l’uomo, guardando il pessimo risultato che aveva ottenuto. Allegra fissò le istruzioni e prese a ridere, capovolgendolo.
Zack la guardò sorridendo e la prese in braccio, baciandole le guance. “Io ti mangio, per quanto sei bella!”.
La bimba strillò e cercò di divincolarsi, prima che Zack la solleticasse e la facesse ridere.
Rachel amava quelle scene.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Aquiloni ***


2. Aquiloni


 
Adamanta, Primaluce

 
“In pratica sì. In pratica se non fosse venuto Ryan ad aiutare Zack, Allegra e Leonard non starebbero giocando sullo scivolo, adesso”.
Marianne sorrideva dolcemente, col volto ambrato incorniciato dai lunghi boccoli scuri. Il suo viso era illuminato di gioia. Poggiava i gomiti sul lungo bancone di teak, stringendo tra le mani un bicchiere del Sauvignon che aveva portato da casa, e che aveva a sua volta ricevuto diversi anni prima da suo padre.
Suo padre beveva parecchio vino. Vino buono.
Con la gravidanza di suo figlio Leonard la linea asciutta del suo fisico s’era ammorbidita. Rachel non la reputava né bella né aveva particolare simpatia per lei, ma a suo fratello stava bene e lei non aveva nulla in contrario finché fosse andata in quel modo.
Lo sguardo di entrambe attraversò la grossa vetrata della portafinestra della cucina, che dava direttamente sul giardino; Lenny e Allegra giocavano sullo scivolo, a debita distanza da Ryan e Zack che intanto allenavano i propri Pokémon.
Davanti al padrone di casa c’era un Luxray; ultimo  arrivato del roaster dell’ex Campione di Adamanta, quel Pokémon non era vista di buon occhio da sua moglie: era troppo aggressivo, poco incline alla sottomissione. Era probabilmente l’alfa di un branco parecchio grande, con la conseguenza che ogni direttiva di Zack fosse accolta indisciplinatamente. Era aggressivo, quello,  molto portato all’attacco.
Uno stile di lotta che poco si accostava con la riflessività delle mosse di Zack, quando era sul campo di battaglia. Spaventava chiunque avesse attorno, Rachel compresa.
Non Allegra, però. Anzi, il Pokémon sembrava apprezzare la compagnia della bimba e giocavano spesso assieme, sotto gli occhi attenti del padre e quelli impauriti della madre.
Contro quel Luxray, Ryan aveva schierato il suo fido Gallade; la lotta pareva feroce ma in realtà entrambi cercavano di fare meno male possibile all’avversario, utilizzando soltanto mosse fisiche e che recassero poco danni.
Niente fulmini, quindi, niente onde psichiche. Solo forza e agilità.
E Luxray pareva essere in vantaggio.
Ryan sostava in piedi, a debita distanza dai Pokémon, quasi vicino alla staccionata di delimitazione, con la schiena dritta e le braccia incrociate. Aveva l’atteggiamento di chi sapeva affrontare ogni cosa.
“Forza! Colpiscilo!” ordinò al Pokémon.
“No! Non farlo!” urlava Allegra, seduta sulla rampa dello scivolo, col volto contrito, attenta sullo scontro. Al contrario, Leonard tifava per suo padre, alle sue spalle.
“Invece devi farlo! Forza!”.
Zack sorrideva, meno concentrato di Ryan, basso sulle gambe e divertito.
“Schiva a sinistra e attaccalo sul fianco!”.
Gallade affondò con la lunga sciabola, senza però riuscire a colpire l’avversario, mentre Luxray eseguì invece l’ordine velocemente.
Tuttavia, prima di affondare il colpo, Gallade si teletrasportò accanto a Ryan.
Zack impiegò qualche secondo per capire ciò che succedeva; vedeva Luxray confuso, indietreggiare con le zampe ben piantate sul terreno. Ringhiava, mentre una serie di scintille cominciarono a formarsi attorno al suo volto.
L’Allenatore capì che fosse ora di concludere lì la sfida. Con un sorriso si rivolse a Ryan.
“Imbrogli sempre. Come al solito”.
Ryan rispose al sorriso, divertito. “Andiamo… gli avrebbe fatto male”.
Anche Gallade tornò nella sfera e i bambini poterono avvicinarsi ai loro genitori, sorridenti.
Lenny pareva assai esaltato dalla sfida. Si rivolse poi ad Allegra.
“Quando sarò grande sarò un Allenatore bravissimo come papà!”.
Quella finì per snobbarlo, voltandosi e raggiungendo Arcanine.
E di Arcanine, Rachel non aveva paura. Guardò la scena da lontano, mentre il campanello di casa suonava.
Gli altri rientravano, si lavavano le mani e Rachel andava ad aprire.
Era Alma, con marito e pancione annessi.
Thomas sorrise educatamente e porse alla padrone di casa un vassoio.
“Va in frigo”.
Rachel sorrise. “Oh, grazie, non dovevate”.
Alma fece una smorfia divertita e sbuffò. “Li volevo io. Doveva comprarli per forza”.
“Ovviamente” ribatterono Rachel e Thomas all’unisono.
La donna in stato interessante entrò in casa a fatica: il pancione non aveva mai raggiunto quelle dimensioni, all’interno della maglietta larga, bianca. Come accadeva negli ultimi tempi, camminava mettendo entrambe le mani dietro la schiena, sofferente, ma con un sorriso splendente e gioioso sul volto.
Quel bambino sarebbe arrivato presto e la cosa la elettrizzava. La sua espressione era sempre gioiosa, e anche in un giornata come quella la sua pelle ambrata riluceva dei baci di quel sole spento.
“Tra poco fa boom...” disse Allegra, carezzando la pancia della donna dalla lunga treccia corvina, che sorrise.
“Quella pancia tra qualche giorno si trasformerà in un bel bimbo” ribatté Zack, prendendo dalle mani di Thomas la grossa borsa che negli ultimi tempi li accompagnava ovunque andassero.
Sì, nel caso si fossero rotte le acque.
L’uomo ringraziò e sospirò, aiutando Alma a sedersi sulla poltrona. Pareva provato in viso e Marianne, che spesso gli lanciava qualche sguardo fuggiasco, gli si parò davanti.
“Ehi, papà, che si dice?” domandò.
Quello la guardò e sbuffò. “Che si dice? Si dice che papà non veda l’ora che mamma diventi mamma perché da quando mamma è lievitata è diventata insopportabile...”.
“Thomas!” esclamò Alma, facendo ridere i presenti.
“E lascialo stare! Poverino...” ribatté infine Rachel.
Momento felice. Momento leggero.

Si sedettero a tavola.
Allegra fece di tutto per accaparrarsi il posto accanto ad Alma. Quella le spiegava che nella sua pancia ci fosse un bambino, e che quindi lei e Lenny non avrebbero dovuto fare tanto baccano. La bambina passò tutto il pranzo a rimproverare suo cugino ogni qualvolta alzasse di troppo il volume.
Rachel vedeva Zack sorridere sereno.
Sapeva che la sua famiglia fosse al sicuro, e tanto gli bastava. 
 
 
Johto, Amarantopoli.

Green e Silver erano appena atterrati ad Amarantopoli.
Il viaggio era stato parecchio lungo, ed entrambi furono cullati dai rispettivi silenzi.
Green era molto preoccupato per la faccenda del cristallo e aveva limitato le parole allo stretto necessario, rimuginando su come fosse stato possibile che qualcuno avesse commesso quell’effrazione senza che lui se ne accorgesse in tempo.
Silver invece era la quintessenza del silenzio.
Arrivarono nella piazza principale, scendendo dai rispettivi Pokémon. Amarantopoli era piena di gente, in festa, con le Kimono Girl che ballavano su di un palchetto, in piazza. Il fulvo si fermò a guardarle per qualche secondo ma l’altro non si era reso conto d’aver perso il compagno di viaggio per la via e aveva proseguito.
Era ben concentrato, stringeva nella mano sinistra la Pokéball di Charizard e nella destra una fotografia.
Era stanco e assonnato, ma aveva tanta di quell’adrenalina in corpo che il suo corpo non se n’era accorto.
Quella notte, dopo aver scoperto del trafugamento del Cristallo del Caos, aveva passato diverso tempo davanti allo schermo a scorrere ogni fotogramma delle riprese del sistema di videosorveglianza. Fu difficile trovarne uno in cui fosse chiaramente visibile il volto del ladro dato che, nonostante il volto scoperto, quello si era mosso con velocità; pareva non appartenere a quella realtà, come fosse un ologramma.
Rimase soltanto pochi secondi di panico all’interno dell’ufficio, quello, e in quei pochi attimi riuscì a eludere le lenti delle telecamere.
 
Tranne che per un fotogramma.
 
Un singolo, unico fotogramma, che aveva impresso ai posteri il volto di un uomo biondo, dal lungo cappotto nero. Aveva diramato nella notte il massimo allarme e spedito in via ufficiale l’immagine alla Lega di Kanto e Johto, che poi l’aveva trasmessa a ogni Capopalestra. Qualche ora dopo fu Angelo a rispondere all’appello.
“Quell’uomo... si chiama Xavier Solomon. È un amico di mia moglie Cindy, l’ho visto più volte. Vive in una grande villa poco fuori il centro di Amarantopoli, agli inizi della periferia”.
E così, mentre Crystal e Blue cercavano altri indizi all’interno dell’Osservatorio, Green e Silver erano saliti sul Supertreno e avevano percorso nel Supertreno il tratto tra Fiordoropoli e Amarantopoli.
Il più piccolo dei due amava quella città, da sempre immersa in una bolla in cui il presente faticava a entrare. Sotto la protezione della Torre Bruciata, la gente di Amarantopoli poteva godere ogni giorno dell’abbraccio degli aceri che accerchiava il nord di Johto, e ogni meraviglioso dettaglio che caratterizzava ogni tegola rossa di ogni casa, ogni lampione di ferro battuto, ogni marciapiede decorato.
Raggiunse Green, aumentando il passo. “Dove abita?” disse.
“Angelo ha detto poco oltre il centro della città. Quindi immagino che sia tra la Palestra e il vecchio manicomio abbandonato. Dovrebbe esserci un grande complesso residenziale, con le case dai tetti blu”.
Silver si limitò ad annuire e continuò a camminare, ripiombando nel silenzio più che assoluto. Green aveva imparato a conoscere la sua poca propensione alla conversazione leggera ma non lo biasimava, considerato i racconti di Blue sulla loro infanzia.
Virarono verso la Rainbow Avenue e proseguirono in direzione nord, fino a entrare nel grande centro residenziale. Questo era composto da diverse villetta a schiera, ognuna con ampia porzione di giardino e un grosso steccato bianco a delimitare i confini.
“Dovrebbe essere qui...” disse Silver, entrando nel vialetto che portava davanti l’uscio di Xavier Solomon.
Green si soffermò per un attimo a guardare nella cassetta della posta, piena di comunicazioni in carta bollata e volantini pubblicitari.
“Non ho buone impressioni” fece poi. “Ma provar non nuoce”.
Le nocche di Silver batterono sul legno della porta ma dopo una ventina di secondi, in cui soltanto il sibilo del vento disturbava quel fastidioso silenzio, i due furono costretti a guardarsi in faccia, per valutare altre soluzioni.
“Non sembra essere in casa...” osservò Green, che poi posò la sfera di Charizard e afferrò quella di Porygon.
“Che cosa vuoi fare?” domandò l’altro, accigliato.
“Nel citofono, forza” ordinò il primo al proprio Pokémon, immettendosi nella linea elettrica e finendo all’interno dell’impianto domotico. “Apri, appena puoi...” concluse.
“Questa si chiama effrazione...”.
Green lo fissò un secondo di troppo, sbuffando. “Hai appena detto quello che hai detto? Sai, vero, quanto è importante recuperare il cristallo?”.
“Non mica detto che fosse un problema...”.
 
La porta s’aprì, subito dopo.
 
I cardini cigolarono sinistri, presentando agli invasori un salotto buio e polveroso ma molto ben arredato. Le finestre erano serrate e le persiani non permettevano alla luce di entrare all’interno. Green camminò lentamente, fissando i piatti sporchi sul tavolino davanti alla televisione accesa, ma senza volume, e un paio di scarpe sporche di fango sul tappeto.
Silver fece segno di fare silenzio, si chiuse la porta d’ingresso e si mosse piano verso il centro della stanza, per poi muoversi verso le scale che portavano al piano superiore. Fece cenno a Green di salire, come fosse il comandante di un’operazione militare; si schiacciò contro il muro e percorse i gradini con movimenti diretti e fluidi.
L’altro lo seguiva a ruota, guardando nuovamente la faccia dell’uomo nella fotografia che stringeva ancora tra le mani.
Arrivati su si ritrovarono davanti a un corridoio buio, dove s’affacciavano diverse porte chiuse. Silver controllò quelle di destra, Green quelle di sinistra. Non trovarono nulla.
Soltanto nel bagno, ultima porta sulla sinistra, trovarono qualcosa d’alquanto agghiacciante: impronte di mani trascinate giù, lungo lo specchio. Per terra c’erano una camicia azzurra, un paio di calzini e un asciugamani bianco.
“Non c’è nulla qui” fece il rosso.
“Manca solo la cantina, Silver”.
E quindi scesero, sempre con molta attenzione, strusciando le mani sull’intonaco delle pareti, trovandosi nuovamente nel salone. Scesero al piano di sotto.
Ancora nessun rumore.
Poggiarono passi leggeri sui gradini di legno, con le orecchie tese e i cuori che battevano, quando poi un colpo di tosse li fece sobbalzare.
Spalancarono gli occhi. Misero mano alle Pokéball.
Scesero ancora più lentamente, fino a quando non ebbero chiara davanti agli occhi la figura d’un uomo di spalle, dai capelli biondi e le braccia incrociate, in piedi. Poggiava il peso sulla gamba destra e guardava una lavagna con concentrazione.
Green prese parole e fece un passo avanti.
“Ora stai fermo dove sei e non voltarti. Metti le mani in alto, lentamente”.
L’uomo s’irrigidì ma, al contrario di come ordinatogli, si voltò repentino e impaurito, non riuscendo a nascondere il terrore sul volto nel vedere due sconosciuti in casa sua.
“Chi diamine siete voi?! Non possiedo gioielli né contanti, è tutto in banca!”.
“Non siamo rapinatori. E poi, la domanda da fare non è chi diamine saremmo noi, ma il contrario” ribatté Green Oak. Guardò Silver, che annuì.
“Dov’è il cristallo?” chiese.
Gli occhi blu di Xavier Solomon erano spalancati, le labbra tremavano. Le sopracciglia s’arcuarono immediatamente, alla domanda di quello.
“Non ho gioielli, l’ho detto!”.
“Non mi servono i gioielli! Rivoglio il cristallo che mi hai rubato stanotte!” urlò Green, avvicinandosi nervoso a quello e prendendolo per il collo. Lo sbatté contro la lavagna e mostrò i canini.
“I-io...” balbettò quello, afferrando invano il polso dell’uomo.
“Tu stanotte eri a Biancavilla!” ribatté quello.
“N-non è vero... Stanotte ero qui...”.
“Io ti ho visto!” replicò Green, infervorato. E fu tanta la rabbia che lo mosse che lo colpì con un pugno.
“Fermati!” esclamò Silver.
“Io ti ho visto!” ripeteva l’altro. “Ho una tua fotografia, qui! E questo sei tu! Non mentire! Le telecamere di videosorveglianza ti hanno registrato!”.
Xavier era caduto per terra dopo il diretto al mento. Aveva il labbro spaccato, sputò sangue. Poi si alzò e sbuffò. “Che bello, mi pestano... come a scuola. Ho anche io delle telecamere, Ivan Drago, ti faccio vedere dov’ero stanotte...”.

 
Adamanta, Timea.
 
Timea quella domenica era particolarmente spenta.
La statua di Timoteo imperava silenziosa su di una piazza quasi vuota, dove poche persone passeggiavano annoiate. Del resto il vento freddo che proveniva da nord congelava fin dentro le ossa. La neve era scesa per ore, quella notte, e aveva ricoperto tutta la piazza di candido gelo.
Linda l’attraversava di buon passo, stretta nel suo cappotto nero. I suoi occhi verdi riflettevano il biancore circostante. Rapida, s’immise in una via secondaria, dove l’intero marciapiede destro era occupato da automobili dal tettuccio coperto di neve. Rallentò davanti a una vetrina, gettò un occhio, sarebbe passato a raccoglierlo più tardi.
In quel momento aveva parecchio da fare.
Bruciava ancora, la cicatrice. E più ripensava al Monte Trave più quel dolore diventava impossibile da sopportare: ricordava con perfezione il momento in cui Ryan Livingstone li aveva traditi, quando la tramortì.
Si era svegliata per terra, sulla Vetta Lancia, a Sinnoh. In qualche modo riuscì a tornare indietro ad Adamanta e a cominciare una nuova vita. Tuttavia nutriva ancora l’indiscussa attrazione per l’uomo che l’aveva trasformata in una cospiratrice divina.
Uccidere Arceus, sostituirsi a un dio. Lionell stava per riuscirci.
Sospirò, stringendo i pugni nei guanti.
Aveva raccolto le ceneri dell’Omega Group, trasformandola in qualcos’altro; la Omecorp progettava e vendeva sistemi di videosorveglianza. I clienti maggiori erano parchi residenziali e piccoli locali aperti tutta la notte.
E gli affari non andavano benone.
Aveva cercato di reinventarsi, immergendosi in un lavoro non suo e nonostante tutto nutriva ancora una flebile speranza di poter vivere una vita normale, possedendo lo stesso il ricordo del più grande fallimento della sua vita.
Forse era Arceus che la puniva per aver provato a detronizzarlo.
Forse era solo demoralizzata. La sua vita era senza mordente.
Cancellò momentaneamente quel pensiero ed entrò negli uffici, salutando con un cenno del capo Melissa, la sua segretaria personale; non proprio la donna più intelligente del mondo, passava la gran parte del tempo a parlare al cellulare con la sua fidanzata Pauline, e a mettere lo smalto alle unghie.
A Linda bastava che prendesse le telefonate.
“Buongiorno, signora Greensmith. Ha ricevuto sei telefonate durante la sua assenza”.
“Messaggi?” domandò Linda, con la voce stanca. Levò il cappotto e lo posò nell’armadio. Si specchiò per un momento, rapita dal suo stesso sguardo, che lambiva la sua figura riflessa.
Vedeva una donna dai lunghi capelli castani e dal sorriso spento.
“No. Oh, forse sì...” disse Melissa, cercando sulla sua scrivania. Trovò un foglio, sollevata. “Sì, sì. Malva, da Kalos...”.
“Non era una dei Superquattro?” domandò Linda, più a se stessa che alla sua segretaria. “Se non erro ebbe problemi con la giustizia...”.
La donna fece spallucce, poi rispose al telefono.
La proprietaria la lasciò andare ed entrò nel suo ufficio. Si sedette dietro la scrivania e raccolse attorno a se tutto il materiale cartaceo di cui aveva bisogno per richiedere un’offerta a uno dei suoi fornitori.
Sbuffò. Odiava il suo lavoro.
Fece le sue telefonate, guardando di tanto in tanto la serratura dell’ultimo cassetta della scrivania, dove custodiva tutti gli originali degli studi fatti da Lionell.
Tutti gli appunti sul Cristallo della Luce.
Lo nascondeva male, sia a se stessa che agli altri, ma era follemente innamorata di quell’uomo; erano passati tre anni da quando era scomparso.
Le aveva lasciato in mano sabbia, vento e un pugno di mosche appassite al sole ma non aveva mai finito di amarlo.
Sbuffò, accese il computer e dimenticò totalmente della notizia su Malva.
Non voleva parlare con lei, non la conosceva.
In breve la dimenticò pure.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - The Bridge Over Troubled Water ***


3. The Bridge Over Troubled Water

 
 Johto, Amarantopoli, casa di Xavier Solomon

 
“Le immagini non mentono...” diceva Xavier, in piedi dietro a Green, seduto davanti allo schermo, e a Silver, accanto a lui, con le braccia incrociate sul petto.
“Eri qui...” annuì quest’ultimo, sospirando. Vedeva Green abbassare la testa, fissando a intermittenza lo schermo e la fotografia che stringeva tra le mani.
“Non è possibile...”.
“Questo allora chi è?” riprese il fulvo, prendendo l’immagine dalle mani dell’altro e guardandola meglio. Si voltò poi verso Xavier e comparò il volto dell’uomo che aveva davanti con quello che aveva rubato il cristallo.
“Sembrerei io” rispose invece l’uomo di casa, facendo spallucce. Guardò prima il volto asettico di Silver, poi quello preoccupato di Green. Sudava. “Ma non lo sono”.
“Non è possibile!” ribatté Oak, dando un forte pugno sulla scrivania. Respirava con la bocca spalancata, alzandosi in piedi ma tenendo i palmi delle mani piantati sul freddo pannello di ferro del tavolo.
“Si rompe...” fece invece Xavier.
“Sei tu!”.
Green si voltò rapido e strappò la fotografia dalle mani di Silver. Poi tornò a guardare l’altro, avvicinandosi vertiginosamente al suo viso.
“Questo sei tu! Come cazzo hai fatto?!”.
Xavier fece un passo indietro e fece cenno di no con la testa. “Tu sei pazzo...”.
“Hai un gemello?!” riprese Green, gettandosi nuovamente su di lui e sbattendogli l’immagine sul petto. “Eh?!”.
“Sì, e ho anche un robot nell’armadio... Svitato...” sbuffò quello.
Silver invece sospirò, allontanando con delicatezza Green. “Potrebbe essere anche vagamente possibile, una cosa del genere?”.
“No. Sono solo al mondo...”.
“Sei sicuro?”.
“Santo cielo, certo che ne sono sicuro! Avrei vissuto dieci anni di vita con la consapevolezza di esser solo quando non è così?!”.
Il rosso fece spallucce. “Non siamo mai davvero soli... anche se potrebbe sembrarci così...”.
Xavier sorrise a mezza bocca, passando una mano nella chioma bionda.
“Sei molto zen, ragazzo dai capelli rossi, ma non credo che questo assioma sia applicabile a tutti. Ho avuto una vita difficile...”.
Xavier si sedette sulla scrivania, afferrando una bottiglia d’acqua e bevendo qualche sorso.
Silver sorrideva leggermente, divertito. “Beh, non puoi fare questo gioco con me...”.
“Abbiamo un grosso problema, ora!” esclamò di contro, Green, alzando i pugni al cielo. “Quest’oggetto, questa cosa che hanno rubato.... è davvero, davvero importante!”.
“Calmati, amico, ti hanno rubato il Tesseract o cosa?!” chiese Xavier.
Quello dagli occhi verdi portò le mani ai fianchi e si girò su se stesso, prima di urlare nervoso.
Servì a scaricare l’ansia che lo stava corrodendo.
Silver annuì. “Qualcosa di simile, sì...”.
“Thanos sarà difficile da sconfiggere... Ci vorrà, chessò, Red di Biancavilla...”.
Green sorrise sarcastico. “Tra poco arriverà, suppongo. Ora però ho bisogno di sapere con precisione e certezza matematica chi cazzo è questo nella fotografia”.
Xavier sospirò, afferrando la fotografia e spostando leggermente lo sguardo verso destra.
“Beh...” fece. “È probabile, e dico ipoteticamente perché nessuno ancora l’ha dimostrato, che questo nella foto sia davvero io, ma non sia io...”.
Silver sembrava confuso, sicuramente più di Green. Aveva lo sguardo corrucciato e aspettava in silenzio la spiegazione di quelle parole.
Spiegazione che chiese il ricercatore di Biancavilla.
“Ora vi spiego meglio. È possibile che quello possa essere io, ma l’io di un altro universo”.
“Farnetichi?” domandò il fulvo.
“No, no, no, aspetta!” esclamò Xavier, alzandosi rapidamente in piedi, pimpante. Si avvicinò alla lavagna e cancellò delle formule con l’avambraccio. Poi prese il gessetto.
“Pensate a un numero tra lo zero e l’infinito”.
Silver inarcò un sopracciglio mentre Green sbuffò. “Non abbiamo tempo per gli spettacoli di magia...”.
“Non è magia! È scienza!”.
“Non cambia nulla” ribatté Oak.
“Beh, facciamo caso che tu abbia pensato lo stesso a un numero, io adesso avrei potuto scrivere su questa lavagna il risultato. Beh, avrei avuto una possibilità su infinito di fare centro, no?”.
Silver annuì.
“Questo vuol dire che ci sono infinite possibilità di rispondere a questa domanda. La vita, l’universo, ogni cosa funziona secondo lo stesso criterio: ci potrebbero essere infiniti universi, infinite realtà, ognuna discordante da un’altra per un infimo particolare avvenuto nel corso della storia, dalla creazione a oggi; futili minuterie che avrebbero potuto avere un’importanza rilevante per il futuro prossimo dello stesso universo”.
Green annuì, guardando un confuso Silver. “Fin qui ci sono”.
“Ecco, anche se per noi una cosa del genere è ancora fantascienza, magari in qualche altro universo uno Xavier Solomon era interessato a questo particolare oggetto che si trovava soltanto all’interno del nostro universo di riferimento. Ecco perché sarebbe vento qui a rubarlo”.
“Non esiste anche nel suo universo?” chiese Silver.
“Dipende. Ci sono infinite possibilità che in un universo adiacente l’oggetto sia stato distrutto oppure che non abbia le stesse proprietà che ha qui... tuttavia ha anche infinite probabilità che le abbia. È un paradosso, come quello del gatto di Schrödinger; ricordate no?”.
“Sì” annuì Green. “Il gatto è contemporaneamente vivo e morto”.
“Non mi spingerò a spiegare oltre” fece allora Xavier, notando lo stesso un po’ di confusione sul volto del più piccolo.
“Quindi, in pratica, partiamo di nuovo da zero?” chiese Green.
“In pratica sì. Non posso aiutarvi oltre, perché non so di cosa si tratta. Se riuscissi a costruire la mia macchina del tempo...” indicò i disegni che aveva sul tavolo su cui studiava “... riuscirei a tornare indietro nel tempo ed evitare tante brutte cose. Tuttavia non è proprio una passeggiata”.
Silver annuì, stavolta comprendendo ciò che dicesse il padrone di casa. Tuttavia pensò che avere un simile potere fosse necessariamente esclusivo di una persona fornita di grande coscienza e bontà: nelle mani sbagliate sarebbe stato devastante. Fortunatamente era ancora un progetto in fase sperimentale e Solomon sembrava lontano dalla sua realizzazione.
“Perfetto... Siamo costretti ad andare via. Xavier, mi spiace per l’aggressione” disse Green, guardandolo negli occhi. “Normalmente mi sarei trattenuto”.
“Non lo metto in dubbio... bel diretto comunque...” si massaggiò la guancia il biondo.
Silver sorrise per un mezzo secondo e poi seguì l’altro fino al piano superiore, quindi oltre, ritornando sotto il cielo di mezzogiorno di Amarantopoli.
“Siamo nella merda, Silver” fece Oak. “Nella merda più che totale”.

 
Johto, Borgo Foglianova
 
Alla fine Crystal tornò a casa, stanca e sfatta.
Assieme a Blue aveva riassettato l’Osservatorio e cercato meglio qualche traccia, ma non vi era stato alcun passo avanti nelle indagini.
Aprì la porta, Marina era in cucina, cercando di cucinare qualcosa.
“Ehi, Crys” fece lei, sorridente. “Già di ritorno?”.
Erano passati tre anni da quando Marina era diventata il capo della Divisione Ranger di Johto. Ogni mattina si svegliava e sonnecchiante si preparava per andare verso Violapoli, sede dei suoi uffici. Era una bella traversata, avrebbe fatto carte false per potersi trasferire nella città dai tetti viola, ma doveva tener conto anche dell’opinione di Gold.
L’eterno bambino.
Lui non vedeva di buon occhio l’idea di abbandonare la casa dov’era cresciuto coi suoi amici, che, dal canto loro non vedevano la coppia come un ostacolo; un po’ perché Silver un’opinione, bene o male, non ce l’aveva (e se ce l’aveva la teneva per sé), un po’ perché a Crystal faceva comodo un’altra presenza femminile in casa, poco invasiva e gradevole come Marina.
“Sì. In realtà non ci sono andata proprio, in Laboratorio, oggi”.
Marina alzò gli occhi. “Come mai?” domandò nuovamente, guardandola per un attimo prima di tornare a guardare il filetto di merluzzo che stava tagliando a tocchetti.
“Stanotte ci ha chiamati Blue... la Lacrima di Giratina è stata rubata...”.
A quelle parole Marina alzò gli occhi, finendo per distrarsi e tagliarsi leggermente il dito.
“Dannazione!” fece, tirando subito il dito in bocca. Qualche goccia di sangue sporcava il tagliere. “Questo è davvero un bel guaio”.
“Già. Trafugare quell’oggetto, ben nascosto com’era, può significare soltanto che il responsabile fosse stato a conoscenza delle sue proprietà”.
Marina sciacquò il dito e vi avvolse un fazzoletto di carta intorno.
“Potrebbe portare problemi seri?”.
Crystal sfilò le scarpe e sospirò, poggiando i piedi sulle mattonelle di cotto.
Fresche.
“Sai...” fece, sedendosi sul divano, incrociando le gambe. “Io credo che grandi avvenimenti non vengano mai provocati soltanto da una persona... Cioè, se tu in questo momento volessi farmi del male, io potrei impegnarmi per impedirtelo”.
“Logico” rispose Marina, battendo le palpebre un paio di volte. Riprese di nuovo il coltello tra le mani, pulì il tagliere e ritornò a preparare il merluzzo.
“Ma se tu avessi qualcuno che ti aiutasse, il tuo scopo sarebbe più semplice da raggiungere. Cioè, se tu, Silver e Gold vi coalizzaste contro di me avreste molte più probabilità di sconfiggermi. La Lacrima di Giratina è per uno solo, per un uomo e basta. Un leader può utilizzare la Lacrima ma, come nel caso di... di Hoenn, insomma, sarà soltanto lui a poterne usufruire”.
“Quindi ha poca rilevanza?”.
Crystal sorrise, gettando la testa indietro.
“Oh, no... Ho provato sulla mia pelle gli effetti di quel cristallo, e credimi se ti dico che porta all’esasperazione tutto l’odio che covi dentro di te… Io non sono riuscita a gestire quel potere e ho finito col rimanere accecata. Nonostante quello però, la mia forza e la mia determinazione erano più che decuplicati. Un uomo con simili poteri potrebbe distruggere un palazzo usando soltanto i pugni...”.
“E questo è un problema...”.
“Il fatto è che non sappiamo chi abbia preso la Lacrima né per quale motivo lo abbia fatto. Questo brancolare nel buio, purtroppo, ci rende schiavi dell’ansia... Dei nostri ricordi”.
“Assolutamente” sospirò Marina. “Se solo chiudo gli occhi rivedo tutto e… cielo, mi vengono i brividi...”.
“Ora non dobbiamo più pensarci” sorrise Crystal, alzandosi. “Però dobbiamo rimanere concentrati. Hoenn è il passato, ora è stata ricostruita quasi per intero e Rocco la sta gestendo in maniera eccezionale”.
Marina spostò un ciuffo castano dal volto muovendo il collo, dato che le mani erano sporche di pesce e non poteva utilizzarle, quindi mise il merluzzo a bollire.
“Io spero che le cose non degenerino...”.
“Andiamo!” esclamò sorridente la moretta. “Tu non hai di che preoccuparti! Piuttosto, sentito Gold?”.
La Ranger inarcò impercettibilmente un sopracciglio. “Dovrebbe essere a Fiordoropoli, a prendere il necessario per crescere il cucciolo di Exbo...”.
“Ah!” esclamò Crystal. “L’ha fatto accoppiare, allora!”.
“Sì. Tre uova: uno al proprietario della femmina, uno a Gold e un altro dovrebbe essere diretto a Kalos, da Augustine Platan”.
“Ma guarda te...” sorrise di nuovo l’altra.
“Beh, è il suo lavoro, a lui piace. E a me piace vederlo realizzato”.
Crystal annuì, poi si prese qualche secondo. “Non me l’aspettavo, sai?”.
Marina alzò gli occhi e la guardò, poi le si avvicinò, portando sul tavolo un tagliere e delle verdure da tritare. “Cosa?” chiese.
“Non mi aspettavo che si realizzasse. Mi ha sempre dato l’impressione del bambinone mai cresciuto, senza attitudini né speranze”.
“Hoenn ci ha cambiati. Poi, tutto sommato, siamo più vicini ai trenta che ai venti... Queste valutazioni vanno fatte...”.
“Ma sì, ma sì, assolutamente...”.
Passò qualche secondo di silenzio, mitigato soltanto dal rumore del gas che bruciava sotto la pentola, poi Marina riprese a parlare.
“E Silver?”.
“Beh, era con Green ad Amarantopoli, per seguire una pista riguardo il possibile ladro”.
“Lo hanno preso?” domandò l’altra, spostando nuovamente quei capelli dal volto. Pensò che fosse arrivata l’ora di accorciarli di nuovo.
“Non ne ho idea...”.

 
 Adamanta, Miracielo, Promontorio della Collina
 
Riapparvero poco lontani da Miracielo, Lionell e il Dottor Solomon, in groppa al grosso Raikou dal pelo scuro. Si erano materializzati sul promontorio in cima alla collina, quello con le vecchie panchine di ferro battuto e le ringhiere che dividevano il passeggio dal pendio scosceso. Il cielo era sereno ma si vedevano in lontananza nuvole che promettevano piogge di braci.
Il viaggio temporale era stato breve ma intenso.
Lionell smontò dal grande Pokémon elettrico col sangue che ormai gli si era incrostato dietro la schiena. Quella malvagia versione di Xavier Solomon sospirò e scese a sua volta da Raikou.
“Ora, Weaves, non hai altre scuse. Non ti ho scelto per le tue manie di grandezza ma perché il tuo nome è legato a quello dell’oracolo. Adesso completa il tuo lavoro, trova il cristallo e portalo a me”.
Lionell passò la mano ossuta nella barba, grattandosi la guancia, quindi rimase qualche secondo in silenzio.
“Ricordati di mantenere la calma” continuò l’uomo dell’altra dimensione. “Se non sei calmo perdi il controllo di te stesso e diventi qualcosa di terribilmente pericoloso. Ora ho questioni importanti da sbrigare”.
“Tutto chiaro, Xavier”.
“Non voglio che succeda nulla di desueto. Arceus non c’entra nulla con la tua mansione, e di sicuro non sarai tu a poterlo sconfiggere”.
“Certo...” annuì il più anziano.
“Se non obbedirai ai miei ordini verrò personalmente ad ucciderti. E ora torna a casa e datti una ripulita... sembri un barbone”.
E non aveva tutti i torti: era magro e smunto in viso, dove la barba ormai candida presentava ancora qualche spruzzo dorato vicino al mento. I capelli mantenevano ancora quel sentore biondo che stava cadendo nel canuto ma nei suoi occhi si leggevano lacrime di sangue, inchiostro per riempire pagine di rabbia e di sofferenza.
Xavier guardò l’apparecchio che aveva al polso e annuì.
“Devo andare” fece, tirando fuori dalla borsa una blusa, bianca come la neve, che aveva rubato a una guardia del tempio. “Tieni”.
Lionell la infilò e il sangue la intrise. “Grazie”.
“Sarò nel tuo universo ancora per qualche giorno, voglio giocare col vostro clima... Se hai bisogno di me lo saprò... basta che verrai qui, su questo promontorio”.
L’altro annuì, poi lo vide poi sparire, lasciandolo lì, solo, nel vento.
Il cuore batteva. Tossì un paio di volte, avanzando un passo verso le ringhiere. Adamanta era davanti ai suoi occhi e lui era tornato. Aveva lasciato quel mondo col potere di chi aveva quasi piegato un dio; in quel momento, invece, era soltanto un uomo di mezza età che una volta possedeva un bell’aspetto e che si era ridotto a essere uno straccio.
“Uno straccione...” ripeté, sospirando.
Ci ripensò.
 
Per cosa, poi? Per le aspirazioni? Le aspirazioni hanno mandato la mia vita a puttane.
 
Sbuffò, stringendo i pugni.
Sapeva di essere nel giusto. Stava salvando il mondo, era di nuovo in gioco, e poco importava se per farlo avrebbe dovuto cacciare sua moglie dalla sua vita.
Poco importava se avrebbe dovuto ucciderla.
Poco importava se avrebbe dovuto fare lo stesso con sua figlia.
Lui doveva ucciderle, perché altrimenti Arceus avrebbe distrutto tutto.
 
Oppure no.
Oppure avrebbe dovuto catturare Arceus, e tutto sarebbe finito.
Il cuore pompava il sangue rapidamente ma riconobbe subito che l’idea fosse malsana. Xavier gli aveva ripetuto chiaramente e quello non era il tipo d’uomo che adorava ripetere le cose.
Xavier non scherzava, Lionell lo sapeva.
E quindi portò le gambe in spalle, e lentamente raggiunse Galeia, dove prese un bus che lo portò a Timea; casa sua era fuori mano, dovette entrare nella metro, sporco di sangue com’era, e scendere alla penultima fermata, almeno secondo i progetti, dato che fu cacciato dal controllore per mancanza di titolo di viaggio a tre fermate dal capolinea.
A dieci chilometri da casa.
Li percorse lentamente, con le gambe che faticavano ancora a prendere confidenza col presente. Erano passati diversi anni da quando aveva mosso più di trenta passi consecutivi e i muscoli facevano male.
Passarono circa due ore prima che Lionell spalancasse il cancelletto di casa sua e si addentrasse nel vialetto. L’erba era cresciuta, nessuno si era preso cura del giardino.
Salì con fatica i quattro scalini che portavano allo zerbino ma si rese conto con orrore che la porta fosse aperta: casa sua era stata depredata dai ladri.
Il cuore batteva. S’avvicinò al camino e afferrò uno degli smorzafuochi, tutto impaurito.
Poteva esserci qualcuno, lì. Controllò che nessuno fosse in casa, trovando soltanto un tossico addormentato sul tavolo della cucina. Dopodiché chiuse la porta d’ingresso, bloccando la maniglia con una sedia. Quindi sospirò.
Non c’era corrente e ormai la sera era scesa impietosa, lasciandolo nel buio più che totale.
Avrebbe dovuto radere barba e capelli, lavarsi e magari mangiare qualcosa di consistente.
Ma era troppo stanco e l’avrebbe fatto l’indomani.
 

 
Adamanta, Primaluce, Casa Recket
 
La sera scese e le stelle si affacciarono gentili nel cielo notturno.
Rachel era appena uscita dal bagno, fresca e profumata. I piedi si poggiavano sul pavimento congelato e raggiunsero il tappeto davanti al suo comodino.
Era nuda, nel primo cassetto c’era il suo pigiama. Lo indossò.
“Vieni a letto...” sussurrò Zack, steso nella sua parte del letto.
“Arrivo, un attimo”.
Poco dopo erano l’uno accanto all’altra; Zack era avvinghiato a lei, petto contro schiena, lei, piccola, davanti a lui. Si scambiarono un tenero bacio e si sistemarono meglio sotto le coperte.
“Oggi non ha fatto molto freddo” osservò il ragazzo. “Ma tu hai lo stesso i piedi congelati”.
“Erano nel contratto...”.
“Già, il contratto che ho firmato quando ti ho acquistato... Chi devo chiamare per il reso?”.
Rachel si girò, mordendo la guancia del suo uomo.
“Avresti il coraggio di dare indietro un bocciuolo come me?” aggiunse poi, scatenando una risata nell’altro. Quella si voltò e lo colpì con uno schiaffetto sul volto.
“E non farmi urlare! Che altrimenti Allegra si sveglia ed è finita la pace!”.
Lei si lasciò baciare e stringere ancor più forte, sentendo le mani dell’uomo giocare col bordo della maglietta del pigiama.
“Non cominciamo...” sussurrò Rachel, divertita, ma lui non sembrò dare molto peso alla cosa e salì con le mani più sopra, carezzando l’ombelico e il costato.
“Sicura?”.
“Hai le mani fredde...” sospirò lei, baciandolo. Sentì Zack toccarla ancor più sopra, a stringerle delicatamente il seno sinistro.
“Erano nel contratto...”.
Rachel si voltò e baciò passionalmente il suo uomo, spingendo il corpo contro il suo, fino a sentire dei passi provenire dal corridoio.
Passi di bambino.
Di bambina.
Zack esorcizzò velocemente l’eccitazione e vide Rachel abbassare la maglietta.
“Dormi” disse poi all’uomo, poco prima che la porta si aprisse e la piccola Allegra entrasse in stanza. I due sorridevano, fronte contro fronte, sentendo la ragazzina circumnavigare il letto, prima dalla parte del padre e poi da quella della madre.
“Mamma...” fece quella, con la sua vocina piccola. “C’è un signore nel mio armadio”.
Zack avrebbe voluto prenderla e stringerla tra le sue braccia senza speranza che si liberasse prima che avesse compiuto ventidue anni ma aveva stabilito, assieme a Rachel, di non farle prendere l’abitudine di dormire nel letto con loro.
“Papà... ha gli occhi rossi. Mi guarda”.
Allegra vide che i due non si mossero. Capì che stessero dormendo e sbuffò, prendendo l’iniziativa e inerpicandosi sul letto, facendo sorridere di nuovo suo padre quando, con grinta e cocciutaggine s’infilò tra i due, addormentandosi di colpo.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Ground Zero ***


4. Ground Zero

 
Adamanta, Timea, Uffici della Omecorp
 
“La fornitura degli impianti di videosorveglianza potrà essere... Sì, assolutamente ma... No, un momento, il pagamento dell’acconto è strettamente legato all’ordine e se non...”.
Linda odiava Eric Leminoff; questi non era altro che un omino di oltre ottant’anni, basso e rachitico, dalla barba candida e folta. Gestiva un supermercato nei pressi di Ondalta e aveva tirato sul prezzo fino a spolpare all’osso la rendita della società.
D’altronde era un periodo di magra e Linda, che lo sapeva, non poteva lasciarsi sfuggire un lavoro come quello. In cuor suo, Linda avrebbe sollevato quell’uomo con l’aiuto dei suoi Pokémon e l’avrebbe bersagliato di pugni sul volto.
Si chiedeva perché tirasse sul prezzo, dato che di lì a poco avrebbe tirato le cuoia.
 
I soldi non servono a nulla, nella tomba.
 
“Va beh, senta, dovremmo rivederci per discutere meglio delle clausole del contratto…” disse la donna, sperando che quello demordesse e le lasciasse un po’ di respiro. In quel momento l’interfono suonò, Melissa reclamava la sua attenzione; Linda si alzò rapida e corse verso la porta del suo ufficio, spalancandola e facendo capire a gesti alla sua segretaria che fosse al telefono e che non dovesse essere disturbata.
Tornò indietro. Sbuffò quando il vecchio cominciò a lamentarsi del ritardo per l’inizio dei lavori causati dalle scartoffie e dalla burocrazia.
Continuava a ripetere con insistenza che, ai suoi tempi, le carte si facessero dopo il lavoro.
“Se non firma il contratto i lavori non possono cominciare! Dobbiamo pur tutelarci in qualche modo!” esclamò lei, avvicinandosi alla finestra. Il Monte Trave sostava imperioso davanti al suo sguardo. “No... non intendo dire che non mi fidi di lei ma che, semplicemente... Sì, però c’è bisogno che lei...”.
E l’interfono suonò ancora un paio di volte, prima che la porta del suo ufficio si spalancasse.
“Sì, un attimo… Melissa, ti ho già detto che sto…” disse quella, girandosi rapida, con la mano sul microfono del telefono. Tuttavia, la sua espressione contrita mutò rapidamente.
Le sopracciglia si sollevarono lentamente, il cuore prese a battere forte. Gli occhi si spalancarono, increduli di ciò che vedevano.
Riavvicinò il telefono all’orecchio e levò la mano dal microfono.
“Signor Leminoff, la chiamo io…”.
Attaccò, sbattendo le palpebre e respirando più profondamente che potesse.
“S-sign…” ricucì poi le labbra
Anzi no.
“Signor… Weaves. Lionell…” sussurrò, avvicinandosi lentamente a lei.
Fu quello l’esatto istante in cui cominciò a dubitare della sua salute mentale. Lo vedeva, così posato ed elegante, con i capelli lunghi, tirati indietro e ben pettinati, e il volto fresco di rasatura. Era impettito, nel suo solito completo blu, panciotto incluso a nascondere la camicia bianca.
Quella con le cifre sul costato, che in quel momento non poteva vedere.
Lui rimase immobile a guardare il volto a sua volta smagrito della giovane collaboratrice. Era davanti a lei, quella la fissava come fosse uno spettro.
Le carezzò la guancia destra, poi le sorrise. Quella rimase immobile.
Lionell poté riconoscere nel suo sguardo l’enorme coltre di stanchezza che la sovrastava.
“Sei vivo…” sussurrò ancora, quella. Sorrise leggermente, stringendo la mano, fredda, che ancora le toccava il viso. “Credevo che…”.
Gli occhi di Linda si riempirono di lacrime e la felicità che la colse quasi la costrinse ad abbracciarlo.
“Stai attenta alla schiena”.
“Sì, Lionell… Signor Weaves, intendevo…” rispose lei, liberandolo dalla stretta commossa.
L’uomo le sorrise e le diede un bacio candido sulle labbra, lasciandola totalmente immobile.
Pochi secondi eterni in cui poté assaporare il sapore della donna, per poi staccarsi da lei e muoversi lentamente verso la scrivania. Si sedette.
La prima cosa che fece fu guardare il cassetto sulla destra; lo aprì e controllò che tutto l’incartamento fosse ancora lì, come lo aveva lasciato.
“C’è tutto…” disse la donna, spostando il ciuffo che le copriva lo sguardo dietro l’orecchio destro. “Ho controllato ogni giorno…”.
Lionell la guardò per un attimo, poi annui, quasi impercettibilmente. Afferrò i documenti e li poggiò sulla scrivania, silenzioso.
Quella attendeva con le mani congiunte sull’addome, in silenzio. Timorosa.
Quando il viso dell’uomo si alzò e i suoi bellissimi occhi blu si posarono sulla pelle candida della bella.
“Abbiamo un po’ di cose da spiegarci, io e te”.

 
Adamanta, Primaluce, Casa Recket
 
Quando Zack si svegliò, quel mattino, Rachel era già in piedi.
Come quasi ogni volta.
Da quando era entrato nel periodo di ferie come consulente per la Lega di Adamanta, Zack e Rachel avevano cambiato ritmi.
Lei era sempre occupata, con la casa e il resto. Almeno fino a mezzogiorno circa, fino a quando usciva con Marianne o andava a trovare Alma.
Oppure si chiudeva nella mansardina, dove dipingeva. Ultimamente amava farlo, la connetteva al mondo, diceva.
Il ruolo di Zack, invece, era domare Allegra e, a volte, progettare la costruzione del gazebo che ben vedeva nel giardino. Ne aveva parlato a Rachel poco dopo essere andati a vivere in quella casa.
 
“Mio padre…” disse quella volta “… aveva costruito un gazebo bellissimo, quando ero piccolo: aveva otto alti pali di legno, che aveva dipinto con quella vernice... sai, quella lì scura...”.
“Quella per il legno” aveva ribattuto Rachel.
“Sì, quella. Insomma, base ottagonale, sopraelevato, avevamo fatto gettare un massetto di cemento in modo da essere più in alto rispetto al terreno... Sai, animali vari, insetti e umidità”.
Lei aveva annuito.
“Poi montò altrettante travi che andavano ad incontrarsi su di un pilastro centrale. Ricordo che lo aiutai a mettere le tegole, perché ero leggero e piccolo e mi muoveva agilmente sul tetto. Mia madre aveva una paura terribile che cadessi ma lui si faceva una risata e faceva finta di niente…”.
“Ora so da hai ereditato la tua incoscienza”.
Zack aveva preso a ridere.
“Mi piacerebbe riprodurlo anche qui. Sarebbe bellissimo, proprio lì, accanto alla piccola quercia che abbiamo piantato qualche tempo fa”.
Rachel aveva annuito, sorridendogli dolcemente. “Sembra proprio una buona idea”.
“Che dici?”.
“Va bene”.
“Allora ci lavorerò su…”.
 
Quel giorno il tempo era abbastanza mite da permettergli di pensare di riprendere in mano i progetti che aveva stipato nel cassetto.
Allegra dormiva ancora e quindi avrebbe dovuto approfittarne. Sfilò fuori dalle coperte e si preparò, per poi scendere al piano inferiore.
Rachel era seduta sul divano, col portatile sulle gambe e una grossa tazza tra le mani. Al suo interno, qualcosa rilasciava caldo fumo. Ne bevve un sorso, poco prima che Zack, alle spalle del divano, saltasse agilmente la spalliera e le atterrasse accanto.
Lei rimase impassibile, abituata a quelle scene.
“Buongiorno, bionda” le disse, baciandole la guancia.
“Non sono bionda”.
“Lo so”.
“Allegra dorme ancora?”.
Zack gettò un’occhiata allo schermo, vedendo la schermata dell’Huff Post.
“Esatto. Siamo solo io e te, finalmente”.
La mano dell’uomo si mosse verso la spalla della donna, spostando delicatamente una ciocca corvina di capelli e liberando il collo candido. Vi poggiò delicatamente le labbra, scendendo con la mano verso il seno.
Rachel però si spostò.
“Lasciami perdere stamattina, marpione. Stavo leggendo le notizie”.
Lui però non parve cogliere. Non demordeva.
“Novità?” chiese, continuando a baciarla e a palparla.
“Sì... sembra che a Hoenn riaprirà a breve il museo di Porto Alghepoli...”.
“Che palle...”.
S’inginocchiò sul divano e le afferrò la tazza da mano, poggiandola per terra. Rachel sorrise.
“Sei un cretino... l’arte è bella...”.
“Tu sei più bella dell’arte...”.
Si allungò nuovamente, prendendole il computer che aveva poggiato sulle gambe e chiudendolo. Poi tirò la ragazza a sé, facendosi sovrastare. Lei sorrideva.
“Non ti arrendi mai, vero?”.
“Sei mi fossi arreso ora non saremmo qui”.
Rachel fece una smorfia e allungò il sorriso, poi lo baciò una, due, tre volte, mentre le mani tastavano il corpo bollente del marito. Amava i suoi addominali, ancora tonici nonostante lo stile di vita più sedentario.
Al contrario, lei si era leggermente riempita. Certo, colpa della gravidanza. Zack però non poté fare altro che apprezzare quelle morbidezze, da donna vera.
“Va bene, va bene...” disse quella, rubando fiato ai baci. “Ma non facciamo troppo rumore... e non spogliamoci totalmente...”.
“Venduto...”.

 
Kanto, Biancavilla, Piazza Centrale
 
Blue non aveva mai visto una giornata più grigia di quella.
Grosse nuvole aggressive, cariche di rabbia e pioggia, stazionavano sul cielo di Biancavilla.
Un po’ per il vento, che soffiava gelido e batteva i viottoli del paesino, un po’ per la minaccia dell’imminente tempesta, la gente cercava di non uscire di casa.
Nella piazza centrale, quella con la grande fontana di marmo, la gente si salutava rapida per poi infilarsi nei vicoletti che si diramavano lungo la via principale.
Blue e Green erano arrivati da qualche minuto, lì. Tre, per la precisione. Lui era nervoso e non faceva altro che guardare l’orologio.
“Cerca di calmarti, tesoro…” aveva fatto quella, avvicinandosi a lui, poggiato a uno dei quattro alberi posti attorno alla fontana. Gli sistemò meglio la cravatta nera e gli lisciò il risvolto sul petto. Provò poi a catturare lo sguardo di giada dell’uomo, che sfuggevole evitava di tuffarsi nel blu di quello della bella, nascosto dietro la frangetta castana.
Stringeva la cinghia della tracolla di pelle marrone, Green, che pesante gli si poggiava sulla gamba. Fissava altro, a intervalli regolari di pochi secondi: prima i comignoli sui tetti, poi un vecchio balconcino con le balaustre in ferro battuto dipinte di nero, poi le sue persiane chiuse. Dopo, sulla destra, un giovane camminava con le mani nelle tasche. Indossava delle Vans, manteneva lo skateboard tra sotto al braccio perché i sanpietrini della piazza non gli consentivano di fare due metri senza inciampare.
Guardò la pavimentazione stradale, composta da piccoli cubetti sconnessi di pietra, poi le punte degli stivali di Blue. Le gambe erano fasciate dagli stretti fuson.
Quelle stesse gambe.
Ripensò a quando Red le aveva strette, nude, tra le mani.
“Li chiamo?” domandò la donna. “Almeno ti calmi un po’…”.
Green fissò le sue labbra.
Le mani di Red stringevano ancora le gambe di Blue. Sui loro volti c’era l’estasi, mentre lui era dentro di lei.
“Allora?”.
La voce di Blue lo fece trasalire.
“Sì. Sì… sì, chiama Yellow e vedi dove sono”.
“Spero mi risponda...” fece quella, voltandosi e allontanandosi leggermente, disturbata dallo scroscio dell’acqua della fontana.
Green sospirò, guardandola. Era così naturale mentre si muoveva, facendo piccoli passi avanti e indietro ma rimanendo sostanzialmente sempre nello stesso punto. Cominciò a parlare, non sentì di preciso le parole che utilizzò ma il suo volto pareva felice.
Era elettrizzata, lo si vedeva a pelle; incontrare di nuovo gli amici di sempre la stava caricando d’adrenalina, e a Green la cosa non poteva fare che piacere.
Se la cosa si fosse limitata soltanto a Yellow forse anche lui sarebbe stato contento di quella riunione. Ma ovviamente c’era anche Red, l’amico di sempre.
Da cui non ci si poteva aspettare l’inaspettabile. Ma la vita, imparò, spesso non è d’accordo.
“Perfetto” sorrise nuovamente Blue, grattandosi il collo con le unghie smaltate. “Allora vi aspettiamo in piazza. Fate presto”.
Quella si meritava un po’ di felicità, pensò. Soprattutto nell’ultimo periodo, in cui il sonno le aveva dipinto sul volto una maschera di stanchezza e di preoccupazioni, portate dalla situazione del Cristallo del Caos. Avrebbe soltanto voluto, Green, che quella felicità non dovesse provenire da quelle due persone, con cui non voleva avere niente a che fare.
La vide avvicinarsi a lui, con lo stesso sorriso, forse leggermente smorzato.
“Stanno arrivando”.
“Come?”.
“I ragazzi. Stanno arrivando”.
Green annuì, proiettando l’immagine gioiosa del ragazzo dagli occhi rossi e della bionda compagna che avanzavano lungo il corso principale. Ma no, non c’erano ancora.
Eppure li percepiva, li sentiva nell’aria.
Perso nei suoi pensieri, non si accorse che Blue lo stesse scrutando. Ed erano poche, le cose di cui Blue non si accorgeva.
“Che succede?”.
Trasalì.
“Uh? Nulla...”.
Quella lo fissava, sorridente, quasi a dirgli tu non abbindoli nessuno. Ma lui non colse. Non volle cogliere.
“Avanti”.
“Cosa?”.
“Dimmi”.
“Cosa dovrei dirti?” sospirò poi quello, ancora con le mani strette attorno alla cinghia della tracolla. Il vento, soffiando, alzò un gruppetto di foglie dalle strade, che vorticarono lontano.
“Dovresti dirmi cosa succede” ribatté l’altra.
I loro occhi crearono un ponte immaginario, in cui entrambi si sarebbero dovuti avviare, per incontrarsi a metà strada. Ma quando quello distolse lo sguardo la vide crollare giù.
Blue sospirò. Un po’ aveva capito ma non sapeva come affrontare la cosa. Inoltre non voleva sbagliarsi e non aveva nessuna voglia di riaprire quell’argomento. Aveva affrontato cose ben peggiori, aveva visto la morte con gli occhi ma quando la vedeva negli occhi di Green non riusciva a fare nulla.
Quello, dal canto suo, non poteva fare altro che stare fermo, in balia delle onde, sperando che quella buriana interiore finisse in fretta. Non riusciva a fare a meno, però, di restare a pensare alla faccenda. Al fatto che la donna che amava non fosse sempre stata sua, almeno non fin dall’inizio, e la cosa gli creava una rabbia immensa, che non riusciva a sfogare.
Ricordava la pioggia di quella sera, nella radura poco fuori Celestopoli. Condivideva l’ombrello con Yellow ma quella non gli si accostava troppo, col risultato che preferì evitare che quella si bagnasse, coprendo lei più di quanto non preferì fare con se stesso. L’erba alta gli sporcava i cargo beige ed erano finiti più di una volta in una pozzanghera, col risultato che avrebbe dovuto buttare le Fila di tela l’indomani.
“Allora?”.
Blue continuava a fissarlo ma nelle sue orecchie c’era soltanto il rumore della pioggia. Quasi sentiva il profumo delicato di Yellow accanto a lui. Quasi percepiva il suo imbarazzo quando per sbaglio le loro mani si toccavano.
“Mi rispondi?!” si alterò infine la sua donna.
Fu riportato aggressivamente su quel piano dell’esistenza; sbatté le palpebre un paio di volte di troppo, e Blue si rese conto di ciò che stava succedendo.
Fece un passo indietro, distolse lo sguardo. Poi sospirò.
“Che cosa?” chiese Green, rispondendo a una domanda che la sua donna gli aveva posto soltanto con gli occhi.
“Ho capito...” fece lei, sorridendo. Indietreggiò ancora, sedendosi sulle balaustre di ferro battuto della fontana. “Ma devi calmarti”.
“Sono calmo”.
“Non è così, non prendermi in giro”.
Green sbuffò, lasciando finalmente la presa dalla tracolla e passando una mano nei capelli.
“Tutta... questa storia...”.
“Lo so, tesoro, è dura”.
“Se qualcuno prendesse il cristallo e lo utilizzasse per scopi malvagi non so se riusciremo a fermarlo”.
Blue rimase in silenzio. Abbassò lo sguardo e si sedimentò un secondo di silenzio, che bastò all’uomo per ripiombare in quell’incubo.
La tenda era davanti a loro, la pioggia batteva.
E Blue ansimava. Urlava.
Green rallentò il passo, col sangue che cominciò rapido a raggelarsi. Riconobbe subito la voce della sua donna e capì cosa stesse succedendo un secondo prima di Yellow, che poté godere del beneficio del dubbio fino a quando la paura sul volto dell’altro la investì.
Quando aprì la tenda li vide. Fu come ricevere una coltellata.
“Ci riusciremo” rispose poi Blue, salutando con la mano la loro vicina di casa, la signora Aoyake. Il suo roseto era il più bello di Biancavilla.
“Non ne ho idea”.
“Avanti!” esclamò poi la donna. “Siamo di nuovo insieme! Tutti e quattro!”.
“Già...”.
Lo guardò poi, e lui si accorse che il sorriso che le vestiva il viso andava lentamente a sfiorire. Nutriva rancore verso di lei, ed erano passati anni da quando aveva deciso di metterci una pietra sopra, ma continuava a sentire che, dietro la superfice dorata c’erano crepe profonde come l’universo.
Riusciva a percepire la stanchezza deturpare la sua bellezza infinita, figlia di quei giorni dove il sonno aveva lasciato posto alla preoccupazione.
La vide sbuffare, tornare indietro, incrociare le braccia e allungare lo sguardo verso l’altra parte della piazza. Sperava che da un momento all’altro Red e Yellow spuntassero da qualche vicolo e colorassero un po’ quella mattinata grigia.
Eppure, Green era perso senza di lei; era una cosa così difficile da metabolizzare che sfidava chiunque altro non fosse se stesso a comprenderla. Quando tornarono a casa, dopo quella notte sciagurata alle porte di Celestopoli, lui era rimasto per gran parte del tempo a leggere Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, con un bicchiere di Lagavulin, riempito e svuotato diverse volte, fino a quando la bottiglia non cadde e si ruppe.
Tanto era vuota.
Ricordava perfettamente quel momento: era seduto sulla sua poltrona e il parquet era interamente inzaccherato. Con ogni probabilità, avrebbe spazzato male e si sarebbe ferito ai piedi. Automaticamente ricordò quando la serratura, qualche ora dopo, scattò. Blue entrò, a testa bassa.
Mortificata.
Io…” fece, cercando di giustificare quel gesto. Alzò la testa, guardò gli occhi di Green che la giudicavano. Vide anche la bottiglia rotta per terra, e il bicchiere vuoto stretto tra le sue mani. Il libro era chiuso sulle sue gambe.
“Zitta” le aveva detto. “Prendi la tua roba, mettilo in un sacco della spazzatura e vai via da questa casa. Questo non è più il tuo posto”.
E così successe: sentiva armeggiare al piano di sopra, la ragazza scese un’ora dopo con le valige tra le mani e lo sguardo di chi aveva subito una violenza, che indugiava su quel carnefice che tanto amava.
Ma i ruoli erano inversi.
Respirò profondamente, lei, poggiò una valigia per terra e portò la mano libera verso la maniglia. Pareva incandescente. Cercò il perdono con gli occhi audaci. Cercò le sue parole, e le trovò quando, dopo qualche secondo, la mano non si decideva ad aprire la porta
“Vattene” chiosò lui ogni tentativo di ragionamento.
“Green…”.
“Ho detto vattene!” aveva urlato, tirandole contro il bicchiere. Quello esplose sulla porta, accanto alla sua testa, ricoprendole la testa di schegge trasparenti e taglienti come lame affilate.
Non gli fece alcun effetto vederla in lacrime.
Non gli fece alcun effetto vederla uscire.
Non gli fece alcun effetto sentire il rumore della porta, accostata con calma quasi irreale nel suo loco.
Blue era uscita dalla sua vita come una ladra, proprio come quando vi era entrata.
 
Da lì in poi, il silenzio in quella casa lo divorò, e lo fece per quasi otto mesi, in cui le finestre rimasero chiuse. In cui il letto era freddo e vuoto, giorno dopo giorno, diventando il palcoscenico degli incubi che tesseva la sua mente di notte, e che si trasformavano in realtà durante il giorno.
 
Era nella ragione.
Ma era solo.
Era solo, però nella ragione.
 
E poi un giorno cedette al lato oscuro, convincendosi a smontare quella triste impalcatura d’orgoglio; Perché, tanto, comunque fosse andata, avrebbe perso lo stesso
Una notte, una di quelle gelide, di quell’inverno di qualche anno prima che non avrebbe perdonato chiunque non fosse stato vicino a qualcosa che donava calore, Green chiuse gli occhi e uscì dal suo corpo.
Si alzò, vedendosi steso sul letto, al suo posto, nella parte destra del letto. Non riusciva a dormire dove riposava Blue. Riusciva ancora a sentire il suo odore, e riconduceva il tutto a quella notte maledetta.
Spostò il pantalone dalla poltrona e si sedette, accavallando le gambe. Guardava la sua figura, col volto contrito durante il sonno, probabilmente stava sognando qualcosa di brutto.
Non gli importava assai, onestamente.
Di se stesso, e la cosa cominciò a sconcertarlo, tutto a un tratto.
Si grattò la barba sul mento, sbadigliò, forse non doveva alzarsi a quell’ora; la sveglia segnava le tre e trentaquattro. A quell’ora le persone dormivano.
Eppure la sua mente gli aveva chiesto di alzarsi, con modi così gentili da rendergli quasi impossibile dirgli di no, e quindi si era ritrovato a fare una lenta analisi sulla sua vita.
 
Di merda.
 
Si trovava a camminare su di un sottile e fragile corridoio, a metà strada tra un baratro e l’altro, e non c’era una soluzione semplice e pratica per evitare almeno i graffi.
No, i graffi doveva prenderseli. Almeno quelli.
 
Se guardava avanti c’era la sua rocca, il suo castello erto contro i mali e le ingiustizie in cui solo il suo volere era rispettato, in cui la sua dignità era stata eletta unica sovrana, regina madre. Unica ragione di vita.
Il guardiano di quella rocca però non lasciava passare nessuno. Motivo per cui, lì dentro, poteva entrare solo lui, che era architetto dell’orgoglio e padrone di quello che sarebbe diventato il silenzio che lo avrebbe consumato.
 
Se invece guardava alle spalle vedeva il temporale, le persone che lo guardavano, la tenda chiusa nel prato, il calore umano, Blue che ansimava, i regali di Natale, il tradimento, il cuore che si spezzava, la possibilità di crescere un bambino e tutto ciò che comportava essere umano: la contraddizione.
Perché Green lo sapeva che se fosse rimasto lì, in mezzo a quello stretto corridoio fatto di carta, prima o poi sarebbe caduto e sarebbe morto. Sarebbe diventato il guscio vuoto di un uomo che un tempo riempiva le proprie giornate di colori e parole. Certo, con pessimi modi, ma era pur sempre umano.
E umano sarebbe rimasto, andando dritto, chiudendo a Blue ogni possibilità di saltare con lui sul carro dei vincitori. Perché per lui quello era, tutta quella situazione, col corridoio in mezzo alle due colonne su di un mare di lava che ti uccideva.
Era un me contro te, una sfida mortale che vedeva un vincitore e un vinto.
E in quel momento, in bilico, la carta vincente ce l’aveva Green. Sì, perché Blue aspettava invano una sua chiamata da mesi, cercava il suo sguardo quando s’incontravano e provava in ogni modo a parlargli, senza mai riuscirci.
Lei stava soffrendo e lui, lentamente, le stava restituendo tutto il male che aveva subito.
 
Che ancora subiva.
 
La cosa però non lo rinfrancava, perché nonostante tutto non voleva vederla soffrire. Perché l’amava, l’amava ancora. Non fu quel gesto sciagurato di Blue a cancellare anni di sorrisi, di sospiri grevi, di notti gelate diventate bollenti.
Di progetti.
E quindi la cosa giusta da fare sarebbe stata tornare indietro sui propri passi, ricominciare senza mai menzionare l’accaduto.
Bastava coprire le cicatrici con un po’ di phard e non si vedevano più.
Avrebbe ricominciato la sua vita con una nuova linfa, con la consapevolezza che il perdono rende uomini superiori.
 
Green si guardava ancora, mentre dormiva, con le gambe fasciate nel pigiama e le mani a stringere i braccioli della poltrona.
Sorrideva.
Il perdono rende gli uomini esseri superiori.
Se lo ripeteva e la cosa gli suonava male.
 
Nessuno perdona mai davvero qualcuno. Nessuno è superiore agli altri. Siamo sacchi di sangue troppo caldo, ossa a volte rotte e merda che infestano un mondo che non ci siamo mai meritato.
 
Siamo umani.
 
E anche Green lo era. Anche Green era umano.
La questione era pura e semplice, quasi divertente: se decideva di tornare indietro da lei, cosa che voleva fare e che gli avrebbe donato un po’ di riposo alle sue notti, aveva ufficialmente perso quella battaglia.
Almeno sulla carta, l’avrebbe perdonata. Ma nel loro letto si sarebbe addormentata ogni sera una bomba, sempre pronta a detonare.
Perché nessuno dimentica il male subito, specialmente da chi amiamo.
Se invece decideva di proseguire il percorso oltre i rovi, oltre i muri spessi e i ricordi assassini, avrebbe probabilmente annientato quei ricordi e si sarebbe negato l’occasione di essere felice.
Era una vittoria di Pirro. Arrivare al primo posto non lo avrebbe visto vincitore.
Il minore dei male era adattarsi. Resilienza. Resiliente, lui.
Tornò nel suo corpo, rimase sveglio tutta la notte e l’indomani telefonò a Blue, s’incontrarono e tornarono assieme, e lei riprese a riempire di sorrisi le sue giornate ma non c’era una volta, una singola volta, in cui non si voltava indietro e guardasse da lontano i passi fatti.
 
E se avessi sbagliato?
 
Non credeva di essere così insicuro.
Ma poi si rendeva conto, quando si svegliava al mattino, di non esser stato totalmente stupido a fare quell’affare; nonostante tutto era sempre il viso della donna che amava, la prima cosa che vedeva al mattino.
E doveva ammettere a se stesso che sentirla cantare sotto la doccia era la realizzazione di una vita.  Però era tutto sciupato, come un foglio di carta appallottolato e gettato, poi ripreso e steso di nuovo. Quelle piegature lo infastidivano e non andavano via.
 
“Da dove cominceremo le ricerche? Smeraldopoli?”.
Gli occhi di Green ridiedero colore alle cose che aveva attorno, che i suoi ricordi avevano sbiadito. Blue lo fissava.
“Dall’Osservatorio”.
“Forse è meglio, c’è anche Yellow” ragionò quella, avvicinandosi a lui e mettendo una mano sul suo braccio.
“Lei riesce a parlare coi Pokémon. Stanotte qualcuno probabilmente era sveglio e ha visto tutto…”.
La vide annuire, poi abbassò lo sguardo. Non riusciva più a sostenerlo come un tempo.
 
Bella e maledetta.
 
Solo quello ebbe il tempo di pensare, prima che da un vicolo, a distanza, si presentassero le due figure amiche. Blue li vide e annuì sommessamente.
“Stanno arrivando. Hai pochi secondi per dirmi che ti prende”.
E quella frase lo colpì, non poco.
Per la prima volta da quando erano arrivati in piazza, Green si staccò dall’albero che lo reggeva. Le si avvicinò, guardando le sagome di Red e Yellow per un secondo.
Spostò lo sguardo su di lei, sorridendole a mezza bocca, ma con gli occhi tristi.
 
Che dovrei dirti? Che ti ho perdonato e non è vero?
Che ho accettato di riprenderti con me ma che non sopporto di vederti nel mio stesso letto, al mattino?
Che però senza di te sarei un uomo distrutto? Cosa cazzo dovrei dirti?
Cosa si dice a una persona che odi con tutto te stesso ma che ami, e che non vuoi vedere andar via?
 
“Niente, Blue. Non mi prende niente”.
Gli occhi della donna si spensero dietro le palpebre, per un secondo molto lungo. Espirò, cercò di svuotare quel bicchiere di rabbia che si riempiva nella pancia e quindi sorrise, torva.
“Non la vincerai, in questo modo”.
Green inarcò le sopracciglia. “Non c’è nulla da vincere”.
“Infatti c’è solo da perdere”.
“Smettila”.
“Guarda che ho capito tutto”.
“Finiscila, Blue” si sovrappose l’uomo.
“Non fare finta di niente, perché non ci riesci...”.
Green le si scagliò contro, afferrandola per i polsi. “Non voglio che questa discussione avvenga in questo momento”.
“Io ho sbagliato!” prese a sbraitare quella, energica. “E ho pagato! Ho lasciato la nostra casa! Ho lasciato te, che sei l’uomo che amo! E sono rimasta da sola, a cuocermi nel mio brodo di autocommiserazione!”.
“Nessuna autocommiserazione...” sussurrò quello. “Hai sempre fatto ciò che volevi...”.
“Ciò che dovevo! Il problema è questo!”.
Una folata di vento le arruffò la frangetta. I suoi occhi si abbassarono e un respiro, pesante come il piombo, le cadde sui piedi.
“Che cazzo, Green, conosci la mia storia...”.
“La conosco... ma non puoi usarla ogni volta come scusa per le tue cazzate”.
Blue li rialzò.
“Sei uno stronzo”.
Lo vide poi sbuffare. “Sì, lo so. Ora indossa il sorriso della domenica e cerca di mettere la rabbia repressa in tasca, perché sono qui”.
Entrambi si voltarono verso destra, la fontana scrosciava e il vento continuava a strappare lamentarsi.
E dopo cinque anni, quei quattro erano di nuovo insieme, faccia a faccia.
Faccia a faccia.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Cerchi Nel Grano ***


5. Cerchi nel grano

 
Kanto, Biancavilla, Piazza Centrale
 
I quattro erano immobili.
Il vento soffiava su di loro, spazzava le vie semivuote, spettinava le donne e le faceva avvicinare agli uomini.
Red aveva lo sguardo basso, mentre Green rimaneva con le braccia incrociate, quasi come se fossero uno scudo indistruttibile che lo avrebbe protetto dal disagio di quella situazione.
Non avrebbe mai voluto ritrovarsi davanti a quei due.
Era paradossale. I suoi occhi si posarono per un attimo su quelli di Yellow, che rimaneva paralizzata, con la mano destra a stringere il braccio sinistro. Quella spostò rapida lo sguardo, poggiandolo sulle mattonelle consumate di quel posto senza tempo.
Ma poi si ricordò di essere sulla sua stessa barca. Rialzò le iridi in sua direzione per un secondo, ritirando le labbra e mordendole.
Era dura, lo si percepiva a pelle.
I primi dieci secondi, dopo diversi anni passati a ricostruire le proprie vite, scivolarono molto più lentamente di quanto avrebbero dovuto. Fu Blue a tagliare quel cordone di silenzio.
“Allora?”.
 Sorrise genuinamente, con una mano sulla vita e una che pendeva sul fianco. Yellow si voltò rapida verso Red, sperando ardentemente che non la stesse guardando.
Fissava le punte delle scarpe, sporche di terreno, forse fango secco.
Si tranquillizzò. Sentì quel groviglio di emozioni che le turbinava nello stomaco districarsi.
Percepiva tutti i nodi che si scioglievano, riuscendo a dare un nome a ogni cosa e riuscendo a posizionare ogni cosa al suo posto.
Era così, quando si diradava il buio.
Si sentì forte abbastanza da alzare gli occhi in direzione di Blue, percependo che la stesse guardando. Ed era lì, così bella, alta, coi lunghi capelli castani e quegli occhi blu come il mare.
Le sembrava che i vestiti che quella indossavano potessero calzare così bene solo a lei, con quel corpo da donna perfetta e la capacità di attirare gli sguardi degli uomini soltanto sorridendo come faceva lei, con quel fare civettuolo.
“Come stai, Yellow?” domandò.
Annuì, la bionda. “Bene. E-e… e tu?”.
Blue allargo il sorriso, gioviale come sempre. “Ora bene. È bello rivedervi…”.
“Già”.
Green sbuffò, continuando a fissare Yellow, ma riuscì a vedere con la coda dell’occhio il sorriso di Red. Annuiva.
Non si voltò a guardarlo. L’impulso di aggredirlo e affogarlo nella fontana alle loro spalle era ancora troppo forte e non volle accompagnare il suo istinto.
Raffreddò i bollenti spiriti, mantenne il sangue freddo.
“E tu, Red?” domandò Blue, senza cambiare minimamente l’espressione sul viso.
Yellow s’irrigidì, Green si voltò a guardare la sua donna, mordendosi il labbro inferiore e inarcando il sopracciglio destro.
“Mi sento strano…” sorrise il ragazzo, grattandosi la testa. Sul suo volto c’era quel suo sorriso che Green, col tempo, aveva imparato a emulare.
Ma cose come sorridere erano sempre venute meglio, a quello dagli occhi rossi.
Espirò il veleno che covava in corpo, l’altro, e lasciò cadere le braccia in basso. Riuscì a trovare la forza per tornare a guardare l’amico di un tempo.
Vide il ciuffo, il solito ciuffo che un tempo usciva fuori dal cappellino rosso e bianco, andare a coprirgli l’occhio destro.
No, non portava più alcun cappello, ma la camicia gli fasciava il petto e i bicipiti. Il caldo cappotto blu lo proteggeva dal freddo.
Era elegante, quasi volesse fare bella figura.
“Beh? Vogliamo andare in Osservatorio?” domandò Blue, catalizzando l’attenzione battendo le mani. S’infilò sotto al braccio di Green e cominciò a camminare in direzione della collina. Yellow annuì, giocherellando con la treccia dorata che le si era posata sulla spalla, poi si lisciò il soprabito rosso e rimase in attesa che Red muovesse i primi passi, per poi seguirlo.
 
Arrivarono poco dopo all’Osservatorio, in religioso silenzio. Entrarono nell’ufficio di Green, Yellow lo vide smontare il lungo cappotto e appenderlo, rimanendo in camicia. Poi si sedette, facendo cenno con la mano agli altri di accomodarsi sulle poltroncine.
“Allora” esordì Red. “Che succede?”.
Green alzò gli occhi e lo guardò, poi sospirò. Aprì un cassetto da cui tirò fuori due fogli, quindi girò lo schermo del pc e accese le casse. Si schiarì la voce e cominciò.
“Poche notti fa è stato trafugato un oggetto tanto prezioso quanto pericoloso dalla cassaforte di quest’ufficio”.
“Che oggetto sarebbe?” domandò l’altro.
“Questa è un informazione che non posso rivelarti”.
“E cosa saremmo venuti a cercare, scusa?”.
Lo sguardo di Red s’infranse nelle iridi verdi dell’altro, che si spostarono sulla sua donna; Blue annuiva.
“Tesoro… Il suo ragionamento non fa una piega. Sono qui per aiutarci… dovresti dire loro tutto ciò che c’è da sapere. A maggior ragione devono sapere come comportarsi in caso lo trovassero”.
“Ma di che si tratta?” chiese nuovamente Red, curioso.
“Stiamo parlando del Cristallo del Caos…” sbuffò Green.
Gli occhi di Yellow si spalancarono e le sopracciglia andarono a formare un arco.
“È un antico strumento in grado di esasperare l’energia negativa, donando a chiunque forza fisica e coraggio”.
“Come se fosse... doping” suggerì la bionda
“Esattamente. Soltanto più distruttivo. Crystal ne è stata sotto l’effetto diretto e dice di aver perso la vista, a un certo punto, ma era in grado di sgretolare le pareti a mani nude”.
“Oh beh... quello era assodato anche prima” ridacchiò giuliva Blue.
Yellow sospirò e guardò in basso.
“Non sappiamo chi diamine sia questa persona” continuò Green, mostrando sullo schermo le immagini delle riprese dell’uomo che tanto assomigliava a Xavier Solomon intento a entrare all’interno dell’ufficio, scassinare con apparente facilità la cassaforte e sparire all’improvviso, dopo un lampo giallo.
“Houdini” commentò Blue, semplicemente.
“E i Pokémon non hanno visto nulla?” chiese Yellow.
“Non ne ho idea, non gliel’ho chiesto...” rispose infine Green, spegnendo lo schermo e dando due copie dell’immagine col volto del ladro alla coppia che aveva davanti.
Red ne prese una cominciò a osservare il viso dell’uomo.
“Non si sa chi sia?”.
“No. Angelo conosce un uomo praticamente identico, ad Amarantopoli. Io e Silver siamo andati da lui, l’ho anche preso a pugni, ma aveva effettivamente un alibi di ferro. Ora dobbiamo cercare di capire dove si trovi il cristallo. Tutto chiaro?”.
Yellow s’alzò, guardando il volto dell’uomo in foto, poi annuì. “Fatemi uscire in giardino prima che piova”.

 
 Adamanta, Primaluce, Casa Recket
 
Rachel sorrideva.
Respirava profondamente. Il piacere aveva ubriacato i suoi sensi, i muscoli bruciavano ma non li sentiva. Era stesa su Zack, con la testa sui pettorali nudi e le mani strette nelle sue.
Il divano era comodo e la casa era estremamente silenziosa, solo le lancette dell’orologio che s’inseguivano forsennate, col loro ticchettio, disturbavano la quiete.
I loro occhi guardavano oltre le finestre, dove le nuvole sottraevano l’azzurro del cielo.
“Dorme ancora…” osservò poi lei, alzando la testa e baciando il mento del marito.
“Quella bambina russa come una campionessa”. Sorrisero entrambi, lui le carezzò i capelli, lei sospirò.
“Dovremmo alzarci e salire su…”.
 Si sollevò e cominciò a rivestirsi, sotto gli occhi del marito. Zack guardava il ventre di sua moglie, dove la cicatrice del cesareo increspava la linea morbida della sua pelle candida.
La carezzò, sentendola rabbrividire. Gli occhi di Rachel vagarono per un attimo, prima che si legassero a quelli dell’uomo. Sorrise sommessamente e immise aria nei polmoni.
“A volte ho paura che bruci ancora…”.
“Sono passati diversi anni…”.
“Lo so ma… certe sensazioni non spariscono. Anche se non… anche se non provi più quel dolore, la tua testa ricorda quanto male hai…” sorrise, poi. “Insomma, hai capito” concluse, infilando il caldo maglione.
“Spero che Allegra non prenda la tua capacità di linguaggio…”.
“Vestiti, stupido…” disse infine Rachel, alzandosi e avviandosi verso il piano di sopra.
Zack rimase qualche secondo immobile, fiero e soddisfatto, compiaciuto da ciò che si era costruito, ma seminudo.
Contemplava il soffitto, poi sorrise.
Andava tutto bene.
 
Si vestì, prese un bicchier d’acqua e uscì nell’ampio giardino.
Nonostante il sole facesse fatica a uscire oltre la coltre grigia la temperatura non era rigidissima.
Il materiale per costruire il gazebo era già stato acquistato, stanziava sotto la veranda, protetto dalle intemperie.
Gli serviva solo la voglia di mettere mano al progetto, oltre a un po’ di compagnia.
Con la cintura delle sfere tra le mani estrasse le Pokéball una a una.
E tutti i suoi Pokémon apparvero davanti a lui.
Torterra, Absol, Arcanine, Braviary, Lucario e Luxray. Quest’ultimo si allontanò dagli altri, mai veramente domato e ammansito dalla cattura, e si appollaiò all’ombra della quercia che Ryan e Rachel avevano piantato qualche anno prima.
“Lasciatelo stare…” disse, avvicinandosi a Lucario. “Aiutami…”.
Vide Torterra muoversi placidamente verso una lingua di sole, l’unica che baciava il prato bruciato dal freddo di quell’inverno. Braviary si poggiò sull’albero che cresceva sul suo carapace.
“Allora… dobbiamo scavare le fondamenta…”.
Si erano avvicinati entrambi alla zona designata, che in estate sarebbe stata oggetto della frescura procurata dall’ombra dei due grandi pioppi che crescevano l’uno a pochi metri di distanza dall’altro.
Pala in mano, Zack e Lucario cominciarono a lavorare, sotto gli occhi felici di Rachel, dietro la finestra del primo piano.

 
Kanto, Biancavilla, Giardino dell’Osservatorio di Samuel Oak

Fu Yellow la prima a mettere piede nel giardino dell’Osservatorio.
I suoi occhi, gialli come il grano, risaltavano prepotenti sul paesaggio scuro e senza sole. Guardò rapidamente quei ciuffi d’erba un po’ più alta del normale, lasciati a crescere come da direttive del Professor Oak, Samuel, cercando movimenti leggeri o tracce che qualche Pokémon vi fosse annidato.
Ma nulla.
La sua concentrazione fu rubata invece da alcuni utensili da giardino arrugginiti appesi nel piccolo armadietto di plastica grigio, la cui porta fu probabilmente spalancata dal vento.
Lo superò, il vento si alzava e le spettinava il ciuffo sulla fronte. Davanti ai suoi occhi, Biancavilla sembrava totalmente vuota.
Il cielo minacciava di crollare sulle loro teste, ma ancora non pioveva. Green fu l’unico a seguirla sull’erba, gli altri rimasero sotto il porticato, al riparo.
“Allora?” chiese alla bionda.
“Sentono l’arrivo del temporale. Sono tutti rintanati…”.
Green portò le mani ai fianchi e sospirò. Una goccia di pioggia gli bagnò la punta del naso.
E poi lo vide.
“È lì…” sussurrò, con gli occhi spalancati; indicava un piccolo Rattata accanto allo steccato di legno dipinto di bianco.
Yellow voltò subito lo sguardo e annuì, muovendo passi leggeri e portando la mano destra nella tasca.
Cacciò una Pokémella.

“Ciao…” fece poi, in sua direzione. Si accovacciò sulle ginocchia, che si bagnarono nell’erba alta umida.
Allungò la mano verso il roditore, non riuscendo a fare a meno di sorridere, la donna.
“Mi chiamo Yellow. Ti va di mangiare qualcosa?”.
Il Rattata si avvicinò lentamente, con gli occhi rossastri spalancati e il fare schivo.
“Ho fame. Ha un buon odore”.
“È tua. Non ti farò del male. Green non ti prepara nulla da mangiare?”.
Non rispose.
“Se mi aiuterai ti farò portare una ciotola di cibo…”.
 
Blue la vedeva sorridere.
“Che gli sta dicendo?” domandò a Red, che sostava con le braccia incrociate poggiato al pilastrino del porticato.
“Non ne ho alcuna idea, ma funzionerà certamente. Yellow parla più coi suoi Pokémon che con me…”.
L’altra annuì, vedendo poi la bionda voltarsi verso Green.
“Dammi del cibo per Pokémon, per favore” disse, ancora accovacciata.
“Sì…”. Tornò sui suoi passi e mise una scodella di mangime tra le mani di Yellow.
“Grazie. Sarà più incoraggiato ad aiutarci…”.
“Un Rattata ci ha appena estorto del cibo. Spero ci possa aiutare” sbuffò l’altro, infilando le mani nelle tasche. Sentì Red e Blue ridacchiare alle sue spalle.
“Allora?” domandò Red. Pareva fosse riuscito a sopprimere l’effervescenza giovanile, rimanendo calmo quando un tempo l’impazienza lo divorava.
Yellow si girò verso il fidanzato. “Sto cercando di guadagnarmi la sua fiducia. Questi Pokémon sono affamati e alcuni di loro sono appena usciti dal letargo… Green” disse poi, voltando il viso verso di lui e guardandolo negli occhi. “… Sarebbe bene che provveda anche a loro”.
L’altro inarcò le sopracciglia e sospirò. “Dirò a Margi o a chiunque altro di mettere qualche ciotola qui, in giardino, due o tre volte alla settimana”.
La bionda annuì e poggiò la ciotola all’asciutto, in un’insenatura scavata tra le radici di un acero spoglio.
Vide il Pokémon avvicinarsi sospettoso. Prima di affondare su quelle crocchette dall’odore pungente, il Rattata diede un’altra occhiata a Yellow, che gli sorrise, annuendo.
È per te. Mangia pure…”.
Mentre attendevano, Green si voltò verso Blue, che fece spallucce. Vedeva le pale del mulino roteare veloci e il cielo alle loro spalle, murato dietro una colata di cemento denso e scuro.
“Dobbiamo muoverci…” sospirò.
Red annuì. “Da dov’è entrato il ladro?” chiese.
Fu Blue a rispondere. “Dalla porta d’ingresso… Ha scassinato la porta e si è introdotto come se niente fosse…”.
“Ma scusa… non avete un sistema di sicurezza contro le effrazioni, o cose del genere?” domandò, aggrottando la fronte e indossando un punto interrogativo sul volto.
Blue ridacchiò. “Delle volte, tua dimentica di chiudere la porta di casa, la sera, prima di andare a dormire…  la lascia spalancata”.
“Nessuno fa nulla di male, qui a Biancavilla…” ribatté Green.
“Ci conosciamo tutti, a Biancavilla. Se succedesse qualcosa di male subito si penserebbe a me…” concluse Blue, sorridendo.
Anche Yellow sorrise, a mezza bocca. “Background, immagino…”.
Spostò poi gli occhi sul Pokémon, che continuava a mangiare avidamente.
 
“Ne vuoi ancora?”.
“Sì”.
“Tra poco vado a prenderti altro cibo” gli disse, senza parlare. Poi però azzardò.
“Senti… Stanotte qualcuno si è introdotto nel laboratorio e ha rubato una cosa… Hai visto chi fosse?”.
Il Pokémon alzò lo sguardo. “Ho sentito dei rumori, questa notte… sì, ma non ho visto chi fosse…”.
“E hai visto dov’è andato, quando ha finito?”.
“No. Non è mai uscito dalla grande casa”.
Red vide gli occhi della sua donna vagare, poi abbassarsi. Si voltò, col viso sconvolto, portò le mani ai fianchi e sospirò.
“Green… Vai a prendere altro cibo, per favore”.
“Che ha detto?” ribatté rapido Oak, senza ascoltare altro.
“Non l’hanno visto uscire dall’Osservatorio”.
Red si voltò verso la porta.
“È ancora dentro?”.
“Lo dubito” rispose quello dagli occhi verdi, abbassando la testa e sospirando. Portò le mani ai fianchi e cercò di calmare subito l’attacco di panico, in atto in quel momento. La testa girava, aveva i conati di vomito. “Le… le immagini…”.
“Green…” disse Blue, avvicinandoglisi. “Tutto bene?”.
Annuì, sotto gli occhi impauriti di Red, e allungò le mani per appoggiarsi al muro, poi entrò dentro e si sedette alla scrivania.
Le mani tremavano, mentre manteneva il cellulare. Il dito scorreva la rubrica infinita, fino a quando non attivò la chiamata.
Avvicinò il cellulare all’orecchio. Era libero, suonava.
Poi risposero.
“Pronto, Silver? Sono Green. Devi tornare da Xavier Solomon, devi farti spiegare per bene quello che è successo… a-abbiamo la certezza matematica del fatto che quell’uomo non sia uscito dalla porta dell’Osservatorio… Sì, sto bene. Ora vai”.

 
Johto, Amarantopoli
 
Le nuvole provenivano da est, ed erano molto vicine.
Gold e Silver camminavano guardandosi attorno, con aria distratta; Il primo aveva nelle orecchie le cuffie e ascoltava “Just Lose It” di Eminem, imitando il verso che emetteva nel ritornello ad alta voce.
Erano proprio davanti alla Palestra quando Silver si voltò, guardandolo in cagnesco. “La smetti?” domandò.
Ma quello non sentiva, continuava a camminare dritto, muovendo il collo avanti e indietro a ritmo di musica. Poi urlava.

Il tipo più fastidioso del mondo accanto a quello più silenzioso.
 
“Dannazione!” esclamò Silver, spintonandolo e facendolo quasi inciampare.
“Hey!” esclamò l’altro, levando le cuffie. “Ma sei cretino?! Proprio sulla parte bella della canzone, poi!”.
“Non so come tu faccia a trovare una parte bella in quell’insieme di rumori...”.
“Dimenticavo la tua nobiltà interiore, Aristarco... Non rompere le palle, please” fece, avvolgendo le cuffie attorno al cellulare.
“Stai urlando da due ore!” esclamò Silver, protestando. Vide poi Gold alzargli una mano davanti al volto e guardare dritto.
“Parla con questa”.
Il fulvo sbuffò e ruotò gli occhi, stringendo i pugni nelle tasche del trench grigio.
“Siamo arrivati?” chiese poi Gold.
“No, ci siamo dati appuntamento da Harold’s”.
“Quello del pollo?!” esclamò Gold, sorridente. “Prenderò un cestino di alette fritte!”.
“Sono le dieci del mattino...”.
“Ma è il pollo di Harold’s!” ribatté l’altro, fermandosi in mezzo alla strada e allargando entrambe le braccia.
“Ovviamente…” sbuffò l’altro, sconfitto da quella logica.
Raggiunsero in silenzio il locale qualche minuto dopo, con Gold che canticchiava ancora la canzone di qualche minuto prima. Aprirono la porta, entrarono e si trovarono davanti a una normalissima tavola calda, con tavolini e poltroncine a divanetto imbottite.
Nonostante l’orario, era gremito.
Si guardarono intorno per qualche secondo, prima che qualcuno li chiamasse; Silver vide Angelo alzare la mano e sorridere placidamente, seduto all’ultimo tavolo della fila. I due annuirono e cominciarono ad avanzare, evitando due bambini che correvano verso l’esterno, menzionando Kanye West per qualche motivo che non erano riusciti a captare.
“Chissà cosa diamine abbia fatto ancora…”.
Flashing… Lights…” canticchiava Gold. Riuscì a strappare nell’altro una risatina, prima che una cameriera con un abitino verde a mezza coscia e la coda di cavallo bionda sfilasse loro davanti. Gold la seguì per un momento con lo sguardo, inarcando il sopracciglio, abbassando il viso sui suoi fianchi, per poi spalancare gli occhi e rialzarli velocemente.
I calci di Marina erano violenti quasi quanto quelli di Crystal.
Sfilarono davanti al bancone, facendosi spazio tra le persone in attesa, e superarono la vetrina piena di dolci, fino a raggiungere Angelo e la donna dai capelli di quell’insolito color magenta.
Gold pensò che fosse bella.
E lo fece anche Silver ma, a differenza del compagno che rimase a guardarla per un paio di secondi, lui le diede soltanto una rapida occhiata.
Angelo era seduto accanto a lei e beveva un cappuccino da un grosso bicchiere di carta.
“Non ci vediamo da tempo” sorrise gioviale. “Accomodatevi”.
I due lo ascoltarono, lo videro poi stendersi addosso il largo maglioncino blu. Non portava la fascia tra i capelli e questi ricadevano spettinati sul volto.
Il mento era nascosto da una morbida sciarpa di lana bianca.
“Ciao, spaventapasseri” sorrise Gold, mostrando l’intera dentatura. Si sedette di fronte a Cindy e vide Silver aspettare il Capopalestra fargli cenno di accomodarsi.
 “Buongiorno, ragazzi. Lei è mia moglie, Cindy. Loro sono Gold e Silver, ma dovresti già conoscerli” disse quello, con la solita flemma e un sorriso divertito sul viso.
Quella li salutò gioviale. Lo sguardo era assonnato, il volto esprimeva dolcezza.
“Piacere nostro” esordì Silver, stringendo la mano a entrambi. “Sai perché siamo qui, vero?”.
“Sì. Ragazzi, come ho già detto, conosco molto bene la persona nella foto che ha inviato Green… è un caro amico di Cindy”.
L’attenzione si spostò verso la donna, che si limitò ad annuire. Abbassò poi il volto, incrociando le braccia e affondando il naso nella sciarpa di cotone beige. Aveva le mani fasciate nelle maniche elasticizzate..
Tutti la guardavano, lei annuì.
“Sì… effettivamente Xavier è un mio vecchio amico. Siamo cresciuti insieme ma ci siamo un po’ persi di vista, ultimamente…”.
Gold annuì, spostando lo sguardo verso la finestra. Qualcuno aveva strisciato il dito sul vetro, a formare un cuore.
“Gli abbiamo telefonato. Dovrebbe arrivare a momenti” aggiunse Angelo. “E in ogni caso deve spiegarci come muoverci… So che non è ufficialmente una priorità della Lega ma se questa faccenda ha smosso Green… Beh, se l’ha fatto innervosire vuol dire che dev’essere importante…”.
“Come se a far incazzare Green ci volesse molto” sbuffò Gold. Cindy sorrise, Angelo fece altrettanto.
“Lo è, assolutamente…” ringhiò invece Silver, ammonendolo con lo sguardo. Portò i capelli dietro le orecchie e liberò lo sguardo da quei ciuffi rossi.
Quello dagli occhi d’oro sospirò, sbuffò e spostò gli occhi sulla vetrina dei dolci, dove un barista, totalmente calvo ma dalla folta barba e dai profondi occhi azzurri, stava servendo due ragazzini con due ciambelle glassate alla crema. Gold spostò nuovamente lo sguardo in avanti, catturando gli occhi di Cindy per un piccolo secondo.
Creò una connessione, quasi lesse ciò che provava, poi la vide abbassare il volto. Eppure era sicuro di essere ciò che di più lontano ci fosse da una persona sensibile, tuttavia sentiva che quella fosse turbata: vedeva una strana sofferenza, sul suo viso, che imbastardiva ogni sua espressione.
E non era così palese; c’era una piccola traccia, dubitò persino di averla vista.
Però era lì.
Silver e Angelo discutevano concentrati mentre lui picchiettò quasi impercettibilmente con la punta dell’indice sul tavolo, prendendosi nuovamente la sua attenzione.
Fu muta, la domanda che le pose, un breve cenno della testa che le fece spalancare gli occhi.
Le chiese cosa avesse.
Quella storse le labbra e fece cenno di no con la testa. Gold fece spallucce e sospirò, poi le voci degli altri due lo rapirono nuovamente.
“Dobbiamo riuscire a farci un’idea di come quell’uomo sia potuto sparire nel nulla” osservò Silver.
“Xavier è sicuramente tra le persone più indicate. A meno che non si tratti di magia oscura”.
“In quel caso, la persona più indicata per cavare un ragno dal buco saresti tu, e sei già qui...”.
Gold poi sbuffò, sbattendo la fronte sul tavolo. Cominciò a emettere un lamento sottile ma estremamente fastidioso, attirando l’attenzione su se stesso.
“Ho fame...” borbottò, facendo sorridere Cindy.
Silver sospirò profondamente, grattandosi la guancia e sistemando nuovamente i capelli. “Non fare il ragazzino” lo rimproverò.
“Non ho fatto colazione, per venire con te, stamattina!” protestò l’altro, alzando rapidamente la testa. Vide l’altro storcere le labbra.
“Avrei dovuto farmi accompagnare da Marina”.
“E io sarei dovuto rimanere nel letto ma Mari ha da fare, altrimenti saremmo andati in qualche posto tropicale. Tipo Alola, eh, non Hoenn. Basta Hoenn”.
“Bella Alola” aggiunse Angelo, sorridendo gioviale.
“Non è questo il punto, Gold...” riprese il ragazzo dai capelli rossi, ignorando il Capopalestra di Amarantopoli. “Cerca di fare la persona seria”.
“Sissignore”.
E poi Xavier Solomon entrò nel locale.
Indossava un paio di Ray-Ban, e il giubbino di jeans era aperto su di un maglioncino bianco, come le Adidas che portava ai piedi. Stan Smith, particolari verdi.
Non allungò neppure lo sguardo, tanto percepiva la presenza di Angelo seduto all’ultimo tavolo. Salutò una cameriera dalla gonna succinta, afferrò uno sgabello basso e lo piazzò proprio tra le due poltroncine, a capotavola, tra Gold e Cindy.
“Buongiorno. Scusate il ritardo... Ordinate qualcosa con me?” fece.
“Per me un cestino di alette fritte, grazie” rispose quello alla sua destra.

 
Kanto, Percorso 1
 
Green guidava la carovana, con Red poco più dietro di lui.
Erano partiti quasi mezz’ora prima, ripercorrendo gli stessi primi passi che avevano messo inchiostro sulle loro grandi avventure, parecchi anni prima.
Tetti verdi si vedevano all’orizzonte; Smeraldopoli non era lontana, ma il vento s’era alzato e aveva trascinato qualche goccia di pioggia che bagnò loro i visi.
Red guardava Green a tre metri, che di tanto in tanto si voltava con un’espressione indefinita tra la rabbia e sconforto, mista a tanta, tanta confusione.
Si stava arrovellando, cercando di capire gli scopi dell’uomo che aveva rubato il Cristallo del Caos. Avrebbe sicuramente creato qualche problema, dubitava che avrebbe fatto fatica a trovare qualche traccia, bastava guardare il telegiornale e aspettare qualche notizia che parlava di esplosioni gigantesche e immotivate.
Avrebbe voluto evitare di aspettare, però. Era preoccupato, non voleva che qualcuno ci rimettesse la pelle.
Si voltò di nuovo, guardingo, osservando Red. Lo vide concentrato, ricettivo; coglieva ogni rumore, ogni nuova sfumatura che stimolasse i suoi sensi, nonostante fossero tutti coscienti di trovarsi in un punto tutt’altro che caldo, dato che stavano attraversando un bosco su di una stradina sterrata dove i passi degli uomini avevano creato dei solchi nel terreno.
Fu proprio Red, poi, a voltarsi verso la sua fidanzata. Le si accostò, guardandola gettare sguardi nel verde con quegli occhi gentili.
“Stai chiedendo in giro, ai Pokémon?” le domandò.
Quella si voltò, e un ciuffo di capelli le coprì il viso. Fu lui ad appuntarglielo dietro l’orecchio, e a darle poi un casto bacio sulle labbra.
“Sì… ma nessuno pare abbia visto nulla, qui… Se non coppiette che… ecco…”.
Arrossì, Blue sorrise. Pensò che fosse rimasta la stessa ragazzina pudica e imbarazzata, come quando la conobbe.
“E perché mai avrebbe dovuto venire qui?” ringhiò Green, facendo intendere perfettamente quale fosse il suo stato d’animo. “Si è smaterializzato in Osservatorio. Scappare in un bosco, di notte, non mi sembra la strategia migliore. Si sarebbe perso, non conoscendo il percorso. E chiunque lo conosca, beh… lo conosciamo anche noi”.
Red annuì. “Effettivamente… Biancavilla non è la migliore tra le mete turistiche…”.
Rimasero in silenzio per una ventina di secondi. Salirono lentamente la collina, sulla quale avrebbero potuto vedere Smeraldopoli dall’alto.
Blue gli si affiancò e sospirò.
“Se ha rubato un oggetto così potente è probabile che verrà utilizzato per qualcosa di veramente pericoloso…”.
“Non lo sai?” rispose Yellow, provocando il sorriso negli altri due.
L’altra rimase in silenzio e sospirò. “Va bene, te la concedo, tesoro. Ma cerchiamo di rimanere concentrati sull’obiettivo”.
Red non lasciò neppure che finisse di parlare.
“Perché dai per scontato che verrà utilizzato per una rapina?”.
“Non lo do per scontato, carino, ma da qualche parte dovremmo pur cominciare, no?”.
Cominciarono a scendere la discesa, facendolo lentamente e con attenzione, per evitare di scivolare sul percorso bagnato dalla pioggia.
“Cosa ha Kanto che potrebbe essere d’importanza vitale?” domandò ancora Red, tenendo Yellow per mano e piantando saldamente i piedi per terra.
Si arrovellarono attorno alla risposta per diversi minuti, in totale silenzio, fino a quando non raggiunsero le porte della città.
Poi Green si bloccò e spalancò gli occhi. La bocca si schiuse e i suoi occhi vagarono, fino a incontrare quelli della sua donna.
“Cosa?!” esclamò Red, portando la mano alla sfera di Aerodactyl.
Oak fece altrettanto, lasciando uscire il suo Charizard dalla Pokéball.
“La Grotta Celeste!” tuonò, saltando in groppa al suo Pokémon. “Se quell’uomo cattura Mewtwo sarà poi impossibile fermarlo!”.
“Dobbiamo correre lì” concluse Yellow.

 
Adamanta, Primaluce, Casa Recket

Il vento continuava a soffiare, e i pilastri di legno del gazebo pesavano.
L’ultimo più del primo.
“Aiutatemi…” sospirò, cercando di sollevare da solo il palo, il quinto, che avrebbe costituito l’ultimo sostegno per l’intera struttura. Lucario strinse il pilastro, assieme a Zack, e Torterra utilizzò le liane per calarlo diritto nel cemento.
Ci voleva concentrazione.
Concentrazione rotta dal tintinnio del ghiaccio in un bicchiere di cristallo, e da passi leggeri e veloci.
“Piano...” sussurrava Zack, cercando di mantenere la posizione.
“Papà!” urlò invece Allegra, con quella sua vocina cristallina. “Ti ho portato un po’ d’aranciata!”.
Lui era concentrato e non le diede attenzione, doveva rimanere focalizzato su ciò che stava facendo. Ma Allegra non era il tipo che accettava di passare in secondo piano.
“Papà” richiamò, con voce più morbida. “Non mi hai sentita, ti ho portato un po’ d’aranciata”.
Il pilastro toccò il terreno e Zack rilasciò i muscoli, tutti in tensione. Si voltò, vedendo sua figlia in un lungo maglioncino a coste blu. Camminava tra i fili d’erba bruciata dal freddo, sporcando di terreno le punte delle scarpette bianche.
L’uomo asciugò la fronte con la manica del maglione grigio e infeltrito, quindi s’accovacciò sulle ginocchia.
“Grazie, piccolina”.
Afferrò il bicchiere e prese un sorso della bevanda, quindi sospirò.
“Che fai?” domandò quella.
“Sto costruendo il gazebo”.
Allegra spalancò gli enormi occhioni azzurri e spalancò la bocca.
“Uao... E che cos’è?”
Zack sorrise, prese un altro sorso e s’asciugò le labbra con la manica del maglione, poi annuì. “Un gazebo è una costruzione che si trova nei giardini”.
“Come una casa?”.
“Sì, ma più piccola. E senza pareti”.
Quella indossò una maschera piena di dubbi.
“Una casa senza muri?”.
“Non è proprio una casa... Servirà a darci un posto protetto dal sole e dalla pioggia”.
“Ma la casa è lì!” protestò Allegra, puntando il dito verso la grande villa appartenuta alla famiglia di Rachel.
“Questo posto sarà più arioso della nostra casa”.
“E che significa arioso?”.
Zack annuì. “Significa che vi passa molta aria”.
“E... e non farà freddo, poi?”.
“Beh, piccola, il gazebo lo useremo maggiormente d’estate...”.
“Oh. Allora sì. In estate fa caldo”.
“Giusto”.
“E quindi potremo stare freschi quando in casa fa caldo?” chiese ancora, ingenuamente. Lo sguardo era pieno di curiosità e ricordava in maniera fin troppo marcata sua madre, quando assumeva quell’espressione.
“Sì, piccola mia” sorrideva poi lui, che aveva voglia di stringerla. “Staremo belli freschi”.
“E perché?”.
“Perché ci sarà un tetto che non farà passare il sole”.
“E non avrà le pareti”.
“Esatto”.
“E perché?”.
“Perché altrimenti diventerebbe una casetta, e non un gazebo”.
Allegra sbatté le palpebre un paio di volte. “Allora non potremmo mettere i quadri, nel gazebo”.
Zack scoppiò in una risata vigorosa, che spinse Rachel ad affacciarsi.
“Che succede?” chiese divertita la madre.
“Tua figlia è uno spasso.

 
Johto, Amarantopoli, Harold’s
 
Angelo sembrava turbato. Respirava lentamente, con la bocca semischiusa, mentre le mani erano congiunte sul tavolo di legno.
Poggiate sulla fotografia che Green aveva trasmesso a tutti gli addetti ai lavori.
“Quindi escludiamo...”.
Pausa.
Tutti rimanevano in silenzio, aspettando che il bel Capopalestra dagli occhi violacei terminasse la sua frase. Ovviamente tranne Gold, che mangiava rumorosamente le alette di pollo, sotto gli occhi inorriditi di Silver.
“Cosa?” s’inserì Xavier Solomon, col mento poggiato sui pugni.
Gli occhi di Angelo però vagarono fino a incontrare quelli argentei del Dexholder dai capelli rossi.
“Possiamo farlo? Possiamo escludere matematicamente che l’uomo nella foto sia uscito dall’Osservatorio di Biancavilla?”.
Cindy guardò Gold che annuiva, col volto sporco d’olio.
“Beh... matematicamente no. Come puoi dimostrare una cosa del genere con tabelline e frazioni?”.
“Yellow ce lo ha garantito” riprese Silver. “E tu smettila di mangiare come un maiale...” sospirò l’altro, spintonando il coinquilino.
“Impossibile” riprese Gold, sorridendo felice verso Cindy. “Le alette di questo locale dovrebbero essere esportate nel mondo!”.
L’altra apprezzò, ridendo.
Quel momento gioviale fu subito sostituito da una coltre di silenzio denso, molto pesante. Dagli altoparlanti partì Rockafeller Skank, ma il vociare assorbì totalmente le prime note della canzone. Angelo tamburellava con le dita sul tavolo, palesando sul volto un ragionamento non troppo felice, che si tramutò in uno sguardo colmo di domande lanciato a Xavier.
“Tu...” gli disse, prendendo una lunga pausa. Umettò le labbra e abbassò gli occhi, portandoli poi su Cindy, ma solo per un attimo, prima di tornare sull’uomo.
“Tu sei sicuro di non essere la persona in questa foto?”.
Il dito, delicato e ben curato del Capopalestra, batté tre volte sul volto del soggetto dell’immagine ripresa dalle telecamere di Green Oak.
Solomon spalancò gli occhi.
“Davvero credi che io sia in grado di fare una cosa del genere?!” urlò poi. Il volto era colmo di collera e per un attimo chiunque fosse nel locale smise di parlare.
“Xav... per favore...” lo pregò Cindy, nascosta dietro la sagoma di Gold.
“Io non ci credo...” sbuffò quello, alzandosi in piedi e spostando col tallone lo sgabello su cui era seduto.
“Calmati, Xavier” riprese Silver, mantenendolo per il polso. Quello si voltò immediatamente verso di lui, e la collera lasciò il posto al panico.
“Silver, tu devi credermi! Lo sai, sei venuto con Green, a casa! Avete visto le telecamere!”.
Nella voce dell’uomo vi era una nota di disperazione. Voleva soltanto uscire il più velocemente possibile da tutta quella faccenda, tornare a casa sua, sbattersi la porta alle spalle e fare le valige, per andare in un posto caldo e lontano dalla merda che stava ingoiando continuamente, da diversi anni a quella parte.
Guardò per un attimo Cindy, che giochicchiava con l’anello che aveva al dito. Non riusciva a catturare i suoi occhi, pareva li evitasse con maestria certosina.
“Non dico che sia stato necessariamente tu” ribatté Angelo, catturando nuovamente la sua attenzione. “Dico che sappiamo tutti che saresti benissimo in grado di fare una cosa del genere”.
“Ma non è vero! Nessuno può sparire all’improvviso senza un Pokémon!”.
“Tu non hai Pokémon?”.
“Nessuno può farmi fare quelle cose! E poi ti ripeto, le mie telecamere mi hanno ripreso! Per tutta la notte!”.
“Sei anche in grado di modificare quelle immagini...”. La voce di Angelo possedeva una nota lasciva che faceva imbestialire Xavier.
“Ma cazzo!” urlò, battendo entrambi i pugni sul tavolo. “Perché diamine sarei accusato, adesso?! Silver e Green mi hanno già preso a pugni, stamattina!”.
Gold aggrottò la fronte e prese a fissare l’altro Dexholder. “Cosacosa?!” esclamò.
“Mi spiace molto” ribatté Angelo, con la solita e serafica calma. “Ma sono i fatti, che parlano”.
Di nuovo, il dito dell’uomo puntò la figura nella fotografia.
“Questo!” urlò ancora Xavier, picchiettando a sua volta il dito sull’immagine. “Questo non sono io!”.
“E puoi provarlo?”.
“Ho le dannatissime telecamere, Angelo!” esclamò l’altro, piegandosi su di lui.
I loro occhi erano vicinissimi. L’energia che entrambi emettevano era visibile.
Il Capopalestra rimase un secondo in silenzio, stringendo leggermente gli occhi e mettendo bene a fuoco Xavier. “Vedi di calmarti, giovane... Non dimenticare che stai parlando con uno dei rappresentanti della legge...”.
“E lui è uno dei buoni” s’inserì Gold. “È palese che non sia stato lui, Angelo, quindi cerchiamo di calmarci un po’, tutti quanti, sì?”.
Angelo aggrottò la fronte e guardò il Dexholder per un attimo, prima che Cindy gli stringesse il polso.
“Tesoro... Conosco Xavier: non farebbe mai una cosa del genere...”.
“Il fatto che sia tuo amico non significa che sia innocente”.
“Ma neanche colpevole” rispose quella. Incontrò lo sguardo ceruleo di quello, sperando che quel timido tentativo di sterile difesa l’avesse redenta dalle promesse non mantenute. Tuttavia Xavier lasciò che si schiantasse contro un muro di freddo acciaio, eretto dall’infinita indifferenza.
Angelo riprese la parola, e picchiettò ancora col dito sulla foto.
“Com’è possibile quello che è successo qui, allora? Ti riconosci, no?”.
Xavier sospirò, avvicinando nuovamente lo sgabello al tavolo e sedendosi.
“Non posso negare che quest’uomo mi assomigli, ma...”.
“Questo fa di te il principale sospettato” tuonò l’altro, con la voce profonda.
“Plausibile, se non fosse per il fatto che non so come sparire nel nulla... Anzi, a dire il vero sei tu, e quel tuo amico mago da strapazzo, a saper fare cose del genere”.
Gold ghignò, leccandosi le dita.
“Ma non vi sopportate, eh?” domandò.
“Per niente” rispose velocemente l’inventore, alzandosi definitivamente dal tavolo. Si voltò verso Silver, considerato il più serio tra i presenti al tavolo. “Senti... Questa tecnologia ancora non esiste. Non riesco a capire come potrebbe un agglomerato di molecole sparire e ricomparire da qualche altra parte, e non saprei spiegare ciò che è successo. Fino a quando potrò aiutare sarò a disposizione, per qualsiasi cosa, ma non ho bisogno di stare in compagnia di persone che mi remino contro per partito preso...”.
“Xavier…” sussurrò Cindy, alzandosi in piedi, prima che quello si voltasse e andasse via. Il suo sguardo sfiorì gradualmente, fino a spegnersi. Quello di Angelo, invece, sempre calmo e disteso, sembrava arrabbiato.
Era palese che qualcosa non andasse.
Silver sospirò, e si alzò in piedi, allungando la mano verso Angelo.
“Va bene così. Non credo che sia coinvolto ma c’è da indagare”
Il Capopalestra la strinse e annuì. “Lo terrò d’occhio, per quel che mi riguarda”.
“Bene così. Noi adesso andiamo”.
“No” tuonò Gold. Tutti si voltarono verso di lui, attendendo che parlasse.
Angelo lo interrogò con lo sguardo.
“Devo ancora finire le mie alette”.
“No” tuonò Gold. “Devo ancora finire le mie alette”.
“Le finirai per strada!” esclamò irritato Silver, che lo colpì sul cappello con una manata. Lo sollevò di peso e lo portò fuori.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 - A Discapito Degli Altri ***


6. A Discapito Degli Altri
 

Johto, Amarantopoli, Periferia della città
 
“Non sa cosa sia successo”.
Non appena pronunciate quelle parole, la testa di Silver si lasciò cadere indietro, a fissare il cielo che lo sovrastava. Era seduto su di una panchina, con le gambe stese e le caviglie incrociate.
Gold invece era davanti a lui, in piedi, a scorrere la home di Instagram.
“Ovviamente nega di avere qualsiasi coinvolgimento nei fatti, né riesce a immaginare come sia stato possibile che quell’uomo sia scomparso nel nulla. Ha parlato di molecole che si smaterializzano ma Angelo ha voluto puntargli lo stesso il dito contro. Tuttavia non sembrava molto lucido…”.
Gold sorrise e si avvicinò a lui, mostrandogli una foto di Amber Rose, distesa di pancia su di una sdraio. “Lei è tipo la mucca sacra” sorrise, sedendosi sullo schienale della panchina, accanto a lui.
Silver però era ancora impegnato nella conversazione.
“Bene, terremo gli occhi aperti” rispose, chiudendo la conversazione. Ripose il cellulare e sospirò.
“Che brutta storia…”.
“Già” annuì rapido l’altro. “Se un bocciuolo di rosa come Crystal è riuscita a diventare pericolosa con quella pietra in mano, figuriamoci quali potrebbero essere le conseguenze se a possederlo adesso fosse una persona già forte di suo. Tipo Hulk Hogan”.
Silver sbuffò e spostò gli occhi lentamente in sua direzione. “Dovresti cominciare a prendere questa cosa seriamente”. La testa gli ricadde tra le mani, prima che Gold lo spintonasse.
“Se lo facessi non vi darei spazio” bofonchiò, tamburellando con le dita sul ferro della panchina.
Lo sguardo argenteo di Silver venne nascosto dalle palpebre, e per un momento il vento si alzò, graffiando le guance del giovane.
“Non riuscirò mai a capire ciò che dici…”.
Si alzò e si sistemò la giacca, seguito subito dopo da Gold, che balzò agilmente dalla panchina e gli atterrò accanto.
“Non c’è nulla da capire, Sheila… Dico semplicemente che io riesco a ragionare in modi differenti da vostri. Io gioco in un’altra lega, vedo altre soluzioni”.
“Tu non ragioni, tu sragioni. Quello che fai non è costruttivo”.
Gold fece una smorfia e sospirò, prendendo le cuffiette e infilandole nelle orecchie.
“Io non credo che sia così. Avrei già la soluzione per trovare una pista…”.
Silver sbuffò e infilò le mani in tasca. “Non la voglio neppure sentire. Meglio tornare a casa, potrebbe esser successo qualcosa”.
 
 
Adamanta, Timea, Ufficio della Omecorp
 
I numeri della Omecorp s’avvicendavano rapidi, pagina dopo pagina.
Schermata dopo schermata.
Tra estratti conto e bilanci, gli occhi di Lionell parevano zirconi incastonati in un volto granitico.
Soldi.
Soltanto soldi.
“Linda…”.
La collaboratrice era seduta davanti a lui, e sprofondava stanca nelle poltroncine di pelle rossa. L’uomo spostò lo sguardo dal monitor, indugiando su di lei: gli occhi della donna, verdi come giada, erano spenti e mortificati.
La risposta scappò dalla sua bocca, quasi rassegnata.
“Sì...”.
“Hai letteralmente dilapidato un patrimonio...” osservò, fissandola negli occhi con calma glaciale. “Siamo alla mercé del mercato: un qualsiasi scossone, un pagamento incassato in ritardo... tutto, anche il più piccolo imprevisto e questa società chiuderebbe i battenti”.
Linda guardava in basso, annuendo lentamente. Teneva le mani incrociate sulle ginocchia, le gambe accavallate una sull’altra, accarezzate dal velluto bianco del pantalone che indossava. I primi due bottoni della camicetta blu erano aperti, lasciando intravedere la parte superiore del seno.
“Mi spiace molto”.
“La gestione non è il tuo forte” continuò quello, allargando il nodo della cravatta grigia. Respirò profondamente, e Linda lo vedeva, col volto illuminato dalla luce blu dello schermo, che non esprimeva alcuna emozione. Era contrito, concentrato. Analizzava.
“Direi di no…”.
“Non è un problema” fece poi, sorridendo leggermente. Si alzò dalla scrivania e liberò il collo dal cappio della cravatta. Girò attorno alla scrivania e la raggiunse, tendendole la mano.
La donna l’afferrò e si alzò, sorridendo.
Lui le carezzò la morbida guancia con l’indice e le sorrise. Quella parve sciogliersi.
“So che hai provato con tutte le tue forze ad andare avanti, e te ne do atto. Avresti potuto prendere i soldi e scappare… Ma tu sei rimasta fedele. Hai conservato anche tutti i piani per… per quell’altra cosa”. L’uomo sorrise gentilmente, vedendola avvampare.
Abbassò lo sguardo, Linda, dagli occhi dell’uomo alle sue labbra.
“Ma alla società penseremo con calma”.
Quella annuì lentamente, vedendolo allontanarsi da lei.
La donna rimase in piedi a guardarlo, silenziosa.
“Che succede?”.
“Alzati”.
Quella lo fece, anche se non capiva bene. Lo raggiunse verso la finestra e lo guardò, spostando una ciocca di capelli castani dal volto e attendendo che cominciasse a parlare.
“Dobbiamo riprovarci, Linda”.
Manteneva le mani basse, quello, stese lungo i  fianchi e strette nei pugni. Guardava fisso davanti a sé, mentre il libeccio spazzava il cortile della Omecorp.
“Dobb… dobbiamo riprovarci?”.
“Dobbiamo prendere Rachel. Lo ha detto Xavier”.
La donna sospirò, abbassando lo sguardo e facendo cenno di no con la testa.
“Di nuovo questo fantomatico Xavier…” sussurrò.
“Non prendermi per pazzo”. Lionell si voltò, fissandola profondamente negli occhi. “So che sembrerà strano ma non è una persona che adora farsi vedere… Però è grazie a lui che sono tornato qui, avanti nel futuro…”.
Linda rimase immobile, con le braccia lungo i fianchi.
“Forse sarebbe…”.
“No, niente forse” disse lui, voltandosi e prendendole entrambe le mani. Era penetrato nella sua testa attraverso lo sguardo, che l’aveva ipnotizzata, rapita, costretta a soccombere a quel desiderio rimasto sopito, sotterrato dalla realtà che ogni giorno le imponeva di percorrere gli stessi passi che aveva tracciato quello.
E la paura di averlo perso per sempre, la susseguente rassegnazione, non fecero altro che aumentare il desiderio nel suo cuore di poterlo rivedere.
Perché lo amava, ed entrambi lo sapevano.
“Io… sono con te”.
Lui sorrise e si avvicinò a lei, aderendo al suo corpo delicato. La baciò, lei chiuse gli occhi per godersi quel momento, gustando il sapore delle sue labbra, il calore della lingua che poi le carezzava il collo, e che l’accendeva, costringendola a piegare la testa verso le spalle, liberando l’accesso al petto, liberato poco dopo dalla gabbia del reggiseno.
Si baciarono ancora, Linda lo spogliò lentamente, assaporando ogni brivido che le dava il sapere che, a ogni bottone della camicia dell’uomo che fuggiva dall’asola, il momento che tanto aveva aspettato si avvicinava.
Aderì ancora di più a lui, accogliendo la coscia dell’uomo tra le sue, stringendola e baciandogli lo sterno, da cui un ciuffo di peli candidi spuntava orgoglioso.
“Piano…” sospirò lui, che premeva il bacino contro di lei.
Quella alzò lo sguardo verso di lui, attendendo un altro bacio. Le mani correvano sul suo corpo, ignare di ciò che toccavano.
Sì, perché si rese conto solo dopo del fatto che stesse carezzando piaghe curate e cicatrici messe in fila, dietro la sua schiena.
Spalancò gli occhi e fece un passo indietro.
Quello sospirò e a raccolse lo sguardo della donna, annuendo subito dopo.
“Lui mi ha…”.
Sfilò la camicia da dosso e sospirò, lasciandola cadere per terra, mostrando il petto pieno di ferite rimarginate.
Lei era inorridita; sbatteva le palpebre a ripetizione, quasi a voler cancellare con ogni sguardo l’immagine che gli occhi consegnavano alla mente.
“Cosa… cosa hai fatto?” sussurrò, con la voce sparita.
Poggiò lentamente la mano sull’addome, avvicinandosi e inclinando la testa. Cominciò a tramontare, e i loro visi furono inondati da una luce calda e rosea.
“Fai piano…”.
Linda non lo ricordava così magro. Si avvicinò alle cicatrici, studiandole minuziosamente: alcune erano recenti, rosee, quasi violacee, di contro alcune erano solo linee candide, sensazioni, spettri sulla pelle dell’uomo.
“Rispondimi”.
Quello annuì. “Sono stato fustigato, legato e percosso. Per tre anni”.
Gli occhi verdi della bella si spalancarono, poi si abbassarono.
“Ma la cosa più dolorosa l’ho provata soltanto una volta liberato”.
Rialzò lo sguardo, Linda, in attesa.
Lionell sorrise e poi si voltò, guardando oltre la finestra e mostrandole il grosso cristallo nero incastonato tra le sue scapole.
La donna osservava inorridita. Fece un passo indietro.
“Tu…”
Lui si voltò, lento, osservando il suo sguardo. “Stai tranquilla”.
“Cosa sei?”.
La sue voce era nervosa, vibrava docile e spingeva contro i vetri delle finestre.
“Non so niente… e forse sono tutto…” rise quello, guardando in basso. Questo è un cristallo assai potente, fratello di quello contenuto nel corpo di mia figlia, Rachel…”.
Linda aggrottò le sopracciglia.
Le palpebre sbatterono un paio di volte, celando gli occhi spaventati, verdi e vividi, mentre Lionell continuava a parlare.
“A differenza di quella pietra, però, questa ha una proprietà più particolare: dona un potere incredibile a chi è accecato dall’ira. E io non ne ho poca”.
Linda annuì, lo vedeva sorridere.
“Ma sto bene. Sono sempre io, ora, qui”.
Quella fece un passo avanti, guardinga, afferrandogli il braccio. Toccava la sua pelle e lo spingeva a voltarsi.
Poi le sue dita fecero per allungarsi, quando lui tuonò.
“Non toccarlo. Non farlo mai. Ti ucciderebbe”.
Ritirò le mani, lei, facendole cadere lungo i fianchi. Il cuore batteva, respirava con la bocca, a labbra schiuse.
“E… ora?”.
E la percepiva, Lionell, quell’elettricità che avvolgeva il corpo candido della donna. Sentiva sulla pelle la sua stanchezza, provocata da anni passati a farsi domande che non avrebbero avuto alcuna risposta, a incassare colpi e a fare un lavoro che, sostanzialmente, non era mai stata preparata a fare. E il risultato erano i creditori che bussavano alla porta con le fatture da incassare nelle ventiquattrore. Riusciva a sentire anche la sua paura, perché sapeva di essersi posto davanti a lei non come l’uomo che aveva visto scomparire anni prima, ma come un essere del tutto diverso, un mostro pieno di rabbia con una pietra incastonata nella schiena; ma su tutto, Lionell percepiva l’eccitazione, espulsa dai grandi occhi smeraldini, perché si sentiva pronta a ingaggiare quella sfida al suo fianco.
E la cosa gli faceva sesso.
“E ora vieni qui” le rispose, afferrandola per i fianchi e aderendo col corpo al suo, per poi stringerle le natiche. La sollevò e la fece sedere sulla scrivania.
Spalancò le gambe.
Le mutandine scivolarono via poco dopo.
 
 
Kanto, Celestopoli, Grotta Celeste
 
Erano le sedici, ma la pioggia continuava a stendersi su tutta Kanto, delicata e molesta allo stesso tempo. La Grotta Celeste guardava Celestopoli negli occhi, calma e tranquilla, col canale fluviale che li separava giusto nel mezzo.
Yellow riusciva a percepire la potenza di quel Pokémon già da fuori, e il fatto che gli abitanti della vicina città non temessero la sua presenza la sconcertava.
Alcuni, forse, neppure lo sapevano. Probabilmente era meglio così.
Atterrarono coi loro Pokémon proprio davanti all’ingresso dell’antro, in un ciuffo umido d’erba alta.
Il mare non era lontano, e l’odore della salsedine si univa a quello della pioggia. Il rumore dell’acqua che correva verso la foce riempiva le loro teste e li rilassava, nonostante sapessero di andare incontro a uno dei Pokémon più potenti che avessero mai visto. La prima a entrare nella Grotta Celeste fu Blue, mai veramente impaurita dal Pokémon che viveva lì. Era curiosa, meravigliata da ciò che vedeva, con quei giochi di luce riflessi sui muri della grotta e quei rumori profondi, gutturali, che provenivano dal fondo della grotta.
Luce lì non ne passava. Soltanto dei grossi cristalli azzurri donavano un bagliore turchese alla zona, come fossero tante piccola torce incastonate nelle pareti umide della montagna.
Yellow era intimorita, ma continuò ad avanzare coi pugni stretti, giusto un passo dietro a un Green dal volto granitico, proprio accanto a Red, che camminava concentrato, cercando di non scivolare sulla roccia umida che componeva il pavimento della grotta.
Un Golbat sbatté le ali, lei alzò lo sguardo e lo vide spostarsi in un’insenature nella parete di pietra.
Blue rallentò per un momento.
“Odio i pipistrelli…” disse, tra i denti.
“Io no” rispose Oak, girando attorno a una stalagmite. Respirò profondamente, gratto il mento e annuì. “Dobbiamo scendere più giù”.
Yellow vide Red annuire. Scrutava lo spazio buio che aveva attorno.
“Da quella parte” sussurrò il Campione, avanzando nel buio, proprio dove i cristalli diminuivano la loro luminosità.
E avanzarono spediti, col Blastoise di Blue piazzato come bastione, a fronteggiare i Graveler più coraggiosi che si mettevano sulla loro strada.
La strada diventava impervia nella sua parte più profonda, in cui aumentava la pendenza in discesa. L’acqua che filtrava dalle rocce veniva convogliata in un sottile rivolo che col tempo si era scavato un corso nella pietra della pavimentazione scivolosa, fino a terminare in un fosso nel pavimento, creato proprio dall’acqua, stretto abbastanza ma largo quanto servisse per lasciar passare una persona.
“State attenti…” sussurrò Yellow, vedendo Green abbassarsi e saltare agilmente giù.
Il tonfo del suo atterraggio rimbombò sordo, seguito da un’eco.
“Vieni” disse lui, verso Blue, che emulò il suo uomo finendo tra le sue braccia.
Poco dopo tutti furono al livello inferiore.
Il buio era ancora più denso lì, ma veniva mitigato dalla luce azzurra degli stessi cristalli che spuntavano dalle pareti del tunnel che avevano appena finito di attraversare.
Alcuni di questi erano davvero grossi, e spuntavano dal grande lago sotterraneo che riempiva interamente quella stanza umidissima.
Ritmicamente, gocce d’acqua filtrata attraverso la pietra cadevano nella pozza cristallina e il suono riverberava massivo sulle pareti di pietra.
Era magico, lì sotto. Mewtwo fluttuava su di un’isoletta, al centro dello specchio cristallino., avvolto da un’aura violacea, che sovrastava la luce cerulea che creava l’atmosfera mistica di quel posto.
Erano tutti fermi.
Red guardò Green, che annuì lentamente, con lo sguardo concentrato, quindi mosse un passo in avanti, vedendo il Pokémon spalancare gli occhi.
“Siete arrivati…” sentì, soltanto lui. “Ho cercato di illuminare il vostro cammino, non appena ho percepito i vostri pensieri”.
“Grazie, Mewtwo… Ti trovo bene” disse invece Red. Blue capì che i due stessero intrattenendo una conversazione.
“Per quale motivo siete venuti da me?"
“Non è passato nessuno, qui, vero?”.
Gli occhi di Red fissavano la figura del Pokémon, quasi liquida per via della patina d’energia che lo avvolgeva.
“Nessuno che cercasse me, perlomeno…”.
Red annuì, con lo sguardo contrito e le labbra rapprese. Green lo vide e bussò sulla sua spalla.
“Che dice?”.
“Non è passato nessuno?”.
Oak sbuffò e portò le mani ai fianchi. “Cazzo”.
Mewtwo mosse le mani lentamente, spalancando le dita e provocando un rilascio d’energia molto forte. I Golbat volarono via e i cristalli al di sotto della superfice del lago divennero ancora più luminosi.
“Calmo, Green…” lo ammonì Yellow.
“Sì, lo so… È che…” si voltò poi verso il Pokémon. “È stata rubata una cosa importante”.
“Tutto è importante, per voi umani, e questo fa sì che nulla lo sia realmente. Il reale valore di una cosa è comprensibile  soltanto quando verrete messi di fronte a una scelta”.
Green sbuffò e alzò la mano.
“Grazie, Mewtwo”. Si voltò e fece per andarsene, poco interessato dalla prosopopea apocalittica. La luce mano a mano si spense, lasciando il tempo ai ragazzi di seguire il capo dell’Osservatorio di Biancavilla, fino a quando la luce del giorno non li assorbì nuovamente.
Gli occhi bruciavano, Green li aspettava sulla riva, lanciando sassi nel fiume; la corrente era forte e rapiva i ciottoli, portandoli verso est.
Li percepì lì, si abbassò e raccolse un altro sassolino.
“Siamo di nuovo col culo nell’acqua!” urlò, lanciandolo con forza, il più lontano possibile.
Blue fece spallucce.
“C’è un lato positivo, almeno”.
“Già” rispose Yellow.
Red annuì a sua volta. “Mewtwo è qui e sta bene, e fortunatamente a nessuno è passato per la mente di andare a catturarlo. Sono trascorse già diverse ora dal furto, quindi suppongo che se fosse dovuto succedere qualcosa qui, beh…”.
“Sarebbe già successo” riprese la donna dai capelli castani, incrociando le braccia sotto al seno. Il vento soffiava forte e la pioggia non accennava a diminuire. Sorrise ancora, lei, quasi imbarazzata. “Certe cose si fanno con una… ecco…” arrossì. “… con una certa metodologia”.
“Tu ne sai qualcosa, Fujiko. Illuminaci” schernì Green, con le mani ai fianchi.
“Non è difficile da capire…” ridacchiò maliziosamente la bella castana. “Se tu, che possiedi una cosa preziosa, vieni a conoscenza del fatto di esser diventato un obiettivo, prenderai delle precauzioni per evitare che ti rapinino. Il cristallo poteva essere l’oggetto che avrebbe permesso a qualcuno di catturare Mewtwo. Queste operazioni vanno molto velocemente altrimenti si rischia il fallimento…”.
Red annuì. Aveva senso. “Quindi se il loro obiettivo fosse stato Mewtwo…”.
“Lo avrebbero già preso…” interruppe Green, facendo cenno di no con la testa. “Non è lui, l’obiettivo. Che suggerisci, Blue?”.
Quella annuì, pronta. “Potrebbero rivendere l’oggetto. Oppure lo utilizzeranno per qualcosa di più grosso”.
“Mercato nero” osservò Yellow.
Green annuì e guardò in basso. “Già. E dobbiamo tenere aperti i contatti con le Palestre delle altre città, di tutte le regioni. Qualsiasi cosa succeda dovremmo andare a controllare”.

 
Adamanta, Timea, Ufficio della Omecorp
 
Era quel preciso istante, che seguiva il piacere e che lasciava liberi di tuffarsi in un vuoto infinito, ma bugiardo, che Linda stava vivendo.
Era nuda, totalmente, stesa sui fogli, inumiditi dal sudore della sua schiena e della fronte di Lionell. Lui era il suo capo, il suo uomo, che amava e che aveva aspettato.
Sorrideva, quello, sedendosi sulla poltroncina che aveva alle spalle, godendosi lo spettacolo di quel corpo spogliato da ogni straccio e freno, consumato per quei minuti di frenesia e sesso.
Le guardava le gambe, lunghe e lisce. Poi sorrideva, ripercorreva quell’autostrada che portava ai seni, che si muovevano sotto il respiro ansimante della donna.
Rovesciò la testa indietro, lui.
Voleva un sigaro. O forse voleva dormire, e godersi quel torpore che lo avrebbe accompagnato al giusto riposo.
“Mi mancava…” sussurrò lei, voltando la testa dall’altra parte e sorridendo beatamente.
“Serviva, è vero…”.
Lui sospirò, lei cercò di calmare il respiro. Lo guardava, nudo, seduto educatamente sulla poltroncina. Le sue mani affondavano nei morbidi braccioli rossi. Avrebbe voluto andare da lui, stendersi sul suo corpo, prendersi un abbraccio.
Essere una persona normale.
Ma Lionell non era una persona normale. Guardò il soffitto e sospirò, accavallando le gambe. Un dubbio le solleticava la mente.
“Ora che si fa?”.
Lionell sorrise, infilando i boxer e avvicinandosi a lei, sollevandola di peso. La poggiò per terra, accanto a lui.
La vide rivestirsi lentamente.
“Ora mettiamo in moto il nostro piano”.
“Come?”.
“Uomini” sorrise. “Ci servono uomini”.
Linda inarcò le sopracciglia e sospirò, chiudendo il reggiseno merlettato nero. “C’è un problema…”.
“Lo so. Ma i soldi non sono un problema”.
Quella ridacchiò, infilandosi anche gli slip. Si guardò attorno, cercando la camicetta, quindi sospirò. “Invece sono il problema principale. La gestione non è stata delle più felici, lo so… ma non possiamo pagare i fornitori… come faremo a ingaggiare cento uomini”.
“Mille” s’inserì l’altro.
“… cosa?”.
I due si guardarono per un profondo istante, prima che quello sorridesse.
“Mille uomini”.
Non capiva, lei. Si voltò, con un moto d’ira, e cominciò a cercare sulla scrivania dei fogli che aveva ben ordinato, prima di stendervisi sopra. Li trovò e li pose a pochi centimetri dal volto di Lionell.
“Questi sono tutti ultimi avvisi per i pagamenti delle fatture! Minacciano di adire a vie legali!”.
Gli occhi stanchi di Lionell Weaves non si poggiarono neppure per un secondo su quei documenti; si limitò a poggiare le mani su quelle di Linda e a guidarle, mentre la carta si strappava irreparabilmente. Dietro ai fogli c’era il volto della donna, sconcertato.
Il cuore batteva. Non capiva.
“Avremo i soldi per tutto”.
“E come?”.
“Finalmente incontrerai Xavier Solomon”.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 - Cipria ***


7. Cipria
 
- Kanto, Celestopoli
 
Aveva smesso di piovere da pochi minuti ma, a differenza di Biancavilla, Celestopoli non si era fermata un minuto. I Dexholder camminavano sui pulitissimi marciapiedi, dove non era stata gettata neppure una cicca di sigaretta. Tutt’intorno il vociare era quasi assordante.
Green, che viveva in un paese molto più tranquillo, rimaneva per qualche secondo a fissare in silenzio le cime degli alti palazzi, mentre Blue si fermava a guardare le offerte nelle vetrine delle boutique.
Il Centro Pokémon svettava alto e luminoso, sullo sfondo grigio di quella giornata uggiosa, mentre Allenatori dalle belle speranze correvano verso gli ingressi, con Pokémon in fin di vita e sfide da organizzare alla Palestra di Misty.
I quattro decisero di fermarsi a mangiare qualcosa alla mensa della struttura.
“Sto morendo di fame” commentò Red, vedendo Yellow sorridere gentile, come suo solito.
Seduti al tavolo, i ragazzi avevano smontato cappotti e giubbini, e poggiato le borse per terra.
Non Green. Lui aveva legato la cinghia della tracolla al bordo dello schienale della sedia.
Ordinarono un piatto di ramen caldo, che non aveva ovviamente l’appeal dell’arrosto.
“Ci riscalderà dall’interno” aveva detto Yellow. Lui si limitò ad annuire e ad assistere silenzioso agli scambi tra i tre, da esterno, palesando così il fatto che non volesse partecipare a quella riunione tra i pupilli di suo nonno.
Vedeva Red e Yellow mantenere un sorriso dolce e gioviale, tra di loro parve non esser mai accaduto nulla. E anche Blue era serena, al contrario suo, che pareva non riuscire a trovare pace.
E ovviamente il motivo aveva i capelli neri e gli occhi rossi; la presenza di Red lo indispettiva, così sereno, forse troppo, e quasi incolpava Yellow per il sorriso che mostrava fiero. Le zuppe arrivarono poco dopo, fumanti, in tegami di terracotta imbrunita. Red vi si avventò famelico, mentre gli altri tre mantennero dei toni più aggraziati.
Nella mente ancora quelle immagini orribili. Abbassò la testa, il vapore gli baciò il viso e nascosero per un attimo il suo sconforto, prima che la razionalità gli ricordasse che lui avesse bisogno che Red e Yellow fossero seduti lì: il cristallo era più importante di ogni altra cosa. Anche più del suo orgoglio.
Sospirò, spinse il vapore verso il centro del tavolo e per un attimo capì che non stesse adottando l’atteggiamento giusto.
L’orgoglio non era altro che aria. Come i sogni.
La gente doveva essere più concreta, e quella concretezza lo obbligava a stare seduto al tavolo dell’uomo che aveva distrutto legami d’amicizia sacri e ventennali. Per del sesso, poi, con la donna che aveva desiderato timidamente fin da ragazzino.
Non lo giustificava.
Pensava al cambiamento, rivedeva le immagini nella mente di quei due che si leccavano le labbra, guardava il ramen, sentiva la paura e la responsabilità e la necessità di quel bicchiere di whiskey che aveva promesso di non alzare più ma il cui vuoto bruciava come un marchio a fuoco, delle volte. Blue e Red avevano cominciato a parlare, il suo cuore però batteva così forte da superare il volume delle parole. Vedeva soltanto Yellow, che li ascoltava silenziosa, e che, di tanto in tanto, gli gettava un’occhiata.
Lo aveva fatto quattro volte, ma alla quinta rimase a fissarlo.
“Stai avendo un attacco di panico…” sussurrò, e quelle parole bastarono per far bloccare gli altri due. Tutti e tre guardavano l’uomo, che non si accorse di essere in balia delle emozioni.
“Mi serve un po’ d’aria…” fece, alzandosi a fatica. Sentiva il cuore battere sempre più forte, e la testa girava. Il respiro si faceva greve, gli occhi sbiadivano i contorni delle cose che guardava.
Yellow gli si avventò addosso, prima che lo facesse Blue, e lo fece appoggiare a lei.
“Lo porto a prendere una boccata d’aria”.
“No, Yellow, faccio io…” disse l’altra, afferrando il braccio del suo fidanzato. L’allontanò con una rapida mossa del bacino e accompagnò Green verso l’uscita.
E la bionda rimase lì, in silenzio, a guardare il suo fidanzato, ancora seduto. Le bacchette erano sfuggite dalla sua presa ed erano atterrate negli udon.
“Cosa?” si limitò a domandare quello.
Yellow annuì quasi impercettibilmente, accompagnando con un sospiro pesante ed eloquente.
Lo capiva.
Anche lei viveva quei momenti d’insicurezza e di fragilità, e l’aver rincontrato Blue aveva risvegliato quegli spettri che spesso l’avevano messa in ginocchio nel corso degli anni. E anche Green viveva quella storia con Red.
Non era sola.
 
 
- Adamanta, Primaluce, Casa Recket
 
Il vento soffiava più lieve, da qualche minuto a quella parte, e Rachel decise di uscire di casa e raggiungere suo marito, ancora alle prese col gazebo. Allegra correva alle sue spalle, inseguendo Arcanine.
“Credo che per oggi tu ti possa riposare…”.
Zack annuì, respirando a pieni polmoni. L’aria era fredda, la trachea bruciava. Calò lentamente il trapano utilizzando il filo, lo poggiò sull’erba secca e si avvicinò di qualche passo alla donna.
“Allegra, non correre…” disse poi, portando le mani ai fianchi. La felpa che indossava, sdrucita, era sporca di segatura.
“Sta venendo bene…”. Rachel guardava il gazebo, a braccia conserte, con la poker face migliore che avesse a disposizione.
“Menti” rispose suo marito, che alzò il cappuccio della felpa. Guardava Allegra avvicinarsi alla siepe, mantenendo un Wurmple sul dorso della mano.
“Non è vero” sorrise dolcemente l’altra.
“Spudoratamente”.
“Cioè… Ora è in fase embrionale, verrà su bene. Sappiamo entrambi che tutto ciò che tocchi si trasforma in oro…”.
“Certo… Che si mangia?”.
“Le patatine fritte?” urlò Allegra, raggiungendo subito i genitori., con gli occhioni azzurri spalancati.
“Non possiamo mangiare sempre patatine…” le rispose Rachel.
Allegra mise il broncio e sbuffò, e poi guardò suo padre. Il silenzio verdeggiò per pochi secondi, prima che l’uomo rapprendesse le labbra e sospirasse.
“Certo che però un bel piatto di patate…” ragionò Zack, facendo spalancare gli occhi alla moglie.
“Non potete mangiare solamente schifezze! E se lei sta avendo quest’atteggiamento è per via tua, che non ti sforzi nel darle il buon esempio!”.
La donna le puntò il dito sul petto ma l’espressione di Allegra non mutò minimamente.
“Tu non lo vorresti un bel piatto di patate?” protestò lui.
“Io sì!” riprese invece la bambina, prima che Rachel le mettesse una mano sulla testa.
“Assolutamente no! Oggi pesce e insalata! Per tutti quanti!”.
“Io non la voglio!” ribatté Allegra.
“Invece vedi di volerla, altrimenti niente più Pokémon!”.
Ma… papà!” esclamò, chiamando la cavalleria. “Il pesce non mi piace!”.
Zack sorrise e si accovacciò sulle ginocchia, prendendo le sue mani. “Invece è buonissimo. Servirà a farti diventare grande e forte. Proprio come la mamma”. Si avvicinò poi a Rachel e le baciò la guancia. “Mamma ha mangiato sempre tanto pesce e tanta insalata, e guarda com’è bella”.
Allegra rimase immobile, con le braccia conserte e il labbro inferiore pronunciato.
“Io una volta l’ho vista mangiare una crostatina…”.
Entrambi i genitori esplosero in una risata fragorosa. “Che capolavoro che abbiamo fatto…” sorrise la donna, molto divertita. Si abbassò verso di lei e catturò il suo sguardo. “E mangiare sano non significa non poter più fare uno strappo alla regola, una volta tanto”.
Allegra non mutava espressione.
“E diventerò bella come te?”.
“Diventerai proprio come me”.
 
 
- Kanto, Celestopoli, esterno del Centro Pokémon
 
“Un fottuto attacco di panico…”.
Green sorrise a mezza bocca, sbuffò, tirò dalla sigaretta che stringeva tra le labbra e mise le mani in tasca.
Blue era accanto a lui, infreddolita, rinchiusa in un abbraccio che si stava dando da sola. Il vento soffiava sui loro visi, consumando la sigaretta dell’uomo e spettinando la bella.
“Perché sei stato male?”.
“Non ne ho idea” rispose l’altro, continuando a guardare dritto. “Forse non ero pronto per questa cosa. E non venirmi a dire che siamo costretti dalle circostanze, perché loro ci servono eccetera... È come se avessi continuamente una pistola puntata alla tempia destra”.
Gli occhi blu della donna lo scrutavano, denudandolo di ogni sicurezza residua.
Sorrise leggermente. Non lo aveva mai visto così debole e senza difese.
Gli cinse il braccio e poggiò la testa sulla sua spalla.
“Puzzi di fumo”.
“Non me ne fotte”.
“Forse non dovresti fumare”.
“Invece dovrei”.
Blue storse le labbra.
“Sei sempre il solito”.
Piccole gocce di pioggia presero a cadere sulle loro teste.
“Questa giornata è nata storta”.
La sigaretta bruciava, le labbra carnose dell’uomo dagli occhi verdi stringevano il filtro e si allargavano per emettere una cortina di fumo, che s’elevava per un metro o poco più, prima di venire bucato da quei proiettili d’acqua gentili.
“Senza un po’ di pioggia la vita sarebbe troppo arida...”.
“Sai cosa intendo, donna”.
Quella ridacchiò. “Non chiamarmi così”.
Lui sorrise, di contro, poi afferrò la sigaretta tra l’indice e il pollice e prese un altro sorso. “Non credevo che vederlo mi avrebbe fatto questo effetto”.
“Beh, non sei morto, almeno...”.
Sbuffò, Green. “Non ancora”.
“E non succederà”.
Fumava ancora, lui. “So che ora come ora dovrei azzerare, ricominciare... dimenticare. Ma non è così semplice. Ci sono dei momenti in cui vorrei strappargli la testa dal collo. E anche a te”.
Blue abbassò lo sguardo, lasciando andare la presa dal braccio dell’uomo.
“Odio questa puzza di fumo”.
“Lo so. Ma ora ne ho bisogno”.
“Immagino. Rientriamo?”.
“No. Ancora un po’. Non ho ancora finito...”.
Riportò la Camel tra le labbra e aspirò quel veleno. Gli riempì i polmoni, distendendolo.
Poi un ombrello blu si aprì sulla sua testa. La donna gli mise tra le mani il manico in legno e quindi si voltò, in silenzio, sbattendo la porta alle sue spalle.
 
 
- Johto, Borgo Foglianova
 
“Ci vediamo, allora” aveva detto Crystal. Aveva poi smontato il camice bianco, quello con la manica sporca di succo di bacca, e lo aveva appeso al suo posto, accanto alla grossa credenza con le provette e i vetrini per il microscopio.
Il Professor Elm la salutò alzando distrattamente la mano, mentre Maris, la sua assistente, le aveva sorriso cordialmente. Aprì la porta e vide che una tempesta aveva cominciato a imperversare.
La visibilità era ridotta a tre, quattro metri, e ovviamente lei non aveva l’ombrello.
Non ne avrebbe chiesto uno al Professore. Non stava bene.
Quindi sospirò, si chiuse la porta alle spalle e afferrò le chiavi di casa, prima ancora di arrivare davanti al portone.
Un balzo e si trovò sotto il temporale. Correva rapida verso nord, superando il negozio d’alimentari aperto, accanto alla casa del vecchio signor Kaguya. Era un tipetto piuttosto arzillo, lui e Gold passavano parecchio tempo a parlare di una particolare ballerina che spesso compariva in televisione.
Lei non ci faceva caso, non ricordava neppure come si chiamasse.
Proseguì fino alla piazza centrale, cercando riparo sotto ai balconcini delle piccole case. Quando pioveva, quel paese si svuotava totalmente.
Casa sua non era lontana, la vedeva, a una cinquantina di metri o poco più, e decise di sprintare, stringendo con la mano destra la borsa, spingendola contro il fianco, e tenendo sempre pronte le chiavi in quella sinistra. Le sue ballerine affondavano in pozzanghere profonde, all’interno dei prati che delimitavano le stradine sterrate di Borgo Foglianova e che lei stava attraversando per evitare la polmonite.
Ma quando arrivò davanti alla porta era già inzuppata. E continuava a bagnarsi anche sotto la piccola pensilina, dato che il vento di qualche settimana prima aveva spostato una tegola. Aveva chiesto proprio a Gold di metterla a posto il giorno dopo ma lui aveva procrastinato più e più volte.
Del resto, di quella disciplina era un campione.
L’acqua quindi le cadeva sulla testa, e lei imprecava, cercando di infilare le chiavi nella toppa, senza mai riuscirci al primo colpo.
“Dannazione!”.
Quando poi la serratura scattò, spinse rapidamente la porta, venendo inondata dalla luce del suo salotto. Sbuffò, agitando le mani per asciugarle. Levò gli stivaletti di pelle neri, che a poco erano serviti contro le pozzanghere, dato che i calzini erano totalmente zuppi. Poi chiuse la porta e sfilò anche i pantaloni, rimanendo in slip sull’uscio.
“Che diamine…” disse, tra i denti, dopo aver sbuffato. Sciolse i capelli e sospirò, guardandosi attorno. Il salotto era silenzioso e soltanto l’orologio sul camino disturbava la quiete, coi suoi deboli ticchettii. La penombra respingeva qualsiasi prepotenza della fioca luce che proveniva dall’esterno, e regnava imperiosa sulla stanza.
Non che le spiacesse, ma Crystal aveva freddo; salì al piano superiore con flemma, rimuginando ad alta voce sulla tempesta, senza riuscire a capire quando quella giornata, partita con un sole bianco e pallido, ma pur sempre fisso sulla tela azzurra del cielo, avesse lasciato il posto al marmo e all’alabastro di quella tempesta.
Sapeva di esser sola, e quindi, arrivata fuori alla porta del bagno, levò la maglietta e sbottonò il reggiseno, cercando di asciugare il petto con una parte asciutta dei vestiti che aveva appena levato da dosso, anche se inutilmente. Entrò in camera, aprì il primo cassetto, quello delle mutande, e ne prese una, viola. Sculettò fino alla porta, prima di fermarsi e guardare il letto: era ben ordinato, con le coperte tese ed entrambi i pigiami piegati sui cuscini.
Prima di uscire per allenarsi, Silver aveva ordinato la stanza, il suo profumo aleggiava ovunque, rubandole un sorriso. Voleva averlo lì, ma lui non c’era, e quindi pensò che indossando un suo maglione avrebbe potuto spezzare quella nostalgia. Si avvicinò al suo armadio e lo aprì, venendo investita dal suo odore.
Lo amava.
Sulla mensola del guardaroba c’erano tutti i suoi pullover, ordinati per colore. Prese il primo della pila, grigio e morbido, e proprio mentre fece per chiudere la porta dell’armadio i suoi occhi furono rapita dalla figura nello specchio. La sua.
Guardava la propria figura nuda, i capelli bagnati, corti, che cadevano freddi sulle spalle e gli occhi azzurri, unici fari in quella stanza grigia. Pensò che si piacesse, prima di rendersi conto del freddo di quell’inverno, che la stava aggredendo. Quindi cedette al caldo abbraccio della doccia.
 
“Solo la pioggia, ci mancava!” aveva sbuffato Marina, al piano di sotto. La pioggia imperversava alle sue spalle, prima che col tallone sbattesse la porta d’ingresso. L’ombrello era servito a poco, i capelli color caramello erano totalmente bagnati. Abbassò la testa e vide le impronte bagnate segnare un percorso che portava alle scale.
Rimase per un attimo a rimuginare al fatto che né Crystal né Silver avrebbero mai lasciato il pavimento in quello stato, quindi portò le mani ai fianchi e sospirò.
“Gold!” chiamò.
Sentiva qualcuno canticchiare nella doccia, al piano superiore, con voce delicata e gentile. E a meno che non stesse facendo l’imitazione di Lauryn Hill, Gold non cantava in quel modo.
Neppure quando imita Lauryn Hill, in effetti… pensò la Ranger, sbuffando. Al pavimento avrebbe pensato dopo, quando i suoi capelli si sarebbero asciugati.
Arrivata davanti alla porta del bagno, le nocche batterono con fermezza.
“Crystal?”.
La doccia continuava a scrosciare, e copriva la voce della donna.
Sono Crystal, Mari…”.
La donna annuì, conscia che l’altra non potesse vederla, e si voltò, entrando silenziosamente nella sua stanza. L’aria era viziata, lì, leggermente dolciastra, dato che Gold non apriva mai le finestre. Il letto era totalmente sfatto, con le lenzuola in fondo al materasso e il caldo piumone gettato sul pavimento, interamente ricoperto di vestiti, sporchi e puliti, impilati in mucchi disordinati.
“Dannato…” sbuffò la giovane, sbottonando la camicetta bianca, partendo dal basso e sfilandola. La sistemò ordinatamente sullo schienale della sedia e slacciò il reggiseno, infilando una maglietta intima bianca. Sgusciò fuori dalla gonna senza aprire la zip e sgambettò nuovamente fuori alla porta del bagno.
“Crys! Aprimi! Devo asciugare i capelli o mi verrà un accidente!”.
Pochi secondi dopo quella la fece entrare, voltandosi subito dopo e mostrando la schiena nuda alla fidanzata di Gold.
“Scusami” disse quest’ultima, chiudendosi la porta alle spalle e facendo scattare la chiave nella serratura. Il vapore aleggiava e rendeva il piccolo servizio fumoso e caldo.
“Figurati” rispose l’altra, girando solo il viso sorridente. Rientrò nella doccia, nascondendosi dietro la tendina opaca, che lasciava intravedere la sua sagoma. Marina pensò che Crystal avesse delle gambe bellissime. Cancellò poi dalla testa l’immagine della coinquilina e prese il phon, accendendolo e cominciando ad asciugare i capelli.
 
“Ruby ha risvegliato Kyogre, quell’infame! Quanta pioggia!” esclamò Gold, spalancando la porta con un calcio e levando immediatamente le scarpe e il maglioncino, liberando l’addome tonico. Silver, che lo seguiva, rimase fermo per un secondo, guardando i passi bagnati di due persone che salivano al primo piano. Azzerò il respiro e poggiò una mano sulla spalla dell’altro.
Quello si voltò torvo, guardandolo con un grosso punto interrogativo sul volto.
“Cosa?”.
“Le ragazze sono sopra”.
Gold inarcò un sopracciglio e sospirò. “Non ci voleva molto per capirlo, Poirot... Lì c’è la borsa di Marina e Crystal è più precisa del ciclo di Margaret Thatcher, e a quest’ora di solito è a casa” rispose. Gettò la maglietta sul bordo delle scale e calciò via le scarpe, facendole finire accanto al divano, alla sua destra.
“Ho fame, mangerei un brontosauro...” fece poi, andando verso la cucina e aprendo il frigorifero. Lo fece lentamente, perché ogni volta che tirava forte il maniglione del frigo le calamite più pesanti cadevano per terra. Spesso si rompevano e Crystal ci rimaneva male.
 
“Sono ricordi!”.
“Questi ricordi non possono cadermi sui piedi ogni volta che voglio una birra!”.
“... Stavi prendendo una birra, ora?”.
“No. Ora prendevo il latte. Perché?”.
“Perché sono le nove e mezza del mattino, Gold. Se avessi preso una birra adesso avrei ragione a pensare che tu sia un alcolizzato”.
“Oh, se stessi prendendo una birra alle nove e mezza del mattino sarei Surge... Ma non sono Surge. Cazzo, se fossi Surge sarei biondo. Come starei, da biondo?”.
“Imbecille...”.
“Sarei tipo come ora, ma Super Sayan!”.
 
I discorsi tra i due cominciavano e finivano sempre in quel modo.
Prese la Pepsi Cola e si attaccò alla bottiglia, prendendo due grosse sorsate e ruttando rumorosamente. Chiuse poi il frigorifero con l’anca, e una calamita presa a Ponentopoli cadde sul pavimento.
“Fanculo”.
“Sembri appena uscito da Oxford...” commentò Silver, sospirando e portando le mani ai fianchi bagnati. “E sono sorpreso che tu sappia chi sia Margaret Thatcher”.
“Già. Beh, non sorprenderti, so un sacco di cose… mi servono per fare riferimenti semi-offensivi contro le persone”.
“Interessante...”.
“Ho un catalogo enorme”.
“Lo immagino” concluse Silver, levando la maglietta a sua volta e voltandosi, salendo le scale e lasciando il ragazzo dagli occhi dorati da solo.
“Oh, no...” sorrise il ragazzo. “Non immagini nulla”.
 
- Adamanta, Collina Miracielo, Il Promontorio -
 
“Tra un po’ verrà a piovere...”
L’ombrello di Linda era color cipria. Uscendo dagli uffici della Omecorp aveva visto il cielo minacciare tempesta e si era premunita. Avevano diviso un taxi che li aveva portati fino alla stazione centrale di Primaluce. Questa era davvero piccola, ma ben curata, come tutto il paesino del resto; Una grande ringhiera di ferro battuta, elegante, quasi artistica, in estate era totalmente ricoperta dei fiori viola di una grossa pianta di glicine. Quell’inverno però il freddo aveva mangiato i colori del rampicante, lasciando soltanto rami secchi a coprire le barriere.
Presero un biglietto per Miracielo, pagò lei, con la paura di non sapere come tornare a casa, e una volta scesi dal treno Lionell si avviò con passo svelto verso la strada in salita che portava verso la collina. Per l’intero tragitto furono aggrediti dal vento, Linda giurò di aver percepito qualche gocciolina baciarle il viso.
Ma la tempesta non si scatenò.
Una volta arrivati sulla cima misero piede nella piazzetta. Una ventina di panchine, altrettanti lampioni – spenti – e una grande fontana che zampillava acqua congelata proprio nel mezzo. C’era solo una coppietta di tredicenni, che si baciavano dolcemente appoggiati alle balaustre che proteggevano dalla caduta nella valle. Lionell li guardò per un secondo, sorridendo lievemente e pensando che avessero marinato la scuola, per essere lì.
Andarono nella direzione opposta, per non disturbarli. Il nord della regione di Adamanta era davanti a loro, e dall’alto della collina riuscirono a vedere la tempesta abbattersi sulle tremila anime di Miracielo. Lionell sorrise, guardando la furia di quello spettacolo.
“È incredibile...”.
“Perché siamo qui?”.
L’uomo sorrise, impettito. Il vento faceva svolazzare la coda del suo soprabito nero.
“Tempo al tempo”.
E per una terza volta, il sorriso si allargò sul suo volto.
“Cosa c’è che ti fa ridere così tanto?” chiese lei, stringendosi nelle spalle. Lionell fece cenno i no con la testa e poi guardò in alto.
“La bufera...” indicò con un cenno del capo. “Arceus sembra furioso. Piove forte... sembra una di quelle tempeste che spesso mi svegliava quando ero prigioniero, mille anni fa. Se ripenso che sono passati soltanto pochi giorni da quando...”.
Non completò la frase; si limitò a voltarsi, quello, guardando la grande montagna che imperava maestosa alle loro spalle, a distanza. Attorno alla cima vi era una corona scura di nuvole.
“Spesso piove, lassù, Linda... Durante gli anni che ho passato in quella cella ho visto il sole soltanto tredici volte...”.
Sorrise ancora, chiudendo gli occhi ed enfatizzando, facendo cenno di no con la testa. “Tredici volte”.
La donna rapprese le labbra e guardò in basso. Pensò che non dovette esser stato facile rimanere lucidi, soprattutto quando non si aveva più speranza.
“C’era una guardia...” continuò Lionell, alzando gli occhi al cielo. “Questa guardia era più gentile delle altre. Vedi, i Templari sono uomini duri e senza scrupoli, e vivono la propria vita per servire Arceus e appagare il proprio senso del dovere nei confronti dell’Oracolo del tempio. Di tanto in tanto, soprattutto la notte, riuscivo a scambiare quattro parole con lui, si chiamava Tullio, aveva le lentiggini, era molto giovane...”.
“Ti avrà aiutato a non perdere la ragione, parlargli...”.
“Assolutamente. Non succedeva sempre e non nascondo che ormai vivevo per questo, e aspettavo con ansia che scendesse la notte, solo per quel quarto d’ora d’umanità”.
“Un quarto d’ora” fece l’altra, inarcando leggermente le sopracciglia e addolcendo lo sguardo.
“Mi bastava poco. La mia giornata era pressoché sempre uguale, incatenato con la faccia contro la parete, trenta frustate quando veniva sera, il sale che bruciava le ferite e le urla. Tutto nel nome dell’essere più stronzo che abbia mai mosso la mente umana...”.
“Arceus”.
“Già. Una notte chiesi a Tullio come mai piovesse sempre. E lui mi disse che non fosse così, che piovesse soltanto lì, sul tetto del tempio, perché pieno di peccatori. E pioveva veramente forte, l’acqua spesso mi bagnava i piedi, o la schiena, quando le guardie erano più generose e mi permettevano di non dormire in piedi. Tullio mi diceva che era quella pioggia a lavare l’anima dei blasfemi e dei peccatori, delle prostitute e degli assassini, e più forte era la tempesta, più grande era lira di Arceus, determinato a pulire l’anima dei prigionieri da ogni peccato”.
Linda non sapeva cosa dire. Rimase in silenzio, fino a quando una goccia di pioggia le si infranse sul morbido labbro inferiore. Leccò via l’acqua con la lingua e aprì rapidamente l’ombrello, includendo sotto il suo abbraccio anche Lionell.
Quello continuava a guardare il paesino al di sotto della continua, sorridendo.
“Si vede che tra la poche persone che abitano Miracielo, ci dev’essere qualche peccatore. Del resto chi non ha peccato...”.
“Scagli la prima pietra...”.
“Nessuno potrà mai dichiararsi non peccatore. Perché hai peccato già col fatto di esser nato, frutto dell’unione peccaminosa dei tuoi genitori. Tu sei figlio del peccato, tu sei un peccatore, è la tua natura”.
“Non credevi alle parole di Tullio”.
“Non l’ho mai fatto. Neppure per un minuto”.
“E hai fatto bene” s’inserì qualcun altro, prima che la luce di un lampo illuminasse i loro volti. Quello di Linda era inquieto, mentre Lionell pareva felice. Sorrideva, e non si curava del fatto che il mondo attorno a lui pareva affogare nella bufera. Si voltarono immediatamente, vedendo un uomo misterioso, alto e snello, dai capelli biondi ben pettinati e dai profondi occhi rossi. Era chiuso in un lungo soprabito di pelle, nero, proprio come i boots che aveva ai piedi.
“Xavier...” disse Lionell, avanzando e scappando dalla protezione dell’ombrello.
Pioveva su di lui, pioveva sull’uomo dagli occhi rossi. Rimasero a pochi metri l’uno dall’altro, con Linda immobile al suo posto che assisteva alla scena. Si chiedeva dove fossero andati a finire i due ragazzini che si baciavano, dall’altra parte del promontorio.
“Lei dev’essere Linda” tuonò l’uomo misterioso, facendole spalancare gli occhi. “Conosce, cosa ti è successo?”.
Lionell annuì. “Certo. Linda è a parte di tutto. È la mia più fedele collaboratrice”.
Xavier sorrise e si avvicinò lentamente a lei, muovendo sette passi verso le balaustre. Poté ammirare la pelle diafana della donna dall’ombrello color cipria, gli occhi verdi e le labbra rosee e carnose. Lei rimaneva immobile a fissare lo sguardo fiammeggiante dell’uomo. Non sembrava attratto da lei ma dal suo sguardo.
“Hai paura?” domandò poi, divertito.
Gli occhi da cerbiatta di Linda scapparono, inseguiti dallo sguardo inquisitore dell’uomo dalla giacca di pelle nera.
“Non rispondi?”.
“Sì. Ho paura”.
Rise, Xavier, voltandosi e tornando accanto a Lionell.
“Fa bene...” sussurrò, facendo in modo che soltanto l’altro potesse sentirlo. “Che ti serve?”.
“Uomini...”.
“Uomini? Non puoi comprarteli da solo? Non eri ricco?” replicò l’uomo dagli occhi rossi, alzando il volto verso la pioggia, noncurante.
“Sono passati diversi anni e la Omecorp non è stata gestita a dovere...”.
Xavier abbassò il viso e lo guardò.
“È stata lei?”.
“È stata lei. Mi servono uomini. Senza mercenari non riuscirò a raggiungere il nostro obiettivo”.
L’altro passò le mani tra i capelli e li tirò indietro.
“E quanti te ne servirebbero?”.
Lionell si voltò e guardò Linda, che avanzò lentamente.
“Quanti uomini ci servirebbero?” le domandò. Quella lo affiancò, facendogli spazio sotto l’ombrello.
“Mille”.
“Mille uomini?!” esclamò Xavier, divertito.
Lionell annuì, con l’acqua che gli colava dal mento. “Mille uomini”.
Xavier fece cenno di no con la testa. “Voi siete quel tipo di persone che credono che la quantità sia meglio della qualità. E io vi insegnerò che sbagliate. Non vi darò mille uomini. Ve ne darò tre”.
“Tre?!” esclamò Linda, stringendo con vigore il manico dell’ombrello.
“Anzi. Ti darò qualcosa di gran lunga migliore di tre uomini”.
Lionell e la donna si stringevano sotto l’ombrello. Non capivano bene di cosa stesse parlando Xavier. Rimasero giustamente in silenzio per permettergli di completare la frase, e lo guardarono come per spingerlo a farlo.
“Voltatevi”.
Un lampo cadde proprio lì accanto, e squarciò il cielo, lasciando che la pioggia cadesse ancor più pesante. Il tuono li assordò e quando ruotarono sul proprio asse si spaventarono, alla vista di tre donne, messe in fila, a un metro esatto di distanza l’una dall’altra.
“Donne?” chiese Lionell, accigliato e poi divertito.
“Sì” annuì Xavier.”Tre donne provenienti da universi incredibilmente violenti...”. L’uomo si mosse poi molto lentamente in loro direzione, avvicinandosi alla prima. Come Xavier, né lei né le altre sembravano turbate dalla pioggia, anzi. L’acqua bagnava il suo viso di porcellana, delicato, e impregnava i capelli, di quel castano chiaro che Linda spesso aveva voluto testare.
“Lei è Jasmine” continuò. “La Capopalestra di Olivinopoli”.
Indossava un pantalone cargo color verde militare, con l’aggiunta di una grossa giacca di pelle nera e un paio di doppi stivaloni dall’alta suola di gomma. Manteneva la mani stese lungo i fianchi stretti e fissava dritto davanti a sé.
La cintura che le girava attorno alla vita sottile conteneva tre Pokéball lucenti.
Il fatto di avere davanti agli occhi quella donna sconvolgeva Linda e Lionell, e Xavier lo capiva dal loro sguardo.
“Ovviamente non è la Jasmine che conoscete voi, ma quella dell’Universo Kappa…”.
“Universo… Kappa?” continuò la donna con l’ombrello tra le mani. Un altro tuono la fece sobbalzare, mentre la pioggia batteva radente sulle piastrelle del promontorio.
“Non perderò tempo a spiegarti cos’è, ma ti posso dire che lì il Team Rocket ha conquistato Johto. La piccola Jasmine, dapprima capo di una minuscola cellula della resistenza popolare, ha fatto di Olivinopoli una fortezza inespugnabile, da cui è partito il piano di liberazione della regione…”.
“Una donna di carattere” sorrise Lionell.
“No, una terribile genocida: da liberazione che doveva essere, Jasmine la trasformò in una campagna di conquista. Sette settimane dopo, Johto era sotto il suo dominio”.
“Dalla padella alla brace, in pratica”.
“Peggio, perché questa donna è senza scrupoli. I Domadraghi di Ebanopoli hanno provato a fermarla, quando la sua armata ha attraversato la Via Gelata, la notte di Natale. Il suo impeto ha provocato la distruzione dell’intera città, e la strage di innocenti più grandi che quel posto avesse mai visto”.
“È una dittatrice…” sospirò Linda, fissandola attentamente. I suoi occhi erano leggermente intimoriti.
“Sì. Ma è anche una vera guerriera, e una psicopatica. Diciamo che…” ridacchiò Xavier, infilando le mani nelle tasche, per poi continuare. “… beh, sì, diciamo che non ha proprio tutte le rotelle al proprio posto. Ha commesso migliaia di omicidi e distrutto l’intera porzione orientale di Johto. Non lasciatevi ingannare dalla dolcezza del suo viso. Passiamo avanti?” domandò poi a Lionell, che annuì serio.
“Passiamo avanti. Il secondo gioiello che ho per voi viene dall’Universo Z”.
“Questa è Sandra” continuò il capo dell’Omega Group. “Capopalestra di Ebanopoli…”.
“Esattamente”.
Gli occhi di Linda analizzarono per bene anche lei, e si focalizzarono sul corpo deperito e le guance scavate sul viso di quella che doveva essere una delle donne più forte e rappresentative dell’intera Unione Lega Pokémon. Gli occhi erano spalancati, e vene rosse di sangue partivano dalle iridi, inquinandole lo sguardo, nascosto parzialmente dalla frangetta di quell’insolito color turchese, di quel carré spettinato e a tratti deturpato. Guardò poi le mani della donna, con la pioggia che lavava macchie incrostate di sangue dalla mano destra, orfana di due dita.
L’altra mano stringeva una singola unica Pokéball, da cui grondava altro sangue. Niente cinturone attorno alla vita, soltanto un’unica sfera, stretta con energia.
“Anche nel suo universo la sua città non ha fatto una bella fine: è l’unica superstite della sua città, l’unica persona rimasta in vita tra la sua gente. Li ha visti morire tutti”.
Al contrario di Jasmine, sul volto di Sandra vi era paura. Mosse rapida gli occhi verso Lionell, che s’impressiono e indietreggiò di un passo. Guardò con paura la cicatrice sulla guancia destra che le deturpava il volto.
“Questa versione di Sandra è un’abile ladra, dotata d’istinto omicida e alta resilienza. Sandra saprà gestire al meglio situazioni estremamente complicate, con la sua aggressività. Non statele troppo vicino, e non abbassate la guardia: è una sociopatica. E poi abbiamo il fiore all’occhiello…” continuò Xavier, scalando verso l’ultimo dei suoi regali.
“Lei la consociamo” sorrise Lionell. Xavier annuì, portando ancora indietro i capelli fradici.
Linda poté poggiare lo sguardo su quella che era certamente una copia malriuscita di Fiammetta Moore, dai capelli lisci e molto lunghi. Coprivano lo sguardo cinabro e il sorriso incontrollato e intermittente, compulsivo, orfano di un premolare. Somigliava alla bellissima Capopalestra di Cuordilava soltanto per il volto, perché il corpo era smunto e scarno, coperto abbondantemente dal maglioncino beige. Le maniche erano troppo lunghe, insanguinate verso la punta, e contenevano i pugni della donna. La pelle del volto era chiazzata da macchie scure
“Un vero e proprio angelo della morte, dall’Universo M”.
“Qual è la sua storia?” domandò Linda, che continuava a stare immobile. Xavier annuì, perché conosceva quella risposta, e sorrise.
“In realtà è più semplice di quello che dovrebbe essere: questa donna è semplicemente folle. Pazza, indisciplinata e autolesionista. Ovviamente è una piromane”.
Lionell sorrise, abbassando il volto.
“Ovviamente” ripeté.
“I suoi Pokémon hanno dato fuoco a intere città e incenerito persone innocenti…”.
“È incredibile la differenza. Qui, Fiammetta Moore è…”.
“Lo so, è una donna bellissima. Nel suo universo il Team Magma ha vinto la battaglia contro il Team Idro, e ha allontanato Hoenn dal mare per diverse migliaia di chilometri. Sono morte molte persone e lei è stata ovviamente catturata…”.
Xavier poi si voltò, guardandola per un secondo. La pioggia rovinava il silenzio.
“È stata stuprata e torturata, ed è diventata la cavia di esperimenti biomedici che l’hanno trasformata in un mostro. La bellezza di questa donna sta nella sua forza: non ha una rotella in testa ma è riuscita a scappare e a dar fuoco al centro di redenzione dove la tenevano prigioniera, e da lì non sono mai riuscita a fermarla. Quando ha una sfera tra le mani, bisogna stare lontani da lei”.
Linda rimase immobile, col braccio destro a tenere l’ombrello e il sinistro a stringere la tracolla della borsetta. Era immobile.
“Non ti vedo convinta” ribatté Xavier Solomon, inclinando la testa e sorridendo.
“Le hai descritte come delle schizofreniche, delle sociopatiche… Come mai ora sono calme?”.
Annuì nuovamente, Xavier, voltandosi e muovendo ampi passi verso Jasmine.
“Voltati…” fece poi. La condottiera eseguì rapida e rimase immobile, mostrando ai due la treccia, le spalle strette e il fondoschiena tonico. Xavier poi la colpì con una manata al fianco.
“In ginocchio” ringhiò, e la vide abbassarsi rapida sui sanpietrini.
Le afferrò la treccia e la tirò in su. Era doloroso ma la donna non faceva una piega.
Lionell aguzzò la vista, vedendo un piccolo punto scuro dietro al collo.
“Ma… è…”.
“Un chip. Una piccola macchinetta di mia creazione che stimola il rilascio di endorfine e che le tiene calme, oltre a renderle totalmente soggiogabili al mio volere. E al vostro. Sono programmate per fare ciò che volete voi… Ma…” ridacchiò ancora. “Io non mi fiderei troppo…”.
Lionell sorrise e sospirò, guardando poi Fiammetta e rimanendo affascinato dagli occhi spiritati di sangue di quella. Stringeva i pugni con forza, il sangue colava sul pavimento e spariva nell’acqua che cadeva dal cielo.
“Ora hai quello che ti serve” tuonò Xavier. “Non mi deludere”.
Un lampo accecò i loro occhi e un secondo dopo quello era sparito.
 

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 - Montecristo No. 2 ***


8. Montecristo No. 2

 
 Adamanta, Timea, Uffici della Omecorp

“Sembra che piova da un anno. In questo posto piove sempre” rideva Fiammetta, quella strana ed emaciata versione stesa sui divanetti degli uffici della Omecorp. Aveva le gambe spalancate e il maglione era salito in alto, scoprendole la pancia. Subito dopo, un tuono preannunciò una nuova fase della tempesta, in cui l’acqua batteva così radente da limitare la visibilità a un palmo del naso.
Nessuno voleva uscire con quel tempo, ma sia le altre due Generali dell’Omega Group che gli stessi Lionell e Linda erano concentrati su quello che sarebbe dovuto accadere nelle ore successive.
Soprattutto l’uomo, che guardava fisso negli occhi Jasmine mentre le spiegava il piano. Delle tre le sembrava la più lucida.
“Non è molto difficile, mie care signore. Volete che vi ripeta qual è la situazione?” domandò. Linda era in piedi accanto a lui, e si limitò a sospirare, prima di eclissare la poca luce che entrava nella stanza dall’esterno. Guardava Jasmine fare cenno di no con la testa, e Fiammetta, una più che infantile Fiammetta, allungare le mani verso l’alto, con la schiena contro i sedili del Plume Blanche. Sandra invece le sembrava non riuscire a mettere a fuoco ciò che aveva davanti agli occhi; rimaneva immobile, con lo sguardo spento e la bocca leggermente schiusa, come se fosse sotto l’effetto di un potente allucinogeno.
“Il chip…” sussurrò poi, attirando a sé lo sguardo di Jasmine. Distolse subito lo sguardo e strinse i pugni, ritirando le belle labbra nella bocca.
La Capopalestra di Olivinopoli distolse poi lo sguardo dalla collaboratrice del nuovo capo e sospirò.
“Sì, è tutto chiaro” fece, facendosi portavoce delle tre.
Fiammetta si mise a sedere e sputò per terra.
“Per recuperare il cristallo abbiamo bisogno di… com’è che l’ha chiamato?” sorrise, divertita.
“Personale operativo” ripeté Lionell. “Uomini, per riuscire a lavorare in maniera veloce ed efficace”.
“Basto da sola per ammazzare quei quattro stronzi” ribatté.
“Quei quattro stronzi, come li chiami tu, sono Allenatori fin troppo abili… Già hanno sventato il mio piano una volta, e sono stato catturato e imprigionato. Non voglio che riaccada, e non lo permetterò”.
“Ha bisogno di mercenari” ribatté Jasmine, con una delicatezza totalmente fuori luogo.
“I mercenari sono stronzi!” urlò Fiammetta, ridendo istericamente.
Linda sospirò e gli si avvicinò.
“Loro troveranno i soldati?” domandò poi, catturando lo sguardo dell’uomo, che fece cenno di no con la testa, più serio che mai.
“Loro troveranno i soldi con cui li pagheremo”.
“Rubare…” esordì Sandra, battendo subito dopo le palpebre, come se fosse resuscitata in quell’istante. Il suo volto e il suo sguardo, da distesi e obnubilati che erano, s’incresparono, indurendosi: gli occhi si celarono dietro le palpebre stanche, tranne che per una linea sottile, mentre la fronte si corrucciava e richiamava le sopracciglia ad avvicinarsi tra loro.
“Esattamente. Tre rapine ben congegnate” replicò Lionell.
Jasmine fece cenno di no, incrociando le braccia sotto al piccolo seno.
“Non cadrò così in basso”.
Fiammetta invece scattò in piedi, saltellando divertita. I lunghi e curatissimi capelli danzavano sinuosi. “Sì! Mi piace! Rubiamo tutto!”.
Linda si avvicinò alla stampante e raccolse i tre fogli che aveva precedentemente stampato, distribuendoli alle tre. Con Fiammetta fu più cauta.
Jasmine guardò i fogli e assunse un’espressione di marmo. Lionell catturò poi la sua attenzione.
“Ci sono tre punti cardine su cui focalizzare le nostre operazioni, e adesso ve li illustrerò…”.
“Punti cardine…” ripeté Sandra.
“Il primo luogo da ripulire è la Miniera di diamanti di Libecciopoli… Quella è anche una Palestra, il responsabile è Rafan…” continuò Linda. Lionell si lisciò i capelli con le mani e sospirò.
“Non sarà semplice ma il rischio è proporzionato alla resa”.
“Preso!” urlò subito Fiammetta, alzandosi in piedi e saltellando felice. Concluse con uno yoohoo euforico.
“Il secondo colpo…” continuò Linda, fissando la rossa di Cuordilava “… è il Museo delle Rovine d’Alfa, tra Violapoli e Azalina, a Johto. Vi sono antichissimi bassorilievi molto richiesti sul mercato nero e potremmo intascare facilmente qualche milione”.
“Jasmine” ribatté subito Lionell, guardandola. “Qui ci muoviamo nella tua regione… le tue conoscenze del luogo credo che facciano di te la candidata migliore…”.
“E sia”.
Linda concluse. “A Sandra credo rimango la banca d’Aranciopoli, una delle più ricche dell’intera nazione”.
“Devo rubare dei soldi?”.
“Sì. Non avrete alcun tipo di appoggio finanziario ma sarete messe in condizione di gestire le singole operazioni a modo vostro. Al termine di queste ci concentreremo su come prendere il cristallo di Arceus. Tutto chiaro?”.
Linda le vide annuire, tutte. Lionell le congedò e sorrise, chiudendo gli occhi per provare a recuperare un po’ di pace, quindi allargò il nodo alla cravatta e aprì i primi due bottoni della camicia.
Respirò. Era piacevole.
Poi si alzò, avvicinandosi al divanetto dove era stesa Fiammetta, e si sedette lentamente. Le gambe erano indolenzite e lui riuscì a stare per poco tempo teso in avanti, cercando con lo sguardo una scatola di mogano finemente intarsiata. La raccolse e si abbandonò contro il morbido schienale. Vi era rimasto l’odore pungente di Fiammetta. Linda invece si mosse lentamente, andando a sedersi dietro la scrivania, al posto del capo. Vide Lionell aprire la scatola ed estrarne un grosso e aromatico sigaro. Il profumo profondo s’espanse rapido per tutto l’ufficio.
“Spero che vada tutto per il meglio. Ti va di fumare?”.
“No” ribatté l’altra, fissandolo mentre mozzava la testa del lungo sigaro con un tagliasigari in platino. LW era inciso sulla superficie splendente.
“Come profuma… Ricordi di altri tempi”.
Inserì l’estremità del preziosissimo sigaro nel mozzatore e la tagliò via, permettendo lo sprigionarsi dell’aroma di tabacco assieme a quella del legno.
“Sai... questo sigaro è l’espressione della vita. Immagina, un Montecristo numero due, proveniente dall’America Centrale, una di quelle isolette piene di belle donne e palme da cocco, con la sabbia bianca e il mare cristallino. Il mio sogno era imparare a pescare, trasferirmi lì, magari  fare lo scrittore, ma sto divagando... questo sigaro è unico. Ogni pezzo viene rollato a mano da professionisti. Lo chiamano Montecristo perché per anni è stato letto proprio Il Conte di Montecristo ai roladores, e questi adorano quel libro”.
Linda spostò una ciocca dallo sguardo e cercò di comprendere il nesso con tutta quella faccenda, ma non riusciva a trovare il cardine di tutto ciò che ascoltava. Lo sentì continuare.
“Anni fa avere tra le mani questo bastoncino di tabacco aromatizzato significava partire per un viaggio che ti avrebbe cambiato per sempre; un number two era assolutamente il miglior sigaro in circolazione. E tutti cominciarono a capire che, se davvero volevano apparire i migliori, dovevano mostrarsi con questo sigaro tra le labbra. Sai che significa ciò?”.
Linda fece cenno di no, alzando le spalle.
“Significa che la domanda crebbe, e quella che prima era una piccola baracca dietro una grande piantagione di tabacco nella Repubblica Dominicana diventò una fabbrica. I soldi affogarono quella lentezza di produzione quasi mistica e spirituale, le macchine aumentarono la lavorazione e il risultato di oggi è che un due appena comprato sa di merda”.
“E quindi?” ribatté quella.
“Beh, quindi capita che ti ritrovi tra le mani una situazione complessa e dall’alto potenziale, qualcosa che ti potrebbe cambiare la vita. Ma, proprio come per questo sigaro, delle volte potresti ritrovarti con del tabacco puzzolente a bruciarti nei polmoni”.
La donna sorrise divertita. “E nonostante ciò tu rischi e continui a comprare quei Montecristo?”.
“No” emulò il sorriso lui. “Questi sigari sono conservati in questa scatola da più di vent’anni, quando ancora non c’era tutta questa disponibilità. Oggi un numero due puoi trovarlo anche in bocca ad un benzinaio. No, no... Venti, trent’anni fa, un numero due era soltanto per le persone che frequentavano alti ambienti. Quindi, tesoro, questo Montecristo è perfetto. Già so che adesso, accendendolo, sentirei il legno aromatizzato, il tabacco speziato e quel leggero sentore di cuoio, che fa di questo sigaro il migliore del mondo. Ma, cara mia, questo significa che bisogna analizzare ogni situazione e comprendere, quando davvero ce n’è bisogno, che anche l’occasione più vantaggiosa, alla fin fine, possa essere un flop terribile”.
Linda lo vide prendere un grosso accendisigari dalla scatola di legno e bruciare la prima parte, tirando ampie boccate. Lionell sentiva tra le guance quell’aroma inconfondibile, pastoso sulla lingua e leggero nei polmoni. Tirò fuori quella boccata, con velocità, creando una nuvola di fumo grigio davanti agli occhi color verdi della donna.
“Profuma molto...”.
“Lo so. Ma non a tutti piace”.
“Tu temi che tutta l’operazione possa essere un flop?”.
“Forse sì. O forse no. Magari il Montecristo Numero Due sarà davvero perfetto se aspirato da quelle tre giovani bocche. Altrimenti sarà il solito mucchio di tabacco scaduto marcito tra le dita di qualche pazza. Vedremo il tempo che ci dirà”.
 
 Kanto, Zafferanopoli, Circumvallazione Esterna

Yellow era nata nel Bosco Smeraldo, e ci aveva vissuto fino a una certa età, prima di spostarsi a Smeraldopoli, che era comunque una grande città. Ma Zafferanopoli era differente.
Ogni volta che attraversava il varco d’ingresso della città, rimaneva sempre un po’ stranita, per via dei grattacieli, che mano a mano si avvicinavano al centro della città diventavano sempre più alti. Il Bosco Smeraldo era differente: lì i palazzi si chiamavano querce, al massimo pioppi, e non c’erano marciapiedi ricolmi di spazzatura ma prati verdi ricchi di fiori e cespugli di bacche.
Lì non si vedevano Pokémon. Quello non era posto per loro.
Quello era un contenitore di esseri umani, che giocavano a vivere in cubicoli di poco più di cento metri quadri senza mai realmente sapere cosa significasse ascoltare il rumore del vento che pettinava l’erba alta o sentire l’odore della salsedine.
Lì nessuno la guardava in faccia, la gente era troppo indaffarata per accorgersi del suo spaesamento. Calpestavano famelici quei marciapiedi e sfrecciavano via, come se stessero scappando da qualcosa.
Come se stessero correndo per raggiungerla.
Red la stringeva, fiancheggiandola a ogni passo e stringendo assieme a lei il manico dell’ombrello, per non bagnarsi. Seguivano l’altra coppia, formata da Green e Blue, e si fermavano solo quando lo facevano loro. Li guardava, fissava le mani della donna e il volto granitico dell’uomo. Poi sospirava; in fondo capiva i motivi per cui Green non riuscisse a placare quel prurito che aveva dentro, tra lo stomaco e la pancia.
Lo aveva avuto anche lei, per mesi. Forse erano stati anni, fortunatamente non ricordava.
Sapeva soltanto che per mesi o anni era stata esattamente come lui, quasi sempre su di un filo sottile legato tra le due estremità di un baratro, che spesso aveva rischiato di toccare.
La depressione era buia. La depressione era fredda.
Contemporaneamente però, la depressione era qualcosa in cui pareva sicuro rifugiarsi, nascondersi da un mondo esterno fin troppo caustico, e più veloce di quello che ci si aspettava.
Lei aveva sentito il gelo sulla pelle, aveva rischiato di non uscirne più, fino a quando non cominciò a chiedersi per chi si stesse deprimendo. Per un uomo che l’aveva tradita e per le sue decisioni scellerate?
No. Non poteva funzionare in quel modo.
Lei lo aveva capito molto prima di lui, ma entrambi viaggiavano nella stessa direzione, seppur su due barche diverse, e col tempo avevano imparato a distinguere il giorno dalla notte, il caldo dal freddo.
Inquieto, lo vedeva camminare lungo le strade di Zafferanopoli senza riuscire a capire dove guardare, cosa cercare. Voleva una pista, o forse voleva soltanto distrarsi dalla presenza di Red.
Lo capiva bene: anche Blue le provocava quello strano effetto di repulsione, e se pensava a quanto avesse voluto bene a quella donna in passato la cosa le faceva strano. Ma tant’era, il passato era passato, e nonostante avessero perdonato alcuni tradimenti a dispetto di altri, quella riunione portava con sé degli strascichi che le due vittime non erano riuscite a evitare.
Quindi, mentre Yellow si limitava a chiudersi in se stessa, a sopportare e a cercare continuamente in Red lo sguardo che tanto la rassicurava, Green tentava di assopire la rabbia che cresceva ogni secondo. Con pessimi esiti.
I marciapiedi parevano sempre più stretti, e uomini in doppiopetto e donne in tailleur camminavano rapide, stringendo la ventiquattrore con una mano e il manico dell’ombrello con l’altra. Tornavano a casa, forse. Forse no. Blue entrava nelle vite di quelle persone per un attimo, stringeva con loro un piccolo legame attraverso un semplice sguardo, osservava le loro vite dall’esterno, poi li perdeva, non appena la oltrepassavano. Ignari, tutti loro, del pericolo che correvano.
Green invece sentiva paura e responsabilità avanzare esponenzialmente di pari passo. E il fegato marciva, per il veleno che stava ingoiando, e la fronte scottava.
E il cuore batteva, e il panico lo affogava, imbeveva i polmoni di quel liquido salmastro e scuro. Nero come la pece.
Salato come l’oceano.
Freddo come il ghiaccio.
Ogni tanto si voltava e guardava Blue, lei non se ne accorgeva, o forse sì, ma lasciava fare, limitandosi a fermarsi saltuariamente a fissare una vetrina. Guardava i vestiti, le scarpe, le borse.
La pioggia aumentava, e intanto la pazienza di Green si consumava.
“Allora?” domandò, guardando la donna con cui condivideva l’ombrello. “Qualche novità?”.
Blue prese il cellulare e guardò lo schermo.
“Niente. Niente di niente, i miei vecchi contatti stanno monitorando il mercato nero ma non c’è alcuna traccia del cristallo”.
Un tuono fece tremare i vetri dei palazzi. Yellow alzò il volto e sospirò.
“Sta diventando buio” fece.
“Chiamali” continuò Green, rivolto all’altra.
Quella spalancò gli occhi. “Non sono persone che puoi chiamare quando vuoi, Green... Conviene aspettare”.
L’altro sbuffò e fece cenno di no con la testa. Un nuovo tuono riverberò nell’aria, prima che la via che percorrevano si tuffasse nella piazza principale della città. Se la tempesta non fosse imperversata decine e decine di persone avrebbero occupato le panchine dagli schienali imbrattati dai graffiti, attorno alla grande fontana in marmo che raffigurava un Lapras.
Con quella pioggia, nessuno avrebbe apprezzato i giochi d’acqua.
Red portò una mano al fianco e annuì.
“Ogni volta che vengo qui non mi capacito di quanto alti siano questi palazzi. Contengono soltanto uffici, vero?”.
Blue annuì. “Sì. Qui ci sono le sedi delle società più importanti di Kanto...”.
Un portone si aprì scricchiolando, facendoli voltare rapidamente. Dal primo palazzo sulla destra uscì un uomo alto e ben piazzato, stretto nel suo cappotto blu. Salì su di una limousine e sparì.
“Qui circolano un sacco di soldi...” ribatté Red.
Blue sorrise. “Non mi sorprenderei se riuscissimo a scoprire che uno di questi pezzi grosso goda di un canale preferenziale con l’uomo che ci ha sottratto il cristallo”.
“Plausibile” sorrise quello dagli occhi rossi. “Magari domani potremmo andare da Sabrina e farle fare una delle sue cose strane... potremmo capire se qualcuno di questi uomini in doppiopetto è coinvolto”.
Green lo fissava torvo, Red lo vedeva.
“Cosa c’è?” chiese.
“Domani potrebbero esser già morte milioni di persone, Red”.
L’ennesimo tuono fece tremare Zafferanopoli. L’antifurto di un auto cominciò a suonare.
“Lo so, ma ora è buio e credo sia meglio aspettare di poter avere notizie concrete da qualcuno dei ricettatori che abbiamo contattato... Intanto faremo bene ad andarci a riposare, tutti...”.
Green sembrava contrario e rimase dietro al gruppo, mentre i tre raggiungevano con calma il Grand Hotel Sheraton, che svettava tra due grossi palazzi. L’intera facciata era illuminata da luci gialle, calde, meravigliose, e l’intera hall dell’albergo era stata lasciata a vista, tramite delle ampie finestrate che permettevano alla luce d’illuminare la lunga passerella coperta.
La raggiunsero, un giovane uomo in divisa blu con particolari dorati fece loro un cenno col capo, mentre li vedeva chiudere gli ombrelli.
“Potremmo pernottare qui” disse Red, guardando prima Yellow e poi Blue. “Che dite?” concluse, fissando Green.
Quello ricambiava lo sguardo, rimanendo immobile e analizzando la sua sporca figura, bagnata dalla pioggia. Vedeva i capelli, poi un altro flash del suo torace nudo che aderiva sul petto di Blue, quindi gli occhi, rossi e accesi, e l’immagine nitida delle sue mani che stringevano le natiche della sua donna.
E infine il sorriso. Lo stesso sorriso che indossava quella notte, mentre toccava il paradiso.
“Tu non dovresti neppure essere qui, Red. E voi due...” rimbeccò, puntando il dito prima sulla sua donna e poi su quella dai capelli biondi. “... voi due, se avete intenzione di darmi una mano non dovreste starlo a sentire”.
Red avanzò leggermente.
“Capisco lo stress, ma al momento la cosa più saggia è fermarsi e aspettare che accada qualcosa, Green. Non sei lucido, altrimenti lo sapresti anche tu...”.
Blue guardava il volto del suo uomo, visibilmente provato e carente di quel sonno che tanto gli serviva, che mutava forma, trasformandosi in una maschera in grado di accogliere la rabbia e il dolore che covava dentro.
“Non sono lucido perché tu sei uno stronzo!” urlò. Il facchino si voltò rapido, con lo sguardo che non riusciva a celare la preoccupazione. Si chiedeva perché quei due urlassero. Lui stesso vide quello dai capelli e gli occhi rossi abbassare lo sguardo e muovere un passo in avanti.
La pioggia continuava a battere sull’asfalto, suonando una melodia intensa e profonda, che forse in un altro momento li avrebbe rilassati. Gli animi, però, erano totalmente tesi.
“Credo che sia arrivato il momento di finirla...”.
La voce di Red rimbalzò contro un muro ottuso e rabbioso dagli occhi verdi. La solita indifferenza, autoctona nell’espressione di Green, era ormai fuggita via.
Brace nei suoi occhi, il sangue gli ribolliva nelle vene.
“Cosa dovrei finire?!”.
“Basta. Davvero”.
La risposta arrivò netta, e fece male come uno schiaffo sulla pelle ustionata.
“Basta?!”. Green sorrise, nevrotico. “Credi che basti chiedere di smetterla?!”.
Red sbuffò e abbassò lo sguardo.
“So che non basta…”.
“Già! Non basta!” puntò poi il dito verso Blue, continuando a guardare lui. “Per te è stata una scopata, niente di più! Per me è stato vedere le persone che amavo mettersi d’accordo per pugnalarmi alle spalle!”.
Red sospirò, dopo un secondo storse le labbra.
“So che non deve esser stato facile”.
Yellow, dietro di lui, piangeva silenziosamente. Blue non poteva vederla.
“No! Non lo è stato! Io mi fidavo di voi!  Io mi fidavo di te!”.
Red rimase immobile. Green era orfano, schivo e perennemente incazzato anche prima di quella brutta storia. Aveva mantenuto l’equilibrio per troppo tempo, prima che la realtà dei fatti, che l’ira e tutta la sua voglia di giustizia bussassero nel petto.
“Lo so… e abbiamo sbagliato… Io. Io ho sbagliato, più di tutti, perché ero il tuo migliore amico, e non ho giustificazioni”.
Poi fece un errore, perché si avvicinò a lui in cerca di quella riconciliazione che tanto agognava. Continuò a parlare, con Green che lo guardava mentre invadeva il suo spazio personale.
“Però, quando ti chiedo di smetterla, è perché adesso non contiamo, né tu né io, né tutta questa situazione di merda, paradossale, che ci ha solo procurato dolore…”.
“A te?! A te avrebbe procurato dolore?! Da quando il corpo della mia fidanzata provocherebbe dolore?!”.
“Green, cazzo! Ascoltami!” lo dribblò l’altro, afferrandogli i polsi.
“Non toccarmi…”.
“Questa storia è più importante di noi! Dobbiamo far fronte comune per…”.
“Ti ho detto di non toccarmi!” urlò il nipote di Samuel Oak, strattonandolo e liberando le mani dalla stretta dell’altro. E poi tutto trascese, perché Green non riuscì più a sopportare quell’impeto.
L’istinto fece il resto: lo colpì con così tanta forza allo stomaco da farlo piegare in due. Quello sputò saliva e sangue, inginocchiandosi subito dopo, e poggiando i palmi delle mani sul freddo marmo dell’albergo.
Il facchino rimase immobile, mentre Yellow scattò immediatamente contro Green. Lo spinse via, in lacrime, colpendolo con deboli pugni sul petto.
“Che cazzo stai facendo?!” piangeva lei. “Non dovete litigare! Dobbiamo trovare il cristallo!”.
Blue invece non sapeva cosa fare. La paura e lo svilimento parevano averle bloccato le caviglie al pavimento.
Gli occhi di Green erano freddi, glaciali, totalmente bianchi, mentre l’aria entrava all’interno dei polmoni e pareva non bastare mai. Il cuore batteva ad un ritmo indecente, la mano doleva e la mente sembrava essere entrata in un loop senza via d’uscita, in cui lui colpiva il nemico fraterno una volta in più ogni volta.
E poi incrociò lo sguardo di Blue. Vulnerabile, ancora colpevole.
Instabile, volubile come un cielo di febbraio.
“G-green…” singhiozzava Yellow. La vide, lui, col debole trucco sciolto sul viso pallido, che impiastrava i capelli biondi che le finivano sul viso e andavano oltre, sulle guance e sul mento. Gli occhi gialli della donna erano ricolmi di lacrime e le labbra tremavano, incapaci di rimanere ferme.
“Andatevene” rincarò la dose Oak. “Sparite”.
“No” rispose Red. “Spero che questo gesto ti abbia fatto stare meglio… ma noi non molleremo la presa…”. Aiutato da Yellow si rimise in piedi, sputando ancora grumi di sangue, prima che l’ennesimo tuono urlasse nel cielo della sera. Il cielo continuava a crollare mentre la bionda cercava con lo sguardo il facchino.
“Può-può… p-può dar…” singhiozzò. “P-può darmi un-n-na… una ma-mano?” singhiozzava quella, con le mani tremanti che stentavano a reggere l’altro.
Il giovane si precipitò ad aiutarla, sollevando di peso Red e aiutandolo a rimanere dritto.
“Sto bene… grazie…” fece quello. Alzò poi gli occhi, guardando Green indossare una maschera di cera. “Noi non andremo via. Ora è anche nostra responsabilità, troppe persone sono in pericolo, e a confronto, ciò che ci è capitato non ha alcun valore. Spero che un giorno potrai fidarti di nuovo di me, ma per il momento io e Yellow andiamo a riposare”.
Sputò ancora saliva e sangue e poi si voltò, stringendo il fianco di Yellow.
“Ce la faccio…” disse, prima di sparire oltre la porta girevole.

Blue era ancora lì.

I loro occhi s’incrociarono, freddi e duri come l’acciaio.
“Vuoi colpire anche me, ora?”.
Green stringeva ancora il pugno, l’arma del delitto. Cercò poi di rilassare i muscoli, riuscendoci, ma solo a metà.
Digrignò i denti, la pioggia cadeva e il respiro ormai pesava una tonnellata.
“Non potrei. Mai”.
“Io non voglio più sentirmi così” fece l’altra, stretta tra le braccia. Il vento ululò, soffiando qualche goccia di pioggia sui loro volti. “Colpevole. Sono stata per anni immersa in quella merda, e non ne vado fiera. Ma pensavo che fossimo andati avanti”.
Green evitava i suoi occhi. Non capiva perché gli parlasse in quel modo. In fin dei conti era lui la vera vittima di tutto.
“Non puoi immaginare” lei rispose, dopo qualche secondo dove soltanto la pioggia fu protagonista. “Non puoi minimamente immaginare”.
“Stai trascinando questa storia troppo a lungo. Dividiti: se vuoi odiare lui, o anche me, fallo pure, ma non mentre sei nel pieno delle tue funzioni. Torna a casa e distruggi ogni cosa, spara lui nel petto e affoga me, se credi che sia la cosa giusta… Ma lui ci serve, e lo sai…”.
“Lui non ci serve!” gridò, mentre la sua voce sbatteva forte contro la vetrata dell’albergo.
“Sì che ci serve, cazzo!” rispose a tono Blue. “E ci serve Yellow! E quello che abbiamo fatto non deve condannare nessuno che non sia qualcuno di noi quattro!”.
La gente ormai li fissava da lontano. Qualcuno li riprendeva col cellulare e la cosa infastidiva la ragazza, che abbassava il volto nel vano tentativo di nasconderlo.
“Vorrei che tutto questo finisse nel tempo di un attimo…”.
“E nello spazio di un atomo…” concluse lei.
Si avvicinarono l’uno all’altra, le loro fronti combaciarono come fossero chiave e serratura. Sul volto di Green c’era stanchezza, su quello di Blue le lacrime.
“Andiamo a riposare” disse quest’ultima, prendendolo per mano ed entrando nell’albergo. 
 
Hoenn, Verdeazzupoli, Villa Petri, un paio d’ore più tardi
 
Rocco Petri s’affrettava lungo la grossa scalinata che precedeva l’ingresso di casa sua, cercando riparo dalla pioggia. Aprì la porta, sospirando. Era tutto bagnato.
Si chiedeva come fosse possibile che nell’arco d’un giorno il tempo fosse mutato in quel modo e in meno d’un secondo rivisse gli avvenimenti delle ultime ore, cominciando dalla telefonata che aveva ricevuto dal Centro Meteorologico di Hoenn, poco fuori Forestopoli; gli avevano spiegato di un estesissimo addensamento nuvoloso creatosi dal nulla, all’improvviso.

“È un uragano, Signor Petri. Questa tempesta comincerà a soffiare venti fortissimi, estendendosi per diversi chilometri e comprendendo anche altre zone della nazione”.
“Non solo Hoenn?”.
“No. Tuttavia, per via del clima, qui ad Hoenn la sua natura è di molto peggiore. Bisogna diramare lo stato di pre-allerta”.

Aveva accolto la notizia con un velo di paura, alzandosi di scatto dalla poltroncina del suo ufficio e guardando fuori l’ampio finestrone che aveva alle spalle e ai lati della scrivania. Vide il cielo che crollava giù, fondendosi col mare di Iridopoli.
Subito dopo aveva telefonato a Fiammetta e le aveva comunicato in anteprima la notizia. Le ordinò poi di dare l’allarme e avvertire i Centri Pokémon di Cuordilava. Fu perentorio, poi, quando le chiese di chiudere la Palestra il prima possibile e di avviarsi verso casa, da sua sorella Jarica e da Leslie, la sua tata. Dopo aver chiesto ed ottenuto spiegazioni, Fiammetta seppe che qualche ora dopo Pat le avrebbe raggiunte per portarle a Verdeazzupoli, a Villa Petri, dove contava fossero più al sicuro.
Attaccato il telefono con Fiammetta, chiese alla segreteria della Lega di comunicare a tutti gli altri Capipalestra la stessa cosa, specialmente a Rudi di Bluruvia, dato che il luogo era isolata e maggiormente esposto al pericolo uragano. Quello avrebbe dovuto mettere in pratica il Protocollo Sicurezza 00, ovvero avrebbe dovuto organizzare un’evacuazione preventiva, convogliando la popolazione nel punto di raccolta più sicuro in attesa che Alice, con il suo Flying Ferryboat, un grosso aereo che serviva apposta per situazioni del genere, dirigesse le persone a Ferrugipoli, nel sud della città, dove avrebbero trovato pronti gli alloggi popolari. Li avrebbero divisi con la gente di Orocea, precedentemente già evacuata dalla Capopalestra di Forestopoli.
In terza battuta aveva comunicato ad Adriano la notizia, anche se Ceneride non gli destava particolari preoccupazioni, dato che veniva protetta già dall’alta corona delle pendici del vulcano nel quale sorgeva. Tuttavia gli aveva fatto una domanda ben precisa.

“Kyogre è ancora in stato di riposo?”

E fino a quando Adriano non avesse avuto la certezza che il gigante della pioggia fosse ancora in stato di quiete, Rocco non si era ritirato a casa.

Dorme”.
“Bene. Riguardati”.

Lasciò Iridopoli subito dopo, anche se non avrebbe dovuto sfidare l’uragano così incoscientemente. Attraversò il mare impetuoso in groppa al suo Skarmory, pregando che nessuno fulmine lo incontrasse a metà strada. Sotto di sé il mare pareva così agitato e irrequieto da dargli l’impressione di potersi alzare in qualsiasi momento e catturarli, tirandoli giù da decine di metri di altezza.
Invece andò tutto bene.

Quando il cielo era grigio, casa sua era sempre buia. L’atrio profumava di legno e gelsomino, mentre l’odore della pioggia faceva il suo ingresso assieme a lui. Appese il giubbino all’appendiabiti e passò una mano sul volto, sospirando. Si guardò allo specchio, leggermente stanco, ma la sua giornata non era ancora finita: doveva sincerarsi che Fiammetta e la piccola Jarica stessero bene.
Da lì poteva vedere il salotto illuminato dal fuoco del camino.
Niente luci. Soltanto le fiamme.
Vi si avvicinò, cambiando stanza.
Il salone era parecchio ampio, e due grosse vetrate, interrotte soltanto da una credenza in stile vittoriano nel mezzo, e illuminavano i due lati brevi. Il primo vedeva protagonista una coppia di poltrone, che calpestavano entrambe un tappeto persiano dalla fantasia azzurra.
Tra di loro vi era un tavolino di marmo, molto bello, che manteneva un vassoio d’argento e un set d’alta di bicchieri di cristallo d’alta classe. E poi una bottiglia di Remy Martin.
Suo padre amava quel cognac, e quando lo andava a trovare voleva sempre sorseggiarne un bicchiere.
Il secondo lato breve del salone invece vedeva protagonista proprio il camino, e un divano ad angolo con penisola, di velluto grigio. E una donna bellissima dai capelli rossi spettinati, ipnotizzata dalle fiamme.
Sorrise, lui. Quella visione non poteva essere rovinata da nessuna giornata pesante.
“Ciao” la salutò, camminando lentamente. I suoi passi bagnati producevano uno stridio fastidioso sul parquet di mogano. La vide voltarsi leggermente, con quel sorriso dolce di cui si era innamorato stampato sul viso. Gli baciò una guancia e tirò i piedi freddi sotto le natiche.
“Ciao, amore” sussurrò impercettibilmente.
“Hai freddo?” osservò lui. “Ti prendo una coperta”.
Lei però fece cenno di fare silenzio, indicando con gli occhi Jarica, che dormiva stesa accanto a lei. Rocco alzò le mani e ritirò le labbra, prima di farle segno di allontanarsi leggermente da lì, per poter parlare senza svegliarla. La vide alzarsi lentamente e poi girare attorno al divano.
Assieme si avvicinarono a una delle due finestre, poi si scambiarono un altro bacio.
“Sei bagnatissimo…”.
Rocco guardò il giardino sotto la tempesta e annuì. “Ho volato qui fin da Iridopoli”.
“Sei un incosciente”.
“Che facevi qui, in silenzio?” chiese poi.
Fiammetta sorrise e tornò a guardare Jarica, prima di voltarsi e riprendere la mira negli occhi del suo uomo.
“Ma nulla… Leslie è salita a fare una doccia e così io sono rimasta qui a tenere d’occhio la piccola peste…”.
“È incredibile quanto ti assomigli…”.
“Lo so, lo dici ogni volta. Ma ti giuro che l’abbiamo adottata”.
“Lo so. Scusa”.
Lei sorrise ancora. Amava quell’animo gentile e nobile. Gli baciò nuovamente le labbra, forse un po’ più passionalmente, assaporando il suo aroma, che reputava fantastico.
“Mettiti qualcosa di caldo addosso…”.
“Sì” annuì il Campione. “Vado a fare una doccia e poi mangiamo qualcosa”.
Fiammetta annuì e guardò verso l’ingresso.
“Ho già messo a preparare qualcosa, e ho aperto una bottiglia di vino. Spero non ti dispiaccia”.
Rocco alzò le spalle. “No, tranquilla, hai fatto bene… Io vado”.
“Non farti trovare nudo con Leslie” ribatté l’altra, voltandosi e suscitando una risata silenziosa anche nel padrone di casa, che certamente non era interessato a una signora sformata di mezz’età non proprio piacente.
Salì le scale in silenzio, sentendo i piedi scivolare sul marmo. Afferrò con energia il corrimano di mogano fino a quando non raggiunse la camera da letto.
La stanza era ben ordinata e pulita. Profumava di buono. Probabilmente Fiammetta si era stesa al suo posto, perché lì le lenzuola erano sgualcite, mentre dall’altra parte erano ben tirate.
Chiuse la porta e sbottonò lentamente la camicia, fischiettando A Gentle Awakening. Liberò gli addominali e i pettorali scolpiti, poi guardò la sua figura, coi capelli argentati bagnati da quella pioggia inesorabile. Rimase a petto nudo e sentì la voce di Fiammetta, che parlava di cartoni animati come giusta merce di scambio per aver mangiato l’intera cena.
Probabilmente Jarica si era svegliata. Quella bambina era davvero pestifera.
Da piccolo, lui era molto più tranquillo. Più timido, più concentrato sugli studi.
Troppo responsabile, con ogni probabilità avrebbe rivisto alcuni lati del suo carattere se avesse potuto tornare indietro. Smise di pensarci, slacciò la cintura e svuotò le tasche dei pantaloni da qualche centesimo, resto di un caffè al cinnamomo preso al Centro Pokémon quel mattino, scontrino annesso. Poi levò anche quelli, raccolse i vestiti bagnati ed entrò in bagno, dove legno e marmo s’avvicendavano elegantemente. Le luci gialle illuminarono il pavimento, gelido sotto i suoi piedi umidi.
Gettò i panni nella cesta e impostò l’acqua della doccia. Ci avrebbe messo qualche secondo per arrivare a temperatura, quindi si avvicinò allo specchio e guardò la propria figura.
Passò una mano tra i capelli bagnati, disegnando tre solchi profondi tra quei fili argentati, e poi grattò una guancia, sentendo le dita sfregare contro la barba, la stessa che aveva raso quella mattina, come faceva ogni giorno.
A Fiammetta piaceva la sua pelle liscia.
Gli occhi poi si adagiarono sul petto e sull’addome, e guardavano i muscoli ricoperti dalle cicatrici subite quando aveva assaggiato la morte, anni prima.
La cosa lo aveva segnato; aveva passato l’intero anno successivo a riequilibrare la psiche, perché non era una cosa semplice da gestire, un viaggio nell’aldilà con biglietto di ritorno. Spesso Fiammetta gli chiedeva di quegli attimi di vuoto, di assenza assoluta, ma lui si limitava a fare spallucce, perché non voleva dirle che, una volta che gli occhi smettevano di trasmettere immagini al cervello, e che i suoni si ovattavano, tutto ciò che rimaneva era un buio sempre più esteso, che t’inglobava e t’isolava.
Fino a quando dimenticavi di pensare.
Da quando riaprì gli occhi riuscì a guardare il mondo con occhi diversi. Forse diventò più pragmatico ma capì che il popolo di Hoenn era il suo popolo e che avrebbe dovuto proteggerlo con tutte le sue forze.
Imparò ad amare se stesso e gli altri.
Aveva accolto Fiammetta nella sua vita, anche se rappresentava totalmente il suo opposto, con quel carattere forte, con quel suo essere eccessivamente rumorosa e cocciuta.
Era terribilmente polemica, e quando non era giornata, beh, semplicemente non era giornata. Donna focosa, del resto. Ma per la gran parte del suo tempo, Fiammetta sorrideva. E avere accanto una donna gioiosa, e così bella, faceva diventare i giorni no nel giusto prezzo da pagare per costruirsi una vita assieme.
Amava quella donna dai capelli rossi con tutto se stesso, e quando era nel suo ufficio, e alle sue spalle il cielo cominciava a farsi buio, e i suoi collaboratori bussavano alla sua porta per salutarlo, perché ormai era tardi e volevano far ritorno alle proprie case, lui pensava al fuoco del camino, alle cosce della sua donna tirate sul divano, al vino rosso nel calice che stringeva, al suo cuore che pompava sangue bollente nelle vene, ai capelli legati, al profumo sul suo collo, a quello dei suoi seni, al suo sapore.
Spesso cedeva alla tentazione di vederla, spegneva la luce, chiudeva a chiave la porta dell’ufficio e tornava a casa. E lei era lì, e tutti i pianeti tornavano nella propria posizione.
Erano passati due minuti, in cui si era immerso nei meandri della sua mente, ma il bagno si stava riempiendo di vapore e l’acqua della doccia era arrivata a temperatura.
Sospirò, quindi si gettò sotto il getto caldo, lasciando che l’acqua gli massaggiasse il corpo, massacrato dallo stress di quella giornata, impregnando i capelli e scivolando in basso, sul volto.
Gli occhi erano chiusi, le mani toccavano i bicipiti e i pettorali, scivolando sulla schiuma profumata. L’esperienza era totale e coinvolgeva tutti i sensi, in maniera assidua e profonda, tanto che si rese conto soltanto dopo che qualcun altro era nella doccia accanto a lui.
E di certo non era lì per fargli del male: altre due mani si aggiunsero a massaggiare il corpo dell’uomo, e lo facevano in un modo così tanto familiare da non destargli la minima preoccupazione: rimase in silenzio, sorrise, poi sentì i seni di Fiammetta premergli sulla schiena, mentre una mano stringeva la natica e l’altra brandiva l’addome come fosse di sua proprietà.
Poco dopo stavano facendo l’amore.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 - Moto Perpetuo ***


9. Moto perpetuo


 
Johto, Olivinopoli, Il faro
 
L’ennesimo tuono rombò e fece vibrare le finestre. Riempì le sue orecchie e lo costrinse a schiudere gli occhi, sospirando.
La luce c’era. E non era quella del faro, perché ormai era arrivato il giorno.
Con una velocità impressionante.
Era ancora stanco, Corrado, che irrigidì tutti i muscoli e sbadigliò, respirando profondamente e rilassando i muscoli, affondando la testa nei guanciali. Quei cuscini erano troppo sottili, forse anche il materasso. Il letto non aveva doghe, ma era una tavola di legno rigida su cui si poggiavano le coperte. Si mosse leggermente, la schiena doleva un po’ ma niente che una corsetta non avrebbe sistemato.
Se solo avesse avuto voglia di farlo.
Rifletté, pensando che forse quel dolore era frutto delle tante ore di viaggio che aveva affrontato per mare; insomma, Arenipoli e Aranciopoli erano lontane, e nonostante lo sbarco al porto in tarda serata preferì prendere subito il bus per Zafferanopoli, invece che pernottare in qualche alberghetto di fortuna. Una ragazza lo riconobbe, sul pullman: scattarono una foto, lui le sorrise educatamente poi rialzò le cuffie e ascoltò i Pink Floyd fino al suo arrivo.
Il treno era leggermente in ritardo, ma Kanto era caotica, lo sapeva, si era preparato e rimase in silenzio ad aspettare, con le mani in tasca, la schiena già doleva, e una voglia eccessiva di spiedini di calamaro.
No, forse era la salsa agrodolce che usavano ad Arenipoli, in quel piccolo localino accanto al mercato, che forse conosceva soltanto lui e che preparava i veri piatti della tradizione, come piacevano a lui. Che poi non era neppure legato al cibo tradizionale.
Gli piacevano gli spiedini.
No, quella salsa.
Sì, la salsa.
Il treno lo sorprese, le sue porte si chiusero nella città gialla e si riaprirono un’ora dopo, a Fiordoropoli, con Chiara che aspettava con le braccia incrociate, il ciuffo arruffato sulla fronte e gli occhi stanchi. Indossava una giacca a vento bianca, forse un po’ troppo stretta.
L’aveva salutata, lei era sempre troppo affettuosa con lui, con quella sua mania di toccargli i capelli. Tuttavia era il prezzo da pagare, per un passaggio in auto fino a Olivinopoli.
Arrivò a notte fonda, salutò la donna e s’incamminò verso la spiaggia.
Il mare non pareva tranquillo, e il suo continuo sbattere contro i pilastri del pontile che portava verso il faro non faceva altro che fargli desiderare di arrivare in cima al promontorio.
Poi arrivò, poche moine, s’addormentò quasi subito.
S’alzò, sforzando la stessa schiena che gli chiedeva di ristendersi e gettò un occhio oltre la finestra polverosa: il mare era in burrasca, e il cielo pareva una lunga lastra marmorea, così scura da non rendere semplice la linea dell’orizzonte. Pioveva molto forte, da nuvole così vaste ed estese che non riusciva a localizzarne gli estremi.
Sospirò, massaggiandosi con la mano destra la clavicola sinistra. Sbadigliò, poi fissò il riflesso sul vetro, che mostrava un uomo stanco e dal volto stropicciato, dai profondi occhi blu e dai capelli spettinati.
Come sempre, del resto. Forse quella mattina di più.
La sua capigliatura era il classico esempio di ciò che avrebbe definito caos organizzato, cioè so che sono in disordine ma c’è un motivo se è così. In ogni caso sbadigliò nuovamente, li riavviò con l’altra mano e poi, coi piedi scalzi, scese le scale di quel soppalco.
C’era Jasmine, lì, con lo sguardo assopito, una tazza fumante tra le mani e un caldo maglione di lana, molto voluminoso, a baciarle la pelle. Era seduta sul bordo del davanzale, con le gambe piegate e i piedi tirati sotto le natiche; non pareva essersi accorta della presenza dell’uomo.
“È caffè?” domandò poi, facendola voltare. Spalancò gli occhi, dato che credeva di esser sola, lì giù. Poi sorrise dolcemente, illuminando lo sguardo ambrato e facendo cenno di no con la testa.
“È cioccolata calda. Vuoi?” chiese a sua volta, porgendogli la tazza.
L’uomo non rispose, le si avvicinò e le diede un casto bacio sulle labbra.
“No, grazie” rispose poi. “Prima di mezzogiorno solo caffè”.
La donna aggrottò la fronte. “Ecco perché sei sempre di pessimo umore…”.
L’altro si limitò ad annuire, guardando all’esterno.
Erano parecchio in alto, rispetto al livello del mare. Più in generale, il faro di Olivinopoli era più alto di quello di Arenipoli. Non era così importante, dato che non vi erano rotte commerciali tra la Via Vittoria e la città dell’ultima medaglia e gli unici che prendevano quella strada erano Allenatori forti e preparati. Ciononostante sovente qualcuno finiva all’ospedale, per via delle forti correnti del canale e per i grossi scogli acuminati disseminati lungo l’intero passaggio marittimo.
Non passava quasi mai del tempo lì, nonostante quel faro fosse ricco di silenzio e permettesse di trascorrere in solitudine qualche pomeriggio uggioso. Del resto era un tipo particolare, Corrado; gli piaceva ritagliarsi i suoi spazi di nulla all’interno di qualcosa di ben definito. Al contrario, Jasmine reputava quel luogo un po’ come una seconda casa, e dormiva nella piccola stanzetta che quella notte avevano utilizzato lei e Corrado per fare l’amore.
Generalmente era lì a godersi il rumore del mare e la compagnia dei suoi Pokémon mentre lo spettro verde del sonar roteava lentamente all’interno dello schermo.
L’uomo la guardò per un attimo, posando gli occhi sul libro che aveva poggiato sulle gambe, vecchio e consunto. Il titolo era stato strappato via dal tempo, ed era rimasta soltanto una leggera patina dorata sulla copertina in pelle beige. I capelli castani erano insolitamente sciolti e coprivano gli occhi, motivo per cui li raccolse con la mano, grossa e ruvida, e li sistemò dietro le orecchie.
Quella sorrise. Si sentiva amata. “Hai dormito bene?” gli domandò poi.
“Nah. Per niente. Non hai freddo?”.
Jasmine allargò il sorriso e fece spallucce. “Mi piace il freddo sulla pelle”.
“Ti prenderai un accidente…” ringhiò quello, sbuffando e voltandosi. Si avvicinò al piccolo cucinino e prese la brocca piena di caffè. “Quanto tempo fa lo hai preparato, ‘sto caffè?”.
La voce dell’uomo era sempre fredda e tagliente, colma di un’aggressività latente.
“Stamattina” rispose invece l’altra, con una dolcezza senza paragoni. “So quanto ami il caffè, appena sveglio…”.
Si voltò e lo vide sorridere a mezza bocca, mentre ne versava in un bicchiere.
“Tu invece? Non sei stanca?”.
Quella annuì lentamente, col sorriso che sfioriva. “Sì… ho un po’ di sonno, in effetti… ma tu sei qui, e non voglio dormire mentre potremmo stare assieme”.
“Vai a dormire” ribatté roccioso l’uomo, di spalle. Fece cadere un po’ di zucchero nel caffè e lo girò con la punta di un coltello.  “Sei stata in piedi tutta la notte…”.
“È il mio lavoro…”.
“Non è così, e lo sai. È il lavoro del tuo Ampharos, tu puoi tranquillamente riposare e, nel caso, svegliarti se gli allarmi cominciano a suonare. Sei un supervisore”.
La ragazza si mosse rapida e scese dal davanzale, facendo cenno di no con la testa.
“Amphy ormai è vecchiotto, per tutto questo lavoro… In più mi sembra un’esagerazione lasciare che stia sveglio da solo per tutta la notte”.
La vide avvicinarsi e strappargli il caffè dalle mani. Ne prese un sorso e storse il muso. “È ancora amaro”.
“È caffè…”.
Storse le labbra e sospirò, poi tornò a guardarlo negli occhi. “Ti propongo una cosa” disse, salendogli sulle pantofole.
“Sentiamo”.
“Dormirò oggi pomeriggio, e tu lo farai con me. E stanotte mi terrai compagnia”.
Corrado si limitò ad annuire, mantenendo sempre la stessa espressione sul volto. Prese un sorso di caffè e poi Jasmine lo baciò, appassionatamente.
 
 
Unima, Libecciopoli, periferia Nord della città
 
Il volo di linea era durato davvero molte ore. Del resto Unima non era dietro l’angolo.
Fortuna voleva che le nuvole di pioggia fossero rimaste ad Adamanta e, a quanto pare, in tutto il continente. Non interessava molto del meteo, a quella versione di Fiammetta, nella sua testa c’era sempre un rumore persistente e continuo, figlio della follia che la possedeva.
Aveva passato l’intero viaggio sotto l’effetto massiccio del calmante, che veniva rilasciato automaticamente quando il livello di stress saliva.
E otto ore di aereo non furono propriamente una passeggiata sulla spiaggia. Passò la gran parte del viaggio a dormire, mentre le parole di Lionell continuavano a rimbombarle nelle tempie.
 
Non menti a nessuno quando dici di essere Fiammetta Moore. Sei una Capopalestra, e visitare la Palestra d’un tuo collega è assolutamente normale. Quindi vai spedita, entra e fa’ la magia…”.
 
Linda aveva cercato d’illustrarle una sorta di piano d’azione per un paio d’ore, ma quella aveva finito per riderle in faccia. Le fece capire chiaramente che non le serviva alcun piano, avrebbe rapinato una miniera di diamanti, si sarebbe divertita e avrebbe utilizzato l’unico metodo già rodato che reputava efficace: la follia.
Una volta scesa dall’aereo, Anemone l’aveva portata da Ponentopoli a Libecciopoli in elicottero. Nel mentre aveva provato a sostenere un po’ di  conversazione ma quella vedendo Fiammetta molto silenziosa, nonostante il sorriso divertito sul volto si convinse che forse era meglio lasciar passare quell’ora di volo nel silenzio più che totale.
L’eliporto si trovava a sud della città, poco lontano il Deposito Frigo. Anemone la salutò con un gesto della mano e sparì oltre le nuvole, lasciandola davanti al porto. Guardò attenta decine di capannoni dai tetti rossi, tutti in fila indiana, brulicanti di uomini grossi e di mezzi pesanti. Tante aziende si occupavano di trasportare in tutta Unima i prodotti della cava, caricandoli in grossi container e piazzandoli poi su mercantili dai nomi più disparati.
Backbreaker” lesse su una di queste, che accoglieva enormi autoarticolati e piccoli furgoni.
Avanzò, attirata poi dal rumore del mare. Si gettò contro le staccionate di protezione, felice come una bambina, e si sporse sullo strapiombo per guardare le onde furiose che si rigiravano su se stesse, tuffarsi in piroette acrobatiche e terminare sfinite sul bagnasciuga.
Raggiunse subito dopo il centro della città: lo sguardo era basso, il sorriso invece intermittente. Gli occhi tendevano a poggiarsi nei vuoti della pavimentazione stradale, dove qualche sampietrino era saltato per via dell’usura, proprio nella zona dei grandi alberghi. Quando si voltò verso est vide la sagoma del Ponte Charizard, che svettava in primo piano sul cielo azzurro e sulle nuvole d’ovatta. Poi un paio di signore le tagliarono la strada, entrando subito nel mercato.
Era rimasta immobile, per un attimo. Quel posto non le piaceva.
Lei però sorrideva.
Proseguì verso nord, fischiettando con lo sguardo perso tra le nuvole.
 
 
Kanto, Zafferanopoli, Centro Pokémon
 
Aveva preso sonno quasi subito, Red.
Aveva dato la buonanotte a Yellow ed era sprofondato in un sonno così pesante da non essersi neppure accorto di quando quella s’era alzata per andare in bagno. Quando la pioggia bussò alle finestre, non poté fare altro che svegliarsi, schiudendo gli occhi rossi. Sentì forte il profumo dei capelli biondi della donna: la stava stringendo in un abbraccio affettuoso, e dovette essere parecchio delicato per svincolarsi dalla sua stretta ed evitare di svegliarla. A piedi scalzi andò in bagno e aprì l’acqua della doccia, che cominciò a scrosciare calda e a creare nuvole di vapore che finivano per attaccarsi allo specchio, nascondendo il suo viso dietro una patina di condensa.
Si gettò sotto il getto caldo e sospirò.
Non era stata una giornata semplice, quella trascorsa. L’acqua gli pervadeva il corpo, bagnava polsi e caviglie, gli stessi che spesso facevano male. Il Monte Argento cura tutte le ferite gli aveva detto Sabrina, anni addietro. Stare lì gli servì, riallineò le idee.
Ci salì anche quando dovette pagare pegno per le sue debolezze, con Blue.
Proprio lei dormiva con Green nella camera di fronte alla sua, in quella suite esclusiva che occupava gran parte del penultimo piano e che comprendeva un ampio salotto proprio tra le due matrimoniali.
Lui però non lo sapeva, e neppure ci pensava più di tanto; terminò la doccia, indossò l’accappatoio e coi capelli ancora bagnati decise di meritarsi un po’ latte. Lo avrebbe fatto arrivare in camera, e avrebbe utilizzato il telefono piazzato accanto alla porta della stanza, per non svegliare Yellow.
“Sì, penultimo piano” aveva detto, prima di riattaccare. Si voltò, poi vedendo la figura di Blue avvolta nell’accappatoio bianco dell’hotel. Proiettili d’acqua continuavano a tintinnare contro le ringhiere dei balconi, portando lo sguardo dell’uomo a viaggiare dal viso bello e pulito della donna al cielo nero alle sue spalle.
Alzò poi la mano, abbassando la testa, in segno di scusa. “Non volevo svegliarti” si giustificò.
Quella sorrise a mezza bocca e fece cenno di no con la testa.
“Tranquillo. Stanotte abbiamo dormito pochissimo”.
“I nervi?”.
“No” ribatté l’altra, muovendo i piedi nudi fino alla finestra. La sua ombra s’allungò al centro della sala. “In realtà questa notte Green ha deciso di tagliare i tempi e andare da Sabrina per… quella cosa”.
Red appuntì il viso.
“Avreste dovuto svegliarci”.
“Forse è stato meglio così. Green ha sbollito, anche se Sabrina non ci ha fornito nessuna traccia. A Zafferanopoli, il cristallo non c’è”.
Le si avvicinò e sospirò.
“Un altro buco nell’acqua”.
Blue annuì, lui non la vide. Davanti alla loro finestra qualcuno faceva jogging indossando un k-way blu. Passarono pochi secondi, lei poggiò la mano sul vetro e sospirò.
“Come hai dormito?” chiese poi Red, per interrompere quel silenzio imbarazzante.
Quella si voltò verso di lui e sospirò. “Sei serio? Dopo quello che è successo ieri sera vuoi davvero parlare di come ho dormito?”.
Fu lì che l’uomo si perse per un attimo nei suoi occhi blu, profondi, quasi infiniti. La frangetta castana a stento nascondevano la lucentezza delle iridi, mentre la coda impreziosiva il collo e lo risaltava. Il volto era niveo, pulito dal trucco che utilizzava.
Ma era bellissima lo stesso, e lui lo sapeva.
Le guardò per un attimo le labbra, quindi batté le palpebre per qualche istante.
“Non ho molta voglia di parlare di ieri, Blue…”.
“In tal caso ho dormito su di un fianco, grazie. Però tu dimmi perché ti sei lasciato colpire”.
Tornò pesante quel silenzio, e lo sguardo tenace della donna riprese a scandagliare il fondo delle sue emozioni.
Il ragazzo fece spallucce e guardò ancora in basso. “Non lo so”.
“Sembra quasi che tu voglia punirti per ciò che è successo. Come se il Monte Argento non fosse stato abbastanza”.
“Il Monte Argento non è stata una punizione…”
“Solo, sotto la neve, al freddo. No, ma continua a dirmi cazzate, che io ti ascolto…”.
Red sorrise, dolcemente. Blue continuò.
“Ti senti ancora in colpa, vero?”.
La guardò, dopo un lungo sospiro. “Perché? Tu no?”.
Un tuono squarciò il cielo e l’acqua prese a cadere ancor più ferocemente. Blue non rispondeva, guardava oltre la finestra per cercare un appiglio, un qualsiasi motivo per non rispondere. E non perché non avesse la risposta dato che, in un modo o nell’altro, Blue rispondeva sempre. Vedeva gli ombrelli di mille colori scambiarsi rapidi di posizione, scontrarsi, andare via.
“Dove vanno, tutti così di fretta, quando il mondo sta per finire?”.
“Non cambiare discorso”.
Si voltò, lei, e lo guardò negli occhi. Lo afferrò per le spalle quindi annuì.
“Il fatto è uno, ed è molto, molto semplice: io sento di esser stata perdonata. E anche tu sei stato perdonato da Yellow”.
“Io la sento, la sua sofferenza. Di tanto in tanto” riprese lui. “Certe volte fissa il vuoto ed è come se rivedesse quelle cose. E io sto male, perché non lo merita assolutamente”.
“È normale. Anche Green soffre, quando ci ripensa. È rimasto deluso”.
Annuirono entrambi.
“Ma bisogna andare avanti” continuò. “Sono cose che fanno parte della vita… Dopo un tradimento si analizzano molte cose, si comprendono le proprie debolezze… i propri punti di forza… Si cresce”.
“Io mi sento soltanto sporco”.
“Anche io mi sono sentita così” annuì, sciogliendo la coda e ricomponendola, più ordinata. “La prima persona che deve perdonarti devi essere tu. Il resto è passato”.
“Forse per te. Quel pugno, ieri, mi ha ricordato quanto male abbia fatto a loro due e…”.
“Senti” lo interruppe. “Dovremmo essere qui a cercare quel dannatissimo cristallo. Basta rivangare questa situazione, prima finirai tu e prima finiranno loro…”.
Red annuì, quindi sospirò. Non gli mancava la sua risolutezza.
Poi qualcuno bussò alla porta.
“È la mia colazione” fece il ragazzo, voltandosi repentino e andando alla porta. Prese il carrello, lasciò una mancia e si voltò.
E Blue non c’era più.
Rimase a guardare la porta della sua stanza per qualche secondo, prima di pronunciare le labbra, sospirare, e avvicinarsi alla poltrona col rivestimento di velluto azzurro.
I suoi pensieri restarono avvolti in una coltre grigiastra, la stessa che divorava il cielo di Zafferanopoli.
 
Blue non poteva vederlo, s’era rinchiusa nella propria camera, quasi a volersi salvare da quella situazione. Lì era tutto buio, perché le finestre erano chiuse e Green doveva riposare, dopo quella notte insonne.
Le spalle della donna erano ancora contro il muro, le mani pure, l’accappatoio s’era aperto e aveva mostrato la camicia da notte. Il respiro era greve e lo sguardo non poteva non poggiarsi sull’uomo che occupava la metà calda del letto.
E sembrava così tranquillo che le pareva un peccato doverlo svegliare, più tardi.
Gli si avvicinò e lo vide inerme, come non lo vedeva da tempo.
Calmo, come non lo vedeva da tempo.
“La tua mente ti sta divorando” sussurrò, fissandolo. Vedeva le sue labbra leggermente schiuse, i capelli spettinati sul cuscino e la fronte non contrita.
Come un tempo, quando di tanto in tanto sorrideva con lo sguardo pulito.
Le cose erano cambiate, lo percepiva. Lui s’era indurito, la vita lo stava torchiando.
Girò attorno al letto, coi piedi scalzi, poi lasciò cadere l’accappatoio sulla moquette e quindi sospirò. Ripensava allo sguardo di Red, alla sua espressione contrita.
Lui si sentiva in colpa.
Lui ci pensava ancora.
Lui pensava ancora a lei.
Si sedette sul letto e tirò leggermente le coperte a sé, rannicchiata nella sua parte del letto, quella fredda, dando le spalle alla tempesta e all’uomo che tanto vi assomigliava.
 
 
Unima, Libecciopoli, Palestra di Rafan
 
Le porte si erano aperte silenziosamente, producendo soltanto un soffio lascivo. Il volto di Fiammetta fu assalito da uno spiffero d’aria bollente.
Lì faceva caldo. Faceva definitivamente caldo.
Con lucidità ritrovata si avvicinò rapida al banco d’accettazione, sorridendo in maniera finta e battendo qualche volta di troppo le palpebre.
“Moore. Fiammetta Moore” rispose, quando una biondissima receptionist di nome Britney le aveva chiesto chi fosse.
“Oh. Ma è la Capopalestra di Hoenn?”.
Fiammetta annuì, grattandosi una guancia e afferrando con forza il manico della borsa, vedendo la donna disegnare col dito una linea sul foglio delle prenotazioni.
“È che…” sorrise. “Beh, non me l’aspettavo proprio…” concluse, alzando lo sguardo ceruleo. “Non ha prenotato, vero?”.
“No. Ero in città per cose personali e mi sono detta che forse avrei potuto fare un salto qui per vedere come i colleghi di Unima organizzavano le cose”.
Fiammetta vide Britney annuire. Il suo cellulare vibrò, la donna lo guardò rapida, per poi distogliere subito lo sguardo. In cuor suo sperava che fosse arrivata la risposta di Arthur al messaggio che gli aveva inviato qualche minuto prima. Si assopì per un istante, lungo pochi secondi ma che pesavano come tutti e tre gli anni in cui aveva conosciuto quell’uomo, in cui aveva imparato ad amare lui, il vino rosso e il buon sesso. Pensava spesso che le loro conversazioni gravassero troppo sul presente, sul loro lavoro e su quanto lo definissero stupido e poco edificante, e mai sul futuro. Lui era lontano, chilometri e chilometri di distanza, e si vedevano soltanto durante le feste programmate e le vacanze estive. Spesso Arthur gli chiedeva del suo capo, Rafan, di che tipo di persona fosse, che musica ascoltasse e cosa gli piacesse mangiare, ma non riusciva a discostarsi dalla realtà dei fatti: era un texano esaltato che aveva ereditato dal nonno un grande intuito per gli affari e aveva investito il proprio denaro nelle miniere. Lì ad Unima era riuscito nell’intento di trovare un luogo perfetto per scavare, cercando e rivendendo preziosi diamanti al miglior offerente. Indossava sempre il cappello a tesa larga, era xenofobo e razzista, maschilista, amava il country e la carne di manzo. Indossava tutti i giorni sempre la stessa puzzolentissima colonia, e nonostante ciò la puzza di sigaro lo seguiva come un cagnolino fedele.
“Ci sono problemi?” domandò Fiammetta, battendo le palpebre qualche volta di troppo e sorridendo. Vide la segretaria scorrere col dito tremulo lungo il foglio degli appuntamenti.
“Lei non ha un appuntamento…”.
Fiammetta sorrise e spalancò gli occhi, lasciando quasi andare quella vena di follia che stava trattenendo; si diede un contegno, riprendendo la situazione tra le mani.
“Io e il suo capo siamo colleghi… Sono sicura che riuscirà a garantirmi un canale preferenziale, se glielo chiede…”.
Britney vide quella donna meravigliosa, forse un po’ troppo smagrita rispetto alle foto dei tabloid, mentre passava le mani nei lunghi capelli rossi. Poi puntò gli occhi su di lei.
“Vuole che…”.
“Chiamami Rafan, per favore”.
Era tutto perfetto. La segretaria annuì, malcelando il tentennamento. Un nuovo messaggio fece vibrare il telefono.
“Vuole rispondere prima?” domandò Fiammetta, guardando la donna distratta.
“No! Ma che dice, no! Il problema è che…”.
“Cosa c’è?” chiese Fiammetta, diventando inquietantemente seria.
“Il signor Rafan è impegnato e ha espressamente chiesto di non…”.
“Devi fare quel che dico” ribatté immediatamente l’altra. Gli occhi di brace della donna ardevano, catturando lo sguardo ignaro dell’altra. Aggrottò la fronte, Britney, non sicura di ciò che avesse sentito. Vide Fiammetta sorridere, poi si sporse oltre il bancone e diede un’occhiata.
Cominciò a ridere compulsivamente.
Britney si spaventò.
“Signorina Moore, stia indietro altrimenti mi costringe a chiamare la sicurezza”.
Non la sentì, quella folle copia della Capopalestra di Cuordilava; si limitò ad afferrare una Staedler e a infilare la donna ai lati del collo, vedendola morire in silenzio, pochi secondi dopo, in un lago di sangue.
Si sentì subito bene, come se avesse dovuto sopprimere per anni la sua reale natura.
Furono i due minuti più lunghi della sua vita. Il sorriso che non andava via, quello compulsivo, pareva un quadro le cui labbra carnose, screpolate sotto il rossetto rosso e macchiate di sangue, facevano da cornice.
Riacquisì poi un attimo di lucidità, brandì la penna come fosse un coltello a serramanico e si guardò attorno.
Era totalmente sola, con una musichetta adatta più a un ascensore che a una sala d’aspetto in sottofondo e l’odore acre del sangue che si univa a quello del tabacco. Le telecamere a circuito chiuso la riprendevano mentre puliva mani e volto sull’impermeabile che indossava, e che abbandonò prontamente. Le guardò, sorridendo soddisfatta e alzando il dito medio, determinata a raggiungere Rafan. Il passo successivo fu staccare dal collo martoriato di Britney un badge a piastrina, che indossò rapidamente non appena mise piede nel corridoio della Palestra.
La prima porta sulla destra era accessibile a tutti e portava gli sfidanti da Rafan, ma lei la superò, andando oltre, dato che cercava il cartello col divieto d’accesso al personale senza targhetta, non autorizzato.
A lei interessava la miniera, non la Palestra: l’ultima porta sulla sinistra. Quando la raggiunse si avvicinò al lettore di badge, strisciò quello di Britney e dopo sentì la serratura scattare. Aprì la porta e quando se la chiusa alle spalle sentì le orecchie fischiare: il corridoio che le si presentò davanti era lungo più di duecento metri ed era sicuramente pressurizzato. Stava per raggiungere il suo obiettivo. Brandiva con energia la penna e avanzava a passo svelto all’interno della montagna alle spalle della Palestra. Ogni venti metri circa, neon bianchi ronzavano e illuminavano la passerella fatta di marmo bianco e nero, talvolta sporca di polvere e terreno.
Due minuti dopo arrivò all’altro capo del corridoio. Altra porta, altro lettore di badge, superò anche quella e quando spalancò la porta un forte getto d’aria calda le investì il volto.
A lei il calore piaceva.
Chiuse anche la seconda porta dietro di sé, che rispose con un cigolio sinistro. Il piolo scattò nella serratura emettendo un rimbombo possente, che si propagò in basso nelle profondità della montagna, dove quella lunga scalinata bordeaux arrugginita scendeva.
Lei prese a percorrerla, accorgendosi di come la roccia viva attorno a lei diventasse sempre più calda.
Amava quel tepore. La caricava.
Scese ancor più giù, venti, trenta piani, forse quaranta, perse il conto, ma quando toccò terrà, aprendo l’ennesima porta col badge di Britney, si ritrovò in una caverna enorme, attorniata da centinaia di minatori dai caschetti gialli e grosse tute azzurre. Loro, armati di piccozza e vanga, scavavano e rompevano le pareti in cerca di carbone.
Prese a camminare tra di loro, celando la penna insanguinata nella manica, e avanzò lentamente verso il centro del gruppo di lavoro, nel tentativo di andare oltre. Nel mentre, però, li sentiva mormorare:
 
“Ti dico che quella è Fiammetta Moore!”.
“Mi sembrava più in carne, in tv…”.
“Io me la scoperei lo stesso”.
“Certo… dopo una così il cazzo puoi anche appenderlo al chiodo…”.
“Si, certo… Lavora, coglione”.
 
Non ci diede peso, però, ben concentrata su ciò che aveva da fare. Poi però vide, a una decina di metri da lei, che un minatore alto e muscoloso, più degli altri, lasciò cadere il piccone per terra, sbuffando e voltandosi, ponendosi davanti a lei.
Fiammetta lo vide, con la pelle sporca di carbone, nera, come i capelli, ricci e lunghi fino alle spalle, che fuoriuscivano dal caschetto.
“Che ci fa qui? Si è persa?” fece, respirando profondamente e detergendo il sudore sul viso con la spalla; creò delle striature nere sulla pelle ambrata.
“Salve” sorrise Fiammetta, chinando il capo in cenno di saluto.
“Lei sa che non può stare qui, vero?”.
E poi, come qualche minuto prima, si trasformò in quella versione lucida e fredda di se stessa.
Inclinò leggermente la testa e vestì lo sguardo di una sicurezza del tutto inaspettata.
Sorrise.
“Certo che lo so. Ciò che non so è se lei sa chi sia io”.
“La stronza se la tira” aveva sentito dalle retrovie, mentre l’espressione dell’uomo che aveva davanti cominciava a riempirsi d’interrogativi.
“Fiammetta Moore. E allora?”.
“Lavoro vicino a un vulcano, non sono l’alta temperatura o degli uomini coi caschetti a spaventarmi, a maggior ragione quando è stato Rafan a chiamarmi… Sai, calcoli geotermici e altre cose così…”.
Aggrottò la fronte, levò il caschetto e si deterse il sudore con l’avambraccio villoso.
“Veramente non ne sapevo nulla…”.
“Oh, è stata una cosa improvvisa” sorrise quella, spostando i capelli dietro alle orecchie, sia a destra che a sinistra. “Ero qui, l’ho chiamato e mi ha detto di passare, tant’è vero che non mi è stato neppure preparato un badge ospiti, e sto utilizzando quello della gentilissima signora…” guardò poi il nome sulla targhetta. “... Britney. Della gentilissima signora Britney...”.
“Quindi Rafan sa tutto?” domandò quello, visibilmente più calmo.
“Naturalmente” annuì l’altra.
“E perché nessuno l’ha accompagnata? Insomma, questo è un cantiere aperto, con macchinari pericolosi e altro… Si possono correre diversi rischi, se non si ha la preparazione adatta”.
Fiammetta annuì ancora, quasi condiscendente nei suoi confronti.
“Ciò che dice è giusto, ma sopra c’è la calca, tra sfidanti e altro, e io ripeto che lavoro a sessanta metri da una camera magmatica. Non corro alcun pericolo”. Decise poi di premere sull’acceleratore. “Lei sa, vero, che sono un’autorità?”.
L’uomo cambiò espressione, spalancando gli occhi e annuendo rapido. “Sì. Sì, assolutamente, signorina Moore, è solo che…”.
“E sa, vero, che adesso sta intralciando il mio lavoro?”.
L’operaio scrupoloso si limitò ad annuire in silenzio, col capo chino.
“Bene. Dov’è Rafan?”.
“Di giù...” rispose l’uomo, dopo una piccola pausa.
“Oh... Non ho ancora visto tutta la miniera?”.
“No. Questo è un luogo di recupero per il carbone, più giù ci sono i diamanti. Quelli nascono in condizioni di pressione e calore assai più elevati... Bisogna scendere ancora”.
“Bene. Dov’è che devo andare?”.
L’uomo alzò la testa ed allungò l’indice sporco di polvere di carbone in direzione nord. “Lì troverà ciò che cerca. Purtroppo col badge di Alina non potrà oltrepassare la porta di divisione, ma potrà utilizzare il mio, che sono il direttore delle estrazioni...” disse, tirando fuori dai jeans la sua tessera.
“Meraviglioso” sorrise la donna, entusiasta oltremodo. Lo infilò al collo e poi continuò a camminare, accompagnata dall’uomo.
“E... a cosa servirebbero questi calcoli?” domandò poi quello, sentendo il profumo pungente della donna aggredire quello del terreno e del sudore.
“Dati...” rispose lei.
“Ma non ha attrezzatura?”.
Prima di rispondere, Fiammetta si limitò a sorridere. Vide piccoli vagoncini su rotaie mossi da operai muscolosi e sporchi di nero che scaricavano il carbone in zone prestabilite e sparivano subito dopo, entrando in tunnel diretti verso le parti più profonde della miniera, per poi ritornare diversi minuti dopo, ancora più sporchi e sudati, in un circolo continuo e senza fine.
“Ho inviato qui tutto qualche giorno fa” rispose quella. “Ha tutto Rafan... Quella roba costa parecchio...”.
“Naturalmente. Allora l’accompagno alla porta”.
“Posso fare da sola, grazie, torna al lavoro” sorrise quella, voltandosi e spalancando il sorriso.
Gli occhi erano aperti quanto più possibile, voleva vedere per l’ultima volta i visi di quelle persone. Sentiva l’adrenalina crescerle nel sangue, aumentarle i battiti del cuore, con le mani che fremevano.
Arrivò al lettore di badge e passò la scheda dell’uomo dai capelli ricci, quindi si voltò e sorrise. Prese la sfera del suo Magmortar e lo fece uscire lì, prima di chiudere la porta e di cominciare nuovamente a scendere le scale, come se nulla fosse successo.
Ogni suo passo era accompagnato da urla sinistre e disperate. E stavolta non provenivano dalla sua testa.

 
Johto, Ebanopoli, Tana del Drago
 
Qualche goccia veniva filtrata dalla roccia porosa della montagna e ricadeva nel grosso lago sotterraneo. Lì, il silenzio veniva rovinato solo da quel tuffo, preciso e costante, che alimentava l’atmosfera monumentale che Sandra tanto amava. Le torce donavano rari sprazzi di luce sulle pareti, consentendo ai Dratini e ai Dragonair d’illuminare il centro dello specchio d’acqua, con delle scie splendenti e azzurre.
Tranne lei, in quel posto non poteva entrare nessuno. Era la Capopalestra di Ebanopoli.
E ogni volta che lo faceva seguiva un rito preciso e rodato; cominciava col mettere aria nuova nei polmoni, e col lasciare che il fresco le divorasse pelle.
Portava poi le mani alle clavicole e, prima a destra e poi a sinistra, liberava i bottoni del mantello dalle asole che li abbracciavano, facendolo posare ai suoi piedi.
Mosse le spalle, le massaggiò silenziosa per qualche secondo quindi sospirò; lì dentro non doveva portare alcun mantello, nessuno avrebbe urlato al sacrilegio, nessuno avrebbe potuto vederla. Il fatto di essere la prima Capopalestra Domadraghi di Ebanopoli a non essere un uomo quasi le dava il diritto di non entrare in quel luogo magico in alta uniforme.
Anzi.
Già il solo fatto di portare quel pesante mantello, lì dentro, le pareva una cosa assai sconveniente.
Levò i lunghi stivali e percorse sette passi sulla passerella di legno che aveva davanti, che la portava direttamente sul lago.
Sorrise, si sedette e immerse i piedi nelle acque gelide.
Ripensava a suo padre, Capopalestra prima di lei, elemento di spicco di tutto il clan. Lui diceva che quello fosse il luogo dove uomini e draghi avessero stretto il patto ancestrale di rispetto e collaborazione che aveva creato l’ordine dei Domadraghi, pertanto bisognava essere sempre ben presentabili, quando si porgevano i propri omaggi al drago originale.
Lei lo ricordava perfettamente, da piccola, quando lo aiutava a indossare la grande armatura bardata del grande eroe di Ebanopoli, che i Capipalestra si tramandavano di generazione in generazione.
Sorrise, Sandra, muovendo i piedi nell’acqua: quell’armatura era troppo grande per lei, probabilmente sarebbero servite due donne per riempirla del tutto.
Inizialmente rimase davvero male quando si accorse di non essere in grado di portare quelle placche di metallo placcate in oro fin dentro la Tana del Drago, ma poi non ci pensò più: anzi, si creò le proprie regole.
Ecco perché si levava il mantello. Ecco perché sfilava gli stivali.
Lì faceva anche un’altra cosa, che poteva fare davvero poco spesso: sciolse i capelli, liberandoli da quella coda di cavallo che costringeva la sua femminilità. Quando la lunga chioma turchese, da prima spettinata dalla corrente che proveniva dall’ingresso della grotta, finiva per poggiarsi delicata sulle sue spalle.
Rimase qualche minuto lì, immobile, pensando che lì dentro potesse essere, finalmente, donna. Una donna con delle fragilità, che sorrideva per le cose futili, che piangeva quando s’emozionava, che stava male una settimana al mese e che non doveva per forza costringersi a essere una Domadraghi quando non voleva.
C’erano delle volte in cui voleva essere soltanto Sandra. Si alzò in piedi, le dita dei piedi quasi non le sentiva più, poi abbassò il collo e cercò con le mani la cerniera della tutina azzurra. Ci perdeva sempre un po’ troppo tempo, avrebbe dovuto farsene fare una con l’apertura sul fianco, ma una volta che la zip scese giù, il suo corpo candido si erse come una crisalide dai resti di un bozzolo fin troppo stringente.
E rimase nuda.
Chiuse gli occhi, sentì l’aria fredda divorarle la pelle. Quando li riaprì tutto era uguale.
Nessuno era indignato per il fatto che quello che mostrava fosse il corpo sottile e fragile di una donna, e non la figura statuaria dell’eroe ancestrale; difatti poco importava che Sandra fosse una Domadraghi eccezionale, un’Allenatrice fuori dal comune e un’atleta perfetto.
Era una donna. Solo una donna, e quella città, così chiusa, così patriarcale, così maledettamente maschilista, non riusciva a vedere nient’altro in lei.
“Anche oggi sono a casa…” aveva sussurrato, come se qualcuno avesse potuto sentirla, prima di piegare le ginocchia e tuffarsi nella pozza gelida e luminosa.
Quando riemerse, un po’ di quella tensione era scappata via, lasciandola libera dal peso del suo nome.
Forse suo padre voleva un maschio. E anche lei, sotto sotto, aveva desiderato pettorali tonici e bicipiti forti.
Invece le era toccato il semplice e banale utero. Con quello non si volava in alto, con quello non si comandava.
Con quello si cucinava, si badava ai bambini.
Si veniva derisi. Eppure non era colpa sua, se era nata donna.
Odiava Ebanopoli.
Sbuffò, anche quel giorno le lacrime cominciarono a mischiarsi all’acqua del lago. Il cuore batteva forte, l’acqua era gelida ma riempiva di vita il suo cuore e scatenava in lei quella rabbia che spesso aveva allontanato la sconfitta, la disfatta. La morte.
Riemerse da quelle acque qualche secondo dopo, fiera della sua bellezza e della sua forza.
Sorrise, libera: lì poteva levare lo scudo e l’armatura, ed essere se stessa; poteva smettere d’interpretare quel personaggio e diventare, finalmente, la persona che le veniva naturale essere.
Fiera tra i draghi, lì mostrava ogni suo sentimento, ogni sua emozione, e ricreava la solidità mentale che le serviva per indossare quella maschera di forza e totale mancanza di sensibilità, così come le aveva insegnato suo padre.
Sì, suo padre le aveva insegnato a essere un vero uomo e di mostrare a tutti la disciplina di Ebanopoli. Proprio come Lance.
Lance, il Campione, il cugino, quello che avrebbe dovuto sostituirla dal giorno zero.
Per un momento, un breve momento, si chiese se ne fosse valsa effettivamente la pena; insomma, essere se stessi soltanto in quella grotta non era vita. Era prigione.
Ma doveva andare così. Almeno aveva quel rito quotidiano.
Risalì sulla passerella, col freddo che mangiava aggressivo la sua pelle; avrebbe dovuto vestirsi e andare di corsa a casa, al caldo, ma decise di stendersi lì, immobile. A godersi ogni brivido che il suo corpo di donna le potesse donare.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 - Gold ha sempre ragione ***


10. Gold ha sempre ragione


 
Johto, Borgo Foglianova, casa dei Dexholder
 
 Sinceramente.
 
Quel mattino non fu il rumore persistente della pioggia, che  ormai cadeva incessantemente da settimane e che rilassava i più, ma non lui.
Sinceramente non fu nemmeno il rumore dei tuoni, forte e penetrante, e neppure la mancanza di Marina, che coi piedi freddi ogni volta lo faceva sobbalzare, in un rapido salto dal sonno alla morte.
Sinceramente non s’era neppure accorto che, quella mattina, la sua donna si fosse alzata, sbadigliando rumorosamente come faceva sempre, vestendosi di fretta e facendo cadere il cellulare per terra, chiedendo a Shiva per quale motivo tutte quelle cose succedessero sempre a lei.
Esagerava spesso, era fatalista. Lo schermo non s’era neppure graffiato.
 
Sinceramente, Gold si svegliò perché aveva fame. E non la fame che normalmente prende chiunque si svegli dopo diverse ore di sonno, no; Gold non voleva fare colazione, voleva il pranzo di Natale. Quindi sbadigliò, stese tutti e quattro gli arti più che poteva, sentendo le articolazioni scricchiolare e aprì per la prima volta gli occhi.
Erano le tredici e dodici e anche quel giorno s’era svegliato tardi.
Non era sveglio in orario per la colazione dal duemilatre. Ma, insomma, fu solo un caso.
Sentiva la lingua impastata e quindi immaginò quanto pessimo fosse il suo alito ma poco gl’interessava; mise una mano nei boxer e grattò dove più gli prudeva, poi rimase qualche secondo in totale silenzio, davanti alla finestra, a guardare la tempesta.
“Si è rotto il cielo...”.
 
Prese coraggio, si alzò e si lavò, per poi scendere al piano inferiore con le ciabatte rosa di Marina, quelle con la palla di peluche sulla sommità. La prima volta che lo vide indossare le sue pantofole, la donna lo ammonì; non voleva che gliele allargasse ma lui rispose con un rapido sono comodissime, mi pare di affondare i piedi in un paio di nuvolette rosa. E poi sono sempre in mezzo ai coglioni, le mie non le trovo dal settembre dell’anno scorso.
Al contrario di Gold, Marina era molto ordinata ma pareva avesse avuto difficoltà nel trovare un posto alle ciabatte e, complice il suo essere quasi sempre di fretta, le lasciava un po’ dove capitava.
Quando fu in cucina puntò diretto il frigorifero, percependo fuori dal campo visivo la presenza di qualcun altro. E quando questo accadeva con la televisione spenta si trattava sicuramente di Silver.
“Ciao, figlio del criminale. Che c’è per colazione?”.
“Non lo so, controlla da te, io sto uscendo”.
“Buongiorno anche a te, primula rossa...” sbuffò, con un pacco di wurstel in mano. Aprì il pacco con in denti e gliene puntò uno contro, mentre quello si voltava senza battere ciglio, sfilandogli silenziosamente davanti e uscendo fuori, tuffandosi nella pioggia torrenziale.
Sbatté la porta, e poco lui era da solo, con un wurstel crudo tra le mani e le pantofole strette della sua donna ai piedi.
Si avvicinò al divano, masticando la sua colazione/pranzo, con lo sguardo di chi stava pensando a qualcosa d’importante.
Cominciò a ragionare.
“Allora... Aristarco il musone è appena uscito, Marina è via a disegnare cerchietti attorno ai Pokémon, Crystal controlla bacche sotto la tempesta e io sono a casa da solo. La cosa migliore da fare, la più responsabile, è accendere la Playstation e cercare di sopravvivere a qualche orda zombie”.
E così fece, col cellulare sulla coscia che sarebbe volato non appena avrebbe dimenticato di ricaricare l’arma e sarebbe morto, il pacco di wurstel aperto sul cuscino del divano e la capigliatura di chi non sapeva che venti minuti dopo sarebbe dovuto correre a prepararsi.
Non appena sfiorò la miglior serie d’uccisioni che avesse mai raggiunto, infatti, il cellulare squillò. Sospirò e guardò lo schermo.
“Sconosciuto...” disse, mettendo il gioco in pausa. Passò una mano tra i capelli e rispose, dopo aver sbuffato.
“Uffà, ti avverto, se è uno scherzo in stile chiamata erotica potrei cascarci e stare veramente al gioco...”.
Sono Xavier Solomon” sorrise l’altro, dall’altra parte della cornetta. “E tu sei sicuramente Gold...”.
“Il tuo nome non mi dice nulla, fratello” ribatté, prendendo il secondo wurstel e infilandolo in bocca in orizzontale.
Quello delle alette, Amarantopoli...”.
“Oh...”.
Non vorrei disturbare ma...”.
“Ho due, anzi...” continuò a masticare. “Anzi, tre domande. Uno, voglio sapere chi ti ha dato il mio numero, due, perché mi hai chiamato e poi...”.
Quello lo interruppe. “Diciamo che sono bravo a cercare qualcosa sugli elenchi telefonici...”.
Gold rimase in silenzio per un attimo. “Il mio numero di cellulare non è sugli elenchi”.
Ti ho hackerato il profilo Instagram. E ti ho chiamato perché mi devi aiutare...”.
Merda! Sapevo che non dovevo cliccare sui link che mi ha inviato quella tipa mezza nuda!”.
“Ti darò qualche dritta per difenderti dagli attacchi online, se vuoi...” sorrise l’altro. “Ma dobbiamo incontrarci”.
Gold rimase in silenzio. Si alzò, facendo cadere il joystick sul pavimento e avvicinandosi alla finestra, totalmente coperta da gocce di pioggia. Lo sfondo era di un grigio assai scuro, mentre il rumore dell’acqua che batteva contro il vetro lo costrinse subito a tornare al centro del salone. Accese la luce e prese a camminare nervosamente sul tappeto seguendone il perimetro con pochi passi.
“Che vuoi da me?” chiese poi quello dagli occhi dorati, serio.
La risposta non tardò ad arrivare. “Io mi rendo conto che tu sia coinvolto nella vicenda ma... credimi, non so davvero a chi altro chiedere, sei l’unico che mi ha mostrato un briciolo d’umanità e in tutta questa storia sto rischiando più dell’antipatia di Green e Silver...”.
“Sì, loro sono dei culi pesanti. Comunque dimmi pure”.
No, non funziona così. I telefoni sono rintracciabili e qualcuno, proprio adesso, potrebbe ascoltare ciò che ho da dirti. Ed è una cosa confidenziale... Credo sia meglio incontrarci di persona...”.
Gold storse il muso. “Ma sta piovendo, ora...”.
Gli ombrelli fanno stile ed eleganza, sai?”.
“È che è rimasto solo un ombrello rosa e...”.
Hai vergogna di uscire con l’ombrello di tua sorella?”.
“Mpf! Vedessi le pantofole che ho ai piedi! Ci vediamo da Harold’s?”.
Percepì l’altro sobbalzare.
“No! No, no, assolutamente no! Cindy e Angelo sono sempre lì dentro e non posso assolutamente fidarmi di loro. Neppure casa mia è sicura, no...” fece, pensando ad alta voce. “Dovremmo vederci da qualche altra parte. Che ne pensi di Azalea?”.
“Odio gli insetti”.
“Fiordoropoli?”.
“Off-limits da quando Chiara ha provato ad assaggiarmi. Sai, sono fidanzato, posso guardare tette solo online, l’accordo con la mia tipa è questo”.
“... Ebanopoli?” chiese poi Xavier, pazientemente.
“Non posso più andare a Ebanopoli dallo scorso giugno. Sandra mi vuole morto...”.
“Come mai?”.
“È intimo e confidenziale, potrebbero intercettarci...”.
“... Dimmi tu...” sbuffò l’altro.
Breve pausa. “Ultimamente un po’ tutti mi vogliono morto. Senti, facciamo Violapoli e non se ne parli più”.
Perché Violapoli?” domandò Xavier.
“Ho un’amica, lì”.
“Ok. E poi?”.
Gold corrucciò lo sguardo. “Poi cosa?”.
“La terza domanda”.
“Ah, già. Puoi formattarmi il tablet? Temo sia zeppo di virus”.
Ehm... dobbiamo organizzarci...”.
 
 
- Libecciopoli, Unima, Palestra di Rafan -
 
 Passo dopo passo, il calore aumentava sempre di più.
La miniera sprofondava nel cuore della montagna, dove la luce esisteva solo grazie a lampade arrugginite collegate da un filo elettrico.
L’odore di umido diventava sempre più forte e la pietra scavata attorno alla scalinata era umida e si assottigliava man mano che si scendeva. Le mani di Fiammetta carezzavano i corrimano incandescenti, li seguiva in tutto il percorso che collegava la miniera di carbone a quella di diamanti.
Quelli erano più in basso, non sapeva quanto. Fatto stava che un minuto dopo la scala s’interruppe. Arrivò al basamento arrugginito e umido, dovette stare attenta a non scivolare.
Il caldo lì era terribile. Non riusciva a respirare, non avrebbe resistito per molto in quelle condizioni. Ma le piaceva.
Avanzò qualche passo, cominciando a sentire in lontananza i rumori dei macchinari che scavavano la roccia in punti specifici. Veniva guidata da quelle lampade consumate dal tempo fino all’ennesimo gate con autorizzazione da badge elettronico.
Non era sicura che la tessera di Britney sarebbe stata utile.
Rise, pensando ai diamanti, e pochi secondi dopo si accorse che la porta fosse aperta.
Furtiva, la spinse cercando di non far rumore. Quei cardini erano interamente arrugginiti e avrebbero fatto voltare chiunque si trovasse nella camera. Quando ci riuscì vide una gola profonda metri e metri, fin dove le luci pallide non riuscivano ad arrivare, e carrelli pieni di pietre che certamente non splendevano come nelle réclame in televisione.
Erano grezze. A lei interessavano quelle già lavorate e trattate.
Un operaio dalla grossa pancia e dalla fronte sudata le apparve davanti. Spalancò gli occhi immediatamente e lasciò cadere il grosso piccone. La sua espressione era allarmatissima.
 
“È qui! Cazzo, è qui, capo!”.
 
L’uomo prese a scappare goffamente, nascondendosi dietro a una colonna di roccia.
Fiammetta rise in maniera sinistra: aveva un nuovo obiettivo.
Tirò fuori dalla manica la penna che aveva nascosto prima, con la punta ancora sporca del sangue della receptionist, e la brandì come fosse il più letale dei coltelli militari.
Prima che un attacco Iper Raggio le sfiorasse la mano, andando a finire contro la parete rocciosa in fondo alla galleria.
 
“Stai ferma, puttanella… Non so cosa ti sia saltato in mente ma il caldo di Hoenn ti ha dato alla testa?”.
 
Fiammetta si voltò, aggrottando le sopracciglia.
“Rafan…” fece, mentre guardava il Capopalestra di Libecciopoli. L’uomo manteneva la tesa del grosso cappello bianco e intanto digrignava i denti, indossando un’espressione infuriata e acre.
Era nascosto dietro al suo imponente Excadrill, in posizione di combattimento.
“Quando mi hanno detto ciò che è successo su, alla miniera di carbone, sono venuto subito qui”.
“Voglio i diamanti” rispose l’altra, furiosa. Guardò il volto dell’uomo, sudato e contrito. Grattava con le unghie le basette ricciolute, castane, in cui qualche filo bianco cominciava a intravedersi.
Lo vide ridere, divertito. “Vaneggi… Arrenditi”.
Inclinò la testa verso destra, Fiammetta, col sorriso inquietante che stentava a lasciare il suo volto e i sottili e lucidissimi capelli a fare da sipario chiuso.
“I diamanti… dammeli, e ti ucciderò rapidamente”.
“E perché mai li vorresti?” tuonò l’altro. “Rocco Petri non riesce più a soddisfare la tua passerina col suo stipendio da Campione?” chiese poi, provocatorio. Fece poi per continuare.
“No, Fiammetta. Non so per quale motivo una donna al servizio della giustizia abbia deciso di uccidere sessanta uomini in una miniera di diamanti, ma ciò che è certo è che nessun malintenzionato sopravvive, dopo che io decido che muoia”.
Inclinò la testa ancor di più, lei. “Vuoi uccidermi?”. La sua voce era languida, gli occhi parevano pentiti.
“Non prendermi per il culo!” esplose l’uomo, la cui voce rimbombò nell’intera miniera.
Quella parve spegnersi. “Ti ho detto…” sussurrò poi, guardando la mano che brandiva la penna come fosse un machete. “Ti ho detto che devi darmi i diamanti! E se devo passare sul tuo cadavere per prenderli sappi che lo farò senza alcun problema!”.
La donna partì in una corsa forsennata, con gli occhi spalancati e spiritati di sangue, mostrando i denti come fosse una leonessa; Rafan la guardò, impressionato, capendo che qualcosa non andasse in lei.
Fece un passo indietro, lasciando che Excadrill intercedesse, poco prima che quella saltasse, pronta per affondare la punta nell’orbita sinistra dell’uomo. Ma il Pokémon del Capopalestra di Libecciopoli la colpì, allungando il braccio destro e colpendola allo stomaco.
Fiammetta scivolò lenta in giù, lasciando cadere la penna e ghignando sinistra. Dalle labbra spaccate cadeva un rivolo di saliva.
“Sei un fottuto codardo!”.
Gli occhi dell’uomo erano attoniti.
“Che diavolo ti è successo, Fiammetta? Non riesco a capire…”.
La vide poi mettere le mani alla cintura, afferrando una sfera. Se un solo Magmortar aveva avuto l’effetto di cancellare sessanta vite, i suoi Pokémon dovevano essere stati addestrati per bagnarsi le zampe di sangue.
Rafan non capiva. La cosa lo riempiva di rabbia.
“Tu sei una Capopalestra! Hai delle responsabilità!”.
“Tu invece dovresti fare ciò che ti dico!”.
L’uomo sputò per terra. “Mi fai veramente schifo… lurida troia. Excadrill! Mettiamola fuori combattimento!”.
“Blaziken!” fece, ridendo follemente. “Uccidiamoli senza pietà!”.
Sudava, Rafan. La sua fronte era imperlata di sudore, e quando il Pokémon di Fiammetta si gettò nell’incontro non si accorse d’aver mosso qualche passo indietro, involontariamente; scioccato, guardava Blaziken muoversi indemoniato verso il suo Excadrill con le zampe anteriori fiammeggianti. Non erano servite neppure indicazioni da parte della sua Allenatrice che aveva preso a colpire l’avversario con foga immane.
Rafan assisteva alla scena senza capacità di reagire; Blaziken stava colpendo sul volto il suo Pokémon.
“P-proteggiti!” tentennò lui, totalmente stupito dalla sua fame assassina: nonostante avesse assistito e preso parte a migliaia di lotte mai nessuno dei contendenti combatteva con lo scopo preciso di ammazzare l’avversario.
Lì era diverso.
Mentre Excadrill chiudeva il capo all’interno della sua barriera, Blaziken gli colpivo torace e addome, scarnificandolo e bruciandolo. L’odore che si alzava in quella miniera era rivoltante.
“Ammazzalo!” urlava Fiammetta, con gli occhi spalancati e la saliva e il sudore che le colavano dal mente. Rideva divertita e la cosa faceva rabbrividire Rafan, che mai avrebbe immaginato una cosa del genere.
Stava vedendo morire Excadrill davanti ai suoi occhi paralizzati.
“Fermati!” ribatté Rafan. Cercò di far rientrare il suo Pokémon nella sfera ma le dita di Blaziken erano ormai penetrate nel corpo di Excadrill e lo stavano bruciando dall’interno.
“A calci! Prendilo a calci!” fece l’altra, sempre più divertita, e l’assassino eseguì vari Calciardente sullo scudo tanagliato del Pokémon, ormai in fin di vita.
Le mani dell’uomo tremarono, aveva detto addio alla calma e al sangue freddo.
Il caldo infernale strappò una goccia di sudore dalla sua fronte. Questa accarezzò il suo viso ruvido, passò attraverso la barba e si gettò sul labbro inferiore. Incredulo, capì che Excadrill fosse ormai morto quando riuscì a vedere il suo volto esanime tra gli artigli ormai indeboliti.
Blaziken si fermò, affannando, in mezzo a quello spettacolo macabro di sangue e brandelli di carne, e pezzi d’osso totalmente distrutte.
Fiammetta si limitava a ridere.
E ridere davanti a una scena del genere sottolineava quanto in realtà quella fosse deviata.
“Colpiscilo!” sbraitò, e bastò un ultimo, tremendo calcio di Blaziken, per far sì che il corpo di Excadrill fosse diviso a metà, davanti a un inorridito Rafan, che poté soltanto veder la donna partire con furia omicida verso di lui.
Ma quello era scosso.
Correva, lei, gridando come un’amazzone, e poi saltò, colpendo Rafan con un forte pugno al volto. E poco importava che le nocche della donna si fossero rotte contro il naso dell’uomo, che urlò e indietreggiò di qualche piccolo passo, senza cadere.
Quella si massaggiò la mano, detergendo il sangue che era schizzato sulle dita e ridendo ancora.
“Hai sempre la solita faccia tosta! Anche qui...” fece la donna. “Da dove vengo io, ti ho già ucciso una volta”.
Rafan batté le palpebre più di dieci volte in pochi secondi, con le mani sul naso che grondava sangue. Si chiedeva di cosa diamine parlasse. La vedeva avvicinarsi con prepotenza, lentamente, brandendo ancora la Staedler nella mano sana. Subito dopo, la punta attraversò la trachea dell’uomo, che indietreggiò per un’ultima, patetica volta, prima di sbattere con la schiena contro la parete.
I loro occhi stavano intrecciando una trama fitta e profonda di sguardi; in quelli di Rafan girava in loop la scena della furia di Blaziken, ormai mansueto alle spalle di quella donna che lo aveva, di fatto, ucciso.
Il sangue era troppo. Sentiva le forze venir meno, e quando quella lo colpì con un calcio sul ginocchio, non riuscì più a rimanere in piedi.
S’inginocchiò. E la cosa, forse, gli faceva ancor più male.
Quella si piegò davanti a lui, sentendo il suo respiro greve, ormai sempre più distante da quello precedente. Sorrise maliziosa e gli leccò la guancia, interamente ricoperta dal suo sangue.
Si sporcò le labbra e il mento. Poi prese un respiro e parlò, sottovoce.
“Non credo che ci vorrà molto… Se collabori potrei addirittura non farti soffrire molto” fece, ammiccando e poi ridendo con una tale ingenuità da far riaccendere la fiamma della rabbia nel petto del Capopalestra di Libecciopoli che, per tutta risposta, le sputò sangue denso e grumoso sul volto.
L’altra sorrise e Rafan non poté far altro che contare i secondi che gli erano rimasti, mentre il cuore batteva. E l’ansia cresceva, perché sapeva che sarebbe successo qualcosa che avrebbe posto la parola fine ai suoi giorni.
Sempre più lento, faceva per spegnersi, sperando nell’intervento di qualcuno dei suoi minatori, o del padreterno. Bastò un decimo di secondo per rendersi conto del fatto che aveva vissuto la sua vita senza provare alcuna paura per la morte. E poi, quando quella s’era presentata davanti a lui per concludere il tutto, d’improvviso si ravvide.
Voleva vivere.
Lacrime amari cominciarono a rigare il viso rosso sangue.
“Ti… ti darò i diamanti…” fece. Tentennarono tra i denti, quelle parole, mentre Fiammetta tornò seria, continuando a fissarlo in maniera sinistra.
“T-ti prego… Ti darò i diamanti, l’oro… ma devo andare in ospedale!” urlò. Nel caldo della miniera, l’eco delle parole di Rafan parve rimbombare per giorni interi.
“Sei patetico” ribatté l’altra, che gli sputò a sua volta sua viso e, in un frangente, affondò nella tempia sinistra con la penna.
 
E Rafan ricadde per terra, in una pozza di sangue e urina.
Era morto.
 
Fiammetta fu quasi chirurgica nell’estrargli rapidamente il grande coltello a serramanico che spuntava dalla tasca destra del Capopalestra. Non ebbe neppure il tempo di apprezzare il rivestimento in pelle di coccodrillo che lo aprì e recise la mano destra dell’uomo, non senza fatica.
Si rialzò, con le ginocchia che grondavano di quel liquido caldo e rosso che ancora fuoriusciva dalla testa di Rafan, e afferrò il grosso indice, attorno al quale era stato infilato un grosso anello d’oro, che sfilò e mise tra il pollice e l’indice della mano con le nocche spaccate.
E pochi secondi dopo era davanti alla porta blindata, alla fine del corridoio; Blaziken la seguiva, col respiro pesante e gli artigli che grondavano sangue. Il corpo di Rafan era immobile diversi metri indietro quando la donna, sinuosa come sempre, poggiò la mano che aveva reciso sullo scanner di sicurezza.
 
PERMESSO ACCORDATO
 
La donna entrò nel caveau buio della miniera dove, in grosse montagnole alte più di tre metri, risplendevano dozzine e dozzine di diamanti.

 
- Johto, Violapoli, sede del Centro Ranger di Johto –
 
“Sei zuppo” osservò Marina, seduta dietro la sua scrivania e otturando col palmo della mano il microfono del telefono. Quando Gold era entrato nel suo ufficio, pochi secondi prima, lei era nel pieno di una conversazione con uno dei suoi sottoposti.
“Me ne sono accorto, Sherlock…” ribatté l’altro, levando le scarpe bagnate e camminando coi calzini fradici sulla moquette. La guardò e sorrise sottecchi: era davvero bella, quando lavorava; forse era per via del tailleur blu che ben le si poggiava sulle spalle.
Le spalle delicate di Marina.
Ripensò per un attimo a qualche notte prima, lei su di lui, lui seduto a stringerle il seno destro e a baciarle la schiena, che faceva da cielo candido ai piccoli nei che lui amava.
Per un attimo si perse nel suo sguardo color nocciola, nascosto dal carré castano.
Ben pettinata, lei, sempre elegante e con l’espressione di chi non avesse tempo da perdere.
Quasi non gli dava neppure più fastidio pensarsi innamorato di lei.
Marina intanto lo guardava con lo sguardo corrucciato, mentre dall’altra parte della cornetta un suo sottoposto continuava a parlare ignaro.
“Cosa c’è?!” sussurrò poi, visibilmente contrariamente. “Sto lavorando!”.
Di tutta risposta, Gold abbassò lo sguardo e si sedette sulla poltrona davanti all’ordinatissima scrivania, levando i calzini e gettandoli accanto alla porta.
La donna si limitò a sospirare, nascondendo gli occhi dietro il palmo della mano libera. Poi annuì.
“Sì, ho capito. Ma ci dobbiamo riaggiornare, adesso devo andare. Ciao”.
Attaccò, sbuffò e lanciò il cellulare accanto al mouse, che si spostò di qualche piccolo centimetro e lasciò che il monitor si riattivasse, illuminandole il volto.
“Gold…” fece poi, alzandosi. “Non puoi presentarti in ufficio così… Avrei potuto avere delle persone davanti”.
Quello fece spallucce. “E allora?”.
“E allora sei entrato, hai lanciato le scarpe lì…” fece, puntando l’indice verso il paio di Adidas accanto al vaso con la zania. “… e hai interrotto la mia telefonata. Non è il modo adatto” concluse, appuntendo il viso.
Gold le fece una smorfia, prima di ruotare gli occhi verso l’alto e fare un gesto con la mano.
“Come no. Sei sempre sola… O sbaglio?” chiese poi, aggrottando la fronte. “Cos’è?! Avevi paura che ti beccassi col tuo amante?!”.
Marina si stropicciò gli occhi e sbuffò, facendo cenno di no con la testa. “Io con un amante… Tu basti e avanzi. Tu piuttosto, con tutto quel tempo libero…” ribatté lasciva, inarcando un sopracciglio.
“Io cosa?”.
“Chiara, Sandra, Jasmine… Yellow”.
“Momento, momento, momento, momento, momento… Io non ho mai fatto nulla con queste donne. Purtroppo”.
Marina, che aveva abbassato lo sguardo, puntò gli occhi increduli sul ragazzo, che fece spallucce.
“Cioè, ho visto solo i mammelloni di Chiara, ma non ci ho fatto davvero nulla”.
“Almeno non chiamarli così…”.
“Sono esattamente come quelli del suo Miltank” aggiunse..
“Gold…”
“Sono pieni di latte… Quelli di Miltank, intendo”.
“Gold!” esclamò l’altra, inarcando un sopracciglio e allargando le braccia. Gli lanciò un blocchetto contro e scatenò in lui una risata divertita. Lo vide alzarsi e girare attorno alla scrivania, per abbracciarla.
E quando lo fece, Marina si ricordò che quello fosse fradicio.
“Ma no! Il tailleur!” esclamò, spintonandolo. “Che cavolo sei venuto a fare?!”.
“Anaffettiva. Ho un appuntamento con un tizio, qui a Violapoli”.
Marina lisciò la camicia e si risistemò sulla sedia. “Chi?”.
“Un tipo…”.
“Un tipo coi mammelloni?”
Gold rimase a fissarla per qualche secondo, quindi storse le labbra.
“Effettivamente è un termine orribile. Aboliamolo”.
“Mi trovi totalmente d’accordo” ribatté quella, spostando i ciuffi corti di capelli dietro le orecchie. Prese un foglio dal primo cassetto e cominciò a leggerlo. “Comunque, chi è?”.
“È una sorta di genio… un inventore”.
“Interessante…” annuì lei, seguendo la lettura del documento con l’indice smaltato..
“Sì, ha un laboratorio ad Amarantopoli e credono che sia lui l’autore del furto del cristallo di Hoenn”.
La donna si bloccò, col dito fisso sul foglio, e lo guardò. “In che senso?”.
Gold alzò leggermente le spalle. “Da Green. Il Cristallo del Caos, o come cavolo si chiama…”.
“Perché devi incontrarlo? Da solo, per giunta… No” fece poi, favorendo il suo concetto scuotendo la testa. “Sei anche da solo, stai per fare una cazzata. Chiamalo e…”.
“Ma lui è innocente!”.
La voce del ragazzo rimbombò nell’ufficio e fu efficace abbastanza da fermare la predica della donna. Lasciò che quello continuasse. “Angelo ha convinto Silver ad approfondire la posizione di Xavier ma tra i due non corre buon sangue...”. interruppe prontamente lui.
“Com’è che lo chiamano? Conflitto d’interessi?” chiese quella.
Gold abbassò lo sguardo. “Non è colpevole. Non è stato lui a rubare la pietra di Crystal...”.
Marina sorrise, riconoscendo in lui della genuinità più che pura. “Come lo sai?”.
“Io... lo so e basta. Lo sento a pelle” fece, sgranando le pepite che aveva al posto degli occhi.
Qualcuno bussò alla porta.
“Avanti” fece Marina, incrociando le braccia sul petto. Entrò un giovane Ranger con dei documenti in mano. Aveva i capelli scuri, ben pettinati sulla destra e gli occhi celesti.
“Buongiorno, Direttrice… questi sono gli ultimi rapporti da Fiorlisopoli e Olivinopoli”.
“Grazie”.
L’uomo uscì e Gold continuò a parlare, ma quella era concentrata sull’incartamento che aveva appena ricevuto, seguendo come faceva sempre la lettura con l’indice.
Poi si fermò.
“Oh… porca puttana…” sussurrò, interrompendo l’altro.
“Ehm… Ti si è rotto il dizionario. Ora parli come me…”.
“No, Gold non è il momento, devi lasciarmi lavorare. Abbiamo un gran bel problema”.
Scattò subito in piedi, girando attorno alla scrivania, raccogliendo le scarpe e sollevandolo di peso. “Ci vediamo dopo a casa” continuò, dirigendolo verso la porta
“Non spingermi, ho capito! Esco!”.
“Ti chiamo io” disse, dandogli un bacio sulle labbra e lasciandolo scalzo davanti alla targa col suo nome.
“Almeno puoi ridarmi i calzini?!”.
 
Pochi minuti dopo, Gold era per strada.
La pioggia non accennava a diminuire e lui, sotto l’ombrello rosa che aveva trovato a casa, camminava lentamente, con le cuffie nelle orecchie; Travis Scott cantava Goosebumps, mentre una coppia di ragazzine appena uscite da scuola divideva un ombrello e scappava verso casa.
Si chiedeva per quale motivo stesse piovendo da così tanto tempo; guardò il cielo e sospirò, vedendo le nuvole rimestarsi con fame vorace, per poi trasformarsi in un agglomerato nero e denso, illuminato in punti isolati da fulmini in attesa di schiantarsi al suolo.
E poi solo il rumore della pioggia. L’acqua scorreva lungo i canali di scolo laterali, abbondante e veloce, prima di finire nei tombini ormai stracolmi.
Stava per raggiungere il Centro Pokémon quando il suo Pokégear cominciò a suonare. Lo squillo rimbombò lungo l’intera piazza principale, disturbando il canto prepotente della pioggia.
 “Pronto” rispose Gold.
Non è gentile far aspettare una ragazza carina come me al primo appuntamento” faceva Xavier, con la voce disturbata dalle interferenze e dalla pioggia.
Gold sorrise. “Immagino debba offrirti un buon drink, per scusarmi…”.
“Sono più tipa da alette di pollo”.
“Ecco perché volevo uscire con te” ribatté Gold, stringendo il manico dell’ombrello e guardandosi intorno; tutto era buio; nonostante fosse mattino inoltrato il sole stentava a presentarsi.
Xavier sorrise. “Dove sei?”.
“Fuori la sede Ranger, a Violapoli”.
“Dalla tua amica?”.
“Già. Dove ti trovi?”.
Un attimo di pausa.
“Torre Sprout”.
“Il luogo più tetro della città. Meraviglioso. Durante un temporale, poi... la prossima volta scelgo io il posto”.
L’ho scelta soltanto per prendermi qualche abbraccio in più da te. Sai, tu mi dai la tua giacca, io mi metto vicino a te...”.
“Sto arrivando…”.
“E dici alla tua amica che sono gelosa”.
 
*
 
Marina era tornata rapidamente alla scrivania.
L’odore di Gold era ancora nell’aria ma lei era del tutto concentrata sui documenti che aveva davanti.
“Incredibile…” sospirò, alzando la cornetta del telefono e reggendola tra l’orecchio e la spalla. Premette il tasto 9 e ritornò a guardare quei dati preoccupanti, prima che il segnale del telefono si trasformasse nella voce di suo fratello.
“M-martino. Ciao”.
Non si rese conto di aver tentennato. La mano destra prese a tremare involontariamente.
“Oi, sorellina. Come stai?”.
Non appena sentì la voce di quello si alzò nuovamente in piedi e si parò davanti alla finestra, come faceva usualmente durante le telefonate. Da lì aveva una perfetta visuale della piazza centrale di Violapoli, inerme sotto la tempesta e svuotata delle persone. Un paio di ragazzine condividevano l’ombrello e si muovevano verso est, mentre quello che doveva essere probabilmente Gold, con l’ombrello rosa, pareva essersi fermato accanto alla grossa statua raffigurante Bellsprout.
“Marina?”.
“Sì. Ti sto prenotando un biglietto nave”.
Un disturbo sulla linea non permise alla ragazza di ascoltare la reazione di sgomento del fratello.
“La perturbazione ha portato problemi?”.
“Ne porterà di più l’uragano che si sta spostando dalle Isole Vorticose...”.
“Quello… quello non è il posto dove è…”.
“Sì. Lì riposa Lugia”.
“Fantastico…”.
 
*
 
Xavier attendeva pazientemente Gold all’ingresso della struttura. Indossava un paio d’occhiali da vista con la montatura classica e un cappello con visiera blu. Un paio di ciuffi biondi fuoriuscivano di lato e si univano alla leggera barba, che non radeva da qualche giorno.
Era stretto nel suo soprabito beige, accanto al montante sinistro della porta d’ingresso.
Gold lo vide e gli si avvicinò repentino.
“Sembri il maniaco perfetto” gli disse, stringendogli la mano.
“Eviterei di entrare, questo posto è pieno di svitati. Però è sicuro che nessuno ci disturberà”.
 
E varcarono la soglia.
 
Gold mosse i suoi passi in un ambiente parecchio buio, illuminato da torce sul muro e, di tanto in tanto, qualche lampadina ad incandescenza. I monaci che vivevano all’interno di essa avevano deciso di limitare gli interventi di ammodernamento, gestendo minuziosamente gli innesti per il sistemi idraulico e quello elettrico, oltre che per le varie tubature di servizio.
Quella torre era pressoché identica a quando era stata costruita.
“Bene, allora...” Gold fece per parlare, proprio davanti al pilastro nell’atrio, quando Xavier lo interruppe.
“No, qui c’è ancora troppa gente... Saliamo ai piani superiori”.
Gold sgranò gli occhi. “Gli svitati al piano di sopra sono più svitati di quelli del piano di sotto”.
Xavier si limitò ad annuire, prima di aprire la strada. S’incamminarono sul pavimento polveroso di legno, dove milioni di passi s’erano già accalcati. Persone curiose ed Allenatori intenti a lottare guardavano la coppia di ragazzi salire le scale verso il piano superiore e poi quello sopra ancora.
Una volta lì, raggiunsero un grande finestrone, mosaicato, dove anche la fioca e debole luce esterna rischiarava l’ambiente, con un sentore opaco che arrivava fino a un paio di metri da loro.
“Ok” sospirò Gold “Se provassi a molestarmi qui nessuno ci vedrebbe... Puoi dirmi che diamine è successo?”.
“Mi credono colpevole, Gold, ma sono palesemente innocente...”.
Gold scrutò il suo sguardo azzurro e sospirò. “Credo ci vogliano delle... prove, o altra roba del genere...”.
“Ho le mie telecamere, Gold! Ma Angelo sta dirottando la Commissione della Lega contro di me perché gli sto sul cazzo!”.
Il Dexholder sgranò gli occhi e, soltanto con lo sguardo, gli chiese di continuare. Ma Xavier non capiva. “Che vuoi?”.
“Uff... Perché gli stai sul cazzo? Non mi sembra il tipo che si comporta in questo modo”.
“Perché sua moglie è innamorata di me e a lui, chiaramente, la cosa non sta bene”.
Gold spalancò gli occhi. “A-ha! Lo sapevo che c’era qualcosa tra voi due!”.
“È molto complicato, Gold, non voglio perder tempo a spiegare questo fatto”.
“Però potrei capire come mai vi stavate uccidendo, ieri, alla tavola calda”.
“Io e Cindy siamo cresciuti assieme. Ero totalmente innamorato di lei, dieci anni fa. Mi dichiarai, lei mi disse sì ed il giorno dopo andò con Angelo. Poi si pentì. Ora, la cosa è delicata...”.
Xavier guardava in basso e sospirava, con le mani strette nei pugni.
“Sei uno stronzo” ribatté Gold.
L’altro spalancò gli occhi e lo fissò subito. “Prego?”.
“Non fraintendermi, non per giudicarti... anzi sì, sei proprio uno stronzo”.
“... Temo di non comprendere...”.
“Non capisco rovinarsi la vita da soli! Se tu vuoi lei e lei vuole te perché non te la vai a prendere?!”.
L’altro scosse la testa energicamente e levò gli occhiali, fermandoli al colletto della maglietta.
Alzò l’indice della mano destra.
“Punto primo: ho una dignità!” urlò, alterato. “Se mi rifiuti, dopo non ti accetto! È una questione di principio! Punto secondo: non voglio che Angelo mi renda la vita impossibile”.
“Al massimo ti troveresti Linda Blair che ti aspetta nel bagno”.
Xavier sorrise, improvvisamente divertito. “Lui e quei fantasmi…”.
“Sai, avevo intuito non ti stesse simpatico”.
“Arguto. Ma comunque, il suo risentimento sta spingendo Silver e Green a pensare che io possa avere un qualsiasi ruolo in questa vicenda”.
“E tu non vuoi entrarci, ovviamente…” ragionava l’altro, con la mano che si massaggiava la mandibola.
“Nessuno dovrebbe entrarci, se non il responsabile!”.
Respirava profondamente, Xavier. Sgranò gli occhi e deterse il sudore della fronte con la manica. Poi cadde il silenzio.
Gold lo guardava, storcendo le labbra verso destra e incontrando il suo sguardo.
“Io sono innocente…” continuò il biondo. “Non ho fatto nulla, ho le immagini delle videosorveglianza che lo testimoniano, ma temo che Angelo possa andare oltre la sua etica professionale e sabotarmi”.
“Angelo non lo farebbe mai... Se non fosse stato per lui sarei morto qualche anno fa...”.
“Come ti pare, ma credo che se mi avesse sotto mano mi ucciderebbe”.
“Potrebbe farlo anche a distanza, credo. In ogni caso perché sono qui?”.
Xavier annuì e smontò lo zaino dalla spalla. Lo aprì e tirò fuori una chiavetta USB. “Qui dentro c’è una copia delle riprese delle mie telecamere, da due giorni prima del fatto a due giorni dopo”.
Gold la prese, fissandola attentamente. “E perché la dai a me?”.
“Perché se mi succedesse qualcosa, se mi arrestassero, tu potresti scagionarmi. Ed il tuo nome è chiaramente più noto del mio”.
Gold rimase serio per qualche secondo, prima di annuire e infilare il dispositivo nella tasca.
 
*
 
Si dileguarono pochi secondi dopo, uno andò a est e l’altro a ovest.
Gold guardò sparire Xavier oltre un angolo e s’incamminò verso lo stazionamento dei pullman. Quello che lo avrebbe portato a casa sarebbe passato sette minuti dopo, ma prima il temporale aveva deciso di aggredire Violapoli e a lui non rimaneva che ripararsi sotto il suo ombrello rosa. Il vento alzava piccole gocce d’acqua da terra, che finivano dritte sul suo volto.
Quando le porte del ventitré si aprirono i suoi jeans erano quasi del tutto impregnati d’acqua. Chiuse l’ombrello e lo trascinò rumorosamente fino al sediolino, sbuffando e sperando che il tragitto che lo avrebbe portato a casa si fosse tutto a un tratto dimezzato.
Non fu così, ovviamente.
Nonostante fosse appena ora di pranzo, la luce era così poca da costringere il pilota ad accendere i neon di servizio all’interno dell’abitacolo. Quell’incontro lo aveva improvvisamente riempito d’angoscia.
Capitava poco spesso, ma ogni tanto vaniva attaccato da quella sensazione così greve e persistente. L’ansia gli riempiva il petto, qualcosa premeva per uscire proprio tra i polmoni.
Stava male.
Poi infilava le cuffiette e tutto si dissipava.
Ripensò a Xavier e alla sua situazione; si fidava di lui e non voleva che venisse incriminato per quella storia.
Durante il tragitto strisciò più volte la mano sulla tasca per accertarsi che la chiavetta fosse ancora lì, e quando arrivò fuori casa, aprì la porta col preciso intento di salire in camera sua e nasconderlo in un posto sicuro.
Sennonché, una volta spalancato l’uscio, si accorse che Green, Red, Blue e Yellow erano seduti sui divani del salotto. Silver era in piedi accanto alla poltrona, mentre Crystal era poggiata al muro accanto al camino.
Tutti lo guardarono.
Gli occhi del ragazzo però si focalizzarono su Red.
“E tu che ci fai qui?”.
Red rimase serio, al contrario di quello dagli occhi d’oro che dipinse un leggero sorriso sul volto. Gli si avvicinò e gli strinse la mano, poi diede un bacio sulla guancia a Yellow.
Gli altri due si limitò a salutarli con un gesto della mano.
E quando il suo sguardo si poggiò su quello di Silver, l’altro sbuffò.
“Dove cazzo eri?”.
Tutti rimasero in silenzio.
“A Violapoli, da…”.
 
Non poteva rivelarlo. Non a loro.
 
“… Marina”.
L’altro represse malamente un sorriso stanco e allargò le braccia. “Sono giorni che stiamo sbattendo la testa contro il muro per cercare di capire dove sia finito quel dannatissimo cristallo e tu esci divertirti… Potresti quantomeno aiutare…”.
Sbottava in quel modo, Silver. Senza urlare.
“Guarda che non sono andato a cazzeggiare!”.
“Calmati, Gold” esordì Red. “Non serve a nulla scaldarsi. Stiamo cercando una soluzione…”. Il ragazzo lo guardò e sospirò, portando le mani ai fianchi.
“Il fatto è che non riusciamo a capire quale sia il problema” continuò il primo. “Tutta l’Unione Lega Pokémon sta lavorando su questa storia ma non riusciamo a venirne a capo... Abbiamo rivoltato l’intera Kanto, cercando indizi o almeno qualcosa che gli assomigliasse ma non è servito a nulla. Tu sei sicuro di non avere qualche idea?”.
“Ho provato a dire a Clint Eastwood, lì, che forse un modo per trovare una pista c’era…”.
Green lo fissava serio. “E quale sarebbe?”.
Gold sospirò e gettò l’ombrello bagnato per terra, quindi, sotto gli occhi di tutti, scavalcò Silver ed entrò in cucina, aprendo il frigorifero.
“Sta mangiando?” domandò Yellow, confusa.
Lo videro prendere una lattina di Coca Cola. Tornò in salotto, aprì la bibita e prese un sorso, poi si sedette sul bracciolo della poltrona dove c’era Yellow, scippando il telecomando del televisore dal tavolino.
Lo accese.
Blue sorrideva, estremamente divertita. Silver invece sbuffò, allargando le braccia e voltandosi. “Non ci credo… ora lo ammazzo…”.
 “Ma che fai?!” sbraitò Crystal. Quello cambiò canale tre, quattro volte, prima di sospirare.
Lasciò poi cadere il telecomando tra le mani di Yellow e prese un altro sorso di cola.
“Ecco fatto” fece. “Problema risolto”.
 
“Qui Tea. Siamo appena arrivati a Libecciopoli, sotto una tremenda tempesta. Come vedete la Palestra di Rafan è accerchiata dalle autorità, che sono entrate più di mezz’ora fa dopo l’allarme dato da uno dei pochi minatori sopravvissuti al grande incendio che imperversa alle mie spalle. L’incendio, pare sia di natura dolosa. Dalle prime indiscrezioni sembra che una persona si sia introdotta fino al livello più basso della Palestra con l’intento di rubare i diamanti...”
 
Silver spalancò la bocca e portò le mani alle tempie.
“Siete troppo carichi. Pensiero laterale, cocchi…” fece Gold, mentre i quattro più grandi gli si pararono alle spalle
“Silenzio” ribatté Green.
 
“Tuttavia, quella che doveva essere una rapina si è rivelata essere una strage: il malfattore ha ucciso settantatré persone, distrutto la miniera di carbone e... un momento, ci arrivano altre informazioni: ecco, sembra che anche Rafan sia rimasto ucciso. Rafan è morto, è stato ritrovato il suo cadavere, ve lo confermiamo in esclusiva”.
“Oh porca puttana!” esclamò Green, prendendo immediatamente il cellulare. Spalancò la porta e si gettò sotto la pioggia, allontanandosi.
 
“Abbiamo appena ricevuto un’immagine dalle riprese del circuito interno della Palestra che mostra il volto dell’autore della rapina ed è...  oh. Non ci posso credere...”.
 
Tutti i presenti spalancarono occhi e bocca.
“Questo è parecchio strano” sussurrò Gold.
 
Quella donna assomiglia incredibilmente a Fiammetta Moore...”.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 - Glitch ***


11. Glitch


 
Hoenn, Verdeazzupoli, Villa Petri
 
Il mattino aveva l’oro in bocca, solitamente.
Quello no.
“E anche oggi un po’ di pioggia... ti pareva...” sbuffò Fiammetta, dopo aver aperto le persiane. Il giardino di Villa Petri era spoglio e grosse pozzanghere si erano formate nel prato bruciato dal freddo. La donna si portò davanti al comò e, osservando il proprio riflesso nello specchio, raccolse i capelli con entrambe le mani, per poi legarli con l’elastico che teneva al polso. Solita coda alta, poi scese al piano di sotto, camminando lentamente, a piedi scalzi. I talloni battevano sul parquet di mogano.
“Buongiorno, Fiammy” diceva Jarica, seduta sul tappeto con le gambe incrociate. Giocava con le bambole mentre guardava alla televisione un cartone animato.
“Buongiorno, tesoro. Hai fatto colazione?”.
“Sì, Leslie mi ha fatto i cereali”.
La donna sorrise. “Si dice preparato. Tra poco spegni e posa tutto, dobbiamo fare i compiti”.
Quella sbuffò. “La matematica non la capisco…”.
E fece ridere Fiammetta. Si avvicinò a lei e le carezzò la testa. “Non sei la sola”.
“Rocco è più bravo di me”.
Mphf. Rocco è più bravo di tutti, ma credo che potrei comunque darti una mano… Appena finisce la puntata vieni in cucina”.
Andò lì, Leslie stava preparando il pranzo, chiusa nel suo grembiule candido, allacciato dietro al collo e perfettamente pulito.
“Buongiorno, Signorina Moore” fece, senza neppure voltarsi.
“Buongiorno… Il programma di oggi era andare a Cuordilava per sostenere due sfide in Palestra ma…” prese una piccola pausa e sospirò. Si avvicinò poi alla finestra e spostò leggermente la tenda bianca. “… beh, il tempo fa schifo. C’è allerta e siamo bloccate su di un’isola in mezzo al mare… Che pessima idea”.
“Il Signor Rocco sa quello che fa” ribatté Leslie, sorridente.
“Sì, sì, lo so…”  sbuffò l’altra, continuando a guardare la pioggia cadere. “Volevo uscire a comprare qualcosa ma…”.
“Non è il caso”.
“Odio la pioggia”.
“Anche io” ribatté Jarica, con la sua voce squillante, che apparve alle loro spalle con lo sguardo corrucciato. “E odio anche il freddo”.
Fiammetta sorrise. “Fortunatamente qui si sta bene”. Vide l’altra annuire, poi si sedettero entrambe al tavolo, grosso e parecchio antico e cominciarono a studiare.
 
*
 
Nonostante i problemi con la matematica, la sorella maggiore non ebbe grossi problemi ad aiutare quella minore coi problemi di seconda elementare.
“Grazie” fece quella, chiudendo la zip dell’astuccio e sovrapponendo ordinatamente fogli, quaderni e libri.
“Ripassa le moltiplicazioni, piccola”.
“Va bene”.
Leslie si voltò e andò in salone, lasciandole da sole. Jarica la fissava, e la cosa incuriosì la più grande.
“Che c’è?”.
“Quando torneremo a casa?”.
L’altra ridacchiò sommessamente, annuendo e facendo spallucce. Portò una mano sul volto e sospirò.
“Non lo so, tesoro. Quando sarà sicuro, immagino”.
“Mi manca la mia camera” ribatté spedita la ragazzina.
Quella non aveva torto. Nonostante casa di Rocco fosse meravigliosa desiderava la sua doccia e i suoi spazi.
“Beh, forse potrei tornare a Cuordilava a prendere qualcosa. Scrivimi ciò che ti serve da qualche parte e te lo porto, devo soltanto chiedere a Pat di aiutarmi”.
 
Bohemian Rhapsody cominciò a suonare al piano superiore. Era il suo cellulare.
 
“Uff… dannazione…”.
Fiammetta scattò in piedi e scavalcò sua sorella, uscendo dalla cucina e cominciando a salire i gradini in legno della vecchia villa. Scricchiolavano sotto al suo peso, mentre Freddie Mercury cantava a sua madre. Passò davanti alla porta del bagno, spalancò quella della camera da letto e si gettò sul letto, passando velocemente il dito sullo schermo, che segnava chiaramente il nome di Rocco.
“Pronto! Uff, amore! Ero di sotto”.
“Fiammetta!” tuonò quello.
La donna corrucciò lo sguardo. Aspettò che quello continuasse.
“Fiammetta! Non uscire di casa per nessun motivo!” esclamò, con voce preoccupatissima.
“Ma… ma, Rocco… che succede?”.
“Non hai ancora visto i telegiornali?!”.
“Veramente no… Mi sono svegliata da poco… Aspetta…”.
Rotolò sul lato e afferrò il telecomando sul comodino dell’uomo, accendendo il grande Samsung appeso alla parete. La prima immagine che vide fu il suo volto.
Si alzò in piedi lentamente, confusa.
“Ma che… che diamine…”.
“Sei la principale indiziata per l’omicidio di Rafan, avvenuto ieri...”
“Rafan è morto?!”.
” rispose l’altro. “Dopo una rapina nella miniera di diamanti, a Libecciopoli. Ci sono le immagini della videosorveglianza, hai ucciso la receptionist della Palestra con una penna e poi sei scesa giù... Hai ammazzato settantatre persone”.
A quelle parole, la donna impallidì. Era una persona con la testa sulle spalle, non si sarebbe mai sognata di fare del male a una mosca.
“... Io... io non so che dire... Poi, ieri eravamo assieme, ricordi no?”.
Ma sì, ma sì, non è questo il problema... Sono pronto a testimoniare in tuo favore, e anche Leslie e Jarica erano qui con noi. Tu eri a Verdeazzupoli, ne siamo certi ma...”.
 
E poi il campanello suonò.
 
“Aspetta”.
Si alzò rapida dal letto, abbassando il volume alla televisione. Il cellulare nella mano destra, la sinistra abbassò la maniglia d’ottone e la porta si riaprì. Sentiva i passi di Leslie avvicinarsi alla porta.
Il campanello, Rocco”.
Sono già lì...” sbuffò l’altro.
Leslie stava per aprire, la sentiva.
“Chi?”.
Quelli della Polizia Internazionale, Fiammetta... Stai zitta, non dire niente, sto arrivando”.
“Merda...” sospirò, fiondandosi al piano di sotto. La mano che non stringeva il cellulare carezzava il corrimano e le gambe diventavano sempre più pesanti. Non appena Leslie aprì la porta, quella gli sbatté addosso, facendola cadere di lato.
“Fermi!” urlò lei.
“POLIZIA INTERNAZIONALE! TUTTI A TERRA! MANI DIETRO LA TESTA!”.
Più di dieci uomini entrarono velocemente in casa, tutti armati di Glock nere. Tutti con indosso passamontagna scuri e giubbotti antiproiettili, tutti con grossi stivali anfibi di gomma.
E quando uno di quelli puntò la pistola contro la testa della domestica, alla mente di Fiammetta saltò subito Jarica.
“Fermi! Sono qui! Sono qui, cercate me! Non toccate mia sorella!”.
“MANI IN ALTO!”.
“Fiammetta!” urlava Rocco al cellulare. “Fiammetta, sto arrivando! Tieni duro!”.
“Non toccate Jarica! Non fatele del male!”.
Scese lentamente le scale, con le mani alzate, mentre tre bocche di fuoco erano puntate sul suo viso e sul suo petto. Un agente impattò contro di lei, le scivolò alle spalle e la colpì sulle gambe, per farla inginocchiare. Le strapparono il telefono dalle mani e le piegarono i polsi, prima di ammanettarla.
Sulla destra, sotto la cornice della porta della cucina, la piccola Jarica guardava inorridita sua sorella, mentre le spiegavano i suoi diritti. Vide poi entrare in casa un ultimo uomo, diverso dagli altri perché non in divisa, e senza arma tra le mani.
Era più calmo ma il suo sguardo era attento e vispo. Indossava un grosso soprabito beige, pantaloni neri e stivali lucidi. Era magro e molto alto, di bell’aspetto, coi capelli ben pettinati verso destra, brizzolati, e il volto totalmente sbarbato.
“L’abbiamo presa...” sospirò. Prese il telefono e lo avvicinò al’orecchio.
“Sì, qui agente 369, nome in codice Bellocchio. Abbiamo messo la sospettata sotto arresto e ora la portiamo con noi”.
 
 
Adamanta, Timea, Uffici della Omecorp
 
“Più di tre quintali di diamanti...”.
Linda sorrideva. Era in piedi accanto a Lionell, nel suo ufficio.  Guardava Fiammetta, quella versione folle e senza scrupoli, stesa sul divano; i lunghi capelli fulvi erano stesi sul bracciolo, quasi toccavano terra, mentre le dita si muovevano agili suonando la melodia di un pianoforte immaginario.
“Sono grezzi, e questo abbassa il prezzo di vendita” osservò Lionell, sospirando. Si sistemò meglio sulla sedia e annuì, consapevole. “È comunque un buon punto di partenza. Li venderemo così, non possiamo perder tempo nel lavorarli. Abbiamo altri due colpi da organizzare...”.
Il suo volto era freddo, il suo sguardo concentrato. Linda era profondamente attratta da quell’uomo.
“Mi sto mettendo già alla ricerca di un acquirente per l’intero stock”.
“Meraviglioso. Ci sono sospetti su di noi?”.
L’altra sorrise, facendo cenno di no con la testa. Puntò il dito contro Fiammetta. “Cercano lei. In più hanno arrestato la vera Fiammetta Moore qualche ora fa, quindi tra interrogatori e accertamenti guadagneremmo ancora tempo”.
“Sempre che non confermino l’arresto” osservò Jasmine, sempre più lucida delle altre due, seduta sulla poltroncina a sinistra di fronte la scrivania. Accanto a lei c’era una più che assente Sandra.
“Infatti” osservò Lionell. “Se la condannassero potremmo andare avanti tranquilli. Ma è molto probabile che non succeda”.
“Ma poi dovrebbero trovare una perfetta sosia di Fiammetta” ribatté Linda.
L’uomo si alzò, guardando oltre la finestra. Pianificava, cercava di anticipare gli eventi, immaginando i passi successivi. E l’unica cosa che poté fare, fu voltarsi e guardare Fiammetta, ancora stesa sul divano.
“Incredibile... Potete andare. Mi raccomando, Linda, entro domattina dovremo far sparire questi diamanti dai nostri magazzini”.
“Come fosse già fatto”.
“Meraviglioso”.
 
 
Cielo di Hoenn, Base Dirigibile della Polizia Internazionale
 
Rabbia.
“HO GIÀ DETTO CHE NON ERO IO QUELLA PERSONA!”.
La voce di Fiammetta rimbombava in quella piccola stanzetta buia. Aveva alzato entrambi i polsi, legati tra di loro con fredde e solide manette d’acciaio, e sbatté i pugni sul tavolo che aveva davanti.
“COME AVREI FATTO AD ESSERE CONTEMPORANEAMENTE A LIBECCIOPOLI E A VERDEAZZUPOLI?!”
Bellocchio era di fronte a lei, dall’altra parte del tavolo. Aveva svestito l’impermeabile, lo aveva piegato minuziosamente e poi poggiato sul divanetto di pelle grigia che c’era accanto alla porta. Era rimasto in camicia, aveva tirato su le maniche e liberato il collo dalla cravatta.
Sudava.
Umettò le labbra e deterse la fronte con la mano.
“Qui fa caldo... Ma ragioniamo, si calmi, signorina Moore, e facciamo un riepilogo...” sospirò. Fiammetta lo fissava impaziente, sbuffava in continuazione, mordendosi le labbra e stringendo i pugni. Era infastidita dalla luce bianca sospesa sulle loro teste.
“Vuole davvero che le ripeta per la seicentoventesima volta che cosa stavo facendo ieri sera?!”.
“Non si alteri. Allora: ha detto di essere stata tutto il pomeriggio di ieri a casa del tuo fidanzato, che peraltro è anche il Campione di Hoenn. Era quindi a Verdeazzupoli, nega di aver prenotato un biglietto per Unima e di essersi imbarcata ad Adamanta e, sicuramente non ha preso una linea bus da...” la voce profonda s’interruppe e gli occhi scuri si abbassarono sul foglio che aveva sotto le mani. “... Ponentopoli, prima di arrivare a Libecciopoli, proprio pochi minuti prima della strage... Esatto?”.
“Sì!” esplose Fiammetta, con le lacrime agli occhi. “Cazzo, io...”.
I loro sguardi s’incontrarono a metà strada.
“Cosa?”.
“Io sono una donna di legge... Gestisco una Palestra da anni, mi batto ogni giorno per la giustizia e la lealtà, come feci tre anni fa, quando per la seconda volta ho rischiato la vita nel tentativo di salvare questa dannatissima regione... Voi invece dov’eravate?”.
Silenzio. Bellocchio fissava la donna, guardava le sue lacrime scivolare sul viso.
“Si dichiara colpevole?”.
“No...” sbuffò l’altra.
L’uomo allora spinse un foglio sul tavolo, fino a portarlo davanti al suo sguardo.
“Questa però è chiaramente lei”.
“O qualcuno che mi assomigli! Senta, a meno che non sia un reato stare sul divano di casa mia, dacché ne ha le prove, non può trattenermi qui!”.
La sua voce rimbombò forte in quel cubicolo, prima che fuggisse via dalla porta: qualcuno l’aveva aperta, entrando immediatamente nella sala interrogatori. era Rocco Petri.
Furibondo.
“Fiammetta!” esclamò, correndo verso di lei e sollevandola di peso, stringendola poi in un caloroso abbraccio. La sentì piangere e abbandonarsi a lui, sollevata.
Bellocchio guardava in silenzio la scena, totalmente immobile, coi gomiti puntellati sul tavolo e il viso totalmente spoglio d’emozioni.
“Immagino che lei sia il Campione di Hoenn...”.
“Liberatela subito!” gli ordinò l’altro, con l’espressione corrucciata in viso. Il poliziotto, tuttavia, rimase fermo, limitandosi a incrociare le braccia.
“Non so come sia riuscito ad arrivare fin qui ma prima che l’arresti per interruzione di pubblico ufficio, intralcio alla giustizia e un sacco di altre cose è meglio che se ne vada e mi faccia finire di fare il mio lavoro”
“Lei sta tenendo questa donna ammanettata ingiustamente!”.
Il silenzio veniva rovinato soltanto dai gemiti di Fiammetta, che tremava stretta tra le braccia del suo uomo. Bellocchio sospirò e si alzò in piedi, con una lentezza quasi esagerata, e si avvicinò muso a muso all’altro.
“Non m’interessa chi è lei, di chi sia il figlio o quale sia il suo lavoro” ringhiò. “Quella che abbraccia, è la donna che è accusata di aver reso settantatre donne vedove, e più dei duecento bambini orfani di padre...”.
“Non sono stata io!” urlò di contro Fiammetta.
“Questa donna è accusata di aver dato alle fiamme un luogo istituzionale e aver commesso la più grande rapina a una miniera di diamanti degli ultimi cinquant’anni. E lei mi chiede di liberarla senza aver fatto luce su nulla”.
I due si fissavano. Lo sguardo glaciale di Rocco si scontrava in quello granitico dell’agente 369.
“Liberi immediatamente Fiammetta”.
“Qui non ha alcuna autorità, Rocco Petri”.
Quello sorrise, facendo cenno di no con la testa. Lasciò la presa dalla sua donna.
“Dal cielo fino al centro della terra, tutto ciò che si trova a Hoenn è e sarà sotto la mia autorità, fino a quando sarò io a controllare che la giustizia di questo posto sia sempre tutelata. Io proteggo la mia gente. Lei è la mia gente. Quindi, mio caro Poliziotto Internazionale, liberi questa donna, prima che sia io ad arrestarla”.
Bellocchio rimase a guardare Rocco per qualche secondo, grattandosi la guancia; sentiva la barba sottile sotto le dita; lui si radeva ogni mattina.
“La signorina Moore l’ha citata durante il suo interrogatorio, quindi è bene che faccia qualche domanda anche a lei... Si accomodi, Campione”.
Fiammetta e Rocco si guardarono per quattro intensi secondi.
“Potrebbe servire a scagionarla” aggiunse l’altro, guardando il Breil. Subito dopo indicò con la mano la sedia.
Quello dai capelli grigi annuì, guardando Fiammetta. Quindi si sedette, mentre Fiammetta rimase in piedi, dietro di lui. Bellocchio, riprese posto di fronte a lui, sistemò le carte che aveva davanti agli occhi e sospirò.
 “La signorina Moore afferma d’esser stata...”.
Rocco lo interruppe. “Tutta la giornata con me, a casa mia, dove sua sorella minorenne Jarica Moore e la governante, Leslie Winter, possono testimoniare. Inoltre abbiamo ordinato una pizza, il ragazzo che ce l’ha portata potrà sicuramente dire d’aver visto la mia fidanzata aprirgli la porta, pagare e consegnargli più di cinque dollari di mancia...”.
Bellocchio sospirò. “Aspetterete qui mentre appuriamo che ciò che affermate sia vero. Intanto la signorina Moore aspetterà nella cella di sicurezza”.
“Assolutamente no!”.
“Non transigo” ribatté l’agente, fermo.
“Allora arresterete anche me!”.
“Non me lo faccio ripetere due volte”.
 
 
Adamanta, Primaluce, Casa Recket
 
Quarantotto minuti.
Aveva tenuto il tempo, Rachel, prima che Allegra avesse protestato per il maltempo di quel giorno. La donna aveva provato a rilassarsi, mettendo su un po’ di musica classica.
Abbinata alla pioggia, e alla voglia di riprendere il Murakami che aveva sul comodino da tre settimane, quello doveva essere un pomeriggio di relax. Mise anche a preparare del tè verde, che bevve con un po’ di miele, in una tazza di porcellana bianca. Riscaldò anche le mani.
Zack, poi, quando si addormentava accanto a lei, aveva il dono di farla sentire in pace col mondo; si era poggiato sul divano, silenzioso, spegnendosi all’improvviso.
Tutto sembrava idilliaco, se non per l’impazienza della piccola di casa Recket.
“Ma quando smette di piovere?!” esclamava lamentosa Allegra, con le mani sulla finestra.
“Prima o poi” rispose sua madre, prendendo un sorso di tè.
“Uff… mi scoccio…” protestò ancora la bambina. Poggiò la fronte contro il vetro e il suo respiro fu catturato, diventando condensa. I piccoli ditini disegnarono una faccina triste. “Possiamo andare da zia Alma?”.
“Zia Alma ha da fare”.
Rachel voltò pagina, distratta.
Allegra guardò suo padre dormire steso sul fianco, che le dava la schiena. Arcanine era nella sfera, ed era tassativo l’ordine di non toccare le Pokéball.
“E da zio Ryan?”.
Rachel non le rispose, rimanendo immobile. Prese un altro sorso di tè e continuò a leggere.
E Allegra non ci stava.
“Mamma…”.
“Piccola”.
“Da zio Ryan?”.
La madre alzò lo sguardo.
“Anche lo zio Ryan ha da fare”.
“E uffa però!” esplose lei. Rachel vide Zack sorridere, immobile, e non poté fare altro che emularlo. “Papà dorme, zia Alma ha da fare, zio Ryan ha da fare! Tutti quelli simpatici hanno da fare!” esclamò, mettendo il broncio e incrociando le braccia.
Zack continuava a ridere. Rachel invece era contrariata.
“Io non sono simpatica?”.
“Sì…” aggiustò il tiro la piccola, evitando lo sguardo della madre. E li Rachel rise di gusto, chiudendo il libro e alzandosi.
“Ti va di giocare un po’ assieme?”.
“… Va bene…”.
“Con cosa vuoi giocare?” le domandò, abbassandosi verso di lei e prendendole le mani. Incrociò il suo sguardo cristallino e le sorrise.
“Coi Pokémon”.
Rachel sospirò. Quello bravo a fare quelle cose era Zack. “Ehm, che ne dici delle bambole, invece? Potremmo giocare con qualcos’altro”.
“No! Voglio uscire a giocare coi Pokémon!”.
“Assolutamente no! Fuori piove, ti prenderai un accidente!”.
“Ma! Allora vedi che sei noiosa?!” urlò quella. Rachel sospirò nuovamente, vedendo Zack continuare a ridere. Tuttavia non gli avrebbe dato la soddisfazione di svegliarlo per regolare sua figlia, l’avrebbe fatta divertire nonostante la pioggia.
“Forse puoi giocare con il mio primo Pokémon…”.
“Zoroark?!” esclamò, felicissima. Gli occhi della bambina erano spalancati e increduli. Insieme salirono le scale ed entrarono nella camera da letto. La bimba correva alle sue spalle, tenendo a fatica il passo della madre. “E... e... lo posso accarezzare?”.
“Certo” sorrise Rachel. Aprì il cassetto del comò e prese una delle tre sfere che erano lì.
La aprì e mostrò a sua figlia il suo Zoroark. Il Pokémon rimase immobile, mansueto com’era, fissando la sua Allenatrice, in piedi davanti a lui.
“Ciao…” gli sorrise quella. “Non ci vediamo da tempo…”.
Gli toccò la zampa. Quello rimase fermo, guardando poi la piccola figura aggrappata alla coscia della donna.
“Ti ricordi di mia figlia? Vorremmo divertirci un po’… puoi usare una delle tue illusioni?”. Poi si voltò. “Allegra, dov’è che vorresti essere, ora?”.
Quella non ebbe dubbi.
“Al Luna – Park di Plamenia!”.
Rachel sorrise e fece spallucce a Zoroark. “L’hai sentita? Il Luna-park”. Poi prese per mano la bambina e si sedette sul letto, prima che tutto diventasse buio e s’illuminasse a giorno.
Erano davvero a Plamenia, nel parco divertimenti. Sentiva il rumore delle giostrine e l’odore dello zucchero filato. Le persone s’accalcavano per salire sulla ruota panoramica ed un signore con la tuba ed il bastone invitava le persone ad assistere allo spettacolo di magia che si sarebbe tenuto proprio davanti all’autoscontro.
“Oh... Mamma! Andiamo a vedere lo spettacolo di magia!”.
Rachel sorrise. “Sì. Andiamo a vedere lo spettacolo”.
 
 
Cielo di Hoenn, Base Dirigibile della Polizia Internazionale
 
Fiammetta e Rocco erano nella cella di sicurezza, senza manette. Entrambi erano seduti su di una scomoda panca d’alluminio, con le gambe accavallate, attendendo il momento che li avrebbero liberati da quell’inutile prigionia. La cella non era vuota, dato che con i due fidanzati vi erano altre due persone. Il primo era un uomo sulla cinquantina, con una grossa cicatrice a deturpargli il volto e i capelli lunghi. Il secondo invece era un ragazzo parecchio più giovane, magro, totalmente calvo e con gli occhi azzurri.
“Quando andremo via?” domandava Fiammetta, sussurrando all’orecchio di Rocco. Aveva poggiato la testa sulla sua spalla mentre quello era rimasto immobile a fissare ciò che succedeva oltre le sbarre.
“Spero tra poco. Avranno sicuramente sentito Leslie”.
“Non vorrei che implicassero anche Jarica in questa situazione…”.
“Neppure io” ribatté l’uomo. Sospirò.
La donna portò una mano sul volto stropicciandosi i grossi occhi rubini. Si morse il labbro inferiore e strinse Rocco, rimanendo in quella posizione per un quarto d’ora ancora, prima che Bellocchio si presentasse al fianco di Green Oak e degli altri Dexholder di Kanto.
“Il porta pizze e la governante hanno confermato la vostra versione. Siete liberi”.
Fiammetta e Rocco si alzarono in piedi e uscirono, quindi Green Oak strinse le mani ad entrambe. “Dov’è che possiamo scambiare quattro chiacchiere?” chiese a Bellocchio.
Quello li condusse nella sala riunioni del dirigibile. Era una stanza assai grossa, con un’ampia finestrata a illuminare un tavolo d’acciaio, che li accolse.
Fiammetta guardava Blue e poi Red. Era sorpresa di vederli lì. Il suo sguardo si poggiò poi su Rocco, immobile, mentre Green non fece attenzione a Bellocchio, entrato per ultimo nella stanza. Chiuse la porta e si voltò, facendo per sedersi.
Tutti guardavano Green. Tutti aspettavano che dicesse qualcosa. Lui si sistemò meglio nella poltroncina rivestita di tessuto blu e prese un lungo respiro. “Allora…” fece. “Che è successo?”
Fiammetta allargò le braccia, come a sottolineare l’ovvietà della cosa. “Mi hanno arrestata”.
“Per quella cosa dei diamanti…” osservò Yellow, docile. “Ma non avevano ragione… vero?”.
“Assolutamente no!” ribatté la rossa. Red annuì e la guardò negli occhi. Poi fissò Yellow, concentrata e silenziosa, al suo fianco.
Calò il silenzio. Tutti guardarono Green, che sospirò e annuì. “Agente Bellocchio…” fece. “Sto per parlare d’informazioni strettamente confidenziali, quindi la pregherei di uscire per qualche minuto dalla stanza”.
Rocco guardò la soddisfazione negli occhi di Fiammetta, poi fissò l’uomo che li aveva interrogati rimanere immobile per qualche secondo, colpito. Annuì, vedendo Blue fare cenno con la testa in direzione della porta. E quando uscì, l’attenzione si focalizzò nuovamente sul capo dell’Osservatorio di Kanto.
“Che è successo?” domandò Fiammetta. Il fatto che fossero tutti lì, in quel contesto, la spaventava.
Green abbassò lo sguardo e rapprese le labbra. E poi lo disse, con uno strappo netto.
“Hanno rubato il Cristallo del Caos…”.
 
Fiammetta saltò un battito.

Le mani si strinsero attorno ai braccioli della poltroncina e la bocca si schiuse. Batté le palpebre ma lo sguardo rimase contrito e disperato.
“Han…” poi deglutì. Tutti, nessuno escluso, furono impressionati dal volto della donna; il fatto che fosse così terrorizzata diede loro a pensare che forse avessero preso la cosa sottogamba.
“Calmati…” le fece Rocco, stringendole il braccio.
“Hanno rubato la pietra?” chiese di contro la rossa, con un filo di voce. Non si mosse più, fino a quando non vide Green annuire.
“Temiamo che l’autore del furto a Libecciopoli sia lo stesso che ha trafugato il cristallo”.
“Ecco perché quando abbiamo sentito la notizia della rapina al telegiornale ci è venuta una terribile paura” subentrò Red. “Era quello che temevamo: sfruttare la furia del cristallo per questi scopi”.
“Sono morte quasi ottanta persone…” osservò Yellow, con lo sguardo basso.
Calò poi il silenzio. Blue annuì e sospirò. “Io non credo che sia stata tua, Fiammetta… La questione, però, è che quando hanno rubato il cristallo, le telecamere di Green hanno mostrato il volto di un uomo, che noi abbiamo interrogato”.
Rocco guardò Red, come a conferma della cosa. Quello annuì.
“Aveva un alibi di ferro” chiuse.
“Come lei…” rispose il Campione.
“Era totalmente innocente” riprese Blue. “Ignaro della situazione, cadeva dalle nuvole. Aveva delle riprese di videosorveglianza interna che lo riprendevano a casa sua nell’orario del fatto”.
Green batté le nocche sul tavolo. Il rumore riverberò nell’intera sala, zittendo i presenti.
“Ora…” fece, dopo un lungo sospiro. “Avete una spiegazione quantomeno verosimile a tutto questo?”.
Si guardarono, Rocco e Fiammetta. Silenziosi, sospiranti.
Lei lesse negli occhi dell’uomo il senso di responsabilità che aveva per la sua gente, e quasi visualizzava il suo timore, immaginando a un malvivente pronto a mettere ferro e fuoco per la terza volta Hoenn; negli occhi della donna, invece, il Campione vedeva solo terrore.
Entrambi fecero cenno di no.
“Sicuri?”.
“Non sono sicura più di niente…” sospirò Fiammetta, abbassando lo sguardo. Green annuì, guardò Blue e si alzò. Gli altri lo seguirono, lasciando i due fidanzati da soli, seduti.
Si guardarono ancora.
“Andiamo a Iridopoli, chiamiamoli e analizziamo meglio la cosa”.

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 - Royalties ***


12. Royalties
 
Johto, Olivinopoli, Porto Civile
 
Nonostante la pioggia la M/N FORTUNA aveva attraversato il mare ed era giunta a destinazione da Oblivia, dov’era partita sedici ore prima. A Martino era spettata una cabina molto accogliente, con luci calde, copriletto a pois azzurri e un oblò dalla cornice d’ottone. Durante il lungo viaggio aveva letto parte di un buon libro di Dennis Lehane ambientato a Boston, guardando il mare rabbioso in tempesta. Non soffriva il mal di mare ma in quei tre giorni aveva sentito lo stomaco rivoltarsi più di una volta. Non appena vide da lontano i promontori di Fiorlisopoli, il capitano Murtaugh aveva avvertito tramite interfono che avrebbe deviato proprio lungo le coste della città per questioni di sicurezza legate alle Isole Vorticose. Martino sospirò e cominciò a prepararsi psicologicamente. Due ore dopo raccolse valigia e coraggio e uscì dalla cabina.
C’era parecchio vento; scompigliava la pettinatura castana del Ranger e spingeva il cappotto sul suo corpo asciutto. Mise piede sulla passerella d’attracco e sentì le prime gocce di pioggia cadergli sul volto. Dato che non aveva l’ombrello si limitò ad infossare la testa tra le spalle e ad alzare il colletto del soprabito, con scarsi risultati.
Quando scese dalla nave gli altri passeggeri si dileguarono molto velocemente.
Marina gli aveva detto che sarebbe andata a prenderlo accompagnata da Gold, quindi cercava sua sorella e qualcuno vestito con colori sgargianti.
Non vedeva nessuno.
Corse lungo la banchina, cercando riparo sotto la pensilina del bus, proprio accanto all’edicola. Rimase a guardare la pioggia abbattersi sulla strada antica del porto, quando prese a pensare al fatto che Marina non fosse mai in ritardo; era una tipa precisa e puntuale e non vederla lì lo straniva, data la gravità della situazione. Si aspettava di dover intervenire tempestivamente.
Forse è successo qualcosa s’arrischiò a pensare, conoscendo la pignoleria di sua sorella. Non era sua abitudine tardare, e nel caso avrebbe avvertito; generalmente si anticipava sempre di qualche minuto, lo ricordava con precisione, si preparava ore prima per non arrivare mai in ritardo da nessuna parte. Poi, tra un pensiero e l’altro, spuntò Gold.
Già… è sicuramente colpa sua. Sbuffò; la immaginava a trascinare suo cognato giù dal letto, in quel momento. Letto che condividevano. E rabbrividì.
Mia sorella dorme accanto a quel troglodita, pensò, scuotendo poi quell’immagine dalla testa.
E dopo un rombo di tuonò, si sentì chiamare.
“Martino!” sentì. Alzò la testa, vedendo un ombrello dorato avvicinarsi a grande velocità nella foschia della tempesta.
“Martino!” ripeté la voce. “Dove sei?!”.
“Sono qui! Marina!” rispose il Ranger, vedendo la sorella apparire nell’atmosfera fumosa del porto di Olivinopoli. Fece un passo verso di lei e la strinse in un abbraccio fraterno, carico di sentimento.
“Mari... come stai?” fece l’uomo, grattandosi il volto ormai bagnato dalla pioggia.
Quella fece un cenno con la testa e poi abbassò lo sguardo. “Tutto bene. Andiamo a ripararci nel Centro Pokémon e prepariamoci. Dobbiamo intervenire immediatamente”.
“E Gold dov’è?”.
“Mi ha prestato l’ombrello, è a casa a dormire, non l’ho voluto svegliare”.
 
 
Hoenn, Iridopoli, Sede della Lega Pokémon, Ufficio del Campione
 
Il Campione sedeva dietro la sua scrivania, col volto marmoreo e la luce della lampada, elegante, in ferro battuto, ad illuminarlo. Tutto era perfettamente ordinato, dalle penne ai bigliettini da visita, dal planning cartaceo alla sua sinistra alla foto di Fiammetta, che invece era sulla destra.
Blue e Red gli erano seduti di fronte, Fiammetta era alla sua sinistra e gli carezzava la spalla. Guardava Yellow stringere nervosamente lo schienale della sedia di Red.
“Possiamo rivederla?” domandò la Capopalestra di Cuordilava.
Rocco si limitò ad annuire, toccando il tasto play e facendo ripartire il video dell’omicidio della receptionist di Libecciopoli commesso da quella Fiammetta folle. Lo riguardava con foga, cercando di cogliere ogni minimo cambiamento disponibile, senza però riuscire a notare qualcosa di strano. Forse era troppo distratto dalla protagonista di quel filmato.
Per un attimo s’interrogò.
 
“E se avessi diviso il letto per anni con un’omicida?”.
 
Allontanò immediatamente il pensiero e sbuffò, fissando il volto granitico di Green, alla destra. Sbuffò, il Campione, stranito. “Qui qualcosa non torna…”.
Bloccò la riproduzione e alzò gli occhi, in direzione della donna dai capelli rossi.
“Questa sei praticamente tu…”.
La donna sospirò e abbassò lo sguardo, facendo cenno di no con la testa. “Sai che non sono io…”.
“Lo so…”.
“La cosa ha sconvolto anche noi…” s’inserì Blue, pettinandosi col dito il sopracciglio sinistro. “Ci siamo precipitati qui appena abbiamo appreso il fatto… Ma di te non possiamo fare altro che fidarci, se dici che fosse con te non abbiamo motivo di sospettare di lei”.
Yellow pareva d’accordo. Le donò un piccolo sorriso carico d’empatia, prima che l’uomo dagli occhi di pietra riprendesse parola.
“I miei dubbi non riguardano la sua innocenza… Anzi. Mi sono innamorato di lei per la sua bontà” fece, giochicchiando con l’anello che portava all’indice. “Riusciamo a spiegare questa cosa in maniera razionale?”.
Tutti si guardarono. Red storse il muso, leggendo nel pensiero di Green, che si allontanò di qualche passo.
“No”.
Tutti lo guardavano. Si avvicinò al centro della stanza, sul grande tappeto rosso, e incrociò le braccia. “Non c’è razionalità in questa cosa. O è stata Fiammetta o è stata qualcuno che le assomiglia davvero tanto, con gli stessi capelli rossi e…”.
“Lei li porta legati” intervenne il Campione.
“Avanti! Stesse labbra, stessi occhi, stesso corpo! Quella è palesemente Fiammetta!”.
“ Calmati, Green” s’inserì Blue. “Ha detto che non è stata lei, Rocco era con lei e questo le conferisce un alibi”.
“C’erano anche la tata e la sorella” annuiva Yellow. Il suo volto era teso, ma quello della donna dai capelli rossi era cereo. Percepiva il suo cuore battere e la paura scorrere nelle sue vene assieme al sangue bollente.
Esplose.
“Perché diamine pensi che sia stata io?!”
Blue intervenne. “No, Fiammetta… non ce l’ha con te. Non pensa che sia stata tu… ma questa nella foto sei praticamente tu ed è…”.
“Un momento…” li fermò Red. “È proprio come con Xavier Solomon… Lui parlava di Multiverso”.
Green indossò un’espressione incredula sul volto. “Sei serio? Multiverso?”.
Poi fu silenzio, per quasi dieci secondi. Red abbassò lo sguardo e sospirò.
“Sì. O questo oppure c’è una fiera dei nostri sosia e sono tutti dei criminali. Non credo che sia un caso”.
Green andò verso la finestra e guardò fuori, perdendosi oltre lo scroscio della cascata d’Iridopoli. “Non penso che sia la giusta risposta alle nostre domande. Non potrebbe essere una maschera?”.
Fu lì che Rocco aprì il cassetto sinistro della scrivania, estraendone una grande lente d’ingrandimento. S’abbassò sulla foto e la puntò sul collo dell’omicida.
“No, Green, nessuna maschera. Tralasciando che questo è il corpo di Fiammetta, ha i suoi stessi e identici nei sul collo. E, per quanto la preparazione di questo ipotetico travestimento sarebbe potuta essere minuziosa non credo che abbiano studiato anche la sua pelle”.
“Potrebbe essere” ribatté Green.
“No, amore, è improbabile. Che motivo avrebbero di incolpare Fiammetta, poi? Lei è un’eroina” gli rispose Blue.
Yellow la guardò per un piccolo istante, vedendola infragilita dagli sguardi scrutatori a cui era sottoposta: aveva le braccia incrociate sotto al petto, gli occhi impauriti dalla situazione ed il volto avvilito. Era sensibilmente scossa dalla faccenda, quel mattino non si aspettava d’essere arrestata. Ricordava lo sguardo di sua sorella Jarica e non lo avrebbe più dimenticato, per tutta la sua vita.
Sentiva il suo cuore battere, la biondina, e se ne dispiaceva: aveva capito che quella soffrisse nel vedere le televisioni trasmettere in ogni occasioni le riprese delle telecamere della Palestra di Libecciopoli. Quindi le si avvicinò, prendendole entrambe le mani e sorridendole dolcemente.
“Stai calma”.
Tutti si zittirono e guardarono la ragazza dagli occhi del colore del sole. “Nessuno ti ha fatto del male e nessuno te ne vuole fare. Io ti capisco, Fiammetta: Sentirti messa in discussione dal primo momento e veder perdere qualcosa d’importante. Lo capisco. Lo so. Non vogliamo metterti sott’accusa, no. Cerchiamo soltanto di capire. Ma tu sei dalla nostra parte e lo sei sempre stata. Non potremmo mai dubitare di te”.
Quella prese a lacrimare, annuendo. Rocco distolse lo sguardo, sospirando. “Quello che intende dire Green…” fece. “… è che le cose non tornano. Tu, come anche qualcun altro, sei stata inconsapevolmente coinvolta in qualcosa che è più grande di te e che inevitabilmente ti ha trascinato a picco”.
Blue annuì. “Sappiamo che non sei una ladra. Né tantomeno un’omicida”.
Quella lasciò le mani di Yellow e tornò a chiudersi nel suo abbraccio, nella sua zona di conforto, accanto a Rocco.
“E neppure Xavier Solomon...” osservò Green, prima di un lungo sospiro.
Gli occhi di Red si tuffarono nei suoi. “Una persona del tutto identica a lei” indicò poi con lo sguardo Fiammetta. “Con un comportamento totalmente opposto... Questo... Multiverso… potrebbe essere la risposta”.
“Non lo so…” sbuffò il nipote del Professor Oak. “Ci serve qualcuno abbastanza intelligente da poterne venire a capo…” fece, pri9ma che il suo cellulare squillasse. Era Lance.
 
 
Johto, Percorso 41, poco fuori le Isole
 
Pioveva a dirotto e il mare in burrasca rendeva temibile la traversata. La formazione era la solita, con Martino davanti e Marina a stringerlo alle spalle, mentre l’andatura del Lapras che avevano acquisito con lo Styler rimaneva molto più certa del loro instabile equilibrio.
Marina sorrideva, poggiando la fronte contro la schiena del fratello.
“Mi mancava un casino...” sospirò lei.
“Non riesco a credere che tu non abbia partecipato a nessuna spedizione speciale, nel corso di questi anni da Caporanger”.
Marina sbuffò. “Invece ci devi credere. Sai bene che da quando abbiamo lasciato Hoenn ho appeso lo Styler al chiodo ma questa situazione è troppo anche per i miei Ranger migliori”.
Martino rimaneva immobile, con le mani fisse sul carapace di Lapras. Guardava dritto e cercava di distinguere qualche figura oltre le onde nere ed infuriate.
“A me non mancava rischiare la vita in questo modo. Oblivia è parecchio più tranquilla”.
Marina inarcò velocemente le sopracciglia e poi sospirò. “Johto è molto più grande di Oblivia. Ci sono Allenatori potenti. Pokémon leggendari...”.
“C’è Gold. Ed è questo l’unico motivo per cui ti ostini a non voler tornare a casa”.
“Ne abbiamo già parlato ampiamente, fratello caro: qui ho delle responsabilità, degli affetti e...”.
“E a casa, a Oblivia, non c’è nessuno che ti aspetta? Credi che io viva bene la distanza da te?! Tu... non hai idea, vero, di come mi senta quando leggo di una qualsiasi cosa accaduta nelle zone di Kanto e Johto?”.
La donna sbuffò. “Devi smetterla di essere così iperprotettivo... Sono un’adulta ormai”.
“Tu sei un’adulta che non è mai cresciuta! Innamorata di un uomo che non è mai cresciuto, e state vivendo qualcosa che non è ancora in grado d’esprimersi in maniera matura!” s’alterò Martino.
La pioggia non accennava a fermarsi, e Marina sbuffò nuovamente. “Non devi giudicare né le mie scelte né la mia vita, fratellino…”.
Altro tuono. Un’onda parecchio alta rischiò di disarcionare entrambi.
Ancora un tuono. La pioggia aumentava, e annullava qualsiasi altro rumore.
“Stai bene?!” urlava l’altro.
“Sì!”.
“Quello che volevo dire è che non voglio che tu soffra!”.
Marina sospirò. “Lo so!” urlò poi. “Ma tutte le mie decisioni sono sempre state prese con la consapevolezza che non sempre sarei riuscita a fronteggiarne le conseguenze!”
“E questo non è da persone mature!”.
“Anche quando il destino... Attento!” urlò, quando un grosso Tentacruel affiorò dall’acqua, agitato dal temporale. Con lo Styler, Martino lo calmò rapidamente, facendolo immergere nelle profondità di quelle acque, nere come il cielo sulle loro teste.
“Bravo” sussurrò Marina nelle sue orecchie.
“Comunque hai detto solo cazzate, finora…”.
Marina rimase impietrita. “Guarda che ho sentito!”.
“Meno male!” urlò l’altro, con l’ennesimo rombo di tuono a farla sussultare. “Tu sei soltanto un’incosciente! Se non ti avessi soccorsa saresti morta, quindici anni fa! Per non parlare di Hoenn…”.
“Hoenn cosa?! Era il nostro dovere, essere lì!”.
“Fare il tuo dovere non significa doverti far uccidere!” esclamò quello, voltandosi nervoso.
“Lo so! Infatti non sono morta! E neppure tu!”.
Si guardarono per un secondo. I loro occhi, dello stesso colore, erano vicinissimi.
“Fino ad ora…” sorrise lui, sdrammatizzando. Anche lei ridacchiò divertita.
“Stronzo”.
“Stiamo per incontrare Lugia?!” domandò poi lui, tornando a guardare avanti. In lontananza s’intravedeva l’ombra nera delle Isole Vorticose.
“Con alta probabilità!” urlò Marina. “Hanno segnalato mari mossi in corrispondenza di queste coordinate e sappiamo benissimo che lì c’è Lugia!”. La sua serietà sparì dietro a un sorriso elettrizzato. Pulì i grossi occhialoni e sospirò. “Non vedo l’ora di tornare in azione!”.
Il ragazzo fece cenno di no. “Gold non ti fa bene... Questo è un suo tipico comportamento”.
Marina rise. “Oh, quanto hai torto... Gold è più noioso di quel che pensi...”.
Erano quasi arrivati in corrispondenza della grande scogliera che isolava l’arcipelago dal mare aperto.
“E allora perché stai con lui?!”.
La pausa che subito accolse Marina fu riempita dallo scroscio della tempesta. Poi rispose.
 “Perché mi sento amata…”.
Dette quelle parole, una terribile tromba d’aria prese ad imperversare alle loro spalle.
Martino guardò Marina, sospirando. “Lugia vuole la nostra testa”.
 
 
Kanto, Aranciopoli, Banca Centrale
 
“Non urlare! Per l’amor dell’Helixfossile, stavo dormendo!”.
“Gold! Ad Aranciopoli sta succedendo un casino! Devi correre immediatamente, noi siamo tutti qui ad aiutare!” aveva urlato Crystal.
“È questo il motivo per cui sono qui” aveva risposto Gold, mentre Sandra lo guardava irritata.
 
Neppure Aranciopoli era stata risparmiata dalla pioggia torrenziale che aveva investito l’intera nazione. La gente era chiusa in casa, bagnata e impaurita. Gold era atterrato dall’alto, con Togekiss, e aveva visto centinaia di uomini in vestiti militari grigi creare un muro umano davanti alla banca centrale di Aranciopoli. Alcuni di loro combattevano contro Silver, Crystal e alcuni Capipalestra ma pareva che la loro difesa fosse ben lungi dall’essere piegata. La banca di Aranciopoli era la più ricca di tutta la regione, con la sua grande quantità di lingotti d’oro, di denaro e camere blindate piene di ricchezze.
Vedendo i suoi amici in difficoltà, la scelta più saggia sarebbe stata gettarsi a capofitto contro quel numero enorme di terroristi, fiancheggiando i suoi amici. Ma, pensiero laterale alla mano, aveva deciso di atterrare sul tetto ed entrare attraverso una finestra rotta in uno degli uffici più in alto. Una volta lì poté ascoltare gli schiamazzi dovuti alle battaglie tra Pokémon, proprio all’esterno della stanza. Ovunque per terra, erano sparsi i frammenti della vetrata sfondata.
Sospirò, stava ragionando. S’era nascosto dietro a una scrivania rovesciata e aveva allungato l’occhio, fino a vedere una bella donna di spalle. La riconobbe subito: era Sandra, e aveva appena sconfitto due di quegli uomini in mimetica.
Quando quella parve più tranquilla, s’era manifestato. Lei quindi gli domandò cosa diamine ci facesse in quel posto, in quel momento.
 
“Non m’interessa, Gold… Non essermi d’intralcio o giuro che oggi volerai da una finestra” ribatté quella, spostando il mantello dalla spalla e sistemandolo.
“Proprio come sono entrato. Ma okay, tranquilla, non sarò di peso” ribatté. Poi annuì e s’avvicinò ad uno degli sgherri, rimasti senza conoscenza dopo la potenza delle mosse dell’Aerodactyl della Capopalestra, dandogli un calcio nel fianco.
“Stronzo!” gli urlò.
“Non era necessario…” sbuffò quella.
“Ma cosa diamine è successo, qui?” domandò poi girando la visiera del new-era verso la nuca.
“Immagino una rapina... L’unico modo per entrare in questo edificio è dall’alto, ho sfondato quella finestra e mi sono ritrovata quattro di questi manigoldi contro”.
“Manigoldi... Parlate così ad Ebanopoli, vero?” domandò il ragazzo, inarcando un sopracciglio. “La città della muffa” proclamò, epicamente. Ridacchiò subito dopo.
Sandra rimase qualche secondo in silenzio, spostando uno di quei ciuffi celesti davanti allo sguardo dello stesso colore.
“Non vuoi veramente vedere cosa potrei farti, vero?”.
“Sarei tentato, credimi... già vedo scene di bondage, con te col frustino e io coi miei calzini appallottolati in bocca; tuttavia sono un uomo fidanzato, adesso, e quindi mi spiace per te, ma dovrai trovare qualche altro sottomesso per il tuo desiderio di folle dominatrice...”.
“Non migliori la situazione” sospirò lei, con le mani sui fianchi. “Va bene, ora puoi andare a casa”.
“No, a casa dovrei riordinare. Meglio rimanere qui”.
Sandra si alterò. “Stai davvero facendo una discussione del genere, in questo momento?!”.
“Già. Comunque ho già detto che non ti starò tra i piedi. Vediamo di finire questa cosa velocemente così posso andare a prendere un altro po’ di pollo fritto”.
Sandra si voltò e sospirò. “Pollo fritto alle dieci del mattino...”.
“Ma non siete mai stati da Harold’s?!”.
“Bah. Andiamo...”.
E proseguirono.
Uscirono dai corridoi, con gli occhi aperti e le orecchie in tensione. Sandra precedeva Gold, accanto al suo Aerodactyl, scavalcando i corpi svenuti e feriti degli ostili. Gold la seguiva, distratto dal movimento del suo mantello. Exbo, il suo Typhlosion, chiudeva la fila.
“Dobbiamo raggiungere la parte più bassa dell’edificio. Più scenderemo e più troveremo scagnozzi, chiaramente... Dobbiamo essere rapidi e tempestivi, quindi io mi occuperò delle guardie e tu proseguirai. Tutto chiaro?” domandò la Capopalestra, girando l’angolo con passo svelto.
Un nemico sbucò fuori da uno degli uffici.
“Aerodactyl, Eterelama!” urlò quella, puntando l’indice direttamente contro l’avversario. Quello vide partire una saetta d’aria che lacerò le pareti dello stretto corridoio fino a raggiungerlo. Si gettò per terra, con il volto coperto da una maschera antigas, per poi risollevarsi.
“Devi andare avanti, Gold!” fece quella, vedendo il ragazzo sfilare alle sue spalle e il nemico mandare in campo un Machoke.
“Stai attenta, draghessa!” urlò Gold, dando un calcio al fianco dell’uomo mascherato mentre gli passava accanto. Poi camminò per altri due secondi, prima di voltarsi.
“Non posso lasciarti qui da sola! Exbo!” urlò. “Ruotafuoco!”.
Sandra spalancò gli occhi e fece un passo indietro, vedendo arrivare il Pokémon di Gold come un proiettile, che impattava contro la schiena del Pokémon avversario.
Brutto colpo, Machoke per terra e sgherro mascherato impaurito.
“Aerodactyl, colpisci quell’uomo ma non ucciderlo” ordinò la Domadraghi. Quello eseguì, sbattendogli con violenza un’ala rocciosa sul volto, lasciando che cadesse esanime sulla destra.
“Andiamo” disse poi il ragazzo, afferrando per il polso Sandra e tirandola via di lì.
“Non era necessario” disse quella, liberandosi dalla presa con uno strattone violento e seguendo il suo passo celere.
“Non è nella mia natura lasciarti affrontare queste cose da sola”.
Sandra inarcò un sopracciglio, seria in volto. Era sincera con se stessa quando pensava che non si sarebbe mai aspettata un atteggiamento del genere da quel cretino.
Arrivarono in fondo al corridoio, calpestando morbida moquette verde scuro, prima di vedere, dietro l’ultimo angolo, un cartello illuminato che segnalava la tromba delle scale d’emergenza.
Un tuono rimbombò sordo nell’ambiente, facendo sussultare Exbo, prima che Gold gli desse una carezza sulla testa per calmarlo.
Stavano per aprire la porta che dava sulla lunga scalinata, alta almeno otto piani, prima che una grande quantità di fango colpisse Aerodactyl, alla fine della carovana dei buoni.
“Ma che diamine...” si voltò repentina Sandra: un Toxicroak gracidava immobile davanti a una decina di suoi simili, tutti pronti a sferrare un attacco. Alle loro spalle vi erano altrettanti sgherri in grigio, con le maschere abbassate sul volto.
“Gold!” urlò Sandra, indietreggiando e correndo dietro ad Aerodactyl, che spalancò le ali, a proteggerli.
“Odio le rane!” esclamò quello, schizzinoso. Prese una Pokéball tra le mani e la lanciò. “Sudobo! Proteggici con uno dei tuoi muri da mimo strano!”.
Sandra si voltò, guardando Gold sprezzante mentre il suo Pokémon eseguiva la sua mossa. Si fermarono giusto per un secondo, prima di cominciare di nuovo a correre.
“Sono troppi!” osservò la donna, trapelata.
“Tuo cugino li avrebbe affrontati” ridacchiò quello.
“Sei il solito stronzo! Muoviamoci!” fece, salendo in groppa al suo Aerodactyl e spalancando la porta d’emergenza che dava alla tromba delle scale. Altre reclute salivano la gradinata, ormai certe della presenza d’intrusi. Sandra ebbe giusto un attimo per valutare la situazione, poi afferrò Gold per il braccio e lo tirò con forza su Aerodactyl.
“Tieniti forte!” fece, vedendolo richiamare Sudobo nella sfera e cominciare a scendere in picchiata nel vuoto tra le rampe.
“Porca put... tana!” urlava Gold, stringendo la vita di Sandra e mantenendo il cappello con l’altra mano.
“Ci attaccano!” urlava l’altra, vedendo altri Toxicroak pronti a sparare fango e veleno. “Exbo!” urlò Gold, chiamando sopra di loro il suo Pokémon, in caduta libera.
Lanciafiamme!”.
Quello prese a girare su se stesso, sputando fuoco e fiamme lungo le rampe di scale e i pianerottoli, colpendo tutti i nemici. Atterrarono agilmente per terra, seguiti dalle fiamme e da Typhlosion, che rientrò nella sfera prima di schiantarsi al suolo. Sandra rimase strabiliata e guardò Gold scendere con un balzo felino dal suo Pokémon.
“Ammetti che sono bravo, boccuccia a cuore…” sussurrò quello, spalancando la porta d’emergenza, che dava al pian terreno.
Vi era un numero impressionante di reclute, ma anche di civili e persone che lavoravano in banca. Quelli senza maschera erano tutti stesi per terra, con le lacrime agli occhi e i cuori pieni di paura.
“Quella è Sandra”  aveva sussurrato qualcuno. Lei tirò fuori due Pokéball e, pochi secondi dopo, chi ce l’ebbe di fronte poté vederla con un Charizard sulla destra, un Dragonair sulla sinistra e il fido Aerodactyl proprio alle spalle.
 
 
Johto, Percorso 41, poco fuori le Isole Vorticose
 
La tempesta continuava ad imperversare e le onde si erigevano a grossi grattacieli in mezzo al mare in burrasca. Le Isole Vorticose erano a poche centinaia di metri ma un’enorme tromba d’acqua si era posta tra Martino e Marina e lo stretto passaggio che si snodava tra gli scogli, che fungeva da ingresso verso il piccolo complesso insulare.
Per i Ranger era assodato che il responsabile della grande burrasca che stava colpendo quella zona di mare fosse l’unico e vetusto abitante delle Isole Vorticose: Lugia. O almeno, l’unico che conoscevano. Lapras s’inerpicava sulle cime di quelle grandi onde, che mutavano, salendo e scendendo.
“Stai attenta!” urlava Martino, stringendo il carapace del Pokémon con le mani guantate e sentendo sua sorella avvinghiata al torace. “Non sbilanciarti e non...”.
“Lo so! Tu, piuttosto, non muovere la testa! Mi piove in faccia!”.
Martino sorrise.
L’acqua cadeva dal cielo, inesorabile e congelata, incontrando a pochi metri dai Ranger la grande tromba marina: mare e cielo erano uniti dalla spaventosa potenza della natura, attirando a mani aperte qualsiasi cosa fosse nei paraggi e respingendola poi col piglio ottuso di chi non vuol sentire ragioni. L’oceano mutava davanti a quella dimostrazione di forza, si piegava, e come conseguenza di ciò s’innalzava più indietro, abbassandosi subito e rialzandosi, rimestandosi, piegandosi su se stesso e creando spuma bianca e fumosa.
E quando una grande onda s’alzò accanto a loro, l’unica cosa che poterono fare fu stringere i denti.
“Attenta!” ribadì Martino poco prima dell’impatto, spostando i capelli dagli occhialoni col dorso della mano e finendo per cadere. Il mare li accolse, caldo ma buio, come il cielo di quel mattino.
Per un attimo, un piccolo frammento di secondo, tutto pareva fermo: l’acqua avvolgeva i muscoli, e gli occhialoni proteggevano lo sguardo da quell’ammasso nero ed estraneo.
Martino sentiva il cuore spingere nel petto, il battito gli pulsava nelle tempie e le dita paralizzate carezzavano l’acqua in maniera lasciva. Aprì gli occhi, il respiro abbandonò il suo corpo tramite un paio di bolle che fremevano per salire in superficie, dove la pioggia attaccava il mare con proiettili di ghiaccio.
E da essi veniva ferito.
Il Ranger si guardò intorno, cercando di mantenere la calma; vide sua sorella, tre metri più in basso, risalire prontamente verso la superficie, dove le zampe ed il carapace di Lapras erano più che visibili. Lei aveva gli occhi spalancati mentre ascoltava una voce dalla profondità dei mari chiamarla.
 
AIUTAMI, TI PREGO, NON POSSO RESISTERE ANCORA MOLTO.
 
Rimbombava nella sua testa, e pareva che Martino non la sentisse.
Forse è solo un’allucinazione, pensò lei.
Risalirono entrambi, vedendo che la corrente al di sotto della tromba marina fosse forte ed attrattiva. Ripresero respiro e pulirono gli occhialoni. Paradossalmente si sentivano più sicuri all’'interno del mare che su Lapras.
“Dobbiamo entrare” disse Marina, risalendo con fatica sul Pokémon. Un tuono rimbombò potente, un fulmine era caduto  a qualche centinaia di metri da loro.
“Non è sicuro stare qui!” fece lui.
“Mi pare ovvio!” urlò sua sorella, sarcastica.
“I fulmini! E la tromba marina!”.
“Dobbiamo passare!” ragionò quella.
Guardarono ancora il cono, totalmente stazionario, mentre attirava l’acqua dal basso e la tirava su, verso le nuvole, spettatrici dall’alto.
“L’acqua è calda!” osservò Martino. “Siamo in gennaio! È strano!”.
“Si vede che Lugia si sta divertendo!”.
“È per questo che è nata la tromba marina!” s’illuminò Martino, vedendo sua sorella fissarlo con un interrogativo sul volto.
“Non capisco!”.
“Lo abbiamo studiato quando eravamo reclute, ricordi?! Questi fenomeni si formano quando...”.
“Correnti di differenti temperature s’incontrano! Lo so! Ma non vedo questo come possa portarci alla soluzione!”.
Martino sorrise. “Dobbiamo raffreddare il mare!”.
Marina batté le palpebre quattro, cinque volte, dietro gli occhialoni. Un’onda più grande fece sobbalzare Lapras.
“Come intendi fare?!”.
“Lapras! Aiutaci a congelare la superficie!” disse al Pokémon l’uomo.
“Vuoi... congelare il mare?!” esclamò Marina.
Suo fratello annuì, sorridendo. “Funzionerà! Ma partendo da lontano! Quindi vai, Lapras!”.
E così il Pokémon Trasporto caricò nelle sue fauci una grande quantità d’energia criogena, emanandola sotto forma di raggio; puntò il mare, che all’istante si cristallizzò, diventando una tavola trasparente, a riflettere il nero del fondale e del cielo.
La tromba marina sparì qualche secondo dopo.
“Ha... ha funzionato!” esclamò sorridente Marina. “Facciamo presto!” urlò, saltando giù da Lapras e salendo sulla spessa lastra di ghiaccio appena creata dal Pokémon. Seguita da Martino, raggiunse velocemente la corona di scogli che circondava le Isole Vorticose. L’apertura verso le isole era precluso a chiunque non riuscisse ad attraversare i sei grandi mulinelli che si erano formati lungo il percorso marino che dava sul piccolo porticciolo di Capo Piuma, un minuscolo insediamento quasi disabitato sulle coste sabbiose dell’isola più grande, dove si trovava l’ingresso della Grotta Sacra.
I Ranger saltarono sugli scogli e li percorsero con attenzione, balzando di roccia in roccia fino a raggiungere la baia portuale, dove il fondale sabbioso aveva fagocitato decine e decine di navi. Alcune di queste spuntavano dalla superficie mossa dalle forti correnti, come artigli di legno consumati dalla salsedine.
I due fratelli si tuffarono in quelle acque calde e irrequiete, nuotando per un paio di minuti, fino a raggiungere la banchina del porto, costruita interamente in mattoni anneriti dal tempo. Salirono le scale di mattoni e raggiunsero lo spiazzale, totalmente deserto.
Ruderi di rimorchiatori e barche a vela venivano colpiti dalla forte pioggia. Il vento soffiava verso ovest dove, sul vecchio pontile di legno, la sagoma d’un pescatore temerario sfidava la tempesta.
Avanzarono, salendo verso la cittadina vera e propria: quattro case, una palazzina in calcestruzzo e una bottega. Quest’ultima era aperta, le case invece erano interamente sbarrate.
Il freddo cominciò a farsi sentire, col vento che tirava forte e spingeva i vestiti contro i corpi bagnati.
“Lì vedo delle luci” disse Martino, prendendo la sorella per mano e correndo verso la bottega.
Quando vi entrarono trovarono una vecchia donna con lo sguardo appesantito e le gote macchiate dal tempo. I capelli, totalmente candidi, erano tenuti in una crocchia bella ampia sulla testa. Indossava un giacchetto di filo beige, chiuso fino all’ultimo bottone, e una gonna marrone.
“Buongiorno…” fece quella, un po’ sorpresa di vederli. “Cosa vi porta qui?”.
“Buongiorno” ricambiò Marina, chinando leggermente la testa. “Io mi chiamo Marina e sono la Caporanger del distretto di Johto, mentre lui è mio fratello Martino, del distretto di Oblivia. Siamo qui per assicurarci che il Pokémon che abita quest’isola sia estraneo a questa grande tempesta”.
La signora strinse ancor di più gli occhi sottili e annuì. “Se permettete vorrei offrirvi una buona tazza di tè caldo. E lasciate che vi dia qualcosa per asciugarvi”.
“Grazie signora…” annuì Marina. “Ma noi non...”.
“Devo raccontarvi quello che è successo”.
Martino guardò sua sorella e poi sospirò. “A me aggiunga un cucchiaino di miele…”.
 
 
Kanto, Aranciopoli, Banca Centrale
 
“Entrate così, alla Die Hard, non le faremo mai più”.
“E smetti di dire stupidaggini! Siamo nella merda fino al collo!”.
Sandra e Gold erano nascosti dietro a una scrivania rovesciata, mentre i Pokémon della Capopalestra erano al di là della barriera a lottare contro decine di Pokémon avversari.
Avevano sprangato la porta d’emergenza con un grosso mobile portadocumenti, in modo da tenere alle spalle gli altri nemici che avevano già eluso.
“Sei sempre esagerata! Basta un po’ di strategia e possiamo uscire da qualsiasi situazione”.
“Strategia?!” rise Sandra. “Mi sorprende che tu sappia cosa significhi…”.
“Sì, ho fatto le elementari nella migliore scuola di Borgofoglianova. Tralasciamo il fatto che ce ne sia solo una…”.
“Continuo a pensare che tu sia uno stupido e uno sprovveduto. Dovremmo aspettare che qualcuno dei Dexholder, quelli bravi intendo, riesca a penetrare, per farci dare una mano”.
“A penetrare sono il migliore... E comunque possiamo farcela anche da soli” sorrise sornione.
“Siamo con le spalle al muro”.
Sandra si voltò per un momento e s’inginocchiò, col bel corpo aderente alla scrivania. Gold la guardò, inarcando un sopracciglio ma qualche secondo dopo, davanti ai suoi occhi apparve il volto di Marina, infuriata per quell’occhiata fuori luogo.
Sorrise, pensando a lei.
E pensò al fatto che se non fosse uscito da lì non l’avrebbe rivista.
“Mi hanno insegnato che, quando si è con le spalle al muro, devi provare a fare ogni cosa... e nel caso tu non possa fare niente allora devi sfondare il muro. Sudobo, forza!” urlò, voltandosi repentino e mandando in campo il suo Pokémon per la seconda volta, quel giorno.
“Meraviglioso, il tuo alberello...” sospirò lei.
“Il mio alberello, modestamente, è duro. E stavolta non alludevo a nulla di sessuale. Credo. Sudobo, crea di nuovo una barriera e lasciamo che Sandra riesca a monitorare la situazione”.
Quella lo guardò sorpresa e si alzò, vedendo gli attacchi dei vari Drapion, Toxicroak, Muk e Weezing schiantarsi sulla superficie di un muro trasparente.
Guardò poi lo stato dei suoi Pokémon: Aerodactyl s’era fatto carico degli attacchi diretti a Dragonair, che intanto aveva effettuato la sua Dragodanza. Infine Charizard attaccava dalla distanza con mosse ardenti.
“Come stanno? Hai bisogno di Pozioni?” chiese quello, rimessosi con la schiena contro il tavolo.
“No, ce le ho. Ma ora come faremo?”.
“Suppongo che Sudobo non possa reggere tutti quegli attacchi per sempre. Quindi dovremmo cominciare a metterli in difficoltà...”.
“Pensa a qualcosa, perché con la barriera i miei attacchi non possono uscire da qui”.
“Sono qui per questo...” disse il moro, alzandosi e gettando un’occhiata: le persone prese in ostaggio erano tutte o quasi alle spalle della barriera, al sicuro dagli attacchi dei Pokémon nemici. Gold gestì con lucidità la situazione, saltando oltre la scrivania e aiutando gli innocenti a uscire dal campo di battaglia, sempre con occhio analitico, fino a quando prese la decisione sulla mossa da effettuare.
“Sudobo, so che stai mantenendo un peso non indifferente ma prova a fare un paio di passi avanti”.
Sandra lo guardò stupita, mentre utilizzava una Ricarica Totale su Aerodactyl. Vide la barriera spostarsi in avanti, rosicchiando spazio agli uomini in grigio.
“Fai presto a curare quei serpentoni, tesoro” diceva Gold, scortando anziani e donne dietro le casse automatiche.
“Sono draghi!” ribatté lei. Gold non la considerò.
“Sudobo, stai bene?” chiese poi.
Quello rispose annuendo, col volto che mostrava sforzo. “Avanza di un altro paio di passi e comincia a ruotare verso sinistra la barriera: dobbiamo raggiungere i cancelli che portano ai caveau, ormai saranno già lì”.
“Forza Gold!” urlava Sandra, avanzando lentamente. “Sudo... bo, o come diamine ti chiami, ruota! Stringiamoli sulla parete”.
E così fece il Pokémon, cominciando a ruotare la barriera lentamente e spingendo Pokémon nemici e sgherri contro la parete d’ingresso alla banca.
“Ruota ancora!” urlava Gold.
“Sta funzionando! Non hanno più spazio!” esultava invece Sandra.
Sudobo aveva creato una barriera ampissima che stava contenendo tutti gli attacchi; ma la fatica cominciava a farsi sentire.
“Manca poco!” faceva Gold, vedendo gli avversari costretti contro le pareti cominciare ad uscire all’esterno della banca.
“Ce la stiamo facendo davvero!” replicò la Capopalestra.
Ma poi vide la parte sinistra della barriera, che riluceva di una luce opaca bianca, cominciare a sfaldarsi.
“Non ce la fa più, Sandra! Tra poco entreranno da destra. Manda quelle salamandre lì!”.
“Sono draghi! Charizard e Aerodactyl, forza! Andate lì!”.
“Non dare fuoco a nulla!”.
Sandra si voltò e lo guardò torva. “Sei stato davvero TU a dire a ME questa frase?!”.
“Sì, lo so, il mondo sta andando a puttane. Attenta!” l’ammonì poi lui, vedendo un Muk passare sotto la barriera ormai sfaldata.
Sandra si voltò repentina.
“Aerodactyl, Rocciotomba!” fece, osservando il suo Pokémon eseguire celere. “Charizard, devi cercare di tenerlo indietro, usa Lanciafiamme e stai attento a non creare un incendio”.
“Perché nel caso si chiamerebbe Incendio la mossa che utilizzerebbe...”.
“Non hai idea dell’effetto di quella mossa utilizzata dal mio Pokémon” fece la bella, spostando i capelli sudati dalla fronte.
“Sudobo, dobbiamo fare presto! Fai un ultimo sforzo!”.
Due Toxicroak sfondarono la parete luminosa del Pokémon quando quello pressò gli avversari con tutta l’energia residua contro la parete. Furono costretti ad uscire tutti fuori, per non morire schiacciati.
“Ottimo!” sorrise lui. “Ora rimani per qualche secondo con l’energia di barriera concentrata soltanto davanti alla porta, trovo qualcosa per sbarrarla e...”.
E poi una grande esplosione divampò dal lato di Sandra, facendola cadere per terra. Gold accorse e la alzò, indugiando nel guardarla per qualche secondo di troppo.
“Levami le mani di dosso!” ringhiò quella.
“Stai calma, draghessa. E stai più attenta... Cerchiamo di arrivare sani e salvi alla fine di questa giornata. Riesci a tenere la situazione sotto controllo finché non riesco a sbarrare la porta?” chiese quello dagli occhi dorati.
Quella sbuffò, si pulì e annuì. “Volevo Silver. Voglio che tu lo sappia”.
“Questo ha passato il convento” disse il ragazzo, spostandosi e cominciando a spingere la grossa scrivania dietro alla quale si nascondevano qualche minuto prima entrambi, proprio davanti alla porta d’ingresso della banca, bloccandola. Era fatta di resistente plexiglass, quindi era in grado di vedere la lotta che stavano sostenendo all’esterno i suoi amici.
“Ok, Sudobo, sei stato bravissimo” sorrise quello, sentendo applaudire le persone nascoste dietro le casse.
“Non è ancora finita! Charizard, usa Aeroassalto sui Toxicroak! E Gold, occupati di questo dannatissimo Muk!”.
Quello sbuffò, aggiustandosi il cappellino. “Uff, ma questo coso puzza!”.
“Forza, stupido!”.
“Mi ricordi sempre di più Marina”.
“Non so come faccia quella santa a starti vicino…”.
Gold sorrise allusivo e poi prese il Pokédex. Sandra rimase strabiliata dalla sconsideratezza per il pericolo che aveva quello: Muk, infatti, si avvicinava minaccioso nonostante la lentezza del suo movimento, mentre Gold fissava lo schermo luminoso dell’enciclopedia tascabile consegnatagli da Oak in persona.
“Vediamo... È tossico... i suoi passi sono velenosi... puzza... fa vomitare... non cresce erba dove striscia... inquina i laghi con una sola goccia... Il Pokédex non dice nulla di rilevante ed utile” sospirò il ragazzo. Guardò per un attimo Sandra e sospirò. “Vedendo la sua consistenza non servirà a nulla colpirlo...”.
“Distruggilo!”.
“Non... non capisco come!”
Sandra si voltò e lo fissò. “Usa Typhlosion!”.
“No! Finirei per dare fuoco a tutto! Lascia fare a me l’incosciente e prestami il tuo Aerodactyl!”.
“Cosa?!” spalancò gli occhi quella.
“Dammi quel lucertolone di pietra, porco Moltres!”.
“No!”.
“Dannazione, dammi una mano!”.
“Scordati di toccare i miei Pokémon!”.
Gold ruotò gli occhi versò l’alto e sbuffò. “Aibo, con un bel Gigaimpatto saresti in grado di creare un fosso abbastanza profondo nel pavimento?” chiese, mandando in campo Ambipom. Quando quello eseguì, creando un solco di quasi tre metri nel pavimento, un’enorme nuvola di polvere si alzò.
“Stai attento!” si lamentò quella.
“Bene, Aibo. Ora, donna col mantello, ti andrebbe far utilizzare a uno dei tuoi Godzilla una mossa come Metaltestata, dato che il tuo Pokémon potrebbe non contrarre la clamidia toccando quell’ammasso mobile di merda?”.
Sandra lasciò scappare un sorriso e quindi eseguì l’ordine dato da Gold, lasciando che il suo Pokémon spingesse quel Muk nel fossato, cancellando di fatto il problema.
“Perfetto. Sudobo, devi rimanere qui finché qualcuno dei nostri amici non ti ordina di lasciarli entrare” fece Gold, alzando le maniche della felpa e sistemando il berretto, muovendosi infine verso la porta spalancata che dava al caveau.
 
 
Johto, Isole Vorticose, Capo Piuma
 
La vecchia signora aveva richiamato suo marito, il pescatore temerario che sfidava la tempesta seduto sulla banchina, e aveva chiuso le porte della bottega. Subito dopo aveva fatto accomodare i due Ranger nel retro, raggiungendoli con dell’ottimo tè caldo e dei morbidi asciugamani azzurri. I due giovani presero posto su due lati di un vecchio kotatsu, ben apparecchiato per il tè. A Martino bastò una rapida occhiata per capire che quel luogo dovesse essere parecchio vecchio, visto anche l’arredamento, in piena simmetria con la cultura tradizionale giapponese.
Di fronte a loro, il vecchio pescatore dalla lunga barba bianca era sprofondato in una poltroncina infeltrita dai motivi floreali e dallo schienale e i braccioli sdruciti. La vecchia poggiò la teiera e le tazzine di porcellana bianca davanti a loro e li raggiunse sotto le calde coperte.
“Allora… Lugia è un essere antichissimo. Quasi quanto questo mondo”.
“Lo so, signora Amano” ribatté Marina. “Ecco perché riteniamo sia stato lui ad aver creato questa tempesta enorme”.
“Sapete... Si racconta che la sua furia possa creare quaranta giorni di tempesta”.
“Come con Noè...” ridacchiò il giovane. Marina sorrise ma vide la donna annuire.
“Esattamente. Il suo potere è strettamente legato a quello della luna, a quello dei mari e a quello dei venti”.
“Quindi ha delle correlazioni con Kyogre, Lunala ed il trio di kami, ad Unima” continuò la ragazza.
“Questo non lo so… Le uniche relazioni vere e proprie di Lugia sono con Moltres, Zapdos ed Articuno. E col tiranno della torre bruciata”. La donna sospirò, e cominciò a versare il tè nelle tazze.
“Ho-Oh…” annuì Martino, sotto lo sguardo torvo del vecchio pescatore. “Ma perché ci ha condotti qui?”.
“Un tempo anche io ho indossato il kimono…” disse, porgendo una tazza fumante all’uomo seduto accanto a loro. Quello annuì, sorridendo appena.
“Tanti anni fa…” fece.
“Assieme a poche altre giovani, potevamo vivere su quest’isola ed entrare nella Grotta Sacra… Col tempo molte sono morte, altre hanno lasciato che l’amore influenzasse le proprie responsabilità, e sono andate via. Alcune, però, più forti, risiedono ancora qui. E talvolta finiscono per innamorarsi d’un bel pescatore coraggioso…”. sorrise dolcemente, in direzione dell’anziano uomo che sorseggiava il tè. Ecco perché questo posto non è totalmente abbandonato. Ma c’è di più”.
Martino annuì, fremendo.
Fu però Marina a rompere gli indugi. “Cosa?” domandò.
La vecchia annuì, prendendo un sorso di tè. Poggiò la tazzina sul kotatsu e sospirò.
“L’antro è stato aperto da qualcuno, qualche giorno fa. Lugia si è svegliato ed è furioso. Ecco perché piove... Le più giovani e coraggiose di noi si sono avventurate all’interno della grotta, l’altro ieri, ma non ne sono più uscite. Io sono troppo vecchia per andarle a cercare, la Grotta Sacra è un luogo impervio”.
Martino bevve il tè tutto d’un sorso, poi si alzò dal tavolino. “Dobbiamo salvare delle donne, quindi, oltre a dover calmare Lugia”.
La vecchia annuì. “Marina...” fece poi, voltandosi verso la ragazza. “Lugia è un Pokémon dai profondi poteri telepatici, sicuramente si aprirà con te se noterà in te bontà d’animo…”.
Quella spalancò gli occhi. “Telepatici?”.
“Comunicherà con te. Non spaventarti e accogli quest’occasione come un momento di profondità spirituale senza eguali”.
Quella batté le palpebre confusa, prima di fissare di nuovo l’anziana. “E perché dovrebbe farlo?”.
“Non lo so…” sorrise l’altra. “È un essere infinitamente intelligente e solo. È un onore sentire la sua voce”.
“Io ho già sentito... ho già sentito la sua voce. Prima, mi chiedeva aiuto…”.
La donna si bloccò e raddrizzò le spalle, posò la tazza e sospirò. Voltandosi poi per un attimo verso suo marito, raccolse le mani sul tavolino.
“Dovete correre immediatamente”.
 
*
 
La pioggia continuava a battere radente e non accennava a diminuire. Capo Piuma era diventata un’illusione d’ombre dietro quel palcoscenico liquido che cadeva dal cielo.
“La grotta è questa” faceva Martino. “Le Kimono Girl non sono più uscite, una volta entrate qui…”.
“E questo è un problema, fratellone. Sono delle grandi combattenti, le Kimono Girl... Per non essere riuscite a chiudere questa missione vuol dire che qualcosa di molto forte le ha sopraffatte”.
“O qualcuno...” rispose granitico il ragazzo.
Ormai l’acqua aveva impregnato i capelli del ragazzo e lo aveva costretto a tirarli indietro. Le gocce cadevano lente dal suo mento e terminavano sul suo petto tonico.
“Entriamo” fece poi Marina, prendendo il fratello per mano e immergendosi nell’oscurità.
La prima cosa che riuscirono a percepire fu un forte odore d’umido, normale, dato il luogo.
Tutto era buio, i due non riuscivano a vedere nulla.
 “Pichu...” sussurrò Martino, smontando lo zaino dalle spalle e liberando il piccolo Pokémon che percorse il suo braccio fino ad arrivare alla sua spalla.
“Ottimo” annuì Marina, che già aveva capito.
Il ragazzo prese il suo Pokémon partner e lo poggiò per terra, quindi annuì a sua volta. “Ora illuminiamo questa grotta con un Flash”.
E d’improvviso un bagliore molto potente fu sprigionato dai loro piedi: Pichu Ukulele era diventato una torcia. Marina guardò tutt’intorno, fissando le alte pareti che si collegavano al soffitto di pietra. L’acqua filtrata attraverso la roccia porosa cadeva dall’alto formando pozze più o meno profonde e dando vita, in altri casi, a stalattiti doppie e resistenti.
“Incredibile...” fece stupita la donna, avanzando su quel fastidiosissimo fondo sabbioso. Le sue parole rimbombarono sui muri della grotta e formarono una profonda eco, che ritornò indietro poderosa.
“Dobbiamo stare in silenzio, Mari...” sussurrò Martino. “Se ci fosse qualche malintenzionato ci sentirebbe arrivare diversi secondi prima”.
Quella annuì, riprendendo a camminare e arrivando molto rapidamente a un grosso lago dalle acque calme. La poca luce non lasciava trasparire nulla oltre la superficie.
Potrebbe esserci qualsiasi cosa, lì sotto pensò Martino, guardando sua sorella e facendole segno che avrebbero dovuto attraversare il più rapidamente possibile lo specchio. Marina annuì, immergendo subito il piede: l’acqua era calda.
Sarebbe potuto esserci qualsiasi cosa, al di sotto di essa.
Guardò Martino e lo vide fare lo stesso, poi avanzò e la sorpassò. L’acqua era praticamente immobile, increspata soltanto dal loro passaggio. Remoraid temerari s’avvicinavano alle gambe veloci dei due, per poi allontanarsi prontamente al loro movimento.
Una volta arrivati dall’altra parte Marina vide una scala incisa nella roccia che saliva ad un ipotetico piano superiore, nascosto nel buio. Guardò Martino, nei suoi occhi convivevano responsabilità ed incoscienza smodata. Il rumore della pioggia che batteva sulla roccia esterna era inesorabile,  e Marina non vedeva l’ora che finisse.
“Andiamo...” sussurrò il ragazzo, aggrappandosi alla roccia e salendo, seguito da sua sorella; s’aprì un grosso spiazzale, fatto di rocce ed ampie salite.
“Dovremmo dirigerci verso la parte alta” osservò quella.
Martino annuì e, preceduto da Pichu, cominciarono a salire lungo la zona alta. “Qui potremmo avere una visuale maggiore”.
“Io però credo che Lugia si trovi verso il basso e...” diceva Marina, quando poi vide qualcosa per terra. S’avvicinò a una roccia sulla destra e analizzò: si trattava di una bacchetta per capelli, di quelle che indossavano le Kimono Girl.
Si guardarono subito dopo. Lui annuì.
“Siamo sulla strada giusta” disse, sempre a bassa voce. Marina si guardò intorno, cercando invano l’altra bacchetta.
“Proseguiamo” sentì dire dal fratello.
“E dove vorresti andare?”.
Martino si girò e, guardandosi attorno, si fermò. “Lugia si trova verso il basso, questo lo sappiamo per certo...”.
“Sì, le testimonianze sono queste…” ragionò Marina.
“Però ora siamo in alto”.
“Quindi dobbiamo scendere”.
Ripresero a camminare, esplorando la grotta in lungo e in largo, affondando i piedi nella sabbia e nell’acqua calcarea fino a quando, dalla parte opposta dell’ingresso, non trovarono una piccola discesa, dietro a un grande pilastro dalla forma vagamento cilindrica. Quando la percorsero, si ritrovarono davanti a uno stretto corridoio; il rumore dell’acqua che scorreva si faceva sempre più forte mano a mano che lo percorrevano e, proprio a metà di esso, Martino vide l’altra bacchetta.
“Guarda!” esclamò, alzando un tantino il volume della voce. Raccolse il bastoncino di legno e lo comparò a quello trovato precedentemente.
“No...” sussurrò Marina, come sconvolta. “Guarda tu...”.
La sua voce era flebile. Alzò l’indice in avanti. Martino fissò il dito, prima di scorgere nel buio soffuso, mitigato a distanza da Pichu, la figura d’una giovane donna. Era tramortita, stesa sul fianco. Dietro di lei altre tre donne, inermi.
Corsero entrambi dalla prima delle quattro, col ragazzo più rapido nell’inginocchiarsi e avvicinare l’orecchio alla labbra schiuse di quella; sua sorella rimase in silenzio, soppesando il fiato per paura di emettere troppo rumore.
“Respira ancora” disse quello, afferrandola sotto le braccia e spostandola.
La pelle di quella era diafana e faceva molto contrasto con i capelli estremamente scuri che, inzaccherati di sabbia, le ricadevano sulle spalle. Non sembrava avere più di trent’anni.
Non appena si sentì trascinare, spalancò gli occhi e lanciò un urlo fortissimo.
“Chi siete?!” esclamò, con gli occhi terrorizzati e il battito del cuore a mille. Le iridi azzurre penetrarono nello sguardo di Martino e lo spiazzarono, attraversandolo e dividendolo in due, come un fulmine nel nero del cielo della tempesta.
“Siamo... i buoni. Siamo i buoni, siamo i buoni, tranquilla…”.
“Sei svenuta qui” replicò velocemente Marina. “Ti abbiamo trovata svenuta, qui per terra”.
La donna guardò la linea creata dal suo corpo sulla sabbia bagnata, poi passo in rassegna con i corpi tramortiti delle altre donne. Il suo volto si spense, con le lacrime che fuoriuscirono quasi involontariamente. Poi la bocca si spalancò, come anche gli occhi.
“È entrato! Lui è entrato!” urlava quella, impanicata.
“Chi?!” domandò il ragazzo, sobbalzando.
“L’uomo! L’uomo dagli occhi rossi! Lui ha ucciso le altre ed è entrato!”.
Marina guardò suo fratello, repentina. “L’uomo che ha rubato la Lacrima di Giratina aveva gli occhi rossi...” fece, tirando fuori il cellulare dalla borsa; poi scrisse a Gold.
 
 
 
 
11.57     Sono nelle Isole Vorticose
 
11.57       Sono un tantino impegnato, tesoro
 
11.57     Qui c’è un uomo dagli occhi rossi, responsabile della furia di Lugia e della tempesta che si sta abbattendo su noi tutti
11.57     Uhm... Collirio?
 
11.57     Per una volta potresti essere serio?! Potrebbe essere lo stesso uomo dagli occhi rossi che ha rubato il cristallo nero!

11.57     ...
 
11.58     Gold?
 
11.58     Cerca di fotografare quell’uomo. E di sopravvivere. Io devo fare una telefonata
 
11.58     Dove sei?
 
11.58     In banca
 
11.58     Non ci prosciugare il conto
 
11.58     Ci sto lavorando. Ti amo, culo d’oro, a dopo. Stai attenta.
 
 
Marina alzò gli occhi e vide Martino con lo sguardo contrito, accanto a lui, mentre guardava lo schermo del Pokégear che quella aveva tra le mani.
“Ti pare il momento di cazzeggiare?!” fece, sbuffando.
“Non stavo cazzeggiando...” sospirò l’altra.
 
 
Kanto, Aranciopoli, Banca Centrale
 
“Devo fare una telefonata…” fece Gold, fermandosi d’improvviso. Avevano percorso il corridoio che portava al caveau solo a metà quando Sandrà si voltò, esterrefatta.
“Che diamine stai dicendo?! Siamo nel bel mezzo di un’operazione!”.
Gold la guardò per un istante, sbuffando e cominciando a camminare nervosamente verso l’uscita.
La donna invece spalancò la bocca: non credeva che Gold fosse così irresponsabile.
“Hai la capacità di concentrazione di una mosca!” fece, correndogli dietro e bloccandolo per la spalla.
“Che vuoi?” domandò, sentendo il segnale di chiamata del Pokégear dare segnale libero.
“Abbiamo una missione!” esclamava quella. La coda di cavallo oscillava ancora e i ciuffi davanti agli occhi le adombravano lo sguardo azzurro, che s’incrociava in quello aureo di Gold ed esplodeva giusto nel mezzo. “Non puoi fermarti adesso! Stiamo rischiando la vita!”.
“Ora devo fare un’altra cosa, Sandra. Tra venti secondi potremmo giocare di nuovo ai coniugi Smith”.
“Non abbiamo venti secondi!” urlò quella, puntando il dito guantato in direzione del caveau.
“Non dire baggianate” ribatté distratto, col Pokégear all’orecchio. “Pronto, Xavier!” esclamò poi, non appena quello rispose.
Sandra era esterrefatta. “Sei sempre il solito stronzo…” sussurrò incredula. “Non so perché ancora Crystal e Silver non ti abbiano sacrificato agli dei...”. Si voltò iraconda e avanzò da sola, sparendo nel corridoio buio.
“Lo hanno fatto, quelli non mi hanno voluto... Xavier! Mi senti, Xavier?!”.
“…”.
Dannazione!”.
“Gold... Che succede?”.
“Dove sei?!”.
“A casa mia, a lavorare alla ma...”.
“Esci immediatamente da lì!” esclamò quello, serio. “Non m’importa se stai scoprendo la cura per il cancro oppure se stai semplicemente guardando le tue unghie al microscopio, devi uscire subito di casa!”.
E Xavier, che aveva capito che tipo di persona fosse l’interlocutore, prese a preoccuparsi.
“Puoi spiegarmi che succede?!”.
“Non te lo posso dire, ora, o la draghessa mi arrostirà! Ora vai a prenderti del pollo, che è buono”.
“Non ho voglia di pollo”.
“Prendi il pudding, allora! Prendi quello che vuoi, vai da Cindy, fai qualsiasi cosa ma esci da quella casa e stai tra la gente! Gente con gli occhi e le orecchie, fai in modo che tu abbia testimoni oculari!”.
“... Gold?”.
Quello vide Sandra sparire oltre la porta blindata della cassaforte, e subito dopo si levarono urla di sgomento e rumori di lotta.
“Devi fare presto!” urlò ancora il Dexholder, cominciando a muoversi in direzione del caveau.
“Ma...”.
“Xav... Più tardi c’incontreremo e ti spiegherò tutto, ma ora vai”.
“... Ok...”.
“Sei più testardo di una capra” rispose Gold, attaccando e prendendo a correre.
 
 
Johto, Amarantopoli, Casa di Xavier Solomon
 
Xavier rimase un paio di secondi a guardare lo schermo del cellulare, con gli occhi spalancati e il respiro tagliato. La bocca era schiusa, il cuore batteva. La prima reazione che ebbe fu di voltarsi verso il laboratorio, guardandosi attorno e cercando di capire se ci fosse qualcuno intento a guardarlo. Fissò poi le pareti, scrutando nel buio soffuso della stanza la presenza di qualche telecamera nascosta. Sospirò e poi fece spallucce. Si risedette davanti al computer, salvando il suo lavoro e spegnendo lo schermo.
Quando si rialzò però si bloccò e ripensò alla stranezza della telefonata appena ricevuta.
“Che diamine voleva, Gold?” chiese, come se avesse qualcuno davanti. Non riuscì a darsi una risposta rapida e capì che avrebbe fatto bene a portare con sé il notebook con tutti i dati che aveva elaborato fino a quel momento. Scattò una fotografia alla lavagna e prese il cellulare, per poi salire al piano superiore. Quando lo faceva era sempre molto, molto affamato, oppure era stanco di dormire con la faccia sulla scrivania. Di tanto in tanto andava anche a fare la spesa, anche se generalmente mangiava poco e male.
Il salotto era totalmente buio, con le persiane serrate ed i cuscini del divano per terra. Puzzava di chiuso, lì.
“Dovrei mettere a posto. Già, dovrei proprio…” pensò ad alta voce, raccogliendo il cappotto dalla poltrona e immergendosi nel freddo di quel giorno. Pioveva ancora; aprì l’ombrello e scarmigliò i capelli biondi sulla fronte. Uscito dal vialetto si vide bene dallo stare accanto alle strade, battute da automobili furenti e indaffarate: avrebbero sicuramente alzato acqua dalle pozzanghere e sarebbe finito per arrivare fradicio all’Harold’s. Che poi non sapeva neppure se andare lì: avrebbe voluto continuare a lavorare e nel locale c’era quasi sempre tanto rumore. Tuttavia aveva fame e già immaginava una bella fetta di torta con le meringhe. Gli piaceva. Solitamente la prendeva con un bel bicchiere di latte caldo, anche se, guardando l’orologio, era quasi ora di pranzo. Avrebbe deciso una volta che arrivato sul posto, quindi affrettò il passo. Voltò l’angolo e s’immise sul rettilineo che dava al centro di Amarantopoli, con i negozi aperti su entrambi i marciapiedi. Allungò lo sguardo oltre gli edifici, sullo sfondo grigiastro e furibondo, bagnato, dove il cadavere del vecchio manicomio abbandonato incombeva dall’alto, oltre la foresta di aceri. Quel posto lo faceva rabbrividire. Vi era entrato soltanto una volta, da ragazzino, per vincere una scommessa con uno dei suoi amici, Loris, uno spaccone che col senno di poi avrebbe lavorato come infermiere al Centro Pokémon. Era andato a trovarlo qualche volta, quando Cindy aveva spinto con tutto il gruppo per fare una rimpatriata, anche se lui avrebbe volentieri evitato di uscire dal proprio laboratorio per quelle incombenze sociali.
Xavier non era bravo con le persone.
Con Cindy soprattutto, con cui oltre a non essere bravo era persino arrabbiato.
Sbuffò, non voleva pensarci anche se sapeva che andare all’Harold’s sarebbe equivalso all’incontrarla.
Arrivò in piazza, sorpassò la Palestra di Angelo e vide delle luci accese nel campo di battaglia. Guardò poi la Torre Bruciata attraverso la pioggia e poi giù, verso il teatro delle Kimono Girl. Accanto, l’insegna del locale in cui stava per entrare risplendeva luminoso.
Entrando provò il solito sentore di calore e calma che quel posto distribuiva generosamente a tutti; gli piaceva lo stile anni sessanta che avevano adottato per arredarlo, con sedili in pelle bianca e rossa e tavolini ad un piede esterno, che sembravano venir fuori direttamente dal muro.
Vi erano dei grossi cappelloni che spuntavano dal soffitto, rossi anche loro, a illuminare l’intera sala, e anche il bancone, alto, e la vetrina con tutte le squisitezze, perlopiù torte, crostate e croissant. Quel luogo era famoso per due cose: pollo e donne; le ragazze che lavoravano come cameriere lì indossavano striminzite tenute da cheerleader, verdi, con gonne dello stesso colore ma a balze bianche. Un tempo montavano anche i pattini ma dopo che qualche torta cadde sulla clientela fu deciso di aggiungere alla divisa anche un paio di comode scarpe.
Da Harold’s c’era un tavolo che la gente sapeva essere del Professore.
Era il secondo sulla destra, quello che per qualche strano motivo era sempre vuoto, accanto alla finestra in cui la guarnizione era leggermente scollata. In inverno entrava un freddo terribile, lì.
E Xavier se ne fregava, gettando il borsello sul tavolo e poggiando delicatamente lo zaino col pc davanti a lui. Dava le spalle alla porta, dato che non voleva essere distratto dalla gente che entrava. Osservò il suo riflesso nella finestra: gli occhi, azzurri e provati, si poggiarono sulle occhiaie stanche, figlie della lunga notte insonne passata a lavorare su limiti ed equazioni, derivate e formule fisiche da applicare.
Cercava la macchina del tempo.
Non esisteva, quel concetto lo aveva ben chiaro. Aveva praticamente ideato ogni cosa a riguardo, anche l’ipotetico concept estetico del veicolo, ma non sapeva come avrebbe dovuto farla funzionare. Aveva scandagliato il concetto fisico del tempo in ogni suo dettaglio, suddiviso in più parti, analizzato minuziosamente per far diventare scienza le cose che aveva visto nei film.
Nell’ultimo periodo credeva che non ci sarebbe mai riuscito.
Accese il pc. Pensò che fosse diventato schifosamente ricco; ogni mese riceveva assegni da decine di produttori ed era diventato assai abbiente, col risultato che non avesse più bisogno di lavorare. Del resto era troppo intelligente per perdere la voglia di vivere dietro alle scadenze, ai pagamenti e alla vita. Tendeva a consumare le persone.
Come anche l’amore.
Cindy era seduta quasi sempre all’ultimo tavolo sulla destra, spesso era con Angelo. Su quel tavolino troneggiava sempre un cartellino con scritto RISERVATO. D’altronde quel locale era stato acquistato proprio dal Capopalestra e Cindy lo gestiva per lui data la sua mole d’impegni.
Anche perché era sua moglie.
Quando era entrato, Xavier aveva gettato subito l’occhio lì, vedendo la donna dai capelli rossi alzare la testa richiamata dal rumore della campanella sulla porta. Una volta appurato che a entrare fosse stato Xavier, inclinò la testa verso destra, sorridendogli e facendogli un gesto con la mano, a mo’ di saluto. Xavier fece finta di non vederla, ma lei era ostinata e lui sapeva perfettamente che, non appena avrebbe cominciato a lavorare con più applicazione mentale lei si sarebbe seduta al suo tavolo.
Disturbandolo.
Cindy lo disturbava, la sua presenza quasi lo nauseava; quella donna bellissima dagli occhi dolci, le labbra morbide e il corpo più bello che ricordasse di aver mai visto in costume era per lui un fastidio. Sbuffò, Xavier, vide arrivare una cameriera bionda e piuttosto stupida, dal seno prorompente.
“Buongiorno, benvenuto all’Harold, la tavola calda migliore della città!” esclamò sorridendo. Quella era una sorta di formula che Cindy aveva imposto a ognuna delle ragazze che lavorava lì, ma Xavier era infastidito nel sentirla ogni volta. “Cosa posso fare per lei?”.
“Voglio delle alette di pollo, con contorno di patate”.
“Un B2, ottima scelta. Posso consigliarle di abbinarci...”.
“Sì, dammi la salsa… Sadie” fece quello, asettico, leggendo il nome sul suo cartellino. La vide arrossire, violentemente. “E dopo mi porti anche una fetta di torta con meringhe”.
“Certo. Vuole anche una bella cola, da bere?”.
“No, portami una birra” disse.
“Che birra vuole?”.
“Una weiss andrà più che bene…”.
Quella sorrise, mostrando tutti i denti che aveva in bocca, strinse sotto al petto i menù e si dileguò sculettando, con coda di cavallo che dondolava al movimento della sua testa.
Xavier aveva un pregiudizio sulle bionde.
Alzò la testa e la vide.
Xavier aveva un pregiudizio anche su di lei.
Cindy lo continuava a fissarlo distratta, dietro le spesse lenti degli occhiali da vista. Forse lo aveva beccato mentre si era voltato a guardare Sadie, di spalle.
Penserà che le abbia guardato il sedere… pensò. Poi inarcò un sopracciglio e fece segno di no con la testa, dato che non gliene importava. Sbuffò e calò la testa davanti al pc, aprendo il foglio di calcolo. Quattro minuti dopo arrivò la birra, fresca, ma non la toccò fino a quando non gli presentarono anche il cestino col pollo.
Era croccante e salato. Caldo. Buono.
Ripensò a Gold e a quanto quel ragazzo fosse strano. Ripensò alle parole che gli aveva detto all’interno della Torre Sprout, riguardo Cindy:
 
“Sei uno stronzo”.
 “Prego?”.
“Non fraintendermi, non per giudicarti... anzi sì, sei proprio uno stronzo”.
“... Temo di non comprendere...”.
“Non capisco perché rovinarsi la vita da soli! Se tu vuoi lei e lei vuole te perché non te la vai a prendere?!”.
“Punto primo: ho una dignità! Se mi rifiuti dopo non ti accetto! È una questione di principio! Punto secondo: non voglio che Angelo mi renda la vita impossibile”.
“Al massimo ti troveresti Linda Blair che ti aspetta nel bagno”.
 
Linda Blair. Sorrise nel pensare alla battuta del ragazzo.
La verità era che Cindy rappresentava un nervo del tutto scoperto per lui. Fu una delle poche volte che s’era fidato dell’umanità, che era rimasto affascinato da uno sguardo. Solo altre due paia d’occhi lo avevano rapito in quel modo: quello di sua madre e quello di Yuki, la  che gli salvò la vita da bambino. Cindy era rimasta nel suo cuore per tutta la sua adolescenza, in cui aveva coltivato quel sentimento puro e fragile con la minuziosità di cui era provvisto dalla nascita; lo aveva fatto in silenzio, osservando da lontano la bella che raccoglieva delusioni a causa di persone che non meritavano quello sguardo da cerbiatta.
Persone che non la amavano, che volevano riempirsi le mani di nuvole e zucchero, che la raccoglievano in riva al mare e la lanciavano via, lontana, nelle profondità fredde, solo per divertirsi guardandola rimbalzare sul pelo dell’acqua. Xavier era sempre andata a raccoglierla, cercandola anche per giorni interi, scandagliando i fondali. La ritrovava, la riportava sulla spiaggia, senza mai avere il coraggio di metterla nello zaino e proteggerla, portandola dove non sarebbe stata più oggetto di quelle follie.
Ma Cindy era una donna che amava, e andava a finire sempre che, una volta appurato di non essere contraccambiata, piangesse sulla spalla destra di Xavier, e quando lui ebbe il coraggio di aprirle il suo cuore lei aveva creato quel groviglio di sentimenti negativi e positivi, contemporaneamente.
Anche quel giorno Cindy credeva di poter mettere le cose a posto. Senza che lui lo vedesse si sedette di fronte a lui, abbassandogli lo schermo sulle mani. Sorrideva; aveva levato gli occhiali ma lo sguardo era basso, guardava verso sinistra, dove qualche secondo dopo Sadie poggiò la fetta di torta. I capelli, di quel rosso tendente al castano, erano sciolti e le ricadevano lunghi e ordinati dietro la schiena. Cindy aveva il vizio di allungare le maniche dei maglioni e nascondervi dentro le mani.
Aveva un fascino senza eguali, per lui.
“Ciao...” gli sorrise dolcemente. Xavier si limitò a rialzare lo schermo del computer.
“Ciao” ribatté, asettico come ogni volta che aveva avuto a che fare con Cindy negli ultimi anni.
“Come stai?” chiese, abbassando nuovamente lo schermo.
Xavier si spazientì, rialzandolo.
“Sto”.
Passarono alcuni secondi prima che lei parlasse di nuovo. “E non mi chiedi come sto io?”.
“Dovrei?”.
“Sì, se t’interessa...”.
“Non m’interessa”.
Lei sorrise amaramente. “Come sei antipatico, dannazione...”.
“Sai che non è così. Sono antipatico soltanto con te e con le persone che non mi piacciono”.
“Come mio marito...”. Cindy aveva abbassato un’altra volta lo schermo.
“Sì, è un buon esempio”.
“E perché?”.
Xavier alzò di nuovo la barriera tra di loro e prese una patatina. “Vuoi proprio sentirtelo dire, vero?”.
“No, se non vuoi”.
Masticava, l’altro, fissandola negli occhi. “Non voglio parlare con te”.
Lei abbassò lo schermo, per guardarlo negli occhi.
“E per quale motivo?”.
“Me lo chiedi ogni volta che vengo qui. Dovresti smetterla”.
“Smetti di venire tu, se non vuoi che venga a parlarti! Io qui ci lavoro!” s’alterò la donna, leggermente divertita. Xavier la fissò per un attimo negli occhi e poi si dipinse una smorfia di disappunto in volto.
“Probabilmente farò così”.
“Sai che non voglio che finisca così”.
“Sai che non ho sei anni. Non prendermi per il culo”.
Rialzò lo schermo ma Cindy lo bloccò, toccandogli la mano.
“Per favore” fece lei. “Parliamo”.
Xavier guardò la sua espressione contrita ma più che pietà provò un’irrefrenabile violenza. Non poté però mentire a se stesso: sentire il calore delle sue mani lo stava nutrendo. La voglia di alzarsi si sgonfiò rapidamente, fu sostituita da un sospiro e fu sconfitta da quello sguardo.
Cedette, mise via il pc, lo chiuse meticolosamente nella sua borsa e prese a guardarla, serio.
Quella sorrise, afferrando anche l’altra mano dell’uomo.
“Io so che le nostre strade si sono divise, Xav… E se devo dire che mi sono comportata bene, intendo con te, che mi sei sempre stato accanto e mi hai risollevata in quei brutti momenti, beh, probabilmente mentirei…”.
“Mentiresti” ribadì l’altro.
“Io ho sbagliato”.
L’uomo sentiva ancora le piccole mani della donna stringerlo. Lo sconforto era però più grande dell’emozione.
“Dimmi qualcosa che non so…”.
 “Io lo so che sei l’uomo perfetto, e credimi, saresti la scelta migliore per qualsiasi donna che esista su questa terra, perché sei buono e intelligente… Certo, mangi male e stai deperendo ma...”.
“Cindy...”.
Lei sbuffò. “Non riesco a capire perché tu non possa accettare di vedermi. Hai fatto tanto per me, io non riuscirei mai a dimenticare a cuor leggero il tempo che abbiamo passato assieme”.
“Io non l’ho fatto, Cindy. Non posso dimenticarlo”.
Lei sorrise, abbassando lo sguardo. Strinse le sue mani con ancora più vigore.
“E allora perché non possiamo andare avanti?”.
Xavier si tuffò nei suoi occhi. Gli mancava come l’aria, averla nella sua vita.
“Non posso perché, purtroppo per te, non so dimenticare le cose”.
“Purtroppo per me?” domandò lei, più analitica.
“Che cosa vuoi da me?” rispose a sua volta con una domanda, l’uomo dai capelli biondi, dopo un lungo sospiro. Era stanco di quella situazione, e inconsciamente temeva che quelle mani lasciassero le sue.
“Non voglio stressarti…” abbassò lo sguardo Cindy. “Voglio solo tornare ad essere tua amica”.
Xavier ebbe un moto di spirito. “Già… Sai che non puoi essere più mia amica, non prendiamoci in giro…”.
Lei rimase in silenzio per qualche secondo. “Io... io capisco che possa bruciare. La vita è fatta di sconfitte e...”.
“Perché mi stai dicendo questo?!” s’alterò. “Sai quanto tempo ho impiegato per farti uscire dalla mia mente?! Per uscire fuori dal dolore che mi stava affogando, Cindy?!”
La donna ritrasse le mani, poggiandole sul bancone. Il suo sguardo si piegò, incupendosi.
“Io…”.
“Anni! Anni di terapia, di riflessione! Ti ho dovuta demonizzare, prima di poterti parlare di nuovo!”.
Cindy si guardò intorno, stringendosi nel proprio abbraccio. “Non urlare… ci sono dei clienti”.
Quello abbassò il capo e sospirò. “Scusa...”.
“No, tranquillo… è comprensibile la tua reazione…”.
“È che io... mi sono sentito sbagliato. Mi sono sentito terribilmente sbagliato”.
La donna chiuse le palpebre per pochi secondi, celando per qualche attimo gli occhi. Quando li riaprì, si sentì colpevole. Una lacrima fuggì via.
“Mi chiedevo per quale motivo io non potessi avere quello per cui avevo combattuto da quando ero un ragazzino. Io... ti vedevo lì, così lontana ed inarrivabile. Eppure eri sempre accanto a me, Cindy… mi prendevi in considerazione, mi parlavi, mi dimostravi affetto. Quella volta in spiaggia...” sorrise lui, avvampando.
Lei fece lo stesso. Quello non la vide e continuò. “Beh, credimi, avrei voluto uccidere Lars Bennett quando ti chiamò... Stavo trovando il coraggio per baciarti”.
Lei sorrise. “Ha fatto bene a farlo... ti avrei respinto, allora”.
“Non ero ancora ricco”.
Arrivò dritto come una freccia. Lei inarcò un sopracciglio, spostando i capelli dal volto. “Di certo non mi sono interessata a te perché avevi incominciato a guadagnare bene…”.
“No?” domandò lui, sapendo di stare per premere dove faceva male.
“No. Mi piacevi, sei una brava persona e ho...”.
“E ho pensato di buttare tutto nel cesso, giusto?! Dopo ventiquattr’ore, o neppure, forse di meno... Beh, sappi che se non ti ho parlato è perché non volevo che mi uscisse dalla bocca ciò che pensavo di te, qualche anno fa...”.
Si guardarono. Aspettava solo quella domanda, lui.
“E cosa pensavi?”.
Un attimo di silenzio. Incoccò la freccia rabbiosa.
“Che fossi una stronza, Cindy”.
Quella rimase immobile.
“Insomma, mettiti nei miei panni... Anni spesi a correrti dietro, poi ti conquisto, ti bacio, assaporo il momento in cui avrei potuto stringerti tra le mie braccia la volta successiva e poi ti vedo con Angelo...”.
Quella sbuffò e annuì.
“Sono stata una stronza, va bene, me lo merito, ma...”.
“Ma cosa?! Hai capito che hai fatto una puttanata?! Che ad Angelo importava del tuo culo e non di tutto il resto?!”.
Cindy corrucciò lo sguardo. “Non mi piace come sei diventato…”.
“I soldi fanno quest’effetto, ma dovresti saperlo... Ora poco importa. Hai il tuo bell’anello al dito, la promessa di avere una famiglia, un giorno, magari adottando qualche bambino, o rapendolo. O facendolo resuscitare, chi lo sa, quell’uomo sembra avere parecchie amicizie nelle alte sfere dell’aldilà...”.
“Finiscila...”.
“Di fare che? Era questo che sognavi?!” esclamò lui, guardandosi attorno e allargando le braccia. “Un locale?! Un matrimonio finto con un uomo che ti ha utilizzata per svuotarsi le palle?! Secondo il mio punto di vista hai preferito l’occasione del momento di qualcun altro piuttosto che l’occasione della mia vita, Cindy, quindi non chiedermi perché ce l’abbia con te!”.
“Smettila, ho detto”.
“Perché dovrei?! Ora non avresti avuto un locale del cazzo, magari le alette ce le preparavamo a casa, ma saresti finita per essere amata da un uomo che ti avrebbe messo al centro della propria vita, che ti avrebbe dato dei figli e che non avrebbe mai smesso di amarti e...”.
“Mi ami ancora?”.
Xavier si bloccò, con la bocca aperta. Poi la chiuse.
“Non so come rispondere”.
“Ho zittito il genio” sorrise lei, tronfia. Abbassò nuovamente lo sguardo e col dito levò la crema sulla torta, mettendolo in bocca.
“Non sto zitto... parlo, ma non mi senti”.
I loro sguardi s’incontrarono di nuovo. La donna sbuffò per l’ennesima volta. Pareva sfibrata.
“Cosa vuoi che faccia, Xav? Che lasci mio marito? Che mandi tutto alle ortiche?”.
“Voglio che tu faccia quello che ti fa stare bene”.
Silenzio, Xavier prese un sorso di birra.
“E a te?” domandò lei. “A te cosa fa stare bene?”.
Lui sorrise. “Bella domanda. Bella domanda…”.
Poi s’alzò, lasciò una banconota da venti sul tavolo e si voltò, prendendo computer e borsa. “Tieni il resto e dai la mancia a Sadie. Le serve una gonna un po’ più lunga...”.
“No!” esclamò lei, alzando la voce. Lo trattenne, tirandolo per il braccio. “Non... non andare ancora...”.
 
Kanto, Aranciopoli, Banca Centrale
 
Il corridoio che portava al caveau era stretto e molto lungo, e con ogni probabilità i malviventi avevano fatto saltare il sistema elettrico, per poter lavorare più rapidamente sull’apertura della camera blindata. La luce era poca e Gold veniva guidato dai rumori della lotta che Sandra stava tenendo contro i nemici. Essendo la sede della riserva aurea di Kanto, erano stati predisposti tre grandi cancelli di acciaio, uno dietro l’altro, a garantire che nessuno avesse potuto compiere facilmente una rapina.
Il ragazzo camminava in quella lunga corsia senza sbocchi laterali. Sprazzi di luce al neon proveniente dall’atrio all’ingresso invadevano piccole porzioni di pavimento, creando enormi ombre alla fine della sala, che il ragazzo percorse correndo. Una volta avvicinatosi al primo cancello e vedendo il metallo spesso ottanta centimetri totalmente piegato su se stesso Gold spalancò gli occhi.
“Cazzo…” sussurrò il ragazzo. Lo scavalcò e proseguì oltre, pieno di dubbi. “Questi non dovrebbero essere rinforzati al titanio?”. Penetrò poi nella breccia e passò accanto al corpo esanime d’uno scagnozzo calpestato dai Pokémon di Sandra. L’odore di bruciato era forte e penetrante, e non cambiò quando, attraversando il secondo cancello, si era ritrovato altri tre uomini fuori combattimento.
Ridacchiò. Sandra è una macchina da guerra, pensò.
E poi successe qualcosa che lo allarmò.
E tu chi diamine sei?!”.
La voce di Sandra, terrorizzata, si era propagata attraverso l’eco. Il ragazzo spalancò gli occhi.
“Ha bisogno di me!” esclamò, prendendo a correre e superando con un agile salto anche l’ultimo cancello, prima di entrare all’interno del caveau. Lì la luce era quasi nulla: soltanto quattro lampade d’emergenza sulle pareti e un neon assai datato con le griglie sporche a coprirlo, quasi inutile. Tutt’intorno denaro e oro, sistemati in maniera ordinata e regolare.
Sandra era proprio davanti a lei, il suo Charizard a difenderla dall’avversario.
E l’avversario era anch’esso un Charizard; tuttavia era strano.
Era nero, completamente nero, con gli occhi rossi. Anche la fiamma sulla sua coda era totalmente scura. Green aveva parlato di un’altra versione di Mega Charizard qualche tempo prima, che differiva dalla sua; lo ricordava distintamente, quando aveva lottato col Dexholder di Kanto contro Zapdos a Lavandonia, prima degli eventi di Hoenn.
Rabbrividì. Non voleva pensare a quella città.
“Sandra...” la chiamò lui. “Che diamine succede?”.
“Gold... Stai attento...” tuonò lei, con un tono preoccupato che non aveva mai sentito.
Il ragazzo aggrottò la fronte e fissò bene l’avversario: era una donna assai magra, con la stessa divisa degli uomini che avevano combattuto fino a quel momento. Tuttavia non indossava alcuna maschera antigas e nessun paio d’occhialoni; aveva i capelli dello stesso colore di Sandra nonostante fossero acconciati in una sorta di carré spettinato. Il volto era smagrito ma anche gli occhi erano dello stesso colore della Capopalestra di Ebanopoli. Aguzzò lo sguardo aureo, il ragazzo, osservando meglio i dettagli del volto dell’avversaria, e, nonostante le labbra screpolate e tagliuzzate e gli evidenti ematomi sulle guance e sugli occhi, non impiegò molto a riconoscerla.
“Ma che cazzo succede?!” urlò il ragazzo, avvicinandosi alla partner.
Di fronte a loro c’era Sandra. Un’altra Sandra.
“Non lo so, Gold, ma quel Pokémon non mi piace…” sussurrò. Fissava dritto quel Charizard, dalle cui narici fuoriusciva intenso fumo nero. Anche quel Pokémon era strano, e tutta quella situazione non faceva altro che farle accapponare la pelle. “Non so chi tu sia e per quale motivo mi assomigli così tanto ma ti consiglio di fermarti immediatamente ed arrenderti...”.
Quella, d’altro canto, fissava dritto la donna col mantello, rigida.
“Quella sei tu…” osservò Gold, esterrefatto e impaurito. Le parole fluirono lente, come avessero difficoltà a uscire.
“Lo so benissimo, non c’è bisogno di puntualizzare…” ringhiò l’altra.
“Se ti può consolare sei molto più gnocca di lei”.
Sandra, quella che dava il fianco al ragazzo, si voltò per un secondo, congelandolo con lo sguardo.
“Va bene, era fuori luogo, hai ragione... Ora cerchiamo un modo per distruggere quel Charizard e uscire tutti interi da qui”.
La vide annuire, lui, poco convinta. Lui sapeva che quella donna fosse una lontana parente dell’uomo che assomigliava a Xavier, e che aveva trafugato il cristallo dall’Osservatorio a Biancavilla. Rifletteva, e intanto fissava la fiamma nera del Pokémon.
“Non sarà semplice” osservò Sandra.
“Per niente. Quel Pokémon ha fuso il titanio”.
Sandra lo guardò nuovamente, stupita. “Come sai che è titanio?”.
“L’ho già rapinata un paio di volte questa banca” blaterò, mettendo mano alla cintura e afferrando una sfera. Poi la donna che si spacciava per Sandra batté le mani e quel Charizard ruggì, spalancando la bocca. Scintille di fuoco cominciarono a brillare nel buio delle sue fauci.
“Exbo!” urlò Gold, mettendo in campo il suo Typhlosion accanto al Charizard di Sandra.
“Dobbiamo muoverci attentamente!”.
“Tu lo combatti in aria e io da terra” rispose prontamente quello.
Sandra annuì. “Charizard, vola!”:
“Attento, Exbo!” ordinò invece l’altro.
La donna in tenuta militare avanzò un passo, con gli occhi spalancati. Le mani, sporche di fuliggine e sangue erano strette in pugni così chiusi da fare male. Alzò il braccio, e il suo Pokémon si alzò in volo, gettandosi contro l’avversario, affondandogli gli artigli nelle zampe anteriori. Il Pokémon di Sandra urlò, ferito e spaventato.
“Stai calmo!” gli ordinò la Capopalestra.
Quel drago scuro teneva stretti gli artigli, col volto serio e le iridi totalmente spiritate; controllava ogni movimento dell’avversario.
“Exbo! Vai con Lanciafiamme!” ordinò Gold, vedendo Typhlosion gettare una grande quantità di fuoco contro l’obiettivo.
Sandra osservò bene l’effetto dell’attacco, stupendosi poi del risultato. “Fuoco contro fuoco, va bene... ma è illeso!”.
“Quel Pokémon è incredibilmente forte! Se me lo fai ripetere di nuovo ti tiro i capelli!”.
“Charizard!” urlò poi Sandra. “Cerca di liberarti utilizzando un Attacco D’Ala!”.
E così fece: chiuse le ali, aumentando il peso complessivo che l’avversario doveva sostenere e sbilanciandolo, costringendolo ad allargare le braccia per ritrovare equilibrio ed evitare di schiantarsi; lasciò la presa dai muscoli del dragone arancione, che si voltò con rabbia, colpendolo con l’ala destra sul volto. Quello indietreggiò di qualche metro per poi rigettarsi con foga sull’avversario, colpendolo con una forte spallata.
“Supporto da terra, Gold” intimò Sandra, levando il mantello.
“Dannazione, Exbo, Comete!”.
“Buona idea...” commentò l’altra.
Typhlosion lasciò partire piccole sfere d’energia che colpirono dritto sul petto il Pokémon avversario. La donna in tenuta militare indicò poi Exbo, facendo spalancare gli occhi a Gold.
“No! No, nononono! Sandra, aiutami!”.
Il Charizard nero s’avventò in picchiata verso Exbo, come un rapace sulla preda ignara.
“Gold!” lo chiamò la Capopalestra, afferrandogli il braccio nella mano guantata.
Fu un attimo, Gold sentì il cuore rimbalzargli in gola e scendere nuovamente giù, forse un po’ troppo. D’istinto prese la sfera di Typhlosion e lo fece rientrare, per poi farlo riapparire alle spalle del Charizard nero.
Vortexpalla!” ordinò, vedendo Exbo eseguire la mossa e abbattersi contro l’avversario.
 
Efficacissimo.
 
Quello ruzzolò parecchi metri in avanti, molto vicino a Gold e Sandra.
“Usa Eterelama!” urlò poi Sandra.
L’altra, la copia, schioccò solo le dita della mano, con ancora gli occhi spalancati e folli, e subito Charizard si spostò, lasciando che il fendente d’aria si schiantasse a meno d’un metro dai due sfidanti.
“Cazzo!” urlò Gold, voltandosi.
Sandra era rimasta immobile invece. Vedeva l’avversario rimettersi in volo per fronteggiare il suo Pokémon; il sangue che colava copioso dalle braccia del Charizard rosso, e fu proprio lì che quello nero andò a riaffondare gli artigli.
“Di nuovo, no! Charizard!” esclamò.
“Questa cosa deve finire!” ribatté Gold. “Exbo, ancora Comete!”.
Il Charizard nero vide partire l’attacco e con potenza immane spostò il nemico volante, nascondendosi dietro di lui. Altro brutto colpo, e subito dopo afferrò l’altro Pokémon Fiamma, sollevandosi in volo. Arrivato quasi al soffitto, si ribaltò di centottanta gradi, picchiando verso il pavimento.
“Non può essere...” sussurrò Sandra.
Movimento Sismico…”. Gold digrignava i denti, prima che il Charizard rosso finisse per schiantarsi al suolo, esanime.
“Exbo! Subito! Rotolamento!” urlò, puntando il dito contro il nemico. Fu così che Typhlosion si appallottolò e si mosse a grande velocità contro il Pokémon avversario, colpendolo una prima ed una seconda volta.
Alla terza volta però Sandra, quella muta, batté due volte le mani, ordinando silenziosamente al Pokémon di volare in alto.
Fu allora che utilizzò un potentissimo attacco Eterelama, facendo deragliare la corsa di Exbo e costringendolo a fermarsi.
“Gold, Charizard non ce la fa più...” sussurrò Sandra.
“Non seguiamo alcuna regola e nessuno ci squalifica! Metti un altro dei tuoi serpentoni in campo e...”.
E poi quel Pokémon così potente vide la sua Allenatrice battere tra di loro i pugni; bastò tanto per scatenare un’ira tremenda che lo vide gettarsi sulla sua preda con ferocia famelica: Exbo non s’aspettava tanta furia e cattiveria, la picchiata che Charizard effettuò fu così veloce da coglierlo del tutto impreparato. Cadde di spalle, quello, col drago che cominciò a graffiarlo iracondo con gli artigli appuntiti.
“Oh porca troia! Liberati!” urlava Gold.
 Typhlosion aveva la pelle dura, e quindi decise di girarsi di spalle, per evitare d’essere danneggiato agli organi più delicati.
“Exbo, sei un genio! Eruzione!” ribatté, con un sorriso ritrovato sul volto.
La grande fiamma del Pokémon s’accese massiva e immediata, bruciando in volto il drago. Quello non sembrò risentirne più di tanto ma indietreggiò di qualche metro, sorpreso.
“Come stai, cucciolo?!” gli chiese, quello, preoccupato. “Dannata draghessa, hai intenzione di farmi uccidere oggi?!” chiese, alla compagna di squadra.
“Vai, Kingdra!” urlò quella, senza neppure ascoltarlo e mettendo in campo il suo Pokémon più rappresentativo.
“E finalmente!”.
La donna dal volto omicida spalancò la bocca e corrucciò lo sguardo, come se avesse appena ricevuto una coltellata nel petto. Le labbra presero a tremare, anticipando una lacrima nera, sporcata dal trucco ormai sciolto che le adornava lo sguardo. E cominciò a piangere, a piangere con forza, prima di urlare.
NOOOO!” fece, riempiendo quel luogo ormai così silenzioso di una disperazione quasi liquida, tangibile.
“Sandra... attenta…” disse Gold, impaurito. Le si avvicinò e facendo rientrare Exbo nella sfera. “Che diamine sta succedendo?”.
“Non... non ne ho idea, Gold…”.
“Prova a pensare... in fondo quella sei tu...”.
Annuì, Sandra. Deglutì e sospirò. “Beh…” cominciò. “Ha preso a piangere non appena ha visto Kingdra... che è stato il mio primo Pokémon... quello con cui ho iniziato il mio percorso a Ebanopoli... Forse il suo non è morto...”.
E per la prima volta, la sentirono parlare.
“NON DIRE QUELLA PAROLA!” urlò, facendo sbiancare i due.
“Calmina, eh...” sussurrò Gold, facendo un passo verso sinistra, per avvicinarsi ancor di più alla donna che aveva accanto.
La videro inginocchiarsi, mentre il volto si trasformava, diventando una maschera di terrore e disperazione. Riunì le mani sul viso, pulendolo dal trucco sciolto, prima di puntellarle sul pavimento. Il respiro del suo Charizard era greve, e quasi infastidiva i presenti, prima che la donna tornasse a parlare.
“Lei... lei era con me quando tutto è cominciato... quando il cielo è diventato nero... E quando sono venuti a prendermi è stata lei a farmi da scudo, finendo per esser divorata viva. E non hanno scelto di finirla, di mangiarla completamente. Sadici... l’hanno gettata in mare, per fare in modo che attaccasse quella merda a qualcun altro...”.
“Ma di che diamine parli?!” urlava Sandra, esterrefatta.
“Mi ha salvato la vita! Mi ha salvato la vita!” urlava, in preda alla disperazione. Charizard, quello nero, si voltò verso di lei e rimase a fissarla, con lo sguardo più umano che potesse donarle.
Vista dall’esterno, la disperazione che quella esprimeva era struggente, e probabilmente Gold si sarebbe avvicinato a lei con fare empatico, se non avesse capito di trovarsi di fronte a una folle. La videro calmarsi per un attimo, col viso sporco e lo sguardo basso. Si morse il labbro inferiore, spaccandolo ulteriormente, col sangue che prese a fuoriuscire e a colarle sul mento.
Era distrutta, lo si poteva percepire subito. Nonostante tutto si rimise in piedi, e quando incrociò lo sguardo di Charizard si limitò ad abbassare il capo.
“Che ha detto?!” esclamò Sandra.
“Niente!”.
Pochi secondi dopo tutto divenne luce e fuoco. I ragazzi furono immediatamente accecati dall’attacco del Pokémon, e il calore seccò loro le palpebre, prima che Gold afferrasse la Capopalestra di Ebanopoli e la gettasse per terra in un angolo, sovrastandola e proteggendole il capo stringendolo al suo sterno. Si erano allontanati abbastanza dalle fiamme che stavano divampando e distruggendo il caveau, ma il calore era immane e si propagava con forza. Lei era spaventata; sentiva il cuore del ragazzo battere all’impazzata, mentre i pacchi di banconote alla sua destra prendevano fuoco.
“Gold!” urlava lei.
“Fermati! Stai ferma!”.
Sandra girò il viso, vedendo la piattaforma con l’oro totalmente divelta dal pavimento, e sollevata. Non riuscì a comprendere esattamente come successe ma i lingotti stavano per essere rubati e la cosa la impanicò. Cercò di svincolarsi, spingendo coi talloni per terra, ma immediatamente dopo un crepitio sinistrò lasciò posto a un boato enorme. Gold non poté fare altro che stringere con maggior vigore la donna, quasi tutta nascosta dal suo corpo.
E poi sentirono le lamiere che avevano sulla testa piegarsi e il cemento crollare su di loro.
“Attenta!” urlò ancora lui, stringendo occhi e bocca. Sentiva il corpo della donna sussultare a ogni rumore.
Durò quattro eterni secondi. Poi soltanto il crepitio del fuoco e quello della pioggia, che era entrata a benedirli. Il ragazzo non percepiva più nulla. Aveva gli occhi chiusi e il timore maggiore, in quel momento, era aprirli: se avesse visto il volto di Sandra senza vita non sarebbe riuscito a perdonarsi.
Quella però tossì.
“G-gold…” sussurrò, tossendo nuovamente.
Quello schiuse leggermente le palpebre.
“Sei viva?”.
“Sì... sto bene...”. Allungò poi lo sguardo verso sinistra: dove sarebbero dovute esserci diverse tonnellate d’oro non vi era altro che il tetto rovinato della banca. “Ha portato via i lingotti…”.
Gold chiuse lentamente le palpebre, tossendo a sua volta. Piccole gocce di sangue caddero accanto al viso di Sandra.
La donna s’impanicò, guardandolo deglutire e sospirare. Era palese il dolore che provava.
“Non fare il coglione proprio ora!” disse, con gli occhi che si riempirono di lacrime.
“Ho qualcosa nella schiena...” ribatté improvvisamente, provando a muoversi. Chiuse nuovamente gli occhi, strinse ancora i denti. Le lamiere erano poggiate sopra di loro e il peso del soffitto crollato peggiorava la situazione.
“Cerca di resistere, Gold!” esclamava quella, facendo forza sui talloni per salire e sgusciare fuori. Poco dopo lui sentiva il suo respiro sulle labbra, e un dolore che lo aggrediva nelle gambe e nella schiena
“Fa male, Sandra...”.
“Lo so, ma resisti... Tra poco arriveranno ad aiutarci...”.
“Sì…” fece, tossendo ancora sangue. Gli occhi erano spalancati e piangevano. La guardava, lei fissava lui, vedendo il suo volto rappreso, che cercava di non lasciarsi andare.
L’aveva salvata, probabilmente sarebbe morta, e intanto cercava lo stesso di trattenere le lacrime, lui, senza riuscirci.
“Gold…” piangeva, quella. “Non preoccuparti… Stanno arrivando…”.
Gli carezzò la guancia, e gli sorrise nella maniera più genuina possibile, senza riuscire a celare l’immensa preoccupazione che l’attanagliava.
“Sicura… sicura di stare bene?” sussurrava lui, vedendola in lacrime.
“Sì… sì, sì, sto bene… Kingdra però era fuori… e tu… il sangue… Cazzo!” esclamò, piangendo.
“Sicuramente starà bene anche Kingdra…”.
Lui le sorrise nella maniera più genuina che conosceva, mentre le lacrime gli cadevano dalla punta del naso e terminavano sulle guance della donna.
“Ti prego…” pianse a sua volta. “Resisti…”.
“Sì… resisto…”.
“Non permetterti di morire!” faceva, con le mani bloccate sotto le macerie. “Non morire!”.
“Pesa…” faceva quello.
“Ti ho detto di resistere!” sbraitò, a pochi millimetri dai suoi occhi.
“Io… farò di tutto perché tu stia bene… ma… ecco… nel caso dovessi…”.
Gli occhi della donna si spalancarono. “No! Non succederà!”.
Quello sospirò, stringendo i denti e sussultando. Calò leggermente il capo, sentendo il suo corpo preme con forza su quello della donna. Poggiò la fronte sulla sua.
“Qualcosa… è entrato nella mia… schiena…”.
“Stanno venendo! Guardarmi!” faceva lei, alzando la fronte e toccandogli il naso con la punta del suo. “Non chiudere gli occhi!”.
“Fa male…”.
Strinse i denti, lei, cercando di muovere le dita sotto le macerie. La mano destra non aveva più sensibilità ma quella sinistra funzionava ancora. Lentamente cominciò a far forza, senza spostare il grosso pezzo d’intonaco e cemento che la bloccava.
“Forza…” stringeva i denti lei, spingendo con la fronte contro quella di Gold. Concentrò la poca energia rimasta e tirò il braccio fuori, liberandolo.
Si alzò molta polvere. Sospirò, seguendo la linea del braccio del ragazzo e risalendo i fianchi, sentendovi sangue caldo e viscoso colare.
“Merda!”.
Gold sorrise. “Ora dovrò buttare questa maglietta…”.
“Non riesci a essere serio neppure in un momento del genere!”.
Lui sorrise e tossì. “Per favore… puoi dire a Crystal e Silver che gli voglio bene? E a Marina…” tossì ancora sangue. “… a Marina che la amo tanto…”.
“No! Glielo dirai tu! Resisti, cazzo! Resisti!”.

 
Johto, Amarantopoli, Tavola Calda “Harold’s”
 
Cindy fissava dritto negli occhi Xavier, con lo sguardo provato. Stringeva il braccio del ragazzo e sentiva il cuore battere forsennato. Si sentiva sfibrata da quella situazione e il ragazzo stesso riusciva a rendersene conto; vederla turbata non era ciò che voleva. Nonostante tutto lui l’amava ancora.
“Non andare via…” ripeté, mentre le calde luci della tavola calda baciavano delicatamente il viso da bambola della donna. Xavier la scrutò per un attimo, ricordandosi di quando, da ragazzini, lui passava il suo tempo a fissarla di nascosto. Avrebbe sorriso se non fosse così compenetrato nel momento, se non si sentisse trafitto da quello sguardo da preda senza speranza, che cercava d’impietosire il proprio carnefice. E quello sguardo parlava, riuscendo comunque a non dire nulla.
“Ci guardano…” sussurrò Xavier, sorridendo amaramente. Forse vent’anni prima si sarebbe totalmente sciolto vedendo Cindy trattenerlo in quel modo. Ma vent’anni prima lui era in basso alla piramide sociale, e lei guardava solo in alto, accorgendosi solo in quel momento che la bellezza dello stare giù era la possibilità di salire.
Lui lo aveva capito prima di lei, e lo sguardo così accorato che Cindy gli stava donando era semplicemente il segnale del fatto che il valore di Xavier fosse cresciuto.
Cindy voleva qualcosa da lui, ma lui aveva un muro d’orgoglio da non far cadere.
“Che ti serve ancora?” tuonò l’uomo, fissandola negli occhi, verdi come smeraldi.
Lei guardò le sue mani, strette attorno al manico della valigetta, poi passò alle labbra, poco prima di raggiungere gli occhi.
“Non andare via…” ripeté, con la voce più dolce che potesse usare. Strinse con vigore il braccio del ragazzo e calò di nuovo gli occhi, incapace di tener testa al confronto con i suoi. E nel vederla in quel modo, Xavier si ricordò di non poter diventare il carnefice di quella creatura.
È così che vince sempre… pensò, sospirando e facendo cenno di no con la testa. Poggiò la valigetta e vide le mani di Cindy scivolare nuovamente verso le sue.
Si riaccomodò anche lei, sorridendo gentile.
“Non credo che questo sia il posto dove poterti mostrare così affettuosa con un altro uomo…”.
Quella aggrottò la fronte e sospirò.
“Non m’interessa di Angelo, né di quel che pensa la gente… Tu sei mio amico e io ti… ti voglio bene…” disse, dopo una piccola pausa. “Non posso più sopportare la tua mancanza... Sei stato importantissimo per la mia vita e voglio che sia ancora così”.
Con lo sguardò ammorbidito dai sentimenti che provava, lei provava a convincere l’uomo della bontà delle sue parole. Si scontrava però contro costruito per dividerlo dal mondo e dai suoi orrori, come l’amore. Ritirò le mani, Xavier, e guardò fuori al finestrone. Lì, delle persone attraversavano la strada.
“Per favore…” continuò lei, sporgendosi in avanti.
“Cindy…” disse poi l’altro. “… hai una vita piena d’impegni e responsabilità… alcuni di questi li hai presi con un uomo che hai deciso di voler seguire per tutta la vita”.
“Io devo essere sincera: mi aspettavo di cambiarlo” annuì. “Mi aspettavo di sciogliere quella corazza fredda e di riuscire a trovare in lui un po’ di calore umano, qualcosa che non mi facesse spegnere ma...”.
“Ma?” disse quello, voltandosi nuovamente verso di lei.
“Ma non ce l’ho fatta… non ci sono riuscita…”.
A Xavier venne da sorridere, annuendo. Abbassò la testa, stropicciò gli occhi e poi li rialzò.
“Lui non ha calore da donarti. Non ne ha mai avuto e mai ne avrà… È sempre stato interessato solo a quello che il tuo corpo gli ha offerto per tutto questo tempo…”.
Lei sorrise amaramente ed annuì. “E gli ho offerto tutto quello che potevo dargli, innamorata com’ero… nella speranza di poterlo vedere diverso”.
“È sbagliato. Non puoi cambiare un uomo. Non devi”.
Cindy lo guardò, rapita da quell’affermazione. Rimase in silenzio, permettendogli di continuare a parlare.
“Quando due persone s’avvicinano...Uff…” sbuffò. “Non è giusto modificare il modo di essere di una persona perché a noi non piace com’è. È la cosa più sbagliata che esista... Avresti dovuto scegliere una persona che ti fosse piaciuta fin dall’inizio, e parlo di quello che c’è dentro… Non l’uomo che ti piace esteticamente, con la Palestra ad Amarantopoli e il modo di fare tenebroso, perché alla lunga rompe un po’ le palle con gli sguardi profondi e i silenzi prolungati” sorrise.
E lo fece anche lei.
“Ho fatto una stupidaggine enorme...” annuì quella. “Non avrei dovuto sposare Angelo”.
“Non ho detto questo”.
“Lo sto dicendo io. Avrei dovuto proseguire per il mio cammino, per come si prospettava. Questo mio colpo di testa mi ha fatto perdere quasi dieci anni di felicità...”.
Xavier voltò lo sguardo, vedendo Sadie prendere le ordinazioni dal tavolo accanto.
“È così che va, la vita…”.
 
 
Johto, Isole Vorticose, Capo Piuma, Grotta Sacra di Lugia
 
La pioggia veniva filtrata dalle rocce della volta e cadeva verso il basso, rimbombando con forza, nel silenzio. I respiri stanchi e sfiniti della donna s’espandevano amplificati per via dell’eco. Vedendola per terra, Martino le si avvicinò e la sollevò. Quella però non riusciva a poggiare la gamba per terra.
Marina si abbassò, vedendo che il piede della donna fosse storto.
“È fratturato…” sospirò, prendendo una benda dallo zaino.
Martino guardava quella sconosciuta, mentre piangeva terrorizzata e dolorante. Era giovane, dai capelli neri d’ebano e la pelle candida, rosata sulle guance. Il corpo era gracile, gli occhi come il ghiaccio, le labbra rosee.
“Stai bene?” le domandò, con fare apprensivo. Le stringeva le mani, mentre quella faceva uno sforzo per sopportare il dolore alla caviglia. Marina, dal canto suo, cercava di essere quanto più rapida ed efficace possibile. A quella domanda, la donna abbassò lo sguardo, e sospirò. Pianse ancora, prima di cominciare a ricordare.
“È stato terribile…” sussurrò, con un filo di voce. “Ha ucciso tutte loro…” poi il pianto ebbe la meglio sul suo autocontrollo.
Quello la strinse al petto, cercando di farla sentire protetta. Sua sorella inarcò un sopracciglio, tirando fuori lo Styler dalla cintura.
“Noi siamo Ranger… Siamo specializzati in questo tipo di operazioni… Lei è Marina, mia sorella, e io mi chiamo Martino. Tu invece come ti chiami?”.
“Altea…” sussurrò quella, tremando nel rifugio creato dalle braccia forti dell’uomo. “E… e sono una delle Kimono Girl”.
“Lo avevo intuito. Vivi qui sull’isola?”.
“Martino...” interruppe Marina. “Farete conoscenza più tardi...” sospirò. Davanti a loro v’era il grande ingresso alla parte più interna dell’antro. Una forte corrente soffiava verso l’esterno, producendo un rumore tetro e sinistro, come fosse stato un lungo lamento trascinato lungo quei pavimenti rocciosi ed irregolari. Entrarono in quello che sembrava essere un corridoio infinito e buio, rischiarato da Pichu e dalla luce che emanava col suo Flash.
Poi ancora un lamento.
 
AIUTATEMI! VI PREGO!
 
Marina bloccò immediatamente i suoi passì. Mosse la testa verso Martino, incontrando gli occhi lucidi di Altea e mostrando sgomento. La Kimono Girl sospirò e annuì.
“Lo senti anche tu, vero?” chiese quest’ultima.
La Ranger annuì.
“Ma cosa?!” aveva esclamato invece Martino, irritato, mentre continuava a sostenere il gracile corpo della donna.
“La sua voce…” gli rispose la sorella. “Lui mi sta parlando”.
“In genere lo fa alle donne col kimono... ma è possibile che qualunque donne dal cuore buono riesca a sentirlo”.
Martino batté le palpebre un paio di volte e annuì. “E che dice?”.
“Ha bisogno di aiuto” dissero entrambe, all’unisono.
Martino sospirò e annuì. “Dobbiamo sbrigarci, allora”.
Aumentarono il passo, Martino caricò Altea sulla schiena, portandola a cavalcioni. Più s’avvicinavano alla propria meta e più il rumore dell’acqua che scrosciava aumentava, come anche il vento gelido che soffiava sui loro visi. Un sentore luminoso azzurro cominciava a espandersi da quella che credevano essere la fine del corridoio e poi, quando arrivarono lì, lo videro: l’uomo con gli occhi rossi e il suo Raikou nero.
Si guardarono.
Marina sobbalzò, vedendo quel grosso Pokémon in quelle vesti così strane. Il suo proprietario pareva poco sorpreso di vedere lì gli avventori; si limitò a girare la testa e a sospirare, più curioso che spaventato, nonostante fosse stato colto sul fatto.
“E voi chi sareste?” domandò quello, totalmente asettico.
Martino rimase immobile, fissando la scena che gli si era presentata davanti: Lugia era posto al centro d’una grossa sfera giallastra di pura energia, collegata direttamente a quello stranissimo Pokémon nero. Sembrava elettricità e stava letteralmente consumando il protettore dei mari, poco a poco.
“Ma cosa…” sussurrò Marina, aggrottando le sopracciglia. Alle spalle di Lugia vi era una grossa luce blu, emanata in ogni direzione. La donna si sporse per guardare oltre, vedendo un grosso altare accerchiato dallo scroscio di una cascata altissima.
“Cosa stai facendo a Lugia?!” domandò inorridita. Poggiò poi lo sguardo su quell’uomo: biondo, capelli ben pettinati e volto pulito. Sembrava uno di quei modelli che vedeva sui cartelloni della metropolitana. Bello. Ma aveva lo sguardo spalancato e le iridi rosse che puntavano su di lei.
“È lui...” sussurrò Altea, nascondendo il volto dietro la nuca di Martino. “È l’uomo che mi ha sconfitta”.
“Siamo Ranger della divisione regionale di Johto! E ti dichiariamo in arresto!” urlò la donna, stringendo lo Styler con vigore. Guardò poi l’uomo sorridere divertito, stretto in un lungo soprabito di pelle nera. Poggiò poi gli occhi su quello stranissimo Raikou.
“Ranger?” tuonò lui, leggermente divertito. “E che ci fareste qui?”
Quelle parole sbatterono contro il viso del ragazzo, schifato e terrorizzato contemporaneamente. Empatizzava con Lugia, quasi provava il suo dolore.
“Che cazzo gli stai facendo?” chiese, a denti stretti.
“Lo sto controllando. Sto facendo in modo che faccia ciò che voglio io”.
“E vedi di smetterla immediatamente!” urlò poi, come risvegliatosi. Poggiò delicatamente Altea sul pavimento e affiancò sua sorella. La cosa ringalluzzì Marina.
“Perché stai facendo questa cosa orribile? Quel Pokémon non ti ha fatto nulla” gli domandò.
Xavier sorrise. “Nessuno mi ha fatto qualcosa, amici miei. Sono semplicemente curioso”.
“Curioso?!” esclamò Martino, guardando sua sorella incredulo. “Lui è curioso...”.
“Già” annuì quello. “Sono uno scienziato e per me la comprensione degli eventi è tutto. Ecco perché è importante che controlli gli effetti della furia prolungata di questo meraviglioso Pokémon sulla società di oggi…”.
Marina lo sentiva parlare e intanto aveva preso il Pokégear, scattandogli una foto. Quello non parve essersene accorto.
“Rischi di ammazzare persone, in questo modo!” esclamò con forza Martino.
“Beh... Dei danni collaterali sono più che plausibili, all’interno di determinati contesti...” rifletté quello, con ancora sul volto quel ghigno divertito.
“La vita delle persone ha un valore!”.
“Non per me. Quello che conta è accrescere la consapevolezza di cosa succede attorno a noi”.
“A che scopo?! La conoscenza è un bene collettivo, di cui dovrebbero beneficiare tutti!”.
“Non sono così immorale come credete… Non più delle persone che hanno già sventrato questo posto, almeno...”.
Marina inarcò il sopracciglio destro e schiuse le labbra.
“Di cosa stai parlando?”.
Quello sorrise di nuovo. “Questa è una storia molto vecchia e lunga... ma mi siete simpatici e quindi ve la racconterò: tutto cominciò diversi millenni fa; esistono dei posti così simili a quelli che abitualmente frequentate ma così distanti da voi che neppure riuscireste ad immaginare. Trasposizioni dei nostri posti, dei nostri mondi... delle nostre persone, ma in una chiave di lettura differente. Certo, ognuno di noi è diverso, poche persone possono dire di assomigliarsi in tutto e per tutto ma in questo caso, differenti... chiamiamoli fattori... hanno contribuito a cambiare loro del tutto personalità e stile di vita. Alcuni di questi posti sono molto simili a quelli di questo universo ma diametralmente opposti nel concreto della propria essenza. E io questi posti li ho visti. E ne ho visti altri in cui la gente poteva apparire a proprio piacimento dove volesse…”
“Non sto capendo un’emerita mazza...” sussurrò Martino.
“Questo è un folle” sospirò Marina, stringendosi  a lui.
L’uomo mosse qualche altro passo in avanti.
“Queste persone erano in grado di viaggiare tra le varie versioni degli universi. Una cosa pazzesca, se ci pensiamo, no? Adesso tu, bella signorina, potresti viaggiare nel tempo e nello spazio come ti pare, muovendoti al di fuori dei limiti spaziotemporali e andando a finire, per esempio, in un universo dove la Terra è al posto di Marte o dove i nazisti hanno vinto la seconda guerra mondiale. Potresti andare a finire, chessò, in un mondo dove il Medioevo non è mai terminato o dove vige una glaciazione perenne. Arceus è stato fantasioso nel ricreare questo sistema, quest’ordine, in cui ognuno può effettivamente esistere in luoghi infiniti senza neppure saperlo. E forse aveva anche pensato al fatto che qualcuno, in questi universi, sapesse del fatto di non essere l’unico a vivere, per esempio, a Edmund Elm Street, nell’appartamento al quarto piano, il numero sei. Quell’appartamento esiste e non esiste infinite volte ed è abitato e non abitato da un signore, che può essere il signor Richard, il signor Mark, o anche voi, miei cari fratelli”.
“Come sai che siamo fratelli?!”.
“Vi conosco già. Non conosco voi ma ho conosciuto i vostri alter ego. I vostri doppleganger, ecco. Ho visto i vostri corpi imputridire al freddo dell’inverno di Oblivia, dove il fiato si gelava non appena uscito dalla bocca”.
“Continuo a non capire” riprese Martino. “Cosa c’entri tu con Lugia e questa situazione che ci stai dicendo?”.
“Mi avete bollato come immorale e voglio dimostrarvi che siete in errore. Io ho la mia morale. Non ho alcuna intenzione di parlarvi di me però, e vi ho detto anche d’essere più giusto delle persone che nei secoli hanno sventrato questo posto”.
“Ma chi?! Cosa è successo?!” s’irritò ancor di più Martino.
“Dietro di Lugia c’è un altare. Lo vedete?”.
Marina annuì, mentre suo fratello dovette sporgersi, adocchiando la costruzione marmorea che sembrava sorgere dalle acque della cascata. Era un’ara bianca, con su un bassorilievo ormai rovinato dall’acqua che mostrava le figure di quattro pietre e un cubo.
“Quello è l’altare sul quale veniva poggiato l’Arcan, un oggetto dai poteri incredibili, che è stato più volte trafugato. Ora è andato disperso, più o meno... ma il potere di questo strumento prevarica ogni umana concezione”.
“E... allora?!” chiesero in coro i due Ranger.
“E allora nulla, ragazzi. Allora siete destinati a sguazzare nella voluta ignoranza, nell’inconsapevolezza dei mezzi che avete a disposizione. Mi siete simpatici e non vi ucciderò. Ma vi lascerò questa bella gatta da pelare” sorrise.
Saltò agilmente in groppa a Raikou e sorrise, fissando con sguardo malizioso Marina.
“Arrivederci…”.
Poi Raikou ruggì, un lampo riempì i loro occhi e quell’uomo sparì.
Erano rimasti solo loro due, Altea e Lugia, che intanto urlava come se fosse impossessato. Il battito delle sue ali alzava una grande quantità di vento, schiacciando sui loro corpi i vestiti umidi.
“Calmati, Lugia! È andato via!” urlò Martino.
“Lascia parlare Marina!” ribadì Altea, alle sue spalle.
Il ragazzo si fermò e sospirò, guardando il volto impaurito di sua sorella; lei, dal canto suo, aveva davanti agli occhi un titano, un essere gigantesco e infuriato. Aveva le ali allargate e gli occhi spalancati. Piccoli capillari ricchi di sangue si diramavano dalle iridi viola. Sentirono un forte tuono rombare all’esterno della grotta, seguito poi da un altro e un altro ancora.
Il vento nella grotta non accennava a diminuire.
“Che diamine succede?! Marina, digli qualcosa!” esclamò il Ranger, preoccupato. Incontrò gli occhi impauriti della ragazza, schiariti dal bagliore bluastro che attraversava prepotente la cascata e s’espandeva finché moriva, stanco e sbiadito.
Lugia ruggì.
 
NON RESISTO PIÙ!
 
 “Stai calmo, Lugia! È finita!” urlò la Ranger. “Lo abbiamo cacciato, è andato via! Ora puoi tranquillizzarti!”.
 
FA MALE! FA TROPPO MALE!
 
E poi un enorme attacco Aerocolpo fuoriuscì dalle fauci del Pokémon, che si alzò in volo e lanciò un altro incredibile urlo. L’eco s’espanse per la grotta, seguito da un tuono fortissimo.
“Stai attenta!” urlò Martino, correndo verso la sorella e spingendola, evitandole in parte la grande bomba d’aria lanciata dal Pokémon. Quella fu colpita leggermente alla coscia destra, roteando sul proprio asse, in aria, e rovinando con violenza per terra.
“Dannazione...”.
 
DEVE… SMETTERLA! DEVE SMETTERLA!
 
“Di fare cosa?!” urlava Marina, rimettendosi in piedi. Si voltò e spostò i capelli dal viso, guardando suo fratello aiutare Altea a mettersi al sicuro. “Martino!” urlò poi. “Dobbiamo acquisirlo con lo Styler!”. Quello sorrise, dando le spalle alla Kimono Girl.
“Non avevamo abbastanza pensieri per la testa, vero?”.
“Che dovremmo fare, altrimenti?!” indietreggiò l’altra, tenendo sempre lo sguardo sul Pokémon che intanto s’alzava in volo. “Non possiamo permettere che vada in giro per Johto a seminare il panico!”.
Martino sbuffò, correndo di nuovo al centro della grande riva di quel lago sotterraneo. “Andiamo!” urlò vedendo partire il sensore dell’apparecchio d’acquisizione di sua sorella. “Ora tocca a me!”. Si frappose tra Lugia e sua sorella e si abbassò sulle gambe. “Dobbiamo cercare di circoscrivere i suoi movimenti e...”.
Idropompa.
“Attento!” urlò Altea, con lo sguardo terrorizzato. La grande colonna d’acqua si schiantò proprio in corrispondenza della posizione di Martino che, se non altro, era riuscito a dribblare l’attacco verso destra.
“Odio uscire di casa...” sospirò il Ranger, facendo leva sulle braccia e risollevandosi in piedi.
Marina continuava a far girare la trottola attorno al Pokémon, ancora in volo, ancora generatore di quel vento terribile.
“Cerca di calmarti!” gli urlò quella, per timore che il rumore della folata coprisse la sua voce. “Siamo qui per aiutarti!”.
 
IL DOLORE! IL DOLORE È TROPPO!
 
E partì un altro Aerocolpo, che si abbatté parecchio vicino allo Styler, facendolo sbalzare ed annullando la sequenza d’acquisizione.
“Oh, dannazione!” si lamentò il Ranger. “Non posso continuare a fare da bersaglio umano ancora per molto! Avevo voglia di mettere le cose a posto nella mia vita, di sistemarmi! Non voglio morire qui dentro!”.
“Ricominciamo l’acquisizione!”.
E così la trottola partì di nuovo.
Martino era basso sulle ginocchia, cercando di calcolare la mossa successiva. Valutava le sue possibilità e aveva compreso che non aveva molte chance di uscire da quella grotta sulle sue gambe se non avesse realmente aumentato le probabilità di acquisizione, aiutando sua sorella. Anche perché quello era Lugia, non un Pokémon qualsiasi.
Non che non avessero mai fronteggiato dei Pokémon leggendari. Aveva avuto per mesi gli incubi riguardo il terrore che aveva provato, quando a Hoenn Rayquaza aveva colpito Marina.
Vederla inerme per terra fu terribile, dato che si era posto sempre come primo obiettivo la protezione e l’incolumità di sua sorella.
“Forse potrei attaccarlo con Pichu” ragionò lui.
“Non farlo!” replicò velocemente Marina. “Sta già soffrendo abbastanza!”.
Un nuovo attacco Idropompa s’abbatté violento contro Martino, che indietreggiò prima di essere colpito dal rimbalzo dell’acqua; rovinò velocemente indietro, ruzzolando di qualche metro, più vicino ad Altea che a Marina.
“Dimmi che stai bene” chiese in lacrime la moretta dagli occhi limpidi.
Martino si risollevò, sporco di polvere e fango. Sputò per terra un po’ di sangue e sbuffò. “Alla perfezione. Tu?”.
Non aveva evidentemente colto l’ilarità di Martino, perché non accennò neppure un minimo sorriso.
Il vento continuava ad aumentare.
“Pichu! Aiutami con Flash!” esclamò poi. Il Pokémon eseguì nel preciso istante in cui il display dello Styler segnava chiaramente che avesse ancora da compiere sessanta giri.
Flash lo avrebbe inibito per qualche secondo e gli avrebbe lasciato guadagnare una decina di giri, ma rimanevano comunque altri cinquanta rotazioni in cui quel dannatissimo puntatore non doveva staccarsi da terra.
E Lugia sembrava averlo adocchiato.
“Me, Lugia! Guarda me!” urlava Martino, lanciandogli un sassolino sul capo. Quello si voltò immediatamente e ruggì.
 
 LASCIAMI  STARE! 
 
“Attento! È furioso con te!” allertò la sorella. Videro poi l’enorme Pokémon battere velocemente le ali e caricare una sfera d’energia dalla bocca.
Iper Raggio... Marina, è il caso di accelerare...” rimbeccò velocemente quello, stringendo i denti.
“Stai attento!”.
Martino non s’era chiesto come avrebbe fatto ad evitare un fascio d’energia veloce come la luce. Tuttavia Altea sì.
S’alzò rapidamente in piedi e zoppicò fino a raggiungere il Ranger. Poi mise in campo il suo Pokémon.
“Vaporeon! Protezione!”.
La voce della donna si espanse lungo la volta della grotta e raggiunse anche le orecchie di Marina, che intanto teneva d’occhio lo Styler. “Ancora venticinque giri. Resisti...” sussurrò.
La forza dell’attacco del Pokémon leggendario fu terribile: il fascio luminoso fu così accecante da costringere tutti a stringere gli occhi. Tutti meno che Vaporeon, ben piantato sulle quattro zampe, che riuscì a creare una barriera protettiva qualche attimo prima che l’attacco si schiantasse contro di loro.
Martino cadde indietro, per lo spavento; stava iperventilando, affondando le dita nel fango e scivolando ancor più indietro, inconsciamente diretto verso l’uscita.
“Cazzo!” urlava.
“Dovresti proteggerti” lo rimproverò Altea.
“Manca poco!” urlò invece l’altra.
 
Tre.
 
Due.
 
Uno.
 
Lo Styler s’illuminò per qualche secondo, prima di fermarsi e venire raccolto da Marina.
Il vento si calmò.
 
AIUTAMI… TI PREGO…
 
Altea si voltò verso la Ranger e annuì.
“Parla con te…” disse.
Marina spalancò gli occhi. “Siamo qui per questo” fece, e poi sorrise dolcemente.
 
DIETRO… DIETRO DI ME…
 
L’enorme Pokémon s’abbassò, allargando le ali e permettendo a Marina di salirgli in groppa. Per Martino fu come vedere l’abbassamento d’un grosso ponte levatoio, dalle dimensioni imponenti.
“Dietro le ali?” chiese la donna al Pokémon.
 
SÌ… LO HA INFILATO QUELL’UOMO…
 
Marina poggiò delicatamente la mano sul piumaggio candido del Pokémon; lì era sporco di sangue. Saggiò con i polpastrelli la superficie regolare, carezzando la base delle ali e poi in mezzo, dove qualcosa di metallico spuntava tra le penne.
Era stato infilato nel corpo del Pokémon.
“Hai qualcosa qui. Adesso cerco di estrarlo e dopo provvederemo a medicarti. Potrebbe essere necessario andare in un Centro Pokémon e...”.
 
NON CE NE SARÀ BISOGNO. MA TU AIUTAMI…
 
“Sì, sono qui per questo, tranquillo”.
Prese dalla borsa le garze e i tamponi d’ovatta. Poi afferrò la testa di quell’oggetto di metallo e, facendo pressione sulla schiena del Pokémon con l’altra mano, lo estrasse, rimanendo per qualche secondo a fissarlo: pareva essere una strana sonda, con l’estremità inferiore appuntita e quella superiore più larga, appiattita, con una sorta di videocamera all’interno. Piccoli artigli fuoriuscivano lungo l’intero telaio metallico, atti a rimanere arpionati alla carne dell’ospite.
Una volta tirato fuori il Pokémon spalancò le ali e s’alzò in volo. Marina sobbalzò, impaurita.
 
STAI TRANQUILLA.
 
E poi vide la grande ferita rimarginarsi come per magia. Il sangue impregnava ancora il piumaggio candido ma i lembi aperti della carne parvero non essersi mai separati.
“Co… Come…”.
Il volto della donna, dapprima sconvolto, fu colorato da un sorriso.
“Sei incredibile…”.
 
COSA VI HA PORTATI QUI?
 
Marina annuì.
“Fuori piove da ormai troppo tempo, ed è colpa della tua furia. Le cose devono tornare al loro flusso regolare”.
Lugia parve capire immediatamente e, quasi subito, il rumore della pioggia che batteva all’esterno della grotta si calmò.
 
TRA POCO SARÀ TUTTO A POSTO…
 
La donna scivolò lentamente verso il pavimento, aiutata poi da suo fratello.
“Non ci ho capito nulla” fece lui, portando le mani ai fianchi. Si voltò quindi versò Altea, e annuì, come ricordandosi di qualcosa di importante.
Poi le si avvicinò.
“La pioggia si è calmata” osservò quell’ultima, col volto ancora scosso. “Ce l’avete fatta…”.
Martino si abbassò, facendola salire a cavalcioni.
“Dobbiamo portare lei e le altre donne col kimono all’ospedale al più presto”.
 
 
Kanto, Aranciopoli, Banca Centrale
 
“Che sta succedendo?! Ragazzi! Dove siete?!”
 
Sandra stava per perdere conoscenza; stringeva la mano destra di Gold e con la sinistra gli carezzava i capelli dietro la nuca. Gli aveva ripetuto che sarebbe andato tutto nel modo giusto e che avrebbe dovuto resistere, altrimenti avrebbe trovato il modo per distruggergli la vita anche da morto. Lui aveva sorriso, aveva bofonchiato qualcosa e mano a mano il suo corpo era diventato sempre più pesante.
Quando sentì la voce di Red, Sandra spalancò gli occhi, stringendo al petto il volto di Gold.
“Siamo qui!” urlò, sentendo la propria voce rinchiusa nelle lamiere.
I passi dell’uomo anticiparono quelli di decine di persone. L’ex Campione si voltò in direzione di quelle, dicendo loro di stare attenti.
“Siamo qui!” ripeté Sandra, cominciando a iperventilare. “Qui c’è Gold! Ha una cosa nella schiena!”.
“Cosa?!” sentì. “Dove siete?!”.
“Non lo so! Ma state attenti!”.
Se spostiamo tutto senza fare attenzione rischiamo di ferirlo ancora di più…” aveva ragionato quello che sembrava essere Silver.
“Fate presto!” urlò ancora quella, sentendo il respiro di Gold diventare sempre più greve.
I ragazzi cominciarono a levare le macerie più pesanti. Sandra sentiva il ragazzo imprecare a ogni sollecitazione.
“Avete un futuro da dentisti...” sussurrò quello.
“Ti sembra il momento di scherzare?!”.
Quello alzò gli occhi e la guardò. “Sono steso su di te ed ho le tue tette a quattro centimetri dal volto... vuoi davvero parlare di momenti per fare cose?”.
Quella sbuffò e alzò lo sguardo, quando una grossa lamiera fu spostata e consegnò un corridoio di luce e aria pulita ai due.
“Piano...” sussurrò quello.
 
Lentamente sollevarono tutte le lamiere. Tutte tranne una.
 
“Gold... dannazione...”.
Era la voce di Yellow, quella a essere preoccupata: aveva visto un angolo della lamiera, piegato durante lo schianto, conficcato al centro della schiena del ragazzo.
Sandra guardava il volto preoccupato di Blue e quello serio di Green, mentre stava stesa con la testa nella polvere sporca di sangue. Poi sentì la testa del ragazzo abbandonarsi su di lei.
“Veloci! Cazzo, veloci!”.

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 - Cuore Puro ***


13. Cuore Puro


 
 
Kanto, Aranciopoli, Ospedale Civile
 
L’angoscia divorava ogni cosa.
Green era in piedi con le mani nelle tasche, davanti alla finestra, guardava oltre il vetro, dove la tempesta aveva cessato la sua furia. Silver era poggiato con la schiena al muro, le braccia incrociate e indossava l’espressione peggiore che avesse. Guardava Sandra, seduta su di una fredda panca d’acciaio, con la testa fra le mani e gli occhi chiusi. Il bip dell’elettrocardiogramma scandiva pause che la stanchezza mostrava infinite; ogni vuoto diventava un profondo fossato da cui riuscivano a vedere la luce un secondo sì e uno no, a intermittenza.
Gold era vivo però, e tanto bastava.
Bastava soprattutto a lei, che l’aveva visto quasi morire, stringendolo a sé. Nonostante non lo avesse mai stimato, nonostante fosse l’ultima persona che avrebbe voluto come partner, quel giorno, non poteva negare a se stessa che il cuore del ragazzo fosse limpido. Cuore puro, anima buona; se non fosse stato per Gold, che aveva sovrastata e protetta dal crollo, forse Sandra sarebbe morta. Se ne rese conto, spostò un ciuffo ceruleo dal volto e slacciò il mantello dalle spalle. Nonostante quella stanza d’ospedale fosse riscaldata, tutto quel bianco le dava un senso di freddo non indifferente. Inoltre la compagnia non brillava per simpatia ed estroversione.
Un po’ come lei, immobile. Alzò lo sguardo e vide il sole sbucare dalle nuvole, poi poggiò gli occhi sugli altri due: Silver guardava in maniera spasmodica il volto del ragazzo, in attesa che riaprisse gli occhi, mentre Green aveva appena preso a camminare nervosamente davanti al letto, sospirando in maniera profonda e cercando di assimilare tutti gli eventi che erano capitati.
“Ripetimi quello che è successo” tuonò.
Quella si era voltata, annuendo, rassegnatasi al fatto che avrebbe dovuto raccontare quella storia per molte, molte altre volte.
“Allora… Eravamo all’interno del palazzo, siamo scesi dagli uffici e abbiamo trovato dei nemici in mimetica grigia...”.
“Come quelli che erano all’esterno dell’edificio, va bene”.
“E poi siamo riusciti ad arginare un grosso agguato proprio davanti agli ingressi... Gold è stato molto intelligente ad usare Sudo... bo..., o come si chiama, per... insomma, per limitare i loro movimenti”. Sospirò, poi sbuffò, aveva sonno e fame. Continuò. “Li abbiamo cacciati e siamo entrati nel caveau. Lui è arrivato dopo di me, per fare una telefonata e...”.
“Chi ha chiamato?” domandò Green, fissando la Capopalestra d’Ebanopoli dritto negli occhi.
“Non lo so. Forse Marina”.
“Marina, dici?”.
“No. Dico che forse ha parlato con Marina…”.
Green annuì. “Procedi”.
“C’era questa donna…” diceva lei “... del tutto identica a me. I miei occhi, lo stesso colore dei miei capelli, la stessa faccia, lo stesso corpo. Era soltanto più magra, più sciupata. Però ero io, te lo assicuro. Aveva anche lei un Kingdra”.
“Eri tu?” domandò Green, aggrottando lo sguardo.
“Quella ero io, sicuramente” annuì lei.
“E poi?”.
Sandra si voltò e guardò il viso di Gold, rilassato ed impassibile. “E poi l’abbiamo provocata a parole. Lei era lì per rubare denaro e oro ma sembrava essere stata totalmente coinvolta da ciò che dicevamo, tanto da essersi infuriata. Con quello strano Charizard ha distrutto tutto”.
“Questa è la parte che non capisco” ribatté Silver. “Cosa intendi per strano Charizard?”.
“Già” annuì Green. “E per esplodere”.
Sandra fece spallucce, poggiandosi sul davanzale della finestra. “Era nero. Non uno di quelli cromatici, quelli li conosco. Era totalmente nero, anche la fiamma sulla sua coda. Solo gli occhi erano rossi e accesi...”.
“L’energia è fuoriuscita da Charizard?” chiese Green, grattandosi il mento.
“Sì! Tutto a un tratto un calore enorme ci ha investiti e non siamo stati più in grado di vedere niente. Poi ogni cosa è crollata. Gold si è buttato su di me, cercando di salvarmi, ma nel farlo…” sbuffò ancora. Sentiva le lacrime premere per uscire. “… è rimasto ferito da una delle lamiere…”.
“Il medico…” interruppe Silver, continuando a fissare l’elettrocardiogramma “... ha detto che è stata interessata buona parte della colonna vertebrale durante il crollo. Gold potrebbe esser rimasto paralizzato”.
“Dobbiamo aspettare che si svegli, per esserne certi, Silver. Ciò che è sicuro è che senza di lui saresti potuta morire” concluse l’altro, guardando Sandra, che annuì, stretta nel suo abbraccio.
“Lo so benissimo… mi ha salvata. La cosa che però non capisco è come possa essere stato possibile che, dopo quella folle esplosione, quella donna sia riuscita lo stesso nel rubare ogni cosa”.
Silver fece spallucce e Green sospirò. “Questa cosa mi sembra un’impresa. Una cosa davvero difficile da mettere in pratica” disse l’ultimo.
“Un po’ come è successo a Libecciopoli” ribatté il rosso.
Sandra li guardò, prima che la porta si spalancasse.
 
“GOLD! CAZZO, GOLD!”.
 
Marina entrò velocemente nella stanza, con le lacrime agli occhi e il trucco sciolto sul viso. Aveva ancora capelli e vestiti bagnati. Gettò l’attrezzatura sul pavimento e si fiondò sul suo uomo, afferrandogli le mani, attenta a non staccare alcun sensore. Cominciò a piangere quasi subito, affondando il viso nelle lenzuola e cominciando a urlare disperata.
Green le si avvicinò, stringendola la spalla.
“Calmati… non urlare” fece.
“Che è successo?!” sbraitò. Gli occhi della Ranger si poggiarono sull’elettrocardiogramma e sullo snervante procedere della sua linea. Il cuore di Gold batteva lentamente.
Sandra guardava il volto distrutto della donna e sospirò, sentendosi colpevole.
“Mi spiace”.
Marina parve non sentirla. Forse avrebbe dovuto ripetere anche a lei come fossero andate le cose ma non voleva ferirla ulteriormente quindi preferì rimanere nell’angolo, a guardare quel dolore così liquido fluire verso l’esterno, bagnarle di lacrime il volto e stringere come una morsa gli stomaci dei presenti.
“Che cazzo hai fatto?!” urlava al proprio uomo,  inginocchiata accanto al letto mentre gli stringeva la mano.
“Marina...” disse Green, abbassando la testa. “Gold non è morto ma... ma nulla, lasciamo perdere. Ora sta riposando”. Omise la parte in cui Gold sarebbe potuto rimanere fermo su di una sedia a rotelle, cercando di non caricare la donna d’ulteriori ansie. Quella annuì, si sollevò leggermente e strinse con vigore la mano fredda del suo uomo.
“Non mo-morirà, v-vero?” chiese, con un filo di voce. Pulì poi le lacrime dal viso con l’avambraccio.
“No… ce la farà sicuramente” rispose il capo dell’Osservatorio, stanco. Guardò poi fuori, oltre la finestra, annuendo. “Alla fine ce l’avete fatta...”.
Lei fece cenno di sì, tenendo sempre sott’occhio il viso di Gold e continuando a stringergli la mano. “Era Lugia...” fece, spostando i capelli dal volto. Tossì ed annuì, come per darsi la forza di continuare.
“La sua furia può creare tempeste lunghe quaranta giorni” osservò Silver.
“Già. Difatti era infuriato. Questo perché aveva una sorta di sonda tra le ali che lo feriva”.
Green inarcò le sopracciglia e sbatté le palpebre un paio di volte. “Prego?!”.
“Una sonda tra le ali. Che lo feriva”.
“E voi avete...”.
“Gliel’ho estratta io, personalmente”.
“Ed ora dov’è, quest’aggeggio?”.
“Ce l’ha Martino…” sospirò, trattenendo le lacrime. Poi deglutì e continuò. “È nella sala d’aspetto con l’unica tra le Kimono Girl rimaste ancora in vita”.
Silver annuì e guardò Green immobile, confuso.
“Non... non capisco”.
Quella si alzò da terra, continuando a stringere la mano di Gold. “Sì. Un uomo utilizzava questa sonda per rilasciare scariche di... non lo so, forse elettricità...” faceva.
“Un uomo?!” sobbalzarono i due uomini, all’unisono.
“Sì... Gold mi ha suggerito di scattargli una fotografia”.
“Hai una sua foto?!” esclamò Green, avvicinandosi subito a lei. La vide annuire, per poi allontanarsi a prendere il Pokégear e mostrare al ragazzo l’immagine. Silver accorse accanto a lui rapidamente, prima di spalancare gli occhi.
“Non ci posso credere...” sussurrò: occhi rossi e capelli biondi, l’uomo era intento a parlare e non s’era reso conto del fatto che Marina gli avesse scattato una fotografia.
Green non riusciva a capacitarsi del fatto che quello fosse identico in toto a Xavier Solomon. Guardò Silver, che si limitò ad annuire e quindi si voltò, uscendo di fretta dalla stanza. Rimasero in tre, con l’uomo dai capelli rossi ancora scosso e Sandra che non afferrava bene la situazione.
Sbuffò, lui. Guardò Gold e poi tornò a focalizzarsi su Marina.
“Ora devo andare, ma tornerò presto… Stagli accanto. Chiamerò Crystal per permetterti di andare a fare una doccia e cambiarti”.
Fece rapidamente cenno di no, quella. “Non è necessario… Non mi muoverò di qui”.
Silver si limitò ad annuire, e ad andare via. Era sola con Sandra, che intanto guardava il viso di Gold, immobile. Il silenzio stava divorando anche l’ultimo briciolo di tranquillità, aggredito a intermittenza per via del macchinario, lamentoso e irregolare. Le mani di Marina tremavano come foglie secche, mentre si riavvicinavano a quelle del suo ragazzo.
“Siediti” le disse, avvicinandole la sedia che aveva accanto. Quella annuì, e subito dopo eseguì. Sandra le poggiò il pesante mantello sulle spalle, avvolgendola per bene.
“Sei tutta bagnata” osservò. “Spero che possa riscaldarti un po’...”.
La Ranger la guardò negli occhi ed annuì.
“Ti ringrazio”.
“Non serve che mi ringrazi...” disse. Poi guardò Gold, sospirando. “Gli devo la vita. Gliela dovrò per sempre…”.
Marina conosceva alla perfezione la lista di persone a cui Gold non stava simpatico, e Sandra ne era probabilmente in cima, tuttavia rimase profondamente colpita dalle sue parole: spostò la sua attenzione sulla donna e schiuse le labbra, lentamente.
“In che senso?”.
Sandra sospirò, per un lunghissimo secondo, sperando che quell’aria viziata le infondesse un po’ di coraggio.
“Lui mi ha salvato la vita... Ha fatto quel che ha fatto e ora è qui perché è stato infilzato da una lamiera al mio posto”.
Marina spalancò gli occhi, aggrottando la fronte. Le labbra si schiusero automaticamente. “Ti ha... ti ha salvato la vita?”.
“Sì...” annuì la Capopalestra di Ebanopoli. “Eravamo in banca per sventare una rapina”.
L’altra ricordò i messaggi. Cominciò a collegare.
“Il fatto è che erano davvero in troppi… Stavamo per morire, il nemico era molto più forte di noi e…” sorrise poi, Sandra, voltandosi a guardarlo. “Beh, lui ha aiutato a mettere in sicurezza decine e decine di persone, e ha usato l’intelligenza per sconfiggere altrettanti avversari…
“Sembra un cretino, ma in realtà è sveglio…”.
La vide poi sorridere. “Il cuore del tuo uomo è limpido e questa cosa mi ha permesso di rivalutarlo. Spero vivamente che si rimetta, perché gli devo molto”.
Marina rimase immobile, senza sapere bene cosa dire e pensare, quindi si voltò a guardare il ragazzo.
Si voltò a guardare l’eroe.
 
 
Johto, Amarantopoli, Casa di Xavier Solomon
 
Il sole era ritornato a splendere debole sull’umida Amarantopoli quando Xavier aveva deciso di smettere di lavorare. Aveva bisogno di una doccia rigenerante, motivo per cui aprì l’acqua nella doccia ed entrò nella sua camera; lì prese un boxer e una maglietta intima, almeno prima di sospirare e guardarsi allo specchio. Fissò il suo volto, che ormai cominciava a sentire il peso del tempo; notava quelle piccole rughette d’espressione sulle guance quando sorrideva.
Lo fece anche in quel momento, toccando quei solchi d’esperienza sul volto. Poi tese solo la guancia sinistra, notando anche piccole pieghe accanto all’occhio.
Non voleva invecchiare. Non prima di aver fatto quello che doveva. Sospirò e guardò a sinistra, come attirato dall’angolo in basso dell’armadio.
Era aperto, leggermente. Sospirò e scosse dalla testa la malsana idea che qualcosa fosse potuto entrarci mentre non vedeva e levò il maglione beige, rimanendo poi a torso nudo. Magro, lui, con una leggera peluria tra i pettorali, bionda, come i suoi capelli. Grattò il mento, pensando che avrebbe dovuto radersi e che Cindy lo avesse visto disordinato in viso. Gli occhi celesti si persero nel ricordo delle labbra morbide della donna, rosse come il rossetto che utilizzava. Ci ripensò, poi chiuse le palpebre, pensando al suo volto. Ricordava quel bacio di quasi dieci anni prima, sentendo ancora i loro corpi ancora che aderivano l’uno contro l’altro.
Controllava la voglia di toccarla, lui, carezzandole il collo ad occhi chiusi e stringendole la vita. Sentiva sotto il naso il profumo dei suoi capelli.
E poi, quando riaprì gli le palpebre, la vide accanto a lui. Era ovviamente lei, la fissava in maniera vuota attraverso l’immagine opaca di quello specchio appartenuto anni prima a suo padre.
“Mi guardi così?” domandò lui, quasi sorridendo. Si voltò, prendendo le ciabatte e poi tornò a guardarla. “Mi fissi con quello sguardo assente? La verità è che dietro quello sguardo non c’è niente…” sussurrò, colpevolizzandola.
Lei continuava a guardarlo. Faceva cenno di no con la testa e gli poggiava una mano sulla spalla destra.
 “Non è così…” aveva risposto, mostrando dispiacere. Xavier sospirò e la vide allontanarsi, fino a quando non rinvenne.
Dormiva, chissà da quanto tempo, mentre lo scroscio dell’acqua nella doccia non si arrestava.
“Dannazione…” sospirò, sollevandosi e mettendosi a sedere. Fissò la porta dell’armadio, perfettamente chiusa, e quindi lo specchio.
Era solo.
Fece cenno di no, poi sospirò e allungò la mano verso il terzo cassetto del comodino, accanto al letto, prendendo un blister di pillole. Staccò un paio di compresse e le infilò in bocca, prima di spegnere le luci ed entrare nel bagno.
 
La doccia fu veloce e calda, rilassante e rigenerante allo stesso tempo. Pensava a dei possibili sviluppi dell’utilizzo delle energie rinnovabili in ambiti insoliti quando qualcuno suonò alla sua porta.
Infilò l’accappatoio e le ciabatte per poi scendere al piano inferiore e quando aprì la porta vi trovò un uomo dai capelli brizzolati che indossava un impermeabile beige ad attendere; manteneva tra le mani una Glock e un paio di manette.
“Xavier Solomon, la dichiaro in arresto con l’accusa di terrorismo ambientale e omicidio doloso plurimo. Ha il diritto di rimanere in silenzio e tutto il resto, avrà visto almeno un film dove i poliziotti arrestano in cattivi, no?”.

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 - Alibi ***


14. Alibi
 
 
 
Cielo di Johto, Base Dirigibile della Polizia Internazionale
 
“Voglio telefonare al mio avvocato!”.
La voce di Xavier rimbombava pesantemente all’interno della sala degli interrogatori, in cui era stato chiuso. Nascosti da un vetro a specchio, Bellocchio e Green lo guardavano camminare freneticamente attorno al tavolo, nella restrizione psicofisica che quella camera imponeva.
“Dovremmo aspettare che si calmi, prima dell’interrogatorio” osservò Bellocchio.
“Non ha diritto a chiamare il suo avvocato?”.
“Certo. Ma prima voglio parlargli”.
L’agente speciale si voltò sulla sinistra e prese la sua tazza, color crema. “Vuoi un caffè?”.
“Sono a stomaco vuoto da ieri a pranzo, credo farebbe solo danni…”.
“Se gradisci, posso farti portare qualcosa dalla cucina”.
“Sono a posto” sospirò Green. “Cerchiamo di perdere quanto meno tempo possibile, perché ho l’impressione che stiamo accendendo soltanto un fuoco di paglia…”.
Bellocchio mise la tazza sotto la macchinetta del caffè e annuì. “Questa storia è davvero strana, Oak...”.
“Lo so benissimo”.
“Insomma… doppleganger? Siamo seri?!”.
Ridacchiò quasi a sbeffeggiare se stesso, prendendo poi la tazza e sedendosi alle spalle di Green. Sorseggiò il caffè. Era caldo. Green, invece, andò ad appoggiarsi sul tavolo davanti alla vetrata, osservando Xavier Solomon.
“Il fatto è che la cosa non quadra…” fece.
“Uhm… Cosa? Doppleganger?”.
“Insomma…” disse Green, voltandosi verso di lui. “… quella a Libecciopoli era Fiammetta, ne siamo certi. Ma Fiammetta, quella che hai arrestato almeno, aveva un alibi e dei testimoni e quindi è stata scagionata. Allo stesso modo anche Sandra ha visto una donna del tutto identica a lei distruggere il caveau della banca ad Aranciopoli e sarà soltanto Gold, quando si sveglierà, a confermare il tutto. E anche con Xavier Solomon... all’inizio. Ci sono delle altre versioni di noi, magari anche di me e di te, che girano nel nostro mondo, e che sono legate a qualcosa di criminoso. Sono convinto che oggi Xavier si dimostrerà innocente, che riuscirà a darsi un alibi convincente ed uscirà da qui con le sue gambe”.
“Cadrebbe nel vuoto e si spiaccicherebbe per terra, Green” rispose Bellocchio, prendendo un altro sorso di caffè. L’altro sospirò e tornò a guardare avanti, fino a quando la porta alle loro spalle si aprì. Entrambi dirottarono il proprio sguardo verso Angelo, che salutò i due con un cenno del capo.
“Che ci fai qui?” domandò il Capopalestra di Smeraldopoli.
“Dovevo vedere personalmente Xavier” fece quest’ultimo, camminando in maniera elegante e leggera. Pareva quasi che fluttuasse.
“Ti stai accanendo troppo contro questo ragazzo…”.
Si voltò verso di lui, con lo sguardo sorpreso. “Lo hai visto tu, lo ha visto il Caporanger… Xavier Solomon è un terrorista”.
“Non è così, e lo sai. E quando Bellocchio finirà il caffè e andrà a interrogarlo avremo modo di confermarlo” fece, beccandosi lo sguardo torvo dell’uomo.
Angelo rimase in assoluto silenzio, vedendo Xavier sedersi, stanco e sconsolato.
“È arrivato il momento” sospirò il poliziotto, posando la tazza e alzandosi in piedi.
 
 
Adamanta, Primaluce, Corso Principale
 
Il sole stava calando.
Tramontava presto, in inverno.
Dopo innumerevoli giorni, la pioggia s’era fermata. Le nuvole che l’accompagnavano erano state allontanate da un vento gentile e l’orizzonte aveva colorato il cielo d’arancione. Zack teneva sua moglie per mano e camminava a testa alta, vedendo le automobili sporadiche illuminare coi fari le prime ombre di quella giornata. Faceva freddo ed entrambi erano ben stretti nei propri cappotti.
“Sai, pensavo che forse dovrei dipingere…” esordì Rachel, camminando più velocemente per mantenere il passo del suo uomo. Quello sorrise e annuì, continuando a guardare dritto.
“Credo sia davvero una buona idea”.
“Avevo pensato a un bel tramonto, come questo”.
“Perché non una bella donna con un ermellino tra le braccia?”.
“Su! Non mi sembra una cattiva idea!” esclamò quella, dandogli una leggera spinta e facendolo deragliare dal suo cammino. Sorrise e si voltò, perdendosi in quegli occhi azzurri come il cielo che li sovrastava, quello vicino alla notte scura che se lo stava accaparrando. La vide sorridere, saggiando con lo sguardo le belle labbra rovinate dal freddo.
“Tu puoi fare tutto, con quegli occhi” disse serio, fermandosi. Entrambi si specchiarono in una grossa pozzanghera proprio davanti al negozio d’alimentari di Primaluce, e poi proseguirono.
“Anche tu puoi, coi tuoi...” arrossì violentemente la donna. Zack la strinse più forte a sé e sospirò, prima di darle un bacio sulla fronte.
“Attila mi costringerà a portarla sulle spalle, al ritorno” cambiò discorso l’uomo.
Rachel rise di gusto. “Non chiamare così mia figlia!”.
“Mia figlia, vorrai dire. Fosse stata come te sarebbe rimasta a deprimersi in casa. Magari avrebbe disegnato qualcosa di originalissimo... chessò, un uomo deformato che urla su di un ponte...”.
“E finiscila!” esclamò ancora quella, sorridendo.
“No, sul serio, è la tua fotocopia col mio carattere”.
“Purtroppo”.
“Già... Però mi piace come sta venendo su”.
Rachel annuì, guardando in basso, senza vedere la gioia sul volto del suo uomo, che gl’illuminò lo sguardo smeraldino.
“Siete tutto ciò di cui abbia bisogno. Siete ciò che amo... Senza di voi non sarei altro che cenere”.
La donna sorrise lusingata e gli poggiò la testa sulla spalla, proseguendo quel centinaio di metri che rimaneva loro per raggiungere casa di Ryan.
 
 
Cielo di Johto, Base Dirigibile della Polizia Internazionale
 
Xavier vide entrare nella stanza quell’uomo col soprabito beige. Camminò lentamente, finendo per sistemarsi nella sedia di fronte a lui con la stessa flemma. L’indagato osservò i suoi occhi scuri, stanchi ma lo stesso determinati. Era perfettamente rasato e portava portando i capelli ben corti e pettinati, ordinato in ogni dettaglio. Non riusciva a celare il passare del tempo sul suo volto, infatti profonde rughe d’espressione s’arrampicavano dagli zigomi e dalle guance.
Incrociò le dita e prese a ruotare i pollici.
“Sai di cosa sei accusato?” chiese poi, dopo qualche secondo di silenzio.
Xavier, che era dritto e composto, coi capelli spettinati e gli occhi gonfi per il pianto, sospirò, cercando di tirar fuori ansia e paura.
“Terrorismo ambientale. Non ho neppure mai gettato una carta per terra però, quindi non capisco…”.
“Non capisci, eh? Facciamo allora che spiego io quello che hai fatto, ammettendo per assurdo che stessi distruggendo il pianeta perché eri ubriaco... ubriaco e troppo capace rispetto agli altri, comuni mortali”.
“Io non mi ubriaco. Ma ha ragione a dire che sono troppo capace per voi. Continui pure…” sospirò, abbassando la testa e afferrandola tra le mani.
Bellocchio sorrise e si grattò la guancia. “Io però non sono una persona comune… Comunque, ponendo per assurdo quello che dicevo, tu hai alzato un po’ troppo il gomito e ti sei recato nelle Isole Vorticose…”.
“Dicono che in questa stagione siano fantastiche...” sussurrò l’imputato.
Bellocchio sorrise. “Ti farò vedere posti meravigliosi dalla finestra della tua prigione, alla fine di questo interrogatorio, tranquillo. In ogni caso sei andato lì, hai ucciso quasi dieci donne, e dico quasi perché qualcuna deve ancora morire ma, fidati, morirà data la ferocia e la violenza delle tue azioni, e poi sei entrato nella sala di Lugia, così, per fargli del male...”.
Alzò poi il braccio e poggiò sul tavolo la grossa sonda di metallo che il Pokémon aveva impiantata tra le ali.
“... infilandogli questo nella schiena. Ora, non sono un animalista convinto, sia ben chiaro, mangio carne di ogni genere e pure con gusto e non m’interessa se il padrone d’un cane gli dà una scoppola col giornale ma Lugia... beh, quello andrebbe salvaguardato a prescindere. Se non altro perché quando si arrabbia poi si mette a piovere, e quando piove per due settimane rischi di ammazzare la gente, Xavier. Insomma, voglio sapere: numero uno, perché hai fatto tutto questo e, numero due, a cosa diamine serva questo aggeggio che Lugia aveva tra le ali. Prima parlerai e prima ti faremo uscire di galera, ammesso che tu n’esca mai...”.
“Non stava ponendo per assurdo?”.
“Che ti ubriacassi, intendevo. Ma tu non ti ubriachi”.
Xavier ridacchiò e allungò la mano, per analizzare l’oggetto di metallo che Bellocchio aveva poggiato sul tavolo, ma vide il poliziotto ritirarlo immediatamente.
“Stai. Fermo. Lì” fece, ponendo una breve pausa tra le tre parole. “Non so come funzioni quest’aggeggio e non voglio che tu possa usarlo contro di me. Quindi saluta da lontano”.
“Ma... ma io non so minimamente cosa diavolo sia!”.
“Però sei stato fotografato lì, sul posto”.
“Ma non so nulla!”.
Bellocchio sospirò e mostrò all’uomo una fotografia stampata su carta lucida. La spinse sul tavolo verso di lui.
“A-ancora quest’uomo! Io vi giuro di non aver fatto nulla! Devo sentire assolutamente il mio avvocato!”.
“Lei mi deve prima spiegare chi è quest’uomo” riprese Bellocchio.
Xavier scattò in piedi, con gli occhi spalancati, scaraventando la sedia contro il muro. “Non parlerò senza il mio avvocato!” urlò di nuovo.
Bellocchio sospirò e si voltò, guardando il vetro a specchio alle sue spalle come se vedesse uno tra Green e Angelo. Poi tornò a poggiare gli occhi sull’uomo che aveva davanti.
Era disperato.
“Va bene. Questo è un suo diritto. Ma non mi dà sensazioni migliori sulla sua innocenza il fatto che non possa dimostrarmela senza uno specialista”.
 
 
Johto, Olivinopoli, Faro
 
Il sole era ormai tramontato e il cielo era diventato blu petrolio quando Jasmine si risvegliò. C’era ancora un po’ di visibilità ma era necessario che accendesse la luce del faro, altrimenti le navi sarebbero andate a sbattere contro la scogliera Si liberò dalla stretta di Corrado e, delicatamente, mosse leggeri passi verso la consolle d’attivazione. Pochi secondi dopo che la luce fu accesa il suo animo s’alleggerì; aveva fatto il suo dovere, avrebbe dovuto solamente monitorare la situazione. Sciolse i capelli e zampettò velocemente fino al piano superiore, dove Corrado ancora dormiva, seduto sul divano, con la schiena sul bracciolo destro e la testa sullo schienale. Jasmine si inserì nuovamente nell’incavo che il suo corpo aveva creato appositamente per lei, tra le sue braccia e le sue gambe, poggiando la schiena contro il suo petto e facendolo svegliare.
Quello rinvenne immediatamente, guardando il forte fascio di luce partire dal faro e gettarsi lontano, al largo delle coste di Johto.
“Piccola...” fece quello, sospirando e sistemandosi. Aveva dormito per un’oretta circa in quella posizione scomodissima e gli facevano male schiena e collo. Lei si voltò e gli sorrise dolcemente, allungandosi per baciarlo.
“Scusa se ti ho svegliato ma mi sono addormentata e ho ritardato di qualche minuto l’accensione del faro”.
“Non dovrebbe essere automatico?”.
“Sì, ma il timer è rotto e dalla federazione ritardano la sostituzione, quindi sono costretta a farlo io”.
Corrado sospirò.
“Qui le cose funzionano in maniera strana...”.
Jasmine fece spallucce e sistemò i ciuffi che aveva davanti al volto dietro le orecchie.
“Fa parecchio freddo, oggi” sospirò, cambiando discorso. Si strinse meglio nella coperta e si voltò, baciando nuovamente il suo uomo silenzioso.
 
 
Cielo di Johto, Base Dirigibile della Polizia Internazionale
 
Erano passate tre ore dall’ultima volta che Xavier aveva aperto la bocca e, dopo che Bellocchio aveva lasciato la sala interrogatori, era rimasto in completa e totale solitudine.
La stanza era totalmente buia, se non per un piccolo tubo al neon sulla sua testa, che illuminava poco e nulla. Il ragazzo aveva il volto sul tavolo e pensava e ripensava a ciò che stava succedendo nella sua vita, sconvolta di lì a qualche tempo da quello strano personaggio che indossava la sua faccia ma non lo stesso sguardo. L’ansia gli cresceva nel petto, qualcosa spingeva nella sua cassa toracica per uscire. Pensava al suo lavoro, ai suoi obiettivi e al fatto che era davvero, davvero troppo tempo che non si divertiva. Aveva vissuto una vita intera nel disperato tentativo di raggiungere i suoi scopi, di vivere una vita normale nonostante le tracce di paura sempre presenti nella sua malsana psicologia.
Aveva odiato l’umanità, poi l’aveva riaccettata e successivamente l’aveva rinnegata, salvando solamente Cindy dall’opinione generale che aveva delle persone. Poi, col tempo, l’aveva rigettata nella mischia: tutti squali, tutti stupidi. Tutte puttane e idioti troppo annebbiati dall’illusione per accorgersi della reale grandezza dell’universo in cui vivevano.
Pensò per un attimo al volto sporco di cerone della donna che lo aveva salvato, da ragazzino; a quello meraviglioso di sua madre, stretta nell’abbraccio di suo padre. Gli sovvenne per un istante quello di Cindy ma fu subito affiancato da quello di Angelo e quindi riaprì gli occhi, proprio quando la porta della sala cigolò, aprendosi.
“Oliver...” sospirò Xavier, gettando lo sguardo stanco sul completo grigio del suo avvocato. Capelli pettinati verso destra, sguardo sicuro e cravatta blu. Poggiò la valigetta sul tavolo e si sedette.
“Buongiorno Xavier. Che cazzo è successo?” chiese con calma irreale, mantenendo gli occhi fissi su di lui. Questi erano verdi, di quella tonalità che quasi si tuffava nel marrone. Puntavano il celeste delle iridi del suo cliente.
Si conoscevano da parecchio tempo; l’avvocato Jackson aveva curato l’intera creazione della società dell’inventore e gestiva per lui le trattative di vendita dei brevetti.
“Mi vogliono incriminare di omicidio e terrorismo ambientale”.
Oliver inclinò la testa verso sinistra e guardò le telecamere, con la luce di registrazione spenta.
“Sei un terrorista ambientale e hai ucciso qualcuno?”.
“No! Ma ti pare?!” urlò quello, giustificatamente nervoso.
“Figurati, ecco perché sono sorpreso da questa cosa...”.
“Mi hanno accusato d’aver ferito Lugia e impiantato un... aggeggio nella sua schiena. E nel fare ciò avrei ammazzato diverse Kimono Girl”.
Oliver era rimasto strabiliato da quelle parole. “Se davvero non sei stato tu dobbiamo lavorare sulla tua difesa e scagionarti quanto prima. Hai fatto bene a chiamare me”.
“Io non sapevo che fare...”.
“Stai tranquillo. Ora dimmi dove ti trovavi ieri sera e stamattina”.
“Ieri sera ero a casa e stamattina sono uscito...”.
“Dove sei andato?”.
“All’Harold’s di Amarantopoli...”.
“C’erano parecchie persone, immagino”.
Xavier annuì velocemente. “Certo! Pieno come sempre!”.
“Hai parlato con qualcuno che possa confermare la tua presenza lì, stamattina?”.
“La cameriera. Si chiamava Sadie. E Cindy... la proprietaria...”.
Oliver sorrise e si alzò. “Benissimo. Ti tirerò fuori di qui”.
“Grazie, Oliver”.
“Avrai presto mie notizie. Ora calmati e rilassati... sembri uno spaventapasseri”.
Xavier non sorrise, tornò a guardare il vetro e pensò alla telefonata di Gold di quella mattina. E allora capì tutto:
 
Gold mi ha telefonato perché sapeva che sarei stato accusato di questa cosa. Gold è a conoscenza della presenza di un altro me, in questo luogo, e mi ha protetto.
Mi ha chiesto di andare in pubblico, di parlare con le persone.
Lui ha creduto alle mie parole.
 
 
Adamanta, Primaluce, Casa Livingstone
 
“Lenny! Ci sono lo zio Zack e la zia Rachel!”.
La voce di Marianne risuonò lungo la tromba delle scale fino a raggiungere le orecchie di suo figlio, che spalancò la porta della stanza e corse velocemente al piano inferiore, sotto gli occhi sorridenti dei genitori. Il salone era arredato in maniera minimale, elegante, con parecchi elementi bianchi e d’acciaio. Pochi tocchi di colore, a Ryan piaceva molto. Quest’ultimo s’alzò sorridente dal divano e si avvicinò al cognato.
“Zio!” aveva urlato Leonard, superando suo padre e saltando addosso a Zack dal penultimo scalino. Lui lo afferrò con decisione e lo alzò in aria, baciandogli entrambe le guance. Il ragazzino sorrise di nuovo, battendo le palpebre e nascondendo lo sguardo ambrato, come quello della madre. Di lei aveva preso anche il colore della pelle e la fisionomia ma suo padre Ryan viveva nei piccoli dettagli.
“Come stai, campione?!” urlò Zack.
“Bene! Io e Allegra stavamo giocando a nascondino”.
Rachel sorrise e guardò Zack. “E ora lei dov’è?” chiese.
“Non lo so, ho smesso di cercarla un po’ di tempo fa…”.
“E tu gliel’hai detto?” sorrise Zack, stringendo il ragazzino. Sullo sfondo c’era Marianne con lo sguardo di disappunto verso il bambino e le mani sui fianchi generosi.
“Sì. Credo...”.
Ryan ridacchiò e  vide Zack annuire. Poi prese Rachel per mano, come facevano quando, da piccoli, andavano a comprare qualcosa assieme dall’alimentari nella piazza di Primaluce.
“Andiamola a cercare...”.
Entrambi salirono le scale della casa del Campione di Adamanta, lentamente, con la donna che carezzava i corrimano d’acciaio.  Ryan era davanti e, quando mise piede sul piano, si voltò ad aspettare che sua sorella facesse lo stesso.
“Nascondino, eh?” chiese Rachel.
“Proprio come facevamo noi quand’eravamo bambini”.
“Ally!” la chiamò lei.
“Allegra! Sono lo zio Ryan! Ti giuro che Lenny si è ritirato, dicendo che hai vinto tu! Ora esci fuori!”.
“Sì!” ripeté Rachel, ignorando la voce di Leonard che protestava per le dichiarazioni del padre. “Esci fuori!”.
E dopo due minuti di ricerche estenuanti in ogni camera, Rachel e Ryan si sedettero sul letto del bimbo di casa. Lui le sorrise e si stese, affondando la testa nel guanciale di suo figlio. Fissava attentamente le stelline di plastica, sul soffitto, e poi sospirò.
“Ti assomiglia in maniera incredibile, Rachel...”.
“È mia figlia...” rispose lei, come se fosse la spiegazione più ovvia.
“Sì, lo so. Però è come riviverti... da quando siamo cresciuti e ci siamo sposati... da quando ci siamo costruiti le nostre famiglie... beh, mi manchi. Mi fa bene avere quella bambina tra i piedi...”.
“Eccolo che il vecchio affoga nei ricordi...” sfotté la sorella minore.
L’altro aggrottò la fronte e appuntì il viso.
“Sono il Campione di Adamanta, Rachel. Ti faccio arrestare se mi chiami di nuovo così”.
“No!” sentirono urlare. Era Allegra, e la sua voce era ovattata. Rachel sbuffò, alzò le lunghe coperte che pendevano dal letto e cadevano giù, fino  al pavimento, e afferrò la  caviglia di sua figlia, prima di tirarla fuori: aveva il vestito sporco di polvere e i capelli spettinati.
“Guarda come ti sei conciata!” esclamò la mamma, sollevandola di peso e pulendole la gonna.
“Zio, non arrestare la mamma!” gridò la bimba, con lo sguardo corrucciato e la frangetta a nasconderlo parzialmente. “Non ti sfotterà più! Vero mamma?!”.
“Io posso sfottere lo zio Ryan come e quando voglio. Ed anche tu…”.
La bambina guardava la madre parlare, sentiva le sue parole. Subito dopo si girò per cercare nell’uomo la conferma delle sue parole.
Quello si limitò ad annuire, con occhi buoni.
“Allora le hai fatto uno scherzo, zio?”.
Ryan sorrise ed annuì. “Esatto”.
Il volto di Allegra si rilassò, poi si rivolse verso Rachel.
“Mamma, hai visto che ho vinto a nascondino?”.
“Sei stata bravissima” rispose la donna, baciandole la fronte.
Ryan sorrise e sospirò nuovamente. Il tempo stava passando troppo velocemente.
 
 
Johto, Amarantopoli, Harold’s
 
“La signora Harper?”.
Cindy alzò gli occhi non appena sentì il campanello del locale suonare, all’apertura della porta del locale. Aveva visto entrare un bellissimo uomo di poco più di quarant’anni, vestito elegantemente e pettinato alla perfezione, con una valigetta stretta nella mano destra.
“Sono io” rispose, levando gli occhiali e alzandosi in piedi. Il locale era pieno come sempre e l’uomo fece non poca fatica ad avvicinarsi a lei senza urtare in qualche cameriera sedicente o in qualche cliente un po’ troppo rilassato. Una volta arrivato davanti a lei le strinse la mano, senza mai sorridere né distaccare lo sguardo dal suo.
“Mi chiamo Oliver Jackson e sono il legale di Xavier Solomon… Il signor Solomon è stato arrestato questa mattina con diverse accuse che riteniamo essere diffamatorie e ingiuste”.
Cindy spalancò gli occhi verdì.
“Per ammissione del mio stesso cliente sono venuto a sapere che questa mattina avete parlato, passando del tempo assieme”.
Quella si rimise a sedere, senza mai staccare gli occhi verdi dall’uomo.
“Cosa sta dicendo, avvocato?” chiese, sconvolta.
Oliver annuì. “Mi dica se è vero che questa mattina vi siete visti”.
“Assolutamente sì! E-eravamo seduti entrambi lì” disse, puntando con l’indice smaltato il terzo tavolino dall’ingresso. “Abbiamo parlato”.
“E di cosa avete parlato?”.
“Questioni nostre... Il nostro rapporto d’amicizia”.
“Uhm... credo serva materiale probatorio a supporto di questa tesi”.
Cindy indossò una smorfia strana in volto, per qualche secondo. “In che senso?”.
“Nel senso che lei mi sembra un po’ troppo coinvolta, signorina Harper. Posso avere un caffellatte?” domandò poi, alla prima cameriera che gli passò accanto.
Cindy strinse i pugni, abbassando il volto.
“Io non sono coinvolta , signor...?”.
“Jackson. E poi non mi chiami signore...” sorrise quello. “Mi chiami avvocato. Avvocato Jackson”.
“Sì… mi scusi…”.
“In ogni caso glielo si legge negli occhi: lei è preoccupata per il mio cliente e se lo posso vedere io lo può vedere chiunque. Del materiale video, dunque, servirà a chiarire ogni dubbio”.
Cindy abbassò lo sguardo e Sadie portò il caffellatte a Oliver.
“Grazie” fece lui, avvicinandolo alla bocca. “Se davvero Xavier è così importante per lei è necessario anche che rilasci una dichiarazione”.
“Va bene” annuì subito.
“Tra due ore, qui ad Amarantopoli, a Common Street, nello Sky Building. Il piano non lo ricordo mai, chieda in reception. La aspetto per la registrazione della sua dichiarazione per l’innocenza di Xavier Solomon. Meno mi farà aspettare e prima il mio cliente sarà libero dalle manette”.
Non appena Oliver pronunciò l’ultima parola quella rialzò la testa.
Entrambi rimasero in silenzio.
“Sta bene?” chiese lei, con voce flebile.
Oliver sorseggiò il suo caffellatte e fece spallucce. “In manette non si sta bene”.
“L’ha mandata lui qui, da me?”.
“In realtà sono stato io a venire qui di mia spontanea volontà. Xavier è mio cliente da tanto tempo e ormai è un amico, mi sono offerto più che volentieri di correre in suo aiuto. Mi ha detto di aver parlato con una certa Sadie…”
“La ragazza che l’ha servita…” interruppe Cindy.
“… e poi con la proprietaria del locale. E siccome il locale appartiene ad Angelo, Capopalestra di questa città ed uomo molto impegnato, immaginavo che si riferisse a qualcuno di vicino a lui, un parente, una persona di cui si fida... la moglie, magari... Ho fatto le mie ricerche ed eccomi qui”.
“Sono... io... la moglie di Angelo sono io” affermò, ancora visibilmente scossa. Sentiva il cuore batterle nel petto vigorosamente..
“Non si tormenti. È normale poter provare qualcosa per una persona, anche se non è nostra moglie. O nostro marito, intende?” sorrise Oliver. “Sono avvocato, mica giudice…”.
Strinse la mano alla donna e si alzò.
“Buono il caffellatte. Ci vediamo tra poche ore... Mi raccomando...” disse, chiudendo il bottone della giacca. “Non manchi”.
Posò una banconota da cinque sula tavolo e sparì oltre la porta.

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 - Perfect Pitch ***


15. Perfect Pitch


 
Johto, Amarantopoli, Sky Building
 
“Cindy… Che ci fai qui?” chiese Angelo, glaciale. Aveva afferrato la mano di sua moglie, bloccandola poco prima della sala riunioni, dove si sarebbero le deposizioni per la difesa di Xavier Solomon. Quell’ufficio era largo e arioso, illuminato dalle finestre degli uffici, le cui pareti erano composti interamente da vetrate.
Subito dopo l’incontro con l’avvocato Jackson, all’interno dell’Harold’s, Cindy era corsa a casa, s’era preparata come meglio poteva e s’era presentata a Common Street, salendo al trentasettesimo piano del più alto palazzo del centro economico di Amarantopoli.
Non s’aspettava minimamente di trovare suo marito lì.
“Mi rispondi?” domandò quello, con la solita flemma inquinata da una piccola macchia di stizza.
“Xavier...”.
“Sì”.
“È stato arrestato ed è innocente”.
“No” ribatté immediatamente il Capopalestra, spostando i capelli dalla fronte e passandoli dietro le orecchie. “Ha ammazzato delle donne e...”.
“Era con me, Angelo”.
Quello si bloccò e batté le palpebre per qualche secondo.
“Con te? Credevo che la tua fase adolescenziale fosse ormai finita”.
Gli occhi dell’uomo, di quel viola intenso, si rifletterono in quelli smeraldini della sua donna prima che, sfuggevoli, seguissero l’invito dell’avvocato Oliver Jackson a entrare nella sala.
 
Lì non vi era molto; una grande vetrata illuminava a giorno la sala e uno schermo, spento, era posto proprio sulla sinistra, sul muro. In mezzo alla stanza c’era un tavolo in alluminio assai grosso, con elementi in vetro e diverse sedie attorno. E al centro del tavolo un microfono, accanto a una piccola videocamera.
Si sedettero entrambi, mentre due associati parecchio giovani si alzarono in piedi, abbozzando un saluto. Oliver fece un cenno con la mano, per farli accomodare, poi incrociò le mani sul tavolo e annuì, accendendo la videocamera. Aveva lo stesso volto di quel mattino, solido, con la mandibola squadrata e serrata, lo sguardo concentrato ed i capelli ancora perfettamente pettinati di lato.
“Signora Harper” fece, alzandosi in piedi. “È pronta per la deposizione?”.
“Sì”.
“Okay. Consapevole delle responsabilità morali che il suo impegno assume, s’impegna a dire la verità e a non nascondere nulla di quanto in sua conoscenza…” disse.
La donna annuì.
“Sia messo a verbale che ha fatto cenno di sì con la testa. Può dire il suo nome?”.
 “Cindy Harper” rispose lei, con le cosce strette e le mani raccolte sulla borsetta che aveva sulle ginocchia.
“Signora Harper, può dirmi dove si trovasse questa mattina?”.
“All’Harold’s, come ogni giorno”.
“Come mai si trovava lì?” domandò rapidamente l’uomo col colletto inamidato.
Cindy scrollò le spalle e sospirò. “Gestisco quel locale per conto di mio marito”.
“Chi è suo marito?”.
“Angelo, il Capopalestra di Amarantopoli”.
Oliver annuì ed aspettò che quelle parole fossero verbalizzate. “Perfetto. Quindi lei è nel locale di suo marito ogni mattina?”.
“Esattamente”.
“E mi dica, questa mattina ha parlato con molte persone?”.
“Come ogni giorno, del resto...”.
“Lei conosce Xavier Solomon?” chiese immediatamente Oliver, sistemandosi la lunga cravatta.
“Sì”.
Gli occhi di Cindy si scontrarono contro il granito delle iridi dell’uomo che le poneva le domande, non riuscendo a sostenere il peso mentale delle possibili implicazioni che potevano avere determinate risposte. Sapeva di essere dalla stessa parte dell’avvocato ma era comunque in ansia; e se avesse sbagliato qualcosa? Avrebbe condannato Xavier alla galera?
“Da quanto tempo?”
La donna non esitò neppure per un istante.
“Diciannove anni”.
“E questa mattina, intorno alle dodici, può affermare d’aver incontrato il mio cliente?”.
Cindy annuì.
“Sia messo a verbale che ha annuito” disse Oliver. “Il mio cliente afferma d’esser stato, durante l’orario in cui è stato accusato d’omicidio doloso e terrorismo ambientale, nel suo locale. Lo conferma?”.
“Lo confermo, era lì” annuì energicamente la donna.
“Conferma d’aver parlato con il mio cliente per un lasso di tempo abbastanza lungo da scagionarlo dagli eventi di cui è stato accusato, che sono avvenuti tra le nove e venticinque e le dodici e trentasette?”.
“Credo... credo di sì” rispose confusa.
“Riformulo la domanda... è possibile che nel lasso di tempo sopracitato il mio cliente fosse in due posti contemporaneamente?”.
Cindy fece segno di no con la testa. “Era davanti a me. Ci ho parlato... Gli... gli ho stretto le mani...”.
“Sia messo agli atti che ha scosso il capo in risposta negativa al mio quesito. Infine, signorina Harper...”.
“Signora. Signora Harper” interruppe lei.
“Mi scusi. Signora Harper... lei può affermare di aver mai visto nel mio cliente comportamenti che lo accostino a profili simili a quelli di cui è stato accusato da suo marito, Angelo, e dalla Polizia Internazionale?”.
“No!” esclamò accorata lei. “Xavier è un uomo gentile. Lui è buono… Ha sofferto... non è capace di azioni simili. Non ucciderebbe mai nessuno!”.
“Sia messo a verbale” disse Oliver, annuendo lentamente. S’allungò verso la telecamera e la spense. “Abbiamo finito, signora Harper. Credo che suo marito voglia affrontarla muso a muso, non appena uscirà da questa stanza”.
 
 
Johto, Amarantopoli, Rainbow Hotel
 
“Hey...” fece Blue, aprendo lentamente la porta della camera di Yellow e Red. Infilò solo la testa, palesando il suo ingresso per evitare di trovarli in situazioni sconvenienti. Ma nulla, Red era uscito e Yellow era rimasta sul letto, con le gambe accavallate, mentre leggeva un libro.
“Avanti...” fece, dopo un lungo sospiro.
Blue camminava nella piccola antisala della stanza, passando davanti a uno specchio dalla cornice argentata, vedendo dapprima i piedi del letto e poi la figura della ragazza. I loro occhi s’incrociarono per qualche istante, prima che quelli della bionda si perdessero lungo la fitta trama del copriletto. Aveva visto Blue e si era resa conto di quanto realmente fosse bella.
Fu proprio quest’ultima ad esordire.
“Un tempo eravamo care amiche, Yel...”.
La sua voce era disturbata dal respiro greve, che non riusciva a trattenere. A Blue scoppiava il cuore nel petto e tutta quella situazione gli pareva parecchio pesante da sopportare. Odiava l’indifferenza e odiava che a sbattergliela in faccia fosse quella che reputava la sua amica più cara.
A quelle parole la bionda si limitò ad alzare gli occhi, ma a deviarli, non riuscendo ad affrontare la controparte azzurra.
“Lo so…”.
Blue sospirò e abbassò lo sguardo.
“Sono mortificata per tutto questo… non ero in me e sicuramente non mi sarei permessa di...”.
“Io amo il mio uomo, Blue. E voglio credere che lui ami me. Se siamo venuti qui, assieme a voi, è solamente per un bene superiore ma... ma non ho dimenticato quelle cose”.
L’altra era rimasta in piedi, totalmente immobile. Stringeva il gomito sinistro col braccio destro, rigida.
“Mi spiace molto. Anche io amo il mio uomo e non avrei fatto mai nulla di ciò che è successo se avessi avuto un po’ più di coscienza di ciò che succedeva attorno a me”.
“Non l’hai avuta”.
La voce di Yellow era limpida come il suono di una campanella.
“Non l’ho avuta...”.
Lo sguardo della più piccola fu assalito da un coraggio inaspettato, e cominciò a scrutare la figura dell’altra in maniera continua, capendo quanto in realtà fosse piena di debolezza; la stava leggendo come un libro aperto, e a Blue quella cosa non piaceva. Doveva rimanere imperturbabile in quelle situazioni, imperscrutabile nell’animo. Le sue sensazioni erano solo sue, al massimo del suo uomo e neppure sempre. Yellow invece aveva scavalcato tutti i suoi cancelli, aveva aggirato le sue difese, spogliandola d’ogni scudo.
Blue era vulnerabile.
“Il problema di per sé non sussisterebbe se fosse finita lì” sbuffò Yellow, gettando il libro sul letto e stendendo le gambe. Tirò i capelli verso l’alto e li legò.
Blue non capiva. Fece un altro passo per avvicinarsi al letto, nel tentativo di guardare meglio l’interlocutrice.
“Non è chiaro...” le disse.
“Io... ho come l’impressione... il problema è Red” concluse lei, sospirando e arricciando le labbra. “Lui è sempre stato innamorato di te, Blue. Il tempo ha dato ragione a Green ma io so benissimo che ti desiderava e questo mi fa stare male”.
“Lui ti ama, Yel” faceva cenno di no con la testa l’altra, come ad allontanare quel pensiero. “Non dovresti farti angosciare da queste paranoie”.
“Lo so, lo sento, e anche io amo lui. Ma amare è differente da desiderare… e lui ti desidera”.
Blue si sentì quasi colpevolizzata, a quelle parole.
 
Forse è per il mio atteggiamento?
Per il mio modo di fare?
L’ho sedotto per anni e alla fine… alla fine ci sono riuscita.
 
Si era resa conto di qualcosa. Alzò il volto e scontro gli occhi contro lo sguardo glaciale dell’altra. La stava condannando, Non l’aveva mai vista più sicura di sé.
“Yellow… Io non amo Red...”.
“Non è questo il problema” sorrise l’altra, amaramente. “È che ti sento in ogni bacio che mi da, in ogni carezza che mi dona. Ti sento perché è lui a metterti lì... E non so quanto tempo ancora potrò vivere in questo modo”.
Blue si sedette ai piedi del letto, carezzando le morbide coperte con la punta dell’indice.
“Non so che dire...”.
“Non puoi dirmi niente, è questo il fatto…” fece, sbuffando. “Il fatto è che non voglio più averti nella mia vita... Una volta finita questa storia vorrei che sparissi per sempre”.
L’altra rimase basita, sorpresa dalla reazione, dal coraggio e dalla lucidità di cui s’era vestita per parlare di quella situazione.
“Mi condanni in questo modo e provi ancora risentimento…” fece, stretta nel suo abbraccio, con lo sguardo basso. “Mi sto mettendo a nudo, e sai che non succede spesso…”.
Yellow ridacchiò divertita, facendo riferimento al doppio senso.
Blue fece finta di nulla e continuò.
“Quella cosa però l’ho fatta con Red. Se provi ancora così tanto risentimento, allora, perché sei ancora accanto a lui?”
La donna abbassò lo sguardo. Il ventaglio di risposte era così ampio da farla avvilire.
“Quella che invece si mette troppo a nudo sono io…” sospirò. “Ora vorrei che te ne andassi e mi lasciassi finire il mio libro in santa pace…”.
Quelle parole la colpirono con così tanta violenza da farla sobbalzare. Totalmente differente, nei suoi atteggiamenti, nei suoi movimenti, la donna del Bosco Smeraldo era stata tutto fuorché quello, negli anni precedenti. E tutto per via di Red. Blue capì che se quella non fosse stata convinta così tanto dalle sue emozioni, dai sentimenti, non gli sarebbe rimasto accanto.
Lei aveva bisogno della presenza di quell’uomo nella sua vita. Rappresentava qualcosa, era più che chiaro.
 
Certe volte si accettano gli errori degli altri, perché stare soli con se stessi è peggio di vedere delle immagini, quelle immagini, davanti agli occhi, ogni volta che s’incrocia lo sguardo di qualcuno che ti ha tradito.
Come ha fatto Green.
 
Annuì. Ormai la situazione era limpida.
 “Sparirò dalla tua vita, Yel...”.
Si voltò e imboccò l’uscita, sbattendo la porta.
 
 
Kanto, Aranciopoli, Ospedale Civile
 
“Sei ancora qui?” chiese Marina, rientrando nella stanza di Gold. L’elettrocardiogramma cantava placido ogni due secondi, scandendo un ritmo lento e monotono.
“Sì. Ho aspettato che tornassi” aveva risposto Sandra, seduta accanto al letto. Aveva lo sguardo provato da quella maratona d’ansia e paura, e gli unici rumori che la tenevano ancora lì erano il respiro di Gold e il bip automatico della macchina. I capelli erano ancora legati, ma la coda era ormai spettinata, e molti ciuffi le ricadevano davanti al volto. Vide Marina andare dall’altra parte del letto e prendere la mano del suo uomo. Poi gli poggiò un delicato bacio sulle labbra.
“Magari si svegliasse…” sospirò.
“Come nelle favole…”.
La Ranger annuì, quindi si voltò, smontando il grosso cappotto beige e poggiandolo su di una sedia. Poi si voltò, aprendo leggermente la finestra poggiandovisi con la schiena.
Guardò infine Sandra, col volto serio, e incrociò le braccia.
“Vai a casa”.
“Non preoccuparti” ribatté rapida quella, continuando a fissare il pavimento. “Voglio rimanere qui”.
L’altra sospirò e abbassò il viso. Quel giorno aveva chiamato in ufficio e aveva spiegato la situazione; Gold era la priorità di tutta la sua vita e niente avrebbe potuto prevaricare la sua importanza. Vederlo in quel letto, dormiente e livido, con accanto una donna che si ostinava a non muoversi era una scena che l’avviliva parecchio.
E Sandra, soprattutto lei, era un grande elemento di disturbo.
“Perché vuoi rimanere qui?” chiese, rialzando poi il volto. Catturò il suo sguardo, tastandone la paura. Capiva quanto fosse avvilita da quella scena, e nonostante la sua posizione pareva non aver mai provato sulla pelle ciò che stava passando in quel momento. Sandra si limitò ad annuire, e abbassò lo sguardo.
“Lui mi ha salvata. Al suo posto sarei dovuta esserci io...” disse con voce tremante e profondamente colpevole. Una lacrima andò a sporcarle la guancia destra di ciò che rimaneva del suo trucco.
Marina ripeté le sue parole, annuendo, con lo sguardo perso nel vuoto. “Al suo posto saresti dovuta esserci tu...”.
Sandra la guardò subito. Aveva riconosciuto il campanello dall’allarme dal tono glaciale della donna, e aveva trovato conferma di quell’impressione dalla sua espressione, tirata, con le labbra sottili e gli occhi aperti quanto bastava per non perderla di vista.
“Voglio solo sdebitarmi come posso…” ribatté la Capopalestra, alzandosi in piedi. Guardò Gold, annuì, come a riconferma delle sue parole, e poi sentì i morsi della fame aggredirla.
Marina invece era rimasta immobile. Stringeva i denti, riconosciutasi capace di odiare, forse per la prima volta nella sua vita. Stava cercando di trattenere l’impulso di aggredirla fisicamente, di mantenere le lacrime negli occhi.
Di non urlare.
Ma alle parole della donna non fece altro che sorridere, amaramente. Fece cenno di no, sospirando.
“E non va così. Non puoi… non puoi sdebitarti, e di certo non puoi riuscirci ai miei occhi...”.
Sandra rimase sorpresa. Aggrottò la fronte, mentre vide l’altra cominciare a piangere, prima di avvicinarsi verso l’uomo e stringergli la mano.
“Gold ora è qui... conciato in questo modo...” continuò la Ranger, non riuscendo più a trattenere le lacrime; la bocca le si asciugò rapidamente, mentre cercava di articolare le parole: voleva pungere ma si ritrovò ad abbassare lo sguardo, dando adito all’altra di affondare un tentativo per rimediare.
“Marina…”.
“Gold ora è in coma, e-e… e forse non si sveglierà... Il medico dice anche… dice anche che, nel caso dovesse riaprire gli occhi, ci sono alte… cazzo!” esclamò, furibonda, lasciando la mano del ragazzo. Si voltò, provando ad asciugare le lacrime meglio che poteva. Poi tornò a fissarla iraconda.
“Gold potrebbe rimanere su di una sedia a rotelle! E al suo posto saresti dovuta esserci tu!”.
Sandra abbassò lo sguardo, poi la sentì ridere debolmente.
 “Cioè... ti rendi conto?! Gold! Su di una sedia a rotelle!”.
La fissava, carica d’ira.
“Su di una sedia a rotelle!” urlò.
La sua voce rimbombò nella camera, facendo sobbalzare nuovamente una Sandra già fragile.
Cominciò a piangere con trasporto, quella. Abbassò il capo e portò le mani davanti al volto.
“Mi dispiace…” sussurrò.
Poi la porta della stanza si spalancò. Era Red, ansimante.
“Che diamine succede qui?!” urlò.
Il ragazzo analizzò la situazione il più velocemente possibile, vedendo entrambe le donne piangere. Subito gettò un occhio all’elettrocardiogramma, vedendo il battito di Gold rimbalzare lungo lo schermo dell’apparecchio.
Il cuore di Red saltò un battito.
Sospirò, poggiandosi al montante della porta. “È vivo...” sussurrò, impaurito. “Perché hai urlato, Marina?”.
Quella piangeva, stringendo la mano del suo uomo. “Perché le dispiace! A lei dispiace!”.
Red guardò l’espressione atterrita di Sandra, mentre stringeva il gomito sinistro, ancora stretta in quella tutina da allenamento. La sua espressione era mortificata, e le lacrime che stava piangendo erano testimoni di quella sua sofferenza.
“Marina… Sandra si sente responsabile… Non è di certo stata una sua scelta finire qui, forse non dovresti essere così dura con lei…”.
“Sandra si deve sentire responsabile! Perché è responsabile! Qui sarebbe dovuta esserci lei!” esplose la Ranger, gesticolando nervosa. Prese ad avanzare aggressivamente verso la donna, che si limitò a spalancare gli occhi, incredula di quanto le stesse per succedere, quando Red si frappose tra le due, afferrando per i polsi la donna dai capelli castani e bloccandola.
“Stai calma! Non perdere il controllo!”.
E fu lì che quella si lasciò andare in un pianto disperato, affondando il volto nell’incavo del collo del ragazzo. Si sentì stringere attorno al collo, percependo la sua mano carezzarle i capelli.
“Andrà tutto bene, tranquilla. Gold si sveglierà e tornerà a vivere come prima”.
“Non voglio che muoia!” piangeva lei, stringendo a sua volta il ragazzo. Red girò il viso in direzione di Sandra e le fece cenno di uscire.
Quella rispose di no.
“Marina, siediti accanto a lui, tra poco tornerò a farti compagnia” le disse il Dexholder, accompagnandola alla panca e prendendo Sandra sottobraccio. La portò all’esterno della stanza e sospirò. Lì c’era fermento: un tir s’era ribaltato e aveva travolto diverse automobili e tutti i medici e gl’infermieri erano in fibrillazione.
“Non volevo” disse la Capopalestra, stringendo il pesante mantello tra le braccia. Abbandonò la schiena contro il muro e Red le si pose davanti, stringendosi a lei nel momento in cui due barelle s’incontravano proprio in loro corrispondenza, nello stretto corridoio.
“Lo so” le rispose intanto lui. La vide poi sciogliere i lunghi capelli e sospirare, struccata dalle lacrime. Red le sorrise dolcemente e le porse il fazzoletto che aveva nella tasca interna del giubbotto.
Fece un passo indietro quando le barelle si dileguarono.
“Ora va così. Lei ti vede come la causa, anche se chiaramente non è vero. Non sentirti troppo in colpa, stavate facendo il vostro dovere e Gold... beh, Gold è fatto così. Ha la testa dura ma in fondo è un eroe”.
“Io non volevo che finisse così…” faceva, mentre s’asciugava il volto. “Ho avuto paura che morisse… steso addosso a me”.
Quello le prese il lungo mantello dalle mani e glielo poggiò sulle spalle. “Fuori è freddo. Lascia che la situazione sbollisca un po’… Gold sicuramente si sveglierà e la farà ragionare. Ma anche tu, sei scioccata, hai visto quel che hai visto e sicuramente non sarà semplice da metabolizzare. Ora torna a casa e fatti un bel bagno caldo... Stai in compagnia, se necessario io e Yellow, nel momento in cui sarà possibile, ti staremo accanto. Ma vedrai, riusciremo a risolvere tutta questa brutta storia e riporteremo la normalità”.
“Non voglio tornare ad Ebanopoli... Non voglio stare da sola...”.
Red rimase in silenzio per qualche secondo. “Immagino che Yellow non avrà problemi a dormire in camera con te, stanotte”.
 
 
Adamanta, Primaluce, Casa Recket
 
Il sole s’era ormai rintanato dietro l’orizzonte, lasciando il posto a una falce di luna sottilissima. Qualche stella brillava nel cielo ormai pulito e Rachel le guardava affascinata, come diamanti gettati a caso su di una coperta nera.
Dava leggere pennellate sulla tela, accompagnata dal silenzio e dalla musica classica che tanto le piaceva. Con l’arrivo di Allegra diventarono molto più rari i momenti per stare un po’ da sola con se stessa erano diventati rarissimi, e anche la convivenza non aveva aiutato. Del resto Zack era un essere parecchio empatico e mal sopportava la solitudine, quindi passava la gran parte del suo tempo con lei.
E Rachel, nella sua delicatezza, non voleva dire a suo marito d’aver bisogno d’un po’ di spazio.
Amava la sua rumorosissima famiglia, ma mentre dipingeva si era resa conto di quanto bello fosse stare in silenzio ad ascoltare il rumore del proprio respiro, cullato dalle dolci note in sottofondo che uscivano dalle casse dello stereo. Dipingeva quel cielo, così buio e immenso, accecato nella parte bassa dai lampioni delle strade, che però nulla potevano più in alto, dove le mani luminose delle luci non arrivavano.
Sorrise, pensando al fatto che quel dipinto stesse uscendo davvero bene. Aveva sempre avuto la passione per il disegno e da adolescente, proprio da quella casa, aveva disegnato un ritratto di un paio di vecchietti che sonnecchiavano su di una panchina del parco. Poi si guardava le mani, più ossute d’un tempo, e le unghie un po’ più curate, più eleganti. Abbassò lo sguardo sui capelli, più lunghi, che terminavano sui seni, più grandi.
Era cresciuta, ma il suo cuore batteva nello stesso modo.
L’unica differenza era la consapevolezza: la Rachel di quindici anni prima non sapeva d’esser donna, né di essere la donna più importante del mondo. Non sapeva neppure che sarebbe diventata madre, né che la sua bambina sarebbe diventata uno dei gioielli della corona di Arceus, uno tra i più importanti. Di certo, la Rachel di quindici anni prima non si sarebbe mai immaginata accanto a un uomo bello come suo marito, né avrebbe pensato mai di esserne innamorata alla follia.
La differenza sostanziale tra quella Rachel, quell’appena adolescente e sognante, con l’apparecchio mobile tra i denti e i primi reggiseni sdruciti, talvolta imbottiti, e quella ormai donna, era appunto la consapevolezza. La ragazzina non ne aveva, viveva alla giornata e immaginava il suo futuro, guardandosi alle spalle soltanto per cose effimere.
Il passato, nella Rachel più grande, aveva invece un grande peso. Certo, guardava sempre avanti, al suo futuro e a quello della sua famiglia ma ricordava con immensa lucidità i momenti che aveva vissuto e che gli sembravano così tanto lontani.
Il cielo era stato scurito solo per metà sulla sua tela quando la porta della mansarda cigolò.
“Mamma...” si sentì chiamare.
La voce di Allegra era così acuta e contemporaneamente dolce che ogni volta che l’ascoltava non poteva fare altro che sorridere. Posò pennello e tavolozza e si voltò. La testa della piccola spuntava tra lo stipite e la porta, coi lunghi capelli neri, proprio come quelli di Rachel, che cadevano ben ordinati quasi fino al pavimento.
“Piccolina...”.
“Vado a dormire” disse, avvicinandosi, in cerca di un bacio della buonanotte. La porta s’aprì con Zack, che guardava la scena a braccia conserte.
“Aspetta” ribatté la donna, inginocchiandosi, con le mani e i vestiti sporchi. “Altrimenti t’inzozzi tutta. Faccio io” disse, baciandole la guancia. “Adesso papà ti porta a letto”.
Zack annuì. “Già. Ed è il caso che la mamma cominci a lavarsi, perché papà tra poco porta a letto anche lei” sorrise, facendo avvampare la moglie, prima che esplodesse in un sorriso. Lo guardò negli occhi e poi continuò.
“Già... la mamma puzza di tempera”.

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 - 3,14159 26535 89793 23846 26433 83279 50288 41971... ***


16. 3,1415926535897932384626433832795028841971…
 
 
Johto, Amarantopoli, Rainbow Hotel
 
La lancetta del segnapiano dell’ascensore stava scendendo lentamente. Forse un po’ troppo, ma erano entrambi stanchi e provati, lei più di lui, e non vedeva l’ora di potersi chiudere il mondo alle spalle. Sandra e Red sostavano l’uno accanto all’altro, mentre il vociare alle loro spalle faceva da rumore bianco.
“Vedrai, Yellow non avrà problemi…” le disse quello, guardandola e annuendo. La donna si limitò ad abbassare lo sguardo e ad annuire, non riuscendo a celare la stanchezza sul viso ormai pallido.
Quando le porte dell’ascensore si aprirono non esitarono un istante a entrare; gentiluomo, lui, la lasciò passare per prima, seguendola e premendo il tasto 9 sul tastierino numerico. Una musichetta soft in polifonica prese a risuonare attorno a loro, sostituendo di fatto le voci delle persone una volta che la porta tagliò a mo’ di ghigliottino la loro visuale.
“Grazie…” sospirò lei, senza guardarlo in viso. Strinse il polso destro con l’altra mano e cercò di far uscire dal corpo quel malessere che l’attanagliava, che prendeva le sembianze di Gold, poi di Marina. Strinse gli occhi, sentendo l’esplosione, vedendo il volto di quella donna che tanto le assomigliava e percependo sul viso il calore del fuoco che fondeva il titanio.
“Non preoccuparti” ribatté quello, riportandola coi piedi per terra.
“Tu dove dormirai stanotte?”.
“Prenderò un’altra stanza, non c’è problema. Tu starai con Yellow, almeno fino a quando non ti sarai ripresa. Quella donna è un toccasana!” esclamò, entusiasta di averla accanto.
“Grazie ancora”.
“Ti ho detto di non preoccuparti” ribatté lui, prima che le porte si aprissero davanti a loro, mostrando un corridoio lungo ed elegante, che profumava di lavanda. Sandra mosse timidi passi sulla moquette color pervinca, seguendo la falcata rapida di Red, che si fermò alla terza porta sulla sinistra. Bussò, con le nocche, e guardò la donna, sorridendo.
Yellow aprì la porta qualche secondo dopo. Il suo viso non riuscì a celare una timida sorpresa quando la vide, per poi rilassarsi subito dopo.
“Ah, siete arrivati” fece, avvicinandosi a quella. “Leva il mantello e mettiti comoda”.
Quella annuì.
Red le strinse il polso, richiamando la sua attenzione. “Prova a rilassarti”.
“Ci proverò, sì” ribatté Sandra, staccando la lunga cappa blu e sospirando.
Yellow annuì e sorrise, scambiò uno sguardo d’intesa con l’uomo e lo vide andare via.
“Entriamo”.
“Sì”.
 
*
 
Red tornò all’ascensore subito dopo.
Era stanco e avrebbe decisamente concluso la sua giornata in quel momento, se solo non incombesse sulle loro teste quell’ascia così affilata. Prenotò l’ascensore e rimase ad aspettare, con le mani nelle tasche, i capelli neri spettinati e le occhiaie scavate sotto lo sguardo cremisi.
Erano anni che non succedeva qualcosa di così importante.
Qualcosa di così terrificante. Gli tornò alla mente Gold, attaccato alle macchine, e il volto di Marina. Poi quello di Sandra.
Quelli erano tutti guerrieri, ora erano mortificati dalla vita.
Le porte si aprirono lui vi entrò, ma prima di premere il tasto vide una signora di mezz’età sorridergli, a metà corridoio, chiedendogli di attenderla.
Lui annuì.
Sbadigliò, toccò le sfere nella cintura per riflesso incondizionato e pensò al fatto che avessero aggiunto una tessera bella grande a quel mosaico enorme. La parola doppleganger gli si parò davanti al viso proprio nel momento in cui la donna entrò nell’ascensore.
“Grazie” fece.
“Prego…”.
“Scende?”.
“Sì”.
Fu quella a premere il tasto 0 sul pad, prima che le porte si chiudessero.
Quello intanto pensava che avevano accusato fino a quel momento lo Xavier Solomon sbagliato, come successo per Fiammetta. E se a fronteggiare quella Sandra non ci fosse stata Sandra stessa, probabilmente sarebbe finita nei guai anche lei.
Quelle strane copie stavano distruggendo, saccheggiando e destabilizzando. Copie, non versioni reali. Copie. Forse create a laboratorio, pensava, o chissà in che modo.
Non ci vedeva chiaro, quel mosaico era troppo vicino ai suoi occhi per poter mettere a fuoco con chiarezza il quadro d’insieme. Poco dopo le porte si aprirono, fece un cenno di saluto alla donna ed entrò nell’atrio, dove diversi uomini d’affari camminavano famelici, entrando nella porta girevole e sparendo nelle tenebre ormai calate. Passeggiò fino al bar e affondò in una morbida poltroncina, col rivestimento di velluto rosso. Carezzò i braccioli e si guardò attorno: una donna anziana era assorta nella lettura d’un libro di Murakami, con le ginocchia strette e il corpo sbilanciato verso destra. Dietro la copertina spuntava una capigliatura candida, voluminosa e morbida. Accanto c’era un tavolino, dove due uomini in doppio petto blu discutevano accoratamente di lavoro. Erano eleganti e a Red piaceva il modo in cui erano impostati, così belli diritti e stretti all’interno dei loro vestiti griffati, coi capelli impomatati e tirati indietro. Le cravatte attorno al collo di quello di destra era blu, pregiata già alla vista, con piccoli particolari argentati. L’uomo a sinistra ne indossava una gialla e non gli piaceva, tuttavia portava con fierezza un costoso Rolex. Mostrava all’altro, coi gemelli dorati attorno ai polsi, dei dati su di un foglio. Annuiva, l’ultimo, sembrava comprendere ciò che gli veniva detto. Si strinsero la mano poco dopo, s’alzarono e se ne andarono, lasciando sul tavolino due bicchieri vuoti con del ghiaccio rimasto a sciogliersi.
Red si chiedeva cosa avessero bevuto. Poi si rese conto che non gliene importava poi così tanto.
Sul divanetto accanto al suo c’era un ragazzino di colore dai capelli corti. Aveva il volto annoiato e immergeva l’attenzione all’interno del suo cellulare, attaccato agli auricolari. Muoveva lentamente la testa, probabilmente ascoltava rap. Pensò che da piccolo non ebbe il tempo per fossilizzarsi coi videogame o la televisione; alla sua età era già in giro col suo team.
Poi arrivò la cameriera, vestita elegantemente all’interno d’un tailleur beige.
Molto bella.
“Cosa le porto?” domandò la bionda, in maniera educata.
“Qualcosa che mi tenga sveglio per almeno i prossimi venti minuti”.
“Le preparo un caffè?” sorrise.
“Mi prepari un caffè…”.
Andò via sculettando e Red si perse nel dondolio delle sue anche, almeno che qualcuno si accomodasse nella poltrona accanto alla sua.
Era Blue. E aveva qualcosa di strano nello sguardo, mentre fissava tutto e tutti, guardinga, forse più del solito.
“Yellow dov’è?” domandò poi, lentamente, trascinando ognuna di quelle parole.
Il ragazzo fece spallucce. “È di sopra, con Sandra”.
Quella cominciò a passare le dita fra i capelli, pettinando grossolanamente le ciocche castane. I suoi occhi dicevano qualcosa ma il ragazzo avrebbe dovuto mantenere il suo sguardo per qualche secondo per decifrarlo e lei non glielo consentiva, dato che nascondeva il volto nel tentativo mal riuscito di guardare verso il basso.
“Green invece è ancora...” chiese poi lui.
“Sì, sul dirigibile” annuì Blue.
“Xavier Solomon, eh?”.
Quella annuì di nuovo.
Era strana, e anche così stanco quello riuscì a capirlo.
“Ma che hai?” chiese.
Fu quello il momento in cui Blue alzò gli occhi, scontrando le onde del suo sguardo contro il fuoco dell’interlocutore.
“Ho parlato con Yellow”.
Red sbatté tre, quattro volte le palpebre, quindi sospirò. Unì le parole della donna all’espressione che aveva sul viso, rendendosi conto delle sensazioni negative che in quel momento quella stesse provando.
“Che vi siete dette?”.
“Che ha paura di me, Red. Che non si fida e non vuole più vedermi”.
Il ragazzo assunse un’espressione di circostanza, sospirando e inarcando le sopracciglia. Incrociò poi le braccia e rimase in ascolto delle sue parole.
“Siamo stati diversi anni senza vederci, tra di noi intendo, non necessariamente io e te. Quel che è successo è successo, abbiamo ammesso i nostri errori e siamo andati avanti. Io ho recuperato il mio rapporto, tu il tuo...”.
“In un certo senso la capisco...” fece Red, lasciando che Blue spalancasse i propri occhi, sorpresa. “Ti vede come una destabilizzazione per il mio rapporto con lei e...”.
“Lei dice che tu pensi a me”.
Il brusio di sottofondo sembrò aggredirli non appena le loro bocche si chiusero.
“Dice questo?”.
“Dice che mi pensi sempre. E questo le fa male”.
“Non è così, ovviamente” sorrise l’altro, quasi imbarazzato.
“Ma... ma ora sono io che penso a te...” sussurrò lei, filtrando le parole tra i denti stretti. Il suo volto fu rigato dalla coda d’una lunga lacrima. Lo stupore passò dagli occhi di Blue a quelli di Red, in meno di un secondo. Il ragazzo fece segno di no con la testa, per poi alzarsi e lasciarla lì, da sola.
Pochi secondi dopo una cameriera bionda, bella, dal tailleur beige, le poggiò davanti un caffè.
Caffè che non avrebbe preso.
 
 
Johto, Amarantopoli
 
Il freddo aggrediva coi denti acuminati quella sera.
Xavier era accanto all’avvocato Jackson, entrambi stretti nei propri cappotti, mentre raggiungevano lo stazionamento centrale che avrebbe fornito a Oliver la navetta che l’avrebbe accompagnato a Olivinopoli. Si sarebbe imbarcato da lì, per arrivare nuovamente ad Adamanta, e raggiungere sua figlia.
“Oliver... Grazie. Davvero, non so cosa sarebbe potuto succedere fare se non fossi venuto tu a darmi una mano”.
Oliver fece spallucce, senza sorridere. I suoi occhi, come sempre, erano pieni di qualcosa d’indefinito. Nel complesso però era tranquillo. I suoi respiri diventavano fumo e salivano verso l’alto, prima di disperdersi nel gelo, in quello che s’apprestava a essere una delle notti più fredde di sempre, a Johto.
“Purtroppo i poliziotti sono i primi che oltrepassano la legge pur di far del bene. E spesso prendono mira persone innocenti. Il mio lavoro è difendere questa gente”.
“Sì, lo so”.                            
“Però è paradossale. Ora...” s’avvicinò di più a Xavier, guardandosi attorno. “... Ora siamo da soli: puoi dirmi come sei riuscito ad essere in due posti contemporaneamente?”.
Xavier sorrise amaramente, facendo segno di no con la testa.
“Oliver... non mentivo quando dicevo di non conoscere quell’uomo”.
Quello spalancò gli occhi, grattandosi la nuca. “Ho imparato a prenderti sul serio, Xavier… ma a certe cose proprio non riesco a crederci...”.
“Dovresti: Cindy non mentiva”.
I loro occhi si scontrarono. Poi l’avvocato sorrise, inclinando la testa verso destra. Voltarono l’angolo verso la zona sud di Amarantopoli, molto ben illuminata. Sulla destra, un artista di strada stava suonando una versione di Hey Jude col violino
Passarono i secondi, e il silenzio li avvolse totalmente, prima che Oliver sospirasse.
“Chi diamine è, allora, quell’uomo?”.
“Non lo so ma ho intenzione di scoprirlo. L’unica cosa che so è che, essendo a piede libero, quest’uomo mi metterà nuovamente nei guai e quindi dovrò tutelarmi”.
“Ovvero?”.
“Chiederò a mia madre di venire a stare da me… Ormai vive da sola e finché questa faccenda non si sistemerà mi farà comodo che qualcuno sappia dove sono”.
“Mmh... già. Meglio così. Comunque...” sorrise, abbracciandolo. In quel momento erano proprio davanti all’ Harold’s. “... Cindy Harper nutre qualcosa nei tuoi confronti. Questo tu lo sai, no?”.
Xavier lo fissò per qualche secondo, assunse una smorfia strana sul volto e sbuffò.
“Motivo per cui è sposata con Angelo... Smettila, Oliver”.
Quello sorrise. “Hanno litigato prima che lei rilasciasse la dichiarazione in tuo favore. Il marito non è il tuo più grande fan ma lei... beh, sono abbastanza sicuro di poter affermare che ti abbia difeso con tutte le sue forze”.
Xavier non disse nulla. Si limitò soltanto a portare lo sguardo oltre le vetrine del locale, fino all’ultimo tavolo, scavalcando le gonnelline a balze un po’ troppo corte delle cameriere e le teste dei clienti seduti a consumare pollo e torta, non necessariamente in quest’ordine. Lì, poté vedere, davanti al muro, di fronte alla vetrina dei dolci più elaborati, Angelo, seduto accanto a sua moglie.
Lei aveva lo sguardo basso e non s’era accorta degli occhi di Xavier, atte a scrutarle il viso.
Bella e irraggiungibile, la stella che voleva e che si limitava a osservare solo da lontano.
“Certe cose non sono fatte per essere ottenute. È una costante, Oliver…”.
 
 
Johto, Rovine D’Alfa
 
Il pavimento della Sala 1 era splendente.
John Morgan lavorava come inserviente in quel luogo magnifico da trentasette anni; aveva cominciato quando ne compì diciannove. Generalmente, lavorava fischiettando le canzoni di Randy Crawford, immaginando le note avvolgerlo mentre la ramazza baciava il pavimento. Il suo lavoro non lo faceva impazzire, lo riconosceva, ma gli consentiva di portare il pane a casa in maniera onesta. E comunque era troppo anziano per cercare qualcos’altro.
Sì, insomma, poi se ne stava tranquillo, lavorava qualche ora di notte, chiudeva tutto e andava a dormire accanto a sua moglie.
Tanti anni di matrimonio e non sentirli.
John sorrideva quando pensava a sua moglie. L’amore della sua vita.
Anche quella notte lo straccio lavava i pavimenti di marmo. Gli occhi dell’inserviente si poggiavano a intermittenza sugli antichi mosaici nascosti dietro le teche di cristallo. In quel momento vedeva quello con Kabuto, anche se il suo preferito era senz’ombra di dubbio quello con l’enorme drago di cui non ricordava mai il nome.
Randy Crawford continuava a cantare nella sua mente quando l’uomo sentì un rumore, un piccolo crepitio, come qualcosa di metallico che aveva toccato sbattuto su qualcos’altro del medesimo materiale. Si voltò, fissando una a una le piccole finestrelle che accerchiavano il perimetro, ma erano tutte chiuse. Non c’erano altri ingressi in quella sala, se non la porta d’entrata e la grande e pesante botola di marmo davanti al mosaico. Attese qualche secondo, poi fece spallucce e tornò a lavorare.
“One day I’ll fly away...” riprese a cantare, e intanto il crepitio si ripeté. In quel momento un brivido lo attraversò da parte a parte, fuoriuscendo tra le scapole, penetrando proprio al centro del petto canuto.
Si bloccò, stringendo la ramazza con la mano destra.
“C’è nessuno?!” chiese, con la voce roca e graffiante.
Tossì e ripeté.
“C’è nessuno?!”.
Forti e limpide, le sue parole rimbombarono sulle pareti di pietra della sala. Poi un leggero cigolio lo costrinse a voltarsi, rapidamente.
La porta era leggermente aperta, quel tanto che bastava da farci entrare un Raticate o un Quagsire. E non era neppure la prima volta che una cosa del genere succedeva. S’avvicinò lentamente e la chiuse quando d’improvviso tutto diventò nero, dopo un forte colpo alla testa.
E la telecamera di videosorveglianza riprendeva silenziosa, dall’angolo destro della sala.
 
 
 Johto, Amarantopoli, Rainbow Hotel
 
Sospirava, Green, decisamente stanco.
Provato.
Era stata un’altra giornata inconcludente. Entrò nella hall dell’albergo pensando alle parole dell’avvocato di Xavier Solomon, che lo aveva scagionato da ogni accusa.
 
“In sostanza il mio cliente era qui ad Amarantopoli, mentre la Ranger che ha scattato quella fotografia era a largo di Olivinopoli, nelle Isole Vorticose. La Signora Harper ha confermato tutto, pertanto Xavier Solomon deve poter tornare in libertà, le accuse sono infondate”.
 
Quella scena gli turbinava con forza in testa, cercando di sfondare la convinzione razionale che una persona potesse riuscire a ottenere il dono dell’ubiquità.
No, Green era troppo razionale, alla fine credette ai fatti dimostrati dall’avvocato. Ma la Lacrima di Giratina era ancora tra le mani di qualche criminale e i fatti di quel giorno non facevano altro che confermare le sue paure: che ci fosse dietro un team criminale, come il Team Rocket, a organizzare quelle rapine? Tutti quegli uomini avevano le stesse divise e con ogni probabilità doveva esserci una testa fin troppo audace dietro di loro.
Scrollò quel pensiero dalla sua mente e fece un cenno col capo al concierge. Passò davanti al bar, dove una vecchia donna sorseggiava un drink indefinito di colore rosso, annoiata.
Quando passò davanti ai divanetti sospirò e voltò lo sguardo, accorgendosi di Red che spazzolava Pikachu. Lo superò, quello neppure non s’accorse di lui.
Entrò nell’ascensore, premette il tasto del piano e rimase ad ascoltare la versione jazzata di White Knuckle Ride mentre smontava l’angoscia dalla sua mente e si preparava per un misero, effimero riposo.
Le porte si aprirono, presentandogli il corridoio del piano: sette porte sul muro di destra, sette su quello di sinistra, tutte chiuse. La moquette violacea si stendeva fino in fondo, dove una grande finestra presentava la piazza d’Amarantopoli ben illuminata.
Percorse silenziosamente la strada che lo divideva dalla sua stanza, con le mani nelle tasche dei pantaloni e la testa bassa. Tirò fuori la chiave magnetica e sbloccò la serratura.
Entrò e vide Blue, di spalle, affacciata alla finestra.
“Aveva un alibi”.
Blue si voltò, scura in viso. Capì subito che fosse turbata, si limitò a guardarlo e a tornare a fissare dritto. Lui rimase fermo per un attimo, poi chiuse la porta e sospirò. Smontò le scomode scarpe e levò il cappotto, gettandolo sul letto. Si avvicinò poi a lei, aderendo alle sue natiche e piegandosi in avanti. Le baciò il capo, in un timido tentativo di decifrarla.
“Che succede?”.
Non rispose, quella, continuando a specchiare nei suoi occhi le luci della città. Di certo non poteva dirgli di Red, della sua reazione, delle sue parole nella hall, e ancora prima del volto di Yellow mentre le diceva che non la voleva nella sua vita.
“Nulla…” rispose, schiudendo leggermente le labbra. Si avvitò su se stessa.
Green sentiva il profumo dolce dei capelli della donna, e si sporse in avanti, per darle un bacio. Quella lo accolse, avvitandosi leggermente su se stessa, mentre sentiva le braccia dell’uomo avvinghiarsi contro il suo corpo. Sentiva la virilità dell’uomo premerle contro le gambe e la cosa la infastidiva.
Ripensò ancora a Red, poi a Green, infine volò lontana, indietro nel tempo, in quella tenda sotto la tempesta. Il cuore batteva forte, poi la mano di Green le strinse un seno e lei tornò lucida.
Fece per voltarsi, dando le spalle alla città. Il freddo le baciava la pelle.
L’uomo indietreggiò di un passo e sospirò.
“Tu hai qualcosa. Non rispondermi con quel nulla, non mi prendi in giro…”.
La ragazza ridacchiò, pensando al fatto che fosse sempre stata abile a truffare le persone tranne quella volta, in cui ne aveva più bisogno.
“Perché ridi?”.
“Ma nulla…” gli rispose, guardandolo negli occhi verdi. “Ho solo bisogno di riposarmi…”.
“Perché non vai a farti una doccia calda? Ordiniamo qualcosa in camera e guardiamo un porno o qualcos’altro…”.
Blue lo vedeva tranquillo e naturale nei suoi movimenti che sicuramente non si sarebbe mai aspettato d’avere accanto una donna che avrebbe potuto distruggerlo, se lui fosse stato in grado di leggerle i pensieri.
“Hai ragione…” sbuffò, sfilando lentamente i pantaloni e sculettando stanca verso il bagno, prima di sparire oltre la porta. Si lavò, e quando tornò in camera con ancora i capelli bagnati vide Green che manteneva il cellulare tra la spalla e l’orecchio, nello sgraziato tentativo d’indossare la camicia.
“Che succede?” domandò quella, strofinando i lunghi capelli all’interno d’un asciugamani bianco.
Quello si voltò, come per ignorarla volutamente. Lei allora aguzzò l’udito.
“Rovine d’Alfa?!” diceva Green. Camminava freneticamente da una parte all’altra per la stanza, senza riuscire a trovare un attimo per infilare la manica destra della camicia. Si fermò poi davanti alla finestra, immobile.
“Ma dovranno pur esserci delle riprese di videosorveglianza che… sì, e che si vede?”.
Torse la spalla con una verso di sforzo e infilò il braccio destro, poi prese a sistemare il colletto. Blue lo vide spalancare gli occhi.
“Cosa succede?” domandò, mentre quello si sfuggì alla domanda, andando verso la porta d’ingresso.
“Jasmine?! La… Jasmine, di Olivinopoli?!”.
“Cosa?!” urlò Blue, spazientita.
“Stiamo arrivando!” fece, senza neppure attaccare, chiudendo solo il bottone centrale della camicia e saltando nelle scarpe.
“Allora?!”.
“Era Valerio. Stanno saccheggiando le Rovine d’Alfa”.
“E cosa c’entra Jasmine?!” chiese, gettando via l’asciugamano e lasciando cadere l’accappatoio. Rimase nuda per pochi secondi, infilando rapidamente slip e reggiseno..
“Lo sta facendo lei”.
Blue rimase sgomenta. Infilò una sottile maglietta intima sotto a un maglioncino di filo azzurro, poi leggins e boots ai piedi, uscirono praticamente subito, lei aveva ancora i capelli bagnati. Lui aprì la porta e fece per uscire, quando si fermò.
“Devo chiamare Jasmine e assicurarmi che Xavier Solomon se ne stia per fatti suoi. Tu chiama Red e Yellow e correte a Violapoli, ci vediamo lì”.
“No” ribatté quella, facendo cenno di no con la testa. Green parve stopparsi subito, guardandola con un grosso punto interrogativo sul viso.
“Cosa?”.
“Telefonerò io a Jasmine... Avverti tu gli altri”.

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 - Tessere Del Mosaico ***


17. Tessere Del Mosaico


 
Johto, Rovine d’Alfa
 
I grilli frinivano, nel buio di quella notte appena nata.
Poche luci, fuori dalla grande Violapoli, qualche lampione qui e lì e rumori costanti nei punti dove l’erba era più alta. La carovana di Allenatori era guidata da Red e Yellow, che precedevano lentamente Sandra e Valerio, prima di Blue e infine Green, che chiudeva la fila.
Quest’ultimo aumentò il passo, affiancando la donna.
“Quindi? Che hanno detto, quei due?” domandò, mettendole una mano sulla spalla per catturare la sua attenzione.
“Xavier è a casa sua, con sua madre. Jasmine invece è ad Olivinopoli, al faro”.
“Ho bisogno che venga qui”.
“Già l’ho avvisata. Lei e Corrado saranno qui tra pochi minuti”.
“Meraviglioso...” sospirò Green. Il suo alito si tramutava in fumo e si disperdeva quando saliva in alto, sotto lo sguardo protettivo della luna e delle stelle. L’odore d’erba umida s’alzava ad ogni loro passo. Quando entrarono nel varco che precedeva le rovine, Yellow si voltò, come a chiedere conferma di poter proseguire.
“Andiamo?” domandò Red.
Sandra annuì, afferrando una sfera tra le mani, mentre Valerio rimase indietreggiò un attimo, spostando lo sguardo parecchio preoccupato.
“Che ti prende?” domandò Green.
“Ci sta aspettando l’addetto alla sicurezza, quello che ha visto le riprese delle telecamere… Ha chiaramente specificato che Jasmine, la Capopalestra di Olivinopoli, è entrata nella Sala 1 e ha ammazzato uno spazzino. Sapendo della situazione di Sandra...” si voltò verso la donna e poi la guardò negli occhi, previo non riuscire a sostenere il suo sguardo. “... beh, dovremmo stare molto attenti”.
“Hai fatto bene a chiamarci subito. Staranno ancora agendo” annuì Red, infastidito dagli occhi di Blue che lo scrutavano. Si sentì denudato da quello sguardo colpevole, tant’era vero che si voltò a controllare che Yellow non stesse guardando.
“Dobbiamo varare un piano d’azione” riprese Green. Valerio fece cenno di seguirli verso la parete di fronte al bancone del varco, che vedeva affissa una gigantografia della pianta delle rovine.
Il Capopalestra sospirò e quindi annuì. “La Sala 1, la Sala 2, la Sala Alfa e la Sala 7 contengono degli antichi mosaici. Staranno puntando sicuramente a quelli”.
“Dobbiamo dividerci” osservò Yellow.
“Sì” convenne Valerio.
“Gli altri Capipalestra sono in arrivo” fece invece Sandra, controllando il Pokégear. “Ho ritenuto opportuno avvertirli”.
Red la guardò e sorrise, teso. “Bene. Quattro gruppi per quattro obiettivi”.
“Blue, Yellow e Sandra si dirigeranno in una delle sale” ordinò Green, ignorando lo sguardo vacuo che la bionda consegnò alla Dexholder di Biancavilla. “Io e Red ci dirigeremo assieme in un’altra delle stanze e gli altri Capipalestra, compreso te, Valerio, si divideranno nelle due sale rimanenti. Comunicheremo tramite la radio del Pokégear, intesi?”.
Tutti annuirono. Red fu sinceramente colpito dalla scelta del ragazzo di fare coppia nella divisione delle strade; la prese come una possibilità d’apertura, quindi annuì, consapevole. Si accorse poi degli occhi di Blue, atti nuovamente a scrutare il suo volto. Incrociò il suo sguardo, poi notò che Yellow e stesse fissando proprio la donna.
“Tesoro” disse poi quello dagli occhi rossi, avvicinandosi alla sua fidanzata. “Stai attenta”.
“Anche tu” rispose quella, delicata come sempre. Si scambiarono un tenero bacio e si divisero, con gli uomini che proseguirono per la Sala Alfa e le donne che varcarono la soglia della Sala 7.
 
 
Rovine d’Alfa, Sala Alfa
 
Quella era la sala più grande. La luce della luna entrava da ampie finestrate dalle intelaiature in alluminio, costruite successivamente. La falce illuminava leggermente le pareti che si stagliavano sulla destra di Green e Red, lasciando quelle a sinistra totalmente buie. Quello dagli occhi verdi s’avvio lentamente, affondando i passi nella notte.
“Aspetta” fece Red. “Lascerò che Pikachu utilizzi Flash... Almeno ci aiuterà con la visibilità”.
L’altro si bloccò e si voltò, lanciando un’occhiata torva al partner.
“Non dobbiamo farci localizzare. Quindi niente luce e bocca chiusa”.
Il moro inarcò un sopracciglio. “Come vuole, generale...”. Seguì quindi il ragazzo e sospirò, notando la sua freddezza.
“Perché hai voluto che venissi con te, se a stento mi guardi in faccia?”.
“Silenzio, ho detto”.
“Non sei mio padre, rispondimi” rimbeccò quello, trattenendolo per la tracolla. Quello si voltò, sfidando il suo sguardo.
“Nonostante non abbia di te la benché minima considerazione non posso negare la tua abilità con i Pokémon. Io e te siamo più che sufficienti per controllare questa zona”.
Red avrebbe voluto sentirsi dire altro ma si limitò a sostenere per qualche secondo ancora il suo sguardo, prima che il volto di Blue entrasse di prepotenza nella sua mente e lo costringesse a ricordare la discussione che avevano avuto qualche ora prima.
“Avanza” disse a quello, lasciando la presa dalla sua borsa. Lo seguì a qualche passo di distanza, riflettendo su ogni possibile implicazione che la donna del suo amico avrebbe potuto creare.
 
Non sbaglierò di nuovo. Yellow è la donna che amo.
Io rimarrò con lei. Blue è un problema di Green.
 
Poi le immagini del suo petto nudo che danzava sotto ogni movimento del corpo riaffiorarono alla mente; sentiva ancora, Red, il rumore della pioggia che batteva sul telo della tenda che aveva montato quella sera di sei anni prima, l’odore dell’erba e del corpo bollente della donna dentro la quale era entrato. L’aveva posseduta, non completamente forse, per qualche attimo d’infinito che s’era impresso nella sua memoria come un marchio a fuoco, e aveva pagato per quel peccato, con la solitudine e il rimorso di chi aveva sbagliato e se n’era reso conto troppo tardi.
Lui aveva già pagato per via di Blue. Non sarebbe caduto di nuovo in tentazione, non avrebbe perso nuovamente la donna che amava per del sesso squallido e senza il piacere mentale che ne conseguiva. Ripensò però alle preoccupazioni di Yellow, e le collegò alle parole di Blue, che lo avvertiva del fatto che la bionda avesse avuto il coraggio di affrontarla e tagliarla fuori dalla sua vita. E quell’atteggiamento era figlio della convinzione che Red pensasse ancora alla fidanzata dell’amico di sempre.
E non era così, no.
La nuca di Green diventava il suo volto, soltanto per qualche breve secondo, quando si voltava velocemente a controllare che nessuno li seguisse.
“Avanza” ripeté Red, col cuore che batteva lento quando poi un rumore sinistro li allertò. Green bloccò il passo e Red finì per trovarsi accanto a lui. Il lungo corridoio era quasi terminato, lasciando spazio a un bivio e ad un grosso muro che correva lungo tutto l’edificio.
Green fece segno di aver sentito il rumore a destra e l’altro annuì, spostandosi rapidamente su quel lato. Aderirono rapidamente al muro che avevano a destra, con tutte quelle strane incisioni, raffiguranti Unown e geroglifici vari. Green s’abbassò sulle ginocchia mentre Red rimase in piedi.
Annuì. Li aveva sentiti. Vide l’altro contare fino a tre con le mani prima di annuire e mettere le mani alle sfere. Fece poi una capriola e gettò nel corridoio di destra, mandando in campo Arcanine.
“Copertura aerea!” esclamò, prima che Red chiamasse Aerodactyl. Corse al fianco dell’uomo dagli occhi verdi e guardò gli avversari: dapprima erano due, ombre nascoste nel buio disturbato dal bagliore lunare, ma sempre più voci presero ad accalcarsi al lato opposto del lungo corridoio.
“Ci stanno accerchiando…” digrignò i denti Green.
“Sono tanti, ma non troppi! Aero, cerchiamo di non rompere nulla, siamo pur sempre in un museo!”.
“Arcanine, pronto!” esclamò invece l’altro, in direzione del Pokémon Leggenda. Era così grande che quel corridoio apparve improvvisamente più stretto. “Non dobbiamo distruggere nulla. Stiamo attenti. Dobbiamo semplicemente mettere fuorigioco quella gente”.
“Hey, voi!” urlò Red. “Dov’è Jasmine?! Arrendetevi senza combattere ed eviteremo tutti di perder tempo!”.
“Attaccate” disse placidamente il primo figuro, più alto e muscoloso degli altri, stretto comunque all’interno di una mimetica grigia. La maschera antigas era abbassata sul volto e nascondeva il suo sguardo agli occhi dei due Dexholders. Sei sgherri, più minuti e gracili di quell’omone, avanzarono mandando in campo altrettanti Gengar.
Red guardò per un attimo Green, col volto preoccupato: era tutto veramente molto buio.
“Dobbiamo accendere le luci, Green, altrimenti saremo bersagli facili. Si muovono tra le ombre…” avvertì il primo.
“Lo so benissimo, cazzo. Ma non credo che ci lasceranno andare via per alzare gli interruttori”.
“Non ci sono neppure... Qui hanno ancora le lampade ad olio...”.
Green osservò a sinistra e, proprio a pochi da metri da lui, una fiaccola spenta d’ottone pendeva dalle pareti incise.
“Ho un piano, ma devi cercare di tenerli a bada”.
Red annuì e spostò un ciuffo di capelli dal volto, sorridendo. “Ma dovrai prestarmi il tuo Arcanine per un attimo”.
“Fai pure” fece, muovendosi lentamente alle spalle del partner, superandolo e avvicinandosi alla lampada ad olio.
“Arcanine! Facciamo un po’ di luce e cerchiamo di tenerli lontani! Lanciafiamme!”.
Il grande Pokémon del Capopalestra di Smeraldopoli rilasciò una grande fiammata, che andò a illuminare l’intero corridoio, costringendo i Gengar a sparire all’interno delle fughe dei muri, dove il fuoco non poteva arrivare.
“Trattienili, cucciolone! E tu, Green, non perdere tempo! Che stai facendo?!”
Due Gengar apparvero dall’alto, colpendo Aero e facendogli perdere qualche metro di quota.
“Aspetta, Red...” sussurrò quello, smontando la lampada. Ancora era presente, all’interno del serbatoio della fiaccola, olio profumato ed altamente infiammabile. Altri due Gengar apparvero alle spalle dell’altro Dexholder e gli afferrarono le caviglie. Red urlò.
“Oh! Aiutami, Green!”.
Aero, Levitoroccia!” urlò proprio quello, vedendo il Pokémon dell’altro staccare detriti appuntiti dal soffitto della volta delle rovine, che si sistemarono ordinati e pronti per colpire i nuovi avventori.
Green alzò lo sguardo, col volto illuminato dalle fiamme del proprio Pokémon, e lanciò il serbatoio della lampada pieno di combustibile verso le rocce affilate, che cominciarono a grondare olio.
“Arcanine!” ribatté Red, che intanto aveva capito il piano. “Spara il tuo fuoco verso le rocce in alto!”.
Un altro Gengar apparve proprio davanti a lui, e lo attraversò da parte a parte. Red urlò, provando una sensazione di gelo nelle ossa; si sentì inerme, immobile. Fu quando Arcanine eseguì l’ordine del ragazzo che le rocce diventarono immediatamente grossi focolari, luminosi e caldi come lampadari.
La luce si diffuse veloce lungo tutto il corridoio. Aero sbatteva le ali, a pochi metri dal capo di Red, ormai liberato dalla stretta degli avversari; questi ultimi, infatti, furono spaventati dalla forte luminosità e furono costretti ad indietreggiare, prima di ritornare ordinatamente davanti ai propri Allenatori.
“Benissimo” sorrise Green. “E un problema è risolto. Ora dobbiamo solo stenderli... Arcanine, avvicinati rapido ed usa Sgranocchio su quello di destra”.
“Aero! Vai in copertura e tieniti pronto!” ordinò l’altro, rimettendosi in piedi.
Il grosso cane s’avvicinò così velocemente all’avversario più isolato, quello sulla sinistra, da non dare neppure il tempo al suo Allenatore di urlargli qualche contromossa, e nel tempo d’un respiro le fauci fameliche s’erano chiuse e riaperte più volte su di lui. Infierì su quel Gengar con così tanta aggressività che una scia scura e fumosa lasciò il corpo dello spettro e si levò verso l’alto.
“Ottimo...” sussurrò Green, col volto illuminato dalle fiamme.
Fu Red il primo ad accorgersi di un secondo Gengar, evidentemente parecchio vendicativo, pronto ad avventarsi sul Pokémon del Ricercatore.
Ombrartigli!” ordinò ad Aero, e quello fu ricettivo e rapido, gettandosi in picchiata e afferrando con le zampe inferiori l’avventore.
Lo sbatté al muro accanto dilaniando l’avversario, smembrandolo in stracci d’ombra gelida.
“Non dobbiamo fare danni, Red”.
“Pardon”.
Arcanine aveva finalmente terminato di stringere con le mandibole forti il Gengar che aveva attaccato, lasciandolo per terra esanime.
“Ora passa al prossimo. Ruotafuoco”.
Il grosso cane saltò e s’arrotolò su se stesso, emanando le stesse calde fiamme che cadevano dal soffitto della grotta. Passò nel gruppo degli altri Gengar, i restanti quattro, colpendone uno e finendo per bruciare anche le mimetiche di due degli sgherri.
Aero, Dragopulsar!” ordinò invece l’altro, vedendo urlare i mercenari, due dei quali si allontanarono di corsa. I loro Pokémon furono colpiti, e reagirono con Palla Ombra. Le due sfere di buio andarono a segno, entrambe, facendo ruzzolare l’Aerodactyl del ragazzo sui marmi che calpestavano.
“Arcanine, copertura!” esclamò Green. Quello ascoltò gli ordini dell’Allenatore, rotolando in direzione del compagno di team e saltando proprio davanti a lui, ritornando a quattro zampe, basso e solido. Ringhiava aggressivo.
“Quell’uccellaccio ha quasi distrutto il pavimento” continuò Oak.
“Eh, lo so, non è un Pokémon leggero, questo… Rimettiti in volo subito, Aero!” esclamò fiducioso l’altro, vedendo poi il suo Pokémon spalancare le ali.
“Ottimo. Tu pensa agli altri due” fece Green, che poi allungò l’indice verso il proprio Arcanine. “Turbofuoco. Cerchiamo di limitare loro i movimenti”.
Una spirale incandescente prese a stringersi sempre più velocemente attorno ai due Gengar, aumentando la potenza del vortice in maniera sempre maggiore, finendo per colpire in più parti i già malandati avversari e mettendoli fuori combattimento. Green annuì, soddisfatto. Allungò poi lo sguardo verso Aero, vedendolo molto più in difficoltà.
Ombrartigli, di nuovo!” esclamava Red, vedendo il suo Pokémon picchiare verso il basso con le ali praticamente chiuse, mentre dalle zampe inferiori le grinfie venivano ricoperte da fumo nero e sinistro; affondò nel volto di uno degli avversari.
L’altro, invece, giocò d’astuzia, finendo per utilizzare l’attacco Ipnosi contro il Pokémon di tipo Roccia. Quello rovinò rapido per terra, dormiente e tranquillo. Entrambi i Gengar sghignazzarono e toccarono velocemente il corpo dell’Aerodactyl di Red, sparendovi all’interno.
Gli occhi del Pokémon, chiusi, si strinsero con forza, e poi ancor di più.
Incubo...” sospirò Green, avvicinandosi a Red. “Dobbiamo svegliarlo”.
Aero! Forza, sei nel bel mezzo di una battaglia!”.
Ma a nulla valsero i mille richiami dell’Allenatore: i due Gengar straziarono l’ormai addormentato Aerodactyl, finendo per mandarlo fuori combattimento.
Red s’accorse che nonostante la lotta si fosse conclusa in suo sfavore, i Gengar erano ancora lì pronti ad attaccare.
“Bastardi!”.
“Non sono nemmeno sicuro che tu riesca a liberartene se facessi rientrare Aerodactyl nella sua sfera…” osservò con calma surreale Green.
“Ora li sistemo io! Vee!”.
E dalla Pokéball uscì un meraviglioso esemplare di Espeon. Si muoveva sinuoso avanzando lentamente, in attesa che Red gli desse un ordine.
Psichico!”.
Gli occhi del Pokémon s’illuminarono e bloccarono alcune delle rocce infuocate che presero a cadergli addosso, per l’effetto di Levitoroccia.
Il corpo di Aero fu ricoperto dalla stessa patina azzurra, cominciando a fluttuare; Red vide le ali del proprio Pokémon aprirsi involontariamente e, qualche secondo dopo, i due Gengar furono spinti fuori dalla sua ombra. Espeon li stava colpendo con forza, Green se ne accorgeva dalle mimiche dei due Pokémon Spettro, sofferenti in viso, come se qualcuno li stesse combattendo dall’interno dei propri corpi. Vee li fece fluttuare a mezz’aria, a un metro da terra.
“Finiscili mentre li trattengo…” sospirò Red, facendo rientrare Aero nella sfera.
“All’americana...” sospirò l’altro, calmo. “Arcanine, Lanciafiamme”.
Alla fine rimase soltanto fumo scuro; i due Gengar erano spariti.
Non avevano più avversari.
 
*
 
Mentre Red fece rientrare il suo Espeon, Green decise di rimanere accanto ad Arcanine; tutti e tre presero ad avanzare verso l’ultimo scagnozzo, quello più alto.
“Levati dai piedi” suggerì il capo dell’Osservatorio.
“No” rispose l’altro, avanzando a sua volta. Il muro centrale, quello con le incisioni che raffiguravano gli Unown, era quasi terminato.
Solo quell’uomo era posto tra i due Dexholder e la fine della loro missione.
“Dimmi chi sei” tuonò nuovamente Green. I suoi occhi smeraldini erano ancora illuminati dalle schegge di roccia che dal soffitto donavano luce e un po’ di calore. Fissavano la figura massiccia dell’uomo: le grosse mani erano infilate in guanti scuri, uno di quelli stringeva una sfera.
Il volto era coperto da una grossa maschera antigas.
“No”.
“Sei tu il capo di tutta questa merda?” urlò ancora Green Oak, che intanto guardava attorno a lui tutte le possibili vie di fuga. Fu Red a vederlo sorridere, mentre si alzava la maschera.
“Io lavoro soltanto per me stesso” rispose divertito, mostrando il volto roccioso: aveva labbra grosse e carnose, circondate dal pizzetto, ben regolato, scuro ed elegante. Gli occhi, come quelli di Green, erano verdi e profondi, e fissavano i due ragazzi.
“Non vi lascerò passare” tuonò, con quella voce baritonale.
“Beh, hai due scelte...” faceva il più calmo Green, quando Red lo interruppe.
“Già! O ti levi di mezzo oppure ti levi di mezzo e ti riempiamo di botte!”.
 “Datti una calmata” lo redarguì l’altro.
L’ex Campione si voltò, sorpreso.
“Non hanno etica! Sono mercenari pronti a tutto!”.
“Lo so, ma questo è lo stile di Gold, non il tuo. Quindi ripeto, datti una calmata”.
“Stavano per ammazzare Aero! E dopo la sconfitta sono scappati tutti!”.
L’uomo in mimetica lo interruppe.
“Io non fuggirò” disse, staccando totalmente la maschera antigas e gettandola per terra. I riflessi ambrati del fuoco che lentamente andava a estinguersi doravano il volto olivastro dell’uomo, assieme a lunghi capelli ricci e neri.
Red sospirò e continuò ad ascoltarlo.
“Ho una mia etica. Sono stato pagato per lottare la battaglia di qualcun altro e lo farò, perché sono un uomo d’onore”.
“Stai lottando per il motivo sbagliato!” urlò il più impulsivo tra i due.
“Non m’interessa, Red di Biancavilla. Chi mi ha ingaggiato lo ha fatto aspettandosi che vi avrei fermato abbastanza da permettere che il colpo andasse a segno. E semmai dovessimo lottare lo farò, fino alla morte”.
“L’hai voluto tu...” sussurrò Red tra i denti, con la testa bassa e il ciuffo spettinato sulla fronte. Prese nuovamente la sfera di Espeon e lo mandò in campo.
“Vai, Gengar” ordinò invece l’altro, che dalla propria Pokéball lasciò uscire l’ennesimo esemplare del Pokémon Ombra.
Green inarcò un sopracciglio: gli aveva mostrato d’esser riuscito a fronteggiare sei Gengar contemporaneamente, si sarebbe aspettato più intelligenza, magari un avversario differente da combattere. Il grande sorriso dello spettro era visibile distintamente nel buio del corridoio. Il suo Allenatore poi tirò fuori dalla tuta mimetica un ciondolo che aveva attaccato al collo, guardò serio Espeon e Arcanine e alzò gli occhi verso i Dexholder.
“Megaevolviti!” urlò d’improvviso, con la voce che rimbombava lungo l’intera sala, corridoio dopo corridoio. Red digrignò i denti e guardò Green.
“MegaGengar...” sussurrò quest’ultimo, sorpreso e preoccupato. “Un Pokémon davvero temibile, Red. Hai Megapietre?”.
“Sì... ma non ora…”.
Quello dagli occhi verdi si voltò verso di lui e lo guardò corrucciato. “Che diamine starebbe a significare?”.
MegaGengar aveva ormai finito il processo d’evoluzione quando Red rispose.
“Che non posso usarla ora”.
“E perché mai?!”.
“Attento!” urlò l’altro, spingendo Green per terra quando un grosso attacco Palla Ombra li stava per investire.
“Non posso, in questo momento. Userò Espeon e...”.
E d’improvviso le rocce caddero tutte, spegnendosi.
Era buio.
“Porca puttana! Charizard!” urlò Green, chiamando in campo il suo primo Pokémon. La grossa fiamma sulla coda aveva donato colorito ai volti dei ragazzi ma sapevano benissimo che con un Pokémon che viveva nell’ombra tutto quello non fosse abbastanza.

 
Kanto, Aranciopoli, Ospedale Civile
 
Era freddo, il vetro della finestra.
Marina lo toccava con la fronte, che ormai era fredda. Gli occhi facevano fatica a rimanere aperti ma lei non poteva dormire, perciò si costringeva a contare le automobili che passavano davanti al porto civile, pronte per essere imbarcate.
A un certo punto cominciò a classificarle in base al colore: aveva contato, in tutto, sessantasette automobili bianche, per lo più Toyota e Nissan. Qualche Suzuki e pochissime auto tedesche. A lei non interessavano per nulla le auto ma a suo padre piacevano e, pur di farsi accettare da lui in quello strano periodo che era la preadolescenza, aveva finito per informarsi su motori e case di produzioni meccaniche.
“Lamborghini...” ripeteva suo padre. “Sono le più belle...”.
Lei sorrideva, annuiva. Del resto le interessava soltanto passare del tempo con lui, e quello le pareva un buon compromesso. Poi crebbe, capì che non valeva la pena cambiare, modificare la propria esistenza per un uomo, persino suo padre. Seguì la strada che s’era prefissata e si ritrovò Ranger ad Oblivia, prima di cambiare di nuovo idea e cominciare ad amare un uomo che aveva odiato, adattarsi alla sua vita e venire meno alle promesse fatte. Tutto per quel folle.
Tutto per Gold.
Si voltò, con l’elettrocardiogramma ormai stabile da parecchie ore, che singhiozzava sempre presente. Sospirò, non riusciva ad abituarsi nel vederlo steso in quel letto.
Non in quel modo almeno, così inerme e silenzioso.
Annuì, capendo che fosse quello il problema: il silenzio. Dove c’era Gold, il silenzio era sempre fuggito via, non compatibile.
“Che diamine...” sorrise amaramente la donna, avvicinandosi a lui. La mano di quello era stesa lungo i fianchi; gliela strinse.
“Io... io mi sento sola, amore. Per favore...” prese a piangere, per l’ennesima volta in quelle ventiquattro ore. “Per favore, m’inginocchierò per tutta la vita ai tuoi piedi ma, ti prego, svegliati!”.
Strinse le sue dita ancor più forte, sperando di sentirlo fare altrettanto, invano purtroppo.
“Ti prego! Svegliati!” urlò, piangendo ancora. “Ti prego...”.
E l’ultimo fu un sussurro.
 
 
Rovine d’Alfa, Sala 7
 
Rumori profondi e cavernosi s’alternavano a quelli delicati dei passi di Blue, Yellow e Sandra. Tutte stringevano tra le mani una sfera e camminavano radenti al muro di destra.
Il vento ululava, mentre la prima sgattaiolava nel buio della notte e analizzava la situazione, bassa sulle gambe. Il corridoio a destra era l’unica via percorribile, dato che si trovavano nella parte ovest dell’edificio. Si abbassò ulteriormente, quasi inginocchiandosi, lasciando le altre due leggermente perplesse, prima di annuire e voltarsi.
“Tutto libero, possiamo andare. Dobbiamo stare attente…” sussurrò Blue, nel silenzio. “Un uomo è morto e niente impedirà all’assassino di fare lo stesso di noi, se non apriamo le orecchie”.
Sandra annuì, quasi impercettibilmente.
“Hai ragione”.
Yellow rimase immobile, vedendo le due avanzare più veloci, lasciandola indietro di qualche passo. Fece per raggiungerla, quando poi qualcosa attirò la sua attenzione. Era solo una sensazione, un fruscio distante, come se il vento avesse attraversato una foresta immaginaria in cui era immersa.
Scacciò il pensiero e vide Blue stopparsi, subito dopo aver voltato l’angolo.
“Che succede?” domandò Sandra.
Quella dagli occhi blu indietreggiò, con gli occhi spalancati.
“L’avete visto anche voi?” domandò, turbata. Si voltò rapidamente verso Yellow e Sandra, che la seguivano visibilmente allarmate.
“Che cosa?” domandò la Capopalestra d’Ebanopoli. La raggiunse, vedendola bloccarsi.
Le sue pupille erano dilatate.
“Non... non avete visto la neve?”.
Sandra sentì Yellow affiancarla. Si voltò a guardarla e le fece segno di no.
“Non c’è nulla” rispose, incrociando le mani sul ventre. Blue la guardò, confusa e impanicata, e per la prima volta da quando la conobbe, la donna dai capelli castani riconobbe qualcosa che nello sguardo dell’altra non aveva mai visto: sufficienza.
Sussultò.
 
Cos’è?! Non mi crede? Non crede che io abbia visto nevicare?
 
“Ti sarai impressionata” aggiunse Sandra.
Blue si fermò, ben conscia d’essere giusto nel corridoio di una struttura piena di nemici.
Guardò poi gli occhi celesti della Capopalestra e aguzzò l’udito.
Passi.
“Ecco!” bisbigliò. “Li sentite?! I passi!”.
“No…” ribatté Yellow, fredda. “Non sentiamo nulla”.
 
Mi sta provocando.
 
Le parole della bionda risuonavano nella testa della Dexholder, sostituiti poi dal rimbombo baritonale che stava ascoltando. Decise di imbracciare il coraggio come un fucile e afferrare la sfera di Blasty, per poi avanzare più velocemente.
“Fermati!” bisbigliava Sandra alle sue spalle. “Finirai per farti catturare!”.
 
*
 
Blue non si rendeva conto di come la luce della luna s’espandesse, riempiendo di luce bianca il pavimento. Percepiva il freddo aumentare, e un vento gelido prese a soffiarle sul volto, pizzicandole la pelle delle guance. Allungò la mano, toccando la parete al suo fianco. La superfice di tufo era ruvida al tatto
Si morse il labbro e strinse gli occhi.
 
E poi si accorse di avere le caviglie immerse nella neve fredda.
 
Batté le palpebre diverse volte e deglutì. Non capiva, anche se quella sensazione le pareva familiare. Grattò con le unghie sul muro, ma quello era diventato improvvisamente un albero, dalla corteccia nodosa. Davanti a lei era tutto bianco: era in una radura.
E vedeva, davanti a lei, il profilo sorridente di una bambina, che correva goffamente nella neve.
 
Quella…
 
“Non mi prendete!” urlava la piccola, gioiosa. Aveva lunghi capelli scuri, macchiati qua e là da fiocchi candidi. Blue decise di avvicinarsi lentamente, guardandosi attorno e non vedendo altro che le montagne sullo sfondo e gli alberi che formavano un anello verde attorno a quella distesa piana.
 
Quella bambina...
 
Alle spalle della piccola s’avvicendava una coppia di adulti, un uomo e una donna, sorridenti come lei, atti ad inseguirla.
 
Non... non può essere…
 
Guardava la dolce famigliola a più di trenta metri, nascosta dalle fronde di un abete rigoglioso: l’uomo, molto magro, portava un paio di doppi occhiali, tenuti stretti alla testa tramite le cuffie invernali che indossava, azzurre. I capelli neri erano ben pettinati all’indietro. Fu lui a inciampare e a scatenare il sorriso della donna, la moglie, magra, stretta nel suo piumino. Aveva i capelli castani, molto lisci.
La bambina le somigliava molto.
“Papà è caduto!” urlò quella, voltandosi e mostrando a Blue il volto: una finestrella aperta tra i denti mostrava la lingua in quello che era un grande sorriso. Gli occhi, azzurri come il mare, rilucettero nel candore diffuso dell’ambiente, sporcato solo dai vestiti dei tre e dai tronchi scuri degli alberi che li circondavano. La piccola si avvicinò a loro, lanciando palle di neve.
“Smettila, Blue!” urlò la madre.
 
Quella sono io.
 
Blue, quella adulta, rimase immobile. Guardava la scena con la bocca semischiusa e lo sguardo fisso sui tre.
 
Ricordo.
 
Una volta, suo padre la inseguì e finì per inciampare. Si stava divertendo, e sarebbe stato il momento più bello di tutta la sua vita, se non fosse stato per quello che sarebbe successo pochi secondi dopo. Mai avrebbe dimenticato il terrore in cui si era tuffata quando il flebile sole fu oscurato da una grossa ombra, che andava ad ingrandirsi mano a mano che i secondi passavano.
Nonostante fosse soltanto spettatrice sentiva ancora nelle sue arterie il mix d’adrenalina e paura che le aveva percorso l’intero sistema nervoso. La bambina che aveva davanti non si aspettava minimamente ciò che le stava succedendo.
Non si era resa conto della grossa ombra che l’aveva sovrastata. E neppure i suoi genitori, certo. Blue però lo sapeva, e magari avrebbe potuto urlarle di nascondersi, di andare via di lì.
Avrebbe potuto anche correre verso di lei e tirarla via, ma lo vedeva; Blue vedeva quell’enorme uccello dal piumaggio rosso, dalla coda gialla e dal lungo becco appuntito, e il cuore le era saltato in gola.
Aveva paura.
 
No…
 
Ed era la stessa paura che aveva provato quando, tanti anni prima, Ho-Oh l’aveva presa tra le zampe e l’aveva portata via. La stessa paura che aveva provato quella versione di lei, bambina e ingenua, mentre gli artigli le stringevano il petto e le laceravano il cappottino, sollevandola e portandola via. La vedeva urlare terrorizzata, la vedeva piangere.
 

 
Blue ricordava quegli artigli, freddi e nodosi, che le stringevano il corpo con tenacia. Ricordava il vento sul viso quando aveva superato le nuvole, ricordava quel freddo che le strappava le lacrime dal collo. Ricordava la vita che aveva passato per via di quella faccenda.
Il cuore le si fermò, quando vide gli occhi dei suoi genitori, spegnersi, accendersi, incontrarsi.
Impallidirono, prima di urlare e cominciare a correre.
Successe prima che si disperassero: affondarono con le ginocchia nella neve, rendendosi conto della loro impotenza. Cominciarono a urlare contro il cielo.
Sua madre era quella più distrutta. Sul suo viso c’era l’espressione di chi avesse appena perso tutto.
Sospirò, Blue.
Fu forse il volto di sua madre a convincerla a prendere di petto quella situazione e a stringere ancor più forte la sfera di Blasty.
“Inseguilo!” urlò, salendo sul grosso carapace del Pokémon. Aveva paura, ma i suoi genitori la guardarono stranita, con le lacrime agli occhi. Le urlarono qualcosa ma quella non riuscì a sentirli dato che, proprio in quell’istante, Blastoise utilizzò i suoi cannoni come propulsori e lei sparì via, lasciando che l’acqua sciogliesse la neve che s’era depositata su quel prato maledetto.
 
*
 
“Blue… Blue!” esclamò Sandra, scuotendola per un braccio, mentre la vedeva immobile a fissare il vuoto. Yellow la raggiunse rapida, passandole una mano davanti al volto.
Guardò preoccupata la Capopalestra e sospirò.
“E ora cosa le prende?”.
 
*
 
Non avrebbe mai potuto volare alla velocità di Ho-Oh, Blue, lo sapeva, ma Blasty riuscì lo stesso a non perderlo di vista. Si diressero lontani da Biancavilla, superando con non poca fatica il massiccio del Monte Argento. Vide dall’alto quello che doveva essere il paese dei Domadraghi e poi oltre, Mogania, nella sua antica monumentalità. La sorpassarono, le acque del Lago d’Ira venivano cullate dal vento che acuiva i pizzichi del gelo. Sorvolarono per diversi chilometri il bosco a nord di Johto fino a quando, su di una piccola collina, Blue vide ergersi il maniero.
Quell’orribile incubo era nuovamente davanti ai suoi occhi.
Atterrò abbastanza lontana, per non essere vista. Era tuttavia in grado di osservare il grosso Pokémon scendere a terra e posare la piccola se stessa nella neve.
Maschera di Ghiaccio aspettava in piedi, davanti alle porte aperte della sua fortezza.
La piccola Blue aveva paura, quella grande aveva una smorfia di sdegno sul volto.
Lo vedeva, stretto nel suo mantello nero e lungo, alto e con quella fluente chioma candida che danzava sospinta dal vento. Una grande maschera copriva il suo volto. Una simile nascondeva anche i visi dei quattro bambini che aveva accanto.
“Piccola Blue...” disse quello, muovendo un passo. Subito dopo fece cenno al grande uccello di volare via e quello eseguì, lasciando che l’aria spostata dalle sue ali investisse la schiena della nuova arrivata.
La piccola, dal canto suo, era terrorizzata: il volto era pieno di lacrime, alcune erano riuscite a raggiungere la mandibola e pendevano come stalattiti, finendo per cadere sul piumino rosa, stracciato durante il volo. S’era sporcata, lei, con le zampe del grande uccello arcobaleno.
Tuttavia rimaneva immobile, a guardare quell’uomo avvicinarsi.
“Benvenuta nella tua nuova famiglia” concluse quello. Le carezzò la testa, facendola rabbrividire in un modo che la sua controparte, quella già adulta e nascosta diversi metri indietro, ricordava ancora. Si voltò verso la più alta dei tre. Lunghe ciocche, di quell’indaco chiaro, cadevano morbidi sulle spalle esili. In qualche modo sapeva che sarebbe stata chiamata in causa.
“Karen” tuonò. “Portala dentro e falle vedere qual è la sua camera. Dopodiché lasciamola tranquilla fino a questa sera, per ambientarsi. Voi altri, venite con me”.
Si voltò e andò via, seguito dagli altri tre bambini mascherati, lasciando le due da sole. La nuova arrivata guardava Karen mentre, ferma, aspettava che la situazione si calmasse ulteriormente.
“Ciao, Blue” fece, sistemando meglio la maschera sul viso. Le tese la mano e afferrò il guantino mezzo sfilato della piccola dagli occhi pieni di lacrime. “Dammi la mano ed andiamo dentro... La tua stanza è molto carina”.
Per la donna nascosta dietro agli alberi fu un tuffo al cuore: rivivere le stesse scene che avevano condannato a morte la normalità della sua vita, per quanto effimera e noiosa sarebbe potuta essere, fu dolorosissimo. Dopo che le due ragazzine sparirono, Blue, la grande, si mise in marcia verso il maniero, cercando un modo per penetrarvi. Pensò al fatto che rientrare in quel luogo non le avrebbe procurato nulla di buono, sia nel cuore che nella testa; tuttavia doveva riuscire a cambiare la sua vita, permettendo almeno a quella versione di se stessa di non fare le stesse stupidaggini, di non diventare una ladra senza speranza, di non abbandonare Green e di non credere che i suoi genitori avessero finito per abbandonarla. Doveva salvarla, portandola via da quel posto.
Avanzò con passo celere e si ritrovò davanti al grosso portone, in legno ornato da ferro battuto, a proteggere quella costruzione assai antica di mattoni in pietra, trasformata in collegio per bambini che il suo tetro proprietario riteneva idonei per i suoi scopi. Solo in quel momento Blue si rese conto d’esser stata osservata e studiata, prima del suo rapimento effettivo. Rabbrividì, pensando al fatto che un uomo o, anche peggio, uno di quei bambini avesse osservato tutta la sua vita dall’esterno delle finestre di casa sua, guardando sua madre mentre stirava e suo padre mentre leggeva il giornale.
Non rimase ferma oltre davanti al portone, decise di defilarsi e di accedere dalla destra della fortezza.
Proprio da dove era fuggita diversi anni prima.
Stava ancora decidendo se agire in modalità Tank o utilizzare quella Stealth, quando ormai era davanti alla piccola botola. Prima d’accedervi però vide un piccolo Hoothoot saltellare ai piedi di uno degli alberi, e si bloccò nel guardarlo. Fu allora che decise di lanciargli una sfera e di catturarlo, riponendo poi la Pokéball all’interno della sua borsa. Tornò alla botola, l’aprì e ignorò la zaffata d’umido che raggiunse le sue narici; s’immerse nel buio, saltandovi direttamente all’interno.
Sapeva che sarebbe atterrata dopo un paio di metri in quello che era il corridoio nascosto del maniero.
“Silenzio...” disse a se stessa, aderendo ai muri ammuffiti.
Nonostante i bambini con la maschera fossero soltanto sei, Maschera di Ghiaccio aveva rapito numerosi altri ragazzini, che popolavano il grosso castello e gli erano utili per le faccende pratiche più effimere. Quelli con la maschera rappresentavano l’élite. Raramente quelli senza maschera superavano l’asticella, facendo strada ed entrando nel gruppo degli esecutivi col volto celato.
Soltanto Karen c’era riuscita. Lo ricordava ancora, lei aveva cominciato dalla cucina; successivamente era diventata la peggiore tra i galoppini di Alfredo.
Alla fine del corridoio c’era la grande libreria semovibile, che dava direttamente nelle camere private di Maschera di Ghiaccio. Il grosso mobile era su rotelle, non ebbe alcun problema a spostarlo.
Nel farlo, però, si rese conto di dover essere più cauta. Buttò un occhio prima di uscire allo scoperto, aderendo nuovamente al muro.
 
Il cuore batteva forte.
 
L’ultima volta che era entrata in quella camera aveva in mente soltanto la sua voglia di libertà. Batté un paio di volte le palpebre e si ritrovò a respirare profondamente. Pensò che dovesse andare velocemente via di lì. Rapida, legò i capelli in una coda e poi avanzò, facendo attenzione che nessuno s’avvicinasse. Uscì dalla grande camera, ritrovandosi nel corridoio principale, quello in cui fu inseguita dai suoi confratelli il giorno in cui lei e Silver fuggirono.
Lo ripercorse al contrario, veloce, col respiro frammentato e il cuore che saltava un battito ogni volta che un ricordo le sovveniva alla mente. Aveva passato così tanto tempo in quel luogo da riconoscerla un po’ malinconicamente come la sua casa. Ricordava ogni posto, ogni anfratto, ogni nascondiglio, ogni buco più sicuro per sfuggire alle sfuriate dei fratelli più grandi e dell’uomo mascherato. Più di tutto ricordava le tante persone, Blue, la prima volta in cui fu portata da Karen all’interno della sua camera.
Avanzò. Arrivata alla fine del corridoio c’era la sala centrale. Lì non avrebbe potuto far nulla per dissimulare la sua presenza, né per giustificarla.
“Devo creare un diversivo...” sospirò, prendendo la sfera del Pokémon che più volte aveva utilizzato in quel modo.
Ditty... già sai cosa fare...” fece, lanciando per terra la sfera del suo Pokémon. Aspettò pazientemente che quello mutasse il proprio colore per poi trasformarsi velocemente in un enorme esemplare di Gyarados. Il suo ruggito fu terribile e spaventò tutti i presenti che, voltati verso la nuova minaccia, non videro Blue sgattaiolare al piano superiore, dove Karen aveva parcheggiato la nuova bambina, chiudendola a chiave nella propria stanza per evitare che fuggisse.
Nascosta dietro a un angolo, la vide poggiare la mano sulla porta e battere due volte.
“Ora non ho tempo per mostrarti ogni cosa, c’è un’emergenza! Ma verrò non appena sarà tutto a posto! Stai tranquilla!”.
“V-Va bene...” aveva detto l’altra, con la voce più spaventata che avrebbe potuto avere in quel momento. Sorrise, la Blue grande, pensando al fatto che in futuro avrebbe dovuto sostenere stress e prove di forza ben maggiori d’un semplice Gyarados. Pochi secondi dopo, una giovanissima Karen le sfilò davanti, senza accorgersi minimamente di lei.
Quando fu sola accelerò velocemente verso la sua stanza e staccò una forcina dai capelli per forzare la serratura.
Non le ci volle molto. Aprì la porta, vedendo la piccola se stessa che aveva raccolto le ginocchia tra le braccia nell’angolo del letto, nascondendo il volto dietro il cuscino. La camera che la proteggeva dal mostro era uguale a come la ricordava: piccola, con una finestra in alto protetta da doppie sbarre d’acciaio e mura color grigio canna di fucile. Una semplice lampadina nuda illuminava fioca l’ambiente, lasciando che il marrone del legno dell’armadio, accanto alla porta, e del piccolo scrittoio, risultasse quasi nero. Sentendo la presenza di qualcuno, la bambina alzò la testa, scontrando lo sguardo celeste con quello identico dell’avventrice.
E subito dopo associò a quel volto quello di Silver.
 
Se adesso la porto via Silver non si salverà...
 
“… t-tu… chi… chi sei?” domandò la bimba, mentre le lacrime le riempivano le rime degli occhi. “Non... non farmi male...”.
Blue sorrise dolcemente e chiuse la porta. “Tranquilla, non ti farò nulla. Sono qui per aiutarti”. Si sedette poi accanto a lei, lentamente. “Sono venuta per parlare con te”.
L’altra abbassò leggermente il cuscino dietro il quale si nascondeva e la fissò in volto, profondamente. “Assomigli alla mia mamma… Dov’è la tua maschera?”.
“Io non ho alcuna maschera, piccola Blue. Ora però dovrai ascoltarmi attentamente...” faceva quella, inginocchiandosi sullo scomodissimo materasso, che rispose lasciando cigolare le molle. Le prese le mani e instaurò un contatto visivo assai profondo: riusciva a sentire la sua paura, assaporando l’incertezza che lei stessa aveva provato quando, quel nefasto giorno, fu portata in quel castello buio.
“La tua mamma e il tuo papà stanno bene e ti amano, a loro non è successo nulla. Tuttavia non sanno dove ti trovi e questo li ha fatti preoccupare parecchio. Non finiranno mai di sperare che tu possa tornare a casa, quindi non dimenticarti mai di loro e del fatto che vogliono che torni con tutte le loro forze. Prima di fare questo, però, è necessario che impari a sopravvivere in questo posto, altrimenti Karen e gli altri ti faranno fuori in men che non si dica… mi ascolti?”.
Prima di continuare aspettò che l’altra annuisse.
“Ottimo. Devi fare ciò che vogliono. Non ti verrà fatto nulla di male ma imparerai a combattere con i Pokémon, a sfruttare il loro potenziale per ottenere tutti i tuoi obiettivi. Imparerai il pensiero laterale... lo sfrutterai per risolvere situazioni spigolose...”.
“Cos’è il pensiero laterale?” domandò l’altra.
La grande sorrise, carezzandole la testa. Alzò gli occhi, cercando di riportare alla mente qualche avvenimento della sua infanzia che non fosse successo attorno a quelle mura.
“Ti ricordi quando sei andata con la mamma e il papà all’Altopiano Blu, a vedere la Lega Pokémon? C’erano tante auto e siamo rimasti bloccati nel traffico. Ecco, il pensiero laterale è come se, mentre tutti sono bloccati nel traffico, noi avessimo raggiunto la Lega attraverso un’altra via, meno trafficata”.
“Quindi... è pensare in un altro modo?” chiese quella.
Blue sorrise ancora. Si reputava dolcissima, a quell’età. “Esattamente. Bravissima, hai capito. Io e te siamo sveglie...” fece, carezzandole la testa e spettinandole la frangetta sulla fronte. “Imparerai a fare anche altre cose che, tuo malgrado, non vorrai sapere: capirai come raggirare una persona, come truffarla. Come ammazzarla... T’insegneranno tutto loro. Io voglio però che tu stia attenta a ognuna delle persone con la maschera... Non dovrai fidarti di nessuno di loro. Nessuno tranne Silver”.
La piccola se stessa sbatté le palpebre un paio di volte, cercando di capire.
“Chi è, Silver?”.
Quella grande non se lo lasciò ripetere due volte. “È un bambino, proprio come te, anzi, più piccolo, che arriverà qui tra qualche tempo. Lui è il figlio d’una persona molto importante che farà di tutto per riaverlo con sé. Dovrete fare sempre gioco di squadra, tu e lui… Silver sarà il ragazzino mascherato più piccolo, e perciò sarà preso di mira. Soprattutto da Karen e Pino. Tu cerca di proteggerlo, è molto sensibile e quest’avventura gli rimarrà impressa nella mente per tutta la vita”.
“Silver...” ripeté Blue, la bambina.
“Esatto. Poche settimane e sarà qui. Sarà proprio Maschera di Ghiaccio a metterti in coppia con lui, perché siete i più piccolini... Fate tutto ciò che vi viene detto e non finirete per morire. Intesi?”.
“V-va bene”.
La grande allungò l’orecchio, per sentire i versi di ferocia del suo Ditto, riuscendo a percepirli ancora: aveva altro tempo.
“Bene, poi che altro… Ah! Alzati da lì” fece. Vide la bambina eseguire e farsi da parte, verso l’angolo opposto della minuscola stanzetta, accanto all’armadio. Quella grande invece spostò rapidamente il letto, mostrandole il muro alle sue spalle, fatto di mattoni.
“Ecco. Stasera, quando ti daranno da mangiare, ruba un cucchiaio. Una volta tornata in stanza, comincia a scavare, proprio in questo punto” le disse, indicando la fuga tra due grossi mattoni. “C’è una piccola camera d’aria, oltre queste pietre, e tu dovrai scavare di notte per aprirti uno spazio abbastanza lungo da far entrare te e Silver. Lui è alto un po’ meno di te”.
“Scavare...” ripeté la piccola, come annotandosi tutto.
“Sì, scavare, piccola” sorrise l’altra. “E poi ti daranno una maschera, come quella di Karen. Non la devi mai levare. Anche Silver. La potrete levare solo quando sarete nel vostro nascondiglio, qui, dietro il letto”.
Rimise il materasso al proprio posto e tornò a sedervisi sopra con l’altra. “In più so che sarà dura, ma non devi avere paura degli uccelli. Sei stata afferrata da quelle zampe enormi, da quel Pokémon così grande... Anche io non sapevo come combattere questa paura... Ho dovuto sbatterci la testa contro, e tutt’ora non sono riuscita ad abituarmici. Però... Ecco, se imparerai ad amare i Pokèmon volanti, tra qualche anno potresti addirittura diventare la Campionessa della Lega. Capisci che bello?”.
Vide la bambina sorridere.
“Eh?” continuò. “Ti piacerebbe?”.
Annuì debolmente, lei. “Ma...” parlò. “Per diventare Campionessa dovrò uccidere delle persone?”.
Blue chiuse gli occhi ed abbassò il volto. Capiva che per una ragazzina fosse un argomento delicatissimo. Ricordava nei suoi occhi la paura della gente che aveva giustiziato suo malgrado in quel maniero e tutte le volte che li aveva pianti, scusandosi col cielo e chiedendosi perché quella cosa fosse accaduta proprio a lei.
“No” concluse. “Non dovrai uccidere per diventare Campionessa. Lo dovrai fare perché altrimenti sarai tu a essere uccisa. Sarà dura abituarsi a questo pensiero ma rimani sempre positiva e ricorda sempre che tu hai un valore. Non farti mai annullare da quelle persone con la maschera. Tu sei migliore di tutti loro messi assieme, non dimenticarlo mai. E anche Silver. Per diventare Campionessa dovrai rispettare te stessa e gli altri e diventare una brava persona. Dovrai usare le tue abilità e dimenticare la tua paura per i Pokémon Volanti. A tal proposito...” sospirò lei, infilando la mano nella borsa.  Fu da lì che tirò fuori la sfera dell’Hoothoot che aveva catturato qualche minuto prima.
“Questo è tuo. È un Hoothoot, un Pokémon piccolo e molto carino. Nonostante sia un uccello non dovrai avere paura di lui. Ti vorrà sempre bene e ti proteggerà”.
La piccola annuì. Vide la grande nascondere la sfera sull’armadio e proseguire con il proprio discorso. “Non appena sarete lasciati liberi di catturare i vostri Pokémon, nel giardino del maniero, potrai dichiarare di averlo catturato e smettere di nasconderlo. Per il resto stai attenta, riponi tutto qui su e nessuno lo troverà. E poi c’è la parte più importante: la fuga”.
“La fuga?!” spalancò gli occhi quella.
“Sì. Tu e Silver fuggirete da qui, tra diversi anni. Utilizzerai il tuo Jigglypuff per aiutarti nella fuga e ti troverai nella camera dell’uomo mascherato. È importante che una volta lì tu riesca a rubare due strumenti molto importanti, tenuti in una teca di cristallo sulla sua scrivania. L’uomo si troverà nella stanza, sarà parecchio malato e quindi non vi ostacolerà, ma fate attenzione. Infine dovrete spostare una libreria a rotelle e correre fino a che non raggiungerete il lato esterno del maniero. Poi vi dileguerete. Ora vado, Karen potrebbe tornare da un momento all’altro”.
“Non posso venire via con te, ora?” ribatté subito.
Blue, quella grande, fu aggredita da quella domanda come fosse una raffica di proiettili. Perse le forze, rimanendo inerme allo sguardo di se stessa.
Fece cenno di no.
“Tu... tu devi proteggere Silver. Lo devi salvare, lui è molto importante, lo devi voler bene come il fratellino che non abbiamo mai avuto. Capito?”.
Gli occhi della bambina, di quel blu profondo come l’oceano, si riempirono di lacrime. Il suo viso mutò rapido, disfacendo quella struttura labile che ancora teneva insieme le sue espressioni, rovinando in una disperazione più che comprensibile.
“Non piangere…”.
“Perché non posso andare via?!” esclamò, alzando la voce e aggrappandosi ai vestiti dell’altra. “Voglio tornare dalla mia mamma! A casa mia!”.
Il pianto prese a rigarle il viso.
“So che è dura…”.
“Non voglio uccidere nessuno!”.
“Non potrai fare nulla per evitarlo, senza venire uccisa” disse l’altra, stringendola e carezzandole il capo. “Devi stare attenta. Ma, ascolta bene, una volta che fuggirete, non dividetevi subito… Lui vorrà sicuramente vendicarsi di Maschera di Ghiaccio, ma cerca di dissuaderlo, e andate a Biancavilla. Ruba un Pokédex, lo farai molto facilmente, e anche uno Squirtle, ti servirà. Ah, e poi corri subito nel Settipelago, a Secondisola, e chiedi alla vecchia Kimberly della mamma e del papà, perché ti aiuterà a ritrovarli…”.
La piccola Blue si asciugò il volto e sospirò.
“L-li… li ritroverò?”.
A quel punto fu la donna a crollare nel pianto, dove grosse lacrime presero a colarle sulle guance.
Annuì.
“Sì, tesoro. Sì, andrà tutto bene. La mamma e il papà ti amano e ti aspettano. E tu sarai fortissima, la più forte… Viaggia, divertiti, impara. Incontrerai l’uomo della tua vita, non lo tradire e amalo sempre, e lui farà lo stesso con te. Non fargli del male… Lui non merita questo dolore…”.
La piccola annuì.
“È... è tutto chiaro?”.
La Blue del passato annuì nuovamente.
“Se fai come ti dico andrà tutto per il meglio. Ora devo veramente andare”.
Le si avvicinò e la strinse in un caldo abbraccio, poi le baciò la fronte e le sistemò la frangetta, prima di uscire dalla stanza rapidamente, lasciandola lì da sola.
Scese le scale a due a due e prese la sfera di Ditty, facendolo rientrare, mentre i ragazzi mascherati stavano fronteggiando la minaccia.
“E ora...” disse poi, prendendo la sfera di Blasty. Il grosso Pokémon uscì e caricò i cannoni d’acqua, piazzandosi davanti al portone d’ingresso. “Idrocannone, Blasty!”.
La porta si sfondò, come se fosse fatta di compensato. Fuggì verso l’orizzonte, Blue, direzione Biancavilla.
 
 
 Johto, Rovine D’Alfa, Sala Alfa
 
“Non vorrei ricordarti che non è il momento per mantenere stupide convinzioni!” esclamava Red, indietreggiando velocemente. Davanti a lui una tremenda Palla Ombra esplodeva nel pavimento, alzando detriti e polvere. La coda di Charizard illuminava a malapena il lungo corridoio e MegaGengar si nascondeva nel buio, lasciando che a riaffiorare fossero i suoi occhi spiritati di sangue, assieme al sinistrissimo sorriso.
“Non possiamo fare altrimenti, Red! Non possiamo distruggere le Rovine D’Alfa!”.
“Non mi pare che quel tipo si stia facendo i nostri stessi scrupoli!”.
I due si guardarono, quell’attimo che bastò alle loro iridi di scambiarsi l’idea, l’intesa di come avanzare.
“Charizard, Incendio” sussurrò Green, vedendo Red scappare rocambolescamente verso il corridoio adiacente e stendersi per terra. Fu in grado di vedere, dal muro davanti a sé, soltanto una grande quantità di luce illuminare a giorno i mattoni d’arenaria che cingevano tutta la struttura.
Incendio...” sussurrò quest’ultimo, dopo un sospiro. Si rimise in piedi velocemente. “Il solito esagerato...”.
Raggiunse nuovamente il corridoio accanto, vedendo Green col volto corrucciato e le mani strette attorno a uno strano bracciale che portava al polso.
“Cagasotto” ribatté quest’ultimo.
“Che diamine vuoi fare?!”.
“Megaevolviti, forza”.
Dal bracciale sul polso del Dexholder venne emessa una luce accecante, che assalì totalmente il suo Charizard. Quello finì per completare lo stadio dell’evoluzione raggiungendo la forma Y: corpo assottigliato, cranio aerodinamico e potenza di fuoco devastante, mentre un paio d’ali ai polsi gli permetteva di mantenere la stabilità in volo e di aumentare la velocità.
“Fai Megaevolvere qualcuno e combattiamo, Red! Non perdiamo tempo, sono preoccupato per Blue!”.
“Non posso far Megaevolvere nessuno! Non qui, almeno! Non ora!”.
“Ma che cazzo significa?!” esclamò l’altro, profondamente irritato. Si voltò per un attimo, prima di vedere l’avversario inginocchiarsi.
Smog!” esclamò quello, rapido, attivando la maschera antigas.
“Oh, porca...” sospirò Green, indietreggiando.
Vee!” chiamò Red, vedendo il suo Pokémon ancora fermo accanto a lui, in atteso di ordini. “Devi riuscire a contenere psichicamente il fuoco e il veleno! So che sei in grado di farlo!”.
Espeon avanzò e i suoi occhi furono rivestiti di quell’energia che avvolgeva anche il suo corpo. Le fiamme tutt’intorno furono come risucchiate da una sfera d’energia che s’era andata a formare al centro del corridoio, e assieme a quelle anche il gas velenoso.
Green digrignò i denti e sospirò. Red invece aveva lo sguardo concentrato.
“Mantienilo…” sussurrò Oak, basso sulle ginocchia. “E tu, Charizard, mettilo fuori combattimento con un rapido Lanciafiamme”.
“Attento”.
“Sì, attento” ribadì Green, vedendo il suo Pokémon accelerare in maniera esponenziale, falciando l’aria con le ali e raggiungendo l’avversario in meno d’un secondo, fino a trovarselo di fronte.
Doppioteam!” urlò il mercenario, ordinando al suo Pokémon di sdoppiarsi in tante versioni  di sé.
“Odio i Gengar...” sospirò Green, vedendo il suo Charizard aprire il fuoco su tre copie fittizie. Subito dopo l’uomo in mimetica grigia batté due volte le mani e le versioni, tutte, s’abbatterono sull’avversario, colpendolo con incredibile forza da tutti i lati con un Pugnodombra.
“Ma è impossibile!” esclamò Red. “Le altre copie dovrebbero essere incorporee!”.
Charizard accusò il colpo ma si rimise in piedi velocemente.
“Gengar è un ammasso d’ombre, Red” spiegò Green. “Ha diviso la propria potenza in parti uguali in ognuna delle copie, tramite il pavimento”.
Gli occhi di Red puntarono le braccia del Pokémon avversario: affondavano nel pavimento, interamente ricoperte da quel fumo scuro e sinistro.
“Sono stanco e il tempo è poco...” sospirò quello dagli occhi rossi, ulteriormente illuminati dall’ammasso di fiamme e smog che galleggiava al centro del corridoio. “Vee... Psichico su quel Pokémon. E Charizard, bracca quell’uomo, non farlo muovere”.
Il felino fu tempestivo e letale, strappò MegaGengar dal pavimento, con tutte le sue versioni, e lo spinse con terribile violenza al centro della sfera che teneva sotto controllo; lo sforzo non fu indifferente: il piccolo Pokémon, difatti, era basso sulle zampe e ben concentrato, con l’energia psichica che lo avvolgeva e che rendeva tutto incredibilmente disordinato.
Al centro di quella sfera, MegaGengar non poté far altro che subire la potenza dell’incendio causato da Charizard, finendo vittima peraltro del suo stesso attacco velenoso. Il campo di forza si restringeva, aumentando sempre più la pressione e creando infine una grossa esplosione. MegaGengar finì per tornare un Gengar, prima d’evaporare come fumo nero.
Red guardò Green, che intanto fissava le pareti danneggiate della sala Alfa; avanzavano entrambi verso Charizard, che teneva spinto verso la parete il mercenario.
“La prossima volta faccio io da supporto, allora...” sorrise a mezza bocca il Dexholder dagli occhi verdi. S’accostò al suo Pokémon e colpì con forza il volto dell’uomo, con ancora indosso la maschera antigas. Quello ricadde per terra, a carponi, dolorante.
“Ora proseguiamo e...”.
Il Pokégear suonò rumorosamente, rimbombando lungo le pareti ormai bruciate del corridoio.
Era Valerio.
“Qui Green Oak” rispose.           
“Dovete correre immediatamente nella sala 1! Jasmine sta attaccando tutti!”.
“Cosa?! Che diamine stai dicendo?!”.
“Jasmine! Jasmine sta attaccando tutti! Chiara è ferita gravemente e Raffaello è morto. Gli altri non li vedo!”.
“Che diamine stai dicendo?!” subentrò Red, stringendo la sfera di Vee tra le mani.
“Non capisco più nulla!” si lamentava. “Qui siamo rimasti soltanto io, Jasmine e Corrado, dietro a un mezzo muro crollato!”.
“Aspetta” interruppe Green. “Non hai detto che Jasmine vi stava attaccando?”.
“No, non quella Jasmine... Ci servono rinforzi!”.
“Nella Sala 2, invece?” domandò Red.
“Non so un cazzo della Sala 2! Fate presto!” urlò, e poi un’esplosione tremenda lasciò che la conversazione s’interrompesse.
Red e Green si guardarono fissi negli occhi, prima di sospirare. Il secondo diede un forte calcio allo scagnozzo, ancora sul volto, mettendolo totalmente fuori combattimento.
“Ora non ci darà più fastidio. Dobbiamo dividerci. Andrai tu nella Sala 1 mentre io avanzerò per controllare che questa stanza sia libera. C’incontreremo lì, farò presto”.
 
 
Johto, Rovine D’Alfa, Sala 7
 
Blue volava su Jiggly come se fosse una mongolfiera. Era più in alto delle fredde nuvole e si riscaldava soltanto col pensiero di poter incontrare i suoi genitori.
Voleva rassicurarli su quanto successo poche ore prima.
Non sapeva per quale motivo ma non appena rivissuta la scena del suo rapimento un istinto atavico di protezione verso se stessa l’aveva portata ad inseguire quell’enorme Pokémon uccello. Ricordava alla perfezione, mentre il vento gelido le passava tra i capelli, quella sensazione d’abbandono a se stessa che provò qualche minuto dopo essere entrata in quell’enorme maniero. Non fu piacevole per una bambina imparare le leggi della vita così in fretta, né capire che non ci sarebbe stata più sua madre oltre la porta della sua camera, ma solo luridi strozzini pronti a riprendersi, al primo errore, il poco che le avevano dato.
Con gli interessi.
Non un padre amorevole seduto sulla poltrona a leggere il giornale, ma un boia mascherato pronto a mostrare il pollice verso appena possibile.
Carnefici.
E si facevano chiamare famiglia. Pensò a se stessa da bimba, Blue, e capì che dovesse aiutarsi. Forse sarebbe cresciuta più pulita e meno maliziosa.
Biancavilla era lontana qualche chilometro ma la vedeva in lontananza, oltre le nuvole d’ovatta che piangevano neve.
 
*
 
“È quasi un minuto che non risponde, Yellow... Che dobbiamo fare?!”
La bionda guardava Sandra, cercando di rimettere a posto le idee. Fissava il volto di Blue, immobile davanti a lei, catatonica, con lo sguardo proiettato verso il vuoto e le pupille totalmente fisse, immobili. Era come ipnotizzata. Si permise di spingerla vedendola lentamente perdere l’equilibrio, per poi ricadere pesantemente tra le braccia di Sandra.
“Ma che diamine...” esclamò la Domadraghi, spostando con una mossa della testa la coda di cavallo dalla spalla.
“C’è qualcosa che non va” osservò la Dexholder. “C’entra quasi sicuramente un Pokémon...”.
S’abbassò, mettendosi a carponi e osservando gli angoli; cercava qualcosa, un bagliore, una presenza, anche solo un respiro che potesse tradire la mano di qualcun altro.
Ma quando non vide nulla, decise di agire.
Coi propri poteri, espanse la sua voce verso chi poteva sentire la sua mente.
 
“Per favore! Mi serve aiuto! Qualcuno mi spiega cosa sta succedendo?!”.
 
Acuì le proprie percezioni, cercando di inviare il proprio messaggio quanto più lontano possibile ma temeva che quelle vecchie mura potessero schermare le sue onde mentali.
“Che dobbiamo fare?” domandò Sandra, poggiando Blue per terra.
Nessun Pokémon aveva risposto a Yellow. Forse anche loro erano in un’illusione.
Capì.
“Dobbiamo trovare questo Zoroark”.
 
*
 
Non sapeva per quale motivo fosse ritornata a casa, Blue.
Si trovava in una Biancavilla di più di vent’anni prima, dove il cemento ancora non aveva aggredito i boschi attorno alle case. Era atterrata poco lontana dall’Osservatorio, dove nessuno avrebbe potuto vederla. Fece rientrare Jiggly nella sfera e sospirò, affondando con le caviglie nella neve. L’aria lì era pulita.
Più pulita.
E quella familiarità le piaceva molto, era ritornata ai giorni in cui la testa sulle spalle non pesava. Casa sua non era lontana da lì, allungando lo sguardo la vedeva, con il tetto di tegole rosse e le persiane celesti serrate. I suoi genitori dovevano ancora tornare. Probabilmente avevano chiamato la polizia e allertato chiunque.
Sospirò. Già sapeva che non l’avrebbero trovata.
Immaginò l’ansia e la paura che doveva aver assalito nei giorni successivi al misfatto i suoi genitori, e quasi si sentì in colpa per non aver riportato la piccola se stessa indietro. Ma poi il volto del piccolo Silver le apparve davanti agli occhi, in un flash che la riportava immediatamente coi piedi per terra.
Non poteva abbandonarlo.
Sospirò, camminando lentamente, prima di vedere un più giovane Samuel Oak dirigersi sulla cima della collina, stretto nel lungo cappotto di pelle scura. Indossava un borsalino dello stesso colore e manteneva sotto al braccio un quotidiano arrotolato. Gli sfilò alle spalle, vedendolo voltarsi e fissarla per un attimo di troppo. Raggiunse poi la piazza del paesino, dove un paio di signori corpulenti e vestiti pesantemente gettavano sale sulle strade. Qui e lì la neve sporca diventava acqua e finiva per defluire nei canali di scolo.
Quella pulita, invece, raccolta nei prati e nei giardini delle villette, diventava pupazzi e palle di neve a servizio dei tanti bambini che si divertivano. Era domenica, lo ricordava, le scuole erano chiuse e tutti i ragazzini si erano riversati nelle strade dopo l’abbondante nevicata della notte precedente. Blue camminava, vedendo le luci accese nelle case. Ne traeva calore.
Lì tutto era calmo. L’ansia della vita che pressava, il senso di colpa delle scelte sbagliate, la paura della fine, tutto era distante, lì.
Ferma, nel crocevia del paese, si voltò a fissare nuovamente l’Osservatorio, confondendo il fumo grigio che fuoriusciva dal comignolo con l’alabastro delle nuvole che sovrastava tutto.
Ricordò che non passava molto tempo coi ragazzini del paese, non ne conosceva praticamente nessuno, dato che viaggiava spesso coi suoi genitori durante i loro viaggi. Tuttavia, quel giorno, ne riconobbe uno: aveva i capelli neri, lucidi, corti sulla nuca ma spettinati davanti agli occhi rossi. Spesso li allineava sulla sinistra, alti sulla fronte, ma correndo e lanciando palle di neve ai suoi amici finivano sempre per coprirgli lo sguardo.
“Red…” sorrise, immobile, vedendolo sfilarle davanti, seguito da un piccolo Poliwag, che saltellava nella neve fredda. Sentendosi chiamare, il ragazzino si fermò e la guardò, interdetto.
Sul suo viso si leggeva bene che non conoscesse la donna che aveva davanti.
“Ciao” gli disse poi Blue, inclinando leggermente la testa.
Lo sguardo del bambino si spostò verso le sfere che portava alla cintura, per poi tornare a fissarle gli occhi blu.
“C-ciao…” titubò, aggrottando le sopracciglia. “Come conosci il mio nome?”.
Blue annuì. I due non si conoscevano.
Non ancora, almeno.
“Sono amica di… tua madre. Come sta?”.
“Bene… è a casa con papà”.
“Papà?!” esclamò quella, spalancando gli occhi, sorpresa. “Tuo padre?!”.
Al contrario suo, Red pareva naturale. “Sì. Mio padre. Tu non ce l’hai?”.
“S-sì, io sì… ma…”.
“Perché me lo chiedi?”.
Blue sospirò e sorrise. Doveva calmarsi.
“Sono solo curiosa” disse, arruffandogli il ciuffo. “E che mi dici? Vai a scuola?”.
“Sì, ma mi scoccio…” sbuffò quello. Mosse un piccolo passo indietro, portando le mani umide ai fianchi. Gli occhi della donna si fermarono dapprima sulle gambe bagnate dei suoi pantaloni, e poi sulla figura del piccolo Poliwag che lo seguiva fedele.
“È tuo, vero?” gli domandò, abbassandosi e accarezzando il Pokémon. Quello guardava schivo la nuova arrivata. “Diventerà molto forte, se lo allenerai…”.
“Già lo faccio!” esclamò, spalancando gli occhi. “Tutti i giorni! Ha imparato anche a sparare le bolle!”.
Blue ridacchiò, pensando al fatto che quello sarebbe diventato uno tra i Pokémon più forti dell’intera nazione. “Non finire mai di allenarti. Sarai un grande Allenatore e vincerai anche la Lega Pokémon”.
“Lo so! E lo farò prima di Green!” s’arrabbiò lui, annuendo convinto. “Come lo odio, quel tipo!” fece infine, stringendo i pugni e suscitando l’ennesima risata nella ragazza, che annuì.
“Parli di Green Oak, vero?”.
“Sì! Quel testone!”.
“Imparerai a volergli bene, col tempo…”.
“Ma neanche per idea!” esclamò alterato. “Io lo odio, quel tipo! È così… antipatico!”.
“Dov’è, adesso?” chiese poi la donna, alzando il collo e cercandolo tra i ragazzini che correvano attorno a loro, urlando e tirandosi contro palle di soffice neve. Lo sguardo di Red si nascose per un attimo dietro le palpebre, poi tornò a fissare l’interlocutrice, prima di sospirare profondamente.
“Era andato verso la spiaggia... Dice che vuole catturare un Dewgong o un Cloyster, per diventare più forte di me…” aggrottò la fronte. “Ma io e Poli siamo più forti di lui e di quell’odioso Charmander…”.
“Verso la spiaggia, dici?” disse Blue, voltandosi verso la via che scendeva a sud, tagliando in due il complesso residenziale costruito appena una decina di anni prima. “Mi ci vuoi accompagnare?”.
Red avvampò violentemente, poi abbassò lo sguardo. “S-sì… Ma facciamo presto, mia mamma non vuole che io vada lì da solo…”. Blue, che aveva capito, si limitò ad afferrargli la mano e a cominciare a camminare in direzione sud. Passarono lentamente davanti alla casa della ragazza, ancora chiusa, dove la neve aveva cominciato ad accumularsi sul prato e sul profilo dello steccato. Il vialetto era da spalare, era una cosa che a suo padre non piaceva fare, e che sua madre gli rimproverava sempre.
Era una coppia particolare, quella tra i suoi genitori, composta da due persone estremamente diverse, accomunate però dall’amore che provavano per la loro bambina. Sospirò, si voltò a guardare il paesino, pensando che fosse davvero bellissimo. Biancavilla era una bomboniera, una perla tra le valve di boschi e montagne, baciata dal mare.
La gente lì era cordiale e spontanea, tutti si conoscevano tra di loro e la pace sembrava qualcosa di talmente statico e tangibile da non poter mai essere messa in discussione.
Blue aveva bisogno di Biancavilla, soprattutto in quel periodo della sua vita.
Girarono attorno alla collina e si ritrovarono a distanza la spiaggia innevata, baciata dalle onde placide che sussurravano educate la loro omelia. Un ragazzino dai capelli castani era immobile sulle sponde, con le braccia conserte e la schiena dritta.
“Eccolo lì…” sussurrò Blue, sorridendo. “Ti disturbiamo?!” urlò, a una ventina di metri di distanza. Quello si voltò, fissandola, e sbuffando, prima tornare a fissare la spuma sulla battigia.
Calciò la sabbia, alzandola in alto e facendola portare via dal vento.
“Non ci ha sentiti, forse…” sussurrò Red, avvicinandosi.
“Ci ha sentiti eccome…” ribatté invece Blue, ma il ragazzino aveva già cominciato a correre verso l’altro dagli occhi verdi.
“Green, sei il solito maleducato! Questa ragazza vuole conoscerti!”.
L’altro si voltò nuovamente, fissando il più vicino e sbuffando.
“Non la conosco” rispose scontroso, proprio come lo conosceva lei, che non poté fare a meno di sorridere. Gli si avvicinò, con lo sguardo vivo, e gli tese la mano.
“Piacere. Mi chiamo Blue”.
L’altro guardò la mano e la spinse lontana.
“Non voglio conoscerti. Va’ al diavolo”. Si voltò poi dall’altra parte, faticando nella neve, facendo per ritornare verso il paese. La donna guardò Red, confusa.
“Già gli ho fatto qualcosa di male, per caso?”.
L’altro fece spallucce e sospirò. “E oggi sembra essere calmo… generalmente è peggio”.
“E perché?”
“È nervoso, ecco: domani partirà per Johto... andrà da un Capopalestra, non ricordo come si chiama, per imparare la disciplina e calmarsi...”.
“Furio...” sussurrò Blue, sospirando.
“Sì!” esclamò l’altro. “Furio! Come lo sapevi?!”.
“Ho tirato ad indovinare...”.
 
 
 Kanto, Aranciopoli, Ospedale Civile
 
“Mari...” sentì la Ranger.
Era poggiata col volto sul letto di Gold, gli stringeva la mano mentre la notte sembrava essere scivolata velocemente verso il suo cuore più profondo. La donna aprì gli occhi lentamente, guardò il volto del suo uomo e sperò che i suoi occhi aurei fossero spalancati e vividi, gioiosi come sempre, accompagnati dal grosso sorriso che sempre lo aveva contraddistinto.
Invece dormiva.
“Mari...” ripeté qualcuno, poggiandole la mano sulla spalla. La donna alzò lo sguardo verso l’elettrocardiogramma e notò che non vi fosse alcun cambiamento nelle condizioni del battito. Gold sembrava stabile. Guardò l’orologio, aveva riposato mezz’ora in quella posizione scomoda, solo per potergli stare accanto. Si voltò lentamente e vide suo fratello col volto stanco.
“Devi andare a riposarti, cara sorellina mia...”.
Scosse il caschetto castano, la Ranger, in segno di negazione. “Non se ne parla.... Non posso allontanarmi da qui…”.
“Non ti permetterò di distruggerti in questa stanza, da sola. Altea sta bene, domani la riaccompagnerò a Capo Piuma, ma fino ad allora rimarrò qui in ospedale. Starò io qui a vegliare su Gold. Tu vai a riposarti…”.
Martino la sollevò di peso dalla sedia e la strinse in un abbraccio. “Stai tranquilla. Ma hai bisogno di mangiare e dormire. Domattina per le dieci potrai tornare a stare vicino a Gold”.
“Non mi allontanerò, Martino, puoi dire quello che vuoi ma...”.
“Forza. L’hotel Fiori D’Arancio è qui vicino e ti permetterà di non stare lontana. Dai... non farmi preoccupare”.
Marina abbassò gli occhi e sospirò. “Non voglio che si svegli e non mi trovi qui...”.
“Lo colpirò personalmente per farlo riaddormentare, in quel caso”.
Il fratello maggiore riuscì a donarle un barlume di sorriso prima che la stanchezza e lo stress l’assalissero di nuovo .
“Alle nove sarò qui”.
“Dormi un po’, riposa. Ti servirà, credimi” sorrise quello. Si sedette al posto della sorella e fissò il volto dell’uomo, poco prima che Marina gli desse un casto bacio sulla guancia e si dileguasse, un po’ più tranquilla.
 
La Ranger uscì velocemente da quell’edificio e s’incamminò stretta nel proprio cappotto verso l’albergo. Aveva indosso ancora i vestiti che aveva utilizzato quando aveva lottato contro Lugia, e necessitava d’un bel bagno caldo, combinata a una dormita in un letto vero.
Il check-in fu rapido, diede il proprio nominativo e mostrò la tessera Ranger,  quindi l’accompagnarono rapidamente alla camera 206. Entrò e subito aprì la porta del bagno, quindi riempì la vasca con acqua caldissima, dove s’immerse totalmente, per poi addormentarsi, nel tepore dei fumi del vapore. Si risvegliò infreddolita un paio d’ore più tardi, si asciugò in un morbido accappatoio e si avvolse nelle coperte, ricadendo tra le braccia della notte, preoccupata e sfinita.
 
 
Johto, Rovine D’Alfa, Sala 7
 
“Prendile la testa”.
“Poggiala per terra”.
Sandra s’abbassò lentamente, s’inginocchiò e lasciò che il capo della donna toccasse delicatamente il pavimento delle corridoio. Yellow si guardava attorno, guardinga e preoccupata, scattando con la testa a destra e a sinistra a ogni rumore, repentina.
“Che c’è?” domandò la Capopalestra di Ebanopoli, rimettendosi in piedi.
“Dobbiamo stare attente. Blue è stata vittima di un’illusione” rispose. Si voltò verso la sventurata e la vide che i suoi occhi fossero semiaperti, atti a fissare il vuoto.
Anche Sandra la guardò, coi lunghi capelli che le danzavano sulle spalle a ogni movimento del capo. Inerme, pareva che la vita le fosse fuggita via attraverso le labbra. La cosa la fece rabbrividire.
“Odio gli Zoroark!” esclamò quella.
“Sono semplici Pokémon, come tutti gli altri. E come tutti gli altri sono succubi delle volontà degli Allenatori. Purtroppo non tutti hanno buone intenzioni come noi”.
Videro d’improvviso il pavimento mutare; Sandra si stava accorgendo che il marmo ai loro piedi stesse prendendo le sembianze delle doghe di legno che c’erano in casa di suo nonno.
“Yellow...?” la chiamò.
“Sì, lo vedo anche io, il prato, qui per terra”.
“Prato?!” si voltò. Yellow era in quella stanza del tutto buia, con solo il pavimento di legno a risaltare. “Qui non c’è nessun prato!”
“Dammi la mano” rimbeccò l’altra.
“Io non vedo prati!” s’allarmò. “Questa è casa di mio nonno!”.
Yellow cercò alle sue spalle la Capopalestra, percependola. Tuttavia gli alberi che aveva davanti erano così reali da darle la parvenza d’esser veramente in quel bosco.
Se lo sentiva: si trovava all’interno del Bosco Smeraldo.
“Non dobbiamo perdere il contatto con la realtà, altrimenti finiremo come Blue...” fece, mettendo una mano sulla Pokéball..
“Lo so” diceva quella, abbassando lo sguardo. Poi si perse.
 
*
 
Tutto era così tangibile da farle dubitare della propria capacità d’intendere la realtà. Osservò se stessa entrare dalla porta, quasi vent’anni prima, con quell’acconciatura a maschietto, cerulea e spettinata. Riconobbe sulle sue guance lo stesso colorito che vedeva allo specchio al mattino, ma il suo sguardo era piegato dal pesante confronto con suo cugino Lance, più grande di qualche anno e suo idolo da quando era ancor più piccola. In famiglia era il più amato. Lei s’abbeverava della sua luce riflessa e finiva per esser travolta dagli sguardi dei capifamiglia che si chiedevano come mai una donna fosse all’interno del Concistoro dei Domadraghi.
“Ma come…” sussurrò, immobile, nascosta in quello che le pareva essere il vecchio armadio dove suo nonno teneva appesi i mantelli. Nessuno aveva percepito la sua presenza, né la versione di se stessa del passato, stretta in quel mantello oltremodo grande per le esili forme d’una bambina di non più di dieci anni, né quella di suo cugino Lance, adolescente, appena entrato nella camera delle riunioni con il solito sguardo sprezzante d’ogni cosa, quasi disinteressato.
Sandra, quella grande, osservava la scena in cui suo cugino le si era avvicinata; non era mai stato aggressivo nei suoi confronti, anzi, aveva assunto un atteggiamento di manifesta superiorità verso il mondo intero e ciò lo costringeva ad adottare l’etica del difensore dei più deboli.
Reputava Sandra meno forte di lui, quindi la proteggeva. E anche la Capopalestra d’Ebanopoli, nella sua versione adulta, si reputava meno abile del più celebre cugino ma nel suo cuore fluiva l’orgoglio di chi non aveva mai mollato; sapeva di non essere un’Allenatrice scarsa, in confronto agli altri Domadraghi era superiore in tutto e per tutto.
Del resto aveva superato in bravura il suo stesso padre, e di conseguenza quello di Lance, entrambi tra i più grandi Domadraghi di tutti i tempi. Il suo papà era una forza della natura: alto, bello, potente, disciplinato, era stato l’orgoglio dell’intero clan e aveva finito per gettare ombra su tutti gli altri elementi, suo fratello compreso.
E suo fratello era il padre di Lance.
Aveva circa quindici anni quando s’era resa conto che essere figlia di suo padre fosse un peso non indifferente, date le alte aspettative che nutrivano tutti nei suoi confronti: tutti s’aspettavano da lei che ripetesse fedelmente le gesta del padre. Ma poi c’era Lance, il nuovo pupillo d’Ebanopoli, contro cui non poteva assolutamente competere, nonostante suo padre fosse il più forte in assoluto. Lance aveva quella cosa, quel segreto, quella capacità innata che lei non possedeva e che segnava nettamente la differenza.
Lo vide avvicinarsi a lei, sorridendole e arruffandole il ciuffo ceruleo ben pettinato.
“Ciao, piccoletta”.
“Ciao Lance” le aveva risposto quella, con la voce da bambina. Lo guardava smontare il mantello e sistemarlo sull’appendiabiti alle sue spalle, per poi accomodarsi accanto a lei.
“Tra poco entreranno gli anziani con gli esiti dei nostri allenamenti di quest’anno... Sei nervosa?”.
La più giovane annuì vistosamente, indossando d’improvviso una maschera d’angoscia.
Lance la fissò, coi suoi occhi ambrati, sorridendo. Passò una mano tra i capelli rossicci e poi le strinse la mano.
“Sei stata molto brava, Sandra. Non devi dubitare del tuo lavoro”.
Lei lo fissò, spalancando i grossi occhi azzurri, quando l’intero consiglio fece il suo ingresso nella grossa sala. Lui le lasciò la mano, alzandosi in piedi, lei lo seguì subito.
Nascosta nell’armadio, la grande poté vedere il capo del concistoro entrare prima di tutti gli altri. Era il nonno dei due ragazzi, un vecchio dalla lunga barba candida. Indossava un pesante mantello di tessuto rosso carminio, lucido, molto più lungo di quello indossato dagli altri Domadraghi. La testa era completamente calva, data l’età avanzata, ma il corpo era ancora tonico per via del profondo allenamento sostenuto fin da giovane, ogni giorno.
Subito dopo entrò il padre di Sandra, imponente e altezzoso, la guardò severo e riprese a fissare davanti a sé. Aveva gli occhi blu e i capelli radi, dello stesso colore di quelli della sua bambina, e stringeva l’impugnatura d’ebano di un grosso spadino. La Capopalestra lo ricordava molto bene, suo padre era affezionatissima a quell’oggetto. Ne carezzava la sommità superiore del fodero come se fosse un automatismo, quasi per rassicurarsi sul fatto di non averlo perduto. Dopo di lui, fece il suo ingresso suo fratello, il padre di Lance, decisamente più basso ma comunque tonico. Aveva i capelli biondi, tirati all’indietro, ben pettinati, e gli occhi ambrati di suo figlio. Sul viso una grossa cicatrice deturpava la guancia destra, a riprova di una devastante lotta con un grosso Ursaring, sostenuta da ragazzo.
Lance guardò il viso di sua cugina, totalmente impanicata.
“Non dubitare” le aveva ripetuto. “Sei stata molto brava”.
Entrambe le versioni della donna sorrisero e abbassarono la testa. Ricordò la profonda autostima che la bambina seduta su quella panca aveva incamerato dopo quella frase. Poi però strinse la mano di Yellow, lottando contro l’istinto di gettarsi a capofitto in quell’illusione, in quel ricordo, di perdersi nella successiva delusione portata dalle parole dei membri anziani che avrebbero promosso le azioni di Lance e bocciato le sue, definendole disinteressate e acerbe. Ricordava la sua rabbia, la sua delusione. La solitudine provata quando, una volta ritiratosi l’intero consiglio, rimase da sola, cercando di capire dove avesse sbagliato, senza riuscirci: aveva speso ogni briciola del suo tempo e della sua energia per assomigliare almeno un po’ a suo  cugino.
“Yell...” la chiamò. Le strinse nuovamente la mano quando si accorse di non percepirla più.
Impanicata abbassò lo sguardo verso le sfere, non riuscendo più a vederle.
“Cazzo!” esclamò, vedendo la piccola Sandra voltarsi rapidamente. Spalancò gli occhi, non s’era resa per nulla conto della presenza di quella donna nell’armadio.
“E-e tu chi sei?!” si alzò immediatamente, lasciando cadere la sedia alle sue spalle. Portò subito la mano verso la sua unica sfera. A quella grande sembrò inutile restare nascosta. Sapeva che non sarebbe arrivato nessuno, quindi decise di uscire.
L’armadio cigolò, e un soffio d’aria fresca le baciò il viso.
Sospirò. “Io… sono un’amica”.
“Assomigli tanto al mio papà” ribatté subito lei.
 
*
 
“Sandra!” urlava Yellow, stringendo sempre più forte la sfera di Omny, il suo Omastar. Percepiva ancora la sua mano, pesante e dal basso.
“È svenuta! Dannazione, devo calmarmi...” sospirò quella. Sentiva la corrente fresca che soffiava tra i tronchi del Bosco Smeraldo, pettinando i lunghi fili d’erba nella direzione in cui spingeva.
Era nel lato ovest della foresta, quello più vicino al Monte Argento, e lo sapeva perché ognuno di quei tronchi d’albero era cresciuto con lei.
La sua tana era lì.
Sbuffò, una coppia di Pikachu s’inseguì fino a sparire oltre un grosso cespuglio, spaventando un Pidgey, che volò lontano.
Poi il silenzio scese come un sipario lungo e pesante; Yellow fu in grado di sentire delle voci poco dopo la grossa quercia che aveva davanti. Quello era un albero assai particolare: i lunghi rami erano cresciuti in maniera parecchio irregolare e s’erano annodati attorno al tronco d’un’altra quercia, più sottile. Sembrava che l’albero più grosso stesse abbracciando quello più piccolo.
Avanzò, sempre pronta a utilizzare Omny per uscire da quell’illusione, ma poi vide qualcosa che le interessava così da vicino da non permetterle di sottrarre l’attenzione: una donna stava uscendo dal rifugio dove era cresciuta lei. Yellow era nata e vissuta in quel bosco ma non aveva alcun ricordo di come la sua tana fosse stata costruita; questa era una profonda rientranza nella facciata della montagna, abbastanza lunga e larga, perfetta per sopravvivere. Le pareti interne erano rivestite d’un caldo tessuto che fungeva da isolante per il freddo e l’acqua, filtrata dalle rocce ed incanalata successivamente in grosse vasche.
C’era un piccolo giaciglio, e accanto alcuni giocattoli intagliati in legno.
Effettivamente, e se l’era sempre chiesto, non aveva mai capito come fosse finita in quel luogo. Lei era un mistero. Quando lo aveva chiesto ai Pokémon, loro avevano sempre risposto che lei fossa la figlia del bosco. Bonariamente, aveva accettato quelle parole tacciando il dubbio che le cresceva costantemente in grembo.
Nascosta dal grosso tronco della quercia guardò tutta la scena: una donna dagli occhi verdi e dai capelli castani era uscita dalla tana, frettolosamente. Indossava eleganti abiti di diverse tonalità di verde. I suoi occhi erano colmi di paura ed ansia, la vergogna che provava era tangibile. Lo sguardo era basso ed i pugni stretti.
Dava l’impressione di sentirsi impotente, lei, costretta a fare qualcosa contro la propria volontà.
Accanto a lei c’era un uomo, che aspettava al di fuori del rifugio, con in braccio un neonato.
Quel signore sembrava essere un Domadraghi; non aveva l’aspetto imponente, assomigliava vagamente a Lance ma aveva i capelli biondi, e una grossa cicatrice sulla guancia destra.
Il lungo mantello toccava quasi il pavimento.
“Ecco” diceva la donna, non riuscendo più a trattenere le lacrime. “La... la sua casa è pronta”.
Afferrò il neonato dalle mani dell’uomo e gli baciò il viso più e più volte, disperandosi e ripetendo la parola scusa fino allo sfinimento.
“Mi spiace, piccola mia! Mi spiace!”.
Alzò poi gli occhi verso l’uomo, come accusandolo. Quello deviò lo sguardo, verso la tana.
“Hai fatto un ottimo lavoro” disse infine.
La donna non considerò affatto quelle parole, né si sentì lusingata. Si limitò ad accovacciarsi per terra, affondando le ginocchia nel terriccio e sporcando la gonna.
“Spiega ai Pokémon ciò che devono fare” disse all’uomo.
“Andate da lei” annuiva quello.
Yellow vide il volto corrucciato della donna, crogiolato nella sua confusione, quasi abituato a quello spaesamento. Aveva capito cosa l’uomo stesse facendo: ne ebbe la conferma quando, qualche attimo dopo, diversi Caterpie e Weedle, un Pidgey e quattro Rattata s’erano avvicinati alla signora inginocchiata.
Yellow era colpita: quello stava parlando con i Pokèmon, proprio come sapeva fare lei.
Il Domadraghi riprese la parola. “Lei è mia figlia. Crescerà qui, nel Bosco Smeraldo. Fate in modo che sia al sicuro”.
Dopo una piccola pausa fu la donna a parlare. “Io... io...  sono costretta ad abbandonarla qui e... dannazione...” tossì, distrutta dal pianto. “Vi prego,  aiutatela a crescere! Vegliate sempre su di lei, nutritela e fate in modo che diventi una brava persona!”.
La lasciò su di un letto d’erba soffice e si sollevò, pulendo il vestito con veloci e inutili manate.
“Ciao, Yellow” concluse poi e si voltò verso l’uomo, che assisteva colpevole alla scena.
 
Silenzio.
 
“Mi spiace molto” tuonò.
“Non è vero! Non ti spiace! Sei tu che mi hai costretta a lasciarla da sola!”.
“Non è impossibile crescere in questo posto, e io ne sono la dimostrazione!”.
“Quella è mia figlia! Tu sei stato abbandonato e il bosco ti ha adottato, ma eri già più grande! Hai questi... questi strani poteri per puro miracolo, altrimenti non avresti passato la prima notte!”.
“Diana, lo sai bene che Yellow è frutto d’un errore madornale” rispose quello, rigido ed impettito. La donna pulì il viso dal trucco che si scioglieva e poi si sciolse i capelli. La luce del sole filtrava attraverso il fitto fogliame del bosco.
“No…” sorrise amaramente. “Mia figlia non è frutto d’alcun errore… Io e te le abbiamo dato la vita…”.
“È questo il punto!” s’alterò lui, smontandosi quell’impalcatura di ghiaccio che lo faceva sembrare freddo e distaccato. “Noi siamo stati un errore!”.
Diana spalancò le labbra e gli occhi, incredula di ciò che sentiva.
 
Silenzio.
 
“Io… io rifarei questo… questo errore miliardi di volte ancora. E queste tue parole sono la dimostrazione che per te…” e il suo sorriso fu ancora più amaro. “Io per te sono stata soltanto una fuga dalle tue responsabilità”.
Quelle parole esplosero forti, nella testa dell’uomo.
“Ma che credi?!” s’alterò lui. “Pensi che non voglia smontare quest’armatura di roccia e fuggire via con te?! Crescere nostra figlia e amarti come meriti?!”.
Yellow vide gli occhi della donna spegnersi lentamente.
“Perché non lo fai, allora?”.
La sua voce era flebile come un filo di cotone sottilissimo. “P-perché mi costringi a stare lontana da mia figlia?”.
Alzò lo sguardo, lei, in lacrime. La rabbia salì rapidamente dal centro del suo corpo, trovando sfogo in un urlo disumano”.
“Perché non ci accetti come la tua vera famiglia?!”.
L’uomo serrò la mandibola e le si parò contro, afferrandola per i polsi.
“Diana!” tuonò, zittendola. “Sai bene che la nostra relazione è sbagliata! Sai bene che ho una famiglia, un figlio già grande e che sarei buttato fuori dal concistoro se si sapesse che non ho ottemperato alle rigide leggi di fedeltà e tradizionalismo di Ebanopoli e dei suoi Domadraghi!”.
La donna abbassò lo sguardo. S’era resa conto d’essere succube di quella persona e dei sentimenti che provava per lei. E quel fatto, quella sensazione d’impotenza, traspariva in tutta la sua delicata disperazione dal suo sguardo di giada. L’uomo la fissò e sospirò.
Abbassò le mani, lasciò quelle della donna e sospirò.
“Lyssa… mia moglie, m’è stata imposta quando avevo tredici anni… Io non l’amo, Diana, e non l’ho mai amata. Ma la mia vita ha delle regole e, amando te, ne ho infrante fin troppe...”.
Fu allora che il pianto della donna divenne disperato. Quella prese a urlare, lamentandosi e stringendo gli occhi più che potesse.
“Questa bambina è la testimonianza che io ho commesso degli errori... dovrebbe sparire. Molti già sospettano di una relazione tra di noi”.
“Come… come ho fatto?” lo interruppe lei, fissandolo con lo sguardo colmo di dolore. “Come ho fatto ad innamorarmi di un uomo di merda come te?”.
Le sue parole erano mosse da una calma glaciale, in netto contrasto con ciò che il suo volto mostrava. Le lacrime continuavano a fuggire dalle rime degli occhi, scivolavano sul viso e colavano sul mento, per poi macchiare la camicetta.
“Io non ti consento di usare queste parole. Né rinuncerò alla posizione che mi sono creato”.
“…”.
“Non per una bambina nata per errore”.
L’ennesima risata di sconforto le dipinse il viso.
“L’errore lo stai commettendo adesso…” fece, avvicinandosi lentamente a lui. Puntò il dito contro il petto dell’uomo e lo colpì, quasi a volergli fare del male. Poi spalancò gli occhi, mutando totalmente l’espressione del volto.
“Sono queste, le ingiustizie che dovresti combattere!”.
L’uomo tentennò per un attimo, poi raccolse i pensieri e prese fiato. Strinse i pugni e digrignò i denti.
“Siamo Domadraghi! Guerrieri! Spartani! Dobbiamo lottare contro le nostre debolezze, e i nostri pregiudizi! Contro i draghi che ci tormentano l’anima! Non possiamo essere colti dal vizio! Né deve esistere piacere! Noi siamo solo disciplina!”.
“E io cosa cazzo dovrei essere?!”.
La voce della donna s’infrattò lungo i fitti rami degli alberi sulle loro teste.
“Piacere...” sussurrò quello, abbassando il volto. “Vizio. In ogni caso le nostre leggi le conosci, io verrei espulso… Ho impostato la mia vita nel raggiungere i miei obiettivi, quindi è meglio per tutti chiudere questa cosa… Vivremo le nostre vite normalmente e lasceremo che il bosco cresca... tua figlia”.
“Un altro uomo mi avrebbe proposto di fuggire” ribatté lei, solida, sorridendo.
“Per fare cosa? Per vivere nell’ansia che ogni giorno qualcuno possa ritrovarci? E poi a Lance non ci pensi? A mio figlio non ci pensi?”.
“A Yellow non ci pensi, tu!”.
“Lo faccio eccome. Non morirà, crescendo qui. E tu non dovrai tornare a prenderla, altrimenti potrebbero cominciare a farsi delle domande sul perché una donna che saltuariamente è stata vista col figlio del capoclan abbia una bambina con i miei occhi. Libererò perciò questo Dratini nel bosco...” disse, eseguendo con i fatti ciò che le sue parole avevano anticipato. “Ti attaccherà se, un giorno, deciderai di tornare qui”.
Diana s’avvicinò all’uomo e lo guardò negli occhi, nel tentativo di bruciarlo seduta stante.
“Un giorno pagherai per questo male, Dorian. Un giorno ti si ritorcerà contro”.
Con la mano poi carezzò gli carezzò il collo, verso l’alto, fino a raggiungere la guancia deturpata. La toccò col dorso della mano e poi nei suoi occhi apparve l’ira. Dove prima c’era una carezza, arrivò quindi uno schiaffo, tremendo.
Rimbombò nel bosco, zittendo per un attimo ogni frinito, ogni fruscio.
Quello portò la mano al viso, silenzioso, mentre l’altra s’accingeva a parlare, accorata.
“Sei una delusione! Spero che tua figlia un giorno sopravviva per smascherare i tuoi altarini!”.
Con lo sguardo basso, l’uomo si limitò a sospirare. Il cuore batteva, gli occhi della donna erano pieni di fuoco e paura, dolore e frustrazione.
Rassegnazione.
Il cuore continuava a battere. Ormai, però, la linea era stata superata.
“Addio, Diana” fece, salendo in groppa a un Aerodactyl e volando oltre il tetto di foglie.
 
Yellow, quella adulta, era rimasta in perfetto silenzio per tutto il tempo, sconvolta dalla scena. Le labbra erano spalancate, gli occhi pure, le mani stavano lunghe contro i fianchi.
“Tu...” fece, uscendo allo scoperto, agli occhi della donna. Quella ebbe un sussulto e si fiondò sulla bambina, prendendola tra le proprie braccia.
“Chi sei?! Hai sentito tutto?! Vieni dal concistoro, vero?!” sbraitava quella, cullando la piccola che, svegliatasi dal lungo sonno, prese a piangere disperata.
“Tu...” sussurrò ancora Yellow, come se avesse visto uno spettro. Un leggero soffio di vento si fece spazio tra i tronchi degli alberi, pettinando i campi d’erba alta e secca.
“Chi sei?!” urlò ancora Diana, con gli occhi spalancati e i canini in mostra. La piccola Yellow continuava a piangere, nonostante la donna la cullasse con solerzia.
“Tu… t-tu sei… mia madre?”.
 
 
Johto, Rovine D’Alfa, Sala 1
 
Le fiamme.
Ovunque le fiamme, e polvere che si mischiava alla cenere.
Red s’intrufolò lentamente nell’enorme camerata, priva ormai di mura centrali e diede una rapida occhiata alla zona attraverso il fumo e il fuoco per trovare Valerio e gli altri superstiti, sentendo poi il pianto e la tosse di qualcuno. S’abbassò veloce e si diresse verso sinistra, dove l’ultima parete della sala era stata praticamente rasa al suolo.
Jasmine piangeva, col volto di chi aveva visto uno spettro, mentre Valerio stringeva tra le braccia Chiara. Il corpo di Raffaello era steso, inerme, a qualche metro di distanza. Aveva assunto una piega del tutto innaturale e il suo collo era spezzato.
Il suo sguardo era vuoto. Red non riuscì a guardarlo per più di un secondo, dandogli le spalle e afferrando le mani di Jasmine. Quella pareva guardargli attraverso, come se fosse del tutto ignara della sua presenza.
“Jasmine!” urlò, stringendole i palmi, senza però ottenere alcuna risposta. Guardò Valerio, prima che una grossa esplosione detonasse in quello che rimaneva dell’antico monumento.
“Merda! Che le prende?!”.
Valerio tornò a guardare Chiara, e il cuore di Red saltò un colpo quando vide le mani dell’uomo interamente ricoperte di sangue. Jasmine ebbe uno spasmo, tirando entrambe le mani, strette ancora dalla presa del Dexholder.
“Diamine, Jasmine! Jasmine! Che cosa cazzo sta succedendo qui?!”.
Gli occhi della donna rimasero spalancate, mentre le labbra tremavano e sussurrarono debolmente un nome.
“C-c… orr… ado...”.
“Corrado?!  È… è morto?!”.
“Corrado...” ripeté, con la voce più alta, continuando sempre a guardare dritto.
Red inspirò profondamente, cercando di calmarsi, ma il troppo fumo gli sporcò i polmoni e lo costrinse a tossire. Pensò che i Capipalestra fossero da troppo tempo lì dentro, e che avrebbero finito per lasciarci la pelle se non avessero respirato un po’ d’aria fresca. Lasciò infine le mani della ragazza per stringere la spalla all’uomo di Violapoli.
“Valerio…” disse poi, voltandosi verso di lui. “Cerca di spiegarmi rapidamente”.
“È stato un suicidio… non siamo minimamente in grado di competere con Jasmine…” ribatté lui, abbassando il volto.
“Ma lei è qui!” s’alterò l’uomo dagli occhi rossi.
“No! Non sono io!” rispose a tono quella, tornata d’improvviso su quel piano dell’esistenza. “Io non farei mai una cosa del genere!”.
“Mi spiegate, per cortesia?!”.
“Devi fare in fretta!” piangeva quella di Olivinopoli, con le lacrime che ormai le avevano scavato un solco lindo sulla faccia sporca di fuliggine. “Corrado è andato a combattere contro di me!”.
“Valerio! Per favore! Mi sembri il più lucido!”.
Il Capopalestra di Violapoli si voltò leggermente, e ciò scatenò il dolore di Chiara, ancora sveglia, che urlò con tutta l’energia che aveva in corpo.
“Scusami! Scusami, Chiara, scusami! Red, c’è una donna totalmente identica a Jasmine in fondo a questa sala! Con soli tre Pokémon è riuscita a sconfiggere Jasmine, far fuori Raffaello e ferire me e Chiara”.
“Che vi è successo?”.
“Io ho un braccio rotto ma il problema vero è lei... Chiara è stata coinvolta nella terza esplosione, quella più forte, che ha aperto una breccia nel soffitto. Il tetto è crollato ed è stata infilzata nell’addome da alcuni detriti appuntiti. Raffaello, che le era accanto…” abbassò poi il volto. “… lui non ce l’ha fatta…”.
Red annuì, comprendendo la situazione. Prese un respiro profondo che finì per bruciargli nei polmoni ed espirò, tossendo.
“Dovete uscire da qui. Siete poco lontani dall’ingresso”.
“Non posso portare fuori Chiara. Inoltre c’è il corpo di Raffaello”.
Gli occhi rossi di Red s’incontrarono a metà strada con quelli cerulei di Valerio e fu come se si parlassero.
“Non lo lasceremo qui… Oggi non morirà più nessuno”.
Jasmine annuì nervosa, convinta che Red avrebbe mantenuto quella parola.
Fu poi aiutata da lui ad alzarsi, e con lui uscì all’esterno per respirare un po’ d’aria pulita. Le luci dell’alba non erano molto lontane.
“Stai qui” le disse. “E stai attenta”.
Tossiva, lei, e gli occhi lacrimavano. Ma il pensiero fu uno e uno soltanto.
“Aiuta Corrado… Ti prego…”.
“Ovvio che l’aiuto...” mormorò, voltandosi e tornando dentro, con l’incavo del braccio davanti a bocca e naso. Accorse verso il corpo morto di Raffaello e deglutì un boccone amaro quando fu in grado di vederne il volto da vicino: metà del suo viso era totalmente coperto di sangue mentre l’altra parte era sostanzialmente ciò che rimaneva dopo l’impatto con il pesante marmo dell’antica copertura.
“Pensa a cose belle, Red. Pensa a Yellow...” sospirò, caricandosi in spalla il corpo esanime. Lo poggiò su di un cuscino d’erba umida, all’esterno, sul quale strofinò invano pure le mani per pulirsi dal sangue sporco del ragazzo.
Quando rientrò, corse verso Chiara. Aveva i capelli sciolti, scuriti dalla cenere. Piangeva disperata, non riuscendo a trattenere i gemiti di dolore. Stringeva i denti però, e ciò dava rilevanza a una cosa importantissima: era ancora viva. Red incrociò lo sguardo con lei e annuì, poi abbassò lo sguardo verso l’addome, ricolmo di sangue, dov’era penetrata una scheggia affilata di ferro.
“Lì ci sono gli organi. Se leviamo questo pezzo di marmo provocheremo sicuramente  un’emorragia. In più non riesce a muoversi. La situazione è complicata…”.
“Red…” sussurrò lei, deglutendo e continuando a piangere. “Ferma tutto questo…”.
“Sì, ma tu rimani con noi…” le disse, cercando di ragionare. “Devo portarvi fuori da qui…” disse, alzando la maglietta di Chiara fin sotto il bordo del reggiseno; il sangue era colato fin sull’ombelico e poi oltre, macchiando l’intera coscia destra del jeans.
“Ora sollevo prima te, Valerio, va bene?”.
Una forte esplosione fece sussultare Chiara, che di conseguenza urlò a squarciagola.
“Aiutatemi!” piangeva, stremata.
Il Dexholder strappò il polsino al proprio giubbino e lo arrotolò, infilandolo tra i denti della Capopalestra dai capelli rosati. “Lo so che fa male. Fa malissimo, Chiara, posso solo immaginarlo, e tra poco farà ancora più male. Quindi stringi i denti: otto passi e sarà tutto finito. Valerio, spero tu riesca a camminare da solo perché devi essere parecchio più rapido di me nell’aprirmi la porta”.
L’uomo annuì e rotolò con fatica verso sinistra. Si mise in piedi e barcollò verso l’uscita, spalancando la porta della Sala 1. Rumori di combattimento, urla ed esplosioni continuavano a susseguirsi. Il calore aumentava e gli occhi di chiari erano colmi di paura quando le mani di Red, ancora calde del sangue di Raffaello, alzarono lentamente le braccia della donna.
“Venite!” urlò Valerio.
“Via” gli rispose sussurrando quello dagli occhi rossi, sollevando la ragazza di peso, mentre il sangue continuava a uscirle dalla ferita. Si accorse che il dolore non le consentiva di fare forza sulle gambe. Quasi subito prese a urlare con tutte le forze che le erano rimaste in corpo, riuscendo a zittire per un piccolo secondo il crepitio dell’incendio che stava divorando la sala. Nel farlo spalancò la bocca, e il pezzo di stoffa che stringeva tra i denti cadde in una pozza del suo sangue. Red tossì, sentiva le mani della donna affondare nelle sue braccia, aggredendole, mentre la confusione cresceva sempre di più e l’aria si faceva via via più sporca. Aveva bisogno di respirare, necessitava
La trascinò fuori con tutta la forza che aveva in corpo e, quando uscirono fuori, la adagiò sull’erba, prima di inginocchiarsi accanto a lei.
“Va tutto bene” le sussurrò, mentre quella stringeva gli occhi e urlava terrorizzata. “Valerio!” fece poi, alzando lo sguardo. Quello lo fissava già da un minuto.
“Red”.
“Chiama qualcuno! Sta continuando a perdere sangue! Io devo tornare dentro! Jasmine!” la chiamò infine, rimettendosi in piedi e prendendo una sfera dal cinturone, sporcandola interamente del sangue caldo e viscoso della Capopalestra di Fiordoropoli. Quella incontrò il suo sguardo, ancora scossa. Sospirò e annuì, socchiudendo gli occhi. Era sfatta, Red lo aveva compreso da subito.
“Mi serve che tu sia lucida, Jasmine” le disse, avvicinandosi. Quella guardava le mani, ancora grondanti di sangue.
“S-sono q… qui” fece, abbassando lo sguardo e sospirando.
“Devi occuparti di loro fino all’arrivo dei medici”.
Non si curò neppure dell’eventuale risposta, Red si voltò e rientrò, con la mano rossa davanti al naso; l’odore di fumo e sangue si univa, portandolo rapidamente vicino alla nausea. Sfera alla mano si defilò verso destra, dove l’intero soffitto era caduto e aveva creato un grosso foro verso il cielo. Confuso, cercò di capire dove dirigersi, anche se tutt’intorno non c’era altro che macerie e resti di Pokémon esanimi.
E poi, davanti a lui, una sagoma nascosta dal fumo correva verso il lato opposto, rapido.
Spalancò gli occhi, Red, tossì, quasi vomitò, poi si abbassò.
“Tu! Fermati!”.
La figura si bloccò. Aveva capito d’esser stata vista.
 
 
Johto, Rovine D’Alfa, Sala 7
 
Un leggero venticello prese a farsi spazio tra i tronchi degli alberi, pettinando i campi d’erba alta e infrangendosi contro le gambe di Diana. Il suo volto era cereo, mentre il cuore batteva freneticamente e la paura s’era ormai impossessata dei suoi occhi.
“Co-come sarebbe... come sarebbe a dire?” sussurrava, vedendo quella donna, praticamente sua coetanea, mentre si mostrava alla luce del sole, muovendo passi leggeri sul sottobosco.
“Sì”.
“Cosa dovrebbe significare che sono tua madre?”.
Yellow era totalmente immobile, ormai non si rendeva più conto della differenza tra finzione e realtà. Osservava il volto della donna, così somigliante al suo, con quei lineamenti aggraziati e il taglio d’occhi che aveva visto ogni giorno della sua vita, specchiandosi.
“So che è difficile da spiegare ma è come ti dico...” diceva quella, avvicinandosi lentamente. Diana s’avventò terrorizzata sulla bambina, avvolta nella copertina e appoggiata su di un letto di foglie. La prese tra le braccia e la strinse con vigore.
“Aiutatemi!” urlò poi, vedendo i Pokémon del Bosco Smeraldo avventarsi contro la nuova arrivata, proprio come suggeritole dal marito.
Yellow rimase impassibile, abbassando lo sguardo e poi chiudendo definitivamente gli occhi.
 
“Non vengo per fare del male.... Proteggerò per sempre i Pokémon del Bosco Smeraldo… Questa è casa mia”.
 
I suoi pensieri riverberarono nelle menti di quelle creature, che si bloccarono immediatamente sotto gli occhi stupiti di Diana.
“Io mi chiamo Yellow e sono la bambina che hai tra le braccia. Come quel Domadraghi io... io riesco a parlare con i Pokémon”.
La donna lasciò che l’avventrice la raggiungesse.
“Non voglio farti del male” sorrideva, con le lacrime appuntate agli occhi e il sorriso più dolce di cui fosse fornita. “Vorrei solo conoscerti”.
A quel punto anche Diana si soffermò a guardarla meglio: i capelli biondi, lunghi, legati, erano uguali a quelli dell’uomo che le aveva donato sua figlia. Qui e lì, piccoli particolari del volto, come il naso e il mento delicato, cominciarono a sovrapporsi a quelli di Dorian. E poi gli occhi, dello stesso colore di quello, ma con la sua forma. E anche il sorriso, Diana lo riconobbe come suo. Annuì, impercettibilmente, poi perse una lacrima, che cadde lenta sul suo viso e si tuffò oltre, affondando nella morbida copertina nella quale la piccola Yellow era avvolta. Abbassò il volto e vide la bambina che dormiva tranquilla; pensò alla sua incolumità, al fatto che in quel bosco, paradossalmente, sarebbe stata più al sicuro che al di fuori, dove i Domadraghi le avrebbero resa la vita impossibile.
“T-tu…”.
“Sono tua figlia!” sorrise, festante. “Tu sei mia madre! I-io... è la prima volta che ti vedo!”.
Piangevano entrambe, mentre la bambina continuava a piangere.
“M-ma… ma com’è possibile?!”.
“Non lo so!” rideva ancora Yellow. “Ma tu sei bellissima e io sono contenta di averti visto, almeno una volta!”.
Fu allora che il sorriso di Diana cadde, lasciandole sul volto un’espressione sconvolta.
“T-tu… non hai mai visto tua madre? Non mi hai mai vista?!” esclamò, cullando la piccola.
“No” abbassò lo sguardo l’altra. “Appena cresciuta fui adottata da una persona a Smeraldopoli… e poi ho cominciato a viaggiare…”.
“Tu hai… hai vissuto tutta la tua vita senza sapere chi fossero i tuoi… i-i tuoi genitori?”.
L’altra si limitò ad annuire, e Diana percepì la sua sofferenza premere con forza al di fuori del suo petto, quasi fosse tangibile. Infine riguardò la bambina: così piccola e inerme. Quel meraviglioso miracolo della natura non avrebbe mai dovuto provare quel dolore.
“Io non posso lasciarti qui!” esclamò, parlando alla neonata come se potesse capire le sue parole. Il pianto tornò a squassarle il petto e si perpetuò torrenziale per diversi minuti. “Devo portarti via da qui!”.
“Ti darò una mano” sorrise Yellow. “E anche i Pokémon lo faranno. Ci aiuteranno con quel Dratini. Scenderemo per Smeraldopoli e poi da lì...”.
“È fuori discussione!” esclamò Diana, cullando la piccola, che gridava disperata. “No! No, piccola mia, no! Tranquilla, non è successo nulla... Non possiamo fuggire da sud perché è quella la rotta che Dorian percorrerà per tornare ad Ebanopoli. Dobbiamo andare ad est”.
“Il Bosco si estende fino ad Azzurropoli, seguendo la direzione che hai detto” ragionò Yellow.
“Da lì prenderò un bus fino ad Aranciopoli e poi cercherò un modo per pagare un traghetto che mi porti lontana da Kanto e Johto. Ma non ho con me nulla, non ho documenti, niente!”.
“Tranquilla”.
Diana alzò gli occhi verso di lei e poi li riabbassò. “Ho solo lei.”
“Me”.
“Te”.
“Ed è tutto quel che ti serve” sorrise Yellow. “Ora però dobbiamo pensare a quel Dratini...”.
Guardò i Pokémon e si concentrò.
Ci serve l’aiuto d’un Pidgeot, amici” pensò poi. Il piccolo Pidgey che stava nel gruppo s’alzò in volo, grugando rumorosamente e scatenando una tempesta di piume, scaturita dall’enorme massa di Pokémon, uguali al primo, alzatisi in volo in quel momento.
“Dov’è andato?” domandò Diana, cercando invano di placare sua figlia.
“A chiamare rinforzi”.
 
*
 
“Cerca di capirmi, piccolina...” diceva Sandra, sorridendo a se stessa mentre s’inginocchiava, per poter guardare meglio negli occhi la sua versione del passato. “So che vuoi rendere fiero papà ma ricorda una cosa: devi stare con chi ti ama. Non voglio che tu venga condizionata dalle mie parole, tra un paio d’anni riuscirai a entrare all’interno dell’ordine dei Domadraghi e sarai una delle prime donne a farlo. Impegnandoti diventerai anche la Capopalestra di Ebanopoli”.
La piccola si grattò la fronte, spettinandosi il ciuffo azzurro che aveva ben pettinato. Tuttavia ascoltava affascinata le parole di quella donna, osservandola in volto e notando come quei tre piccoli nei fossero disposti nella stessa e identica maniera in cui li aveva lei, sulla guancia. Aveva visto anche che i capelli fossero dello stesso colore di sua madre, e del suo, ovviamente.
Erano proprio come i suoi. Forse fu proprio per quell’inesperienza di cui era stata accusata da suo nonno quel giorno, ma non riuscì nemmeno ad avvicinarsi alla realtà dei fatti, col pensiero.
Non era riuscita a capire che quella donna, inginocchiata davanti a lei, fosse proprio lei.
“Capo... capo della Palestra di Ebanopoli? Come il mio papà?”.
Sandra non ricordava quanto fosse dolce la sua voce, da bambina. Si limitò ad annuire.
“Ma voglio avvertirti: i Domadraghi non ti prenderanno sul serio fino a quando non ti dimostrerai capace, e avrai l’occasione di farlo solo tra molti anni. E Lance diventerà velocemente uno dei più forti Allenatori del mondo”.
“Anche io posso diventare forte come lui” ribatté determinata, l’altra.
“No” replicò l’adulta. “Per quanto tu ti possa impegnare non riuscirai mai ad essere al suo livello”.
Fu allora che gli occhi della piccola presero a riempirsi di lacrime. Non pianse, però, orgogliosa e forte come le avevano insegnato.
“I-io m’impegnerò! Diventerò la Domadraghi migliore di tutti!”.
Sandra abbassò leggermente lo sguardo alle parole della ragazzina, quindi sospirò.
“Allontanati. Viaggia e dimenticati di questi posti. Ti distruggerai nel tentativo di dare a papà la soddisfazione di vederti in vetta, perché non ci riuscirai”.
Come colpita da un fendente alle spalle, la bambina si sentì atterrita. Una lacrima fugace scese dai suoi grossi occhi azzurri, poggiandosi sulla morbida guancia.
“P-perché dici così?!” urlò, colma d’ira. “Io m’impegno sempre! E sono forte!”.
“Ti sto dando il consiglio migliore che avrai mai in vita tua. Allontanati da questa gente altrimenti non sarai mai soddisfatta di te stessa e della tua vita”.
Quella fissò le punte dei suoi stivali di pelle lucida, con le labbra tremanti.
“Io so che diventerai una grande Allenatrice... una grande Domadraghi, Sandra. So che diventerai una grande donna, forte, bella, intelligente. Ma se proseguirai su questa strada comincerai una vera e propria lotta con te stessa che purtroppo perderai. Vorrai vedere il volto di papà fiero ma non ci riuscirai, non lo vedrai mai felice”.
“Il mio papà non sarà mai fiero di me?” domandò, con quegli occhi enormi a fissare l’interlocutrice, che si limitò a scuotere la testa.
“Una volta che ti renderai conto che le mie parole sono vere, vai via. Sfrutta altrove il tuo potenziale. Usalo per le persone che ne hanno bisogno, e non per una stupida setta di cui sarai schiava”.
 
 
Johto, Rovine D’Alfa, Sala Alfa
 
Nonostante le finestre lasciassero entrare un po’ della luce lunare di quella sera, le ombre stentavano a diradarsi, all’interno della sala principale. I passi di Green erano rapidi, il suo respiro diventava più greve a ogni nuovo corridoio in cui entrava, in quell’infinita serpentina di pareti incise, antiche come il tempo. Strinse i pugni, si guardava attorno con superficialità perché doveva arrivare il prima possibile alla fine di quel dedalo, dove un piccolo altare di marmo reggeva uno dei preziosissimi mosaici, raffigurante il Pokémon Kabuto.
Fu però quando voltò l’angolo dell’ultimo corridoio che poté rendersi conto, con orrore, che l’altare era stato totalmente distrutto, e il mosaico divelto dalla parete.
Il cuore del Dexholder saltò un battito. Le mani cominciarono a tremare, il respiro si bloccò.
Impiegò un secondo di troppo a capire cosa fosse successo.
“Merda… merda! Merda, merda, merda! Red!” urlò, afferrando sbadatamente il Pokégear dalla tasca e facendolo cadere. Si abbassò, con le dita che non riuscivano ad afferrare l’apparecchio, fino a quando non sospirò, cercando di calmare i nervi. Navigò poi tra i menù del congegno, cercando il nome di Red, e premendo il tasto di chiamata.
Avvicinò il Pokégear all’orecchio e respiro profondamente.
“… … … …”.
“Avanti… Rispondi! Rispondi, cazzo!”.
Non è il momento, Green!”.
“Hanno rubato il mosaico! Nella Sala Alfa!”.
Qui invece è morto Raffaello e Chiara tra poco lo raggiungerà! Non ci sto capendo più nulla! Devi andare nella Sala Due!”.
“I mosaici della Sala Uno invece ci sono ancora?”.
Cazzo, Green! Nella Sala Uno non ci sono neppure più le pareti! Siamo in inferiorità numerico e Angelo e Furio sono da soli! Corri lì, porca puttana! Quei due ci lasciano la pelle!”.
L-le… le pareti?!”.
Non ci sono più, ho detto. Jasmine le ha distrutte…” rispose quello, dopo un sospiro stanco.
“Jasmine?! Ma che cazzo stai dicendo?!”.
“Senti, non ho tempo, ora! Sala Due, e subito! E prega che quei due non siano morti, altrimenti te li porterai sulla coscienza!”.
“… va bene…” concluse, chiudendo la comunicazione. I dubbi sgomitarono con lo sconforto, conquistandogli mente e corpo, quindi salì sull’ara, guardando con attenzione il piano sul quale erano state incastrate le tessere, vedendone i bordi in rilievo scheggiati. avevano utilizzato qualcosa di simile a un piede di porco per forzarli a uscire dal pannello principale ed erano scappati.
Abbassò poi gli occhi, accorgendosi della grande botola aperta proprio davanti ai suoi occhi.
“Sono fuggiti da qui?” domandò a se stesso, prendendo la torcia dallo zaino e puntandola sul fondo. Non era assai profondo.
Doveva seguire quella via, gli sgherri vi erano fuggiti sicuramente attraverso, e quando lo capì vi saltò dentro, carico d’una nuova forza. Senza alcuna remora né paura, prese a correre dritto, col fascio di luce della torcia che traballava nelle sue mani sudate.
Respirava, riempiva i polmoni di quell’aria stantia, mentre i suoi passi si bagnavano nell’acqua caduta dall’alto. E poi una scaletta, fatta di corda, gli venne in aiuto.
Mise la torcia in bocca e la salì.
 
E si ritrovò in un’altra sala, totalmente identica a quella che aveva lasciato.
Poco indicativo. Quelle rovine erano tutte identiche.
Lì la torcia non serviva, la luce della luna illuminava molto bene metà dei corridoi, quindi la posò nello zaino e prese a camminare, ancora la sfera di Charizard tra le mani, con deboli passi. Aguzzò l’udito, cercando di localizzare la presenza di qualche avversario, sentendo però soltanto un fastidioso brusio, come fosse un fischio su più frequenze.
Aggrottò la fronte, imperlata di sudore, il freddo gli stava mangiando le guance ma il cuore pompava sangue e batteva impanicato. Avanzò, rapido e silenzioso, fino a quando quel brusio non diventò sempre più forte e, dopo aver voltato il centesimo angolo e messo piede nel centesimo corridoio, riuscì a vedere delle ombre.
S’appiattì contro il muro e s’abbassò, studiando meglio la situazione. Il fischio era quasi insostenibile ma riuscì a concentrarsi e a contare quattro ombre, una in piedi e tre stese sul pavimento.
Il battito accelerò. S’avvicinò ancor più lentamente, capendo che quelle non fossero stese per scelta; l’uomo in piedi parlava da solo, sembrava concentrato nel guardare sullo schermo d’un piccolo palmare che gli illuminava la parte inferiore del volto.
 
Chi cazzo sei?
 
Oak continuò ad avanzare di soppiatto fino a quando, a meno di sei metri. Era vicino, tanto da poter ascoltare il suo respiro. Alle sue spalle, tra di loro, vi erano Blue, Sandra e Yellow.
Guardò Blue. La sua Blue.
 
… Non sei morta. E neanche le altre. Non siete morte.
 
Era più una preghiera che un pensiero.
Ma mantenne la calma, sospirando lentamente e cercando di mozzare il collo a quella rabbia colma di paura, di panico, che cresceva nel suo petto e gli faceva tremare le gambe.
Gli faceva fremere le mani.
“Alla fine sei arrivato...” tuonò poi l’uomo di spalle.
Alto, lui, coi capelli biondi ben pettinati, almeno sulla nuca, e un lungo soprabito di pelle nera.
Si voltò quasi subito, lasciando l’altro basito.
 
Xav… Xavier Solomon…
 
L’uomo sorrise, divertito dal notare quanta sorpresa vi fosse nello sguardo che aveva di fronte, poi, come se nulla fosse, tornò a guardare il palmare che aveva in mano.
Come se Green non fosse lì. Come se non avesse avuto alcun potere, su di lui.
“Tu…” sussurrò Green, riconoscendo spaventato gli occhi di quell’uomo. “Xavier Solomon!”.
“Sì... sono Xavier Solomon...” annuì quello, distratto dalle immagini sul suo marchingegno e mantenendo una calma serafica. E forse fu quella a distruggere ogni baluardo di razionalità e controllo nel capo dell’Osservatorio di Biancavilla. Sentì la rabbia partire rapida dalle profondità del suo corpo e, vedendo gli occhi di Blue aperti e persi lungo i pavimenti impolverati delle rovine, fece suo l’impulso di saltargli addosso, allargando le braccia e chiudendole contro il suo collo.
Ma poco prima di riuscirci, Xavier si voltò rapido e lo colpì con un montante dalla forza spaventosa, dritto nel petto. Quello urlò, dolorante, per poi accasciarsi lento contro la parete. L’uomo dagli occhi rossi lo guardava severo, quasi pietrificandolo.
“Non tollero quelli come te, Oak. A me non importa del tuo Pokédex, o di chi è tuo nonno, né di chi ti porti a letto. Per me siete solo zanzare…” sorrise poi. “Piccole e fastidiose zanzare…”.
Green strinse il costato nella mano destra e digrignò i denti.
“Tu… Solomon… devi ridarmi la pietra …”.
L’altro non si voltò neppure, continuando a lavorare con l’apparecchio che aveva davanti.
“Non ce l’ho più. Almeno non ora, la riprenderò dopo… Per adesso mi sto concentrando sul Cristallo della Luce. Poi recupererò anche quello… Mi sto limitando a… sai… seminare” sorrise, quasi genuinamente. “Come farebbe un buon contadino, insomma…”.
“Che cazzo stai dicendo?!” esclamò Green, con forza ritrovata. Lasciò il costato e portò entrambe le mani alle sfere, prima che l’uomo lo fissasse, intimorendolo.
“Giovane Oak... tuo nonno è assai più saggio di te. Forse col tempo si è perso, ma ti assicuro che era di un altro spessore. Tu invece… ti ritieni così superiore...” sorrise ancora, schernendolo. “… mentre in realtà giochi a fare il duro, come un bulletto di quartiere. Sai, le ferite che hai dentro si vedono, e non si rimargineranno mai più…”.
“Tu che cazzo ne sai di me?!”.
“Io so... E potrei distruggere la tua vita con uno schiocco di dita” fece, accompagnando quella frase coi gesti. “Potrei tornare indietro nel tempo e uccidere la madre di Blue il giorno prima del parto...” sorrise. “Sai che amarezza...”.
“Sei uno stronzo…”.
“Non la conosceresti mai”
“Zitto!”.
“Potrei farti soffrire ora, qui, come un cane, facendoti vedere all’infinito come quei luridi dei tuoi genitori siano morti durante la rapina che avevano organizzato per settimane...”.
“Ho detto zitto!” urlò ancora, alzandosi di scatto e scagliandosi di peso contro l’uomo. Quello alzò la mano destra e una grossa barriera elettrica si frappose tra loro. Più in là si senti il ruggito di un grosso Pokémon dagli occhi giallastri, da cui sembrava provenisse la corrente.
“Cosa... cosa cazzo…” sussurrò Green tra i denti, spaesato. Guardava l’uomo che aveva di fronte e forse, per la prima volta nella sua vita, sentiva di non avere alcuna opzione possibile per farcela.
 
“Non vuoi fare davvero questa cosa…” diceva Solomon, con la barriera elettrica che si spostava in concomitanza dei suoi passi, calmi e totalmente atarassici. Si dirigeva verso Blue.
“Non permetterti mai più di parlare dei miei genitori!”.
“Erano criminali. Ma tu no. Vero?”.
Green si bloccò, mentre la mano di Xavier si avvicinava alla testa di Blue.
 
 
Johto, Rovine D’Alfa, Sala 7
 
I passi agili della ragazza dai capelli biondi aprivano la strada a quelli più lenti della donna, che stringeva il fagotto tra le braccia. Yellow si guardava attorno rapida, riuscendo a ricollegare ognuno dei grandi alberi che aveva davanti con quelli che aveva visto da bambina, negli stessi posti, ma più avanti nel tempo.
“U-un attimo…” sussurrò Diana, con le gambe pesanti.
“Dobbiamo sbrigarci, mamma”.
Diana si bloccò, fissandola e battendo velocemente le palpebre, celando a intermittenza le iridi smeraldine. Yellow si voltò e la guardò, notando che fosse rimasta interdetta da quella parola.
Una sola parola, così elementare ma così importante, per lei.
“Scusa…” fece, abbassando il viso. “Non volevo dire nulla di sbagliato…”.
“No! Tranquilla!” esclamò l’altra, sorridendo. Eppure vedere quella ragazza, quasi sua coetanea, chiamarla in quel modo e poi assumere quell’espressione, una volta compreso di aver fatto qualcosa che non andasse, le fece rivalutare tutto. Quella donna, dai lunghi capelli biondi stretti nella coda di cavallo, che dal padre aveva preso lo sguardo e da lei la dolcezza nelle espressioni del viso. Quella era veramente sua figlia.
Era quella piccola bambina, che stringeva al petto, e che cercava di proteggere dal mondo, dal bosco, da suo padre.
“Tu… sei davvero cresciuta qui?” domandò, poggiandosi al tronco di un solido pioppo.
La ragazza dagli occhi paglierini annuì, rapprendendo le labbra.
“Sì. Ecco perché conosco questo posto come le mie tasche”.
“E… non ci siamo mai incontrate?”.
“No”.
Diana guardò nuovamente sua figlia. Aveva davvero avuto il coraggio di abbandonarla lì, da sola, e per questo cominciò a provare vergogna.
“Mi… mi spiace…” singhiozzò, mentre l’ennesima lacrima calda le colò sulla guancia.
“Ma no…” sorrise l’altra, avvicinandosi a lei e sistemandole i capelli dietro le orecchie. Le poggiò una mano sulla spalla e incontrò i suoi occhi, per rincuorarla. “Tu non lo hai fatto. Io sono lì, tra le tue braccia… Sei stata forte e decisa e hai preso la decisione più giusta per me… o lei” continuò, sorridendo nuovamente, impacciata.
“Sei cresciuta senza una madre, né un padre, qui, come una selvaggia e… cazzo!” esclamò, stringendo gli occhi. “Che donna di merda, che devo essere stata!”.
“Mamma…” riprese lei, catturando nuovamente il suo sguardo. “Diana…”.
“Scusami” disse l’altra, abbassando il volto.
“Stai tranquilla, ti ho perdonata tanto tempo fa”.
Il sorriso esplose nuovamente sul volto della bionda, che strinse le mani di quella e socchiuse gli occhi. “Senza quest’esperienza non sarei mai diventata quello che sono adesso”.
“E sei meravigliosa. Sarei stata sicuramente fiera di te…” pianse l’altra, avvicinandosi a lei e poggiandole la fronte contro la spalla. Yellow l’accolse in un delicato abbraccio, che comprese anche la bambina. “Sei una donna bellissima, e buona, e quando necessario hai fatto la cosa giusta…”.
“Anche tu, ora. Ti senti un po’ più riposata?”.
Diana annuì, controllando per l’ennesima volta la bambina.
“Allora andiamo. Avanzerò, per controllare che quel Dratini non c’incontri impreparate…”.
E fu così che la loro fuga riprese. Il sottobosco continuava a scricchiolare sotto i loro passi ansiosi. Yellow cercava di lasciare quanto meno tracce possibili durante il loro passaggio, evitando di modificare nidi e ripari per i piccoli Pokémon, che solerti le seguivano silenziosi.
Diana si voltava, di tanto in tanto, spaventata e affascinata da quei piccoli Pidgey e Pikachu, e Rattata, e Beedrill, e realizzò che avesse realmente lo stesso potere di Dorian. Di tanto in tanto qualche flebile raggio di sole filtrava tra le mani incrociate dei rami, baciandole il viso sporco di trucco e lacrime.
“Presto…” fece poi l’altra, alzando una fronda e permettendole di passare più facilmente.
“Grazie”.
 “Dopo che farai? Dove andrai?”.
“Non lo so...” sospirò Diana. “Valuterò un po’ alla volta il da farsi, ma ciò che so è che devo fuggire da qui, adesso…”.
Yellow annuì, cercando di fare mente locale per capire dove quella avrebbe potuto trovare riparo lontana da Kanto e Johto. “Sinnoh? Cosa ne pensi di Sinnoh?” domandò, calciando una pigna lontana dal sentiero.
“È lontanissima... Non ho i soldi per sostenere quel viaggio”.
“I soldi non sono un problema… dovrei avere qualcosina qui con me…”.
“Grazie ma... Com’è possibile tutto questo?”.
Yellow non si voltò ma rispose lo stesso, mentre continuava a camminare.
“Risolviamone uno alla volta…” sorrise. “Poi te lo farò sapere”.
Scavalcarono un grosso tronco di leccio, caduto e ormai casa per i piccoli Pokémon, quindi continuarono.
“Attenta… passami la bambina…”.
Lo fece, Diana, non senza qualche remora. Vide Yellow guardare se stessa e sorridere, divertita.
“Sei sicura che sia io? Non mi assomiglia per niente” ridacchiò.
“Avevamo deciso di chiamarla Yellow, come il sole e i campi di grano, quindi immagino si tratti proprio di te”.
“Immagino di sì” ribatté seria l’altra, restituendo il fagotto alla madre.
“Grazie. E… e parlami un po’ di te. Fammi capire cosa sarebbe successo se l’avessi lasciata qui”.
“Come ho detto… sono cresciuta nel bosco. Questi Pokémon mi hanno aiutata… poi un giorno mi hanno presa e adottata, a Smeraldopoli. Lì ho scoperto i miei poteri…”.
“Eri piccola”.
“Molto. Poi incrociai un Allenatore, e l’ho seguito… e ora siamo ancora insieme”.
Spalancò gli occhi, Diana. “Siete…”.
“Stiamo assieme, sì…” arrossì l’altra. “Ne sono molto innamorata. È una persona speciale”.
Non poté vedere poi il sorriso felice della donna, contento e quasi sollevato.
“Mi piacerebbe tanto conoscere l’uomo che ti ha fatto diventare così…”.
“Probabilmente ora ha poco più di un anno, mamma. E forse lei non lo incontrerà mai…”.
Rallentò il passo, per un piccolo secondo, chiedendosi se avesse poi barattato Red per una vita normale, senza quei vuoti in cui sovente sprofondava. Però si chiedeva come si sarebbe evoluta la sua vita se, realmente, sua madre avesse deciso di portarla via e crescerla come una ragazza normale. Probabilmente sarebbe cresciuta come un qualunque altra persona, avrebbe avuto libri e giocattoli come ogni bambina, un tetto sulla testa, la paura dei temporali e delle amiche con cui passare il tempo, in maniera leggera.
Stupida, insensata.
Avrebbe avuto un carattere leggermente differente, forse più sicuro. Forse sarebbe stata meno gentile, un po’ più pungente, come Blue. E forse anche più femminile. Forse non avrebbe conosciuto l’amore grazie a Red, né avrebbe imparato il valore dell’amicizia tramite i Pokémon del Bosco Smeraldo. Forse avrebbe imparato a confrontarsi correttamente con le persone, magari a possedere un po’ della tanto decantata malizia che caratterizzava proprio Blue, e che, suo malgrado, lei non aveva in nessuna quantità né misura. Forse non avrebbe subito quel tradimento, che ancora bruciava, se fosse stata più sicura.
O forse sì. Magari non avrebbe conosciuto Red, ma sarebbe stato un altro uomo a tradirla.
Sospirò, sentendo frusciare le fronde sotto i soffi leggeri del vento.
Non sapeva da quanto stessero avanzando, aveva perso totalmente il senso del tempo. Tuttavia non le dispiaceva essere in quel posto, in quel momento. Di tanto in tanto, difatti, si voltava a guardare il viso di sua madre, così preoccupato, teso, ma al contempo bello, e dotato di quegli occhi limpidi.
E camminarono, continuarono a farlo, senza sentire stanchezza, né fame, né sonno; senza accorgersi che il sole non scendeva ma rimaneva sempre ben fisso a mezzogiorno, a illuminare le cime degli alberi del bosco. Fu quando arrivarono poco dopo il Monte Luna, dove le pendici erano ancora bagnate dalle creste fogliate, che Yellow si fermò. La madre, pochi passi alle sue spalle, aderì alla sua schiena.
“Che succede?” domandò preoccupata.
La bionda si voltò rapida verso i Pokémon, poi annuì.
“È il momento...” sospirò, stringendo i pugni. “Spero vada tutto bene”.
“Che succede?!” ripeté l’altra, più impanicata, vedendo i Pokémon che la seguivano accerchiarle, rigidi.
Poco dopo il Dratini di Dorian le attaccò.
 
 
Johto, Rovine D’Alfa, Sala 1
 
“Corrado!” esclamò Red, vedendo il corpo dell’uomo per terra. S’inginocchiò rapidamente al suo cospetto, vedendo un rivolo di sangue fuoriuscirgli dalla bocca. Gli occhi dell’uomo erano chiusi e mai s’erano aperti. Red alzò lo sguardo, angosciato e pieno d’ansia. Si rimise in piedi e avanzò rapido, sperando fosse ancora vivo, ma c’era troppo trambusto.
Non riusciva a concentrarsi.
Vedeva il Capopalestra di Arenipoli immobile, steso sulle lastre sporche di polvere, segnate dal sangue che colava e s’infilava nelle antiche incisioni, ormai perdute per sempre. Tentennò un attimo, quello dagli occhi rossi, mentre l’odore acre della morte saturava la zona.
Avanzò verso di lui, cercando di celare la paura di poter fare la sua stessa fine, e stringeva la sfera di Poli nella mano destra. Quella sinistra era a proteggere il volto dall’enorme nuvola di fumo che aleggiava lì. Si abbassò, tossì, pensò a Yellow e si gettò sull’uomo.
“Corrado! Svegliati!”.
Portò le dita sulla carotide, e bassò la testa quando si rese conto che il cuore non pompasse più. Come lui, anche il suo Luxray giaceva senza vita, a pochi metri dal muro di cinta destro, totalmente dilaniato.
Deglutì, l’odore era ancor più forte, vicino a lui.
 
Fermali. Ferma tutto.
 
Cercava tra i suoi pensieri la forza per poter reagire, nonostante tutto attorno a lui trasudasse morte e distruzione. Avrebbe dovuto abbandonare la nave come il peggiore dei codardi, forse, andare a cercare la sua donna e scappare via.
Il primo impulso fu quello, fuggire via e provare a vivere la seconda parte della sua vita cercando di uccidere il rimorso e il peso che il suo nome si portava dietro. Ma quella scelta l’avrebbe lacerato lentamente, fino a quando non sarebbero rimaste soltanto pelle ed ossa, quindi spense con le dita quella scintilla e si rimise in piedi, proteggendo naso e occhi dal fumo e sfondando la barriera di fumo.
Oltre vi trovò soltanto carneficina e terrore: un paio di scagnozzi dalle maschere antigas erano stati messi fuori combattimento e giacevano supini, stesi sui detriti e sul proprio sangue ma davanti a loro c’erano tutti i Pokémon dei Capipalestra rimasti feriti e senza vita.
Alla fine di quell’orrida passerella vi era la stessa figura che aveva riconosciuto attraverso il fumo e le fiamme.
“Fermati!” le urlò, vedendo la figura bloccarsi. Pareva fissarlo. “Poli, vai!”.
Le fiamme attorno ai suoi piedi continuavano a divampare e intanto il Pokémon dell’Ex Campione di Kanto avanzava deciso.
“Mi senti?!” urlò Red all’ombra. “Chi diamine sei?! Mostrati!”.
Ascoltò poi qualcuno ridere debolmente, nonostante il crepitio delle fiamme e dei respiri sempre più pesanti di alcuni di quei Pokémon ancora vivi.
“Tu vuoi sapere chi diamine io sia?” sentì quindi Red. Era la voce di una donna, e, purtroppo, era davvero molto familiare.
“Jasmine…” sussurrò Red, quasi sconfitto. L’ennesimo doppleganger, pronto a distruggere e a uccidere.
“Esattamente”.
La donna camminava lenta verso l’Allenatore di Biancavilla, spostando la lunga treccia dalla spalla, muovendo rapidamente la testa. I suoi occhi, di quel color nocciola così intenso e vivo, risaltavano persino in quel caos. Indossava un gilet bianco, sporcato di cenere, sangue e terreno, e sotto portava un maglioncino di filo assai aderente. Sulla spalla manteneva un sacco, che pareva essere assai pesante.
“Sei lei…” continuò il Dexholder, con un filo di voce. Si chiese come potesse aver fatto una donna così piccola a creare un problema così grosso.
“Parli dell’altra, eh?”.
Gli occhi dell’uomo si poggiarono sulla sacca. Capì immediatamente.
“Lascia subito qui le tessere del mosaico e arrenditi!”.
“Queste servono a me. Non ti vedevo da tempo, Red” sorrise quella.
“Io non ti ho mai vista… La Jasmine che conosco è una brava persona”.
L’altra scese l’ultimo dei gradini dell’altare dove i mosaici erano posti in precedenza, divertita. Red fu in grado di guardarla meglio in viso, appurando che le efelidi che vedeva sul viso candido della donna fossero in realtà schizzi di sangue.
“Non esistono brave persone. Esistono soltanto buone e cattive azioni. Se tu oggi fossi costretto a farlo, probabilmente agiresti in maniera sbagliata per una giusta causa…”.
“Non sei stata costretta a uccidere Raffaello! L’hai fatto di tua spontanea volontà!”.
“E Corrado. Non dimenticare Corrado, ho ucciso anche lui, Red. Sei molto differente da come ti ricordavo”.
Avanzò ancora, trovandosi esattamente sotto la grande apertura nel soffitto. Era molto vicina al ragazzo, lo vide indossare una maschera che univa malessere e disprezzo, e rabbia.
“Hai… ammazzato degli uomini per le tessere d’un mosaico...” sussurrò lui, quasi parlando con se stesso.
“Noto che adesso possiedi dell’etica”.
“Ho sempre agito secondo ciò che reputavo giusto. Ho sempre saputo distinguere tra bene e male”.
“Da dove vengo io non è così” fece l’altra. Gli occhi dell’uomo si spalancarono, buoni e ingenui quali erano. Il suo silenzio diede spazio alle parole di Jasmine. “Da dove vengo io sei scappato alla prima occasione. Lì ognuno di voi è differente, Red... e non vedo l’ora di ritornarci”.
“Quello non sono io. Non scapperei mai”.
La donna sorrise, giocando con le punte ordinate dei capelli al di sotto della treccia. Alzò gli occhi verso il cielo quando una debole goccia di pioggia le bagnò una guancia.
Allargò il sorriso e chiuse gli occhi.
“Ero nel faro, quando il Team Rocket attaccò Olivinopoli. Fu un’azione magistrale, repentina. Militarizzati al massimo, le Reclute si sparsero tra le strade e le case della mia gente con velocità e precisione. Chiunque non aderì alla loro causa venne giustiziato. In pochi riuscimmo a nasconderci. Nelle fogne. Fu lì che creammo la Classe Sociale Degenerativa, quella sorta di resistenza di cui Johto aveva bisogno. Molti di noi erano formidabili Allenatori, altri solamente pieni di voglia di fare. Furono i primi a morire, durante le battaglie”.
“Ma… Il Team Rocket non è mai riuscito a conquistare Johto…”.
“Da me sì. Il mio universo è differente dal tuo, te l’ho detto. In ogni modo è straordinario il modo in cui fui coinvolta nella faccenda...”.
“Quale?”.
“La notte del quindici dicembre Giovanni stazionava all’Hotel Bellariva, sul lungomare a ovest della città. Pianificavano l’attacco a Fiorlisopoli, dovevano necessariamente dirigere le manovre d’attacco via mare e via aria ma Furio era già stato allertato e aveva predisposto un embargo civile e commerciale all’isola. Aveva utilizzato il tempo che aveva per impostare un sistema di trappole al centro del mare e in prossimità dei suoi porti, oltre ad aver organizzato linee difensive di mare e di terra. Ecco perché Giovanni non aveva ripiegato rapidamente verso sud ma era stato costretto a fermarsi per un paio di mesi a Olivinopoli… nella mia città…” ridacchiò quella, guardando in alto, mentre la pioggia le lavava il volto. “Beh, quella notte organizzammo il suo omicidio. C’intrufolammo nell’hotel e riuscimmo a penetrare nelle sue stanze. Lo uccisi col mio Ampharos, scaricandogli milioni di ampere nel corpo. Fu lì che partì una controffensiva micidiale per liberare l’intera Johto...”.
“Hai… hai ucciso Giovanni?” domandò Red, stupito, massaggiandosi il viso.
“Sì… ma, ecco, ero mossa dai motivi giusti...”.
“Hai ucciso un uomo!” urlò forte l’altro.
“Che aveva ucciso migliaia di persone! E che voleva continuare a farlo!” ribatté Jasmine. “Con l’aiuto di Furio risalimmo velocemente a nord e avemmo una grossa battaglia contro i Rocket ad Amarantopoli… Vincemmo, mi sentivo benissimo… Ero l’autrice di quella che era la più grande organizzazione paramilitare di tutta la nazione… Noi eravamo la resistenza. Poi però...”.
“Poi?”.
“Il potere è un bicchiere dal quale non puoi bere una sola volta. Cominciato come piano di liberazione, Johto è diventato il mio regno...”.
“E io... io sarei fuggito?” domandò confuso il ragazzo, vedendo la pelle di Poli diventare lucida sotto la pioggia che cominciava a battere con maggior vigore.
“Una volta saputo che Violapoli fosse sotto attacco Gold e gli altri Dexholder hanno attuato un piano per fermare la controconquista. Addirittura, hanno fatto fronte comune con i pochi Rocket fedeli rimasti...”.
“Figuriamoci...” sorrise Red, amaramente.
“Tutti mercenari. Tu eri tra i Dexholder che sconfiggemmo a Borgo Foglianova. Scappasti poco prima del verdetto finale, condannando il tuo amico Green alla sconfitta ed alla successiva morte”.
“Hai ucciso Green?!”.
“Tu hai ucciso Green. Saresti morto al suo posto, altrimenti…” ribatté. “In ogni caso nessuno si mette contro di me. E sai cosa stai facendo, adesso?” chiese, con quel sorriso dolce sulle labbra in contrasto più che netto con la ruggine presente nelle sue parole. Portò la mano alla cintura, afferrando una Pokéball.
“Mi sto mettendo contro di te...” strinse i denti Red, basso sulle gambe. “Attento, Poli!”.
“Vai, Steelix!” urlò quella. “Sappi che non sono abituata a perdere. E ciò significa che vinco sempre, anche quando non dovrei”.
Il grosso Pokémon si presentò davanti a Red con aria minacciosa.
“Stavolta non andrà così! Poli, usiamo Idropompa!”.
Jasmine sorrise, vedendo l’enorme Pokèmon costretto a fuoriuscire dall’apertura nel soffitto per via della sua altezza. La potente scarica d’acqua colpì direttamente i segmenti d’acciaio del suo corpo, che si curvò in direzione della spinta.
La donna annuì, poi applaudì. “Mi sa che con queste mosse potrai solo spegnere l’incendio che ho provocato. Steelix, facciamo un po’ di spazio”. Il Pokémon non sembrò curarsi dell’avversario e ascoltò gli ordini della sua Allenatrice, spingendo il corpo duro e lucido contro la parte restante del soffitto.
Soffitto che collassò, cadendo interamente al suolo.
Cadendo interamente addosso a Red.
 
 
Johto, Rovine D’Alfa, Cortile Esterno
 
“Abbiamo chiamato i soccorsi, Chiara! Saranno a momenti qui! Stai tranquilla!” urlava Jasmine, con le lacrime agli occhi, agitatissima. La donna era accovacciata accanto alla Capopalestra di Fiordoropoli, che manteneva con sempre maggior difficoltà il contatto visivo.
“Jas... aiutami...” sussurrava tra i denti. Il dolore era divenuto così forte da non permetterle di provare nessun’altra sensazione. La guardava con occhi esausti mentre sentiva deboli gocce di sangue che colavano dall’addome lungo i fianchi, finendo per inzaccherare l’erba bagnata.
Da qualche secondo la pioggia aveva cominciato a scendere, colpendo i loro corpi senza forze con freddi spilli di ghiaccio.
“Red ce la farà!” esclamò l’altra, continuando a piangere. “Ci aiuterà a chiudere questa faccenda!”.
Subito dopo, vide un enorme Steelix fuoriuscire dalla voragine nel tetto della sala da cui erano uscite qualche minuto prima.
“Stanno lottando” tuonò Valerio, qualche metro dietro di loro, camminando freneticamente senza pace.
“Spero che Corrado non sia rimasto ferito...” sussurrò quella di Olivinopoli.
“Già” rispose lui, sospirando e alzando il volto verso la pioggia. Avrebbe voluto chiudere tutto e andare via, ma non poteva. Sentì poi il Pokégear suonare, e lo portò all’orecchio.
“Qui Valerio. Angelo?”.
Chiara voltò, non senza sforzo, la testa verso l’uomo, con le mani immerse nell’erba. “Che... succede?” domandò con un filo di voce. Soltanto Jasmine poté sentirla.
“Non lo so” le fece quella.
“Furio...” sussurrò invece Valerio, abbassando il capo, sconfitto. “Esci rapidamente di lì: Chiara ha bisogno di noi”.
 
 
 
Johto, Rovine D’Alfa, Sala 1
                                                              
“Oh, dannatissimo Steelix!” urlava Red, cercando di valutare rapidamente la situazione. Afferrò poi Poli per il braccio e lo tirò sotto di sé, prendendo infine la sfera di Lax, il suo Snorlax, e quella di Vee.
Poi lasciò che il loro istinto facesse il resto.
Si sentì avvolto.
 
Protetto.
 
Inizialmente riusciva a vedere solo polvere, alzata dopo l’enorme crollo; tutt’intorno, almeno dove Red aveva la possibilità di guardare, vi erano soltanto grossi pezzi di marmo.
Alcuni di quelli erano affilati come rasoi; ripensò a Chiara prima di fare mente locale e rendersi conto dell’effettiva situazione: Poli era inginocchiato davanti a lui, e spingeva Red indietro con il corpo. Lax, invece, era su di loro a proteggerli, avvolgendoli totalmente. Sarebbe finito sotto le macerie anche lui se Vee non avesse creato un campo di forza sulla sua testa, a proteggere la formazione.
 
I suoi Pokémon c’erano.
 
“Grazie amici...” sussurrò, alzando la testa e vedendo Steelix accanto alla piccola Jasmine.
“Che bella scena… fece. “Ma non basterà. Con me non è mai bastato nulla”.
Il campo di battaglia era interamente disseminato da quegli enormi blocchi di marmo.
Red decise di salire sopra uno di essi e Poli lo seguì subito.
“Usa Geloraggio!”.
Jasmine inclinò la testa e ribatté veloce. “Creati uno scudo col marmo, Steelix!”.
Red fece rientrare nella sfera Lax e Vee, dov’erano più sicuri, prima di vedere il grosso Pokémon avversario alzare un lastrone di marmo con un colpo di coda, che andò ad intercettare l’attacco potentissimo del suo Poliwrath.
Quando il marmo ricadde, congelato com’era, si frantumò in tanti piccoli pezzi.
“Riproviamoci!”.
“Non ho intenzione di giocare così” disse invece quella Jasmine. “Steelix! Fossa!”.
“Odio queste cose. Preparati!” esclamò l’uomo.
“Già, preparati a morire. Ora!”.
“Attenzione!”.
Fu terrificante: Steelix aveva scavato in profondità sottoterra per poi fuoriuscire qualche metro accanto a lui. Red si aspettava di essere attaccato alle spalle, oppure proprio sotto i piedi. Invece il serpentone d’acciaio sbucò a pochi passi da dov’era entrato, balzando in aria e ruotando rapidamente il corpo, in modo da far partire una pesante codata, che colpì Poli in pieno.
A momenti anche Red sarebbe stato coinvolto in quel tremendo scontro.
Poli!” urlò.
“Non c’è molto che Poli possa fare”.
“Zitta!”.
Il Pokémon Girino s’era schiantato su di un cumulo di marmo, impattando violentemente. La donna rise di gusto, annuendo, ormai fradicia sotto l’immensa pioggia che si era scatenata sulle loro teste.
“La questione è proprio questa, Red: siete piccoli. Siete troppo piccoli per me”.
Red si stava mordendo il labbro inferiore; anche lui era totalmente bagnato ma intanto guardava inerme Poli, sperando che si rimettesse in piedi.
“Un colpo…” continuò lei. “È bastato davvero soltanto un colpo per poterti mettere in difficoltà, grande campione?”.
“Non è così che faccio io”.
“Beh, neppure io” sorrise quella. Portò le mani al braccialetto che aveva al polso e premette un tasto. Steelix, già enorme e possente, finì per illuminarsi.
“Non posso crederci…” sussurrò a se stesso Red, con gli occhi spalancati e le labbra schiuse. Ebbe il tempo di far rientrare Poli nella propria sfera, prima di vedere Steelix trasformarsi, allargare il capo e allungare gli spunzoni che gli fuoriuscivano dal corpo.
“Io le cose le faccio così! Ammazziamolo, MegaSteelix!” rideva quella, senza il minimo buon senso. Red strinse i denti, cercando di ragionare quanto più velocemente possibile, prima che il Pokémon di Jasmine alzasse la pesante coda e la schiantasse contro di lui. Il ragazzo fece in tempo a saltare verso sinistra, rotolando verso ciò che rimaneva del muro di delimitazione dell’antica sala, ormai distrutto.
“Ora lo spazio c’è… vai, Gyarados!” urlò, ancora inginocchiato.
Il grosso leviatano entrò in campo furibondo, ruggendo e alimentando la tempesta che si abbatteva sulle loro teste. Red guardava l’avversaria, immobile, poi si rimise in piedi.
“Questo gioco possiamo farlo in due, Jasmine”.
 
 
Johto, Rovine D’Alfa, Sala 7
 
“Ci attacca!” urlò Yellow, facendo un passo indietro. Diana guardava terrorizzata il grosso Dratini che aveva di fronte, mentre sparava dalla bocca raggi rossi e incandescenti, che finivano per bruciare l’erba del Bosco Smeraldo.
“Stai attenta!” urlò la donna, stringendo la neonata e indietreggiando, impaurita.
“Certo. Ma prima tu. Non devi farti colpire per alcuna ragione”.
La madre tentennò, vedendo negli occhi della bionda viva preoccupazione ma anche quella scintilla di determinazione che caratterizzava lo sguardo dell’uomo che aveva amato per anni.
“Dovete aiutarmi voi, Pokémon del bosco! Non ho le sfere con me!” urlò poi, vedendo frapporsi tra lei e quel Dratini decine di Caterpie, Weedle ed un Pidgey, assieme a dei Rattata e un Pikachu.
“Non fatevi del male...” sussurrò corrucciata, quasi a se stessa, mentre vedeva un paio di Caterpie fallire nel fronteggiare col proprio Millebave il Pokémon Drago di suo padre.
“Pidgey e Rattata, almeno voi state attenti. E Weedle, non avvelenatelo”.
Diana spalancò gli occhi.
“Ma ci sta attaccando, Yellow! Dobbiamo in qualche modo ricambiare, altrimenti ci farà a pezzi!”.
Sua figlia, quella grande, si voltò giusto un secondo per guardarla negli occhi e poi fece cenno di no con la testa.
“Io non ho mai fatto del male a nessuno, mamma. I Pokémon malvagi non esistono. Sono solo fedeli a persone cattive”.
Un forte soffio di vento le spostò una ciocca sul naso, poco prima che quel Dratini usasse la coda per spazzare il terreno davanti a sé: l’ultimo Caterpie e i Weedle, assieme ai Rattata, furono sbalzati in aria, al contrario del Pidgey che lo schivò agilmente alzandosi in volo.
Lo colpì, poi, con un forte attacco Beccata, facendolo indietreggiare di qualche passo.
“No!” esclamò Yellow. “Non fargli del male. Usa piuttosto Turbosabbia”.
Quello eseguì rapido e alzò con le piccole zampe una nube polverosa che andò a finire negli occhi dell’avversario.
“Dobbiamo andare!” esclamava Diana.
“No! Risolviamo questa situazione, prima”.
Il grande Dratini soffiò sul Pidgey un attacco Dragospiro, che lo colpì in pieno sul petto, segnandolo con una scottatura dolorosissima.
Yellow inorridì nel vedere le piume del Pokémon bruciate; malcelavano una profonda ferita sanguinante.
“No!” esclamò, quando una grande ombra precedette un grido.
Diana alzò gli occhi, stringendo la neonata tra le braccia, e si accorse del grande Pidgeot che s’abbatteva in picchiata.
“Stai giù!” urlò, tirando a sé Yellow. Entrambe s’inginocchiarono quando il Pokémon più forte del Bosco Smeraldo allargò le ali per rallentare, a pochi metri da loro.
Si piazzò davanti al Dratini, che lo attaccò rapidamente con Botta, schivato agilmente dall’altro. Yellow sospirò e annuì.
“Lo dico anche a te, Pidgeot! Non fare del male a questo Pokémon! Permettici solo di andare via di qui!”.
Il pennuto girò il viso per un secondo, prima di schivare un altro attacco e poi un altro ancora.
Colpì con un Attacco D’Ala piuttosto delicato l’avversario, atto più ad allontanarlo dalle due donne che a recargli danno, e infine decise d’alzarsi in volo per effettuare una nuova picchiata,
allargando però gli artigli prima di toccare terra.
Dratini rimase immobile basito quando le zampe del Pidgeot gli afferrarono la coda e si diedero poi lo slancio per rimettersi in volo. Yellow sorrise felice, prima che i due Pokémon sparissero oltre il tetto di foglie che copriva le loro teste.
“Ce l’abbiamo fatta!” sorrise Diana.
La bionda annuì e sospirò. “Dobbiamo avanzare velocemente…”.
 
*
 
Il cuore di Green batteva forte, mentre il cervello faticava ad accettare ciò che gli occhi vedevano. Blue era immobile, le dita di Xavier avevano afferrato i capelli della donna e li stavano tirando, sollevandole la testa. Raikou ruggiva, le scintille attorno a lui cominciavano a caricare l’aria.
“Non toccarla, Solomon!”.
Portò poi le mani alle sfere, mandando in campo Arcanine e Charizard. I due Pokémon ruggirono possenti, aprendo le bocche di fuoco ed emettendo fiamme incandescenti contro l’uomo.
Gli occhi di Solomon si contrirono, prima che schioccasse le dita e uno scudo fatto interamente d’energia elettrica gli si parasse davanti. Raikou ruggiva ancora.
“Pezzo di merda! Lasciala!” esclamò l’altro.
Le fiamme e l’elettricità svanirono, e il volto dell’uomo apparve lì, severo, solido.
Sospirò.
“Non ho alcuna intenzione di farle del male, Oak…” rispose, abbassando gli occhi sul palmare e sorridendo, dopo aver annuito. “Sto solo guardando i loro sogni…”.
“Ti ho detto di lasciarla perdere!” esplose l’altro, sentendo il sangue ribollire fino a quando non raggiunse la sommità del cranio. Si gettò di lui, cogliendolo impreparato e afferrandolo per il colletto della lunga giacca di pelle nera. Lo strattonò con forza, tirandolo via da lì, fino a quando i loro occhi non si scontrarono in un braccio di ferro colmo d’arroganza e aggressività.
Lo sbatté con le spalle contro il muro, più e più volte.
“Hai superato il confine! Lo hai superato, stronzo! Non dovevi toccare Blue!”.
Xavier contrì lo sguardo, lucido, abbassando poi gli occhi e vedendo, in quel preciso istante, il Dratini del Bosco Smeraldo venire sollevato e portato via dal grande Pidgeot.
Green caricò il colpo, quasi non si accorse del ghigno sinistro dell’uomo che stava per prendere a pugni e, quando scaricò, venne caricato dal Raikou del Pokémon, che utilizzò Attacco Rapido e spinse lontano l’uomo che stava aggredendo il suo Allenatore. Fu così veloce che quello poté soltanto accorgersi d’essere in pericolo, prima di ruzzolare poco lontano da Blue.
La guardò, col cuore che batteva. Pareva respirare ancora.
Respirava con la bocca aperta.
Xavier avanzò, altezzoso, lento, colpendolo subito dopo con un calcio nel petto.
“Tu…” fece, quasi ringhiando. Gli salì a cavalcioni e gli diede un pugno fortissimo sul viso. “Tu hai osato toccarmi! Come se potessi permettertelo!”.
Urlò forte e lo picchiò ancora, sentendolo gemere.
“Le tue sporche mani!”.
Ancora.
“Le tue… mani!”.
Ancora.
“Fermati!” esclamò Green, alzando le mani ma venendo colpito nuovamente.
“Le tue mani mi hanno toccato!”.
 
Quello fu l’ultimo.
 
Xavier pulì le nocche dal sangue e si alzò, sputandogli sul volto.
Lo guardò, caricò d’odio.
“Con quelle mani…”.
Raccolse il palmare e mise una mano su Raikou, saltandogli in groppa.
“Me la pagherai, Green Oak”.
Poi sparì nel vuoto, come se non fosse mai stato lì, e le ragazze si svegliarono, qualche secondo dopo.
 
 
Johto, Rovine D’Alfa, Sala 7
 
Il cuore di Yellow batteva ancora, mentre il vento continuava a correre nei corridoi d’erba alta. Diana era scossa. Incontrarono gli sguardi e, in un secondo, la paura si dissolse, trasformandosi in sollievo.
La bionda le si avvicinò e annuì.
“Ora che Dratini è fuori dai giochi dovremmo proseguire verso est… Non credo sarà difficile”.
Diana annuì, sorridendo. Strinse la neonata, controllando per l’ennesima volta che stesse bene e poi si avvicinò all’altra.
“Un momento. Deve mangiare…”.
“Ora?”.
“Ho il suo pranzo qui” ribatté ridendo, poggiando la piccola tra le braccia della donna. Yellow l’accolse con delicatezza, spostandole leggermente la copertina dal volto e carezzandole la guancia morbida e vellutata. Quella emetteva dei gridolini acuti, che facevano sorridere Diana, mentre tirava fuori il seno destro.
“Grazie. Dai qua…” fece, riprendendola tra le braccia. Avanzò per prima, poi, camminando nel piccolo sentiero che si dirigeva ai piedi del massiccio montuoso e che si estendeva ancora per diverse centinaia di metri, fino a dove i loro occhi non potevano arrivare. Yellow chiudeva quella piccola carovana, guardandosi attorno attentamente e respirando quell’aria, così familiare ma contemporaneamente così differente da ciò che viveva ogni giorno.
Il fruscio delle foglie, l’erba che si adagiava da una parte e dall’altra in base al soffio del vento, i versi dei Pokémon, tutto la colpiva, la riempiva di libertà, unita a quella paura che provava quando aveva il mondo a disposizione e lei era a disposizione del mondo.
Paura di essere troppo piccoli. Paura di essere troppo grandi.
Diana calpestava il sottobosco e sorrideva, eccitata.
“Sai… sono felice di non aver condannato Yellow a vivere da sola. Sono contenta di poterle fare da madre e crescerla nel migliore dei modi”.
Altro soffio di vento, sistemò meglio sua figlia sul petto e sospirò.
“Spero che diventi come te. E che userà il suo potere nel migliore dei modi”.
Poi si voltò.
E Yellow non c’era più. Solo il percorso, alle sue spalle, che avevano calcato per tutto quel tempo.
Diana sorrise e annuì. Aveva capito cosa doveva fare.
“Grazie di tutto, figlia mia”.
 
*
 
“Blue! Blue! Cazzo, svegliati!”.
La voce di Green rimbombava tra le mura antiche della Sala 7. La mano destra stringeva la nuca della donna mentre la sinistra la colpiva leggermente con degli schiaffetti sulla guancia.
Aveva le lacrime agli occhi, lui, e il sangue gli colava dal naso e finiva per sporcare il parka della sua donna. Quando poco dopo i suoi occhi blu si riaprirono, il volto di Green fu la prima cosa che vide.
“Grazie al cielo!” urlò quello, con la voce provata, gettandosi su di lei e stringendola con vigore. Sandra s’era sollevata in piedi da poco, Yellow aveva invece appena aperto gli occhi.
“Siamo… siamo tornate?” domandò quest’ultima, con voce compressa.
“Ho fatto un sogno stranissimo…” diceva Blue, stropicciandosi gli occhi. Guardò per un attimo le compagne, con Sandra confusa e Yellow impanicata, con gli occhi spalancati.
Era passata rapidamente da stesa sul fianco a seduta, spingendo le spalle contro il muro. Si guardava attorno, cercando di capire dove si trovasse.
“Mamma! Diana! Dove sono?! Dov’è?!”.
Green la guardò, poi sospirò, lasciando la presa da Blue e rimanendo inginocchiato. Le prese una mano e la strinse.
“Calmati. Ti sei svegliata, era solo un sogno…”.
“No! Non era un sogno! Ho visto mia… mia madre e… e mio padre!” rispose, voltandosi rapidamente verso Sandra. “Io devo parlare con Lance!” esclamò rimettendosi in piedi e sbattendo barcollante contro il muro. Mosse quindi passi stentati verso l’uscita.
“Va’ con lei, per favore…” sospirò Green. Si risollevò e aiutò Blue a fare altrettanto, poi l’abbracciò. La donna era immobile, sentendo la testa girare e l’enorme confusione attanagliarle la mente. Anche tra le braccia di Green non riusciva a sentirsi a suo agio.
“Che ti è successo?” sussurrò l’uomo, sbuffando. Affondò lo sguardo nei capelli della donna e cercò di trattenere le lacrime.
“I-io… ho rivissuto il mio rapimento…”.
Green si bloccò, facendo un passo indietro per guardarla negli occhi. “Sei seria?”.
“Maschera di Ghiaccio, il maniero… Karen. Ho-oh… Ho parlato con me stessa, da bambina…”.
“Stai bene?” domandò l’altro, inclinando leggermente la testa, quasi per scrutarle meglio il volto.
“Sì, sto bene, non preoccuparti…” ridacchiò quella. “Ho incontrato anche te e Red…”.
“Xavier Solomon vi ha attaccati” ribatté l’altro, estemporaneo. Vide il volto di Blue mutare. Quella sbatté le palpebre per qualche secondo e poi schiuse le labbra.
“Era quello malvagio, allora?”.
“Lo scopriremo subito…” disse poi.
 
 
Johto, Amarantopoli, Casa di Xavier Solomon
 
I numeri ormai vagavano nella sua mente senza più alcuno schema. Ogni funzione veniva ordinatamente disposta in una griglia d’appartenenza, ogni cosa funzionava per un motivo e lui lo sapeva. Sembrava quasi che stesse mettendo in ordine la sua camera o stesse pulendo il desktop, e
invece Xavier stava elaborando dei dati, proprio come avrebbe fatto un computer.
Guardava il vuoto e nel mentre annuiva. Il grande schermo che aveva davanti mostrava uno schema unifilare davvero complesso, che aveva messo in piedi totalmente da solo.
La luce nel suo laboratorio era spenta e soltanto il monitor gli illuminava il volto stanco.
E continuava ad annuire, vedendo come l’elettricità sarebbe arrivata dai generatori ai cavi.
Inventava, Xavier. Doveva soltanto capire come innescare e catalizzare. L’ottanta percento del lavoro, in pratica.
Sbuffò, quindi abbassò lo sguardò e si stropicciò gli occhi. A un certo punto le palpebre cominciavano a vibrargli per via della stanchezza. Decise di alzarsi, aveva bisogno di un caffè, quindi salvò tutto sui tre drive collegati e spense i monitor, dirigendosi verso la scalinata.
Lì prese a pensare al nome.
S’era ripromesso, ove mai fosse riuscito a inventare la macchina del tempo, di non essere banale. Non l’avrebbe chiamata soltanto macchina del tempo. No, si sarebbe appellato a lei con nomi come Mary Jane, o forse Mikhaela.
“Mary Jane…” sussurrò, aprendo la porta che dava sul salone. Spider-Man gli era piaciuto più dei Transformers. Ma poi pensò che non avrebbe potuto presentare un’invenzione di una portata simile chiamandola in quel modo: i cervelloni non avrebbero gradito.
Macchina Trans-Universale, forse.
Ma nel privato sarebbe stata Mary Jane. Sarebbe stato il loro piccolo segreto.
Si avvicinò alla cucina, col sapore d’inchiostro in bocca per via della vecchia Staedler che aveva mordicchiato per più di venti minuti. L’aveva ridotta a un colabrodo, ma stava contribuendo a rendere Mary Jane un gioiello della meccatronica quantistica, quindi avrebbe dovuto sacrificarsi.
Versò il caffè in una tazza e si poggiò al bancone, sospirando.
“Un catalizzatore… serve solo un catalizzatore”.
Necessitava dell’elemento che gli avrebbe permesso di mettere in moto il processo di viaggio nel tempo. Aveva pensato a una coppia combustibile-comburente in grado di sprigionare una quantità d’energia pressoché infinita ma anche in quel caso avrebbe dovuto capire come manipolarla. E poi rapidamente, velocità della luce e viaggio indietro nel tempo.
Fortunatamente non era debole di stomaco.
Poi sentì dei timidi passi scendere dal piano superiore. Lui sorrise leggermente e preparò un altro caffè, che sua madre, quando entrò in cucina, trovò sulla tavola. Guardò la tazza bianca, fumante, e sorrise.
“Xavier… Sei già sveglio?” domandò quella, avvicinandosi a lui e sistemandogli il colletto della camicia, che fuoriusciva dal maglioncino di filo color panna.
“Si fredda il caffè”.
“Oh, non preoccuparti…” sorrise lei, allungando le belle labbra macchiate dal tempo. “Appena fatto è troppo caldo”.
“Hai ragione. Oggi che hai da fare?”.
La donna si strinse nella sua vestaglia e fece spallucce, sorridendo quasi imbarazzata, coi capelli spettinati, tinti d’un biondo che ricordava quello d’un tempo. Gli occhi invece no, erano dello stesso colore di trent’anni prima, forse solo più spenti.
“Mah… quello che fa una povera vedova in là con gli anni…”.
“Blackjack e toyboy, eh? Devo tagliarti la paghetta”.
Quella sorrise ancora, facendo cenno di no con la testa.
“Sei sempre il solito. E col tuo lavoro? Sei riuscito a vedere qualcosa nei tuoi numeri?”.
Xavier fece spallucce e sbuffò, poi prese un sorso di caffè.
“Sì, ho visto Buddha con i cembali tra le mani… Bevi, che si fredda”.
Puntò con lo sguardo la tazza e vide sua madre annuire. Quella si voltò e prese la tazza, avvicinandola alla bocca.
“Non riuscirò mai a capire come tu faccia a comprendere quelle cose…” sorrise nuovamente. Spostò poi la sedia e si accomodò al tavolo.
“Ah, non ci capisco nulla neppure io, stai tranquilla. Faccio solo finta”.
“Beh…” fece, guardandosi attorno. “Facendo finta ti sei messo a posto in maniera assai discreta. Complimenti”.
Lui sorrise e stropicciò nuovamente gli occhi. “Tutta fortuna”.
“No. Duro lavoro… E immagino che tu non sia proprio andato a dormire, stanotte...” sospirò.
“Immagini bene… c’era da fare…”.
“Avresti potuto farlo dopo, Xav... Quante ore al giorno dormi?” domandò preoccupata quella, con lo sguardo apprensivo. E Xavier, che quegli occhi li aveva già visti, sospirò.
“Poco. Otto su trentasei, credo”.
La donna sospirò quando il telefono del ragazzo cominciò a vibrare. Lo estrasse dalle tasche e aggrottò la fronte.
“Chi è che ti chiama a quest’ora?” domandò lei.
“Green Oak…” sospirò l’altro, poggiando la tazza mezza piena sul bancone e voltandosi verso la porta.
“A quest’ora?” si stupì lei.
L’altro annuì, sospirò e rispose.
“Dovreste dormire, a quest’ora. O almeno potreste lasciare farlo a me”.
Solomon! Dove ti trovi?!”.
“A casa mia. Posso mostrarti le riprese live”.
Delle tue telecamere di videosorveglianza me ne faccio ben poco!”.
Il biondo quindi sospirò e guardò sua madre. Lasciò che il suo cuore si calmasse prima di passarle il telefono. Quella lo avvicinò cautamente all’orecchio.
“P-pronto? Chi è che chiama mio figlio a quest’ora della notte? Lei è davvero Green Oak?”.
“Con chi sto parlando?”.
“Io sono Neira Solomon. Sono la madre di Xavier”.
“Molto piacere. Dove vi trovate?”.
“A casa di mio figlio, ad Amarantopoli”.
Mi basta” concluse l’interlocutore. “Mi ripassi suo figlio, per cortesia”.
Quella annuì, come se Green avesse mai potuto vederla, e restituì il cellulare a Xavier.
“Allora?”.
“Allora nulla, la tua copia è spuntata nuovamente, e ha portato con sé la copia di Jasmine”.
Xavier spalancò gli occhi, incredulo. “D-di Olivinopoli?! Jasmine di Olivinopoli?!”.
“Non ne conosco altre”.
Portò le mani alla fronte e uscì dalla cucina. Cercava di ragionare, di collegare i punti. “Credo che tutto questo si possa ricollegare a qualche evento in particolare…”.
“Sono morti dei Capipalestra, stasera, Solomon. Cerca di essere più preciso”.
“C-Capipalestra? Sono morti dei Capipalestra?!”.
La voce di Xavier traballò per qualche istante.
“E più conciso, per favore”.
“Non... non…”.
Lascia perdere. Non muoverti di lì per nessuna ragione al mondo”.
E Green attaccò, lasciando Xavier stupefatto e terrorizzato. Lasciò cadere la mano col telefono lungo i fianchi e, dopo aver deglutito un groppone di sabbia, chiuse la bocca ed espirò.
“Cindy…” sussurrò incredulo. Si alzò e corse verso la porta, lasciando sua madre poggiata allo stipite della porta, che lo fissava confusa.
 
 
Johto, Rovine D’Alfa, Cortile Esterno
 
L’erba era bagnata. Le passava attraverso le dita, mentre la pioggia le cadeva sul volto e puliva quell’aria pregna di polvere, di sangue e disperazione. Blue cercava di respirare a pieni polmoni, rimanendo abbracciata a quel sogno così vivido e terribile, così bello e crudo.
Cercava di non dimenticare il volto di sua madre prima del rapimento, né il calore che le dava suo padre in  ogni abbraccio.
E i volti di Green e Red, da bambini.
Chiuse gli occhi, provava a estraniarsi da quel posto, da quella situazione così atipica in cui il cadavere di Raffaello giaceva a pochi metri da lei, accanto al corpo ferito di Chiara. Provava a riempire le orecchie dei suoi respiri e del rumore della pioggia che batteva sui tetti di pietra, isolando e annullando il pianto di Jasmine, le urla di Valerio prono sui feriti, e le parole agitate di Green, al telefono con qualcuno.
Tutto parve rallentare, all’improvviso, in maniera paradossale. Sentiva ancora nelle narici l’odore della stanzetta nel maniero. Percepiva ancora sulla pelle il freddo di quell’inverno.
Non si accorse che le lacrime si stessero mischiando alla pioggia, in quel momento.
Il freddo aggrediva il suo corpo ma ormai non percepiva più nulla, in quella totale atarassia emotiva e percettiva. Rimaneva immobile a fissare il vuoto, mentre il mondo attorno a lei crollava.
L’ennesima esplosione la raccolse e la costrinse a voltarsi verso la Sala 1: un grande Gyarados fronteggiava un MegaSteelix. Guardò poi Jasmine, che come lei stava analizzando la scena.
Aveva abbassato lo sguardo.
Come se avesse avuto realmente una qualsiasi responsabilità, in quella faccenda.
 
 
Johto, Rovine D’Alfa, Sala 1
 
Red cercò di calmare i battiti del cuore, stringendo denti e pugni ed espirando il veleno che aveva in corpo. Non doveva lasciarsi prendere dal panico, anche se l’unica cosa a cui riusciva a pensare fosse il fatto che il corpo di Corrado giacesse ormai sotto chissà quale lastrone di marmo.
Il sangue gli ribolliva nelle vene. Non avrebbe fatto la sua stessa fine, ne era convinto. Guardava il suo Gyarados, sentendone il respiro, che assomigliava più a un rantolio sinistro. Esprimeva una ferocia senza pari, capace di instillare paura anche nei più coraggiosi.
Ma non in quella donna. Lo fronteggiava, sorrideva affascinata, abituata a quelle scene e alla rabbia.
“Quel Pokémon è semplice burro tra le mie mani” disse, mentre la pioggia la battezzava. MegaSteelix pareva avere fretta di gettarsi contro l’avversario. “Non è uno scontro pari. E io so che puoi renderlo un po’ più interessante...” punse.
Gyara, forza! Iper Raggio!” urlò Red, tirando indietro i capelli bagnati. Conosceva la difficoltà della partita che stava giocando. Il suo assetto era basso, piegato sulle ginocchia, dato che sapeva d’essere un bersaglio di quello Steelix tanto quanto Gyarados.
Mentre la notte stava per finire, mentre continuava a piovere, dalle fauci del Pokémon Atroce fuoriusciva un forte raggio d’energia e la mente di Red si protese verso Yellow, al suo sorriso e al profumo dei suoi capelli.
Era amore, quello che provava. Tutto rallentò, non poteva morire. Il suo cuore parve fermarsi per un attimo, quando vide la mano di Corrado uscire tra i detriti grandi e piccoli del tetto crollato.
Pensò a Jasmine. Aspettava fuori che il suo uomo uscisse, senza sapere che non lo avrebbe fatto mai più. E Yellow probabilmente era lì, accanto a lei.
Deglutì amaro. Non sarebbe successo lo stesso.
“Forza!” esclamò rabbioso, mentre Gyarados colpiva un MegaSteelix totalmente immobile. Incamerò il colpo indietreggiando poco più di un metro, impassibile. Red spalancò gli occhi mentre l’Allenatrice avversaria rideva divertita.
“Non funzionerà!”.
Alzò poi il dito della mano sinistra verso il Pokémon che stava fronteggiando, mentre la pioggia rimbalzava sull’indice e cadeva più giù, nelle vaste pozze di sangue scuro. Red aspettava fremente la contromossa, con curiosità e paura che gli si rimestavano nel fegato.
“MegaSteelix” fece quella. “Schianto”.
Rapido, il grande Pokémon si gettò con forza contro Gyarados, colpendolo in pieno. L’altro, alto come una villetta a due piani, rovinò duramente lungo le mura di recinzione a nord di ciò che ormai rimaneva della sala più grande. Red spalancò occhi e bocca, impaurito. Il cuore riprese a battere più forte, mentre i brividi di freddo cominciavano a farsi spazio nei muscoli scaldati dall’adrenalina.
“Forza!” urlò, vedendolo mettersi di nuovo in piedi. “Grande, campione…” sussurrò. “Mettiamolo in difficoltà con un attacco Idropompa!”.
Jasmine si tenne pronta, vedendo una tonnellata d’acqua venire sparata dalle fauci del leviatano, compattata in una sola, unica e lunga colonna, che terminò dritta sulla testa del suo Steelix. Questi finì schiacciato sul pavimento, dopo aver emesso un ruggito gutturale e metallico.
L’acqua raccolse le pietre, i detriti, la polvere e il sangue, e turbinò lungo i marmi crollati, portando a galla i corpi senza vita di Corrado e dei Pokémon dei Capipalestra, distruggendo persino la parete alle spalle dell’altare, già indebolita dalle lotte precedenti.
Mentre Red ebbe l’accortezza di saltare sul proprio Pokémon, Jasmine era rimasta immobile, nonostante sapesse che la grande onda l’avrebbe travolta con forza, sbattendola al muro. Quando si rimise in piedi anche il grande MegaSteelix lo fece, come sorgendo dal mare.
Gyara, bravissimo! Ora che è distratto dobbiamo utilizzare Dragospiro!”.
Il leviatano fu rapido, e finì per soffiare sull’avversario una fortissima fiammata blu, costringendolo a indietreggiare ulteriormente.
Jasmine sorrise, poi prese ad applaudire, e catturò lo sguardo dell’Allenatore. La vedeva ferma, bagnata, con la treccia fradicia che le cadeva sulla spalla.
“Il Red di quest’universo è davvero incredibile…” fece, cercando di asciugarsi le mani sulla blusa, ancora più bagnata. “Nessuno era mai riuscito a resistere ai miei colpi per tutto questo tempo… E il tuo Gyarados, poi! Nonostante sia così grande è rapidissimo!”.
“Questo perché il mio Pokémon è un campione”.
“Anche il mio Steelix lo è. E sappiamo anche cambiare strategia. Usa Sganciapesi!”.
Non appena le parole di Jasmine furono recepite, il corpo del Pokémon Ferroserpe perse parecchi pesanti blocchi che gli gravitavano attorno, come alcune parti finali della coda, eliminando dal bilancio complessivo quasi sei quintali.
“Attento, Gyara! Adesso sarà molto più veloce!” urlò il suo Allenatore, saltando giù dal grosso Pokémon d’acqua, e finendo su di un lastrone di marmo.
“Forza! Usa Frana!” ordinò Jasmine, perentoria.
“Un altro Dragospiro!”.
“Schivalo e attacca!”.
Dribblò a sinistra, Steelix, più leggero, e vide Gyarados sparare a vuoto. Veloce come una biscia, si avventò contro il corpo lungo e affusolato dell’avversario.
“Ora!”.
La coda del MegaSteelix si schiantò contro i detriti, che rovinarono addosso al Pokémon di Red. Il colpo fu terribile e potente: Gyarados ricadde sulla sinistra, sfondando anche il muro perimetrale di sinistra.
“No!” urlò Red, impanicato, sentendo la sua voce espandersi tutt’intorno. Vide il suo Pokémon steso inerme, tra la pioggia e la polvere, e il panico s’unì alla rabbia in una danza terribile. Vide Jasmine sorridere, mentre batteva ancora le mani.
“Beh, bastava mettere la seconda, per batterti. Mi hai deluso. Non hai un altro Pokémon da mandare in campo?”.
“Non vincerai!” le urlò lui, di contro. “Le persone come te non possono vincere! Hai ucciso delle persone! Cancellato da queste terre millenni di storia! Quelli come te non dovrebbero mai essere nati!”.
“Oh… Anche i falsi eroi sono piaghe da eliminare…”.
“Io non sono un falso eroe!”.
“Tu non sei neppure un eroe…” rise l’altra.
Red rimase immobile, colpito da quelle parole.
“Io… io ho semplicemente a cuore le sorti della brava gente”.
Jasmine continuò a ridere, e a Red la cosa diede immensamente fastidio. Si abbassò nuovamente sulle gambe, riprese forza e infilò la mano tra il collo e il maglione, tirando fuori un ciondolo iridescente. Sospirò, abbassò lo sguardo e annuì, poi, dopo un ultimo lungo respiro, tornò a guardare gli occhi ambrati dell’avversaria.
“Tu non vincerai mai, Jasmine”.
 
 
Johto, Rovine D’Alfa, Cortile Esterno
 
Green aveva fatto in modo che le operazioni d’intervento fossero effettuate nel modo più rapido possibile, con il recupero della salma di Furio, aiutato da un Angelo ferito ma ancora capace di camminare sulle proprie gambe. A nulla era servito il sacrificio del Capopalestra di Fiorlisopoli: le tessere del mosaico erano state rubate. Oak camminava come fosse posseduto, assicurandosi che tutti fossero in salute, e che chi non lo fosse ricevesse un adeguato trattamento di pronto soccorso. Tuttavia, i medici ancora dovevano arrivare.
Jasmine infatti piangeva. Cercava di mantenere un contatto con le pupille di Chiara, che però stentavano a rimanere scoperte.
“Le palpebre... si chiudono... Jasmine... le palpebre si... chiudono...” ripeteva la donna dai capelli rosati, stringendo tra le mani la grossa ferita sotto la pancia. Il sangue le aveva inzaccherato dita, capelli e vestiti.
L’altra sentiva il cuore esplodere, mentre la paura la divorava da dentro. Stava effettivamente assistendo alla morte della collega, dell’amica. Guardò con ansia le porte del varco che davano sul Percorso 32. Le labbra presero a tremare.
“G-Green. Green! Diavolo, Green!” urlò, disperata. Gli occhi, del colore del miele, avevano pianto tutte le lacrime che la bella aveva in corpo. Fissava Oak con le labbra tremanti. “Green! Dove sono i soccorsi?! Chiara non ce la fa più!”.
“Hanno appena lasciato Violapoli, Jasmine” rispose rapido l’altro, sfatto. Batté le palpebre un paio di volte, mentre la pioggia si affievolì.
“Fa’ qualcosa!” urlò l’altra. “Sta morendo! Aiuto!”.
L’uomo abbassò lo sguardo e cercò di non pensare, per un momento, a quella situazione. Voleva casa sua, il divano, le pantofole, la sera calma e fredda e i noodles per cena. Ma poi incrociò lo sguardo con Valerio, che intanto fasciava il busto di Angelo, malconcio ma ancora vivo. Più in fondo vi erano le salme di Raffaello e Furio.
“Quell’uomo ci ha rubato la speranza…” sussurrò tra i denti, senza che nessuno lo sentisse. Poi Blue si alzò in piedi, dopo un rumore forte e breve. Polvere e detriti si sollevarono dalla Sala 1.
Gyara è caduto!”.
Green strinse i denti. Guardò ancora il volto di Jasmine, poi quello di Chiara, ormai al limite della sopportazione di quel dolore infinito, e pensò a Red.
 
Non morire…
 
La sua donna invece pareva molto più reattiva. Guardava il grosso MegaSteelix con la bocca schiusa e gli occhi carichi di terrore. Si voltò impanicata verso Green e con lo sguardo gli pose una domanda.
“Yellow” ribatté lui, che aveva compreso. Catturò l’attenzione della biondina, che intanto stava cercando coi suoi poteri di lenire il dolore dei Pokémon feriti. Quella si voltò verso di lui col capo e gli fece cenno con la testa, come a chiedergli cosa volesse.
“Percepisci ancora Gyara?” domandò il Capo dell’Osservatorio.
Il viso della ragazza s’illuminò di paura, per un lieve istante. Spalancò la bocca, come anche gli occhi paglierini, e si voltò in direzione della Sala 1. Blue la guardava, studiandone ogni movimento.
“I-io… non… non lo so…” sussurrò quella, preoccupata, abbassando le mani che intanto stavano curando il Pidgeot di Valerio e lasciandole cadere lungo i fianchi.
Il cuore batteva, la testa vagava. Nella sua mente turbinavano un miliardo di pensieri, tutti negativi: vedeva Red disteso in una pozza di sangue, vedeva Gyarados dilaniato dalla lotta, e poi sentiva la puzza della morte nelle narici. Pensava al fatto che il suo uomo, l’uomo buono che aveva perdonato e che si stava impegnando per farla sentire speciale, stesse rischiando la propria vita, e che fosse solo.
“Red…” sussurrò ancora, afferrando le sfere e camminando verso quel mattatoio.
“Green! Dobbiamo andare!” urlava Blue, seguendola, iperattiva.
“Dove cazzo credete di andare?!” ribatté l’altro. Scattò verso di loro e le afferrò per i polsi, a pochi metri dalla porta tagliafuoco.
“Red potrebbe morire!” ribatté la castana dagli occhi blu. “Dobbiamo correre in suo aiuto!”.
Yellow cominciò a piangere. Strattonò il braccio e si liberò dalla presa dell’uomo.
“Io non voglio che muoia!” gridò.
“Non morirà” sospirò Green. “Ma non voglio che siate voi a entrare lì. Rimanete qui e aspettate i soccorsi, date una mano… Entrerò io”.
“Non se ne parla!” ribatté Blue, liberandosi a sua volta. La lucidità mentale di Green era poca, non riuscì a farsi valere e rapidamente accettò di farsi accompagnare dalle due donne in quella missione suicida. Proprio in quel momento, però, un ruggito magniloquente bloccò tutti e tre.
Alzarono gli occhi, e tanto gli bastò per vedere un MegaGyarados fronteggiare il MegaSteelix, autore di quella distruzione. Alle loro spalle, gli elicotteri si avvicinavano.
 
 
Johto, Rovine D’Alfa, Sala 1
 
“Ora giochiamo alla pari!” aveva urlato Red. Vedeva l’ira del suo Pokémon trasudare dalle grosse squame. I suoi polmoni non riuscivano a trattenere il respiro per più di un secondo, col freddo che li bruciava dall’interno. Davanti ai suoi occhi, il Pokémon Atroce esprimeva aggressività dal profondo dei suoi occhi rossi. Sulla fronte fuoriuscivano tre grossi corni neri, assieme alle squame, rosse e artigliate, che gli spuntavano su tutto il corpo. I baffi s’erano allungati, aiutandolo a percepire le vibrazioni circostanti.
“Carino” sorrise Jasmine, sistemandosi il bordo della manica. “Ma a poco servirà, se rompiamo la membrana che ha sulla schiena! Vai MegaSteelix! Usa Pietrataglio!”.
“Creiamoci una bella barriera, Gyara! Con la coda alziamo un muro d’acqua e poi congeliamolo!”.
E funzionò. I massi taglienti si schiantarono su di una parete di ghiaccio rosso come il sangue.
“Abbiamo un po’ di tempo, Gyara! Usa Dragodanza!”.
“Abbatti quella lastra di ghiaccio!” ribatteva l’altra. Non poté vedere l’avversario fluttuare in aria e volteggiare elegantemente, temprandosi nello spirito e risvegliando qualcosa d’insito nel suo animo. Quando MegaSteelix riuscì a perforare il muro gelato l’ordine di Red fu perentorio.
Ira!”.
E Jasmine si fermò a ragionare. Era una mossa che non avrebbe dovuto avere tanto effetto sul suo Steelix, Pokémon d’acciaio vivo.
Non aveva molto senso.
“Stai cercando di fare la stessa fine dei tuoi amici?” domandò divertita, vedendo Gyara attraversare la breccia creata dal suo Steelix nel ghiaccio e gettarsi con l’intero corpo sul suo Pokémon. MegaGyarados ruggì dolorante, e dopo qualche secondo urlò di nuovo, con maggiore intensità. Si gettò a capofitto su MegaSteelix, che fu sopraffatto dal suo peso, cadendo alle sue spalle, rompendo ciò che rimaneva del muro sulla destra.
Il sangue sul volto del Pokémon di Red ormai scorreva forte e un altro ruggito riempì l’aria.
“Si sta suicidando?! Sta dando delle testate su qualcosa di indistruttibile!” urlò la donna.
“Non proprio” sorrise l’altro.
Infatti, fu il terzo colpo, quello veramente forte.
Steelix stava provando a sollevarsi di nuovo quando MegaGyarados scaricò un ultimo attacco, più potente, dritto sul volto dell’avversario. Il tonfo fu assordante, il ruggito del Pokémon di Red lo seguì subito, mentre si rialzava col cranio fratturato e il sangue che gli copriva gli occhi.
Gli occhi di Jasmine erano terrorizzati: aveva perso. Il suo Pokémon giaceva accanto a lei, ammaccato e totalmente smembrato. La pioggia s’infittì, rendendole quasi impossibile vedere l’uomo dagli occhi rossi. L’acqua le puliva il viso dalla fuliggine e dalla polvere, assordava le sue orecchie, l’appesantiva e la manteneva lucida.
“Ma… come diamine…”.
“Ora faremo così” fece Red, facendo rientrare il proprio Pokémon nella sfera. “Lui rientra, per la tua incolumità. Tu invece t’inginocchi e stai buona, mentre la polizia entra e ti arresta”.
Quella parole la colpirono come proiettili di una sassaiola, ferendola nell’orgoglio. S’era appena resa conto che lei, il Generale di Ferro che aveva piegato Johto al suo volere, la donna che aveva giustiziato le persone più pericolose del mondo, le più influenti, le più intelligenti, avrebbe passato il resto della propria vita in una gabbia.
“Mai!” esclamò, cominciando a correre. Scattò verso destra, saltando su di un lastrone di marmo e poi sul successivo, con l’uomo che solo un secondo più tardi capì le sue reali intenzioni.
“Non provarci nemmeno!” esclamò, inseguendola. Era diretta verso la porta tagliafuoco che conduceva sul cortile esterno. Nessuno dei due si sarebbe mai aspettato che Green, assieme a Blue e Yellow, apparisse all’improvviso, chiudendole la strada.
“Prendila!” urlò quello dagli occhi rossi, vedendo Blue scattare repentina e colpire la donna al volto con una gomitata. Quella, sbilanciata per la corsa, ricadde nell’acqua sporca di sangue. Si sollevò lentamente, sputando il sangue che le colava dal naso.
“Mangia questo, adesso!”.
“Puttana…” fece l’altra, a carponi.
Yellow la vide Green tirarle un forte calcio nel fianco, che la fece ruzzolare a pochi passi da lei. Si abbassò, poi, sollevandola di peso e ammanettandola con un paio di fascette di plastica dura.
Red li raggiunse poco dopo, col aveva il volto sporco di sangue; ansimava e i suoi occhi erano stanchi. Doveva essere appena finita la scarica d’adrenalina dato che cominciava a sentire il sonno che gli mancava.
“Non lasciartela scappare” disse a Green.
“Corrado?”.
“Corrado è morto”.
L’altro sospirò. Blue guardava la donna che avevano arrestato ed espirò veleno.
“È identica a Jasmine...”.
E non le diede neppure il tempo di finire quella frase, che Green la sbatté contro ciò che rimaneva di una delle quattro pareti, afferrandola per il collo. Mostrava i denti, quello, quasi ringhiava.
“Tu adesso parlerai. Dirai tutto. Per chi lavori?”.
Jasmine guardò negli occhi Green, carezzò la stanchezza che provava e capì che aveva ancora un modo per scampare a quella scena patetica. Guardò, a qualche metro da lei, un tondino di ferro arrugginito che fuoriusciva dal muro.
E allora capì.
Si morse le labbra e sorrise.
 
“La mia dignità conta più della mia vita”.
 
Fu un attimo. Scattò verso sinistra, si liberò dalla presa di Green e fece l’impensabile: gli occhi di Yellow si riempirono di terrore quando, subito dopo, la vide gettarsi col volto verso quello spuntone arrugginito. Attraversò l’orbita e le bucò il cervello.
Jasmine morì quasi subito, appesa per la testa a poco più di un metro da terra, con le mani legate dietro la schiena.
Il suo sangue s’aggiunse denso a quello dei caduti di quel giorno.
Red guardò immediatamente Yellow. Urlò come un’ossessa, prima che lui la prendesse tra le sue braccia e la tirasse fuori di lì. Green e Blue rimasero immobili a fissarsi negli occhi, prima che lei lo prendesse per mano e lo tirasse fuori da lì.

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 - My Bad ***


18. My Bad
 
 
Johto, Amarantopoli, Casa di Angelo
 
“... dalle riprese dei nostri elicotteri siamo in grado di vedere un grande scontro tra quelli che sembrano essere due Pokémon molto somiglianti a un Gyarados ed uno Steelix. Delle Megaevoluzioni, così si chiamano. Sul posto c’è l’intero corpo di Capipalestra di Johto con l’eccezione del rappresentante di Mogania, carica ancora mancante. Oltre ai Capipalestra ci sono anche i possessori dei quattro Pokédex in circolazione nella regione di Kanto e sono arcinoti per le loro abilità nella lotta. Le Rovine d’Alfa sembrano essere sotto l’attacco di un’organizzazione paramilitare che intende rubare i mosaici e in questo momento i rappresentanti della Lega di Johto...”.
 
Cindy non batteva gli occhi da quasi trenta secondi.
Cominciavano a bruciare.
Non era rimasta entusiasta di come suo marito l’avesse liquidata, quella notte. Avevano trovato finalmente un po’ d’intimità, dopo le notti passate a fare i conti nel locale. Erano nudi nel letto, a scambiarsi baci e carezze di velluto quando il cercapersone suonò.
E quando Angelo sentiva quel rumore voleva dire soltanto una cosa: guai.
Valerio aveva rapito la sua attenzione, e lui ovviamente non poteva mancare, né chiedere all’emergenza di aspettare perché i desideri di sua moglie dovessero venire soddisfatti. E così, come ogni volta che Angelo abbandonava il suo letto nottetempo, Cindy si alzava e andava a farsi una doccia calda, poi s’asciugava lentamente e avvolgeva il suo corpo in una lunga vestaglia. Quindi  scendeva al piano inferiore, con un buon libro e un caffè alla cannella fumante da sorseggiare.
La televisione rimaneva accesa sul telegiornale 24h, ma senza volume; di tanto in tanto buttava un occhio e guardava le ultime news in sovrimpressione.
Quel giorno però sentiva nel cuore, nello stomaco e nella testa una pressione senza pari che non riusciva ad allontanare in alcun modo. Passò un’ora, cercando di concentrarsi, girando e rigirandosi il libro tra le mani senza la voglia effettiva di aprirlo. Poi lo fece, rilesse per nove volte la pagina sessantatré, perché distratta, e solo infine alzò bandiera bianca.
Lo gettò sul divano e andò a prendere un bicchiere d’acqua.
 
“... la situazione non sembra delle migliori. Da lontano riusciamo a vedere due corpi stesi per terra, tra i Capipalestra. Non riusciamo ad avvicinarci più di così perché è in corso una lotta tra un MegaGyarados ed un MegaSteelix all’interno di quella che un tempo era la Sala 1 delle Rovine D’Alfa. Adesso l’edificio è totalmente distrutto. Rimaniamo in attesa per nuovi aggiornamenti...”.
 
La testa parve scoppiarle con forza. Gli occhi bruciavano, le fauci le si seccarono immediatamente. Affondò con le spalle nei cuscini del divano e respirò profondamente.
“Non gli è successo nulla…” sussurrò. “Come sempre andrà tutto bene”.
Ma il cuore batteva e le lacrime fuggivano via senza controllo.
Il respiro le si rarefaceva tra i denti. Le labbra tremavano.
Poi il campanello suonò.
Cindy guardò l’orologio e il cuore prese a martellare con forza. Era davvero troppo presto perché qualcuno bussasse alla sua porta e la televisione non la tranquillizzava.
S’alzò, afferrando il cellulare, e telefonò Angelo, pregando che quello almeno suonasse.
 
 
Era libero ma non rispondeva.
“C-chi è?” fece poi, avvicinandosi alla porta, col cuore che ormai faceva su e giù nello stomaco con semplicità assoluta. L’orecchio era ancora al telefono, mentre l’occhio s’accingeva a guardare dallo spioncino.
“Sono Xav. Xavier” sentì rispondere.
Quindi aprì sorpresa, con la preoccupazione che cresceva per la risposta che non riceveva e la curiosità di sapere perché a quell’ora della notte l’uomo fosse venuto da lei. Aveva i capelli spettinati, lui, come sempre, assieme al viso stanco e alle occhiaie che ben s’abbinavano al color blue navy del maglioncino che indossava.
“Entra” disse, sentendo poi il cellulare staccare automaticamente la chiamata. “Merda!” si lamentò, quasi piangendo. “Non risponde!”.
“Sta bene. Credo. Sono venuto appena l’ho saputo...” disse l’altro, facendo un passo avanti e permettendo a Cindy di chiudere la porta.
“E come fai a saperlo? Telegiornale?”.
“No, mi ha chiamato Green Oak. A quanto pare... No, niente, lascia perdere...” sbuffò Xavier. “Non so neppure perché sia venuto qui, a dire il vero. Forse ho sbagliato, Angelo potrebbe tornare da un momento all’altro e pensare a qualcosa di male, no, lascia stare. Vado via” diceva il biondo, stringendo gli occhi in un’espressione più che compressa. Fece per voltarsi quando Cindy gli afferrò il polso.
“Xav...” disse, usando quel tono di voce con cui riusciva a catturarlo ogni volta.
Lui sospirò; non poteva tollerare il pensiero di averla abbandonata in difficoltà, nonostante tutte le brutte cose che avesse passato per causa sua. “Ti prego, stai con me... Ho una paura tremenda che sia successo qualcosa...”.
Xavier sospirò e la vide esplodere in un pianto disperato, che le riempiva gli occhi smeraldini di lacrime calde e sapide.
“N-Non saprei cosa fare... Ti suppli-ico, fam-mi compagnia... T-ti offro qualcosa di c-caldo, dai...” diceva, cercando di calmare i nervi e tirandolo per mano verso la cucina. Xavier la seguì in silenzio, guardandole le caviglie sottili e poi più su, sui polpacci scoperti dalla vestaglia a fiori. Entrarono in cucina, la vide mettere il bollitore sul fuoco e poi voltarsi, appoggiandosi al banco e incrociando le braccia sotto al petto.
Sospirò, col viso pieno di lacrime. Lo guardò, sospirò ancora poi annuì.
“Mi spiace… So che è tardissimo e non vorrei costringerti a stare qua… ma sono terrorizzata...”
“Tranquilla” sussurrò Xavier, nel silenzio disturbato soltanto dal brusio del televisore nella camera adiacente. “Sono venuto io, qui. Avevo paura che fossi colta da un attacco di panico”.
La bella sorrise, amaramente. “È quasi un paradosso: prima che arrivassi tu stavo riuscendo tranquillamente a...” starnutì “... a gestire... a gestire tutto, ecco...”.
I loro sguardi s’incrociarono. Xavier si limitò ad annuire, non sapendo bene cosa dire. Fece spallucce e la vide ridere.
 “Appena ti ho visto sono scoppiata in lacrime!” esclamò, ancora più bella, con gli occhi tristi e la bocca felice. L’uomo sentì quella sensazione pessima che lo attanagliava quando la vedeva, quando la sentiva, quando la poteva toccare e prendere. Ma poi ricordava che non fosse sua.
Gettò lontano quel macigno ed espirò, liberando i polmoni dal veleno.
“Stai tranquilla. Green non mi sembrava molto impaurito... Credo sia riuscito a gestire la cosa...”.
“Hanno visto dei corpi, al telegiornale. Dei corpi per terra…”.
Riprese poi il cellulare e lo riportò all’orecchio. Gli occhi di Xavier percorsero l’intera lunghezza del suo viso, e poi del suo collo, fino a terminare nella scollatura coperta dalla vestaglia.
Quella sospirò e fece cenno di no con la testa.
“Dio, aiutami tu…” disse, perdendo un’ultima lacrima silenziosa, che le baciò il viso e colò finì per pendere sul mento. Xavier rapprese le labbra e si avvicinò a lei, stringendola in un abbraccio accogliente. Cindy poggiò la fronte sul suo petto, sentiva il cuore battere forte.
Alzò gli occhi, così vicini alla bocca dell’uomo.
E poi il bollitore prese a fischiare. Si staccò subito, quella, allontanando i pensieri che stava per fare. Non avevano senso, in quel momento.
“L’acqua è pronta…” fece. “Tè o tisana?”.
 
 
Johto, Amarantopoli, Ospedale Civile
 
“Non credo ci siano dubbi...” sussurrò Green, con le mani tra i capelli. Il vetro di divisione dell’obitorio era trasparente abbastanza da permettere a lui, ad Angelo e a Valerio di guardare ciò che succedeva all’interno della fredda sala delle autopsie.
“Quella è Jasmine...” sussurrò il poliziotto, mordendosi il labbro e sospirando, quasi sbuffando.
Guardarono entrambi il Capopalestra di Amarantopoli, come a chiedere conferma della cosa. Conferma che arrivò con un rapido cenno del capo.
Videro il medico pulire il volto della salma dal sangue incrostato e, successivamente, praticarle un’incisione a y per aprirle cavità toracica e addominale.
“Il fatto è che non riesco a spiegarmelo. Una donna totalmente identica a Sandra ha mandato Gold in coma e rapinato una banca ad Aranciopoli, con la nostra Sandra sotto le lamiere, presente lì e le registrazioni a testimoniarlo…” ragionava Green. “Una copia di Fiammetta ha ammazzato Rafan e svaligiato una miniera di diamanti, mentre lei era con Rocco Petri e la sorella minore. Infine Jasmine…Tutti noi abbiamo visto la vera Jasmine fuori, accanto a Chiara, vero?”.
Valerio e Angelo annuirono contemporaneamente.
“I mosaici sono tutti andati?” chiese quest’ultimo.
“No. Red ha salvato quelli della Sala 1. Sono gli unici che quel gruppo di mercenari non è riuscito a prendere”.
La porta alle loro spalle si spalancò. Lance entrò, con le braccia incrociate.         
“Non credevo fosse una situazione così difficile da fronteggiare” fece, nella penombra più che totale. I lunghi capelli rossicci erano dritti sulla testa e ben s’accostavano al giubbino di pelle che gli fasciava il torace. Valerio gli diede un’occhiata torva, e tornò a guardare avanti.
“Solo l’intervento dei Dexholder ci ha salvati. In caso contrario saremmo morti tutti” ribatté, quasi a colpevolizzarlo.
“Siete tutti grandi Allenatori, Valerio” rispose Lance, avvicinandosi a Green. Quello lo salutò con un gesto della mano.
“Due dei tuoi grandi Allenatori sono morti, oggi. Tutto questo perché la vostra presenza era troppo preziosa per la regione di Johto”.
Angelo inarcò le sopracciglia, rimanendo a guardare la mano fasciata.
“Sai bene che non è come dici. La Lega di Kanto e Johto è in tutto e per tutto...”.
“Non raccontarmi le solite stronzate! Avresti dovuto prendere i Superquattro per le orecchie e fiondarti da noi! Raffaello e Furio sarebbero ancora vivi, adesso, se non fossimo rimasti da soli!”.
Lance rimase in silenzio. Prese un lungo respiro e annuì.
“Interventi del genere sai bene che non possono essere stabiliti solo da me o dai Superquattro... C’è una commissione che...”.
“Che cazzo me ne fotte della tua commissione!” sbottò l’altro, voltandosi verso di lui e puntandogli l’indice contro il viso. La rabbia sul suo viso stentava ad abbandonare gli occhi blu, deformando quel viso candido e pulito e trasformandolo in una maschera di disperazione.
“Valerio, devi calmarti...” fece Angelo.
“Non ho da calmarmi un cazzo, Angelo! Questi signori dovevano saltare sul primo Pokémon e volare a sporcarsi di sangue, come noi!”.
“Sono io a chiedermi come sia possibile che dei semplici criminali siano più forti dei miei Capipalestra...” ribatté Lance. “Hanno trafugato i nostri mosaici e hanno distrutto un’area importantissima per la nostra regione”.
“Non è la tua regione!” urlò di contro Valerio. “È la mia! Quella di Angelo! Quella di Jasmine, quella di Chiara! Quella di tua cugina Sandra! Questa è la terra della mia gente e tu non hai fatto nulla per noi! Perché ho l’impressione che per te sia tutto un gioco?! Raffaello è morto davanti ai miei occhi, stanotte!” s’alterò il poliziotto. “Ed era uno dei migliori Allenatori dell’intera regione!”.
“Sicuramente, Valerio... Non volevo prenderti in giro ma siamo di fronte ad una delle crisi peggiori che la nostra regione abbia mai fronteggiato”.
Con tempismo perfetto, il Pokégear di Lance emise uno strano rumore. Il Campione lo guardò e sospirò, abbassando lo sguardo, sconfitto.
“Chiara non ce l’ha fatta...”.
Angelo chiuse gli occhi e rapprese le labbra mentre Green rimase immobile, spostando di poco lo sguardo verso il pavimento. Valerio sentì invece ribollire il sangue nelle vene, fino a quando non gli fu impossibile sostenere i suoi pensieri. Gli partirono dalle viscere, risalirono rapidi come un fiotto acido e vomitò fuori tutta la sua rabbia.
“Vaffanculo, Lance! Fanculo tu e la fottuta Lega Pokémon! E fanculo la Palestra di Violapoli! Mollo tutto!”
L’uomo si allontanò, sbattendo la spalla contro quella del Campione e spingendo con forza la porta, che emise un tonfo sordo quando batté nel muro. Lance sorrise amaramente.
“Anche Jasmine ha lasciato il suo posto, a Olivinopoli, aggiungendo la sua posizione ai posti vacanti ad Azalina, Fiordoropoli, Fiorlisopoli, Violapoli e Mogania. Nessun altro? Amarantopoli non ti piace più, Angelo?”
“Io ho una responsabilità verso la mia città e ne rimarrò il Capopalestra. Ma ciò che ha detto Valerio è vero: è gravissima la vostra mancanza di supporto”.
Il Campione non annuì neppure, guardò direttamente Green e lo interrogò con gli occhi.
“Avete capito chi sono, queste persone?”.
Il Dexholder fece cenno di no.
“Avevamo catturato Jasmine” disse, indicandola con la mano che puntava oltre il vetro della sala delle autopsie. “Ma si è suicidata davanti ai nostri occhi”.
“Quindi brancoliamo nel buio. Parlerò con Pino e Karen, per fare in modo che tengano d’occhio il mercato nero. Prima o poi qualcuno venderà le tessere dei nostri mosaici e sarà allora che li beccheremo” sospirò il Campione, avvicinandosi al vetro che divideva l’obitorio dall’antisala. Guardava il corpo di quella versione di Jasmine e inarcò un sopracciglio.
“È incredibile come quella donna assomigli a Jasmine… Siamo sicuri non sia morta proprio lei?”. Si voltò in direzione del Dexholder, in cerca di risposta.
“No” tuonò Green. “Quella è una copia, una strana versione di lei di un altro universo. Non riesco a essere più preciso ma è così che funziona… E poi hai detto che ci hai parlato prima”.
Il medico legale estrasse dal corpo della donna un cuore dalle proporzioni spropositate.
“Uò…” sussultò Valerio. “Quello è il cuore di un bue…”.
“È effettivamente enorme” rispose Lance.
“Non è Jasmine” concluse infine quello dagli occhi verdi. “Jasmine è fuori da questa stanza. Ne sono sicuro”.
Angelo sentiva i morsi della fame, i conati di vomito e le grinfie del sonno.
“Adesso che facciamo?” domandò.
Tutti si rifecero al Campione, spostando lo sguardo verso di lui.
“Dobbiamo solo aspettare, per ora non possiamo fare nulla. Riposatevi e domani indirò un’assemblea della Lega Unificata di Kanto e Johto, per ufficializzare gli addii e lavorare alle sostituzioni…”.
Green sospirò, con l’angoscia che gli cresceva lentamente in corpo. “Io vado a dormire”.
“Ne hai bisogno” aggiunse Lance. “Vai pure e grazie per quello che avete fatto per Johto”.
“Di nulla” sospirò il Dexholder, aprendo la porta e sparendo oltre l’uscio.
Blue lo aspettava in piedi, con le braccia incrociate. I suoi occhi erano stanchi e i capelli, spettinati come non mai, le cadevano disordinati davanti al volto.
“Blue...” sussurrò Green, avvicinandosi a lei.
Quella lo guardò, sbuffando. “Dobbiamo andare ad aggiustarti il naso...” rispose, con lo stesso tono basso e provato.
“Xavier Solomon mi ha preso a pugni, sì...” fece, stanco. “Ma se vuoi puoi... puoi andare in albergo a riposare. Senza problemi. Faccio un salto al pronto soccorso e mi faccio raddrizzare il setto...”.
Gli occhi della donna si chiusero e si riaprirono, sempre più stanchi. Poi si voltò, lei, con movimenti lenti e posati, fino a sparire oltre la porta del reparto.
L’uomo annuì, storcendo il muso.
“Faccio da solo. Ciao”.
 
 
Johto, Amarantopoli, Rainbow Hotel
 
Blue arrivò in albergo una ventina di minuti dopo. Era stanca e confusa e l’unica cosa che le serviva era un buon letto. Fece cenno con la mano a un bambino che la salutava, nella hall che si stava risvegliando. Prese le chiavi alla reception e si piazzò davanti all’ascensore, aspettando che arrivasse. Il leggero brusio del televisore, a pochi metri da lei, stava per mandarle in corto il cervello; necessitava di silenzio, di una bella doccia calda e di almeno dodici ore di sonno.
L’ascensore era tra il sesto e il quinto piano, intanto pensò all’abbraccio che Red diede a Yellow subito dopo il suicidio di quella copia malsana di Jasmine. Forse fu una lucida follia, quella che le stava passando per la mente, ma all’improvviso Green non parve essere più una sua priorità.
Pensava ancora a Red.
Rivedeva nella mente quell’abbraccio e cercava di immedesimarsi in Yellow, provando a raccogliere il calore di quell’abbraccio e farlo suo.
Voleva le attenzioni di quell’uomo, e voleva finalmente scendere da quella giostra che la stava portando al delirio. Quando poi rivide il volto di Yellow si rese conto del fatto che lui stesse con la ragazza, la bionda buona e ingenua, sensibile e delicata, senza malizia.
Sbuffò, ricordò il passato e pensò che fosse stata lei a forgiare Yellow, creando la persona che gli stava rubando le caramelle e che le mangiava deliziata.
Quando l’ascensore aveva appena raggiunto il secondo piano, però, Blue capì che, nonostante la sua voglia di parlare con Red, di passare il tempo assieme a lui e rubare il suo sguardo ogni volta che potesse, non sarebbe stato giusto.
Abbassò lo sguardo. Forse si sbagliava?
Forse avrebbe dovuto scegliere se stessa, quella volta? Oppure avrebbe dovuto mantenere intatta la felicità di quelle due persone?
Aveva già creato loro dei problemi, e dopo un duro scossone quelli si erano rimessi in carreggiata.
Forse si stava accanendo. O Forse no.
Non lo sapeva. E non sapeva neppure a chi chiedere, data la delicatezza della cosa. Ciò di cui era certa al cento percento, però, era che non amava Green e che non le pareva giusto continuare a perdere altro tempo accanto a lui, illudendolo di un amore fittizio e vuoto, come un palloncino gonfio di parole forzate e sguardi lascivi.
Era vuoto. E una volta che quello se ne fosse accorto, si sarebbe reso conto d’aver perso soltanto tempo. Poi l’ascensore arrivò, lei vi salì, senza essersi minimamente posta il problema d’aver lasciato il suo uomo da solo all’ospedale, a farsi medicare. Anzi, non la turbava quel pensiero. Avanzò nella cabina e premette il tasto del suo piano, pregustando un lauto e guadagnato riposo.
Ebbe soltanto un accenno di pensiero, più che altro un ricordo, del volto di Karen da ragazzina, associato al suo.
“Che illusione...”.
Aprì la porta della camera ed entrò in bagno. Venti minuti dopo era nel letto, che dormiva distesa sul fianco. Dava la schiena alla porta.
Non avrebbe condiviso la sua parte del letto con nessuno.
 
*
 
Un’ora dopo anche Green raggiunse la hall dell’albergo.
Camminava lentamente, con la testa che gli scoppiava e il naso dolorante, fasciato dalle mani sapienti di un’infermiera. Piccoli ematomi violacei erano spuntati al di sotto delle orbite.
Sembrava un pugile non in serata.
Andò al bar, con la voglia di qualcosa che gli bruciasse le papille gustative, si sedette allo sgabello e ordinò uno scotch. Il bartender non riuscì a non guardare l’orologio, appurando che fossero circa le dieci del mattino.
“Certo, signor Oak” rispose.
“Senza ghiaccio” aggiunse quello. “E doppio”.
Pochi secondi dopo buttò giù il drink e strinse i denti, con ancora l’intero volto dolorante.
Il primo pensiero andò a Furio, quindi sospirò e riversò la testa sul tavolo. Era stato il suo maestro, gli aveva insegnato la disciplina e il modo corretto di affrontare le situazioni, dal momento che ne aveva particolarmente bisogno dopo la morte dei suoi genitori.
Ricordava benissimo quei giorni in cui non sapeva scegliere contro chi urlare, vittimizzando il nonno e sua sorella Margi per l’incidente avvenuto a mamma e papà. Era diventato un ragazzino intrattabile, lo ammise a se stesso;
 
“Finitela di trattarmi tutti come un bambino!”.
“Tu sei un bambino, Green!” urlava Margi, in preda al pianto. “E io non ti ho fatto nulla! Per quale motivo mi urli contro?!”.
“Tu non capisci! Voi credete che adesso tutto sia normale, vero?! È passato tempo e quindi dovrei essermi abituato a non vedere papà rientrare in casa la sera, vero?! Non è così! Quando la mattina mi sveglio sento ancora il profumo della mamma! Posso sentire ancora la sua voce! Non è giusto, Margi! Non è giusto!”.
Poi aveva tirato il lembo di una tovaglia e rovesciato l’intero pranzo addosso a sua sorella. Margi aveva urlato, spaventata, vedendo infine suo fratello correre fuori, in lacrime.
Si alzò, prendendo la cornetta del telefono. Quel giorno non le venne voglia di giocare col filo, come faceva di solito.
No.
Tre squilli, poi qualcuno rispose.
“Betty, sono Margi! Passami subito il nonno!”.
 
Green ricordava ancor meglio il volto di suo nonno quando lo vide, in riva al mare come faceva tutti i pomeriggi. Così pieno di rabbia e contemporaneamente compassione.
 
“Hey, campione...” diceva, avvicinandosi lentamente.
Il ragazzino odiava quella cautela. Gli pareva che tutti stessero avendo a che fare con un pazzo suicida pronto a gettarsi da un ponte.
“Nonno... che vuoi?” aveva risposto, brusco come sempre, da qualche mese a quella parte.
“Voglio parlare un po’ con te”.
Green si era voltato e lo stava guardando negli occhi.
“Sai... Io ho perso una figlia, in quest’affare. Una figlia che amavo molto e che pensavo un giorno avrebbe visto morire me. Sai, siamo un po’ egoisti, noi genitori, su questo fatto. Certamente nessuno augura la morte di qualcuno, qui, eh... anzi. Il posto della tua mamma, ed anche del tuo papà a cui volevo tanto bene, sarebbe dovuto sempre essere questo, qui, accanto a noi... tuttavia noi siamo nonni, a nostra volta mamme e papà... e dimentichiamo che certe cose accadono. Ecco, io ho lavorato sodo per vedere tua madre crescere, per farla studiare e appassionare a ciò che più le piacesse. A farla innamorare del tuo papà, dannazione...” aveva sorriso poi, lentamente. Si era seduto sulla sabbia, invitando il nipote a fare altrettanto. “Una volta che diventi abbastanza adulto, che i tuoi figli diventano grandi e fanno a loro volta dei figli, cominci a stendere il tappeto ad una convinzione così malsana e strampalata, e spesso falsa: noi genitori pensiamo di morire prima di voi, figli. Perdere un caro è sempre una cosa brutta e io ricordo che, quando morì mia madre, avrei voluto fare le più grandi stupidaggini della mia vita, lasciarmi andare e gettarmi tutto alle spalle, facendo finta di nulla. E lo feci! Ci provai, Green! La nonna Aurelia aveva da poco partorito tua madre e la zia Kylie aveva poco più di quattro anni...”.
“Tu già avevi dei figli” aveva osservato il piccolo.
“Oh, sì. Mia madre è morta quando ero già adulto, ma perdere un caro è sempre una brutta esperienza, campione. E feci tante stupidaggini”.
“Che facesti?”.
“Cominciai a diventare sempre più iracondo, proprio come te adesso. Trattai male la nonna, cominciai a rincasare tardi, rimanendo all’Osservatorio a volte anche per quarantotto ore... E alla fine mi accorsi che avevo passato parecchio tempo arrabbiato, dando odio alle persone che mi volevano bene. Senz’alcun motivo, per altro... Non ero più felice e non mi stavo godendo la felicità delle mie figlie, Green. La felicità di mia moglie. Mi serviva disciplina, e credo che serva anche a te”.
“Io già vado a scuola, nonno”.
“No” rideva Samuel Oak, divertito. “Non intendo quello. Ti manca disciplina nel pensiero, Green. Ti manca l’abilità nel riuscire a riposizionare tutto quando uno scossone crea disordine. Tu sei come me, il disordine c’innervosisce... Ma non possiamo costringere le persone che ci stanno accanto a sopportarlo. Quindi devi mettere a posto ogni cosa fuori dal proprio binario per fare in modo che la nostra vita proceda regolare...”.
“E tu che facesti?”.
“Andai da un mio vecchio amico. Si chiama Furio, vive a Fiordoropoli, a Johto”.
“Che schifo, Johto!” aveva esclamato il ragazzino dagli occhi verdi.
“Hey, Green! È una regione bellissima, piena di città meravigliose! E la nonna Aurelia era di Azalina, pensa un po’!”.
“Azalina è a Johto?”.
Il Professore aveva annuito. “Azalina è a Johto, sì...”.
“E che ti fece Furio?”.
“Mi aiutò a reagire, a non venire assalito dai miei istinti. E tornai dalla nonna e dalle mie bimbe più felice di prima. Sai, temevo che, durante la mia assenza, qualcuno avrebbe potuto sostituirmi accanto a loro... insomma, diventare il nuovo marito di mia moglie, il nuovo padre delle mie figlie. Ora avresti avuto un altro nonno, per esempio”.
“Avevi paura che la nonna ti tradisse?”.
“No” aveva risposto prontamente. “La nonna non avrebbe mai fatto una cosa del genere... Ma io non sapevo a che pensare, Green. E, riflettendoci ora, non sarebbe stata una cosa impossibile. Nonostante due gravidanze, la nonna era una donna bellissima”.
Il volto di Green s’era increspato. “Le gravidanze sono le volte che una donna è incinta, vero?”.
Sì, campione. E con una gravidanza il corpo di una donna diventa più sgraziato, si modifica. La nonna Aurelia invece era rimasta una donna parecchio appetibile...”.
“Appetibile...”.
“Bella. Significa Bella. E proprio perché era bella dovevo aspettarmi che qualcuno me la portasse via...”.
“E invece è rimasta lì”.
“Invece è rimasta lì. Però la nonna Aurelia era speciale. E a meno che non trovi un’altra donna come lei, meravigliosa e piena di vita, devi stare attento con le persone. Perché, una volta che si accorgono del disordine nella tua mente, potrebbero decidere di andare da un’altra parte. Di abbandonarti per sempre”.
 
Green accettò a malavoglia d’intraprendere lo stesso viaggio che aveva fatto suo nonno, per ritrovare se stesso. Però, quel mattino, ordinando il terzo giro di scotch, s’era reso conto di non esser mai riuscito totalmente a ordinare la stanza nel quale tutto veniva sballottato qui e lì.
E Blue se n’era accorta.
Anche lui s’era reso conto di una cosa: l’aveva persa.
Aveva di nuovo perso Blue.
 
 
Johto, Amarantopoli
 
La riunione era per il giorno dopo e Lance lo aveva congedato rapidamente.
Angelo aveva percorso la strada dall’ospedale alla stazione assieme a Valerio, lasciandolo lì e dandosi appuntamento dopo ventiquattr’ore, quando si sarebbero incontrati tutti negli uffici dell’Altopiano Blu. Lui, Valerio, Sandra e Jasmine, ciò che era rimasto del vecchio corpo dei Capipalestra di Johto.
Il maestro di tipo Spettro camminava lentamente tra la gente, che lo salutava preoccupata, stupita per gli avvenimenti delle Rovine D’Alfa e per il suo braccio, fasciato e tenuto al collo da una banda di sostegno. Si permise di passare per qualche minuto in Palestra, sbrigare tutte le pratiche che c’erano da organizzare e delegare tutto a Timothy, il suo assistente.
“Mi raccomando. Non fare errori” gli aveva detto.
“Tranquillo. Si vada a riposare, Signor Angelo”.
Aveva lasciato i suoi Pokémon a riposare lì, portando con sé soltanto Gengar, per evenienza, e lentamente passeggiò per il corso, diretto verso l’Harold’s.
Quando vi arrivò prese un’aranciata da bere per strada, dato che Cindy, a detta delle sue cameriere, quel giorno non si era presentata.
 
“Stanotte avrà fatto l’alba davanti al telegiornale, ragazze. Occupatevi voi del locale”.
“Sicuro, Signor Angelo” aveva risposto la più grande tra le cameriere, Gwyneth, dai lunghi capelli neri e gli occhi azzurri. Soleva portare sempre una catenina col crocifisso; le ballava sul petto, al di sopra della divisa.
 
La salutò, sorseggiò la bevanda e arrivò davanti casa, prendendo le chiavi.
Poi le riposò, erano quelle della Palestra. Le confondeva sempre, in tasca.
Aprì la serratura e smontò l’armatura da uomo di legge, da uomo con corsie preferenziali, da uomo con visioni mistiche e rimaneva soltanto lui.
Soltanto un uomo.
Sentiva il televisore acceso, il telegiornale parlava ancora del disastro delle rovine. Pensò che Cindy si fosse addormentata sul divano, pregando e sperando che nessun diavolo sarebbe venuto a prenderlo quella notte. Passò prima dalla cucina, lavò il bicchiere dell’Harold’s e lo poggiò sul bancone, quindi smontò la fascia dai capelli e levò con attenzione la maglietta.
Entrò poi in salone a petto nudo, con il preciso intento di svegliare Cindy e portarla a dormire a letto.
Ma quello che si ritrovò davanti fu l’espressione di qualcosa di cui, era certo, prima o poi si sarebbe dovuto occupare: Xavier dormiva sul suo divano.
E Cindy, sua moglie Cindy, era stesa accanto a lui.

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 - Claustrophobia ***


19. Claustrophobia
 
 
Johto, Amarantopoli, Casa di Angelo
 
Come un pugno nello stomaco.
Angelo osservava quella scena, con quei due che dormivano l’uno accanto all’altra, e qualcosa di insano cominciò a passargli per la mente. Xavier era lì, immobile, con gli occhi chiusi.
Vulnerabile.
Portò il braccio, quello sano, al fianco e sbuffò, con la televisione che ancora continuava a raccontargli, inutilmente, ciò che era successo quella notte. La spense e vide Xavier aprire gli occhi; dal canto suo, l’inventore non aveva programmato nulla di tutta quella situazione.
Non che fosse successo qualcosa.
Lo vide, cercò di fare mente locale, di capire dove si trovasse e perché quello lo stesse guardando con tutta quell’acredine. Sentì il profumo dei capelli di Cindy e ricordò rapidamente tutto, e in testa gli balzò l’immagine di quel bacio, interrotto dal fischio della teiera.
Ritornò a fissare il volto di Angelo, col braccio rotto e il petto nudo.
“Credo mi spetti una spiegazione” tuonò quello, sbattendo le palpebre un paio di volte. Xavier riusciva a sentire sotto lo sguardo la quantità di stanchezza che quell’uomo provava in quel momento.
“Stai bene?” gli domandò.
“Non tanto. Ora anche peggio”.
Xavier sorrise e annuì. “Touché… Ma non è niente di ciò che pensi. Parliamone in cucina, Cindy ha preso sonno pochi minuti fa…”.
“E tu hai aspettato che si addormentasse…”.
Xavier scivolò lentamente di lato, lasciando che la donna sprofondasse comoda tra i cuscini del divano. Andarono assieme nell’altra stanza, con Xavier che precedeva il padrone di casa.
Angelo si pose davanti alla porta, come per non farlo scappare. Xavier sospirò, cercando di far trasparire dalla sua espressione il candore della sua innocenza. Fu lui il primo a parlare.
“Ti sei fatto male al braccio, stanotte?”.
Angelo parve non sentirlo.
“Vuoi spiegarmi per quale motivo stavi dormendo accanto a mia moglie?”.
Xavier sospirò, sorridendo amareggiato. “Si dà il caso che tua moglie sia anche mia amica e...”.
“Xavier. Xavier Solomon...” sussurrò Angelo, avanzando lentamente verso di lui. “Non vi siete parlati per anni. L’hai odiata perché l’ho rubata dalle tue braccia e tu ce l’hai avuta con lei per tutto questo tempo. Invece ora vuoi farmi credere che sei qui perché sei suo amico? A te piace mia moglie. A te Cindy è sempre piaciuta”.
Gli occhi dell’ultimo arrivato erano sempre distesi, calmi. Quelli di Xavier invece erano spalancati, increduli di ciò che vedevano, con le sclere arrossate per il sonno.
“Non è così, Angelo. Nonostante tra noi non corra buon sangue (me e te, intendo) non mi ha lasciato indifferente saperti coinvolto in un affare pericoloso. E conoscendo Cindy immaginavo si fosse lasciata prendere dal panico. Tutto qui”.
“E che avete fatto?”.
“Abbiamo bevuto un tè e guardato il telegiornale. Poi mi sono addormentato e mi sono svegliato un minuto fa, con lei che mi dormiva addosso e tu che volevi uccidermi”.
“Voglio ancora ucciderti”.
“Appunto”.
Gli occhi di Angelo ben interpretavano l’espressione rocciosa che aveva assunto il suo viso. Xavier guardò per un attimo i pettorali ben scolpiti dell’uomo, seguendo la linea degli addominali.
Era bello, muscoloso, famoso e ricco.
Era quasi giusto che fosse così arrogante.
“Io non voglio più vederti. Neppure al locale, da nessuna parte. E voglio che tu dica a Cindy che non vuoi più avere nulla a che fare con lei”.
“Guarda che io già gliel’ho detto!” urlò Xavier.
“Ecco perché stanotte sei corso qui... Perché non volevi avere nulla a che fare con lei... giusto?” replicò il Capopalestra. “Amico, sii onesto con te stesso... e anche con me e, per favore, con Cindy. Tu sei ancora innamorato di lei ma lei è per me che piangeva, stanotte. Ti reputa soltanto un amico”.
“Io non sono innamorato di lei...” replicò l’altro, abbassando lo sguardo e sospirando.
“Devi uscire da casa mia”.
Xavier non se lo lasciò ripetere due volte, avanzò e tornò nel salotto a prendere il suo giubbino.
Poi si voltò e lasciò la casa di Angelo.
Tuttavia non si accorse del fatto che gli occhi di Cindy fossero spalancati. Aveva sentito tutto e il cuore le batteva duramente nel petto.
 
 
Kanto, Aranciopoli, Ospedale Civile
 
Erano passate le dodici da un paio di minuti quando Marina s’era svegliata. Si era lavata rapidamente e aveva addentato un croissant mentre infilava la giacca a vento, dopodiché si era immersa nella fiumana di persone che ogni giorno viveva tranquillamente la propria vita.
Pensava, lei. Credeva che nessuno di quegli individui immaginasse minimamente la paura che stesse provando nell’animo, in quel momento.
Sapeva di per certo che a nessuno interessasse. Sapeva che la gente si facesse gli affari propri a ogni costo, specialmente in una città grande come quella, una metropoli che conteneva milioni di teste, che contenevano miliardi di pensieri.
E tra tutti quei pensieri c’erano anche i suoi, intangibili desideri che cominciavano a rasentare il limite accettabile della speranza. Sì, perché lei, in quel preciso momento, stretta nella sua giacca nera, col vento che le arruffava i capelli castani, sperava vivamente che Gold quella notte avesse riaperto gli occhi. Sorrise, immaginando la prima battuta stupida che avrebbe pronunciato una volta risvegliatosi, in stile scusate il ritardo oppure sono stato lontano per poco e ti ritrovo già con la faccia da funerale. Ci vuole più di una vecchia lamiera arrugginita per mettere fuori gioco Gold. Ce ne vogliono almeno due. Poi sorrise di nuovo, soltanto pensando al fatto che ormai aveva capito quale fosse lo standard delle sue battute. Ormai lo conosceva da tanto, troppo tempo, e il fatto che in quel momento non fosse al suo fianco le riempiva la testa di continue domande e lo stomaco di una paura continua e dolorosa, sottoforma d’ansia armata di coltello a serramanico.
Era appena entrata in centro quando i suoi occhi color nocciola si scontrarono contro i titoli dei giornali dell’edicola vicina al porto, che enunciavano:
 
ROVINE D’ALFA SACCHEGGIATE, MORTI TRE CAPIPALESTRA
Nella notte il raid di un team criminale ha messo a ferro e fuoco i resti delle antiche civiltà di Johto. Pag.2
 
Sospirò, pensando al fatto che in quei giorni  la criminalità fosse aumentata in maniera esponenziale. Pensò alla morte di Rafan a Unima, oltre alla rapina proprio lì ad Aranciopoli; bisognava infine aggiungere gli avvenimenti di quella notte. Cercò di capire cosa potesse essere realmente accaduto ma convenne con se stessa sul fatto che dovesse essere qualcosa di parecchio importante per aver causato la morte di tre Capipalestra.
Sperò vivamente che non fosse coinvolto Angelo. Non aveva dimenticato di quando aiutò Gold con la maledizione che quell’Idrotenente gli aveva lanciato a Hoenn, nei giorni in cui si erano conosciuti.
Ricordava con passione il ricordo di quei giorni, assieme
Ricordava col sorriso di quando si ritrovò innamorata di lui.
E non sarebbe potuto finire lì. Non in quel modo.
Entrò nell’ospedale e salì al piano dove il suo fidanzato riposava. La porta era chiusa e lei l’aprì, bussando lentamente.
Vide Martino poggiato al muro accanto alla finestra, che aveva lasciato il posto accanto a Gold ad Altea, seduta in religioso silenzio con un libro tra le mani. Entrambi si voltarono quando la videro entrare.
“Hey...” disse suo fratello, guardando gli occhi di quella infrangersi sulla figura del suo uomo, ancora immobile.
“Martino, Altea... ciao” disse. Poi si girò verso la donna. “Come ti senti?”.
“Tutto bene, grazie” rispose quella, passando una mano nei lunghi capelli corvini.
“Ci sono novità, con Gold?”.
Fu Martino a rispondere. “Nulla. Nel modo più assoluto, nulla. Il respiratore ha fatto su e giù per tutta la notte ma non è successo nulla, né nel bene né nel male”.
Marina gli si avvicinò, levando il soprabito e poggiandolo sulle gambe del degente. Si abbassò su di lui e gli diede un leggero bacio sulle labbra.
“Buongiorno, amore” disse. Infine alzò gli occhi, guardando suo fratello. “Puoi andare a riposare... Quando sarai pronto andrai a fare rapporto nel mio ufficio, a Violapoli. Infine potrai tornare a Oblivia”.
“Non se ne parla” ribatté Martino. Guardò Altea negli occhi per un istante prima di continuare. “Non posso lasciarti da sola con Gold in queste condizioni”.
Poi sentirono bussare alla porta e Red e Yellow fecero il proprio ingresso.
Il primo fece un sorriso leggero e stentato guardando Marina, che fissò la propria attenzione sulla grande medicazione che l’uomo aveva sulla guancia.
“Che hai combinato?” chiese la Ranger.
Lui si avvicinò al letto e guardò Gold, carezzandogli la fronte. Poi si voltò verso di lei.
“Hai saputo di stanotte?”.
“Ho letto qualcosa sul giornale” disse, prendendo la mano di Gold. “Ma non ho ben capito”.
“L’obiettivo erano i mosaici” s’inserì Yellow, con la voce limpida. “Hanno distrutto quattro sale. Noi di Kanto abbiamo lottato accanto ai Capipalestra di Johto ma…”. Poi ebbe difficoltà a continuare.
“Non è andata bene. Abbiamo salvato soltanto un mosaico. E la cosa peggiore è che sono morte delle persone e dei Pokémon” concluse Red.
“Chi… chi è morto?” domandò la Ranger.
“Raffaello e Furio. E Chiara, questa mattina…”.
Marina spalancò gli occhi, all’ultimo nome. Sapeva che Gold avesse avuto un debole per lei, in passato, ma ora non c’era più. Abbassò lo sguardo e sospirò, dispiaciuta.
“Due erano parecchio giovani...” sussurrò Altea, abbassando lo sguardo.
Il silenzio si sedimentò per qualche secondo, diventò un minuto e i sospiri lo sostituirono immediatamente. Quella discussione aveva congelato gli animi, e in un contesto del genere, dove la speranza doveva ardere viva, non era il caso.
“Beh... noi andiamo a riposare” sospirò Martino, aiutando Altea ad alzarsi e dando un bacio sulla guancia di sua sorella.
“Ci becchiamo dopo”.
“Ciao a tutti” salutò la Kimono Girl, abbandonando la camera e lasciando la coppia di Dexholder con la Ranger.
Red si sedette accanto al ragazzo e sospirò.
“A breve ci sarà una riunione per conoscere le sorti della Lega Unificata di Kanto e Johto. In questa regione mancano cinque Capipalestra. Ed è una vergogna che qualcuno abbia causato la morte di uomini e Pokémon...” continuò Red.
Yellow abbassò lo sguardo, prima di osservare l’espressione estremamente stranita di Marina.
“I Pokémon non dovrebbero mai morire. Li usiamo come mezzi per raggiungere degli scopi, degli scudi, delle spade. Dimentichiamo che dovrebbero essere amici” fece l’ultima. Le parole della Ranger costrinsero i due Dexholder ad abbassare il capo.
“Hai ragione” rispose la bionda.
Guardarono tutti Gold quando sentirono poi bussare alla porta. Si voltarono e Sandra fece il suo ingresso.
“Buongiorno a tutti”.
Indossava un bomber nero e un jeans aderente sulle cosce. Si avvicinò a Yellow e le diede un bacio sulla guancia, poi strinse la mano a Red. Infine alzò lo sguardo, tutto sommato timidamente, verso Marina. Lei la fissava immobile, quasi incredula nel vederla nuovamente lì.
“Ciao” fece la Capopalestra di Ebanopoli.
“Che ci fai qui?”.
Gli occhi della Ranger si scontrarono con quelli della donna dai capelli turchesi, stranamente sciolti quel giorno. Sandra in borghese era una normalissima, bellissima donna qualunque.
Yellow s’intromise. “Le ho chiesto io di venire”.
Marina si voltò immediatamente verso la Dexholder. “Non mi piace che sia qui”.
Sandra sbuffò, girando la testa di lato. Il tatuaggio che aveva sul collo, a rappresentare la testa di un dragone stilizzato, era nascosto dalla lunga chioma. Ritornò a fissare gli occhi rancorosi della Ranger e inarcò le spalle per qualche secondo, prima di dare fuoco alle polveri.
“Sono stanca di questo comportamento...”.
“Tu!” replicò immediatamente Marina. “Se non avessi tentennato... Se non ti fossi bloccata, impaurita... Non avresti avuto bisogno di Gold!”.
Le urla riverberarono nella stanza, riempita soltanto dai respiri dei presenti e dai bip dei macchinari.
Sandra spalancò occhi e bocca, incredula. “Marina! C’erano più di trenta nemici e io ero l’unica persona all’interno della banca in grado di poter dare una mano ai Dexholder fuori!”.
A Red sembrò opportuno intromettersi.
“Del resto anche Gold è un Dexholder... E se Oak ha pensato bene di consegnargli un Pokédex è perché ha visto in lui delle capacità al di sopra della norma”.
“Il nonnino non è uno sprovveduto” aggiunse Yellow.
Red annuì e continuò. “Noi abbiamo l’obbligo morale di dare una mano, se vediamo qualcuno in difficoltà. A maggior ragione se è un’operazione unificata, in cui diversi Capipalestra e persone rischiano di rimetterci la pelle”.
“Avrei preferito rimanere a Ebanopoli e continuare i miei allenamenti, piuttosto che passare quel brutto quarto d’ora. E se sono qui è soltanto perché Gold mi ha salvato la vita, e gli sono riconoscente... Solo questo”.
Marina faceva segno di no con la testa, col sorriso stampato a mo’ di adesivo sul volto.
“Lui ha protetto te...” disse, quando una lacrima le attraversò il viso. “Ti ha protetto ed è stato quasi ammazzato...”.
“Questo fa di lui un eroe” le rispose Red, con Yellow e Sandra che gli facevano da coro. “E nulla potrà mai cambiare questa cosa”.
Marina non riuscì più a trattenere le lacrime e sospirò, pulendosi dal trucco sciolto che le macchiava il volto.
“Io volevo soltanto vivere in pace!” urlò, straziando i presenti nel profondo. Riusciva a trasmettere il dolore che provava in maniera impeccabile, tanto che Yellow rapprese le labbra. “Volevo stare bene... stare bene qui, con lui. Crearmi una nuova vita, lavorare. Volevo che stesse lontano dai guai...”.
“Abbiamo avuto bisogno di lui” aggiunse Sandra. “Perché è un grande Allenatore. E mi ha aiutato personalmente...”.
“Zitti!” urlò quella. “Andate via! Lasciateci in pace!”.
Sandra e Yellow inarcarono le sopracciglia e sospirarono. Si alzarono e uscirono rapidamente, seguiti da Red, che carezzò la mano dell’amico e fece per andarsene, prima di fermarsi sulla porta.
Guardò gli occhi di Marina e annuì.
“È un guerriero. Ce la farà”.
 
*
 
Yellow e Sandra si erano avviate verso la fine del corridoio. Sostarono davanti a un grosso finestrone ormai opaco, in cui la luce filtrava sporca e poco invadente.
“Allora? Perché mi hai chiesto di venire proprio qui?” domandò la Capopalestra di Ebanopoli. “Marina vuole uccidermi, e non mi sembrava il caso di presentarmi davanti a lei”.
Yellow annuì. Il modo di fare di Sandra era sempre lo stesso, diretto e sintetico. Abbassò il volto e sospirò, unendo le mani davanti al bacino.
“Avevo bisogno di chiederti una cosa. Una cosa molto importante...” disse quest’ultima.
“C’era bisogno di farlo di persona?”.
“Beh, sì. Si tratta di Lance”.
Sandra aggrottò le sopracciglia e inclinò la testa.
“Che intendi?”.
“Ho bisogno di parlare con lui di una cosa assai delicata, Sandra”.
“Che cosa?”.
“Mi serve solo il suo numero. È privata. Personale”.
“Oh...”. Sandra storse le labbra e sospirò.
“Neppure Red ne sa nulla... Perdonami...”.
La donna prese il Pokégear e prese a digitare qualcosa sulla tastiera.
“Te l’ho inviato. Tranquilla. Ma è grave?”.
“No, no” sorrise poi Yellow, con la solita e involontaria dolcezza. “Devo solo chiedergli alcune cose... Non ha fatto nulla di male”.
“Beh, okay... Non c’è problema...”.
“Grazie” disse la Dexholder, chinando il capo in segno di ringraziamento. “Credo che sia il caso per te di stare lontana per un po’ da Marina e Gold...”.
“Decisamente. Lei oggi ha avuto un brutto crollo...”.
 
 
Johto, Amarantopoli, Rainbow Hotel
 
Yellow era rientrata in albergo da sola. Red aveva deciso di sottoporsi a una seduta di allenamento e lei aveva finalmente avuto l’opportunità di potersi rilassare un po’. Da quando quella brutta faccenda del Cristallo del Caos era cominciata s’erano ritrovati invischiati in qualcosa di così difficile decifrazione da bloccarli, letteralmente, in quel limbo confusionario di eventi.
Lei stessa era stata gettata tra le fauci della paranoia, proprio la notte precedente.
Lance era suo fratello.
O almeno così aveva capito, in quell’illusione così vivida da averla resa totalmente paranoica.
Aveva conosciuto sua madre, aveva capito perché era stata abbandonata in quel bosco.
Aveva capito il motivo dei suoi speciali poteri.
Quella visione strana cambiava tutto; sì, perché era cresciuta per quasi trent’anni con la convinzione di essere sola al mondo, con soltanto i suoi amici Pokémon. I concetti di mamma e papà mancavano, quello di famiglia era limitato e circoscritto alla fauna del Bosco Smeraldo che l’aveva aiutata a crescere  e a quel vecchio pescatore di Smeraldopoli che chiamava zio.
E per quel fatto era sconvolta.
Certo, si era interrogata per anni su come fosse potuta essere possibile la sua esistenza senza dei genitori. Tuttavia, con la maturità e la vicinanza a Red aveva imparato che, certe volte, le persone possono scambiarsi i ruoli, e che gli amici possono diventare la tua famiglia.
Perché è famiglia chi ti dà amore, chi ti protegge.
Aveva scoperto, forse, che la sua famiglia, quella originaria, fosse una delle più importanti e rappresentative di Johto.
Avrebbe dovuto indagare.
Sandra le aveva inviato il numero personale di suo cugino Lance e lei aveva tutte le intenzioni di chiamarlo e indagare su quella che aveva l’aria di essere assolutamente un condizionamento mentale ingiustificato.
Il Pokégear era davanti a lei, poggiato sul letto. Yellow era seduta tra i cuscini e guardava l’apparecchio con insistenza, quasi a costringerlo ad avvicinarsi da solo. Pensò per un attimo al fatto che le lenzuola fossero veramente ben tirate e che il servizio di pulizia delle camere fosse molto efficiente.
C’era un profumo di fresie fresche, nell’aria.
Le piacevano, quei fiori.
Pensò al fatto che nel bosco crescevano allo stato selvatico e che, ogni volta che passava davanti al grande albero a nord, era solita raccoglierne un mazzolino. Sciolse i lunghi capelli e abbassò il volto, trovando finalmente il coraggio di afferrare tra le mani l’apparecchio telefonico. Aprì il menù e vide il numero di Lance, già salvato in rubrica. Lo selezionò, varando un piano d’azione in cui non sarebbe sembrata una stramba che voleva soltanto disturbare il Campione della Lega Pokémon.
Mise in vivavoce e poggiò l’apparecchio sul materasso. Il suo respiro si frammentava ogni volta che il segnale di occupato squillava, fino a interrompersi totalmente quando l’uomo rispose.
Pronto?”.
“Ehm... Lance?”.
Chi è? E come hai avuto questo numero?”.
“Lance, ciao, sono... sono Yellow. Yellow del Bosco Smeraldo. La Dexholder...”.
L’ansia  le stava facendo esplodere il cuore; sentiva le tempie pulsare.
“Oh... Ciao Yellow”.
“È stata Sandra a darmi il tuo numero”.
“Cos’altro è successo? Novità per quanto riguarda le Rovine d’Alfa?” domandò.
“No, no, in realtà volevo chiederti una cosa... è molto importante, per me”.
“Certo”.
“Tuo... tuo padre... si chiama Donald?”
Sentì l’uomo dall’altra parte del telefono tentennare. “Beh, sì... Ma tu che ne sai?”.
“È un uomo non molto alto, ti assomiglia...”.
“Hai visto mio padre?”.
“Ha una cicatrice sulla guancia?”.
“Sì, Yellow, ma stai cominciando a spaventarmi...” ridacchiò leggermente quello.
“E... che tu sappia... a Ebanopoli vive una donna di nome Diana?” ribatté famelica la bionda, piegandosi verso il Pokégear.
Passò qualche secondo prima che l’interlocutore rispondesse. “Possibile. Non ricordo con perfezione. Bisognerebbe andare negli archivi della Palestra di Sandra per vedere se ci sono dei riferimenti. Ma perché? E che c’entra con mio padre?”.
“No, nulla... è una cosa personale”.
“No, ferma” rispose Lance. “Che diamine significa?! Tu non hai nulla di personale con mio padre!”.
“No, no, assolutamente... è che...” doveva trovare una scusa, e in fretta. “È che forse tuo padre, essendo uno degli anziani del villaggio, forse poteva conoscere questa donna”.
“Glielo domanderò. Ora, se permetti, avrei da fare. Se trovate informazioni utili sulla rapina alle rovine chiamami... Possibilmente non sul mio numero privato”.
“Sì!” avvampò violentemente la bionda. “Scusami, mi spiace tanto!”.
“Sì, ciao...” concluse quello, attaccando.
Yellow si lasciò andare, rilasciando la tensione in eccesso nell’unico modo che soleva utilizzare: cominciò a piangere.
Si stese di fianco e si abbandonò alla frustrazione di non essere mai stata a capo dei propri desideri.
Non aveva mai avuto in mano le redini della propria vita.

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 - Rovine ***


20. Rovine


 
Sinnoh, Evopoli, Casa di Gardenia
 
La neve quella mattina s’appoggiava debole sui tetti già candidi della città. Talvolta scivolava giù ma lo faceva di rado, cadendo in mucchi grossi e piccoli e inondando i vialetti delle villette a schiera di Coronet Street. Evopoli era una bomboniera, soprattutto in inverno, quando una mano di bianco donava eleganza a quella perla tra due valve fatte di boschi e montagne.
La prima casa di Coronet Street, o l’ultima se si procedeva dal senso opposto, era quella della Capopalestra di quel luogo meraviglioso, Gardenia.
Il suo programma quotidiano era parecchio duro dato che, essendo una figura importante per l’intera città, doveva essere costantemente sul pezzo. Quindi sveglia all’alba, indossava una tuta e scendeva in cantina, che aveva sapientemente trasformato in palestra personale. Lei e i suoi Pokémon cominciavano con un’ora di esercizi, fino a quando l’orologio non segnasse chiaramente che fossero le sette. Una volta finiti gli allenamenti si spogliava e si lavava velocemente, quindi si asciugava, piastrava i capelli e indossava quella fascia nera che le permetteva di tenere i ciuffi ribelli lontani dagli occhi.
Mangiava due frutti e alle nove era già nei suoi uffici, nella Palestra che si trovava proprio al centro della città.
E lavorava, lavorava duramente, almeno fino a mezzogiorno. Se aveva l’opportunità di uscire, cioè, se in quel momento non stava lottando contro qualche sfidante, evadeva per cinque minuti, si sgranchiva le gambe e prendeva un caffè al bar della strada di fronte. Ma poco dopo era di nuovo la Capopalestra, sistemava la fascia nei capelli e tornava al lavoro. Fino alle quattordici, quando aveva un’ora per mangiare.
Preferiva farlo al sole, cosicché i suoi Pokémon si nutrissero con lei. Del resto era entrata in simbiosi con quelle creature d’erba; erano con lei per la maggior parte della sua giornata.
Alle quindici era di nuovo in Palestra e smontava alle diciotto. Passava per il supermercato, comprava una baguette e delle verdure, più qualcosa da cucinare come portata principale.
Si divertiva a fare la spesa, poteva ascoltare le sue necessità e dare importanza ai suoi vizi.
Tornava poi a casa, infilava nuovamente la tuta e correva per un’altra oretta sul suo tapis-roulant, prima di farsi un bagno rilassante di almeno mezz’ora, con le candele accese e gli oli profumati a creare un’atmosfera piacevole.
Si asciugava nuovamente, infilava il pigiama e cucinava mentre ascoltava il radiogiornale. Soleva mangiare ascoltando un po’ di musica rilassante quindi, a giorni alterni, leggeva un buon libro o vedeva un film alla televisione.
Alle ventitre esatte era nel suo letto, e dormiva.
La vita della bella Capopalestra era questa, sostanzialmente. Doveri e piacere riuniti in ventiquattro ore.
Ma se nevicava tutto saltava.
I suoi programmi erano rigorosamente per un clima dove il sole, al massimo la pioggia, baciavano il suo mondo.
La neve non era contemplata tra le possibilità.
Da qualche mese a quella parte Marisio si era trasferito da lei. Ormai si frequentavano da un po’ di tempo e gli obblighi professionali della donna avevano costretto il ricco Allenatore ad allontanarsi da Canalipoli, dove viveva, muovendosi verso est.
E a Gardenia faceva piacere. Non solo perché le piacesse la compagnia, in particolare quella di quell’uomo, ma anche perché con lui poteva riempire in maniera più divertente i vuoti delle sue giornate.
Capitava spesso che si allenassero assieme.
Anche la doccia la facevano assieme.
Verso ora di pranzo lui portava il cibo alla Palestra, e mangiavano assieme fino a quando lei non rientrava. A fine turno lui era lì, a controllare che tutte le finestre fossero chiuse.
Andavano poi al supermercato assieme, facevano la spesa, si allenavano e facevano un’altra doccia.
Poi mangiavano e guardavano un programma in tv.
O magari facevano un’altra doccia.
Insomma, la vita di Gardenia era rimasta sostanzialmente la stessa. Era cambiata soltanto la sua attività sessuale, oltre al pigiama, più elegante e sexy di quello che soleva indossare.
La routine però quel mattino fu sconvolta. Quando si svegliò quel mattino, l’orologio segnava le quattro e quarantaquattro. Era in anticipo rispetto alla tabella di marcia.
Marisio si scoprì leggermente ma sapeva che Gardenia si sarebbe svegliata non appena avesse mosso le coperte, e infatti così fu.
“Già te ne vai?” domandò lei, con voce compressa. Accese la luce, stringendo subito le palpebre non appena il bulbo s’illuminò.
“Sì, devo arrivare rapidamente a Giubilopoli. Ho il check-in alle sei e mezza e l’aereo partirà poco dopo”.
“Ti accompagno” fece, scoprendosi a sua volta e sistemando il pigiama, che era salito e aveva lasciato nuda la pancia.
Marisio sorrise, silenzioso come sempre.
“Che c’è?” domandò Gardenia, divertita.
“Sei davvero meravigliosa”.
“Ma grazie!” esclamò, inginocchiandosi sul letto e baciando l’uomo che amava. “Com’è il tempo fuori?”.
“Ancora neve”.
“Uff...” sbuffò lei, con i capelli arruffati sulla fronte.
Marisio si limitò a sorridere, tirando a sé la donna e baciandola ancora, con più passione.
“Starò via per pochi giorni. Credo che domani potrei essere già di ritorno”.
“Ti aspetterò a braccia aperte. Ma non conosci i motivi di queste convocazioni?”.
“No” disse l’uomo, sbottonando la camicia del pigiama e rimanendo a petto nudo. Leggera peluria scura cresceva ordinata e verticale e partiva dall’ombelico fino a nascondersi oltre il bordo dei pantaloni del pigiama. Gardenia la carezzava spesso, nei momenti d’intimità.
“Mi pare molto strano che la Lega di Kanto e Johto ti abbia contattato personalmente. Hai fatto qualcosa di male?”.
“Io non faccio mai nulla di sbagliato. Almeno non con coscienza” rispose, sfilando anche il pezzo di sotto. S’avviò in boxer nel bagno della camera, seguito subito dopo dalla donna.
“Aspettami” disse quella, sfilando la camicetta e rimanendo soltanto con gli slip. Levò anche quelli e rimase davanti allo specchio, guardando il riflesso del volto stanco e i capelli spettinati, acconciati solitamente in quel carré fulvo. Cercò di ammaccare la capigliatura con la mano ma non ci riuscì, scatenando il sorriso dell’uomo, che le scivolò alle spalle e le baciò il collo, carezzandole addome e seno.
“Sei bellissima...”.
“Non ho un filo di trucco, Marisio... Non dire assurdità... Con la capigliatura post-coito e le occhiaie scavate...” sorrideva lei, voltandosi e aprendo l’acqua della doccia.
Lo baciò una, due, tre volte, carezzando quel viso che cominciava a pungere.
“Devi raderti...” sorrise poi, grattando con le unghie le guance dell’uomo.
Mostrò a sua volta il sorriso, Marisio, baciandole la punta del naso. “Hai ragione”.
“Non puoi presentarti così trasandato”.
“Non sono trasandato”.
Allungò poi la mano verso l’acqua che scendeva dalla doccia. Era ancora fredda. La stessa mano strinse poi la donna e le carezzò il collo; dalle dita cadde una piccola goccia, che le percorse l’intera lunghezza della schiena.
Gardenia rabbrividì, inarcò la schiena e chiuse gli occhi. Quando li riaprì si ritrovò davanti lo sguardo di Marisio, grigio come il cielo di quel mattino.
“Sei meravigliosa...”.
Noncurante della temperatura dell’acqua, Gardenia trascinò il suo uomo sotto il getto della doccia.
 
*
 
Aveva viaggiato per circa un’ora in volo sul suo Salamence e aveva raggiunto Giubilopoli.
Era sceso al volo dal suo Pokémon, poggiando le scarpe di pelle nera sulla passerella d’ingresso dell’aeroporto. Il suo bagaglio era un pratico trolley grigio, che lo seguiva fedelmente.
Un paio di ragazze, in viaggio verso qualche meta esotica, lo riconobbero e si voltarono, meravigliandosi di come il vestito blu gessato gli cadesse a pennello sulle spalle e sulla vita.
Era un bell’uomo, con quegli occhi dallo sguardo profondo e i capelli pettinati, tirati indietro.
Elegante, salì sul volo che diverse ore dopo lo avrebbe fatto scendere a Johto.
Si sedette sul sedile 16P, posto finestrino, e si perse a guardare fuori per qualche minuto, fino a quando qualcuno non si avvicinò.
“No! Il posto finestrino è già occupato!”.
Marisio conosceva quella voce, gli era molto familiare. Si voltò, vedendo Matilde fissarlo con più attenzione.
“Ma tu...” fece lei, spalancando poi gli occhi. “Marisio!” esclamò, sorridendo. L’uomo emulò il sorriso e se la ritrovò addosso, in una stretta fin troppo amichevole.
“Hey, Matilde... ciao...”.
Quando quei due si conobbero erano in una situazione assai critica, col Team Galassia che minacciava l’intera Sinnoh. E la ricordava, praticamente una bambina, aveva poco più di dieci anni, e portava i capelli in maniera davvero vistosa. Marisio ricordava anche la camicetta bianca con i lustrini rosa, che aveva indossato nei giorni in cui avevano contribuito alla pace. Poi confrontò quell’immagine con l’ormai donna che aveva davanti, con i denti dritti e i capelli legati in una lunga coda di cavallo, una sola, che scendeva ripida lungo la schiena.
“Non ti vedevo da anni! Come stai?!” chiese quella, espansiva come sempre.
L’uomo annuì, mantenendo l’espressione divertita sul volto. “Tutto bene. Tu, invece?”.
“Mah... sono un po’ contrariata del fatto che non ci sia nessun altro aereo per Johto prima di martedì... del resto la convocazione è per oggi. Ma arriveremo!” rispose.
Neppure la sua logorrea era cambiata.
“Convocazione a Johto?”.
“Ah, già! Non dovevo parlarne!” si rammaricò, inarcando le sopracciglia.
“Lance?” domandò l’altro, vedendola annuire.
“Sì. Ho ricevuto proprio ieri quella telefonata ed è stato tutto così... strano... Cioè, Lance ha chiamato proprio me!”.
“Ha contattato anche me”.
“Oh... Allora ci saranno anche gli altri, sicuramente!” sorrise quella, felice.
Marisio allungò il collo e si guardò attorno. Vedeva soltanto teste senz’identità che spuntavano dalla cima dei sediolini.
“Non lo so. Sai perché ci hanno chiamati?”.
“No, a dire il vero... Spero per qualcosa di bello. Sono stata a Hoenn e Kalos ma mai a Johto. Dicono che sia piena di storia, che sia bellissima e che...”.
“È vero. È così”.
“Ci hanno chiamati...” interruppe qualcuno alle loro spalle. “... perché devono parlarci di lavoro”.
Matilde e Marisio si voltarono, vedendo Chicco appoggiato tra i sediolini. La ragazza spalancò gli occhi, di quello strano color violaceo, e si avvinghiò al suo collo.
“Ci sei anche tu?! Che bello!” esclamò.
“In realtà ci siamo tutti...” fece il ragazzo, cercando di divincolarsi dalla presa, senza successo.
Marisio si alzò in piedi, fissando Chicco negli occhi. Ormai era diventato un uomo fatto e finito: aveva abbandonato quella capigliatura strana, adottandone una più consona, con i capelli rossi, sciolti, lunghi fino alle spalle. La carnagione era rimasta sempre la stessa, olivastra, e permetteva ai suoi occhi, di quel color cremisi così acceso, di risaltare.
“Porti il pizzetto, ora?” sorrise Marisio, quasi prendendolo in giro. Gli strinse la mano e, sporgendosi, fu in grado di vedere, accanto a lui, Demetra e Risetta.
“Che bello! Ci siamo davvero tutti!” esclamò Matilde, appurando come le due donne non fossero cambiate di una virgola.
Demetra riposava, con la testa piegata verso destra, e la lunga e classica treccia smeraldina poggiata sul seno.
“Cerchiamo di non urlare” ribatté Marisio.
“Oh, per quel che mi riguarda dovreste starvene totalmente zitti” rispose asettica Risetta, scatenando il sorriso nel suo vicino di sedile.
“Certo. La mia donna è rimasta sempre la persona più espansiva del mondo”.
“State assieme, ora?! Non ci posso credere!” esclamò nuovamente Matilde, stringendo i pugni.
“Sì. Non è da molto”.
Marisio guardò Risetta e le fece un cenno col capo. Lei lo guardò come sempre, con lo sguardo di chi non era interessato a nulla. Ciò scatenò il sorriso in Chicco.
“Non cambierà mai... non prendertela, amico”.
“Figurati”.
“Ti sei tirato a lucido, vedo!” sorrise, dando una pacca sulla spalla dell’uomo.
“Visto quanto sta bene?!” esclamò invece Matilde.
“Volevo essere presentabile. Ma... quindi non si sa di preciso di cosa stiamo andando a parlare?”.
“No” rispose l’altro. “So che si tratta di lavoro, e so che è stato Lance a chiedere di noi perché mio fratello Vulcano ha parlato con Camilla, che a sua volta ha parlato con lui” concluse, grattandosi il mento.
“Stai seduto, che tra un po’ si parte. Avrete tempo di fare i piccioncini quando saremo coi piedi per terra... Odio gli aerei” replicò Risetta, costringendo tutti a sedersi ai propri posti. Marisio notò come non fosse cambiata di una virgola: stessa capigliatura a maschietto, corvina, stessi occhi truccati pesantemente e stesso vaffanculo stampato sul viso.
Obbedì anche lui alla Stat Trainer e si mise a sedere.
Sarebbero partiti mezz’ora dopo, ma al momento del decollo tutti ormai dormivano.

 
Kanto, Altopiano Blu, Sala Riunioni della Lega Pokémon Unificata di Kanto e Johto

Lance era l’ultimo a dover accedere nella grande stanza adiacente alla Sala D’Onore. Non aveva finestre, non c’era possibilità di guardare verso l’esterno.
In ogni caso avrebbero visto da vicino una delle pareti inferiori del Monte Argento, nel quale era stata scavata quella stanza.
Caldi luci gialle addolcivano l’ambiente, mentre l’atmosfera era chiaramente tesa.
C’erano quattro sedie vuote accanto a Jasmine, e Angelo, Valerio e Sandra parevano pensierosi. Lorelei sedeva proprio subito dopo la cugina di Lance, prima che la grossa tavolata fosse interrotta dalla sedia vacante del Campione. Dall’altra parte vi erano in Superquattro, con Karen che apriva la fila e Bruno che la chiudeva. Koga e Pino erano seduti tra i due, il primo serio e il secondo con un leggero sorriso sul volto. Infine vi erano i cinque Stat Trainer, atterrati a Fiordoropoli un paio d’ore prima. Avevano atteso qualche minuto prima che un elicottero della Lega li prelevasse e li portasse sull’Altopiano Blu.
C’erano ansia e tensione, dal lato più vuoto del tavolo. Era la prima volta che Chicco vedeva da vicino Jasmine, che era peraltro la fidanzata di Corrado. Sapeva che fosse a Johto da qualche tempo.
Tuttavia il volto della donna non pareva essere dei più felici. Ricordava di aver visto, tramite suo fratello Vulcano, la fotografia di quella donna e aveva pensato che fosse molto bella; invece, quello che aveva davanti, era il dipinto di una donna rasa al suolo. Indossava una maschera di disperazione che non le si addiceva e anche Valerio aveva la stessa espressione sul volto; al contrario, Angelo sembrava essere più tranquillo, nonostante non riuscisse a smettere di giocare con la fede che portava al dito. Infine guardò Sandra, che non smetteva di sospirare e di guardare verso il basso.
Sentiva la tensione.
Pochi secondi dopo il Campione fece il proprio ingresso nella stanza, indossando il solito giubbino di pelle rossa. Lo smontò, rimanendo soltanto con un’aderentissima maglietta nera.
“Benissimo, ci siete tutti. Innanzitutto comincio con un breve riepilogo” fece, sedendosi. Stropicciò gli occhi, mentre parlava, quasi a volersi nascondere dagli sguardi che aveva davanti.
“Le rovine d’Alfa sono state attaccate da un gruppo di mercenari, l’altra notte. Volevano rubare i mosaici e, tranne che per quello nella Sala 1, ci sono riusciti... Erano capeggiati da...” e allungò poi la mano destra verso Jasmine. “... da una donna che le assomiglia in tutto e per tutto”.
Matilde strinse gli occhi e appuntì lo sguardo.
“Una sosia?”.
“No. È più complicato di così. In ogni caso...” sospirò, stropicciandosi l’occhio destro. “... durante l’intervento dei Capipalestra hanno perso la vita Chiara, Furio, Raffaello e Corrado, che era in congedo autorizzato dalla Lega di Sinnoh a Olivinopoli...”.
Ancora una volta, l’attenzione generale della gente si spostò su Jasmine, che abbassò lo sguardo e sospirò. Era nota a tutti la relazione che la donna aveva intrapreso col Capopalestra di Arenipoli, e la notizia della sua morte non era certamente passata inosservata. Una lacrima prese a scenderle silenziosa sulla guancia, mentre Valerio, accanto a lei, cercava di rincuorarla stringendole una mano. Chicco li scrutava con occhi pesanti.
“Credo sia meglio che tu esca a prendere un po’ d’aria...” le fece Lance.
“H-hai ragione... È inutile che io stia qui...”.
Cercò di reggere l’impalcatura d’autocontrollo che si era costruita, fino a quando l’ansia non la costrinse ad alzarsi in piedi. Il bordo del lungo maglioncino bianco le cadde sulle ginocchia.
“Andrò via da qui”.
“Aspetta” la fermò Lance. “Voglio sapere se continuerai a mantenere le tue responsabilità come Capopalestra di Olivinopoli e guardiana del faro”.
La donna abbassò lo sguardo, sconfitta da quelle ore di terrore, senza sonno né speranza. Si voltò, tornando al tavolo e poggiando le mani sul piano freddo e ricoperto di scartoffie.
“Io non voglio...” sospirò, con le lacrime che scendevano copiose sulle guance. Il pianto sporcava le sue parole ma lei cercava di non lasciarsi andare, di rimanere ferma e chiudere quella porta con tutta la forza che aveva in corpo. “Non voglio. D-delle persone sono morte, ed erano tutti miei amici... persone che amavo. Io n-non riesco più a sentirmi sicura... a sentirmi forte. E a Olivinopoli non riesco più a tornare... in quei posti dove... Corrado” sbuffò poi, sorridendo amaramente. “Lui non era neppure un Capopalestra di Johto e... ed è morto”.
Le lacrime colavano dal mento, cadendo accanto alle sue dita sottili.
“Non è semplice, lo so” le fece poi Lance.
“Non lo sai! Tu non sai niente!” ribatté con rabbia Jasmine. Una rabbia del tutto fuori dai suoi parametri, che costrinsero il Campione a sospirare. Si limitò a umettarsi le labbra e a guardare Sandra, che rimase con le braccia conserte sotto al seno, nel silenzio più che totale.
“Io spero... spero davvero che voi...” fece poi la donna, alzando gli occhi verso Marisio. “... Io spero...” poi tossì, e pulì con la manica del maglione il volto. “Io spero che voi riusciate a fare bene. Spero che chi verrà assegnato alla città di Olivinopoli ami la mia gente... le mie persone. Che guidi il faro con cura, che sia...” fece, fermandosi e sospirando. “Che... che sia una guida... una gu-guida per tutti gli... gli... Allenatori e....” poi si fermò. Tutti la guardavano in silenzio, attendendo le sue parole, mentre le lacrime non finivano la loro corsa. Le unghie cercarono invano di graffiare il tavolo in metallo, e le dita si ritirarono, fino a quando i pugni si strinsero, come gli occhi.
Tutti avevano davanti una donna finita.
“I-io... Non ce la faccio, scusate...” disse, muovendosi rapidamente verso l’esterno e sbattendo la porta. Il rimbombo anticipò le urla disperate che si propagavano nel corridoio alle loro spalle, e tutto ciò contribuì a riempire di disagio e angoscia i presenti.
Valerio guardava Lance fisso, prima di sospirare.
“Ma come fate a non capire?”.
Lance sospirò, guardando Pino e incrociando le mani sul tavolo.
“Capire cosa, di preciso?”.
“Dove eravate?” rispose di contro il Capopalestra di Violapoli ai Superquattro. Passò poi lo sguardo sul Domadraghi. “Tu... tu dov’eri?”.
“Altre situazioni ci hanno tenuti impegnati, Valerio”.
 “Ma per quale motivo eravamo lì prima di voi?! Noi siamo autorità locali! Quella delle Rovine d’Alfa è una zona d’interesse storico che vede coinvolti interessi enormi! Johto, senza quei mosaici, è più povera! Dovevate essere lì!”.
“Vi avremmo raggiunti a breve” ribatté Lance. “E a questo punto mi pare di capire che anche tu non voglia più mantenere la tua posizione a Violapoli”.
L’uomo si alzò in piedi. Chiuse gli occhi lentamente e li stropicciò con le dita.
“Ho sempre adempiuto ai miei doveri con tutta la responsabilità e la professionalità del caso. Prima di essere un uomo, prima di essere un agente di polizia, prima di essere un Capopalestra, io ero un cittadino di Violapoli... Ne ho preservato le tradizioni, ne ho curato le ferite, e ho addestrato i piccoli Allenatori che poi vi raggiungevano qui, all’Altopiano Blu... Io non ho mai chiesto nulla, a voi, da quando sono in carica. Le ricompense essenziali derivavano dal vedere la mia gente tranquilla e sicura di scendere per strada, e vivere la propria vita con gioia e speranza...”.
Marisio lo guardò con interesse. Riconobbe le ferite che gli laceravano l’animo.
“Ma poi vedo ciò che è successo, ci penso, ci ripenso...  Io ho dato tutto me stesso, per costruire quel castello di sicurezza e condivisione, che è Violapoli. Ma ora la gente è morta, perché il mio lavoro non è bastato. Ora affondo i piedi nelle rovine di questo mondo, così differente da quello che ricordavo, e non lo riconosco più... i miei Pokémon sono... beh, sono morti” disse tra i denti, senza riuscire più a trattenere le lacrime. “E senza Pokémon non esiste Capopalestra...”.
Lance annuì, ma pareva tranquillo.
“Sicuramente c’era un legame affettivo tra te e i tuoi Pokémon, ma è il minore dei mali. Puoi tranquillamente ricostruire un team, col tempo”.
“Sì, potrei. Ma quello che tu chiami il minore dei mali...” fece l’altro, scimmiottando la voce del Campione. “... si scontra col maggiore dei miei problemi. Che sei tu”.
Lance sbatté le palpebre lentamente.
“Era palese che avessi un problema con me, Valerio”.
“Io, le urla di Jasmine, le sento ancora, anche se lei ora è lontana. E non dimenticare mai, mio caro Campione supremo, che la colpa di esse è unicamente tua”.
Si alzò.
“E voi Superquattro, non siete altro che burattini inutili nelle mani di un uomo con deliri di onnipotenza. Io vado via” concluse, sparendo poco dopo e riempiendo d’ulteriore silenzio quella camera maledetta.
Tutti guardavano Lance.
“Angelo...” disse poi quello, come se nulla fosse successo. “Tu lasci?”.
L’uomo dai capelli biondi fece cenno di no.
“Se me lo consentirete, sarò ancora il Capopalestra di Amarantopoli”.
“Assolutamente” annuì l’altro. “E tu, Sandra?”.
La donna rimase in silenzio, a fissare il vuoto coi grandi occhi azzurri spalancati. Sembrava incatenata ai suoi pensieri, ed era restia a tornare alla realtà.
“Rimarrò a Ebanopoli” fece, compiacendo suo cugino.
“Bene. Perfetto.  Questo significa che abbiamo le città di Violapoli, Azalina, Fiordoropoli, Olivinopoli, Fiorlisopoli e Mogania senza la giurisdizione di un ufficiale della Lega” disse. “Angelo e Sandra manterranno i propri posti. Ora c’è bisogno di riempire le altre Palestre”.
Si voltò verso destra, dove Lorelei era rimasta in religioso silenzio per tutto il tempo. Demetra era rimasta affascinata dall’eleganza del suo viso, ornata dai piccoli occhi celesti nascosti dalle doppie lenti degli occhiali e la postura dritta del busto. Teneva le braccia congiunte sotto l’ampio seno, e la testa alta.
Guardò Lance non appena quello terminò di parlare.
“Lorelei...”.
“È per questo che mi hai chiamata?”.
“Sì. Mogania è perfetta per te, sei nel tuo elemento. Hai l’autorizzazione a fare tutti gl’interventi di ammodernamento necessari nell’edificio che prima apparteneva ad Alfredo. Accetti di prendere in carico il titolo di Capopalestra di Mogania?”.
Tutti gli occhi erano puntati su di lei.
“Mi cogli alla sprovvista, Lance...” sospirò l’altra.
“Ho bisogno che tu mi pari il culo. Avrai tutto il supporto che ti servirà, e parleremo più tardi d’ogni cosa...”.
“Va bene” concluse quella pochi secondi dopo. “Accetto”.
 “Ora tocca a te, Demetra. Sei mai stata a Johto?” domandò Lance, ma Risetta lo interruppe subito.
“Aspetta. Ci stai offrendo un lavoro fisso?”.
“Quello che sto facendo, in pratica, è trovare dei nuovi Capipalestra, forti e affidabili” rispose il fulvo. “Camilla ha detto che questo è il vostro perfetto identikit”.
“Johto è un po’ lontana da casa mia...”.
“Questo è lavoro, non una vacanza in un resort. Come ogni lavoro prevede uno stipendio, degli indennizzi e dei giorni di ferie che puoi usare per tornare a casa tua”.
Gli occhi dei due crearono scintille.
“Insomma, Demetra...” si voltò nuovamente verso di lei. “Avevo pensato ad Azalina per te. Che ne pensi?”.
La donna dalla lunga treccia verde inarcò le sopracciglia. “Beh... io...”.
“Anche tu avrai l’opportunità di personalizzare come meglio credi la tua Palestra. E poi Azalina si trova al centro di un’area meravigliosa, il Bosco di Lecci. Atmosfere spettacolari e tradizione. Saresti una boccata d’aria fresca”.
Arrossì, Demetra, abbassando il volto.
“Guarderai l’edificio e mi darai una risposta definitiva. Per quanto riguarda Matilde avevo pensato a...”.
“Sì?!” interruppe subito lei. “A cosa avevi pensato?!”.
“Alla più grande città di Johto: Fiordoropoli”.
“Wow! Sì!” esclamò quella, con gli occhi sognanti.
“Saresti effettivamente a tuo agio, in una grande città. Tantissime attrazioni e altrettanti giovani. La Palestra diverrebbe una grande attrattiva con te”.
“Ci sto!” sorrise, stringendo entusiasta gli occhi violacei.
“Per te, Chicco, avevo pensato la selvaggia Fiorlisopoli. Anche per te valgono le stesse condizioni. Potresti andare velocemente da Risetta, so che state assieme. Infatti per lei volevo proporre Olivinopoli, bella città di mare, con quel tocco di malinconia... Naturalmente potrai...”.
“Con me evita le moine...” ribatté la moretta.
“Che ne dite?”.
“Se per Chicco va bene...” sospirò quella, ruotando gli occhi verso l’alto, annoiata. L’uomo sorrise debolmente, quasi arrossendo.
“Sai, Lance... è una grande opportunità!” sorrise quello. “Sarebbe davvero importante per me riuscire in questa cosa, ma dovrò valutarla per bene”.
“Ne hai tutte le capacità” ribatté Lance. “Ma comprendo la tua iniziale confusione...”.
Il silenzio si appropriò per qualche secondo di quella stanza. Poi Lance riprese parola.
“Rimani solo tu, Marisio...” sorrise il Campione, gioviale. “Per te avrei pensato a...”.
“Violapoli” interruppe lui.
“Già...” disse Lance, gustandosi quella pausa per un attimo. “Violapoli. Valerio ha già fatto una presentazione più che degna della città”.
“Devo pensarci. Non credevo che volessi mettermi a capo di una Palestra, ma che ti servisse aiuto per qualche operazione”.
Lance unì le mani sul tavolo, proprio davanti a lui. La tensione era così densa da poterla vedere avvolgere tutti.
“Sarebbe una svolta, per la Lega di Johto. Sei un grande Allenatore, tutti assieme, voi otto, alzereste di molto il livello delle Palestre di questa regione”.
Si alzò dalla sedia, Lance. “Sarebbe un bene anche per chi vive qui. Aumentando la difficoltà creeremmo una sorta di sfida agli Allenatori più forti, che giungeranno da tutta la nazione per sconfiggervi. Rendetevi conto, turismo e richiesta per tutta Johto”.
Si abbassò sul tavolo, piantandovi i palmi sulla superficie fredda. S’avvicinò al suo volto, e Marisio poté chiaramente vedere la determinazione nei suoi occhi ambrati. “Ho bisogno di te, Marisio”.
E la cosa lo attirava davvero parecchio.
Perché sarebbe diventato finalmente il re di qualcosa, avrebbe potuto sfruttare delle strutture di allenamento all’altezza e migliorare ulteriormente le sue capacità.
Però Gardenia aveva il suo stesso ruolo, a diverse ore di aereo, e aveva le stesse  responsabilità che avrebbe acquisito; quella scelta avrebbe ucciso la loro relazione, fatta di abitudine e passione, nemici paradossali che avevano trovato un equilibrio.
“Come ho già detto, ci devo pensare”.

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Capitolo 22
*** Capitolo 21 - Volume ***


21. Volume

 
Johto, Azalina

Azalina era come sempre tagliata da una brezza fredda, che lasciava ondeggiare le fronde degli alberi.
Prima verso destra, poi verso sinistra.
Del resto il mare non era lontano, e la presenza del grosso massiccio nel quale si snodava la Grotta di Mezzo creava un corridoio che il vento poteva percorrere con tranquillità.
E in estate era parecchio piacevole lasciarsi accarezzare dalla brezza fresca.
Tuttavia era inverno, e ad Azalina aveva da poco smesso di nevicare. I passi di Demetra, al contrario di quelli di Koga, impercettibili, crepitavano nella neve fredda e spettinata. Nonostante quello la donna non sembrava essere in difficoltà.
“Mi ricorda tanto Sinnoh. Mi sembra un buon benvenuto, questo” sorrise la bella, con le mani stese lungo i fianchi.
Koga non parlava, si limitava semplicemente a camminare in avanti. Avevano appena superato il Centro Pokémon, dal quale fuoriuscivano luci e dolci musiche di pianoforte.
“Dovrò andare a presentarmi con gl’infermieri della città” ragionò ad alta voce la donna. Il viale centrale di Azalina si prestava perfettamente a passeggiate tranquille e riflessive, dato che la vasta presenza della natura aveva reso quella umana davvero fuoriluogo.
Sulla sinistra, poco prima del grande Bosco di Lecci che avvolgeva tutto ciò che la montagna non toccava, vi era un poco ampio complesso residenziale, fatto di piccole villette a schiera dai tetti a spiovente. Ognuna aveva il proprio giardino, recintato da steccati di legno perfettamente dritti e in cui ogni listarella era della stessa medesima dimensione di quella che aveva accanto.
Ordine, ad Azalina. Demetra aveva notato questo, e di tanto in tanto qualche Slowpoke che sonnecchiava sulla neve.
“Ce ne sono molti...” sorrise.
“...”.
“Che problemi ci sono, Koga? Perché non parli?” domandò ancora lei, gioviale, con quel tono di voce che avrebbe calmato chiunque. L’uomo si voltò per un attimo, rapidamente, scontrando quella velocità calcolata, quella fretta metodica con la calma floreale della donna dai lunghi capelli verdi. I suoi occhi smeraldini gli sorrisero.
“Muoviamoci” tuonò lui, quasi ringhiando.
Poggiò ancora i suoi passi sul viale, dandole le spalle e lasciandola nei suoi dubbi.
“Questa è casa di Franz. Devi passarci, è il più anziano del paese” fece il Superquattro, indicando con la mano una vecchia abitazione di mattoni, dal lato opposto delle piccole villette a schiera.
“Lo conosco, Koga” sorrise ancora quella. “Franz è famoso ovunque per essere l’ultimo degli artigiani a creare sfere tramite le ghicocche”.
“Mhm...”  sospirò quello. Imboccò un piccolo vialetto, tra le azalee bruciate dal freddo, ma Demetra era ferma ad ammirare il grande arco in legno cinto dai lecci, poco prima dell’ingresso al sentiero boschivo che portava a Fiordoropoli.
Le piaceva il modo in cui era stato intarsiato, e adorava come la natura se ne stesse riappropriando lentamente, con piante rampicanti destinate a fiorire in primavera.
Koga era fermo, qualche passo più indietro, e aspettava che la donna si sbrigasse. Un soffio di vento fece in modo che il suo foulard si librasse nel vento.
Schioccò le dita, richiamando lo sguardo della donna.
“Entriamo” tuonò infine.
Demetra annuì e lo seguì lungo tutto il viale. La Palestra di Azalina era proprio davanti a lei, con ampie mura sorrette da bastioni e il tetto composto interamente da lucernari.
Era una grande serra, quella.
“Ci sarà un bel calduccio, in quell’edificio” sorrise la donna dai lunghi capelli verdi.
“Il sistema di vetrate che compone il lucernario è dotato di una speciale funzione d’ombreggiamento, per evitare l’inquinamento luminoso durante le ore notturne e per combattere, appunto, la calura estiva”.
“Sembra una serra ma non lo è”.
“È la Palestra di Azalina” continuò quello. Demetra scrutò meglio il suo volto, con quegli occhi minuscoli e scuri e, più giù, il grosso naso con quella gobba prominente. Passò poi in rassegna le labbra, sottili, fino a quando Koga non si voltò, infastidito dal suo sguardo inquisitore. Avanzò di qualche metro e spalancò le porte dell’edificio alla nuova Capopalestra, che rimase letteralmente a bocca aperta, mentre muoveva i primi passi in un quello che pareva essere una sorta di boschetto con le mura attorno, dove la natura cresceva rigogliosa e il profumo d’erba umida sovrastava quello della città alle sue spalle. Koga chiuse le porte, fermo poi ad ammirare curiosamente il modo in cui la donna si metteva a proprio agio: la vide smontare le ballerine e lasciarle davanti a lui, quindi affondare i piedi nudi nel prato che aveva davanti.
“È meraviglioso”.
“Ogni notte vi è la manutenzione dei giardini. Il prato viene regolato ogni trentasei ore”.
Demetra annuì, avvicinandosi a un cespuglio di azalee; inalò il profumo dei fiori rosa e si voltò nuovamente verso l’uomo.
“Questo posto è davvero meraviglioso”.
“Raffaello soleva stare sotto quella grande quercia” disse, abbassando poi il capo.
Lei si avvicinò al tronco, lentamente, e ne carezzò le venature rugose. Sapeva che il vecchio Capopalestra avesse cominciato con quella mansione quando era poco più che un bambino ed era morto senza aver conosciuto l’amore di una donna. Quel posto era la sua reliquia, l’unica donna che avesse mai amato, l’unico uomo che lo avesse mai difeso.
“Lui è ancora qui. La sua anima vivrà per sempre in questa grande quercia” disse, lisciando i capelli che poggiavano sul seno. “E io difenderò questa città, in suo onore”.
Smontò il giacchetto verde, rimanendo con un’aderentissima canottiera nera. Si sedette, sorridente, incrociando le gambe e facendo attenzione che la lunga gonna non salisse.
“Accetti quindi? Diventerai la nuova Capopalestra di Azalina?” domandò Koga, con la stessa maschera di granitica inespressività autoimposta.
La pelle diafana della donna riluceva sotto i neon e i faretti che illuminavano la struttura. I suoi occhi erano spalancati, i suoi polmoni si riempivano d’aria pulita e gettavano fuori quel pizzico d’ansia che naturalmente covava in petto.
“Onorerò il ricordo di Raffaello” fece, tornando a guardare la grande quercia. Si alzò in piedi e si voltò, tendendo la mano al Superquattro, ma quando sollevò lo sguardo lui non c’era più.

 
Adamanta, Primaluce, Casa Recket

“Questo tempo non mi piace...” brontolò Allegra, con le braccia incrociate e il muso pronunciato, a mo’ di broncio.
Pioveva.
Allegra odiava la pioggia.
“Cos’è quella faccia arrabbiata, principessina?” domandò Zack, sul divano. Le gambe erano stese sul tavolino e la televisione trasmetteva il telegiornale. Parlavano delle Rovine D’Alfa, Lance stava dando la notizia della dipartita di vari Capipalestra, dietro a quattro grandi microfoni.
“Mi scoccio!” esclamò lei, vedendo poi suo padre spalancare gli occhi alla notizia e poggiare i talloni per terra. Cercò il telecomando e alzò il volume.
“Un attimo, piccola”.
“... Non è stato per nulla facile prendere atto della morte di Raffaello, Chiara e Furio e...” diceva il Campione, intervistato da TeleHoenn.
“È morto Furio?” chiese Zack, più a se stesso che ad Allegra, unica interlocutrice. Grattò la barba sul mento e mise la mani tra i capelli, ormai troppo lunghi per i suoi gusti.
“Papà!” lo chiamò autoritaria Allegra, puntando i grossi occhi azzurri sull’uomo che intanto continuava a dare attenzione alla televisione.
“... Il provvidenziale intervento dei Dexholder di Kanto, in particolar modo di Red, ex Campione della Lega Unificata di Kanto e Johto, ha permesso a Jasmine, Valerio, Sandra e Angelo di non perire, tuttavia i primi due hanno deciso di lasciare la sedia di Capopalestra nelle rispettive città. Stiamo già lavorando per sostituirli”.
“Green era lì...” fece, alzandosi in piedi e cercando il cellulare. Ricordava di averlo lasciato sul camino ma quando andò a vedere non lo trovò. Si voltò poi rapidamente, sospirando e controllando sul divano.
“Hai visto il mio cellulare?” domandò alla piccola.
“È scarico, ho giocato a Candy Crush Soda Saga e si è spento” rispose Allegra, quasi meccanicamente.
“Non so come tu faccia a pronunciare il nome di quel gioco così bene senza conoscere tutto l’alfabeto”.
“Arrivo alla effe!” protestò lei.
“Devo usare quello della mamma, allora” disse, saltando agilmente il divano e cominciando a salire le scale.
“Ma io mi scoccio!”.
“Gioca con Arcanine e non fare danni” rispose lui, salendo gli scalini rapidamente. Poi però rallentò davanti alla porta dello studio.
Rachel soleva passare molto tempo in quella camera, in quel periodo.
Bussò delicatamente, mentre il cuore pompava sangue nelle arterie. Pensava a Green, a quanto potesse star male, e al fatto che lui fosse davvero troppo lontano da lui.
“Avanti” sentì poi. Aprì la porta e vide sua moglie di spalle, coi capelli corvini legati alti sulla testa. Lui entrò e le si avvicinò. Attorno aveva quattro tavole raffiguranti la visuale che aveva dalla finestra stanza.
Le baciò il collo.
“Zack...” sorrise poi quella, voltandosi verso di lui.
“Come sapevi che fossi io?” disse, ignorando il forte odore di vernice.
“Allegra avrebbe sfondato la porta a calci, amore. Che succede?”.
“Problemi a Johto. Devo chiamare Green Oak e mi serve il cellulare”.
La donna dai grandi occhi azzurri si voltò e lo fissò, preoccupata. “Che problemi? Devi andare lì?”.
“No...” fece, grattandosi la tempia e fissandola in volto, sporco di vernice arancione sulle guance e sulla fronte. “Non penso... È che è morto il suo maestro. Immagino che ora sia un tantino scosso...”.
“È sulla scrivania”.
“Grazie mille”.
“Allegra che fa?” domandò poi, voltandosi nuovamente e carezzando la tavolozza col pennello.
“Gioca coi Pokémon”.
Rachel si voltò nuovamente, rapida. “Mica è con Luxray?!” chiese, malcelando l’ansia nella sua voce.
“No” fece, portando il cellulare all’orecchio. “Arcanine”.
“Sai che non mi piace che resti con Luxray”.
“È Arcanine. Pronto? Green... Ho saputo dal telegiornale di Furio... Mi spiace molto. Se c’è qualcosa che possa fare... Sì, Adamanta è tranquilla, Ryan e i suoi non hanno molto da fare se non lottare contro gli sfidanti... Sì...” sorrise poi “La piccola è indistruttibile” fece, suscitando ilarità anche in Rachel. “Oh certo... Scusami se ti ho disturbato per così poco ma volevo sapere se fosse tutto a posto... A presto”.

Johto, Fiorlisopoli

A Chicco era toccata la poco stimolante presenza di Bruno.
Del resto il Superquattro era molto pratico della città di Fiorlisopoli, andandovi in parecchie occasioni per i suoi allenamenti.
“Quindi è un ottimo luogo per il training all’aria aperta?” chiese conferma Chicco, spostando i lunghi capelli dietro le orecchie. Guardò il volto di Bruno, con quegli occhi totalmente neri a fissare davanti a sé il paesaggio. Attese, ma non ricevette risposta. Scesero dal traghetto pochi secondi dopo e Chicco si ritrovò a fissare col sorriso l’antico splendore di quell’insediamento.
Bruno sospirò e annuì, mentre la fiumana cominciava a dirigersi verso l’uscita dell’imbarcazione, al piano inferiore.
“Fiorlisopoli è un’isola, Chicco. E in quanto tale le persone che la abitano sono schive rispetto agli stranieri. I primi insediamenti si sono manifestati un paio di secoli fa, quando questa enorme montagna al centro del mare fu utilizzata come base per gli spostamenti verso le Isole Spumarine”.
“Che sono praticamente di fronte”.
“È un luogo che ha conservato la sua aura, leggendaria e mistica, in cui l’uomo ha avuto prevalenza soltanto in minima parte sulla natura. La zona portuale è l’unica praticamente abitata. Potrai trovare piccole abitazione sulla montagna, baite di vecchi eremiti, talune disabitate. La Grotta Falesia porta verso ovest, dove si trova la Zona Safari”.
“Ce l’abbiamo anche a Sinnoh, una cosa del genere: la Grande Palude”.
“Qui non ci sono paludi, questa è Johto e nevica solo d’inverno” rispose, duro.
Chicco inarcò un sopracciglio e sospirò. “Sì, ma stai calmo”.
“Il turismo e il viavai di Allenatori è aumentato” disse, ignorando totalmente l’affermazione dell’uomo e mettendosi in fila per uscire. Un minuto dopo erano fuori, sulla banchina. Chicco si guardava attorno col volto meravigliato; adorava il fatto che i boschi e le pareti rocciose parevano spingere le case e l’uomo lontani, mantenendoli a distanza, proteggendo la verginità di quelle montagne e gli alberi che vi erano radicati.
“La scogliera è meravigliosa”.
“Questo posto è un gioiello della natura. L’uomo qui ha pochissimo da dire e da fare. Non consentire mai a nessuno di deturpare questo luogo e sii tu il primo a dare buon esempio”.
“Sì... assolutamente”.
“La Palestra è quella” ribatté l’altro, puntando il dito verso l’edificio costruito sotto una grande cascata. Bruno anticipò il più minuto forestiero, che lo seguì silenzioso. Il Superquattro si fermò, costringendo l’altro ad affiancarlo. La Palestra era davanti a lui, quasi incastonata all’interno della parete della montagna, dove la cascata crollava verso il basso, accedendo all’interno dell’edificio.
“La cascata entra... dentro?” domandò Chicco, dubbioso.
“Questa struttura è un gioiello dell’architettura. Accedivi, prego”.
 Il nuovo Capopalestra annuì e spalancò la porta in vetro satinato, che dava all’interno di una non troppo vasta sala d’aspetto. Le luci erano tenute al minimo e di fronte la cascata, come intuito precedentemente, accedeva all’edificio direttamente dal tetto. Era tuttavia contenuta da un pilastro di vetro, che ne consentiva la visione estetica e la contemporanea sicurezza.
“Incredibile” sorrise.
“Buongiorno” sentì poi, voltandosi verso sinistra. Una donna dai lunghi capelli biondi e gli occhi azzurri si alzò all’in piedi, gioviale. Chicco non gli avrebbe dato più di trentasette o trentotto anni.
Si grattò la barba sulle guance e inchinò leggermente il capo.
“Buongiorno, Ottavia. Lui è Chicco e viene da Sinnoh. Lei...” continuò poi Bruno, rivolgendosi al nuovo arrivato. “Lei è Ottavia, la tua segretaria e assistente. Prenderà le tue telefonate e segnerà i tuoi appuntamenti in Palestra. Aprici il passaggio, per cortesia”.
La donna annuì, senza accorgersi dello sguardo insistente dell’ultimo arrivato, che le scrutava le lunghe gambe. Pochi secondi dopo una cancellata nella roccia si aprì, e si presentò davanti a loro il principio d’una lunga scala a chiocciola, totalmente buia. Bruno vi si tuffò, Chicco lo seguì lentamente, col sorriso sulle labbra. Ascoltava i loro passi risuonare sulla lamiera bugnata dei gradini. Scendeva, quella spirale, proprio accanto alla cascata, per una decina di metri, fino a quando raggiunsero una debole luce. Il forestiero poggiò i piedi sul pavimento di marmo, e avanzò alle spalle di Bruno. Più avanti, poteva scorgere le figure degli Allenatori che stazionavano lì mentre si facevano da parte alla vista del Superquattro.
“Loro lavorano per te. Tu sei l’avversario finale, se gli sfidanti non battono questi Allenatori non saranno minimamente degni di sfidare te”.
“Comprensibile” ribatté Chicco.
E continuarono ancora a camminare, costeggiando la cascata e incontrando numerosi Allenatori pronti a fronteggiare gli sfidanti, fino a quando una curva non li condusse al termine della passerella. Fu Bruno ad avanzare, come sempre, avvicinandosi alla zona dove l’acqua terminava la propria caduta, scrosciando rumorosamente.
“Qui è dove starai tu. Qui è dove stava Furio. Aspettava la gente temprando il fisico sotto il pesante getto della cascata; così…” disse, assumendo la posizione del loto proprio in corrispondenza della forte colonna d’acqua, davanti gli occhi estasiati di Chicco. I suoi occhi erano totalmente riempiti dalla figura di quella meraviglia della natura e dalla monumentalità della montagna che aveva scavato.
“Questo posto è meraviglioso”.
“Temprerai quindi corpo e anima qui, a Fiorlisopoli?”.
L’altro annuì. Levò quindi la maglietta, e si sedette accanto a lui, sotto il peso della cascata.

 
Johto, Amarantopoli, Rainbow Hotel

Yellow non aveva dormito molto, quella notte.
Red le aveva chiesto più e più volte cosa le stesse accadendo e lei lo aveva liquidato imputando il tutto allo stress eccessivo. Il più delle volte si limitava ad annuire, a baciarle la fronte e a tornare a fare quello che faceva, ma non appena la sveglia suonò, e i suoi occhi si poggiarono su quelli della sua donna, già aperti, percepì l’effettivo disagio che quella provasse.
Sospirò, poi la vide sospirare.
“Buongiorno...” fece lei. Sorrise con un lembo della bocca, molto rapidamente, per poi tornare a indossare quella maschera di preoccupazione che stentava ad abbandonarle il volto.
Red si limitò a baciarle le labbra e a poggiare la fronte contro la sua.
“Amore... Andrà tutto bene. I buoni vincono sempre...”.
“Lo so...”.
“Che vuoi fare, stamattina?”.
Lei distolse lo sguardo; avrebbe voluto rispondergli che sarebbe andata a Ebanopoli a parlare con sua cugina, per quello che era la scoperta che con ogni probabilità aveva mandato a puttane tutta la sua debole concezione dell’esistenza.
No, non avrebbe detto mandato a puttane.
E non gli avrebbe parlato neppure di quel pensiero insano, instillatole dall’illusione di cui era stata vittima; c’erano troppi interrogativi che vagavano galeotti nella mente del suo uomo, in quel momento, e non sarebbe stato particolarmente saggio dargli ragione di tentennare.
“Vorrei andare a Ebanopoli. Sandra doveva dirmi alcune cose...” faceva, passando da stesa a seduta. Prese il pettine e cominciò a passarlo nella lunga chioma bionda. Red le prese la spazzola dalle mani e la sostituì.
“Siete diventate amiche? Non pensavo foste... compatibili” sorrise.
“Lo siamo...” rispose, ma sapeva di mentire, data la matrice troppo aggressiva della Domadraghi; era un vento troppo forte per quel girasole delicato.
“Che stana coppia...” sorrise, continuando col pettine. Yellow lo sentiva carezzarle i capelli; si rendeva conto di quanto fosse amata dal suo uomo, di come l’espiazione di quel peccato si fosse così tanto radicata in lui da esser stata messa al centro della sua vita.
“Credo passerò da lei”.
“Verrò con te”.
“In realtà...” disse la bionda, voltandosi e fissando dritto negli occhi il fidanzato. “... è lei che mi ha chiesto di andare lì. Credo voglia parlarmi di... parlarmi di...”.
Stava per dire una bugia. Un’altra.
“Si?” domandò poi l’uomo, sospirando. “Parlarti di?”.
“Parlarmi di... di fatti suoi...” concluse, allontanando subito lo sguardo dagli occhi di Red, che continuarono a fissare il retro della sua testa.
“Va bene...” sussurrò, continuando a spazzolare per qualche altro minuto.
Rimasero in silenzio, poi lui terminò.
“I capelli sono a posto, credo che vadano bene. Se non volevi che venissi bastava dirmelo”.
“No!” sorrise Yellow, colpevole. “Mi... mi farà piacere un po’ di compagnia durante il viaggio”.
Lui annuì e sospirò, alzandosi. Si avvicinò alla finestra dell’hotel, affacciandosi e avendo una meravigliosa visuale dei boschi che costeggiavano Amarantopoli. Nel cortile dell’hotel vi era Green, in piedi, col lungo soprabito nero e i guanti in pelle. Era al telefono.
“Hai visto Blue?” domandò poi.
“No...” rispose prontamente la bionda.
“Green è lì da solo”.
Yellow fece spallucce ma Red, voltato, non poté vederlo.
 

Johto, Fiordoropoli

“Questo posto mi piace un casino!” urlava entusiasta Matilde, perdendo lo sguardo tra gli altissimi palazzi del centro di Fiordoropoli. La grande città era ancora scossa dalla perdita della Capopalestra Chiara e tutti erano leggermente straniti dalla presenza di Pino, ad accompagnare la giovane verso la Palestra.
“Tutti mi guardano male...” sospirò lei, vedendo come il Superquattro fissasse dritto a oltranza, col sorriso sul volto e la maschera fissa a nascondergli lo sguardo.
“È naturale. Erano parecchio affezionati alla vecchia Capopalestra e hanno appreso la notizia della sua morte solo pochi giorni fa...”.
“Mi piacciono i tuoi capelli” disse poi la ragazza, guardando il caschetto lilla del ragazzo.
“Anche i tuoi non sono male. Il centro è questo”.
“Questo qui?” domandò la ragazza, vedendo la piazza principale della città gremita di gente.
“Esattamente. Le manifestazioni verranno organizzate qui, assieme agli eventi di maggiore interesse”.
“Aspetta” disse, poi quella.
Prese a correre verso il centro della piazza, in direzione della grande statua centrale, sulla quale la ragazza si arrampicò. Stringeva le mani attorno al braccio della vecchia statua che raffigurava il fondatore della città, e rimaneva in bilico coi piedi sul bordo del basamento, a due metri d’altezza.
Tutti la guardavano straniti, mentre quella prendeva aria nei polmoni.
Poi prese a urlare.
“GENTE DI FIORDOROPOLI!”.
Chiunque non la stesse già guardando, si voltò in sua direzione. Qualcuno invece proseguì, allontanandosi nelle varie vie che sfociavano nella Main Square.
“IO MI CHIAMO MATILDE E SARÒ LA NUOVA CAPOPALESTRA DELLA CITTÀ!”.
 Dopo quella frase la gente cominciò ad avvicinarsi. La presenza di Pino, qualche passo accanto alla statua, donò enorme credibilità a quell’energica ragazza poco più che maggiorenne.
“NON CONOSCEVO CHIARA MA S CHE VOI LE VOLEVATE TANTO BENE! BEH! CERCHERÒ DI CONQUISTARMI IL VOSTRO AFFETTO E DI DIVENTARE MIGLIORE DI LEI! FIORDOROPOLI È LA PIÙ GRANDE CITTÀ DI TUTTA JOHTO E SI MERITA LA PIÙ GRANDE CAPOPALESTRA DI TUTTA JOHTO! TRA QUALCHE GIORNO POTRETE VENIRE A SFIDARMI PER CONQUISTARE LA MEDAGLIA... LA... LA MEDAGLIA...”
Poi si voltò verso Pino.
“Come diamine si chiama la medaglia?!”.
“Piana” sorrise divertito il Superquattro.
“LA MEDAGLIA PIANA!” urlò poi, tornando a guardare la folla. “IO MI CHIAMO MATILDE, E SARÒ LA VSTRA NUOVA CAPOPALESTRA!” ripeté. La gente, dopo un iniziale silenzio, cominciò a mormorare, fissando la ragazza che si era voluta elevare su tutti.
La videro saltare giù e raggiungere rapidamente Pino, che annuì lentamente.
“Non hai paura di parlare in pubblico, eh?”.
“Chi, io? Sono nata per il pubblico, cocco”.
“Pino. Mi chiamo Pino”.
“Sì, lo so. Era per dire.”.
“Non sono sicuro che sia tanto sbagliata, la tua mossa. La gente parla di te e stai creando sensazionalismo” fece il Superquattro, con quelle movenze da gatto di cui generalmente abusava. Sembrava che ogni suo movimento lasciasse una scia vellutata alle sue spalle.
“Non ho mai pensato che fosse sbagliata! La gente di Fiordoropoli deve conoscere la nuova Capopalestra della città!” fece, con Pino che sorrideva ancora.
“Se fossi un pochino più grande... giuro che m’innamorerei di te con una facilità sorprendente” le disse.
Matilde avvampò violentemente.
“Ora che ho finalmente un po’ della tua attenzione, voglio mostrarti, alla tua sinistra, la grande Torre Radio”. La giovane dai capelli fucsia si voltò, rimirando la grossa struttura in ferro che terminava con tre grandi parabole.
“Le sue frequenze arrivano in tutta Johto”.
“A Sinnoh ci sono stazioni televisive” rispose subito.
“Sì, lo so... Giubilo TV è sul canale sette. Accanto abbiamo il casinò”.
“Non mi piace il gioco d’azzardo...” disse poi, disegnando una smorfia sul volto. Gli occhi, di quel colore così simile ai suoi capelli, si strinsero in una feritoia dove solo il suo sguardo riusciva a passare.
“Delle volte, nella vita, bisogna saper giocare. Proseguendo...” fece, allungando il passo e superando una coppia di anziani. “... abbiamo la stazione del Supertreno. Questo collega Johto a Kanto. E di fronte abbiamo la tua Palestra”.
Matilde allungò il collo, per vedere la grande costruzione che si trovava al di là della strada, dopo un ampio spiazzale accerchiato da palazzine e vicoletti. Una grossa tabella con la faccia di Chiara stava per essere smontata, secondo ordine di Lance. La nuova non aveva il volto di Matilde e la cosa non le piaceva. Col tempo avrebbe provvisto a tappezzare tutta quella città con la sua figura.
Entrarono, Pino le fece educatamente strada. Sulla sinistra vi era una donna di mezz’età, dai capelli castani, raccolti, con una spruzzata di efelidi sul naso. Gli occhi, di un rosa innaturale, si spalancarono non appena il Superquattro e la neo Capopalestra fecero il proprio ingresso nella sala.
“S-salve!” sobbalzò, alzandosi in piedi.
“Matilde, lei è Laura, la tua segretaria. È anche la madre della compianta Chiara”.
“Ouw...” sbuffò la ragazza, calando il capo. “Mi spiace molto per sua figlia, signora. Cercherò di non sfigurare”. Alzò gli occhi e guardò la Palestra, dalla grande passerella d’alluminio, vedendo un complesso labirinto fatto di ponti e archi.
“Ma lei non può lavorare qui dentro” continuò, diventando seria all’improvviso.
Pino rimase stupito.
“Co-come? Vuole licenziarmi?” domandò la donna, con un’ansia crescente che le trapanava lo stomaco.
“Mi dia del tu, lei è un’adulta e io non sono che una ragazza appena uscita dall’adolescenza con improvvisi picchi di maturità, ma molto, molto rari. Il problema è che lei, essendo la madre di Chiara, vivrà per sempre con il ricordo di sua figlia e la sua morte sarà una ricorrenza quotidiana nei suoi pensieri...”.
“Dove vuoi arrivare?” chiese il Superquattro, incrociando le braccia.
“O lei se ne va o qui buttiamo tutto per terra. E sarei orientata per la seconda scelta”.
La donna abbassò lo sguardo.
“Matilde è un tipo piuttosto particolare, Laura, lo hai capito. Io, personalmente, non mi sentirei a mio agio a stare a casa senza fare nulla. Lance non darà problemi a operare un piccolo... ammodernamento” disse Pino.
“E voglio subito un’insegna col mio volto!” esclamò.
Pino fece cenno di sì con la testa, fissandola con attenzione. Sorrise e sospirò.
“Che dolce guaio, che sarai...”.

 
Johto, Ebanopoli, Palestra di Ebanopoli

“Yellow... Che ci fai qui? Sono successe altre cose?” domandava Sandra, in piedi davanti a un grosso sacco da kick-box. La bionda osservò le cosce toniche della Capopalestra fasciate da un paio di pantaloncini arancioni. La donna s’avvicinò alla Dexholder, prendendo un asciugamano e passandoselo attorno al collo.
Yellow si guardò attorno, poi, con la gente che si allenava duramente.
“Sei a disagio?” domandò Sandra, fissandola in volto.
“Devo parlarti di una cosa”.
“Quella cosa?”.
“Sì... quella cosa di Lance”.
Sandra annuì e le fece strada attraverso la Palestra, passando nel lungo e buio corridoio, illuminato qui e lì da qualche lampadina volutamente fioca. Intersecarono un secondo corridoio, sulla destra, e lo percorsero interamente. Yellow vedeva la donna ancheggiare sinuosamente al centro del corridoio, calpestando con delicatezza il pavimento in resina azzurro, che donava colore e leggera luminosità a quel luogo buio come una caverna. Sulla sinistra poté vedere, giusto per qualche secondo, il campo di battaglia dove Sandra veniva sfidata.
Non erano in molti a riuscire a giungere a lei, in quanto ultima Capopalestra di Johto.
E chi ci riusciva aveva filo da torcere.
Alla fine del corridoio entrarono nella camera sulla destra, ovvero il suo ufficio.
Era ordinato. La scrivania era proprio al centro della parete lunga, ed era posta davanti a una grossa finestra che lasciava entrare la luce del giorno dall’esterno.
“Perdonami” disse Sandra “Lascia che mi cambi un momento...”.
Prese dei vestiti da un attaccapanni e si voltò di spalle, alzando il top e il reggiseno sportivo, lasciando la schiena nuda agli occhi della bionda, che si voltò dall’altra parte, imbarazzatissima.
Pochi secondi dopo era lì, nella sua tenuta ufficiale.
“Allora... Che dicevi?”.
Yellow deglutì qualcosa di denso e quasi doloroso, sentendo le gambe tremare. Le mani si cercavano l’un l’altra, trovandosi davanti allo stomaco in subbuglio. Si morse il labbro e poi si decise a confessare.
“C’è una probabilità che Lance possa essere il mio fratellastro”.
Sandra spalancò gli occhi, rimanendo immobile. Batté le palpebre un paio di volte ed espirò, buttando con lentezza l’aria fuori dai polmoni.
“Mi stai prendendo in giro, vero?”.
“Purtroppo no. Purtroppo c’è davvero una probabilità che suo padre sia pure il mio”.
“Ma tu non sai chi è tuo padre... Hai vissuto nel Bosco Smeraldo per una dozzina d’anni, da sola... Cioè... com’è possibile?”.
“Beh...” sorrise la bionda. “È ovvio che in quel bosco io sia stata abbandonata da qualcuno. Sono comunque il frutto del rapporto di qualcuno”.
Sandra abbassò gli occhi. L’aveva sempre etichettata come figlia del bosco ma si era appena resa conto che non fosse sbocciata dal nulla. Pensò al fatto che Yellow fosse cresciuta da sola, in balia dei pericoli, da quando era nata.
“E come mai pensi che mio zio Dorian sia tuo padre?”.
“Io... nelle Rovine D’Alfa, l’altro giorno... Sono stata vittima di un’illusione”.
Sandra spalancò gli occhi, nuovamente. “Continua...” fece.
“Ho visto mia madre e mio padre che mi lasciavano nel bosco. E mio padre era il padre di Lance...”.
La Capopalestra vide l’altra abbassare lo sguardo e sospirare. Doveva proteggere i Domadraghi, e lasciare che suo zio non ne uscisse con le mani sporche, in quanto era il capo dell’intera federazione.
“Sarà stata sicuramente l’illusione a farti credere che mio zio fosse tuo padre”.
“Ma era tutto così vivido!” ribatté. “E ho visto mia madre...” sorrise poi Yellow, con dolcezza, e Sandra non poté non abbassare lo sguardo. Si stava mettendo contro una ragazza totalmente innocente, vittima di una situazione barbara e meschina.
E lo stava facendo da vigliacca, gettandole polvere negli agli occhi.
“Com’era?” domandò poi. “Tua madre... com’era?”.
Il sorriso della bionda s’allargò e il suo volto assunse l’espressione di chi ricordava un bel sogno.
“Bellissima” rispose. “Dai capelli ramati e corti... e belle labbra! Ed è dolcissima! Si chiama Diana”.
Sandra cercò di fare mente locale per capire se conoscesse quella donna. Ma nulla. “No... questo nome non mi dice nulla”.
“Lance mi ha detto di chiederti di controllare nei registri della Palestra se questa donna vive in questa città. Dovresti conoscere tutti i nomi degli abitanti di Ebanopoli”.
“Beh, conosco tanta gente ma non proprio tutti...” sorrise quella, cercando di trovare una finestra d’ilarità nel panico crescente che provava.
“No, intendevo a livello cartaceo...” seguì il sorriso la Dexholder. “Puoi controllare se vive qualche Diana, qui?”.
“Beh... sì, posso. Ma non ora. Purtroppo gli archivi non sono accessibili in ogni orario e il responsabile oggi è in ferie”.
“Oh...” sospirò lei. “Ma tu sei la Capopalestra... insomma... potresti entrare, sono i tuoi uffici questi...”.
Sandra sospirò, pensando alla possibile reazione di Lance; e avrebbe mentito a se stessa se non avesse ammesso che il disappunto di suo cugino un po’ non le creava piacere.
Tuttavia non era più una ragazzina. Non poteva creare disordine nell’intero ordine dei Domadraghi soltanto per l’invidia che provava per Lance.
Doveva riuscire a svincolarsi.
“Beh... mi metti in difficoltà, così, Yellow...”.
“Ti supplico!” esclamò, con gli occhi spalancati, afferrando le mani e congiungendole nelle sue. “Mi daresti un aiuto eccezionale!”.
Si sentiva davvero troppo meschina. Quindi crollò.
“Vieni...” le disse, alzandosi. Tirò il body, stendendolo lungo il corpo tonico, e fece strada alla più minuta verso l’archivio della Palestra, la prima stanza del corridoio. Poi accese le luci, illuminando tre lunghe fila di archivi.
“Come hai detto che si chiama?” chiese poi la proprietaria. Vide il volto di Yellow rabbuiarsi.
“Non conosco il cognome... ma il nome è sicuramente Diana”.
Sandra portò le mani ai fianchi e inarcò le sopracciglia. “Non posso perdere tutto il tempo del mondo. Gli archivi sono organizzati per cognome”.
“Lo so... ma non c’è un elenco digitale, o qualcosa di simile?”.
Doveva mentire.
“Certo, ma è il nostro addetto che ha le password per entrare nel sistema. Senza di lui non posso fare nulla”.
La bionda giochicchiava con la punta della treccia quando annuì. “Beh... Allora ti chiedo scusa. Passerò prossimamente allora, se me lo concedi”.
“M-ma certo!” esclamò quella. L’accompagnò poi alla porta e la salutò, vedendola perdersi dietro l’angolo. Sospirò, sollevata, e tornò indietro, rapidamente.
Rientrò nell’archivio e si sedette alla postazione computer.
Cliccò un paio di tasti e digitò la password per accedere al server.
La schermata di ricerca s’aprì quasi subito e a lei bastò cercare il nome Diana per ottenere i risultati. Ce n’erano sette.
Due erano decedute quindici e ventitre anni prima, molto anziane.
Troppo anziane per aver avuto una bambina negli ultimi decenni.
Scorse un po’ col mouse, vedendo l’immagine di una donna dai capelli blu, molto giovane.
Troppo giovane per avere una figlia più grande.
Erano rimaste quattro donne, di cui due trasferitesi diversi anni prima lontane da Ebanopoli. Le bastò osservare il volto della prima delle due per rendersi conto di aver trovato chi cercava: quella donna di poco più di quarant’anni assomigliava a Yellow in maniera impressionante. Lesse il numero del cassetto nel quale la sua scheda fosse archiviata, il sessantasette, quindi eliminò il file e recuperò il cartaceo di riferimento, prendendolo e portandolo con sé.
Nessuno avrebbe mai dovuto vedere il volto di quella donna.

Johto, Olivinopoli

“Trovo che sia la città più bella di Johto... Certo, non la più caratteristica, ma il faro, il porto... tante belle cose...” faceva Karen. Il suo sorriso era largo sul volto ma non mostrava i denti.
Al contrario, Risetta non sorrideva mai.
Camminavano lungo la strada principale. L’aria era tirata e le persone avevano capito immediatamente che qualcosa non andasse per il verso giusto, vista la presenza della donna dai capelli turchesi sulle loro strade.
Karen, come anche gli altri componenti dei Superquattro, difficilmente si allontanava dall’Altopiano Blu, e ciò destava una giusta preoccupazione. In più, pochi giorni prima si era tenuta un’assemblea cittadina, in cui Jasmine aveva comunicato ufficialmente l’abbandono della carica di Capopalestra. Aveva anche affermato che avrebbe lasciato Olivinopoli e più probabilmente l’intera regione di Johto. Aveva lasciato la sala in lacrime, raccolto la valigia al faro ed era fuggita via.
Risetta non faceva altro che guardare diritto, con la stessa espressione sul viso, mai mutevole, mai arrabbiata, mai felice. Al contrario, Karen sorrideva maliziosa, ancheggiando a ogni passo che muoveva accanto alla scogliera meravigliosa del lungomare; quella era famosa in tutta Johto, per via di una competizione che si teneva ogni anno e che vedeva i migliori scultori e intarsiatori fronteggiarsi e scolpire un soggetto. Il migliore veniva piazzato lungo il passeggio del lungomare della città.
“Bellissima, Olivinopoli...” continuò Karen. “... con le sue casette bianche e i tetti blu, la sabbia chiara e il mare meraviglioso. Qui le persone sono sempre soddisfatte e felici”.
Difatti Risetta sembrava davvero fuori luogo, lì, con quell’espressione perennemente seriosa.
“Che ne pensi?” domandò infine la Superquattro, vedendo che dopo qualche secondo dalla precedente affermazione non vi fosse stata alcuna ribattuta.
“È una città come tante. Dov’è la Palestra?” domandò rapida quella, massaggiandosi il collo, da sola.
“Ci arriviamo subito. Prima devi sapere che il tuo compito prevede anche una mansione extra, qui a Olivinopoli”.
Risetta non si scompose, rimanendo a fissare il vuoto davanti a sé. Karen sorrise, divertita.
“Sei anche la guardiana del faro. La tua casa è quella” disse puntando il dito contro la grande costruzione conica al di sopra del promontorio.
“Almeno me ne starò per i cazzi miei... Finiamo presto questo supplizio e fammi vedere la Palestra”.
“Ma certo...” sospirò quella dai capelli turchesi, cominciando a infastidirsi dal comportamento altamente superficiale della donna.
Camminarono per un minuto circa, nel totale silenzio e nello sbigottimento generale. Non appena arrivarono alla Palestra, fu proprio la Superquattro a essere sintetica. Non aprì neppure le porte dell’edificio e le porse le chiavi.
“Se hai dei cambiamenti da fare alla struttura lo comunicherai alla segreteria della Lega. Negli uffici della Palestra troverai anche il numero di Virgil, l’uomo che t’insegnerà a manovrare i comandi del faro”.
“Va bene”.
Karen perse un secondo a fissarla, analizzando gli occhi di quel celeste scuro dalla palpebra cadente, a celarla quasi per metà. I capelli neri erano corti, ben pettinati e tenuti fermi da una molletta. Carina, per carità, ma si chiedeva come potesse, un uomo esuberante come Chicco, stare accanto a una donna che non provava emozioni.
Non erano problemi suoi, lasciò cadere le chiavi tra le sue mani e si voltò, sculettando via.

 
Adamanta, Primaluce, Casa Recket

La sera era scesa lentamente, e l’intero paesino si stava rintanando mano a mano nelle proprie case. Allegra aveva passato l’intero pomeriggio con Arcanine e dopo cena era caduta sfinita sul divano. Rachel e Zack avevano passato un po’ di tempo a tavola, quella sera, parlando e ricordando di alcuni episodi del passato. Poi avevano gettato entrambi un occhio sul divano e avevano guardato la bambina che dormiva.
“Ti assomiglia troppo” disse Rachel, sospirando e sorridendo bonariamente. Tuttavia la reazione di Zack fu quella d’inarcare le sopracciglia e spalancare la bocca, incredulo.
“Ma di che parli?! Tu sei il cristallo della luce! Lo eri, almeno... Tua madre, tua nonna, tutte le tue antenate... siete tutte identiche!” esclamava, urlando a bassa voce.
Rachel sorrise nuovamente e annuì.
“Sì, hai ragione... ma è un vulcano, ha i tuoi comportamenti... È esplosiva, piena di vita... Io ero una bambina assai più tranquilla”.
“Immagino. Sai che palle...” sbuffò Zack, sorridendo poi quando Rachel gli lanciò una mollica di pane addosso.
“Ma! Io ero una bambina dolcissima ed educata!”.
“Non lo metto in dubbio, i tuoi genitori saranno stati sicuramente fantastici. Ma sai che palle lo stesso...”.
“Fanculo, Recket” sbuffò la donna, aggiustando il ciuffo corvino sulla fronte.
Zack si perse negli acquitrini che quella aveva al posto degli occhi, sorridendo e riconoscendosi innamorato. Gli piaceva.
Ma tanto.
“Sei sporca di vernice” disse poi.
“Oh. Dove?”.
“Sul volto. Lì” fece, puntando l’indice contro la fronte.
“Dove, qui?” rispose quella.
“No. Più giù”.
“Qui?”.
“No. Più giù!”.
“Ma dove?”.
I loro occhi si scontrarono per qualche istante, prima che Zack sorridesse, facendo sbuffare Rachel.
“Non ho nulla, vero?”.
“No. Ma sei meravigliosa”.
“Uff... La smetterai mai?” chiese, vedendolo alzarsi. Zack circumnavigò il tavolo e le si avvicinò, dandole un bacio sulla fronte.
“Se vuoi puoi andare a rilassarti... laverò io questi piatti”.
“Sei molto dolce... Magari andrò a dipingere un altro po’…”.
“Ti sta prendendo tanto, eh, questa storia della pittura?”.
Rachel annuì, alzandosi in piedi e baciando nuovamente il suo uomo. “Alma dice che alcune mie tele avrebbero la qualità per essere esposte in qualche mostra”.
“Sei davvero brava, ha ragione”.
Zack raccolse i piatti e si avvicinò al lavello, aprendo l’acqua.
“Non sono poi così brava...”.
“Certo che lo sei. Hai questo vizio orrendo di sminuirti in continuazione”.
“Ma tu sei di parte...”.
“Sei perfetta così come sei. Forse anche più di ciò che dai a vedere. D’altronde Arceus ha scelto te, no?”.
“Beh, non è proprio così...” sorrise lei. “Ma è vero, questa cosa ti dà una bella botta d’autostima”.
“Porta Allegra a dormire e comincia a dipingere un po’. Guarderò il telegiornale, per conoscere gli ultimi sviluppi a Johto, poi salirò più tardi”.
Lei sorrise e annuì, prima di rabbuiarsi. “Ma sei sicuro che non ti spiaccia che passi molto tempo da sola a dipingere? Non vorrei che tu ti sentissi messo da parte...”.
“Stai tranquilla...” sorrise quello. “Tu fai la mamma a tempo pieno e hai bisogno di rilassarti, di tanto in tanto...”.
“Tanto Allegra preferisce sempre te, quindi...” sospirò quella, storcendo il muso.
Zack sorrise. “Questo perché sono straordinario... Ma anche tu sei una bravissima madre e sono sicuro che senza di te sarebbe perduta. Totalmente”.
“Dici?”.
Lui annuì. “Allegra si rende conto degli sforzi che fai come mamma. È una bambina intelligente”.
“Già... Qualcosa da me l’ha presa, è vero...”.

Johto, Violapoli

“Eccoti qui, Marisio. Scusami per il ritardo...”.
Violapoli era gremita di gente quella sera. Il freddo s’era calmato leggermente, lasciando spazio alla folla per festeggiare. Marisio non aveva ben capito cosa rendesse la gente tanto fiera e felice, quel giorno; si era limitato a sedersi al tavolino di un bar poco fuori il centro della città, dove Lance gli aveva dato appuntamento.
Aveva bevuto un drink, sgranocchiato qualche nocciola fresca e aspettato pazientemente che il Campione lo raggiungesse.
“Non preoccuparti, Lance. Non ero qui da molto...”.
Il Campione non indossava il mantello, quella sera. Era tuttavia avvolto nel solito giubbino di pelle bordeaux, con le mani nelle tasche e il sorriso sicuro stampato sul volto.
Marisio chiuse per un attimo gli occhi, accertandosi della grande quantità d’aura che accerchiasse la sua figura. Quello era un uomo dalla forza incomparabile.
“C’è un motivo se ho voluto accompagnarti di persona qui, a vedere la tua prossima Palestra”.
“A dire il vero non avrei ancora deciso se accettare il posto”.
“Oh, certo, tranquillo” fece, spostando una ciocca dei capelli fulvi dallo sguardo. “Ma, come dicevo, cerco di arruffianarti e di convincerti con la bellezza dell’antichità e della tradizione che Violapoli trasuda”.
“Beh...” sorrise Marisio, non riuscendo a dare torto all’interlocutore. E d’altronde, non avrebbe trovato il modo per contraddirlo. Le strade della città erano interamente mattonellate, e arrivati a un certo punto le automobili non potevano andare oltre. Solo persone, al limite biciclette e Pokémon. Anche le abitazioni, tutte, avevano quell’aria anticata, costruite interamente in mattoni di pietra viva. I tetti erano composti da tegole violacee, a creare un’atmosfera particolare, col verde dei boschi a contenere le periferie tranquille della città e il Monte Scodella a vegliare alle sue spalle.
Lance cominciò a camminare, seguito rapidamente dall’altro.
“Sai perché ci sono tutte queste persone per strada?” domandò il Campione, guardando granitico un ragazzino che lo salutava da lontano.
“A dire il vero no, Lance”.
“Oggi è un giorno di festa. La gente di Violapoli ricorda la fine della battaglia con Ebanopoli, la mia città. La guerra si tenne in cima al Monte Scodella, tra due grandi eroi. Uno era uno dei miei avi, vissuto secoli fa; un grandissimo Domadraghi. E poi vi era un uomo che aveva addestrato un grandissimo Pidgeot, velocissimo e potente, proprio come il Dragonite che aveva schierato il rappresentante della città di Ebanopoli”.
“La festa qui mi fa intuire che a vincere sia stato Pidgeot e l’eroe di Violapoli...” fece Marisio.
“Errore. I Domadraghi non si lasciano sconfiggere così facilmente. Tuttavia, dopo tre giorni e tre notti passati a lottare, gli uomini decisero di fermarsi e di riposarsi”.
“La guerra per cosa scoppiò?”.
“Per il predominio del Monte Scodella, Marisio. Dopo due giorni e due notti che gli eroi passarono dormendo, si rincontrarono sulla cima della montagna e decisero di dividere i territori, in modo che a Violapoli sarebbe appartenuta la facciata a sud, mentre a Ebanopoli quella a nord”.
“Festeggiano la fine degli scontri”.
“Di quasi mille anni fa. Ed è solo una leggenda. La tradizione è ben radicata in questo luogo”.
Il forestiero annuì, inspirando l’aria antica che pervadeva quelle vie. Percorsero la strada che si snodava sinuosa davanti al Centro Pokémon.
“Anche quest’edificio è stato costruito secoli fa. Valerio ha voluto riadattarlo, per riconsegnargli valore effettivo. E, chiaramente, è una delle strutture più utilizzate da tutti, in città”.
“Un punto di riferimento, ovviamente” sorrise a mezza bocca Marisio. “D’altronde è un Centro Pokémon”.
“Esattamente” sorrise Lance. Lasciò che passasse davanti a lui, per permettergli di guardare per primo allo spettacolo che si presentò ai loro occhi: cento bambine, fino ai dieci anni, erano vestite con abiti tradizionali di Violapoli, sfarzosi ed eleganti, variopinti, ornati da piume di Pidgeot e foglie di Bellsprout.
Marisio non riuscì a non lasciarsi scappare un sorriso, vedendo le bimbe fare un grande girotondo intorno a tutta la piazza, cantando e ballando, riempiendo di sorrisi i volti dei passanti. L’uomo alzò la tesa del cappello, guardando le donne anziane, che ancora vivevano nei borghi centrali del paese vecchio, affacciate ai balconi, battendo le mani a tempo con l’orchestra che suonava sul palco davanti al laghetto.
“Cos’è quella?” domandò poi, puntando l’indice verso la grande torre che sembrava ballare alle spalle della folla. “Si muove...” osservò.
Lance sorrise, facendo segno di no con la testa.
“Come tutte le vecchie città, anche Violapoli ha una grande quantità di leggende. Quella della Torre Sprout è forse una delle più affascinanti...”.
“La Torre Sprout...” ripeté il forestiero.
“Fu costruita per un gruppo di Monaci buddisti in un periodo in cui uno sciame di terremoti stava mettendo a ferro e fuoco la nostra nazione. Guardala...” suggerì il Campione.
“È costruita interamente in legno...”.
“Sarebbe crollata alla prima scossa. Ecco perché il pilastro centrale attorno al quale è stata concepita l’intera struttura è flessibile, e lascia danzare leggermente la torre. Si chiama Torre Sprout proprio perché, si racconta, fosse stata costruita attorno al corpo di un gigantesco Bellsprout, alto più di trenta metri...”.
“Incredibile...” sorrideva Marisio, osservando i due ponti consecutivi che servivano a raggiungerla, al di là del lago.
Superarono la festa nella piazza, attraversando il borgo più antico e dirigendosi verso una zona più residenziale, dove spiccava una grande costruzione.
“Quella è la Palestra” fece, avvicinandolo. Lo afferrò per il braccio, tirandolo dentro.
L’edificio era al buio ma a Lance bastò allungare la mano lungo il muro per farsi strada verso il bancone della segreteria. Prese la torcia e illuminò il quadro elettrico, annuendo soddisfatto, saltando poi con un agile balzo il tavolo e alzando poi tutti gl’interruttori, illuminando a giorno l’edificio.
Marisio sorrise ancora, vedendo una grande voliera, con esemplari selvatici di Pokémon di molteplici regioni che volavano liberi e spaventati dall’improvvisa accensione dei riflettori. Tuttavia l’occhio non poté che cadere sulla grande impalcatura in legno mantenuta da quattro grossi pilastri. Un ascensore, mosso da un sistema di carrucole, li portò entrambi sulla sommità, dove poterono ammirare da quasi sei metri l’intero edificio e i suoi volatili.
“Insomma...” sorrise il candidato Capopalestra. “La vera Palestra è su questa passerella”.
“Già. Valerio lo aveva fatto per limitare gli avversari e favorire incontri volanti spettacolari”.
“È veramente fenomenale...”.
“E sarà tutto tuo, se accetterai il posto da Capopalestra”.
Gli occhi dei due s’incontrarono, incrociandosi in un pericolosissimo confronto. Marisio vedeva lo spettro della sua aura continuare ad aumentare, donandogli sempre maggiore forza spirituale. Pensò che Lucario sarebbe stato molto attratto da una persona del genere.
“Non lo so, Lance” rispose poi.
Quello spalancò gli occhi dorati, poi li batté un paio di volte.
“Come, scusa?”.
“Non fraintendermi, Violapoli è una città meravigliosa e tu sei stato gentilissimo a offrirmi questo posto, qui, in una località così importante per l’intera Johto... È tutto fantastico, tutto caratteristico...”.
“Ma?” interruppe il Campione.
“Ma ho degli affari in ballo, a Sinnoh. Ho una donna, lì”.
“Avresti a disposizione un ingaggio che ti permetterebbe tranquillamente di poter sostenere l’affitto o l’acquisto a breve termine delle abitazioni più lussuose del posto. E la tua donna potrebbe venire qui con te”.
Marisio sorrise. “La mia donna ha il suo lavoro lì. La sua vita è a Evopoli”.
E fu lì che Lance capì. “Gardenia?”.
“Esattamente...” allargò il sorriso quello. “Non voglio separarmi da lei né squilibrare il nostro rapporto. La distanza...” continuò. “Beh... è una di quelle cose che se non tenuta a bada, se non gestita... ci ammazzerebbe”.
“Potresti indire un giorno settimanale di pausa... o cercare un sostituto, e raggiungere Gardenia ogni sette giorni. Non sarebbe male, no? E potrebbe fare lei lo stesso”.
Marisio fece cenno di no con la testa, abbassando il volto. “No, è complicato...”.
“I tuoi compagni hanno tutti accettato. Resti solo tu. Non ti alletta l’idea?”.
Rialzò subito il viso, fissando negli occhi Lance. “Certo, non è come pensi... Vorrei tanto rimanere qui. Ma vorrei farlo a cuor leggero”.
“Dimmi che ci penserai”.
“Lo farò. Domani tornerò a Sinnoh e ne parlerò con lei... dopodiché c’incontreremo e ti darò la mia risposta”.
“Violapoli è una Palestra di vitale importanza, Marisio. Non potrà rimanere scoperta per molto”.
“Già”.

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Capitolo 23
*** Capitolo 22 - Trucchi del Mestiere ***


22. Trucchi del Mestiere
 

Sinnoh, Evopoli, Casa di Gardenia
 
“Hey... sei tornato” sentì Marisio, non appena ritirò le chiavi dalla toppa. La musica in diffusione era leggera, con note di pianoforte che si alternavano educatamente ad assoli di sax.
Gardenia apparve avvolta nella sua vestaglia, non appena l’uomo voltò l’angolo.
“Non ti aspettavo più, per oggi. Temevo avessi perso il volo”.
“No” rispose quello, guardandola fissa in quegli occhi ambrati. “Sono riuscito a prendere l’ultimo”.
“Se lo avessi saputo sarei venuta a prenderti all’aeroporto” disse, sorridente. Gli si avvicinò e lo baciò con vigore, aderendo al suo corpo, e a lui piaceva. Da morire, gli piaceva.
Adorava il fatto che una donna così bella fosse innamorata di lui, che potesse tornare a casa e trovarla lì, in attesa di un suo bacio, di un suo abbraccio. Adorava sentire la necessità della sensazione di contatto dei loro corpi, e quella fame quando non bastava più, perché i loro vestiti erano di troppo. Adorava sentirsi dentro di lei e adorava quando lei lo lasciava poi uscire, soltanto per stringersi al suo corpo, ancora caldo, quasi febbricitante.
“Come stai?” domandò lei, baciandolo ancora.
“Bene...” rispose Marisio, calando il volto.
“Bene?” chiese ancora. Non sembrava parecchio convinta. “Non mi sembra l’espressione di qualcuno che sta bene, la tua... Che succede?”.
La donna fece un passo indietro e guardò il suo uomo, mentre smontava il cappotto e levava il cappello. Sospirò e annuì, pronto a confessare.
“Lance mi ha offerto il posto di Capopalestra di Violapoli”.
L’espressione di Gardenia mutò: incuriosita com’era, dapprincipio, la sua faccia indossò una maschera di confusione. “Beh...” fece, cercando di entrare nella testa del bell’uomo dai capelli scuri. “Mi sembra una cosa bella, no?”.
“Certo, sì...” disse lui, passando una mano nella chioma corvina. “Lo è. E vorrei tanto provarci”.
“E allora?!” esclamò sorridente lei, prendendogli il cappotto da mano e appendendolo. “Sarà una cosa meravigliosa! Non ho mai visto un Allenatore di Pokémon forte come te!”.
“Starei lontano da Sinnoh...” sospirò lui, portato per mano sul divano.
Gardenia divenne improvvisamente seria. Si sedette e tirò le gambe verso il petto, mentre Marisio si abbandonò nei morbidi cuscini. Dalla sua espressione sconsolata poteva riuscire a vedere l’effettivo dispiacere che provava per tutta quella situazione.
“Potremmo sempre trovare un modo per vederci, tesoro...”.
“Sì, lo so, Lance me ne ha suggeriti già un paio ma...”.
La donna si limitò ad annuire e a gettarsi su di lui. Gli sfilò le scarpe e poi lo tirò sulle sue cosce, mentre gli accarezzava i capelli. “Com’era Johto?” gli domandò.
Lui guardava verso l’alto.
“Molto carina. Mi spetterebbe la Palestra di Violapoli...”.
“Non ci sono mai stata”.
“A me è piaciuta davvero molto. C’è una strana monumentalità nell’aria e la gente è profondamente legata alle tradizioni. L’aura è limpida e...”.
“E la Palestra? Com’era la Palestra?”.
“Incredibile. Più grande della tua, con un’enorme voliera e i Pokémon uccelli che vivevano liberi...”.
“Immagino la puzza di guano...”.
“E invece no, sai? Inoltre...” fece, voltandosi e guardando negli occhi la donna. “C’è anche una grande struttura in legno, rialzata di parecchi metri, su cui si terrebbero le lotte...”.
Gardenia poté vedere il sorriso felice di Marisio, quello spensierato, in uno di quei rari momenti in cui esplodeva.
“Tu vuoi andarci. Vacci” sussurrò la donna, abbassandosi su di lui e baciandogli la fronte. Il suo corpo gli aderì sul volto.
Marisio sospirò. “Non voglio lasciarti”.
“Non devi” rispose. “Ci sono tanti modi per stare assieme”.
“Lo so, lo so... ma mi mancherà... questo”.
Gardenia lo guardò, vestendo il suo viso di un sorriso gentile e bonario.
“Io ti amo e so che tu ami me. Non succederà nulla di male, perché supereremo ogni avversità”.
Lui si sollevò, tornando seduto. Guardò il suo sorriso dolce, poi fissò le labbra morbide della donna, e la bontà nell’ambra dei suoi occhi. Amava lei, amava il suo profumo.
Le sorrise.
“Sei straordinaria”.
“Lo so. E ora andiamo di là, ti cucino qualcosa, sarai affamato”.
 
Adamanta, Timea, Uffici della Omecorp

Erano passati ormai sei ore da quando Lionell s’era seduto davanti al suo computer. Prima, il sole illuminava l’intero ufficio ma poi, lentamente, la sera era tornata a riprendersi ciò che aveva lasciato lì prima di lasciar posto al giorno e, senz’accorgersene, l’uomo era rimasto con le luci spente. Se ne rese conto quando gli occhi cominciarono a bruciare, che l’orologio già segnava le diciannove. Sbuffò, abbassò le mani dalla tastiera e si alzò in piedi. Si voltò in direzione della finestra, aveva bisogno di aria, tutta quella storia lo stava consumando. Avrebbe voluto prendere il primo aereo per un posto caldo, dove la sabbia era chiara e il mare gli avrebbe sussurrato parole gentili durante la siesta.
E invece no.
Invece doveva rimanere chiuso nella sua armatura fatta di polsini inamidati e cravatte doppie, accessori in oro e scarpe lucide. Il dopobarba aveva un profumo pungente, non a tutti piaceva ma a lui sì. Lasciava il suo odore nelle stanze, era segno di personalità.
Pensò che avesse voglia di un sigaro.
Sì, si sarebbe abbandonato al piacere momentaneo di un sigaro. Quindi fece per voltarsi e aprire il cassetto della scrivania dove conservava la scatolina scura. Prese un lungo cubano, ne mozzò l’apice e lo mise in bocca. Quando il dito premette sull’accendisigari, lentamente, le note fruttate gli riempirono la bocca. Si abbandonò poi nella sua poltroncina. Tutta la meticolosità di quei giorni richiedeva ampi periodi di ripresa mentale, e soltanto in quel modo riusciva a ritrovare se stesso, Lionell.
Poi suonò l’interfono.
Guardò l’apparecchio sulla scrivania e dopo il suo sigaro. Decise di soprassedere e di alzarsi, si sarebbe rilassato un’altra volta.
“Sì”.
“Dottor Weaves, c’è in linea la signorina Malva, la Superquattro di Kalos... Che le dico?”.
“Che sono in riunione e che sarà richiamata non appena sarò disponibile”.
“Va bene, Dottor Weaves...”.
Gli occhi azzurri dell’uomo lasciarono la presa dall’interfono e tornarono sullo schermo del computer, dove i suoi conti offshore erano aperti in diverse finestre. La calcolatrice davanti segnava chiaramente sette cifre da sommare; sette conti in banca, con sette totali, che sostanzialmente rappresentavano i parziali del suo patrimonio.
Messi l’uno dietro l’altro, quei parziali avevano fatto di Lionell un uomo profondamente ricco.
Di nuovo. Calcolava, lui, freddo, il da farsi, lentamente, senza farsi prendere dal panico, mentre la testa del sigaro bruciava ogni volta che lui aspirava. Prima di sospirare però lo levò dalle labbra e lo poggiò nella ceneriera. Si voltò nuovamente verso l’interfono e premette il pulsante sette.
“Linda. Vieni nel mio ufficio”.
Rilasciò e riguardò la cifra che la calcolatrice gli consegnava.
Ripassò mentalmente il piano per la milionesima volta, prima che la donna varcasse la sua soglia. Sempre incredibilmente ordinata, in quel tailleur nero gessato, coi capelli legati e tenuti alti sulla testa e gli occhi verdi finemente truccati. Lo sguardo dell’uomo le carezzò il collo e si tuffò nella scollatura, prima che quella, compiaciuta, lo salutasse con un cenno della testa.
 “Chiudi la porta” fece quello, lasciando sedimentare la sua voce. Quella si voltò ed eseguì, avvicinandosi alla scrivania e accomodandosi di fronte a lui.
“Che succede?”
“I mosaici quando saranno venduti?”.
La donna sorrise e annuì. “Il compratore effettuerà il pagamento nella giornata di oggi. Andrò personalmente a ritirare i centocinquanta milioni e li porterò al nostro consulente per gli affari. Apriremo qualche conto in una  banca offshore e faremo girare i soldi, come abbiamo fatto fin ad ora”.
“La vendita dei mosaici finanzierà la fase finale del progetto”.
“I soldi saranno girati automaticamente ai nostri uomini di fiducia. Avremo a disposizione un migliaio di mercenari pronti a combattere per noi”.
“E sarà allora che potremmo mettere le mani sul Cristallo della Luce” sorrise quello.
Linda lo emulò, annuendo. “Spero che i tuoi piani ci porteranno dove vogliamo arrivare”.
“Già. Solomon vuole che io gli ceda il cristallo ma non sono sicuro di volerlo fare. Catturerò Arceus e comanderò su tutti” rise.


 
 Adamanta, Primaluce, Casa Recket

“Forza, piccola! Dobbiamo fare presto!” urlò Zack, fremente.
“Papà! Sto scegliendo una bambola da portare!”.
L’uomo sorrise e abbassò il volto verso le scarpe: le punte erano belle lucide. Guardò poi Arcanine e gli si avvicinò.
“Cucciolone... rimarrai tu a casa, fin quando non saremo di ritorno”
Il Pokémon sembrò capire e si stese davanti al camino, godendo del calore che emanava. I piccoli passi di Allegra risuonarono lungo la scalinata, accumulandosi lentamente l’uno dietro l’altro fino a quando la bimba si ritrovò davanti all’uomo.
“Eccomi, sono pronta” disse, stringendo una bambola di Stella, la Capopalestra di Timea. Era tutta agghindata, con un vestitino azzurro e la frangetta ben pettinata sulla fronte. Gli occhi azzurri spalancati, curiosi come sempre, fissavano il vestito elegante di suo padre.
“È un maschietto o una femminuccia?” chiese poi.
“Non lo sappiamo” rispose sorridente Zack, sistemandosi il colletto della camicia sotto il pullover. “Ma sappiamo che ha la pelle scura, come quella di zio Trevor e di zia Alma”.
“E come si chiama?”.
“Non sappiamo neppure questo”.
Batté le punte delle ballerine laccate a terra, Allegra, quindi guardò la sua bambola.
“Ma tu davvero la conosci, Stella?”.
Zack annuì e sorrise ancora. “Certo. Lei è la Capopalestra di Timea”.
“E tu hai detto che alcuni anni fa eri il Campione del mondo”.
“Non del mondo…” ridacchiò. “Prima dello zio Ryan c’ero io”.
“Lui ti ha battuto?”.
“È diventato Campione perché mi ha battuto, sì… Rachel!” la chiamò poi. “Aspetti che nasca anche il secondo prima di uscire dal bagno?!”.
“E questo vuol dire che lo zio Ryan è più forte di te, vero?” continuava Allegra, catturando immediatamente l’attenzione di suo padre.
“No...” sorrise quello. “Vuol dire soltanto che ha vinto una battaglia contro di me. L’ho sconfitto tante volte”.
“Però se è il Campione vuol dire che è l’Allenatore più forte di tutti. Quindi anche di te”.
“Rachel, fai presto!”.
“Sto venendo!” replicò quella, irritata, uscendo dal bagno elegante e ben preparata.
Allegra si voltò e fissò meravigliata sua madre, che indossava un tailleur beige che ben s’accostava al colore scuro dei suoi capelli.
“Sei bellissima, mamma!” esclamò sorridente la piccola, avvicinandosi a lei.
“Grazie, amore. Dobbiamo proprio andare con Braviary?” chiese poi, assumendo una smorfia di sconforto e disappunto sul volto.
“Sì!” cominciò a urlare festosa Allegra.
Rachel vide poi suo marito fare spallucce. “Decide la più grande...”.
“I capelli...” sbuffò l’altra, rassegnata.
E così salirono in groppa al grosso Pokémon, con la bambina stretta tra la schiena del padre e l’abbraccio di sua madre. E si divertì, volando sulle case, quasi tra le nuvole. Ogni battito d’ali di Braviary schioccava accanto alla sua testa, celandole il mondo in cui viveva in corrispondenza del movimento del Pokémon, per rimostrarglielo un attimo dopo. Il tramonto su Primaluce era arrivato un po’ più tardi quel giorno, segno che le giornate stavano cominciando ad allungarsi, tuttavia le luci gialle riempivano le strade e le case, come tante piccole candele.
Atterrarono proprio nel giardino, dove alcune persone ben vestite conversavano con un bicchiere di spumante tra le mani. Zack fu il primo a scendere, aiutando poi sua figlia e sua moglie a poggiare i piedi sul prato bruciato dal freddo. Rachel diede una sistemata veloce ai capelli e vide Braviary rientrare velocemente nella propria sfera
“Allegra, mi raccomando...” le disse poi la donna, sospirando.
“Stai buona” rincarò Zack.
Quella rispose annuendo, guardando meglio la bambola di Stella e poi alzando lo sguardo verso la porta.
“Una festa per una nascita è una cosa un po’ insolita...” osservò Rachel, raggiungendo con difficoltà il selciato, dove i suoi tacchi non affondavano. S’aggrappò al braccio di Zack e guardò una donna sorridente con una borsa di pelle rossa. Vistosa.
“Beh, considerando la storia di Alma e Thomas è un miracolo...”.
Entrarono in casa, con Allegra che li aveva ampiamente anticipati, chiedendo a destra e a manca dove fosse il neonato. Salì le scale velocemente, proprio quando i suoi genitori incontrarono Ryan e Marianne.
“Ragazzi” sorrise il Campione, in veste ufficiale della Lega di Adamanta, con annesso il lungo mantello argentato. “È un bambino”.
“Che bello” rispose sua sorella Rachel, stringendolo in un caldo abbraccio.
“Sei un incanto” fece invece Marianne.
“Non l’avrei sposata, altrimenti...” ribatté Zack. “Con permesso, vado a vedere il mostriciattolo, Allegra sarà sicuramente passata davanti a tutti”.
“Alma è ancora nel letto” sorrise la donna. “Ha partorito in casa, d’improvviso. Non è riuscita a raggiungere l’ospedale”.
“A dopo” chiosò Rachel, seguendo suo marito lungo il corridoio e poi sulle scale. L’ultima porta sulla destra era aperta e vedeva, oltre a un paio di familiari di Thomas, tutti con dentatura da oscar e  capelli perfettamente ordinati, la sagoma di Leonard al di fuori della porta.
“Piccolo” disse Zack, una volta raggiunto.
Quello spalancò gli enormi occhi azzurri e sospirò. “Zio...”.
“Che succede, campione?” fece quello, prendendolo in braccio. La pelle ambrata del bambino era ancor più scura, immersa nelle ombre fioche di quel corridoio.
“Voglio un fratellino anche io… glielo dici a mamma?”.
Zack rise, baciando la fronte del nipote. “Certo. Ora salutiamo il nuovo arrivato però”.
Entrarono nella camera così, con Leonard in braccio all’uomo e Rachel a seguirli in religioso silenzio.
Non appena varcata la soglia un velo di tranquillità li rivestì totalmente. Allegra era davanti ad Alma, tutta sorridente, forse più della neomadre, stringendo la sua bambola come avrebbe fatto se avesse avuto il piccolo in braccio. Thomas sorrise, non appena li vide.
“Manuel. Si chiama Manuel” disse, vedendo d’improvviso Rachel piangere per la commozione. La donna aderì a suo marito, abbracciata poi anche dal nipote, asciugando velocemente le lacrime.
“È una meraviglia, Alma. Un bambino meraviglioso” piangeva quella, abbassandosi poi per baciare il volto della madre, commossa per l’ennesima volta mentre stringeva quella meraviglia tra le braccia.
“Grazie, ragazzi. Grazie a tutti di essere qui”.
Il piccolo Manuel dormiva beatamente tra i seni della Professoressa, sotto lo sguardo vigile e commosso dei presenti.
“La vostra avventura è appena cominciata” sorrideva Zack. “Gioco di squadra, mi raccomando”.
“Certo” annuì Thomas. “Alma ha già fatto tanto”.
“Posso prenderlo in braccio?” domandò poi Allegra, con gli occhi sognanti.
“Sta dormendo” le rispose Leonard, repentino.
Quella alzò gli occhi e lo bruciò con lo sguardo. “Fatti i fatti tuoi. Sei anche in braccio al mio papà, quindi dovresti essere gentile con me!”.
Alma sorrise e mise una mano sul capo di Allegra.
“Non litigate” fece. “Manuel dorme”.

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Capitolo 24
*** Primo Interludio ***


Primo Interludio
 
 
Adamanta, Monte Trave, Tempio di Arceus
Mille Anni Prima
 
Dove c’era Prima tutto era strano.
L’aria veniva incanalata attraverso le piccole feritoie di quella stanze, creando rumori sinistri, addolciti poi dal tintinnio delle campanelle appese. La sera era ormai scesa e tutte le fiaccole erano state accese e applicate al muro. La giovane Livia vedeva le fiamme danzare sinuose, sospinte leggermente dal vento, a creare ombre strane sulle pareti di pietra dura. L’inverno stava per arrivare e il freddo ad Adamanta scendeva portando con sé una mano di candida neve, assieme a gelidi venti del nord.
“Sta per succedere!” aveva ripetuto Olimpia, la più anziana, per la quarta volta. Dava fretta alle ancelle del tempio durante i preparativi. Prima era seduta su quello che pareva essere un trono, mentre delle belle e giovanissime donne le pulivano mani e piedi.
“Livia, i capelli” aveva ordinato Olimpia. La giovane scattò immediatamente, raccogliendo un pettine e dirigendosi poi alle spalle dell’oracolo.
“Oi...” le sussurrò poi Prima.
“Ciao” fece l’ancella.
Si conoscevano da anni, erano entrambe bambine quando furono raccolte dalla mano sapiente di Olimpia, tra le strade di Nuovaluce, e non erano cambiate per niente: gli occhi gentili di Prima erano rimasti sempre gli stessi, due pozze blu nel bianco candore della sua pelle. Il contrasto era enorme già allora, con quei lunghi capelli neri e quella frangetta a nasconderle leggermente lo sguardo. Livia invece era sempre stata più alta di lei, coi boccoli biondi e la pelle comunque più olivastra. Crescendo, le due rasentarono esemplari di bellezza perfetta ma differenti, guidate dalle direttive della madre delle ancelle, proprio quell’Olimpia che le aveva cresciute come figlie.
“Come ti senti?” aveva domandato sottovoce la bionda, affondando il pettine nella lunga chioma corvina dell’oracolo.
“Come ogni volta che Arceus parla con me” aveva risposto quella. “Ho paura”.
“Non riesco a immaginare cosa possa succedere alla tua mente quando entra in te”.
“È strano” ribatté rapida. “Hai come la sensazione che qualcosa cominci a pervaderti il corpo. Ossa, muscoli... la testa, la pancia. Arceus entra dentro di te e tu non vedi altro che bianco. Ti trovi d’improvviso in quella che dovrebbe essere...”.
“Silenzio!” fece Olimpia, accendendo altre candele e spargendo oli sacri all’interno della stanza.
“... in quella che dovrebbe essere la sua casa. Lui non vive nel nostro mondo; è così potente da avere un mondo tutto per sé”.
“E poi?” domandò Livia, continuando a spazzolare.
“Piacere e dolore si uniscono nel mio corpo e tutto ciò che devo fare è seguire quel flusso d’energia, ascoltare le sue parole. Quando ha finito mi rispedisce qui”.
“Incredibile...” sorrise l’altra.
“Livia!” urlò poi Olimpia. L’ancella alzò lo sguardo, osservando l’anziana donna dalla lunga treccia canuta. “Se hai tutta questa voglia di parlare allora esci fuori. Le latrine hanno bisogno di una pulita!”.
“Le ho soltanto chiesto una cosa, Olimpia, mia signora” s’inserì Prima.
“Il fatto che tu sia l’oracolo non significa che tu possa fare ciò che vuoi. Dobbiamo mantenere un clima di rigore e perfezione, di perfetta educazione. Lo svago ha tempo e modo di esistere ma non mentre ti prepariamo per accogliere Arceus”.
“Sì, mia signora” rispose educatamente Prima, abbassando la testa.
“Bene” sorrise la più anziana, annuendo e voltandosi verso la porta. La sue espressione mutò immediatamente quando uscì dalla camera, colmandosi di un’apprensione cieca, di una preoccupazione senza pari. Si avvicinò alla finestra e vide in lontananza le fiaccole accese degli Ingiusti, e il loro esercito che bivaccava nell’accampamento poco oltre il Monte Trave.
“Mia signora, Olimpia, mia signora” si sentì chiamata alle spalle. Si voltò, non riuscendo a celare il malessere che la stava assalendo, quindi vide proprio Livia dietro di lei, mentre stringeva il sacro pettine con le mani conserte. La lunga veste bianca le cadeva addosso pesante.
“Che cosa c’è, Livia?”.
“Volevo scusarmi con voi per il mio comportamento” disse, facendo un leggero inchino.
“Non preoccuparti...”.
“C’è qualcosa che vi turba?”.
Olimpia riuscì a vedere la purezza d’animo della donna guardandola solamente negli occhi.
“... Livia...”.
 
Devo parlare?
Devo dire tutto alle ancelle? Di Re Nestore, degli Ingiusti e della guerra che stanno combattendo contro i Templari?
 
“Olimpia, mia signora, se desiderate parlarmi di qualcosa fatelo pure... Liberatevi del vostro peso”.
La più anziana pensò che condividendo il peso che portava in corpo avrebbe potuto dividere la propria paura. Ma il senso di responsabilità che provava verso la giovane che aveva davanti e le sue sorelle la stoppò. “No” tuonò. “Non sarebbe giusto, queste preoccupazioni scaturiscono dai miei compiti, dalle mie responsabilità...”.
“Ma potrei aiutare a liberarvi un po’ da questi fardelli. Sarei felice di potervi alleggerire” sorrise bonaria quella. Olimpia abbassò lo sguardo, tentata. Livia rimaneva ferma davanti a lei, coi piedi uniti e le mani congiunte sul ventre e quando la più anziana rialzò lo sguardo fu sopraffatta dalla paura: il volto dolce di quella era quanto di più angelico potesse esservi. Immaginò le mani rudi di un qualsiasi soldato figlio d’ignoti che divellevano le porte dalle pareti e che subito dopo stracciavano le vesti candide da quel corpo sacro.
L’avrebbe fatta oggetto di stupro, rendendola madre di un figlio, bastardo come lui.
Nel migliore dei casi.
E al sol pensiero del sangue, delle urla, della violenza che si sarebbe trascinata arrancando lungo quelle pareti, una fitta l’attraversò di netto il costato. Pensò a quelle ragazze, limpide come rugiada, mai corrotte. Così candide.
Il volto di Livia era puro e cristallino. I suoi occhi la fissavano contriti.
“Olimpia… mia signora…” fece.
“Tranquilla. Stavo solo pensando”.
Cercò di essere quanto più naturale possibile, e sorrise a mezza bocca. Ma quando sentì le urla nella sala dell’oracolo, la sua espressione tornò seria e concentrata.
“Prima…” sussurrò, lanciando quel nome come fosse una stilettata. Livia si voltò subito, cominciando a correre. La donna più anziana la seguì col suo passo, quando ormai l’oracolo era in piedi. Fuori alle finestre, il buio stava lentamente stendendo il velo della notte sulle loro teste, e le fiammelle delle torce, applicate sui muri di tutta la stanza, danzavano sinuose, a creare meravigliosi giochi d’ombra. L’elemento più luminoso, però, era Prima: era avvolta dalla luce sacra, fluttuava al centro della stanza, posseduta da quel potere immenso ed esclusivo.
Olimpia protesse gli occhi stanchi col palmo della mano e richiamò tutte le giovani all’ordine.
“Veloce!” esclamò. Livia fu la più reattiva, raccolse subito lo scrigno di legno e lo poggiò sul piedistallo alle spalle dell’oracolo, che intanto rimaneva zitta e immobile in quello stato quasi incorporeo. L’ancella era pronta ad aprirlo, ma prima cercò il permesso con lo sguardo della matrona, che si limitò ad annuire.
Quando Livia aprì lo scrigno, tutto fu inondato dallo stesso bagliore di cui riluceva prima. Risplendeva con forza, costringendo i presenti a stringere le palpebre. Loro non percepivano altro che quel candore illimitato, ma Prima descriveva tutt’altro, e a Livia la cosa faceva invidia, perché lei non aveva mai sentito quel vento freddo sulla pelle, dei cori celestiali che si diffondevano in sottofondo quando il dio parlava, del dolore e del piacere che si univano, viaggiavano nel suo corpo, lo abbandonavano e poi vi si rimmergevano con forza.
Diceva che durava più di un minuto, ogni volta, e che la confusione e lo smarrimento che provasse dopo non fosse paragonabile a nulla che avesse mai provato. Prima aveva parlato migliaia di volte di quelle sensazioni, tuttavia era ancora troppo difficile immaginare una situazione del genere.
Durava poco più di un minuto, ogni volta. Come ogni volta, la luce bianca s’affievolì, ritraendosi all’interno del cristallo. Livia fu veloce, si alzò e chiuse subito lo scrigno che lo conteneva. Prima non si accorse quasi di nulla; era stesa sul pavimento di fredda pietra, in preda alle convulsioni. E come ogni volta, la bell’ancella si voltò verso Olimpia, che annuì, sospirando. Nel corso della sua vita aveva già preparato tre donne al contatto superiore con dio, ma quelle scene continuavano a turbarla.
“Prendetela” fece, col volto granitico. “Portatela nelle sue stanze. Curatele le ferite e assicuratevi che stia bene. Quando si sveglierà dovrete chiamarmi immediatamente”.
“Sì, signora” risposero tutte, all’unisono, raccogliendo la donna da terra, leggera come una foglia secca, e fecero quanto ordinato. Poggiarono la donna sul suo giaciglio e cominciarono a spogliarla delle vesti. Una donna portò un tino ricolmo d’acqua riscaldata, con cui cominciarono a lavarle il corpo. Livia vedeva il respiro di quella, lento e pesante, gonfiarle il petto. La pelle candida della donna era colma di lividi, sul seno, sul ventre e sugli arti. Apparivano sul suo corpo ogni volta che Arceus la usava come ambasciatrice, e impiegavano un paio di giorni ad andare via.
Le donne lavarono il corpo della bella con pezze di morbida e umida seta, e Livia stessa le rimase accanto anche quando le altre, stanche e affamate, lasciarono quelle stanze per andare a rifocillarsi.
 
Passarono sei ore, che l’ancella impiegò nel pettinare i capelli di Prima, prima che i suoi occhi blu si aprissero. Il respiro, dapprima greve e regolare, accelerò coi battiti del cuore della donna. Spalancò le mani, strinse il giaciglio e si mise a sedere. Le palpebre celavano rapide gli occhi, poi li mostravano nuovamente in tutta la loro bellezza. Livia sorrise dolcemente e le spostò i capelli corvini dal volto.
“Timoteo…” sussurrò, facendo per alzarsi, noncurante del fatto che fosse in sottoveste. Non indossò neppure i sandali e fece per dirigersi verso la porta, quando la mano di Livia le strinse il polso.
“Calmati… Sei appena uscita dallo stato di contatto…”.
“E lasciami!” esclamò l’altra, strattonandola e liberandosi. “Devo andare da Timoteo!”.
“Ma è all’accampamento, Prima!”.
Livia afferrò nuovamente il braccio della giovane, tenendola lì. Quella tirava e, nonostante fosse minuta, riuscì a divincolarsi nuovamente dall’ancella. Si voltò e spintonò l’amica di sempre, totalmente in preda al panico.
Poi corse fuori.
Il cuore di Livia saltò un battito. Stava realizzando che Prima stesse per uscire fuori dal tempio.
“Ragazze! Fermatela! Fermate l’oracolo!” urlò, alzandosi di scatto. Corse verso la porta e vide le vergini intercettare Prima, lanciata come un proiettile verso l’atrio.
“Lasciatemi andare da Timo!” gridava l’oracolo, mentre Olimpia si affacciava preoccupata dalle sue camere.
“Che succede?”.
Prima si voltò, con gli occhi spalancati.
“Devo andare da Timoteo! Lasciatemi! Lasciatemi!”.
Si sbracciava, l’oracolo, con le spalline della veste calate, un seno candido scoperto e la morte sul volto. Le lacrime deturpavano quella bellezza intoccabile, dilatavano gli occhi azzurri e cadevano sulle guance candide. I capelli neri dondolavano con frenesia lungo la schiena. Nonostante tremasse dalla paura la sua femminilità rimaneva intatta.
Olimpia le si pose davanti, le carezzò il volto e sospirò. Quella parve calmarsi leggermente.
“Dimmi che sta succedendo” le chiese poi, vedendo l’altra alzare il volto verso di lei.
Quella strinse i denti e si aggiustò la veste, quindi annuì.
“Olimpia, mia signora!” esclamò. “Devi ordinare subito alle vergini di lasciarmi andare!”.
Quelle parole tagliarono in due il respiro della più anziana. Annuì, dopo aver battuto le palpebre un paio di volte.
“Lo farò solo se mi dirai perché sei così agitata”.
Prima si morse le labbra, stringendo i pugni.
“Ebbene…” sospirò, abbassando lo sguardo. “Arceus ha in serbo per noi la distruzione di ogni cosa… Io… io devo andare ad avvertire Timoteo!”.
Quella voce rimbombò tra le pareti di pietra dura e si perse oltre le aperture dei grandi finestroni. Livia guardò sconvolta la matrona, poi spostò lo sguardo su Prima.
“Arc… Arceus?”.
“Sì!” riprese l’oracolo. “Vuole distruggere tutto! Il mondo è corrotto dal male delle persone!”.
“Non tutte le persone sono malvage!”
Sentiva lo sguardo di Olimpia addosso.
“Cosa dovrei dirti?! Arceus ha detto così! Non credo gli interessi la tua opinione… né la mia. Io devo solo andare da Timoteo”.
“Lo farà qualcun altro al posto tuo, Prima” s’inserì la matrona. “Non possiamo rischiare che tu perda la vita in un momento come questo...”.
“Ma Timoteo ha bisogno di me!”.
Fu un attimo, la donna scattò e allungò verso la porta, spalancandola e ritrovandosi all’esterno. Il freddo pungeva la sua pelle, i piedi affondavano nella neve e la notte aveva rapidamente raccolto tutto il cielo tra le braccia. Raggiunse la discesa dei Mille Gradini, che l’avrebbe condotta alla piazza antistante il Monte Trave, poco prima della città.
E scese giù.
 
Livia guardò colpevole Olimpia, che del resto non si scompose.
“Beh…” fece quella. “La conosciamo, sapevamo che non saremo riuscite a trattenerla qui. Abra!” urlò poi, vedendo il Pokémon Psico materializzarsi accanto a Livia, che sobbalzò non appena si accorse della sua presenza. Fluttuava in una bolla d’energia psichica.
“Eccoti qui... Segui Prima e assicurati che non si faccia del male. Se sta per succedere qualcosa di pericoloso riportala immediatamente qui al tempio”.
Bastò un secondo e il Pokémon sparì.

 

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Capitolo 25
*** Capitolo 23 - Il Punto Di Non Ritorno ***


23. Il Punto Di Non Ritorno
 
 
Adamanta, Primaluce, Parco Giochi Comunale
 
Era affascinante come Zack riuscisse a divertirsi semplicemente guardando sua figlia giocare. Era una cosa che lo riempiva letteralmente di gioia. Il parco giochi di Primaluce quel pomeriggio era gremito di bambini, in fila per salire sullo scivolo e sull’altalena.
Stranamente, Allegra e Leonard sorridevano l’uno all’altra, all’interno di un grande castello di plastica, dal tappeto in gomma dura. Lui era il re, lei la regina.
“Oggi non litigano” osservò Ryan, ormai abituato agli sguardi della gente. Sì, era il Campione di Adamanta, e accanto a lui c’era il vecchio reggente del titolo.
“Strano, infatti...”.
“Come stai?” gli domandò poi il biondo. Due ragazzini si rincorrevano sorridenti mentre il chiacchiericcio delle madri si univa al sottofondo fatto di grida fanciullesche e risate e pianti di ginocchia sbucciate.
“Sono stanco, Ryan”.
“Ti sta crescendo la pancia” sorrise il Campione, e Zack lo emulò, divertito.
“Sto abbassando il ritmo degli allenamenti, a dire il vero. Sono un padre di famiglia, ora”.
“Sbagli a pensarla così” rispose l’altro, incrociando le braccia.
“Lo so. È che non ne ho voglia”.
Sorrisero entrambi e si rimisero a camminare.
“In Lega, invece? Le cose come vanno?” domandò Zack.
“Non so come tu abbia fatto a far andare d’accordo per anni con quei quattro… Sono tremendi…”.
“Lo so” ridacchiò l’altro, abbassando gli occhi verdi in direzione del prato. Calciò un ciottolo e sospirò. “Si conoscono da anni. Sono amici da tanto tempo”.
“Litigano in continuazione…” si lamentò l’altro. “Non riesco a stare dietro a tutte le loro richieste… Ginger, poi, guarda!” esclamò, trovando un complice immediato nel sorriso affettuoso di Zack.
“La rossa… Quanto mi manca…”.
“Ma perché non ci vieni a trovare, qualche volta? Magari ci alleniamo un po’ assieme, che ne so… anche con Kendrick, che tanto non dà fastidio…”.
“Ovviamente! È muto!”.
“Una pace tremenda, quando sono con lui. Fred e Ginger litigano in continuazione e ultimamente Isabella è sempre a terra…”.
“Si avvicina quel periodo dell’anno, Ryan” rispose prontamente l’ex Campione. Il biondo si voltò, spostando lo sguardo ceruleo sull’interlocutore.
“Che intendi? Non me ne ha mai parlato”.
“Sono orfani. Lo sai, no?”.
L’altro fece lentamente cenno di no.
“Io mi fermavo spesso a parlare con loro, a dirti il vero” continuava Zack, sedendosi su di una panchina e guardando sua figlia giocare. “Mangiavamo spesso assieme. Loro non hanno nessuno, possiedono soltanto loro stessi, e una grande dignità. I Superquattro di Adamanta sono eroi già per il fatto di essere arrivati così in alto”.
Ryan si accomodò accanto a lui, sospirando nuovamente. “Beh… Avrei voluto mi parlassi prima di loro. Solo ora mi rendo effettivamente conto del fatto che conosco davvero poco la gente con cui lavoro”.
“Complice il fatto che superare le sfide con loro è davvero complicato, e tu vieni chiamato soltanto quando qualcuno riesce a batterli…”.
“Il resto è lavoro di rappresentanza e scartoffie. Tante scartoffie… Ma continua a raccontarmi di loro”.
Zack annuì.
“Sì. Fred ha veramente un grande cuore… Un uomo d’altri tempi, direi, con quella flemma nei discorsi e…”.
“Papà!” urlava Allegra, sorridente. Il vestito era macchiato di fango sull’orlo inferiore e il frontino, abbinato alle scarpette, sporche a loro volta, faceva fatica a restare sulla testa. “Papà, guardami come sono in alto!” urlava.
“Sì, brava! Più in alto!”.
“No, niente più in alto!” ribatté subito Ryan. “Ascolta le parole dello zio! Scendi di qualche gradino e giocate sul prato!”.
Zack rise. “Ti stai rammollendo, Livingstone…”.
“Se Lenny tornasse a casa coi vestiti conciati in quel modo, Marianne mi farebbe dormire in auto…”.
“Ah, no… Rachel si è rassegnata al fatto che Allegra sia come me”.
“Selvaggia” rise l’altro.
“Terribilmente”.
Lasciarono entrambi sedimentare quel momento d’ilarità, poi tornarono entrambi seri.
“Che dicevi?” continuò Ryan.
“Fred. Beh, educato e riflessivo. Intelligente. Tremendamente innamorato di Ginger…”.
“E non so come faccia, sinceramente…”.
Zack dondolò leggermente la testa. “Lo capisco…”.
“Sì, è una donna sensuale e tutto ma…lunatica e… troppo sveglia per i miei gusti…”.
“Hai ragione. Ricorda tanto Blue, come tipo…”.
“Conosci Blue?” chiese Ryan, sorpreso.
“Non divaghiamo… Kendrick è quello che vedi. Uno che sta per i fatti suoi”.
“E lo adoro. Il prossimo?”.
“Isabella. Con lei avevo un rapporto particolare… Se dovessi darle un aggettivo credo che sarebbe… polemica”.
“Si lamenta in continuazione!” esplose Ryan, stringendo i pugni e guardando in alto.
“E non dovrebbe?” sorrise quello.
Il silenzio scese poi rapido, prima che le urla dei bambini riprendessero il proprio posto.
“Sono cresciuti difendendosi dal mondo, con nessuno che li proteggesse. Solo loro quattro, schiena contro schiena. In questo periodo dell’anno è morto il nonno di Isabella. Subito dopo fu mandata all’orfanotrofio…”.
“Già... Mi rendo conto che non li conosco come dovrei. Mi spiace molto”.
Ryan portò la mano nei lunghi e fluenti capelli biondi e spostò il ciuffo dalla fronte. Guardava suo figlio con attenzione, lasciava fluire dentro se tutti quei suoni, quei rumori.
Ogni cosa. Aveva imparato ad abbeverarsi di sensazioni uniche e spontanee, coltivate dalle altre persone e lanciate in aria con leggerezza.
“Avrai modo di rimediare, mi auguro. E dovrai fare altrettanto anche per i Capipalestra...”.
Il biondo sorrise e annuì.
“Odio il mio lavoro”.
“Io invece lo amavo. Anche perché avevo un assistente per le mie scartoffie”.
“Non mi fido tanto degli altri, Zack. Finirei per rileggere le carte migliaia e migliaia di volte... a quel punto, tanto vale che le compili da me...”.
Zack fece spallucce, quando poi il cercapersone di suo cognato squillò. Lo staccò dalla cintura e guardò il nome. “Kendrick...” sospirò, abbassando la testa.
Zack inarcò le sopracciglia, poi incontrò lo sguardo ceruleo dell’uomo a metà strada.
“Non mi ha mai chiamato, lui”.
L’altro fece un cenno con la testa. “Anche perché non vedo cosa possa dirmi”.
E poi a Ryan squillò anche il cellulare.
“Ed ecco Isabella... Pronto?”.
Si alzò per un attimo, allontanandosi dal vociare smodato di quei posti e lasciando da solo Zack, coi suoi pensieri.
Guardava Allegra che si divertiva, socializzava con gli altri bambini in maniera del tutto naturale. E un po’ ringraziò il cielo che non somigliasse a sua madre, in quello. La mente di Zack vagava per i cieli dei ricordi più felici della sua intera esistenza, culminati in quella bambina esplosiva, col carattere del papà e l’aspetto della madre.
Poi Ryan si avvicinò velocemente a Zack.
“Non ho il tempo di spiegarti nulla, la banca di Timea è sotto attacco! Riporta Lenny da Marianne e dille di non preoccuparsi!”.
“Cosa?!” fece poi l’ex Campione. “Poso loro e ti raggiungo immediatamente!”.
“Sei un civile, Zack. E nonostante tu sia stato l’Allenatore più forte che mi sia mai trovato davanti non posso rischiare che tu venga coinvolto in storie del genere. I Superquattro stanno volando già verso la capitale”.
Il cognato comprese e annuì. “Okay. Okay, va bene Ryan. Stai attento”.
“Anche voi” fece.
 
*
 
Zack aveva preso quasi immediatamente Allegra e Leonard per mano e si erano diretti verso la casa del Campione, poco lontano dal parco. Lasciò le mani dei bambini soltanto quando si trovò all’interno del cortile. Una strana aria d’inquietudine stava cominciando a montargli dall’interno. Era preoccupato per quello che stava succedendo ma non capiva per quale motivo tutta quella situazione lo stesse turbando tanto. Appena si rese conto che fosse cominciato nuovamente a nevicare alzò gli occhi verso l’abitazione, guardando le tende celesti nascoste dalle finestre. La sagoma di Marianne appariva come un’ombra, proprio dietro i vetri.
Lenny corse a bussare il campanello, seguito subito da una più lenta Allegra, che intanto canticchiava una canzoncina che aveva imparato a scuola.
Zack li raggiunse poco prima che la donna aprisse la porta; la vide sorridergli gioviale, riconoscendo in suo cognato un volto conosciuto. Fu poi la presenza di suo figlio Leonard a mutare il suo volto, estirpando quel sorriso come fosse erbaccia e sostituendolo con ansia e preoccupazione.
“Zack...” sussultò. “Dov’è Ryan?”.
Zack abbassò brevemente lo sguardo per poi rincontrare le iride chiare della donna, un secondo più tardi. “C’è stata un’emergenza a Timea, sono coinvolti anche i Superquattro. Eravamo al parco e mi ha chiesto di riportare Lenny qui”.
Il bambino corse dentro casa, urlando e scherzando, totalmente ignaro della paura di sua madre.
“È... è successo qualcosa di grave?” chiese. Allungò poi le dita verso i capelli neri e riccissimi e li tirò indietro, legandoli in una coda scomposta.
“Ha parlato della banca di Timea, credo sia in atto qualche rapina, nulla di pericolosissimo. Inoltre non è solo...”.
“Forse al telegiornale stanno dicendo qualcosa di più” fece, prendendolo per mano e tirandolo all’interno. Allegra lo seguì educatamente, muovendosi poi in direzione di suo cugino.
Zack e Marianne, invece, si accomodarono sul divano, aspettando che la televisione si accendesse.
“Stai tranquilla, andrà tutto bene”.
“Lo so, lui è forte” rispose la donna, sintonizzandosi sul telegiornale.
 
“... sono appena arrivata sul posto, qui è Tea di HChannel e posso confermare che è in atto una rapina alla Regional Reserve di Adamanta, la banca centrale della regione! Il Campione e Superquattro sono arrivati già da diversi minuti e tutte le forze dell’ordine della città sono dispiegate sulle strade, coi fucili puntati. Nell’edificio erano presenti numerosi civili, ora tenuti come ostaggi. I colpevoli sono stati visti dai testimoni mentre indossavano delle divise bianche e dei passamontagna grigi. Sulla fronte vi era stilizzata una omega. Speriamo vivamente che il corpo della Lega Pokémon riesca a sbaragliarli”.
 
“Omega…” sussurrò Zack. Il sangue nelle vene dell’uomo si congelò, poi il suo sguardo si poggiò in quello di Marianne. “Rachel...” sospirò, alzandosi velocemente. Guardò rapidamente a destra e a sinistra, non sapendo cosa stesse cercando.
“Zack, calmati” fece la donna dalla pelle scura, brandendogli il braccio e vedendo le pulsazioni sulle tempie aumentare il ritmo. “Stai iperventilando… cerca di calmarti”.
“No!” esclamò quello, col cuore che, impazzito, pareva volesse uscirgli dal petto. “Devo andare da Rachel!”.
“Potrebbe... potrebbe essere pericoloso, Zack. Aspetta Ryan”.
“Non c’è tempo da perdere!” esclamò infine quello, alzandosi in piedi e lasciando la casa di sua cognata. Allegra apparve dall’altra camera non appena sentì le urla di suo padre e guardò la donna.
“Che è successo, zia Marianne?” domandò, con la voce limpida e cristallina. “Dov’è papà?”.
“È andato a fare un servizio, Allegra. Ma ha detto che tornerà subito... quindi non preoccuparti”.
 
 
Adamanta, Primaluce, Casa Recket
 
Solo il battito del cuore.
Rimbombava nelle orecchie, lo sentiva nella testa e copriva ogni pensiero.
Zack era in balia delle sue emozioni, strattonato dalla paura di poter perdere una delle due cose più preziose che possedesse.
Omega. Bastò quella parola. Omega, come l’Omega Team, che anni addietro aveva sgominato assieme a Rachel, prima che diventasse sua moglie.
Prima che diventasse la gioia della sua vita.
Prima che gli donasse l’altra delle due cose più preziose che possedeva.
Volava a tutta velocità sulle ali di Braviary, con l’aria che gli fendeva il viso e la neve che scendeva lemme a congelarlo. Non sentiva più le mani ma non ci faceva caso.
Contava i secondi, vedeva la sua casa e pensava a quanto tutto quel casino sembrasse fin troppo strano: Lionell era rimasto bloccato nel passato, con Timoteo, il leggendario eroe della Battaglia del Plenilunio. Lui stesso si era assicurato che le guardie del tempio lo tenessero sempre a vista. Volava rapido, pensò alle torture che quell’uomo aveva dovuto subire, e non ne sembrava dispiaciuto. Un individuo capace di uccidere sua figlia si meritava ben altro.
Rifletteva, tra un battito del cuore e l’altro, col sangue che correva veloce nelle arterie e il cuore che a stento riusciva a farlo defluire abbastanza rapidamente. Nella mente viaggiavano come missili i ricordi, e tutti i momenti più felici della loro esistenza si fissarono dritti davanti ai suoi occhi.
Non aveva dimenticato quanto Rachel fosse speciale per quel mondo.
Si sentiva il suo guardiano, e aveva paura di aver fallito nel suo ruolo.
Intanto ragionava. Il volto di sua moglie veniva sostituito da quello di sua figlia; la prima era l’oracolo, non doveva dimenticarlo, e la seconda era possedeva il cristallo.
Doveva proteggerle entrambe, ma le piume di Braviary si stavano riempiendo di neve, quel mattino, e la paura non gli faceva più battere le palpebre.
“PORCA PUTTANA!” urlò, mentre la sua voce si perdeva tra le nuvole. Pensò al fatto che però nessuno sapesse che Allegra fosse il cristallo; ove mai Lionell fosse in qualche modo riuscito a tornare indietro al suo tempo, sarebbe andato ancora alla ricerca di Rachel.
Era un piccolo vantaggio strategico. La cosa però non lo calmava.
Quando Braviary atterrò, Zack non aspettò neppure che quello poggiasse le zampe sull’erba bruciata del giardino; si lanciò, ruzzolò sulla neve fresca, si rialzò e prese a correre, inciampando e finendo nuovamente per terra.
Riprese forza e coraggio, si risollevò e guardò la porta di casa sua.
Era spalancata.
“NO!” urlò, con le lacrime agli occhi.
Corse in avanti, calciò la porta e la spalancò, venendo assalito da quell’insolita quiete. Tutt’intorno nulla si muoveva. Le luci erano spente.
L’odore di quel luogo era sempre lo stesso. Il silenzio gli stava bucando il cervello.
“Rachel!” fece, allungando gli occhi verso la cucina, vuota. Corse poi verso il bagno, dove la luce era accesa. Sua moglie, però, non era neppure lì.
“Il piano di sopra! Rachel!” continuò, voltandosi e salendo i gradini a due a due, spalancando velocemente la camera che utilizzava dove dipingeva e rimanendo scioccato: la tela che stava dipingendo era stata completata solo a metà, mentre sui pavimenti e sulle pareti vi erano manate di vernice e sangue, segno che quella avesse lottato per non essere presa dai banditi.
La tavolozza era rotta, le vernici tutte riverse sul pavimento.
E il pennello, quello che stava usando, era caduto sotto il piccolo sgabello che di solito utilizzava.
Zack si era appena reso conto del fatto che Rachel, moglie, donna e oracolo di Arceus, non fosse più a casa sua. Si era reso conto di averla lasciata sola in casa, esponendola a quel rischio che alla fine si era rivelata una certezza: l’Omega Group non era morto e aveva rapito la sua donna.
Il cuore batteva all’impazzata.
Le lacrime non riuscivano più a fermarsi.
Il volto di sua moglie risaltò ai suoi occhi ma per un istante, per un piccolo attimo, fu quello di un’altra donna a sostituirlo: quello di Emily White.

 

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Capitolo 26
*** Secondo Interludio ***


Secondo Interludio
 
 
Adamanta, Piedi del Monte Trave, Accampamento dei Templari
 1000 anni prima
 
Marcello stava dormendo. O almeno, cercava di dormire.
Durante la notte non era riuscito a domare l’ansia dato che sapeva che sarebbero passati dal cuscino alla spada in poche ore. Ma si sforzava di riposare, di tenere chiusi gli occhi e di dormire, anche se dormire era utopia con l’odore della guerra che pervadeva la tenda dove dormivano.
Poi lo sentì.
Marcello lo sentì, quel rumore.
Aprì gli occhi lentamente, brandendo il pugnale che riposava accanto a lui, come una moglie fedele. Era buio, tutto troppo buio per mettere qualcosa a fuoco così velocemente, ma girò lo stesso la testa. La torcia che illuminava la grande tenda dove dormiva coi suoi commilitoni era abbastanza lontana ma riusciva chiaramente a vedere una figura davanti al letto di Timoteo, il capo dei Templari.
Era troppo distante per riuscire a scorgere il volto dell’aggressore, ma la sua figura era sottile. Pareva essere accompagnato da un Pokémon che fluttuava in una strana luce azzurra. Vide che era un Abra. Poi sentì le sue parole.
“Timoteo! Svegliati!” aveva fatto l’ombra misteriosa. Aveva voce di donna.
Marcello vide il Templare scattare all’in piedi, estremamente lucido.
Passò qualche secondo, poi lo sentì parlare.
“Prima! Cosa diamine ci fai qui?! Se gl’Ingiusti scoprissero che sei nel nostro accampamento sarebbe la fine!”.
“Timo…”
Marcello si rilassò immediatamente; aveva riconosciuto la voce di Prima, quindi lasciò la presa dal pugnale e tese l’udito.
Fu proprio lei a continuare a parlare.
“Dovete terminare questa guerra! Arceus ha maledetto le nostre terre!”.
“Cosa?!”
“Ho… ho avuto un contatto con lui…”.
Gli faceva strano: conosceva Timoteo da quando entrambi erano ragazzini, e con lui anche Prima, e sentirla parlare di contatti con Arceus, di predizioni e divinità gli pareva paradossale. Soprattutto perché, in maniera del tutto insana, tutto ciò che diceva Prima si manifestava con precisione assoluta. Sentire quelle parole ebbe soltanto l’effetto di riempirlo d’angoscia.
“E cosa diamine ti avrebbe detto?!” aveva ribattuto il capo dei Templari, afferrando Prima per le spalle. La fissava dritta, lui, e Marcello sentiva il respiro pesante della donna, mentre riempiva i polmoni. Il buio soffuso non gli permetteva di guardare lo sguardo di Prima, mentre appassiva a causa dello spavento che provava.
“Mi… mi ha detto chiaramente che il mondo che lui ha creato per noi non è stato ideato per diventare un campo di battaglia, dove riversare il nostro sangue a vicenda. Vuole che finiamo di combattere, Pokémon e uomini! Nessuno più dovrà morire per via di una guerra insulsa!”.
Che poi tanto insulsa non era, aveva subito ribattuto mentalmente, Marcello.
Lottavano per difendere Arceus stesso, e le vergini che vivevano al tempio.
Tra cui Prima stessa.
Non metteva in dubbio il fatto che la guerra, come elemento in sé, fosse stupida; tuttavia sapeva che se avessero posato le armi, per fare in modo che nessuno morisse, gli Ingiusti avrebbero compiuto una carneficina. Le parole dell’oracolo non si erano ancora sedimentate nella sua mente quando i concetti che quella aveva espresso risalirono a galla lentamente.
“Prima…” tuonò Timoteo. “Se finissimo di combattere, quei bruti prenderebbero il tempio e vi ucciderebbero tutte…”.
“Sì, lo so, lo so! È per questo che devo parlare subito col capo degli Ingiusti!”.
Marcello pensò che Prima fosse impazzita.
 “Adamo?!” aveva ribattuto Timoteo.
“Questa guerra inutile deve terminare!”.
“Non parlerai assolutamente con nessuno!” aveva esclamato il guerriero, alzando i toni e imponendo la propria voce sulla piccola donna. “Non posso permettere che tu rischi la vita! Quelle persone non hanno né scrupoli né coscienza!”.
Fu allora che Marcello alzò lo sguardo. Vide l’uomo allungare la mano verso quelle della donna. Un lieve silenzio cominciò a espandersi, riconsegnando quella notte ai guerrieri che dormivano.
Lo sguardo di Prima si contrì, le sue dita sottili stringevano quelle ruvide e piene di tagli dell’uomo.
“Devo parlare con Adamo, Timo… È l’unico modo per salvarci” aveva sussurrato lei.
L’altro sospirò.
“Non puoi farlo…” aveva risposto.
“Arceus ci ucciderà tutti, altrimenti!”.
L’eroe ridacchiò, facendo cenno di no con la testa.
“E come farebbe, di preciso?”.
 Marcello vide l’oracolo fare spallucce, mentre il piccolo Abra continuava a fluttuarle attorno.
 “Riprenderà tutto ciò che ci ha dato. La terra, il cielo, il sole. La vita. Rinchiuderà l’universo nell’uovo della vita…”.
“Non so cosa diamine sia, Prima. So solo che se non ucciderò Adamo lui ucciderà me. E te”.
L’altra strattonò l’uomo, liberando le spalle dalla sua presa.
“Beh, a me non interessa! Devo andare a parlare con lui! Non si tratta più di una stupida guerra, qui, tutta l’umanità ne pagherà le conseguenze! Se voi combatterete dopo...”.
Marcello guardò le ombre sui loro volti diventare paura.
“Dopo non ci sarà più nulla...” sospirò Timoteo.
L’altra si limitò ad annuire, abbassò lo sguardo e sospirò. “Allora mi hai capita…”.
 E lì fu paradossale, sentendo il grido disperato di Prima, la voglia di Marcello di scendere sul campo di battaglia per finire quella storia. Sapeva che quella fosse la battaglia finale e sapeva anche che l’esercito degli Ingiusti fosse più numeroso del loro.
Certo, i Templari non erano mercenari e vivevano per difendere Arceus e il tempio. E anche Prima. Erano ormai sette anni che si combatteva quella guerra inutile e uomini e Pokémon erano sicuramente provati da tutto ciò che era successo. Marcello aveva davvero voglia di prendere una giornata di licenza e andare a trovare sua sorella a Nuovaluce, il paesino dov’era nato.
Si rigirò un attimo nel letto, sentendo poi Prima e Timoteo zittirsi, ricordando il volto di sua madre e le risate che da bambino si levavano al cielo quando, poco prima di mezzogiorno, lui e Timoteo s’incontravano davanti al Bosco Memoria.
Davanti, non dentro. Non ci entravano, nessun bambino doveva entrare nel bosco.
C’era quella vecchia storia che lo faceva rabbrividire, ma quando riuscivano a rubare una pagnotta dal fornaio andavano a sedersi in riva al fiume Astro, se la raccontavano sempre.
E poi ricordava Prima, così piccola e dagli occhi perennemente spalancati, azzurri, pieni di vita; e il suo sorriso; Marcello non avrebbe mai potuto dimenticare il suo sorriso.
Così come non avrebbe mai potuto dimenticare il dolore che aveva provato, assieme a Timoteo, quando una meno anziana Olimpia l’aveva presa per mano e portata in cima al tempio.
Tutti lo sapevano; tutti sapevano che sarebbe stato meglio per lei, che si sarebbe salvata dal diventare la moglie umile d’un uomo violento, che avrebbe rovinato il proprio corpo e il proprio spirito dietro decine di figli che sarebbero morti per la febbre, nella migliore delle ipotesi.
Quello era il destino d’una madre del volgo.
Invece avevano deciso di seguirla, e i due amici di sempre finirono per arruolarsi nell’esercito dei Templari, affiancando il giovane oracolo e difendendola con scudo e spada.
 “Lasciami andare a parlare con lui, Timo... Ti prego...” aveva detto poi la ragazza, con la voce che a ogni frase s’addolciva sempre più.
La sagoma di Timoteo lasciò cadere il volto verso il basso, sconfitto.
“E sia. Ma verrò anch’io con te. Per sicurezza...”.
“Grazie!” aveva esclamato lei, alzando un po’ troppo la voce e gettandosi al collo del guerriero.
Marcello lo vide poi avvicinarsi al suo letto.
Timoteo lo trovò con gli occhi aperti; la luce della torcia veniva riflessa sull’argento lucido dell’armatura dell’uomo valoroso, che aveva appena infilato il grosso spadone nel fodero.
“Marcello, amico mio” fece quello, inginocchiandosi alla sua branda. “Sei sveglio?”.
“Ho sentito tutto, Timoteo”.
“Allora non ti devo ulteriori spiegazioni” fece quello, spostando un ciuffo castano dal volto. La mano passò poi nella barba, dello stesso colore, fino a poggiarsi sulle coperte del giaciglio. “Hai tu la responsabilità dell’accampamento e delle truppe fino al mio ritorno. Le vedette sono ancora in postazione”.
L’altro annuì.
“Se sentirò qualcosa lo urlerò fino al cielo, sveglierò i nostri fratelli soldati e difenderemo il tempio. Tu stai attento a Prima” fece, allungando lo sguardo all’oracolo, che sorrise dolcemente. Si avvicinò a quello steso e gli lasciò un debole bacio sulla guancia.
Un debole bacio che lui aveva desiderato per tutta la vita.
“Grazie, Marcello” aveva detto quella, annuendo.
“Di nulla. Ora andate”.
“Bene!” esclamò Timoteo, lasciando volutamente l’elmo sul letto del soldato dai capelli ricci. “Abra, andiamo da Adamo”.
E sparirono.

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Capitolo 27
*** Capitolo 24 - Le Strade Che Vanno All'Inferno Sono Lastricate Dal Senno di Poi ***


..:.:.. TSR ..:.:..
24. Le strade che vanno all'inferno sono lastricate dal senno di poi
 
- Adamanta, Primaluce, Casa Recket --
 
Forse era per quel buio, che quando arrivava la notte si distendeva come il mare sulle rive di una spiaggia deserta, scrosciando senza che nessuno lo sentisse.
O forse era per il silenzio.
Quel silenzio terribile che nella sua vita era sempre stato assente giustificato e che era esploso quella sera assieme al malessere che rapiva i suoi pensieri.
Aveva pianto, Zack, piegato in due dal dolore e dai rimorsi.
Forse non doveva lasciarla da sola? Avrebbe dovuto costringerla, forse? Eppure le aveva specificatamente chiesto di andare con loro al parco, a fare due passi e godersi un po’ di quel sole prima che cominciasse nuovamente a nevicare.
“Rachel...” ripeté, prendendo profonde boccate d’aria e riempiendo i polmoni di polvere e veleno.
Avrebbe dovuto prevederlo.
Sì, avrebbe dovuto capire che prima o poi quei pezzi di merda sarebbero tornati a prendersi ciò che lui abilmente aveva sottratto dalle loro mani.
La figlia di quell’uomo ignobile che lui aveva sposato, e da cui era nata il gioiello più prezioso della sua corona, sua figlia.
Aveva vissuto quegli anni nell’utopia più che totale, immerso nell’amore che le sue donne gli donavano e che lo dissetava nei giorni in cui ricordava di esser cresciuto da solo, durante le tempeste di vento e le tormente di neve.
Passò da steso a seduto, su quel pavimento così freddo. Pensò di esser stato stupido, soltanto per aver pensato al fatto che quella perfezione sarebbe potuta durare per sempre, per poi evolversi durante il corso della sua vita.
E invece no.
Invece aveva sempre dovuto lottare coi suoi fantasmi, contro di loro e contemporaneamente al loro fianco, fronteggiando se stesso e quella sensatissima voglia di pace e di tranquillità: era andato via da casa, partito per quel viaggio quasi vent’anni prima, e aveva girato in lungo e largo durante ogni grande evento che le regioni avessero vissuto.
Era a Sinnoh quando Cyrus aveva deciso di far detonare l’interno universo. Ricordava il periodo subito successivo, quando aveva deciso di allenarsi duramente per arrivare a lottare nelle Palestre di quella regione, dove peraltro conobbe Gardenia; con lei ebbe una relazione di un paio d’anni, prima che i loro caratteri, così diversi ma così simili, facessero scoppiare quella situazione, dando di fatto a Zack l’occasione di muoversi verso Adamanta, dove conquistò il titolo di Campione della Lega.
Dove conobbe Rachel.
C’erano volte, soprattutto quelle notti fredde in cui il solo sacco a pelo non bastava a riscaldarlo, in cui rimpiangeva la morbidezza del suo materasso, a Celestopoli.
E la voce di sua madre, a ricordargli che era tardi e che doveva andare a scuola.
Avrebbe voluto rifugiarsi nei ricordi, nelle risate infantili e scappare da quell’orribile situazione.
Ormai era grande.
Ormai doveva darsi da fare.
Si sollevò in piedi e si spogliò, coi morsi del freddo a strappargli brividi e brandelli di carne, poi aprì l’armadio e indossò uno dei suoi jeans e una lunga felpa con cappuccio nera. Infilò quindi il cappello bianco che lo aveva accompagnato per anni durante le sue avventure e tirò su i guanti senza dita.
Era quasi pronto.
Abbandonò la sua camera da letto, dove i vestiti che aveva smesso erano ancora sul pavimento. Guardò il cuscino di Rachel e riuscì a sentire il suo profumo aleggiare nell’aria. Aprì il cassetto del suo comodino e infine vi prese la Pokéball che custodiva.
Entrò poi nella stanza di Allegra e si guardò attorno, come fosse spaesato.
“Ti riconsegnerò la tua mamma...” disse, voltandosi rapido e scendendo nel salotto.
Ancora buio, ancora silenzio.
Accese una luce e pose sulla tavola le sue Pokéball, che velocemente attaccò alla cintura.
Era davvero pronto.
 
 
- Adamanta, Timea, Locali Server della Omecorp –
 
“Lasciatemi! Ho detto lasciatemi!”.
Nel buio di quei corridoi Rachel si dimenava con tutte le forze che aveva ma era inutile: i due grossi omaccioni dalle divise bianche con l’omega fiammeggiante stampata sul petto la tenevano stretta per le braccia, trascinandola con forza.
Lei si opponeva, resisteva. Pensava a sua figlia.
Pensava alla disperazione di suo marito.
Non capiva perché fosse finita nuovamente in quella faccenda. Lei non aveva più il cristallo nel corpo, non aveva più nulla a che fare con quella situazione, se non fosse stato per il fatto che era rimasta comunque l’oracolo di Arceus.
E poi Lionell era morto. Forse.
L’aveva dato sempre per scontato, pensando al fatto che fosse rimasto nel passato, dopo l’ultima volta che si erano visti.
E l’omega, quella lettera infame sui petti di quegli enormi scagnozzi, era il simbolo del periodo più brutto della sua vita, in cui Lionell stesso ne era stato protagonista.
Com’era possibile che quella società fosse rinata dal nulla.
La rabbia risalì nuovamente dal suo stomaco quando ripensò al volto di Allegra; non poteva lasciarla da sola.
“Lasciatemi! Mettetemi giù!”.
“Non urlare!” ribatté uno di quei due colossi, colpendola con un violento ceffone.
“Per… perché mi avete preso…” diceva quella, cercando di non pensare al forte schiaffo che aveva ricevuto.
“Devi stare in silenzio” aveva suggerito l’altro, conciso e diretto. L’avevano poi trascinata lungo un corridoio con poche porte; erano nere, di ferro, e su ognuna di quelle vi era un neon a luce fredda.
Sostanzialmente era tutto buio.
L’ultima porta, però, era ben illuminata.
Vi era un grosso divieto d’ingresso affisso sopra, e un ostrano rumore di macchinari proveniva oltre di lei.
“Vi prego, non potete! State per commettere un errore grandissimo io…”.
E lì stava per parlare di sua figlia, facendosi scacco matto da sola.
Doveva tenere Allegra fuori da quella storia.
Spalancarono la porta davanti a lei e una grossa luce rossa la investì.
“Mettetela lì” sentì. La voce era di una donna; una voce che già conosceva.
Si guardò attorno, mentre veniva trascinata verso un grosso tavolo d’acciaio, osservando enormi server con decine e decine di fili che partivano verso le altre stanze di quell’installazione, sparendo nei cavi che poi attraversavano i muri. Per terra era steso il pavimento in linoleum, grigio, graffiato dalle rotelle di qualche carrello che trasportava qualcosa di troppo pesante. Poche luci, tanti led accesi dalle decine di calcolatori elettronici che emettevano calore e radiazioni. C’erano almeno tre persone, in quella camera, e una era sicuramente sulla poltrone con lo schienale alto, vicino allo schermo luminoso che emetteva grande luce bianca. Poi c’era quella donna nell’ombra, anche se Rachel non riusciva a vederla, e un altro di quegli scagnozzi, con un grosso fucile nella fondina e un Houndoom tenuto al guinzaglio.
“Lasciatemi andare!” urlò quella, fin troppo audace.
E quel coraggio era sicuramente dovuto al fatto che avesse una bambina da ritrovare, quando quella pessima situazione sarebbe finita.
“Non so evocare nessun dio! Non so parlare con Arceus! È lui che ha scelto me ma io non lo volevo!”.
“Non serve che tu lo faccia” ribatté l’uomo dietro il lungo schienale, con quella voce graffiante che lui conosceva fin troppo bene.
“Legatela” continuò poi la donna, palesandosi dall’ombra in cui sostava.
“Linda!” esclamò con rabbia Rachel, ormai stesa sul lungo tavolo. “Lasciami andare!”.
“Sai che non possiamo” aveva risposto l’unico che ancora non aveva visto in faccia. E ormai, la prigioniera, aveva capito di chi si trattasse.
“Pa... papà?”.
 
 
- Adamanta, Timea –
 
La notte era scesa e a Timea nevicava. A Timea nevicava sempre.
O almeno, a Timea nevicava sempre, quando ci andava.
Zack camminava con le mani strette in tasca e le Pokéball nascoste sotto il lungo gilet felpato. Avrebbe avuto parecchio sonno, a quell’ora, se non fosse stato per l’adrenalina che il suo cuore aveva pompato ovunque.
Doveva entrare negli uffici della Omecorp, di nuovo. E anche quella volta doveva farlo per salvare qualcuno che era stato rapito.
Era in piazza; era appena passato sotto la statua di Timoteo qualche minuto prima, osservando la sua figura incastrata nel marmo e rivelandosi leggermente differente dall’originale, più alto e barbuto.
Rude, come un vero guerriero, nonostante la sua cotta fosse d’argento e la grossa croce templare spiccasse sulla sua armatura e sul suo vessillo.
Ricordava Timoteo, Zack, quando qualche anno prima era tornato nel passato. Era un uomo d’onore, pronto a sfidare una morte certa e predetta pur di salvare la donna che amava.
E la donna che amava era la più importante di tutte.
Zack sapeva cosa si provasse a essere l’uomo che l’amava, perché Rachel era chiaramente la donna più importante dell’universo, l’unica che avrebbe potuto visitare la dimensione divina.
Non se ne capacitava.
Rabbrividì pensando al fatto che la situazione fosse paradossalmente errata, in quel momento. Già, perché era Allegra a esser diventata il nuovo oracolo di Arceus.
E ciò poneva la situazione in una posizione parecchio delicata, dato che avrebbe dovuto cominciare una missione lampo di pochi minuti, in cui sarebbe entrato, avrebbe recuperato Rachel e sarebbe uscito e fuggito via, in groppa al suo Braviary.
Avrebbe recuperato Allegra da Ryan e sarebbero fuggiti via da Adamanta.
Nonostante il suo nucleo fosse essenzialmente lì, Zack era stanco di rischiare.
Camminava lungo le mattonelle innevate della piazza, nel buio più che totale e ignaro del reale freddo che in quel momento lo stava divorando, per via del sangue che gli ribolliva nel corpo, ma gli suonò così irreale la soluzione effettiva di tutta quella situazione che fu costretto a distogliere lo sguardo per allontanare quel pensiero.
Avrebbe dovuto uccidere tutti.
Avrebbe dovuto uccidere tutti per la sua famiglia, per salvaguardare sua figlia e sua moglie, per poi passare tutta la vita in galera.
Sarebbe stata la chiave di volta, l’effettiva luce che illuminava il buio. Se tutti, nel grosso edificio poco oltre le vie centrali, e si riferiva unicamente a quelli con l’omega sul petto e nella mente, fossero morti, lui non avrebbe avuto più alcun motivo per avere paura.
Avrebbe vissuto la sua esistenza in totale tranquillità.
Come aveva fatto in quei pochi anni.
Tuttavia era del tutto fuori discussione: lui amava la vita, la riteneva un dono troppo prezioso per potersi permettere di autoproclamarsi giudice e boia per chiunque altro.
Neppure per il nuovo capo dell’Omega Group.
La mano era sempre ferma sulla ball di Lucario, immobile, mentre il respiro tremava e la condensa usciva sottoforma di vapore dalla sua bocca.
Cominciava a sentire il freddo, proprio mentre entrava in un vicolo buio e stretto.
Nessuno aveva osato fermarlo, vedendo la mano pronta su di una possibile Pokéball. Gli Allenatori non erano molti, in giro, soprattutto a quell’ora, e i malviventi sapevano che attaccare chi possedeva delle Pokéball era un po’ come giocare al lotto, dato che spesso chi si era a quell’ora in mezzo alla via non doveva essere uno sprovveduto.
Zack raggiunse il lungo passeggio che poi avrebbe portato nella zona industriale, dove diverse fabbriche s’erano stabilite nel corso degli anni.
La Omecorp era la prima della fila.
Era rimasta come la ricordava, con le mura di cinta nere e il grosso cancello serrato. Vi erano diverse guardie che pattugliavano il perimetro esterno.
“Società di videosorveglianza...” sbuffò quello, guardando gli scagnozzi armati. Ricordava perfettamente l’ultima volta che era entrato lì, ed era con Rachel. Girò l’angolo, seguendo il marciapiede con fare guardingo.
Forse doveva mettere fuorigioco una guardia e prendere il suo costume, entrare dagl’ingressi principali e fare tutto con relativa tranquillità, senza la paura di venire scoperto.
Oppure no.
Camminò rapido, acquattandosi nel buio e visualizzando il suo obiettivo: la grata dell’areazione.
“Se li conosco non l’avranno mossa da lì...” fece, tra sé e sé.
Sarebbe entrato di lì, strisciando nei condotti. Avrebbe dovuto soltanto trovarla in tempo prima che le fosse successo qualcosa.
“Zoroark...” fece, guardando le telecamere di videosorveglianza. Sarebbe stato strano se non ne avessero disseminate per tutto il perimetro. “Fai in modo che non mi vedano” disse, lasciando che il Pokémon uscisse dalla propria sfera.
 
 
 - Timea, Locali Server della Omecorp –
 
“Papà” aveva ripetuto sorridendo Lionell, sollevandosi dalla poltroncina. Osservò gli occhi di sua figlia risplendere nel buio di quella stanza.
“Lionell! Lasciatemi andare!” urlò Rachel, ormai in preda a una forte crisi di pianto. Provava paura. Era terrorizzata.
L’uomo s’avvicinò a lei, lentamente, riconoscendo nel suo sguardo, sbiadito dal pianto e sporcato per via del trucco sciolto, quello di Irya, madre di Rachel e moglie dello stesso Lionell.
Identiche le labbra, stesso naso perfetto e lunghi capelli di seta corvina.
“Sei identica a lei...” sorrise, carezzandole le guance.
Rachel vide il volto dell’uomo, inspessito da quegli anni passati lontano dal presente ma totalmente identico a quello che ricordava: capelli lisci e ben pettinati, dal lontano tono biondo ma ormai ingrigiti dal tempo. Alcune cicatrici, profonde e ben visibili, gli deturpavano il viso oblungo, ben rasato, dove gli occhi azzurri erano principi dall’alto delle piccole fessure in cui abitavano.
Elegante, come sempre, svestì la giacca nera e levò i gemelli dalle maniche della camicia, cominciandole a piegare ordinatamente verso il gomito.
“Non ti mentirò. Quello che vedi qui è un uomo differente...”. Rachel sentì rimbombare la sua voce in tutta la sala server. Il sudore grondava dalla sua fronte e il trucco sciolto s’era accumulato lungo le sue guance, poggiate sul freddo metallo del tavolo su cui era legata a mani e piedi.
Lionell continuò a parlare.
“Sono passati tre anni... Tre lunghi anni in cui pensavo di dover espiare i miei peccati, di dovermi pentire del male che avevo provocato. Ma...” e lì sorrise, come un ragazzino ingenuo. “Io non sono mai stato il colpevole dei miei peccati. Io sono stato scelto, per la mia forza e la mia intelligenza. Perché no...” allargò il sorriso. “Per il mio autocontrollo... Beh, io credo in dio, Rachel. Io l’ho visto, e anche tu... Lo stavo sconfiggendo... avevo quasi imbrigliato il suo potere, e sarei salito lì!” urlò, puntando l’indice verso l’alto. “Verso il cielo! Dove lui comanda tutto! Avrei avuto il suo potere... il mio nome sarebbe stato venerato al pari del suo...”.
“Tu sei un folle!” urlò Rachel.
“No! No! No! Non sono un folle!” ribatté l’altro, portandosi vicino al volto della donna. “Io sono solo un visionario! Tante cose funzionerebbero meglio, se il libero arbitrio fosse qualcosa di non voluto! Potrei dare ascolto a tutte le preghiere e risolvere ogni questione! Niente più fame nel mondo, niente guerre! Chi deve morire morirà! Chi deve sopravvivere sopravvivrà! Comanderò con bontà tutto quello che Arceus ha creato e mandato a puttane! Perché ha lasciato tutto tra le nostre mani senza un libretto d’istruzioni!”.
“Non ci vuole alcun libretto d’istruzioni! Tu stai uccidendo tua figlia per dei loschi scopi!” ribatté la moretta, in preda alle convulsioni date dal pianto.
“E avrei dovuto farlo prima, Rachel! Avrei dovuto strapparti quel dannato cristallo dal petto in casa mia! Invece Irya ti ha nascosta e sostituita e ha ammazzato una giovane ragazza che ho creduto mia figlia per anni! Per anni!”.
“Non l’ha ammazzata lei! Sei stata tu!”.
“No! No! Io non ho fatto nulla di male! Sto soltanto seguendo il grande piano!”.
“Nessun grande piano! Tu sei un... un...”.
“Un peccatore, Rachel. Io sono un peccatore. E non perderò più tempo. Tu hai ciò che mi serve, nel petto”.
E lì non poté far più nulla per fermare l’adrenalina che gli scorreva nel corpo. Lionell si voltò frenetico, cercando il grosso coltello che aveva preparato.
“Linda, spogliala” disse poi, osservando il filo della lama che aveva davanti. La donna s’avvicinò veloce, coi tacchi che emettevano un ticchettio snervante, che si sovrapponeva ai bip dei computer.
“No! Lionell, no! Ti prego!” urlava Rachel.
Si guardò attorno, col cuore che batteva a un ritmo impazzito e il panico che le faceva girare la testa. Non c’era nulla che la potesse salvare, lei, con le mani legate e nessuno a giocare nel suo team. Dov’era Zack?
Dov’era andato a finire? Si era reso conto del fatto che fosse stata rapita?
Alzò gli occhi, vedendo la grata che dava nel condotto d’areazione, ma la griglia non nascondeva nessun volto.
E poi capì che tutto sarebbe stato inutile.
Linda le sbottonò la camicia e le tagliò il reggiseno, sfilandoglielo via. Le coprì il petto con la camicia, lasciandole scoperta la parte centrale del torace, fino all’ombelico.
Lionell s’avvicinò e l’ansia nel petto di Rachel esplose. Chiuse gli occhi per un attimo, immaginando il volto di sua figlia accanto a quello di suo marito, con le lacrime che continuavano a uscire rapide.
“Una nuova era sta per cominciare!” urlò l’uomo e tutto divenne dolore.
Il coltello affondò sotto lo sterno e scese lento fin sopra il bacino.
Rachel non urlò, sentì soltanto la vita andar via, e poi lo vide: il volto di Zack, dietro quella grata.
Lui era immobile, osservava la scena esterrefatto con gli occhi e la bocca spalancati.
“Rachel...” sussurrò, senza che nessuno lo sentisse. Le lacrime fuggirono dal suo sguardo, devastando la sua mente; vedeva il sangue fuoriuscire dal corpo della moglie e i suoi occhi diventare mano a mano più opachi, più spenti. Le labbra di Rachel tremavano e le lacrime continuavano a scendere, quando la bocca mimò inavvertitamente una parola.
 
"AL-LLL-LE-LE-GRA...".
 
Zack fu rapido, nell’intesa; non poté fare altro che annuire, rassegnatosi: aveva appena perso sua moglie.
Ragionò in una frazione di secondo, con una lucidità che non avrebbe mai creduto di possedere. Avrebbe avuto la possibilità di sfondare quella grata, forse l’intero condotto d’areazione, cadere dal cielo e consegnare morte e punizione a tutti i presenti.
Forse l’avrebbero sparato nelle gambe. O forse avrebbe fatto la fine di Rachel.
 
Ma poi a quel punto cosa sarebbe rimasto a sua figlia?
 
La stessa Rachel, ormai rassegnatasi alla morte, aveva capito quale fosse la priorità, e non solo perché Allegra fosse la loro bambina ma anche perché era l’unica potenzialmente in grado di comunicare con Arceus.
Difatti, la morte di sua madre aveva sancito il passaggio delle funzioni; Allegra, con la maturità, sarebbe diventata il nuovo oracolo.
Tuttavia era difficile rassegnarsi all’impotenza che provava, al dolore che lo stava pervadendo, pressando, schiacciando sotto il peso di mille mari.
Si sentiva bruciato dal fuoco di mille soli, congelato dal freddo di mille inverni.
D’improvviso la stanchezza lo pervase, le gambe tremarono e le lacrime non riuscivano più a fermarsi.
Sarebbe morto volentieri anche lui, in quel condotto, se non ci fosse stata la sua bambina ad aspettarlo a casa.
Però era difficile metabolizzare; gli risultava impossibile metabolizzare quella scena che si stava presentando davanti agli occhi, con Lionell che infilava le braccia nel corpo di Rachel, col sangue e gli organi che strabordavano.
Sentiva il calore del suo corpo volatilizzarsi, percepiva l’anima di sua moglie evaporare, ormai ricordo felice di anni passati a combattere per la normalità.
Avevano perso. Lei era speciale, troppo speciale per poter vivere un’esistenza normale.
Non riusciva a trattenere le lacrime, Zack, e quel senso d’angoscia che si stava espandendo a macchia d’olio nel profondo della sua coscienza stava macerando gli ultimi residui di coraggio e forza di volontà.
 
 
Il cuore batteva e in pochi secondi si ritrovò costretto a decidere se dare ascolto al suo cuore, al suo istinto, a quel primordiale richiamo di vendetta e giustizia che gl’imponeva necessariamente di staccare la testa dal collo di quell’uomo e bere il suo sangue, senza lo stesso risultare mai il vincitore.
Oppure usare l’intelligenza, pianificare e riuscire a vincere proteggendo sua figlia.
Sì, Allegra sarebbe dovuta essere la priorità.
Piano, si voltò, cercando di non far rumore.
Lionell non avrebbe comunque sentito nulla: era impegnato e concentrato, con l’adrenalina che non gli consentiva di chiudere gli occhi.
Il volto era sporco di sangue e le mani cercavano qualcosa di duro e candido differente dalle ossa.
“Dov’è?! Dannazione, dov’è?!” fece.
Smosse il corpo ormai senza vita di Rachel, cercando di farne uscire il cristallo.
“Non c’è! Linda, dov’è?!” urlò, abbassandosi per vedere il pavimento al di sotto del tavolo.
Solo sangue e brandelli di vestiti.
“Forse è tornato in forma tangibile, il cristallo…” osservò la donna, a distanza. Guardò Lionell, interamente impiastricciato di sangue, senza riuscire a capire come avesse fatto ad ammazzare sua figlia senza neppure un briciolo di rimorso.
Poi lo vide pulire con la mano il ventre dal sangue.
“Linda…” sussurrò, quasi sbiancando. Il sangue grondava dal suo volto e i suoi occhi non facevano altro che peggiorare la situazione. Quando la donna si avvicinò, attenta a non scivolare sul sangue, carezzò la cicatrice del cesareo sulla pancia di Rachel.
“Ha una figlia”.

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Capitolo 28
*** Terzo Interludio ***


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Terzo Interludio

- Adamanta, Piedi del Monte Trave, Accampamento degli Ingiusti
 1000 anni prima -

 
La notte era la migliore amica dei soldati; soprattutto di quelli che non trovavano sonno.
Il buio avvolgeva le gambe stanche e le mani ferite, dai palmi plasmati dai manici delle pesanti spade.
Quelle spade, loro migliori amiche durante il giorno, urlavano disperate quando le teste si poggiavano sui cuscini sottili, praticamente federe vuote, talvolta con qualche veste all’interno.
Quei gladi avevano le voci degli uomini a cui avevano tagliato via la vita, delle loro mogli ormai vedove.
Di quei figli rimasti orfani.
Tuttavia Adamo aveva imparato a convivere col rimorso, comprendendo che, se doveva per forza levare una vita, essa sarebbe rimasta con lui sulla propria coscienza.
Aveva guardato e riguardato la piantina, organizzato mentalmente l’assedio al Monte Trave e a quel tempio che tanto voleva distruggere.
Ideali non suoi, era Nestore, il suo re, a volerlo vedere in macerie.
Adamo era un uomo troppo vuoto per potersi lasciare infastidire dal credo altrui; per lui contava l’orgoglio, la fame di vittoria.
Le donne, il vino buono.
Voleva che il suo nome riecheggiasse subito dopo ogni pensiero riguardante il crollo del tempio di Arceus.
Lui era il cavaliere comandante dell’intera guarnigione unita che i Templari chiamavano Ingiusti, la più grande invenzione da quando l’uomo aveva imparato che il fuoco uccideva.
Inizialmente gli era sembrato incredibile che ben nove regni si fossero riuniti per eliminare la corona spirituale che i templari avevano imposto ai loro popoli.
E ognuno di quei re sapeva che non potevano coesistere due poteri, tra le mura delle loro città.
Adamo sapeva quanto la religione fosse infida, un serpente senza denti che strisciava lentamente nelle case dei popolani e sussurrava loro nelle orecchie che le sofferenze terrene fossero inutili. La sopportazione e la bontà avrebbero portato alla benedizione eterna.
E chi imponeva regimi di paura si trovava davanti persone che non avevano più timore; come se sapessero di essere dalla parte dei più forti e che, nonostante tutto, avrebbero vinto lo stesso, anche con le punizioni subite.
E un re viene rispettato soltanto se incute timore. Il rispetto si guadagnava col sangue.
 
Male sociale, insomma, Arceus e la sua parola dovevano morire.
E la sua parola era senza alcun dubbio l’oracolo, Prima.
 
Sulla mappa che aveva davanti, illuminata da poche fiammelle di candela, vi era l’intera rappresentazione del territorio della montagna: boschi, solo boschi, e un solo unico grande spiazzale davanti ai mille gradoni che portavano fin sulla montagna.
La lotta si sarebbe svolta lì, in quel piccolo spazio, dove gli uomini in bianco erano già schierati.
Avevano un vantaggio.
Tuttavia sapeva, per via di alcuni informatori, che le loro unità d’arco erano davvero poche, sconfitte dal grande assalto subito dai loro Pokémon Drago. Ipotizzava un loro impiego nei boschi, sugli alberi.
Forse avrebbe fatto bene a sguinzagliare i segugi assieme ad alcune unita di fanteria con ausilio di Pokémon volanti. Gli Staraptor avrebbero attaccato i Templari sugli alberi mentre gli Houndoom si sarebbero occupati di quelli nascosti tra i cespugli.
Poi guardò la cartina con più attenzione, pensando al fatto che elementi per l’unità a distanza, di quelli con l’arco lungo, sarebbero potuti essere appostati sulle sommità della montagna, davanti al tempio, e quindi inattaccabili in tal senso.
Quell’eventualità sarebbe stata problematica.
Avrebbe dovuto attaccare i Templari lì d’istanza con truppe volanti ma era bene a conoscenza del fatto che sei temibili dragoni fossero a difesa dello spazio aereo del tempio.
Ben protetto.
Si fermò e sospirò, spostando i lunghi capelli biondi lungo le spalle. Ragionò e capì che l’unico modo per riuscire in quell’impresa fosse inviare unità rapide attraverso i boschi e risalire la montagna, uccidendo gli arcieri per poi cominciare lo scontro con le fanterie.
Le unità Pokémon dei due schieramenti erano pressoché le stesse, con ingenti perdite sia da un lato che dall’altro.
Quella guerra stava portando allo sfinimento entrambe le fazioni.
 
Sospirò e s’alzò dalla sedia, guardando l’elmo nero sul manichino, che avrebbe indossato il mattino seguente.
O meglio, dopo qualche ora.
Era parecchio stanco; voleva levare quella cotta da dosso e gettarsi in una grossa vasca d’acqua calda, assieme a due donne.
Due rosse.
Amava le donne coi capelli rossi, gli ricordavano la prima donna con cui era andato, appena adolescente.
Era una puttana coi fianchi larghi e le lentiggini sul seno. Ricordava che aveva una brutta cicatrice sulla guancia; forse era quello il motivo per cui era finita in un bordello di Miracielo.
Guardò per un attimo le proprie mani, così piene di tagli che neppure quella vecchia prostituta si sarebbe sognata di farsi toccare.
Già vedeva il sangue che impregnava le dita, attraversando i solchi digitali e scivolando oltre, lungo il dorso.
Pensò per un attimo alla guerra in generale, e alla morte delle persone a lui care.
Poi un rumore.
Qualcuno era entrato nella sua tenda, tuttavia l’ingresso era davanti e non s’era spostato d’un millimetro. Si voltò rapido, sentendo più respiri alle sue spalle e si accorse effettivamente di non essere solo.
Sì, perché davanti a lui c’era il suo più acerrimo nemico, Timoteo, il capo dei Templari, accanto a Prima, l’oracolo di Arceus.
La parola di dio.
La donna che doveva uccidere.
 
Rimase calmo, non perse la concentrazione.
Anzi, sorrise; trovò divertente, quasi grottesca, tutta quella situazione.
 
“Certo che ne avete, di fegato...” sorrise, notando come, anche nel buio più denso possibile, l’armatura bianca del Templare rilucesse. Prima era un passo dietro di lui, nascosta dall’enorme spada già sguainata. La mosse velocemente, Timoteo, puntandogliela velocemente alla gola.
La lama fredda aveva graffiato la gola all’uomo.
Quest’ultimo allargò il sorriso, osservando stupito la donna, spaventata da tutta quella situazione. Nei suoi occhi riuscì però a vedere una grande dose di coraggio.
“Hai portato la pecora nella bocca del lupo...” aveva detto Adamo, continuando a sorridere.
“A dispetto di ciò che sembra, veniamo in pace” ribatté serioso il capo dei Templari.
“Allora levami la spada dal collo...”.
Timoteo guardò Prima annuire, quindi aprì la Ghicocca verde che aveva nella tasca e lasciò che il suo imponente Haxorus uscisse allo scoperto. L’enorme Pokémon serviva ai buoni come garanzia, nel caso il Gengar di Adamo fosse nascosto nell’ombra e attaccasse all’improvviso.
“Spiace non potervi offrire qualcosa di caldo... Del resto non aspettavo visite” sorrise il biondo, massaggiando la parte del collo appena liberata dal bacio della lama. “Che vi porta qui, in piena notte?”.
“L’oracolo è entrato in contatto con Arceus” ribatté Timoteo.
Adamo rise di nuovo. “Il potente Arceus ha parlato con una gracile ragazzina...”.
“Ci ucciderà tutti!” esclamò l’altra, scavalcando il grosso cavaliere che la divideva dal nemico. L’Ingiusto vide il rivale afferrare la piccola donna e tenerla stretta, aderente alla sua armatura. Non sentì poi cosa le sussurrò nell’orecchio per farla calmare ma dovette ammettere a se stesso che con quell’uscita la donna aveva guadagnato la sua attenzione.
“In che senso?” chiese poi.
“Appunto! La profezia è chiara! Il mondo così come lo conosciamo è stato un dono della benevolenza del grande Arceus! Ci ha donato i fiumi per dissetarci, la terra per sfamarci e soprattutto i Pokémon perché siano fedeli compagni ed amici... La grande guerra che state scatenando per il Cristallo della Luce ha portato solo la morte di tantissime persone e di Pokémon! Lui non li ha creati per utilizzarli come armi! Esistono per far sì che entrino in simbiosi con noi, perché diventino nostri fedeli alleati nella vita di tutti i giorni... Ebbene, la pazienza di Arceus è finita. La profezia di Arceus si avvererà e per noi sarà la fine”.
“Di che profezia stai parlando?” domandò il capo dei cattivi.
“Nessun’anima avrebbe dovuto separarsi dal suo corpo... nessuna” fece, guardando prima Adamo e poi Timoteo, voltandosi leggermente e incontrando gli occhi stanchi del Templare. “Ora vuole che la sua benevolenza sia ripagata dalla fede che noi abbiamo in lui: sono mille anni, quelli che ci ha concesso; se entro mille anni non finiremo di utilizzare i Pokémon a scopo di guerra, gli elementi si rivolteranno contro di noi, annientando ogni persona e Pokémon, e facendo sì che tutto il creato torni a fare parte di lui, imprigionandolo nell'Uovo della Vita”.
Fu bello lo sguardo che Prima e Timoteo si scambiarono, pieno d’apprensione e paura.
Tuttavia, l’Ingiusto non poté fare altro che ridere di gusto.
“Che diamine stai facendo?! È una cosa importante, non c’è niente da ridere!” ribatté la donna.
“Tra mille anni sarò morto e sepolto!” esclamò.
“Ma saranno i tuoi discendenti a morire! E non ci sarà più nulla per cui combattere!”.
Adamo stropicciò gli occhi e sospirò.
“È stato bello ascoltarti, oracolo, ma adesso fatevi da parte. Ho un tempio da conquistare e delle giovani donne da stuprare!” esclamò, squadrando la giovane moretta dall’alto al basso.
Sguainò poi la spada, tirando un rapido fendente verso il collo di Prima, incontrando poi il freddo acciaio del gladio di Timoteo. Quello disarmò rapidamente con un rapido movimento l’avversario e puntò nuovamente la lama al collo dell’uomo.
Adamo sentiva il cuore battere velocemente. Adorava l’adrenalina che si riversava nel suo sangue in quelle situazioni.
“Siamo venuti in pace e così ce ne andremo” fece Timoteo, spostandosi lentamente verso l’uscita. Non osava fare passi avventati, sapeva quanto Adamo fosse un buon combattente.
“Io non penso! Gengar, pensaci tu!”.
In un attimo due occhi e un sorriso arcigno apparvero in una larga ombra sul pavimento. Nessuno riuscì più a muoversi.
“No! Sei un vigliacco!” sentì poi urlare Timoteo. Adamo staccò nuovamente il collo dal tocco incandescente della lama templare. Respirò profondamente, svuotò i polmoni, poi vide Gengar alzarsi dal buio in cui era nascosto e muoversi attorno ad Haxorus. Quello ruggiva, nervoso.
“Brutto pezzo di merda! Lascia stare Haxorus e combatti come un vero uomo!” urlava Timoteo, che riusciva a muovere soltanto la bocca.
Adamo sorrise, muovendosi liberamente. Afferrò un piccolo e affilato coltello e fece per avvicinarsi alla coppia di statue viventi, quando vide il terrore sul volto di Prima.
“No! Ti prego!” fece.
Adamo accarezzò l’armatura dell’uomo, afferrandogli poi l’orecchio.
“Non gli servirà, tanto, Oracolo. Tra poco sarà morto!”.
“No!”.
“Zitta!” esclamò poi, dandole un forte manrovescio sul volto.
Timoteo non ci vide più. “Sei un uomo senza un briciolo di palle! Prenditela con chi può tenerti testa, e non con una donna!”.
Adamo si voltò rapido, e incise con precisione la guancia destra dell’uomo.
“No! Abra, dobbiamo fermare Gengar! Aiuto!” fece Prima, sentendo Timoteo gridare. Abra, dapprima invisibile, apparve all’improvvise, fluttuando in una bolla azzurra d’energia psichica.
I suoi occhi assunsero lo stesso colore e Gengar perse la concentrazione, stringendo gli occhi e liberando i tre dalla morsa di Malosguardo.
Timoteo fu rapido e colpì con un pugno sul mento Adamo, lasciando che cadesse alle sue spalle.
Prima era bloccata sul sangue che colava sull’armatura dell’uomo, vivido e rubino. Il capo degli Ingiusti, invece, si sollevò rapidamente e afferrò la spada, cominciando a duellare col nemico.
“Prima!” urlò Timoteo. “Fatti indietro!”.
“Stai attento!”.
“Andiamo via di qui!” ribatté il Templare.
“No! Gengar, fermali!” fece poi Adamo, che vide Prima saltare lontana e guardare il proprio Pokémon.
“Abra! Scappiamo via!”.
E presto le loro sagome diventarono luce, assorbita dal buio. Ad Adamo non rimase altro che un alone fastidioso negli occhi e una grande rabbia nel petto.
“A tutte le truppe! Prepariamoci per l’assalto!” urlò infine, afferrando l’elmo dal manichino.
 

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Capitolo 29
*** Capitolo 25 - Un Pezzo, Due Pezzi, Un Penny E Un Decino... ***


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25. Un Pezzo, Due Pezzi, Un Penny E Un Decino...
 
Adamanta, Primaluce -
 


Ormai nevicava fitto.
Zack lo sapeva; sapeva che Braviary stava soffrendo enormemente, con le piume impregnate dall’acqua gelata, un tempo neve ormai sciolta.
Primaluce non era lontana, e Zack sapeva anche che il suo corpo non avrebbe retto molto tempo, in quelle condizioni psicofisiche; dall’alto, poco più sotto delle nuvole, guardava in basso.
Zack sapeva che se si fosse buttato quel dolore si sarebbe estinto, sarebbe volato via dal suo corpo. Forse sarebbe entrato in quello dei suoi cari ma poco importava.
Zack sapeva di avere delle responsabilità più grandi di lui.
Zack sapeva pure di essere un padre, di avere una bambina ad attenderlo a casa.
In fin dei conti Zack sapeva un sacco di cose, quella situazione era ben chiara ai suoi occhi: il padre di Rachel era un uomo di merda.
L’unica cosa che non sapeva, lui, era come dire ad Allegra che sua madre era stata uccisa dal nonno che non aveva mai visto e di cui chiedeva in continuazione.
Sospirò, l’acqua che aveva sul viso non era neve sciolta.
Prese il coraggio necessario per emettere un altro respiro, con le mani congelate che tremavano e la mente che giocava con lui in modo subdolo e perverso.
Carezzò il piumaggio bagnato di Braviary prima di capire che la sua famiglia, la sua idea di famiglia, quella dove un padre e una madre crescono una bambina forte e sana, era stata distrutta.
C’erano solo due pezzi su tre, perché Rachel era sparita.
Rachel era morta.
E lui piangeva, più ci pensava e più il suo cuore batteva all’infinito, cercando d’uscire dal petto con rabbia immane.
Anche Zack era arrabbiato; era dispiaciuto, mortificato e si sentiva impotente davanti a tutta quella situazione, costretto da sua figlia a utilizzare la testa invece che la spada.
Ma la sua voglia era quella di staccare la testa a quell’uomo e sfogare la sua rabbia pugnalando quel corpo.
Non era neve sciolta, quella che colava dal suo mento.
Zack sapeva che la parte più razionale di sé ormai non esisteva più e la cosa lo annichiliva; era diventato un cumulo di rabbia senza via d’uscita, con le mani che fremevano e il sangue che bolliva.
Rabbia, quella fa diventare ciechi. Perché Zack ormai non vedeva nient’altro che la scena in cui aveva convertito la sua vita da pochi attimi a quella parte: lui che strappava il cuore di Lionell Weaves a mani nude.
Poi però vedeva gli occhi di Allegra che lo fissavano, che guardavano il volto di suo padre sporco di sangue e qualcosa si muoveva.
Era giusto diventare il carnefice del proprio carnefice?
Era giusto farsi giustizia contro una persona che non riconosce giustizia sovrana?
Etica o convenienza?
Cuore o testa?
Le domande turbinavano nella mente del giovane padre mentre il freddolacerava le sue carni.
Aveva bisogno di lavarsi, immergersi in una botte d’acqua bollente e stare in silenzio.
Sì, aveva bisogno del silenzio, perché tutto, perfino il sibilo del vento, aveva la voce di Rachel.
Doveva programmare, crearsi un piano d’azione e agire come avrebbe fatto una persona piena di senno.
Perché Zack sapeva di non averne più a disposizione.
Solo rabbia, solo disperazione e quel senso di smarrimento che non riusciva a mandare giù. Davvero la sola presenza di Rachel gli permetteva di vedere tutto con occhi più liberi dalla polvere che il mondo gettava sul volto un po’ di tutti?
Doveva recuperare il respiro ma l’aria era fredda e bruciava nei polmoni.
E sulle piume di Braviary non c’era solo neve sciolta, ma anche lacrime di fuoco che bruciavano due volte, perché non sarebbero mai dovute scendere dai suoi occhi.
Rachel non sarebbe mai dovuta morire.
“Scendi” disse poi al suo Pokémon, con la voce distrutta dal pianto, non appena avvistata Primaluce. Fu pizzicato in quel momento dalle prime luci dell’alba.
Era bagnato fradicio, con le labbra spaccate per il freddo e il colorito pallido. Soltanto gli occhi gli donavano luce, ancora verdi come smeraldi nonostante il velo di lacrime a celarli dal mondo malvagio.
“Grazie, Brav...” sussurrò, carezzando il becco del Pokémon e facendolo rientrare nella sfera.
Aveva freddo e paura.
Era solo.
Bussò alla porta e il cuore batteva, quasi esplodeva. La notte era finita e lui era ancora nel buio più che totale. Guardò il cielo, con quelle nuvole cariche di neve che continuavano a lavorare inesorabili. E poi la porta si aprì.
Un fantasma nelle vesti di sua cognata Marianne aprì la porta. I lunghi capelli ricci erano totalmente spettinati, gli occhi parevano piccole fessure con dentro due zirconi neri.
“Sta dormendo. Hai notizie di Ryan?” chiese quella.
Zack sospirò, colpevolizzandosi ulteriormente per non aver avuto a mente Ryan e il fatto che stesse fronteggiando una rapina in banca organizzata da Lionell Weaves stesso.
Il piano era chiaro, anche Zack lo aveva capito. La grossa rapina era soltanto un modo per spostare l’attenzione mediatica e far guardare agli altri ciò che lui voleva vedessero.
Nessuno doveva capire che Rachel fosse l’obiettivo, partendo da Zack e finendo con i Superquattro di Adamanta, passando per il Campione della Lega.
“No. Devo prendere Allegra” ribatté l’uomo.
Marianne fissò meglio il suo volto.
Cereo.
“Tutto bene, Zack?”.
“Dov’è Allegra?” disse subito, noncurante della domanda appena ricevuta. Avanzò passi stentati, spostando Marianne, che si spaventò.
“Zack! Che diamine succede?!”.
“Cercano Allegra, Marianne. E verranno qui! Allegra dov’è?!” fece, prendendo la donna per le spalle.
“È...è di là...” sussultò quella.
Zack pareva non toccare neppure il pavimento, negli occhi aveva soltanto Allegra, e poi il volto di Rachel, le sue labbra che mimavano il nome di sua figlia.
Poi il dolore, aveva perso Rachel.
L’aveva vista andare via come aveva fatto con Emily.
“Zack!” urlava Marianne, correndogli dietro. Lo vide entrare nella cameretta di Leonard e accese la luce. Il piccolo stava dormendo nel proprio lettino, sotto un pesante piumone. Spalancò immediatamente gli occhi, tramortito dal sonno e confuso.
“Non è qui! È di là!” esclamò la donna alle sue spalle.
“Che succede?” domandò il bambino, con voce compressa.
“Niente, piccolo. Continua a dormire” fece sua madre, spegnendo la luce e correndo ancora verso Zack. “E fermati!” gli aveva urlato contro. Lo afferrò per le spalle e lo sbatté contro il muro, osservando il viso sconvolto che indossava.
Si guardarono negli occhi per qualche istante, Zack sentiva il cuore scoppiare nel petto e le lacrime scendere calde sulle guance congelate.
“Mi spieghi che sta succedendo?”.
E fu lì che l’adrenalina perse d’efficacia, facendolo sentire immediatamente stanco. S’accasciò lentamente, disperato nel suo pianto, spingendo la schiena contro il muro e scivolando per terra.
“Rachel è andata…” sussurrò, portando le mani sugli occhi. La disperazione era tale da non permettergli di controllarsi. Doveva andare via da lì, sapeva che Allegra fosse in pericolo e con lei anche tutti i suoi amici.
Lionell sarebbe andato a cercare sua nipote ovunque Zack avesse messo radici.
Alle parole dell’uomo, gli occhi di Marianne si spalancarono.
“Che cosa… che cosa significa che è andata, Zack?”.
Lui abbassò la testa, non riuscendo a trattenere il pianto. Come avrebbe fatto a vivere quella vita senza Rachel che gli disegnava le linee da seguire?
“Zack!” continuò quella, cercando di contenere il volume. “Che cosa stai dicendo?!”.
“Lionell l’ha presa…” sospirò quello, con le parole che rasentavano la delicatezza d’un soffio di vento.
“Mamma…” sentirono poi entrambi alle spalle. Marianne si voltò rapida, vedendo Leonard con un peluche di Teddiursa tra le mani e i piedi scalzi sul pavimento in marmo. “Che succede? Perché lo zio Zack sta piangendo?”.
“Ehm… Si è fatto male…” mentì la moretta dai lunghi capelli ricci. Riguardò Zack che piangeva come un bambino e si accovacciò nuovamente davanti a lui. Gli mise le mani sulle spalle e cercò di rincuorarlo, stringendo quel corpo ormai febbricitante e morto dentro, ma paradossalmente ancora brulicante di calda e vendicativa vita.
“Potremmo dargli un cerotto” aveva ribattuto il più piccolo”, raggiungendo la madre e guardandola negli occhi.
Marianne sospirò.
“Lo zio Zack è un uomo grande e forte. Sa benissimo che qualsiasi… qualsiasi sia la ferita che ha colpito il suo corpo, grande o piccola, riuscirà a trovare sempre la forza per andare avanti”.
L’uomo alzò lo sguardo, con le lacrime che trasbordavano dalle rime degli occhi verdi.
“Lo zio Zack sa che deve essere forte per Allegra. E sa che, anche quando le cose saranno sempre più dure, noi saremo accanto a lui”.
“Zio” ribatté quello, quasi subito. Zack spostò gli occhi sul bimbo col pigiamino rosso. “Se vuoi puoi tenere il mio pupazzo per un po’… Quando la notte ho paura lo stringo e tutto mi passa”.
Glielo porse e vide l’uomo sorridere dolcemente. Afferrò il pupazzo e poi accolse nel suo abbraccio il bambino, che gli si accoccolò addosso.
“Grazie, Lenny. Sei un bravo bambino” gli disse.
Marianne s’appoggiò accanto a lui, poggiando la testa sulla sua spalla, e Zack riuscì a rivivere per un secondo quel calore che ormai era stato condannato a perdere per sempre.
Era forse quello il modo per il destino di fargli capire che, nonostante tutto, c’era un po’ della sua famiglia in ogni persona che amava?
Tutto ciò che rimaneva di quel sogno che aveva costruito fino al giorno precedente dormiva dietro la porta che aveva davanti.
Tuttavia si beò del calore di Marianne per qualche istante, assieme a quello di suo nipote Leonard, che qualche minuto dopo finì per addormentarsi.
E anche il respiro della donna s’appesantì.
Altri pensieri s’avvicendavano nella sua mente, dove quelle cruente immagini continuavano a dilungarsi, quasi costrette dalla coscienza a rimanere lì, a tormentare l’animo colpevole dell’uomo, che intanto aveva capito di non essere solo.
Marianne e Leonard dormivano ma il suo unico pensiero era Allegra, davanti a lui, dietro quella porta chiusa.
Doveva trovare la forza e il coraggio di andare avanti.
E lo fece. Almeno cominciò col risollevarsi.
Marianne aprì lentamente gli occhi, sospirando profondamente; vide Zack poggiare Leonard nel suo lettino e rimboccargli le coperte. Gli pose tra le braccia il suo peluche di Teddiursa e uscì dalla camera. Dopodiché aiutò la donna a rialzarsi da terra.
“Scusami… sono stanca e mi sono addormentata…”.
“Non preoccuparti, Marianne”.
“Ti senti un po’ meglio?” chiese poi. Carezzò il viso dell’uomo, sul quale la barba stava cominciando a rispuntare. Zack le guardò le labbra e poi il naso. Infino poggiò lo sguardo sugli occhi di quella, vividi e contemporaneamente stanchi.
Preoccupati ma pieni di speranza.
“Dovresti chiamare Ryan. Dirgli che deve tornare rapidamente e spiegargli quello che è successo. Dovreste allontanarvi da qui, magari portare con voi anche Alma e Thomas…”.
“Non so se è il momento adatto per chiamarlo… Sta lavorando per quella rapina a Timea e…”.
“La rapina a Timea era soltanto un diversivo… Era Rachel quello che volevano, Marianne”.
“Conoscendolo, il suo istinto sarà quello di mettersi subito contro l’Omega Group”.
Zack abbassò il volto e sospirò.
“Lionell Weaves è cambiato, è un altro uomo. Più cattivo, più sicuro di sé… Non sembra avere limiti. Ha scoperto che Rachel ha avuto una bambina e ora è alla ricerca di Allegra…”.
La donna annuì, sistemando i voluminosi capelli, poi sospirò.
“Ora dove andrai? Se vuoi potresti trasferirti qui da noi e…”.
“No. No, Marianne, no. Devo tenervi fuori da questa faccenda. Andremo lontano e lavorerò a un modo per concludere questo clima di terrore…”.
“Che vorresti fare?”.
“Catturare Lionell Weaves”.
Il silenzio s’espanse a macchia d’olio, denso e prepotente, quando quella abbassò il volto. In cuor suo non riusciva a credere d’essersi fatta convincere a lavorare per un uomo spregevole come quello.
Aveva bisogno di soldi, quando suo padre era morto tutto era andato a farsi benedire, con sua madre in preda alla depressione e suo fratello minore che spingeva per andare in conservatorio.
Artista lui, amante del sassofono.
Amava sentirlo suonare.
Fu anche per loro che decise di accettare quel posto come factotum all’interno di quella società di videosorveglianza, che poi si rivelò essere il covo del male.
Fu circuita da Linda, selezionata per la sua fedeltà e le fu fatto il lavaggio del cervello sulle priorità personali.
Poi stipendio leggermente più alto della norma, una divisa nuova e dei Pokémon d’ordinanza, e scese a pattugliare Adamanta alla ricerca di non sapeva cosa. Lei doveva essere soltanto pronta nell’eventualità che l’ufficiale di grado con il quale era d’istanza le ordinasse di lottare.
Poche settimane conobbe Ryan, coinvolto in quella che sarebbe stata la sua sfida personale più grande: ritrovare sua sorella dispersa in quelle terre febbricitanti.
Si rese conto della bontà effettiva di quell’uomo soltanto quando capì che Lionell avesse traviato anche la sua mente.
Marianne in fondo era buona, proprio come Ryan.
Proprio come Zack.
Proprio come Rachel.
Proprio come Allegra.
“Vai. Chiamalo e spiegagli la situazione”.
“Dubito che riuscirò a contattarlo, se sta combattendo la vedo assai dura”.
Zack fece cenno di no con la testa. “Ti ripeto, era tutto un diversivo. A quelli, del caveau, non importava nulla”.
“Io...” disse quella, confusa. “Io lo chiamerò subito...”.
L’uomo annuì e lentamente aprì la porta della camera dove dormiva sua figlia. La luce del corridoio entrava docile e illuminava il lettino della bambina.
Si sentì sollevato nel vederla dormire lì. Sì, perché c’era. Allegra era lì, Lionell non gliel’aveva portata via.
Le si avvicinò e si gettò su di lei, prendendola tra le proprie braccia e stringendola in un abbraccio. I capelli neri della bimba erano spettinati sul cuscino bianco. Il suo volto era disteso e rilassato e lei era felicemente all’oscuro dell’inferno che stava per vivere.
Zack era felice di sentire il suo respiro.
“Papà...” disse lei, appena svegliatasi. “Hai fatto tardi... Zia Marianne ha detto che dovevo dormire qui...”.
“Sì, gliel’ho detto io...”.
“La mamma è a casa?” ripeté la bambina.
“...”.
Tirò le coperte dal letto e avvolse sua figlia in quell’abbraccio di lana.
“La mamma è casa?” ripeté.
“Sì. Noi però adesso andiamo in vacanza”.
Quella poggiò la testa sulla spalla di Zack e gli cinse le mani al collo.
“Non è ancora estate”.
“Lo so” disse l’altro, uscendo dalla stanza e scendendo le scale.
“Le vacanze si fanno in estate, quando la scuola finisce”.
“Oggi non andrai a scuola”.
“Perché?” chiese quella, proprio quando Zack mise piede nel salotto di casa. Marianne era seduta sul divano, col telefono all’orecchio.
“Marianne, noi andiamo” fece il papà, sostando davanti alla porta.
“Perché?” ripeté Allegra.
“Perché andiamo in vacanza”.
Marianne aspettava in linea, chiedendo a Zack di prendere le scarpine della bimba accanto alla porta.
La fece sedere sulla poltrona e le infilò le scarpine, ancora sporche di fango, quindi si voltò nuovamente verso la padrona di casa. Quella sembrava sconsolata.
“Non risponde, Zack...” si lamentò.
“Sarà ancora lì. Continua a telefonarlo, capirà che è un’emergenza”.
La donna poggiò il telefono sul divano e sospirò, storcendo le labbra in una smorfia dispiaciuta.
“Zack... io... mi spiace molto...” disse, abbracciandolo con calore.
Lo guardò negli occhi verdi, gonfi e rossi per il pianto ma ancora verdi come smeraldi. I capelli castani gl’incorniciavano il volto, lunghi quasi fino alle spalle, anche se nascosti dal cappello bianco che indossava.
“Che cosa, zia? Cosa ti spiace?” chiedeva Allegra.
Zack e Marianne la snobbarono.
“State attenti e cercate di contattare Alma e Thomas. Col bambino appena nato è importante che stiate tutti vicini e pronti per ogni evenienza”.
“E voi che farete adesso?” chiese la donna.
Zack guardò sua figlia sobbalzare dalla poltrona.
“In vacanza! Papà ha detto che andremo in vacanza!”.
L’uomo trovò lo sguardo complice della donna, che annuì.
“State attenti, allora”.
Si avvicinò ai due, dando un forte abbraccio all’uomo e chinandosi poi ai piedi della nipote.
“E tu fai la brava”.
“Quando tornerò ti porterò un regalino” ribatté Allegra.
“Grazie...” sorrise debolmente l’altra, mentre una lacrima le bagnò il viso. “Sei una... sei una bambina bravissima”.
“Lo so” sorrise felice. “Perché piangi?”.
Marianne non riuscì più a trattenersi, inginocchiata per terra. Si perse nella disperazione, affondando il viso nel bracciolo del divano.
“È meglio se andiamo. La zia è stanca e deve dormire” chiuse Zack, avvolgendo nuovamente Allegra nella calda coperta e uscendo all’esterno dell’abitazione.

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Capitolo 30
*** Quarto Interludio ***


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Quarto Interludio

- Adamanta, Piedi del Monte Trave, Accampamento degli Ingiusti
 1000 anni prima -
 
 
Quando il bagliore del teletrasporto si dissolse i loro occhi soffrivano ancora per via della grossa luminosità azzurra.
Timoteo non adorava quelle situazioni: aveva come l’impressione che ogni molecola del suo corpo si disgregasse e si riaccorpasse alle altre sul luogo d’arrivo.
Forse Prima era abituata; del resto Abra era di sua proprietà.
Arrivarono poco fuori la porta dell’accampamento dei Templari, impauriti e stanchi ma tuttavia pieni d’adrenalina in corpo.
Due vedette s’allarmarono nel vedere l’avvento di quelle due nuove figure ancora avvolte dalla luce azzurra, motivo per cui una di quelle scagliò rapida una freccia, che s’incastrò nello scudo dell’uomo.
Dal canto suo, Timoteo sapeva benissimo che quegli uomini erano addestrati a reagire al minimo movimento, motivo per cui aveva tirato a sé Prima e l’aveva protetta col grosso scudo.
“È il Capo!” aveva urlato qualcuno. “È Timoteo! Non scoccate!”.
Non appena sentite quelle parole, il Templare alzò la mostrò la testa, rivelando la figura dell’Oracolo stretta al suo petto.
“Non scoccate!” urlò, trascinandola lontana dal centro dell’accampamento. “E preparatevi a combattere! Adamo sta per disporre le guarnigioni!”.
La tensione era palpabile.
“Questa sarà una lunga notte...” sospirò lui.
Videro decine di soldati accorrere al centro dell’accampamento, mentre le trombe suonavano per svegliare gli uomini che ancora dormivano.
Marcello s’affrettò verso di lui, trapelato.
“Timoteo! Che succede?!” esclamò.
“Dobbiamo prepararci alla battaglia, Marcello. Tra poco comincerà la battaglia. La disposizione delle truppe sarà quella che gli strateghi Elmo e Callisto hanno preparato durante la notte scorsa: voglio degli arcieri sulla cima della montagna e della postazioni contrasta-draghi in volo sul tempio”.
“Dobbiamo quindi dividere l’esercito in due guarnigioni”.
“Io e te gestiremo l’assalto della fanteria avversaria” aveva detto Timoteo, camminando al riparo nella tenda dove il capo dei Templari studiava i piani. “Mentre dovremmo liberare i nostri Pokémon addestrati nei boschi, per eventuali attacchi laterali”.
“Ma come fronteggeremo i Pokémon degli avversari, se i nostri sono nei boschi?”.
Timoteo abbassò il volto.
“Moriranno delle persone, stanotte. Voglio che tu sia sicuro di te stesso. Voglio che tu stia accanto”.
Marcello puntò i grandi occhi azzurri in quelli dell’amico di sempre, per poi annuire.
“Sempre con te. Sei mio fratello”.
“Anche tu” sorrise l’altro. Si voltarono poi verso Prima. “E tu devi tornare al tempio”.
La donna spalancò gli occhi. Sapeva più di quel che avrebbe dovuto.
“Timo... io... io vorrei che tu mi seguissi...”.
L’uomo afferrò la mano dell’Oracolo e sospirò.
“Prima... Ho una battaglia da combattere...”
La donna spalancò i grossi occhi azzurri, sentendo una grossa carica d’angoscia serpeggiare nel proprio animo.
“No, Timoteo! Ti prego, devi venire con me! Per un attimo, solo un attimo... ma vieni con me...”.
E quella disperazione fece preoccupare il Templare. Non aveva mai visto la donna in quel modo.
“Io...” abbassò il volto. “Io non posso lasciare i miei uomini da soli, senza una guida”.
E fu solo istinto.
“Abra!” urlò Prima, e il Pokémon li teletrasportò sul Monte Trave, nel tempio. Erano all’interno delle camere private dell’Oracolo.
Timoteo si guardò rapidamente intorno, impanicato, mentre due fiaccole accese coloravano d’arancione il suo viso.
“Cazzo, Prima! Avevo detto che non potevo lasciare l’accampamento!”.
E fu allora che Prima si lasciò andare al pianto. Timoteo non sapeva come reagire, a quella scena; le lacrime cadevano veloci dai suoi grandi occhi e scivolavano sulle guance diafane della bella. I lunghi capelli neri venivano spostati dal vento, che entrava dalla finestra spalancata. Il freddo era pungente ma nel cielo i colori dell’alba erano ancora lontani
Le si avvicinò, prendendole le mani e pensando che fosse un fiore troppo delicato per stare in quel campo minato.
“Scusami. Calmati...” disse, meno ruvido.
“Morirai, se stanotte scenderai in battaglia...”.
Quelle parole furono un fulmine a ciel sereno. Timoteo capì che la sua posizione le consentiva anche di vedere brandelli di futuro.
“Hai... hai visto la mia morte?”.
“Morirai bruciato vivo” replicò quella, abbassando il volto.
Il cuore di Timoteo batteva proprio come quello di Prima, in quel momento; entrambi avevano paura.
“Fuoco?” sorrise poi l’altro, con una genuinità che aveva dimenticato in un vecchio baule.
Prima strinse le mani dell’uomo, affondandogli il viso nel collo.
“Ti prego...” piangeva, cingendogli poi le braccia attorno al collo. Lo strinse con vigore, e anche lui fece lo stesso, carezzandole la nuca. Il suo corpo, esile e sottile, aderiva all’armatura candida dell’uomo.
Prima riconobbe a se stessa che le mancava il contatto con la pelle di quell’uomo, come quand’erano ragazzini, ma senza la malizia che c’era tra un uomo e una donna maturi.
“Prima...” sospirò lui, baciandole la fronte. “Devo andare. Non posso lasciare da soli i miei uomini”.
“Se scenderai giù da questa montagna lascerai me, da sola”.
Timoteo si staccò e la guardò negli occhi. Lei era bellissima, nonostante le lacrime che le imperlavano il volto.
“Tu non sei sola. Io sarò sempre con te”.
“Non è vero!” esclamò l’altra. “Morirai! E non troverò ma più un uomo con l’animo limpido come il tuo! Scappiamo via, andiamo lontano e scrolliamoci da dosso tutti i nostri pesi! Io ti amo!” fece poi, guardandolo negli occhi.
Era la prima volta che lei gli parlava in quel modo. Timoteo chiuse gli occhi lentamente, e nello stesso modo li riaprì.
“Anche io ti amo, Prima” sospirò lui. E lei capì le sue intenzioni dall’espressione smunta che aveva sul volto, ormai rassegnatosi a perdere la vita.
“Andrai a combattere, vero?” chiedeva quella, senza riuscire a smettere di piangere.
“Ma ti garantirò che, se davvero la tua visione è giusta... se davvero morirò bruciato vivo... Beh, sarai il mio ultimo pensiero” sorrise stoico quello. Le carezzò il viso, le guance avvamparono violentemente. Anche lei lo imitò, e le sue dita piccole e affusolate carezzarono la barba castana sulle gote solide.
Ormai piangevano entrambi, lei disperata e lui rassegnato e col sorriso sulle labbra.
“Timo... Ti prego...”.
Le lacrime le laceravano il viso, calde, bollenti.
Per una volta nella sua pesantissima vita, Prima aveva desiderato la felicità; avrebbe voluto vedersi madre, donna. Desiderava vedere il mare, dato che non c’era mai riuscita, e desiderava farlo con quell’uomo bellissimo che amava.
Desiderava fare l’amore con lui.
Ma ormai era tutto inutile.
Timoteo fece un passo indietro, e la mano di Prima scivolò lontana dal suo viso. Tuttavia afferrò il polso del guerriero, fermandolo.
Gli occhi dell’uomo diventarono seri, all’improvviso. Vedeva per la prima volta quella donna che segretamente aveva amato per tutta la vita dichiarare il proprio amore per lei.
Ma per proteggerla avrebbe tranquillamente rischiato la propria vita.
Aveva ormai deciso il proprio futuro.
E nel suo futuro Prima non c’era.
“Devo andare” fece, e la sua voce rimbombò nelle camere dell’Oracolo.
Prima lo tirò di nuovo a sé, e sospirò. Passò poi la mano tra i suoi  capelli e tirò la testa in basso, incontrandolo a metà strada per un bacio colmo di passione e dolore.
Il loro primo bacio era stato un ultimo bacio.
E Timoteo sentì gli angeli cantare il suo nome, benedirlo per un’ultima volta, dopo mille battaglie passate a pregare Arceus. Prima slacciò poi le cinghie dell’armatura di Timoteo, smontandogliela dalle spalle. Timoteo la vide inginocchiarsi davanti a lui, liberando le protezioni alle gambe e scivolando poi alle spalle del cavaliere, aprendogli la cotta.
Lui ne scivolò fuori, nudo e sudato.
Prima non aveva mai visto un uomo senza vesti. Meno ancora si sarebbe sognata di vedere l’uomo che amava nudo, davanti a lei.
Lei era la vergine sacra.
Lei non poteva pensare agli uomini.
Si avvicinò al suo corpo, carezzando quel torace muscoloso e pieno di vecchie ferite. Lo guardava incuriosita, carezzava quelle cicatrici profonde e nerastre, analizzandole con interesse.
Il corpo di Prima non aveva alcuna cicatrice.
S’allungò sulle punte, poggiando il corpo sul suo e sentendo il suo sesso contro il fianco. Lo baciò nuovamente.
“Prima...” sussurrò lui.
“Zitto” ribatté quella. Lo baciò ancora, poi lo prese per mano e scese nella grossa vasca, con ancora indosso la veste candida.
“È fredda...” fece lui, affondando una gamba alla volta all’interno di quell’impluvio.
“Tranquillo” rispose quella, sorridente nonostante le lacrime ancora vive sul volto.
Sfilò prima il braccio destro e poi il sinistro, lasciando che la veste scivolasse in basso, gonfiandosi prima di affondare. Timoteo fisso le carni candide della donna, sorridendo per quella bellezza.
“Ti amo” ripeté lei, facendolo sedere. Quello ascoltava le parole della donna e veniva rapito dai suoi baci, rabbrividendo quando toccò il fondale e l’acqua gli baciò la schiena.
“È fredda” ripeté lui, vedendola avvicinarsi a lui e sovrastarlo. Lentamente entrò in lei.
“Tranquillo” gli sussurrò all’orecchio Prima.
E fecero l’amore.
 
Fu qualcosa di unico e trascendentale, la giusta unione di desideri reconditi e famelici condivisi da entrambi. Infanzia assieme, bocconi poveri di felicità, l’uno fu costretto a correre dietro le alte aspirazioni che all’altra vennero caricate addosso.
Prima lo sapeva che tutte quelle cicatrici sul corpo di Timoteo erano state ferite sanguinolente, precedentemente. E sapeva pure che quelle ferite avevano fatto male.
Lui l’amava, lo sentiva nel cuore, e il fatto che avesse imbracciato il gladio assai giovane fu la diretta conseguenza del viaggio di Prima verso Timea, sulla cima del Monte Trave.
Timoteo l’aveva seguita e aveva imparato a lottare come un leone. Quelle ferite, quelle cicatrici, il Templare le aveva subite soltanto per poter stare più vicino a lei.
E quella notte, quella notte con la luna piena, entrambi avevano rivalutato il proprio passato per trasformarlo in un presente che non sarebbe mai sfociato in un futuro concreto.
La parola d’ordine era diventata “ORA”, e nonostante il peso del gladio sulla coscienza dell’eroe, nonostante l’onta del Cristallo della Luce a gravare sulla testa corvina di Prima, entrambi avevano deciso di ritornare per un attimo loro stessi.
Per un attimo d’infinito, che entrambi avrebbero condiviso fino alla morte, in qualunque momento essa fosse arrivata.
 
Quando la magia svanì rimasero due corpi nudi e febbricitanti, stretti in un abbraccio stanco ma ostinato.
“Potremmo fuggire e andare via, ma non lo faresti mai” sussurrò lei, con la testa poggiata sulla spalla di Timoteo. “Hai un orgoglio, sei un Templare. Sei un esempio da seguire per quei giovani soldati... Non rimarresti mai”.
Le mani dell’uomo erano strette attorno alla schiena nuda della bella. Si limitò soltanto ad annuire.
“Ci conosciamo da tanto... e durante tutto questo tempo mi hai regalato delle emozioni bellissime. Ma mi conosci e sai molto bene che quegli uomini, quei miei fratelli, combattono per te e per Arceus”.
“Lo so. Mi hai protetta, per tutti questi anni. E oggi mi hai donato l’amore”.
“Anche tu” sorrise lui. “Ma ora devo andare”.
Prima lo vide sollevarsi in piedi, con l’acqua che grondava dal corpo che l’aveva amata in quell’ora così flebile. Uscì dall’impluvio e s’asciugò.
Poi indossò la cotta e strinse le cinghie dell’armatura, prima sulle braccia e poi sulle gambe.
Infine vide Prima avvolgersi in un telo lungo e bianco. Le si avvicinò e si scambiarono un altro paio di caldi baci.
“Ciao” le disse.
“Ti amo”.
“Ti amo”.
Prima abbassò lo sguardo e sospirò, poggiando la mano sulla grossa croce bianca stampata sull’armatura, proprio sul petto dell’uomo.
“Non dimenticarti mai di me” le disse il Templare.
Non lo farò mai” cominciò nuovamente a piangere Prima.
Altro bacio e poi via, si voltò e impugnò il gladio. Quando uscì dalla stanza incrociò lo sguardo di Olimpia, che subito dopo si stagliò contro la figura di Prima, nuda, avvolta soltanto in un asciugamano.

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Capitolo 31
*** Capitolo 26 - Come Un Fiammifero In Una Stanza Buia ***


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10. Come un Fiammifero in una stanza buia

- Adamanta, Timea, Stabilimenti della Omecorp -
 


Le tempie ormai rimbombavano da tre, quattro ore. O forse cinque.
Forse ancora di più.
Lionell aveva ancora indosso la camicia sporca del sangue di sua famiglia e nel suo sguardo vi era ancora l’espressione di Rachel che moriva, della sua anima che abbandonava il corpo.
Non gli sovvenne neppure per un’istante quel senso di colpa logico, conseguenza diretta di un gesto insensato e fin troppo impulsivo.
Si perse nei suoi ricordi, dove il volto di Irya appariva a intermittenza, lasciandolo per qualche secondo spaesato Di tanto in tanto si ricordava quello che era, la persona che voleva diventare nel mondo che voleva costruire, prima che quell’uomo biondo dagli occhi rossi fosse apparso dal nulla a rovinare tutto, come un moccioso dispettoso e sadico.
Quel sangue, quello che aveva macchiato la sua barba, i suoi capelli, il suo volto, ormai era diventato freddo.
E Rachel era morta.
Ci ripensò per qualche secondo, sempre distante dal rimorso e dalle notti della mente, dove il pensiero si alzava e i sensi di colpa costruivano castelli che al mattino sparivano.
Rachel era morta, sì, e lui l’aveva uccisa, sventrata. S’era bagnato del suo sangue, inutilmente peraltro, senza trovare ciò che cercava.
Una rabbia matta lo assalì quando ripensò al corpo senza vita di sua figlia, di quella che sarebbe potuta essere la gioia della sua esistenza se non fosse stato così matto d’aver paura della morte. E non perché aveva perso l’occasione d’essere un buon padre, ora un buon nonno, no; ma perché quel cristallo, quel dannatissimo cristallo, nel corpo di sua figlia, non c’era.
E quella rabbia, quell’ira funesta che saliva dalla pancia verso l’alto, soffocandolo assieme alle sue emozioni, cominciò a intorpidirgli le mani.
Persino il cristallo che Xavier gli aveva incastonato dietro le spalle cominciava a diventare incandescente, e i bordi cicatrizzati della sua pelle attorno al quale quello spuntava cominciarono a sanguinare.
Bruciava tutto, la vista sparì d’improvviso e la rabbia esplose in un urlo immane.
Il suo pugno partì e si schiantò sulla scrivania che aveva davanti, spaccandola a metà e allarmando immediatamente Linda, che attendeva silenziosamente degli ordini, seduta davanti a lei.
“Lionell!”.
“Trovala!” ordinò, prendendo poi a urlare come se fosse posseduto; stringeva le mani e spalancava la bocca più che poteva.
I suoi occhi erano ormai diventati spenti e l’iride vuota, proprio come quella d’un cieco.
Linda si alzò, percependo quasi sulla sua pelle il dolore che quello stava sopportando, e accorse in suo aiuto.
“Linda! Trova la figlia di Rachel! Trovala!” sbraitò, impossibilitato a vedere la giovane dagli occhi verdi voltarsi repentina e col cuore in gola.
Aveva avuto paura.
Non s’aspettava che quella forza disumana esplodesse proprio davanti ai suoi occhi smeraldini, come del resto non s’aspettava di trovarsi mani e piedi in quella situazione.
Quasi dubitava del gesto fatto da Lionell, qualche ora prima, non lo riteneva umanamente possibile di tale massacro.
Lo ricordava, qualche anno prima che tutto quel casino esplodesse, e non era lontanamente paragonabile all’animale che Solomon aveva recuperato dal passato.
Forse si stava convincendo che quell’uomo non fosse più la stessa persona.
Forse era soltanto schiavo di quegli obiettivi non suoi, della rabbia e di quel cristallo che aveva incastonato dietro la schiena.
Forse, quello che aveva davanti, era soltanto lo spettro smagrito e iracondo dell’uomo da cui era profondamente attratta.
Percorse i corridoio dei sotterranei della Omecorp in velocità, coi tacchi degli stivali che battevano sul pavimento lucido. I neon sbiancavano ulteriormente la sua pelle, già diafana; i lunghi capelli erano legati in una coda elegante, che lasciava il ciuffo castano a scendere delicato sulla parte destra del volto. Entrò nella Camerata B, dove vi erano gli uomini e le donne scelti per le missioni più importanti.
La sala centrale era divisa in due da una grande cancellata, e ripartiva da una parte i maschi e da un’altra le femmine, in modo che non si vedessero se non per gli addestramenti.
E quando entrava Linda, solitamente, quella cancellata si sollevava, facendo accorrere tutti i membri di quella camerata.
“Primaluce, le abitazioni le conoscete. Dovete trovare la figlia di Zackary Recket e Rachel Weaves. Dovete trovarla viva e portarla qui. Non importa chi ucciderete, cosa distruggerete, quanti di voi moriranno. Voglio quella bambina qui e voi ce la porterete, intesi?”.
Il vociare, come un’onda, accarezzò le pareti di quella grossa stanza, prima che Linda voltasse i tacchi e sparì dalla loro vista.
 
- Adamanta, Primaluce, Casa di Ryan e Marianne –
 
“Spiegami meglio, scusa…” aveva detto Thomas, corrucciando la fronte. Portò le mani ai fianchi, stretto nel suo giubbino di pelle marrone. I suoi occhi scuri fissarono quelli di Marianne, che intanto era seduta accanto ad Alma, sul divano.
“Lionell, il padre di Rachel, è tornato. Tutti i grossi crimini avvenuti in questi giorni sono stati commessi dall’Omega Group” aveva risposto la padrona di casa, col volto stanco e sconvolto. Si voltò a guardare Alma, che intanto allattava il piccolo Manuel.
“E ha rapito Rachel?!” strabuzzò gli occhi, l’uomo.
La donna dai capelli ricci e neri abbassò lo sguardo e sospirò, stringendo le mani con vigore.
“Ha fatto di peggio”.
Alma sobbalzò, facendo piangere il bambino.
“Cosa c’è di peggio?! Zack sarà sicuramente corso a salvarla e…”.
“Non ce l’ha fatta, Alma… Rachel è morta, davanti agli occhi di Zack. Si è presentato questa mattina, all’alba, per prendere Allegra e andare via. Ora Lionell sta cercando la bambina”.
Alma guardò Thomas impallidire. L’uomo si voltò un paio di volte, guardandosi attorno e sperando che Ryan uscisse dietro qualche porta a gridare che fosse tutto uno scherzo, ma sapeva bene che Ryan non era in casa.
Marianne non riuscì a trattenere le lacrime, affondando il volto tra le mani.
“Lui è venuto qui, in lacrime! E ha tranquillizzato Lenny, col cuore sconvolto! Ha avuto una forza incredibile a non perdersi d’animo e a continuare a lottare!”.
Alma staccò Manuel dal seno e s’accorse di star piangendo a sua volta. Guardò di nuovo Thomas, sconvolto, e stentò a crederci.
“Rachel è… Rachel è morta?” domandò la Professoressa di Edesea, utilizzando un tono delicato e quasi scomposto, dove ogni parola era seguita da un sospiro, da un gemito e da una lacrima.
“Davanti ai suoi occhi!” continuava a piangere. “E Zack è scappato via per salvare Allegra!”.
“Ora dov’è andato?” chiese Thomas, avvicinandosi alla moglie e prendendo il bambino tra le sue braccia. Cominciò a cullarlo.
“Non lo so, è fuggito via. Ma ha detto che adesso L’Omega Group verrà alla ricerca di Allegra e saremo noi i bersagli predefiniti dato che, una volta che capiranno che casa sua ormai è vuota, ci prenderanno di mira… e…” sospirò, asciugando le lacrime con la manica del maglioncino. “… e non voglio che facciano del male a Manuel o a Lenny”.
“Ryan?” chiese poi Alma.
“Non risponde, è ancora a Timea... Hanno organizzato questa rapina alla banca per tenere lontani i Superquattro e il Campione da Zack”.
“Perché l’obiettivo era Rachel” osservò l’uomo. “Andrei personalmente sul posto se solo non dovessi lasciarvi da sole”.
“Potremmo andare tutti” replicò Alma, che aveva appena finito di sistemarsi. Scontrò il proprio sguardo con quello di Marianne, che si limitò a sospirare e a fare cenno di no con la testa.
“Andremo proprio da loro, Alma. Inoltre non è sicuro, per Manuel…”.
“E se non andassi anche io potrebbero pensare che sia io a mantenere Allegra” ragionò la bella Professoressa dalla lunga treccia nera.
“E diventeresti il nuovo bersaglio. Non ci tengo a fare la fine di Zack”.
Fu Marianne, poi, a rendersi conto del fumo che stava entrando in casa sotto l’uscio.
“Sono qui!” urlò quella, sobbalzando e correndo al piano di sopra.
Spostò i lunghi capelli ricci dal volto, con gli occhi spalancati e il cuore che batteva come una grancassa nel suo petto.
Spalancò la porta della stanza di Leonard e lo vide intento a giocare, seduto sul tappeto di ciniglia beige.
Quello si voltò rapido, quasi impaurito per via della sorpresa e dello sguardo della madre.
La vide accovacciarsi rapida su di lui e sollevarlo, stringendolo tra le proprie braccia.
“Mamma! Sto giocando!” aveva protestato l’altro, inutilmente.
“Giocheremo dopo! Ora abbracciami e stai attento a tutto”.
“Marianne!” sentì urlare poi, dal piano di sotto. Era Thomas.
Un rumore di vetri infranti seguì poi la voce dell’uomo, che cercava di dirigere Alma nel migliore dei modi mentre il fumo s’impossessava del salotto.
Guardò gli occhi di suo figlio riempirsi di terrore. Cosa avrebbe dovuto fare in quella situazione?
Decise che salire più in alto fosse saggio e quindi premette la testa di Lenny sul petto morbido e percorse rapidamente la scalinata che dava nella mansarda.
Si chiuse egoisticamente la porta alle spalle, cercando di capire il da farsi, e intanto altri vetri esplosero ai piani inferiori.
“Alma e Thomas…” sussurrò, sentendo Leonard divincolarsi dalle sue braccia.
“Che succede?” chiese lui. “Dov’è papà?”.
Marianne girò la chiave nella serratura e scivolò lentamente per terra, deglutendo un groppone stopposo e difficile da mandare giù. Si ritrovò seduta, con la maglietta alzata dietro la schiena e i capelli spettinati davanti al volto.
“Non lo so, Lenny”.
“Dobbiamo andare a salvare la zia Alma e lo zio Thomas! Non possiamo lasciarli lì”.
“Vedi troppi cartoni animati. Con me sono riuscita a prendere soltanto le sfere di Octillery e Seviper… Non so in quanti siano”.
Il piccolo bimbo mulatto portò le mani ai fianchi, cercando di trovare una soluzione.
“Potremmo scappare dal tetto e…”.
E poi le grida di Alma lo interruppero. Un brivido dietro la schiena di Marianne corse velocemente, fino a raggiungere il collo e le spalle.
“No, Leonard. Dobbiamo pregare e aspettare” rispose.
Guardò negli occhi di suo figlio e ci vide la grande determinazione e quell’incoscienza assolutamente normale per un bambino di quell’età. Lui voleva salvare le persone a cui voleva bene.
E anche Marianne.
Ma Leonard era più importante.
Leonard era più importante di tutto.
 
“Stai bene?” sussurrò Thomas nelle orecchie di Alma. Durante la fuga verso il tavolo da pranzo che l’uomo aveva ribaltato velocemente, da usare come barriera, la donna era inciampata e si era tagliata leggermente la fronte.
“Non è nulla” aveva ripetuto più volte, mentre stringeva tra le braccia suo figlio, che gridava come un ossesso.
“Vi porterò fuori da questa situazione” ribatté l’uomo.
A stento gli occhi dei due sposi s’incrociavano in quel marasma, dove il fumo aleggiava denso e grigio.
“Stai attento”.
Thomas portò le mani alla cintura, prendendo entrambe le Pokéball che portava in vita e liberando un Serperior e un Pangoro dalle dimensioni abnormi.
“Alma, dammi la sfera di Gardevoir” disse poi, vedendola immediatamente porgere nelle sue mani ciò che le era stato richiesta.
“Serperior alle spalle. Pangoro starà con me… Dobbiamo uscire da questa situazione e provare a proteggere Marianne e Leonard. Intesi? E poi Gardevoir… tu devi proteggere Alma e Manuel.”.
“Sono troppi” aveva ribattuto Alma, che aveva sentito i passi di molteplici persone accedere all’abitazione. “Se solo ci fosse Ryan!”.
“Già…” sospirò Thomas, che era un ricercatore e non il Campione della Lega. “Ma per ora dobbiamo riuscirci. Quindi forza!”.
Pangoro indietreggiò, con la pelliccia più scura del fumo che li avvolgeva. I suoi occhi rifrangevano la debole luce e gli permettevano di vedere anche in brutte situazioni come quelle.
Serperior invece sgattaiolò silenzioso sulle ampie pareti del salotto di Ryan e Marianne, strisciando nel fumo e ritrovandosi sopra decine di teste dai caschetti grigi.
“Pangoro, usa Corposcontro!” urlò.
Qualcuno aveva cominciato a gridare degli ordini ma Pangoro si gettò nel fumo con tutta la sua forza, colpendo di fatto qualcuno, che ruzzolò indietro di qualche metro.
“Serperior, Gastroacido!”.
Da sopra l’uscio, il grande Pokémon Regale rilasciò dalle proprie ghiandole del liquido velenifero talmente acido da riuscire a sciogliere gli elmetti di quelli.
Qualcuno urlò e si fiondò fuori dall’abitazione, qualcun altro reagì con forza, impartendo ordini ai propri Pokémon.
Iperzanna!” aveva sentito.
“Pangoro! Forza!”.
Il fumo si stava diradando leggermente quando gli occhi dell’uomo videro diversi individui muoversi verso i piani superiori.
 
E Marianne li sentiva.
Sentiva i passi mossi da quegli uomini che rapidi si spostavano di stanza in stanza, al piano sottostante, entrando nella sua camera, in quella di Leonard, nel bagno e successivamente nello studio di Ryan.
Guardò gli occhi di suo figlio, sentì il rumore di vetri infranti e ancora quell’angoscia che aveva nel petto s’espanse, rendendole impossibile stare ferma. Doveva fare qualcosa.
“Io uscirò, Leonard. Mi devi promettere che appena sarò fuori chiuderai la porta a chiave e che ti metterai buono in un angolo, senza provare a seguirmi o a scappare salendo sul tetto. Dovrai rimanere qui”.
“Non voglio che vai fuori!” urlò l’altro.
“Devo andare, piccolo. La zia Alma ha bisogno di me”.
Il volto di Leonard mutò la propria espressione, gli occhi si spalancarono e poi le sopracciglia s’incurvarono verso il basso. Si mordeva il labbro inferiore quando grosse lacrime presero a scendere sulle guance paffute.
“Mamma…” la sua voce, tremula come una foglia, tagliò di netto il cuore di Marianne, che lo strinse forte al petto. “So che devi salvare la zia Alma e il bambino e pure lo zio Thomas… ma ho paura che ti uccidano. Voglio venire con te! Voglio proteggerti!”.
E fu lì che le lacrime del bambino incontrarono quelle della donna.
Ancora seduta per terra, la donna baciò la testa di suo figlio, piena di cortissimi capelli. Quello s’avvinghiò al suo corpo, affondando il volto nell’incavo del collo di quella e cominciando a piangere.
La donna singhiozzò e gli alzò il viso con le mani, sorridendogli.
“Lenny…” disse, quando un’altra grossa lacrima gli baciò il viso. “Quando il papà non c’è sei tu l’uomo di casa... e… e questo significa che devi avere il coraggio di un leone”.
“Ma se uscirai ti faranno del male!”.
“Non voglio che tu abbia paura” sorrise poi, gioviale e in totale controtendenza con quello che il pianto di cui era preda esprimeva. “Voglio che tu aspetti qui. Il tuo compito è tenere al sicuro la mansarda! Questa è la nostra base!” esclamò lei, prendendola come un gioco. “Non devono conquistarla per nessun motivo al mondo!”.
Lui rimase coi grossi occhioni azzurri a fissarla, il labbro inferiore tremulo e le mani ancora strette al collo.
Annuì.
“Bravissimo, il mio guerriero” sorrise Marianne. Lo baciò nuovamente in viso, catturando con le labbra una sapidissima lacrima, quindi si alzò in piedi. Il piccolo la guardava attento, in attesa di disposizioni.
“Ora uscirò e tu ti chiuderai subito la porta alle spalle, girando la chiave nella toppa. E non la aprirai più fino a quando non verrò io. Intesi?”.
Lui annuì lentamente.
“Mi prometti che non uscirai da qui? Che proteggerai il nostro fortino?”.
Quello annuì debolmente e la vide stringere tra le mani le sfere dei suoi Pokémon.
“Sii il re di questo castello, piccolo mio” fece, aprendo la porta e sparendovi oltre.
Il bambino obbedì agli ordini di sua madre e rapidamente rigirò la chiave nella serratura.
E rimase da solo, fermo immobile nella piccola mansarda di casa sua.
Nel loro fortino, mentre il castello era sotto assedio.
La paura lo costringeva lì, come incatenato a quel pavimento di fuoco sotto il quale decine di squali ruotavano in cerchio, cercando sua madre.
Avrebbe voluto il suo papà lì.
Il suo papà, il Campione.
Invece era solo, e il suo respiro era l’unico a muovere quell’aria polverosa e stantia, poggiata per mesi su vecchie mensole di legno e un materasso senza coperte.
Solo il suo respiro, come l’unica luce nel mondo, ma più in piccolo.
Come un fiammifero in una stanza buia.

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Capitolo 32
*** Capitolo 27 - Qualcuno si domanda perché qua c'è più sangue che in un racconto di Bram Stoker ***


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27. Qualcuno si domanda perché qua c'è più sangue che in un racconto di Bram Stoker

- Adamanta, Primaluce, Casa di Ryan e Marianne –
 
 
Fu quasi un sollievo sentire la serratura chiudersi alle sue spalle.
Marianne legò i capelli, ricci e voluminosi, con un codino che portava quasi sempre al polso, quindi lasciò che i Pokémon uscissero dalle sfere.
Il grande Seviper quasi riempiva del tutto il breve ballatoio che dava al piano inferiore.
Lì c’erano quegli uomini in divisa, che rovistavano in tutte le stanze in cerca di Allegra.
Lei non era lì, Marianne lo avrebbe urlato a gran voce se solo fosse servito a liberare i propri cari da quella situazione; invece sarebbe servito solo a farsi localizzare e la cosa la caricava di paura, dato che avrebbe potuto mettere a rischio la vita di suo figlio.
Avrebbe voluto che Ryan si trovasse lì, in quel momento.
Invece era costretta a fare tutto da sola.
“Scendi e attacca tutto ciò che si muove” ordinò, silenziosamente. Octillery era ancora nella sfera, stretta saldamente tra le sue mani. Tuttavia nella sua mente qualcosa era cambiato: s’era resa conto che, quando aveva ordinato al suo Seviper di muoversi, gli aveva volutamente dato l’ordine di ammazzare i suoi nemici.
Il grosso Pokémon Velenoserpescese al piano inferiore rapidamente, seguito dalla sua Allenatrice, che lo vide scattare come una molla contro il primo elemento che balzò ai suoi occhi; usciva dalla stanza di suo figlio Leonard e la cosa la riempì di rabbia.
Si sentiva quasi violentata, e vedere quella gente violare l’intimità della sua casa con l’arroganza e la prepotenza tipici dell’Omega Group la fece soltanto più arrabbiare.
Velenocoda!” urlò, prendendolo di sorpresa. Quello si voltò rapido, con lo sguardo nascosto dalla mascherina di protezione. Marianne guardò l’uomo nelle nuova divise bianche, portare invano la mano alla cintura nel tentativo di prendere una Pokéball, ma Seviper fu più veloce, sferrando l’attacco dritto sul suo petto, squarciandolo.
Stava sporcando il suo parquet di sangue.
L’urlo dell’uomo attirò gli altri sgherri e Marianne pensò che fosse meglio mettere in campo l’elemento migliore della sua squadra, lasciando che apparisse su di una parete.
Octillery infatti, tramite le sue ventose, aderì alle spalle degli avversari, ignari.
“Attaccate!” urlò Marianne, gettandosi nello scontro.
Spinse indietro uno di quelli mentre gli altri prendevano le Pokéball, col cuore che gli batteva forte e la gola che lentamente si seccava. Nonostante il caos che aveva attorno, l’addestramento Omega che aveva ricevuto quando era una recluta le era servito, e quindi riusciva a vedere i pericoli in maniera più lucida, più chiara, assumendo velocemente il controllo di una controffensiva.
Fece di più: lasciò che Octillery uscisse indisturbato alle spalle di quelli, mentre Seviper attaccava con veemenza il Bayleef di qualcuno.
“Non permettiamo loro di passare, Seviper!” aveva urlato Marianne, puntando il dito contro il Pokémon avversario. Il grosso serpente sferrò un attacco Velenocoda veemente ed efficace, colpendo il Pokémon alla zampa anteriore destra.
Seviper, tuttavia, non si limitò a iniettare il veleno, ma inferse un fendente alla gamba del Pokémon, con la coda tossica che si andò a piantare in profondità nella rotula del Pokémon. Il sangue schizzò ovunque e macchiò le tute mimetiche del suo Allenatore, che rimase sconvolto dall’aggressività di quella donna.
“Puttana!” aveva urlato lui, gettandosi a capofitto in uno scontro corpo a corpo. Quel mercenario, parecchio più alto e grosso della minutissima Marianne, continuava a caricarsi di meraviglia quando, non appena allungò le mani verso di lei, quella lo colpì con un calcio dritto sul collo.
Quello ricadde a terra, schiacciando la coda del grande Arbok che in quel momento fronteggiava Seviper. Intanto gli altri sgherri avevano mandato in campo i propri Pokémon, rispettivamente un Cacturne, un Infernape e tre Raticate.
Sei avversari e solo due Pokémon, pensò, vedendo i denti di Arbok affondare nel collo di Seviper.
“Dannazione!” esclamò poi, gettandosi in quello scontro tra rettili e saltando al collo di Arbok, allontanandolo di poco da Seviper, che ebbe il tempo di voltarsi.
Atterrò ai piedi di uno degli avversari, che non perse tempo e la colpì con un grosso calcio nello stomaco.
Dolore.
Si rannicchiò su se stessa, prima che un altro calcio le impattasse contro la spalla.
I capelli erano davanti agli occhi ma percepì perfettamente gli occhi di Arbok su di lei; era pronto ad attaccarlo con Velenodenti, e quando spalancò le fauci, poco prima di spingersi sul suo corpo inerme, un rumore sordo, come un’esplosione, riempì il corridoio del primo piano, e sugli occhi di Arbok si schiantò una bomba d’inchiostro nero.
Marianne si voltò, incredula, vedendo Octillery avviluppato attorno al collo di una di quelle reclute. Le ventose dei suoi tentacoli avevano totalmente strappato dal suo volto la maschera protettiva e la mascherina per la respirazione di uno di quei mercenari, mostrando a tutti il volto cianotico, destinato ormai a essere indossato da un corpo senza vita.
“Raticate!” urlò qualcuno. “Iperzanna sui suoi tentacoli!”.
La lotta si stava facendo sempre più aspra, con Seviper che aveva attaccato direttamente uno di quegli allenatori con Velenodenti, affondando le fauci sulla spalla e strattonando velocemente e con conseguente violenza.
Strappò un grosso pezzo di carne, e il sangue si riversò sul pavimento, caldo e rosso com’era, schizzando sul volto di Marianne.
Si rimise in piedi con difficoltà, con le spalle al muro. Ebbe la prontezza di voltarsi verso il suo Pokémon d’acqua, al quale fu tranciato di netto un tentacolo, consentendo all’uomo che aveva preso di mira.
No, non l’aveva ucciso, non ancora.
Raticate stava davanti a lui, col tentacolo che ancora si muoveva, come se fosse vittima di spasmi, e le ventose che si attaccavano sul corpo del grosso Pokémon ratto.
“Octillery, starai bene! Attacca con Idropompa!”.
Il polpo eseguì, sbalzando il grosso Pokémon contro la porta della camera da letto dei padroni di casa.
Marianne afferrò un quadretto appeso al muro e lo lanciò contro un altro di quei Raticate, intento ad attaccare Octillery, mentre il grosso Infernape lottava fisicamente contro il Seviper che lo aveva liberato dall’Allenatore.
Il grosso rettile s’avviluppò attorno al primate, che però aumentò il calore corporeo e fece in modo che la costrizione terminasse anzitempo.
Marianne tornò a guardare il Raticate che aveva colpito, e intanto due reclute s’avvicinarono a lei: una la spinse contro il muro, un’altra provò a colpirla con un grosso pugno al volto, non riuscendoci: Marianne s’abbassò di scatto, guardando con un occhio Raticate, che stava raggiungendo i due sgherri e con un altro quello sbilanciato per il colpo andato a vuoto, che poi colpì al petto. Quello indietreggiò, scivolando sul sangue vischioso che impiastricciava il pavimento. Ricadde sulla schiena, vittima infine d’un Seviper agguerrito, che affondò le zanne nel suo collo, abbassando il contatore d’un’unità.
Si svincolò dall’altro ma intanto il Cacturne, rimasto sempre sullo sfondo, cominciò ad attaccarla personalmente con Missilspillo, e gli aculei colpivano con così tanta velocità da non riuscire a darle l’opportunità di capire cosa succedesse prima di qualche secondo.
E bruciavano.
Lei urlava. Urlava forte, e quel Raticate s’avvicinava sempre di più.
 
“Marianne!” urlava Alma, mentre tre sgherri fronteggiavano Thomas. La donna era nascosta dietro il tavolo ribaltato, poggiando la testa su quella di suo figlio Manuel, che intanto piangeva a squarciagola, rendendo anche a suo padre difficile concentrarsi.
In quel momento, l’adrenalina nel suo corpo aveva raggiunto un livello incredibile.
Un Raticate era stato velocemente messo al tappeto e Pangoro stava prendendo a pugni uno degli Allenatori, col sangue che schizzava ovunque.
“Serperior, sono due ma tu sei più forte!” aveva urlato Thomas, vedendo di fronte a sé un Blastoise e un Feraligatr.
“Pangoro” continuò. “Occupati di loro che ai Pokémon ci pensiamo io e Serperior” disse, abbassandosi sulle ginocchia.
Vide entrambi gli avversari attaccare con mosse di tipo ghiaccio ma Serperior era veloce e strisciò contro la parete, facendo cadere il grosso televisore per terra. Il Blastoise puntò i grossi cannoni sulla Serperior dell’uomo e sparò con forza, riuscendo a colpirlo, facendolo ruzzolare per terra.
Ebbe difficoltà a capire quanto sarebbe successo dopo, Thomas, guardando poi Feraligatr gettarsi a perdifiato con le fauci già congelate.
“No! Gelodenti!”.
Serperior non ebbe neppure il tempo di vederlo arrivare che fu azzannato sul lungo corpo; emise un urlo sinistrissimo, ricco di dolore, così reale che la stessa Alma, virtualmente nascosta dietro quel tavolo, riusciva a provare la stessa pena.
“Serperior!”.
“Tom! Stai bene?!”.
“Dov’è la bambina?!” chiese uno di quei due, che fronteggiava corpo a corpo il grosso Pangoro.
“Non è qui! Lasciateci in pace!” aveva urlato Alma, coi capelli spettinati sulla fronte. Manuel però piangeva e i mercenari, che non conoscevano il volto né l’età di Allegra, sentivano un bambino urlare.
“E chi starebbe piangendo?!” chiese poi l’altro, prima che Pangoro desse un grosso pugno e mettesse fuori combattimento l’altro sgherro.
“È mio figlio, non quello di Zack! Andate via!”.
“Feraligatr, usa Bora!” urlò quello.
Thomas spalancò gli occhi. Quella mossa avrebbe congelato totalmente il salotto di Ryan e colpito con ogni probabilità Serperior.
Doveva limitare i danni per il suo Pokémon e annullarli totalmente per sua moglie e sua figlio.
Sapeva che avrebbe rischiato ma doveva fermarlo, ed era in minoranza.
“Pangoro, Megapugno su Feraligatr!”.
E così il grosso Pokémon si voltò e colpì il grosso alligatore azzurro con un forte pugno alla schiena, schiantandolo immediatamente.
Tuttavia dette il fianco a Blastoise, che a sua volta utilizzò la mossa Breccia su Pangoro, colpendolo con particolare violenza. Il sorriso dello sgherro s’allargò sul suo viso.
“Alma! Stai giù!” urlò ancora Tom. Si voltò, guardò che la testa della sua donna non fosse allo scoperto. Serperior, Verdebufera!” urlò poi, voltandosi di spalle e aspettando che il suo Pokémon facesse la magia.
Vento e foglie, terreno, liane, tutto fu prodotto dal mantello di verde natura che avvolgeva le spire del grosso rettile di tipo erba, si gettarono taglienti contro Blastoise e Feraligatr, tuttavia solo il secondo ne fu colpito in maniera massiccia, accasciandosi per terra fuori combattimento; difatti, Blastoise ritrasse arti e capo all’interno del grosso guscio.
Thomas guardò impanicato la scena. La porta era alle spalle del grosso Pokémon e non sarebbe potuto fuggire da nessun’altra parte. Doveva portare la sua “Dannazione! Alma, come stai?!”.
Manuel piangeva forte ma la donna non rispondeva.
“Alma!” ripeté, sentendo soltanto suo figlio.
“Tom... Tom, sto bene...” disse quella.
“Che succede?!” si voltò quello, perdendo la concezione di dove fosse in quel momento; il mercenario colse la palla al balzo e sorrise, avanzando e colpendo Thomas al collo.
Quello ricadde per terra, tramortito.
Alma spalancò i grossi occhi verdi non appena sentì l’urlo di suo marito. Alzò di poco la testa e vide quel grosso omaccione che si avvicinava. Il cuore prese a battere ancora più forte.
Non avrebbe permesso a nessuno di prendere suo figlio.
Guardò poi Gardevoir, alla sua destra, in attesa di un ordino, quindi rialzò gli occhi verso la minaccia.
“Alma... ti chiami così...” disse quello con la mimetica bianca, con la grossa voce gutturale. “Che bel nome. E lui è Manuel? Sicuro che non si chiami Allegra?”.
Il volto di quell’uomo era coperto da una grossa maschera antigas. Il suo sguardo era celato da grossi occhialoni da snowboard, ottimi per la rifrazione della luce. I suoi occhi non si vedevano e il suo respiro era pesante.
“Vai via...” disse quella, inginocchiandosi e indietreggiando lentamente. Ai piedi dell’uomo vi era Thomas, totalmente tramortito dal colpo. Lo vide avanzare ancora, portandosi a pochi metri da lei.
Alma s’alzò in piedi, con le gambe che tremavano e Manuel stretto forte al petto. L’odore dei suoi capelli era dolce. Si morse le labbra, continuando a indietreggiare; sentiva il cuore battere forte nel petto.
“Ti... ti prego... mio figlio è ancora piccolo e non è lui... non è lui che cercate...” fece. Le lacrime scesero qualche secondo dopo, automaticamente.
Lo sgherro alzò il grosso tavolo e lo sbatté contro il muro, con violenza. Manuel aumentò ancor di più il volume delle sue urla.
“Voglio quel bambino” disse lui.
“Mai” pianse Alma. Spostò la treccia dalla spalla e strinse ancor più forte il bimbo al seno. “Non ti darò mai mio figlio”.
“Evitiamo inutili spargimenti di sangue” sorrise quello. “O vuoi che tuo marito finisca adesso di preoccuparsi per te...”.
La rabbia salì così velocemente alla testa della donna che cacciò velocemente gli artigli, urlando più forte di suo figlio. “Tu non farai nulla!”.
Fu allora che il mercenario smontò la maschera e gli occhiali, mostrando il volto sorridente e sornione. Aveva occhi azzurri piccoli e sottili, come fessure, naso aquilino e una folta barba rossa.
Prese parola: “Potrei davvero ucciderti ora, Alma”.
“Non ucciderai nessuno! Devi andartene via!”.
“Oppure, prima di ucciderti potrei legare tuo marito e costringerlo a guardarti mentre faccio sesso con la sua mogliettina. Che ne pensi?” sorrise ancora.
Alma rabbrividì.
“Hai un bel culetto. E ho il cazzo duro al sol pensiero...” sorrise ancora.
“Mi fai schifo!”.
La voce della donna rimbombò all’interno della stanza. Serperior alzò sfatta il capo, prima di ricadere stremata per terra, accanto al corpo di Thomas.
Solo quello sgherro, il suo Blastoise e quella coppia di madre e figlio in lacrime animavano il salotto del Campione di Adamanta.
“Oppure vuoi guardarmi fottere tuo marito?” sorrise ancora, lui. “Potrei spogliarlo e infilargli tutto il mio bastone su per il culo” fece, allargando la smorfia in volto e cominciando a ridere di gusto. Guardava il viso sconvolto di Alma, sentiva l’odore della distruzione e del sangue, e il suo istinto gli gridava di continuare a distruggere.
Voleva quel bambino e se lo sarebbe preso.
Mosse un rapido passo in avanti e fu quello il momento in cui Alma si ricordò d’avere accanto un Pokémon potentissimo.
Distortozona!” urlò poi, vedendo Gardevoir muovere gli arti superiori ed emettere quel canto melodioso e armonico, prima che una luce azzurra avvolgesse tutto e cambiasse totalmente la gravità della stanza.
Tutto il peso venne spostato verso la parete di destra.
Essendone a conoscenza, Alma strinse forte suo figlio e incastrò il proprio corpo davanti al bancone da cucina, mentre l’avversario, non conoscendo gli effetti della mossa, si schiantò contro la parete, schiacciato poi dal suo guscio del suo stesso Blastoise.
La Pokéball del Pokémon rotolò lentamente di lato, accanto ai quadri, dove il sangue scorreva rubino in rivoli lucidi.
Gli occhi di Alma si spalancarono: aveva appena ucciso un uomo.
“B-basta! Basta, Gardevoir!” urlò, e vide il suo Pokémon ripristinare la normale gravità. Thomas rotolò sul lato, accanto a Serperior.
Corse verso la sfera del Blastoise e lo fece rientrare nella sfera, rompendo poi il dispositivo d’apertura, sbattendola contro il marmo del bancone.
Piangeva e stringeva Manuel, Alma, gettandosi su suo marito, ancora per terra.
Respirava.
 
Fu Seviper a mettersi di mezzo, quasi immediatamente, colpendo con la coda velenosa quel Raticate selvaggio pronto a colpire con forza Marianne.
Lei, dal canto suo, era rannicchiata, dolorante per le spine urticanti lanciate dal Cacturne avversario.
Raticate ruzzolò indietro di un paio di metri e Octillery gli si avvinghiò attorno, spezzandogli poco dopo la colonna vertebrale.
“Quel maledetto Cacturne, Seviper! Distruggilo! E Octillery, rimani qui accanto a me!”.
Al grande rettile non servì molto tempo per sputare una grande dose di acido corrosivo sul suo avversario, ma il vero problema venne quando l’Infernape che aveva davanti alimentò la grossa fiamma che aveva sul capo.
“Attaccalo, Octilllery! Usa Idrondata!”.
Erano rimasti tre avversari e un solo Pokémon da fronteggiare.
“Che diamine pensi di fare?! Ti ucciderai con le tue stesse mani!” urlava uno di quelli.
“Dovete lasciare stare me e la mia famiglia!” urlava Marianne, piangendo lacrime disperate. “Abbandonate la mia casa!”.
Octillery Emise un forte getto d’acqua, e una recluta, una giovane recluta dell’Omega Team, riuscì a evitare l’attacco, ruzzolando indietro e poi salendo inosservato la scala che portava alla mansarda.
In basso la lotta infuriava ancora, mentre lui, mosso dalla curiosità e dal senso del dovere, decise di continuare a salire la scalinata.
E si ritrovò davanti a una porta chiusa a chiave.
Respirava, all’interno della grossa maschera antigas, pensando al fatto che dietro quella porta si sarebbe potuta nascondere Allegra Recket, il loro obiettivo.
La mano, infilata nel guanto dal grip gommato, si poggiò sulla maniglia e l’abbassò, cercando di entrare.
Ma era chiusa a chiave.
Spalancò gli occhi. Cercò di levarsi ogni dubbio, abbassandosi e vedendo che, all’interno della toppa, dall’altra parte della stanza, la chiave fosse nella serratura.
E questo significava che la porta fosse chiusa dall’interno.
Cacciò uno strumento dal proprio cinturone, una sorta di coltellino svizzero ergonomico, molto pratico, dato in dotazione a tutti gli agenti dell’Omega Group.
“Mamma?” chiese poi qualcuno dall’altra parte della porta. Gli occhi dell’uomo si aprirono ancor di più, sentendo vicina la gloria dell’esser riuscito a portare a termine l’incarico usando la propria intelligenza.
Non rispose, inserì la punta a cacciavite piatto nel tool che aveva estratto dalla cintura e cominciò a scardinare la porta: infilò lo strumento nel primo cardine e ne colpì con un pugno il manico, divellendo il perno dall’anima in legno dello stante della porta.
“Mamma!” urlò poi il ragazzino, ma l’uomo fu più veloce, rompendo anche l’altro cardine e lasciando che la porta cadesse per terra.
La luce inondò il piccolo pianerottolo, prima che la recluta potesse entrare lentamente, ma col sorriso sulle labbra.
Quella mansarda era ben arredata, molto calda, con l’odore di vernice che aleggiava unito a quello dei mobili di legno.
“Vai via!” urlava poi qualcuno, accanto a una credenza. Manteneva tra le mani una grossa ceneriera di marmo.
La Recluta vide davanti a sé un bambino di colore dai grossi occhi azzurri e si rese conto di non avere davanti ciò che cercava. Allegra era sicuramente una femminuccia.
“Dov’è Allegra?” domandò poi.
Il piccolo Lenny rabbrividì, vedendo quel nemico dalla voce profonda nascosto da quella maschera così sinistra. Strinse le mani attorno alla ceneriera e schiuse le grosse labbra.
Aveva paura ma non poteva dire loro dove si trovasse Allegra. Anche se litigavano spesso, lei era sua cugina e quegli uomini sicuramente le avrebbero fatto del male.
Prese quindi coraggio e lanciò la pesante ceneriera sul volto dell’uomo, centrandolo sugli occhialoni, che si spaccarono immediatamente.
“Vai via! Non te lo dirò mai!”.
Il malvagio levò immediatamente gli occhiali spaccati, mostrando al bambino un anonimo sguardo castano e subito dopo smontò anche la maschera. Possedeva un ossuto naso aquilino, dalle grandi narici, barba rada sotto al mento e labbra sottili che facevano della sua bocca una larga fessura sul suo volto pallido.
“Adesso t’insegnerò una lezione che non dimenticherai più!” urlò, con le schegge del vetro sul viso e qualche piccolo graffio sulle guance.
S’avvicinò lentamente a Leonard, imbracciando lo stesso cacciavite con cui aveva scardinato la porta, e si rese conto che non si sarebbe posto alcun problema nell’uccidere un bimbo così piccolo. Lo guardava negli occhi, lui, con le spalle al muro e gli occhi pieno di pianto, caricò indietro il corpo e tirò il braccio sulla testa, pronto a infliggere il colpo.
“Piccolo stronzetto!” urlò lo sgherro.
Gli occhi del piccolo bambino dapprima si riempirono di lacrime, con l’espressione del volto di chi sapeva di non avere alcuna speranza di sopravvivere. Non aveva ancora capito quanto bene avrebbe potuto donargli la vita che stava già per perderla.
Videro la rabbia, la frustrazione di quell’omuncolo e poi il suo braccio pronto a ucciderlo, quando successe quello che non si sarebbe mai aspettato ma che in cuor suo aspettava da quando quella brutta faccenda era iniziata: lo sgherro si sentì letteralmente sollevare in aria, prima che qualcuno lo sbattesse per terra.
Davanti ai suoi occhi apparve il suo papà, Ryan.
Il Campione, con i capelli biondi sporchi di fuliggine e il volto pallido. I suoi vestiti erano bruciacchiati ma, tranne qualche livido, stava bene.
“Piccolo mio!” urlò, gettandosi su di lui. Lo raccolse, lo tirò a sé e lo strinse in un forte abbraccio. “Lenny, amore!” fece, con la voce colma di paura. Il bambino cominciò a piangere e affondò il volto nell’incavo del collo del padre.
“La mamma è giù! E pure la zia Alma!”.
“Tu stai bene?!”.
“Sì! Ma la mamma è giù!”.
“Stai tranquillo, adesso siamo arrivati noi!”.
Ryan si voltò, e l’intero corpo di Superquattro era alle sue spalle. Isabella, Fred, Ginger e Kendrick aspettavano in silenzio direttive. Con le divise ufficiali nere, i Superquattro d’Adamanta erano un gruppo compatto di Allenatori, che da quasi dieci anni precedevano il Campione nella Sala d’Onore.
“Avete sentito?!” urlò Ryan. Isabella, la più piccola dei quattro, che portava sempre un’ordinatissima coda bionda alta sulla testa, annuì e scese rapidamente le scale, seguita Kendrick. Ginger, che invece i capelli rossi li portava sciolti, rimase a guardare Ryan per qualche secondo, assieme a Fred.
“Era una trappola, Ryan…” disse, mordendosi poi il bellissimo labbro inferiore.
Il Campione si limitò ad annuire, con la paura che lo stava consumando dall’interno. Assieme agli altri due scese al piano inferiore, stringendo tra le braccia suo figlio, e si ritrovò davanti una Marianne devastate, col volto bagnato e sporco di trucco e sangue.
I suoi vestiti erano interamente impregnati e guardava sconvolta il marito che stringeva Leonard, sano e salvo.
“Io…” sussurrò, con le labbra tremule e pallide. Era inginocchiata tra i cadaveri di uomini e Pokémon, anche i suoi. “Ho provato a chiamarti, Ryan…”.
Poi pianse, crollando col volto tra le mani rosso sangue.

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Capitolo 33
*** Capitolo 28 - Il Cielo È Blu Petrolio ***


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28. Il Cielo È Blu Petrolio

 
- Kanto, Arancipoli, Ospedale Civile –
 
"Buonasera" disse Marina, entrando nella camera dov'era ricoverato Gold. Levò il cappotto e porse a Silver e a Crystal i due caffè lunghi che aveva comprato prima di entrare. Il volto di Crystal era fisso e contrito su quello di Gold, ancora cereo. Il respiratore gli gonfiava il petto, nascosto dalla coperta sdrucita della branda in cui dormiva.
Crystal si voltò non appena la Caporanger entrò nella stanza, sospirando. Era stanca, aveva sonno.
"È già mattina?" chiese, voltandosi poi verso Silver, in piedi davanti alla finestra. L'uomo abbassò lo sguardo verso l'orologio e sospirò.
"Sì. Sei in anticipo, Marina".
"Non ho dormito molto..." ribatté la Ranger, poggiando il cappotto sulla sedia dove Crystal s'era appena alzata. "La notte è stata tranquilla?".
"Nessun miglioramento, nessun peggioramento... Tutto stabile e tranquillo".
Marina abbassò lo sguardo. "Sembrano anni che è qui dentro... Non sono passate neppure un paio di settimane...".
"Vedere questo casinista così è veramente impietoso... Mi spiace tantissimo" continuò la Catcher, sconsolata. Silver le si avvicinò e le poggiò una mano sulla spalla.
"Spiace a tutti" disse poi.
Il silenzio si sedimentò rumoroso sul pavimento di quella stanza, e uno sguardo imbarazzato di circostanza fu interrotto solo dal rumore dell'elettrocardiogramma.
Marina prese coraggio e ruppe gl'indugi. "Io... Come sempre vi ringrazio per... ecco, per essere qui, per darmi una mano con le notti e...".
Crystal sorrise dolcemente e la strinse in un abbraccio caloroso e rincuorante. "Io ci sarò sempre" fece poi, sentendola sospirare. Si staccò e riprese il contatto coi suoi occhi. "E penso di parlare anche per Silver quando dico che teniamo a cuore questa situazione. Negli anni ci siamo affezionati a Gold, nonostante sia una testa di legno...".
"Legno duro" sospirò l'uomo, con le mani nelle tasche. Si avvicinò a Crystal e la strinse in un delicato abbraccio. Le due donne sorrisero.
"Grazie ancora".
"Di nulla" replicò Crystal. "Per stanotte sei coperta?".
"Rimarrò io, non ci sono problemi, tranquilli...".
Silver spalancò gli occhi. "Starai qui per più di ventiquattr'ore, Marina... Non pensi di doverti rilassare un tantino?".
Quella continuò a sorridere, gioviale, ma il rosso riuscì a saggiarne la stanchezza mentale. Gold era in quel letto da troppo tempo, specialmente per lei che non era abituata a vederlo silenzioso per più di un paio di minuti.
“Non preoccuparti, Sil, starò con lui… Gli racconterò ciò che sta accadendo nel mondo, parleremo del più e del meno e immaginerò le sue risposte”.
“Fagli sentire un po’ di musica. Io ci provo spesso” ribatté Crystal. “Il suo MP3 è sul comodino”.
“Sì, con le canzoni rap”.
“Esatto. Magari potrebbe svegliarsi per fare freestyle”.
Marina sorrise ancora, quindi guardò il suo uomo. Silver e Crystal salutarono e sparirono, lasciandola in quella camera da sola con lui, nel silenzio intermittente.
Si avvicinò lentamente al letto, guardando il viso smunto del suo uomo. Gli carezzò le guance, rasate il giorno prima. Lui si radeva tutti i giorni, anche se non era una persona eccessivamente villosa. Da quando erano in ospedale una volta ogni tre giorni passava un’infermiera a raderlo e a pulirlo. Lei assisteva inerme e addolorata, aiutando come poteva. La grossa ferita alla colonna vertebrale sembrava fosse guarita, o almeno così aveva detto il dottore l’ultima volta che l’aveva visitato, tuttavia non aveva saputo dire con certezza se, una volta risvegliatosi, quello avrebbe camminato o meno.
“Ciao, amore… Buongiorno. Come stai?”.
Immaginava le sue risposte, vedendo quei grossi occhioni dorati sbattere, sopra al suo ghigno malizioso, perennemente sul volto dopo qualche battutaccia sconcia di dubbio gusto.
“Stamattina faceva particolarmente freddo, fuori. Sono andata a casa, ieri, per fare una doccia e fare altri piccoli servizietti. Ho fatto una lavatrice. Sai…” sorrise, non riuscendo a trattenere una lacrima. “Vorrei tanto rimproverarti per via dello stato dei tuoi vestiti, sporchi al limite dell’umana immaginazione ma…” sospirò, pulendosi il volto con la manica del maglioncino nero che indossava. “Ma la lavatrice è carica soltanto dei miei panni, ultimamente. E devo aspettare molto prima di riempire il cestello, almeno un paio di giorni in più, e le mie divise sono lì dentro. Se tu ti svegliassi potrei fare lavatrici più velocemente e non aspettare…”.
Sorrise dolcemente, stringendogli la mano. “So che non dovresti svegliarti per questo motivo, e che se lo facessi saresti lo stronzo peggiore di tutto il creato, però se funzionasse sarei felice lo stesso… Inoltre ho fatto uscire un po’ dalle loro sfere i tuoi Pokémon. Exbo non ha mangiato quasi nulla, ieri… È parecchio triste, gli manchi. E manchi anche agli altri, certo…”.
Voleva vederlo sorridere, e rispondere con quelle sue solite battute in stile certo che gli manco, sono straordinario!
“In più… in più, e mi costa dirlo… mi costa tanto… Mi manca fare l’amore con te” fece, cominciando nuovamente a piangere, tossendo prima che una calda lacrima le colasse giù sul mento. “Mi manca sentirti dall’altra parte del letto, e mi manca stringerti la notte, quando hai caldo… quando poi ti lamenti che sono bollente, ma che ho i piedi freddi…E nonostante tutto mi abbracci lo stesso... e allunghi le mani” sorrise poi. “Perché non puoi negare di farlo”.
Guardò ancora il suo volto, fisso. Lui non si muoveva.
“Perché non lo puoi negare…” sussurrò.
Si alzò lentamente e gli schioccò un dolcissimo bacio sulle labbra, quindi sospirò, inalando il suo odore; le mancava. La pelle di Gold aveva un odore dolciastro ma fresco, che riusciva ad associare soltanto a lui e che le faceva stringere i pugni per quanto le piacesse.
Lasciò per un attimo la mano del suo uomo e afferrò l’MP3. Lo accese, Crystal lo aveva lasciato sotto carica e quindi la batteria era piena. Scorse l’infinita playlist col dito, leggendo velocemente i nomi di 2Pac e 50 Cent, poi altri e altri ancora, fermandosi su “Stuck On You” di Prodigy. La fece partire, sentendo la musica che lui amava fluire ovunque e riempire quella stanza vuotissima.
A lui piaceva il rap; avrebbe potuto fare freestyle usando il battito del suo cuore come beat, se avesse voluto. Lei lo sentiva cantare sotto la doccia, parlando velocemente.
Rideva, Marina. Non capiva, inizialmente. Poi si abituò.
Sospirò diverse volte, quel mattino, continuando a parlare con lui mentre la musica andava avanti.
 
 
- Sinnoh, Evopoli –
 
"Papà, fa freddo...".
La grande piazza centrale di Evopoli brulicava di persone. C'erano molte famiglie e alcune avevano annessi i carrozzini. Nonostante il freddo la gente di lì era abituata a quelle rigide temperature e sembravano poco disturbate dai quasi dieci gradi esterni.
Sinnoh era a nord, del resto.
I suoi occhi, verdi come smeraldi, tuttavia spenti e senza scintilla, si erano persi su di una coppia assai giovane, dove un padre sorrideva nel vedere la sua bellissima moglie stringere tra le braccia un altrettanto bellissima bambina, dai capelli biondi come la madre.
C'era un atmosfera di calore, tutt'intorno, e le persone erano serene.
"Lo so, Allegra".
In molti avevano buttato un occhio alle gambe della bambina, coperte soltanto da un paio di calze sdrucite e sporche di fango. Zack proseguiva nel suo passeggio, stringendo nel suo abbraccio sua figlia.
"Dove siamo?".
Lui sospirò, guardandosi velocemente attorno; la grande statua di marmo raffigurante Palkia, protagonista da sempre del centro della città, era stata ricostruita dopo che Giratina l'aveva distrutta, diversi anni prima. Era illuminata da diversi piccoli fasci di luce che salivano dal basso, incastonati nel marmo del basamento.
Anche Sinnoh aveva vissuto attimi di panico, forse ancor più grandi di quelli di Adamanta, in quegli anni; il Team Galassia aveva devastato città e ridotto l'equilibrio delle dimensioni primordiali al limite della tolleranza prima del disastro, e neppure la presenza di Camilla e di Palmer avevano aiutato.
C'era voluta fortuna, in quel caso.
C'era voluta la conoscenza del loro boss, Cyrus, che si era ritorta contro il genio infame di Plutinio, affamato di potere.
Il potere.
Zack sbuffò e il viso di sua moglie apparve davanti a suoi occhi, come succedeva da ventiquattr'ore a quella parte.
"Papà, ho davvero tanto freddo..." si lamentò la piccola, che aveva affondato il naso nel collo di Zack diversi minuti prima, una volta scesi dal pullman che li aveva portati da Giubilopoli, dove il loro aereo era atterrato, a Evopoli.
Alzò gli occhi, i palazzi antichi erano ben illuminati dai lampioni, che donavano loro un piacevole colorito giallastro. Alle loro spalle si stagliava il bosco, che divideva la grande città da Giardinfiorito.
Avrebbe voluto vedere sua figlia correre tra i fiori. Vederla sorridere spensierata, mentre viveva la sua età come tutte le altre bambine: con un padre e una madre accanto.
Ingoiava sangue e veleno, ferro e sabbia, la saliva diventava pesante, amara, se solo doveva pensare a come dirle che Rachel non era a casa e che lui le aveva mentito.
Perché prima o poi se ne sarebbe accorta, lei.
Prima o poi si sarebbe accorta del fatto che sua madre non fosse più lì con loro.
Superò la statua e vide la Palestra della città, ormai chiusa; le luci erano spente e i cancelli erano sbarrati. Gardenia era sicuramente a casa, in quel momento. Da ragazzini, quando avevano condiviso il tetto dell'ostello per quei mesi in cui lui era nel pieno del suo viaggio a Sinnoh, quella era sempre piena di vita, con quella vena polemica che affiorava ogni qualvolta i due avessero opinioni differenti.
Stettero insieme per diverso tempo, e tutto fu parecchio denso, pieno di cose belle e ricordi da dimenticare, liti passionali seguite da ricongiungimenti carnali pieni di sospiri e corpi giovani, troppo giovani per restare fermi.
Affiorava nella sua mente il viso di quella e gli occhi castani, che diventarono immediatamente azzurri quando il suo volto prese le sembianze di quelle di Rachel. Rachel, Rachel, ancora Rachel.
Era ancora fresca la ferita e sapeva che avrebbe lasciato una grande cicatrice, e che quella avrebbe bruciato ogni qualvolta i suoi occhi si fossero poggiati su quelli di sua figlia.
"Andiamo..." le sussurrò poi, carezzandole la nuca piena di capelli. Voltò l'angolo, sempre con la bambina in braccio, ed entrò in un negozio d'abiti. C'erano molte luci, lì dentro, e diverse donne s'accalcavano per pagare i prodotti appena comprati. C'erano anche degli uomini, pochi. Uno stava provando un cappotto bianco col pellicciotto sul cappuccio, mentre altri due erano nel reparto calzature.
Zack si dipinse sul volto il sorriso più finto che possedesse, nonostante la stanchezza del viaggio e l'atterrimento generale, e salutò la commessa.
"Abbiamo avuto un piccolo problema di guardaroba... Ci può consigliare qualcosa di caldo per questa modella?".
La donna sorrise e vide Allegra alzare la testa. "Sì, fuori fa freddo".
"Certo" rispose quella, con l'acconciatura corvina a maschietto. Guardò le scarpette sporche di fango, come anche le calze, quindi afferrò la bimba per mano e si recarono nel reparto bambini.
Zack la vedeva da lontano che sorrideva tranquilla. Avrebbe voluto congelarla in una bolla senza tempo, bloccare la sua immagine e conservare quel fotogramma assieme a tutte le belle sensazioni che si portava dietro.
Tuttavia doveva decidere della sua vita; doveva capire come avrebbe dovuto andare avanti in quel momento.
Zack non poteva convivere con la paura di poter perdere anche sua figlia.
Il cellulare suonò e lui lo prese velocemente dalla tasca. Il nome di Ryan era fisso sotto l'orologio. Chiuse la chiamata, non voleva che lo rintracciassero, quindi tolse la batteria del telefono e prese la SIM, lasciandola cadere nelle tasche dei suoi pantaloni. Se ne sarebbe sbarazzato fuori.
 
 
- Un’ora dopo –
 
Quando il campanello suonò, Gardenia era appena uscita dalla doccia.
"Un attimo!" urlò lei. Odiava quelle situazioni; avvolse un lungo asciugamano bianco attorno alla vita e un altro, più piccolo, a mo' di turbante attorno alla testa. Infilò quindi un paio di morbide pantofole bianche e strisciò i piedi fino alla porta.
Aveva freddo, era tornata da poco dalla Palestra e non aveva ancora avuto il tempo d'accendere il camino e i riscaldamenti.
Quella sera avrebbe voluto mangiare qualcosa di caldo, e magari avrebbe finito di leggere quel buon libro che sbocconcellava pagina dopo pagina, sera dopo sera.
Tuttavia, quando aprì la porta, i suoi piani svanirono come vapore.
"Zack..." disse, stranita, trovandoselo davanti. Sbatté un paio di volte le palpebre, vedendo davanti a sé lo spettro dell'uomo che aveva visto qualche anno prima allo Snowflake, il bunker nel quale avevano discusso il destino del cristallo che avrebbe dovuto uscire dal corpo della sua donna, onde evitare di trasmettersi a quello della sua bambina.
E quella che lui, dal volto pallido e la barba di qualche giorno, teneva per mano, doveva essere Allegra.
"Gardenia... ciao..." disse lui, abbassando lo sguardo. La donna non sapeva se quella reazione fosse dovuta al fatto che lei fosse praticamente nuda, sotto quel telo da bagno, oppure se le cose che passavano nella testa dell'uomo producessero tanto, troppo rumore.
"Papà" s'inserì la piccola, con quella voce cristallina come una campanula. "Chi è questa signora?".
Gardenia sorrise quasi immediatamente. La guardò negli occhi azzurri, così accesi e profondi.
"Lei è Gardenia. Una mia cara amica..." rispose quello, stanco.
Il vento soffiò sibilando; la pelle di Gardenia s'accapponò, e pure Allegra si strinse nel nuovissimo e caldo cappottino col colletto di pelliccia.
"E tu come ti chiami?" disse lei, piegandosi sulle ginocchia. Zack guardò dritto davanti a sé, volenteroso di entrare in casa e di proteggere sua figlia dal vento.
"Avanti" disse poi lui, carezzando il capo della bimba. "Rispondi. Di' a Gardenia come ti chiami".
"Allegra" rispose lei.
Gardenia sorrise, stringendole la mano e guardando negli occhi il padre. Addolcì lo sguardo e lo strinse in un abbraccio, staccandosi subito dopo.
"Scusami, sono tutta bagnata... Sono appena uscita dalla doccia".
"Mi spiace... Scusami se ti ho disturbato. Non sapevamo dove altro andare". Gli occhi di Zack erano incurvati verso il basso. Esprimevano tristezza e fragilità.
"Che sta succedendo?" chiese lei, preoccupata.
Zack guardò Allegra e sospirò, carico d'ansia. "Facci entrare, ti prego" sussurrò.
I loro occhi erano strettamente legati, con quelli di Gardenia che non lasciavano liberi quelli dell'uomo.
"Entrate pure".
 
E forse aveva sbagliato.
Conosceva Zack, sapeva quanto fosse una testa calda ed era bene a conoscenza della sua attitudine a mettersi nei guai.
 
"Lasciate che m'infili qualcosa di caldo, ragazzi... Fuori fa freddo..." disse quella, chiudendo la porta.
"Sì, tranquilla".
"Accomodatevi. Se vuoi, Zack, prendi qualcosa da mangiare… Sai dove sono le cose…”.
E sfilò in un corridoio avvolto nella penombra.
L’uomo sospirò e smontò il pesante giubbino che aveva appena acquistato, poggiandolo sul divano. Spogliò del cappottino anche sua figlia e poi la spinse in avanti, con un colpetto alla spalla sinistra molto leggero.
“Andiamo a preparare qualcosa”.
“Perché ha detto che sai dove sono le cose?”.
Zack si voltò verso di lei e sospirò. Pensò che fosse arguta.
“Perché prima che io conoscessi la mamma, io e Gardenia eravamo molto… amici. Sono già stato in questa casa, diverse volte. Ecco perché”.
“La mamma quando verrà?” chiese poi.
Il senso di colpa tornò a bussare prepotente alla sua porta. Doveva mentire ancora, non era pronto a raccontarle la verità.
“Lei non verrà, amore. Ha da fare con i suoi dipinti e… Noi ci prenderemo qualche giorno”.
Zack aprì l’acqua della fontana e sciacquò le mani, cominciando a mettere su un buon brodo per il ramen che aveva trovato nella dispensa.
“Che fai?”.
“Cucino, amore”.
La bambina fece spallucce e si guardò un po’ intorno. La cucina era accanto al salotto e formavano un unico grande open space, diviso soltanto dal banco cucina. La bambina camminava sul parquet grigio di quella casa, notando come effettivamente fosse arredata in maniera assai differente da dove viveva lei: Gardenia possedeva oggetti di design costosi e assai estetici, utilizzando uno stile minimale parecchio accattivante.
A Zack piaceva quel luogo; del resto conosceva il gusto di Gardenia nelle cose.
Tornò qualche minuto dopo, lei, vestita con una comoda tuta e un maglioncino aderente. Aveva mantenuto un fisico tonico e asciutto, lei, figlio degli allenamenti continui.
Notò che Zack non poggiò minimamente lo sguardo su di lei, non sapendo se la cosa la sollevasse.
“Eccomi arrivata. Allora?”.
“Gardenia” la chiamò Allegra, alle sue spalle. Già amava quella voce, la Capopalestra. Si voltò, con ancora l’asciugamano tra i capelli, e le sorrise.
“Cosa c’è, bimba?”.
“Posso guardare un po’ di televisione? Ci sono i cartoni animati, a quest’ora”.
“Oh, ma certo. Puoi andare nella camera degli ospiti, ho lì la televisione!”.
Allegra guardò gli occhi ambrati della donna, quindi cercò lo sguardo rassicuratore del padre.
“Se vuoi, puoi andare” le disse lui, mentre immergeva il ramen nel brodo già pronto.
“Ho paura di restare sola” ribatté la piccola, onestamente.
Gardenia impazzì, emettendo un piccolo urletto. “Dannazione, quanto sei bella!”. S’inginocchiò e la riempì di baci. Zack la vide sorridere.
“Se vuoi puoi stare in compagnia dei miei Pokémon”.
Zack sorrise leggermente, mentre immergeva i naruto nella zuppa.
“La mamma non vuole che stia coi Pokémon cattivi”.
Gardenia si voltò stupita verso Zack, che però non la guardava.
“Il Luxray di papà, per esempio” continuò. “Lui è cattivo”.
“Hai un Luxray cattivo, Zack?” domandò quindi.
Non rispose, lui, limitandosi a sorridere leggermente. Allegra era la cura a tutti i mali.
“Cattivo. Ringhia e sta sempre lontano dagli altri Pokémon. Arcanine invece è bravo”.
“Arcanine?! Si è evoluto, alla fine?!” chiese ancora la Capopalestra. Zack continuava a non rispondere.
“Papà” lo chiamò poi la piccola. “Che significa evolvuto?”.
E lì l’uomo sorrise. “Evoluto, amore. Te lo spiegherò un'altra volta”.
“Allegra” s’inserì Gardenia, tirando dietro l’orecchio un ciuffo rossiccio scappato dalla morsa del turbante. “Se vuoi posso presentarti i miei Pokémon. Sono piccoli e carini”.
“Sono bravi?”.
“I più bravi del mondo”.
“Più di Arcanine?” chiese poi la piccola, con l’ingenuità nello sguardo.
“Certo! I miei Pokémon sono bravissimi! E profumano!”.
“Davvero?!” spalancò gli occhi lei.
“Andiamo di là, te li faccio vedere”.

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Capitolo 34
*** Capitolo 29 - Messo a fuoco l'obiettivo ***


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29. Messo a fuoco l'obiettivo

 
- Sinnoh, Evopoli, Casa di Gardenia –
 
“Sei stata fantastica, prima… con Allegra, intendo…”.
“Quella bambina è una delizia. Ovviamente non ti somiglia per niente” ridacchiò Gardenia, avvicinandosi a Zack, lentamente. Il profumo della cena era delizioso, e il brodo gorgogliava nella pentola. La donna si piegò lentamente in avanti, poggiandosi sul bancone che li divideva.
“È tutta sua madre” disse l’uomo, con i faretti che, puntati sui fornelli, nascondevano dietro la luce il volto della bella Capopalestra.
“Ora è di là, tranquilla, con i Pokémon e i cartoni animati” concluse quella, levando l’asciugamano dalla testa. I capelli erano ancora bagnati. “Potresti spiegarmi, Recket?” chiese infine.
Zack sospirò e prese un mestolo dal cassetto.
“Vedo che ricordi bene dove si trovano le cose…” disse ancora, muovendosi e avvicinandoglisi. Prese due scodelle dalla credenza che aveva accanto e gliele porse. “Ma non ricordi come si parla”.
“Sediamoci a tavola, prima” rispose quello, con lo sguardo spento. Gardenia ne carezzò con gli occhi i lineamenti del volto, più solidi rispetto a quando passavano assieme i propri giorni e le proprie notti.
Lo vide riempire le scodelle col brodo, le verdure e i noodles. La tavola era già apparecchiata.
“Cucini ancora come qualche anno fa?”.
“Un po’ meglio” sorrise leggermente lui. “Ho fatto qualche corso con un’ottima cuoca…”.
Gardenia emulò il sorriso del ragazzo e si accomodò. Si allungò poi verso il bancone e accese i condizionatori.
“Fa freddo” giustificò il gesto, con Zack che la guardò con sufficienza.
“Hai capelli bagnati…”.
“Li asciugherò dopo. La mia serata è stata rovinata già… Ma Allegra non deve mangiare?”.
“Le ho comprato un hot-dog per strada, l’ha pure lasciato…”.
“Io adoro tua figlia”.
“Grazie” disse umilmente l’uomo, forse un po’ troppo. “Anche io”.
Affondò il cucchiaio nella zuppa e bevette il brodo bollente, riscaldando velocemente l’interno del corpo.
“Allora?”.
“Allora Rachel è morta” disse, alzando di colpo il viso. Puntò gli occhi in quelli di Gardenia, sconvolti. Sbatté le palpebre un paio di volte, dopo aver schiuso le labbra. Poi, con quelle dita sottili e affusolate come ramoscelli ancora verdi, portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro.
“Stai scherzando, vero? Avrete soltanto litigato e…”.
“Allo Snowflake, tre anni fa… ricordi di cosa discutemmo?”.
“Io e te?” domandò quella, ormai scossa.
“No. Tutti”.
“Del… del cristallo. Il… il Cristallo della Luce, o una cosa del genere, no?”.
Zack annuì, mangiando un naruto e sospirando. “Già... Quel cristallo era mia moglie”.
“E tu avevi utilizzato il desiderio per tirarlo fuori da lei… o no?”.
Gardenia guardava con occhi incuriositi e intimoriti le labbra di Zack. L’uomo non avrebbe mai potuto negare a se stesso quanto bella fosse quella donna che aveva di fronte, ma non gli saltò neppure per un secondo in mente di pensare a quella come un mero sfogo fisico, anche se i suoi nervi ne avrebbero avuto bisogno.
No, sapeva che cosa significava fare l’amore con Gardenia e non era minimamente paragonabile a quello che succedeva con Rachel.
Il letto di Gardenia, in confronto, era un tatami, un campo da combattimento. Il letto che divideva con sua moglie era invece il tempio di un amore infinito.
E il solo poter immaginare cose del genere, nell’ingenuità di quell’uomo, equivaleva a un tradimento.
E poi era davvero troppo presto per guardare altre donne; Zack in quel momento era troppo profondamente legato al ricordo di sua moglie per poter passarci sopra, per poterlo archiviare.
“E quindi?! Mi rispondi?!” chiese poi Gardenia, irritata. “Non prenderti queste pause!”.
“Sì, scusami…” sospirò lui, masticando poi dei noodles.  “Il cristallo era tornato tangibile, Gardenia. E quindi avremmo allontanato il pericolo da Rachel e soprattutto da Allegra che, crescendo, avrebbe preso le facoltà della madre”.
“E poi? Come… com’è successo? Se posso chiederlo” fece lei, affondando il viso nel vapore che usciva dalla scodella.
“Suo padre. L’uomo che abbiamo imprigionato nel passato, vari anni fa… Non so come, non so perché e non so quando, ma è riuscito a ritornare al presente e non ha perso tempo: cercando il cristallo e ignaro d’esse diventato nonno, ha squartato il corpo di sua figlia… Santo dio!” urlò poi, gettando in aria le bacchette e colpendo con una forte manata il tavolo.
Gardenia balzò indietro, col ramen caldo che le si rovesciò addossò.
“Cazzo! Zack!” esclamò quella.
L’uomo scattò in piedi, immediatamente, in lacrime.
“Scusa… scusa, scusa, scusa… Non volevo”.
Lui era squassato dal pianto, si mordeva le labbra e i grossi occhi verdi erano coperti di lacrime.
“Devo… devo cambiarmi, Zack. Ho il ramen bollente addosso. Torno subito. Ma tu mangia qualcosa di caldo e riposati un po’…”.
“Gardenia… Ti giuro che non sapevo dove andare, dovevo scappare via…”.
“Ma… Ma perché?”.
“Perché non hanno trovato alcun cristallo, nel corpo di Rachel, e non hanno capito che è perché è di nuovo tangibile!”.
“Associano la mancanza del cristallo dal corpo di Rachel alla nascita di Allegra, e non a ciò che hai spiegato tre anni fa ai vari conglomerati allo Snowflake…”.
“Stanno cercando Allegra…”.
“E tu l’hai portata a Sinnoh…”.
“Non volevo coinvolgere mia madre… Tu sei una bravissima Capopalestra e…”.
“Non sapevi dove andare… Ho capito, lo hai già detto…”.
Lui annuì debolmente. Gardenia guardò i capelli castani dell’uomo scendergli sul viso.
“Vado… Magari mi asciugo anche i capelli. Sai dove trovare le cose che ti servono…” sospirò, voltandosi e percorrendo il corridoio. Sentiva nel petto il cuore che batteva come un tamburo; s’era immedesimata giusto per un secondo in Zack ed era stata travolta da un fiume d’emozioni impetuoso e congelato.
Lui amava Rachel alla follia e l’aveva vista morire. Aveva visto suo suocero, il padre di quella povera donna, che le squarciava il petto.
Era agghiacciante.
Sentiva il rumore della televisione, la voce di qualche personaggio dei cartoni animati. S’avvicinò alla stanza e Allegra stava già dormendo, accanto a Cherrim.
Quella povera bambina non aveva più la madre; Cercò d’immedesimarsi anche in lei, senza riuscirci, dato che sua madre era sempre stata presente nella sua vita.
Aveva intuito che Zack non le avesse detto ancora nulla.
Effettivamente non si sarebbe voluto trovare nei suoi panni, quando lo avrebbe fatto.
Prese dei pantaloni e una maglietta senza fare rumore, uscì dalla camera ed entrò nel bagno, dove si spogliò, si cambiò, e cominciò ad asciugarsi i capelli.
Conosceva Zack, lui era uno dei buoni, un padre pieno d’amore e un marito senza più una moglie.
Era un brav’uomo.
Gli serviva un luogo per rimettere la testa sulle spalle e riorganizzare la vita di sua figlia. Gli avrebbe offerto di rimanere lì per il tempo necessario, e lo avrebbe fatto un po’ più a cuor leggero, se non avesse amato Marisio alla follia.
Quel giorno l’aveva sentito poco; Violapoli era la città più vicina alle Rovine d’Alfa e gl’interventi di risanamento dell’area e restauro della struttura erano la priorità.
Non sapeva come avrebbe reagito, quello, dopo aver saputo che sotto il suo stesso tetto c’era l’ex fidanzato della sua donna. Non aveva mai visto Marisio arrabbiato o irritato.
Certo, forse sarebbe potuto essere contrariato.
Motivo per cui finì d’asciugare i capelli e prese il telefono.
Squillava.
“Pronto?” rispose Marisio.
“Oi…” disse l’altra, con voce flebile.
“Amore, buonasera”.
“Disturbo o…? Perché se è un problema posso richiamare dopo…”.
“No, non preoccuparti, prendo due minuti di pausa… Che succede? Come stai?”.
Gardenia abbassò lo sguardo, colpevole perché sapeva che a parti inverse, avrebbe scatenato l’inferno. Immaginò la reazione di Marisio, sempre posato e calmo. Probabilmente avrebbe sospirato e manifestato in maniera del tutto pacifica il suo dissenso, per poi farla sentire ancora peggio.
Ma perché avrebbe dovuto sentirsi peggio se stava aiutando un suo amico?
“Sto… bene. Sto bene, più o meno… È che…”.
“È successo qualcosa in Palestra?”.
“No, in Palestra tutto bene”.
“E allora cosa succede?”.
“Prima ha bussato a casa mia… beh, il mio ex fidanzato. Con la figlia”.
“…”.
“Mi senti?”.
“Sì, ti sento. Mi devi dire qualcosa?”. La voce di Marisio s’era congelata all’improvviso.
“Sì. Cioè no! Niente di ciò che pensi, stai tranquillo, non preoccuparti!”.
“Chi è?”.
“Preferirei non dirlo qui al telefono. È venuto con una storia così incredibile e il volto da funerale… Ho dovuto farlo entrare. Non potevo lasciarlo al freddo”.
“Siete soli, adesso?”.
“No. C’è anche… non posso dirlo” sospirò poi quella, piegando la testa in avanti. “Ma sappi che devi stare tranquillo. Tu hai tanto da fare e…” sbuffò poi. “Ho sbagliato a chiamarti. Ti ho riempito d’ansia e paura per nulla. È solo una persona che ha bisogno d’aiuto…”.
Marisio sembrò sorridere dall’altra parte. “Hai fatto bene a telefonare. Avevo bisogno di sentire la tua voce…”.
“Anche io. Mi manchi tanto”.
“Tornerò quanto prima…”.
“Dovresti tornare davvero quanto prima… Ho bisogno di parlarti di… di questa cosa”.
Lo sentì sospirare. “Gardenia… Purtroppo è successo un disastro, qui a Johto. Sono morte tante persone e molto è stato distrutto. Ho delle responsabilità adesso e se potessi saltare sul primo aereo per venire da te lo farei ma…”.
“Ma non puoi, sì, ho capito”.
“Sicura di non poter dire nulla?”.
Storse le labbra e si vide allo specchio. “Sicura. Meglio non rischiare. Stai attentissimo”.
“Anche tu. E se succede qualcosa avverti Palmer. Anche se so che sei benissimo in grado di cavartela da sola”.
“Esatto. Ora ti lascio alle tue cose. Cercherò di raggiungerti lì quanto prima, per vedere come ti sei sistemato e darti una mano a organizzare le cose”.
Marisio sorrise. “Sei un diamante. Ti amo”.
Gardenia si limitò a sorridere, prima che la comunicazione s’interrompesse. Allargò il sorriso e lo vide lentamente sfiorire, fino a diventare nuovamente una sottile linea fatta di morbide labbra.
S’alzò dallo sgabello e tornò in cucina. Erano passati quasi trenta minuti.
Allegra continuava a dormire quando passò davanti alla porta, socchiudendola leggermente. Continuò verso la cucina e trovò Zack seduto al tavolo. Aveva pulito la cucina e fatto i piatti.
“Oi… Recket”.
Quello alzò il collo, lentamente.
“Dovresti dormire, Recket…” gli sorrise dolcemente. S’avvicinò nuovamente al tavolo e si sedette, proprio di fronte a lui.
“Già… Forse potrei riuscirci, qui”.
Gardenia annuì, sospirando. Lo vide poi alzarsi e tornare vicino ai fornelli, dove aprì la credenza e prese una nuova scodella, che subito dopo riempì col ramen che restava nella pentola.
“Tu Allegra potete dormire nella camera degli ospiti, se vuoi”.
“È temporaneo” ribatté l’altro, quasi immediatamente. “Chiuderò questa faccenda. Risolverò tutto. Te lo prometto”.
Quella affondò il cucchiaio nel brodo e annuì.
“Tranquillo”.
 
 
- Adamanta, Primaluce, Casa di Ryan –
 
Leonard teneva le ginocchia strette. Le grosse Nike erano sporche sulle punte ma lui non ci faceva caso. Era seduto sulla poltrona nella mansarda, che era l’unica stanza rimasta sana dal grosso scontro avvenuto lì.
“Stai bene?” gli chiese Alma, stringendo tra le braccia un finalmente più calmo Manuel, che era riuscito a prender sonno.
“Sì. Ma la mamma…” sospirò lui, con quei grossi occhi azzurri. “Piangeva”.
Alma annuì e fece spallucce. “Delle volte, quando siamo tanto nervosi, può succedere che un adulto pianga, piccolo”.
Gli si avvicinò, carezzandogli la testa. Quello annuì, guardando la porta delle scale che portava al piano sottostante. Thomas uscì dal piccolo bagnetto con una mano portata al capo.
“Cielo… Che dolore…”.
Alma si voltò, mordendosi le labbra e sospirando. “È solo una botta. Non fare la femminuccia” sorrise.
L’uomo emulò per un secondo il sorriso e poi sospirò. Guardò il bambino e pensò che quelle scene non avrebbe mai potuto dimenticarle.
Subito dopo Isabella salì le scale.
Indossava un’aderentissima divisa nera, una tuta elastica con protezioni e rifiniture azzurre. Il suo corpo era atletico e dimostrava appena i ventotto anni indicati sulla sua patente: pareva una ragazzina. Ciò, molto probabilmente, per via del volto angelicato e dei lunghi capelli biondi, che coprivano gli occhi, grandi e azzurri.
Li aveva appena sciolti, i capelli, legandoli nuovamente in quella coda che aveva sempre dietro la testa. La frangetta era spettinata, sulla fronte, ma non sembrava darle molto peso.
Guardò Alma per un momento e sospirò.
“Ho provato a chiamare Zack… Ma non risponde” fece poi.
“Prova a capirlo…” rispose la Professoressa, guardando poi Leonard e cercando un cenno d’intesa da Isabella, che a sua volta capì che non avrebbe dovuto parlare di Rachel davanti al figlio del Campione. “La situazione è rognosa…”.
“Lo so. La questione è che non riesco a immaginarlo… Lui è sempre stato così attivo, energico…”.
“Sorridente” aggiunse Alma, sovrappensiero.
“Queste cose cambiano la vita, definitivamente… Lei come sta, Professoressa?”.
La bionda si avvicinò al piccolo, pizzicandogli la guancia delicatamente.
“Nessun problema, solo un po’ di spavento. È la…” sorrise leggermente. “… montagna che ci ha difeso che è un po’ malconcia…”. Guardò con affetto suo marito, che le si avvicinò, spostando la copertina dal volto di suo figlio.
“L’importante è che voi stiate bene”.
“Mi spiace molto aver tardato. Avremmo dovuto prevederlo, una volta viste le loro divise”.
“Omega” ribatté Alma, muovendo la testa. Thomas la guardò nervoso.
Isabella sospirò e annuì.
“Beh, ne parlerò con Ryan ma credo che anche lui sarà d’accordo nel portarvi al sicuro all’interno dell’edificio centrale della Lega d’Adamanta. Lì sarete protetti e non avrete paure innecessarie per Manuel” sorrise l’ultima dei Superquattro.
“Grazie, Isabella” annuì l’uomo, abbracciando sua moglie.
“Torno di sotto” disse quella, sorridendo educatamente.
“Isabella” la chiamò invece Leonard, alzandosi dalla poltroncina. Si grattò la guancia e sbadigliò, ormai era tarda sera. “Ho fame”.
“Ehm…” la cosa spiazzò l’ufficiale della Lega, che cercò aiutò nello sguardo di Alma, sorridendo. “Ti porterò subito a mangiare qualcosa, va bene? Avverto solo gli altri al piano di sotto e…”.
“Portagli un giubbino” disse Alma.
“E ti porto un giubbino, sì” annuì, voltandosi subito e scendendo rapidamente le scale che la dividevano dal corridoio di sangue.
Lì c’erano Fred e Ginger che discutevano sulle modalità d’azione da seguire. Il primo, dai capelli neri sempre corti e ordinati, giocherellava con la barbetta che aveva sotto il labbro, quella che Isabella chiamava mosca.
“Non so come agirà” diceva lui, riferito sicuramente al Campione. Quello era un attacco diretto alla sua famiglia e la scena che si erano ritrovati davanti quando erano entrati nella villa di Ryan era qualcosa d’agghiacciante.
Si vedeva chiaramente che l’uomo che avevano atterrato fosse una Recluta di bassa lega. Isabella stessa rabbrividì pensando a cosa sarebbe potuto succedere se, al posto di quello vi fosse stato un mercenario, un professionista pagato per versare sangue.
Ginger sorrideva, e in genere lo faceva quasi sempre, con quello sguardo malizioso che riusciva a conquistare qualsiasi uomo.
A sostegno di quello, nella sua tuta aderente nera, proprio come quella di Isabella ma con particolari rossi, vi erano curve prorompenti che ogni uomo desidererebbe percorrere almeno una volta nella vita.
Fred era completamente perduto, in adolescenza. Ginger se lo rigirava come un guanto.
“Credo che ci darà l’ordine di attaccare la base dell’Omega Group… Finalmente un po’ d’azione” ridacchiò giuliva, coi capelli sempre sciolti e perfetti, di quella tonalità rossa accesa, che risaltavano sullo sguardo smeraldino, elemento vivido su quel volto diafano.
“Non so se è il caso di lasciare la Lega sguarnita. Del resto, in questo periodo non si sta capendo più nulla”.
“Ci sono ancora i Capipalestra, Fred…”.
Kendrick, che aspettava in silenzio, come sempre, davanti alla porta, sbuffò. Kendrick era muto.
E non nel senso che non avesse la facoltà di parlare.
E che non parlava. Nessuno sapeva il perché di questo.
Essendo un uomo di colore, i suoi capelli erano crespissimi, ricci abbastanza lunghi alti sulla testa. Le grosse labbra erano sigillate da chissà quanto tempo.
“Lui non condivide” osservò Isabella, attenta a non scivolare sulle grosse chiazze di sangue. Avevano raggruppato i cadaveri e li avevano spinti tutti in un angolo, in modo da sgombrare il poco ampio corridoio. Con ogni probabilità era stato proprio Kendrick, perché la sua tuta era imbrattata. Nonostante questo, il righino verde era ben visibile sul suo petto.
“Lui non condivide mai niente…” sbuffò la rossa, sbadigliando. “Se sono a capo delle Palestre un motivo ci deve essere…”.
“Concordo con lei” osservò Fred.
“E quando mai…” ribatté invece Isabella. “Va beh, io porto Leonard a mangiare un hot-dog. Voi volete qualcosa?”.
Kendrick schioccò le dita, facendo segno di volere anche lui qualcosa.
“Va bene hot-dog anche per te?” domandò ancora la bionda, vedendolo poi annuire. “Ok. Allora prendo il giubbino di Leonard ed esco. Mi raccomando, se c’è qualche novità contattatemi”.
 
 
- Kanto, Aranciopoli, Ospedale Civile –
 
Il mattino non si era fatto attendere molto. Martino era accompagnato come sempre da Altea; in quei giorni, la giovane Kimono Girl dalla pelle diafana non l’aveva lasciato per un istante, godendo della sua compagnia ad ogni ora della notte.
Il Ranger aveva passato tutto il viaggio in bus dal loro albergo a guardarla, di nascosto. Di tanto in tanto lei si voltava, sentendosi osservata, e lui scostava subito lo sguardo, avvampando. Lei sorrideva, gli baciava la guancia e poi poggiava la testa sulla sua spalla.
Parlavano, loro. Parlavano molto.
Lei era davvero curiosa riguardo le mansioni che deteneva a Oblivia; tutto ciò che riguardava il suo lavoro l’affascinava tanto, e spesso lei lo tempestava di domande riguardo qualche missione in particolare.
Adorava quando lui le raccontava di Lugia, il giorno in cui si conobbero. Tutto il background s’intende, la pioggia, i vortici. E anche i racconti delle avventure di qualche anno prima, a Hoenn, piene di pathos.
Si era affezionata subito a lui. Del resto il Ranger aveva totalmente perso la testa per la Kimono Girl. La caviglia stava guarendo, lei aveva anche ballato per lui, indossando i vestiti tradizionali di Amarantopoli. Aveva legato i lunghi capelli neri e li aveva tenuti insieme tramite le bacchette, adornato con kanzashi vari. Lui aveva sorriso e le aveva detto che era bellissima con quei geta ai piedi.
Lei era arrossita, ma il cerone aveva celato il suo imbarazzo. Assieme al suo Leafeon ballò per Martino, quindi, secondo la tradizione, pulì il viso dal trucco e fece un lungo bagno.
Assieme a Martino.
Le lavò la schiena, lei ricambiò, si baciarono, si amarono per tutta la notte.
 
Di fatto stavano insieme. Martino non era il tipo di persona che adorava ufficializzare quelle cose, si viveva una relazione per quello che era: dolci momenti accanto a una dolce donna.
Lei lo vedeva, complicato nei ragionamenti lineari e sciolto nelle situazioni difficili.
E poi, terribilmente geloso e timoroso per sua sorella.
Era precoce parlare d’amore, ma c’era tanta affezione.
Erano entrati nell’ospedale, quel mattino, col solito cappuccino tra le mani e un pezzo di torta che la bella Altea aveva cucinato la sera prima.
Aveva salutato l’infermiera all’accettazione, aveva aspettato che l’ascensore scendesse al pianterreno e poi erano saliti.
Nell’ascensore c’erano altre due persone, tra cui un medico dal lungo camice bianco. Aveva i capelli spettinati dietro la nuca e gli occhi stanchi.
“Dove scendete?” aveva chiesto lui.
“Sette” disse Altea, sorridendo gioviale. Martino le prese la mano e sorrise in direzione del dottore. Quando poi le porte si riaprirono, al settimo piano, la coppia uscì velocemente.
C’era poco movimento, quel giorno, con poche persone che si muovevano per i corridoi spenti.
Martino odiava gli ospedali; odiava quell’atmosfera cupa e pesante che si muoveva attorno a tutti, opprimeva gli animi e non li abbandonava neppure quando, ore dopo, si era lasciato l’edificio.
La porta di Gold era chiusa. Marina aspettava pazientemente al suo interno, Altea era sicura di trovarla lì, a parlare a Gold, come sempre.
Tuttavia la situazione fu leggermente differente quando entrarono nella stanza. Marina era stanca e sfinita, e dormiva; era seduta sulla sedia accanto al letto e poggiava la testa sulle gambe del ragazzo, tenendogli la mano.
E Gold era lì, con gli occhi aperti.
Sia Martino che Altea sobbalzarono ma lui fece cenno con la mano di fare silenzio.
“È stanca. Lasciatela dormire”.

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Capitolo 35
*** Capitolo 30 - Occhio Per Occhio ***


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30. Occhio per occhio


 
- Adamanta, Primaluce, Casa di Ryan –
 
 
Il freddo spariva sempre, quando lui la stringeva tra le sue braccia. Diventava un ricordo lontano e il calore del corpo di suo marito l’anestetizzava dal male del mondo.
Marianne era stesa sul suo letto, ancora imbrattata di sangue, col cuore che batteva forte nel petto. Ryan era steso accanto a lei, noncurante del fatto che si sarebbe sporcato tutto. La stringeva forte, le baciava la fronte, inalando il profumo dolciastro del sangue e dei capelli di sua moglie.
“T-ti ho chiamato… Ho… ho provato a farlo, t-ti giuro… Non volevo… u-ucciderli…” singhiozzava quella, con le lacrime sul volto distrutto dal pianto. Suo marito la stringeva mentre la sentiva tremare.
“Non avevo con me il cercapersone. So che hai provato a chiamarmi, Marianne” aveva risposto lui, baciandole la fronte. Quella s’era avvinghiata a lui per provare a calmare quella sensazione di vuoto che provava.
“Ho-o provato… ho-o prova-vato a chi-chiama-mare…”.
“Hai fatto ciò che avremmo fatto tutti…”.
“Ho-o ucciso delle persone… d-delle persone…” piangeva, cominciando a tremare ancor più forte. Lui la strinse, cercando di metterla quanto più a suo agio possibile, continuando a baciarle la fronte e tenendola vicina al suo corpo, vigorosamente.
“Anche io l’avrei fatto. Nessuno deve toccare la mia famiglia. Sei stata una madre che, nel momento del bisogno, ha mostrato i denti. E di questo ti ringrazio. La nostra famiglia è salva grazie a te”.
Quella non rispose. Calmò il pianto ma rimase tra le braccia del suo uomo, a tremare.
“Voglio solo che ti tranquillizzi. Poi ragioneremo con calma…”.
“Z-zack? L-l’hai sentito?” chiese.
“Non risponde. Che ne dice dici di mangiare qualcosa? Siamo qui da ore”.
Il respiro si era fatto più greve quando si era resa conto di aver dimenticato Leonard. Scattò come una molla, sfuggendo dall’abbraccio di Ryan e inciampando, cadendo dal letto.
“Lenny! Lenny!” fece poi, con gli occhi spalancati e i vestiti totalmente imbrattati di sangue. Suo marito si alzò e la fermò per le spalle.
“Sta benissimo, tranquilla. Ieri sera ha cenato con Isabella”.
“Deve stare con me, non possiamo perderlo d’occhio!” urlò poi, cercando di divincolarsi.
“È alla Lega, Marianne! È con una Superquattro! Non riuscirebbero a battere Isabella neppure in trenta!” esclamò lui, alzando la voce a sua volta.
Quella abbassò la testa.
“Noi dobbiamo raggiungerlo” continuò Ryan, cercando con pazienza di riportare sua moglie alla lucidità. “Ora vai di là, Ginger ti aiuterà a lavarti dal sangue e poi andremo tutti a Timea”.
Lei respirava con la bocca leggermente aperta, con un soffio d’aria che le carezzava le labbra e usciva fuori. Annuì lentamente e vide Ryan stringerla in un abbraccio accogliente.
Aprirono la porta della stanza e si trovarono davanti Kendrick, silenzioso come sempre, con una Marlboro accesa tra le dita.
“Ginger?” domandò il Campione, sapendo che quello non avrebbe risposto. “Ginger!” la chiamò subito dopo, sentendola scendere lentamente dal piano superiore. Non ebbe modo di constatare, Ryan, che i corpi erano spariti e che il sangue fosse stato lavato via, anche se un forte odore di prodotti chimici aleggiava nel piccolo corridoio.
Dopo qualche secondo la bella rossa si presentò davanti al padrone di casa.
“Fred dov’è?” chiese ancora, sospirando.
“Di sotto, credo. Ero su, a pattugliare dall’alto. Ho visto l’alba” sorrise poi, con quella finta dolcezza, che altro non era che una trappola.
“Bene” sospirò. “Saresti così gentile da aiutare mia moglie a lavare via il sangue? Sai… Sarebbe meglio che te ne occupassi tu, mentre cerco di varare un piano d’azione. Dopo…” sbuffò, portando le mani ai fianchi e guardando Kendrick fumare davanti la sua camera da letto. “… Dopo mangeremo qualcosa e ci riposeremo…”.
“Perfetto” sorrise la Superquattro, prendendo per mano una Marianne tremante come una foglia.
Le videro entrare nel bagno e chiudere la porta, e un grosso macigno sembrò cominciare a sgretolarsi nell’animo del Campione. Prese poi la sigaretta dalle labbra di Kendrick e la spense con le dita, infilandola dietro l’orecchio dell’altro.
“Pensare di aver avuto il corridoio pieni di cadaveri m’infastidisce quasi quanto sapere che qualcuno stia fumando in casa mia…”.

 
- Adamanta, Timea, Sede della Omecorp –
 
“Male! Dannazione, male!” urlava quello, sentendo quella strana sensazione pervadergli il corpo. Quel cristallo bruciava dietro la schiena ogni qualvolta i nervi affiorassero a fior di pelle.
La scrivania era come sempre ordinatissima, coi plichi sulla sinistra e altri fogli slegati sulla destra. La sua Montblanc era perfettamente parallela al bordo superiore del planning, su cui erano segnati date e appuntamenti.
Quell’organizzazione perfetta faceva a cazzotti con lo stato d’animo di Lionell, così rabbioso.
Linda, davanti a lui, era in piedi e lo guardava coi grossi occhi verdi, vividi e accesi. I lunghi capelli scuri erano sciolti e cadevano sulle spalle, lasciando scoperta la scollatura. Si morse le labbra, guardando gli occhi di Lionell colmarsi di quella furia cieca.
L’uomo, infatti, colpì per l’ennesima volta la superficie della scrivania, spettinando i capelli ormai troppo lunghi. La barba sembrava esser cresciuta troppo, in quei giorni, dandogli un’aria estremamente interessante.
Non era un segreto che Linda fosse attratta dall’uomo che sedeva dall’altra parte della scrivania, ma quando lei se ne rese conto per la prima volta non era altro che una giovane donna in cerca di un lavoro con problemi edipici mai risolti. E Lionell era un ricco uomo coi capelli sale e pepe, sempre ben ordinato e con un portamento dal lord inglese.
Era inevitabile che quella avrebbe fatto di tutto per avvicinarglisi, riuscendoci quasi subito.
Fu bellissimo, per lei, sentirlo entrare dentro di sé.
Non ebbe mai il coraggio di dirgli che avrebbe voluto lasciare tutto, portarlo via con sé e avere la parvenza di una vita normale, quella che aveva sempre desiderato.
E fanculo se lui aveva quasi venticinque anni in più, Linda lo amava perché era la calma nei suoi occhi e quel sorriso ben tirato su quel volto sempre liscio e profumato. I capelli pettinati e il vestito gessato e quel portamento irresistibile.
Era attratta da quell’uomo e dalla sicurezza che i suoi coetanei non le davano. Passato il tempo, gli stette accanto anche quando quello scoprì le carte, col piano della cattura di Arceus e lo sfruttamento di sua figlia.
Tutto quello le pareva paradossale ma lei amava quell’uomo e sapeva che doveva sostenerlo, proprio per fargli capire quanto tenesse a lui. Ripensò a tutti i momenti che avevano passato assieme prima che tornassero indietro nel tempo, alla battaglia del plenilunio, quando sconfissero i Templari e gli Ingiusti, per poi salire sul tempio del Monte Trave.
Linda era lì, accanto a lui, e gli sarebbe rimasta accanto anche quando, nonostante la sconfitta, continuò a portare avanti i progetti di quell’uomo, innaffiando la pianta ormai secca che era diventata l’Omega Group. Viveva di speranza, sognando il ritorno dell’uomo che tanto amava.
Era ormai cresciuta, era diventata una donna, scolpita dal martello del dolore e della consapevolezza che, nonostante tutto, non sempre si vinceva.
E poi lui si presentò alla porta del suo ufficio, coi capelli ben pettinati e la barba rasata.
Tre anni dopo che il suo cuore fu gettato in una cella di mille anni prima.
Fu quasi un sogno, per lei, che si tramutò improvvisamente in incubo quando quella grossa lama affilata squarciò in due il petto di Rachel, la figlia di quell’uomo, sangue del suo sangue.
E proprio di quel sangue s’era macchiato, Lionell, tuffandovi dentro le mani e le braccia, fino ai gomiti, cercando qualcosa di più importante della bambina nata da un amore passato.
Lì tentennò, Linda. Lì si chiese dove fosse realmente andato a finire quell’uomo di cui si era innamorata.
“Linda!” la chiamò lui, spostando una ciocca di capelli un po’ bianca e un po’ bionda dallo sguardo spento. Il sangue pulsava nelle sue tempie rossastre, irrorate di sangue bollente, impaziente.
“Lionell” rispose lei, guardandogli le labbra, assottigliate per via del tempo.
“Devi trovare Allegra Recket! Lei non è più a Primaluce!”.
“Credo che…” gli occhi della donna s’abbassarono ancor di più, su quelle mani nodose. Non portava anelli alle dita, nessuna fede. Non l’aveva mai portata, da quando lo conosceva.
“Cosa credi?!” urlò.
“Dovremmo andare a chiederlo a Marianne e Ryan…”.
“E allora andate!”.
Linda sorrise, col volto diafano di una principessa delle fiabe, senza mai alzare il volto.
“Non credo sia semplice entrare nella Lega Pokémon di Adamanta e minacciare la moglie del Campione per ottenere informazioni”.
Lionell si sollevò in piedi immediatamente e circumnavigò rapido la scrivania, andandole in contro.
Linda ebbe paura, e la situazione non diminuì quando quello l’afferrò per i polsi. Nei suoi occhi c’era la pazzia e la donna la riusciva a vedere mentre fluiva ovunque nel suo corpo. Aveva il volto dell’uomo a pochi centimetri e sentiva il suo respiro furioso infrangersi contro le sue labbra e le sue guance.
Lei schiuse la bocca, respirò il suo respiro e lo costrinse a fare altrettanto.
“Noi possiamo fare tutto!” urlò lui, vedendola chiudere gli occhi intimoriti. “Tutto!”.
“Io… Io…” tentennò quella, con le labbra che presero a tremare.
“Tu devi andare di là e scegliere gli uomini migliori per questa missione! E dovrete portarla a termine! Dobbiamo prendere quel fottuto cristallo, Linda!” urlò infine, lasciando i polsi e spingendola. Quella inciampò, cadendo dritta per terra.
Fu proprio quello il momento in cui la donna ebbe il quadro più chiaro.
“Cosa stai facendo?” gli domandò, lasciandolo interdetto giusto per un secondo. Quello fissò i suoi occhi chiari per un secondo, prima che la porta del suo ufficio si spalancasse.
E vi entrò una donna alta, su di un paio di tacchi funambolici. Li portava con molta eleganza, e li aveva abbinati a un leggins nero, che serviva a mettere in risalto le cosce toniche e il sedere rotondo. La vita sottile e la pancia piatta erano coperti da un maglioncino color panna, molto aderente e a collo alto. Indossava un paio di lenti graduate, che negli uffici si erano schiarite e avevano mostrato a tutti gli occhi color cremisi della giovane donna, dai lunghi capelli rossi legati in alto sulla testa.
“Malva. E lei deve essere il Signor Weaves” si presentò quella, sorridente. Sia lui che Linda rimasero un attimo interdetti; la seconda si rialzò in piedi, poco prima che la segretaria entrasse tutta trapelata nell’ufficio.
“Mi scusi!” esclamò quella. “Mi scusi signor Weaves! Ma non sono riuscito a fermarla! Le avevo detto che era in riunione”.
Malva sorrise e sospirò. “Fossero tutte così, le riunioni”.
“Che diamine cerca?” ringhiò il capo di quell’ufficio, profondamente indisposto.
“Volevo dirle che è inutile cercare quella bambina. Il cristallo non le appartiene più”.
Linda ricevette uno sguardo da Lionell parecchio torvo.
“Lei che ne sa?” chiese poi, calmatosi all’improvviso.
La donna sorrise, stirando soltanto un angolo della bocca, prima sospirare nuovamente.
“Che ne dice di parlarne davanti a un bel tè caldo?”.
 
 
- Adamanta, Timea, Lega Pokémon –
 
Quel corridoio non era molto lungo ma a Ryan sembrava di percorrerlo da settimane. Stringeva la mano di sua moglie mentre, con gli occhi azzurri come il mare, cercava la porta che avrebbe dato ai dormitori. Alma era davanti a lui, stringeva Manuel; il bimbo dormiva.
Leonard invece era sereno, davanti a tutti, con Isabella, e le chiedeva per quale motivo Kendrick non proferisse parola. Nessuno lo sapeva.
Si voltò per un attimo, scrutando il volto rigido di sua moglie; le labbra, le grosse labbra ambrate di Marianne si erano trasformate in linee sottili e pallide. Gli occhi erano stanchi e si poggiavano su due grossi solchi, ma erano coperti dai voluminosissimi capelli, neri e ricci, e celavano qualsiasi sua espressione.
“Amore” l’aveva chiamata il Campione, col cuore che ancora batteva forte e le immagini di suo figlio sotto il tiro di quello scagnozzo.
Marianne però non si girava.
“Marianne”.
“Ryan” rispose poi quella, senza neppure voltarsi. Guardava la nuca di Thomas, proprio davanti al suo volto, col fare di chi non sapeva la propria collocazione nello spazio e nel tempo. La sua espressione, effettivamente, era quella di una donna senza emozioni e senza curiosità, senza paura e senz’amore.
Nei suoi occhi solo il sangue, nelle sue orecchie soltanto le urla.
Nei suoi pensieri solo Leonard.
“L’hai protetto. Sei stata perfetta”.
“Ho ucciso degli uomini, Ryan. Non sono stata perfetta ma un’assassina”.
Quello rimase colpito da quelle parole.
“Lo avrei fatto anche io, se può consolarti”.
“Non mi consola. La vita è un dono troppo prezioso e io non sono nessuno per rubarlo. Anche la feccia umana non merita di morire come l’ho uccisa io”.
“Tu e Lenny siete la cosa più preziosa che ho” ribatté Ryan, coi capelli biondi ben pettinati sulla testa. “E se qualcuno minaccia la vostra sicurezza io minaccio la loro. Io e te siamo i genitori di quel ragazzino” disse ancora, mentre i passi s’accumulavano uno sull’altro. “Ed è nostro dovere proteggerlo. Sempre e comunque, e in qualsiasi modo. Se ora fosse morto te lo saresti mai perdonato?”.
Fu quello il momento in cui Marianne spostò lo sguardo e guardò suo marito. Guardò le sue labbra, screpolate per il freddo, e la pelle già diafana che d’inverno diventava ancor più pallida. L’accenno di barba sul suo volto era così insolito da essere quasi una novità.
“Non ho protetto io, nostro figlio. Sei stato tu, che sei arrivato all’improvviso. Se non ci fossi stato tu non saremmo qui, ora, ma al suo funerale”.
Ryan abbassò il volto, cercando d’allontanare quell’immagine così buia dalla sua mente, chiuse gli occhi e guardò la punta delle proprie scarpe.
“L’importante è che ora stia bene. Non conta più nulla. E tu hai fatto quello che avrebbe fatto chiunque… Hai fronteggiato diversi uomini e Pokémon, più forti e grossi di te. Li hai messi tutti al tappeto, come una mamma ninja” sorrise, suscitando la stessa cosa in sua moglie. “E hai trattenuto la minaccia finché non arrivassi. Io e te abbiamo fatto un grande lavoro di squadra. Anzi, il mio merito è fin troppo più piccolo rispetto al tuo”.
La donna si limitò ad abbassare il capo e a sospirare, inalando aria fresca e gettando fuori ansia e veleno.
Isabella si voltò, sorridente e gioviale come sempre, aprendo la porta alla sua sinistra. “Alma e Thomas potranno stare qui a sinistra, mentre Marianne e Leonard andranno nelle camere di Ryan”.
“Saresti perfetta in un ostello” ribatté Ginger. Fred e Kendrick sorrisero e la bionda indossò una smorfia divertita.
“E tu in un bordello”.
Altre risate.
Ryan sospirò e aprì la porta sulla destra, prendendo per mano suo figlio e permettendo a sua moglie di passare prima di lui. L’ambiente era accogliente, col parquet sui pavimenti e le pareti rivestite di mattoni rossi. C’era un letto singolo accanto alla porta del bagno e una televisione che lui però non utilizzava mai.
Sul comodino vi era un libro di Glenn Cooper e un bicchiere d’acqua vuoto.
“Farò portare un altro paio di brande. Magari potremmo crearci un letto matrimoniale” sorrise il Campione. “Ora, Leonard, la mamma è stanca e ha bisogno di riposare. Tu dovrai fare il bravo, qui e non creare problemi. Intesi?”.
“Ma non c’è nulla da fare, qui! Voglio stare con Isabella”.
“Isabella deve stare col papà e gli altri Superquattro, Lenny” rispose Marianne, ancora scossa.
Ryan sospirò e si guardò intorno. Aprì poi il cassetto del comodino e prese una Pokéball.
“Tieni. Questo è tuo”.
Leonard spalancò gli occhi.
“È un Pokémon?!”.
Marianne guardò stranita il suo uomo.
“So che avremmo dovuto parlarne, Marianne, ma lo faremo più tardi”.
Quando il bambino aprì la sfera vi trovò uno Squirtle. Sorrise felice e guardò sua madre stendersi sul letto.
 
Ryan invece si voltò rapido e raggiunse i suoi uffici. I Superquattro erano già seduti ordinatamente attorno alla scrivania, silenziosi e in attesa di direttive.
Quando il Campione si sedette tutti e quattro i presenti avevano già intuito che la tensione fosse eccessiva.
“Hai bisogno di riposare” aveva cominciato Fred, guardando gli occhi scavati di Ryan, che ormai aveva raggiunto quasi le ventiquattr’ore senza chiudere occhio.
Isabella rimbeccò. “Odio dovergli dare ragione… ma ha ragione”.
“Che frase ridondante” ribatté l’altro.
“Devi riposare. Non sei lucido, adesso” continuò la bionda.
Ryan sospirò e accese il portatile.
“Ginger” disse poi il biondo, digitando qualcosa in maniera molto rapida. “Hai da dire anche tu qualche puttanata che non ascolterò?”.
Fred e Isabella si guardarono, repentini.
“Credo che abbiano ragione” rispose la rossa, inclinando la testa. “Ma il capo sei tu, e della nostra opinione, se vuoi, te ne fai ben poco… Ora aspettiamo soltanto le direttive”.
“Per una volta Kendrick non è l’unico a non darmi fastidio… Allora” sospirò quello, alzandosi in piedi. Spense la luce e accese il proiettore; sulla parete apparve la piantina d’un edificio.
“Questo è il complesso degli edifici dove l’Omega Group si è stabilito vent’anni fa. Saremmo potuti entrare tranquillamente dagli impianti d’areazione, come ha fatto qualche giorno fa mio cognato Zack, ma sicuramente le telecamere di sorveglianza lo avranno visto e quindi gli addetti alla sicurezza avranno tamponato quella falla”.
“E cosa suggerisci?” domandò Isabella.
“Io sono il Campione e voi siete i Superquattro” sorrise poi, incrociando le braccia sotto al petto. “E la porta principale è questa qui”.
 

 

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Capitolo 36
*** Capitolo 31 - Vi Spiego Cos'è Una Prova Di Forza ***


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31. Vi Spiego Cos'è Una Prova Di Forza

- Adamanta, Timea, Uffici della Omecorp -
 
 
"Se vuole spiegarmi...".
Lionell guadava sott'occhi Linda, mentre Malva sorseggiava il suo tè, sorridendo. Spostò una ciocca di capelli arricciata sugli occhiali e sorrise.
"Ho detto che il cristallo non appartiene più ad Allegra Recket".
L'uomo sospirò, sistemando il colletto della camicia bianca, per poi passare una mano tra i capelli brizzolati.
"E…” sospirò, fissando gli occhi rossi di quella che aveva di fronte. "Lei come conosce Allegra Recket?".
"Perché so chi è Zackary Recket. E so anche chi era sua madre. O sua figlia, del resto sono la stessa persona".
Linda s'accomodò accanto a lei e accavallò le gambe. La guardò sorseggiare nuovamente la bevanda calda, poi incrociò i suoi occhi, scontrandosi con un muro infrangibile.
Aveva come l'impressione che Malva la reputasse inferiore.
"E come fai a saperlo?" domandò l'Ufficiale dell'Omega Group, accavallando le gambe.
Malva la guardò nuovamente, per poi rispondere soltanto dopo aver trascinato il proprio sguardo agli occhi di Lionell Weaves. Gli guardò le labbra e sospirò.
"Ho le prove... E sono disponibile a vendervi tutte le informazioni di sorta..." sorrise.
Lionell sospirò, inarcando le spalle e facendo cenno di no con la testa.
"E secondo lei, signorina...".
"Malva. Può chiamarmi Malva. È il mio nome...".
"E secondo lei, signorina Malva, io dovrei darle i miei soldi perché dice di avere le prove?".
Linda sorrise. "Illusa" fece.
Malva si voltò immediatamente.
"E lei è?".
Linda spalancò gli occhi.
"Sono l'Ufficiale Capo, comandante delle reclute e dei corpi d'azione, oltre al primo esecutivo dell'Omega Group, presidente della Omecorp e braccio destro dell'uomo che ha difronte. La vera domanda è: chi sei tu?".
"Mi dia del lei" ribatté l'ex Superquattro di Kalos.
"Non ti darò proprio nulla. Sei entrata nei nostri stabilimenti senza un minimo di professionalità, senza prendere un appuntamento e ti sei presentata davanti a noi durante una riunione importante per cercare di spillare dei s0ldi senz'alcuna prova che ciò che ci offri in cambio sia quello che cerchiamo".
Lionell guardò la donna dai capelli rossi, che intanto si sistemò sulla comoda poltroncina nera.
"Nella vita ho imparato che rischiare è il modo più diretto per vincere. Voi non vi fidate di me ma io..." sorrise ancora, sistemando gli occhiali sul naso. "... Io possiedo quello che vi serve".
Linda prese la mira e sparò. "Non ti credo".
L'altra si alzò in piedi e sorrise. "Circa quattro anni fa, l'intera Unione Lega Pokémon si è incontrata in un posto segreto, un bunker di massima sicurezza dove si sono incontrati tutti i corpi regionali più importanti...".
"Superquattro, Campioni e Capipalestra, quindi" osservò Lionell.
"E tu eri tra i Superquattro?" chiese invece Linda.
"Non sei stata cacciata, dopo lo scandalo del Team Flare?" domandò ancora il capo.
"Io non ero presente, ma lo era Narciso. E Narciso ha un debole per me... Non è stato difficile ottenere delle informazioni da lui, una volta entrata nel suo letto".
Sorrise maliziosa, seguita poi a ruota da Linda.
"Continua la tua storiella".
"È la verità. E una volta che tutti quei capoccioni col mantello e le medaglie si sono incontrati lì è entrato in sala Green Oak, con Zackary Recket".
"Recket, eh?" chiese Lionell, interessato. Si carezzava delicatamente il mento, cercando di carpire quante più informazioni possibili.
"Sì. E portava con sé il cristallo di Arceus" fece, poggiando sulla scrivania una fotografia di un cofanetto in legno con dentro ciò di cui parlava.
"È… è lui" sussurrò Linda, sospirando. Guardò gli occhi di Lionell e sorrise dolcemente.
"Sì, Linda. È proprio il Cristallo della Luce".
"Vi avevo detto che sapevo ciò di cui parlavo" sorrise Malva.
"Dov'è?".
"Chiedo cinquecento milioni di Pokédollari, per quest'informazione. In contanti".
Lionell fissò il volto diafano della bella truffatrice e sorrise.
"Dammi mezz'ora e avrai i tuoi soldi in una valigetta proprio qui, davanti ai tuoi occhi".
 
 
- Adamanta, Timea -
 
Ormai si erano abituati al vento che tagliava loro i volti. Volavano rapidi sui loro Pokémon, raggiungendo la capitale della grande regione adamantina, coi Superquattro tutti che seguivano il Campione, a fare d’apripista nella notte nera di Timea.
Il freddo era tanto ma il sangue nelle vene di Ryan ribolliva, con fissa nella mente l’immagine di suo figlio Leonard in pericolo e quella di sua moglie in lacrime, in un lago di sangue.
Accelerò, sulle ali del suo Flygon, stringendo i denti e continuando a sentire le tempie pulsare, nervose.
Isabella lo stringeva alla vita, cosciente dell’agguato che stavano per tendere.
Aggressività e potenza dovevano essere espressi nel minor tempo possibile, come una detonazione devastante che avrebbe distrutto tutto.
La Lega D’Adamanta si stava per riprendere tutto ciò che aveva perso in quei giorni, a partire dalla dignità per finire alla sicurezza.
Ryan non voleva più aver paura di Lionell Weaves. Aveva portato già via sua sorella Rachel, trascinando nella disperazione Zack e Allegra, spariti chissà dove.
Dietro di loro Fred e Ginger volavano l’uno accanto all’altro, rispettivamente su di un Togekiss e un Gliscor.
Infine vi era Kendrick, alle spalle, come sempre, sul suo Yanmega.
“Tra poco comincerà a piovere!” urlava Isabella. “Dovremmo sbrigarci ad arrivare lì!”.
“La pioggia ci nasconderà meglio!” aveva ribattuto Ryan, coi capelli biondi tirati indietro dal vento.
“Dovremmo entrare e uscire subito!” rispose l’altra, sentendo Ginger e Fred convenire sulla questione.
“Loro saranno molti di più! Non dovremmo mai fermarci!” aveva quindi detto l’ultimo. Ginger annuiva.
“Il piano l’ho studiato nei minimi termini, ragazzi!” faceva Ryan, sulla schiena possente del suo Pokémon.
L’acqua prese a cadere fredda dal cielo, nervosa e indisponente, bagnando i corpi dei giustizieri che si muovevano veloci e rapidi, come lame taglienti in quella notte, pronti a colpire chirurgiche la loro preda.
Il loro obiettivo.
Ryan era concentrato su Lionell. Avrebbe dovuto arrestarlo ma la rabbia che gli saliva ogni qualvolta ripensava al volto di quella recluta nella sua mansarda lo spingeva a rivalutare le proprie priorità e il concetto di giustizia.
Voleva ucciderlo.
“Siamo arrivati” fece Ginger, vedendo poi Kendrick virare lentamente verso destra.
“Il piano! Ragazzi, ricordate il piano!” urlò Isabella.
“Colpisci, Flygon!” urlò Ryan, vedendo il proprio Pokémon, in picchiata, attaccare il cortile davanti all’ingresso principale con un forte Fuocobomba.
Le fiamme divamparono, aggredendo le mura dell’edificio e le automobili presenti.
Le Reclute in vedetta presero a gridare, qualcuna sparò col proprio fucile.
“Fred!” urlò Ryan.
“Sì!” ribatté l’altro. “Salvaguardia, Togekiss!”.
Un velo d’energia ricoprì il plotone d’esecuzione, lasciando al di furi soltanto Kendrick, che intanto s’era defilato e stava attaccando le vedette utilizzando Eterelama e Nottesferza.
“Dentro saranno in centinaia…” sussurrò a Fred la Superquattro dai capelli rossi.
“Di più!” ribatté Ryan. “Migliaia! E se dovete scegliere tra la nostra vita e la loro non sussultate neppure per un momento! Sono tutti criminali e siamo autorizzati a rispondere al fuoco!”.
S’avvicinarono al cortile in fiamme e Ginger e Isabella scesero rapidamente.
“Pronta?” domandò la prima, vedendo la bionda annuire. Questa mise mano alla cintura e prese la sfera del suo Aggron, facendolo uscire davanti al grosso portone blindato.
“Vai” fece Ginger, ordinando a Isabella di dare il via alle danze.
Riduttore!” urlò euforica e sorridente quest’ultima, vedendo il proprio Pokémon attaccare l’ingresso d’acciaio rinforzato e aprirlo in due, giusto al centro.
 
“Sono all’ingresso! I Superquattro sono all’ingresso!”.
 
Era questo ciò che urlavano gli scagnozzi dell’Omega Group.
Molti erano fuggiti ma altri erano pronti a contrattaccare.
E fu allora che la seconda parte del piano andò in porto.
“Carica, Aggron!” aveva urlato poi Isabella, vedendo il grosso Pokémon partire verso l’ingresso dell’edificio. Le due donne si stesero subito per terra, pronte a scattare in avanti.
“Rapidi!” urlò Fred, facendo una grossa giravolta e scendendo in picchiata col proprio Togekiss; fu lui il primo a entrare nell’edificio, seguito subito dopo da Ryan e poi da Kendrick.
Toccava alle signore fare da fanteria, nonostante l’attacco lampo fosse portato avanti dai tre signori sui Pokémon volanti.
Quelli percorsero il grosso androne d’ingresso e si divisero nei tre corridoi più stretti nel quale la via centrale si divideva.
Isabella e Ginger si sollevarono quasi un secondo dopo che Kendrick fosse passato sulle loro teste, correndo all’interno e raggiungendo Aggron.
“Sfondamento effettuato” sorrise la rossa, guardando negli occhi Isabella. I mercenari s’affossarono davanti a loro, accerchiando il grosso Aggron e avvicinandosi minacciosi.
Le loro divise bianche quasi consentivano loro di mimetizzarsi nel candore di quella base operativa spacciata per azienda di videosorveglianza.
Le Superquattro indietreggiarono lentamente, vedendo la gran parte degli scagnozzi dell’Omega Group avvicinarsi a loro, come a volerle attaccare fisicamente.
Isabella guardò Ginger e sospirò.
“Rossa, dovrai pensare a immunizzare quanti più avversari possibile”.
La donna annuì. “Ho Espeon, per questo”.
Il Pokémon di tipo Psichico scese in campo, e veloce si pose tra le due.
“Piccolo mio dolce e bel Pokémon” sorrise Ginger. “Riesci a intrappolare tutti questi cattivoni nelle tue bolle psichiche?”.
Isabella sbuffò, spostando un ciuffo biondo dalla fronte. “Ordinale di usare Psichico e basta…”.
“Così fa più effetto” sorrise l’altra, vedendo arrivare l’orda di mercenari, pronti ad afferrarle.
“Aggron, usa Metalscoppio!” aveva urlato poi l’altra. I Pokémon avversari furono colpiti da forti detonazioni mentre i loro Allenatori si videro sollevati dal pavimento dalle forze psichiche di Espeon.
“Mi sembra sia stato troppo semplice” disse Ginger, guardando la collega: avevano liberato quell’area in meno di due minuti. Stranite, decisero di dividersi, dove già Kendrick e Fred erano passati.
Entrambe si trovarono davanti a strane scene in cui la metà degli avversari che si trovavano davanti, che uscivano dalle porte dei corridoio, s’inginocchiavano con le mani alzate.
L’altra metà combatteva con tutta se stessa e finiva sconfitta, ferita e talvolta uccisa quando minacciava la vita delle due autorità.
Si rincontrarono una decina di minuti dopo, alla fine dei corridoi. Le loro divise erano sporche di sangue.
“Qualcuno scappava…” osservò Ginger, spostando i capelli dal volto con le braccia, dato che le mani erano sporche.
“Erano mercenari. Qualcosa non funziona. Aggron, spianaci la strada” rispose Isabella, mantenendo il sangue freddo. Alzarono gli sguardi ma non riuscirono a vedere gli altri due Superquattro, assieme al Campione, che ormai avevano proseguito in maniera piuttosto rapida.
Difatti, quelli si erano rincontrati alla fine dei rispettivi corridoi, convergendo in una triplice punta d’attacco che vedeva Ryan come perno centrale.
Il corridoio che il Campione aveva attraversato bruciava, come tutte le persone che gli si erano poste davanti.
Non aveva guardato negli occhi di nessuno, si era semplicemente limitato a far fuoco, senz’alcuna distinzione di razza, sesso e religione.
“Spediti, dobbiamo scendere!” urlò lui, saltando dal Flygon e aprendo una grossa botola che conduceva ai sotterranei della Omecorp, dove i progetti più biechi di Lionell Weaves venivano ideati e messi in moto. E lui lo sapeva, perché ne aveva fatto parte, appena qualche anno prima.
Avrebbe volentieri cancellato quella parte della sua vita, se non avesse conosciuto in quei frangenti sua moglie.
Tutt’intorno era molto buio e soltanto i neon d’emergenza che ronzavano regalavano un po’ di luce a quel lungo dedalo di corridoi.
“Puzza di muffa” disse Fred, beccandosi una spallata da Kendrick, che avanzò veloce sul suo Yanmega.
“Dove sta andando?!” chiese poi il Superquattro che parlava, al Campione.
“Avanscoperta. Seguiamolo”.
Il Togekiss di Fred e quel grosso Flygon si spalleggiavano per l’intera lunghezza del corridoio, e Ryan fremeva soltanto nell’immaginare le proprie mani attorno al collo di Lionell.
Davanti a loro Kendrick continuava ad accelerare, attaccando qualche sporadica Recluta che si presentava davanti ai loro occhi. E accelerava, accelerava sempre di più.
“Dove scappa?!” chiedeva Fred, più a se stesso che a Ryan.
“Ho un timore…” rispose in un sussurro quello. “Vai!” urlò a Flygon, lasciando Fred qualche metro più indietro, prima che anche lui s’appiattisse sul proprio Pokémon e lo raggiungesse.
Virarono a destra e poi ancora dritto.
“Timore?!” chiese ancora Fred, urlando.
“Sì”.
La porta dell’ufficio di Lionell Weaves era aperta e le luci al suo interno erano ancora accese. Kendrick era sul suo Yanmega e vide Ryan scendere rocambolescamente dal suo Pokémon, cadere e rimettersi in piedi. Poi entrò lì dentro, nelle mani la sfera di Gallade.
Ma al suo arrivo c’era soltanto una lampada accesa, un computer spento su di una scrivania ordinata e una sedia rovesciata per terra.
La rabbia cieca s’impossessò del corpo del Campione, fluendo agli arti e costringendolo a sfogarsi, colpendo con un pugno la parete.
“È scappato, porca puttana! È scappato!”. E le sue urla raggiunsero le poco lontane Ginger e Isabella.
 
 
- Kanto, Aranciopoli, Ospedale Civile -
 
“Sembra dentro da un secolo…” sussurrava Marina, stanca di quella faccenda. Camminava nervosamente sul pavimento lucido dell’ospedale, facendo avanti e indietro senza allontanarsi mai veramente dalla porta dove il medico che aveva in cura Gold stava facendo tutti gli esami e gli accertamenti.
“Camminerà di nuovo, stai tranquilla” sorrise dolcemente Crystal, seduta composta sulla sua sedia. Osservò il volto della Ranger, composto in una smorfia a metà tra la gratitudine e la preoccupazione, prima che il cuore riprendesse a battere con forza.
"Sono preoccupata, Crys...".
"È comprensibile" rispose l'altra. "Ma devi essere forte, in questo momento. Niente andrà male ma, se anche fosse, Gold troverà ad aiutarlo una ragazza che lo ama e una coppia di amici fraterni" sorrise ancora.
Marina fece rapidamente cenno di no con la testa. "Non voglio neppure pensare a un Gold senza l'uso delle gambe...".
Cyrstal si voltò verso la finestra alla fine del corridoio, dove Silver aspettava in silenzio il verdetto.
"Non sembra" disse la Catcher "ma è molto nervoso per questa cosa... Nonostante tutto, vuole un gran bene, a Gold".
Marina annuì, guardandolo: era stretto nelle spalle, avvolto nel suo lungo giubbino di pelle, coi capelli sciolti e spettinati. Il volto cereo era provato dalla notte agitata che aveva passato. Gold s'era portato al centro dei suoi pensieri anche quella volta, come faceva sempre con la sua grande dose d'egocentrismo.
Di certo preferiva quando erano i suoi capricci e le sue bizze a trasportare gli sguardi.
Crystal e Marina continuavano a parlare quando il cellulare del rosso vibrò.
La suoneria era quasi perennemente staccata, non adorava la schiavitù che quell'aggeggio infernale stava distribuendo a tutti, nessuno escluso, motivo per cui cercava di farne a meno.
Però si rendeva conto che era uno dei mezzi migliori per tenersi in contatto con le persone lontane.
 
Tipo Blue, che lo stava chiamando in quel momento.
 
"Pronto, Sil" esordì lei, prontamente.
"Hey...” rispose il ragazzo. “Come va?".
Un attimo di pausa, in cui la donna si rigirò lentamente sul letto.
"Potrebbe andare meglio... Avevo bisogno di sentirti".
Il fulvo si voltò, dando le spalle al mare di Aranciopoli, dietro la finestra. "Che è successo?".
Cystal lo guardò, lui le fece segno con la mano di aspettare.
"Green...".
La voce della donna vacillò verso un baratro che mai aveva toccato.
"Avete litigato?".
"No. In realtà no. Ma io non voglio stare con lui...".
Silver portò una mano alla fronte, sbuffando. Trascinò le dita sul volto, come a volerlo lavare da quelle parole, poi spalancò nuovamente gli occhi, vedendo Crystal avvicinarsi lentamente.
“Di nuovo?”.
Dall’altra parte della cornetta la Dexholder sospirava grevemente.
“Non avevo mai detto una cosa del genere, prima d’ora…”.
Silver pronunciò con la bocca la parola “B-L-U-E” senza emettere un fiato, in modo da tranquillizzare la sua donna, che ormai era a un paio di metri da lui.
“Va tutto bene?” sussurrò lei, preoccupata.
Lui si limitò ad annuire e fare cenno col dito di attendere a dopo per le domande.
“Gli hai già detto qualcosa?”.
“No. Ma ho perso la testa per qualcun altro e…”.
“Non dirmi che è Red, per favore…”.
Il tono di Silver pareva biasimarla. E lei, dal canto suo, si sentiva colpevole di quei sentimenti che provava.
“Non… non è proprio…”.
Silver sbuffò. “Ti conosco da vent’anni, non mentirmi…”.
“Uff…”. Blue era in difficoltà. La gatta nera che cadeva sempre in piedi era scivolata.
“Hai intenzione di rovinare di nuovo quella coppia?! Dopo tutto quello che hanno passato, quei due, per ritrovarsi?!”.
E dopo quelle parole cadde il silenzio. Blue, stesa sul suo letto, decise di attaccare il cellulare.
Silver era stato per tanti anni ciò che più rasentasse il significato di fratello per lei, e non aveva mai utilizzato simili parole. In pratica la stava colpevolizzando.
Era davvero colpa sua?
Era davvero colpa sua se non amava più l’uomo che aveva già fatto soffrire?
Era davvero colpa sua se era di nuovo attratta dalla persona sbagliata?
Sbuffò, voltandosi nelle coperte e disfacendo il letto. Era stanca di quel tran tran, e di certo tutti quegli attentati non stavano aiutando la sua mente a trovare un equilibrio.
 
“Ha attaccato…” sussurrò Silver, più a se stesso che a Crystal, che gli sostava in religioso silenzio davanti.
“Che ha combinato, stavolta?” domandò quella, preoccupata.
“Niente di che, problemi di cuore e voleva confidarsi un po’…”.
La donna dapprima spalancò gli occhi e poi li batté tre o quattro volte, sospirando.
“Temevo avesse aperto il vaso di Pandora…”.
Suscitò il sorriso nell’uomo, che poi fece cenno di no con la testa.
“È terribilmente complicata per me. Non le capisco, le donne…”.
Crystal sorrise addolcita e gli si avvicinò, lasciandogli un casto bacio sulle labbra.
“Una la capisci benissimo. Non vuole consigli, vuole solo sfogarsi della sua situazione con Green. Richiamala e lasciala parlare…”.
Il rosso annuì confuso e tirò di nuovo fuori il cellulare dalla tasca.
 
Suonava di nuovo.
Blue era ormai in lacrime, in religioso silenzio perché nessuno doveva sapere che lei potesse farlo. Nessuno doveva vederla piangere.
Si voltò, con gli occhi come il mare in burrasca, e guardò lo schermo del cellulare avvisarla che fosse suo fratello Silver a chiamare.
Prese un profondo respiro e riempì i polmoni, strinse le dita intorpidite dal freddo e gettò fuori quell’aria inquinata d’angoscia che il suo corpo conteneva.
“Pronto” rispose poi, cercando di rimangiarsi tutto quello stato d’animo e tornare a essere la solita stronza di sempre, col sorriso sulle labbra e l’abilità innata di vedere sempre oro nella merda.
“Perché hai attaccato?” domandò serio il figlio di Giovanni, attendendo con pazienza che quello rispondesse.
“È caduta la linea, Sil, non ho attaccato”.
“Se prima ti conoscevo da vent’anni ora ti conosco da vent’anni e due minuti… Non mentirmi. Hai pianto?”.
Blue sorrise. “Sai anche di che colore porto il reggiseno, per caso?” fece, sussultando un po’ troppo e tirando su col naso. “Non riesco a nasconderti nulla”.
“Non lo porti, il reggiseno…”.
Quella annuì, sorridente.
“Ci si arriva, pensandoci” aggiunse il fulvo. “Ora mi spieghi perché piangi?”.
Blue si sollevò, sedendosi su quel letto pieno di rimpianti. “Delle volte non so perché faccio ciò che faccio. Delle volte vorrei solo…”.
“Vogliamo vederci?”.
Quella spalancò gli occhi.
“Quando?”.
“Sono ad Aranciopoli, Gold si è svegliato da poco... Lo stano visitando”.
“Oh, sono contenta. Camminerà?” chiese, tirando ancora su col naso.
“Lo stanno visitando” ripeté l’altro, guardando Marina alzare improvvisamente la testa.
“Vi raggiungo io. Il tempo di una doccia”.
“Va bene”.
“Sil” fece quella, prima che il rosso attaccasse.
“Che c’è?”.
Blue s’alzò dal letto e s’avvicinò alla finestra, vedendo riflessa nel vetro una donna bellissima ricoperta da un velo di domande.
“Grazie”.

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Capitolo 37
*** Capitolo 32 - Come Gli Spettri ***


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32. Come gli spettri
 
 
- Kanto, Aranciopoli -
 
Aveva smesso di piovere da qualche ora ma nella piazza antistante il porto aleggiava ancora quell’odore di pioggia.
Silver aspettava in piedi davanti al Club Allenatori Pokémon, in silenzio. Era stretto nel suo cappotto di pelle e guardava la pozzanghera che s’era creata al centro della grande piazza.
Gli piacevano le giornate di pioggia, lo rilassavano. Specialmente in quei contesti, dove il rumore del mare, a pochi metri da lui, lo cullava quando, ritmicamente, le onde battevano contro le banchine del porto.
Aspettava Blue. La vide da lontano, che arrivava.
Indossava un trench beige, assai elegante. I capelli castani richiamavano quel colore ma facevano netto contrasto con gli occhi, blu come il mare nei giorni di sole. Quasi risaltavano, quegli zaffiri, in giornate grigie come quella.
Il vento soffiava su di loro, il freddo li aggrediva.
Silver le andò incontro.
“Hey” fece lei, sorridendo e stringendolo in un abbraccio.
“Blue, ciao” rispose quello, un tempo più basso di lei. Ora la staccava di una decina di centimetri.
Si diedero un bacio sulla guancia e si strinsero nuovamente.
“Entriamo in un bar. Qui fa freddo e temo che tra un po’ ricominci a piovere” disse il fulvo, prendendola per mano.
Pochi passi e misero piede nel Lowerside, un elegante locale a ridosso della portineria di Aranciopoli. Lei spinse per scegliere un tavolo vicino alla finestra, per osservare il mare e il cielo.
Quando si sedettero, lui ordinò un tè per entrambi, con un cucchiaino di miele.
Lei sorrise, notando come lui ricordasse i suoi gusti.
Lo guardò per qualche secondo, mentre il suo sguardo, come sempre, sfuggiva al confronto. Il sonno aveva modellato il suo viso facendolo assomigliare a quello d’uno spettro dai capelli rossi e le labbra carnose, ma pallide.
“Gold?” chiese Blue, quasi d’improvviso.
“Dovrà essere operato un altro paio di volte ma il dottore dice che camminerà senza troppi problemi. Crystal è parecchio più rilassata, ora”.
“Mi ha sorpresa non vederla qui con te” ribatté la Dexholder, con fare provocatorio. “Passate un sacco di tempo assieme…”.
Silver pensò di fare spallucce ma si limitò a muovere lo sguardo altrove.
“Tu invece?” rimbeccò lui. “In quale guaio ti sei cacciata, adesso?”.
Lei sorrise. “Nessun guaio. Ho solamente bisogno di aprire un po’ la finestra… lasciar passare aria, sai…”.
Silver inarcò le sopracciglia e sospirò. “No. Non so…” fece, assumendo una strana smorfia.
Blue lo guardò e roteò gli occhi.
“So cosa stai pensando, Sil, non c’è bisogno neppure che tu me lo dica. Ma non sono più felice”.
Lo vide abbassare la testa e fare segno di no con la testa.
“Tu non sei mai stata felice…”.
Quella lo fissò per qualche secondo. Era contrariata.
“Non pensavo dovessi venire qui per sentirmi giudicare. Credevo che mio fratello volesse rincuorarmi”.
Fu allora che Silver la guardò negli occhi, scontrando l’argento di quelle iridi nel mare incerto dello sguardo di Blue.
Tossì leggermente e strinse il colletto del cappotto accanto alle orecchie. “Non ti sto giudicando. A me non cambia molto la vita se tu decidi di stare con una persona piuttosto che un’altra… Non fraintendermi. Vorrei solo che tu trovassi una dimensione adatta, in cui poterti finalmente rilassare. Non ami Green?”.
Lei rimase immobile per qualche secondo, quindi fece cenno di no. “È un periodo un po’ così, Sil... Avrei bisogno di sorridere ma… Green non c’è mai. Lavora sempre e le cose sono diventate quasi un’abitudine. Odio questa meccanicità che c’è tra di noi”.
“E di che avresti bisogno?” domandò.
“Passione!” esplose lei. “Emozioni! Quegli sguardi che mi spogliavano, all’inizio, prima che il sesso diventasse parte integrante delle sue giornate stressanti. Vorrei che mi guardasse come Red guarda Yellow”.
Silver sorrise. “Io non credo che Red guardi Yellow con quell’intento… Non lo vedo capace”.
“Yellow…” sospirò lei, facendo no con la testa. “Non ispira sesso neppure lontanamente”.
“Credo che sia più una questione sentimentale, che fisica” replicò l’altro.
Blue convenne, annuendo.
“È molto dolce, come ragazza, lei. So che stanno bene assieme” continuò Silver.
Arrivò un giovane cameriere, con la divisa nera e la scritta “lowerSIDE” scritta in tessuto color oro. Poggiò la teiera e qualche coppia di biscotti al burro sul tavolo, quindi si allontanò.
“Sai… Se non ci fosse Yellow non avrei problemi a gettare tutto ciò che ho all’aria. Del resto ho sempre scommesso nella mia vita. Non vedo perché non farlo adesso?”.
“Perché non sei razionale” rispose quello. “Sei portata a pensare che Green non sia il meglio per te in questo momento perché lo vedi improntato al lavoro, distratto da tutto ciò che sta succedendo col Cristallo del Caos e le cose accessorie che ne derivano, ma sai benissimo che ti porterebbe la luna incastonata in un anello, se potesse. Non deve essere penalizzato solo per un tuo momento no”.
“Ho visto Red e ho cambiato il modo di vedere Green. Ho ricordato i suoi occhi quella notte, con la pioggia e il suo corpo nudo e… il fatto è che mi sono accorta che ne voglio ancora. Voglio ancora che mi stringa. Voglio che mi desideri e che dopo mi tratti come tratta Yellow”.
Silver in cuor suo sapeva che tutto quello fosse sbagliato: voleva un gran bene a Silver e non aveva alcuna intenzione di vederlo soffrire ma non poteva permettere al Dexholder di scavalcare l’affetto che provava per Blue.
“Ti direi di fare ciò che ti rende felice ma non sei più una ragazzina. Non puoi più passare la patata bollente agli altri… Giocarsi il tutto per tutto, come hai detto d’aver sempre fatto, funziona se lo fai una volta. Hai passato diverso tempo a dannarti per i tuoi gesti sconsiderati. Perché dimenticare tutto? Perché rovinarti la vita nuovamente?”.
“Perché me la rovinerei lo stesso” rispose lei. “Stando accanto a un uomo che non mi dà più stimoli mi farà sentire morta prim’ancora di morire. E io voglio sentirmi viva”.
“Non è colpa di Green se tu hai scelto lui. Due volte, per giunta”.
Quelle parole le fecero spalancare gli occhi.
Lo sentì continuare.
“Sapevi che fosse una persona seria e piena di responsabilità, come anche che avrebbe messo il bene degli altri al di sopra del proprio. Non penso che ti abbia mai detto di no, a qualcosa. Né ti ha mai impedito di farla”.
Blue abbassò gli occhi.
“E sai come si chiama, questo?”.
“Amore” rispose lei, ma Silver fece cenno di no.
“Rispetto” ribatté. “Che è molto più importante dell’amore. Lui ti rispetta… e crede che accanto a lui ci sia una ragazza diversa. Perché non ne hai parlato con lui, di questi problemi?”.
Lei non rispose.
“Te lo dico io, perché: non gli hai dato scelta né possibilità di cambiare atteggiamento. La questione è che tu non vuoi più stare con lui, punto e basta, e non per demeriti suoi. Stavolta la colpa è tua”.
“Io voglio stare con Red…” osservò lei, con una flemma inusuale.
“Sei tu a non esser più la stessa, non Green”.
Passò un secondo, il fulvo prese un biscotto e lo morse lentamente, gustandone il sapore.
La guardò negli occhi, che annuiva lentamente.
“Hai ragione”.
“Ma Red non merita di perdere la persona che ama. E lui ama Yellow”.
“Le parole di Yellow, qualche settimana fa, sono sembra assolutamente chiare: lui mi desidera ancora”.
Silver fece cenno di no, bevendo poi un sorso di tè.
“Potrebbero anche essere soltanto impressioni di una ragazza gelosa e paranoica. Del resto gli hai portato via il fidanzato già una volta, e non vuole che accada.
Lei sbuffò e portò la tazza bollente alle labbra.
“Che devo fare?” domandò poi.
“Calmati. Isolati, alla fine di tutta questa faccenda, e decidi cos’è meglio per te. Se hai bisogno di Green, torna da lui. Se non lo vuoi, lascia il tuo fidanzato e mettiti l’animo in pace: Red ha un’altra; dimenticalo. Prima succederà e prima tornerai a sorridere”.
Blue annuì. Una volta finita quella faccenda avrebbe deciso il da farsi.
 
 
- Sinnoh, Evopoli, Casa di Gardenia –
 
“Sei bella” osservò Allegra, guardando la donna chiudersi in un vestito particolarmente sexy, verde e aperto sulla schiena. Aveva intenzione di abbinarci delle ballerine ma non le avrebbe indossate fino a quando non sarebbe stata costretta.
Il pavimento era caldo, a casa sua, e la bella Capopalestra di Evopoli generalmente camminava scalza. La figlia di Zack era seduta sul letto accanto al piccolo Bulbasaur, nato da poche settimane, che la bambina aveva nominato come suo compagno di giochi. Guardava la donna prepararsi con gli occhi spalancati e sorrise quando quella, sorridente a sua volta, si sedette accanto a lei.
“Grazie, piccolina. Ma tu sei molto più bella di me”.
“Solo la mia mamma è più bella di te” ribatté l’altra. “Ma la mia mamma è molto bella… la donna più bella del mondo”.
La Capopalestra abbassò gli occhi e si guardò allo specchio. Pensò alla vita che quella bambina avrebbe dovuto vivere nell’immediato futuro e si sentì totalmente spiazzata. S’immedesimò per un attimo in Zack e comprese cosa significasse per lui il silenzio dietro il quale si era nascosto.
Il buio nel quale s’era immerso, la fame che stava provando.
Era vedovo, genitore di una bambina orfana di madre.
“Mi fai la treccia?” domandò poi Allegra, avvicinandosi a lei. Gardenia spalancò gli occhi per via della richiesta inaspettata.
“Certo… certo, vieni qui…”.
La bambina si mosse, sedendosi sulle ginocchia di quella. Riuscì a strapparle un sorriso.
Zack entrò in camera una decina di minuti dopo, stanco dell’esilio autoimpostosi nella camera degli ospiti, e rimase atterrito per un momento: Gardenia pettinava i lunghi capelli di Allegra mentre la bambina canticchiava una canzone.
La donna si voltò per un attimo, guardandolo che indossava la solita faccia da spettro. Non riuscì a incontrare il suo sguardo, tornando a prendere lunghe ciocche corvine tra le mani.
Continuando a pettinarla e poi cominciando a intrecciarle i capelli.
Solo qualche secondo dopo la più piccola si accorse del padre. Gli sorrise.
“In questa vacanza piove sempre. Non siamo ancora usciti di casa” fece.
Zack annuì, sedendosi accanto a Gardenia.
“Ti stai facendo fare le trecce?” domandò poi, baciandole una guancia.
“La treccia, papà. Una sola. E dopo voglio farla anche io a lei”.
Quella sorrise e annuì. “Certo” disse.
Zack si voltò e guardò negli occhi la donna.
“Grazie”.
“Di niente”.
Lui abbassò lo sguardo su sua figlia, giusto per una manciata di secondi, prima di tornare da lei.
“Stai benissimo”.
“Marisio dovrebbe essere qui tra poco. Vorrei farmi trovare in maniera impeccabile”.
Gardenia lo vide sorridere debolmente, distogliere lo sguardo e sospirare.
“Sei impeccabile... tranquilla”.
 
Quando il campanello suonò Gardenia spalancò gli occhi. Si alzò dal letto, guardando allo specchio la piccola treccina che le si poggiava sul collo e calzò rapidamente le ballerine accanto allo specchio, quindi corse rapida in salotto, seguita da Allegra e dal piccolo Bulbasaur.
Accese tutte le luci, non facendo caso ai tasti che premeva, con la voglia di vedere il suo uomo. Corse verso la porta e la spalancò, trovando un Marisio intirizzito.
Aveva come sempre il volto serio, con gli occhi scuri a fissare la sua donna. Le mani erano occupate: la destra manteneva l’ombrello, ancora aperto, mentre la sinistra reggeva un mazzo di fiori gialli e arancioni.
“Amore!” esclamò la donna, saltandogli al collo, noncurante dell’acqua che cadeva su di loro.
Lo baciò passionalmente, davanti gli occhi di Allegra, che vide poi quell’altissimo uomo entrare nella casa dove lei e il suo papà dormivano già da un paio di giorni.
Lo vide smontare la grossa lunga giacca a vento, nera, e appenderla. Levò poi le scarpe e sorridendo diede i fiori a Gardenia.
“Grazie!” esclamò, sorridente, tirandolo a sé per la camicia e baciandolo ancora.
“Sta piovendo da molto?” domandò quello, guardando la sua donna. Lei annuì, con una mezza smorfia di disappunto sul volto, quindi si voltò.
Allegra e Bulbasaur attendevano entrambi guardinghi accanto al divano. La bambina incrociò lo sguardo dell’uomo, che sorrise educatamente.
“Tu sei il fidanzato di Gardenia?” chiese, ingenuamente, mentre il Pokémon correva a nascondersi dietro il divano, impaurito.
Marisio sorrise ancora e annuì.
“E tu devi essere Allegra”.
Lei allungò la mano verso di lui, annuendo.
“Allegra Recket. Molto piacere”.
Marisio ingoiò un ulteriore sorriso e strinse le piccole dita di quella, educatamente.
“Io sono Marisio”.
“Mi ricorderò di questo momento per sempre” aggiunse Gardenia, ridendo divertita. Si avvicinò ancora a lui, odorando il profumo che tanto amava, e lo tirò per mano verso la zona cucina.
“Hai mangiato?”.
Marisio annuì. “Sì. Sto bene. Dov’è… Zack?”.
Gardenia annuì, divenendo seria immediatamente. “Nella camera degli ospiti, credo. È uscito di rado, in questi giorni…”.
“Voglio andare a parlargli”.
 
 
- Kanto, Aranciopoli, Ospedale Civile -
 
“Camminerai. Questo mi basta” ripeté Marina, sorridendo dolcemente al suo uomo. Quello era steso nel letto, col lavaggio ancora inserito nel braccio e lo sguardo stanco. “Hai sonno?”.
Quello non rispose, attraversando con lo sguardo la Ranger dagli occhi color nocciola e rimanendo a fissarla senza dire nulla.
Ed era strano.
Gold aveva sempre qualcosa d’inopportuno da dire. A maggior ragione dopo aver passato settimane intere a dormire.
“Che c’è?” domandò la castana, stringendogli la mano.
“Il dottore parlava… parlava di un anno” sospirò lui. “Sarà veramente noioso non poter camminare per un anno”.
Marina sospirò e gli carezzò i capelli.
“Ci sarò sempre io, accanto a te”.
Sorrise amaramente, lui. “Ho una donna parecchio famelica, a letto… Sono sicuro che sarà un anno parecchio frustrante, per lei…”.
Marina rise leggermente, spintonandolo sulla spalla sinistra. “Sempre se funziona…”.
“Funziona, funziona. È stata la prima cosa che ho controllato”.
Quella prima inarcò le sopracciglia e poi sorrise, quasi sconfitta dalla verve dell’uomo.
“Qui?”.
“Avevo le mani fredde e, generalmente, quello è uno dei posti più caldi che possiedo”.
“Sei il solito zuccone, Gold…” sospirò la donna, con una smorfia di disappunto in volto. Ma gli occhi erano addolciti da quelli di lui, che la fissavano incantati.
La porta della camera si aprì subito dopo. Crystal e Silver erano lì, assieme a Sandra, Red e Yellow.
“Ragazzi!” esclamò quello, sorridente. “Non credo di avervi mai visto in questa formazione”.
Yellow sorrise dolcemente e gli si avvicinò per prima, stringendogli le mani e baciandolo dolcemente sulla guancia.
“Che bello vederti sveglio” fece poi, allargando il sorriso. Gold sorrise leggermente, col volto stanco e sfatto, vedendo gli occhi paglierini della donna celarsi dietro le palpebre per qualche secondo.
“Ve l’avevo detto… È strano” ribatté Crys, sospettosa.
“È soltanto stanco” rispose Red, avvicinandosi a Yellow e pizzicando una guancia al degente. “Appena Crys ci ha detto che hai riaperto gli occhi ci siamo preparati e siamo venuti qui” aggiunse.
Lui annuì e sorrise. “E avete fatto bene. Mi mancavate tutti. E Green e Blue dove sono?”.
Crystal guardò Silver, alle spalle dei ragazzi, che abbassò il volto.
“Dovrei sapere qualcosa?” chiese Gold.
“Sai…” riprese Yellow. “Non siamo più molto in contatto con loro…”.
Gold aggrottò la fronte. “Non stavate lavorando assieme al caso del Cristallo del Caos?”.
“Sì, ma degli avvenimenti particolari ci hanno costretti a fermare le ricerche”.
“Cosa?”.
Tutti guardarono Red, che abbassò lo sguardo per un secondo.
“Gli… gli stessi uomini che hanno organizzato la rapina qui ad Aranciopoli… Beh…”.
Yellow sospirò e Sandra si fece avanti.
Gold non capiva. Guardava Marina, che gli faceva cenno di ascoltare le parole dei suoi compagni con lo sguardo dispiaciuto.
Fu proprio la Capopalestra che terminò la frase.
“Hanno organizzato un grosso furto alle Rovine d’Alfa… e hanno trafugato i mosaici antichi”.
“Nel fare questo hanno perso la vita alcuni Capipalestra…” sospirò Red.
Yellow abbassò il volto, dispiaciuta.
“Chi… chi è morto?” domandò quello dagli occhi d’oro, guardando la sua donna.
Marina sospirò e  prese per mano il ragazzo.
“Raffaello, Furio, Corrado e… e Chiara”.
Gold spalancò gli occhi, incredulo.
“Sono morti?!”.
La donna annuì. “Inoltre Jasmine e Valerio hanno abbandonato le Palestre. Soltanto Angelo e Sandra sono rimasti sulle loro poltrone…”.
“Senza contare il posto vacante di Mogania… da anni, ormai… Nessuno vuole accostarsi a quella Palestra. Le cose che ha fatto Alfredo sono terribili e i papabili nominati non vogliono essere associati a lui” ribatté Crystal.
Gold guardò Silver distogliere lo sguardo.
“Hanno rubato i mosaici” aggiunse Red. “E l’hanno fatto con un’altra copia, stavolta di Jasmine”.
“Tutto questo mentre io dormivo?!”.
Yellow annuì. “È stato cruento. Sangue ovunque e… ancora quello Xavier Solomon…”.
Si guardò attorno, Gold, spaesato. “Mi serve qualche minuto, ragazzi, non sto capendo un cazzo”.
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 38
*** Capitolo 33 - Povere Membra ***


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33. Povere Membra
 
- Kanto, Aranciopoli, Ospedale Civile -
 
“Quindi siamo nella merda più che totale?” domandò Gold, col nugolo di persone ancora attorno al letto. Yellow e Red erano alla sua destra, Marina alla sua sinistra e Sandra e Crystal di fronte a lui, con Silver sullo sfondo, con le spalle appoggiate alla parete.
“Non sappiamo cosa fare, a dire il vero. Green sembra un diavolo” ribatté Yellow, guardando Red annuire. “Non sta fermo un attimo, cerca quel maledetto cristallo e non lo trova. E poi questi malviventi… In questo momento dovremmo essere tutti alla ricerca della pietra nera e invece siamo costretti a combattere dei farabutti…”.
Le parole di Yellow riecheggiarono in quella stanza troppo buia.
“Sil, accendi la luce, per favore?” domandò Marina. Gold vide l’amico di sempre eseguire solerte la richiesta, mentre Sandra lo guardava col volto contrito.
I neon, freddi e distanti, irroravano di luce bianca quella stanza ricolma di sospiri grevi e preoccupati.
“Ormai non si fanno sentire da un po’, qualche giorno…” ribatté Red.
“No” puntualizzò invece Crystal, tirando i capelli sciolti e raccogliendoli con una mano. “Qualche giorno fa hanno colpito Adamanta. Si fanno chiamare Team Omega o qualcosa del genere…”.
“Team Omega?! Come il Team Rocket?” domandò Sandra, sorpresa.
“Non credo siano collegati” esordì Silver. “Mio padre ha fatto quel che ha fatto per diversi fattori… Questi stanno depredando tutto per una questione di denaro”.
“Denaro?” domandò Marina.
“Karen ha già rintracciato alcuni pezzi del mosaico sul mercato nero” rispose ancora il fulvo.
Calò ancora il silenzio.
“E invece, le copie?” domandò Gold. “Xavier e Jasmine? Xavier non era lui, vero?”.
“Ha un alibi” rispose Silver, unico informato su quei fatti. “E Jasmine era nel cortile con lei” disse poi, puntando il dito contro Yellow. “Sono vere e proprie copie, provenienti da chissà dove e fatte di chissà cosa”.
“Potrebbero essere dei sosia?” domandò Marina.
“E guarda caso tre sosia di tre Capipalestra? Io, Jasmine e Fiammetta?” domandò proprio Sandra, sentendosi chiamata in causa.
“Sandra si è teletrasportata via, praticamente” osservò Gold. “Non abbiamo potuto neppure toccarla, sembrava parecchio emotiva, una pazza scatenata… Sexy, ma pazza”.
“Cretino” lo rimbeccò Marina.
“Con questo…” sospirò Gold, seduto nel suo letto d’ospedale. “… intendevo dire che era totalmente differente dalla Sandra che abbiamo noi. Quella sembrava indemoniata…”.
“Jasmine pareva totalmente un’altra persona…” sospirò Red, grattando la guancia e pensando che i capelli cominciassero ormai a essere troppo lunghi.
“Esattamente!” esclamò Gold. “Sembrava una… scappata di casa, chessò… Come se fosse sopravvissuta alla guerra!”.
“È esattamente quello che pensavo di Jasmine…” s’inserì Yellow. “Non pensava come noi: ha preferito suicidarsi piuttosto che essere interrogata e arrestata...”.
“A noi è bastato parlare del mio Kingdra…” rispose Sandra “… per scatenare un vero e proprio inferno. Il suo Charizard era potentissimo”.
“Quindi…” osservò invece Crystal “… questi doppleganger sono versioni squinternate dei Capipalestra?”.
“Non vedo l’ora di vedere quella di Sabrina” sorrise Gold. “Due volte pazza!”.
“Finiscila”. Fu Marina a chiuderlo, sospirando. La situazione stava cominciando a diventare pesante. S’immedesimò per un momento in Sandra e Jasmine, cercando di comprendere cosa potesse significare vedere se stessa (o una propria copia) compiere qualcosa che non avrebbe mai pensato di fare.
Si sentiva depredata e immune da ogni difesa; una sua copia avrebbe potuto tranquillamente entrare in casa sua e uccidere le persone che voleva bene, e a essere incolpata sarebbe stata lei.
Come accaduto con Xavier Solomon, più di una volta.
Poi ci ragionò.
“È la copia di Xavier Solomon, il problema” disse.
Attirò le attenzioni di tutti, tranne quelle di Silver, che si limitava ad annuire.
“Ha ragione. Senz’offesa per le Capopalestra, ma nessuna di voi si avvicina al genio di quell’uomo… Nonostante fosse totalmente inetto, l’uomo che io e Green abbiamo incontrato sta lavorando a una macchina del tempo…”.
“Non è poco” annuì Red.
“Per nulla. Anzi, è considerevole. Ma non è assolutamente in grado di… creare illusioni dal nulla… con un macchinario, poi…”.
Sandra e Yellow si guardavano.
“Infatti pensavamo a uno Zoroark” annuì Yellow.
“Invece era questo Xavier malvagio?!” domandò Gold, quasi divertito. Yellow annuì debolmente, prima di vedere il degente sorridere.
“Questo tizio è di un altro livello! Di un altro pianeta! Beh… vi aiuterei volentieri a cercarlo, ma ho in programma diverse cose da fare a letto, nel prossimo mese, oltre alla riabilitazione…”.
Sorrise ancora, e agli occhi di Marina parve un eroe: come si faceva a mantenere quello spirito quando sapevi che per un anno avresti avuto problemi anche a fare con indipendenza anche le cose più sciocche e blande?
Era per quello che amava Gold.
Perché era straordinario e niente, niente e nessuno riusciva mai a buttarlo a terra.
Come la fenice, si rialzava sempre.
E la donna, più di tutti, non aspettava altro che un suo battito d’ali.

 
- Sinnoh, Evopoli, Casa di Gardenia –
 
Era diverso tempo che non percorreva i corridoi di casa di Gardenia, Marisio.
E un po’ gli era mancata, quella sensazione avvolgente quando ogni suo passo veniva accolto dalla moquette, di quel blu scuro a lui tanto congeniale. Indugiava prima di muovere ogni muscolo, assaporando ogni sensazione che provasse.
Era fermo davanti alla camera degli ospiti.
La porta era socchiusa ma poté notare il buio che avvolgeva ogni cosa, in quella stanza.
Si bloccò ancora, respirò, pensando alle parole migliori da poter utilizzare, senza però riuscire a venirne a capo.
L’uomo sospirò e portò una mano ai capelli, rassegnandosi al fatto che, eventi del genere, cambiassero necessariamente l’esistenza.
La piccola Allegra sarebbe stata protetta, si sarebbe abituata all’assenza di sua madre.
Ma Zack…
Per Zack era diverso.
Marisio bussò con la nocca dell’indice un paio di volte, sulla porta aperta che si mosse, cigolando in maniera sinistra.
“Avanti…” sentì il Capopalestra di Violapoli. Il tono dell’uomo che aveva parlato era sfatto.
Chiuse gli occhi per un momento e prese un respiro profondo, prima di spingere con la mano la porta.
La luce della lampada sul comodino rimaneva spenta.
“Zack?” domandò Marisio, indugiando sull’interruttore alla sua destra.
E sì, indugiò, perché i suoi occhi subito si concentrarono sull’aura che quell’uomo emanava.
Era calda.
Un’aura calda, arancione, divampante ma compressa. Quell’uomo stava combattendo contro se stesso e nel farlo stava utilizzando tutte le sue energie.
Fu quello il momento in cui Marisio abbassò l’interruttore, rivelando un uomo distrutto, seduto sul letto e con la testa fra le mani.
“Zack…” sospirò il fidanzato di Gardenia, avvicinandosi a lui. “Posso sedermi?”.
Il silenzio era denso e scuro. L’aura di quell’uomo continuava a imperversare dentro il suo corpo, a tormentarlo.
“Io la vedo” fece poi.
Zack alzò gli occhi. Inizialmente, con molta sincerità, credeva si stesse riferendo a Rachel.
“Siediti pure. Questa è casa tua”.
Marisio sorrise leggermente, celando il tutto dietro un lungo sospiro. “Veramente è casa di Gardenia… In ogni caso vedo la tua aura, e so come ti stai sentendo. Ed è dura”.
Zack lo guardò, non riuscendo a nascondere per un attimo la delusione. Avrebbe voluto veramente parlare con Rachel, anche solo per un istante.
“Già”.
“Posso solo immaginare cosa significhi essere nei tuoi panni, in questo momento. E mi spiace. Quando Gardenia mi ha detto che vi ospitava la vostra storia ha catturato subito la mia attenzione… Ora sono un Capopalestra e ho la facoltà di aiutarti in maniera più efficace, rispetto a prima e…”.
Zack sorrise amaramente, a quell’affermazione. “Non servono i Capipalestra, Marisio. Senz’offesa. Il mio problema non lo puoi risolvere. Mia moglie ormai è morta e non potrai fare nulla per portarla indietro”.
L’altro sospirò e annuì. “Certo. Ma posso farti avere giustizia”.
“Giustizia?” sorrise ancora quello di Adamanta. Si voltò verso di lui e sospirò. “Dov’è la giustizia, quando ormai tutto è perso? Mia figlia! È lei la giustizia!” alzò la voce lui. “È lei che ha perso la madre!”.
“Anche tu hai perso tua moglie” ribatté l’altro. “Non far finta che la cosa non sia importante. Questo gruppo di persone è lo stesso che ha distrutto le Rovine d’Alfa, giusto?”.
Zack annuì, facendo spallucce.
“Credo di sì”.
“Hanno ucciso delle persone, oltre a Rachel. E questo non è per dire che la morte di tua moglie sia meno importante delle altre, quanto per farti capire che le vite delle altre vittime sono altrettanto importanti. Rachel è solo l’ennesima martire di questo mondo, sbagliato dall’interno… Io non voglio che siano altre Rachel”.
Zack rise, di gusto, lasciando Marisio spiazzato. Vedeva quel volto, divertito dall’affermazione e contemporaneamente distrutto dal dolore, in un'unica e confusa espressione, che poi mutò totalmente, quando una lacrima scese sul viso dell’uomo.
“Non ci possono essere altre… altre Rachel…” sussurrò, mentre in petto cominciava a divampare un incendio. “Rachel non era come me… o te. Né come Gardenia. Solo Allegra è come Rachel, e non perché io le ami con tutto me stesso…”.
Marisio aggrottò la fronte. “Che cosa significa?”.
Zack non voleva spiegargli perché Rachel fosse stata la persona più importante del creato, prima della nascita di Allegra. Non ne aveva la forza mentale.
“Niente, Marisio. Stanno cercando il modo di catturare Arceus”.
“Chi?!” esclamò quello.
“L’Omega Group…”.
Marisio si alzò in piedi, sconvolto. Non riusciva a comprendere come, essendo a conoscenza di quell’informazione, quello riuscisse a rimanere fermo, immobile.
Si crogiolava in quel dolore.
Forse era giusto così.
“Che informazioni hai?”.
“Le stesse che ha Ryan Livingstone” rispose, sospirando.
“Il Campione di Adamanta?”.
“Sì…”.
La porta si aprì lentamente, e Allegra fece il proprio ingresso in camera. Gli occhi azzurri erano spalancati, con l’espressione che mutò immediatamente quando vide le lacrime del padre bagnargli il viso. Il piccolo Bulbasaur la seguì immediatamente, quando lei corse vero di lui.
“Papà! Perché stai piangendo?!”.
Lì Zack crollò, sconfitto dalla disperazione, tirandola a sé e affondando il viso nel collo della piccola. Adorava il suo profumo.
“Zack…” sospirò Gardenia, appena arrivata. Guardò Marisio, che ricambiò lo sguardo, atterrito. Entrambi si erano resi conto del fatto che si stesse aggrappando con tutte le sue forze a quella bambina, per non affondare nella depressione.
“Papà!” urlò lei, stringendolo al collo e cominciando a piangere a sua volta, confusa. “Perché piangi?!”.
“Allegra, amore” fece la donna, inginocchiandosi accanto a lei. Marisio si vide costretto ad alzarsi e a prendere per il braccio Zack, che lo guardò con occhi spenti.
“Vieni con me…”.
L’uomo si alzò e lo seguì, nella camera da letto di Gardenia. Il profumo della donna aleggiava prepotente.
“Zack… Devi calmarti” diceva Marisio, stringendo l’uomo sulle spalle. “Devi calmarti, e non allarmare tua figlia”.
Quello continuava a piangere come un bambino, col volto basso celato dalle mani.
“Io non ce la faccio!” piangeva. “Non ce la faccio!”.
“Invece devi!” urlò l’altro, scuotendolo. Anche Gardenia, dall’altra camera, si sorprese di sentire la voce del suo uomo più alta del normale.
“Devi reagire! Devi fermarti e affrontare un problema alla volta!”.
“È tutto così frenetico! Credevo di farcela, Marisio! Credevo di poterla salvare!”.
“Non ce l’hai fatta, ma non hai perso tutto!”.
“No…” disse, tra i denti. “C’è Allegra”.
“E lei è tutto ciò di cui hai bisogno, adesso. Fermati e fai il suo bene”.
Zack alzò gli occhi, verdi come smeraldi ma pieni di lacrime, e incontrò quelli blu dell’uomo.
“Nulla è perduto. Secondo te far preoccupare Allegra in quel modo ti aiuterà?”.
Zack abbassò il volto e fece cenno di no.
Sentiva la pioggia piangere al di fuori della finestra. Il cuore gli batteva forte, troppo forte. Doveva tirare fuori quel veleno.
Marisio vide l’aura dell’uomo esplodere all’improvviso, illuminare il suo volto triste e tornare nuovamente nel suo corpo.
“Devi reagire” ripeté lui.
“Io…”.
Zack strinse i denti e sospirò. LI digrignò, chiuse gli occhi e poi li riaprì.
“Lo odio. Io odio Lionell Weaves”.
Marisio fu sorpreso da quella reazione. Lasciò la presa dalle spalle dell’uomo e lo vide sedersi sul letto di Gardenia.
“Chi è?”.
“Il padre di Rachel. L’uomo che l’ha uccisa. Il Capo dell’Omega Group”.
“Come farebbero a catturare Arceus, Zack. Potrebbe essere importante”.
“Tramite il Cristallo della Luce. Che è nello Snowflake, a Nevepoli. E un viaggio nel tempo, se non trovano Allegra…” farfugliò lui, evitando di dare una giusta spiegazione a un sempre più confuso Marisio.
“Che cosa significa?!”.
Zack alzò lo sguardo e sospirò. Poi si alzò e uscì dalla stanza, lasciando Marisio da solo, per qualche secondo.
“Aspetta!” esclamò l’altro, voltandosi e inseguendolo.
Quando rientrò in camera da sua figlia, quella era tra le braccia di Gardenia, che la cullava con amore.
“Piccola…” sospirò lui, avvicinandosi a lei. Allegra aprì gli occhi, tristi come mai suo padre li aveva visti, e si gettò tra le sue braccia.
“Come ti sei fatto male?” domandò poi, ancora col singhiozzo.
“Cosa?” chiese Zack, cercando conferma guardando Gardenia. Lei annuiva, accondiscendente.
“Certo, Zack. Le ho detto che ti sei fatto male, ecco perché piangevi. Vero?”.
Gli occhi di Zack rimasero a fissare quelli di Gardenia. Annuì debolmente, l’uomo, guardando poi sua figlia.
“Sì, amore mio. Sono caduto dal letto”.
Allegra spalancò gli occhi.
“E ti sei fatto male?!”.
Zack non riuscì a non sorridere. “Sì, ho battuto un po’ la fronte”.
“Aspetta” disse lei, allungando il collo e mettendosi sulle punte dei piedi. Schioccò poi un bacio sulla testa del papà, stringendolo infine in un abbraccio. “Tra poco andrà sicuramente meglio”.
 
 
- Sinnoh, Nevepoli –
 
I passi affondavano per qualche centimetro all’interno della neve fresca, inzuppando totalmente i pantaloni del completo di Lionell.
Sentiva il freddo attorno alle caviglie, e anche più sopra, fino all’inizio del polpaccio, e quel vento che soffiava dalla valle alle loro spalle non faceva altro che aumentare il gelo che s’inseriva tra le ossa.
Anche ad Adamanta faceva freddo ma, lui che era già stato in quella città, sapeva che anche in estate le cime dei picchi più alti non venissero mai spogliati da quel velo niveo.
Linda era alla sua destra, di tanto in tanto lo guardava, avvolto nella sua voluminosa sciarpa di lana nera, col cappotto lungo che faceva da scudo alla neve che gli sbatteva contro.
Malva invece era alla sua sinistra, col volto interamente scoperto. Per lei, che non era abituata a quei climi così rigidi, la neve era qualcosa che aveva visto soltanto nei film alla tv. Lionell la guardò per qualche istante, saggiandone con lo sguardo la bellezza del volto, freddo per la neve sulla pelle, e candido, come quello d’una principessa.
I capelli rossi cadevano erano stati lasciati sciolti e, mossi com’erano, divennero un ricettacolo per tutti quei puntini bianchi.
Era bella, Lionell lo sapeva e Linda vedeva nei suoi occhi la stessa scintilla che accendeva il suo sguardo quando, nei momenti in cui lui era da solo con lei.
Sospirò, riconoscendosi gelosa. Alzò poi gli occhi, vedendo le prime abitazioni di Nevepoli dare loro il benvenuto. Era tutte piccole villette a schiera rivestite in legno, coi tetti imbiancati dalla neve e i giardinetti che in quel periodo dell’anno necessitavano di parecchia manutenzione. Non si sconvolse infatti quando, non appena entrati nella periferia della città, diversi uomini stavano spalando la neve dai vialetti delle loro case.
I bambini correvano festanti sui marciapiedi, riempiendo di risate i giardini imbiancati.
Lionell abbassò lo sguardo sull’asfalto, su cui era stato gettato del sale; l’acqua sporca, quel ghiaccio ormai sciolto, si raccoglieva ai lati della carreggiata e finiva nelle grate delle fogne.
“Questo posto è molto caratteristico” sorrise Malva, guardandosi intorno. Il suo sguardo fu focalizzato sulla grande parete rocciosa che raccoglieva la città in un abbraccio protettivo.
“Nevepoli è meravigliosa” aggiunse Lionell. Non appena entrati in città il vento s’abbassò, lasciando soltanto la neve a poggiarsi delicatamente su di loro.
“Ho bisogno di asciugarmi” fece Linda. Si voltò e vide un paio di scagnozzi, dell’ultimo gruppo che si era aggregato, intenti a seguirli in silenzio.
Avevano ormai assemblato un esercito e ovunque si girasse riusciva a riconoscere persone arrivate lì per adempiere a quella missione.
Avanzarono rapidamente, raggiungendo il centro della città. Lì convergevano quattro grosse vie. La prima, quella che stavano percorrendo, era quella che portava all’esterno della città, e sostanzialmente collegava Nevepoli a Sinnoh tramite i percorsi 217 e 216, e prima ancora attraverso il Monte Corona.
A est vi era la zona panoramica, in cui neve e mare s’incontravano su di una lunga passeggiata, un po’ in salita, un po’ in discesa.
Le panchine lì non servivano, perché nessuno voleva sedersi sul bagnato, tuttavia le ringhiere aiutavano la gente a non cadere dallo strapiombo.
Suggestivo, con lo sguardo Linda cercava di vedere attraverso la piazza centrale, dov’era collocato il loro albergo, assieme ad altre strutture come la Palestra di Bianca, il Pokémon Market o il Centro Pokémon.
La strada più battuta era però quella che portava a sud, dove una lunga scalinata permetteva ai viaggiatori di raggiungere il secondo porto di Sinnoh, dopo quello di Canalipoli.
Era da lì che le persone s’imbarcavano per il Parco Lotta di Sinnoh, uno dei più grandi in circolazione.
Camminarono fino alla Palestra, con Lionell che si guardava attorno, curioso ma col volto fiero.
I capelli umidicci per via della neve erano tirati indietro, sempre ordinati; con le sopracciglia ben curate, il naso dritto e neppure l’accenno di barba, che il mattino dopo avrebbe sicuramente rasato. Lionell Weaves era un uomo potente e di classe, e aveva una cosa in più agli altri: un obiettivo.
Aveva qualcosa per cui vivere, al contrario di molti uomini, che reputava feccia che si trascinava da un giorno all’altro senza sapere bene perché.
Lui era superiore.
Prese per mano Linda e la invitò a seguirlo accanto alla Palestra, e poi anche dopo, scrutando, oltre le cime degli alberi.
“Quello” fece lui, sorridendo, puntando il dito contro l’unica grande costruzione in pietra che si ergeva oltre gli abeti innevati. “Quello è il Tempio di Nevepoli. E…” indugiò col dito sulla montagna alle spalle dell’antico edificio. “Le vedi quelle vecchie scale?”.
Linda spalancò gli occhi verdi e avvicinò la testa a quella di Lionell, per poi pronunciare le labbra.
“Aguzza la vista” sorrise Lionell, lisciandosi ancora i capelli.
“Sì, sì… La vedo” aggiunse l’altra. Effettivamente era riuscita a mettere a fuoco la salita verso la grossa montagna alle spalle della città.
“Lì ci sono due cose parecchio importanti per noi, Linda” osservò il capo dell’Omega Group.
“C’è il Lago Arguzia, lì, no?” domandò quella, voltandosi verso di lui. Specchiò lo sguardo nel suo, vedendolo annuire.
“Sì. Ma lì c’è anche uno dei più grandi bunker militari dell’intera nazione, tesoro mio”.
“Lo Snowflake…” sussurrò l’altra, col sorriso sulle labbra.
“Esattamente. Domani all’alba le nostre mani saranno sul Cristallo della Luce, e finalmente Arceus sarà nostro”.
Il vento soffiò ancora, gelido e impietoso, lasciando sulle guance candide di Linda un rossore quasi gentile. Rientrarono in albergo, pronti per la grande giornata.

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Capitolo 39
*** Capitolo 34 - Castigo pt. 1 ***


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34. Castigo

- Sinnoh, Memoride -
 
Senza pietà.
Quel freddo mattino, la sveglia suonò senza pietà.
Il letto di Camilla era caldo, seppur troppo vuoto. Purtroppo, funzionava così: una donna piena di responsabilità che aveva a malapena il tempo di pranzare non poteva lasciarsi distrarre dalle necessità umane. Lei era la Campionessa di Sinnoh, inumana per definizione, e quel mantello che indossava non era un semplice capo d’abbigliamento. Spostandolo, nessuno avrebbe visto soltanto il fisico statuario di quella bellissima donna, ma anche doveri e ansie in dosi massicce.
Sul comodino l’allarme continuava a trillare, noncurante del fatto che la bionda si fosse infilata sotto le coperte soltanto quattro ore prima.
Aveva terminato tardi, troppo tardi, la riunione coi Superquattro per la costruzione del Ponte che avrebbe collegato Canalipoli al Lago Verità. Tutti avevano votato a favore del progetto e si erano detti d’accordo nell’aiutare i collegamenti tra Canalipoli e i piccoli paesini del sud della regione.
Certe volte, Camilla pensava che Duefoglie e Sabbiafine, nonostante fossero divise da Giubilopoli soltanto da una decina di minuti d’auto, dovessero essere parecchio più collegate al resto della regione. Stessa cosa per Canalipoli, grande città portuale ma con nessuna via di accesso se non quella marittima.
Sinnoh era ancora troppo selvaggia.
Ci avevano ragionato sopra per quasi sei ore, finendo per proporre quella soluzione. L’indomani sera si sarebbero rincontrati per cercare di collegare anche Nevepoli, essendo il sobborgo più a nord e isolato di tutta Sinnoh.
Tuttavia in quel momento Camilla pensò soltanto a spegnere quella dannata sveglia. Si rigirò nel letto un paio di volte dato che, come ogni notte, s’addormentava su di un cuscino e si risvegliava su quello accanto.
Probabilmente perché era più fresco.
Lei era quel tipo di persona che adorava sentire dal suo letto il vento sbuffare impetuoso e spazzare le piccole strade di Memoride; il solo fatto di non essere nella bufera la riscaldava.
Adorava stare al caldo, generalmente, anche se ogni tanto le piaceva spostare leggermente il piede verso sinistra, per assaggiare il fresco delle lenzuola dall’altra parte del letto.
Non ci faceva neppure caso, lei, ma certe volte sentiva la necessità d’un clima più mite, ed erano quelli i momenti in cui fuggiva a Unima, quando poteva godersi le sue meritate vacanze.
Allungò il braccio, con ancora gli occhi chiusi, cercando di fare un rapido check della propria posizione e di quella della sveglia; otto volte su dieci la giornata cominciava con un vaffanculo perché la urtava per sbaglio e la faceva cadere per terra.
Ne aveva rotte quattro, in sei anni.
Una buona media.
Quello era l’unico momento in cui Camilla si dimostrava umana e viziata, perché quando il silenzio riacquistava prepotentemente possesso della sua camera, lei apriva gli occhi e diventava la Campionessa di Sinnoh, che annullava il proprio volere e metteva quello di tutti gli abitanti della regione davanti.
Responsabilità, serietà, professionalità.
Non appena spegneva la sveglia, Camilla diventava un nugolo di concetti in un corpo di donna.
Si prese qualche secondo, riaffondando la testa tra i comodi cuscini e poi stiracchiando ogni muscolo del proprio corpo, per poi rilassarli totalmente.
“Buongiorno…” disse, sapendo di parlare con se stessa. Allungò lo sguardo verso i led della sveglia, che segnavano le 05:32. Era già in ritardo sulla tabella di marcia.
E quindi non indugiò oltre, prese coraggio e si scoprì, per poi poggiare i piedi perennemente congelati sulle pantofole di lana. Il pigiama che indossava non era assolutamente niente di sexy e provocante tuttavia la teneva al caldo in giornate d’inverno come quella. Il meteo aveva previsto neve su tutta la parte centro-nord di Sinnoh e la cosa non la faceva impazzire di gioia.
Guardò ancora l’orologio, era passato un altro minuto e lei ancora doveva andare in bagno. Levò quindi il pezzo di sopra del pigiama e lasciò cadere alle caviglie quello di sotto, rimanendo in slip. Infilò infine le pantofole e andò in bagno, ancheggiando stanca.
Furono tre i secondi che impiegò a riconoscersi, ferma davanti al grosso specchio che aveva tra la doccia e il grosso mobile di mogano che conteneva asciugamani e accessori vari.
Aveva una pessima cera e i capelli erano totalmente da dar fuoco.
Si guardò un seno e quindi sospirò, diretta verso la cabina doccia.
 
Un’ora dopo era pronta, coi capelli puliti e pettinati, gli stivaloni neri lucidati e il tailleur che utilizzava per i giorni di lavoro. Infilò la cintura con le Pokéball e s’immerse nel freddo di Memoride.
La neve cadeva ma il vento non era assai forte.
Lì tutto sembrava così dannatamente immobile, con le auto del piccolo sobborgo parcheggiate davanti ai portoni di quelle antiche case in pietra. Tutte le napoletane erano serrate e le poche persone che non avevano abbandonato quelle antiche abitazioni per i grandi sobborghi urbani della regione erano ancora nei propri letti.
Molti anziani, pochi giovani che si erano caricati Memoride sulle spalle. Come ogni giorno, la Campionessa scendeva le quattro scalette della sua abitazione, un tempo appartenente alla vecchia nonna, e gettava l’occhio alle cime del Monte Corona che accerchiavano il piccolo insediamento.
Pioveva e l’odore che si alzava dai boschi circostanti era forte e piacevole. Aprì l’ombrello dopo qualche secondo, noncurante dei capelli appena asciugati, e poggiò le suole degli stivali sulle mattonelle della via principale.
Una grossa statua di Arceus era stata costruita parecchi anni prima, e lo raffigurava in posizione semieretta, poggiato sulle zampe posteriori e sollevato, a impennare.
Maestoso.
Era cosciente del fatto che quel luogo potesse essere uno dei primi insediamenti mai creati, almeno secondo le leggende che si erano tramandate di padre in figlio e, nel suo caso, di nonna in nipote.
Camminava verso il Percorso 211 quando ricordò i momenti in cui, da bambina, sua nonna la prendeva in braccio e la metteva a sedere sul grosso tavolo che aveva in cucina. Poi, mentre impastava il pane che avrebbero mangiato quella sera, la donna raccontava decine di storie alla piccola.
Quella che Camilla chiedeva spesso era quella riguardante i quattro fratelli.
 
“Ancora quella?” sorrideva la donna, parecchio minuta ma lo stesso bellissima. “Non ti annoi ad ascoltare sempre la stessa leggenda? Potrei raccontarti quella della vecchia guerra in una lontana regione”.
Camilla la guardava affondare le mani nella morbida pasta bianca, sorridente. Lei non lo sapeva, ma tanto tempo dopo le sarebbe somigliata moltissimo, se non per la statura.
“No, quella dei quattro fratelli, nonna!” esclamava sempre, col vestitino grigio macchiato sull’orlo della gonna. L’indomani la nonna lo avrebbe smacchiato raggiungendo il fiume.
I loro occhi si scontrarono per un secondo, s’accese l’intesa innata che solo i nipoti hanno con quelli che erano genitori al quadrato e sorrisi si rilassarono sui volti.
“All’inizio era il nulla…”.
“Il nulla” ripeté Camilla, che quasi ricordava ogni singola parola che sua nonna utilizzava durante quel racconto.
“C’era soltanto un puntino luminoso, nel cielo infinito, che raccoglieva energia”.
“Era un uovo, vero?”.
“Certo. E quando l’uovo si schiuse nacque Arceus”.
La nonna sorrise, lasciando riposare l’impasto per qualche secondo. Aggiunse la farina sul tagliere e lo riprese, dividendo il tutto in quattro panetti più piccoli.
“Bravissima” annuì lei, prendendo il primo pezzo di pasta. “Arceus è un essere assai potente, che creò altri tre Pokémon fortissimi, ovvero Dialga, Palkia e Giratina”.
“Ma Giratina era cattivo” aggiunse lei. “E Arceus lo imprigionò”.

“Esatto. Loro crearono l’universo e i loro equilibri. Poi Arceus creò anche il trio dei laghi… Ti ricordi come si chiamano?”
“Sì!” aveva esclamato. “Uxie… Uxie, Azelf e… e…”.
“E Mesprit”.
“E Mesprit! Sì! Lo sapevo!”.
“Certo che lo sapevi” disse quella, prendendo i panetti e infilandoli in una ciotola. Si voltò e andò verso il lavello, dove scendeva sempre acqua fresca di fonte. La nonna si sciacquò le mani e prese un canovaccio, lo inumidì leggermente e lo strizzò, per poi ricoprire la scodella col pane. “E poi Arceus creò gli uomini e i Pokémon. Ma siccome non voleva che il potere del tempo, dello spazio, della luce e dell’oscurità fossero soltanto dei Pokémon, lui creò dei cristalli e li donò agli uomini”.
Camilla ascoltava, coi grossi occhi spalancati.
“E ognuno di quei cristalli, così potenti, diede vita a un’entità, che assomigliava tanto a una persona ma che una persona non era”.
“Due uomini e due donne” ribatté la bambina.
“Esatto” sorrise la nonna, mettendo il pane in un mobile e pulendo il tavolo con una pezza.
 
Quando Zackary Recket era entrato nello Snowflake assieme a Green Oak, quel giorno ventoso di qualche anno prima, non riuscì a credere ai propri occhi: davanti a lei c’era davvero il cristallo della leggenda che le raccontava sua nonna.
E la cosa era strana.
La neve continuava a scendere lenta ma il bosco ormai era vicino. Lì, le fronde degli alberi l’avrebbero protetta, e il suo allenamento sarebbe potuto cominciare.
 
 
- Sinnoh, Nevepoli, Snowflake -
 
Le prime luci dell’alba stavano riscaldando lentamente il volto di Jake Murlow. Quella notte gli era toccata la ronda del perimetro esterno e la neve, come sempre, vorticava nel buio e gli si poggiava sugli occhialoni, e poi sulle guance.
Odiava quel lavoro. Faceva troppo freddo per lavorare in quelle condizioni, e secondo lui non veniva pagato abbastanza per dover passare la notte in bianco, nella tempesta.
Il suo equipaggiamento era ghiacciato e la sua divisa militare, interamente nera, era totalmente fradicia.
Guardò per un attimo l’orologio, sbuffando quando si rese conto che mancasse ancora un’oretta o poco più fino al cambio turno.
Jake voleva andare a dormire. Casa sua non era molto lontana, lì a Sinnoh, dato che alloggiava nella bucolicissima Flemminia, e dopo un’oretta di bus si sarebbe ritrovato nel suo letto.
No, forse avrebbe fatto prima una doccia, per scaldare le ossa, e poi avrebbe messo qualcosa sotto i denti.
Sarebbe andato a letto con la pancia piena.
La radio emetteva strani suoni e interferenze, e nel mentre il vento lamentoso continuava a soffiargli sul volto.
Il fucile pesava ma lo imbracciava lo stesso e lo stringeva con entrambe le mani, per non perdere l’attimo in caso d’eventualità.
Davanti a lui solo l’innevata distesa, alle sue spalle le solide mura dello Snowflake.
Si chiedeva cosa nascondesse, quel posto, per essere protetto da cinquanta soldati armati e muniti di Pokéball.
Jake Murlow aveva con sé un Hitmonlee, donatogli da suo nonno che l’aveva catturato quando non era così difficile trovarne uno selvatico. Col tempo erano diventati una specie protetta e anche quando li si trovava selvatici si aveva l’obbligo di lasciarli allo stato brado, in quanto specie in via d’estinzione.
Era difficile ottenere un Pokémon del genere.
Doveva smettere di pensare a quelle cose futili mentre lavorava, ne era benissimo a conoscenza, tuttavia era l’unico modo per far passare il tempo.
La distesa di neve davanti a lui era ferma, immobile.
O forse no.
Oltre la bufera qualcosa si muoveva, ondeggiava prima a destra e poi a sinistra, come un grande mare bianco, calmo.
“Ma sono…”.
Non poteva essere vero. Sembrava fossero uomini ma Jake non riusciva ad accertarsene.
Troppa neve davanti a lui, e quelli forse erano vestiti di bianco.
Pulì con la manica le lenti degli occhialoni. La neve li aveva totalmente ricoperti.
Quella marea biancastra cominciava a prender forma. Poi dei Pokémon le apparve davanti.
Jake s’allarmò. Prese la radio e cercò di tenere il contatto premuto, con le dita intorpidite.
“Comandante, sono di piantone davanti all’ingresso! Sembra… sembra che ci sia qualcuno!”.
Le interferenze della comunicazione lo fecero rabbrividire.
L’uomo aspettò per qualche secondo la risposta del superiore, guardando Tre Scizor muoversi velocemente in avanti.
“Comandante!” urlò lui, mettendo mano alla Pokéball di Hitmonlee. Fece un passo avanti, posando la radio e sentendo solo interferenze.
“Altolà!” gridò lui, con la voce che produsse una forte eco, assorbita immediatamente dal vento lamentoso che disordinava la discesa dei fiocchi di neve. “Siete in una zona militarizzata!”.
L’uomo aguzzò la vista, impallidendo più di quanto non avesse già provvisto il clima rigido: c’erano migliaia di teste a marciare ordinatamente verso l’edificio grigio che si stagliava nella radura al di sopra di Nevepoli.
“Comandante!” urlò ancora Jake, quasi terrorizzata. Lasciò uscire Hitmonlee dalla sfera e imbracciò il fucile. Gli Scizor invece, velocissimi, s’erano staccati dal gruppo ed accelerarono furiosi.
“Cazzo…” sospirò quello.
Hitmonlee si gettò in avanti, affondando le gambe lunghe e affusolate nella neve fredda.
“Tieniti pronto!” urlò Jake, vedendo il proprio Pokémon abbassarsi sulle gambe, pronto a sferrare un grosso calcio, tuttavia gli avversari sembravano preparati a ogni evenienza, e anche in quel momento dimostrarono un’organizzazione magistrale: Lo Scizor centrale rallentò e i due sui lati si fiondarono sul Pokémon.
Fu Hitmonlee il primo ad attaccare, mentre Murlow urlava qualcosa alla radio; poi, irritato, la lasciò cadere nella neve, imprecando. Non sapeva che Lionell Weaves fosse munito d’un disturbatore di frequenze.
Sollevò la canna del fucile e la puntò minaccioso verso i primi volti che la sua vista riuscì a definire ma fu distratto dalla lotta del suo Pokémon, che aveva colpito con un violento Megacalcio uno dei due Scizor. Ma quelli, appunto, erano in superiorità numerica, e non ci volle molto prima che uno dei due lo attaccasse alle spalle, dandogli un potente colpo con la chela metallica.
Hitmonlee ruzzolò nella neve, per poi rialzarsi immediatamente. Lanciò un rapido sguardo al suo Allenatore, che però fissava dal mirino del fucile l’ondata estranea che si avvicinava.
Alzò leggermente la canna e sparò un paio di colpi, di avvertimento. Nel vuoto più che totale, le esplosioni dei proiettili crearono un forte rimbombo, sostituito poi dal sibilo sinistro del vento.
Guardava solo avanti, noncurante del suo Pokémon che attaccava a ripetizione con calci potentissimi ai danni di entrambi gli Scizor. Ancora calci, ma le alte difese dei Pokémon acciaio non risentivano minimamente né degli attacchi dell’avversario né della morsa del freddo, e nessuno riusciva a capire perché.
Jake gettava sempre un occhio a Hitmonlee, poi alzava il fucile e sparava ancora.
 
E poi successe tutto in un attimo.
 
Non appena il grosso gruppo fu vicino abbastanza da poterne riconoscere i dettagli l’altro Scizor, quello rimasto indietro, sembrò puntare direttamente al soldato semplice Jake Murlow.
Quello spalancò gli occhi e puntò l’arma su di lui.
Non voleva uccidere nessuno, non era lui a dover decidere a chi levare il beneficio di vivere un’esistenza, cattiva  o buona che fosse, meno ancora un Pokémon, che non era malvagio di per sé ma soltanto obbediente.
Però sparò lo stesso, perché doveva proteggere se stesso, e la paura gli aveva scatenato un rapido rilascio d’adrenalina, che lo costringeva a tenere gli occhi sbarrati anche se i grossi occhialoni erano quasi totalmente ricoperti dalla neve.
Partirono più di venti colpi da quella mitragliatrice, che rimbalzarono impietosi sulla testa e sul corpo di quello Scizor.
Le porte alle sue spalle si spalancarono subito dopo, quando dallo Snowflake uscirono numerose truppe armate, ma il peggio stava già per accadere.
Jake si distrasse, un attimo di troppo, guardando come uno dei Pokémon che affrontava il suo Hitmonlee gli avesse tranciato di netto una gamba. L’altro lo emulò, lasciandolo zoppo e sanguinante in mezzo alla neve.
Tornò con lo sguardo verso il suo avversario che, ormai troppo vicino, strinse la morsa attorno a suo cranio, distruggendolo completamente.
 
Jake Murlow ora riposava in pace.
 
Lionell guardava soddisfatto la manovra offensiva alla porta. Gli altri soldati a guardia del perimetro erano stati uccisi tutti a sangue freddo dall’esercito di Scizor, che si stava compattando proprio davanti all’ingresso del Bunker.
Guardò Linda, poi Malva, che annuirono.
Entrambe presero due Pokéball, mandando in campo quattro Electrode.

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Capitolo 40
*** Capitolo 34 - Castigo pt. 2 ***


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34. Castigo pt. 2
 
- Sinnoh, Evopoli, Casa di Gardenia -
 
Gardenia quel mattino aprì gli occhi prima che la sveglia suonasse.
Per un attimo le era parso strano toccare il piede di qualcuno nel letto in cui dormiva.
Era una strana sensazione, un piccolo accenno di paura che provava senza neppure capirne il motivo.
Forse era panico, o forse la sorpresa.
Sì, perché quando il suo cervello collegò quel piede di troppo, che poi di troppo non era, alla persona di Marisio, Gardenia si rilassò immediatamente.
Gli dava le spalle, nel buio più che totale della camera da letto.
La sveglia sarebbe suonata diversi minuti dopo, forse troppi, o troppo pochi.
Marisio avrebbe passato un’altra giornata con lei e poi sarebbe ritornato a Johto. In quel periodo non poteva assentarsi per troppo tempo, e aveva avuto un permesso da parte della Lega unificata di Kanto e Johto per poter tornare a Sinnoh, dato che era accorso sul posto senza riuscire a organizzare neppure la parvenza d’un piccolo trasloco.
In un certo senso Gardenia era felice che il suo uomo fosse partito, adempiere a un compito del genere era la dimostrazione che il suo valore come Allenatore fosse apprezzato anche in terre lontane. Tuttavia quel letto era freddo in inverno.
Troppo vuoto, in estate.
Si voltò lentamente, facendo attenzione a non tirarsi i capelli rossicci nel mentre. Quella notte erano crollati stanchi e non avevano avuto l’opportunità di salutarsi come avrebbero entrambi voluto.
La presenza di ospiti inoltre non aveva favori a riempire quella fame che aveva colto entrambi dal momento in cui i loro corpi s’erano allontanati.
E che in quel momento erano vicini.
Molto vicini.
Gardenia puntò gli occhi sul suo uomo, che riposava tranquillo, addormentato sul fianco. Generalmente non utilizzava pigiami, lui, ma vecchie magliette di cotone a maniche lunghe, un po’ sdrucite e talvolta bucate. Gli occhi della donna carezzarono il viso dell’uomo; soleva radersi la notte, prima di andare a dormire, perché a lei piaceva l’odore del dopobarba sulla sua pelle.
Gli carezzò la guancia e lo vide aprire dolcemente gli occhi.
“Amore…” fece, con voce compressa. Alzò il braccio e raccolse la mano della donna. Quella sorrise e si avvicinò a lui, poggiando la fronte contro la sua.
“Scusa se ti ho svegliato”.
Quello sorrise e le lasciò un morbido bacio sulle labbra. “Stai tranquilla”.
“Amo i tuoi occhi al mattino…”.
Marisio le diede un ulteriore bacio e poi la tirò a sé, sentendo il corpo caldo di quella aderire al suo. Prepotente, la voglia di possederla s’insinuò tra quelle lenzuola. Le mani s’incontravano e passavano poi tra i capelli, lottavano i corpi e si stringevano, gli occhi si chiudevano e le labbra s’accarezzavano.
Marisio le strinse un seno e lei salì su di lui, per qualche intenso minuto di spensieratezza, come quando l’uomo viveva ancora stabilmente sotto quel tetto e quelle scene erano frequenti come stelle sparse d’un cielo infinito.
 

 
- Sinnoh, Memoride, Bosco del Percorso 210
 
“Forza!” urlava Camilla, ordinando al suo Garchomp di saltare rapidamente sui pendii scoscesi del percorso selvaggio che collegava Memoride a Rupepoli. La neve continuava a scendere impietosa ma alla Campionessa non dispiaceva che il suo Pokémon si rinvigorisse in quel modo.
Lo vedeva correre in equilibrio sulle rocce dell’argine del fiume che tagliava Sinnoh in due, partendo dalle impervie pendici del Monte Corona.
Ogni giorno cominciava in quel modo, col suo Pokémon che doveva affrontare assieme a lei tumultuose prove fisiche prima di allenare gli attacchi speciali.
Come Dragometeora.
Generalmente si assicurava che il perimetro d’attacco del suo Pokémon fosse circoscritto a un’area che lei stessa riuscisse a controllare, per evitare di danneggiare bestie, piante e persone che si trovavano lì fortuitamente.
Ecco uno dei motivi perché il sole si svegliasse dopo di lei.
Il grande Pokémon sembrava dare il meglio di se, riuscendo addirittura a colpire con i suoi attacchi punti che stabiliva la Campionessa.
Alla fine della giostra, entrambi erano stanchi e stremati. Il grosso Pokémon era accovacciato accanto a lei, silenzioso e sfinito. Camilla aveva tirato fuori dalla borsa sei bacche, tutte differenti, che gli aveva poi dato.
“Mangiale” fece. “Te le sei meritate. Oggi sei stato bravissimo…” sospirò, seduta su di una roccia.
 I lunghi capelli erano quasi totalmente bagnati e gli stivaloni sporchi di fango fino a metà tacco, tuttavia era soddisfatta degli ottimi risultati del suo Garchomp.
Lasciò che mangiasse in libertà, mentre la neve continuava a cadere candida.
Ancora, nella sua testa, riapparve il volto di sua nonna.
 
“I due uomini e le due donne…” diceva la signora, ritirando poi dal mobile i panetti preparati qualche ora prima. “… Erano come dei, ma assomigliavano del tutto a noi”.
“Anche a te?” chiedeva Camilla, seduta ancora sul tavolo, con i grossi occhi spalancati e i capelli biondi legati in una lunga treccia.
“Certo. E anche a te. Erano esattamente come degli umani, con due braccia e due gambe, una testa, dei capelli…”.
“E le mani” aggiunse quella.

“E le mani” ripeté la nonna, sorridendo. Divise nuovamente i panetti e li tagliuzzò sulla sommità, quindi, uno ad uno, l’infornò. “E questo voleva dire che l’umanità tutta possedeva il potere di Arceus. E infatti, i primi uomini, grazie al beneficio di questi Cristalli e di queste entità, vissero in un mondo meraviglioso, dove l’acqua sgorgava rigogliosa dalle montagna e la terra donava al popolo i suoi ottimi frutti…”.
“Ma poi gli dei  litigarono” puntualizzò quella.
“Litigarono. Tutti e quattro dotati di smisurati poteri, questi dei non andarono più d’accordo tra di loro. Ancora non sappiamo chi fosse dei fratelli quello che tradì gli altri, ma cominciò una lunga battaglia, in cui utilizzarono il potere dei cristalli per uccidersi tra di loro”.
Camilla guardava la donna, ogni volta, con fare quasi schifato.
“Come fanno dei fratelli a non volersi bene. Io vorrei tanto bene alla mia sorellina”.
“Lo so, piccola mia” annuiva la più grande, lavando le mani. “Ma certe volte ci sono in ballo delle cose strane, e le persone cambiano”.
“Anche gli dei?”.
“Evidentemente sì” disse quella, asciugando le mani e andando dalla nipote. La prese in braccio per aiutarla a scendere dal tavolo, quindi si fece seguire fuori, dove il vento aveva asciugato le candide lenzuola.
“E combatterono tanto?” aveva domandato poi quella, col vestitino che svolazzava.
“Moltissimo. Uno di loro fu addirittura ucciso”.
“Quale?!” domandava lei, ogni volta.
“Me lo chiedi sempre” sorrideva la nonna. “Ma non posso dirtelo, perché non lo so...”.
“Uffa!” esclamava lei. “E la storia come finisce?”.
“Non lo so, tesoro. Ma probabilmente bene, dato che noi siamo ancora vivi e il mondo è ancora bello, come una volta”.
 
Camilla ricordava il viso di sua nonna.
Era la donna più bella e dolce che avesse mai conosciuto. Del resto era sua nonna, e l’avrebbe amata incondizionatamente.
Ma quelle leggende… Si chiedeva se fossero vere.
Sicuramente no.
Si voltò, guardando il suo Pokémon che riposava. Fece per alzarsi, quando il PokéKron trillò.
Sistemò sul braccio il visore, accanto all’altro bracciale, quello speciale, e rispose alla telefonata.
E quello che sentì la lasciò scandalizzata. 
 
 
- Sinnoh, Evopoli, Casa di Gardenia
 
Gardenia terminò su Marisio, quasi rovinandogli sul petto, mentre i loro toraci si contraevano e s’espandevano, ancora squassati dal piacere.
“Mi… mi mancava…” diceva quella, nuda e stanca. Ansimava, mentre lui le carezzava la nuca. Era rilassante, di una piacevolezza che non riusciva a quantificare. Sarebbe rimasta in quella posizione per tutta la sua vita, poggiata col volto sui pettorali del suo uomo, che intanto le baciava la fronte e le lisciava i capelli.
Il cuore le batteva, e sentiva quello dell’uomo risponderle.
“Ti amo” aveva detto lui, sorridendo soddisfatto. “Vorrei tanto poter fermare il tempo”.
“Anche io” s’era limitata a rispondere quella, ancora immobile.
Avrebbe voluto dirgli che non voleva che partisse.
Non voleva vederlo lasciare quel letto, quella casa.
Lei.
La distanza che li aveva separati, in quei giorni, era così doppia e tangibile che il semplice dormire nel letto accanto a lui era stato quasi paradossale.
Non che si fosse dimenticata di lui, no. Anzi, non avrebbe mai potuto farlo.
Semplicemente, non riusciva bene a gestire quella distanza siderale tra il nord e il sud della regione.
Sinnoh era casa sua, Gardenia non poteva prescindere da quei luoghi. Evopoli era il suo regno, lei lì era regina e comandante, sindaco e guida.
Lei la pianta, quella città il suo vaso.
E forse era sbagliato.
Avrebbe dovuto vedere il mondo, sciogliersi dalle responsabilità che la legavano a quei luoghi e magari affrontare la vita al di fuori di Sinnoh.
Forse avrebbe dovuto raggiungere Marisio, a Violapoli; stare assieme a lui era quello che più voleva e quando finalmente le cose sembravano essere stabili all’uomo era stata data un’opportunità di lavoro che non avrebbe potuto rifiutare.
Egoisticamente avrebbe voluto tenerlo lì con sé. Nel profondo del suo cuore avrebbe voluto che si licenziasse.
Ma non era giusto. Non poteva tarpare le ali a una persona, a maggior ragione se quella persona era una parte fondamentale del suo cuore.
Lo guardò, ripensò a qualche attimo prima, a quel formicolio che s’insinuava lentamente dalla parte bassa della schiena fino a raggiungere il collo, costringendola ad alzare la testa, a guardare in alto, a premere sui pettorali dell’uomo sui quali si era poggiata.
Lei lo amava.
E poi il PokéKron trillò.
Era dannatamente presto, si chiedeva chi potesse chiamarla a quell’ora del mattino. Incrociò lo sguardo di Marisio, curioso e al contempo preoccupato. Quella si alzò rapida dal corpo dell’uomo e raccolse una maglietta da terra, che infilò rapidamente. Rispose, con la luce dell’apparecchio a illuminarle il volto.
Era Camilla.
 
“Pronto? Camilla, che succede?” domandò quella, guardando l’immagine trasmessa sullo schermo del dispositivo. La Campionessa aveva il volto contrito, sembra che il vento le soffiasse addosso, mentre la neve le s’incastrava nei capelli.
“Devi correre allo Snowflake!” aveva urlato poi, col rumore del vento che non lasciava intendere liberamente le sfumature della voce della donna.
“Cosa diavolo stai dicendo, Camilla?! Lo Snowflake è…”.
“Lo Snowflake è sotto assedio!”.
Marisio scattò in piedi e infilò i vestiti rapidamente.
“Lo Snowflake è sotto assedio?!” ripeté incredula la donna. “Come… com’è possibile?”.
Camilla non rispose neppure, s’abbassò sul suo Togekiss e chiuse la comunicazione.
“Il Cristallo della Luce” le spiegò rapidamente Marisio. “Ho preso il posto di Valerio e lui mi ha comunicato che, in caso di necessità, sarei dovuto correre a Nevepoli, per difendere un misterioso quanto potente cristallo”.
“Quello… quello di Zack!” esclamò, infilando uno slip e uscendo di corsa dalla stanza.
 
Quasi scivolò prima di raggiungere la porta della camera degli ospiti, che spalancò senz’alcuna delicatezza. Si limitò a non accendere la luce, per non svegliare la bambina, ma s’apprestò verso il letto, dove Zackary Recket dormiva stringendo beatamente sua figlia. Gli s’inginocchiò accanto, afferrandolo per le spalle e scuotendolo.
Gli occhi verdi dell’uomo apparvero dietro le palpebre, che lentamente s’aprirono.
“Gar… denia… che succede?” chiese, ignaro.
“Lo Snowflake è sotto assedio!” esclamò, con la voce un po’ troppo alta.
Fu un attimo.
L’uomo aprì gli occhi, quasi dimenticandosi del fatto che, pochi secondi prima, stesse riposando.
“Devo andare via!” disse, raggruppando i vestiti suoi e di sua figlia e gettandoli sul letto.
“E dove pensi di andare?! Se queste persone sono venute qui è per prendere il cristallo!”.
“Lontano da Sinnoh” rispose quello, risoluto. Infilò le scarpe e poi levò maglietta e pantalone del pigiama, rimanendo seminudo.
Gardenia non si scompose. Lo vide vestirsi, poi infilò i calzini alla bambina, che immediatamente si svegliò. “Papà… Che succede?” domandò, trasalendo.
“Gardenia deve andare a fare dei servizi e purtroppo la nostra vacanza a Sinnoh è finita” fece, senza neppure guardarla in faccia.
“E ora torneremo dalla mamma?”.
Zack fu catturato con gli occhi da Gardenia.
“No, amore…”.
Le aprì la zip del pigiama e rapidamente le infilò i pantaloni. Gardenia era stranita dalla prontezza di quello. Aveva reagito come fosse una macchina, senza neppure mostrare un minimo di paura.
Tuttavia lei lo sapeva: dentro era terrorizzato.
Aveva già visto sua moglie andare via, e perdere sua figlia sarebbe stato il biglietto d’ingresso verso un inferno che non avrebbe mai avuto fine.
“E dove andiamo?” domandò lei, guardando Marisio entrare in camera.
“Devi raggiungere Giubilopoli il più velocemente possibile” esordì, coi capelli disordinati. “Noi dobbiamo correre a Nevepoli. Hai soldi con te?” chiese all’uomo.
Zack annuì, senza neppure guardarlo in faccia. Sollevò sua figlia e la prese in braccio, sospirando e muovendosi verso l’uscita della stanza.
“Zack!” urlò Gardenia, trattenendolo per una spalla. Quello si voltò rapidamente, col cuore che batteva impanicato e gli occhi totalmente spalancati. “Non fare stupidaggini, ti prego”.
L’uomo espirò, col fiato esalato che tremava, come le labbra, chiudendo lentamente gli occhi.
“Papà! Dove andiamo?!” aveva insistito la bambina.
“È una sorpresa” le disse Gardenia, cercando di mimare ciò che più si avvicinasse a un sorriso.
“Quante sorprese!” sorrideva. “Venite anche voi? Voglio farti conoscere la mia mamma”.
Zack guardò di nuovo Gardenia. Sapeva che avrebbe dovuto dirle di ciò che era successo a Rachel ma non era quello il momento.
“No… io e Marisio abbiamo molte cose da fare qui. Ma ci rincontreremo presto!” sorrise la donna, arruffandole la capigliatura già disordinata.
“Grazie” concluse l’ospite, ricevendo un caldo abbraccio dalla padrona di casa. Marisio annuì, alle sue spalle, come per infondergli fiducia.
Tutti però sapevano quanto difficile sarebbe stata quella storia.
Zack abbandonò casa di Gardenia pochi minuti dopo, infilandosi guardingo nel freddo di quel mattino d’inverno.
 
 
- Sinnoh, Nevepoli, Snowflake -
 
Camilla era un tipo metodico.
Generalmente non partecipava a operazioni del genere. Erano anni che non si verificavano disordini di quella mole, dai tempi del Team Galassia e di Cyrus, e certamente non sapeva come affrontare per bene quella situazione, dato che non c’era un piano prestabilito.
Togekiss aveva la piume ghiacciate ma continuava a volare.
La Campionessa s’era abbassata, col freddo che sembrava lacerarle la pelle, ormai pallida. Vedeva lo Snowflake, prima che una grossa esplosione le costringesse a spalancare gli occhi.
“Giù!” urlò, finendo per stringere al collo il suo Pokémon durante la picchiata.
 
Atterrò poco lontana da Bianca.
La Capopalestra di Nevepoli aveva lo sguardo concentratissimo. Era il suo habitat, quello. Aveva raccontato molteplici volte durante qualche cena informale, la moretta dagli occhi di cristallo, della sua prima adolescenza spesa a esplorare tutte le zone limitrofe alla sua città natale.
Sicuramente conosceva l’ambiente meglio di chiunque altro lì, ed era lei il genio su cui bisognava puntare per la creazione di una strategia.
“Froslass, riesci a mantenere lo scudo psichico?!” urlava quella, alle spalle del suo Glalie.
 Il Pokémon Suolnevoso sembrava parecchio provato ma l’energia psichica che emanava riusciva a mantenere Bianca all’interno d’un campo di forza protettiva.
“Abomasnow, crea uno scudo!” urlò poi, vedendolo obbedire rapidamente: una coltre di neve, rami, radici e foglie bloccarono l’attacco di due Blastoise.
La Capopalestra si voltò verso sinistra. La vista di Camilla le illuminò lo sguardo.
“Entra nella bolla, fai presto!” esclamò. La Campionessa eseguì, affiancandola e stringendole il polso delicatamente.
Come a dire “sono qui”.
“Ce ne hai messo di tempo! Sono un sacco!” aveva esclamato. Non riusciva a vedere oltre il muro di neve, Camilla, ma fissava in lontananza ciò che stava succedendo allo Snowflake.
“Cosa cercano?” urlò lei, tirando in campo il suo Glaceon. Il Pokèmon affondò le zampe sulla neve e rizzò la coda.
“Inspessisci questo scudo con un Geloraggio” fece al suo Pokémon, avanzando e uscendo dalla bolla psichica.
“Ti farai ammazzare!” urlò Bianca. “Glalie, falle da scudo!” ordinò poi.
La Capopalestra di Nevepoli si guardò intorno, perdendo lo sguardo nella distesa candida.
“Non possiamo perder tempo…” ragionò la Campionessa, prendendo poi la Pokéball di Garchomp. “Dobbiamo difendere il bunker con ogni mezzo!”.
“I soldati sono ancora in piedi?” domandò Bianca, preoccupati.
“Non per molto…” fece, sospirando. “Dobbiamo andare a dare manforte”.
“Qui ci sono due Blastoise!”.
“Adesso li mettiamo fuori gioco” rispose la Campionessa, prendendo la sfera del suo Garchomp. “Dammi una mano”.
La Capopalestra di Nevepoli esitò brevemente, guardò Glaceon e Abomasnow fare di tutto per rinforzare quel muro. Una volta che le due donne fossero passate all’attacco sarebbe stato del tutto inutile ma serviva da ottimo diversivo per effettuare un attacco a sorpresa.
“Va bene” rispose, muovendosi dalla parte opposta della barriera di ghiaccio e rami.
Froslass la seguiva rapida, continuando a proteggere meticolosamente la sua Allenatrice. Glalie fluttuava dietro di lei ma non appena Camilla gridò d’attaccare la sorpassò.
Gli occhi della Campionessa e della Capopalestra s’incrociarono, alle due estremità del muro, pronte a sferrare l’attacco.
“Garchomp!” urlò quella, puntando il dito contro il primo Blastoise. Il grosso Pokémon Drago si gettò a capofitto sull’avversario, balzando in alto ed evitando il grosso raggio congelante.
Geloraggio… Ottimo. Tu usa Dragofuria!” aveva invece esclamato la bionda, sorprendendosi della rapidità d’azione della grossa tartaruga.
Quando atterrò, il drago cominciò a colpirlo con forza, quasi senz’alcun freno.
E colpiva, colpiva. Colpiva ancora, col Blastoise che si limitò, vittima, a rintanarsi nel proprio guscio.
Intanto, dall’altra parte della barriera, Glalie schivava gli attacchi dell’altro avversario.
Colonne d’acqua partivano rapide contro il Pokémon di Bianca, che osservava sempre più concentrata la scena.
Sembrava totalmente un’altra persona.
“Sta usando Idropompa…” ragionò ad alta voce. Guardava quel Blastoise basso sulle zampe inferiori, pronto ad attaccare ancora.
Glalie si muoveva rapidamente, levitando agilmente.
Aspettò il momento propizio, la donna, vedendo l’ennesimo attacco potente andare a vuoto, prima di muovere lo scacco matto.
Liofilizzazione!” esclamò, guardando il suo Pokémon andare incontro all’attaccò del Blastoise avversario e avvolgergli le colonne d’acqua con raggi a bassissima temperatura.
L’attacco fu di una potenza devastante.
Idropompa di Blastoise si congelò all’istante, creando pilastri di pesantissimo ghiaccio che andarono a congelare l’acqua che quello stava sparando ad altissima velocità.
Non riuscì a mantenerne il peso, il tartarugone, terminando per terra.
“Ora vai con Bottintesta! Dobbiamo farlo rintanare nel proprio guscio!”.
E così fece. L’attacco del solidissimo Pokémon Ghiaccio incontrò il carapace di Blastoise, dopo che quello si rintanò all’interno delle proprie difese.
“Benissimo!” sorrise Bianca, contenta che la sua strategia avesse avuto gli effetti sperati. “Ora Geloraggio all’interno del guscio”.  La fessura della testa fu completamente sigillata dal tappo di ghiaccio. Camilla sorrise sommessamente, facendo rientrare nella sfera il proprio Pokémon, che aveva distrutto coi propri attacchi il guscio dell’avversario.
“Ottimo lavoro, piccola. Ora corriamo… Dobbiamo frapporci tra i nemici e il caveau!”.
Bianca annuì, facendo rientrare i propri Pokémon nelle sfere.
La Campionessa la guardò, pensierosa.
Erano passati diversi anni quando, da ragazzina, quella giovane moretta con le treccine aveva impressionato la piazza di Nevepoli con le proprie abilità d’Allenatrice.
Sembrava una predestinata, nonostante l’inesperienza fosse davvero troppa.
Fu nel momento della verità, la prima verità, quando Cyrus aveva minacciato l’universo, che la sua immaturità venne fuori, assieme a quelle di Gardenia e Marzia, totalmente impreparate all’evenienza.
Nel fuoco che aveva negli occhi c’era voglia di riscatto.
Bianca era ormai una donna adulta, dai capelli sciolti e dalla profonda consapevolezza che le cose sarebbero cambiate.
Pochi secondi dopo due figure nel cielo s’avvicinarono a lei, atterrandole accanto.
Erano Gardenia e Marisio.
I quattro presero a correre nella neve, nel tentativo di raggiungere quanto prima l’ingresso dello Snowflake.

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Capitolo 41
*** Capitolo 34 - Castigo pt. 3 ***


..:.:.. TSR ..:.:..
34. Castigo pt. 3
 
 
- Sinnoh, Nevepoli, Snowflake -
 
Alla vista di Gardenia, ma soprattutto quella di Marisio, Camilla si sollevò da quello stato d’allerta, anche se solo per un’istante.
Marisio era il Capopalestra di Violapoli e vederlo lì significava che la cavalleria da Johto era in procinto d’arrivare.
Poi poggiò lo sguardo di nuovo sulla ragazza di Evopoli, e ricordò che i loro cuori dividevano una capanna.
Quei due hanno passato la notte assieme, qui a Sinnoh…, aveva ragionato la Campionessa, mentre quelli si avvicinavano a lei e a Bianca. Guardò gli occhi di Marisio e li ricordava quando si spalancavano, dopo i baci passionali che si davano, diversi anni prima.
“Situazione?” domandò lui, serio in viso. Tra le mani era già pronta la sfera di Lucario.
“Quello è lo Snowflake, il Cristallo è al suo interno e i soldati che lo difendono sono quasi tutti morti” rispose prontamente Camilla, camminando rapidamente verso lo stabilimento. Marisio l’affiancò, lasciando indietro Bianca e Gardenia, che si strinsero dolcemente la mano.
Le due erano molto amiche e il cuore batteva con lo stesso panico nei loro petti.
“La delegazione di Johto?” chiese la bionda, facendo osservando il suo Glaceon correre in avanti.
“Sono appena partiti con un Quinjet. Non so quanto ci metteranno. Ho sentito Risetta e lo stato d’agitazione sull’aereo è particolarmente elevato. Molti non erano pronti…”.
“Hanno attaccato all’alba…” replicò Gardenia, anch’essa con una sfera in mano.
“Qual è il piano?” domandò ancora l’unico uomo. Camilla guardò Bianca per un attimo e lasciò a lei l’onere di rispondergli, con un breve cenno del capo.
“Dobbiamo superare le linee nemiche… dobbiamo difendere la cassaforte e gli ultimi superstiti”.
“Ci hanno attaccate!” replicò subito Bianca. “Questi Pokémon vogliono uccidere gli Allenatori! Sono assassini!”.
Gardenia sospirò. Il freddo, in quella radura innevata, stava raggiungendo delle temperature rigidissime ma la neve era sciolta dal sangue che colava a fiotti dai corpi incolpevoli dei soldati che difendevano il bunker.
Camilla accelerò e capì che non poteva utilizzare metodi morbidi: quelli erano carnefici.
“Garchomp!” urlò, allertando il suo Pokémon non appena arrivati alle spalle dell’orda. I primi avversari che avevano a portata di mano, che attaccavano con attacchi a distanza, erano principalmente dei Pokémon di tipo fuoco ed elettrici. Fu proprio la Campionessa a prendersi la briga di aprire una breccia.
“Marisio e Bianca, dovete oltrepassare il muro e dare manforte davanti!” aveva urlato la donna. Gardenia spalancò gli occhi. “E io?!”.
“Tu mi servi qui” sussurrò la bionda. La Capopalestra di Evopoli strinse la sfera di Torterra e premette il dispositivo di rilascio, guardando il grosso tartarugone apparirle davanti.
Quel clima non lo favoriva.
“Strategia?!” urlò poi la rossa, confusa.
“Ci devi proteggere, Gardenia! Questi avversari non fanno distinzione tra Pokémon e persone e saremmo sicuramente bersagli facili se impegnati a lottare”.
“Io sono la contraerea…” sorrise amaramente lei. “Bene!”.
Dragofuria!” ordinò poi la Campionessa al Garchomp, che vide avvicinarsi un esemplare di Electabuzz e un paio di Manectric, assieme a  un Heatmor e uno Chandelure.
“Sono troppi!” esclamò Gardenia, guardando il Pokémon della donna che aveva accanto attaccare senza fronzoli i due Manectric.
“Non andare nel panico!” aveva esclamato l’altra. “Penso a tutto io! Tu proteggici!”.
La Capopalestra annuì, col cuore che batteva forte. Aveva però vissuto sulla sua stessa pelle il costo dell’inesperienza, anni prima, assieme alle sue colleghe.
Pensò per un attimo a Platinum Berlitz, a come aveva aiutato a sconfiggere Plutinio quando tutto era perduto e al fatto che fosse stato proprio il suo Cherrim uno dei grandi aiuti che aveva ricevuto per compiere quell’impresa.
Vide Chandelure attaccare in direzione di Camilla con delle fiamme azzurre. Doveva intercettare quelle mosse ma ovviamente, contro dei Pokémon di tipo fuoco, Torterra non avrebbe avuto vita lunga. Doveva agire d’astuzia.
Riconobbe la mossa: era Fuocofatuo.
Gardenia aveva studiato tanto e sapeva come quella fosse una mossa impossibile da evitare. L’attacco era chiaramente rivolto a Camilla, calcolando la traiettoria. Avrebbe avuto effetti totalmente debilitanti, sulla Campionessa, ed essendo quella l’ariete di sfondamento della resistenza lei avrebbe dovuto fare di tutto per evitare che le succedesse qualcosa.
Tuttavia non era così eroica da mettersi di mezzo e lasciarsi colpire.
“Torterra, con le liane!” ordinò, puntando il dito contro il malcapitato Electabuzz, che a sua volta attaccò, inutilmente, il Pokémon Continente.
L’elettricità non aveva effetto su di lui.
Il Pokémon comprese il piano e intercettò l’offensiva di Chandelure proprio col corpo dell’avversario, che venne ricoperto dalle fiamme blu.
“Ottimo lavoro! Terremoto!” urlò poi Camilla, saltando con Gardenia su Torterra.
L’effetto fu forte, e creò una grossa spaccatura tra la neve.
 
“È arrivata la Campionessa” sorrise Malva, al centro dell’orda. I grossi occhialoni che la proteggevano dalla neve le aderivano sul volto e le schiacciavano i capelli, segnati da lunghe e sinuose onde rubine.
Lionell annuiva e rimaneva in silenzio, guardando la strenua resistenza degli avversari.
“Come la goccia sulla roccia. Lenta e inesorabile”.
Linda si staccò rapida e attraversò l’esercito in orizzontale, col volto preoccupato.
Li vedeva, quei due, correre sul lato sinistro.
“Fermateli!” urlò poi, puntando il dito contro di loro.
 
Marisio e Bianca sobbalzarono.
La donna soprattutto, preoccupata per la decina di avversari che si era staccata dal corpo principale.
“Non preoccuparti” la rassicurò l’altro, continuando a correre dritto. Stavano per raggiungere il lato esterno dello Snowflake ma sapevano che avrebbero dovuto trovare un modo per aggirare gli aggressori.
E non era semplice, se non altro perché erano in schiacciante inferiorità numerica.
“Come passiamo davanti a tutte queste persone? Dovremmo farlo anche in fretta…” osservò Bianca, un passo dietro a Marisio. Lui chiuse per un momento gli occhi e sorrise, riaprendoli subito dopo.
“L’aura?! Hai visto l’aura?!” aveva domandato quella, elettrizzata e contemporaneamente impaurita.
“Sì” annuì Marisio. “Ma non la loro”.
 
“State pronti sul lato destro!” aveva urlato Camilla, tramite il PokéKron.
Gli occhi di Gardenia scrutarono i boschi al lato della struttura, prima di spostarsi veloci sulla figura del suo uomo.
Era ancora vivo.
“Non devi avere paura per lui” disse Camilla, sospirando. “È uno degli Allenatori più capaci che conosco. Johto è una piazza perfetta per lui”.
L’altra si perse nel suo sguardo, per qualche secondo. Sapeva dei trascorsi di quei due e, anche se appartenevano al passato, la gelosia nei confronti di quella bellissima Allenatrice, assai più capace di lei, più alta, dai capelli più lunghi e dall’aria assai più professionale esplodeva come un fuoco d’artificio.
Tuttavia quel pensiero, quel veloce pensiero che serpeggiava fastidioso nella sua mente, esplose via come una bolla di sapone.
“Lo so” rispose alla Campionessa.
Si voltò poi a destra, guardando un grosso Bastiodon caricare la folla armata.
“Ferruccio” sorrise la Capopalestra di Ebanopoli, quasi rinfrancata.
 
“È questo il momento!” esclamò Marisio, tirando fuori la sfera di Lucario.
Bianca lo guardò preoccupata.
“Seguimi!” urlò ancora quello, lanciando la sfera davanti a lui. Lucario affondò le zampe nella neve.
La Capopalestra, che peraltro giocava in casa, sapeva che l’effetto sorpresa dato dall’attacco quasi suicida di Ferruccio avrebbe sbilanciato l’attacco congiunto dei nemici, lasciando manovra d’attacco.
Palmoforza!” urlò Marisio, mimando l’attacco del suo Pokémon. Quello si prese un secondo per raccogliere la concentrazione necessaria e colpì l’aria con una forte manata.
Fu bastevole per sbilanciare i nemici e creare un po’ di strada.
“Vai Bianca!”.
Froslass avvolse la sua Alllenatrice con la forza psichica e si concentrò. Molti di quegli sgherri presero a correrle contro, prima che Marisio le saltasse davanti e che Lucario attaccasse nuovamente con Palmoforza.
 
“Si stanno facendo strada…” sussurrò a se stessa Gardenia.
“Attenta agli attacchi!” aveva invece urlato Camilla, che puntò il dito contro gli avversari, dando al suo drago il via libera di utilizzare un forte attacco Lanciafiamme.
Gardenia si voltò, quasi distratta dai suoi impegni di scudo, e si rese conto che un grosso Rapidash stesse attraversando il prato alle loro spalle.
Qualcuno lo cavalcava, ma era lontano.
“Attenta!” urlò ancora Camilla. Gardenia ritornò concentrata su Torterra, che intanto indietreggiava sotto i forti colpi di un Machamp.
“Tor-Torterra!” sobbalzò. Sistemò la fascia nei capelli rossicci e sbuffò, cercando di scacciare l’ansia che le cresceva nel petto.
“Fai qualcosa!” ribatté la Campionessa.
“S-sì!”.
Ma si sentiva totalmente paralizzata. La paura di morire era tanta quanta quella di veder morto Marisio. Quelle persone non scherzavano.
Qualcosa sfrecciò sulle loro teste, emettendo poi un verso stridulo e fastidiosissimo.
“Ecco Pedro” sorrise la bionda, vedendo atterrare un Archeops sul tetto.
“Pedro…” ripeté lei, vuota.
Nelle orecchie c’era soltanto il battito del suo cuore, che martellava come una grancassa. Le tempie pulsavano, vedendo il suo uomo penetrare in quel muro umano ostile come una lama calda nel burro.
Aveva paura.
Camilla aveva ammazzato degli uomini e dei Pokémon, pochi secondi prima, e avrebbe continuato a farlo fino a quando quel dannato cristallo non fosse stato messo in salvo.
Le urla la innervosivano, anche se somigliavano più a un vociare nervoso che non riusciva a prendere le sembianze di parole fatte e formate.
Riconobbe che il panico stesse prendendo possesso della sua mente.
Torterra era rintanato nel suo guscio, mentre Machamp lo bersagliava di pugni.
“Gardenia!” aveva esclamato la Campionessa.
Gli occhi di quella di Evopoli si concentrarono poi su Marisio, che continuava, sempre a fatica, a farsi spazio tra la folla agguerrita.
Bianca era due passi dietro di lui, e camminava protetta dalla sua bolla.
“Fallo entrare!” aveva poi urlato, quasi disperata. Ma la Capopalestra di Nevepoli era troppo lontana per poterlo sentire.
“Devo andare lì!” aveva esclamato la donna, spaventata. Le lacrime scivolavano bollenti sulle guance congelate. Fece per muoversi, affondando i boots nella neve, quando la mano di Camilla le afferrò la spalla.
“Dove cazzo credi di andare?!” le aveva urlato in faccia. Gardenia si perse per un attimo nei suoi capelli, nei quali deboli fiocchi di neve erano rimasti incastrati. “Stiamo rischiando il culo, tutti assieme, qui! Smetti di pensare a Marisio e cerca di pensare a te stessa! Quel Torterra tra poco morirà se non farai qualcosa!”.
Era arrabbiata, la Campionessa.
Gardenia, però, non sembrava essere ritornata coi piedi per terra, continuando a guardare fisso la sempre più lenta avanzata del suo uomo, che sgomitava e lottava assieme a Lucario.
“Deve entrare! Bianca!” urlò ancora.
Camilla non ci vide più: la colpì con un violento ceffone al volto.
“Vattene, Gardenia! Qui non ci servi!”.
La Capopalestra di Evopoli rimase in silenzio, mentre il galoppo di quel Rapidash diventava sempre più evidente e distinguibile nella ressa.
La Campionessa non perse ulteriore tempo con quella, spintonandola e voltandosi; diede ordine a Garchomp di utilizzare Iperraggio sulla folla.
 
“Gardenia!” sentirono poi alle spalle.
La donna di Evopoli era in evidente stato confusionale, era riuscita a isolarsi anche in un contesto del genere. Se il panico non l’avesse catturata avrebbe visto Lady Berlitz scendere dal suo Rapidash e ordinargli di usare Rimbalzo contro Machamp.
Ma Gardenia non se ne accorse.
Solo quando la Dexholder le si avvicinò riacquistò la coscienza di cui necessitava per affrontare una situazione così importante.
Davanti agli occhi aveva la rampolla della famiglia più antica e ricca di Sinnoh: Platinum Berlitz, unica legittima detentrice del Pokédex della regione.
Era una ragazza estremamente dolce, con grandi occhi grigi e pelle diafana e delicata. I lunghi capelli neri erano lasciati interamente sciolti, se non per un paio di ciocche ai lati del capo, intrecciate e congiunte dietro la nuca.
Era stretta in un caldissimo soprabito rosa.
“Gardenia” la chiamò ancora quella, con gli occhi spalancati e le guance arrossate per il freddo.
“Lady Berlitz…”.
“Sono qui per dare una mano. Il Professor Rowan mi ha avvertito subito che le cose qui allo Snowflake fossero diventate difficili ma…” si voltò poi, impallidendo sul bianco. “… non mi aspettavo così tanto”.
“Sì… ho visto” rispose l’altra, alzandosi da terra e pulendosi dalla neve.
“Ero a Evopoli, dall’altro ieri… Volevo venire a trovarti in Palestra ma…”.
“Non è il momento!” urlò Camilla. “Almeno tu, Platinum, aiutami!”.
Gardenia sospirò. “Posso aiutare anche io…”.
“Prendi il lato di destra” disse la Campionessa, prima di continuare la strenua resistenza contro i suoi avversari.
La Capopalestra vide il grosso Bastiodon continuare a caricare. Era quasi arrivato davanti al cancello d’ingresso del bunker.
 
“Ci siamo quasi!” aveva urlato Marisio, vedendo a una cinquantina di metri la piccola forza militare che mano a mano cadeva contro i colpi dei mercenari.
“Resistete!” aveva urlato poi Bianca.
Pedro s'era affacciato dal bordo del tetto, col volto stropicciato dal sonno, violentato dal freddo e preoccupato, per tutta quella brutta situazione. Era stretto nel parka blu, coi capelli rossi inumiditi dalla neve. Quel mattino non si era rasato.
Non ne aveva avuto il tempo.
"Papà!" urlò lui, cercando dietro il grosso cranio corazzato di Bastiodon la figura rannicchiata di suo padre.
Era lì, a sfidare il freddo, con soltanto un sottile maglioncino di freddo.
Uomo d'altri tempi, lui. A quelle temperature era stranamente abituato.
Ferruccio si limitò ad alzare il capo, come a mostrare a suo figlio che stesse bene.
"Archeops!" urlò poi il Capopalestra di Mineropoli e quell'antico Pokémon, risvegliato dal rarissimo fossile che aveva trovato nella miniera dove lavorava, si alzò in volo.
Inutili colonne d'acqua e di fuoco s'alzarono per cercare di contrastare la controffensiva.
"Forza, Pedro!" aveva esclamato Marisio.
"Forzantica!".
Il Pokémon Paleouccello spalancò le ali e gridò, prima che i suoi occhi si ricoprissero d'una sinistrissima patina azzurra.
Il terreno davanti all'ingresso dello Snowflake, quindi, cominciò a tremare, e grossi blocchi di roccia si sollevarono, investendo i Pokémon ostili e i propri Allenatori.
"Froslass, ora! Usa Geloraggio prima che quelle pietre crollino!" ordinò Bianca, stupendo a propria volta Marisio.
Fu così che il Pokémon eseguì, e quella colonna ghiacciata andò a cristallizzare la roccia sollevata davanti ai militari, creando un muro.
 
"Hanno pochi secondi!" urlò Camilla.
"Dobbiamo avvicinarci" replicò invece Gardenia, guardandosi attorno. La Campionessa annuì e si guardò attorno. Doveva trovare un modo per aprire una breccia nella barriera umana.
"Come dobbiamo agire?" domandò velocemente Platinum, espirando candido fumo nell'aria insanguinata di quel mattino.
"Potrei rischiare... Potrei usare Dragometeora e vedere cosa succede ma è una mossa troppo difficile per...".
"L'ultima volta fu quasi controproducente..." sospirò Lady Berlitz, facendo segno di no con la testa.
"Io... Io potrei farlo".
Camilla si voltò verso di lei, incuriosita dalle sue parole.
"No, Gardenia... Sei troppo assente" ribatté la Campionessa, indietreggiando di qualche metro mentre il suo Garchomp continuava a combattere alacremente.
"Dovremmo almeno ascoltarla" s'inserì Platinum, cingendosi il polso con la mano libera.
La Campionessa rimase in silenzio, in uno di quei secondi così preziosi, in cui tutto sarebbe potuto cambiare.
 
"Frana!" aveva poi esclamato Pedro, con Archeops che prontamente aveva lasciato crollare quel muro di roccia ghiacciata sui mercenari ringhianti.
Certo, quella barriera avrebbe potuto proteggere in maniera più efficace il piccolo nugolo di soldati ancora vivi ma per quanto ancora sarebbe rimasto in piedi?
C'erano centinaia di Pokémon e persone feriti, davanti lo Snowflake e il modo migliore per proteggere il cristallo era quello di respingere i nemici.
Respingerli con tutte le forze.
Pedro saltò giù dall'edificio, atterrando elegantemente.
"Terremoto!" esclamò poi, col Pokémon fossile che fece tremare la terra.
Ferruccio saltò dal suo Pokémon, facendolo rientrare nella propria sfera e sistemandosi accanto a suo figlio.
Non ci volle molto prima che Marisio e Bianca li affiancassero.
 
Lionell rimase fermo, immobile, mentre la terra tremava.
Pareva quasi che fluttuasse a un metro dalla neve fredda in cui i piedi di tutti affondavano.
"Hanno raggiunto la porta!" esclamò Linda, respirando a bocca aperta.
"Lentamente abbatteremo quel muro... Siamo troppi per loro, e per quanto sono forti non avranno alcuna speranza".
Malva rimaneva in silenzio accanto a lui, aspettando con le braccia conserte.
"Tra poco il Cristallo della Luce sarà mio" sorrise a mezza bocca l'uomo, stretto nel suo lungo cappotto.
 
"Sei sicura?!" esclamò Camilla, avvicinandosi a Gardenia. Quella sbuffò, stanca.
"Sono la cazzo di Capopalestra di Evopoli! So quello che faccio!" s’alterò la rossa, urlando.
La Campionessa sorrise soddisfatta.
“Adoro quando tiri fuori questa verve”.
La guardò, Gardenia, cercando poi uno sguardo d’approvazione nella signorina che aveva accanto. Pulì poi il voltò dalla neve e sospirò, bassa sulle gambe.
“Torterra! Radicalbero!”.
Platinum spalancò gli occhi. Aveva letto di quella mossa soltanto in qualche libro e sapeva che fosse molto difficile da apprendere per i Pokémon, come da gestire per gli Allenatori comuni.
Quando infatti vide Torterra affondare ancor di più le zampe nella neve e ruggire ebbe la reale percezione dell’essenza di quell’Allenatrice: come ogni fiore rimaneva delicato.
Il forte vento poteva strapparle i petali e la pioggia riusciva a piegare il suo stelo.
La neve poteva bruciarlo interamente, lasciandone soltanto lo spettro esterno.
Lo scheletro morto.
Ma bastava poco, un flebile speranza che prendeva le sembianze d’un raggio di luce, fiducia liquida come acqua fresca ed ecco che spaccava l’asfalto per sfoggiare la sua corona profumata.
Il Pokémon Continente lasciò che un’autostrada di radici fuoriuscisse maleducata dalla neve, colpendo tutti gli avversari che incontrava, stritolandoli e uccidendoli schiacciati.
Gardenia guardava la scena concentrata, prima che Platinum la tirasse per il braccio e l’aiutasse a saltare in groppa al Rapidash.
Camilla fece strada, saltando su Garchomp e le due sul Pokémon Cavalfuoco che seguivano, nello sgomento e lo stupore dei cattivi.
Arrivarono davanti alla porta, Gardenia si gettò tra le braccia di Marisio e Camilla sorrise.
“Diamoci dentro”.

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Capitolo 42
*** Capitolo 34 - Castigo pt. 4 ***


..:.:.. TSR ..:.:..
34. Castigo pt. 4

 
- Sinnoh, Nevepoli, Snowflake -
 
Stavano fermi, in un attimo in cui il tempo s’era fermato.
I nemici erano rimasti stupiti, sgomenti dalla situazione, e i buoni erano increduli d’esser riusciti nell’obiettivo di frapporsi tra la difesa dello Snowflake e l’attacco degli uomini in bianco.
“Linee di difesa Psichiche ne abbiamo?!” aveva poi urlato Camilla, al centro della formazione.
“Mancano Fannie, Omar e Marzia” osservò Lady Berlitz, afferrando la sfera di Empoleon tra le mani.
“Arriveranno. Ne sono sicura” ribatté la Campionessa.
In cuor suo però aveva paura. Il suo volto si nascondeva dietro quella maschera di falsa speranza ma non era lontana lo spettro della consapevolezza, a poggiare la mano congelata sulla spalla coperta dal mantello.
Pregava Arceus e qualunque altro dio che chiunque venisse a darle manforte.
Pregava che il mondo s’interessasse di Sinnoh, quel mattino. Che si svegliasse impaurito per via di quella minaccia.
Se non avesse avuto la più che totale sicurezza che Arceus fosse realmente esistito, davanti a quella schiera armata, sarebbe diventata atea.
“Le difese!” la risvegliò Gardenia. “Tutto ciò che possa bloccare gli avversari!”.
Il silenzio scese lento. Bianca stava aiutando i soldati feriti a sgombrare il campo, mentre i pochi rimasti ancora in vita e operativi attendevano in silenzio gli ordini di Camilla.
“Ho un’idea” fece poi Marisio, raccogliendo l’attenzione di tutti quanti.
Quell’attimo di sbigottimento degli avversari fu immediatamente assorbito dalle urla barbare della fanteria più prossima all’ingresso dello Snowflake, che aveva cominciato ad attaccare. In particolare furono dei Pokémon di tipo Fuoco a lanciare attacchi a distanza.
“Bianca!” esclamò quindi Pedro, mandando in campo Probopass e lasciando che subisse quel forte colpo al posto loro. Ferruccio fece avanzare Bastiodon, che pose il capo a mo’ di scudo, per provare a difendere i buoni alle sue spalle.
La Capopalestra di Nevepoli vide la situazione e annuì.
“Froslass! Usa Schermoluce!”.
Un alone rosa ricoprì le scale davanti a loro, a testimonianza che la barriera psichica fosse stata attivata davanti a loro.
“Serve manforte!” urlò Camilla, vedendo poi Ferruccio prendere la sfera di Bronzong.
“Anche tu, Bronzong! Schermoluce!” ordinò il Capopalestra di Canalipoli, stringendo i denti. “Chi altri?!” domandò quindi.
“Ci serve Marzia!” urlò Gardenia. “Medicham!”.
“Luciano!” urlò la Campionessa nel suo PokéKron. “Dove cazzo siete?! Abbiamo un maledetto bisogno di te, in questo momento!”.
“Dobbiamo creare anche un impedimento fisico” osservò Marisio. “Probopass e Bastiodon finiranno per morire, in questo modo”. E dopo queste parole mandò in campo il suo Metagross. “Usa Schermoluce anche tu, e cerchiamo d’indurire questa barriera”.
Camilla si voltò verso Gardenia e le afferrò il braccio. La rossa spalancò i grossi occhi color nocciola, schiudendo leggermente le labbra.
“Cosa c’è?”.
“Torterra. Radici!”.
La Capopalestra di Evopoli annuì. “Fate un passo indietro!”.
Intanto il fuoco sulla barriera di luce s’infrangeva come acqua sul parabrezza. Bianca era visibilmente scossa.
“Ce la faremo” le sussurrò Pedro, ritirando nella sfera Probopass. Ferruccio fece altrettanto e vide il Pokémon di Gardenia tornare in campo.
“Cosa vuoi fare?” le chiese, con la voce baritonale. Per un attimo gli occhi della donna si poggiarono sulle gote barbute dell’uomo, spostandosi poi sul suo sguardo.
“Mi serve una base! Qualcosa di solido su cui costruire!”.
“Mettetevi a sua disposizione!” urlava Marisio, alzando poi l’ultimo soldato da terra.
“Mi serve Rampardos, Pedro! E Bianca! Abomasnow!”.
Le due Pokéball raggiunsero le mani della donna e il primo Pokémon a essere utilizzato fu proprio quello dello specialista di tipo Roccia.
Forzantica! Ma non lasciar partire l’attacco!”. Dal terreno si alzarono grossi lastroni di pietra.
“Cosa?!” urlò Ferruccio, preoccupato. “Siamo su di una montagna! Rischiamo di morire, se levi pietra da lì!”. Il padre cercò conferma nel figlio, ancor più esperto di lui in quelle cose.
“Sa quello che fa!” replicò Marisio, vedendo la prima barriera d’energia scoppiare come una bolla di sapone.
“Froslass!” urlò Bianca, correndo verso di lei. Vedeva il sangue scendere lentamente dalle narici del Pokémon. La ritirò nella sfera e sospirò. “Ha sostenuto quel peso per diverso tempo” la giustificò ancora Pedro.
Ferruccio sbuffò e prese due sfere dal cinturone. In campo scesero Magnezone e Forretress.
“Inspessiamo questa barriera! Magnezone, Aggiungi il tuo Schermoluce! E Forretress, diamo aiuto con Riflesso!”.
Altri due veli d’energia si sommarono a quelli già presenti.
“Dovremmo avere più tempo” concluse quello di Arenipoli.
Camilla sospirò. Non potevano far uscire così tanti Pokémon in uno spazio così ristretto, ma si vide costretta rischiare, tirando in campo Togekiss, facendogli usare a sua volta l’attacco Schermoluce.
“Abomasnow!” riprese Gardenia, pronta. “Usa Geloraggio tra le rocce e chiudiamo gli spazi!”.
“Alziamo questo muro!” rimbeccò Camilla, col cuore che batteva a mille. Buttò i capelli biondi alle spalle e attese che a Torterra venisse ordinato d’utilizzare Verdebufera sul muro congelato.
Foglie e rami furono congelati di nuovo, con un secondo Geloraggio, per dare maggior sostegno.
“Mi servono ancora Probopass e Bastiodon!” fece poi.
“Non c’è spazio!” replicò Pedro.
“E a me serve! Lasciate i Pokémon qui e entrate dentro!”.
“Cosa?!” urlò Ferruccio, accanto a suo figlio. “Siamo la prima linea!”.
“Andate!” riprese Marisio. “Resteremo io e Camilla qui con lei. Voi fate in modo di mettervi in contatto coi Superquattro e le delegazioni delle altre Leghe!”.
Camilla annuì, sorridendo. “Vuoi rubarmi il lavoro?”.
“Bastiodon! Devi piazzare quante più placche d’acciaio tu riesca a produrre sulla barriera!” ordinò quindi al Pokémon del Capopalestra di Arenipoli.
“Che stai facendo?” le chiese Camilla. Fu Marisio a rispondere.
“Sta a vedere” sorrise.
Piccole piastrine metalliche aderirono perfettamente alla barriera ghiacciata.
“Probopass!” concluse infine Gardenia. “Concentra la forza magnetica sulle placche e fa in modo che rimangano ferme!”.
Il grosso Pokémon Bussola rimase immobile, prima che attorno a sé una forte aura d’energia esaudisse i desideri di Gardenia.
Quella sorrise soddisfatta, lasciò rientrare Torterra e Bastiodon nella sfera e guardò i due Allenatori che aveva davanti.
Comprese che fossero molto più esperti di lei e capì di non essere una delle prime scelte. Fu un po’ avvilente ma poi pensò che, da questa parte della barriera, assieme ai suoi colleghi ci fosse lei. Ed era stata proprio la sua mente ad architettare quel muro impenetrabile.
“Come passeranno i Superquattro e gli atri tre?” domandò Marisio.
Camilla si voltò rapida, per rispondere. “Attaccheranno dal tetto”.
 
All’interno dell’edificio i corpi dei soldati uccisi erano stati gettati all’interno della prima stanza sulla sinistra, ovvero la guardiola. Il corridoio principale era libero dai cadaveri ma le tracce di sangue che macchiavano i pavimenti di marmo ricordavano ai pochi superstiti e ai Capipalestra arrivati in loro soccorso che quello fosse un luogo di morte.
Tutti si guardarono alle spalle, vedendo il lungo corridoio terminare all’ascensore principale.
Lo Snowflake era diviso in quattro dipartimenti: loro si trovavano nel principale, dove le sale di rappresentanza si alternavano a grosse zone adibite a uso museo, in cui antichi reperti del passato erano esposti in teche di cristallo.
Il secondo dipartimento si trovava al piano superiore, e vedeva ubicati tutti i grandi uffici dirigenziali della struttura, oltre che delle società che avevano l’autorizzazione e le possibilità economiche di potersi permettere l’affitto di quelle stanze.
Il penultimo dipartimento era assai più piccolo degli altri due ma forse era uno dei più importanti: le risorse economiche e aurifere della regione erano chiuse in un complesso sistema di casseforti, resistenti anche alle esplosioni di una granata.
Infine vi era l’ultimo dipartimento, denominato Zona d’ombra.
Accedere all’ultima parte dello Snowflake era possibile soltanto tramite l’accesso diretto all’ultima delle casseforti, sostanzialmente vuota tranne che per una grossa botola, con accesso limitato a pochi eletti.
Solo Camilla poteva accedere lì dentro, in quanto il sistema d’ingresso al quarto dipartimento era protetto da uno scanner di riconoscimento oculare.
Ed erano proprio gli occhi della Campionessa a essere scannerizzati, ogni volta che la grossa botola si apriva.
Altri tre cancelli elettrici, che dovevano essere aperti da un pulsante in guardiania, stavano davanti all’ultima vera e propria cassaforte, di più di un metro di spessore.
Lì dentro vi erano tutti i macchinari che avevano permesso a Plutinio e Cyrus di distruggere quasi l’universo, oltre che al Cristallo della Luce.
Bianca aveva studiato; sapeva che sarebbe stata una lunga mattinata.
Alzò la manica per rivelare il PokéKron, componendo rapidamente il numero di Luciano.
Squillava.
 
Squillava.
Squillava ancora.
 
“Andiamo! Rispondi!” urlò quella.
“Siamo arrivati a Nevepoli, Bianca, siamo in volo” rispose quello, col vento che disturbava la sua comunicazione.
“Non ho capito nulla, Luciano!”.
“Siamo a Nevepoli”.
La flemma di quell’uomo era totalmente fuori luogo, in un momento come quello.
“Tra quanto arriverete?!”.
Ferruccio sentiva le esplosioni all’esterno. “Speriamo presto” sbuffò, col cuore che batteva prepotente.
“...”.
“Luciano!” urlò ancora, Bianca.
Poi all’esterno si sentirono altre esplosioni, ripetute, assieme a delle urla.
“Siamo qui” rispose quello.
“Sono arrivati!” gridò Bianca, in direzione di Camilla. “I Superquattro sono sul tetto!”.
 
“Sono un fottìo” esordì Vulcano, stretto nel parka bianco. I capelli rossi, ricci e vaporosi, risaltavano prepotenti sullo sfondo nero del cielo in tormenta.
Terrie s’affacciò accanto a lui, stretta nella sua pelliccia di finto Linoone, sbuffando. “Effettivamente sono tanti…”.
“Dovresti lavorare sul tuo linguaggio, mio caro…” fu invece ripreso da Luciano, che s’inserì tra i due e guardò le molteplici teste che dovevano cadere. “Dovremmo metterci al lavoro”.
“Strategia?” chiese Aaron, alle loro spalle. Lo specialista di tipo Psico si voltò lentamente, come era solito fare, con quella flemma che lo contraddistingueva.
“Dovremmo tenerli lontani dal muro. Ci penseranno Omar, Marzia e Fannie a affrontare a distanza la minaccia”.
“Tre contro tremila?” domandò Vulcano, scettico. Luciano girò lo sguardo verso di lui, affondando il collo nel soprabito nero.
Era caldo.
I lunghi capelli violacei coprivano parte delle doppie lenti che aveva sul piccolo naso puntuto. Gli occhi, piccole insenature color lilla, si poggiarono dapprima sull’esile figura dell’ultimo tra i Superquattro in ordine d’età, per poi carezzare la persona di Terrie.
Luciano fissò la propria attenzione sulla neve che rimaneva incastrata tra i suoi capelli.
“Aumentiamo gli scudi, innanzitutto. A questo possono pensarci i miei Pokémon. Tutti. Terrie e Vulcano penseranno all’attacco a distanza e tu, Aaron…” fece, spostando infine la propria attenzione sul giovane. “… Tu farai in modo che l’arrivo del Drifblim di Fannie non abbia alcuna conseguenza per gli Allenatori che trasporta”.
“In pratica sei una contraerea ronzante” rafforzò il concetto Vulcano.
 
“Abbiamo difficoltà a sfondare. Sono riusciti a frapporsi tra noi e l’ingresso”.
La voce di Linda suonava indistinta in quel vociare confuso e spesso le sue parole si perdevano nel vago, alle orecchie di Lionell. L’uomo rimaneva immobile, stretto nel suo lungo cappotto di pelle. Manteneva la calma, analizzava la situazione e quasi si complimentava con la Lega di Sinnoh per l’incredibile organizzazione e il rapido rovescio di fronte.
Erano passati dall’attacco delle retrovie alla difesa principale.
“Notevole…” sospirò, guardando dritto. “Dove sono i generali Rocket?”.
Malva rispose per prima, stringendo il braccio dell’uomo.
“Milas si trova esattamente davanti alla porta d’accesso allo Snowflake. Archer e Maxus sono a destra e a sinistra del corpo mercenario” fece, mostrando uno schema su di un tablet che controllava in continuazione.
“Come dicevo… crolleranno. Basta avere pazienza”.
 
“Sì Bianca. Ricevuto” disse Luciano, prendendo tre sfere per ogni mano. Liberò i suoi Pokémon e concluse la comunicazione al PokéKron. Si voltò poi rapido verso Aaron. “Stanno per arrivare” disse. “Siamo nelle tue mani”.
Quest’ultimo annuì, lisciando il ciuffo di quel verde sgargiante che mai era riuscito a tener giù. Prese la sfera di Vespiquen e vi saltò agilmente sulla schiena.
“Andiamo” sussurrò al suo Pokémon, col volto basso e nascosto dalle ali, che poco dopo cominciarono a muoversi freneticamente.
Il Vespiquen di Aaron era enorme, alto e massiccio. Il Superquattro si era curato di allenarla nel migliore dei modi.
Il freddo tagliò il suo volto quando, incauto, si sporse per controllare dove Fannie fosse.
E poi lo vide: era un punto lontano indistinto nella tempesta.
“Stanno arrivando.
 
“Stanno arrivando dei rinforzi!” esclamò Linda. Si voltò e alzò il capo verso ovest, cercando di non perdere d’occhio la situazione all’ingresso.
“Maxus!” esclamò, prendendo la ricetrasmittente. “Dovete intercettare il Drifblim che sta raggiungendo lo Snowflake! Dovete abbatterlo!”.
 
“Ricevuto” rispose il generale Rocket, divenuto generale Omega.
La neve continuava a cadere, s’accumulava sulle spalle sue e di quei soldati.
Generalmente non amava l’inverno, Maxus. Era quel tipo di persona che rimaneva volentieri al coperto durante un giorno uggioso, e che non sopportava la pioggia in nessuna delle sue sfumature.
Ma quel giorno era costretto a stare alle intemperie.
Avrebbe preferito trovarsi a Olivinopoli, in quel momento, steso al sole estivo.
Ma che avrebbe potuto mai farci? Lo pagavano per quello.
Raccolse una delegazione di cento uomini e cominciò a marciare ordinati verso il Drifblim incriminato.
“Il nostro piano è semplice… La metà di voi cerchi di attaccare quelli in aria. L’altra metà deve combattere contro di me” fece quello dalla barbetta viola, sorridendo.
 
Aaron guardava dritto, sfidando la neve e il freddo.
Aveva una missione da compiere e nulla lo avrebbe fermato. Non era la prima volta che partecipava a missioni così difficili ma non riusciva a concepire lo sforzo che impiegava quella gente nel voler distruggere la vita delle persone a tutti i costi.
Intravedeva nella tempesta l’alone violaceo di Drifblim, strattonato dalle raffiche di vento.
“Non è difficile… forza…” diceva, stretto tra i denti.
La radio gridò, con quelle fastidiose interferenze che precedevano la voce di Luciano.
“Un gruppo si è staccato dal corpo centrale, Aaron. Stanno venendo ad abbattervi”.
Il Superquattro in volo si girò rapido, appurando quanto dettogli dal collega.
“Dobbiamo sbrigarci” sussurrò al suo Pokémon, prima che una grossa colonna di fuoco bloccasse la traversata di quel cielo così grigio.
Il ragazzo si strinse nel bomber, impaurito per un attimo.
Abbassò lo sguardo: alcuni di loro erano già lì.
Comandoscudo. Se cadiamo da qui sopra siamo morti”.
Dall’alveare che portava al di sotto del corpo, la regina lasciò fuoriuscire una gran quantità di Combee.
Aaron ricordò che, quand’era più giovane, rimase estremamente sorpreso dalla cosa. Del resto a Johto, di dov’era originario, Vespiquen non era semplice da trovare.
Si stava allontanando dal punto focale: qualcuno lo stava attaccando.
I Combee si posero a formare una barriera vivente davanti alle fiamme; molti di loro ricaddero bruciati nella neve.
“Dobbiamo fare qualcosa. Comandourto!” fece, vedendo la barriera attaccare verso il basso. Si sporse, vedendo tre grossi Houndoom pronti ad attaccare.
“Siamo proprio noi l’obiettivo” sussurrò poi, tra i denti stretti. L’attacco dei Combee si concentrò sugli avversari, che non sembrarono accusare molto l’offensiva.
“Dannazione! Terrie! Mi servi qui!” urlò, nella radio.
Le interferenze anticiparono la risposta della donna. “Arrivo…”.
 
Luciano guardò Vulcano, dubbioso. Quello trasformò i pensieri dell’uomo dai capelli violacei in realtà, bloccando la più grande della compagnia e afferrandola per la spalla.
“Dove diamine credi di andare, da sola?” le disse Vulcano. Quella sorrise bonariamente, com’era solita fare. “Ragazzi…”.
“Abbiamo un piano” riprese Luciano. “Dobbiamo attenerci alle direttive di Camilla. I miei Pokémon saranno qui a rinforzare le difese psichiche e voi due dovete gettare fuoco e fango sugli avversari” ripeté il programma il più forte tra i quattro. “Inoltre Aaron, nonostante la giovane età, è un Allenatore di grande caratura. Saprà sicuramente cavarsela”.
Terrie fece immediatamente cenno di no.
“Se ci ha chiamati, se ha chiamato me, è per un motivo”.
I tre persero qualche secondo, prima che Luciano si voltasse verso sud. La folla spingeva per distruggere le barriere e poi la radio suonò ancora.
“Luciano!” urlò qualcuno, seguito dalle interferenze. “Sei arrivato sul tetto?!”.
“Sì, Camilla”.
“Qui sta per cedere tutto! Forza!”.
“Subito” annuì quello, prima che l’attenzione di quelli sull’edificio fosse assorbita da una grossa colonna di fuoco che si alzò in direzione di Aaron, non troppo vicino a loro.
“Fuoco…” sospirò Vulcano, digrignando i denti. “Aaron ha paura del fuoco”.
“Lo so” sospirò Luciano, voltandosi poi verso Terrie. Quella aspettava il via libera per poter proseguire nel tentativo di salvataggio del collega Superquattro.
“Va bene, vai. Ma stai attenta. E tu, Vulcano, coprì la sua discesa!”.
Quello dai capelli ricci e rossi sorrise felice. “Sono il migliore in queste cose!”.
La donna si strinse nella pelliccia e si lanciò con agilità inaspettata dal tetto dello Snowflake, senza timore o sussulto.
Luciano sembrava abituato a quelle scene ma la reazione di Vulcano cambiava di volta in volta.
“Non riuscirò mai a capire come fa” sospirò.
“Esperienza, immagino” ribatté l’altro, cominciando a innalzare pareti di Schermoluce.
Avesse vent’anni in meno… m’innamorerei perdutamente di lei” sorrise l’altro, con la sfera del suo Magmortar tra le mani e gli occhi di chi non sapeva di trovarsi in trincea.

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Capitolo 43
*** Capitolo 34 - Castigo pt. 5 ***


..:.:.. TSR ..:.:..
34. Castigo pt. 5
 
(LA STESURA DELLA STORIA È IN PAUSA FINO AL 2021. PER AGGIORNAMENTI SULLE PUBBLICAZIONI SCRIVETEMI IN PRIVATO E VI DARÒ INDICAZIONI PRECISE).
- Sinnoh, Nevepoli, Snowflake -
 
Terrie planava sul suo Gliscor, attaccata da quegli uomini in bianco. Il suo Pokémon però era agile e riuscì a evitare ogni offensiva avversaria.
In più dal retro vedeva il Magmortar di Vulcano utilizzare forti attacchi di tipo Fuoco, direttamente sulla folla.
Un po’ sadico, ma sapeva che per difendere le persone a cui teneva, il Superquattro dai capelli ricci non guardava in faccia a nessuno.
Nemmeno alla morte.
Gli attacchi ad alta gittata di Magmortar andavano a colpire Pokémon e persone a più di centro metri di distanza, con grande precisione. Del resto era pur sempre stato allenato da una delle personalità più abili di Sinnoh.
La Superquattro si abbassava sul suo Pokémon, decisa a raggiungere Aaron e l’altra unità avversaria che lo stava mettendo a dura prova.
Drifblim era sempre più vicino.
Stridio” ordinò al suo Pokémon, che emise onde ad alta frequenza. Gli avversari furono tutti costretti a fermarsi; taluni si piegarono su se stessi.
Puntuale arrivò l’attacco di Magmortar, che col suo Pirolancio colpì senza pietà molti di quelli.
E così Terrie riuscì ad avanzare.
“Ottimo, Vulcano” sorrise la donna. La neve colpiva il suo volto candido. In gioventù era macchiato da efelidi, ma col tempo erano svanite e diventate sterili macchie scure.
Ricordava se stessa quando il mondo esterno non era bianco e nero come in quei giorni; il bianco e nero era riservato soltanto alla televisione.
Suo padre era abbiente. Vivevano nella lontana Unima, quando per le strade di Austropoli la gente ancora si salutava e non c’era quella fretta cronica a instillare ansia e agorafobia alle persone.
I giovani erano più gentili e i vicoli non erano così pericolosi.
Ricordava, Terrie, che la sua casa era la prima della schiera, al quarto piano di un antico palazzo. Dalla finestra dello studio di suo padre poteva chiaramente vedere il golfo. Certi giorni entrava di soppiatto lì dentro, perché suo padre non voleva che lei stesse nel suo ufficio personale, e rimaneva incantata a guardare le barche che dal porto salpavano per chissà dove.
Il riflesso allo specchio la mostrava ancora come una ragazzina, dai capelli biondi e gli occhi color nocciola.
E le lentiggini sul naso.
Col tempo tanto era cambiato, lei era cresciuta, aveva amato, aveva smesso d’amare e s’era innamorata di nuovo.
Aveva perso la speranza quando le avevano detto che il suo ventre non avrebbe mai contenuto un figlio e gli occhi le si riempirono di lacrime, sia quando scoprì d’essere incinta che quando estrassero il feto senza vita dal suo corpo.
Era scappata, era andata via, era cresciuta. Era invecchiata.
Ripensava alla sua vita, a tutti i sacrifici e alla sola unica costante: l’avventura.
Ricordava alla perfezione il momento in cui decise di diventare un’Allenatrice di Pokémon.
Il limite oltre cui non potesse spingersi era Piazza Centrale di Austropoli, ovvero il punto di convergenza di tutte le strade che dal lungomare salivano verso il deserto.
Ed era proprio il deserto a incuriosirla.
Un giorno, armata di coraggio, varco il cancello immaginario che sua madre aveva posto oltre la statua costruita al centro della piazza. Si sentiva una bandita ma vedeva, poco oltre il bosco bruciato a nord della città, la sabbia del deserto.
Sì, perché non vi era alcun varco, all’epoca. Le mura delle città erano solo immaginarie, i grandi boschi spadroneggiavano lungo le paludi e non c’erano tutti quei ponti a collegare i meravigliosi luoghi che lei stessa guardava con un occhio di nostalgia.
Tutto più selvaggio. Tutto più libero.
I suoi piedi erano nella sabbia già qualche decina di metri prima dell’ultimo albero.
Faceva caldo e la sua pelle candida bruciava sotto il sole estivo. Tuttavia continuava ad avanzare.
Voleva scoprire cosa ci fosse, in quel meraviglioso posto. Suo padre aveva più volte parlato di un meraviglioso castello sommerso nelle polveri dorate del deserto, e avrebbe mentito a se stessa se avesse negato che la gran parte di quella spedizione punitiva non fosse stata motivata dalla ricerca di quelle antiche rovine.
E aveva soltanto cinque anni.
Le rovine non le trovò, no. Ma fece amicizia, quel giorno, col primo Pokémon che avesse mai visto al di fuori della sua città.
Era un Geodude, incastrato nella sabbia. Terrie, che poi scoprì essere quel Pokémon totalmente al di fuori del proprio habitat, c’inciampò sopra, smuovendolo.
Le sembrava un sasso, e invece era un Pokémon; scendeva di nascosto, certe volte, portandogli delle Pokémelle o qualche bacca che riusciva a raccattare da casa.
E lo fece tutti i giorni, per un anno.
Una notte decise di entrare nello studio di suo padre e rubare pochi centesimi. Lo fece di soppiatto, sgattaiolando dal letto e strisciando i piedi nudi sul pavimento per evitare di fare rumore.
Aprì la porta dello studio, che cigolò lentamente; trattenne il respiro, sperando che i suoi genitori non si fossero svegliati. E quando entrò non accese neppure la luce.
Aveva visto, una volta, suo padre mettere le monete all’interno del quarto cassetto della scrivania. E quindi la sua direzione fu quella.
Sessantasette cent.
Forse non erano abbastanza.
Uscì fuori e richiuse la porta, andando lentamente verso il salotto, prendendo la via diretta del cappotto di suo padre. Infilò le mani nelle tasche.
In quella destra non c’era nulla.
In quella sinistra sentì qualcosa. Carta.
Tirò fuori, vedendo banconote da cento Pokédollari.
Spalancò gli occhi, sapeva che fossero soldi anche quelli. Ma no, a lei interessavano le monete. Affondò ancora la mano e toccò degli spiccioli.
Sorrise.
Li afferrò e li aggiunse ai propri, scappando silenziosamente nella sua stanza e addormentandosi stringendo quelle preziosissime monete, che per chiunque equivalevano a meno di un dollaro ma che per lei erano le chiavi d’accesso per una nuova e futura vita.
Quel Geodude sarebbe diventato col senno di poi il suo migliore amico, anche se quel mattino di giugno, quando giugno non era ancora così caldo, lei non lo sapeva.
Si recò al porto, sentendosi enormemente sporca dentro per aver rubato quei pochi cent a suo padre, e questo perché si sentiva in colpa.
Tuttavia sapeva che se avesse chiesto anche solo un dollaro ai suoi genitori quelli avrebbero cominciato a chiedersi perché, e la spiegazione della loro bambina non gli sarebbe piaciuta.
Avrebbero sicuramente posto il loro veto alla faccenda, tirando in ballo la storia di sua cugina Agatha, fuggita di casa col sogno di catturare i Pokémon già da bambina.
Fu la prima volta che Terrie ebbe il coraggio di fermarsi davanti alla bancarella con le Pokéball.
Generalmente la carezzava soltanto con lo sguardo sfuggente, quando accompagnava sua madre al mattino a prendere il pescato appena scaricato dalle barche di rientro nella baia.
Quel giorno invece fu differente.
Si presentò davanti agli occhi del mercante di sfere, un uomo sulla quarantina dalla barba sfatta e lo sguardo affascinante.
Si chiamava Eddie e aveva viaggiato in lungo e in largo.
 
“Buongiorno. Può darmi una Pokéball, per favore?”.
L’uomo fissò con occhi gioiosi la piccola che gli si era parata davanti. Le sorrise, inclinando un po’ di più il banco, permettendole di osservare per bene la merce.
“Ciao bella bimba. Che Pokéball ti serve?”.
Terrie spalancò gli occhi. “Io… Ho quasi un dollaro e…” balbettò gentilmente, avvampando.
Eddie sorrise.
“Fammi vedere quanto hai racimolato”.
La bambina aprì la mano, mostrando gli ottanta e rotti centesimi. Vide l’uomo inarcare il sopracciglio e allargare il sorriso.
“Quelli non bastano, sai, per queste sfere?”.
E in effetti aveva ragione: erano tutte rarissime Pokéball artigianali, costruite a Johto.
“E quanto costano le Pokéball?” domandò ingenua quella, scatenando un ennesimo sorriso nell’uomo.
“Un Pokédollaro e cinquanta cent…”.
“Ma è più di quanto ho io!”.
“Perché non vai dalla tua mamma a chiedere il resto?”.
Terrie sbuffò. “Non mi darà mai altri…” prese a contare con le dita. “… sessantadue centesimi…”.
“Sessantatré” rettificò l’altro.
“Oh. Mi scusi. È che ai miei genitori non piace che io giochi coi Pokémon ma l’altro giorno ne ho incontrato uno nel deserto e ho paura che possa farsi del male…”.
Eddie addolcì lo sguardo.
“Siamo diventati amici, e vorrei stare assieme a lui per tutto il tempo”.
“Che Pokémon è?” domandò quindi l’uomo.
“Si chiama Geo… Geodu… de. Geodude. L’ho letto in un libro del mio papà, qualche giorno fa. Ho dovuto cercarlo nell’intera enciclopedia”.
“Ci avrai messo tempo”.
Terrie annuì, vedendo poi il mercante allungare le mani verso una sfera dalla calotta grigia decorata con semisfere azzurre. La pose poi tra le mani della ragazzina e la guardò negli espressivissimi occhi color nocciola, spalancati per via della sorpresa.
Erano grati.
“Tieni, piccola”.
“Ma le devo dare ancora sessantatré centesimi!”.
“Questa te la regalo io. Cattura il tuo Geodude e proteggilo, così lui farà altrettanto per te”.
 
La bambina sorrise, pose i soldini nella tasca dell’infeltrita giacca rosa e strinse la sfera, correndo con garbo fino a quando le sue scarpine nere con gli occhielli non affondarono nella sabbia.
Quel giorno catturò il suo Pokémon e lo nascose abilmente.
Quella notte rimise i soldi al suo posto.
Riuscì a tenere nascosto Geodude per qualche settimana, prima che sua madre lo scoprisse. Suo padre sbottò ma alla fine le permisero di tenere quello che alla fine diventò un potentissimo Golem.
 
“Forza, Randall” disse Terrie, in volo sul suo Gliscor.  La sfera che aveva tra le mani rilasciò il possente Golem, appallottolato nel suo guscio, che cadeva pesante sulla schiera di balordi con la mimetica bianca e grigia. Avrebbe dovuto usare Rotolamento, ma quei due si conoscevano da così tanto tempo che la loro sintonia era praticamente perfetta, rendendo gli ordini del tutto superflui.
Dal basso poi, non videro nient’altro che una sfera scura avvicinarsi come un proiettile.
Atterrò su due uomini, uccidendoli sul colpo.
Terrie lasciò lì Golem, avanzando rapida verso Aaron e Driblim, quando qualcosa saltò ai suoi occhi: in mezzo a quelle persone, a quei manigoldi, c’era Gardenia.
Spalancò gli occhi, col cuore che batté potente nel petto.
“Scendiamo…” disse poi, alterando il tono di voce in modo da non riuscire a celare la crescente preoccupazione. “Acrobazia” sussurrò poi, vedendo il proprio Pokémon cominciare a roteare vorticosamente, eseguendo piroette perfette e colpendo altri due avversari, mettendoli fuori combattimento.
Terrie stringeva Gliscor al collo. Lo nascondeva bene, ma aveva paura di volare.
L’aria non era il suo elemento.
“Gardenia!” urlò la donna, riprendendo quota. Vide la Capopalestra di Ebanopoli colpita da un forte ceffone sul volto.
Ricadde nella neve.
“Scendiamo!” ordinò poi Terrie al suo Pokémon. “E usiamo di nuovo Acrobazia!”.
Detto fatto, il vento sul volto della Superquattro era diventato un tormento, pareva strapparle le carni dalle guance, impietosamente.
Colpì altri avversari, Gliscor, per poi frapporsi tra Gardenia e l’uomo che la stava malmenando.
“Fermatevi! State picchiando una donna!”.
 
“Luciano! Luciano, Terrie è scesa per terra!”.
La voce di Aaron risuonò metallica all’interno della trasmittente. Gli occhi dell’uomo con gli occhiali si spalancarono, al pari di quelli di Vulcano.
“Che cosa diamine stai dicendo?!” urlò quest’ultimo, indietreggiando di qualche passo. Cercò sicurezza nello sguardo di Luciano e attese la risposta.
“È a terra! Ed è con… con Gardenia!” ribatté l’altro.
I due si guardarono ancora.
“Com’è possibile?! Camilla non ci ha comunicato nulla riguardo l’assenza di Gardenia! Anzi!” continuò quello dai capelli rossi.
“Sta lottando!” riprese Aaron.
"Ma è da sola! Luciano, devo andare!".
L'uomo dai capelli viola si voltò verso di lui, rapido. "Non fare cazzate!".
"Dobbiamo recuperare Terrie!" urlò Vulcano, avvicinandosi precipitosamente all'altro. "Non possiamo lasciarla lì! Rischia di morire!".
"Dobbiamo difendere lo Snowflake" rispose subito Luciano, con aplomb.
"Terrie morirà!".
Luciano allungò lo sguardo oltre il ciuffo riccio dell'uomo che aveva di fronte e cercò di mettere a fuoco la scena.
Ma nulla.
Non vedeva.
Pochi secondi dopo Vulcano non c'era più; correva a perdifiato nella prateria innevata.
 
"Perché vi comportate in questo modo?!" urlava Terrie, visibilmente contrariata. Alle sue spalle c'era Gardenia, ancora stesa nella neve, con la guancia rossa e un rivoletto di sangue che le usciva dalla bocca.
Uno di quelli, il più grosso, la spintonò, facendola cadere accanto alla più giovane, cominciando poi a ridere.
"Vecchia di merda... levati dai coglioni".
E a vederla, così piccola e fragile in mezzo alla neve, quasi faceva specie pensare che la potenza e l’allenamento di quella, nel corso degli anni, avrebbe potuto portarla a essere nell’Elite della Lega Pokémon.
“Randall!” esclamò, con quella voce soffice ma stizzita, denotando la solita ma quantomeno fuori luogo educazione.
Ci vollero pochi secondi e il suo Golem rotolò fino al suo fianco, tra la neve e il sangue, colpendo anche quello sgherro. Lui fu colpito alla spalla e ricadde dolorante sul manto candido e congelato.
“Bravo, amico mio” sorrise dolcemente l’anziana signora. Si voltò per un minuto, vedendo il volto di Gardenia emaciato e impaurito.
Avrebbe voluto dirle che certe cose erano più grandi di loro; che spesso, anche credendo di fare del bene, c’è chi crede di fare del male con più intensità.
Avrebbe voluto dirle che era giovane, e quella battaglia era giusto che la combattesse al suo fianco, com’era altrettanto giusto che fuggisse e pensasse a coltivare la propria vita.
Ma non poteva.
Erano responsabilità di cui doveva farsi carico.
“Perché sei qui fuori?” domandò, facendo attenzione a quelli che aveva di fronte.
“Dovevo aiutare Marzia. Non potevo rischiare che qualcuno facesse del male alla mia migliore amica…”.
Gli occhi color nocciola di quella sembravano fari nella notte buia, in quel campo innevato. I capelli erano spettinati, il labbro inferiore continuava a perdere sangue e il sole di quel mattino non spingeva con la giusta insistenza per uscire dalla coltre di nuvole nere.
“Hai fatto una sciocchezza”.
“Lo so…” annuì quella, rimettendosi lentamente in piedi. “Ma ne usciremo… Noi siamo i buoni. Noi ne usciamo sempre”.
 
“Camilla, qui Luciano”.
La Campionessa si voltò rapida verso Marisio. Sentire la voce del Superquattro la preoccupava.
Nutriva grande rispetto per il più forte tra i Superquattro. Lo reputava un tipo assai quadrato, mentalmente. Schematico.
Era un genio tattico, quello. Una di quelle persone che aveva sempre tutto sotto controllo e che, nel momento del bisogno, riusciva a cacciare sempre un asso dalla manica.
Un vero top player.
Ecco perché quando lui la contattava lei si preoccupava. Si chiedeva: perché Luciano, l’abilissimo Luciano ha bisogno di me?
La sua voce era intrisa di preoccupazione.
“Che succede?” domandò la Campionessa.
“L’avvicinamento del Drifblim coi Capipalestra rimanenti sta risultando più difficile del previsto… Aaron serviva da rinforzo eventuale, perché l’avvicinamento sarebbe dovuto essere veloce ma…”.
“Ma quei tre volano su di una dannatissima mongolfiera!” esclamò quella, sbuffando poi.
“Hanno intercettato Aaron… Io sono rimasto qui, erigendo la barriera psichica di difesa, e il piano prevedeva che Terrie e Vulcano attaccassero a distanza dall’alto. Questo avrebbe permesso l’arrivo più agevole dei rinforzi ma…”.
“Hanno intercettato Aaron…” ripeté la Campionessa, sospirando.
“Un gruppo si è staccato e ha cominciato ad attaccarlo. E Terrie ha deciso di volergli andare a dare manforte…”.
Camilla guardò ancora Marisio e fece cenno di no con la testa.
“Non dovrebbero esserci problemi… Sono due Superquattro, tra gli Allenatori più forti che conosco…”.
“Sì, ma Terrie è scesa per terra” rispose Luciano.
Due secondi di silenzio.
“Come?! Perché mai?!”.
L’uomo prese un attimo di pausa per riempire i polmoni.
“In qualche modo si è accorta che per terra c’era Gardenia, attaccata da quegli uomini, e si è precipitata da lei. E a sua volta anche Vulcano si è gettato nella mischia. Ora sono solo, sul tetto, ma sono vulnerabile”.
Camilla spalancò gli occhi; il cuore prese a batterle con forza tremenda, incontrando ancora lo sguardo di Marisio ancor più sorpreso.
“Luciano…”.
“Camilla, il primo scudo che ho posto è caduto”.
“Gardenia è qui con noi” fece, voltandosi e fissandola. Lo sguardo impaurito della Capopalestra di Evopoli era emblematico.
“Terrie deve andare via di lì!” esclamò la Campionessa.
 
Vulcano sfidava la tempesta.
Stringeva le corna del suo Houndoom, che fendeva l’aria del mattino con la stessa grinta che provava il suo Allenatore. Correva, il Pokémon, tenendosi alla larga dal gruppo di bastardi che stavano attaccando Terrie e Aaron.
E i Superquattro erano la sua famiglia; nessuno doveva toccarli.
Tra neve e sudore, i suoi capelli s’appiattirono.
Li vedeva, a distanza: quegli uomini stavano lottando contro Aaron e la sua Vespiquen, mentre un folto nugolo di loro colleghi era per terra, fronteggiando il Golem di Terrie.
Più indietro vi era Gardenia.
La radio urlava nelle interferenze, era sicuramente Luciano che lo richiamava indietro.
Ma se lo ripeteva costantemente: Terrie e Aaron erano la sua famiglia.
“Più forte, Bosko! Dobbiamo raggiungerle!” urlava al suo Houndoom. Che poi si chiedeva cosa diamine ci facesse lì Gardenia.
Il suo Pokémon era rapido, e raggiunse gli schieramenti avversari in pochissimo tempo.
Nottesferza!” ordinò, vedendo Bosko gettare contro uomini e Pokémon fendenti d’energia nera. “Entra! Lanciafiamme!”.
Riuscì ad aprirsi un varco nelle file avversarie, penetrando come una lama incandescente nella neve.
 
“Vulcano sta arrivando!” aveva esclamato Gardenia, quell’altra, guardando Terrie.
“Sì” sorrise lei. “Golem, Terremoto!”.
Gardenia indietreggiò impaurita, lentamente, vedendo la terra sotto i piedi della pattuglia in bianco spalancarsi.
 
“Che colpo fenomenale!” sorrise Vulcano, virando verso destra per schivare gli attacchi avversari.
 
“Ce la faremo” sorrise ancora Terrie. “Tranquilla, Gardenia”.
Allontanò di poco gli avversari, la Superquattro, recuperando le energie per voltarsi e assicurarsi che la più giovane non avesse bisogno di qualcosa.
E lo fece.
Ma fu proprio nel momento in cui i suoi occhi castani incontrarono quelli di Gardenia che una lama, tanto infida quanto sottile, penetrò la bocca dello stomaco.
E la lama era attaccata al coltello che proprio Gardenia aveva in mano.
Il sangue era bollente, colava dalla gola dell’anziana donna sulle mani di quella che, pochi minuti dopo, smontò dal proprio viso la maschera della Capopalestra di Evopoli.
Una lacrima scese lenta sulla guancia rugosa di Terrie, che ancora non si capacitava di ciò che era accaduto.
Maxus guardava con occhi spiritati la propria vittima, ritirando il coltello e affondandolo nuovamente nel cuore della donna.
“Muori…” sussurrò poi, con un sorriso divertito sul volto.
Il corpo di Terrie ricadde esanime nella neve, sporcandola di rosso.
E Vulcano era rimasto immobile, a guardare la scena.
“Figlio di puttana!”.

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