Diario di una sopravvissuta

di CassandraBlackZone
(/viewuser.php?uid=339283)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Giorno uno ***
Capitolo 2: *** Paura di ricordare ***
Capitolo 3: *** Quella fatidica notte ***
Capitolo 4: *** Libertà irraggiungibile ***
Capitolo 5: *** Non idonea alla terapia ***
Capitolo 6: *** Gocce d'acqua ***
Capitolo 7: *** Solo due dita di latte ***
Capitolo 8: *** L'amico ritrovato ***
Capitolo 9: *** E' davvero... la fine? ***
Capitolo 10: *** Giorno X ***
Capitolo 11: *** Tanti auguri ***
Capitolo 12: *** La verità uccide ***
Capitolo 13: *** Due assassini, un solo destino ***



Capitolo 1
*** Giorno uno ***


Nome paziente: Elizabeth Grell
 
Compito assegnato: per 60 giorni il paziente dovrà scrivere minimo due facciate di diario ogni giorno esprimendo le proprie sensazioni e descrivendo la propria routine anche nei particolari.
 
Ciao diario in finta pelle nera con una pessima chiusura a calamita. Questo è il mio primo giorno con te e temo che mi dovrai sopportare.
In questi sessanta giorni mi occuperò di scrivere come mi sento, cosa provo mentre lo faccio e in generale cosa faccio durante la giornata, come mi è stato purtroppo ordinato dalla psicologa della scuola. No, non sono pazza, ma lei, alcuni miei parenti e diversi medici da cui sono andata nel giro di un anno lo pensano, e questa è la terapia che mi hanno tutti consigliato.
“Ti aiuterà a scaricare l’ansia, in modo tale da estinguere totalmente il trauma subìto.” , così mi hanno detto.
 Se devo essere sincera, ho sempre odiato i diari come te fin da quando ero piccola, specialmente parlare con voi (Bene… ora sì, che sembro svitata…), ma ahimè, fa sempre parte della terapia e giuro che questa è la sola ed unica eccezione.
Così come odio tenere un diario, odio scrivere le date dei giorni, eccetto per le verifiche e i test, lì sono obbligata a farlo, perciò mi concederò il lusso di scrivere almeno grosso modo il periodo.
Sono passati circa tre mesi dall’inizio del nuovo anno scolastico e da un anno a questa parte, la mia vita è rimasta un inferno. Mi piacerebbe tanto scrivere cose smielate come “Ho l’appoggio dei miei amici”, ma il fatto è… che non ho degli amici, ma bensì ex-amici. Nel vero senso della parola. Litigi fra ragazze? Amori non corrisposti? No. Purtroppo non mi trovo in un classico cliché da romanzo per ragazzi. La causa è di tutt’altra natura, e quella causa… sono proprio io.
Nel momento in cui varco la sudicia soglia della scuola, le mie uniche ‘amiche’ sono un paio di cuffie e una playlist di canzoni accuratamente scelte, affinché mi possano aiutare ad affrontare gli sguardi fugaci di miei coetanei e professori ogni mattina. (Ancora mi chiedo perché mi abbiano assegnato l’armadietto numero 223. Di nuovo.)
Il mattino è il momento ancora sopportabile, la vera scocciatura sta durante le lezioni e l’ora di pranzo. Tutti mi evitano, come se avessi una strana malattia; tendono a starmi lontano almeno a un metro di distanza ; pur di non incrociarmi o camminarmi davanti, abbassano lo sguardo anche a costo di andare a sbattere contro qualcosa. Ammetto che spesso assisto a delle scene esilaranti che in qualche modo completano la mia routine quotidiana.
Chiunque si dovesse trovare nella mia situazione, così mi dice sempre la psicologa ogni venerdì pomeriggio, è normale che si senta male, sola e - tutto un elenco di stati d’animo di cui molti non ne avevo mai sentito parlare… ma questo non è decisamente il mio caso. No. Io non mi sento sola, non sto male, non sono pazza, io sono perfettamente consapevole della posizione in cui mi trovo e di conseguenza non biasimo la reazione di coloro che mi vedono.
Paura: è questo che vedo attraverso quei pochi sguardi che di tanto in tanto riesco ad incrociare, volendo  potrei anche aggiungere compassione, ma la paura è sempre presente, e io lo capisco.
Non sono forse degli esseri umani? Io non ho mai preteso di essere capita o di essere consolata. No. Gli esseri umani sono liberi di fare quello che vogliono, soprattutto se si tratta della propria incolumità, è tutto più che comprensibile.
È impossibile. È una sua complice. L’ha tenuta in vita per uccidere più persone: è un’esca umana. Ci farà ammazzare tutti.
No, è inutile. Ogni giorno cerco di farmi coraggio e provare a raccontare la mia versione, così da smentire ogni sorta di voce, ma non ce la faccio. Io vorrei davvero… raccontare cosa successe realmente quella notte di un anno fa. La notte in cui i miei genitori vennero uccisi.
 
Il mio nome è Elizabeth Grell. Sedici anni. E sono sopravissuta al tentato omicidio di Jeff the killer.
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
Salve a tutti. È la prima volta che scrivo una ff non legata ad un telefilm.  Il fatto è che volevo provare a scrivere appunto qualcosa di diverso e così… sto provando con una creepypasta, che in realtà lo volevo fare da un po’ di tempo, perciò… eccomi qui.
Ovviamente questo primo capitolo è povero di contenuti, ma spero di aver stuzzicato almeno un po’ la vostra curiosità.
Grazie in anticipo a tutti coloro che hanno avuto il tempo di leggere e… alla prossima.
 
Cassandra

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Paura di ricordare ***


Giorno 8
 
Niente. Non riesco proprio a ricordare. Cerco invano di rimettere insieme più immagini possibili, ma appaiono tutte sfuocate e senza alcun rilievo nella mia mente.
È passata una settimana da quando tutto iniziò e non c’è stato un solo giorno in cui non mi sia svegliata nel cuore della notte. Ogni volta è una continua battaglia prima col piumino e poi con il pigiama, il collo in fiamme per dei graffi che stento sempre a credere essere opera mia e il tutto accompagnato da urla isteriche, sudore e lacrime. Il cuore batte a più non posso, finché mia nonna non raggiunge la mia stanza e mi tranquillizza più che può. Lei mi abbraccia, mi parla e chiama il mio nome con una sofferenza insostenibile negli occhi, ma nonostante tutto è sempre rimasta al mio fianco, fino alla fine: proprio come fece al funerale dei miei genitori.
Nonna Jo fu l’unica parente da parte di mio padre ad aver commemorato la loro morte sull’altare, se non anche l’unica che affrontò a testa alta i suoi stessi parenti e quelli di mia madre, che si rifiutarono di avere a che fare con me. E così successe: nessuna telefonata, nessun biglietto di auguri di Natale o Pasqua, figurarsi una visita.
«Non abbiamo bisogno di loro. Ti prenderò cura io di te, d’ora in poi. Stai tranquilla»
Quel giorno, finita la riunione di famiglia, piansi. In silenzio, ma piansi.
Come mio padre, nonna Jo è forte di carattere, una sorta di maschiaccio e non si fa mettere sopra i piedi da nessuno, anche quando il nonno ci lasciò quando ero solo una bambina, era rimasta irremovibile. Alla notizia della mia disgrazia, iniziò inaspettatamente ad essere dolce, carina e più materna nei miei confronti.
Anche oggi tentò per l’ennesima volta di persuadermi a restare a casa, ed io risposi a tono che la sua tisana aveva fatto nuovamente miracolo. Un falso sorriso, se fatto bene, riesce sempre a scioglierla dalla tensione. Quando ridacchia e annuisce, significa che la farsa ha funzionato.
Il peso della responsabilità che deve sostenere sulle sue spalle, non è niente in confronto a quello che mi aspetta ogni giorno, ed è proprio questo pensiero a darmi la forza di andare avanti. Il mio compito è di non crearle nessun tipo di problema, pensare a prendere bei voti e non finire nei guai.
 
Giorno 9
 
Nonna Jo ha rischiato di cadere dal letto avendomi sentito urlare più forte del solito. Assonnata e di cattivo umore, ho lasciato in bianco il test di chimica. Due propositi su tre sono già andati in fumo nel giro di ventiquattro ore: bel colpo Elizabeth.
La situazione sta diventando a dir poco ridicola. Tutti i farmaci che mi sono stati prescritti sembrano non aiutarmi a dormire, anzi, non fanno che peggiorare la mia condizione. Oltre ai graffi sono spuntati dei morsi sugli avambracci che hanno lasciato sulla pelle grossi lividi, ma che fortunatamente sono riuscita a nascondere con una maglia a maniche lunghe, onde evitare che nonna Jo si preoccupasse più di quanto non lo fosse già.
Ho continuato a sperare fino all’ora di pranzo che non si presentasse un’altra sorpresa inaspettata. Mi sarei mangiata tranquillamente la mia bella bistecca asciutta con un purè di patate annacquato come contorno e me ne sarei tornata a casa; ma pregustai l’immagine di me sul letto o sul divano troppo presto, poiché il terzo proposito si fece avanti, pronto a essere distrutto.
«Ciao. »
In quel momento persi due battiti del cuore e con lui anche l’appetito. Ci misi un po’ a capire che vicino a me si stavano per sedere tre ragazzi.
«Possiamo sederci?» continuò il ragazzo moro.
Fintanto che pensavo a cosa rispondere, mi concessi due secondi per vedere con chi avevo a che fare, e alla fine li riconobbi tutti e tre: quello che parlò era Benedict Scott, che frequenta il mio stesso corso di matematica. Alla sua sinistra il quattrocchi riccioluto Matthew Smith e al fianco di quest'ultimo c'era il mingherlino pel di carota David Baker, caporedattore il primo e vice il secondo del giornalino scolastico.
«Sì?»
«È una domanda o una risposta?» mi chiese ridendo.
«No, scusa… io…» Ecco cosa succede a non parlare con qualcuno al di fuori di professori e nonna Jo. Non so perché, ma ero particolarmente nervosa e imbarazzata.
«Tranquilla. Possiamo immaginare che sia strano per te vedere qualcuno sedersi al tuo stesso tavolo a pranzo.»
«Sì, infatti…»
«Be', ti ci abituerai. Lizzie» disse con un certo entusiasmo Matthew.
Lizzie. È da tanto che nessuno mi chiamava così. Mi vennero in mente i miei due migliori amici, Rose e Jordan, che ovviamente per paura la prima si trasferì in un’altra città e il secondo rimase, ma cambiò scuola. Ho sempre saputo che il motto amici per sempre era un’emerita cavolata, è questa ne era la prova.
«Scusate, sono un po’ confusa.»
«E lo credo bene, Lizzie. Tre ragazzi di cui sai probabilmente solo il nome ti stanno parlando.»
«Posso sapere cosa volete?»
«Oh, vai dritta al punto! Wow!» urlò David a bocca aperta. Disgustoso.
«No. Dico sul serio. Se starete vicino a me tutti vi eviteranno.»
«E credi che questo ci possa fermare?»
I loro inquietanti sorrisi mi davano l’impressione di avere davanti tre bambini impazienti di aprire il loro regalo di Natale in anticipo, invece di tre liceali. Era evidente che qualsiasi cosa avessi risposto, loro non se ne sarebbero andati.
«Senti, so bene che… potrebbe suonare anormale come cosa…»
«Al momento sto solo cercando di capire, Scott. Ora, vorrei sapere cosa volete da me. E siate chiari e diretti.» ero troppo stanca e arrabbiata per ulteriori e inutili ansie. Chissà come, in un certo senso sapevo cosa volessero, anche se una parte di me preferiva non parlarne. Pregai che ciò non accadesse.
«D’accordo. Come vuoi.» Ben si preparò a parlare schiarendosi la voce e accogliendo i consensi dei due amici che annuirono. «Un anno. Abbiamo aspettato un anno per questo. Anzi, un anno e tre mesi e mezzo, per chiederti questo»
Come volevasi dimostrare, le mie mani erano già pronte a prendere il vassoio.  Non ero del tutto sicura se lanciarglielo addosso o semplicemente buttarlo a terra, sapevo solo che avevo bisogno di tenere le mani impegnate, che dovevo far passare quel fastidioso prurito che partiva dalle dita fino ai polsi. Se ero arrabbiata? Certo che lo ero.
«Per favore, Lizzie.  Raccontaci come sei sfuggita a Jeff the killer.»
 
Giorno 12
 
Alla fine non riuscii a rispondere a Benedict. Lasciai il tavolo subito dopo senza nemmeno guardarlo in faccia. Mi aspettai che mi fermasse o mi urlasse di tornare indietro, e invece… lui rimase seduto coi suoi due amici con un’espressione comprensiva in volto. Tornai a casa arrabbiata e delusa, non ebbi nemmeno voglia di mangiare la speciale torta alle noci di nonna Jo preparata con amore e mi rinchiusi in camera.
Per la gioia di nonna Jo le dissi che non mi sentivo bene per via delle precedenti nottate insonne e che quindi decisi di restare a casa almeno per due o tre giorni.
Fino ad oggi ho avuto tutto il tempo per riflettere  sulle parole e sulla richiesta di Benedict: mi sentii, e tutt’ora mi considero, una stupida. Ho finalmente compreso che il mio era stato un comportamento immaturo. Volevo che qualcuno mi ascoltasse per filo e per segno e io cosa faccio? Scappo via? Dov’era finito tutto quel coraggio che mi ero ripromessa di conservare? Non sono solo stupida, ma anche vigliacca. Non amo particolarmente questa parola, ma sfido chiunque ad obbiettare che stare sotto le coperte a mangiare m&m’s  dalla mattina alla sera non sia un gesto di codardia.
È dura da ammettere, ma… ho paura.
Ho paura di ricordare quella notte primaverile, una come tante altre, rovinata da un tonfo improvviso al piano di sotto; di sentire ancora quel orribile fetore che mi investì appena aprii la porta della mia stanza. Ho paura di seguire quella scia rossa e viscosa a piedi nudi, di tenere stretta tra le mani la mazza da baseball preferita di papà per farmi coraggio. Ho paura… di girare l’angolo per raggiungere il salotto, di lasciar cadere la pesante mazza di metallo sul parquet e urlare davanti ai corpi dei miei genitori orribilmente accoltellati e con un falso sorriso intagliato direttamente sui loro volti.
 
Ho paura…
 
Come successe nelle precedenti notti, iniziai a sentirmi male, mi strinsi nelle coperte a costo di rompermi anche le costole. Cercai di sopprimere ogni singola immagine chiudendo più che potevo le palpebre, di non sentire più le mie urla coprendomi le orecchie e di trattenere i conati di vomito stimolati da quell’odore pungente e nauseabondo.
Non ebbi la forza di urlare, di chiamare nonna Jo. Non respiravo, mi faceva male tutto il corpo, ma per qualche strano motivo… sapevo che sarei riuscita a resistere. Che avrei dovuto resistere.
Per tutto questo tempo, per un intero anno, io… ero riuscita a dimenticare a mia insaputa; tutto. E solo ora compresi a cosa erano dovute quelle notti passate nell’agonia. Non erano incubi, bensì ricordi che cercavano di riaffiorare dai meandri della mia mente; ricordi che inconsciamente archiviai come falsi e che reputavo impossibili.
Quando mi alzai dal letto, sentii tutti i muscoli tirati, le orecchie che pulsavano e vedevo luci che mi ballavano sul naso. I morsi della fame furono gli ultimi a farsi sentire.
Ero alquanto confusa, ma… al tempo stesso ero sollevata e inaspettatamente rilassata. Ci misi un po’ a capire cosa fosse successo, da dove tutto fosse cominciato.
Capisco solo ora cosa tutti i medici e la psicologa intendessero per trauma, e capisco inoltre quanto sia stata cieca fino adesso. Negavo l’evidenza, rispondevo ad ogni loro singola domanda con un sto bene ripetitivo, quando in realtà dentro mi sentivo… così.
Ora come ora, mi è tutto più chiaro. Mi sento come se avessi già la soluzione tra le mani e sapessi già cosa fare e spero vivamente che questa volta sia la volta buona.
 
Giorno 19
 
Non mi sorprese più di tanto l’attacco d’ira di nonna Jo. Il telecomando finì fuori dalla finestra frantumandosi sull’asfalto – fortuna che non c’era Billy, il ragazzo dei giornali.
Il telegiornale annunciò di prima mattina un omicidio di massa, il più grande dopo diversi mesi; questa volta successe in un dormitorio maschile militare.
Fu una strage, in cui nessun cadetto aveva avuto scampo e se qualcuno avesse provato a fuggire, la conseguenza fu venir bruciati. Successe tutto in una notte, e riconosciuto il modus operandi, la polizia capii subito chi fosse l’artefice di tutto ciò, ma prima che potesse pronunciare il suo nome... ciao ciao telecomando.
Già mi stavo immaginando la gente della città. A quest’ora saranno in preda al panico, dal momento che il dormitorio non dista molto da qui. Cercheranno tutti di tornare presto da scuola o dal lavoro e di evitare ogni sorta di turno notturno. Dopotutto, era ritornato il famigerato Jeff the killer, in seguito ad una sua lunga assenza di circa sei mesi.
«Quel bastardo»
Nonna Jo non faceva che ripeterlo tra un piatto sporco e l’altro. L’ha sempre rilassata lavare i piatti , oltre che estirpare le erbacce del giardino. Mi dice sempre che si immaginava di strappare i capelli di quelle oche delle sue sorelle più grandi di lei.
Quando finii la colazione, accolsi con piacere il dolce sorriso di nonna Jo prima che iniziassi a salire le scale. Mi disse che era contenta di vedermi rilassata, ma soprattutto riposata bene. Io le risposi che io ero contenta quanto lei e che decisi finalmente di riprendere la scuola.
Nonna Jo mi abbracciò forte a sé, ripetendomi che era orgogliosa di me per essere riuscita a dimenticare quella disgrazia, ma io le dissi subito che non era così. Io non avevo affatto dimenticato.
Fu a dir poco esilarante la sua reazione, mentre io le sorrisi semplicemente. Era uno di quelli sinceri, per niente forzato. Chiarii subito il fraintendimento spiegandole che ieri pensai a lungo ad ogni mia singola azione da allora e che arrivai ad una conclusione. Ovviamente lei mi chiese preoccupata di che cosa trattasse, ma io mi limitai a risponderle che sarebbe andato tutto bene.
Arrivata a scuola, non aspettai altro che l’ora di pranzo, così da poter finalmente attuare i miei piani. Non ci misi molto a trovare i diretti interessati, poiché erano seduti allo stesso tavolo di due settimane fa.
Colsi l’occasione per spaventare da dietro Benedict. Una reazione da manuale, tralasciando il petto di pollo affogato nel tè.
«Lizzie?!»
La luce negli occhi di Ben, Matt e David mi invitarono ad allargare il sorriso più di quanto non lo fosse già. Due secondi dopo lo fecero anche loro.
«Ciao Ben. David. Matt.»
«Che bello, sei tornata! Sei… stata male?»
«Qualcosa del genere. Voi? Tutto bene?»
«Noi sì, tutto bene. Beh, ecco… noi volevamo… chiederti scusa. Per quello che successe qualche giorno fa. Non avremmo dovuto chiedertelo così all’improvviso.»
Lo ammetto: mi si era scaldato il cuore. Tutti e tre erano evidentemente mortificati da come tenevano la testa bassa come dei cani bastonati, ma io accettai subito le loro scuse, dicendo loro di non fare quelle facce scure.
«Bene. Ora che ci siamo chiariti, io sono ritornata proprio per voi.»
«Per… noi?»
«Esatto. Se non fosse stato per voi, io a quest’ora non sarei qui.»
«Sono un po’ confuso…»
«Ogni cosa ha il suo tempo, Matt. Ora. Sono pronta a soddisfare la vostra richiesta.»
«D-davvero?!» urlò entusiasta Ben, seguito da David e Matt.
«Dopo scuola andremmo tutti a casa mia. E vi racconterò tutto. Dopotutto, avete dovuto aspettare un anno per questo, no?»
Non a caso chiesi a loro di venire a casa mia proprio oggi. Avevo sbirciato nell’agenda di Nonna Jo e fortunatamente aveva un pick-up da riparare fuori città. Sarebbe stata fuori tutto il pomeriggio.
Lasciai che i ragazzi si ambientassero in casa, chiedendoli di fare attenzione a tutto ciò che era fragile( tra cui la collezione di statuette di marmo di nonna Jo, gelosamente tenute negli armadietti di vetro in salotto).
«Se volete possiamo restare in salotto. È più spazioso che in camera mia.»
Tutti e tre acconsentirono e si sedettero sul divano con il naso ancora per aria.
«Avete una casa molto grande.»
«Grazie, Ben. La costruirono i miei nonni.»
«Fantastico!»
«Allora vogliamo cominciare?»
«Aspetta, Lizzie. Sappi che noi abbiamo pensato a lungo durante la tua assenza, e non vogliamo assolutamente che tu ti sforzi per una richiesta tanto delicata.»
«Esatto. La nostra è semplice curiosità! Se vuoi aspettare noi…»
«Anche io ho avuto modo di pensare.»
Ben, Matt e David si guardarono uno alla volta increduli.
Non so perché, ma li trovavo estremamente divertente. Ho notato che oggi ero piuttosto euforica, forse perché non vedevo l’ora di fare qualcosa di nuovo. Non vedevo l’ora di cambiare.
«Se non fosse stato per voi, io a quest’ora non mi sarei decisa a parlare. E per questo io vi ringrazio. Mi scuso solo che abbiate dovuto aspettare così tanto.»
«Ne sei… davvero sicura?» chiese di nuovo Ben.
Io annuì «Sono sicura.»
Lentamente i ragazzi iniziarono a rilassarsi e a preparare tutto ciò per cui erano venuti.
David si preparò a stenografare ogni singola parola che sarebbero uscite dalla mia e dalla bocca di Ben, mentre Matt tirò fuori dal suo zaino un grosso raccoglitore etichettato Casi di omicidio di Jeff.
«Sbaglio o avete un amore indiretto verso Jeff?» scherzai.
«Direi piuttosto che ci ha affascinato la sua storia fin dal suo primo omicidio. È da circa quattro anni che noi raccogliamo ogni informazione legata a lui.»
«Capisco.»
«Noi qui siamo pronti.» dissero all’unisono i due redattori.
«Bene. A questo punto parto con la prima domanda, Lizzie. Hai tutto il tempo per rispondere con calma. Che cosa successe la notte in cui i tuoi genitori morirono?»
Come provai per una intera settimana, cercai di controllare il ritmo sia del mio respiro che del mio cuore. Formulai come meglio potevo ogni frase da pronunciare nella mia testa prima di parlare, di raccogliere ogni immagine senza che le mie emozioni potessero trafelare. Nei primi due giorni che provai fu molto difficile, sicché sono ancora confinata nel trauma, ma notai con piacere che era tutto sottocontrollo.
Sì. Ero pronta.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
in queste tre settimane la scuola ha avuto il sopravvento, senza contare che ho alle spalle altre storie, che purtroppo sono anch’esse arretrate… le mie aspettative di riuscire a raccontare sottoforma di diario beh… non so se stia facendo effettivamente giusto, perciò lascio il verdetto a voi e se avete consigli da darmi, ben venga. Io solitamente spiego ogni cosa per tempo, perciò se vi sembrerà che qualcosa manchi... non preoccupatevi, tutto verrà spiegato.
Premetto subito che il prossimo capitolo non farà parte del “diario” di Lizzie. Di cosa parlerà? Beh, lo leggerete poi ( o forse lo avrete già intuito).
Ho il vizio di fare stupidi errori di ortografia per distrazione, ma spesso anche grammaticali. Accetto ogni tipo di segnalazione. Spero di riuscire ad aggiornare il più presto possibile la prossima volta. Grazie per la vostra attenzione.
 
Cassandra

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Quella fatidica notte ***


PREMESSA DELL’AUTRICE:
Mi scuso terribilmente per il disastro del secondo capitolo. Dio solo sa perché ho deciso di usare delle virgolette diverse dal solito, ma prometto che la prossima volta farò più attenzione.
Come scrissi in quel capitolo, mi stacco un attimo dal diario di Lizzie per raccontare… beh, il titolo dice tutto. È venuto un po’ corto, non me lo aspettavo, ma spero comunque che vi piaccia.
Grazie per la pazienza e buona lettura.
 
Cassandra
 
Tornammo tardi quel giorno. Papà decise di portarci fuori città, in mezzo alla campagna, giusto per respirare un’aria diversa e per approfittare di una così bella domenica. Ci godemmo tutta quella natura incontaminata ingozzandoci della frutta freschissima gentilmente offertaci dalle persone del posto. Tutto era filato liscio, senza alcun problema, fino al nostro rientro.
Erano le due e ventiquattro di notte. A svegliarmi fu un tonfo pesante. Mi alzai così di colpo, che mi vennero dei crampi ad entrambi i polpacci; mi ci vollero due minuti buoni per rilassare i muscoli massaggiandoli.
Il mio vizio di lasciare le pantofole all’ingresso mi costrinse a toccare il pavimento gelato e raggiungere la porta della mia stanza a piedi nudi. Ero sicura che quel colpo venisse dal piano di sotto e mi stupii il fatto che i miei genitori non si fossero svegliati come me, ma il mio unico pensiero, in quel momento, era scoprire cosa fosse successo.
Mi pentii amaramente per aver aperto la porta velocemente, poiché subito mi investì un odore maleodorante, putrido, marcio, che non potei evitare nemmeno portandomi una mano davanti al naso. Era il terribile odore…  della morte.
Forse, pensai, correvo a conclusione troppo affrettate. Forse il mio cuore batteva così forte per colpa di quel fetore. O forse… avevo ragione di credere che qualcosa non andava.
Ignorai del tutto le piante dei piedi congelate e corsi verso la stanza dei miei genitori, tre porte dopo la mia, e rimasi scioccata davanti alla serratura forzata e alla maniglia macchiata di… sangue. Cominciai ad annaspare in cerca di aria. Avevo lasciato il mio inalatore sotto il cuscino, perciò dovetti arrangiarmi cercando di riprendere a respirare regolarmente. Non può essere, continuavo a ripetermi, non é assolutamente possibile .
Non persi altro tempo e decisi di raggiungere le scale per il piano di sotto, ma di nuovo fui costretta a fermarmi, avendo sentito qualcosa di viscoso e caldo sotto i miei piedi. Abbassai lentamente il mio sguardo, pregando con tutta me stessa che non fosse quello che pensavo; le lacrime uscirono istintivamente. Era di nuovo sangue.
Una scia rossa lunga circa due metri, separavano me e le scale a chiocciola. Preso un profondo respiro, mi feci coraggio e andai avanti il più rapidamente possibile. Su ogni gradino erano ben visibili delle orme di un paio di scarpe da ginnastica, assieme ad ulteriori macchie di sangue irregolari.
La mia vista veniva sempre più offuscata dalle mie lacrime che scendevano copiosamente sulle mie guance.
L’ennesimo tonfo mi fece trasalire a tal punto che presi al volo la prima cosa che vidi raggiunto l’ingresso: purtroppo dovetti prendere la mazza da baseball preferita di papà. Era firmata da uno dei suoi battitori preferiti.
Il salotto: era lì che dovevo andare.
Le nocche divennero bianche per quanto stringevo il manico ricoperto di cuoio. Affrettai il passo incurante della paura sulle mie spalle e alzai le braccia, pronta a colpire qualsiasi cosa potessi trovarmi davanti e…
 
Tonk
 
Le mie mani lasciarono cadere la mazza sul parquet, seguita dalle mie ginocchia e urlai. Urlai più che potevo, con le mani fra i capelli, gli occhi obbligati a restare aperti davanti a quell’orrore.
Sul divano, seduti uno accanto all’altro, c’erano i miei genitori, che mi fissavano senza vita.
Sia le gambe che le braccia erano state rotte con la forza. Le gole sgozzate da cui ancora sgorgava sangue. I toraci era pieni di profonde ferite da taglio, ancora fresche, mentre sui loro volti inespressivi, era stato intagliato un largo e agghiacciate sorriso scarlatto.
Li chiamai a squarciagola, con la speranza che potessero ancora sentirmi, ma invano. Mamma e papà erano morti; erano stati brutalmente uccisi. Chi, mi chiedevo, chi mai poteva aver fatto una cosa del genere?
La mia domanda ebbe subito la risposta che cercava. Quell’orribile tanfo che avevo sentito al piano di sopra, era ben percettibile, quasi come se… la fonte fosse proprio dietro di me.
«A… dormire…»
Una voce rauca e profonda mi fece rabbrividire e mi impedii di fare qualsiasi movimento. Smisi di singhiozzare e di piangere, in preda alla paura.
«Tu.. dovevi… andare a dormire!» riprese lui urlando.
Io rimasi il silenzio, o almeno era quello che cercavo di fare con le mani davanti alla bocca.
Qualcosa di appuntito mi picchiettò sulla schiena. Cacciai un urletto involontario, che irritò terribilmente l’uomo. Era un chiaro invito a girarmi verso di lui, e così obbedì.
Entrambi ci fissammo; senza ansimare o piangere. Lo facemmo a lungo.
Io mi persi nel suo volto deformato, come se ero sotto l’effetto di un incantesimo. La sua pelle era biancastra, ricoperta di crepe da cui era visibile uno strato di pelle vecchia. Gli occhi, invece, erano privi di sopracciglia, solo cerchiati di nero e incrostati di sangue chissà quanto vecchio. Aveva i capelli lunghi e neri fino alle spalle, forse di più, arruffati e unti, ma ciò che mi sconvolse, anche più del coltello che teneva in mano era… il suo sorriso. Quell’inumano sorriso che avevano i miei genitori ce lo avevo anche lui: largo fino agli zigomi, più rosso del sangue che ricopriva interamente il suo corpo.
Fu allora che lo riconobbi. Fu allora che capii che razza di demonio avessi di fronte.
All’improvviso sentii la mia mente come svuotata. Mi afflosciai abbassando lo sguardo, ormai pronta ad arrendermi. Ero stanca, avevo mal di testa. Non avevo le forze per scappare, neanche volendo: le mie gambe si rifiutavano di ascoltarmi. Basta. Pensai che fosse doveroso persino allargare le mie braccia, giusto per accentuare la mia resa. Veloce e indolore; era quello che mi aspettavo che facesse il famigerato Jeff the killer, cosa che però non successe.
Ormai ero pronta. Ero una preda facile da uccidere, eppure… lui non fece nulla. Perché? Perché non finì il lavoro che aveva iniziato? Che cosa stava aspettando? Che cosa stava facendo?
Volevo saperlo. Volevo ardentemente sapere che cosa lo spingeva ad esitare e così alzai la testa.
Qualcosa di caldo mi colpì come carboni ardenti sulle guance. Erano piccole gocce nere che cadevano una ad una da quelli che un tempo erano gli occhi di un essere umano: Jeff stava piangendo. Piangeva in silenzio, abbassando il coltello per poi farlo cadere vicino ai suoi piedi. Piangeva e piangeva, fissandomi, mentre io lentamente svenivo ormai priva di forze.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Libertà irraggiungibile ***


Non appena finii di parlare, fu come se avessi trattenuto per tutto il tempo il respiro; chiusi gli occhi e iniziai a fare dei grandi respiri profondi, attirando l’attenzione di Ben che subito mi si avvicinò per chiedermi se stessi bene: me lo chiese tre volte. Continuava a ripetermi che ero pallida, come se fossi pronta a vomitare l’anima, ma io gli sorrisi e gli risposi che stavo più che bene, ed era così.
Mi sentivo come alleggerita da un enorme peso. Ero stanca sì, ma non mi ero mai sentita così sicura davanti a qualcuno prima d’ora: forse perché avevo parlato con dei miei coetanei? È assolutamente plausibile, se non anche il modo migliore per affrontare ciò che stavo passando; o almeno era quello che pensavo.
«Wow… voglio dire… wow…» fu l’unico commento di David. Matt si limitò ad annuire fissandomi , ma né uno né l’altro poterono battere Ben, che mi scrutava con una tale intensità e serietà da farmi sentire a disagio e sotto interrogatorio.
«Allora… cosa ne pensate?» provai a sciogliere l’atmosfera.
«E dopo?» mi chiese Ben, ignorandomi.
«Dopo?»            
«Sì, dopo. Quando ti sei svegliata, che cosa è successo?»
Mi concedetti qualche secondo per riflettere e ricordare :«Fu un paramedico a svegliarmi. Erano circa le otto del mattino e la casa era zeppa di poliziotti che portarono via i corpi dei miei genitori e a sigillare tutto con cellophane e nastri. Dopo di che… mi interrogarono.»
«In pratica il classico cliché da film poliziesco.»
Annuì.
«Hai raccontato quello che successe proprio come a noi?»
«Sì.»
«Bene. Ok. È davvero interessante.»
«Interessante? Vorrai scherzare, Ben?! È tutto quello che riesci a dire? È un’informazione d’oro! Una cosa mai successa in otto anni da quando Jeff ha iniziato la sua carriera da serial killer!»
Fui alquanto sorpresa dall’eccessivo entusiasmo di Matt, non che David fosse da meno.
Quando mi visitarono dottori e psicologi mi guardarono con tale disgusto e sdegno che quasi era come se si rifiutavano di aiutarmi.
Lo stesso valeva per i poliziotti: non ce n’era uno buono e uno cattivo, lo erano entrambi, cattivi. Non fecero altro che pormi le stesse identiche domande urlando, senza lasciarmi il tempo di rispondere o comunque raccontare la verità. I loro occhi urlavano colpevole con disprezzo penetrando nei miei, come se fossi stata io, e non Jeff, ad uccidere i miei genitori.
«Io non ne sarei così felice, Matt. Pensi veramente che lui fosse stato misericordioso nei confronti di Lizzie? Ti sei forse dimenticato che due anni fa ha ucciso undici bambini in tre giorni?»
«Ma avrebbe comunque senso»  si intromise David mentre sfogliava il raccoglitore :«Quello di Lizzie fu l’ultimo omicidio dell’anno scorso. Da allora ci furono solo una serie di avvistamenti. Fino… a qualche giorno fa.»
Il dormitorio militare. Bastò guardarci negli occhi per capirci.
«Quindi, che cosa ne pensi, Ben ?»
Ai miei occhi Ben sembrava avere l’aria di un leader capace e responsabile. Da come si muoveva per il salotto, con la fronte aggrottata e la mano destra su mento: si vedeva benissimo quanta dedizione aveva e tutt’ora ha per Jeff. Cosa lo spinge a seguire uno spietato assassino? È più un ‘ossessione? O è pura curiosità? In quella pausa di silenzio mi venne in mente più volte la possibilità che anche nella sua famiglia fosse stato ucciso un parente, ma preferii aspettare a chiedere, prima di trarre conclusioni.
«Ora come ora, si possono solo formulare delle ipotesi, ma di certo non l’ha fatto per pietà. Scusa se te lo chiedo di nuovo, Lizzie: sei sicura che lui stesse piangendo?»
«Ne sono più che certa» gli risposi senza indugio :«Stava piangendo.»
«Lacrime di sangue… spaventoso» mormorò David.
«Ok. Credo che oggi possiamo pure fermarci qui» annunciò Ben di punto in bianco, battendo una volta le mani.
«Eh? Di già? Io volevo mostrare a Lizzie il nostro bel raccoglitore su Jeff.»
«No, Matt. Questo pomeriggio l’abbiamo già fatta sforzare abbastanza. Abbiamo tutto il tempo per integrarla come si deve nel gruppo. Sempre se… sei d’accordo, Lizzie.»
In quel momento sentii le guance completamente in fiamme. Tutti e tre mi stavano fissando con un sorriso stampato sul volto. Abbassai subito lo sguardo appena incrociai quello di Ben.
«Ma ovviamente, il primo passo è essere suoi amici.»
«Io… ecco… non ho alcun problema. Sto bene. Se volete possiamo…»
«Ascoltami bene, Lizzie. Noi non siamo come quei poliziotti, ok? E credo che tu capisca che cosa intendo.»
Leader capace e responsabile, ed anche sensitivo. Non potei fare altro se non sorridere :«Grazie.»
Ben ricambiò appoggiando entrambe le mani sulle mie spalle :«Dovremmo essere noi a ringraziarti, Lizzie. Siamo in debito con te.»
Passammo il resto del pomeriggio a mangiare patatine e bere bibite gassate parlando della scuola o spettegolando dei nostri professori; non mi divertivo così tanto da un sacco di tempo, avrei tanto voluto che non finisse mai, ma so bene che mi aspetteranno una serie di pomeriggi simili a questo d’ora in poi e non vedo l’ora.
L’ultima volta che mi divertii così fu al compleanno del mio vecchio amico Jordan: andammo ad un lunapark appena fuori città e Rose mi diede il compito di portarlo lì bendato. Fu un giorno fantastico, fatto di giostre, risate e zucchero filato a non finire ; un giorno destinato, purtroppo, ad essere dimenticato.
Arrivata la sera, i primi ad andare furono Matt e David. Mi abbracciarono entrambi, uno più forte dell’altro. Per poco non rimassi soffocata dall’acqua di colonia del rosso.
Ben, invece, rimase con me ancora un po’.
«Allora, ti sei divertita?»
«Sì, molto.»
«Ne sono contento. »
«Allora… amici, eh?»
Lui ridacchiò tenendo gli occhi sugli amici fino a che non girarono l’angolo «Esatto. Hai tre nuovi amici.»
«Pensi ancora che io non sia pronta ad entrare nel  Jeff the Killer fan club?»
«Vedo che qualcuno ha fretta di fare il passo successivo.» disse Ben, un po’ contrariato :«Sul serio, Lizzie. Non devi sforzarti.»
«Ma io non mi sto sforzando. Quel raccoglitore ha attirato la mia attenzione, così come il vostro modo di organizzarvi. Dimmi almeno da quanto tempo lo fate.»
Visibilmente rassegnato, Ben sbuffò portandosi una mano fra i capelli e parlò.
Cominciò tutto nel periodo della seconda media, per caso. Gli incuriosì molto la storia di Jeff a tal punto da iniziare fare ricerche su di lui, a seguire ogni suo movimento, registrare le vittime e il suo M.O. . Matt e David si aggregarono appena seppero cosa faceva ogni giorno in biblioteca o chiuso in casa.
«Ora si spiegano i diversi ritagli di giornale.»
«Non appena ci giunse la notizia dei tuoi genitori, rimanemmo senza parole.»
«Eravate elettrizzati, immagino.»
«Per niente.» Ben si girò verso di me guardandomi con la stessa serietà di questo pomeriggio «Ne fummo spaventati, ma ciò non ci ha di certo fermati, anzi, ha incrementato di più la nostra voglia di conoscere la verità su di lui. Se ci pensi dietro a tutto questo può esserci un filo logico. È  ovvio che non è sempre stato così, è ovvio che avesse qualcosa che lo graffiava dall’interno, che pulsava e bruciava e…»
Fu più forte di me, non riuscii a trattenermi e la fregatura fu la teatralità con cui Ben si espresse davanti alla finestra del salotto, come se ad un tratto mi trovassi davanti un attore nel bel mezzo del suo monologo. Continuai a ridere, anche quando lui si fermò arrossendo.
«Ehi… non c’è niente da ridere…»
«Scusa… perdonami se puoi! Ma… ti ho appena immaginato in calzamaglia!»
Ben si arrese all’idea di essersi reso ridicolo e iniziò a ridere assieme a me.
«Allora… a domani!»
«Sì! A domani!»
Mi ricordai che nel forno c’era ancora un bel po’ di torta alle noci e pensai bene di dare giusto un paio di fette a Ben, per ringraziarlo del bel pomeriggio. Ovviamente ne terrò da parte anche per Matt e David.
Ringraziato un’ultima volta per la torta, ci salutammo abbracciandoci un’ultima volta e si incamminò verso casa.
Aspettai che Ben sparisse girando l’angolo per poi rientrare, ma il pungente profumo dell’aria serale mi invitò a restare alla soglia della porta ancora per un po’. Mi concessi per un attimo il lusso di chiudere gli occhi e lasciare che il vento mi accarezzasse i capelli, che a sua volta accarezzavano la mia pelle: era davvero piacevole, se non anche rilassante.
Libera, era così mi sono sentita per tutta la giornata, assieme ai miei nuovi amici; una felicità che non speravo di poter vivere nuovamente. Libera da quella prigione che mi opprimeva, gli sguardi e quelle voci che graffiavano le mie orecchie ogni giorno: erano ormai solo un ricordo lontano. Da ora in poi riuscirò a gestirli tutti senza alcun problema.
Inoltre, mi sento più… al sicuro? Al sicuro. Mi piacerebbe tanto potermi considerare tale, ma…  non mi sento per niente al sicuro. Sopra a questi miracoli c’è ancora uno strato di polvere, uno di quelli quasi invisibili all’occhio umano, che, purtroppo per me, ho accidentalmente fatto cadere.
 
Giorno 32
 
Una giovane coppia universitaria. Un muratore di mezza età vedovo. Quattro bambini delle elementari tutti di scuole diverse. Un turista venuto dall’Olanda. Una cassiera adolescente. Un segretario di un medico legale. Un avvocato. Undici. Undici persone senza nessun tipo di collegamento fra di loro. Erano prede, vittime, delle anime che hanno avuto la sfortuna di incontrare un insano cupo mietitore, di cui corpi sono stati orrendamente tagliati a pezzi, senza alcuna pietà.
Telegiornali e quotidiani sono tempestati da titoli agghiaccianti e incentrati sull’ormai ufficiale ritorno di Jeff the Killer. Non c’è un solo giornalista che non abbia annunciato  la notizia senza tremare di terrore.
Circa una settimana dopo dalla strage del dormitorio militare, il maniaco omicida si è dato da fare durante i cinque giorni successivi, scatenando ulteriori tensioni e paure tra i cittadini. Lo stesso sindaco ordinò un rigido coprifuoco da seguire: la circolazione in città è ora permessa solo fino alle 19 e 30 per tutti.
Le condizione sono peggiorate, ovviamente, anche a scuola, ma malgrado tutto c’è comunque qualcosa di positivo ( o almeno per me). Non ho più bisogno di tapparmi le orecchie con la musica, sicché al mio arrivo l’unico suono che si sente nel corridoio è la radio mattutina della scuola, mentre gli unici occhi puntati verso di me sono quelli stampati su innumerevoli poster degli studenti per le elezioni del re e della regina del ballo scolastico, ormai alle porte.
Persino gli stessi professori ora sembrano avere paura di me, tanto da invitarmi a sedere( aggiungerei, nascondendosi dietro al fidato registro di classe) in fondo all’aula,più precisamente all’angolo di quest’ultima, dove non possono relativamente vedermi.
Pranzo e dopo scuola, sono ormai diventati i miei momenti preferiti della giornata. Il mio rapporto con Ben, Matt e David è diventato sempre più forte giorno per giorno, ogni risata che condivido con loro diventa un prezioso ricordo e le mie preoccupazione tendono a scomparire poco per volta. Gli innumerevoli medicinali post-trauma? Tutti finiti del cestino della spazzatura.
«E con questo… abbiamo fatto! Anche il caso dell’avvocato è stato archiviato!» disse soddisfatto David, pronto a stampare l'articolo :«Tieniti pronto con la colla, Matt!»
«Forza, Ben! Se non vi sbrigate vi perderete la parte più divertente!»
«Fate pure, qui dobbiamo ricominciare da zero.»
«Mi sembra di essere ancora a lezione» commentai sarcastica.
Sono ormai da due settimane che i ragazzi mi invitano a restare nell’aula del giornalino scolastico. Finite le ore extracurriculari obbligatorie, la si poteva poi usare senza problemi fino alle 18:30.
«Beh, almeno hai un prof che ti segue. Allora, vogliamo cominciare?»
Per iniziare, Ben mi chiese quanto io ne sapessi sul conto di Jeff. Le mie risposte furono a dir poco povere, in quanto l’unica cosa di cui ero a conoscenza era la terribile strage da lui causata; uccidere senza pietà la sua intera famiglia, diventando così la bestia sanguinaria che è. Ben mi riassunse brevemente da cosa è dovuto il suo aspetto: dopo un acceso primo incontro fra Jeff e un gruppo di bulli, in cui ne uscì vincitore il primo (spezzando un polso, accoltellando un braccio e causando diverse lesioni come lividi) , quelli si vendicarono attaccando briga una seconda volta qualche giorno dopo con intenzioni più onerose.
Jeff riuscì ad uccidere due dei tre ragazzi, ma andato a contatto con della candeggina, l’ultimo sopravvissuto riuscì a bruciarlo con un accendino.
Portato in ospedale con urgenza, non ci fu nulla da fare: il suo volto era del tutto deturpato e la sua sanità mentale persa per sempre.
Ne rimasi scioccata:«Caspita. Io non lo sapevo.»
«Da allora sono passati circa sette o otto anni. Ne aveva quattordici quando tutto ebbe inizio. O almeno… è quello che sappiamo.»
«Jeffrey Woods?» lessi il titolo i un ritaglio di giornale, con sotto la foto di una casa completamente sigillata da nastri della polizia.
«È  quello il suo vero nome.»
Sfogliate un paio di pagine del raccoglitore, mi trovai una foto di una famiglia composta da quattro persone; o meglio, tre e mezzo. Su di essa erano rappresentanti un uomo e una donna abbracciati fra loro con a fianco un ragazzino biondo-castano sorridente, sorretto da un ragazzo più grande, a cui era stato bucato il volto con un oggetto tagliente, risultando così irriconoscibile. Era di sicuro Jeff, prima dell’incidente.
«Questo è tutto ciò che rimase della famiglia Woods. Oltre ai corpi, ovviamente. Margaret e Peter, i genitori, Liu , il fratello minore. »
Le mie dita non poterono non sfiorare i loro sorrisi, specialmente quello del piccolo Liu. Era così… giovane. L’unica cosa a cui riuscii a pensare fu a tutte le cose che lo aspettavano in futuro, alle cose che poteva fare, imparare, alle infinite esperienze che avrebbe potuto vivere e invece… tutto gli fu negato per colpa di un colpo mortale con un coltello:«Ma… perché? Che cosa l’ha spinto a farlo?»
«Non lo sappiamo nemmeno noi.» mi rispose con rammarico Ben :«È qualcosa che ci ha sempre lasciato con un punto di domanda.»
«Ed è davvero una cosa frustrante» si intromise Matt :«Ci aspettavamo un passato oscuro da lui, ma non ha mai avuto nessun problema in famiglia o traumi.»
«E non solo» David si avvicinò per mostrare una pagina del raccoglitore e puntò un indice su un’altra foto di Liu :«Ciò che ci lascia ancora perplessi e che i corpi dei genitori furono fatti a pezzi e sparsi nei dintorni, mentre l’unica cosa che è stato ritrovato di Liu, fu una pozza del suo sangue, in una foresta vicina.»
«E allora… pensate sia ancora vivo?» senza accorgermene, la mia voce era del tutto strozzata, se non anche tremante. In quel momento notai che più andavo avanti con questa storia, più la paura mi assaliva e mi diceva di fermarmi, ma al tempo stesso mi ostinavo a resistere, poiché la verità urlava più forte dietro ad ogni avvenimento legato a Jeff. Forse così avrei capito perché avesse ucciso i miei genitori. Forse avrei capito perché mi avesse lasciata in vita.
«Punto di domanda» si limitò a rispondere David.
«Bene, credo che questa infarinatura possa bastare. Ora possiamo passare agli avvistamenti di Jeff da parte di civili e polizia.» con mano esperta, Ben fece scorrere le pagine fino a circa metà raccoglitore. Era pronto a spiegarmi ogni singola foto, ma non poté nemmeno iniziare a parlare, che io mi alzai di colpo per allontanarmi.
I tre mi seguirono con lo sguardo preoccupati: stavo tremando. Braccia e gambe si rifiutarono di stare ferme, sentii un fastidioso formicolio agli occhi per quanto erano spalancati. Mi sforzai di non piangere.
«Lizzie, che hai? Va tutto bene?»
No. non andava per niente bene, e Dio solo sapeva perché. Quel profilo. Quella figura. Era là, lui era là.
Per più di due settimane l’avevo reputata una mera allucinazione, un abbaglio; lo speravo, e invece…
«Lizzie?»
«L’ho visto.»
Ben, Matt e Davi fecero per avvicinarsi, ma io preferii mantenere una certa distanza.
«Quando Ben tornò a casa, la prima volta che siete venuti da me… lui era a tre isolati da casa mia, immobile… e mi fissava.» le lacrime cominciarono a scendere. Non riuscii più a trattenerle :«Io… ho visto Jeff.»
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
Ok… non so quanto sia rimasta fedele all’idea del diario, ma… non è per niente facile. Mi sto davvero impegnando e spero che nonostante ciò la storia possa continuare a piacere. Le cose si stanno facendo complicate e, o almeno così la penso io, interessanti.
Spero di non avervi annoiati con questo capitolo, ma vi giuro che da ora in avanti si passerà all’azione.
A presto!
Cassandra

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Non idonea alla terapia ***


Non riuscii a smettere di piangere e di tremare. Non considerai l’aiuto di Ben che, come al solito, cercava di aiutarmi il più possibile, né tanto meno quello di Matt e David: rimasi accovacciata sulla sedia e con la testa affondata nelle ginocchia; ero come ritornata al punto di partenza. Dentro di me mi maledivo e urlavo in silenzio delusa :«Io l’ho visto… e lui ha visto me…» continuavo a ripetere tra le lacrime.
L’immagine di quella figura in piedi all’angolo della strada non dava cenno di sparire dalla mia mente. Occhi aperti o chiusi era sempre lì, che mi fissava.
«La situazione si sta facendo più complicata» disse David, per quanto fossi in grado di capire.
«Allora… è vero che ha dei collegamenti con Jeff.»
«Non dirlo neanche per scherzo, Matt!» gli ringhiò Ben spaventandolo :«Ci deve essere sicuramente una spiegazione. Non dobbiamo lasciarci influenzare da delle stupide voci di corridoio, ma dobbiamo attenerci ai fatti.»
Sentii le ruote di una sedia avvicinarsi a me. Delle mani si appoggiarono leggere sulle mie spalle: erano Ben e il suo altruismo.
«Ascoltami, Lizzie. Io voglio aiutarti, ma se ti comporti così non lo posso fare.»
Non risposi.
«Lizzie, Come facevi a sapere che era lui? Sei riuscita a vederlo in faccia?»
Scossi la stessa.
«Ok. Ora ascoltami, noi non abbiamo fretta, perciò puoi prenderti tutto il tempo che vuoi.»
«Scusa…» fu l’unica cosa che riuscii a dire tra un singhiozzo e l’altro :«Scusa…»
Le sue mani scivolarono lungo le mie braccia per prendermi i palmi e li baciò: sentii un piacevole brivido percorrermi la schiena, un incentivo che mi diede la forza di alzare la testa e guardare negli occhi Ben. Respirai profondamente prima di decidermi a parlare.
«L’odore…» risposi ricordando :«C’era vento e… ho sentito… l’odore. Era lo stesso.»
Ben annuì senza reagire alle mie parole e si limitò ad accarezzarmi le mani. Faceva solletico, ma mi aiutò a calmarmi ulteriormente.
«Che cosa ha fatto?»
«Niente. Ci siamo guardati. Per tre minuti.»
Con la coda dell’occhio, notai che Matt si apprestò ad aggiornare il raccoglitore con un pennarello rosso.
«Poi rientrai e… non lo so… io…»
«È normale» mi precedette lui :«è del tutto normale.»
Nessuna domanda, considerazione o una qualunque deduzione da parte del grande leader: tutto ciò fece fu solo un sorriso rassicurante e l’ennesimo bacio sui palmi.
«Per oggi va bene così.»
Distrutta, sconvolta e furiosa. Questa volta non accettai la gentilezza di Ben e me ne tornai a casa da sola. Cenai forzandomi di sorridere davanti ad una nonna Jo  ignara di ciò che stavo facendo da diversi giorni e mi rinchiusi in camera mia, con la testa che pulsava per il pianto sfogato quel pomeriggio.
Era tutto inutile. Quei dannati ritagli di giornali sulle presunte apparizioni di Jeff, tutti i suoi inconfondibili profili, sembravano non volermi abbandonare: perché, mi chiedevo, perché sta accadendo tutto questo a me?
 
Giorno 33  
          
Le mie occhiaie difficilmente non vennero notate dai ragazzi, che come al solito mi chiesero se stessi bene. Non mentii: non stavo affatto bene.
Passai la notte a rimuginare su quanto accaduto il giorno prima, senza riuscire ad addormentarmi. A colazione il mio stomaco si rifiutò di mangiare le frittelle ai frutti di bosco di nonna Jo; nonostante il profumo invitante della pastella, ad ogni forchettata che avvicinavo alla bocca, lo stomaco rispondeva arrotolandosi su se stesso. L’ora di pranzo non fu da meno, ma sono veramente questi i problemi che mi resero la giornata insostenibile? No, il bello, purtroppo, doveva ancora arrivare, e mi aspettava dietro alla porta di Mrs. Tucker: la psicologa della scuola.
«Vuoi che entri con te?» chiese il disponibile Ben, che non mi lasciò da sola dalla prima ora di lezione. Non che la cosa non mi dispiacesse, ma trovai la cosa un po’… stressante.
«No, grazie.»
«Non hai proprio una bella cera. Durante matematica ti ho vista un po’… assente, ecco.»
«Infatti lo ero» prima di entrare, scacciai per l’ultima volta dalla mente il tormento della nottata precedente :«Ci vediamo più tardi, Ben.»
 
Non idonea alla terapia, così c’era scritto in rosso su quello che sembrava una cartella clinica. Mrs. Tucker mi restituì il diario ( più precisamente, me lo lanciò addosso) fulminandomi con uno sguardo glaciale e distaccato; ovviamente non le piacquero gli ultimi aggiornamenti della settimana. Di nuovo.
«Pensi sia uno scherzo, vero?», ringhiò lei a denti stretti, :«Pensi sia divertente?»
Era arrabbiata, era palese: i suoi riccioli biondi erano gonfi e aggrovigliati fra loro, non più ben definiti e leggermente appoggiati sulle spalle. I deliziosi completi color pastello a cui erano abbinate delle ballerine in vernice nera vennero sostituiti da degli orribili vestiti dai colori spenti e un paio di scarpe da ginnastica consumate. Una vera e propria trasformazione.
Dov’era finita la dolce e sempre sorridente Alicia Tucker, che si era offerta di occuparsi di me? Ammetto che è una domanda che mi pongo ogni volta che vado da lei per farle leggere il diario o seguire i suoi consigli, alias, rimproveri peggio di una madre incavolata. Se le cose continueranno ad andare avanti così, finirò con l’odiarla sul serio. Ammesso che ci sarà, una prossima volta.
«In che senso?»
«E hai anche il coraggio di chiederlo?» Mrs. Tucker riprese il diario aprendolo ad una pagina a caso. Scelse i giorni tra il ventunesimo e il ventisettesimo :«Che cosa sono questi, eh? Tu e i tuoi amici fate ricerche su Jeff? La terapia prevedeva che tu scrivessi ciò che ti affliggeva, ciò che pensavi.»
Più che sulle sentenze di Mrs. Tucker, la mia attenzione era concentrata sul tono con cui disse amici, che mi irritò e non poco; anzi, mi fece arrabbiare.
Fu così strano alzarmi dalla poltrona per poi guardare Mrs. Tucker dall’alto in basso, ma fu comunque una bellissima sensazione: ero stanca e irritata, di certo non poteva fermarmi una donna che non si era nemmeno laureata come si deve in psicologia (voci di corridoio, ma attendibili), non era l’unica a saper fare la dura della situazione.
«Si sbaglia. La richiesta era quella di scrivere sì, le mie sensazioni, i miei pensieri eccetera, ma anche la mia routine nei particolari. Ed è quello che ho fatto. Non l’ho chiesto io a loro di parlarmi di Jeff. All’inizio non volevo, ma dopo un po’ mi ha interessato l’idea di…»
«Di cosa?! Scrivere magari un romanzetto dove racconti come sei uscita dal trauma? È un diario, Lizzie! Un diario!»
«Il diario è qualcosa di strettamente personale e io ho deciso di utilizzarlo così. Non le piace come scrivo? Be’, mi dispiace, in questo caso.»
Mrs. Tucker era pronta a lanciarmi una seconda volta il povero diario, ma si fermò per appoggiarlo il più delicatamente possibile sul tavolo, facendo uno sforzo disumano per allargare un sorriso :«Ascolta, Elizabeth, lo scopo della terapia è quello di aiutarti a superare il tuo trauma. Questo diario deve essere l’amico con cui confidarti.»
«Ma io ora ho degli amici» la imitai. Provocatorio, ma efficace :«È ovvio che mi aiuta a scaricare la tensione, non l’avrei mai detto, ma è così, solo che ora ho anche l’appoggio di qualcuno e questo mi fa sentire… ancora più bene.»
«Ascolta… non credo che tu abbia capito la situazione in cui ti trovi» che sorpresa, pensai, di punto in bianco è ritornata normale  :«se continuerai così non riuscirai a vivere bene. Devi dimenticare quella brutta storia e non andarle incontro, mi capisci? Questo, non è quello che vuoi.»
Rimasi in silenzio. Non sapevo cosa pensare, io restai a guardarla, mentre lei allargava un altro dei suoi sorrisi da perfetta psicologa. Davvero pessima. Chi si credeva di essere, continuavo a chiedermi, mentre la fissavo in quei odiosi occhi da cerbiatta e supplichevoli di una mia qualche risposta fatta e prevedibile. No. Non idonea alla terapia, giusto? Era scritto nero su bianco, dove tutti quegli stramaledetti medici avevano firmato per esteso per il mio rilascio; d’ora in poi non sarei più stata vincolata da nessuno, potevo fare quello che volevo; non dovevo nemmeno più stare ad ascoltare questa vomitevole ipocrita davanti a me.
«Grazie» le ricambiai il sorriso, sicuramente più sincero del suo :«Grazie per aver cercato di prendersi cura di me»
Fu tutto istintivo: mi ripresi il diario per rimetterlo nello zaino e feci per andare.
«Tua nonna non sarà molto contenta di questa tua decisione»
«Invece lo sa» risposi subito. Questa volta mentii spudoratamente, ma senza mostrare nessun tipo di insicurezza, mentre Mrs. Tucker sembrò quasi spaventata all’idea che nonna Jo sapesse :«Può anche chiederglielo, se non mi crede» lo ammetto, rischiai davvero, ma era evidente da come mi squadrò Riccioli d’oro, che non avrebbe osato provarci. La sua paura trasudava copiosamente dalla fronte.
«Spera che Dio ti assista» disse lei con disprezzo, come se in realtà volesse lanciarmi una maledizione.
Mi girai per l’ultima volta «Sa, forse ha ragione. Appena finirò di scrivere il diario, lo pubblicherò.»
 
Ci volle un po’ prima che Ben smettesse completamente di ridere. Mi bastò descrivere com’era vestita Mrs. Tucker per stimolare i suoi recettori della risata.
«Incredibile. Sei riuscita a far sgonfiare quel bel soufflé della Tucker?»
«Ma quale soufflé. Se devo essere sincera non mi è piaciuta fin dalla prima volta che la vidi. È odiosa.»
«Sì, dà l’idea di essere palesemente falsa.»
«E lo è, credimi.»
«Quindi… Questo è il famoso diario della terapia, dico bene?» Attirato dal diario, Ben prese in mano il diario e lo iniziò a sfogliare interessato.
Nessuna limitazione, significava anche poter finalmente raccontare a qualcuno della terapia. Spiegai a Ben in cosa consisteva quest’ultima e cosa avrei dovuto scrivere per sessanta giorni.
«Cioè… fammi capire: scrivere almeno due pagine su questo diario per circa due mesi avrebbe dovuto farti sentire meglio?»
«Be’, ora posso anche non farlo più, visto che mi hanno ritirata dalla terapia. Quello è diventato un normalissimo diario.»
«Non è poi tanto normale, visto che parli di Jeff. E devo dire… che non scrivi nemmeno così male. Matt e David morirebbero dalla voglia di leggerlo. Oh, hai scritto su di noi!»
«A proposito, dove sono?»
«Lavori per il ballo scolastico. Mancano pochi giorni ormai.»
Ben e io rimanemmo ai tavoli di cemento all’entrata della scuola. Mentre Ben era impegnato a leggere, io ne approfittai per pensare a cosa avrei dovuto fare da quel momento in poi. Dire a nonna Jo che i dottori e la psicologa mi avevano abbandonata? Non sarebbe stato poi così tanto necessario; a lei, come me, non stavano simpatici. Usare il diario così come l’avevo iniziato? L’idea mi allettava molto e forse… era anche l’unica soluzione plausibile, ma c’era qualcosa che mi disturbava… o meglio, sentivo che qualcosa mancava.
«Sopravvissuta… diario…»
La voce di Ben spezzò il filo dei miei pensieri e mi fece girare verso di lui, che era pensieroso quanto me :«Come hai detto,scusa?»
«Oh, scusami, Lizzie! Stavo solo pensando.»
«A… che cosa?»
«diario della terapia, ora è, diciamo, il diario di Lizzie, solo non esattamente tuo… pensavo che ci potesse stare bene un altro nome
Lo guardai un po’ perplessa. Un… nome? Che fosse veramente quello la cosa mi mancava?
«Come ho detto prima, non è un normale diario. Insomma, è abbastanza fuori dal comune, no? E poi, se lo devi pubblicare, ti servirà un titolo.»
«Ben… Mrs. Tucker era ironica…»
«Io la chiamerei più una sfida. Prova ad immaginare la sua faccia quando vedrà il tuo diario su uno scaffale di una libreria.»
«Oh, sarebbe uno spettacolo imperdibile!»
Insieme, scoppiammo a ridere, ignorando i ragazzi che ci fissavano ( o meglio, che mi fissavano), quando all’improvviso smettemmo di colpo, poiché incrociai lo sguardo di Ben: ci guardammo per un interminabile minuto, lui sorridendo, mentre io pregavo che non fossi arrossita.
«Eccola» disse con una certa soddisfazione e annuendo :«Questa è Lizzie.»
«Che vuoi dire?»
«Sorridente, spiritosa e fancazzista . In pratica, Lizzie
«Fan-… ehi!»
«Dai! Stavo scherzando! Ow!»
Inevitabili furono gli ennesimi sguardi di studenti e professori attorno a noi mentre ci picchiavamo, ma li ignorammo nuovamente, lasciandoci andare in quel breve momento di pura infantilità.
«Diario di una sopravvissuta» sbottò Ben ad un tratto.
«Come?»
«Il nome per il tuo diario. Che ne dici?»
Ritirati i pugni, ripetei più volte quello che probabilmente sarebbe diventato il titolo da scrivere sul diario. Alla quinta volta, allargai un sorriso rivolta verso Ben: non suonava affatto male.
«Semplice e diretto. Mi piace!»
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
Ok… ok…  Capitolo abbastanza… banale… insomma, questo lo penso io. Purtroppo la scuola mi ha stesa. Altro che vacanze di Pasqua, mi aspetteranno comunque giorni di studio intenso… ma cercherò di aggiornare più velocemente da ora in poi. Mi scuso di nuovo e segnalatemi tutti gli errori possibili ed inimmaginabili.
A presto!
 
Cassandra

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Gocce d'acqua ***


Giorno 35
 
Armata di un pennarello bianco indelebile, dedicai venti minuti del mio tempo per scrivere sulla copertina del diario. Mi sentivo come un tatuatore con la sua consueta responsabilità verso la pelle di un suo cliente; cercai di non tremare il più possibile e quindi di scrivere bene il titolo al primo colpo. Della buona musica epica mi accompagnava nell’impresa. Il risultato? Una calligrafia degna di William Shakespeare, oserei dire. Soddisfatta? Altroché.
Purtroppo, non potei nascondere per sempre a nonna Jo la faccenda della terapia, ma per lo meno avevo ragione; fu estremamente felice di sapere che non avrei dovuto più star sotto alle direttive dei medici o, come la chiama lei, della sciacquetta vestita da bomboniera (Sì, parlo di mrs. Tucker). Ovviamente, stetti attenta a cosa dirle e quindi non le parlai di ciò che faccio regolarmente assieme ai ragazzi.
Non avendo più alcuna direttiva da seguire, trovo che ora mi sia più facile esprimermi in queste pagine. Con una certa tranquillità posso descrivere sia la giornata che ogni cosa mi frulla nella testa purché inerente al titolo scelto: Diario di una sopravvissuta. Pensandoci, non cambia poi molto da quello che ho fatto finora, forse… posso avere la lingua leggermente più tagliente ( giusto un po’, senza esagerare).
Tranquillità. Tranquillità. È così strano poter usare questa parola dopo aver passato dei giorni non poi così tanto tranquilli, ma oggi posso dire con certezza che la giornata è passato inaspettatamente liscia.
Dopo esser rimasta nell’anonimato, nascosta dietro ad una colonna di marmo, questa mattina ricevetti il primo complimento dell’anno da Mr. Wright, il professore di letteratura ( nonché il responsabile della mia posizione) per un compito di scrittura creativa; il preside mi si avvicinò all’armadietto per chiedere sia della mia salute che di mia nonna con un sorriso largo fino agli zigomi; per i miei coetanei ero ancora invisibile, ma quell’enorme senso di angoscia al mio passaggio era come scomparso.
«Direi che hanno finalmente fatto funzionare il cervello» fu il commento di Ben, mentre si gustava la sua lasagna :«insomma, dai. Era ora.»
«Ma neanche una settimana fa la mangiavano con gli occhi» intervenne David :«che qualcuno li abbia corrotti? Il sindaco?»
«Vero. È  strano» acconsentì Matt con la bocca piena.
«Ehi. Dovremmo essere felici per lei, non credete? Magari si comportano così perché Jeff non si è fatto vedere.»
«Ribadisco,Ben: neanche una settimana.»
«Ma lo avete sentito il discorso del sindaco ieri? Tutto stracontento, ha annunciato il ritiro del coprifuoco. Il coprifuoco! L’unica ancora di salvezza di questo schifo di città, senza contare che ha fatto togliere anche i poliziotti per le strade.»
«Piano, Ben! Sembri mio nonno Sebastian e credimi, non è una bella cosa. Lui è fuori di testa» ridacchiò Matt.
«Io invece do ragione a Ben.»
«Grazie, Lizzie.»
«Solo perché si è fermato, stiamo pur sempre parlando di un feroce assassino. Questi giorni di inattività potrebbero essergli serviti per riposare, ma domani, o peggio, stanotte stessa potrebbe ricominciare e questo grazie al sindaco.»
L’enfasi con cui dissi quella frase sembrò spaventare i due giovani giornalisti che deglutirono all’unisono, guardandosi l’uno l’altro.
«Ok, Lizzie. Così ci spaventi…» disse David aggiustandosi gli occhiali.
«Non volevo spaventarvi, ma solo farvi capire la gravità della cosa. Noi siamo gli unici a cui sta a cuore questa faccenda e anche gli unici a sapere come si comporta Jeff.»
«Ma dimentichi che noi siamo soprattutto dei semplici adolescenti. Non potremmo fare un granché neanche volendo.»
Su questo David non aveva tutti i torti, e anche se la posta in gioco era molto alta, non potevamo far altro se non rimanere ad aspettare che accadesse un miracolo.
«BÈ , intanto, visto che oggi non abbiamo poi così tanto da fare, potremmo aiutarvi con gli ultimi preparativi per il ballo. Che ne dici, Ben?»
Ben incrociò il mio sguardo e acconsentì annuendo.
David e Matt accettarono con entusiasmo il nostro aiuto e, subito dopo aver pranzato, ci dirigemmo alla nostra amata sala computer, dove ci aspettarono interviste da registrare e da trascrivere a computer.
È proprio il caso di dirlo: è stata davvero una giornata senza alcuna sorpresa indesiderata.
 
Giorno 36
 
Troppo presto. Esultai troppo presto, proprio come fecero il sindaco, mr. Wright e tutti gli altri.
La mia mano trema all’idea di dover scrivere tutto ciò, ma mi ero ripromessa di aggiornare il diario ogniqualvolta si presentasse un fatto singolare o comunque collegato a Jeff , e quello di stanotte è stato più di un fatto singolare.
Senza che io le chiedessi nulla, tornata a casa da scuola nonna Jo mi regalò una nuova videocamera digitale. Te la merita, mi disse semplicemente. Sorpresa, ma felice, la ringraziai per tutta la sera e prima di addormentarmi mi misi subito a studiarla: capii come accenderla e iniziare a registrare, ma ebbi qualche difficoltà a spegnerla. Purtroppo per me, la stanchezza prese il sopravvento appena verso le 22 e mi indusse ad appoggiare lo splendido regalo sul comodino. In pochi minuti ero già nel mondo dei sogni; avevo passato tutto il pomeriggio ad allestire la palestra della scuola come volontaria, i muscoli erano così indolenziti per tutti i festoni che attaccai in bilico su una scala che non riuscivo a rigirarmi nel letto neanche volendo.
Ero completamente bloccata, immobile e incapace di dimenarmi  a tal punto che non potei reagire come volevo, alla vista di un coltello che tagliava una mia ciocca di capelli.
Urlai. L’ombra che teneva in mano la pericolosa lama indietreggiò fino ad andare a sbattere contro la mia scrivania, mentre io mi alzai il più velocemente possibile; annaspava in cerca di aria, alzando le spalle ad ogni respiro per l’enorme fatica che dovevano sostenere i suoi polmoni.
Sforzai più che potevo gli occhi per riuscire a distinguere la figura davanti a me. Un uomo: lo potevo confermare dalla spalle larghe già notate e il tono di voce dai suoi pesanti sospiri, il resto era avvolto dall’ombra sicura delle mie tende.
D’istinto mi girai verso la finestra: era aperta. Mi maledissi per la mia pessima abitudine di non chiuderla, che mi costò un’inaspettata visita notturna.
«Chi… chi sei?» dissi con la voce tremante. Dove trovai la forza di parlare, ancora non me lo spiego, ma una parte di me diceva di non lasciarlo scappare.
«Chi sei?» riprovai, con un po’ più di sicurezza. Uno stupido scherzo di un mio compagno di scuola? Poteva essere plausibile, ciò avrebbe chiarito lo strano cambiamento di atmosfera della scuola: doveva essere per forza così, pensai.
Lui non rispose.
Ad ogni mio tentativo di fare un passo, lui cercò di avvinarsi alla finestra restando bene nell’ombra, finché non imprecò a denti stretti quando una folata di vento alzò la tenda, lasciando che la luce del lampione vicino illuminasse per poco il suo volto.
Cacciai un secondo urlo cadendo a terra alla vista dei suoi occhi privi di palpebre, la pelle biancastra e gli enormi tagli ai lati della bocca: era lui, Jeff the Killer, ed era in camera mia.
«Lizzie? Che succede?!»
«No, nonna! Non entrare!»
Giratami verso la porta, il famigerato killer ne approfittò per raggiungere la finestra, ma non scappò subito,bensì rimase seduto sul traverso per fissarmi.
Accadde di nuovo, come quella sera: entrambi ci guardammo intensamente negli occhi, senza proferire una parola.
Il rumore di un vetro rotto mi fece distogliere lo sguardo. Con l’aiuto del manico del coltello, Jeff aveva fatto un buco sulla finestra dall’estern. E, lasciato cadere sul pavimento un sasso che aveva in tasca, se ne andò chiudendo l’anta.
A pelo,irruppe nella mia stanza nonna Jo con in mano una scopa :«Lizzie? Tutto bene? Ti ho sentita urlare e… oddio, la finestra! Ma chi è stato?!»
«Io… Io non lo so. Ho urlato perché avevo visto… qualcosa muoversi fuori e poi… ho visto il sasso.» pregai con tutta me stessa che il cuore smettesse di battere con violenza sul petto. Cercai di resistere e continuare a mentire. Io… decisi di difenderlo. Decisi di nascondere il nostro incontro usufruendo della sua messa in scena. Perché, mi chiedevo, perché?
«Devono essere stati dei teppisti di strada… maledetti!» ringhiò lei esaminando i vetri rotti sotto la finestra.
«Non… non preoccuparti. Sto bene, davvero…»
L’istinto materno di nonna Jo la portò ad avvicinarsi a me per abbracciarmi. Speravo che la sua voce rassicurante mi potesse tranquillizzare come sempre, ma il terrore che potesse accorgersi del messaggio scritto col sangue posto sulla mia scrivania, assorbì tutta la sua gentilezza.
Troppo lunghi, così recitava.
 
Giorno 37
 
Preciso quanto un orologio svizzero, alle otto e trenta in punto ricevetti un messaggio da parte di Ben: ehi, Lizzie. Dove sei? Assonnata, gli risposi che oggi non sarei andata a scuola, di non preoccupassi e che gli avrei raccontato tutto a voce domani. Due secondi dopo, lui scrisse un ok.
Pur non avendo più sonno, decisi di rimanere a letto fino alle dieci, seduta, fissando quel messaggio: Troppo lunghi. Lo rilessi almeno una decina di volte. Probabilmente lo aveva lasciato lì Jeff a mia insaputa prima di tagliarmi i capelli. Il sangue sul foglio si era asciugato del tutto, dando così l’impressione che fosse scritto con del normalissimo inchiostro; rabbrividii al pensiero di chiedermi di chi appartenesse.
Stanca di starmene a letto,mi decisi ad alzarmi e quindi a controllare i danni dei miei capelli. Fortunatamente, nonna Jo non si accorse che dietro alla nuca mancavano delle ciocche, purtroppo per me, invece, mi trovai nella scomoda situazione di scegliere se tagliarmeli o vivere con un cappello finché non sarebbero ricresciuti( era tangibile una zona in cui erano veramente corti e difficili da nascondere): optai saggiamente la prima.
Alzai lo sguardo per guardarmi allo specchio. Stavo sorridendo. Sorridevo per davvero, all’idea che Jeff the Killer fosse stato in camera la notte scorsa. Che fossi semplicemente nervosa? Una normalissima reazione per non andare nel panico? Sì, doveva essere per forza così e tuttora lo spero, altrimenti dovrei andarmi a cercare una nuova psicologa da assillare e annoiare.
Avendo deciso di non andare a scuola, di tempo ne avevo per andare dal parrucchiere prima che nonna Jo tornasse dal lavoro, ma preferii togliermi il pensiero il prima possibile; avevo bisogno di distrarmi.
Dopo essermi vestita e mangiato velocemente due toast al formaggio, presi cinquanta dollari dai miei risparmi, ero pronta ad uscire, quando una luce rossa lampeggiante attirò la mia attenzione appena appoggiai la mano sulla maniglia della porta. Un ronzio mi invitò ad avvicinarmi al letto, fu allora che la vidi: la mia nuova videocamera digitale che avevo lasciato sul comodino, era rimasta accesa tutta la notte.
Taglio corto. Faccia in fretta. Grazie. Tenga il resto. Fu tutto quello che dissi entrata nel primo parrucchiere che incontrai in centro. Piuttosto che aspettare il pullman, preferii correre per raggiungere la scuola il più in fretta possibile.
Devono assolutamente vederlo, continuavo a ripetermi per spronarmi a correre più veloce. Incredibilmente, raggiunsi la scuola senza problemi, nessuno sembrò essersi accorto della mia presenza e filai dritta verso la sala da pranzo, dove raggiunsi il solito tavolo su cui io e i ragazzi stiamo.
«Ragazzi! Ragazzi! Non avete idea di quello che mi è successo! È  stato… è stato…»
Inutile dire che arrivai col fiatone e nulla di ciò che dissi sembrò esser stato capito da nessuno dei tre, soprattutto perché erano tutti impegnati a fissare la mia testa.
«Un momento… la voce…» iniziò Ben confuso :«Lizzie? Sei tu?»
«Oh, diamine sei Lizzie?!» disse quasi urlando Matt, seguito da David.
«Sì… sono io… fatemi riprendere fiato.»
«Sei così… diversa. Insomma, sembri un ragazzo!»
«Che indelicatezza, Matt!»
«Tranquillo, David. Non mi ha offeso. Anzi, non mi dispiace.»
«Pensavo non saresti venuta a scuola.» continuò Ben, senza togliermi gli occhi di dosso.
«Sì, è vero. Ma ho davvero qualcosa da farvi vedere. È  davvero importante! Ed è una cosa… incredibile!»
Usando un muro vuoto della sala computer come schermo, attaccammo la mia videocamera ad un proiettore e analizzammo il video. Dalle 22, l’ora in cui andai a dormire, fino all’una di notte non successe nulla, finché non arrivò con un salto in camera mia Jeff.
«Oh cavolo è Jeff! È Jeff!»
«Oddio… è davvero Jeff.»
I commenti di David e Matt non mi stupirono affatto, fu più sorprendente vedere Ben inalterato davanti ad una simile rivelazione; nessuna critica o anche una smorfia, nulla.
All’arrivo di nonna Jo, spensi la videocamera.
«Allora? Cosa ne pensate?»
«È … È …fantastico! È magnifico! È la prima testimonianza di un contatto ravvicinato con Jeff the Killer!»
«Ti rendi conto, Lizzie? Ciò che hai per le mani è un materiale preziosissimo.»
«Voi… credete?»
«Se te lo diciamo noi» Matt si mise al fianco di Lizzie :«È  la pura verità!»
«Sì! Dobbiamo assolutamente farlo vedere ad un giornale, vedrai quante richieste di…»
«Non se ne parla.»
L’atmosfera di festa iniziata dai due futuri giornalisti, venne schiacciata dall’autorità di leader di Ben, che subito fulminò con lo sguardo i due amici, facendoli allontanare da me.
«Ma come, Ben. È  una grande occasione! Starai scherzando, spero?»
«Chiamami pure nonno Sebastian se vuoi,Matt, ma vorrei ricordarvi che già la situazione di Lizzie non è una delle migliori e in più volete infangare la sua reputazione con questo video? Non esiste.»
«Ma sei noi spiegassimo tutto, forse loro…»
«Siamo soprattutto dei semplici adolescenti. Parole tue, David.»
Sempre con la fronte aggrottata,Ben, a debita distanza, si mise davanti a me. Mi scrutò dalla testa ai piedi, fermandosi di più sul petto e sul viso. Mi sentii terribilmente a disagio, ma lo lasciai fare.
«Ben, che cosa c’è? Lo so, sono strana coi capelli corti, ma come hai potuto vedere l’ho dovuto fare e…»
«In effetti, non avendo molto seno sembri davvero un ragazzo.»
«Ben!» urlò David.
«E poi sarei io quello indelicato?»
«State tranquilli. Ve l’ho detto. Per me non è un’offesa.»
«David. Matt. Io ora farò delle domande a Lizzie, intanto voi guardatela, molto attentamente.»
I due si guardarono allibiti dalla richiesta dell’amico, ma acconsentirono e mi fissarono.
«Sei pronta, Lizzie?»
«Ho altra scelta?»
Sguardo d’intesa, e iniziammo.
«La notte in cui incontrasti per la prima volta Jeff, che pigiama indossavi?»
«Avevo una maglietta larga di mio padre e un paio di pantaloni della tuta.»
«Al funerale dei tuoi genitori, come ti vestisti?»
«Non ho mai sopportato le gonne. Quel giorno indossai un completo nero con tanto di cravatta.»
«Quindi non hai mai indossato una gonna da quel giorno?»
«Non ho mai indossato una gonna, neanche da piccola. Mi sono sempre vestita come mi vedi ora.»
Ben si fermò a riflettere ed incominciò a gironzolarmi intorno :«Ora che ci penso, anche per la voce potresti benissimo essere scambiato per un ragazzo.»
«Ok, questo mi ha leggermente offeso. Ora ti decidi a dirmi che cosa hai in mente? Mi stai facendo venire l’ansia.»
Ignorandomi, Ben si apprestò a prendere il raccoglitore da dove vi sfilò una foto, senza farla vedere a noi poveri inconsapevoli :«Matt. David. Allora? Notato niente?»
I due scossero la testa senza capire le intenzioni del leader.
«Mi spiace, Ben. Ma proprio non capiamo dove vuoi andare a parare.»
«Ora ho capito tutto.»
Istintivamente mi avvicinai a Ben assieme ai due ragazzi : «Che cosa hai capito?» chiesi impaziente.
Ben si portò una mano fra i capelli, quasi come se non volesse dirlo, soprattutto a me. I suoi occhi urlavano: mi dispiace.
«Ho capito perché ti risparmiò quel giorno, perché cercò di tagliarti i capelli, ma soprattutto… perché pianse.»
A malincuore, Ben alzò un braccio per mostrare la fotografia e l’altro il retro del suo Iphone. I primi a reagire furono Matt e David che imprecarono dietro di me, per non averlo notato subito come Ben, mentre io… rimasi pietrificata davanti prima alla mia immagine riflessa sul cellulare e poi alla fotografia del giovane Liu Woods,nonché fratello minore di Jeff: eravamo due gocce d’acqua.
«Non… non è possibile…»
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
Salve a tutti, occupo questo piccolo angolo per far presente a tutti, o meglio, scusarmi a tutti per il madornale errore. In realtà… non so se ritenerlo proprio un errore, ma se lo è, scusatemi ancora. Dunque: mi hanno fatto notare degli amici che il Liu della mia storia è il fratello minore di Jeff e perciò loro mi hanno, per così dire, attaccata dicendomi che in realtà sarebbe il fratello maggiore. Ma io mi sono difesa in questo modo: decisi di verificare la storia dal sito di Creepypasta è non notai nessun tipo di riferimento riguardo a chi era il minore e chi il maggiore, perciò quando decisi di scrivere questa ff decisi che Jeff sarebbe dovuto essere il maggiore e Liu il minore, ma anche se fosse… insomma… è una, appunto, ff, no? Tutto è possibile. Non dovrebbero esserci dei problemi o sbaglio?
Io mi sono avvicinata al mondo delle creepypasta diciamo da poco, forse il mio errore è stato non aver letto tutte le storie di Jeff fermandomi solo alla prima ( in realtà so più meno anche la storia di Homicidal Liu, che mi è stata raccontata a voce) e quindi… chiedo venia e spero possiate avere pietà di me. Detto questo, spero che nonostante tutto continuiate a leggere questa storia,  perché le sorprese non sono finite qui ;)
A presto e grazie per la pazienza!!
 
Cassandra

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Solo due dita di latte ***


Facendo attenzione a non sfilarlo dalla cartelletta, Ben esaminò il messaggio insanguinato. Ad occhio capì che era stato scritto al momento e con le dita. Come me, fece una smorfia chiedendosi a chi appartenesse il liquido viscoso ormai seccato.
«Come pensavo. Deve averti scambiato per Liu quella notte e da allora, ti sta seguendo.»
«Io… io non…» Ancora non potevo crederci. Continuavo a negare scuotendo la testa, ad indietreggiare ogni volta che i ragazzi cercavano di avvicinarsi a me; in quel momento, avrei tanto voluto scappare, correre finché qualcuno non mi avrebbe fermata e detto che tutto era una bugia. Jeff the Killer, non mi aveva risparmiata per pietà nei miei confronti, non sono una sopravvissuta, io semplicemente gli ricordavo il fratello da lui stesso aveva ucciso. Tutto qui.
«Perlomeno… possiamo affermare che lui un cuore ce l’ha ancora. Insomma, attraverso Lizzie possiamo…»
«Che mi dici di tutte le persone da lui uccise finora, Matt?» lo interrupe Ben aggressivo «Cos’è? La sua sensibilità va per caso a momenti?»
«Sto solo cercando di dire, che…»
«Ho capito cosa stai cercando di dire e credimi, non è così. Cercavi di tirare su di morale Lizzie? Be’, sappi che è tutta fatica sprecata!»
Inaspettatamente, Matt si alzò dalla sedia così velocemente da farla cadere all’indietro. I suoi occhi verdi parevano pulsare per quanto era arrabbiato «Ascoltami bene, Ben, solo perché sei tu il capo, non vuol dire che tu possa trattarci come ti pare! So perfettamente come ti senti dopo questa rivelazione. Lizzie è anche nostra amica, non solo tua! Credi che noi non ci teniamo a lei?!»
David cercò di calmarlo prendendolo per un braccio, mentre io rimasi così allibita da non riuscire a muovermi: i miei occhi, purtroppo, erano ancora impegnati a fissare il mio riflesso e la foto sorridente del giovane Liu.
«Certo che lo so!» urlò Ben facendomi sobbalzare e alzare lo sguardo «Ma non lo vedi, Matt? Le cose ora si stanno complicando e diventando più pericolose. Non lo dico perché Jeff si aggira nella città più di prima, ma perché Lizzie è in grave pericolo, più di chiunque altro, e non saranno di certo delle belle parole a risolvere la situazione!» Ben scaricò la sua rabbia, prendendo a calci la sedia più vicino a lui.
Attoniti, David e Matt lasciarono che si sfogasse, prima di potergli parlare.
«Ascolta, Ben. Arrivati a questo punto… non possiamo fare altro se non chiedere aiuto alla polizia.»
Ben non rispose e si limitò a tenere gli occhi sul foglio stropicciato di Jeff.
«Matt ha ragione. Come hai detto tu, è diventata una cosa troppo grande e noi non possiamo fare niente. Sei d’accordo anche tu, Lizzie?»
Il mio sguardo e quello di David erano divisi dalle lenti dei suoi occhiali; non riuscii a coglierlo, come anche le sue parole. D’istinto, scossi la testa «No.»
Tutti, compreso Ben, urlarono all’unisono, senza nascondere il loro stupore spalancando gli occhi.
Se prima la mia mente era confusa e offuscata da mille pensieri, ora era come se tutto mi fosse più chiaro. Ora, sapevo cosa dovevo fare, come risolvere quell’assurda situazione.
Per l’ultima volta, i momenti di quell’anno passato nel terrore e nell’angoscia si aprirono nella mente come delle finestre: i corpi dei miei genitori senza vita sul divano, Jeff che piange davanti a me, il rifiuto della polizia, della mia famiglia, dei medici e dei miei amici, erano diventati di colpo un mero ricordo. Non perché tutto a un tratto avevo deciso di dimenticarli, ma li avevo, per così dire, archiviati per fare posto a questa mia nuova meta da raggiungere. Mi sentii leggera, più di quanto non lo fossi stata.
La sicurezza con cui riuscii a gestire lo spiacevole episodio in quella sala computer, tuttora mi lascia perplessa; tuttavia, quella strana sensazione che provai mentre vidi passarmi davanti la mia vita, è ancora presente dentro di me.
«Lizzie? Che stai dicendo?» mi chiese Ben, appoggiando le sue mani sulle mie spalle «Te ne rendi almeno conto?»
«Ora ti sei calmato?»
«Lizzie, senti…»
«No. Ora siete voi che mi dovete ascoltare.» aspettai che Ben si allontanasse da me, per poi avere l’attenzione di tutti «È il momento di porre fine a questa storia. Proprio come ha detto Ben, le belle parole non mi aiuteranno di certo, ma non mi aiuterà nemmeno raccontare tutto alla polizia.»
«Perché?» domandò Ben, visibilmente arrabbiato.
«Perché non mi ascolterebbero. Vedendomi, non mi crederebbero. È stupido, ma purtroppo è vero.»
Una pausa di silenzio ci divise, lasciando anche il tempo ai tre di interrogarsi sul da farsi.
«Anche se non ci sono prove, di sicuro è stata lei. Uno dei due poliziotti che mi interrogò un anno fa, disse questo alle mie spalle.»
«Bastardi…» commentarono David e Matt.
«D’accordo, su questo posso darti anche ragione. Giuro che lo pensavo anche io, ma ora come ora, è l’unica soluzione. Non posso credere che tu non abbia…»
«Paura?» continuai  «Sì, Ben. È ovvio che ho paura.»
«Allora perché? Dimmi per quale assurdo motivo non vuoi farti aiutare da qualcuno che lo possa fare effettivamente?!»
Per rispondere alle domande supplichevoli di Ben, mi avvicinai alla mia videocamera ancora attaccata al proiettore e la riavvolsi fino al momento in cui io e Jeff ci guardammo. Eccolo: il mio cuore iniziò a pompare sangue più del dovuto alla vista dei suoi occhi penetranti, ma che nascondevano una nota di inquietante dolcezza «Io l’ho difeso. Lo avete visto, no? Ma non l’ho fatto perché non volevo che nonna Jo sapesse di Jeff, l’ho fatto perché io lo volevo. E ora so perché.»
Giratami verso i ragazzi, questi ultimi aspettarono con impazienza la mia spiegazione, che poi li lasciò frastornati «Ho avuto paura. Anche adesso che lo guardo immortalato in questa registrazione, ho paura. Ed è stressante, lo sapete? La paura in sé è quella sensazione di forte preoccupazione, di insicurezza e di angoscia e io sono veramente stanca di provarla ogni due per tre. Un giorno sono felice e un giorno no, questo non è vivere.»
A differenza di Matt e David, che si guardarono l’un l’altro senza capire, Ben fu l’unico ad aver compreso e scosse la testa incredulo.
«No, Lizzie… non dirlo.»
«E invece sì, Ben. Io… lo devo incontrare. Devo porre fine a questa storia.»
 
Giorno 40
 
Devo dire di non aver proprio passato un bel weekend. Quelli che avrebbero dovuto essere due giorni indimenticabili ad una fiera dell’artigianato con nonna Jo, alla fine risultarono un vero incubo.
Peggio di una madre apprensiva nei confronti della figlia, Ben mi tartassò dalla mattina alla sera con una serie di messaggi con l’intento di persuadermi a ritirare la mia decisione, ma questa volta la sua eloquenza non ebbe alcun effetto su di me.
 
Jeff the Killer, dopo un breve periodo di apparente tranquillità, ha ripreso in mano il coltello per continuare la sua carneficina.
 
Questa mattina, nemmeno i telegiornali ebbero effetto. Ignorai incondizionatamente la voce tremante dell’inviata sulla scena del delitto, una stazione di servizio vicino alla città, mentre descriveva le sette vittime: semplici e innocenti clienti delle cinque del mattino, assidui lavoratori del turno di notte, pronti a ritornare a casa dopo un’adeguata colazione. Un po’ titubante, la donna aggiunse anche i due cassieri accoltellati e nascosti sotto il bancone. Le telecamere, nonostante la loro solita e pessima qualità delle registrazioni in bianco e nero, aveva immortalato ogni azione di Jeff a partire dall’entrata del bar e poi al suo interno.
Davanti a quell’orrore, provai rammarico e pena per le famiglie addolorate, ma diversamente da qualche settimana fa, quei sentimenti scomparirono appena riposi la mia attenzione sulla tazza di caffelatte: amaro, ma leggermente addolcito da tre dita di latte, proprio come piaceva a me e come mi sono sentita in questi due giorni. Non mi ci volle molto a capire cosa mi stesse succedendo, era facile: ero diventata improvvisamente insensibile non solo nei confronti di qualcuno, ma anche nei miei confronti. Ero diventata una pseudo sadomasochista?
Scopro una tremenda e agghiacciante verità e io… sono calma e indifferente? No. non è normale. Non lo è assolutamente. Ho paura che… avrò seriamente bisogno di una nuova psicologa.
Il campanello della porta mi aiutò a scacciare quel fastidioso pensiero. Aperto l’uscio, un brivido percorse tutto il mio corpo partendo dalle braccia: era Ben.
«Ben? Che… che cosa ci fai qui?»
«Ciao» disse lui, con una punta di imbarazzo «Hai… già fatto colazione?»
Annuii.
«Bene. Anche io.» vedere l’intrepido leader maledirsi colpendosi la fronte con la mano, aiutò a sciogliere la tensione fra di noi, facendoci anche dimenticare il pessimo weekend. «Senti io… non so cosa dire per… i messaggi.» l’imbarazzo che colorava di rosso le sue guance faceva così tenerezza, che non riuscii a tenergli il broncio e sorrisi.
«Allora non dire nulla» lasciai giusto due minuti Ben davanti all’entrata per prendere il mio zaino in cucina. Salutai nonna Jo dalle scale e ritornai all’entrata «Vogliamo andare?»
 
Non mi stupii che il tragitto da casa a scuola sarebbe stato a dir poco fastidioso. Ben seduto vicino alla finestra e io accanto a lui: nessuno dei due sembrò voler iniziare una conversazione.
Mancavano ancora cinque fermate. Alla terzultima, fu Ben a rompere il ghiaccio «Ora spiegamelo, Lizzie. Che cosa hai in mente?»
«Credevo di avertelo già spiegato venerdì.»
«Non ti ha sfiorato nemmeno una volta l’idea di pensare alle conseguenze?» gli occhi di Ben, come incrociarono miei, li spostò velocemente alla finestra. «Tu non eri del tutto lucida quel pomeriggio. Non eri consapevole di ciò che stavi facendo e dicendo!»
«Questo non è affatto vero.»
«Oh non farmi ridere, Lizzie! Che cosa sei diventata tutto ad un tratto? Una macchina?»
«Solo perché ho detto di volerlo incontrare non significa che sia un robot!» senza accorgermene, stavo urlando, attirando tre sguardi fugaci di sdegno. No, non ero arrabbiata, non potrei mai. Ero solo infastidita. In fondo, sapevo che- come sempre - Ben aveva ragione.
«Avere paura è umano! Tu hai cercato di nasconderla con questa tua assurda decisione. Ragiona!»
Scossi la testa. Nonostante il pullman si fosse fermato davanti a scuola già da un bel pezzo, io e Ben rimanemmo seduti. I miei occhi erano prossimi alle lacrime.
In quel momento provai una rabbia incontrollata, ma che invano cercava di manifestarsi attraverso insulti, urla e pugni, e la colpa era della determinazione impressa nelle parole e nello sguardo del moro.
Fino a quella mattina, pensavo di aver finalmente acquistato una sicurezza tale da essere immune a qualsiasi cosa, come i messaggi di Ben o il notiziario, ma evidentemente non era così. Ero nuovamente caduta sotto l’incantesimo del giovane oratore «Smettila…»
«Tu lo sai che è vero. Io non ho alcun diritto di dirti queste cose, ma lo faccio perché mi stai a cuore, Lizzie. Ti voglio bene e non voglio che ti accada nulla di male. Ne soffrirei, credimi.»
Le lacrime non poterono aspettare oltre, e così,  roventi come lava incandescente, iniziarono a scendere fino al mento.
Per Ben fu come un richiamo: senza che prima potessi dire qualcosa, lui già mi stava stringendo forte a sé. Per l’ennesima volta, mi prestò la sua spalla, su cui potei sfogarmi in piena libertà. Uno sfogo rimasto represso per ben quarantotto ore.
«Non sei da sola. Ci sono qui io. Troveremo una soluzione, non lascerò che quel bastardo ti torcia un capello.»
Io annuii affondando la testa sul suo braccio e ignorai l’autista che ci urlava di scendere dall’autobus.
 
L’ultima volta che saltai un giorno di scuola fu alle elementari. Mi ero svegliata e dissi a mia madre che non avevo voglia di andarci, e così mi portò con lei al lavoro.
Non sono mai stata una studentessa modello. I miei voti sono nella media, così come il mio comportamento eppure l’idea di perdere un giorno dopo così tanto tempo mi pareva strano, ma soprattutto ingiusto.
«Non… dovremmo andare a scuola?»
«Oggi non mi va. E nelle condizioni in cui ti trovi ora non dovresti averne voglia nemmeno tu. Come vanno gli occhi?»
«Vanno bene. Si stanno sgonfiando.»
«Meno male.»
«Che mi dici di Matt e David?»
«Ho scritto a loro un messaggio.»
«Ah, ok. Allora… che cosa facciamo?»
«Visto che siamo in centro… che ne dici di un bel gelato?»
«Alle nove e mezza del mattino?»
Ben alzò le spalle innocente «È come se mi chiedessi a che ora possiamo bere l’acqua. Forza, andiamo.»
Decisi a voler mangiare un buon gelato artigianale, iniziammo a guardarci attorno alla ricerca di una gelateria decente. Dopo cinque minuti, l’occhio mi cadde su un’enorme insegna fatta di luci al neon rosse a me familiare: era il bar gelateria Chantal’s Vanilla.
«Andiamo lì. Lo conosco, fanno un ottimo gelato.»
«Non ci sono mai stato.»
«C’è sempre una prima volta.»
Aperta la porta di vetro, due cameriere vestite in stile anni ’50 ci accolsero all’unisono con un sorriso color porpora talmente largo, che era quasi impossibile capire se fossero sincere o lo facessero per avere qualche dollaro in più sullo stipendio. Perlomeno a Ben non dispiacquero.
Cono pistacchio e cioccolato per Ben, coppetta fragola e vaniglia per me.
«Avevi ragione. È davvero buono.» commentò Ben al primo assaggio dell’anacardio verde.
«Te l’avevo detto. Ah, ora che siamo in un posto tranquillo posso dirti questo: a volte ti odio.»
Ben soffocò una risata :«E di grazia potrei chiederle perché, signorina Elizabeth Grell?»
«Io sono un libro aperto per te. Non posso nasconderti nulla neanche volendo. Tu… riesci a capirmi più di quanto ci abbia provato la Tucker.»
«Sbaglio o non la consideravi una vera psicologa? Be’, io non sono uno psicologo, ma un tuo amico. E comunque, un insulso pezzo di carta attaccato alla parete non dimostra nulla.»
«Già… senti Ben, io volevo chederti…»
«Non provare a scusarti. Sai che non ne hai bisogno.»
«Ma io…»
«Te l’ho detto. Io per te ci sono. Non hai bisogno di dirmelo ogni volta che ti scappa un’emozione.»
«Ma questa volta è diverso. È qualcosa di più… grande. Più pericoloso.»
«Finalmente l’hai capito. Ed è proprio per questo che dobbiamo chiedere aiuto a qualcuno più competente. Noi da soli, non possiamo fare granché.»
«Secondo te… che cosa vuole farmi?»
Finito il gelato, Ben si mangiò in tre soli morsi il cono :«Non lo so. Mi dispiace.»
«Avresti dovuto vederlo come fissava. I suoi occhi privi di palpebre, ormai del tutto fuori dalle orbite, era come se… mi guardassero nel profondo dell’anima. Imploravano pietà, Ben. Imploravano pietà a me.» rimasto tra le mie mani da ormai una decina di minuti, il gelato era ridotto ad una pozzetta liquida rosa e gialla per niente invitante. «Quando ruppe la mia finestra e lanciò quel sasso, la prima cosa che pensai di dover fare fu chiamare mia nonna, ma invece non lo feci! Me ne stetti lì ferma e mentii spudoratamente. Ora che ci penso… ho fatto una gran cavolata.»
«Lo ammetto. Una persona in preda al panico si sarebbe messa ad urlare e a scappare. È evidente che inconsciamente tu non avevi avvertito alcun timore verso Jeff.»
«Credo… di sapere quando ho paura, non credi?» ripensai alla sfuriata di venerdì  «Oh… giusto…»
«Inconsciamente» ripeté Ben sorridendo, «può capitare.»
«Certo che… non ha molto senso.»
Le irritanti vocine delle due cameriere, mi invitarono ad alzare lo sguardo verso l’entrata e a fissare con gli occhi spalancati.
«Lizzie? Qualcosa non va?»
Fu come un fulmine a ciel sereno. La mia attenzione era completamente concentrata  sul chiodo in finta pelle nera che indossava il cliente appena entrato. Più osservavo quelle cerniere cucite al petto e sulle braccia qua e là, più ero convinta di sapere a chi appartenesse,e questo perché quella giacca l’avevo realizzata a quattro mani con Rose per Jordan.
Ironia della sorte, il mio sguardo incrociò due occhi grigi inconfondibili, che riconobbero i miei color smeraldo.
«Lizzie.» mimarono le labbra del castano.
«Jordan.»
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
Questo periodo dell’anno mi sta uccidendo, dico sul serio… sono stata a Berlino con la scuola per una settimana e il resto l’ho passato nello studio e perciò non ho avuto tempo per continuare a scrivere…
Vediamo…  che posso dire di questo capitolo… che ho avuto difficoltà a scriverlo in quanto non sapevo come sviluppare il personaggio di Lizzie. Spavalda o disperata? Diciamo che alla fine ho scelto una via di mezzo, o almeno credo di averlo fatto ^^”.
Spero non vi abbia annoiati. Abbiate pazienza, il bello deve ancora venire.
Ciao!!
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** L'amico ritrovato ***


Non appena portarono l’ordine di Jordan al nostro tavolo, non potei che sorridere davanti a quella coppa al cioccolato e al burro d’arachidi, con una generosa spruzzata di panna come guarnizione.
«Chantal’s special peanuts»  dissi senza smettere di sorridere, «Lo prendevi sempre.»
«Come vedi, lo prendo anche adesso» sorrise a sua volta Jordan.
Jeff e la scioccante scoperta della mia somiglianza con Liu passarono in secondo piano in un attimo. Mente, corpo e anima erano tutti concentrati sul mio migliore amico ritrovato. La mia felicità, in quel momento, non poteva essere scalfita in nessun modo.
«Ti ricordi, Jordan? Io,te e Rose andavamo sempre qui, dopo scuola. Tu prendevi sempre questo, Rose lo speciale all’amarena e io…»
«Coppa fragola e vaniglia Chantal’s orchid» continuò Jordan con una nota di nostalgia, «ma… vedo che tu abbia un po’ cambiato i gusti. Anche in fatto di capelli, a quanto vedo.»
Un po’ imbarazzata, scossi la testa «Sono stata costretta. Diciamo per entrambe le cose.»
«Lizzie che rinuncia hai pezzetti di fragola e allo sciroppo al cioccolato? No, non ci credo.»
Le risate uscirono spontaneamente, con una naturalezza tale da farci dimenticare che un anno intero ci aveva diviso: era come se fossimo tornati ai vecchi tempi, a quei pomeriggi in cui la scuola non era più un problema per almeno quattro ore ( senza contare le nottate passate su Skype).
«Te lo ricordi, Lizzie? Finito il nostro gelato andavamo sempre al centro commerciale fuori città e ci fermavamo a tutte le nostre tappe preferite: il negozio gotico di Rose, il mio negozio di musica preferito e infine…»
«Alla sala giochi per me!»
«Esatto! Per me e Rose era impossibile batterti, in qualsiasi gioco! Che fosse uno sparatutto o schiaccia la talpa non faceva alcuna differenza»
«Be’, in quelli di musica, ho sempre avuto difficoltà visto che è il tuo campo.»
Quanto mi mancava tutto questo. Quanto mi mancava sentire il suo particolare accento scozzese ereditato dalla madre, vedere quelle fossette sulle guance ogni volta che allargava un sorriso e vedere che aveva ancora la sua abitudine di lanciare in aria gli arachidi per poi prenderli al volo con la bocca.
Era una giornata quasi perfetta, all’insegna della felicità, ma poteva esserla, perfetta, se al fianco di Jordan ci fosse stata anche Rose, con i suoi eccentrici vestiti da dark Lolita.
«Senti… ancora Rose?»
Jordan annuì  entusiasta. «Ci scriviamo ogni giorno. Ah, e… noi due stiamo insieme.» arrossì.
«Oddio Jordan, ma è fantastico! Sono davvero contenta per voi! Ve l’avevo sempre detto, no? Sapevo che vi sareste messi insieme!»
«Grazie.»
«Com’è che non sei a scuola?» chiese sgarbatamente Ben e chiaramente disgustato dal nostro comportamento.
Forse era solo una mia impressione ( o almeno così speravo), ma da come masticava a bocca aperta il cono e con la fronte aggrottata, era palese che fosse irritato o dovrei dire… geloso?
«Ecco… non avevo molta voglia» rispose insicuro il castano.
«Nemmeno noi!»
«Be’, per essere precisi, sono io quello che non aveva voglia» si intromise di nuovo Ben.
«Giusto. Se non fosse stato per lui non sarei qui.»
«Che cosa intendevi dire, prima, con costretta?»
Con gli occhi persi nella coppetta, cercai le parole giuste da cui partire «Io non vengo qui dall’anno scorso, Jordan. Dalla… morte dei miei genitori, per intenderci. Non appena seppi che Rose si sarebbe trasferita in un’altra città e tu in un’altra scuola, non ho avuto più il coraggio di entrare.»
«Perché?» chiese lui con una nota di delusione.
«Perché sapevo che ricordare i bei momenti passati con voi avrebbe fatto male.»
Giusto per rovinare l’atmosfera, dagli altoparlanti del bar iniziò a riecheggiare Candyman, una canzone di Christina Aguilera, che riempì per un po’ il silenzio che cadde fra noi. Persino Ben sembrò contribuire mettendosi a canticchiare il ritornello.
«Per me invece è il contrario.»
Alzato lo sguardo dalla coppetta, gli occhi rossi e lucidi di Jordan mi obbligarono ad avvicinare le mani alle sue. «Jordan, che ti prende?»
«Venire qui… e prendere il solito gelato, mi fa ripensare a tutti giorni che passammo insieme. Venire qui, mi da’ la forza di credere che un giorno potremo ritornare come una volta.»
Come io piansi disperata davanti a Ben, così fece Jordan con me, cercando invano di trattenere i singhiozzi. Vederlo in quello stato, vedere quel dolore straripare come un fiume in piena, aveva fatto ritornare in me quella sensibilità perduta più di prima.
«A nome mio e di Rose, ci dispiace, Lizzie! Perdonaci! Non lo abbiamo voluto noi, davvero! Sono stati i nostri genitori, ci hanno obbligato ad ignorarti e a non parlarti! Ma noi… non c’è giorno in cui io e lei non parliamo di te. Loro controllano che non ti scriviamo o chiamiamo, questa mattina mi hanno obbligato a restare a casa dopo l’ultima notizia al telegiornale, ma sono uscito lo stesso. Oh Lizzie, ti prego perdonaci!»
Più percettibile di una richiesta di aiuto, più supplichevole di una confessione in chiesa; le parole di Jordan raggiunsero le mie orecchie fino ad arrivare al mio cuore con una forza tale da indurmi a piangere di nuovo. Per tutto questo tempo, ero convinta di essere rimasta da sola con nonna Jo, di aver perso i miei due migliori amici e quindi di dovermi dimenticare di loro per non stare male, e invece… Da oggi in poi, posso finalmente sorridere come una volta, almeno per un po’.
«Jordan, ti prego. Non fare così. Io… io sono molto contenta di sapere che siamo ancora amici. Anzi, che lo siamo sempre stati. A me basta questo. Sono davvero felice!»
«Lizzie…»
«Ma non credere di cavartela così.» questa volta, Ben non si limitò a parlare e mi spostò per stare davanti a Jordan, ancora in lacrime. La sua irruenza stava cominciando ad irritare me e a mettere a disagio il povero Jordan, confuso e anche spaventato. «Sono contento di sapere che tu e Rose in realtà siete sempre stati dalla parte di Lizzie, ma mi dispiace. Quella che ha sofferto di più è stata solo Lizzie.»
«Ben, adesso stai cominciando ad esagerare. Lui e Rose non c’entrano in questa storia.»
«Io invece non esagero affatto. Sto solo dicendo la verità. Tornando a noi, Jordan. Mi sono spiegato?»
Jordan annuì tirando su col naso, «Sì, me ne rendo conto. Ce ne siamo resi conto entrambi, credimi. Solo il pensiero ci ha fatto e tutt’ora ci fa male.»
«E lo credo bene. Non ha passato proprio un bell’anno.»
«Ma come puoi vedere, sono in buone mani.»
Preso alla sprovvista, Ben si irrigidì quando gli avvolsi il collo con un braccio.
Lo ammetto. La verità era che volevo approfittarne per strozzarlo per bene. «Fortunatamente a scuola Ben e due suoi amici mi hanno aiutato a superare tutto.»
«S-sì, credo…» mormorò Ben.
«Che hai, Ben? Sei diventato improvvisamente rosso.»
«Z-zitta!»
Reazione esilarante.
«No, lui ha ragione. Noi non abbiamo alcun diritto di lamentarci e lo sappiamo bene» si scusò ulteriormente Jordan.
«Ehi. Ognuno di noi alla fine ha avuto i suoi problemi.»
«Non quanto quelli che stai affrontando tu.»
«A cuccia, Ben.»
«Cambiando discorso. Per quale motivo tua madre non ha voluto mandarti a scuola?»
Visibilmente contrariato, Jordan iniziò a strofinarsi i dorsi delle mani e a deglutire a fatica. Più volte tentò di evitare lo sguardo fisso e accusatore di Ben, simile a quello di un gufo durante la sua caccia notturna, ma lui non riuscì ugualmente ad esprimersi come voleva, rimanendo con la bocca semiaperta.
«Tutto è dovuto alla carneficina di questa mattina?»
Uno spasmo muscolare indusse Jordan a tirare una ginocchiata al tavolo, che inevitabilmente fece cadere a terra la sua coppa di gelato. Al rumore dei vetri rotti, le cameriere accorsero più veloci dei meccanici della Formula 1.
«Come pensavo. Be’, non sei l’unico che se ne preoccupa. Anche Lizzie è incasinata per questa storia.»
«Ben, no!»
«È il tuo migliore amico, no? A maggior ragione deve sapere.»
«No! Non voglio! È probabile che lui…»
«Lui? Lui chi?» la voce tremante e preoccupata di Jordan, mi costò la perdita di un battito del cuore. I suoi occhi erano spalancati in attesa di una risposta.
Mi girai per un attimo verso Ben, in cerca di sostegno: stavo facendo veramente la cosa giusta? Riuscirò a gestire la situazione senza usare parole inutili? Non farò la stessa pessima figura come in sala computer? Tutte quelle domande, incanalate in uno sguardo incerto, ricevettero un semplice sorriso e un consenso con la testa.
Con estrema calma, presi nuovamente le mani di Jordan e le portai al petto, così da infondergli sicurezza. «Ascoltami, Jordan. È una questione delicata di cui io non posso parlarti. È… troppo pericoloso. Io non voglio che tu ci vada di mezzo. Nemmeno Rose.»
«Ti prego, Lizzie. Io voglio sapere.»
«No. Ne va della vostra stessa vita.»
Tanto era serio il mio tono di voce, più aumentava la paura di Jordan, che, anche senza dirglielo direttamente, aveva compreso a chi si riferisse quel lui.
«No… No, ho già dovuto lasciarti da sola per un intero anno e non ho intenzione di farlo di nuovo. La stessa cosa vale per Rose. No.»
«Jordan, se hai capito in che guaio mi sono cacciata, allora dammi retta! Io vi voglio bene. Non voglio che vi accada qualcosa di brutto.»
Pur pregandomi più volte, la mia decisione era irremovibile, incline anche alle sue lacrime. No. Non avrei permesso a nessuno di far male a loro: nemmeno a Jeff.
«È stato davvero bello rivederti, Jordan. Ora ho un motivo in più per combattere. Grazie.»
Compresa la sconfitta, Jordan si asciugò le lacrime con i dorsi delle mani e annuì, «Sì. Sono stato contento anche io» sorrise, concedendomi di rivedere le sue lieve infossature un’ultima volta. «ora è meglio che vada. Mia… madre si starà chiedendo dove sono.»
«Sì. Lo capisco. Salutami Rose.»
«Sì, te la saluterò. Appena la vedrò.»
A malincuore, dovetti abbracciarlo velocemente, per poi lasciarlo uscire dal nostro locale preferito. Girato l’angolo, mi risedetti vicino a Ben.
«È stato fin troppo facile» commentò perplesso il moro.
«Sbaglio o per caso ti ho passato tutta la mia insensibilità nel mentre? Si può sapere cosa ti è preso?»
«Scusa se ho interferito durante la vostra lieta rimpatriata, ma l’ho dovuto fare per verificare una cosa.»
«Verificare?»
«Sì.»
«E cosa?»
Alzatosi dal tavolo, Ben si affacciò alla porta di vetro e fissò l’angolo in cui Jordan aveva appena girato con uno sguardo  «Nasconde qualcosa. Ne sono certo. Faceva di tutto affinché noi non lo scoprissimo. È stato bravo a trattenere tutto e negare l’evidenza. L’ho notato nel modo in cui parlava e si atteggiava.»
«Ben, così mi spaventi. Perché avrebbe dovuto mentire? Riguardo a cosa?»
«Correggimi se sbaglio, Lizzie, ma girando quell’angolo non c’è forse un vicolo cieco?»
La mia ennesima domanda venne soffocata dall’urlo di una donna e quindi ignorata da Ben, che subito uscì dalla porta.
Io lo seguì.
La donna in questione era accasciata a terra davanti all’angolo della strada, incurante delle borse della spesa appena fatta rovinosamente cadute ai suoi piedi. Accortasi della nostra presenza, gattonò verso di noi con il terrore negli occhi.
Ben cercò di tranquillizzarla più che poteva, dicendole di dirgli con tutta calma cosa era successo. Intanto, attorno a noi si radunarono passanti intenti a soccorrere la donna.
«Mi dica. Che cosa ha visto? Che è successo?» chiese Ben a bassa voce e il più rilassato possibile.
«U-un… ragazzo… un ragazzo è… è… pieno di sangue…» bisbigliò lei.
Sbiancai.
Senza farmi notare, uscii dalla folla che sembrò non aver sentito la donna traumatizzata, ma io sì. L’unico mio pensiero che mi indusse a raggiungere quell’angolo era Jordan: l’ultima persona che girò quell’angolo.
 
Non c’è forse un vicolo cieco?
 
L’orientamento non era mai stato il mio forte. Non sapevo cosa effettivamente ci fosse dietro a quell’angolo di mattoni a vista o perlomeno non me lo ricordavo. No. Mi rifiutavo di crederci. Dentro di me speravo che girato l’angolo avrei trovato un’altra strada disseminata di negozi o che portava ad un parco o qualsiasi altra cosa, purché non un vicolo cieco. Tutto, ma non uno stramaledetto vicolo cieco.
Due passi, e lo girai.
Un conato di vomito  minacciò di farmi vomitare tutto il gelato che avevo appena mangiato. Con le mani davanti alla bocca, ingoiai il tutto, trattenendo anche un urlo impaziente di uscire. La mia testa iniziò a pulsare, i miei muscoli a contrarsi e i miei occhi a lacrimare davanti a quell’opera demoniaca. La mia sanità mentale mi stava abbandonando a poco a poco, più fissavo quel corpo appoggiato allo steccato di legno, vicino ai bidoni della spazzatura e annegato nel suo stesso sangue che sgorgava da delle profonde ferite al petto e alla gola. Era Jordan. Lo stesso Jordan con cui avevo appena condiviso un gelato dopo tanto tempo.
«O-oddio… No… No! Jordan!»
Al mio richiamo, notai lo spasimo di una mano. Un barlume di speranza si accese nei miei occhi: era ancora vivo.
«Jordan!» senza pensarci due volte, mi avvicinai all’amico, cercando di ignorare tutto quel sangue sparso attorno a lui. Aveva anche un piede rotto e una spalla dislocata. «Ti prego, Jordan! Rispondimi! Ora… ora chiamiamo un’ambulanza, resisti!»
«L-Lizzie… sei davvero tu?» disse Jordan sputando sangue.
«Oddio cosa ti hanno fatto! Chi è stato? Chi è il bastardo che ti ha fatto questo?!»
«Non… non urlare. Non devono sentirci…»
«Non parlare… Ora andrà tutto bene…»
«A-anche io… Anche io avevo… qualcosa che non potevo dirti… Lizzie.»
«Ho detto che non dovevi parlare, stupido!»
«Non… non sono stato sincero con te… non lo sono stato per niente» con una forza disumana, Jordan tirò fuori dalla tasca della giacca con il braccio sano un foglio di carta stropicciato e una fotografia. Rabbrividii:STAI LONTANO DA LIU, così recitava il primo scritto con il sangue, mentre la fotografia ritraeva me, nel momento in cui stavo uscendo dal parrucchiere correndo due giorni fa.
«No… Lui… teneva d’occhio anche te… maledizione… Maledizione!»
«Ogni giorno… da allora, ho continuato a ricevere… messaggi che dicevano di stare lontano da Liu. All’inizio non capivo… e solo dopo aver visto te, compresi. Feci… delle ricerche e digitato Liu… lo vidi. Il fratellino di Jeff…» due colpi di tosse obbligarono Jordan a sputare ulteriore sangue.
«Adesso basta, ti prego! Ti devo portare in ospedale! Non voglio… Non voglio che tu muoia!»
Senza accorgermene, la storia si stava ripetendo. La morte si era ripresentata al mio cospetto e mi ha costretta ad assistere ad un'altra sua mietitura, impotente.
«Io… ho trasgredito il suo ordine. Io… contavo di incontrarti, così da avvisarti e per fortuna… ci sono riuscito.»
«Non dire così… Jordan!»
«Te l’avevo promesso… ora posso salutarti Rose… mi sta aspettando.»
«No… non dirmi che… ti prego…» scossi la testa incredula.
«Lizzie, scappa. Fuggi… da qui. Io… noi… non vogliamo che ti faccia del male.»
«Mi dispiace… Mi dispiace! Perdonatemi se potete! Perdonatemi…»
Tra un singhiozzo e l’altro, Jordan avvicinò a fatica la sua mano per accarezzarmi la nuca, con tutta la dolcezza di cui disponeva.
I sensi di colpa mi corrodevano dall’interno. Una rabbia indescrivibile si stava annidando nel mio cuore. Che cosa avevo fatto? Perché? Perché loro e non me?!
«No. Non devi scusarti. È tutto a posto… ora, devi vivere, Lizzie. Vivi… per noi.»
Un sonoro ciaf mi fece alzare e allontanare involontariamente da Jordan. I suoi occhi erano fissi, senza vita, così lo era il resto del suo corpo: era morto.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
Ebbene… ho scritto anche questo. Ormai ci avviciniamo alla scena madre ( spero XD).
Lo ammetto… ho pianto… ma davvero tanto… Sono cattiva, ma davvero tanto… D’altronde però, era necessario. Ho notato che rispetto agli altri giorni del diario questo è il più lungo O__O Be’, ma tanto ormai Lizzie non è più vincolata da un limite, no? Quindi… eheh.
Spero vi sia piaciuto questo capitolo! Alla prossima!
Cassandra
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** E' davvero... la fine? ***


Il mio nome è Benedict Scott. Tutto ciò che dovete sapere di me è che ho sedici anni, sono un amante dello sport, dei videogiochi, mi affascina la psicologia, in particolare quella dei criminali, e sono un amico di Elizabeth Grell.
Il motivo per cui sono qui è l’indisponibilità di Lizzie in questo momento. D’altronde, come darle torto? Come se la sorte non le avesse già reso la vita impossibile, tra la morte dei suoi genitori, l’emarginazione e la scioccante scoperta che la lega al loro assassino, quest’oggi ha voluto infierire nuovamente lasciando che Jordan, il suo migliore amico, venisse ucciso, guarda caso, da Jeff the Killer.
Jeff. Lo stesso serial killer a cui ho dedicato alcuni anni della mia vita, che da un’innocua curiosità è diventato oggetto di mie fantasie omicide nei suoi confronti.
Diversamente da Lizzie, mi è difficile esprimere nero su bianco tutto ciò che ho provato e tuttora sto provando. L’unica cosa che posso scrivere è ammettere la mia incapacità di poterla aiutare, soprattutto ora che è psicologicamente e fisicamente distrutta. Non le sono stato accanto come avrei dovuto, mi sento inutile stando qui ai piedi del suo letto, mentre lei piange sul guanciale per attutire le sue urla di dolore, ma purtroppo non mi è permesso avvicinarmi a lei per almeno una trentina di minuti, il tempo necessario per illustrarvi cosa successe questo pomeriggio.
Fu un’impresa scollarmi dalla donna e dalla folla di ipocriti attorno a me, ma perlomeno riuscii a non far avvicinare nessuno a quell’angolo. Tra loro nessuno sembrò aver capito cosa la spaventò, mentre io e Lizzie sì. Ciò che dedotti al locale, si rivelò essere in parte una verità: attraverso il suo modo di parlare e il suo comportamento, capii che Jordan stava, in un certo senso, mentendo, ma non potevo di certo immaginare che anche lui fosse collegato a Jeff.
Non appena svoltai l’angolo, l’unica cosa che attirò la mia attenzione era il rosso accesso del sangue sulla staccionata di legno, sui muri e sui bidoni della spazzatura e infine… i miei occhi si concentrarono sul corpo mutilato di Jordan.
«Oh Cristo… no. Non è possibile! Jordan!»
«È morto.» disse Lizzie con la voce strozzata, prima che potessi anche fare solo un passo, «Lui… è morto» ripeté ancora più sofferente.
La mia curiosità mi obbligò ad allungare l’occhio sulle ferite: orribili, un’opera degna della bestia che è Jeff.  Difficilmente non notai due pezzi di carta vicino al corpo. Erano una fotografia di Lizzie e un biglietto scritto con il sangue «Bastardo…»
«Sono stata io… Io li ho uccisi. Sono io l’assassina di Jordan e di Rose… SONO STATA IO!»
Quelle urla disperate rivolte verso il cielo, intente a ricevere una risposta, si dispersero nell’aria sotto gli occhi delusi di Lizzie, che si rassegnò, davanti all’indifferenza della mera illusione chiamata Dio.
A quel punto, la strinsi da dietro, bloccandole mani e braccia, cosicché non iniziasse a graffiarsi con le unghie «Lizzie, smettila! Calmati!»
«Guarda, Ben… Non va via! IL SANGUE DI JORDAN NON VA VIA! È SULLE MIE MANI!»
A malincuore, dovetti stringere più forte, onde evitare che continuasse anche a strofinare palmi e dorsi delle mani del tutto immacolate «Lizzie, non hai nulla! Non hai le mani sporche di sangue! Tu non lo hai ucciso, Jeff lo ha fatto! Non tu!». Inaspettatamente, la mia voce la raggiunse e la indusse a calmarsi, ma non a smettere di urlare «Lizzie, ti prego. Ora calmati. Non urlare o altrimenti ti sentiranno! Dobbiamo andarcene subito!»
«Ma… Jordan… non possiamo lasciarlo così!» singhiozzò lei.
«Se ci trovano qui saremo costretti a parlare!»
«NON VOGLIO!»
Pur dimenandosi, riuscii a bloccare Lizzie senza problemi, ma allentai poco per volta la presa non appena avvertii i suoi muscoli rilassarsi fino a lasciarla del tutto. Un imbarazzante silenzio divise me e Lizzie, un silenzio spezzato dai miei inutili tentativi di tranquillizzarla e convincerla ad allontanarsi con me prima che qualcuno si accorgesse del cadavere di Jordan.
Per esperienza personale, trovarmi nella scomoda posizione di dover prendere una decisione importante non era mai stata una novità, ma questo pomeriggio, per la prima volta, mi sentii disorientato sul da farsi.
Poiché il tempo stringeva, tentai nuovamente di parlarle, ma mi bloccai, o per meglio dire, qualcosa mi bloccò. Un odore intenso e maleodorante trasportato da una folata di vento, mi costrinse a chiudere la bocca.
Facendomi forza, cercai di deglutire senza pensare o anche solo immaginare a cosa era dovuto quel fetore, dopodiché tossii «Ma cos’è? Viene dalla  spazzatura? È disgustoso!»
«No» rispose Lizzie aggressiva  avvicinandosi al corpo di Jordan«È lui.»
«Lui?» non ricevendo risposta, decisi di avvicinarmi lentamente a lei «Lui chi, Lizzie?»
«È QUEL BASTARDO!»
Con tutta l’agilità di cui disponeva, Lizzie saltò sui bidoni di ferro per superare la staccionata.
«Lizzie!»
Un insolito crepitio, seguito da un fruscio che si allontanava sempre di più, mi invitarono a prendere al volo la fotografia di Lizzie e il biglietto e a saltare a mia volta.
Appena toccai terra, davanti a me si presentò una distesa di erba secca alta fino alle cosce e lunga quanto due campi da calcio a undici. Ne rimasi talmente affascinato, che dovetti restare a fissarla, mentre ondeggiava mossa dal vento, finché di nuovo quel tanfo non mi ricordò che dovevo inseguire Lizzie.
Adocchiata la sua felpa color cremisi, mi apprestai a raggiungerla, pregando che quegli anni passati a praticare atletica leggera mi sarebbero stati utili in quella occasione.
«Lizzie! Ti prego, fermati!» ogni mio vano tentativo di chiamarla venne ignorato da un fugace sguardo glaciale di lei, per nulla intenzionata a fermarsi. Intanto, potei sentire l’acido lattico accumularsi sempre di più.  «LIZZIE!»
Finalmente ( e per mia fortuna, aggiungerei ), la corsa sembrò esser giunta al termine, poiché la tanto fuggevole macchia rossa si arrestò tutt’a un tratto. Ero pronto a rimproverarla per la sua impulsività e testardaggine, quando un albero secolare su una collinetta a circa duecento metri da noi, non attirò la mia attenzione, ma più di ogni altra cosa, fu la silhouette di un uomo ai piedi dell’arbusto.
Socchiudendo gli occhi cercai di identificarlo, riuscendo a distinguere prima una felpa bianca e sudicia, poi dei capelli corvini spettinati  e… un volto altrettanto bianco con un ampio sorriso scarlatto. «Oddio, ma quello… Non può essere. È Jeff?» balbettai tra un misto di entusiasmo e terrore: Jeff the killer era davanti ai miei occhi.
«PERCHÉ LO HAI FATTO?!» urlò Lizzie con tutto il fiato che aveva in corpo, non curandosi minimamente con chi aveva a che fare. L’odio, in quel momento, predominava su ogni cosa, persino sulla paura «PERCHÉ HAI UCCISO JORDAN?! TU VUOI ME, GIUSTO?! ALLORA VIENI A PRENDERMI! SONO QUI!» Lizzie allargò le braccia battendo i pugni sul petto «AVANTI! CHE COSA ASPETTI?! VIENIMI A PRENDERE!»
«Lizzie, smettila! O verrà veramente!»
Un movimento improvviso del killer, mi indusse ad avvicinarmi a Lizzie per spostarla dietro di me. Per un attimo, mi aspettai uno scatto improvviso da parte sua o una folle risposta all’invocazione di Lizzie, ma tutto ciò che fece fu darci le spalle e allontanarsi indisturbato dalla collinetta.
Non nascondo il mio sollievo dopo che Jeff sparì dalla mia vista. Il mio cuore riprese il suo battito regolare e i miei muscoli poterono rilassarsi. Mai avrei immaginato di poterlo incontrare di persona, o per meglio dire, non lo avrei mai voluto.
«Perché?» la voce flebile di Lizzie e un leggero tonfo mi riportarono alla realtà. Davanti a lei, inginocchiata e in lacrime, non potei far altro se non essere impotente e mortificato.
«Lizzie…»
«PERCHÉ?!»
 
______________________________________________________________________
 
New York Public Library, la terza più grande biblioteca dell’America del Nord a partire dal 1895, un edificio imponente che riproduce l’architettura di un tempio classico, che procura quella vertigine inconfondibile, spiazzante, che si trova di fronte a uno spettacolo meraviglioso. La facciata di marmo bianco in stile Beaux Arts;  le statue in marmo ai lati della gradinata che raffigurano due leoni, Pazienza e Forza, considerati da sempre i veri custodi della biblioteca; allegorie della verità, della bellezza, della filosofia, del romanzo, della religione, della poesia, del dramma e della storia, rappresentate da statue altrettanto raffinate e stupende.
Ancora prima di entrare, gli occhi del giovane ventenne brillano davanti a quell’arcana bellezza.
«Una vera dea, eh?»
Preso alla sprovvista, il biondo si volta di scatto, ma appena incrocia due piccoli occhi policromi dietro ad un paio di occhiali a mezzaluna, sorride «Curatore Maller. Mi ha fatto venire un colpo.»
Il cinquantenne soffoca una risata rispondendo al sorriso del giovane.
Pur essendo estate, l’uomo indossa il suo abituale completo in tweed color bordeaux con tanto di panciotto, mocassini in pelle e vernice nera, che gli conferiscono quell’aspetto sofisticato e inglese di cui va fiero, accompagnato dal suo fidato bastone da passeggio dal manico a forma di testa d’elefante.
«Allora. È arrivato il tuo momento, ragazzo. Ne sei felice?»
«Oh, altroché!» risponde entusiasta «Non vedevo proprio l’ora!»
«Sei stato fortunato. Il buon vecchio Sullivan si è proprio ammalato una settimana dopo dalla tua richiesta di lavoro nella biblioteca.»
«Già. Proprio una fortuna.»
«Credimi, giovanotto. Non appena lessi il tuo curriculum ne rimasi molto colpito! Hai tutti i requisiti necessari, nonostante tu sia così giovane.»
Il ragazzo allarga il sorriso lusingato «BÈ, mi sono dato da fare.»
«E lo vedo! Vogliamo entrare?»
Se l’esterno è una delizia per gli occhi, l’interno non è da meno. Un tripudio di emozioni si fanno largo nel biondo ad ogni passo: sia salire le meravigliose scale del secondo piano che ammirare gli splendidi affreschi dipinti sulle pareti, ma più di ogni altra cosa, la vera protagonista è l’immensa sala principale di lettura. Illuminata da splendidi lampadari di cristallo, sormontata da un soffitto ben lavorato e decorato da ulteriori affreschi, che ospita oltre seicento posti a sedere e incanta ogni visitatore e fa venir sete di cultura. Essa è imbottita di libri di ogni genere e arricchita di prodotti multimediali innovativi. È una fucina di idee inesauribili, dove il profumo un po’ polveroso delle pagine antiche incontra le luci e i colori della moderna creatività.
«È… davvero favolosa. Ogni volta che entro mi sento come un bambino. Sempre pronto a riscoprirla.»
«Oh, smettila giovanotto! Così finirò col premiarti per incarichi più importanti del semplice archiviare!» scherza il professore ridendo «Ammiro il tuo entusiasmo. Magari tutti i tuoi coetanei fossero come te.»
«In realtà ho ancora molto da imparare e spero che questo lavoro possa aiutarmi.»
«Non ne rimarrai deluso. Bene, mi è piaciuto fare due passi e chiacchierare con te, ma ora dobbiamo parlare di lavoro.»
A malincuore, curatore e sostituto temporaneo devono lasciare la Rose Main Reading Room per ritornare al primo piano per raggiungere la DeWitt Wallace Periodical Room.
«Che dire. Benvenuto nella sala dei periodici!» annuncia Maller allargando le braccia e indicando le moderne scaffalature mobili metalliche, che ospitano ben undicimila testate di periodici.
«Caspita. È davvero fantastico!»
«Puoi ben dirlo, ragazzo mio. Ora seguimi.» superate una decina di scaffalature, il curatore ne sposta una con il semplice comando elettronico «Vedi questa pila di giornali? Be’, puoi pure iniziare il tuo lavoro da questi.»
«Certo!»
«Bene. Ah, ti avverto. È probabile che di tanto in tanto passino per darti dei nuovi articoli da aggiungere al malloppo.»
«Oh, deve essere una testata importante.»
Maller ridacchia forzatamente cercando di nascondere la sua preoccupazione «Giudica tu stesso, vuoi?»
Il giovane ventenne si avvicina ai giornali e ne sfila uno. La foto in prima pagina lo sorprende a tal punto da farlo cadere.
«Ragazzo! Fa attenzione!» gli urla il curatore.
«M-mi scusi! Ecco… io non mi aspettavo di vedere qui…» balbetta il ragazzo mortificato «Questi riguardano tutti Jeff the killer?» dice tutto ad un fiato.
«Esattamente. In una biblioteca stimata come la nostra non poteva di certo mancare un soggetto come il caro Jeff. Senza contare che molti giovani in questi giorni richiedono molto materiale che lo riguardano.»
«Capisco…»
«Ragazzo mio, non ne sarai mica spaventato?» chiede Maller con tono rassicurante.
«Be’, ammetto… che mi inquieta un po’.»
«Non ti biasimo. Dopotutto ha una macabra reputazione che lo precede.»
«Già…»
«Mi dispiace, ma ora devo proprio tornare al terzo piano. Ho molte cose da fare e…»
«Non ci posso credere!» l’urlo improvviso del biondo fa sussultare l’uomo.
«C-che succede ora?!»
«Questo… è davvero quello che penso?» tra i quotidiani, il ragazzo intravede quello che a prima vista gli sembrò un libro nero, finché non lesse il titolo:Diario di una sopravvissuta.
«Temo di non capirti, ragazzo.» risponde Maller confuso.
«Non lo conosce? È stato pubblicato circa un mese fa da Elizabeth Grell!»
Maller lascia cadere il suo bastone da passeggio per togliere dalle mani del ragazzo il diario in pelle nera per esaminarlo «Grell? La ragazza sopravvissuta a Jeff the killer?! Non è possibile! Non ne ero al corrente! Che cosa ci fa qui?»
«Speravo che me lo spiegasse lei. In una settimana la sua storia ha avuto un enorme successo. Molti hanno richiesto una ripubblicazione, anche in altri paesi del mondo.»
«A giudicare dalle pagine sembra proprio un diario scritto a mano, ma non possiamo affermare con certezza che fosse di Elizabeth così su due piedi. Dobbiamo aspettare Greta. Se ne occuperà lei.»
«Non può farlo lei ora?»
«Ragazzo mio, ti ho già detto che degli impegni urgenti da sbrigare. Te lo lascio nelle tue mani, lei dovrebbe arrivare fra un’oretta. Intanto, occupati del resto.»
«Certo, signor Maller!»
«Bene. Allora, ci vediamo più tardi.» aggiustatosi cravatta e occhiali e raccolto il suo bastone, raggiunge la porta per uscire con un atteggiamento il più inglese possibile.
Sicuro di esser rimasto da solo, il ragazzo ne approfitta per sfogliare il diario. Pur non essendo un vero e proprio esperto, per qualche strano motivo è più che convinto che quello che aveva tra le mani era il vero diario di Elizabeth Grell: il giorno stesso dell’uscita del suo libro, lui lo comprò e lo lesse tutto con il fiato sospeso. Mai avrebbe immaginato che qualcuno potesse sopravvivere dalle grinfie di Jeff the killer.
«È incredibile. C’è una buona probabilità che questo sia il diario di Elizabeth! Non ci posso cred-… hm?» a tre quarti del diario, il ragazzo passa con un indice sulla data alquanto confuso: Giorno X.
Che cosa significa, si chiede lui; perché mettere una  X, quasi fosse un’incognita, quando il giorno prima è il quarantesimo? «Ok… evidentemente non è il suo diario. Infatti il libro finisce proprio con il quarantunesimo giorno. O forse… è il libro ad essere…» assicuratosi che non ci fosse nessun altro oltre a lui e ricordatosi che Greta sarebbe arrivata lì fra un’ora circa, il ragazzo ne approfitta per leggere quella ventina di pagine indisturbato.
«Forse… è successo qualcosa di più. O peggio: è successo qualcosa di completamente diverso quel giorno, al ballo scolastico del liceo di Elizabeth Grell.»
 
PREMESSA DELL’AUTRICE:
Finalmente… ce l’ho fatta… sono riuscita a pubblicare… uff… insomma, che dire se non la parola SCUOLA. Studio, studio e ancora studio… che qualcuno mi uccida, vi prego…
Ad ogni modo, ok… ho voluto apportare de cambiamenti. È evidente che ormai non ha più nulla a che fare con un diario ( forse l’ho già detto nei capitoli precendenti), ma… pazienza, spero che la storia possa comunque continuare a piacervi.
Punto due: ho fatto una fatica boia a descrivere la biblioteca pubblica di New York, visto che non ci sono mai stata… mi sono dovuta ingegnare attraverso una ricerca su internet. Se qualcosa non quadra, fatemelo sapere.
Ogni cosa ha il suo tempo, speravo di riuscire a scrivere di più, ma a quanto pare mi sono dovuta fermare qui… spero di non avervi annoiato ( se sì, mi dispiace, ma più avanti andrà meglio. I promise) e cercherò di aggiornare al più presto. Ciao!
 
Cassandra
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Giorno X ***


Giorno X
 
X. Questo piccolo simbolo racchiude in sé una moltitudine di significati. Ogni lingua ne fa uso e lo pronuncia in una maniera diversa. Esso è la ventiquattresima lettera nell’alfabeto latino moderno e la ventunesima in quello antico; dal punto di vista matematico è il simbolo della moltiplicazione, un’incognita o l’asse orizzontale di un piano cartesiano; rappresenta il decimo numero romano, un errore, qualcosa di ignoto o dal punto visita della messaggistica istantanea è anche un bacio, ma, in questo caso, questo segno all’apparenza semplice significa anche il momento cruciale.
Sì. Quel giorno, il quarantunesimo, segnò la fine di quell’incubo, la resa dei conti rappresentata dal mio fatidico incontro con Jeff the killer di cui, nonostante sia passato più di un mese, ricordo ogni minimo dettaglio.
Tutto successe durante la sera del tanto agognato ballo scolastico, dove i ragazzi coi loro bei smoking accompagnano delle splendide ragazze coi loro lunghi abiti da sera, trepidanti di scatenarsi in balli sfrenati e lenti, di scolarsi litri e litri di punch corrotto all’insaputa degli insegnanti, dell’elezione del re e della regina del ballo e di un’ora di puro piacere carnale prima del coprifuoco, si rivelò invece essere il giorno peggiore della loro vita.
 
Al mio risveglio le tempie iniziarono subito a pulsare impedendomi di tenere ben aperti gli occhi, ma perlomeno potei inquadrare la mia scrivania, l’armadio e pian piano tutto il resto. Realizzai che ero in camera mia e che fuori era pieno giorno. Erano le otto del mattino, secondo l’orologio del mio comodino.
«Ma cosa… Sono in camera mia?» ero alquanto confusa. La mia voce usciva strozzata e a fatica, e non sapevo il perché. Cercai di alzarmi dal letto ignorando il dolore della testa e degli occhi. Avevo bisogno di sciacquarmi il viso, di darmi una sistemata, ma le mie gambe erano come indolenzite «Ma che diamine. Che cosa succede alle mie gam-… Merda!» controvoglia, mi inginocchiai sul morbido tappeto shaggy e urlai, prendendolo a pugni. «Fanculo!»
All’improvviso, tutto mi fu chiaro. Sentii il mio cuore cominciare a battere più del dovuto, le lacrime che lentamente scivolavano lungo le guance, roventi quanto lava incandescente: istintivamente, avevo ricordato il vicolo insanguinato, il corpo brutalmente mutilato di Jordan e… quel demonio, quel bastardo di Jeff sulla collina sporco del suo sangue. Jeff. Tra tristezza e odio, si faceva strada la sete di vendetta, il mio istinto omicida nascosto. La mia mente veniva invasa da immagini cruenti di me, impegnata a torturare Jeff conficcandogli un coltello nel cuore, scuoiandolo il più lentamente possibile e cavandogli gli occhi.
Ad ogni secondo che passava,  dentro di me cresceva il desiderio di ucciderlo. Sogghignavo tra le lacrime, dovendomi accontentare della mia sola immaginazione, con le mani che mi prudevano, bramose di stringergli il collo.
«Lizzie?»
Presa alla sprovvista, scacciai scuotendo la testa quegli insani pensieri e mi girai verso la porta: era Ben, con in mano un vassoio. Dal profumo capii che era il polpettone speciale di nonna Jo con a fianco un bicchiere di succo di mela. Dietro di lui, Matt e David mi salutarono forzando un sorriso.
«B-Ben? Che cosa ci fai qui?»
Ben appoggiò il tutto sulla scrivania e mi aiutò ad alzarmi e a rimettermi sul letto «E me lo chiedi? Ovviamente ti ho riaccompagnata a casa e sono rimasto qui. In… quelle condizioni non potevi di certo stare qui da sola.» La nota di rabbia di Ben, mi fece capire quanto fosse preoccupato per me e perciò non ribattei.
«Scusa, Ben. Io...»
«Lascia stare. Sono contento che tu stia meglio» si addolcì il moro sorridendomi. «Ti ho portato compagnia»
«Ehilà Lizzie!» dissero all’unisono Matt e David.
Li salutai il più felice possibile.
«Tua nonna ieri sera non era tornata a casa, quindi l’ho chiamata e mi disse che sarebbe rimasta nella città dei clienti per un grosso lavoro ancora in corso. Così, mi sono offerto di badare alla casa» continuò Ben.
«Tua nonna è una grande! Voglio dire, lasciare che Ben rimanesse qui è… è…» disse il rosso cercando di finire la frase in modo sensato.
«Matt, il tuo patetico tentativo di fare delle battute non è d’aiuto» gli sussurrò David.
«Oh be’, almeno ci provo!» ribadì lui offeso.
«In effetti è parecchio strano da parte di nonna Jo, ma lei si fida di voi. Sono… contenta che tu sia rimasto, Ben» in realtà, non sapevo se esserne felice o meno. Mi sforzai di sorridere, ma era come se un lato della mia bocca si rifiutasse di alzarsi, senza contare che ancora non avevo smesso di piangere. Ero pronta a scusarmi per la pessima figura che stavo facendo, quando Ben mi abbracciò teneramente, lasciandomi appoggiare la testa sulla sua spalla.«Oh, Lizzie. Non hai idea di quanto mi dispiace… Io… se solo potessi aiutarti. Maledizione! »
Come sempre, rimasi senza parole davanti a quella gentilezza fatta persona, pronta a dare piuttosto che ricevere, ogni singola volta.« Ti prego, non dire così. Tu… voi, avete fatto molto per me, ma nonostante tutto… nonostante tutto…» fu tutto inutile resistere. Aggrappatami a lui, mi lasciai andare in un pianto affondando la mia faccia nella camicia di Ben, mentre lui, risoluto come sempre, mi accarezzava la testa con tutta la sua dolcezza.
 
Sorprendentemente, riuscii a godermi le tre fette di polpettone di nonna Jo. Quell’esplosione di sapori mi allevò da tutti gli spiacevoli pensieri ad ogni singolo boccone. Il succo di mela? Paradisiaco.
«Bene, nonna Jo sarà contenta di sapere che hai mangiato» disse David aggiustandosi gli occhiali sul naso.
«Il suo polpettone è un capolavoro. Ci voleva proprio.»
«Lo so bene. Io avrò mangiato almeno cinque o sei fette ieri sera» con una certa apprensione, Ben esaminò i miei occhi avvicinandosi con un pollice, provocandomi una lieve irritazione.«Caspita, sono messi male. Vuoi che ti porti qualcosa per sgonfiarli?»
«No, tranquillo. Vedrai che dopo passa.»
«D’accordo. Ehm… senti, volevo dirti una cosa riguardo a… » iniziò Ben titubante, «ecco…»
«Non dirai sul serio, Ben?» lo fermò Matt, con una serietà mai vista. «Insomma… si è appena ripresa.»
«Proprio perché mi sono ripresa, può benissimo dirmelo.»
«Oh per favore, Lizzie. Ben ci ha spiegato la tua mania di fare la coraggiosa, perciò…»
«Ho visto i cadaveri dei miei genitori, il mio migliore amico morirmi tra le braccia e mi sono ritrovata faccia a faccia con il loro assassino. Sì, è vero. Forse non mi sono ripresa, ma ho altro da perdere ormai?» quante volte, contando anche questa, avrò assistito ad imbarazzanti silenzio con i suoi amici. Non mi stupii più di tanto della loro reazione da cani bastonati.«Allora? Di cosa volevi parlarmi?»
Ben si arrese e iniziò a parlare.«Mentre tu dormivi, io e i ragazzi abbiamo voluto aggiornare il raccoglitore aggiungendo ciò che è successo a Jordan e a Rose, quando ci accorgemmo di una cosa.»
«E sarebbe?»
David e Matt si guardarono l’un l’altro e,colto lo sguardo di Ben, tirarono fuori dal raccoglitore rosso un cartina della città e la attaccarono su un muro della mia stanza. Ciò che vidi, mi lasciò senza parole: il dormitorio militare, l’area di servizio e tutti gli altri luoghi in cui vennero ritrovate le vittime di Jeff the Killer erano tutti segnati su di essa, ma ciò che mi sorprese di più, era cosa tutte quelle X disegnate con un pennarello nero formavano. LIU.
«Non… non può essere» dissi scuotendo la testa,«è davvero stato…»
«Siamo scioccati quanto te, Lizzie. Era tutto calcolato» disse David con la voce tremante.
«È dvvero agghiacciante…» disse Matt.« Insomma, chi l’avrebbe mai detto che un killer psicopatico come Jeff fosse così… intelligente.»
«Ciò spiegherebbe anche la sua lunga assenza. Avendo appreso dove ti trovassi, ha pensato bene dove uccidere le vittime, ha studiato ogni luogo un modo tale da attirare la tua attenzione con questo messag-…» d’un tratto Ben si fermò e sbiancò in volto, quasi fosse spaventato da qualcosa.
«Ben? Che… ti prende?» gli chiesi più spaventata di lei.
«No… è impossibile.» bisbigliò lui senza togliere gli occhi dalla cartina.
«Ti prego, Ben. Parlaci. Che cosa hai scoperto?»
«MALEDIZIONE!» urlò Ben prendendo a calci il mio cestino della spazzatura. «Perché non ci ho pensato prima?!»
«Wo! Amico! Datti una calmata, ok?» cercò di tranquillizzarlo Matt.«Che diamine ti è preso?»
«Ha osservato ogni nostro movimento. E per nostro, intendo di tutti e quattro» disse lui a denti stretti, «sa bene che noi registriamo tutto ciò che lo riguarda.»
«Oi, non vorrai dirmi che sapeva anche avremmo scoperto il giochetto del nome, vero?» disse David, forzandosi di sorridere.
«Ho paura invece che sia così» dissi spezzando le sue speranze.
«Ok… le cose si stanno veramente mettendo male. No, questa cosa non la posso più sostenere» Matt era pronto ad uscire dalla stanza, quando Ben lo fermò prendendolo per il polso.
«Dove hai intenzione di andare, Matt?»
«Dalla polizia, no? Apri gli occhi, Ben! Lo so che inizialmente avevamo pensato di cavarcela da soli, ma dopo questo» disse indicando la cartina, «non possiamo!»
«Matt ha ragione»si aggiunse David sempre più spaventato. «Non possiamo più giocare ai cacciatori di Jeff the Killer.»
«Ragazzi, voi non capite! Non è solo questo il problema, c’è dell’altro! Ed è…»
«Ok» pur avendolo detto quasi sussurrando, la mia voce attirò l’attenzione di tutti e tre i ragazzi, che subito si voltarono verso di me.
«Come hai detto, scusa?»
«Che hanno ragione, Ben.» dissi, senza togliere gli occhi sulla cartina della città.
«Oh, Lizzie… finalmente sei ragionevole» Matt tirò un sospiro di sollievo, appoggiandosi alla porta della mia stanza. «Avevo seriamente paura che anche questa volta avresti cercato di dissuaderci.»
«Non lo avrei fatto. Non questa volta.»
«È bello sentirtelo dire. Allora che ne dite se andiamo tutti insieme, eh?»
«No, non andiamo ora. Voglio aspettare che ritorni nonna Jo. Le voglio raccontare tutto. Sono certa che con la sua presenza i poliziotti saranno costretti a crederci.»
«Giusto! È grandioso!» esultò David. «Sarà complicato raccontarglielo, però… è la cosa giusta.»
«Sì. Sentite, ragazzi. Vi ringrazio per la visita, ma non voglio obbligarvi a restare qui, perciò uscite. Per certi lavori fuori città di solito torna a casa per le nove, massimo le dieci. Quanto avrò sistemato le cose con lei, vi chiamerò.»
«D’accordo! Riposati pure, Lizzie! Andiamo, Ben?» disse allegramente Matt.
«No»rispose Ben,«Io… rimango ancora un attimo qui.»
«Rassegnati, Ben. Ormai è finita. Terremo il raccoglitore come ricordo. Comunque, ci sentiamo questa sera.»
Matt e David salutarono me e Ben per l’ultima volta e uscirono da casa mia ridendo, contenti che quell’Inferno era finito. Quando le voci dei due si allontanarono fino a scomparire del tutto, io e Ben rimanemmo a guardaci negli occhi, gesto sufficiente a far capire a Ben che cosa avessi in mente. I suoi occhi che sprigionavano sicurezza e nessun tipo di cedimento, ora mi fissavano confusi, quasi atterriti. Pronto a chiedermi delle spiegazioni, io lo fermai allungando un braccio verso di lui.
«Prima che tu possa iniziare a parlare, vorrei rispondere alle tue domande, perché da come mi hai guardata in questi ultimi cinque minuti, deduco che hai capito tutto: sì, l’ho fatto di proposito. Non volevo che David e Matt venissero coinvolti perché, a differenza di noi due, loro non c’entrano nulla con questa storia. Sì, come te ho notato cosa manca sulla mappa e ciò che mi sta venendo in mente non mi piace affatto.»
Pur avendogli dato il permesso di parlare, Ben non aprì la bocca, ma senza riuscire a spiccicare una parola, come lui voleva.
«Visto che sei incapace di parlare, inizio io, se permetti. Arrivati a questo punto, mi spieghi cosa ti abbia spinto a stalkerare le mosse di Jeff?»
Ben sbatté più volte le palpebre, come risvegliata osi da un incantesimo e si schiarì la voce.
«È palese che David e Matt non abbiano alcuno scopo, ma tu sì. Fin dall’inizio sapevo che non me la raccontavi giusta. Credo che sia il momento di confessare, non credi?»
«Mio padre è il medico che ha curato le bruciature di Jeff» disse Ben tutto ad un fiato e con gli occhi persi nel vuoto.
Sia chiaro. Non mi aspettavo di certo che Ben fosse nella mia stessa situazione, anche perché me ne sarei accorta vedendo l’atteggiamento degli altri a scuola, ma non… questo.
«Tuo… padre?»
Annuì lui. «Quando ero piccolo vivevamo nei pressi della città in cui viveva anche la famiglia di Jeff» iniziò a raccontare, «ogni volta che ritornava al lavoro ci raccontava di lui, di cosa gli era successo e come procedeva la sua guarigione. Diciamo che inizialmente non mi interessava più di tanto, ero convinto che fosse il solito povero ragazzo vittima di una disgrazia, ma le cose cambiarono quando qualche settimana dopo poté uscire dall’ospedale e quindi quando Jeff… uccise i suoi genitori e Liu» Ben si concesse una pausa prima di riprendere e iniziò a guardarsi attorno. «Papà alla notizia si sentì terribilmente in colpa. Pensava che tutto ciò che aveva fatto fosse un totale fallimento e che quindi la morte dei Woods fosse opera sua.»
«Ma non è così! Non è stata colpa di tuo padre!»
«È quello che abbiamo continuato a dire io e mia madre, ma tuttora si rifiuta di ascoltarci. Da quel giorno cambiammo città e venimmo qui.»
«E continua a fare il medico?»
«Sì, più o meno. Ha solo un piccolo ambulatorio per semplici visite mediche.»
«Capisco. Quindi tu hai deciso di fare delle ricerche su Jeff per… vendetta?» dissi quasi spaventata, ricordandomi di quelle terribili immagini di me come torturatrice.
Ben sogghignò nervosamente scuotendo la testa. «Oltre a sembrare coraggiosa, quando sei in questo stato il tuo cervello ti fa dire certe cose assurde. Ovviamente non lo faccio per vendetta. È vero, forse c’entra il fatto che voglio che mio padre sia sereno e dimostrare che non è stata colpa sua, ma in realtà la mia intenzione è che finito il liceo voglio lavorare nel campo della criminologia e per iniziare ho deciso di studiare la psicologia di Jeff Alan Woods, ormai noto come Jeff the Killer» finito di parlare, Ben si girò verso di me allargando un sorriso «Io e te siamo molto simili, sai? O meglio, quasi. Le nostre situazioni sono completamente diverse: tu hai delle buone ragioni per stanarlo, mentre io… lo faccio solo per capriccio, eppure… non posso fermarmi, non ora che sono così vicino.»
«Capriccio? È per questo che all’inizio volevi che mi fermassi? Perché pensavi che stessi facendo la cosa sbagliata?»
«Coraggiosa, incosciente e adesso perspicace. Forse dovrei iniziare a studiare anche te, che ne dici?»
«Non credo che sia il momento di scherzare. La situazione sta diventando pericolosa, ma io sono decisa ad andare avanti. Questa volta sono veramente stanca di aspettare e non lascerò che qualcun altro a me caro muoia» dimenticandomi del dolore alle gambe, mi alzai decisa dal letto per raggiungere la cartina e, preso un pennarello nero, segnai l’ultima destinazione di Jeff, l’ultima X che serviva per completare del tutto la U di Liu: il nostro liceo. Jeff aveva intenzione di incontrarmi alla sera del ballo scolastico.
«Sarà il peggior ballo scolastico della storia» disse Ben, cercando di fare dell’ironia. Stranamente, riuscii a sorridere, senza però perdere di vista la situazione.
«Dimmi, Ben. Rispetto alla sala computer, mi trovi ancora spavalda? Pensi che stia cercando ancora di fare la dura?»
Ben rimase in silenzio per riflettere, finché non si avvicinò a me e mi strinse la mano. Come me, l’impavido Ben, lo stesso ragazzo che mi rimase a fianco nei momenti più difficili, stava tremando.«No. Direi proprio di no.»
Tutto era deciso. Non potevamo più tornare indietro. Pur avendo paura, pur sapendo che probabilmente non ne saremmo usciti illesi, io e Ben eravamo pronti ad  affrontare Jeff faccia a faccia. Era il momento di porre fine a quella storia.
«Elizabeth Grell. Verresti al ballo con me?»
«Con grande piacere, Benedict Scott.»
 
ANGOLO DELL’AUTRICE: F I N A L M E N T E. La maturità mi ha messa K.O. e quindi… mi sono dovuta riprendere un po’. Be’, in effetti riprendersi non significa decidere di iniziare a scrivere un’altra storia ovvero CRP Apocalypse, ma… sono pazza, tutto qui. Questa volta ho tutto il tempo per scrivere (tranne quando sarò in vacanza, perché non porterò il pc con me… dannazione). Che dire… capitolo…  un po’ povero… forse l’ho scritto un po’ male, lo ammetto… ma non volevo dilungarmi troppo perciò ho voluto tagliare molto e arrivare quindi al punto, così da poter iniziare la parte che tanto aspettavo: l’inocntro fra Lizze e Jeff *Dan dan daaaaan* seriamente, non vedevo l’ora. Quasi quasi mi metto subito a scriverla. Chissà… magari potrei anche riuscire a pubblicare stanotte stessa  (magari…)
Be’, eccovi il decimo capitolo. Alla prossima!
 
P.S. Senza accorgermene… Ho fatto qualcosa di… strano. Il nome del capitolo è Giorno X, ovvero il fatidico giorno. Guarda caso è il decimo capitolo, quindi in numero romano sempre X. Sulla mappa il nome di Liu è scritto con delle X…  X. X ovunque. ok, forse leggermente suonata. Sicuramente ve ne sarete accorti.
 La post-maturità sta avendo un’influenza negativa su di me... Bye bye!

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Tanti auguri ***


Come ogni omicidio che si rispetti, l’agghiacciante massacro di Jordan avrebbe dovuto essere sulla bocca di tutti attraverso telegiornali e quotidiani, ma l’unica cosa di cui si parlò quella stessa mattina era la sparizioni di bidoni della spazzatura e della staccionata di un vicolo. Nessun corpo brutalmente mutilato venne menzionato.
«Assurdo» disse a denti stretti Ben, «com’è possibile che abbia ripulito ogni cosa?! Dannazione.»
«La vera domanda è… come ha fatto la gente a non vedere il corpo?»
«Per me c’è sotto qualcosa.»
«Diciamo qualcuno. Io credo che ci sia un complice» affermai con una certa sicurezza.
«E chi, scusa?»
Alzai le spalle. «Bella domanda.»
«Allora… stasera andremo al ballo, eh? Che cosa ti metterai, Lizzie?»
«Se Jeff vuole Liu, mi vestirò come tale.»
Ben si girò verso di me con un sopracciglio alzato. «Quindi?»
«Maglietta con una camicia sopra sbottonata, un paio di jeans e scarpe da ginnastica. Oh, da giovane nonna Jo usava degli speciali corpetti per il petto. Potrei usarne uno.»
«Dei… corpetti?»
«Già. A quel tempo preferiva non attirare l’attenzione.»
«Oh, capisco. Sì, buona idea!» disse Ben forzando un sorriso, palesemente deluso. Anche solo guardandolo potei immaginare cosa stesse pensando, ma preferii non inferire, onde evitare che le mie ipotesi potessero poi risultare del tutto infondate, ma purtroppo per lui, quella agognata serata da sogno per qualunque adolescente era destinata a rimanere tale. Questa volta, non potevamo distrarci. Questa volta, dovevamo finirla.
«Ehi, Ben.»
«Sì?»
«Col cavolo che avrei indossato una gonna.»
«Sì, ci avrei giurato. Parlando d’altro. Come la mettiamo con Matt e David?»
«Già fatto» dissi allungando a Ben il mio cellulare «Ho scritto ad entrambi di andare al Chantal’s Vanilla per le nove di sera.»
«Perfetto. Così mentre loro sono lì, noi saremo a scuola, ma… ora mi sfugge qualcosa.»
«Dimmi.»
«Come… avviseremo l’intera scuola?»
Grazie al tempismo di Ben, mi ritrovai nella scomoda posizione di prendere una decisione difficile. Come avremmo potuto avvisare studenti e professori dell’arrivo di Jeff? Bella domanda, senza contare che l’intera scuola mi odiava incondizionatamente. Non ci avrebbero ascoltato.
«Questo… non lo so, ma ci verrà in mente qualcosa, vedrai. L’importante e non scatenare il panico. Avvisarli sì, ma con discrezione.»
«Lizzie» disse Ben mi prendendomi per mano. «Sei… sicura di voler andare fino in fondo?»
«Più che sicura, Ben. Io… sono davvero stanca» ovviamente, mi bastò pensare al ballo per poi iniziare a tremare senza staccarmi dalla mano di Ben. Ormai non potevo più nasconderlo: avevo palesemente paura, non avevo più il tempo di fingermi impavida e spavalda. Come avrei potuto? Mancavano poco più di dodici ore e poi avrei dovuto affrontare nuovamente Jeff the Killer.
«Non sarai da sola, Lizzie»
«Lo so.»
Ben mi accarezzò il palmo della mano intento a tranquillizzarmi, nonostante fosse rigido quanto me. «È il momento di affrontare quel demonio.»
 
Musica a tutta volume. Centinaia di limousine parcheggiate. Luci abbastanza abbaglianti e spettacolari da impedire che qualcuno potesse annoiarsi durante quella serata memorabile. Sì. Memorabile perché da lì a poco la palestra esterna del liceo sarebbe stata teatro di un possibile massacro.
«Ora sono le nove. Matt e David saranno già al bar» dissi dopo aver dato un’occhiata all’orologio.«Accidenti. Anche in un momento come questo riesco a sentirmi in colpa. Ci uccideranno se ci scoprono.»
«Non se qualcun altro ci uccide prima» cercò di essere sarcastico Ben, senza riuscirci, ma in fondo… era una battuta azzeccata e divertente.«Quindi? Che si fa, Lizzie?»
«Una cosa è certa. Dobbiamo per forza entrare e capire dove potrebbe farsi vedere e impedire che uccida.»
«Su questo non avevo dubbi.»
Fatto un bel respiro profondo, corremmo entrambi verso l’ingresso, evitando ogni conoscente di Ben intento a salutarlo. Non appena spalancammo il portone antipanico, al posto dei classici campi da basket e da pallavolo e le tribune, c’erano studenti e insegnati vestiti con abiti sgargianti che ballavano a tempo di musica, palloncini disseminati per il pavimento, striscioni dorati che recitavano Bevimi o Mangiami, tavoli addobbati con tovaglie rosse e bianche, decorate a loro volta con carte da gioco, orologi, teiere, conigli e molti altri elementi che  ci fecero capire subito il tema scelto: Alice nel Paese delle Meraviglie.
«Oh no… ditemi che è uno scherzo…» disse Ben con un certo ribrezzo.
«Oh, guarda. C’è una statua di ghiaccia dello Stregatto. Che la regina del ballo possa pure tagliarmi la testa, ma io me la porto a casa.»
«Per favore, Lizzie. Dobbiamo essere concentrati.»
«Ho voluto sprecare il mio momento di sarcasmo.»
Ovviamente, man mano che avanzavamo la mia presenza attirò non poco l’attenzione. Prima uno, poi due, finché,a reazione a catena, tutti non si voltarono verso di me, lanciandomi degli sguardi truci, ma pur sempre spaventati.
«E ti pareva. Eccoli che ricominciano» disse Ben a denti stretti. «E noi dovremo avvisarli del suo arrivo?»
«Hai già sprecato il tuo momento, Ben. Non è affatto divertente.»
Cercando di ignorare più gente possibile, ci facemmo strada tra la folla fino a raggiungere il tavolo centrale, dov’era esposta la statua di ghiaccio. Da lì, potevamo bene o male vedere l’intera palestra e quindi ipotizzare da dove sarebbe potuto entrare Jeff.
«Escludiamo l’ingresso. Uno che ha pensato di mandarti un messaggio attraverso l’intera città non è così stupido» iniziò Ben.
«No, infatti. Che ne dici dell’ingresso della scuola? Potrebbe benissimo far irruzione cogliendo tutti di sorpresa.»
«Prendimi per idiota, ma credo che sarebbe banale da parte sua.»
«Allarme antincendio?» proposi entusiasta.
«Tutti se ne accorcerebbero e Jeff potrebbe decidere di ucciderli appena usciranno da qui.»
Troppo stupido. Troppo banale. Troppo prevedibile. Più scorrevo gli occhi su quel caos, più il mio cervello non riusciva a pensare.  Travestirsi da studente? Da DJ? No. Non era nello stile di Jeff, ma se le normali entrate non potevano essere delle valide opzioni, l’unica folle soluzione non poteva essere che…
«Il tetto… di vetro» dissi appena alzai lo sguardo.
«Eh? Cosa?» mi chiese Ben intimorito.
Alzai incerta il braccio verso la semicupola di vetro che sormontava l’intera palestra, mentre i miei occhi erano concentrati a fissare la figura lattea a quattro zampe su di essa, che mi fissava bramosa di catturarmi.
«Oh Cristo…» sussurrò impaurito Ben, accortosi della presenza di Jeff. «È... arrivato.»
«C’è… un grosso masso. Vicino a lui» dissi più atterrita che mai.
«Oi. Non avrà intenzione di… » chiese Ben con la voce tremante.
«Temo… di sì.»
Così come mi adocchiò, Jeff sorrise malizioso portandosi sulla testa il masso, pronto a crearsi un varco. Al primo colpo, il vetro non diede segni di cedimento, ma nei successivi cinque, sia io che Ben andammo nel panico, appena vedemmo formarsi delle crepe.
«Ma che cavolo… Dove la trova tutta quella forza?! Dovrebbe essere impossibile!» disse preoccupato Ben.
«Ti stupisci ora delle pessime condizioni di questa scuola? Ma non è il momento! Dobbiamo avvisarli tutti. Ora!»
Senza pensarci due volte, mi decisi a salire sul tavolo del punch e iniziai ad agitare le braccia. «FERMATE LA MUSICA! VI PREGO! DOVETE ASCOLTARMI TUTTI!» ora che volevo essere notata, nessuno sembrò prendermi sul serio e continuò a ballare o semplicemente ad ignorarmi, ma io non demordevo e urlai sempre più forte, a costo di sgolarmi. «VI PREGO! È DAVVERO IMPORTANTE! SIETE TUTTI IN PERICOLO!»
 « Oh per l’amor di… FERMATE QUESTA MALEDETTA MUSICA!» con tutto il fiato che aveva, Ben riuscì finalmente a fermare tutti e a farli girare verso di noi, ammutoliti. «Dovete assolutamente evacuare la palestra! È un’emergenza!»
«E perché dovremmo farlo?» chiese spazientito un ragazzo vicino al tavolo.
«Perché… sarebbe la fine  per tutti noi» disse diretto Ben.
«E chi dice che non stai mentendo? Andiamo, è la serata del ballo!»
«Credi che me ne starei qui se non fossi serio, eh?! VUOI FORSE MORIRE?!» urlò Ben furioso.
Lo scioccante avvertimento, scaturì sgomento tra tutti gli studenti che cominciarono a bisbigliare fra di loro increduli e confusi.
«Sentite… non è il momento di spiegazioni. Per favore, uscite tutti quanti da qu-… »
 Il fastidioso brusio della folla venne spezzato improvvisamente da pesanti colpi provenienti dall’alto, colpi che gradualmente si fecero più veloci e più forti.
«Oddio, quello cos’è?!» urlò una ragazza indicando la fonte.
«Sembra… Jeff. È Jeff the Killer!» la seguì l’amica.
Panico collettivo. Proprio ciò che volevamo evitare. In meno di un secondo, la palestra si riempì di urla assordanti e tutti presero a correre verso l’uscita per salvarsi.
«E pensare che avevo detto con discrezione» ammonii Ben.
«Accontentati. Almeno ora lo sanno.»
«Oddio! Sta per rompere il vetro!» sbraitò impaurito un insegnante.
Ben e io, che eravamo rimasti sul tavolo, alzammo lo sguardo e…
 
Crack…
 
Come in un film a rallentatore, vidi grossi pezzi di vetro cadere in picchiata insieme a Jeff, con la bocca aperta e la lingua a penzoloni, verso di noi. A due metri di distanza, Ben si gettò su di me ed entrambi ci allontanammo dal tavolo. I frammenti, si schiantarono rovinosamente sul pavimento riducendosi in tanti e minuscoli cristalli, meravigliosi a prima vista, ma letali sulla nostra pelle.
«Ben! Stai bene, Ben?!»
«Sì… sto bene… Ahia…» sofferente, Ben si tenne la spalla destra. Entrambi avevamo tagli sul volto e sulle braccia.
«Dannazione! Che diamine ha in mente!»
«AIUTO! QUALCUNO MI AIUTI!» come se non avesse già causato abbastanza problemi, quello stesso ragazzo che aveva impedito di evacuare al più presto la palestra, era finito nelle grinfie dell’insano assassino dal sorriso scarlatto, impaziente di conficcargli il coltello nella gola come un maiale.
 «FERMO!» urlai d’istinto, dimenticandomi per un attimo con cui avevo a che fare, proprio come il giorno prima.
Inaspettatamente, Jeff lasciò andare il ragazzo, che subito scappò in lacrime e urlando, e subito volse i suoi occhi di ghiaccio verso di me, in cui era inevitabile richiamare l’atrocità di quella notte.
Ci guardammo a lungo. Non so per quanto tempo, ma di una cosa ero certa. Fu come se entrambi stessimo rievocando contemporaneamente il passato, finendo col condividere un unico ricordo: io che sento un rumore provenire dal piano di sotto, mentre lui uccide senza pietà. Io che mi inginocchio davanti ai miei genitori tagliati a pezzi, mentre lui si avvicina a passo felpato. Io che lo guardo rassegnata, mentre lui mi risparmia, piangendo sangue.
Rabbia, tristezza e rimorso si fecero strada nella mia mente ad ogni passo che facevo per raggiungere Jeff,  ma nulla più del sostegno dei miei genitori, di Ben, di Rose e di Jordan sulle mie spalle poteva darmi la forza e il coraggio di poter proseguire.
 
Devi vivere, Lizzie. Vivi per noi.
 
Ed eccoci qua, faccia a faccia, a neanche venti centimetri di distanza non più come assassino e vittima, ma come assassino e sopravvissuta.
Un brivido mi percosse l’intero corpo, appena un abbagliante colpì in pieno volto Jeff, illuminando il suo volto biancastro e il suo raccapricciante sorriso intagliato, che metteva in risalto tutti e trentadue denti gialli e marci. Puzzava tremendamente di morte, di fumo e di alcol, tutto esaltato dalla felpa sporca di sangue e probabilmente di terra e di fango. Rispetto al nostro ultimo incontro ravvicinato, sembrava che il suo respiro fosse peggiorato da come rantolava.
«Sono arrivato» dissi cercando di apparire il più maschile possibile. «È me che cercavi, giusto? Fratello?»
«Li…u» disse Jeff affaticato.
«Sì, sono Liu.»
«LIU!» urlò intento ad afferrarmi, ma senza riuscirci, poiché Ben fece in tempo a tirarmi indietro prendendomi per la camicia.
«Non così in fretta, Jeff the Killer.»
«Ben! Cosa diamine stai facendo?!»
Visibilmente adirato, Jeff iniziò a ringhiare come una bestia feroce e prese al volo il suo fidato coltello, finché non si fermò di colpo, disorientato.
Ben non si fece intimorire e rimase davanti a me, per proteggermi.«Stai dietro di me. Io… non gli permetterò di toccarti.» disse a denti stretti.
«Ben…»
«Do… ttore.»
Sia io che Ben, abbassammo di poco la guardia, riflettendo su ciò che il killer aveva appena detto.
«Dottore? Che cosa intende?» chiesi a Ben confusa.
«Io… non lo so proprio.»
«Dottor… Scott» continuò Jeff, rimettendo nella tasca della felpa la pericolosa lama.
Incredibilmente, pur a distanza di otto anni, il serial killer ricordava il nome del dottore che lo aveva curato, ovvero il padre di Ben.
«Sì, esatto. Io sono il figlio. Sono Ben.»
«Be…n»
«Sì, proprio cos-…» non appena Ben cercò di avvicinarsi, Jeff assestò un pugno sullo stomaco di lui, facendolo svenire.
«No, Ben!»
«Il… dottor Scott… ha bisogno… di dormire» disse Jeff.
«No! Lui non lo devi uccidere non ce n'è bisogno! Prendi solo me!» convinta che mi avrebbe ascoltato, feci lo stesso identico errore di avanzare e venni fermata con un secondo pugno.
 
L’odore inaspettato di cioccolato, mi riportò alla mente quei sabato pomeriggio passati da piccola assieme a nonna Jo, per ammirarla mentre lei preparava le sue deliziose torte. Era bello vedere come ogni utensile da cucina nelle sue mani si trasformasse in una bacchetta magica. L’amore con cui cucinava, brillava ogni volta che un ingrediente veniva toccato da lei. Ai miei occhi, nonna Jo era una vera e propria maga dei dolci.
Ricordare quei bei momenti alleggerì per un po’ la mia mente, ma non appena sentii un dolore lancinante sotto l’addome, fui costretta ad aprire gli occhi e a tornare alla dura e crudele realtà.
«Ma… che cosa… è successo?»
«Ti sei finalmente svegliata» disse Ben sorridendomi e sollevato.
«Ben! Stai bene?!»
«Sì, tranquilla. Tu piuttosto?»
«Sì, tutto bene, ma… queste?» domandai esaminando le manette che legavano il mio polso destro e quello sinistro di Ben. Erano strette e fastidiose per entrambi.
«Non lo so. Quel Jeff è imprevedibile.»
« A proposito, dov’è?»
«Quando mi sono risvegliato lui non c’era più.»
Detto e fatto, dalla porta che collegava alla scuola vi entrò Jeff, con in mano quello che dalla nostra posizione sembrava essere… una torta.
«Parli del diavolo. Che diamine… perché ha una torta in mano?» chiese Ben.
«Ecco… da dove arrivava quell' odore.»
«Che cosa sono quelle? Candele?»
A metà strada, Jeff iniziò a canticchiare la classica canzoncina di Compleanno, rendendo la situazione più inquietante di quanto non lo fosse già.
Torta. Candele. Canzone di Compleanno. Per me e Ben bastò guardarci per capire a cosa stavamo assistendo, ma ricevemmo la conferma di tutto, non appena Jeff posò davanti a me quella splendida torta al cioccolato a tre strati guarnita di tredici candeline.
«Tanti auguri di… buon Compleanno. Liu.»

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** La verità uccide ***


Una traditrice. Non riuscii a smettere di pensare che fossi una stramaledetta traditrice e ciò mi irritava, inquietava e mi confondeva, poiché stando davanti a quella torta mi sentivo in colpa nei confronti di Jeff. Forse era la paura di ritrovarmi con lui o forse, ironicamente parlando, mi ero così immedesimata in Liu a tal punto da essere… lusingata e felice, più di quanto non lo fosse Jeff, che applaudiva e sghignazzava compiaciuto. Lui, il serial killer di cui tutti avevano il terrore, il Sinistro Mietitore che portava via la vita a chiunque gli fosse d’intralcio senza pietà, era come ritornato ad essere quel normale quindicenne che era otto anni fa.
Perché? Cosa mi spingeva a sorridere dopotutto quello che mi aveva fatto passare? Perché continuavo a sorridere?
«Stai… crescendo, fratellino. Non sei contento?» disse Jeff ridendo. «Ho… preso anche un regalo. Guarda.»
Sorrisi a fatica. Cercai con tutte le mie forze di non tremare avvinghiando le unghie nelle ginocchia, mentre lui si apprestò ad avvicinarsi alle tribune.
«Oggi… è il compleanno di Liu» mi mormorò Ben terrorizzato.
«Questo… l’avevo capito.»
«Che cosa facciamo? Metterci a mangiare la torta e festeggiare allegramente?»
«Hai un’alternativa migliore?»
Una cosa era certa: non potevamo alzarci e scappare, poiché il risultato sarebbe stato la morte per entrambi. Per via delle manette, non potevamo attuare il classico piano distrai-e-scappa. In conclusione: potevamo solo rimanere lì e stare al gioco dell’insano ventenne.
«Senti Ben, dobbiamo stare al suo gioco. Lui crede che io sia Liu. La sua mente è rimasta a quel giorno. Lui… pensa ancora di avere quindici anni.»
«Non è il momento di fare la psicologa, Lizzie. Siamo in pericolo. Da un momento all’altro potrebbe ucciderci» tentò di fare passare la mano dal buco delle manette, ma invano. «È pur sempre un assassino.»
«Eccolo qua!»
Andando quasi sull’attenti, sia io che Ben forzammo un sorriso all’ennesimo ritorno di Jeff, che correva tenendo sottobraccio quella che sembrava una vecchia tavola da skate bruciacchiata, su cui erano disegnati dei grossi tentacoli viola che stringevano un vecchio relitto. Quella tavola, l’avevo già vista su delle vecchie foto della famiglia Woods.
«Te la ricordi, Liu?» chiese il killer entusiasta. «Tu… tu la volevi tanto e io… io ti avevo promesso che… che te l’avrei regalata, compiuti i… i… tredici anni.»
Sentii nuovamente il mio cuore stringersi. Cercai di ignorare il più possibile i respiri affannosi di Jeff, che si sforzava di parlare, ma soprattutto il suo vero sorriso. Era felice, lo era davvero e per un momento, mettendomi nei suoi panni. Ripensai alla sua storia, alla sfortuna che aveva avuto, a sentire il dolore che aveva provato mentre la sua pelle veniva mangiata dalle fiamme e alla sua psiche che andava sempre più in frantumi, come la bottiglia di vodka spaccata per tramortirlo. Non c’era alcun dubbio: chiunque avrebbe agito allo stesso modo, chiunque si sarebbe sentito in dovere di colmare il vuoto.
«Li…u? Perché? Perché piangi?» lasciata cadere la tavola, Jeff si avvicinò a me parlandomi dolcemente e asciugandomi le lacrime dalle guance con entrambi i pollici. «Liu? Non ti piace? Non sei contento?»
Scossi la testa e con le labbra che tremavano gli sussurrai:«Sono felice. Davvero. Grazie mille.»
Allargate le braccia, invitai Jeff ad avvinarsi di più e lo abbracciai, lasciando che anche lui contraccambiasse.
«Ti voglio bene, fratellino.»
 
 
Dal telegiornale del giorno aa/bb/cc:
 
Questa sera, al liceo X, il tanto atteso ballo scolastico venne brutalmente interrotto dall’arrivo inaspettato di Jeff the killer, lo psicopatico assassino che  ha già decimato diverse vittime della città. Ragazzi e insegnanti sono ancora sotto shock, mentre una serie di ambulanze sono arrivate giusto in tempo per i feriti.
La polizia sta interrogando tuttora il preside della scuola, riuscendo così a scoprire che all’interno dell’edificio sono stati presi in ostaggio due studenti: Elizabeth Grell, la famosa sopravvissuta alle grinfie di Jeff, e Benedict Scott, entrambi di sedici anni. Alla luce dell’interrogatorio di alcuni studenti, a quanto pare a dare l’allarme furono proprio i due ragazzi. Ora come ora, onde evitare che succedano disgrazie ai due eroi, le vetture della polizia si limitano a circondare il liceo.
 
 
«No, non si fa così. Devi solo mettere le mani con i palmi rivolti verso il basso sopra i miei. Non ti devi appoggiare. Se no il gioco non funziona.»
Vedere l’inaspettata innocenza di Jeff, mi intenerì incondizionatamente. Non mi sentivo più minacciata o impaurita, poiché era come se davanti a me ci fosse veramente un quindicenne indifeso e bisognoso di essere guidato.
Lentamente, Jeff mise le sue mani sopra le mie e al mio primo movimento brusco le ritirò ridendo. «Ancora! Ancora! Tanto… non mi prendi!»
«Vuoi scommettere?» invitai il moro ad avvicinarsi e, non appena si posizionò, gli colpì i dorsi.
«No! Mi hai preso! Sei bravo!»applaudì divertito.
«Sì. Sono veramente un asso» sorrisi, con sincerità.
«Dottore! Dottore! Prenda altra torta!» con la mano tremolante, Jeff allungò a Ben un secondo piatto di carta con un’abbondante fetta di torta al cioccolato tra una risata e l’altra.
«Oh, ti ringrazio, Jeff, ma sono pieno.»
«Avanti! Non… non si vergogni!» ansimò l’assassino continuando a ridere.
Ben si sforzò di ricambiare accennando un sorriso e prese il piatto. Dopo due forchettate, si lasciò trasportare dal gusto ricco del cioccolato, golosamente. «È davvero buona.»
«Hai ragione» lo assecondai.
«Una foto! Facciamoci una foto!» Spostata la torta, Jeff tirò fuori una vecchia polaroid e l’appoggiò davanti a me e a Ben, tutto eccitato. Impostato l’autoscatto, si apprestò a mettersi al mio fianco, prima dello scadere de tempo: un sorriso e… ecco lo scatto.
Il flash della fotocamera, mi indusse a lanciare uno sguardo all’orologio sopra ai portoni della palestra e constatai che eravamo dentro là dentro da circa un paio d’ore. A quel punto, mi accorsi che ciò che stavamo facendo, o meglio, che io stavo facendo, non era affatto la cosa giusta. Cosa mi succederà dopo? Mi porterà via con sé? Mi costringerà a vivere con lui? Dovrò fingere di essere Liu Woods per il resto della mia vita? Il panico cominciò ad assalirmi non appena pensai alle conseguenze delle mie azioni.
Mi alzai di colpo sorprendendo Ben, ma soprattutto Jeff, che subito si allarmò-
«Liu? Che… che succede?» mi chiese leggermente innervosito.
«Io… devo andare in bagno, Jeff» mormorai insicura.
«Oh, ho capito. Allora… Allora lascia che ti… ti accompagni» fece per avvicinarsi.
«No, tranquillo! Io… so dove si trova. E poi… c’è il dottore con me.»
«Ho detto… CHE TI ACCOMPAGNO IO!»
Come una bestia svegliatasi all’improvviso, Il killer riemerse dalle profondità dell’uomo ritornato ragazzino e mi attaccò prendendomi per le braccia.
«J-Jeff, mi stai facendo male» gli dissi impaurita e incapace di reagire.
«Tu… non te ne andrai… dobbiamo… dobbiamo tornare a casa… INSIEME!»
«Molla l’osso! Maledetto!» urlò Ben, cercando di allontanare Jeff da me a strattoni.
«Dottore… non ti conviene! Lui… è mio fratello… È SOLO MIO!»
La profonda voce di Jeff fu come un campanello d’allarme che richiamò quelle che, al loro arrivo, parevano essere bombole del gas. Enormi cilindri metallici fecero irruzione nella palestra dall’alto, lanciati da un elicottero che distrattamente tutti e tre non ci accorgemmo della sua presenza.
«È la polizia! È venuta a salvarci!» annunciò entusiasta Ben.
Intanto, raggiunto il pavimento, le bombole iniziarono a diffondere del gas molto denso. Appena si avvicinò a noi, capimmo che si trattava di gas lacrimogeno.
«Dannazione! Dobbiamo Andarcene! Corri Lizzie!»
Trascinata da Ben, io e lui corremmo via, imbucando il lungo corridoio che si collegava direttamente alla scuola, mentre Jeff, non potendo chiudere gli occhi, rimase in quella cortina di fumo e tra le sue urla di dolore.
«Ma Jeff… non possiamo lasciarlo lì!»
«Svegliati, Lizzie! Non sei più Liu! Non puoi metterti a fare la sua parte anche qui!»
Col cuore in gola e i polsi doloranti, Ben ed io girammo tra i corridoi con gli occhi che bruciavano. La mancanza di luce non fu di certo d’aiuto, sicché andammo a sbattere contro gli armadietti svariate volte. L’adrenalina ribolliva nel nostro corpo e si accumulò sempre più, dopo l’ennesimo grido disperato dell’assassino.
«Dobbiamo raggiungere il tetto» dissi affaticata. «È probabile che ci aspettino lì sopra.»
Con ultimo sforzo, inquadrammo la rampa di scale che ci avrebbe portato sul tetto e, con un sorriso accennato e un leggero sollievo, corremmo il più velocemente possibile, raggiungendo la porta; eravamo pronti ad uscire, quando… quella non si aprì.
«Maledizione! Non è possibile! É chiusa!»
«Che… che cosa facciamo.»
«Io… Io non è ho idea, Lizzie. Non possiamo uscire e non possiamo nemmeno scendere. Cazzo!»
«No… scendere è fuori discussione.»
Quel vano tentativo di fare del sarcasmo, non servì ad alleggerire la situazione, poiché a bloccare le scale c’era Jeff ansimante, con gli occhi rossi per via del lacrimogeno e intrisi di furia cieca. Gli squarci ai lati della bocca si erano allargati per quanto aveva gridato.
«Liu… non puoi… sfuggirmi» boccheggiò, visibilmente senza forze. «Tu… devi stare con me. LIU!»
«Io non sono Liu!»
Jeff si fermò, confuso, più di quanto non lo fosse Ben e io stessa.
La mia bocca si era mossa a mia insaputa, rivelando ciò che non avrei dovuto per la mia incolumità. «Non sono Liu» ripetei con più calma.
Jeff fremette, iniziò ad alzare le spalle al ritmo del suo respiro pesante. Stava per perdere il controllo, lo si vedeva benissimo.
«Lizzie! Ma sei impazzita! Che cosa hai in mente?! » mi chiese allarmato Ben.
«Io… mi chiamo Elizabeth Grell. Sono una ragazza, non sono tuo fratello Liu, Jeff. Non sono quello che pensavi un anno fa. Te lo ricordi, vero? Tu hai ucciso i miei genitori.»
«No… tu… tu sei Liu. Sei Liu!» ignorò lui.
«Ho detto che non lo sono! Sono Elizabeth e devi fartene una ragione. Solo perché gli assomiglio non vuol dire che io lo sia.»
Jeff scosse la testa portandosi le mani alle orecchie. «No.. no… NO! Io… so che sei Liu! Tu sei mio fratello! Io… non ti ho ucciso!» disse con la voce tremante.
«No. Invece tu l’hai ucciso eccome. L’hai fatto mentre dormiva. L’hai fatto da codardo, solo perché la tua vita era andata in frantumi a causa del trauma subìto e hai deciso che a pagarla dovevano essere gli altri, quando in realtà era stata tutta colpa tua!» mi accorsi troppo tardi che lo stavo provocando pesantemente, ma ogni mia parola sembrava uscire, detto banalmente, per magia, come se in fondo sapessi già a cosa stavo andando incontro. Come se… sapessi che tutto sarebbe finito secondo i piani.
«NON È VERO!» estratto il coltello dalla felpa, Jeff corse in preda all’ira verso di noi, barcollando di tanto in tanto.
«Cazzo! Sta arrivando! Lizzie, vieni qu-… »
«No, Ben. Non questa volta» prima che potesse fare un passo davanti a me, allargai le braccia: sapevo cosa dovevo fare.
«Lizzie! Che diamine fai?!»
«Quello che avrei dovuto fare un anno fa. Accettarlo.»
«Ma di cosa stai parlando?!»
Quattro metri separavano me e l’assassino dei miei genitori e solo agli ultimi due fui pronta a riceverlo, proprio come quella notte in cui mi rassegnai al mio destino. Inspirato profondamente, chiusi gli occhi, mi inginocchiai e, ignorando la voce di Ben e il suo tentativo di smuovermi, aspettai.
Fu come un déjà vu: qualcosa di caldo mi colpì come carboni ardenti sulle guance. Erano piccole gocce nere che cadevano una ad una da quelli che un tempo erano gli occhi di un essere umano. Per la seconda volta, vidi Jeff piangere e abbassare il coltello, indirizzato al mio petto.
«Perché… Perché non mi sono fermato?» singhiozzò lui, portandosi alla mia altezza. «Perché… non mi sono fermato in tempo?! Mamma… papà… Liu… il mio fratellino! PERCHÉ NON MI SONO FERMATO?!»
Quelle urla disperate riecheggiavano per il corridoio, invocando invano aiuto, affinché qualcuno lo potesse salvare da quella prigione che era la pazzia. Più lo sentivo sgolare, più le mie lacrime cedevano alla tentazione di scendere; e così accadde.
D’istinto, mi avvicinai a Jeff che ancora piangeva lacrime di sangue e lo abbracciai. «Mi dispiace, Jeffrey. Mi dispiace tanto.»
Inaspettatamente, Jeff lasciò cadere il coltello e ricambiò il mio abbraccio stringendomi forte a sé. «Perché? Perché… io?» si domandava sofferente.
«Non lo so. È… uno scherzo del destino.»
«Il fuoco… non smette. Continua a… bruciare.» continuò lui.
«Il fuoco?»
«Sì… brucia e brucia… ma il mio corpo… e ancora vivo. Devo… uccidere. Uccido… per farlo smettere» disse a denti stretti.
«Io… non ti capisco.»
«Nessuno… può farlo… nessuno.»
Confusa e arrabbiata, era così che mi sentivo mentre abbracciavo Jeff. Jeffrey Woods, che prima di diventare Jeff the Killer era un semplice quindicenne trasferitosi in una città, pronto a farsi dei nuovi amici a scuola e vivere con la sua splendida e amorevole famiglia. Cosa aveva fatto per meritarsi tutto questo? A quale scopo il Destino ha voluto stravolgere la sua vita? Mille domande si annidarono nella mia mente, ma purtroppo qualcosa mi impedì di porle, o meglio, qualcuno.
«OSTAGGI PRELEVATI! »
Le porte d’emergenza che portavano al tetto, vennero forzatamente aperte dall’esterno da due poliziotti muniti di martelli e cesoie e giubbotto antiproiettile. Uno di loro ci prese dai fianchi e ci allontanò da Jeff.
«LIU!» urlò lui, tra le lacrime. «BASTARDI!»
«Blocchiamolo! Non dobbiamo lasciarlo scappare! »
Ripreso in mano il coltello, Jeff iniziò a sventolare la mano in direzione delle braccia e le gambe dei poliziotti. Due vennero subito accoltellati.
«No! Vi prego! Non fategli del male! Lui… ha bisogno di aiuto!» tentai di far ragionare gli agenti.
«Portateli subito sull’elicottero! Qui non sono al sicuro!» mi ignorò il più vicino a me.
«Sì!» rispose il rosso che ancora ci teneva stretti. «Andrà tutto bene, ragazzi. Siete salvi.»
«LASCIATELO! LASCIATE LIU! DEVE STARE CON ME!» la follia prese nuovamente il sopravvento e guidò il corpo di Jeff, affinché si sbarazzasse momentaneamente della polizia e si apprestasse a raggiungere l’elicottero, ormai in volo.
«LIU!» senza arrendersi, Jeff si lanciò dal tetto, convinto di poter raggiungere senza problemi il veicolo, ma le uniche cose che riuscì a prendere furono le mie gambe.
Il risultato di quel gesto fu inevitabile: il poliziotto, distratto, non si accorse di Jeff e quindi scivolai dalle sue mani, trascinando con me Ben. Tutti e tre iniziammo a cadere nel vuoto e il palo a cui era attaccata la bandiera degli Stati Uniti d’America, era pronto a spaccare la mia testa.
 
 __________________________________________________________________________________
 
Maller controlla per l’ennesima volta il suo orologio da taschino: l’una e un quarto di notte. Ormai la biblioteca doveva essere completamente vuota e, grazie ad una telefonata, avvisò il custode notturno di non venire perché ci sarebbe stato lui per tutta la notte.
Il curatore si appresta a salire le scale e ad aprire furtivamente la porta principale. Sorvola la magnificenza dell’entrata e cammina velocemente verso la DeWitt Wallace Periodical Room. Raggiunto l’archivio, va alla ricerca dello scaffale in cui sono custoditi i quotidiani a nome di Jeff the Killer, ma non trovandoci il fantomatico diario di Elizabeth Grell, inizia a far cadere il materiale nervosamente.
«Dannazione! Dove sarà finito? Mi avevano detto che era stato analizzato. Allora dov’è?!»
«É un miracolo. Sono viva. Non lo avrei mai detto, ma… lo sono davvero.»
«Chi è là?!» disorientato e allarmato, Maller inizia a girare intorno agli scaffali di ferro, avendo sentito una voce. «Vieni fuori!»
«Mi svegliai all’ospedale. Vicino a me c’erano nonna Jo, David e Matt, sollevati della mia convalescenza. Nel letto di fianco al mio, c’era Ben con un braccio ingessato e la testa fasciata. Sapevo bene che erano tutti arrabbiati, ma per fortuna il mio risveglio fu al primo posto, assieme a un fatto inaspettato dalla sottoscritta…»
«Dove sei?!» continua ad urlare a perdifiato il cinquantenne, perdendo completamente il suo essere inglese, mentre la voce procede a parlare.
«la mia uscita dal coma non era l’unica sorpresa: non ho più la mano destra. Nonna Jo mi spiegò che fu Jeff the Killer a tagliarmelo, mentre cadevo dall’elicottero. Iniziai subito ad aver paura e a disperare, ma Ben riuscì a tranquillizzarmi, spiegandomi come fossero andate realmente le cose.»
«Guarda che se non esci da solo, sarò costretto a chiamare la polizia!» minaccia a vuoto.
«Come pensavo, ho rischiato di morire, ma onde evitare che andassi a sbattere violentemente la testa, Jeff per comodità dovette tagliare il mio braccio. La polizia riuscì a prenderci in tempo, con l’aiuto di trampolini elastici. Per quanto riguarda Jeff, era riuscito a scappare.»
«FATTI VEDERE BASTARDO!» qualcosa di freddo sulla gola lo ammutolisce e lo fa sbattere contro una libreria. La lama del coltello scivola lentamente sulle guance, procurandogli due piccoli tagli. «S-stronzo…»
«Ma come, curatore Maller? Ero convinto che lei fosse un uomo per bene. Che delusione.»
Completamente oscurato, Maller non riesce a distinguere la figura davanti a sé, a parte dalla voce, che in qualche modo gli pare di riconoscere.
«Tu… c-chi sei?»
«Oh, già. Mi perdoni. Ma oggi non ci siamo presentati. Probabilmente avevamo entrambi la testa fra le nuvole. Allora… mi presento»spostatosi per bene sotto la luce del lampadario, l’aggressore è finalmente ben visibile.
«No… non può essere… T-tu sei…» balbetta il curatore, iniziando a sudare freddo. I suoi occhi rimangono pietrificati davanti alle suture ai lati della bocca e sul resto del viso, ma soprattutto della più lunga sul suo collo. «B-Benjamin? Il… ragazzo che sostituisce… Sullivan?»
Il ragazzo schiocca la lingua deluso. «Oh, per un momento ero convinto che avrebbe detto il mio nome. Un vero peccato. Be’, colgo l’occasione per dirle che non è il mio vero nome, purtroppo. Benjamin Allen lo uso solo quando non sono in servizio.»
«Io… non capisco. Allora… chi sei?»
Gli occhi color prato del ragazzo penetrano in quelli grigi dell’uomo impaurito. Portatosi una mano fra i capelli biondi, sospira rassegnato. «Odio dirlo in giro, anche perché solitamente non mi faccio mai vedere, ma… visto che abbiamo una lunga chiacchierata da fare, glielo dirò. Un tempo io ero Liu Woods.»
«Liu… Woods?» chiede sorpreso Maller, sapendo di chi si tratta.
«Sì, un tempo, ma ora io sono: Homicidal Liu.»
«Homicidal… Liu?»
«Oh santo cielo, la prego… Lei è un illustre curatore, non un pappagallo. Be’… diciamo che lei non è poi così illustre come vuole far credere» tenendo ben premuta la mano con il coltello sul viso dell’uomo, con l’altra raggiunge la tasca della giacca di pelle e tira fuori delle fotografie. Esse ritraevano Maller nell’atto di violentare una ragazza dai capelli biondi.
«Ma… queste sono…» sussurra l’uomo.
«Oh, se la ricorda bene, eh?»
«I-io… non so di cosa stai parlando» mente girando lo sguardo, ma la lama lo costringe a riportare gli occhi sulle foto.
«È uno stramaledetto bugiardo! Lei sa chi è! È Rebecca Nives, una ragazza a cui da’ ripetizioni e lei, brutto maiale, ogni dannatissimo giorno la costringe a prostituirsi per pagarsi le lezioni!»
«È una ragazza di campagna! Non aveva soldi per pagarmi!» cerca di giustificarsi.
«Sa cosa ci diceva ritornata a casa? Il signor Maller è un uomo gentile, non mi fa pagare e mi insegna. Certo! Perché purtroppo è costretta ad alzare il culo per uno come lei!»
«Ma tu cosa c’entri?!»
«Io sono un suo amico!»
Alla fine Liu cede alla tentazione e recide la gola di Maller con un taglio netto del coltello.
L'uomo si accascia a terra, affogando nel suo stesso sangue che intanto sgorga dal profondo squarcio. «A-aiuto... qualcuno... mi aiuti.»
Liu pulisce disgustato la lama con la sua sciarpa. «È tutto fiato sprecato. È notte fonda e ci siamo sono noi due nella biblioteca.»
Il rossore del curatore si avvicina sempre di più ad un viola misto a blu.
Liu si inginocchia vicino al corpo ormai prossimo alla morte, indietreggiando man mano che la pozza di sangue si allarga. «Ritorniamo alle buone maniere. Sa, ero veramente convinto che lei fosse un uomo per bene, ma fortunatamente ho voluto seguire il mio istinto e... poof! Alla fine non lo è affatto.» sventola il diario davanti agli occhi di Maller, che lo segue desideroso di averlo tra le mani.
«I-il... diario...» mormora a fatica.
«Ma tu guarda. È ancora vivo» sbuffa il giovane killer. «Spiacente. Ma non le permetterò di fare dei soldi con questo diario. Non le appartiene.»
«D-dammelo... »
«Ha sentito la mia narrazione? Sono stato bravo, eh? Ovviamente non ho letto i dialoghi e la parte smielata della città, dei parenti e degli amici. È palese che una ragazzina che perde un braccio venga di punto in bianco presa in considerazione. È un classico cliché, sarebbe stato noioso.»
«Le...le cicatrici...»
«Oh, è già arrivato alla parte in cui delira e inizia a parlare di cose a random, dico bene? Be', ha mai sentito parlare di fondotinta? È in grado di coprire ogni cosa, anche le suture. Ormai lo uso da anni.»
«Sullivan...»
«Uffa,che rottura... il buon vecchio Sullivan purtroppo è passato a miglior vita. Non mi fraintenda. È morto di infarto,non c'entro niente. È stato un vero colpo di fortuna. Non crede?»
Nessuna risposta. Gli occhi di Maller erano spenti e senza vita, che fissano il vuoto dell'anima di Liu attraverso i suoi smeraldi: è morto.
«Accidenti. Cominciavo a prenderci gusto, sa? Se ne è andato proprio sul più bello. Le stavo per dire perché stavo cercando il diario.»
Di nuovo nessuna risposta.
«Davvero un peccato. È raro poter parlare con le proprie vittime, specialmente se la vittima in questione si è presa la briga di fare qualche ricerca su di me» aperta la sua giacca, Liu tira fuori dalla tasca interiore un busta di plastica contenente ritagli di giornale vecchi di circa una decina d’anni: Famiglia Woods assassinata: dov’è il fratello dell’assassino?, così recita uno dei titoli.
«La polizia è davvero incompetente. Si sono accorti della mancanza del mio corpo solo dopo una settimana, mentre io me ne stavo nascosto in una grotta del bosco vicino casa. La sfortuna ha voluto che piovesse e non hanno trovato alcuna traccia di me» Liu accarezza la sutura al collo e, chiusi gli occhi, rievoca quella notte in cui venne svegliato da Jeff; rievoca il suo vano tentativo sfuggirgli ma senza riuscirci, perché la paura gli impediva di muoversi e infine… rievoca la lama del coltello che lentamente gli tagliava la gola e gli sfregiava il viso.
Liu sorride, quasi divertito, ricordando quella strana sensazione della carne tagliata e la risata del fratello impazzito e sfigurato. Sorride, perché in cuor suo sa che è sopravvissuto affinché potesse vendicare la morte dei suoi genitori. Sorride, perché sa che presto sarebbero ritornati ad essere fratelli.
«Oh Jeff. Quanta pazienza ci vuole con te. Ho dovuto anche ripulire tutto quel casino per poterti avere solo per me. Come si chiamava quel tipo? Jordan? Sì, doveva essere Jordan» Liu alza il diario e lo sfoglia velocemente fino ad arrivare ad una fotografia, che ritrae Jeff, Elizabeth e Benedict. «Non mi stupisce che tu l’abbia scambiata per me. Siamo due gocce d’acqua» ridacchia di gusto.
La caduta di una pila di giornali, riporta l’attenzione del ragazzo sul corpo marcio del curatore stupratore, irritandolo. «Che dire. Ho vendicato Rebecca con successo. Ora potrà continuare la sua vita di sempre, solo… senza di me» assicuratosi di aver preso tutto, Liu fa per uscire dalla biblioteca, soffermandosi di tanto in tanto davanti alle splendide decorazioni, ma senza dimenticare la sua missione. «Grazie mille degli auguri, fratellone. Ora vengo a prendere il mio regalo di compleanno.»
 
FINE
 
ANGOLO DELL’AUTRICE: Che dire, sono arrivata alla fine. Ammetto che temo di essere stata un po’… banale… Non so… però questo finale ce l’avevo in testa fin dall’inizio e spero che vi sia piaciuto e di non aver deluso nessuno.
Finale ambiguo, eh? Pensate che potrebbe esserci un sequel, eh? Be’, ad essere sincera… non è sicuro, in poche parole: tutto è possibile ^_^ Mi spiace davvero un sacco per Elizabeth… un braccio tagliato?! Ma davvero?! Sono veramente malata… Boh, ormai il danno è fatto perciò… Ringrazio tutti coloro che hanno seguito fino a qui Diario di una sopravvissuta, nonostante alla fine non sia stato un vero e proprio diario. Ci vediamo alla prossima storia o sulla mia seconda storia sulle Creepypasta CRP Apocalypse ancora in corso.
Baci e abbracci <3
 
Cassandra

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Due assassini, un solo destino ***


Per quanto la mano le facesse male, Lizzie continuò a firmare ogni libro che le si presentava davanti e ad accogliere i ringraziamenti con un sorriso sincero e i complimenti con leggero imbarazzo.
Le capitava di sobbalzare all’arrivo di qualche lupo mannaro o di uno zombie con un occhio cadente, ma si abituò presto, in fin dei conti era pur sempre la sera di Halloween.
Ogni tanto Lizzie buttava un occhio sulla vetrina della libreria per poter ammirare da dentro le strade della città addobbate dai classici festoni della vigilia dei Santi: lanterne a forma di zucca, ragnatele, pipistrelli e ogni sorta di oggetto macabro. Le strade pullulavano di adulti e bambini, tutti impegnati a fare dolcetto o scherzetto in giro per i quartieri o semplicemente approfittare di questa festività per travestirsi da mostri . Ogni volta che qualcuno entrava nella libreria portava con sé l’odore dolce delle mele candite e frittelle.
«Appena avrai finito te ne prenderò una» disse Ben, vedendo Lizzie con l’acquolina in bocca. «Stai andando alla grande.»
«Per una che ha imparato a scrivere con la mano sinistra in meno di un anno non è affatto male, eh?»
Il ragazzo scosse la testa ridendo.«Ed eccola che se la tira di nuovo.»
«Be’ me lo posso permettere.»
Pensare che fosse già passato poco più di un anno faceva molto strano a Lizzie, specialmente riderci su. La sua vita cambiò drasticamente da quando uscì dall’ospedale e non solo per la perdita del braccio destro, ma anche il radicale cambiamento di quelle stesse persone che per molto tempo l’avevano isolata. L’essere al centro dell’attenzione a scuola non era per niente cambiato, ma in compenso si trattava di un’attenzione piacevole e a cui lei non era abituata: tutti la ringraziarono per il suo gesto eroico e si scusarono per il loro comportamento che Lizzie accettò di buon grado. Ci mise un po’ a farlo con i parenti a causa di nonna Jo, che non li aveva del tutto perdonati dalla morte di suo figlio e della nuora, ma col tempo entrambe ricominciarono a rivederli. La polizia ascoltò per filo e per segno la storia di Lizzie e diversamente dalla prima volta le credettero, lasciandola tranquillamente andare viste le prove.
Fra interviste e incontri vari, dopo mesi Ben convinse finalmente Lizzie a pubblicare il suo diario che, con sua grande sorpresa, ebbe un enorme successo in tutto il mondo, richiedendo persino una ripubblicazione.
«Se poi ti fa male la mano dimmelo che ti do il cambio» si propose Ben.
«No, voglio firmali io stessa. Anche se mi venisse un crampo.»
«Ma allora io cosa ci faccio qui se non posso aiutarti?»
«Lo stai facendo. In qualità di mio cavaliere sei al mio fianco.»
Tutte le persone presenti nella libreria gemettero affettuosamente all’unisono, imbarazzando non poco il ragazzo, che subito arrossì. «S-stupida! Non dire queste cose in pubblico!»
Lizzie alzò le spalle sorridente. «Capirai. Ormai la mia vita è sulla bocca di tutti grazie a questo.»
«Touché.»
Un leggero tossicchio chiamò l’attenzione di Lizzie. «Oh scusami! Eccomi qui!»
Una mano guantata di nero pose sul tavolino la copia del libro da firmare e una voce femminile disse:«Tranquilla. Nessun problema.»
Lizzie prese in mano la penna pronta a scrivere. «A chi lo dedico?» alzato lo sguardo, la ragazza venne sorpresa da un paio di occhi di stoffa nera, ma si rilassò appena capì che si trattava di una maschera di ceramica bianca, la quale ne rimase incantata dai suoi lineamenti morbidi e femminili.
Il naso era piccolo e realistico, le labbra erano dipinte di nero ed inespressive. Quando riportò la sua attenzione sugli occhi, Lizzie ammirò le lunghe ciglia e le sopracciglia ad ali di gabbiano perfettamente simmetriche.
Il tutto era incorniciato da una folta chioma ondulata e corvina, che arrivava oltre le spalle, mentre la figura slanciata della giovane donna era coperta da un vestito nero che arrivava fino alle ginocchia, coperto a sua volta da un giacchetto di pelle bianco.
«Mi chiamo Jane» Lizzie scosse la testa al suono della voce di lei e si apprestò a scrivere.
«Scusami! È che hai davvero una bellissima maschera!»
La ragazza ridacchiò divertita. «Ti ringrazio. Sei molto gentile.»
«È davvero perfetta» si aggiunse Ben. «E anche molto originale. L’hai fatta tu?»
Jane dissentì. «No. È stata fatta apposta per me da qualcun altro.»
«A Jane. Con affetto, Lizzie. Fatto. Ecco a te! Grazie per essere venuta!» sebbene Lizzie stesse invitando Jane a prendere il libro, quest’ultima le prese la mano, sorprendendola.
«Probabilmente te l’avranno detto in tanti, ma… ho ammirato molto il tuo coraggio» la ragazza mascherata cominciò ad accarezzarle il dorso con delicatezza. La morbidezza dei guanti di velluto e la sua voce calda rilassavano Lizzie, che la lasciò fare, così da concedersi ancora qualche secondo per rimirare quella bellezza misteriosa. «Non deve essere stato facile avere avuto a che fare con lui.»
Lizzie seguì la maschera che indicava la sua protesi al braccio destro e allargò un sorriso. «No, non lo è stato, ma per fortuna ne sono uscita viva.»
«Ed è questo l’importante.»
«Già» per un attimo Lizzie ebbe la sensazione che le labbra di Jane si fossero increspate in un sorriso.
«Quel bastardo è ancora in libertà chissà dove» improvvisamente la voce di Jane si fece più iraconda, quasi minacciosa. Abbassato lo sguardo strinse leggermente la mano di Lizzie ancora tra le sue mani.«Ma sono sicura che lo troveranno e lo uccideranno. Così che possa pagare per i suoi crimini.»
«Io spero che lo lascino vivere.»
Jane alzò di scatto lo sguardo. «Come scusa?»
Lizzie cercò di fissare Jane negli occhi più che poteva, comunicandole la serietà delle sue parole.«Sai, non sei l’unica che me lo dice e io ti rispondo allo stesso modo: alla luce di quello che ho visto stando con lui, io penso che Jeff stia chiedendo disperatamente aiuto, stia cercando qualcuno che lo fermi e che lo faccia smettere.»
Jane rimase ad ascoltare in silenzio, riflettendo su ogni singola parola.
«Anche se è un assassino, lui deve essere comunque salvato.»
«Davvero la pensi così? Anche se ha ucciso i tuoi genitori?»
Lizzie si liberò dalla presa di Jane e le porse il libro, annuendo. «Sì. È quello in cui credo.»
Jane rimase incredula da quelle parole e dalla determinazione con cui Lizzie la stava fissando negli occhi, come se lei sapesse davvero dove guardare. Era pronta a ribattere e a fare altre domande, ma si accorse subito che le persone dietro di sé erano aumentate e quindi sospirò, rassegnata. «D’accordo. Rispetto la tua opinione. Grazie per la firma e la chiacchierata. Buon proseguimento.»
«Ti ringrazio. Spero di averti risposto e passa un buon Halloween.»
Le due ragazze si salutarono e Jane camminò a suon di tacchi verso l’uscita della libreria. «Che strana ragazza» disse Ben sospettoso. «La conoscevi?»
«No, mai vista. E comunque non è strana, era semplicemente curiosa. Come tutti gli altri, del resto.»
Il moro, che stava ancora seguendo con lo sguardo la ragazza, la osservava mentre attraversava la strada e si avvicinava ad un ragazzo seduto su una panchina. Era vestito tutto di nero e con il collo avvolto da una lunga sciarpa a righe nere e bianche. Strizzati gli occhi, cercò di inquadrare il volto del ragazzo, ma tutto ciò che distinse furono i suoi capelli biondi. «Ma quel ragazzo sembra…»
«Terra chiama Ben!» Lizzie agitò una mano davanti alla faccia di Ben, riportandolo alla libreria. «Potresti farci una foto?»
«Oh scusami! Eccomi» presa la macchina fotografica delle tre fan, Ben si posizionò davanti al tavolo, chiedendo alle quattro ragazze di dire cheese e dimenticando quel ricordo di un anno fa.
 
«Scusa l’attesa» attraversata la strada, Jane si avvicinò alla panchina su cui Liu era seduto, innervosito.
«Le hai parlato, vero?» chiese lui attraverso la sciarpa.
«Anche se fosse?» il ragazzo fulminò con i suoi occhi verdi quelli celesti di Jane, nascosti dalla maschera. «E non guardarmi così. C’era anche molta gente in fila. D’altronde è famosa.»
«Siamo venuti qui per cercare eventuali tracce di Jeff, non per parlare con una sua vittima sopravvissuta!»
«Intanto datti una calmata. E secondo» Jane si sedette accanto a Liu e gli tirò giù la sciarpa, mettendo in bella mostra le suture ai lati della bocca. «Non parlare con la sciarpa davanti alla bocca. Ti sento a fatica.»
«Ma che caz-…»
«E modera il linguaggio. Ci sono dei bambini.» Liu schioccò la lingua irritato, ma ubbidì. «Stiamo girando questa città da una settimana, Liu. Jeff non è più passato da queste parti.»
«Un anno. È da uno stramaledetto anno che gli diamo la caccia, ma riesce sempre a sfuggirci.» disse a denti stretti Liu.
«Probabilmente sa di noi visto che ci siamo divertiti con i suoi leccaculo in questo periodo. Mica stupido il bastardo. È riuscito a trovare persone che lo coprissero.»
«E poi dici a me linguaggio. Comunque hai ragione. A parte Elizabeth di lui non è rimasto nulla.»
Jane aprì la pagina su cui Lizzie le aveva scritto la dedica e ci passò su con l’indice destro.«È davvero una ragazza coraggiosa, ma è anche un’illusa. È fortemente convinta che Jeff possa essere salvato.»
«Tutte stronzate. Lei ha solo visto i suoi genitori morti» Liu si portò una mano al collo incondizionatamente. «Lei  non ha visto la Morte in faccia come noi due.»
I due rimasero in silenzio, lasciando che le risate dei bambini riempissero quel vuoto e il ricordo di quella terribile notte annebbiasse le loro menti: la notte in cui persero tutto e divennero qualcosa di nuovo.
«Sai, non molto tempo fa pensavo che avrei potuto voltare pagina, proprio come sta facendo Elizabeth» Jane si tolse un guanto, mostrando la mano destra deturpata da cicatrici e la passò sotto la maschera per sentire la pelle ruvida del suo viso. Ad ogni tocco, Jane si ricordava di lei legata ad una sedia vicino ai suoi genitori morti, impotente, di Jeff che le gettava addosso candeggina e benzina con il solo scopo di bruciarla viva. L’odore di pelle e capelli bruciati avevano subito sostituito l’odore invitante delle caldarroste e la terribile sensazione di soffocare impedì alla ragazza di respirare regolarmente. «Ma poi …  ripenso al fatto che se sono sopravvissuta a quell’Inferno, se sono sfuggita a quel bastardo è solo per...»
«Uccidere Jeff» concluse Liu prendendo Jane per mano. Quest’ultima si tranquillizzò e strinse a sua volta la mano di lui, scacciando via quell’incubo. «Noi ci non ci fermeremo finché non avremo portato a termine la nostra missione. Te lo giuro, Jane. Noi lo uccideremo insieme.»
La ragazza annuì a quella promessa, mentre Liu le sorrise. Homicidal Liu e Jane the Killer: due assassini che condividevano lo stesso destino e avevano lo stesso obiettivo da portare a termine con ogni mezzo e anche a costo della loro stessa vita.«Forza. È il momento di andare. Sei pronta?»
«Certamente.»
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE:
Buon Halloween a tutti! (Anche se in ritardo ops ^^”)
Bene. Che dire. Eccomi di nuovo su questa storia dopo 2 anni.
Da dove comincio? Qualche giorno fa mi era venuta voglia di sistemare qualcosina della mia storia Diario di una sopravvissuta e… la mia immaginazione non ha potuto non voler scrivere un 13° capitolo.
Come ho risposto a molti lettori, non so se scriverò un sequel di questa storia, ma posso dire che questo capitolo è la spintarella che mi potrebbe aiutare a procedere, visto che ho inserito Jane e un bel po’ di buchi vuoti. Non so se ho introdotto bene l’arrivo di Jane e non so se questo capitolo sia all’altezza degli altri capitoli, perciò lascio a voi i commenti e fatemi sapere se secondo voi sarebbe interessante vedere anche Jane nel sequel (sempre se mai decidessi di scriverlo).
Vi prego inoltre di segnalarmi qualsiasi tipo di errore (Conoscendomi ce ne saranno...)
Detto questo, concludo ufficialmente questa storia e… ci si vede alla prossima!
 
Cassandra

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2997530