Just... Stay di Manto (/viewuser.php?uid=541466)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ascolta il Mondo ***
Capitolo 2: *** Rispetta la Paura ***
Capitolo 3: *** Libera la Luce ***
Capitolo 1 *** Ascolta il Mondo ***
DISCLAIMER
All’infuori
degli OC Amaya e Umiko, i personaggi qui presentati non mi
appartengono (purtroppo).
Questa
storia è stata scritta senza alcun scopo di lucro.
{
Partecipante
al contest ‘Like
an Hero – Eroe per un giorno’ indetto
da Emanuela.Emy79 sul forum di Efp
}
Just…
Stay
{
I ~ Ascolta il Mondo }
La
Città K non sarebbe stata nulla senza la sua verde corona di
foreste: era la perfetta armonia dell’ingegno umano con la
potenza
naturale, il luogo dove in più punti i pilastri dei palazzi
si
univano alle colonne arboree come in una pacifica metamorfosi; a
significare che, se lo si voleva, era davvero possibile una soluzione
che unisse le esigenze più moderne agli arcani e continui
richiami
della Madre Terra.
Sì,
perché quest’ultima chiamava, gridava, a volte
cantava; e se si
sapeva riconoscere la sua voce, si poteva comprendere da essa cose
che nessuno avrebbe mai sospettato: allarmi, ammonizioni… a
volte,
anche il futuro che il suo grembo oscuro custodiva, pronto a
esplodere e a rovesciare certezze e giorni già scritti.
Come
successe quel mattino.
… Quel
mattino l’aria era pesante, rigonfia di un fastidioso sentore
d’umidità e intrisa di così profondo
silenzio da dare l’idea di
trovarsi in un sogno; il cielo era sereno, ma era comunque ben
udibile il rombo di una tempesta in avvicinamento.
È
come se la Terra provasse sbigottimento. Così
Umiko definì la sensazione che provò sulla pelle
appena si fu
lasciata le stanze della propria abitazione alle spalle e
trovò solo
il cielo a coprirla; il chiarore malato del Sole la costrinse ad
abbassare immediatamente il capo, spingendola poi a rabbrividire per
il freddo.
«Ma
che razza di giornata è?», mormorò,
prima di stringersi
maggiormente nel golfino – siamo
in piena primavera, e fino a ieri si stava così
bene… perché oggi
si congela? –
e lasciare il vialetto di casa, per scendere in strada e raggiungere
al più presto la vicina fermata dell’autobus.
La
faccenda si prospettava peggiore rispetto a quello che aveva creduto
osservando l’orizzonte da sotto le coperte; e se dopo poche
ore non
avesse avuto quell’odioso esame per cui studiava da mesi, si
poteva
stare ben certi che avrebbe voltato i piedi nel tempo di un respiro e
si sarebbe rinchiusa nuovamente in casa, lontana dalla confusione che
percepiva in ogni cosa la circondasse.
Tuttavia,
la vista delle tante persone nella sua identica situazione le
alleviò un po’ la fatica che quell’anomala
giornata le aveva
posato sulle spalle. Forza…
è solo la tensione. Oggi pomeriggio sarà tutto
passato, in un modo
o nell’altro,
si
incoraggiò mentre raggiungeva il suo obiettivo, strofinando
le gambe
l’una contro l’altra e finendo per inveire contro
ogni cosa ed
essere esistente – pure sé stessa – per
aver indossato una gonna
in un giorno come quello.
E
a quel punto, come se non avessero fatto altro che aspettare
l’istante adatto, nella sua mente si delinearono un volto
noto e un
vecchio ricordo.
Ma
insomma, Umiko! Dove stai andando, a un appuntamento? Si
vede che non sono più lì con te, sei diventata
ancora più sbadata!
…
Non
dire sciocchezze, sbadata lo sono sempre stata! E poi tu sei sempre
con me, perché ora mi dici così?
Il
rumore dell’autobus
in avvicinamento la distolse immediatamente da ogni pensiero,
spingendola a scrutare le foreste poco distanti e la nebbia –
ma
quando è sorta?
– che gradualmente invadeva la strada. «Giornata
strana… già», sussurrò dopo
alcuni attimi di stasi, non senza
sentire un’ombra di attesa nella propria voce –
quasi le sue
stesse parole avessero dato inizio a qualcosa di nuovo.
Quell’ennesima
scossa sulla pelle non svanì neppure quando il cuore della
città
iniziò a sostituire la periferia; e se non fosse stato per i
messaggi
che improvvisamente iniziarono a bombardarle lo schermo del telefono,
di sicuro le strade che si snodavano intorno come serpenti impazziti,
i palazzi sempre
più
alti e i volti indistinguibili gli uni dagli altri, non avrebbero
fatto altro che aumentare il suo disagio.
“Ripensandoci,
forse saresti dovuta venire con noi. Stai studiando da tantissimo
tempo e non ti sei ancora presa una pausa. Lì in
città com’è il
tempo? Qui si sta bene. Mi manchi.”
“Come,
in piedi a quest’ora? Comunque, qui non è molto
bello… è
nuvoloso, e non ho nemmeno visto l’alba. E per
l’esame… ci
proviamo: chissà di farcela.”
“Anche
se non sono lì con te sento che sei agitata, e non mi piace.
È
successo qualcosa? Sai
che mamma ti veglia anche da qui.”
“Solo
stanchezza, che passerà appena questa giornata
sarà conclusa. Lo
so, ti sento sempre e non vedo l’ora di rivedere te e
papà. Vi
voglio bene.”
“Dovresti
tornatene a casa. Non puoi affrontare una prova del genere con tale
ansia.”
“Troppo
tardi; ormai sono qui, a pochi passi dall’inevitabile.
In qualche modo ce la farò.”
“Sei
la solita testarda…
ma d’altronde,
con la madre che hai non poteva che essere così. Testarda, e
sempre
con la testa tra le nuvole.”
Lo
diceva anche lui.
Umiko strinse i denti e artigliò un angolo
dell’inseparabile
borsa, per poi sospirare.
“Mamma…
ascolta, stamattina mi è ritornata in mente una persona, e”
Alzò
la testa di scatto e quasi lasciò cadere il cellulare a
terra, il
cuore che aveva iniziato a battere furiosamente appena quel
suono l’aveva raggiunta.
In
quel preciso momento tutto – voci, persone, mezzi –
si fermò,
lasciando che fosse solo il tamburo della Paura a scandire il ritmo
della realtà.
«Annuncio
d’emergenza da parte dell’Associazione Eroi: alcuni
Esseri
Misteriosi sono apparsi nel centro della Città K.
I
residenti sono pregati…»
Gli
occhi della giovane fissarono il caos esplodere senza realmente
vederlo: si posarono sulle figure lanciate in fuga, fantasmi e ombre
che non riuscivano ad afferrare, perché il cervello non era
in grado
o voleva rispondere agli impulsi che il corpo mandava. Nonostante i
rumori si aggrovigliassero intorno a lei, insieme alle urla e al
continuo gracchiare delle sirene d’allarme, una cappa di
immobilità
l’aveva avvolta, soffocandola nei suoi stessi tremiti e
impedendole
di avanzare anche solo di un passo; tale era il terrore, la
sensazione di essere
sola.
Tutto
ciò fu questione di attimi, perché
improvvisamente una mano
sconosciuta l’afferrò per un braccio e la
trascinò fuori
dall’autobus ormai deserto, lasciandola poi a respirare a
fatica
nella folla che abbandonava piazze e vie per disperdersi in ogni
dove. Stai
calma. Stai calma o la situazione diverrà peggiore,
fu la prima cosa che la ragazza riuscì a pensare appena uno
spiraglio di lucidità ritornò a lambirle la mente
e tutte le membra
vennero scosse da pungoli d’adrenalina, e
prima di tutto via da qui!
Mettendo
al sicuro il cellulare ancora incastrato tra le dita, iniziò
a
correre anche lei alla cieca, cercando al medesimo tempo di formulare
un piano.
Ritornare
a casa? Sono troppo lontana, e credo che nessun edificio possa essere
realmente sicuro… no, devo trovare un’altra
soluzione.
Una
serie di boati alle sue spalle le fece accelerare il ritmo della
corsa, trasformando le sue gambe in un pulsare di disperazione.
Quando
si lanciò un’occhiata indietro, vide persone con
la sua stessa
espressione, e polvere… polvere dove si agitavano enormi
ombre
nere, che non la spinsero a urlare solamente perché il
respiro le si
era mozzato.
Dai
dai, pensa!,
ricominciò a inveire allora la voce della
razionalità, mentre il
caos si intensificava, che
cosa potrebbe essere sicuro?
Uno
scantinato? No…
no no no! Ci dovrà pur essere qualcosa, maledizione!
Non
sapeva nemmeno dove stesse andando: riusciva a comprendere ben poco,
gli occhi che lacrimavano di sofferenza e terrore frantumando le
immagini in figure tremolanti e guizzi di luce abbagliante, mentre
solo l’istinto di sopravvivenza le impediva di rovinare a
terra e
divenire vittima di una morte atroce. Ma
per quanto avrebbe resistito?
La
domanda sembrò trovare una soluzione quando si
ritrovò circondata
dagli alberi del Nature Park [1], e qui le gambe smisero di sostenere
il suo impeto facendola cadere. Echi di distruzione si confusero con
il suo respiro, continuando a raggiungerla anche quando si premette
le mani sulle orecchie fino a sentire le dita tremare.
«Nuovo
annuncio da parte dell’Associazione Eroi: alcuni eroi sono
già
giunti sul posto e hanno ingaggiato battaglia con i mostri. Si
pregano i residenti di non avvicinarsi per alcun motivo al luogo
degli scontri.
Il
livello di calamità stimato è Tigre.»
«Forse…
forse per adesso sono al sicuro», sussurrò la
giovane dopo
qualche istante, sentendo gli altoparlanti ululare per
l’ennesima
volta e rendendosi conto di essere rimasta rannicchiata per
più di
dieci minuti. Sciolse
la posizione e si rimise in piedi, barcollando per alcuni secondi
prima di riprendere equilibrio e avanzare nella rigogliosa
vegetazione del parco. Il canto dei piccoli ruscelli che lo
attraversavano la guidarono verso il suo cuore arboreo, lungo il
sentiero principale e sui ponti di legno che solcavano i corsi
d’acqua. «Magari
da qui potrei anche raggiungere le foreste…
chissà se c’è un
modo», si chiese, guardandosi intorno con quanta
più attenzione
possibile.
E
fu così che il suo sguardo incontrò la lunga
chioma miele di una
donna, appoggiata alla balaustra di uno di quei ponti ma
così
protesa verso il vuoto da sembrare sul punto di spiccare il volo, e
gli occhi di chi da tempo combatte una battaglia con sé
stesso.
◊♦◊
A
volte il Futuro lo sentirai nel cuore.
Ti
sveglierai un mattino, e saprai di essere diventata madre, che
quell’amico a te tanto caro ritornerà in
città, o che quelle
saranno le ultime ore della tua esistenza. Ciò che per noi
è più
importante, questo ce lo suggerisce la nostra anima: momenti che solo
tu dovrai conoscere, parole che nessun altro potrà
comprendere.
E
con tutti i giorni di nebbia e pioggia che si erano susseguiti sui
tetti della città, il suo momento era giunto proprio in una
giornata
soleggiata. Buffo…
sì, tremendamente, maledettamente buffo; un altro
scherno che si imprimeva sulla pelle e feriva maggiormente la carne
già martoriata.
Al
male segue il peggio; al peggio segue ciò che non vuoi
prevedere.
Questa
ruota non si fermerà perché tu
l’implorerai; la Vita esige sempre
qualcosa di più che semplici parole.
La
prima cosa che Amaya aveva lasciato cadere tra le onde del piccolo
torrente era stata la sua amata sciarpa. L’aveva fissata
mentre
veniva inghiottita dalle acque fino a scomparire sul fondo ed essere
trascinata lontano come un sogno dimenticato, e non aveva versato
nemmeno una lacrima, nonostante quello fosse stato l’ultimo
regalo
che i suoi genitori le avessero fatto; in tal modo aveva avuto la
prova definitiva che le residue tracce di umanità
l’avessero ormai
abbandonata, che fosse arrivato il momento di salutare per sempre il
mondo e lasciare il futuro agli altri.
Una
macchina guasta non ha alcun motivo per continuare a sbuffare e
riversare intorno il suo fumo malato, anche il silenzio la disprezza;
in quei momenti è più decoroso spegnersi per
sempre e non
appesantire più la tristezza propria e altrui – già,
come se ti fosse rimasto qualcuno da rattristare. Ti stanno tutti
aspettando oltre la barriera del tuo corpo; e ti serve ancora un
passo, Amaya, un solo passo per iniziare a volare.
In
quei medesimi istanti il vento che le scompigliava gentilmente i
capelli trascinava echi di grida e implorazioni da ogni dove;
tuttavia, i rumori si infrangevano contro la sua persona senza
toccarla più di qualche attimo.
Tutta
la Città K sembrava sul punto di precipitare con lei; ma
anche
quello non aveva molta importanza. Il suo mondo si era infranto al
suolo già da tempo, e lei era rimasta a fissarne i cocci
tremolanti
– e a ferirsi con essi – da sola.
«Hey…
hey! Che cosa sta facendo?»
Non
è giusto: dovevo essere io ad andarmene. Loro sarebbero
riusciti a
rialzarsi… io, come è ormai chiaro, no.
«Perché
è immobile?»
Ci
sono tante cose di cui parlare, una volta insieme… tante
confessioni e rivelazioni, come di quella volta che…
«NON
LO FACCIA!»
La
donna ebbe un singulto involontario e saltò indietro; perse
l’equilibro e scivolò dalla balaustra ricadendo
sul ponte,
salvandosi così da un salto vertiginoso che non le avrebbe
concesso
scampo. «Che
cosa diavolo…»
Appena
le sue mani riuscirono a fare abbastanza presa sul legno da
permetterle di trovare un equilibrio, alzò il volto. Gli
occhi
cerulei inchiodarono quelli spalancati di una giovane dai lunghi
ricci ebano – l’ho
intravista qualche minuto fa; perché è ancora qui?
–, e si strinsero vedendo con quanta fretta questa le si
stava
avvicinando.
«Che
cosa pensava di fare?», quasi urlò la sconosciuta
quando le fu a
pochi passi, «poteva cadere!»
«E
a te che importa?», rispose acida Amaya rimettendosi in
piedi,
ignorando volutamente la mano tesa della ragazza. «Da quando
uno
deve dare spiegazioni di quello che fa? E perché hai gridato
così
forte, eh?»
«Ho
urlato perché temevo di vederla precipitare. Sembrava
bisognosa di
aiuto.»
«Beh,
non è così!» Non
ho mai avuto aiuti da nessuno, io.
L’altra
indietreggiò di un passo, colpita e resa cauta da quel tono
tagliente. In quello stesso istante i suoni della distruzione si
fecero più vicini.
«Evacuazione
d’emergenza: il livello di calamità è
salito da Tigre a Demone. I
residenti sono invitati ad abbandonare la città.
Ripeto:
i residenti sono invitati ad abbandonare la città.»
«I
mostri…», sussurrò la giovane, e a
quelle parole Amaya stirò la
bocca in una smorfia. «Che cosa credevi, che ci lasciassero
tutto il
tempo di scappare? Inizia a correre, che con quelle gambe corte che
ti ritrovi figuriamoci quanto andrai veloce.»
Nonostante
si fosse già voltata, la donna comprese che l’altra
fosse arrossita, e quasi
si morse la lingua. È
colpa sua; se mi avesse lasciato in pace…
«Ha
ragione: avrei dovuto essere già lontana da qui. Ma anche
lei
dovrebbe scappare, prima che la raggiungano.»
La
donna rimase stupita più dalla calma della risposta che
dalle
parole. Respirò forte, prima di rivolgere
l’attenzione al torrente
sotto di lei. «Metti in salvo le tue di chiappe, so badare a
me
stessa.» Io,
ormai, non posso mutare più la mia sorte.
Il
mondo sta attendendo di vedermi cadere.
Forse
fu lei stessa a evocarlo; ma in quel momento il ponte iniziò
a
tremare, scosso da forze sempre più intense. Tutto intorno
esplosero
scricchiolii di alberi abbattuti e strutture collassate, urla, gridi
inumani così raccapriccianti da ghiacciarle il sangue nelle
vene; ma
in tutto questo, una mano afferrò la sua e la strinse con
forza,
impedendole di cadere di nuovo.
«Corri
con me.»
Amaya
fissò per alcuni attimi il volto della ragazza, e non
riuscì a
rispondere perché quest’ultima la stava
già trascinando via,
verso una possibile via di salvezza.
Tuttavia,
un buio profondo e inarrestabile circondò entrambe nel tempo
di un
pensiero; e lei riuscì a fissare solamente il mondo
rovesciarsi,
prima di essere completamente divorata da
quell’oscurità. È
questo morire, vero? Non c’è sofferenza, non
c’è più nulla.
Posso piangere, ora?
Lenta,
dolce come un bacio, la luce iniziò a penetrare sotto le
palpebre
della donna, illuminandole le lunghe ciglia e rapendola a poco a poco
dal rifugio d’oblio in cui era stata adagiata. «Ancora
un istante. Voglio quella pace, sono così
stanca…», balbettò,
per poi spalancare gli occhi di colpo. Sbatté le palpebre un
paio di
volte, prima di riconoscere che era ancora sul ponte, quindi
balzò a
sedere; a quel punto, un forte dolore alla parte posteriore del capo
le diede un capogiro, facendola ricadere di lato.
«Maledizione…
che male, che male!», mugugnò diminuendo il ritmo
dei respiri, per
calmarsi. Era ridisceso un silenzio pesante sull’ambiente: e
così
come quando l’aria si gonfiava di grida, non era un buon
segno.
Uno,
due, tre. Con
uno sforzo, si voltò sulla pancia e si appoggiò
sui gomiti. Il
dolore alla testa si fece ancora più intenso, ma prima di
lasciarsi
scivolare nuovamente contro il suolo riuscì a lanciare una
lunga
occhiata intorno. La
città è invasa dal fumo, e anche il parco
è devastato, come se
fosse giunto un terremoto.
Quanto
tempo sono rimasta incosciente? E gli Esseri sono già stati
uccisi,
o…?
«Devo
farcela. Devo… alzarmi…»,
sussurrò per non darsi il tempo di
pensare alla peggiore fra le risposte, quindi si girò. A
qualche
distanza la sconosciuta giaceva a terra come lei, immobile; ma una
serie di mugolii di dolore l’abbandonava.
Almeno
è viva.
«Te l’avevo detto che non saresti andata
veloce», sospirò, per
poi trascinarsi verso la sua figura. «Lasciatemi stare, vi
prego…»,
la sentì soffiare da sotto le braccia strette sul volto,
appena le
fu vicino.
«Sono
la donna di prima, non ti spaventare. Che cosa ti fa male?»
«Il
polso destro… ci sono caduta sopra.»
«Muovilo.
Lentamente.»
Guardò
con attenzione la ragazza sciogliere la posizione e fare come le era
stato detto; un urlo soffocato elettrizzò l’aria. «Maledizione.»
«Calmati.
Lo muovi bene, quindi non è rotto… certo hai
preso un brutto
colpo, e per qualche giorno rimarrà gonfio, ma considerati
fortunata.» Aspetta,
e quelle?
«La
città… cos’è
accaduto?»
Amaya
non sentì immediatamente la domanda, perché il
suo sguardo era
concentrato sulle mani della sconosciuta. Cicatrici
da ustione. Appena qualche piega sulla superficie, ma ben
visibile…
questo non è il risultato di una semplice scottatura. Voltò
il capo e guardò la giovane fissare i lampi rossastri delle
fiamme
che si alternavano con gli alberi, mentre le colonne nere che si
levavano tutt’intorno a loro divenivano sempre più
numerose;
quindi si voltò dalla parte opposta e si mise in piedi,
barcollando
per qualche istante prima di trovare il suo equilibrio. «Spero
che tu riesca a camminare, perché dobbiamo andarcene da qui
in
fretta.»
«Gli
abitanti…»
«Non
ci pensare. Ora dobbiamo stare attente a evitare il fuoco.»
«Oh,
credimi… non è delle fiamme che ti devi
preoccupare.»
Amaya
rimase immobile; anche il turbinio dei suoi innumerevoli pensieri si
dissolse, mentre brividi gelidi presero a scivolare lungo la sua
schiena e le gambe iniziarono a cedere. Non
si voltò neppure, ma lasciò che fosse l’altra
a venire da lei. «Che cosa
sei? E cosa vuoi?» mormorò appena la
sentì a qualche passo dal
collo, senza nascondere il suo terrore.
«Tutto
ciò che ti appartiene; semplicemente tutto.»
Una
presa d’acciaio le afferrò entrambe le braccia
costringendola ad
alzare il viso; e fu impossibile non tremare davanti agli occhi
purpurei come sangue, privi di pupilla, che la dominavano con
compiacimento e scherno.
«Perché
hai così paura? Finirà prima di quanto tu
creda.»
La
donna deglutì, il respiro che veniva a mancare mano a mano
che le
unghie dell’Essere Misterioso penetravano nel collo.
«Quindi tu
non sei mai stata umana…»
«Umana?
Forse quella di cui ho preso le sembianze, di certo non io.
Pensa,
non ha opposto resistenza nemmeno quando le ho infilato i denti nella
carne… doveva essere proprio debole.»
«Maledetta.»
«Hai
detto qualcosa?»
Probabilmente
si era assopita anche la sua razionalità; perché
quando il mostro
abbassò il volto sul suo, fu così lesta a
morderle il labbro
inferiore, fino a spezzarglielo, da sorprendere pure sé
stessa.
Per
lo stupore l’Essere perse la presa sulle sue braccia, e lei
agì di
conseguenza; il pugno che sferrò non era molto forte, ma
andò
comunque a segno sul naso dell’altro.
«Uh…
quanta rabbia!», ghignò questi, lasciandola e
indietreggiando di
qualche passo; di certo non per paura, ma per metterla alla prova. La
sicurezza di averla completamente nelle proprie mani era impressa nei
tratti stravolti dall’euforia, non c’era spazio per
i dubbi. «Che
cosa succede? Ti dispiace per la mocciosa?»
Già,
rabbia. Da quanto tempo non la sentivo pulsare nelle vene e
infiammare il respiro? Mi fa sentire così viva e pronta a
tutto.
«Forse…
oppure, semplicemente, mi disgusta troppo morire a causa
tua»,
mormorò Amaya. Il sangue colava dai graffi solleticandole la
pelle e
macchiandole gli abiti, il pulsare al capo era diventato quasi
insopportabile; eppure le sue orecchie continuavano a fischiare del
ritmo che l’adrenalina le dettava, le mani prudevano mentre
tutte
le sensazioni tacitate da lungo tempo battevano contro le dita per
sfogarsi.
L’avversario
sorrise nel vedere la sua espressione concentrata, mettendo in mostra
una chiostra di denti acuminati e sporchi di vermiglio.
«Combattiamo!
Forza, mostrami cosa sai fare», sibilò, piegandosi
sulle gambe e
preparandosi a scattare.
Sii
forte. «Con
piacere.»
NOTE
[1]
Il Nature Park è mostrato nell’episodio
speciale intitolato “Sense”,
presente nel volume 10 del manga.
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Capitolo 2 *** Rispetta la Paura ***
{
II ~ Rispetta la Paura }
«La
Morte ti ha segnata da tempo. Quelle cicatrici sulle mani non sono
nulla in confronto alle ferite che ti insanguinano
l’anima.»
Umiko
non sarebbe mai riuscita a dire se avessero bruciato più
quelle
parole o i morsi che il mostro le aveva inflitto; ma quando aveva
sentito le zanne dell’Essere
violare la protezione della pelle e privarla lentamente del sangue,
aveva percepito i suoi ricordi venire risucchiati insieme a esso; e
quello aveva fatto davvero
male.
In
pochi istanti quella razza di demone era entrato nella mente,
leggendo e apprendendo il suo passato, le sue sensazioni; e mai si
era sentita così esposta e vulnerabile, con la propria
dignità che
veniva lacerata come la sua carne, come nel momento in cui lo aveva
visto sorridere di soddisfazione. «Interessante…
ti sei salvata da un attacco solo per subirne un altro qualche anno
dopo. Come siete fragili, voi umani, divertenti e miseri.»
Gli
artigli del mostro si erano stretti intorno alle sue spalle e
l’avevano
alzata di peso, costringendola a guardare la città
martoriata per un
lungo, atroce istante; e quando l’aveva fatta cadere al
suolo, la
ragazza si era ritrovata a fissare il suo riflesso più
perfetto
prendere forma e ghignarle contro con sguardo ferino. «Ora
sei
totalmente mia», le aveva sibilato questi, «e non
mi servi più. Ma
non ti preoccupare; farò buon uso di questo
corpo… tuttavia,
fattelo dire:
sarebbe
stato meglio se quel fuoco avesse ucciso anche te, e pure tu lo
sai.»
Aveva
compreso fin dal primo istante quanto non potesse competere con la
forza dell’altro; ma la sensazione di umiliazione che
l’aveva
colpita alla bocca dello stomaco era stata così intensa da
impedirle
di perdere i sensi perfino quando il mostro l’aveva calciata
via e
mandata a rotolare giù dal ponte, lungo un ripido sentiero
che
conduceva direttamente al torrente sottostante. Tutte
le membra erano state percorse da scariche di dolore mentre
sbattevano e si graffiavano contro le pietre, tuttavia la coscienza
non si era affievolita nemmeno in quel frangente, così che
la mora
non aveva potuto far altro che rimanere distesa nel punto in cui si
era fermata e sentire gli arti perdere sensibilità nel fiato
gelido
di quella giornata.
Da
quegli istanti i suoni si erano fatti più attutiti; il caos
aveva
smesso di scuoterla ed era giunto con la forma di sussurri ed echi
che non era riuscita ad afferrare completamente, mentre
l’intorpidimento
aveva iniziato ad accompagnarla in un dormiveglia che solo un agente
esterno alla sua volontà avrebbe potuto spezzare. Nemmeno il
bruciore delle ferite, infatti, l’avrebbe tenuta sveglia
ancora per
molto; e i pensieri…
quelli sarebbero andati per la loro strada, senza toglierle molte
più
forze del solito. In qualche modo li avrebbe gestiti.
Solo
il freddo vorrei evitare. Se provassi un po’ di tepore forse
potrei
immaginare di essere nelle braccia di qualcuno, e andarmene con la
consolazione di essere vegliata.
Non
è bello addormentarsi in solitudine, non è giusto
andarsene senza
poter salutare nessuno. Tutto questo… no, non è
giusto.
«Siamo
sicuri che sia passato di qui?»
«Le
tracce conducono a questo punto, ma ora l’aura malefica
è molto
più debole.»
«Che
sia stato ferito?»
«Può
anche essere che sia già stato ucciso, ma restiamo
all’erta: la
taglia che pende sul suo collo è alta, non è un
mostro comune…
quindi non sarà così
semplice eliminarlo.»
Queste
voci… le conosco, ma non so a chi riferirle. Si
avvicinano…
Umiko
provò a sollevarsi, e rimase per qualche istante sui gomiti.
Lo
sforzo le strappò dei gemiti e tutto il corpo fu scosso dai
crampi,
ma riuscì a non cadere. Dai…
ancora,
si impose, stringendo con forza la terra tra le mani e pregando che
le gambe fossero in grado di sostenerla.
Un
sibilo la bloccò appena prima di mettersi sulle ginocchia; e
i
brividi le percorsero la schiena quando alzò il volto e si
ritrovò
la punta di una lancia a pochi centimetri dalla propria fronte.
«Una
civile!»
Levò
ancora di più il capo appena l’arma venne
abbassata, permettendo
ai suoi occhi di mettere a fuoco due figure che conosceva, ma che
aveva sempre visto solo attraverso uno schermo.
«Hey!
Riesci a sentirmi, stai bene?», udì, prima di
sentire le braccia
forti del classe A Stinger che la circondavano.
«Sì-sì…
ma sono debolissima», rispose lei, ringraziandolo mentalmente
per il
calore che il contatto con il suo corpo le diede.
«Non
ti preoccupare, ti aiuto io… ecco, così, alzati
piano-»
«Quei
morsi… chi te li ha fatti è ancora
vivo?»
Gli
occhi scarlatti del secondo eroe non perdevano un suo movimento e la
fissavano con intensità, in attesa di risposte; non
c’era alcuna
paura in loro né tensione, solamente energia pronta a
esplodere.
Umiko
si strinse nelle spalle sotto quello sguardo ricolmo di ombre, e per
un attimo chinò il suo su ciò che rimaneva del
golfino e della
maglia. «A-a
quanto ne so quel mostro è ancora vivo. Ha preso le mie
sembianze
succhiandomi il sangue, è perfettamente uguale a
me… ma ha gli
occhi rossi.»
Mi
ha guardato agonizzare; ed era compiaciuto di sé stesso.
«Che
seccatura… è pure un mutaforma.» Senza
perdere l’espressione
estremamente calma, l’eroe si levò
l’impermeabile e lo fece
indossare a Umiko, prima di rivolgersi a Stinger. «Portala al
sicuro
lontano da qui, quel maledetto potrebbe essere ancora troppo vicino e
devo potermi muovere senza il pensiero dei civili.
Per
adesso lo cercherò da solo.»
La
ragazza rimase a guardarlo sparire in silenzio, mentre le dita
stringevano la stoffa dell’indumento
quasi con bisogno, come per cercare in essa un qualche tipo di forza;
tutto, dal suo corpo fino a ciò che la circondava, le diceva
di
trarne il più possibile, rincorrere il coraggio e non
impazzire. «In
qualche modo presto sarà tutto finito»,
mormorò a sé stessa,
nascondendo parte del volto nel bavero dell’impermeabile e
riportando alla memoria i messaggi di qualche ora prima,
«… in
qualche modo.»
«Ti
fanno ancora male le ferite?»
Umiko
era grata al giovane per infinite cose, dall’averla raggiunta
prima
che il torpore la gettasse in una placida morte fino al continuare a
parlare per tenerla attiva; ma tutto quello che riusciva a fare era
rispondere a fatica alle domande, oltre a sentire un enorme groppo in
gola, troppo vicino a divenire un lungo pianto per poterlo
controllare. In qualche modo riuscì invece a non esplodere,
permettendo a Stinger di lasciare definitivamente il Nature Park,
irriconoscibile, e guidarla nella devastazione della Città
K, giunta
fino alla periferia.
La
vista di tutta quella rovina fu per Umiko un altro colpo diretto al
cuore, e rivolse un sorriso spontaneo all’eroe quando questi
decise
di passare per strade che non fossero quelle centrali, dove i loro
sguardi avevano già intravisto innumerevoli corpi riversi al
suolo,
immobili, e macchie scarlatte a ricamare marciapiedi ed edifici.
Hai
dovuto sopportare tutto questo tempo fa. Una seconda volta, la rovina
è giunta fino ai tuoi piedi.
«I
soccorsi sono già sul posto. Ti lascio alle loro cure, tu
cerca di
stare tranquilla, va bene?», le disse il giovane dopo qualche
istante, regalandole uno di quei luminosi sorrisi che lo avevano reso
così popolare tra la gente; lei annuì, cercando
le parole adatte
per esprimere a dovere la sua gratitudine… e probabilmente
le loro
strade si sarebbero divise in quel punto, se il rombo di un crollo
non li avesse bloccati prima.
In
un battito di ciglia il classe A l’afferrò per la
vita e balzò al
riparo di un edificio porticato con la rapidità di un falco,
impedendole così di venire investita da una pioggia di
calcinacci e
polvere. «Cambio di programma; meglio che stai con me ancora
per un
po’», mormorò lui, persa in un istante
l’espressione cordiale,
«il tempo di capire che cosa diavolo stia succedendo
ancora.»
«Altri
Esseri?», mugolò Umiko.
«Questi
palazzi hanno ricevuto dei gravi danni, e stanno cedendo», fu
la
risposta, «ma non mi permetto di escludere l’opera
di un mostro.
Stammi il più vicino possibile e fai tutto quello che ti
dirò,
intesi?»
Un’altra
esplosione scosse il suolo e li fece sbattere contro il muro alle
loro spalle; e a quel punto fu chiaro che nessun luogo poteva fornire
protezione.
«Mettiti
dietro di me», ordinò Stinger mettendosi in
posizione da
combattimento, la sua infallibile lancia puntata verso le nubi di
polvere che si erano alzate a poca distanza da loro e avevano invaso
la strada; la giovane obbedì e gli andò alle
spalle giusto un
istante prima che queste si tramutassero in un’onda
asfissiante.
«Giù!
Copriti il viso!», gridò l’eroe prima di
farle da scudo… ma lei
rimase immobile, non lo sentì nemmeno.
Quel
giorno accadde esattamente così. E
a quel pensiero le gambe, prima instabili, le permisero di scattare
in avanti, invertire la posizione in modo che fosse il suo corpo a
proteggere il classe A. «Chiunque tu sia, lascia stare lui e
prendi
me.»
◊♦◊
«Che
noia… non dirmi che hai ancora bisogno di riposo!»
Amaya
si asciugò un ennesimo
rivolo di sangue da un ennesimo
graffio e si sforzò di sorridere, anche se ciò le
costò dolori
dappertutto. Doveva essere in uno stato orrendo, con gli abiti a
brandelli e ogni parte del corpo esposta ricoperta di lividi; il
labbro superiore era spaccato in più punti, uno zigomo
bruciava da
impazzire e c’era sangue anche nelle scarpe, colato dalle
caviglie
scorticate. «Perdonami»,
rispose con uno sbuffo, cercando di non cadere in ginocchio,
«si
vede che mi sto annoiando così tanto da non reggermi
più in piedi?»
L’Essere
sogghignò, tendendole una mano intrisa di cremisi. «Vieni
avanti, dai», flautò, «non ho ancora
finito con il tuo bel
faccino.»
La
donna sentì le ossa tremare solo udendo quelle parole, ma
strinse i
denti e non rispose. Doveva continuare a muoversi, impedire al mostro
di immobilizzarla; anche se quel bastardo la stava gradualmente
trasformando in una bambola da torturare, finché quei denti
fossero
rimasti lontani da lei non avrebbe avuto da temere. Proprio per tale
motivo l’altro l’aveva incalzata per tutto il
Nature Park,
inseguendola fino a spingerla in città, dove avrebbe avuto
più
possibilità di intrappolarla in un punto cieco e farle
subire la
stessa sorte della ragazza di cui stava macchiando la memoria.
A
quel pensiero la donna sentì la rabbia e il disgusto
incendiarle di
nuovo la gola: quello scricciolo le aveva impedito di gettarsi nel
torrente, si era preoccupata come per un’amica; e dopo
qualche ora,
con massimo disprezzo, la sua copia aveva fatto di lei una preda. Chi
governava la Sorte doveva essersi proprio divertito a svolgere il
filo di quella vicenda, rimanendo a guardare le sue paure e debolezze
cozzare contro il sibilo del vento e l’energia
del
combattimento.
Che
non durerà ancora per molto, temo,
si ritrovò a pensare schivando un nuovo attacco, le unghie
dell’Essere protese ad artigliarle gli occhi.
Il
successivo attacco la colse di sorpresa tanto fu repentino,
così che
si ritrovò a indietreggiare nel tentativo di ritrovare il
proprio
equilibrio; fu la mano dell’Essere a impedirle di cadere,
solo per
attrarla a sé e subito dopo spingerla via con tanta violenza
da
farla cadere e rotolare a terra per qualche attimo.
«Va
bene, fine dei giochi; passiamo alla parte meno piacevole.»
Amaya
non alzò nemmeno lo sguardo sull’altro, ma rimase
distesa con il
viso sepolto nella polvere, ben conscia che sì, il tempo
della
caccia era giunto al termine e stava per lasciare posto a sofferenze
più atroci. Incapace di tenere gli occhi aperti per il
bruciore dato
dal sudore – e
da cos’altro, lacrime? … Davvero?
– trasse un grande sospiro. «Allora?
Non farmi attendere molto, vieni a prendermi»,
sussurrò dopo pochi
istanti di assoluto silenzio. Riuscì
a sollevare le palpebre per un momento, e fu così che vide
il mostro
inginocchiato vicino a lei e intento a osservarla,
un’espressione
tra il sorpreso e l’interessato che luccicava nello sguardo
rubino.
«Uhuh»,
soffiò questi finalmente, «non mi era mai capitata
una cosa
simile.»
Con
orrore, la donna sentì l’altro prenderle una
ciocca di capelli e
annusarla con attenzione. «Lo
sai? I tuoi pensieri sono così vividi che posso sentirli
anche senza
aprirti la carne.»
Ancor
prima che il mutaforma sorridesse lei iniziò a tremare,
mentre
d’istinto si portò una mano all’altezza
del cuore. I battiti
aumentarono improvvisamente e altrettanto velocemente diminuirono,
mentre un senso di risucchio all’altezza dello stomaco le
strappò
un gemito. Presto l’orrenda sensazione si propagò
all’intero
corpo, senza lasciare nessun centimetro di pelle esente; era simile a
un lento tormento, ma in verità era molto, molto
più sottile e
crudele. «Smettila!
Che cosa stai facendo? Io…», urlò
contorcendosi, prima di
accorgersi di un’altra verità altrettanto
angosciante.
I
miei pensieri… è come se qualcuno me li stesse
strappando! E fosse
nella mia mente… a osservare il mio passato… a
giudicarmi.
«Il
sangue», disse il mostro con lentezza scocciata, come a voler
rispondere a una domanda stupida, «è quello che mi
dà tutto il
potere che dispongo; non è questione di forza, ma di sapere:
tramite
esso posso scoprire chi siete, quali sono le vostre abilità
e
debolezze, i vostri incubi, i rimorsi. Dopo avere letto la vostra
anima, prendere le vostre sembianze, ingannare chiunque conosciate,
ucciderli è così facile che potrebbe quasi essere
noioso; eppure
mai mi è capitato di riuscire a carpire così
tante informazioni
solamente dalla vicinanza con le mie prede. Sei proprio un individuo
affascinante… Amaya.»
La
donna si mise in ginocchio. «Quindi è questo che
ti piace fare?
Strappare i segreti della gente, usarli per i tuoi fini, causare
terrore?» E in un battito di ciglia la paura si era fusa con
il
disprezzo, rendendo duro il tono e lo sguardo.
«Il
terrore è
il mio fine. La disperazione e l’impotenza che vi annientano
quando
vedete il vostro mondo andare in frantumi, come pretendete di non
volerlo accettare è qualcosa che non avrà mai
prezzo, per me;
ancora prima di divenire un mostro ero ossessionato dalla tristezza
altrui.»
Il
disprezzo si nutrì della stanchezza, spiegò le
sue ali e divenne
amarezza, donando ad Amaya un impeto diverso dai precedenti.
«Mi
spiace deluderti, ma con me hai fatto un errore; non è
rimasto più
nessuno che tu possa ingannare. Sono sola, tutti coloro a cui volevo
bene sono lontani, quindi non farai un grave danno.» Non
più di quanto mi sia già fatta da sola.
Di
nuovo, il ghigno assetato di crudeltà dell’Essere
attaccò le sue
difese. «È questa la particolarità del
tuo animo: soffri così
tanto che tutti possono percepire il tuo dolore e provarlo dentro di
loro. Non lo senti quanto è devastante?
Forse
è proprio per questo che chiunque tu abbia chiamato
‘amico’ ti
ha lasciato sola… anzi, no;
il vero motivo è un altro, e tu lo sai bene.»
«Tu
non hai alcun diritto su di me, né di dire cosa
provi», sibilò la
donna, «tu non sei più umano; non puoi
più capire nessuna azione
che ho fatto.»
Il
mostro ridacchiò. «In
verità ti capisco totalmente; perché sei molto,
molto simile a me.»
Si alzò in piedi, torreggiando su di lei. «Ma ora
basta; anche se
mi hai regalato dei bei momenti, il tuo tempo è scaduto.
Purtroppo
mi stanco subito dei miei balocchi», disse con un tono
falsamente
dispiaciuto.
Reclinò
la testa quando vide la sua vittima non abbassare il capo ma
continuare a fissarlo, e socchiuse gli occhi. «Non
guardarmi così. In fondo, qualche ora fa volevi rivedere i
tuoi
cari, dico bene? Ti sto permettendo di farlo senza provare troppo
dolore, quindi dovresti essermi grata…»
… E
invece mi sto ribellando.
Amaya
non riuscì a sentire la risposta che si diede: il terreno
tremò e
vibrò sotto le dita, sembrò ripiegarsi su
sé stesso nell’incubo
di un’esplosione; e allo stesso tempo la polvere sollevata
avanzò
rapida e famelica verso di lei, tramutandosi in un muro fatto di
buio, pura oscurità.
Forse
qualcuno la rimise in piedi, un impulso estraneo alla sua persona
–
o forse nato proprio dalla tensione verso una via di salvezza; ma
pure in quel manto letale la donna sentì i suoi piedi
avanzare e le
mani tendersi in avanti, cercare, implorare.
Davvero
il suo aspetto, il suo mondo gridava solo tristezza e solitudine?
Davvero scacciava tutti coloro che incrociavano il suo cammino, senza
permettere a nessuno di restare, o almeno tentare di farlo? Scossa da
tali parole, quando riconobbe davanti a sé il calore e il
respiro di
un altro essere umano istintivamente accelerò il passo, fino
a
scontrarsi con il corpo dello sconosciuto; senza dire nulla lo
toccò,
cercando il cuore, quindi lo strinse a sé nel bisogno di un
abbraccio.
Udì
un gemito di sorpresa soffiare tra i suoi capelli e allora
aumentò
leggermente il contatto. «Non te ne andare»,
mormorò avvelenata
dalla paura e ormai incapace di mantenere il controllo sulla propria
razionalità, «chiunque tu sia…
resta.»
Serrò
le palpebre fino a tremare, in attesa di una reazione che avrebbe
infranto il suo desiderio; ma chi stava abbracciando non si sciolse
dalla sua presa, bensì la ricambiò quasi
immediatamente e le posò
una mano sui capelli, con gentilezza.
L’Essere
era a poca distanza da lei – forse proprio alle sue spalle
–, lo
sentiva; e lei avrebbe dovuto essere dovunque, tranne in quella
gabbia che le incendiava la pelle… ma per qualche istante
sentì la
pressione dei suoi demoni diminuire, staccarsi per permetterle di
ricordare qualcosa che non fossero giorni di silenzio, fuggire
davanti alle braccia che la circondavano.
Quando
le orecchie ripresero a sentire e il drappo di polvere si
posò al
suolo permettendole di vedere di nuovo, la realtà
impiegò qualche
tempo a impossessarsi della sua mente. Uno scenario inaspettato si
aprì davanti a lei; ma come si accorse immediatamente, non
avrebbe
fronteggiato da sola ciò che la stava attendendo.
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Capitolo 3 *** Libera la Luce ***
{
III ~ Libera la Luce }
Cosa
senti dentro di te, proprio ora?
Da
quel giorno,
per un tempo talmente lungo e duro da ferire persino nel ricordo,
ogni respiro era stato un bacio dal gusto di fumo e pianto. Allora,
quando la notte scivolava sulla città la sua disperata
veglia
iniziava, finendo in un singhiozzo solo quando l’orizzonte
si tingeva di una sottile linea luminosa e gli occhi
spalancati, così immobili da non sembrare più
vivi, fissavano il
disco diurno sorgere, quasi temendo di vederlo sfaldarsi in un’onda
purpurea e ruggente che avrebbe annientato la città.
Temevi,
o volevi?
Già…
temevi,
o volevi? Per
quanto tempo l’una o l’altra realtà, la
possibilità e
l’irrepetibilità, l’incerto e il perduto
si erano battuti e
gridati contro le rispettive ragioni, in una tempesta celata allo
sguardo di tutti? È difficile aprirsi quando si scopre che
chi
riceve parte della nostra anima può andarsene da un momento
all’altro con essa, di propria volontà o strappato
da forze
superiori; è una perdita di tempo, un dolore, una rovina,
che
cancella i sogni e riduce a smarrire anche la propria
identità.
Ma
allora, dopo tutto questo…
per cosa continuiamo a combattere?
Perché
non vogliamo arrenderci?
Umiko
socchiuse leggermente gli occhi, sentendo la pressione della nube
polverosa allentarsi. Non c’era
più silenzio intorno a lei, il mondo vibrava del cuore della
terra e
del grido degli uomini; e anche il suo sospiro faceva rumore, era
vivo.
«Va
tutto bene, ora.»
Quel
sussurro l’attrasse,
le fece voltare il capo; a pochissima distanza da lei Stinger stava
tenendo tra le braccia la donna del ponte, ancora riconoscibile
nonostante gli abiti strappati, i capelli divenuti quasi grigi per la
sporcizia depositatasi sopra e la costellazione di macchie nere che
le punteggiava gambe e braccia.
L’impulso
della preoccupazione spinse la giovane a correre verso di loro, e
quando la sentì arrivare l’eroe alzò lo
sguardo dal volto della
bionda al suo. «Che cosa credevi di fare, prima?»,
le chiese, senza
nascondere nessuna traccia di rimprovero.
La
ragazza non rispose subito. Era stata sconsiderata, si era comportata
come se fosse stata incantata; ma sapeva bene che cosa era successo
in lei, e non poteva biasimarsi per quell’azione.
«Perdonami»,
rispose poi, inginocchiandosi accanto a lui, «non avrei
dovuto, lo
so…» Tacque di nuovo, incapace di proseguire, e
per fortuna Amaya
la trasse d’impiccio perché proprio in quegli
istanti aprì gli
occhi e la fissò.
«Tu…»,
mormorò dopo alcuni attimi, «… tu ti
sei salvata.»
«Piano,
piano», la tenne giù il classe A quando la vide
agitarsi, «stai
calma.»
«No,
affatto!», rispose l’altra quasi urlando,
spaventando sia il
ragazzo che Umiko, «non posso stare calma, perché
non siamo per
nulla al sicuro! Lui è ancora qui.»
Tutti
rivolsero lo sguardo davanti a sé; e pochi metri
più avanti,
speculare a lei, la giovane vide la sua copia fissare ognuno di loro,
uno dopo l’altro, prima di ancorare definitivamente gli occhi
nei
suoi. «Evidentemente hai la pelle più dura di
quanto avessi
creduto», le si rivolse con tono colmo di sarcasmo,
«ma questo non
è poi un male: il sangue che ti ho sottratto sta per
esaurirsi, e il
tuo è così delizioso che ho proprio voglia di
venirti a dare un
altro bacio.»
Una
mano si chiuse intorno al suo polso e un sibilo morse l’aria,
quasi
a voler colpire il volto del mostro. «Che divertimento
c’è a
prendersela con i civili? Battiti con chi sa risponderti a
tono»,
sentì replicare Stinger al suo fianco, lo sguardo pieno di
determinazione e la presa ben salda sulla lancia.
Il
mutaforma socchiuse gli occhi, ghignando a quelle parole.
«Tranquillo, poi penso anche a te. Prima fammi
pranzare», sibilò.
Umiko
non lo vide balzare verso di lei, tanto fu rapido; ma gli artigli non
la raggiunsero perché sia Amaya che Stinger furono
più veloci, e
mentre la prima scattò in piedi e spinse la ragazza lontano
dal
nemico, il secondo gli si parò davanti e gli
affondò Gemma di Bambù
nel ventre, costringendolo a ritrarsi.
«Che
fortuna, ti ho presa per un pelo», sospirò la
donna, allentando
solo di un poco la stretta sull’altra. Era successo tutto
così
velocemente che era lecito domandarsi se fosse accaduto realmente, si
disse questa mentre fissava l’avversario piegarsi su
sé stesso.
«Non male, ragazzino», mugolò poi questi
al classe A, «non male.»
I
presenti lo guardarono cadere definitivamente al suolo e rimanere
lì
disteso, immobile, e non parlarono più per un lungo istante,
troppo
increduli e confusi.
«Sul
serio? Una taglia formidabile sulla sua testa ed è morto
dopo un
solo colpo?», esclamò quindi Stinger,
avvicinandosi alla creatura.
«Troppo
bello, già», rispose Umiko, socchiudendo gli
occhi. L’inquietudine
non voleva ancora lasciarla, ma probabilmente avrebbe impiegato ore
per svanire, dopo tutto quello che era accaduto; eppure sentiva ogni
senso in allarme, uno stimolo a prepararsi che vinceva la
necessità
di lasciarsi andare e le pungolava la carne. «Andiamocene»,
implorò infine rivolta all’eroe,
«ti prego, portaci via da qui.»
Amaya
assentì a quelle parole. «Ormai è
finita.»
«Finita?
Nulla è mai completamente finito.»
Furono
colti impreparati: nessuno riuscì a reagire per anche
solamente
tentare una difesa e tutti loro furono scagliati in aria dall’asfalto
del
suolo, che si sollevò e li travolse come un’onda.
Rinvigorito
della loro sorpresa, il mostro si rialzò ed erse in mezzo
alla
confusione come unico re, senza che più nulla di umano gli
fosse
rimasto: perdute le ultime gocce del sangue di Umiko a causa della
ferita, aveva ripreso il suo aspetto reale rivelandosi un cavaliere
delle tenebre o Tenebra stessa, i cui tentacoli che irraggiavano dal
suo corpo – se così si poteva chiamare la sorte di
vortice che lo
costituiva – come fasci d’inchiostro tenevano
premute le teste
delle prede contro il suolo, preoccupandosi di dare la maggior pena
possibile.
«Nulla
è mai completamente finito. Io sono un Incubo, il vuoto
crudele che
vi attende quando più vi sentite al sicuro, il fuoco che
divora le
vostre certezze; io non posso morire mai», lo sentirono
sibilare,
prima di trovarsi completamente avvolti da lacci troppo simili a
serpenti, «e per quanto senza una forma umana non possa
rimanere a
lungo esposto, in questi pochi istanti posso farvi ancora molto,
molto male.»
A
quelle parole la ragazza si volse spontaneamente verso Amaya,
incrociò il suo sguardo colmo di terrore e vi vide riflesso
il
proprio; e si agitò, sentendo ancora la sensazione di essere
scandagliata, quasi sventrata,
del mutaforma.
Lascia
stare i miei pensieri! Sono tutto ciò che mi appartiene!
Fece
appena in tempo a pensarlo che la stretta del mostro divenne
d’acciaio.
«Partiamo
da te… anzi, no: accontentiamo prima questa coraggiosa
guerriera»,
mormorò voltandosi verso Amaya, senza tuttavia allentare la
presa su
di lei.
«Lasciala
stare», ringhiò allora la giovane, agitandosi,
«mi hai martoriato,
ma non ucciso; finisci il lavoro con me.» Sconsiderata
che non sei altro.
L’Essere
accennò una smorfia che doveva essere un macabro sorriso. «E
rimandare ancora l’esecuzione di una persona che vuole solo
morire?
Che cattiveria negarle questo desiderio, davvero ingiusto.» E
nel
frattempo i tentacoli si ricoprirono di aculei, che penetrarono sotto
la pelle di Amaya e iniziarono a privarla lentamente del suo sangue.
«Ne
ho incontrati di mostri ripugnanti», sputò
Stinger, livido in volto
per il furore e l’impotenza, «ma nessuno vile come
te. Devi essere
la vergogna dei tuoi simili.»
«Questa
donna», sibilò allora il mutaforma, puntando un
dito contro la
bionda, «lei è la vera vergogna tra noi due.
Dovreste provare
ribrezzo per il suo cuore quanto lo provate per me, perché
è fredda
e ingannatrice. O mi sbaglio, Amaya?»
L’interpellata
non rispose, il volto stravolto dalla sofferenza che stava patendo,
ma gli occhi, lucidi, si chinarono verso il suolo.
«Vedete?
Non riesce neppure a rispondere. Bambina, stamattina dovevi lasciarla
decidere della propria sorte; ti saresti evitata tanti
problemi.»
Umiko
si sentì ferita quanto la donna per
quell’affermazione terribile.
«Rimangia
ciò che hai detto, nessuno ha il diritto di dire cose
simili!»
«Oh,
quindi vuoi dirmi che tu la conosci? Che
la perdoneresti?»
«Non
so cos’ha fatto, ma probabilmente sì»,
rispose con sincerità la
ragazza. Si interruppe, perché le gambe vennero trapassate
da
innumerevoli spine e la sensazione di essere risucchiata – di
nuovo
– le diede la nausea.
«Giààà,
che sciocco, come ho fatto a scordarmene?» Una risata
agghiacciante.
«Emozionante, quasi commovente, come vi siate trovate: due
anime
morte da tempo, nutrite dal proprio senso di colpa… stupendo.»
Fu
il turno della mora di arrossire. «Non
puoi trattarmi così», mormorò; e in uno
scatto di rabbia afferrò
la testa del tentacolo che andava stringendosi sulla sua bocca e
morse, senza fermarsi nemmeno quando il suo stesso sangue le scese in
gola. Improvvisamente
la vista si confuse; e dopo qualche attimo sbatté la testa
al suolo,
il respiro accelerato ma il corpo libero di muoversi.
Il
sollievo fu momentaneo, troppo rapido, perché il mostro la
prese
nuovamente per la vita e sollevandola la schiaffeggiò. «Non
lo farai una seconda volta», le intimò, ma pur
ricoperta di sangue
la ragazza riuscì a canzonarlo con un sorriso.
L’avversario
aumentò la presa, ma non fu dolorosa come le prime volte.
Vuole
tenermi in vita il più possibile – oppure sta
diventando debole,
nonostante il nostro sangue. Se lo tengo impegnato ancora per un
po’
forse riusciremo a cavarcela… e se non io, almeno gli altri.
L’altro
sembrò aumentare la densità delle proprie ombre,
come per farle
paura. «No,
non sperare nemmeno di potercela fare; vi ho tutti in scacco, e non
solo fisicamente.» I
tentacoli le accarezzarono il dorso delle mani e lei fece per
ritrarle, sentendosi scottare; e quando
nell’oscurità vide il
bagliore di un ghigno divertito comprese che era proprio quello che
lui le aveva fatto provare.
«So
il suo
nome», le sussurrò il mutaforma, «so che
cosa accadde a te… e
Tomomi.»
Tomomi.
La bellezza di un amico, la grazia di una presenza costante.
«Lo
so. L’hai visto», replicò piano Umiko,
senza esitare né tremare,
«siccome è sempre nella mia mente.»
«Sono
già passati quattro anni da quel giorno… con il
tempo hai imparato
a parlarne – anche se a fatica –, a ricominciare a
guardarti
quelle cicatrici senza rabbrividire. Eppure c’è
ancora qualcosa
che non è stato risolto, dentro te. Il rimorso ferisce
più di
qualsiasi lama: e se per un po’ si assopisce, quando ritorna
colpisce o punge, frusta o brucia, e lascia sempre un segno. Quante
volte ti ha già uccisa?»
La
mora deglutì. Dentro di sé sentiva
un’inspiegabile calma, uno
scudo che le proteggeva il cuore, e di questo era ben conscio anche
l’Essere, che assottigliò gli occhi e
digrignò i denti.
«Rispondi»,
ringhiò infine.
«Ogni
volta è meno dolorosa, invece. Da quando ho scoperto che non
sono
sola, anche i miei demoni stanno trovando pace.»
«Dimmi
la verità!»
«È
questa la verità», rispose lei, «anche
se tu non lo sai,
io sì.»
Il
primo colpo in viso fu doloroso. Il secondo insopportabile, il terzo la
fece urlare e scoppiare in pianto subito dopo, i successivi le fecero
implorare pietà.
«Non
è vero, non è vero nulla! Tu sei ossessionata da
quel ragazzo, ti
incolpi ogni giorno, stai perdendo tutto!»
I
tentacoli smisero di torturarla, ma lei rimase per un lungo istante
in silenzio. «No.
Non è vero.»
«So
che in realtà sei stata a uccidere Tomomi, quel
giorno!»
La
ragazza volse il capo verso Stinger e Amaya, che la fissavano con i
volti contratti dalla confusione e dall’attesa. Forse il
mostro le
aveva sputato addosso quelle parole per spingerla in qualche
trappola; ma le sarebbe stato impossibile tacere, quando era
qualcosa di più forte del timore a muoverla. «No,
è un’altra,
ben diversa, la nostra storia. Tomomi.… lui era troppo, per
me;
l’ho pensato fin dal primo momento che lo vidi, e a volte lo
penso
ancora oggi. Era così speciale: dove io ero confusa, lui era
razionale… dove io inciampavo e sbagliavo, lui aveva la
pazienza di
sorreggermi e guidarmi. Era gentile, comprendeva i silenzi e li
rispettava; per una che ha sempre la testa lontana da sé e
non sa
tacere, queste e altre sue qualità erano quasi
incomprensibili.
Quasi, dico; perché mai percepii una solitudine
così forte come
quella che sentii in lui… e la sentii proprio io, che fino a
quell’istante avevo creduto di non saperla riconoscere.
Eravamo
poco più che ragazzini, e mai avrei pensato che potesse far
scoprire
in me quella forza che mi spinse a demolire le barriere che si era
costruito per soffrire di meno, ma che non facevano altro che
abbatterlo di più.»
Una
pausa. «Spesso
gli dicevo che era nato per diventare un eroe: dietro il suo
atteggiamento difensivo nascondeva una nobiltà sensibile,
che quando
riusciva a trapelare aveva il potere di ritemprare l’anima e
dare
coraggio a chi gli era vicino; e se lo avesse compreso anche lui,
forse sarebbe riuscito a trovare una strada meno dolorosa e
più
rapida per ritornare a sorridere. Ci sarebbe riuscito, se gli fosse
stato concesso ancora più tempo di quanto effettivamente
ebbe.
Il
tempo, già, che credevo di avere al mio fianco ogni volta
che mi
dicevo di non essere pronta a dirgli ciò che provavo; il
tempo,
lento e costante, che mi spinse a credere che saremmo stati per
sempre felici, quando infine rivelai quanto lo amavo.
Forse
è per questo che il giorno che privò entrambi
delle nostre certezze
giunse troppo velocemente: il vero, grande errore che ci
segnò fu
non aver riconosciuto la sua forza, e quanto deboli eravamo sempre
stati di fronte a lui.
Che
cosa sarebbe accaduto se quel mattino fossimo usciti un’ora
prima o
un attimo dopo? Se l’autobus
non avesse tardato e io non avessi deciso di fare l’intero
percorso
a piedi? Se non avessi insistito così tanto da convincerlo?
Non
c’è
nulla di certo, se non quello che poi accadde.»
La voce, fino a quel momento controllata, venne spezzata dalle tracce
di un pianto così profondo da non essere visibile, ma
presente per
notti e giorni. «Fui io la prima a vedere quella figura.
Da
quello distanza non notai nulla, in lei, di allarmante o di
così
strano da farmi insospettire; ma più incrociavamo i nostri
passi più
la paura si prendeva la mia mente…
fino a quando non ne fui completamente paralizzata.
La
mia razionalità passò interamente a Tomomi: fu
lui a spingermi di
lato quando quello che avevo considerato una normale persona si
rivelò un Essere Misterioso e ci attaccò all’improvviso,
incendiando l’intera
strada con un solo respiro.
Fu
lesto, è vero, ma non potevamo scappare molto lontano;
presto fummo
chiusi in una trappola di fiamme dal quale non saremmo mai potuti
uscire vivi.
In
quegli istanti tesi le mani verso di lui per stringerlo a me, in un
ultimo abbraccio; e mentre l’onda di fuoco avvicinava i suoi
artigli a noi e tingeva il mondo di scarlatto, ciò che mi
fece più
male fu vedere riflesso negli occhi di Tomomi, così ancorati
ai miei
da sembrare sul punto di fondersi in una sola lacrima, la convinzione
di potermi proteggere.» E
ce l’ho fatta, Umiko: ti ho salvato. «Le
sue… le sue parole… mi disse di continuare a
essere sbadata e dal
cuore aperto, quasi totalmente incapace a controllare le mie
emozioni, perché solo così avrei potuto aiutare
un altro a uscire
dalle tenebre, così come avevo fatto con lui; che avrebbe
continuato
a vivere per sempre in me e respirato in ogni mio sospiro, che aveva
trovato il suo rifugio al mio fianco e in un modo o
nell’altro lì
sarebbe sempre rimasto.
Io
persi conoscenza appena il fuoco ci investì, quindi non
riuscii a
vedere come lui mi fece da scudo, impedendomi di venire bruciata.
Solo in ospedale, ore dopo, venni a sapere che fui trovata sotto il
suo corpo, con le mani ustionate e che ancora lo stringevano a me; e
che a triste testimone della vicenda erano rimaste solo queste
cicatrici, e… e le sue scarpe. Tutto il resto era ormai
silenzio,
spezzato. Lontano.
Questa
è la verità.»
Il
mutaforma non attese la fine di quel doloroso racconto per rivolgere
a Umiko un sorriso crudele. «Sei
stata tu a dire», esordì, «che hai
insistito tanto con Tomomi per
percorrere quella strada a piedi; quindi, hai condotto tu stessa il
tuo ragazzo verso la propria morte. E poi ti sei impietrita, non hai
nemmeno tentato di difenderlo… come puoi negare che sia
colpa tua?»
La
giovane socchiuse gli occhi.
È
il tuo terrore che vuole; ma tu ti sei rialzata, lentamente hai
ripreso a camminare. Non cadrai di nuovo. «Ho ormai vinto
queste
false colpe», sussurrò, «e sai una cosa?
Ho raccontato tutto
questo davanti a te perché mi sono perdonata. Il mio corpo
non reagì
quel giorno, la paura fu troppa; ma ho sofferto così tanto
per
questo, che non verrò piegata ancora. Tomomi è
sempre nella mia
mente, lo sento respirare davvero nel mio petto, la sua forza
è in
me. Ed è per questo… che no, non mi
piegherò ancora. Non avrò
paura di nuovo.»
Ora
rialzati completamente.
Le
unghie si conficcarono nei tentacoli; questi allentarono la morsa,
per poi liberarla completamente. L’Essere
sibilò, arretrando di un poco. «Ho
ancora abbastanza forza per ucciderti», mormorò,
prima di farli
scattare nuovamente verso la giovane.
Lei
li afferrò, li strinse con tutta l’energia che
sentiva prorompere
da ogni fibra di sé anche se il dolore che provò
la fece
barcollare. «Puoi sentire i miei pensieri!»,
rispose quindi, «ma
non puoi sentire il mio cuore; puoi percepire la
razionalità, ma non
le spinte delle pulsioni più umane, ciò che ci
permette di
ricominciare ad avanzare anche quando le nostre gambe sono state
spezzate, o crediamo che lo siano.
I
nostri errori, a volte nemmeno poi possiamo condannarli; ci rendono
quello che siamo, ci insegnano quanto le buone azioni, ci fanno
crescere.»
«Voi
siete fragili!»
«Già,
lo siamo; ogni cosa che ci circonda lo è, eppure siamo
ancora qui, a
resistere, perché altri non siano infranti come noi.
Fragili, e allo
stesso tempo così forti da poter imparare a proteggere, a
salvare;
non lo riesci a capire, vero?»
Altri
tentacoli si allungarono verso il suo volto; questa volta non li
avrebbe potuti evitare, lo comprese immediatamente, e allora chiuse
gli occhi, senza ritrarsi.
Sento
la tua forza in me; non cederò più, nemmeno negli
ultimi istanti.
Il
sibilo che accompagnava il colpo si avvicinò rapidamente,
schioccò
nelle sue orecchie facendola sobbalzare; tuttavia non provò
alcun
dolore. È…
è finita? Così
rapidamente?
«Sei
proprio una brava ragazza.»
Umiko
spalancò gli occhi, riscossa da quella voce. Tra lei e il
suo
avversario c’erano
un paio d’occhi rossi che la fissavano con benevolenza, e che
se
qualche ora prima l’avevano turbata, in
quell’istante le davano
calore.
Sorrise
a quelle parole, leggermente imbarazzata, e l’altro
le accarezzò i capelli. «Un
eroe non è più coraggioso di una persona comune,
ma è coraggioso
cinque minuti più a lungo,
si dice spesso. A giudicare dal tuo stato hai resistito per ben di
più
di cinque minuti, ma credo che sia giunto il momento di far giocare
me.»
La
ragazza annuì, fissando il classe S Zombieman avanzare e
fronteggiare il mostro, i tentacoli recisi stretti in una mano. «Non
ti dispiace troppo se combatto io al posto suo, vero? È
tutto il
giorno che ti sto cercando.»
L’altro
ghignò in risposta. «Se mi farai divertire non mi
dispiacerà di
certo.»
«Oh,
bene… allora si prospetta una giornata
interessante.»
La
mora indietreggiò, fino a quando un paio di mani non
l’abbracciarono.
«Va tutto bene?», sentì la voce dolce
della donna sussurarle, e
lei socchiuse gli occhi. «È
come se avessi detto addio a un altro incubo… un altro
demone ha
trovato la sua definitiva pace.» Un sospiro.
«Quindi sì, sto
bene.» Si
pose una mano sul cuore; e sotto la pressione gentile delle dita
sentì davvero un’altra crepa richiudersi, smettere di sanguinare per sempre.
◊♦◊
«Non
c’è tramonto più meraviglioso di quello
che si vede dalla città
K.»
Un
sorriso. «È vero; ed è una delle cose
che più mi è mancata.»
Amaya
respirò a pieni polmoni l’aria
della prima sera, si strinse nelle proprie braccia. Mano a mano che
il crepuscolo avanzava i contorni dei palazzi che la circondavano e
il profilo delle foreste in lontananza si smussavano, e perfino le
nubi si facevano più morbide, assumevano nuove forme e
annunciavano
l’avvento della quiete.
Era
il momento dei pensieri, dei ricordi; e per la prima volta dopo tanto
tempo questi erano svincolati dai muri di una stanza, liberi di
librarsi verso qualcuno che non fosse lei stessa. Lo sentiva. «Chi
si potrebbe lamentare di una giornata simile? Ho lasciato la mia casa
con la quasi totale certezza di non farvi ritorno; ho visto la
città
venire attaccata, poi sono stata attaccata io stessa; ho combattuto,
ma sono stata anche difesa da più eroi; ho visto un
terribile incubo
morire dopo un’aspra battaglia, ho accompagnato una ragazza
coraggiosa in ospedale e ho dovuto calmare la sua famiglia urlante;
ora sto camminando nel tramonto, e non in solitudine.»
«Beh,
a parte qualche dettaglio, è così che funziona la
vita. Comunicare,
sentire, provare, comprendere… cosa saremmo senza tutto
questo?»
La
donna non rispose immediatamente; prima lasciò che il
piccolo viale
alberato che conduceva al Natural Park l’abbracciasse,
che il vento frusciasse intorno il suo canto.
La
città K non può vivere senza la forza della
Terra: i suoi cittadini
sono legati al suolo come tanti fiori, cadono e ritornano come le
foglie.
È
forte, la nostra gente; segue il ritmo dell’Esistenza
come le foreste, e sanno sempre trovare una via. In tutto
ciò che ci
circonda c’è una risposta, e un inizio.
«Amaya?»
Lei
non rispose immediatamente. «Sono confusa…»
Si fermò, per poi ricominciare a parlare più
sommessamente, a sé
stessa. «Oggi
ho visto la vita esplodere intorno a me…» E
cosa più importante mi sono sentita una sua parte, ho agito
e ho
impresso la mia orma in lei, non mi sono lasciata travolgere ma ho
saputo risponderle. Perché non ho semplicemente lasciato che
tutto
mi scivolasse addosso, come sempre? E domani… domani
proverò ciò
che ho provato oggi?
I
passi dell’eroe che la precedeva si fermarono, e questi si
girò a
fissarla.
La
donna si morse un labbro, esitante.
«Ecco…», mormorò, prima di
scrollare il capo e sospirare. Quando Umiko aveva raccontato la sua
storia, aveva ripreso coraggio e forza; se avrebbe fatto lo stesso,
forse si sarebbe sentita più libera.
Un
peso condiviso fa meno male; e anche se quello che la stava
osservando in attesa di una sua parola era uno sconosciuto, lui aveva
vissuto insieme a lei quella giornata assurda e aveva sentito le
parole che quel mostro le aveva rivolto, e…
forse voleva perfino ascoltarla. Inoltre, se ne rendeva conto, non
sarebbe riuscita a tacere ancora per molto, quindi non le rimaneva
che seguire i suoi bisogni.
«…
Credo che non possa essere espresso velocemente.» Con un
cenno del
capo indicò una panchina a poca distanza da entrambi. Quella
zona
era stata risparmiata dalla devastazione, e immersa in una
serenità
tutta sua era l’ambiente perfetto per aprirsi.
«Vedi»,
iniziò appena l’altro le si fu seduto vicino,
«non riesco a
levarmi dalla testa le parole di quel mutaforma, continuo a
ripensarci e tormentarmi.
Mi
ha definito indegna di continuare a vivere in mezzo a voi, falsa,
quasi pericolosa; e vorrei non ritrovarmi in queste accuse, e invece…
invece le condivido.»
«Ma
perché dovresti?»
«Perché
è vero: non
sono mai stata sincera, né con me stessa né con
gli altri, mai
autentica; sotto questo aspetto severo e poco amichevole ho sempre
nascosto un animo fragile, ma tale lato l’ho riservato solo
ai miei
genitori, mentre agli altri ho rivolto solo delle maschere. Sono
più
debole e insicura di quanto si possa sospettare, capace di piangere
per ore a causa delle sofferenze degli amici, ma questo non mi
è mai
piaciuto: a causa di dispiaceri e delusioni passate ho perso troppo
presto la capacità di fidarmi degli altri e ho iniziato a
credere
che mostrandomi realmente, negli aspetti positivi come nelle
debolezze, tutti avrebbero potuto approfittarne e farmi ripetere
situazioni terribili; così per anni ho fatto della freddezza
la mia
armatura, soffocando in silenzio ogni empatia che provavo per chi mi
circondava… fino a quando una lunga malattia non si
è portata via
le uniche due persone che mi hanno conosciuto per come sia davvero.
In
quegli istanti mi sono scoperta incapace di rassegnarmi, di chiedere
aiuto; allo stesso modo la gente non era disposta ad ascoltarmi
né
confortarmi, e quando mi accusava di essermi meritata tutto quello
che mi era capitato reagivo solo più violentemente,
aggravando le
mie ferite e facendo il vuoto intorno a me.
La
solitudine, molti la conoscono e provano; ma a volte si tratta di
attimi di stasi che poi si sfaldano, di conoscenze sbagliate che
feriscono ma non annichiliscono, di qualcosa che non lascia segni
profondi; ma quando il tuo mondo si riduce a te, e non riesci a
riprenderti nulla di ciò che avevi? Allora che cosa puoi
fare?
L’inganno
tessuto per tanto tempo mi si è ritorto contro, e io non ho
saputo
pagare il prezzo imposto; quel “lasciami sola” che
ho pronunciato
fino alla sfinimento è diventata l’unica
realtà che potessi
calzare.»
Le
luci dei lampioni e delle timide stelle si accesero e intrappolarono
il loro riflesso nei suoi occhi, mentre le parole si susseguivano
senza alcuno sforzo in una confessione che più scioglieva il
grumo
di un’assenza sofferta meno dilaniava.
Amaya
sussultò di sorpresa quando a un certo punto il suo
ascoltatore le
prese le mani tra le sue e le strinse per spingerla a parlare ancora;
ma non si ritrasse, come se avesse davvero ripreso forza non si
arrestò. «Non
sarò mai coraggiosa come Umiko; nonostante quello che ha
vissuto ha
imparato a sorridere di nuovo, e credo che dopo oggi sarà
ancora più
serena.»
«No,
non credo che lei sia più coraggiosa di te. Voi due siete
uguali.»
Amaya
guardò Stinger con aria interrogativa, prima che questi le
rispondesse: «Ti
ha salvato prima di cadere, come qualcuno ha fatto con lei. Ti ha
impedito di scivolare dal ponte, ti ha permesso di vivere;
ti ha spinto a fronteggiare anche le tue paure, e grazie a lei ora ne
stai parlando. Ti ha dato un’altra possibilità con
un solo gesto.»
La
donna rimase in silenzio. «Mi stai parlando come se avessi
una
speranza.»
«Se
dentro di te non ci fosse stata ti saresti lasciata attaccare dal
mutaforma senza provare a difenderti; non avresti resistito per tutte
queste ore, non è vero?»
«Già»,
mormorò lei infine. Più
tento di vedere nella donna di oggi una sconosciuta, più
trovo me
stessa. Lentamente. Costantemente.
È
come se mi trovassi davanti a uno specchio e stentassi a
riconoscermi, ma mano a mano prendessi conoscenza dei miei tratti e
scoprissi di averli dimenticati.
Di
essere incompleta. «Stinger…
ho
comunque paura di domani. Di scoprire che in realtà non
è cambiato
nulla e non potrà mai farlo, di aver dimenticato
tutto.»
Ho
paura di infrangere quel vetro e non vederne più la luce.
Ho
paura di non stupirmi più di me stessa.
«Beh,
è vero che se tu ti dimenticassi di me sarebbe triste,
soprattutto
dopo essere sbucata dal nulla per abbracciarmi.»
Amaya
arrossì, quindi ridacchiò e infine rise davvero;
brevemente, ma
senza fatica. «In
effetti mi sarà difficile scordare quel passaggio.»
«E
allora non dimenticherai nulla. E tutte le domande che porti dentro,
quelle che ti rendono confusa e instabile, loro troveranno una
risposta solo se le cercherai; e magari scoprirai che è
sempre stata
davanti ai tuoi occhi, intorno a te.»
Lei
alzò lo sguardo alla volta ormai rigonfia di bagliori, come
doveva
essere il suo sguardo. Le lacrime pizzicavano, ma le avrebbero fatto
bene quando si sarebbero liberate. «Dopo
questa giornata ho tante persone a cui devo la vita»,
mormorò.
«Almeno
in questo senso non posso più definirmi inutile e
sola.»
«Non
dovresti nemmeno pensarlo, perché nessuno lo è;
siamo tutti
connessi, anche a chi non è con noi. Hai visto le scarpe di
Umiko?»
«No…
perché me lo chiedi?»
«Per
caso ho notato che erano bruciate, in parte, e di certo non
femminili.»
«Che
siano quelle del suo ragazzo?»
«Lo
penso anch’io, e se lo sono davvero lo trovo bellissimo:
perché ha
deciso di percorrere la strada, qualunque essa sia, qualunque lei
voglia, per sé stessa e per lui.»
«In
questo modo non lo sentirà mai lontano»,
finì per lui la donna,
che sorrise di nuovo e si abbracciò. Vorrei
ancora sperare che anche per me verrà il giorno in cui
qualcuno mi
dirà che sono perdonata, che sono amata; e prima che lo
faccia un
altro, vorrei farlo io. Quello
sarebbe un giorno che meriterebbe di essere visto; quello sarebbe un
giorno in cui potrei credere.
Il
rombo di un tuono la riscosse dalla sua posizione, ma non la
spaventò
più di tanto, né si turbò quando il
profumo della pioggia iniziò
a giocare con l’aria.
«Uh-uh,
qui si sta per scatenare un bel temporale», saltò
in piedi Stinger,
«e sta arrivando davvero velocemente.»
«Io
amo il buio quanto la pioggia», rispose lei, lo sguardo
rapito dalla
volta, «è scritto perfino nel mio nome. Non
c’è nulla che possa
quietarmi o farmi sentire bene come un acquazzone serale», e
detto
questo lasciò la panchina e la seppur minima protezione
degli
alberi. Discreto, il cielo iniziò a piangere appena lei gli
aprì le
braccia, e le gocce presero a scivolare tra i suoi capelli come
perle.
«Così
ti prenderai un malanno», le disse il classe A, avvicinandosi
a lei
e stringendola tra le braccia, «e guarda qui, sei
già gelida.»
Amaya
ricambiò la stretta. «Hai fatto bene a darmi un
abbraccio, te ne
dovevo un altro per avermi ascoltata. Sei il primo a non essere
scappato.»
«Mi
piace ascoltare la gente parlare», disse scompigliandole i
capelli,
«non è mai un problema. E poi non mi sembra che tu
abbia zanne o
spine da cui fuggire!»
«No,
è vero», fu la risposta, intrisa di pianto di
liberazione, «ma non
sai quanto bene tu mi stia facendo. Grazie»,
mormorò, affondando il
volto nel petto dell’eroe e respirando il suo calore,
aumentando la
stretta come per timore di avvolgere il vuoto.
«Aspetta…
perché stai piangendo? Ti sto facendo male?»
«No,
assolutamente no; io piango… piango…»
Piango
perché mi sono sbagliata, ed è questo il giorno
in cui iniziare a
credere;
piango
perché il mio esilio sta finendo, e non importa quanto
sarà lungo
il viaggio; casa non è mai stata così vicina.
ANGOLO DI MANTO
E dopo giorni e giorni di
scrittura, anche quest’avventura è giunta al suo
termine.
Ancora una volta, grazie a
Emanuela.Emy79
per avermi dato l’opportunità di scrivere
nuovamente su Opm, il
fandom che da qualche mese a questa parte è praticamente mia
casa e
rifugio ♥
Grazie
anche a tutti coloro che hanno letto e a chi vorrà lasciare
un segno
del proprio passaggio **
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