Sai cosa vuol dire perfettibile? di Afaneia (/viewuser.php?uid=67759)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Fragile. ***
Capitolo 3: *** Ipocrita (Parte Prima). ***
Capitolo 4: *** Ipocrita (Parte Seconda). ***
Capitolo 5: *** Corruttibile. ***
Capitolo 6: *** Inconoscibile. ***
Capitolo 7: *** (In)domito. ***
Capitolo 8: *** Imprevedibile. ***
Capitolo 9: *** Inevitabile. ***
Capitolo 10: *** Deprecabile. ***
Capitolo 11: *** Inconfessabile. ***
Capitolo 12: *** Incomunicabile. ***
Capitolo 13: *** Irrimediabile. ***
Capitolo 14: *** Frangibile. ***
Capitolo 15: *** Perfetto. ***
Capitolo 16: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo. ***
Prologo
Sai
cosa vuol dire perfettibile?
Glauco, guarda: già
il mare profondo è sconvolto dalle
onde, attorno al
capo Gireo si leva una nube,
presagio di
tempesta: inatteso mi coglie il timore.
Archiloco, fr. 105
West.
Prologo
Suonarono alla porta
nel cuore della notte.
Ma si era mai vista in
tutta Lavandonia una cosa del genere? Che si suonasse così, in piena
notte e senza nessuna plausibile giustificazione, alla porta di
qualcuno che non fosse un medico?
Il signor Fuji si
svegliò col cuore in gola, scoprendosi sorpreso più dalla scoperta
stessa di trovarsi addormentato, nel suo letto, senza alcuna precisa
memoria di esservi andato, che dal fatto che qualcuno avesse deciso
di venire a suonare in piena notte proprio a casa sua.
Il suo sonno pesante
che non accennava a sfumare lo frastornava enormemente, tanto che per
qualche istante, avvolto nella cappa gravosa e appiccicosa della
notte che lo avvolgeva, stentò a riconoscere la sua stanza e
l'orientamento del suo letto. Ma poi il grido disperato del
campanello si ripeté di nuovo, echeggiò carico d'allarme sulla
notte immobile, spazzò via ogni residuo di sonno: d'un tratto il
signor Fuji si ritrovò su letto perfettamente sveglio, con le
orecchie tese e attente, e la mente più lucida che in pieno giorno.
Raggiunta una certa
età, e un'esperienza di vita come la sua, Fuji aveva scoperto ormai
da qualche anno che avere paura non aveva più alcun significato. Non
la considerava imprudenza. Semplicemente, nella prospettiva della sua
vita attuale, egli non riusciva a trovare proprio alcun motivo per
cui qualcuno dovesse fargli del male, e nell'ipotesi, possibile
seppur improbabile, che questo dovesse accadere, egli non vedeva
proprio in che modo gli fosse possibile impedirlo. Ragion per cui,
facendo forza sul bordo del vecchio materasso cedevole dalle molle
cigolanti, che troppe notti insonni e stancanti aveva sostenuto, Fuji
si alzò con calma, indossò la vestaglia e si avviò a tentoni verso
la porta.
Gli squilli del
campanello si erano interrotti, ma neppure volendo sarebbe stato
possibile credere che quel folle qualcuno che, dall'altra
parte, aveva suonato, se ne fosse andato. Al di là della porta
chiusa si udivano i suoni disperati di una bestia braccata che
cercava rifugio, rumore di passi affannati e strascicati sulla
soglia e i gemiti angosciati di qualcuno che si domandava se gli
avrebbero mai aperto...
Accostando l'orecchio
alla porta, Fuji domandò con voce alta e chiara: «Chi è?»
In risposta alla sua
domanda, Fuji udì dall'altra parte la voce del figlio che per tanto
tempo aveva chiamato perduto dire: «Papà... ho combinato un
casino.»
Mentre il latte bolliva
nel forte odore di gas della vecchia cucina antiquata, il signor Fuji
guardò suo figlio negli occhi e gli chiese: «Che cosa è successo?»
Se non fosse stato per
la voce, egli a malapena avrebbe riconosciuto suo figlio. Questo
pensiero lo addolorò più ancora di quanto avrebbe potuto pensare,
per quanto una piccola parte di lui fosse comunque consapevole, con
la placida saggezza dei suoi lunghi anni di solitudine, che non era
colpa sua se suo figlio era cambiato tanto senza che egli potesse
vederlo.
Emir aveva l'aria
sbattuta e sciupata delle persone che lavorano molto più di quanto
non riposino, e precocemente invecchiata. Aveva gli occhi
pesantemente cerchiati, un po' troppo infossati nelle orbite stanche,
e anche i suoi capelli, che erano stati dello stesso nero corvino dei
suoi, sembravano incominciare a conoscere le prime striature di
grigio sulle tempie. Ma quand'era che era invecchiato così? Erano
passati poi così tanti anni dall'ultima volta che si erano visti?
«Non te lo posso dire»
disse meccanicamente Emir, senza guardarlo, e Fuji si limitò ad
annuire in silenzio. Non si era veramente aspettato che gli
rispondesse, dopotutto; ma doveva fare almeno un tentativo. Ora che
gli aveva dato la possibilità di confessare spontaneamente, e che
Emir si era rifiutato, poteva interrogarlo liberamente; perciò,
sedendosi di fronte a lui dall'altro lato del tavolo, domandò: «Hai
ucciso qualcuno?»
Il figlio che aveva
amato e perduto ormai tanti anni prima, il ragazzo che era cresciuto
a Lavandonia, nella sua casa, avrebbe sgranato gli occhi a questa
domanda. Sarebbe balzato in piedi con violenza, cogli occhi pieni di
indignazione e di sgomento, e avrebbe protestato la propria innocenza
a gran voce, incredulo alla sola idea che qualcuno potesse pensare...
ma l'uomo ch'egli aveva davanti, che la Silph gli aveva portato via e
che egli per anni non aveva mai più rivisto, non sembrava provare
poi tanto sdegno all'idea che suo padre lo credesse capace di
uccidere.
Emir scosse lentamente
la testa. «No, papà, non... non è niente del genere. Non è quel
tipo di cosa.»
Chissà per quale
motivo, se non si trattava di omicidio, Fuji non riusciva a trovare
altro a cui pensare di tanto grave da spingere suo figlio a venir lì
di corsa, in piena notte, cogli abiti ancora impolverati e i capelli
spettinati dal viaggio. In un certo senso si sentì rassicurato. In
nessun caso avrebbe mai protetto suo figlio per qualcosa di tanto
orribile, ma in quanto al resto non gli veniva in mente nient'altro
di così terribile da doverlo denunciare immediatamente alla polizia.
E poi, se suo figlio pensava che fosse meglio tenerlo all'oscuro di
tutto, poteva darsi che fosse davvero meglio così. Emir era sempre
stato più portato di lui per capire certe cose, quando si trattava
di leggi e cavilli legali, ed egli era certo di non poterla spuntare
in nessun modo discutendo con lui. E poi, se non era un assassino...
Si alzò per spegnere
il gas quando il latte cominciò a borbottare e gli mise davanti una
vecchia tazza di latta, senza troppi complimenti. Non aveva altro da
offrirgli che latte bollito e pane secco, che alla sua età, con le
budella stanche e lente e il senso del gusto divenuto più un
fastidio che un piacere, costituivano il suo principale nutrimento,
malgrado tutti gli incoraggiamenti dei ragazzi e le prescrizioni del
medico; ma Emir non vi prestò alcuna attenzione. Soffiò sul latte
amaro e vi spezzò il pane, e mangiò e bevve senza parlare né
guardarlo come se da giorni non mangiasse né bevesse.
«Pensi che possa
esistere qualche valido motivo per cui costituirti?» chiese dopo un
po' in tono indifferente. Sapeva bene che non sarebbe servito a
niente, ma anche quello, dopotutto, era un tentativo che non poteva
esimersi dal fare.
«Non è una cosa per
cui ci si possa costituire» rispose Emir, soppesando cautamente ogni
singola parola. Esitò un poco, giocherellando coi grossi bocconi
irregolari di pane che galleggiavano inconsapevoli sulla superficie
del latte, e proseguì a voce bassa, osando appena guardarlo per
soppesare la sua reazione al di sotto delle alte sopracciglia nere:
«È stata una cosa illegale, papà, ma era una cosa giusta. Non
so come altro spiegartelo senza renderti mio complice, ma ti prego,
papà, devi credermi... mi costituirei se avessi fatto la cosa
sbagliata. Lo sai anche tu che lo farei» aggiunse ansiosamente, e
Fuji annuì per tranquillizzarlo, senza esserne veramente convinto.
Non era più tanto sicuro di sapere che cosa suo figlio fosse o meno
in grado di fare, per la verità, ma Emir gli sembrava già
abbastanza agitato senza bisogno di mettere in dubbio la sua
moralità.
Tamburellò per un poco
con le dita sul tavolo. «Va bene, Emir. Ma se non vuoi dirmi che
cos'hai fatto e non vuoi che ti aiuti... allora perché sei venuto
qui?»
Vi fu un lampo
d'incomprensione negli occhi di Emir quando sollevò lo sguardo versi
di lui, e la sua voce conobbe un attimo di esitazione, come se non si
fosse aspettato che proprio lui, suo padre, gli rivolgesse questa
domanda, e se ne scoprisse ferito.
«Ho bisogno di un
alibi» disse nervosamente, ma con l'aria di chi stesse inventando
una bugia così, su due piedi, perché non riusciva a trovare alcun
miglior motivo per trovarsi lì, a Lavandonia, con suo padre. Ma ai
suoi occhi, che di suo figlio conoscevano con precisione anche la più
mutevole piega del viso, era anche troppo evidente che Emir non aveva
neppure pensato alla necessità di un alibi, quando era venuto lì.
Ma ora che l'aveva detto quell'esigenza si era fatta concreta e
pressante, ed Emir vi si aggrappò. «Se fosse necessario, diresti
che ero qui ieri sera?»
Eppure anche quella
domanda, che pure sarebbe stata fondamentale per un uomo che avesse
appena commesso un crimine, Emir l'aveva posta senza alcuna ansietà
né angoscia, come se non volesse altro che sondare il terreno, e
Fuji non si ritenne obbligato a rispondere così, a scatola chiusa.
«Sembri così stanco,
Emir» mormorò. «Perché non vai di là a stenderti un po'?»
Quando suo figlio si fu
addormentato sul divano, Fuji si soffermò a lungo a guardarlo.
Si era buttato a
dormire così com'era, ancora vestito e impolverato dal viaggio, ed
era sprofondato nel sonno immediatamente, ma di un sonno greve e
pesante, completamente esausto, come ai tempi dei suoi studi
frenetici e appassionati. Ma quelle rughe sottili e premature ch'egli
vedeva affiorare al di sotto del braccio con cui Emir si era coperto
gli occhi, quelle non erano del figlio che gli era appartenuto. Era
stata la Silph a invecchiarlo così? L'uomo che dormiva sul suo
divano, coperto solo della vecchia giacca a vento con cui aveva
viaggiato, era pietosamente magro, di una magrezza insalubre,
consunta, e dimostrava più anni di quanti ne avesse.
Era andata a finire
proprio come egli stesso aveva predetto, ormai sei anni prima, il
giorno che avevano litigato ed Emir se n'era andato: la Silph lo aveva
sedotto e incoraggiato e poi se n'era impadronita e lo aveva
distrutto, e in tutto questo egli aveva sempre avuto
ragione... Emir era tornato da lui umilmente come il figliol prodigo,
ammettendo il proprio errore col candore di un bambino, e alla fine
aveva dovuto tacitamente riconoscere la verità, ammettere ch'egli
aveva sempre avuto ragione... eppure, questo pensiero non suscitava
in lui neppure la minima traccia del compiacimento che si era
aspettato. Forse era troppo vecchio, o troppo disilluso, per sentirsi
ancora compiaciuto riguardo a qualcosa.
Erano quasi le cinque e
mezza del mattino: se anche egli non avesse avuto così tanti
pensieri per la testa, in quel momento, non avrebbe avuto comunque
alcun senso tornarsene a letto.
Cercò qualcosa da
fare. Si preparò molto lentamente e in grande silenzio, per non fare
troppo rumore e per lasciar passare un po' di tempo. Lavò i piatti,
ma quando pensò all'idea di far colazione, scoprì che il solo
pensiero del cibo lo infastidiva. Andò a cercare una coperta dal
vecchio armadio di rovere un po' tarlato per coprirne il figlio,
scostando delicatamente la giacca a vento impolverata, e si rasserenò
un po' quando si accorse che Emir continuava a dormire profondamente
malgrado i suoi movimenti. Forse dormendo avrebbe potuto dimenticarsi
per qualche ora di ciò che aveva fatto.
Ma anche dopo aver
fatto tutte queste cose, e averle fatte con la massima calma
possibile, il signor Fuji si ritrovò a non aver più niente da fare
per attendere il giorno e il risveglio di suo figlio. Ancora non
accennava neppure ad albeggiare, e anche ammettendo che qualcuno dei
volontari decidesse di alzarsi particolarmente presto e di passare da
lui prima della scuola, mancavano a ogni buon conto almeno una o due
ore. Quanto a sedersi ad aspettare senza far niente, questo era
proprio qualcosa ch'egli non aveva mai tollerato di fare e non lo
prese neppure in considerazione. Era ancora troppo presto perché
l'edicola in fondo alla strada fosse aperta? Valeva la pena di fare
un tentativo.
La strada era aspersa
di quell'uniforme luce grigia e livida delle giornate che si
prospettano belle ma che ancora non hanno avuto tempo di schiudersi
al giorno. L'edicola non era ancora propriamente aperta, ma il
giornalaio, ch'egli era abituato a considerare un amico per il
semplice fatto che apparteneva alla sua stessa generazione, stava
sistemando i grandi pacchi di quotidiani della giornata. Era già
mattino, ma si salutarono egualmente in silenzio, parlando colla voce
bassa che ispirava loro la sensazione persistente che non ancora
fosse esattamente giorno.
Sulla via del ritorno
verso casa, Fuji aprì il giornale e lesse: Isola Cannella –
Scompare Mew, l'esemplare unico al mondo del Laboratorio Pokémon. La
Silph SpA offre ricompensa milionaria per il ritrovamento.
Ciao a tutti!
Sono veramente contenta
di poter finalmente dare alla luce questo progetto sul quale sto
lavorando ormai da almeno un anno e mezzo, la cui genesi è
perfettamente riassumibile con queste parole: questo è quello che
viene fuori quando vaghi per un paio d'ore nei sotterranei della
Villa Pokémon dell'Isola Cannella per trovare un Ditto per eseguire
un secondo Mew Trick.
Occorre prima di tutto
chiarire un assioma fondamentale: per una mia precisa scelta, questa
storia si baserà quasi esclusivamente (salvo laddove non sia
possibile fare altrimenti) sui videogiochi di prima generazione, con
qualche accenno alla seconda che costituisce con essa una sorta di
unicum geografico e narrativo. Non è una scelta dettata da imperizia
o ignoranza dei giochi successivi, ma è mio preciso intento cercare
di rendere il più possibile quell'atmosfera che ha vissuto chi, come
me, giocava a Pokémon Rosso o Blu ai tempi della loro uscita. Kanto
non era una regione magica e ricca di leggende come quelle
successive: era una regione collocata nel nostro mondo, impegnata
nella lotta all'inquinamento e nella ricerca scientifica e genetica.
Cercherò di attenermi a questa versione il più possibile, spiegando
capitolo per capitolo le scelte fatte; naturalmente avrò piacere di
discutere di queste scelte con chiunque abbia domande o sia
interessato a confrontarsi al riguardo.
Per il momento non mi
rimane davvero altro da dire, spero che non mi sia sfuggito nulla!
Un caro abbraccio a
tutti
Afaneia
|
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Capitolo 2 *** Fragile. ***
Capitolo
I – Fragile.
Era
una notte calda e soffocante e senza vento quella in cui
Valérien,
senza alcun preavviso e senza alcun motivo apparente, entrò
nella
sua tenda e sedette nervosamente al tavolo da campo, torcendosi le
mani senza dire una parola.
Per
qualche strano motivo, Emir non fece alcun gesto per manifestargli
d'essere ancora sveglio nell'immobile notte equatoriale, colla pelle
madida di sudore e le orecchie echeggianti dell'eterno ronzio delle
zanzare. Sapeva che avrebbe dovuto sollevarsi sul letto e domandargli
che cosa ci facesse lì, se fosse successo qualcosa di grave
o se
avesse bisogno di qualcosa... eppure, aspettò ancora,
immobile sulla
branda col capo rivolto dall'altro lato. C'era qualcosa, nel contegno
nervoso di Valérien, che gli suggeriva che ci fosse qualcosa
d'importante e vergognoso che doveva dirgli, e non gli parve
opportuno mettergli fretta. Non si mosse.
«Sei
sveglio?»
«Ehi»
rispose Emir dopo qualche secondo. Si rigirò nella branda.
«Dimmi.»
«È
successa una cosa» si affrettò a dire
Valérien, con un’ansia di
confessione molto simile al sollievo.
Sollevandosi
faticosamente a sedere sul letto, sotto la pesante zanzariera che
avrebbe dovuto garantirgli il sonno, ma che a lui sembrava soltanto
volerlo soffocare, Emir si strofinò più e
più volte gli occhi e
borbottò: «Ti ascolto.»
Come
se non avesse atteso proprio nient’altro sin da quando era
entrato
nella sua tenda, Valérien disse tutto d’un fiato:
«Credo di aver
trovato un Pokémon nella foresta. Devi venire con me a
vederlo.»
Se
Emir era stato assonnato e confuso fino ad allora, il sonno lo
abbandonò bruscamente. Aguzzò gli occhi nel buio,
cercando
d’infliggere lo sguardo nel volto di Valérien
anche attraverso la
notte, e disse ad alta voce: «Che cosa avresti trovato e
dove?»
Valérien
scosse la testa. «Non lo so. Non avevo mai visto un
Pokémon simile.
E poi, l’ho visto solo per pochi
secondi…»
«È
scappato?»
«No.
Ma era Trasformato…»
«Oh…
Valérien.» Se solo non avesse temuto di urtare i
sentimenti di
Valérien, che con tanta innocenza era venuto a infilarsi
nella sua
tenda per cercare il suo consiglio, Emir sarebbe scoppiato a ridere;
ma anche trattenendosi dal ridere di lui, non poté proprio
impedirsi
di dirgli, in tono di lieve rimprovero: «Hai visto un
Ditto!»
«Sapevo
che l’avresti detto» disse Valérien, con
voce improvvisamente
divenuta fredda e delusa, e subito Emir si pentì del tono
che aveva
usato. «So distinguere un Ditto, Emir. Devi credermi,
era…
diverso. Devi venire con me a vederlo, subito.»
Con
un sospiro profondo, Emir scivolò giù dalla
branda e cercò a
tentoni, nel buio, qualcosa di decente da mettersi. «Dove hai
detto
che l’hai trovato?»
«A
mezzo chilometro da qui, nella palude.»
Gli
salirono alle labbra tante proteste da non riuscire a dar voce a
nessuna di esse. Di fronte a una tale spudorata imprudenza
sentì che
gli mancavano le parole: Valérien era un talento della
biologia,
d’accordo, ma era uno di quei geni distratti e svagati
capacissimi
di cacciarsi alla cieca in una situazione pericolosa come quella e di
raccontarlo con la medesima naturalezza. Si sforzò di
mettere a
tacere il rimprovero che sentiva montargli nel petto e
continuò a
vestirsi. «Se veramente hai scoperto un nuovo
Pokémon, sarà il
caso di avvertire gli altri.»
«Credo
che stia male, Emir» disse Valérien. Emir
sentì che la camicia che
aveva preso gli sfuggiva dalle mani nel buio. «Ti prego,
vieni a
vedere.»
Lasciarono
il campo di corsa, arrancando nella foresta quasi a tentoni,
aiutandosi più coi loro ricordi che con la luce delle torce,
i cui
crudi raggi luminosi saettavano tra gli alberi, attirando a ogni
momento nugoli di moscerini e zanzare affamate.
L’aria
era satura persino a quell’ora del profumo dei grossi fiori
tropicali, ma l’odore si attenuò a poco a poco a
misura che essi
si allontanavano dal cuore della foresta e si avvicinavano alla vasta
zona paludosa che finiva per perdersi, quasi insensibilmente, nel
letto del fiume. Ma per quanto greve e pesante fosse il profumo dei
fiori, l’odore marcescente della vegetazione che imputridiva
nel
fango era incomparabilmente più penetrante, ed Emir
pensò di non
aver mai detestato Valérien tanto quanto in quel momento.
Il
suo cuore sobbalzò quando il raggio della torcia
incontrò la prima
turgida infiorescenza maleodorante.
«Valérien,
diavolo! È il nido dei Gloom!»
Avevano
esplorato e mappato quella zona, popolata interamente da Gloom e da
qualche raro e robusto Vileplume, appena il giorno prima, e
l’avevano
reputato fin da subito un luogo di scarso interesse. Se fosse stato
giorno, Emir non dubitava che si sarebbe accorto fin
dall’inizio
della direzione che avevano preso; ma era notte, ed egli non dormiva
in pratica da quaranta ore. Era probabilmente più arrabbiato
con sé
stesso per non essersene accorto che con Valérien per averlo
portato
lì; eppure lo aggredì egualmente, spegnendo con
rabbia la sua
torcia per evitare di disturbare i placidi Gloom addormentati.
«Sei
venuto qui da solo, in piena notte, in un nido di Pokémon
velenosi!
Hai idea di cosa ti sarebbe potuto capitare?»
«Stanno
dormendo!» si difese Valérien.
«Non
avevi neppure un Pokémon per difenderti!»
sbottò Emir, ma ormai
più per dar sfogo alla sua rabbia che perché
quella conversazione
potesse portarli da qualche parte. Valérien era fatto
così, svagato
e distratto e assolutamente irresponsabile, e per quale motivo egli
l’aveva scelto per partecipare a quella spedizione?
L’odore
di carne putrefatta che i Gloom emanavano era troppo intenso e
asfissiante per continuare a discutere sterilmente per il puro gusto
di farlo. Imprecando ancora dentro di sé, Emir si
frugò più volte
nelle tasche alla ricerca di un fazzoletto per coprirsi il viso e
ordinò: «Andiamo, dai. Visto che siamo arrivati
fin qui, tanto vale
cercare questo Pokémon misterioso e vedere se possiamo fare
qualcosa
per aiutarlo.» Anche
se è
sicuramente un Ditto, ma
questo, incidentalmente, rimase non detto.
«È
qua vicino. Vedi quell’albero caduto?»
Il
fascio luminoso della sua torcia incontrò nel buio la
possenza
immane di un tronco abbattuto che si stendeva nel fango, attorno al
quale una schiera di Gloom aveva trovato riparo per la notte. La
strada, fino a quel punto, sembrava sicura e piuttosto breve: valeva
la pena avvicinarvisi al buio, per ridurre al minimo il rischio di
svegliare i Pokémon addormentati. Non si trattava di
Pokémon
aggressivi, ma spaventarli sarebbe stato troppo semplice: col loro
veleno e il loro soprannumero, quanto tempo avrebbero impiegato a
sopraffarli?
Riaccesero
la torcia solo quando furono così vicino
all’albero da non poter
muovere ancora un solo passo senza rischiare di travolgere i Gloom, e
l’odore era divenuto tanto penetrante da far lacrimare loro
gli
occhi. A un tratto Valérien gli tirò
silenziosamente un braccio,
senza emettere un suono, e gi indicò un punto in cui le
enormi
radici, grottescamente essiccate, si protendevano come silenti
richiami verso il cuore della. Anche lì dormivano dei Gloom,
ma in
numero decisamente scarno: non potevano essere più di cinque
o sei,
e questo rapido calcolo lo rassicurò.
«È
qui» mormorò Valérien, cercando di
schermare in parte la luce
della torcia. «Lo vedi?»
Tutto
ciò che Emirvide, guardando nel disco di luce che si
allargava al
suolo, fu un Gloom addormentato con la faccia rivolta verso il
tronco.
La
rabbia gli montò dentro come una vampata.
«Valérien…»
«Guarda!»
lo implorò Valérien.
Quando
Emir tornò a chinare gli occhi sul tronco, al posto del
Gloom c’era
un Pokémon mai visto prima.
Aveva
un corpo roseo e sinuoso, della grandezza di quello di un bambino, ma
immensamente più fragile, e mostruosamente bello, con zampe
affusolate e una coda molto lunga, sottile, in quel momento
acciambellata sotto di lui. Aveva occhi enormi e spalancati, che
splendevano più azzurri del cielo nel raggio della torcia,
con le
pupille innaturalmente dilatate dalla luce e dal dolore. Eppure, per
quanto Emir si fosse bloccato d’istinto, trattenendo il
respiro e
impedendo a sé stesso di compiere anche il minimo movimento
per non
spaventarlo, dopo qualche istante si rese conto che non aveva affatto
paura.
Il
Pokémon aveva il volto scavato dalla sofferenza e il petto
che si
muoveva a brevi intervalli rapidi e ravvicinati, affannati; ma quando
Emir si chinò in avanti, protendendo le mani verso di lui, e
gli
toccò cautamente il ventre colla punta delle dita, esso non
si
ritrasse, non si spaventò, non fece niente. Rimase
perfettamente
immobile e calmo, come un Pokémon che fosse abituato al
contatto con
l’uomo già da molto tempo, e attese con gli occhi
spalancati come
fanali, ma tranquilli e attenti, e il cuore che batteva fortissimo.
Il
suo pelo era madido di fango e di sudore, la sua pelle bruciava di
febbre; ma quando Emir ritrasse le dita e le accostò a
sé,
affannandosi a cercare una causa visibile, si rese conto che non
erano incrostate solo di fango.
Il
Pokémon che aveva di fronte era ferito, e la ferita puzzava.
Stesero
il Pokémon sul tavolo da campo della sua tenda, sopra uno
dei teli
sterilizzati che sarebbero dovuti servire a imballare i campioni
fossili che la spedizione stava cercando. L’avevano
trasportato fin
lì, arrancando al buio nella foresta, senza provocare
neppure un
gemito nel loro piccolo paziente; ma ora che erano riusciti a
trascinarlo fin lì, a che cosa era servito?
Ciò
che di quella ferita lo spaventava era che sembrava avvelenata, ed
era gonfia di un pus verde e maleodorante dal quale egli si sentiva
nauseato.
Il
dottor Emir Fuji aveva un dottorato in ingegneria genetica, non era
un medico o un chirurgo di specializzazione; nella sua tenda, come
tutti i suoi colleghi, egli aveva una cassetta di pronto soccorso e
tutta una serie di antidoti, ma in quel momento avrebbe potuto avere
a disposizione anche una scatola di aghi e bottoni. Di fronte a una
ferita di tale entità, c’era una sola persona in
tutta l’equipe
di cui egli poteva fidarsi.
Senza
neppure voltarsi verso Valérien, mentre cercava di lavare
via sangue
e sporcizia dalla pelle del Pokémon, Emir disse sordamente:
«Va’
a chiamare Rotwang1,
Valérien.»
«Rotwang?»
La voce di Valérien vacillava d’incertezza in
attesa di una
conferma. «Ma Emir, è tardi…»
Fu
solo all’udire il tremore della sua voce che Emir
realizzò per la
prima volta che Valérien sarebbe dovuto andare prima da
Rotwang,
quella notte, e che non ci era andato perché ne era
terrorizzato.
Possibile che quel dannato tedesco fosse in grado di spaventarlo a
tal punto?
«Valérien,
non è il momento di discutere! Vacci e basta.»
Dopo
un lungo istante di esitazione, tentennando in mezzo alla sua tenda,
Valérien mormorò con voce spezzata:
«Emir, ti prego…»
Con
un’imprecazione terribile, Emir lo spinse da parte e si
precipitò
fuori dalla tenda.
Era
mai possibile che Rotwang fosse in grado di spaventarlo tanto? Certo,
era ovvio che si sarebbe infuriato e li avrebbe mandati al diavolo;
ma chi si credeva di essere? Era un chirurgo, va bene; un bravo
chirurgo, ma poi? Il capo della spedizione era lui, il direttore del
laboratorio era lui: possibile che persino in una situazione
d’emergenza come quella il solo pensiero di Rotwang potesse
paralizzare a tal punto un professionista come Valérien?
Emir
percorse l'accampamento silenzioso e furente come una folata di
vento. Non avrebbe neppure saputo dire per quale motivo, esattamente,
fosse tanto arrabbiato – perché
Valérien aveva avuto paura? O
forse perché piuttosto (ma questo mai egli l'avrebbe
ammesso,
neppure di fronte a sé stesso) perché, per un
breve istante, subito
prima di dare l’ordine di chiamarlo, era stato lui ad aver
paura?
Non
del tutto casualmente, la tenda di Rotwang era la più
lontana dalla
sua. Non ne proveniva la minima luce, e una piccola parte di lui
provò imbarazzo al pensiero di svegliare così
bruscamente qualcuno
che dormiva. Era un pensiero che avrebbe provato in ogni momento, nei
confronti di chiunque – un semplice residuato della buona
educazione impartitagli da sua madre, forse – eppure
quell'unica
esitazione gli diede una fitta di rabbia atroce quando si accorse di
averla provata proprio nei confronti di Rotwang.
A
causa del caldo soffocante della giungla, l'entrata della tenda era
coperta solo da una zanzariera. Emir la strappò quasi via
per la
rabbia e d'improvviso, senza accorgersene, fu dentro.
«Alzati,
Rotwang! Abbiamo bisogno di te.»
Così
com'era ora, in piena notte e nel buio più completo, non
poteva
vedere niente. Ma ebbe la certezza che Rotwang c'era, e che era stato
beatamente addormentato fino a un attimo prima, quando da qualche
parte nel buio di fronte a lui vi furono un sussulto e un grido
soffocato, e in un fruscio di lenzuola arrotolate, sovrastando il
cigolìo della branda arrugginita, il pesante accento tedesco
di
Rotwang ringhiò: «Che cazzo fai, Fuji?»
Rotwang
era lo straniero più maledettamente sboccato che Emir
conoscesse, e
lo era solo con lui: per tutti gli anni che avevano lavorato assieme,
egli non gli aveva mai sentito dire una parolaccia o una
volgarità
che non fosse più o meno direttamene rivolta o riferita a
lui. Per
tutto il resto del tempo, con chiunque altro egli lo avesse sentito
parlare, Rotwang manteneva scrupolosamente il comportamento del
tedesco freddo e sbrigativo, rude ma sostanzialmente corretto che
tanto doveva essere piaciuto alla Silph SpA quando gli avevano
segnalato il suo curriculum con tante raccomandazioni. Emir lo
trovava un atteggiamento ridicolo e puerile, e questo atteggiamento
glielo faceva odiare ancora di più.
«Alzati,
Rotwang! Abbiamo un Pokémon ferito. Sembra grave.
C'è bisogno di te
immediatamente.»
Non
vi furono altri movimenti o scricchiolii provenienti dal buio.
«Dagli
della morfina e lasciami dormire. Sono un chirurgo. Che cosa
pretendi, che venga ad aprirlo in queste condizioni?»
Quella
risposta avrebbe fatto impazzire anche un uomo meno agitato di lui.
«Alzati o ti licenzio, Rotwang. Sai che posso
farlo.»
La
branda scricchiolò. Quel bastardo era tornato a stendersi?
«Okay, Fuji...
licenziami. Secondo te
col materiale che mi hanno dato che diamine dovrei fare? Posso
intontirlo di morfina e cauterizzare la ferita col fuoco, se qualcuno
di voi ha un accendino. Ah, e forse ho del cortisone da qualche
parte. Senti, perché non scrivi alla Silph di assumere un
guaritore
al posto mio? Uno di quelli che guariscono imponendo le mani.
Buonanotte, Fuji.»
Della
questione del materiale, Rotwang si era lamentato ininterrottamente
per mesi, forse per anni, da quando erano arrivati i primi
consistenti tagli al progetto. Ne aveva sempre dato la colpa a lui, e
per quanto Emir avesse in tutti i modi cercato di dimostrargli che
non era vero, telefonando in sua presenza a Zafferanopoli e anche
scagliandogli fisicamente addosso tutta la documentazione, Rotwang
non gli aveva mai dato retta, forse perché era troppo comodo
per lui
considerarlo allo stesso pari dei dirigenti della Silph.
«C'è
bisogno di te adesso»
insisté Emir, senza accennare a tirarsi indietro di un
passo. «C'è
un sacco di sangue di là. Vieni almeno a dargli
un'occhiata.»
Per
un po' di tempo, Emir non udì più niente, ma
finalmente Rotwang
disse: «Ormai mi hai svegliato. Vengo, ma voglio gli
straordinari in
orario notturno, e mi aiuti a portare la cassa del materiale.»
Era
fatta. Ma per quale motivo Emir aveva avuto tanta paura di Rotwang,
poi? Era insopportabile, certo, e presuntuoso; ma era un medico per
vocazione, malgrado le sue continue frecciatine sullo stipendio, e
non avrebbe mai lasciato un Pokémon in
difficoltà. Era stato
stupido da parte sua aver tanta paura.
Sentì
qualche altro sonoro cigolìo di vecchie molle arrugginite
nell'angolo, poi Rotwang, che si era guardato bene dall'avvertirlo,
accese una lampada da tavolo che lo abbagliò. Il medico
scoppiò a
ridere quando lo sentì imprecare.
«Attento
agli occhi, eh, Fuji?»
Pensando
al Pokémon che agonizzava sul suo tavolo, Emir si trattenne
dal
dirgli in termini molto chiari cosa pensasse del suo atteggiamento.
«Va bene, andiamo, andiamo... stiamo perdendo
tempo.»
«Va
bene, allora... aggiornami.»
Finalmente
quello che parlava con lui era il dottor
Rotwang, il medico di fama mondiale che la Silph aveva fatto di tutto
per accaparrarsi, e non senza motivo.
Quando
i suoi occhi smisero di vedere ovunque macchie colorate, Rotwang era
in piedi davanti a lui, a torso nudo, a cercare da qualche parte
nella tenda i suoi scarponi da escursione, coi lunghi capelli biondi
che gli ricadevano in continuazione sugli occhi via via che cercava
di spostarli. Non l'aveva mai visto a torso nudo: aveva l'aspetto
arrossato e insalubre dei nordeuropei, e la sua pelle odorava di
chissà quale pomata antizanzare.
Per
accelerare i tempi, Emir si affrettò a passargli una camicia
che era
stata abbandonata senza troppa grazia sul tavolo da campo.
«Non ne
so molto neanch'io. L'ha trovato Valérien nella palude,
mezz'ora
fa...»
«Il
Pokémon, cazzo, Fuji, il Pokémon! Che idea devo
farmi se non mi
dici che Pokémon è?» sbottò
Rotwang alzandosi e afferrando con
rabbia la camicia che gli porgeva.
«Non
lo sappiamo che Pokémon è, Rotwang!»
esclamò Emir esasperato. «Se
ti decidessi a venire, lo vedresti coi tuoi occhi. È un
Pokémon
che non ho mai visto, sei contento adesso?»
Rotwang
aggrottò un lungo sopracciglio nero e arcuato, come se si
sforzasse
di non mostrarsi impressionato di fronte a lui. «Ehi, stai
calmo,
Fuji. Che pretendevi, che venissi nudo? Aiutami a portare il
materiale e andiamo.»
Se
avesse dovuto attendere un solo minuto di più, Emir sentiva
che
avrebbe urlato. Ma quest'ultima risoluzione giunse per lui come una
liberazione: dalla penombra della tenda Rotwang fece riemergere la
pesante cassa del materiale della cui inadeguatezza si era tanto
lamentato, e finalmente poterono uscire: là fuori,
all'esterno, la
sua tenda illuminata dall'interno spiccava in mezzo all'accampamento
come una fiaccola.
Trovarono
Valérien in piedi accanto al tavolo a comprimere la ferita,
col
volto sbiancato e pieno di panico; ma non appena entrato, prima
ancora di scaricare a terra la cassa del materiale, fu Rotwang a
prendere il controllo della situazione.
«Spostati,
Lestournelle, devo vedere che cosa devo fare. Voi due aprite la
cassa, mentre io... porca puttana.»
Disteso
sul tavolo, il Pokémon continuava a respirare lentamente,
con brevi
respiri stentati, affannosi, come se anche il minimo movimento del
petto gli cagionasse un dolore atroce, e scrutava tutti loro con
occhi enormi e dilatati dalla sofferenza, eppure ancora immensamente
tranquilli. Non sembrava affatto spaventato dalle loro presenze
angosciate, o confuso, o... al di là del dolore, sembrava
paurosamente calmo, come se sapesse che, da parte loro, non aveva da
aspettarsi alcuna minaccia, ma come se neppure la ferita e il dolore
e l'infezione lo preoccupassero minimamente. Era calmo e forse un
poco triste, e niente di più.
«Merda!»
sbottò Rotwang appoggiandosi pesantemente al tavolo, come se
a
malapena le gambe lo reggessero in piedi; ma neppure a quel gesto la
creatura parve spaventata da lui. Egli aveva scostato la garza con
cui Valérien aveva tamponato fino ad allora la ferita, e
aveva
visto. Emir sapeva quale rapido ragionamento avesse formulato in
quegli istanti il suo cervello, per averlo formulato lui stesso
appena pochi minuti prima: quell'odore... «Dove l'avete
trovato?»
«Al
covo dei Gloom» rispose Valérien lugubremente. Il
nome di quel
Pokémon bastava da solo a confermare l’ipotesi che
quella ferita e
quell’odore suggerivano.
«Perché
non mi hai detto che è avvelenata, Fuji?»
gridò
Rotwang senza neppure
voltarsi verso di lui. Emir non l’aveva sentito mai tanto
arrabbiato.
Cercò
di giustificarsi. «Non ero sicuro di che tipo di ferita
fosse, non
avevo mai visto una…»
«Ma
qualche film lo avrai visto anche tu, oppure no?» lo
interruppe
Rotwang, tornando a comprimere con rabbia la ferita.
«Lestournelle,
ci sono degli strumenti sottovuoto nella mia cassa,
preparameli…
gli avete dato qualcosa?»
Senza
attendere risposta, cominciò a sfilarsi la giacca che si era
gettato
addosso e indicò con un cenno, senza neppure badare che
qualcuno in
quel momento lo stesse davvero guardando, la lampada da campo che
rischiarava la tenda. Senza scomporsi, Emir si affrettò ad
avvicinargliela. In quel momento era il chirurgo a dare ordini nella
sua tenda, ed era del chirurgo ch’egli aveva bisogno.
Faticò
qualche istante a ricordare le parole di Rotwang.
«Io… no. No, non
gli abbiamo dato niente. Ho solo lavato la ferita, per quel poco
che…»
«Lo
vedo» disse Rotwang a bassa voce, guardandolo nella bassa
luce
abbagliante della lampada. Emir pensò di non averlo mai
visto tanto
preoccupato. «Fuji, tu sai fare un’iniezione di
morfina in vena?»
Almeno
di quello era capace. All’interno della cassa tutto era
stipato in
un ordine miracoloso: mentre Valérien sistemava tutti gli
strumenti
chirurgici che aveva trovato, Emir ripescò senza troppo
cercare una
siringa sterilizzata e una fiala di morfina e si precipitò
di nuovo
accanto al tavolo.
Rotwang
stava borbottando qualcosa in tedesco quando gli fu vicino.
«Hai i
guanti? Bravo, molto bene. Ora ti facciamo dormire,
d’accordo?»
disse rivolto al Pokémon, che non aveva l’aria di
capire granché
la sua lingua, ma ricambiò comunque il suo sguardo con
grande
dolcezza. Era mirabilmente bello.
Mentre
trafficava intorno alla fiala per aprirla, Emir si schiarì
la voce.
«Pensi che…»
«È
merda, Fuji» tagliò corto Rotwang con voce roca.
«Non ti aspettare
niente. Se fosse altrove, amputerei. Ma è
all’addome e vedrò
quello che posso fare coi pochi strumenti che ho.»
Non
c’era altro da dire. Rotwang accarezzò con due
dita il muso del
Pokémon quando l’ago penetrò sotto la
cute: esso spalancò gli
occhi e mugolò piano, ma non accennò neppure ad
agitarsi, e parve
non avere la benché minima paura, come se provasse verso di
loro una
fiducia incondizionata e senza pari. Rotwang ne fu molto colpito.
«Ehi»
borbottò come tra sé, mentre continuava ad
accarezzarlo. «Certo
che sei un tipo tranquillo, tu. Più tardi devi dirmi come ti
chiami.»
Mew,
miagolò
il Pokémon, mentre
la morfina faceva effetto.
Morì
attorno alle undici del mattino.
Rotwang
si era affaccendato attorno al tavolo per tutta la notte, cercando di
salvarlo con quei magri mezzi che aveva, colle labbra tese e fredde e
la fronte profondamente aggrottata, sudata, e poi, attorno alle sei,
quando già i primi raggi di sole avevano cominciato a
penetrare
nella tenda e a confondersi fastidiosamente colla luce della lampada,
si era arreso, si era strappato di dossi i guanti con
un’imprecazione
terribile, e se n’era andato.
Durante
l’operazione erano arrivati anche i loro colleghi. Si erano
svegliati quando avevano sentito l’unico disperato grido che
Mew
avesse emesso quella notte, ed erano accorsi; non avevano fatto molto
rumore, e Rotwang neppure si era voltato a guardarli.
Valérien aveva
riassunto loro l’accaduto, ma quasi a cenni, parlando a
malapena
per evitare di disturbare il chirurgo che agiva, ed essi allora erano
rimasti in piedi, attoniti nella tenda, ad aspettare e a fissare con
occhi increduli il Pokémon che languiva sotto i ferri.
Quando
Rotwang se n’era andato bestemmiando, rendendo anche troppo
chiaro
a tutti che non c’era mai
stata
alcuna speranza, nessuno
aveva detto niente. Emir si era limitato a voltarsi, e nei loro occhi
spauriti, nelle loro bocche stanche aveva vista riflesso il suo
proprio volto.
Non
c’era stato altro da dire. Erano rimasti tutti là
dentro,
nonostante non ci fosse più nulla che potessero fare e
l’aria
della tenda divenisse via via sempre più irrespirabile e
soffocante
a misura che il sole si levava. Si erano limitati a ciondolare
nervosamente attorno al tavolo, chinandosi di tanto in tanto a
osservare quei grandi occhi sofferenti eppure ancora disperatamente
lucidi e calmi, e a non guardarsi mai gli uni con gli altri.
Alla
fine, uno alla volta, se n’erano andati. Vincent era stato il
primo: era sgusciato via in silenzio, con le guance esangui e
l’aria
di qualcuno che potesse svenire da un momento all’altro,
mormorando
qualcosa sull’andare a cercare Rotwang. Portia
l’aveva seguito
poco dopo, senza neppure cercare d’inventare una patetica
scusa,
passando le mani sulle loro spalle come a dar loro forza.
Alle
otto del mattino erano rimasti solo lui e Valérien accanto
al
tavolo, e il Pokémon ancora non accennava a chiudere gli
occhi e a
riposare un poco. Guardava dritto verso di loro, ma nei suoi grandi
occhi sofferenti Emir non aveva scorto altro, al di là del
dolore,
che una grande ineffabile pace, come s’esso sapesse
perfettamente
di doversi trovare lì, in quella tenda angusta, a morire. La
sua
pace lo sconvolgeva oltre ogni dire.
«Vai
a dormire un po’, Valérien» aveva detto
a un certo punto, senza
guardarlo. «Non hai chiuso occhio per tutta la notte, e
poi… non
serve che restiamo entrambi. Hai sentito Rotwang. Non possiamo fare
altro.»
Valérien
non si era mosso.
«Davvero,
vai. Ti chiamo io se… insomma, se fossimo nella tua tenda,
io
tornerei a dormire. Dico davvero.»
«Fa
troppo caldo per dormire» aveva mormorato
Valérien, con l’aria di
voler porre freno alla conversazione, ed Emir alla fine aveva
lasciato perdere. Valérien era poco più che un
ragazzo, ma non era
un bambino, e non ci sarebbe stato modo di convincerlo.
Finalmente,
poco dopo le nove, il Pokémon aveva perso conoscenza, e
infine morì
attorno alle undici, serenamente e senza altre sofferenze superflue,
ed essi rimasero soli.
«È
finita» disse Valérien dopo un po’. Emir
avrebbe voluto poter
sentire sollievo nella sua voce, la consapevolezza di aver fatto
tutto quello che potevano, che quella morte doveva esser
destino…
ma di sollievo non ce n’era.
Dopo
un tempo indefinibilmente lungo da quando il petto di quel
Pokémon
si era alzato per l’ultima volta e poi non si era
più abbassato,
Emir fu il primo ad alzarsi. Non ne poteva più di star
seduto, non
disse neppure nulla. Uscì dalla tenda quasi senza
accorgersene.
Pensò
per un attimo di allontanarsi dal campo, di tornare nella giungla,
anche così, da solo, e cercare di nuovo il nido dei Gloom, e
là
fare qualcosa, qualunque cosa… ma anche se non avesse
cambiato
idea, se non avesse saputo quanto vano e privo di significato e anche
profondamente stupido questo sarebbe stato, sentiva già
anche troppo
bene che le sue gambe stanche non sarebbero state in grado di
portarcelo. Ma nella sua tenda, accanto a quel corpo minuscolo e
immobile che giaceva in piena vista, là dentro Emir non ci
poteva
stare.
Eppure
perché era tanto sconvolto? Quello che era morto era solo un
Pokémon, un Pokémon raro, certo, e mirabilmente
bello: ma come
erano riusciti a trovare lui, ne avrebbero trovati altri esemplari, a
furia di cercare… ma se lo sapeva perfettamente che non era
per
aver perso quella possibilità che era sconvolto! Ma se non
era per
quello, che senso aveva? Forse che non aveva appreso già
abbastanza
bene, in tutti quegli anni in cui aveva lavorato per la Silph, che
era naturale che i Pokémon morissero?
Se
non avesse mai visto quel che aveva visto quella notte, non sarebbe
andato a trovare Rotwang. Ma per quanto quell’uomo lo odiasse
e lo
disprezzasse, quella notte si era vestito e lo aveva seguito, ed era
rimasto per ore a cercare di salvare quel Pokémon moribondo
che lui
e Valérien gli avevano portato, e ora Emir voleva parlargli.
Per
quanto a quell’ora del mattino fosse ancora in ombra,
l’interno
della tenda era già soffocante. Quando Emir si
affacciò cautamente
sulla soglia e guardò dentro, Rotwang era là, a
scartabellare
nervosamente in un grosso libro gettato sul tavolo. Si era tolto la
camicia, forse per il caldo o forse per cercare di rimuovere ogni
residuo di quella notte, ma non si era fatto la barba, e i capelli
gli ricadevano sulle spalle e sugli occhi a ogni suo movimento
rabbioso. Emir dubitava che avesse realmente qualcosa da cercare
là
in mezzo.
Senza
osare di avvicinarsi troppo a lui, Emir mormorò:
«Ehi…»
Rotwang
non si voltò verso di lui, ma egli non dubitò che
lo avesse sentito
dal movimento rigido che ebbero le sue scapole al di sotto della
canottiera sportiva. Non reagì.
«Volevo
solo…»
«L’hai
fatto apposta, vero?» domandò Rotwang senza
guardarlo.
Di
tutte le parole d’accusa che avrebbe potuto rivolgergli,
decisamente questa Emir proprio non se l’aspettava.
«Che
cos’è che avrei fatto apposta, Rotwang?»
domandò stancamente,
appoggiandosi con la mano a una scansia di metallo che conteneva gli
oggetti da lavoro del medico. «Non l’ho trovato
neppure io quel
Pokémon, i meriti della scoperta vanno tutti a
Valérien, perciò se
vuoi accusarmi di…»
«Oh,
non di questo, no» sbottò Rotwang, voltandosi
seccamente verso di
lui. Era mortalmente pallido, ma l’ardore dei suoi occhi
infuocati,
in modo del tutto irrazionale, gli fece paura. «La tua
vanagloria,
per una volta, non c’entra niente… no, tu lo sai
cos’hai fatto,
Fuji! Tu lo sapevi che ormai per quel Pokémon non
c’erano più
speranze, non sarai un chirurgo ma sei un biologo, non un filologo!
Eppure me lo hai messo lo stesso sotto i ferri, anche se in fin dei
conti lo sapevi che non valeva neppure la pena di spostarlo, che
sarebbe stato più pietoso lasciarlo morire dove lo avevi
trovato…»
La
requisitoria di Rotwang non era ancora finita, ed egli addirittura si
era avvicinato di un passo, lo incalzava più da vicino;
furioso
com’era, forse in quel momento non era neppure in grado di
sentirlo, eppure Emir non poté fare a meno di provare a
difendersi.
Quando tentò di parlare, la voce gli uscì di
bocca tremante e
soffocata, come s’egli ne avesse paura, eppure egli
esclamò
egualmente: «Non sapevo che stava morendo, dovevamo almeno
provare…!»
«Ma
ero io a dover provare, non è vero? Ad affondargli le mani
nella
carne e a sentirmelo morire sotto le dita... anche se persino un
bambino si sarebbe accorto che non c'era niente che potessi fare!
Eppure tu e Valérien adesso sarete quelli che hanno cercato
di
salvarlo, mentre io, invece...»
Ma
in quel preciso momento, proprio quando Rotwang stava finalmente per
scaricargli addosso che
cos'era
esattamente
ch'egli sarebbe
stato, d'ora in poi, per colpa sua, la voce acuta e sovreccitata di
Valérien lo interruppe in modo inaspettato. Da qualche
parte,
proprio in mezzo al campo, egli gridò: « Emir!
Emir, presto, vieni
a vedere!
In
circostanze normali, Rotwang si sarebbe certamente infuriato per
esser stato interrotto, anche solo involontariamente, da qualcuno
come Valérien, ed Emir era già rassegnato a
sobbarcarsi anche
questa nuova sfuriata... ma essa non venne. Quel mattino, il dottor
Rotwang doveva essere troppo estenuato, o troppo deluso e
amareggiato, per riuscire ad arrabbiarsi oer qualcosa di tanto
puerile. Al contrario, come accorgendosi di aver esagerato, o
quantomeno d'essersi scoperto un po' tropo, egli
indietreggiò d'un
passo e cercò di ricomporsi.
«Va'
dal tuo amichetto, Fuji» disse a bassa voce, con lo sguardo
diretto
altrove, come a cercar con gli occhi qualcosa d'invisibile
all'interno della tenda. «Temo che abbia un disperato bisogno
di
te.»
La
voce di Valérien suonava carica d'ansia e di preoccupazione
e
vibrante di necessità, eppure, quando istintivamente egli
fece per
uscire dalla tenda, qualcosa dentro di lui lo trattenne, e si
fermò
senza motivo. Si sentiva confuso. Balbettò: «Non
abbiamo ancora
finito di...»
Ma
quando si volse di nuovo verso di lui, Rotwang non lo stava
guardando. Aveva lo sguardo puntato precisamente
nella
sua direzione, certo, ma
i suoi occhi increduli, divenuti enormi, guardavano qualcosa che era
al di là delle sue spalle ed egli sembrava intento a
tutt'altro che
al loro litigio... ma che cos'era che stava guardando?
«Fuji...»
Ma
alle sue spalle, ebbe appena il tempo di pensare, nel fugace attimo
di tempo che il suo corpo impiegò a compiere un quarto di
giro, non
c'era che l'ingresso della tenda, e che cosa mai poteva...
Appena
al di fuori della tenda, a mezz'aria, esattamente di fronte ai suoi
occhi, fluttuava un Pokémon rosa con immani occhi azzurri.
«Mew.»
«È
una femmina» disse nervosamente Valérien dopo un
po'.
«Ti
piace proprio sottolineare l'ovvio, eh, Lestournelle?»
ribatté
Rotwang.
Erano
seduti nella sua tenda, malgrado l'aria già torrida e
soffocante del
sole levato: richiamati dalla voce di Valérien, anche Portia
e
Vincent erano accorsi alla loro volta. Nessuno dei presenti riusciva
neppure a distogliere lo sguardo dal Pokémon che stava
accovacciato
sul tavolo da campo di Rotwang, a sfogliare con le piccole zampe
affusolate il suo libro. Non era stato difficile attirarlo dentro la
tenda: dopo essere arrivata al campo del tutto autonomamente,
sembrava che gli esseri umani le fossero piaciuti molto. Alle caute
carezze di Valérien aveva reagito balzando di gioia a
mezz'aria, e
quando quegli era entrato nella tenda lo aveva seguito e si era messa
a curiosare qua e là con tutta la naturalezza del mondo.
Neppure lei
dimostrava la minima paura degli esseri umani, e in generale,
esattamente come l’altro esemplare, non dimostrava paura
affatto.
«È
venuta a cercare lui» mormorò Portia, ma
più come a voler cercare
una conferma che ad asserire qualcosa volontariamente. Rotwang le
scoccò un'occhiata contrariata, ma evitò di
scagliarsi anche contro
di lei. Di tutto il laboratorio, Portia era l'unica con la quale
avesse in genere un buon rapporto, ed evidentemente non voleva
cambiare le cose proprio quel giorno.
Lui
riposava ancora immobile nella tenda di Emir, sullo stesso tavolo da
campo sul quale era stato operato, e ben presto sarebbe stato
necessario rimuoverlo da lì, e soprattutto, inevitabilmente,
si
sarebbe dovuto analizzarlo e studiarlo... ma il solo pensare a quel
corpo che giaceva immobile e che andava sempre più
raffreddandosi lo
riempiva di nausea e di brividi di freddo, ed Emir si sforzò
di
concentrarsi sul presente e di reprimere da qualche parte in fondo
alla gola il senso di nausea che a ogni momento sentiva risalire.
«Non
possiamo farglielo vedere» disse a mezza voce.
«Dobbiamo tenerla
lontana dalla mia tenda finché non avremo rimosso...
insomma.
Immagino che fosse la sua compagna. Dobbiamo trovare un posto dove
spostare il... il...»
Rotwang
gli rivolse uno sguardo furente al di sotto delle alte sopracciglia
arcuate. Non disse nulla, ma tutto, tutto in lui pareva urlare a gran
voce di trovare il coraggio di chiamarlo per nome – il
cadavere!
Vincent
aveva l'aria di voler aggiungere qualche cosa a quello ch'egli aveva
appena detto, ma dopo un attimo di esitazione decise di lasciar
perdere. Conoscendolo, doveva aver pensato alla necessità di
eseguire un'autopsia, per determinare con certezza le cause della
morte e poter approssimare almeno una conoscenza sommaria della
fisiologia del nuovo Pokémon, ma con Rotwang in quelle
condizioni,
cogli occhi vitrei e arrossati di rabbia e di pianto, non c'era
neppure da prenderlo in considerazione, per il momento.
«Troveremo
sicuramente un posto adatto» si limitò a dire
diplomaticamente.
Di
tutti i presenti, Portia era sicuramente quella più calma e
razionale, che era poi la ragione per cui Emir aveva tanto insistito
per assumere proprio lei nel suo team di ricerca –
poiché di tutti
i membri del suo laboratorio, Portia era anche l'unica che avesse
frequentato, come lui, l'Ateneo di Azzurropoli, sia pur laureandosi
in Biofisica, ed era perciò l'unica ch'egli conoscesse da
prima
della fondazione del laboratorio.
«La
tua è stata una scoperta eccezionale, Valérien,
indipendentemente
dagli sviluppi.» Le ultime parole furono pronunciate con
tutta la
delicatezza che le era possibile, ed ella sfiorò appena un
ginocchio
di Rotwang mentre parlava; ma quegli non le manifestò il
benché
minimo segno di gratitudine o di conforto a quel gesto. Se ne stava
arroccato sulla sedia pieghevole da campo, colle gambe nervosamente
accavallate e le braccia incrociate sul petto, e i suoi occhi cupi e
arrossati non si distoglievano minimamente dai movimenti del
Pokémon
sul tavolo. «Forse dovremmo tornare alla palude dei Gloom e
controllare meglio. Se quello è l'habitat di questa specie,
potrebbe
essere l'unica occasione che abbiamo per trovare un altro
esemplare.»
In
risposta alla sua proposta, Valérien si decise finalmente a
parlare
per la prima volta da quando era arrivata la seconda esemplare del
nuovo Pokémon. Aveva le guance pallide come di cera e gli
occhi
lucidi di febbre. «Non possiamo essere certi che non ce ne
siano
altri esemplari. Per quanto ne sappiamo, potrebbero vivere in coppie
isolate e la coppia più vicina potrebbe essere dall'altra
parte
della Guyana. O in Patagonia, o nella Terra del Fuoco, o...»
«O
a un paio di chilometri da qui» lo interruppe Portia.
«Valérien,
ora tutti quanti siamo sconvolti, ma se lasciamo perdere ora ce ne
pentiremo per tutta la vita. Forse ancora non ce ne rendiamo bene
conto, ma abbiamo appena scoperto una nuova specie di
Pokémon! Vogliamo davvero preparare armi e bagagli e lasciar
perdere tutto
solo perché siamo stanchi e confusi e perché
è accaduta una
tragedia terribile che nessuno di noi avrebbe in alcun modo potuto
evitare?»
Vedendo
che nessun altro prendeva la parola, Vincent si schiarì
timidamente
la voce. «Sono d'accordo con Portia, ragazzi. La scoperta
è senza
precedenti, e inoltre... beh. Non possiamo continuare a raccogliere
dati sui fossili come se nulla fosse, ora che abbiamo trovato lei;
e la Silph non si accontenterà certo di farci tornare a
Isola
Cannella con un solo esemplare senza che proviamo neppure a trovarne
un altro in questa zona...»
Il
volto di Valérien diventava sempre più pallido e
più spaurito a
ogni parola di Vincent, ed Emir temette che fosse sul punto di
vomitare da un momento all'altro. Ma prima ch'egli avesse modo
d'intervenire e di interromperlo, Vincent riprese:
«Valérien, la
scoperta è tua. Pensa alla tua carriera. Forse ora non te ne
importa, ma lo rimpiangerai tra qualche anno. Riflettici.»
Fino
a quel momento Valérien non si era veramente
reso
conto del fatto che sì,
la scoperta era sua, a lui andava il titolo d'essersi inoltrato in
piena notte nel cuore della giungla e d'essersi imbattuto, per puro
caso, nel Pokémon più raro del mondo...
quell'improvvisa presa di
coscienza gli fece avvampare le guance di confusione, ed egli
distolse lo sguardo.
Per
un po’ nessuno sembrò aver nient'altro da dire.
A
capo della spedizione era Emir, ora toccava a lui prendere una
decisione definitiva, e tutti stavano aspettando che si esprimesse.
Sentendosi addosso le aspettative di tutti, Emir si sforzò
di
concentrarsi e di non pensare in nessun modo al piccolo corpo rosa
che giaceva a pochi metri di distanza da loro, nella sua tenda,
solo...
Da
un punto di vista strettamente razionale, Portia aveva ragione: anche
se ancora non lo avevano realizzato, con ogni probabilità
avevano
appena compiuto la scoperta più importante del secolo dopo
quella
del DNA. La morte del primo esemplare, per quanto sconvolgente e
inaspettata, non si poteva imputare a loro, ed essi avevano fatto
molto più di quel che era possibile fare in quelle
circostanza; o
almeno questo era quel che a ogni momento egli s'imponeva di
sforzarsi di credere. Era in fin dei conti naturale che i
Pokémon
morissero, ripeté con rabbia a se stesso, persino quelli che
sembravano irradiare sacralità con la sola presenza...
E
poi, c'era la Silph. Quella spedizione era costata una cifra
inimmaginabile, persino cogli abominevoli tagli di budget che
l'azienda aveva loro imposto: cercare ancora sarebbe stato
più
conveniente per l'azienda.
Il
caposaldo fondamentale della sua vita era il suo lavoro. Che
cos'avrebbe detto il signor Dale, il suo diretto superiore,
là a
Zafferanopoli, alla notizia che avevano deciso di non cercare altri
esemplari del Pokémon più raro del mondo per
proseguire la raccolta
di dati sugli habitat dei Pokémon preistorici - di cui
disponevano
ormai più o meno a sufficienza – o, peggio ancora,
per tornarsene
a Kanto?
La
nausea che non accennava a passargli premeva ancora da qualche parte
in fondo alla sua gola. Sforzandosi di ignorarla, Emir si
alzò in
piedi: tutti appuntarono all'istante gli occhi su di lui, e persino
Rotwang, che stava guardando con ostinazione la punta dei propri
stivali, gli gettò un'occhiata di sfuggita.
La
voce che uscì dalla sua gola non era realmente la sua
– quando si
doveva decidere, era la Silph a parlare per suo tramite.
«Avete ragione.
Concentreremo le
ricerche sul nido dei Gloom e le allargheremo a macchia d'olio per
cercare qualche tracia, ma penso che dovremmo cominciare da
domani.»
Percepì chiaramente che Rotwang levava gli occhi su di lui,
ma non
si voltò da quella parte. Valérien aveva l'aria
di guardarlo con
grande attenzione, ed egli cercò di concentrarsi su di lui.
«Per
oggi abbiamo già abbastanza carne al fuoco. Dobbiamo cercare
di
dormire un po', io devo telegrafare a Zafferanopoli per comunicare i
cambiamenti di programma e... e le altre cose da fare oggi.»
Gli
sguardi di sollevato assenso dei suoi colleghi lo fecero sentire un
po' meglio: l'aver preso una decisione li aveva sollevati dalla greve
necessità di decidere a loro volta. Annuendo
calorosamente, Portia gli sorrise con aria rassicurante. «Hai
fatto
la cosa giusta, Emir. Non possiamo fare nient'altro.» Persino
Valérien, per quanto ancora pallido, sembrava enormemente
rassicurato dalla sua decisione...
Alla
sua sinistra, ai margini del suo campo visivo, Rotwang
spostò la
sedia nel modo più rumoroso possibile per alzarsi in piedi.
Certo,
non che Emir si fosse mai atteso da lui il minimo segno di
approvazione, e anzi ci sarebbe stato da aspettarsi che reagisse
scontrosamente... ma quel che accadde dopo, molto rapidamente, andava
al di là di ogni sua aspettativa.
Battendo
sonoramente i tacchi, Rotwang alzò il braccio destro e
gridò:
«Heil,
mein Fürher!»
Gli
si gettarono addosso in tre per trattenerlo quando gli si
scagliò
contro. Emir non vedeva nulla, non capiva nulla: sentiva di non
riuscire ad avanzare mentre Vincent e Valérien lo tenevano
per le
braccia, vedeva di fronte a sé solo gli occhi di Rotwang e a
malapena udiva Portia, aggrappata al suo petto, che lo respingeva
gridando: «Lascialo stare, Emir, lascialo stare!»
«Chiedimi
scusa, Rotwang! Chiedimi scusa o io ti giuro che non lavorerai mai
più in tutta Kanto!»
«Lascia
stare, lascia stare, lascia stare... non vedi che occhi che
ha?»
Ma
certo che sì, Emir li vedeva i suoi occhi rossi, stralunati,
iniettati di sangue e dilatati dalla stanchezza, vedeva il suo ghigno
gonfio d'odio e la sua barba non fatta, da pazzo, ma aveva anche
orecchie per sentire, e Rotwang gli aveva appena dato del nazista!
«Chiedimi scusa!»
«Pensi
di poter dare ordini qua dentro, mein
Fürher?
Guarda che con voi
eravamo alleati solo durante la guerra!»
«Rotwang,
finiscila anche tu!» sbottò Vincent. «Se
pensi di poter dire tutto
quello che ti pare perché le cose sono andate come sono
andate,
allora...»
Ma
di questo nuovo scambio di battute Emir non vide mai la fine. Portia
e Valérien lo trascinarono fuori dalla tenda che ancora
scalciava,
immobilizzandogli le braccia dietro la schiena, mentre Vincent
restava là a inveire e a urlarsi addosso con Rotwang i
peggiori
insulti possibili, e quasi senza accorgersene egli si
ritrovò fuori,
contro un albero, a dimenarsi e a farneticare che era calmo e che non
voleva picchiare nessuno e che soltanto lo lasciassero tornare
là
dentro a discutere e a chiarire in maniera civile...
«Richard
non
è civile in qusto momento, Emir!» lo riprese
Portia, staccandosi da
lui solo quando fu ragionevolmente certa che non intendesse correre
di nuovo dentro, o che quantomento fossero abbastanza lontani dalla
tenda perché avessero modo di riprenderlo, se ci avesse
provato.
«Gli è morto un Pokémon sotto i ferri!
Come puoi pensare che sia
in sé?»
Sentendosi
ancora profondamente scosso, Emir reagì. «Io non
l'ho provocato,
Portia! L'avete visto tutti che non lo stavo neppure
guardando...»
«Voi
due vi provocate solo a starvi vicini! Pensi d'aver bisogno di dire
qualcosa per farlo infuriare?» lo rimproverò
Portia. Era tanto
esasperata da cacciarsi le mani tra i capelli spettinati, raccolti in
uno chignon precipitoso che andava ormai sciogliendosi.
«Emir,
Richard ti odia perché odia la Silph e tu sei il direttore.
Odierebbe chiunque al tuo posto.»
«No,
mi odia perché è un bastado che odia tutto il
mondo eccetto te! E
poi se le cose non gli vanno bene può sempre...
può sempre...»
Per
tutta risposta Portia si esibì in un plateale, provocatorio
battito
di mani. Emir ne rimase così attonito da ammutolire
all'istante; al
suo fianco anche Valérien, che gli aveva lasciato andare le
braccia
ma che ancora seguiva i suoi movimenti con l'aria apprensiva di
qualcuno che si aspettasse di vederlo scappare da un momento
all'altro, la scrutava come impietrito.
«Davvero
una bella mossa, Emir! Suggeriscigli di licenziarsi e lasciaci senza
un medico... coi tagli a questo progetto, chissà mai chi ci
manderebbero da Zafferanopoli al suo posto, anche ammesso che ci
manderebbero qualcuno. Vuoi compromettere tutto il progetto?»
Per
il progetto che il laboratorio stava portando avanti da quasi quattro
anni, purtroppo, Rotwang era
indispensabile.
Emir ne
avrebbe fatto a meno dannatamente volentieri, ma il progetto di
rigenerazione e clonazione di Pokémon estinti a partire dai
loro
fossili richiedeva necessariamente un medico; e Rotwang, che
possedeva due specializzazioni, era entrato a far parte dell'equipe
di laboratorio non tanto come chirurgo, per quanto fosse eccezionale,
quanto come medico genetista.
«Rotwang
è sostituibile» balbettò Emir pur di
non darle ragione.
Di
fronte alla plateale falsità di quell'affermazione, le
labbra di
Portia si strinsero nervosamente. «Ah, davvero?»
Naturale
che non lo era, dato che la tesi specialistica di quel dannato
tedesco era un tomo di duecento pagine su una patologia mitocondriale
che poteva aver accelerato l'estinzione dei Kabutops nel Paleozoico,
e dato che quell'uomo aveva seguito passo per passo tutti gli
sviluppi del progetto... assieme a lui, Rotwang era forse l'unico
altro al mondo a conoscere realmente
a menadito tutti gli aspetti dei loro esperimenti...
Nonostante
ciò, disposto a negare qualsiasi evidenza che gli capitasse
davanti,
Emir s'impettì e rispose: «Certo che lo
è.»
«Emir,
ti prego, non esagerare» mormorò timidamente
Valérien.
«Pensala
come vuoi, Emir» disse infine Portia. Non sembrava in grado
di
sostenere oltre quella conversazione. «Il direttore sei tu.
Se pensi
che Rotwang ti abbia offeso in modo insormontabile, prendi pure i
provvedimenti che devi... ma ricordati degli ultimi tagli, e
soprattutto ricordati che gli è appena morto un paziente.
Cerca di
pensare a come ti saresti sentito tu se avessi dovuto mettergli le
mani addosso, pur sapendo di non avere gli strumenti per
farlo...»
Il
tremendo rumore metallico dei ferri gli riempì i pensieri in
modo
assordante. Dell'operazione vera e propria egli non aveva visto
più
o meno niente, era rimasto dietro le spalle di Rotwang a passargli i
ferri via via che quegli glieli richiedeva e aveva spostato un paio
di volte la lampada, a seconda della zona da illuminare – ma
quel
rumore tremendo che era come lo sferruzzare di ferri da calza su
carni vive era bastato da solo a colmarlo di brividi di freddo.
Certo, Rotwang le mani addosso aveva dovuto mettergliele da solo, e
da solo aveva dovuto fronteggiare le carni marcescenti di quel
Pokémon mirabilmente bello che gli si era affidato con la
fiducia
incrollabile e incondizionata di un bambino...
Che
Portia avesse o meno percepito la sua esitazione, ebbe almeno la
compassione di non fargliela pesare. Quando parlò, la sua
voce suonò
molto dolce. «Dovreste riposarvi un po' adesso, tutti e due.
Dovreste dormire almeno un paio d'ore.»
«Non
posso tornare di là» disse meccanicamente Emir.
«Forse
dovremmo prima sistemare...» balbettò
simultaneamente Valérien. Lo
spettro di quel piccolo Pokémon morto aleggiava ancora non
detto.
Portia
non si dimostrò disposta a trattare. «Ce ne
occuperemo io e
Vincent. Voi due avete già fatto più di quello
che avreste dovuto.
Valérien, anche tu, dico davvero... sembri febbricitante.
Devi
dormire anche tu.»
Per
quanto fosse egoista e meschino, il pensiero di non dover toccare
quel corpo lo fece sentire assurdamente sollevato. Era la stessa
sensazione infantile e immatura di quand'era bambino e suo padre si
addossava qualche compito al suo posto, che si trattasse di lavare i
piatti o di risolvere qualche guaio che aveva combinato.
«Emir»
insisté Portia, con voce sorprendentemente dolce e ferma.
«La mia
tenda è ancora un po' all'ombra. Vai a stenderti
là mentre io
aspetto Vincent, ti prego.»
Il
vociare che si levava dalla tenda di Rotwang si era progressivamente
attutito: conoscendo quei due, il loro litigio doveva essere
terminato subito dopo che entrambi si erano sfogati, e ora
chissà,
forse ne stavano discutendo pacificamente. Quei due non si odiavano
davvero, erano solo abbastanza testardi da scontrarsi e litigare e
poi rappacificarsi per ogni questione di disaccordo, e probabilmente
Vincent ne sarebbe venuto fuori ben presto.
Portia
aveva vinto. Sentendosi profondamente grato in cuor suo nei suoi
confronti, Emir si limitò a ringraziarla con lo sguardo. Non
c'era
altro da dire. Sotto la spinta inflessibile dei suoi occhi imperiosi,
sia lui che Valérien si allontanarono in silenzio.
Valérien
avrebbe voluto parlare ancora, chiedergli qualcosa, forse
inconsciamente avrebbe voluto venir rassicurato, ma in quel momento
Emir riusciva a malapena a guardarlo. Valérien si era
appoggiato a
lui sin dalla sua prima settimana a Isola Cannella, aveva guardato a
lui come a un mentore prima ancora che a un collega o a un amico, ed
Emir gli era sempre stato grato per la sua amicizia e la sua
devozione... ma ora non si sentiva in grado di confortare nessuno.
Lasciando
Valérien dietro di sé, Emir entrò
nella tenda di Portia, dove
ancora ristagnava la confusione frenetica di quella notte. La sua
branda era ancora disfatta.
Emir
vi si gettò sopra a peso morto, completamente vestito,
affondò la
faccia nel rigido cuscino scomodo sul quale ancora aleggiava il
profumo dei capelli di Portia, e chiudendo gli occhi si
sforzò
d'immaginare che fosse quello della pelle di sua madre.
Dopo
cena, non precisamente di sua volontà, andò a
trovare Rotwang.
Non
si prese troppo disturbo di avvertirlo prima di entrare. Il medico
era steso sulla sua branda, con l'aria di qualcuno che avesse un gran
bisogno di dormire e lavarsi e farsi la barba, e stava leggendo lo
stesso libro che Emir gli aveva visto sul tavolo quel giorno.
Rotwang
non distolse gli occhi dalle pagine, ma non c'erano dubbi che lo
avesse sentito entrare, e ora stava aspettando che parlasse. Emir si
schiarì la voce.
«Sono
venuto a dirti che non ce l'ho con te per quello che hai detto oggi.
Eri in un momento di forte stress e posso immaginare ciò che
ti
passava per la testa.» Non erano esattamente parole sue, ma
dal suo
punto di vista stava facendo anche troppo.
Senza
neppure degnarsi di abbassare il libro, Rotwang gli gettò
un'occhiata obliqua. «Visto che sei qui, mi dispiace che tu
abbia
pensato che volessi paragonarti a Hitler. Non era mia
intenzione.»
«Oh.»
Questo Emir proprio non se l'aspettava. Era una pallida parvenza di
scuse, quella – il massimo che ci si potesse aspettare da
Rotwang,
poi? Ma mentre egli si affannava a cercare qualcosa da rispondere a
quelle parole, l'altro proseguì: «Volevo solo
accusarti di essere
genericamente un dittatore, ma... sai com'è. Io sono
tedesco.»
Non
uccidere Rotwang, non uccidere Rotwang. Cercando
di reprimere il profondo desiderio di colpirlo il più
violentemente
possibile con la costola del libro, Emir si appoggiò al
tavolo da
campo per trattenersi e domandò molto lentamente:
«Perché volevi
accusarmi di essere un dittatore?»
Rotwang
girò provocatoriamente pagina, per quanto fosse chiaro, dal
modo in
cui si muovevano i suoi occhi, che non stava leggendo. «Lo
sai
perché.»
«Rotwang,
non c'erano alternative. Veramente pretendevi che lasciassimo quel
Pokémon a morire nella giungla solo perché non
potevamo essere
certi che potesse sopravvivere? Non hai giurato di prestare la tua
opera in qualunque circostanza o qualcosa del genere?»
«Lo
sai anche tu che non è per questo.»
Emir
stava davvero per perdere la pazienza. «Beh, se è
perché lavoro
per la Silph, mi pare che i nostri contratti si assomiglino molto.
Anche tu lavori per la Silph, nessuno ti ha obbligato. Mi odi solo
perché sono il direttore?»
Finalmente
Rotwang si degnò di mettere da parte il libro e si mise a
sedere sul
letto per guardarlo negli occhi. Erano arrossati non solo di
stanchezza, incavati, profondamente addolorati. «Ti odio
perché sei
un venduto.»
Fu
in quel momento, in cui egli cercava l'ennesima risposta da
contrapporre all'ennesima accusa, che lo sguardo gli cadde davvero
sulla copertina del libro, ed egli lesse: Anatomia
Pokémon. Rotwang non stava
leggendo per passare il tempo o per aggiornarsi, si rese conto
d'improvviso. Stava cercando di capire dove aveva sbagliato e se
c'era ancora qualcosa che avrebbe potuto fare per salvare quel
Pokémon.
Rotwang
lo stava fissando dalla branda con tutta l'aria di qualcuno che
avesse solo voglia di litigare e non vedesse l'ora di farsene offrire
l'occasione. Non è che Emir ne avesse meno voglia di lui,
per la
verità, ma d'improvviso gli parve che non ne valesse la
pena, almeno
quella volta, e che litigare richiedesse troppe energie. Per quel
giorno i suoi bollenti spiriti tedeschi avrebbero dovuto
accontentarsi del litigio con Vincent.
Sentendosi
addosso un po' meno voglia di ucciderlo di prima, Emir trasse un
sospiro profondo e disse: «Hai ragione, sono un venduto,
tutto
quello che vuoi. Comunque, senti... ero venuto a dirti che le mie
minacce di licenziarti non significavano niente. Se poi vuoi dare le
dimissioni perché non ti trovi d'accordo con la politica
aziendale,
su questo non posso pronunciarmi.»
Gli
occhi di Rotwang si fecero più sottili, forse amareggiati
perché la
sua provocazione era caduta nel vuoto. Si lasciò ricadere
pesantemente sulla branda, con aria scocciata, e tornò a
sollevare
provocatoriamente il libro davanti agli occhi. «No, Fuji,
grazie
tante. Per quanto io sappia quanto ti piacerebbe liberarti di me,
temo che sarò costretto a importi la mia presenza ancora per
qualche
tempo.»
Non
c'era niente da fare, Rotwang era quello che era. Poteva essere
abbattuto, certo, ed Emir poteva sentirsi sinceramente dispiaciuto
per lui, ma questo era quanto. Quell'uomo si stava divertendo a
prendersi gioco di lui perché lo odiava, persino in quel
momento in
cui Emir aveva cercato di mettere da parte il rancore e di tendergli
una mano pur sapendo di avere ragione.
Eppure
questa domanda proprio doveva fargliela, era più forte di
lui,
proprio sulla punta della sua lingua. Quando ormai era già
sul punto
di lasciar perdere tutto e uscire dalla tenda, questa domanda lo
trattenne: tornò indietro, si avvicinò alla
branda e chiese: «Se
sei così arrabbiato con la Silph, perché non te
ne vai?»
Rotwang
si strinse oltraggiosamente nelle spalle. «Non so. Forse
perché ho
qualcosa d'importante da fare qui.»
«Qualcosa
tipo?» Emir cominciava a spazientirsi.
«Forse
non ti riguarda, mio caro direttore.»
«Già...
forse no.»
Una
parte di lui avrebbe voluto davvero aiutare Rotwang a liberarsi di
tutto quel dolore, o almeno a urlarlo, a esprimerlo, ma sembrava non
essercene modo, forse perché non aveva sufficienti mezzi, o
sufficiente partecipazione, per superare la barriera del suo
risentimento.
Ci
aveva provato. Emir sollevò la zanzariera e uscì
dalla tenda e
lasciò che Rotwang rimanesse là dentro, a
fronteggiare da solo la
morte di quel Pokémon.
5
luglio, Guyana. Abbiamo trovato un nuovo Pokémon nel cuore
della
giungla.
Buonasera!
Ricopiare
questo capitolo è stato un parto, dato che quasi ogni scena
era
scritta in due o tre modi diversi su fogli diversi, e ho dovuto
selezionare una frase alla volta da ciascuno dei fogli. Penso di aver
capito come si sente un filologo, da questo punto di vista.
So
che le scelte che ho compiuto in questo capitolo sono state un
po’
estreme, forse inaspettate, ma spero proprio di non aver deluso le
aspettative di nessuno, e anzi mi auguro di aver suscitato un
po’
di curiosità.
Come
mio solito, desidero ringraziare infinitamente cristal_93,
KomadoriZ71 e Peppe_97_Rinaldi per le loro recensioni al prologo.
Un
bacio enorme e alla prossima!
Afaneia
1Il
nome del dottor Rotwang è ovviamente un tributo
all’omonimo
personaggio del mio film preferito, Metropolis
di Fritz Lang; anche l’aspetto fisico del dottore
è vagamente
ispirato a lui, semplicemente perché Rudolf Klein-Rogge era
un
attore meraviglioso, interprete di personaggi destinati a rimanere
nella storia del cinema, come Rotwang o il dottor Mabuse (e anche
perché ho strani gusti in fatto di uomini, ma questo
è secondario).
|
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Capitolo 3 *** Ipocrita (Parte Prima). ***
Ciao
a tutti!
Riguardo
a questo capitolo non ho molto da dire, se non che, come mi capita di
frequente, stava venendo fuori un capitolo decisamente troppo lungo
che ho deciso di dividere in due parti, seppure un po’
disomogenee,
per agevolare la lettura. Spero di riuscire a pubblicare presto il
prossimo aggiornamento per chiudere il cerchio!
Un
ringraziamento di cuore alla carissima cristal_93 per la sua
recensione al precedente capitolo.
Nel
frattempo non posso che farvi i miei migliori auguri per il nuovo
anno e augurarvi buona lettura.
Un
abbraccio enorme
Afaneia
Capitolo
II – Ipocrita (Parte Prima).
«L’hai
rubato tu quel Pokémon?»
Quando
Emir aprì gli occhi, sforzandosi di riprendere conoscenza
nella
nebbia vischiosa di sonno e bromazepam che lo avviluppava, suo padre
era seduto sul tavolino del salotto, a pochi passi dal divano
dov’egli dormiva, e lo fissava. Aveva in mano un giornale
arrotolato, ma Emir non fece neppure un minimo sforzo per cercare di
leggerne il titolo. Non ne aveva bisogno. Tutto stava andando
esattamente come aveva previsto da giorni, e il fatto che il furto
fosse stato scoperto, precisamente com’era nei suoi piani, lo
fece
sentire improvvisamente più calmo. Per quanto ciò
significasse che
era nei guai e che avrebbe perso il lavoro, egli adesso sapeva che
cosa stava succedendo a Isola Cannella. Quell’articolo di
giornale
costituiva per lui un canale di comunicazione che lo faceva sentire
padrone della situazione.
Emir
si sollevò faticosamente a sedere sul divano e si
strofinò più e
più volte gli occhi per riacquistare lucidità.
Era stato un pazzo a
venire lì e ad attirarsi addosso tutti i sospetti: che cosa
ci
sarebbe stato di più naturale e conseguente di pensare che
fosse
stato lui a sottrarre Mew e poi a scappare…? Forse se non
avesse
preso almeno cinquanta o sessanta gocce di bromazepam la sera
precedente, prima di andare a prendere Mew e portarla via, non
avrebbe agito in stato tanto confusionale; che gli era venuto in
mente poi? Forse che a trent’anni ormai compiuti gli era
parso,
come quand’era bambino, che correndo a rifugiarsi tra le
braccia
del padre tutti i dubbi che aveva sarebbero stati sciolti dalla sua
confortante autorevolezza?
Ma
questo era quel che era. Aveva bevuto tanto di quel bromazepam da
rischiare una crisi, a stomaco vuoto, poi d’un tratto, al
trovarsi
nella sua enorme casa vuota, silenziosa tanto che gli era parso di
poter udire il proprio cuore rimbombare a ogni momento, aveva
immaginato che allo svoltare di ogni angolo, all’imboccatura
di
ogni corridoio ci fosse qualcuno che lo aspettava; aveva creduto di
venir accusato e braccato da ogni parte e in ogni rumore che
provenisse dalla strada aveva riconosciuto il suono di una volante
della polizia che veniva a prenderlo. Allora l’ansia aveva
trionfato sulle benzodiazepine, e nella sua confusione egli non aveva
trovato che una soluzione: scappare nell’unico luogo al mondo
nel
quale nessuno sarebbe venuto a cercarlo - nemmeno lui stesso.
«Già.»
Suo
padre non doveva essersi aspettato che confessasse così
francamente,
subito, e ne rimase spiazzato. Senza accennare a muoversi dal
tavolino aprì la bocca, la richiuse, ci pensò un
poco e infine
riprese: «Perché?»
Questa
volta la sua voce non ebbe cedimenti. «Perché
dovevo portarla via
alla Silph.»
«Oh»
mormorò suo padre, che evidentemente non sapeva bene come
comportarsi alla scoperta che, per una volta nella sua vita, suo
figlio si comportava in un modo ch’egli avrebbe potuto
approvare.
Ma il suo stupore era destinato a esser solo momentaneo: quando
tornò
alla carica, pochi attimii dopo, le sue domande si fecero
più
pressanti: «Rubare un Pokémon non è
come rubare un quadro, Emir.
Dove l’hai nascosta? È sola, ha cibo e
acqua…?»
«Papà…
non preoccuparti.» Persino là dove si trovavano,
dalla parte
opposta della regione, Emir si sentiva ancora troppo sospettoso e
agitato per confessargli i dettagli, e a ogni modo era più
sicuro
per entrambi che suo padre sapesse il meno possibile di quella
storia; ma nel rivelargli quella sola informazione non gli sembrava
che ci fossero pericoli, ed Emir ne approfittò per
tranquillizzarlo.
«È in una Pokéball. Per il momento non
ha bisogno di nulla. No,
non qui» soggiunse, intercettando lo sguardo che suo padre
scoccò
verso la sua giacca ripiegata con cura su una vecchia poltrona
informe. «Non ti avrei mai portato un Pokémon
rubato in casa, devi
credermi: non intendo farti accusare di ricettazione, nel caso in
cui dovessero…»
«D’accordo,
ho capito.» Suo padre continuò a riflettere in
silenzio per qualche
minuto, ruminando tra sé tutte quelle informazioni, cogli
occhi
ancora infissi su di lui, come se volesse incollare
ciò
che stava scoprendo sopra
l’immagine mentale che si era fatto del proprio figlio. Emir
lo
lasciò fare. Aveva sempre odiato la rigida
mentalità severa e
intransigente di suo padre, così come aveva sempre odiato la
sua
casa, che gli sembrava aver assunto l’odore delle case dei
vecchi
dal momento preciso in cui se n’era andata sua madre, e
Lavandonia
che di quell’odore era sempre stata impregnata da
ch’egli potesse
ricordare; ma stavolta sapeva di non poter dire niente. Era tornato a
casa da solo, spontaneamente, e nella casa del padre, egli lo sapeva,
era giusto che valessero le sue regole, e che il suo fosse
l’unico
metro di giudizio ad avere corso.
Finalmente,
dopo aver ragionato per un po’ per conto proprio, suo padre
riprese. «Ti aspettavi che lo scoprissero così
presto? Per essere
sul giornale di oggi, devono averlo scoperto stanotte.»
Questo
pensiero non lo sgomentava minimamente. «Sì, me lo
aspettavo. Ogni
quattro ore il custode notturno ha il compito di controllare che
tutti i Pokémon del laboratorio abbiano cibo e acqua e tutto
ciò
che occorre, ci sono precise normative internazionali da rispettare
per il benessere e la sicurezza delle…»
«Delle
cavie» lo interruppe suo padre, ed Emir si trovò
nell’imbarazzante
situazione di non poterlo contraddire. Ma la filippica che si era
atteso sull’ossequioso rispetto di norme create appositamente
per
poter violare in piena legalità i diritti naturali dei
Pokémon gli
fu risparmiata, per la prima volta nella sua vita: quel giorno suo
padre stava pensando a tutt’altro.
«Pensi
che sia probabile che ti scopriranno?»
Emir
si strinse nelle spalle. Non ne aveva idea. «Non lo so,
papà. Sono
quasi certo che non ci siano prove contro di me, ci ho riflettuto e
non penso di averne lasciate. Nel laboratorio non ci sono telecamere.
Se tu confermerai che io ero qui…»
«Proprio questo mi
preoccupa» lo
interruppe suo padre. Lo colpì la sicurezza e
l’immediatezza della
sua voce: sembrava aver ragionato molto a lungo su
quell’obiezione,
forse persino da quando aveva aperto il giornale. «Il fatto
che tu
fossi qui, proprio stanotte o ieri sera, durante il furto…
se ti
avesse visto qualcuno non sarebbe un problema, ma nessun altro oltre
a me potrà confermare che ti trovavi qui stanotte, e io sono
tuo
padre. Non sono tenuto a denunciarti, ma nessuno è tenuto a
credere
alla mia parola. Sembra un alibi costruito ad arte. Non
trovi?»
«So
che sospetteranno di me» ribatté Emir con calma,
che non riteneva
prudente dirgli quali altre misure avesse preso per tutelarsi.
«Ma
sulla base di soli indizi non si può condannare un uomo, e
io ti
giuro che più di indizi non troveranno mai. Mew è
nascosta in un
luogo in cui nessuno potrà mai trovarla, e la sola cosa che
conta è
che sia al sicuro.»
«Benissimo»
consentì suo padre. Ogni obiezione che avesse formulata
riguardo al
suo piano, a questo punto della conversazione, doveva esser stata
vinta. «Ma in tal caso dovrai tornare. La notizia
è su tutti i
giornali, non puoi fingere di non saperne niente, e se rimarrai
nascosto qui sarà come ammettere ad alta voce la tua
colpevolezza.»
«I
miei colleghi mi staranno cercando» ammise Emir, sentendosi
improvvisamente di essere del tutto sveglio. Suo padre aveva ragione:
aveva perso tempo fino a quel momento, ma ora bisognava tornare al
lavoro. «Devo assolutamente chiamare il laboratorio per dir
loro che
ho saputo e che sto arrivando, prima che pensino che sono scappato e
mi sto nascondendo. Posso usare il tuo telefono?»
Comporre
il numero del laboratorio gli richiese un notevole atto di coraggio.
Alle domande di suo padre egli aveva risposto forse un po'
più calmo
e distaccato di quanto non si sentisse effettivamente: per quanto
riguardava gli indizi egli non aveva mentito, in quanto si sentiva
ragionevolmente certo che non potessero sorgere nulla più
che
sospetti nei suoi confronti; ma questo era quanto. Esser venuto
lì
era stata una follia. Sarebbe riuscito a comportarsi in modo tanto
naturale, e soprattutto sarebbe riuscito a non tradirsi?
Dopo
un numero spropositato di squilli, una voce maschile e nervosa che
non era assolutamente
quella della sua segretaria rispose: «Pronto?»
«Valérien,
sono io.»
«Dio,
Emir!» La voce di Valérien tremava talmente che
Emir temette che
stesse per piangere di sollievo. «Ragazzi, è Emir!
È al telefono,
è tutto a posto, ha chiamato, ha chiamato… Emir,
dove sei? Che
fine avevi fatto?»
Persino
i suoi colleghi avevano pensato che fosse stato lui. Una parte di lui
era consapevole che non c’era poi nulla di sorprendente (e
che
sentirsi ferito per questo era piuttosto ipocrita, dato
ch’egli era
realmente
colpevole): nel corso della medesima notte Mew era stata rapita e il
direttore del laboratorio era svanito nel nulla. Eppure gli avrebbe
fatto piacere che i suoi colleghi si fossero fidati di lui a tal
punto da non dubitare della sua innocenza. Persino Valérien,
che di
lui si fidava come di un maestro di vita, aveva avuto paura che fosse
fuggito per sempre, ed era per questo che la sua voce gli era parsa
tanto sollevata. «Ti abbiamo cercato dappertutto, abbiamo
chiamato a
casa tua, ma tu non rispondevi…»
«Va
tutto bene, Valérien, sto arrivando. Stavo ancora dormendo,
ma ti ho
chiamato non appena mio padre mi ha portato il giornale. Ero venuto a
passare il week-end a Lavandonia…»
Sulla
conversazione calò un silenzio mortale.
Dopo
un istante di silenzio glaciale Valérien riprese la parola
in tono
simulatamente tranquillo, ma con voce tanto tesa che chiunque, anche
non conoscendolo, avrebbe intuito che stava fingendo.
«Ah…! Da tuo
padre, quindi…?»
Se
Valérien preferiva ripetere stupidamente le sue parole
piuttosto che
manifestargli apertamente la sua perplessità, doveva essere
perché
non era solo e non voleva rischiare di metterlo nei guai con
qualcuno. Emir avrebbe voluto accertarsene, ma non poteva
chiederglielo direttamente; allora, sforzandosi di suonare il
più
professionale e sbrigativo possibile, proseguì:
«Avete chiamato la
polizia? Hanno già fatto i primi accertamenti?»
«Sì,
sono ancora qui, credo… credo che vogliano parlare con te.
Si
chiedevano tutti che fine avessi fatto.»
Si
chiedevano tutti se fossi scappato col Pokémon
più raro del mondo.
Emir
tossì discretamente. «Lo
so, mi dispiace così tanto, Valérien. Vorrei
essere lì, ho letto
il giornale, ma ti giuro che non sto capendo niente…
è tutto così
confuso… Comunque sto arrivando, ripartirò il
prima possibile.
Devo solo controllare l’orario dei traghetti. Ah,
ecco…» Senza
pronunciare una parola, suo padre gli aveva rivolto un cenno
silenzioso per richiamare la sua attenzione. Aveva in mano un
opuscolo: Emir gli gettò uno sbrigativo gesto di
ringraziamento
mentre si affrettava a sfogliarlo per cercare di decifrare gli orari.
Chissà come mai suo padre teneva in casa un orario dei
traghetti per
Isola Cannella, poi. «Il primo traghetto è tra tre
quarti d’ora,
Valérien. Sarò da voi prima di mezzogiorno. Puoi
spiegarlo tu a
tutti?»
«Ci
sarai, vero, Emir?»
Sentendosi
profondamente stizzito, Emir rispose: «Per quale motivo non
dovrei,
Valérien?»
Dopo
un attimo d’esitazione, Valérien
mormorò: «Scusami, Emir. È
solo che tutta questa storia…»
«Lo
so. Sono confuso quanto te, devi credermi. » Per un solo
attimo Emir
si sorprese di quanto profondamente sincera suonasse la sua voce.
Forse persino l’ipocrisia del suo atteggiamento giocava a suo
favore: parlando con Valérien, in quel momento, egli si
sentiva come
se realmente
il
suo amico lo avesse accusato ingiustamente ed egli fosse stato
all’oscuro di tutto fino a un quarto d’ora prima.
«Risolveremo
tutto non appena sarò lì e parlerò con
la polizia. Non può essere
lontana, me lo sento.»
«Certo»
disse Valérien col tono di qualcuno che avrebbe tanto
desiderato
esser più convinto. «Allora ci vediamo tra poco,
Emir. Solo…»
«Sì?»
«Non
è nulla, ma penso che Rotwang sia veramente arrabbiato con
te. Ha
dato di matto, lo sai com’è
fatto…»
Dio,
Rotwang. Qualcosa
all’altezza
del suo stomaco si strinse spasmodicamente d’angoscia a
queste
parole. Come aveva fatto a non pensare a lui neppure una volta da
quando aveva aperto gli occhi? Era ovvio che fosse arrabbiato,
furioso con lui, e per una volta, anche se Valérien non
poteva
saperlo, ne aveva tutte le ragioni. Chissà se lo aveva
accusato
davanti a tutti…
«Con
Rotwang me la vedrò io appena arrivo, tu non preoccuparti di
niente.
Perché non dovrebbe scaricare la colpa su di me? Dopotutto
è quello
che fa sempre.»
Ma prima che Valérien facesse in tempo a riprendere la
conversazione, Emir si affrettò a tagliar corto:
«Bisogna che vada,
Valérien, o perderò il traghetto. Occupatevi di
tutto finché non
arrivo e date retta a Portia.» Se c’era qualcuno in
grado di
mantenere la calma in quella situazione, quella era lei: quella donna
era l’unica in grado di fare al meglio gli interessi della
Silph
SpA. In qualsiasi situazione, esattamente come in quella, tutti si
sarebbero aspettati ch’egli lasciasse a lei le redini del
laboratorio. «Ci vediamo tra poco.» Troncando di
netto ogni
possibile tentativo di continuare la conversazione da parte di
Valérien, Emir riappese bruscamente la cornetta.
Quella
conversazione lo aveva spossato più di quanto avrebbe
creduto in un
primo momento. Mentire non era difficile, almeno non quanto aveva
temuto all’inizio, ma era sfiancante mantenere in
continuazione la
concentrazione necessaria a non contraddirsi mai.
Aveva
mentito per meno di cinque minuti, ma si sentiva così stanco
che
poggiò la fronte contro il muro fresco, socchiudendo gli
occhi, e
inspirò profondamente. Il pensiero di Mew lo riconfortava
oltre ogni
immaginazione, lo splendore azzurro dei suoi occhi valeva bene la
pena di rischiare il carcere; ma quella, pensò con uno spaso
di
rammarico, sarebbe stata egualmente una lunga giornata.
Emir
fece una doccia mentre suo padre gli preparava la colazione, come
tanti anni prima, quando era piccolo.
Per
la prima volta da quando aveva litigato con suo padre, Emir si
spogliò in quel bagno dove tante volte l’aveva
fatto da bambino,
quando ancora del mondo non conosceva che Lavandonia e della vita
nient’altro che la morale di suo padre, ed entrò
nella doccia dai
vetri smerigliati ormai grattati via dal tempo.
Si
stupì di ricordare ancora tutto. L’odore
penetrante e umido
dell’acqua rugginosa, delle vecchie tubature calcarose, gli
riempì
le narici con la stessa sensazione familiare, per nulla sorprendente,
che avrebbe provato se l’avesse sentito per
l’ultima volta non
prima del giorno precedente; mentre egli ristava immobile sotto il
flusso d’acqua bollente che gli bagnava i capelli e gli
faceva
bruciare gli occhi, il suo sguardo seguì da solo un suo
percorso
misterioso lungo un fiore stilizzato tra le piastrelle… ma
tutti
gli anni ch’egli aveva trascorso lontano da casa, allora non
avevano cancellato proprio niente? Era per questo che era tornato,
alla fine?
Prima
di lasciarlo da solo in bagno, suo padre gli aveva dato dei vecchi
abiti scelti tra quelli ch’egli non aveva voluto portare con
sé
quando’era partito per Isola Cannella, tanti anni prima.
Erano dei
jeans e un maglione che gli erano piaciuti molto all’epoca
dell’università, ma che a un tratto gli erano
parsi infantili e
inadeguati e miseri quando la Silph gli aveva offerto la gestione di
un laboratorio e un assegno particolarmente corposo per comprare ogni
eventuale scrupolo della sua coscienza; ma quando li
indossò, Emir
non provò quel sentimento di distacco e di rifiuto verso la
Silph
SpA che sarebbe stato logico aspettarsi. Erano abiti vecchi, fuori
moda, e puzzavano di chiuso e di naftalina. Era stato affettuoso da
parte di suo padre conservarli puliti e stirati per tutto quel tempo;
ma questa era tutta la poesia che Emir riusciva a trovarvi. Non
c’era
altro da dire.
Quando
tornò in cucina, suo padre gli aveva messo insieme una
seconda
colazione un po’ più consistente della prima.
Chissà da dove
aveva fatto apparire un barattolo di confettura scura, fatta in casa,
che aveva tutta l’aria di che aveva tutta l’aria di
essere un
regalo di qualcuno dei volontari del centro. Era confortante sapere
che c'era ancora qualcuno a preoccuparsi che suo padre mangiasse,
malgrado fosse solo – anche se il fatto che il barattolo
fosse
ancora sigillato avrebbe dovuto fargli sospettare quanto sprecato
fosse ogni tentativo di convincere quell’uomo a occuparsi di
se
stesso.
Se
fosse riuscito a mangiarne almeno un po’ e avesse avuto meno
pregiudizi, egli avrebbe scoperto che quella marmellata fatta in casa
aveva un gusto autentico e genuino e che era più saporita e
meno
chimica di qualunque prodotto egli avrebbe mai potuto trovare in
vendita a Isola Cannella. Ma il barattolo era di vetro opaco e
iscurito dal tempo, uno di quei contenitori riciclati e riutilizzati
dalle vecchie per svariate decine di usi, e la marmellata aveva
quella consistenza grumosa e disomogenea delle buone vecchie cose
salutari di una volta: l’unica immagine ch’egli
riuscì a
visualizzare nella sua mente, quando la portò alla bocca, fu
quella
di mani anziane e incartapecorite che facevano bollire la frutta in
mezzo all’odore raccapricciante delle cucine a gas e della
plastica
bruciata. Quell’odore dal quale egli aveva passato tutta la
vita a
scappare gli riempì le narici con tale intensità
che gli risalì la
gola un conato di vomito. Si affrettò a posare tutto sul
piatto e lo
spinse via in gran fretta per non rischiare seriamente di rigettare,
mentre suo padre, dall’altro lato del tavolo, lo fissava con
stupore.
«Non
ti piace?»
«Sono
troppo angosciato per mangiare» mentì Emir, e suo
padre non indagò
più di così. Dopotutto, non aveva
l’aria di una bugia.
Suo
padre si limitò a sparecchiare in silenzio. Solo in quel
momento,
dopo esser stato troppo impegnato per accorgersene prima, Emir si
ritrovò a prestare attenzione all’orrida tovaglia
di plastica
antiquata, disseminata di buchi e abrasioni là dove il fondo
troppo
caldo di qualche pentola l’aveva bruciata, e
scoprì che i conati
di vomito erano ancora in agguato in fondo alla sua gola. Bisognava
riempire quel silenzio di parole, a qualsiasi costo, ed Emir disse la
prima cosa che gli venne in mente. «Accompagnami al molo.
Devo
ancora fare il biglietto.»
Solo
quando suo padre si voltò verso di lui, con una domanda
inespressa
che esitava da qualche parte dietro la sua fronte aggrottata, Emir
realizzò quanto strana e forzata suonasse questa richiesta
da parte
sua; ma era troppo tardi per ritirarla, e si affrettò a
specificare:
«Per il mio alibi, voglio dire. Perché ci vedano
insieme.»
«Certo,
Emir» mormorò suo padre con una lieve esitazione
che non riuscì a
non tradire un’espressione piacevolmente sorpresa. Era sempre
suo
padre, dopotutto, anche dopo averlo rinnegato. «Lasciami solo
prendere il cappotto.»
Il
cappotto, il cappotto. Là fuori, all’esterno,
l’aria dicembrina
era molto più gelida e umida di quanto gli fosse parsa
quella notte
e la nebbia odorava di fumo e di sterpaglie. Anche con la
maturità
che negli anni del suo esilio doveva aver acquisito, Lavandonia gli
ripugnava esattamente come quando se n’era andato.
Il
traghetto stava già imbarcando i passeggeri. Suo padre lo
aspettò
fuori mentre comprava il biglietto, probabilmente fissando con
disapprovazione la lunga fila di persone ordinatamente incolonnate
–
e perciò, nella sua personale visione del mondo, alienate
– che si
trascinavano innanzi verso la vasta gola nera del traghetto, ed Emir
si sbrigò a concludere l’acquisto e a tornare a
raggiungerlo
fuori. La ragazza al banco non aveva dato il benché minimo
segno di
sapere chi fosse o di collegarlo ai titoli che campeggiavano su tutti
i giornali della sala di attesa, ma trovarsi lì da solo lo
faceva
sentire comunque esposto e agitato. Si affrettò a uscire non
appena
il biglietto fu stampato.
Lui
e suo padre non erano particolarmente tagliati per gli addii, e anzi,
a dire il vero, la volta precedente non ce n’erano stati,
dato che
la sera precedente la sua partenza avevano litigato ed Emir era
partito da solo, senza dir nulla, col primo traghetto del mattino. Ma
per averlo riaccolto in casa sua quella notte, mentre scappava come
un animale braccato, egli sapeva di dover bene a suo padre almeno la cortesia di un vero addio.
Cercò
qualcosa da dire per iniziare: «Se ti dovessero chiedere
qualcosa,
ti ricordi, vero…»
«Che
sei arrivato ieri sera per cena, lo so, lo so. Che volevi parlare
della mia ultima protesta verso la Silph…»
Suonava
credibile, ma Emir insisté ancora: «Non dire
niente che tu non
sappia. Se ti fanno domande per trarti in inganno e farti confondere,
tu rispondi che io e te di certe cose non parliamo per non
litigare…»
«Emir»
lo interruppe suo padre sollevando gentilmente le mani. «Ho
capito.
Non preoccuparti. Non è neppure detto che
m’interrogheranno.»
Se
suo padre l’aveva interrotto, doveva essergli parso troppo
agitato,
e questo non andava per niente bene: Emir inspirò
profondamente per
calmarsi e annuì. Guardò verso il traghetto.
C’era ancora tempo,
ma restar lì lo imbarazzava troppo e preferiva salire
subito.
«Allora, ehm… vado, papà.
Io…»
C’era
qualcos’altro che avrebbe voluto dire o chiedergli, qualcosa
che
aleggiava in fondo alla sua gola, ma non trovava spazio per uscire, e
nell’istante di troppo ch’egli aspettò,
suo padre tornò a
prendere la parola.
«L’hai
rubata per soldi, Emir?»
Si
sentì stupefatto e attonito. Suo padre lo scrutava
determinato ma
tranquillo: non aveva alcuna intenzione di accusarlo. Voleva soltanto
saperlo, e quella era l’unica occasione ch’egli
aveva per parlare
a suo padre di tutto quello che era accaduto in quegli anni. Ma da
quando poi gli importava di giustificarsi davanti a lui?
«Non
l’ho portata via per questo, papà»
balbettò. Possibile che gli
sembrasse d’un tratto d’aver tante cose da dire,
così tante che
non gliene bastava il tempo ed esse si accavallavano le une con le
altre per uscire, quando per tutta la mattina non aveva aspettato
altro che d’andarsene da lì? «Non ho mai
fatto nulla per i soldi,
non ho mai fatto nulla d’illegale, io… io lo
sapevo quello che
facevano, ma non l’ho mai fatto io con le mie
mani… anche quando
hanno regalato Porygon a quelli di Azzurropoli io non ci ho
guadagnato niente, te lo giuro, io dovevo solo lavorare in
laboratorio e non fare domande…»
Quel
che stava dicendo non aveva alcun senso, ed egli se ne sarebbe
accorto se fosse stato solo un po’ più lucido: ma
era la prima
volta checonfessava ad alta voce di sapere
che
tutto quel che aveva fatto
era sbagliato. Rotwang l’aveva accusato per anni e suo padre
aveva
protestato sui giornali e in televisione contro le inumani politiche
della Silph, ed egli aveva negato ogni singola volta solo
perché
sapeva che la legge lo tutelava; ma per quanto ciò fosse
insensato
gli sembrava di vitale importanza che suo padre sapesse
ch’egli era
a conoscenza di tutto ciò che la Silph faceva coi frutti del
suo
lavoro, ma che lui, personalmente, non aveva mai fatto nulla di
crudele sui Pokémon; e per quanto si accorgesse benissimo
che questa
non si chiamava onestà, ma solo omertà, gli
pareva che la linea
sottile tra essere uno sfruttatore ed essere un ipocrita facesse
tutta la differenza del mondo.
«Emir.
Emir!» lo interruppe suo padre con fermezza, sollevando
imperiosamente una mano, e solo in quel momento egli si rese conto
d’aver parlato troppo e a voce troppo alta e che qualcuno li
stava
fissando. «Ti credo, ti credo, va bene. Era solo una domanda,
ma tu
non ti agitare.»
Si
sentì molto stupido per aver parlato così ed
essersi scoperto tanto
proprio di fronte a suo padre, e si sentì in urto verso se
stesso.
Forse aveva davvero i nervi così fragili come gli aveva
sempre detto
Rotwang, e ora si vergognava tremendamente. «Certo, certo,
giusto…
solo una domanda.»
Cominciava
a far tardi, ormai quasi tutti i passeggeri erano stati imbarcati;
solo gli ultimi passeggeri a piedi stavano ancora salendo. Bisognava
salire, sbrigarsi, tornare a fuggire da Lavandonia, e convincere se
stessi che quel breve attimo di debolezza non si fosse verificato
mai…
«Allora,
salgo a bordo» mormorò un po’
impacciato, desiderando con tutto
il cuore di non aver detto ciò che aveva detto; ma si tenne
cautamente distante da lui, per non trovarsi invischiato in un
abbraccio che non provava alcun desiderio di dare, e suo padre gli
parve a disagio quanto lui.
«Già,
è tardi. Allora… buona fortuna, eh?»
«Grazie»
rispose Emir, e sentendosi profondamente stupido e fuori luogo si
voltò e percorse la passerella senza voltarsi indietro.
Si
sentì al sicuro solo quando fu al chiuso, in un salone
coperto caldo
e affollato, seduto presso una finestra convenientemente protetta da
una pesante tenda polverosa. Con ogni probabilità,
conoscendolo, suo
padre doveva esser rimasto sulla banchina ad attendere la partenza, e
guardando fuori egli l’avrebbe visto e avrebbe potuto
salutarlo,
visto che sul molo non gli era riuscito; ma Emir tirò la
tenda
finché non fu più in grado di vedere neppure un
brandello di cielo
e impose a se stesso d’ignorare la consapevolezza che suo
padre era
ancora là fuori. Una volta che il traghetto si fosse
allontanato dal
molo, Emir avrebbe potuto tornare a convincersi che suo padre per lui
non esistesse e la sua opinione non avesse per lui alcun significato,
e forse avrebbe smesso di sentirsi mortificato e stupido per
l’eccesso di sincerità cui si era abbandonato.
Quella notte a
Lavandonia sarebbe stata solo una falla angosciosa in un piano che
aveva richiesto più lucidità e
stabilità di quanta egli avesse, e
tutto sarebbe finito lì.
Chiudendo
gli occhi contro la tenda, mentre tutto attorno a lui la sala
esplodeva di frastuono e caos e tutti i passeggeri discutevano
l’uno
con l’altro del furto del Pokémon più
raro del mondo, Emir cercò
di concentrarsi sulla lunga giornata che lo attendeva e di non
pensare al fatto che suo padre, dopo sei anni che non si rivolgevano
la parola, teneva ancora in casa gli orari dei traghetti per
l’Isola
Cannella.
|
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Capitolo 4 *** Ipocrita (Parte Seconda). ***
Buonasera a
tutti!
Ecco finalmente
questo capitolo, che mi ha messa un
po’ in difficoltà perché, come si noterà, faccio abbastanza schifo a
gestire le
scene con più di un personaggio (e in questo senso mi farebbe molto
piacere
ricevere qualche suggerimento, se ne aveste, perché è da così tanto
tempo che
gestisco solo due o tre personaggi per volta che ho dimenticato come si
gestisce un gruppo. Un tempo non mi facevo tutti questi problemi).
Inoltre bisognava
che mettessi molta carne al fuoco tutta insieme, come si vedrà.
Dopo un
ringraziamento di cuore a cristal_93 e
Persej Combe per le loro recensioni, vi lascio al capitolo.
Buona lettura!
Afaneia
Capitolo
III – Ipocrita (Parte Seconda).
Quando arrivò
al Laboratorio, divenuto quasi
inaccessibile per i cordoni della polizia e la massa di curiosi e
giornalisti e
telecamere che si stipavano sulla strada, il commissario lo ricevette
in una
stanza di servizio che aveva evidentemente eletto a suo quartier
generale, per
il momento. Non gli era stato permesso di vedere i suoi colleghi: non
appena
aveva varcato la soglia, un poliziotto lo aveva fermamente informato
che il
commissario lo attendeva da un pezzo e che i suoi colleghi avrebbero
potuto
pazientare qualche minuto in più. Emir aveva capito l’antifona e non
aveva
mosso obiezioni, ma prima che il poliziotto li lasciasse soli gli
chiese di
informare i suoi colleghi che era arrivato e che li avrebbe raggiunti a
momenti.
Il commissario
di polizia aveva tutta l’aria di
qualcuno che si fosse ritrovato, dalla sera alla mattina, coinvolto nel
caso
più importante della sua carriera e non avesse alcuna voglia di
ritrovarvisi.
«Dottore,
finalmente. Lei sa che l’aspettavamo da
ore?»
«Sono venuto
appena ho saputo» rispose Emir
piuttosto freddamente, fermandosi sulla soglia. «Non so se il dottor
Lestournelle l’ha informata, ma ero andato a passare il finesettimana a
Lavandonia, a casa di mio padre. Per questo motivo non mi avete trovato
a casa
mia. Sono mortificato, ma non potevo sapere.»
«Uhm» borbottò
il commissario, palesemente deciso a
non cedere terreno su questo punto; ma poiché la sua versione era stata
incontrovertibile fino a quel momento, fu costretto a cambiare
strategia. «Si
sieda, prego. Facciamo due chiacchiere. Suo padre è quel famoso signor
Fuji
che…»
«È lui» tagliò
corto Emir mentre si accomodava di
fronte al tavolino da caffè che era stato eletto a scrivania
d’emergenza. Non
era una situazione molto comoda: quella stanza fungeva essenzialmente
da
ripostiglio e da cucinotto per le piccole necessità ed era
particolarmente
angusta, ma, a giudicare dal forte odore di caffè che vi aleggiava,
forse era
proprio per questo motivo che il commissario l’aveva scelta.
Approfittando del
breve attimo di silenzio che il commissario si era preso per annotare
qualcosa
sul suo taccuino, Emir si schiarì la voce e iniziò: «Posso chiederle di
spiegarmi che cosa è successo? Ho letto l’articolo sul giornale venendo
qui,
ma…»
«Credevo che
avesse parlato al telefono col suo
collega» ribatté l’altro aggrottando la fronte. Emir scosse appena il
capo,
come a non saper che dire, e quegli si rassegnò a spiegarglielo. «È
successo
che il vostro custode notturno non è riuscito a trovare Mew quando è
andato a
portarle l’acqua. Afferma di averla cercata per circa un’ora pensando
che si
fosse nascosta da qualche parte, ma quando ha capito che era inutile
cercarla
ha cercato di chiamare prima lei e poi i suoi colleghi. È stata trovata
una
finestra aperta nel vostro magazzino, e questo spiega per quale motivo
gli
allarmi non abbiano suonato. A questo punto, dottore, immagino che
voglia…»
«C’è anche un
altro motivo per cui gli allarmi non
hanno suonato» borbottò Emir nervosamente.
Il commissario
levò gli occhi su di lui. «Prego?»
«Ecco… potrei
aver rimandato di qualche mese la
revisione dei sistemi di sicurezza.» Il commissario aprì la bocca per
parlare e
subito Emir si affrettò a proseguire: «Erano in programma, ho solo
dovuto
posticiparli per una questione di budget. Non lo sa nessun’altro, di
queste
cose mi occupo io personalmente, e capirà che non ci tenevo a dirlo a
nessuno.
Se controllerà i registri, vedrà che la revisione è in programma
all’inizio di
gennaio. Se non avessi fatto così non saremmo rientrati coi costi di
gestione,
perciò sono stato costretto a scegliere.»
«Beh, questo
spiega molte cose» commentò il
commissario alquanto contrariato. Tornò ad annotare qualcosa sul suo
taccuino.
«Naturalmente questo non dimostra che non funzionassero, se lei ha
posticipato
solo di qualche mese, ma… controlleremo. Ha fatto molto bene a dirmelo
subito.»
Emir accennò un sorriso imbarazzato. «Tornando a noi, dottore… il suo
ritardo.
Vuole confermarmi che non si è presentato subito perché si trovava a
Lavandonia?»
«Ero da mio
padre, esatto» ripeté Emir con
convinzione. «Ho i biglietti del traghetto. Vuole vederli?»
Il commissario
diede in una sorta di grugnito, come
a dire che i biglietti potevano aspettare. «Se intendeva passar là
tutto il
finesettimana, perché non ha avvisato nessun collega?»
«Non abbiamo
mai avuto nessuna emergenza durante i
week-end… forse a lei sembrerà imprudente, ma non avevo mai pensato che
potesse
rivelarsi necessario» rispose Emir semplicemente. La naturalezza della
sua voce
lo stupiva. Era sempre stato così bravo a mentire? «Inoltre, le dirò…
non
volevo che si sapesse troppo. Se lei conosce l’attività volontaria di
mio
padre, capirà che a nessuno dei due conviene frequentarci troppo…»
Suo padre aveva
continuato a protestare sui
giornali contro la Silph SpA anche dopo che lui era stato assunto, e
talora con
più veemenza ancora, forse per provargli che osava spingersi ancora più
oltre e
che non temeva alcuna conseguenza per le sue proteste. L’ultima era
relativa
proprio a Mew: in un momento di grande afflato moralistico, suo padre
si era
prodotto in una vibrante lettera di protesta contro la scelta di
sradicare dal
suo ambiente un Pokémon che fino ad allora aveva vissuto nascosto,
presumibilmente con buone ragioni, per rinchiuderlo in un laboratorio e
studiarlo a esclusivo vantaggio e profitto della Silph SpA.
Il commissario
non ebbe bisogno di ulteriori indizi
per capire a cosa si riferisse: delle rimostranze di suo padre,
giornalisti e
opinionisti avevano discusso per giorni, forti dell’interesse che
suscitavano
le palesi provocazioni del fondatore della più importante associazione
volontaria di Kanto contro il laboratorio gestito dal suo proprio
figlio, sia
pur destinate a rimanere inaccolte. Tossì discretamente volgendo lo
sguardo
altrove, come se la cosa lo mettesse a disagio.
«Una questione
di reputazione, posso immaginarlo.
Quindi non aveva parlato di questo viaggio a nessuno che potesse avere
interesse a…»
«Gli unici a
saperlo avremmo dovuto essere io e mio
padre» tagliò corto Emir.
Il commissario
tornò a frugare nei suoi appunti con
occhi spenti, ma Emir non dubitò neppure per un momento che avesse già
in mente
tutte le domande da fargli, e che fosse perfettamente attento.
«Come sono i
rapporti all’interno del laboratorio?»
«Mi fido dei
miei colleghi come di me stesso, se è
questo che mi sta chiedendo.»
«Davvero?» Lo
sguardo del commissario si fece per
un attimo più penetrante e attento e la penna che aveva in mano scattò
nervosamente sul foglio. «Perché dalle parole dei suoi colleghi mi era
parso
d’intuire una certa acredine con qualcuno di loro. Col dottor Ro… Rot…
il
dottore tedesco, per esempio.»
«Rotwang»
suggerì delicatamente Emir, e per
prendere ancora un po’ di tempo soggiunse: «Il tedesco è una lingua
dura, ma
dopo un po’ ci si fa l’abitudine.»
Ma mentre la
sua bocca pronunciava quelle parole,
la sua mente lavorava invece freneticamente per trovare una risposta
che
soddisfacesse quell’insinuazione e insieme non lo scoprisse troppo:
sarebbe
valso a qualcosa minimizzare? E a che pro, poi? Se tutto era andato
come aveva
previsto, Rotwang doveva averlo accusato di fronte a tutti: non era per
questo
che Valérien aveva detto che era molto arrabbiato con lui? Ma
confessare
apertamente una cosa tanto personale non gli pareva nel suo carattere,
e
rispose: «È un professionista di grande valore e un medico eccezionale.»
«E umanamente
parlando, invece?»
Quella domanda
poteva essere un buon modo per far
mostra d’essere indotto a confessare. Emir si sforzò di mostrarsi
combattuto.
«Io e il dottor Rotwang abbiamo idee molto diverse sulla gestione del
laboratorio, soprattutto per quanto riguarda le questioni economiche,
ma c’è da
dire che il dottore non ha un carattere piuttosto… non facile, ecco.
Siamo
molto diversi e ci capita spesso di scontrarci, ma sempre in modo molto
costruttivo.» Non gli veniva in mente un modo in cui paragonarlo a
Hitler potesse
riuscire costruttivo, ma non c’era bisogno che il commissario venisse a
sapere
proprio tutto.
«Uhm.» Il
commissario tamburellò un poco con le
dita sulla scrivania. «Dunque lei non pensa che il dottore tedesco
possa avere
avuto qualche motivo per rubare Mew?»
Mettendo da
parte qualsiasi residuo di prudenza gli
fosse rimasto, Emir stabilì dentro di sé che, a questo punto, qualsiasi
cittadino innocente al suo posto sarebbe stato autorizzato a sentirsi
offeso; e
quand’anche poi non lo fosse stato, beh… sarebbe stato un vero peccato.
«Sta insinuando
che sia stato qualcuno dei miei
colleghi?» domandò freddamente. «Le ho già detto che mi fido di loro
come di me
stesso. Io e Rotwang possiamo dissentire su svariati argomenti, ma so
quanto
tenga a Mew e posso garantire che nessuno al mondo potrebbe amare quel
Pokémon
più di lui. Posso permettermi di suggerirle di cercare qualcun altro su
cui
indagare?»
«Sto facendo
soltanto il mio lavoro» rispose il
commissario, col tono di chi avesse avuto esattamente ciò che voleva;
ma
neppure per un momento Emir si sentì a disagio per avergli risposto
tanto
acremente. Egli doveva impersonare la versione innocente di sé stesso,
e quella
versione, egli lo sapeva, era tremendamente orgogliosa.
E quand’anche
poi avessero dovuto indagare all’interno del laboratorio, che cosa
avrebbero
potuto scoprire? Mew non l’avevano rubata i suoi colleghi, ed egli
l’aveva
nascosta in un posto in cui nessuno, mai, sarebbe riuscito a trovarla.
«Comunque sia… molto bene. Indagheremo. Se lei non ha altro da dire,
credo che
abbiamo finito.»
La tortura era
durata meno di quel che aveva
temuto, egli era stato più tranquillo di quanto le sue capacità gli
avessero
fatto immaginare: col cuore colmo di gratitudine, Emir si alzò. Ma
proprio
quando stava per porgergli la mano e salutarlo, qualcosa dentro di lui
lo
trattenne: non andava ancora bene. Ma che cos’era che mancava?
La mano che
stava per porgergli sostò ancora sul
bracciale della sedia; Emir cercò dentro di sé, frugò in quella parte
della sua
coscienza che ancora avrebbe voluto credersi innocente, ed ecco –
dov’era
l’angoscia che avrebbe dovuto provare?
Emir rimase a
osservare dall’interno della propria
mente il se stesso che cercava d’ingannare il mondo intero dire ad alta
voce:
«Pensa che avrete molte probabilità di trovarla?»
Il commissario
levò gli occhi su di lui in un
impeto di stupore: era evidente che aveva considerato la loro
conversazione già
chiusa. Ci pensò un momento.
«Abbiamo i
nostri canali» rispose diplomaticamente.
«Il pericolo da scongiurare è che venga in qualche modo mandata o
portata a
qualche acquirente estero. Ma mi sento di escludere che le venga fatto
del
male: prima di tutto quel Pokémon ha valore solo da vivo, e inoltre,
almeno a
quanto ho letto sui giornali, è il Pokémon più forte del mondo…»
«Nessun Pokémon
è immortale» disse Emir seccamente,
con una fitta di dolore che gli pareva volergli dilacerare il petto.
Egli
sapeva che quell’uomo non l’aveva visto, ma non riusciva a immaginare
che
qualcuno al mondo potesse continuare a vivere e a fare finta di nulla
quando
nel cuore della giungla, appena cinque mesi prima, Mew – l’altro Mew! –
era
morto su un tavolo da campo… «Neppure quello più forte del mondo, per
quanto ci
piacerebbe crederlo.»
Il commissario
assentì gravemente. «Grazie di
avermelo detto, dottore. Ne terrò debito conto.»
Finalmente
quella conversazione era finita, egli
aveva recitato la sua parte fino in fondo. Sentendosi profondamente
sollevato,
Emir gli strinse la mano e poté finalmente lasciare la stanza. Si sentì
riavere. Ora poteva andare dai suoi colleghi e parlare con loro, e
ascoltare
quel che avevano da dirgli e affrontare Rotwang…
Ma proprio
quando stava per avviarsi verso la sala
riunioni, là dove era certo che lo aspettassero i suoi colleghi, d’un
tratto la
sua segretaria gli si materializzò di fronte. Aveva l’aria confusa e
spaurita,
e sembrava terrorizzata al solo pensiero di rivolgergli la parola.
«Dottore…»
Emir le posò
una mano sulle spalle. L’aveva
salutata per il week-end appena il pomeriggio precedente, ma gli
sembrava egualmente
che fosse passato un tempo indefinibile dal loro ultimo incontro. «Ehi…
stai
tranquilla. Ora è tutto un po’ confuso, ma sono certo che la polizia…»
Ma non era per
venir tranquillizzata che gli era
venuta incontro, e non potevano bastare le sue parole a calmarla: non
era la
sparizione di Mew a inquietarla in quel momento. «Ero venuta a dirle
che il
signor Dale l’aspetta nel suo ufficio. Vuole parlare subito con lei.»
Era
stato il signor Dale a fargli il suo primo colloquio alla Silph SpA,
quando ancora
doveva discutere la tesi di dottorato. Dale aveva quindici o venti anni
più di
lui, e all’epoca era un po’ più magro e molto più abbronzato. Forse era
un
effetto della grande suggestione che gli incuteva, ma a Emir aveva dato
l’idea
di uno di quegli uomini che avrebbero potuto posare in giacca e
cravatta per un
articolo sui dieci più giovani imprenditori dell’anno o qualcosa del
genere.
«Allora,
signor Fuji» aveva esordito, appoggiandosi con aria paterna allo
schienale
della poltrona. «Lei sa che è stata la sua Università a raccomandarci
il suo
curriculum, giusto?»
Era un
modo come un altro per rompere il ghiaccio, perciò Emir si era sforzato
di
rispondere in modo sensato. «Certo, sono molto grato di questa
opportunità.»
«Mmm,
è giusto. Lei non è ancora laureato, giusto, signor Fuji?»
La
domanda suonava come qualcosa che non deponeva assolutamente a suo
favore. «Non
ancora. Mancano dieci giorni, in effetti.»
«Ottimo.
Beh, farà una bella festa, giusto?» Questo il signor Dale glielo aveva
chiesto
senza neppure alzare gli occhi dai documenti che aveva di fronte a sé,
come se
non fosse che una semplice domanda per riempire l’attesa mentre
rifletteva su
che cos’altro chiedergli, ed Emir aveva evitato di rispondere. Dopo un
attimo,
ancora senza alzare gli occhi su di lui, Dale aveva trovato quello che
stava
cercando nei suoi appunti e aveva chiesto: «Abbiamo letto l’abstract
della sua
tesi. Questo suo procedimento di selezionamento degli embrioni
nell’inseminazione artificiale ci è piaciuto molto. Qual è la sua
posizione
sull’eugenetica, signor Fuji?»
Da
questo punto in poi, il colloquio si era fatto molto promettente per
lui.
Sull’eugenetica Emir si era espresso in modo dapprima più cauto, poi
progressivamente più aperto via via che Dale gli pareva più soddisfatto
della
sua risposta: ma certo, l’eugenetica era la via del futuro. A livello
etico,
era davvero corretto privare le nuove generazioni delle potenzialità
che
l’ingegneria genetica riservava, in nome di scrupoli morali solo in
parte
condivisibili? Nessuno intendeva negare gli orrori di Mengele o
dell’Unità 731,
no, no; ma era veramente corretto penalizzare gli sforzi di molti in
nome degli
errori di pochi? Non era forse sintomo di un’eccessiva miopia il voler
a tutti
i costi accomunare gli esperimenti più terribili di cui la storia
serbasse
memoria alle tecniche che avrebbero permesso di far nascere figli sani
da
genitori malati senza per questo nuocere a nessuno, solo perché
accidentalmente
rientravano entrambi sotto il comune nome di eugenetica?
Il
colloquio era andato benissimo fino a questo punto. Evidentemente molto
soddisfatto della sua risposta, il signor Dale aveva annuito
sorridendo, molto
più incoraggiante di quando il colloquio era iniziato, e aveva chiesto:
«Vedo
che lei condivide in larga parte la nostra politica aziendale. Mi
perdoni la
curiosità, ma lei non è il figlio di quel famoso Fuji di Lavandonia?
Quello del
Centro Pokémon Volontario?»
La
domanda lo aveva raggelato. Possibile che suo padre fosse ovunque,
torreggiasse
su di lui persino quando si nascondeva in quel palazzo di uffici a
Zafferanopoli, a riversare su di lui l’ombra di quei suoi principi
morali
nobili e integerrimi tanto che sembrava una vergogna da parte sua non
adeguarvisi spontaneamente? Ma Emir non la pensava come suo padre, Emir
non era
suo padre, Emir odiava suo padre, allora perché chiunque lo incontrasse
assumeva come dato certo che condividesse le sue idee?
«Sì, è
mio padre, ma… noi non la pensiamo allo stesso modo. Mio padre non ha
torto, ma
il suo modo di vedere le cose andava bene nel dopoguerra… non ora. Io
non credo
che possiamo affacciarci al nuovo millennio mantenendo lo stesso
rapporto con
la scienza che andava bene quaranta o sessant’anni fa.» Emir non si era
soffermato neppure un momento a domandarsi se credesse veramente in ciò
che aveva
appena detto. Era esattamente il contrario di tutto ciò in cui credeva
suo
padre, e in quel momento egli voleva che Dale guardasse verso di lui e
vedesse
un uomo completamente diverso dal signor Fuji del Rifugio Pokémon di
Lavandonia. «Ovviamente esistono dei limiti che neppure la scienza può
superare, ma la scienza è umana, e ciò che è umano non può in nessun
modo
essere contro natura. Mio padre appartiene a una generazione per la
quale i
limiti etici della scienza erano assai più ristretti di oggi, per le
storie
della guerra, sa, e tutto il resto.»
«Stia
attento, signor Fuji» lo aveva ammonito Dale in tono ironico, ma
sorridendo, e
quel sorriso gli aveva fatto intuire chiaramente quante speranze
riservasse per
lui l’esito di quel colloquio. «Lei mi lusinga dando per scontato che
io sia
tanto giovane, ma non penso che suo padre sia tanto più anziano di me.»
Il suo
tono era tanto benevolo che anche Emir si era azzardato a sorridere, e
a quanto
pareva questo gli aveva fatto un piacere immenso. «Molto bene, ora
parliamo un
po’ dei dettagli, signor Fuji… lei ha scritto nel suo curriculum di
essere
disposto a lavorare addirittura in un altro continente. È ancora dello
stesso
parere?»
«Naturalmente.»
«Bene,
bene. Fortunatamente per lei, non ci sarà bisogno di arrivare a tanto.
O
meglio, stiamo aprendo anche una succursale in Russia*, ma abbiamo già
un
candidato per quel ruolo, perciò… in questo preciso momento, stiamo
cercando
personale per un nuovo laboratorio a Isola Cannella. Abbiamo già
acquisito i
locali, perciò l’inaugurazione è prevista di qui a pochi mesi… il tempo
necessario per approntare attrezzature e laboratori. E la burocrazia,
naturalmente: permessi, assicurazioni, indagini ambientali… non sarei
lontano
dal vero se le dicessi che abbiamo speso più in marche da bollo che in
materiali.»
A
questo punto, dopo un lungo silenzio carico di sottintesi, il signor
Dale aveva
riflettuto un po’ su cosa dirgli, tamburellando con le dita sul tavolo,
e poi
aveva ripreso: «Sarò onesto con lei, Emir.» (Emir aveva registrato
nella propria
mente questo cambiamento di registro). «Sono stato io a proporre il
progetto di
Isola Cannella. Stiamo cercando personale giovane ma qualificato, e da
quanto
ho capito lei ha già tutte le basi per laurearsi col massimo dei voti.
Le
interesserebbe un posto di direttore?»
Emir
era rimasto a bocca aperta. Quando aveva accettato di inviare il
curriculum
alla Silph, su consiglio della sua relatrice, l’aveva fatto perché, in
fin dei
conti, non gli costava niente fare un tentativo; e quando poi gli
avevano
scritto per organizzare un colloquio, aveva accettato pensando che
forse, per
qualche miracolo, avrebbe potuto portare a casa un tirocinio non
retribuito di
un paio di mesi o un anno al massimo, il che gli sarebbe andato bene
comunque,
parlando di un’azienda di tutto rispetto come la Silph.
La
risposta più logica che gli era salita alle labbra era stata perciò:
«Signor
Dale… io ho ventiquattro anni.»
Dale
era scoppiato a ridere. «Sapevo che mi avrebbe risposto così, ma non
sia così
modesto. Alla sua età io ero apprendista direttore, e non mi ero
laureato così
bene. In ogni caso abbiamo delle grosse agevolazioni fiscali se
assumiamo sotto
i venticinque, quindi abbiamo deciso di investire in un team di giovani
eccellenze. Stiamo vagliando vari scienziati, ma per il ruolo di
direttore
vogliamo qualcuno di Kanto.» A tutte quelle informazioni Emir non aveva
saputo
come reagire, allora Dale aveva continuato: «Naturalmente c’è un altro
motivo
per cui cerchiamo un direttore così giovane. Se sarà lei a firmare i
documenti
di fondazione del laboratorio, anche figurando come socio di minoranza,
il
laboratorio godrebbe delle agevolazioni fiscali concesse ai giovani
imprenditori. Naturalmente tutte le spese spetterebbero a noi, a lei
richiederemmo soltanto l’acquisto di una percentuale minima di azioni,
per una
spesa davvero irrisoria. Il tutto è perfettamente legale, ovviamente,
dato che
la legge non penalizza simili arrangiamenti… anche se un po’
macchinoso, su
questo convengo con lei. Che cosa ne pensa, signor Fuji?»
Ecco
dov’era la fregatura, e neppure troppo ben nascosta. Rendendosi conto
che si
richiedeva da lui una partecipazione economica che un giovane
neolaureato non
poteva assolutamente permettersi, Emir aveva fatto per alzarsi e porre
immediatamente fine all’incontro in un moto di stupore. Possibile che
l’azienda
leader dei monopoli di Kanto e Johto ricorresse a simili truffe nei
confronti
di giovani squattrinati? Quella situazione rasentava davvero il
ridicolo.
Prima
ancora che facesse in tempo a parlare, il signor Dale l’aveva
prevenuto. «Si
sieda, signor Fuji» aveva ripreso con un sorriso, accennando con gesto
plateale
alla sua sedia. «Qui nessuno sta cercando di prenderla in giro, mi
creda. Le
stiamo offrendo un’opportunità che tutti i suoi compagni di corso
pagherebbero
per poter ricevere, dunque dimostri un po’ di gratitudine e si sieda,
per
cortesia, e mi ascolti fino alla fine.» Emir non si sentiva ancora così
sicuro
di sé da disobbedire a un ordine di un uomo tanto più grande di lui,
perciò si
era seduto all’istante. «Molto bene. Qui siamo stati giovani tutti
quanti, e
nessuno di noi è uscito dall’università particolarmente ricco. Ciò che
richiediamo da lei è soltanto la sua firma su certi documenti e la
rinuncia al
sessanta per cento del suo stipendio per tre mesi, in modo da pagare le
azioni.
Tra due anni le riacquisteremo integralmente da lei allo stesso prezzo,
perciò
vede bene che il danno economico che gliene deriva è davvero minimo. Le
ripeto
che non c’è nessuna truffa né niente di illegale, può consultare
qualsiasi
commercialista. Ovviamente le forniremmo anche un alloggio aziendale
sull’isola, perciò le sue spese saranno molto ridotte, come parziale
risarcimento per l’impegno che le richiediamo. Ora la nostra offerta le
è più
chiara?»
Emir
era stato deciso a rifiutare fino al preciso momento in cui Dale aveva
parlato
di un alloggio.
«Vuol
dire… una casa? Un appartamento o qualcosa del genere? A Isola
Cannella?»
«Beh,
non si tratta precisamene di un appartamento, ma…»
«Di
qualsiasi sistemazione si trattasse, foss’anche stata una branda in un
sottoscala, Emir non aveva bisogno di sapere altro: un tetto e uno
stipendio, sicuramente
sufficiente per vivere, lontano da Lavandonia. Non sarebbe occorsa che
una
firma su un contratto, e subito dopo la sua laurea egli non avrebbe
dovuto più
nulla a suo padre – nulla. Suo padre odiava la Silph, e ora la Silph
gli
avrebbe dato di che vivere, lontano da lui, lontano dalle sue regole e
dalla
sua morale integerrima e opprimente. Il suo impegno e il suo genio,
ch’egli non
doveva ad altri che a se stesso, gli avrebbero dato di che vivere, a
un’intera
regione di distanza da Lavandonia.
Non si
era neppure informato sullo stipendio o sugli altri dettagli del
contratto.
«Quando posso firmare, signor Dale?»
Per quanto
potesse essere untuoso e ipocrita, Emir
aveva sempre visto Dale come l’uomo che lo aveva salvato da Lavandonia,
e
gliene era sempre stato riconoscente, sebbene avessero avuto qualche
motivo di
discussione, da quando avevano trovato Mew. Certo, egli era ben
consapevole dei
continui magheggi operati dal suo ufficio: era Dale il responsabile del
laboratorio, per quanto vi avesse posto piede forse tre volte, compreso
il
giorno dell’inaugurazione; dato che era stato lui a proporne il
progetto, era
perciò principalmente con lui che Emir manteneva i contatti a
Zafferanopoli.
Era un amministratore, perciò capiva di biologia e genetica tanto
quanto Emir
capiva di economia: dal momento che era il consiglio a dettare le
direttive
principali per quanto riguardava la ricerca ed Emir a dirigere il
laboratorio
in modo capillare, il suo compito principale consisteva nell’occuparsi
nell’aspetto economico della faccenda. Con ogni probabilità, il motivo
per cui
erano sempre andati alquanto d’accordo, in generale, era che Dale
trovava
continuamente il modo di far risparmiare l’azienda riducendo i costi
del
laboratorio, ed Emir – che viveva in un continuo, precario equilibrio
nel
tentativo di far quadrare i conti senza chiedere eccessivi aumenti sul
budget
annuale – riusciva sempre a raggiungere gli obiettivi prefissati nei
tempi
previsti e coi fondi stabiliti. Ciò comportava richiedere ai dipendenti
sforzi
più intensi con strumenti di lavoro inadeguati, certo, e spostare ogni
tanto
qualche cifra da una colonna a un’altra in modo non troppo trasparente;
ma
fintanto che il laboratorio andava avanti, a entrambi andava bene così.
In tutti i sei
anni per i quali si era estesa la
loro amicizia, Emir non ricordava di aver visto Dale mai in una sola
occasione
in cui egli non fosse al meglio della sua apparenza estetica. Era uno
di quegli
uomini tanto affascinanti ed eleganti da sembrar quasi finti,
abbronzato in
ogni stagione dell’anno, sempre sbarbato e impomatato con cura quasi
maniacale.
Quel giorno le
cose non stavano così. Quando Emir
entrò nel proprio ufficio, dove Dale si era accomodato con la spontanea
naturalezza di qualcuno che sentisse di trovarsi a casa propria, ebbe
la
sensazione di trovarsi di fronte a un uomo che, nel giro di una sola
notte,
fosse stato deprivato di tutto.
Doveva essersi
precipitato lì non appena aveva
saputo, senza neppure farsi la barba. Era pettinato, certo, ma senza
l’abituale
cura ossessiva che lo contraddistingueva, ed Emir era certo che
l’abbinamento
della cravatta al panciotto non fosse esattamente quello ch’egli
avrebbe scelto
in un giorno normale. Al vederlo aggirarsi per la stanza come divorato
dal
dolore, Emir provò una fitta cocente di rimorso alla consapevolezza di
trovarsi
di fronte a un uomo distrutto.
«Signor Dale…»
Al solo suono
della sua voce, Dale si precipitò
verso di lui come qualcuno che fosse stato sperduto nel deserto tanto a
lungo
da non credere più di venir salvato. «Dio, Emir… la sto aspettando da
ore!»
Quelle ore
sarebbero di certo trascorse in modo
molto meno noioso se le avesse passate col resto dell’equipe del
laboratorio;
ma Dale era troppo distaccato da tutto il resto del mondo per poter
anche solo
concepire un’idea simile. Emir era l’unico di tutto il laboratorio con
cui egli
mantenesse i rapporti, e per lui era anche troppo.
«Sono
mortificato, mi creda» rispose Emir chiudendo
la porta dietro di sé. «Le avranno detto per quale motivo…»
A giudicare
dalla desolazione dei suoi occhi, sì,
gliel’avevano detto. «Dio, ma che ci faceva a Lavandonia?»
Emir aveva
avuto tutto il viaggio in traghetto per
pensare alla risposta da dargli, e ne fu incredibilmente grato. Gli
rivolse uno
sguardo carico di stupore. «Non si ricorda? Tempo fa lei mi aveva
chiesto di
parlare a mio padre… riguardo alle sue proteste contro l’azienda e il
progetto
di Mew. Dev’essere stato a settembre. Non si ricorda?»
Gli occhi di
Dale rimasero vacui e inespressivi per
qualche momento: era evidente che non ricordava (e non era poi
sorprendente che
fosse così, dato che quella questione era caduta solo accidentalmente
nel corso
di una conversazione di tre mesi prima e che vi si erano soffermati
forse per
un minuto a dir molto), ma che gli sembrava qualcosa che avrebbe
realisticamente potuto dire. Della schiera di attivisti, ambientalisti
e
no-global che quotidianamente si scagliavano contro le multinazionali e
contro
la Silph in particolare, il signor Fuji era sicuramente quello che
aveva più
voce in tutta Kanto, e Dale, come portavoce dell’azienda, lo
disprezzava di
tutto cuore.
A quanto
pareva, doveva darsi per vinto. «Certo,
ora ricordo… mi era parso strano, in effetti, sapendo in quali rapporti
lei e
suo padre…» La faccenda doveva averlo messo a disagio, perché cercò di
ricomporsi un poco. Passeggiò nervosamente per l’ufficio, con l’aria di
sistemarsi la cravatta e volersi dare un tono, ed Emir ne approfittò
per andare
ad accomodarsi alla propria scrivania. Gli sarebbe stato più facile
darsi un
contegno da seduto, o almeno così sperava.
«Ha già parlato
con la polizia?»
Emir si
affrettò a rassicurarlo. «Vengo ora di là.
Mi hanno assicurato che faranno tutto il possibile per…»
Dale agitò
stizzosamente la mano, quasi a cacciar
via un pensiero troppo stupido e fastidioso da poter essere anche solo
considerato. «Ah! Loro ne fanno molto conto, non è vero? Ma sa il cielo
se
questi pescatori hanno mai ritrovato niente! Bisognerà chiamare degli
investigatori privati, e intanto sicuramente Mew sarà già all’estero...
Emir,
ma com’è potuto accadere?»
«Pare che sia
rimasta aperta una qualche finestra
del magazzino» mormorò Emir guardando altrove. «Per questo motivo gli
allarmi
non hanno suonato.» In quanto alla dilazione della revisione dei
sistemi di
sicurezza, non valeva la pena che Dale venisse a saperlo, quantomeno
non in
quel momento e non da lui. Gli allarmi funzionavano perfettamente, e se
non
avevano suonato era semplicemente perché nessuno si era introdotto nel
laboratorio; ma ora che la possibilità che ci fosse stato un
malfunzionamento
volontario era nell’aria, la polizia avrebbe comunque continuato a
cercare un
responsabile esterno.
Dale batté
rabbiosamente una mano sulla coscia.
«Una finestra aperta, col Pokémon più raro del mondo in laboratorio! Ma
questo
è inaccettabile! Bisognerà licenziare il colpevole…»
Il colpevole
era lui, naturalmente, ma Emir si
limitò a scuotere sconsolatamente il capo, come a non saper che dire.
Quel
furto aveva già causato perdite economiche inimmaginabili e lo stesso
Dale,
egli lo sapeva, si era svegliato quel mattino con la consapevolezza di
vedere
la propria carriera a rischio; ma la scelta che aveva compiuto non
avrebbe
fatto altre vittime. «In quel magazzino entriamo tutti quanti decine di
volte
al giorno, signor Dale… dubito che sia possibile stabilire con certezza
un
colpevole.»
«Già…
immaginavo che avrebbe detto così.»
Dale si
accasciò platealmente sulla sedia di fronte
alla sua scrivania. Era devastato. Si allentò un poco il nodo alla
cravatta,
cosa che Emir non gli aveva mai visto fare, neppure in piena estate, e
infine
si decise a dire: «Io e lei dobbiamo parlare, Emir.»
Che Dale non si
fosse precipitato in elicottero
fino all’Isola Cannella solo per discutere i vari aspetti del furto era
prevedibile, ed Emir sapeva perfettamente che cosa aveva da dirgli. Per
la
prima volta da quando lo conosceva, quell’uomo gli faceva tanta
compassione che
cercò di venirgli incontro.
«Non si
disturbi, signor Dale. Avrà le mie
dimissioni per domattina.»
Gli occhi di
Dale si spalancarono per la sorpresa,
un po’ più arrossati e stanchi di quanto egli li avesse mai visti. Nel
corso
degli ultimi quattro mesi Dale aveva minacciato più di una volta di
licenziarlo
quando si erano scontrati, ma ora che era venuto lì apposta per quello,
sembrava che gliene mancasse il coraggio. Forse non era così
insensibile quanto
gli era sempre piaciuto far credere, ed Emir lo trovò improvvisamente
un po’
più umano.
«Mi dispiace
così tanto, Emir» mormorò. «Io e lei
abbiamo sempre lavorato bene insieme, ma lei capisce… Gli allarmi non
hanno
suonato, la finestra era aperta. Tutto ciò è inaccettabile.»
«E io me ne
assumo tutta la responsabilità» affermò
Emir con sicurezza.
Il giorno in
cui aveva deciso di portar via Mew dal
laboratorio, egli aveva saputo fin dal primo momento che avrebbe perso
il
lavoro, e a questa prospettiva si era arreso senza opporre resistenza.
Quelli
trascorsi a Isola Cannella, a far la spola tra la sua vasta casa vuota
e il
laboratorio, erano stati gli anni più pieni e più soddisfacenti della
sua vita,
malgrado le ferree direttive imposte dalla Silph, e avrebbe desiderato
che non
finissero mai; ma per salvare Mew (e della necessità di salvarla egli
non aveva
dubitato neppure un secondo) bisognava sacrificare qualcosa; e poiché
era stato
lui ad avere l’idea, era giusto che il sacrificio fosse il suo. «Sono
il
direttore, perciò la colpa di tutto è mia. Se mi garantisce che la
Silph non si
rivarrà della perdita su nessuno dei dipendenti, mi dimetterò
personalmente col
minor clamore possibile.»
Il fatto di non
esser costretto a licenziarlo
sembrava aver tolto dal petto di Dale un peso innominabile, ma quando
tornò a
parlare la sua voce suonava ancora affranta.
«Non avrei
voluto che si arrivasse a questo»
mormorò. «Deve credermi. Lei non ha visto i bollettini di borsa
stamattina, ma
io sì. Bisognava salvare il salvabile. Il Presidente sta cercando di
placare
gli animi, gli azionisti… beh, questo non le interessa, ma si è pensato
persino
di chiudere il laboratorio per limitare le perdite. Ma poi come avremmo
fatto
coi sindacati? No, no, lei mi capisce… per tenere in piedi la baracca
bisognava
che limitassimo i danni, allora…»
«Signor Dale»
lo interruppe delicatamente Emir «La
prego, non c’è bisogno. Io non so chi abbia lasciata aperta quella
finestra o
chi dovesse chiuderla, ma dirigo queste persone da sei anni e non ho
mai avuto
di che lamentarmi di nessuno di loro. Non voglio che nessuno debba
perdere il
lavoro per un unico errore, perciò è giusto che le cose vadano così.»
«Grazie, Emir»
rispose Dale a bassa voce. Sembrava
un po’ meno a disagio di prima, forse perché doveva essersi aspettato
qualche
scenata che non era avvenuta. «Lei mi conferma che ci avevo visto
giusto
qualche anno fa, quando ho voluto proprio lei per questo posto.»
Che Dale avesse
un cuore ben nascosto sotto la
cravatta, e che quel cuore fosse in quel momento sinceramente
addolorato per
lui, Emir non l’avrebbe detto mai fino a qualche minuto prima. Quella
scoperta
lo metteva tanto in imbarazzo che distolse per un attimo lo sguardo, e
Dale si
decise a darsi un tono e a tornare alle questioni pratiche. «La banca
le
pagherà tutto quello che ancora le dobbiamo e la sua liquidazione,
tutt’al più
entro la fine del mese.»
«Non voglio la
liquidazione.»
Dale diede in
una breve risata secca, senza capire.
«Via, Emir, non c’è bisogno di esagerare… noi non la licenziamo mica
con
disonore, la liquidazione è davvero il minimo che…»
Emir levò
discretamente una mano per richiedergli
il suo silenzio. «Signor Dale, la prego… mi lasci spiegare.
Vorrei rinunciare alla mia
liquidazione e tenermi in cambio la casa. Pensa che sarebbe possibile?»
Tutta la
riuscita del furto si basava precisamente
su questo azzardo, che Dale accettasse lo scambio che gli stava
proponendo: ma
mentre Emir glielo domandava, si sforzò di mantenersi il più sereno e
imperturbabile possibile. Non voleva dimostrare di dar troppo peso a
quello
scambio.
«Oh» commentò
Dale un po’ interdetto, e rimase in
silenzio. Si passò una mano tra i capelli e dopo un attimo confessò:
«Non me
l’aspettavo. Posso chiederle come mai?»
Se c’era
qualcosa che Dale gli aveva sempre detto,
per quanto scherzosamente, era quale errore avessero commesso
nell’acquistare
una residenza aziendale per il futuro direttore del laboratorio senza
valutarla
con la dovuta attenzione: al momento attuale, l’azienda si ritrovava
con un
immobile enorme e pressoché invendibile sul mercato. Perché non
avrebbero
dovuto sbarazzarsene?
«Pura e
semplice affezione, signor Dale. E poi, le
dirò… non ho molta voglia di tornare a casa da mio padre a trent’anni
compiuti
con la coda tra le gambe. Le pare poi tanto strano?»
«Ha valutato
bene i pro e i contro? Questa è un’isola
di pescatori, Emir, mentre lei è un genio dell’ingegneria genetica…
trovare un
nuovo lavoro in queste condizioni non sarà facile.»
Nessuna
azienda, quantomeno non a Kanto, avrebbe
mai assunto l’uomo che si era lasciato sfuggire il Pokémon più raro e
prezioso
del mondo; ma Emir si sforzò di non lasciar trasparire questo pensiero,
e
sorrise stancamente.
«Quando ci
siamo incontrati tutto quello che
desideravo era venir via da Lavandonia, e la casa che lei mi ha dato è
stata il
primo passo che mi abbia permesso di allontanarmi da mio padre, signor
Dale.
Sono stato troppo felice lì per poterci rinunciare. Lei ha mai tenuto a
qualcosa così tanto?»
Il valore della
sua liquidazione non poteva
eguagliare quello della casa, ma c’erano altre cose da considerare, ed
Emir
seguì sul suo volto lo svolgersi degli stessi calcoli che aveva fatto
egli
stesso settimane prima. Egli stava consegnando le sue dimissioni
spontaneamente, senza far scandali e senza rivolgersi a nessun
avvocato; in
cambio, egli chiedeva soltanto un immobile che costava all’azienda, in
termini
di tasse, molto più di quanto effettivamente valesse. Valeva davvero la
pena di
rischiare che s’indispettisse e rivelasse ai giornali, per ripicca,
qualche
dettaglio delle politiche aziendali su cui sarebbe stato bene non
puntar troppo
l’attenzione del mercato…?
Se Dale avesse
mai tenuto così tanto a qualcosa
oppure no, Emir era destinato a non saperlo mai. Quando il riflesso di
tutte
queste considerazioni ebbe solcato il suo volto, Dale si limitò a
tossire discretamente
e rispose con dignità: «Beh, ecco… dovrei informarmi un poco, ma penso
che si
possa fare. Dopotutto, visto che lei si dimostra tanto condiscendente e
ragionevole nei riguardi dell’azienda, beh…»
Tutto il suo
piano per salvare Mew s’era basato su
una scommessa: se l’avesse perduta e fosse stato costretto a lasciare
la casa,
la messinscena sarebbe crollata alla prima perquisizione. Ma
esattamente come
aveva preventivato, Dale aveva accettato: egli aveva vinto la
scommessa, e si
sentì invincibile.
«Non so davvero
come ringraziarla, signor Dale.
Confidavo che avrebbe capito.»
Dale gli
rivolse un cenno impacciato di
gratitudine. «È il minimo per lei, Emir… se avessi potuto scegliere,
non
sarebbe finita così. Lei non sa quanto mi secchi cambiar direttore.»
Dato che era
lui a tirar fuori questo argomento,
Emir ritenne che non fosse poi troppo azzardato sbilanciarsi un poco in
questo
senso. «A proposito, se posso permettermi… so che non è più di mio
interesse,
ma forse le interessa il mio parere. Lavoriamo insieme da tanti anni, e
la
dottoressa Mann sarebbe…»
«Oh, non si
preoccupi di questo, davvero» lo
interruppe Dale in tono inaspettatamente meno agitato. «Fortunatamente
l’azienda si è già espressa in questo senso, abbiamo bisogno che non vi
sia
alcuna soluzione di continuità tra le due direzioni: il laboratorio
deve
collaborare con l’azienda e la polizia e restare operativo
ininterrottamente.
In questo senso ci è parso che il dottor Lestournelle fosse la scelta
migliore
per noi.»
Per tutti gli
anni della loro collaborazione,
Valérien era stato l’unico amico ch’egli avesse avuto, ed era forse la
persona
più onesta e candida che avesse mai conosciuto; ma questo era quanto.
Emir amava
Valérien come il fratello che mai avrebbe potuto avere, ma proprio come
di un
fratello, egli vedeva anche i suoi difetti: Valérien era totalmente
incapace di
prendere un’iniziativa. Egli restava a guardare la sua vita
precipitarglisi
addosso dall’alto, cercando di schivarne i macigni più pesanti, e ad
aspettare
che altri venissero a decidere per lui.
Cercò dentro di
sé un modo diplomatico per farlo
rispettosamente presente. «Il dottor Lestournelle non… ecco, non è che
brilli
per spirito d’iniziativa.»
La sottile
polemica delle sue parole non era
destinata ad andare sprecata. «Già, ricordo che me l’ha detto più di
una volta»
confermò Dale vigorosamente. «È esattamente di questo che l’azienda ha
bisogno
al momento. La priorità è cercare di non far fallire il laboratorio,
perciò ci
saranno delle manovre economiche alquanto restrittive: lei mi capisce.»
Il laboratorio
cui aveva dedicato la propria anima,
che aveva fondato e fatto funzionare contro ogni ostacolo che la Silph
avesse
sollevato, era perduto per sempre, e non lo riguardava più. Emir sapeva
di non
esser stato un bravo scienziato (di certo non dal punto di vista morale
del
lavoro) ma era stato un buon direttore, o almeno di questo era
convinto: egli
aveva lottato per anni in bilico sul delicato equilibrio che
intercorreva tra
le ragioni della scienza e quelle dell’azienda, e in qualche modo, per
sei
anni, era riuscito a far collimare i bisogni e le esigenze, difendendo
i
diritti dei suoi colleghi contro le imposizioni della Silph; e ora
tutto era
finito. Il lavoro che aveva nutrito con il suo sangue e con la sua
anima
sarebbe andato a Valérien, che avrebbe obbedito alla Silph e avrebbe
ceduto a
ogni residuo d’autonomia ch’egli fosse riuscito a mantenere a costo
d’innumerevoli lotte, per il semplice non saperli difendere. Aveva
salvato Mew,
ma il laboratorio era finito.
«Il dottor
Lestournelle corrisponderà sicuramente
alle vostre esigenze» rispose sforzandosi di sorridere, e non avrebbe
potuto
essere più sincero di così. La Silph avrebbe avuto un burattino ancor
più
semplice da manovrare di quanto non fosse stato lui. Tutti avevano quel
che
avevano voluto, dopotutto. O no?
La
conversazione era finita, ormai tutto ciò che si
poteva dire era stato detto, e probabilmente Dale non vedeva l’ora di
tornare a
Zafferanopoli. Emir si alzò in piedi per porgergli la mano. «Se abbiamo
finito,
signor Dale, ho un sacco di lavoro da fare per lasciare tutto in
ordine. Avrà
le mie dimissioni per domattina. Le occorre altro?»
«Siamo a posto
così, Emir… lei è stato eccezionale,
come sempre. Mi farà sapere se ha bisogno di qualcosa, siamo intesi?»
A partire da
quel giorno non si sarebbero sentiti
mai più: Dale era un uomo d’affari troppo serio e impegnato per potersi
permettere di perdere anche solo qualche minuto a pensare a un vecchio
dipendente
che aveva creato solo problemi, ma il solo fatto che lo avesse
ipotizzato era di
per se stesso quasi commovente. Emir accennò un sorriso mentre apriva
per lui
la porta dell’ufficio.
«Certo, signor
Dale. La… la ringrazio ancora per l’opportunità
che mi ha dato quel giorno.»
Per tutta
risposta, Dale posò una mano sulla sua
spalla e la strinse leggermente. Non fece nient’altro, ma quel gesto
caldo e
confortante, che per tutta la sua infanzia egli avrebbe desiderato di
ricevere
da suo padre, fu per lui così inaspettato da farlo quasi vacillare.
Mentre Dale
percorreva il corridoio a testa alta,
nel vorticare sinuoso del cappotto che gli avvolgeva la schiena, Emir
si
ritrovò a pensare con stuporoso rimpianto che, nonostante tutto quello
che era
accaduto negli ultimi mesi, e nonostante salvare Mew fosse stata
comunque la
scelta più giusta della sua vita, egli non avrebbe mai potuto odiare la
Silph
SpA.
Finalmente,
come se arrivasse al termine di una
lunga corsa a ostacoli nella quale ogni distrazione concorresse ad
allontanarlo
dalla sua meta, Emir raggiunse la sala riunioni.
A giudicare
dalla quantità di bicchieri di caffè e
carte di snack e biscotti che coprivano l’ampio tavolo centrale, i suoi
colleghi
erano barricati là dentro da un bel po’, e di certo erano esausti:
stando alle
parole del commissario, dovevano trovarsi al laboratorio già da quando
era
stato dato l’allarme, quella notte. Erano spettinati e stanchi, con
l’aria
stressata di qualcuno che ne avesse abbastanza di aspettare e di
continuare a
ripetere le stesse cose, e profondamente sfiduciati. Di tutti loro,
solo Portia
aveva avuto la prontezza di spirito, o forse la tendenza
all’autoconservazione,
d’indossare il camice, ma quello era l’unico elemento di normalità che
aleggiasse nella stanza; persino Vincent, che pure difficilmente egli
aveva mai
visto perdere la calma, stava in piedi come se non potesse tollerare di
rimaner
seduto, a mescolare nervosamente un caffè che sembrava dover scontare
la pena
della sua angoscia.
Rimandare non
aveva senso, bisognava impegnarsi,
parlare, difendersi di fronte ai suoi colleghi che si sentivano
traditi. Emir
richiuse la porta alle proprie spalle il più rumorosamente possibile e
disse:
«Mi dispiace, ragazzi.»
«Emir!»
Valérien
riusciva a credere al suo ritorno solo in
quel preciso momento in cui lo vedeva sul serio e poteva di nuovo
fidarsi di
lui. Di fronte al suo volto trasfigurato di sollievo, Emir accennò un
sorriso.
Ma non tutti
apparivano sollevati nella stanza.
Appoggiato al davanzale della finestra, coi capelli spettinati e la
barba non
fatta come quell’altra mattina, Rotwang si voltò
seccamente a guardarlo.
Aveva il volto illividito di rabbia e le labbra contratte per
l’angoscia. «Chi
si rivede, finalmente? Herr Doktor…»
«Richard, ti
prego!» sbottò Portia con voce
esasperata. Aveva le dita contratte sulle tempie, come a reprimere i
primi
viticci di un’emicrania incipiente. «Emir è qui adesso, va bene? È
sabato
mattina e aveva tutti i diritti di essere dove gli pare senza doversi
giustificare con noi. Puoi risparmiarci le tue teorie del complotto,
adesso?»
«Lascia stare,
Portia… va bene così» la interruppe
Emir a bassa voce. Rotwang continuava a fremere di rabbia senza avere
il
coraggio di dir niente, allora egli lo fissò deliberatamente, senza
distogliere
lo sguardo. «Non vi giudico se avete pensato che possa esser stato io.
Non
dovete neppure dirmelo. Era naturale che ci pensaste.»
«Emir, non devi
giustificarti, puoi fare quello che
vuoi durante i…»
«Portia» la
interruppe dolcemente Emir. «So di
avervi sempre detto che non parlo con mio padre da anni. Non voglio che
pensiate che ho dei segreti con voi. Ero a Lavandonia perché Dale mi
aveva
chiesto di parlare con mio padre delle sue proteste per convincerlo ad
abbassare un po’ i toni, e avevo pensato di ricucire i rapporti ora che
non
sono più un bambino. Vi è più chiaro adesso?»
Dopo un attimo
di silenzio, continuando a mescolare
un caffè che ormai sembrava destinato a non venir mai bevuto, Vincent
mormorò:
«Grazie, Emir, ma non c’è bisogno che ti giustifichi con noi. Davvero.»
«Invece penso
che ce ne sa bisogno, dato che a
quanto pare qualcuno di voi ha ipotizzato che potessi esser stato io a
rapire
Mew» ribatté Emir. «Non mi interessa chi, non mi interessa perché,
anche se
penso di sapere entrambe le cose. Voglio solo che sappiate che a causa
di
questo furto ho perduto il lavoro, perciò, se ancora pensate che
potessi
guadagnarci qualcosa…»
«Che cosa
significa questo, Emir?» lo interruppe
Valérien sordamente.
Il silenzio che
seguì alle sue parole aveva mutato
di qualità, ora era attonito, confuso. Persino Rotwang appariva
smarrito, ed
Emir se ne compiacque.
«Che vi
aspettavate, ragazzi?» rispose stancamente.
Si lasciò cadere su una sedia libera, e subito Valérien si affrettò a
sedersi
vicino a lui, ma sul bordo della sedia, molto nervosamente. Sembrava
tremare di
sgomento. «Il direttore sono io, la responsabilità è mia. So che è
stata
trovata una finestra aperta, e non ho idea di chi potrebbe essere
stato, ma non
voglio che nessuno venga licenziato per un unico errore superficiale
commesso
in sei anni. In ogni caso il direttore sono io, perciò è giusto che me
ne
assuma io la colpa.»
«Possiamo
parlare con Dale, Emir» si offrì in
fretta Vincent. «Non è giusto, noi lo sappiamo che tu hai fatto tutto
quello
che potevi per…»
Emir fu
costretto a scuotere la testa malgrado
l’impeto di gratitudine che gli saliva alle labbra. «Ti ringrazio,
Vincent, ma…
no. Dale mi ha risparmiato almeno l’umiliazione di licenziarmi e ha
lasciato
che mi dimettessi con quel po’ di dignità che mi è rimasta, e avrebbe
avuto
tutti i diritti di farlo. Non voglio cambiare le cose. Ho fatto tutto
il
possibile per mandare avanti il laboratorio, ma ho sbagliato un sacco
di cose,
e tutto quello che ho ottenuto è stato di farci rubare il Pokémon più
raro del
mondo da sotto il naso. Forse era proprio il caso che mi dimettessi,
non ti
pare?»
«Non è stata
colpa tua, Emir» disse Portia.
Sembrava molto colpita dalle sue parole. «Quando la scelta era tra
permetterci
di lavorare o meno sei sempre riuscito a darci gli strumenti per farlo,
perciò…»
«Perciò ho
comunque sbagliato» tagliò corto Emir.
«Posso chiedere a voi di perdonarvi, ma non posso aspettarmi
altrettanto da
Dale.»
«Ma la
ritroveranno, Emir» esclamò impetuosamente
Valérien. Era diventato tutto rosso in viso, come gli accadeva sempre
quando si
ritrovava a parlare sotto gli occhi di tutti, persino quando si
trattava solo
dei suoi colleghi, ma si sforzò di proseguire. «Voglio dire… non le
faranno del
male, perché ha valore solo da viva. La polizia ha cominciato a
cercarla subito
dopo la denuncia, perciò non può essere lontana, no?»
Mentre loro
parlavano, Mew si trovava in una
Pokéball, nascosta in un luogo molto più vicino di quanto si potesse
sospettare: ma da lì non sarebbe uscita molto presto. Emir accennò un
sorriso
non troppo sincero. Era ovvio che Valérien, ch’era stato lo scopritore
di una
nuova specie e che al nome di Mew avrebbe vincolato il proprio per
l’eternità,
non fosse in grado di vedere la realtà: che nessuno che rubi un Pokémon
tanto
prezioso se lo lascia sfuggire facilmente. Ma per il bene di Mew, che
andava al
di là del bene di Valérien, bisognava mentire persino a lui: Emir gli
batté
affettuosamente una mano sul ginocchio. «Mi auguro per te che succeda
presto.
Dale verrà sicuramente a trovarti, ma voglio essere io a dirtelo per
primo… sei
tu il nuovo direttore.»
Valérien
impiegò tanto tempo a registrare e a
processare quest’informazione ch’Emir temette per un attimo di doversi
ripetere; ma proprio quando stava per tornare a raccontargli del suo
incontro
con Dale, il volto di Valérien si accese di una risata impacciata, ed
egli si
schermì come un bambino. «Cosa vuoi dire?»
Sapeva che non
era questo a preoccuparlo, ma Emir cercò
egualmente d’incoraggiarlo. «Lo so, lo so, ma non preoccuparti. Io ero
più
giovane di te quando mi hanno dato il laboratorio, e non avevo mai
lavorato
prima d’allora. Tu conosci già i tuoi colleghi, perciò non sarà
difficile.»
«Ma Emir… » La
risata imbarazzata di Valérien si
era scolorita in un oceano di confusione; i suoi occhi frugarono invano
la
stanza alla ricerca di un aiuto. «Insomma, glielo hai detto che Portia…»
«Non ti ruberò
il lavoro, Valérien» lo interruppe
bruscamente Portia. Come potesse esser tanto risoluta e generosa nei
suoi
confronti quando ella lo sapeva benissimo che quel posto avrebbe dovuto
essere
suo, e che Valérien riusciva a malapena decidere come vestirsi al
mattino,
questo sembrava un mistero. «Se Dale intende offrire il lavoro a te è
perché te
lo meriti, e io non intendo mettermi in mezzo. È la tua carriera, e non
dovresti rinunciarci.»
«Ma io non sono
in grado di…»
«Hai trovato
Mew» disse Emir, in tono tale da non
ammettere repliche. Non voleva che Valérien sapesse che il solo motivo
per cui
gli sarebbe stato offerto quel posto era per la sua totale dipendenza
dalle
istruzioni altrui. «È giusto che per il tuo impegno ti venga
riconosciuta una
promozione. Ce la farai.»
«Tutto questo è
ridicolo, Fuji» sbottò improvvisamente
Rotwang. Emir ebbe la sensazione di sentire la propria anima alzare gli
occhi
al cielo: quel dannato tedesco era stato in silenzio per la bellezza di
cinque
minuti. Che altro ci si poteva aspettare?
Rotwang fremeva
di rabbia e di sdegno, e aveva
tutta l’aria di non voler accettare quella spiegazione. «Andiamo, siete
seri? La
Silph vuole un burattino per poterci ridurre i fondi e per tutti voi è
normale?»
Dolarhyde gli
scoccò uno sguardo che avrebbe dovuto
metterlo a tacere, almeno nelle sue intenzioni. «Sai, Rotwang, mi
piacevi di
più quando ti preoccupavi di Mew. Perché non torni a occuparti di
quello e ci
lasci fare i nostri discorsi da adulti?»
«Sei serio,
Dolarhyde? Sai che sei quello più
facile da licenziare e sostituire con uno stagista sottopagato, sì?»
«Nessuno verrà
licenziato, di questo ho già parlato
con Dale» ribadì Emir a voce abbastanza alta da sovrastarli entrambi.
Si sentiva
più stanco ogni minuto che passava, e tutto ciò che avrebbe voluto era
di
tornare a casa e mettersi a dormire. «E poi, Rotwang, non sei tu quello
che mi
ha sempre accusato di essere un venduto? Ti cambio davvero qualcosa che
alla
direzione ci sia io, piuttosto che Valérien?»
«Emir, lascia
stare...» mormorò Valérien con le
labbra che gli tremavano.
«Senti un po’,
Fuji…»
In quel momento
Rotwang avrebbe voluto ucciderlo, e
non in modo tanto metaforico. Coi pugni stretti fino ad affondare le
unghie
nella carne e le spalle che tremavano di rabbia, Rotwang sostenne il
suo
sguardo con ardore indicibile; ma quando quello sguardo durò tanto a
lungo da
fargli temere ch’egli aprisse la bocca e parlasse,
d’un tratto gli venne
in mente qualcosa, ed egli cambiò idea.
Non disse
niente. Rotwang attraversò la stanza a
testa bassa, borbottando qualcosa che suonava molto come pezzo
di merda,
e uscì sbattendo la porta il più rumorosamente possibile, ed Emir si
sentì come
se un enorme peso gli fosse stato tolto dal petto.
Finalmente
quella giornata finì.
Non si
ricordava neppure da quante ore era in
piedi. Dopo che Rotwang aveva lasciato la stanza, la riunione coi suoi
colleghi
era proseguita senza di lui: la scomparsa di Mew aveva impressionato
tutti loro
più di quanto fossero in grado di ammettere, soprattutto Valérien.
I discorsi su
come una tale disgrazia si fosse
potuta verificare, su quale terribile evento fosse e su come il ladro –
o i
ladri – si fosse introdotto nel laboratorio proprio durante il
week-end, quando
il personale era ridotto e sarebbe stato ragionevole pensare – dal
punto di
vista di un esterno, naturalmente – che il furto di Mew sarebbe stato
scoperto
più tardi, occuparono la sala riunioni fino al primo pomeriggio, mentre
al di
fuori gli accertamenti proseguivano su tutta l’area del laboratorio. Ma
Emir,
che sapeva perfettamente che non sarebbero emerse impronte o altri
indizi che
rimandassero a personale esterno al laboratorio, perché non era entrato
nessun’altro,
non avrebbe voluto nient’altro che tranquillizzare i suoi
colleghi e
tornarsene a casa.
Ma quando anche
tutti i discorsi si furono
esauriti, e il passare delle ore ebbe reso anche troppo chiaro che
restare
ancora lì non avrebbe contribuito a chiarire nessuno dei loro dubbi,
quella
giornata non era finita. Tornare al laboratorio nei giorni successivi
l’avrebbe
umiliato più di quanto fosse disposto ad accettare, perciò Emir aveva
raccolto
e fatto portar via tutta la sua roba per sgombrare l’ufficio, e aveva
dato a
Valérien tutte le consegne e le istruzioni di cui pensava potesse aver
bisogno
nei giorni successivi. Ma s’era trattato di una pura formalità, ed
entrambi lo
sapevano bene: finché non si fosse ritrovata Mew, Valérien sarebbe
rimasto lo
scopritore di un Pokémon di cui a malapena si conosceva il nome e il
direttore
di un laboratorio sull’orlo del fallimento.
Solo intorno
alle cinque, dopo che i suoi colleghi
l’avevano subissato di abbracci e raccomandazioni, Emir aveva potuto
lasciare
gli uffici e tornare a casa.
La villa che
aveva strappato alla Silph – un immobile
acquistato all’asta che l’azienda aveva riciclato come alloggio – era
l’oggetto
materiale al quale egli tenesse di più in tutta la sua vita. Quella
sera, a
sole già calato, Emir rientrò finalmente a casa sua con la sensazione
di poter
finalmente barricare una porta tra sé e il mondo esterno e smettere di
fingere.
Aveva trascorso l’intera giornata a far finta d’essere innocente e
vittima
degli eventi allo stesso pari dei suoi colleghi, a immedesimarsi in
loro e a
cercare di reprimere il senso di colpa per aver sottratto Mew… ma ora,
era
finita. La sua vasta casa lo proteggeva come un’armatura, e là dentro,
finalmente, egli poteva gettare quello strato di maschere al di sotto
delle
quali non era neppure più certo di saper riconoscere il proprio volto.
Gettò nella
spazzatura i vecchi vestiti che gli
aveva dato suo padre al mattino e fece una rapida doccia nel bagno al
piano
terreno, sentendosi tanto stanco da non voler neppure fare le scale.
Sapeva d’aver
fame, a qualche livello del suo stomaco, ma in quel momento era tanto
stanco che
il pensiero del cibo lo nauseava. Poteva concedersi di sedersi per
qualche
momento nel salottino che affacciava sul mare, mentre rifletteva su
cosa
prepararsi per cena.
Nei giorni
seguenti avrebbe avuto un sacco di cose
di cui occuparsi. Bisognava sedersi seriamente al tavolo a fare un po’
di conti
coi soldi che aveva messo da parte per tutti quegli anni, che non erano
pochi e
sarebbero bastati per un po’, dato il suo modesto tenore di vita, ma a
patto di
far qualche rinuncia; bisognava chiamare la signora delle pulizie e
spiegarle
che avrebbe dovuto rinunciare ai suoi servizi; ma avrebbe riflettuto su
tutto l’indomani.
Si sentiva così stanco, così stanco, e gli dispiaceva così tanto d’aver
addolorato Valérien e di aver messo nei guai il signor Dale…
Lo svegliò il
rumore della porta che cigolava sui
cardini. Non si era neppure reso conto d’essersi addormentato: per
qualche
momento faticò a ricordare dove si trovasse. Si era levato il vento, e
da
qualche parte, al di sotto della stanza dove si trovava, il mare
sibilava e
fischiava, insinuandosi tra gli scogli, e le onde concorrevano a
inerpicarsi l’una
più in alto dell’altra sulle rocce. Ma che ora era? Era stato tutto un
sogno?
Mentre ancora
Emir cercava di riscuotersi e di
strofinar via dagli occhi gli ultimi viluppi di sonno, una lama di luce
si
dipanò sul pavimento dalla porta del salotto, e la bassa voce roca di
Rotwang
ringhiò: «Tu hai fatto la peggiore vigliaccata della tua vita, Fuji.»
«Ehi»
borbottò Emir in risposta, aguzzando la vista per leggere l’ora. «Ti
aspettavo
più tardi.»
*Riferimento
alla succursale Tiksi, menzionata da
uno scienziato che è possibile incontrare nell’edificio della Silph SpA
occupato dal Team Rocket: Tiksi è una cittadina reale della Russia
siberiana.
Nelle versioni originali dei giochi, invece, la succursale si trova a
Tunguska,
altra località russa realmente esistente.
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Capitolo 5 *** Corruttibile. ***
corruttibile
Capitolo IV – Corruttibile.
Guyana,
7 luglio. Abbiamo chiamato il nuovo Pokémon, Mew.
Contrariamente
a ogni aspettativa (e, a dire il vero, anche a ogni buon senso) la Silph scelse
di annunciare subito, pubblicamente, la scoperta del nuovo Pokémon,
accompagnando lì annuncio con una foto un po’ sfocata, in bianco e nero,
scattata da Portia e inviata a Zafferanopoli per posta: di meglio non si era
potuto fare, perché non si era previsto che una spedizione partita per
raccogliere campioni fossili e dati ambientali avesse bisogno di scattare
fotografie, e non c’era perciò grande disponibilità di materiale fotografico.
Dal punto di vista del signor Dale, quella di dare l’annuncio subito era una
strategia di marketing vincente sotto tutti gli aspetti, dato che per l’azienda
si trattava di tutta pubblicità gratuita.
Dal punto
di vista della scienza, invece, quella scelta era invece un po’ più
discutibile. La scoperta che la Guyana ospitava l’habitat di un Pokémon che non
era mai stato avvistato sino ad allora suscitò, oltre alla prevedibile
attenzione dell’intero panorama scientifico internazionale, anche l’altrettanto
prevedibile avidità di tutti gli allenatori, cacciatori e bracconieri di
Pokémon del mondo. Chi non avrebbe voluto essere il primo a catturare e ad
allenare (o vendere) il Pokémon più raro del mondo, chi non avrebbe voluto
affacciarsi sul palcoscenico competitivo internazionale con una nuova e
imprevedibile specie di Pokémon?
Per
qualche giorno parve che tutto il mondo volesse
partire alla volta della Guyana e riversarsi nelle sue paludi, finché il
governo non intervenne provvidenzialmente a emanare severe e restrittive norme
a tutela e difesa della fauna locale; ma neppure questa misura fu sufficiente.
Sia pure in misura minore, allenatori e cercatori continuarono a sbarcare in
Guyana e ad addentrarsi illegalmente nelle giungle; il numero di dispersi in
quelle zone inesplorabili fu altissimo, e più di un cadavere fu portato a riva
dalle correnti dei fiumi. Ci sarebbe voluto un bel po’ perché quella febbre si
placasse.
Le loro
ricerche continuarono senza sosta. Aiutati da un’équipe di geologi e speleologi
inviata dal governo, il team di ricerca guidato dal dottor Fuji batté palmo a
palmo l’intera zona del ritrovamento, procedendo in modo estremamente lento e
incostante per disturbare il meno possibile la colonia dei Gloom; ma di altri
esemplari non si trovò traccia.
Alle
ricerche Rotwang non volle prendere parte, e a detta di Portia, per la verità,
quella era la soluzione migliore.
«Non te la
prendere, Emir» gli diceva in tono di confidenza ogni volta ch’egli sbottava a
imprecare contro quel maledetto tedesco. «Sai che non voglio difenderlo, ma è
ancora sconvolto. Non so come potrebbe reagire se si trovasse a fissare negli
occhi un altro Mew frugando dietro un cespuglio: questo è stato il caso più
difficile della sua carriera. Ti prego, lascialo stare per qualche giorno.»
Certo,
Emir era umano, era comprensivo e soprattutto era superiore a quel dannato
tedesco; ma era comunque il capo della spedizione, e gli sembrava d’esser anche
troppo paziente. Rotwang aveva fatto il suo lavoro esattamente come tutti, un
lavoro per il quale, per quanto egli si ostinasse a sputare sul nome
dell’azienda, era profumatamente pagato, e ora tutti (che lavoravano esattamente quanto lui) dovevano persino
chinare il capo e dir di sì e di no in ossequio ai suoi preziosi sentimenti
feriti. Era davvero un comportamento professionale, quello?
Persino il
nome del Pokémon era stato lui a sceglierlo. Quando ci si era riuniti per
cercare di fare il punto della situazione, e di sbrogliare un poco i nodi di
quell’inferno in cui si erano ritrovati, non aveva voluto sentir ragioni.
«Si chiama
Mew» aveva detto semplicemente, picchiando col dito sull’intestazione dei
documenti che Emir stava compilando, là dove avrebbe dovuto inserire il nome
del Pokémon e che avrebbe voluto lasciare in bianco. Dopo una rapida occhiata a
Valérien, che non appariva in grado di manifestare una propria opinione in
merito, Emir aveva sospirato e aveva scritto: Mew. Il diritto di scegliere il nome del Pokémon sarebbe spettato a
Valérien, che lo aveva scoperto, e a lui, che guidava la spedizione; ma il
dolore di Rotwang durante l’operazione era stato animale, e a quel dolore, dopotutto, non si poteva non riconoscere
un qualche diritto.
Ma poi i
diritti del dolore di Rotwang si erano tramutati in capricci, o almeno così gli
pareva.
Che si
rifiutasse di fare l’autopsia del cadavere di M1, com’era stato necessario
chiamare il primo sventurato esemplare, era prevedibile, ed Emir non aveva
neppure provato a insister troppo; di quell’operazione si erano dovuti occupare
lui e Valérien, che erano biologi e avevano operato più di una vivisezione,
certo, ma non erano medici, e della supervisione di un medico avrebbero avuto
bisogno. Ma Rotwang si era rifiutato persino di leggere e firmare il reperto
dell’autopsia, e neppure le accorate preghiere di Portia, che aveva passato tre
ore nella sua tenda a cercare di convincerlo e di tranquillizzarlo, avevano
potuto smuoverlo dalla sua ostinazione. Ma Portia l’aveva supplicato ancora di
cercare di capire, di dargli tempo, che non ci si poteva umanamente aspettare
che Rotwang tornasse a mettergli le mani addosso dopo esserselo sentito morire
sotto i ferri o che leggesse della sua autopsia; ed Emir, raspando con le dita
il fondo del barile della sua pazienza, si era arreso. La firma di Rotwang
sarebbe servita a falsare i documenti e a far risultare agli atti un’autopsia
perfettamente legale, firmata da tre persone di cui un medico, secondo i
protocolli interni della Silph; senza la sua firma bisognava perciò far finta
di nulla e stare alla sorte; ma d’accordo, dato che Herr Doktor era troppo prezioso per poter anche solo firmare un
foglio, si sarebbe fatto senza la sua firma, e ci si sarebbe inventati qualcosa
al momento.
Ma quando
gli erano venuti a dire di prima mattina, con tutto il tatto del mondo, che
Rotwang si rifiutava di partecipare alle ricerche, allora Emir si era diretto
verso la sua tenda per discutere civilmente,
ma l’unico risultato che aveva ottenuto era stato di ritrovarsi di nuovo tra le
braccia di Vincent e Valérien a scalciare e a gridare che non voleva uccidere
nessuno. Di nuovo Portia era intervenuta a difendere i sentimenti feriti del
povero dottore, ed Emir aveva acconsentito a pazientare per l’ultima volta.
Rotwang non era stato l’unico a soffrire quella notte, e se si fosse rifiutato
ancora senza un buon motivo di fare il suo dovere, allora l’avrebbe licenziato
sul serio.
Perciò,
mentre le ricerche proseguivano e la giungla veniva perlustrata e frugata
centimetro per centimetro, Rotwang se ne rimaneva al campo a occuparsi di M2,
il che non era poi del tutto un male, dato che qualcuno con lei ci doveva pur
stare; ma naturalmente questo Emir si guardò bene dall’ammetterlo. Quelle manie
da primadonna e da vittima degli eventi proprio non poteva soffrirle, e
l’ultima cosa che voleva era proprio incoraggiare quel dannato tedesco.
Mew era
l’essere vivente più grato che avesse mai visto, ed era estremamente felice di
stare con loro.
Avevano
fatto accuratamente in modo che non vedesse mai il cadavere di Mew, ma
qualcosa, dentro di lei, pareva indicare che aveva capito che era morto, e che l’aveva accettato, tanto naturalmente e
serenamente da non recare in sé alcun dolore. Essa portava in sé esattamente la
stessa fiducia incondizionata e senza pari del suo compagno, lo stesso affetto
esuberante e infantile con cui M1 si era affidato a loro ed era morto senza
accuse né rancore sotto i ferri di Rotwang. Ma come poteva, si ritrovava a
pensare Emir quando M2 gli sedeva vicino, la sera nella sua tenda, e
l’osservava lavorare cercando di tanto in tanto di portargli via la penna, come
poteva fidarsi di loro tanto ciecamente ed essersi affezionata tanto da
protestare se appena veniva lasciata sola per più di qualche minuto?
Le
ricerche nella palude dei Gloom non diedero alcun risultato, ma a dire il vero
nessuno di loro ci aveva particolarmente sperato. Se erano stati i primi ad
avvistare quel Pokémon, almeno a quanto era dato sapere, doveva essere perché
era un Pokémon dannatamente raro e altrettanto dannatamente abile a
nascondersi, e se M1 si era mostrato a Valérien era solo perché era ferito, e
doveva aver capito che da quel ragazzo timido ed esitante non poteva provenire
alcuna minaccia; ma non ci si poteva esimere dal cercare ancora, non quando
l’intera attenzione mondiale era puntata su di loro.
Lasciata
quella zona, le ricerche si spostarono altrove e l’équipe esplorò e perlustrò e
mappò tutte le zone paludose circostanti nel raggio di un paio di decine di
chilometri; di cercare fossili, ormai, non si parlava neppure più. Mew era
diventata la priorità assoluta, e il caso aveva voluto che fosse capitata tra
le loro mani quando già avevano raccolto una quantità di fossili e di dati più
che sufficienti a dare lo sprint finale di cui aveva bisogno il loro progetto.
Quello era un momento di assoluta fortuna per la Silph, e il dottor Emir Fuji
si trovava alla guida dell’équipe di ricerca che aveva scoperto il Pokémon più
raro del mondo e che ben presto avrebbe donato al mondo i cloni dei Pokémon
preistorici che avevano popolato la terra al tempo dei dinosauri; ma si sentiva
un po’ meno soddisfatto di come si sarebbe sentito se tutto ciò fosse accaduto
al tempo della creazione di Porygon. Quella era la prima volta che il suo
genio, che gli aveva dato tutto ciò che uno scienziato avrebbe potuto
desiderare al mondo, non lo appagava quand’egli si trovava a osservare i propri
risultati; e questo perché aveva visto Mew morire. Eppure non era la prima
volta, e Pokémon più sacri di altri, lo sapeva bene, non ne esistevano. Allora
perché?
Finalmente,
quando l’infruttuosità delle ricerche finì per scoraggiare anche i piani più
alti di Zafferanopoli, e i costi della spedizione cominciarono a farsi un po’
troppo proibitivi rispetto alle probabilità di trovare un altro esemplare, il
signor Dale telegrafò che era più conveniente per l’azienda interrompere le
ricerche e dare inizio agli studi il prima possibile. Emir se ne sentì quasi
confortato: frugare nella giungla, spostandosi di accampamento in accampamento
nell’aria mefitica e insalubre delle zone paludose con la consapevolezza che
altri esemplari non sarebbero saltati fuori, era forse quanto di più frustrante
potesse immaginare.
Perciò,
finalmente, sotto gli occhi del mondo intero, l’équipe del laboratorio fece i
bagagli e imbarcò attrezzature e fossili e Mew su un aereo privato diretto a
Kanto, e il primo di agosto un traghetto proveniente da Aranciopoli attraccò al
molo di Isola Cannella, dove uno stuolo di giornalisti e fotografi e curiosi
attendeva ormai da ore.
«Bella
prova, Fuji» commentò Rotwang battendogli una mano sulla spalla, mentre si
affacciavano sul ponte a osservare la folla che assediava il molo. «Sei sempre
così discreto o dobbiamo ringraziare l’occasione?»
In che
modo Emir potesse esser ritenuto responsabile dell’assedio dei media sul molo
non era dato sapere, ma quando egli si volse per chiederglielo, ed
eventualmente per gettarlo dal traghetto, lo sguardo supplice di Portia lo
pregò di non farlo. La dottoressa Mann avrebbe dovuto rendergli un bel po’ di
favori quando fossero tornati a casa, concluse Emir distogliendo ostentatamente
lo sguardo.
Quel che
Rotwang ancora non sapeva, e che era troppo orgoglioso e supponente per
permettersi anche solo di pensare o chiedere, era che Dale aveva ovviamente
pensato in anticipo a quel problema, e si era perciò organizzato per permettere
loro di sbarcare senza problemi o interferenze. Quando il traghetto attraccò,
il team di ricerca toccò terra protetto da poliziotti e transenne, e due
automobili aziendali li attendevano per accompagnargli a casa; quanto al
materiale diretto in laboratorio, e soprattutto a Mew, se ne sarebbe occupato
il personale della Silph. Dale poteva anche vivere in un palazzo di cristallo,
relegato da Zafferanopoli in un dorato esilio, ma quantomeno sapeva come
organizzare un trasporto.
Per
evitare ulteriori crisi diplomatiche, Portia immediatamente caricò Rotwang
sulla prima automobile e sbatté dietro di sé la portiera facendo cenno
all’autista di partire. Se la fortuna avesse voluto, dopo un intero mese
trascorso a sopportare quell’intollerabile tedesco e i suoi capricci, forse
nelle settimane seguenti Emir avrebbe trovato un po’ di pace.
Dopo un
lungo giro per le strade assolate e torride del paese, pallenti di sole e di sale,
dove neppure un’anima osava affacciarsi nelle ore più calde del giorno,
finalmente l’auto si fermò all’imboccatura del breve viale che conduceva alla
villa d’aspetto fatiscente e desolato che Emir non aveva ancora avuto il cuore
di ristrutturare per timore di ferirla. Era a casa, finalmente, e finalmente lo
attendevano una doccia calda e abiti puliti e stirati e il suo letto…
Ma mentre
Emir si precipitava a scendere con voluttà di riposo e si affrettava a
scaricare i propri bagagli, d’improvviso un rapido lampo di luce balenò ai
margini del suo campo visivo, come il
riflesso di luce su una portiera, e una voce ch’egli aveva tanto sperato di non
sentire per un po’ esclamò: «Emir, finalmente! Ha due minuti per un vecchio
amico?»
Per quanto
egli avesse fatto sempre dell’ipocrisia il valore fondante della sua vita,
neppure lui quel giorno riuscì a esimersi dal levare involontariamente gli
occhi al cielo per un attimo, mordendosi le labbra. Eppure avrebbe dovuto saperlo che avrebbe
voluto parlargli di persona dopo una scoperta di quel genere, certo, e ora era
da sciocchi stupirsene…
Girando
stancamente su se stesso, Emir si sforzò di sorridere e rispose: «Che sorpresa,
signor Dale! Beve un bicchiere con me?»
Oltre agli
innumerevoli altri aspetti che Emir amava della propria casa, essa aveva
l’incommensurabile pregio di mantenersi fresca anche in estate; il precedente
proprietario, che l’aveva ipotecata svariate volte e l’aveva perciò perduta a
suo vantaggio, aveva avuto quantomeno il buonsenso di costruire pareti
enormemente spesse per mantenere le temperature più miti possibili. Una volta
visto il resto della casa, naturalmente, diveniva chiaro che il suo buonsenso
si era limitato a questo: con i suoi corridoi ciechi e le sue stanze senza
finestre, era alquanto evidente che l’intero progetto era l’incubo di un
architetto.
L’ingresso
della villa sembrava perciò situato in una fascia climatica tutta sua rispetto
all’esterno. La signora delle pulizie, che era venuta a rinfrescare e a
rassettare la casa per tutta la durata della spedizione, aveva lasciato
qualcosa in frigo in previsione del suo ritorno: Emir ebbe di che ringraziare
il suo sesto senso perché, oltre a un’insalata di cavolfiore e lenticchie che
egli non aveva assolutamente alcuna intenzione di mangiare, quantomeno trovò
una bottiglia di bianco frizzante da offrire al suo ospite, con la speranza che
Dale non si soffermasse troppo a guardare l’annata. Per fortuna, quel giorno
era un po’ troppo caldo perché persino un uomo come lui vi prestasse attenzione.
Dale, che
appariva estenuato e sudato in un costoso quanto improbabile completo di lino
bianco, lo ringraziò con lo sguardo mentre accettava il bicchiere che gli
porgeva, accavallando le gambe sul divano del salotto che Emir teneva riservato
per gli ospiti. Aveva l’aria di volergli dire grandi cose, ed Emir gli gettò
uno sguardo di cortese invito a parlare mentre versava un secondo bicchiere di
vino.
Dopo un
primo sorso, Dale pareva non poter smettere più di sorridere.
«Mi
dispiace aver fatto irruzione così, Emir, ma non potevo proprio fare a meno di
venire qui a complimentarmi con lei per l’ottimo lavoro svolto. So che lei non
segue la borsa, ma forse le farà piacere sapere che abbiamo avuto un rialzo di
due punti percentuali da quando si è saputo di Mew… e immagino che capisca
anche da solo quale guadagno questo porti all’azienda.»
Emir
s’intendeva di borsa né più né meno che di cucina francese, ma la parola rialzo era sempre promettente. Ricambiò
stancamente il suo sorriso. «Certo, posso intuirlo.»
«Non ne
dubitavo. Ora, Emir, sia detto tra noi…» La voce di Dale si abbassò di una nota
in tono di complicità, tanto che Emir si chinò d’istinto verso di lui. «Ancora
non dovrei dirle niente, perché sa come sono queste questioni, e bisogna prima
ottenere l’approvazione del consiglio e via discorrendo. Ma sono quasi certo
che andrà così, perciò ho proprio voglia di dirglielo: credo che riusciremo a
darvi un grosso contributo nel prossimo trimestre. Glielo volevo anticipare di
persona perché, lei sai com’è… le buone notizie mettono tutti di buonumore. O
sbaglio?»
Un grosso
contributo voleva dire un aumento di budget. Tutte le ulteriori richieste di
fondi che aveva inoltrato dopo lo spegnersi dell’entusiasmo per la creazione di
Porygon erano state respinte con le più svariate motivazioni, che solitamente
erano tutte riducibili a una singola spiegazione di fondo: i soldi extra
sarebbero arrivati dopo aver visto i primi risultati del progetto dei fossili,
ossia le prime grosse entrate. Dopotutto la Silph doveva pur guadagnare
qualcosa dal laboratorio: investire di più in progetti non vincenti avrebbe
significato rischiare di pareggiare le entrate e le uscite. Era sempre stato
questo il grosso problema della Silph: premiare poi piuttosto che investire prima,
e questo era il motivo per cui Emir doveva barcamenarsi qua e là cercando una
soluzione adatta per ogni esigenza. Ma ora finalmente il denaro stava spuntando
fuori: ciò avrebbe significato, finalmente, maggiori fondi per il progetto di
rigenerazione dei fossili che era rimasto in stallo anche troppo a lungo, e
maggiori fondi per la strumentazione clinica, come Rotwang gli chiedeva ormai
da almeno nove mesi. Certo, la maggior parte sarebbe stata naturalmente da
destinarsi a Mew, ma Emir era sempre stato bravo a spalmare poco burro su molto
pane: il pensiero non lo preoccupava per niente.
«È
fantastico, signor Dale… la ringrazio moltissimo.»
Dale gli
gettò un’occhiata molto più che compiaciuta sopra il bordo del suo calice. «Oh,
non ringrazi me, Emir, ringrazi piuttosto il Presidente, e naturalmente gli
azionisti. Dopotutto, io ho solo fatto la proposta… che cosa vuole che sia.»
Dale
s’incensava di fronte a lui tanto platealmente da riuscire persino genuinamente
simpatico in quei momenti. Era forse l’unica azione umana e davvero amichevole
ch’egli gli avesse mai visto compiere e che gli faceva talora ricordare – ma
non troppo spesso – che anche Dale era un uomo come lo era lui, e in fin dei
conti non poteva incarnare la Silph in ogni momento della sua vita.
«I miei
colleghi gliene saranno grati.»
«Beh,
faranno bene a esserlo, non le pare?»
Ma subito
dopo queste facezie, Dale tornò a essere il rappresentante dell’azienda e a
comportarsi come tale. Si rigirò per qualche istante il bicchiere nella mano,
osservandone pensierosamente le volute di vino che si inerpicavano sul vetro.
Era tornato serio. «Ora parliamoci da professionisti, Emir… lei sa quanto il
laboratorio mi stia personalmente a cuore. Che cosa può già dirmi riguardo a
Mew? Naturalmente quello che mi dirà rimarrà in questa stanza, perciò parli
pure liberamente.»
Per
qualcuno che non fosse uno scienziato, quella domanda non doveva riservare
particolari difficoltà, e probabilmente Dale l’aveva posta in perfetta
buonafede. Ma, a differenza sua, Emir era uno scienziato, e quella domanda lo
metteva più a disagio di quanto il suo superiore potesse immaginare.
Sbilanciarsi in qualsiasi modo, senza aver ancora compiuto quasi nessun tipo di
studio o analisi, sarebbe stato profondamente antiscientifico: ma in quel
momento erano soli, per fortuna, ed egli era ragionevolmente certo che Dale non
avrebbe avuto alcun interesse a divulgare notizie affrettate. I suoi interessi
personali in quel progetto erano troppi per poter correre il benché minimo
rischio.
«Senza
effettuare qualche test genetico e simulazione di lotta non ci è possibile dir
molto, e ovviamente non ci era possibile realizzarli in piena sicurezza al di
fuori del laboratorio, quindi per quanto riguarda le statistiche non posso
ancora dirle nulla. Posso però anticiparle che conosce la mossa Trasformazione»
precisò.
Gli occhi
di Dale si fecero istantaneamente più grandi. «Trasformazione? Ma credevo che
solo Ditto potesse…»
Quest’informazione
aveva riscosso esattamente l’effetto che Emir sperava.
«Questo è
quello che si è sempre creduto almeno dal diciannovesimo secolo a oggi» ammise
annuendo gravemente. «È per questo che non possiamo ancora sbilanciarci troppo.
Il rischio di sbagliare è enorme, e la sola scoperta di Mew basta da sola ad
aggiungere un capitolo nei libri di biologia. Ancora dobbiamo finire di
studiare l’autopsia di M1, perciò lei capisce che i dati a nostra disposizione
finora sono…»
A queste
parole Dale ebbe un movimento improvviso, come se gli venisse in mente qualcosa
che era stato sul punto di dimenticare. «Ah già, proprio a questo proposito…
c’è una cosa che non capisco, Emir. Abbiamo notato che a firmare il referto
dell’autopsia siete stati lei e il dottor Lestournelle. Ora, non che non ci
fidiamo di voi, ma il medico è il dottor Rotwang. Avrebbe dovuto firmare lui, è
pagato per questo. C’è stato qualche problema?»
Sarebbe
stato così semplice raccontargli tutto. Dale ce l’aveva con Rotwang da ormai
qualche mese, semplicemente perché Rotwang aveva protestato con qualcuno più in
alto di lui per la questione dei fondi: naturalmente non aveva ottenuto nulla,
ma Dale, a ogni modo, si era sentito scavalcato.
Il
contratto di Rotwang, esattamente come il suo, non prevedeva in nessun caso
qualcosa come l’obiezione di coscienza: se Dale avesse saputo che Rotwang si
era semplicemente rifiutato di effettuare l’autopsia, avrebbe di certo preso
provvedimenti seri. Per la verità, Emir non si era ancora del tutto dimenticato
di come l’aveva chiamato Rotwang, quel giorno nella tenda, e non poteva dire in
tutta sincerità che si sarebbe disperato poi troppo per un suo ammonimento
formale. Ma fare la spia non rientrava proprio nel suo genere, perciò,
schiarendosi discretamente la voce, rispose: «Rotwang ha avuto un attacco di
dissenteria. Probabilmente deve aver bevuto per errore dell’acqua infetta. Poi
lo sa come sono questi tedeschi: il referto l’ha letto, ma non ha voluto
firmare perché gli sarebbe parso di commettere un illecito…»
Gli occhi
di Dale si spalancarono per lo stupore. «Dissenteria, ha detto?»
Emir si
strinse nelle spalle cercando di simulare un’espressione innocente. Possibile
mai che, dopo tutto quello che Rotwang gli aveva fatto passare, ora gli
toccasse pure di coprirgli le spalle? «Una cosa terribile, terribile. Nel cuore
della giungla, senza bagno, senza antibiotici… una settimana d’inferno. Mi è
quasi dispiaciuto per lui.»
Dale non
sembrava molto convinto. «Ne è certo, Emir?»
«Beh,
naturalmente non potrei giurare che fosse proprio dissenteria, così a occhio.
Ma le garantisco che ci somigliava molto. Forse poteva essere una parassitosi
intestinale…»
Se anche
avesse parlato di una cancrena intestinale, o di un tumore del sondino
nasogastrico, o di qualsiasi altra cosa assolutamente inesistente e
impossibile, Dale sarebbe comunque stato troppo ignorante in materia per
poterlo contraddire. Ragion per cui, con l’espressione particolarmente delusa
di qualcuno che avesse appena visto sfumare di fronte a sé una magnifica
occasione, egli tornò a bere il proprio vino borbottando: «Beh, se le cose
stanno così, immagino che non si potesse fare altrimenti.»
«No,
signore» confermò Emir con tutta la convinzione possibile, desiderando tanto
che in quel momento Rotwang potesse essere lì ad ascoltare per rendergli il
favore. Non che l’avrebbe mai fatto, naturalmente, ma forse avrebbe mutato
almeno un po’ atteggiamento se avesse saputo di essergli debitore di qualcosa,
e che egli non era poi così venduto alla Silph come credeva. «Anzi, visto che
parliamo di antibiotici…»
«Tra un
minuto, Emir, tra un minuto. Dopo la bella notizia, ne ho una brutta da
comunicarle… ma non se la prenderà troppo, spero.»
Una brutta
notizia, quando a riferirla era Dale, poteva essere una cosa sola: tagli di
fondi. Ma come poteva essere, quando appena un minuto prima gliene aveva
garantito un incremento? Che fosse piuttosto un licenziamento, allora? Ed Emir
come avrebbe fatto a comunicarlo ai suoi colleghi?
«Devo
allarmarmi?» domandò con cautela, sforzandosi miseramente di sorridere.
«Nulla di
tutto quello a cui sta pensando» garantì Dale in tono compiaciuto. La qual cosa,
se possibile, contribuì a inquietarlo ancora di più. «Solo una comunicazione da
parte dell’azienda. Abbiamo deciso di mettere in pausa il progetto di
rigenerazione dei fossili. Solo per qualche mese, sa. Per il momento, vogliamo
che tutti gli sforzi del laboratorio si concentrino sulla ricerca su M2.»
Se si
fosse trattato un licenziamento, sarebbe stato quasi meglio.
Di fronte
all’ineluttabilità di quell’informazione e alla totale impossibilità di
comunicarla ai suoi colleghi, sentendosi annegare, Emir tentò di dibattersi per
prendere tempo come di fronte a una fiumana che lo tirasse a fondo.
«Ma…
credevo che avesse detto che i fondi sarebbero aumentati» protestò a bassa
voce, cercando di suonare ragionevole e poco aggressivo. «Lei sa che io sono
sempre stato bravo a far quadrare i conti. Le posso garantire che…»
«Oh, non
c’entrano i conti, sa» ribatté Dale con indifferenza, senza neppure guardarlo.
«Ma abbiamo convenuto che la cosa migliore è non disperdere le forze. Vorremmo
che tutta l’équipe si concentrasse anima e corpo sullo studio di Mew per una
semplice questione di priorità.»
«Signor
Dale, ascolti… sono anni che lavoriamo sul progetto dei fossili. Si tratterebbe
di concludere un percorso. Cerchi di capire…»
«Perché
non cerca lei di capire me, invece?» riprese Dale, in un tono che cominciava
chiaramente a tradire il suo nervosismo. Non gli piaceva sentirsi contraddire,
non quando una cosa gli pareva tanto chiara e lampante, e cominciava a
spazientirsi. «Non sono io a scegliere. C’è un consiglio di amministrazione e
ci sono degli azionisti che vogliono dei risultati concreti, e subito. Gli
azionisti non vogliono investire su qualcosa che non rende. Le ho già detto che
abbiamo avuto una grossa crescita in borsa solo grazie all’annuncio della
scoperta, e il consiglio pensa che sarebbe meglio approfittare di questa
congiuntura. Lei s’immagina che crollo borsistico rischieremmo se venisse fuori
che stiamo lavorando su tutt’altro?»
«Mew non
sarà trascurata in alcun modo, signor Dale, glielo posso garantire. Io e il
dottor Rotwang siamo disponibili a fare doppi turni, e credo che anche gli
altri…» Rotwang l’avrebbe ucciso se l’avesse costretto a fare doppi turni, ma
l’avrebbe ucciso anche se avesse perso i fondi per la ricerca sui fossili alla quale
egli aveva dedicato tutti gli ultimi anni, a un passo appena dalla
realizzazione del progetto. Tutto ciò che gli rimaneva da scegliere era per
quale motivo litigare con lui, e probabilmente anche col resto dell’équipe, e
francamente Emir preferiva passare per uno sfruttatore tirannico e stacanovista
che per un venduto. Se l’unico modo per ottenere i fondi per il progetto era
quello di richiedere a tutti straordinari doppi turni non pagati, i membri del
suo team avrebbero protestato, certo, e si sarebbero infuriati, ma avrebbero
dovuto per forza riconoscere anche loro che quella era l’unica scelta
possibile.
Di fronte
alla sua evidente difficoltà Dale ebbe almeno la buona grazia di mostrarsi
contrito, anche se non gli riuscì molto bene.
«Mi
dispiace, Emir, davvero, e spero che lei capisca che questo non vuole
assolutamente dire che noi intendiamo gettar via tutto il lavoro fatto sinora.
Lei capisce che non converrebbe neanche a noi: sa bene quanto abbiamo speso per
questo progetto… Ma io non ho potere decisionale, Emir, lo sa anche lei, e sono
gli azionisti ad avere l’ultima parola. In fin dei conti si tratta di
posticipare il lavoro di quanto? Forse sei, otto mesi al più? Lei non pensa che
si potrebbe aspettare? Per parte mia, posso garantirle che eserciterò sul
consiglio tutta la pressione che potrò per far sbloccare i fondi il prima
possibile. Naturalmente, s’intende che questo dipende anche da voi… dai
risultati che saprete portare.»
Emir si
sentiva tanto attonito da non riuscire a parlare, come travolto da quelle
futili promesse. Che cosa voleva dire tutto ciò? Ma Dale, o almeno qualcuno
lassù ai vertici della Silph, aveva almeno una vaga idea di cosa comportasse
scoprire un nuovo Pokémon? Di quanti test, verifiche, certezze vi fosse bisogno
anche solo per potersi pronunciare con cautela sulle sue statistiche?
«Di quali
risultati stiamo parlando esattamente?»
Dale si
strinse nelle spalle come se la cosa non avesse la minima rilevanza, per
qualcuno che non fosse del mestiere.
«Me lo
dica lei, Emir. L’azienda non intende aspettare oltre la prima metà di
settembre per fare una prima conferenza stampa ufficiale. Che cosa possiamo
dare in pasto ai giornalisti per quella data?»
Con la
sensazione di poter svenire da un momento all’altro, Emir cercò a tentoni con
la mano il bordo del tavolo dietro di sé e disse con voce sorda: «Il nome.»
L’espressione
noncurante di Dale gli morì in viso. Dopo un lungo angoscioso attimo di
silenzio, sforzandosi di sorridere, ma in modo non particolarmente convincente,
mormorò: «Bisognerà trovare qualcosa di più succoso, non le pare?»
«Il nome» ripeté
Emir. «Colore, peso, misure generiche. Possiamo sistemare e pubblicare quel
poco che è emerso dall’autopsia di M1. In un mese e mezzo non possiamo neppure
ottenere risultati attendibili per gli elementari test del DNA, e poi come
facciamo? Con un solo soggetto in vita… no, signor Dale, mi dispiace, ma non si
può fare. Il nome e i risultati dell’autopsia. Di più non posso proprio
garantirle.»
Per tutta
risposta, Dale emise una risatina nervosa, quasi isterica. «Lei non ha capito,
Emir. Noi non faremo una conferenza stampa per annunciare cose che i
giornalisti sanno già. Credo che lei non si renda ben conto di quello che c’è
in gioco… lei sembra non accorgersene, ma ha lo stesso interesse che abbiamo
noi in borsa, eppure sembra che non gliene importi.»
«A me
invece sembra che lei non sappia che cos’è un’indagine in doppio cieco, se è
per questo.»
Quando
Emir si rese conto del tono che aveva usato, era troppo tardi.
L’arroganza
del suo tono parve ridurre improvvisamente Dale alla calma, ma a una calma
minacciosa e inquietante, del tutto priva di empatia. Con le labbra ridotte a
fredde linee sottili e il naso che fremeva di rabbia, Dale sorrise.
«Sì, so
che cos’è un’indagine in doppio cieco, dottore» ribatté con la massima calma.
«Non commetta l’errore di dimenticarsi per chi lavoro, e che sto un po’ più in
alto di lei. Ma gliel’ho detto, non sono io a decidere: è la borsa, sono gli
azionisti… la borsa vuole dei risultati, Emir. Lei conosce questi circoli
viziosi: se l’azienda non guadagna, non ci saranno mai fondi per i fossili. Mi
dispiace tanto che le cose stiano così, ma l’azienda non lavora pro bono, e al suo posto io non
sottovaluterei il rischio che cerchi qualcuno che sappia produrre risultati
corrispondenti alle aspettative…»
Dunque i
patti erano quelli, Dale non avrebbe potuto essere più chiaro di così.
Risultati chiari, immediati, subito, per settembre, e più che soddisfacenti, o almeno spendibili
dal punto di vista mediatico; altrimenti non solo il progetto sui fossili
sarebbe rimasto bloccato, ma gli avrebbero portato via Mew, e al suo posto
avrebbero trovato qualcuno più giovane, più pronto e più grato di lui alla Silph…
La
sensazione d’esser stato sconfitto e costretto a una resa totale,
incondizionata, era così umiliante da sentirsene mancar l’aria. Se solo fosse
stato un uomo diverso e un po’ più coraggioso, e un po’ più devoto agli ideali
della scienza piuttosto che al suo lavoro, Emir sarebbe rimasto fermo sulle
proprie posizioni e avrebbe ribadito che quello che la Silph richiedeva da lui
non era né professionale né possibile, e allora forse le minacce di Dale
sarebbero cadute nel vuoto. Ma della Silph egli aveva troppo bisogno, e aveva troppa
paura di venirne cacciato, e non avrebbe mai avuto il coraggio di dir di no…
«Possiamo
annunciare il tipo» mormorò. «Forse qualche mossa, visto che Trasformazione la
conosciamo già. Ma non possiamo far di più… in un mese…»
Il signor
Dale sorrise con l’aria di qualcuno che fosse molto soddisfatto d’esser
riuscito a ricondurre alla lucidità un bambino irragionevole.
«Il tipo e
qualche mossa, siamo d’accordo, allora» concluse in tono profondamente
compiaciuto. «Io ho sempre puntato su di lei, fin dal nostro primo colloquio.
Se lo ricorda?» Emir si sforzò di sorridere. «Sì, è così. Io e lei ci siamo
sempre intesi perfettamente. I nostri interessi coincidono, dopotutto, o no?»
«Ho
bisogno di fare una doccia, signor Dale» disse Emir un po’ troppo seccamente,
per aggirare la domanda; ma Dale non ne parve minimamente turbato. Sapeva
benissimo che Emir era arrabbiato e mortificato verso di lui e verso se stesso,
e la cosa non lo turbava minimamente. «Il viaggio è stato molto…»
«Oh, lei
ha ragione, dottore. Sono apparso all’improvviso senza neppure chiederle il
permesso… la lascio subito. Restiamo d’accordo così, allora? Il tipo e almeno
due o tre mosse, sì…?»
Certo, dal
suo punto di vista doveva essere così facile, così semplice poterlo garantire.
E dopotutto, che ci voleva? Quello che per la scienza richiedeva settimane o
mesi o anni di lavoro, forse che la Silph non poteva richiederlo in pochi
giorni…?
«Arrivederci,
signor Dale.»
Quando
finalmente il suo elegante scocciatore se ne fu andato, tra innumerevoli
sorrisi, ed egli l’ebbe sorvegliato allontanarsi in solitudine nel suo completo
bianco lungo la strada irrorata di sole, la sua casa non gli parve più
confortante quanto prima.
Quella era
la prima volta che Emir si trovava solo da quando la spedizione era partita, un
mese prima, ed era la prima volta in vita sua che la solitudine e il silenzio
lo sconcertavano. Da quando si era trasferito a Isola Cannella, una vita prima,
egli aveva sempre vissuto solo, e del silenzio della sua grande casa vuota si
era sempre beato, crogiolandosi nella sensazione vivificante d’avere un piccolo
luogo privato dal quale il resto del mondo era escluso – ma il silenzio, quel
giorno, lo riempiva di sgomento.
Si sforzò
di analizzare la situazione mentre vagava lungo le stanza vuote, con la strana
sensazione di star cercando qualcosa. Era poi tanto grave che la Silph avesse
bloccato il progetto dei fossili, o tanto imprevedibile che non solamente
l’azienda, ma il mondo intero attendesse col fiato sospeso le pubblicazioni di
quella scoperta? Sarebbe stato poi giusto sottrarre alla scienza i prodigi di
Mew, lasciando in bilico per mesi le migliaia di scienziati che in quel momento
avrebbero venduto le loro madri e le loro anime per poter anche solo vedere
quel miracolo della natura, che era però proprietà privata della Silph, e le
cui informazioni potevano perciò passare solo attraverso di loro?
Certo,
posta così, la questione era facile a risolversi, e la posizione della Silph
appariva quasi nobile: se solo fosse riuscito a iperrazionalizzare e a ridurre
definitivamente il problema in quei termini, Emir si sarebbe a buon diritto
potuto ritenere assolto di fronte a se stesso. Ma la Silph non investiva certo
sul progresso della scienza; eppure neppure questo pensiero non l’avrebbe
tormentato poi così tanto, se solo egli avesse potuto illudersi di non essere
che una vittima di quel meccanismo e di non avervi collaborato affatto.
Ciò che
veramente lo tormentava – e che non l’aveva turbato mai prima d’allora! – era
il pensiero d’aver ceduto alle minacce di Dale perché aveva paura di perdere il
lavoro. Tutto ciò ch’egli aveva sempre fatto per la Silph negli ultimi sei anni
l’aveva fatto perché quel lavoro l’amava profondamente, il che sarebbe stato
nobile, se l’avesse amato in quanto uomo di scienza e non in quanto uomo di
carne. Ma tutto ciò ch’egli possedeva della scienza erano il talento,
l’intuizione, il genio: la devozione e l’ardore disinteressati, quelli sì che
gli erano sempre mancati. Di fronte alle minacce di Dale, l’uomo di scienza
avrebbe difeso la propria missione; ma lui, Emir, che quella missione non
l’aveva avvertita come tale mai, aveva avuto paura e aveva preferito restare
anche a quelle condizioni. Aveva chinato il capo e aveva obbedito alle ragioni
dell’azienda, ed era stato vile e meschino, e aveva svenduto il laboratorio.
Una doccia
gelida non riuscì a placare questa sensazione: gli rimaneva appiccicata
addosso, continuò a rimanere aggrappata da qualche parte in fondo alla sua
gola, egli la sentiva quando respirava…
Girellò
per un po’ nella sua grande casa vuota, labirintica, accese e spense la luce
nelle stanze in cui non andava mai, di cui quasi non ricordava l’arredamento,
cercando invano qualcosa che lo placasse. Quella casa era troppo grande e
dispersiva per una persona sola, e l’aveva ottenuta grazie alla Silph e al
proprio genio: era la vasta reggia della sua ambizione, ma neppure questo
riusciva a farlo sentire meglio.
Le pareti
erano spesse e umide, la sua villa, con ogni probabilità, era il luogo più
fresco di tutta l’Isola. Al di fuori di quella casa, malgrado fossero già
passate le sette, l’estate infuriava ancora e l’aria era torrida e
irrespirabile, ma Emir pensò che sarebbe stato meglio uscire, in ogni caso, per
combattere quel nodo alla gola che non lo lasciava respirare. Forse avrebbe
potuto passare in Laboratorio, sistemare un po’ di documenti, portarsi avanti
col lavoro… assieme alla sua casa, quello era il luogo in cui si era sempre
trovato più a suo agio, e non solamente in tutta l’isola, ma in tutta la sua
vita. Sperando che almeno là sarebbe stato capace di tornare a respirare, Emir
si vestì in fretta e si avviò.
Quando
arrivò non c’era già più nessuno: le casse dei materiali della spedizione erano
sistemate in corridoio, davanti all’ingresso, e qualcuno si sarebbe occupato
più avanti di collocarle nei rispettivi uffici…
Ma la
maggior parte di quel materiale riguardava il progetto dei fossili: nei
prossimi mesi sarebbe dunque stato del tutto inutile. Avrebbe dovuto lasciar
detto a qualcuno di spostarle direttamente in magazzino, in modo da evitare di
far fare del lavoro inutile… sì, ma poi che cos’avrebbero detto i suoi
colleghi, quando non avrebbero trovato il materiale nei loro uffici, quel
lunedì?
Il nodo in
fondo alla sua gola si fece se possibile più grande, più insopportabile. Emir
superò le casse sforzandosi di non guardarle, ma al momento di dirigersi verso
il suo ufficio si domandò se Mew fosse già stata sistemata nella sua stanza.
Quando
ancora si trovava in Guyana, Emir aveva concordato per telegramma con l’azienda
la necessità di ricreare in laboratorio un ambiente il più possibile simile a
quello della giungla, dato che non era possibile osservare Mew nel suo habitat
naturale, e Dale si era impegnato a farlo realizzare a tempo di record. Delle
possibilità della Silph egli non dubitava, ed era certo che avessero fatto un
ottimo lavoro, con tutti i mezzi a loro disposizione. Tanto valeva dare
un’occhiata, prima di mettersi al lavoro.
Quando
entrò nella stanza, fu come ritrovarsi di nuovo nella giungla. Tutto, tutto era
come egli ricordava: avevano piantato alberi a basso fusto, rampicanti, fiori
d’importazione… tutto ciò che di appartenente alla giungla potesse essere
acquistato col denaro, trasportato su un aereo e fatto entrare in quella
stanza, era lì. L’umidità e la temperatura erano state regolate per adottarsi a
un clima equatoriale. Mentre i suoi piedi calpestavano pregiata erba amazzonica
importata, ed egli inalava aria profumata di fiori e di frutta, Emir avrebbe
potuto illudersi di trovarsi ancora là, in Guyana, e di non esserne tornato
mai. Chissà quanto aveva speso la Silph per tutto quel materiale: M2 valeva di
certo più di qualsiasi cifra.
S’inoltrò
nella stanza con la curiosa sensazione di non essere solo. Era ragionevolmente
certo che Mew fosse già stata portata lì, per darle il tempo di riambientarsi
dopo il lungo viaggio in mare, ma non riusciva a vederla, e questo lo turbava:
adoratrice com’era della compagnia degli uomini, era strano che non fosse già
saltata fuori per salutarlo e farsi coccolare. Ma allora dove…?
Accovacciato
al suolo, dietro il tozzo tronco di un albero che gliene aveva sino ad allora
impedita la visuale, c’era Rotwang.
Mew stava
mangiando qualche cosa dalla sua mano, ma improvvisamente, quando percepì con
la coda dell’occhio la sua presenza, si sollevò di scatto, balzando nell’aria
con un impeto di gioia, e si avventò contro il suo petto. Al contatto colla
peluria delicata del suo muso, il groppo che da ore pareva soffocarlo in fondo
alla sua gola si attenuò un po’ – ma che ci faceva lì Rotwang?
«Ehi…
Fuji.» Per la prima volta da quando lo conosceva – o forse in tutta la sua
vita, chissà – Rotwang lo guardò come se si sentisse colto in fallo. «Me ne
stavo andando.»
Emir si
affrettò a fermare con la mano il suo primo tentativo di alzarsi in piedi. Ma
quando mai Rotwang era stato così disponibile, poi? «Lascia stare… ero passato
solo a dare un’occhiata. Devo andare in ufficio a compilare un po’ di roba,
perciò rimani pure.»
«Sono
venuto solo a fare dei controlli» borbottò Rotwang. «Le pulsazioni e la
pressione, sai… per controllare che il viaggio non l’abbia scossa troppo.»
Rotwang
doveva essere veramente imbarazzato d’essersi fatto trovare lì, se aveva
trovato una scusa così pateticamente, palesemente falsa. Ma quella era anche la
prima volta che Rotwang si limitava a difendersi piuttosto che attaccarlo
gratuitamente, ed Emir non ritenne saggio infrangere una così miracolosa
congiuntura. Fingendo di non accorgersi che era assai inconsueto per un medico
prendere rilevazioni su un paziente in T-shirt e vecchi jeans slavati, seduto
sull’erba e senza alcuno strumento, Emir si limitò ad annuire con aria di
comprensione.
«Capisco.
Immagino che vada tutto bene, sì?»
Rotwang
sapeva ch’egli sapeva che stava mentendo, ma gli fu grato egualmente di non
averlo dato a vedere. Si strinse nelle spalle. «Tutto nella norma. È molto
serena. Sembra molto felice di essere qui.»
Quando
Emir posò due dita sul suo muso, tra i suoi occhi, e massaggiò piano la sua
fronte, Mew pareva veramente felice
di essere lì. Eppure era stata sradicata dal suo continente per venir rinchiusa
in una stanza di un laboratorio, e il suo compagno era morto lontano da lei
perché loro non erano stati in grado di salvarlo. Allora perché i suoi occhi
esprimevano tanta gratitudine?
«Sì,
sembra molto felice» mormorò.
Quel nodo
in fondo alla gola era tornato, si era fatto più intenso e più tormentoso. Ma
perché? Era forse per gli occhi azzurri di Mew?
D’un
tratto una parte di lui sentì che confessare lo avrebbe fatto sentire meglio.
«Ho
parlato con Dale» disse con voce sorda.
Colto di
sorpresa, Rotwang aggrottò un sopracciglio e lo guardò come se si aspettasse
che dicesse qualcos’altro.
«Già, fate
sempre comunella, voi due» ribatté dopo un po’, in un chiaro tentativo di
invitarlo a proseguire.
«Ci hanno
bloccato i fondi per il progetto dei fossili.»
Quando
Emir si decise a chinare gli occhi su di lui, il volto di Rotwang era
corrucciato e perplesso. Stava per chiedergli qualcosa, ma alle sue domande
Emir non avrebbe mai saputo rispondere, allora proseguì macchinalmente per impedirgli
di parlare. «Dale vuole che ci concentriamo unicamente sul progetto di M2, e
ora tutti i finanziamenti sono vincolati a quello. Dobbiamo essere pronti a
rilasciare pubblicamente il tipo di Mew per la metà di settembre. Ho detto di
sì.»
«Ah» disse
solamente Rotwang. Non sembrava particolarmente turbato, né tantomeno furioso
quanto avrebbe dovuto essere. «Bella merda, eh?»
Se Emir
aveva confessato tutto questo proprio a lui, non era per qualche inconscio
desiderio di uno scontro catartico che lo riconciliasse con se stesso o per il
desiderio d’esser rimproverato, ma semplicemente perché Rotwang era il primo
essere umano che avesse avuto la sfortuna d’incontrare quel giorno dopo Dale, e
bisognava pure ch’egli parlasse con qualcuno. Non è che avesse precisamente
voglia di litigare, ma quando tutto ciò che ottenne di sentirsi dire dal suo
più acerrimo nemico, alla notizia che aveva appena accettato di bloccare un
progetto che andava avanti da quattro anni, fu bella merda, eh?, Emir si sentì profondamente spaesato. Non provava
neppure a offenderlo?
«Non hai
nient’altro da dire?» chiese.
«C’era da
aspettarselo, Fuji, e se non te lo aspettavi sei un idiota» rispose saggiamente
Rotwang. Quantomeno, sembrava tornato in sé. «I fossili non fanno guadagnare
quanto il Pokémon più raro del mondo. Io me l’aspettavo, comunque.»
«Che
cosa?» Se solo Emir avesse potuto spalancare gli occhi ancora un altro po’. «Tu
ti aspettavi che ci avrebbero bloccato il progetto? Ma se sei venuto qui per
questo!»
Rotwang
era emigrato dalla Germania perché l’unico desiderio che avesse al mondo era di
partecipare al progetto di rigenerazione dei fossili condotto dalla Silph SpA,
e contro la Silph si era scagliato e infervorato perché i fondi non erano mai
abbastanza e i macchinari erano mediocri e qualsiasi altra cosa – e ora
improvvisamente era d’accordo con
loro. Aveva rinunciato ai fossili, per i quali si batteva da quattro anni. Ma
perché?
Emir si
sedette in silenzio accanto a lui, cosa che spinse Mew a trillare di gioia, per
chissà quale motivo. Il giorno seguente – o forse anche l’ora seguente, senza
bisogno di aspettare tanto – Rotwang sarebbe tornato a odiarlo e ad aggredirlo
con qualsiasi pretesto; ma ora le cose non stavano così.
«Ho detto
io di sì a Dale.»
«Questo è
perché sei un coglione.»
«Ho dovuto
dirgli di sì. Se non l’avessi fatto, ci avrebbero licenziati per assumere
scienziati più giovani.»
Di fronte
all’insistenza delle sue parole, Rotwang ebbe un moto d’impazienza che fece
sobbalzare Mew di protesta. «Vuoi
sentirti dire da me che hai fatto bene, Fuji? Cazzo, ma non ci arrivi a capirlo
da solo?»
Un vero scienziato gli avrebbe detto
di no, pensò Emir, si sarebbe rifiutato. Avrebbe difeso i
diritti e la dignità della scienza, e avrebbe detto di no. Ciò che disse
invece fu: «Lo so.»
Rotwang
parve calmarsi un poco a quella dichiarazione. Tornò a tendere la mano a Mew in
segno di scusa, e quella l’accettò prontamente e la strinse tra le piccole
zampe. «Beh, hai fatto bene, Fuji. Ti sei sempre piegato a novanta davanti alla
Silph, e hai sempre sbagliato, ma stavolta non potevi fare altrimenti. Dale ti
aveva mai minacciato prima?»
Emir
dovette fare mente locale per qualche minuto. Non poteva onestamente dire che
lui e Dale fossero mai andati d’accordo in senso assoluto, ma per quanto
indietro cercasse di spingersi con la memoria, addirittura fino al giorno del
loro primo incontro, non poteva dire di ricordarsi alcuna minaccia di quel
tipo.
«Beh, no,
ma… non credo che ne abbia mai avuto bisogno. Non era mai stato così
irragionevole, e io non mi ero mai opposto. Non come oggi, comunque.»
«Wow, tu
che osi dire di no a Dale… devo veramente crederci?» Emir dovette esercitare
uno sforzo titanico su se tesso per non rinfacciargli tutte le volte che aveva
discusso per telefono con Zafferanopoli per i suoi capricci, ma in qualche modo
riuscì a non rispondergli. Non voleva litigare davanti a Mew. «Beh, comunque
stiano le cose… se Dale è arrivato a minacciarti di licenziarti, dev’essere
perché la Silph preme veramente su
questo progetto. I contatti che abbiamo firmato non ci tutelano, quindi penso
che potrebbe farlo veramente, Fuji. Lui a questo laboratorio ha vincolato tutta
la sua carriera, dopotutto.»
Il
ragionamento di Rotwang era ineccepibile, eppure, in fondo alla propria gola,
Emir sentiva ancora qualcosa di pungente e amaro, doloroso. Non avrebbe neppure
saputo spiegarne il motivo, dato che mai prima di allora egli si sarebbe
neppure sognato di mettere in discussione i dettami della Silph: era una
società per azioni, non un’università insignita del dovere morale di perseguire
gli alti e puri ideali della scienza, ed era giusto che investisse il proprio
denaro nel modo più redditizio; chi non fosse stato d’accordo, non era del
resto obbligato a lavorare nel privato. Eppure, quando si trattava di Mew, Emir
proprio non riusciva a pensarla così.
«Avrei
dovuto almeno provare a far dilatare i tempi. Un solo mese per dichiarare con
certezza il tipo… è pura follia.»
«Tu e
Lestournelle dovrete fare doppi turni. Io e Dolarhyde avremo bisogno di almeno
dieci giorni solo per gli esami del DNA, ma vedrò quello che posso fare»
calcolò Rotwang sovrappensiero. Continuava a non sembrare minimamente
arrabbiato, neppure di fronte alla mole di lavoro che li aspettava, e ne
ragionava lucidamente e razionalmente senza il minimo accenno di rabbia.
«Che c’è,
Rotwang? Sei d’accordo con la Silph, adesso?»
«Che ti
aspettavi che ti dicessi, Fuji? Che ti spronassi a farci licenziare tutti?» Dal
punto di vista di qualcuno emigrato appositamente per lavorare per la Silph,
quella poteva costituire da sola una valida risposta, ma Rotwang, che ancora
aveva gli occhi infissi negli occhi di Mew, non aveva ancora finito di parlare.
Per qualche motivo, Emir sentì che ciò che era in procinto di dire era
stranamente importante, e incosciamente si protese verso di lui. «Voglio dire… possiamo
davvero permetterci di rischiare che ce la portino via?»
Buongiorno a tutti!
A sessione invernale finita mi sono presa un paio di giorni
per copiare questo capitolo, piuttosto breve e soprattutto scritto su un numero
limitato di fogli volanti, e pubblicare (forse per la prima volta nella mia
vita, chissà) entro un tempo decente.
Riguardo a questo capitolo non ho molto da dire, ma colgo l’occasione
per chiedere come vedete il formato del testo: negli ultimi mesi sto avendo dei
fastidiosissimi problemi con l’HTML, soprattutto per quanto riguarda la
dimensione e il font, e sto cercando di risolverli senza troppo successo.
Ciò detto, ringraziando come al solito cristal_93 per la
recensione, non mi rimane altro che mandare un enorme abbraccio a tutti.
Alla prossima
Afaneia
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Capitolo 6 *** Inconoscibile. ***
Inconoscibile
Capitolo
V - Inconoscibile.
Il laboratorio lavorò
incessantemente per l'intero mese di agosto, sotto il sole torrido e
soffocante dell'Isola Cannella, e i risultati delle analisi su Mew si
rivelavano più sconcertanti ogni giorno che passava.
La tipologia di mosse apprese
presentava uno spettro singolarmente ampio, troppo rispetto a
qualsiasi altro Pokémon noto sino a quel momento. Sembrava che fosse
in grado di apprendere ed eseguire qualsiasi mossa le fosse proposta
o mostrata un'unica volta, indipendentemente dal Pokémon che si
trovava di fronte, e di ricordarla poi a tempo indeterminato. Questo
tornava ad accostarlo a Ditto, ma solo in modo molto superficiale:
Mew non si limitava a imitare durante una fase di Trasformazione, ma
apprendeva realmente le mosse che aveva di fronte, e non le scordava
più.
«Questo almeno è confortante»
aveva commentato Portia durante una riunione per fare il punto, nella
calura soffocante del dodici di agosto. «Dale voleva due mosse.
Possiamo dargliene tre: Trasformazione, Botta, Psichico. Di queste
mosse siamo certi. Dopo la conferenza stampa dovremo prendere tempo
per stilare una lista completa delle altre... anche se per ora non
sembrano finite.»
Ma non era solo la quantità delle
mosse a sgomentarli. Se la sua unica peculiarità fosse stata quella
di conoscere un quantitivo di attacchi pressoché illimitati, il
mistero non sarebbe stato poi tanto insondabile: Mew avrebbe
costituito per la Silph una potenzialità infinita, e basta.
Ciò che non si erano aspettati era
che Mew si rivelasse inaspettatamente forte.
La sua simpatia e la sua dolcezza li
aveva ingannati tutti. A misura che la sottoponevano a prove via via
crescenti, Mew non si mostrava in difficoltà né spaventata; ma
neppure sembrava aggressiva. Non manifestava un comportamento
territoriale né proteso verso l'attacco: semplicemente, Mew giocava,
e obbediva ai loro ordini perché li amava e si fidava di loro in
tutto e per tutto. Era la creatura più grata e più inoffensiva che
Emir avesse mai visto, e ciò era ancor più stupefacente perché era
potente quanto un Dragonite; e se le cose stavano veramente così, se
ella poteva eguagliare o chissà, magari persino superare un Pokémon
sino ad allora considerato invincibile come Dragonite, allora Mew si
poteva a buon diritto considerare il Pokémon più forte del mondo.
Ma allora perché non si ribellava?
Eppure, di nuovo, le cose non si
fermavano qui. Dolarhyde si affacciò alla porta del suo studio
attorno al venti di agosto, verso l'orario di chiusura, sventolando
con una mano un plico di fogli e domandando: «Ce li hai cinque
minuti per me?»
A giudicare dalla sua espressione,
quei cinque minuti sarebbero durati almeno mezz'ora, ma Emir non era
mai stato un tipo molto frettoloso di timbrare il cartellino. Gli
fece cenno di accomodarsi, cercando alla meglio di sgomberare il
tavolo per far spazio a qualsiasi cosa avesse da mostrargli, e
Vincent entrò e chiuse la porta.
«Ho i risultati delle analisi che
mi avevi chiesto.»
Emir si sentì immediatamente
sollevato. «Alla buon'ora, Vincent. Non volevo metterti fretta, ma
lo sai quanto...»
«Beh, Emir, non è che io ci abbia
messo così tanto perché non ne fossi capace, sai» lo interruppe
Vincent. «Ho dovuto fare altre analisi oltre a quelle che mi hai
chiesto.»
Se Emir non l'avesse conosciuto da
troppi anni per non sapere che Vincent era un collaboratore di cui
potersi fidare, gli avrebbe chiesto per quale razza di motivo aveva
trattenuto così tanto i risultati di analisi da cui dipendeva il
lavoro di tutti, per il solo sfizio di fare analisi supplementari non
richieste e soprattutto non autorizzate. Ma Vincent non l'aveva
deluso mai una sola volta da quando avevano lavorato a Porygon, e se
aveva preso un'iniziativa del genere doveva esserci un valido motivo.
«Che cos'hai cercato?»
Vincent spalancò il plico sulla sua
scrivania e gli passà un primo foglio. Emir vi gettò uno sguardo
mentre ascoltava.
«All'inizio ho fatto quello che mi
hai detto: ho confrontato il suo patrimonio genetico con quello di
Ditto. È come avevi detto tu: c'è correlazione.» Emir provò una
fitta di delusione a quelle parole. Era tutto lì, dunque?
Nient'altro che un Pokémon strettamente imparentato con la creatura
più amorfa di tutto il mondo conosciuto?
Dolarhyde colse il disappunto nel
suo sguardo e si affrettò a specificare: «Aspetta un momento, Emir.
Sì, c'è correlazione, ma anch'io la pensavo come te... non ero
convinto. Non ho detto nulla a Valérien, per il momento, e ci siamo
concentrati solo sul tipo... comunque potrai leggere tutto lì. I
dati confermano che è uno Psico, ma questo lo sapevamo già dai test
sperimentali» Sfogliando le pagine stampate che Dolarhyde gli
porgeva via via, Emir scorse, annotata a margine, la scrittura
esitante di Valérien, che ancora non aveva imparato a scrivere il
giapponese tanto bene quanto lo parlava. «Allora ho cercato
concordanze con altri tipi Psico. Sono partito dalla famiglia
evolutiva di Abra... guarda le coincidenze genetiche.»
Sul nuovo foglio che Vincent gli
porgeva c'erano alcuni dati cerchiati più volte a mano in penna
rossa. Emir ebbe la precisa sensazione che il suo cuore saltasse un
battito: la percentuale di corrispondenza genetica differiva da
quella di Ditto solo di uno scarto talmente piccolo da essere non
considerabile.
«L'apparecchiatura ha dato due
volte lo stesso risultato» disse con decisione.
«Già, sembra ovvio, no?» replicò
Vincent trionfante, ed Emir ne dedusse di aver appena fatto
esattamente l'obiezione che egli si aspettava da lui. «Ho riavviato
e resettato tutti i macchinari, ho usato campioni diversi, ho rifatto
tutto due volte. Il risultato è lo stesso, con scarto trascurabile.»
L'unica ipotesi plausibile per
decifrare quei dati era ammettere che Mew fosse imparentato con
entrambe le specie. Combattendo da un lato con un crescente
scetticismo e dall'altro con un senso d'angoscia crescente, Emir
annuì e disse: «Va bene. Ipotizziamolo.»
Vincent annuì. «È quello che ho
detto anch'io. Ipotizziamolo. Tu che cos'avresti fatto a questo punto
al mio posto?»
Emir rifletté rapidamente. «Avrei
confrontato con un terzo Pokémon non correlato geneticamente.»
«Esattamente. Ho preso un
Tentacruel. Vuoi indovinare qual è stato il risultato o preferisci
girare pagina?»
Emir non perse neppure tempo a
sfogliare ancora il plico. Tutto ciò era troppo per essere anche
solo ipotizzabile. «Senti, Vincent... io mi fido di te, ma stavolta
è evidente che qualcosa non ha funzionato. Chiamo Zafferanopoli e mi
faccio mandare un tecnico per domattina, così controlliamo che cosa
c'è che non va.»
Vincent non parve deluso né
amareggiato dalla sua reazione: al contrario, si limitò a sollevare
le mani in segno di resa. «Come vuoi, Emir: è giusto vagliare tutte
le possibilità. Ma sono sei anni che lavoro su questi macchinari, e
credo di conoscerli ormai. Vogliamo scommettere?»
Per qualche meccanico riflesso
risalente alla sua infanzia, Emir rispose d'istinto: «Io non
scommetto.»
«Non avevo dubbi» rispose Vincent
ridendo. «Allora domani faremo visionare tutti i macchinari, ma in
cambio tu stanotte devi guardare i miei risultati. Me lo prometti?»
«Posso promettertelo, ma non
cambierà comunque le cose» ribadì Emir con troppa durezza. «Lo
sai anche tu che c'è un errore, Vincent. Deve esserci un errore.»
«Questo lo stabilirà il tecnico
domani» disse Vincent con voce squillante, alzandosi in piedi: aveva
raggiunto l'obiettivo che si era prefissato, quello di renderlo
dubbioso, e ora poteva andarsene a casa con la soddisfazione di
lasciarlo subissato dal dubbio e dall'angoscia. «Allora, buona
serata, mio caro. Non scordarti la promessa, eh?»
Ma prima che Vincent facesse in
tempo ad aprire la porta, spinto da non sapeva bene quale istinto,
Emir lo richiamò: «Hai parlato con qualcuno di questi risultati?»
Vincent tornò a voltarsi verso di
lui con aria profondamente compiaciuta. «No, Emir, te l'ho già
detto. A Valérien ho dato solo i risultati relativi al gene del
tipo. Tutto il resto lo sappiamo solo io e te.»
«Bene» borbottò Emir, sentendosi
profondamente imbarazzato per ciò che aveva appena detto. Dopotutto,
che cosa mai poteva cambiare? Quei dati erano sicuramente frutto di
un errore. Ditto, Abra e Tentacruel non avevano tra di loro alcun
tipo di legame genetico. I risultati che aveva di fronte in quel
momento non avevano il benché minimo valore scientifico. Per darsi
un contegno, sollevò la cornetta del telefono per chiamare
Zafferanopoli; eppure, prima di digitare il numero, in un attimo di
esitazione, aggiunse in fretta: «Non parlarne con nessuno, per ora.
Voglio dire... è inutile creare allarmismi per niente.»
«Come vuoi, Emir» rispose Vincent
sorridendo di vittoria. «Domani sera ne riparleremo io e te.»
Quella notte Emir non dormì.
Si era portato a casa i risultati
degli esperimenti di Vincent più per mantenere la promessa che
perché avesse davvero intenzione di leggerli – e anzi, mentre
cenava si era detto di no, che non li avrebbe letti perché neppure
ne valeva la pena: quando fosse arrivato, il tecnico avrebbe
aggiornato il software, o sistemato un cavo o cambiato un pezzo,
avrebbe riavviato i macchinari, e i risultati sarebbero stati
diversi. L'aveva promesso a Vincent, certo, ma perché sprecare tempo
a leggere quella che presto si sarebbe rivelata carta straccia?
Eppure quel plico lo chiamava, c'era
qualcosa, in quelle paginate di dati, che proprio non smetteva di
attrarlo a sé... era stupido e sciocco, si ripeteva, ed era una
sensazione che neppure avrebbe sapito spiegare con qualcosa come
l'intuito o il genio di uno scienziato.
L'ipotesi che Vincent aveva
insinuato avrebbe spiegato tutto, certo. Una specie ormai quasi
estinta, ridotta a una manciata di esemplari che vivevano in nuclei
isolati in una zona sperduta della giungla... era un'ipotesi troppo
romantica, troppo positivista per
essere vera; ma se lo fosse stata, non avrebbe forse potuto spiegare
per quale motivo Mew si dimostrava in grado di apprendere qualsiasi
mossa le venisse insegnata?
Sentendosi arso vivo da questi dubbi
come da un fuoco, quando passò nel salottino che dava sulla
scogliera, dopo cena, nel vano tentativo di cercare qualcosa da fare
per distrarsi in quella grande casa vuota, si rese conto che ogni
tentativo di resistenza era inutile. Il plico era adagiato sul
tavolo, là dove l'aveva lasciato quando era rincasato un paio d'ore
prima, e sentendosi profondamente rassegnato Emir andò a sedersi sul
divano e l'aprì.
Consultò dati per la maggior parte
della notte. Portò la documentazione nella sua biblioteca privata,
recuperò manuali di genetica, articoli, riviste, pubblicazioni
scientifiche, qualsiasi cosa avesse raccolto negli ultimi quindici
anni che parlasse anche solo lontanamente di quell'argomento, e
confrontò ogni singolo dato degli esperimenti di Vincent con quelli
ufficiali.
Intorno all'alba era ragionevolmente
certo che, se il tecnico non avesse trovato nessun difetto o errore
nella strumentazione di laboratorio, egli sarebbe diventato pazzo,
perché simili risultati rasentavano l'impossibilità statistica.
Quella mattina, al lavoro, doveva
apparire tanto stanco e nervoso che neppure Rotwang osò gettargli
una frecciatina; e in quanto a Vincent, che pure era la causa di
tutto quel tormento, quel giorno pareva introvabile: evidentemente
aveva deciso di evitarlo fino a che qualcosa di certo non fosse
venuto fuori.
Per
quanto il tecnico cercasse in ogni modo di fargli capire che avrebbe
preferito lavorare da solo e che la sua presenza lo infastidiva, Emir
presenziò al suo sopralluogo per tutto il pomeriggio, appollaiato in
silenzio in un angolo del laboratorio; e il cielo sa quanto avrebbe
avuto da fare. Ma non intendeva lasciare nulla d'intentato, e quando
l'uomo, col cappello in mano – dato il curioso, quasi ancestrale
rispetto che gli isolani manifestavano per chi aveva
studiato – venne a dirgli che
tutto era a posto, Emir lo aggredì letteralmente.
«È impossibile. Controlli meglio.»
Dopo una certa esitazione, il
tecnico riprese: «Dottore, io posso anche controllare meglio, ma
bisognerebbe allora che fosse lei a dirmi che cosa cercare di
preciso.»
«Non lo so. Un'avaria.»
«Il signore per telefono mi ha
detto che ottenete risultati falsati. Io non rilevo alcun
malfunzionamento, ma se vuole possiamo fare una prova con dati di cui
siete già certi, e vedere come va.»
Emir fece chiamare Vincent e gli
ordinò di fare il tentativo sotto i suoi occhi, ma tutta la sua foga
e la sua lotta si rivelarono vane: il tecnico sembrava aver ragione.
I risultati non erano mai stati tanto chiari, e Vincent mai tanto
gongolante. Emir avrebbe voluto provare ancora, tentare tutte le
possibilità, arrivare a smontare e rimontare pezzo per pezzo tutto
il laboratorio, se necessario, e di più ancora; ma a quanto pareva
il tecnico era pronto a sfidarlo a prendere il suo posto, se proprio
di lui non si fidava, ed egli non avrebbe saputo cosa dirgli
esattamente di cercare.
Alla fine di quella giornata eterna,
lui e Dolarhyde rimasero soli a sedere nell'ufficio deserto.
«Allora? Vuoi brindare con una
birra?» chiese Vincent con voce squillante. «Anche se a vederti
avresti bisogno di un caffè, amico. Non sembri entusiasta.»
No, Emir non si sentiva entusiasta
per niente, perché riscrivere la storia della biologia non era
esattamente un pensiero confortante, e soprattutto non era quello che
aveva in mente la Silph.
Seduto a braccia incrociate,
rigidamente ancorato alla sedia, borbottò soltanto: «Non sappiamo
ancora quello che abbiamo scoperto.»
«Perché trovare una correlazione
genetica con tre esemplari casuali ti pare poco?»
Non era poco per niente. Da un punto
di vista scientifico, trascurare quei risultati sarebbe stato un
imperdonabile delitto: ma come si poteva fare a prenderli in
considerazione proprio in quel momento?
«Mi sembra anche troppo» rispose
contrariato, forse un po' troppo piano perché l'altro potesse
udirlo.
«Devo stampare altre copie dei
risultati?» chiese Vincent dopo un poco, quando il silenzio si fece
troppo prolungato perché fosse casuale e la necessità di far
qualcosa fu troppo impellente. «Se vogliamo dirlo agli altri,
sarebbe meglio che potessero...»
«Noi non vogliamo affatto dirlo
agli altri» lo interruppe Emir bruscamente. Vincent ne rimase tanto
confuso che faticò qualche istante a rispondere.
«In che senso?»
«Nel senso che questi risultati
devono rimanere tra noi due fino alla conferenza stampa» sbottò
Emir alzandosi in piedi. Quel giorno aveva perso già abbastanza
tempo a star dietro a macchinari che si erano rivelati infidamente
funzionanti, e rimettersi al lavoro, magari, lo avrebbe aiutato a
reprimere l'ansia. Avere la potenziale chiave dei misteri della vita
tra le mani, francamente, non era un pensiero molto rassicurante. «O
vuoi che Dale ci faccia pressioni per pubblicare anche questi
risultati a settembre?»
Dale ebbe un attimo di smarrimento.
«Ma andiamo, Emir... deve saperlo anche lui che, se si tratta di
quello che sospettiamo, non ci basterebbe un anno di lavoro.»
«Già» commentò Emir
causticamente. «Peccato che dovrò contrattare con lui per ottenere
sei mesi, e ho bisogno di tempo.»
Emir aveva preso parte a una
conferenza stampa solo una volta, qualche anno prima, per presentare
pubblicamente l'introduzione di Porygon. Non gli era piaciuto molto.
Non si era mai sentito portato per parlare in pubblico: era stato a
disagio anche durante la sua discussione di laurea, durante la quale
persino il suo controrelatore aveva ammesso di non aver nulla da
controbattere alla sua tesi e la sua commissione gli aveva tributato
il massimo punteggio possibile; ma parlare così, di fronte a uno
stuolo di giornalisti che da un momento all'altro avrebbero potuto
chiedergli qualcosa d'inaspettato, o prospettare al suo lavoro
qualcuna di quelle obiezioni di carattere etico alle quali tutt'ora
egli, dentro di sé, non riusciva a dare una risposta convincente,
quello proprio lo angosciava.
Sul fatto che dovesse esser proprio
lui a parlare, però, Dale si manteneva irremovibile, allora come
anni prima: il capo del team di ricerca era lui, le notizie che
riguardavano il laboratorio dovevano perciò essere pronunciate dalla
sua viva voce, che fosse sicura di sé oppure no, che fosse
carismatica oppure no; inoltre, per apparire vicina ai cittadini e
dunque ai clienti, la Silph mirava a mantenere un rapporto capillare
col territorio, ed era dunque fondamentale che i telespettatori
vedessero e sentissero una personalità kantense, piuttosto che un
qualsiasi membro straniero dell'équipe.
Ma contro ogni sua più angosciata
previsione, la conferenza stampa fu un successo. Mew era troppo bella
e troppo incantevole perché i giornalisti riuscissero a pensare a
qualcosa di diverso da lei; e in quanto a quell'unica domanda ch'egli
aveva veramente paventato da loro, e alla quale aveva prospettato per
giorni ogni possibile risposta, non vi fu il clamore ch'egli si era
aspettato. Qualche gli chiesero qualche dichiarazione riguardo
all'esemplare maschio e alle circostanze della sua morte, Emir non
poté fare altro che rispondere onestamente:
«L'esemplare M1 è stato il primo e
inizialmente l'unico che abbiamo trovato, ma era già ferito e in
condizioni estremamente gravi, sicuramente avvelenato, quando il mio
collega, il dottor Lestournelle, si è imbattuto in lui. Il nostro
chirurgo, il dottor Rotwang, ha lavorato per tutta la notte per
salvarlo e si è comportato in modo esemplare, ma non gli è stato
possibile fare di più con i soli mezzi a nostra disposizione.
Abbiamo portato il corpo qui col permesso delle autorità locali per
poterlo studiare, e siamo certi che potremo scoprire grandi cose sul
patrimonio genetico e l'origine di questi Pokémon.»
Tutto ciò era poi, del resto, la
pura verità: avevano trovato M1 per puro caso, la ferita non era
stata causata dal loro operato, Rotwang aveva fatto molto più di ciò
che era umanamente e professionalmente possibile fare; nessuno di
loro avrebbe avuto alcun motivo per colpevolizzarsi della sua morte.
Dal punto di vista legale, neppure la Silph era colpevole: nessuna
legge la obbligava ad attrezzare un'équipe di ricerca di fossili con
la strumentazione necessaria a curare qualsiasi Pokémon
ritrovassero. Ma il senso di colpa ch'egli proprio non riusciva a
rintuzzare per quella morte era tanto opprimente ch'egli si sorprese
che quella sola risposta bastasse a soddisfare i giornalisti, e che
non gli facessero altre domande. Eppure la verità avrebbe dovuto
essere la stessa per tutti, anche per lui; ma allora perché a lui
non bastava?
Ma se Emir aveva ceduto alle
direttive della Silph in tutto e per tutto, presentando i risultati
degli esperimento e rispondendo alle domande dei giornalisti
esattamente come gli era stato, più o meno velatamente, suggerito da
altri, sulle fotografie era stato chiaro fin dall'inizio della
conferenza stampa: per quanto i giornalisti scalpitassero e
protestassero, non avrebbe permesso di fotografare Mew da vicino.
Avrebbero potuto riprenderla per tutto il corso della conferenza
stampa accanto a lui, separata da loro da tutta la larghezza del
tavolo, ma per la sicurezza e la tranquillità del Pokémon non si
poteva concedere di più. Naturalmente Emir sapeva che questa era una
bugia: Mew era il Pokémon meno stressato, e anzi più lieto della
presenza umana ch'egli avesse mai visto; se l'avesse lasciata fare,
sicuramente avrebbe giocato con tutti i presenti e si sarebbe
lasciata coccolare e accarezzare – ma era proprio questo ch'egli
mirava a impedire. Oltre a una puerile gelosia verso il Pokémon più
raro del mondo, ch'egli non avrebbe avuto poi troppa difficoltà ad
ammettere ad alta voce, c'era qualcos'altro che lo metteva a disagio
all'idea di mostrare al mondo quanto Mew fosse docile e giocosa verso
gli estranei. Certo, per il momento nessuno al mondo era nelle
condizioni di farle del male; ma che cosa avrebbe detto il mondo
quando si fosse reso conto che il Pokémon più raro, e forse più
potente, del mondo era giocosa e tenera come un gattino
particolarmente affettuoso?
«Una grande idea davvero, Emir,
quella di impedire gli scatti ravvicinati» gli disse Dale con la
massima soddisfazione, più tardi nel suo ufficio, davanti a un caffè
freddo che Emir aveva fatto preparare appositamente per
ingraziarselo. Sembrava essersi totalmente dimenticato della
discussione che avevano avuto il mese precedente, per quanto
amareggiante fosse stata, e questo voleva dire soltanto che era
veramente soddisfatto dei risultati che avevano portato. «Non la
facevo un esperto di marketing, ma pare che io debba rivalutarla da
questo punto di vista. Ma voi geni sorprendete sempre noi persone
normali, non è vero?»
«Non è stata una scelta di
marketing, signor Dale» rispose Emir senza alcuna finta modestia.
Incuriosita da quell'affascinante signore in giacca e cravatta che
esitava a darle confidenza, e nel quale ella aveva subito
identificato un nuovo amico con cui giocare, Mew li aveva seguiti nel
suo studio, e ora stava cercando di avvicinare Dale con scarsi
risultati. «Scienza e coscienza ci impongono di tutelare i Pokémon
da ogni fonte di stress superfluo. Mew è estremamente a suo agio con
gli estranei, come può vedere, ma non ne ha mai incontrati così
tanti tutti assieme, e in più c'era il problema dei flash. Gli
stimoli luminosi...»
«Sì, sì, lei ha perfettamente
ragione, dottore» lo interruppe Dale con l'aria di non voler
ascoltare una sola parola di più. «In ogni caso, abbiamo deciso di
concedere un'intervista in esclusiva alla rivista Amico Pokémon,
vi chiameranno in settimana per concordare un giorno in cui
parlare con voi e scattare qualche foto... sotto la sua supervisione,
naturalmente. Così potrà controllare tutto quello che vuole e
accertarsi che tutto sia fatto come dice lei.»
Mew era veramente a suo agio
con gli estranei, e si offendeva molto se l'attenzione che richiedeva
non le veniva concessa immediatamente. Nella fattispecie, quel
giorno aveva deciso che il signor Dale sembrava proprio la persona
giusta con cui giocare, dato che non lo aveva mai visto, e il fatto
ch'egli non riuscisse ad accennarle che qualche sorriso imbarazzato
mentre lei gli fluttuava attorno, cercando in ogni modo di richiamare
la sua attenzione per mezzo della lunga coda e di squittii indignati,
la irritava tremendamente. Se l'avesse richiamata, Mew avrebbe smesso
all'istante, ma Emir preferì lasciar perdere. Dale non sembrava
infastidito da lei, quanto piuttosto impacciato e imbarazzato come
qualcuno che non sapesse bene come comportarsi; il che non era poi
sorprendente, considerando che uno dei suoi massimi motivi di vanto
era sempre stato di non aver mai giocato, neppure una volta, con i
Pokémon delle sue nipoti.
«Non è proprio una rivista
scientifica, signor Dale» si limitò a obiettare in tono neutro. Non
aveva voglia di discutere per quel motivo.
«No, ma è una rivista che i
lettori acquistano» ribatté Dale trionfalmente. «E l'acquisteranno
a maggior ragone se conterrà l'unico poster di grandi dimensioni del
Pokémon più raro e più bello del mondo. Verrà qui un fotografo
esperto nella ripresa di Pokémon in ambienti naturali, quindi verrà
fuori un bellissimo lavoro. Sulle riviste scientifiche potete
pubblicare tutte quelle altre cose che fate voi scienziati per
parlare tra di voi; io non me ne intendo.»
«Già, ecco... a questo proposito,
signor Dale.»
Per quello che doveva dirgli ora,
Emir aveva bisogno della sua massima attenzione, e possibilmente del
suo buonumore. Si passò un paio di volte la mano sulla coscia,
sfregando con simulata noncuranza la stoffa dei pantaloni: Mew era
estremamente incuriosita dai rumori inaspettati, ed Emir ebbe la
soddisfazione di vederla destinargli all'istante tutta la sua
attenzione, lasciando finalmente in pace Dale. L'accarezzò piano tra
gli occhi con due dita, e Mew si acciambellò sul suo grembo con aria
molto compiaciuta. «Forse dovremmo parlare di come proseguire le
ricerche, ora che sono state avviate. Come le ho accennato per
telefono, i risultati che abbiamo ottenuto fino a ora sono...
sbalorditivi.»
«Beh, me lo dica lei, dottore.
Siete voi i miei soldati sul campo, per così dire.» Dale si sistemò
più comodamente sulla poltrona. «Lei è ottimista riguardo ai
prossimi esperimenti?»
«Sono... un po' più che cautamente
ottimista. Oserei quasi dire moderatamente ottimista.»
Dale scoppiò a ridere. «Da quando
la conosco, questo è il massimo che le abbia mai sentito dire.
Moderatamente ottimista, eh? Di che cosa si tratta?»
Emir esitò su cosa dirgli. «Non
vorrei darle false speranze, ma... il corredo genetico di Mew sembra
molto interessante. Forse potremmo ottenere qualcosa sul modello
della famiglia evolutiva di Eevee, ma...»
Se Dale fosse stato un Pokémon, ora
avrebbe drizzato le orecchie e si sarebbe messo in allerta come sotto
una minaccia. Ma minacce non ce n'erano, ed egli chiese: «Eevee? Ho
capito bene?»
«Non si ecciti troppo, la prego»
si affrettò a interromperlo. «Abbiamo solo indizi vaghi per ora,
nulla che ci faccia davvero pensare a un'applicabilità come quella
di Eevee, ma ci sono delle speranze, questo sì. Per ora le analisi
hanno evidenziato delle compatibilità molto interessanti con
svariati Pokémon, ma naturalmente dobbiamo tenere in conto il fatto
di avere a disposizione un solo esemplare. Questo ci rallenta
considerevolmente. Per questo motivo volevo chiederle come intendete
indirizzare il nostro lavoro.»
Dale era eccitato come un bambino
che avesse in mano un regalo totalmente inaspettato che non avesse il
coraggio di scartare.
«Che cos'è che sperate,
esattamente?»
Era esattamente dove Emir voleva
portarlo, sull'orlo di quella trappola dalla quale non gli sarebbe
stato possibile dire di no a nessuna richiesta. Negli ultimi sei
anni, Emir aveva ormai imparato ad approfittare del vantaggio
acquisito su di lui e a manovrarlo nel miglior modo possibile;
stringendosi nelle spalle, egli abbassò lo sguardo sulle proprie
dita che giocherellavano con le piccole zampe di M2 e rispose: «Per
il momento, il DNA di Mew ha presentato compatibilità con quello di
ben tre Pokémon scelti in modo del tutto casuale. Naturalmente non
abbiamo potuto proseguire in questa direzione in questo lasso di
tempo, ma...»
«Basta così.»
Emir osservò il signor Dale alzarsi
in piedi e percorrere l'ufficio a grandi passi, strofinandosi le
mani: egli non era uno scienziato e tutto il suo interesse in quel
laboratorio era legato al ricavo che ne derivava alla Silph, ma era
perfettamente in grado di intuire le potenzialità di un progetto
quando queste gli venivano prospettate chiaramente. «Cerchiamo di
capirci bene, Emir. Quali sarebbero le conseguenze di una scoperta
del genere, secondo lei?»
Sforzandosi di non tradire la minima
sfumatura d'apprensione a questo riguardo, Emir
replicò:«Potenzialmente illimitate, sicuramente imprevedibili.»
«Imprevedibili, eh?» Dale si fermò
bruscamente in mezzo alla stanza. «E di quanto tempo avreste bisogno
per disporre di dati più certi?»
«È proprio per questo che volevo
parlarle chiaramente, signore... i tempi stretti sono un limite non
indifferente quando si tratta di dati così sensibili.» Dale ebbe
uno scatto d'impazienza mentre riprendeva a passeggiare per non
guardarlo, ed Emir si affrettò a correggere il tiro.«Voglio dire,
lei s'immagina che cosa accadrebbe se dovessimo annunciare, per
esempio, che Mew è capace di evolvere in più di un Pokémon, per
poi dover ritrattare tutto sei mesi dopo?»
«Il suo team non ha mai commesso
errori» obiettò Dale nervosamente.
«Non abbiamo neppure mai lavorato
con gli occhi dell'intero mondo addosso» gli ricordò Emir
candidamente.
Di fronte a quell'obiezione, neppure
Dale poteva più trovare alcunché da ribattere. Continuò ad
aggirarsi nervosamente qua e là per il suo ufficio, ma sempre meno
risolutamente, e infine finì per fermarsi.
«Cielo, deve proprio farmelo dire,
non è vero, Emir?» chiese ironicamente. «Come vuole, allora, avete
carta bianca, e tutto il tempo che vi occorre... ma se le cose stanno
così avrò bisogno di essere aggiornato molto più spesso sui
risultati. Lei spesso se ne dimentica, ma io ho garantito per questo
laboratorio, e ho anch'io, come lei, qualcuno a cui rendere conto. Io
m'impegno per lei di fronte agli azionisti, ma se non ci saranno
risultati, dottore...»
«I risultati ci saranno, signor
Dale. Ha la mia parola.»
«Voglio tanto crederle, dottore.»
La concessione che gli era appena
stata strappata sembrava averlo lasciato stremato, come dopo una
lunga malattia. Appoggiandosi alla sua scrivania, Dale osservò a
lungo Mew, che giocava con una penna sulle ginocchia di Emir, e
trasse un lungo sospiro incerto. «Beh. A questo punto, se non le
spiace... sarà meglio che vada, prima che cambi idea.» Ma poi, solo
un attimo prima che Emir facesse in tempo ad alzarsi per
accompagnarlo alla porta, un pensiero nuovo gli balenò in fondo agli
occhi, e si fermò. «Anzi no, aspetti... stavo per dimenticare. So
che lei non legge molto i giornali, ma ha saputo quel che ha scritto
il signor Fuji riguardo a Mew?»
L'ultimo articolo di protesta di suo
padre aveva trovato sui giornali una grandissima risonanza, ma
all'ondata di sotterranea indignazione che avevano destato le sue
parole, Emir lo sapeva, non avrebbe fatto seguito alcunché.
L'elevata moralità di suo padre, che aveva salvato ampi gruppi di
Pokémon selvatici dagli abusi di Team Rocket o dalle devastazioni
dei loro habitat naturali e che era perciò celeberrimo e amatissimo
in tutta Kanto, non poteva destare nient'altro che viscerale e
istintiva approvazione nelle plasmabili masse; ma quanto a
influenzare veramente i gusti degli acquirenti, o addirittura veri
dibattiti politici, questo era al di fuori di ogni portata, ed Emir
aveva smesso ormai da tempo di sentirsi soffocare dall'ombra di suo
padre.
«Mio padre ha sempre avuto un certo
talento per mettersi in ridicolo, già» ammise con ostentata
degnazione. «Ha notato che mi chiama per nome e cognome per
dimostrare che non gli importa che io sia suo figlio? A ogni modo mi
spiace molto, signor Dale. Mi spiace che getti discredito sul nome
dell'azienda.»
L'articolo gliel'aveva portato
Portia qualche giorno prima, forse reputando che sarebbe stato meglio
per lui venire a sapere di quel disgustoso panegirico dalle labbra di
un'amica piuttosto che dagli sguardi di tutto il paese; ed Emir
l'aveva ringraziata e tranquillizzata, aveva letto il giornale e poi
l'aveva gettato nel cestino, senza neppure scomporsi troppo. Quelle
che aveva scritto suo padre erano solo parole, nient'altro che
discorsi vacui e altisonanti che sarebbero stati dimenticati nel giro
di una settimana lasciando tutto perfettamente immutato; ma di fronte
a Dale si sforzò almeno di mostrarsi contrito.
«Già, abbiamo tutti dei casi del
genere in famiglia, eh?» commentò Dale. «Ma senta, se lei gli
parlasse non l'ascolterebbe? Non le chiederei una cosa tanto privata
se non fosse importante. Non vorrei sembrarle paranoico, ma lei
capisce... dai giornali ai talk show il passo è breve, e in
televisione è tutta un'altra storia...»
«Io e mio padre non ci rivolgiamo
la parola da quando sono partito» gli ricordò Emir; ma di fronte
allo sguardo supplice di Dale, che in fin dei conti si era appena
piegato ad acconsentire alla sua richiesta, si sentì in dovere
almeno di prendere in considerazione questa possibilità. Non
l'avrebbe fatto egualmente, ma sarebbe servito quantomeno a tenerlo
buono per un po'. «Comunque sia... posso provare. Ma devo dirle
subito che non credo che mi ascolterà» si affrettò a specificare
preventivamente.
Questa sola promessa bastò comunque
a tranquillizzare un poco Dale, che poteva almeno lasciare l'Isola
senza sentire di esser stato sconfitto su tutta la linea. «La
ringrazio, Emir. A questo punto è davvero meglio che vada, non le
pare?»
Era l'ora, prima che intervenisse
qualsiasi mutamento di ordine infinitesimale nell'atmosfera della
stanza a fargli cambiare idea. Scostando gentilmente Mew, che dovette
accomodarsi sulla scrivania con uno stridio di protesta, Emir si
affrettò ad alzarsi. «Ma certo. Venga, l'accompagno.»
«Oh, no, no. La ringrazio, ma è
meglio che si metta subito al lavoro. Mi farebbe sentire un po' più
tranquillo» rispose Dale in un patetico tentativo di scherzare. Emir
si sentì quasi dispiaciuto per lui. Sembrava che l'avergli concesso
un periodo di tempo così ampio per la ricerca – perché un lasso
di tempo indeterminato, per la Silph SpA, non corrispondeva che a sei
od otto mesi di lavoro al più – lo avesse devastato come vendere
la verginità di una sua propria figlia. Si sforzò di assumere
un'aria sicura di sé per tranquillizzarlo.
«Non si preoccupi, signor Dale. Le
garantisco che siamo già tutti al lavoro su Mew.» O almeno lo
sarebbero stati, non appena lui e Dolarhyde avessero illustrato a
tutti i loro esperimenti riservati; ma non era precisamente una
bugia.
«Molto bene» ribadì Dale con
scarsa convinzione. «Allora... mi faccia risapere qualcosa la
prossima settimana, va bene?»
Dopodiché, dopo un'interminabile
esitazione, come vincendo un'istintiva ripugnanza, si chinò sulla
scrivania, da dove Mew seguiva tutti i suoi movimenti con espressione
imbronciata e offesa, e l'accarezzò due volte sul capo. Fu un gesto
tanto goffo e privo di spontaneità che persino Mew ne rimase
stupefatta; ma Dale, che pareva aver riscosso la massima
soddisfazione da quel gesto, si avviò alla porta con aria
incredibilmente gongolante.
«Siamo d'accordo allora, giusto,
Emir?»
Ancora troppo inorridito dal gesto
che gli aveva appena visto fare per poter articolare una frase di
senso compiuto, Emir si sforzò di balbettare: «Na... naturalmente.»
Senza aggiungere nient'altro, Dale
gli rivolse un sorriso speranzoso e chiuse la porta dietro di sé.
Per un po', Emir rimase a fissarsi
negli occhi con una Mew ancora un po' stupefatta dal comportamento di
Dale; ma infine al suo sguardo interrogativo Emir risponse
stringendosi nelle spalle con aria rassegnata, ed entrambi lasciarono
perdere, come a concludere entrambi, simultaneamente e tacitamente,
che di quel gesto inusitato e goffo e insospettabilmente affettuoso
non c'era modo di venire a capo. Mew era straordinariamente empatica
da questo punto di vista, e più di una volta egli si era ritrovato
ad accorgersi che era dotata di una capacità di decifrare
l'espressività facciale in tutto paragonabile a quella di un essere
umano. Era un Pokémon estremamente intelligente, per quanto si
comportasse come un cucciolo.
«Si vede che gli sei molto
simpatica» commentò Emir, e Mew annuì vigorosamente.
Sulla capacità di Mew di farsi
amare e proteggere praticamente da chiunque entrasse in contatto con
lei non c'era molto da stare a riflettere: gli appariva come un
mistero insondabile ormai da quando l'avevano trovata, ed Emir, quel
giorno, era un po' più stanco del normale. Poteva concedersi di non
riflettere sui grandi misteri del mondo dei Pokémon e della biologia
per un pomeriggio, dopo tanto tempo.
«Andiamo a trovare Valérien?»
propose allegramente. La piccola vittoria che aveva riportato lo
rendeva insospettabilmente soddisfatto di sé, e a quella sensazione
di serenità poteva concedere almeno qualche ora di tempo, prima di
tornare all'angoscia del lavoro dei giorni seguenti. «Vediamo se ha
voglia di giocare con noi oggi. Che ne pensi?»
Mew trillò di gioia.
Buonasera a
tutti!
Capitolo un
poco di passaggio, ma posso anticiparvi che non vedo l'ora di finire
di sistemare e iniziare a copiare il prossimo, che è uno dei miei
preferiti!
Riguardo a
questo posso specificare un paio di cosette: la prima è che Amico
Pokémon è una rivista che si trova effettivamente nelle case di
molti NPG nel gioco. Nel corso della stesura del capitolo ho dato
qualcosa come sette nomi diversi a questa rivista, senza che nessuno
mi convincesse, prima di ricordarmi che potevo tranquillamente
attingere a materiale canonico preesistente. (Ormai saprete che sono
un po' fissata con questi dettagli).
Sebbene forse
sia già abbastanza chiaro e intuitivo dal testo, volevo chiarire un
po' anche il riferimento a Dragonite come Pokémon più forte del
mondo, come viene descritto nel capitolo. Ho cercato di attenermi il
più fedelmente possibile anche al metagame della sola prima
generazione, in cui Mew e Dragonite erano gli unici a possedere la
somma di statistiche di base pari a 500: la loro forza dovrebbe
perciò essere equiparabile, ma prima della scoperta di Mew Dragonite
sarebbe stato, secondo questa logica, il Pokémon più forte di tutti
quelli noti (anche più forte dei tre Uccelli leggendari). Lo scrivo
solo per chiarire questo dettaglio; in ogni caso, potete controllare
la lista dei Pokémon in base alle loro statistiche qui.
Detto questo,
non posso che ringraziare cristal_93 e Mad_Dragon per le loro
recensioni, ricevere opinioni e critiche costruttive è sempre un
piacere!
Un abbraccio
enorme a tutti e alla prossima
Afaneia
|
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Capitolo 7 *** (In)domito. ***
Indomito
Buongiorno
e
buona domenica!
Terminare
questo capitolo e trascriverlo al computer è stato un vero
inferno,
anche perché è forse il più lungo sino
a ora: avevo anche pensato
di dividerlo a metà, ma mi pareva che nessuna delle due
parti
avrebbe avuto senso autonomamente.
Quanto
al
contenuto, al momento non mi viene in mente nulla di urgente da
specificare al riguardo, ma come al solito sarò lieta di
dare tutti
i chiarimenti necessari. Nel frattempo, mille baci e mille
ringraziamenti a cristal_93, Nico Robs e Persej Combe per le loro
recensioni al precedente capitolo!
Un
abbraccio
enorme
Afaneia
Capitolo
VI
– (In)domito
Se
il mondo
aveva adorato Mew dopo l'annuncio della sua scoperta, per non aver
visto di lei che una foto sfocata e buia, l'adorazione si
tramutò in
venerazione quando vide la conferenza stampa. Solo lo sbarco sulla
luna aveva riscosso la stessa attenzione da parte del pubblico, anche
in termini di ricezione televisiva, e quando emerse questo risultato
persino il Presidente della Silph gli telefonò personalmente
per
conratularsi con lui. La Silph era diventata il nuovo centro del
mondo, e a sua volta essa orbitava attorno a Mew. In quanto a Mew,
semplicemente, era contenta come una bambina.
L'articolo
su
Amico Pokémon riscosse un tale successo
che tutti i più
importanti giornali e periodici esteri fecero a gara per aggiudicarsi
i diritti di distribuzione delle immagini di Mew all'estero. Le foto
scattate dal fotografo naturalista inviato dalla rivista, al momento,
erano le uniche esistenti del Pokémon più raro
del mondo, e sia
Emir che il signor Dale, sia pure per motivi diversi, avevano
già
deciso che le cose sarebbero rimaste così per un bel po' di
tempo.
Le
foto e il
poster erano stati un successo, ma dell'articolo in sé Emir
non era
affatto soddisfatto. Che da una rivista di carattere strettamente
divulgativo e non scientifico non ci si dovesse aspettare una
particolare serietà d'accordo, ma tutto quel sentimentalismo
patetico sulla morte di M1, che di certo mirava a far leva sui
sentimenti più facili e viscerali dei lettori, proprio non
lo poteva
sopportare. La morte di Mew era appartenuta a loro, e che qualcuno
potesse anche solo credere che bastasse leggere un articolo per
sapere che cosa fosse accaduto quella notte appariva ai suoi occhi
come un'indegna prevaricazione. E in che modo, poi? A parole si
potevano spiegare tante cose, e si sarebbe potuto descrivere il
fetore dei grossi fiori marcescenti e l'olezzo nauseabondo del nido
dei Gloom, e poi ancora il venenifero pus della ferita e il biancore
accecante della lampada, ed Emir avrebbe saputo ancora descrivere gli
orridi suoni dei ferri; ma la sacralità della vita che a un
tratto
si era spemta e aveva lasciato il mondo privo di sé, come
depauperato di una sua grande e misteriosa ricchezza, quali parole
avrebbero saputo raccontarla?
E
poi, il
giornalista non aveva menzionato Valérien. Non aveva
menzionato
esplicitamente nessuno che non fosse lui in realtà, ma
proprio
questo era esattamente l'opposto dell'idea che Emir aveva in mente.
Il nome di Mew era stato associato anche troppo al suo, e quella
benedetta rivista avrebbe potuto essere un ottimo strumento per
cambiare le cose; ma per quanto egli avesse detto e ripetuto
un'infinità di volte il nome del dottor Lestournelle, al
quale
avrebbe voluto che il grande pubblico associasse la scoperta, quando
aveva aperto la rivista non ne aveva trovata traccia. L'unico nome
che venisse menzionato, e che acquisiva perciò tanto
più rilievo,
era il suo in quanto capo della spedizione e dell'équipe di
ricerca.
«Ma
è ovvio,
Emir» gli disse Dale in tono annoiato, quando Emir gli
telefonò per
farglielo cautamente notare – perché era logico
che il taglio
dell'articolo fosse stato preventivamente concordato con l'azienda.
«Il dottor Lestournelle è un elemento di pregio
per noi, ma cosa
vuole che importi alla clientela di un ragazzo francese? Amico
Pokémon è una rivista kantense, e la
leggono i kantensi. Lei sa
quanto siano tutti un po' xenofobi qui, ed è importante
mettere in
risalto che a capo della spedizione c'era lei. A dar risalto al nome
di Lestournelle ci penseranno i francesi, o no?»
A
quanto
pareva, anche la paternità delle scoperte scientifiche
avrebbe
dovuto piegarsi alla ferrea politica delle vendite, e a questo non
c'era di che controbattere. Quando Emir andò a prendere un
caffè
nell'ufficio di Valérien, per cercare di valutare dai suoi
occhi se
fosse o meno il caso di fargli parola dell'articolo e di scusarsi, il
suo era sguardo melanconico e sfuggente e la sua voce troppo
forzatamente squillante, ed Emir intuì che era troppo
mortificato e
orgoglioso perché potesse osare di parlargliene.
Valérien non s'era
arrogato mai il merito di nulla che non gli venisse attribuito
dall'esterno; ma essere lo scopritore del Pokémon
più raro del
mondo e non venire neppure nominato non era proprio come venir
defraudato dell'unica grande occasione che gli sarebbe spettata mai
nel corso di una vita? Ma l'argomento era troppo mortificante, ed
Emir provò vergogna di parlargliene e sentì che
gliene mancava il
coraggio, e tutto ciò che riuscì goffamente a
dire fu: «Ti va di
fare merenda?»
Se
l'articolo
era stato oltraggiosamente lacunoso, quantomeno Valérien fu
l'unico
a esserne ferito. Vincent e Portia, che in quel ritrovamento non
avevano avuto il minimo ruolo, avrebbero trovato offensivo venirvi
nominati; e in quanto a Rotwang... beh, era difficile capire che cosa
pensasse Rotwang in quel periodo, ma quand'anche non si fosse
trattato di lui, difficilmente qualcuno avrebbe potuto desiderare di
salire alla ribalta come il chirurgo che aveva quasi salvato
il Pokémon più raro del mondo.
Cosa
ne
pensasse con certezza poi Emir non l'avrebbe saputo mai,
semplicemente perché, a partire da quel pomeriggio che
avevano
trascorso insieme in una miracolosa condizione di tregua, nella
stanza di Mew, non si erano quasi più rivolti la parola. A
dire il
vero non ve n'era quasi stata l'occasione. Tutti i loro rapporti
così
come le loro occasioni di contatto s'erano perlopiù ridotti
a
cortesi e distaccati saluti nei corridoi, o a laconiche comunicazioni
di servizio sulla soglia dei rispettivi uffici, e nulla di
più; il
che gli sarebbe parsa una tregua miracolosa della quale esser grato,
se solo si fosse verificata quell'estate.
«Beh,
persino
Rotwang doveva calmarsi prima o poi» commentò
distrattamente
Vincent, che Emir segregava quasi quotodianamente per avvalersi delle
consulenze tecniche. «Forse Portia è riuscita a
farlo ragionare un
po'. Dopotutto lei è l'unica che lui ascolta, e poi
andiamo... non
potva struggersi per M1 in eterno.»
Certo,
Rotwang
appariva più calmo, quantomeno perché era da un
po' che non lo si
sentiva più alzar troppo la voce o inveire contro la Silph,
e
l'ultima volta che era entrato nel suo ufficio a rinfacciargli
qualcosa risaliva addirittura a prima della spedizione, d'accordo; ma
Emir lo sentiva calmo di una calma infida e incostante, troppo
silenziosa e imperscrutabile per poterla comprendere. Rotwang non era
calmo – Rotwang era strano, e il fatto
che tutti fossero
compiaciuti e soddisfatti del suo comportamento come di un cane che
abbia smesso improvvisamente di abbaiare non cambiava le cose.
Persino Portia, che di tutto il laboratorio era quella che lo
conosceva meglio e forse l'unica a conoscerlo davvero, non appariva
affatto meravigliata dal suo comportamento, ma proprio con lei Emir
non avrebbe osato mai farne parola; e del resto, perché mai
far
mostra di darvi peso? Rotwang era strano, d'accordo; Rotwang era
taciturno, era distaccato, sfuggente: ebbene? Finché
lavorava (e
finalmente aveva ripreso a lavorare senza trincerarsi dietro
opportunistiche scuse), era nel suo diritto esser taciturno e
sfuggente finché gli pareva, ed Emir aveva ben altro di cui
occuparsi, a maggior ragione considerando che tutto filava molto
meglio senza che i corridoi echeggiassero di porte sbattute e urla e
imprecazioni in tedesco. I suoi pensieri (o per meglio dire quel vago
anelito della sua incoscienza errante che riusciva talora a
concretizzarsi a tal punto ch'egli finiva per accorgersi di star
pensando) riuscivano fin qui a seguire un filo perfettamente
logico e razionale, ben distinguibile in mezzo alla selva di varie
inquietudini che si assiepavano ai margini della sua consapevolezza,
ma poi inevitabilmente finivano per scontrarsi contro un pensiero
più
inamovibile degli altri, tale da aggiungersi trasversalmente a essi
senza rispondere alla minima consequenzialità logica: nel
laboratorio tutto filava assai meglio da quando si comportava
così,
ma ciò nonostante Emir non riusciva a togliersi di dosso la
sgradevole sensazione che avrebbe provato se avesse avuto a che fare
con un malato o un moribondo, che si comportava diversamente
perché
non era del tutto in sé ma non voleva che altri se ne
accorgessero.
E
poi, era
come se stesse nascondendo qualcosa. Il giorno dopo la conferenza
stampa e l'incontro con Dale, quado Emir e Vincent avevano
organizzato una riunione per mostrare ai loro colleghi i risultati
delle analisi preliminari e stilare un progetto per i mesi
successivi, Rotwang si era comportato in modo posato e quasi assente.
Aveva consultato in silenzio le copie delle analisi che aveva di
fronte e aveva ascoltato con tutto l'interesse che poteva sforzarsi
di dimostrare per qualcuno che non fosse lui, prendendo pigramente
appunti sui margini dei fogli, e aveva accettato i loro progetti
quasi senza protestare. Emir l'aveva fissato tanto insistentemente da
temere che i suoi occhi l'avrebbero bruciato, ma il suo sguardo, per
tutta la riunione, Rotwang non l'aveva mai incrociato. Allora era
proprio lui che evitava deliberatamente e faceva di tutto per
ignorare, ma perché? Era forse perché egli
l'aveva sorpreso quel
giorno nella stanza di Mew, e l'aveva visto un po' meno terribile di
quanto si dimostrasse di solito?
Quel
mistero
venne a complicarsi una sera, quando una delle donne delle pulizie
–
con la quale egli conduceva ormai da anni una tacita e fiera lotta
legata agli orari d'uscita del personale e a quelli delle pulizie
–
entrò nel suo ufficio a lamentarsi di qualcosa cui Emir era
troppo
annoiato e infastidito e stanco per prestare veramente attenzione. La
sua strategia consisteva solitamente nel fingere di ascoltare e nel
rispondere, durante gli istanti di silenzio nei quali gli pareva che
ci si aspettasse da lui una risposta, sulla base delle ultime parole
che ricordava di aver udito; perciò, quando la donna
pronunciò le
parole il dottore tedesco, Emir diede
l'invariabile risposta
ormai standardizzata ch gli saliva istantaneamente alle labbra in
quelle circostanze: «Dottor Rotwang.»
Dopodiché, rendendosi conto
dopo un istante che era evidentemente di Rotwang che si stava
parlando, levò bruscamente gli occhi e chiede:
«Eh?»
«Già,
lo so
anch'io che si chiama dottor Lotvang»
ribatté la donna,
spazientita più dalla sua palese mancanza d'attenzione che
non dalla
correzione. «Comunque, o lei risolve la situazione o mi paga
gli
straordinari in orario notturno. Sono stata chiara?»
«Aspetta,
aspetta, cara... non ho capito. Puoi rispiegarmelo un momento, per
piacere?»
«Forse
non ha
capito perché non mi stava ascoltando»
suggerì viperinamente la
donna, ed Emir le fece cenno di sorvolare e di proseguire.
«Il
dottore tedesco lavora tutte le sere fino a tardi. A me non importa
niente, ma non mi va di dover restare fino a tardi solo
perché
bisogna che qualcuno gli chiuda la porta dall'interno per non far
suonare gli allarmi quando esce. Visto che anche lei lavora sempre
fino a tardi, non potreste organizzarvi per uscire insieme?
Dopotutto, lei ha le chiavi e può chiudere da solo. O
no?»
Di
tutte le
informazioni che gli erano appena state fornite, Emir riuscì
a
rielaborarne solo quel tanto che bastava per domandare:
«Rotwang
lavora fino a tardi? E perché mai?»
«E
lo chiede
a me? Se non siete d'accordo tra di voi, io che ne posso sapere?
È
lei il direttore.» E dopo un lungo momento di silenzio, dato
che
Emir non riprendeva, insisté: «Quindi? Ve la
sbrigate tra di voi o
no?»
«Va
bene, va
bene» balbettò Emir. Quella notizia l'aveva
spiazzato. Aveva fatto
tardi in ufficio quasi tutte le sere, e non si era mai
accorto
che anche Rotwang restava fino a tardi; e poi, quella era una
completa novità. In tutti quegli anni, una delle battaglie
di
Rotwang (per quanto condotta certamente per farlo infuriare) era
stata proprio quella degli orari di lavoro, e anch'egli aveva fatto
tardi in ufficio come tutti, certo, ma non aveva tralasciato neppure
una volta di farglielo pesare. Possibile che proprio quando la Silph
aveva concesso loro una dilazione nei tempi di ricerca quel dannato
tedesco si fosse messo a fare gli straordinari non retribuiti?
«Ci
penso io a chiudere la porta quando esce il dottor Rotwang, stasera.
Tu vai a casa quando hai finito e non preoccuparti.»
Restare
in
uffico fino alle dieci o le undici di sera non gli era mai
dispiaciuto, dal momento che continuare a lavorare a casa o in
ufficio gli era perfettamente indifferente; ma quella sera Emir fece
fatica anche solo ad aspettare le otto, e non riuscì a
concluder
nulla.
Quella
gli
parve una buona ora per uscire dall'ufficio e attraversare il
laboratorio; e del resto non sarebbe riuscito ad aspettare oltre. Si
sentiva impaziente come se avesse dovuto svelare un segreto, per
quanto consapevole che il segreto non esisteva altrove che nella sua
testa. Ma non voleva davvero spiare Rotwang – voleva solo
sapere.
Il
suo ufficio
era vuoto e la luce era spenta. Emir passò oltre senza
neppure
affacciarsi sulla soglia, e in fin dei conti non aveva mai neppure
pensato che l'avrebbe trovato lì. Ma proprio quando stava
per
entrare nella stanza di Mew, d'un tratto ebbe un ripensamento, e non
aprì la porta.
La
stanza di
Mew era stata progettata in modo tale che i movimenti del
Pokémon
potessero essere osservati per motivi di studio anche senza entrare e
disturbarla: era stato lui a insistere con Dale, e aveva ottenuto che
accanto alla sua stanza si costruisse una sorta di anticamera
accessibile dal corridoio e separata da Mew da un vetro a specchio,
in modo tale che i membri dell'équipe potessero osservarla a
proprio
agio. Non avrebbe mai pensato di usarla per quello, ma Emir
entrò in
silenzio nella piccola anticamera e si avvicinò piano al
vetro. Era
confortante sapere di non poter essere visto dall'altra parte.
Rotwang
era
seduto sull'erba, insieme a Mew che pareva pendere dalle sue labbra,
e leggeva. Non stava facendo nient'altro, ma a quella vista Emir si
sentì improvvisamente sporco e imbarazzato come se si fosse
introdotto nottetempo a spiare una persona nuda che dormisse, e si
sentì profondamente in colpa. Uscì dalla stanza
in punta di piedi,
come se davvero vi fosse il rischio che Rotwang udisse i suoi passi e
si voltasse, e tornò a barricarsi nel suo ufficio. Per
quella sera
avrebbe atteso che Rotwang lasciasse l'edificio prima di tornare a
casa, ma il solo pensiero di dover restare anche le sere successive
gli dava la stessa sporca sensazione di un atto di voyeurismo, e
bisognava a tutti i costi risolvere quella sensazione.
Chinandosi
sulla scrivania della sua segretaria, Emir prese un post-it e scrisse
in caratteri chiari e leggibili: URGENTE – Ordinare
subito copie
delle chiavi del laboratorio per tutti i membri dell'équipe
a scopo
di studio.
L'estate
era
finita e alle ultime giornate di settembre era succeduto un autunno
asciutto ma insolitamente freddo per l'Isola. Le giornate si erano
abbreviate notevolmente, ed Emir non vedeva la luce del sole che
attraverso le finestre del suo ufficio. Tutte le sue giornate, dalla
prima mattina sino alla sera, trascorrevano al laboratorio, ed egli
usciva solo a buio fatto.
L'enigma
costituito da Mew lo avviluppava ogni giorno di più.
Valérien
era
tornato da lui il giorno successivo alla riunione, eccitatissimo,
riportandogli fogli sottolineati, evidenziati e annotati sino allo
sfinimento. Prima ancora di sentirlo parlare, Emir gli aveva
già
riconosciuto in faccia lo stesso sgomento che aveva provato lui.
Valérien non possedeva le sue stesse basi in genetica, era
specializzato soprattutto sul versante evolutivo, ma neppure una
matricola avrebbe potuto mai dubitare che i dati di quelle analisi
volessero dire qualcosa – e che quel qualcosa poteva
essere
la scoperta scientifica più importante dell'ultimo secolo
dopo la
scoperta del DNA stesso.
Il
codice
genetico di Mew era un enigma così complesso che scegliere
una
direzione piuttosto che un'altra sembrava un delitto così
grave da
gridar vendetta a Dio; ma da qualche parte bisognava pur cominciare,
e dopo aver sentito le opinioni di tutto il suo team Emir si decise a
prendere una decisione.
Lui
e
Dolarhyde si dedicarono a comparare a tappeto quel patrimonio
genetico che rivelava via via più sorprese a ogni risultato.
Mew
sembrava condividere il DNA di qualsiasi Pokémon con cui lo
mettessero a confronto, a tal punto che a un certo punto smisero di
sorprendersi; o meglio, si sarebbero sorpresi se avessero trovato
un'eccezione a quella sfilata di magnifiche corrispondenze, tali e
tante da non poter essere più considerate casuali. Ogni
sera, via
via che Dolarhyde gli consegnava nuovi risultati, Emir si barricava
nel suo studio, chiudendo la porta a chiave, e si appollaiava sulla
poltrona di pelle, dondolandosi pigramente contro la scrivania.
Quando poi si decideva a tornare a casa, quando ormai proprio tutti
i suoi colleghi se n'erano andati e bisognava proprio chiudere
l'ufficio, egli riprendeva quella medesima posizione nel suo salotto
che dava sulla scogliera e studiava sul divano fino a notte alta,
talora fino ad addormentarsi con le gambe sul bracciolo del divano.
Per quanto si trattasse di lavoro, studiare lo rilassava enormemente.
La genetica era sempre stata l'unica cosa della sua vita che gli
fosse sempre riuscita con facilità, che gli veniva spontanea
e
semplice come qualcosa d'intuitivo e naturale, e ora per la prima
volta gli paceva anche dannatamente.
I
risultati
dei test genetici venivano confermati da Valérien con la
stessa
regolarità, in modo ormai talmente ripetitivo da non celare
più
alcunché di sorprendente. Dopo un mese e mezzo di tentativi,
Valérien concludeva la parte sperimentale della ricerca: Mew
poteva
apprendere ogni singola mossa conosciuta.
Già questo solo
dato era sufficiente a consacrarlo all'olimpo dei Pokémon
più forti
e versatili esistenti, unitamente al suo tipo; non restavano che da
determinare con maggiore precisione le sue statistiche e la sua
intelligenza, almeno per la Silph. Ma per quanto riguardava la nuda,
pura speculazione scientifica, la vera domanda era un'altra per la
Silph: come si spiegava quell'abominevole correlazione genetica? E
per quanto poi riguardava lui, soprattutto, se Mew era tanto potente
perché restava lì con loro?
«Perché
non
ti ribelli?» le chiedeva Emir talvolta, quando vedeva Mew
picchiare
con la coda sul vetro perché qualcuno andasse a giocare con
lei.
Mew,
rispondeva
invariabilmente Mew,
allora Emir, sentendosi come nauseato dalla grande dolcezza che
provava per lei, avrebbe voluto scuoterla e urlarle: Non
puoi volere tutto questo! Ribellati! È per colpa nostra che
M1 è
morto senza che tu potessi rivederlo, allora perché non ci
odi? Tu
sei il Pokémon più forte del mondo, allora
perché non scappi,
perché non torni in Guyana con Teletrasporto? Per quale
motivo vuoi
restare qui? Eppure lo sai benissimo che cosa succede ogni volta che
entriamo con le nostre mani guantate e i nostri camici...
Come
se avesse
potuto leggergli nel pensiero, ogni singola volta, tutto ciò
che Mew
si limitava a rispondergli era: Mew? E dalla sua
tenerezza e
dalla sua apparente impotenza Emir si sentiva frustrato e furioso e
avrebbe voluto spaccare tutto e urlare e costringerla a reagire e a
difendersi, una buona volta!
Della
moltitudine di sentimenti che provava non aveva modo di parlare con
nessuno. Portia e Vincent sarebbero sicuramente rimasti ad ascoltarlo
con tutta la cortesia e l'interesse del mondo, s'egli gliene avesse
fatto parola; ma per quanto Emir si considerasse amico di ciascuno di
loro, con nessuno di loro si sarebbe sentito in grado di fare
discorsi tanto intimi e personali; e poi, soprattutto, se c'era
qualcosa che aveva capito perfettamente, era che quando
Valérien
s'era infilato nella sua tenda, quella notte, senza voler chiamare
nessun'altro, non era stato solo perché di lui si fidava
come di un
maestro. Per quanto fossero professionisti nei rispettivi campi e
umanamente tra le persone migliori ch'egli avesse mai incontrato,
quell'aura di sacralità che Mew trasmetteva e dalla quale
egli si
sentiva tanto confuso non l'avrebbero percepita mai. Rotwang invece
sì, di questo era certo: se aveva sofferto tanto della morte
di M1,
era perché si era trovato a operare una creatura che gli era
parsa
troppo pura e troppo sacra per poter affondare le mani tra i suoi
visceri e sentirla morire lentamente... Forse Rotwang lo avrebbe
capito; ma Rotwang non era suo amico, ed entrambi continuavano
ostinatamente a non rivolgersi la parola. Neppure a tarda sera,
quando Emir sapeva perfettamente che quel dannato tedesco si trovava
a qualche metro appena di distanza da lui in un edificio deserto, e
nessuno li avrebbe sentiti.
L'unico
con
cui poteva parlare di tutto ciò, insomma, era
Valérien. Ma Valérien
si era sempre posto nei suoi confronti come un allievo nei confronti
del maestro, per quanto non avesse che tre anni meno di lui,
aspettandosi sempre di veder provenire da lui tutta la saggezza di un
vate. Confessargli d'essere in dubbio su qualche cosa sarebbe stato
come tradire la fiducia di un figlio che attende una rivelazione dal
padre; ma dopotutto, Emir non era suo padre. Erano colleghi. E poi,
se solo Emir avesse saputo che suo padre, almeno una volta in tutta
la sua infanzia, aveva avuto anche un solo dubbio su qualcosa, egli
gli avrebbe voluto un po' più bene.
«Perché
non
si ribella?» si risolse infine a chiedergli una sera. Erano
seduti
di fronte al vetro dell'anticamera, a illudersi di star scrutando i
suoi movimenti naturali. Al di là della barriera che li
divideva Mew
non poteva vederli, ma Emir era certo che in qualche modo li
percepisse egualmente. Era stranamente rilassante star seduti
lì, al
buio, illuminati dalla sola luce del sole artificiale che doveva
scaldare l'habitat simulato di Mew, a fingere di prendere appunti.
Valérien
non
si era aspettato che prendesse la parola. Lo soppesò in
silenzio per
un po', col capo indolente poggiato contro la mano, e
domandò con un
sorriso pigro: «In che senso?»
Da
quando
avevano Mew, per chissà quale strana associazione di idee,
Valérien
gli sembrava sempre di più in ragazzo, come se il contatto
con una
creatura così indifesa e fragile lo assimilasse a essa. In
quel
momento, col camice sbottonato e le dita intrecciate tra i ricci
spettinati, il sorriso storto di un bambino ripreso dal maestro, non
sembrava più grande di un ragazzo delle superiori. Tra di
loro
c'erano solo tre anni di distanza, ma al suo confronto, quando si
guardava allo specchio, Emir aveva l'impressione d'esser molto
più
vecchio.
«Perché
non
si arrabbia con noi?» insisté Emir, accennando al
Pokémon che
mangiava di fronte a loro. «Tu sai che ne sarebbe in grado,
allora
perché non si ribella? Perché non torna in
Guyana?»
Il
sorriso di
Valérien si fece più pensieroso e malinconico
mentre rifletteva.
«Beh»
iniziò
lentamente, appoggiandosi allo schienale della sedia. «Tu non
pensi
che possa essere felice di stare qui? Dopotutto, ci vuole molto bene.
Perché dovrebbe ribellarsi?»
Ci
vuole
bene, ripeté
Emir tra sé e sé;
ma questa spiegazione, ch'egli aveva già preso in
considerazione in
cuor suo, non lo soddisfaceva. «Però...»
«Però?»
Emir
avrebbe voluto raccontargli come si era comportata con Dale, che pure
non aveva mai visto, e che l'aveva trattata alla stregua di un
animaletto fastidioso e un po' schifoso da toccare con la punta delle
dita; anche con lui Mew era stata affettuosa e aveva ricercato le sue
carezze con insistenza. Ma dirlo ad alta voce gli ripugnava,
perché
gli sembrava una prova tanto incontrovertibile da porre
necessariamente fine a una conversazione che aveva un disperato
bisogno di portare avanti. Ma poteva darsi che Valérien
avesse visto
qualcosa che ai suoi occhi era precluso, allora domandò:
«Tu da
cosa puoi dire che Mew ci vuol bene?»
Gli
occhi di
Valérien si accesero dello spettro di una risata. Si
passò le dita
tra i ricci scomposti, come a prendere tempo, e sorrise di nuovo.
Sembrava ancora più giovane quando sorrideva.
«Dio, Emir... non
saprei. Lei è felice qui con noi. Vuole sempre giocare. Io
sarei
felice al suo posto, se mi comportassi così. Ma tu
perché pensi che
non lo sia?»
«Non
ho mai
detto che non lo sia» disse immediatamente Emir. Si
sentì molto
stupito che Valrien avesse pensato che fosse questo il punto
– egli
non aveva mai messo in dubbio che Mew fosse felice. Il punto non
stava lì – il punto era: per quale motivo Mew era
felice? «Mew è
felice di qualunque cosa le succeda. Vuole bene a tutti coloro che
l'avvicinano. Ma per voler bene a chiunque ed essere contenta di
tutto, non è poi come se tutto per lei fosse
indifferente?»
Valérien
aveva smesso di sorridere, ora i suoi occhi si erano fatti seri e
concentrati, ed egli non aveva perduto una parola del suo discorso.
Tornò a passarsi una mano tra i capelli, ma stavolta non
aveva
alcuna intenzione di schermirsi. Pensava.
«Tu
pensi che
davvero le siamo tutti indifferenti?» domandò a
bassa voce. Accennò
col capo al di là del vetro. «Tutti noi, io, te,
Portia... non
credi che lei faccia delle piccole differenze?»
«Per
esempio?» domandò Emir stancamente. Di segnali in
questo senso egli
ne aveva cercati per giorni da parte di Mew, e talora aveva anche
creduto di scorgerne qualcuno, ma non l'aveva mai visto ripetersi
sino ad averne la conferma, e perciò non voleva illudersi;
ma
egualmente aspettò che Valérien gli desse la sua
opinione. Chissà,
forse poteva cambiare idea.
«Per
esempio... penso che sappia che abbiamo cercato di salvare M1, quella
notte. Per questo vuol bene a Rotwang, per quanto sia... beh,
Rotwang.»
Certo,
Rotwang
era Rotwang, ma con Mew era un altro uomo: questo provava davvero che
M2 sapesse di quella notte? O meglio era ovvio che sapesse che il suo
compagno era morto: ma era davvero lecito aspettarsi che sapesse
quanto era costato loro tentare di salvarlo, e che per questo fosse
loro grata? E poi, questo non supportava in nulla la teoria di
Valérien: Mew si era comportata allo stesso modo anche con
Dale, che
pure l'aborriva!
Ma
egli non
voleva mortificare Valérien opponendogli ragioni ch'egli non
avrebbe
potuto smentire. Tutto ciò che voleva era poter esporre i
propri
dubbi e trovare qualcuno che lo aiutasse a risolverli.
Si
alzò per
avvicinarsi al vetro. Al di là di esso, senza poterli
vedere, Mew
stava bevendo dal piccolo ruscello artificiale che la riforniva
continuamente d'acqua corrente; ma aveva gli occhi piccoli di sonno,
e con ogni probabilità si sarebbe addormentata di
lì a pochi
minuti. Ma quando Emir posò la mano sul vetro, Mew se ne
accorse:
egli la vide drizzare le orecchie come un animale all'erta e levare
il capo di scatto. Ma qualsiasi animale si sarebbe ritratto,
continuando ad ascoltare e a cercare con lo sguardo l'origine di
quella vibrazione, e avrebbe aspettato...
Mew
balzò in
aria per la gioia, esultò a mezz'aria per la
felicità, protese le
zampe verso il vetro. Era il Pokémon più
aggraziato ed elegante che
potesse esistere al mondo, più raffinato di
un'étoile viennese, e
sicuramente la creatura più gioiosa ch'egli avesse mai visto
in
tutta la vita... ma per quale motivo lo ricercava?
«La
gratitudine è un sentimento molto umano,
Valérien. Se è così
intelligente da provarla, allora perché non si ribella
almeno al
dolore?»
Mentre
Mew
ricercava il punto in cui la sua mano toccava il vetro,
Valérien
ipotizzò molto lentamente: «Forse la stai
antropomorfizzando
troppo, Emir. E poi ancora non riusciamo a stabilire il suo quoziente
intellettivo. Per quanto ne sappiamo, potrebbe equivalere a quello di
un Alakazam, come... come no, insomma.»
Quell'esitazione
che la sua voce aveva avuto Emir sapeva benissimo come colmarla: come
uno Slowpoke, avrebbe voluto dire Valérien, ma
poi gli era parso
troppo offensivo, e si era fermato.
Delusa
dal
cercare invano, Mew si allontanò amareggiata dal vetro: lei
sapeva
che lui era lì, ed era arrabbiata che non si fosse fatto
vedere.
Forse sarebbe stato meglio andare dentro a salutarla, prima di farla
dormire: gli dispiaceva pensare di ferirla, anche se sembrava
impossibile.
Bisognava
concludere una conversazione che rischiava di non portar più
da
nessuna parte. Emir si voltò verso Valérien,
ricercò i suoi occhi
chiari nella penombra nera: non aveva smesso neppure un momento di
guardarlo. «Lei è intelligente,
Valérien. Lo sai anche tu.» E
chissà, forse anche pià di un Alakazam;
ma questo rimase non
detto. Neppure lui voleva sperarci troppo, per il momento.
Valérien
sorrise di nuovo, finalmente, del suo sorriso coinvolgente e
imbarazzato di ragazzo, colle dita piene di capelli spettinati.
«Allora c'è un'altra spiegazione, Emir... che
questo sia il suo
carattere. Come un Gyarados è imbizzarrito e Chansey
è
territoriale, i Mew sono fatti così. Può darsi
anche che sia
un'efficace strategia di difesa per dissuadere i Pokémon
dall'attaccarlo.»
«Può
darsi»
mormorò Emir; ma dentro di sé sapeva che non
poteva trattarsi di
una strategia. Se le cose fossero state così come diceva
Valérien,
se veramente quella grande dolcezza non era altro che una raffinata
strategia evoluzionistica di difesa della specie, allora
perché M1
era morto? La grande dolcezza con cui aveva guardato Rotwang prima
ancora dell'effetto della morfina, non sarebbe dovuta bastare a
salvarla?
D'improvviso
quella grande calma della penombra e della sera si spezzò:
la porta
si aprì dall'esterno, una lama di luce s'ingrandì
sul pavimento
sino a diventare enorme; Emir si volse profondamente infastidito. Era
la segretaria.
«Sì?»
«Dottore,
mi
dispiace tanto... è arrivato questo fax da Zafferanpoli. Mi
è parso
urgente.»
Dale
non
inviava mai fax, anzi li odiava di tutto cuore. Col volto iscurito,
Emir attraversò la stanza a grandi passi per prendere il fax
dalle
sue mani.
Era
una
comunicazione del Presidente della Silph con la quale si comunicava
di procedere alla clonazione di due esemplari di Mew.
Emir
passò
tutta la mattinata al telefono a cercare di contattare Dale. A quanto
pareva era in riunione, almeno a quanto gli dissero con calma due
diverse segretarie. Ma spinto dall'ostinazione del panico, Emir
continuò a telefonare ininterrottamente per tutta la
mattinata, e il
cielo sa quante altre cose avrebbe dovuto fare: solo alle undici
passate da un pezzo Dale si decise a prendere la telefonata. La calma
della sua voce lo fece quasi urlare di rabbia.
«Dottore,
buongiorno... avevo proprio intenzione di chiamarla stamattina. Mi
hanno detto che mi cercava, è successo qualcosa?»
«Che
cosa
vuol dire questo fax?»
Dopo
un attimo
di silenzio, Dale disse con voce strana: «Aspetti un
momento.» Emir
sentì il crepitio statico della cornetta che veniva coperta
con una
mano; per un po' non distinse altro che il borbottio di voci confuse
e alterate. Finalmente Dale esclamò esacerbato:
«Possibile che qua
nessuno mi ascolti mai quando dico qualcosa?» e dopo un
momento
tornò alla conversazione, evidentemente molto seccato.
«Eccomi,
dottore... sono mortificato, mi creda. Avevo detto e ridetto di
mandarle quel fax solo verso l'ora di pranzo, perché prima
volevo
essere io a darle la bella notizia. Ma lei sa come funziona negli
uffici... nessuno capisce mai niente di quel che si dice.»
«La
bella
notizia?» boccheggiò Emir.
«Già,
ottimo, no?» ribatté Dale, in tono ritrovatamente
squillante. «Il
consiglio ha approvato il progetto della clonazione e il Presidente
ha firmato l'autorizzazione ieri pomeriggio.»
Emir
si
sentiva così stupefatto e confuso da non riuscir quasi a
parlare.
Aveva in mano una penna con cui scarabocchiava su un foglio, come
sempre quando era in attesa al telefono: ma quando chinò gli
occhi
sulla carta, si accorse di aver tracciato segni neri e spezzati,
pieni di rabbia. «Ma... per quale motivo?»
«Beh,
mi
aveva detto lei che avere un solo esemplare a disposizione rallenta i
vostri studi, oppure no?»
Quando
Emir
frugò nella propria memoria alla ricerca di qualcosa che
confermasse
o smentisse le sue parole, trovò solo una grande confusione.
Non
ricordava di avere mai detto una cosa del genere, o almeno non con
l'intenzione di lamentarsi della situazione; ma forse poteva averla
addotta come motivazione per richiedere più tempo. Forse
dopo la
conferenza stampa...
Cercò
di
riprendere il controllo. «La ringrazio per l'autorizzazione,
signor
Dale, ma le garantisco che per il momento non è necessario.
Con M2
il lavoro procede già a gonfie vele, stavamo giusto per
mandarle i
risultati di...»
In
tono
improvvisamente serio, Dale disse: «Dottor Fuji, questa non
è una
possibilità. È una direttiva.»
«Clonare
un
Pokémon non è una cosa che si fa dalla sera alla
mattina, signore»
sbatté Emir in tono secco. «Si tratta di partire
da zero.»
«Voi
non
partireste da zero, dottore» obiettò Dale con
calma. La sua voce
aveva assunto una sfumatura raggelante. «Voi avete tutto il
materiale necessario a iniziare la prima fase della sperimentazione.
Avete ancora tutta la strumentazione necessaria agli esperimenti di
rigenerazione dei fossili...»
Ma
certo, come
non pensarci prima. Agli alti dirigenti della Silph, là a
Zafferanopoli, che mai nella vita avevano posto piede in un
laboratorio – di certo non nel suo laboratorio
– doveva
esser parso ovvio: si ha un Pokémon raro, si hanno gli
strumenti per
clonarlo, lo si clona. Cosa di più facile? Ma forse nessuno
aveva
pensato alla complessità di un progetto del genere, alle
difficoltà
tecniche ed etiche, agli ostacoli...
«Non
abbiamo
mai finito il progetto dei fossili.»
«Oh,
è
questa la buona notizia» riprese Dale allegramente.
«Concluderete
il progetto con la clonazione di M2, e una volta ottenuti gli
esemplari ce ci servono sbloccheremo i fondi per riprendere gli
esperimenti di clonazione sulla base del DNA fossile. Dopotutto,
potrebbe anche darsi che avere un esemplare in più di Mew
possa
aiutarvi con la clonazione degli altri, dato che il suo DNA sembra
compatibile con quello d tutti gli altri esemplari...»
Quel
piano era
ben studiato, certo. Allo stato attuale delle loro conoscenze, nulla
sembrava proibire fisicamente di procedere alla sua clonazione: il
progetto sulla rigenerazione dei fossili, che era stato loro impedito
di concludere, prevedeva originariamente di impiantare un embrione
fecondato grazie al DNA estratto dai fossili nell'utero di un
esemplare compatibile, ibridando perciò il DNA dei soggetti
sia per
permettere una gravidanza sicura, sia per garantire la loro
sopravvivenza in tempi odierni: che era poi il progetto su cui tanto
si erano affannati lui e Rotwang, collaborando insieme per due anni.
Nel caso di Mew, la questione si faceva più semplice: essi
disponevano del DNA di un soggetto maschio e di una femmina viva.
Sarebbe stato necessario intervenire sul DNA solo se i test avessero
rivelato la possibilità di malattie genetiche incompatibili
con la
vita del feto. Nel giro di qualche anno avrebbero potuto disporre di
chissà quanti esemplari, e le loro ricerche sarebbero
proseguite a
gonfie vele...
Ma
c'era qualcosa che non quadrava in tutto ciò: quasi per
caso, gli
occhi gli caddero sul fax che giaceva stropicciato di fronte a lui e
che parlava esplicitamente di due
esemplari. Eppure il signor Dale aveva appena detto: può
darsi che un
esemplare in più possa aiutarvi...
Gli
dilacerò
l'animo un presentimento terribile. «Che fine farà
il secondo
esemplare?»
«Oh,
giusto,
giusto... ha fatto bene a chiedermelo. Lei si ricorda quando abbiamo
consegnato in esclusiva i primi cento esemplari di Porygon al
proprietario del casinò di Azzurropoli?»
La
penna che
aveva in mano rotolò sul tavolo.
Porygon
era
stato il primo frotto del suo ingegno e del suo lavoro, ed egli
l'aveva ceduto con tutto l'entusiasmo dei suoi ventisei anni. L'idea
che il prodotto del suo genio fosse tanto apprezzato e richiesto da
divenire l'oggetto dell'interesse di un uomo d'affari del calibro del
signor Giovanni lo aveva riempito di un orgoglio vibrante, inusitato,
ch'egli ricordava ancora. L'aveva incotnrato una sera a
Zafferanopoli, a una serata di gala organizzata appositamente per
celebrare quello scambio alla quale Dale l'aveva trascinato. Certo,
già all'epoca si vociferava qualcosa riguardo a quell'uomo:
c'erano
diversi processi a suo carico, e si diceva che stipendiasse
più
avvocati che dipendenti; era accusato di corruzione, truffa, era
indagato per trattative illecite con vari membri del governo, ma a
suo carico non era mai emerso (o non si era mai voluto far emergere)
nulla di decisivo, ed egli aveva l'aria tronfia e sicura di
sé di
qualcuno che sapesse di non poter essere toccato. Quella sera a
Zafferanopoli Emir aveva avuto modo di parlargli molto a lungo: aveva
trovato un uomo estremamente elegante, di una raffinatezza maschia e
volitiva. La sua virilità e la fiera arroganza che i suoi
occhi
esprimevano avrebbero finito per metterlo a disagio, se solo Giovanni
non si fosse rivelato di un'educazione insospettabile: si era
dimostrato molto interessato al suo lavoro e gli aveva rivolto una
quantità di domande e curiosità tecniche,
facendosi spiegare nei
dettagli i vari passaggi della progettazione di Porygon, e l'aveva
subissato di complimenti. Era stata una serata memorabile per lui, la
notte di trionfo cui il suo lavoro e il suo genio l'avevano condotto,
e nient'altro.
Suo
padre si
era scatenato sui giornali con lettere aperte d'indignata protesta di
fronte a quella vergognosa compravendita di esseri viventi,
creati
in laboratorio per essere venduti e sfruttati in spregio a qualsiasi
riflessione etica e alla più elementare umanità: ma
la politica
della Silph rientrava ampiamente nei margini della legalità.
Nessuna
legge impediva sperimentazioni in laboratorio e, per quanto
ciò
fosse paradossale, la generazione di nuove specie viventi ricadeva in
un vuoto normativo di cui la Silph SpA traeva i massimi vantaggi; in
quanto poi alla clonazione e alle fecondazioni in vitro, esse erano
ampiamente legali. Nessun esemplare di Porygon era poi stato venduto
al casinò (o quantomeno un passaggio di denaro non figurava
ufficialmente da nessun parte), ma i cento soggetti erano stati
ceduti a titolo gratuito, e le accorate proteste del signor Fuji
erano perciò cadute nel vuoto delle istituzioni: per quanto
ogni
legge morale gli desse ragione, la legge umana gli dava torto. La
consapevolezza di essersi finalmente contrapposto a suo padre lo
aveva fatto addormentare per più di una notte in preda a una
voluttuosa dolcezza.
Ma
quando
ripensò a Giovanni, quel giorno, il suo animo non
provò alcun
sentimento di piacere.
«Me
lo
ricordo» mormorò.
«Giovanni
è
rimasto entusiasta di Porygon e si è offerto di partecipare
alle
spese di finanziamento degli studi in cambio di un esemplare di
Mew... possibilmente maschio. Le confesso che non ho capito se
intende tenerlo per sé o se ha intenzione di metterlo in
palio come
premio al Casinò, ma se le fa piacere posso
chiederglielo...»
Come
se fosse
seduto dall'altra parte dell'ufficio a osservare se stesso, Emir
udì
la propria voce dire macchinalmente: «Non si
preoccupi.»
«Bene,
bene,
allora... ora devo scappare, ma per ogni dubbio non si faccia
scrupolo a chiamarmi. Lei sa meglio di me come procedere, da qui in
poi. Posso contare su di lei, dottore?»
L'Emir
seduto
in fondo allo studio continuò a scrutare se stesso mentre
diceva:
«Ci metteremo al lavoro la prossima settimana...
buongiorno...
buongiorno»; poi Emir riappese, poté finalmente
smettere di
ascoltare se stesso, e si mise a pensare.
Quando
aveva
creato Porygon, dopo due anni di lavoro, non aveva provato nei suoi
confronti il benché minimo coinvolgimento emotivo, e non
solamente
perché si trattava di un creatura fredda e senz'anima. Anche
così
com'era, egli sentiva che avrebbe potuto amarlo, se solo avesse
compiuto quel progetto col desiderio di creare un'altra vita; ma
così
non era stato. Aveva creato Porygon con lo stesso spirito col quale
avrebbe consegnato della posta o cucinato un piatto, se nella vita
avesse fatto il cuoco o il postino; quello era il lavoro che la Silph
richiedeva alla sua intelligenza, ed egli lo aveva compiuto
coscienziosamente con la medesima partecipazione affettiva di un
operaio alla catena di montaggio, e un'immensa ammirazione per se
stesso.
Verso
la
speculazione scientifica Emir non provava il benché minimo
interesse, e neppure verso la gioia paterna che avrebbe potuto dargli
la consapevolezza di creare una nuova vita a lui debitrice della sua
esistenza. Alla creazione di Porygon non aveva provato che la gioia
selvaggia d'esser divenuto finalmente rivale di suo padre, d'essere
uomo; la consapevolezza di ciò che le sue mani e il suo
genio erano
in grado di creare, e infine il compiacimento di vedersi finalmente
lodato e riconosciuto non soltanto nel panorama scientifico
internazionale – del quale, in fin dei conti, non gli
importava poi
molto – ma soprattutto da parte di un carismatico uomo
d'affari che
era rimasto a interessarsi del suo lavoro per tutta una serata...
Il
fascino
della pericolosità di Giovanni l'aveva colpito e intrigato,
ed Emir
si era servito di Porygon come di uno strumento per potersi
avvicinare a quel mondo oscuro di corruzione e giocarvi senza farsi
del male. Di Porygon continuava tuttora a non importargli niente, ed
egli non era pentito affatto d'aver visto a uno a uno quei cento
esemplari venir messi in palio al Casinò; ma sarebbe stato
senza
cuore a tal punto da cedergli Mew? E soprattutto, queste riflessioni
avrebbero avuto un qualche valore, una volta che le decisioni
dell'azienda non fossero più state nelle sue mani?
Continuando
a
dondolarsi pigramente sulla sedia, gettò uno sguardo
all'orologio.
Era quasi mezzogiorno. Solitamente attorno a quell'ora la maggior
parte dei suoi colleghi era ancora al lavoro, nessuno pranzava
così
presto: questo voleva dire che i suoi colleghi dovevano essere
ciascuno nel proprio ufficio. In ogni caso valeva la pena di fare un
tentativo.
L'ufficio
di
Rotwang era a un paio di corridoi di distanza dal suo; per aver
pronta una scusa valida, nel caso in cui qualcuno lo avesse visto,
mise insieme un plico di vecchie fotocopie di nessun valore e vi
cerchiò un paio di risultati, per aver l'aria di dovergli
chiedere
qualche spiegazione, e si avviò nel suo ufficio.
La
porta era
aperta. In quel momento Rotwang stava lavorando al microscopio,
annotando alcuni appunti in tedesco su un blocco. Emir bussò
discretamente.
«Posso
parlarti?»
«Ah,
Fuji.»
Rotwang gli scoccò uno sguardo rapido senza allontanarsi dal
microscopio. «Se sei venuto per quelle analisi, devo finirle
entro
stasera, ma posso anticiparti che rimango della mia idea. Non
c'è
nulla di connesso all'evoluzione nel suo DNA. Ha sicuramente un solo
stadio evolutivo.»
Per
tutta
risposta, Emir si accertò che in corridoio non ci fosse
nessuno e
chiuse la porta. Questo gesto lo stupì tanto che Rotwang
rise tra sé
mentre ancora era chino sul microscopio. Non si mosse.
«Addirittura
con la porta chiusa? Se sei venuto a farmi una proposta indecente,
è
mio dovere dirti che io faccio solo sesso violento. Detto
questo...»
Se
Rotwang
voleva comportarsi come un bambino, tanto valeva stare al gioco. Emir
andò a sedersi con calma su uno sgabello girevole di fianco
alla
scrivania, cacciò le mani nelle tasche del camice e rispose:
«Proponimelo, allora. Perché pensi che non
potrebbe piacermi?»
Dopo
aver
cercati invano per un po' una riposta arguta da rilanciargli, Rotwang
dovette chiudere la bocca e riconoscersi vinto dalle proprie stesse
armi. Finalmente, visibilmente contariato, si risolse a gettare la
penna sul tavolo e si sollevò dal microscopio.
«Bene, marchese De
Sade, come vuoi. Ti ascolto.»
Quella
era
probabilmente la prima volta ch'egli riusciva a non dargliela vinta,
ed Emir se ne sentì discretamente compiaciuto. Neppure
Rotwang era
imbattibile, dopotutto.
Cercò
per un
po' da dove cominciare, lasciandosi ondeggiare sullo sgabello.
«Senti... tu ancora non lavoravi con noi, ma qualcuno ti ha
raccontato di quando abbiamo creato Porygon e lo abbiamo ceduto al
Casinò di Azzurropoli?»
«Eravate
su
qualsiasi rivista, Fuji. Perché pensi che abbia fatto di
tutto per
farmi assumere proprio qui?» Evidentemente Rotwang non aveva
ancora
capito dve volesse andare a parare, ma parve stabilire che valeva la
pena di lanciargli comunque una frecciatina. «Bello
trafficare
Pokémon, eh, Fuji?»
Stavolta
non
era questione di dargliela o meno vinta: Emir aveva l'impressione di
parlare con una versione più giovane e sboccata di suo
padre, ma
egualmente moralista, e alzò gli occhi al cielo.
«Hai finito?»
La
sua
mancanza di reazioni parve convincere Rotwang che la questione era
seria. Evitò di rispondere, ed Emir proseguì:
«Se ti dicessi che
la Silph vuole che cloniamo Mew per regalarne un esemplare al
direttore del Casinò, tu mi aiuteresti a rubarla?»
Per
diversi
secondi, Rotwang non reagì. Il suo volto rimase
perfettamente
impassibile, immoto, solamente un lampo attraversò i suoi
occhi; ma
egualmente, anche dopo che la sua mente ebbe avuto modo di vagliare
ogni possibile significato delle sue parole, egli non
manifestò il
minimo cedimento.
«Esci
pure,
Fuji» disse con calma. «Se stai cercando un
pretesto per potermi
licenziare, dovrai impegnarti più di così. Per
favore, esci.»
Emir
trasse di
tasca il fax dell'ufficio di Dale, lo spianò con cura con le
mani e
glielo porse. Rotwang lo scorse con gli occhi senza capire.
«Se
viene
fuori che ti ho fatto questa proposta, io sarò licenziato al
pari di
te. Perché dovrei venir qui a farti domande a trabocchetto,
quando
tutto il laboratorio potrebbe testimoniare che tu mi hai offeso in
centinaia di occasioni senza che ti avessi provocato?»
Rotwang
stava
ancora leggendo il fax. Aveva la fronte penosamente aggrottata, e
tutta la sua strafottente sicumera si era dileguata come fumo.
«Non
stavi
scherzando» mormorò.
Quantomeno
era
riuscita a ottenere la sua attenzione, e forse, con un po' di fatica,
anche la sua fiducia. «È tutto lì, nero
su bianco. Se non mi credi
riguardo al Casinò puoi chiamare Dale, lui te lo
dirà, dato che non
c'è nulla da nascondere. Quella che tu chiami compravendita
è
una cessione a titolo gratuito perfettamente legale, Rotwang»
gli
ricordò freddamente. «Cos'è quella
storia che gli immigrati
dovrebbero adeguarsi alle leggi del Paese in cui...»
«Stai
zitto,
Fuji.» Molto più pallido in volto di pochi minuti
prima, Rotwang si
alzò nervosamente in piedi e si mosse attraverso l'ufficio
cacciandosi una mano tra i capelli. «Quando dovremmo
cominciare gli
esperimenti?»
«La
prossima
settimana» rispose Emir senza scomporsi. Osservando
cautamente ogni
sua minima reazione, soggiunse: «Quando avremo clonato Mew,
sbloccheranno i fondi per il progetto dei fossili.»
Lo
scambio che
gli proponeva era chiaro, piano: un piccolo compromesso per poter
finalmente realizzare il sogno di una vita, per il quale Rotwang
aveva lasciato la Germania. Ma senza neppure voltarsi, Rotwang
agitò
una mano a scacciare da sé quell'idea come un ronzio
fastidioso. «Tu
hai detto di sì?»
«No,
non ho
detto di sì. Nessuno ha chiesto il mio parere,
perciò puoi stare
certo che la Silph avrà quei due cloni, anche a costo di
licenziarci
e assumere altri al nostro posto. Capisci che l'unico modo di salvare
M2 è portarla via di qui?»
«Allora
perché non l'hai chiesto a Lestournelle?»
sbottò Rotwang. «È lui
il tuo amichetto, o mi sbaglio? Cosa c'entro io?»
Questa
obiezione se l'era aspettata, ed era anche, paradossalmente, la
più
logica che Rotwang potesse fargli. Emir trasse una penna dalla tasca
del camice e se la rigirò per un po' tra le mani per avere
un motivo
per non guardarlo.
«Certo
che ho
pensato a Valérien» mormorò.
«Il punto è che tu sei molto più
motivato di lui... e io ho bisogno di un aiuto che lui non
può
darmi.»
Valérien
sarebbe stato forse il complice perfetto di qualsiasi piano egli
potesse avere, ma il punto era proprio quello – egli.
Da
quando lo conosceva, non aveva mai visto Valérien prendere
una sola
iniziativa: era venuto a lavorare per la Silph sotto la spinta del
suo relatore, aveva portato avanti gli studi in modo eccellente, ma
sempre sotto le direttive di altri, e non aveva mai osato prendere la
benché minima decisione; e questo non perché non
ne sarebbe stato
capace, ma perché semplicemente la timidezza abituale del
suo
carattere gli impediva di prendere la benché minima
iniziativa che
potesse metterlo in difficoltà di fronte a colleghi ch'egli
vedeva
come più maturi ed esperti di lui. Persino in quella notte
tremenda
in cui era cominciato tutto, Valérien aveva avuto bisogno di
rivolgersi a lui per prendere qualsiasi decisione: per portare M1 al
campo, per andare a chiamare Rotwang, per accettare il nome
proposto... Non aveva avuto il coraggio di prendere apertamente una
decisione neppure quando Vincent gli aveva fatto notare che da quel
momento dipendeva la sua carriera...
Ma
se Emir
avesse dovuto credere davvero di averlo chiesto a Rotwang per motivi
solo strettamente razionali e ragionevoli, avrebbe mentito persino a
se stesso. Quel dannato tedesco era davvero la persona più
adatta al
compito ch'egli doveva richiedergli, ma quel piano l'aveva formulato
in una decina di minuti appena, ed era venuto a proporglielo tanto in
fretta solo perché se avesse atteso ancora forse avrebbe
finito per
cambiare idea. Neppure lui conosceva davvero tutti i motivi per cui
l'aveva chiesto a Rotwang – o meglio, non li conosceva
davvero
perché non erano neppure veri motivi, ma ammassi confusi di
sensazioni puramente irrazionali che aleggiavano pigramente ai
margini della sua coscienza, e ch'egli non aveva ancora avuto il
tempo o il coraggio di razionalizzare lucidamente. Ma qualcosa di cui
fosse ben certo c'era, ed era anche l'unico motivo che Rotwang non
avrebbe dovuto conoscere mai, perché avrebbe offeso la
virilità del
suo ego: Rotwang amava Mew così tanto e con tanto ardore che
l'avrebbe cercata sempre, e se Emir non l'avesse reso partecipe del
suo piano si sarebbe creato un nemico troppo forte e implacabile da
affrontare. Se Rotwang avesse sospettato di lui, cosa che sarebbe
accaduta di certo, forse non sarebbe riuscito a svelare il suo
segreto e a trovare Mew, ma non gli avrebbe mai dato pace.
«Ho
bisogno
di un complice in grado di aiutarmi e che non dipenda totalmente da
me.» riprese sinceramente. «Quando ci saranno le
indagini e le
ricerche e interrogheranno tutti quanti per trovare il
Pokémon più
raro del mondo, non posso rischiare che tutto sia affidato a
Valérien. Io gli voglio bene, lo sai, ma questo è
troppo grande
tanto per me quanto per lui. Non lo sto chiedendo al collega,
Rotwang... lo sto chiedendo al genio.»
Rotwang
si
volse seccamente verso di lui con un sorriso amaro in volto.
«Al
genio, Fuji? Sei serio? Cosa vuole essere, un
complimento o
un'adulazione?»
«O
una
constatazione» ribatté Emir.
«Perché pensi che ti avrei tenuto
qui per così tanto tempo anche se non ti
sopportavo?»
Rotwang
rinunciò a discutere di quell'argomento con lui.
Continuò a
passeggiare nervosamente per l'ufficio coi pugni stretti nelle
tasche: era evidentemente che l'idea lo colpiva e lo tentava, ma
ch'egli non sapeva risolversi a metterla in pratica.
«Come
faccio
a sapere che non mi stai prendendo in giro?»
«Lo
sai dal
fatto che io non ti chiedo di fare niente» rispose con calma
Emir.
Aveva la netta impressione di stare vincendo. «Non sarai tu a
portarlo via, sarò io a nasconderla... una
Pokéball si nasconde
molto bene. Tutto ciò che io ti chiedo è di dire
che, quel
determinato giorno, tu sei rimasto a leggere con Mew come al solito
dopo che se n'erano andati via tutti, e che sei stato tu l'ultimo a
vederla.»
«Tu
come fai
a sapere che...» protestò Rotwang a mezza voce.
Quest'ultima
informazione gli era sfuggita senza volere, in effetti, ma Emir fece
egualmente in modo di non scomporsi. Si limitò a sorridergli
con
condiscendenza, continuando a ondeggiare sullo sgabello. «Che
ti
fermi a leggere con Mew oltre l'orario? È il mio
laboratorio,
Rotwang. Per quale motivo pensi che abbia deciso così
all'improvviso
di far fare delle copie delle chiavi per tutti?»
Senza
trovare
nulla di abbastanza eloquente da controbattergli, e forse sentendosi
un poco in imbarazzo al pensiero d'esser stato scoperto, Rotwang si
limitò a stringere ancora i pugni nelle tasche e ad
aggirarsi senza
scopo nell'ufficio, evitando di guardarlo. Stava riflettendo.
Per
un po',
nessuno dei due parlò. Il medico andò a sedere
alla scrivania e
frugò a lungo in un cassetto, prima di rassegnarsi al fatto
che non
sembrava contenere nulla d'importante. «Se dirò
così, sarò il
primo sospettato.»
«L'ho
chiesto
a te perché bisogna che qualcuno si assuma dei rischi, se
vogliamo
salvarla, e in ogni caso questo sarebbe l'unico indizio a tuo
carico»
ribatté Emir. «E anche se ti indagassero, che cosa
cambierebbe? Non
sarai tu a custodire Mew, sarò io. Altrimenti... qui il
medico sei
tu, Rotwang. A chi pensi che toccherà la fecondazione in
vitro?»
Seduto
su
quello sgabello, tutto intento a dondolarsi come un bambino nello
studio del dottore, Emir ebbe almeno la soddisfazione di vedere le
guance di Rotwang avvampare di rabbia. Tutto sommato, era valsa la
pena di venir fin lì a fare al suo più acerrimo
rivale una proposta
che da sola gli valeva il licenziamento, solo per vederlo arrossir di
rabbia...
«E
tu che ci
guadagni, Fuji?»
Emir
sbatté
le palpebre senza capire. «Io salvo Mew.»
«Non
ti è
mai importato niente di nessun Pokémon. È inutile
che ti affanni a
inventare bugie» si affrettò a prevenirlo Rotwang.
«Forse in
cambio non avrai ricevuto del denaro, ma hai accettato di creare e
fabbricare dei Pokémon per darli a un casinò che
li regalerà come
schiavi... e anche se lo hai fatto gratis, lo hai fatto per la tua
vanagloria, e questo forse è ancora peggio. Ora
perché vuoi
derubare la tua stessa azienda?»
Dei
Pokémon
non gli era mai importato nulla, della scienza non gli era mai
importato nulla. Roteang aveva sempre avuto
ragione sul suo
conto, seppur ingannandosi sulle sue motivazioni: del denaro come
strumento di scambio o di potere, o della propria ambizione come
mezzo per far carriera, Emir non si era interessato mai.
«Hai
ragione,
di Porygon non mi è mai importato niente» ammise
Emir apertamente.
«Ti risulta tanto difficile credere che di Mew invece possa
importarmi qualcosa? Che le sia legato quanto lo sei tu e che voglia
impedire che le facciano del male senza che si difenda, e poi
anche...»
Ma
questo non
si poteva dire, quello che gli veniva alle labbra era troppo intimo,
troppo profondo e umiliante per poterlo dire ad alta voce, ed Emir
tacque bruscamente. Ma accorgendosi che si era interrotto, Rotwang
tornò a levare lo sguardo su di lui colle folte sopracciglia
aggrottate. «E poi, anche...? Se vuoi convincermi d'avere un
cuore
anche tu, dovrai fare meglio di così...»
Per
la prima
volta, Emir si scoprì a disagio d'esser seduto
così scompostamente
nel suo ufficio, forse anche perché quel che si doveva dire
era
troppo serio per poterne parlare così, come uno studente
svogliato
che cerca di sfuggire al professore. Si raddrizzò sullo
sgabello,
cercando di sistemarsi il camice con indifferenza, e cercò
da
qualche parte le parole da dire.
«Pensi
d'esser stato il solo a soffrire, quella notte?»
«Ma
senti,
Fuji... questa è nuova.» Dall'aria di sfida che
gli si era dipinta
in volto, era evidente che Rotwang non intendeva credergli.
«E così
avresti un cuore anche tu.»
Portare
ancora
avanti quella conversazione non avrebbe fatto che farli litigare come
sempre; ma quel giorno Emir non aveva voglia di alzare la voce.per
quanto ancora quella decisione gli sembrasse tanto irreale e
incomprensibile da non riuscire a realizzarla pienamente, egli
sentiva che avrebbe dovuto farci i conti più tardi, quando
l'idea si
sarebbe appesantita in lui fino ad assumere la concretezza di un
fatto compiuto e l'angoscia gli avrebbe riempito i polmoni fino a
impedirgli di respirare; ma a che discutere invano in quel momento?
«Pensala
come
ti pare, Rotwang» disse infine. Si alzò in piedi.
«Se ti piace
pensare che io sia uno stronzo e un trafficante di Pokémon,
sei
libero di pensarlo. Io sono venuto a chiederti aiuto perché
so
quanto vali, ma se non intendi darmi una risposta posso anche
andarmene. Tieni presente che io avrei anche potuto portarla via da
solo, e tu non saresti mai venuto a saperlo...»
Emir
ebbe la
piena certezza che questo pensiero l'avesse colpito come un urto in
pieno petto. Dopo la morte di M1, Rotwang era rimasto con la Silph
solo perché voleva restare con M2 e aveva paura di perderla,
e ora
aveva appena realizzato quanto fosse semplice portargliela via.
Non
si risolse
subito. Rimase a fissarlo di sotto in su per qualche momento,
improvvisamente incupito, e infine disse lentamente:
«Rapirla, va
bene: e poi?»
Già:
e poi, e
poi. Portarla via sarebbe stato semplice, Emir se lo figurava
già:
una Pokéball nella tasca interna di un cappotto, di notte,
non
avrebbe destato certo l'attenzione di nessuno. Ma poi?
«Ho
una
specie di cantina in cui possiamo nasconderla per tutto il tempo
necessario. Per il resto, non ci ho ancora pensato. Quando si saranno
calmate le acque, potremmo...»
«Già,
e
pensi che si calmeranno molto presto, se rapiamo il Pokémon
più
prezioso del mondo alla multinazionale più potente di
Kanto?»
Questa
volta
non c'era la minima traccia di sarcasmo nella voce di Rotwang: quando
Emir tornò a prestargli attenzione, si era singolarmente
incurvato
sulla scrivania. Stava riflettendo, esattamente come quando avevano
dovuto pianificare, un po' per volta e senza alcuna base da cui
partire, l'intero progetto dei fossili. In fin dei conti si trattava
di nuovo di qualcosa del genere: anche stavolta bisognava creare,
quasi da zero, qualcosa di mai tentato prima, come il furto del
Pokémon più raro del mondo...
«A
noi non
importa che sospettino di noi, Rotwang, e del resto saremmo anche i
primi danneggiati da questo furto. Con un po' di fortuna, la polizia
penserà che sia stata rubata per venir venduta sul mercato
nero...»
Rotwang
annuì
vigorosamente. «Giusto. Forse potremmo dare la colpa a quei
tipi di
cui parla sempre il telegiornale. Sai, come si chiamano... quelli con
la tuta nera e una lettera rossa sul petto.»
Emir
aggrottò
la fronte tornando a sedersi di fronte a lui. «Dici il Team
Rocket?»
«Beh,
perché
no?» insisté Rotwang alzando le spalle.
«Ne parlano in
continuazione. Se non sbaglio dicono sempre che ci sono loro, in modo
diretto o indiretto, dietro tutti i furti e i rapimenti di
Pokémon.
Può essere un'idea...»
Emir
si lasciò
pesantemente ondeggiare sulla sedia, sentendosi molto in
difficoltà.
Non avrebbe voluto affrontare quell'argomento. «Senti...
detesto
dovertelo dire, ma non può funzionare. Team Rocket non ha
alcun
motivo valido per rapire Mew, e io in quanto direttore non potrei
dare la colpa a loro. Dobbiamo trovare un'altra strategia.»
«È
il
Pokémon più raro del mondo, chiunque avrebbe un
motivo valido
per...» Ma prima ancora di terminare quest'affermazione,
Rotwang si
interruppe bruscamente. La sua mente aveva precorso la sua voce, ed
egli aveva intuito qualcosa. «Aspetta un attimo. Che
intendi?»
Emir
strinse
le labbra. «Intendo dire quello che ho detto. Che non
può
funzionare.»
«No,
l'altra
cosa che hai... perché Team Rocket non dovrebbe avere motivo
di
portar via Mew?»
Dopo
un lungo
attimo di silenzio, sforzandosi di guardare in qualunque direzione
che non fosse quella dell'implacabilità dei suoi occhi, Emir
rispose: «Pare che il direttore del Casinò di
Azzurropoli e la mano
che guida Team Rocket siano la stessa persona. Giovanni non ha
nessunissimo motivo per rubare un Pokémon che l'azienda
è già
intenzionata a regalargli a titolo personale, perciò nessuno
crederà
mai che Team Rocket c'entri qualcosa...»
«Hai
regalato
Porygon a quell'uomo sapendo che è un mafioso?»
mormorò Rotwang
quasi senza fiato.
Dio,
non ci
mancava proprio altro che un'ondata di scrupoli e moralismi e
rimproveri degni dei più elevati momenti di suo padre! Emir
alzò
provocatoriamente gli occhi al cielo. «Senti, non gliel'ho
regalato
io, va bene? Ha deciso il Presidente, di certo non io, è lui
che è
amico di Giovanni. E poi è tutto perfettamente legale, te
l'ho già
ripetuto...»
Cogli
occhi
divenuti enormi e vacui per la sorpresa, Rotwang si
raddrizzò di
scatto di fronte a lui. Era attonito, stupefatto.
«È perfettamente
legale gestire un gruppo mafioso che ruba e uccide i Pokémon
per
proprio profitto?»
«Beh,
certo
che no, ma...»
«Ma?»
«Ma
Giovanni
non è mai stato legalmente incriminato»
obiettò Emir con viva
perplessità. «Perciò,
tecnicamente...»
«Tecnicamente?»
ripeté Rotwang con voce roca. «Tecnicamente?
Mi stai
veramente dicendo che tu hai passato due anni a dar vita a Porygon e
poi hai accettato di cederlo a un criminale solo perché
tecnicamente, non essendo ufficialmente stato
incriminato per
mancanza di prove... tecnicamente tu potevi far
finta di non
sapere a chi lo stavate regalando? È questa tutta la tua
linea di
difesa? Non provi neanche a dirmi che tu non lo sapevi?»
«Ti
ho già
detto che Porygon è stato ceduto con un atto perfettamente
legale al
direttore di un Casinò perfettamente in regola con la legge
e con le
tasse, perché i primi cento esemplari fossero offerti come
premi per
un gioco legale» sbottò Emir,
forse per la millesima volta
da quando si conoscevano. «È tutto legale,
perché ti ostini a non
capirlo? E poi, dal momento che comunque i Porygon sono andati ai
clienti del Casinò, non sono rimasti con questo pericoloso
criminale
di cui hai tanta paura. Perciò a te che cosa cambia che
Giovanni sia
un uomo d'affari o il fondatore di Team Rocket?»
Forse
avrebbe
dovuto chiedere a suo padre di trovare per Rotwang un posto come
medico presso la sua associazione. Quantomeno avrebbe dovuto
presentarli: coi loro sterili scrupoli morali e i loro ideali tanto
nobili e aulici da non portare proprio da nessuna parte, quei due
sarebbero andati perfettamente d'accordo.
«Mi
stai
dicendo che per te è proprio lo stesso?»
mormorò Rotwang.
Sentendosi
profondamente spazientito, Emir si alzò in piedi e si
sistemò il
camice per uscire. Erano anni che sentiva quei discorsi.
«Ti
sto
dicendo che io ho sempre agito nella legalità,
Rotwang» sospirò.
Si sentiva estenuato. «Indipendentemente da quelli che tu
reputi
giusto o sbagliato o abominevole, tutto ciò che ho fatto
è legale e
quello che fanno i dirigenti dell'azienda non mi riguarda. In quanto
al resto, ti turba così tanto che di Porygon non mi
importasse nulla
e di Mew invece sì?»
«Tu
l'hai
creato...» incominciò Rotwang in tono di protesta.
«L'ho
creato
perché mi pagavano!» sbottò Emir
rabbiosamente. «Ci tenevi così
tanto a sentirmelo dire? Sarei venuto a fabbricare veleno per
la Silph se fossi nato chimico, ma purtroppo per te sono un
genetista, e sono venuto a fabbricare Pokémon virtuali e a
clonare
fossili. Avrei creato qualsiasi Pokémon al mondo per cui mi
pagassero, solo che ora tocca a Mew, e io non lo voglio più
fare.
Sei soddisfatto, o forse dal momento che non mi adeguo ai tuoi canoni
morali non sono degno di salvarla?»
Al
di sotto
delle folte sopracciglia ferocemente corrugate, Rotwang lo scrutava
tanto intensamente da volerlo incendiare. Non ebbe moto.
«Quindi
vorresti farmi credere d'esser cambiato?»
Coome
dirgli
che non voleva fargli credere proprio niente, che non gli importava
un bel niente di quel che Rotwang pensava di lui; che tutto quel gran
parlare di moralità, come se fosse stata poi una cosa tanto
importante e fondamentale, lo aveva sempre lasciato alquanto
indifferente?
«Ti
sto
dicendo che non voglio che Mew o i suoi piccoli facciano la fine che
ho fatto fare a Porygon. Io ho un posto sicuro dove nasconderla e ho
abbastanza coraggio da rubarla, ma ho bisogno di qualcuno che storni
un po' i sospetti da me e mi aiuti a difendermi quando mi
accuseranno. Adesso ti è più chiaro o ti occorre
un'illustrazione?»
«Non
offendere la mia intelligenza, Fuji» sibilò
Rotwang, col volto teso
e contratto di rabbia e gli occhi ancora colmi
d'incredulità. «Io
ho capito tutto benissimo, e le cose stanno esattamente come avevo
sempre pensato. Sei stronzo esattamente quanto ti ho sempre accusato
di essere. Solo che finché pensavo che ti comportassi in
modo
immorale le cose per me avevano un senso, ma che tu fossi
così
amorale da non far differenza tra un criminale e un...»
Non
finì
neppure la frase. Semplicemente Rotwang si lasciò cadere
sulla
spalliera della sedia, si prese il volto tra le mani, e rimase in
silenzio.
«Rotwang»
riprese Emir, ma meno aggressivamente. Gli dispiaceva quasi d'aver
alzato la voce. «Lasciamo da parte la questione per il
momento. Tu
hai i tuoi ideali e io sono qui dalla parte della legge, e la
pensiamo troppo diversamente: non potremo mai venirne a capo. Mi
aiuterai?»
Dopo
un
interminabile istante, Rotwang allontanò le mani dal viso e
annuì
lentamente come tra sé e sé, con un sospiro
profondo. I suoi occhi
vacui parevano non guardare in nessun luogo.
«Vuoi
una
risposta ora o mi lasci un po' di tempo per rifletterci?»
«Puoi
pensarci per qualche giorno» concesse Emir. «Ma non
prendertela
troppo comoda. La settimana prossima dovremo iniziare i primi
esperimenti per la clonazione, e non so per quanto potremo
ritardare.»
Rotwang
fece
stancamente cenno d'aver capito. «Io e te, soli contro tutto
il
mondo. È questo il tuo piano, ho capito bene?»
Detta
così,
come in un vecchio film in bianco e nero, un furto ai danni di una
delle più potenti multinazionali del mondo suonava come
qualcosa di
epico e noir assieme: ma la realtà sarebbe stata molto
più
semplice. Bisognava solo portar via una Pokéball.
«Esatto.»
«Quindi
nessun'altro del laboratorio sa che tu sei contrario a questi
esperimenti. Perché proprio a me, Fuji?»
«Rotwang,
sei
troppo intelligente per non essertene accorto. Guardati attorno. Tu
sei l'unico che sia veramente ostile verso la Silph.»
Rotwang
ebbe
un debole gesto di stizza. «Sì, ma
Portia...»
«Rotwang»
lo
interruppe Emir «Ascolta. Tu non c'eri quando abbiamo creato
Porygon, ma io sì. Ti dico questo non perché
voglio che litighiate
o che tu valuti meno Portia come persona, ma perché voglio
che tu
veda le cose come le vedo io. È stata la Silph a ordinare di
mandare
i primi cento Porygon ad Azzurropoli e poi di stopparne la produzione
per cinque anni perché restassero un'esclusiva, ma come
fondatore
del laboratorio anch'io dovevo firmare, o non se ne sarebbe potuto
fare nulla. Quando ho firmato, tutti i nostri colleghi erano
d'accordo con me.»
«Gli
altri
sono stranieri come me, come potevano sapere che Giovanni...»
«Rotwang»
tornò a interromperlo Emir, molto delicatamente.
«Ti ricordi che
Portia si è laureata all'Ateneo di Azzurropoli con me,
vero?»
Emir
rimase a
guardare l'informazione farsi strada nei pensieri di Rotwang come un
parassita, e strisciare e avvilupparsi attraverso la sua mente e
penetrare i suoi occhi. Portia era l'unica di tutto il laboratoio
ch'egli rispettasse, e ora egli veniva a sapere che neppure lei era
così innocente e immacolata quanto gli sarebbe piaciuto.
«Mi
dispiace,
Rotwang» mormorò allora. «Forse ho
sbagliato a dirtelo, ma
bisognava che capissi perché è solo a te che
potevo rivolgermi, e
perché è tra noi due che questa storia deve
rimanere. Non voglio
che pensi che Portia sia diversa da quello che...»
«Fuji»
disse
Rotwang «Lascia stare.»
Di
fronte al
suo volto iscurito Emir non ebbe il coraggio di replicare nulla.
Esitò. «Mi farai sapere che cosa avrai
deciso?»
Senza
neppure
levare gli occhi su di lui, Rotwang rispose: «Lasciami
solo.»
Non
c'era
altro modo di rimediare. Sentendosi come se avesse spezzato qualcosa
di irripetibile, Emir uscì in silenzio dallo studio e chiuse
la
porta dietro di sé.
Il
mattino
seguente Rotwang entrò nella stanza di Mew mentre Emir stava
cercando senza troppi risultati di prelevarle una provetta di sangue.
Mew si divertiva sempre molto quando vedeva una siringa, e questo
nonostante sapesse perfettamente che le punture erano dolorose.
Emir
si era
interrotto quando lo aveva sentito entrare, ma Rotwang non prese
subito la parola. Si chiuse la porta alle spalle, assai nervosamente,
e si guardò attorno con circospezione mentre Mew gli balzava
sul
petto per strappargli una carezza.
«Sei
solo?»
Il
volto di
Rotwang bruciava d'angoscia, ed Emir si sentiva forse ancora un poco
in colpa per quello che gli aveva detto il giorno precedente. Ma
quell'attimo di debolezza e di dubbio non si poteva tradire, e
quell'occasione era un po' troppo bella per poterla sprecare:
perciò,
mentre andava a recuperare il suo camice dal ramo dell'albero
impiantato al quale l'aveva appeso, Emir domandò con
simulata
indifferenza: «Sei venuto a propormi quel sesso violento di
cui
parlavamo ieri?»
«Ne
deduco
che tu sia solo, allora» borbottò Rotwang per
tutta risposta. Solo
in quel momento Emir realizzò che la sua angoscia doveva
esser tale
ch'egli non aveva neppure la concentrazione necessaria a rispondere
alla sua frecciatina, e quasi gli dispiacque d'aver infierito su di
lui. Nelle ultime ventiquattro ore, quell'idea che era stato lui ad
avere era stata per lui più rarefatta di un sogno e
altrettanto
indifferente; ma evidentemente per Rotwang non era stato
così, e
nello stravolgimento dei suoi occhi chiari Emir si accorse di quale
carico di tensione la sua proposta avesse portato con sé.
«Sì,
sono
solo» rispose con un po' più di gentilezza di
prima. Ricordava bene
quando era stata l'ultima volta che lo aveva visto così
agitato.
D'un tratto gli parve che le sue braccia fossero troppo ingombranti e
fastidiose e assolutamente fuori posto là dove si trovavano,
lungo i
suoi fianchi, ed egli fece il gesto più istintivo che gli
venne in
mente pur di usarle per fare qualcosa: gli porse la siringa che aveva
cercato di usare fino ad allora e disse: «Puoi farle tu il
prelievo?
È per Vincent. Con me fa troppi capricci, e poi vederti l'ha
agitata.»
Gli
occhi di
Rotwang passarono da lui alla siringa quasi senza comprendere; Emir
rimase in attesa. Gli aveva appena offerto un'occasione perfetta per
un'altra schermaglia sarcastica e amara, ma dopo qualche istante egli
si limitò a mormorare: «Certo. Mew, vieni
qui.»
Quantomeno
aveva ottenuto qualcosa. Emir si sedette al suolo a osservarlo mentre
Rotwang, con le maniche del camice arrotolate, ripescava da una tasca
una confezione di guanti monouso che Mew prese ad annusare con
curiosità. Forse lavorando si sarebbe sentito meno a disagio.
Quando
l'ago
penetrò sotto la cute Mew emise un unico squittio
indispettito, ma
quello fu quanto: non appena Rotwang ritrasse l'ago e si
affrettò a
tranquillizzarla, gli occhi di Mew si fecero di nuovo enormi e
affettuosi, comi di gratitudine, ed egli posò le dita tra le
sue
orecchie in un gesto carico d'affetto.
«Non
lo
faccio per te» disse improvvisamente a voce un poco
più alta. Non
stava guardando nella sua direzione, ma Emir non dubitò
neppure per
un momento che stesse parlando con lui. «Se lo faccio, lo
faccio per
lei. Spero che tu lo capisca.»
«Non
ti ho
mai chiesto di farlo per me» mormorò Emir, e
Rotwang assentì con
aria assente.
«Lo
so
questo, ma bisogna che ti avverta prima. Non ho cambiato idea su di
te. Per me tu sei sempre lo stesso merdoso leccaculo che ha venduto
Porygon al Team Rocket per tenersi il posto con il minimo sforzo, e
il fatto che all'improvviso tu abbia cominciato a farti degli
scrupoli morali solo perché Mew è più
dolce di un software non
cambia le cose. Non sei un martire, stai solo facendo la cosa giusta
per la prima volta nella tua vita. Lo sai questo, vero?»
«Hai
finito?»
chiese Emir. S'era detto di avere pazienza con Rotwang, ma questo
nuovo proposito si stava rivelando davvero difficile da rispettare, e
forse non era tutta colpa sua.
«No»
ribatté
Rotwang, ma ora guardava dritto verso di lui al di sotto delle folte
sopracciglia aggrottate. Si stava innervosendo, e ora persino Mew,
con la sua grande empatia, era in grado di accorgersene: i suoi occhi
saettarono da lui a Emir come a richiedergli la causa del suo
comportamento, ma quella volta Emir non cercò di spiegarle
niente.
«C'è anche un'altra cosa. Tu non ci hai mai
creduto, ma io ho
voluto bene davvero a M1. Ti è chiaro?»
«Chi
ti dice
che io non ci abbia mai creduto?» domandò Emir a
bassa voce, ma
Rotwang non lo ascoltò.
«Ti
sta bene
che io la pensi così? Perché non ho intenzione di
cambiare idea sul
tuo conto, e non importa quanto mi dimostrerai. Mi sembra importante
mettere le cose in chiaro prima di... visto che non potremo
più
discuterne dopo, se vogliamo far funzionare le cose. Bisognava che
sapessi prima.»
Tutta
questa
necessità Emir non la vedeva, ma di nuovo egli non cedette,
non fece
niente. Il bene di Mew andava ben oltre la singola contingenza di
quelle assurde schermaglie, ed egli si sforzò di rimanere
calmo e
prese a passeggiare per la stanza con le mani nelle tasche del camice
per calmarsi.
«Non
ho
intenzione di dimostrarti proprio nulla, e non m'importa che tu cambi
idea, se non è successo in tutti questi anni. Sei
contento?»
ribatté Emir freddamente. «Dunque accetti? Se
accetti, ci siamo
dentro entrambi sin da adesso, fino al collo, fino alla fine.
Accetti?»
«Te
l'ho già
detto.»
«Molto
bene,
allora. Se ho chiesto aiuto proprio a te, è anche
perché nessuno
sospetterebbe mai di me e te insieme. Ti pare ragionevole?»
Mentre
gli
occhi di Rotwang seguivano il suo percorso attraverso la stanza, la
sua mente si affrettava per precorrere il suo ragionamento col
pensiero. «In questo modo ciascuno dei due potrebbe
proteggere
l'altro? È questo il tuo piano?»
«Al
contrario» ribatté Emir. «Quante volte
mi hai mai difeso nel corso
della nostra carriera? Se vogliamo fingere davvero di essere
all'oscuro di tutto, dobbiamo comportarci normalmente, e la cosa
più
normale che i nostri colleghi si aspettano da noi è che tu
dia la
colpa a me. Vedi bene che il rischio maggiore me lo assumo
io.»
Rotwang
aveva
seguito ogni sua parola con l'espressione assprta e concentrata di
uno studente che non voglia perdersi una singola parola del
professore; non mutò espressione. Continuò a
riflettere tra sé e
sé molto a lungo mentre Emir si attendeva da lui una
risposta, senza
distogliere gli occhi da lui, e infine obiettò:
«È davvero un
grosso rischio. Se io ti accuso, indagheranno su di
te.»
«Non
se tutti
i nostri colleghi diranno la verità, e cioè che
tu soffri di manie
di persecuzione nei miei confronti e che mi hai sempre incolpato di
tutto» ribatté Emir. «Senza offesa,
naturalmente. Quanto al
nascondiglio che ho in mente, nessuno potrà mai trovarla,
non
preoccuparti. Sei ancora con me?»
«Se
è
l'unica strada che abbiamo» rispose Rotwang eloquentemente.
Non
c'era
nient'altro da dire per il momento, nient'altro di cui si potesse
discutere nel breve tempo che restava loro così, in pieno
giorno.
Emir si abbottonò nervosamente il camice mentre si
avvicinava alla
porta. «Ne riparleremo, va bene? Devo andare adesso. Non
voglio che
ci vedano troppo insieme. Rimarrò anch'io stasera oltre
l'orario,
perciò possiamo parlarne dopo.»
«Giusto»
borbottò Rotwang senza troppa convinzione. «Ne
riparleremo, certo.
Fuji...»
Con
la mano
sulla maniglia della porta, ormai in procinto di uscire, Emir si
fermò sulla soglia e trasse un respiro profondo.
«Se stai per
offendermi, tieni presente che spaccarti la faccia fa perfettamente
parte della nostra copertura, Rotwang. Perciò vedi di non
farmi
incazzare.»
«Nessuna
offesa stavolta, Fuji. Volevo solo...» La voce di Rotwang
suonava
tesa e incerta, più di quanto Emir ricordasse di aver mai
udito, ma
non era davvero aggressiva in quel momento. «Stai facendo la
cosa
giusta, Fuji. Ma se scopro che vuoi fregarmi per portarla fuori dal
laboratorio e venderla, prima ti ammazzo e poi ti denuncio.»
«Qui
nessuno
vuole vendere niente, Rotwang» ribatté Emir con
calma. Spalancò la
porta, e finalmente la nauseabonda aria soffocante della giungla
artificiale della stanza si mitigò in parte nella corrente
fresca
del corridoio. «E comunque per me vale lo stesso. Tradiscimi
e io ti
uccido.»
«Siamo
d'accordo, allora.»
«Sì»
concluse Emir con un sospiro. Si sentiva profondamente stanco.
«Siamo
d'accordo. Ci vediamo questa sera.»
|
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Capitolo 8 *** Imprevedibile. ***
Eccomi
qua,
carissimi!
Ero
quasi
riuscita a mantenermi regolare con la pubblicazione di un capitolo
circa al mese, il che per me è un vero e proprio record, ma
ovviamente sono peggiorate un paio di cose nella mia situazione
familiare proprio nel periodo della sessione estiva, com'è
giusto
che sia, dato che è risaputo che i mali non vengono mai da
soli.
Comunque, finalmente, eccomi qui!
Credo
che
si capisca piuttosto bene, ma a scanso di equivoci questo capitolo
riprende esattamente là dove ci eravamo lasciati col terzo
capitolo,
con l'arrivo di Rotwang. In parole povere, è finita l'era
dei
flashback e ora entriamo nel fulcro della storia! (Dopo 80 pagine,
direte voi, forse era anche il momento)
Come
mio
solito, non posso che ringraziare con un abbraccione enorme
cristal_93 e BlazePower per le loro recensioni al precedente
capitolo: mi hanno fatto un enorme piacere! E ringrazio infinitamente
anche PersejCombe per il suo continuo sostegno anche in privato.
Ciò
detto
non posso che lasciarvi al capitolo!
Buona
lettura
Afaneia
Capitolo
VII – Imprevedibile.
«Tu
hai fatto
la peggior vigliaccata della tua vita, Fuji.»
«Ehi»
borbottò Emir in risposta, aguzzando la vista per leggere
l’ora.
«Ti aspettavo più tardi.»
«Già,
e che
ti aspettavi, di grazia?» Parlare al buio, senza guardarsi
negli
occhi, non doveva piacergli molto: senza neppure accennare a
togliersi il lungo cappotto scuro, coi guanti tormentati tra le mani,
Rotwang prese a cercare rabbiosamente a tentoni l'interruttore della
luce sulla parete. Emir si ritrovò a sbattere le palpebre
per
abituare gli occhi alla luce. «Se pensavi che mi sarei messo
a
girellare per tutto il paese per evitare che qualcuno mi seguisse,
forse hai visto troppi film. Sono venuto all'ora che avevamo
stabilito, il che è molto più di quanto abbia
fatto tu. Vogliamo
parlare della porcata che hai combinato tu adesso, se non ti
dispiace?»
«Senti,
Rotwang... mi dispiace così tanto.» Era la prima
volta in tutta la
giornata – a parte forse quando si era confidato con suo
padre,
quella mattina, a Lavandonia – che Emir aveva modo di parlare
sinceramente, e la verità ebbe un sapore strano sulle sue
labbra. Se
bastava una giornata per disabituarsi del tutto a dirla, che
cos'avrebbe fatto quando su di lui si fosse scatenata davvero la
tempesta?
«Ti
dispiace?
È tutto quello che hai da dire? Seriamente?»
«No,
voglio
dire che...»
Ma
preso
com'era dal ruggito della propria rabbia, Rotwang non aveva orecchie
a sufficienza per ascoltare le sue giustificazioni. La mano che
teneva i guanti era stretta tanto da tremarne, ed egli era
mortalmente pallido. «Ti è venuto in mente anche
solo per un
momento che questo piano l'avevamo ideato in due, e che forse, se
proprio ti era venuto tanta smania d'andare nasconderti da
papà a
Lavandonia, poteva valere la pena di farmi una telefonata per
avvertirmi che il piano era cambiato...?»
«Rotwang,
ero
solo!» urlò Emir, perché solo urlare in
quel momento pareva
sufficiente a farsi ascoltare. «Devo proprio dirtelo ad alta
voce
che mi è venuta paura tutt'a un tratto? Si vede che sono
più
vigliacco di quello che credevo, che la casa era silenziosa, che tu
non c'eri, che ho avuto paura...»
«Certo
che
non c'ero, stronzo! Sono stato per tutta la sera a tenermi sulle
ginocchia le bambine di Portia e a giocare a carte con suo marito,
com'era nei piani. Pensi che non avessi paura
anch'io e non
avessi voglia a ogni momento di telefonare al laboratorio e dirti di
lasciar perdere tutto, che non me la sentivo
più...»
«Sì,
ma tu
non c'eri!» tagliò corto Emir. Come si poteva dire
a parole la
sensazione alienante, fortemente disturbante, che aveva provato
quando aveva lasciato scivolare la Pokéball nella tasca
interna del
cappotto e aveva percorso i corridoi dei laboratori fattisi
improvvisamente sterminati, sentendo in ogni paio d'occhi che
incrociava un'accusa che lo denudava e lo prostrava e lo metteva alla
gogna; e la strada fino a casa che s'era fatta più lunga che
mai,
col rischio che a ogni passo la Pokéball gli scivolasse e
rotolasse
a terra e magari s'aprisse, e allora tutti, tutti avrebbero saputo
che era un ladro! Già, ma non si poteva camminare con la
mano sul
petto, in corrispondenza della tasca, perché allora
sì che avrebbe
avuto l'aria di portare qualcosa di nascosto, e gli occhi di tutti
allora si sarebbero appuntati là; e la
gente non si sarebbe
ricordata, il giorno dopo, quando il furto sarebbe stato su tutti i
giornali, d'aver visto il dottor Fuji che camminava con aria strana
nascondendo qualcosa sotto il cappotto?
«Non
c'ero
perché avevamo deciso così»
ringhiò Rotwang. «Perché questa era
una cosa che poteva fare solo una persona.»
«Lo
so, ma...
Rotwang, ti ho già detto che ho avuto paura. Non ti sto
dicendo
d'esser stato furbo o coraggioso, non ho cambiato il piano
intenzionalmente. Hai tutti i diritti d'essere arrabbiato, ma forse
anche tu avresti avuto paura al mio posto.»
Per
una volta,
l'umiltà della sua confessione parve mettere a tacere
Rotwang.
Scosse il capo per qualche momento, coi pugni stretti nelle tasche
del cappotto nero di foggia un po' troppo elegante per quell'isola, e
guardò altrove. «Il bromazepam che ti ho procurato
avrebbe dovuto
aiutarti a gestire un po' l'ansia. Non ti ha aiutato per
niente?»
Emir
si sentì
colto in fallo, ma per quanto cercasse dentro di sé o nella
stanza
che lo circondava una via di fuga, si ritrovò con le spalle
al muro.
Stava parlando col dottore, e al dottore, egli lo
sapeva bene,
non c'era modo di mentire. «Ah, ecco, in effetti... potrei
averne
preso un po' troppo.»
Rotwang
agitò
distrattamente la mano in aria. «Non credo che possa averti
dato
fastidio, sei grande e grosso. Quanto ne hai preso?»
Quando
Emir
gliene disse la quantità precisa, Rotwang gli
riversò addosso una
tale ondata di urla e insulti e bestemmie che a un certo punto Emir
non poté fare altro che restare a guardare, senza neppure
fare un
tentativo per difendersi o giustificarsi. Si sentiva così
stanco che
tutto ciò che desiderava era solo che smettesse di urlare, e
il modo
migliore, per una volta, era non contraddirlo.
Dopo
una
quantità di offese e improperi e bestemmie in tedesco e un
lessico
assolutamente irripetibile – di cui Emir, per la
verità, aveva
capito solo le parole benzodiazepine, amnesia anterograda e
coglione, finalmente Rotwang parve esaurire ogni
possibile
insulto: fissandolo con disgusto per qualche momento, si
limitò a
commentare che, dopotutto, non valeva la pena di arrabbiarsi con uno
così debole da non riuscire neppure a difendersi.
«Mi
auguro
che tu abbia almeno evitato di mescolarci alcolici» si
limitò a
borbottare con sdegno guardando altrove, per porre fine al discorso.
«Io
non bevo»
rispose distrattamente Emir, lieto soltanto che quella discussione si
fosse esaurita, gettando un'occhiata nervosa fuori della finestra.
Rotwang aveva acceso tutte le luci per poterlo guardare negli occhi,
e questo era più che comprensibile; ma ora che era un bel
po' che si
trovavano in quella stanza, a fronteggiarsi nella piena luce
elettrica, quella situazione lo metteva tremendamente a disagio ed
egli non faceva che guardare ansiosamente verso la finestra,
aspettandosi a ogni momento di vedere qualcuno che li spiava...
Ignorando
deliberatamente il nuovo sproloquio di Rotwang sul fatto che
chissà
che cosa sarebbe potuto accadere se avesse avuto una crisi e si fosse
scoperto che era stato lui a procurargli quel farmaco, e che
chissà
che razza d'uomo era uno che neppure beveva e tutta un'altra serie di
cose, Emir si avvicinò agli interruttori e spense una dopo
l'altra
le varie lampade che illuminavano la stanza. Rotwang tacque
bruscamente mentre il salotto sprofondava gradualmente nel buio.
«Ehi,
Fuji»
commentò quando anche l'ultima luce si spense lentamente.
Così
com'erano ora, nell'oscurità, Emir non riusciva
più a vederlo,
eppure avrebbe potuto giurare di sentire il suo
sorriso
sarcastico nel buio. «Hai un atteggiamento sospetto. Hai
sempre
avuto i nervi delicati, ma ora dovresti calmarti un po'... devi
renderti conto che da questa parte della casa non può
vederci
nessuno. Questo lato dà sul mare.»
«Ti
ho già
detto che sono agitato» ribatté Emir seccamente.
«Non vuoi proprio
capire che non te l'ho detto per inventare una scusa, che era la
verità?»
«Eppure
oggi
sei stato proprio bravo» considerò Rotwang tra
sé, come stupito
della sua reazione. «Dico davvero. Se solo non avessi saputo
la
verità, avrei potuto pensare persino io che fossi
sincero...»
Questo,
naturalmente, era perché per tutta la sua vita Emir non era
stato
bravo che a mentire e a clonar Pokémon; ma non aveva voglia
di
parlarne in quel momento. I suoi nervi avevano retto indenni per
tutta la giornata più lunga della sua esistenza, sorretti
solo dalla
necessità e dalla spinta dell'adrenalina; ma ora egli
sentiva che
avrebbe potuto cedere da un momento all'altro.
«Senti,
continuiamo a parlarne di sopra, va bene? Molte stanze non hanno le
finestre, perciò siamo certi che nessuno potrà
vederci o sentirci
parlare mentre andiamo a trovarla. Questo mi farebbe stare un po'
più
tranquillo» soggiunse a bassa voce.
«Dio,
Fuji,
stai scherzando? Vorrei proprio dire due paroline all'architetto che
ha progettato delle stanze senza...» Ma prima ancora di poter
terminare quella frase, Rotwang fu come folgorato da un pensiero
improvviso, e la sua voce conobbe un brusco cambiamento di tono.
«Aspetta un po', Fuji. Credevo che mi avessi detto di avere
una
cantina. Di solito le cantine stanno giù.
Non su.»
«Non
è una
cantina, è un sotterraneo, e comunque capirai quando la
vedrai»
ribatté Emir spazientito. Sentiva che se fosse rimasto al
piano
terreno un solo minuto di più avrebbe avuto una crisi
isterica, e
francamente non aveva proprio voglia di perdere i nervi davanti a
Rotwang. «Ora mi fai il piacere di venire con me, per
cortesia?»
«Dio,
andiamo, andiamo, se proprio ne hai tanto bisogno. Senti, sai una
cosa? Forse è una questione linguistica. Forse sotterraneo
vuol
dire qualcosa di diverso da quello che penso io, eh?»
«Ascoltami,
Rotwang» iniziò Emir, e Rotwang
ammutolì immediatamente. Persino
lui doveva aver capito che l'argomento era serio, e forse in
realtà
si sentiva un po' meno disinvolto di quanto apparisse dall'esterno.
«Ora ti farò vedere dove ho nascosto Mew. Non ho
mai fatto entrare
nessuno in quella parte della casa. Giuri che non dirai mai a nessuno
quello che vedrai adesso?»
Rotwang
lo
scrutò per qualche istante nel buio. Era tornato serio
d'improvviso,
ed Emir non dubitò neppure per un momento che tutta la sua
noncuranza e la sua apparente spavalderia non fossero altro che una
facciata. «Stai scherzando? Non vedi come fremo tutto al
pensiero di
venire arrestato in un paese straniero con più capi
d'imputazione di
quanti me ne vengano in mente?»
Il
suo acre
sarcasmo contribuì per un momento a farlo sentire meglio:
Rotwang
poteva essere caustico e amaro e cinico quanto voleva, ma quantomeno
era lì, e ora coinvolto assieme a lui fino alla fine.
Con
tutte le luci spente, in quel momento la casa era troppo buia per
poter semplicemente indicare la strada tra i corridoi tortuosi a
qualcuno che non vi fosse mai stato prima. Ansioso soltanto di
trovarsi al piano di sopra il prima possibile, Emir lo
afferrò senza
troppi complimenti per un braccio e lo tirò a sé
verso la porta del
salotto: dopo un attimo d'esitazione, pur borbottando
sarcasticamente qualcosa che suonava molto come sotterraneo
per le
torture, finalmente Rotwang si accostò a lui nel
buio per
seguirlo, ed Emir gli fece strada verso la grande scalinata che
conduceva al primo piano.
Da
giovane,
quando un amministratore della Silph gli aveva proposto uno stipendio
considerevole e una vera villa sul mare a Isola Cannella, Emir aveva
firmato tutto ciò che gli si chiedeva di firmare e
tacitamente aveva
accettato di rinunciare a ogni scrupolo morale e a ogni riflessione
etica, e soprattutto a ogni pretesa di controllo sugli esperimenti e
i progetti di ricerca. A queste condizioni la sua coscienza non aveva
avuto il benché minimo moto di protesta. Tutto
ciò che contava era
allontanarsi da Lavandonia.
Quando
Emir vi
si era installato, non aveva trovato la villetta monofamiliare degli
anni Sessanta che sarebbe stato lecito aspettarsi da un normale
contratto di lavoro. Era invece un edificio immenso, forse della fine
del secolo scorso, dall'aspetto maschio e decadente e mortalmente
tetro, e cupo tanto da dar l'impressione, a guardarlo, di poter
crollare su se stesso da un momento all'altro. Si sarebbe sentito
solo là dentro, certo, senza una ragazza e neppure un amico
nel giro
dell'intera isola, in una casa che sarebbe stata enorme persino per
una famiglia intera; ma non era Lavandonia, non era Lavandonia, e a
Lavandonia, se fosse stato attento a tenersi quel lavoro e non avesse
fatto troppe domande, non avrebbe dovuto far ritorno mai.
La
villa era
tanto grande che Emir si ritrovava a usarne effettivamente solo una
minima parte, quella tra il primo e il secondo piano; il terzo piano,
a conti fatti, era per lui perfettamente inutile, e aveva avuto
occasione di andarci solo quattro o cinque volte. La villa era tanto
solitaria da essere soffocante, ma Emir aveva la sensazione di amarne
ogni singola pietra, perché quella casa, finalmente, era sua,
ottenuta grazie al suo lavoro e alla sua intelligenza, e in quella
casa egli era libero e poteva fare ciò che voleva.
Quando
avevano
inventato Porygon, dopo appena due anni di ricerca (due anni,
nient'altro che due anni per creare il primo Pokémon
interamente
virtuale, artificiale, programmabile, e dunque migliorabile
all'infinito! Ah, divino progresso della scienza!), alla Silph erano
stati così contenti e così soddisfatti di lui da
pensare bene di
assegnargli una cospicua gratifica.
Il
suo
stipendio era già di per sé più che
sufficiente a coprire tutte le
spese di un uomo solo che non conducesse in pratica alcun tipo di
vita mondana, e la gratifica era stata tanto lauta da metterlo quasi
in imbarazzo. Che farci? Un viaggio, certo, ma dove sarebbe mai
potuto andare da solo, e soprattutto perché, s'egli stava
tanto bene
in quella villa immensa affacciata sul mare, e se trascorrere le
giornate in laboratorio lo appagava tanto che dovevano pregarlo
di
prendersi almeno il minimo indispensabile di ferie?
Una
notte in
cui si era ritrovato, senza un motivo preciso, seduto insonne fino a
tarda notte nel suo salotto a vetrate, al piano terreno, immobile al
buio, ad ascoltare in silenzio il suono esitante del proprio respiro
e il mare che incalzava la ripida scogliera sottostante, inondandone
gli anfratti, senza desiderare per alcun motivo al mondo di trovarsi
in qualunque luogo che non fosse lì, l'ebbrezza di
solitudine nella
quale si crogiolava gli aveva dato l'idea di ristrutturare la casa.
Anche
per
quest'idea non avrebbe saputo trovare motivazioni particolarmente
razionali. Era pur vero che, sin da quando egli aveva visto la casa
per la prima volta, tutto in quell'edificio gli aveva dato un'idea di
particolare trascuratezza, e che nulla gli dava la garanzia che un
edificio di inizio secolo fosse ancora in buone condizioni. Se ci
fossero stati problemi, si sarebbe potuto permettere qualche lavoro
per la messa in sicurezza della villa; e un luogo che si era
ritrovato ad amare tanto in appena due anni valeva bene la pena di un
investimento.
Ma
quando si
era recato all'ufficio catastale dell'isola e si era fatto consegnare
le planimetrie e i progetti della villa, la sua curiosità
era in
breve tempo divenuta ossessione. Ciò che leggeva sulle
piantine non
aveva senso, non sembrava neppure possibile, eppure, per quanto egli
continuasse a consultarle, affannandosi a sfiancarvi gli occhi ogni
singola sera e in ogni momento libero che il lavoro gli lasciava, non
c'erano dubbi. Su quella planimetria era disegnato un piano che,
nella villa, non c'era.
Come
aveva
potuto sfuggirgli per due anni un intero piano
sotterraneo? Ma
soprattutto, poiché egli non ricordava di aver visto porte o
scale
di cui non conoscesse la destinazione, come vi si accedeva?
Allora
erano
stati giorni meravigliosi, per lui. Egli non avrebbe forse mai potuto
figurarsi una vita migliore di quella: giornate trascorse in
laboratorio, a destreggiarsi tra provette e microscopi e guanti di
lattice, e sere intere e notti per perlustrare quella vasta villa che
amava perdutamente, palmo a palmo. Era quasi come tornar bambini, in
un certo senso, ed esplorare quell'andito recondito del cortile che
sembrava celar per lui tanti misteri...
Ma
pur con
tutta la sua passione e il suo impegno, aveva impiegato quasi due
mesi a risolvere il mistero del piano sotterraneo, e forse solo per
miracolo non aveva perso le speranze. Una sera, colto come da
un'improvvisa ispirazione, e sentendosi contemporaneamente uno
sciocco per non averci pensato prima e un genio per averci pensato da
solo, senza neppure cambiarsi d'abito dopo quasi undici ore di
lavoro, egli era corso al primo piano, là dove aveva sempre
campeggiato quell'orribile statua che tanto stonava con tutto
il
resto dell'arredamento, e l'aveva palpata e studiata e abbracciata
finché le sue dita, in un punto che non riusciva a vedere,
avevano
toccato qualcosa, e una molla era scattata da qualche parte della
casa.
Quando
egli si
era accorto che ad aprirsi non era stata una scala o una botola per
un piano sotterraneo, la sua delusione era stata immane. Alle sue
spalle, al di là del lungo corridoio già buio, si
era aperta una
stanza – una stanza, dopo tutto il tempo ch'egli aveva
trascorso a
cercare un intero sotterraneo!
Si
trattava di
una stanza peraltro piuttosto spoglia, persino squallida, che non
conteneva che un liscio tavolo vuoto e con un paio di credenze piene
di cianfrusaglie. Ne valeva poi la pena, aveva pensato con rabbia
mentre richiudeva le ante delle credenze sbattendole con violenza, di
costruire una stanza segreta per custodire nient'altro che un tavolo
e un paio di mobili?
E
poi, la
risposta stessa alla domanda lo aveva scosso: no, certo che non ne
valeva la pena. A meno che, all'epoca del precedente proprietario,
proprio quella specifica stanza non fosse servita a nascondere
qualcosa di strano per cui la vastità labirintica
dell'edificio e
una solida serratura non costituissero di per sé una difesa
sufficiente, costruire un meccanismo così elaborato solo per
nasconderla non aveva alcun senso. Quantomeno, non con un intero
piano vuoto a disposizione, perché Emir sapeva che
i progetti
della villa non mentivano.
Spinto
da
questa improvvisa illuminazione, egli aveva rivoltato ogni singolo
centimetro di quella stanza, e alla fine, sotto una mattonella un po'
troppo mobile che era riuscito a mettere a nudo spostando dal muro
una delle credenze, due sere dopo aveva trovato l'ultimo
interruttore.
Quando
era
sceso nel sotterraneo attraverso una scala profondamente incassata
nella parete, dopo lunghi esperimenti con una serie di interruttori
che aprivano e chiudevano svariate pareti mutando la forma della
casa, Emir aveva pensato che mai nulla di tutto ciò ch'egli
aveva
visto sino ad allora poteva neppure paragonarsi alla decadente
bellezza di quel luogo, e questo per nient'altro che per un fatto:
che quell'intero piano ch'egli aveva davanti era suo, unicamente
suo, in ogni modo in cui poteva esserlo, perché quella casa
era il
frutto del suo impegno e del suo successo, perché grazie al
suo
intuito e alla sua pazienza egli aveva fatto emergere il segreto
degli interruttori dai dedali dell'immane labirinto e
perché, per
quanto gli fosse dato sapere, nessun altro in tutto il mondo poteva
essere a conoscenza di quel segreto. Là dentro, in quella
porzione
di spazio che esisteva, ma che tutto il resto del mondo non conosceva
o aveva dimenticato, egli si sarebbe sentito veramente libero e solo,
finalmente.
Quella
notte
Emir non avrebbe mai pensato che sarebbe stato proprio là,
nel
paradiso della sua solitudine, che avrebbe nascosto il
Pokémon più
raro del mondo dopo averlo rubato alla Silph.
Rotwang
attraversò la serie di passaggi segreti attonito e
recalcitrante con
occhi quasi spauriti, osservando con angoscia crescente ogni parete
che si chiudeva alle loro spalle mentre si apriva quella successiva,
senza riuscire a star dietro al dedalo di corridoi e vicoli ciechi e
stanze vuote che si ritrovavano ad attraversare, fino a che Emir non
premette l'ultimo interruttore: allora l'ultima parete calò
con un
sibilo attutito dietro di loro e una calda luce gialla
illuminò a
giorno il sotterraneo.
Il
piano che
si apriva quella notte di fronte agli occhi di Rotwang era mutato
molto rispetto a quattro anni prima. Quando aveva scoperto quel
luogo, Emir aveva trascorso tutta la notte a esplorarlo alla sola
luce di una torcia elettrica e di qualche candela, per farsi almeno
una vaga idea di quale impero di desolazione e squallore avesse
ereditato dal suo predecessore. Il sotterraneo era sporco e polveroso
per l'abbandono, e a ogni passo egli non faceva che trovarsi la
faccia disgustosamente appiccicosa di ragnatele, con la sgradevole
sensazione di poter calpestare da un momento all'altro le ossa di
qualche animaletto trascinatosi a morire fin lì; ma poter
governare
incontrastatamente su un abisso di squallore e sudiciume era comunque
qualcosa in più che non governare su niente, e tra quelle
pareti
chiazzate di muffa e macchiate dagli anni a Emir era parso di volare.
Il giorno seguente aveva svaligiato il più vicino negozio di
elettronica e aveva risistemato l'impianto elettrico e cambiato le
lampadine, e finalmente aveva potuto vedere per la prima volta come
si deve, nello splendore della piena luce elettrica, l'estendersi del
suo regno illuminato a giorno. Per mesi a partire da allora egli
aveva lavorato incessantemente per rimettere a nuovo il sotterraneo,
per pulirlo e rimuovere la muffa e cambiare a poco a poco il mobilio
troppo rovinato; ma avrebbe mai potuto amare quel luogo più
di
quanto l'aveva amato quella sera, quando s'era arrampicato su un
vecchio tavolo traballante e aveva ammirato dall'alto la distesa di
divani sfondati e di tendaggi crollati al suolo?
Per
una
curiosa scelta architettonica (sempre ammesso che al folle architetto
di quell'improbabile villa si potesse imputare la benché
minima
scelta consapevole), il sotterraneo era strutturato in modo
estremamente più razionale rispetto ai piani superiori, con
un minor
numero di locali più ampi e minor spreco di spazio. In
quanto al
resto era arredato con un curioso miscuglio di stili diversi,
poiché
Emir aveva trascinato dabbasso un po' per volta i mobili del secondo
e del terzo piano di cui non si faceva niente, ed era pulito tanto
quanto uno scapolo un po' distratto e molto stravagante fosse in
grado di mantenerlo da solo. Lo sguardo di Rotwang spaziò
sulle
stanze carico di stupore.
«Però»
commentò dopo un po' per darsi un tono, quando s'accorse che
il suo
prolungato silenzio rischiava di passare per ammirazione o per
timore, e che egli non intendeva assolutamente dargli nessuna di
queste soddisfazioni. «Un giorno dovrai spiegarmi
perché hai un
piano sotterraneo bloccato da tutti questi passaggi segreti,
Fuji.»
«A
dire il
vero non lo so nemmeno io» ammise Emir facendogli segno di
seguirlo
lungo un corridoio. Per una volta, Rotwang lo seguì senza
fare
storie. Emir continuò a parlargli mentre apriva l'ennesima
porta
nascosta. «La casa era già così quando
me l'hanno data. Penso che
appartenesse a qualche vecchio pazzo o roba del genere, ma
francamente non me ne sono mai interessato. Non volevo attirare
l'attenzione della Silph su questo aspetto, capisci.»
«Ottima
scelta» convenne Rotwang annuendo. «Semplice
lungimiranza o una
leggera forma di schizofrenia?»
Probabilmente
era solo per la necessità di scaricare la tensione nervosa
che lo
attanagliava dalla sera precedente, ma per la prima volta quella
notte gli parve che quella battuta fosse quasi divertente, ed egli
rise. «Direi piuttosto desiderio di possedere qualcosa che
fosse
tutto mio.»
«Se
stai
cercando di tranquillizzarmi riguardo all'essere da solo in un
sotterraneo segreto in cui nessuno può sentirmi urlare con
uno
scienziato pazzo, sappi che le manie di possesso non sono proprio un
buon segno» mormorò Rotwang come tra sé
e sé.
Evitando
a
Emir l'imbarazzo di ridere ancora del suo sarcasmo, finalmente
l'ultima porta che sigillava l'area più lontana del
sotterraneo si
aprì, scomparendo nella parete come se non fosse mai stata
lì.
Quella era l'ultima stanza, o almeno lo era in base alle sue ultime
scoperte, quella più lontana da tutto e da tutti nell'angolo
più
remoto della casa: proprio là, al centro del tavolo che
troneggiava
in mezzo alla sala, Emir aveva posato la Pokéball di Mew.
Ritraendosi un poco per lasciare campo libero al suo collega, Emir
gli fece cenno di entrare prima di lui e disse: «Prego,
dottore. La
paziente è tutta sua.»
Quando
aveva
chiesto a Rotwang di aiutarlo a rapire Mew, Emir lo aveva fatto per
tutti i motivi che gli aveva confessato esplicitamente e anche per
l'unico che non avrebbe avuto il coraggio di rivelargli mai, ossia
che mai avrebbe voluto crearsi un nemico della sua portata in un
affare del genere, poiché Rotwang amava Mew così
tanto che
l'avrebbe cercata sempre. Ma quella notte, quando sotto i suoi occhi
una Mew ebbra di gioia si scagliò contro il petto di Rotwang
come a
salutarlo dopo mesi di separazione, Emir si ritrovò per la
prima
volta a vedere la questione da un altro punto di vista. S'egli avesse
portato via Mew per conto proprio, lei non avrebbe mai più
rivisto
Rotwang: ma come avrebbe reagito allora? Quella separazione l'avrebbe
resa infelice o piuttosto – come ella aveva dimostrato per
tutti
quei mesi, reclusa in laboratorio in assenza di M1 – M2
sarebbe
rimasta ancora perfettamente felice, dimostrando per l'ennesima volta
quanto ogni cosa bastasse a renderla contenta, e dunque tutto le
fosse, a conti fatti, perfettamente indifferente?
Eppure,
dell'intera équipe del Laboratorio egli era l'unico a
pensarla così.
Ne aveva parlato solo con Valérien, certo, ma Portia e
Vincent erano
entrambi persone troppo pragmatiche per potersi anche solo soffermare
a riflettere su un dettaglio del tutto privo di rilievo scientifico
come il carattere di un Pokémon; in quanto a Rotwang, che
amava Mew
come fosse un suo proprio Pokémon, avrebbe mai potuto
tollerare o
anche solo concepire l'idea che Mew non lo riamasse allo stesso modo,
o meglio che lo amasse, certo, ma esattamente quanto avrebbe amato
tutto il resto del mondo?
Restare
in
silenzio, da solo con quella domanda all'interno del suo cervello,
sarebbe stato intollerabile. Mentre Rotwang si sedeva su una
poltroncina per resistere all'assalto di Mew, appena liberata dalla
sfera, che gli balzava addosso per salutarlo da ogni lato, Emir si
schiarì la voce e chiese: «Pensi che
sarà felice qui?»
Era
davvero la
prima cosa che avesse trovato da dire, ma dal modo in cui Rotwang
aggrottò penosamente la fronte, accarezzando Mew come
sorridendo per
non farla preoccupare, intuì che non era stato il solo a
porsi quel
problema.
«Non
lo so,
Fuji. Era felice al laboratorio, ma... pensi che dovremo tenerla qui
a lungo?»
Fino
a quel
momento Mew non aveva ancora avuto modo di vedere la nuova prigione
in cui era stata relegata e che, a differenza della precedente, non
disponeva di finestre né d'erba, e aveva come solo pregio il
fatto
che nessuno, in quel sotterraneo, progettava di costringerla a
partorire i propri cloni. Mentre Emir si sedeva di fronte a Rotwang
per poter discutere, Mew si levava ora in aria a osservare la stanza,
fluttuando di mobile in mobile per frugare tra i vecchi soprammobili
fuori moda.
Sul
problema
di cos'avrebbero fatto una volta compiuto il furto non si erano mai
voluti soffermare a rifletter troppo, trovando sempre un qualche
altro problema più urgente da affrontare per posticipare il
più
possibile quella questione; e questo, probabilmente, perché
quel
furto andava compiuto senza pensarci troppo perché compierlo
era
indispensabile, e se avessero cominciato a nutrire dubbi e
ripensamenti in proposito, alla fine il coraggio sarebbe loro
mancato, e avrebbero rimandato e finito col tirarsi indietro. Ma ora
che si trovavano entrambi là sotto, la realtà si
faceva troppo
pressante e greve per poterla ignorare, e fronteggiarla si faceva
inevitabile.
«Qua
sotto
nessuno verrà a cercarla, perciò può
restare qui per tutto il
tempo necessario» iniziò Emir cautamente,
soppesando ogni parola in
base alla reazione che gli pareva produrre sul volto di Rotwang.
«Pensi che sarebbe possibile riportarla in Guyana?»
Gli
occhi di
Rotwang ebbero un rapido guizzo in direzione di Mew come ad
accertarsi che non potesse udire quello che stava per dire.
«Giusto,
dev'esser facile spiegarlo alla dogana. L'ultima volta che sono
andato a trovare i miei in Germania controllavano ancora le
Pokéball
all'aeroporto, sai.» Ma non c'era amarezza nel suo sarcasmo,
quella
volta, ed Emir ne prese atto e gliene fu grato. «No, Fuji, lo
sai
anche tu che non è una soluzione plausibile. A meno che Mew
non
diventi uno dei Pokémon più comuni del mondo,
cosa che francamente
non credo probabile, non è una strada facilmente
percorribile.
Piuttosto, senti...» Ma qui Rotwang ebbe un'esitazione, ed
Emir lo
incalzò: «Che cosa?»
«Portia
mi ha
detto che tuo padre gestisce un'organizzazione di difesa dei diritti
dei Pokémon, o qualcosa del genere. Non possiamo chiedere
aiuto a
lui?»
Dal
punto di
vista di Rotwang, quella avrebbe potuto essere una soluzione
vincente: mobilitare l'opinione pubblica, con l'appoggio di
un'organizzazione impegnata già da anni nello scontro con la
Silph,
affidare a una delle voci più forti e pure di Kanto la loro
testimonianza e aspettare che l'indignazione popolare facesse il
resto. Mew era amata e idolatrata da tutto il mondo, ed era il
Pokémon più bello e dolce che
l'umanità avesse visto mai: se si
fosse saputo quello che la Silph progettava di farle, tutto il mondo
si sarebbe schierato dalla loro parte in favore di quella creatura
innocente che veniva ignominiosamente sfruttata dalle ragioni
dell'azienda. Allora si sarebbe parlato sui giornali e sulle riviste
dell'ingiustizia della Silph SpA, si sarebbe creato un caso mediatico
dal quale l'azienda sarebbe stata travolta... e chissà,
forse, con
un po' di fortuna, si sarebbe incominciato anche a parlare con
serietà di una legislazione che prendesse in considerazione
l'opportunità di creare e clonare indiscriminatamente
Pokémon senza
il minimo controllo. Ma nulla di tutto ciò sarebbe mai
veramente
accaduto, Emir questo lo sapeva bene: si sarebbero vergati articoli e
si sarebbe discusso e protestato, ma nel frattempo egli avrebbe
dovuto confessare e sobbarcarsi un processo, e nel frattempo nessuno
avrebbe potuto difenderlo da un'accusa per furto... e poi la Silph
era troppo potente. Coi rapporti profondi e vischiosi che
intratteneva con Team Rocket e con la politica, che cosa avrebbe
potuto ottenere suo padre quel giorno più che in passato?
«Potrebbe
procurarci assistenza legale in tribunale, se è questo che
intendi»
rispose con calma. «E potrebbe raccogliere delle firme in
nostro
aiuto. Ma intanto Mew tornerebbe al Laboratorio, perché
è alla
Silph che appartiene legalmente, e noi non avremmo più
possibilità
di difenderla. È questo quello che intendi? Mio padre
può aiutarci,
ma noi abbiamo comunque commesso un furto, e un furto rimane un
reato.»
Le
prospettive
erano quelle che erano. Erano stati coraggiosi finché
avevano
potuto, e forse avevano tentato più di quello che le loro
forze
potevano ottenere; ma poiché l'unica alternativa a quella
follia
sarebbe stato di cedere i piccoli di Mew al Team Rocket, questo era
quello che era. Mew non era libera, ma non era più in mano
alla
Silph; e dopotutto, contava davvero qualcosa per lei essere libera?
Se si dimostrava tanto stupidamente felice persino nelle circostanze
più dolorose, a tal punto da risultare totalmente incapace
di
difendersi, quel mutamento di prigionia avrebbe davvero fatto per lei
qualche differenza?
In
quel
momento come nei giorni passati, per quel problema non si
prospettavano soluzioni; ma ammetterlo ad alta voce avrebbe voluto
dire, guardandosi negli occhi, che tutto il genio di due uomini di
scienza bastava a malapena a ottenere quel misero risultato, ed
entrambi lasciarono perdere. Sarebbe stato come star seduti a parlare
della via d'uscita da una gabbia chiusa.
Rotwang
era
venuto lì per accertarsi che tutto fosse andato secondo i
loro piani
e che Mew stesse bene, ed Emir si era sforzato di aspettarlo fino a
quell'ora, come avevano concordato; ma ora che il crollo della
tensione nervosa si era assommato alle benzodiazepine e alla
stanchezza, a malapena egli riusciva a tenere gli occhi aperti, e
Rotwang parve rendersene conto. Con un'ultima carezza affettuosa tra
gli occhi di Mew, dove le piaceva particolarmente, Rotwang si
alzò e
gli fece segno con lo sguardo d'esser pronto a risalire a suo comodo.
Quell'uomo sapeva comportarsi in modo persino civile quando lo voleva
– peccato che non lo volesse quasi mai.
Emir
lo scortò
in silenzio attraverso la lunga serie di passaggi della villa
sterminata. Riemergere al piano superiore dal sotterraneo era come
riaffiorare ala luce della luna dalle profondità degli
abissi: al
piano terreno, dove si aprivano innumerevoli porte e finestre, l'aria
era più pura e respirabile che là sotto, e al
confronto era quasi
fredda, e di nuovo si faceva udibile il fragore del mare che si
inerpicava sulla scogliera. Sentendosi addosso come un brivido di
febbre, Emir si strinse maggiormente nella giacca e lo
scortò fino
alla porta. L'orologio segnava l'una passata: in un'isola
così
piccola e smorta, era alquanto certo che a quell'ora non ci fosse
più
nessuno in grado di veder Rotwang uscire. Si avvicinarono alla porta
d'ingresso.
Incerto
su
come salutarlo, fermo sulla soglia, Emir esitò un momento
prima di
aprirgli la porta. «Tornerai domani?»
«Se
m'inviti»
rispose laconicamente Rotwang, ed Emir per poco non rise. Forse era
tanto stanco e tanto sconvolto da riscoprire in sé un ignoto
senso
dell'umorismo.
«Vieni
sempre
attorno alle undici, però. Non voglio correre il rischio
che...»
«Mi
dispiace
che tu abbia perso il lavoro, Fuji.»
Quell'affermazione
gli giunse talmente inattesa che Emir dubitò per un attimo
persino
di averla udita, e avrebbe potuto credere quasi d'averla appena
immaginata tra i sordi vagiti delle onde. Ma Rotwang gli appariva
tremendamente convinto, ed Emir si sforzò d'immaginare quale
curioso
stato d'animo avesse potuto spingerlo a esternare un'affermazione del
genere. Non gli venne in mente niente, allora cercò di
sdrammatizzare.
«Beh,
forse
non ero davvero un venduto, no...?»
L'ultima
cosa
che aveva in mente quella notte era proprio fare polemica o rivangare
i soliti vecchi discorsi, ma per un attimo, subito dopo aver parlato,
temette che Rotwang potesse fraintendere le sue intenzioni. Ma
proprio quando stava per aprire la bocca e aggiungere qualcosa, e
specificare che no, non c'era alcun intento polemico nelle sue
parole, l'espressione di Rotwang si fece più impacciata ed
esitante,
e distogliendo seccamente lo sguardo egli mormorò:
«Ora non
esagerare.» Ma nella sua voce non c'erano né
rabbia né sarcasmo,
ed Emir ne prese atto e sorrise.
«Va
bene
così, Rotwang. Sapevo già che mi avrebbero
licenziato, e comunque
non è poi nulla d'irrimediabile. Salvare Mew era troppo
urgente, e
non si poteva fare altrimenti.»
«Avresti
almeno potuto dirmelo» borbottò Rotwang in
risposta.
Quella
tenue
forma di protesta suonava quasi come un complimento, in quella
specifica circostanza, ed Emir si strinse nelle spalle.
«Già, e che
cosa avrei ottenuto? Ti saresti tirato indietro per farmi conservare
il lavoro?»
Colto
alla
sprovvista da quella domanda, Rotwang aggrottò la fronte e
non
rispose.
«Dai,
vai
ora» insisté Emir, prima che il silenzio
perdurasse un po' troppo a
lungo, fino a farsi imbarazzante. «Prima che passi qualcuno e
ti
veda qui. Puoi tornare domani alle undici. Ti aspetterò
alzato.»
Rotwang
tornò
davvero la sera successiva, e anche tutte le sere a venire.
Certe
volte
non si vedevano quasi. Rotwang entrava per conto proprio, con la
chiave di scorta che Emir gli aveva consegnato, e se Emir lo
attendeva alzato era solamente per accompagnarlo da Mew attraverso il
dedalo di meccanismi e passaggi segreti che Rotwang non riusciva
proprio a memorizzare, e poi per ricondurlo al piano terreno dopo
circa un'ora. Non parlavano molto in quelle sere, ed Emir si limitava
a prendere atto del fatto che Mew balzava di gioia e trillava
d'entusiasmo quando il tedesco veniva a trovarla.
Ma
vi erano
sere in cui non si poteva non parlare. Rotwang costituiva l'unico
legame che ancora lo unisse al mondo del laboratorio e soprattutto
delle indagini sul furto, ed Emir, che abitava in casa propria come
assediato in una roccaforte dal mondo esterno che lo circondava,
aveva bisogno di sapere quel che succedeva così come ne
aveva di
bere acqua o di respirare aria.
Rotwang
si
sforzava d'aggiornarlo per quanto gli era possibile; ma da dire, a
conti fatti, non c'era poi molto. Il laboratorio aveva fermato i
lavori per due interi giorni, per permettere alla polizia di eseguire
tutti i rilevamenti del caso; ma oltre a quello che si era scoperto
il primo giorno, e cioè che una finestra era rimasta aperta,
non era
emerso nient'altro. La stanza di Mew era stata controllata
meticolosamente, centimetro per centimetro, ma la riproduzione di un
ambiente naturale che la Silph si era tanto affannata a creare non
facilitava le cose, e in ogni caso neppure negli altri locali era
stato trovato niente. Le poche impronte digitali e l'unico capello
che erano emersi appartenevano al personale, e non costituivano
alcuna prova. Ammetterlo non era nell'interesse di nessuno, ma la
scomparsa di Mew sembrava ormai un mistero irrisolvibile, e la
polizia dell'isola era ormai impantanata. Tutto quel che sembrava
plausibile era che a rubare il Pokémon fosse stato un gruppo
di
ladri esperti, dato che non si trovavano tracce; ma questo era quanto
di più lontano dal vero, ed Emir era molto contento che lo
pensassero. Tutto ciò che poteva stornare l'attenzione da
loro, per
quanto lo riguardava, andava più che bene.
«Se
ti fa
piacere, di me non sospettano» gli disse Rotwang ridendo, e
per
tutta risposta Emir gli scagliò addosso un cuscino e Mew
rise. Era
una fortuna che Mew prendesse tutto ciò che facevano per un
gioco.
Certo,
di
Rotwang non sospettavano o non parevano farlo, ma in fin dei conti
non c'era alcun vero motivo per cui avrebbero dovuto indagare su di
lui. Era stato l'ultimo a vedere Mew, o almeno lo era stato nelle
dichiarazioni che aveva rilasciato, ma questo era quanto. Nessun
altro indizio puntava nella sua direzione; ma in quanto a lui, dopo
tutte le domande che gli erano state fatte e i sospetti che la sua
fuga a Lavandonia aveva sollevato, poteva davvero dire la stessa cosa
di se stesso?
Dopo
due
giorni di stop, anche per via delle insistenti pressioni della Silph,
il nuovo direttore fece riprendere le attività consuete; ma
non
c'era più molto da fare, senza più M2. Si
potevano continuare le
analisi sul corpo imbalsamato di M1, ma non era poi un
granché, e
Rotwang, fedelissimo ai suoi principi, urlò e
protestò e quasi mise
le mani addosso a Valérien pur di cercare d'impedire che si
profanasse il corpo; ma a parte una lettera formale di richiamo da
parte dell'azienda, non ottenne nient'altro.
«Quel
mangialumache si è invigliacchito ancora di più
da quando è
diventato direttore» gli disse Rotwang quando
arrivò a casa sua
quella sera, sventolando la lettera di richiamo come una
proclamazione di guerra. «Ci crederesti? Tu avevi tanti
difetti, ma
quantomeno i nostri problemi ce li siamo sempre risolti a tu per tu,
senza tirare in ballo l'azienda. Quel piccolo vigliacco si è
cacato
addosso e deve aver raccontato tutto a Dale. Ti pare normale?»
«Chiamate
ancora i francesi mangialumache a quarant'anni
dalla guerra?
Sei serio?» protestò Emir prendendogli la lettera
dalle mani. Non
diceva nulla di che e non era allarmante, ma il fatto che
Valérien
avesse preferito rivolgersi a Dale piuttosto che risolvere la
questione in laboratorio lo inquietava un poco. Non andava bene. Il
laboratorio aveva sempre funzionato come un microcosmo a sé
stante
nel quale Dale metteva il naso a petulare solo e unicamente per
quanto riguardava le questioni finanziarie, ma in quanto a tutto il
resto se l'erano sempre sbrigata da soli. «Comunque qui non
dice
nulla di che, non è preoccupante. Solo che dovresti evitare
di
rifarlo.»
Rotwang
si
strinse nelle spalle mentre si accasciava in poltrona. «Lo so
che
non è nulla di grave, è la vigliaccheria che mi
fa incazzare. E
comunque mangialumache era solo per non dire finocchio
succhiapalle di fronte a lei» specificò
come punto sul vivo.
«Mangialumache
va benissimo allora» rispose Emir ridendo tra
sé, anche se era
evidente che a Mew non importava poi un granché di come
chiamavano
Valérien: si era accomodata su una poltrona seduta come un
essere
umano, con la schiena eretta e e zampe ben tese, e si divertiva a
scimmiottarlo tenendo la lettera tra le mani e facendo finta di
leggerla.
Non
era un
atteggiamento sorprendente. Tranne le poche ore a settimana che
Rotwang riusciva a trascorrere lì con loro, Emir era del
resto
l'unica presenza umana che avesse modo di vedere quotidianamente; e
del resto, Emir non poteva dire che le cose stessero tanto
diversamente per lui. Tutta la sua vita adulta si era sempre svolta
attorno al lavoro, e ora che un lavoro non l'aveva più, e
che
neppure gli appariva probabile l'eventualità di trovarne un
altro in
tempi brevi, egli viveva recluso in casa. Nei primi tempi si era
sforzato di mantenere uno stile di vita regolare e di mostrarsi
spesso in pubblico, anche per dimostrare al resto degli abitanti di
non aver nulla da nascondere o da temere: ma ben presto Emir si rese
conto di non esser tagliato per far quella vita. Alzarsi presto
d'accordo, dato che fin da ragazzo non era mai stato pigro; ma di
affannarsi tanto a vestirsi e a uscire solo perché tutti gli
abitanti potessero vedere ch'egli non aveva paura di uscire a testa
alta per andare a comprare il giornale, di questo proprio non aveva
voglia. Isola Cannella avrebbe dovuto riconoscere la sua innocenza da
altri dettagli, aveva concluso, e aveva lasciato perdere. La sua vita
trascorreva ormai in una sorta di reclusione volontaria, ed Emir
passava la maggior parte del suo tempo leggendo e aggiornandosi. Dal
momento che non aveva niente di meglio da fare, poteva valer la pena
di approfittare della situazione per dedicarsi a quegli aggiornamenti
specialistici per cui il lavoro non gli aveva mai lasciato tempo: le
sue ore scorrevano perciò invariabilmente nel sotterraneo, a
leggere
e a prendere appunti e a studiare, mentre Mew giocava sulle sue
ginocchia e scarabocchiava su una risma di fogli con le penne che gli
sottraeva dal tavolo. A parte Rotwang, ormai erano l'uno per l'altra
l'unica compagnia del mondo, e tutto l'universo si era ridotto per
loro a quel solo sotterraneo senz'aria. Eppure quell'atmosfera che
solo un mese prima gli sarebbe parsa intollerabile e soffocante,
l'equivalente angoscioso della medesima prigione che a ogni momento
egli lottava per evitare, a oggi non gli sembrava più tanto
terribile. Oltre a essere l'unica possibile, quella vita che il cielo
gli riservava non era neppure poi tanto male. Mew, che si aggirava
per il sotterraneo come uno spettro gioioso e un po' rumoroso, era
immensamente felice, ed Emir si annoiava un poco, ma compensava il
mondo che aveva perduto con l'universo che andava studiando.
Con
la premura
affettuosa e un po' materna che l'aveva sempre caratterizzata, Portia
venne a trovarlo un pomeriggio all'uscita dal lavoro, portandogli in
regalo vino e dolci e qualche decina di abbracci.
«Hai
sentito
qualcun altro dei colleghi?» gli chiese con nonchalance
quando Emir
la fece accomodare nel salotto per gli ospiti, con l'aria di voler
fare banale conversazione.
«Non
ricevo
molto, a dire il vero» rispose Emir con piena indifferenza.
Era
assolutamente certo che Portia non fosse lì
perché aveva qualche
sospetto su di lui: se così fosse stato, glielo avrebbe
detto. Per
sua fortuna, la dottoressa Mann era una donna troppo pratica per
girare intorno a qualcosa che volesse davvero sapere.
«Come
immaginavo» commentò Portia amareggiata.
«Speravo che quantomeno
Valérien... domattina gli dico che è uno stronzo.
Non si fa così.»
Emir
glielo
avrebbe impedito anche se la questione della lettera di richiamo a
Rotwang non lo avesse turbato tanto; ma poiché,
nominalmente, egli
non aveva modo di sapere nulla di quel che accadeva all'interno del
laboratorio, egli si sforzò di ridere. «Non
disturbarlo, Portia,
non ne vale la pena. Valérien deve avere anche troppo a cui
pensare,
ora che è diventato direttore...»
«Proprio
perché è diventato direttore speravo che venisse
a parlare con te»
mormorò Portia.
Il
riferimento
era troppo provocatorio perché Emir potesse fingere di non
averlo
colto. Si sforzò di mostrarsi meravigliato quando le porse
un
vassoio di dolci e le domandò: «C'è
qualcosa che non va con
Valérien?»
Per
un po'
Portia non rispose, e tutto quel che fece fu piluccare nervosamente
un biscotto mentre rifletteva. Ma poi, quando già Emir si
domandava
se avesse fatto male a porle quella domanda o se avesse frainteso i
segnali che gli arrivavano da lei, ella ebbe l'aria di farsi forza e
rispose: «Non tutti gli uomini sono tagliati per le posizioni
di
potere, Emir. Per qualcuno è solo una questione di stress, e
nel tuo
caso il problema era quello di far convivere opposte esigenze, ma per
Valérien... non lo so.»
«Valérien
è
un bravo ragazzo» obiettò Emir. «Forse
ha poca esperienza, ma...»
«Valérien
è
esattamente quello che l'ambiente che lo circonda lo stimola a
essere» lo interruppe Portia bruscamente. «Per
questo speravo che
parlasse con te, piuttosto che con Dale.»
«Anche
a te
ha sempre dato retta» suggerì Emir con cautela.
«Mi
ascoltava
finché c'eri tu a comandare, ed era a te che dava retta a
conti
fatti, perché ti voleva bene e ti ammirava»
rispose Portia. «Ma
ora perché dovrebbe ascoltarmi senza sentirsi minacciato?
Sai anche
tu che quel posto spettava a me. Perché non dovrebbe credere
che
voglia farglielo pesare?»
«Vincent,
allora» propose automaticamente Emir. Portia
sbuffò platealmente
per manifestare tutta la propria disapprovazione.
«Vincent
è
barricato in laboratorio col suo assistente a giocare col becco di
Bunsen, Emir. Checché ne dica Rotwang, è lui
quello meno colpito da
questa situazione, perché tutto quello che deve fare
è fare
analisi. Che vuoi che gli importi della direzione ideologica della
Silph?»
Portia
non
aveva tutti i torti, ed Emir si vide costretto a darle ragione.
D'altro canto, Vincent era uno di quei tecnici un po' svagati e
menefreghisti che avrebbero potuto lavorare sotto qualsiasi regime; e
fintanto che i macchinari tiravano avanti a funzionare e gli acidi
reagivano come dovevano secondo le immutabili norme della scienza,
per lui tutto il resto era a posto. Poteva anche disapprovare
Valérien, ma solo in casi di eccezionale gravità,
e meglio ancora
se direttamente interrogato, si sarebbe esposto tanto da schierarsi
contro di lui.
«Mi
dispiace
che le cose siano peggiorate» disse Emir, davvero
sinceramente.
«Forse andrà meglio quando tutta questa faccenda
si sarà calmata.»
«Già,
e tu
pensi che accadrà tanto presto?»
replicò Portia amaramente.
«Questa faccenda si sgonfierà solo quando
troveranno M2, e Valérien
mi ucciderebbe se me lo sentisse dire, ma lo sai anche tu che non la
troveranno. Di sicuro adesso è in mano a qualche sceicco
arabo o a
qualche signore della droga sudamericano che... oh, mi dispiace
tanto, Emir!» proruppe all'istante, e solo in quel momento
Emir
s'accorse d'aver stretto le mani attorno al proprio calice tanto da
farsene sbiancare le nocche, e che le guance gli bruciavano.
«So
quanto volevi bene a M2 – voglio dire, quanto tu voglia
bene
a... e poi sono venuta qui a lamentarmi del lavoro, e non abbiamo
parlato d'altro che di me mentre io volevo solo sapere di te. Vuoi
venire a cena da noi una di queste sere?»
Dunque
era
solo a questo che erano giunte le indagini su Mew fino a quel
momento: a reputarla svanito nel nulla. Ma era davvero possibile
farla franca così? Sottrarre a una delle multinazionali
più ricche
e influenti del mondo il Pokémon più raro del
creato era stato
davvero tanto facile come portar via un fumetto sotto la giacca da un
qualsiasi negozio, e due ladri improvvisati come loro potevano
davvero sperare di cavarsela così?
Gennaio
era
quasi finito quando suonarono alla sua porta all'ora di cena.
Era
troppo
presto perché potesse essere Rotwang: se c'era una regola
che
avevano assunto come assioma fondamentale della loro alleanza era
quella di non modificare per nessun motivo gli orari di visita. Ma
allora chi poteva essere?
Era
una
fortuna che fosse già riemerso dal sotterraneo e avesse
già
richiuso tutti i meccanismi. Sentendosi il cuore che pulsava in gola
e i polsi che tremavano, e con la sensazione, provata una sola volta
prima d'allora, d'essere come una bestia in trappola in grado
soltanto di graffiare e mordere le sbarre della gabbia, Emir si
guardò allo specchio per quasi un intero minuto, come a
cercare di
capire se dall'esterno si vedessero i battiti accelerati del suo
cuore, e solo quando proprio sentì che non si poteva
aspettare oltre
egli scese le scale e andò ad aprire.
Sulla
soglia
della sua vasta casa buia, immobile, c'era Valérien.
«Ehi»
esclamò Emir, sforzandosi di mascherare in una risata
nervosa il
sospiro di sollievo che gli dilacerò il petto.
«Valérien, che
sorpresa! Mi fa così tanto piacere che tu sia passato...
Come stai?
Posso invitarti a cena? Stavo proprio...»
Cogli
occhi
vacui e quasi del tutto assenti, arrossati e come lucidi di febbre,
Valérien lo scrutò disperatamente e chiese:
«Perché hai
posticipato la revisione dei sistemi di sicurezza?»
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Capitolo 9 *** Inevitabile. ***
Capitolo
VIII – Inevitabile.
«Perché
hai
posticipato la revisione dei sistemi di sicurezza?»
Sforzandosi
di
sorridere con le palpebre che pulsavano d'angoscia e le mani che
tremavano, Emir diede in una breve risata angosciata e disse:
«Accidenti, che domanda secca... ma dobbiamo parlarne qui
sulla
soglia? Non vuoi tenermi compagnia per un po'?»
«Non
volevo
chiedertelo così» balbettò
Valérien, e d'un tratto fu come se
tutto il coraggio che aveva dovuto racimolare e accumulare per
arrivare fin lì e porgli quella domanda si fosse esaurito,
ed egli
si trovasse spaurito ed esausto di fronte a una soglia che non osava
varcare. Aveva le guance arrossate come di febbre, o come se avesse
vagato a lungo al freddo prima di venir lì, e i suoi occhi
erano
disperati ed enormemente dilatati. «So che avrei dovuto
passare a
trovarti prima, ma... Emir, ti prego, non capisco. Perché
hai
posticipato la revisione e non mi hai detto niente?»
Se
Emir non
avesse provato per lui tanto affetto, se solo Valérien non
gli fosse
apparso tanto affranto e confuso, forse Emir sarebbe stato
più
prudente. Ma Valérien era venuto a presentarsi alla sua
porta con lo
sguardo scoraggiato e disperato di un bambino, ed Emir si
sentì di
nuovo come quella notte.
«Vieni
dentro, dai» insisté aprendo ancor più
la porta per invitarlo a
entrare. «Ti vuoi fermare per cena? Così parliamo
un po'.»
«Non
voglio
niente» rispose macchinalmente Valérien. Una volta
entrato, anche
dopo che Emir ebbe chiuso la porta dietro di lui e lo ebbe invitato
ad accomodarsi, egli rimase egualmente immobile nell'ingresso, colle
braccia rigide lungo i fianchi e lo sguardo smarrito. Non aveva
alcuna intenzione di accomodarsi ed Emir si sentì in
difficoltà.
«Ti
senti
bene?» mormorò. «Posso portarti un
bicchiere d'acqua, se...»
«Perché
hai
posticipato la revisione?» ripeté
Valérien.
Era
la terza
volta nel giro di pochi minuti che Valérien ripeteva la
stessa
domanda, e temporeggiare ancora per avere il tempo di elaborare una
risposta sarebbe stato un errore. E a che, poi? Quella questione non
era un segreto, Emir ne aveva parlato anche al commissario e tutto
era agli atti. Ora perché avrebbe dovuto tenerlo nascosto
proprio a
Valérien?
«Era
solo una
questione di fondi» iniziò gentilmente.
«Ne ho parlato anche col
commissario ed è tutto a posto. Te ne accorgerai anche tu,
è
difficile arrivare in fondo all'anno e far bastare i fondi per tutto,
e a qualcosa bisogna pur rinunciare.»
«Allora
perché non me l'hai detto?» insisté
Valérien. I suoi occhi vacui
avevano l'aria di non riuscire a soffermarsi troppo a lungo su
niente, neppure sui suoi, come quelli di un invasato, e nonostante lo
stesse accusando e tutto rischiasse di crollare per causa sua, Emir
non poté fare a meno di provare pietà per lui. In
tutta quella
storia di furti e menzogne Valérien non avrebbe mai
dovuto
entrarci, e se vi era stato trascinato, malgrado la sua giovinezza e
la sua innocenza, era stato solo per colpa sua; e la sua magrezza
insalubre, le sue guance che si erano fatte già
più scavate dopo
appena un mese che non si vedevano, non erano forse colpa sua...?
«Non
ti è
venuto in mente che non ci abbia pensato?» domandò
semplicemente.
Valérien gli appariva tanto fragile e devastato che neppure
pensò
di mettersi in guardia. «Avevo appena perso il lavoro,
Valérien, e
facevo di tutto per far finta di nulla, ma non hai pensato che fossi
sconvolto e che mi vergognassi?»
Dopo
un
istante di silenzio, col volto imbronciato e incupito come se quella
spiegazione proprio non potesse accettarla, Valérien
rispose: «Mi
stai dicendo che è una pura coincidenza che tu abbia
tralasciato di
dirmi proprio questo?»
«Ti
sto
dicendo che ero sconvolto e che mi vergognavo, Valérien...
ma allora
non vuoi proprio capire?» Valérien non rispose, e
di fronte alla
sua fragilità Emir si sentì quasi commosso.
«So a cosa stai
pensando. Devi credermi, mi dispiace così tanto. Forse se
non avessi
preso quella decisione gli allarmi avrebbero suonato e Mew
sarebbe...»
«A
che cosa
credi che io stia pensando?» chiese Valérien
bruscamente, come
riscuotendosi d'improvviso, ed Emir si sentì colto alla
sprovvista
dalla brusca svolta che aveva preso la conversazione e cercò
di
rimediare.
«Voglio
dire
che mi dispiace che gli allarmi non abbiano funzionato, solo che...
non potevo sapere... ho sbagliato, ma in sei anni non ce n'era mai
stato bisogno una sola volta, e pensavo che per un solo mese di
differenza...»
«Gli
allarmi
funzionano benissimo» lo interruppe Valérien in
tono quasi stupito,
come se non fosse affatto di quello che stavano parlando ed Emir
avesse deviato troppo dal discorso. «Li ho fatti revisionare
come
prima cosa e i tecnici hanno detto che è impossibile che non
abbiano
funzionato. L'unica possibilità è che sia mancata
la corrente, ma
l'azienda elettrica ha dimostrato che non c'è stato nessun
calo
durante la notte. Dunque gli allarmi hanno funzionato perfettamente,
e se non hanno suonato dev'essere perché non è
entrato nessuno e
dunque non ce n'è stato bisogno.»
Dunque
era
proprio quello che era venuto a dirgli. Il suo sguardo stravolto e
allucinato e la sua ostinazione quasi maniacale su quel dettaglio non
erano le farneticazioni di un ragazzo sconvolto che cercava qualcuno
da accusare per la perdita dell'occasione della sua vita:
Valérien
non era venuto lì a rinfacciargli la sua mancanza o la sua
imprudenza e non lo stava accusando di un unico errore fatale. Era
venuto lì ad accusarlo di aver rubato: quell'unico piccolo
dettaglio
era bastato a scatenare in lui tutta una serie di dubbi e riflessioni
perfettamente plausibili, e di fronte a quell'accusa, Emir lo sapeva
bene, non gli sarebbe bastato fingere di essere innocente. Egli
avrebbe dovuto essere innocente, sentirsi con ogni
fibra del
proprio essere offeso e mortificato di fronte a quella presa di
posizione che veniva a mettere in dubbio il suo onore e il suo nome e
tutto ciò che aveva compiuto in sei anni di servizio per
l'azienda,
e dimenticare persino d'aver rubato davvero; ma Valérien
soffriva
veramente, e in quel momento Emir si sentiva
colpevole
d'averlo fatto soffrire così.
La
sua voce fu
un po' più dolce di quanto avrebbe dovuto essere quando egli
si
chinò su di lui e mormorò: «Stai
pensando che l'abbia portata via
io, è così?»
Valérien
fremette senza incrociare il suo sguardo. «Tutti quei gran
discorsi
che facevi sulla sua intelligenza, su...»
«Valérien»
riprese Emir a bassa voce, senza alterarsi. «Io ho perso il
lavoro,
e tu sai che il mio lavoro era tutto quello che avevo. Io ho regalato
Porygon al Team Rocket perché non me ne importava niente, e
tu sai
che non sono cambiato poi così tanto da allora.
Perché avrei dovuto
fare una cosa tanto stupida?»
«Ma
gli
allarmi...»
«C'era
una
finestra aperta, Valérien» insisté Emir
per chiudere il discorso.
«Gli allarmi possono aver funzionato benissimo, ma non
avrebbero
comunque mai suonato con una finestra aperta, e questo tu lo sai
altrettanto bene quanto lo sappiamo io e la polizia. So che stai
cercando una spiegazione a quello che è successo e non ti
giudico
per aver tratto delle conclusioni, e se tu fossi arrabbiato con me
per aver rimandato la revisione lo capirei, dico davvero,
ma...»
«Allora
perché Rotwang viene qui tutte le sere?»
Col
cuore che
si rifiutava di pompare altro sangue e le palpebre bloccate in un
sorriso nervoso e totalmente innaturale, palesemente falso, Emir
udì
la propria voce ridere di una risata nervosa e domandò:
«Che cosa
vuoi dire?»
Non
riusciva a
pensare, non riusciva a reagire. Allontanandosi di qualche passo da
lui per ristabilire le distanze, Emir fronteggiò
Valérien colle
gambe che gli tremavano e un incontrollabile desiderio di fuggire, e
Valérien si sforzò di rispondere al suo sguardo
con occhi pieni di
lacrime.
«Mi
dispiace
tanto, Emir» singhiozzò. «Non sapevo che
altro fare. Dale mi ha
dato il permesso di fare tutto quello che potevo per trovarla, e
allora io...»
«Mi
hai fatto
spiare?» chiese sordamente Emir. Si sentiva così
attonito da non
riuscire a ragionare razionalmente, e forse non sarebbe riuscito
neppure ad articolare nulla di più elaborato. Tutto
ciò ch'egli
riusciva a pensare, in quel momento, per quanto ipocrita potesse
essere da parte sua, era che il suo amico aveva dubitato di lui a tal
punto da farlo sorvegliare in casa sua.
«Non
potevo
accusarti senza prove!» esclamò
Valérien. «Emir, ascolta,
ascolta, non ti arrabbiare... non voglio mettere in mezzo nessuno, io
lo so che lo avete fatto perché le volete bene...»
«Non
è come
sembra» disse macchinalmente Emir, ma Valérien non
lo ascoltò.
«Non
voglio
fare casino, rivoglio solo Mew. Lo sai anche tu che ho ragione io. Io
e te siamo sempre stati amici, perciò perché non
ce la risolviamo
tra di noi? Rivoglio solo quello che è mio, Emir. Io capisco
e non
voglio che nessuno finisca in prigione. Quando facevi tutti quei
discorsi sulla sua intelligenza...»
«Io
non posso
ridarti Mew, Valérien» riprese Emir, eppure
sentiva che era
qualcos'altro che si doveva dire, che c'era un'altra risposta che
avrebbe dovuto dare, e che nonostante ciò era ancora sepolta
in
fondo alla sua mente, in un qualche luogo ch'egli ancora non riusciva
a scoprire...
Valérien
si
morse le labbra. «Non voglio chiamare la polizia,
Emir» ripeté.
Appariva sconfortato. «Perché non vuoi risolvere
le cose tra noi
due?»
Non
esisteva
un'altra via di fuga. Non c'era tempo a sufficienza per valutare le
conseguenze di quanto stava per dire, ed Emir, con la mente
totalmente vacua e appannata che ancora si rifiutava di obbedire alla
sua volontà, non sarebbe comunque riuscito a concentrarsi
abbastanza
da potervi riflettere.
Fu
come
aggrapparsi a una corda sull'orlo di un precipizio senza neppure
sapere se davvero fosse legata a qualcosa. «Non esiste un
unico
motivo per cui un uomo debba andare a trovarne un altro di
notte.»
Valérien
rise. Rise, ma talmente forte e violentemente, di uno scoppio di risa
tanto improvviso e brutale che suonò piuttosto come il
subitaneo
scioglimento di una tensione accumulata troppo a lungo. Paralizzato
dall'attesa di una qualsiasi reazione più precisa da lui,
Emir
rimase immobile a scrutare ogni suo movimento nella speranza di
capire se il suo bluff avesse funzionato.
«Ti
aspetti
che io ci creda?» sghignazzò Valérien,
come se quella risata
scoperta e veemente fosse troppo irruenta per poterla trattenere.
«Dopo quattro anni in cui neppure riuscite a parlarvi senza
urlare,
adesso dovrei credere che d'improvviso abbiate scoperto
chissà quale
attrazione fatale? Sei serio?»
Valérien
aveva ragione: quella era la scusa più stupida, assurda e
mal
congegnata che potesse anche solo immaginare; ma non c'era tempo di
inventarne un'altra e soprattutto, a questo punto, bisognava
aggrapparsi a essa come a un'ancora. Lui e Rotwang erano stati
stupidi e imprudenti a non prendere neppure in considerazione
l'eventualità che qualcuno li vedesse insieme e a non
concordare una
storia in comune; ma così era. Si erano lasciati cullare da
un falso
senso di sicurezza e intoccabilità e dalla convinzione che
la sua
casa fosse troppo isolata perché a chiunque interessasse
avvicinarvisi, e soprattutto si erano crogiolati nell'ottimistica
illusione che ben presto il mondo si sarebbe arreso e avrebbe
distolto lo sguardo da loro, semplicemente perché pensare il
contrario sarebbe stato troppo spaventoso da sopportare. La
verità
era che avevano commesso il furto del secolo senza neppure rendersene
conto, con la stessa facilità con la quale avrebbero potuto
sottrarre all'azienda materiale di cancelleria, lasciandosi ingannare
dalla sua apparente facilità, e non erano stati lungimiranti
abbastanza da prevederne tutte le conseguenze. Come al solito,
Rotwang non era lì per aiutarlo ed Emir doveva cavarsela da
solo.
Sforzandosi
di
mantenere un'espressione neutrale e serena, Emir si stupì di
quanta
fatica gli costasse articolare ogni singola parola.
«Perché
no?
Non sono più il direttore e non abbiamo più
motivo di litigare. Le
divergenze si appianano.» Le bugie gli salivano alle labbra
una dopo
l'altra, la storia si formava nella sua mente quasi spontaneamente,
come un evento già avvenuto ch'egli non dovesse fare altro
che far
riemergere dalle nebbie della sua memoria. «Avevamo
cominciato a
parlarci già egli ultimi mesi, per Mew, e poi...»
«Emir»
lo
interruppe Valérien spazientito. I suoi occhi erano ora
perfettamente asciutti, e tutta la sua disperazione s'era fatta
esasperazione. «Non offendere la mia intelligenza. Tu non sei
neppure omosessuale.»
Quello
era un
campo dell'esperienza umana del quale mai, per nessun motivo al
mondo, Emir avrebbe mai voluto far parola con nessuno; ma in quel
momento bisognava parlare, ed egli parlò. «Lo dici
come se fosse
una cosa orribile.»
«Non
è
questione di... Dio, Emir, tu non lo sei!» urlò
Valérien. Era
fuori di sé dalla rabbia, e mai in nessuna occasione Emir
l'aveva
sentito urlare così. Di un tale accesso di rabbia egli mai
l'avrebbe
reputato capace. «Siamo amici da anni, abbiamo lavorato
insieme,
abbiamo dormito assieme in albergo quando siamo andati a quel
convegno su... eppure mai neppure una volta ti ho sentito parlare di
uomini!»
Questa
volta
Emir non ebbe bisogno di simulare nulla. Questa volta il suo stupore
fu sincero, tanto spontaneo e coinvolgente ch'egli neppure si accorse
di aver aggrottato la fronte.
«Mi
hai mai
sentito parlare di donne?» chiese stupefatto.
La
sua non era
una domanda retorica: Emir voleva davvero saperlo, forse
perché la
sola ipotesi d'aver potuto mai parlare con un collega di qualcosa di
tanto poco professionale, di tanto distante da quel mondo ch'era il
solo ch'egli conoscesse, quello della genetica, gli risultava
talmente estraneo da sé che si domandò con chi
Valérien pensasse
d'aver parlato per tutti quegli anni. Emir s'era fatto dell'ipocrisia
come un abito che lo fasciava interamente; allora perché
d'un tratto
si stupiva di quanto diverso fosse il ritratto che gli faceva
Valérien? Era poi sorprendente che fosse tanto diverso da
lui?
Sull'orlo
della trappola che le sue domande gli tessevano di fronte, e sulla
quale sarebbe inciampato se vi si fosse accostato solo un po'
più
affrettatamente, Valérien ammutolì.
«No,
non ti
ho mai sentito parlare di donne, se è questa la tua
difesa» rispose
molto lentamente. «Ma non riuscirai a farmi credere d'esser
pazzo,
Emir. Pensi che se tra te e Rotwang ci fosse davvero stato qualcosa
negli ultimi quattro anni, in tutto il laboratorio non ci sarebbe
stato neanche uno che se ne sarebbe accorto?»
«Ti
ho già
detto che è cominciato tutto dopo che ho perso il
lavoro» ribadì
Emir con convinzione. «Ti sembra tanto strano che due persone
possano cambiare idea nella loro vita?»
«E
Portia,
allora?»
Emir
sbatté
le palpebre un paio di volte. «Che c'entra Portia
adesso?»
«È
la sua
migliore amica, Rotwang le dice sempre tutto quello che gli succede.
Non pensi che avrebbe dovuto raccontarle una cosa del genere?»
C'era
qualcosa
di tutto quel discorso che lo urtò non tanto per la sua
incongruenza
quanto per un piccolo dettaglio quasi insignificante che per poco non
gli sfuggì: Emir impiegò qualche istante a
realizzarlo.
«Tu
come sai
che non gliene ha parlato?»
Le
guance di
Valérien si tinsero di porpora. «Che importanza
ha? Stai cercando
di cambiare argomento oppure...»
«Stai
spiando
i nostri colleghi? Stai spiando Rotwang?»
Valérien
retrocedette di un passo di fronte alla sua rabbia, e solo in quel
momento Emir s'accorse di aver urlato e di averlo incalzato, ma non
gli importava. Voleva soltanto costringerlo a confessare e sentirgli
dire, una buona volta!, che tutto quello che aveva fatto era
sbagliato...
«Non
sto
spiando nessuno, va bene? Mi è capitato solo di... ascoltare
un paio
di volte. Dovevo capire se la cosa riguardava solamente te e lui
oppure tutti quanti. Anche tu avresti fatto lo stesso al mio posto,
quando eri direttore.»
«No,
Valérien» disse Emir, e la sua voce
risuonò stranamente gelida e
tagliente persino alle sue stesse orecchie. «Non avrei mai
fatto una
cosa del genere, ma a quanto pare a te fa molto comodo crederlo;
eppure mi conosci bene e sai quali erano i miei metodi. Forse hai
parlato un po' troppo con Dale negli ultimi tempi. Ti ricordi ancora
da dove sei entrato?»
La
porta era
proprio dietro di loro e il suo invito era alquanto chiaro, ma
Valérien non si decideva a muoversi.
«Nessun
altro
avrebbe fatto quello che ho fatto io, Emir» disse. La sua
voce aveva
qualcosa di supplichevole. «Avrei potuto andare dalla
polizia, avrei
potuto... invece ho aspettato tutti questi giorni per esser proprio
certo che le cose stessero come pensavo, e poi sono venuto qui di
nascosto perché non volevo rovinarti. Nessuno sa che sono
qui. Ho
delle foto di Rotwang che entra ed esce dal portone in giorni
diversi, ma non ne ho fatto parola con nessuno, neppure col signor
Dale: lo sappiamo solo io e l'investigatore privato. Avrei potuto
distruggerti, invece sono venuto qui a offrirti la
possibilità di
darmi Mew e chiudere tutto stanotte facendo finta che non sia mai
successo niente. Ora perché vuoi rovinare tutto?»
«La
porta è
sempre dietro di te» ripeté Emir, e per rendere il
concetto più
eloquente la spalancò per lui e rimase ad aspettare.
La
sua difesa
era troppo ferrea e scoraggiante per opporle resistenza, e
Valérien
non era così coraggioso da restar lì a ostinarsi
contro un ostacolo
tanto inamovibile; mosse qualche passo verso l'esterno ma subito, non
appena varcata la soglia, si fermò.
«Siamo
sempre
stati amici, Emir. Perché non vuoi risolvere le cose tra di
noi?»
«Buonanotte,
Valérien» rispose Emir sbattendo la porta.
Si
svegliò
vomitando acido, aggrappato al gabinetto con la camicia sbottonata,
mentre Rotwang
borbottava
qualcosa in tedesco lavandosi rabbiosamente le mani. Ma quando era
entrato?
Si
sentiva
assonnato e stanco, confuso e frastornato come dopo l'unica volta che
si era ubriacato, al primo anno di università –
l'unica volta in
assoluto che avesse mai assaggiato alcolici, in realtà
– e si era
risvegliato il giorno dopo in un letto nel quale non gli era
dispiaciuto troppo ritrovarsi, ma non ricordava assolutamente come ci
fosse finito. Ma quella sera non aveva bevuto e Rotwang era
lì,
allora cosa...?
La
sensazione
acre di vomito in gola minacciava di nausearlo. Comprimendosi il capo
con le mani e sforzandosi in ogni modo di tenere aperti gli occhi che
gli lacrimavano, il suo primo impulso fu quello di sollevarsi in
ginocchio e allungare la mano verso il muro, a tentoni, per cercare
di tirare l'acqua.
«Ah,
adesso
ti decidi a collaborare, stronzo? Mi stai prendendo in giro?»
«Rotwang»
borbottò Emir in risposta gettandogli un'occhiata.
Cercò di
appoggiarsi con le spalle contro il gabinetto per vederlo meglio,
sebbene una parte piuttosto inconsapevole di lui non fosse certa che
fosse una buona idea, e si sforzò di tenere gli occhi aperti
nella
sua direzione. «Che cosa...»
Rotwang
incombeva su di lui con tutta la propria altezza, ed era
semplicemente furioso. Era in maniche di camicia, come se avesse
lavorato a lungo; si era lavato le mani e le braccia fino ai gomiti,
alla maniera dei chirurghi, e ora si stava strofinando con un
asciugamano con aria profondamente disgustata.
«Che
cosa è
successo? Vediamo un po', Fuji» sibilò
ironicamente. «Vediamo un
po' se ragioni ancora correttamente dopo la cazzata che hai
combinato. Se sono qui io, che ora deve essere?»
La
sua mente
elaborava dati a rilento, certo, ma quantomeno riusciva ancora a
elaborarli. Dopo uno sforzo insolitamente intenso per rispondere a
una domanda tanto semplice, Emir si sentì d'improvviso
catapultato
indietro nello spazio da uno strano mondo appiccicoso e rallentato,
opaco, di nuovo nella sua casa, ed ebbe di nuovo improvvisa coscienza
del tempo e di se stesso. Era abbracciato alla tazza del gabinetto
come un adolescente ubriaco, a petto nudo, e l'unica persona che gli
restasse al mondo aveva tutte le ragioni, e probabilmente anche le
intenzioni, di ucciderlo.
«Sono
già le
undici?» esclamò, fattosi improvvisamente
più sveglio e più
lucido, e di fronte al suo stupore Rotwang ebbe un ghigno sarcastico.
«Sbagliato,
Fuji. Quando sono arrivato io erano le undici, ma adesso dev'essere
quasi mezzanotte. Hai idea di quanto mi ci sia voluto a trascinarti
in bagno e a farti vomitare? E soprattutto hai idea di quanto sia
stato disgustoso infilarti due dita in gola?»
Le
idee e le
informazioni cominciavano a farsi sempre più confuse nella
sua
mente. Il gabinetto non gli bastava più per sostenersi, ed
Emir si
appoggiò con la schiena contro il muro per poterlo guardare
meglio.
«Mi hai fatto vomitare tu?»
Rotwang
ribolliva di rabbia. In quel momento le sue mani
nervose,
incapaci di stare ferme, stringevano spasmodicamente i lembi
dell'asciugamano umido fin quasi a volerlo stritolare, e non era
difficile intuire che cosa avrebbe preferito avere
tra le mani
in quel momento al suo posto.
«Già,
pensavi d'esserti materializzato qui per miracolo, vero? Secondo te
cos'avrei dovuto fare quando ti ho trovato sul divano con questo
accanto?»
I
suoi
riflessi non erano svelti a sufficienza, in quel momento, da riuscire
ad afferrare al volo l'oggetto che Rotwang prese dalla tasca e gli
gettò – sempre ammesso che Rotwang avesse voluto
passarglielo al
volo piuttosto che scaraventarglielo addosso. Lo recuperò
tra
qualche parte tra le cosce, dov'era caduto, e palpandosi i pantaloni
per cercarlo si rese conto solo in quel momento che erano bagnati.
Rotwang doveva avergli gettato dell'acqua addosso per cercare di
farlo rinvenire.
La
boccetta di
bromazepam che aveva in mano era vuota. Provò l'impulso di
giustificarsi. «Non era piena quando...»
«Stai
zitto!»
sbottò Rotwang scaraventando l'asciugamano nella vasca da
bagno, ed
Emir ammutolì all'istante. Non era sicuro di averlo mai
visto
arrabbiato così o di poterlo fronteggiare nelle condizioni
in cui si
trovava. «Ho fatto di tutto per aiutarti e ti ho portato dei
farmaci
che legalmente non avrei neppure potuto prescriverti, e l'ho fatto a
rischio della mia carriera perché forse la cosa ti giunge
nuova, ma
io sono un medico per Pokémon e non potrei neppure darti dei
consigli senza rischiare la radiazione dall'albo! Sto facendo una
marea di cose illegali per salvare il tuo culo secco, Fuji, e per
ringraziarmi tu ti scoli una boccetta di bromazepam e mi fai venire
un infarto?»
«Mi
dispiace,
mi dispiace, mi dispiace» balbettò Emir,
perché per una volta
Rotwang aveva perfettamente ragione e anche solo
provare a
difendersi sembrava inutile. «Hai ragione su tutto,
è solo che
quando è andato via Valérien...»
La
sfuriata
finì com'era iniziata. Prima ancora di poter articolare una
frase
razionale Emir si sentì d'un tratto strattonare in avanti
per il
collo della camicia: Rotwang lo aveva afferrato d'improvviso e lo
stava scuotendo. «Che cos'hai detto?»
«Ho
detto che
Valérien...»
«Emir!
Emir,
resta con me, non ti addormentare. Se ti addormenti ti annego nel
cesso, mi hai sentito? Lestournelle è stato qui?»
Tutti
gli
eventi della serata gli tornarono in mente di prepotenza, Emir d'un
tratto riebbe come davanti agli occhi tutte le cose che avrebbe
dovuto dirgli ma che il bromazepam gli aveva fatto scordare...
«Si
è
insospettito per la questione dei sistemi di sicurezza»
articolò
lentamente. Mettere insieme un pensiero dopo l'altro era
insolitamente faticoso, ma diventava via via più semplice a
misura
che proseguiva. «È venuto qui a parlarmene, ma non
è solo questo.
Rivuole Mew ed è disposto a non andare alla polizia se
gliela diamo.
Ha fatto sorvegliare la casa. Ha detto di avere delle foto di te che
entri ed esci...»
Rotwang
si
alzò da lui lentamente come prima gli si era gettato
addosso, senza
una parola. Sembrava oppresso, schiacciato da quell'informazione,
come se non avesse più alcun motivo per indagare ancora:
tornò al
lavandino, si lavò nuovamente le mani e poi
recuperò dal mobile su
cui l'aveva appoggiato il suo panciotto. Lo abbottonò
lentamente,
senza neppure srotolarsi le maniche della camicia, con gesti calmi e
metodici, tutto immerso nei suoi pensieri, ed Emir non gli distolse
gli occhi di dosso neppure per un istante. L'aveva sempre affascinato
il fatto che Rotwang fosse l'unica persona di sua conoscenza a
indossare il panciotto per venire al lavoro – salvo Dale,
naturalmente, ma Dale non contava – e in quel momento egli
era
troppo confuso e assonnato e fatto di benzodiazepine per impedire a
se stesso di ammetterlo.
«Ti
ha
chiesto se siamo stati noi a rubarla?»
«Sì.»
«Gli
hai
detto qualcosa?»
«Gli
ho detto
che andiamo a letto insieme.»
Rotwang
levò
lo sguardo dalle proprie mani e lo fissò. Non sembrava per
niente
stupefatto, ma piuttosto incuriosito, come se per la prima volta lo
stesse considerando sotto una luce nuova. Finì lentamente di
abbottonarsi il panciotto.
«Riesci
ad
alzarti? Un po' d'aria ti farebbe bene. Fuori non fa troppo freddo.
Aspetta, appoggiati a me per un momento...»
Emir
avrebbe
tanto volentieri dormito, dormito, anche là per terra dove
si
trovava, ma capì che non era il caso di obiettare. Rotwang
lo
costrinse a lavarsi e a rinfrescarsi, lo portò in cucina e
lo
obbligò a bere due bicchieri d'acqua l'uno dopo l'altro e ad
assumere due compresse di carbone; non sarebbero state molto
efficaci, ma in quel momento non c'era niente di meglio da
somministrargli e bisognava accontentarsi. Emir scrutava la sua
insolita calma con circospezione.
«Forse
dovremmo parlarne.»
«Dopo,
Fuji,
dopo. Lasciami pensare. Andiamo fuori ora. Tieni questo,
però» lo
ammonì mentre attraversavano il soggiorno principale al
pianterreno,
là dove Emir ricordava a malapena di essersi addormentato
nella
febbrile attesa di Rotwang, mentre afferrava un grosso involto nero
dalla spalliera del divano e glielo passava. Era il suo cappotto nero
di foggia classica, europea: doveva esserselo tolto assieme alla
giacca quando l'aveva trovato collassato sul divano, dopo essere
entrato, per avere le braccia libere. «Hai i muscoli
contratti per
aver vomitato forzatamente. Meglio che tu non esca in
camicia.»
Emir
non era
nella posizione giusta per obiettare e soprattutto non aveva idea di
dove avesse abbandonato il proprio cappotto, dopo l'ultima volta che
era uscito di casa, chissà quanto tempo prima. Lo
indossò
obbedientemente, troppo confuso e stanco per sorprendersi di sentirsi
a suo agio nel gradevole odore di dopobarba e colonia che emanava, e
lo seguì sul terrazzo coperto del primo piano.
Quella
terrazza era uno dei luoghi più belli della casa, anche se
non ci
andava quasi mai: affacciava sull'acqua nera, illuminata appena dai
barbagli dorati delle luci del molo, e all'orizzonte, nelle sere
molto serene e nitide, s'intravvedeva appena profilarsi la costa di
Biancavilla.
Rotwang
si
appoggiò alla balaustra. Aveva indossato soltanto la giacca
sopra il
panciotto, ma la notte non era davvero molto fredda.
«Penso
che tu
abbia fatto la cosa giusta.»
Era
evidente
che Rotwang aveva proseguito dentro di sé la conversazione
iniziata
in bagno e che ora stava parlando riallacciandosi a essa; ma Emir era
troppo frastornato per capire al volo. «Quale cosa
giusta?»
«Hai
fatto
bene a dire a Lestournelle che andiamo a letto insieme. Era l'unica
scusa sensata che potevi trovare, ed è anche l'unica che
nessuno può
smentire, dato che nessuno può legalmente chiederci delle
prove. Era
la cosa giusta da fare.»
Era
alquanto
insolito che Rotwang gli desse ragione così, al primo
tentativo e
senza neppure discutere, ed Emir se ne sentì alquanto
stupito. Stare
in piedi lo stancava troppo, perciò si lasciò
scivolare piano lungo
il muro fino a sedersi sul pavimento freddo del terrazzo.
«Valérien
non ci ha creduto, però» obiettò.
«Ha capito che era una scusa.»
«Non
importa
che lo abbia capito, finché non è in grado di
dimostrarlo; e si può
dimostrare che due persone vanno a letto insieme, ma non che non lo
fanno. Ora dovremo solo fingere di avere una relazione
finché non
troveremo una scusa migliore.»
«Sei
arrabbiato con me?» chiese Emir improvvisamente.
Non
sapeva
neanche da dove gli fosse venuta quella domanda, ma quando l'aveva
posta gli era sembrata molto importante, anche se ora se n'era
già
scordato il motivo e si limitava ad aspettare la risposta soltanto
per sapere quale sarebbe stata. Si sentiva sonnolento e appesantito,
come se avesse dormito troppo senza volerlo, coi sensi sgradevolmente
ovattati, anche se il calore del cappotto di Rotwang lo faceva
sentire piacevolmente intorpidito dal sonno, quasi in procinto di
addormentarsi. L'idea di chiudere gli occhi lo tentava molto.
Gli
occhi di
Rotwang brillarono quando egli si voltò verso di lui e si
mise a
ridere. «Sai una cosa, Fuji? Dovresti drogarti più
spesso. Sei più
simpatico quando sei fatto... dici meno cazzate. Sembri più
intelligente.»
«E
tu sei
troppo calmo» borbottò Emir in risposta,
stropicciandosi gli occhi
come i bambini per restare sveglio. «Come mai sei
così calmo?»
Rotwang
diede
le spalle alla marea e si voltò verso di lui.
«Perché sta andando
tutto a puttane e non vale la pena di fare sceneggiate... come quando
crolla un aereo. Non possiamo farci nulla. E poi, per una volta, non
posso neppure dare la colpa a te: il piano l'abbiamo elaborato
insieme ed è me che Lestournelle ha fatto fotografare. Tu
hai fatto
quello che potevi, perciò, tecnicamente, dovrei
ringraziarti. E non
ti addormentare» lo ammonì severamente, prima di
riprendere: «Non
sono calmo, Fuji... sono rassegnato. È questa la parola
giusta. Non
possiamo fare niente se non aspettare e sperare che Lestournelle ci
creda o si convinca che non può dimostrare che noi non
scopiamo.
Dopotutto, non ha in mano niente che non sia la ferrea convinzione
che tu non verresti mai a letto con me, il che è un po' poco
in
tribunale. O sbaglio?»
«Possiamo
sempre consegnarla» mormorò pigramente Emir.
Nel
mortale
silenzio della villa deserta e del mare calmo, Rotwang
domandò a
bassa voce: «È questo che vuoi? Andare a
prostrarci di fronte a
Lestournelle e supplicarlo di perdonarci e di dimenticare tutto, e
magari dire che ci siamo sbagliati, che non dovevamo...?»
Quella
sarebbe
stata l'opzione più semplice e più conveniente
per tutti, per loro,
per Valérien, per la Silph: si sarebbe dovuti andare a
domandar
scusa a Valérien e a spiegarsi, giustificarsi, umiliarsi,
certo,
proprio come sosteneva Rotwang; ma umiliarsi di fronte a lui non
sarebbe stato come farlo di fronte al mondo intero, come venir
arrestati e ammanettati di fronte alla città e alla stampa e
venir
processati: in cambio di quella sola, piccola resa sarebbero stati
liberi di nuovo, per sempre.
Ma
una resa
anche piccola era una resa, Emir se ne rendeva conto persino nelle
sue condizioni: Mew sarebbe tornata al laboratorio, per sempre, e a
quel punto non ci sarebbe stata più alcuna
possibilità di mutare il
corso degli eventi.
Spaventato
dal
senso d'irreparabilità che quella scelta portava con
sé, Emir
scosse il capo a fatica. «Stavo solo pensando. Lascia
stare.»
Cogli
occhi
enormemente rinfrancati alle sue parole, Rotwang annuì con
vigore.
«E se poi ci arrestassero... voglio dire, poniamo il caso che
succeda. Tuo padre potrebbe aiutarci ad attrarre l'attenzione sul
nostro caso, e mio fratello è avvocato. Potrebbero
aiutarci.»
Per
chissà
quale riflesso istintivo e totalmente irragionevole, di tutta quella
situazione in cui si trovavano entrambi a dover lottare e decidere
per la propria libertà e quella di Mew, la cosa
più importante da
dire gli parve: «Tu hai un fratello?»
Quella
domanda
gli giunse tanto inaspettata che Rotwang impiegò qualche
momento a
comprenderne il senso. «A dire il vero ne ho tre, ma ti pare
questo
il momento di discuterne?»
Anche
quella
volta Rotwang aveva inevitabilmente ragione, ed Emir si
sforzò di
tornare a concentrarsi sul problema malgrado l'effetto straniante dei
medicinali. «Dicevamo.... mio padre, certo. Ci aiuterebbe se
ce ne
fosse bisogno, e forse anche lui potrebbe trovare degli avvocati per
difenderci. Di certo tutta la sua associazione sarebbe con
noi.»
«Hm.»
Rotwang assentì gravemente senza per questo smettere di
scrutarlo
con un certo sospetto. «Tu sei troppo fatto di benzodiazepine
per
capire davvero e noi stiamo iperrazionalizzando la situazione per
autoconvincerci di aver fatto la cosa giusta. Mi sbaglio?»
Ma
certo che
era così, era ovvio che fosse così. Erano due
scienziati troppo
idealisti e troppo avventati che si erano lanciati in qualcosa di
troppo più grande di loro, dal quale non sarebbero potuti
uscire se
non quando Mew non ci fosse stata più; ma fino ad allora, o
fino a
che non avessero trovato un'altra soluzione, quella era l'unica
alternativa e l'unica vita che avrebbero mai avuto.
«Se
avessi
bevuto meno bromazepam, pensi che adesso io e te troveremmo un'altra
soluzione?»
Dopo
un attimo
di silenzio Rotwang rispose: «Non la troveremmo
perché non ne
abbiamo un'altra. Le cose stanno così, Fuji... se vogliamo
salvarla,
questa è l'unica scelta che abbiamo.»
La
marea stava
cominciando ad alzarsi, Emir la percepiva dal diverso fragore delle
onde che si frangevano sugli scogli, al di sotto della terrazza su
cui si trovavano, per aver tante volte udito quel suono ed esser
rimasto a osservare i flutti levarsi impercettibilmente. Socchiudendo
gli occhi, col capo reclinato contro la balaustra, si sforzò
di
concentrarsi su quel suono e di colmarsene la mente.
«Fuji.
Sei
ancora con me?»
«Sì,
sì,
sono...» Reprimendo uno sbadiglio, Emir faticò
qualche istante per
articolare una risposta. «Stavo solo pensando che
Valérien ti
renderà la vita impossibile, adesso. Per spingerti a
tradirti.»
«Oh,
non vedo
l'ora, se è per questo. So che è sempre stato il
tuo piccolo
scolaretto innocente, ma a me Lestournelle ha sempre dato
l'impressione di essere un piccolo traditore ingrato e codardo, e
adesso al lavoro è ancora peggio. Vedrò di fargli
capire che ha
avuto la sua occasione con te e che non è certo colpa mia se
non ha
saputo sfruttarla.»
«Non
metterci
nei guai» borbottò pigramente Emir, ma Rotwang gli
gettò in
risposta un'occhiata scettica.
«Ma
noi due
siamo nei guai. E poi il nostro motto è
sempre stato quello
di essere realistici. Se io e te avessimo realisticamente una
relazione, adesso mi darebbe realisticamente un
dannato
fastidio il fatto che Lestournelle sia piombato qui a piagnucolare e
ad accusarci di aver rubato il Pokémon più raro
del mondo. Ma
siccome, come tu ben sai, io sono un po' stronzo, si dà il
caso che
mi dia un dannato fastidio lo stesso. E tu questo non lo chiami
essere realistici?»
Se
la
situazione non fosse stata tanto disperata, se ora tutto non fosse
dipeso soltanto da come avrebbero collaborato, Emir avrebbe alzato
gli occhi al cielo; ma poiché era così che
stavano le cose, si
limitò a massaggiarsi diplomaticamente gli occhi per un po'
per
combattere la sonnolenza. «Giusto. Vedi solo di non
esagerare.»
Rotwang
doveva
aver osservato i suoi ultimi movimenti per un po' senza ch'egli se ne
accorgesse, perché disse: «Forse è
meglio che tu te ne vada a
dormire, ora. La molecola del bromazepam ha un'emivita breve,
perciò
non credo ci sia più alcun rischio, e comunque hai vomitato
un bel
po'. E poi, se muori, pazienza.»
Emir
rise un
po' tra sé. «Non vieni giù a
salutarla?»
«Dio,
Fuji...
oggi è meglio di no. Non mi va che mi veda in queste
condizioni, o
potrebbe sentirsi agitata anche lei.»
Anche
sul
fatto che Mew non si fosse mai mostrata turbata neppure la mattina
della morte di M1 Emir decise di sorvolare diplomaticamente: non si
sentiva abbastanza lucido né abbastanza in forze per
sostenere una
conversazione anche su quell'argomento. Tutto ciò che
voleva,
francamente, era infilarsi a letto e dormire per giorni.
«Come vuoi,
glielo spiegherò io... domani. Ti accompagno alla
porta?»
S'era
fatto
tardi, Emir lo percepiva dalla diversa qualità dell'aria e
dal
continuo risucchio della risacca: entro poche ore, Rotwang avrebbe
dovuto andare in ufficio e affrontare Valérien,
più o meno
direttamente, e quando si accorse dell'ora che avevano fatto egli si
alzò borbottando qualcosa su maledetto architetto che aveva
progettato quell'orrenda casa incomprensibile, dato che era troppo
orgoglioso per accettare semplicemente la sua offerta.
Emir
si limitò
ad accompagnarlo all'ingresso senza ulteriori commenti; ma poi,
quando avvolgendosi nel cappotto Rotwang si limitò ad
accennargli un
saluto rassegnato, un'inspiegabile urgenza lo spinse d'un tratto a
richiamarlo. «Aspetta. Un'ultima cosa...»
Appena
varcata
la soglia, Rotwang appariva già entrato a far parte del
mondo
esterno, come inglobato dalla nebbia che lo avvolgeva e lo
inghiottiva; ma quando Emir lo chiamò, egli tornò
a voltarsi verso
di lui. «Dio, Fuji, abbi pietà di me. Che altro
è successo negli
ultimi quattro minuti?»
«Non
è
nulla. Solo...» Forse a parlare per lui erano le
benzodiazepine, o
forse quel greve senso d'ineluttabilità che ormai sembrava
avvolgere
tutte le cose da quando Valérien era entrato in quella casa;
eppure
Emir si sentiva stranamente calmo quando parlò.
«Non tradiamoci,
Rotwang. È l'unica speranza che ci rimane.»
Neppure
quando
lo sguardo sorpreso di Rotwang esitò su di lui, soppesandolo
lungamente, Emir si sentì minimamente a disagio.
«Lo
so»
rispose a bassa voce, ma subito distolse lo sguardo, come se
quell'argomento lo mettesse a disagio per la sua intimità.
«Buonanotte, Fuji.»
Furono
giorni
d'una strana calma inquieta e incostante, come un incubo fatto solo
di senso d'attesa.
Valérien
era
impazzito, era furioso, o almeno questo era quanto riferiva Rotwang
ogni sera quando arrivava: non parlava con nessuno, evitava chiunque,
dava alla segretaria indicazioni ambigue e contraddittorie che poi
commutava anche più volte nel giro di un solo giorno. Tutto
quello
che faceva abitualmente, a quanto pareva, era aggirarsi come uno
spettro per i corridoi e parlare per ore con Dale al telefono; il
che, naturalmente, era un problema per tutti, perché il
laboratorio
era passato bruscamente dall'avere due biologi ad averne uno solo che
neppure collaborava col resto dell'équipe. Naturalmente Dale
non era
certo il tipo di persona da badare a dettagli tecnici come questo, e
nessun altro, tantomeno Rotwang, era nella posizione giusta per
protestare. Riuscire a tenere aperto il laboratorio, a quanto pareva,
era già un miracolo.
Che
poi
Valérien ce l'avesse specificamente con Rotwang non era un
mistero
per nessuno, non perché l'avesse affrontato o attaccato
direttamente
– non ne avrebbe mai avuto il coraggio – ma
piuttosto perché
l'osservava con rancore e l'evitava come se ne provasse orrore. Da
una tale vigliaccheria persino Rotwang era rimasto confuso.
«Se
tutto quello che fa è scappare con la coda tra le gambe ogni
volta
che mi vede, non posso essere io il primo ad attaccarlo»
osservava
saggiamente.
Allo
scopo di
sostenere la credibilità della loro storia, e anche di
giocare
d'anticipo rispetto a qualsiasi mossa potesse fare Valérien,
Rotwang
aveva raccontato a Portia di quella curiosa relazione che s'erano
inventati, con il pretesto di confidarsi e di spiegarle per quale
motivo Valérien ce l'avesse tanto e tanto palesemente con
lui. Era
parsa a entrambi la scelta migliore quella di muovere quel primo
passo con tanta discrezione, dato che Valérien avrebbe
potuto
mostrare le foto a chiunque in qualsiasi momento, e in tal caso
giustificarsi a posteriori sarebbe stato molto più difficile.
«È
stata la
cosa più umiliante dell'universo, e spero che mi
ringrazierai per
questo» gli rinfacciò entrando in casa a passo di
marcia, gettando
i guanti sul divanetto dell'ingresso come se ormai si trovasse tanto
a suo agio quanto in casa propria. «Ti consolerà
sapere che Portia
sostiene di esserselo sempre aspettata, anche se non sa spiegare
perché. Non è rimasta affatto sorpresa.»
«Vuoi
dire
che ci ha creduto?»
«Ci
ha
creduto così tanto che vorrebbe invitarci entrambi a
cena» rispose
Rotwang eloquentemente, gettandosi con aria spossata sul divano a
massaggiarsi gli occhi. «Credo che non mi abbia ascoltato
quando le
ho detto che è una relazione fisica. Ho
provato a
rispiegarglielo ancora, ma è rimasta della sua idea,
perciò o non
mi ha voluto ascoltare o non mi ha voluto credere.»
In
quella
menzogna Rotwang navigava come su un mare nel quale si sentisse
perfettamente a proprio agio e di cui conoscesse e sapesse prevedere
ogni singola minaccia. Emir si ritrovò a soppesare
pensierosamente
la piena spontaneità con la quale Rotwang aveva finito per
prendere
possesso tanto del suo divano quanto della loro menzogna, mentre
rifletteva su quel nuovo risvolto. «Pensi che dovremmo
andare?»
«Uhm?»
Rotwang gli gettò uno sguardo perplesso al di sotto dei
lunghi
capelli spettinati. «Andare dove?»
«A
cena, da
Portia.»
«Dio,
no!»
Rotwang si raddrizzò di scatto. «Non è
questo che si fa in una
storia di sesso, Fuji, e dobbiamo essere realistici. E poi tu non
conosci le sue figlie, ma io sì. Credimi, tu non vuoi andare
a cena
in quella casa, per nessun motivo.»
Rotwang
non
condivideva lo stesso angoscioso senso d'attesa che provava lui in
quel periodo, o quantomeno, se lo condivideva, sapeva mascherarlo
molto bene. Forse Rotwang era fondamentalmente convinto che, in
fondo, malgrado tutte le sue parole e le sue minacce,
Valérien non
sarebbe mai stato coraggioso a sufficienza da andare a denunciare il
suo ex migliore amico e il collega che più gli incuteva
timore; o
forse era vero ch'era lui, Emir, di loro due, quello coi nervi
delicati; ma gli sarebbe piaciuto condividere lo stesso sereno
fatalismo di Rotwang al pensiero di quello che stava per accadere e
che tuttavia non gli era dato conoscere. Ma Valérien aveva
promesso
che non li avrebbe denunciati se gli avessero consegnato Mew; loro
non gliel'avevano data, e questo faceva sì che, coraggioso o
meno,
la possibilità che si vendicasse in qualche modo si facesse
via via
più concreta e incombente. Ma come?
Quando
il
campanello suonò un pomeriggio, e attraverso il citofono la
voce
aspra del commissario di polizia gli intimò di aprire la
porta per
procedere a una perquisizione, il suo cuore ebbe un doloroso sobbalzo
di sollievo. In un modo o nell'altro, quella svolta che attendeva da
giorni era arrivata, ed egli poteva finalmente trovar pace. Era
esattamente come all'università, quando l'ansia per gli
esami a un
certo punto diveniva tale e tanta che a un tratto non gli importava
più l'esito – voleva solo sostenere l'esame e non
dover tollerare
quell'angoscia un minuto di più. Si sentiva esattamente allo
stesso
modo adesso: che trovassero pure tutta la casa se lo volevano, e che
trovassero anche Mew e lo smascherassero, se proprio non gli fosse
riuscito di nasconderla, ma che tutto finisse una buona volta! Sia
che fosse finito in tribunale, sia che gli agenti si rassegnassero
all'evidenza che non pareva esservi traccia di Mew in quella casa, in
ogni caso da quel giorno egli avrebbe finito di attendere e avrebbe
trovato pace. E poi, che cos'aveva davvero da temere? Mew era
nascosta dove nessuno, mai, avrebbe potuto trovarla. Erano venuti nel
tempio del suo genio, e là era solo il suo genio ad avere
corso.
Fu
con questa
precisa disposizione di spirito ch'egli spalancò la porta e
chiese
con la massima serenità del mondo, e quasi un senso di
gratitudine:
«Buonasera. Posso fare qualcosa per voi?»
Il
commissario
che aveva di fronte era lo stesso che aveva incontrato quel giorno al
laboratorio e che lo aveva interrogato. Anche in quel momento aveva
l'aria contrariata e scontrosa del primo giorno, ed era alquanto
evidente che non era affatto contento di essere lì.
«Perquisizione,
dottor Fuji» ripeté svogliatamente, accennando
alla squadra di
agenti che attendeva dietro di lui. «Per favore, mi dica che
la sua
villa non è così grande come sembra dall'esterno
e che non ci
metteremo tutta la sera.»
«Mi
piacerebbe poterla confortare, commissario» disse Emir
sorridendo.
Anche quella bugia gli veniva spontanea e istintiva come il giorno
dell'interrogatorio. Si affacciò sulla soglia per dare
un'occhiata
alla folla di volti che affollava il suo vialetto, e l'unico volto
che gli interessava vedere gli balzò subito agli occhi.
«Posso
chiederle se è regolare che partecipi anche il dottor
Lestournelle?»
Valérien
era
nascosto in fondo alla squadra di agenti in divisa, col capo
infossato nella sciarpa e l'aria di voler fuggire al suo sguardo a
qualsiasi costo; ma quando si udì chiamato in causa non
poté più
fingere di non essere lì. Totalmente irrigidito nel
cappotto, egli
gettò uno sguardo disperato in direzione del commissario
come a
supplicare tacitamente da lui un aiuto, e quegli si affrettò
a
riferire: «Dato che si tratta di un furto, il dottor
Lestournelle è
qui per aiutarci a identificare il Pokémon rapito, nel caso
si
trovasse in casa sua. È solo una prassi, non deve
preoccuparsi.»
«Non
mi
preoccupo affatto» rispose Emir sorridendo mentre si faceva
da parte
per invitarli a entrare con un cenno. «È il
Pokémon più raro del
mondo di cui esiste un solo esemplare ancora in vita, perciò
è
assolutamente naturale che vi occorra qualcuno per identificarlo.
Come stai, Valérien?» domandò con
ostentazione quando il suo
antico collega gli passò davanti agli occhi entrando; ma
Valérien
guardò ostinatamente avanti a sé e non rivolse
gli occhi verso di
lui. Era l'ultimo della fila, perciò Emir richiuse con forza
la
porta alle sue spalle senza fare commenti.
«Se
ci
risparmia il suo umorismo spicciolo faremo più in fretta,
dottore»
lo ammonì il commissario senza troppa voglia, mentre la sua
squadra
iniziava a sparpagliarsi per tutto il piano terra. Quello fu l'unico
momento in cui Emir provò un senso di fastidio al pensiero
che
quegli estranei mettessero le mani tra le sue cose, ma durò
solo un
attimo: quella era la vita che si era scelto, i sacrificio che era
stato chiamato a compiere per Mew, e ora doveva guardare e sopportare
in silenzio. E poi, che gli importava in fin dei conti? Erano solo
cose, e quegli agenti si sarebbero spaccati la schiena e avrebbero
guardato e frugato e non avrebbero trovato quello che cercavano. Era
una partita che avrebbe vinto lui.
«Non
le
dispiace se telefono al mio compagno per avvertirlo prima di salire
ad aprirvi le stanze del terzo piano, non è vero?»
chiese Emir con
simulata indifferenza, ma a voce abbastanza chiara da farsi udire
chiaramente anche da chiunque fosse ancora nell'ingresso – e
in
particolar modo da Valérien, che pareva attendere confuso e
impacciato ai piedi della scala che conduceva al piano di sopra che
qualcuno gli desse un'indicazione più precisa di cosa fare.
«Solo
per avvertirlo.»
«Non
abbia
fretta, dottore... procederemo un piano alla volta, per fare le cose
con ordine.» Ma subito dopo aver gettato uno sguardo alla sua
squadra che iniziava a sparpagliarsi, il commissario tornò a
volgere
gli occhi su di lui. «Il telefono è per caso in
una stanza
appartata? Avrei piacere di parlarle per un paio di minuti da solo a
solo, se non le spiace.»
In
preda alle
manie di grandezza del primo mese che aveva trascorso a esplorare e a
riorganizzare la villa, Emir non aveva potuto naturalmente fare a
meno di concedere a se stesso il lusso di uno studiolo solo per il
telefono e la corrispondenza: ovviamente, egli era tanto poco incline
a tenersi in contatto col mondo esterno, sia per epistola che per
telefono, che sapeva sin dall'inizio che non se ne sarebbe mai
servito. Ma dato che quella casa conteneva più stanze di
quelle che
gli sarebbero mai servite, quello era un modo come un altro per
impiegarne una; e quel giorno, per la prima volta si rivelava anche
dannatamente pratica. Con un brivido di autocompiacimento per la sua
lungimiranza, Emir indicò con un cenno il corridoio che
conduceva
all'ala sinistra della casa, dove ancora nessuno degli agenti si era
ancora miracolosamente diretto, e lo pregò di seguirlo. Era
un vero
peccato che Valérien rimanesse così sperduto e
senza una guida
nell'ingresso.
Nello
studiolo
del telefono Emir metteva piede tanto di rado che a malapena
ricordava come fosse arrivato, e per questo motivo era una delle
stanze che aveva maggiormente trascurato nelle pulizie, da quando era
stato costretto a provvedervi personalmente. Il commissario ebbe
almeno la buona grazia di non turbarsene troppo: i suoi occhi caddero
su un vecchio posacenere piuttosto polveroso e domandò:
«Le
dispiace se fumo?»
Un
uomo che
fuma è un uomo più tranquillo: Emir gli fece
segno di accomodarsi e
di mettersi a proprio agio mentre si sedeva alla scrivania e
componeva il numero del laboratorio.
La
segretaria
fu immensamente contenta di udire la sua voce per telefono, dopo
tanto tempo che non si vedevano, ed Emir riuscì a liquidarla
solo
promettendole che sarebbe passato presto a salutarla. Quantomeno
riuscì a convincerla senza troppe discussioni né
perplessità a
passargli l'ufficio di Rotwang.
«Fuji,
cazzo.» La voce di Rotwang era sibilante e viperina, vibrante
di
rabbia. «Sei impazzito a chiamarmi al lavoro?»
Gli
occhi del
commissario erano puntati sulla sua schiena, con tanta attenzione
ch'egli quasi se ne sentiva traforare. La sua mente si
sforzò di
scegliere rapidamente il registro appropriato da usare.
«Ehi,
ehm,
Rotwang... ti rubo solo un minuto.»
«Senti,
se ti
sei imbottito di bromazepam un'altra volta giuro che ti lascio in
coma...»
«Stanno
perquisendo casa mia» lo interruppe Emir a voce un po'
più alta del
normale. Sentì che Rotwang, dall'altra parte del telefono,
ammutoliva bruscamente. «Nulla di grave, naturalmente, solo
per
quella cosa di Valérien dell'altra sera. Nulla di cui
preoccuparsi,
ma magari potresti venire qui a darmi una mano dopo il
lavoro.»
Con
voce
innaturalmente calma e bassa, quasi vacua, Rotwang iniziò
molto
lentamente: «Sei sicuro che...?»
«Sono
sicuro
che c'entri Valérien, perché è qui
anche lui» ribatté Emir per
chiudere la questione, perché non poteva assolutamente
essere certo
di chi potesse ascoltare quella conversazione e non poteva permettere
che Rotwang dicesse qualcosa di troppo. «Comunque, ti ho
chiamato
solo per avvertirti di non spaventarti quando arriverai,
d'accordo?»
Rotwang
era
troppo intelligente per non capire che in quel momento la loro
conversazione era ascoltata e che non si poteva parlare ancora. Si
schiarì la voce. «Molto bene, allora...
sarò lì da te dopo il
lavoro. Fuji, cerca di...»
«Lo
so,
Rotwang» ribadì Emir per concludere la
conversazione. «Non
preoccuparti. Ti lascio al tuo lavoro, adesso.»
Rotwang
avrebbe voluto dirgli altre cose ancora, avrebbe voluto fargli
raccomandazioni e preghiere, supplicarlo e metterlo in guardia;
ricordargli che da quella perquisizione dipendeva ormai per sempre
tutto ciò che sarebbe stato di loro e delle loro vite; ma
Emir posò
la cornetta senza lasciargli il tempo di replicare.
«Lei
è
insolitamente tranquillo per qualcuno che stia subendo una
perquisizione, dottor Fuji» commentò gentilmente
il commissario
alle sue spalle. Era evidentemente molto compiaciuto di poterlo
insinuare, ed Emir si accomodò alla scrivania per prendere
tempo e
contemporaneamente guardarlo negli occhi. Neppure quel commento era
casuale, ed egli sapeva che l'interrogatorio era già
iniziato.
«Sapevo
che
sarebbe successo.»
«Ah,
lei lo
sapeva?»
Emir
si
strinse nelle spalle. «Voglio dire che mi aspettavo che
Valérien
avrebbe fatto qualcosa. Suppongo che glielo abbia già
raccontato
lui, ma era davvero molto arrabbiato quando è venuto qui
l'altra
sera. È davvero convinto che sia stato io a rubare
Mew...»
«E
le ha
spiegato anche perché, presumo» lo interruppe il
commissario in
tono eloquente. Emir annuì vigorosamente. «Della
questione della
revisione dei sistemi di sicurezza avevamo già parlato,
perciò
vorrebbe dirmi qualcosa della sua relazione col dottore tedesco? Mi
pareva di aver capito che non andavate molto d'accordo, quando l'ho
interrogata l'altra volta; e lui l'aveva accusata per il
furto...»
«Non
andiamo
particolarmente d'accordo neanche ora, per la verità. In
effetti non
credo che si possa definire proprio una relazione
nel senso
più stretto del termine.»
Nei
giorni
precedenti, lui e Rotwang avevano passato intere serate barricati nel
sotterraneo a cercare di concordare una versione comune nei pochi
momenti in cui Mew non esigeva di giocare con loro, per esser certi
d'esser più colto impreparati; ma naturalmente una sola
versione non
bastava, s'erano resi conto con orrore, perché non sarebbe
stato
credibile che dessero entrambi la medesima identica versione d'una
cosa tanto complessa senza averla prima concordata. Allora le
versioni erano state due, che concordassero tra sé nei fatti
principali e concreti, ma che a raccontarle dessero l'impressione di
essere diverse quel tanto che bastava da non suonare costruite ad
arte. «Dev'essere come coi Vangeli Sinottici» aveva
suggerito
Rotwang, e di fronte alla sua occhiata scettica s'era sentito in
dovere di specificare: «Che c'è? Mio fratello
è filologo
neotestamentario a Göttingen.
Che c'è di tanto strano?»
Il
commissario
annuì per dar segno di aver perfettamente capito a cosa
alludeva.
«Lei troverà strano che io le faccia domande sulla
sua vita
personale, e creda bene che in circostanze normali non lo farei mai,
ma deve capire che la situazione è alquanto... insolita. Si
rende
conto che questo improvviso rivolgimento suona quantomeno sospetto, e
anche un po', come dire, costruito ad arte?»
Emir
si
strinse nelle spalle, più per darsi un'aria noncurante che
perché
non sapesse come reagire. «Me ne rendo conto, ma le
garantisco che
io non ci vedo niente di tanto strano. Una sera Rotwang è
venuto qui
a fare quello che ha fatto Valérien l'altra sera, con la
differenza
che lui ha frugato per tutta la casa, ha dato di matto, abbiamo quasi
fatto a botte e poi abbiamo trovato un altro modo per risolvere la
questione. È Valérien che non vuole crederci, per
non so quale
motivo. Non so perché ritenga più probabile che
io abbia deciso di
sabotare una carriera più che promettente e di rubare un
Pokémon
che non potrei neppure usare, piuttosto che convincersi che abbia
intrapreso una relazione con un ex collega.»
«Davvero?
Vuol dire che non le viene in mente proprio nessun motivo?»
gli fece
eco il commissario con sguardo inspiegabilmente più acceso.
Di colpo
sembrava divenuto più attento, ed Emir lo scrutò
in silenzio per un
istante prima di decidere che la cosa migliore era fingere di non
averci fatto caso.»
«Se
posso
essere sincero, credo che stia cercando un colpevole a tutti i
costi»
rispose a bassa voce. «È molto legato a Mew e lo
sono anch'io, e
anch'io vorrei che la ritrovassero tanto quanto lui, ma non
è così
che ci riusciremo.»
«Uhm»
ribadì
il commissario. Con un sospiro profondo, si decise a spegnere infine
la sigaretta e ad alzarsi in piedi. «Molto bene, dottore. Non
credo
di avere altre domande per lei, perciò può
chiamare il suo
avvocato, se crede, e venire ad assistere alla perquisizione a suo
piacere. Le garantisco che noi rispetteremo al massimo i suoi
diritti, perciò, per qualsiasi cosa lei ritenga...»
«Non
occorre,
non occorre. Venga, l'accompagno alla porta»
ribatté Emir alzandosi
per raggiungerlo, e subito il commissario gli gettò
un'occhiata
incerta.
«Ne
è
sicuro? Le ripeto che è un suo diritto. Al suo posto ci
penserei
bene prima di...»
«Non
sono un
ladro, commissario» disse Emir, e quando lo disse, per un
istante,
la sua voce gli parve così innocente ch'egli si
sentì davvero
innocente. «Questa casa non ha nulla da nascondere,
e io voglio
che tutta l'isola lo sappia. La prego, proceda pure.»
Rotwang
si
precipitò a casa sua subito dopo la sua chiamata, col
cappotto
infilato di corsa sopra il camice e i capelli disordinatamente
sciolti, ma tutta la sua fretta fu alquanto sprecata: il commissario
lo sequestrò per almeno una ventina di minuti prima di
lasciarlo
andare con condiscendenza.
Emir
lo
aspettava sulla terrazza coperta, che era l'unico luogo che sembrava
non risultare di nessun interesse per la polizia, accomodato su una
vecchia panca di legno d'aspetto alquanto vissuto che aveva scoperto
una volta spostati una decina di vecchi vasi. Quando gli apparve
davanti, Rotwang era pallido come un cadavere e aveva la fronte
sudata come dopo una lunga corsa.
«Cazzo,
Fuji,
ma sei serio? Ti sei davvero rinchiuso quassù?»
«Buonasera
anche a lei, dottore» lo rimbeccò Emir alzando gli
occhi al cielo.
«Dove altro mi sarei dovuto rinchiudere, secondo
te?»
«Oh,
non lo
so, Fuji, davvero. Di certo non in casa tua, a
sorvegliare la
polizia che perquisisce le tue cose, non
è vero?»
Emir
non
l'aveva davvero mai visto in quelle condizioni,
mai, non così
agitato, quantomeno: infuriato e pronto a muover guerra anche al
mondo intero anche troppo spesso, e se Rotwang si fosse precipitato
lì quella sera solo per picchiare Valérien, a
dire il vero, non se
ne sarebbe stupito affatto. Ma a quanto pareva neppure Rotwang aveva
il carattere monolitico e incrollabile di un eroe, e forse anche lui
aveva commesso l'errore di credersi più coraggioso di quanto
non
fosse, e di dare per scontato che avrebbe affrontato la situazione a
testa alta; ma ora che per la prima volta anche lui si ritrovava nel
mezzo della battaglia, d'improvviso si ritrovava a scoprire che tutto
era troppo più grande di lui e ne era spaventato.
Fino
a un po'
di tempo prima Emir gli avrebbe sarcasticamente offerto del
bromazepam per sottolineare l'incoerenza del suo comportamento; ma
dopo aver rubato Mew, e averne provato talmente tanta angoscia da
scappare a Lavandonia a rifugiarsi nella casa del padre dove aveva
giurato di non rimetter piede mai più, ora egli sapeva anche
troppo
bene che cosa volesse dire trovarsi d'un tratto sotto accusa e aver
la sensazione di non aver più dove scappare.
«Rotwang,
ti
prego... non litighiamo proprio adesso. Siediti accanto a me e
parliamo un po', vuoi? Andrà tutto bene, perciò
non c'è nulla di
cui preoccuparsi.»
Senza
più
degnarlo di uno sguardo, Rotwang emise un brontolio contrariato e
tornò a passeggiare sulla terrazza, ed Emir non
poté che
rassegnarsi. Ci aveva provato, e quel dannato tedesco non gli avrebbe
mai dato retta; ma poi, quando Rotwang gli passò vicino d'un
tratto,
Emir gli sentì distintamente sussurrare a do sopra del
frusciare del
suo cappotto: «Sei troppo tranquillo, Fuji. Nessuno nel mezzo
di una
perquisizione è così tranquillo, e poi mi fai
venire voglia di
spaccarti la faccia. Ti sembra realistico, cazzo?»
«Sono
tranquillo perché non ho nulla da nascondere, e dovresti
esserlo
anche tu» ribadì Emir con calma. Non intendeva
essere smentito a
quel riguardo. «L'altro giorno hai detto che era come stare
su un
aereo e non avere alcun controllo dei comandi... beh, è la
stessa
cosa. Possiamo solo aspettare che finisca e sapere che
non ci
succederà nulla perché noi siamo innocenti.
Te lo
ricordi questo, vero?»
Rotwang
doveva sapere che lui aveva ragione, che quello era ciò che
avevano
sempre detto a se stessi fin dal primo giorno del furto; ma tutto
ciò
che si limitò a fare per il momento fu fulminarlo con lo
sguardo e
borbottare qualcosa sul fatto che in fin dei conti non gli era mai
piaciuto volare.
Per
tutto il
pomeriggio il tempo fu scandito dal rumore dei passi agitati di
Rotwang che percorreva la terrazza senza riuscire a trovar pace. Emir
lo lasciò stare. Si limitò a tenerlo
costantemente d'occhio per
accertarsi che fosse sempre lì con lui e non fosse in
procinto di
far qualche sciocchezza; ma l'unica occupazione di Rotwang, in quel
momento, sembrava quella di aggirarsi per la terrazza come una belva
in gabbia, coi guanti mortalmente stretti tra le mani e il cappotto
aperto sul petto per poter respirare meglio, i capelli avviluppati e
annodati nella sciarpa a tal punto da non distinguersene quasi
più.
Era irrequieto e rabbioso come una bestia selvaggia, ma anche la sua
presenza ansiogena era meglio che non avere niente, ed Emir rimase a
crogiolarsi negli ultimi raggi di sole nella consapevolezza di essere
al sicuro e di non essere neppure solo. Aveva passato tutto quel
tempo a tormentarsi invano al pensiero che lo scoprissero, e ora che
stava per succedere si rendeva conto che in realtà non
potevano
toccarlo perché era troppo più in alto di loro.
Una volta che la
perquisizione fosse finita, tutto sarebbe stato sistemato. Rotwang
ancora non poteva accorgersene, ma la verità era che
avrebbero
dovuto resistere solo per poche altre ore e poi sarebbero stati
salvi, perché non era possibile che un branco di poliziotti
strappati alla pesca svelasse l'enigma della casa in poche ore.
A
spezzare la
monotonia intervenne un paio di volte un agente a chiedere le chiavi
per questo o quel mobile trovato chiuso al terzo piano, cui Emir
rispose invariabilmente suggerendogli di forzare la serratura, dal
momento che se il mobile era chiuso voleva dire che lui le chiavi non
le aveva mai avute. Ogni volta Rotwang lo fissò con occhi
accesi
come braci; ma quando Emir gli rivolse gentilmente uno sguardo
interrogativo per invitarlo a esprimergli le sue
perplessità, egli
si limitò a distogliere lo sguardo con rabbia e a riprendere
a
passeggiare convulsamente. Emir continuò a lasciarlo in
pace. Sapeva
che Rotwang era arrabbiato perché in quel momento egli non
condivideva la sua angoscia, e umiliato e mortificato perché
era
lui, in quel momento, a dimostrarsi il più debole della
situazione;
ma non poteva farci nulla, e prima o poi gli sarebbe passata.
Dopo
il
tramonto trascinò Rotwang nel salottino affacciato sul mare,
perché
s'era fatto troppo freddo per restare ancora sulla terrazza; ma le
loro attività non variarono molto all'interno. Rotwang
continuò a
percorrere l'intero perimetro della stanza, sia pure in maniche di
camicia e panciotto, colle braccia nervosamente incrociate;
rifiutò
senza degnarlo di uno sguardo la tazza di caffè che Emir gli
offriva, ed Emir si accontentò di trascorrere il resto della
serata
a fissarlo camminare. Comunque stessero le cose, e per quanto quella
casa contasse qualcosa come trentacinque stanze, Rotwang non si stava
rifiutando di aspettare assieme a lui: erano ancora complici, anche
se la loro complicità faceva alquanto schifo.
Si
rifiutò di
mangiare anche quando lo stesso agente di prima venne ad avvertirli,
verso le nove e mezza, che ne avrebbero avuto ancora per parecchio,
ed Emir ordinò del cibo a domicilio per entrambi –
come quella
volta, all'inizio del progetto sui fossili, che Dale aveva imposto
loro un lasso di tempo assurdamente stretto per consegnargli non
ricordava più quale relazione, e avevano dovuto barricarsi
in
ufficio per tutta la notte per poterla finire. Ma poiché
l'unica
requie che Rotwang gli concesse fu quella di smettere una buona volta
di camminare e di venire a sedersi al suo fianco, Emir si
limitò a
cenare con calma per conto proprio e a lasciare ostentatamente
intoccata sul tavolino la sua porzione. Prima o poi avrebbe dovuto
aver fame anche quel dannato tedesco.
Poco
prima
delle undici arrivò Valérien. Emir non lo vedeva
da così tante ore
che neppure se lo aspettava più, e forse ormai una parte di
lui
aveva finito per convincersi che fosse veramente tanto terrorizzato
da lui da non avere il coraggio di affrontarlo; non ci pensava
più,
e forse quello strano senso di onnipotenza e intoccabilità
che
provava quella sera gli aveva fatto scordare la rabbia che provava
nei suoi confronti. Ma quando Rotwang balzò in piedi con un
guizzo
felino, col volto improvvisamente inscurito e difensivo e i pugni
serrati, Emir non poté fare altro che alzarsi a sua volta.
«Emir.»
A
quanto pareva, la strategia migliore doveva essergli parsa quella di
far finta che Rotwang non fosse nella stanza: Valérien
rimase
cautamente immobile sulla soglia, a torcersi con fare tormentoso le
lunghe mani bianche. «Posso parlarti un momento?»
«Certo»
rispose Emir sforzandosi di mantenere un tono neutro. Poteva quasi
sentire Rotwang ringhiare, almeno nella sua testa,
e di certo
la tensione vibrante che esprimeva tutto il corpo del suo compagno
non la stava immaginando. «Ti vuoi sedere?»
«No,
io...
Emir, sono venuto a dirti che al piano di sopra hanno quasi
finito.»
«Oh,
bene»
ribatté Emir sorridendo. «E hanno trovato qualche
cosa, a parte un
po' di polvere? È imbarazzante, sai... mi fa sembrare un
pessimo
padrone di casa.»
«Emir,
ascolta» riprese Valérien con voce che gli
tremava, insolitamente
in contrasto con la parvenza di risoluzione ch'egli voleva assumere.
«Non hanno trovato Mew, va bene, ma lo sai anche tu che
è solo
questione di giorni. Isola Cannella è piccola e tu non
potrai mai
lasciarla senza venir perquisito. Può non succedere oggi, ma
sarà
domani o tra una settimana...»
Valérien
s'illudeva davvero di poter vincere contro di lui.
Fino a quel
preciso momento Emir aveva sempre pensato ch'egli non fosse che un
mero prolungamento del braccio di Dale, che doveva servirsene da
Zafferanopoli semplicemente perché Isola Cannella era troppo
lontana
perché la sua mano potesse raggiungerla; ma forse ora le
cose non
stavano più esattamente così. In quella casa, ad
assistere alla
perquisizione, Valérien ci era venuto da solo, ed era da
solo che
contava di risolvere la faccenda.
«Ammettiamolo
pure, Valérien» rispose pazientemente.
«È evidente che non
crederesti alla verità neppure se la vedessi con i tuoi
occhi,
perciò che cosa eri venuto a propormi?»
Valérien
gettò una lunga occhiata inquieta a Rotwang, per quanto egli
non si
fosse neppure mosso, come una persona spaventata che si accerti che
un cane rabbioso sia ben legato alla catena prima di avanzare.
«La
mia offerta è ancora valida, Emir. Non lo faccio per
proteggere lui,
ma per te» si affrettò a specificare, e a quelle
parole Rotwang
sbottò in una breve risata sarcastica ed Emir gli
posò d'istinto
una mano d'avvertimento sul gomito. «Comunque sia, io
salverei
entrambi... se la trovassero qui o addosso a uno di voi vi
arresterebbero entrambi, ma se me la consegnate non dirò a
nessuno
che siete stati voi. Io rivoglio solo Mew, e voi sarete
liberi...»
«Credo
che
qui qualcuno stia cominciando a credersi più importante di
quello
che è» ringhiò Rotwang.
In
quel
momento Valérien ebbe un mutamento improvviso, serpentino, a
tal
punto che Emir ne ammutolì di scatto, come se l'udire per la
prima
volta la voce di Rotwang quella sera l'avesse risvegliato
d'improvviso: «Attento, Rotwang... sono il
direttore.»
Il
Valérien
che conosceva non avrebbe mai risposto
così. Emir si sentì
d'un tratto tanto confuso, stupefatto, che neppure riuscì a
pensare
a un modo sensato di reagire: la sua mente ora stava lavorando a
vuoto, come se non avesse più sufficienti dati da analizzare
per
poter replicare a quello sconosciuto che aveva davanti. L'uomo
meschino, odioso che aveva di fronte non era più il ragazzo
con
cui aveva vegliato tante sere davanti alla prigione di Mew e al quale
aveva confidato le proprie angosce; ma per fortuna quel perfetto
estraneo Rotwang lo conosceva già perfettamente e sapeva
già come
rispondergli.
«Bene
allora,
signor direttore: licenziami. Ma qui non siamo al laboratorio, o
sbaglio?»
«Rotwang»
mormorò appena Emir in tono di ammonimento, tornando a
posare la
mano sul suo gomito, là dov'era arrotolata la camicia: ma
Rotwang
non lo ascoltò.
«Sai
qual è
la differenza tra voi due? Che Fuji era uno stronzo e un venduto alla
Silph esattamente quanto te, solo che almeno lui ha sempre avuto le
palle di non trincerarsi dietro la sua carica ogni volta che
litigavamo, e quantomeno lui non è diventato stronzo tutto a
un
tratto non appena ha avuto un ruolo di potere...»
«Rotwang!»
sbottò Emir in tono che non ammetteva repliche, e Rotwang
strappò
via il braccio alla sua presa e indietreggiò per non
compromettersi,
mordendosi le labbra con le braccia levate, come a voler sottolineare
che non andava oltre, suo malgrado, e che la sua invettiva si
concludeva lì. Emir tornò a voltarsi seccamente
verso Valérien.
«Credo che sia ora che tu vada. Non possiamo renderti
qualcosa che
non abbiamo mai avuto e ora tutta la situazione sta diventando
ridicola, perciò ti prego, chiudiamola qui, va
bene?»
Forse
era solo
la reazione di Rotwang a far da comburente alla sua rabbia, e ora che
Rotwang taceva essa non aveva più modo di alimentarsi; sta
di fatto
che Valérien, rosso in viso come per uno schiaffo ricevuto,
parve
cercare ovunque le parole da dire.
«Molto
bene
allora. Molto bene» ripeté quasi meccanicamente,
guardando altrove,
e dal modo in cui reclinò per un attimo gli occhi verso
l'alto Emir
avrebbe potuto giurare che stesse trattenendo le lacrime.
«Emir, è
un favore personale che ti faccio. Ascoltami, dico davvero. Mi avete
offeso in tutti i modi in cui avete potuto, ma io non voglio comunque
vederti in prigione. Lo sai anche tu che la Silph è disposta
a
qualsiasi cosa pur di ritrovarla: non dipende tutto da me. Anche se
io non volessi andare avanti con questa storia, ora che lo sanno non
ti lasceranno mai più in pace finché M2 non
salterà fuori; ma se
tu me la rendi, io convincerò Dale a lasciar perdere tutto
questa
storia e a rinunciare alle vie legali. Tutto quello che occorre
è
che tu mi renda Mew e poi ti giuro che sarà tutto
finito...»
Emir
ebbe la
precisa consapevolezza dello sguardo di Rotwang puntato proprio
là,
sulla sua nuca, con un'intensità tale che quasi avrebbe
potuto
perforargli il cranio e leggere la sua mente, ma non se ne
curò.
C'era qualcosa che lo aveva colpito di più nelle parole di
Valérien,
qualcosa che fino ad allora egli aveva sempre saputo ma non aveva mai
interpretato nel modo giusto, e che solo ora, in prede alla febbre
della sua onnipotenza, egli riusciva a vedere in piena luce. Che la
Silph li braccasse lui e Rotwang l'avevano sempre saputo, certo, vi
avevano riflettuto tante volte; ma avevan creduto sempre d'essere in
fuga, e di certo lo erano stati, e in quello strano gioco del gatto
col topo che erano stati loro a cominciare, loro erano sempre stati
le prede. Ma la verità era che lui e Rotwang erano le menti
più
brillanti di tutta l'isola e forse di tutta Kanto: allora per quale
motivo avevano sprecato tutto quel tempo a nascondersi e a scappare
quando avrebbero potuto giocare con la Silph e con la legge da pari a
pari?
«Valérien»
disse semplicemente, con una calma glaciale, asciutta, che neppure
sapeva di poter provare, e scosse il capo. «Il punto
è che non
m'importa niente di quello che tu o la Silph o chiunque altro al
mondo potreste fare. Il punto è che tu non
vincerai mai.»
Quella
era la
prima vota che Emir non mentiva, non fingeva, non inventava. Quella
non era più né una bugia né una
difesa: quella era una minaccia, e
un attimo prima che Emir facesse in tempo ad andare un po' troppo
oltre la mano di Rotwang si posò sulla sua schiena e la sua
voce
sibilò contro il suo collo in tono di ammonimento:
«Fuji...»
L'intervento
di quella voce e di quella mano fu come il penetrare del sole in una
stanza tenuta chiusa da troppo tempo. D'un tratto quello strano
delirio d'onnipotenza passò, Emir si sentì
improvvisamente
precipitare di nuovo in una realtà che per poco non aveva
dimenticato, come se una forza sovrumana l'avesse trascinato di nuovo
al suolo da un qualche regno sopra le nuvole nel quale la sua mente
vagava. La sua testa era stata via per un po', d'accordo, ma ora era
tornata, e di fronte al volto accorato di Valérien egli si
sentì di
nuovo tornare in sé. Era stato sul punto di rivelar tutto
perché si
sentiva troppo potente per un solo istante, ma per fortuna Rotwang
era lì e l'aveva fermato, e ora non sarebbe successo mai
più.
«Mi
stai
minacciando?» chiese incredulo Valérien.
L'influsso
sovrumano di quella mano ancora posata contro la sua schiena non gli
avrebbe permesso di sbagliare ancora. «Certo che no,
Valérien...
non è questo che volevo dire. Il punto è non
potrai mai dimostrare
che io abbia rubato Mew perché non è mai
accaduto. Non è così che
la ritroverai, perciò...»
«Come
vuoi,
allora.» Stavolta non c'era più traccia di
supplica nella voce di
Valérien. Anche per lui la questione finalmente pareva
essere
conclusa, ma non nel modo più rassicurante. «Se
è questo tutto
quello che sai dirmi, allora è quello che ti meriti. Ma
quantomeno
ti ricorderai che ho provato a salvarti e che sarà stata
tutta colpa
tua, te ne ricorderai, non è vero?»
«Certo
che me
lo ricorderò, Valérien»
sospirò Emir stancamente. Era finita,
finalmente. «E tu ti ricorderai che non esiste nulla da cui
salvarmi, giusto?»
Questa
volta
non vi fu alcuna risposta alle sue parole. Cogli occhi divenuti
enormi di rabbia impotente e di un'incredulità mortificata,
offesa,
Valérien gli diede le spalle e uscì dal salotto
senza neppure
voltarsi.
Rotwang
fu
incupito e taciturno per tutto il resto della serata, e la cosa non
lo avrebbe stupito più di tanto se solo non vi fosse stato qualcosa,
nella diversa qualità del suo silenzio, a informarlo che non
si
trattava più soltanto dell'agitazione che l'aveva turbato
prima
dell'arrivo di Valérien. Rotwang era ancora taciturno, ma
stranamente calmo, e questo gli faceva supporre che no, non era
incupito soltanto per via della strana reazione di Valérien;
ma di
chiedergli che cos'avesse, a rischio di sfidare quello strano
malmostoso mutismo, Emir non trovò né il modo
né il coraggio.
Vennero
verso
l'una a informarli che era tutto finito e che non restava altro che
la burocrazia da espletare. Emir trascorse la mezz'ora seguente a
leggere e firmare documenti e verbali, seduto a un tavolino di fronte
al commissario, con Rotwang in piedi alle sue spalle, che lo scrutava
in silenzio; e poi, finalmente, il commissario lo ringraziò
per la
sua disponibilità e la sua pazienza, la polizia se ne
andò e loro
rimasero soli.
Nessuno
di
loro parlò per qualche minuto, e per un po' neppure si
guardarono.
Avrebbe avuto veramente senso dir qualcosa in quel momento, per il
solo bisogno di riempire quel silenzio, quando non si poteva
commentare a parole il fatto d'aver appena sconfitto la polizia e la
più potente multinazionale di Kanto?
La
casa era un
disastro. In una villa sprofondata di nuovo, per la prima volta dopo
ore, nel suo tetro silenzio abituale, Emir si ritrovò
insieme a
Rotwang a esplorare quella desolazione come se fossero gli unici due
superstiti su un campo di battaglia nel quale non fosse rimasta anima
viva oltre a loro. Praticamente tutti gli oggetti che costituivano
non solamente la sua vita, ma anche quella del suo predecessore erano
stati gettati a terra nel corso della perquisizione; il commissario
gli aveva garantito che non era stato rotto niente ma, a quanto
pareva, ci sarebbe voluto almeno un paio di settimane prima di
scoprire se avesse detto la verità o no.
«Ci
metteremo
un secolo a mettere tutto in ordine» commentò
Rotwang dopo un po',
per spezzare il silenzio. Era la prima volta dopo ore che parlava, ed
Emir lo guardò un po' stupito. Quantomeno non era
più furibondo.
«Com'è che Lestournelle ti stava tanto
simpatico?»
Il
panorama
che li circondava in quel momento era tanto cupo e tanto sconfortante
che il sarcasmo di Rotwang suonava quasi confortante. Concedendogli
un sorriso distratto, Emir sollevò pensierosamente un
vecchio
soprammobile di forma non meglio identificabile e lo posò
sullo
scaffale di sua competenza, più per un movimento meccanico
che
perché quel gesto servisse a qualcosa. «Non sei
obbligato ad
aiutarmi, ma ti ringrazio di esserti offerto.»
«Beh,
immagino che sia responsabilità di entrambi se...»
«Valérien
è
diventato così?» lo interruppe Emir bruscamente,
senza quasi
accorgersi che l'altro gli stava parlando. Rotwang esitò un
istante.
«Così
come?»
«Così...»
Emir cercò una parola per descrivere ciò che
aveva visto quella
sera. «Non lo so. Meschino, credo.»
«Ah,
Fuji...»
La voce di Rotwang si accese di una breve risata sarcastica, amara.
«Vuoi sapere come la penso? Nel suo profondo è
sempre stato così,
solo che non aveva abbastanza personalità o coraggio da...
finché
c'eri tu e poteva obbedire a te, non aveva alcun bisogno scegliere
nulla. Ora che si ritrova con un ruolo di potere in mano,
improvvisamente ha scoperto che comandare gli piace, solo che non ne
è capace. Ma tu non mi ascoltavi quando mi lamentavo di
lui?»
«Tu
ti sei
sempre lamentato di lui, anche quando il direttore ero io...»
«Perché
che
fosse un piccolo succhiapalle meschino l'ho sempre saputo, solo che
sembrava tanto innocuo e innocente che nessuno ha mai voluto
credermi» concluse Rotwang alzando le spalle. «Non
tormentarti,
Fuji... non è colpa tua, per una volta. Lestournelle
è uno di quei
meschini senza personalità che cambiano in base a chi hanno
intorno,
e adesso lui ha intorno solo Dale. Non fartene una colpa.»
Con
la
persistente sensazione che avrebbe continuato a pensarci per tutta la
notte, Emir si limitò ad annuire. Si sforzò di
cambiare argomento.
«Giusto...si è fatto tardi, comunque. Vuoi restare
a dormire qui?»
Gli
era
capitato altre volte di proporglielo, più per un vago senso
di
dovere che perché gliene importasse qualcosa, e naturalmente
Rotwang
aveva sempre rifiutato con sdegno le sue proposte. Ma quella notte
era assai più tardi del normale, e qualcosa di tutto
ciò che era
successo quel giorno sembrava aver modificato a tal punto gli
equilibri tra di loro ch'egli non si stupì affatto quando
Rotwang
gettò un'occhiata all'orologio e rispose: «Se in
una di queste
ottantadue stanze c'è un letto per me, penso che potrei
accettare,
per una volta.»
Navigarono
attraverso la casa disseminata di oggetti, facendosi largo in mezzo a
una marea di soprammobili e libri e dischi, abiti e scatole e
quaderni che per la maggior parte Emir non sapeva neppure di
possedere; ma ora che tutto era finito, quantomeno era come
veleggiare in un mare piatto e senza vento tra relitti di navi, dopo
che era passata la tempesta.
Non
persero
neppure tempo a commentare la situazione al piano superiore. Emir si
limitò a recuperargli delle lenzuola pulite sebbene non
stirate e
una vecchia T-shirt bianca con la quale potesse dormire in modo un
po' più comodo, dopodiché cercarono per tutto il
piano una stanza
un po' meno confusionaria delle altre. Per fortuna di entrambi,
Rotwang non si rivelò un cliente troppo difficile da
accontentare.
«Va
bene
questa, non m'importa. Voglio solo dormire qualche ora prima di dover
andare al lavoro, non devo fare pubblicità a casa
tua.»
Non
restava
più nulla da dire, o meglio nulla che meritasse d'essere
detto. Ma
quando Emir stava già per voltarsi e per augurargli la
buonanotte,
d'un tratto gli tornò in mente qualcosa d'importante cui
prima non
aveva pensato, qualcosa che non riusciva bene a razionalizzare
né a
esprimere a parole; eppure neanche si rese conto appieno di quanto
stava per dire finché non udì la propria voce
dire: «Grazie di
avermi fermato, prima.»
Forse
perché
andare finalmente a dormire gli premeva davvero e non intendeva
sprecare tempo inutilmente, Rotwang ebbe almeno la buona grazia di
non fingere di non sapere di cosa stesse parlando. La sua voce
suonò
un po' meno acre e accusatoria del solito quando parlò,
anche se i
suoi occhi, per una volta, tradirono un certo imbarazzo.
«A
quanto
pare tu hai comunque più sangue freddo di me, Fuji, il che
è più
di quanto avrei detto di te un mese fa. Sei stato bravo in
realtà...
e poi, se ti scusi tu dovrei farlo anch'io per aver dato di matto,
cosa che non intendo assolutamente fare.» Si strinse nelle
spalle.
«Siamo stanchi entrambi, Fuji. Lasciamo tutto così
e lasciamo
perdere, che ne dici?»
Quello
che
bisognava da dire ora era veramente stato detto: pur con tutto il suo
astio e la sua asprezza, Rotwang gli aveva dato retta e lo aveva
capito, e quello era probabilmente l'unico modo che avessero di
ringraziarsi a vicenda. Emir accennò appena un sorriso.
«Buonanotte,
Rotwang.»
Anche
la sua
camera era un disastro. Su di essa gli agenti dovevano essersi
accaniti con particolare violenza, forse per una qualche curiosa
convinzione che un uomo che avesse rubato il Pokémon
più raro del
mondo lo avrebbe nascosto sotto il proprio cuscino; ma anche qui Emir
si limitò a spingere pigramente da parte la catasta di
biancheria e
vestiti che gli ostruiva il passo davanti alla porta e a recuperare
una vecchia maglietta dell'università per dormire. Il giorno
dopo
avrebbe avuto tutto il tempo per mettere in ordine, ma per il
momento, ora che l'adrenalina di quella giornata infinita stava
calando, egli aveva solo voglia di dormire e non svegliarsi per ore.
A
luce spenta,
nel suo letto, Emir inalò profondamente il profumo di bucato
delle
lenzuola pulite e si rigirò pigramente un paio di volte.
Tutto era
fresco e accogliente contro la sua pelle, ed egli si concesse di
bearsi per qualche minuto di quella frescura e di quella pace.
Non
s'accorse
d'esser sprofondato in una sorta di dormiveglia fino a quando non
ebbe la sensazione di udire la porta aprirsi e di vedere una lama di
luce attraversare il buio. Si tirò su a malapena, strizzando
gli
occhi contro la luce, e borbottò: «Ti serve
qualcosa?»
Ma
dopo un
istante la fessura di luce si spense e un peso si aggiunse al suo sul
materasso; improvvisamente sveglio, Emir provò d'un tratto
la
sensazione eccitante di una pelle nuda, calda che aderiva alla sua e
di mani che percorrevano la sua intimità, e subito dopo la
maschia
voce roca di Rotwang mormorò contro il suo orecchio:
«Vedi di non
farlo sembrare più strano di quanto già non sia,
siamo intesi?»
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Capitolo 10 *** Deprecabile. ***
Buongiorno
e buona domenica a tutti!
Questo
è stato, miracolosamente, il primo capitolo che io sia
riuscita a
scrivere dall'inizio alla fine su un'unica serie di fogli, senza
riscrivere più e più volte la stessa scena in
modi diversi, e
ammetto che è stata veramente una gran bella sensazione.
Spero che
anche la qualità del testo ne abbia riscosso qualche
beneficio.
Come
sempre non posso che ringraziare cristal_93 e Persej Combe per le
loro bellissime recensioni (cui ho risposto tardissimo,
colpevolmente!) e soprattutto Fiulopis per la sua incessante
attività
di betaggio del testo e il suo continuo sostegno personale.
Un
bacio enorme a tutti e buona lettura!
Afaneia
Capitolo
IX
– Deprecabile
Quando
Emir si
svegliò la mattina seguente, Rotwang era seduto sul bordo
del letto,
completamente nudo, ed egli si concesse solo un attimo di tempo per
rimanere disteso a osservare la sua schiena bianca e l'insinuarsi del
percorso delle sue vertebre verso le natiche. Ma poi anche
quell'attimo di silenzio gli parve disonesto come se gli stesse
rubando qualcosa, e per manifestare la sua presenza non
trovò niente
di meglio che sollevarsi e dire: «Ehi.»
«Ah,
Fuji...sei sveglio.» Quando si voltò verso di lui
per gettargli
un'occhiata distratta al di sotto dei lunghi capelli arruffati,
Rotwang non appariva imbarazzato né a disagio né
altro. Era
perfettamente a suo agio, come se entrambi fossero in laboratorio a
scambiarsi dati e informazioni sugli esperimenti – vestiti
–
e non avessero appena fatto sesso per due volte nella stessa notte.
«Speravo proprio che ti svegliassi. Avrei bisogno di una
doccia, se
non ti dispiace.»
A
dire il
vero, non era esattamente quello il primo argomento
che a Emir
sarebbe venuto in mente di trattare quella mattina; e in effetti
quella domanda lo colse tanto impreparato ch'egli non riuscì
a fare
altro che rispondere macchinalmente: «Ah... giusto. La porta
del
bagno è dietro quella finta parete. Ci sono degli
asciugamani
puliti, credo...»
«Avrei
dovuto
aspettarmi che in questa casa persino il bagno fosse nascosto dietro
una finta parete» commentò Rotwang alzandosi in
piedi, ancora nudo,
con la medesima naturalezza di prima. «Senti, non
è che avresti
anche un paio di boxer puliti da prestarmi, vero? Per il resto vedo
di arrangiarmi.»
«Sicuro...
da
qualche parte lì per terra, se riesci a trovarli»
rispose Emir
ancora un po' attonito, tornando a sollevarsi sul letto per indicare
la massa di vestiti rovesciata al suolo. Non poté fare a
meno di
seguire i suoi movimenti per tutta la stanza: a dire il vero, quella
era la prima volta che lo vedeva interamente nudo, dato che
quella notte, al buio, non c'era stato modo di vedere un
granché, e
la cosa gli dava un certo senso di disagio alla bocca dello stomaco,
senza che neppure lui per primo fosse in grado di dire il
perché.
Non
c'era
neppure nulla di sorprendente, in realtà. Rotwang aveva
esattamente
il tipo di fisicità che s'intuiva attraverso i suoi abiti,
col petto
ampio e le spalle larghe e il corpo tendente appena a una vaga
pinguedine bilanciata dalla sua robustezza; e in quanto a tutto il
resto, che fosse fuoco Emir non poteva proprio dire di non esserselo
aspettato – o meglio ci sarebbe rimasto molto male se avesse
dovuto
scoprire proprio in quel momento che quell'uomo a
letto valeva
molto meno di quanto prometteva. Ma francamente quella sua mania di
non volerne neanche parlare lo metteva a disagio sul serio, e alla
fine Emir si decise a domandare: «Posso chiederti il
significato di
tutto questo?»
«Uhm?»
Preso
com'era dalla ricerca di qualsiasi cosa di pulito celasse la catasta
di abiti, Rotwang ebbe bisogno di qualche momento prima di trovare la
concentrazione necessaria a dargli retta. «Oddio, Fuji... non
mi
dire che anche tu sei uno di quelli per cui ogni scopata deve avere
per forza un preciso significato codificato, te ne prego.»
Emir
non si
era mai sentito uno di quelli, o almeno non si era
mai
soffermato ad analizzare il problema, eppure quel giorno si
sentì
tanto testardo da insistere ancora. «Di solito c'è
un motivo se due
persone scopano, sai.»
«Già,
e di
solito quel motivo è che hanno voglia di scopare»
lo rimbeccò
Rotwang per tutta risposta. D'un tratto parve aver dimenticato per un
attimo la ricerca delle mutande, perché tornò ad
avvicinarsi al
letto per guardarlo meglio. «E poi, Fuji, senti un po'...
perché
non provi tu a rispondere a questa domanda per primo, se proprio ci
tieni tanto? Perché ti garantisco che io in vita mia non ho
mai
violentato nessuno, e se tu mi fossi parso anche solo un po' incerto
me ne sarei tornato di là e mi sarei messo a dormire. Ora,
il
coraggio di venir qui e infilarmi nel tuo letto ce l'ho avuto io, ma
la mano nelle mutande me l'hai messa tu, quindi tu che
motivo
avevi di scopare con me?»
Emir
si sentì
avvampar di rabbia, più per il fatto che Rotwang aveva
ragione che
perché gli seccasse di sentirsi chiamato in causa
così. Ma ora che
glielo aveva chiesto così direttamente qualche cosa
bisognava pur
dire, e il fastidio che provò fu tale ch'egli non si prese
neppure
un attimo di tempo per pensare.
«Attrazione
sessuale. E tu?»
«Ah,
finalmente l'hai detto!» esclamò Rotwang
visibilmente compiaciuto,
soddisfatto come per una vittoria riportata, ed Emir si
sentì quasi
imbarazzato d'avergliela data vinta così, per niente. Ma ora
che se
l'era sentito dire, quantomeno Rotwang appariva molto più
ben
disposto a parlarne. «Beh, potrei dire lo stesso, ma la
verità è
che ho sempre avuto una certa attrazione per gli uomini che mi
trasmettevano una sensazione di potere. Quando eri direttore ti avrei
scopato tanto volentieri sulla tua scrivania» ammise con la
massima
naturalezza, come parlando della cosa più banale del mondo,
ed Emir
ne rimase tanto stupefatto che dopo un paio di secondi, rendendosi
conto d'aver spalancato la bocca per la sorpresa, non poté
fare
altro che esclamare: «Ah!» e richiuderla. Non gli
venivano in mente
molti altri modi per commentare quella scoperta, in effetti, e
Rotwang proseguì con la medesima calma: «Ieri sera
mi ha eccitato
il modo in cui hai trattato Lestournelle, tutto qui. Ora non ti
dispiace se vado a farmi la doccia prima di perdere il lavoro
anch'io, non è vero?» concluse vagamente stizzito,
ed Emir non poté
che rispondere: «Prego.»
Era
un po'
troppo stordito e confuso da tutte quelle scoperte – e a dire
il
vero anche un po' troppo gradevolmente intorpidito dal sonno e dagli
orgasmi – per potersi mettere a riflettere sul serio nella
decina
di minuti in cui sentì l'acqua scrosciare nella doccia. Si
limitò
a starsene piacevolmente disteso tra nubi di lenzuola arrotolate
attorno al suo corpo, pigramente, a bearsi della rinnovata pace dei
suoi sensi, e Rotwang lo trovò ancora così quando
uscì dal bagno
in mutande e riprese a frugare in giro per la stanza.
«Non
sono
riuscito a trovare niente nel casino che hanno fatto, perciò
credo
di aver usato il tuo asciugamano. Se ti fa schifo dopo stanotte sei
un ipocrita. Dov'è la camicia viola?»
Questa
volta
fu il turno di Emir di sollevare pigramente lo sguardo su di lui dal
cuscino e di chiedersi di cosa diavolo stesse parlando. A sua
memoria, quel dannato tedesco non aveva mai indossato altro che
camicie bianche o azzurre. «Quale camicia viola?»
«La
tua,
Fuji» sbottò Rotwang spazientito come se avesse
dovuto spiegargli
l'ovvio. «Solo tu in tutto il mondo hai una camicia di quel
colore,
perciò stai pur certo che se si parla di una camicia viola
è la
tua. Voglio che Lestournelle me la veda addosso in ufficio e schianti
di rabbia al pensiero che abbiamo scopato stanotte. Ah, hai un
profumo o un'acqua di colonia?»
«Se
è
pulita e stirata, anche la camicia dev'essere in quel mucchio
là»
balbettò Emir sentendosi un po' sopraffatto da tutte quelle
domande.
«Comunque il viola è il colore di Lavandonia,
è per questo che...
beh, tutto il resto è in bagno, comunque.»
Rotwang
tornò
ad aggirarsi per la stanza e per il bagno per prepararsi per il
lavoro, rilassato e a proprio agio come in casa propria, ed Emir
continuò a osservarlo dal letto per un po'. La camicia,
miracolosamente stirata, gli stava un po' aderente sul petto ma
quantomeno si chiudeva, e Rotwang vi abbottonò sopra il
panciotto
con cura meticolosa.
«Non
credo
che Valérien sarà tanto seccato all'idea che
scopiamo quanto
all'idea che lo abbiamo fregato» constatò
pigramente, anche se era
più un pensiero ad alta voce che una reale affermazione.
Rotwang gli
gettò un'occhiata scettica mentre si stringeva la cintura.
«Vuoi
sapere
come la penso?»
Emir
scrollò
le spalle. «Certo.»
«Tu
non ci
crederai, ma non importa... mettiamola così. Diciamo che io
non sono
il solo che ti avrebbe scopato tanto volentieri sulla tua scrivania
quando eri direttore, anche se sono certo che Lestournelle avesse
aspirazioni un po' più passive delle mie. Sono stato
chiaro?»
«Ah»
ripeté
Emir per la seconda volta, dato che non gli veniva in mente niente di
più adeguato da dire per commentare la questione. Ma dopo un
attimo,
aggrottando la fronte, riprese: «Il fatto che tu sia un
pervertito
non significa che debba esserlo anche Valérien. Lo sai
questo,
vero?»
Ma
osservando
il suo riflesso nello specchio Rotwang ne approfittò per
gettargli
uno sguardo ironico attraverso il vetro. «E tu lo sai, vero,
che tu non sei proprio la persona giusta per dare a me del
pervertito, dopo stanotte?»
Un'allusione
del genere, per ovvi motivi, Emir dovette tenersela per detta e non
replicare.
«Dirai
qualcosa a Valérien riguardo a ieri sera?»
domandò per cambiare
argomento, e Rotwang sorrise tra sé di quella brusca virata.
«Non
è
neppure detto che lo incontri, in realtà. Te l'ho detto,
ormai passa
quasi tutto il tempo in ufficio a parlare con Dale, perciò
dubito
che lo vedrò oggi.» Ora che era passato ad
allacciarsi l'orologio
al polso Rotwang era chiaramente in procinto di uscire,
perciò
quelle erano proprio le loro ultime battute, per il momento.
«Verrò
subito dopo il lavoro per darti una mano a mettere in ordine, oggi
pomeriggio. Tanto ormai non dobbiamo più nasconderci,
no?»
«Giusto»
commentò Emir a bassa voce. «Buon lavoro,
allora.»
«Grazie,
e a
te buon... beh, qualunque cosa tu intenda fare oggi.»
Dopodiché,
senza il minimo preavviso, Rotwang si chinò sul letto, lo
afferrò
per i fianchi e lo attirò a sé. Bloccandogli i
polsi sul materasso,
al di sopra del collo, Rotwang si curvò su di lui e percorse
con la
lingua una lunga linea sottile che discendeva dalla gola verso il
basso; ma poi, proprio all'altezza dell'inguine, quando ormai Emir
non pensava ad altro che a strappargli di dosso quei pantaloni e a
farsi prendere là dove si trovava, Rotwang lo morse con
violenza su
una coscia e si sollevò con aria soddisfatta a fronteggiare
il suo
sguardo di protesta.
«No,
Fuji,
non funziona così» mormorò compiaciuto.
«Stanotte ti ho fatto un
favore e mi sono fatto avanti io, ma anche tu avevi voglia di farlo
da un secolo e non ne hai mai trovato il coraggio. Se hai ancora
voglia di scopare devi venire a chiedermelo, stanotte. Mi piacerebbe
vederti supplicare.»
Dopodiché
Rotwang si chiuse la giacca, gli rivolse uno sguardo di saluto e
uscì
dalla stanza.
Emir
trascorse
a letto la maggior parte della mattinata, ribollendo di rabbia e
reprimendo un vago impulso di masturbarsi per vendetta, più
perché
non ne avesse le forze che perché si rendesse conto che era
una
voglia alquanto stupida; e poi sarebbe stato come riconoscere che
quel dannato tedesco l'aveva prima eccitato e poi fregato, cosa che
gli seccava dover ammettere.
Quando
si
decise ad alzarsi le dodici erano passate da un pezzo, ma si sentiva
stranamente calmo quel giorno, e non provava la minima fretta. Rimase
a mollo nella vasca da bagno del pianterreno finché l'acqua
non
divenne intollerabilmente gelida e le sue dita si riempirono di
pieghe, a rievocare pigramente col pensiero i momenti della notte
appena trascorsa; ma anche dopo essersi asciugato, e soprattutto dopo
aver gettato un'occhiata al macello della sera precedente, non
provò
il minimo desiderio di mettersi al lavoro. Ne avrebbe avuto tutto il
tempo dopo pranzo: ma per il momento decise di prendersela comoda,
perciò si preparò la colazione e decise di
scendere da Mew.
Contrariamente
al solito, quel giorno Mew non gli balzò gioiosamente
addosso come
faceva sempre. Quando Emir s'inoltrò nel sotterraneo
accendendo
tutte le luci e aspettandosi di vedersela saltare al petto da un
momento all'altro, le stanze rimasero vuote e immobili, silenziose, e
ai suoi richiami non rispose che un'eco. A quanto pareva Mew era
molto offesa per esser stata ignorata tutto il giorno precedente, ed
Emir sorrise tra sé della sua permalosa puerilità.
Non
si diede
troppa pena di cercarla: se non era ancora saltata fuori non poteva
voler dire che non voleva essere trovata ma anche
che voleva
essere cercata, ed Emir non intendeva accondiscendere ai suoi
capricci. Perciò, sedendosi sulla solita poltrona che
occupava
sempre quando andava da lei, Emir si limitò a iniziare a
mangiare
con molta calma, ostentatamente, con aria visibilmente soddisfatta,
come se neppure s'accorgesse della sua assenza, e attese.
Non
durò
molto a lungo. Dopo neppure un paio di minuti di sceneggiata d'un
tratto egli vide brillare in un angolo della stanza, dietro una
libreria, due grandi occhi azzurri risentiti e inevitabilmente
curiosi; ma Emir continuò a far finta di nulla, e a poco a
poco
quegli occhi si fecero un muso e poi un corpo, poi una coda, e infine
Mew emerse dall'ombra e si soffermò a mezz'aria, a guardarlo
con
aria tremendamente offesa.
Dell'accusa
di
quegli occhi, esattamente come di quelli di un bambino, Emir non
poté
fare a meno di sentirsi in colpa.
«Dai,
mi
dispiace» protestò allargando le braccia in segno
di colpevolezza,
gesto al quale – ed egli vigliaccamente lo sapeva benissimo
– Mew
non poteva resistere, in quanto era l'anticipo di un abbraccio.
«Non
è stata colpa nostra, te lo giuro. È venuta la
polizia a cercarti e
quando hanno finito era troppo tardi: Rotwang doveva andare al lavoro
presto stamattina, e io ero veramente stanco... mi perdoni?»
insisté
allargando ancor più le braccia, ma anche a quel gesto,
seppur
visibilmente tentata, Mew rimase a distanza.
A
quanto
pareva, quella non era una di quelle dispute che si potevano
risolvere con un abbraccio, perciò Emir sollevò
vigliaccamente il
piatto e chiese: «Vuoi un pezzetto di toast?»
Esattamente
come i gatti, Mew provava verso il cibo che le era interdetto
un'irrefrenabile curiosità, per quanto poi la maggior parte
delle
volte si limitasse a giocarci anziché mangiarlo. Si
precipitò sulle
sue ginocchia squittendo di gioia, ed Emir, adagiandosi vittorioso
contro lo schienale della poltrona, poté finalmente
accarezzarle le
orecchie, là dove le piaceva particolarmente. «Mi
perdoni allora?
Te l'ho detto, non è stata tutta colpa nostra, anche se hai
ragione
a dire che avremmo potuto... no, non puoi bere il
caffè» l'ammonì
precipitandosi a strapparle la tazza dalle zampe. «Ti ricordi
cos'è
successo l'ultima volta, vero? E ora che c'è?»
Quando
le
aveva portato via la tazza Mew aveva improvvisamente cambiato
espressione, ma non era indispettita, per una volta. Era stranamente
incuriosita, ma solo quando reclinò un poco il muso verso di
lui,
cogli occhi socchiusi e le narici frementi, Emir capì qual
era il
problema e la cosa lo mise un po' in imbarazzo. A quanto pareva
neppure un bagno di quarantacinque minuti era riuscito a cancellare
del tutto l'odore di Rotwang dalla sua pelle – almeno non per
il
naso sensibilissimo di un Pokémon.
«È
una cosa
da adulti» la rimproverò per non doverle dare
spiegazioni. «Non te
ne impicciare, tu. Certe domande non si fanno.»
Tornò
ad
accarezzarla dietro le orecchie mentre lei mangiava, ma
meccanicamente, quasi senza accorgersene, e mormorò:
«Non me ne
ricordo mai, ma tu sei adulta in realtà. Ne sai quanto me.
Avevi
M1...»
«Mew»approvò
Mew con aria di grande serietà agitando il suo pezzetto di
toast, ed
Emir sorrise tra sé sovrappensiero.
Trascorse
il
resto della mattinata nel sotterraneo, in parte per farsi perdonare
da Mew e in parte perché non aveva il minimo desiderio di
tornare a
vedere l'inumano disordine del piano superiore per non sentirsi in
dovere di mettere in ordine. Quel giorno aveva solo voglia di
poltrire e riposarsi, e il disordine sarebbe stato ancora lì
quando
si fosse deciso a riemergere. Non c'era alcuna fretta.
Avrebbe
potuto
impiegare il tempo studiando o leggendo, ma tutto ciò che
decise di
fare quella mattina fu restarsene sul divano a guardare i cartoni
animati con Mew. Non sapeva neppure a che ora riemerse dal
sotterraneo per ascendere di nuovo al mondo reale, e francamente
neppure gliene importava.
Si
ritrovò a
vagare per le stanze vuote e i corridoi ciechi come su un campo di
battaglia, guardandosi attorno pigramente più per cercare
qualcosa
che avesse voglia di fare che perché intendesse iniziare sul
serio a
fare qualcosa di utile. Si trovava in quella particolare condizione
di spirito per cui soffermarsi col pensiero sui ricordi della notte
passata lo eccitava piacevolmente, e chissà se sarebbe valsa
la pena
d'invitarlo a dormire ancora lì, quella sera...
L'eco
del
telefono che suonava si ripercosse tra le pareti della casa vuota
come tra quelle di una valle montana, improvvisa e sconcertante come
il rombare di una valanga, inaspettato a tal punto che Emir si
fermò
bruscamente là dove si trovava e rimase in ascolto per
accertarsi
d'aver sentito bene. Il suono stesso del telefono in casa sua era
qualcosa che aveva udito forse una decina di volte da quando abitava
lì, e tutte le volte, o quasi, s'era trattato di Dale. Ma
adesso?
Fu
la prima
volta che maledisse la vastità della sua casa. Emir si
precipitò
giù per le scale col cuore in gola perché nessuno
lo
chiamava mai e se ora qualcuno lo chiamava non poteva essere che
Rotwang, e se Rotwang lo chiamava allora doveva essere
successo qualcosa...
Si
gettò
letteralmente attraverso la scrivania per afferrare la cornetta.
«Rotwang!»
Non
era
Rotwang, eppure quella voce non gli giungeva nuova – ma non
l'aveva
solamente sentita: Emir quella voce la conosceva.
«Papà?»
«Dio,
Emir,
per fortuna sei in casa» esclamò suo padre con
voce sensibilmente
sollevata, persino attraverso il telefono; eppure, al di là
di quel
momentaneo sollievo, quella voce suonava ancora tremendamente
preoccupata. Ma per quale motivo? «Ti volevo dire... ho
pensato che
dovessi saperlo. Ora non ti spaventare, ma la polizia è
venuta qui.
Stanno perquisendo casa mia.»
«Dottore,
che
piacere rivederla» esclamò sorridendo la sua
segretaria quando lo
vide entrare in Laboratorio. «È passato a
trovarci? Vuole che vada
a chiamarle...»
«Dov'è
il
dottor Lestournelle?» la interruppe Emir senza neppure
guardarla,
frugando l'edificio con occhi assenti, ed ella ebbe un attimo
d'esitazione.
«Il
direttore
è al telefono, ma se le fa piacere la
dottoressa...»
«È
nel suo
ufficio?» ripeté Emir con voce sorda.
«Beh,
sì,
ma...»
Quale
altra
obiezione ella avesse Emir non l'avrebbe scoperto mai. Spingendola da
parte come mai avrebbe osato neppure pensare in un momento di
lucidità, Emir si fece largo attraverso il laboratorio
spingendo e
spintonando assistenti e inservienti e donne delle pulizie che lo
fissarono sdegnate e protestarono, e d'un tratto sentì
dietro di sé
il passo affrettato di una donna che stentava a stargli dietro.
«Emir,
che ci
fai qui? Che cosa succede? Ti ho visto passare mentre...»
Portia
aveva
subodorato il pericolo subito, non appena l'aveva visto in volto, ed
Emir non perse neppure tempo a cercare di convincerla. Portia era
troppo intelligente e non sarebbe servito a niente.
«Non
ora,
Portia.»
«Ho
saputo di
casa tua, mi dispiace così tanto, Emir... dev'essere stato
così
umiliante, ma sono certa che anche alla polizia...»
Dunque
Valérien non aveva detto a nessuno d'esser
stato lui ad
accusarlo per far perquisire casa sua. Questo pensiero ebbe appena il
tempo di formarsi nella sua coscienza, ma anche in quel caso Emir non
si prese neppure il disturbo di stupirsene. Che Valérien
fosse un
vigliacco l'aveva dato ormai per assodato; ma quello che aveva fatto
quel giorno andava al di là di ogni sua aspettativa.
Quando
Emir
spalancò la porta del suo ufficio, Valérien era
al telefono, seduto
alla scrivania con le spalle incurvate e lo sguardo profondamente
abbattuto. Non doveva essersi aspettato affatto che arrivasse. Quando
la porta sbatté contro il muro ed egli levò gli
occhi di scatto, il
suo stupore fu tale che forse neppure si rese conto d'aver riappeso
il telefono senza dire una parola.
«Emir...!»
«Sei
stato
tu?» chiese Emir quasi senza voce. La rabbia che provava era
tale
ch'egli neppure si sentiva in grado di urlare: si sentiva soffocare.
«Di
cosa stai
parlando?» chiese Valérien inquietamente,
alzandosi in piedi. Si
muoveva con una strana ed esasperante lentezza, scivolando dietro il
tavolo senza togliergli gli occhi di dosso, come di fronte a un
animale rabbioso e imprevedibile dal quale ci si potesse aspettare
ogni movimento, e che non si potesse perciò perdere di
vista. «Emir,
davvero, io non...»
«Hai
mandato
tu la polizia a casa di mio padre?»
Sentiva
il
sangue che gli pulsava nelle orecchie e contro le tempie a tal punto
che gli pareva di non sentir più nulla, di non veder
più nulla: in
quel momento non gli importava di tutto ciò che suo padre
aveva
fatto a lui e a sua madre, di tutto l'odio ch'egli gli aveva portato
per tutta la vita, di tutta la sua piccolezza, la sua chiusura, la
sua ostinazione. Tutto ciò che gli importava era che
Valérien aveva
mandato la polizia a perquisire suo padre.
Si
rese conto
che non erano più soli quando Valérien
guardò d'un tratto un punto
al di là delle sue spalle, con l'aria supplice e disperata
di
qualcuno che si vedeva tagliare anche l'ultima via d'uscita, e dal
suo spavento Emir seppe di chi si trattava prima ancora di sentire la
voce di Rotwang domandare: «Che sta succedendo qui?»
Per
una volta
non era arrabbiato con lui. Aveva la fronte penosamente contratta,
sospettosa, e al di sotto delle folte sopracciglia aggrottate i suoi
occhi saettavano da lui a Valérien per interrogarli in
silenzio
senza perderli di vista un istante. Alle sue spalle Portia era
affacciata appena sulla soglia senza avere il coraggio di entrare, e
al suo fianco Dolarhyde pareva sul punto di trattenerla. Era evidente
che Portia aveva capito subito che qualcosa non andava, e il suo
primo pensiero, sapendo della loro storia, era stato di correre a
chiamare Rotwang.
Di
tutti gli
insulti e le offese che gli venivano in mente e che avrebbe voluto
urlare, Emir trovò soltanto la forza di dire: «Sta
facendo
perquisire la casa di mio padre.»
Rotwang
non si
scompose. Tutto ciò che fece fu passarsi una mano tra i
capelli,
voltandosi appena per incrociare lo sguardo stravolto di Portia, e
chiese: «È vero, Lestournelle?»
Come
se da un
bel po' fosse stato sul punto di piangere e ora non potesse proprio
far altro che urlare, Valérien gridò:
«Ti avevo chiesto in tutti i
modi di rendermi Mew, tu lo sapevi che la Silph non si sarebbe
fermata...»
«No!
Sei
stato tu!» urlò Emir. «Mio padre ha
settant'anni, tu lo sapevi
benissimo! La sua credibilità era l'unica cosa che mandava
avanti il
suo progetto per difendere i Pokémon e ora tu hai mandato in
fumo il
lavoro della sua vita!»
«Valérien,
hai fatto davvero questo?» domandò Portia a bassa
voce, ed egli la
guardò disperatamente per un istante, come se lei fosse
stata fino a
quel momento l'unica persona dalla quale s'aspettasse d'esser difeso
e ora si scoprisse d'improvviso proprio in trappola.
«Non
ti è
mai importato niente dell'associazione di tuo padre, e
comunque...»
«Stanno
perquisendo dei bambini di dieci anni!» urlò Emir.
«Tutto il
lavoro di mio padre si basa sull'aiuto volontario e ora i loro
genitori non gli permetteranno mai più di...»
«Fuji,
ascolta... basta così» mormorò appena
Rotwang alle sue spalle,
toccandogli appena la schiena. Quando Emir si voltò verso di
lui,
aveva il volto cupo e teso, contratto e innaturalmente calmo, e non
toglieva gli occhi di dosso a Valérien. «Andiamo
via, lo sappiamo
già che è stato lui. Non otterrai niente.
Usciamo, ti accompagno al
molo. Vieni, dai...»
Valérien
aveva visto questo gesto di Rotwang come un'inaspettata salvezza che
gli provenisse dal suo rivale, semplicemente perché quella
era
probabilmente l'unica cosa che potesse toglierlo da quella
situazione. Aveva ricominciato a respirare solo dopo che Emir si era
voltato per un istante e nelle sue parole vi era stato un attimo di
pausa; e ora che tutto stava per finire ed egli era al sicuro, forse
si sentiva un po' più in vantaggio di un minuto prima, e si
concesse
il lusso di sentirsi magnanimo e clemente.
«Puoi
ancora
rendermi Mew, Emir» disse gentilmente, viscidamente.
«Se me la
rendi, io chiamo immediatamente la polizia e ritiro la denuncia. Che
ne dici?»
Ce
l'avrebbe
fatta a colpirlo se solo non ci fosse stata di mezzo la scrivania.
Emir si ritrovò d'un tratto a dimenarsi e scalciare gridando
tra le
braccia di Rotwang mentre Valérien si appiattiva con un urlo
contro
la finestra e tutto l'arredo della scrivania rovinava a terra sotto
il suo impeto, e sentì la propria voce che gridava:
«Lo ammazzo
come un cane, lasciami, lasciami andare!»
«Avete
visto
tutti? Io non gli avevo fatto niente, è stato lui che ha
cercato di
picchiarmi...»
«Non
ne vale
la pena, Emir, non ne vale la pena!» gridava Rotwang,
strattonandolo
indietro con le braccia artigliate attorno alle sue spalle, mentre
Vincent correva ad afferrare Valérien e Portia gridava per
sovrastare le loro voci: «Richard, portalo fuori di
qui!»
Era
tutto come
allora, tutto come nella giungla. Emir si ritrovò d'un
tratto in
corridoio quasi senza sapere come ci fosse arrivato, a strattonare e
a dimenarsi e a cercare di sciogliere la presa che gli serrava le
braccia lottandovi come contro una morsa, e quella lotta e quegli
strattoni durarono tanto ch'egli sentì d'un tratto mancargli
le
forze. A un tratto si sentì tanto stanco che finì
per abbandonarsi,
e Rotwang, appoggiato di schiena contro il muro per riprender fiato,
ansimò dopo un po': «Se ti lascio andare, peso
gallo, mi prometti
che non picchi anche me?»
Era
così
stravolto, confuso e senza fiato che per una volta neppure il
sarcasmo di Rotwang riuscì a farlo ridere, ma quantomeno
Emir riebbe
per un attimo coscienza di dove si trovava. Il corridoio era fresco e
silenzioso,ma dalla porta aperta Emir sentiva ancora la voce di
Vincent che gridava esasperato: «Ma se non ti ha nemmeno
sfiorato!»
Inspirò profondamente finché il suo respiro non
tornò regolare.
«L'avrei
voluto ammazzare, Richard» disse con voce calma,
tranquillamente,
come gli avrebbe comunicato qualsiasi altra notizia. Aveva usato il
suo nome intenzionalmente, per chissà quale motivo. Era la
prima
volta in assoluto che lo pronunciava in vita sua, e aveva un suono
sorprendentemente gradevole per quanto egli fosse certo di non
pronunciarlo bene quanto il suo cognome; ma era più facile
dirlo con
la schiena contro il suo petto, senza guardarlo in faccia.
«Benvenuto
nel mio mondo.»
«No,
io...
oh, non importa. Lascia stare» mormorò Emir quasi
senza voce, ma
subito Rotwang riprese piano: «Lo so che cosa intendi. Ne hai
tutte
le ragioni, Fuji, ma lascia stare, davvero. Non ne vale la
pena.»
«Tutto
il
lavoro di mio padre, Rotwang» ripeté Emir
dolorosamente. «È vero
quello che ho detto a Valérien... tutto il lavoro di mio
padre si
basa sull'aiuto e sulle donazioni volontarie. Che cosa credi che
succederà ora che è disonorato?»
Rotwang
tacque
per qualche momento.
«Non
gli
troveranno Mew in casa, Emir» gli ricordò dopo un
po'. «Tuo padre
è innocente. È come hai detto tu ieri: non ha
nulla da nascondere,
e ora la polizia non può che dimostrare che tuo padre non ha
fatto
niente.»
Non
era così
semplice. Emir non avrebbe saputo dire per quale motivo quel
ragionamento che il giorno prima gli era parso tanto logico e
consequenziale, e che per qualche ora l'aveva fatto sentire
onnipotente e quasi immortale, quel giorno invece non lo
soddisfacesse più, e applicato al caso di suo padre gli
sembrasse
persino ridicolo, ma tale era: la credibilità del signor
Fuji era
tutto per lui e per i Pokémon che difendeva, e in quel
momento essa
era messa a rischio per un'azione che era stato Emir, e non suo
padre, a compiere.
Rotwang
doveva
essersi accorto del suo silenzio, perché cercò un
modo per
strapparvelo. «Se ti sei calmato ti lascio andare, Fuji.
Prima che
passi qualcuno e ci veda abbracciati. Che ne pensi, eh?»
Emir
obbedì
alle sue parole quasi macchinalmente. Dall'interno dell'ufficio
provenivano ancora le voci concitate dei loro colleghi, quella
sovreccitata e confusa di Valérien più alta di
tutte le altre, ma
ben presto, quasi sicuramente, Portia sarebbe uscita a cercarli, ed
Emir non aveva alcuna voglia di parlare con lei o di dare spiegazioni
a nessuno.
Rotwang
passò
un solo istante nel proprio ufficio a prendere il cappotto e a
chiudere la porta prima di accompagnarlo fuori, più con la
decisione
di un buttafuori che di un compagno, ed Emir lo lasciò
svogliatamente fare. Era troppo turbato per poter muovere la minima
obiezione. Non aveva neppure realizzato di dover andare a Lavandonia
finché Rotwang non aveva dato per scontato che l'avrebbe
fatto, ma
ora che l'aveva detto quell'idea era diventata ovvia, logica,
naturale. Era quello che ci si aspettava da lui, era quello che
doveva fare, e ciò che pensasse di suo padre, in quel
momento, non
aveva la minima importanza.
Era
da
talmente tanto tempo che Emir non usciva di casa che l'isola gli
appariva quasi nuova, come al ritorno dopo un lungo viaggio. V'era
una nebbia già alta, sgradevolmente appiccicosa, ed entro
breve
sarebbe tramontato il sole.
Camminare
per
strada, tra le case variopinte e le vie strette e arroccate dei
villaggi di pescatori, in mezzo a compaesani che sapevano benissimo
chi lui fosse e che cosa fosse accaduto a casa sua il giorno prima,
gli dava la sgradevole sensazione di disagio d'esser fissato ovunque
e da ogni parte, d'avere addosso centinaia di occhi che lo
scrutavano; ma Rotwang camminava sicuro e risoluto, a testa alta e
senza guardare nessuno, ed Emir si sentì un po' meno a
disagio al
suo fianco.
C'era
un
traghetto in partenza di lì a mezz'ora, ma Rotwang non gli
permise
di fare il biglietto e lo obbligò ad aspettarlo al bar.
Macchinalmente, senza sapere che cosa si facesse né
perché, Emir si
sedette e obbedì. Aveva la strana sensazione d'essersi
cacciato in
un labirinto dal quale non sarebbe mai più riuscito a
trovare
l'uscita e in cui ben presto l'aria sarebbe finita.
Rotwang
tornò
dopo pochi minuti portando un biglietto appena comprato e una tazza
di camomilla. Emir accennò un sorriso.
«Non
mi piace
la camomilla.»
«Beh,
sarà
bene che ti piaccia, invece. Quanti anni hai, dieci?» lo
rimbrottò
Rotwang per tutta risposta. «Con le benzodiazepine i
risultati sono
stati pietosi, perciò il mio parere medico è
quello di passare alla
fitoterapia, che ne dici? Ecco qua: zuccherala, se ci tieni.»
A
quanto
pareva quello era l'unico modo di Rotwang di manifestargli il proprio
appoggio, come farlo vomitare o coprirlo del proprio cappotto; e
poiché sua madre gli aveva insegnato ad accettare la
gentilezza per
quello che era, Emir accennò a berne un sorso,
più per compiacerlo
che per altro. Rotwang rimase a fissarlo in silenzio per un po'.
«Mi
dispiace
per tuo padre. Non doveva entrare in questa storia.»
«Se
io non
fossi andato da lui quella notte, non sarebbe mai successo»
rispose
Emir, e per un attimo Rotwang parve non sapere cosa rispondere di
fronte a quell'obiezione. Faceva un effetto strano vedergli addosso
la sua camicia.
Il
bar della
sala d'attesa era deserto, e dopo essersi gettato un'occhiata attorno
gli parlò ancora. «Abbiamo fatto un sacco di
cazzate, Fuji, ma
andrà bene. Migliorerà. Possono perquisire anche
casa mia se
vogliono, anzi è probabile che lo facciano, quasi ci spero:
e dopo?
Che cos'avranno in mano?»
Gli
pareva
impossibile d'aver pensato lo stesso solo il giorno prima, d'esser
stato folle e tracotante e arrogante a tal punto da sfidare quasi da
pari a pari Valérien, la polizia e la Silph; quel giorno gli
sembrava ormai lontanissimo. La verità era che
Valérien aveva
ragione, era tutto vero, la Silph non si sarebbe fermata innanzi a
niente; e finché non si fossero liberati di Mew, in
qualsiasi modo,
allora la Silph e il mondo li avrebbero sorvegliati sempre e non
sarebbero stati in pace mai.
«Hai
ragione»
disse invece, perché quello che pensava realmente era troppo
angoscioso da dire ed era meglio tacere.
Rotwang
ne
parve rassicurato, forse perché la sua convinzione si
rafforzava nel
sentirsi condivisa. «Ti aspetterò da te stasera,
se pensi di
tornare a dormire. Ma se preferisci fermarti a Lavandonia basta un
colpo di telefono. Siamo intesi?»
Profondamente
grato che avesse cambiato argomento e di non esser più
chiamato a
dare il suo parere sulla vita che li aspettava, Emir si
limitò ad
annuire. «Certo, io... credo che dipenda da come sta mio
padre. Alla
sua età, sai...»
«Vuoi
che
venga con te?»
Quella
strana
inusuale gentilezza gli giunse così inaspettata che Emir
ebbe
bisogno di un istante per convincere se stesso che sì, di
fronte a
lui c'era Rotwang, che era ancora Rotwang, e che
per un solo
momento aveva deciso di essere semplicemente, gratuitamente gentile.
Ma la cosa lo metteva a disagio per la sua intimità
– o di
qualsiasi altra cosa si trattasse – e il suo primo impulso fu
quello di ristabilire gli equilibri tra di loro.
«Scopiamo
una
volta e già ti prendi tutta questa confidenza?»
Rotwang
rise.
Quando
raggiunse la casa di suo padre, quel pomeriggio, la perquisizione
doveva essere terminata, ma la strada era gremita da un capo
all'altro di giornalisti, curiosi e fotografi. A presidiare
l'ingresso della via, bloccando quasi del tutto l'accesso alle
automobili, si era raccolto persino un gruppo di sostenitori del
Centro Pokémon Volontario, e per la prima volta in vita sua
Emir li
guardò con un po' di simpatia. Non poteva esserci un uomo
più
benvoluto a Lavandonia del signor Fuji, quantomeno.
Si
fece largo
attraverso la folla che si assiepava attorno al giardino affondando
il capo nel bavero rialzato del cappotto, ignorando le voci e i
tramestii e tutto ciò che lo circondava, e salì
di corsa la scala
esterna che portava in casa. Era stata sua madre a insistere per far
costruire quella scala, quando ancora era troppo piccolo per
poterselo ricordare, per rendere un po' più indipendente
l'abitazione privata dal Centro Volontario che occupava tutto il
piano terreno. Naturalmente suo padre si era opposto, aveva
controbattuto, obiettato e borbottato, perché non vedeva per
quale
motivo ci fosse bisogno di un'altra scala quando fino al matrimonio
lui se l'era sempre cavata tanto bene passando dal Centro per salire
in casa; e se alla fine si era deciso a farla costruire non era stato
perché le argomentazioni di sua madre lo avessero convinto,
o perché
egli volesse darle la soddisfazione di sentirsi padrona in casa
propria e non un'ospite, ma solo perché Emir non disturbasse
continuamente i Pokémon e i volontari correndo fuori a
giocare.
Eppure quel giorno neppure quel pensiero riuscì ad adirarlo.
Emir
suonò e
bussò alla porta per quasi cinque minuti di seguito,
sentendosi
addosso lo sguardo fisso dei giornalisti e dei curiosi e i clic delle
fotocamere senza ottenere alcuna risposta. Si sentiva bruciare in
volto di vergogna e di rabbia al pensiero che tutti sapessero che
qualcosa gli sfuggiva; ma perché suo padre non gli apriva?
E
poi la
risposta gli venne in mente con la facilità di qualcosa
proprio
ovvio che avesse avuto sotto gli occhi fin dall'inizio ma che fino ad
allora gli era sfuggito: a suo padre non interessava nulla di casa
sua rispetto a quanto amava il Centro.
Si
diede dello
stupido da solo mentre scendeva le scale di corsa. Per un istante,
quando raggiunse la porta d'ingresso principale che conduceva al
Centro, ebbe paura di trovarla chiusa e di dover di nuovo bussare e
aspettare sotto gli occhi di tutti; ma per fortuna neppure di fronte
all'umiliazione della perquisizione e della pubblica gogna gli alti e
nobili ideali di suo padre, che aveva sempre voluto che il Centro
restasse aperto per chiunque, erano venuti meno. La maniglia cedette
sotto la sua spinta, la porta si aprì e si richiuse subito
alle sue
spalle, ed Emir si ritrovò d'un tratto immerso nel fresco e
nel buio
del Centro Pokémon Volontario di Lavandonia.
Non
ci tornava
da più di sei anni, e a dire il vero neanche quando abitava
là
aveva mai voluto andarci troppo spesso, malgrado tutte le esortazioni
di suo padre. Lo conosceva come le sue tasche, certo, per avervi
passato gran parte della sua infanzia a giocare coi Pokémon
che vi
abitavano; e anche così com'era ora, appoggiato al buio
contro la
porta, senza neppure aprire gli occhi, egli avrebbe saputo descrivere
con precisione ogni singolo dettaglio della stanza: anche dopo tutti
quegli anni, conoscendo suo padre, era certo che non fosse cambiato
niente. Ma poi quel posto aveva cominciato a essere sempre
più
soffocante da quando sua madre se n'era andata, a misura ch'egli
aveva acquisito la ragione ed era divenuto sempre via via
più
consapevole che era colpa di quel posto se sua madre non c'era
più,
e che era quello che quel posto rappresentava a essere molto
più
importante di lui per suo padre; e alla fine aveva smesso del tutto
di andarci. Suo padre non aveva mai insistito molto a quel proposito,
naturalmente, perché per lui contavano solo le entusiastiche
e
incondizionate adesioni dei suoi ferventi adepti volontari, mentre di
neofiti incerti, astiosi e refrattari, che amavano i Pokémon
ma non
erano disposti a votare tutti se stessi alla lotta contro le leggi e
la società in loro difesa, non se ne faceva nulla; eppure
Emir
avrebbe quasi preferito che l'avesse obbligato. Ciò che lo
faceva
infuriare era che suo padre non riusciva neppure a concepire ch'egli
potesse avere un valido motivo per odiare quel posto, e questo
perché
suo padre non aveva saputo mettersi in dubbio mai. Nella sua
personale visione del mondo, egli aveva ragione e suo figlio gli dava
contro solo per il gusto di ribellarsi al proprio padre. Ch'egli
potesse avere una qualche ragione più intima e personale per
tutto
ciò, naturalmente, era fuori discussione.
Lo
riscosse un
uggiolato basso e lamentoso. Quando Emir abbassò gli occhi
per
cercare di scovarne l'origine, tutto ciò che vide sulle
prime fu un
grosso tartufo nero spuntare da sotto un tavolo, ma dopo un istante a
esso si unirono due zampe tozze che rasparono il pavimento e un muso
solcato da grandi occhi fiduciosi, ed egli riconobbe Growlithe.
Si
ricordava
bene di quando Growlithe era arrivato al centro, ormai quindici o
diciassette prima: era stato abbandonato dal padrone quando s'era
accorto di non si sapeva bene quale imperfezione nel suo pedigree,
uno di quei tecnicismi quasi impercettibili che lo escludeva da certe
competizioni di bellezza per Pokémon. Suo padre l'aveva
accolto
subito, facendone per mesi il caposaldo della sua battaglia contro le
inumane mostre che mettevano in luce i Pokémon come
oggetti o
beni di consumo, e la faccenda era finita sui giornali per
un
po', finché era durato un idealistico botta e risposta con
le
principali associazioni che organizzavano quel tipo di competizione.
Era un bel cucciolo all'epoca, enormemente grato ed entusiasta del
mondo, ed Emir avrebbe tanto voluto adottarlo e tenerlo per
sé, ma
non aveva mai avuto il coraggio di confessare quel desiderio a suo
padre sapendo già quale sarebbe stata la risposta; e alla
fine si
era ritrovato a odiarlo dal momento che non avrebbe mai potuto
averlo.
I
Growlithe
erano Pokémon estremamente protettivi e territoriali, ma
quello non
si mise ad abbaiare, e in quel momento a Emir fu chiaro che
nonostante ormai fosse vecchio e abbattuto e fossero passati
più di
sei anni dall'ultima volta che si erano visti, l'aveva riconosciuto.
«Ehi»
mormorò inginocchiandosi per accarezzarlo, e Growlithe
sbavò di
contentezza e gli lambì la mano. «Sei sempre in
gamba tu, eh? Hai
visto dov'è mio padre?»
«Chi
c'è di
là? È entrato qualcuno?»
«Trovato»
mormorò Emir strizzandogli l'occhio, e Growlithe
guaì in segno
d'approvazione. Si alzò in piedi spolverandosi i pantaloni
con le
mani. «Papà, sono io... sono Emir. Non
preoccuparti.»
Rumore
di
passi strascicati e pesanti, innaturalmente affrettati, e poi suo
padre si affacciò sulla soglia dell'ingresso a guardarlo.
Era ancora
in vestaglia, con la barba non fatta, come appena alzato nonostante
fosse ormai pomeriggio inoltrato, ed Emir si sarebbe vergognato al
pensiero che suo padre si fosse presentato così alla polizia
e alla
stampa se non fosse stato anche troppo consapevole del fatto che, con
ogni probabilità, era così che suo padre
trascorreva la maggior
parte delle sue giornate.
«Emir...
sei
venuto» constatò, e dopo un attimo, quasi a darsi
un tono: «Non me
l'aspettavo. Non ti ho chiamato per questo, non eri obbligato
a...»
«È
stata
tutta colpa mia» esclamò Emir, e d'improvviso fu
di nuovo com'era
sempre stato per lui di fronte a suo padre: forse perché
quel luogo
destava in lui così tanto e così tanti sentimenti
ch'egli neppure
riusciva ad analizzare, egli si sentì di nuovo di fronte a
suo padre
come il ragazzo che disperatamente avrebbe voluto farsi ascoltare e
che non ci riusciva. «Se io non fossi mai venuto qui quella
notte,
non sarebbe mai accaduto nulla...»
«Emir»
lo
interruppe suo padre, ma la sua voce era assieme calma e severa,
troppo autorevole e inflessibile per poterle controbattere, ed Emir
ammutolì all'istante. «Lo sai che non m'importa.
Hai fatto la cosa
giusta: queste sono soltanto cose e non valgono nulla in confronto a
quello che hai fatto. Si aggiusterà tutto,
perciò...»
«Dove
sono
tutti i volontari?» chiese Emir ansiosamente. La casa era
troppo
silenziosa e vuota, tutto era immobile, ed egli non ricordava che
fosse mai stata così. Suo padre scosse la testa come a far
cenno di
non preoccuparsi.
«Li
ho
mandati tutti a casa, non volevo che restassero qui» si
affrettò a
rassicurarlo suo padre, questa volta molto più seriamente.
Si era
iscurito in volto, di certo perché ripensare a quei ragazzi
lo
addolorava molto. «La polizia ha insistito per perquisirli,
ma poi
mi hanno permesso di rimandarli a casa... oh, ma come si fa a
perquisire dei ragazzi di dodici anni? Hanno guardato persino nelle
loro cartelle di scuola...»
«Suppongo
che
per la legge siano abbastanza grandi» commentò
Emir a bassa voce,
per non saper che dire; ma per fortuna suo padre non gli diede retta
e proseguì sulla sua linea di pensiero.
«E
poi come!
Pensare che io, quand'anche avessi voluto... mi sarei servito dei
miei bambini per nascondere un Pokémon rubato! Quando lo
sanno tutti
benissimo che abbiamo sempre fatto della legalità il nostro
cavallo
di battaglia...»
A
quelle
parole Emir evitò cautamente di rispondere,
perché della legalità
lui e suo padre avevano sempre avuto concetti diversi e un po'
antitetici e non gli pareva il caso di litigarne proprio in quel
momento, e volse lo sguardo attorno a sé per cercare un
pretesto
valido per cambiare argomento. La casa era in disordine esattamente
come la sua, e questo gli fornì subito l'appiglio
necessario.
«Riposati un po' adesso, papà. Ti do una mano a
mettere in ordine,
vuoi? Tu puoi andare un po' a letto.»
Suo
padre
scosse appena il capo. «Bevi una tazza di tè con
me, Emir, ti va?
Abbiamo tempo per riordinare, e poi gli avvocati non vogliono che
tocchi niente qua sotto, per il momento: vengono domani a fare le
foto... e poi tu sei troppo magro. Sei dimagrito ancora dall'ultima
volta che ti ho visto?»
«Non
ne ho
idea» rispose Emir, sinceramente stupito, dal momento che il
suo
peso era davvero l'ultimo dei suoi pensieri. Ma era venuto
lì per
mostrarsi conciliante, e quella era proprio la sua intenzione.
«Però
mi andrebbe proprio una tazza di tè. Andiamo al piano di
sopra?»
L'appartamento
privato versava nelle medesime condizioni del Centro Volontario, ed
Emir provò un'irragionevole fitta di dolore alla vista di
tutti gli
oggetti che avevano segnato la sua infanzia sparpagliati al suolo
come spazzatura rovesciata da un bidone. Ma suo padre non parve
neppure farci caso, ed Emir si accomodò obbedientemente a
tavola
mentre suo padre armeggiava davanti al vecchio fornello a gas.
Cercò
qualcosa da dire per ingannare il silenzio. «A Lavandonia hai
ancora
molti sostenitori. Ho visto della gente giù, con degli
striscioni...»
«Già,
e i
giornalisti non li hai visti?» gli fece eco suo padre
scuotendo il
capo. Tirò un sospiro profondo. «Non lo so, Emir.
Bisogna vedere
come ne parleranno i giornali, come la prenderà la gente...
la
televisione, soprattutto. A Lavandonia tutti mi conoscono e sanno che
non avrei mai fatto una cosa del genere, ma fuori da qui è
diverso.
Noi viviamo di donazioni. Quelle di Lavandonia non basterebbero a
mandarci avanti per un anno; e per quanto riguarda le sovvenzioni
statali...»
«Capisco»
lo
interruppe Emir, che non aveva mai avuto l'intenzione di farsi
trascinare in una lunga dissertazione sui massimi sistemi
dell'associazione, e rinunciò a cercare altro da dire per
colmare il
silenzio fino a che non furono seduti entrambi di fronte a un
tè
fumigante.
«Non
ti ho
chiesto neppure della perquisizione di ieri» riprese suo
padre un
po' in imbarazzo, come a cercare anche lui qualche cosa da dire, ed
Emir levò gli occhi di scatto.
«L'hai
saputo?»
«Emir...
è
su tutti i giornali.» Suo padre aggrottò la
fronte. «Non lo
sapevi?»
La
notizia lo
colse un po' alla sprovvista. Non ricordava neppure quando avesse
letto un giornale l'ultima volta, a dire il vero; e poi quel giorno
non ci aveva neppure pensato. Quando era uscito di casa di corsa era
stato solo per andare a picchiare Valérien il più
violentemente
possibile; di passare dall'edicola poi non gli era passato neppure
per la mente.
«Mi
sono
isolato un po' nell'ultimo periodo» ammise a malincuore.
«Da quando
ho perso il lavoro e tutto il resto, sai.»
«Oh,
giusto,
io... neppure per quello ti ho mai detto nulla. L'ho saputo, ma non
sapevo come l'avresti presa se ti avessi chiamato, perciò ho
preferito...» Tacque per qualche secondo, come a cercare il
coraggio
di dire qualcosa che si doveva dire, ed Emir aspettò in
silenzio.
«Se ti avessi telefonato ti avrei detto che ero molto
orgoglioso di
te, Emir. Che hai fatto la cosa giusta, per una volta, e che il fatto
che tu abbia perso il lavoro...»
«Non
l'ho
fatto perché tu fossi fiero di me»
ribatté Emir impetuosamente,
abbattendo la mano sul tavolo con un po' troppa irruenza rispetto a
quanto avrebbe voluto; fu solo l'espressione esitante di suo padre
gli impedì di aggiungere altro. Non era venuto lì
per litigare,
ripeté a se stesso, anche se i suoi propositi si stavano
facendo
sempre più difficili da mantenere.
«No,
certo...
non volevo dir questo» si affrettò a specificare
suo padre in tono
assai più conciliante, con la voce cauta e quasi melensa di
qualcuno
che volesse fare un complimento a tutti i costi. «Quello che
volevo
dire è che quello che hai fatto è veramente
ammirevole. Ho la
sensazione che tu sia maturato molto da quando te ne sei andato. Il
fatto che tu abbia preferito perdere il lavoro che venir meno ai tuoi
principi, e che salvare Mew ti sia parso più importante che
continuare a lavorare per una multinazionale capitalista e
sfruttatrice che...»
Emir
afferrò
la tazza e la scaraventò contro il muro.
Non
l'aveva
fatto intenzionalmente. Non se n'era quasi neppure reso conto, a dire
il vero, e dentro di sé si sentiva ancora talmente lucido e
freddo
che osservò il liquido spargersi al suolo tra i cocci
infranti quasi
con stupore, in silenzio, e stranamente calmo. Aveva agito d'impulso,
senza riflettere, pur di metterlo a tacere, e suo padre
balzò in
piedi esterrefatto e gridò:«Emir...! sei
impazzito?»
Di
fronte
all'incredulità di suo padre Emir continuava a sentirsi
divampare il
petto di rabbia, ma d'una rabbia che era bruciante e assieme calma,
razionale e controllata come una colata di lava, e molto più
distruttiva.
«Io
non ero
venuto qui per litigare con te, papà»
sibilò.
Gli
occhi di
suo padre continuavano a non trovar pace, passavano incessantemente
dalla tazza infranta ai piedi del muro a lui, ed egli pareva a corto
di fiato. «Non stavamo litigando, stavamo solo...»
«Tu
stavi»
lo interruppe Emir. «Tu stavi parlando di
ciò che per te
è giusto secondo i tuoi canoni
di giudizio, come fai
sempre. Ma stavi parlando con me, non ai giornalisti a una conferenza
stampa, e non ti è neppure passato per la mente che forse io
potessi
non esser contento quanto lo sei tu d'aver perso il lavoro...»
Suo
padre
s'impettì di scatto, come punto sul vivo, ed
esalò: «Non è vero,
questo non è giusto! Io non ho mai...»
«Vuoi
negare
che ti faccia piacere che io non lavori più per la Silph,
adesso?»
Negare
a
questa domanda non era possibile, mentire non era possibile:
quand'anche vi avesse provato tutto, tutto negli occhi di suo padre
lo avrebbe tradito. Non avrebbe potuto essere diversamente: il
celebre signor Fuji di Lavandonia non poteva non
essere felice
che suo figlio finalmente si fosse distaccato da quel mostro inumano
e torreggiante sopra le città e i Pokémon che era
la Silph, e che
egli aveva avversato per tutta la vita. Ma di fronte a suo figlio, e
per di più a un figlio tanto intollerante e disubbidiente,
ribelle e
cocciuto come un cavallo selvaggio, nessuna delle ben temprate armi
d'eloquenza del signor Fuji poteva funzionare, e fu il padre a
doversi esporre in prima persona.
«Emir,
tutti
i padri vogliono il meglio per i loro figli...»
«Ma
tu no,
non è vero?» ringhiò Emir senza
distogliere lo sguardo. Voleva
obbligarlo a chinare gli occhi, voleva vederlo arrossire,
impallidire. «Tu non l'hai mai voluto. È
così facile da dire,
suona così bene da dire, non è vero? Che tutti i
padri vogliono il
meglio per i figli, e dirlo non richiede il minimo sforzo. Ma tu
avresti soltanto voluto che io diventassi come te...»
«Io
non ti ho
mai obbligato, mai!» ribatté suo padre duramente,
con voce fattasi
improvvisamente più agguerrita, ed Emir ebbe uno scatto di
rabbia.
«Certo
che
no! Anche io avrei dovuto aderire spontaneamente alla tua morale,
senza dubbi, gioiosamente, fanaticamente, altrimenti non avrebbe
avuto valore! Ma tu eri troppo sicuro di te per poterti anche solo
chiedere che cosa pensassi io, che cosa pensasse la
mamma...»
L'espressione
di suo padre mutò di nuovo, ma stavolta non sembrava
più arrabbiato
con lui. Appariva semplicemente molto stanco, quasi desolato, e si
limitò a chinare gli occhi per un momento, improvvisamente
triste.
«Oh,
Emir»
mormorò. «È proprio necessario parlare
di tua madre? Dopo
vent'anni...»
Vent'anni.
D'improvviso la reale entità di quel lasso di tempo, che
fino ad
allora non era stato per lui che un numero allo stesso pari di altri
e sul quale non si era mai soffermato a riflettere, lo colpì
come un
urto in pieno petto: erano trascorsi vent'anni davvero da quel giorno
lontanissimo in cui sua madre li aveva lasciati, ed entrambi erano
invecchiati di quel medesimo periodo. L'avrebbe creduto mai,
all'epoca, che vent'anni senza sua madre sarebbero trascorsi
così,
in un battito di ciglia?
«Se
ne
avessimo parlato allora, forse oggi non ce ne sarebbe
bisogno»
ribatté Emir sarcasticamente, e suo padre ebbe un gesto
d'esasperazione.
«Ma
noi ne
abbiamo parlato! Ne abbiamo parlato fino a sfinirci, abbiamo
analizzato la questione in tutti i modi in cui...»
«Tu
ne hai
parlato» disse Emir con durezza.
«E
chi altri
avrebbe dovuto?» esclamò suo padre allargando le
braccia. «Emir,
io ho fatto del mio meglio. Avevo un'associazione, avevo te, ero
solo... ho fatto quello che mi dicevano gli psicologi, gli
insegnanti, i vicini di casa, ho fatto tutto quello che potevo: tua
madre ci aveva appena abbandonati, e io...»
«Aveva
abbandonato te» lo interruppe Emir. «Non
me.»
Come
incapace
di controbattere a quell'informazione, suo padre sedette di nuovo a
tavola. Non fece commenti. Si limitò a osservarlo in
silenzio per un
po', pensierosamente, come se neppure lo riconoscesse.
«È
curioso,
Emir» commentò infine stancamente, quasi senza
espressione. «Ero
sicuro di ricordare d'esser stato io a crescerti per quattordici anni
da solo, ma alla mia età capita di sbagliare.»
Se
avesse
potuto l'avrebbe scosso, l'avrebbe picchiato, avrebbe colpito in
faccia quell'orribile vecchio che faceva del sarcasmo su di lui, su
sua madre, su... ma quell'impulso passò. Emir
s'aggrappò al bordo
del tavolo con tanta forza da sbiancarsene le nocche e riprese molto
lentamente: «La mamma se n'è andata
perché non voleva più te, non
me. Perché doveva essere tutto come volevi tu,
perché lei aveva
sposato te ma tu pretendevi che avesse sposato anche i tuoi ideali;
perché non potevamo comprare una lavastoviglie né
fare una vacanza
perché tu potessi dimostrare al mondo che tu eri
un uomo
semplice e umile del piccolo proletariato...»
Col
volto
illividito di rabbia e di sdegno, suo padre faticò ad
articolare:
«Sei ingiusto con me, Emir. Tua madre era libera come lo ero
io, ma
sapeva a cosa andava incontro sposandomi. Sapevo che non potevo
prometterle nient'altro che questa casa e le andava bene, solo che a
un certo punto ha deciso che non le bastava più e ha deciso
di
andare altrove. Non sei giusto con me.»
Ma
questo non
era affatto quello che Emir ricordava, non era così che
erano andate
le cose! Ciò che ricordava, precisamente come se fosse
avvenuto il
giorno precedente, con la medesima intensità, era sua madre
che
doveva supplicare per giorni per poter comprare un rossetto; era sua
madre che giungeva le mani, in piena notte – quando lui
avrebbe
dovuto essere a dormire da un pezzo e invece era sveglio e osservava
tutto – per pregare suo padre di comprargli un giocattolo
costoso
soltanto per quel compleanno; era sua madre che supplicava,
inginocchiata di fronte all'irriducibile durezza di suo padre...
Emir
ricordava
tutto, ma non era questo che bisognava dire, perché dirlo
avrebbe
voluto dire supplicare e perdere, proprio come sua madre; ma lui non
voleva supplicare – Emir voleva colpire e vincere.
«Tu
non
ricordi, vero, che io e la mamma uscivamo sempre quando tu eri
impegnato al piano di sotto?» iniziò lentamente,
senza distogliere
lo sguardo da lui neppure per un istante. Per tutta risposta, suo
padre allargò di nuovo le braccia con gesto esasperato.
«Dio,
Emir,
come vuoi che mi ricordi? Sono passati vent'anni...»
«No,
papà,
non è così che stanno le cose. Tu non te lo
ricordi perché non
ce lo hai mai chiesto» ribatté Emir.
«Non ti sei mai
preoccupato affatto di sapere che cosa facessimo io e la mamma per
tutto il tempo che tu passavi a salvare il mondo, e la mamma non te
l'ha mai detto perché evidentemente non ti interessava
abbastanza.
Ma la mamma ha passato mesi e mesi a informarsi in comune e negli
uffici e nei consultori per scoprire come avrebbe potuto ottenere la
mia tutela legale per portarmi via con sé se ti avesse
lasciato
senza che tu potessi fare nulla per riavermi indietro. Se non mi ha
portato con sé è stato soltanto perché
tu mi avresti rivoluto
sempre e non ci avresti lasciati liberi mai...»
Se
questa
notizia lo sconvolse o lo distrusse, o anche solo lo
addolorò nel
profondo, in quella parte di lui che, per almeno un minuto della sua
vita, doveva aver sofferto ed esser stata umiliata dalla fuga di sua
moglie – perché quella parte doveva esistere,
Emir ne era
certo o quantomeno aveva bisogno di crederlo: anche per un momento
solamente, suo padre doveva avere sofferto! - egli non lo diede a
vedere. Accolse quella scoperta in silenzio, dignitosamente, colla
schiena ricurva sulle ginocchia, senza reagire. Quando
sollevò gli
occhi su di lui, essi erano divenuti enormi e spenti, vuoti.
«Volevi
andare con lei, quindi» mormorò. «Hai
sempre voluto andare con
lei.»
Era
la prima
volta che Emir aveva occasione di dirlo.
«Sì.»
«È
per
questo che mi hai sempre odiato, dunque. Perché avresti
voluto
andare con lei, ma invece sei stato costretto a rimanere con
me...»
«Non
è stato
sempre per lei» rispose Emir, e si sentì quasi
stupito che si
potesse banalizzare tutto ciò che per tutta la vita era
stato l'odio
per suo padre con quelle parole soltanto. «È stato
perché ho visto
lei supplicare sempre e te non cedere mai anche se sapevi benissimo
che lei non aveva nient'altro al mondo che non fossimo noi due;
è
stato perché è per colpa tua che lei se
n'è dovuta andare; ma poi
è stato perché non hai mai capito che il mondo
non è solamente
come lo vedi tu, che io non ero sbagliato solo
perché non
m'interessava quel mondo come lo vedevi tu...»
Gli
occhi di
suo padre non celavano più alcuna luce quando
tornò a guardarlo.
Non sembrava neppure triste: era soltanto esausto, infinitamente
stanco.
«Che
cosa
vuoi che faccia, Emir?» domandò solamente.
«Ora che finalmente mi
hai detto tutto quello cui hai pensato negli ultimi vent'anni, ora
che mi hai dato la colpa di tutto, che mi hai detto che tua madre mi
avrebbe amato ancora se solo io non fossi stato la persona che
sono... non ho le forze per reagire, Emir, dunque che cosa vuoi che
io faccia?»
Fu
improvvisamente strano e sconcertante realizzare che quella vendetta
ch'egli aveva immaginato e pregustato per vent'anni, accarezzandola
con la fantasia negli abissi del proprio rancore, non dava la
soddisfazione ch'egli si era sempre aspettato, e che lottare contro
un vecchio che si proclamava sconfitto con tanta facilità
dalle sue
ragioni non era la lotta eroica e senza quartiere che aveva sempre
sperato. Era stranamente insoddisfacente, come infierire su un
vecchio malato senza che nulla fosse in grado di cambiare il passato.
Se suo padre si fosse ribellato e opposto, se si fossero stagliati
entrambi in difesa dei propri ideali fieri e titanici come due
nemici, forse Emir avrebbe sentito d'aver vinto; ma di fronte alla
sua rabbia non si ergeva nemmeno un nemico. C'era solo un vecchio che
ora non poteva più incolpare nessuno al di fuori di se
stesso per
aver perduto sua moglie e suo figlio.
Sì
sentì
d'un tratto denudato e stanco, affranto, e continuare a urlare gli
parve inutile e controproducente.
«Non
lo so,
papà» rispose a bassa voce. «Non lo so
più. È troppo tardi
ormai. Sono passati vent'anni.»
«Giusto»
disse suo padre chinando lo sguardo. «Sono passati
vent'anni.»
La
casa era
vuota e fresca, enormemente silenziosa. Chiudendo la porta alle
proprie spalle, Emir concesse a se stesso di appoggiarvisi di schiena
per un istante, socchiudendo gli occhi nel buio, e inalò
profondamente il profumo della sua casa. Sapeva di polvere e di
umidità e forse un po' di salmastro, e tutto il corridoio
d'ingresso
era ancora ostruito dal caos del giorno precedente; ma era casa, e
casa voleva dire riposo e non dover più pensare a nulla,
tantomeno a
suo padre.
Si
trascinò
al buio verso le scale con l'unico desiderio di infilarsi a letto e
dormire, dormire e non pensar più a niente: era
così stanco che non
aveva neppure fame.
La
luce si
accese quando passò davanti al salottino sulla scogliera e a
voce
cauta, un po' assonnata di Rotwang domandò:
«Fuji... sei tu?»
Dio,
Rotwang.
Si era completamente scordato che gli aveva promesso di aspettarlo, e
con ogni probabilità, se non fosse stato lui accorgersi che
era
tornato, Emir avrebbe finito per andarsene a dormire senza neppure
ricordarsi di lui; ma quantomeno Rotwang gli aveva evitato almeno
quest'imperdonabile gaffe. Si sforzò di reprimere la
stanchezza che
lo assaliva quando entrò in salotto per salutarlo.
«Ehi... non
pensavo di trovarti ancora qui.»
C'era
qualcosa
di diverso in quella stanza rispetto alla sera precedente, qualcosa
che a una prima occhiata non riuscì a individuare con
certezza; ma
gli bastò gettarsi uno sguardo attorno per capire. Era tutto
in
ordine – o meglio non precisamente nell'ordine in cui era
sempre
stato, ma non c'era più nulla di sparpagliato a giro per la
stanza:
i libri erano stati sistemati in ordinate pile ai piedi della
libreria, le lampade e i soprammobili riposti sui divani e sulle
mensole e i cuscini ricollocati su divani e poltrone.
«Te
lo avevo
detto che sarei rimasto a meno che tu non mi avessi detto che non ce
n'era bisogno, e io non ho ricevuto nessuna chiamata,
perciò...» In
panciotto e camicia, con le maniche arrotolate fino ai gomiti,
Rotwang aveva l'aria di osservarlo con grande attenzione.
S'interruppe per un attimo, colla fronte contratta, quando si rese
conto del suo stupore. «C'è qualcosa che non
va?»
«Hai
messo tu
in ordine qui?» domandò Emir accennando alla
stanza, e Rotwang si
limitò a stringersi nelle spalle.
«Non
avevo
niente da fare mentre ti aspettavo, quindi... ho realizzato troppo
tardi che non avevo idea di dove stesse tutta la tua roba,
perciò
alla fine l'ho soltanto tolta di mezzo. Però almeno non
rischiamo
d'inciamparci, no?»
«Oh...
grazie» balbettò Emir un po' stupito, e Rotwang
tornò a scrollare
le spalle come se ogni commento fosse superfluo. Continuò a
tenerlo
d'occhio per un po', in silenzio, mentre Emir si sfilava il cappotto
e si abbandonava a sedere su una poltrona. Si decise a parlare solo
dopo un po'.
«Come
sta tuo
padre?»
«Bene»
rispose Emir meccanicamente, quasi senza riflettere, e non
perché
avesse intenzione di mentire, quanto perché veramente
non
aveva nessuna voglia, né tantomeno la forza, di soffermarsi
a
riflettervi. Rotwang rimase in silenzio.
«Solo...
bene?»
Emir
cercò
dentro di sé qualche altra frase di circostanza da
propinargli. «Era
un po' stanco.»
«Oh,
posso
immaginarlo.» Annuendo gravemente col capo, colle mani
strette nelle
tasche, Rotwang andò a sedersi sul divano di fronte a lui
con aria
pensierosa. Starsene seduti così com'erano ora, in silenzio,
nella
gran pace notturna della villa silenziosa, era stranamente
rilassante, a tal punto che Emir quasi non aveva più sonno.
Rotwang
si prese ancora qualche istante di silenzio prima di parlare.
«Chiariamoci un po', Fuji. Questa è una di quelle
conversazioni in
cui devo obbligarti a raccontarmi quello che è successo a
furia di
domande di cortesia o è una di quelle in cui tu non hai
assolutamente voglia di parlarmene e posso risparmiarmi la
fatica?»
Per
quanto la
sua mente spaziasse alternativamente tra queste due ipotesi, Emir
impiegò qualche istante per formularne una che fosse
adeguata.
«Una
di
quelle in cui non ho voglia di parlartene, ma non mi dispiacerebbe
che tu restassi qui stanotte, direi» rispose osservandolo per
tenere
d'occhio le sue reazioni. Rotwang ebbe un aperto sorriso
d'autocompiacimento.
«È
così,
eh?» chiese provocatoriamente abbandonandosi contro lo
schienale del
divano, colle braccia spalancate in un palese segno di sfida. A
quanto pareva quell'idea non gli dispiaceva. «Ricordati che
cosa ti
ho detto stamattina, però. Se vuoi che resti devi invitarmi,
per
cominciare, ma poi...»
Mi
piacerebbe vederti supplicare, gli aveva detto Rotwang
quella
mattina; ma Emir non aveva alcuna intenzione di supplicare come non
ne aveva avuta mai.
Non
ebbe alcun
bisogno di pensare a che fare. Semplicemente Emir si alzò
dalla
poltrona, lo raggiunse e si sedette a cavalcioni delle sue cosce, e
Rotwang ne fu così sorpreso ed eccitato che
scoppiò a ridere.
«Però...
questo non me l'aspettavo» commentò a mezza voce,
deliziosamente
compiaciuto. «Stamattina ero convinto che avresti ceduto e
saresti
venuto a supplicarmi, e invece... mi sorprendi, Emir.»
Ma
quando le
sue mani salirono ad afferrare i suoi glutei e a stringerli,
istintivamente Emir gli afferrò i polsi con violenza e li
artigliò
contro lo schienale del divano, al di sopra delle sue spalle. Sentiva
l'eccitazione pulsare con violenza contro il tessuto dei pantaloni, e
protendendo in avanti il bacino ebbe la soddisfazione di avvertire
contro la propria l'erezione prepotente di Rotwang e di sentirlo
gemere d'eccitazione. Si chinò contro il suo orecchio e lo
percorse
lentamente con la lingua.
«Non
ho mai
supplicato in vita mia, ma non avrei niente in contrario se lo
facessi tu, questa notte.»
Il
respiro
contro la sua gola si fece affanno e ansima e Rotwang
mormorò: «Mi
piace questo gioco.»
|
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Capitolo 11 *** Inconfessabile. ***
Ciao
a
tutti!
Ho
impiegato quasi un anno a tornare con questo capitolo,
perciò penso
di aver infranto quasi ogni mio record. Purtroppo è
probabile che le
cose procederanno così ancora a lungo: negli ultimi mesi la
mia vita
è cambiata radicalmente contro la mia volontà,
perciò adesso mi
trovo a far fronte a molti più impegni e
responsabilità di prima.
Ciò nonostante lasciare incompiuta questa storia
è il mio ultimo
pensiero: ho tutte le intenzioni di portarla a termine in qualsiasi
modo, anche se dovesse volerci un po'.
In
molti mi
avete espresso aspettative e speranze riguardo al proseguire della
storia, perciò spero davvero di non deludere nessuno,
sebbene questo
capitolo rappresenti un po' una fase di “passaggio”
nell'evolversi degli eventi e dei rapporti tra i personaggi. Credo
che il prossimo sarà ben più avvincente, ma non
posso anticipare
altro ;)
Prima
di
lasciarvi al capitolo, non posso mancare di ringraziare per le loro
recensioni al precedente Fiulopis, cristal_93, Persej Combe e
BlazePower, le ho davvero adorate! E naturalmente, oltre alle
recensioni, un enorme abbraccio a Persej per il suo continuo
sostegno, le sue opinioni e i suoi fumetti adorabili; e a Fiulopis
per aver betato il testo (come sempre), per le scampagnate in
macchina sugli Appennini come Thelma e Louise e per esserci stata
sempre.
Un
abbraccio enorme a tutti e buona lettura!
Afaneia
Capitolo
X
– Inconfessabile.
Rotwang
aveva
una particolare predilezione per il sesso orale, e non per riceverlo.
Nella fattispecie, una delle sue pratiche sessuali preferite, o forse
la preferita in assoluto, era masturbarsi mentre
glielo
succhiava, e pareva preferire quest'attività anche al sesso
vero e
proprio.
Naturalmente,
Emir non aveva preso questa scoperta con tutta l'afflizione che essa
meritava. A dire il vero, quando l'aveva scoperto – o per
meglio
dire circa un quarto d'ora dopo averlo scoperto – l'aveva
preso in
giro tanto a lungo che Rotwang aveva finito per risentirsene e aveva
sottolineato che non si sarebbe mai dato tanta pena se avesse saputo
che quello sarebbe stato il ringraziamento.
«Se
poi tu
sei uno di quelli a cui piacciono le scopate noiose non è
colpa mia,
sai?»
Emir
non si
era mai considerato uno di quelli a cui piacciono le scopate
noiose, ma a dire il vero non poteva neanche dire d'esser
mai
stato un cultore del sesso particolarmente fantasioso o appassionato.
Il sesso era sempre stato per lui più un mezzo per sfogare
pulsioni
fisiche che qualcosa da ricercare per il divertimento fine a se
stesso; il che, a conti fatti, lo rendeva di certo un po'
più
appetibile dell'autoerotismo, ma contemporaneamente nulla che valesse
la pena dello sforzo fatto per procurarsi un partner sessuale.
Periodi d'astinenza anche eccezionalmente lunghi non lo avevano mai
turbato, semplicemente perché dal punto di vista affettivo e
psicologico egli era più che sufficiente a se stesso, e da
quello
fisico, tutto sommato, poteva dire lo stesso.
Con
Rotwang
che trascorreva nel suo letto la maggior parte delle sue notti,
ovviamente, le cose andavano molto meglio.
Era
confortante averlo lì. Rotwang continuava a costituire per
lui
l'unico contatto che ancora mantenesse col mondo esterno, l'unico
elemento della sua quotidianità che non fosse recluso
assieme a lui
in quella casa ma che fosse libero di spostarsi e vivere liberamente
nel mondo esterno. Per quanto egli ormai non lasciasse la villa che
per qualche acquisto o per sbrigare delle commissioni burocratiche, e
a dire il vero sempre più di rado, il fatto che Rotwang
continuasse
a uscire ogni mattina e a condurre una vita normale lo faceva sentire
un po' meno prigioniero, per chissà quale strana
consolazione che
provava in modo indiretto per suo tramite. Almeno per il momento, la
sua vita pareva non offrirgli nient'altro che quella prospettiva:
più
per passare il tempo e fare qualcosa che perché vi credesse
davvero,
Emir s'era persino preso il disturbo di aggiornare il proprio
curriculum vitae e d'inviarlo ad alcune aziende o centri di ricerca
compatibili con la sua formazione, ma non aveva avuto molta fortuna.
Non aveva avuto nemmeno molta scelta nella cernita dei destinatari:
poiché Mew non poteva lasciare il sotterraneo della villa ed
era
fondamentale ch'egli restasse a occuparsi di lei, le uniche
possibilità che avesse erano quelle di aziende raggiungibili
dall'Isola a stretto giro di traghetto, e che naturalmente non
orbitassero attorno alla Silph; cosa che restringeva a ben poco la
sua possibilità di scelta. Delle poche aziende che aveva
contattato,
solo una si degnò di rispondergli con una sentita lettera
molto
dettagliata con la quale si scusavano di non avere nessun posto
vacante per qualcuno così qualificato ed esperto nel suo
campo. Una
parte di lui avrebbe voluto rispondere che qualsiasi lavoro, anche il
più umile, gli sarebbe andato bene; qualunque cosa pur di
allontanarsi dalla reclusione in cui viveva, anche per qualche ora
solamente. Ma Emir non era più il ragazzo insofferente che
sarebbe
andato a Isola Cannella a portare documenti e svuotare cestini pur di
lasciare Lavandonia; Emir aveva diretto un laboratorio di fama
internazionale per sei anni e aveva compiuto due delle scoperte
più
importanti della storia della scienza, e forse il suo orgoglio non
gli avrebbe permesso di abbassarsi a tanto. Era rimasto in dubbio per
qualche ora, chiuso nel sotterraneo a cercare di buttar giù
un
plausibile testo di risposta mentre Mew scarabocchiava con penne ed
evidenziatori al suo fianco, e alla fine aveva lasciato perdere e
aveva gettato tutto nella spazzatura. A Rotwang non aveva detto
nulla, per il momento, perché non sapeva che cosa ne avrebbe
pensato
e non aveva voglia di parlare di quell'argomento. Per il momento le
sue spese erano talmente irrisorie che i suoi risparmi e i piccoli
frutti degli oculati investimenti del suo commercialista bastavano a
coprirle abbondantemente; e al futuro avrebbe pensato poi. Dopotutto
prima o poi avrebbero dovuto trovare una soluzione per quanto
riguardava Mew, e allora egli sarebbe stato libero di nuovo; e poi un
giorno, quando si fossero calmate un po' le acque, e il nome del
dottor Fuji non fosse più stato collegato alla perdita del
Pokémon
più famoso del mondo ma solo alla sua scoperta e
all'invenzione di
Porygon, di certo trovare un lavoro dignitoso gli sarebbe stato
più
facile.
Rotwang
costituiva il suo tramite col mondo esterno anche solo per il
semplice fatto che comprava il giornale ogni giorno andando al
lavoro, e lo riportava a casa ogni sera per abbandonarlo sul tavolo
col cappotto e la valigetta. Il mattino seguente cappotto e valigetta
scomparivano, ma il giornale rimaneva; ed Emir si sforzava di
iniziare ogni mattina, dopo esser rimasto solo, leggendone almeno le
prime pagine.
Non
che la
cosa gli importasse poi molto. Se lo faceva non era perché
provasse
la benché minima curiosità verso il mondo al di
fuori della villa,
ma perché la consapevolezza del proprio isolamento gli
faceva
orrore, quando vi pensava, e lo spaventava l'idea che un giorno,
quando finalmente avesse finito per uscire dalla propria prigionia
come dalle viscere della terra, si sarebbe ritrovato isolato dal
mondo dallo stesso velo di un uomo primitivo svegliatosi alla
modernità.
Era
stato
grazie a Rotwang che era venuto a sapere, due o tre giorni dopo
Lavandonia, che il professor Oak aveva inviato una lettera aperta a
tutte le più importanti testate giornalistiche di Kanto per
protestare contro l'inumano trattamento riservato a un uomo
di
spiccata e dimostrata moralità, che si era sempre adoperato
per la
tutela e i benessere di ogni tipo di Pokémon,
particolarmente i più
deboli e sfruttati. La lettera vibrava di uno sdegno
composto e
dignitoso, autorevole, senza quell'afflato apocalittico e accusatorio
che caratterizzava i discorsi di suo padre, - cosa che personalmente
Emir era più che disposto ad apprezzare; ma il motivo per
cui
Rotwang s'era tanto premurato di fargli leggere quella lettera era
per la stoccata finale che il professore s'era concesso di scagliare
nell'ultima riga, e cioè che quella perquisizione
era l'ennesimo
sopruso operato da una multinazionale ormai onnipotente ai danni
dell'unica persona che avesse mai osato opporlesi a gran voce, con
una strategia quasi terroristica volta a punire lui e a mandare un
messaggio al giovane dottor Fuji, che l'azienda intendeva punire come
capro espiatorio per esser stato la prima vera vittima degli eventi.
Dopo
averlo
letto, Emir gli aveva restituito il giornale senza una parola di
commento. Di fronte alla sua palese indifferenza, Rotwang quasi aveva
perso la pazienza. «Sai leggere?»
«Non
è così
sorprendente, Richard» aveva obiettato pigramente Emir.
«Oak è
amico di mio padre da tipo quarant'anni, da quando faceva ancora
l'allenatore. Non è poi così strano che si sia
esposto per lui.»
«Beh,
scusa
se non conosco tutta la storia della tua famiglia» lo aveva
rimbeccato Rotwang per tutta risposta. «Forse a Kanto vi
conoscerete
anche tutti, ma pensavo che ti avrebbe fatto piacere sapere che la
più grande autorità mondiale in fatto di
Pokémon pensa che tu sia
innocente.»
La
cosa, a
onor del vero, non lo tangeva particolarmente per vari motivi, anche
se non sarebbe stato facile spiegarlo a voce ed Emir non voleva
né
avrebbe saputo come fare. Come per tutti coloro che si approcciavano
allo studio della biologia Pokémon, il professor Oak aveva
sempre
costituito un modello inarrivabile eppure onnipresente; e proprio
perché era posto come un modello che mai nessuno avrebbe
potuto
eguagliare – e per il fatto d'essere amico di suo padre,
naturalmente – Emir s'era ritrovato a odiarlo sordamente, in
un
modo del tutto irrazionale e non del tutto consapevole, e a cercare
di sottolineare i punti deboli in ogni suo lavoro. Non che fosse
facile trovare errori nell'operato di un esperto di tale spessore,
che oltretutto preferiva pubblicare solo di rado contributi che
fossero molto significativi per non sottrarre tempo
all'attività di
Laboratorio e alla cura dei Pokémon di cui si occupava. Ma
il
principale limite ch'egli trovava al suo lavoro non era metodologico
né tantomeno contenutistico, dato che nessuno sarebbe stato
in grado
di criticare i suoi studi da quel punto di vista; ciò
ch'egli
contestava era che tutto il limite dei suoi studi stava nel
descrivere le cose come stavano, ed esauriva il suo
scopo
nella semplice osservazione passiva di leggi di natura che esistevano
e funzionavano in modo del tutto indipendente dall'azione umana.
Quella era la biologia del diciottesimo e del diciannovesimo secolo;
ma ora anche il Novecento volgeva alla fine e quella biologia non
poteva più essere un punto d'arrivo, ma solo una base di
partenza.
Lo studio doveva volgere altrove, doveva puntare al nuovo, ed
era per questo ch'egli s'era dato all'ingegneria genetica e non s'era
fermato là dove avrebbe potuto. Oak era stato un genio del
suo campo
per praticamente tutta la seconda parte del ventesimo secolo, ma
aveva fatto il suo tempo; e soprattutto quali erano state le sue
innovazioni? Aveva scoperto un paio di leggi sull'evoluzione dei
Pokémon, d'accordo; e poi? Il suo famoso progetto di
realizzare
un'enciclopedia elettronica tascabile che raccogliesse tutte le
possibili informazioni su ogni tipo di Pokémon era stato
annunciato
ormai da svariati anni, e ancora adesso, di tanto in tanto, tornava a
far parlare di sé; ma a parte qualche nebuloso progetto e
qualche
voce, che cos'aveva realizzato veramente? E in ogni caso, il limite
sarebbe rimasto lo stesso: sarebbe stata un'enciclopedia, quando
già
tutto quello che si sapeva al mondo era già disponibile su
testi
scolastici, manuali universitari e banali riviste di divulgazione.
Che cos'aveva veramente inventato il famoso
professor Oak da
essere tanto inarrivabile per chiunque?
E
poi Oak
poteva anche sostenerlo, ma era l'unico. Contro le speranze di suo
padre, dopo la perquisizione al Centro Pokémon Volontario
s'era
stretta una dimostrazione di solidarietà mai vista prima,
forse
addirittura dal giorno stesso della fondazione; tutte le principali
personalità di Kanto avevano levato la loro voce in difesa
del
signor Fuji per denunciare l'ingiustizia e la gratuità di
quell'accusa, e persino in Parlamento se n'era parlato. Ma a parte la
mezza riga dedicatagli da professor Oak, in difesa del dottor Fuji
non aveva parlato nessuno perché a nessuno interessava: egli
non era
neppure stato licenziato dalla Silph ma si era licenziato
volontariamente, dunque da quali soprusi c'era bisogno di difenderlo?
Come
aveva
predetto Rotwang, vennero a perquisire anche casa sua, naturalmente,
ma forse più perché non si poteva lasciare nulla
d'intentato che
perché credessero davvero che avrebbero trovato qualcosa.
Quella
fu la
prima volta che Emir vide la casa di Rotwang. Era un appartamento
molto piccolo e meticolosamente pulito, pensato e arredato e
proporzionato precisamente per un uomo scapolo che non paresse avere
alcun piano di cambiare idea.
Metter
piede
in quella casa per la prima volta, quando Rotwang gli
telefonò per
chiedergli di raggiungerlo durante la perquisizione, gli
lasciò
addosso la strana sensazione di violare per la prima volta
un'intimità alla quale fino a quel giorno non aveva mai
avuto
accesso e che per lui, a conti fatti, non era mai esistita. Rotwang
era sempre stato per lui nient'altro che un medico scontroso e
rancoroso che viveva di chirurgia, di genetica e di Mew, che provava
pulsioni fisiche violente e irrefrenabili che sfogava con odio e con
erotismo; ma niente di più, fino a quel giorno. Solo quel
pomeriggio, quando per la prima volta Emir varcò la soglia
dell'appartamento brulicante di agenti che frugavano dappertutto,
egli per la prima volta realizzò che Rotwang era umano
quanto lo era
lui, che possedeva centinaia di libri e manuali e vinili e un armadio
ricolmo di vestiti anche meno eleganti di quelli che era abituato a
vedergli, e poi ancora tutto un universo d'altra roba ch'egli mai si
sarebbe figurato.
La
perquisizione fu molto più noiosa e breve di quella alla
villa,
quantomeno dal loro punto di vista, semplicemente per il fatto che
quella volta non avevano davvero nulla da temere in quella casa;
Rotwang era un immigrato regolare con un contratto di lavoro in
regola, e soprattutto non nascondeva Mew in casa sua. Emir si
limitò
perciò a rimanere con Rotwang per tutta la mattinata,
aspettando più
o meno con pazienza che finisse tutto. Valérien non si
presentò
neppure, quella volta, e loro passarono la maggior parte del tempo
seduti in salotto, a discutere e scommettere se avesse preferito
rinunciare a quella perquisizione perché neppure lui ci
sperava più
o piuttosto perché Rotwang lo terrorizzava veramente.
Sorprendentemente,
per quanto il suo appartamento si componesse di due stanze appena e
avessero tutto il pomeriggio davanti a loro, Rotwang non volle
iniziare a riordinare fin da subito. Pareva che gli fosse balenata in
mente un'idea di cui però ritenesse ancora prematuro
parlargli, e di
fronte alle sue perplessità si limitò ad
ammutolirlo dicendo: «Se
non vuoi che venga a dormire a casa tua, basta dirlo. Non mi risulta
che ti sia mai dispiaciuto, ma puoi sempre farmelo notare.»
Alle
strane e
inspiegabili fissazioni di Rotwang Emir aveva ormai fatto l'abitudine
e aveva smesso di farci caso, perché quando avesse voluto
degnarsi
di fargliene parte lo avrebbe saputo; perciò, semplicemente,
lasciò
perdere.
La
strana idea
che Rotwang evidentemente aveva concepito dentro di sé
terminò di
maturare qualche giorno dopo, un mattino in cui volle alzarsi un po'
prima e fare addirittura colazione prima di andare al lavoro, quando
finalmente si decise a dirgli: «Ho disdetto l'affitto. Vengo
a
vivere qui.»
«Ah»
rispose
Emir cautamente, perché non era certo affatto d'esser
completamente
sveglio, per il momento. Si limitò a cercare una spiegazione
nella
sua mente per un po', pensierosamente, prima di commentare.
«Fa
piacere saperlo.»
«Che
c'è?
Fai l'offeso perché non te l'ho detto prima?»
A
dire il vero
gli sarebbe parsa un'ottima motivazione per offendersi con qualcuno,
quella di non essere d'accordo a che qualcuno si trasferisse in casa
sua senza chiedere non soltanto il suo permesso, ma neppure il suo
parere. Ma per la verità la cosa non gli dava il minimo
dispiacere,
e tutto ciò che gli venne in mente di chiedere fu:
«Perché?»
Finalmente
persino Rotwang parve addivenire a più miti consigli.
Evidentemente
doveva essersi accorto persino lui che nessuno poteva davvero
installarsi a vivere a casa di qualcun altro senza dargli una valida
spiegazione.
«Per
un
mucchio di buone ragioni, Fuji, che non sono quelle che pensi tu,
qualunque cosa stia pensando tu. Praticamente vivo già qui
da mesi e
pago un grosso affitto per una casa in cui non sto quasi mai;
perciò
te ne rendi conto anche tu che non ha senso. Ha molto più
senso che
io venga a vivere qui e che dividiamo le spese, dato che, non
offenderti, ma tra i due al momento sto guadagnando solo io. Ti pare
un'idea tanto assurda?»
Rotwang
doveva
aver parlato senza pensare, Emir ne era certo, eppure quel distratto
accenno en passant sul suo lavoro lo colpì in pieno petto
come un
lancio mirato al cuore.
«Non
ho alcun
bisogno di...»
«È
anche
colpa mia se hai perso il lavoro» lo interruppe seccamente
Rotwang,
senza neppure ascoltare le sue obiezioni. «E poi non ha senso
che
restiamo lontani quando esiste una soluzione tanto pratica per
entrambi. O forse qui non c'è abbastanza spazio?»
Non
c'era
nulla da obiettare di fronte a quella posizione; effettivamente
Rotwang aveva ragione su tutto, persino su quello che più lo
indisponeva sentirsi dire.
«Sarà
imbarazzante» commentò soltanto vagamente, senza
guardarlo negli
occhi, per non saper che dire; ma Rotwang scrollò le spalle
come se
quell'obiezione non avesse per lui alcuna ragion d'essere.
«Perché?
Non
hai mai avuto un coinquilino con cui scopavi?»
«Non
ho mai
avuto un coinquilino» obiettò Emir aggrottando la
fronte; e prima
della sua prevedibile obiezione: «Ero pendolare
all'Università.
Lavandonia è molto ben collegata con Azzurropoli,
perciò per me era
più conveniente...»
«Ah»
si
limitò a commentare Rotwang con aria disgustata, come se
esser stato
pendolare costituisse chissà quale onta sulla sua carriera.
«Avrei
dovuto immaginarmelo. Comunque, tornando a noi, trovo che questa sia
l'idea più sensata per entrambi, Emir, e mi sembra che non
possa
comportare che vantaggi. Ci stai?»
«Mi
pare che
tu mi abbia posto di fronte al fatto compiuto»
commentò Emir
eloquentemente, e Rotwang scoppiò a ridere, ma senza
acredine, per
una volta.
«Il
fatto che
tu non stia cercando di tirarmi un pugno in faccia vuol dire
sì?»
chiese. «Sei divertente quando lo fai, sai... sembri uno di
quei
gattini che si dimenano quando li prendi per la collottola. Allora,
è
un sì?»
Qualche
mese
prima Emir avrebbe probabilmente scavalcato il tavolo per picchiarlo
il più violentemente possibile a quelle parole; ma a quanto
pareva
quella fase delle loro vite si era conclusa, per il momento. Rotwang
non lo stava prendendo in giro in quel preciso momento – o
quantomeno non con cattiveria, il che era di certo più di
quanto si
sarebbe potuto dire sul suo carattere – ed Emir si
limitò perciò
a stabilire dentro di sé di non voler sapere per quale
motivo egli
avesse avuto proprio quell'immagine mentale.
«Vuol
dire
che dovresti levarti dalle palle prima che mi venga voglia di
spaccarti il naso sul serio» rispose serenamente.«E
prima di
perdere il lavoro.»
«Sto
tremando
di terrore» lo rimbeccò Rotwang alzandosi in
piedi. «Comunque, per
tua informazione, prevedendo il tuo assenso ho già informato
Portia
del mio trasloco e lei e suo marito sono disponibili ad aiutarci. Ho
chiesto anche a Dolarhyde se fosse interessato, ma mi ha mandato
generosamente a fanculo, perciò...»
«Hai
deciso
anche come riarredare la casa?» replicò Emir, e
Rotwang gli rivolse
un sorriso compiaciuto e appena un po' malevolo mentre lasciava la
stanza. Ma non aveva risposto, ed Emir si domandò con
angosciosa
rassegnazione, e forse sforzandosi di provare un po' più di
irritazione di quanta effettivamente ne sentisse, che altro avesse in
mente alle sue spalle quel dannato tedesco.
Non
l'avrebbe
ammesso mai ad alta voce, e a Rotwang meno che mai, che l'idea di
quella convivenza non gli dispiaceva affatto; ma naturalmente, se
anche uno solo di loro due ne avesse parlato, quello strano precario
equilibrio che s'era venuto a formare tra di loro si sarebbe
spezzato, spento, e forse tutto sarebbe tornato come prima. Rotwang
viveva praticamente già da lui, dal momento che tornava a
casa
propria a dormire solo quando proprio si convinceva ad andare a
controllare che non fosse stata occupata abusivamente in sua assenza
(il che doveva essere un modo raffinato per comunicargli che quella
notte aveva un assoluto bisogno di dormire senza dover ammettere ad
alta voce che persino le sue straordinarie doti amatorie avevano
bisogno di qualche ora di pausa per ricostituirsi); a conti fatti,
perciò, non sarebbe cambiato quasi niente, se non i vantaggi
che
Rotwang vedeva con certezza. A livello economico, non poteva che
essere conveniente condividere le spese di una villa enorme che era
fondamentale al loro piano e dunque insostituibile, e che fino ad
allora egli aveva sostenuto completamente da solo; e naturalmente la
sua vita sarebbe stata un po' meno solitaria, da quel giorno.
Ma
la verità
era che la presenza di Rotwang lo avrebbe confortato infinitamente
per un semplice fatto che mai avrebbe potuto ammettere ad alta voce
–
e forse neppure a se stesso in piena sincerità – e
cioè che
Rotwang sarebbe stato legato a quella casa esattamente come lui,
prigioniero quanto lui di quella villa e di quell'isola fintanto che
Mew l'avesse richiesto. Quella sensazione di conforto che provava al
pensiero era meschina e malvagia e la sua mente mai avrebbe tollerato
di ammetterla lucidamente, eppure Emir non poteva fare a meno di
sentirsene confortato: se veramente fosse stato condannato a rimanere
in quella casa per sempre, senza potersene allontanare mai per
più
di una giornata, quantomeno Rotwang lo sarebbe stato assieme a lui.
Era poi tanto mostruoso che se ne sentisse rassicurato, dal momento
che le conseguenze di un piano che avevano escogitato assieme avevano
finora colpito e vincolato solamente lui, e che il fatto di non
essere più l'unico prigioniero di quella vita lo facesse
sentire un
po' meno solo al mondo e angosciato?
Rotwang
si
trasferì da lui alla fine di aprile, quando il marito di
Portia ebbe
trovato sufficiente motivazione da impiegare una parte del suo tempo
libero ad aiutarli nel trasloco. Fu solo quando tutti gli scatoloni
furono nell'atrio, e Chris ebbe reso noto, in modo tanto velato
quanto palesemente evidente, che non aveva la benché minima
intenzione di spostare nient'altro anche per un solo altro gradino,
che per la prima volta realizzarono entrambi che c'era un
dettaglio al quale non avevano ancora pensato.
«Hai
già
deciso dove dormirai?» s'informò Emir con simulata
indifferenza non
appena furono rimasti soli, e con altrettanto simulata indifferenza
Rotwang si limitò a rivolgergli uno sguardo distratto
lasciandosi
cadere sul divano. Quel giorno indossava una camicia di lino
semitrasparente, con le maniche arrotolate come suo solito, ed Emir
si sedette sullo schienale del divano a guardarlo dall'alto
reprimendo un paio di idee che gli ispirava quella posizione.
«Pensavo
che
volessi deciderlo tu.»
«Perché
dovrei decidere io per te?» protestò Emir
aggrottando la fronte.
«Tutte le stanze di questa casa sono libere, ma non
sceglierne una
troppo complicata da raggiungere. Non puoi dormire sul divano ogni
volta che io non posso accompagnarti in camera tua, non ti
pare?»
«Sei
uno
stronzo, lo sai?» ribatté Rotwang pigramente,
senza mutare
espressione, rivoltandosi appena sul divano per guardarlo meglio.
«Sii serio, Fuji. Non è che non ci abbia pensato
finora. Dormire
insieme sarebbe comodo, ma non pensi che sia il caso di mantenere un
po' di distanza, per evitare di sbranarci a vicenda in un momento di
rabbia?»
«Sei
ottimista, eh?» replicò Emir ridendo, sentendosi
appena appena un
po' deluso e impercettibilmente più freddo e mortificato e
impacciato di prima. «Tecnicamente non ti stavo chiedendo di
sistemarti in camera mia...»
«Giusto»
disse Rotwang, e senza preavviso lo afferrò per un braccio e
lo
trascinò giù dallo schienale del divano per
attirarlo a sé. Emir
si ritrovò senza fiato contro il suo petto. «Ma se
te lo avessi
chiesto io mi avresti detto di sì, giusto?»
«Fanculo»
rispose Emir distendendosi su di lui, e il discorso finì
lì.
Rotwang
scelse
una stanza del primo piano a circa un corridoio di distanza dalla
sua. La sua scelta gli piacque molto: era leggermente più
piccola
della sua, un po' più luminosa, e aveva una normale stanza
da bagno
la cui porta non era celata da una finta parete. Da essa partiva un
piccolo corridoio cieco con una strana finestra bifora collocata
sull'angolo sud-est della villa, in modo tale da guardare
contemporaneamente tanto verso il centro del paese quanto verso il
vulcano. Forse era uno dei dettagli più eleganti della casa,
per
quanto unico e isolato nell'accozzaglia di stili diversi che
caratterizzava le facciate, eppure Emir non s'era mai neppure
domandato a quale camera appartenesse con precisione. Rotwang invece
doveva esser stato un po' più attento di lui,
perché a quanto
pareva aveva ricercato precisamente quella finestra e la
corrispondente camera.
Quando
s'era
trasferito lì, sette anni addietro, Emir non s'era dato
troppa pena
di domandarsi se l'arredamento della casa gli piacesse o meno, o se
ci fosse qualcosa che avrebbe potuto spostare o cambiare per sentirsi
più a suo agio a casa propria. I misteri dell'arredamento
erano
sempre stati per lui qualcosa di più insondabile
dell'universo
stesso, scritte nell'intraducibile linguaggio delle armonie e degli
equilibri di spazi, dei colori e degli stili; ma una casa per lui non
era un luogo estetico – casa era autonomia, era indipendenza
e
potere. Casa era solitudine e autodeterminazione, era tutto
ciò che
non era Lavandonia, e in tutto questo, naturalmente, l'arredamento
non rivestiva la benché minima importanza;
perciò, quando si era
trasferito, Emir si era limitato a scegliersi la camera che gli
pareva più comoda e più spaziosa, e anche la
più misteriosa, in
ossequio a quel certo gusto di potere e di solennità quasi
magica
che gl'ispirava la villa, per sentirsi un po' come il padrone di un
castello, e vi si era sistemato.
Ma
naturalmente Rotwang doveva comportarsi da gran signore europeo in
ogni situazione, perciò la sua camera richiese interi
finesettimana
di lavoro. Bisognava spostare tutti i mobili in corridoio,
ritinteggiare le pareti di bianco e areare i locali, e poi bisognava
scegliere quali mobili conservare e in quale posizione, e quali
invece portare al terzo piano. Bisognava trovare un posto e una
sistemazione adeguata per tutte le sue cose – il che, per
fortuna,
in quella casa era l'unico problema davvero facile da risolvere
– e
ovviamente trovare il modo di trasformare il corridoio cieco con la
finestra bifora in un guardaroba, perché quel dannato
tedesco era
talmente egocentrico che persino i suoi panciotti avevano bisogno di
una stanza tutta per loro. D'altra parte, Rotwang non sembrava aver
troppa premura di finire i suoi lavori, e allo stesso tempo sembrava
totalmente determinato a dormire con lui fintanto che il suo nuovo
appartamento privato non fosse stato pronto.
La
convivenza
non era male, e non solamente perché Rotwang rimaneva
l'unico suo
contatto col mondo esterno, e adesso ancora di più rispetto
a quando
semplicemente dormiva da lui quasi sempre. Anche quando ebbe
terminato di sistemare la sua nuova camera, Rotwang veniva a trovarlo
nella sua quasi ogni notte, e quando non lo faceva, di rado era
perché non avesse voglia di farlo con lui. Talora, in quelle
notti,
era Emir ad alzarsi per andare a trovarlo, e Rotwang l'attendeva
sempre sveglio come se non avesse voluto nient'altro che stare a
guardare per scoprire se sarebbe venuto. Avevano due camere separate,
ma a conti fatti le uniche notti che trascorrevano da soli erano
quelle in cui entrambi avevano davvero bisogno di dormire. Quella
vita, tutto sommato, non gli dispiaceva.
Ma
le giornate
erano un'altra storia, e parevano farsi più interminabili
ogni
giorno che passava. Dal momento in cui Rotwang si chiudeva la porta
alle spalle a quando faceva ritorno, Emir rimaneva solo ad aggirarsi
per la grande casa silenziosa, vuota, come lo spettro di una villa
abbandonata.
Non
era più
come i primi giorni, quando aveva appena perso il lavoro e la
prospettiva di rimanere a casa per un lasso di tempo tanto
indeterminato quanto infinito gli appariva come una nuova, inusitata
avventura; quando ancora doveva abituarsi alla presenza di Rotwang e
a quella di Mew nella sua casa, e l'aver appena compiuto il furto del
secolo riempiva le sue giornate della consapevolezza vaga
dell'illegalità e del rischio e dell'attesa di qualcosa di
imprecisato che poteva accadere da un momento all'altro. Ora che non
poteva accadere più nulla, che avevano dimostrato e provato
in ogni
modo possibile di essere al di sopra di ogni sospetto, la sua vita
non prevedeva più nulla per il futuro, neppure il
più
insignificante mutamento della sua quotidianità. Ora
veramente tutta
la sua genialità e il suo impegno, il suo studio e le sue
idee
ribollenti erano destinate a rimanere confinate su quell'isola senza
possibilità di fuga, e quella casa ch'egli aveva inseguito e
ottenuto a coronamento della propria ambizione doveva diventare la
prigione del suo genio?
Forse
fu per
questo che cominciò a studiare Mew.
Non
fu una
scelta consapevole, e a dire il vero non fu neppure una scelta.
Durante il giorno, per ingannare l'attesa durante l'assenza di
Rotwang, Emir trascorreva quasi tutto il tempo nel sotterraneo, e Mew
era l'unico essere vivente che potesse osservare; e in fin dei conti
lui era un genetista, e in quel momento era l'unico scienziato al
mondo che avesse la possibilità di studiare il
Pokémon più raro
del mondo. Emir trascorreva interminabili ore semidisteso su un
divano a guardarla giocare o dormire o inseguire una crosta di pane
sotto un mobile, e a un certo punto la sua mente smise di vederla
come una bimba preziosa che aveva salvato, e cominciò a
pensare.
Il
fatto che
Mew fosse felice di stare lì non cessava di stupirlo, e non
in senso
positivo. Ogni mattina egli si sforzava di prepararle una colazione
diversa, e ogni mattina Mew reagiva nello stesso identico modo, con
gli stessi balzi di gioia entusiastica e senza fine, del tutto
irragionevole; il che voleva dire che ogni cibo le era perfettamente
indifferente, e che lei era felice soltanto di riceverlo dalle sue
mani. Allo stesso modo, qualsiasi gioco egli le proponesse per
distrarla le era sempre ugualmente gradito. Quando Rotwang scendeva a
trovarli, la sera, e portava giù la cena e sedeva accanto a
lui per
giocare con Mew e riposarsi in lei della lunga giornata, lei lo
accoglieva esattamente come quel mattino aveva accolto lui. Ma
com'era possibile che ogni singola cosa la riempisse della medesima
gioia – e se M1 fosse vissuto, sarebbe stato anche lui, come
lei,
stupidamente felice di tutto?
Quello
non era
scegliere, non era quello il libero arbitrio, poiché non
implicava
scelte o differenze; perciò nei lunghi pomeriggi torridi
dell'estate
che s'inoltrava, quando Mew si stancava dopo aver giocato troppo e si
appisolava acciambellandosi sulle sue ginocchia, Emir udiva la
propria voce domandare nel silenzio: «Ma a che
cos'è che pensi,
tu?». Eppure né la biologia né la
genetica avrebbero potuto dargli
una risposta.
Cominciò
ad
annotare i suoi comportamenti quasi senza accorgersene, più
per
passare il tempo e tenere la mente occupata che perché
avesse
un'intenzione precisa. Non aveva nulla di meglio da fare; e senza
riflettere e senza alcun motivo reale iniziò a scrivere
dettagli e
riflessioni sui quali sino a quel momento la sua mente s'era limitata
a sorvolare oziosamente senza mai soffermarvisi con precisione. Aveva
trovato un vecchio taccuino di foggia classica, dalla copertina di
pelle nera, dal cassetto di uno dei tanti mobili sconnessi del
sotterraneo. Doveva essere appartenuto al suo predecessore, al
curioso uomo senza nome che aveva fatto costruire la villa, e
chissà
per quale motivo gli faceva piacere pensare che quel taccuino era
passato per le sue mani.
Non
era
intonso: sulla prima pagina, una scrittura ignota, antiquata e
svolazzante, aveva scritto: Oggi, diciassette aprile,
conversazione con N, e poi, saltando svariate pagine: Laudano,
6 grammi. Non avrei dovuto: su quelle ultime parole la penna
era
ripassata più volte a rafforzarle. Il mistero di quell'uomo
era per
lui insondabile, ma la verità era che proprio l'immagine
nebulosa e
confusa che si era creato di quell'uomo, quella di un genio
stravagante e incompreso, misantropo e altero, gli piaceva
enormemente proprio perché non riusciva a inquadrarla, e
forse
perché nel suo inconscio egli la sfumava e la sovrapponeva
alla
propria. Sentiva che quello era l'unico destino che gli si
prospettava; e figurarsi come il degno successore di un uomo ricco e
geniale era di certo un po' meglio che morire come un disoccupato
alienato e solitario privo di qualsiasi alternativa.
Quando
era
all'università, la sua professoressa di Laboratorio di
biologia
molecolare consigliava loro di annotare ogni cosa che accadesse in
laboratorio e ogni minimo spunto di riflessione, in modo da poter
sempre ricostruire che cosa fosse accaduto durante la ricerca; e ogni
tanto, nei momenti di confusione, Emir s'era sorpreso ad annotare
compulsivamente eventi o pensieri sparsi. Allo stesso modo, un
mattino particolarmente noioso, Emir si sedette a una scrivania del
sotterraneo, aprì il taccuino a una pagina bianca e scrisse,
quasi
per il solo gusto di far scorrere la mano sul foglio: Diario,
8
agosto – stamattina pane imburrato e caffè per
colazione. Per Mew
mezza tazza coi manici di latte e un cucchiaio di cereali. È
stata
molto contenta; e poi, un minuto dopo, prima ancora di
riflettere
su quel che aveva scritto: come sempre, del resto.
Mew
si
comportava esattamente allo stesso modo ogni singolo giorno, e se
prima l'aveva solo sospettato ora ne aveva la certezza: ogni mattina,
quando Emir scendeva dabbasso con la colazione dopo la partenza di
Rotwang, Mew lo accoglieva trepidante di gioia, oppure, quando si
sentiva particolarmente stanca e capricciosa, restava ad aspettarlo
acciambellata sulla sua poltrona preferita, cogli occhi ancora
socchiusi e appiccicosi di sonno, e pretendeva che fosse lui ad
avvicinarsi e a coccolarla, prima di degnarsi finalmente di
stiracchiarsi e infine di alzarsi. Dopo aver mangiato con immutabile
soddisfazione qualsiasi cosa Emir le avesse portato, Mew pretendeva
di giocare un po' con lui ed era in grado, con l'abilità
propria di
un bambino, di tramutare in gioco praticamente qualsiasi cosa;
dopodiché guardavano i cartoni animati fin verso l'ora di
pranzo.
Finalmente, dopo mangiato, Mew finiva per appisolarsi di nuovo sulle
sue ginocchia o accanto a lui sul divano, ed Emir poteva mettersi al
lavoro e seppellirsi tra riviste specializzate e manuali di genetica,
e talora annotava qualcosa sul suo taccuino.
Se
c'era
qualcosa di meraviglioso nelle estenuanti mattinate che trascorrevano
insieme, era che Mew non solamente amava guardare i cartoni animati
–
il che si sarebbe spiegato facilmente per via dei colori sgargianti e
dei movimenti rapidi – era che li capiva,
e questo fenomeno
egli non cessava di annotarlo nei suoi appunti. Quando Emir accendeva
svogliatamente la TV che aveva trascinato nel sotterrano sul primo
canale che trasmettesse cartoni animati, Mew era capace d'incantarsi
davanti allo schermo anche per più di un'ora
consecutivamente, come
i bambini, e di non distoglierne mai lo sguardo. La facevano ridere
le trovate narrativamente stupide, come le feci sorridenti che
apparivano nel Dr. Slump o anche solo i personaggi
che
cadevano rovinosamente – vederla ridere era molto piacevole,
dato
che si copriva il muso con le zampe, deliziata, e sobbalzava a
mezz'aria facendo capriole su se stessa. Ma alle sue risate e al suo
buonumore Emir non avrebbe probabilmente prestato attenzione, e
avrebbe probabilmente dato per scontato, senza neppure pensarvi
troppo, che si trattasse dell'ennesima manifestazione della sua gioia
di vivere, se solo un giorno non si fosse accorto che Mew si
commuoveva. Di fronte alla sofferenza e alla morte
dei
personaggi si stringeva a lui in cerca di conforto, pigolando piano
come i gatti appena nati, e levava su di lui gli occhi come in cerca
di risposte. Ma allora Mew conosceva il dolore, lo
concepiva,
lo provava; la desolazione terrificante, senza fine della morte non
le era ignota affatto; ma allora la domanda che sempre l'aveva
tormentato da quel giorno lontanissimo in cui l'avevano trovata
tornava a incalzarlo e a pungolarlo senza posa: se Mew conosceva il
dolore, se aveva mai sofferto per la morte di M1, allora
perché non
si ribellava di fronte a lui che aveva assistito a quella morte,
perché non si ribellava d'esser chiusa là sotto
da mesi, senza luce
né aria?
Quel
mistero
lo stregava oltre ogni immaginazione. Emir prendeva appunti ogni
singolo giorno riempiendo paginate intere di una scrittura fitta e
sottile, quasi compulsivamente, come ai tempi
dell'Università. Le
reazioni di Mew di fronte alla televisione non erano precisamente
come le strutture del DNA o delle cellule riproduttive, certo, ma
erano comunque qualcosa, e di certo tutto ciò che gli
rimaneva.
Non
si
soffermò mai a riflettere su cosa stesse facendo fino al
giorno in
cui si addormentò sul divano.
Fino
a quel
giorno non aveva mai pensato, neppure per un istante, che i suoi
appunti fossero qualcosa da nascondere o di cui vergognarsi. Quando
Rotwang tornava a casa ogni sera, e scendeva dabbasso per venire a
salutarlo e chiedergli che cosa aveva fatto durante la giornata, Emir
rispondeva immancabilmente, ogni singolo giorno: «Ho studiato
un
po'» e neppure per un momento aveva mai dubitato d'aver detto
la
verità. Il tavolo era ingombro di manuali e di riviste,
evidenziatori e appunti volanti, e in uno dei quaderni, tra decine di
altre annotazioni delle quali alcune neppure appartenevano a lui,
c'erano pagine che descrivevano il comportamento di Mew e che egli
aveva preso sollevando gli occhi su di lei mentre guardava i cartoni
animati. Non aveva la minima intenzione di tenergli nascosto nulla,
ma il punto è che non c'era nulla da dire: lui e Mew
rimanevano soli
per tutto il giorno; Mew era un Pokémon, dopotutto, e lui
era nato e
cresciuto per studiare i Pokémon.
C'erano
giorni
in cui Rotwang si dimostrava particolarmente interessato ai suoi
studi, e chinandosi sul tavolo dalle sue spalle, col petto appoggiato
contro la sua schiena, scorreva per un po' qualche articolo, in
silenzio, pensierosamente, e commentava oziosamente a bassa voce, per
aver qualcosa da dire. Ma non tutte le sere erano uguali per lui,
perché per lui e per il mondo esterno non tutte le giornate
si
somigliavano a tal punto da rendersi indistinguibili l'una
dall'altra. C'erano sere in cui era troppo esausto e svogliato per
studiare con lui, e il picco massimo delle sue relazioni sociali
consisteva nel giocare una mezz'ora con Mew e poi segregarsi sotto la
doccia fino all'ora di cena; e ovviamente altre sere ancora, forse
più numerose, in cui semplicemente tornava a casa troppo
arrabbiato
con Valérien e con la Silph e col mondo intero, e tutto
ciò che
faceva, allora, era imprecare: il progetto dei fossili era stato
riavviato, certo, ma con fondi ridotti, senza la minima fiducia,
quasi solo perché il laboratorio doveva esser tenuto aperto;
Dale
era sempre più nervoso, e la sua agitazione e le sue assurde
pretese
si riversavano su Lestournelle, che pareva diventar pazzo ogni giorno
di più; e poi i fossili, le sequenze di DNA non sufficienti,
il
materiale genetico, la ricerca di una specie compatibile... al
sentirgli parlare di fossili e di DNA Emir si sentiva prudere le mani
dalla voglia bruciante di agire, di studiare, di lavorare; gli pareva
ogni giorno di più d'esser rinchiuso in quel sotterraneo
come un
uccello prigioniero di una gabbia, eppure si guardava bene dal
dirglielo. Rotwang aveva la fortuna di poter ancora lavorare, certo,
e per di più a un progetto che amava: ma era così
che si erano
suddivisi i ruoli fin dall'inizio, lo sapevano entrambi. A che
sarebbe valso fargli pesare la responsabilità di qualcosa
che era
prima di tutto colpa sua?
La
sera in cui
Emir si svegliò di soprassalto sul divano, senza neppure
ricordarsi
d'essersi addormentato, Rotwang era seduto a cavalcioni di un
bracciolo, a poca distanza appena da lui, e sfogliava distrattamente
qualcosa.
Impiegò
qualche minuto a realizzare dove si trovava, forse perché
era tutto
il giorno che si sentiva assonnato e febbricitante come per un
principio d'influenza, o perché Rotwang, nella sua solita
rudezza,
gli aveva appoggiato distrattamente una mano sulle ginocchia
mentr'egli dormiva, e la sua mano fresca sulla sua pelle aveva un
tocco tiepido e rassicurante come una carezza. Non si mosse per un
po'. Si trovava ancora immerso in un dormiveglia pesante e
appiccicoso, gradevole solo a tratti, e gli pareva che tenere gli
occhi aperti comportasse una fatica immane; e poi Rotwang neppure
s'era accorto che era sveglio.
Si
sentì
improvvisamente lucido solo quando si accorse che quello che Rotwang
stava sfogliando era quel taccuino.
Non
si mosse
neppure. Rotwang doveva averlo preso così, senza un motivo
particolare, solo perché ormai tra di loro parevano non
esistere più
segreti; e poi doveva aver dato per scontato che fosse materiale di
studio. Cosa che era, ma era proprio questa la cosa raggelante che
gli impediva di muoversi: che per la prima volta egli si rese conto
d'aver studiato Mew per tutto quel tempo – e con la stessa
lucidità
e immediatezza si rese conto che Rotwang non sarebbe stato d'accordo.
Rotwang
s'accorse che lui era sveglio prim'ancora ch'egli avesse modo di fare
un movimento, forse sentendosi osservato o dalla diversa
qualità del
suo respiro. Gli batté la mano sul ginocchio con una certa
familiarità distratta, svagata. «Ehi. Ti senti
bene?»
Emir
si rigirò
pigramente su un fianco nel tentativo di sgranchirsi un po'. Si
sentiva in petto un nodo asfissiante di tensione che pareva
bloccargli il respiro, come in procinto d'essere scoperto; ma Rotwang
non sembrava perplesso né turbato, e a dire il vero lo
guardava a
malapena. «Non lo so. Mi sento stanco.»
«Immagino
che
tu abbia giornate sfiancanti qua sotto» commentò
Rotwang a bassa
voce; ma non c'era sarcasmo nella sua voce, quanto piuttosto una
punta sottile di amarezza. Forse non avrebbe voluto questo per lui,
chissà. Riprese dopo un momento di silenzio. «Sei
dimagrito ancora.
Te ne sei almeno accorto?»
Emir
aggrottò
la fronte per un istante. «Non saprei.»
«Lo
so io.
L'unica attività fisica che tu compia da quando sei qua
sotto è
stare sopra quando lo facciamo, perciò l'unico modo in cui
tu abbia
potuto perdere peso è un regime gravemente ipocalorico. Sei
denutrito, Fuji. Come lo spieghi?»
Rotwang
l'aveva detto con un tono stranamente assorto, preoccupato, e forse
persino un po' triste, ma per nulla acre; eppure Emir lo
avvertì
come un'accusa. «Ceniamo sempre insieme. Mi vedi mangiare
anche tu.»
«Non
è
questo il punto» borbottò Rotwang, ma per un
istante gli sembrò
tanto seccato, tanto turbato, che Emir quasi si ritrasse.
«Fai come
credi, Emir. Sei adulto e vaccinato e di certo non devi render conto
a me; ma penso che dovresti sforzarti di uscire di più. A
volte non
mi ricordo più chi è che sto nascondendo in
questa casa, se te o
Mew...»
Nascosto
in
quella casa, clandestino come il Pokémon più raro
del mondo,
prigioniero quasi quanto lei: era esattamente così che si
sentiva,
eppure Emir si sforzò d'ignorare la persistente sensazione
che
Rotwang avesse pienamente ragione. Si sforzò di sollevarsi a
sedere
sul divano, con un vago sentore di nausea e di pesantezza e le
palpebre che bruciavano appena di sonno e di febbre.
«Hai
ragione»
borbottò obbedientemente, macchinalmente, per non discutere;
Rotwang
si strinse nelle spalle.
«Lo
so
anch'io che ho ragione, Fuji. Non ho bisogno di sentirmelo dire da
te. O mi dai retta o non lo fai, ma vedi di non prendermi per il
culo, siamo intesi?»
Rotwang
non lo
stava aggredendo, ma la sua voce era seria e amara, cupa, ed Emir non
aveva la minima voglia di discutere – quantomeno non
più di quanta
ne avesse di tornare a uscire di casa, senza uno scopo, nel mondo
esterno. Si limitò a far cenno col capo di aver capito, e
Rotwang
diede per chiuso l'argomento e tornò a sfogliare il
taccuino, senza
dar segno di vederlo.
Sentendosi
la
gola annodata dall'angoscia, con la strana sensazione di dover
nascondere un delitto che aveva commesso, Emir accennò al
taccuino
sforzandosi di restare calmo e domandò: «Che
fai?»
«L'ho
trovato
tra le tue cose. Non ti dispiace, vero?» rispose Rotwang
scorrendo
distrattamente le pagine con la punta delle dita.
«Però non è la
tua scrittura.»
Dunque
non era
ancora arrivato alle pagine su Mew; eppure Emir si sforzò di
reprimere la sensazione di sollievo che gli invadeva il petto a quel
pensiero e di restare calmo. «L'ho trovato in un cassetto.
Doveva
essere del vecchio proprietario della villa.»
«Oh,
avrei
potuto arrivarci» commentò Rotwang sorridendo
appena tra sé.
«Senti qua: Laudano, 6 grammi... 4 settembre,
laudano... eroina,
10 milligrammi... laudano, 35 gocce... in effetti solo un
oppiomane poteva progettare una casa come questa.»
«Già,
è
vero» mormorò Emir sforzandosi di ridere, col
petto che gli pareva
gonfiarglisi d'angoscia di momento in momento. «Spiega molte
cose.»
«Bah»
commentò Rotwang quasi disgustato, chiudendo il taccuino
come se
volesse metter da parte con esso anche il misterioso oppiomane di
tanti anni prima. Gli batté familiarmente la mano sul
ginocchio. «Tu
che hai fatto oggi?»
Se
gliel'avesse detto subito non ci sarebbe stato alcun segreto tra di
loro, e tutto si sarebbe risolto quel giorno, quella sera stessa.
Avrebbero litigato, urlato, forse si sarebbero scagliati oggetti
addosso, certo; ma poi tutto sarebbe finito lì, e qualche
sera dopo
avrebbero fatto sesso di nuovo e poi avrebbero ripreso a parlarsi, e
alla fine avrebbero fatto pace. Ma da quando viveva recluso
là sotto
Emir si sentiva mancar le forze, si sentiva perennemente stanco,
eternamente solo; i litigi del Laboratorio gli sembravano appartenere
a giorni lontanissimi, a un'epoca più remota ed estranea
ancora di
quella del suo predecessore, e ricambiando per un attimo lo sguardo
diretto di Rotwang egli non se ne sentì il coraggio.
«Ho
studiato
un po'» rispose semplicemente.
Una
sera
dell'autunno che iniziava Rotwang tornò a casa
particolarmente
tardi, con l'aria di non voler parlare di niente, o almeno questa era
l'espressione che aveva in volto quando Emir se lo vide apparire nel
sotterraneo stravolto e distratto, assorto nei suoi pensieri, e
troppo silenzioso. In momenti come quello Emir non sapeva come
decifrarlo: era troppo inafferrabile; ma il fatto che Rotwang fosse
venuto proprio nel sotterraneo dov'era certo di trovarlo, quando
avrebbe avuto a disposizione trentacinque stanze disposte su tre
piani per esser certo di poterlo evitare, voleva dire di certo che
forse non aveva voglia di parlargli, ma senz'altro era lui che era
venuto a cercare.
Non
gli
domandò nulla. Rotwang sedette sul divano al suo fianco
senza
neppure guardarlo, collo sguardo fisso davanti a sé, e disse
dopo un
po': «Dolarhyde si è licenziato.»
Nei
mesi
precedenti Rotwang l'aveva sempre tenuto aggiornato di tutto quanto
succedeva al Laboratorio, in parte perché persino nella sua
reclusione il Laboratorio e la Silph restavano l'unico orizzonte di
eventi col quale Emir potesse confrontarsi, e in parte
perché se non
avesse saputo costantemente che cosa accadeva e che cosa progettava
l'unica persona al mondo che conosceva il loro segreto gli sarebbe
parso d'impazzire.
A
quanto
pareva, Valérien doveva aver scontentato più
della sola opinione
pubblica di Kanto con i suoi ossessivi tentativi di accusare e
screditare la famiglia Fuji senza tuttavia riuscire a dimostrare
niente; qualcuno dalla Silph doveva avergli fatto capire che un'altra
gaffe del genere gli sarebbe costata cara, e che se proprio tutto
ciò
che era in grado di fare per cercare di ritrovare Mew era far
perquisire sotto gli occhi dei giornalisti una casa dopo l'altra per
poi far finire ogni insuccesso sui giornali, in tal caso la
dottoressa Mann avrebbe potuto fare meglio i loro interessi.
E
poi,
naturalmente, neppure la testardaggine di Valérien poteva
fare nulla
contro l'evidenza: se Mew non s'era trovata in casa sua, doveva voler
dire che non c'era; e naturalmente l'unica cosa ch'egli poteva fare
in quanto direttore era tornare a occuparsi delle ricerche –
il
che, col laboratorio sotto personale e a pochi mesi dal concludere un
progetto durato più di quattro anni, era di certo l'idea
migliore
che potesse avere. Il che non vuol dire che i lavori procedessero
bene.
L'unica
persona che era sempre riuscita a porre un freno alle divergenze in
laboratorio era Portia, ma a quanto pareva neppure a lei interessava
più sprecare tempo ed energie per far andare d'accordo tutti
quanti;
e poi, gli equilibri in laboratorio erano cambiati molto negli ultimi
tempi e, forse con suo grande sollievo, non si trovava più a
essere
al centro di ogni oscillazione della bilancia. Fintanto che tutti i
principali scontri all'interno del Laboratorio erano stati da parte
sua e di Rotwang, Portia s'era sempre ritenuta in dovere
d'intervenire e di mediare tra di loro perché era amica di
entrambi
– sia pur con una palese preferenza per Rotwang,
là dove non fosse
proprio lampante che era lui ad aver torto; ma ora che
Valérien
aveva tradito le aspettative di tutti e si era rivelato per quello
che era, o quantomeno nella forma ch'era in grado di assumere sotto
l'influenza di Dale e dell'autorità, tutto il resto del team
si era
schierato contro di lui e aveva perduto ogni rispetto nei suoi
riguardi dopo la perquisizione del Centro Pokémon
Volontario. Veder
umiliato e svergognato un uomo anziano che aveva sempre dato la vita,
molto più della sua vita, per il benessere dei
Pokémon era più di
quanto ciascuno di loro potesse sopportare; e Portia viveva a Kanto
da quando aveva diciannove anni, e del signor Fuji di Lavandonia
aveva sentito parlare sin da allora.
Persino
nel
suo disprezzo però era estremamente professionale: quando
lei e suo
marito venivano a cena alla villa, o li invitavano a casa loro per
interminabili cene con le bambine che strillavano e correvano attorno
al tavolo e pretendevano che giocassero con loro, Portia non parlava
mai di lavoro; avrebbe potuto sfogarsi dell'atmosfera intollerabile e
soffocante del laboratorio con le persone che più al mondo
avevano
motivo di odiare Valérien e di appoggiarla nella sua
frustrazione,
ma a una tale vigliaccheria non si sarebbe abbassata mai. Quando
cenavano assieme, perché a quanto pareva queste cene di famiglia
almeno una volta al mese erano fondamentali per continuare a fornir
loro una copertura – o quantomeno questa era la tesi di
Rotwang
quando lo obbligava ad andarci, dato che aveva deciso di smettere di
fingere pubblicamente che la loro fosse una storia di solo sesso
qualche settimana dopo essersi trasferito da lui – Portia non
parlava d'altro che della scuola delle bambine e vecchi aneddoti
universitari e pettegolezzi di paese e poco altro.
Contrariamente
a ogni aspettativa, il primo a cedere alla pressione della nuova
gestione era stato proprio l'unico che nessuno si sarebbe aspettato
mai.
Vincent
aveva
sempre avuto l'aria d'interessarsi tanto poco di tutto ciò
che
concerneva la direzione ideologica del Laboratorio e della Silph da
far sentire la sua voce solo quando qualcosa lo toccava direttamente;
con lui Emir non ricordava d'aver mai discusso seriamente neppure una
volta in sei anni di collaborazione. Questo perché Vincent
si
occupava soltanto di provette e risultati e test genetici, e di
ideologico, in quello che faceva, c'era ben poco. Del resto, Vincent
non aveva per natura un carattere polemico o litigioso; era testardo
e sicuro di sé, questo sì, e ogni tanto discuteva
animatamente con
Rotwang, perché due uomini testardi e orgogliosi come loro
non
potevano non scontrarsi ogni tanto; ma i loro erano sempre litigi
intensi e fulminei che si esaurivano con l'esaurirsi della questione,
e nessuno dei due s'era mai portato rancore.
A
quanto
pareva invece Valérien aveva perduto ogni forma di rispetto
che
Vincent avesse mai provato per lui quando aveva scelto di umiliare il
signor Fuji; e quando sotto gli occhi di tutti s'era messo a urlare
senza neppure esser stato sfiorato, e meschinamente s'era
approfittato della confusione per cercare di passar da vittima e di
farsi difendere dai suoi colleghi, s'era attirato anche tutto il suo
disprezzo. Vincent non aveva mai detto nulla; s'era limitato a
prendere atto del fatto che Valérien era cambiato, o
piuttosto che
s'era rivelato per quello che era, un ragazzino deluso che
s'approfittava del proprio potere per cercare di vendicarsi, e se
l'era tenuto a mente. Quanto al resto, la gestione che
Valérien
avrebbe adottato non gli interessava un granché, dal momento
che la
sua mansione restava sempre più o meno la stessa e che
nessun
direttore avrebbe mai potuto pretendere da lui più lavoro di
quanto
ne avesse richiesto Emir.
Stando
a
quanto raccontava Rotwang, Valérien continuava a dirigere i
lavori
nel suo modo insicuro e contraddittorio, tornando più volte
sulle
sue decisioni e interrompendo bruscamente una fase della ricerca
della durata di qualche settimana per spostare chi se n'era occupato
a lavorare su qualche altro aspetto, e soprattutto addossando sempre
su qualcun altro la colpa di ogni problema; era isterico,
nevrastenico; non litigava mai apertamente con nessuno, semplicemente
perché tutti s'erano schierati contro di lui, e questo lo
faceva
sentire come se fosse al centro di una cospirazione, perennemente
sotto gli occhi e il giudizio di tutti, e come se tutto il
Laboratorio l'osservasse in silenzio nell'attesa di un suo errore.
Doveva essere come diventar pazzo; se almeno qualcuno gli avesse
detto qualcosa, avrebbe potuto difendersi, gridare, dimostrare che
non era affatto meschino come tutti sussurravano di lui; ma nessuno
gli avrebbe mai detto niente perché tutti temevano vagamente
una sua
reazione capricciosa e inconsulta, come un licenziamento, magari, dal
momento che ne aveva l'autorità e aveva già
dimostrato com'era
capace di servirsene; e dal canto suo, Valérien non poteva
nulla per
agire per primo: Rotwang gli faceva paura, Portia suscitava ancora in
lui una sorta d'inconscia venerazione. In quanto a Vincent, era il
più distante di tutti dalle meccaniche private e personali
che si
erano create tra di loro e proprio per questo era il meno pericoloso,
e doveva esser quello da cui meno c'era da aspettarsi una reazione.
Non che Valérien fosse perfido a tal punto da realizzare
tutto
questo logicamente e da comportarsi razionalmente di conseguenza:
Valérien non era cattivo, era semplicemente meschino e
vigliacco, e
la sua frustrazione si riversava, come l'acqua, là dove
più
facilmente trovava sfogo. Si trattava perlopiù di risposte
piccate,
spazientite, di mezzi rimproveri sugli orari o sul lavoro svolto o di
poco altro ancora, e fintanto che la faccenda si limitava a questo,
nessuno in tutto il Laboratorio aveva tempo da perdere a prestarvi
attenzione, e Vincent meno che mai.
L'atmosfera
era deflagrata quel giorno, quando Valérien si era
affacciato nel
laboratorio di Vincent e gli aveva chiesto in tono inquisitorio, con
l'aria di star cercando qualcuno a cui dare la colpa e desse per
scontato di averlo già trovato, che diamine volessero dire
certi
risultati che non avevano senso. Senza scomporsi troppo Vincent aveva
inforcato gli occhiali, aveva scorso rapidamente i risultati,
valutato un paio di parametri per accertarsi che tutto avesse
funzionato a dovere, gli aveva restituito i fogli e aveva risposto:
«Il biologo sei tu. Se pensi che ci sia stato un errore dimmi
di
rifarli, altrimenti penso che dovresti essere tu a interpretarli. Sei
d'accordo con me?»
Senza
saperlo,
e di certo senza averne la minima intenzione, Vincent doveva averlo
colpito in una delle tante paranoie che lo dilaniavano: quella di
venir paragonato a Emir e di non essergli all'altezza. Che poi
Vincent non l'avesse neppure nominato e tantomeno pensato, nella sua
mente la cosa non cambiava: Valérien sapeva che tutti nel
laboratorio avevano preferito Emir, e se i suoi sottoposti lo avevano
preferito come direttore, per quale motivo non avrebbero dovuto
preferirlo anche come collega?
Vincent
aveva
aspettato lo sfuriarsi della sceneggiata che s'era abbattuta su di
lui con serafica, imperturbabile calma, quasi con attenzione, e non
aveva fatto neppure una volta un tentativo di interromperlo o di
difendersi. Si era limitato ad appoggiarsi contro lo schienale della
poltrona per osservarlo in silenzio dal basso, quasi come se lo
vedesse per la prima volta, e aveva aspettato.
Valérien
non
aveva fatto altro che urlare che lui era il direttore, che gli
dovevano rispetto; che nessuno in tutto il Laboratorio s'era mai
neppure sforzato di guardarlo come un adulto perché tutti
avevano
sempre dato per scontato che non sarebbe mai stato
all'altezza
di Emir e che aveva ricevuto quell'incarico solo per poter operare i
tagli richiesti dalla Silph, e poi che... Ma di fronte
all'imperturbabile silenzio di Vincent la sua voce s'era affievolita
a poco a poco, e infine si era spenta. Il silenzio contro il quale la
sua voce s'infrangeva lo aveva ammutolito, ed egli si era ritrovato
ad aspettare che alle sue parole facesse seguito qualcosa.
«Hai
finito?»
aveva domandato Vincent educatamente. Valérien non aveva
risposto,
allora Vincent si era alzato, si era sfilato ordinatamente il camice
e lo aveva riposto con cura sullo schienale della sedia. Non si era
scomposto affatto. «Se vuoi dar sfogo alla tua frustrazione,
penso
che tu debba trovare qualcun altro, Valérien. Se nessuno qui
ha il
coraggio di dirtelo lo farò io: abbiamo tutti sopportato a
sufficienza.»
Fu
una serata
particolarmente triste, come dopo aver avuto notizia di un lutto.
Rotwang gli descrisse tutta la scena in ogni passaggio, almeno per
come lui e Portia l'avevano ricostruita sulla base dei resoconti
infervorati di Vincent e delle sconclusionate urla di
Valérien, e
tutto ciò che era successo dopo –
Valérien che sbraitava al
telefono con Zafferanopoli mentre Vincent sbatteva le sue cose in uno
scatolone e Portia che andava dall'uno all'altro per cercare di
farli ragionare; ma quando ebbe finito di raccontare si rinchiuse di
nuovo nel suo scontroso mutismo, ed Emir rimase in silenzio a
rispettare la sua rabbia e la sua agitazione. Se c'era qualcosa al
mondo che sapeva come affrontare, dopotutto, era il suo malumore.
Tuttavia
quella sera, quando Emir uscì in maglietta dal suo bagno
privato per
andare a dormire, rientrò in camera sua solo per trovare il
suo
letto già occupato da Rotwang che leggeva cupamente un
vecchio libro
in tedesco. Rimase interdetto per un istante. Da quando abitavano
insieme non avevano mai dormito assieme se non le
notti in cui
facevano sesso; e quella sera Rotwang gli sembrava tutto
fuorché in
vena di farlo.
Si
schiarì la
voce. «Non pensavo che venissi qui.»
In
risposta
alla sua osservazione, Rotwang non alzò nemmeno gli occhi
dal suo
libro. «Se è un problema, me ne vado.»
«No,
no,
io... resta pure quanto vuoi» balbettò Emir
stupidamente,
sentendosi ancora più confuso e perplesso di prima.
«Solo non
credevo che avessi voglia di...»
Le
sopracciglia di Rotwang si aggrottarono impercettibilmente al di
sopra del libro, ed Emir intuì che quello proprio non era il
caso
d'insistere e ammutolì. Per una volta, dopotutto, quella
d'infilarsi
a letto senza discutere oltre non sembrava un'idea tanto cattiva.
Non
parlarono
più. Rotwang lesse con calma, senza degnarlo di uno sguardo,
per
un'altra decina di minuti, dopodiché spense l'abat-jour dal
suo lato
del letto, si girò su un fianco e rimase immobile.
Non
ci stava
capendo niente. Emir scrutò la massa di lenzuola e coperte
che si
gonfiava al suo fianco con un po' di perplessità e con
un'improvvisa
stretta al cuore; ma non c'era altro da fare. Spense la luce e si
distese nel silenzio al suo fianco, discosto da lui ma vicino
abbastanza da percepire la sua presenza, e si sforzò
d'ignorare il
fatto che quella era la prima volta che dormivano assieme senza fare
sesso, e che gli sembrava che questo cambiasse qualcosa tra di loro.
|
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Capitolo 12 *** Incomunicabile. ***
incomunicabile
Incredibile ma
vero, sono di
nuovo qui!
Come avevo
preannunciato, la mia
vita ha preso pieghe inaspettate dal 2018 a oggi, mi sono ritrovata
senza preavviso a vivere da sola e quant'altro, quindi il tempo che
mi rimane è sempre poco: ma non per questo
abbandonerò mai questa
storia, non ora, specialmente, che m'identifico con Emir più
che
mai. Perciò mi dispiace davvero impiegare sempre secoli per
ogni
aggiornamento, ma spero che ancora vi vada di perdervi un po' con me
nei sotterranei della Villa Pokémon... perché a
me va ancora,
davvero.
Nel caso aveste
bisogno di un
rapido riassunto degli episodi precedenti, in puro stile Beautiful:
dopo la perquisizione del Centro Pokémon Volontario di
Lavandonia,
Emir si è totalmente allontanato da suo padre e si
è recluso nella
villa. Dopo qualche mese, Rotwang si è trasferito da lui; ma
col
passare del tempo Emir si sente sempre più solo e
prigioniero della
villa, e per ingannare il tempo inizia a studiare di nascosto i
comportamenti di Mew. Nel frattempo, al Laboratorio,
Valérien è
sempre più isterico e licenzia Dolarhyde.
Ciò
detto, prima di lasciarvi al
capitolo, come sempre un paio di righe per i ringraziamenti: un
enorme abbraccio a cristal_93, Fiulopis, Persej Combe e BlazePower
per le loro recensioni al capitolo precedente, che mi hanno
enormemente riempita di piacere. Siete anche troppo gentili!
A Fiulopis ha
come al solito
betato questo capitolo, e che lo ha fatto a tempo di record!
E infine, dedicato a
Persej Combe, come
misero regalo di compleanno. Date le circostanze non ho potuto fare
altro, ma a te vanno tutti i miei auguri più cari.
Ciò
detto, buona lettura a
tutti, e mi auguro che possa portarvi un po' di distrazione in questo
momento enormemente difficile e doloroso per il nostro popolo. Un
enorme abbraccio, per quello che vale.
Afaneia
Capitolo
XI – Incomunicabile.
Si
fece molto difficile tener conto del tempo, dal sotterraneo. Il mondo
lo riguardava ormai tanto poco che neppure il giornale lo interessava
più: talora, quando Rotwang lo lasciava in bella vista per
lui sul
tavolino dell'ingresso o sul divano del sotterraneo, Emir neppure
trovava la forza di sfogliarlo. A che sarebbe servito? Per il mondo
egli non esisteva più, ed egli scopriva ogni giorno di
più quanto
poco s'interessasse del mondo.
Gli
pareva che ormai solo la diversa qualità dell'aria lo
informasse del
trascorrere del tempo, e soltanto nelle poche ore che trascorreva al
di fuori del sotterraneo. Durante la primavera Rotwang tornava a casa
profumando di caldo e di polline, e d'estate cenavano sulla grande
terrazza coperta su un orrido tavolo tarmato, alla vista del mare.
Queste erano tutte le differenze che intercorrevano nella sua vita.
Ma
fu durante un autunno umido e insolitamente freddo che Emir
capì che
qualcosa non andava, il mattino in cui Rotwang entrò in
cucina
ancora in pigiama, si mescolò nervosamente un
caffè, leccò il
cucchiaino e poi, per fargli dispetto, glielo infilò nella
tazza
senza dire una parola. Emir ne fu talmente attonito e disgustato che
d'impulso allontanò la tazza da sé ed
esclamò: «Ma che cazzo
fai?»
«Quando
scopiamo però non ti faccio tanto schifo»
ringhiò Rotwang
sedendosi a tavola di fronte a lui. Fu solo in quel momento che Emir
realizzò che non era vestito per il lavoro.
«Sei
ancora in pigiama?»
«No»
ribatté Rotwang. «È un frac.»
Emir
rettificò rabbiosamente. «Mi perdoni, vossignoria.
Forse avrei
dovuto chiederle per quale motivo indossa il pigiama a
quest'ora?»
Fissandolo
negli occhi con aria di sfida, Rotwang scandì lentamente:
«Perché
lo smoking di giorno è da cafoni. Sei contento?»
Dopodiché,
prima che Emir facesse in tempo a scavalcare il tavolo per cercare di
ammazzarlo, Rotwang gli fece cenno di lasciar perdere, come se la
sola idea di discutere lo stancasse tanto da non valerne la pena:
«Lascia stare, dai. Oggi resto a casa perché non
mi va. Sei
soddisfatto?»
«Ah.»
Quella notizia era decisamente... inaspettata. Emir fece mente locale
per valutare se ci fosse qualcosa di cui si era scordato o cui non
aveva prestato attenzione. «E per quale motivo?»
«Nulla
di speciale. Ho telefonato in laboratorio e ho detto che sono
malato.» Rotwang tamburellò scontrosamente con le
dita sul tavolo,
fissandolo come aspettandosi qualcosa. «Beh? Non mi chiedi
perché?»
Quella
conversazione stava assumendo una direzione che Emir non riusciva
più
a seguire. Avrebbe voluto domandare, ma la sua perplessità
era tale
che tutto ciò che fece fu allargare le braccia con
rassegnazione e
replicare: «Servirebbe a qualcosa chiedertelo?»
«Relativamente»
ammise Rotwang. «Me l'ha consigliato Portia, in
realtà. Ha detto
che faccio bene a non farmi vedere in Laboratorio per un paio di
giorni. Lestournelle ha troppa paura di me per protestare o mandarmi
un controllo, perciò sto pensando sul serio di restare a
casa anche
domani...»
Preso
dall'esasperazione, Emir gridò: «Si può
sapere che c'è?»
Finalmente
Rotwang perse l'aria di strafottenza che aveva da quando era sceso, i
suoi occhi si fecero stanchi, amareggiati, ed egli mormorò:
«Torniamo in Guyana. Partiamo tra cinque mesi.»
Gli
pareva passato un secolo da quando aveva pensato alla Guyana per
l'ultima volta. Era come veder tornare d'improvviso qualcuno di
lontano che credeva d'aver dimenticato per sempre e non saper come
reagire, se fosse buono o cattivo; e poiché non sapeva come
rispondere Emir rimase in silenzio. Ma dalla sua espressione Rotwang
intuì più di quello che aveva da dire, e
scrollando le spalle
mormorò: «Già... è quello
che ho pensato anch'io.»
«Valérien
non vi aveva detto niente?»
La
smorfia di Rotwang gli avrebbe fornito la risposta anche se lui non
avesse detto niente. «Non credo che volesse rischiare di
discutere
con noi prima ancora di avere la risposta della Silph; e una volta
che è arrivata la conferma non restava più nulla
per cui chiedere
il nostro parere. E poi, tecnicamente, non stiamo andando a cercare
un Mew» puntualizzò. «La Silph non
può permettersi di cercare
pubblicamente un Mew per poi rischiare di fallire, perciò la
spedizione sarà ufficialmente per cercare altri
fossili...»
Emir
sorrise appena. «La gente non è stupida.»
«No,
ma se è per questo non sa neppure bene che cosa sia un
fossile, e a
quanto pare la Silph spera che un articolo di mezza colonna su una
spedizione in cerca di fossili passi più inosservato
rispetto a un
titolo a caratteri cubitali sulla ricerca di un altro Mew. O almeno
Lestournelle ha detto così.»
Anche
quello aveva senso, quantomeno dal punto di vista di Dale; eppure
tutto sembrava enormemente dispersivo: prima la Silph aveva
interrotto il progetto sui fossili per occuparsi di Mew, poi, dopo il
furto, aveva riportato l'équipe al progetto originario; e
adesso che
non aveva né Mew né una concreta speranza di
trovarne un altro
esemplare, improvvisamente metteva nuovamente in pausa il progetto,
forse per sempre, per tornare in Guyana nella speranza di poter
riprodurre la specie del Pokémon più raro del
mondo. Emir aggrottò
la fronte per un attimo.
«Non
va bene per niente al Laboratorio, eh?»
«Non
ti si nasconde nulla, eh?» ribatté Rotwang dopo un
momento di
silenzio. Pareva seccato alla sola idea di doverne parlare.
Sospirò.
«Non lo so, Fuji. Veramente. Stiamo per finire, o almeno io
non vedo
che cos'altro manchi, ma da un po' ho la sensazione che Lestournelle
stia facendo di tutto per perdere tempo prima di passare alla fase
sperimentale. Non ne ho parlato con nessuno, ma comincio a credere
che Lestournelle non abbia idea di come procedere alla clonazione dei
fossili senza di te, e che questa spedizione gli faccia prendere
tempo.»
Emir
scosse la testa senza riflettere. Non era possibile. «Questo
non ha
senso, Richard, e lo sai anche tu. Valérien non
sarà un granché
come direttore, ma è comunque un biologo eccezionale, e
poi...»
«E
poi cosa? Tutti gli studi genetici li abbiamo fatti io e te, e
Lestournelle si è occupato solo degli studi ambientali ed
evolutivi»
lo interruppe Rotwang. «Te lo ricordi o no? Non sto dicendo
che
Lestournelle sia uno stupido, ma non ha un dottorato in ingegneria
genetica. L'unico in tutto il Laboratorio che poteva clonare
quell'Aerodactyl eri tu, e Lestournelle dev'essersi reso conto che
prima o poi verrà fuori che lui non ne è in
grado.»
«Anche
se avesse un altro esemplare di Mew dovrebbe lo stesso procedere alla
clonazione» obiettò Emir debolmente.
«Certo,
senza alcun bisogno di intervenire sul DNA per modificarlo,
però, e
poi ci vorrà un secolo prima di passar ai fatti. Emir, mi
prendi per
il culo? Non ti è bastato far perquisire casa tua e quella
di tuo
padre per colpa delle sue paranoie? Di che altro hai bisogno per
capire a cosa è capace di arrivare quel ragazzo pur di
mascherare la
sua incapacità?»
La
cosa peggiore delle argomentazioni di Rotwang era che erano tutte
vere, e che non c'era modo di obiettare oltre. Rotwang poteva essere
un cinico stronzo polemico e poteva odiare Valérien dal
preciso
giorno in cui era stato assunto, ma restava pur sempre un
professionista; e non c'era nessuno al mondo più qualificato
di lui
per giudicare. Non rimaneva altro da dire, ma Emir si sforzò
ugualmente di trovare una risposta. Dopotutto, una soluzione doveva
pur esistere se la Silph era disposta a investire del denaro.
«Vuol
dire che quando verrà il momento assumeranno qualcun altro,
se ce ne
sarà bisogno.»
«Tipo
uno stagista sottopagato che ha miracolosamente un dottorato in
ingegneria genetica? Fuji, questo è il solo complimento che
ti farò
in vita mia, ma lo sappiamo tutti e due che tu eri l'unico al mondo
in grado di clonare quel Pokémon. Su quel progetto avremmo
dovuto
lavorare io e te, e ora che tu sei chiuso qua dentro, ci siamo solo
io e quel cretino succhiapalle. Non ci riusciremo mai.»
«Non...»
iniziò Emir per puro istinto di ribattere; ma un'occhiata
eloquente
di Rotwang lo mise a tacere, ed egli lasciò perdere.
«Pensi che ci
saranno problemi in Laboratorio, se non troverete un altro esemplare
di Mew?»
Rotwang
scrollò le spalle. «Può
darsi.»
«Pensi
che potresti perdere il lavoro, se le cose peggiorassero?»
Per
qualche momento Rotwang rimase in silenzio. Non ebbe moto.
«Ce la
caveremmo, Fuji, lo sai. Ce la caveremo sempre in qualche
modo.»
«Anche
se tu non lavorassi più e dovessimo comunque mantenere
questa
villa?»
Rotwang
sorrise appena. «Ce la siamo cavata per due anni, Emir. Due
anni
sono tanti.»
Due
anni erano tanti dato quello che avevano fatto, ma non serbavano per
questo alcuna garanzia per il futuro; ma Emir preferì
evitare
d'insistere oltre. Il futuro gli appariva ora più nebuloso e
incerto
di quanto gli fosse sembrato mai, e angosciarsi in quel momento non
avrebbe cambiato niente.
Nessuno
in tutto il laboratorio aveva voglia di partire, e paradossalmente
neppure Valérien. A quanto pareva, Rotwang aveva ragione:
quel
viaggio costituiva l'unica possibilità che gli rimanesse di
nascondere alla Silph di non essere all'altezza delle loro
aspettative. Se non avessero trovato un esemplare di Mew col quale
eseguire la riproduzione, avrebbe dovuto ammettere di non esserne
capace, o tirar le cose talmente per le lunghe che la Silph avrebbe
tratto le proprie conclusioni; e in ogni caso sarebbe stato ben
difficile da spiegare alla dirigenza. Era stato Dale ad assegnargli
quell'incarico, per poterlo comandare in un momento di crisi senza
attendere da lui alcuna reazione, già sapendo bene che non
era per
clonare Pokémon né tantomeno per dirigere il
laboratorio che
Valérien era stato assunto; ma se le cose fossero andate
male e il
progetto si fosse bloccato, Dale se ne sarebbe misteriosamente
scordato e si sarebbe rivalso sul capro espiatorio più
immediato e
indifeso.
Quanto
agli altri, di dover lasciare le sue figlie per la seconda volta in
due anni Portia aveva ben poca voglia, a maggior ragione in quanto,
per massimizzare il più possibile l'investimento, l'azienda
aveva
previsto per la spedizione un periodo minimo di un mese, arrivando
addirittura ad assumere guide e speleologi locali per l'esplorazione
della giungla; e tutto lasciava intendere che forse non avrebbero
trovato un esemplare di Mew, ma avrebbero fatto di tutto per non
tornare a casa senza di esso. Di tutti loro soltanto Ami, la giovane
neolaureata in Tecniche di laboratorio che Dale aveva assunto in
tutta fretta, appena sfornata dall'Università di
Azzurropoli, senza
nemmeno farle il colloquio né consultare
Valérien, non era
contrariata all'idea del viaggio; ma stando a quanto diceva Rotwang,
che parlava di lei con malcelato compiacimento come di una
protegée
particolarmente soddisfacente, Ami era una valida collega e una brava
ragazza, ma era giovane, e delle misteriose e complesse trame del
mercato e della Silph non aveva mai avuto esperienza. Un viaggio in
Guyana alla ricerca del Pokémon più raro del
mondo, ad appena otto
mesi dalla laurea, costituiva per lei l'occasione di una vita; e poi
era all'alba della carriera, e forse ancora tutto le appariva roseo;
ma persino lei era sgomenta alla prospettiva di un viaggio tanto
lungo e tanto inutile.
Ma
chi aveva preso peggio la notizia di quel viaggio era lui. Di fronte
a quella prospettiva, Emir provava la sensazione di trovarsi
nell'abisso di un pozzo che andasse riempiendosi a poco a poco con
ritmo ineludibile, e il ritmo era quello dei giorni. Provava
un'intollerabile angoscia. Avrebbe voluto sfogarla in qualche modo,
ma la villa era vuota e silenziosa; le stanze echeggianti non gli
offrivano alcun conforto.
Rotwang
osservava in silenzio il viluppo di emozioni che lo animava. Non
gliene parlava mai direttamente, ma quando sedevano a tavola, la
sera, di fronte a una cena messa insieme un po' alla buona, Emir
sentiva il suo sguardo soppesare la magrezza del suo corpo, indugiare
sulle sporgenze lievi delle sue vertebre che gli percorrevano la
schiena.
«Sei
uscito, oggi?» domandava talora a bassa voce, col tono di
fare una
domanda qualsiasi ma lo sguardo preoccupato che non si distoglieva da
lui. Non c'era un motivo preciso, eppure ogni volta a quella domanda
Emir si sentiva colpevole di qualche cosa.
«Sono
stato giù con Mew» rispondeva invariabilmente, e
poi qualcosa sul
tono di «Ho letto l'articolo di Dujardin sul sequenziamento
del DNA
mitocondriale» o sciocchezze del genere, per le quali Rotwang
non
provava il minimo interesse.
«Dovresti
andare a correre sulla spiaggia, Fuji. Non che la cosa mi riguardi,
ma visto che sei tutto il giorno recluso qui... ti farebbe bene alla
schiena, ai polmoni, a...»
Fare
attività fisica sulla spiaggia l'avrebbe aiutato a sfogare
la sua
angoscia, a placare i suoi pensieri, era questo che Rotwang cercava
di dirgli: ma la villa era la sua casa, e dentro la sua casa egli si
sentiva soffocare ma al sicuro. Come dirgli che tornare al mondo
esterno costituiva per lui un'attrattiva e assieme un incubo, che
ogni giorno che trascorreva in quella casa lo legava sempre
più a
essa, e che restarne prigioniero lo atterriva tanto quanto uscirne?
Ma
non c'era modo di dirglielo, e forse neppure Rotwang avrebbe voluto
davvero sentirselo dire, perché avrebbe significato perdere
anche
l'ultima illusione che aveva di aiutarlo. Ogni sera, quando Rotwang
tirava fuori l'argomento, Emir si ritrovava a non saper che dire, e
ogni volta annaspava in cerca di una scusa da porgli. Di solito
taceva. Ma una sera in cui forse si sentiva più stanco, o
più
amareggiato, o in cui soltanto Rotwang doveva aver insistito
più del
dovuto, Emir levò gli occhi dal piatto e rispose:
«Hai paura che
finisca per ingrassare?» L'aveva detto senza rabbia, ma si
rese
conto troppo tardi di quanto dolore fosse carica la sua voce. Quella
fu l'ultima sera in cui Rotwang menzionò la questione.
Non
riusciva a intravedere un futuro che andasse oltre il giorno della
partenza. Gli sembrava di vivere un conto alla rovescia, e alla fine
di esso, più nulla, come se la sua vista non arrivasse
lontana a
sufficienza. Eppure quel giorno non sarebbe finito niente: Rotwang
sarebbe tornato entro uno o due mesi e tutto sarebbe tornato di nuovo
come prima – quel prima faceva schifo,
certo, era un prima
monotono e noioso, angustiante; ma era tutto quello che aveva, e in
quel prima egli si sentiva a casa come un cane randagio in mezzo ai
suoi rifiuti. Alla solitudine della villa era ormai assuefatto, ma la
solitudine senza Rotwang gli faceva orrore.
Rotwang
era molto più empatico di quanto lui stesso credesse. Non
gliene
avrebbe parlato mai, così come mai gli avrebbe confessato
perché
premeva tanto per spronarlo a uscire di casa; ma forse anche lui
viveva quei giorni come l'inafferrabile sgocciolar via del tempo, o
quantomeno di certo s'era accorto che era così che la viveva
lui.
Emir percepiva la sua pietà nel suo sguardo che gli correva
addosso,
talora avrebbe voluto respingerla, rifiutarla; ma opporvisi avrebbe
voluto dire parlarne, infrangere per la prima volta il precario
equilibrio di silenzio che s'era stabilito tra loro da quando avevano
smesso di scontrarsi; ed Emir era troppo ipocrita e vigliacco per
rischiare.
Rotwang
tornò una sera a casa una mezz'ora più tardi del
solito e venne a
cercarlo con l'aria di dovergli dire qualcosa d'importante. Al suo
ritardo Emir non avrebbe prestato una particolare attenzione di per
sé, prima di tutto perché non guardava mai
l'orologio, e poi
perché, se anche vi avesse fatto caso, avrebbe dato per
scontato che
fosse ancora al lavoro; ma quando gli apparve davanti, Rotwang aveva
l'aria seria e concentrata del medico, e la cosa lo lasciò
perplesso.
«Va
tutto bene?» domandò con una vaga inquietudine,
allontanando la
sedia dalla scrivania per guardarlo meglio. Naturalmente non fu
così
semplice: Mew esigeva d'esser sempre la prima delle preoccupazioni di
chiunque varcasse la soglia del sotterraneo, e in quel momento non
fece eccezione. Perciò la sua risposta dovette aspettare che
Rotwang
accogliesse sorridendo i suoi assalti amorosi e le sue vigorose
richiese d'affetto, ed Emir se ne scoprì impazientito. Solo
quando
Mew si fu ormai calmata, e parzialmente soddisfatta si
acquattò
contro il fianco di Rotwang, seminascosta col muso affondato tra la
sua giacca e il panciotto ad annusare gli odori ch'egli portava con
sé dal mondo esterno, Rotwang ebbe modo di rispondere.
«Nulla di
grave, Fuji. Ma c'è una cosa di cui ti devo parlare. Hai un
minuto?»
Emir
spalancò le braccia a indicare la vacuità dello
spazio intorno a
sé: era alquanto evidente che un minuto ce l'aveva, ma
Rotwang non
colse la sua ironia. Si accomodò di fronte a lui sul divano,
compostamente, sollevando appena con la punta delle dita i pantaloni
sulle ginocchia, e tossì con discrezione per trovar le
parole.
«Credevo
che volessi chiedermi perché ho fatto tardi.»
Emir
sbatté le palpebre un paio di volte. «Eri in
Laboratorio... no?»
«No.
Cioè, ovvio, ma dopo il lavoro. Non vuoi sapere dove sono
stato?»
Il
palese nervosismo di Rotwang lo confondeva a tal punto che Emir non
approfittò neppure dell'occasione per ripagarlo con una
risposta
sarcastica. Si strinse nelle spalle perché mancava quasi
d'ogni
parola. «Richard, si può sapere che hai?»
«Dio...
senti, Emir, penso che sia alquanto chiaro a entrambi che tu non stai
bene qua dentro. O sbaglio?»
Era
la prima volta che uno di loro affrontava apertamente l'argomento.
Colto alla sprovvista, senza saper che dire, Emir aprì la
bocca per
rispondere, annaspò un po' e poi la richiuse. All'occhio
clinico di
Rotwang bastava così: lo osservò in silenzio per
un momento e poi,
come se non volesse infierire oltre: «Va bene
così, Fuji... lascia
stare. Io non sono nessuno per costringerti a dirmi qualcosa che non
vuoi, non posso obbligarti a parlare con me... ma non posso neppure
partire sapendo di lasciarti qui così. Ti è
chiaro, questo?»
Emir
annuì senza dire una parola.
«Beh,
almeno su questo siamo d'accordo» borbottò Rotwang
un po'
rinvigorito, sebbene palesemente si aspettasse una qualche reazione
più corposa di quella. Ma questo doveva comunque essere il
momento
che aveva aspettato: si spalancò la giacca, cavò
un pacchetto
bianco di farmacia e lo posò sul tavolino di fronte a
sé. Emir lo
fissò in silenzio senza far nulla per prenderlo: doveva
essere
quello che Mew aveva annusato prima, contro il suo panciotto, e su di
esso tornò a concentrarsi, fluttuando a mezz'aria attorno al
tavolino e usmando l'aria per decifrare quel misterioso ingresso nel
suo regno. «Sia chiaro che non sono contento di questa
soluzione, ma
non posso lasciarti in queste condizioni, e non so che altro fare. Tu
non vuoi parlarne con me, non vuoi uscire di casa e non possiamo
parlare con nessuno al di fuori di questa casa, perché la
Silph è
dappertutto e non possiamo fidarci di nessuno che non siamo noi due.
Perciò questa è l'unica soluzione che ho
trovato.»
La
sua mente iniziò finalmente a lavorare informazioni
anziché a
girare a vuoto come un macchinario inceppato, ed Emir
accumulò
infine sufficienti pensieri razionali da capire, o almeno
così
sperava. «Quelli sono farmaci?»
«Antidepressivi»
confermò Rotwang con esattezza. «Non possiamo fare
altro, Emir.
Davvero. Sono notti che ci penso, ma questo è l'unico modo
che ho
trovato per aiutarti... soprattutto quando non sarò qui per
farlo di
persona. Ma la scelta è tua.»
C'era
ancora qualcosa che non gli era chiaro in tutto ciò, sebbene
ancora
non riuscisse bene a realizzare cosa. Emir continuò a
fissare il
pacchetto sul tavolino come se da esso dovesse provenire
chissà
quale illuminazione.
«Tu
sei un medico per Pokémon» obiettò
infine.
Rotwang
aggrottò la fronte. «Beh, fa piacere che te ne
ricordi di tanto in
tanto» commentò. «In ogni caso, ottima
obiezione. Ho un ex che
lavora in farmacia. Cioè, non è proprio un ex,
è più uno che ho
scopato un paio di volte, ma comunque... sono passato in farmacia e
gli ho chiesto di darmi qualcosa per aiutarmi a superare un brutto
periodo. Non gli ho parlato di te» puntualizzò.
«L'ho messo già
sufficientemente a disagio così, ma in fin dei conti sono
comunque
un medico, e sa che non posso creargli problemi. E poi, è
meglio che
pensi che siano per me.»
Sentendosi
stupido fin nelle proprie viscere, Emir domandò:
«Perché?»
Rotwang
si strinse nelle spalle e alzò gli occhi al cielo per non
doverlo
guardare. «Dio, Fuji, non prendiamoci per il culo... lo
sappiamo
entrambi che sei un soggetto che tende ad abusare dei farmaci. Te
l'ho già detto: se avessi trovato un'alternativa, non avrei
mai
scelto questa. Il mio amico farmacista mi fornirà i farmaci
mensilmente fino alla partenza, e una scorta che dovrebbe bastare per
tutto il tempo che sarò via. Che ne pensi?»
C'erano
troppe informazioni dalle quali Emir si sentiva sopraffatto e che non
riusciva ad analizzare. «Richard...
perché?»
Rotwang
tacque improvvisamente. Si chinò in avanti verso il
tavolino, per
allontanare gentilmente il muso di Mew dal pacchetto, e riprese dopo
un istante, con qualche difficoltà: «Te l'ho
già detto, Emir. Sono
stanco di vederti patire così, come un cane, e non posso
lasciarti
qui così. E poi, bisognerà provvedere a Mew,
qui» soggiunse
dignitosamente, impettendosi, e per tornare a distogliere lo sguardo
si attirò Mew sulle ginocchia e l'accarezzò piano
in mezzo agli
occhi. Mew pigolò di piacere.
Emir
se ne stette buono e in silenzio per un po' a osservare le moine di
Mew e l'ondeggiare di gioia della sua coda. Non sapeva che dire, e a
dire il vero neppur bene che pensare; ma aveva l'impressione che
quella rinuncia ai propri principi fosse costata a Rotwang molto
più
di quanto volesse ammettere, e che fosse meglio da parte sua non dire
nulla.
«Grazie»
accennò soltanto, e Rotwang assentì col capo
senza guardarlo. Ma
quando Emir tese la mano per prendere il pacchetto e dare almeno
un'occhiata a quello che conteneva, la voce di Rotwang
bloccò la sua
mano là dove si trovava.
«Aspetta.
Se scopro che esageri ancora come l'altra volta, ti ammazzo. Te ne
ricordi?»
Certo
che si ricordava. Emir annuì. «Sì... me
ne ricordo.»
«Non
sto scherzando. Te lo giuro, Emir. Sto facendo quello che posso per
aiutarti, sto rischiando la carriera, e non mi importerebbe, dato che
tu hai fatto lo stesso per Mew, ma ora c'è anche la carriera
di un
altro in gioco, e il minimo che tu possa fare è non
rischiare la
vita. Sono stato chiaro?»
«Richard»
lo interruppe Emir. «Non lo farò.»
Finalmente
Rotwang parve convinto. Ma l'atmosfera s'era fatta greve e troppo
tesa nella stanza, e quando già la sua mano aveva raggiunto
il
pacchetto, Emir ci ripensò. Tornò ad appoggiarsi
contro lo
schienale della sedia.
«Uno
con cui sei andato a letto qualche volta, hai detto?»
domandò.
Questo
Rotwang non se l'aspettava. Levò gli occhi su di lui: aveva
capito
il suo gioco, e la cosa lo divertiva.
«Già.»
«Quanto
tempo fa?»
«Che
ne so io? Quattro, cinque anni fa. Non me lo ricordo. Non che ci
fosse molto da ricordare, comunque.»
Questo
era discretamente confortante. «Come si chiama?»
Rotwang
scavallò pigramente le gambe. «Ehi, Fuji. Qui
qualcuno è geloso?»
Ci
voleva del tempo perché i farmaci iniziassero a fare
effetto: su
questo Rotwang aveva insistito molto, e del resto Emir non aveva
bisogno di sentirselo dire da lui. Iniziò ad assumerli dal
giorno
seguente.
D'improvviso
cambiarono i suoi sogni. Emir non s'era mai soffermato a riflettervi
su, ma reputava d'aver sempre sognato come dovevano sognare un po'
tutti: sogni più o meno significativi, che ricordava oppure
no,
piacevoli o confusi, qualche volta incubi, ma nell'insieme sogni di
cui a stento si ricordava per più di qualche giorno; ma ora
i suoi
sogni s'erano fatti strani e meravigliosi, avventurosi e turbolenti
come un film d'avventura. Non avevano sempre una trama precisa, e non
sempre riusciva a ricordarli a lungo dopo il risveglio, ma lasciavano
in lui una sensazione indistinta e piacevole di entusiasmo e di vita.
Al risveglio rimaneva a lungo immobile sotto le coperte, con gli
occhi chiusi, a bearsi del dormiveglia e delle atmosfere del sogno
mentre Rotwang attorno a lui si preparava al giorno; e gli pareva
d'aver appena vissuto una grande avventura.
I
sogni costituivano però l'unico miglioramento concreto nella
sua
vita. Quanto al resto, tutto restava lo stesso: Rotwang se ne andava
al mattino e tornava alla sera, e lui rimaneva solo. Mew non lo
appagava più come all'inizio, quando almeno la
consapevolezza
d'averla salvata lo ripagava di ogni rinuncia. Erano passati due
anni, e l'entusiasmo s'era spento allo scontrarsi con lo squallore
della quotidianità. Non ci aveva guadagnato nulla, aveva al
contrario perduto tutto, e Mew rimaneva ancora la stessa del primo
giorno, fatua e affettuosa e del tutto imperscrutabile. Neppure
studiarla lo appagava più, dal momento che non c'era mai
niente di
nuovo da annotare. Gli pareva di diventar pazzo, forse
perché
soffriva tanto che non vedeva altra via d'uscita. Ma tutto
ciò che
ebbe il coraggio di dire a Rotwang fu che i farmaci non funzionavano.
Rotwang sorrideva cupamente.
«Non
sono antidolorifici, Fuji. Non senti passare il dolore dopo mezz'ora
che li hai assunti, e non basta assumerli un paio di settimane. Non
ti accorgi del cambiamento a meno che tu non smetta di assumerli
bruscamente, perciò evita di rompere le palle e fidati di
me.»
Il
tempo passò come se gli venisse sottratto di soppiatto,
mentre lui
non guardava. D'un tratto, come un incubo, venne febbraio.
I
bagagli erano già pronti, o quantomeno così
sosteneva Rotwang, ed
Emir preferiva non immischiarsene. La sola idea della partenza
dell'indomani lo angosciava e lo nauseava come la prospettiva di una
morte, e preferiva ignorare quel pensiero relegandolo in un angolo
buio della sua mente.
Trascorsero
la giornata a letto, a fare sesso con più angoscia che
passione,
come se dovessero disperatamente approfittarne perché non ve
ne
sarebbe stata più occasione; ma poiché non
avevano più vent'anni,
passarono la maggior parte del tempo a rigirarsi pigramente tra le
lenzuola sfatte, senza parlare ma senza neppure allontanarsi. Rotwang
era pensieroso, ed Emir scrutava la sua fronte angosciata con
dolorosa apprensione.
«Sei
preoccupato per domani?»
«Pane
e volpe a colazione, eh, Fuji?» lo rimbeccò
Rotwang, ma il suo
volto si distese quando parlò. «Brutti
ricordi.»
Non
c'era alcun bisogno di chiedergli quali brutti ricordi risvegliasse
in lui il pensiero della Guyana, ed Emir si pentì quasi
d'aver
parlato. «Non troverete niente, Richard. Non abbiamo trovato
niente
due anni fa, quando abbiamo cercato, e a maggior ragione non
troverete niente a distanza di tutto questo tempo. M1 ed M2 erano gli
unici della loro specie, e nel giro di due mesi sarete di nuovo
sull'isola a cercare di clonare Aerodactyl.»
Rotwang
sorrise amaramente. «Quindi nel giro di due mesi la Silph ci
spedirà
tutti nella succursale russa, se non ci
licenzierà.»
«Credevo
fossi convinto che ce la caveremo sempre» gli
ricordò Emir, che non
ci aveva mai creduto, sebbene gli facesse piacere sperarci, ogni
tanto.
«Infatti
è quello che penso. Ciò non toglie che, se sono
molto fortunato,
l'anno prossimo sarò in qualche laboratorio siberiano e ti
spedirò
i soldi dalla banca di Tiksi. Ce l'avranno una banca, poi? Dev'essere
un posto così di merda...»
Rotwang
stava scherzando, ma Emir si sentì ugualmente in dovere di
intervenire. «Se ci trovassimo alle strette potrei sempre
spiegarti
come intervenire sull'embrione da solo. Potresti farlo tu al posto di
Valérien, se ce ne fosse bisogno. Sarebbe una soluzione,
no?»
Il
modo in cui Rotwang aggrottò scetticamente la fronte fu
quasi
gentile. «Sicuro, come no. Emir, ti ricordo che sei tu quello
specializzato in ingegneria genetica, non io. Sulle modifiche del DNA
puoi intervenire solo tu.»
Emir
cacciò via le sue parole con la mano come per allontanare un
insetto. «Se io l'ho fatto da solo all'Università,
sono certo che
potresti farlo anche tu. Non sei un chimico, sei un medico genetista,
e poi... anzi. Mi è tornata in mente una cosa. Vieni con
me.»
S'era
quasi dimenticato di quella stanza.
Quando
aveva scoperto il sotterraneo e l'aveva eletto a tempio del suo
genio, gli era parso naturale crearsi là sotto qualcosa che
assomigliasse a uno studio privato. Naturalmente era stata una delle
cose più vanagloriose e inutili che avesse mai fatto, e di
conseguenza non se n'era servito quasi mai. Tutto ciò che
aveva
fatto in quella stanza era stato sistemare un paio di manuali costosi
che non aveva bisogno d'avere a portata di mano, e ovviamente tutto
il materiale della sua tesi di dottorato. Ci si era seduto ogni tanto
con ostentata soddisfazione, ed era finita lì. Forse aveva
pensato
di farne una specie di laboratorio segreto , chissà.
«Erano
un paio d'anni che non provavo la sensazione di venir accompagnato da
uno scienziato pazzo in un luogo segreto in cui nessuno può
sentirmi
urlare» commentò Rotwang ad alta voce, ma forse
più per smorzare
la tensione che altro. Mew aveva ricevuto un pezzetto di toast come
parziale indennizzo della loro negligenza ed era rimasta di
là,
senza unirsi a loro nella loro esplorazione.
«Tu
vivi in una casa in cui nessuno può sentirti
urlare» obiettò Emir
aprendo la porta dello studio. Era un secolo che non ci tornava,
almeno da cinque anni, forse di più, e quando
trovò a tentoni
l'interruttore della luce la stanza rimase immersa nel buio.
Sentì
che Rotwang soffocava una risata.
«Che
cos'è che avrei dovuto vedere?»
«Fanculo»
rispose Emir seccato. «Comunque, non importa. Vieni dentro lo
stesso. È una cosa veloce.»
Lo
studio era troppo lontano dalla stanza principale perché vi
giungesse luce da lì; non appena dentro, era talmente buio
da non
vedersi l'uno con l'altro. Il volto di Rotwang era per lui solo
un'oscura silhouette nera, e solo i suoi occhi brillavano appena
nell'ombra. Lo trascinò per un braccio verso il centro della
stanza,
là dove ricordava più o meno di averlo visto
l'ultima volta, e
cercò a tentoni nel buio un oggetto rigido.
«Metti
la mano qui. Senti...?»
Rotwang
tacque un istante. «Senti, non mi piace toccare alla cieca
cose di
cui non conosco la natura, quindi se qui dentro c'è qualcosa
di
mostruoso tipo feti abortiti...»
«Rotwang!»
protestò Emir scandalizzato.«È solo
un'incubatrice. Che idee ti
vengono in mente?»
Questa
volta il silenzio di Rotwang fu più prolungato.
«Il fatto che tu
abbia un'incubatrice quaggiù dovrebbe essere più
rassicurante?»
«È
il mio vecchio progetto di dottorato, coglione. È
l'incubatrice
tramite la quale sono intervenuto sul genoma di embrioni di Rattata
in formazione a cinque giorni dalla fecondazione. Naturalmente per
motivi etici l'Università ha imposto al mio relatore di non
impiantare mai gli embrioni in una femmina adulta e di distruggerli
entro sette giorni, perciò è rimasto tutto in
teoria, ma tutti i
test indicavano che gli embrioni erano sani, perciò
è probabile che
le fecondazioni sarebbero andate a buon fine, se...»
«Che
cos'avevi modificato?» chiese Rotwang. La sua voce si era
fatta
improvvisamente più bassa e seria, ed Emir seppe di avere
tutta la
sua attenzione.
«Il
colore, in realtà. Il mio relatore è stato
irremovibile, perché a
quanto pare era l'elemento meno problematico dal punto di vista
etico, e anche l'unico che sarebbe stato evidente già al
momento
della nascita, nel caso l'Università ci avesse concesso
l'autorizzazione a procedere alla sperimentazione in una fase
successiva; e poi bastava a dimostrare che la sequenza genetica era
modificabile a nostra discrezione, e alla commissione interessava
questo.»
«Hai
fatto tutto da solo?»
«Certo»
mormorò Emir, e per qualche momento, se Rotwang avesse
parlato, non
l'avrebbe sentito. Provava un improvviso senso di nostalgia di quei
giorni in cui era l'unico vero responsabile del suo lavoro.
«Neppure
il mio relatore riusciva più a starmi dietro, dopo un
po'.»
«Non
stento a immaginarlo» commentò Rotwang, per una
volta privo di
sarcasmo. «Non avrei voluto essere tuo relatore per nulla al
mondo.»
Emir
rise tra sé. «Sei stato mio collega,
però. Dev'esser stato peggio.
Comunque andiamo, dai. Non so nemmeno perché te l'ho fatto
vedere...» Ma mentre gli passava di fianco per uscire,
Rotwang lo
afferrò d'improvviso. «Che
c'è?»
«Dovremmo
restare qua» mormorò Rotwang nel buio.
«Che
cosa vuoi dire?»
«Che
sarebbe tutto più semplice se restassimo qua. Ci hai mai
pensato?
Che se d'un tratto scomparissimo, se non uscissimo mai più
da questa
stanza, nessuno saprebbe dove venire a cercarci. Non dovremmo mentire
mai più. Non ci hai mai pensato?»
Quella
stanza non conosceva limiti né confini; tutto era buio, e lo
spazio
avrebbe potuto essere sterminato e infinito ed estendersi in ogni
direzione nel tempo e nello spazio. Emir si accorse solo dopo un
istante di aver trattenuto il respiro.
Rotwang
non stava parlando della vita reale, naturalmente, di una vita in cui
bisognava pagare le bollette e fare la spesa e portare a casa uno
stipendio – era un'altra vita che poteva aver luogo solo in
quella
stanza buia, in quel momento, una vita in cui Mew non era mai
piombata nelle loro giornate e loro non avrebbero mai dovuto
nascondersi, o quantomeno lui non avrebbe mai dovuto tornare in
Guyana.
«Già...
sarebbe bello.»
Da
qualche parte di fronte a lui, nel buio, gli occhi di Rotwang non si
distoglievano da suoi: Emir lo percepiva soltanto attraverso il buio,
eppure non aveva bisogno di vederli. «Se non fosse per lei
dovremmo
farlo, Emir. Piantare tutto e andarcene, persino il progetto dei
fossili, persino la Silph, e andarcene in Germania o in America o
dove ti pare a cercare un altro lavoro. Dico sul serio.»
«Sì...
dovremmo» mormorò Emir, sforzandosi di soffocare
un'improvvisa
stretta al cuore. Rotwang l'aveva detto senza pensare, solo per
ribadire ch'era in nome di un grande amore che rinunciava; ma
involontariamente aveva detto la verità – che
sarebbero stati
liberi, se non fosse stato per lei.
Si
sarebbe potuto mentire, illudersi; dire ad alta voce che, quando
tutto fosse finito e avessero trovato il modo di liberare Mew in
sicurezza, allora liberi lo sarebbero stati veramente... ma Rotwang
era troppo intelligente e troppo scettico e non era questo che voleva
sentirsi dire. Forse in realtà non voleva sentirsi dire
proprio
niente.
«Restiamo
un po' qui?» propose Emir con un filo di voce. Rotwang
accostò la
porta, le loro sagome oscure non s'intravidero più, ed
entrambi
rimasero in silenzio a fingere di non esistere nella quiete e nel
buio, dove nessuno avrebbe mai potuto trovarli.
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Capitolo 13 *** Irrimediabile. ***
Bentornati
su questi schermi!
È
passato praticamente un anno, perciò non perderò
neppure tempo a
scusarmi per il ritardo: penso che ormai mi conosciate. A chi ancora
resiste e vuole conoscere il finale di questa storia (che
arriverà,
promesso), semplicemente grazie. Come sempre grazie in particolar
modo a cristal_93, Persej Combe e Mad_Dragon per continuare a seguire
e recensire questa storia!
Come
l'altra volta, lascio qui un breve riassunto
delle puntate precedenti: Emir vive praticamente
recluso
nella Villa da quasi due anni. Rotwang costituisce il suo unico
collegamento col mondo esterno e con il Laboratorio, ma la Silph ha
programmato un nuovo viaggio in Guyana alla ricerca di un nuovo
esemplare di Mew. Rotwang dovrà perciò rimanere
lontano da Isola
Cannella per circa due mesi e, nel tentativo di aiutare Emir a
sopravvivere alla propria depressione, gli fornisce antidepressivi e
ansiolitici sufficienti almeno per la sua assenza.
Detto
questo vi lascio alla lettura, ma vi aspetto alla fine del capitolo
per una piccola nota chiarificatrice!
Buona
lettura
Afaneia
Capitolo
XII – Irrimediabile
Venne
a
prenderli una macchina per portarli al molo.
Emir
si
attardava per casa mettendo mano ora a questo ora a quello, senza
senso ma senza posa, per avere la sensazione di frapporvi un
ostacolo; ma il tempo continuava a scorrergli via dalle mani, e
Rotwang si aggirava per la casa trascinando bagagli e borse e
medicinali. Aveva salutato Mew quella mattina, abbracciandola e
coccolandola e nascondendo gli occhi arrossato contro il pelo rado
del suo muso, ed Emir aveva provato un subitaneo moto di stizza
–
perché Mew era incapace di comprendere il significato del
distacco,
e perché d'improvviso gli era parso che quel saluto
sottraesse del
tempo a lui. Avevano avuto due anni, e dal giorno in cui avevano
saputo della partenza altri sette mesi, e Rotwang sarebbe tornato
presto; allora perché gli pareva di non aver più
tempo?
Rotwang
era
molto silenzioso, quel giorno. Continuava ad aggirarsi per la casa,
facendo su e giù per le scale con liste e oggetti che gli
pareva
d'aver dimenticato, e quasi non lo guardava. Solo quando l'autista
spazientito venne a suonare il campanello dopo aver finito di
caricare i bagagli più pesanti si decise ad andare.
Si
soffermò
sulla soglia per un momento, a guardarlo a disagio, e infine disse:
«
Preferisci che ci salutiamo qui? Come se ci salutassimo un giorno
qualunque?»
Non
si erano
mai salutati sulla porta al mattino, ma non c'era tempo per chiarirlo
in quel momento. «No. Vengo con te.»
Rotwang
parve
improvvisamente sollevato, ed Emir comprese che quella proposta
l'aveva fatta soltanto per tutelare il suo abominevole orgoglio.
«Bene. Pensavo che preferissi non... beh, ti farà
bene uscire. E
quantomeno Lestournelle schiatterà di rabbia.»
Emir
continuò
a provare la stessa dolorosa sensazione inesprimibile di panico
durante tutto il viaggio in auto. L'autista era discreto e silenzioso
e loro erano seduti sul sedile posteriore, ma non dissero una parola
per tutto il percorso, e sedettero l'uno distante dall'altro lungo il
sedile.
Erano
già
tutti lì, a supervisionare la fine delle operazioni di
carico del
materiale; alla vista di Valérien, Emir si sentì
mancare. Non lo
vedeva da quasi due anni, da quando aveva fatto perquisire il Centro
Pokémon Volontario, e nella sua mente era rimasto lo stesso.
Valérien, invece, era invecchiato, ed Emir a questa
eventualità non
aveva mai pensato: era ingrassato, il suo volto appariva ancora
giovane ma stanco, quasi malato. Gli strinse le viscere una morsa di
dolore. Valérien era stato mostruoso verso di lui, ma era
stato lui
a spingerlo a farlo, e Valérien non sarebbe invecchiato
tanto se non
fosse stato per lui.
Quando
l'autista scese dalla macchina per scaricare i bagagli di Rotwang ,
lo sguardo di Valérien incrociò il suo attraverso
il finestrino.
Emir non si mosse, ma lo vide avvampar di rabbia: durò solo
un
istante, perché Valérien era troppo vigliacco per
restare, e
impettendosi si rivolse seccamente alle sue colleghe e si
allontanò
verso il suo traghetto. Emir se ne scoprì suo malgrado
sollevato.
«Sei
diventato molto più spaventoso di me, Fuji»
mormorò Rotwang
spingendolo verso lo sportello per invitarlo a uscire. «Non
sei
soddisfatto?»
L'entusiasmo
di Portia nel vederlo era immutato, e lo era anche lei. Quanto ad
Ami, quella era la prima volta che incontrava il famoso nuovo
acquisto del Laboratorio: era esattamente come se l'era immaginata
dai racconti di Rotwang, e dall'incertezza del suo sguardo Emir
intuì
che era dibattuta tra la curiosità verso il suo nome e la
tensione
che attorno a esso aveva alimentato Valérien. Gli strinse
rapidamente la mano, ma subito accennò col capo al
traghetto, come
se si sentisse a disagio a star lì, e mormorò
qualcosa sul
raggiungere il capo a bordo.
«Aspettami,
andiamo insieme» la trattenne Portia al volo; Ami si
fermò un po'
seccata, e Portia, del tutto inaspettatamente, gli gettò le
braccia
al collo e lo baciò sulle guance.
«Starai
bene,
Emir, vero?»
Questo
non se
l'era aspettato. Emir rise nervosamente contro i suoi capelli che lo
soffocavano, sentendosi sotto lo sguardo di Rotwang,
e
mormorò: «Ma certo. Perché pensi
che...»
«Lo
sai il
perché.» Le braccia di Portia s'insinuarono dentro
il suo cappotto
aperto ed Emir sperò che volesse solamente abbracciarlo
più
stretto, ma poi sentì che le sue mani palpavano le sue
costole
sporgenti attraverso la camicia. «Mio marito è a
casa, lo sai,
vero? E anche le bambine... perché non vai a cena da noi,
una volta
alla settimana, eh? Anche senza di me... lo sai, vero, che a Chris
farebbe tanto piacere, e anche a me?»
«Certo»
balbettò Emir battendole le mani sulle spalle. «Ci
andrò se
proprio ci tieni tanto... ma tu stai tranquilla e fa' buon
viaggio.»
«E
tu mangia
un po' di più» lo rimbeccò Portia, lo
baciò ancora sulle guance e
si staccò da lui. «Ti aspetto su» disse
soltanto a Rotwang, e lei
e Ami si diressero verso Valérien, che ostentava poco
lontano la sua
insofferenza e la sua rabbia.
Erano
soli in
quelle briciole di tempo che erano loro rimaste, erano troppo poche,
rimanevano troppe cose da dire, e non gliene veniva in mente nessuna.
Si sarebbero rivisti entro due mesi al massimo, non c'era nulla di
definitivo nel loro saluto, ma Emir non riusciva a visualizzare nella
mente il giorno del ritorno, come se si collocasse in qualche luogo
del tempo che alla sua vita non era dato raggiungere.
«Mi
chiamerai, quando troverai un telefono?»
«Certo...
tutte le volte che ce ne sarà uno» promise
Rotwang, che sapeva bene
quanto lui che nella giungla telefoni non ne avrebbero trovati molti.
Sembrava che solo guardarlo negli occhi gli costasse uno sforzo
incredibile. «Tu prometti che andrai a cena da Chris, che
prenderai
le medicine, che... beh, lo sai.»
Certo,
lo
sapeva – Mew. Emir sentì un
sorriso freddo, meccanico,
permeare gli angoli della bocca senza irradiarsi ai suoi occhi.
Sempre Mew, ovunque Mew, infiltrata ovunque, in ogni viluppo della
sua voce, come suo padre, come Lavandonia, senza poterne scappare: ma
imponendosi di reprimere quello che invece avrebbe voluto urlare, si
sforzò di annuire. «Te lo prometto.»
Dopodiché,
per non saper che dire, Rotwang lo afferrò tra le braccia e
lo baciò
a lungo in mezzo al molo.
Quando
si
separò da lui, Rotwang appariva enormemente in pace con se
stesso.
«Scusa»
commentò compiaciuto. «Nulla di personale, sai...
solo per far
incazzare Lestournelle.» Dopodiché
poggiò brevemente la fronte
contro la sua, chiuse gli occhi per un istante, e solo allora
inspirò
profondamente e lo lasciò andare per avviarsi verso i suoi
colleghi.
Emir
rimase
sul molo finché la lontananza non gli rese indistinguibili
le
piccole figure che si affacciavano sul ponte del traghetto. Non
attese oltre.
L'autista,
che
non aveva nulla in contrario a riportarlo in paese nel suo viaggio di
ritorno, lo riaccompagnò al cancello della villa e lo
salutò più
cortesemente di quanto egli si sarebbe aspettato. Emir lo
ringraziò
un po' goffamente, in fretta, si richiuse la portiera alle spalle e
un minuto dopo, finalmente, si ritrovò nella fresca penombra
della
villa. Inalò in profondità l'odore della sua
casa, delle sue cose,
e si sentì tornato nel suo nido sicuro e inviolabile dove il
resto
del mondo non poteva toccarlo. Ma ora, senza preavviso, era solo.
Rotwang non c'era – e nel silenzio della villa lo
colpì la
consapevolezza improvvisa, totalizzante, di che cosa significasse
l'assenza e di essere solo. E anche un'altra – che per la
prima
volta s'era reso conto che Mew era la causa di tutto, e che lui la
odiava.
I
suoi sogni
mutarono bruscamente così come li avevano mutati i farmaci
la prima
volta, ma all'avventura si sostituì l'angoscia. S'erano
fatti
orribili: avevano una trama complessa e articolata, angosciante;
erano ancora emozionanti, ma erano incubi. Si svegliava sudato nel
letto disfatto, spesso nel cuore della notte, e non riusciva a
riprender sonno, perché le fredde dita nere dei suoi incubi
s'insinuavano lungo la sua schiena, ed erano incubi orribili in cui
personaggi misteriosi commettevano strani delitti. Gli
capitò di
sognare sua madre – erano anni che non la sognava; ma erano
sogni
agghiaccianti nei quali attendeva la sua morte per partire per
l'isola, ed Emir si svegliava agitato e madido di sudore e ricordava
angosciosamente che non aveva idea se sua madre fosse viva o morta.
Si svegliava accaldato e sudato, scalciava via le coperte e rimaneva
a letto a fissare il soffitto nel buio, inalando a grandi respiri
l'aria umida della stanza. Ma era pur sempre inverno, e presto si
sentiva il sudore ghiacciato sui fianchi e brividi sulla pelle, ma le
coperte sfatte si attorcigliavano attorno alle sue gambe e gli pareva
che lo avviluppassero come serpi. Non poteva restare a letto, allora
si alzava e si gettava qualcosa addosso e scendeva al piano di sotto.
Vagava
per un
po' la villa deserta, ma faceva troppo freddo in casa e da fare non
c'era niente. Emir finiva per scendere nel sotterraneo, dove l'aria
chiusa e pesante e le pareti prive di vie di fuga lo facevano sentire
prigioniero ma al sicuro, e là, avvolgendosi in coperte
altrettanto
sgualcite come quelle che aveva lasciato, si distendeva sul divano e
si addormentava. Dal divano dormiva spesso senza sogni.
Rotwang
era
stato la lancetta delle ore di tutte le sue giornate, e ora che non
c'era il tempo per lui non aveva più alcun significato. Dopo
le sue
notti insonni e tormentate si svegliava a giorno ormai inoltrato,
quando era la fame a tirarlo giù dal divano e trascinarlo in
cucina,
a mettere insieme di malagrazia qualcosa che facesse da colazione e
pranzo per lui e Mew, che a quell'ora reclamava a gran voce da
mangiare. Dopodiché, per le successive sei od otto ore, da
fare non
gli rimaneva nient'altro. I giorni erano più terribili delle
notti,
perché gli incubi almeno gli tenevano compagnia ed erano
meglio del
nulla.
Non
riusciva a
tollerare la presenza di Mew. Era gioiosa ogni giorno allo stesso
modo, come lo era ogni giorno da due anni, ma in quei due anni la sua
sopportazione verso di lei, verso le sue insignificanti moine e le
sue richieste di un affetto che le era in ogni modo indifferente, si
era esaurita. Gli pareva passata una vita intera da quando si trovava
con Valérien, a sera fatta, di fronte al vetro che svelava
la
prigione di Mew al Laboratorio, e vanamente cercava in lui un
confronto per dar voce ai suoi dubbi e cercare di capire perché
Mew fosse felice in ogni istante di tutto e di tutti
– ma
quelle sere erano passate, ed Emir aveva scoperto soltanto che le sue
domande erano prive di senso. Non c'erano ragioni. Mew era sciocca e
insensata e totalmente incapace di difendersi, ed era per colpa della
sua incapacità di distinguere il bene dal male che lui era
intrappolato là dentro con lei.
Non
s'era
accorta della partenza di Rotwang; o meglio, di certo se n'era
accorta, perché Emir aveva troppa stima della sua
intelligenza per
dubitarne; ma non vi aveva prestato attenzione. Per il primo paio di
giorni dopo la partenza, intorno alle sei, che era l'orario a cui
normalmente Rotwang rincasava e scendeva a salutarla, Mew aveva
sollevato lo sguardo e aveva pigolato a lungo con intonazione
interrogativa: Emir l'aveva guardata in un misto di sorpresa e
speranza, ma per la rabbia che provava nei suoi confronti non le
aveva detto niente, e Mew non aveva fatto altro. Non era mai stata
triste, inquieta, o altro, nulla che tradisse in lei il minimo
sentimento di distacco o nostalgia, e per questo Emir provava
disgusto. Ormai a stento cucinava per lei. Se solo avesse potuto, se
ne sarebbe sbarazzato: non riusciva più a tollerare la sua
irritante
presenza – avrebbe potuto portarla fuori di nascosto, nella
stessa
Pokéball che aveva usato per portarla lì,
prendere un traghetto,
portarla sul continente, magari a Johto persino, e liberarla, e
nessuno avrebbe più sentito parlare di lei...
già, ma poi Rotwang
che avrebbe detto al suo ritorno, che avrebbe fatto senza di lei? E
soprattutto, se Mew non ci fosse più stata, sarebbe ancora
rimasto
con lui?
A
volte,
quando sedeva sul divano senza nulla da fare, l'osservava
intensamente tanto che i suoi occhi le bruciavano addosso. Mew si
voltava verso di lui con gli occhi strabordanti di
curiosità,
enormi, ed Emir, cogli occhi spalancati e infissi nei suoi come se
potesse ipnotizzarla, provava un singulto di disperazione.
«Mew,
usa
Teletrasporto» mormorava in un moto di preghiera. Aveva
sempre
guardato con disprezzo il mestiere dell'allenatore perché
gli pareva
che non richiedesse la fatica o l'impegno che tutti lamentavano: non
richiedeva studio né talento, gli pareva che tutto
ciò che
facessero gli allenatori (e per cui tanto venivano acclamati e
idolatrati) fosse dar ordini a un Pokémon che li eseguiva.
Ma ora
che ci provava e che Mew lo fissava con curiosità e non
reagiva, si
domandava se forse davvero occorresse un talento che lui non
possedeva. «Mew... usa Teletrasporto.»
Che
Mew fosse
in grado di usare Teletrasporto se solo lo avesse voluto era
fuor
di dubbio, poiché lo dimostravano i test genetici e le
sperimentazioni compiute da Valérien; ma a quanto pareva non
voleva,
o forse la sua voce incerta e piena di dubbi non aveva autorevolezza
sufficiente su di lei, chissà. Mew si limitava a guardarlo
senza
capire, ed Emir, gonfio di frustrazione, andava a cercare i suoi
farmaci. La sua disperazione era tale che non poteva fare altro.
Rotwang
aveva
sbagliato a dargli i farmaci, e questo non avrebbe mai dovuto
saperlo. Non avrebbe dovuto fidarsi di lui e della sua promessa, ed
Emir si sentiva colpevole d'aver abusato della sua fiducia.
La
prima volta
era capitato per errore. Rotwang gli aveva prescritto una compressa
ogni mattina: un giorno, Emir s'era svegliato alle cinque, ne aveva
presa macchinalmente una e s'era riaddormentato. Al suo risveglio,
quattro ore dopo, ne aveva assunta un'altra senza ricordarsi della
prima e se ne era reso conto solo dopo un po'. Era rimasto in
angoscia in attesa dei sintomi; ma non gli aveva fatto niente, o
quantomeno differenze lui non ne aveva percepite, e aveva provato uno
strano senso di delusione. Rotwang gli aveva detto che non era
così
che funzionavano le cose, che dell'effetto dei medicinali era
impossibile accorgersi logicamente; ma scoprire che neppure una
doppia dose gli faceva il minimo effetto lo lasciò confuso.
Non era
quello che si sarebbe aspettato.
Per
questo
motivo, una notte in cui si sentiva particolarmente disperato, in cui
la solitudine gli appariva sconfinata e insormontabile e l'alba
irraggiungibile, Emir afferrò il blister dal comodino, se lo
svuotò
in mano e inghiottì tutto insieme.
Stette
malissimo per il resto della notte, per le medicine o per l'angoscia
d'aver realizzato quel che aveva fatto – s'indusse il vomito,
si
addormentò, si riscosse, pianse e infine promise a se stesso
che non
l'avrebbe fatto mai più. Ma la sera seguente, dopo aver
dormito per
tutto il giorno e aver ingoiato cautamente del cibo solido, non era
morto, e per qualche ora non aveva pensato alla sua disperazione. Ora
che la nottata era passata e gli appariva lontana, non gli pareva
d'esser stato poi tanto male, in confronto al dolore di ogni giorno.
Aveva pensato che forse, se proprio ne avesse avuto un bisogno
irrefrenabile come la notte precedente, e solo in quel caso, avrebbe
potuto riprovare, questa volta con gli ansiolitici; e così
aveva
fatto.
Mew
lo
percepiva quando ne prendeva troppi. Avvertiva qualcosa di diverso in
lui, che fosse l'eccessiva sonnolenza o l'inusuale sovreccitazione, o
forse solo la diversa qualità del suo respiro; ma quando si
avvicinava cogli occhi colmi di curiosità e accostava il
muso per
annusargli la bocca, Emir la cacciava seccato con la mano. Del suo
affetto, a maggior ragione perché era lo stesso affetto
superficiale
ed effimero ch'ella aveva dimostrato a Rotwang, poteva fare a meno.
La odiava.
Si
svegliò un
giorno con in testa il balenare di un pensiero che non riusciva a
mettere a fuoco chiaramente. Era un'altra angoscia, una completamente
nuova, diversa, che andava ad assommarsi alle altre; forse derivava
da un sogno che aveva fatto quella notte. Ebbe bisogno di qualche ora
per trovare il coraggio di guardare dentro di sé quel
pensiero e
affrontarlo come se fosse reale.
Si
costrinse a
sedersi a esaminare la questione dopo aver tentato invano di dormire
per tutto il pomeriggio sul divano del sotterraneo. La presa di
coscienza della sua sciocchezza continuava a balenargli in mente a
tratti, ogni volta che chiudeva gli occhi; e alla fine Emir
rovesciò
le coperte in un angolo del divano, imprecò e
andò a prendere le
scatole di medicine che gli rimanevano.
Le
trovò
sparse un po' per tutta la casa, in camera, nel salottino sulla
scogliera, nei saloni del sotterraneo. Tornò a sedersi sul
divano,
le dispose sul tavolino, estrasse ogni singolo blister e si mise a
fare i conti. Non ci voleva un genio, ma contò e
ricontò due volte,
per sicurezza, e ancora una volta, e alla fine non ebbe più
dubbi –
Rotwang gli aveva lasciato farmaci sufficienti per i due mesi della
sua assenza. Era passato meno di un mese. Sul tavolo ce n'erano a
stento per altri dodici giorni.
Si
passò una
mano sugli occhi sentendo di non riuscire a respirare. Il cuore gli
palpitava tanto che se lo sentiva rimbombare nei polsi; non ci vedeva
più bene; gli si appannavano gli occhi; e improvvisamente
Mew balzò
sul tavolo e gridò: «Mew!»
Emir
le
scagliò il taccuino addosso.
Mew
si sollevò
gioiosamente a mezz'aria quando il taccuino le sibilò
accanto e si
coprì la bocca per soffocare un trillo di gioia. Si
dimenò
piroettando nell'aria più e più volte, squittendo
e ridendo perché
credeva ch'egli avesse inventato un nuovo bellissimo gioco, ed Emir
rimase seduto immobile e inorridito a contemplare in silenzio quello
che aveva fatto.
Mew
squittì
ancora, aspettando speranzosa che Emir le scagliasse addosso ancora
qualcosa da poter scansare. Ma Emir scosse piano la testa e
mormorò:
«Vai a giocare di là per conto tuo. Io non ho
più voglia di
giocare.»
Mew
continuò
a protestare per un po' nel tentativo di richiamare la sua attenzione
e costringerlo allo sfinimento a giocare con lei; ma Emir la
ignorò
e andò a raccogliere dal pavimento il taccuino aperto che
giaceva
sotto di lei. Non riusciva nemmeno a pensare; tutto attorno a lui
fischiava e sibilava e gli rimbombava nelle orecchie, ed Emir avrebbe
voluto soltanto che Mew la smettesse una buona volta di squittire e
pigolare e che facesse silenzio per poter finalmente iniziare a
pensare – ma di silenzio non ce n'era, ed Emir raccolse il
taccuino
e fuggì via dal sotterraneo senza una parola.
Si
rifugiò
nel salottino che affacciava sul mare, dove il sole velato di nubi
gettava attraverso le ampie finestre ombre mutevoli e cangianti, e si
accovacciò su una poltrona colla schiena rivolta verso il
sole
perché non voleva guardare fuori. Ricominciò a
respirare solo dopo
un po', quando finalmente gli parve che il sangue gli martellasse un
po' meno nei polsi e che tutto attorno a lui fischiasse un po' meno,
e socchiudendo gli occhi si appoggiò allo schienale e
inalò
profondamente l'aria che odorava di salsedine e di polvere.
Il
suo primo
pensiero quando l'aveva quasi colpita non era stato d'orrore
– era
stato: se fosse morta, come avrei fatto a dirlo a Richard? E
se questo era stato l'unico pensiero che aveva attraversato la sua
mente prima di tornare alla lucidità, e ancora in quel
momento si
sentiva spaventato non da quello che avrebbe potuto farle ma solo
dalle conseguenze che avrebbe vissuto, voleva dire che se fosse morta
egli sarebbe stato felice? E poi ancora non faceva che pensare
vergognosamente, indegnamente: ma quand'era che Mew si sarebbe mai
ribellata? Perché Mew doveva sapere
ch'egli aveva appena
rischiato di ucciderla, o forse soltanto di farle del male: doveva
saperlo, Emir aveva visto e studiato quanto lei fosse intelligente e
in grado di comprendere, l'aveva visto quando lei guardava i cartoni
animati e rideva o si spaventava sulla base di quello che vedeva
sullo schermo; ma allora perché non aveva reagito, non s'era
spaventata, non era fuggita a nascondersi temendo ch'egli cercasse
ancora di farle del male? Mew era perfettamente in grado di
comprendere ciò ch'egli aveva cercato di fare, allora forse
ella non
riusciva, o non voleva, vedere il male che la circondava? Del resto
era proprio per questo che entrambi ora erano prigionieri della villa
– perché Mew non sapeva o non voleva difendersi.
Concentrarsi
su quel pensiero lo aiutava a non pensare a quello che aveva fatto, a
non pensare ai farmaci e alla sua astinenza. Sfogliò
macchinalmente
il taccuino sforzandosi di non pensare che gliel'aveva appena
scagliato addosso: sulle pagine scorrevano interminabili righe di
appunti, ed Emir rilesse i due anni di prigionia con un moto
d'angoscia. Non erano appunti regolari, ed Emir faceva scorrere lo
sguardo senza soffermarsi mai, come se arrivando alla fine il prima
possibile vi avrebbe trovato una soluzione o un insegnamento o
qualsiasi cosa; ma insegnamenti, soluzioni o morali non ce n'erano,
ed egli lesse: 8 Aprile, abbiamo guardato il Dottor
Slump.
Ho riso un po' persino io. Mew si è divertita moltissimo. 21
Maggio,
Rotwang è rientrato in ritardo; Valérien ha
costretto solo lui a
restare finora. Mew mi ha guardato un paio di volte per vedere le mie
reazioni. Si è tranquillizzata quando le ho detto che era
tutto a
posto. 14 luglio, ho visto uno strano film in televisione. Mew ha
piagnucolato quando sembrava che il protagonista stesse morendo, ma
era molto contenta quando si è scoperto che non era
così; e
poi, ancora, a misura che la sua solitudine e la noia aumentavano e
il suo interesse diminuiva, appunti via via più scarni e
più radi e
più cupi che recitavano: 6 settembre. Oggi ho
dormito tutto il
giorno; ho scordato di prepararle il pranzo. Era arrabbiata
perché
aveva fame e non l'avevo considerata, ma era felice come una bambina
quando le ho portato da mangiare e mi ha riempito di abbracci. Mi ha
dato molto fastidio. 13 gennaio. Mi sono svegliato alle nove di sera.
Nessuno dei due aveva mangiato, ma Mew non sembrava arrabbiata. In
televisione non c'erano cartoni animati, ma ho trovato una replica di
Rashomon. Lo ha seguito con uno strano interesse;
non so se
l'abbia capito, eppure mi è sembrata commossa alla fine.
È strano.
Credevo che sarebbe stato troppo complesso per lei; eppure sembrava
concentrata e commossa. Mi piacerebbe indagare ancora. 11 agosto. Ho
provato a chiederle di Rotwang. Vorrei sapere se le manca, se ogni
tanto gli pensa; ma mi ha guardato squittendo di piacere per il solo
fatto che interagivo con lei; mi sono appena accorto di una cosa: che
non so neanche se lei conosca i nostri nomi...
Sfogliò
le
pagine seguenti con frenesia angosciosa. I suoi appunti erano finiti,
ma Emir non aveva imparato niente che non sapesse già: che
non c'era
una via di fuga, non c'era niente di cui avesse bisogno; e
disperatamente tornò indietro e riaprì il
taccuino dall'inizio per
cercare ancora, per rileggere con più attenzione, per
scoprire se
davvero quei due anni fossero trascorsi per lui senza che avesse
imparato niente; ma quando riaprì alla prima pagina, lesse: Oggi,
diciassette aprile, conversazione con N; ebbe un ricordo
improvviso; trattenne il fiato perché tale era la speranza
che
provava, che aveva paura di non ricordar bene; e scorrendo le pagine
con la punta delle dita, trattenendo il respiro, lesse: Laudano,
6
grammi.
Scorse
le
prime pagine con angoscia più che febbrile. Ricordava tutto
così
vagamente, eppure ora gli tornava tutto in mente: quando Rotwang
l'aveva svegliato e gli aveva letto ridendo brani del diario, e aveva
detto che solo un oppiomane avrebbe potuto
progettare una casa
come quella...
La
Silph aveva
acquistato la casa all'incanto a un prezzo ribassato dopo che tutte
le aste precedenti erano andate deserte. Nessuno al mondo avrebbe mai
voluto quell'incubo di un architetto, e quello era stato l'ultimo
tentativo che la comunità dell'isola era disposta a fare per
sbarazzarsi della casa prima di demolirla; ma la Silph, che aveva
fretta di comprare un alloggio aziendale per il direttore del nuovo
laboratorio, aveva comprato con un'offerta ridicola senza nemmeno
visionare l'immobile – poi era arrivato lui, e il resto era
storia.
Ma la sua vecchia segretaria, che era un'isolana da prima ancora di
nascere, una volta gli aveva raccontato che che il comune aveva tanta
voglia di vender la casa perché l'aveva ereditata a titolo
di
parziale risarcimento per i folli debiti del proprietario, e questo
era accaduto un po' di decenni prima, quando le cose funzionavano
assai diversamente; o forse era stata una donazione del proprietario,
o chissà che altro (la sua segretaria non se lo ricordava
bene)...
ma il punto era che il proprietario pazzo di quella casa, il folle
autore drogato delle annotazioni su quel quaderno e dell'architettura
della villa, era morto lì – e che tutto quello che
all'epoca della
sua morte possedeva, là era rimasto.
Il
percorso
tortuoso per discendere nel sotterraneo non gli era parso mai tanto
lungo. Scese le scale come una folata di vento: Mew, che non
s'aspettava più di vederlo nel sotterraneo per quel giorno,
trillò
di gioia come se lo vedesse quel giorno per la prima volta, ma Emir
non le rivolse uno sguardo. Era troppo eccitato per potersi curar di
lei e dei suoi sentimenti offesi.
Se
era rimasto
qualcosa doveva essere nascosto in modo tale che pur avendo esplorato
il sotterraneo per tutta la sua estensione, lui non se n'era mai
accorto; abitava lì da otto anni e negli ultimi due era
stato nel
sotterraneo giorno e notte, ma non aveva mai guardato proprio
dappertutto. Tutta la casa era piena di mobili con serrature chiuse a
chiave che non s'era mai dato troppo peso di aprire, forse per
disinteresse o piuttosto perché gli piaceva l'idea che
quella vasta
casa continuasse a celare misteri inaccessibili persino a lui. Ai
piani superiori, durante la perquisizione, gli agenti gli avevano
chiesto il permesso di aprire con la forza tutti i mobili cui non
riuscivano ad accedere; ma nel sotterraneo dove solo lui aveva
accesso, tutto era rimasto come il proprietario l'aveva lasciato. Lo
disgustava un po' metter le mani in cassetti chiusi da quasi un
secolo, a frugare tra la polvere e i ragni e i cadaveri di scorpioni
morti – ma alternative non ce n'erano.
Perlustrare
tutti i mobili del sotterraneo in un giorno era impossibile, ma si
arrese a quell'evidenza solo a sera fatta, quando Mew venne a
protestare rumorosamente per aver da mangiare e poi si mise a
curiosare per scoprire che cosa stesse facendo, dal momento che
proprio non le riusciva d'attirare la sua attenzione. I cassetti
strabordavano di tutto: Emir tirò fuori quaderni, libri,
piatti
rotti, documenti battuti a macchina, posacenere antiquati, teiere,
Pokéball d'anteguerra ricavate da ghicocche, tovaglioli
ricamati ma
privi di iniziali, tagliacarte, foulard di seta e persino una
splendida macchina da scrivere Remington che mai si sarebbe aspettato
di trovare lì – ma di laudano neppure l'ombra, ed
Emir aveva così
poca voglia di vedere Mew cacciare il naso in mezzo a tutta quella
roba che decise di smettere di cercare, per quel giorno. Non voleva
ammettere a se stesso la follia del suo tentativo: non c'era nulla in
quel diario che gli facesse davvero credere che la casa potesse
ancora nascondere laudano o eroina. Ma rifugiarsi in quella speranza
era sempre meglio che arrendersi all'astinenza. No?
Per
qualche
giorno la ricerca occupò le sue giornate. Era da due anni
che non
aveva nulla da fare che lo tenesse impegnato. Era una sensazione
quasi nuova, e c'erano momenti in cui la ricerca sopravanzava nella
sua mente e diveniva fine a se stessa, prendendo il posto
dell'ossessione delle droghe che cercava; ma di giorno in giorno la
vista dei farmaci che diminuivano gli ricordavano la sua angoscia.
Il
sotterraneo
conteneva molta più roba di quanto avrebbe creduto in un
primo
momento. C'era di tutto, compresi oggetti e soprammobili dei quali
non avrebbe saputo indovinare la provenienza né l'uso. Ma il
meglio
era nascosto in cassetti e ante chiuse a chiave: per potervi accedere
Emir fu costretto a uscir di casa e andare in un negozio di
ferramenta a comprare cacciaviti e un passepartout.
«Lavoretti
alla vecchia villa, dottore?» gli chiese il fabbro battendo
il
totale alla cassa. Aveva particolarmente voglia di chiacchierare,
quel giorno, ed Emir sapeva che era perché tutta l'isola
– o
almeno i vecchi tradizionalisti che avevano vissuto l'apertura del
Laboratorio come un'intromissione, e l'arrivo degli scienziati come
un'invasione di forestieri, sia pur di forestieri benevoli e colti
che portavano lavoro agli isolani e facevano girare un bel po' di
soldi del continente – nutriva nei suoi confronti una
curiosità un
po' morbosa. Non era neppur certo del perché, né
di come facesse a
saperlo; ma ne era consapevole come della temperatura dell'aria,
perché sentiva addosso lo sguardo dei loro occhi quando era
costretto a uscire di casa per andare a comprare qualcosa da mangiare
(il che succedeva un po' più di rado rispetto alla media
delle
persone normali), si sentiva scrutato e studiato come un animale
nella sua gabbia di laboratorio, e sapeva che tutta l'isola era
affascinata dallo scienziato solitario che viveva solo e relegato in
una grande villa deserta, che era magro e parlava poco e
malvolentieri e che nessun isolano poteva dire di conoscere. Un tempo
gli avrebbe dato più fastidio; ma aveva cose troppo urgenti
da fare
e più importanti a cui pensare, perciò si
limitò a rispondere: «Un
po' di lavoretti, già.»
«Se
ha
bisogno di aiuto alla Villa, posso mandarle un operaio. Basta che mi
faccia un colpo di telefono e ci accordiamo.»
D'improvviso
Emir lo considerò con sospetto. Perché gli aveva
detto una cosa del
genere? Certo, era il suo lavoro, ma forse il suo scopo era un altro
– quello d'insinuarsi nella Villa e vedere coi propri occhi
come
viveva e poi raccontarlo a tutti quelli che venivano in negozio? O
magari guardarsi attorno per cercare Mew? Ma non voleva che
quell'uomo sapesse che lui aveva capito quali erano i suoi piani:
voleva mantenere il vantaggio della consapevolezza, perciò
tutto
quello che rispose fu: «Ma senza dubbio. Se avrò
bisogno le farò
sapere» e uscì in fretta dal negozio senza
soffermarsi a salutare.
Gli
abitanti
di Isola Cannella erano pescatori semianalfabeti e poco altro,
esattamente come gli aveva detto Dale, ma erano furbi, oh, erano
molto furbi, e non c'era da fidarsi di loro. E poi, ora che ci
pensava, lui stesso aveva avuto per quasi sei anni una donna delle
pulizie dell'Isola, e dopo che l'aveva licenziata chissà
quante
storie su di lui, per vendicarsi o per il semplice gusto di
spettegolare, poteva essere andata a raccontare in giro; poteva aver
raccontato chissà quali dettagli su com'era la casa e su
come viveva
lui e chissà cos'altro, e ora probabilmente tutta l'isola
sapeva
tutto su di lui e sulla Villa! Era stato proprio così
stupido a
fidarsi di un'isolana!
Tornò
a casa
quasi di corsa come se scappasse e si chiuse la porta alle spalle
come se frapponesse un ostacolo tra lui e il mondo esterno.
Emir
lavorava
ogni giorno mentre Mew giocava con tutte le cianfrusaglie che aveva
rovesciato fuori dai cassetti. Di giocattoli per la sua
curiosità
ce n'erano in abbondanza: in quei giorni Mew viveva nella convinzione
ch'egli avesse creato per lei un fantastico parco giochi di oggetti
gettati alla rinfusa sul pavimento e sui divani appositamente
perché
lei potesse prenderli e giocarci e portarglieli per attirare la sua
attenzione; Emir trascorreva le giornate svitando serrature con le
dita che gli dolevano mentre Mew fluttuava attorno a lui
squittendogli nelle orecchie e gettandogli in grembo vecchie
ghicocche secche e cave nella speranza che questo lo invogliasse a
giocare con lei. Emir l'allontanava scacciandola con la mano, ma era
contento di non provare più quell'impulso terrificante di
farle del
male. Doveva ignorarla soltanto fino a che non avesse trovato quello
che stava cercando – e dopo, ne era certo, sarebbe andata
molto
meglio. A quel punto non gli sarebbe rimasto che da tener duro
finché
non fosse tornato Rotwang – che cosa sarebbe cambiato poi
dopo il
suo ritorno non lo sapeva, e neppure aveva voglia di pensarci; ma
qualcosa sarebbe cambiato di sicuro. Ne era certo.
In
ferramenta
gli avevano dato qualche chiave passepartout, ma quando le aveva
comprate Emir s'era scordato di specificare che i mobili per cui gli
occorrevano risalivano a circa un secolo prima; il che implicava che
quelle chiavi non andavano bene per la maggior parte delle serrature.
In quei casi non gli rimaneva altro che armarsi di un cacciavite e
smontare un po' per volta serrature vecchie di un centinaio d'anni
svitando viti arrugginite da decenni. Il che, naturalmente, era un
lavoro pienamente inutile la totalità delle volte, dato che
una
volta smontata e sfilata la serratura, di solito i cassetti
riversavano per lui misteriosi tesori di documenti e libri, di
termometri e mercurio e progetti di edifici che probabilmente non
erano mai stati realizzati, argenteria e accendini e pipe di schiuma
che Emir puntualmente scaraventava contro il muro e che Mew credeva
di dovergli riportare, come un cane – ma niente laudano.
Odiava
il
sotterraneo quanto l'aveva amato una volta, perché oltre a
tenerlo
prigioniero ora si rifiutava di schiudergli i propri segreti; e
soprattutto perché si accorgeva ogni giorno di
più che, per quanto
si rifiutasse di soffermarsi troppo su quel pensiero, ormai ogni
giorno di più era evidente che se non aveva trovato niente
fino a
quel momento, probabilmente era perché non c'era niente.
«Potresti
darmi una mano, sai» le disse all'ennesima volta che una
ghicocca
cava gli cadde in grembo. Non che nutrisse il benché minimo
pensiero
che ciò si sarebbe verificato, né tantomeno che
Mew capisse cosa
cercava di dirle; ma era confortante, ogni tanto, aprire la bocca e
fingere di avere una conversazione reale con qualcuno in grado di
capirlo. Ciò equivaleva, naturalmente, a parlar da solo; ma
la sua
era l'unica voce umana che avesse modo di udire, e ogni tanto faceva
piacere sentirne una.
«Mew»
ribatté Mew incuriosita, sentendosi autorizzata ad
avvicinarsi dal
fatto stesso ch'egli le aveva rivolto la parola, ed Emir si
pentì
immediatamente d'aver parlato. Ma di buono c'era che per avvicinarsi
a lui Mew aveva smesso di giocare e disturbarlo, e la cosa lo mise
parzialmente di buon umore.
«Non
sai
nemmeno cosa sto facendo, vero?» domandò
ironicamente, tanto per
dir qualcosa. Impazzita di gioia per l'ebbrezza di venir considerata,
Mew venne a cacciare il muso contro la serratura ch'egli lottava
invano per aprire, ma Emir si limitò a scostarla con la mano
senza
violenza. Era troppo stanco e sfiduciato per sprecare le forze.
«No
che non lo sai. È tutta colpa tua, però. Questo
lo sai?»
«Mew»
cinguettò Mew che non sapeva nulla, non capiva nulla di
tutto ciò,
ma era terribilmente innamorata del suono della sua voce e del
profumo della sua considerazione. Emir provò un terrificante
moto di
rabbia di fronte alla sua eterna immutabile risposta, e per non esser
più costretto a guardarla ricominciò con stizza
ad accanirsi sulla
serratura a rischio di scheggiarsi le dita.
«Sarebbe
stato tutto diverso se tu non fossi stata tu, se non foste stati
così. Tu e M1, intendo. Sarebbe andato tutto molto meglio se
tu non
ti fossi lasciata studiare e bucare come una cavia da laboratorio, se
io e Rotwang non fossimo stati costretti a salvarti persino da te
stessa, se lui non amasse te più di me... Se solo tu ti
decidessi
ogni tanto a fartene qualcosa di tutti i tuoi poteri anziché
startene chiusa qua sotto, con me, a essere così
stupidamente
felice, e ci lasciassi liberi di vivere senza di te...»
S'interruppe
imprecando perché le mani gli dolevano e perché
non aveva più
voglia né di parlare né di guardarla –
ma sentiva lo sguardo di
Mew bruciargli addosso come il raggio proiettato da una lente. I suoi
occhi studiavano il suo volto con un'intensità che non
avevano mai
avuto, e per un attimo Emir ebbe il dubbio persino che lo stesse
ascoltando e capendo – ma si
rifiutò di dar retta a quel
pensiero e si rimise al lavoro, per chiudere quella conversazione e
tornare a far finta che lei non fosse lì.
La
serratura
ebbe uno scatto secco e l'anta oscillò sui cardini e si
spalancò
senza che il cacciavite l'avesse toccata. Emir rimase fermo a
guardarla per un po'.
«Mew»
commentò lei con un guizzo di una gioia che però
non era assoluta e
totalizzante come ogni volta – Mew lo stava guardando per
vedere
s'egli sarebbe stato contento di lei.
«Sei
stata
tu?» domandò Emir a bassa voce.
«Mew.»
Emir
spalancò
l'anta e introdusse la torcia al suo interno per accertarsi di non
trovar sorprese. Anche uno scorpione morto sarebbe stato qualcosa di
più emozionante delle solite cose: ma a parte un ragno che
sgattaiolò via alla svelta, il mobile conteneva soltanto
vecchi
quaderni ingialliti. Ne aveva trovati così tanti che non
avevano
ormai neppure il fascino dei primi giorni, quando valeva la pena
almeno di guardare che cosa c'era scritto: Emir se li gettò
alle
spalle senza nemmeno aprirli. Tutto era completamente inutile.
«Sei
stata di
grande aiuto» disse. «Non è che sai
dov'è il laudano del vecchio
pazzo, eh? Laudano, sai, si fa con l'oppio; hai presente?»
«Mew»
ribatté Mew, ancora attenta a lui, scrutandolo come se
volesse bere
le sue parole dalle sue labbra direttamente, come da una fonte. Il
pensiero lo fece sorridere d'un sorriso amaro, ed Emir
sillabò quasi
ridendo: «Lau-da-no. Non è che
l'hai visto da qualche
parte, eh?»
In
modo del
tutto inaspettato, Mew squittì di gioia come se avesse
trovato la
soluzione e si gettò in volo dall'altra parte della sala.
Col cuore
palpitante di aspettativa, Emir la seguì.
Non
andarono
molto lontano. Mew s'insinuò in un corridoio cieco che egli
conosceva bene senza però esserci andato troppo spesso:
più che un
corridoio era una sorta di anticamera, perché un
interruttore
nascosto dietro un pannello apriva una seconda camera segreta che
Emir aveva scoperto solo dopo diversi mesi dalla sua prima discesa
nel sotterraneo. Mew si fermò di fronte al pannello che
celava
l'interruttore e si voltò a guardarlo con insistenza, quasi
indispettita dalla sua lentezza: nei suoi occhi c'era un'eccitazione
impazientita che pareva voler dire Ma insomma, non
t'importava
così tanto?
«Arrivo,
arrivo» borbottò Emir, sentendosi quasi in dovere
di scusarsi per
il suo ritardo. Attivò l'interruttore, la porta segreta
scivolò sui
suoi misteriosi ingranaggi, meravigliosamente silenziosa, e Mew vi
s'insinuò attraverso senza neppure aspettare che fosse
completamente
aperta. Emir la seguì nel buio non appena il passaggio fu
largo
abbastanza per farlo passare.
Si
affrettò
ad accendere la luce. All'interno era tutto un po' più
ordinato che
nel resto del sotterraneo, forse anche perché Emir non aveva
avuto
voglia di metterci le mani o di trasformare quella stanza. Conteneva
i soliti mobili antichi, chiusi, e una vecchia cassapanca d'epoca di
quelle che si usavano per riporre gli abiti – ma Mew
ignorò tutto
quanto e puntò direttamente contro la parete di fondo della
stanza
dove rimase ad aspettarlo con impazienza.
«Tutto
qui?
Bella scoperta» commentò Emir. Di fronte al suo
scetticismo Mew
rispose con un lungo squittio acuto, sottile, come quello di un
cucciolo. Ma non c'era niente di fronte a lei, ed Emir si strinse
nelle spalle e domandò: «Beh? Mi hai fatto venir
qui per farmi
vedere la tua parete?»
Ma
si rese
conto mentre stava ancora parlando di quanto era stato stupido e
cieco. Nulla in quella casa era quello che sembrava, perciò
quella
come poteva essere solo una parete?
Posò
il palmo
della mano contro la parete, là dove Mew indicava con
sdegnosa
impazienza, e premette. L'armadio nascosto dalla falsa parete di
legno laminato si aprì con la delicatezza di una molla non
appena
premuta dalla sua mano, ed Emir scoppiò a ridere
istericamente di
fronte agli scatoloni di plichi e fogli manoscritti e infine, proprio
sullo scaffale all'altezza dei suoi occhi, una scatola di boccette di
vetro scuro tutte uguali e ordinatamente disposte. Era tutto
lì:
nessuna serratura, nessun codice segreto, solo uno studiolo appartato
nella quiete del sotterraneo e un armadietto nascosto dietro una
falsa parete identica a quella che nascondeva il bagno nella camera
padronale. Il vecchio pazzo giocava esattamente alle stesse regole di
sempre, le regole della Villa.
Aveva
la mente
piena di pensieri che vorticavano come uccelli che sbattevano contro
le sbarre di una gabbia: a che cosa pensava il vecchio proprietario e
chissà quali segreti la casa celava ch'egli ancora non era
riuscito
a svelare, e se assumere il laudano sarebbe stato l'ultimo passo
sulla china della sua autodistruzione o se avrebbe ancora avuto modo
di tornare indietro... ma la sua mente era gravata ancora da altro,
ed Emir non riusciva ad allontanare questo pensiero a sufficienza da
poter mettere a fuoco gli altri.
Mew
tripudiava
di gioia. Si aspettava da lui un riconoscimento, una carezza, forse
soltanto che fosse contento; ma Emir si voltò lentamente
verso di
lei e domandò: «Come lo sapevi?»
Mew
squittì
reclinando il capo sulla spalla in segno di curiosità.
Emir
proseguì
lentamente, con la voce che gli tremava di una rabbia che faceva
fatica a trattenere: «Hai vissuto tutta la vita in Guyana,
nella
giungla. Tu non hai mai visto una bottiglia di laudano in vita tua.
Non conoscevi nemmeno questa parola. Come facevi a saperlo?»
«Mew»
ripeté
Mew contenta, come a voler confermare le sue parole, ed Emir
insistette ancora: «Come facevi a saperlo?»
Quella
era una
questione troppo più complessa del laudano, dei misteri
della Villa.
Emir si rigirò le fiale tra le mani lentamente, senza
distogliere
gli occhi da lei, e mormorò: «Mi hai letto nel
pensiero, vero?»
«Mew.»
«Sei
anche
telepatica. Questo non mi stupisce, ma tu hai fatto più che
leggermi
ne pensiero, perché io non conoscevo questo armadio e non
sapevo
dove fosse il laudano, perciò in qualche modo hai fatto
tutto da
sola. Ma il vecchio pazzo è morto e soltanto lui sapeva
dov'erano le
medicine, perciò come hai fatto?»
Mew
continuava
a suggere le sue parole dalle sue labbra senza capire, felice
soltanto ch'egli le stesse rivolgendo a lei. Ma Emir parlava
più per
se stesso che per lei. C'era in lui lo scienziato che si dibatteva e
si risvegliava contro il torpore dei farmaci e dell'inerzia, come
sollevando una coltre di ragnatele che lo avviluppava – ma i
pensieri che lo agitavano erano rabbiosi e confusi e andavano ben al
di là dell'interesse della scienza. Non trovava soluzioni.
La
telepatia era un'abilità non ignota ai Pokémon
Psico, e che Mew
avesse le stesse abilità della famiglia di Abra non era
sorprendente, in quanto corrispondeva alle ricerche che avevano fatto
anni prima; ma quello che Mew aveva fatto andava al di là di
ogni
conoscenza attuale. Si rigirava le boccette tra le mani senza capire,
senza soffermarsi su nessun pensiero, solo a osservare i riflessi dei
propri occhi sul vetro. Dopo un po' mormorò: «Mew,
usa
Teletrasporto.»
«Mew»
cinguettò Mew in risposta.
Emir
non aveva
mai saputo pregare, mai, da quando era bambino; ma se avesse dovuto
farlo, l'avrebbe fatto come in quel momento. «Tu puoi farlo,
ma non
vuoi. Potresti tornartene in Guyana se solo volessi, potresti andare
dove vuoi... allora perché insisti a rimanere qui anche se
vedi bene
che io ti odio?»
«Mew»
ripeté
Mew, stavolta con una punta di confusione, ed Emir scacciò
la sua
perplessità con uno scatto nervoso della mano.
«Perché
sei
come lui, vero? Come M1. Indifesa e terribilmente felice di vivere,
non sai provare rabbia, non sai provare dolore – o meglio lo
sai,
perché io ti ho vista, ma la verità è
che sei troppo felice per
provare rabbia a lungo. È per questo forse che Rotwang ti
ama tanto
– perché sei come M1 e lui avrebbe voluto
salvarlo. Ma per salvare
te Rotwang non potrà mai scegliere me, allora
perché non te ne vai
e ci lasci liberi senza di te?»
Mew
era in
grado di leggere il suo pensiero ed Emir lo sapeva perché lo
aveva
appena fatto. La sua disperazione era tale che non voleva altro: che
Mew comprendesse ciò che provava e obbedisse al suo ordine,
si
Teletrasportasse e lo lasciasse libero per sempre senza di lei. Ma
quando Emir guardò di nuovo verso di lei nella speranza di
trovare
nei suoi occhi una scintilla di comprensione, non trovò
nulla. Il
suo sguardo azzurro era ancora carico d'amore ed entusiasmo come ogni
giorno della sua vita, colmo soltanto di gioia per la sua
considerazione, ed Emir scosse il capo sorridendo di se stesso per
averci anche solo sperato.
Suonò
il
telefono nel cuore della notte.
Emir
si
svegliò di soprassalto cogli occhi che gli lacrimavano e la
bocca
spalancata, e la sensazione di venir strappato e riportato al mondo
reale da una regione molto lontana dello spazio. Non si ricordava
dove fosse. Era troppo buio e lui era troppo confuso, e per qualche
istante rimase intorpidito a massaggiarsi gli occhi finché
non si
rese conto di essere seduto. Si era addormentato sul divano senza
nemmeno cambiarsi, e quando sentì le onde che si
rifrangevano contro
gli scogli capì di trovarsi nel salotto sul mare.
Non
stava più
nel sotterraneo da quel giorno con Mew. Scendeva ogni giorno una o
due volte per darle da mangiare, non appena se ne ricordava, ma non
la guardava neppure – lasciava un piatto per lei in fondo
alle
scale e questo era quanto. Che poi lei lo mangiasse o meno, non gli
importava. Mew era passata dalla confusione allo sdegno e poi era
tornata all'entusiasmo: sentiva i suoi passi sulle scale mentre
scendeva e si precipitava su di lui in un vortice d'eccitazione, ma
Emir lasciava il piatto sul pavimento e fuggiva via prima che lei
facesse in tempo ad avvicinarsi. Aveva pensato persino di chiuderla
nella sua Pokéball per qualche giorno, ma qualcosa dentro di
lui lo
aveva fermato.
Il
telefono
squillò ancora nell'indeterminatezza della notte, lo squillo
si
prolungò echeggiando nei corridoi deserti. Solo in quel
momento Emir
si ritrovò d'improvviso veramente sveglio e vigile,
catapultato di
nuovo nel mondo dei vivi come da una grande distanza, e si rese conto
finalmente che c'era una sola persona che poteva telefonare a
quell'ora.
Attraversò
la
casa come se volasse. Lo studiolo del telefono era maledettamente
lontano, lontano come non gli era sembrato mai, di certo a
sufficienza da perdere la chiamata – ma scivolando sul
parquet Emir
entrò come una folata di vento e si gettò sul
telefono con tutto il
proprio peso. «Rotwang?»
Il
telefono
gracchiava di un'orrenda tosse, come se la sua voce strisciasse
rumorosamente per tutto il percorso attraverso il Pacifico.
«Fuji?
Fuji, mi senti? Riesci a sentirmi?»
S'accorse
di
stare piangendo solo quando si sentì le lacrime bagnargli
gli angoli
della bocca. Si asciugò le guance brucianti con un gesto
pieno di
rabbia, sentendosi profondamente stupido, e si disse con rabbia che
era un effetto del laudano.
Fu
allora che
pensò: cazzo, il laudano.
«Sì...
sì,
ti sento» balbettò; si sentiva la voce piena
d'incertezza come se
da quella solamente, da migliaia di chilometri di distanza, Rotwang
potesse smascherarlo e scoprire le sue bugie; ma poi il sollievo di
udire di nuovo la sua voce, di non sentirsi più solo al
mondo in una
notte sconfinata che non trovava fine, fu tale che quell'incertezza
passò. Per un istante gli parve riprende forza dentro di lui
quella
parte di lui menzognera e sicura di sé che aveva ingannato
la Silph,
la polizia e l'isola – ma quella parte di lui si
dibatté
pietosamente sotto coltri di autocommiserazione e psicofarmaci negli
ultimi spasmi d'agonia. Non era più un superuomo. Era
solamente Emir
ed era solo. Ma andava bene anche così.
«Dio,
grazie.
Abbiamo trovato un telefono, ci siamo fermati in un villaggio
missionario. Lestournelle sta litigando con le guide locali, ne ho
approfittato per chiamarti...»
Sentì
che le
informazioni lo travolgevano e si accavallavano all'interno della sua
mente intorpidita. «Un villaggio missionario?»
Rotwang
rise
di una risata amara che gracchiava nel ricevitore. «Potrebbe
darsi
che abbiamo corrotto le guide per farci portare qui a riposare, e ora
Lestournelle è particolarmente incazzato e loro stanno
facendo finta
di non capire una parola.»
La
risata
fioca che gli strappò dal petto fu quasi dolorosa, sapeva di
nostalgia e di solitudine. «Di chi è stata
l'idea?»
«Ti
sorprenderà, ma di Ami. Non è tanto scema quella
ragazza, e...» La
voce di Rotwang incespicò come se fosse in bilico, in cerca
di
qualcosa da dire; ma i convenevoli erano finiti, ora erano loro due
soltanto ai due capi di un filo teso attraverso l'oceano, soli come
non erano stati mai. «Come stai?»
Male,
avrebbe dovuto rispondere; male, non riesco a mangiare, ho
approfittato della tua fiducia, ho esagerato con le medicine che mi
avevi dato, ho rischiato di ferire Mew, ho messo a soqquadro la villa
per trovare due dozzine di bottiglie di laudano che probabilmente
sono scadute, ma mi danno almeno l'illusione di assumere una medicina
magica che possa farmi dimenticare il mio dolore atroce, inumano;
male, avrebbe dovuto rispondere, e forse non sarebbe andato
tutto
perduto a partire da quel giorno, forse ancora qualcosa si sarebbe
potuto salvare. Ma Rotwang era a migliaia di chilometri di distanza
da lui, lontano come se neppure esistesse, solo e impotente
esattamente come lui, e un qualche pudore oscuro dentro di lui
rispose: «Bene. Insomma, un po' noioso, potrebbe andar
meglio... e
tu, come stai tu?»
«Come
vuoi
che stia? Mangiato vivo dalle zanzare, come tutti.» Emir
poteva
quasi vedersela di fronte agli occhi, la sua pelle pallida e
arrossata dalle zanzare e dai vestiti pesanti della giungla, come
l'esploratore più scorbutico del mondo. «Ma
c'è di buono che
Lestournelle ha ancora troppa paura di me, non mi ha ancora rivolto
la parola da quando siamo partiti...»
«Avete
trovato qualcosa?»
«Sicuro,
un
coprolite di Exeggutor. Non ci serve nemmeno per procedere al
progetto dei fossili, Dale è furioso. Forse pensava che
bastasse
campeggiare un paio di notti nella giungla per svegliarsi in un nido
di Pokémon scomparsi da secoli. Quell'uomo deve aver letto
un po'
troppo Conan Doyle...»
Emir
dubitava
che Dale avesse mai letto un romanzo di Doyle, o in generale un
qualsiasi libro che non parlasse di macroeconomia in vita
sua.«Sai
quando tornerete?»
Un
sospiro
frusciò rumorosamente attraverso l'energia statica
attraverso il
telefono. «Non lo so, Fuji, veramente. Credo che ormai
resteremo per
tutti i due mesi previsti, perché Dale non vuole darsi per
vinto e
Lestournelle è isterico, ma... senti, non lo so, davvero.
Ora devo
andare...»
«Ah»
disse
Emir sentendosi molto stupido, e subito dopo si sentì ancora
più
stupido per averlo detto. Doveva già essere un miracolo che
avesse
potuto chiamarlo, e di certo anche gli altri avrebbero voluto
telefonare a casa. Annaspò per un momento in cerca di che
dire, di
come salutarlo, quelle erano le ultime parole per giorni, di certo
settimane, e come un ragazzino non sapeva che dire. Ma poi Rotwang
parlò di nuovo. «E lei?»
Mew
era
ovunque come Lavandonia, come suo padre, come l'assenza di sua madre,
era in ogni loro parola, era nella mente di Rotwang persino quel
giorno.
«Mi
hai
telefonato per lei?»
«Che
cosa?
Puoi ripetere, Fuji? La linea...»
La
linea non
era disturbata: Emir aveva mormorato troppo piano perché
sentisse.
Gli pulsava il petto come se le parole volessero uscirne a viva
forza, farsi largo dilacerandogli la carne per urlare – ma
colle
labbra irrigidite dal dolore e dallo sforzo, dall'inumana rabbia che
provava, Emir rispose:«Va tutto bene, Rotwang. Non devi
preoccuparti. Ci sono io con lei.»
Gli
parve
quasi di sentire la sua voce addolcirsi attraverso il telefono.
«Beh,
suppongo che questo dovrebbe tranquillizzarmi, giusto?»
Era
l'unico
modo che Rotwang conoscesse di dir grazie, ma per una volta, forse la
prima, Emir non aveva la forza di giocare a controbattere le sue
schermaglie. «Certo.»
«Fuji,
io...
ora devo andare. Ti chiamo non appena...»
«Non
appena
trovi un altro telefono» lo interruppe Emir, un po'
più
asciuttamente di quanto avrebbe voluto. «Lo so.»
Rotwang
avrebbe ancora voluto dir qualcosa, forse quella strana inesplicabile
durezza nella sua voce l'aveva sentita, avrebbe voluto domandare; ma
erano tutti e due troppo orgogliosi, gli altri lo stavano aspettando,
qualcuno avrebbe potuto essere in ascolto, la sua maschera sarebbe
crollata; allora rispose: «Bene così, Fuji.
Cerca... cerca solo di
star bene, intesi?» Vi fu un momento ancora, Rotwang
esitò; poi la
chiamata si chiuse. Emir rimase da solo a osservare il telefono
silenzioso.
Si
mosse
molto lentamente. Riappese ordinatamente la cornetta, chiuse in
silenzio la porta e si avviò al piano di sopra, camminando
molto
lentamente. Non c'era nessuna fretta. Nessuno poteva disturbarlo,
ora.
Percorse
con
calma i labirinti sotterranei della villa per scendere da lei: quando
arrivò, la trovò addormentata sul divano,
acciambellata come un
gatto o un cane che si sentisse particolarmente al sicuro,
parzialmente arrotolata sotto la vecchia coperta appallottolata
ch'egli aveva lasciato sul divano l'ultima volta che ci aveva
dormito. Probabilmente c'era ancora il suo odore.
Mew
aprì gli
occhi quando sentì i suoi passi rimbombare nel sotterraneo.
Sollevò
il capo dal divano coi sensi all'erta, cogli occhi che scintillavano
di aspettativa nel raggio di luce dorata della porta; ma non si
alzò
per andargli incontro, forse perché percepiva tutta la
stranezza di
quella visita notturna, e rimase immobile a scrutarlo nell'ombra,
sospettosa e tesa come un cobra. Ma Emir le passò accanto
senza
fermarsi e Mew non lo seguì.
Non
era più
rientrato nel suo studio dopo quella sera con Rotwang. Si
sforzò di
non pensare a quell'ultima sera, al suo respiro nel buio,
all'incommensurabile vuoto; non ci pensò perché
sapeva già quale
pensiero sarebbe seguito a questo: se solo non fosse stato per
lei...Se solo Mew fosse stata un po' diversa, un po' meno
vulnerabile, un po' più in grado di difendersi, un po'
più... Ma
non valeva la pena di pensarci perché aveva già
la soluzione;
l'aveva appena scoperta eppure sempre conosciuta, era sempre stata
là
sotto per anni, gli era stata accanto per mesi...
Si
prese tutto
il tempo che gli occorreva, non c'era alcuna fretta: non aspettava
nessuno; a nessuno là fuori importava di lui. Rotwang aveva
detto un
sacco di volte una battuta stupida che gli tornò in mente
d'improvviso mentre armeggiava per cambiare la lampadina fulminata e
che gli strappò una risata perché gli parve
stranamente profetica e
solo in quel momento, e perché solo in quel momento la
capiva fino
in fondo con tutte le sue conseguenze: qua sotto nessuno
può
sentirti urlare.
Cambiò
la
lampadina: la stanza fu inondata di una luce bianca fredda, asettica,
e gli apparve com'era dopo tutti quegli anni in disuso:
disgustosamente sporca, polverosa, ma ancora in ordine, quantomeno.
Non si poteva lavorare in quelle condizioni, perciò
andò al piano
di sopra a prendere stracci e detersivi e passò la mezz'ora
seguente
a pulire. Si sentiva stranamente calmo, lucido come non era da tempo.
Si
tenne il meglio per ultimo. La stanza era pulita e inondata di luce,
un po' meno squallida di quando era entrato, ed Emir si sedette al
tavolo con rinnovata calma. Il macchinario della sua tesi di laurea
troneggiava di fronte a lui come se lo guardasse. Non era un bel
prototipo – era grosso e ingombrante, sgraziato; era stato
pensato
esclusivamente per servire alla sua funzione, senza alcun intento
estetico, ed era tutto tubi e filamenti al led; ma non l'aveva
progettato per essere bello – di certo un vero ingegnere
avrebbe
saputo far di meglio, avrebbe costruito la stessa macchina impiegando
metà degli spazi e degli elementi inutili; ma il piccolo
utero
artificiale che era il capolavoro della sua tesi, che permetteva
allo scienziato d'intervenire sul DNA e di procedere all'impianto
dell'embrione entro due settimane dalla fecondazione dell'ovicita,
quello non avrebbe potuto crearlo un ingegnere - quello era opera sua,
l'aveva inventato lui, e ora finalmente avrebbe anche visto la luce.
Svitò
le
parti rimovibili con la massima cura, le sollevò innanzi
agli occhi
per osservarle in controluce, lucidò gli elementi in vetro
sino a
farli risplendere.
Finalmente,
tutto era perfetto. Emir rimase seduto alla scrivania per un po',
Incantato, a osservare ciò che la sua mente aveva compiuto
da sola,
strabiliato da se stesso. Doveva essere l'ora dell'alba, ma di sole,
nel tempio del suo genio, non ne sorgeva mai.
Era
il
momento: sentì che non poteva aspettare un minuto di
più. Emir si
alzò e si affacciò nella sala principale del
sotterraneo, dove Mew
ancora aspettava un suo cenno. Emir sorrise, spalancò le
braccia e
domandò: «Vuoi venire a giocare con me?»
Nota
chiarificatrice che vi avevo promesso: ormai avete capito
tutti
che cosa sta per succedere, perciò questo mi sembra il
momento più
adatto per spiegare una grossa assenza che alcuni di voi hanno
giustamente notato – quella del Team Rocket.
Ora,
nel nostro immaginario collettivo la nascita di Mewtwo è
indissolubilmente legata a Giovanni e al Team Rocket per via
dell'anime, ma studiando e ristudiando le entry del Pokédex
e i
dettagli presenti in Pokémon RBG, ho notato che in
realtà il Team
Rocket non viene mai
menzionato
parlando di Mewtwo, né a Isola Cannella in generale. Vi
giuro che ho
percorso quei sotterranei forse un milione di volte e mai sono
riuscita a trovare un solo riferimento! Naturalmente, con questa
storia mi sto esponendo al rischio che qualcuno di voi mi scriva
domani per farmi notare che appena si arriva sull'Isola ci sia un NPC
che dice “sai che Mewtwo l'ha creato il Team
Rocket?” che io non
ho mai visto. Questo è possibilissimo e io vi chiedo scusa,
ma da
buona filologa mi sono basata unicamente su ciò che io ho
trovato
nel gioco, cercando di non farmi condizionare dal fandom o
dall'anime, e quello che ho trovato è questo: che Mewtwo
è
indubbiamente collegato al Laboratorio Pokémon e alla Villa,
ma non
al Team Rocket. Quando ho deciso di inserire Giovanni qualche
capitolo addietro, l'ho fatto perché il Casinò
Rocket è l'unico
modo legale in gioco per ottenere Porygon, un Pokémon
esplicitamente
creato dalla Silph, perciò ho deciso di sfruttare questo
elemento
per suggerire la corruzione dell'azienda – ma per quanto
riguarda
il Team Rocket e Giovanni, questo è quanto. Ho
già scritto fin
troppo di Giovanni nelle mie storie. Questa è incentrata
sulla
storia di uno scienziato che, come afferma il Pokédex, crea
Mewtwo
«dopo anni di orribili esperimenti di ingegneria
genetica».
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Capitolo 14 *** Frangibile. ***
Avevo
promesso
che non avrei lasciato da parte questo progetto, e come vedete eccomi
qui: so
che ormai è più un meme che altro, io che spunto
dal nulla dopo mesi di
silenzio e posto un capitolo, ma questo è. Se ancora
c’è qualcuno che sta
seguendo questa storia, vi informo che siamo quasi alla fine, lo
assicuro!
Recap
dei capitoli precedenti: Rotwang è partito per la seconda
spedizione in Guyana
alla ricerca di un altro Mew; Emir è rimasto solo nella
villa con Mew per circa
due mesi. Ha iniziato a perdere sempre più coscienza del
tempo che passava e ad
abusare dei farmaci che Rotwang gli aveva lasciato nel tentativo di
aiutarlo a
superare la sua depressione; mentre cercava il laudano e altri oggetti
del
misterioso, folle costruttore della villa, si è accorto che
Mew è evidentemente
in grdo di leggere nel pensiero. A questo punto, ha rimesso in funzione
il
prototipo del macchinario per il sequenziamento del DNA che aveva
realizzato
per la sua tesi di laurea.
Augurandovi
buona lettura, non posso non ringraziare Fiulopis per aver betato
questo pappone
di capitolo.
Dedicato
a Persej Combe, un po’ in ritardo per il suo compleanno.
Capitolo
XIII – Frangibile
Il
giorno del ritorno di Rotwang Emir si fece la barba e si
vestì.
Non
ricordava quando fosse stata l’ultima volta. Si era
rasato, quelle volte che era sceso in paese a comprar qualcosa da
mangiare? Non
gli pareva, ma tutto nella sua mente era ovattato e distante, confuso,
e sul
mento e sulle guance aveva una barba ispida lunga di giorni. A
toccarla, era
ripugnante; ma quando si chinava sullo specchio, avvicinando il volto
al vetro
per osservare se stesso e la barba da vicino, le sue occhiaie
risaltavano viola
sulle sue guance scavate che parevano di un affamato, e quella vista
forse lo
disgustò ancora di più. Tirò fuori
dall’armadio qualche vecchio completo di
quando ancora lavorava, ma quando li indossò e
passò davanti allo specchio per
cercare di sistemarsi, i pantaloni gli ballavano addosso,
l’ultimo buco della
cintura era ancora troppo largo per i suoi fianchi e la giacca ricadeva
sulle
sue spalle informe come un sacco, come fosse quella di un altro. Se li
tolse e
li gettò sul pavimento in un impeto di rabbia, pensando che
Rotwang si sarebbe
accorto di certo che non aveva mangiato, che non era stato ai patti; se
dell’aspetto ossuto, mostruoso che aveva assunto il suo corpo
si fosse accorto
prima, forse avrebbe potuto far qualcosa; ma riprendere peso
nell’ora che lo
separava dall’attracco del traghetto non era possibile.
Cercò di mascherarsi
così come poteva: indossò una camicia che un
tempo gli era andata troppo
stretta e la infilò in un paio di jeans scoloriti che,
quantomeno, non
avrebbero avuto addosso a lui la stessa aria sciatta del velluto troppo
largo.
Aveva l’aria sperduta di un disoccupato di quasi
quarant’anni infagottato in
vestiti vecchi e troppo larghi per lui, ma, con le sue spalle magre e
le cosce
che tra di loro non si toccavano neppure più, quello era
l’aspetto migliore che
poteva ottenere.
Quando
Rotwang era partito, erano andati entrambi al molo
con l’automobile mandata dal Laboratorio a prenderli; in quel
momento, due auto
si trovavano già al molo ad aspettare il ritorno della
spedizione per
riaccompagnare i membri alle loro case e, se il giorno precedente Emir
avesse
fatto una telefonata alla sua ex segretaria, avrebbe potuto farsi
accompagnare
per il viaggio di andata. Si fosse trattato di lei, lo avrebbe chiesto
volentieri; ma chiedere un favore attraverso di lei avrebbe voluto dire
ottenerlo, indirettamente, da Valérien. Chiamò un
taxi che venne a prenderlo di
fronte al cancello in ferro battuto della villa all’ora
convenuta: il tassista
scese in silenzio per aprirgli la portiera, ed Emir ebbe una fugace
visione di
un’altra estate, di un’altra auto che lo attendeva
e di Dale che scendeva ad
accoglierlo nei suoi giorni di gloria. Quei giorni erano finiti. Il
tassista lo
fece accomodare con cortese deferenza, ed Emir trascorse il viaggio
sentendosi
profondamente a disagio nei suoi abiti e su quel sedile, a osservare
con
sospetto nello specchietto retrovisore il volto dell’autista
che ogni tanto gli
accennava un sorriso.
Si
sentì assai sollevato quando intravide il traffico
accrescersi intorno alla zona del molo e il taxi iniziò a
rallentare per
inserirsi tra le auto in direzione degli approdi dei traghetti. Quel
giorno non
c’erano giornalisti né curiosi come nel giorno del
loro ritorno anni prima: la
seconda spedizione era passata sotto silenzio e inosservata proprio
come Dale
aveva progettato. Da quel punto di vista, era stato un successo: la
campagna di
ricerca era stata un perfetto fallimento, ma nessuno ne avrebbe
parlato.
Il
traghetto era già arrivato. Il tassista accostò
appena
al di fuori della corsia di scorrimento, Emir gli chiese di aspettare
un minuto
e si affacciò al di fuori dell’auto per cercare
con lo sguardo. Non dovette
aspettare molto: stavano sbarcando i passeggeri a piedi, scendendo in
file
disomogenee lungo le passerelle, ed Emir aguzzò lo sguardo
per scorgere tra di
essi un volto che conosceva. L’interminabile massa degli
estranei gli appariva
intollerabile, voleva andar via, gli pareva che avrebbero dovuto
smetter di
fluire dal ventre del traghetto e lasciar passare Rotwang, ma
continuavano a
sgorgare a fiotti, e in piedi di fronte al taxi che attendeva Emir si
sentiva
esposto e vulnerabile e rimpiangeva d’esser venuto fin
lì.
Una
mano gli batté sulla spalla da qualche parte al suo
fianco. Emir diede in un sobbalzo pauroso, gli parve che il cuore gli
battesse
tanto forte da rompere le sbarre della cassa toracica, ma quando si
voltò si
ritrovò davanti solo alla risata di Rotwang che si
compiaceva del suo scherzo.
«Nervi
fragili, eh, Fuji?»
Se
avesse potuto comprimersi il cuore nel petto con la
mano, l’avrebbe fatto; ma non si poteva, ed Emir si dovette
limitare a
balbettare nello sciogliersi della tensione: «Da
dove sei arrivato?»
«Sono
sceso da un po’, Lestournelle ha chiesto di farci sbarcare
per primi. In fin
dei conti tutti nella vita hanno uno scopo, a quanto pare il suo era
questo.
Allora, andiamo?»
Dopodiché, senza attendere risposta, Rotwang
spalancò la
portiera del taxi e gettò alla cieca il suo zaino sul
sedile. Aveva preso il
sole, alla maniera dei tedeschi, ossia aveva la pelle arrossata e
screpolata e
bruciature sul naso e sulle guance, e persino sugli avambracci che
rimanevano
scoperti dalle maniche arrotolate della camicia di lino. «Non
mi aspettavo di trovare questo freddo in Kanto. Andiamo a casa, non
vedo l’ora
di infilarmi sotto la doccia... Fuji, ti muovi?»
Rotwang
si aspettava di tornare a casa e trovare tutto come
l’aveva lasciato: Mew, il suo lavoro, il loro letto disfatto,
e di poter
tornare alla vita di prima come se nulla fosse mai accaduto,
perché ancora non
sapeva, e in mezzo a tutta quella folla di gente Emir non poteva
rivelargli che
si stava sbagliando.
«I
tuoi bagagli...»
«Oh,
quelli posso andare a ritirarli in laboratorio nel pomeriggio,
Lestournelle
farà consegnare tutto lì. La roba importante
è nello zaino, perciò possiamo
andare.»
Sentendo
di star accumulando una menzogna dopo l’altra a
ogni parola che non poteva pronunciare, Emir salì sul taxi e
chiuse la portiera
dietro di sé.
Mentre
si lasciavano alle spalle il molo, Rotwang si
allungò sul sedile e stiracchiò le gambe come se
fosse stato a lungo costretto
in una posizione scomoda. «Grazie
di essere venuto a prendermi. Senti, hai già pensato
a qualcosa per cena? Possiamo ordinare qualcosa da asporto, io non ho
la minima
voglia di cucinare. Cosa c’è di aperto questa sera?»
«Devo
dirti una cosa»
disse Emir improvvisamente.
La
serenità sul volto di Rotwang si gelò
nell’istante stesso
in cui egli aveva parlato. Gettò un lungo sguardo
all’autista per accertarsi
che stesse ascoltando e proseguì, con un tono calmo e
neutrale e la voce che
ciò nonostante vibrava di tensione: «Un
preambolo piuttosto angosciante, ti pare?»
«Lo
so» rispose Emir. In quella macchina soffocante si sentiva
costretto; avrebbe
voluto scappare, trovare aria, ma abbassando il finestrino nelle strade
affollate si sarebbe sentito ancora più esposto. Si
costrinse a restare calmo e
immobile sebbene gli sembrasse che migliaia di animali striscianti gli
camminassero addosso, sotto la camicia, contro la pelle, e
mormorò: «Non è
nulla d’irreparabile... però bisogna che te lo
dica... quando arriviamo a
casa.»
«Se
sei stato con un altro, non lo voglio sapere» disse
Rotwang improvvisamente.
Emir
si aspettava talmente poco quelle parole che esitò.
«Che cosa vuoi dire?»
«Voglio
dire quello che ho detto» ribatté Rotwang con
un’irritazione quasi dolorosa. Emir aveva la sgradevole
sensazione di non
riuscire a seguirlo. «Sono stato io a dire che non stavamo
insieme, perciò se
hai fatto qualcosa mentre ero via eri nel tuo diritto e non sei tenuto
a dirmi
nulla… solo che io non voglio saperlo.»
Emir
gettò verso l’autista uno sguardo di supplica
senza
neppure sapere chi volesse supplicare, se lui di non ascoltare o
piuttosto
Rotwang di non parlare così di fronte a lui; ma il tassista
aveva lo sguardo
innaturalmente fisso sulla strada come se fingesse di non ascoltare, e
in
quanto a Rotwang non si poteva fermare.
«Ma,
io… non ho fatto niente» balbettò nella
speranza di
metterlo a tacere. «Cioè, non sono
stato… perché pensi che avrei mai...»
Rotwang
si calmò all’istante così come aveva
iniziato, come
se la sua sola parola bastasse a inondarlo di sollievo.
«D’accordo. Allora
cosa?»
Emir
gli lesse negli occhi il momento in cui il pensiero di
Mew gli attraversò la mente e non poté trovare
voce perché al di fuori che
cogli occhi il nome di Mew non si poteva pronunciare.
«No»
esclamò troppo forte e troppo d’improvviso
perché
l’ostentato disinteresse dell’autista, che ancora
platealmente li ignorava
scrutando la strada, apparisse ancora credibile. «No, non
devi… non è nulla di
quello che pensi, solo che… è meglio che tu lo
veda con i tuoi occhi.»
Era
stato sciocco da parte sua anche solo credere di
poterglielo dire o anche solo preparare –
Rotwang doveva vedere. Davanti
all’autista non si poteva dire, a parole non si poteva dire,
se anche si fosse
potuto dire Rotwang non avrebbe creduto: doveva vedere. Doveva scendere
con lui
nel sotterraneo e vedere che cosa aveva fatto.
Rotwang
lo fissò freddamente per un momento, Emir stentò
a
reggere la forza del suo sguardo che lo accusava. Un istante dopo,
Rotwang
distolse lo sguardo da lui, si protese in avanti e domandò
ad alta voce: «Questa
crisi di coppia è imbarazzante per me quanto per lei. Non
è che potrebbe andare
più veloce, eh?»
Ritrovandosi
a fatica costretto a far finta di non aver
sentito nulla quando neppure volendolo gli sarebbe stato possibile,
l’autista
tossì un paio di volte per schiarirsi la voce. «Alla
Villa, dottore?»
«Alla
Villa, come no»
mormorò Rotwang tornando ad appoggiarsi al sedile. Emir
cercò cogli occhi il
suo sguardo, ma invano: ora Rotwang guardava con ostentazione fuori dal
finestrino, ma gli tremavano le mani, e nervosamente tamburellava col
tacco al
suolo. «Abbiamo
da risolvere una faccenda.»
«Ora
mi dirai cos’è successo»
disse Rotwang scaraventando il suo zaino a terra. Emir
arretrò
lentamente di fronte a lui senza dargli le spalle perché
voleva continuare a
vederlo in faccia.
«Scendiamo
giù e te lo spiego.»
«Prima
avevi tanta fretta di colmarmi di angoscia e ora non più?
No, Fuji, non
funziona così.» Rotwang ribolliva di rabbia come
lava sotto una superficie ed
era tanto più pericoloso quanto più era calmo. Si
guardò attorno. «Lei
dov’è?»
«È
giù» insisté Emir disperatamente.
«Ti giuro che sta bene... ma devi venire con
me.»
«Fuji»
insisté Rotwang con una calma glaciale che non gli era
propria. «Che cosa è
successo mentre ero via?»
«Rotwang,
ascoltami» disse Emir. Non s’era nemmeno accorto di
aver continuato ad
arretrare: se ne rese conto quando toccò la parete con le
spalle e s’accorse di
non poter indietreggiare oltre. S’augurò che
Rotwang non lo incalzasse ancora.
«Mew sta bene, ma voglio che tu la veda prima. Capirai tutto
quando la vedrai,
te lo prometto, ma devi venire con me. Per favore.»
Rotwang
temporeggiò per un tempo indefinitamente lungo, i suoi occhi
lampeggiavano.
Trasse un respiro profondo. «Bene»
mormorò. «Allora, andiamo giù. Fuji...
spero
per te che non le sia successo niente.»
Emir
non rispose.
Sbloccò
i vari meccanismi l’uno dopo l’altro mentre Rotwang
scalpitava dietro di lui,
sforzandosi d’ignorare la sua impazienza e la minaccia che
dalla sua rabbia
proveniva. Tutto ora era inevitabile, sarebbe accaduto senza
ch’egli potesse
impedirlo, come ogni cosa dalla notte in cui aveva chiamato Mew e
l’aveva
invitata a giocare con lui: il momento in cui Rotwang avrebbe visto lo
riempiva
d’angoscia e gli pareva di non riuscire a respirare, ma
sarebbe accaduto in
ogni modo, e non si poteva far altro che accelerarlo e affrontarlo
quando
ancora era in grado di controllare le cose. L’ultima porta
celata si spalancò e
discesero la scala che dava nel buio. Alle sue spalle, il respiro di
Rotwang
era un rumore enorme nell’oscurità.
Le
aveva lasciato la televisione accesa quella mattina perché
non si annoiasse.
Quando aveva lasciato il sotterraneo c’era un cartone
animato, ma in quel
momento, quasi ora di pranzo, c’era un programma di cucina, e
Mew s’era
acciambellata sul divano e dormiva. Alla sua vista, Rotwang trattenne
il fiato
per un momento.
«Mew»
chiamò dall’ultimo gradino. Gli tremava la voce.
«Mew, sono qui.»
Mew
spalancò nel buio i grandi occhi, scodinzolò di
gioia e si sollevò sul divano
per guardarlo, scoprendo al di là dello schienale il vasto
ventre rigonfio
della gravidanza.
D’improvviso
non era più Rotwang – era il dottore.
«Ehi»
mormorò. Si avvicinò al divano con una cautela
nuova,
come se temesse di spaventarla; ma Mew non aveva paura di lui.
Soltanto, era
diventata troppo gonfia e pesante per alzarsi, e forse era Rotwang ad
aver
paura.
Si
sedette al suo fianco sul divano e si lasciò annusare,
più per rispetto di lei e dei suoi spazi che
perché ci fosse la possibilità che
non lo riconoscesse; ma erano cambiate tante cose dall’ultima
volta che s’erano
visti, e il medico aveva troppo rispetto di ciò che era in
lei per toccarla
così, familiarmente, come una volta; e forse anche lei era
un po’ cambiata, e
un istinto nuovo la spingeva a esser più cauta di quanto
fosse stata prima.
Rotwang attese con la mano tesa, tremante, e le dita spalancate
finché Mew non
abbandonò familiarmente il muso contro il palmo della sua
mano. Era contenta
che fosse tornato. Rotwang l’accarezzò piano sul
muso, in mezzo agli occhi, là
dove le piaceva molto, e poi a poco a poco, quasi senza che se ne
accorgesse,
fece scivolare la mano verso il suo addome rigonfio. La fiducia di Mew
era tale
che non ebbe moto.
«Sei
stato tu?» mormorò senza guardarlo. Era una
domanda,
ma una domanda sciocca, indegna di lui, poiché entrambi
sapevano che non poteva
essere altrimenti, ed Emir non riuscì a rispondergli.
Rotwang, che non si
aspettava una risposta, non disse niente.
La
pancia di Mew era sporgente e gonfia, ma in modo
innaturale, grottesco, ed Emir non ne distoglieva lo sguardo. Sotto le
mani di
Rotwang, che saggiavano là dove s’aspettava di
sentire qualcosa, era
orrendamente inquietante.
«Perché?»
Aveva
la voce incrinata, tremante, ed era la domanda che
aleggiava tra loro fin dal molo. Emir aprì la bocca,
spalancò le braccia, fece
per parlare, ma in fondo alla sua gola le parole non presero forma.
Abbassò le
braccia senza dir nulla.
«Emir,
perché?»
Emir
non disse niente.
«Hai
usato il prototipo? Quello che mi hai fatto vedere...»
«Sì»
mormorò Emir.
Rotwang
tacque a lungo, cogli occhi socchiusi, come
incassando un profondo dolore. Inspirò a fondo.
«Volevi
vendere i suoi piccoli?»
«No!»
gridò Emir disperatamente, perché Rotwang non
doveva,
non doveva credere questo! «Non è vero, questo non
me lo merito! Lo sai anche
tu che ho rinunciato...»
«Alla
tua carriera?» lo interruppe Rotwang levando lo
sguardo. «Ma alla scienza no, mi pare...»
La
calma della sua voce lo spaventava più della rabbia che
ricordava. Dagli attacchi frontali e dagli scoppi d’ira
sapeva difendersi, ma
dalla calma glaciale della sua voce, da quella no.
«Non
è quello che credi. Io volevo soltanto...»
«Ah,
davvero» ribatté Rotwang
alzandosi in piedi;
d’improvviso gli apparve enorme, spaventoso, Emir
arretrò sentendosene
annichilito. D’un tratto gli parve che se non avesse
attaccato sarebbe stato
sopraffatto.
«Ma
non sei stanco anche tu di vederla debole così?»
gridò,
ma la sua voce era esile e supplichevole e troppo acuta. «Di
vederla indifesa e
dipendente da noi e di dover badare a lei per tutta la vita, e di non
poter
essere liberi mai...»
«Emir.»
Quella calma gelida della sua voce era svanita: ora le sue parole erano
incerte, caute e avanzavano a tentoni per percepire la
realtà e cercare di
delinearne i confini. «Ma
di che cosa stai parlando?»
Tuttavia
la sua voce era ancora distante, remota come se
provenisse da un’ineffabile distanza. Emir aveva ora tutta la
sua attenzione,
eppure sapeva giò da prima di parlare che non avrebbe capito.
«È
così indifesa, eppure così potente... avrebbe
potuto tornare in Guyana, andare
libera dove preferiva, eppure rimane qua prigioniera con noi... io
volevo
soltanto che potessimo essere liberi senza di lei...»
Che
c’entra tutto questo?,
urlavano gli occhi di Rotwang, ma con un dominio ce non aveva eguali,
egli si
sforzò e socchiudendo gli occhi, inspirando profondamente,
si massaggiò le
tempie e disse: «Quello
che dici non ha alcun senso, lo senti anche tu.
Vero?»
Chissà
per quale motivo quelle parole lo ferirono più che se avesse
gridato – ma poi,
perché non gridava, non bestemmiava, perché non
sbatteva le porte? Era soltanto
per non spaventare Mew? Com’era che Rotwang non capiva?
«Quando
studiavamo i fossili in Laboratorio, allora non eri contrario a
intervenire sul
DNA...»
«Sei
intervenuto sul...» Ma prima di porgli la domanda che Emir
temeva di più,
Rotwang ne distolse la mente come se la strattonasse via.
«Emir, intervenivamo
sul DNA perché non sarebbero sopravvissuti in ambiente
moderno. Ma Mew è qui, è
viva, sta bene... ti rendi conto che tutto quello che dici non ha alcun
senso?»
Non
avrebbe capito. Emir si prese il viso tra le mani e rimase in silenzio
sotto la
ferrea logica del suo sterile bunsenso. «Tu la ami
troppo» mormorò in tono
d’accusa, ma più per se steso che per lui, contro
il palmo delle sue mani
chiuse, perché di fronte all’ostinazione della sua
incomprensione non si poteva
obiettare altro se non questo – che Mew era imperfetta ma
semiperfetta e che se
solo fosse stato un po’ più come diceva lui,
allora niente di tutto ciò sarebbe
mai accaduto; che se solo l’avesse amata un po’
meno, allora avrebbe visto che
la ragione della loro miseria era unicamente lei... ma
l’amore che copriva gli
occhi di Rotwang era tale che non avrebbe visto mai quello che vedeva
lui. Ai
suoi occhi, Mew non avrebbe potuto esser mai più perfetta di
così...
Rotwang
attendeva una sua risposta come se da essa dovesse scaturire tutta la
verità,
ma la verità Emir gliel’aveva già
detta, era lui a non volerla capire.
«Richard... io volevo solo renderla migliore di
com’è ora.»
Rotwang
ne fu abbattuto come se lo avesse colpito. Si gettò riverso
sul divano per non
vederlo, e Mew lo guardò con curiosità
perché non l’aveva mai visto far così.
Emir dovette chinarsi verso di lui per percepire le parole che
fuoriuscivano dai
cuscini.
«Non
li hai presi i farmaci, vero?»
La
voce gli incespicò sulle labbra, gli morì in
gola: questa verità forse si
vergognava a dirla più dell’altra.
«Sì, li ho presi, però...»
«Però?»
«Forse
non come hai detto tu.»
Non
c’era altro da dire. Rotwang chiuse gli occhi,
gettò il
capo all’indietro e rimase in silenzio. Emir
s’accorse che stava piangendo solo
perché Mew, che fino ad allora era rimasta immobile, si
sollevò a fatica dal
suo nido di coperte e si accostò al suo viso per annusare le
sue lacrime. Il
suo dolore era tale che Rotwang non la guardò neppure.
«Che
cos’hai fatto sul DNA?» chiese senza guardarlo.
A
questa domanda avrebbe preferito non rispondere. La sua
bocca elaborò una mezza verità prima ancora che
la sua mente avesse modo di
riflettere. «Volevo un maschio. Cromosoma Y.»
«Un
maschio» ripeté Rotwang con voce sorda ed Emir
temette
per un attimo che avrebbe chiesto ancora, che avrebbe voluto sapere
perché,
indagare ancora; ma era talmente sopraffatto che non parlò
più.
Rimasero
in silenzio per un tempo indefinitamente lungo:
Mew li guardava alternativamente, forse perché
s’aspettava un’attenzione che
ora non le veniva prestata e non capiva. Emir sentiva se stesso
respirare nel
buio. Quando a lungo Rotwang l’avrebbe lasciato
così in un limbo?
Mew,
pigolà
Mew in tono di accusa. La sua voce parve restare a lungo sospesa nel
silenzio
senza scopo, ma quando ormai sembrava che non sarebbe accaduto nulla,
Rotwang
aprì gli occhi e si voltò verso di lei. Mew
scodinzolò di gioia.
«Che
devo far di te?» mormorò Rotwang. Emir
levò il capo di
scatto, gli si rivolse in un anelito d’attesa – ma
Rotwang non stava guardando
verso di lui e non aveva modo di comprendere a chi si riferisse.
«Cosa...»
D’improvviso
Rotwang trasse un respiro profondo, si rimboccò
le maniche e si alzò come se si accingesse a un lavoro. Dal
pavimento Emir lo
guardò annichilito. Che stava succedendo?
«Dove
vai?» gridò quando Rotwang girò attorno
al divano per
avvicinarsi alla porta.
«Vado
a cercare aiuto. Non possiamo tenerla in casa in
queste condizioni.»
Tra
tutti gli scenari che aveva vagliato nella sua mente,
questo era l’unico che non c’era.
Emir
scavalcò il divano e gli si parò davanti per
tagliargli la strada. Rotwang lo scrutava dall’alto senza
espressione. «No, no,
no, no...»
«Vuoi
dire qualcosa?»
Emir
non era in grado di articolare più d’un pensiero
compiuto alla volta. La sua mente era sovraccarica
d’informazioni e conseguenze
della sua decisione. «Sei impazzito. Se la fai uscire di qui
finiamo entrambi
in galera.»
La
maschera oscura del volto di Rotwang s’illuminò di
una
luce amara, cattiva, ed egli sorrise. «Ma davvero?»
Emir
si rese conto con orrore che Rotwang sapeva benissimo
che cosa sarebbe accaduto loro, e proprio per questo non
c’era modo di
distoglierlo dalla sua decisione. Si ritrovò ad ansimare.
«Aspetta, aspetta! Tu
non vuoi questo, pensaci ancora bene...»
«Emir.»
La voce di
Rotwang era calma ma inflessibile. «Fammi passare.»
«Rotwang,
sarà tutto finito! Ti rimanderanno in Germania...»
«Emir»
ripeté Rotwang.
«Fammi passare.»
«Tu
non sai come funziona, nemmeno tuo fratello potrà tirarci
fuori...»
«Fammi
passare.»
«Ce
la porteranno
via e tu non la vedrai mai più!»
Rotwang
si ritirò da
lui come di fronte al sibilo di una vipera. Anche questo sapeva che era
vero,
inappellabile, ed Emir si aggrappò a quell’arma
perché era evidente che era
l’unica, sebbene meschina, in grado di colpirlo. «È
così, lo sai anche tu che è così! La
riporteranno alla Silph,
forse a Zafferanopoli, per tenerla al sicuro. Dale venderà
il cucciolo a
Giovanni...»
«Smettila»
disse
Rotwang in un singulto. Emir lo incalzò così come
avrebbe scavato per allargare
una ferita. «Sì, sì, è
così invece! Sequestreranno il mio materiale, ma la
Silph lo ricomprerà o glielo procurerà il Team
Rocket, e lei...»
«Basta
così» disse
Rotwang scuro in volto. Si prese la fronte tra le mani per isolarsi da
lui e
dal mondo nell’oscurità dei suoi palmi chiusi.
«Che cosa vuoi che faccia?»
Emir
sentì che le
posizoni s’erano invertite, che Rotwang ora supplicava, che
la prospettiva di
perdere Mew era tale da ridurlo così, che soprattutto ora
ogni cosa dipendeva
da lui; ma questa realizzazione non gli diede la minima pace. Aveva
tradito.
«Non devi fare niente! Penserò io a tutto. La
gravidanza procede bene...»
«Non
è vero» rispose Rotwang dal rifugio delle sue
mani. «Devo proteggere te.»
«Non
ti sto chiedendo questo, è soltanto per Mew che...»
«Già,
certo.» Stavolta la voce di Rotwang risuonò
d’un
sarcasmo doloroso e amaro, ed egli finalmente levò gli occhi
dalle proprie mani
per guardarlo. «Avevi pensato a tutto prima, vero? Avevi
progettato tutto,
avevi già le parole da dirmi in tasca. Sapevi già
da prima che tornassi che per
proteggere lei non avrei mai denunciato te...»
Sentendosi
profondamente triste eppure al contempo
consapevole di non aver più alcun diritto di difendersi,
Emir mormorò: «Non
avevo pensato a niente.»
Rotwang
rise duramente. «Ah, davvero? Perché sembrava un
piano molto ben congegnato.»
«Non
ho mai avuto un piano. È la verità.»
Rotwang
levò lo sguardo su di lui in un moto di
disperazione. I suoi occhi
affondati
nell’abisso delle sue orbite supplicavano una
pietà che non poteva raggiungerlo
da alcuna parte.
«Allora
perché?»
Perché
così com’è la odio, urlava
tutta una parte della sua coscienza. Invece rispose: «Non lo
so.»
I
risultati della spedizione erano stati disastrosi.
Quando
erano tornati dal primo viaggio, quasi tre anni
prima, c’era l’urgenza di studiar Mew, e
l’azienda li aveva costretti a tornare
in ufficio dopo appena un weekend di riposo – ma ora non
c’era più nulla di
urgente da fare. Avevano trovato qualche coprolite, addirittura qualche
frammento d’osso dai quali probabilmente sarebbero riusciti,
con molta fortuna,
a estrarre qualche traccia incompleta di DNA e che, con altrettanta
probabilità,
si sarebbero senz’altro rivelati appartenenti a qualche
specie di Pokémon
ancora esistente. Non c’era fretta, e la Silph ritenne
più conveniente
obbligare i dipendenti, dopo quel tour de force, a smaltire un
po’ di ferie
arretrate e a chiudere il Laboratorio per qualche settimana. Persino la
custodia notturna fu allentata: in fin dei conti, non c’era
neanche più niente
d’interessante da rubare.
Emir
avrebbe preferito che Dale avesse avuto una trovata
diversa. Di ferie da smaltire Rotwang ne aveva tante davvero, e questo
significava che sarebbe rimasto a casa per tutte e tre le settimane di
chiusura
previste. Il lavoro almeno l’avrebbe tenuto lontano da casa
per qualche ora, ed
evitarsi sarebbe stato più facile; ma ora che era costretto
a casa, erano
prigionieri entrambi della villa come lui era stato per tutti quegli
anni.
Sarebbe
stato meglio se Rotwang fosse andato a lavorare.
Non
voleva vederlo, non voleva parlargli. Era arrabbiato,
no, era confuso; non gli rivolgeva la parola, e questo forse era un
bene – no,
non lo era, questa era una bugia: Emir avrebbe voluto che urlasse come
ai tempi
dell’ufficio, che lo offendesse e imprecasse e strappasse da
lui le spiegazioni
che non aveva saputo dargli, perché Rotwang avrebbe dovuto
far così, era così
che Emir si era aspettato: di potersi confessare ed espiare la colpa
nella sua
rabbia e nel suo disprezzo, come una volta; ma poi, quando lui si fosse
spurgato della verità come di un veleno, e Rotwang della sua
rabbia come di
un’infezione, allora tutto sarebbe stato superato e avrebbero
lavorato ancora
insieme… Rotwang aveva superato il disprezzo per lui una
volta, quando l’aveva
visto rinunciare a tutto per lei. Avrebbe potuto accader tutto di
nuovo, Emir
avrebbe fatto tutto come si deve, proprio come la prima volta, e poi
sarebbe
nato il cucciolo e tutto sarebbe andato meglio. Sarebbe nato un nuovo
Pokémon,
un figlio di lei; Rotwang non era un mostro, l’avrebbe amato
come amava lei, di
fronte a quella nascita l’avrebbe perdonato; e poi, in lui vi
era sempre lo
scienziato, e lo scienziato, presto o tardi, avrebbe dovuto riconoscere
che
aveva ragione: che era riuscito a creare qualcosa di più
perfetto di lei… ma
Rotwang non gridava. Non parlava neppure.
Scese
nel sotterraneo per vederlo solo dopo qualche giorno.
Aveva il volto ancora abbronzato ma stanco, gli occhi ricolmi di
dolore, e
prese la parola per la prima volta solo dopo un lungo silenzio.
«Non
può rimanere qua sotto, ovviamente.»
Le
sue parole erano tanto improvvise e prive di contestualizzazione
che Emir rimase in silenzio per un po’ in attesa che parlasse
ancora. «In che
senso?»
Rotwang
rimaneva così calmo, tutto era così irreale da
apparire un sogno. «Qui,
nel sotterraneo. Senza aria, né luce... non è
salutare.»
Di fronte alla passività della sua attesa, Rotwang aggiunse,
come a voler
capire l’unico dettaglio, in quanto aveva detto, che gli
pareva non poter esser
chiaro. «Mew.»
Emir
allargò lo sguardo attorno a sé,
nell’imtimità calda e
rassicurante del sotterraneo, sentendosi smarrito al suo interno per la
prima
volta: Mew e il sotterraneo erano sempre stati l’unica
certezza degli ultimi
anni. «Ma
è sempre stata bene qui»
obiettò stupidamente.
Rotwang
iniziò a manifestare in quel momento i primi
segnali di nervosismo, ma rimase calmo, e con una calma innaturale e
forzata
disse a fatica, come se pronunciare quella parola ad alta voce gli
costasse
un’immane sforzo: «Sì,
ma ora è incinta.»
I
suoi pensieri erano sempre per lei, in ogni modo per lei.
Reprimendo la sensazione di fastidio che quel pensiero gli provocava,
Emir
ribatté: «Allora...
sei tu il medico. Che dobbiamo fare?»
Bisognava concedergli il tempo di abituarsi all’idea, e nel
frattempo cedere su un po’ di punti marginali,
perché tutto tornasse come
avrebbe dovuto essere nel suo progetto. «Non possiamo
rischiare che la vedano.»
«Già...
a questo proposito.» Dunque quello era il motivo per cui
Rotwang era disceso
nel suo inferno a parlare con lui: Emir si raddrizzò sul
divano per
dimostrargli tutta la sua attenzione. Era venuto per parlargli di Mew,
certo,
ma quello che davvero gli premeva dirgli e che lo angosciava dover dire
ad alta
voce era quello che stava per venire: «Fuji... non
m’importa più che la
vedano.»
Emir
rimase interdetto per un momento. «Che cosa stai
dicendo?»
Rotwang
pareva determinato a rimanere calmo a qualsiasi costo, ma per fare
questo
evitava di guardarlo. Si passò due dita sugli occhi.
«Che avrei dovuto
denunciarti quando l’ho scoperto e rinunciare a tutto, e se
non l’ho fatto è
perché sono stato vigliacco e non ho avuto il coraggio di
perdere lei. Ma,
Fuji, non intendo continuare a difenderti. L’hai fatto tu
questo casino, non
io. Io posso solo fare quello che posso coi pezzi che tu hai rotto,
quindi...»
«Quindi
che cosa farai?» chiese Emir.
«Quindi
non terrò una femmina incinta chiusa in un sotterraneo per
colpa tua» ribatté
Rotwang ad alta voce. Emir sobbalzò sul divano
perché quella violenza
improvvisa, dolorosa, nella sua voce, non se l’era aspettata;
accorgendosene, a
fatica Rotwang tornò a dominarsi e si placò.
«Sto cercando di non arrabbiarmi
con te» scandì molto lentamente.
«Però bisogna che mi aiuti. Fuji. Siamo
intesi?»
Arrabbiati
allora, avrebbe
voluto gridare Emir, urlami addosso, perché ti
trattieni? Dimmi tutto quello che hai pensato in questi cinque giorni; ma
le parole gli mancavano e per l’ennesima volta rimase in
silenzio. Forse
avrebbe dovuto parlare, Rotwang taceva apposta; ma aveva perso
l’attimo e
Rotwang riprese. Quando aveva sbottato, quello era stato
l’unico momento in cui
Emir aveva riconosciuto Rotwang dietro quell’uomo; ma ora era
di nuovo lontano
e irraggiungibile.
Col
volto semicoperto dalle mani, gli occhi perduti nel vuoto, Rotwang
proseguì
lentamente: «Io so che non eri in te in quel momento. Non so
che cosa pensassi
o che cosa intendessi... ma sto cercando di tenere a mente che non eri
te
stesso in quei giorni. È l’unico motivo che ho per
non ammazzarti.» (Ero io,
ero io, ero io, urlava quella voce dentro di lui. Sono
sempre stato io,
sotto i farmaci e la disperazione, erano gli stessi pensieri che avevo
in
quelle notti in Laboratorio quando parlavo con Valérien...
solo che tu non
volevi vedere quello che ho sempre visto io.) «Ma
bisogna che faccia quello
che ritengo giusto. Emir, non potrò proteggere per sempre
sia te che lei. La
priorità adesso è Mew.»
«E
questo che cosa vuol dire?» chiese ancora Emir. Quel
preambolo non gli piaceva
per niente.
«Che
devo proteggere lei» insisté Rotwang come se
dovesse bastargli questo a capire
– e come poteva non essere ovvio? Aveva sempre protetto lei!
Emir non disse
niente. «Non posso lasciarla chiusa qua sotto senza luce
né aria... lo vedi
bene che ne ha bisogno.»
«Quindi
vuoi che la vedano tutti» sibilò Emir.
«Perché è questo che
accadrà, lo sai,
vero? Che pensi di fare, portarla a prendere aria nel terrazzo sul
mare, e
aspettare che tutti la vedano e ci vengano a prendere?»
«Non
sei nella posizione giusta per rispondere così,
sai?» D’un tratto la sua voce
era cambiata, era divenuta asciutta e distante: Emir si sarebbe pentito
d’aver
parlato così se solo non fosse stato tanto arrabbiato con
lui. «Potresti anche
provare a essermi grato di star sistemando i tuoi casini, eh?»
Emir
scrollò le spalle. Per come stavano le cose, mostrarsi
accondiscendente non
aveva più alcun senso. «Quindi che farai quando la
vedranno?»
«Dirò
che sei stato tu a eseguire esperimenti di ingegneria genetica in un
sotterraneo con un prototipo non registrato su un Pokémon
rubato» ribatté
Rotwang alzandosi in piedi. A quanto pareva la conversazione era finita
col
solito sarcasmo. «Fuji, non sono venuto qui a chiedere il tuo
permesso. Ho già
deciso. Credevo che sarebbe stato gentile farti capire con pazienza le
mie
ragioni, ma a quanto pare i miei sforzi sono sprecati con te,
perciò tanto vale
che ti metta di fronte al fatto compiuto: io ho già deciso.
Mew verrà a stare
al piano di sopra con me, dove può prendere luce e aria.
Quello che ero venuto
a dirti principalmente, a dire il vero, era che non voglio che tu abbia
più
niente a che fare con lei.»
Emir
inspirò profondamente perché avrebbe voluto
urlare e sapeva che non poteva
permetterselo. «In che senso?»
«Nell’unico
senso possibile» ribatté Rotwang.
«Pensavi davvero che dopo quello che le hai
fatto ti avrei permesso di occuparti ancora di lei?»
Emir
rimase immobile sul divano. «Non ho mai inteso farle
male.»
«Già,
è stato un effetto collaterale»
commentò Rotwang con accento sarcastico. «Penso
comunque che sia meglio evitare di correre il rischio che accada di
nuovo per
sbaglio, ti pare?»
Emir
allargò le braccia. «E allora dove vuoi che vada?
Da Portia? Oppure...»
«Già,
tanto per destare sospetti, eh? No, Fuji. Questo è il posto
più sicuro al
mondo, lo hai detto tu. Voglio che resti qui» rispose piano
Rotwang.
«Non
ho capito» mormorò Emir.
«Hai
capito benissimo.» La voce di Rotwang era cambiata ancora,
era dolorosa,
spaventata, aveva gli occhi di una bestia in trappola. «Emir,
è l’unico modo.
Non posso lasciare che la tocchi di nuovo.»
Non
era possibile, non era giusto. Emir scosse la testa perché
non poteva essere
vero: «Vuoi chiudermi qua sotto?»
«Tu
ci vivi già qua sotto, Fuji! Non cambierebbe niente. Non mi
pare proprio una
tragedia, per poche settimane...»
«Poche
settimane? Che cosa pensi che cambierà tra poche
settimane?» urlò Emir
alzandosi in piedi. «Che ti fiderai di nuovo di me e mi
lascerai uscire di
qui?»
Molto
lentamente, guardandolo negli occhi, Rotwang rispose: «Tra
qualche settimana
Mew partorirà e potrà volare in sicurezza,
perciò caricherò lei e il cucciolo
su un aereo in una Pokéball e riparerò in
Germania da mio fratello. La cosa
verrà fuori, ma con un po’ di fortuna forse mi
eviterà l’estradizione. Nel
peggiore dei casi, ci vorranno anni per estradare me, e la Germania non
la
rimanderà mai indietro se dichiarerò che sarebbe
in pericolo qui per via della
Silph e del Team Rocket. Mio fratello non sarà uno
scienziato, ma potrà
prendersene cura lui per qualche tempo, e poi vedremo...»
«E
mi lascerai qui.»
«Sarai
libero, dopo» rispose Rotwang. Era lontano da lui in quel
momento, lontano come
se ormai non potesse quasi più sentirlo. «Era
quello che volevi, no?»
«Che
cosa?»
«Lo
hai detto tu quando sono tornato. Che per via della sua debolezza noi
non
saremmo stati liberi mai...»
Era
tutto sbagliato, tutto l’opposto di come aveva pianificato.
Possibile che, nel
suo egoismo e nel suo folle amore per Mew, Rotwang non avesse capito
niente di
tutto ciò che aveva fatto per lui? «Io volevo che
fossimo liberi entrambi»
mormorò.
Lontano
e irraggiungibile da lui com’era, Rotwang si riscosse come se
venisse
richiamato da una grande distanza. «Come dici...? Non ti ho
sentito.»
Non
c’era altro da dire. La lontananza che si era aperta tra loro
era troppo vasta
e invalicabile perché le sue parole potessero sorvolarla.
Emir si ritrovò
inerme e immobile di fronte alla muraglia silente che si era levatra
tra loro,
era troppo alta e imponente per poterla anche solo fronteggiare, e la
sua mente
era troppo esausta per poterne anche solo sostenere lo sguardo.
«Non
importa» rispose. «Non era niente
d’importante.»
Era
rimasto chiuso nel sotterraneo per gli ultimi due anni, e ora che
Rotwang gli
aveva chiesto di restarci per qualche giorno quelle pareti gli
riuscivano
intollerabili. Forse era perché al di sopra di lui ora si
svolgeva una vita
alla quale non era ammesso a partecipare: Rotwang era di nuovo
lì, Emir sentiva
i suoi passi al piano di sopra o forse li immaginava, non sapeva
più; ma quel
che era certo era che era lì ed Emir neppure poteva vederlo.
Non
era recluso senza la possibilità di uscire, e non solamente
perché non esisteva
alcun modo per chiudere dall’esterno le sale sotterranee. Di
quella possibilità
Rotwang non aveva neppure parlato: s’era limitato a
quell’unica conversazione
di quel mattino, quando gli aveva detto che non voleva che tornasse al
piano di
sopra, e questo era quanto. Non gli interessava accertarsi che
effettivamente
rimanesse lì; e questo era quanto. Non gli interessava
accertarsi che rimanesse
lì, e questa forse era la sua più grande
debolezza – che si fidava ancora di
lui. Rotwang voleva rinchiuderlo per punirlo e perché era
ferito, ma che
effettivamente restasse lontano da Mew era qualcosa che affidava alla
sua
coscienza. C’era ancora una parte della sua mente, una parte
lucida e cosciente
che ancora aleggiava in fondo alla confusione della sua mente
– perché a volte
si rendeva conto che c’era come una nebbia indistinta nei
suoi pensieri che una
volta non c’era – che pensava che Rotwang
sbagliasse a fidarsi ancora di lui,
ma che non se ne rendeva conto.
Saliva
al piano di sopra, di notte, quando Rotwang dormiva. Ne approfittava
per fare
un bagno, qualche volta – erano passati lunghi periodi nei
quali questo bisogno
non l’aveva sentito affatto, quando era solo e non avrebbe
dovuto curarsene; ma
ora che Rotwang era tornato e che lui doveva nascondersi come i vermi
tra le
forassiti delle pareti, fare un bagno assumeva un fascino
rivoluzionario.
Spalancava la finestra, e immerso nell’acqua della vasca
contemplava a lungo il
proprio corpo che, nella luce della luna, diveniva pallido e livido
come
acciaio. Le sue membra smagrite sembravano non corrispondere
più al ricordo che
aveva di se stesso, eppure, si ripeteva incredulo osservando la pelle
rugosa
delle sue dita ossute, ora il suo corpo divenuto troppo magro era la
sola cosa
che ancora gli apparteneva, poiché sulla sua mente gli
pareva di non esercitare
ormai da tempo più alcun controllo. I farmaci di cui gli
sembrava d’aver tanto
bisogno da non saper più come andare avanti senza, il
prototipo nascosto nello
studio, il ricettivo ventre di Mew che aveva accolto l’ovulo
come se fosse
stato proprio suo, tutto quanto gli sembrava lontano da lui come se si
trovasse
nei ricordi di qualcun altro, non nei suoi, ed egli li stesse
eseminando con
distacco come su una pellicola. La pelle semisommersa
dall’acqua delle sue
mani, inargentata come le squale di un pesce, limpide sotto la luce
lunare, gli
parevano le sole dita umane presenti sulla terra, stranamente reali di
fronte
ai suoi occhi.
Quando
si levava dalla vasca e si stagliava nudo nel bagno, l’acqua
che gocciolava giù
dalle sue membra formava ampie pozze sul pavimento attorno ai suoi
piedi. Le
sue cosce smagrite non si toccavano più tra di loro, ma Emir
osservava tutto
questo con distacco, come se nulla di tutto ciò appartenesse
a lui.
Dopo
il bagno si aggirava in silenzio per la villa. Si sentiva lo spettro di
una
grande magione vuota che si stagliava sopra la città, e
stentava a ricordare
che n quella casa abitassero ancora dei vivi.
Soltanto
una volta provò la tentazione di rivedere Mew. Era
un’ora della notte talmente
profonda che non s’udiva voce dal mare, solo il vocio della
risacca che
s’inerpicava sugli scogli: Rotwang non l’avrebbe
mai saputo. Salì le scale nel
buio, senza bisogno neppure di guidarsi con le mani
nell’oscurità, le piante
dei suoi piedi nudi aderivano sulla superficie del pavimento freddo.
Tutte le
sensazioni erano stranamente intense.
Rotwang
era tornato nella camera che si era scelto una volta, quella con la
finestra
bifora e il piccolo fumoir che era diventato la stanza dei panciotti
– Emir
sorrise tra sé perché quel ricordo gli pareva
lontano nel tempo come se
l’avesse vissuto un altro, non lui. La porta era aperta
– Rotwang ancora non
riusciva a non fidarsi della sua parola. Se aveva tanto paura della sua
pazzia,
allora perché non si chiudeva a chiave per proteggersi da
lui?
Rotwang
era solo un rigonfiamento scuro tra le coperte, Emir intravide nel buio
la
massa folta dei suoi capelli biondi che si riversavano sul cuscino. Ma
nella
lama di luce che si dipanava dalla porta, in un angolo del letto,
dormiva Mew
acciambellata, avvolta nella spirale concentrica della sua lunga coda
che si
arrotolava attorno al suo corpo. Era stranamente diversa da come la
ricordava e
s’aspettava di vederla, la silhouette che si stagliava sullo
sfondo uniforme
del copriletto non si sovrapponeva precisamente al ricordo che Emir
aveva di
lei. Impiegò qualche istante a comprenderne il motivo: aveva
le gambe
stranamente lontane dal busto nella sua posizione fetale, allungate sul
letto
come quelle di un umano. Là dove normalmente avrebbe
ripiegato le zampe stava
il suo ventre osceno, sproporzionato; era grottesco come un tumore e
allo
stesso modo gonfio, orripilante, ed Emir ne rimase ipnotizzato. Non era
come
avrebbe dovuto essere, era sbagliato. Si sorprese con la guancia
appoggiata
contro lo stipite della porta mentre socchiudeva gli occhi per sondare
il buio:
il gonfiore della pancia era troppo alto e troppo esteso, non rimaneva
localizzato nella zona dell’utero, ma risaliva lungo il suo
corpo e occupava
l’intero busto, come un’ascite. Era
raccapricciante, ed Emir si sentì
agghiacciare; ma se se ne era accorto lui, così, al buio,
era possibile che
Rotwang non lo sapesse da prima di lui?
Non
riuscì a tornare nel sotterraneo. Non sarebbe riuscito a
dormire, a far nulla,
il pensiero di quell’addome gonfio come fosse pieno di
liquido non lo lasciava,
non c’era nulla con cui potesse distrarsi. L’alba
lo sorprese nel salotto sul
mare ad ascoltare la risacca, e così Rotwang, qualche ora
dopo, quando scese le
scale. Mew non era con lui. Rotwang rimase interdetto per un momento,
storse le
labbra di fronte all’infrazione dei loro patti e non disse
nulla. Emir balzò in
piedi dal divano, ma non seppe che dire, forse perse
l’attimo, e Rotwang passò
oltre ignorandolo e si diresse in cucina. Emir gli corse dietro.
«Ha
la pancia gonfia.»
«Nuovo
passatempo, Fuji? Spiare la gente mentre dorme?»
«Rotwang,
la sua pancia...»
«Già»
ringhiò Rotwang senza guardarlo, apparentemente troppo
interessato a cercare
qualcosa dentro al frigo per prestargli attenzione. «E il
cielo è azzurro e il
mare è salato, s’impara semore qualcosa di nuovo,
eh?»
Emir
sbatté la porta del frigorifero con una violenza che non
pensava di trovare
dentro di sé. Rotwang ne sfilò via la mano per
miracolo, ma neppure a quel
punto si voltò verso di lui. «Lo sai a cosa... lo
sai.»
«E
ora che lo so, che devo fare? La portiamo in un Centro medico e la
rendiamo
alla Silph?»
Emir
rimase senza parole. «No, ma...che cosa significa?»
«Secondo
te?»
«Che
non sta andando bene.»
«Complimenti,
Sherlock. Non ti sfugge nulla. E indovina chi dobbiamo ringraziare per
questo?»
Dopodiché Rotwang riaprì il frigoriero,
recuperò un cartone di succo di frutta
e lo spinse da parte per lasciare la cucina. Stava andando tutto
storto, tutto
al contrario di come avrebbe dovuto; Emir si ritrovò ad
annaspare mentre
inseguiva Rotwang su per le scale.
«Richard...!
Non puoi fare nulla per...»
Rotwang
neppure si voltò verso di lui mentre saliva rabbiosamente i
gradini dell’alta
scala. «Mi pare di avertelo detto già una volta,
eh, Fuji? Che io non sono in
grado di guarire imponendo le mani. Non posso portarla fuori da questa
casa
perché ce la porterebbero via, perciò se hai da
suggerirmi qualcos’altro, ti
prego, ti ascolto.»
Rotwang
era arrabbiato, era furioso, e aveva ragione, era tutta colpa sua. Per
ottenere
qualcosa bisognava concedere altrettanto, ed Emir si sforzò
di mostrarsi
ragionevole e conciliante per cercare di scendere a compromessi:
«Richard, so
che è successo tutto per colpa mia, ma...»
«Questo
cos’è, Fuji? Pensi di farmi compassione
confessando l’ovvio come se fosse una
grande ammissione da parte tua?» Rotwang si voltò
di colpo verso di lui sulle
scale ed Emir urtò contro il suo petto, ma Rotwang non
arretrò di un solo
gradino. «È ovvio che è colpa tua. Non
può essere colpa di nessun altro e di
certo non è mia, perciò pensi di
intenerirmi?»
Neppure
Emir arretrò. La sua colpa e la sua vergogna erano tali da
annichilirlo, ma
quello che aveva visto quella notte era troppo grave perché
potesse permettersi
di retrocedere di un passo. «Non mi dirai come procede la
gravidanza solo per
punirmi?»
«È
ancora come nella giungla, eh?»
Questo
Emir non se l’aspettava. Rimase interdetto, senza capire, ma
quando Rotwang
scese il primo gradino verso di lui, ed egli fu costretto a scendere
all’indietro un gradino dopo l’altro incalzato dal
suo petto, ebbe la piena
certezza d’essersi spinto troppo in là e che
questa Rotwang nn gliel’avrebbe
fatta passare. «La giungla...?»
«Spero
che tu stia facendo finta di non capire, Fuji. L’hai fatto di
nuovo, come nella
giungla, quando mi hai portato quel Pokémon sapendo
benissimo che non ero in
grado di salvarlo e mi hai costretto a portarmi addosso quel rimorso
per tutta
la vita... anche allora avresti potuto lasciare tutto
com’era, ma come sempre
hai dovuto giocare a fare Dio, a stravolgere il destino, e poi hai
preso i
cocci e me li hai portati perché a me restasse il rimorso di
non averli potuti
salvare...»
Erano
rimasti nella giungla per tutti quegli anni, prigionieri della notte in
cui era
morto M1. Avevano litigato e fatto l’amore e girato intorno a
quella notte per
anni, come attorno a un fuoco, e avevano provato a scappare da quella
notte per
anni senza che se ne accorgessero, e in realtà avevano
sempre corso una fuga
centripeta verso quella morte e quel dolore. Rotwang gli aveva detto
fin da
quell’alba che era stata colpa sua, e non della morte di M1
– quella non era
poi davvero colpa di nessuno – ma d’averlo
costretto a sentirselo morire sotto
le dita, ed Emir fino a quel momento non aveva capito.
«Morirà
anche lei?» balbettò.
«Ti
farebbe piacere pensare che fosse così semplice,
eh?»
Rotwang
si voltà e riprese a salire l’alta scala. Emir
rimase impietrito: sapeva che
quella schiena che si allontanava era inflessibile e inafferrabile, che
Rotwang
non si sarebbe voltato più verso di lui, che domandare era
inutile e
controproducente, eppure si aggrappò al corrimano per
inseguirlo con lo
sguardo. Erano lontani per sempre.
«Il
cucciolo... Rotwang! Il cucciolo si salverà?»
Ma
dalle volte delle scale e della volla echeggiò in risposta
uno sconcertante
silenzio, e da qualche parte, in alto sopra la sua testa, una porta che
si
richiuse.
Echeggiò
l’aria di grida.
Gli
parve di sentir rimbombare le fondamenta della villa. Emir
rotolò giù dal
divano svegliandosi di soprassalto come se avesse sognato di cadere; si
ritrovò
sul pavimento frastornato, più addormentato che sveglio, e
si guardò attorno
senza sapere dov’era né perché mentre
tutto attorno cercava quelle grida. Il
grido si ripeté di nuovo, meno forte ma più
lungo, ed era identico all’ultimo
disperato grido che aveva gettato M1 quella notte... era Mew che
gridava?
Si
era addormentato in mutande forse qualche ora prima, davanti
all’ennesima
replica di qualche vecchio film in televisione, e ora aveva la pelle
intirizzita dal freddo e scossa dai brividi, ma non aveva neppure il
tempo di
realizzare che cosa fosse successo: si tirò su i pantaloni
di una vecchia tuta,
si infilò alla cieca una camicia per coprirsi almeno le
spalle e si precipitò
lungo le scale.
Gli
sembrava che per tutta la villa echeggiasse una sirena
d’allarme, come nei
bombardamenti dei film di guerra; ma tutto echeggiava soltanto nella
sua testa.
Nella realtà, la villa era immersa di nuovo in un silenzio
d’abisso, e i passi
dei suoi piedi nudi rimbombavano lungo le scale nell’aria
immobile. Non c’erano
più grida, ora, ed Emir ebbe l’impressione di
correre in quel silenzio come
attraverso un’invisibile densità che lo tratteneva
e lo rallentava, in un tempo
dilatato a dismisura.
La
porta della camera si spalancò proprio mentre lottava con la
maniglia per
aprirla e Rotwang lo spinse via con una spallata. Emir
incassò il colpo col
respiro mozzato ma senza ritirarsi.
«Vattene
via.»
«L’ho
sentita gridare...»
«Non
ho bisogno di te. Torna di sotto» ringhiò Rotwang
scendendo le scale due
gradini per volta. Emir gli corse dietro.
«Rotwang!
Perché stava gridando?»
Gli
parve quasi di poter udire il sarcasmo delle sue parole senza
ch’egli le
pronunciasse: perché sta partorendo. Non ti sfugge
nulla, eh?; ma quella
volta era troppo occupato dalla sua borsa medica e dagli asciugamani da
recuperare per perder tempo a rispondergli. Emir cercò
invano di sbarrargli il
passo, ma Rotwang neppure perse tempo a spingerlo via: lo
scansò e basta,
scivolandogli accanto senza neppure guardarlo. Al culmine della
disperazione,
Emir lo afferrò per le spalle e lo scosse. Solo in quel
momento gli occhi di
Rotwang incontrarono i suoi. «Rotwang, ti prego, lascia che
ti aiuti!»
Vi
fu un lampo d’esitazione negli occhi di Rotwang, per un
istante. Distolse lo
sguardo perché il suo cedimento non gli si leggesse in viso.
«Se
vuoi esser d’aiuto, chiudi tutte le finestre e resta fuori
dalle palle.»
Emir
obbedì alla prima metà del suo ordine. Percorse
di corsa il primo e il secondo
piano, sbatté le finestre e le imposte, e scivolando scalzo
lungo i corridoi
interminabili corse di nuovo alla camera di Rotwang – era
arrivato in tempo? Ma
in tempo per cosa – che cosa stava per accadere che sentiva
dentro di sé più
ancora che nelle grida?
Rotwang
era chino sul letto intriso di sangue. Se avesse visto attraverso di
lui, Emir
avrebbe visto Mew, ne era certo, la sentiva agonizzare; ma fra lui e
lei c’era
Rotwang, ed Emir non vide nient’altro che le sue spalle
tremanti e la grande
massa dei suoi capelli, come quella notte... eppure, anche senza
vederla, Emir
sapeva che cosa stava succedendo, si sentiva legato alla sua sofferenza
da un
filo più forte di quanto fosse la vista, Emir la sentiva,
lui lo sapeva che
stava morendo e che non si poteva fare niente...
Rotwang
percepì la sua presenza senza bisogno di voltarsi, la
sentì dal suo respiro
affannato e dalla sua disperazione. Si voltò appena a
guardarlo al di sopra
della spalla e gridò: «Vattene via!»
«Vuole
che l’aiuti!» gridò Emir vicinissimo al
letto, stava quasi per vedere cosa
c’era sulle coperte, lo stava chiamando, sentiva la sua voce!
Rotwang
gli tirò un pugno nello sterno. Emir si ritrovò
senza fiato, cogli occhi chiusi
e piegato su se stesso, e Rotwang lo afferrò per le spalle e
lo trascinò in
corridoio. Stava per chiudere la porta della stanza, da quel momento
non
l’avrebbe rivista mai più, e forse Rotwang non
avrebbe saputo cosa bisognava
fare: era lui che si sentiva chiamare...
«Rotwang»
gracchiò con una voce che non era neppure più
voce, ma un rantolo che usciva a
stento dal canale sottilissimo della sua gola. «Ha bisogno di
me.»
«Stanne
fuori, Fuji» rispose Rotwang sbattendo la porta. Il rimbombo
che scosse il
pavimento fu l’ultima cosa che udì da parte sua.
La
porta si aprì in silenzio sulla sua disperazione. Emir
levò lo sguardo dal
pavimento senza sperare più nulla: solo, aspettava.
Rotwang
si stagliava sulla soglia immobile, colle maniche arrotolate fino al
gomito, i capelli
sporchi e il volto bagnato di sudore e lacrime. Non pareva neppure
più lui, era
evaporato come uno spettro di se stesso. Emir lo guardò
senza parlare – sapeva
già che cosa era accaduto da prima ancora che uscisse, forse
lo sapeva da
ancora prima che accadesse; quella voce che aveva sentito gli diceva
che era
tutto già scritto, forse dal giorno in cui se
n’era andata sua madre, di certo
dalla notte della giungla, eppure attese ugualmente che Rotwang
parlasse.
Non
disse che cosa era successo. Per un po’ non disse niente del
tutto. Quando
parlò la sua voce sembrava provenire da un luogo molto
remoto, da un altro
universo addirittura.
«Non
sei intervenuto solo sul sesso.»
Emir
non rispose, allora Rotwang parlò ancora.
«Per
quello che hai fatto, non potevi... avevi bisogno di altro DNA per
intervenire
sul suo. Ma qui non avevi nulla, come hai fatto a...»
Emir
sapeva che Rotwang era troppo intelligente per non conoscere la
risposta, e
dirla ad alta voce sarebbe stato troppo crudele e troppo doloroso,
perché
sapeva che la verità aleggiava già ai margini
della sua coscienza ed egli
semplicemente si rifiutava di guardare.
«Sono
morti entrambi» disse Rotwang con voce sorda. «Lei
e quella... quella cosa che
tu hai fatto. Sei contento? Sei libero, adesso.»
Qualcosa
si fermò per un istante nel suo petto perché non
era questo che era destinato
ad accadere fin da quella notte nella giungla – non doveva
morire il piccolo.
Non era così che doveva andare. L’aveva progettato
e programmato e generato
perché vivesse e sopravvivesse a tutto, non come M1, non
come M2, e ora Rotwang
faceva irruzione lì e diceva che era morto!
Si
tirò a fatica sulle gambe perché doveva vedere
coi suoi occhi se era vero, e se
sì doveva capire che cosa era successo e dove aveva
sbagliato e che cosa poteva
essere andato storto; ma Rotwang, o quello che di Rotwang rimaneva dopo
quell’ultima morte, non si mosse. Il suo corpo grande e
forte, svuotato
dall’interno, rimase inamovibile sulla soglia, che occupava
interamente, ed
Emir non aveva modo di oltrepassarlo.
«Tu
non vai da nesuna parte» disse Rotwang appoggiandogli sul
petto una larga mano
piatta. «Non puoi vederla. Non devi toccarla. Non appartiene
più a te.»
«Voglio
vedere il piccolo» insisté Emir, ma la mano di
Rotwang lo trattenne senza
neppure bisogno di spingerlo.
«È
morto. Non mi hai sentito?»
È
mio, avrebbe
voluto urlare Emir, ma la sua bocca istupidita non trovava
parole. È mio, non appartiene a te. Mew era troppo
stupida e debole per
generare da sola il compimento della sua specie...
La
sua espressione vacua, attonita finì per urtarlo ancora di
più, forse perché
Rotwang s’era aspettato che quantomeno si ribellasse,
piangesse o si
disperasse; ma Emir non faceva nulla di tutto ciò
perché quello che aveva detto
non poteva essere reale. Doveva esserci un errore.
«Non
te ne importa?» domandò guardandolo fissamente,
cogli occhi spalancati,
dilatati, quasi folli. «Non dici nulla?»
«Vogli
vederlo» ripeté Emir senza capire.
«Fuji,
è morto!» urlò Rotwang.
«Anche lei è morta per colpa tua! E
perché io non sono
stato forte abbastanza da impormi su di te e portarla fuori di qui...
perché
io...»
«Ce
l’avrebbero portata via» mormorò Emir
macchinalmente.
«Ma
forse sarebbe viva!» gridò Rotwang.D’un
tratto non resisteva neppure più, ora
piangeva, ed Emir si ritrasse dalla sua disperazione come da qualcosa
di
estraneo e fuori posto. Era incredulo, come se solo in quel momento
stesse
cominciando a metabolizzare quella morte e quel dolore. «Ho
fatto come hai
fatto tu.. non so neppure perché. Ho avuto paura e sono
stato egoista e ho
pensato soltanto a... non lo so che cosa ho pensato. Di essere un
medico e
poterli salvare entrambi. E ora Mew e quella cosa sono morti per
colpa...»
Emir
spinse contro quella mano inamovibile che sul suo petto si faceva
sempre più
debole e ripeté: «Devo andare da lui.»
«Fa’
come ti pare» rispose Rotwang allontanandosi di scatto dalla
porta, e da quel
subitaneo cambio di attegiamento Emir rimase stupefatto tanto che non
fece un
movimento per entrare nella stanza. S’era aspettato di dover
lottare ancora, e
invece ora che gli aveva detto tutto quel che aveva da dirgli pareva
che
Rotwang non intendesse impedirglielo più. Emir ristette
incredulo, sospettoso,
ad aspettare che di punto in bianco Rotwang lo cogliesse di sorpresa e
lo
colpisse di nuovo o altro... ma Rotwang non fece nulla ed Emir
esitò.
«Tu
non...»
«Se
vuoi vedere il cadavere, vai» sibilò Rotwang.
«Non ti rimarrà molto tempo,
perciò... se ci tieni tanto, vai. Io vado a costituirmi.
Probabilmente ci
arresteranno entrambi nel giro di un’ora, perciò,
se ti fa tanto piacere
vegliare due cadaveri, trascorrila pure come vuoi.»
Tutto
si era svolto in un circolo del tempo che ora tornava a chiudersi su se
stesso:
la morte, la polizia, la minaccia, la giungla e poi il tradimento; e
ora tutto
ricominciava da capo, e al centro di tutto, come sul palcoscenico di
una
tragedia, c’era la villa. All’inizio di quel
circolo Emir l’avrebbe impedito,
avrebbero combattuto e litigato e per la rabbia forse
l’avrebbe ammazzato; ma ora
che aveva capito d’essere all’interno di un circolo
che eternamente si
ripeteva, e che all’interno di esso era risuonata quella
voce, d’un tratto
vedeva con irripetibile chiarezza che tutto ciò non
importava più. Non poteva
impedirlo in ogni caso, e forse persino doveva andare così.
Si
fece da parte. «Vai» disse. «Non ti
fermerò.»
Rotwang
esitò un istante; forse avrebbe voluto dir
qualcos’altro, ma non c’era altro da
aggiungere, e gli passò accanto senza una parola. Emir
sentì ancora per qualche
minuto i suoi passi nella grande casa vuota, lo scrosciare
dell’acqua, i suoi
passi di nuovo; aspettò tranquillamente. Ora che Rotwang
stava lasciando la
villa, di certo per sempre, d’improvviso non c’era
più alcuna fretta. Si udì
infine, lontano, il boato del grande portone, rimase
nell’aria per un po’ sotto
forma di vibrazioni: Emir attese che anch’esso si spegnesse.
Avanzò
solo quando tutto fu silenzio. La camera non gli sembrava
più la stessa; tutto
tranne lui era immobile, forse morto. Il suo era il solo respiro.
Il
letto era disfatto. Le coperte arrovesciate formavano catene montuose
che
ostacolavano il suo sguardo; Emir s’inoltrò nella
stanza a poco a poco,
cautamente, e a misura che s’avvicinava la sua vista si
accresceva e spaziava
sul letto come su un orizzonte.
Mew
aveva gli occhi spalancati e la bocca aperta. Era la stessa creatura
che egli
aveva amato all’inizio, tanto quanto aveva odiato poi; eppure
Emir stentava a
riconoscerla perché i suoi occhi ora privi
d’espressione erano infissi nel
vuoto. Il suo sguardo passò oltre il suo corpo morto.
Accanto al suo cadavere,
sul letto, c’era una gran massa oscena, violacea,
sanguinolenta, che doveva
essere la placenta; Emir ignorò anch’essa e
guardò oltre.
Fino
a quel momento non aveva avuto idea di che aspetto avrebbe avuto il
piccolo. Lo
guardò con interesse. Non era come si aspettava. Era
minuscolo, e questo era
ovvio, ma fino a quel momento nella sua mente se l’era
immaginato enorme,
monumentale; lo sarebbe stato se fosse cresciuto, però. Ma
come poteva non essere
sopravvissuto? Tutto era stato calcolato; avrebbe dovuto vivere a
dispetto di
tutto e diventare il Pokémon più potente, allora
che cosa era successo? Forse
Mew non era stata forte abbastanza da dargli la vita; e nel disperato
tentativo
di venire al mondo, egli aveva risucchiato anche quella di lei?
Aveva
il corpo asperso della stessa peluria morbida e rada di quello di lei,
più
livido però, quasi viola, e di muco e sangue e una sorta di
ripugnante
gelatina. Aveva gli occhi chiusi, forse perché non aveva mai
davvero vissuto, a
differenza di lei, e a Emir dispiacque perché gli sarebbe
piaciuto vederne il
colore.
Rimase
in silenzio accanto ai cadaveri di quei morti per un tempo
indefinitamente
lungo. Di tanto in tanto, tendeva l’orecchio: si aspettava di
sentire da un
momento all’altro la sirena di un’auto della
polizia che veniva a prenderlo
come aveva detto Rotwang, o almeno il rumore di un motore, il suono del
campanello o del telefono... ma ancora non arrivava nessuno. Poteva
darsi che
ci volesse un po’, in fondo. Non c’era fretta.
Avrebbe aspettato lì con loro.
Il
cucciolo spalancò gli occhi e nello stesso istante Emir
sentì rimbombare la sua
testa della stessa voce che fino ad allora gli pareva aver soltanto
mormorato
al suo orecchio per chiamarlo.
«Se
n’è andato.» Emir si ritrovò
in ginocchio con le mani sulle orecchie, era certo
che stessero sanguinando; ma il piccolo neppure aveva aperto la bocca,
la sua
voce era soltanto nei suoi occhi e nella sua mente.
«Finalmente siamo rimasti
soli.»
6
febbraio. Mew ha
partorito. Il piccolo si chiama Mewtwo.
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Capitolo 15 *** Perfetto. ***
Un
anno e mezzo per partorire questo capitolo?
Sì,
è così, e probabilmente non ho
altre scuse se non questa: che psicologicamente non sono davvero pronta
a
lasciar andare questa storia, che è stata probabilmente
l’unica cosa rimasta
costante negli ultimi sei o sette anni della mia vita. Questo
è il penultimo
capitolo, e il solo pensiero di lasciar andare questi personaggi mi
spezza il
cuore, anche se prima o poi accadrà – sia pure con
i miei tempi biblici e la
mia calma che definirei quasi secolare.
Riassunto dei capitoli precedenti: nel capitolo XII, Rotwang parte col resto dei membri del Laboratorio per la Guyana, in una spedizione programmata dalla Silph per cercare altri esemplari di Mew; Emir rimane solo con M2 nella Villa. Nel disperato tentativo di alleviare la propria depressione e la mancanza di Rotwang, cerca ovunque nel sotterraneo le riserve di laudano del precedente proprietario della Villa e si accorge che Mew, che lo aiuta a trovarle, possiede poteri telepatici. Per mettere a frutto i suoi poteri, utilizza il prototipo di incubatrice che aveva creato all’Università per clonarla. Nel capitolo XIII, al ritorno di Rotwang dalla Guyana, Emir confessa che cosa ha fatto. Rotwang decide di non denunciarlo perché questo comporterebbe farsi portare via Mew dalla polizia, ma gli chiede di rimanere nel sotterraneo per tenerlo il più lontano possibile da Mew, che la gravidanza anomala indebolisce ogni giorno di più. Mew muore dando alla luce il cucciolo, anch’esso morto; Rotwang, che non è riuscito a salvarli, lascia la Villa annunciando che andrà a costituirsi. Dopo la sua partenza, il cucciolo apre improvvisamente gli occhi.
Prima di
lasciarvi al capitolo, che
spero sia degno, almeno in parte, di cotanta attesa, non posso che
ringraziare
Wings44 e a cristal_93 per le loro recensioni, e tutti coloro che hanno
anche
solo provato a seguirmi fin qui lungo la china della mia pigrizia.
Buona lettura!
Capitolo XIV –
Perfetto
«Finalmente siamo
rimasti
soli.»
Aveva nelle orecchie un
fischio acuto e terribile, come provenisse da un altoparlante che
fischiava e
ululava, ma che non passava attraverso i suoi timpani,
perché la pressione
delle sue mani non riusciva ad attutirlo; la testa gli esplodeva. Gli
pareva di
non vederci più, ma se si costringeva ad aprir gli occhi
attraverso il dolore,
ancora riusciva a intravedere la sagoma oscura del cucciolo che
l’osservava.
«Basta» singultò, o
quantomeno percepì la propria bocca che si apriva e si
muoveva e gli giunse
all’orecchio una parola ovattata che esprimeva la supplica
confusa e
totalizzante che giganteggiava nella sua mente: mi stai
uccidendo, abbi
pietà.
Il fischio che echeggiava
nel suo cervello s’interruppe d’improvviso
com’era iniziato. Emir riebbe
d’improvviso coscienza del proprio corpo, del tutto privo di
dolore, e
padronanza sulla propria mente. Inalò grandi boccate
d’aria rotolando sul
pavimento. Non aveva provato mai più paura che in
quell’istante.
«Perdonami.» La voce
echeggiò di nuovo nella sua mente,
roboante ma più contenuta, ed Emir sobbalzò, ma
più di spavento che di dolore.
Rimase al suolo senza il coraggio di alzarsi per timore che quel dolore
ricominciasse.
«Sei
vivo» mormorò. Era l’unico pensiero
cosciente che la sua mente fosse in quel
momento in grado di formulare, al di là del dolore e della
paura. Non era
possibile – Rotwang aveva detto che era morto. Rotwang non
aveva mai sbagliato.
«Sei vivo.»
Ci
fu un silenzio molto lungo nella sua mente, ma un silenzio di una
qualità
strana: era come il fermo immagine di una videocassetta fissata in un
punto
nero del nastro. C’era silenzio, ma non perché il
cucciolo non stava
comunicando, bensì perché quello che gli stava
comunicando era silenzio. Il
cucciolo taceva nella sua mente, Emir percepiva la
sua intensa
concentrazione nelle pieghe del proprio pensiero.
«Perdonami.
Non sapevo che ti avrebbe fatto male.» Era ora meno di un
mormorio, come il
ricordo di una voce.
«Tu
eri morto.» Ora che la sua mente s’era liberata
della potenza di quella voce ed
era tornata sua, libera e autonoma o quantomeno momentaneamente scevra
dall’influenza del cucciolo, a poco a poco i suoi pensieri
tornavano a
ordinarsi secondo una linea ch’egli riusciva a percorrere.
«Non respiravi. Io
ti ho visto morto.»
«Se
avesse pensato che ero vivo, lui mi avrebbe portato via.» I
pensieri alieni
attraversavano la sua mente come lampi, avevano intensità
diverse e
baluginanti, apparivano ora intensi e ora flebili, confusi, a malapena
percettibili. Il cucciolo stava cercando la propria voce
all’interno dei suoi
pensieri.
Emir
si mosse lentamente per alzarsi; gli sembrava che gli dolesse tutto il
corpo,
che quando si sarebbe alzato i suoi muscoli avrebbero urlato di dolore
e le sue
gambe non l’avrebbero retto; ma non accadde nulla del genere.
Le sue orecchie,
che gli erano parse esplodere, non sanguinavano affatto come credeva.
Le sue
membra gli rispondevano ancora, tutto ancora gli apparteneva, il suo
corpo era
ancora suo, eppure egli lo percepiva diversamente.
Levò
lo sguardo dal pavimento sul letto, là dove ora i suoi occhi
mettevano a fuoco,
non più attraverso una nebbia, la figura livida e sporca del
cucciolo e i suoi
occhi enormi spalancati nel buio. Era più bello di come
l’aveva vagheggiato nei
sogni dell’oppio e del laudano; celava in sé la
bellezza di sua madre, il
taglio dolce degli occhi di Mew affiorava nella durezza dei suoi. Ora
che lo
vedeva, Emir riconosceva in lui l’intervento della sua mano
sull’embrione che
aveva toccato, ma il suo volto vivo era più della somma
delle parti, più
dell’azione dei filamenti di DNA che nella sua creazione
erano intervenuti.
Senza
riflettere, senza nemmeno accorgersi di star parlando, Emir
mormorò: «Come
sapevi che ti avrebbe portato via?»
Il
cucciolo rispose: «L’ho visto nei suoi
pensieri.»
Emir
sentì la sua voce scoppiare nella propria mente come un
concerto di tuoni; si
sforzò di stringere gli occhi e resistere al dolore.
«Perché
non volevi che ti portasse via?»
«Perché
mi hai creato tu» disse la creatura con
semplicità. «Lui mi avrebbe portato da
persone che non mi avrebbero capito. Lui stesso mi amava, ma non mi
capiva e
provava orrore.»
In
un impeto di curiosità, nell’atmosfera sospesa e
surreale della stanza piena di
umori e sangue, Emir chiese: «Tu conosci il suo
nome?»
Vi
fu silenzio ancora: il cucciolo pensava, Emir lo sentiva scavare nei
suoi
pensieri, raspando nei recessi della sua mente come un cane che
scavava. Con la
naturalezza di qualcosa che gli era congenito ma che ancora doveva
imparare, il
cucciolo cercava nella sua mente la risposta alle sue domande: Emir
sentiva il
suo pensiero che si aggirava nella sua mente come tra scaffali da cui
attingere. Si sentiva paralizzato, eppure sapeva che se avesse
esercitato un
qualsiasi sforzo di volontà il suo corpo avrebbe reagito.
«Richard»
disse cautamente con una certa incertezza. «No, Rotwang.
Aspetta… Rotwang è il
cognome. Ma che cos’è un cognome? Ah…
ecco.»
Sta imparando dalla mia mente realizzò Emir, e al
suo pensiero il cucciolo
rispose: «Sì.»
Erano
le estreme conseguenze del suo genio, il suo sogno era riuscito. Emir
aveva
visto l’intelligenza di Mew e aveva disprezzato la sua
ingenuità, e ora nel
figlio l’ingenuità non c’era
più ed era rimasta l’intelligenza. Gli
salì dal
petto un singhiozzo perché non poteva credere che tutto
ciò fosse vero: il
figlio che aveva creato perché fosse come la madre ma
migliore di lei era nato
per compiere il suo disegno e l’aveva realizzato, era un
mostro che il mondo
non aveva mai visto perché esisteva da quel momento, era
perfetto e non più
perfettibile. Mew era morta ma non invano, perché dal suo
sangue era nato il
compimento della sua specie.
Il
cucciolo strizzava gli occhi nello sforzo di vagare al di fuori della
propria
mente e all’interno della sua. Aveva l’aria di
frugare in cerca di qualcosa che
non si trovava.
«Qual
è il mio nome?»
Tu non hai un nome, stava per rispondere Emir, come
avrei potuto deciderlo
senza ancora conoscere te?; ma le sue parole non trovarono
voce. Il suo
nome era già scritto prima che il cucciolo nascesse, prima
che lui lasciasse
Lavandonia, forse da prima della vita del mondo; Emir l’aveva
inventato e
l’aveva creato, il cucciolo era sgorgato dal suo genio, ma a
un certo punto,
risalendo all’indietro nella sequela di processi che aveva
portato a quel
momento, tutto si sovrapponeva; ed Emir non sapeva più se
quella creatura lui
l’aveva inventata oppure l’aveva soltanto scoperta,
estraendola dalla massa
ancora in potenza della vita, là dove essa era sempre stata
in attesa, così
come uno scultore l’avrebbe estratta intera dal marmo.
Persino i loro contorni
si confondevano, ed Emir non avrebbe saputo rispondere: il cucciolo gli
apparteneva oppure era altro da lui?
«Tu
sei il secondo» rispose. «Il tuo nome è
Mewtwo.»
Mewtwo
non chiese e non protestò, ma le sue palpebre si
assottigliarono. In fondo ai
suoi occhi baluginò un lampo azzurro.
«Sì…»
disse lentamente, come saggiando quel nome nella propria mente.
«Sì, è questo
il mio nome.»
Emir
era talmente annichilito, asservito al suo volere, che quasi gli
sembrava di
non riuscir più a pensare qualcosa che fosse al di fuori
della sua mente del
cucciolo: non sapeva più bene chi guidasse la sequela dei
pensieri, a chi
appartenesse la mente e a chi ciò che essa conteneva; ma
d’un tratto balenò un
pensiero angosciante che apparteneva a lui soltanto. Mewtwo
reclinò il capo
mentre percepiva il suo pensiero. Emir avrebbe voluto parlare
d’istinto, dire
ad alta voce il pensiero che lampeggiava attraverso la sua mente, ma il
cucciolo parlò per primo. «Improvvisamente hai
pensato a qualcosa che ti fa
molta paura.»
Emir
avrebbe dovuto pensare a quel pensiero ininterrottamente per tutto quel
tempo
perché era impellente e non poteva aspettare ma, ingoiato
dalla mente e dagli
occhi di Mewtwo, quell’urgenza era passata in secondo piano.
«Bisogna andare...
non possiamo restare qui, Rotwang tornerà con la polizia
e…»
«Non
lo farà» rispose Mewtwo con naturalezza.
«Ascoltami»
insisté Emir, ma gli occhi di Mewtwo baluginarono
d’azzurro di nuovo, ed Emir
ammutolì.
«Ci
sta pensando» disse Mewtwo.
«Che
cosa?»
«Sta
guardando un edificio» spiegò con calma Mewtwo. I
suoi occhi vagavano lontani,
la sua mente stava apprendendo le parole via via che parlava.
«Ha degli oggetti
pesanti in mano, gli segano le dita, ma non si decide ad appoggiarli a
terra… è
quella la polizia?»
Emir
attendeva le sue parole, incredulo via via che uscivano dalla sua mente
e
finivano nella sua; non riusciva più a pensare.
«Vedi
attraverso la sua mente?» balbettò.
«Non
come nella tua.»
Emir
insisté ancora. «Per la distanza?»
Gli
occhi si assottigliarono di nuovo, quel baluginio azzurro
lampeggiò ancora in
fondo al suo sguardo.
«Non
solamente» disse. «È lontano, ma vedo
chiaramente attraverso i suoi occhi,
solo… non in profondità. Dalla tua invece posso
attingere quello che voglio,
solo che…» S’interruppe un istante, i
suoi occhi cercarono più oltre. «Solo che
non tutto.»
«Vai
avanti» lo incalzò Emir: era stato lui a indagare,
ma ora quell’indugio lo
faceva innervosire. «Che cosa sta facendo?»
«Vorrebbe
entrare, ma non lo farà.»
«Come
sai che non entrerà?»
«Perché
lui lo sa» rispose Mewtwo. «Sa che dovrebbe
farlo… ma sa anche che entrare gli
farebbe male quanto non farlo. Dentro di sé sa
già che non entrerà.»
Rotwang
non l’avrebbe denunciato. Non importava che la sua unica
certezza fosse la
parola di Mewtwo: Emir sapeva che era vero perché conosceva
i pensieri di
Rotwang, anche se dall’esterno solamente; ma aveva imparato i
suoi pensieri
negli anni in cui li aveva subiti, previsti e anticipati, e ora che
Mewtwo
gliel’aveva descritto gli pareva di vederlo coi propri occhi
come se lo stesse
osservando dal lato opposto della strada.
Mewtwo
lo scrutava dal letto coperto di sangue, il suo sguardo era penetrante
tanto da
passargli attraverso.
«Sento
la sua sofferenza» disse. Saggiava le proprie parole a una a
una via via che le
pronunciava, le apprendeva via via che parlava, cercandole dalla mente
di Emir
a seconda della forma che assumevano i suoi pensieri, ancora troppo
complessi
per la sua mente neonata. «Ma non vedo da dove proviene. Lui
lo sa, ma ne prova
tanto sgomento che la sua mente non tollera di soffermarsi su quel
pensiero.»
«Soffre
perché mi amava e io l’ho tradito»
mormorò Emir. «Soffre perché lei
è morta.»
Mewtwo
chinò gli occhi sul cadavere di fianco a sé per
la prima volta.
«L’ho
uccisa io?» domandò con profondo interesse e ancor
più profondo distacco.
L’ho uccisa io avrebbe dovuto rispondere Emir
se avesse avuto il coraggio
di rendere reale ciò che aveva fatto; ma Emir questo
coraggio non l’aveva e
Mewtwo ancora non sapeva. «È morta
perché era tempo che morisse.»
Mewtwo
non riconobbe la menzogna nelle sue parole perché in fondo
la menzogna non
c’era: Mewtwo era Mew rinata e divenuta ciò che
avrebbe sempre dovuto essere, e
ora che Mewtwo era venuto al mondo, di Mew il mondo non aveva
più bisogno. Il
suo scopo nell’evoluzione era stato raggiunto.
Mewtwo
accolse quest’informazione con imperturbabile calma. Distolse
lo sguardo dal
corpo morto.
«Sbarazzatene»
ordinò. «La sua vista m’infastidisce.
Anche se non so perché.»
Mewtwo
attingeva alla sua mente giorno dopo giorno. La svuotava lentamente
dall’interno, a poco a poco, a grandi pezzi come bocconi di
cui nutriva la fame
sempre crescente della propria mente. Emir provava con sgomento la
sensazione
ogni giorno di percepire la propria mente sempre più vuota,
confusa, piena solo
di nebbia. Aveva vuoti di memoria.
Talora,
quando si svegliava in luoghi in cui non ricordava d’essersi
addormentato,
senza sapere dove si trovasse né per quanto tempo avesse
perduto coscienza di
se stesso, si trovava a frugare affannosamente nella propria mente come
nelle
tasche di propri abiti, quasi a controllare se mancasse qualcosa.
C’era tutto,
se di tutto si poteva parlare per una mente, alla stregua di un armadio
che
conteneva i ricordi concreti di una vita passata: spalancando le ante
del suo
cervello e frugando tra gli scaffali della sua memoria, Emir trovava
ogni volta
che tutto era ancora lì e tutto gli apparteneva; ma se
quello fosse stato un
armadio, e i suoi ricordi oggetti riposti sui suoi scaffali, essi
avrebbero
avuto l’aria stropicciata e sbattuta di oggetti frugati da
mani estranee che li
avevano toccati e
compulsati e
consultati e poi rimessi a posto, non precisamente dov’erano
prima, ma
impercettibilmente spostati. Quelle erano le tracce che Mewtwo lasciava
nella
sua mente.
Avrebbe
voluto poter dire che il cucciolo cresceva a vista d’occhio.
Forse era vero, ma
Emir non aveva modo di accorgersene: non era sempre lucido, o forse
sarebbe
stato più corretto dire che non lo era quasi mai. Mewtwo
risiedeva nella sua
mente più che nella propria: era avido di sapere; e la mente
di Emir, coi suoi
ricordi e la sua esperienza del mondo, erano l’unica
conoscenza che Mewtwo
avesse al di fuori della villa. I suoi occhi guardavano attraverso le
finestre,
ma non vedevano che strade deserte, e in lontananza le pendici del
vulcano
fumigante. Alla Villa del dottor Fuji, lo scienziato tanto geniale
quanto pazzo
che si diceva intento a chissà quali esperimenti, nessuno si
avvicinava mai.
«Perché
non posso uscire?» chiedeva Mewtwo guardando fuori.
«Perché
dobbiamo restare nascosti.»
«Tutti
sanno che tu vivi recluso qui.» Mewtwo attingeva
quest’informazione
socchiudendo gli occhi e cercando nei suoi pensieri, Emir lo sentiva
frugare
all’interno della sua mente come con dita gelate. Si sforzava
di rispondere
solo quando Mewtwo lasciava andare la sua mente, soddisfatto della
propria
ricerca, ed Emir poteva articolare una risposta.
«Non
è me che non devono vedere.»
«Mi
catturerebbero?»
«Sì.
Ti studierebbero, come facevamo con tua madre.»
«Mia
madre…» Gli occhi di Mewtwo baluginavano
d’azzurro, Emir si piegava su se
stesso urlando mentre la sua mente veniva scavata, frugata, rovesciata:
«Anche
tu?»
Quando
il dolore lasciava la sua mente, Emir si sollevava in ginocchio e col
petto
affannato che si sollevava in cerca d’aria rispondeva:
«Anche io, come tutti.»
«E
mio padre?»
Emir
non rispondeva, allora Mewtwo frugava ancora, scavava nelle
profondità della
sua mente: non trovare nulla lo indispettiva, il bagliore azzurro nei
suoi
occhi si spegneva poco alla volta.
«La
tua mente è piena di ricordi su mia madre… forse
è perché l’hai amata e poi
l’hai odiata così tanto. Ma perché
quando voglio indagare su mio padre la tua
mente è chiusa come uno scrigno, come se ci fosse una porta
chiusa al di là
della quale non posso andare?»
«Non
lo so» mentiva Emir: era l’unica menzogna che
Mewtwo non poteva scoprire,
perché quella parte della sua mente gli era preclusa
davvero.
Infastidito
al vedere l’unico limite al di là del quale i suoi
poteri non potevano
spingersi, Mewtwo tornava alla sua ossessione. «Eppure dici
che sono più
potente di mia madre.»
«Tu
sei più potente di lei» confermava Emir.
La
rabbia di Mewtwo esplodeva nella sua mente come un’eruzione:
non capire lo
infastidiva, i limiti della sua libertà lo frustravano fino
all’ossessione.
«Allora perché non posso uscire e
difendermi?»
Il
magma della sua rabbia lo prostrava fino a ridurlo in ginocchio. Emir
si
prendeva il capo tra le mani, i suoi occhi sarebbero esplosi nelle sue
orbite
da un momento all’altro, egli ne era certo; ma quando la
rabbia di Mewtwo si
ritraeva dalla sua mente come acqua giù dagli scogli, i suoi
occhi vedevano
ancora, la sua mente ancora era in grado di percepire, lo splendore
azzurro
negli occhi di Mewtwo si affievoliva nell’ombra.
«Perché
scapperesti per sempre» mormorava. «Ma se vuoi
andare, vai. Vedi bene che io
non ti trattengo.»
«Mi
hai creato perché volevi che me ne andassi?»
domandava Mewtwo. Nella sua mente
baluginava un lampo d’ironia: il pensiero di Emir sgroppava
di rabbia come un
cavallo.
«Ti
ho creato perché potevo!» urlava. «Ti ho
creato perché Mew… perché
Mew…» Perché
Mew era incompleta, era imperfetta ma semiperfetta e ancor di
più perfettibile;
perché, tramite lei, la perfezione era a portata di mano,
raggiungibile,
realizzabile, esisteva in potenza e non occorreva che tradurla in atto.
Tramite
lei Emir aveva avuto la possibilità di afferrare la
perfezione e realizzarla
nel mondo, come se ve l’avesse trascinata afferrandola con la
mano da una
dimensione oltremondana: avrebbe forse potuto lo scienziato resistere a
quella
tentazione, o l’uomo resistere alla chiamata della creatura
che ancora non
esisteva ma che gridava a gran voce per venire al mondo?
«Allora
mi hai creato perché restassi prigioniero qua
dentro» insisteva ancora Mewtwo.
Era implacabile, inarrestabile: Emir non riusciva a far altro che
scuotere la
testa.
«No,
no, non ho mai detto… se ti vedessero ti catturerebbero e ti
venderebbero…»
«Come
mia madre» lo interruppe Mewtwo. «Eppure dici che
sono più potente di lei. Se
gli uomini sono come te, non sarebbero in grado di farmi del
male.»
Emir
chiudeva gli occhi contro l’inappellabilità delle
sue parole, contro la forza
dei suoi pensieri che divampavano nella sua mente.
L’emicrania era talmente
intensa che Emir vedeva soltanto lampi di luce: in quei lampi gli
balenava in
mente l’arroganza degli occhi di Giovanni, la voce lontana di
Dale che diceva
in un anno confuso del suo passato: si ricorda quando abbiamo
consegnato i
primi cento esemplari di Porygon al proprietario del Casinò
di Azzurropoli?
Premendo
le dita contro gli occhi nel tentativo di attenuare il dolore che gli
lacerava
la testa, Emir rispondeva: «Non sono tutti come me.»
La
rabbia di Mewtwo divampava nella sua mente come un fiore di fuoco.
«Mi
hai creato più forte di lei perché potessi
difendermi, per poi tenermi
prigioniero!»
L’intensità
del dolore era tale che Emir non vedeva né sentiva niente
per qualche istante:
la sua mente si faceva bianca e luminosa come una nebbia attraversata
dai
lampi.
Il
dolore si affievoliva a poco a poco come lo spegnersi di una candela.
Col petto
che si gonfiava in cerca di un’aria che pareva non bastare ai
suoi polmoni,
Emir non aveva ossigeno a sufficienza per articolare una risposta
diversa.
«Anche tua madre avrebbe potuto difendersi – solo
che non lo voleva.»
La
mente di Mewtwo scivolava a poco a poco via dalla sua come marea che si
ritirava. Emir sentiva di rientrare a poco a poco in possesso dei
propri
pensieri.
«Se
non voleva difendersi, questo vuol dire che era debole»
stabiliva Mewtwo. La
sua voce sembrava provenire da una grande lontananza.
Emir
aveva visto i poteri di M2 e sapeva di che cosa era capace; ma sapeva
anche che
non era quella la debolezza di cui parlava ora Mewtwo.
«Sì,
lo era.»
Quante
volte si era ripetuta quella conversazione? Il tempo sembrava
arrotolarsi su se
stesso come le volute di una conchiglia, era eterno e si ripeteva; o
forse era
la prima volta, e il tempo era finito e terminava come un nastro?
Mewtwo si
ritraeva dalla sua mente sospettoso, arrabbiato, senza comprendere
perché
entrambi fossero prigionieri di quella villa senza saperlo spiegare
neppure a
se stessi eppure senza saperne fuggire. La villa era il solo luogo
sicuro, ma
da quale pericolo?
Non
sapeva quanto tempo fosse passato. Non sapeva neanche che giorno era:
quando
Emir riprendeva consapevolezza di se stesso e dove si trovasse,
guardando fuori
dalla finestra riusciva a determinare se fosse giorno o notte; ma
questo era
quanto. Era perduto nel tempo; solo lo spazio, poiché era la
villa, ancora gli
consentiva di orientarsi. Le dimensioni su cui si muoveva si erano
ridotte a
una sola.
All’inizio
s’era trattato di minuti. Era difficile persino accorgersene:
era come
distrarsi un istante, e subito dopo non ricordarsi quel che si era
detto un
momento prima. Non era poi tanto grave; ma Mewtwo ci aveva preso gusto.
A un
tratto Emir s’era accorto che quello che gli era sembrato un
istante prima era
giorno e ora, d’improvviso, era notte. Dov’erano
andate quelle ore?
Di
fronte alle sue rimostranze Mewtwo non si scomponeva neppure. I suoi
occhi
violetti, che a stento si distinguevano dal pallore livido delle
sclere, si
posavano su di lui quasi con stupore. Quand’era che aveva
imparato a muoversi
così, che i suoi muscoli avevano perduto la mollezza del
neonato ed erano
diventati elastici e forti come quelli di un adulto? Il giorno in cui
era nato,
Emir l’aveva preso tra le braccia e l’aveva lavato
come se fosse stato un
figlio venuto al mondo dalla sua propria carne, e questo lo ricordava.
Ma
com’era che non ricordava cos’era successo nel
mezzo?
«Sei
stato tu a crearmi come mi hai creato.» Lo stupore di Mewtwo
era genuino,
spontaneo, le sue parole precipitavano attraverso la sua mente come
comete che
s’inseguivano. «Sei stato tu a darmi questa mente
sovrumana e a non darmi
niente con cui nutrirla. Che cosa ti aspettavi?»
Che
cosa si era aspettato? Il tempo scorreva attorno a quella domanda come
la
corrente attorno a una roccia nel fiume: che cosa si era
aspettato…? Che cosa
si era aspettato…?
Quando
Emir si sforzò di articolare una risposta d’un
tratto s’accorse che Mewtwo non
era più nello stesso punto. Eppure non gli sembrava passato
che un momento, non
aveva distolto lo sguardo; si trovavano nella stessa stanza, ma Mewtwo
era ora
di fronte a lui e il suo aspetto era mutato. Quand’era che
era cresciuto così,
che era diventato alto ormai quasi quanto lui, che i suoi occhi
s’erano fatti
penetranti e oscuri?
Di
fronte alla sua confusione, Mewtwo lo guardò con
curiosità. «Quanto tempo credi
che sia passato?»
Emir
cercò con lo sguardo la finestra. Si trovavano nel salotto
sul mare, ma solo in
quel momento si accorse che stava piovendo, e che grandi gocce di
pioggia
perforavano come dardi il mare grigio. Si avvicinò alla
finestra senza
respirare. Non era più neppure la stessa stagione, eppure a
lui pareva passato
un attimo.
«Che
cos’hai fatto?»
«Non
è stata colpa mia» disse Mewtwo. Non
c’era alcun tentativo di difesa o
espressione di colpa nella sua voce: era genuinamente sincero, ed
esponeva la
sua giustificazione come un dato di fatto. «Io ho bisogno
della tua mente più
di quanto tu abbia bisogno di mangiare.»
Emir
tese le mani di fronte a sé. Non sembravano neppure
più le mani che ricordava:
erano magre e macchiate, con grosse vene rilevate e violacee.
Sembravano le
mani di un vecchio; ma quando Emir cercò il riflesso del
proprio volto sul
vetro segnato dalle gocce di pioggia, non lo vide invecchiato allo
stesso modo.
I suoi occhi gli risposero dal vetro sgomenti e disperati come se
urlassero di
tirarli fuori di lì.
«Quanto
tempo è passato?»
«Non
tanto quanto credi» disse Mewtwo alle sue spalle. Emir vedeva
i suoi occhi
ferini immoti nel riflesso sul vetro. «Neppure due
mesi.»
Lo
sconforto scivolò sulla sua schiena come una bava gelata.
Dov’era stata la sua
mente per quei due mesi? E del suo corpo Mewtwo come s’era
servito?
Questa
domanda non ebbe bisogno di pronunciarla ad alta voce: Mewtwo
l’aveva letta nel
suo pensiero, forse più rapidamente di quanto Emir
l’avesse articolata.
«Mi
serviva anche il tuo corpo tanto quanto la tua mente.» Questa
volta la sua voce
vibrava malcelatamente di colpa. «Mi servivano per fare
quello che puoi fare
tu.»
Emir
scosse il capo dolorosamente: a ogni movimento la sua testa pulsava.
«Che cos’è
che posso fare io?»
«Tu
puoi uscire» disse Mewtwo. «Tu puoi imparare. Io
sono prigioniero qui.»
Emir
si piegò su se stesso col capo compresso tra le mani: tutto
era troppo
complesso e troppo grande e la sua mente era come sopraffatta.
«Che
cosa mi hai fatto?»
«A
te nulla. Vedi bene che non ti è successo niente.»
La voce di Mewtwo aveva lo
stesso accento di quella di un bambino accusato d’un
dispetto; ma nel riflesso
sul vetro non c’era più il mostro bambino che Emir
aveva creato e preso tra le
braccia quando ancora il suo corpo era troppo debole per obbedire alla
sua
mente. «Volevo solo vedere com’era fuori.»
Emir
si premette le mani sulle tempie che martellavano
dall’interno: tutto gli
appariva più grande e incomprensibile di lui. «Hai
usato il mio corpo per poter
uscire?»
«Ho
visitato l’isola» disse Mewtwo. I suoi occhi
vagarono al di fuori della
finestra, si accesero di luce per un istante. «Il mondo
è tanto più vasto di
questa villa in cui mi tieni recluso.»
«Non
sei recluso» ripeté Emir per l’ennesima
volta; o forse era la prima, e la sua
mente a soqquadro lo ingannava? «Ti hanno visto… mi
hanno visto… hai
incontrato qualcuno? Che cosa hanno pensato?»
«È
stato… strano» disse Mewtwo.
Emir
si premette le mani sulle tempie che a ogni momento minacciavano di
esplodere.
«Strano?»
«Ho
camminato tra la gente nel tuo corpo.» Mewtwo non raccontava
davvero: ricordava
per se stesso, toccava alternativamente i suoi ricordi e i propri come
se
sfogliasse più di un libro in contemporanea. Il suo tocco
nella mente di Emir
si era fatto delicato come le dita di un arpista, ora non frugava
più con mani
goffe, violente, come quando era appena nato; ma proprio
perché la sua ricerca
s’era fatta più raffinata e meno grossolana ora
Mewtwo cercava più a fondo,
andava a scavare nelle plaghe più recondite del suo cervello
in cerca delle
ultime briciole di conoscenza che gli erano sfuggite. Il dolore
sembrava
strappato ai suoi stessi nervi. «Gli uomini mi osservavano
come se mi
conoscessero ma senza ripugnanza, come mai mi avrebbero osservato se
avessi camminato
con questo mio corpo. Era una strana libertà.»
«Ti
hanno bene accolto?» domandò Emir ironicamente.
Gli
occhi di Mewtwo s’accesero di barbagli azzurrini nel riflesso
della finestra:
quella domanda richiedeva da lui una riflessione più
profonda della precedente.
«Mi
scrutavano come fossi un morto riemerso da un abisso. Camminavo tra di
loro, ma
non ero uno di loro. Mi hanno fatto strane domande di cui non capivo il
significato… anzi: il senso. Il significato lo capivo
benissimo. Ma lo scopo,
lo scopo, qual era? Quello mi sfuggiva sempre.»
Poteva
immaginarsi cosa Mewtwo avesse visto e sentito attraverso i suoi occhi
e le sue
orecchie: isolani che lo scrutavano perplessi e preoccupati mentre
vagava per
l’isola come allucinato, muovendosi nelle sue membra come se
indossasse un
corpo che gli andava troppo largo o troppo stretto alla stregua di un
vestito
non suo. Ma Isola Cannella lo considerava già un pazzo che
volontariamente
viveva recluso solo in una villa troppo grande per lui; di tutta
l’Isola non
c’era che una persona di cui ancora gli importasse, ma in
qualche modo sapeva
che non era in lui che Mewtwo si era imbattuto. Mewtwo conosceva
già Rotwang
dal giorno della sua nascita: se lo avesse visto, la sua mente
prodigiosa lo
avrebbe riconosciuto.
«Tu
hai risposto?» domandò Emir.
«Non
subito» disse Mewtwo. «Ho iniziato a rispondere
dopo un po’. Ho dovuto prima
cercare nella tua mente le risposte alle loro domande, ma era qualcosa
che non
avevo mai fatto. Volevano sapere di te.» Lo disse col tono di
una cosa proprio
curiosa. «Chiedevano di te, della Villa. Una donna sembrava
molto affezionata a
te.»
Una
donna: la sua segretaria, forse, di quand’era a capo del
Laboratorio, o forse
Portia, chissà. Un tempo gli sarebbe interessato saperne di
più, gli avrebbe
chiesto ulteriori dettagli; ma che cosa cambiava, ormai, se chiedeva di
lui una
donna lontana che un tempo gli aveva voluto bene?
«Che
cos’hai risposto?» domandò.
«Ho
detto: bene. In qualche modo ho sentito, nella tua
mente, che quella era
la risposta consueta da dare alla domanda che mi facevano.»
Ci fu un guizzo di
divertimento nella voce di Mewtwo che rimbombava nella sua mente
quando, in
risposta al dubbio che balenò nel suo pensiero, aggiunse:
«Giusto, un dubbio
più che lecito. Non temere. Ho parlato in –
com’è che direste voi? Ah, ecco: in
prima persona.»
Se
gli fosse stato possibile, Emir avrebbe riso, ma d’amarezza:
riusciva quasi a
immaginare il suo corpo, nella nebbia dell’isola, mosso da un
oscuro
burattinaio i cui occhi ardevano nell’isolamento della Villa,
che rispondeva a
domande di circostanza con occhi vacui e come spiritati, cercando nella
sua
mente le risposte, che erano banali esattamente quanto le domande.
«Devi esser
stato molto convincente.»
La
punizione non tardò ad arrivare: la rabbia di Mewtwo
divampò nella sua mente
polverizzando i suoi pensieri, Emir si ritrovò a urlare in
ginocchio aggrappato
al davanzale della finestra nel tentativo di non cadere; poi quel
dolore passò;
ma la furia di Mewtwo non era sufficiente a strappare da lui
l’ironia di quella
situazione. Si sedette lentamente sul pavimento, in faccia a Mewtwo, e
si toccò
il naso respirando a fatica: quando le ritirò, le sue dita
erano sporche di
sangue. Gli venne ancora da ridere.
«Non
sapevo d’averti fatto così permaloso»
disse. Sfidarlo era da pazzi, ma quale
nuovo dolore poteva infliggergli? La sua mente già non gli
apparteneva più,
Mewtwo se l’era già presa, e ora aveva imparato
anche a possedere il suo corpo.
La
luce negli occhi di Mewtwo si affievolì lentamente come
brace, il suo sguardo
si fece attento e fisso mentre percorreva il suo volto.
«Non
volevo farti tanto male» disse.
«Perdonami.»
Era
la prima volta che Emir udiva le sue scuse dal giorno della sua
nascita: quella
consapevolezza lo stupì per un momento, ma non
affievolì il suo rancore né il
suo sarcasmo. Si tamponò il naso provocatoriamente.
«Hai
paura di rovinare il mio corpo?» chiese. «Come
potresti, altrimenti, rubarlo
per andartene in giro?»
La
luce dei suoi occhi si accese per un momento, ma durò solo
un istante: Mewtwo
stava cercando di dominarsi.
«Non
ne avrei bisogno, se tu mi lasciassi libero di andare. Ti ho
già detto che il
tuo corpo mi occorreva.»
«Per
due mesi?» ribatté Emir. La sua voce
suonò incrinata quando disse queste
parole: due mesi della sua vita, due mesi in cui la sua coscienza era
rimasta
prigioniera e confinata in una parte del suo cervello in cui non le era
dato di
agire, mentre Mewtwo utilizzava il suo corpo come un vecchio paio di
stivali,
da indossare e poi sfilarsi.
La
voce di Mewtwo rimase quieta e calma, forse appena un po’
colpevole. «Non
volevo servirmene tanto a lungo, all’inizio. Io
ho… perso il senso del tempo.
Il tuo corpo mi piaceva stranamente come se fosse un po’
anche mio.»
Anche
un po’ suo. Quella conversazione rischiava di portarli
entrambi sul terreno
pericoloso di una conversazione nella quale Emir non intendeva
assolutamente
arrischiarsi: cercò di abbassare i toni nel tentativo di
distogliere la sua
attenzione da quel pensiero. Se Mewtwo se ne accorse, non disse niente.
«Non
hai bisogno del mio corpo per lasciare questa casa. Ti ho detto tante
volte che
non ti ho mai trattenuto. Puoi varcare quella soglia, puoi
Teletrasportarti, e
andare ovunque tu voglia. Puoi tornare in Guyana…»
«Tornare?»
Gli occhi di Mewtwo si strinsero per un momento, brillanti di una luce
amara.
«Ma in Guyana io non sono mai stato.»
«Lo
sai che cosa voglio dire» ribatté Emir.
«Davvero?»
rispose Mewtwo. «Io so che tu sei stato in Guyana e so che
proietti su di me un
ricordo che non appartiene a me. È il ricordo di mia madre,
non è vero? Ma non
solamente…» I suoi occhi arsero di nuovo mentre
cercava nella sua mente: Emir
sentì che il suo pensiero scavava nei suoi e li spostava
come fossero corde che
tirava qua e là. «C’è un
altro Pokémon nei tuoi ricordi che assomiglia a
lei.»
La sua fronte si aggrottò per la concentrazione: la
brutalità della ricerca
all’interno della sua mente fu tale che Emir si
sentì sul punto di vomitare.
Era come sentirsi arrovesciare il cervello dall’interno
«È lui mio padre?
Questo ricordo così doloroso che sento…
è il suo?»
«Smettila»
singhiozzò Emir cercando di spingerlo via; ma la sua mente
non era un corpo
fisico da poter allontanare come e quando voleva. Mewtwo ritrasse i
suoi
pensieri a poco a poco e lo guardò con occhi carichi di
stupore.
«Ti
fa soffrire tanto il ricordo di quel Pokémon?»
«Non
lo so più» balbettò Emir: ora che
Mewtwo aveva smesso di frugare nella sua
mente come un bambino che scavava con le dita, non sapeva neppure
più quali
sentimenti gli appartenessero ancora. Era suo il dolore per la morte di
M1, o
era stato solo di Rotwang? Era passato così tanto tempo.
«Era
mio padre?» insisté Mewtwo: questa domanda doveva
apparirgli importante,
fondamentale, se la ripeteva tante volte. Emir provò la
fugace, sciocca
tentazione di rispondere di sì, di lasciarglielo credere:
almeno avrebbe smesso
di far domande e d’indagare, si sarebbe contentato
dell’immagine di quel
Pokémon morto che aveva trovato nella sua memoria come della
foto di un
antenato trovata in un album di famiglia. Ma Mewtwo non si poteva
ingannare,
come si poteva mentire alla creatura che possedeva la sua mente
indossandola e
svestendola a piacimento?
«Perché
vuoi mentirmi?» chiese Mewtwo. La tentazione che
l’aveva attraversato per un
attimo non gli era sfuggita: quand’era che si era avvicinato
così? Ora Mewtwo
torreggiava su di lui, era terribile, forte quanto il destino, e
incombeva su
di lui in tutta la sua altezza: i suoi occhi fiammeggiavano.
«Pensi forse che
non possa leggere le tue menzogne attraverso il tuo pensiero?»
Il
dolore che scaturì dalla sua ira fu tale che Emir vide solo
una luce bianca per
qualche istante. Questa volta non si spaventò quasi, non
provò neppure
sgomento: si prese il capo tra le mani in attesa che passasse come
avrebbe
fatto con un’onda di marea. A poco a poco la luce bianca si
affievolì, i suoi
occhi videro di nuovo, i suoi polmoni inalarono di nuovo aria a grandi
boccate.
«Non
puoi leggerci la verità, però»
ansimò. Questo potere su di lui gli era rimasto,
quantomeno: restava una porzione della sua mente, per quanto
infinitesima, alla
quale Mewtwo non aveva accesso. Era l’unica vendetta che gli
rimaneva: puntare
il dito là dove persino gli infiniti poteri di Mewtwo
conoscevano limiti. «Se
tu riuscissi a vederla, non avresti bisogno di chiedermi ossessivamente
chi era
tuo padre. Sbaglio?»
Incassò
il capo tra le spalle quasi d’istinto, in attesa che la
rabbia di Mewtwo
divampasse nella sua testa come un fiore di fuoco; ma non accadde
nulla. Mewtwo
si era ritratto di qualche passo, non torreggiava più su di
lui: anziché
accrescersi la sua rabbia s’era acquietata quando Emir aveva
parlato. Anche il
suo sguardo era mutato, i suoi occhi ora scrutavano il suo volto in
cerca delle
risposte cui la sua mente non gli dava accesso.
«Ma
tu sai chi era.»
«Io
so d’averti creato con un’incubatrice che ho
progettato all’Università» rispose
Emir. «Ma questo lo sai anche tu.»
Mewtwo
lo scrutò incessantemente mentre tastava nella sua mente con
una delicatezza
che fino a quel momento non aveva mai usato; i suoi occhi brillavano
d’azzurro,
eppure in quel momento non bruciavano.
«Non
è una bugia» mormorò. Stava
riflettendo, contemporaneamente nella propria mente
e in quella di Emir. «Eppure non è nemmeno la
verità. Com’è possibile?»
«Non
lo so» disse Emir. Ma quante volte avevano già
avuto quella conversazione che
ora lui non ricordava? Gli pareva d’aver già
sostenuto quella conversazione,
d’essersi già difeso dalle sue domande.
Mewtwo
non era convinto delle sue parole, ma non riusciva a capire
dov’era la
menzogna. Rimase immobile, pensieroso, a scrutarlo da un capo
all’altro della
stanza, soppesando le sue parole all’interno della propria
mente. Non disse
niente.
Forse,
per quel giorno, era finita: non ci sarebbero state altre esplosioni di
furore
nella sua testa, forse lo avrebbe lasciato andare. Emir si
alzò lentamente
sulle gambe malferme, certo che non lo avrebbero sorretto: le sue cosce
erano
divenute magre a tal punto che neppure si toccavano tra loro, le sue
ginocchia
tremavano. Mewtwo seguì con gli occhi i suoi movimenti.
«Mi
dispiace» disse. La sua voce suonava sincera.
«Cercherò di avere più cura del
tuo corpo… la prossima volta.»
Emir
sorrise amaramente. Conosceva già la risposta, eppure fece
egualmente la
domanda. «Lo rifarai ancora, quindi. Possedere il mio
corpo.»
«Sei
tu che mi costringi» rispose Mewtwo. «Se voglio
vedere che cosa c’è fuori, se
non voglio che mi catturino… non mi rimane altra scelta che
prenderlo. Mi
dispiace.»
«Perché
non te ne vai?» insisté Emir ancora, ma stavolta
senza particolare vigore. Non
intendeva più esortarlo: voleva solo saperlo. Mewtwo, che
leggeva nella sua
mente le sue intenzioni prima ancora di udire le sue parole,
sembrò
comprenderlo, perché non si infuriò.
«Perché
se ti lasciassi non scoprirei mai chi è mio padre»
rispose. La sua voce suonava
dolorosamente sincera. Esitò. «Perché
al mondo ho solo te. Mi hai creato perché
restassi solo al mondo e nascosto in eterno?»
Emir
chinò il capo sul petto e non rispose.
«Perché
non te ne vai tu?» domandò Mewtwo allora. Neppure
lui voleva esortarlo ad
andarsene: voleva solo saperlo.
Emir
rimase come folgorato da questa domanda. Ammettere di non averci mai
pensato
era imbarazzante come mostrarsi nudo, ma era la verità: era
legato alla Villa
come lo era al proprio corpo, forse ancora di più ora che il
suo corpo non gli
apparteneva nemmeno più, ma Mewtwo aveva ragione: se avesse
voluto sottrarsi
alla sua influenza avrebbe potuto andarsene. Allora perché
quel pensiero non lo
aveva mai neppure sfiorato?
«Perché
non ho che questo posto al mondo» rispose. Era stato felice
nella Villa, almeno
finché la sua vita gli era appartenuta, un tempo; fino a M1
e a M2 e forse
anche dopo, finché c’era stato Rotwang, per un
po’. «Perché al mondo non mi sei
rimasto che tu.»
Vi
erano notti in cui Mewtwo ululava nell’aria immobile nella
villa.
Soffriva
come se gli fosse stata inferta una ferita invisibile, mortale. La
prima volta
Emir s’era svegliato di notte mentre il suo grido squarciava
l’aria: era
assordante, inumano; era la prima volta da quando Rotwang se
n’era andato che
Emir sentiva una voce pronunciata al di fuori della sua mente.
Era
accorso là da dove proveniva il grido, nella stanza dove
Mewtwo era nato e che
aveva eletto a suo regno, quella che un tempo era stata la camera di
Rotwang:
era un urlo animale, selvaggio, che la terra non aveva udito mai prima
d’allora.
Mewtwo
si teneva il capo tra le zampe come se dovesse comprimerlo
dall’esterno perché
non esplodesse; questa comparazione l’aveva fermato: voleva
dire che nessuno
l’aveva ferito. Emir era rimasto immobile sulla soglia senza
entrare, forse
perché c’era una parte di lui, neppure tanto
oscura, che di fronte al suo dolore
provava un sentimento strano di rivalsa. Ma quando Mewtwo aveva
allontanato le
zampe dal proprio volto e cercato il suo sguardo, i suoi occhi erano
umidi e
del tutto privi dell’azzurro della sua rabbia.
«Perché
mi hai fatto questo?»
«Questo
cosa?» aveva mormorato Emir percorrendolo interamente con lo
sguardo. La luce
della luna lo bagnava come se fosse latte: il suo corpo appariva livido
e
uniformemente grigio, muscolare e tonico come gli era sempre apparso,
ma
contratto e trasfigurato dal dolore.
«Questo!»
L’aria
aveva tremato del suo dolore e del suo potere. Emir s’era
portato le braccia al
volto per un istinto salvifico prima ancora di distinguere il tintinnio
dei
vetri infranti, il vento aveva d’improvviso fischiato
più forte attraverso le
finestre. Quando Emir aveva sollevato gli occhi, tornando lentamente ad
abbassare le braccia, Mewtwo aveva ancora il capo costretto tra le
mani. Si
fronteggiavano entrambi attraverso un tappeto di vetri rotti.
«La
mia testa…!»
«Ti
fa male?» s’era informato calmo Emir. Non provava
ormai più sorpresa né paura
di fronte a Mewtwo: era stata la prima volta che il suo potere si
manifestava
al di fuori del suo corpo con tanta violenza, ma quel potere non lo
stupiva
minimamente. Non lo aveva creato forse per quello, perché
forse più potente di
sua madre e in grado di lottare?
Di
fronte alla sua indifferenza Mewtwo aveva ruggito nella sua mente: Emir
s’era
dovuto aggrappare allo stipite della porta per non cadere.
«Hai
creato la mia mente perché fosse infinitamente affamata per
poi non darmi
niente con cui nutrirla!»
Il
cervello sovrumano di Mewtwo era andato oltre ogni sua previsione.
Questo Emir
non l’aveva preventivato, era stato imprevidente, o forse
semplicemente i
frutti del suo genio avevano sopravanzato il suo genio e ogni
facoltà umana:
aveva creato Mewtwo perché fosse in grado di difendersi, ma
che la sua mente
continuasse a svilupparsi famelicamente, alla stregua di un organismo
che se
non nutrito si contorceva in preda ai morsi della fame, come avrebbe
potuto
prevederlo?
«Hai
attinto dalla mia mente finora» aveva obiettato senza
convinzione; era stato
peggio: Mewtwo s’era rigirato con uno scatto ferino, la sua
rabbia aveva
echeggiato nella sua mente con un accento d’accusa.
«La
tua mente è finita! Cos’altro
posso imparare da lei?»
I
giorni trascorrevano più interminabili delle notti, il tempo
si rassomigliava e
si perdeva nei meandri della villa, scivolava via come acqua attraverso
invisibili fessure. Ogni tanto scompariva, le ore e i giorni
semplicemente non
si trovavano più: Emir si svegliava talora da sonni che non
ricordava d’aver
mai dormito, le prime volte sul pavimento addirittura, quando Mewtwo
ancora
svestiva il suo corpo come uno straccio sporco e lo abbandonava sul
pavimento
prima di rientrare nel proprio; ormai Emir non si scomponeva neanche
più.
Talora invece trascorrevano anche giornate intere, infinite, senza
ch’egli
perdesse traccia di quello che accadeva; erano giorni solidi che
spiccavano in
mezzo al tempo informe; ma erano anche i giorni in cui più
spesso capitava che
Mewtwo ululasse colla testa dilaniata da un dolore senza fine. Emir lo
vegliava
impotente senza saper che fare per aiutarlo: Mewtwo lo guardava con
occhi colmi
d’accusa e di rancore perché era lui ad avergli
fatto quello e a lasciarlo
soffrire senza intervenire.
«Vattene»
insisteva Emir talvolta per non saper che dire né che fare:
là fuori, nel mondo
infinito, la mente di Mewtwo avrebbe trovato sufficiente nutrimento al
proprio
famelico bisogno di accrescersi e imparare per non divorare se stessa;
ma le
sue erano parole vane che si ripetevano, come i giorni e il tempo,
senza
trovare compimento. Mewtwo ruggiva in risposta cogli occhi tinti
d’azzurro e di
rosso dei capillari che iniettavano sangue, i vetri tintinnavano nelle
commessure
delle finestre e talora s’infrangevano; Emir si ritraeva ma
senza scappare:
Mewtwo non gli avrebbe mai fatto veramente del male, perché
il suo corpo gli serviva.
«Andarmene
perché? Per toglierti il peso del mio dolore e portarlo dove
tu non debba
vederlo?»
«No,
perché…»
Una
fitta di dolore lo atterrava prima che avesse modo di difendersi
dall’ingiustizia della sua accusa. Non era rabbia,
però: Emir cadeva in
ginocchio annichilito dal dolore, si prendeva il capo tra le mani in
preda ai
conati di vomito; Mewtwo sollevava il capo lentamente per osservarlo
contorcersi quasi con voluttà di rivalsa.
«Lo
senti?»
Emir
non rispondeva, il suo cervello pareva divorato dall’interno
come da un insetto
mostruoso che ne strappasse coi denti grandi bocconi; sangue gli colava
dal
naso. Non rispondeva: supplicava. «Mewtwo, ti
prego…»
«Questo
è il dolore che sento io!» La sua voce rimbombava
nell’aria della stanza o
forse solo nella sua testa, si ripercuoteva contro le pareti in
un’eco senza
fine. Il dolore scompariva rapidamente dalla sua mente come acqua
risucchiata
via. «Non vuoi né vederlo né sentirlo,
eppure mi hai creato per questo!»
Chissà
se in paese le sue urla nella notte si sentivano. Emir usciva qualche
volta
dalla Villa, quando proprio non poteva evitarlo, visto che lui e la
creatura
dovevano ancora sopravvivere; non parlava con nessuno, e quelli che
incontrava
ne sembravano sollevati, dal momento che nessuno era particolarmente
desideroso
di parlare con lui. Gli abitanti lo scrutavano con sospetto come se non
sapessero bene cosa attendersi da lui né come comportarsi di
fronte alla sua
stranezza: Emir avrebbe voluto poter attribuire le loro reazioni alle
volte in
cui lo avevano visto posseduto da Mewtwo, ma in fin dei conti sapeva
che non
era così. Che lo fissavano inquieti e attoniti al vederlo
perché avevano paura
di lui e di qualunque cosa egli tenesse nascosta nella Villa e forse
urlasse
nella notte, da sempre.
Poi,
ogni tanto, il tempo svaniva di nuovo. Ora Emir si svegliava sempre
più di rado
sul pavimento: quando riaveva coscienza di sé, dopo ore o
forse giorni in cui
Mewtwo l’aveva posseduto, si trovava nel suo letto, spesso
persino sotto le
coperte. Era una strana immagine quella che si affacciava allora alla
sua
mente: quella di Mewtwo che, dopo una lunga giornata, lo metteva
ordinatamente
a letto, sotto le coperte, prima di svestire il suo corpo come una tuta
da
lavoro. Aveva smesso di opporsi, ma Mewtwo avvertiva il suo
risentimento là
dove non poteva nasconderlo, nei recessi della sua mente, là
dove aveva libero
accesso.
«Mi
dispiace» diceva. «Ti ho già spiegato
che il tuo corpo serve più a me che a
te.»
«Se
tu davvero non volessi, te ne andresti» aggiunse una volta in
un tono che a
Emir non piacque.
«Tu
mi lasceresti andare?» s’informò
sarcasticamente.
Mewtwo
parve sorpreso da quella domanda. Rifletté per un
po’: lo sforzo mentale
sembrava avere la facoltà di distoglierlo dal suo dolore,
per qualche momento. «Non
lo so. Tu non ci hai mai provato.»
Fuori
dalla Villa il tempo continuava a scorrere con lo stesso ritmo di
prima,
lineare e privo di scosse come la corrente di un canale.
Un’estate il vulcano
destò preoccupazione: vomitò vapori e ceneri
dalle caldere laterali per qualche
giorno; si parlò di attuare un protocollo
d’emergenza che prevedeva di evacuare
l’isola, spostando momentaneamente gli abitanti presso le
Isole Spumarine. La
questione occupò i telegiornali per qualche giorno; si
fecero prove di raccolta
e di verifica del sistema d’allarme tramite sirene. Al suono
degli allarmi
Mewtwo guardò a lungo fuori dalla finestra: non sembrava
preoccupato ma
piuttosto assorto, i suoi occhi cercavano risposte nelle nubi di fumo.
«Credi
che corriamo un rischio concreto?»
«Non
sei mai stanco di farmi domande retoriche, poiché sei in
grado di vedere da
solo la risposta nella mia mente?» rispose Emir senza neppure
guardarlo.
Trascorreva quei giorni appollaiato nell’incavo di una
finestra che affacciava
in direzione del vulcano, a osservare in lontananza il denso fumo
grigiastro
che s’inerpicava in cielo; i balconi erano ricoperti di
cenere.
Mewtwo
non raccolse la sua provocazione: non sembrò neppure
notarla. «Evacuare…
significa che sposteranno tutti gli abitanti
dall’Isola?»
Emir
non rispose neppure, il suo silenzio era eloquente a sufficienza:
Mewtwo
conosceva il significato di quella parola, dunque non era davvero
quello che
intendeva chiedergli. Aspettò.
«Che
cosa faremo noi se daranno ordine di evacuare?»
Emir
rimase ostinatamente in silenzio. Mewtwo non domandò
più; l’allarme durò ancora
per qualche giorno, poi rientrò e non se ne parlò
oltre; il vulcano eruttò
ancora per un po’ ceneri bianche che coprirono
l’isola come neve, poi tornò a
dormire un po’ per volta. Chissà, forse Mewtwo
aveva temuto per la sua vita,
per la prima volta aveva concepito l’idea d’essere
mortale, e per quello aveva
domandato che sarebbe stato di loro; o forse nella prospettiva
dell’eruzione e
dell’evacuazione aveva visto una speranza di
libertà e la fine della sua eterna
prigionia?
Le
sue grida nella notte lo svegliavano sempre più spesso. La
sua voce nel buio
era straziante, era disperata e brutale, per suo tramite il suo dolore
si
faceva tangibile. Emir sedeva al suo fianco per ore nella notte che non
trovava
fine; avrebbe voluto poterlo salvare, ma Mewtwo non gli permetteva
neppure di
toccarlo.
«Tu
hai fatto questo!»
La
sua rabbia sfidava ogni contatto, eppure al contempo Mewtwo lo chiamava
a sé e
lo voleva vicino; che fosse per conforto o piuttosto per imporgli la
vista del
suo dolore Emir non avrebbe saputo dirlo.
Una
notte non lo fece neppure avvicinare. Quando entrò nel
salottino sul mare attirato
dalle sue urla Emir si ritrovò sbalzato via
dall’impeto della sua rabbia prima
ancora di varcare la soglia, gli occhi gli lacrimarono dal dolore alla
testa,
si prese il capo tra le mani: Mewtwo era immobile in un letto di vetri
rotti,
dalle finestre ora spalancate il ruggito del mare risuonava
inerpicandosi lungo
gli scogli in aspre ondate. Emir avanzò con cautela in mezzo
ai frammenti sul
pavimento come su un campo di battaglia; il vento entrava da ogni dove
attraverso le vetrate infrante, ma Mewtwo rimaneva immoto, in silenzio,
col
capo nascosto tra le zampe che gli coprivano gli occhi.
Alle
grida seguì uno strano silenzio innaturale: Emir
attraversò la stanza come quel
silenzio se fosse un fluido denso che doveva fendere per poter arrivare
fino a
lui. Tese la mano. Mormorò: «Lascia che ti tocchi.
Non so come altro aiutarti.»
In
quei momenti Mewtwo si ritraeva sempre dal tocco delle sue mani. Quella
notte
invece rimase immobile: la sua pelle era aspersa della stessa peluria
morbida
di quella di sua madre, Emir quasi non se ne ricordava più.
Quand’era stata
l’ultima volta che Mewtwo gli aveva permesso di toccarlo?
Forse era stato quel
primo lontanissimo giorno, quando era appena nato e gli aveva ordinato
di
lavarlo; Emir l’aveva preso tra le braccia, l’aveva
immerso nell’acqua tiepida,
aveva lavato poco alla volta il muco gelatinoso che lo copriva,
versando sul
suo capo livido, sui suoi occhi fissi, acqua tiepida dalla coppa della
propria
mano. Mewtwo s’era affidato a lui ciecamente, guardandolo in
silenzio, perché
non poteva fare altro, il suo corpo non era ancora forte a sufficienza
per
obbedire alla sua mente e fare ciò che gli occorreva; ora lo
era diventato ma
ancora non poteva servire al suo scopo, perché il suo corpo
restava prigioniero
della Villa e la sua mente aveva bisogno d’altre membra per
andarsene in giro.
Quanto tempo era passato da quel giorno in cui Emir l’aveva
tenuto tra le
braccia sotto l’acqua che scorreva?
Quando
Mewtwo abbassò le braccia, i suoi occhi erano lucidi e rossi
di lacrime. Non
c’era rabbia, per una volta, e questo lo spaventò
ancora più del solito.
«Mi
dispiace» disse. La sua voce aveva un accento disperato,
straziato, che Emir
non gli aveva mai sentito. Stava piangendo. Ma quando mai
s’era visto un
Pokémon piangere? «Mi dispiace. Non so come altro
fare. Il tuo corpo mi serve.
Mi dispiace.»
Emir
si ritrasse da lui come da una trappola che aveva tardato fino a quel
momento a
vedere e di cui solo in quel momento riconosceva le tracce, i frammenti
di
vetro scricchiolarono sotto i suoi piedi; poi a un tratto non si mosse
più, il
vetro tacque d’improvviso, le sue gambe non risposero al suo
volere più di
quanto il corpo di Mewtwo avesse risposto al suo padrone in quel giorno
lontanissimo.
«Mi
hai paralizzato» disse stupidamente.
«Mi
dispiace» ripeté Mewtwo. Era sinceramente
addolorato, Emir lo leggeva nella
voce che rimbombava nella sua testa senza trovare ostacoli alla propria
eco: ma
addolorato per che cosa? «Non voglio farti del male, ma il
tuo corpo mi serve.
Mi dispiace tanto.»
«Hai
già il mio corpo» mormorò. Le sue mani
erano percorse da formicolii sottili,
erano come intorpidite: poteva muoverle a malapena, molto lentamente, e
con
grande dolore. Qualunque cosa volesse fargli Mewtwo, non sarebbe
scappato mai. Studiò
le proprie dita immobili con grande interesse, poiché ormai
non poteva fare
altro. «Anche tua madre sarebbe stata in grado di farlo, se
solo avesse voluto.
Di paralizzarmi per ottenere quello che voleva. Solo che non voleva
nulla
abbastanza intensamente perché ne valesse la pena,
forse.»
«Smettila
di parlare di mia madre!» urlò
Mewtwo. Gli ultimi vetri rimasti rimbombarono sotto la sua rabbia, Emir
lo
fissò in silenzio. «Io non sono debole
com’era lei! Mi hai creato perché fossi
più forte per poi non darmi nulla su cui sfogare la mia
forza, mi hai dato la
mia intelligenza per poi tenermi chiuso qui in eterno senza nulla da
apprendere… eppure continui a paragonarmi a lei!»
Di
fronte al dolore incommensurabile della sua voce Emir chinò
gli occhi e rimase
in silenzio. Mewtwo si sarebbe preso il suo corpo con la forza
perché la sua
mente era disperatamente affamata e la Villa non le bastava
più; nulla che lui
potesse fare sarebbe bastato a fermarlo, eppure parlò
ugualmente. Non sapeva
neppure se parlasse nell’ultimo disperato tentativo di farlo
ragionare o se
piuttosto quelle fossero soltanto le ultime parole che gli avrebbe
detto mai. «Non
avrei mai voluto questo per te. Non era questo che volevo. È
solo che tutto a
un tratto tutto è diventato più grande di
me.»
«Tutto
è sempre stato più grande di te!»
ringhiò Mewtwo.
Emir
alzò gli occhi su di lui. La luce della luna lo bagnava di
trasparenze
madreperlacee, i suoi occhi ardevano di brace azzurra. Era il
Pokémon più forte
del mondo; l’aveva creato lui, estratto vivo dalla materia
del mondo con la
forza delle sue braccia e del suo genio, plasmato con la sua viva
carne.
«No,
non è così» rispose invece.
«Ho creato esattamente quello che volevo creare. Ho
reso perfetta la stirpe di tua madre esattamente come ho voluto dal
giorno in cui
l’ho guardata giocare nel Laboratorio attraverso un vetro, ho
dato al mondo il
compimento che la natura aveva tralasciato di realizzare…
non è vero che è
sempre stato tutto più grande di me. È solo che
nel perfezionare lei ho finito
per fare lo stesso con me. Sai perché non riesci a trovare
tuo padre nella mia
mente?»
«Sono
stanco delle tue menzogne!» ruggì Mewtwo solcando
la stanza a grandi passi.
«Non
riesci a trovarlo perché guardi nella direzione
sbagliata» proseguì Emir senza
neppure ascoltarlo. Mewtwo s’interruppe bruscamente
là dove si trovava; gli
dava le spalle, eppure impercettibilmente volse il capo nella sua
direzione.
Nonostante tutto, nonostante l’odio, nonostante il dolore,
ascoltava ancora le
sue parole, ed Emir proseguì. «Non riesci proprio
a capire, vero? Eppure tu sei
più intelligente di me… e sai tutto quello che so
io. Tutte le risposte sono
state sempre qui, nella mia casa, nella mia mente, a tua disposizione,
dunque
se ancora non lo sai è perché ciecamente ti
ostini a non voler vedere…»
La
furia di Mewtwo divampò nella sua mente come una tempesta di
vento; se solo
avesse potuto, Emir si sarebbe preso il capo tra le mani, ma il dolore
svanì
dalla sua testa rapido così com’era apparso mentre
Mewtwo gridava: «Stai
cercando di confondermi!»
Nella
rabbia insensata che Mewtwo disperatamente gli portava Emir vide
d’un tratto,
per la prima volta, quella che l’aveva opposto a suo padre
per vent’anni.
D’improvviso sentì di guardarlo con grande
dolcezza. «Proprio tu, tra tutti…
pensi che la verità possa confonderti?»
Gli
occhi di Mewtwo frugavano il suo volto con un’ansia frenetica
che Emir non gli
aveva visto mai, cercando ovunque su di lui, nella sua mente, le tracce
della
menzogna di cui lo accusava – ma tracce, Emir lo sapeva, non
ce n’erano.
«Neppure
tu avresti osato mai» mormorò Mewtwo. Nella sua
voce che mormorava dentro la
sua testa c’era un accento interrogativo, supplice, che Emir
non gli aveva
sentito mai. Si sentì il cuore stretto da una fitta di
pietà – ma Mewtwo non
era come Mew, dopotutto. La sua rabbia l’avrebbe salvato,
anche dopo di lui.
Ora non era più tempo di mentire. La verità era
l’unica eredità che poteva
lasciargli. «Contro natura, neppure tu… neppure
tu…»
«Tu
hai paura perché sai qual è la
verità» disse Emir. «Che in questa casa
c’era
solo una persona da cui potessi trarre il materiale genetico necessario
per
ibridare quello di tua madre.»
La
rabbia divampò negli occhi di Mewtwo dell’identico
azzurro degli occhi di Mew,
sbocciando sulla terra come un fiore di fuoco.
1 settembre. Mewtwo
è
davvero troppo forte. Non riesco a contenere i suoi istinti animali.
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Capitolo 16 *** Epilogo ***
Epilogo
Fuoriuscirono
lingue di fuoco dalle finestre mentre i vetri esplodevano per il
calore.
La
Villa che bruciava nel cuore della notte illuminava Isola Cannella
come una fiaccola sotto un cielo tinto di arancione. Echeggiavano
sirene lungo le strade, la gente si accalcava intorno
all’edificio
incendiato: la polizia aveva creato un cordone per trattenere la
gente a una distanza di sicurezza dal rogo mentre i pompieri
lavoravano per domare le fiamme; che si espandessero al resto
dell’abitato era improbabile, dato l’isolamento
della casa, ma
non impossibile se si fosse levato il vento.
I
primi a dare l’allarme erano stati gli abitanti delle case
vicine,
ed erano stati anche i primi a intervenire, coraggiosamente, con
quello che potevano: sacchi di sabbia e di terra, secchi
d’acqua e
sassi nudi, tutto quello che si poteva per frenare anche solo un poco
l’avanzata delle fiamme. Poi erano arrivati i pompieri, che
li
avevano ricacciati via a forza ed erano intervenuti con le camionette
e i Pokémon d’Acqua addestrati appositamente. Un
paio di vicini
però si erano aggrappati ai pompieri prima di obbedire e
allontanarsi: avevano gridato che il portone principale della Villa
era aperto, ma che il dottor Fuji nessuno
l’aveva visto uscire… I
pompieri si erano guardati in faccia senza bisogno di dir nulla. Le
stanze più esterne della Villa, quelle che davano sulla
strada,
ancora non sembravano lambite dalle fiamme, ma sarebbe stata
questione di minuti, e nessuno poteva garantire che il dottor Fuji si
trovasse proprio lì. Se fosse stato nelle stanze interne,
invece…
Dalle finestre della Villa non proveniva voce.
Nessuno
si aspettava che il dottor Lestournelle fosse il primo, degli ex
colleghi di lavoro del dottor Fuji, a precipitarsi attorno ai cordoni
della polizia, cercando invano di richiamare l’attenzione di
chiunque fosse in grado di intervenire. Gridava qualcosa su Mew: a
distanza di anni, era l’unico in tutta l’Isola
ancora convinto
che il dottor Fuji avrebbe vissuto di risparmi e carità come
un
eremita, se avesse rubato il Pokémon più prezioso
del mondo. Un
agente che tratteneva la folla lo ascoltò per un
po’, poi lo
invitò a indietreggiare per non ostacolare le operazioni.
Si
sentì un terrificante rumore a un certo punto, come una
trave enorme
che si spezzava: qualcuno gridò che dovevano essere crollati
i
solai, altri dissero invece di aver visto come un bagliore azzurro
fendere le fiamme e levarsi verso l’alto. L’idea fu
spaventosa,
perché qualcuno cominciò a gridare che
chissà quali diavolerie
elettroniche e bombole del gas e quant’altro doveva tenersi
in casa
il dottor Fuji; che poteva scoppiare tutto… ma nessuno si
allontanò, forse anche perché qualcuno sosteneva
di non aver visto
niente, e questo tranquillizzò tutti gli altri.
A
un certo punto risuonò una sirena diversa: era quella di
un’autoambulanza. Il dottor Lestournelle trasalì e
fendette la
folla con violenza, a spintoni e a spallate, perché da
qualche parte
avevano cominciato a dire che i pompieri avevano tirato fuori un
uomo, che era vivo, respirava ancora, attraverso una vetrata. Quelli
che lo riconobbero si fecero indietro per lasciarlo passare: in fondo
lo sapevano tutti che era stato amico del dottor Fuji, prima che
succedesse quello che era successo, ed era ovvio che volesse
accertarsi che stesse bene…
Il
dottor Lestournelle raggiunse correndo l’ambulanza proprio
mentre
stavano caricando la barella. Un paramedico lo respinse con
decisione, allora Lestournelle alzò la voce,
gridò qualcosa in
direzione della barella; il paramedico gli posò una mano
sulla
spalla per attirare la sua attenzione e gli parlò con voce
bassa e
ragionevole.
«Guardi
che quello non è il dottor Fuji» gli disse
gentilmente. «Però so
che è un suo dipendente. Non so come si pronuncia, ma
è lo
scienziato tedesco.»
Si
succedettero momenti di luce e buio. Il dolore gli strappava grida,
risalendo fino al suo cervello gli intricati per corsi dei nervi;
talora gli pareva quasi di affiorare
dall’oscurità, di poter
aprire gli occhi, da un momento all’altro, e poter sapere
dov’era;
poi quella sensazione passava, l’oscurità tornava
a spalancarsi
attorno a lui e a sprofondarlo dentro di sé, inghiottendolo
come in
un grembo e nel vuoto. Nel vuoto Rotwang si sentiva precipitare,
cercando invano di aggrapparsi ai margini della propria coscienza
come al bordo di un pozzo; ma alle sue mani e alla sua mente le forze
venivano meno, ed egli non riusciva a restar sveglio. Un fuoco gli
divampava in gola; avrebbe voluto sollevarsi a sedere o almeno
muoversi, girare gli occhi intorno a sé per vedere dove si
trovasse
e sapere almeno di possedere ancora con sé il proprio corpo;
ma le
sue gambe non gli rispondevano e le sue braccia bruciavano come
fuoco, avviluppate ai suoi fianchi da legami invincibili; poi il buio
lo sprofondava di nuovo nelle sue viscere buie.
Vennero
le voci, dopo un po’. All’inizio non erano neppure
distinguibili,
e forse, chissà, non esistevano altrove che nella sua mente.
Era
come udir mormorii in un’altra stanza, anche se talora si
facevano
più vicini, come qualcuno che mormorasse al suo orecchio, e
quasi
gli sembrava di riuscire a percepire le parole; ma lo sforzo di
comprenderle lo prostrava, allora egli ricadeva nel buio della sua
mente, ancora una volta; la sua coscienza si dileguava. Sentiva il
respiro rantolargli nel petto che bruciava, poi lo sorprendeva di
nuovo il conforto rassicurante del nulla e del buio; per qualche
istante il dolore abbandonava la sua gola e le sue mani; ma
quell’oscurità lo raggelava, allora Rotwang
ricordava vagamente
che c’erano cose che doveva fare, posti in cui avrebbe dovuto
essere; ma la sua volontà si dimenava invano, inudita,
prigioniera
della sua mente assopita, e la caligine lo velava di nuovo.
A
poco a poco il buio si fece meno denso, l’oblio meno benigno.
L’aria attraversava la sua gola come lame arroventate,
perforava i
suoi polmoni a ogni suo respiro; sprazzi di lucidità
s’inseguivano
nella sua mente come comete lontane che s’inseguivano. Tutto
gli
tornava in mente in frammenti con dolorosa lucidità, ma la
sua mente
rifiutava di soffermarvisi a lungo: la sua mente si colmava di
fiamme; poi il dolore sopravanzava i suoi pensieri, le sue mani
pulsavano come braci alle estremità delle sue braccia, e il
dolore
era tale che la sua mente veniva meno per un po’.
«Acqua»
disse a un tratto, in un punto a metà tra la coscienza e
l’incoscienza che non era veglia né oblio. Non fu
nemmeno una
parola; fu un rantolo, eppure l’acqua arrivò da
qualche parte
ch’egli non vedeva. Sentì sulle labbra la
gentilezza di una spugna
umida, mentre una voce ch’egli sapeva di amare ma che in quel
momento non riconosceva mormorava contro il suo orecchio:
«Hai una
flebo di liquidi, tra poco la sete passerà…
aspettiamo che il
dottore dica che puoi bere, va bene?»
Il
conforto di quella voce fu tale che Rotwang sprofondò di
nuovo nel
sonno senza lottare oltre: avrebbe voluto aver forze a sufficienza da
dire grazie, ma la sua gola pulsava orrendamente e l’aria gli
mancava. Non si sforzò neppure di aprire gli occhi: non
aveva
bisogno di vedere a chi appartenesse quella voce. Si lasciò
sprofondare nel buio.
Tornò
a riemergerne come se fuoriuscisse dall’acqua per trarre
grandi
boccate d’aria che gli perforavano i polmoni. Ancora non
aveva
forza a sufficiente per aprire gli occhi: quando si svegliava si
trovava a galleggiare nel buio, senza sapere dove fosse né
perché.
Provava a chiamare per sentire di nuovo la voce, ma ancora non
riusciva a formulare parole: per fortuna la voce di Portia lo
raggiungeva attraverso l’oscurità che lo
circondava, e le sue mani
gentili gli bagnavano le labbra e gli pettinavano i capelli sulle
tempie. Sotto la carezza delle sue mani e della sua voce Rotwang si
addormentava senza più ricordare per che cos’era
che avrebbe
dovuto restare sveglio: se c’era Portia, andava tutto bene.
La sua
presenza era calma e ragionevole, infinitamente rassicurante, e a
essa a poco a poco Rotwang si sentì di potersi aggrappare
per
rimanere sveglio e non sprofondare per l’ennesima volta nel
buio.
«Emir»
provò a dire, lasciando a Portia l’onere di
ricomporre la domanda.
«Sht»
mormorò Portia da qualche parte al di fuori di lui; le sue
dita gli
passarono tra i capelli più volte. «Va tutto bene,
Richard, tutto
bene…»
«Emir»
biascicò Rotwang di nuovo. Cercò di aprire gli
occhi, ma sollevare
le palpebre gli costò uno sforzo sovrumano e attraverso di
esse la
luce gli bruciava gli occhi, e subito Portia sussurrò:
«Tesoro,
riposati. Non importa che… l’hanno portato ad
Azzurropoli, al
reparto Grandi Ustionati. In elicottero. È tutto a posto, ma
tu ora
riposati, va bene? Ho avvertito io i tuoi fratelli.»
Mettere
insieme il senso di tutte quelle parole richiese un tempo
assurdamente lungo ai suoi sensi rallentati. La realtà che
filtrava
attraverso le parole di Portia proiettava nella sua mente scintille
del mondo esterno, come lampi che vi penetravano; ma quella
realtà
era assurdamente dolorosa, e mentre la sua mente si soffermava a
osservarla Rotwang si sentì il petto pieno di
un’angoscia di cui
non riusciva a individuare l’origine. Aprì gli
occhi in una stanza
bianca d’ospedale. Tutto era avvolto da una nebbia, Portia
era
sfocata e indistinta al suo fianco; le sue braccia posavano sul
letto, sopra le lenzuola, terminando in grandi masse fasciate che non
riusciva a muovere.
Ripeté
senza capirle l’ultima parola che aveva udito, nella speranza
che
acquistasse un senso. «Fratelli…?»
«Va
tutto bene, tutto bene» ripeté Portia.
«Ho parlato con Günther,
ha detto che avrebbe avvertito lui i tuoi genitori. Rudolf sta
cercando un aereo dall’America, ha detto che
chiamerà non appena…»
Il
panico penetrò attraverso le sue fibre come una corrente,
senza che
egli neppure sapesse da che cosa originava.
«Non
voglio che mi vedano così» singhiozzò.
Portia
si chinò su di lui nella frenesia di capire.
«Tesoro, è tutto a
posto. Si sono offerti loro di venire non appena hanno saputo, non
devi…»
«Non
voglio che mi vedano così» ansimò
Rotwang. Lacrime gelate gli
scendevano dagli angoli degli occhi senza che neppure lui sapesse
perché: sapeva solo che l’angoscia gli montava in
petto più
feroce e implacabile del fumo e del fuoco, che qualcosa nel suo corpo
gli faceva paura e non andava bene sebbene non riuscisse a capire che
cosa. «Non farli venire, non voglio che mi vedano
così!»
«Richard»
balbettò Portia. Le sue mani si aggrapparono da qualche
parte
intorno ai suoi gomiti nel tentativo di tenerlo fermo.
«Così come?
Ti prego, ti prego, non ti agitare...!»
Finalmente
la sua paura oscura prese forma e corpo nella sua mente, ed egli
seppe, come se quella paura fosse sempre stata di fronte ai suoi
occhi ma solo ora egli riuscisse a vederla in piena luce, che
cos’era
che i suoi fratelli non avrebbero mai dovuto vedere…
«Non
ho più le mani, vero?» gridò con la
testa che gli martellava e il
cuore che pompava troppo rapido e gli pulsava fino in gola.
«Richard,
non è come pensi» gridò Portia tentando
di sovrastare la sua voce;
poi ci fu rumor di passi, ci furono voci che si sovrapponevano alla
sua, la puntura fredda di un ago perforò l’incavo
del suo gomito,
e la nebbia e il buio tornarono a inghiottirlo come se non se ne
fossero mai andate. Rotwang si abbandonò alla beatitudine
dell’incoscienza come a un atto di pietà che lo
accoglieva.
Si
svegliò che era giorno pieno: la luce entrava dalla finestra
della
stanza spoglia in grandi fiotti dorati che si riverberavano sulle
pareti, ma senza più ferire i suoi occhi. Rotwang
scrutò la luce
con disappunto, senza neppure levare il capo per guardarsi attorno:
non ce n’era bisogno. Sapeva già quello che gli
occorreva sapere:
che era una camera d’ospedale, e che Portia non
c’era più.
Rimase immobile, cercando di non guardare in direzione dei grandi
bendaggi che vedeva campeggiare alle estremità delle sue
braccia,
sulle lenzuola.
«Ah,
è sveglio» disse un infermiere facendo capolino
sulla soglia della
stanza. Rimase a osservarlo per un momento dall’uscio.
«Sente male
quando respira? Come
si sente?»
«Di
merda» rispose Rotwang distogliendo gli occhi da lui. Solo
pronunciare quella parola gli scatenò una fitta acuta di
dolore in
gola, perciò cercò di formulare la richiesta
successiva consumando
la minor quantità d’aria possibile:
«Medico.»
Quando
tornò a gettare un’occhiata in direzione della
porta, l’infermiere
era sparito.
Doveva
aver fatto quel che gli aveva chiesto, però: una decina di
minuti
dopo si affacciò sulla soglia un giovane medico che aveva
tutta
l’aria d’essersi appena laureato e
d’esser stato mandato a
Isola Cannella contro ogni sua volontà. Sembrava desiderare
di
finire quel turno il prima possibile.
«Ben
svegliato, dottore. Come si sente?» Aveva il tono disinvolto
e
sbrigativo di una consueta giornata di lavoro; non lo stava neppure
guardando, sfogliava la sua cartella clinica senza degnarlo di uno
sguardo. «Mi hanno detto che è un
collega.»
«No»
rispose Rowtang asciuttamente. «Medico per
Pokémon.»
La
sua risposta parve destare un lampo d’interesse negli occhi
del
dottore. Si affrettò a chiudere la cartella sorridendo,
guardandolo
per la prima volta da quando era entrato. «Al contrario,
dottore. A
dire il vero, siete solo voi medici per Pokémon che reputate
di non
essere nostri colleghi, sa. Studiate esattamente lo stesso numero di
anni, perciò non c’è motivo per
cui…»
Tanta
superbia, da parte sua, valeva in fondo ben la pena di un po’
di
sofferenza. «Ho detto che non siamo colleghi. Non che voi
siete
superiori. Ora possiamo parlare di me?»
Il
dottore rimase interdetto per un momento, eppure il suo sorriso non
svanì. Si fece solo più amaro. «Ora ho
capito come ha fatto a
spaventarmi l’infermiere» commentò
solamente. Tornò a sfogliare
la cartella clinica. «Allora, dottore… presumo che
la gola stia
benone, se ha la forza di ironizzare. Giusto?»
A
questo non valeva neppure la pena di rispondere, e non solamente
perché aveva la gola secca, dolorante, come dilaniata da
piaghe
aperte. Rotwang si limitò ad aggrottare la fronte, e il
dottore
scosse la testa e tirò fuori dal taschino una torcia e un
abbassalingua. «Forza. Ora facciamo gli adulti e mi faccia
vedere
come andiamo.»
Tutto
sommato il dottorino sapeva il fatto suo. Rotwang obbedì;
chino su
di lui mentre gli esaminava la gola, il dottore proseguì con
noncuranza. «Bene. Mi hanno detto i colleghi che stanotte ha
avuto
un po’ di crisi, quando si è svegliato. A volte
è normale essere
confusi dopo l’anestesia, specie dopo quello che…
beh. Ora è più
tranquillo?»
Spense
la torcia e si allontanò per dargli modo di rispondere.
Rotwang si
limitò ad annuire, ma il dottore parve reputarla una
risposta
soddisfacente. «Bene. Mi hanno detto anche che aveva paura di
aver
perso le mani nell’incendio. Posso garantirle che prima di
amputare
le mani a un chirurgo del suo livello ci pensiamo due volte, e che
non si amputa per qualche ustione, perciò non si preoccupi.
Se vuole
posso dire agli infermieri che le facciano vedere quando verranno a
medicarla…»
«Non
voglio vedere» disse Rotwang. Quelle parole gli costarono un
enorme
sforzo, la sua gola pulsava dolorosamente a ogni emissione
d’aria,
ma egli aveva un disperato bisogno di pronunciarle.
Il
dottore esitò per un momento. «Cioè non
vuole vedere le sue mani?
Ma prima o poi bisognerà bene che…»
«Basta»
disse Rotwang.
«Mi
crede, però? Non crede che io stia mentendo.»
Rotwang
annuì malvolentieri; si vergognava d’aver avuto
quella crisi la
notte precedente, ma più ancora non voleva soffermarsi oltre
su
quell’argomento. Parlare delle sue mani avrebbe comportato,
prima o
poi, che qualcuno gli avrebbe chiesto perché aveva fatto
quel che
aveva fatto; e di questo, se possibile, si vergognava ancora di
più.
Il
dottorino si ricompose. «Come vuole, allora. Posso
parlargliene,
però. Va bene?» Rotwang non rispose,
perciò egli proseguì
sfogliando la cartella clinica. «Sulle mani ha riportato
ustioni di
secondo e di terzo grado. I pompieri dicono che ha cercato di aprire
una porta all’interno della Villa in fiamme. Può
essere? Forse ha
toccato una maniglia, oppure…»
Rotwang
scrollò le spalle guardando altrove. Il dottore
tamburellò per
qualche secondo sulla cartella clinica con la penna, aspettò
per un
po’, poi mormorò: «Beh, facciamo finta
che sia andata così.
Comunque, se glielo verranno a chiedere lo spiegherà a loro:
a me
proprio non interessa.» Girò un foglio.
«Ha inalato molto fumo, ma
per fortuna non ha riportato ustioni ai polmoni. Abbiamo proceduto
alle analisi del sangue per valutare i livelli di monossido di
carbonio nel sangue, ma per fortuna non sono preoccupanti. Vedremo se
procedere anche a una laringoscopia nelle prossime ore per accertarci
delle condizioni della trachea, ma il fatto che lei riesca
già a
parlare mi tranquillizza molto. Vuole vedere le analisi lei stesso
per darci il suo parere?»
Rotwang
scosse il capo e mormorò, più muovendo le labbra
che emettendo vera
voce: «Mi fido.»
«Beh,
lo considererò un grande complimento da parte
sua.» Il dottorino
diede un ultimo colpetto di commiato sulla cartelletta di plastica.
«Molto bene. Se non ha altre domande la lascio per proseguire
il
giro dei pazienti. Vedrà che entro qualche giorno la
rimetteremo in
piedi, va bene?»
«Ha
notizie del dottor Fuji?»
La
sua gola mandò lampi di dolore che risalirono i suoi nervi
fino al
cervello, ma Rotwang si sforzò di mantenersi impassibile. Il
dottorino sbatté le palpebre un paio di volte. «Di
chi?»
«Il
direttore… il proprietario della Villa.»
Il
dottore si passò le dita sulla fronte. «Non
saprei, in realtà. Non
ero in reparto stanotte, ma non mi risulta che lo abbiano portato
qui.»
Quello
che doveva dire adesso richiedeva un enorme sforzo e sarebbe stato
molto doloroso. Rotwang deglutì a lungo. «So che
lo hanno portato
al Grandi Ustionati ad Azzurropoli. Mi domandavo
se…»
Finalmente
il dottore parve ricevere una tardiva illuminazione. «Ah!
Può
essere. Però non ho contatti in quell’ospedale.
Anche volendo non
saprei a chi chiedere informazioni, sa. Mi dispiace. Mi sono laureato
a Johto» aggiunse a mo’ di scusa. «Non
conosco ancora molti
colleghi in Kanto.»
«Va
bene così» mormorò Rotwang.
«Grazie lo stesso.»
Trascorse
il resto della mattinata, o di quel che era, a letto a guardare il
soffitto. Entrarono un paio di infermiere a cambiargli la flebo dei
liquidi e a misurargli la pressione; Rotwang le lasciò fare
senza
opporsi. Fu grato del fatto che nessuna di loro si aspettava che
parlasse; l’infermiere che aveva spaventato, stando al
dottore, non
si fece rivedere. Forse era solo cambiato il turno.
Portia
si affacciò sulla porta dopo qualche ora. Aveva
l’aria estenuata e
stanca, gli occhi gonfi di pianto e di sonno; era struccata, e i suoi
capelli le ricadevano sulle spalle in una treccia spettinata e un
po’
sfatta che aveva l’aria d’esser stata fatta varie
ore prima.
Rimase a guardarlo per un po’.
«Ehi»
disse a mo’ di saluto. «Mi dispiace di averti fatto
agitare, ieri
sera.»
Che
Portia si scusasse per qualcosa che aveva fatto lui era piuttosto
inusuale, ma Rotwang non aveva neppure intenzione di scusarsi per
aver perso la calma in quella situazione, perciò ritenne che
fossero
pari e non fece commenti.
«Come
stai, tesoro?» domandò Portia chiudendosi la porta
alle spalle.
Andò a posare un paio di buste della spesa ai piedi del
letto.
«Così»
mormorò Rotwang. Aveva scoperto che, parlando molto piano,
quasi
senza muovere le corde vocali, la sua gola veniva risparmiata almeno
in parte dalle fitte che la dilaniavano. «A quanto pare non
ho perso
le mani, comunque.»
«Ti
fidi più di un dottorino che di me, dunque»
constatò Portia
sorridendo appena, e Rotwang sorrise a sua volta. A quanto pareva
anche a lei aveva suscitato la medesima impressione che a lui.
«Ah,
sei un medico? Non lo sapevo.»
Portia
sedette al suo fianco sulla sedia predisposta per i visitatori.
Indossava un’orrenda tuta fuori moda che Rotwang non credeva
di
averle visto addosso neppure nei giorni più bui della
Guyana. Doveva
essere propria sconvolta. «Scusami se non c’ero,
prima. Ho
approfittato del fatto che ti avevano sedato per andare a dormire un
po’ anch’io.»
Di
questo Rotwang proprio non vedeva motivo di scusarsi.
«Credevo fossi
al lavoro.»
Portia
strinse le labbra. S’infilò le mani nelle tasche
della felpa e
incassò il capo tra le spalle, come se si trovasse a disagio
a
guardarlo. «Giusto. A questo proposito, senti… se
ti dico qualcosa
sul lavoro, mi prometti che non dai di matto, vero? Non voglio che le
infermiere mi sgridino di nuovo.»
Rotwang
si sarebbe altrove profondamente risentito per la sua scarsa fiducia,
ma doveva ammettere che non aveva tutti i torti, dopo la sua crisi di
nervi. Le fece cenno di parlare. Portia temporeggiò per un
po’
come se dovesse cercare le parole per quello che aveva da dire.
«Ascolta…
il Laboratorio resterà chiuso per un po’. Ho
già parlato con
Dale, non si può fare altrimenti. Tu sei fuori gioco, e io e
Ami da
sole…»
«Sole?»
«Valérien
si è licenziato stamani» disse Portia tutto
d’un fiato. «Ha dato
le dimissioni con effetto immediato, senza preavviso. Assumo io la
direzione, ma dobbiamo assumere almeno un nuovo biologo. Tu sei in
malattia, io e Ami ne approfittiamo per smaltire un po’ di
ferie
arretrate.»
C’era
un bel po’ di informazioni da processare tutte in una volta.
«Lestournelle… dimesso?»
C’era
un sincero dolore negli occhi di Portia: nonostante tutto non era mai
riuscita a odiarlo del tutto, forse perché di lei
Lestournelle aveva
sempre avuto troppo rispetto e assieme troppa venerazione, o forse
perché nella follia rabbiosa che lo aveva posseduto dopo la
perdita
di M2 ella aveva sempre riconosciuto le tracce di un dolore atroce
per il quale era riuscita a provar compassione.
«Credo
che questa sia stata l’ultima goccia per lui, Richard. Lo sai
che
era da anni sull’orlo di una crisi di nervi… beh,
mi sa che è
arrivata. Credo che, dopo tutti questi anni… fosse ancora
convinto
che M2 fosse nascosta nella Villa. Che l’aveste rubata voi
due.»
«Già»
mormorò Rotwang distogliendo gli occhi da lei, con una fitta
acuta
di dolore che con la sua gola non aveva niente a che fare.
Portia
rimase in silenzio per un po’, girando gli occhi ovunque
nella
stanza per avere una scusa per non guardare direttamente verso di
lui. Doveva fargli una domanda cui non osava dar voce, Rotwang glielo
leggeva nella rigidità del suo collo e nel modo in cui
esitava. Se
le avesse chiesto che cosa avesse da chiedergli, egli le avrebbe
risparmiato tutto quell’imbarazzo, ma non provava alcun
desiderio
di sentire quella domanda.
«Stanotte
sono andata in ufficio. Mi servivano i tuoi contatti
d’emergenza
per poter avvertire i tuoi fratelli.» Portia fece una pausa
nell’attesa, o forse nella speranza, ch’egli
parlasse per
toglierla dall’imbarazzo, ma Rotwang non aveva la minima
intenzione
di andarle incontro. «Richard, non ho potuto fare a meno di
notare…
che c’era ancora Emir.»
«Non
li aggiorno da anni» rispose Rotwang con sufficienza.
«È questo
che ti angustia tanto?» Si pentì
all’istante d’aver parlato
così tanto, fitte di dolore si allargarono come crepe nella
sua
gola.
«Richard»
insisté Portia. Aveva gli occhi pieni di lacrime.
«Abel si è
trasferito a Monaco quest’estate. Me l’ha detto
Günther. Il suo
indirizzo era aggiornato.»
Quegli
stupidi dei suoi fratelli, a quanto pareva, erano ancora incapaci di
farsi i fatti propri esattamente come quando erano bambini.
«Che
cosa vuoi sentirmi dire?» chiese Rotwang rabbiosamente.
S’era
dimenticato di dover parlare piano, lame incandescenti perforarono la
sua gola irritata; il dolore fu tale ch’ebbe un fiotto di
nausea e
un accesso di tosse più doloroso ancora delle parole.
Portia
balzò in piedi. «Niente, Richard, niente.
È solo che ti sei sempre
rifiutato di parlare di…»
«Allora
perché fai insinuazioni stupide?»
«Perché
ti sei buttato nel fuoco per lui!»
La
veemenza della sua voce fu tale che Rotwang ammutolì di
colpo.
Portia stessa sembrava non riuscire a credere a quello che aveva
detto. Rimasero entrambi a osservarsi in silenzio per un po’
mentre
l’eco delle sue parole, e la portata del loro significato, si
spegneva tra di loro.
«Non
c’era ancora fuoco al piano terra quando sono
entrato» disse
Rotwang finalmente. La voce gli raspò in gola.
«Quantomeno, questo
era quello che credevo. Nemmeno io sono così
stupido.»
«Io
non penso affatto che tu sia stupido» mormorò
Portia. Tornò ad
avvicinarsi a lui, cautamente, come a voler sperimentare, con la sola
distanza dei loro corpi, se la loro amicizia fosse sopravvissuta a
quello che gli aveva detto, e gli passò le dita fresche tra
i
capelli annodati. Rotwang non si ritrasse. «Lo sai che cosa
penso.
Che lo ami ancora.»
«E
io penso che tu debba farti i cazzi tuoi.»
Portia
soffocò una risata. Aveva gli occhi pieni di lacrime.
«Sì… può
darsi.»
Rotwang
si sforzò di emettere quanta meno aria gli era possibile.
Per fare
ciò, e per farsi contemporaneamente comprendere, era
costretto a
parlare molto lentamente, guardandola fisso negli occhi,
così che
Portia potesse aiutarsi leggendo le sue labbra. «Nemmeno lui
si
sarebbe meritato di morire così come un topo in trappola.
Notizie da
Azzurropoli?»
«Azzurropoli?»
ripeté Portia, tutta intenta a pettinargli teneramente i
capelli con
le dita.
Rotwang
odiava ripetersi anche quando questo non gli costava dolore. In quel
particolare momento, tuttavia, lo odiava con tutte le sue viscere
bruciate dal fumo. «Il Grandi Ustionati! Me l’hai
detto tu.»
«Oh!
Che stupida» esclamò Portia alzandosi di scatto.
Andò a recuperare
le buste della spesa che aveva portato con sé e prese a
frugarci
dentro. «Scusami, ero sovrappensiero. Comunque… mi
dispiace,
Richard, ma danno informazioni solo ai parenti. Lo sai come funziona,
no?»
Era
stato sciocco anche solo chiedere: era ovvio che la risposta sarebbe
stata quella, in fin dei conti. Portia prese ad aggirarsi per la
stanza sistemando ovunque bottigliette d’acqua, pacchetti di
fazzoletti e confezioni di salviettine umidificate. Rotwang la
osservò in silenzio per un po’.
«Meno
male che sei arrivata tu. Non mi avrebbero dato da bere,
altrimenti.»
«Non
ti fa più male la gola?» lo rimbeccò
Portia aprendo l’armadio
nell’angolo della stanza. «Li hanno messi qui i
tuoi vestiti? Ah,
eccoli… prendo le chiavi del tuo appartamento per portarti
qualcosa, va bene? La biancheria, un pigiama… il medico ha
detto
che forse da domani puoi iniziare a bere liquidi tiepidi. Ti viene in
mente altro che potrebbe servirti da casa tua?»
«Una
Rauchbier»
rispose Rotwang.
«Fai
meno lo spiritoso. Guarda che al corso per la sicurezza sul lavoro ce
lo avevano detto di non toccare le maniglie di un edificio in fiamme.
Pensi d’esser tanto furbo?»
«Grazie,
Portia» la interruppe Rotwang a voce alta, incurante della
fitta
acuta di dolore che gli perforò la gola quando
parlò. Per dirle
quello che doveva, per farsi perdonare della preoccupazione che le
aveva dato, poteva bene sopportare un po’ di dolore. Portia
s’immobilizzò alle sue parole. «Non sei
tenuta a fare tutto
questo per me.»
Quando
si voltò verso di lui, Portia aveva il naso arrossato e gli
occhi di
nuovo pieni di lacrime.
«Oh,
smettila» disse. La sua voce suonava nasale e spezzata,
stranamente
commossa. Attraversò la stanza per chinarsi su di lui.
Posò la
fronte contro la sua, con tanta irruenza che per un attimo egli ebbe
timore che volesse tirargli una testata; invece lo abbracciò
soltanto, ma goffamente e quasi con violenza. Respirò
lentamente
contro la sua fronte, e Rotwang si sentì le guance umide di
lacrime
che non erano le sue. Avrebbe voluto abbracciarla a sua volta, ma
ancora non osava muovere le braccia con quelle grosse appendici
gonfie e doloranti ch’erano le sue mani, e rimase immobile
sotto il
suo abbraccio.
«Ehi…»
«Se
avessi avuto un fratello, avrei voluto che fossi tu» disse
Portia
senza ascoltarlo. Rotwang tacque senza più alcuna pretesa di
comprenderla. «Non farlo mai più. Ho avuto troppa
paura di
perderti. Ti prego, promettimi che non farai mai più una
cosa del
genere. Che starai molto, molto calmo, qualsiasi cosa accada, e che
non cercherai di fare sciocchezze per nessun motivo al mondo.»
«Dubito
che ci saranno altre ville in fiamme…»
provò a dire Rotwang, ma
Portia premette più forte la fronte contro la sua,
guardandolo negli
occhi, e ripeté: «Promettimelo.»
«Prometto»
concesse Rotwang, e solo in quel momento Portia si decise ad
allontanarsi da lui e a lasciarlo andare. Si asciugò gli
occhi con
le maniche della felpa. Non era mai stata emozionale così:
Rotwang
non l’aveva mai vista in quelle condizioni, ma non gli veniva
in
mente niente da dire per consolarla, forse perché non
comprendeva la
ragione di tanta commozione. Si era spaventata, d’accordo; ma
in
fin dei conti non era successo poi niente di grave. Dal pronto
soccorso dovevano averle detto molto presto, quella notte, che lui
non era in pericolo di vita. Neppure il giorno della morte di M1
l’aveva vista piangere.
«Se
non ti serve altro, allora, vado a casa tua a prendere un po’
di
roba e te la porto domani» riprese Portia, con
l’evidente intento
di mascherare quell’attimo di commozione e di tornare a
parlare
delle cose di tutti i giorni. «Stanotte verrà mio
marito a farti
compagnia, va bene?»
Rotwang
scosse il capo con decisione. «Non voglio la veglia notturna.
Non
sono morto.»
«Richard…»
Rotwang
non intendeva sprecare più voce di quanta fosse necessaria
per
respingere quell’orrenda idea. Si limitò ad
aggrottare la fronte,
scuotendo la testa, e Portia rimase a soppesarlo con lo sguardo per
un po’, palesemente divisa tra due opposti partiti.
«Sei sicuro?»
«Vai»
insisté Rotwang.
«Allora,
vado» concluse Portia poco convinta. «Ti
farò sapere domani a che
ora arrivano i tuoi fratelli. Andiamo a prenderli io e Chris, ma
arriveranno tutti a orari diversi, perciò può
darsi che ci toccherà
passare il pomeriggio in aeroporto per aspettarli tutti… Per
qualsiasi cosa tu puoi farmi chiamare, va bene? Ho lasciato il mio
numero per le emergenze al personale.»
Rotwang
annuì soltanto. Quella conversazione l’aveva
estenuato, ma cercò
ugualmente qualcosa di leggero da dire per allentare la tensione.
«Portami da leggere, magari.»
Portia
gli gettò un bacio sulla punta delle dita a mo’ di
saluto. Solo
mentre apriva la porta Rotwang si ricordò di qualcosa che
non le
aveva ancora detto: cercò il modo più breve e
meno doloroso
possibile per dirlo ora. «Ah. Congratulazioni,
direttrice.»
Portia
non si voltò verso di lui stavolta. La sua mano
esitò sulla
maniglia, un po’ più rigida dell’istante
precedente. «Già…
grazie, Richard. Non avrei voluto che andasse così,
però.»
«È
quello che abbiamo» mormorò Rotwang. «Te
lo meriti.»
«Grazie,
Richard» disse Portia. «Ora riposati,
però. Scusami per tutto. Ti
voglio tanto bene.»
Le
ore si fecero lunghe come ombre col progredire del pomeriggio. Ora
che l’anestesia era stata del tutto smaltita, dormire era
impossibile: le sue mani lo tormentavano più ancora della
gola. Non
poteva neppure chiamar qualcuno, perché per suonare il
campanello
avrebbe bisogno delle sue dita, ma le sue mani erano ridotte a masse
goffe e inamovibili che non potevano servirgli a nulla. Dovette
aspettare che un’infermiera si affacciasse spontaneamente,
verso il
tardo pomeriggio, a cambiargli la sacca del catetere. Avrebbe voluto
aggredirla, invece si sforzò di restare calmo e ricordare a
se
stesso che non era colpa sua.
«Mi
hanno prescritto niente per il dolore?»
s’informò senza mezzi
termini.
«Morfina
al bisogno» rispose spiccia l’infermiera
soppesandolo con sguardo
esperto. «Vuole favorire?»
Per
fortuna, a quanto pareva, almeno per il turno di notte non gli era
toccata una di quelle infermiere moderne che avevano paura a
somministrare qualche antidolorifico come si deve.
«Dio,
grazie» rispose Rotwang gettandosi indietro sui cuscini.
Si
svegliò da un sonno impiastricciato e un po’
confuso ch’era
ancora notte: la sola luce nella stanza era quella che filtrava dal
corridoio.
Si
era svegliato con un senso d’angoscia e la sensazione
persistente
che nell’oscurità ci fosse qualcuno che
l’osservava. Eppure
paranoico non era mai stato, si disse; forse erano gli effetti della
morfina; quando appuntò gli occhi nel buio, percorrendo con
lo
sguardo la camera, non gli riuscì d’individuare
nessuno.
«Chris»
chiamò incerto; la gola gli doleva molto meno, ora, di certo
per la
morfina, e si sbilanciò a parlare ancora. «Avevo
detto a Portia che
non…»
Nel
cono d’ombra della porta emerse una figura, si
delineò contro la
luce del corridoio, e una voce nota, che però sulle prime
egli non
riuscì a distinguere, fu: «Non sono
Chris.»
Il
suo primo pensiero, per la verità piuttosto stupido, fu: Come
hanno fatto i miei fratelli a essere già qui?
Ma quasi simultaneamente la sua mente formulò anche una
spaventosa
realizzazione opposta, ed egli, improvvisamente sveglio e lucido nel
buio, pensò: Nessuno dei
miei fratelli può essere già qui.
Il
terzo pensiero, che in qualche modo fu più che altro una
razionalizzazione dei precedenti, fu che aveva pensato che potesse
essere uno dei suoi fratelli perché la voce che aveva
sentito non
aveva un accento giapponese; ma quell’accento non era neppure
tedesco, si rese conto all’improvviso. Era francese.
Cercò
di tirarsi a sedere sul letto, affannosamente, con la limitata
mobilità che gli consentivano i suoi gomiti, ed
esclamò: «Che
cazzo ci fai qui?»
Nello
spicchio di luce che filtrava attraverso la porta, ora che i suoi
occhi si erano abituati alla semioscurità, Lestournelle
appariva
pallido come non l’aveva visto mai. I suoi occhi
s’erano fatti
enormi, cerchiati da orbite scure, ceree; sembrava fuori di
sé, e
forse lo era, chissà.
Lestournelle
si chinò sul suo letto di scatto. Rotwang si ritrasse da lui
quanto
più gli era possibile, ritraendosi verso la finestra;
avrebbe voluto
gridare, ma la sua gola irritata non aveva voce a sufficienza; e, in
ogni caso, in qualche modo, egli sapeva che Lestournelle non gli
avrebbe mai fatto del male. Era troppo debole e meschino per farlo,
persino impazzito com’era.
«Sei
entrato nella Villa per cercare Mew?»
Il
suo nome gli aprì una piaga in mezzo al petto. Fu grato di
non poter
gridare, grato che fosse troppo buio perché Lestournelle
vedesse i
suoi occhi arrossati di pianto, perché il suo dolore era
tale che
nessuno doveva sentirlo né vederlo. Non pensava mai a lei se
poteva
evitarlo, perché il suo ricordo gli faceva troppo male e la
sua
propria debolezza lo faceva infuriare: Mew era un ricordo sepolto in
mezzo ai suoi ricordi, ch’egli reprimeva con forza ogni volta
che
minacciava di affiorare, perché non poteva permettere a se
stesso di
tollerare la propria sofferenza e il ricordo della propria debolezza,
perché il suo rimorso era tale da dilacerargli quasi il
petto. Ma
tutto questo a Lestournelle non si poteva dire, egli neppure poteva
permettersi di lasciarglielo intuire, e ritraendosi di più
da lui
sul letto Rotwang ringhiò: «Ancora questa
storia…? Ti brucia
proprio tanto che Fuji me lo scopassi io anziché tu,
eh?»
La
sua provocazione non giunse a segno. Lestournelle neppure
cambiò
espressione: spingendosi ulteriormente contro di lui, cogli occhi
spalancati e infissi nei suoi, Lestournelle proseguì come se
non
l’avesse udito affatto: «L’hai vista la
luce azzurra?»
Rotwang
avrebbe voluto poterlo spingere via da sé, ma per far
ciò gli
sarebbero occorse mani che non fossero ustionate e avvolte in strati
di bende. Così non era, e mormorò:
«Allucinazioni, Lestournelle?»
«La
luce azzurra!» esclamò Lestournelle
spasmodicamente. I suoi occhi
erano come spiritati. «Ne parla tutta l’Isola!
Hanno visto un
lampo di luce azzurra fuoriuscire dalla Villa…»
«Beh,
sorpresa, Lestournelle» commentò Rotwang
sorridendo appena. «Non è
che tutta l’Isola sia venuta a parlarne proprio qui nella mia
camera d’ospedale, eh?»
Qualcosa
vacillò negli occhi di Lestournelle, che non si
distoglievano dai
suoi. «Tu non l’hai vista?»
«Non
so di cosa tu stia parlando» ribadì Rotwang.
«Ora ti spiacerebbe
toglierti dal mio letto prima che ti faccia arrestare,
sì?»
Lestournelle
parve rendersi conto solo in quel momento d’essere
praticamente
seduto sul suo letto, contro il suo petto. Si ritrasse da lui di
scatto, allontanandosi dal letto, e prese grandi boccate
d’aria
angosciata, in piedi, immobile di fronte a lui.
«Non
l’hanno ancora trovata» disse.
Rotwang
scosse il capo, stavolta quasi con pietà. «Che
cosa?»
«Lei»
sussurrò Lestournelle. «I pompieri hanno contenuto
l’incendio,
ora stanno cercando di salvare la struttura… la stanno
cercando,
Rotwang. Se c’è, la troveranno. Dimmi la
verità, Rotwang, ti
prego. È morta bruciata?»
Rivide
Mew come l’aveva vista per l’ultima volta, riversa
sul letto
pieno di sangue, cogli occhi spalancati e fissi, immoti, e il
cucciolo immobile e livido senz’aria di fianco a lei. Il
ricordo fu
tanto intenso e violento che per un attimo temette che avrebbe
vomitato; la bocca gli si riempì di un sapore acre.
Non
avrebbe voluto rispondere, ma per la prima volta in vita sua
Lestournelle suscitò in lui una pietà reale: non
voleva riaverla.
Voleva solo sapere se era morta di una morte orribile, e a quella
parte di Lestournelle che aveva amato M2 di un amore reale, almeno
una volta, Rotwang sentì di dovere almeno una risposta,
nell’unica
forma in cui poteva dargliela.
«Certo
che non è morta bruciata, Lestournelle. Solo tu in tutto il
mondo
sei ancora convinto che ce l’avessimo noi due al posto di
qualche
signore della guerra centrafricano.»
Le
labbra di Lestournelle tremarono. Stava sorridendo, ma di un sorriso
assente che non si estendeva ai suoi occhi. Si morse le labbra.
«Lo
proteggi ancora» disse. Anche la sua voce tremava.
«Persino ora
che… persino dopo che vi siete lasciati, che hai lasciato la
Villa
con le valigie in mano, tu l’hai sempre protetto. Ne
è valsa la
pena?»
«No»
rispose Rotwang, con in petto una fitta acuta che avrebbe voluto non
provare. «Ma questo non è un tuo problema.
Giusto?»
Lestournelle
rimase immobile nel buio a occhi sgranati. Sembrava posseduto da uno
spirito. Le sue labbra si muovevano incessantemente, mormoravano
senza posa nel buio parole senza scopo né senso; per quanto
si
sforzasse, Rotwang non riuscì a distinguerne nessuna. Suo
malgrado,
si sentì preoccupato.
«Lestournelle…»
Lentamente,
senza distogliere neppure per un istante gli occhi dai suoi,
Lestournelle si ritrasse da lui e lasciò la stanza
camminando
all’indietro, con una mano sulla fronte, mormorando ancora le
sue
domande senza risposta. Rotwang rimase da solo.
Tornò
a distendersi sui cuscini senza distogliere gli occhi dalla porta,
con la convinzione inspiegabile eppure incrollabile che Lestournelle
non sarebbe tornato, di certo per quella notte e forse mai; che la
sua mente già fragile era ormai sperduta in un luogo remoto,
irraggiungibile, e che nessuna parola sarebbe più stata in
grado di
raggiungerlo. Avrebbe quasi potuto credere d’esserselo
immaginato,
che fosse stato tutto uno strano sogno inutile indotto dalla morfina;
chissà cos’era quella luce azzurra,
però. Per un attimo solo
concesse alla propria mente di soffermarsi su quel pensiero,
perché
l’azzurro, per lui, non era che il colore degli occhi di Mew;
ma la
tentazione d’illudersi passò, o forse fu lui a
cacciarla,
rabbiosamente, reprimendo il desiderio di crederla viva così
come
aveva represso la sua rabbia e la sua disperazione per tutto quel
tempo. Mew era morta insieme al cucciolo osceno che avrebbe dovuto
partorire, li aveva visti lui: non c’era altro da dire. Ma
poi,
proprio quand’era quasi sul punto di iniziare a credere che
davvero
Lestournelle non fosse stato che un’allucinazione prodotta
dal
dolore e dalla morfina, un’infermiera fece capolino e venne
di
nuovo a controllargli il catetere.
«Ha
visto suo fratello, dottore?» gli chiese in confidenza mentre
si
affaccendava intorno al letto. Rotwang la guardò interdetto.
«Ma
come… ha dormito per tutto il tempo che è stato
qui? Il
caporeparto aveva dato il permesso di far entrare per lei anche di
notte, sapendo che i suoi parenti vengono tutti dall’estero.
L’abbiamo riconosciuto dall’accento, sa»
spiegò con un certo
orgoglio. Il che, in effetti, spiegava davvero molte cose: per quegli
isolani, qualunque accento poco più occidentale
dell’Altopiano Blu
era tutto indifferentemente straniero.
Rotwang
la scrutò per un po’, profondamente divertito
dall’ironia della
situazione, indeciso se dirle la verità oppure no.
Quantomeno ora
era certo che non si fosse trattato di un sogno.
«Non
si preoccupi, ero sveglio» disse infine. «Siete
stati molto
gentili. Grazie.»
Quando
si svegliò, la mattina seguente – e che fosse
mattina glielo
diceva la rinnovata pienezza della luce – di fianco al suo
letto
c’era un signore anziano che leggeva il giornale.
Per
un po’ Rotwang non fece niente. Non aprì neppure
gli occhi del
tutto. A quanto pareva la sua stanza era divenuta un luogo di svago e
di ritrovo comune per tutta l’Isola, e gli infermieri,
evidentemente, erano palesemente in accordo con quella politica.
Dal
momento che, altrettanto evidentemente, non c’era niente che
potesse fare per opporsi a quella tendenza, e che quantomeno
così
gli veniva risparmiata un bel po’ di noia, Rotwang
aprì
ostentatamente gli occhi e disse: «Un volontario
dell’ospedale,
immagino.» Conservava il vago ricordo di una delle figlie di
Portia
– non ricordava mai quale – che gli raccontava di
un’associazione
di volontari che teneva compagnia ai degenti presso
l’ospedale;
erano perlopiù studenti, ma era certo che ci fosse, tra
loro, anche
qualche anziano pensionato che occupava così il proprio
tempo. Gli
pareva la spiegazione più plausibile.
Il
vecchio fu colto alla sprovvista. Si affrettò a ripiegare il
giornale, schiarendosi la gola con un colpo di tosse, e si
alzò
brevemente in piedi in segno di rispetto. Aveva un volto composto e
dignitoso ma stanco, provato, e si sforzò di riprendersi.
«Gran
Dio, mi scusi… mi ero distratto un momento. Lei è
il dottor
Rotwang, presumo? Il dottore del Laboratorio.»
«Immagino
che lei questo lo sappia già» rispose Rotwang
soppesandolo con lo
sguardo. c’era qualcosa di quel volontario che non lo
convinceva
del tutto, eppure non riusciva a decidere di che cosa si trattasse:
si sforzò di ricordare dove lo avesse già visto,
mentre cercava
qualcosa da chiedergli per indagare chi fosse. Per fortuna quel
giorno, forse per la morfina o perché ormai erano passate
più di
ventiquattr’ore, la gola gli faceva molto meno male.
«A cosa devo
il piacere?»
«Mi
dispiace disturbarla. È solo che avevo piacere di conoscerla
e
scambiare qualche parola con lei.» Il vecchio
lisciò le pagine del
giornale con gesti un po’ meccanici, nervosi. Era stranamente
agitato, troppo coinvolto per essere un volontario
dell’ospedale, e
Rotwang lo osservò con preoccupazione. «Sul
giornale c’è scritto
che è entrato nella Villa in fiamme. Si è
comportato da eroe.»
Non
aveva mai pensato che quella storia sarebbe finita sul giornale. Non
che avesse pensato affatto. Rotwang si tirò su un
po’ a fatica sul
letto, issandosi contro i cuscini a forza di gomiti, e
accennò col
capo al giornale. L’altro glielo porse obbedientemente: la
foto
della Villa che bruciava campeggiava sulla prima pagina del giornale
locale. Non volle neppure leggere il titolo: lo spinse via con le
mani bendate. «I giornalisti non sanno mai che cosa scrivere.
Bisogna perdonarli, comunque. Bisogna pure che mangino anche
loro.»
«Sì,
ma è vero» insisté l’uomo.
Rotwang
gli scoccò un’occhiata seccata. «Diciamo
che non mi sono bruciato
cucinando. È contento?»
L’uomo
rimase in silenzio a considerare le sue parole per un po’.
«Mi
scusi» disse infine. «Lei è il dottore
tedesco che abitava con mio
figlio, no? Lo dicono tutti…»
D’un
tratto fu come assistere al dilacerarsi di un velo. Rotwang
levò gli
occhi su di lui come se lo vedesse per la prima volta: ecco
dov’era
che l’aveva già visto, ed ecco perché
non riusciva a ricordarlo.
Aveva pensato di averlo visto da qualche parte sull’Isola
Cannella,
ma la sua era la faccia che campeggiava sul giornale,
perlopiù in
foto di repertorio, di fianco a ogni articolo che menzionasse il
signor Fuji del Centro Pokémon Volontario di Lavandonia; era
negli
occhi di Emir…
Esser
colto di sorpresa era una sensazione che non gli piaceva per nulla.
Rotwang si raddrizzò maggiormente sul letto, scrutando fisso
quell’uomo di cui aveva fino ad allora solo sentito parlare,
e
disse lentamente, con più stizza di quanta ne occorresse in
realtà:
«Presumo che sia venuto a farmi la morale perché
mi scopavo suo
figlio.»
Il
signor Fuji ebbe un sorriso piuttosto simile a una smorfia.
«Le
infermiere mi avevano detto che è piuttosto aggressivo.
Però devo
deluderla: io non mi sconvolgo per così poco. La prego,
continui
pure.»
«Quindi
immagino che non sia venuto a farmi la morale» riprese
Rotwang con
circospezione. «Posso sapere allora a cosa devo
l’onore?»
Il
signor Fuji lo scrutava interamente come se cercasse di far
combaciare la sua immagine con quella che di lui si era costruita
nella propria mente nel corso del tempo: Rotwang non vedeva quali
somiglianze potesse trovare con quell’immagine, ora che lo
vedeva
in un letto d’ospedale con le mani bendate e la gola
ustionata dal
fumo. «È stato Emir a darle quest’idea
di me, non è vero? Quella
di un vecchio che passa i suoi ultimi giorni a far la morale a voi
giovani.»
«Oh,
mi perdoni» rispose Rotwang. Ricordava ancora troppo bene il
dolore
di Emir quel giorno in cui era tornato a casa da Lavandonia, dopo che
la polizia aveva perquisito la casa di suo padre, e ogni volta che
sui giornali compariva qualche lettera di protesta, contro o a favore
di questa o quella ideologia. «Devo essermi perso la sua
lettera sui
giornali in cui si sforzava di dar di sé
un’immagine diversa.»
Questa
volta il signor Fuji rimase interdetto e non seppe che dire.
Neppure
Rotwang era così perfido da infierire su un povero vecchio.
Dopo
quelle schermaglie iniziali, e aver affermato la propria
superiorità,
poteva ritenersi soddisfatto, e decise di lasciar perdere. Si
sforzò
di mostrarsi ragionevole.
«Ascolti…
non è che non apprezzi la sua compagnia, ma dubito che lei
possa
apprezzare la mia. Se non ha nulla di particolare da dirmi, sta
sprecando il suo tempo. In ogni caso, se è questo che voleva
sapere,
io non mi vedo con suo figlio da due anni. Non avrebbe fatto meglio a
restare ad Azzurropoli?»
Il
signor Fuji sbatté le palpebre un paio di volte.
«Azzurropoli?»
«Voglio
dire» specificò Rotwang gentilmente. «Al
Grandi Ustionati.»
«Mi
scusi» disse il signor Fuji, piuttosto imbarazzato.
«Temo di non
seguirla.»
Rotwang
aggrottò la fronte. «È lì
che hanno ricoverato Emir, no?»
«Ma…
dottore» sussurrò il signor Fuji.
D’improvviso le sue labbra
tremavano. «Emir è al piano di sotto. È
qui. All’obitorio.»
Si
rese conto d’aver gridato solo quando le braccia del signor
Fuji lo
abbrancarono per le spalle e lo trattennero contro i cuscini e la sua
voce supplicante, rotta dall’emozione, ripeté
contro il suo
orecchio parole che solo dopo un po’ egli fu in grado di
distinguere. «… mi dispiace, la prego, non
gridi… non sapevo che
lei non sapesse, ma ora la prego, la prego, si
calmi…»
Aveva
guardato ovunque gli indicassero, cieco e fiducioso come un bambino
troppo stupido per capire, ostinatamente chiudendo gli occhi per non
vedere la realtà che lo circondava da ogni parte. Non aveva
visto
perché non aveva voluto vedere; e ora gli indizi e i segnali
che lo
avevano attorniato da ogni parte gli balzavano agli occhi e gli
tornavano alla memoria deridendolo per la sua cecità
– Portia gli
aveva detto che Emir era ad Azzurropoli ed egli le aveva creduto
senza chiedere perché non
voleva sapere.
Aveva
ignorato ogni sua stranezza dopo quel momento, aveva finto di non
vedere le sue lacrime, le sue contraddizioni, la sua inspiegabile
agitazione, perché se le avesse notate avrebbe dovuto
chiedergliene
il motivo; e lui non aveva voluto conoscere quel motivo. Promettimi
che starai molto, molto calmo, qualunque cosa accada,
gli aveva chiesto Portia piangendo, e lui aveva promesso tutto quello
che lei voleva senza chiedere, perché in fondo sapeva che
lei stava
mentendo…
«La
prego, non mi faccia cacciare.» Il signor Fuji lo stava
ancora
supplicando, ma Rotwang lo udiva a malapena. «Ho ancora delle
cose
da chiederle…»
Rotwang
si abbandonò sul cuscino senza lottare più. Si
sentiva bruciare le
lacrime agli angoli degli occhi, ma non aveva modo di asciugarle con
le mani, e forse neppure gli importava. Portia gli aveva mentito;
Emir era morto, forse era già morto quando lui stupidamente
era
entrato nella Villa, e di salvarlo egli non aveva avuto speranza mai;
Portia gli aveva mentito, eppure egli non riusciva a sentir montare,
dentro di sé, la rabbia che avrebbe dovuto provare verso di
lei. Gli
aveva mentito al momento del suo primo risveglio, quando ancora era
confuso e spaventato in preda all’anestesia e al dolore, e
lei
ancora in preda al terrore di perderlo; e poi era rimasta prigioniera
della sua stessa bugia e non aveva saputo come tirarsene fuori senza
farlo agitare.
Girò
il capo sui cuscini per asciugarsi gli occhi contro la spalla e non
dover più guardare il vecchio che lo scrutava fissamente,
come
aspettandosi da un momento all’altro ch’egli si
rimettesse a
gridare.
«Non…
non glielo avevano detto?»
La
domanda era talmente stupida che Rotwang non rispose. Rimase
ostinatamente immobile sui cuscini, dandogli le spalle, e chiese:
«Perché è venuto da me?»
«Volevo
parlare con lei» disse il signor Fuji.
«Suo
figlio è morto» disse Rotwang duramente. La
brutalità delle sue
parole fu tale che Fuji sobbalzò. «Che cosa ci fa
lei qui?»
«Volevo
parlare con lei» ripeté per l’ennesima
volta il signor Fuji. «Lei
ha vissuto con mio figlio, per un po’.»
«Questo
lo abbiamo già appurato» mormorò
Rotwang. «Gliel’ho già detto.
Non ci vivevo più.»
«Lei
ha cercato di salvare mio figlio. Si è gettato nel fuoco per
lui.»
Gli
scappò una risata amara. «Non mi sono gettato
proprio da nessuna
parte. Sono entrato dalla porta come tutti.»
«Dottore»
insisté il signor Fuji. «Perché ha
rischiato così tanto per
cercare di salvare mio figlio?»
Rotwang
si strinse nelle spalle senza saper che dire. Qualsiasi risposta gli
venisse in mente suonava troppo melodrammatica da pronunciare. Disse
la stessa cosa che aveva detto a Portia: «Perché
neppure lui
meritava di morire bruciato.»
Il
signor Fuji parve non trovare nulla da replicare a
quell’osservazione. Riprese il giornale e lo
spiegò sul letto,
Rotwang lo sentì dal rumore delle pagine che frusciavano.
«Sono
stato in banca, ieri pomeriggio.»
«Interessante»
commentò Rotwang, che non vedeva
l’utilità di quell’affermazione.
Fuji
proseguì come se non l’avesse sentito.
«A cercare di sistemare un
po’ i suoi conti, sa. Emir a queste cose non sapeva star
dietro.»
«Non
era così incapace» obiettò Rotwang, ma
Fuji non lo sentì.
«Sono
stati gentili in banca, sa? Mi hanno dato gli ultimi estratti conto e
tutto il resto.»
Interessante,
avrebbe
voluto ripetere
Rotwang, ma non ritenne necessario sprecare voce per dire qualcosa
che il signor Fuji probabilmente non avrebbe comunque ascoltato:
sembrava parlare per se stesso piuttosto che per lui, ed egli decise
di lasciarlo fare. S’ingegnò a mettersi seduto di
nuovo,
puntellandosi sui gomiti, e tornò a guardare verso di lui,
aspettando di capire dov’era che l’altro intendeva
andare a
parare.
«Ho
notato che ha effettuato un bonifico sul conto di mio figlio quasi
ogni mese negli ultimi due anni.» La sua voce
suonò quasi timida.
«Come mai, se vi eravate lasciati?»
L’uomo
che sedeva di fianco al suo letto, con le pagine del giornale
nervosamente strette tra le mani, era un povero vecchio che aveva
appena perduto suo figlio e che non aveva più avuto sue
notizie
negli ultimi quattro anni. Durante quegli anni, Emir era stato per
quell’uomo un estraneo molto più di quanto lo
fosse stato per lui.
«Non
si meritava neanche di morire di fame» rispose Rotwang.
«Pensava
che suo figlio potesse vivere senza stipendio per più di
quattro
anni, senza di me?»
Gli
occhi del signor Fuji tornarono a posarsi sul giornale aperto che
Rotwang si ostinava a non guardare. Sembrava cercarvi qualcosa che
forse quell’articolo non poteva dirgli.
«Perché
ha continuato a prendersi cura di lui?»
Chissà
perché non gli venne in mente alcuna vera risposta a quella
domanda,
forse perché la domanda era troppo sciocca per rispondere
seriamente. Gli veniva quasi da ridere. Gli tornò in mente
soltanto
una delle citazioni preferite di suo fratello, che gli ripeteva ogni
volta che gli chiedeva soldi in prestito ai tempi
dell’Università.
«Jeder
gebe, wie er es
sich in seinem Herzen vorgenommen hat, nicht verdrossen und nicht
unter Zwang*…»
Fuji
lo guardò con preoccupazione come se delirasse.
«Si sente bene?»
Rotwang
scrollò le spalle. «Niente, niente. Mio fratello
è filologo
neotestamentario a… ah, lasci stare. Ma non sta bene
rinfacciare a
un uomo le sue debolezze, sa.»
«Lei
questa la chiama una debolezza?» protestò Fuji a
mezza voce.
Gli
salivano alla mente ricordi che affioravano alla superficie della sua
coscienza come bolle nell’acqua. Rotwang sbatté le
palpebre più
volte, furiosamente, per non vederli né sentirli. Emir
era morto,
disse la sua
coscienza,
ed
egli la mise a tacere con rabbia parlando con voce più alta
della
sua. «Certo che lo è.»
Il
signor Fuji accolse la sua risposta con la dignità composta,
dignitosa, con la quale avrebbe incassato un colpo. Tornò a
tormentare il giornale, pensierosamente, e stavolta neppure
alzò gli
occhi su di lui per parlare di nuovo.
«L’ha
fatto anche per Mew?»
L’aveva
detto a voce bassissima; Rotwang non avrebbe neppure udito la sua
voce se non fosse stato così vicino, se solo il nome di Mew
non
fosse stato nella sua mente in ogni momento ed egli non lo avesse
sentito in ogni parola che altri pronunciavano, non avesse percepito
il suo ricordo persino nell’aria. La mancanza di Mew era tale
che
ogni volta gli mancava il respiro; il suo ricordo gli bruciava in
petto più del fumo, più delle ustioni. Ma alla
sua perdita che
ancora tormentava i suoi sonni Rotwang non poteva reagire che
nell’unico modo che conosceva: con la rabbia.
«Se
evita di dirlo ad alta voce mi fa un favore, sa» disse
guardando
ostinatamente lo spicchio di corridoio attraverso la porta aperta.
Nessuno badava a loro, ovviamente, ma Rotwang proseguì allo
stesso
modo. «Suo figlio non può più essere
arrestato, forse, ma io sì.»
Il
signor Fuji non l’aveva affatto detto ad alta voce. Aveva
bisbigliato il suo nome a malapena, in punta di labbra, piano tanto
che appena fosse udibile; ma era evidente che non aveva la minima
intenzione di contraddirlo, e non fece niente per obiettare o
difendersi.
«Mi
dispiace.» La sua voce suonava genuinamente mortificata.
«È solo
che avevo bisogno di sapere se lei fosse a conoscenza di… di
lei.»
Rotwang
continuò a guardare ostinatamente al di fuori della stanza.
Avrebbe
dovuto provare pietà per quel vecchio seduto al suo fianco,
disperatamente alla ricerca di qualsiasi cosa gli parlasse di suo
figlio, ma, forse perché gli ricordava certe scene omeriche,
strappalacrime, di quando studiava al ginnasio, non ne provava
nessuna.
«Che
vuol dire che lo sapevo?» chiese senza troppa buona grazia.
«Pensa
che sarei mai andato a vivere con suo figlio, che sarebbe successo
tutto quello che è successo, se non fosse stato per
lei?»
Non
era stato sempre solo per lei, in realtà. M2 era stata quasi
tutto,
ma non era stata ogni cosa, e non tutti i suoi pensieri erano sempre
stati per lei. Ma questo apparteneva solo a lui, e non era tenuto a
raccontarlo a nessuno.
«Lei
era là dentro?» chiese Fuji a bassa voce.
«Dentro la Villa,
intendo. Durante l’incendio.»
Gli
tornò in mente d’improvviso il lampo di luce
azzurra che quella
notte aveva nominato Lestournelle, ma allontanò quel
pensiero da sé,
ancora una volta. L’aveva vista morire. M2 si era assommata a
M1
nei suoi rimpianti, e ogni notte egli si ripeteva che avrebbe dovuto
salvarli entrambi. La cosa peggiore era che sapeva di aver ragione su
entrambi, anche se in modi diversi.
«No»
rispose. «È morta due anni fa.»
«Due
anni fa» ripeté Fuji. La coincidenza nella data
parve risuonare
nella sua mente. «È per questo che vi siete
lasciati?»
Rotwang
non rispose. Gli pareva che fosse già abbastanza evidente
così: il
signor Fuji attese la sua risposta per un po’, poi dovette
sembrare
evidente anche a lui. Assunse l’aria impacciata, fuori luogo,
di
chi deve fare una domanda scomoda e non sa che parole usare.
«Posso
chiederle com’è morta?»
Per
un attimo Rotwang considerò quasi di dirglielo. Dire la
verità però
avrebbe richiesto di risalire all’indietro lungo tutta la
linea di
eventi che lui stesso non conosceva nella loro interezza,
all’indietro per più di quattro anni fino alla
notte nella
giungla, fino all’unico grido di M1 sotto le sue mani prima
di
morire, e ai grandi occhi azzurri di Mew. Avrebbe dovuto dire anche
qualcosa che non aveva mai saputo: che cosa avesse attraversato la
profonda mente di Emir in quei due mesi che aveva trascorso recluso
da solo nel ventre della Villa, al termine dei quali tutto era
successo come in un incubo. Avrebbe dovuto ammettere ad alta voce la
propria cecità, e soprattutto avrebbe dovuto confessare che
quello
che Emir aveva fatto andava molto al di là, in modi
inimmaginabili,
del rapimento di un Pokémon e di un esperimento genetico.
Quell’uomo
non avrebbe mai più potuto pensare a suo figlio come aveva
fatto
fino ad allora; e Rotwang sapeva quanto doloroso fosse quello che lui
conosceva.
Dire
tutto ciò sarebbe stato troppo intenso e troppo complicato,
e
Rotwang non solo non se ne sentiva le forze, ma neppure si sentiva in
diritto di cancellare tutto ciò che quell’uomo
sapeva di suo
figlio. Cercò le parole con accortezza.
«Negli
ultimi tempi, da solo nella Villa, Emir non era più tanto in
sé»
disse lentamente, indagando sul suo volto, a misura che parlava, gli
effetti che le sue parole scaturivano; ma il signor Fuji si limitava
ad ascoltarlo in silenzio, con occhi attenti, come se bevesse le sue
parole a una a una dalle sue labbra. Nelle sue parole egli
disperatamente cercava suo figlio. «Emir ha fatto delle
scelte
sbagliate, a volte… ma quello che è successo a
Mew è stato un
incidente.»
Non
aveva più rivisto Emir da quando aveva lasciato la Villa, ma
non
importava vederlo per aver sue notizie. Ne parlava tutta
l’Isola,
di tanto in tanto. Portia aveva cercato di telefonargli tante volte,
ma alle sue telefonate nessuno aveva mai risposto, e Rotwang
s’immaginava gli squilli echeggiare senza scopo nelle stanze
vuote.
Gli aveva persino chiesto di tornare a parlargli, e dopo averglielo
chiesto lo aveva supplicato: Rotwang l’aveva spinta fuori dal
proprio ufficio senza ascoltare le sue proteste. Qualunque
cosa ti abbia fatto, dobbiamo almeno accertarci che sia vivo,
gli aveva gridato Portia sbattendo i pugni contro la sua porta, e
Rotwang s’era appoggiato a quella porta ignorando le sue
suppliche.
Portia era inutilmente melodrammatica: che fosse vivo lo sapeva tutta
l’Isola, perché ogni tanto lo avvistavano fuori
dalla Villa. La
segretaria del Laboratorio era riuscita a parlargli, una volta:
Rotwang l’aveva sentita mentre raccontava a Portia nel suo
ufficio,
profondamente commossa e turbata, perché a Emir aveva voluto
bene
davvero, che l’aveva incontrato nella spiaggia e che lui non
l’aveva riconosciuta; che le aveva parlato con voce strana,
totalmente assente, e che aveva dovuto pensare a lungo dopo ogni sua
domanda… Credo che
fosse drogato, aveva
confidato a Portia piangendo, e Rotwang s’era risentito
profondamente della banalità della conclusione a cui era
giunta. Non
era drogato, era pazzo; ma questo era bene che continuasse a saperlo
solo lui.
Il
signor Fuji chinò il mento sul petto sorridendo tra
sé. Tentennò
il capo per un po’.
«È
la verità?»
No,
non lo è, avrebbe
dovuto dire Rotwang. Invece, guardandolo negli occhi, disse ad alta
voce: «Mi sta dando del bugiardo?»
Se
Emir non fosse morto, il signor Fuji non gli avrebbe creduto: Rotwang
glielo lesse negli occhi con la stessa chiarezza con la quale aveva
letto tutto il letto. Ma Emir era
morto,
la sua vita si
era spenta, era svanita da quel mondo come la fiamma di una candela,
proprio come se non fosse mai esistita sulla terra, e quel padre che
lo cercava affannosamente nel solo luogo al mondo dove sperava di
trovarlo, nelle sue parole, aveva un tale bisogno di saper qualcosa
di lui che si sarebbe aggrappato a tutto. Anche alle sue menzogne, se
la verità era troppo terribile perché la si
potesse ascoltare.
«Non
mi permetterei mai!» protestò Fuji spalancando gli
occhi. «Glielo
chiedevo solo perché…»
Sapendo
d’avergli mentito, Rotwang rispose: «Lasci stare.
La prendevo solo
in giro.»
La
conversazione era finita, o meglio ci sarebbero state tante cose da
dire, forse infinite; ma l’unico a conoscerle era lui, ed era
anche
l’unico a non aver forze a sufficienza per parlarne. A quel
vecchio
che Emir aveva odiato con tutte le sue forze ora Rotwang non sapeva
più che dire, ma uno strano pudore lo tratteneva dal
cacciarlo
direttamente. Il signor Fuji, a ogni modo, parve condividere il suo
imbarazzo, o quantomeno comprenderlo, perché si risolse a
piegare
definitivamente il giornale, con aria di commiato, e fece per
alzarsi.
«La
ringrazio, dottore. La pazienza che ha avuto con me le fa davvero
onore. L’ho già disturbata più che a
sufficienza, direi…»
«Non
se ne vada» disse Rotwang d’impulso.
Il
signor Fuji chinò gli occhi su di lui in un moto di stupore.
«Come
dice?»
Rotwang
si pose quasi la stessa domanda: perché l’aveva
detto? Era stato
un rimasuglio di civiltà, forse: un’eco della sua
educazione
classica, borghese, Achille che piangeva con Priamo eccetera, e di
sicuro quei ricordi che affioravano dalla sua giovinezza lo
condizionavano più di quanto fosse disposto ad ammettere. Ma
poi
c’era stato anche qualcos’altro che era ancora
più oscuro e
inconfessabile, e che Rotwang non avrebbe ammesso mai, neppure di
fronte a se stesso: che quell’uomo era l’unico con
cui potesse
parlare di Emir. Che quando fosse rimasto solo, la consapevolezza che
Emir era morto, che il suo pensiero non poteva più
raggiungerlo in
nessun luogo del creato, come onde radio destinate a vagare sempre e
a non essere recepite mai, l’avrebbe assalito con una forza
ch’egli
non era in grado di reggere e che preferiva procrastinare. Ad alta
voce però bisognava pur dire qualcosa per giustificare la
sua
stranezza improvvisa, e Rotwang, colto alla sprovvista, disse:
«I
miei fratelli non arriveranno prima di stasera. Potrebbe tenermi
compagnia fino ad allora.»
«Oh.»
Il signor Fuji parve cercare qualcosa di educato da dire per prendere
tempo. «Più di un fratello, quindi. Sono una bella
cosa, le
famiglie numerose. Abitano qui in Kanto anche loro?»
«Siamo
sparsi per il mondo. Uno è in America, mentre altri due sono
rimasti
in Germania.» Non s’accorse neppure di aver sorriso
un po’. «Il
più piccolo ha finito da poco il dottorato in ingegneria
aerospaziale.»
«Tutti
figli di successo, quindi» commentò Fuji
gentilmente. «I vostri
genitori devono essere molto fieri di voi.»
Prima
di mostrare una parte troppo vulnerabile di sé, Rotwang
cambiò
decisamente argomento. «Quindi, rimane?»
Fuji
si tormentò il giornale tra le mani per un po’.
«So
che lei non mi vuole davvero qui, dottor Rotwang» disse
finalmente,
con un sorriso esitante. «Lei prova solo pietà per
un povero
vecchio. La sua gentilezza le fa troppo onore.»
«Senta»
lo interruppe Rotwang. «Io non sono molto educato, ma sono
molto
onesto. Era Emir l’ipocrita tra noi due, non io. Se
gliel’ho
chiesto è perché…»
Nella
pausa che fece, senza saper che dire, Fuji avrebbe dovuto fargli la
cortesia di parlare per riempire l’imbarazzo del silenzio;
invece
Fuji rimase in silenzio ad aspettare di sentire da lui perché
gli
avesse chiesto di
restare; ma Rotwang non lo sapeva, o forse soltanto non lo sapeva
dire, e nessuno dei due disse niente per un momento. Poi
l’impasse
passò, e il signor Fuji, riponendo il giornale, sedette di
nuovo
sulla sedia, quasi sul bordo, come se temesse di approfittare troppo
della sua cortesia.
«La
ringrazio, dottore. Lei è…» La sua voce
vibrava di una
gratitudine ch’egli non avrebbe saputo dire a parole.
«Non osavo
chiederglielo, ma… lei è il solo con cui possa
parlare di mio
figlio.»
«Sì»
disse Rotwang schiarendosi la gola, sperando che dall’esterno
non
si sentisse che la sua voce tremava. «Anche per me lei
è l’unico
con cui possa parlare di Emir.»
Fine.
*
Seconda
lettera ai
Corinzi 9, 7: “Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo
cuore,
non con tristezza né per forza.”
Finire
questa storia è la sensazione più strana che io
abbia mai provato.
Credevo che sarei stata felicissima di dare finalmente una fine a
questi personaggi, per quanto dolorosa, e in un certo senso lo sono;
ma questa storia era anche rimasta l’unica cosa costante
della mia
vita negli ultimi sette anni, e averla finita mi lascia uno strano
senso di smarrimento.
A
un certo punto però mi sono sentita in grado di lasciar
andare
questa storia e mi sono decisa a scrivere questo epilogo, cercando di
dare a ciascuno il finale che avevo progettato fin
dall’inizio.
Non
posso che ringraziare, arrivata a questo punto, tutti coloro che
hanno sostenuto questa storia in ogni modo. Grazie perciò a
carachiel, Luminja, Mad_Dragon, NicoRobs, Persej Combe, e Wings44 per
aver aggiunto la storia alle seguite; a BlazePower, Peppe_97_Rinaldi,
PoisonRain, RedLinus e Wings44 per averla aggiunta alle preferite; e
infine grazie a cristal_93, KomadoriZ71, Peppe_97_Rinaldi, Persej
Combe, Mad_Dragon, NicoRobs, BlazePower, IndianaJones25, PoisonRain,
Gaia Bessie, Wings44 e Bankotsu90 per le loro meravigliose
recensioni. Non so come ringraziarvi, se non infinitamente, per aver
provato a conoscere questi personaggi e le loro vicissitudini, e per
aver sostenuto me. Siete stati meravigliosi. Grazie.
A
parte, non posso che ringraziare di cuore Fiulopis per le sue
continue correzioni a questa storia, a prezzo della sua
serenità, e
per il suo sostegno immancabile.
Non
mi rimane che augurarmi che questa storia non vi abbia delusi troppo,
e augurare a voi un anno ricco di tutto quello che potete desiderare.
A
presto!
Afaneia
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