Sai cosa vuol dire perfettibile?

di Afaneia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Fragile. ***
Capitolo 3: *** Ipocrita (Parte Prima). ***
Capitolo 4: *** Ipocrita (Parte Seconda). ***
Capitolo 5: *** Corruttibile. ***
Capitolo 6: *** Inconoscibile. ***
Capitolo 7: *** (In)domito. ***
Capitolo 8: *** Imprevedibile. ***
Capitolo 9: *** Inevitabile. ***
Capitolo 10: *** Deprecabile. ***
Capitolo 11: *** Inconfessabile. ***
Capitolo 12: *** Incomunicabile. ***
Capitolo 13: *** Irrimediabile. ***
Capitolo 14: *** Frangibile. ***
Capitolo 15: *** Perfetto. ***
Capitolo 16: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Prologo

Sai cosa vuol dire perfettibile?


Glauco, guarda: già il mare profondo è sconvolto dalle

onde, attorno al capo Gireo si leva una nube,

presagio di tempesta: inatteso mi coglie il timore.


Archiloco, fr. 105 West.



Prologo


Suonarono alla porta nel cuore della notte.

Ma si era mai vista in tutta Lavandonia una cosa del genere? Che si suonasse così, in piena notte e senza nessuna plausibile giustificazione, alla porta di qualcuno che non fosse un medico?

Il signor Fuji si svegliò col cuore in gola, scoprendosi sorpreso più dalla scoperta stessa di trovarsi addormentato, nel suo letto, senza alcuna precisa memoria di esservi andato, che dal fatto che qualcuno avesse deciso di venire a suonare in piena notte proprio a casa sua.

Il suo sonno pesante che non accennava a sfumare lo frastornava enormemente, tanto che per qualche istante, avvolto nella cappa gravosa e appiccicosa della notte che lo avvolgeva, stentò a riconoscere la sua stanza e l'orientamento del suo letto. Ma poi il grido disperato del campanello si ripeté di nuovo, echeggiò carico d'allarme sulla notte immobile, spazzò via ogni residuo di sonno: d'un tratto il signor Fuji si ritrovò su letto perfettamente sveglio, con le orecchie tese e attente, e la mente più lucida che in pieno giorno.

Raggiunta una certa età, e un'esperienza di vita come la sua, Fuji aveva scoperto ormai da qualche anno che avere paura non aveva più alcun significato. Non la considerava imprudenza. Semplicemente, nella prospettiva della sua vita attuale, egli non riusciva a trovare proprio alcun motivo per cui qualcuno dovesse fargli del male, e nell'ipotesi, possibile seppur improbabile, che questo dovesse accadere, egli non vedeva proprio in che modo gli fosse possibile impedirlo. Ragion per cui, facendo forza sul bordo del vecchio materasso cedevole dalle molle cigolanti, che troppe notti insonni e stancanti aveva sostenuto, Fuji si alzò con calma, indossò la vestaglia e si avviò a tentoni verso la porta.

Gli squilli del campanello si erano interrotti, ma neppure volendo sarebbe stato possibile credere che quel folle qualcuno che, dall'altra parte, aveva suonato, se ne fosse andato. Al di là della porta chiusa si udivano i suoni disperati di una bestia braccata che cercava rifugio, rumore di passi affannati e strascicati sulla soglia e i gemiti angosciati di qualcuno che si domandava se gli avrebbero mai aperto...

Accostando l'orecchio alla porta, Fuji domandò con voce alta e chiara: «Chi è?»

In risposta alla sua domanda, Fuji udì dall'altra parte la voce del figlio che per tanto tempo aveva chiamato perduto dire: «Papà... ho combinato un casino.»



Mentre il latte bolliva nel forte odore di gas della vecchia cucina antiquata, il signor Fuji guardò suo figlio negli occhi e gli chiese: «Che cosa è successo?»

Se non fosse stato per la voce, egli a malapena avrebbe riconosciuto suo figlio. Questo pensiero lo addolorò più ancora di quanto avrebbe potuto pensare, per quanto una piccola parte di lui fosse comunque consapevole, con la placida saggezza dei suoi lunghi anni di solitudine, che non era colpa sua se suo figlio era cambiato tanto senza che egli potesse vederlo.

Emir aveva l'aria sbattuta e sciupata delle persone che lavorano molto più di quanto non riposino, e precocemente invecchiata. Aveva gli occhi pesantemente cerchiati, un po' troppo infossati nelle orbite stanche, e anche i suoi capelli, che erano stati dello stesso nero corvino dei suoi, sembravano incominciare a conoscere le prime striature di grigio sulle tempie. Ma quand'era che era invecchiato così? Erano passati poi così tanti anni dall'ultima volta che si erano visti?

«Non te lo posso dire» disse meccanicamente Emir, senza guardarlo, e Fuji si limitò ad annuire in silenzio. Non si era veramente aspettato che gli rispondesse, dopotutto; ma doveva fare almeno un tentativo. Ora che gli aveva dato la possibilità di confessare spontaneamente, e che Emir si era rifiutato, poteva interrogarlo liberamente; perciò, sedendosi di fronte a lui dall'altro lato del tavolo, domandò: «Hai ucciso qualcuno?»

Il figlio che aveva amato e perduto ormai tanti anni prima, il ragazzo che era cresciuto a Lavandonia, nella sua casa, avrebbe sgranato gli occhi a questa domanda. Sarebbe balzato in piedi con violenza, cogli occhi pieni di indignazione e di sgomento, e avrebbe protestato la propria innocenza a gran voce, incredulo alla sola idea che qualcuno potesse pensare... ma l'uomo ch'egli aveva davanti, che la Silph gli aveva portato via e che egli per anni non aveva mai più rivisto, non sembrava provare poi tanto sdegno all'idea che suo padre lo credesse capace di uccidere.

Emir scosse lentamente la testa. «No, papà, non... non è niente del genere. Non è quel tipo di cosa.»

Chissà per quale motivo, se non si trattava di omicidio, Fuji non riusciva a trovare altro a cui pensare di tanto grave da spingere suo figlio a venir lì di corsa, in piena notte, cogli abiti ancora impolverati e i capelli spettinati dal viaggio. In un certo senso si sentì rassicurato. In nessun caso avrebbe mai protetto suo figlio per qualcosa di tanto orribile, ma in quanto al resto non gli veniva in mente nient'altro di così terribile da doverlo denunciare immediatamente alla polizia. E poi, se suo figlio pensava che fosse meglio tenerlo all'oscuro di tutto, poteva darsi che fosse davvero meglio così. Emir era sempre stato più portato di lui per capire certe cose, quando si trattava di leggi e cavilli legali, ed egli era certo di non poterla spuntare in nessun modo discutendo con lui. E poi, se non era un assassino...

Si alzò per spegnere il gas quando il latte cominciò a borbottare e gli mise davanti una vecchia tazza di latta, senza troppi complimenti. Non aveva altro da offrirgli che latte bollito e pane secco, che alla sua età, con le budella stanche e lente e il senso del gusto divenuto più un fastidio che un piacere, costituivano il suo principale nutrimento, malgrado tutti gli incoraggiamenti dei ragazzi e le prescrizioni del medico; ma Emir non vi prestò alcuna attenzione. Soffiò sul latte amaro e vi spezzò il pane, e mangiò e bevve senza parlare né guardarlo come se da giorni non mangiasse né bevesse.

«Pensi che possa esistere qualche valido motivo per cui costituirti?» chiese dopo un po' in tono indifferente. Sapeva bene che non sarebbe servito a niente, ma anche quello, dopotutto, era un tentativo che non poteva esimersi dal fare.

«Non è una cosa per cui ci si possa costituire» rispose Emir, soppesando cautamente ogni singola parola. Esitò un poco, giocherellando coi grossi bocconi irregolari di pane che galleggiavano inconsapevoli sulla superficie del latte, e proseguì a voce bassa, osando appena guardarlo per soppesare la sua reazione al di sotto delle alte sopracciglia nere: «È stata una cosa illegale, papà, ma era una cosa giusta. Non so come altro spiegartelo senza renderti mio complice, ma ti prego, papà, devi credermi... mi costituirei se avessi fatto la cosa sbagliata. Lo sai anche tu che lo farei» aggiunse ansiosamente, e Fuji annuì per tranquillizzarlo, senza esserne veramente convinto. Non era più tanto sicuro di sapere che cosa suo figlio fosse o meno in grado di fare, per la verità, ma Emir gli sembrava già abbastanza agitato senza bisogno di mettere in dubbio la sua moralità.

Tamburellò per un poco con le dita sul tavolo. «Va bene, Emir. Ma se non vuoi dirmi che cos'hai fatto e non vuoi che ti aiuti... allora perché sei venuto qui?»

Vi fu un lampo d'incomprensione negli occhi di Emir quando sollevò lo sguardo versi di lui, e la sua voce conobbe un attimo di esitazione, come se non si fosse aspettato che proprio lui, suo padre, gli rivolgesse questa domanda, e se ne scoprisse ferito.

«Ho bisogno di un alibi» disse nervosamente, ma con l'aria di chi stesse inventando una bugia così, su due piedi, perché non riusciva a trovare alcun miglior motivo per trovarsi lì, a Lavandonia, con suo padre. Ma ai suoi occhi, che di suo figlio conoscevano con precisione anche la più mutevole piega del viso, era anche troppo evidente che Emir non aveva neppure pensato alla necessità di un alibi, quando era venuto lì. Ma ora che l'aveva detto quell'esigenza si era fatta concreta e pressante, ed Emir vi si aggrappò. «Se fosse necessario, diresti che ero qui ieri sera?»

Eppure anche quella domanda, che pure sarebbe stata fondamentale per un uomo che avesse appena commesso un crimine, Emir l'aveva posta senza alcuna ansietà né angoscia, come se non volesse altro che sondare il terreno, e Fuji non si ritenne obbligato a rispondere così, a scatola chiusa.

«Sembri così stanco, Emir» mormorò. «Perché non vai di là a stenderti un po'?»


Quando suo figlio si fu addormentato sul divano, Fuji si soffermò a lungo a guardarlo.

Si era buttato a dormire così com'era, ancora vestito e impolverato dal viaggio, ed era sprofondato nel sonno immediatamente, ma di un sonno greve e pesante, completamente esausto, come ai tempi dei suoi studi frenetici e appassionati. Ma quelle rughe sottili e premature ch'egli vedeva affiorare al di sotto del braccio con cui Emir si era coperto gli occhi, quelle non erano del figlio che gli era appartenuto. Era stata la Silph a invecchiarlo così? L'uomo che dormiva sul suo divano, coperto solo della vecchia giacca a vento con cui aveva viaggiato, era pietosamente magro, di una magrezza insalubre, consunta, e dimostrava più anni di quanti ne avesse.

Era andata a finire proprio come egli stesso aveva predetto, ormai sei anni prima, il giorno che avevano litigato ed Emir se n'era andato: la Silph lo aveva sedotto e incoraggiato e poi se n'era impadronita e lo aveva distrutto, e in tutto questo egli aveva sempre avuto ragione... Emir era tornato da lui umilmente come il figliol prodigo, ammettendo il proprio errore col candore di un bambino, e alla fine aveva dovuto tacitamente riconoscere la verità, ammettere ch'egli aveva sempre avuto ragione... eppure, questo pensiero non suscitava in lui neppure la minima traccia del compiacimento che si era aspettato. Forse era troppo vecchio, o troppo disilluso, per sentirsi ancora compiaciuto riguardo a qualcosa.

Erano quasi le cinque e mezza del mattino: se anche egli non avesse avuto così tanti pensieri per la testa, in quel momento, non avrebbe avuto comunque alcun senso tornarsene a letto.

Cercò qualcosa da fare. Si preparò molto lentamente e in grande silenzio, per non fare troppo rumore e per lasciar passare un po' di tempo. Lavò i piatti, ma quando pensò all'idea di far colazione, scoprì che il solo pensiero del cibo lo infastidiva. Andò a cercare una coperta dal vecchio armadio di rovere un po' tarlato per coprirne il figlio, scostando delicatamente la giacca a vento impolverata, e si rasserenò un po' quando si accorse che Emir continuava a dormire profondamente malgrado i suoi movimenti. Forse dormendo avrebbe potuto dimenticarsi per qualche ora di ciò che aveva fatto.

Ma anche dopo aver fatto tutte queste cose, e averle fatte con la massima calma possibile, il signor Fuji si ritrovò a non aver più niente da fare per attendere il giorno e il risveglio di suo figlio. Ancora non accennava neppure ad albeggiare, e anche ammettendo che qualcuno dei volontari decidesse di alzarsi particolarmente presto e di passare da lui prima della scuola, mancavano a ogni buon conto almeno una o due ore. Quanto a sedersi ad aspettare senza far niente, questo era proprio qualcosa ch'egli non aveva mai tollerato di fare e non lo prese neppure in considerazione. Era ancora troppo presto perché l'edicola in fondo alla strada fosse aperta? Valeva la pena di fare un tentativo.

La strada era aspersa di quell'uniforme luce grigia e livida delle giornate che si prospettano belle ma che ancora non hanno avuto tempo di schiudersi al giorno. L'edicola non era ancora propriamente aperta, ma il giornalaio, ch'egli era abituato a considerare un amico per il semplice fatto che apparteneva alla sua stessa generazione, stava sistemando i grandi pacchi di quotidiani della giornata. Era già mattino, ma si salutarono egualmente in silenzio, parlando colla voce bassa che ispirava loro la sensazione persistente che non ancora fosse esattamente giorno.

Sulla via del ritorno verso casa, Fuji aprì il giornale e lesse: Isola Cannella – Scompare Mew, l'esemplare unico al mondo del Laboratorio Pokémon. La Silph SpA offre ricompensa milionaria per il ritrovamento.



Ciao a tutti!

Sono veramente contenta di poter finalmente dare alla luce questo progetto sul quale sto lavorando ormai da almeno un anno e mezzo, la cui genesi è perfettamente riassumibile con queste parole: questo è quello che viene fuori quando vaghi per un paio d'ore nei sotterranei della Villa Pokémon dell'Isola Cannella per trovare un Ditto per eseguire un secondo Mew Trick.

Occorre prima di tutto chiarire un assioma fondamentale: per una mia precisa scelta, questa storia si baserà quasi esclusivamente (salvo laddove non sia possibile fare altrimenti) sui videogiochi di prima generazione, con qualche accenno alla seconda che costituisce con essa una sorta di unicum geografico e narrativo. Non è una scelta dettata da imperizia o ignoranza dei giochi successivi, ma è mio preciso intento cercare di rendere il più possibile quell'atmosfera che ha vissuto chi, come me, giocava a Pokémon Rosso o Blu ai tempi della loro uscita. Kanto non era una regione magica e ricca di leggende come quelle successive: era una regione collocata nel nostro mondo, impegnata nella lotta all'inquinamento e nella ricerca scientifica e genetica. Cercherò di attenermi a questa versione il più possibile, spiegando capitolo per capitolo le scelte fatte; naturalmente avrò piacere di discutere di queste scelte con chiunque abbia domande o sia interessato a confrontarsi al riguardo.

Per il momento non mi rimane davvero altro da dire, spero che non mi sia sfuggito nulla!

Un caro abbraccio a tutti


Afaneia


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Capitolo 2
*** Fragile. ***


Capitolo I – Fragile.


Era una notte calda e soffocante e senza vento quella in cui Valérien, senza alcun preavviso e senza alcun motivo apparente, entrò nella sua tenda e sedette nervosamente al tavolo da campo, torcendosi le mani senza dire una parola.

Per qualche strano motivo, Emir non fece alcun gesto per manifestargli d'essere ancora sveglio nell'immobile notte equatoriale, colla pelle madida di sudore e le orecchie echeggianti dell'eterno ronzio delle zanzare. Sapeva che avrebbe dovuto sollevarsi sul letto e domandargli che cosa ci facesse lì, se fosse successo qualcosa di grave o se avesse bisogno di qualcosa... eppure, aspettò ancora, immobile sulla branda col capo rivolto dall'altro lato. C'era qualcosa, nel contegno nervoso di Valérien, che gli suggeriva che ci fosse qualcosa d'importante e vergognoso che doveva dirgli, e non gli parve opportuno mettergli fretta. Non si mosse.

«Sei sveglio?»

«Ehi» rispose Emir dopo qualche secondo. Si rigirò nella branda. «Dimmi.»

«È successa una cosa» si affrettò a dire Valérien, con un’ansia di confessione molto simile al sollievo.

Sollevandosi faticosamente a sedere sul letto, sotto la pesante zanzariera che avrebbe dovuto garantirgli il sonno, ma che a lui sembrava soltanto volerlo soffocare, Emir si strofinò più e più volte gli occhi e borbottò: «Ti ascolto.»

Come se non avesse atteso proprio nient’altro sin da quando era entrato nella sua tenda, Valérien disse tutto d’un fiato: «Credo di aver trovato un Pokémon nella foresta. Devi venire con me a vederlo.»

Se Emir era stato assonnato e confuso fino ad allora, il sonno lo abbandonò bruscamente. Aguzzò gli occhi nel buio, cercando d’infliggere lo sguardo nel volto di Valérien anche attraverso la notte, e disse ad alta voce: «Che cosa avresti trovato e dove?»

Valérien scosse la testa. «Non lo so. Non avevo mai visto un Pokémon simile. E poi, l’ho visto solo per pochi secondi…»

«È scappato?»

«No. Ma era Trasformato…»

«Oh… Valérien.» Se solo non avesse temuto di urtare i sentimenti di Valérien, che con tanta innocenza era venuto a infilarsi nella sua tenda per cercare il suo consiglio, Emir sarebbe scoppiato a ridere; ma anche trattenendosi dal ridere di lui, non poté proprio impedirsi di dirgli, in tono di lieve rimprovero: «Hai visto un Ditto!»

«Sapevo che l’avresti detto» disse Valérien, con voce improvvisamente divenuta fredda e delusa, e subito Emir si pentì del tono che aveva usato. «So distinguere un Ditto, Emir. Devi credermi, era… diverso. Devi venire con me a vederlo, subito.»

Con un sospiro profondo, Emir scivolò giù dalla branda e cercò a tentoni, nel buio, qualcosa di decente da mettersi. «Dove hai detto che l’hai trovato?»

«A mezzo chilometro da qui, nella palude.»

Gli salirono alle labbra tante proteste da non riuscire a dar voce a nessuna di esse. Di fronte a una tale spudorata imprudenza sentì che gli mancavano le parole: Valérien era un talento della biologia, d’accordo, ma era uno di quei geni distratti e svagati capacissimi di cacciarsi alla cieca in una situazione pericolosa come quella e di raccontarlo con la medesima naturalezza. Si sforzò di mettere a tacere il rimprovero che sentiva montargli nel petto e continuò a vestirsi. «Se veramente hai scoperto un nuovo Pokémon, sarà il caso di avvertire gli altri.»

«Credo che stia male, Emir» disse Valérien. Emir sentì che la camicia che aveva preso gli sfuggiva dalle mani nel buio. «Ti prego, vieni a vedere.»


Lasciarono il campo di corsa, arrancando nella foresta quasi a tentoni, aiutandosi più coi loro ricordi che con la luce delle torce, i cui crudi raggi luminosi saettavano tra gli alberi, attirando a ogni momento nugoli di moscerini e zanzare affamate.

L’aria era satura persino a quell’ora del profumo dei grossi fiori tropicali, ma l’odore si attenuò a poco a poco a misura che essi si allontanavano dal cuore della foresta e si avvicinavano alla vasta zona paludosa che finiva per perdersi, quasi insensibilmente, nel letto del fiume. Ma per quanto greve e pesante fosse il profumo dei fiori, l’odore marcescente della vegetazione che imputridiva nel fango era incomparabilmente più penetrante, ed Emir pensò di non aver mai detestato Valérien tanto quanto in quel momento.

Il suo cuore sobbalzò quando il raggio della torcia incontrò la prima turgida infiorescenza maleodorante.

«Valérien, diavolo! È il nido dei Gloom!»

Avevano esplorato e mappato quella zona, popolata interamente da Gloom e da qualche raro e robusto Vileplume, appena il giorno prima, e l’avevano reputato fin da subito un luogo di scarso interesse. Se fosse stato giorno, Emir non dubitava che si sarebbe accorto fin dall’inizio della direzione che avevano preso; ma era notte, ed egli non dormiva in pratica da quaranta ore. Era probabilmente più arrabbiato con sé stesso per non essersene accorto che con Valérien per averlo portato lì; eppure lo aggredì egualmente, spegnendo con rabbia la sua torcia per evitare di disturbare i placidi Gloom addormentati. «Sei venuto qui da solo, in piena notte, in un nido di Pokémon velenosi! Hai idea di cosa ti sarebbe potuto capitare?»

«Stanno dormendo!» si difese Valérien.

«Non avevi neppure un Pokémon per difenderti!» sbottò Emir, ma ormai più per dar sfogo alla sua rabbia che perché quella conversazione potesse portarli da qualche parte. Valérien era fatto così, svagato e distratto e assolutamente irresponsabile, e per quale motivo egli l’aveva scelto per partecipare a quella spedizione?

L’odore di carne putrefatta che i Gloom emanavano era troppo intenso e asfissiante per continuare a discutere sterilmente per il puro gusto di farlo. Imprecando ancora dentro di sé, Emir si frugò più volte nelle tasche alla ricerca di un fazzoletto per coprirsi il viso e ordinò: «Andiamo, dai. Visto che siamo arrivati fin qui, tanto vale cercare questo Pokémon misterioso e vedere se possiamo fare qualcosa per aiutarlo.» Anche se è sicuramente un Ditto, ma questo, incidentalmente, rimase non detto.

«È qua vicino. Vedi quell’albero caduto?»

Il fascio luminoso della sua torcia incontrò nel buio la possenza immane di un tronco abbattuto che si stendeva nel fango, attorno al quale una schiera di Gloom aveva trovato riparo per la notte. La strada, fino a quel punto, sembrava sicura e piuttosto breve: valeva la pena avvicinarvisi al buio, per ridurre al minimo il rischio di svegliare i Pokémon addormentati. Non si trattava di Pokémon aggressivi, ma spaventarli sarebbe stato troppo semplice: col loro veleno e il loro soprannumero, quanto tempo avrebbero impiegato a sopraffarli?

Riaccesero la torcia solo quando furono così vicino all’albero da non poter muovere ancora un solo passo senza rischiare di travolgere i Gloom, e l’odore era divenuto tanto penetrante da far lacrimare loro gli occhi. A un tratto Valérien gli tirò silenziosamente un braccio, senza emettere un suono, e gi indicò un punto in cui le enormi radici, grottescamente essiccate, si protendevano come silenti richiami verso il cuore della. Anche lì dormivano dei Gloom, ma in numero decisamente scarno: non potevano essere più di cinque o sei, e questo rapido calcolo lo rassicurò.

«È qui» mormorò Valérien, cercando di schermare in parte la luce della torcia. «Lo vedi?»

Tutto ciò che Emirvide, guardando nel disco di luce che si allargava al suolo, fu un Gloom addormentato con la faccia rivolta verso il tronco.

La rabbia gli montò dentro come una vampata.

«Valérien…»

«Guarda!» lo implorò Valérien.

Quando Emir tornò a chinare gli occhi sul tronco, al posto del Gloom c’era un Pokémon mai visto prima.

Aveva un corpo roseo e sinuoso, della grandezza di quello di un bambino, ma immensamente più fragile, e mostruosamente bello, con zampe affusolate e una coda molto lunga, sottile, in quel momento acciambellata sotto di lui. Aveva occhi enormi e spalancati, che splendevano più azzurri del cielo nel raggio della torcia, con le pupille innaturalmente dilatate dalla luce e dal dolore. Eppure, per quanto Emir si fosse bloccato d’istinto, trattenendo il respiro e impedendo a sé stesso di compiere anche il minimo movimento per non spaventarlo, dopo qualche istante si rese conto che non aveva affatto paura.

Il Pokémon aveva il volto scavato dalla sofferenza e il petto che si muoveva a brevi intervalli rapidi e ravvicinati, affannati; ma quando Emir si chinò in avanti, protendendo le mani verso di lui, e gli toccò cautamente il ventre colla punta delle dita, esso non si ritrasse, non si spaventò, non fece niente. Rimase perfettamente immobile e calmo, come un Pokémon che fosse abituato al contatto con l’uomo già da molto tempo, e attese con gli occhi spalancati come fanali, ma tranquilli e attenti, e il cuore che batteva fortissimo.

Il suo pelo era madido di fango e di sudore, la sua pelle bruciava di febbre; ma quando Emir ritrasse le dita e le accostò a sé, affannandosi a cercare una causa visibile, si rese conto che non erano incrostate solo di fango.

Il Pokémon che aveva di fronte era ferito, e la ferita puzzava.


Stesero il Pokémon sul tavolo da campo della sua tenda, sopra uno dei teli sterilizzati che sarebbero dovuti servire a imballare i campioni fossili che la spedizione stava cercando. L’avevano trasportato fin lì, arrancando al buio nella foresta, senza provocare neppure un gemito nel loro piccolo paziente; ma ora che erano riusciti a trascinarlo fin lì, a che cosa era servito?

Ciò che di quella ferita lo spaventava era che sembrava avvelenata, ed era gonfia di un pus verde e maleodorante dal quale egli si sentiva nauseato.

Il dottor Emir Fuji aveva un dottorato in ingegneria genetica, non era un medico o un chirurgo di specializzazione; nella sua tenda, come tutti i suoi colleghi, egli aveva una cassetta di pronto soccorso e tutta una serie di antidoti, ma in quel momento avrebbe potuto avere a disposizione anche una scatola di aghi e bottoni. Di fronte a una ferita di tale entità, c’era una sola persona in tutta l’equipe di cui egli poteva fidarsi.

Senza neppure voltarsi verso Valérien, mentre cercava di lavare via sangue e sporcizia dalla pelle del Pokémon, Emir disse sordamente: «Va’ a chiamare Rotwang1, Valérien.»

«Rotwang?» La voce di Valérien vacillava d’incertezza in attesa di una conferma. «Ma Emir, è tardi…»

Fu solo all’udire il tremore della sua voce che Emir realizzò per la prima volta che Valérien sarebbe dovuto andare prima da Rotwang, quella notte, e che non ci era andato perché ne era terrorizzato. Possibile che quel dannato tedesco fosse in grado di spaventarlo a tal punto?

«Valérien, non è il momento di discutere! Vacci e basta.»

Dopo un lungo istante di esitazione, tentennando in mezzo alla sua tenda, Valérien mormorò con voce spezzata: «Emir, ti prego…»

Con un’imprecazione terribile, Emir lo spinse da parte e si precipitò fuori dalla tenda.

Era mai possibile che Rotwang fosse in grado di spaventarlo tanto? Certo, era ovvio che si sarebbe infuriato e li avrebbe mandati al diavolo; ma chi si credeva di essere? Era un chirurgo, va bene; un bravo chirurgo, ma poi? Il capo della spedizione era lui, il direttore del laboratorio era lui: possibile che persino in una situazione d’emergenza come quella il solo pensiero di Rotwang potesse paralizzare a tal punto un professionista come Valérien?

Emir percorse l'accampamento silenzioso e furente come una folata di vento. Non avrebbe neppure saputo dire per quale motivo, esattamente, fosse tanto arrabbiato – perché Valérien aveva avuto paura? O forse perché piuttosto (ma questo mai egli l'avrebbe ammesso, neppure di fronte a sé stesso) perché, per un breve istante, subito prima di dare l’ordine di chiamarlo, era stato lui ad aver paura?

Non del tutto casualmente, la tenda di Rotwang era la più lontana dalla sua. Non ne proveniva la minima luce, e una piccola parte di lui provò imbarazzo al pensiero di svegliare così bruscamente qualcuno che dormiva. Era un pensiero che avrebbe provato in ogni momento, nei confronti di chiunque – un semplice residuato della buona educazione impartitagli da sua madre, forse – eppure quell'unica esitazione gli diede una fitta di rabbia atroce quando si accorse di averla provata proprio nei confronti di Rotwang.

A causa del caldo soffocante della giungla, l'entrata della tenda era coperta solo da una zanzariera. Emir la strappò quasi via per la rabbia e d'improvviso, senza accorgersene, fu dentro.

«Alzati, Rotwang! Abbiamo bisogno di te.»

Così com'era ora, in piena notte e nel buio più completo, non poteva vedere niente. Ma ebbe la certezza che Rotwang c'era, e che era stato beatamente addormentato fino a un attimo prima, quando da qualche parte nel buio di fronte a lui vi furono un sussulto e un grido soffocato, e in un fruscio di lenzuola arrotolate, sovrastando il cigolìo della branda arrugginita, il pesante accento tedesco di Rotwang ringhiò: «Che cazzo fai, Fuji?»

Rotwang era lo straniero più maledettamente sboccato che Emir conoscesse, e lo era solo con lui: per tutti gli anni che avevano lavorato assieme, egli non gli aveva mai sentito dire una parolaccia o una volgarità che non fosse più o meno direttamene rivolta o riferita a lui. Per tutto il resto del tempo, con chiunque altro egli lo avesse sentito parlare, Rotwang manteneva scrupolosamente il comportamento del tedesco freddo e sbrigativo, rude ma sostanzialmente corretto che tanto doveva essere piaciuto alla Silph SpA quando gli avevano segnalato il suo curriculum con tante raccomandazioni. Emir lo trovava un atteggiamento ridicolo e puerile, e questo atteggiamento glielo faceva odiare ancora di più.

«Alzati, Rotwang! Abbiamo un Pokémon ferito. Sembra grave. C'è bisogno di te immediatamente.»

Non vi furono altri movimenti o scricchiolii provenienti dal buio. «Dagli della morfina e lasciami dormire. Sono un chirurgo. Che cosa pretendi, che venga ad aprirlo in queste condizioni?»

Quella risposta avrebbe fatto impazzire anche un uomo meno agitato di lui. «Alzati o ti licenzio, Rotwang. Sai che posso farlo.»

La branda scricchiolò. Quel bastardo era tornato a stendersi?

«Okay, Fuji... licenziami. Secondo te col materiale che mi hanno dato che diamine dovrei fare? Posso intontirlo di morfina e cauterizzare la ferita col fuoco, se qualcuno di voi ha un accendino. Ah, e forse ho del cortisone da qualche parte. Senti, perché non scrivi alla Silph di assumere un guaritore al posto mio? Uno di quelli che guariscono imponendo le mani. Buonanotte, Fuji.»

Della questione del materiale, Rotwang si era lamentato ininterrottamente per mesi, forse per anni, da quando erano arrivati i primi consistenti tagli al progetto. Ne aveva sempre dato la colpa a lui, e per quanto Emir avesse in tutti i modi cercato di dimostrargli che non era vero, telefonando in sua presenza a Zafferanopoli e anche scagliandogli fisicamente addosso tutta la documentazione, Rotwang non gli aveva mai dato retta, forse perché era troppo comodo per lui considerarlo allo stesso pari dei dirigenti della Silph.

«C'è bisogno di te adesso» insisté Emir, senza accennare a tirarsi indietro di un passo. «C'è un sacco di sangue di là. Vieni almeno a dargli un'occhiata.»

Per un po' di tempo, Emir non udì più niente, ma finalmente Rotwang disse: «Ormai mi hai svegliato. Vengo, ma voglio gli straordinari in orario notturno, e mi aiuti a portare la cassa del materiale.»

Era fatta. Ma per quale motivo Emir aveva avuto tanta paura di Rotwang, poi? Era insopportabile, certo, e presuntuoso; ma era un medico per vocazione, malgrado le sue continue frecciatine sullo stipendio, e non avrebbe mai lasciato un Pokémon in difficoltà. Era stato stupido da parte sua aver tanta paura.

Sentì qualche altro sonoro cigolìo di vecchie molle arrugginite nell'angolo, poi Rotwang, che si era guardato bene dall'avvertirlo, accese una lampada da tavolo che lo abbagliò. Il medico scoppiò a ridere quando lo sentì imprecare.

«Attento agli occhi, eh, Fuji?»

Pensando al Pokémon che agonizzava sul suo tavolo, Emir si trattenne dal dirgli in termini molto chiari cosa pensasse del suo atteggiamento. «Va bene, andiamo, andiamo... stiamo perdendo tempo.»

«Va bene, allora... aggiornami.»

Finalmente quello che parlava con lui era il dottor Rotwang, il medico di fama mondiale che la Silph aveva fatto di tutto per accaparrarsi, e non senza motivo.

Quando i suoi occhi smisero di vedere ovunque macchie colorate, Rotwang era in piedi davanti a lui, a torso nudo, a cercare da qualche parte nella tenda i suoi scarponi da escursione, coi lunghi capelli biondi che gli ricadevano in continuazione sugli occhi via via che cercava di spostarli. Non l'aveva mai visto a torso nudo: aveva l'aspetto arrossato e insalubre dei nordeuropei, e la sua pelle odorava di chissà quale pomata antizanzare.

Per accelerare i tempi, Emir si affrettò a passargli una camicia che era stata abbandonata senza troppa grazia sul tavolo da campo. «Non ne so molto neanch'io. L'ha trovato Valérien nella palude, mezz'ora fa...»

«Il Pokémon, cazzo, Fuji, il Pokémon! Che idea devo farmi se non mi dici che Pokémon è?» sbottò Rotwang alzandosi e afferrando con rabbia la camicia che gli porgeva.

«Non lo sappiamo che Pokémon è, Rotwang!» esclamò Emir esasperato. «Se ti decidessi a venire, lo vedresti coi tuoi occhi. È un Pokémon che non ho mai visto, sei contento adesso?»

Rotwang aggrottò un lungo sopracciglio nero e arcuato, come se si sforzasse di non mostrarsi impressionato di fronte a lui. «Ehi, stai calmo, Fuji. Che pretendevi, che venissi nudo? Aiutami a portare il materiale e andiamo.»

Se avesse dovuto attendere un solo minuto di più, Emir sentiva che avrebbe urlato. Ma quest'ultima risoluzione giunse per lui come una liberazione: dalla penombra della tenda Rotwang fece riemergere la pesante cassa del materiale della cui inadeguatezza si era tanto lamentato, e finalmente poterono uscire: là fuori, all'esterno, la sua tenda illuminata dall'interno spiccava in mezzo all'accampamento come una fiaccola.

Trovarono Valérien in piedi accanto al tavolo a comprimere la ferita, col volto sbiancato e pieno di panico; ma non appena entrato, prima ancora di scaricare a terra la cassa del materiale, fu Rotwang a prendere il controllo della situazione.

«Spostati, Lestournelle, devo vedere che cosa devo fare. Voi due aprite la cassa, mentre io... porca puttana.»

Disteso sul tavolo, il Pokémon continuava a respirare lentamente, con brevi respiri stentati, affannosi, come se anche il minimo movimento del petto gli cagionasse un dolore atroce, e scrutava tutti loro con occhi enormi e dilatati dalla sofferenza, eppure ancora immensamente tranquilli. Non sembrava affatto spaventato dalle loro presenze angosciate, o confuso, o... al di là del dolore, sembrava paurosamente calmo, come se sapesse che, da parte loro, non aveva da aspettarsi alcuna minaccia, ma come se neppure la ferita e il dolore e l'infezione lo preoccupassero minimamente. Era calmo e forse un poco triste, e niente di più.

«Merda!» sbottò Rotwang appoggiandosi pesantemente al tavolo, come se a malapena le gambe lo reggessero in piedi; ma neppure a quel gesto la creatura parve spaventata da lui. Egli aveva scostato la garza con cui Valérien aveva tamponato fino ad allora la ferita, e aveva visto. Emir sapeva quale rapido ragionamento avesse formulato in quegli istanti il suo cervello, per averlo formulato lui stesso appena pochi minuti prima: quell'odore... «Dove l'avete trovato?»

«Al covo dei Gloom» rispose Valérien lugubremente. Il nome di quel Pokémon bastava da solo a confermare l’ipotesi che quella ferita e quell’odore suggerivano.

«Perché non mi hai detto che è avvelenata, Fuji?» gridò Rotwang senza neppure voltarsi verso di lui. Emir non l’aveva sentito mai tanto arrabbiato.

Cercò di giustificarsi. «Non ero sicuro di che tipo di ferita fosse, non avevo mai visto una…»

«Ma qualche film lo avrai visto anche tu, oppure no?» lo interruppe Rotwang, tornando a comprimere con rabbia la ferita. «Lestournelle, ci sono degli strumenti sottovuoto nella mia cassa, preparameli… gli avete dato qualcosa?»

Senza attendere risposta, cominciò a sfilarsi la giacca che si era gettato addosso e indicò con un cenno, senza neppure badare che qualcuno in quel momento lo stesse davvero guardando, la lampada da campo che rischiarava la tenda. Senza scomporsi, Emir si affrettò ad avvicinargliela. In quel momento era il chirurgo a dare ordini nella sua tenda, ed era del chirurgo ch’egli aveva bisogno.

Faticò qualche istante a ricordare le parole di Rotwang. «Io… no. No, non gli abbiamo dato niente. Ho solo lavato la ferita, per quel poco che…»

«Lo vedo» disse Rotwang a bassa voce, guardandolo nella bassa luce abbagliante della lampada. Emir pensò di non averlo mai visto tanto preoccupato. «Fuji, tu sai fare un’iniezione di morfina in vena?»

Almeno di quello era capace. All’interno della cassa tutto era stipato in un ordine miracoloso: mentre Valérien sistemava tutti gli strumenti chirurgici che aveva trovato, Emir ripescò senza troppo cercare una siringa sterilizzata e una fiala di morfina e si precipitò di nuovo accanto al tavolo.

Rotwang stava borbottando qualcosa in tedesco quando gli fu vicino. «Hai i guanti? Bravo, molto bene. Ora ti facciamo dormire, d’accordo?» disse rivolto al Pokémon, che non aveva l’aria di capire granché la sua lingua, ma ricambiò comunque il suo sguardo con grande dolcezza. Era mirabilmente bello.

Mentre trafficava intorno alla fiala per aprirla, Emir si schiarì la voce. «Pensi che…»

«È merda, Fuji» tagliò corto Rotwang con voce roca. «Non ti aspettare niente. Se fosse altrove, amputerei. Ma è all’addome e vedrò quello che posso fare coi pochi strumenti che ho.»

Non c’era altro da dire. Rotwang accarezzò con due dita il muso del Pokémon quando l’ago penetrò sotto la cute: esso spalancò gli occhi e mugolò piano, ma non accennò neppure ad agitarsi, e parve non avere la benché minima paura, come se provasse verso di loro una fiducia incondizionata e senza pari. Rotwang ne fu molto colpito.

«Ehi» borbottò come tra sé, mentre continuava ad accarezzarlo. «Certo che sei un tipo tranquillo, tu. Più tardi devi dirmi come ti chiami.»

Mew, miagolò il Pokémon, mentre la morfina faceva effetto.


Morì attorno alle undici del mattino.

Rotwang si era affaccendato attorno al tavolo per tutta la notte, cercando di salvarlo con quei magri mezzi che aveva, colle labbra tese e fredde e la fronte profondamente aggrottata, sudata, e poi, attorno alle sei, quando già i primi raggi di sole avevano cominciato a penetrare nella tenda e a confondersi fastidiosamente colla luce della lampada, si era arreso, si era strappato di dossi i guanti con un’imprecazione terribile, e se n’era andato.

Durante l’operazione erano arrivati anche i loro colleghi. Si erano svegliati quando avevano sentito l’unico disperato grido che Mew avesse emesso quella notte, ed erano accorsi; non avevano fatto molto rumore, e Rotwang neppure si era voltato a guardarli. Valérien aveva riassunto loro l’accaduto, ma quasi a cenni, parlando a malapena per evitare di disturbare il chirurgo che agiva, ed essi allora erano rimasti in piedi, attoniti nella tenda, ad aspettare e a fissare con occhi increduli il Pokémon che languiva sotto i ferri.

Quando Rotwang se n’era andato bestemmiando, rendendo anche troppo chiaro a tutti che non c’era mai stata alcuna speranza, nessuno aveva detto niente. Emir si era limitato a voltarsi, e nei loro occhi spauriti, nelle loro bocche stanche aveva vista riflesso il suo proprio volto.

Non c’era stato altro da dire. Erano rimasti tutti là dentro, nonostante non ci fosse più nulla che potessero fare e l’aria della tenda divenisse via via sempre più irrespirabile e soffocante a misura che il sole si levava. Si erano limitati a ciondolare nervosamente attorno al tavolo, chinandosi di tanto in tanto a osservare quei grandi occhi sofferenti eppure ancora disperatamente lucidi e calmi, e a non guardarsi mai gli uni con gli altri.

Alla fine, uno alla volta, se n’erano andati. Vincent era stato il primo: era sgusciato via in silenzio, con le guance esangui e l’aria di qualcuno che potesse svenire da un momento all’altro, mormorando qualcosa sull’andare a cercare Rotwang. Portia l’aveva seguito poco dopo, senza neppure cercare d’inventare una patetica scusa, passando le mani sulle loro spalle come a dar loro forza.

Alle otto del mattino erano rimasti solo lui e Valérien accanto al tavolo, e il Pokémon ancora non accennava a chiudere gli occhi e a riposare un poco. Guardava dritto verso di loro, ma nei suoi grandi occhi sofferenti Emir non aveva scorto altro, al di là del dolore, che una grande ineffabile pace, come s’esso sapesse perfettamente di doversi trovare lì, in quella tenda angusta, a morire. La sua pace lo sconvolgeva oltre ogni dire.

«Vai a dormire un po’, Valérien» aveva detto a un certo punto, senza guardarlo. «Non hai chiuso occhio per tutta la notte, e poi… non serve che restiamo entrambi. Hai sentito Rotwang. Non possiamo fare altro.»

Valérien non si era mosso.

«Davvero, vai. Ti chiamo io se… insomma, se fossimo nella tua tenda, io tornerei a dormire. Dico davvero.»

«Fa troppo caldo per dormire» aveva mormorato Valérien, con l’aria di voler porre freno alla conversazione, ed Emir alla fine aveva lasciato perdere. Valérien era poco più che un ragazzo, ma non era un bambino, e non ci sarebbe stato modo di convincerlo.

Finalmente, poco dopo le nove, il Pokémon aveva perso conoscenza, e infine morì attorno alle undici, serenamente e senza altre sofferenze superflue, ed essi rimasero soli.

«È finita» disse Valérien dopo un po’. Emir avrebbe voluto poter sentire sollievo nella sua voce, la consapevolezza di aver fatto tutto quello che potevano, che quella morte doveva esser destino… ma di sollievo non ce n’era.

Dopo un tempo indefinibilmente lungo da quando il petto di quel Pokémon si era alzato per l’ultima volta e poi non si era più abbassato, Emir fu il primo ad alzarsi. Non ne poteva più di star seduto, non disse neppure nulla. Uscì dalla tenda quasi senza accorgersene.

Pensò per un attimo di allontanarsi dal campo, di tornare nella giungla, anche così, da solo, e cercare di nuovo il nido dei Gloom, e là fare qualcosa, qualunque cosa… ma anche se non avesse cambiato idea, se non avesse saputo quanto vano e privo di significato e anche profondamente stupido questo sarebbe stato, sentiva già anche troppo bene che le sue gambe stanche non sarebbero state in grado di portarcelo. Ma nella sua tenda, accanto a quel corpo minuscolo e immobile che giaceva in piena vista, là dentro Emir non ci poteva stare.

Eppure perché era tanto sconvolto? Quello che era morto era solo un Pokémon, un Pokémon raro, certo, e mirabilmente bello: ma come erano riusciti a trovare lui, ne avrebbero trovati altri esemplari, a furia di cercare… ma se lo sapeva perfettamente che non era per aver perso quella possibilità che era sconvolto! Ma se non era per quello, che senso aveva? Forse che non aveva appreso già abbastanza bene, in tutti quegli anni in cui aveva lavorato per la Silph, che era naturale che i Pokémon morissero?

Se non avesse mai visto quel che aveva visto quella notte, non sarebbe andato a trovare Rotwang. Ma per quanto quell’uomo lo odiasse e lo disprezzasse, quella notte si era vestito e lo aveva seguito, ed era rimasto per ore a cercare di salvare quel Pokémon moribondo che lui e Valérien gli avevano portato, e ora Emir voleva parlargli.

Per quanto a quell’ora del mattino fosse ancora in ombra, l’interno della tenda era già soffocante. Quando Emir si affacciò cautamente sulla soglia e guardò dentro, Rotwang era là, a scartabellare nervosamente in un grosso libro gettato sul tavolo. Si era tolto la camicia, forse per il caldo o forse per cercare di rimuovere ogni residuo di quella notte, ma non si era fatto la barba, e i capelli gli ricadevano sulle spalle e sugli occhi a ogni suo movimento rabbioso. Emir dubitava che avesse realmente qualcosa da cercare là in mezzo.

Senza osare di avvicinarsi troppo a lui, Emir mormorò: «Ehi…»

Rotwang non si voltò verso di lui, ma egli non dubitò che lo avesse sentito dal movimento rigido che ebbero le sue scapole al di sotto della canottiera sportiva. Non reagì.

«Volevo solo…»

«L’hai fatto apposta, vero?» domandò Rotwang senza guardarlo.

Di tutte le parole d’accusa che avrebbe potuto rivolgergli, decisamente questa Emir proprio non se l’aspettava.

«Che cos’è che avrei fatto apposta, Rotwang?» domandò stancamente, appoggiandosi con la mano a una scansia di metallo che conteneva gli oggetti da lavoro del medico. «Non l’ho trovato neppure io quel Pokémon, i meriti della scoperta vanno tutti a Valérien, perciò se vuoi accusarmi di…»

«Oh, non di questo, no» sbottò Rotwang, voltandosi seccamente verso di lui. Era mortalmente pallido, ma l’ardore dei suoi occhi infuocati, in modo del tutto irrazionale, gli fece paura. «La tua vanagloria, per una volta, non c’entra niente… no, tu lo sai cos’hai fatto, Fuji! Tu lo sapevi che ormai per quel Pokémon non c’erano più speranze, non sarai un chirurgo ma sei un biologo, non un filologo! Eppure me lo hai messo lo stesso sotto i ferri, anche se in fin dei conti lo sapevi che non valeva neppure la pena di spostarlo, che sarebbe stato più pietoso lasciarlo morire dove lo avevi trovato…»

La requisitoria di Rotwang non era ancora finita, ed egli addirittura si era avvicinato di un passo, lo incalzava più da vicino; furioso com’era, forse in quel momento non era neppure in grado di sentirlo, eppure Emir non poté fare a meno di provare a difendersi. Quando tentò di parlare, la voce gli uscì di bocca tremante e soffocata, come s’egli ne avesse paura, eppure egli esclamò egualmente: «Non sapevo che stava morendo, dovevamo almeno provare…!»

«Ma ero io a dover provare, non è vero? Ad affondargli le mani nella carne e a sentirmelo morire sotto le dita... anche se persino un bambino si sarebbe accorto che non c'era niente che potessi fare! Eppure tu e Valérien adesso sarete quelli che hanno cercato di salvarlo, mentre io, invece...»

Ma in quel preciso momento, proprio quando Rotwang stava finalmente per scaricargli addosso che cos'era esattamente ch'egli sarebbe stato, d'ora in poi, per colpa sua, la voce acuta e sovreccitata di Valérien lo interruppe in modo inaspettato. Da qualche parte, proprio in mezzo al campo, egli gridò: « Emir! Emir, presto, vieni a vedere!

In circostanze normali, Rotwang si sarebbe certamente infuriato per esser stato interrotto, anche solo involontariamente, da qualcuno come Valérien, ed Emir era già rassegnato a sobbarcarsi anche questa nuova sfuriata... ma essa non venne. Quel mattino, il dottor Rotwang doveva essere troppo estenuato, o troppo deluso e amareggiato, per riuscire ad arrabbiarsi oer qualcosa di tanto puerile. Al contrario, come accorgendosi di aver esagerato, o quantomeno d'essersi scoperto un po' tropo, egli indietreggiò d'un passo e cercò di ricomporsi.

«Va' dal tuo amichetto, Fuji» disse a bassa voce, con lo sguardo diretto altrove, come a cercar con gli occhi qualcosa d'invisibile all'interno della tenda. «Temo che abbia un disperato bisogno di te.»

La voce di Valérien suonava carica d'ansia e di preoccupazione e vibrante di necessità, eppure, quando istintivamente egli fece per uscire dalla tenda, qualcosa dentro di lui lo trattenne, e si fermò senza motivo. Si sentiva confuso. Balbettò: «Non abbiamo ancora finito di...»

Ma quando si volse di nuovo verso di lui, Rotwang non lo stava guardando. Aveva lo sguardo puntato precisamente nella sua direzione, certo, ma i suoi occhi increduli, divenuti enormi, guardavano qualcosa che era al di là delle sue spalle ed egli sembrava intento a tutt'altro che al loro litigio... ma che cos'era che stava guardando?

«Fuji...»

Ma alle sue spalle, ebbe appena il tempo di pensare, nel fugace attimo di tempo che il suo corpo impiegò a compiere un quarto di giro, non c'era che l'ingresso della tenda, e che cosa mai poteva...

Appena al di fuori della tenda, a mezz'aria, esattamente di fronte ai suoi occhi, fluttuava un Pokémon rosa con immani occhi azzurri.

«Mew.»


«È una femmina» disse nervosamente Valérien dopo un po'.

«Ti piace proprio sottolineare l'ovvio, eh, Lestournelle?» ribatté Rotwang.

Erano seduti nella sua tenda, malgrado l'aria già torrida e soffocante del sole levato: richiamati dalla voce di Valérien, anche Portia e Vincent erano accorsi alla loro volta. Nessuno dei presenti riusciva neppure a distogliere lo sguardo dal Pokémon che stava accovacciato sul tavolo da campo di Rotwang, a sfogliare con le piccole zampe affusolate il suo libro. Non era stato difficile attirarlo dentro la tenda: dopo essere arrivata al campo del tutto autonomamente, sembrava che gli esseri umani le fossero piaciuti molto. Alle caute carezze di Valérien aveva reagito balzando di gioia a mezz'aria, e quando quegli era entrato nella tenda lo aveva seguito e si era messa a curiosare qua e là con tutta la naturalezza del mondo. Neppure lei dimostrava la minima paura degli esseri umani, e in generale, esattamente come l’altro esemplare, non dimostrava paura affatto.

«È venuta a cercare lui» mormorò Portia, ma più come a voler cercare una conferma che ad asserire qualcosa volontariamente. Rotwang le scoccò un'occhiata contrariata, ma evitò di scagliarsi anche contro di lei. Di tutto il laboratorio, Portia era l'unica con la quale avesse in genere un buon rapporto, ed evidentemente non voleva cambiare le cose proprio quel giorno.

Lui riposava ancora immobile nella tenda di Emir, sullo stesso tavolo da campo sul quale era stato operato, e ben presto sarebbe stato necessario rimuoverlo da lì, e soprattutto, inevitabilmente, si sarebbe dovuto analizzarlo e studiarlo... ma il solo pensare a quel corpo che giaceva immobile e che andava sempre più raffreddandosi lo riempiva di nausea e di brividi di freddo, ed Emir si sforzò di concentrarsi sul presente e di reprimere da qualche parte in fondo alla gola il senso di nausea che a ogni momento sentiva risalire.

«Non possiamo farglielo vedere» disse a mezza voce. «Dobbiamo tenerla lontana dalla mia tenda finché non avremo rimosso... insomma. Immagino che fosse la sua compagna. Dobbiamo trovare un posto dove spostare il... il...»

Rotwang gli rivolse uno sguardo furente al di sotto delle alte sopracciglia arcuate. Non disse nulla, ma tutto, tutto in lui pareva urlare a gran voce di trovare il coraggio di chiamarlo per nome – il cadavere!

Vincent aveva l'aria di voler aggiungere qualche cosa a quello ch'egli aveva appena detto, ma dopo un attimo di esitazione decise di lasciar perdere. Conoscendolo, doveva aver pensato alla necessità di eseguire un'autopsia, per determinare con certezza le cause della morte e poter approssimare almeno una conoscenza sommaria della fisiologia del nuovo Pokémon, ma con Rotwang in quelle condizioni, cogli occhi vitrei e arrossati di rabbia e di pianto, non c'era neppure da prenderlo in considerazione, per il momento.

«Troveremo sicuramente un posto adatto» si limitò a dire diplomaticamente.

Di tutti i presenti, Portia era sicuramente quella più calma e razionale, che era poi la ragione per cui Emir aveva tanto insistito per assumere proprio lei nel suo team di ricerca – poiché di tutti i membri del suo laboratorio, Portia era anche l'unica che avesse frequentato, come lui, l'Ateneo di Azzurropoli, sia pur laureandosi in Biofisica, ed era perciò l'unica ch'egli conoscesse da prima della fondazione del laboratorio.

«La tua è stata una scoperta eccezionale, Valérien, indipendentemente dagli sviluppi.» Le ultime parole furono pronunciate con tutta la delicatezza che le era possibile, ed ella sfiorò appena un ginocchio di Rotwang mentre parlava; ma quegli non le manifestò il benché minimo segno di gratitudine o di conforto a quel gesto. Se ne stava arroccato sulla sedia pieghevole da campo, colle gambe nervosamente accavallate e le braccia incrociate sul petto, e i suoi occhi cupi e arrossati non si distoglievano minimamente dai movimenti del Pokémon sul tavolo. «Forse dovremmo tornare alla palude dei Gloom e controllare meglio. Se quello è l'habitat di questa specie, potrebbe essere l'unica occasione che abbiamo per trovare un altro esemplare.»

In risposta alla sua proposta, Valérien si decise finalmente a parlare per la prima volta da quando era arrivata la seconda esemplare del nuovo Pokémon. Aveva le guance pallide come di cera e gli occhi lucidi di febbre. «Non possiamo essere certi che non ce ne siano altri esemplari. Per quanto ne sappiamo, potrebbero vivere in coppie isolate e la coppia più vicina potrebbe essere dall'altra parte della Guyana. O in Patagonia, o nella Terra del Fuoco, o...»

«O a un paio di chilometri da qui» lo interruppe Portia. «Valérien, ora tutti quanti siamo sconvolti, ma se lasciamo perdere ora ce ne pentiremo per tutta la vita. Forse ancora non ce ne rendiamo bene conto, ma abbiamo appena scoperto una nuova specie di Pokémon! Vogliamo davvero preparare armi e bagagli e lasciar perdere tutto solo perché siamo stanchi e confusi e perché è accaduta una tragedia terribile che nessuno di noi avrebbe in alcun modo potuto evitare?»

Vedendo che nessun altro prendeva la parola, Vincent si schiarì timidamente la voce. «Sono d'accordo con Portia, ragazzi. La scoperta è senza precedenti, e inoltre... beh. Non possiamo continuare a raccogliere dati sui fossili come se nulla fosse, ora che abbiamo trovato lei; e la Silph non si accontenterà certo di farci tornare a Isola Cannella con un solo esemplare senza che proviamo neppure a trovarne un altro in questa zona...»

Il volto di Valérien diventava sempre più pallido e più spaurito a ogni parola di Vincent, ed Emir temette che fosse sul punto di vomitare da un momento all'altro. Ma prima ch'egli avesse modo d'intervenire e di interromperlo, Vincent riprese: «Valérien, la scoperta è tua. Pensa alla tua carriera. Forse ora non te ne importa, ma lo rimpiangerai tra qualche anno. Riflettici.»

Fino a quel momento Valérien non si era veramente reso conto del fatto che sì, la scoperta era sua, a lui andava il titolo d'essersi inoltrato in piena notte nel cuore della giungla e d'essersi imbattuto, per puro caso, nel Pokémon più raro del mondo... quell'improvvisa presa di coscienza gli fece avvampare le guance di confusione, ed egli distolse lo sguardo.

Per un po’ nessuno sembrò aver nient'altro da dire.

A capo della spedizione era Emir, ora toccava a lui prendere una decisione definitiva, e tutti stavano aspettando che si esprimesse. Sentendosi addosso le aspettative di tutti, Emir si sforzò di concentrarsi e di non pensare in nessun modo al piccolo corpo rosa che giaceva a pochi metri di distanza da loro, nella sua tenda, solo...

Da un punto di vista strettamente razionale, Portia aveva ragione: anche se ancora non lo avevano realizzato, con ogni probabilità avevano appena compiuto la scoperta più importante del secolo dopo quella del DNA. La morte del primo esemplare, per quanto sconvolgente e inaspettata, non si poteva imputare a loro, ed essi avevano fatto molto più di quel che era possibile fare in quelle circostanza; o almeno questo era quel che a ogni momento egli s'imponeva di sforzarsi di credere. Era in fin dei conti naturale che i Pokémon morissero, ripeté con rabbia a se stesso, persino quelli che sembravano irradiare sacralità con la sola presenza...

E poi, c'era la Silph. Quella spedizione era costata una cifra inimmaginabile, persino cogli abominevoli tagli di budget che l'azienda aveva loro imposto: cercare ancora sarebbe stato più conveniente per l'azienda.

Il caposaldo fondamentale della sua vita era il suo lavoro. Che cos'avrebbe detto il signor Dale, il suo diretto superiore, là a Zafferanopoli, alla notizia che avevano deciso di non cercare altri esemplari del Pokémon più raro del mondo per proseguire la raccolta di dati sugli habitat dei Pokémon preistorici - di cui disponevano ormai più o meno a sufficienza – o, peggio ancora, per tornarsene a Kanto?

La nausea che non accennava a passargli premeva ancora da qualche parte in fondo alla sua gola. Sforzandosi di ignorarla, Emir si alzò in piedi: tutti appuntarono all'istante gli occhi su di lui, e persino Rotwang, che stava guardando con ostinazione la punta dei propri stivali, gli gettò un'occhiata di sfuggita.

La voce che uscì dalla sua gola non era realmente la sua – quando si doveva decidere, era la Silph a parlare per suo tramite. «Avete ragione. Concentreremo le ricerche sul nido dei Gloom e le allargheremo a macchia d'olio per cercare qualche tracia, ma penso che dovremmo cominciare da domani.» Percepì chiaramente che Rotwang levava gli occhi su di lui, ma non si voltò da quella parte. Valérien aveva l'aria di guardarlo con grande attenzione, ed egli cercò di concentrarsi su di lui. «Per oggi abbiamo già abbastanza carne al fuoco. Dobbiamo cercare di dormire un po', io devo telegrafare a Zafferanopoli per comunicare i cambiamenti di programma e... e le altre cose da fare oggi.»

Gli sguardi di sollevato assenso dei suoi colleghi lo fecero sentire un po' meglio: l'aver preso una decisione li aveva sollevati dalla greve necessità di decidere a loro volta. Annuendo calorosamente, Portia gli sorrise con aria rassicurante. «Hai fatto la cosa giusta, Emir. Non possiamo fare nient'altro.» Persino Valérien, per quanto ancora pallido, sembrava enormemente rassicurato dalla sua decisione...

Alla sua sinistra, ai margini del suo campo visivo, Rotwang spostò la sedia nel modo più rumoroso possibile per alzarsi in piedi. Certo, non che Emir si fosse mai atteso da lui il minimo segno di approvazione, e anzi ci sarebbe stato da aspettarsi che reagisse scontrosamente... ma quel che accadde dopo, molto rapidamente, andava al di là di ogni sua aspettativa.

Battendo sonoramente i tacchi, Rotwang alzò il braccio destro e gridò: «Heil, mein Fürher!»

Gli si gettarono addosso in tre per trattenerlo quando gli si scagliò contro. Emir non vedeva nulla, non capiva nulla: sentiva di non riuscire ad avanzare mentre Vincent e Valérien lo tenevano per le braccia, vedeva di fronte a sé solo gli occhi di Rotwang e a malapena udiva Portia, aggrappata al suo petto, che lo respingeva gridando: «Lascialo stare, Emir, lascialo stare!»

«Chiedimi scusa, Rotwang! Chiedimi scusa o io ti giuro che non lavorerai mai più in tutta Kanto!»

«Lascia stare, lascia stare, lascia stare... non vedi che occhi che ha?»

Ma certo che sì, Emir li vedeva i suoi occhi rossi, stralunati, iniettati di sangue e dilatati dalla stanchezza, vedeva il suo ghigno gonfio d'odio e la sua barba non fatta, da pazzo, ma aveva anche orecchie per sentire, e Rotwang gli aveva appena dato del nazista! «Chiedimi scusa!»

«Pensi di poter dare ordini qua dentro, mein Fürher? Guarda che con voi eravamo alleati solo durante la guerra!»

«Rotwang, finiscila anche tu!» sbottò Vincent. «Se pensi di poter dire tutto quello che ti pare perché le cose sono andate come sono andate, allora...»

Ma di questo nuovo scambio di battute Emir non vide mai la fine. Portia e Valérien lo trascinarono fuori dalla tenda che ancora scalciava, immobilizzandogli le braccia dietro la schiena, mentre Vincent restava là a inveire e a urlarsi addosso con Rotwang i peggiori insulti possibili, e quasi senza accorgersene egli si ritrovò fuori, contro un albero, a dimenarsi e a farneticare che era calmo e che non voleva picchiare nessuno e che soltanto lo lasciassero tornare là dentro a discutere e a chiarire in maniera civile...

«Richard non è civile in qusto momento, Emir!» lo riprese Portia, staccandosi da lui solo quando fu ragionevolmente certa che non intendesse correre di nuovo dentro, o che quantomento fossero abbastanza lontani dalla tenda perché avessero modo di riprenderlo, se ci avesse provato. «Gli è morto un Pokémon sotto i ferri! Come puoi pensare che sia in sé?»

Sentendosi ancora profondamente scosso, Emir reagì. «Io non l'ho provocato, Portia! L'avete visto tutti che non lo stavo neppure guardando...»

«Voi due vi provocate solo a starvi vicini! Pensi d'aver bisogno di dire qualcosa per farlo infuriare?» lo rimproverò Portia. Era tanto esasperata da cacciarsi le mani tra i capelli spettinati, raccolti in uno chignon precipitoso che andava ormai sciogliendosi. «Emir, Richard ti odia perché odia la Silph e tu sei il direttore. Odierebbe chiunque al tuo posto.»

«No, mi odia perché è un bastado che odia tutto il mondo eccetto te! E poi se le cose non gli vanno bene può sempre... può sempre...»

Per tutta risposta Portia si esibì in un plateale, provocatorio battito di mani. Emir ne rimase così attonito da ammutolire all'istante; al suo fianco anche Valérien, che gli aveva lasciato andare le braccia ma che ancora seguiva i suoi movimenti con l'aria apprensiva di qualcuno che si aspettasse di vederlo scappare da un momento all'altro, la scrutava come impietrito.

«Davvero una bella mossa, Emir! Suggeriscigli di licenziarsi e lasciaci senza un medico... coi tagli a questo progetto, chissà mai chi ci manderebbero da Zafferanopoli al suo posto, anche ammesso che ci manderebbero qualcuno. Vuoi compromettere tutto il progetto?»

Per il progetto che il laboratorio stava portando avanti da quasi quattro anni, purtroppo, Rotwang era indispensabile. Emir ne avrebbe fatto a meno dannatamente volentieri, ma il progetto di rigenerazione e clonazione di Pokémon estinti a partire dai loro fossili richiedeva necessariamente un medico; e Rotwang, che possedeva due specializzazioni, era entrato a far parte dell'equipe di laboratorio non tanto come chirurgo, per quanto fosse eccezionale, quanto come medico genetista.

«Rotwang è sostituibile» balbettò Emir pur di non darle ragione.

Di fronte alla plateale falsità di quell'affermazione, le labbra di Portia si strinsero nervosamente. «Ah, davvero?»

Naturale che non lo era, dato che la tesi specialistica di quel dannato tedesco era un tomo di duecento pagine su una patologia mitocondriale che poteva aver accelerato l'estinzione dei Kabutops nel Paleozoico, e dato che quell'uomo aveva seguito passo per passo tutti gli sviluppi del progetto... assieme a lui, Rotwang era forse l'unico altro al mondo a conoscere realmente a menadito tutti gli aspetti dei loro esperimenti...

Nonostante ciò, disposto a negare qualsiasi evidenza che gli capitasse davanti, Emir s'impettì e rispose: «Certo che lo è.»

«Emir, ti prego, non esagerare» mormorò timidamente Valérien.

«Pensala come vuoi, Emir» disse infine Portia. Non sembrava in grado di sostenere oltre quella conversazione. «Il direttore sei tu. Se pensi che Rotwang ti abbia offeso in modo insormontabile, prendi pure i provvedimenti che devi... ma ricordati degli ultimi tagli, e soprattutto ricordati che gli è appena morto un paziente. Cerca di pensare a come ti saresti sentito tu se avessi dovuto mettergli le mani addosso, pur sapendo di non avere gli strumenti per farlo...»

Il tremendo rumore metallico dei ferri gli riempì i pensieri in modo assordante. Dell'operazione vera e propria egli non aveva visto più o meno niente, era rimasto dietro le spalle di Rotwang a passargli i ferri via via che quegli glieli richiedeva e aveva spostato un paio di volte la lampada, a seconda della zona da illuminare – ma quel rumore tremendo che era come lo sferruzzare di ferri da calza su carni vive era bastato da solo a colmarlo di brividi di freddo. Certo, Rotwang le mani addosso aveva dovuto mettergliele da solo, e da solo aveva dovuto fronteggiare le carni marcescenti di quel Pokémon mirabilmente bello che gli si era affidato con la fiducia incrollabile e incondizionata di un bambino...

Che Portia avesse o meno percepito la sua esitazione, ebbe almeno la compassione di non fargliela pesare. Quando parlò, la sua voce suonò molto dolce. «Dovreste riposarvi un po' adesso, tutti e due. Dovreste dormire almeno un paio d'ore.»

«Non posso tornare di là» disse meccanicamente Emir.

«Forse dovremmo prima sistemare...» balbettò simultaneamente Valérien. Lo spettro di quel piccolo Pokémon morto aleggiava ancora non detto.

Portia non si dimostrò disposta a trattare. «Ce ne occuperemo io e Vincent. Voi due avete già fatto più di quello che avreste dovuto. Valérien, anche tu, dico davvero... sembri febbricitante. Devi dormire anche tu.»

Per quanto fosse egoista e meschino, il pensiero di non dover toccare quel corpo lo fece sentire assurdamente sollevato. Era la stessa sensazione infantile e immatura di quand'era bambino e suo padre si addossava qualche compito al suo posto, che si trattasse di lavare i piatti o di risolvere qualche guaio che aveva combinato.

«Emir» insisté Portia, con voce sorprendentemente dolce e ferma. «La mia tenda è ancora un po' all'ombra. Vai a stenderti là mentre io aspetto Vincent, ti prego.»

Il vociare che si levava dalla tenda di Rotwang si era progressivamente attutito: conoscendo quei due, il loro litigio doveva essere terminato subito dopo che entrambi si erano sfogati, e ora chissà, forse ne stavano discutendo pacificamente. Quei due non si odiavano davvero, erano solo abbastanza testardi da scontrarsi e litigare e poi rappacificarsi per ogni questione di disaccordo, e probabilmente Vincent ne sarebbe venuto fuori ben presto.

Portia aveva vinto. Sentendosi profondamente grato in cuor suo nei suoi confronti, Emir si limitò a ringraziarla con lo sguardo. Non c'era altro da dire. Sotto la spinta inflessibile dei suoi occhi imperiosi, sia lui che Valérien si allontanarono in silenzio.

Valérien avrebbe voluto parlare ancora, chiedergli qualcosa, forse inconsciamente avrebbe voluto venir rassicurato, ma in quel momento Emir riusciva a malapena a guardarlo. Valérien si era appoggiato a lui sin dalla sua prima settimana a Isola Cannella, aveva guardato a lui come a un mentore prima ancora che a un collega o a un amico, ed Emir gli era sempre stato grato per la sua amicizia e la sua devozione... ma ora non si sentiva in grado di confortare nessuno.

Lasciando Valérien dietro di sé, Emir entrò nella tenda di Portia, dove ancora ristagnava la confusione frenetica di quella notte. La sua branda era ancora disfatta.

Emir vi si gettò sopra a peso morto, completamente vestito, affondò la faccia nel rigido cuscino scomodo sul quale ancora aleggiava il profumo dei capelli di Portia, e chiudendo gli occhi si sforzò d'immaginare che fosse quello della pelle di sua madre.


Dopo cena, non precisamente di sua volontà, andò a trovare Rotwang.

Non si prese troppo disturbo di avvertirlo prima di entrare. Il medico era steso sulla sua branda, con l'aria di qualcuno che avesse un gran bisogno di dormire e lavarsi e farsi la barba, e stava leggendo lo stesso libro che Emir gli aveva visto sul tavolo quel giorno.

Rotwang non distolse gli occhi dalle pagine, ma non c'erano dubbi che lo avesse sentito entrare, e ora stava aspettando che parlasse. Emir si schiarì la voce.

«Sono venuto a dirti che non ce l'ho con te per quello che hai detto oggi. Eri in un momento di forte stress e posso immaginare ciò che ti passava per la testa.» Non erano esattamente parole sue, ma dal suo punto di vista stava facendo anche troppo.

Senza neppure degnarsi di abbassare il libro, Rotwang gli gettò un'occhiata obliqua. «Visto che sei qui, mi dispiace che tu abbia pensato che volessi paragonarti a Hitler. Non era mia intenzione.»

«Oh.» Questo Emir proprio non se l'aspettava. Era una pallida parvenza di scuse, quella – il massimo che ci si potesse aspettare da Rotwang, poi? Ma mentre egli si affannava a cercare qualcosa da rispondere a quelle parole, l'altro proseguì: «Volevo solo accusarti di essere genericamente un dittatore, ma... sai com'è. Io sono tedesco.»

Non uccidere Rotwang, non uccidere Rotwang. Cercando di reprimere il profondo desiderio di colpirlo il più violentemente possibile con la costola del libro, Emir si appoggiò al tavolo da campo per trattenersi e domandò molto lentamente: «Perché volevi accusarmi di essere un dittatore?»

Rotwang girò provocatoriamente pagina, per quanto fosse chiaro, dal modo in cui si muovevano i suoi occhi, che non stava leggendo. «Lo sai perché.»

«Rotwang, non c'erano alternative. Veramente pretendevi che lasciassimo quel Pokémon a morire nella giungla solo perché non potevamo essere certi che potesse sopravvivere? Non hai giurato di prestare la tua opera in qualunque circostanza o qualcosa del genere?»

«Lo sai anche tu che non è per questo.»

Emir stava davvero per perdere la pazienza. «Beh, se è perché lavoro per la Silph, mi pare che i nostri contratti si assomiglino molto. Anche tu lavori per la Silph, nessuno ti ha obbligato. Mi odi solo perché sono il direttore?»

Finalmente Rotwang si degnò di mettere da parte il libro e si mise a sedere sul letto per guardarlo negli occhi. Erano arrossati non solo di stanchezza, incavati, profondamente addolorati. «Ti odio perché sei un venduto.»

Fu in quel momento, in cui egli cercava l'ennesima risposta da contrapporre all'ennesima accusa, che lo sguardo gli cadde davvero sulla copertina del libro, ed egli lesse: Anatomia Pokémon. Rotwang non stava leggendo per passare il tempo o per aggiornarsi, si rese conto d'improvviso. Stava cercando di capire dove aveva sbagliato e se c'era ancora qualcosa che avrebbe potuto fare per salvare quel Pokémon.

Rotwang lo stava fissando dalla branda con tutta l'aria di qualcuno che avesse solo voglia di litigare e non vedesse l'ora di farsene offrire l'occasione. Non è che Emir ne avesse meno voglia di lui, per la verità, ma d'improvviso gli parve che non ne valesse la pena, almeno quella volta, e che litigare richiedesse troppe energie. Per quel giorno i suoi bollenti spiriti tedeschi avrebbero dovuto accontentarsi del litigio con Vincent.

Sentendosi addosso un po' meno voglia di ucciderlo di prima, Emir trasse un sospiro profondo e disse: «Hai ragione, sono un venduto, tutto quello che vuoi. Comunque, senti... ero venuto a dirti che le mie minacce di licenziarti non significavano niente. Se poi vuoi dare le dimissioni perché non ti trovi d'accordo con la politica aziendale, su questo non posso pronunciarmi.»

Gli occhi di Rotwang si fecero più sottili, forse amareggiati perché la sua provocazione era caduta nel vuoto. Si lasciò ricadere pesantemente sulla branda, con aria scocciata, e tornò a sollevare provocatoriamente il libro davanti agli occhi. «No, Fuji, grazie tante. Per quanto io sappia quanto ti piacerebbe liberarti di me, temo che sarò costretto a importi la mia presenza ancora per qualche tempo.»

Non c'era niente da fare, Rotwang era quello che era. Poteva essere abbattuto, certo, ed Emir poteva sentirsi sinceramente dispiaciuto per lui, ma questo era quanto. Quell'uomo si stava divertendo a prendersi gioco di lui perché lo odiava, persino in quel momento in cui Emir aveva cercato di mettere da parte il rancore e di tendergli una mano pur sapendo di avere ragione.

Eppure questa domanda proprio doveva fargliela, era più forte di lui, proprio sulla punta della sua lingua. Quando ormai era già sul punto di lasciar perdere tutto e uscire dalla tenda, questa domanda lo trattenne: tornò indietro, si avvicinò alla branda e chiese: «Se sei così arrabbiato con la Silph, perché non te ne vai?»

Rotwang si strinse oltraggiosamente nelle spalle. «Non so. Forse perché ho qualcosa d'importante da fare qui.»

«Qualcosa tipo?» Emir cominciava a spazientirsi.

«Forse non ti riguarda, mio caro direttore.»

«Già... forse no.»

Una parte di lui avrebbe voluto davvero aiutare Rotwang a liberarsi di tutto quel dolore, o almeno a urlarlo, a esprimerlo, ma sembrava non essercene modo, forse perché non aveva sufficienti mezzi, o sufficiente partecipazione, per superare la barriera del suo risentimento.

Ci aveva provato. Emir sollevò la zanzariera e uscì dalla tenda e lasciò che Rotwang rimanesse là dentro, a fronteggiare da solo la morte di quel Pokémon.


5 luglio, Guyana. Abbiamo trovato un nuovo Pokémon nel cuore della giungla.






Buonasera!

Ricopiare questo capitolo è stato un parto, dato che quasi ogni scena era scritta in due o tre modi diversi su fogli diversi, e ho dovuto selezionare una frase alla volta da ciascuno dei fogli. Penso di aver capito come si sente un filologo, da questo punto di vista.

So che le scelte che ho compiuto in questo capitolo sono state un po’ estreme, forse inaspettate, ma spero proprio di non aver deluso le aspettative di nessuno, e anzi mi auguro di aver suscitato un po’ di curiosità.

Come mio solito, desidero ringraziare infinitamente cristal_93, KomadoriZ71 e Peppe_97_Rinaldi per le loro recensioni al prologo.

Un bacio enorme e alla prossima!

Afaneia



1Il nome del dottor Rotwang è ovviamente un tributo all’omonimo personaggio del mio film preferito, Metropolis di Fritz Lang; anche l’aspetto fisico del dottore è vagamente ispirato a lui, semplicemente perché Rudolf Klein-Rogge era un attore meraviglioso, interprete di personaggi destinati a rimanere nella storia del cinema, come Rotwang o il dottor Mabuse (e anche perché ho strani gusti in fatto di uomini, ma questo è secondario).


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Capitolo 3
*** Ipocrita (Parte Prima). ***


Ciao a tutti!

Riguardo a questo capitolo non ho molto da dire, se non che, come mi capita di frequente, stava venendo fuori un capitolo decisamente troppo lungo che ho deciso di dividere in due parti, seppure un po’ disomogenee, per agevolare la lettura. Spero di riuscire a pubblicare presto il prossimo aggiornamento per chiudere il cerchio!

Un ringraziamento di cuore alla carissima cristal_93 per la sua recensione al precedente capitolo.

Nel frattempo non posso che farvi i miei migliori auguri per il nuovo anno e augurarvi buona lettura.

Un abbraccio enorme


Afaneia



Capitolo II – Ipocrita (Parte Prima).


«L’hai rubato tu quel Pokémon?»

Quando Emir aprì gli occhi, sforzandosi di riprendere conoscenza nella nebbia vischiosa di sonno e bromazepam che lo avviluppava, suo padre era seduto sul tavolino del salotto, a pochi passi dal divano dov’egli dormiva, e lo fissava. Aveva in mano un giornale arrotolato, ma Emir non fece neppure un minimo sforzo per cercare di leggerne il titolo. Non ne aveva bisogno. Tutto stava andando esattamente come aveva previsto da giorni, e il fatto che il furto fosse stato scoperto, precisamente com’era nei suoi piani, lo fece sentire improvvisamente più calmo. Per quanto ciò significasse che era nei guai e che avrebbe perso il lavoro, egli adesso sapeva che cosa stava succedendo a Isola Cannella. Quell’articolo di giornale costituiva per lui un canale di comunicazione che lo faceva sentire padrone della situazione.

Emir si sollevò faticosamente a sedere sul divano e si strofinò più e più volte gli occhi per riacquistare lucidità. Era stato un pazzo a venire lì e ad attirarsi addosso tutti i sospetti: che cosa ci sarebbe stato di più naturale e conseguente di pensare che fosse stato lui a sottrarre Mew e poi a scappare…? Forse se non avesse preso almeno cinquanta o sessanta gocce di bromazepam la sera precedente, prima di andare a prendere Mew e portarla via, non avrebbe agito in stato tanto confusionale; che gli era venuto in mente poi? Forse che a trent’anni ormai compiuti gli era parso, come quand’era bambino, che correndo a rifugiarsi tra le braccia del padre tutti i dubbi che aveva sarebbero stati sciolti dalla sua confortante autorevolezza?

Ma questo era quel che era. Aveva bevuto tanto di quel bromazepam da rischiare una crisi, a stomaco vuoto, poi d’un tratto, al trovarsi nella sua enorme casa vuota, silenziosa tanto che gli era parso di poter udire il proprio cuore rimbombare a ogni momento, aveva immaginato che allo svoltare di ogni angolo, all’imboccatura di ogni corridoio ci fosse qualcuno che lo aspettava; aveva creduto di venir accusato e braccato da ogni parte e in ogni rumore che provenisse dalla strada aveva riconosciuto il suono di una volante della polizia che veniva a prenderlo. Allora l’ansia aveva trionfato sulle benzodiazepine, e nella sua confusione egli non aveva trovato che una soluzione: scappare nell’unico luogo al mondo nel quale nessuno sarebbe venuto a cercarlo - nemmeno lui stesso.

«Già.»

Suo padre non doveva essersi aspettato che confessasse così francamente, subito, e ne rimase spiazzato. Senza accennare a muoversi dal tavolino aprì la bocca, la richiuse, ci pensò un poco e infine riprese: «Perché?»

Questa volta la sua voce non ebbe cedimenti. «Perché dovevo portarla via alla Silph.»

«Oh» mormorò suo padre, che evidentemente non sapeva bene come comportarsi alla scoperta che, per una volta nella sua vita, suo figlio si comportava in un modo ch’egli avrebbe potuto approvare. Ma il suo stupore era destinato a esser solo momentaneo: quando tornò alla carica, pochi attimii dopo, le sue domande si fecero più pressanti: «Rubare un Pokémon non è come rubare un quadro, Emir. Dove l’hai nascosta? È sola, ha cibo e acqua…?»

«Papà… non preoccuparti.» Persino là dove si trovavano, dalla parte opposta della regione, Emir si sentiva ancora troppo sospettoso e agitato per confessargli i dettagli, e a ogni modo era più sicuro per entrambi che suo padre sapesse il meno possibile di quella storia; ma nel rivelargli quella sola informazione non gli sembrava che ci fossero pericoli, ed Emir ne approfittò per tranquillizzarlo. «È in una Pokéball. Per il momento non ha bisogno di nulla. No, non qui» soggiunse, intercettando lo sguardo che suo padre scoccò verso la sua giacca ripiegata con cura su una vecchia poltrona informe. «Non ti avrei mai portato un Pokémon rubato in casa, devi credermi: non intendo farti accusare di ricettazione, nel caso in cui dovessero…»

«D’accordo, ho capito.» Suo padre continuò a riflettere in silenzio per qualche minuto, ruminando tra sé tutte quelle informazioni, cogli occhi ancora infissi su di lui, come se volesse incollare ciò che stava scoprendo sopra l’immagine mentale che si era fatto del proprio figlio. Emir lo lasciò fare. Aveva sempre odiato la rigida mentalità severa e intransigente di suo padre, così come aveva sempre odiato la sua casa, che gli sembrava aver assunto l’odore delle case dei vecchi dal momento preciso in cui se n’era andata sua madre, e Lavandonia che di quell’odore era sempre stata impregnata da ch’egli potesse ricordare; ma stavolta sapeva di non poter dire niente. Era tornato a casa da solo, spontaneamente, e nella casa del padre, egli lo sapeva, era giusto che valessero le sue regole, e che il suo fosse l’unico metro di giudizio ad avere corso.

Finalmente, dopo aver ragionato per un po’ per conto proprio, suo padre riprese. «Ti aspettavi che lo scoprissero così presto? Per essere sul giornale di oggi, devono averlo scoperto stanotte.»

Questo pensiero non lo sgomentava minimamente. «Sì, me lo aspettavo. Ogni quattro ore il custode notturno ha il compito di controllare che tutti i Pokémon del laboratorio abbiano cibo e acqua e tutto ciò che occorre, ci sono precise normative internazionali da rispettare per il benessere e la sicurezza delle…»

«Delle cavie» lo interruppe suo padre, ed Emir si trovò nell’imbarazzante situazione di non poterlo contraddire. Ma la filippica che si era atteso sull’ossequioso rispetto di norme create appositamente per poter violare in piena legalità i diritti naturali dei Pokémon gli fu risparmiata, per la prima volta nella sua vita: quel giorno suo padre stava pensando a tutt’altro.

«Pensi che sia probabile che ti scopriranno?»

Emir si strinse nelle spalle. Non ne aveva idea. «Non lo so, papà. Sono quasi certo che non ci siano prove contro di me, ci ho riflettuto e non penso di averne lasciate. Nel laboratorio non ci sono telecamere. Se tu confermerai che io ero qui…»

«Proprio questo mi preoccupa» lo interruppe suo padre. Lo colpì la sicurezza e l’immediatezza della sua voce: sembrava aver ragionato molto a lungo su quell’obiezione, forse persino da quando aveva aperto il giornale. «Il fatto che tu fossi qui, proprio stanotte o ieri sera, durante il furto… se ti avesse visto qualcuno non sarebbe un problema, ma nessun altro oltre a me potrà confermare che ti trovavi qui stanotte, e io sono tuo padre. Non sono tenuto a denunciarti, ma nessuno è tenuto a credere alla mia parola. Sembra un alibi costruito ad arte. Non trovi?»

«So che sospetteranno di me» ribatté Emir con calma, che non riteneva prudente dirgli quali altre misure avesse preso per tutelarsi. «Ma sulla base di soli indizi non si può condannare un uomo, e io ti giuro che più di indizi non troveranno mai. Mew è nascosta in un luogo in cui nessuno potrà mai trovarla, e la sola cosa che conta è che sia al sicuro.»

«Benissimo» consentì suo padre. Ogni obiezione che avesse formulata riguardo al suo piano, a questo punto della conversazione, doveva esser stata vinta. «Ma in tal caso dovrai tornare. La notizia è su tutti i giornali, non puoi fingere di non saperne niente, e se rimarrai nascosto qui sarà come ammettere ad alta voce la tua colpevolezza.»

«I miei colleghi mi staranno cercando» ammise Emir, sentendosi improvvisamente di essere del tutto sveglio. Suo padre aveva ragione: aveva perso tempo fino a quel momento, ma ora bisognava tornare al lavoro. «Devo assolutamente chiamare il laboratorio per dir loro che ho saputo e che sto arrivando, prima che pensino che sono scappato e mi sto nascondendo. Posso usare il tuo telefono?»

Comporre il numero del laboratorio gli richiese un notevole atto di coraggio. Alle domande di suo padre egli aveva risposto forse un po' più calmo e distaccato di quanto non si sentisse effettivamente: per quanto riguardava gli indizi egli non aveva mentito, in quanto si sentiva ragionevolmente certo che non potessero sorgere nulla più che sospetti nei suoi confronti; ma questo era quanto. Esser venuto lì era stata una follia. Sarebbe riuscito a comportarsi in modo tanto naturale, e soprattutto sarebbe riuscito a non tradirsi?

Dopo un numero spropositato di squilli, una voce maschile e nervosa che non era assolutamente quella della sua segretaria rispose: «Pronto?»

«Valérien, sono io.»

«Dio, Emir!» La voce di Valérien tremava talmente che Emir temette che stesse per piangere di sollievo. «Ragazzi, è Emir! È al telefono, è tutto a posto, ha chiamato, ha chiamato… Emir, dove sei? Che fine avevi fatto?»

Persino i suoi colleghi avevano pensato che fosse stato lui. Una parte di lui era consapevole che non c’era poi nulla di sorprendente (e che sentirsi ferito per questo era piuttosto ipocrita, dato ch’egli era realmente colpevole): nel corso della medesima notte Mew era stata rapita e il direttore del laboratorio era svanito nel nulla. Eppure gli avrebbe fatto piacere che i suoi colleghi si fossero fidati di lui a tal punto da non dubitare della sua innocenza. Persino Valérien, che di lui si fidava come di un maestro di vita, aveva avuto paura che fosse fuggito per sempre, ed era per questo che la sua voce gli era parsa tanto sollevata. «Ti abbiamo cercato dappertutto, abbiamo chiamato a casa tua, ma tu non rispondevi…»

«Va tutto bene, Valérien, sto arrivando. Stavo ancora dormendo, ma ti ho chiamato non appena mio padre mi ha portato il giornale. Ero venuto a passare il week-end a Lavandonia…»

Sulla conversazione calò un silenzio mortale.

Dopo un istante di silenzio glaciale Valérien riprese la parola in tono simulatamente tranquillo, ma con voce tanto tesa che chiunque, anche non conoscendolo, avrebbe intuito che stava fingendo. «Ah…! Da tuo padre, quindi…?»

Se Valérien preferiva ripetere stupidamente le sue parole piuttosto che manifestargli apertamente la sua perplessità, doveva essere perché non era solo e non voleva rischiare di metterlo nei guai con qualcuno. Emir avrebbe voluto accertarsene, ma non poteva chiederglielo direttamente; allora, sforzandosi di suonare il più professionale e sbrigativo possibile, proseguì: «Avete chiamato la polizia? Hanno già fatto i primi accertamenti?»

«Sì, sono ancora qui, credo… credo che vogliano parlare con te. Si chiedevano tutti che fine avessi fatto.»

Si chiedevano tutti se fossi scappato col Pokémon più raro del mondo. Emir tossì discretamente. «Lo so, mi dispiace così tanto, Valérien. Vorrei essere lì, ho letto il giornale, ma ti giuro che non sto capendo niente… è tutto così confuso… Comunque sto arrivando, ripartirò il prima possibile. Devo solo controllare l’orario dei traghetti. Ah, ecco…» Senza pronunciare una parola, suo padre gli aveva rivolto un cenno silenzioso per richiamare la sua attenzione. Aveva in mano un opuscolo: Emir gli gettò uno sbrigativo gesto di ringraziamento mentre si affrettava a sfogliarlo per cercare di decifrare gli orari. Chissà come mai suo padre teneva in casa un orario dei traghetti per Isola Cannella, poi. «Il primo traghetto è tra tre quarti d’ora, Valérien. Sarò da voi prima di mezzogiorno. Puoi spiegarlo tu a tutti?»

«Ci sarai, vero, Emir?»

Sentendosi profondamente stizzito, Emir rispose: «Per quale motivo non dovrei, Valérien?»

Dopo un attimo d’esitazione, Valérien mormorò: «Scusami, Emir. È solo che tutta questa storia…»

«Lo so. Sono confuso quanto te, devi credermi. » Per un solo attimo Emir si sorprese di quanto profondamente sincera suonasse la sua voce. Forse persino l’ipocrisia del suo atteggiamento giocava a suo favore: parlando con Valérien, in quel momento, egli si sentiva come se realmente il suo amico lo avesse accusato ingiustamente ed egli fosse stato all’oscuro di tutto fino a un quarto d’ora prima. «Risolveremo tutto non appena sarò lì e parlerò con la polizia. Non può essere lontana, me lo sento.»

«Certo» disse Valérien col tono di qualcuno che avrebbe tanto desiderato esser più convinto. «Allora ci vediamo tra poco, Emir. Solo…»

«Sì?»

«Non è nulla, ma penso che Rotwang sia veramente arrabbiato con te. Ha dato di matto, lo sai com’è fatto…»

Dio, Rotwang. Qualcosa all’altezza del suo stomaco si strinse spasmodicamente d’angoscia a queste parole. Come aveva fatto a non pensare a lui neppure una volta da quando aveva aperto gli occhi? Era ovvio che fosse arrabbiato, furioso con lui, e per una volta, anche se Valérien non poteva saperlo, ne aveva tutte le ragioni. Chissà se lo aveva accusato davanti a tutti…

«Con Rotwang me la vedrò io appena arrivo, tu non preoccuparti di niente. Perché non dovrebbe scaricare la colpa su di me? Dopotutto è quello che fa sempre.» Ma prima che Valérien facesse in tempo a riprendere la conversazione, Emir si affrettò a tagliar corto: «Bisogna che vada, Valérien, o perderò il traghetto. Occupatevi di tutto finché non arrivo e date retta a Portia.» Se c’era qualcuno in grado di mantenere la calma in quella situazione, quella era lei: quella donna era l’unica in grado di fare al meglio gli interessi della Silph SpA. In qualsiasi situazione, esattamente come in quella, tutti si sarebbero aspettati ch’egli lasciasse a lei le redini del laboratorio. «Ci vediamo tra poco.» Troncando di netto ogni possibile tentativo di continuare la conversazione da parte di Valérien, Emir riappese bruscamente la cornetta.

Quella conversazione lo aveva spossato più di quanto avrebbe creduto in un primo momento. Mentire non era difficile, almeno non quanto aveva temuto all’inizio, ma era sfiancante mantenere in continuazione la concentrazione necessaria a non contraddirsi mai.

Aveva mentito per meno di cinque minuti, ma si sentiva così stanco che poggiò la fronte contro il muro fresco, socchiudendo gli occhi, e inspirò profondamente. Il pensiero di Mew lo riconfortava oltre ogni immaginazione, lo splendore azzurro dei suoi occhi valeva bene la pena di rischiare il carcere; ma quella, pensò con uno spaso di rammarico, sarebbe stata egualmente una lunga giornata.


Emir fece una doccia mentre suo padre gli preparava la colazione, come tanti anni prima, quando era piccolo.

Per la prima volta da quando aveva litigato con suo padre, Emir si spogliò in quel bagno dove tante volte l’aveva fatto da bambino, quando ancora del mondo non conosceva che Lavandonia e della vita nient’altro che la morale di suo padre, ed entrò nella doccia dai vetri smerigliati ormai grattati via dal tempo.

Si stupì di ricordare ancora tutto. L’odore penetrante e umido dell’acqua rugginosa, delle vecchie tubature calcarose, gli riempì le narici con la stessa sensazione familiare, per nulla sorprendente, che avrebbe provato se l’avesse sentito per l’ultima volta non prima del giorno precedente; mentre egli ristava immobile sotto il flusso d’acqua bollente che gli bagnava i capelli e gli faceva bruciare gli occhi, il suo sguardo seguì da solo un suo percorso misterioso lungo un fiore stilizzato tra le piastrelle… ma tutti gli anni ch’egli aveva trascorso lontano da casa, allora non avevano cancellato proprio niente? Era per questo che era tornato, alla fine?

Prima di lasciarlo da solo in bagno, suo padre gli aveva dato dei vecchi abiti scelti tra quelli ch’egli non aveva voluto portare con sé quando’era partito per Isola Cannella, tanti anni prima. Erano dei jeans e un maglione che gli erano piaciuti molto all’epoca dell’università, ma che a un tratto gli erano parsi infantili e inadeguati e miseri quando la Silph gli aveva offerto la gestione di un laboratorio e un assegno particolarmente corposo per comprare ogni eventuale scrupolo della sua coscienza; ma quando li indossò, Emir non provò quel sentimento di distacco e di rifiuto verso la Silph SpA che sarebbe stato logico aspettarsi. Erano abiti vecchi, fuori moda, e puzzavano di chiuso e di naftalina. Era stato affettuoso da parte di suo padre conservarli puliti e stirati per tutto quel tempo; ma questa era tutta la poesia che Emir riusciva a trovarvi. Non c’era altro da dire.

Quando tornò in cucina, suo padre gli aveva messo insieme una seconda colazione un po’ più consistente della prima. Chissà da dove aveva fatto apparire un barattolo di confettura scura, fatta in casa, che aveva tutta l’aria di che aveva tutta l’aria di essere un regalo di qualcuno dei volontari del centro. Era confortante sapere che c'era ancora qualcuno a preoccuparsi che suo padre mangiasse, malgrado fosse solo – anche se il fatto che il barattolo fosse ancora sigillato avrebbe dovuto fargli sospettare quanto sprecato fosse ogni tentativo di convincere quell’uomo a occuparsi di se stesso.

Se fosse riuscito a mangiarne almeno un po’ e avesse avuto meno pregiudizi, egli avrebbe scoperto che quella marmellata fatta in casa aveva un gusto autentico e genuino e che era più saporita e meno chimica di qualunque prodotto egli avrebbe mai potuto trovare in vendita a Isola Cannella. Ma il barattolo era di vetro opaco e iscurito dal tempo, uno di quei contenitori riciclati e riutilizzati dalle vecchie per svariate decine di usi, e la marmellata aveva quella consistenza grumosa e disomogenea delle buone vecchie cose salutari di una volta: l’unica immagine ch’egli riuscì a visualizzare nella sua mente, quando la portò alla bocca, fu quella di mani anziane e incartapecorite che facevano bollire la frutta in mezzo all’odore raccapricciante delle cucine a gas e della plastica bruciata. Quell’odore dal quale egli aveva passato tutta la vita a scappare gli riempì le narici con tale intensità che gli risalì la gola un conato di vomito. Si affrettò a posare tutto sul piatto e lo spinse via in gran fretta per non rischiare seriamente di rigettare, mentre suo padre, dall’altro lato del tavolo, lo fissava con stupore.

«Non ti piace?»

«Sono troppo angosciato per mangiare» mentì Emir, e suo padre non indagò più di così. Dopotutto, non aveva l’aria di una bugia.

Suo padre si limitò a sparecchiare in silenzio. Solo in quel momento, dopo esser stato troppo impegnato per accorgersene prima, Emir si ritrovò a prestare attenzione all’orrida tovaglia di plastica antiquata, disseminata di buchi e abrasioni là dove il fondo troppo caldo di qualche pentola l’aveva bruciata, e scoprì che i conati di vomito erano ancora in agguato in fondo alla sua gola. Bisognava riempire quel silenzio di parole, a qualsiasi costo, ed Emir disse la prima cosa che gli venne in mente. «Accompagnami al molo. Devo ancora fare il biglietto.»

Solo quando suo padre si voltò verso di lui, con una domanda inespressa che esitava da qualche parte dietro la sua fronte aggrottata, Emir realizzò quanto strana e forzata suonasse questa richiesta da parte sua; ma era troppo tardi per ritirarla, e si affrettò a specificare: «Per il mio alibi, voglio dire. Perché ci vedano insieme.»

«Certo, Emir» mormorò suo padre con una lieve esitazione che non riuscì a non tradire un’espressione piacevolmente sorpresa. Era sempre suo padre, dopotutto, anche dopo averlo rinnegato. «Lasciami solo prendere il cappotto.»

Il cappotto, il cappotto. Là fuori, all’esterno, l’aria dicembrina era molto più gelida e umida di quanto gli fosse parsa quella notte e la nebbia odorava di fumo e di sterpaglie. Anche con la maturità che negli anni del suo esilio doveva aver acquisito, Lavandonia gli ripugnava esattamente come quando se n’era andato.

Il traghetto stava già imbarcando i passeggeri. Suo padre lo aspettò fuori mentre comprava il biglietto, probabilmente fissando con disapprovazione la lunga fila di persone ordinatamente incolonnate – e perciò, nella sua personale visione del mondo, alienate – che si trascinavano innanzi verso la vasta gola nera del traghetto, ed Emir si sbrigò a concludere l’acquisto e a tornare a raggiungerlo fuori. La ragazza al banco non aveva dato il benché minimo segno di sapere chi fosse o di collegarlo ai titoli che campeggiavano su tutti i giornali della sala di attesa, ma trovarsi lì da solo lo faceva sentire comunque esposto e agitato. Si affrettò a uscire non appena il biglietto fu stampato.

Lui e suo padre non erano particolarmente tagliati per gli addii, e anzi, a dire il vero, la volta precedente non ce n’erano stati, dato che la sera precedente la sua partenza avevano litigato ed Emir era partito da solo, senza dir nulla, col primo traghetto del mattino. Ma per averlo riaccolto in casa sua quella notte, mentre scappava come un animale braccato, egli sapeva di dover bene a suo padre almeno la cortesia di un vero addio.

Cercò qualcosa da dire per iniziare: «Se ti dovessero chiedere qualcosa, ti ricordi, vero…»

«Che sei arrivato ieri sera per cena, lo so, lo so. Che volevi parlare della mia ultima protesta verso la Silph…»

Suonava credibile, ma Emir insisté ancora: «Non dire niente che tu non sappia. Se ti fanno domande per trarti in inganno e farti confondere, tu rispondi che io e te di certe cose non parliamo per non litigare…»

«Emir» lo interruppe suo padre sollevando gentilmente le mani. «Ho capito. Non preoccuparti. Non è neppure detto che m’interrogheranno.»

Se suo padre l’aveva interrotto, doveva essergli parso troppo agitato, e questo non andava per niente bene: Emir inspirò profondamente per calmarsi e annuì. Guardò verso il traghetto. C’era ancora tempo, ma restar lì lo imbarazzava troppo e preferiva salire subito. «Allora, ehm… vado, papà. Io…»

C’era qualcos’altro che avrebbe voluto dire o chiedergli, qualcosa che aleggiava in fondo alla sua gola, ma non trovava spazio per uscire, e nell’istante di troppo ch’egli aspettò, suo padre tornò a prendere la parola.

«L’hai rubata per soldi, Emir?»

Si sentì stupefatto e attonito. Suo padre lo scrutava determinato ma tranquillo: non aveva alcuna intenzione di accusarlo. Voleva soltanto saperlo, e quella era l’unica occasione ch’egli aveva per parlare a suo padre di tutto quello che era accaduto in quegli anni. Ma da quando poi gli importava di giustificarsi davanti a lui?

«Non l’ho portata via per questo, papà» balbettò. Possibile che gli sembrasse d’un tratto d’aver tante cose da dire, così tante che non gliene bastava il tempo ed esse si accavallavano le une con le altre per uscire, quando per tutta la mattina non aveva aspettato altro che d’andarsene da lì? «Non ho mai fatto nulla per i soldi, non ho mai fatto nulla d’illegale, io… io lo sapevo quello che facevano, ma non l’ho mai fatto io con le mie mani… anche quando hanno regalato Porygon a quelli di Azzurropoli io non ci ho guadagnato niente, te lo giuro, io dovevo solo lavorare in laboratorio e non fare domande…»

Quel che stava dicendo non aveva alcun senso, ed egli se ne sarebbe accorto se fosse stato solo un po’ più lucido: ma era la prima volta checonfessava ad alta voce di sapere che tutto quel che aveva fatto era sbagliato. Rotwang l’aveva accusato per anni e suo padre aveva protestato sui giornali e in televisione contro le inumani politiche della Silph, ed egli aveva negato ogni singola volta solo perché sapeva che la legge lo tutelava; ma per quanto ciò fosse insensato gli sembrava di vitale importanza che suo padre sapesse ch’egli era a conoscenza di tutto ciò che la Silph faceva coi frutti del suo lavoro, ma che lui, personalmente, non aveva mai fatto nulla di crudele sui Pokémon; e per quanto si accorgesse benissimo che questa non si chiamava onestà, ma solo omertà, gli pareva che la linea sottile tra essere uno sfruttatore ed essere un ipocrita facesse tutta la differenza del mondo.

«Emir. Emir!» lo interruppe suo padre con fermezza, sollevando imperiosamente una mano, e solo in quel momento egli si rese conto d’aver parlato troppo e a voce troppo alta e che qualcuno li stava fissando. «Ti credo, ti credo, va bene. Era solo una domanda, ma tu non ti agitare.»

Si sentì molto stupido per aver parlato così ed essersi scoperto tanto proprio di fronte a suo padre, e si sentì in urto verso se stesso. Forse aveva davvero i nervi così fragili come gli aveva sempre detto Rotwang, e ora si vergognava tremendamente. «Certo, certo, giusto… solo una domanda.»

Cominciava a far tardi, ormai quasi tutti i passeggeri erano stati imbarcati; solo gli ultimi passeggeri a piedi stavano ancora salendo. Bisognava salire, sbrigarsi, tornare a fuggire da Lavandonia, e convincere se stessi che quel breve attimo di debolezza non si fosse verificato mai…

«Allora, salgo a bordo» mormorò un po’ impacciato, desiderando con tutto il cuore di non aver detto ciò che aveva detto; ma si tenne cautamente distante da lui, per non trovarsi invischiato in un abbraccio che non provava alcun desiderio di dare, e suo padre gli parve a disagio quanto lui.

«Già, è tardi. Allora… buona fortuna, eh?»

«Grazie» rispose Emir, e sentendosi profondamente stupido e fuori luogo si voltò e percorse la passerella senza voltarsi indietro.

Si sentì al sicuro solo quando fu al chiuso, in un salone coperto caldo e affollato, seduto presso una finestra convenientemente protetta da una pesante tenda polverosa. Con ogni probabilità, conoscendolo, suo padre doveva esser rimasto sulla banchina ad attendere la partenza, e guardando fuori egli l’avrebbe visto e avrebbe potuto salutarlo, visto che sul molo non gli era riuscito; ma Emir tirò la tenda finché non fu più in grado di vedere neppure un brandello di cielo e impose a se stesso d’ignorare la consapevolezza che suo padre era ancora là fuori. Una volta che il traghetto si fosse allontanato dal molo, Emir avrebbe potuto tornare a convincersi che suo padre per lui non esistesse e la sua opinione non avesse per lui alcun significato, e forse avrebbe smesso di sentirsi mortificato e stupido per l’eccesso di sincerità cui si era abbandonato. Quella notte a Lavandonia sarebbe stata solo una falla angosciosa in un piano che aveva richiesto più lucidità e stabilità di quanta egli avesse, e tutto sarebbe finito lì.

Chiudendo gli occhi contro la tenda, mentre tutto attorno a lui la sala esplodeva di frastuono e caos e tutti i passeggeri discutevano l’uno con l’altro del furto del Pokémon più raro del mondo, Emir cercò di concentrarsi sulla lunga giornata che lo attendeva e di non pensare al fatto che suo padre, dopo sei anni che non si rivolgevano la parola, teneva ancora in casa gli orari dei traghetti per l’Isola Cannella.

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Capitolo 4
*** Ipocrita (Parte Seconda). ***


Buonasera a tutti!

Ecco finalmente questo capitolo, che mi ha messa un po’ in difficoltà perché, come si noterà, faccio abbastanza schifo a gestire le scene con più di un personaggio (e in questo senso mi farebbe molto piacere ricevere qualche suggerimento, se ne aveste, perché è da così tanto tempo che gestisco solo due o tre personaggi per volta che ho dimenticato come si gestisce un gruppo. Un tempo non mi facevo tutti questi problemi). Inoltre bisognava che mettessi molta carne al fuoco tutta insieme, come si vedrà.

Dopo un ringraziamento di cuore a cristal_93 e Persej Combe per le loro recensioni, vi lascio al capitolo.

Buona lettura!

 

Afaneia

 


 

Capitolo III – Ipocrita (Parte Seconda).

 

Quando arrivò al Laboratorio, divenuto quasi inaccessibile per i cordoni della polizia e la massa di curiosi e giornalisti e telecamere che si stipavano sulla strada, il commissario lo ricevette in una stanza di servizio che aveva evidentemente eletto a suo quartier generale, per il momento. Non gli era stato permesso di vedere i suoi colleghi: non appena aveva varcato la soglia, un poliziotto lo aveva fermamente informato che il commissario lo attendeva da un pezzo e che i suoi colleghi avrebbero potuto pazientare qualche minuto in più. Emir aveva capito l’antifona e non aveva mosso obiezioni, ma prima che il poliziotto li lasciasse soli gli chiese di informare i suoi colleghi che era arrivato e che li avrebbe raggiunti a momenti.

Il commissario di polizia aveva tutta l’aria di qualcuno che si fosse ritrovato, dalla sera alla mattina, coinvolto nel caso più importante della sua carriera e non avesse alcuna voglia di ritrovarvisi.

«Dottore, finalmente. Lei sa che l’aspettavamo da ore?»

«Sono venuto appena ho saputo» rispose Emir piuttosto freddamente, fermandosi sulla soglia. «Non so se il dottor Lestournelle l’ha informata, ma ero andato a passare il finesettimana a Lavandonia, a casa di mio padre. Per questo motivo non mi avete trovato a casa mia. Sono mortificato, ma non potevo sapere.»

«Uhm» borbottò il commissario, palesemente deciso a non cedere terreno su questo punto; ma poiché la sua versione era stata incontrovertibile fino a quel momento, fu costretto a cambiare strategia. «Si sieda, prego. Facciamo due chiacchiere. Suo padre è quel famoso signor Fuji che…»

«È lui» tagliò corto Emir mentre si accomodava di fronte al tavolino da caffè che era stato eletto a scrivania d’emergenza. Non era una situazione molto comoda: quella stanza fungeva essenzialmente da ripostiglio e da cucinotto per le piccole necessità ed era particolarmente angusta, ma, a giudicare dal forte odore di caffè che vi aleggiava, forse era proprio per questo motivo che il commissario l’aveva scelta. Approfittando del breve attimo di silenzio che il commissario si era preso per annotare qualcosa sul suo taccuino, Emir si schiarì la voce e iniziò: «Posso chiederle di spiegarmi che cosa è successo? Ho letto l’articolo sul giornale venendo qui, ma…»

«Credevo che avesse parlato al telefono col suo collega» ribatté l’altro aggrottando la fronte. Emir scosse appena il capo, come a non saper che dire, e quegli si rassegnò a spiegarglielo. «È successo che il vostro custode notturno non è riuscito a trovare Mew quando è andato a portarle l’acqua. Afferma di averla cercata per circa un’ora pensando che si fosse nascosta da qualche parte, ma quando ha capito che era inutile cercarla ha cercato di chiamare prima lei e poi i suoi colleghi. È stata trovata una finestra aperta nel vostro magazzino, e questo spiega per quale motivo gli allarmi non abbiano suonato. A questo punto, dottore, immagino che voglia…»

«C’è anche un altro motivo per cui gli allarmi non hanno suonato» borbottò Emir nervosamente.

Il commissario levò gli occhi su di lui. «Prego?»

«Ecco… potrei aver rimandato di qualche mese la revisione dei sistemi di sicurezza.» Il commissario aprì la bocca per parlare e subito Emir si affrettò a proseguire: «Erano in programma, ho solo dovuto posticiparli per una questione di budget. Non lo sa nessun’altro, di queste cose mi occupo io personalmente, e capirà che non ci tenevo a dirlo a nessuno. Se controllerà i registri, vedrà che la revisione è in programma all’inizio di gennaio. Se non avessi fatto così non saremmo rientrati coi costi di gestione, perciò sono stato costretto a scegliere.»

«Beh, questo spiega molte cose» commentò il commissario alquanto contrariato. Tornò ad annotare qualcosa sul suo taccuino. «Naturalmente questo non dimostra che non funzionassero, se lei ha posticipato solo di qualche mese, ma… controlleremo. Ha fatto molto bene a dirmelo subito.» Emir accennò un sorriso imbarazzato. «Tornando a noi, dottore… il suo ritardo. Vuole confermarmi che non si è presentato subito perché si trovava a Lavandonia?»

«Ero da mio padre, esatto» ripeté Emir con convinzione. «Ho i biglietti del traghetto. Vuole vederli?»

Il commissario diede in una sorta di grugnito, come a dire che i biglietti potevano aspettare. «Se intendeva passar là tutto il finesettimana, perché non ha avvisato nessun collega?»

«Non abbiamo mai avuto nessuna emergenza durante i week-end… forse a lei sembrerà imprudente, ma non avevo mai pensato che potesse rivelarsi necessario» rispose Emir semplicemente. La naturalezza della sua voce lo stupiva. Era sempre stato così bravo a mentire? «Inoltre, le dirò… non volevo che si sapesse troppo. Se lei conosce l’attività volontaria di mio padre, capirà che a nessuno dei due conviene frequentarci troppo…»

Suo padre aveva continuato a protestare sui giornali contro la Silph SpA anche dopo che lui era stato assunto, e talora con più veemenza ancora, forse per provargli che osava spingersi ancora più oltre e che non temeva alcuna conseguenza per le sue proteste. L’ultima era relativa proprio a Mew: in un momento di grande afflato moralistico, suo padre si era prodotto in una vibrante lettera di protesta contro la scelta di sradicare dal suo ambiente un Pokémon che fino ad allora aveva vissuto nascosto, presumibilmente con buone ragioni, per rinchiuderlo in un laboratorio e studiarlo a esclusivo vantaggio e profitto della Silph SpA.

Il commissario non ebbe bisogno di ulteriori indizi per capire a cosa si riferisse: delle rimostranze di suo padre, giornalisti e opinionisti avevano discusso per giorni, forti dell’interesse che suscitavano le palesi provocazioni del fondatore della più importante associazione volontaria di Kanto contro il laboratorio gestito dal suo proprio figlio, sia pur destinate a rimanere inaccolte. Tossì discretamente volgendo lo sguardo altrove, come se la cosa lo mettesse a disagio.

«Una questione di reputazione, posso immaginarlo. Quindi non aveva parlato di questo viaggio a nessuno che potesse avere interesse a…»

«Gli unici a saperlo avremmo dovuto essere io e mio padre» tagliò corto Emir.

Il commissario tornò a frugare nei suoi appunti con occhi spenti, ma Emir non dubitò neppure per un momento che avesse già in mente tutte le domande da fargli, e che fosse perfettamente attento.

«Come sono i rapporti all’interno del laboratorio?»

«Mi fido dei miei colleghi come di me stesso, se è questo che mi sta chiedendo.»

«Davvero?» Lo sguardo del commissario si fece per un attimo più penetrante e attento e la penna che aveva in mano scattò nervosamente sul foglio. «Perché dalle parole dei suoi colleghi mi era parso d’intuire una certa acredine con qualcuno di loro. Col dottor Ro… Rot… il dottore tedesco, per esempio.»

«Rotwang» suggerì delicatamente Emir, e per prendere ancora un po’ di tempo soggiunse: «Il tedesco è una lingua dura, ma dopo un po’ ci si fa l’abitudine.»

Ma mentre la sua bocca pronunciava quelle parole, la sua mente lavorava invece freneticamente per trovare una risposta che soddisfacesse quell’insinuazione e insieme non lo scoprisse troppo: sarebbe valso a qualcosa minimizzare? E a che pro, poi? Se tutto era andato come aveva previsto, Rotwang doveva averlo accusato di fronte a tutti: non era per questo che Valérien aveva detto che era molto arrabbiato con lui? Ma confessare apertamente una cosa tanto personale non gli pareva nel suo carattere, e rispose: «È un professionista di grande valore e un medico eccezionale.»

«E umanamente parlando, invece?»

Quella domanda poteva essere un buon modo per far mostra d’essere indotto a confessare. Emir si sforzò di mostrarsi combattuto. «Io e il dottor Rotwang abbiamo idee molto diverse sulla gestione del laboratorio, soprattutto per quanto riguarda le questioni economiche, ma c’è da dire che il dottore non ha un carattere piuttosto… non facile, ecco. Siamo molto diversi e ci capita spesso di scontrarci, ma sempre in modo molto costruttivo.» Non gli veniva in mente un modo in cui paragonarlo a Hitler potesse riuscire costruttivo, ma non c’era bisogno che il commissario venisse a sapere proprio tutto.

«Uhm.» Il commissario tamburellò un poco con le dita sulla scrivania. «Dunque lei non pensa che il dottore tedesco possa avere avuto qualche motivo per rubare Mew?»

Mettendo da parte qualsiasi residuo di prudenza gli fosse rimasto, Emir stabilì dentro di sé che, a questo punto, qualsiasi cittadino innocente al suo posto sarebbe stato autorizzato a sentirsi offeso; e quand’anche poi non lo fosse stato, beh… sarebbe stato un vero peccato.

«Sta insinuando che sia stato qualcuno dei miei colleghi?» domandò freddamente. «Le ho già detto che mi fido di loro come di me stesso. Io e Rotwang possiamo dissentire su svariati argomenti, ma so quanto tenga a Mew e posso garantire che nessuno al mondo potrebbe amare quel Pokémon più di lui. Posso permettermi di suggerirle di cercare qualcun altro su cui indagare?»

«Sto facendo soltanto il mio lavoro» rispose il commissario, col tono di chi avesse avuto esattamente ciò che voleva; ma neppure per un momento Emir si sentì a disagio per avergli risposto tanto acremente. Egli doveva impersonare la versione innocente di sé stesso, e quella versione, egli lo sapeva, era tremendamente orgogliosa. E quand’anche poi avessero dovuto indagare all’interno del laboratorio, che cosa avrebbero potuto scoprire? Mew non l’avevano rubata i suoi colleghi, ed egli l’aveva nascosta in un posto in cui nessuno, mai, sarebbe riuscito a trovarla. «Comunque sia… molto bene. Indagheremo. Se lei non ha altro da dire, credo che abbiamo finito.»

La tortura era durata meno di quel che aveva temuto, egli era stato più tranquillo di quanto le sue capacità gli avessero fatto immaginare: col cuore colmo di gratitudine, Emir si alzò. Ma proprio quando stava per porgergli la mano e salutarlo, qualcosa dentro di lui lo trattenne: non andava ancora bene. Ma che cos’era che mancava?

La mano che stava per porgergli sostò ancora sul bracciale della sedia; Emir cercò dentro di sé, frugò in quella parte della sua coscienza che ancora avrebbe voluto credersi innocente, ed ecco – dov’era l’angoscia che avrebbe dovuto provare?

Emir rimase a osservare dall’interno della propria mente il se stesso che cercava d’ingannare il mondo intero dire ad alta voce: «Pensa che avrete molte probabilità di trovarla?»

Il commissario levò gli occhi su di lui in un impeto di stupore: era evidente che aveva considerato la loro conversazione già chiusa. Ci pensò un momento.

«Abbiamo i nostri canali» rispose diplomaticamente. «Il pericolo da scongiurare è che venga in qualche modo mandata o portata a qualche acquirente estero. Ma mi sento di escludere che le venga fatto del male: prima di tutto quel Pokémon ha valore solo da vivo, e inoltre, almeno a quanto ho letto sui giornali, è il Pokémon più forte del mondo…»

«Nessun Pokémon è immortale» disse Emir seccamente, con una fitta di dolore che gli pareva volergli dilacerare il petto. Egli sapeva che quell’uomo non l’aveva visto, ma non riusciva a immaginare che qualcuno al mondo potesse continuare a vivere e a fare finta di nulla quando nel cuore della giungla, appena cinque mesi prima, Mew – l’altro Mew! – era morto su un tavolo da campo… «Neppure quello più forte del mondo, per quanto ci piacerebbe crederlo.»

Il commissario assentì gravemente. «Grazie di avermelo detto, dottore. Ne terrò debito conto.»

Finalmente quella conversazione era finita, egli aveva recitato la sua parte fino in fondo. Sentendosi profondamente sollevato, Emir gli strinse la mano e poté finalmente lasciare la stanza. Si sentì riavere. Ora poteva andare dai suoi colleghi e parlare con loro, e ascoltare quel che avevano da dirgli e affrontare Rotwang…

Ma proprio quando stava per avviarsi verso la sala riunioni, là dove era certo che lo aspettassero i suoi colleghi, d’un tratto la sua segretaria gli si materializzò di fronte. Aveva l’aria confusa e spaurita, e sembrava terrorizzata al solo pensiero di rivolgergli la parola. «Dottore…»

Emir le posò una mano sulle spalle. L’aveva salutata per il week-end appena il pomeriggio precedente, ma gli sembrava egualmente che fosse passato un tempo indefinibile dal loro ultimo incontro. «Ehi… stai tranquilla. Ora è tutto un po’ confuso, ma sono certo che la polizia…»

Ma non era per venir tranquillizzata che gli era venuta incontro, e non potevano bastare le sue parole a calmarla: non era la sparizione di Mew a inquietarla in quel momento. «Ero venuta a dirle che il signor Dale l’aspetta nel suo ufficio. Vuole parlare subito con lei.»

 

Era stato il signor Dale a fargli il suo primo colloquio alla Silph SpA, quando ancora doveva discutere la tesi di dottorato. Dale aveva quindici o venti anni più di lui, e all’epoca era un po’ più magro e molto più abbronzato. Forse era un effetto della grande suggestione che gli incuteva, ma a Emir aveva dato l’idea di uno di quegli uomini che avrebbero potuto posare in giacca e cravatta per un articolo sui dieci più giovani imprenditori dell’anno o qualcosa del genere.

«Allora, signor Fuji» aveva esordito, appoggiandosi con aria paterna allo schienale della poltrona. «Lei sa che è stata la sua Università a raccomandarci il suo curriculum, giusto?»

Era un modo come un altro per rompere il ghiaccio, perciò Emir si era sforzato di rispondere in modo sensato. «Certo, sono molto grato di questa opportunità.»

«Mmm, è giusto. Lei non è ancora laureato, giusto, signor Fuji?»

La domanda suonava come qualcosa che non deponeva assolutamente a suo favore. «Non ancora. Mancano dieci giorni, in effetti.»

«Ottimo. Beh, farà una bella festa, giusto?» Questo il signor Dale glielo aveva chiesto senza neppure alzare gli occhi dai documenti che aveva di fronte a sé, come se non fosse che una semplice domanda per riempire l’attesa mentre rifletteva su che cos’altro chiedergli, ed Emir aveva evitato di rispondere. Dopo un attimo, ancora senza alzare gli occhi su di lui, Dale aveva trovato quello che stava cercando nei suoi appunti e aveva chiesto: «Abbiamo letto l’abstract della sua tesi. Questo suo procedimento di selezionamento degli embrioni nell’inseminazione artificiale ci è piaciuto molto. Qual è la sua posizione sull’eugenetica, signor Fuji?»

Da questo punto in poi, il colloquio si era fatto molto promettente per lui. Sull’eugenetica Emir si era espresso in modo dapprima più cauto, poi progressivamente più aperto via via che Dale gli pareva più soddisfatto della sua risposta: ma certo, l’eugenetica era la via del futuro. A livello etico, era davvero corretto privare le nuove generazioni delle potenzialità che l’ingegneria genetica riservava, in nome di scrupoli morali solo in parte condivisibili? Nessuno intendeva negare gli orrori di Mengele o dell’Unità 731, no, no; ma era veramente corretto penalizzare gli sforzi di molti in nome degli errori di pochi? Non era forse sintomo di un’eccessiva miopia il voler a tutti i costi accomunare gli esperimenti più terribili di cui la storia serbasse memoria alle tecniche che avrebbero permesso di far nascere figli sani da genitori malati senza per questo nuocere a nessuno, solo perché accidentalmente rientravano entrambi sotto il comune nome di eugenetica?

Il colloquio era andato benissimo fino a questo punto. Evidentemente molto soddisfatto della sua risposta, il signor Dale aveva annuito sorridendo, molto più incoraggiante di quando il colloquio era iniziato, e aveva chiesto: «Vedo che lei condivide in larga parte la nostra politica aziendale. Mi perdoni la curiosità, ma lei non è il figlio di quel famoso Fuji di Lavandonia? Quello del Centro Pokémon Volontario?»

La domanda lo aveva raggelato. Possibile che suo padre fosse ovunque, torreggiasse su di lui persino quando si nascondeva in quel palazzo di uffici a Zafferanopoli, a riversare su di lui l’ombra di quei suoi principi morali nobili e integerrimi tanto che sembrava una vergogna da parte sua non adeguarvisi spontaneamente? Ma Emir non la pensava come suo padre, Emir non era suo padre, Emir odiava suo padre, allora perché chiunque lo incontrasse assumeva come dato certo che condividesse le sue idee?

«Sì, è mio padre, ma… noi non la pensiamo allo stesso modo. Mio padre non ha torto, ma il suo modo di vedere le cose andava bene nel dopoguerra… non ora. Io non credo che possiamo affacciarci al nuovo millennio mantenendo lo stesso rapporto con la scienza che andava bene quaranta o sessant’anni fa.» Emir non si era soffermato neppure un momento a domandarsi se credesse veramente in ciò che aveva appena detto. Era esattamente il contrario di tutto ciò in cui credeva suo padre, e in quel momento egli voleva che Dale guardasse verso di lui e vedesse un uomo completamente diverso dal signor Fuji del Rifugio Pokémon di Lavandonia. «Ovviamente esistono dei limiti che neppure la scienza può superare, ma la scienza è umana, e ciò che è umano non può in nessun modo essere contro natura. Mio padre appartiene a una generazione per la quale i limiti etici della scienza erano assai più ristretti di oggi, per le storie della guerra, sa, e tutto il resto.»

«Stia attento, signor Fuji» lo aveva ammonito Dale in tono ironico, ma sorridendo, e quel sorriso gli aveva fatto intuire chiaramente quante speranze riservasse per lui l’esito di quel colloquio. «Lei mi lusinga dando per scontato che io sia tanto giovane, ma non penso che suo padre sia tanto più anziano di me.» Il suo tono era tanto benevolo che anche Emir si era azzardato a sorridere, e a quanto pareva questo gli aveva fatto un piacere immenso. «Molto bene, ora parliamo un po’ dei dettagli, signor Fuji… lei ha scritto nel suo curriculum di essere disposto a lavorare addirittura in un altro continente. È ancora dello stesso parere?»

«Naturalmente.»

«Bene, bene. Fortunatamente per lei, non ci sarà bisogno di arrivare a tanto. O meglio, stiamo aprendo anche una succursale in Russia*, ma abbiamo già un candidato per quel ruolo, perciò… in questo preciso momento, stiamo cercando personale per un nuovo laboratorio a Isola Cannella. Abbiamo già acquisito i locali, perciò l’inaugurazione è prevista di qui a pochi mesi… il tempo necessario per approntare attrezzature e laboratori. E la burocrazia, naturalmente: permessi, assicurazioni, indagini ambientali… non sarei lontano dal vero se le dicessi che abbiamo speso più in marche da bollo che in materiali.»

A questo punto, dopo un lungo silenzio carico di sottintesi, il signor Dale aveva riflettuto un po’ su cosa dirgli, tamburellando con le dita sul tavolo, e poi aveva ripreso: «Sarò onesto con lei, Emir.» (Emir aveva registrato nella propria mente questo cambiamento di registro). «Sono stato io a proporre il progetto di Isola Cannella. Stiamo cercando personale giovane ma qualificato, e da quanto ho capito lei ha già tutte le basi per laurearsi col massimo dei voti. Le interesserebbe un posto di direttore?»

Emir era rimasto a bocca aperta. Quando aveva accettato di inviare il curriculum alla Silph, su consiglio della sua relatrice, l’aveva fatto perché, in fin dei conti, non gli costava niente fare un tentativo; e quando poi gli avevano scritto per organizzare un colloquio, aveva accettato pensando che forse, per qualche miracolo, avrebbe potuto portare a casa un tirocinio non retribuito di un paio di mesi o un anno al massimo, il che gli sarebbe andato bene comunque, parlando di un’azienda di tutto rispetto come la Silph.

La risposta più logica che gli era salita alle labbra era stata perciò: «Signor Dale… io ho ventiquattro anni.»

Dale era scoppiato a ridere. «Sapevo che mi avrebbe risposto così, ma non sia così modesto. Alla sua età io ero apprendista direttore, e non mi ero laureato così bene. In ogni caso abbiamo delle grosse agevolazioni fiscali se assumiamo sotto i venticinque, quindi abbiamo deciso di investire in un team di giovani eccellenze. Stiamo vagliando vari scienziati, ma per il ruolo di direttore vogliamo qualcuno di Kanto.» A tutte quelle informazioni Emir non aveva saputo come reagire, allora Dale aveva continuato: «Naturalmente c’è un altro motivo per cui cerchiamo un direttore così giovane. Se sarà lei a firmare i documenti di fondazione del laboratorio, anche figurando come socio di minoranza, il laboratorio godrebbe delle agevolazioni fiscali concesse ai giovani imprenditori. Naturalmente tutte le spese spetterebbero a noi, a lei richiederemmo soltanto l’acquisto di una percentuale minima di azioni, per una spesa davvero irrisoria. Il tutto è perfettamente legale, ovviamente, dato che la legge non penalizza simili arrangiamenti… anche se un po’ macchinoso, su questo convengo con lei. Che cosa ne pensa, signor Fuji?»

Ecco dov’era la fregatura, e neppure troppo ben nascosta. Rendendosi conto che si richiedeva da lui una partecipazione economica che un giovane neolaureato non poteva assolutamente permettersi, Emir aveva fatto per alzarsi e porre immediatamente fine all’incontro in un moto di stupore. Possibile che l’azienda leader dei monopoli di Kanto e Johto ricorresse a simili truffe nei confronti di giovani squattrinati? Quella situazione rasentava davvero il ridicolo.

Prima ancora che facesse in tempo a parlare, il signor Dale l’aveva prevenuto. «Si sieda, signor Fuji» aveva ripreso con un sorriso, accennando con gesto plateale alla sua sedia. «Qui nessuno sta cercando di prenderla in giro, mi creda. Le stiamo offrendo un’opportunità che tutti i suoi compagni di corso pagherebbero per poter ricevere, dunque dimostri un po’ di gratitudine e si sieda, per cortesia, e mi ascolti fino alla fine.» Emir non si sentiva ancora così sicuro di sé da disobbedire a un ordine di un uomo tanto più grande di lui, perciò si era seduto all’istante. «Molto bene. Qui siamo stati giovani tutti quanti, e nessuno di noi è uscito dall’università particolarmente ricco. Ciò che richiediamo da lei è soltanto la sua firma su certi documenti e la rinuncia al sessanta per cento del suo stipendio per tre mesi, in modo da pagare le azioni. Tra due anni le riacquisteremo integralmente da lei allo stesso prezzo, perciò vede bene che il danno economico che gliene deriva è davvero minimo. Le ripeto che non c’è nessuna truffa né niente di illegale, può consultare qualsiasi commercialista. Ovviamente le forniremmo anche un alloggio aziendale sull’isola, perciò le sue spese saranno molto ridotte, come parziale risarcimento per l’impegno che le richiediamo. Ora la nostra offerta le è più chiara?»

Emir era stato deciso a rifiutare fino al preciso momento in cui Dale aveva parlato di un alloggio.

«Vuol dire… una casa? Un appartamento o qualcosa del genere? A Isola Cannella?»

«Beh, non si tratta precisamene di un appartamento, ma…»

«Di qualsiasi sistemazione si trattasse, foss’anche stata una branda in un sottoscala, Emir non aveva bisogno di sapere altro: un tetto e uno stipendio, sicuramente sufficiente per vivere, lontano da Lavandonia. Non sarebbe occorsa che una firma su un contratto, e subito dopo la sua laurea egli non avrebbe dovuto più nulla a suo padre – nulla. Suo padre odiava la Silph, e ora la Silph gli avrebbe dato di che vivere, lontano da lui, lontano dalle sue regole e dalla sua morale integerrima e opprimente. Il suo impegno e il suo genio, ch’egli non doveva ad altri che a se stesso, gli avrebbero dato di che vivere, a un’intera regione di distanza da Lavandonia.

Non si era neppure informato sullo stipendio o sugli altri dettagli del contratto. «Quando posso firmare, signor Dale?»

 

Per quanto potesse essere untuoso e ipocrita, Emir aveva sempre visto Dale come l’uomo che lo aveva salvato da Lavandonia, e gliene era sempre stato riconoscente, sebbene avessero avuto qualche motivo di discussione, da quando avevano trovato Mew. Certo, egli era ben consapevole dei continui magheggi operati dal suo ufficio: era Dale il responsabile del laboratorio, per quanto vi avesse posto piede forse tre volte, compreso il giorno dell’inaugurazione; dato che era stato lui a proporne il progetto, era perciò principalmente con lui che Emir manteneva i contatti a Zafferanopoli. Era un amministratore, perciò capiva di biologia e genetica tanto quanto Emir capiva di economia: dal momento che era il consiglio a dettare le direttive principali per quanto riguardava la ricerca ed Emir a dirigere il laboratorio in modo capillare, il suo compito principale consisteva nell’occuparsi nell’aspetto economico della faccenda. Con ogni probabilità, il motivo per cui erano sempre andati alquanto d’accordo, in generale, era che Dale trovava continuamente il modo di far risparmiare l’azienda riducendo i costi del laboratorio, ed Emir – che viveva in un continuo, precario equilibrio nel tentativo di far quadrare i conti senza chiedere eccessivi aumenti sul budget annuale – riusciva sempre a raggiungere gli obiettivi prefissati nei tempi previsti e coi fondi stabiliti. Ciò comportava richiedere ai dipendenti sforzi più intensi con strumenti di lavoro inadeguati, certo, e spostare ogni tanto qualche cifra da una colonna a un’altra in modo non troppo trasparente; ma fintanto che il laboratorio andava avanti, a entrambi andava bene così.

In tutti i sei anni per i quali si era estesa la loro amicizia, Emir non ricordava di aver visto Dale mai in una sola occasione in cui egli non fosse al meglio della sua apparenza estetica. Era uno di quegli uomini tanto affascinanti ed eleganti da sembrar quasi finti, abbronzato in ogni stagione dell’anno, sempre sbarbato e impomatato con cura quasi maniacale.

Quel giorno le cose non stavano così. Quando Emir entrò nel proprio ufficio, dove Dale si era accomodato con la spontanea naturalezza di qualcuno che sentisse di trovarsi a casa propria, ebbe la sensazione di trovarsi di fronte a un uomo che, nel giro di una sola notte, fosse stato deprivato di tutto.

Doveva essersi precipitato lì non appena aveva saputo, senza neppure farsi la barba. Era pettinato, certo, ma senza l’abituale cura ossessiva che lo contraddistingueva, ed Emir era certo che l’abbinamento della cravatta al panciotto non fosse esattamente quello ch’egli avrebbe scelto in un giorno normale. Al vederlo aggirarsi per la stanza come divorato dal dolore, Emir provò una fitta cocente di rimorso alla consapevolezza di trovarsi di fronte a un uomo distrutto.

«Signor Dale…»

Al solo suono della sua voce, Dale si precipitò verso di lui come qualcuno che fosse stato sperduto nel deserto tanto a lungo da non credere più di venir salvato. «Dio, Emir… la sto aspettando da ore!»

Quelle ore sarebbero di certo trascorse in modo molto meno noioso se le avesse passate col resto dell’equipe del laboratorio; ma Dale era troppo distaccato da tutto il resto del mondo per poter anche solo concepire un’idea simile. Emir era l’unico di tutto il laboratorio con cui egli mantenesse i rapporti, e per lui era anche troppo.

«Sono mortificato, mi creda» rispose Emir chiudendo la porta dietro di sé. «Le avranno detto per quale motivo…»

A giudicare dalla desolazione dei suoi occhi, sì, gliel’avevano detto. «Dio, ma che ci faceva a Lavandonia?»

Emir aveva avuto tutto il viaggio in traghetto per pensare alla risposta da dargli, e ne fu incredibilmente grato. Gli rivolse uno sguardo carico di stupore. «Non si ricorda? Tempo fa lei mi aveva chiesto di parlare a mio padre… riguardo alle sue proteste contro l’azienda e il progetto di Mew. Dev’essere stato a settembre. Non si ricorda?»

Gli occhi di Dale rimasero vacui e inespressivi per qualche momento: era evidente che non ricordava (e non era poi sorprendente che fosse così, dato che quella questione era caduta solo accidentalmente nel corso di una conversazione di tre mesi prima e che vi si erano soffermati forse per un minuto a dir molto), ma che gli sembrava qualcosa che avrebbe realisticamente potuto dire. Della schiera di attivisti, ambientalisti e no-global che quotidianamente si scagliavano contro le multinazionali e contro la Silph in particolare, il signor Fuji era sicuramente quello che aveva più voce in tutta Kanto, e Dale, come portavoce dell’azienda, lo disprezzava di tutto cuore.

A quanto pareva, doveva darsi per vinto. «Certo, ora ricordo… mi era parso strano, in effetti, sapendo in quali rapporti lei e suo padre…» La faccenda doveva averlo messo a disagio, perché cercò di ricomporsi un poco. Passeggiò nervosamente per l’ufficio, con l’aria di sistemarsi la cravatta e volersi dare un tono, ed Emir ne approfittò per andare ad accomodarsi alla propria scrivania. Gli sarebbe stato più facile darsi un contegno da seduto, o almeno così sperava.

«Ha già parlato con la polizia?»

Emir si affrettò a rassicurarlo. «Vengo ora di là. Mi hanno assicurato che faranno tutto il possibile per…»

Dale agitò stizzosamente la mano, quasi a cacciar via un pensiero troppo stupido e fastidioso da poter essere anche solo considerato. «Ah! Loro ne fanno molto conto, non è vero? Ma sa il cielo se questi pescatori hanno mai ritrovato niente! Bisognerà chiamare degli investigatori privati, e intanto sicuramente Mew sarà già all’estero... Emir, ma com’è potuto accadere?»

«Pare che sia rimasta aperta una qualche finestra del magazzino» mormorò Emir guardando altrove. «Per questo motivo gli allarmi non hanno suonato.» In quanto alla dilazione della revisione dei sistemi di sicurezza, non valeva la pena che Dale venisse a saperlo, quantomeno non in quel momento e non da lui. Gli allarmi funzionavano perfettamente, e se non avevano suonato era semplicemente perché nessuno si era introdotto nel laboratorio; ma ora che la possibilità che ci fosse stato un malfunzionamento volontario era nell’aria, la polizia avrebbe comunque continuato a cercare un responsabile esterno.

Dale batté rabbiosamente una mano sulla coscia. «Una finestra aperta, col Pokémon più raro del mondo in laboratorio! Ma questo è inaccettabile! Bisognerà licenziare il colpevole…»

Il colpevole era lui, naturalmente, ma Emir si limitò a scuotere sconsolatamente il capo, come a non saper che dire. Quel furto aveva già causato perdite economiche inimmaginabili e lo stesso Dale, egli lo sapeva, si era svegliato quel mattino con la consapevolezza di vedere la propria carriera a rischio; ma la scelta che aveva compiuto non avrebbe fatto altre vittime. «In quel magazzino entriamo tutti quanti decine di volte al giorno, signor Dale… dubito che sia possibile stabilire con certezza un colpevole.»

«Già… immaginavo che avrebbe detto così.»

Dale si accasciò platealmente sulla sedia di fronte alla sua scrivania. Era devastato. Si allentò un poco il nodo alla cravatta, cosa che Emir non gli aveva mai visto fare, neppure in piena estate, e infine si decise a dire: «Io e lei dobbiamo parlare, Emir.»

Che Dale non si fosse precipitato in elicottero fino all’Isola Cannella solo per discutere i vari aspetti del furto era prevedibile, ed Emir sapeva perfettamente che cosa aveva da dirgli. Per la prima volta da quando lo conosceva, quell’uomo gli faceva tanta compassione che cercò di venirgli incontro.

«Non si disturbi, signor Dale. Avrà le mie dimissioni per domattina.»

Gli occhi di Dale si spalancarono per la sorpresa, un po’ più arrossati e stanchi di quanto egli li avesse mai visti. Nel corso degli ultimi quattro mesi Dale aveva minacciato più di una volta di licenziarlo quando si erano scontrati, ma ora che era venuto lì apposta per quello, sembrava che gliene mancasse il coraggio. Forse non era così insensibile quanto gli era sempre piaciuto far credere, ed Emir lo trovò improvvisamente un po’ più umano.

«Mi dispiace così tanto, Emir» mormorò. «Io e lei abbiamo sempre lavorato bene insieme, ma lei capisce… Gli allarmi non hanno suonato, la finestra era aperta. Tutto ciò è inaccettabile.»

«E io me ne assumo tutta la responsabilità» affermò Emir con sicurezza.

Il giorno in cui aveva deciso di portar via Mew dal laboratorio, egli aveva saputo fin dal primo momento che avrebbe perso il lavoro, e a questa prospettiva si era arreso senza opporre resistenza. Quelli trascorsi a Isola Cannella, a far la spola tra la sua vasta casa vuota e il laboratorio, erano stati gli anni più pieni e più soddisfacenti della sua vita, malgrado le ferree direttive imposte dalla Silph, e avrebbe desiderato che non finissero mai; ma per salvare Mew (e della necessità di salvarla egli non aveva dubitato neppure un secondo) bisognava sacrificare qualcosa; e poiché era stato lui ad avere l’idea, era giusto che il sacrificio fosse il suo. «Sono il direttore, perciò la colpa di tutto è mia. Se mi garantisce che la Silph non si rivarrà della perdita su nessuno dei dipendenti, mi dimetterò personalmente col minor clamore possibile.»

Il fatto di non esser costretto a licenziarlo sembrava aver tolto dal petto di Dale un peso innominabile, ma quando tornò a parlare la sua voce suonava ancora affranta.

«Non avrei voluto che si arrivasse a questo» mormorò. «Deve credermi. Lei non ha visto i bollettini di borsa stamattina, ma io sì. Bisognava salvare il salvabile. Il Presidente sta cercando di placare gli animi, gli azionisti… beh, questo non le interessa, ma si è pensato persino di chiudere il laboratorio per limitare le perdite. Ma poi come avremmo fatto coi sindacati? No, no, lei mi capisce… per tenere in piedi la baracca bisognava che limitassimo i danni, allora…»

«Signor Dale» lo interruppe delicatamente Emir «La prego, non c’è bisogno. Io non so chi abbia lasciata aperta quella finestra o chi dovesse chiuderla, ma dirigo queste persone da sei anni e non ho mai avuto di che lamentarmi di nessuno di loro. Non voglio che nessuno debba perdere il lavoro per un unico errore, perciò è giusto che le cose vadano così.»

«Grazie, Emir» rispose Dale a bassa voce. Sembrava un po’ meno a disagio di prima, forse perché doveva essersi aspettato qualche scenata che non era avvenuta. «Lei mi conferma che ci avevo visto giusto qualche anno fa, quando ho voluto proprio lei per questo posto.»

Che Dale avesse un cuore ben nascosto sotto la cravatta, e che quel cuore fosse in quel momento sinceramente addolorato per lui, Emir non l’avrebbe detto mai fino a qualche minuto prima. Quella scoperta lo metteva tanto in imbarazzo che distolse per un attimo lo sguardo, e Dale si decise a darsi un tono e a tornare alle questioni pratiche. «La banca le pagherà tutto quello che ancora le dobbiamo e la sua liquidazione, tutt’al più entro la fine del mese.»

«Non voglio la liquidazione.»

Dale diede in una breve risata secca, senza capire. «Via, Emir, non c’è bisogno di esagerare… noi non la licenziamo mica con disonore, la liquidazione è davvero il minimo che…»

Emir levò discretamente una mano per richiedergli il suo silenzio. «Signor Dale, la prego… mi lasci spiegare.             Vorrei rinunciare alla mia liquidazione e tenermi in cambio la casa. Pensa che sarebbe possibile?»

Tutta la riuscita del furto si basava precisamente su questo azzardo, che Dale accettasse lo scambio che gli stava proponendo: ma mentre Emir glielo domandava, si sforzò di mantenersi il più sereno e imperturbabile possibile. Non voleva dimostrare di dar troppo peso a quello scambio.

«Oh» commentò Dale un po’ interdetto, e rimase in silenzio. Si passò una mano tra i capelli e dopo un attimo confessò: «Non me l’aspettavo. Posso chiederle come mai?»

Se c’era qualcosa che Dale gli aveva sempre detto, per quanto scherzosamente, era quale errore avessero commesso nell’acquistare una residenza aziendale per il futuro direttore del laboratorio senza valutarla con la dovuta attenzione: al momento attuale, l’azienda si ritrovava con un immobile enorme e pressoché invendibile sul mercato. Perché non avrebbero dovuto sbarazzarsene?

«Pura e semplice affezione, signor Dale. E poi, le dirò… non ho molta voglia di tornare a casa da mio padre a trent’anni compiuti con la coda tra le gambe. Le pare poi tanto strano?»

«Ha valutato bene i pro e i contro? Questa è un’isola di pescatori, Emir, mentre lei è un genio dell’ingegneria genetica… trovare un nuovo lavoro in queste condizioni non sarà facile.»

Nessuna azienda, quantomeno non a Kanto, avrebbe mai assunto l’uomo che si era lasciato sfuggire il Pokémon più raro e prezioso del mondo; ma Emir si sforzò di non lasciar trasparire questo pensiero, e sorrise stancamente.

«Quando ci siamo incontrati tutto quello che desideravo era venir via da Lavandonia, e la casa che lei mi ha dato è stata il primo passo che mi abbia permesso di allontanarmi da mio padre, signor Dale. Sono stato troppo felice lì per poterci rinunciare. Lei ha mai tenuto a qualcosa così tanto?»

Il valore della sua liquidazione non poteva eguagliare quello della casa, ma c’erano altre cose da considerare, ed Emir seguì sul suo volto lo svolgersi degli stessi calcoli che aveva fatto egli stesso settimane prima. Egli stava consegnando le sue dimissioni spontaneamente, senza far scandali e senza rivolgersi a nessun avvocato; in cambio, egli chiedeva soltanto un immobile che costava all’azienda, in termini di tasse, molto più di quanto effettivamente valesse. Valeva davvero la pena di rischiare che s’indispettisse e rivelasse ai giornali, per ripicca, qualche dettaglio delle politiche aziendali su cui sarebbe stato bene non puntar troppo l’attenzione del mercato…?

Se Dale avesse mai tenuto così tanto a qualcosa oppure no, Emir era destinato a non saperlo mai. Quando il riflesso di tutte queste considerazioni ebbe solcato il suo volto, Dale si limitò a tossire discretamente e rispose con dignità: «Beh, ecco… dovrei informarmi un poco, ma penso che si possa fare. Dopotutto, visto che lei si dimostra tanto condiscendente e ragionevole nei riguardi dell’azienda, beh…»

Tutto il suo piano per salvare Mew s’era basato su una scommessa: se l’avesse perduta e fosse stato costretto a lasciare la casa, la messinscena sarebbe crollata alla prima perquisizione. Ma esattamente come aveva preventivato, Dale aveva accettato: egli aveva vinto la scommessa, e si sentì invincibile.

«Non so davvero come ringraziarla, signor Dale. Confidavo che avrebbe capito.»

Dale gli rivolse un cenno impacciato di gratitudine. «È il minimo per lei, Emir… se avessi potuto scegliere, non sarebbe finita così. Lei non sa quanto mi secchi cambiar direttore.»

Dato che era lui a tirar fuori questo argomento, Emir ritenne che non fosse poi troppo azzardato sbilanciarsi un poco in questo senso. «A proposito, se posso permettermi… so che non è più di mio interesse, ma forse le interessa il mio parere. Lavoriamo insieme da tanti anni, e la dottoressa Mann sarebbe…»

«Oh, non si preoccupi di questo, davvero» lo interruppe Dale in tono inaspettatamente meno agitato. «Fortunatamente l’azienda si è già espressa in questo senso, abbiamo bisogno che non vi sia alcuna soluzione di continuità tra le due direzioni: il laboratorio deve collaborare con l’azienda e la polizia e restare operativo ininterrottamente. In questo senso ci è parso che il dottor Lestournelle fosse la scelta migliore per noi.»

Per tutti gli anni della loro collaborazione, Valérien era stato l’unico amico ch’egli avesse avuto, ed era forse la persona più onesta e candida che avesse mai conosciuto; ma questo era quanto. Emir amava Valérien come il fratello che mai avrebbe potuto avere, ma proprio come di un fratello, egli vedeva anche i suoi difetti: Valérien era totalmente incapace di prendere un’iniziativa. Egli restava a guardare la sua vita precipitarglisi addosso dall’alto, cercando di schivarne i macigni più pesanti, e ad aspettare che altri venissero a decidere per lui.

Cercò dentro di sé un modo diplomatico per farlo rispettosamente presente. «Il dottor Lestournelle non… ecco, non è che brilli per spirito d’iniziativa.»

La sottile polemica delle sue parole non era destinata ad andare sprecata. «Già, ricordo che me l’ha detto più di una volta» confermò Dale vigorosamente. «È esattamente di questo che l’azienda ha bisogno al momento. La priorità è cercare di non far fallire il laboratorio, perciò ci saranno delle manovre economiche alquanto restrittive: lei mi capisce.»

Il laboratorio cui aveva dedicato la propria anima, che aveva fondato e fatto funzionare contro ogni ostacolo che la Silph avesse sollevato, era perduto per sempre, e non lo riguardava più. Emir sapeva di non esser stato un bravo scienziato (di certo non dal punto di vista morale del lavoro) ma era stato un buon direttore, o almeno di questo era convinto: egli aveva lottato per anni in bilico sul delicato equilibrio che intercorreva tra le ragioni della scienza e quelle dell’azienda, e in qualche modo, per sei anni, era riuscito a far collimare i bisogni e le esigenze, difendendo i diritti dei suoi colleghi contro le imposizioni della Silph; e ora tutto era finito. Il lavoro che aveva nutrito con il suo sangue e con la sua anima sarebbe andato a Valérien, che avrebbe obbedito alla Silph e avrebbe ceduto a ogni residuo d’autonomia ch’egli fosse riuscito a mantenere a costo d’innumerevoli lotte, per il semplice non saperli difendere. Aveva salvato Mew, ma il laboratorio era finito.

«Il dottor Lestournelle corrisponderà sicuramente alle vostre esigenze» rispose sforzandosi di sorridere, e non avrebbe potuto essere più sincero di così. La Silph avrebbe avuto un burattino ancor più semplice da manovrare di quanto non fosse stato lui. Tutti avevano quel che avevano voluto, dopotutto. O no?

La conversazione era finita, ormai tutto ciò che si poteva dire era stato detto, e probabilmente Dale non vedeva l’ora di tornare a Zafferanopoli. Emir si alzò in piedi per porgergli la mano. «Se abbiamo finito, signor Dale, ho un sacco di lavoro da fare per lasciare tutto in ordine. Avrà le mie dimissioni per domattina. Le occorre altro?»

«Siamo a posto così, Emir… lei è stato eccezionale, come sempre. Mi farà sapere se ha bisogno di qualcosa, siamo intesi?»

A partire da quel giorno non si sarebbero sentiti mai più: Dale era un uomo d’affari troppo serio e impegnato per potersi permettere di perdere anche solo qualche minuto a pensare a un vecchio dipendente che aveva creato solo problemi, ma il solo fatto che lo avesse ipotizzato era di per se stesso quasi commovente. Emir accennò un sorriso mentre apriva per lui la porta dell’ufficio.

«Certo, signor Dale. La… la ringrazio ancora per l’opportunità che mi ha dato quel giorno.»

Per tutta risposta, Dale posò una mano sulla sua spalla e la strinse leggermente. Non fece nient’altro, ma quel gesto caldo e confortante, che per tutta la sua infanzia egli avrebbe desiderato di ricevere da suo padre, fu per lui così inaspettato da farlo quasi vacillare.

Mentre Dale percorreva il corridoio a testa alta, nel vorticare sinuoso del cappotto che gli avvolgeva la schiena, Emir si ritrovò a pensare con stuporoso rimpianto che, nonostante tutto quello che era accaduto negli ultimi mesi, e nonostante salvare Mew fosse stata comunque la scelta più giusta della sua vita, egli non avrebbe mai potuto odiare la Silph SpA.

 

Finalmente, come se arrivasse al termine di una lunga corsa a ostacoli nella quale ogni distrazione concorresse ad allontanarlo dalla sua meta, Emir raggiunse la sala riunioni.

A giudicare dalla quantità di bicchieri di caffè e carte di snack e biscotti che coprivano l’ampio tavolo centrale, i suoi colleghi erano barricati là dentro da un bel po’, e di certo erano esausti: stando alle parole del commissario, dovevano trovarsi al laboratorio già da quando era stato dato l’allarme, quella notte. Erano spettinati e stanchi, con l’aria stressata di qualcuno che ne avesse abbastanza di aspettare e di continuare a ripetere le stesse cose, e profondamente sfiduciati. Di tutti loro, solo Portia aveva avuto la prontezza di spirito, o forse la tendenza all’autoconservazione, d’indossare il camice, ma quello era l’unico elemento di normalità che aleggiasse nella stanza; persino Vincent, che pure difficilmente egli aveva mai visto perdere la calma, stava in piedi come se non potesse tollerare di rimaner seduto, a mescolare nervosamente un caffè che sembrava dover scontare la pena della sua angoscia.

Rimandare non aveva senso, bisognava impegnarsi, parlare, difendersi di fronte ai suoi colleghi che si sentivano traditi. Emir richiuse la porta alle proprie spalle il più rumorosamente possibile e disse: «Mi dispiace, ragazzi.»

«Emir!»

Valérien riusciva a credere al suo ritorno solo in quel preciso momento in cui lo vedeva sul serio e poteva di nuovo fidarsi di lui. Di fronte al suo volto trasfigurato di sollievo, Emir accennò un sorriso.

Ma non tutti apparivano sollevati nella stanza. Appoggiato al davanzale della finestra, coi capelli spettinati e la barba non fatta come quell’altra mattina, Rotwang si voltò seccamente a guardarlo. Aveva il volto illividito di rabbia e le labbra contratte per l’angoscia. «Chi si rivede, finalmente? Herr Doktor…»

«Richard, ti prego!» sbottò Portia con voce esasperata. Aveva le dita contratte sulle tempie, come a reprimere i primi viticci di un’emicrania incipiente. «Emir è qui adesso, va bene? È sabato mattina e aveva tutti i diritti di essere dove gli pare senza doversi giustificare con noi. Puoi risparmiarci le tue teorie del complotto, adesso?»

«Lascia stare, Portia… va bene così» la interruppe Emir a bassa voce. Rotwang continuava a fremere di rabbia senza avere il coraggio di dir niente, allora egli lo fissò deliberatamente, senza distogliere lo sguardo. «Non vi giudico se avete pensato che possa esser stato io. Non dovete neppure dirmelo. Era naturale che ci pensaste.»

«Emir, non devi giustificarti, puoi fare quello che vuoi durante i…»

«Portia» la interruppe dolcemente Emir. «So di avervi sempre detto che non parlo con mio padre da anni. Non voglio che pensiate che ho dei segreti con voi. Ero a Lavandonia perché Dale mi aveva chiesto di parlare con mio padre delle sue proteste per convincerlo ad abbassare un po’ i toni, e avevo pensato di ricucire i rapporti ora che non sono più un bambino. Vi è più chiaro adesso?»

Dopo un attimo di silenzio, continuando a mescolare un caffè che ormai sembrava destinato a non venir mai bevuto, Vincent mormorò: «Grazie, Emir, ma non c’è bisogno che ti giustifichi con noi. Davvero.»

«Invece penso che ce ne sa bisogno, dato che a quanto pare qualcuno di voi ha ipotizzato che potessi esser stato io a rapire Mew» ribatté Emir. «Non mi interessa chi, non mi interessa perché, anche se penso di sapere entrambe le cose. Voglio solo che sappiate che a causa di questo furto ho perduto il lavoro, perciò, se ancora pensate che potessi guadagnarci qualcosa…»

«Che cosa significa questo, Emir?» lo interruppe Valérien sordamente.

Il silenzio che seguì alle sue parole aveva mutato di qualità, ora era attonito, confuso. Persino Rotwang appariva smarrito, ed Emir se ne compiacque.

«Che vi aspettavate, ragazzi?» rispose stancamente. Si lasciò cadere su una sedia libera, e subito Valérien si affrettò a sedersi vicino a lui, ma sul bordo della sedia, molto nervosamente. Sembrava tremare di sgomento. «Il direttore sono io, la responsabilità è mia. So che è stata trovata una finestra aperta, e non ho idea di chi potrebbe essere stato, ma non voglio che nessuno venga licenziato per un unico errore superficiale commesso in sei anni. In ogni caso il direttore sono io, perciò è giusto che me ne assuma io la colpa.»

«Possiamo parlare con Dale, Emir» si offrì in fretta Vincent. «Non è giusto, noi lo sappiamo che tu hai fatto tutto quello che potevi per…»

Emir fu costretto a scuotere la testa malgrado l’impeto di gratitudine che gli saliva alle labbra. «Ti ringrazio, Vincent, ma… no. Dale mi ha risparmiato almeno l’umiliazione di licenziarmi e ha lasciato che mi dimettessi con quel po’ di dignità che mi è rimasta, e avrebbe avuto tutti i diritti di farlo. Non voglio cambiare le cose. Ho fatto tutto il possibile per mandare avanti il laboratorio, ma ho sbagliato un sacco di cose, e tutto quello che ho ottenuto è stato di farci rubare il Pokémon più raro del mondo da sotto il naso. Forse era proprio il caso che mi dimettessi, non ti pare?»

«Non è stata colpa tua, Emir» disse Portia. Sembrava molto colpita dalle sue parole. «Quando la scelta era tra permetterci di lavorare o meno sei sempre riuscito a darci gli strumenti per farlo, perciò…»

«Perciò ho comunque sbagliato» tagliò corto Emir. «Posso chiedere a voi di perdonarvi, ma non posso aspettarmi altrettanto da Dale.»

«Ma la ritroveranno, Emir» esclamò impetuosamente Valérien. Era diventato tutto rosso in viso, come gli accadeva sempre quando si ritrovava a parlare sotto gli occhi di tutti, persino quando si trattava solo dei suoi colleghi, ma si sforzò di proseguire. «Voglio dire… non le faranno del male, perché ha valore solo da viva. La polizia ha cominciato a cercarla subito dopo la denuncia, perciò non può essere lontana, no?»

Mentre loro parlavano, Mew si trovava in una Pokéball, nascosta in un luogo molto più vicino di quanto si potesse sospettare: ma da lì non sarebbe uscita molto presto. Emir accennò un sorriso non troppo sincero. Era ovvio che Valérien, ch’era stato lo scopritore di una nuova specie e che al nome di Mew avrebbe vincolato il proprio per l’eternità, non fosse in grado di vedere la realtà: che nessuno che rubi un Pokémon tanto prezioso se lo lascia sfuggire facilmente. Ma per il bene di Mew, che andava al di là del bene di Valérien, bisognava mentire persino a lui: Emir gli batté affettuosamente una mano sul ginocchio. «Mi auguro per te che succeda presto. Dale verrà sicuramente a trovarti, ma voglio essere io a dirtelo per primo… sei tu il nuovo direttore.»

Valérien impiegò tanto tempo a registrare e a processare quest’informazione ch’Emir temette per un attimo di doversi ripetere; ma proprio quando stava per tornare a raccontargli del suo incontro con Dale, il volto di Valérien si accese di una risata impacciata, ed egli si schermì come un bambino. «Cosa vuoi dire?»

Sapeva che non era questo a preoccuparlo, ma Emir cercò egualmente d’incoraggiarlo. «Lo so, lo so, ma non preoccuparti. Io ero più giovane di te quando mi hanno dato il laboratorio, e non avevo mai lavorato prima d’allora. Tu conosci già i tuoi colleghi, perciò non sarà difficile.»

«Ma Emir… » La risata imbarazzata di Valérien si era scolorita in un oceano di confusione; i suoi occhi frugarono invano la stanza alla ricerca di un aiuto. «Insomma, glielo hai detto che Portia…»

«Non ti ruberò il lavoro, Valérien» lo interruppe bruscamente Portia. Come potesse esser tanto risoluta e generosa nei suoi confronti quando ella lo sapeva benissimo che quel posto avrebbe dovuto essere suo, e che Valérien riusciva a malapena decidere come vestirsi al mattino, questo sembrava un mistero. «Se Dale intende offrire il lavoro a te è perché te lo meriti, e io non intendo mettermi in mezzo. È la tua carriera, e non dovresti rinunciarci.»

«Ma io non sono in grado di…»

«Hai trovato Mew» disse Emir, in tono tale da non ammettere repliche. Non voleva che Valérien sapesse che il solo motivo per cui gli sarebbe stato offerto quel posto era per la sua totale dipendenza dalle istruzioni altrui. «È giusto che per il tuo impegno ti venga riconosciuta una promozione. Ce la farai.»

«Tutto questo è ridicolo, Fuji» sbottò improvvisamente Rotwang. Emir ebbe la sensazione di sentire la propria anima alzare gli occhi al cielo: quel dannato tedesco era stato in silenzio per la bellezza di cinque minuti. Che altro ci si poteva aspettare?

Rotwang fremeva di rabbia e di sdegno, e aveva tutta l’aria di non voler accettare quella spiegazione. «Andiamo, siete seri? La Silph vuole un burattino per poterci ridurre i fondi e per tutti voi è normale?»

Dolarhyde gli scoccò uno sguardo che avrebbe dovuto metterlo a tacere, almeno nelle sue intenzioni. «Sai, Rotwang, mi piacevi di più quando ti preoccupavi di Mew. Perché non torni a occuparti di quello e ci lasci fare i nostri discorsi da adulti?»

«Sei serio, Dolarhyde? Sai che sei quello più facile da licenziare e sostituire con uno stagista sottopagato, sì?»

«Nessuno verrà licenziato, di questo ho già parlato con Dale» ribadì Emir a voce abbastanza alta da sovrastarli entrambi. Si sentiva più stanco ogni minuto che passava, e tutto ciò che avrebbe voluto era di tornare a casa e mettersi a dormire. «E poi, Rotwang, non sei tu quello che mi ha sempre accusato di essere un venduto? Ti cambio davvero qualcosa che alla direzione ci sia io, piuttosto che Valérien?»

«Emir, lascia stare...» mormorò Valérien con le labbra che gli tremavano.

«Senti un po’, Fuji…»

In quel momento Rotwang avrebbe voluto ucciderlo, e non in modo tanto metaforico. Coi pugni stretti fino ad affondare le unghie nella carne e le spalle che tremavano di rabbia, Rotwang sostenne il suo sguardo con ardore indicibile; ma quando quello sguardo durò tanto a lungo da fargli temere ch’egli aprisse la bocca e parlasse, d’un tratto gli venne in mente qualcosa, ed egli cambiò idea.

Non disse niente. Rotwang attraversò la stanza a testa bassa, borbottando qualcosa che suonava molto come pezzo di merda, e uscì sbattendo la porta il più rumorosamente possibile, ed Emir si sentì come se un enorme peso gli fosse stato tolto dal petto.

 

Finalmente quella giornata finì.

Non si ricordava neppure da quante ore era in piedi. Dopo che Rotwang aveva lasciato la stanza, la riunione coi suoi colleghi era proseguita senza di lui: la scomparsa di Mew aveva impressionato tutti loro più di quanto fossero in grado di ammettere, soprattutto Valérien.

I discorsi su come una tale disgrazia si fosse potuta verificare, su quale terribile evento fosse e su come il ladro – o i ladri – si fosse introdotto nel laboratorio proprio durante il week-end, quando il personale era ridotto e sarebbe stato ragionevole pensare – dal punto di vista di un esterno, naturalmente – che il furto di Mew sarebbe stato scoperto più tardi, occuparono la sala riunioni fino al primo pomeriggio, mentre al di fuori gli accertamenti proseguivano su tutta l’area del laboratorio. Ma Emir, che sapeva perfettamente che non sarebbero emerse impronte o altri indizi che rimandassero a personale esterno al laboratorio, perché non era entrato nessun’altro, non avrebbe voluto nient’altro che tranquillizzare i suoi colleghi e tornarsene a casa.

Ma quando anche tutti i discorsi si furono esauriti, e il passare delle ore ebbe reso anche troppo chiaro che restare ancora lì non avrebbe contribuito a chiarire nessuno dei loro dubbi, quella giornata non era finita. Tornare al laboratorio nei giorni successivi l’avrebbe umiliato più di quanto fosse disposto ad accettare, perciò Emir aveva raccolto e fatto portar via tutta la sua roba per sgombrare l’ufficio, e aveva dato a Valérien tutte le consegne e le istruzioni di cui pensava potesse aver bisogno nei giorni successivi. Ma s’era trattato di una pura formalità, ed entrambi lo sapevano bene: finché non si fosse ritrovata Mew, Valérien sarebbe rimasto lo scopritore di un Pokémon di cui a malapena si conosceva il nome e il direttore di un laboratorio sull’orlo del fallimento.

Solo intorno alle cinque, dopo che i suoi colleghi l’avevano subissato di abbracci e raccomandazioni, Emir aveva potuto lasciare gli uffici e tornare a casa.

La villa che aveva strappato alla Silph – un immobile acquistato all’asta che l’azienda aveva riciclato come alloggio – era l’oggetto materiale al quale egli tenesse di più in tutta la sua vita. Quella sera, a sole già calato, Emir rientrò finalmente a casa sua con la sensazione di poter finalmente barricare una porta tra sé e il mondo esterno e smettere di fingere. Aveva trascorso l’intera giornata a far finta d’essere innocente e vittima degli eventi allo stesso pari dei suoi colleghi, a immedesimarsi in loro e a cercare di reprimere il senso di colpa per aver sottratto Mew… ma ora, era finita. La sua vasta casa lo proteggeva come un’armatura, e là dentro, finalmente, egli poteva gettare quello strato di maschere al di sotto delle quali non era neppure più certo di saper riconoscere il proprio volto.

Gettò nella spazzatura i vecchi vestiti che gli aveva dato suo padre al mattino e fece una rapida doccia nel bagno al piano terreno, sentendosi tanto stanco da non voler neppure fare le scale. Sapeva d’aver fame, a qualche livello del suo stomaco, ma in quel momento era tanto stanco che il pensiero del cibo lo nauseava. Poteva concedersi di sedersi per qualche momento nel salottino che affacciava sul mare, mentre rifletteva su cosa prepararsi per cena.

Nei giorni seguenti avrebbe avuto un sacco di cose di cui occuparsi. Bisognava sedersi seriamente al tavolo a fare un po’ di conti coi soldi che aveva messo da parte per tutti quegli anni, che non erano pochi e sarebbero bastati per un po’, dato il suo modesto tenore di vita, ma a patto di far qualche rinuncia; bisognava chiamare la signora delle pulizie e spiegarle che avrebbe dovuto rinunciare ai suoi servizi; ma avrebbe riflettuto su tutto l’indomani. Si sentiva così stanco, così stanco, e gli dispiaceva così tanto d’aver addolorato Valérien e di aver messo nei guai il signor Dale…

Lo svegliò il rumore della porta che cigolava sui cardini. Non si era neppure reso conto d’essersi addormentato: per qualche momento faticò a ricordare dove si trovasse. Si era levato il vento, e da qualche parte, al di sotto della stanza dove si trovava, il mare sibilava e fischiava, insinuandosi tra gli scogli, e le onde concorrevano a inerpicarsi l’una più in alto dell’altra sulle rocce. Ma che ora era? Era stato tutto un sogno?

Mentre ancora Emir cercava di riscuotersi e di strofinar via dagli occhi gli ultimi viluppi di sonno, una lama di luce si dipanò sul pavimento dalla porta del salotto, e la bassa voce roca di Rotwang ringhiò: «Tu hai fatto la peggiore vigliaccata della tua vita, Fuji.»

 «Ehi» borbottò Emir in risposta, aguzzando la vista per leggere l’ora. «Ti aspettavo più tardi.»

 

 

*Riferimento alla succursale Tiksi, menzionata da uno scienziato che è possibile incontrare nell’edificio della Silph SpA occupato dal Team Rocket: Tiksi è una cittadina reale della Russia siberiana. Nelle versioni originali dei giochi, invece, la succursale si trova a Tunguska, altra località russa realmente esistente.

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Capitolo 5
*** Corruttibile. ***


corruttibile

Capitolo IV – Corruttibile.

 

Guyana, 7 luglio. Abbiamo chiamato il nuovo Pokémon, Mew.

 

Contrariamente a ogni aspettativa (e, a dire il vero, anche a ogni buon senso) la Silph scelse di annunciare subito, pubblicamente, la scoperta del nuovo Pokémon, accompagnando lì annuncio con una foto un po’ sfocata, in bianco e nero, scattata da Portia e inviata a Zafferanopoli per posta: di meglio non si era potuto fare, perché non si era previsto che una spedizione partita per raccogliere campioni fossili e dati ambientali avesse bisogno di scattare fotografie, e non c’era perciò grande disponibilità di materiale fotografico. Dal punto di vista del signor Dale, quella di dare l’annuncio subito era una strategia di marketing vincente sotto tutti gli aspetti, dato che per l’azienda si trattava di tutta pubblicità gratuita.

Dal punto di vista della scienza, invece, quella scelta era invece un po’ più discutibile. La scoperta che la Guyana ospitava l’habitat di un Pokémon che non era mai stato avvistato sino ad allora suscitò, oltre alla prevedibile attenzione dell’intero panorama scientifico internazionale, anche l’altrettanto prevedibile avidità di tutti gli allenatori, cacciatori e bracconieri di Pokémon del mondo. Chi non avrebbe voluto essere il primo a catturare e ad allenare (o vendere) il Pokémon più raro del mondo, chi non avrebbe voluto affacciarsi sul palcoscenico competitivo internazionale con una nuova e imprevedibile specie di Pokémon?

Per qualche giorno parve che tutto il mondo volesse partire alla volta della Guyana e riversarsi nelle sue paludi, finché il governo non intervenne provvidenzialmente a emanare severe e restrittive norme a tutela e difesa della fauna locale; ma neppure questa misura fu sufficiente. Sia pure in misura minore, allenatori e cercatori continuarono a sbarcare in Guyana e ad addentrarsi illegalmente nelle giungle; il numero di dispersi in quelle zone inesplorabili fu altissimo, e più di un cadavere fu portato a riva dalle correnti dei fiumi. Ci sarebbe voluto un bel po’ perché quella febbre si placasse.

Le loro ricerche continuarono senza sosta. Aiutati da un’équipe di geologi e speleologi inviata dal governo, il team di ricerca guidato dal dottor Fuji batté palmo a palmo l’intera zona del ritrovamento, procedendo in modo estremamente lento e incostante per disturbare il meno possibile la colonia dei Gloom; ma di altri esemplari non si trovò traccia.

Alle ricerche Rotwang non volle prendere parte, e a detta di Portia, per la verità, quella era la soluzione migliore.

«Non te la prendere, Emir» gli diceva in tono di confidenza ogni volta ch’egli sbottava a imprecare contro quel maledetto tedesco. «Sai che non voglio difenderlo, ma è ancora sconvolto. Non so come potrebbe reagire se si trovasse a fissare negli occhi un altro Mew frugando dietro un cespuglio: questo è stato il caso più difficile della sua carriera. Ti prego, lascialo stare per qualche giorno.»

Certo, Emir era umano, era comprensivo e soprattutto era superiore a quel dannato tedesco; ma era comunque il capo della spedizione, e gli sembrava d’esser anche troppo paziente. Rotwang aveva fatto il suo lavoro esattamente come tutti, un lavoro per il quale, per quanto egli si ostinasse a sputare sul nome dell’azienda, era profumatamente pagato, e ora tutti (che lavoravano esattamente quanto lui) dovevano persino chinare il capo e dir di sì e di no in ossequio ai suoi preziosi sentimenti feriti. Era davvero un comportamento professionale, quello?

Persino il nome del Pokémon era stato lui a sceglierlo. Quando ci si era riuniti per cercare di fare il punto della situazione, e di sbrogliare un poco i nodi di quell’inferno in cui si erano ritrovati, non aveva voluto sentir ragioni.

«Si chiama Mew» aveva detto semplicemente, picchiando col dito sull’intestazione dei documenti che Emir stava compilando, là dove avrebbe dovuto inserire il nome del Pokémon e che avrebbe voluto lasciare in bianco. Dopo una rapida occhiata a Valérien, che non appariva in grado di manifestare una propria opinione in merito, Emir aveva sospirato e aveva scritto: Mew. Il diritto di scegliere il nome del Pokémon sarebbe spettato a Valérien, che lo aveva scoperto, e a lui, che guidava la spedizione; ma il dolore di Rotwang durante l’operazione era stato animale, e a quel dolore, dopotutto, non si poteva non riconoscere un qualche diritto.

Ma poi i diritti del dolore di Rotwang si erano tramutati in capricci, o almeno così gli pareva.

Che si rifiutasse di fare l’autopsia del cadavere di M1, com’era stato necessario chiamare il primo sventurato esemplare, era prevedibile, ed Emir non aveva neppure provato a insister troppo; di quell’operazione si erano dovuti occupare lui e Valérien, che erano biologi e avevano operato più di una vivisezione, certo, ma non erano medici, e della supervisione di un medico avrebbero avuto bisogno. Ma Rotwang si era rifiutato persino di leggere e firmare il reperto dell’autopsia, e neppure le accorate preghiere di Portia, che aveva passato tre ore nella sua tenda a cercare di convincerlo e di tranquillizzarlo, avevano potuto smuoverlo dalla sua ostinazione. Ma Portia l’aveva supplicato ancora di cercare di capire, di dargli tempo, che non ci si poteva umanamente aspettare che Rotwang tornasse a mettergli le mani addosso dopo esserselo sentito morire sotto i ferri o che leggesse della sua autopsia; ed Emir, raspando con le dita il fondo del barile della sua pazienza, si era arreso. La firma di Rotwang sarebbe servita a falsare i documenti e a far risultare agli atti un’autopsia perfettamente legale, firmata da tre persone di cui un medico, secondo i protocolli interni della Silph; senza la sua firma bisognava perciò far finta di nulla e stare alla sorte; ma d’accordo, dato che Herr Doktor era troppo prezioso per poter anche solo firmare un foglio, si sarebbe fatto senza la sua firma, e ci si sarebbe inventati qualcosa al momento.

Ma quando gli erano venuti a dire di prima mattina, con tutto il tatto del mondo, che Rotwang si rifiutava di partecipare alle ricerche, allora Emir si era diretto verso la sua tenda per discutere civilmente, ma l’unico risultato che aveva ottenuto era stato di ritrovarsi di nuovo tra le braccia di Vincent e Valérien a scalciare e a gridare che non voleva uccidere nessuno. Di nuovo Portia era intervenuta a difendere i sentimenti feriti del povero dottore, ed Emir aveva acconsentito a pazientare per l’ultima volta. Rotwang non era stato l’unico a soffrire quella notte, e se si fosse rifiutato ancora senza un buon motivo di fare il suo dovere, allora l’avrebbe licenziato sul serio.

Perciò, mentre le ricerche proseguivano e la giungla veniva perlustrata e frugata centimetro per centimetro, Rotwang se ne rimaneva al campo a occuparsi di M2, il che non era poi del tutto un male, dato che qualcuno con lei ci doveva pur stare; ma naturalmente questo Emir si guardò bene dall’ammetterlo. Quelle manie da primadonna e da vittima degli eventi proprio non poteva soffrirle, e l’ultima cosa che voleva era proprio incoraggiare quel dannato tedesco.

Mew era l’essere vivente più grato che avesse mai visto, ed era estremamente felice di stare con loro.

Avevano fatto accuratamente in modo che non vedesse mai il cadavere di Mew, ma qualcosa, dentro di lei, pareva indicare che aveva capito che era morto, e che l’aveva accettato, tanto naturalmente e serenamente da non recare in sé alcun dolore. Essa portava in sé esattamente la stessa fiducia incondizionata e senza pari del suo compagno, lo stesso affetto esuberante e infantile con cui M1 si era affidato a loro ed era morto senza accuse né rancore sotto i ferri di Rotwang. Ma come poteva, si ritrovava a pensare Emir quando M2 gli sedeva vicino, la sera nella sua tenda, e l’osservava lavorare cercando di tanto in tanto di portargli via la penna, come poteva fidarsi di loro tanto ciecamente ed essersi affezionata tanto da protestare se appena veniva lasciata sola per più di qualche minuto?

Le ricerche nella palude dei Gloom non diedero alcun risultato, ma a dire il vero nessuno di loro ci aveva particolarmente sperato. Se erano stati i primi ad avvistare quel Pokémon, almeno a quanto era dato sapere, doveva essere perché era un Pokémon dannatamente raro e altrettanto dannatamente abile a nascondersi, e se M1 si era mostrato a Valérien era solo perché era ferito, e doveva aver capito che da quel ragazzo timido ed esitante non poteva provenire alcuna minaccia; ma non ci si poteva esimere dal cercare ancora, non quando l’intera attenzione mondiale era puntata su di loro.

Lasciata quella zona, le ricerche si spostarono altrove e l’équipe esplorò e perlustrò e mappò tutte le zone paludose circostanti nel raggio di un paio di decine di chilometri; di cercare fossili, ormai, non si parlava neppure più. Mew era diventata la priorità assoluta, e il caso aveva voluto che fosse capitata tra le loro mani quando già avevano raccolto una quantità di fossili e di dati più che sufficienti a dare lo sprint finale di cui aveva bisogno il loro progetto. Quello era un momento di assoluta fortuna per la Silph, e il dottor Emir Fuji si trovava alla guida dell’équipe di ricerca che aveva scoperto il Pokémon più raro del mondo e che ben presto avrebbe donato al mondo i cloni dei Pokémon preistorici che avevano popolato la terra al tempo dei dinosauri; ma si sentiva un po’ meno soddisfatto di come si sarebbe sentito se tutto ciò fosse accaduto al tempo della creazione di Porygon. Quella era la prima volta che il suo genio, che gli aveva dato tutto ciò che uno scienziato avrebbe potuto desiderare al mondo, non lo appagava quand’egli si trovava a osservare i propri risultati; e questo perché aveva visto Mew morire. Eppure non era la prima volta, e Pokémon più sacri di altri, lo sapeva bene, non ne esistevano. Allora perché?

Finalmente, quando l’infruttuosità delle ricerche finì per scoraggiare anche i piani più alti di Zafferanopoli, e i costi della spedizione cominciarono a farsi un po’ troppo proibitivi rispetto alle probabilità di trovare un altro esemplare, il signor Dale telegrafò che era più conveniente per l’azienda interrompere le ricerche e dare inizio agli studi il prima possibile. Emir se ne sentì quasi confortato: frugare nella giungla, spostandosi di accampamento in accampamento nell’aria mefitica e insalubre delle zone paludose con la consapevolezza che altri esemplari non sarebbero saltati fuori, era forse quanto di più frustrante potesse immaginare.

Perciò, finalmente, sotto gli occhi del mondo intero, l’équipe del laboratorio fece i bagagli e imbarcò attrezzature e fossili e Mew su un aereo privato diretto a Kanto, e il primo di agosto un traghetto proveniente da Aranciopoli attraccò al molo di Isola Cannella, dove uno stuolo di giornalisti e fotografi e curiosi attendeva ormai da ore.

«Bella prova, Fuji» commentò Rotwang battendogli una mano sulla spalla, mentre si affacciavano sul ponte a osservare la folla che assediava il molo. «Sei sempre così discreto o dobbiamo ringraziare l’occasione?»

In che modo Emir potesse esser ritenuto responsabile dell’assedio dei media sul molo non era dato sapere, ma quando egli si volse per chiederglielo, ed eventualmente per gettarlo dal traghetto, lo sguardo supplice di Portia lo pregò di non farlo. La dottoressa Mann avrebbe dovuto rendergli un bel po’ di favori quando fossero tornati a casa, concluse Emir distogliendo ostentatamente lo sguardo.

Quel che Rotwang ancora non sapeva, e che era troppo orgoglioso e supponente per permettersi anche solo di pensare o chiedere, era che Dale aveva ovviamente pensato in anticipo a quel problema, e si era perciò organizzato per permettere loro di sbarcare senza problemi o interferenze. Quando il traghetto attraccò, il team di ricerca toccò terra protetto da poliziotti e transenne, e due automobili aziendali li attendevano per accompagnargli a casa; quanto al materiale diretto in laboratorio, e soprattutto a Mew, se ne sarebbe occupato il personale della Silph. Dale poteva anche vivere in un palazzo di cristallo, relegato da Zafferanopoli in un dorato esilio, ma quantomeno sapeva come organizzare un trasporto.

Per evitare ulteriori crisi diplomatiche, Portia immediatamente caricò Rotwang sulla prima automobile e sbatté dietro di sé la portiera facendo cenno all’autista di partire. Se la fortuna avesse voluto, dopo un intero mese trascorso a sopportare quell’intollerabile tedesco e i suoi capricci, forse nelle settimane seguenti Emir avrebbe trovato un po’ di pace.

Dopo un lungo giro per le strade assolate e torride del paese, pallenti di sole e di sale, dove neppure un’anima osava affacciarsi nelle ore più calde del giorno, finalmente l’auto si fermò all’imboccatura del breve viale che conduceva alla villa d’aspetto fatiscente e desolato che Emir non aveva ancora avuto il cuore di ristrutturare per timore di ferirla. Era a casa, finalmente, e finalmente lo attendevano una doccia calda e abiti puliti e stirati e il suo letto…

Ma mentre Emir si precipitava a scendere con voluttà di riposo e si affrettava a scaricare i propri bagagli, d’improvviso un rapido lampo di luce balenò ai margini del suo campo  visivo, come il riflesso di luce su una portiera, e una voce ch’egli aveva tanto sperato di non sentire per un po’ esclamò: «Emir, finalmente! Ha due minuti per un vecchio amico?»

Per quanto egli avesse fatto sempre dell’ipocrisia il valore fondante della sua vita, neppure lui quel giorno riuscì a esimersi dal levare involontariamente gli occhi al cielo per un attimo, mordendosi le labbra.  Eppure avrebbe dovuto saperlo che avrebbe voluto parlargli di persona dopo una scoperta di quel genere, certo, e ora era da sciocchi stupirsene…

Girando stancamente su se stesso, Emir si sforzò di sorridere e rispose: «Che sorpresa, signor Dale! Beve un bicchiere con me?»

 

Oltre agli innumerevoli altri aspetti che Emir amava della propria casa, essa aveva l’incommensurabile pregio di mantenersi fresca anche in estate; il precedente proprietario, che l’aveva ipotecata svariate volte e l’aveva perciò perduta a suo vantaggio, aveva avuto quantomeno il buonsenso di costruire pareti enormemente spesse per mantenere le temperature più miti possibili. Una volta visto il resto della casa, naturalmente, diveniva chiaro che il suo buonsenso si era limitato a questo: con i suoi corridoi ciechi e le sue stanze senza finestre, era alquanto evidente che l’intero progetto era l’incubo di un architetto.

L’ingresso della villa sembrava perciò situato in una fascia climatica tutta sua rispetto all’esterno. La signora delle pulizie, che era venuta a rinfrescare e a rassettare la casa per tutta la durata della spedizione, aveva lasciato qualcosa in frigo in previsione del suo ritorno: Emir ebbe di che ringraziare il suo sesto senso perché, oltre a un’insalata di cavolfiore e lenticchie che egli non aveva assolutamente alcuna intenzione di mangiare, quantomeno trovò una bottiglia di bianco frizzante da offrire al suo ospite, con la speranza che Dale non si soffermasse troppo a guardare l’annata. Per fortuna, quel giorno era un po’ troppo caldo perché persino un uomo come lui vi prestasse attenzione.

Dale, che appariva estenuato e sudato in un costoso quanto improbabile completo di lino bianco, lo ringraziò con lo sguardo mentre accettava il bicchiere che gli porgeva, accavallando le gambe sul divano del salotto che Emir teneva riservato per gli ospiti. Aveva l’aria di volergli dire grandi cose, ed Emir gli gettò uno sguardo di cortese invito a parlare mentre versava un secondo bicchiere di vino.

Dopo un primo sorso, Dale pareva non poter smettere più di sorridere.

«Mi dispiace aver fatto irruzione così, Emir, ma non potevo proprio fare a meno di venire qui a complimentarmi con lei per l’ottimo lavoro svolto. So che lei non segue la borsa, ma forse le farà piacere sapere che abbiamo avuto un rialzo di due punti percentuali da quando si è saputo di Mew… e immagino che capisca anche da solo quale guadagno questo porti all’azienda.»

Emir s’intendeva di borsa né più né meno che di cucina francese, ma la parola rialzo era sempre promettente. Ricambiò stancamente il suo sorriso. «Certo, posso intuirlo.»

«Non ne dubitavo. Ora, Emir, sia detto tra noi…» La voce di Dale si abbassò di una nota in tono di complicità, tanto che Emir si chinò d’istinto verso di lui. «Ancora non dovrei dirle niente, perché sa come sono queste questioni, e bisogna prima ottenere l’approvazione del consiglio e via discorrendo. Ma sono quasi certo che andrà così, perciò ho proprio voglia di dirglielo: credo che riusciremo a darvi un grosso contributo nel prossimo trimestre. Glielo volevo anticipare di persona perché, lei sai com’è… le buone notizie mettono tutti di buonumore. O sbaglio?»

Un grosso contributo voleva dire un aumento di budget. Tutte le ulteriori richieste di fondi che aveva inoltrato dopo lo spegnersi dell’entusiasmo per la creazione di Porygon erano state respinte con le più svariate motivazioni, che solitamente erano tutte riducibili a una singola spiegazione di fondo: i soldi extra sarebbero arrivati dopo aver visto i primi risultati del progetto dei fossili, ossia le prime grosse entrate. Dopotutto la Silph doveva pur guadagnare qualcosa dal laboratorio: investire di più in progetti non vincenti avrebbe significato rischiare di pareggiare le entrate e le uscite. Era sempre stato questo il grosso problema della Silph: premiare poi piuttosto che investire prima, e questo era il motivo per cui Emir doveva barcamenarsi qua e là cercando una soluzione adatta per ogni esigenza. Ma ora finalmente il denaro stava spuntando fuori: ciò avrebbe significato, finalmente, maggiori fondi per il progetto di rigenerazione dei fossili che era rimasto in stallo anche troppo a lungo, e maggiori fondi per la strumentazione clinica, come Rotwang gli chiedeva ormai da almeno nove mesi. Certo, la maggior parte sarebbe stata naturalmente da destinarsi a Mew, ma Emir era sempre stato bravo a spalmare poco burro su molto pane: il pensiero non lo preoccupava per niente.

«È fantastico, signor Dale… la ringrazio moltissimo.»

Dale gli gettò un’occhiata molto più che compiaciuta sopra il bordo del suo calice. «Oh, non ringrazi me, Emir, ringrazi piuttosto il Presidente, e naturalmente gli azionisti. Dopotutto, io ho solo fatto la proposta… che cosa vuole che sia.»

Dale s’incensava di fronte a lui tanto platealmente da riuscire persino genuinamente simpatico in quei momenti. Era forse l’unica azione umana e davvero amichevole ch’egli gli avesse mai visto compiere e che gli faceva talora ricordare – ma non troppo spesso – che anche Dale era un uomo come lo era lui, e in fin dei conti non poteva incarnare la Silph in ogni momento della sua vita.

«I miei colleghi gliene saranno grati.»

«Beh, faranno bene a esserlo, non le pare?»

Ma subito dopo queste facezie, Dale tornò a essere il rappresentante dell’azienda e a comportarsi come tale. Si rigirò per qualche istante il bicchiere nella mano, osservandone pensierosamente le volute di vino che si inerpicavano sul vetro. Era tornato serio. «Ora parliamoci da professionisti, Emir… lei sa quanto il laboratorio mi stia personalmente a cuore. Che cosa può già dirmi riguardo a Mew? Naturalmente quello che mi dirà rimarrà in questa stanza, perciò parli pure liberamente.»

Per qualcuno che non fosse uno scienziato, quella domanda non doveva riservare particolari difficoltà, e probabilmente Dale l’aveva posta in perfetta buonafede. Ma, a differenza sua, Emir era uno scienziato, e quella domanda lo metteva più a disagio di quanto il suo superiore potesse immaginare. Sbilanciarsi in qualsiasi modo, senza aver ancora compiuto quasi nessun tipo di studio o analisi, sarebbe stato profondamente antiscientifico: ma in quel momento erano soli, per fortuna, ed egli era ragionevolmente certo che Dale non avrebbe avuto alcun interesse a divulgare notizie affrettate. I suoi interessi personali in quel progetto erano troppi per poter correre il benché minimo rischio.

«Senza effettuare qualche test genetico e simulazione di lotta non ci è possibile dir molto, e ovviamente non ci era possibile realizzarli in piena sicurezza al di fuori del laboratorio, quindi per quanto riguarda le statistiche non posso ancora dirle nulla. Posso però anticiparle che conosce la mossa Trasformazione» precisò.

Gli occhi di Dale si fecero istantaneamente più grandi. «Trasformazione? Ma credevo che solo Ditto potesse…»

Quest’informazione aveva riscosso esattamente l’effetto che Emir sperava.

«Questo è quello che si è sempre creduto almeno dal diciannovesimo secolo a oggi» ammise annuendo gravemente. «È per questo che non possiamo ancora sbilanciarci troppo. Il rischio di sbagliare è enorme, e la sola scoperta di Mew basta da sola ad aggiungere un capitolo nei libri di biologia. Ancora dobbiamo finire di studiare l’autopsia di M1, perciò lei capisce che i dati a nostra disposizione finora sono…»

A queste parole Dale ebbe un movimento improvviso, come se gli venisse in mente qualcosa che era stato sul punto di dimenticare. «Ah già, proprio a questo proposito… c’è una cosa che non capisco, Emir. Abbiamo notato che a firmare il referto dell’autopsia siete stati lei e il dottor Lestournelle. Ora, non che non ci fidiamo di voi, ma il medico è il dottor Rotwang. Avrebbe dovuto firmare lui, è pagato per questo. C’è stato qualche problema?»

Sarebbe stato così semplice raccontargli tutto. Dale ce l’aveva con Rotwang da ormai qualche mese, semplicemente perché Rotwang aveva protestato con qualcuno più in alto di lui per la questione dei fondi: naturalmente non aveva ottenuto nulla, ma Dale, a ogni modo, si era sentito scavalcato.

Il contratto di Rotwang, esattamente come il suo, non prevedeva in nessun caso qualcosa come l’obiezione di coscienza: se Dale avesse saputo che Rotwang si era semplicemente rifiutato di effettuare l’autopsia, avrebbe di certo preso provvedimenti seri. Per la verità, Emir non si era ancora del tutto dimenticato di come l’aveva chiamato Rotwang, quel giorno nella tenda, e non poteva dire in tutta sincerità che si sarebbe disperato poi troppo per un suo ammonimento formale. Ma fare la spia non rientrava proprio nel suo genere, perciò, schiarendosi discretamente la voce, rispose: «Rotwang ha avuto un attacco di dissenteria. Probabilmente deve aver bevuto per errore dell’acqua infetta. Poi lo sa come sono questi tedeschi: il referto l’ha letto, ma non ha voluto firmare perché gli sarebbe parso di commettere un illecito…»

Gli occhi di Dale si spalancarono per lo stupore. «Dissenteria, ha detto?»

Emir si strinse nelle spalle cercando di simulare un’espressione innocente. Possibile mai che, dopo tutto quello che Rotwang gli aveva fatto passare, ora gli toccasse pure di coprirgli le spalle? «Una cosa terribile, terribile. Nel cuore della giungla, senza bagno, senza antibiotici… una settimana d’inferno. Mi è quasi dispiaciuto per lui.»

Dale non sembrava molto convinto. «Ne è certo, Emir?»

«Beh, naturalmente non potrei giurare che fosse proprio dissenteria, così a occhio. Ma le garantisco che ci somigliava molto. Forse poteva essere una parassitosi intestinale…»

Se anche avesse parlato di una cancrena intestinale, o di un tumore del sondino nasogastrico, o di qualsiasi altra cosa assolutamente inesistente e impossibile, Dale sarebbe comunque stato troppo ignorante in materia per poterlo contraddire. Ragion per cui, con l’espressione particolarmente delusa di qualcuno che avesse appena visto sfumare di fronte a sé una magnifica occasione, egli tornò a bere il proprio vino borbottando: «Beh, se le cose stanno così, immagino che non si potesse fare altrimenti.»

«No, signore» confermò Emir con tutta la convinzione possibile, desiderando tanto che in quel momento Rotwang potesse essere lì ad ascoltare per rendergli il favore. Non che l’avrebbe mai fatto, naturalmente, ma forse avrebbe mutato almeno un po’ atteggiamento se avesse saputo di essergli debitore di qualcosa, e che egli non era poi così venduto alla Silph come credeva. «Anzi, visto che parliamo di antibiotici…»

«Tra un minuto, Emir, tra un minuto. Dopo la bella notizia, ne ho una brutta da comunicarle… ma non se la prenderà troppo, spero.»

Una brutta notizia, quando a riferirla era Dale, poteva essere una cosa sola: tagli di fondi. Ma come poteva essere, quando appena un minuto prima gliene aveva garantito un incremento? Che fosse piuttosto un licenziamento, allora? Ed Emir come avrebbe fatto a comunicarlo ai suoi colleghi?

«Devo allarmarmi?» domandò con cautela, sforzandosi miseramente di sorridere.

«Nulla di tutto quello a cui sta pensando» garantì Dale in tono compiaciuto. La qual cosa, se possibile, contribuì a inquietarlo ancora di più. «Solo una comunicazione da parte dell’azienda. Abbiamo deciso di mettere in pausa il progetto di rigenerazione dei fossili. Solo per qualche mese, sa. Per il momento, vogliamo che tutti gli sforzi del laboratorio si concentrino sulla ricerca su M2.»

Se si fosse trattato un licenziamento, sarebbe stato quasi meglio.

Di fronte all’ineluttabilità di quell’informazione e alla totale impossibilità di comunicarla ai suoi colleghi, sentendosi annegare, Emir tentò di dibattersi per prendere tempo come di fronte a una fiumana che lo tirasse a fondo.

«Ma… credevo che avesse detto che i fondi sarebbero aumentati» protestò a bassa voce, cercando di suonare ragionevole e poco aggressivo. «Lei sa che io sono sempre stato bravo a far quadrare i conti. Le posso garantire che…»

«Oh, non c’entrano i conti, sa» ribatté Dale con indifferenza, senza neppure guardarlo. «Ma abbiamo convenuto che la cosa migliore è non disperdere le forze. Vorremmo che tutta l’équipe si concentrasse anima e corpo sullo studio di Mew per una semplice questione di priorità.»

«Signor Dale, ascolti… sono anni che lavoriamo sul progetto dei fossili. Si tratterebbe di concludere un percorso. Cerchi di capire…»

«Perché non cerca lei di capire me, invece?» riprese Dale, in un tono che cominciava chiaramente a tradire il suo nervosismo. Non gli piaceva sentirsi contraddire, non quando una cosa gli pareva tanto chiara e lampante, e cominciava a spazientirsi. «Non sono io a scegliere. C’è un consiglio di amministrazione e ci sono degli azionisti che vogliono dei risultati concreti, e subito. Gli azionisti non vogliono investire su qualcosa che non rende. Le ho già detto che abbiamo avuto una grossa crescita in borsa solo grazie all’annuncio della scoperta, e il consiglio pensa che sarebbe meglio approfittare di questa congiuntura. Lei s’immagina che crollo borsistico rischieremmo se venisse fuori che stiamo lavorando su tutt’altro?»

«Mew non sarà trascurata in alcun modo, signor Dale, glielo posso garantire. Io e il dottor Rotwang siamo disponibili a fare doppi turni, e credo che anche gli altri…» Rotwang l’avrebbe ucciso se l’avesse costretto a fare doppi turni, ma l’avrebbe ucciso anche se avesse perso i fondi per la ricerca sui fossili alla quale egli aveva dedicato tutti gli ultimi anni, a un passo appena dalla realizzazione del progetto. Tutto ciò che gli rimaneva da scegliere era per quale motivo litigare con lui, e probabilmente anche col resto dell’équipe, e francamente Emir preferiva passare per uno sfruttatore tirannico e stacanovista che per un venduto. Se l’unico modo per ottenere i fondi per il progetto era quello di richiedere a tutti straordinari doppi turni non pagati, i membri del suo team avrebbero protestato, certo, e si sarebbero infuriati, ma avrebbero dovuto per forza riconoscere anche loro che quella era l’unica scelta possibile.

Di fronte alla sua evidente difficoltà Dale ebbe almeno la buona grazia di mostrarsi contrito, anche se non gli riuscì molto bene.

«Mi dispiace, Emir, davvero, e spero che lei capisca che questo non vuole assolutamente dire che noi intendiamo gettar via tutto il lavoro fatto sinora. Lei capisce che non converrebbe neanche a noi: sa bene quanto abbiamo speso per questo progetto… Ma io non ho potere decisionale, Emir, lo sa anche lei, e sono gli azionisti ad avere l’ultima parola. In fin dei conti si tratta di posticipare il lavoro di quanto? Forse sei, otto mesi al più? Lei non pensa che si potrebbe aspettare? Per parte mia, posso garantirle che eserciterò sul consiglio tutta la pressione che potrò per far sbloccare i fondi il prima possibile. Naturalmente, s’intende che questo dipende anche da voi… dai risultati che saprete portare.»

Emir si sentiva tanto attonito da non riuscire a parlare, come travolto da quelle futili promesse. Che cosa voleva dire tutto ciò? Ma Dale, o almeno qualcuno lassù ai vertici della Silph, aveva almeno una vaga idea di cosa comportasse scoprire un nuovo Pokémon? Di quanti test, verifiche, certezze vi fosse bisogno anche solo per potersi pronunciare con cautela sulle sue statistiche?

«Di quali risultati stiamo parlando esattamente?»

Dale si strinse nelle spalle come se la cosa non avesse la minima rilevanza, per qualcuno che non fosse del mestiere.

«Me lo dica lei, Emir. L’azienda non intende aspettare oltre la prima metà di settembre per fare una prima conferenza stampa ufficiale. Che cosa possiamo dare in pasto ai giornalisti per quella data?»

Con la sensazione di poter svenire da un momento all’altro, Emir cercò a tentoni con la mano il bordo del tavolo dietro di sé e disse con voce sorda: «Il nome.»

L’espressione noncurante di Dale gli morì in viso. Dopo un lungo angoscioso attimo di silenzio, sforzandosi di sorridere, ma in modo non particolarmente convincente, mormorò: «Bisognerà trovare qualcosa di più succoso, non le pare?»

«Il nome» ripeté Emir. «Colore, peso, misure generiche. Possiamo sistemare e pubblicare quel poco che è emerso dall’autopsia di M1. In un mese e mezzo non possiamo neppure ottenere risultati attendibili per gli elementari test del DNA, e poi come facciamo? Con un solo soggetto in vita… no, signor Dale, mi dispiace, ma non si può fare. Il nome e i risultati dell’autopsia. Di più non posso proprio garantirle.»

Per tutta risposta, Dale emise una risatina nervosa, quasi isterica. «Lei non ha capito, Emir. Noi non faremo una conferenza stampa per annunciare cose che i giornalisti sanno già. Credo che lei non si renda ben conto di quello che c’è in gioco… lei sembra non accorgersene, ma ha lo stesso interesse che abbiamo noi in borsa, eppure sembra che non gliene importi.»

«A me invece sembra che lei non sappia che cos’è un’indagine in doppio cieco, se è per questo.»

Quando Emir si rese conto del tono che aveva usato, era troppo tardi.

L’arroganza del suo tono parve ridurre improvvisamente Dale alla calma, ma a una calma minacciosa e inquietante, del tutto priva di empatia. Con le labbra ridotte a fredde linee sottili e il naso che fremeva di rabbia, Dale sorrise.

«Sì, so che cos’è un’indagine in doppio cieco, dottore» ribatté con la massima calma. «Non commetta l’errore di dimenticarsi per chi lavoro, e che sto un po’ più in alto di lei. Ma gliel’ho detto, non sono io a decidere: è la borsa, sono gli azionisti… la borsa vuole dei risultati, Emir. Lei conosce questi circoli viziosi: se l’azienda non guadagna, non ci saranno mai fondi per i fossili. Mi dispiace tanto che le cose stiano così, ma l’azienda non lavora pro bono, e al suo posto io non sottovaluterei il rischio che cerchi qualcuno che sappia produrre risultati corrispondenti alle aspettative…»

Dunque i patti erano quelli, Dale non avrebbe potuto essere più chiaro di così. Risultati chiari, immediati, subito, per settembre, e  più che soddisfacenti, o almeno spendibili dal punto di vista mediatico; altrimenti non solo il progetto sui fossili sarebbe rimasto bloccato, ma gli avrebbero portato via Mew, e al suo posto avrebbero trovato qualcuno più giovane, più pronto e più grato di lui alla Silph…

La sensazione d’esser stato sconfitto e costretto a una resa totale, incondizionata, era così umiliante da sentirsene mancar l’aria. Se solo fosse stato un uomo diverso e un po’ più coraggioso, e un po’ più devoto agli ideali della scienza piuttosto che al suo lavoro, Emir sarebbe rimasto fermo sulle proprie posizioni e avrebbe ribadito che quello che la Silph richiedeva da lui non era né professionale né possibile, e allora forse le minacce di Dale sarebbero cadute nel vuoto. Ma della Silph egli aveva troppo bisogno, e aveva troppa paura di venirne cacciato, e non avrebbe mai avuto il coraggio di dir di no…

«Possiamo annunciare il tipo» mormorò. «Forse qualche mossa, visto che Trasformazione la conosciamo già. Ma non possiamo far di più… in un mese…»

Il signor Dale sorrise con l’aria di qualcuno che fosse molto soddisfatto d’esser riuscito a ricondurre alla lucidità un bambino irragionevole.

«Il tipo e qualche mossa, siamo d’accordo, allora» concluse in tono profondamente compiaciuto. «Io ho sempre puntato su di lei, fin dal nostro primo colloquio. Se lo ricorda?» Emir si sforzò di sorridere. «Sì, è così. Io e lei ci siamo sempre intesi perfettamente. I nostri interessi coincidono, dopotutto, o no?»

«Ho bisogno di fare una doccia, signor Dale» disse Emir un po’ troppo seccamente, per aggirare la domanda; ma Dale non ne parve minimamente turbato. Sapeva benissimo che Emir era arrabbiato e mortificato verso di lui e verso se stesso, e la cosa non lo turbava minimamente. «Il viaggio è stato molto…»

«Oh, lei ha ragione, dottore. Sono apparso all’improvviso senza neppure chiederle il permesso… la lascio subito. Restiamo d’accordo così, allora? Il tipo e almeno due o tre mosse, sì…?»

Certo, dal suo punto di vista doveva essere così facile, così semplice poterlo garantire. E dopotutto, che ci voleva? Quello che per la scienza richiedeva settimane o mesi o anni di lavoro, forse che la Silph non poteva richiederlo in pochi giorni…?

«Arrivederci, signor Dale.»

Quando finalmente il suo elegante scocciatore se ne fu andato, tra innumerevoli sorrisi, ed egli l’ebbe sorvegliato allontanarsi in solitudine nel suo completo bianco lungo la strada irrorata di sole, la sua casa non gli parve più confortante quanto prima.

Quella era la prima volta che Emir si trovava solo da quando la spedizione era partita, un mese prima, ed era la prima volta in vita sua che la solitudine e il silenzio lo sconcertavano. Da quando si era trasferito a Isola Cannella, una vita prima, egli aveva sempre vissuto solo, e del silenzio della sua grande casa vuota si era sempre beato, crogiolandosi nella sensazione vivificante d’avere un piccolo luogo privato dal quale il resto del mondo era escluso – ma il silenzio, quel giorno, lo riempiva di sgomento.

Si sforzò di analizzare la situazione mentre vagava lungo le stanza vuote, con la strana sensazione di star cercando qualcosa. Era poi tanto grave che la Silph avesse bloccato il progetto dei fossili, o tanto imprevedibile che non solamente l’azienda, ma il mondo intero attendesse col fiato sospeso le pubblicazioni di quella scoperta? Sarebbe stato poi giusto sottrarre alla scienza i prodigi di Mew, lasciando in bilico per mesi le migliaia di scienziati che in quel momento avrebbero venduto le loro madri e le loro anime per poter anche solo vedere quel miracolo della natura, che era però proprietà privata della Silph, e le cui informazioni potevano perciò passare solo attraverso di loro?

Certo, posta così, la questione era facile a risolversi, e la posizione della Silph appariva quasi nobile: se solo fosse riuscito a iperrazionalizzare e a ridurre definitivamente il problema in quei termini, Emir si sarebbe a buon diritto potuto ritenere assolto di fronte a se stesso. Ma la Silph non investiva certo sul progresso della scienza; eppure neppure questo pensiero non l’avrebbe tormentato poi così tanto, se solo egli avesse potuto illudersi di non essere che una vittima di quel meccanismo e di non avervi collaborato affatto.

Ciò che veramente lo tormentava – e che non l’aveva turbato mai prima d’allora! – era il pensiero d’aver ceduto alle minacce di Dale perché aveva paura di perdere il lavoro. Tutto ciò ch’egli aveva sempre fatto per la Silph negli ultimi sei anni l’aveva fatto perché quel lavoro l’amava profondamente, il che sarebbe stato nobile, se l’avesse amato in quanto uomo di scienza e non in quanto uomo di carne. Ma tutto ciò ch’egli possedeva della scienza erano il talento, l’intuizione, il genio: la devozione e l’ardore disinteressati, quelli sì che gli erano sempre mancati. Di fronte alle minacce di Dale, l’uomo di scienza avrebbe difeso la propria missione; ma lui, Emir, che quella missione non l’aveva avvertita come tale mai, aveva avuto paura e aveva preferito restare anche a quelle condizioni. Aveva chinato il capo e aveva obbedito alle ragioni dell’azienda, ed era stato vile e meschino, e aveva svenduto il laboratorio.

Una doccia gelida non riuscì a placare questa sensazione: gli rimaneva appiccicata addosso, continuò a rimanere aggrappata da qualche parte in fondo alla sua gola, egli la sentiva quando respirava…

Girellò per un po’ nella sua grande casa vuota, labirintica, accese e spense la luce nelle stanze in cui non andava mai, di cui quasi non ricordava l’arredamento, cercando invano qualcosa che lo placasse. Quella casa era troppo grande e dispersiva per una persona sola, e l’aveva ottenuta grazie alla Silph e al proprio genio: era la vasta reggia della sua ambizione, ma neppure questo riusciva a farlo sentire meglio.

Le pareti erano spesse e umide, la sua villa, con ogni probabilità, era il luogo più fresco di tutta l’Isola. Al di fuori di quella casa, malgrado fossero già passate le sette, l’estate infuriava ancora e l’aria era torrida e irrespirabile, ma Emir pensò che sarebbe stato meglio uscire, in ogni caso, per combattere quel nodo alla gola che non lo lasciava respirare. Forse avrebbe potuto passare in Laboratorio, sistemare un po’ di documenti, portarsi avanti col lavoro… assieme alla sua casa, quello era il luogo in cui si era sempre trovato più a suo agio, e non solamente in tutta l’isola, ma in tutta la sua vita. Sperando che almeno là sarebbe stato capace di tornare a respirare, Emir si vestì in fretta e si avviò.

Quando arrivò non c’era già più nessuno: le casse dei materiali della spedizione erano sistemate in corridoio, davanti all’ingresso, e qualcuno si sarebbe occupato più avanti di collocarle nei rispettivi uffici…

Ma la maggior parte di quel materiale riguardava il progetto dei fossili: nei prossimi mesi sarebbe dunque stato del tutto inutile. Avrebbe dovuto lasciar detto a qualcuno di spostarle direttamente in magazzino, in modo da evitare di far fare del lavoro inutile… sì, ma poi che cos’avrebbero detto i suoi colleghi, quando non avrebbero trovato il materiale nei loro uffici, quel lunedì?

Il nodo in fondo alla sua gola si fece se possibile più grande, più insopportabile. Emir superò le casse sforzandosi di non guardarle, ma al momento di dirigersi verso il suo ufficio si domandò se Mew fosse già stata sistemata nella sua stanza.

Quando ancora si trovava in Guyana, Emir aveva concordato per telegramma con l’azienda la necessità di ricreare in laboratorio un ambiente il più possibile simile a quello della giungla, dato che non era possibile osservare Mew nel suo habitat naturale, e Dale si era impegnato a farlo realizzare a tempo di record. Delle possibilità della Silph egli non dubitava, ed era certo che avessero fatto un ottimo lavoro, con tutti i mezzi a loro disposizione. Tanto valeva dare un’occhiata, prima di mettersi al lavoro.

Quando entrò nella stanza, fu come ritrovarsi di nuovo nella giungla. Tutto, tutto era come egli ricordava: avevano piantato alberi a basso fusto, rampicanti, fiori d’importazione… tutto ciò che di appartenente alla giungla potesse essere acquistato col denaro, trasportato su un aereo e fatto entrare in quella stanza, era lì. L’umidità e la temperatura erano state regolate per adottarsi a un clima equatoriale. Mentre i suoi piedi calpestavano pregiata erba amazzonica importata, ed egli inalava aria profumata di fiori e di frutta, Emir avrebbe potuto illudersi di trovarsi ancora là, in Guyana, e di non esserne tornato mai. Chissà quanto aveva speso la Silph per tutto quel materiale: M2 valeva di certo più di qualsiasi cifra.

S’inoltrò nella stanza con la curiosa sensazione di non essere solo. Era ragionevolmente certo che Mew fosse già stata portata lì, per darle il tempo di riambientarsi dopo il lungo viaggio in mare, ma non riusciva a vederla, e questo lo turbava: adoratrice com’era della compagnia degli uomini, era strano che non fosse già saltata fuori per salutarlo e farsi coccolare. Ma allora dove…?

Accovacciato al suolo, dietro il tozzo tronco di un albero che gliene aveva sino ad allora impedita la visuale, c’era Rotwang.

Mew stava mangiando qualche cosa dalla sua mano, ma improvvisamente, quando percepì con la coda dell’occhio la sua presenza, si sollevò di scatto, balzando nell’aria con un impeto di gioia, e si avventò contro il suo petto. Al contatto colla peluria delicata del suo muso, il groppo che da ore pareva soffocarlo in fondo alla sua gola si attenuò un po’ – ma che ci faceva lì Rotwang?

«Ehi… Fuji.» Per la prima volta da quando lo conosceva – o forse in tutta la sua vita, chissà – Rotwang lo guardò come se si sentisse colto in fallo. «Me ne stavo andando.»

Emir si affrettò a fermare con la mano il suo primo tentativo di alzarsi in piedi. Ma quando mai Rotwang era stato così disponibile, poi? «Lascia stare… ero passato solo a dare un’occhiata. Devo andare in ufficio a compilare un po’ di roba, perciò rimani pure.»

«Sono venuto solo a fare dei controlli» borbottò Rotwang. «Le pulsazioni e la pressione, sai… per controllare che il viaggio non l’abbia scossa troppo.»

Rotwang doveva essere veramente imbarazzato d’essersi fatto trovare lì, se aveva trovato una scusa così pateticamente, palesemente falsa. Ma quella era anche la prima volta che Rotwang si limitava a difendersi piuttosto che attaccarlo gratuitamente, ed Emir non ritenne saggio infrangere una così miracolosa congiuntura. Fingendo di non accorgersi che era assai inconsueto per un medico prendere rilevazioni su un paziente in T-shirt e vecchi jeans slavati, seduto sull’erba e senza alcuno strumento, Emir si limitò ad annuire con aria di comprensione.

«Capisco. Immagino che vada tutto bene, sì?»

Rotwang sapeva ch’egli sapeva che stava mentendo, ma gli fu grato egualmente di non averlo dato a vedere. Si strinse nelle spalle. «Tutto nella norma. È molto serena. Sembra molto felice di essere qui.»

Quando Emir posò due dita sul suo muso, tra i suoi occhi, e massaggiò piano la sua fronte, Mew pareva veramente felice di essere lì. Eppure era stata sradicata dal suo continente per venir rinchiusa in una stanza di un laboratorio, e il suo compagno era morto lontano da lei perché loro non erano stati in grado di salvarlo. Allora perché i suoi occhi esprimevano tanta gratitudine?

«Sì, sembra molto felice» mormorò.

Quel nodo in fondo alla gola era tornato, si era fatto più intenso e più tormentoso. Ma perché? Era forse per gli occhi azzurri di Mew?

D’un tratto una parte di lui sentì che confessare lo avrebbe fatto sentire meglio.

«Ho parlato con Dale» disse con voce sorda.

Colto di sorpresa, Rotwang aggrottò un sopracciglio e lo guardò come se si aspettasse che dicesse qualcos’altro.

«Già, fate sempre comunella, voi due» ribatté dopo un po’, in un chiaro tentativo di invitarlo a proseguire.

«Ci hanno bloccato i fondi per il progetto dei fossili.»

Quando Emir si decise a chinare gli occhi su di lui, il volto di Rotwang era corrucciato e perplesso. Stava per chiedergli qualcosa, ma alle sue domande Emir non avrebbe mai saputo rispondere, allora proseguì macchinalmente per impedirgli di parlare. «Dale vuole che ci concentriamo unicamente sul progetto di M2, e ora tutti i finanziamenti sono vincolati a quello. Dobbiamo essere pronti a rilasciare pubblicamente il tipo di Mew per la metà di settembre. Ho detto di sì.»

«Ah» disse solamente Rotwang. Non sembrava particolarmente turbato, né tantomeno furioso quanto avrebbe dovuto essere. «Bella merda, eh?»

Se Emir aveva confessato tutto questo proprio a lui, non era per qualche inconscio desiderio di uno scontro catartico che lo riconciliasse con se stesso o per il desiderio d’esser rimproverato, ma semplicemente perché Rotwang era il primo essere umano che avesse avuto la sfortuna d’incontrare quel giorno dopo Dale, e bisognava pure ch’egli parlasse con qualcuno. Non è che avesse precisamente voglia di litigare, ma quando tutto ciò che ottenne di sentirsi dire dal suo più acerrimo nemico, alla notizia che aveva appena accettato di bloccare un progetto che andava avanti da quattro anni, fu bella merda, eh?, Emir si sentì profondamente spaesato. Non provava neppure a offenderlo?

«Non hai nient’altro da dire?» chiese.

«C’era da aspettarselo, Fuji, e se non te lo aspettavi sei un idiota» rispose saggiamente Rotwang. Quantomeno, sembrava tornato in sé. «I fossili non fanno guadagnare quanto il Pokémon più raro del mondo. Io me l’aspettavo, comunque.»

«Che cosa?» Se solo Emir avesse potuto spalancare gli occhi ancora un altro po’. «Tu ti aspettavi che ci avrebbero bloccato il progetto? Ma se sei venuto qui per questo!»                     

Rotwang era emigrato dalla Germania perché l’unico desiderio che avesse al mondo era di partecipare al progetto di rigenerazione dei fossili condotto dalla Silph SpA, e contro la Silph si era scagliato e infervorato perché i fondi non erano mai abbastanza e i macchinari erano mediocri e qualsiasi altra cosa – e ora improvvisamente era d’accordo con loro. Aveva rinunciato ai fossili, per i quali si batteva da quattro anni. Ma perché?

Emir si sedette in silenzio accanto a lui, cosa che spinse Mew a trillare di gioia, per chissà quale motivo. Il giorno seguente – o forse anche l’ora seguente, senza bisogno di aspettare tanto – Rotwang sarebbe tornato a odiarlo e ad aggredirlo con qualsiasi pretesto; ma ora le cose non stavano così.

«Ho detto io di sì a Dale.»

«Questo è perché sei un coglione.»

«Ho dovuto dirgli di sì. Se non l’avessi fatto, ci avrebbero licenziati per assumere scienziati più giovani.»

Di fronte all’insistenza delle sue parole, Rotwang ebbe un moto d’impazienza che fece sobbalzare Mew di protesta.         «Vuoi sentirti dire da me che hai fatto bene, Fuji? Cazzo, ma non ci arrivi a capirlo da solo?»

Un vero scienziato gli avrebbe detto di no, pensò Emir, si sarebbe rifiutato. Avrebbe difeso i diritti e la dignità della scienza, e avrebbe detto di no. Ciò che disse invece fu: «Lo so.»

Rotwang parve calmarsi un poco a quella dichiarazione. Tornò a tendere la mano a Mew in segno di scusa, e quella l’accettò prontamente e la strinse tra le piccole zampe. «Beh, hai fatto bene, Fuji. Ti sei sempre piegato a novanta davanti alla Silph, e hai sempre sbagliato, ma stavolta non potevi fare altrimenti. Dale ti aveva mai minacciato prima?»

Emir dovette fare mente locale per qualche minuto. Non poteva onestamente dire che lui e Dale fossero mai andati d’accordo in senso assoluto, ma per quanto indietro cercasse di spingersi con la memoria, addirittura fino al giorno del loro primo incontro, non poteva dire di ricordarsi alcuna minaccia di quel tipo.

«Beh, no, ma… non credo che ne abbia mai avuto bisogno. Non era mai stato così irragionevole, e io non mi ero mai opposto. Non come oggi, comunque.»

«Wow, tu che osi dire di no a Dale… devo veramente crederci?» Emir dovette esercitare uno sforzo titanico su se tesso per non rinfacciargli tutte le volte che aveva discusso per telefono con Zafferanopoli per i suoi capricci, ma in qualche modo riuscì a non rispondergli. Non voleva litigare davanti a Mew. «Beh, comunque stiano le cose… se Dale è arrivato a minacciarti di licenziarti, dev’essere perché la Silph preme veramente su questo progetto. I contatti che abbiamo firmato non ci tutelano, quindi penso che potrebbe farlo veramente, Fuji. Lui a questo laboratorio ha vincolato tutta la sua carriera, dopotutto.»

Il ragionamento di Rotwang era ineccepibile, eppure, in fondo alla propria gola, Emir sentiva ancora qualcosa di pungente e amaro, doloroso. Non avrebbe neppure saputo spiegarne il motivo, dato che mai prima di allora egli si sarebbe neppure sognato di mettere in discussione i dettami della Silph: era una società per azioni, non un’università insignita del dovere morale di perseguire gli alti e puri ideali della scienza, ed era giusto che investisse il proprio denaro nel modo più redditizio; chi non fosse stato d’accordo, non era del resto obbligato a lavorare nel privato. Eppure, quando si trattava di Mew, Emir proprio non riusciva a pensarla così.

«Avrei dovuto almeno provare a far dilatare i tempi. Un solo mese per dichiarare con certezza il tipo… è pura follia.»

«Tu e Lestournelle dovrete fare doppi turni. Io e Dolarhyde avremo bisogno di almeno dieci giorni solo per gli esami del DNA, ma vedrò quello che posso fare» calcolò Rotwang sovrappensiero. Continuava a non sembrare minimamente arrabbiato, neppure di fronte alla mole di lavoro che li aspettava, e ne ragionava lucidamente e razionalmente senza il minimo accenno di rabbia.

«Che c’è, Rotwang? Sei d’accordo con la Silph, adesso?»

«Che ti aspettavi che ti dicessi, Fuji? Che ti spronassi a farci licenziare tutti?» Dal punto di vista di qualcuno emigrato appositamente per lavorare per la Silph, quella poteva costituire da sola una valida risposta, ma Rotwang, che ancora aveva gli occhi infissi negli occhi di Mew, non aveva ancora finito di parlare. Per qualche motivo, Emir sentì che ciò che era in procinto di dire era stranamente importante, e incosciamente si protese verso di lui. «Voglio dire… possiamo davvero permetterci di rischiare che ce la portino via?»

 

 

 

Buongiorno a tutti!

A sessione invernale finita mi sono presa un paio di giorni per copiare questo capitolo, piuttosto breve e soprattutto scritto su un numero limitato di fogli volanti, e pubblicare (forse per la prima volta nella mia vita, chissà) entro un tempo decente.

Riguardo a questo capitolo non ho molto da dire, ma colgo l’occasione per chiedere come vedete il formato del testo: negli ultimi mesi sto avendo dei fastidiosissimi problemi con l’HTML, soprattutto per quanto riguarda la dimensione e il font, e sto cercando di risolverli senza troppo successo.

Ciò detto, ringraziando come al solito cristal_93 per la recensione, non mi rimane altro che mandare un enorme abbraccio a tutti.

Alla prossima

 

Afaneia

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Capitolo 6
*** Inconoscibile. ***


Inconoscibile

Capitolo V - Inconoscibile.


Il laboratorio lavorò incessantemente per l'intero mese di agosto, sotto il sole torrido e soffocante dell'Isola Cannella, e i risultati delle analisi su Mew si rivelavano più sconcertanti ogni giorno che passava.

La tipologia di mosse apprese presentava uno spettro singolarmente ampio, troppo rispetto a qualsiasi altro Pokémon noto sino a quel momento. Sembrava che fosse in grado di apprendere ed eseguire qualsiasi mossa le fosse proposta o mostrata un'unica volta, indipendentemente dal Pokémon che si trovava di fronte, e di ricordarla poi a tempo indeterminato. Questo tornava ad accostarlo a Ditto, ma solo in modo molto superficiale: Mew non si limitava a imitare durante una fase di Trasformazione, ma apprendeva realmente le mosse che aveva di fronte, e non le scordava più.

«Questo almeno è confortante» aveva commentato Portia durante una riunione per fare il punto, nella calura soffocante del dodici di agosto. «Dale voleva due mosse. Possiamo dargliene tre: Trasformazione, Botta, Psichico. Di queste mosse siamo certi. Dopo la conferenza stampa dovremo prendere tempo per stilare una lista completa delle altre... anche se per ora non sembrano finite.»

Ma non era solo la quantità delle mosse a sgomentarli. Se la sua unica peculiarità fosse stata quella di conoscere un quantitivo di attacchi pressoché illimitati, il mistero non sarebbe stato poi tanto insondabile: Mew avrebbe costituito per la Silph una potenzialità infinita, e basta.

Ciò che non si erano aspettati era che Mew si rivelasse inaspettatamente forte.

La sua simpatia e la sua dolcezza li aveva ingannati tutti. A misura che la sottoponevano a prove via via crescenti, Mew non si mostrava in difficoltà né spaventata; ma neppure sembrava aggressiva. Non manifestava un comportamento territoriale né proteso verso l'attacco: semplicemente, Mew giocava, e obbediva ai loro ordini perché li amava e si fidava di loro in tutto e per tutto. Era la creatura più grata e più inoffensiva che Emir avesse mai visto, e ciò era ancor più stupefacente perché era potente quanto un Dragonite; e se le cose stavano veramente così, se ella poteva eguagliare o chissà, magari persino superare un Pokémon sino ad allora considerato invincibile come Dragonite, allora Mew si poteva a buon diritto considerare il Pokémon più forte del mondo. Ma allora perché non si ribellava?

Eppure, di nuovo, le cose non si fermavano qui. Dolarhyde si affacciò alla porta del suo studio attorno al venti di agosto, verso l'orario di chiusura, sventolando con una mano un plico di fogli e domandando: «Ce li hai cinque minuti per me?»

A giudicare dalla sua espressione, quei cinque minuti sarebbero durati almeno mezz'ora, ma Emir non era mai stato un tipo molto frettoloso di timbrare il cartellino. Gli fece cenno di accomodarsi, cercando alla meglio di sgomberare il tavolo per far spazio a qualsiasi cosa avesse da mostrargli, e Vincent entrò e chiuse la porta.

«Ho i risultati delle analisi che mi avevi chiesto.»

Emir si sentì immediatamente sollevato. «Alla buon'ora, Vincent. Non volevo metterti fretta, ma lo sai quanto...»

«Beh, Emir, non è che io ci abbia messo così tanto perché non ne fossi capace, sai» lo interruppe Vincent. «Ho dovuto fare altre analisi oltre a quelle che mi hai chiesto.»

Se Emir non l'avesse conosciuto da troppi anni per non sapere che Vincent era un collaboratore di cui potersi fidare, gli avrebbe chiesto per quale razza di motivo aveva trattenuto così tanto i risultati di analisi da cui dipendeva il lavoro di tutti, per il solo sfizio di fare analisi supplementari non richieste e soprattutto non autorizzate. Ma Vincent non l'aveva deluso mai una sola volta da quando avevano lavorato a Porygon, e se aveva preso un'iniziativa del genere doveva esserci un valido motivo.

«Che cos'hai cercato?»

Vincent spalancò il plico sulla sua scrivania e gli passà un primo foglio. Emir vi gettò uno sguardo mentre ascoltava.

«All'inizio ho fatto quello che mi hai detto: ho confrontato il suo patrimonio genetico con quello di Ditto. È come avevi detto tu: c'è correlazione.» Emir provò una fitta di delusione a quelle parole. Era tutto lì, dunque? Nient'altro che un Pokémon strettamente imparentato con la creatura più amorfa di tutto il mondo conosciuto?

Dolarhyde colse il disappunto nel suo sguardo e si affrettò a specificare: «Aspetta un momento, Emir. Sì, c'è correlazione, ma anch'io la pensavo come te... non ero convinto. Non ho detto nulla a Valérien, per il momento, e ci siamo concentrati solo sul tipo... comunque potrai leggere tutto lì. I dati confermano che è uno Psico, ma questo lo sapevamo già dai test sperimentali» Sfogliando le pagine stampate che Dolarhyde gli porgeva via via, Emir scorse, annotata a margine, la scrittura esitante di Valérien, che ancora non aveva imparato a scrivere il giapponese tanto bene quanto lo parlava. «Allora ho cercato concordanze con altri tipi Psico. Sono partito dalla famiglia evolutiva di Abra... guarda le coincidenze genetiche.»

Sul nuovo foglio che Vincent gli porgeva c'erano alcuni dati cerchiati più volte a mano in penna rossa. Emir ebbe la precisa sensazione che il suo cuore saltasse un battito: la percentuale di corrispondenza genetica differiva da quella di Ditto solo di uno scarto talmente piccolo da essere non considerabile.

«L'apparecchiatura ha dato due volte lo stesso risultato» disse con decisione.

«Già, sembra ovvio, no?» replicò Vincent trionfante, ed Emir ne dedusse di aver appena fatto esattamente l'obiezione che egli si aspettava da lui. «Ho riavviato e resettato tutti i macchinari, ho usato campioni diversi, ho rifatto tutto due volte. Il risultato è lo stesso, con scarto trascurabile.»

L'unica ipotesi plausibile per decifrare quei dati era ammettere che Mew fosse imparentato con entrambe le specie. Combattendo da un lato con un crescente scetticismo e dall'altro con un senso d'angoscia crescente, Emir annuì e disse: «Va bene. Ipotizziamolo.»

Vincent annuì. «È quello che ho detto anch'io. Ipotizziamolo. Tu che cos'avresti fatto a questo punto al mio posto?»

Emir rifletté rapidamente. «Avrei confrontato con un terzo Pokémon non correlato geneticamente.»

«Esattamente. Ho preso un Tentacruel. Vuoi indovinare qual è stato il risultato o preferisci girare pagina?»

Emir non perse neppure tempo a sfogliare ancora il plico. Tutto ciò era troppo per essere anche solo ipotizzabile. «Senti, Vincent... io mi fido di te, ma stavolta è evidente che qualcosa non ha funzionato. Chiamo Zafferanopoli e mi faccio mandare un tecnico per domattina, così controlliamo che cosa c'è che non va.»

Vincent non parve deluso né amareggiato dalla sua reazione: al contrario, si limitò a sollevare le mani in segno di resa. «Come vuoi, Emir: è giusto vagliare tutte le possibilità. Ma sono sei anni che lavoro su questi macchinari, e credo di conoscerli ormai. Vogliamo scommettere?»

Per qualche meccanico riflesso risalente alla sua infanzia, Emir rispose d'istinto: «Io non scommetto.»

«Non avevo dubbi» rispose Vincent ridendo. «Allora domani faremo visionare tutti i macchinari, ma in cambio tu stanotte devi guardare i miei risultati. Me lo prometti?»

«Posso promettertelo, ma non cambierà comunque le cose» ribadì Emir con troppa durezza. «Lo sai anche tu che c'è un errore, Vincent. Deve esserci un errore.»

«Questo lo stabilirà il tecnico domani» disse Vincent con voce squillante, alzandosi in piedi: aveva raggiunto l'obiettivo che si era prefissato, quello di renderlo dubbioso, e ora poteva andarsene a casa con la soddisfazione di lasciarlo subissato dal dubbio e dall'angoscia. «Allora, buona serata, mio caro. Non scordarti la promessa, eh?»

Ma prima che Vincent facesse in tempo ad aprire la porta, spinto da non sapeva bene quale istinto, Emir lo richiamò: «Hai parlato con qualcuno di questi risultati?»

Vincent tornò a voltarsi verso di lui con aria profondamente compiaciuta. «No, Emir, te l'ho già detto. A Valérien ho dato solo i risultati relativi al gene del tipo. Tutto il resto lo sappiamo solo io e te.»

«Bene» borbottò Emir, sentendosi profondamente imbarazzato per ciò che aveva appena detto. Dopotutto, che cosa mai poteva cambiare? Quei dati erano sicuramente frutto di un errore. Ditto, Abra e Tentacruel non avevano tra di loro alcun tipo di legame genetico. I risultati che aveva di fronte in quel momento non avevano il benché minimo valore scientifico. Per darsi un contegno, sollevò la cornetta del telefono per chiamare Zafferanopoli; eppure, prima di digitare il numero, in un attimo di esitazione, aggiunse in fretta: «Non parlarne con nessuno, per ora. Voglio dire... è inutile creare allarmismi per niente.»

«Come vuoi, Emir» rispose Vincent sorridendo di vittoria. «Domani sera ne riparleremo io e te.»


Quella notte Emir non dormì.

Si era portato a casa i risultati degli esperimenti di Vincent più per mantenere la promessa che perché avesse davvero intenzione di leggerli – e anzi, mentre cenava si era detto di no, che non li avrebbe letti perché neppure ne valeva la pena: quando fosse arrivato, il tecnico avrebbe aggiornato il software, o sistemato un cavo o cambiato un pezzo, avrebbe riavviato i macchinari, e i risultati sarebbero stati diversi. L'aveva promesso a Vincent, certo, ma perché sprecare tempo a leggere quella che presto si sarebbe rivelata carta straccia?

Eppure quel plico lo chiamava, c'era qualcosa, in quelle paginate di dati, che proprio non smetteva di attrarlo a sé... era stupido e sciocco, si ripeteva, ed era una sensazione che neppure avrebbe sapito spiegare con qualcosa come l'intuito o il genio di uno scienziato.

L'ipotesi che Vincent aveva insinuato avrebbe spiegato tutto, certo. Una specie ormai quasi estinta, ridotta a una manciata di esemplari che vivevano in nuclei isolati in una zona sperduta della giungla... era un'ipotesi troppo romantica, troppo positivista per essere vera; ma se lo fosse stata, non avrebbe forse potuto spiegare per quale motivo Mew si dimostrava in grado di apprendere qualsiasi mossa le venisse insegnata?

Sentendosi arso vivo da questi dubbi come da un fuoco, quando passò nel salottino che dava sulla scogliera, dopo cena, nel vano tentativo di cercare qualcosa da fare per distrarsi in quella grande casa vuota, si rese conto che ogni tentativo di resistenza era inutile. Il plico era adagiato sul tavolo, là dove l'aveva lasciato quando era rincasato un paio d'ore prima, e sentendosi profondamente rassegnato Emir andò a sedersi sul divano e l'aprì.

Consultò dati per la maggior parte della notte. Portò la documentazione nella sua biblioteca privata, recuperò manuali di genetica, articoli, riviste, pubblicazioni scientifiche, qualsiasi cosa avesse raccolto negli ultimi quindici anni che parlasse anche solo lontanamente di quell'argomento, e confrontò ogni singolo dato degli esperimenti di Vincent con quelli ufficiali.

Intorno all'alba era ragionevolmente certo che, se il tecnico non avesse trovato nessun difetto o errore nella strumentazione di laboratorio, egli sarebbe diventato pazzo, perché simili risultati rasentavano l'impossibilità statistica.

Quella mattina, al lavoro, doveva apparire tanto stanco e nervoso che neppure Rotwang osò gettargli una frecciatina; e in quanto a Vincent, che pure era la causa di tutto quel tormento, quel giorno pareva introvabile: evidentemente aveva deciso di evitarlo fino a che qualcosa di certo non fosse venuto fuori.

Per quanto il tecnico cercasse in ogni modo di fargli capire che avrebbe preferito lavorare da solo e che la sua presenza lo infastidiva, Emir presenziò al suo sopralluogo per tutto il pomeriggio, appollaiato in silenzio in un angolo del laboratorio; e il cielo sa quanto avrebbe avuto da fare. Ma non intendeva lasciare nulla d'intentato, e quando l'uomo, col cappello in mano – dato il curioso, quasi ancestrale rispetto che gli isolani manifestavano per chi aveva studiato – venne a dirgli che tutto era a posto, Emir lo aggredì letteralmente.

«È impossibile. Controlli meglio.»

Dopo una certa esitazione, il tecnico riprese: «Dottore, io posso anche controllare meglio, ma bisognerebbe allora che fosse lei a dirmi che cosa cercare di preciso.»

«Non lo so. Un'avaria.»

«Il signore per telefono mi ha detto che ottenete risultati falsati. Io non rilevo alcun malfunzionamento, ma se vuole possiamo fare una prova con dati di cui siete già certi, e vedere come va.»

Emir fece chiamare Vincent e gli ordinò di fare il tentativo sotto i suoi occhi, ma tutta la sua foga e la sua lotta si rivelarono vane: il tecnico sembrava aver ragione. I risultati non erano mai stati tanto chiari, e Vincent mai tanto gongolante. Emir avrebbe voluto provare ancora, tentare tutte le possibilità, arrivare a smontare e rimontare pezzo per pezzo tutto il laboratorio, se necessario, e di più ancora; ma a quanto pareva il tecnico era pronto a sfidarlo a prendere il suo posto, se proprio di lui non si fidava, ed egli non avrebbe saputo cosa dirgli esattamente di cercare.

Alla fine di quella giornata eterna, lui e Dolarhyde rimasero soli a sedere nell'ufficio deserto.

«Allora? Vuoi brindare con una birra?» chiese Vincent con voce squillante. «Anche se a vederti avresti bisogno di un caffè, amico. Non sembri entusiasta.»

No, Emir non si sentiva entusiasta per niente, perché riscrivere la storia della biologia non era esattamente un pensiero confortante, e soprattutto non era quello che aveva in mente la Silph.

Seduto a braccia incrociate, rigidamente ancorato alla sedia, borbottò soltanto: «Non sappiamo ancora quello che abbiamo scoperto.»

«Perché trovare una correlazione genetica con tre esemplari casuali ti pare poco?»

Non era poco per niente. Da un punto di vista scientifico, trascurare quei risultati sarebbe stato un imperdonabile delitto: ma come si poteva fare a prenderli in considerazione proprio in quel momento?

«Mi sembra anche troppo» rispose contrariato, forse un po' troppo piano perché l'altro potesse udirlo.

«Devo stampare altre copie dei risultati?» chiese Vincent dopo un poco, quando il silenzio si fece troppo prolungato perché fosse casuale e la necessità di far qualcosa fu troppo impellente. «Se vogliamo dirlo agli altri, sarebbe meglio che potessero...»

«Noi non vogliamo affatto dirlo agli altri» lo interruppe Emir bruscamente. Vincent ne rimase tanto confuso che faticò qualche istante a rispondere.

«In che senso?»

«Nel senso che questi risultati devono rimanere tra noi due fino alla conferenza stampa» sbottò Emir alzandosi in piedi. Quel giorno aveva perso già abbastanza tempo a star dietro a macchinari che si erano rivelati infidamente funzionanti, e rimettersi al lavoro, magari, lo avrebbe aiutato a reprimere l'ansia. Avere la potenziale chiave dei misteri della vita tra le mani, francamente, non era un pensiero molto rassicurante. «O vuoi che Dale ci faccia pressioni per pubblicare anche questi risultati a settembre?»

Dale ebbe un attimo di smarrimento. «Ma andiamo, Emir... deve saperlo anche lui che, se si tratta di quello che sospettiamo, non ci basterebbe un anno di lavoro.»

«Già» commentò Emir causticamente. «Peccato che dovrò contrattare con lui per ottenere sei mesi, e ho bisogno di tempo.»


Emir aveva preso parte a una conferenza stampa solo una volta, qualche anno prima, per presentare pubblicamente l'introduzione di Porygon. Non gli era piaciuto molto. Non si era mai sentito portato per parlare in pubblico: era stato a disagio anche durante la sua discussione di laurea, durante la quale persino il suo controrelatore aveva ammesso di non aver nulla da controbattere alla sua tesi e la sua commissione gli aveva tributato il massimo punteggio possibile; ma parlare così, di fronte a uno stuolo di giornalisti che da un momento all'altro avrebbero potuto chiedergli qualcosa d'inaspettato, o prospettare al suo lavoro qualcuna di quelle obiezioni di carattere etico alle quali tutt'ora egli, dentro di sé, non riusciva a dare una risposta convincente, quello proprio lo angosciava.

Sul fatto che dovesse esser proprio lui a parlare, però, Dale si manteneva irremovibile, allora come anni prima: il capo del team di ricerca era lui, le notizie che riguardavano il laboratorio dovevano perciò essere pronunciate dalla sua viva voce, che fosse sicura di sé oppure no, che fosse carismatica oppure no; inoltre, per apparire vicina ai cittadini e dunque ai clienti, la Silph mirava a mantenere un rapporto capillare col territorio, ed era dunque fondamentale che i telespettatori vedessero e sentissero una personalità kantense, piuttosto che un qualsiasi membro straniero dell'équipe.

Ma contro ogni sua più angosciata previsione, la conferenza stampa fu un successo. Mew era troppo bella e troppo incantevole perché i giornalisti riuscissero a pensare a qualcosa di diverso da lei; e in quanto a quell'unica domanda ch'egli aveva veramente paventato da loro, e alla quale aveva prospettato per giorni ogni possibile risposta, non vi fu il clamore ch'egli si era aspettato. Qualche gli chiesero qualche dichiarazione riguardo all'esemplare maschio e alle circostanze della sua morte, Emir non poté fare altro che rispondere onestamente:

«L'esemplare M1 è stato il primo e inizialmente l'unico che abbiamo trovato, ma era già ferito e in condizioni estremamente gravi, sicuramente avvelenato, quando il mio collega, il dottor Lestournelle, si è imbattuto in lui. Il nostro chirurgo, il dottor Rotwang, ha lavorato per tutta la notte per salvarlo e si è comportato in modo esemplare, ma non gli è stato possibile fare di più con i soli mezzi a nostra disposizione. Abbiamo portato il corpo qui col permesso delle autorità locali per poterlo studiare, e siamo certi che potremo scoprire grandi cose sul patrimonio genetico e l'origine di questi Pokémon.»

Tutto ciò era poi, del resto, la pura verità: avevano trovato M1 per puro caso, la ferita non era stata causata dal loro operato, Rotwang aveva fatto molto più di ciò che era umanamente e professionalmente possibile fare; nessuno di loro avrebbe avuto alcun motivo per colpevolizzarsi della sua morte. Dal punto di vista legale, neppure la Silph era colpevole: nessuna legge la obbligava ad attrezzare un'équipe di ricerca di fossili con la strumentazione necessaria a curare qualsiasi Pokémon ritrovassero. Ma il senso di colpa ch'egli proprio non riusciva a rintuzzare per quella morte era tanto opprimente ch'egli si sorprese che quella sola risposta bastasse a soddisfare i giornalisti, e che non gli facessero altre domande. Eppure la verità avrebbe dovuto essere la stessa per tutti, anche per lui; ma allora perché a lui non bastava?

Ma se Emir aveva ceduto alle direttive della Silph in tutto e per tutto, presentando i risultati degli esperimento e rispondendo alle domande dei giornalisti esattamente come gli era stato, più o meno velatamente, suggerito da altri, sulle fotografie era stato chiaro fin dall'inizio della conferenza stampa: per quanto i giornalisti scalpitassero e protestassero, non avrebbe permesso di fotografare Mew da vicino. Avrebbero potuto riprenderla per tutto il corso della conferenza stampa accanto a lui, separata da loro da tutta la larghezza del tavolo, ma per la sicurezza e la tranquillità del Pokémon non si poteva concedere di più. Naturalmente Emir sapeva che questa era una bugia: Mew era il Pokémon meno stressato, e anzi più lieto della presenza umana ch'egli avesse mai visto; se l'avesse lasciata fare, sicuramente avrebbe giocato con tutti i presenti e si sarebbe lasciata coccolare e accarezzare – ma era proprio questo ch'egli mirava a impedire. Oltre a una puerile gelosia verso il Pokémon più raro del mondo, ch'egli non avrebbe avuto poi troppa difficoltà ad ammettere ad alta voce, c'era qualcos'altro che lo metteva a disagio all'idea di mostrare al mondo quanto Mew fosse docile e giocosa verso gli estranei. Certo, per il momento nessuno al mondo era nelle condizioni di farle del male; ma che cosa avrebbe detto il mondo quando si fosse reso conto che il Pokémon più raro, e forse più potente, del mondo era giocosa e tenera come un gattino particolarmente affettuoso?

«Una grande idea davvero, Emir, quella di impedire gli scatti ravvicinati» gli disse Dale con la massima soddisfazione, più tardi nel suo ufficio, davanti a un caffè freddo che Emir aveva fatto preparare appositamente per ingraziarselo. Sembrava essersi totalmente dimenticato della discussione che avevano avuto il mese precedente, per quanto amareggiante fosse stata, e questo voleva dire soltanto che era veramente soddisfatto dei risultati che avevano portato. «Non la facevo un esperto di marketing, ma pare che io debba rivalutarla da questo punto di vista. Ma voi geni sorprendete sempre noi persone normali, non è vero?»

«Non è stata una scelta di marketing, signor Dale» rispose Emir senza alcuna finta modestia. Incuriosita da quell'affascinante signore in giacca e cravatta che esitava a darle confidenza, e nel quale ella aveva subito identificato un nuovo amico con cui giocare, Mew li aveva seguiti nel suo studio, e ora stava cercando di avvicinare Dale con scarsi risultati. «Scienza e coscienza ci impongono di tutelare i Pokémon da ogni fonte di stress superfluo. Mew è estremamente a suo agio con gli estranei, come può vedere, ma non ne ha mai incontrati così tanti tutti assieme, e in più c'era il problema dei flash. Gli stimoli luminosi...»

«Sì, sì, lei ha perfettamente ragione, dottore» lo interruppe Dale con l'aria di non voler ascoltare una sola parola di più. «In ogni caso, abbiamo deciso di concedere un'intervista in esclusiva alla rivista Amico Pokémon, vi chiameranno in settimana per concordare un giorno in cui parlare con voi e scattare qualche foto... sotto la sua supervisione, naturalmente. Così potrà controllare tutto quello che vuole e accertarsi che tutto sia fatto come dice lei.»

Mew era veramente a suo agio con gli estranei, e si offendeva molto se l'attenzione che richiedeva non le veniva concessa immediatamente. Nella fattispecie, quel giorno aveva deciso che il signor Dale sembrava proprio la persona giusta con cui giocare, dato che non lo aveva mai visto, e il fatto ch'egli non riuscisse ad accennarle che qualche sorriso imbarazzato mentre lei gli fluttuava attorno, cercando in ogni modo di richiamare la sua attenzione per mezzo della lunga coda e di squittii indignati, la irritava tremendamente. Se l'avesse richiamata, Mew avrebbe smesso all'istante, ma Emir preferì lasciar perdere. Dale non sembrava infastidito da lei, quanto piuttosto impacciato e imbarazzato come qualcuno che non sapesse bene come comportarsi; il che non era poi sorprendente, considerando che uno dei suoi massimi motivi di vanto era sempre stato di non aver mai giocato, neppure una volta, con i Pokémon delle sue nipoti.

«Non è proprio una rivista scientifica, signor Dale» si limitò a obiettare in tono neutro. Non aveva voglia di discutere per quel motivo.

«No, ma è una rivista che i lettori acquistano» ribatté Dale trionfalmente. «E l'acquisteranno a maggior ragone se conterrà l'unico poster di grandi dimensioni del Pokémon più raro e più bello del mondo. Verrà qui un fotografo esperto nella ripresa di Pokémon in ambienti naturali, quindi verrà fuori un bellissimo lavoro. Sulle riviste scientifiche potete pubblicare tutte quelle altre cose che fate voi scienziati per parlare tra di voi; io non me ne intendo.»

«Già, ecco... a questo proposito, signor Dale.»

Per quello che doveva dirgli ora, Emir aveva bisogno della sua massima attenzione, e possibilmente del suo buonumore. Si passò un paio di volte la mano sulla coscia, sfregando con simulata noncuranza la stoffa dei pantaloni: Mew era estremamente incuriosita dai rumori inaspettati, ed Emir ebbe la soddisfazione di vederla destinargli all'istante tutta la sua attenzione, lasciando finalmente in pace Dale. L'accarezzò piano tra gli occhi con due dita, e Mew si acciambellò sul suo grembo con aria molto compiaciuta. «Forse dovremmo parlare di come proseguire le ricerche, ora che sono state avviate. Come le ho accennato per telefono, i risultati che abbiamo ottenuto fino a ora sono... sbalorditivi.»

«Beh, me lo dica lei, dottore. Siete voi i miei soldati sul campo, per così dire.» Dale si sistemò più comodamente sulla poltrona. «Lei è ottimista riguardo ai prossimi esperimenti?»

«Sono... un po' più che cautamente ottimista. Oserei quasi dire moderatamente ottimista.»

Dale scoppiò a ridere. «Da quando la conosco, questo è il massimo che le abbia mai sentito dire. Moderatamente ottimista, eh? Di che cosa si tratta?»

Emir esitò su cosa dirgli. «Non vorrei darle false speranze, ma... il corredo genetico di Mew sembra molto interessante. Forse potremmo ottenere qualcosa sul modello della famiglia evolutiva di Eevee, ma...»

Se Dale fosse stato un Pokémon, ora avrebbe drizzato le orecchie e si sarebbe messo in allerta come sotto una minaccia. Ma minacce non ce n'erano, ed egli chiese: «Eevee? Ho capito bene?»

«Non si ecciti troppo, la prego» si affrettò a interromperlo. «Abbiamo solo indizi vaghi per ora, nulla che ci faccia davvero pensare a un'applicabilità come quella di Eevee, ma ci sono delle speranze, questo sì. Per ora le analisi hanno evidenziato delle compatibilità molto interessanti con svariati Pokémon, ma naturalmente dobbiamo tenere in conto il fatto di avere a disposizione un solo esemplare. Questo ci rallenta considerevolmente. Per questo motivo volevo chiederle come intendete indirizzare il nostro lavoro.»

Dale era eccitato come un bambino che avesse in mano un regalo totalmente inaspettato che non avesse il coraggio di scartare.

«Che cos'è che sperate, esattamente?»

Era esattamente dove Emir voleva portarlo, sull'orlo di quella trappola dalla quale non gli sarebbe stato possibile dire di no a nessuna richiesta. Negli ultimi sei anni, Emir aveva ormai imparato ad approfittare del vantaggio acquisito su di lui e a manovrarlo nel miglior modo possibile; stringendosi nelle spalle, egli abbassò lo sguardo sulle proprie dita che giocherellavano con le piccole zampe di M2 e rispose: «Per il momento, il DNA di Mew ha presentato compatibilità con quello di ben tre Pokémon scelti in modo del tutto casuale. Naturalmente non abbiamo potuto proseguire in questa direzione in questo lasso di tempo, ma...»

«Basta così.»

Emir osservò il signor Dale alzarsi in piedi e percorrere l'ufficio a grandi passi, strofinandosi le mani: egli non era uno scienziato e tutto il suo interesse in quel laboratorio era legato al ricavo che ne derivava alla Silph, ma era perfettamente in grado di intuire le potenzialità di un progetto quando queste gli venivano prospettate chiaramente. «Cerchiamo di capirci bene, Emir. Quali sarebbero le conseguenze di una scoperta del genere, secondo lei?»

Sforzandosi di non tradire la minima sfumatura d'apprensione a questo riguardo, Emir replicò:«Potenzialmente illimitate, sicuramente imprevedibili.»

«Imprevedibili, eh?» Dale si fermò bruscamente in mezzo alla stanza. «E di quanto tempo avreste bisogno per disporre di dati più certi?»

«È proprio per questo che volevo parlarle chiaramente, signore... i tempi stretti sono un limite non indifferente quando si tratta di dati così sensibili.» Dale ebbe uno scatto d'impazienza mentre riprendeva a passeggiare per non guardarlo, ed Emir si affrettò a correggere il tiro.«Voglio dire, lei s'immagina che cosa accadrebbe se dovessimo annunciare, per esempio, che Mew è capace di evolvere in più di un Pokémon, per poi dover ritrattare tutto sei mesi dopo?»

«Il suo team non ha mai commesso errori» obiettò Dale nervosamente.

«Non abbiamo neppure mai lavorato con gli occhi dell'intero mondo addosso» gli ricordò Emir candidamente.

Di fronte a quell'obiezione, neppure Dale poteva più trovare alcunché da ribattere. Continuò ad aggirarsi nervosamente qua e là per il suo ufficio, ma sempre meno risolutamente, e infine finì per fermarsi.

«Cielo, deve proprio farmelo dire, non è vero, Emir?» chiese ironicamente. «Come vuole, allora, avete carta bianca, e tutto il tempo che vi occorre... ma se le cose stanno così avrò bisogno di essere aggiornato molto più spesso sui risultati. Lei spesso se ne dimentica, ma io ho garantito per questo laboratorio, e ho anch'io, come lei, qualcuno a cui rendere conto. Io m'impegno per lei di fronte agli azionisti, ma se non ci saranno risultati, dottore...»

«I risultati ci saranno, signor Dale. Ha la mia parola.»

«Voglio tanto crederle, dottore.»

La concessione che gli era appena stata strappata sembrava averlo lasciato stremato, come dopo una lunga malattia. Appoggiandosi alla sua scrivania, Dale osservò a lungo Mew, che giocava con una penna sulle ginocchia di Emir, e trasse un lungo sospiro incerto. «Beh. A questo punto, se non le spiace... sarà meglio che vada, prima che cambi idea.» Ma poi, solo un attimo prima che Emir facesse in tempo ad alzarsi per accompagnarlo alla porta, un pensiero nuovo gli balenò in fondo agli occhi, e si fermò. «Anzi no, aspetti... stavo per dimenticare. So che lei non legge molto i giornali, ma ha saputo quel che ha scritto il signor Fuji riguardo a Mew?»

L'ultimo articolo di protesta di suo padre aveva trovato sui giornali una grandissima risonanza, ma all'ondata di sotterranea indignazione che avevano destato le sue parole, Emir lo sapeva, non avrebbe fatto seguito alcunché. L'elevata moralità di suo padre, che aveva salvato ampi gruppi di Pokémon selvatici dagli abusi di Team Rocket o dalle devastazioni dei loro habitat naturali e che era perciò celeberrimo e amatissimo in tutta Kanto, non poteva destare nient'altro che viscerale e istintiva approvazione nelle plasmabili masse; ma quanto a influenzare veramente i gusti degli acquirenti, o addirittura veri dibattiti politici, questo era al di fuori di ogni portata, ed Emir aveva smesso ormai da tempo di sentirsi soffocare dall'ombra di suo padre.

«Mio padre ha sempre avuto un certo talento per mettersi in ridicolo, già» ammise con ostentata degnazione. «Ha notato che mi chiama per nome e cognome per dimostrare che non gli importa che io sia suo figlio? A ogni modo mi spiace molto, signor Dale. Mi spiace che getti discredito sul nome dell'azienda.»

L'articolo gliel'aveva portato Portia qualche giorno prima, forse reputando che sarebbe stato meglio per lui venire a sapere di quel disgustoso panegirico dalle labbra di un'amica piuttosto che dagli sguardi di tutto il paese; ed Emir l'aveva ringraziata e tranquillizzata, aveva letto il giornale e poi l'aveva gettato nel cestino, senza neppure scomporsi troppo. Quelle che aveva scritto suo padre erano solo parole, nient'altro che discorsi vacui e altisonanti che sarebbero stati dimenticati nel giro di una settimana lasciando tutto perfettamente immutato; ma di fronte a Dale si sforzò almeno di mostrarsi contrito.

«Già, abbiamo tutti dei casi del genere in famiglia, eh?» commentò Dale. «Ma senta, se lei gli parlasse non l'ascolterebbe? Non le chiederei una cosa tanto privata se non fosse importante. Non vorrei sembrarle paranoico, ma lei capisce... dai giornali ai talk show il passo è breve, e in televisione è tutta un'altra storia...»

«Io e mio padre non ci rivolgiamo la parola da quando sono partito» gli ricordò Emir; ma di fronte allo sguardo supplice di Dale, che in fin dei conti si era appena piegato ad acconsentire alla sua richiesta, si sentì in dovere almeno di prendere in considerazione questa possibilità. Non l'avrebbe fatto egualmente, ma sarebbe servito quantomeno a tenerlo buono per un po'. «Comunque sia... posso provare. Ma devo dirle subito che non credo che mi ascolterà» si affrettò a specificare preventivamente.

Questa sola promessa bastò comunque a tranquillizzare un poco Dale, che poteva almeno lasciare l'Isola senza sentire di esser stato sconfitto su tutta la linea. «La ringrazio, Emir. A questo punto è davvero meglio che vada, non le pare?»

Era l'ora, prima che intervenisse qualsiasi mutamento di ordine infinitesimale nell'atmosfera della stanza a fargli cambiare idea. Scostando gentilmente Mew, che dovette accomodarsi sulla scrivania con uno stridio di protesta, Emir si affrettò ad alzarsi. «Ma certo. Venga, l'accompagno.»

«Oh, no, no. La ringrazio, ma è meglio che si metta subito al lavoro. Mi farebbe sentire un po' più tranquillo» rispose Dale in un patetico tentativo di scherzare. Emir si sentì quasi dispiaciuto per lui. Sembrava che l'avergli concesso un periodo di tempo così ampio per la ricerca – perché un lasso di tempo indeterminato, per la Silph SpA, non corrispondeva che a sei od otto mesi di lavoro al più – lo avesse devastato come vendere la verginità di una sua propria figlia. Si sforzò di assumere un'aria sicura di sé per tranquillizzarlo.

«Non si preoccupi, signor Dale. Le garantisco che siamo già tutti al lavoro su Mew.» O almeno lo sarebbero stati, non appena lui e Dolarhyde avessero illustrato a tutti i loro esperimenti riservati; ma non era precisamente una bugia.

«Molto bene» ribadì Dale con scarsa convinzione. «Allora... mi faccia risapere qualcosa la prossima settimana, va bene?»

Dopodiché, dopo un'interminabile esitazione, come vincendo un'istintiva ripugnanza, si chinò sulla scrivania, da dove Mew seguiva tutti i suoi movimenti con espressione imbronciata e offesa, e l'accarezzò due volte sul capo. Fu un gesto tanto goffo e privo di spontaneità che persino Mew ne rimase stupefatta; ma Dale, che pareva aver riscosso la massima soddisfazione da quel gesto, si avviò alla porta con aria incredibilmente gongolante.

«Siamo d'accordo allora, giusto, Emir?»

Ancora troppo inorridito dal gesto che gli aveva appena visto fare per poter articolare una frase di senso compiuto, Emir si sforzò di balbettare: «Na... naturalmente.»

Senza aggiungere nient'altro, Dale gli rivolse un sorriso speranzoso e chiuse la porta dietro di sé.

Per un po', Emir rimase a fissarsi negli occhi con una Mew ancora un po' stupefatta dal comportamento di Dale; ma infine al suo sguardo interrogativo Emir risponse stringendosi nelle spalle con aria rassegnata, ed entrambi lasciarono perdere, come a concludere entrambi, simultaneamente e tacitamente, che di quel gesto inusitato e goffo e insospettabilmente affettuoso non c'era modo di venire a capo. Mew era straordinariamente empatica da questo punto di vista, e più di una volta egli si era ritrovato ad accorgersi che era dotata di una capacità di decifrare l'espressività facciale in tutto paragonabile a quella di un essere umano. Era un Pokémon estremamente intelligente, per quanto si comportasse come un cucciolo.

«Si vede che gli sei molto simpatica» commentò Emir, e Mew annuì vigorosamente.

Sulla capacità di Mew di farsi amare e proteggere praticamente da chiunque entrasse in contatto con lei non c'era molto da stare a riflettere: gli appariva come un mistero insondabile ormai da quando l'avevano trovata, ed Emir, quel giorno, era un po' più stanco del normale. Poteva concedersi di non riflettere sui grandi misteri del mondo dei Pokémon e della biologia per un pomeriggio, dopo tanto tempo.

«Andiamo a trovare Valérien?» propose allegramente. La piccola vittoria che aveva riportato lo rendeva insospettabilmente soddisfatto di sé, e a quella sensazione di serenità poteva concedere almeno qualche ora di tempo, prima di tornare all'angoscia del lavoro dei giorni seguenti. «Vediamo se ha voglia di giocare con noi oggi. Che ne pensi?»

Mew trillò di gioia.



Buonasera a tutti!

Capitolo un poco di passaggio, ma posso anticiparvi che non vedo l'ora di finire di sistemare e iniziare a copiare il prossimo, che è uno dei miei preferiti!

Riguardo a questo posso specificare un paio di cosette: la prima è che Amico Pokémon è una rivista che si trova effettivamente nelle case di molti NPG nel gioco. Nel corso della stesura del capitolo ho dato qualcosa come sette nomi diversi a questa rivista, senza che nessuno mi convincesse, prima di ricordarmi che potevo tranquillamente attingere a materiale canonico preesistente. (Ormai saprete che sono un po' fissata con questi dettagli).

Sebbene forse sia già abbastanza chiaro e intuitivo dal testo, volevo chiarire un po' anche il riferimento a Dragonite come Pokémon più forte del mondo, come viene descritto nel capitolo. Ho cercato di attenermi il più fedelmente possibile anche al metagame della sola prima generazione, in cui Mew e Dragonite erano gli unici a possedere la somma di statistiche di base pari a 500: la loro forza dovrebbe perciò essere equiparabile, ma prima della scoperta di Mew Dragonite sarebbe stato, secondo questa logica, il Pokémon più forte di tutti quelli noti (anche più forte dei tre Uccelli leggendari). Lo scrivo solo per chiarire questo dettaglio; in ogni caso, potete controllare la lista dei Pokémon in base alle loro statistiche qui.

Detto questo, non posso che ringraziare cristal_93 e Mad_Dragon per le loro recensioni, ricevere opinioni e critiche costruttive è sempre un piacere!

Un abbraccio enorme a tutti e alla prossima


Afaneia

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Capitolo 7
*** (In)domito. ***


Indomito

Buongiorno e buona domenica!

Terminare questo capitolo e trascriverlo al computer è stato un vero inferno, anche perché è forse il più lungo sino a ora: avevo anche pensato di dividerlo a metà, ma mi pareva che nessuna delle due parti avrebbe avuto senso autonomamente.

Quanto al contenuto, al momento non mi viene in mente nulla di urgente da specificare al riguardo, ma come al solito sarò lieta di dare tutti i chiarimenti necessari. Nel frattempo, mille baci e mille ringraziamenti a cristal_93, Nico Robs e Persej Combe per le loro recensioni al precedente capitolo!

Un abbraccio enorme


Afaneia



Capitolo VI – (In)domito


Se il mondo aveva adorato Mew dopo l'annuncio della sua scoperta, per non aver visto di lei che una foto sfocata e buia, l'adorazione si tramutò in venerazione quando vide la conferenza stampa. Solo lo sbarco sulla luna aveva riscosso la stessa attenzione da parte del pubblico, anche in termini di ricezione televisiva, e quando emerse questo risultato persino il Presidente della Silph gli telefonò personalmente per conratularsi con lui. La Silph era diventata il nuovo centro del mondo, e a sua volta essa orbitava attorno a Mew. In quanto a Mew, semplicemente, era contenta come una bambina.

L'articolo su Amico Pokémon riscosse un tale successo che tutti i più importanti giornali e periodici esteri fecero a gara per aggiudicarsi i diritti di distribuzione delle immagini di Mew all'estero. Le foto scattate dal fotografo naturalista inviato dalla rivista, al momento, erano le uniche esistenti del Pokémon più raro del mondo, e sia Emir che il signor Dale, sia pure per motivi diversi, avevano già deciso che le cose sarebbero rimaste così per un bel po' di tempo.

Le foto e il poster erano stati un successo, ma dell'articolo in sé Emir non era affatto soddisfatto. Che da una rivista di carattere strettamente divulgativo e non scientifico non ci si dovesse aspettare una particolare serietà d'accordo, ma tutto quel sentimentalismo patetico sulla morte di M1, che di certo mirava a far leva sui sentimenti più facili e viscerali dei lettori, proprio non lo poteva sopportare. La morte di Mew era appartenuta a loro, e che qualcuno potesse anche solo credere che bastasse leggere un articolo per sapere che cosa fosse accaduto quella notte appariva ai suoi occhi come un'indegna prevaricazione. E in che modo, poi? A parole si potevano spiegare tante cose, e si sarebbe potuto descrivere il fetore dei grossi fiori marcescenti e l'olezzo nauseabondo del nido dei Gloom, e poi ancora il venenifero pus della ferita e il biancore accecante della lampada, ed Emir avrebbe saputo ancora descrivere gli orridi suoni dei ferri; ma la sacralità della vita che a un tratto si era spemta e aveva lasciato il mondo privo di sé, come depauperato di una sua grande e misteriosa ricchezza, quali parole avrebbero saputo raccontarla?

E poi, il giornalista non aveva menzionato Valérien. Non aveva menzionato esplicitamente nessuno che non fosse lui in realtà, ma proprio questo era esattamente l'opposto dell'idea che Emir aveva in mente. Il nome di Mew era stato associato anche troppo al suo, e quella benedetta rivista avrebbe potuto essere un ottimo strumento per cambiare le cose; ma per quanto egli avesse detto e ripetuto un'infinità di volte il nome del dottor Lestournelle, al quale avrebbe voluto che il grande pubblico associasse la scoperta, quando aveva aperto la rivista non ne aveva trovata traccia. L'unico nome che venisse menzionato, e che acquisiva perciò tanto più rilievo, era il suo in quanto capo della spedizione e dell'équipe di ricerca.

«Ma è ovvio, Emir» gli disse Dale in tono annoiato, quando Emir gli telefonò per farglielo cautamente notare – perché era logico che il taglio dell'articolo fosse stato preventivamente concordato con l'azienda. «Il dottor Lestournelle è un elemento di pregio per noi, ma cosa vuole che importi alla clientela di un ragazzo francese? Amico Pokémon è una rivista kantense, e la leggono i kantensi. Lei sa quanto siano tutti un po' xenofobi qui, ed è importante mettere in risalto che a capo della spedizione c'era lei. A dar risalto al nome di Lestournelle ci penseranno i francesi, o no?»

A quanto pareva, anche la paternità delle scoperte scientifiche avrebbe dovuto piegarsi alla ferrea politica delle vendite, e a questo non c'era di che controbattere. Quando Emir andò a prendere un caffè nell'ufficio di Valérien, per cercare di valutare dai suoi occhi se fosse o meno il caso di fargli parola dell'articolo e di scusarsi, il suo era sguardo melanconico e sfuggente e la sua voce troppo forzatamente squillante, ed Emir intuì che era troppo mortificato e orgoglioso perché potesse osare di parlargliene. Valérien non s'era arrogato mai il merito di nulla che non gli venisse attribuito dall'esterno; ma essere lo scopritore del Pokémon più raro del mondo e non venire neppure nominato non era proprio come venir defraudato dell'unica grande occasione che gli sarebbe spettata mai nel corso di una vita? Ma l'argomento era troppo mortificante, ed Emir provò vergogna di parlargliene e sentì che gliene mancava il coraggio, e tutto ciò che riuscì goffamente a dire fu: «Ti va di fare merenda?»

Se l'articolo era stato oltraggiosamente lacunoso, quantomeno Valérien fu l'unico a esserne ferito. Vincent e Portia, che in quel ritrovamento non avevano avuto il minimo ruolo, avrebbero trovato offensivo venirvi nominati; e in quanto a Rotwang... beh, era difficile capire che cosa pensasse Rotwang in quel periodo, ma quand'anche non si fosse trattato di lui, difficilmente qualcuno avrebbe potuto desiderare di salire alla ribalta come il chirurgo che aveva quasi salvato il Pokémon più raro del mondo.

Cosa ne pensasse con certezza poi Emir non l'avrebbe saputo mai, semplicemente perché, a partire da quel pomeriggio che avevano trascorso insieme in una miracolosa condizione di tregua, nella stanza di Mew, non si erano quasi più rivolti la parola. A dire il vero non ve n'era quasi stata l'occasione. Tutti i loro rapporti così come le loro occasioni di contatto s'erano perlopiù ridotti a cortesi e distaccati saluti nei corridoi, o a laconiche comunicazioni di servizio sulla soglia dei rispettivi uffici, e nulla di più; il che gli sarebbe parsa una tregua miracolosa della quale esser grato, se solo si fosse verificata quell'estate.

«Beh, persino Rotwang doveva calmarsi prima o poi» commentò distrattamente Vincent, che Emir segregava quasi quotodianamente per avvalersi delle consulenze tecniche. «Forse Portia è riuscita a farlo ragionare un po'. Dopotutto lei è l'unica che lui ascolta, e poi andiamo... non potva struggersi per M1 in eterno.»

Certo, Rotwang appariva più calmo, quantomeno perché era da un po' che non lo si sentiva più alzar troppo la voce o inveire contro la Silph, e l'ultima volta che era entrato nel suo ufficio a rinfacciargli qualcosa risaliva addirittura a prima della spedizione, d'accordo; ma Emir lo sentiva calmo di una calma infida e incostante, troppo silenziosa e imperscrutabile per poterla comprendere. Rotwang non era calmo – Rotwang era strano, e il fatto che tutti fossero compiaciuti e soddisfatti del suo comportamento come di un cane che abbia smesso improvvisamente di abbaiare non cambiava le cose. Persino Portia, che di tutto il laboratorio era quella che lo conosceva meglio e forse l'unica a conoscerlo davvero, non appariva affatto meravigliata dal suo comportamento, ma proprio con lei Emir non avrebbe osato mai farne parola; e del resto, perché mai far mostra di darvi peso? Rotwang era strano, d'accordo; Rotwang era taciturno, era distaccato, sfuggente: ebbene? Finché lavorava (e finalmente aveva ripreso a lavorare senza trincerarsi dietro opportunistiche scuse), era nel suo diritto esser taciturno e sfuggente finché gli pareva, ed Emir aveva ben altro di cui occuparsi, a maggior ragione considerando che tutto filava molto meglio senza che i corridoi echeggiassero di porte sbattute e urla e imprecazioni in tedesco. I suoi pensieri (o per meglio dire quel vago anelito della sua incoscienza errante che riusciva talora a concretizzarsi a tal punto ch'egli finiva per accorgersi di star pensando) riuscivano fin qui a seguire un filo perfettamente logico e razionale, ben distinguibile in mezzo alla selva di varie inquietudini che si assiepavano ai margini della sua consapevolezza, ma poi inevitabilmente finivano per scontrarsi contro un pensiero più inamovibile degli altri, tale da aggiungersi trasversalmente a essi senza rispondere alla minima consequenzialità logica: nel laboratorio tutto filava assai meglio da quando si comportava così, ma ciò nonostante Emir non riusciva a togliersi di dosso la sgradevole sensazione che avrebbe provato se avesse avuto a che fare con un malato o un moribondo, che si comportava diversamente perché non era del tutto in sé ma non voleva che altri se ne accorgessero.

E poi, era come se stesse nascondendo qualcosa. Il giorno dopo la conferenza stampa e l'incontro con Dale, quado Emir e Vincent avevano organizzato una riunione per mostrare ai loro colleghi i risultati delle analisi preliminari e stilare un progetto per i mesi successivi, Rotwang si era comportato in modo posato e quasi assente. Aveva consultato in silenzio le copie delle analisi che aveva di fronte e aveva ascoltato con tutto l'interesse che poteva sforzarsi di dimostrare per qualcuno che non fosse lui, prendendo pigramente appunti sui margini dei fogli, e aveva accettato i loro progetti quasi senza protestare. Emir l'aveva fissato tanto insistentemente da temere che i suoi occhi l'avrebbero bruciato, ma il suo sguardo, per tutta la riunione, Rotwang non l'aveva mai incrociato. Allora era proprio lui che evitava deliberatamente e faceva di tutto per ignorare, ma perché? Era forse perché egli l'aveva sorpreso quel giorno nella stanza di Mew, e l'aveva visto un po' meno terribile di quanto si dimostrasse di solito?

Quel mistero venne a complicarsi una sera, quando una delle donne delle pulizie – con la quale egli conduceva ormai da anni una tacita e fiera lotta legata agli orari d'uscita del personale e a quelli delle pulizie – entrò nel suo ufficio a lamentarsi di qualcosa cui Emir era troppo annoiato e infastidito e stanco per prestare veramente attenzione. La sua strategia consisteva solitamente nel fingere di ascoltare e nel rispondere, durante gli istanti di silenzio nei quali gli pareva che ci si aspettasse da lui una risposta, sulla base delle ultime parole che ricordava di aver udito; perciò, quando la donna pronunciò le parole il dottore tedesco, Emir diede l'invariabile risposta ormai standardizzata ch gli saliva istantaneamente alle labbra in quelle circostanze: «Dottor Rotwang.» Dopodiché, rendendosi conto dopo un istante che era evidentemente di Rotwang che si stava parlando, levò bruscamente gli occhi e chiede: «Eh?»

«Già, lo so anch'io che si chiama dottor Lotvang» ribatté la donna, spazientita più dalla sua palese mancanza d'attenzione che non dalla correzione. «Comunque, o lei risolve la situazione o mi paga gli straordinari in orario notturno. Sono stata chiara?»

«Aspetta, aspetta, cara... non ho capito. Puoi rispiegarmelo un momento, per piacere?»

«Forse non ha capito perché non mi stava ascoltando» suggerì viperinamente la donna, ed Emir le fece cenno di sorvolare e di proseguire. «Il dottore tedesco lavora tutte le sere fino a tardi. A me non importa niente, ma non mi va di dover restare fino a tardi solo perché bisogna che qualcuno gli chiuda la porta dall'interno per non far suonare gli allarmi quando esce. Visto che anche lei lavora sempre fino a tardi, non potreste organizzarvi per uscire insieme? Dopotutto, lei ha le chiavi e può chiudere da solo. O no?»

Di tutte le informazioni che gli erano appena state fornite, Emir riuscì a rielaborarne solo quel tanto che bastava per domandare: «Rotwang lavora fino a tardi? E perché mai?»

«E lo chiede a me? Se non siete d'accordo tra di voi, io che ne posso sapere? È lei il direttore.» E dopo un lungo momento di silenzio, dato che Emir non riprendeva, insisté: «Quindi? Ve la sbrigate tra di voi o no?»

«Va bene, va bene» balbettò Emir. Quella notizia l'aveva spiazzato. Aveva fatto tardi in ufficio quasi tutte le sere, e non si era mai accorto che anche Rotwang restava fino a tardi; e poi, quella era una completa novità. In tutti quegli anni, una delle battaglie di Rotwang (per quanto condotta certamente per farlo infuriare) era stata proprio quella degli orari di lavoro, e anch'egli aveva fatto tardi in ufficio come tutti, certo, ma non aveva tralasciato neppure una volta di farglielo pesare. Possibile che proprio quando la Silph aveva concesso loro una dilazione nei tempi di ricerca quel dannato tedesco si fosse messo a fare gli straordinari non retribuiti? «Ci penso io a chiudere la porta quando esce il dottor Rotwang, stasera. Tu vai a casa quando hai finito e non preoccuparti.»

Restare in uffico fino alle dieci o le undici di sera non gli era mai dispiaciuto, dal momento che continuare a lavorare a casa o in ufficio gli era perfettamente indifferente; ma quella sera Emir fece fatica anche solo ad aspettare le otto, e non riuscì a concluder nulla.

Quella gli parve una buona ora per uscire dall'ufficio e attraversare il laboratorio; e del resto non sarebbe riuscito ad aspettare oltre. Si sentiva impaziente come se avesse dovuto svelare un segreto, per quanto consapevole che il segreto non esisteva altrove che nella sua testa. Ma non voleva davvero spiare Rotwang – voleva solo sapere.

Il suo ufficio era vuoto e la luce era spenta. Emir passò oltre senza neppure affacciarsi sulla soglia, e in fin dei conti non aveva mai neppure pensato che l'avrebbe trovato lì. Ma proprio quando stava per entrare nella stanza di Mew, d'un tratto ebbe un ripensamento, e non aprì la porta.

La stanza di Mew era stata progettata in modo tale che i movimenti del Pokémon potessero essere osservati per motivi di studio anche senza entrare e disturbarla: era stato lui a insistere con Dale, e aveva ottenuto che accanto alla sua stanza si costruisse una sorta di anticamera accessibile dal corridoio e separata da Mew da un vetro a specchio, in modo tale che i membri dell'équipe potessero osservarla a proprio agio. Non avrebbe mai pensato di usarla per quello, ma Emir entrò in silenzio nella piccola anticamera e si avvicinò piano al vetro. Era confortante sapere di non poter essere visto dall'altra parte.

Rotwang era seduto sull'erba, insieme a Mew che pareva pendere dalle sue labbra, e leggeva. Non stava facendo nient'altro, ma a quella vista Emir si sentì improvvisamente sporco e imbarazzato come se si fosse introdotto nottetempo a spiare una persona nuda che dormisse, e si sentì profondamente in colpa. Uscì dalla stanza in punta di piedi, come se davvero vi fosse il rischio che Rotwang udisse i suoi passi e si voltasse, e tornò a barricarsi nel suo ufficio. Per quella sera avrebbe atteso che Rotwang lasciasse l'edificio prima di tornare a casa, ma il solo pensiero di dover restare anche le sere successive gli dava la stessa sporca sensazione di un atto di voyeurismo, e bisognava a tutti i costi risolvere quella sensazione.

Chinandosi sulla scrivania della sua segretaria, Emir prese un post-it e scrisse in caratteri chiari e leggibili: URGENTE – Ordinare subito copie delle chiavi del laboratorio per tutti i membri dell'équipe a scopo di studio.


L'estate era finita e alle ultime giornate di settembre era succeduto un autunno asciutto ma insolitamente freddo per l'Isola. Le giornate si erano abbreviate notevolmente, ed Emir non vedeva la luce del sole che attraverso le finestre del suo ufficio. Tutte le sue giornate, dalla prima mattina sino alla sera, trascorrevano al laboratorio, ed egli usciva solo a buio fatto.

L'enigma costituito da Mew lo avviluppava ogni giorno di più.

Valérien era tornato da lui il giorno successivo alla riunione, eccitatissimo, riportandogli fogli sottolineati, evidenziati e annotati sino allo sfinimento. Prima ancora di sentirlo parlare, Emir gli aveva già riconosciuto in faccia lo stesso sgomento che aveva provato lui. Valérien non possedeva le sue stesse basi in genetica, era specializzato soprattutto sul versante evolutivo, ma neppure una matricola avrebbe potuto mai dubitare che i dati di quelle analisi volessero dire qualcosa – e che quel qualcosa poteva essere la scoperta scientifica più importante dell'ultimo secolo dopo la scoperta del DNA stesso.

Il codice genetico di Mew era un enigma così complesso che scegliere una direzione piuttosto che un'altra sembrava un delitto così grave da gridar vendetta a Dio; ma da qualche parte bisognava pur cominciare, e dopo aver sentito le opinioni di tutto il suo team Emir si decise a prendere una decisione.

Lui e Dolarhyde si dedicarono a comparare a tappeto quel patrimonio genetico che rivelava via via più sorprese a ogni risultato. Mew sembrava condividere il DNA di qualsiasi Pokémon con cui lo mettessero a confronto, a tal punto che a un certo punto smisero di sorprendersi; o meglio, si sarebbero sorpresi se avessero trovato un'eccezione a quella sfilata di magnifiche corrispondenze, tali e tante da non poter essere più considerate casuali. Ogni sera, via via che Dolarhyde gli consegnava nuovi risultati, Emir si barricava nel suo studio, chiudendo la porta a chiave, e si appollaiava sulla poltrona di pelle, dondolandosi pigramente contro la scrivania. Quando poi si decideva a tornare a casa, quando ormai proprio tutti i suoi colleghi se n'erano andati e bisognava proprio chiudere l'ufficio, egli riprendeva quella medesima posizione nel suo salotto che dava sulla scogliera e studiava sul divano fino a notte alta, talora fino ad addormentarsi con le gambe sul bracciolo del divano. Per quanto si trattasse di lavoro, studiare lo rilassava enormemente. La genetica era sempre stata l'unica cosa della sua vita che gli fosse sempre riuscita con facilità, che gli veniva spontanea e semplice come qualcosa d'intuitivo e naturale, e ora per la prima volta gli paceva anche dannatamente.

I risultati dei test genetici venivano confermati da Valérien con la stessa regolarità, in modo ormai talmente ripetitivo da non celare più alcunché di sorprendente. Dopo un mese e mezzo di tentativi, Valérien concludeva la parte sperimentale della ricerca: Mew poteva apprendere ogni singola mossa conosciuta. Già questo solo dato era sufficiente a consacrarlo all'olimpo dei Pokémon più forti e versatili esistenti, unitamente al suo tipo; non restavano che da determinare con maggiore precisione le sue statistiche e la sua intelligenza, almeno per la Silph. Ma per quanto riguardava la nuda, pura speculazione scientifica, la vera domanda era un'altra per la Silph: come si spiegava quell'abominevole correlazione genetica? E per quanto poi riguardava lui, soprattutto, se Mew era tanto potente perché restava lì con loro?

«Perché non ti ribelli?» le chiedeva Emir talvolta, quando vedeva Mew picchiare con la coda sul vetro perché qualcuno andasse a giocare con lei.

Mew, rispondeva invariabilmente Mew, allora Emir, sentendosi come nauseato dalla grande dolcezza che provava per lei, avrebbe voluto scuoterla e urlarle: Non puoi volere tutto questo! Ribellati! È per colpa nostra che M1 è morto senza che tu potessi rivederlo, allora perché non ci odi? Tu sei il Pokémon più forte del mondo, allora perché non scappi, perché non torni in Guyana con Teletrasporto? Per quale motivo vuoi restare qui? Eppure lo sai benissimo che cosa succede ogni volta che entriamo con le nostre mani guantate e i nostri camici...

Come se avesse potuto leggergli nel pensiero, ogni singola volta, tutto ciò che Mew si limitava a rispondergli era: Mew? E dalla sua tenerezza e dalla sua apparente impotenza Emir si sentiva frustrato e furioso e avrebbe voluto spaccare tutto e urlare e costringerla a reagire e a difendersi, una buona volta!

Della moltitudine di sentimenti che provava non aveva modo di parlare con nessuno. Portia e Vincent sarebbero sicuramente rimasti ad ascoltarlo con tutta la cortesia e l'interesse del mondo, s'egli gliene avesse fatto parola; ma per quanto Emir si considerasse amico di ciascuno di loro, con nessuno di loro si sarebbe sentito in grado di fare discorsi tanto intimi e personali; e poi, soprattutto, se c'era qualcosa che aveva capito perfettamente, era che quando Valérien s'era infilato nella sua tenda, quella notte, senza voler chiamare nessun'altro, non era stato solo perché di lui si fidava come di un maestro. Per quanto fossero professionisti nei rispettivi campi e umanamente tra le persone migliori ch'egli avesse mai incontrato, quell'aura di sacralità che Mew trasmetteva e dalla quale egli si sentiva tanto confuso non l'avrebbero percepita mai. Rotwang invece sì, di questo era certo: se aveva sofferto tanto della morte di M1, era perché si era trovato a operare una creatura che gli era parsa troppo pura e troppo sacra per poter affondare le mani tra i suoi visceri e sentirla morire lentamente... Forse Rotwang lo avrebbe capito; ma Rotwang non era suo amico, ed entrambi continuavano ostinatamente a non rivolgersi la parola. Neppure a tarda sera, quando Emir sapeva perfettamente che quel dannato tedesco si trovava a qualche metro appena di distanza da lui in un edificio deserto, e nessuno li avrebbe sentiti.

L'unico con cui poteva parlare di tutto ciò, insomma, era Valérien. Ma Valérien si era sempre posto nei suoi confronti come un allievo nei confronti del maestro, per quanto non avesse che tre anni meno di lui, aspettandosi sempre di veder provenire da lui tutta la saggezza di un vate. Confessargli d'essere in dubbio su qualche cosa sarebbe stato come tradire la fiducia di un figlio che attende una rivelazione dal padre; ma dopotutto, Emir non era suo padre. Erano colleghi. E poi, se solo Emir avesse saputo che suo padre, almeno una volta in tutta la sua infanzia, aveva avuto anche un solo dubbio su qualcosa, egli gli avrebbe voluto un po' più bene.

«Perché non si ribella?» si risolse infine a chiedergli una sera. Erano seduti di fronte al vetro dell'anticamera, a illudersi di star scrutando i suoi movimenti naturali. Al di là della barriera che li divideva Mew non poteva vederli, ma Emir era certo che in qualche modo li percepisse egualmente. Era stranamente rilassante star seduti lì, al buio, illuminati dalla sola luce del sole artificiale che doveva scaldare l'habitat simulato di Mew, a fingere di prendere appunti.

Valérien non si era aspettato che prendesse la parola. Lo soppesò in silenzio per un po', col capo indolente poggiato contro la mano, e domandò con un sorriso pigro: «In che senso?»

Da quando avevano Mew, per chissà quale strana associazione di idee, Valérien gli sembrava sempre di più in ragazzo, come se il contatto con una creatura così indifesa e fragile lo assimilasse a essa. In quel momento, col camice sbottonato e le dita intrecciate tra i ricci spettinati, il sorriso storto di un bambino ripreso dal maestro, non sembrava più grande di un ragazzo delle superiori. Tra di loro c'erano solo tre anni di distanza, ma al suo confronto, quando si guardava allo specchio, Emir aveva l'impressione d'esser molto più vecchio.

«Perché non si arrabbia con noi?» insisté Emir, accennando al Pokémon che mangiava di fronte a loro. «Tu sai che ne sarebbe in grado, allora perché non si ribella? Perché non torna in Guyana?»

Il sorriso di Valérien si fece più pensieroso e malinconico mentre rifletteva.

«Beh» iniziò lentamente, appoggiandosi allo schienale della sedia. «Tu non pensi che possa essere felice di stare qui? Dopotutto, ci vuole molto bene. Perché dovrebbe ribellarsi?»

Ci vuole bene, ripeté Emir tra sé e sé; ma questa spiegazione, ch'egli aveva già preso in considerazione in cuor suo, non lo soddisfaceva. «Però...»

«Però?»

Emir avrebbe voluto raccontargli come si era comportata con Dale, che pure non aveva mai visto, e che l'aveva trattata alla stregua di un animaletto fastidioso e un po' schifoso da toccare con la punta delle dita; anche con lui Mew era stata affettuosa e aveva ricercato le sue carezze con insistenza. Ma dirlo ad alta voce gli ripugnava, perché gli sembrava una prova tanto incontrovertibile da porre necessariamente fine a una conversazione che aveva un disperato bisogno di portare avanti. Ma poteva darsi che Valérien avesse visto qualcosa che ai suoi occhi era precluso, allora domandò: «Tu da cosa puoi dire che Mew ci vuol bene?»

Gli occhi di Valérien si accesero dello spettro di una risata. Si passò le dita tra i ricci scomposti, come a prendere tempo, e sorrise di nuovo. Sembrava ancora più giovane quando sorrideva. «Dio, Emir... non saprei. Lei è felice qui con noi. Vuole sempre giocare. Io sarei felice al suo posto, se mi comportassi così. Ma tu perché pensi che non lo sia?»

«Non ho mai detto che non lo sia» disse immediatamente Emir. Si sentì molto stupito che Valrien avesse pensato che fosse questo il punto – egli non aveva mai messo in dubbio che Mew fosse felice. Il punto non stava lì – il punto era: per quale motivo Mew era felice? «Mew è felice di qualunque cosa le succeda. Vuole bene a tutti coloro che l'avvicinano. Ma per voler bene a chiunque ed essere contenta di tutto, non è poi come se tutto per lei fosse indifferente?»

Valérien aveva smesso di sorridere, ora i suoi occhi si erano fatti seri e concentrati, ed egli non aveva perduto una parola del suo discorso. Tornò a passarsi una mano tra i capelli, ma stavolta non aveva alcuna intenzione di schermirsi. Pensava.

«Tu pensi che davvero le siamo tutti indifferenti?» domandò a bassa voce. Accennò col capo al di là del vetro. «Tutti noi, io, te, Portia... non credi che lei faccia delle piccole differenze?»

«Per esempio?» domandò Emir stancamente. Di segnali in questo senso egli ne aveva cercati per giorni da parte di Mew, e talora aveva anche creduto di scorgerne qualcuno, ma non l'aveva mai visto ripetersi sino ad averne la conferma, e perciò non voleva illudersi; ma egualmente aspettò che Valérien gli desse la sua opinione. Chissà, forse poteva cambiare idea.

«Per esempio... penso che sappia che abbiamo cercato di salvare M1, quella notte. Per questo vuol bene a Rotwang, per quanto sia... beh, Rotwang.»

Certo, Rotwang era Rotwang, ma con Mew era un altro uomo: questo provava davvero che M2 sapesse di quella notte? O meglio era ovvio che sapesse che il suo compagno era morto: ma era davvero lecito aspettarsi che sapesse quanto era costato loro tentare di salvarlo, e che per questo fosse loro grata? E poi, questo non supportava in nulla la teoria di Valérien: Mew si era comportata allo stesso modo anche con Dale, che pure l'aborriva!

Ma egli non voleva mortificare Valérien opponendogli ragioni ch'egli non avrebbe potuto smentire. Tutto ciò che voleva era poter esporre i propri dubbi e trovare qualcuno che lo aiutasse a risolverli.

Si alzò per avvicinarsi al vetro. Al di là di esso, senza poterli vedere, Mew stava bevendo dal piccolo ruscello artificiale che la riforniva continuamente d'acqua corrente; ma aveva gli occhi piccoli di sonno, e con ogni probabilità si sarebbe addormentata di lì a pochi minuti. Ma quando Emir posò la mano sul vetro, Mew se ne accorse: egli la vide drizzare le orecchie come un animale all'erta e levare il capo di scatto. Ma qualsiasi animale si sarebbe ritratto, continuando ad ascoltare e a cercare con lo sguardo l'origine di quella vibrazione, e avrebbe aspettato...

Mew balzò in aria per la gioia, esultò a mezz'aria per la felicità, protese le zampe verso il vetro. Era il Pokémon più aggraziato ed elegante che potesse esistere al mondo, più raffinato di un'étoile viennese, e sicuramente la creatura più gioiosa ch'egli avesse mai visto in tutta la vita... ma per quale motivo lo ricercava?

«La gratitudine è un sentimento molto umano, Valérien. Se è così intelligente da provarla, allora perché non si ribella almeno al dolore?»

Mentre Mew ricercava il punto in cui la sua mano toccava il vetro, Valérien ipotizzò molto lentamente: «Forse la stai antropomorfizzando troppo, Emir. E poi ancora non riusciamo a stabilire il suo quoziente intellettivo. Per quanto ne sappiamo, potrebbe equivalere a quello di un Alakazam, come... come no, insomma.»

Quell'esitazione che la sua voce aveva avuto Emir sapeva benissimo come colmarla: come uno Slowpoke, avrebbe voluto dire Valérien, ma poi gli era parso troppo offensivo, e si era fermato.

Delusa dal cercare invano, Mew si allontanò amareggiata dal vetro: lei sapeva che lui era lì, ed era arrabbiata che non si fosse fatto vedere. Forse sarebbe stato meglio andare dentro a salutarla, prima di farla dormire: gli dispiaceva pensare di ferirla, anche se sembrava impossibile.

Bisognava concludere una conversazione che rischiava di non portar più da nessuna parte. Emir si voltò verso Valérien, ricercò i suoi occhi chiari nella penombra nera: non aveva smesso neppure un momento di guardarlo. «Lei è intelligente, Valérien. Lo sai anche tu.» E chissà, forse anche pià di un Alakazam; ma questo rimase non detto. Neppure lui voleva sperarci troppo, per il momento.

Valérien sorrise di nuovo, finalmente, del suo sorriso coinvolgente e imbarazzato di ragazzo, colle dita piene di capelli spettinati. «Allora c'è un'altra spiegazione, Emir... che questo sia il suo carattere. Come un Gyarados è imbizzarrito e Chansey è territoriale, i Mew sono fatti così. Può darsi anche che sia un'efficace strategia di difesa per dissuadere i Pokémon dall'attaccarlo.»

«Può darsi» mormorò Emir; ma dentro di sé sapeva che non poteva trattarsi di una strategia. Se le cose fossero state così come diceva Valérien, se veramente quella grande dolcezza non era altro che una raffinata strategia evoluzionistica di difesa della specie, allora perché M1 era morto? La grande dolcezza con cui aveva guardato Rotwang prima ancora dell'effetto della morfina, non sarebbe dovuta bastare a salvarla?

D'improvviso quella grande calma della penombra e della sera si spezzò: la porta si aprì dall'esterno, una lama di luce s'ingrandì sul pavimento sino a diventare enorme; Emir si volse profondamente infastidito. Era la segretaria.

«Sì?»

«Dottore, mi dispiace tanto... è arrivato questo fax da Zafferanpoli. Mi è parso urgente.»

Dale non inviava mai fax, anzi li odiava di tutto cuore. Col volto iscurito, Emir attraversò la stanza a grandi passi per prendere il fax dalle sue mani.

Era una comunicazione del Presidente della Silph con la quale si comunicava di procedere alla clonazione di due esemplari di Mew.


Emir passò tutta la mattinata al telefono a cercare di contattare Dale. A quanto pareva era in riunione, almeno a quanto gli dissero con calma due diverse segretarie. Ma spinto dall'ostinazione del panico, Emir continuò a telefonare ininterrottamente per tutta la mattinata, e il cielo sa quante altre cose avrebbe dovuto fare: solo alle undici passate da un pezzo Dale si decise a prendere la telefonata. La calma della sua voce lo fece quasi urlare di rabbia.

«Dottore, buongiorno... avevo proprio intenzione di chiamarla stamattina. Mi hanno detto che mi cercava, è successo qualcosa?»

«Che cosa vuol dire questo fax?»

Dopo un attimo di silenzio, Dale disse con voce strana: «Aspetti un momento.» Emir sentì il crepitio statico della cornetta che veniva coperta con una mano; per un po' non distinse altro che il borbottio di voci confuse e alterate. Finalmente Dale esclamò esacerbato: «Possibile che qua nessuno mi ascolti mai quando dico qualcosa?» e dopo un momento tornò alla conversazione, evidentemente molto seccato. «Eccomi, dottore... sono mortificato, mi creda. Avevo detto e ridetto di mandarle quel fax solo verso l'ora di pranzo, perché prima volevo essere io a darle la bella notizia. Ma lei sa come funziona negli uffici... nessuno capisce mai niente di quel che si dice.»

«La bella notizia?» boccheggiò Emir.

«Già, ottimo, no?» ribatté Dale, in tono ritrovatamente squillante. «Il consiglio ha approvato il progetto della clonazione e il Presidente ha firmato l'autorizzazione ieri pomeriggio.»

Emir si sentiva così stupefatto e confuso da non riuscir quasi a parlare. Aveva in mano una penna con cui scarabocchiava su un foglio, come sempre quando era in attesa al telefono: ma quando chinò gli occhi sulla carta, si accorse di aver tracciato segni neri e spezzati, pieni di rabbia. «Ma... per quale motivo?»

«Beh, mi aveva detto lei che avere un solo esemplare a disposizione rallenta i vostri studi, oppure no?»

Quando Emir frugò nella propria memoria alla ricerca di qualcosa che confermasse o smentisse le sue parole, trovò solo una grande confusione. Non ricordava di avere mai detto una cosa del genere, o almeno non con l'intenzione di lamentarsi della situazione; ma forse poteva averla addotta come motivazione per richiedere più tempo. Forse dopo la conferenza stampa...

Cercò di riprendere il controllo. «La ringrazio per l'autorizzazione, signor Dale, ma le garantisco che per il momento non è necessario. Con M2 il lavoro procede già a gonfie vele, stavamo giusto per mandarle i risultati di...»

In tono improvvisamente serio, Dale disse: «Dottor Fuji, questa non è una possibilità. È una direttiva.»

«Clonare un Pokémon non è una cosa che si fa dalla sera alla mattina, signore» sbatté Emir in tono secco. «Si tratta di partire da zero.»

«Voi non partireste da zero, dottore» obiettò Dale con calma. La sua voce aveva assunto una sfumatura raggelante. «Voi avete tutto il materiale necessario a iniziare la prima fase della sperimentazione. Avete ancora tutta la strumentazione necessaria agli esperimenti di rigenerazione dei fossili...»

Ma certo, come non pensarci prima. Agli alti dirigenti della Silph, là a Zafferanopoli, che mai nella vita avevano posto piede in un laboratorio – di certo non nel suo laboratorio – doveva esser parso ovvio: si ha un Pokémon raro, si hanno gli strumenti per clonarlo, lo si clona. Cosa di più facile? Ma forse nessuno aveva pensato alla complessità di un progetto del genere, alle difficoltà tecniche ed etiche, agli ostacoli...

«Non abbiamo mai finito il progetto dei fossili.»

«Oh, è questa la buona notizia» riprese Dale allegramente. «Concluderete il progetto con la clonazione di M2, e una volta ottenuti gli esemplari ce ci servono sbloccheremo i fondi per riprendere gli esperimenti di clonazione sulla base del DNA fossile. Dopotutto, potrebbe anche darsi che avere un esemplare in più di Mew possa aiutarvi con la clonazione degli altri, dato che il suo DNA sembra compatibile con quello d tutti gli altri esemplari...»

Quel piano era ben studiato, certo. Allo stato attuale delle loro conoscenze, nulla sembrava proibire fisicamente di procedere alla sua clonazione: il progetto sulla rigenerazione dei fossili, che era stato loro impedito di concludere, prevedeva originariamente di impiantare un embrione fecondato grazie al DNA estratto dai fossili nell'utero di un esemplare compatibile, ibridando perciò il DNA dei soggetti sia per permettere una gravidanza sicura, sia per garantire la loro sopravvivenza in tempi odierni: che era poi il progetto su cui tanto si erano affannati lui e Rotwang, collaborando insieme per due anni. Nel caso di Mew, la questione si faceva più semplice: essi disponevano del DNA di un soggetto maschio e di una femmina viva. Sarebbe stato necessario intervenire sul DNA solo se i test avessero rivelato la possibilità di malattie genetiche incompatibili con la vita del feto. Nel giro di qualche anno avrebbero potuto disporre di chissà quanti esemplari, e le loro ricerche sarebbero proseguite a gonfie vele...

Ma c'era qualcosa che non quadrava in tutto ciò: quasi per caso, gli occhi gli caddero sul fax che giaceva stropicciato di fronte a lui e che parlava esplicitamente di due esemplari. Eppure il signor Dale aveva appena detto: può darsi che un esemplare in più possa aiutarvi...

Gli dilacerò l'animo un presentimento terribile. «Che fine farà il secondo esemplare?»

«Oh, giusto, giusto... ha fatto bene a chiedermelo. Lei si ricorda quando abbiamo consegnato in esclusiva i primi cento esemplari di Porygon al proprietario del casinò di Azzurropoli?»

La penna che aveva in mano rotolò sul tavolo.

Porygon era stato il primo frotto del suo ingegno e del suo lavoro, ed egli l'aveva ceduto con tutto l'entusiasmo dei suoi ventisei anni. L'idea che il prodotto del suo genio fosse tanto apprezzato e richiesto da divenire l'oggetto dell'interesse di un uomo d'affari del calibro del signor Giovanni lo aveva riempito di un orgoglio vibrante, inusitato, ch'egli ricordava ancora. L'aveva incotnrato una sera a Zafferanopoli, a una serata di gala organizzata appositamente per celebrare quello scambio alla quale Dale l'aveva trascinato. Certo, già all'epoca si vociferava qualcosa riguardo a quell'uomo: c'erano diversi processi a suo carico, e si diceva che stipendiasse più avvocati che dipendenti; era accusato di corruzione, truffa, era indagato per trattative illecite con vari membri del governo, ma a suo carico non era mai emerso (o non si era mai voluto far emergere) nulla di decisivo, ed egli aveva l'aria tronfia e sicura di sé di qualcuno che sapesse di non poter essere toccato. Quella sera a Zafferanopoli Emir aveva avuto modo di parlargli molto a lungo: aveva trovato un uomo estremamente elegante, di una raffinatezza maschia e volitiva. La sua virilità e la fiera arroganza che i suoi occhi esprimevano avrebbero finito per metterlo a disagio, se solo Giovanni non si fosse rivelato di un'educazione insospettabile: si era dimostrato molto interessato al suo lavoro e gli aveva rivolto una quantità di domande e curiosità tecniche, facendosi spiegare nei dettagli i vari passaggi della progettazione di Porygon, e l'aveva subissato di complimenti. Era stata una serata memorabile per lui, la notte di trionfo cui il suo lavoro e il suo genio l'avevano condotto, e nient'altro.

Suo padre si era scatenato sui giornali con lettere aperte d'indignata protesta di fronte a quella vergognosa compravendita di esseri viventi, creati in laboratorio per essere venduti e sfruttati in spregio a qualsiasi riflessione etica e alla più elementare umanità: ma la politica della Silph rientrava ampiamente nei margini della legalità. Nessuna legge impediva sperimentazioni in laboratorio e, per quanto ciò fosse paradossale, la generazione di nuove specie viventi ricadeva in un vuoto normativo di cui la Silph SpA traeva i massimi vantaggi; in quanto poi alla clonazione e alle fecondazioni in vitro, esse erano ampiamente legali. Nessun esemplare di Porygon era poi stato venduto al casinò (o quantomeno un passaggio di denaro non figurava ufficialmente da nessun parte), ma i cento soggetti erano stati ceduti a titolo gratuito, e le accorate proteste del signor Fuji erano perciò cadute nel vuoto delle istituzioni: per quanto ogni legge morale gli desse ragione, la legge umana gli dava torto. La consapevolezza di essersi finalmente contrapposto a suo padre lo aveva fatto addormentare per più di una notte in preda a una voluttuosa dolcezza.

Ma quando ripensò a Giovanni, quel giorno, il suo animo non provò alcun sentimento di piacere.

«Me lo ricordo» mormorò.

«Giovanni è rimasto entusiasta di Porygon e si è offerto di partecipare alle spese di finanziamento degli studi in cambio di un esemplare di Mew... possibilmente maschio. Le confesso che non ho capito se intende tenerlo per sé o se ha intenzione di metterlo in palio come premio al Casinò, ma se le fa piacere posso chiederglielo...»

Come se fosse seduto dall'altra parte dell'ufficio a osservare se stesso, Emir udì la propria voce dire macchinalmente: «Non si preoccupi.»

«Bene, bene, allora... ora devo scappare, ma per ogni dubbio non si faccia scrupolo a chiamarmi. Lei sa meglio di me come procedere, da qui in poi. Posso contare su di lei, dottore?»

L'Emir seduto in fondo allo studio continuò a scrutare se stesso mentre diceva: «Ci metteremo al lavoro la prossima settimana... buongiorno... buongiorno»; poi Emir riappese, poté finalmente smettere di ascoltare se stesso, e si mise a pensare.

Quando aveva creato Porygon, dopo due anni di lavoro, non aveva provato nei suoi confronti il benché minimo coinvolgimento emotivo, e non solamente perché si trattava di un creatura fredda e senz'anima. Anche così com'era, egli sentiva che avrebbe potuto amarlo, se solo avesse compiuto quel progetto col desiderio di creare un'altra vita; ma così non era stato. Aveva creato Porygon con lo stesso spirito col quale avrebbe consegnato della posta o cucinato un piatto, se nella vita avesse fatto il cuoco o il postino; quello era il lavoro che la Silph richiedeva alla sua intelligenza, ed egli lo aveva compiuto coscienziosamente con la medesima partecipazione affettiva di un operaio alla catena di montaggio, e un'immensa ammirazione per se stesso.

Verso la speculazione scientifica Emir non provava il benché minimo interesse, e neppure verso la gioia paterna che avrebbe potuto dargli la consapevolezza di creare una nuova vita a lui debitrice della sua esistenza. Alla creazione di Porygon non aveva provato che la gioia selvaggia d'esser divenuto finalmente rivale di suo padre, d'essere uomo; la consapevolezza di ciò che le sue mani e il suo genio erano in grado di creare, e infine il compiacimento di vedersi finalmente lodato e riconosciuto non soltanto nel panorama scientifico internazionale – del quale, in fin dei conti, non gli importava poi molto – ma soprattutto da parte di un carismatico uomo d'affari che era rimasto a interessarsi del suo lavoro per tutta una serata...

Il fascino della pericolosità di Giovanni l'aveva colpito e intrigato, ed Emir si era servito di Porygon come di uno strumento per potersi avvicinare a quel mondo oscuro di corruzione e giocarvi senza farsi del male. Di Porygon continuava tuttora a non importargli niente, ed egli non era pentito affatto d'aver visto a uno a uno quei cento esemplari venir messi in palio al Casinò; ma sarebbe stato senza cuore a tal punto da cedergli Mew? E soprattutto, queste riflessioni avrebbero avuto un qualche valore, una volta che le decisioni dell'azienda non fossero più state nelle sue mani?

Continuando a dondolarsi pigramente sulla sedia, gettò uno sguardo all'orologio. Era quasi mezzogiorno. Solitamente attorno a quell'ora la maggior parte dei suoi colleghi era ancora al lavoro, nessuno pranzava così presto: questo voleva dire che i suoi colleghi dovevano essere ciascuno nel proprio ufficio. In ogni caso valeva la pena di fare un tentativo.

L'ufficio di Rotwang era a un paio di corridoi di distanza dal suo; per aver pronta una scusa valida, nel caso in cui qualcuno lo avesse visto, mise insieme un plico di vecchie fotocopie di nessun valore e vi cerchiò un paio di risultati, per aver l'aria di dovergli chiedere qualche spiegazione, e si avviò nel suo ufficio.

La porta era aperta. In quel momento Rotwang stava lavorando al microscopio, annotando alcuni appunti in tedesco su un blocco. Emir bussò discretamente.

«Posso parlarti?»

«Ah, Fuji.» Rotwang gli scoccò uno sguardo rapido senza allontanarsi dal microscopio. «Se sei venuto per quelle analisi, devo finirle entro stasera, ma posso anticiparti che rimango della mia idea. Non c'è nulla di connesso all'evoluzione nel suo DNA. Ha sicuramente un solo stadio evolutivo.»

Per tutta risposta, Emir si accertò che in corridoio non ci fosse nessuno e chiuse la porta. Questo gesto lo stupì tanto che Rotwang rise tra sé mentre ancora era chino sul microscopio. Non si mosse. «Addirittura con la porta chiusa? Se sei venuto a farmi una proposta indecente, è mio dovere dirti che io faccio solo sesso violento. Detto questo...»

Se Rotwang voleva comportarsi come un bambino, tanto valeva stare al gioco. Emir andò a sedersi con calma su uno sgabello girevole di fianco alla scrivania, cacciò le mani nelle tasche del camice e rispose: «Proponimelo, allora. Perché pensi che non potrebbe piacermi?»

Dopo aver cercati invano per un po' una riposta arguta da rilanciargli, Rotwang dovette chiudere la bocca e riconoscersi vinto dalle proprie stesse armi. Finalmente, visibilmente contariato, si risolse a gettare la penna sul tavolo e si sollevò dal microscopio. «Bene, marchese De Sade, come vuoi. Ti ascolto.»

Quella era probabilmente la prima volta ch'egli riusciva a non dargliela vinta, ed Emir se ne sentì discretamente compiaciuto. Neppure Rotwang era imbattibile, dopotutto.

Cercò per un po' da dove cominciare, lasciandosi ondeggiare sullo sgabello. «Senti... tu ancora non lavoravi con noi, ma qualcuno ti ha raccontato di quando abbiamo creato Porygon e lo abbiamo ceduto al Casinò di Azzurropoli?»

«Eravate su qualsiasi rivista, Fuji. Perché pensi che abbia fatto di tutto per farmi assumere proprio qui?» Evidentemente Rotwang non aveva ancora capito dve volesse andare a parare, ma parve stabilire che valeva la pena di lanciargli comunque una frecciatina. «Bello trafficare Pokémon, eh, Fuji?»

Stavolta non era questione di dargliela o meno vinta: Emir aveva l'impressione di parlare con una versione più giovane e sboccata di suo padre, ma egualmente moralista, e alzò gli occhi al cielo. «Hai finito?»

La sua mancanza di reazioni parve convincere Rotwang che la questione era seria. Evitò di rispondere, ed Emir proseguì: «Se ti dicessi che la Silph vuole che cloniamo Mew per regalarne un esemplare al direttore del Casinò, tu mi aiuteresti a rubarla?»

Per diversi secondi, Rotwang non reagì. Il suo volto rimase perfettamente impassibile, immoto, solamente un lampo attraversò i suoi occhi; ma egualmente, anche dopo che la sua mente ebbe avuto modo di vagliare ogni possibile significato delle sue parole, egli non manifestò il minimo cedimento.

«Esci pure, Fuji» disse con calma. «Se stai cercando un pretesto per potermi licenziare, dovrai impegnarti più di così. Per favore, esci.»

Emir trasse di tasca il fax dell'ufficio di Dale, lo spianò con cura con le mani e glielo porse. Rotwang lo scorse con gli occhi senza capire.

«Se viene fuori che ti ho fatto questa proposta, io sarò licenziato al pari di te. Perché dovrei venir qui a farti domande a trabocchetto, quando tutto il laboratorio potrebbe testimoniare che tu mi hai offeso in centinaia di occasioni senza che ti avessi provocato?»

Rotwang stava ancora leggendo il fax. Aveva la fronte penosamente aggrottata, e tutta la sua strafottente sicumera si era dileguata come fumo.

«Non stavi scherzando» mormorò.

Quantomeno era riuscita a ottenere la sua attenzione, e forse, con un po' di fatica, anche la sua fiducia. «È tutto lì, nero su bianco. Se non mi credi riguardo al Casinò puoi chiamare Dale, lui te lo dirà, dato che non c'è nulla da nascondere. Quella che tu chiami compravendita è una cessione a titolo gratuito perfettamente legale, Rotwang» gli ricordò freddamente. «Cos'è quella storia che gli immigrati dovrebbero adeguarsi alle leggi del Paese in cui...»

«Stai zitto, Fuji.» Molto più pallido in volto di pochi minuti prima, Rotwang si alzò nervosamente in piedi e si mosse attraverso l'ufficio cacciandosi una mano tra i capelli. «Quando dovremmo cominciare gli esperimenti?»

«La prossima settimana» rispose Emir senza scomporsi. Osservando cautamente ogni sua minima reazione, soggiunse: «Quando avremo clonato Mew, sbloccheranno i fondi per il progetto dei fossili.»

Lo scambio che gli proponeva era chiaro, piano: un piccolo compromesso per poter finalmente realizzare il sogno di una vita, per il quale Rotwang aveva lasciato la Germania. Ma senza neppure voltarsi, Rotwang agitò una mano a scacciare da sé quell'idea come un ronzio fastidioso. «Tu hai detto di sì?»

«No, non ho detto di sì. Nessuno ha chiesto il mio parere, perciò puoi stare certo che la Silph avrà quei due cloni, anche a costo di licenziarci e assumere altri al nostro posto. Capisci che l'unico modo di salvare M2 è portarla via di qui?»

«Allora perché non l'hai chiesto a Lestournelle?» sbottò Rotwang. «È lui il tuo amichetto, o mi sbaglio? Cosa c'entro io?»

Questa obiezione se l'era aspettata, ed era anche, paradossalmente, la più logica che Rotwang potesse fargli. Emir trasse una penna dalla tasca del camice e se la rigirò per un po' tra le mani per avere un motivo per non guardarlo.

«Certo che ho pensato a Valérien» mormorò. «Il punto è che tu sei molto più motivato di lui... e io ho bisogno di un aiuto che lui non può darmi.»

Valérien sarebbe stato forse il complice perfetto di qualsiasi piano egli potesse avere, ma il punto era proprio quello – egli. Da quando lo conosceva, non aveva mai visto Valérien prendere una sola iniziativa: era venuto a lavorare per la Silph sotto la spinta del suo relatore, aveva portato avanti gli studi in modo eccellente, ma sempre sotto le direttive di altri, e non aveva mai osato prendere la benché minima decisione; e questo non perché non ne sarebbe stato capace, ma perché semplicemente la timidezza abituale del suo carattere gli impediva di prendere la benché minima iniziativa che potesse metterlo in difficoltà di fronte a colleghi ch'egli vedeva come più maturi ed esperti di lui. Persino in quella notte tremenda in cui era cominciato tutto, Valérien aveva avuto bisogno di rivolgersi a lui per prendere qualsiasi decisione: per portare M1 al campo, per andare a chiamare Rotwang, per accettare il nome proposto... Non aveva avuto il coraggio di prendere apertamente una decisione neppure quando Vincent gli aveva fatto notare che da quel momento dipendeva la sua carriera...

Ma se Emir avesse dovuto credere davvero di averlo chiesto a Rotwang per motivi solo strettamente razionali e ragionevoli, avrebbe mentito persino a se stesso. Quel dannato tedesco era davvero la persona più adatta al compito ch'egli doveva richiedergli, ma quel piano l'aveva formulato in una decina di minuti appena, ed era venuto a proporglielo tanto in fretta solo perché se avesse atteso ancora forse avrebbe finito per cambiare idea. Neppure lui conosceva davvero tutti i motivi per cui l'aveva chiesto a Rotwang – o meglio, non li conosceva davvero perché non erano neppure veri motivi, ma ammassi confusi di sensazioni puramente irrazionali che aleggiavano pigramente ai margini della sua coscienza, e ch'egli non aveva ancora avuto il tempo o il coraggio di razionalizzare lucidamente. Ma qualcosa di cui fosse ben certo c'era, ed era anche l'unico motivo che Rotwang non avrebbe dovuto conoscere mai, perché avrebbe offeso la virilità del suo ego: Rotwang amava Mew così tanto e con tanto ardore che l'avrebbe cercata sempre, e se Emir non l'avesse reso partecipe del suo piano si sarebbe creato un nemico troppo forte e implacabile da affrontare. Se Rotwang avesse sospettato di lui, cosa che sarebbe accaduta di certo, forse non sarebbe riuscito a svelare il suo segreto e a trovare Mew, ma non gli avrebbe mai dato pace.

«Ho bisogno di un complice in grado di aiutarmi e che non dipenda totalmente da me.» riprese sinceramente. «Quando ci saranno le indagini e le ricerche e interrogheranno tutti quanti per trovare il Pokémon più raro del mondo, non posso rischiare che tutto sia affidato a Valérien. Io gli voglio bene, lo sai, ma questo è troppo grande tanto per me quanto per lui. Non lo sto chiedendo al collega, Rotwang... lo sto chiedendo al genio.»

Rotwang si volse seccamente verso di lui con un sorriso amaro in volto. «Al genio, Fuji? Sei serio? Cosa vuole essere, un complimento o un'adulazione?»

«O una constatazione» ribatté Emir. «Perché pensi che ti avrei tenuto qui per così tanto tempo anche se non ti sopportavo?»

Rotwang rinunciò a discutere di quell'argomento con lui. Continuò a passeggiare nervosamente per l'ufficio coi pugni stretti nelle tasche: era evidentemente che l'idea lo colpiva e lo tentava, ma ch'egli non sapeva risolversi a metterla in pratica.

«Come faccio a sapere che non mi stai prendendo in giro?»

«Lo sai dal fatto che io non ti chiedo di fare niente» rispose con calma Emir. Aveva la netta impressione di stare vincendo. «Non sarai tu a portarlo via, sarò io a nasconderla... una Pokéball si nasconde molto bene. Tutto ciò che io ti chiedo è di dire che, quel determinato giorno, tu sei rimasto a leggere con Mew come al solito dopo che se n'erano andati via tutti, e che sei stato tu l'ultimo a vederla.»

«Tu come fai a sapere che...» protestò Rotwang a mezza voce.

Quest'ultima informazione gli era sfuggita senza volere, in effetti, ma Emir fece egualmente in modo di non scomporsi. Si limitò a sorridergli con condiscendenza, continuando a ondeggiare sullo sgabello. «Che ti fermi a leggere con Mew oltre l'orario? È il mio laboratorio, Rotwang. Per quale motivo pensi che abbia deciso così all'improvviso di far fare delle copie delle chiavi per tutti?»

Senza trovare nulla di abbastanza eloquente da controbattergli, e forse sentendosi un poco in imbarazzo al pensiero d'esser stato scoperto, Rotwang si limitò a stringere ancora i pugni nelle tasche e ad aggirarsi senza scopo nell'ufficio, evitando di guardarlo. Stava riflettendo.

Per un po', nessuno dei due parlò. Il medico andò a sedere alla scrivania e frugò a lungo in un cassetto, prima di rassegnarsi al fatto che non sembrava contenere nulla d'importante. «Se dirò così, sarò il primo sospettato.»

«L'ho chiesto a te perché bisogna che qualcuno si assuma dei rischi, se vogliamo salvarla, e in ogni caso questo sarebbe l'unico indizio a tuo carico» ribatté Emir. «E anche se ti indagassero, che cosa cambierebbe? Non sarai tu a custodire Mew, sarò io. Altrimenti... qui il medico sei tu, Rotwang. A chi pensi che toccherà la fecondazione in vitro?»

Seduto su quello sgabello, tutto intento a dondolarsi come un bambino nello studio del dottore, Emir ebbe almeno la soddisfazione di vedere le guance di Rotwang avvampare di rabbia. Tutto sommato, era valsa la pena di venir fin lì a fare al suo più acerrimo rivale una proposta che da sola gli valeva il licenziamento, solo per vederlo arrossir di rabbia...

«E tu che ci guadagni, Fuji?»

Emir sbatté le palpebre senza capire. «Io salvo Mew.»

«Non ti è mai importato niente di nessun Pokémon. È inutile che ti affanni a inventare bugie» si affrettò a prevenirlo Rotwang. «Forse in cambio non avrai ricevuto del denaro, ma hai accettato di creare e fabbricare dei Pokémon per darli a un casinò che li regalerà come schiavi... e anche se lo hai fatto gratis, lo hai fatto per la tua vanagloria, e questo forse è ancora peggio. Ora perché vuoi derubare la tua stessa azienda?»

Dei Pokémon non gli era mai importato nulla, della scienza non gli era mai importato nulla. Roteang aveva sempre avuto ragione sul suo conto, seppur ingannandosi sulle sue motivazioni: del denaro come strumento di scambio o di potere, o della propria ambizione come mezzo per far carriera, Emir non si era interessato mai.

«Hai ragione, di Porygon non mi è mai importato niente» ammise Emir apertamente. «Ti risulta tanto difficile credere che di Mew invece possa importarmi qualcosa? Che le sia legato quanto lo sei tu e che voglia impedire che le facciano del male senza che si difenda, e poi anche...»

Ma questo non si poteva dire, quello che gli veniva alle labbra era troppo intimo, troppo profondo e umiliante per poterlo dire ad alta voce, ed Emir tacque bruscamente. Ma accorgendosi che si era interrotto, Rotwang tornò a levare lo sguardo su di lui colle folte sopracciglia aggrottate. «E poi, anche...? Se vuoi convincermi d'avere un cuore anche tu, dovrai fare meglio di così...»

Per la prima volta, Emir si scoprì a disagio d'esser seduto così scompostamente nel suo ufficio, forse anche perché quel che si doveva dire era troppo serio per poterne parlare così, come uno studente svogliato che cerca di sfuggire al professore. Si raddrizzò sullo sgabello, cercando di sistemarsi il camice con indifferenza, e cercò da qualche parte le parole da dire.

«Pensi d'esser stato il solo a soffrire, quella notte?»

«Ma senti, Fuji... questa è nuova.» Dall'aria di sfida che gli si era dipinta in volto, era evidente che Rotwang non intendeva credergli. «E così avresti un cuore anche tu.»

Portare ancora avanti quella conversazione non avrebbe fatto che farli litigare come sempre; ma quel giorno Emir non aveva voglia di alzare la voce.per quanto ancora quella decisione gli sembrasse tanto irreale e incomprensibile da non riuscire a realizzarla pienamente, egli sentiva che avrebbe dovuto farci i conti più tardi, quando l'idea si sarebbe appesantita in lui fino ad assumere la concretezza di un fatto compiuto e l'angoscia gli avrebbe riempito i polmoni fino a impedirgli di respirare; ma a che discutere invano in quel momento?

«Pensala come ti pare, Rotwang» disse infine. Si alzò in piedi. «Se ti piace pensare che io sia uno stronzo e un trafficante di Pokémon, sei libero di pensarlo. Io sono venuto a chiederti aiuto perché so quanto vali, ma se non intendi darmi una risposta posso anche andarmene. Tieni presente che io avrei anche potuto portarla via da solo, e tu non saresti mai venuto a saperlo...»

Emir ebbe la piena certezza che questo pensiero l'avesse colpito come un urto in pieno petto. Dopo la morte di M1, Rotwang era rimasto con la Silph solo perché voleva restare con M2 e aveva paura di perderla, e ora aveva appena realizzato quanto fosse semplice portargliela via.

Non si risolse subito. Rimase a fissarlo di sotto in su per qualche momento, improvvisamente incupito, e infine disse lentamente: «Rapirla, va bene: e poi?»

Già: e poi, e poi. Portarla via sarebbe stato semplice, Emir se lo figurava già: una Pokéball nella tasca interna di un cappotto, di notte, non avrebbe destato certo l'attenzione di nessuno. Ma poi?

«Ho una specie di cantina in cui possiamo nasconderla per tutto il tempo necessario. Per il resto, non ci ho ancora pensato. Quando si saranno calmate le acque, potremmo...»

«Già, e pensi che si calmeranno molto presto, se rapiamo il Pokémon più prezioso del mondo alla multinazionale più potente di Kanto?»

Questa volta non c'era la minima traccia di sarcasmo nella voce di Rotwang: quando Emir tornò a prestargli attenzione, si era singolarmente incurvato sulla scrivania. Stava riflettendo, esattamente come quando avevano dovuto pianificare, un po' per volta e senza alcuna base da cui partire, l'intero progetto dei fossili. In fin dei conti si trattava di nuovo di qualcosa del genere: anche stavolta bisognava creare, quasi da zero, qualcosa di mai tentato prima, come il furto del Pokémon più raro del mondo...

«A noi non importa che sospettino di noi, Rotwang, e del resto saremmo anche i primi danneggiati da questo furto. Con un po' di fortuna, la polizia penserà che sia stata rubata per venir venduta sul mercato nero...»

Rotwang annuì vigorosamente. «Giusto. Forse potremmo dare la colpa a quei tipi di cui parla sempre il telegiornale. Sai, come si chiamano... quelli con la tuta nera e una lettera rossa sul petto.»

Emir aggrottò la fronte tornando a sedersi di fronte a lui. «Dici il Team Rocket?»

«Beh, perché no?» insisté Rotwang alzando le spalle. «Ne parlano in continuazione. Se non sbaglio dicono sempre che ci sono loro, in modo diretto o indiretto, dietro tutti i furti e i rapimenti di Pokémon. Può essere un'idea...»

Emir si lasciò pesantemente ondeggiare sulla sedia, sentendosi molto in difficoltà. Non avrebbe voluto affrontare quell'argomento. «Senti... detesto dovertelo dire, ma non può funzionare. Team Rocket non ha alcun motivo valido per rapire Mew, e io in quanto direttore non potrei dare la colpa a loro. Dobbiamo trovare un'altra strategia.»

«È il Pokémon più raro del mondo, chiunque avrebbe un motivo valido per...» Ma prima ancora di terminare quest'affermazione, Rotwang si interruppe bruscamente. La sua mente aveva precorso la sua voce, ed egli aveva intuito qualcosa. «Aspetta un attimo. Che intendi?»

Emir strinse le labbra. «Intendo dire quello che ho detto. Che non può funzionare.»

«No, l'altra cosa che hai... perché Team Rocket non dovrebbe avere motivo di portar via Mew?»

Dopo un lungo attimo di silenzio, sforzandosi di guardare in qualunque direzione che non fosse quella dell'implacabilità dei suoi occhi, Emir rispose: «Pare che il direttore del Casinò di Azzurropoli e la mano che guida Team Rocket siano la stessa persona. Giovanni non ha nessunissimo motivo per rubare un Pokémon che l'azienda è già intenzionata a regalargli a titolo personale, perciò nessuno crederà mai che Team Rocket c'entri qualcosa...»

«Hai regalato Porygon a quell'uomo sapendo che è un mafioso?» mormorò Rotwang quasi senza fiato.

Dio, non ci mancava proprio altro che un'ondata di scrupoli e moralismi e rimproveri degni dei più elevati momenti di suo padre! Emir alzò provocatoriamente gli occhi al cielo. «Senti, non gliel'ho regalato io, va bene? Ha deciso il Presidente, di certo non io, è lui che è amico di Giovanni. E poi è tutto perfettamente legale, te l'ho già ripetuto...»

Cogli occhi divenuti enormi e vacui per la sorpresa, Rotwang si raddrizzò di scatto di fronte a lui. Era attonito, stupefatto. «È perfettamente legale gestire un gruppo mafioso che ruba e uccide i Pokémon per proprio profitto?»

«Beh, certo che no, ma...»

«Ma?»

«Ma Giovanni non è mai stato legalmente incriminato» obiettò Emir con viva perplessità. «Perciò, tecnicamente...»

«Tecnicamente?» ripeté Rotwang con voce roca. «Tecnicamente? Mi stai veramente dicendo che tu hai passato due anni a dar vita a Porygon e poi hai accettato di cederlo a un criminale solo perché tecnicamente, non essendo ufficialmente stato incriminato per mancanza di prove... tecnicamente tu potevi far finta di non sapere a chi lo stavate regalando? È questa tutta la tua linea di difesa? Non provi neanche a dirmi che tu non lo sapevi?»

«Ti ho già detto che Porygon è stato ceduto con un atto perfettamente legale al direttore di un Casinò perfettamente in regola con la legge e con le tasse, perché i primi cento esemplari fossero offerti come premi per un gioco legale» sbottò Emir, forse per la millesima volta da quando si conoscevano. «È tutto legale, perché ti ostini a non capirlo? E poi, dal momento che comunque i Porygon sono andati ai clienti del Casinò, non sono rimasti con questo pericoloso criminale di cui hai tanta paura. Perciò a te che cosa cambia che Giovanni sia un uomo d'affari o il fondatore di Team Rocket?»

Forse avrebbe dovuto chiedere a suo padre di trovare per Rotwang un posto come medico presso la sua associazione. Quantomeno avrebbe dovuto presentarli: coi loro sterili scrupoli morali e i loro ideali tanto nobili e aulici da non portare proprio da nessuna parte, quei due sarebbero andati perfettamente d'accordo.

«Mi stai dicendo che per te è proprio lo stesso?» mormorò Rotwang.

Sentendosi profondamente spazientito, Emir si alzò in piedi e si sistemò il camice per uscire. Erano anni che sentiva quei discorsi.

«Ti sto dicendo che io ho sempre agito nella legalità, Rotwang» sospirò. Si sentiva estenuato. «Indipendentemente da quelli che tu reputi giusto o sbagliato o abominevole, tutto ciò che ho fatto è legale e quello che fanno i dirigenti dell'azienda non mi riguarda. In quanto al resto, ti turba così tanto che di Porygon non mi importasse nulla e di Mew invece sì?»

«Tu l'hai creato...» incominciò Rotwang in tono di protesta.

«L'ho creato perché mi pagavano!» sbottò Emir rabbiosamente. «Ci tenevi così tanto a sentirmelo dire? Sarei venuto a fabbricare veleno per la Silph se fossi nato chimico, ma purtroppo per te sono un genetista, e sono venuto a fabbricare Pokémon virtuali e a clonare fossili. Avrei creato qualsiasi Pokémon al mondo per cui mi pagassero, solo che ora tocca a Mew, e io non lo voglio più fare. Sei soddisfatto, o forse dal momento che non mi adeguo ai tuoi canoni morali non sono degno di salvarla?»

Al di sotto delle folte sopracciglia ferocemente corrugate, Rotwang lo scrutava tanto intensamente da volerlo incendiare. Non ebbe moto.

«Quindi vorresti farmi credere d'esser cambiato?»

Coome dirgli che non voleva fargli credere proprio niente, che non gli importava un bel niente di quel che Rotwang pensava di lui; che tutto quel gran parlare di moralità, come se fosse stata poi una cosa tanto importante e fondamentale, lo aveva sempre lasciato alquanto indifferente?

«Ti sto dicendo che non voglio che Mew o i suoi piccoli facciano la fine che ho fatto fare a Porygon. Io ho un posto sicuro dove nasconderla e ho abbastanza coraggio da rubarla, ma ho bisogno di qualcuno che storni un po' i sospetti da me e mi aiuti a difendermi quando mi accuseranno. Adesso ti è più chiaro o ti occorre un'illustrazione?»

«Non offendere la mia intelligenza, Fuji» sibilò Rotwang, col volto teso e contratto di rabbia e gli occhi ancora colmi d'incredulità. «Io ho capito tutto benissimo, e le cose stanno esattamente come avevo sempre pensato. Sei stronzo esattamente quanto ti ho sempre accusato di essere. Solo che finché pensavo che ti comportassi in modo immorale le cose per me avevano un senso, ma che tu fossi così amorale da non far differenza tra un criminale e un...»

Non finì neppure la frase. Semplicemente Rotwang si lasciò cadere sulla spalliera della sedia, si prese il volto tra le mani, e rimase in silenzio.

«Rotwang» riprese Emir, ma meno aggressivamente. Gli dispiaceva quasi d'aver alzato la voce. «Lasciamo da parte la questione per il momento. Tu hai i tuoi ideali e io sono qui dalla parte della legge, e la pensiamo troppo diversamente: non potremo mai venirne a capo. Mi aiuterai?»

Dopo un interminabile istante, Rotwang allontanò le mani dal viso e annuì lentamente come tra sé e sé, con un sospiro profondo. I suoi occhi vacui parevano non guardare in nessun luogo.

«Vuoi una risposta ora o mi lasci un po' di tempo per rifletterci?»

«Puoi pensarci per qualche giorno» concesse Emir. «Ma non prendertela troppo comoda. La settimana prossima dovremo iniziare i primi esperimenti per la clonazione, e non so per quanto potremo ritardare.»

Rotwang fece stancamente cenno d'aver capito. «Io e te, soli contro tutto il mondo. È questo il tuo piano, ho capito bene?»

Detta così, come in un vecchio film in bianco e nero, un furto ai danni di una delle più potenti multinazionali del mondo suonava come qualcosa di epico e noir assieme: ma la realtà sarebbe stata molto più semplice. Bisognava solo portar via una Pokéball. «Esatto.»

«Quindi nessun'altro del laboratorio sa che tu sei contrario a questi esperimenti. Perché proprio a me, Fuji?»

«Rotwang, sei troppo intelligente per non essertene accorto. Guardati attorno. Tu sei l'unico che sia veramente ostile verso la Silph.»

Rotwang ebbe un debole gesto di stizza. «Sì, ma Portia...»

«Rotwang» lo interruppe Emir «Ascolta. Tu non c'eri quando abbiamo creato Porygon, ma io sì. Ti dico questo non perché voglio che litighiate o che tu valuti meno Portia come persona, ma perché voglio che tu veda le cose come le vedo io. È stata la Silph a ordinare di mandare i primi cento Porygon ad Azzurropoli e poi di stopparne la produzione per cinque anni perché restassero un'esclusiva, ma come fondatore del laboratorio anch'io dovevo firmare, o non se ne sarebbe potuto fare nulla. Quando ho firmato, tutti i nostri colleghi erano d'accordo con me.»

«Gli altri sono stranieri come me, come potevano sapere che Giovanni...»

«Rotwang» tornò a interromperlo Emir, molto delicatamente. «Ti ricordi che Portia si è laureata all'Ateneo di Azzurropoli con me, vero?»

Emir rimase a guardare l'informazione farsi strada nei pensieri di Rotwang come un parassita, e strisciare e avvilupparsi attraverso la sua mente e penetrare i suoi occhi. Portia era l'unica di tutto il laboratoio ch'egli rispettasse, e ora egli veniva a sapere che neppure lei era così innocente e immacolata quanto gli sarebbe piaciuto.

«Mi dispiace, Rotwang» mormorò allora. «Forse ho sbagliato a dirtelo, ma bisognava che capissi perché è solo a te che potevo rivolgermi, e perché è tra noi due che questa storia deve rimanere. Non voglio che pensi che Portia sia diversa da quello che...»

«Fuji» disse Rotwang «Lascia stare.»

Di fronte al suo volto iscurito Emir non ebbe il coraggio di replicare nulla. Esitò. «Mi farai sapere che cosa avrai deciso?»

Senza neppure levare gli occhi su di lui, Rotwang rispose: «Lasciami solo.»

Non c'era altro modo di rimediare. Sentendosi come se avesse spezzato qualcosa di irripetibile, Emir uscì in silenzio dallo studio e chiuse la porta dietro di sé.


Il mattino seguente Rotwang entrò nella stanza di Mew mentre Emir stava cercando senza troppi risultati di prelevarle una provetta di sangue. Mew si divertiva sempre molto quando vedeva una siringa, e questo nonostante sapesse perfettamente che le punture erano dolorose.

Emir si era interrotto quando lo aveva sentito entrare, ma Rotwang non prese subito la parola. Si chiuse la porta alle spalle, assai nervosamente, e si guardò attorno con circospezione mentre Mew gli balzava sul petto per strappargli una carezza.

«Sei solo?»

Il volto di Rotwang bruciava d'angoscia, ed Emir si sentiva forse ancora un poco in colpa per quello che gli aveva detto il giorno precedente. Ma quell'attimo di debolezza e di dubbio non si poteva tradire, e quell'occasione era un po' troppo bella per poterla sprecare: perciò, mentre andava a recuperare il suo camice dal ramo dell'albero impiantato al quale l'aveva appeso, Emir domandò con simulata indifferenza: «Sei venuto a propormi quel sesso violento di cui parlavamo ieri?»

«Ne deduco che tu sia solo, allora» borbottò Rotwang per tutta risposta. Solo in quel momento Emir realizzò che la sua angoscia doveva esser tale ch'egli non aveva neppure la concentrazione necessaria a rispondere alla sua frecciatina, e quasi gli dispiacque d'aver infierito su di lui. Nelle ultime ventiquattro ore, quell'idea che era stato lui ad avere era stata per lui più rarefatta di un sogno e altrettanto indifferente; ma evidentemente per Rotwang non era stato così, e nello stravolgimento dei suoi occhi chiari Emir si accorse di quale carico di tensione la sua proposta avesse portato con sé.

«Sì, sono solo» rispose con un po' più di gentilezza di prima. Ricordava bene quando era stata l'ultima volta che lo aveva visto così agitato. D'un tratto gli parve che le sue braccia fossero troppo ingombranti e fastidiose e assolutamente fuori posto là dove si trovavano, lungo i suoi fianchi, ed egli fece il gesto più istintivo che gli venne in mente pur di usarle per fare qualcosa: gli porse la siringa che aveva cercato di usare fino ad allora e disse: «Puoi farle tu il prelievo? È per Vincent. Con me fa troppi capricci, e poi vederti l'ha agitata.»

Gli occhi di Rotwang passarono da lui alla siringa quasi senza comprendere; Emir rimase in attesa. Gli aveva appena offerto un'occasione perfetta per un'altra schermaglia sarcastica e amara, ma dopo qualche istante egli si limitò a mormorare: «Certo. Mew, vieni qui.»

Quantomeno aveva ottenuto qualcosa. Emir si sedette al suolo a osservarlo mentre Rotwang, con le maniche del camice arrotolate, ripescava da una tasca una confezione di guanti monouso che Mew prese ad annusare con curiosità. Forse lavorando si sarebbe sentito meno a disagio.

Quando l'ago penetrò sotto la cute Mew emise un unico squittio indispettito, ma quello fu quanto: non appena Rotwang ritrasse l'ago e si affrettò a tranquillizzarla, gli occhi di Mew si fecero di nuovo enormi e affettuosi, comi di gratitudine, ed egli posò le dita tra le sue orecchie in un gesto carico d'affetto.

«Non lo faccio per te» disse improvvisamente a voce un poco più alta. Non stava guardando nella sua direzione, ma Emir non dubitò neppure per un momento che stesse parlando con lui. «Se lo faccio, lo faccio per lei. Spero che tu lo capisca.»

«Non ti ho mai chiesto di farlo per me» mormorò Emir, e Rotwang assentì con aria assente.

«Lo so questo, ma bisogna che ti avverta prima. Non ho cambiato idea su di te. Per me tu sei sempre lo stesso merdoso leccaculo che ha venduto Porygon al Team Rocket per tenersi il posto con il minimo sforzo, e il fatto che all'improvviso tu abbia cominciato a farti degli scrupoli morali solo perché Mew è più dolce di un software non cambia le cose. Non sei un martire, stai solo facendo la cosa giusta per la prima volta nella tua vita. Lo sai questo, vero?»

«Hai finito?» chiese Emir. S'era detto di avere pazienza con Rotwang, ma questo nuovo proposito si stava rivelando davvero difficile da rispettare, e forse non era tutta colpa sua.

«No» ribatté Rotwang, ma ora guardava dritto verso di lui al di sotto delle folte sopracciglia aggrottate. Si stava innervosendo, e ora persino Mew, con la sua grande empatia, era in grado di accorgersene: i suoi occhi saettarono da lui a Emir come a richiedergli la causa del suo comportamento, ma quella volta Emir non cercò di spiegarle niente. «C'è anche un'altra cosa. Tu non ci hai mai creduto, ma io ho voluto bene davvero a M1. Ti è chiaro?»

«Chi ti dice che io non ci abbia mai creduto?» domandò Emir a bassa voce, ma Rotwang non lo ascoltò.

«Ti sta bene che io la pensi così? Perché non ho intenzione di cambiare idea sul tuo conto, e non importa quanto mi dimostrerai. Mi sembra importante mettere le cose in chiaro prima di... visto che non potremo più discuterne dopo, se vogliamo far funzionare le cose. Bisognava che sapessi prima.»

Tutta questa necessità Emir non la vedeva, ma di nuovo egli non cedette, non fece niente. Il bene di Mew andava ben oltre la singola contingenza di quelle assurde schermaglie, ed egli si sforzò di rimanere calmo e prese a passeggiare per la stanza con le mani nelle tasche del camice per calmarsi.

«Non ho intenzione di dimostrarti proprio nulla, e non m'importa che tu cambi idea, se non è successo in tutti questi anni. Sei contento?» ribatté Emir freddamente. «Dunque accetti? Se accetti, ci siamo dentro entrambi sin da adesso, fino al collo, fino alla fine. Accetti?»

«Te l'ho già detto.»

«Molto bene, allora. Se ho chiesto aiuto proprio a te, è anche perché nessuno sospetterebbe mai di me e te insieme. Ti pare ragionevole?»

Mentre gli occhi di Rotwang seguivano il suo percorso attraverso la stanza, la sua mente si affrettava per precorrere il suo ragionamento col pensiero. «In questo modo ciascuno dei due potrebbe proteggere l'altro? È questo il tuo piano?»

«Al contrario» ribatté Emir. «Quante volte mi hai mai difeso nel corso della nostra carriera? Se vogliamo fingere davvero di essere all'oscuro di tutto, dobbiamo comportarci normalmente, e la cosa più normale che i nostri colleghi si aspettano da noi è che tu dia la colpa a me. Vedi bene che il rischio maggiore me lo assumo io.»

Rotwang aveva seguito ogni sua parola con l'espressione assprta e concentrata di uno studente che non voglia perdersi una singola parola del professore; non mutò espressione. Continuò a riflettere tra sé e sé molto a lungo mentre Emir si attendeva da lui una risposta, senza distogliere gli occhi da lui, e infine obiettò: «È davvero un grosso rischio. Se io ti accuso, indagheranno su di

te.»

«Non se tutti i nostri colleghi diranno la verità, e cioè che tu soffri di manie di persecuzione nei miei confronti e che mi hai sempre incolpato di tutto» ribatté Emir. «Senza offesa, naturalmente. Quanto al nascondiglio che ho in mente, nessuno potrà mai trovarla, non preoccuparti. Sei ancora con me?»

«Se è l'unica strada che abbiamo» rispose Rotwang eloquentemente.

Non c'era nient'altro da dire per il momento, nient'altro di cui si potesse discutere nel breve tempo che restava loro così, in pieno giorno. Emir si abbottonò nervosamente il camice mentre si avvicinava alla porta. «Ne riparleremo, va bene? Devo andare adesso. Non voglio che ci vedano troppo insieme. Rimarrò anch'io stasera oltre l'orario, perciò possiamo parlarne dopo.»

«Giusto» borbottò Rotwang senza troppa convinzione. «Ne riparleremo, certo. Fuji...»

Con la mano sulla maniglia della porta, ormai in procinto di uscire, Emir si fermò sulla soglia e trasse un respiro profondo. «Se stai per offendermi, tieni presente che spaccarti la faccia fa perfettamente parte della nostra copertura, Rotwang. Perciò vedi di non farmi incazzare.»

«Nessuna offesa stavolta, Fuji. Volevo solo...» La voce di Rotwang suonava tesa e incerta, più di quanto Emir ricordasse di aver mai udito, ma non era davvero aggressiva in quel momento. «Stai facendo la cosa giusta, Fuji. Ma se scopro che vuoi fregarmi per portarla fuori dal laboratorio e venderla, prima ti ammazzo e poi ti denuncio.»

«Qui nessuno vuole vendere niente, Rotwang» ribatté Emir con calma. Spalancò la porta, e finalmente la nauseabonda aria soffocante della giungla artificiale della stanza si mitigò in parte nella corrente fresca del corridoio. «E comunque per me vale lo stesso. Tradiscimi e io ti uccido.»

«Siamo d'accordo, allora.»

«Sì» concluse Emir con un sospiro. Si sentiva profondamente stanco. «Siamo d'accordo. Ci vediamo questa sera.»

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Capitolo 8
*** Imprevedibile. ***


Eccomi qua, carissimi!

Ero quasi riuscita a mantenermi regolare con la pubblicazione di un capitolo circa al mese, il che per me è un vero e proprio record, ma ovviamente sono peggiorate un paio di cose nella mia situazione familiare proprio nel periodo della sessione estiva, com'è giusto che sia, dato che è risaputo che i mali non vengono mai da soli. Comunque, finalmente, eccomi qui!

Credo che si capisca piuttosto bene, ma a scanso di equivoci questo capitolo riprende esattamente là dove ci eravamo lasciati col terzo capitolo, con l'arrivo di Rotwang. In parole povere, è finita l'era dei flashback e ora entriamo nel fulcro della storia! (Dopo 80 pagine, direte voi, forse era anche il momento)

Come mio solito, non posso che ringraziare con un abbraccione enorme cristal_93 e BlazePower per le loro recensioni al precedente capitolo: mi hanno fatto un enorme piacere! E ringrazio infinitamente anche PersejCombe per il suo continuo sostegno anche in privato.

Ciò detto non posso che lasciarvi al capitolo!

Buona lettura


Afaneia


Capitolo VII – Imprevedibile.


«Tu hai fatto la peggior vigliaccata della tua vita, Fuji.»

«Ehi» borbottò Emir in risposta, aguzzando la vista per leggere l’ora. «Ti aspettavo più tardi.»

«Già, e che ti aspettavi, di grazia?» Parlare al buio, senza guardarsi negli occhi, non doveva piacergli molto: senza neppure accennare a togliersi il lungo cappotto scuro, coi guanti tormentati tra le mani, Rotwang prese a cercare rabbiosamente a tentoni l'interruttore della luce sulla parete. Emir si ritrovò a sbattere le palpebre per abituare gli occhi alla luce. «Se pensavi che mi sarei messo a girellare per tutto il paese per evitare che qualcuno mi seguisse, forse hai visto troppi film. Sono venuto all'ora che avevamo stabilito, il che è molto più di quanto abbia fatto tu. Vogliamo parlare della porcata che hai combinato tu adesso, se non ti dispiace?»

«Senti, Rotwang... mi dispiace così tanto.» Era la prima volta in tutta la giornata – a parte forse quando si era confidato con suo padre, quella mattina, a Lavandonia – che Emir aveva modo di parlare sinceramente, e la verità ebbe un sapore strano sulle sue labbra. Se bastava una giornata per disabituarsi del tutto a dirla, che cos'avrebbe fatto quando su di lui si fosse scatenata davvero la tempesta?

«Ti dispiace? È tutto quello che hai da dire? Seriamente?»

«No, voglio dire che...»

Ma preso com'era dal ruggito della propria rabbia, Rotwang non aveva orecchie a sufficienza per ascoltare le sue giustificazioni. La mano che teneva i guanti era stretta tanto da tremarne, ed egli era mortalmente pallido. «Ti è venuto in mente anche solo per un momento che questo piano l'avevamo ideato in due, e che forse, se proprio ti era venuto tanta smania d'andare nasconderti da papà a Lavandonia, poteva valere la pena di farmi una telefonata per avvertirmi che il piano era cambiato...?»

«Rotwang, ero solo!» urlò Emir, perché solo urlare in quel momento pareva sufficiente a farsi ascoltare. «Devo proprio dirtelo ad alta voce che mi è venuta paura tutt'a un tratto? Si vede che sono più vigliacco di quello che credevo, che la casa era silenziosa, che tu non c'eri, che ho avuto paura...»

«Certo che non c'ero, stronzo! Sono stato per tutta la sera a tenermi sulle ginocchia le bambine di Portia e a giocare a carte con suo marito, com'era nei piani. Pensi che non avessi paura anch'io e non avessi voglia a ogni momento di telefonare al laboratorio e dirti di lasciar perdere tutto, che non me la sentivo più...»

«Sì, ma tu non c'eri!» tagliò corto Emir. Come si poteva dire a parole la sensazione alienante, fortemente disturbante, che aveva provato quando aveva lasciato scivolare la Pokéball nella tasca interna del cappotto e aveva percorso i corridoi dei laboratori fattisi improvvisamente sterminati, sentendo in ogni paio d'occhi che incrociava un'accusa che lo denudava e lo prostrava e lo metteva alla gogna; e la strada fino a casa che s'era fatta più lunga che mai, col rischio che a ogni passo la Pokéball gli scivolasse e rotolasse a terra e magari s'aprisse, e allora tutti, tutti avrebbero saputo che era un ladro! Già, ma non si poteva camminare con la mano sul petto, in corrispondenza della tasca, perché allora sì che avrebbe avuto l'aria di portare qualcosa di nascosto, e gli occhi di tutti allora si sarebbero appuntati ; e la gente non si sarebbe ricordata, il giorno dopo, quando il furto sarebbe stato su tutti i giornali, d'aver visto il dottor Fuji che camminava con aria strana nascondendo qualcosa sotto il cappotto?

«Non c'ero perché avevamo deciso così» ringhiò Rotwang. «Perché questa era una cosa che poteva fare solo una persona.»

«Lo so, ma... Rotwang, ti ho già detto che ho avuto paura. Non ti sto dicendo d'esser stato furbo o coraggioso, non ho cambiato il piano intenzionalmente. Hai tutti i diritti d'essere arrabbiato, ma forse anche tu avresti avuto paura al mio posto.»

Per una volta, l'umiltà della sua confessione parve mettere a tacere Rotwang. Scosse il capo per qualche momento, coi pugni stretti nelle tasche del cappotto nero di foggia un po' troppo elegante per quell'isola, e guardò altrove. «Il bromazepam che ti ho procurato avrebbe dovuto aiutarti a gestire un po' l'ansia. Non ti ha aiutato per niente?»

Emir si sentì colto in fallo, ma per quanto cercasse dentro di sé o nella stanza che lo circondava una via di fuga, si ritrovò con le spalle al muro. Stava parlando col dottore, e al dottore, egli lo sapeva bene, non c'era modo di mentire. «Ah, ecco, in effetti... potrei averne preso un po' troppo.»

Rotwang agitò distrattamente la mano in aria. «Non credo che possa averti dato fastidio, sei grande e grosso. Quanto ne hai preso?»

Quando Emir gliene disse la quantità precisa, Rotwang gli riversò addosso una tale ondata di urla e insulti e bestemmie che a un certo punto Emir non poté fare altro che restare a guardare, senza neppure fare un tentativo per difendersi o giustificarsi. Si sentiva così stanco che tutto ciò che desiderava era solo che smettesse di urlare, e il modo migliore, per una volta, era non contraddirlo.

Dopo una quantità di offese e improperi e bestemmie in tedesco e un lessico assolutamente irripetibile – di cui Emir, per la verità, aveva capito solo le parole benzodiazepine, amnesia anterograda e coglione, finalmente Rotwang parve esaurire ogni possibile insulto: fissandolo con disgusto per qualche momento, si limitò a commentare che, dopotutto, non valeva la pena di arrabbiarsi con uno così debole da non riuscire neppure a difendersi.

«Mi auguro che tu abbia almeno evitato di mescolarci alcolici» si limitò a borbottare con sdegno guardando altrove, per porre fine al discorso.

«Io non bevo» rispose distrattamente Emir, lieto soltanto che quella discussione si fosse esaurita, gettando un'occhiata nervosa fuori della finestra. Rotwang aveva acceso tutte le luci per poterlo guardare negli occhi, e questo era più che comprensibile; ma ora che era un bel po' che si trovavano in quella stanza, a fronteggiarsi nella piena luce elettrica, quella situazione lo metteva tremendamente a disagio ed egli non faceva che guardare ansiosamente verso la finestra, aspettandosi a ogni momento di vedere qualcuno che li spiava...

Ignorando deliberatamente il nuovo sproloquio di Rotwang sul fatto che chissà che cosa sarebbe potuto accadere se avesse avuto una crisi e si fosse scoperto che era stato lui a procurargli quel farmaco, e che chissà che razza d'uomo era uno che neppure beveva e tutta un'altra serie di cose, Emir si avvicinò agli interruttori e spense una dopo l'altra le varie lampade che illuminavano la stanza. Rotwang tacque bruscamente mentre il salotto sprofondava gradualmente nel buio.

«Ehi, Fuji» commentò quando anche l'ultima luce si spense lentamente. Così com'erano ora, nell'oscurità, Emir non riusciva più a vederlo, eppure avrebbe potuto giurare di sentire il suo sorriso sarcastico nel buio. «Hai un atteggiamento sospetto. Hai sempre avuto i nervi delicati, ma ora dovresti calmarti un po'... devi renderti conto che da questa parte della casa non può vederci nessuno. Questo lato dà sul mare.»

«Ti ho già detto che sono agitato» ribatté Emir seccamente. «Non vuoi proprio capire che non te l'ho detto per inventare una scusa, che era la verità?»

«Eppure oggi sei stato proprio bravo» considerò Rotwang tra sé, come stupito della sua reazione. «Dico davvero. Se solo non avessi saputo la verità, avrei potuto pensare persino io che fossi sincero...»

Questo, naturalmente, era perché per tutta la sua vita Emir non era stato bravo che a mentire e a clonar Pokémon; ma non aveva voglia di parlarne in quel momento. I suoi nervi avevano retto indenni per tutta la giornata più lunga della sua esistenza, sorretti solo dalla necessità e dalla spinta dell'adrenalina; ma ora egli sentiva che avrebbe potuto cedere da un momento all'altro.

«Senti, continuiamo a parlarne di sopra, va bene? Molte stanze non hanno le finestre, perciò siamo certi che nessuno potrà vederci o sentirci parlare mentre andiamo a trovarla. Questo mi farebbe stare un po' più tranquillo» soggiunse a bassa voce.

«Dio, Fuji, stai scherzando? Vorrei proprio dire due paroline all'architetto che ha progettato delle stanze senza...» Ma prima ancora di poter terminare quella frase, Rotwang fu come folgorato da un pensiero improvviso, e la sua voce conobbe un brusco cambiamento di tono. «Aspetta un po', Fuji. Credevo che mi avessi detto di avere una cantina. Di solito le cantine stanno giù. Non su

«Non è una cantina, è un sotterraneo, e comunque capirai quando la vedrai» ribatté Emir spazientito. Sentiva che se fosse rimasto al piano terreno un solo minuto di più avrebbe avuto una crisi isterica, e francamente non aveva proprio voglia di perdere i nervi davanti a Rotwang. «Ora mi fai il piacere di venire con me, per cortesia?»

«Dio, andiamo, andiamo, se proprio ne hai tanto bisogno. Senti, sai una cosa? Forse è una questione linguistica. Forse sotterraneo vuol dire qualcosa di diverso da quello che penso io, eh?»

«Ascoltami, Rotwang» iniziò Emir, e Rotwang ammutolì immediatamente. Persino lui doveva aver capito che l'argomento era serio, e forse in realtà si sentiva un po' meno disinvolto di quanto apparisse dall'esterno. «Ora ti farò vedere dove ho nascosto Mew. Non ho mai fatto entrare nessuno in quella parte della casa. Giuri che non dirai mai a nessuno quello che vedrai adesso?»

Rotwang lo scrutò per qualche istante nel buio. Era tornato serio d'improvviso, ed Emir non dubitò neppure per un momento che tutta la sua noncuranza e la sua apparente spavalderia non fossero altro che una facciata. «Stai scherzando? Non vedi come fremo tutto al pensiero di venire arrestato in un paese straniero con più capi d'imputazione di quanti me ne vengano in mente?»

Il suo acre sarcasmo contribuì per un momento a farlo sentire meglio: Rotwang poteva essere caustico e amaro e cinico quanto voleva, ma quantomeno era lì, e ora coinvolto assieme a lui fino alla fine.

Con tutte le luci spente, in quel momento la casa era troppo buia per poter semplicemente indicare la strada tra i corridoi tortuosi a qualcuno che non vi fosse mai stato prima. Ansioso soltanto di trovarsi al piano di sopra il prima possibile, Emir lo afferrò senza troppi complimenti per un braccio e lo tirò a sé verso la porta del salotto: dopo un attimo d'esitazione, pur borbottando sarcasticamente qualcosa che suonava molto come sotterraneo per le torture, finalmente Rotwang si accostò a lui nel buio per seguirlo, ed Emir gli fece strada verso la grande scalinata che conduceva al primo piano.


Da giovane, quando un amministratore della Silph gli aveva proposto uno stipendio considerevole e una vera villa sul mare a Isola Cannella, Emir aveva firmato tutto ciò che gli si chiedeva di firmare e tacitamente aveva accettato di rinunciare a ogni scrupolo morale e a ogni riflessione etica, e soprattutto a ogni pretesa di controllo sugli esperimenti e i progetti di ricerca. A queste condizioni la sua coscienza non aveva avuto il benché minimo moto di protesta. Tutto ciò che contava era allontanarsi da Lavandonia.

Quando Emir vi si era installato, non aveva trovato la villetta monofamiliare degli anni Sessanta che sarebbe stato lecito aspettarsi da un normale contratto di lavoro. Era invece un edificio immenso, forse della fine del secolo scorso, dall'aspetto maschio e decadente e mortalmente tetro, e cupo tanto da dar l'impressione, a guardarlo, di poter crollare su se stesso da un momento all'altro. Si sarebbe sentito solo là dentro, certo, senza una ragazza e neppure un amico nel giro dell'intera isola, in una casa che sarebbe stata enorme persino per una famiglia intera; ma non era Lavandonia, non era Lavandonia, e a Lavandonia, se fosse stato attento a tenersi quel lavoro e non avesse fatto troppe domande, non avrebbe dovuto far ritorno mai.

La villa era tanto grande che Emir si ritrovava a usarne effettivamente solo una minima parte, quella tra il primo e il secondo piano; il terzo piano, a conti fatti, era per lui perfettamente inutile, e aveva avuto occasione di andarci solo quattro o cinque volte. La villa era tanto solitaria da essere soffocante, ma Emir aveva la sensazione di amarne ogni singola pietra, perché quella casa, finalmente, era sua, ottenuta grazie al suo lavoro e alla sua intelligenza, e in quella casa egli era libero e poteva fare ciò che voleva.

Quando avevano inventato Porygon, dopo appena due anni di ricerca (due anni, nient'altro che due anni per creare il primo Pokémon interamente virtuale, artificiale, programmabile, e dunque migliorabile all'infinito! Ah, divino progresso della scienza!), alla Silph erano stati così contenti e così soddisfatti di lui da pensare bene di assegnargli una cospicua gratifica.

Il suo stipendio era già di per sé più che sufficiente a coprire tutte le spese di un uomo solo che non conducesse in pratica alcun tipo di vita mondana, e la gratifica era stata tanto lauta da metterlo quasi in imbarazzo. Che farci? Un viaggio, certo, ma dove sarebbe mai potuto andare da solo, e soprattutto perché, s'egli stava tanto bene in quella villa immensa affacciata sul mare, e se trascorrere le giornate in laboratorio lo appagava tanto che dovevano pregarlo di prendersi almeno il minimo indispensabile di ferie?

Una notte in cui si era ritrovato, senza un motivo preciso, seduto insonne fino a tarda notte nel suo salotto a vetrate, al piano terreno, immobile al buio, ad ascoltare in silenzio il suono esitante del proprio respiro e il mare che incalzava la ripida scogliera sottostante, inondandone gli anfratti, senza desiderare per alcun motivo al mondo di trovarsi in qualunque luogo che non fosse lì, l'ebbrezza di solitudine nella quale si crogiolava gli aveva dato l'idea di ristrutturare la casa.

Anche per quest'idea non avrebbe saputo trovare motivazioni particolarmente razionali. Era pur vero che, sin da quando egli aveva visto la casa per la prima volta, tutto in quell'edificio gli aveva dato un'idea di particolare trascuratezza, e che nulla gli dava la garanzia che un edificio di inizio secolo fosse ancora in buone condizioni. Se ci fossero stati problemi, si sarebbe potuto permettere qualche lavoro per la messa in sicurezza della villa; e un luogo che si era ritrovato ad amare tanto in appena due anni valeva bene la pena di un investimento.

Ma quando si era recato all'ufficio catastale dell'isola e si era fatto consegnare le planimetrie e i progetti della villa, la sua curiosità era in breve tempo divenuta ossessione. Ciò che leggeva sulle piantine non aveva senso, non sembrava neppure possibile, eppure, per quanto egli continuasse a consultarle, affannandosi a sfiancarvi gli occhi ogni singola sera e in ogni momento libero che il lavoro gli lasciava, non c'erano dubbi. Su quella planimetria era disegnato un piano che, nella villa, non c'era.

Come aveva potuto sfuggirgli per due anni un intero piano sotterraneo? Ma soprattutto, poiché egli non ricordava di aver visto porte o scale di cui non conoscesse la destinazione, come vi si accedeva?

Allora erano stati giorni meravigliosi, per lui. Egli non avrebbe forse mai potuto figurarsi una vita migliore di quella: giornate trascorse in laboratorio, a destreggiarsi tra provette e microscopi e guanti di lattice, e sere intere e notti per perlustrare quella vasta villa che amava perdutamente, palmo a palmo. Era quasi come tornar bambini, in un certo senso, ed esplorare quell'andito recondito del cortile che sembrava celar per lui tanti misteri...

Ma pur con tutta la sua passione e il suo impegno, aveva impiegato quasi due mesi a risolvere il mistero del piano sotterraneo, e forse solo per miracolo non aveva perso le speranze. Una sera, colto come da un'improvvisa ispirazione, e sentendosi contemporaneamente uno sciocco per non averci pensato prima e un genio per averci pensato da solo, senza neppure cambiarsi d'abito dopo quasi undici ore di lavoro, egli era corso al primo piano, là dove aveva sempre campeggiato quell'orribile statua che tanto stonava con tutto il resto dell'arredamento, e l'aveva palpata e studiata e abbracciata finché le sue dita, in un punto che non riusciva a vedere, avevano toccato qualcosa, e una molla era scattata da qualche parte della casa.

Quando egli si era accorto che ad aprirsi non era stata una scala o una botola per un piano sotterraneo, la sua delusione era stata immane. Alle sue spalle, al di là del lungo corridoio già buio, si era aperta una stanza – una stanza, dopo tutto il tempo ch'egli aveva trascorso a cercare un intero sotterraneo!

Si trattava di una stanza peraltro piuttosto spoglia, persino squallida, che non conteneva che un liscio tavolo vuoto e con un paio di credenze piene di cianfrusaglie. Ne valeva poi la pena, aveva pensato con rabbia mentre richiudeva le ante delle credenze sbattendole con violenza, di costruire una stanza segreta per custodire nient'altro che un tavolo e un paio di mobili?

E poi, la risposta stessa alla domanda lo aveva scosso: no, certo che non ne valeva la pena. A meno che, all'epoca del precedente proprietario, proprio quella specifica stanza non fosse servita a nascondere qualcosa di strano per cui la vastità labirintica dell'edificio e una solida serratura non costituissero di per sé una difesa sufficiente, costruire un meccanismo così elaborato solo per nasconderla non aveva alcun senso. Quantomeno, non con un intero piano vuoto a disposizione, perché Emir sapeva che i progetti della villa non mentivano.

Spinto da questa improvvisa illuminazione, egli aveva rivoltato ogni singolo centimetro di quella stanza, e alla fine, sotto una mattonella un po' troppo mobile che era riuscito a mettere a nudo spostando dal muro una delle credenze, due sere dopo aveva trovato l'ultimo interruttore.

Quando era sceso nel sotterraneo attraverso una scala profondamente incassata nella parete, dopo lunghi esperimenti con una serie di interruttori che aprivano e chiudevano svariate pareti mutando la forma della casa, Emir aveva pensato che mai nulla di tutto ciò ch'egli aveva visto sino ad allora poteva neppure paragonarsi alla decadente bellezza di quel luogo, e questo per nient'altro che per un fatto: che quell'intero piano ch'egli aveva davanti era suo, unicamente suo, in ogni modo in cui poteva esserlo, perché quella casa era il frutto del suo impegno e del suo successo, perché grazie al suo intuito e alla sua pazienza egli aveva fatto emergere il segreto degli interruttori dai dedali dell'immane labirinto e perché, per quanto gli fosse dato sapere, nessun altro in tutto il mondo poteva essere a conoscenza di quel segreto. Là dentro, in quella porzione di spazio che esisteva, ma che tutto il resto del mondo non conosceva o aveva dimenticato, egli si sarebbe sentito veramente libero e solo, finalmente.

Quella notte Emir non avrebbe mai pensato che sarebbe stato proprio là, nel paradiso della sua solitudine, che avrebbe nascosto il Pokémon più raro del mondo dopo averlo rubato alla Silph.


Rotwang attraversò la serie di passaggi segreti attonito e recalcitrante con occhi quasi spauriti, osservando con angoscia crescente ogni parete che si chiudeva alle loro spalle mentre si apriva quella successiva, senza riuscire a star dietro al dedalo di corridoi e vicoli ciechi e stanze vuote che si ritrovavano ad attraversare, fino a che Emir non premette l'ultimo interruttore: allora l'ultima parete calò con un sibilo attutito dietro di loro e una calda luce gialla illuminò a giorno il sotterraneo.

Il piano che si apriva quella notte di fronte agli occhi di Rotwang era mutato molto rispetto a quattro anni prima. Quando aveva scoperto quel luogo, Emir aveva trascorso tutta la notte a esplorarlo alla sola luce di una torcia elettrica e di qualche candela, per farsi almeno una vaga idea di quale impero di desolazione e squallore avesse ereditato dal suo predecessore. Il sotterraneo era sporco e polveroso per l'abbandono, e a ogni passo egli non faceva che trovarsi la faccia disgustosamente appiccicosa di ragnatele, con la sgradevole sensazione di poter calpestare da un momento all'altro le ossa di qualche animaletto trascinatosi a morire fin lì; ma poter governare incontrastatamente su un abisso di squallore e sudiciume era comunque qualcosa in più che non governare su niente, e tra quelle pareti chiazzate di muffa e macchiate dagli anni a Emir era parso di volare. Il giorno seguente aveva svaligiato il più vicino negozio di elettronica e aveva risistemato l'impianto elettrico e cambiato le lampadine, e finalmente aveva potuto vedere per la prima volta come si deve, nello splendore della piena luce elettrica, l'estendersi del suo regno illuminato a giorno. Per mesi a partire da allora egli aveva lavorato incessantemente per rimettere a nuovo il sotterraneo, per pulirlo e rimuovere la muffa e cambiare a poco a poco il mobilio troppo rovinato; ma avrebbe mai potuto amare quel luogo più di quanto l'aveva amato quella sera, quando s'era arrampicato su un vecchio tavolo traballante e aveva ammirato dall'alto la distesa di divani sfondati e di tendaggi crollati al suolo?

Per una curiosa scelta architettonica (sempre ammesso che al folle architetto di quell'improbabile villa si potesse imputare la benché minima scelta consapevole), il sotterraneo era strutturato in modo estremamente più razionale rispetto ai piani superiori, con un minor numero di locali più ampi e minor spreco di spazio. In quanto al resto era arredato con un curioso miscuglio di stili diversi, poiché Emir aveva trascinato dabbasso un po' per volta i mobili del secondo e del terzo piano di cui non si faceva niente, ed era pulito tanto quanto uno scapolo un po' distratto e molto stravagante fosse in grado di mantenerlo da solo. Lo sguardo di Rotwang spaziò sulle stanze carico di stupore.

«Però» commentò dopo un po' per darsi un tono, quando s'accorse che il suo prolungato silenzio rischiava di passare per ammirazione o per timore, e che egli non intendeva assolutamente dargli nessuna di queste soddisfazioni. «Un giorno dovrai spiegarmi perché hai un piano sotterraneo bloccato da tutti questi passaggi segreti, Fuji.»

«A dire il vero non lo so nemmeno io» ammise Emir facendogli segno di seguirlo lungo un corridoio. Per una volta, Rotwang lo seguì senza fare storie. Emir continuò a parlargli mentre apriva l'ennesima porta nascosta. «La casa era già così quando me l'hanno data. Penso che appartenesse a qualche vecchio pazzo o roba del genere, ma francamente non me ne sono mai interessato. Non volevo attirare l'attenzione della Silph su questo aspetto, capisci.»

«Ottima scelta» convenne Rotwang annuendo. «Semplice lungimiranza o una leggera forma di schizofrenia?»

Probabilmente era solo per la necessità di scaricare la tensione nervosa che lo attanagliava dalla sera precedente, ma per la prima volta quella notte gli parve che quella battuta fosse quasi divertente, ed egli rise. «Direi piuttosto desiderio di possedere qualcosa che fosse tutto mio.»

«Se stai cercando di tranquillizzarmi riguardo all'essere da solo in un sotterraneo segreto in cui nessuno può sentirmi urlare con uno scienziato pazzo, sappi che le manie di possesso non sono proprio un buon segno» mormorò Rotwang come tra sé e sé.

Evitando a Emir l'imbarazzo di ridere ancora del suo sarcasmo, finalmente l'ultima porta che sigillava l'area più lontana del sotterraneo si aprì, scomparendo nella parete come se non fosse mai stata lì. Quella era l'ultima stanza, o almeno lo era in base alle sue ultime scoperte, quella più lontana da tutto e da tutti nell'angolo più remoto della casa: proprio là, al centro del tavolo che troneggiava in mezzo alla sala, Emir aveva posato la Pokéball di Mew. Ritraendosi un poco per lasciare campo libero al suo collega, Emir gli fece cenno di entrare prima di lui e disse: «Prego, dottore. La paziente è tutta sua.»

Quando aveva chiesto a Rotwang di aiutarlo a rapire Mew, Emir lo aveva fatto per tutti i motivi che gli aveva confessato esplicitamente e anche per l'unico che non avrebbe avuto il coraggio di rivelargli mai, ossia che mai avrebbe voluto crearsi un nemico della sua portata in un affare del genere, poiché Rotwang amava Mew così tanto che l'avrebbe cercata sempre. Ma quella notte, quando sotto i suoi occhi una Mew ebbra di gioia si scagliò contro il petto di Rotwang come a salutarlo dopo mesi di separazione, Emir si ritrovò per la prima volta a vedere la questione da un altro punto di vista. S'egli avesse portato via Mew per conto proprio, lei non avrebbe mai più rivisto Rotwang: ma come avrebbe reagito allora? Quella separazione l'avrebbe resa infelice o piuttosto – come ella aveva dimostrato per tutti quei mesi, reclusa in laboratorio in assenza di M1 – M2 sarebbe rimasta ancora perfettamente felice, dimostrando per l'ennesima volta quanto ogni cosa bastasse a renderla contenta, e dunque tutto le fosse, a conti fatti, perfettamente indifferente?

Eppure, dell'intera équipe del Laboratorio egli era l'unico a pensarla così. Ne aveva parlato solo con Valérien, certo, ma Portia e Vincent erano entrambi persone troppo pragmatiche per potersi anche solo soffermare a riflettere su un dettaglio del tutto privo di rilievo scientifico come il carattere di un Pokémon; in quanto a Rotwang, che amava Mew come fosse un suo proprio Pokémon, avrebbe mai potuto tollerare o anche solo concepire l'idea che Mew non lo riamasse allo stesso modo, o meglio che lo amasse, certo, ma esattamente quanto avrebbe amato tutto il resto del mondo?

Restare in silenzio, da solo con quella domanda all'interno del suo cervello, sarebbe stato intollerabile. Mentre Rotwang si sedeva su una poltroncina per resistere all'assalto di Mew, appena liberata dalla sfera, che gli balzava addosso per salutarlo da ogni lato, Emir si schiarì la voce e chiese: «Pensi che sarà felice qui?»

Era davvero la prima cosa che avesse trovato da dire, ma dal modo in cui Rotwang aggrottò penosamente la fronte, accarezzando Mew come sorridendo per non farla preoccupare, intuì che non era stato il solo a porsi quel problema.

«Non lo so, Fuji. Era felice al laboratorio, ma... pensi che dovremo tenerla qui a lungo?»

Fino a quel momento Mew non aveva ancora avuto modo di vedere la nuova prigione in cui era stata relegata e che, a differenza della precedente, non disponeva di finestre né d'erba, e aveva come solo pregio il fatto che nessuno, in quel sotterraneo, progettava di costringerla a partorire i propri cloni. Mentre Emir si sedeva di fronte a Rotwang per poter discutere, Mew si levava ora in aria a osservare la stanza, fluttuando di mobile in mobile per frugare tra i vecchi soprammobili fuori moda.

Sul problema di cos'avrebbero fatto una volta compiuto il furto non si erano mai voluti soffermare a rifletter troppo, trovando sempre un qualche altro problema più urgente da affrontare per posticipare il più possibile quella questione; e questo, probabilmente, perché quel furto andava compiuto senza pensarci troppo perché compierlo era indispensabile, e se avessero cominciato a nutrire dubbi e ripensamenti in proposito, alla fine il coraggio sarebbe loro mancato, e avrebbero rimandato e finito col tirarsi indietro. Ma ora che si trovavano entrambi là sotto, la realtà si faceva troppo pressante e greve per poterla ignorare, e fronteggiarla si faceva inevitabile.

«Qua sotto nessuno verrà a cercarla, perciò può restare qui per tutto il tempo necessario» iniziò Emir cautamente, soppesando ogni parola in base alla reazione che gli pareva produrre sul volto di Rotwang. «Pensi che sarebbe possibile riportarla in Guyana?»

Gli occhi di Rotwang ebbero un rapido guizzo in direzione di Mew come ad accertarsi che non potesse udire quello che stava per dire. «Giusto, dev'esser facile spiegarlo alla dogana. L'ultima volta che sono andato a trovare i miei in Germania controllavano ancora le Pokéball all'aeroporto, sai.» Ma non c'era amarezza nel suo sarcasmo, quella volta, ed Emir ne prese atto e gliene fu grato. «No, Fuji, lo sai anche tu che non è una soluzione plausibile. A meno che Mew non diventi uno dei Pokémon più comuni del mondo, cosa che francamente non credo probabile, non è una strada facilmente percorribile. Piuttosto, senti...» Ma qui Rotwang ebbe un'esitazione, ed Emir lo incalzò: «Che cosa?»

«Portia mi ha detto che tuo padre gestisce un'organizzazione di difesa dei diritti dei Pokémon, o qualcosa del genere. Non possiamo chiedere aiuto a lui?»

Dal punto di vista di Rotwang, quella avrebbe potuto essere una soluzione vincente: mobilitare l'opinione pubblica, con l'appoggio di un'organizzazione impegnata già da anni nello scontro con la Silph, affidare a una delle voci più forti e pure di Kanto la loro testimonianza e aspettare che l'indignazione popolare facesse il resto. Mew era amata e idolatrata da tutto il mondo, ed era il Pokémon più bello e dolce che l'umanità avesse visto mai: se si fosse saputo quello che la Silph progettava di farle, tutto il mondo si sarebbe schierato dalla loro parte in favore di quella creatura innocente che veniva ignominiosamente sfruttata dalle ragioni dell'azienda. Allora si sarebbe parlato sui giornali e sulle riviste dell'ingiustizia della Silph SpA, si sarebbe creato un caso mediatico dal quale l'azienda sarebbe stata travolta... e chissà, forse, con un po' di fortuna, si sarebbe incominciato anche a parlare con serietà di una legislazione che prendesse in considerazione l'opportunità di creare e clonare indiscriminatamente Pokémon senza il minimo controllo. Ma nulla di tutto ciò sarebbe mai veramente accaduto, Emir questo lo sapeva bene: si sarebbero vergati articoli e si sarebbe discusso e protestato, ma nel frattempo egli avrebbe dovuto confessare e sobbarcarsi un processo, e nel frattempo nessuno avrebbe potuto difenderlo da un'accusa per furto... e poi la Silph era troppo potente. Coi rapporti profondi e vischiosi che intratteneva con Team Rocket e con la politica, che cosa avrebbe potuto ottenere suo padre quel giorno più che in passato?

«Potrebbe procurarci assistenza legale in tribunale, se è questo che intendi» rispose con calma. «E potrebbe raccogliere delle firme in nostro aiuto. Ma intanto Mew tornerebbe al Laboratorio, perché è alla Silph che appartiene legalmente, e noi non avremmo più possibilità di difenderla. È questo quello che intendi? Mio padre può aiutarci, ma noi abbiamo comunque commesso un furto, e un furto rimane un reato.»

Le prospettive erano quelle che erano. Erano stati coraggiosi finché avevano potuto, e forse avevano tentato più di quello che le loro forze potevano ottenere; ma poiché l'unica alternativa a quella follia sarebbe stato di cedere i piccoli di Mew al Team Rocket, questo era quello che era. Mew non era libera, ma non era più in mano alla Silph; e dopotutto, contava davvero qualcosa per lei essere libera? Se si dimostrava tanto stupidamente felice persino nelle circostanze più dolorose, a tal punto da risultare totalmente incapace di difendersi, quel mutamento di prigionia avrebbe davvero fatto per lei qualche differenza?

In quel momento come nei giorni passati, per quel problema non si prospettavano soluzioni; ma ammetterlo ad alta voce avrebbe voluto dire, guardandosi negli occhi, che tutto il genio di due uomini di scienza bastava a malapena a ottenere quel misero risultato, ed entrambi lasciarono perdere. Sarebbe stato come star seduti a parlare della via d'uscita da una gabbia chiusa.

Rotwang era venuto lì per accertarsi che tutto fosse andato secondo i loro piani e che Mew stesse bene, ed Emir si era sforzato di aspettarlo fino a quell'ora, come avevano concordato; ma ora che il crollo della tensione nervosa si era assommato alle benzodiazepine e alla stanchezza, a malapena egli riusciva a tenere gli occhi aperti, e Rotwang parve rendersene conto. Con un'ultima carezza affettuosa tra gli occhi di Mew, dove le piaceva particolarmente, Rotwang si alzò e gli fece segno con lo sguardo d'esser pronto a risalire a suo comodo. Quell'uomo sapeva comportarsi in modo persino civile quando lo voleva – peccato che non lo volesse quasi mai.

Emir lo scortò in silenzio attraverso la lunga serie di passaggi della villa sterminata. Riemergere al piano superiore dal sotterraneo era come riaffiorare ala luce della luna dalle profondità degli abissi: al piano terreno, dove si aprivano innumerevoli porte e finestre, l'aria era più pura e respirabile che là sotto, e al confronto era quasi fredda, e di nuovo si faceva udibile il fragore del mare che si inerpicava sulla scogliera. Sentendosi addosso come un brivido di febbre, Emir si strinse maggiormente nella giacca e lo scortò fino alla porta. L'orologio segnava l'una passata: in un'isola così piccola e smorta, era alquanto certo che a quell'ora non ci fosse più nessuno in grado di veder Rotwang uscire. Si avvicinarono alla porta d'ingresso.

Incerto su come salutarlo, fermo sulla soglia, Emir esitò un momento prima di aprirgli la porta. «Tornerai domani?»

«Se m'inviti» rispose laconicamente Rotwang, ed Emir per poco non rise. Forse era tanto stanco e tanto sconvolto da riscoprire in sé un ignoto senso dell'umorismo.

«Vieni sempre attorno alle undici, però. Non voglio correre il rischio che...»

«Mi dispiace che tu abbia perso il lavoro, Fuji.»

Quell'affermazione gli giunse talmente inattesa che Emir dubitò per un attimo persino di averla udita, e avrebbe potuto credere quasi d'averla appena immaginata tra i sordi vagiti delle onde. Ma Rotwang gli appariva tremendamente convinto, ed Emir si sforzò d'immaginare quale curioso stato d'animo avesse potuto spingerlo a esternare un'affermazione del genere. Non gli venne in mente niente, allora cercò di sdrammatizzare.

«Beh, forse non ero davvero un venduto, no...?»

L'ultima cosa che aveva in mente quella notte era proprio fare polemica o rivangare i soliti vecchi discorsi, ma per un attimo, subito dopo aver parlato, temette che Rotwang potesse fraintendere le sue intenzioni. Ma proprio quando stava per aprire la bocca e aggiungere qualcosa, e specificare che no, non c'era alcun intento polemico nelle sue parole, l'espressione di Rotwang si fece più impacciata ed esitante, e distogliendo seccamente lo sguardo egli mormorò: «Ora non esagerare.» Ma nella sua voce non c'erano né rabbia né sarcasmo, ed Emir ne prese atto e sorrise.

«Va bene così, Rotwang. Sapevo già che mi avrebbero licenziato, e comunque non è poi nulla d'irrimediabile. Salvare Mew era troppo urgente, e non si poteva fare altrimenti.»

«Avresti almeno potuto dirmelo» borbottò Rotwang in risposta.

Quella tenue forma di protesta suonava quasi come un complimento, in quella specifica circostanza, ed Emir si strinse nelle spalle. «Già, e che cosa avrei ottenuto? Ti saresti tirato indietro per farmi conservare il lavoro?»

Colto alla sprovvista da quella domanda, Rotwang aggrottò la fronte e non rispose.

«Dai, vai ora» insisté Emir, prima che il silenzio perdurasse un po' troppo a lungo, fino a farsi imbarazzante. «Prima che passi qualcuno e ti veda qui. Puoi tornare domani alle undici. Ti aspetterò alzato.»


Rotwang tornò davvero la sera successiva, e anche tutte le sere a venire.

Certe volte non si vedevano quasi. Rotwang entrava per conto proprio, con la chiave di scorta che Emir gli aveva consegnato, e se Emir lo attendeva alzato era solamente per accompagnarlo da Mew attraverso il dedalo di meccanismi e passaggi segreti che Rotwang non riusciva proprio a memorizzare, e poi per ricondurlo al piano terreno dopo circa un'ora. Non parlavano molto in quelle sere, ed Emir si limitava a prendere atto del fatto che Mew balzava di gioia e trillava d'entusiasmo quando il tedesco veniva a trovarla.

Ma vi erano sere in cui non si poteva non parlare. Rotwang costituiva l'unico legame che ancora lo unisse al mondo del laboratorio e soprattutto delle indagini sul furto, ed Emir, che abitava in casa propria come assediato in una roccaforte dal mondo esterno che lo circondava, aveva bisogno di sapere quel che succedeva così come ne aveva di bere acqua o di respirare aria.

Rotwang si sforzava d'aggiornarlo per quanto gli era possibile; ma da dire, a conti fatti, non c'era poi molto. Il laboratorio aveva fermato i lavori per due interi giorni, per permettere alla polizia di eseguire tutti i rilevamenti del caso; ma oltre a quello che si era scoperto il primo giorno, e cioè che una finestra era rimasta aperta, non era emerso nient'altro. La stanza di Mew era stata controllata meticolosamente, centimetro per centimetro, ma la riproduzione di un ambiente naturale che la Silph si era tanto affannata a creare non facilitava le cose, e in ogni caso neppure negli altri locali era stato trovato niente. Le poche impronte digitali e l'unico capello che erano emersi appartenevano al personale, e non costituivano alcuna prova. Ammetterlo non era nell'interesse di nessuno, ma la scomparsa di Mew sembrava ormai un mistero irrisolvibile, e la polizia dell'isola era ormai impantanata. Tutto quel che sembrava plausibile era che a rubare il Pokémon fosse stato un gruppo di ladri esperti, dato che non si trovavano tracce; ma questo era quanto di più lontano dal vero, ed Emir era molto contento che lo pensassero. Tutto ciò che poteva stornare l'attenzione da loro, per quanto lo riguardava, andava più che bene.

«Se ti fa piacere, di me non sospettano» gli disse Rotwang ridendo, e per tutta risposta Emir gli scagliò addosso un cuscino e Mew rise. Era una fortuna che Mew prendesse tutto ciò che facevano per un gioco.

Certo, di Rotwang non sospettavano o non parevano farlo, ma in fin dei conti non c'era alcun vero motivo per cui avrebbero dovuto indagare su di lui. Era stato l'ultimo a vedere Mew, o almeno lo era stato nelle dichiarazioni che aveva rilasciato, ma questo era quanto. Nessun altro indizio puntava nella sua direzione; ma in quanto a lui, dopo tutte le domande che gli erano state fatte e i sospetti che la sua fuga a Lavandonia aveva sollevato, poteva davvero dire la stessa cosa di se stesso?

Dopo due giorni di stop, anche per via delle insistenti pressioni della Silph, il nuovo direttore fece riprendere le attività consuete; ma non c'era più molto da fare, senza più M2. Si potevano continuare le analisi sul corpo imbalsamato di M1, ma non era poi un granché, e Rotwang, fedelissimo ai suoi principi, urlò e protestò e quasi mise le mani addosso a Valérien pur di cercare d'impedire che si profanasse il corpo; ma a parte una lettera formale di richiamo da parte dell'azienda, non ottenne nient'altro.

«Quel mangialumache si è invigliacchito ancora di più da quando è diventato direttore» gli disse Rotwang quando arrivò a casa sua quella sera, sventolando la lettera di richiamo come una proclamazione di guerra. «Ci crederesti? Tu avevi tanti difetti, ma quantomeno i nostri problemi ce li siamo sempre risolti a tu per tu, senza tirare in ballo l'azienda. Quel piccolo vigliacco si è cacato addosso e deve aver raccontato tutto a Dale. Ti pare normale?»

«Chiamate ancora i francesi mangialumache a quarant'anni dalla guerra? Sei serio?» protestò Emir prendendogli la lettera dalle mani. Non diceva nulla di che e non era allarmante, ma il fatto che Valérien avesse preferito rivolgersi a Dale piuttosto che risolvere la questione in laboratorio lo inquietava un poco. Non andava bene. Il laboratorio aveva sempre funzionato come un microcosmo a sé stante nel quale Dale metteva il naso a petulare solo e unicamente per quanto riguardava le questioni finanziarie, ma in quanto a tutto il resto se l'erano sempre sbrigata da soli. «Comunque qui non dice nulla di che, non è preoccupante. Solo che dovresti evitare di rifarlo.»

Rotwang si strinse nelle spalle mentre si accasciava in poltrona. «Lo so che non è nulla di grave, è la vigliaccheria che mi fa incazzare. E comunque mangialumache era solo per non dire finocchio succhiapalle di fronte a lei» specificò come punto sul vivo.

«Mangialumache va benissimo allora» rispose Emir ridendo tra sé, anche se era evidente che a Mew non importava poi un granché di come chiamavano Valérien: si era accomodata su una poltrona seduta come un essere umano, con la schiena eretta e e zampe ben tese, e si divertiva a scimmiottarlo tenendo la lettera tra le mani e facendo finta di leggerla.

Non era un atteggiamento sorprendente. Tranne le poche ore a settimana che Rotwang riusciva a trascorrere lì con loro, Emir era del resto l'unica presenza umana che avesse modo di vedere quotidianamente; e del resto, Emir non poteva dire che le cose stessero tanto diversamente per lui. Tutta la sua vita adulta si era sempre svolta attorno al lavoro, e ora che un lavoro non l'aveva più, e che neppure gli appariva probabile l'eventualità di trovarne un altro in tempi brevi, egli viveva recluso in casa. Nei primi tempi si era sforzato di mantenere uno stile di vita regolare e di mostrarsi spesso in pubblico, anche per dimostrare al resto degli abitanti di non aver nulla da nascondere o da temere: ma ben presto Emir si rese conto di non esser tagliato per far quella vita. Alzarsi presto d'accordo, dato che fin da ragazzo non era mai stato pigro; ma di affannarsi tanto a vestirsi e a uscire solo perché tutti gli abitanti potessero vedere ch'egli non aveva paura di uscire a testa alta per andare a comprare il giornale, di questo proprio non aveva voglia. Isola Cannella avrebbe dovuto riconoscere la sua innocenza da altri dettagli, aveva concluso, e aveva lasciato perdere. La sua vita trascorreva ormai in una sorta di reclusione volontaria, ed Emir passava la maggior parte del suo tempo leggendo e aggiornandosi. Dal momento che non aveva niente di meglio da fare, poteva valer la pena di approfittare della situazione per dedicarsi a quegli aggiornamenti specialistici per cui il lavoro non gli aveva mai lasciato tempo: le sue ore scorrevano perciò invariabilmente nel sotterraneo, a leggere e a prendere appunti e a studiare, mentre Mew giocava sulle sue ginocchia e scarabocchiava su una risma di fogli con le penne che gli sottraeva dal tavolo. A parte Rotwang, ormai erano l'uno per l'altra l'unica compagnia del mondo, e tutto l'universo si era ridotto per loro a quel solo sotterraneo senz'aria. Eppure quell'atmosfera che solo un mese prima gli sarebbe parsa intollerabile e soffocante, l'equivalente angoscioso della medesima prigione che a ogni momento egli lottava per evitare, a oggi non gli sembrava più tanto terribile. Oltre a essere l'unica possibile, quella vita che il cielo gli riservava non era neppure poi tanto male. Mew, che si aggirava per il sotterraneo come uno spettro gioioso e un po' rumoroso, era immensamente felice, ed Emir si annoiava un poco, ma compensava il mondo che aveva perduto con l'universo che andava studiando.

Con la premura affettuosa e un po' materna che l'aveva sempre caratterizzata, Portia venne a trovarlo un pomeriggio all'uscita dal lavoro, portandogli in regalo vino e dolci e qualche decina di abbracci.

«Hai sentito qualcun altro dei colleghi?» gli chiese con nonchalance quando Emir la fece accomodare nel salotto per gli ospiti, con l'aria di voler fare banale conversazione.

«Non ricevo molto, a dire il vero» rispose Emir con piena indifferenza. Era assolutamente certo che Portia non fosse lì perché aveva qualche sospetto su di lui: se così fosse stato, glielo avrebbe detto. Per sua fortuna, la dottoressa Mann era una donna troppo pratica per girare intorno a qualcosa che volesse davvero sapere.

«Come immaginavo» commentò Portia amareggiata. «Speravo che quantomeno Valérien... domattina gli dico che è uno stronzo. Non si fa così.»

Emir glielo avrebbe impedito anche se la questione della lettera di richiamo a Rotwang non lo avesse turbato tanto; ma poiché, nominalmente, egli non aveva modo di sapere nulla di quel che accadeva all'interno del laboratorio, egli si sforzò di ridere. «Non disturbarlo, Portia, non ne vale la pena. Valérien deve avere anche troppo a cui pensare, ora che è diventato direttore...»

«Proprio perché è diventato direttore speravo che venisse a parlare con te» mormorò Portia.

Il riferimento era troppo provocatorio perché Emir potesse fingere di non averlo colto. Si sforzò di mostrarsi meravigliato quando le porse un vassoio di dolci e le domandò: «C'è qualcosa che non va con Valérien?»

Per un po' Portia non rispose, e tutto quel che fece fu piluccare nervosamente un biscotto mentre rifletteva. Ma poi, quando già Emir si domandava se avesse fatto male a porle quella domanda o se avesse frainteso i segnali che gli arrivavano da lei, ella ebbe l'aria di farsi forza e rispose: «Non tutti gli uomini sono tagliati per le posizioni di potere, Emir. Per qualcuno è solo una questione di stress, e nel tuo caso il problema era quello di far convivere opposte esigenze, ma per Valérien... non lo so.»

«Valérien è un bravo ragazzo» obiettò Emir. «Forse ha poca esperienza, ma...»

«Valérien è esattamente quello che l'ambiente che lo circonda lo stimola a essere» lo interruppe Portia bruscamente. «Per questo speravo che parlasse con te, piuttosto che con Dale.»

«Anche a te ha sempre dato retta» suggerì Emir con cautela.

«Mi ascoltava finché c'eri tu a comandare, ed era a te che dava retta a conti fatti, perché ti voleva bene e ti ammirava» rispose Portia. «Ma ora perché dovrebbe ascoltarmi senza sentirsi minacciato? Sai anche tu che quel posto spettava a me. Perché non dovrebbe credere che voglia farglielo pesare?»

«Vincent, allora» propose automaticamente Emir. Portia sbuffò platealmente per manifestare tutta la propria disapprovazione.

«Vincent è barricato in laboratorio col suo assistente a giocare col becco di Bunsen, Emir. Checché ne dica Rotwang, è lui quello meno colpito da questa situazione, perché tutto quello che deve fare è fare analisi. Che vuoi che gli importi della direzione ideologica della Silph?»

Portia non aveva tutti i torti, ed Emir si vide costretto a darle ragione. D'altro canto, Vincent era uno di quei tecnici un po' svagati e menefreghisti che avrebbero potuto lavorare sotto qualsiasi regime; e fintanto che i macchinari tiravano avanti a funzionare e gli acidi reagivano come dovevano secondo le immutabili norme della scienza, per lui tutto il resto era a posto. Poteva anche disapprovare Valérien, ma solo in casi di eccezionale gravità, e meglio ancora se direttamente interrogato, si sarebbe esposto tanto da schierarsi contro di lui.

«Mi dispiace che le cose siano peggiorate» disse Emir, davvero sinceramente. «Forse andrà meglio quando tutta questa faccenda si sarà calmata.»

«Già, e tu pensi che accadrà tanto presto?» replicò Portia amaramente. «Questa faccenda si sgonfierà solo quando troveranno M2, e Valérien mi ucciderebbe se me lo sentisse dire, ma lo sai anche tu che non la troveranno. Di sicuro adesso è in mano a qualche sceicco arabo o a qualche signore della droga sudamericano che... oh, mi dispiace tanto, Emir!» proruppe all'istante, e solo in quel momento Emir s'accorse d'aver stretto le mani attorno al proprio calice tanto da farsene sbiancare le nocche, e che le guance gli bruciavano. «So quanto volevi bene a M2 – voglio dire, quanto tu voglia bene a... e poi sono venuta qui a lamentarmi del lavoro, e non abbiamo parlato d'altro che di me mentre io volevo solo sapere di te. Vuoi venire a cena da noi una di queste sere?»

Dunque era solo a questo che erano giunte le indagini su Mew fino a quel momento: a reputarla svanito nel nulla. Ma era davvero possibile farla franca così? Sottrarre a una delle multinazionali più ricche e influenti del mondo il Pokémon più raro del creato era stato davvero tanto facile come portar via un fumetto sotto la giacca da un qualsiasi negozio, e due ladri improvvisati come loro potevano davvero sperare di cavarsela così?

Gennaio era quasi finito quando suonarono alla sua porta all'ora di cena.

Era troppo presto perché potesse essere Rotwang: se c'era una regola che avevano assunto come assioma fondamentale della loro alleanza era quella di non modificare per nessun motivo gli orari di visita. Ma allora chi poteva essere?

Era una fortuna che fosse già riemerso dal sotterraneo e avesse già richiuso tutti i meccanismi. Sentendosi il cuore che pulsava in gola e i polsi che tremavano, e con la sensazione, provata una sola volta prima d'allora, d'essere come una bestia in trappola in grado soltanto di graffiare e mordere le sbarre della gabbia, Emir si guardò allo specchio per quasi un intero minuto, come a cercare di capire se dall'esterno si vedessero i battiti accelerati del suo cuore, e solo quando proprio sentì che non si poteva aspettare oltre egli scese le scale e andò ad aprire.

Sulla soglia della sua vasta casa buia, immobile, c'era Valérien.

«Ehi» esclamò Emir, sforzandosi di mascherare in una risata nervosa il sospiro di sollievo che gli dilacerò il petto. «Valérien, che sorpresa! Mi fa così tanto piacere che tu sia passato... Come stai? Posso invitarti a cena? Stavo proprio...»

Cogli occhi vacui e quasi del tutto assenti, arrossati e come lucidi di febbre, Valérien lo scrutò disperatamente e chiese: «Perché hai posticipato la revisione dei sistemi di sicurezza?»

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Capitolo 9
*** Inevitabile. ***


Capitolo VIII – Inevitabile.


«Perché hai posticipato la revisione dei sistemi di sicurezza?»

Sforzandosi di sorridere con le palpebre che pulsavano d'angoscia e le mani che tremavano, Emir diede in una breve risata angosciata e disse: «Accidenti, che domanda secca... ma dobbiamo parlarne qui sulla soglia? Non vuoi tenermi compagnia per un po'?»

«Non volevo chiedertelo così» balbettò Valérien, e d'un tratto fu come se tutto il coraggio che aveva dovuto racimolare e accumulare per arrivare fin lì e porgli quella domanda si fosse esaurito, ed egli si trovasse spaurito ed esausto di fronte a una soglia che non osava varcare. Aveva le guance arrossate come di febbre, o come se avesse vagato a lungo al freddo prima di venir lì, e i suoi occhi erano disperati ed enormemente dilatati. «So che avrei dovuto passare a trovarti prima, ma... Emir, ti prego, non capisco. Perché hai posticipato la revisione e non mi hai detto niente?»

Se Emir non avesse provato per lui tanto affetto, se solo Valérien non gli fosse apparso tanto affranto e confuso, forse Emir sarebbe stato più prudente. Ma Valérien era venuto a presentarsi alla sua porta con lo sguardo scoraggiato e disperato di un bambino, ed Emir si sentì di nuovo come quella notte.

«Vieni dentro, dai» insisté aprendo ancor più la porta per invitarlo a entrare. «Ti vuoi fermare per cena? Così parliamo un po'.»

«Non voglio niente» rispose macchinalmente Valérien. Una volta entrato, anche dopo che Emir ebbe chiuso la porta dietro di lui e lo ebbe invitato ad accomodarsi, egli rimase egualmente immobile nell'ingresso, colle braccia rigide lungo i fianchi e lo sguardo smarrito. Non aveva alcuna intenzione di accomodarsi ed Emir si sentì in difficoltà.

«Ti senti bene?» mormorò. «Posso portarti un bicchiere d'acqua, se...»

«Perché hai posticipato la revisione?» ripeté Valérien.

Era la terza volta nel giro di pochi minuti che Valérien ripeteva la stessa domanda, e temporeggiare ancora per avere il tempo di elaborare una risposta sarebbe stato un errore. E a che, poi? Quella questione non era un segreto, Emir ne aveva parlato anche al commissario e tutto era agli atti. Ora perché avrebbe dovuto tenerlo nascosto proprio a Valérien?

«Era solo una questione di fondi» iniziò gentilmente. «Ne ho parlato anche col commissario ed è tutto a posto. Te ne accorgerai anche tu, è difficile arrivare in fondo all'anno e far bastare i fondi per tutto, e a qualcosa bisogna pur rinunciare.»

«Allora perché non me l'hai detto?» insisté Valérien. I suoi occhi vacui avevano l'aria di non riuscire a soffermarsi troppo a lungo su niente, neppure sui suoi, come quelli di un invasato, e nonostante lo stesse accusando e tutto rischiasse di crollare per causa sua, Emir non poté fare a meno di provare pietà per lui. In tutta quella storia di furti e menzogne Valérien non avrebbe mai dovuto entrarci, e se vi era stato trascinato, malgrado la sua giovinezza e la sua innocenza, era stato solo per colpa sua; e la sua magrezza insalubre, le sue guance che si erano fatte già più scavate dopo appena un mese che non si vedevano, non erano forse colpa sua...?

«Non ti è venuto in mente che non ci abbia pensato?» domandò semplicemente. Valérien gli appariva tanto fragile e devastato che neppure pensò di mettersi in guardia. «Avevo appena perso il lavoro, Valérien, e facevo di tutto per far finta di nulla, ma non hai pensato che fossi sconvolto e che mi vergognassi?»

Dopo un istante di silenzio, col volto imbronciato e incupito come se quella spiegazione proprio non potesse accettarla, Valérien rispose: «Mi stai dicendo che è una pura coincidenza che tu abbia tralasciato di dirmi proprio questo?»

«Ti sto dicendo che ero sconvolto e che mi vergognavo, Valérien... ma allora non vuoi proprio capire?» Valérien non rispose, e di fronte alla sua fragilità Emir si sentì quasi commosso. «So a cosa stai pensando. Devi credermi, mi dispiace così tanto. Forse se non avessi preso quella decisione gli allarmi avrebbero suonato e Mew sarebbe...»

«A che cosa credi che io stia pensando?» chiese Valérien bruscamente, come riscuotendosi d'improvviso, ed Emir si sentì colto alla sprovvista dalla brusca svolta che aveva preso la conversazione e cercò di rimediare.

«Voglio dire che mi dispiace che gli allarmi non abbiano funzionato, solo che... non potevo sapere... ho sbagliato, ma in sei anni non ce n'era mai stato bisogno una sola volta, e pensavo che per un solo mese di differenza...»

«Gli allarmi funzionano benissimo» lo interruppe Valérien in tono quasi stupito, come se non fosse affatto di quello che stavano parlando ed Emir avesse deviato troppo dal discorso. «Li ho fatti revisionare come prima cosa e i tecnici hanno detto che è impossibile che non abbiano funzionato. L'unica possibilità è che sia mancata la corrente, ma l'azienda elettrica ha dimostrato che non c'è stato nessun calo durante la notte. Dunque gli allarmi hanno funzionato perfettamente, e se non hanno suonato dev'essere perché non è entrato nessuno e dunque non ce n'è stato bisogno.»

Dunque era proprio quello che era venuto a dirgli. Il suo sguardo stravolto e allucinato e la sua ostinazione quasi maniacale su quel dettaglio non erano le farneticazioni di un ragazzo sconvolto che cercava qualcuno da accusare per la perdita dell'occasione della sua vita: Valérien non era venuto lì a rinfacciargli la sua mancanza o la sua imprudenza e non lo stava accusando di un unico errore fatale. Era venuto lì ad accusarlo di aver rubato: quell'unico piccolo dettaglio era bastato a scatenare in lui tutta una serie di dubbi e riflessioni perfettamente plausibili, e di fronte a quell'accusa, Emir lo sapeva bene, non gli sarebbe bastato fingere di essere innocente. Egli avrebbe dovuto essere innocente, sentirsi con ogni fibra del proprio essere offeso e mortificato di fronte a quella presa di posizione che veniva a mettere in dubbio il suo onore e il suo nome e tutto ciò che aveva compiuto in sei anni di servizio per l'azienda, e dimenticare persino d'aver rubato davvero; ma Valérien soffriva veramente, e in quel momento Emir si sentiva colpevole d'averlo fatto soffrire così.

La sua voce fu un po' più dolce di quanto avrebbe dovuto essere quando egli si chinò su di lui e mormorò: «Stai pensando che l'abbia portata via io, è così?»

Valérien fremette senza incrociare il suo sguardo. «Tutti quei gran discorsi che facevi sulla sua intelligenza, su...»

«Valérien» riprese Emir a bassa voce, senza alterarsi. «Io ho perso il lavoro, e tu sai che il mio lavoro era tutto quello che avevo. Io ho regalato Porygon al Team Rocket perché non me ne importava niente, e tu sai che non sono cambiato poi così tanto da allora. Perché avrei dovuto fare una cosa tanto stupida?»

«Ma gli allarmi...»

«C'era una finestra aperta, Valérien» insisté Emir per chiudere il discorso. «Gli allarmi possono aver funzionato benissimo, ma non avrebbero comunque mai suonato con una finestra aperta, e questo tu lo sai altrettanto bene quanto lo sappiamo io e la polizia. So che stai cercando una spiegazione a quello che è successo e non ti giudico per aver tratto delle conclusioni, e se tu fossi arrabbiato con me per aver rimandato la revisione lo capirei, dico davvero, ma...»

«Allora perché Rotwang viene qui tutte le sere?»

Col cuore che si rifiutava di pompare altro sangue e le palpebre bloccate in un sorriso nervoso e totalmente innaturale, palesemente falso, Emir udì la propria voce ridere di una risata nervosa e domandò: «Che cosa vuoi dire?»

Non riusciva a pensare, non riusciva a reagire. Allontanandosi di qualche passo da lui per ristabilire le distanze, Emir fronteggiò Valérien colle gambe che gli tremavano e un incontrollabile desiderio di fuggire, e Valérien si sforzò di rispondere al suo sguardo con occhi pieni di lacrime.

«Mi dispiace tanto, Emir» singhiozzò. «Non sapevo che altro fare. Dale mi ha dato il permesso di fare tutto quello che potevo per trovarla, e allora io...»

«Mi hai fatto spiare?» chiese sordamente Emir. Si sentiva così attonito da non riuscire a ragionare razionalmente, e forse non sarebbe riuscito neppure ad articolare nulla di più elaborato. Tutto ciò ch'egli riusciva a pensare, in quel momento, per quanto ipocrita potesse essere da parte sua, era che il suo amico aveva dubitato di lui a tal punto da farlo sorvegliare in casa sua.

«Non potevo accusarti senza prove!» esclamò Valérien. «Emir, ascolta, ascolta, non ti arrabbiare... non voglio mettere in mezzo nessuno, io lo so che lo avete fatto perché le volete bene...»

«Non è come sembra» disse macchinalmente Emir, ma Valérien non lo ascoltò.

«Non voglio fare casino, rivoglio solo Mew. Lo sai anche tu che ho ragione io. Io e te siamo sempre stati amici, perciò perché non ce la risolviamo tra di noi? Rivoglio solo quello che è mio, Emir. Io capisco e non voglio che nessuno finisca in prigione. Quando facevi tutti quei discorsi sulla sua intelligenza...»

«Io non posso ridarti Mew, Valérien» riprese Emir, eppure sentiva che era qualcos'altro che si doveva dire, che c'era un'altra risposta che avrebbe dovuto dare, e che nonostante ciò era ancora sepolta in fondo alla sua mente, in un qualche luogo ch'egli ancora non riusciva a scoprire...

Valérien si morse le labbra. «Non voglio chiamare la polizia, Emir» ripeté. Appariva sconfortato. «Perché non vuoi risolvere le cose tra noi due?»

Non esisteva un'altra via di fuga. Non c'era tempo a sufficienza per valutare le conseguenze di quanto stava per dire, ed Emir, con la mente totalmente vacua e appannata che ancora si rifiutava di obbedire alla sua volontà, non sarebbe comunque riuscito a concentrarsi abbastanza da potervi riflettere.

Fu come aggrapparsi a una corda sull'orlo di un precipizio senza neppure sapere se davvero fosse legata a qualcosa. «Non esiste un unico motivo per cui un uomo debba andare a trovarne un altro di notte.»

Valérien rise. Rise, ma talmente forte e violentemente, di uno scoppio di risa tanto improvviso e brutale che suonò piuttosto come il subitaneo scioglimento di una tensione accumulata troppo a lungo. Paralizzato dall'attesa di una qualsiasi reazione più precisa da lui, Emir rimase immobile a scrutare ogni suo movimento nella speranza di capire se il suo bluff avesse funzionato.

«Ti aspetti che io ci creda?» sghignazzò Valérien, come se quella risata scoperta e veemente fosse troppo irruenta per poterla trattenere. «Dopo quattro anni in cui neppure riuscite a parlarvi senza urlare, adesso dovrei credere che d'improvviso abbiate scoperto chissà quale attrazione fatale? Sei serio?»

Valérien aveva ragione: quella era la scusa più stupida, assurda e mal congegnata che potesse anche solo immaginare; ma non c'era tempo di inventarne un'altra e soprattutto, a questo punto, bisognava aggrapparsi a essa come a un'ancora. Lui e Rotwang erano stati stupidi e imprudenti a non prendere neppure in considerazione l'eventualità che qualcuno li vedesse insieme e a non concordare una storia in comune; ma così era. Si erano lasciati cullare da un falso senso di sicurezza e intoccabilità e dalla convinzione che la sua casa fosse troppo isolata perché a chiunque interessasse avvicinarvisi, e soprattutto si erano crogiolati nell'ottimistica illusione che ben presto il mondo si sarebbe arreso e avrebbe distolto lo sguardo da loro, semplicemente perché pensare il contrario sarebbe stato troppo spaventoso da sopportare. La verità era che avevano commesso il furto del secolo senza neppure rendersene conto, con la stessa facilità con la quale avrebbero potuto sottrarre all'azienda materiale di cancelleria, lasciandosi ingannare dalla sua apparente facilità, e non erano stati lungimiranti abbastanza da prevederne tutte le conseguenze. Come al solito, Rotwang non era lì per aiutarlo ed Emir doveva cavarsela da solo.

Sforzandosi di mantenere un'espressione neutrale e serena, Emir si stupì di quanta fatica gli costasse articolare ogni singola parola.

«Perché no? Non sono più il direttore e non abbiamo più motivo di litigare. Le divergenze si appianano.» Le bugie gli salivano alle labbra una dopo l'altra, la storia si formava nella sua mente quasi spontaneamente, come un evento già avvenuto ch'egli non dovesse fare altro che far riemergere dalle nebbie della sua memoria. «Avevamo cominciato a parlarci già egli ultimi mesi, per Mew, e poi...»

«Emir» lo interruppe Valérien spazientito. I suoi occhi erano ora perfettamente asciutti, e tutta la sua disperazione s'era fatta esasperazione. «Non offendere la mia intelligenza. Tu non sei neppure omosessuale.»

Quello era un campo dell'esperienza umana del quale mai, per nessun motivo al mondo, Emir avrebbe mai voluto far parola con nessuno; ma in quel momento bisognava parlare, ed egli parlò. «Lo dici come se fosse una cosa orribile.»

«Non è questione di... Dio, Emir, tu non lo sei!» urlò Valérien. Era fuori di sé dalla rabbia, e mai in nessuna occasione Emir l'aveva sentito urlare così. Di un tale accesso di rabbia egli mai l'avrebbe reputato capace. «Siamo amici da anni, abbiamo lavorato insieme, abbiamo dormito assieme in albergo quando siamo andati a quel convegno su... eppure mai neppure una volta ti ho sentito parlare di uomini!»

Questa volta Emir non ebbe bisogno di simulare nulla. Questa volta il suo stupore fu sincero, tanto spontaneo e coinvolgente ch'egli neppure si accorse di aver aggrottato la fronte.

«Mi hai mai sentito parlare di donne?» chiese stupefatto.

La sua non era una domanda retorica: Emir voleva davvero saperlo, forse perché la sola ipotesi d'aver potuto mai parlare con un collega di qualcosa di tanto poco professionale, di tanto distante da quel mondo ch'era il solo ch'egli conoscesse, quello della genetica, gli risultava talmente estraneo da sé che si domandò con chi Valérien pensasse d'aver parlato per tutti quegli anni. Emir s'era fatto dell'ipocrisia come un abito che lo fasciava interamente; allora perché d'un tratto si stupiva di quanto diverso fosse il ritratto che gli faceva Valérien? Era poi sorprendente che fosse tanto diverso da lui?

Sull'orlo della trappola che le sue domande gli tessevano di fronte, e sulla quale sarebbe inciampato se vi si fosse accostato solo un po' più affrettatamente, Valérien ammutolì.

«No, non ti ho mai sentito parlare di donne, se è questa la tua difesa» rispose molto lentamente. «Ma non riuscirai a farmi credere d'esser pazzo, Emir. Pensi che se tra te e Rotwang ci fosse davvero stato qualcosa negli ultimi quattro anni, in tutto il laboratorio non ci sarebbe stato neanche uno che se ne sarebbe accorto?»

«Ti ho già detto che è cominciato tutto dopo che ho perso il lavoro» ribadì Emir con convinzione. «Ti sembra tanto strano che due persone possano cambiare idea nella loro vita?»

«E Portia, allora?»

Emir sbatté le palpebre un paio di volte. «Che c'entra Portia adesso?»

«È la sua migliore amica, Rotwang le dice sempre tutto quello che gli succede. Non pensi che avrebbe dovuto raccontarle una cosa del genere?»

C'era qualcosa di tutto quel discorso che lo urtò non tanto per la sua incongruenza quanto per un piccolo dettaglio quasi insignificante che per poco non gli sfuggì: Emir impiegò qualche istante a realizzarlo.

«Tu come sai che non gliene ha parlato?»

Le guance di Valérien si tinsero di porpora. «Che importanza ha? Stai cercando di cambiare argomento oppure...»

«Stai spiando i nostri colleghi? Stai spiando Rotwang?»

Valérien retrocedette di un passo di fronte alla sua rabbia, e solo in quel momento Emir s'accorse di aver urlato e di averlo incalzato, ma non gli importava. Voleva soltanto costringerlo a confessare e sentirgli dire, una buona volta!, che tutto quello che aveva fatto era sbagliato...

«Non sto spiando nessuno, va bene? Mi è capitato solo di... ascoltare un paio di volte. Dovevo capire se la cosa riguardava solamente te e lui oppure tutti quanti. Anche tu avresti fatto lo stesso al mio posto, quando eri direttore.»

«No, Valérien» disse Emir, e la sua voce risuonò stranamente gelida e tagliente persino alle sue stesse orecchie. «Non avrei mai fatto una cosa del genere, ma a quanto pare a te fa molto comodo crederlo; eppure mi conosci bene e sai quali erano i miei metodi. Forse hai parlato un po' troppo con Dale negli ultimi tempi. Ti ricordi ancora da dove sei entrato?»

La porta era proprio dietro di loro e il suo invito era alquanto chiaro, ma Valérien non si decideva a muoversi.

«Nessun altro avrebbe fatto quello che ho fatto io, Emir» disse. La sua voce aveva qualcosa di supplichevole. «Avrei potuto andare dalla polizia, avrei potuto... invece ho aspettato tutti questi giorni per esser proprio certo che le cose stessero come pensavo, e poi sono venuto qui di nascosto perché non volevo rovinarti. Nessuno sa che sono qui. Ho delle foto di Rotwang che entra ed esce dal portone in giorni diversi, ma non ne ho fatto parola con nessuno, neppure col signor Dale: lo sappiamo solo io e l'investigatore privato. Avrei potuto distruggerti, invece sono venuto qui a offrirti la possibilità di darmi Mew e chiudere tutto stanotte facendo finta che non sia mai successo niente. Ora perché vuoi rovinare tutto?»

«La porta è sempre dietro di te» ripeté Emir, e per rendere il concetto più eloquente la spalancò per lui e rimase ad aspettare.

La sua difesa era troppo ferrea e scoraggiante per opporle resistenza, e Valérien non era così coraggioso da restar lì a ostinarsi contro un ostacolo tanto inamovibile; mosse qualche passo verso l'esterno ma subito, non appena varcata la soglia, si fermò.

«Siamo sempre stati amici, Emir. Perché non vuoi risolvere le cose tra di noi?»

«Buonanotte, Valérien» rispose Emir sbattendo la porta.


Si svegliò vomitando acido, aggrappato al gabinetto con la camicia sbottonata, mentre Rotwang

borbottava qualcosa in tedesco lavandosi rabbiosamente le mani. Ma quando era entrato?

Si sentiva assonnato e stanco, confuso e frastornato come dopo l'unica volta che si era ubriacato, al primo anno di università – l'unica volta in assoluto che avesse mai assaggiato alcolici, in realtà – e si era risvegliato il giorno dopo in un letto nel quale non gli era dispiaciuto troppo ritrovarsi, ma non ricordava assolutamente come ci fosse finito. Ma quella sera non aveva bevuto e Rotwang era lì, allora cosa...?

La sensazione acre di vomito in gola minacciava di nausearlo. Comprimendosi il capo con le mani e sforzandosi in ogni modo di tenere aperti gli occhi che gli lacrimavano, il suo primo impulso fu quello di sollevarsi in ginocchio e allungare la mano verso il muro, a tentoni, per cercare di tirare l'acqua.

«Ah, adesso ti decidi a collaborare, stronzo? Mi stai prendendo in giro?»

«Rotwang» borbottò Emir in risposta gettandogli un'occhiata. Cercò di appoggiarsi con le spalle contro il gabinetto per vederlo meglio, sebbene una parte piuttosto inconsapevole di lui non fosse certa che fosse una buona idea, e si sforzò di tenere gli occhi aperti nella sua direzione. «Che cosa...»

Rotwang incombeva su di lui con tutta la propria altezza, ed era semplicemente furioso. Era in maniche di camicia, come se avesse lavorato a lungo; si era lavato le mani e le braccia fino ai gomiti, alla maniera dei chirurghi, e ora si stava strofinando con un asciugamano con aria profondamente disgustata.

«Che cosa è successo? Vediamo un po', Fuji» sibilò ironicamente. «Vediamo un po' se ragioni ancora correttamente dopo la cazzata che hai combinato. Se sono qui io, che ora deve essere?»

La sua mente elaborava dati a rilento, certo, ma quantomeno riusciva ancora a elaborarli. Dopo uno sforzo insolitamente intenso per rispondere a una domanda tanto semplice, Emir si sentì d'improvviso catapultato indietro nello spazio da uno strano mondo appiccicoso e rallentato, opaco, di nuovo nella sua casa, ed ebbe di nuovo improvvisa coscienza del tempo e di se stesso. Era abbracciato alla tazza del gabinetto come un adolescente ubriaco, a petto nudo, e l'unica persona che gli restasse al mondo aveva tutte le ragioni, e probabilmente anche le intenzioni, di ucciderlo.

«Sono già le undici?» esclamò, fattosi improvvisamente più sveglio e più lucido, e di fronte al suo stupore Rotwang ebbe un ghigno sarcastico.

«Sbagliato, Fuji. Quando sono arrivato io erano le undici, ma adesso dev'essere quasi mezzanotte. Hai idea di quanto mi ci sia voluto a trascinarti in bagno e a farti vomitare? E soprattutto hai idea di quanto sia stato disgustoso infilarti due dita in gola?»

Le idee e le informazioni cominciavano a farsi sempre più confuse nella sua mente. Il gabinetto non gli bastava più per sostenersi, ed Emir si appoggiò con la schiena contro il muro per poterlo guardare meglio. «Mi hai fatto vomitare tu?»

Rotwang ribolliva di rabbia. In quel momento le sue mani nervose, incapaci di stare ferme, stringevano spasmodicamente i lembi dell'asciugamano umido fin quasi a volerlo stritolare, e non era difficile intuire che cosa avrebbe preferito avere tra le mani in quel momento al suo posto.

«Già, pensavi d'esserti materializzato qui per miracolo, vero? Secondo te cos'avrei dovuto fare quando ti ho trovato sul divano con questo accanto?»

I suoi riflessi non erano svelti a sufficienza, in quel momento, da riuscire ad afferrare al volo l'oggetto che Rotwang prese dalla tasca e gli gettò – sempre ammesso che Rotwang avesse voluto passarglielo al volo piuttosto che scaraventarglielo addosso. Lo recuperò tra qualche parte tra le cosce, dov'era caduto, e palpandosi i pantaloni per cercarlo si rese conto solo in quel momento che erano bagnati. Rotwang doveva avergli gettato dell'acqua addosso per cercare di farlo rinvenire.

La boccetta di bromazepam che aveva in mano era vuota. Provò l'impulso di giustificarsi. «Non era piena quando...»

«Stai zitto!» sbottò Rotwang scaraventando l'asciugamano nella vasca da bagno, ed Emir ammutolì all'istante. Non era sicuro di averlo mai visto arrabbiato così o di poterlo fronteggiare nelle condizioni in cui si trovava. «Ho fatto di tutto per aiutarti e ti ho portato dei farmaci che legalmente non avrei neppure potuto prescriverti, e l'ho fatto a rischio della mia carriera perché forse la cosa ti giunge nuova, ma io sono un medico per Pokémon e non potrei neppure darti dei consigli senza rischiare la radiazione dall'albo! Sto facendo una marea di cose illegali per salvare il tuo culo secco, Fuji, e per ringraziarmi tu ti scoli una boccetta di bromazepam e mi fai venire un infarto?»

«Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace» balbettò Emir, perché per una volta Rotwang aveva perfettamente ragione e anche solo provare a difendersi sembrava inutile. «Hai ragione su tutto, è solo che quando è andato via Valérien...»

La sfuriata finì com'era iniziata. Prima ancora di poter articolare una frase razionale Emir si sentì d'un tratto strattonare in avanti per il collo della camicia: Rotwang lo aveva afferrato d'improvviso e lo stava scuotendo. «Che cos'hai detto?»

«Ho detto che Valérien...»

«Emir! Emir, resta con me, non ti addormentare. Se ti addormenti ti annego nel cesso, mi hai sentito? Lestournelle è stato qui?»

Tutti gli eventi della serata gli tornarono in mente di prepotenza, Emir d'un tratto riebbe come davanti agli occhi tutte le cose che avrebbe dovuto dirgli ma che il bromazepam gli aveva fatto scordare...

«Si è insospettito per la questione dei sistemi di sicurezza» articolò lentamente. Mettere insieme un pensiero dopo l'altro era insolitamente faticoso, ma diventava via via più semplice a misura che proseguiva. «È venuto qui a parlarmene, ma non è solo questo. Rivuole Mew ed è disposto a non andare alla polizia se gliela diamo. Ha fatto sorvegliare la casa. Ha detto di avere delle foto di te che entri ed esci...»

Rotwang si alzò da lui lentamente come prima gli si era gettato addosso, senza una parola. Sembrava oppresso, schiacciato da quell'informazione, come se non avesse più alcun motivo per indagare ancora: tornò al lavandino, si lavò nuovamente le mani e poi recuperò dal mobile su cui l'aveva appoggiato il suo panciotto. Lo abbottonò lentamente, senza neppure srotolarsi le maniche della camicia, con gesti calmi e metodici, tutto immerso nei suoi pensieri, ed Emir non gli distolse gli occhi di dosso neppure per un istante. L'aveva sempre affascinato il fatto che Rotwang fosse l'unica persona di sua conoscenza a indossare il panciotto per venire al lavoro – salvo Dale, naturalmente, ma Dale non contava – e in quel momento egli era troppo confuso e assonnato e fatto di benzodiazepine per impedire a se stesso di ammetterlo.

«Ti ha chiesto se siamo stati noi a rubarla?»

«Sì.»

«Gli hai detto qualcosa?»

«Gli ho detto che andiamo a letto insieme.»

Rotwang levò lo sguardo dalle proprie mani e lo fissò. Non sembrava per niente stupefatto, ma piuttosto incuriosito, come se per la prima volta lo stesse considerando sotto una luce nuova. Finì lentamente di abbottonarsi il panciotto.

«Riesci ad alzarti? Un po' d'aria ti farebbe bene. Fuori non fa troppo freddo. Aspetta, appoggiati a me per un momento...»

Emir avrebbe tanto volentieri dormito, dormito, anche là per terra dove si trovava, ma capì che non era il caso di obiettare. Rotwang lo costrinse a lavarsi e a rinfrescarsi, lo portò in cucina e lo obbligò a bere due bicchieri d'acqua l'uno dopo l'altro e ad assumere due compresse di carbone; non sarebbero state molto efficaci, ma in quel momento non c'era niente di meglio da somministrargli e bisognava accontentarsi. Emir scrutava la sua insolita calma con circospezione.

«Forse dovremmo parlarne.»

«Dopo, Fuji, dopo. Lasciami pensare. Andiamo fuori ora. Tieni questo, però» lo ammonì mentre attraversavano il soggiorno principale al pianterreno, là dove Emir ricordava a malapena di essersi addormentato nella febbrile attesa di Rotwang, mentre afferrava un grosso involto nero dalla spalliera del divano e glielo passava. Era il suo cappotto nero di foggia classica, europea: doveva esserselo tolto assieme alla giacca quando l'aveva trovato collassato sul divano, dopo essere entrato, per avere le braccia libere. «Hai i muscoli contratti per aver vomitato forzatamente. Meglio che tu non esca in camicia.»

Emir non era nella posizione giusta per obiettare e soprattutto non aveva idea di dove avesse abbandonato il proprio cappotto, dopo l'ultima volta che era uscito di casa, chissà quanto tempo prima. Lo indossò obbedientemente, troppo confuso e stanco per sorprendersi di sentirsi a suo agio nel gradevole odore di dopobarba e colonia che emanava, e lo seguì sul terrazzo coperto del primo piano.

Quella terrazza era uno dei luoghi più belli della casa, anche se non ci andava quasi mai: affacciava sull'acqua nera, illuminata appena dai barbagli dorati delle luci del molo, e all'orizzonte, nelle sere molto serene e nitide, s'intravvedeva appena profilarsi la costa di Biancavilla.

Rotwang si appoggiò alla balaustra. Aveva indossato soltanto la giacca sopra il panciotto, ma la notte non era davvero molto fredda.

«Penso che tu abbia fatto la cosa giusta.»

Era evidente che Rotwang aveva proseguito dentro di sé la conversazione iniziata in bagno e che ora stava parlando riallacciandosi a essa; ma Emir era troppo frastornato per capire al volo. «Quale cosa giusta?»

«Hai fatto bene a dire a Lestournelle che andiamo a letto insieme. Era l'unica scusa sensata che potevi trovare, ed è anche l'unica che nessuno può smentire, dato che nessuno può legalmente chiederci delle prove. Era la cosa giusta da fare.»

Era alquanto insolito che Rotwang gli desse ragione così, al primo tentativo e senza neppure discutere, ed Emir se ne sentì alquanto stupito. Stare in piedi lo stancava troppo, perciò si lasciò scivolare piano lungo il muro fino a sedersi sul pavimento freddo del terrazzo.

«Valérien non ci ha creduto, però» obiettò. «Ha capito che era una scusa.»

«Non importa che lo abbia capito, finché non è in grado di dimostrarlo; e si può dimostrare che due persone vanno a letto insieme, ma non che non lo fanno. Ora dovremo solo fingere di avere una relazione finché non troveremo una scusa migliore.»

«Sei arrabbiato con me?» chiese Emir improvvisamente.

Non sapeva neanche da dove gli fosse venuta quella domanda, ma quando l'aveva posta gli era sembrata molto importante, anche se ora se n'era già scordato il motivo e si limitava ad aspettare la risposta soltanto per sapere quale sarebbe stata. Si sentiva sonnolento e appesantito, come se avesse dormito troppo senza volerlo, coi sensi sgradevolmente ovattati, anche se il calore del cappotto di Rotwang lo faceva sentire piacevolmente intorpidito dal sonno, quasi in procinto di addormentarsi. L'idea di chiudere gli occhi lo tentava molto.

Gli occhi di Rotwang brillarono quando egli si voltò verso di lui e si mise a ridere. «Sai una cosa, Fuji? Dovresti drogarti più spesso. Sei più simpatico quando sei fatto... dici meno cazzate. Sembri più intelligente.»

«E tu sei troppo calmo» borbottò Emir in risposta, stropicciandosi gli occhi come i bambini per restare sveglio. «Come mai sei così calmo?»

Rotwang diede le spalle alla marea e si voltò verso di lui. «Perché sta andando tutto a puttane e non vale la pena di fare sceneggiate... come quando crolla un aereo. Non possiamo farci nulla. E poi, per una volta, non posso neppure dare la colpa a te: il piano l'abbiamo elaborato insieme ed è me che Lestournelle ha fatto fotografare. Tu hai fatto quello che potevi, perciò, tecnicamente, dovrei ringraziarti. E non ti addormentare» lo ammonì severamente, prima di riprendere: «Non sono calmo, Fuji... sono rassegnato. È questa la parola giusta. Non possiamo fare niente se non aspettare e sperare che Lestournelle ci creda o si convinca che non può dimostrare che noi non scopiamo. Dopotutto, non ha in mano niente che non sia la ferrea convinzione che tu non verresti mai a letto con me, il che è un po' poco in tribunale. O sbaglio?»

«Possiamo sempre consegnarla» mormorò pigramente Emir.

Nel mortale silenzio della villa deserta e del mare calmo, Rotwang domandò a bassa voce: «È questo che vuoi? Andare a prostrarci di fronte a Lestournelle e supplicarlo di perdonarci e di dimenticare tutto, e magari dire che ci siamo sbagliati, che non dovevamo...?»

Quella sarebbe stata l'opzione più semplice e più conveniente per tutti, per loro, per Valérien, per la Silph: si sarebbe dovuti andare a domandar scusa a Valérien e a spiegarsi, giustificarsi, umiliarsi, certo, proprio come sosteneva Rotwang; ma umiliarsi di fronte a lui non sarebbe stato come farlo di fronte al mondo intero, come venir arrestati e ammanettati di fronte alla città e alla stampa e venir processati: in cambio di quella sola, piccola resa sarebbero stati liberi di nuovo, per sempre.

Ma una resa anche piccola era una resa, Emir se ne rendeva conto persino nelle sue condizioni: Mew sarebbe tornata al laboratorio, per sempre, e a quel punto non ci sarebbe stata più alcuna possibilità di mutare il corso degli eventi.

Spaventato dal senso d'irreparabilità che quella scelta portava con sé, Emir scosse il capo a fatica. «Stavo solo pensando. Lascia stare.»

Cogli occhi enormemente rinfrancati alle sue parole, Rotwang annuì con vigore. «E se poi ci arrestassero... voglio dire, poniamo il caso che succeda. Tuo padre potrebbe aiutarci ad attrarre l'attenzione sul nostro caso, e mio fratello è avvocato. Potrebbero aiutarci.»

Per chissà quale riflesso istintivo e totalmente irragionevole, di tutta quella situazione in cui si trovavano entrambi a dover lottare e decidere per la propria libertà e quella di Mew, la cosa più importante da dire gli parve: «Tu hai un fratello?»

Quella domanda gli giunse tanto inaspettata che Rotwang impiegò qualche momento a comprenderne il senso. «A dire il vero ne ho tre, ma ti pare questo il momento di discuterne?»

Anche quella volta Rotwang aveva inevitabilmente ragione, ed Emir si sforzò di tornare a concentrarsi sul problema malgrado l'effetto straniante dei medicinali. «Dicevamo.... mio padre, certo. Ci aiuterebbe se ce ne fosse bisogno, e forse anche lui potrebbe trovare degli avvocati per difenderci. Di certo tutta la sua associazione sarebbe con noi.»

«Hm.» Rotwang assentì gravemente senza per questo smettere di scrutarlo con un certo sospetto. «Tu sei troppo fatto di benzodiazepine per capire davvero e noi stiamo iperrazionalizzando la situazione per autoconvincerci di aver fatto la cosa giusta. Mi sbaglio?»

Ma certo che era così, era ovvio che fosse così. Erano due scienziati troppo idealisti e troppo avventati che si erano lanciati in qualcosa di troppo più grande di loro, dal quale non sarebbero potuti uscire se non quando Mew non ci fosse stata più; ma fino ad allora, o fino a che non avessero trovato un'altra soluzione, quella era l'unica alternativa e l'unica vita che avrebbero mai avuto.

«Se avessi bevuto meno bromazepam, pensi che adesso io e te troveremmo un'altra soluzione?»

Dopo un attimo di silenzio Rotwang rispose: «Non la troveremmo perché non ne abbiamo un'altra. Le cose stanno così, Fuji... se vogliamo salvarla, questa è l'unica scelta che abbiamo.»

La marea stava cominciando ad alzarsi, Emir la percepiva dal diverso fragore delle onde che si frangevano sugli scogli, al di sotto della terrazza su cui si trovavano, per aver tante volte udito quel suono ed esser rimasto a osservare i flutti levarsi impercettibilmente. Socchiudendo gli occhi, col capo reclinato contro la balaustra, si sforzò di concentrarsi su quel suono e di colmarsene la mente.

«Fuji. Sei ancora con me?»

«Sì, sì, sono...» Reprimendo uno sbadiglio, Emir faticò qualche istante per articolare una risposta. «Stavo solo pensando che Valérien ti renderà la vita impossibile, adesso. Per spingerti a tradirti.»

«Oh, non vedo l'ora, se è per questo. So che è sempre stato il tuo piccolo scolaretto innocente, ma a me Lestournelle ha sempre dato l'impressione di essere un piccolo traditore ingrato e codardo, e adesso al lavoro è ancora peggio. Vedrò di fargli capire che ha avuto la sua occasione con te e che non è certo colpa mia se non ha saputo sfruttarla.»

«Non metterci nei guai» borbottò pigramente Emir, ma Rotwang gli gettò in risposta un'occhiata scettica.

«Ma noi due siamo nei guai. E poi il nostro motto è sempre stato quello di essere realistici. Se io e te avessimo realisticamente una relazione, adesso mi darebbe realisticamente un dannato fastidio il fatto che Lestournelle sia piombato qui a piagnucolare e ad accusarci di aver rubato il Pokémon più raro del mondo. Ma siccome, come tu ben sai, io sono un po' stronzo, si dà il caso che mi dia un dannato fastidio lo stesso. E tu questo non lo chiami essere realistici?»

Se la situazione non fosse stata tanto disperata, se ora tutto non fosse dipeso soltanto da come avrebbero collaborato, Emir avrebbe alzato gli occhi al cielo; ma poiché era così che stavano le cose, si limitò a massaggiarsi diplomaticamente gli occhi per un po' per combattere la sonnolenza. «Giusto. Vedi solo di non esagerare.»

Rotwang doveva aver osservato i suoi ultimi movimenti per un po' senza ch'egli se ne accorgesse, perché disse: «Forse è meglio che tu te ne vada a dormire, ora. La molecola del bromazepam ha un'emivita breve, perciò non credo ci sia più alcun rischio, e comunque hai vomitato un bel po'. E poi, se muori, pazienza.»

Emir rise un po' tra sé. «Non vieni giù a salutarla?»

«Dio, Fuji... oggi è meglio di no. Non mi va che mi veda in queste condizioni, o potrebbe sentirsi agitata anche lei.»

Anche sul fatto che Mew non si fosse mai mostrata turbata neppure la mattina della morte di M1 Emir decise di sorvolare diplomaticamente: non si sentiva abbastanza lucido né abbastanza in forze per sostenere una conversazione anche su quell'argomento. Tutto ciò che voleva, francamente, era infilarsi a letto e dormire per giorni. «Come vuoi, glielo spiegherò io... domani. Ti accompagno alla porta?»

S'era fatto tardi, Emir lo percepiva dalla diversa qualità dell'aria e dal continuo risucchio della risacca: entro poche ore, Rotwang avrebbe dovuto andare in ufficio e affrontare Valérien, più o meno direttamente, e quando si accorse dell'ora che avevano fatto egli si alzò borbottando qualcosa su maledetto architetto che aveva progettato quell'orrenda casa incomprensibile, dato che era troppo orgoglioso per accettare semplicemente la sua offerta.

Emir si limitò ad accompagnarlo all'ingresso senza ulteriori commenti; ma poi, quando avvolgendosi nel cappotto Rotwang si limitò ad accennargli un saluto rassegnato, un'inspiegabile urgenza lo spinse d'un tratto a richiamarlo. «Aspetta. Un'ultima cosa...»

Appena varcata la soglia, Rotwang appariva già entrato a far parte del mondo esterno, come inglobato dalla nebbia che lo avvolgeva e lo inghiottiva; ma quando Emir lo chiamò, egli tornò a voltarsi verso di lui. «Dio, Fuji, abbi pietà di me. Che altro è successo negli ultimi quattro minuti?»

«Non è nulla. Solo...» Forse a parlare per lui erano le benzodiazepine, o forse quel greve senso d'ineluttabilità che ormai sembrava avvolgere tutte le cose da quando Valérien era entrato in quella casa; eppure Emir si sentiva stranamente calmo quando parlò. «Non tradiamoci, Rotwang. È l'unica speranza che ci rimane.»

Neppure quando lo sguardo sorpreso di Rotwang esitò su di lui, soppesandolo lungamente, Emir si sentì minimamente a disagio.

«Lo so» rispose a bassa voce, ma subito distolse lo sguardo, come se quell'argomento lo mettesse a disagio per la sua intimità. «Buonanotte, Fuji.»


Furono giorni d'una strana calma inquieta e incostante, come un incubo fatto solo di senso d'attesa.

Valérien era impazzito, era furioso, o almeno questo era quanto riferiva Rotwang ogni sera quando arrivava: non parlava con nessuno, evitava chiunque, dava alla segretaria indicazioni ambigue e contraddittorie che poi commutava anche più volte nel giro di un solo giorno. Tutto quello che faceva abitualmente, a quanto pareva, era aggirarsi come uno spettro per i corridoi e parlare per ore con Dale al telefono; il che, naturalmente, era un problema per tutti, perché il laboratorio era passato bruscamente dall'avere due biologi ad averne uno solo che neppure collaborava col resto dell'équipe. Naturalmente Dale non era certo il tipo di persona da badare a dettagli tecnici come questo, e nessun altro, tantomeno Rotwang, era nella posizione giusta per protestare. Riuscire a tenere aperto il laboratorio, a quanto pareva, era già un miracolo.

Che poi Valérien ce l'avesse specificamente con Rotwang non era un mistero per nessuno, non perché l'avesse affrontato o attaccato direttamente – non ne avrebbe mai avuto il coraggio – ma piuttosto perché l'osservava con rancore e l'evitava come se ne provasse orrore. Da una tale vigliaccheria persino Rotwang era rimasto confuso. «Se tutto quello che fa è scappare con la coda tra le gambe ogni volta che mi vede, non posso essere io il primo ad attaccarlo» osservava saggiamente.

Allo scopo di sostenere la credibilità della loro storia, e anche di giocare d'anticipo rispetto a qualsiasi mossa potesse fare Valérien, Rotwang aveva raccontato a Portia di quella curiosa relazione che s'erano inventati, con il pretesto di confidarsi e di spiegarle per quale motivo Valérien ce l'avesse tanto e tanto palesemente con lui. Era parsa a entrambi la scelta migliore quella di muovere quel primo passo con tanta discrezione, dato che Valérien avrebbe potuto mostrare le foto a chiunque in qualsiasi momento, e in tal caso giustificarsi a posteriori sarebbe stato molto più difficile.

«È stata la cosa più umiliante dell'universo, e spero che mi ringrazierai per questo» gli rinfacciò entrando in casa a passo di marcia, gettando i guanti sul divanetto dell'ingresso come se ormai si trovasse tanto a suo agio quanto in casa propria. «Ti consolerà sapere che Portia sostiene di esserselo sempre aspettata, anche se non sa spiegare perché. Non è rimasta affatto sorpresa.»

«Vuoi dire che ci ha creduto?»

«Ci ha creduto così tanto che vorrebbe invitarci entrambi a cena» rispose Rotwang eloquentemente, gettandosi con aria spossata sul divano a massaggiarsi gli occhi. «Credo che non mi abbia ascoltato quando le ho detto che è una relazione fisica. Ho provato a rispiegarglielo ancora, ma è rimasta della sua idea, perciò o non mi ha voluto ascoltare o non mi ha voluto credere.»

In quella menzogna Rotwang navigava come su un mare nel quale si sentisse perfettamente a proprio agio e di cui conoscesse e sapesse prevedere ogni singola minaccia. Emir si ritrovò a soppesare pensierosamente la piena spontaneità con la quale Rotwang aveva finito per prendere possesso tanto del suo divano quanto della loro menzogna, mentre rifletteva su quel nuovo risvolto. «Pensi che dovremmo andare?»

«Uhm?» Rotwang gli gettò uno sguardo perplesso al di sotto dei lunghi capelli spettinati. «Andare dove?»

«A cena, da Portia.»

«Dio, no!» Rotwang si raddrizzò di scatto. «Non è questo che si fa in una storia di sesso, Fuji, e dobbiamo essere realistici. E poi tu non conosci le sue figlie, ma io sì. Credimi, tu non vuoi andare a cena in quella casa, per nessun motivo.»

Rotwang non condivideva lo stesso angoscioso senso d'attesa che provava lui in quel periodo, o quantomeno, se lo condivideva, sapeva mascherarlo molto bene. Forse Rotwang era fondamentalmente convinto che, in fondo, malgrado tutte le sue parole e le sue minacce, Valérien non sarebbe mai stato coraggioso a sufficienza da andare a denunciare il suo ex migliore amico e il collega che più gli incuteva timore; o forse era vero ch'era lui, Emir, di loro due, quello coi nervi delicati; ma gli sarebbe piaciuto condividere lo stesso sereno fatalismo di Rotwang al pensiero di quello che stava per accadere e che tuttavia non gli era dato conoscere. Ma Valérien aveva promesso che non li avrebbe denunciati se gli avessero consegnato Mew; loro non gliel'avevano data, e questo faceva sì che, coraggioso o meno, la possibilità che si vendicasse in qualche modo si facesse via via più concreta e incombente. Ma come?

Quando il campanello suonò un pomeriggio, e attraverso il citofono la voce aspra del commissario di polizia gli intimò di aprire la porta per procedere a una perquisizione, il suo cuore ebbe un doloroso sobbalzo di sollievo. In un modo o nell'altro, quella svolta che attendeva da giorni era arrivata, ed egli poteva finalmente trovar pace. Era esattamente come all'università, quando l'ansia per gli esami a un certo punto diveniva tale e tanta che a un tratto non gli importava più l'esito – voleva solo sostenere l'esame e non dover tollerare quell'angoscia un minuto di più. Si sentiva esattamente allo stesso modo adesso: che trovassero pure tutta la casa se lo volevano, e che trovassero anche Mew e lo smascherassero, se proprio non gli fosse riuscito di nasconderla, ma che tutto finisse una buona volta! Sia che fosse finito in tribunale, sia che gli agenti si rassegnassero all'evidenza che non pareva esservi traccia di Mew in quella casa, in ogni caso da quel giorno egli avrebbe finito di attendere e avrebbe trovato pace. E poi, che cos'aveva davvero da temere? Mew era nascosta dove nessuno, mai, avrebbe potuto trovarla. Erano venuti nel tempio del suo genio, e là era solo il suo genio ad avere corso.

Fu con questa precisa disposizione di spirito ch'egli spalancò la porta e chiese con la massima serenità del mondo, e quasi un senso di gratitudine: «Buonasera. Posso fare qualcosa per voi?»

Il commissario che aveva di fronte era lo stesso che aveva incontrato quel giorno al laboratorio e che lo aveva interrogato. Anche in quel momento aveva l'aria contrariata e scontrosa del primo giorno, ed era alquanto evidente che non era affatto contento di essere lì.

«Perquisizione, dottor Fuji» ripeté svogliatamente, accennando alla squadra di agenti che attendeva dietro di lui. «Per favore, mi dica che la sua villa non è così grande come sembra dall'esterno e che non ci metteremo tutta la sera.»

«Mi piacerebbe poterla confortare, commissario» disse Emir sorridendo. Anche quella bugia gli veniva spontanea e istintiva come il giorno dell'interrogatorio. Si affacciò sulla soglia per dare un'occhiata alla folla di volti che affollava il suo vialetto, e l'unico volto che gli interessava vedere gli balzò subito agli occhi. «Posso chiederle se è regolare che partecipi anche il dottor Lestournelle?»

Valérien era nascosto in fondo alla squadra di agenti in divisa, col capo infossato nella sciarpa e l'aria di voler fuggire al suo sguardo a qualsiasi costo; ma quando si udì chiamato in causa non poté più fingere di non essere lì. Totalmente irrigidito nel cappotto, egli gettò uno sguardo disperato in direzione del commissario come a supplicare tacitamente da lui un aiuto, e quegli si affrettò a riferire: «Dato che si tratta di un furto, il dottor Lestournelle è qui per aiutarci a identificare il Pokémon rapito, nel caso si trovasse in casa sua. È solo una prassi, non deve preoccuparsi.»

«Non mi preoccupo affatto» rispose Emir sorridendo mentre si faceva da parte per invitarli a entrare con un cenno. «È il Pokémon più raro del mondo di cui esiste un solo esemplare ancora in vita, perciò è assolutamente naturale che vi occorra qualcuno per identificarlo. Come stai, Valérien?» domandò con ostentazione quando il suo antico collega gli passò davanti agli occhi entrando; ma Valérien guardò ostinatamente avanti a sé e non rivolse gli occhi verso di lui. Era l'ultimo della fila, perciò Emir richiuse con forza la porta alle sue spalle senza fare commenti.

«Se ci risparmia il suo umorismo spicciolo faremo più in fretta, dottore» lo ammonì il commissario senza troppa voglia, mentre la sua squadra iniziava a sparpagliarsi per tutto il piano terra. Quello fu l'unico momento in cui Emir provò un senso di fastidio al pensiero che quegli estranei mettessero le mani tra le sue cose, ma durò solo un attimo: quella era la vita che si era scelto, i sacrificio che era stato chiamato a compiere per Mew, e ora doveva guardare e sopportare in silenzio. E poi, che gli importava in fin dei conti? Erano solo cose, e quegli agenti si sarebbero spaccati la schiena e avrebbero guardato e frugato e non avrebbero trovato quello che cercavano. Era una partita che avrebbe vinto lui.

«Non le dispiace se telefono al mio compagno per avvertirlo prima di salire ad aprirvi le stanze del terzo piano, non è vero?» chiese Emir con simulata indifferenza, ma a voce abbastanza chiara da farsi udire chiaramente anche da chiunque fosse ancora nell'ingresso – e in particolar modo da Valérien, che pareva attendere confuso e impacciato ai piedi della scala che conduceva al piano di sopra che qualcuno gli desse un'indicazione più precisa di cosa fare. «Solo per avvertirlo.»

«Non abbia fretta, dottore... procederemo un piano alla volta, per fare le cose con ordine.» Ma subito dopo aver gettato uno sguardo alla sua squadra che iniziava a sparpagliarsi, il commissario tornò a volgere gli occhi su di lui. «Il telefono è per caso in una stanza appartata? Avrei piacere di parlarle per un paio di minuti da solo a solo, se non le spiace.»

In preda alle manie di grandezza del primo mese che aveva trascorso a esplorare e a riorganizzare la villa, Emir non aveva potuto naturalmente fare a meno di concedere a se stesso il lusso di uno studiolo solo per il telefono e la corrispondenza: ovviamente, egli era tanto poco incline a tenersi in contatto col mondo esterno, sia per epistola che per telefono, che sapeva sin dall'inizio che non se ne sarebbe mai servito. Ma dato che quella casa conteneva più stanze di quelle che gli sarebbero mai servite, quello era un modo come un altro per impiegarne una; e quel giorno, per la prima volta si rivelava anche dannatamente pratica. Con un brivido di autocompiacimento per la sua lungimiranza, Emir indicò con un cenno il corridoio che conduceva all'ala sinistra della casa, dove ancora nessuno degli agenti si era ancora miracolosamente diretto, e lo pregò di seguirlo. Era un vero peccato che Valérien rimanesse così sperduto e senza una guida nell'ingresso.

Nello studiolo del telefono Emir metteva piede tanto di rado che a malapena ricordava come fosse arrivato, e per questo motivo era una delle stanze che aveva maggiormente trascurato nelle pulizie, da quando era stato costretto a provvedervi personalmente. Il commissario ebbe almeno la buona grazia di non turbarsene troppo: i suoi occhi caddero su un vecchio posacenere piuttosto polveroso e domandò: «Le dispiace se fumo?»

Un uomo che fuma è un uomo più tranquillo: Emir gli fece segno di accomodarsi e di mettersi a proprio agio mentre si sedeva alla scrivania e componeva il numero del laboratorio.

La segretaria fu immensamente contenta di udire la sua voce per telefono, dopo tanto tempo che non si vedevano, ed Emir riuscì a liquidarla solo promettendole che sarebbe passato presto a salutarla. Quantomeno riuscì a convincerla senza troppe discussioni né perplessità a passargli l'ufficio di Rotwang.

«Fuji, cazzo.» La voce di Rotwang era sibilante e viperina, vibrante di rabbia. «Sei impazzito a chiamarmi al lavoro?»

Gli occhi del commissario erano puntati sulla sua schiena, con tanta attenzione ch'egli quasi se ne sentiva traforare. La sua mente si sforzò di scegliere rapidamente il registro appropriato da usare.

«Ehi, ehm, Rotwang... ti rubo solo un minuto.»

«Senti, se ti sei imbottito di bromazepam un'altra volta giuro che ti lascio in coma...»

«Stanno perquisendo casa mia» lo interruppe Emir a voce un po' più alta del normale. Sentì che Rotwang, dall'altra parte del telefono, ammutoliva bruscamente. «Nulla di grave, naturalmente, solo per quella cosa di Valérien dell'altra sera. Nulla di cui preoccuparsi, ma magari potresti venire qui a darmi una mano dopo il lavoro.»

Con voce innaturalmente calma e bassa, quasi vacua, Rotwang iniziò molto lentamente: «Sei sicuro che...?»

«Sono sicuro che c'entri Valérien, perché è qui anche lui» ribatté Emir per chiudere la questione, perché non poteva assolutamente essere certo di chi potesse ascoltare quella conversazione e non poteva permettere che Rotwang dicesse qualcosa di troppo. «Comunque, ti ho chiamato solo per avvertirti di non spaventarti quando arriverai, d'accordo?»

Rotwang era troppo intelligente per non capire che in quel momento la loro conversazione era ascoltata e che non si poteva parlare ancora. Si schiarì la voce. «Molto bene, allora... sarò lì da te dopo il lavoro. Fuji, cerca di...»

«Lo so, Rotwang» ribadì Emir per concludere la conversazione. «Non preoccuparti. Ti lascio al tuo lavoro, adesso.»

Rotwang avrebbe voluto dirgli altre cose ancora, avrebbe voluto fargli raccomandazioni e preghiere, supplicarlo e metterlo in guardia; ricordargli che da quella perquisizione dipendeva ormai per sempre tutto ciò che sarebbe stato di loro e delle loro vite; ma Emir posò la cornetta senza lasciargli il tempo di replicare.

«Lei è insolitamente tranquillo per qualcuno che stia subendo una perquisizione, dottor Fuji» commentò gentilmente il commissario alle sue spalle. Era evidentemente molto compiaciuto di poterlo insinuare, ed Emir si accomodò alla scrivania per prendere tempo e contemporaneamente guardarlo negli occhi. Neppure quel commento era casuale, ed egli sapeva che l'interrogatorio era già iniziato.

«Sapevo che sarebbe successo.»

«Ah, lei lo sapeva?»

Emir si strinse nelle spalle. «Voglio dire che mi aspettavo che Valérien avrebbe fatto qualcosa. Suppongo che glielo abbia già raccontato lui, ma era davvero molto arrabbiato quando è venuto qui l'altra sera. È davvero convinto che sia stato io a rubare Mew...»

«E le ha spiegato anche perché, presumo» lo interruppe il commissario in tono eloquente. Emir annuì vigorosamente. «Della questione della revisione dei sistemi di sicurezza avevamo già parlato, perciò vorrebbe dirmi qualcosa della sua relazione col dottore tedesco? Mi pareva di aver capito che non andavate molto d'accordo, quando l'ho interrogata l'altra volta; e lui l'aveva accusata per il furto...»

«Non andiamo particolarmente d'accordo neanche ora, per la verità. In effetti non credo che si possa definire proprio una relazione nel senso più stretto del termine.»

Nei giorni precedenti, lui e Rotwang avevano passato intere serate barricati nel sotterraneo a cercare di concordare una versione comune nei pochi momenti in cui Mew non esigeva di giocare con loro, per esser certi d'esser più colto impreparati; ma naturalmente una sola versione non bastava, s'erano resi conto con orrore, perché non sarebbe stato credibile che dessero entrambi la medesima identica versione d'una cosa tanto complessa senza averla prima concordata. Allora le versioni erano state due, che concordassero tra sé nei fatti principali e concreti, ma che a raccontarle dessero l'impressione di essere diverse quel tanto che bastava da non suonare costruite ad arte. «Dev'essere come coi Vangeli Sinottici» aveva suggerito Rotwang, e di fronte alla sua occhiata scettica s'era sentito in dovere di specificare: «Che c'è? Mio fratello è filologo neotestamentario a Göttingen. Che c'è di tanto strano?»

Il commissario annuì per dar segno di aver perfettamente capito a cosa alludeva. «Lei troverà strano che io le faccia domande sulla sua vita personale, e creda bene che in circostanze normali non lo farei mai, ma deve capire che la situazione è alquanto... insolita. Si rende conto che questo improvviso rivolgimento suona quantomeno sospetto, e anche un po', come dire, costruito ad arte?»

Emir si strinse nelle spalle, più per darsi un'aria noncurante che perché non sapesse come reagire. «Me ne rendo conto, ma le garantisco che io non ci vedo niente di tanto strano. Una sera Rotwang è venuto qui a fare quello che ha fatto Valérien l'altra sera, con la differenza che lui ha frugato per tutta la casa, ha dato di matto, abbiamo quasi fatto a botte e poi abbiamo trovato un altro modo per risolvere la questione. È Valérien che non vuole crederci, per non so quale motivo. Non so perché ritenga più probabile che io abbia deciso di sabotare una carriera più che promettente e di rubare un Pokémon che non potrei neppure usare, piuttosto che convincersi che abbia intrapreso una relazione con un ex collega.»

«Davvero? Vuol dire che non le viene in mente proprio nessun motivo?» gli fece eco il commissario con sguardo inspiegabilmente più acceso. Di colpo sembrava divenuto più attento, ed Emir lo scrutò in silenzio per un istante prima di decidere che la cosa migliore era fingere di non averci fatto caso.»

«Se posso essere sincero, credo che stia cercando un colpevole a tutti i costi» rispose a bassa voce. «È molto legato a Mew e lo sono anch'io, e anch'io vorrei che la ritrovassero tanto quanto lui, ma non è così che ci riusciremo.»

«Uhm» ribadì il commissario. Con un sospiro profondo, si decise a spegnere infine la sigaretta e ad alzarsi in piedi. «Molto bene, dottore. Non credo di avere altre domande per lei, perciò può chiamare il suo avvocato, se crede, e venire ad assistere alla perquisizione a suo piacere. Le garantisco che noi rispetteremo al massimo i suoi diritti, perciò, per qualsiasi cosa lei ritenga...»

«Non occorre, non occorre. Venga, l'accompagno alla porta» ribatté Emir alzandosi per raggiungerlo, e subito il commissario gli gettò un'occhiata incerta.

«Ne è sicuro? Le ripeto che è un suo diritto. Al suo posto ci penserei bene prima di...»

«Non sono un ladro, commissario» disse Emir, e quando lo disse, per un istante, la sua voce gli parve così innocente ch'egli si sentì davvero innocente. «Questa casa non ha nulla da nascondere, e io voglio che tutta l'isola lo sappia. La prego, proceda pure.»


Rotwang si precipitò a casa sua subito dopo la sua chiamata, col cappotto infilato di corsa sopra il camice e i capelli disordinatamente sciolti, ma tutta la sua fretta fu alquanto sprecata: il commissario lo sequestrò per almeno una ventina di minuti prima di lasciarlo andare con condiscendenza.

Emir lo aspettava sulla terrazza coperta, che era l'unico luogo che sembrava non risultare di nessun interesse per la polizia, accomodato su una vecchia panca di legno d'aspetto alquanto vissuto che aveva scoperto una volta spostati una decina di vecchi vasi. Quando gli apparve davanti, Rotwang era pallido come un cadavere e aveva la fronte sudata come dopo una lunga corsa.

«Cazzo, Fuji, ma sei serio? Ti sei davvero rinchiuso quassù?»

«Buonasera anche a lei, dottore» lo rimbeccò Emir alzando gli occhi al cielo. «Dove altro mi sarei dovuto rinchiudere, secondo te?»

«Oh, non lo so, Fuji, davvero. Di certo non in casa tua, a sorvegliare la polizia che perquisisce le tue cose, non è vero?»

Emir non l'aveva davvero mai visto in quelle condizioni, mai, non così agitato, quantomeno: infuriato e pronto a muover guerra anche al mondo intero anche troppo spesso, e se Rotwang si fosse precipitato lì quella sera solo per picchiare Valérien, a dire il vero, non se ne sarebbe stupito affatto. Ma a quanto pareva neppure Rotwang aveva il carattere monolitico e incrollabile di un eroe, e forse anche lui aveva commesso l'errore di credersi più coraggioso di quanto non fosse, e di dare per scontato che avrebbe affrontato la situazione a testa alta; ma ora che per la prima volta anche lui si ritrovava nel mezzo della battaglia, d'improvviso si ritrovava a scoprire che tutto era troppo più grande di lui e ne era spaventato.

Fino a un po' di tempo prima Emir gli avrebbe sarcasticamente offerto del bromazepam per sottolineare l'incoerenza del suo comportamento; ma dopo aver rubato Mew, e averne provato talmente tanta angoscia da scappare a Lavandonia a rifugiarsi nella casa del padre dove aveva giurato di non rimetter piede mai più, ora egli sapeva anche troppo bene che cosa volesse dire trovarsi d'un tratto sotto accusa e aver la sensazione di non aver più dove scappare.

«Rotwang, ti prego... non litighiamo proprio adesso. Siediti accanto a me e parliamo un po', vuoi? Andrà tutto bene, perciò non c'è nulla di cui preoccuparsi.»

Senza più degnarlo di uno sguardo, Rotwang emise un brontolio contrariato e tornò a passeggiare sulla terrazza, ed Emir non poté che rassegnarsi. Ci aveva provato, e quel dannato tedesco non gli avrebbe mai dato retta; ma poi, quando Rotwang gli passò vicino d'un tratto, Emir gli sentì distintamente sussurrare a do sopra del frusciare del suo cappotto: «Sei troppo tranquillo, Fuji. Nessuno nel mezzo di una perquisizione è così tranquillo, e poi mi fai venire voglia di spaccarti la faccia. Ti sembra realistico, cazzo?»

«Sono tranquillo perché non ho nulla da nascondere, e dovresti esserlo anche tu» ribadì Emir con calma. Non intendeva essere smentito a quel riguardo. «L'altro giorno hai detto che era come stare su un aereo e non avere alcun controllo dei comandi... beh, è la stessa cosa. Possiamo solo aspettare che finisca e sapere che non ci succederà nulla perché noi siamo innocenti. Te lo ricordi questo, vero?»

Rotwang doveva sapere che lui aveva ragione, che quello era ciò che avevano sempre detto a se stessi fin dal primo giorno del furto; ma tutto ciò che si limitò a fare per il momento fu fulminarlo con lo sguardo e borbottare qualcosa sul fatto che in fin dei conti non gli era mai piaciuto volare.


Per tutto il pomeriggio il tempo fu scandito dal rumore dei passi agitati di Rotwang che percorreva la terrazza senza riuscire a trovar pace. Emir lo lasciò stare. Si limitò a tenerlo costantemente d'occhio per accertarsi che fosse sempre lì con lui e non fosse in procinto di far qualche sciocchezza; ma l'unica occupazione di Rotwang, in quel momento, sembrava quella di aggirarsi per la terrazza come una belva in gabbia, coi guanti mortalmente stretti tra le mani e il cappotto aperto sul petto per poter respirare meglio, i capelli avviluppati e annodati nella sciarpa a tal punto da non distinguersene quasi più. Era irrequieto e rabbioso come una bestia selvaggia, ma anche la sua presenza ansiogena era meglio che non avere niente, ed Emir rimase a crogiolarsi negli ultimi raggi di sole nella consapevolezza di essere al sicuro e di non essere neppure solo. Aveva passato tutto quel tempo a tormentarsi invano al pensiero che lo scoprissero, e ora che stava per succedere si rendeva conto che in realtà non potevano toccarlo perché era troppo più in alto di loro. Una volta che la perquisizione fosse finita, tutto sarebbe stato sistemato. Rotwang ancora non poteva accorgersene, ma la verità era che avrebbero dovuto resistere solo per poche altre ore e poi sarebbero stati salvi, perché non era possibile che un branco di poliziotti strappati alla pesca svelasse l'enigma della casa in poche ore.

A spezzare la monotonia intervenne un paio di volte un agente a chiedere le chiavi per questo o quel mobile trovato chiuso al terzo piano, cui Emir rispose invariabilmente suggerendogli di forzare la serratura, dal momento che se il mobile era chiuso voleva dire che lui le chiavi non le aveva mai avute. Ogni volta Rotwang lo fissò con occhi accesi come braci; ma quando Emir gli rivolse gentilmente uno sguardo interrogativo per invitarlo a esprimergli le sue perplessità, egli si limitò a distogliere lo sguardo con rabbia e a riprendere a passeggiare convulsamente. Emir continuò a lasciarlo in pace. Sapeva che Rotwang era arrabbiato perché in quel momento egli non condivideva la sua angoscia, e umiliato e mortificato perché era lui, in quel momento, a dimostrarsi il più debole della situazione; ma non poteva farci nulla, e prima o poi gli sarebbe passata.

Dopo il tramonto trascinò Rotwang nel salottino affacciato sul mare, perché s'era fatto troppo freddo per restare ancora sulla terrazza; ma le loro attività non variarono molto all'interno. Rotwang continuò a percorrere l'intero perimetro della stanza, sia pure in maniche di camicia e panciotto, colle braccia nervosamente incrociate; rifiutò senza degnarlo di uno sguardo la tazza di caffè che Emir gli offriva, ed Emir si accontentò di trascorrere il resto della serata a fissarlo camminare. Comunque stessero le cose, e per quanto quella casa contasse qualcosa come trentacinque stanze, Rotwang non si stava rifiutando di aspettare assieme a lui: erano ancora complici, anche se la loro complicità faceva alquanto schifo.

Si rifiutò di mangiare anche quando lo stesso agente di prima venne ad avvertirli, verso le nove e mezza, che ne avrebbero avuto ancora per parecchio, ed Emir ordinò del cibo a domicilio per entrambi – come quella volta, all'inizio del progetto sui fossili, che Dale aveva imposto loro un lasso di tempo assurdamente stretto per consegnargli non ricordava più quale relazione, e avevano dovuto barricarsi in ufficio per tutta la notte per poterla finire. Ma poiché l'unica requie che Rotwang gli concesse fu quella di smettere una buona volta di camminare e di venire a sedersi al suo fianco, Emir si limitò a cenare con calma per conto proprio e a lasciare ostentatamente intoccata sul tavolino la sua porzione. Prima o poi avrebbe dovuto aver fame anche quel dannato tedesco.

Poco prima delle undici arrivò Valérien. Emir non lo vedeva da così tante ore che neppure se lo aspettava più, e forse ormai una parte di lui aveva finito per convincersi che fosse veramente tanto terrorizzato da lui da non avere il coraggio di affrontarlo; non ci pensava più, e forse quello strano senso di onnipotenza e intoccabilità che provava quella sera gli aveva fatto scordare la rabbia che provava nei suoi confronti. Ma quando Rotwang balzò in piedi con un guizzo felino, col volto improvvisamente inscurito e difensivo e i pugni serrati, Emir non poté fare altro che alzarsi a sua volta.

«Emir.» A quanto pareva, la strategia migliore doveva essergli parsa quella di far finta che Rotwang non fosse nella stanza: Valérien rimase cautamente immobile sulla soglia, a torcersi con fare tormentoso le lunghe mani bianche. «Posso parlarti un momento?»

«Certo» rispose Emir sforzandosi di mantenere un tono neutro. Poteva quasi sentire Rotwang ringhiare, almeno nella sua testa, e di certo la tensione vibrante che esprimeva tutto il corpo del suo compagno non la stava immaginando. «Ti vuoi sedere?»

«No, io... Emir, sono venuto a dirti che al piano di sopra hanno quasi finito.»

«Oh, bene» ribatté Emir sorridendo. «E hanno trovato qualche cosa, a parte un po' di polvere? È imbarazzante, sai... mi fa sembrare un pessimo padrone di casa.»

«Emir, ascolta» riprese Valérien con voce che gli tremava, insolitamente in contrasto con la parvenza di risoluzione ch'egli voleva assumere. «Non hanno trovato Mew, va bene, ma lo sai anche tu che è solo questione di giorni. Isola Cannella è piccola e tu non potrai mai lasciarla senza venir perquisito. Può non succedere oggi, ma sarà domani o tra una settimana...»

Valérien s'illudeva davvero di poter vincere contro di lui. Fino a quel preciso momento Emir aveva sempre pensato ch'egli non fosse che un mero prolungamento del braccio di Dale, che doveva servirsene da Zafferanopoli semplicemente perché Isola Cannella era troppo lontana perché la sua mano potesse raggiungerla; ma forse ora le cose non stavano più esattamente così. In quella casa, ad assistere alla perquisizione, Valérien ci era venuto da solo, ed era da solo che contava di risolvere la faccenda.

«Ammettiamolo pure, Valérien» rispose pazientemente. «È evidente che non crederesti alla verità neppure se la vedessi con i tuoi occhi, perciò che cosa eri venuto a propormi?»

Valérien gettò una lunga occhiata inquieta a Rotwang, per quanto egli non si fosse neppure mosso, come una persona spaventata che si accerti che un cane rabbioso sia ben legato alla catena prima di avanzare. «La mia offerta è ancora valida, Emir. Non lo faccio per proteggere lui, ma per te» si affrettò a specificare, e a quelle parole Rotwang sbottò in una breve risata sarcastica ed Emir gli posò d'istinto una mano d'avvertimento sul gomito. «Comunque sia, io salverei entrambi... se la trovassero qui o addosso a uno di voi vi arresterebbero entrambi, ma se me la consegnate non dirò a nessuno che siete stati voi. Io rivoglio solo Mew, e voi sarete liberi...»

«Credo che qui qualcuno stia cominciando a credersi più importante di quello che è» ringhiò Rotwang.

In quel momento Valérien ebbe un mutamento improvviso, serpentino, a tal punto che Emir ne ammutolì di scatto, come se l'udire per la prima volta la voce di Rotwang quella sera l'avesse risvegliato d'improvviso: «Attento, Rotwang... sono il direttore.»

Il Valérien che conosceva non avrebbe mai risposto così. Emir si sentì d'un tratto tanto confuso, stupefatto, che neppure riuscì a pensare a un modo sensato di reagire: la sua mente ora stava lavorando a vuoto, come se non avesse più sufficienti dati da analizzare per poter replicare a quello sconosciuto che aveva davanti. L'uomo meschino, odioso che aveva di fronte non era più il ragazzo con cui aveva vegliato tante sere davanti alla prigione di Mew e al quale aveva confidato le proprie angosce; ma per fortuna quel perfetto estraneo Rotwang lo conosceva già perfettamente e sapeva già come rispondergli.

«Bene allora, signor direttore: licenziami. Ma qui non siamo al laboratorio, o sbaglio?»

«Rotwang» mormorò appena Emir in tono di ammonimento, tornando a posare la mano sul suo gomito, là dov'era arrotolata la camicia: ma Rotwang non lo ascoltò.

«Sai qual è la differenza tra voi due? Che Fuji era uno stronzo e un venduto alla Silph esattamente quanto te, solo che almeno lui ha sempre avuto le palle di non trincerarsi dietro la sua carica ogni volta che litigavamo, e quantomeno lui non è diventato stronzo tutto a un tratto non appena ha avuto un ruolo di potere...»

«Rotwang!» sbottò Emir in tono che non ammetteva repliche, e Rotwang strappò via il braccio alla sua presa e indietreggiò per non compromettersi, mordendosi le labbra con le braccia levate, come a voler sottolineare che non andava oltre, suo malgrado, e che la sua invettiva si concludeva lì. Emir tornò a voltarsi seccamente verso Valérien. «Credo che sia ora che tu vada. Non possiamo renderti qualcosa che non abbiamo mai avuto e ora tutta la situazione sta diventando ridicola, perciò ti prego, chiudiamola qui, va bene?»

Forse era solo la reazione di Rotwang a far da comburente alla sua rabbia, e ora che Rotwang taceva essa non aveva più modo di alimentarsi; sta di fatto che Valérien, rosso in viso come per uno schiaffo ricevuto, parve cercare ovunque le parole da dire.

«Molto bene allora. Molto bene» ripeté quasi meccanicamente, guardando altrove, e dal modo in cui reclinò per un attimo gli occhi verso l'alto Emir avrebbe potuto giurare che stesse trattenendo le lacrime. «Emir, è un favore personale che ti faccio. Ascoltami, dico davvero. Mi avete offeso in tutti i modi in cui avete potuto, ma io non voglio comunque vederti in prigione. Lo sai anche tu che la Silph è disposta a qualsiasi cosa pur di ritrovarla: non dipende tutto da me. Anche se io non volessi andare avanti con questa storia, ora che lo sanno non ti lasceranno mai più in pace finché M2 non salterà fuori; ma se tu me la rendi, io convincerò Dale a lasciar perdere tutto questa storia e a rinunciare alle vie legali. Tutto quello che occorre è che tu mi renda Mew e poi ti giuro che sarà tutto finito...»

Emir ebbe la precisa consapevolezza dello sguardo di Rotwang puntato proprio là, sulla sua nuca, con un'intensità tale che quasi avrebbe potuto perforargli il cranio e leggere la sua mente, ma non se ne curò. C'era qualcosa che lo aveva colpito di più nelle parole di Valérien, qualcosa che fino ad allora egli aveva sempre saputo ma non aveva mai interpretato nel modo giusto, e che solo ora, in prede alla febbre della sua onnipotenza, egli riusciva a vedere in piena luce. Che la Silph li braccasse lui e Rotwang l'avevano sempre saputo, certo, vi avevano riflettuto tante volte; ma avevan creduto sempre d'essere in fuga, e di certo lo erano stati, e in quello strano gioco del gatto col topo che erano stati loro a cominciare, loro erano sempre stati le prede. Ma la verità era che lui e Rotwang erano le menti più brillanti di tutta l'isola e forse di tutta Kanto: allora per quale motivo avevano sprecato tutto quel tempo a nascondersi e a scappare quando avrebbero potuto giocare con la Silph e con la legge da pari a pari?

«Valérien» disse semplicemente, con una calma glaciale, asciutta, che neppure sapeva di poter provare, e scosse il capo. «Il punto è che non m'importa niente di quello che tu o la Silph o chiunque altro al mondo potreste fare. Il punto è che tu non vincerai mai

Quella era la prima vota che Emir non mentiva, non fingeva, non inventava. Quella non era più né una bugia né una difesa: quella era una minaccia, e un attimo prima che Emir facesse in tempo ad andare un po' troppo oltre la mano di Rotwang si posò sulla sua schiena e la sua voce sibilò contro il suo collo in tono di ammonimento: «Fuji...»

L'intervento di quella voce e di quella mano fu come il penetrare del sole in una stanza tenuta chiusa da troppo tempo. D'un tratto quello strano delirio d'onnipotenza passò, Emir si sentì improvvisamente precipitare di nuovo in una realtà che per poco non aveva dimenticato, come se una forza sovrumana l'avesse trascinato di nuovo al suolo da un qualche regno sopra le nuvole nel quale la sua mente vagava. La sua testa era stata via per un po', d'accordo, ma ora era tornata, e di fronte al volto accorato di Valérien egli si sentì di nuovo tornare in sé. Era stato sul punto di rivelar tutto perché si sentiva troppo potente per un solo istante, ma per fortuna Rotwang era lì e l'aveva fermato, e ora non sarebbe successo mai più.

«Mi stai minacciando?» chiese incredulo Valérien.

L'influsso sovrumano di quella mano ancora posata contro la sua schiena non gli avrebbe permesso di sbagliare ancora. «Certo che no, Valérien... non è questo che volevo dire. Il punto è non potrai mai dimostrare che io abbia rubato Mew perché non è mai accaduto. Non è così che la ritroverai, perciò...»

«Come vuoi, allora.» Stavolta non c'era più traccia di supplica nella voce di Valérien. Anche per lui la questione finalmente pareva essere conclusa, ma non nel modo più rassicurante. «Se è questo tutto quello che sai dirmi, allora è quello che ti meriti. Ma quantomeno ti ricorderai che ho provato a salvarti e che sarà stata tutta colpa tua, te ne ricorderai, non è vero?»

«Certo che me lo ricorderò, Valérien» sospirò Emir stancamente. Era finita, finalmente. «E tu ti ricorderai che non esiste nulla da cui salvarmi, giusto?»

Questa volta non vi fu alcuna risposta alle sue parole. Cogli occhi divenuti enormi di rabbia impotente e di un'incredulità mortificata, offesa, Valérien gli diede le spalle e uscì dal salotto senza neppure voltarsi.


Rotwang fu incupito e taciturno per tutto il resto della serata, e la cosa non lo avrebbe stupito più di tanto se solo non vi fosse stato qualcosa, nella diversa qualità del suo silenzio, a informarlo che non si trattava più soltanto dell'agitazione che l'aveva turbato prima dell'arrivo di Valérien. Rotwang era ancora taciturno, ma stranamente calmo, e questo gli faceva supporre che no, non era incupito soltanto per via della strana reazione di Valérien; ma di chiedergli che cos'avesse, a rischio di sfidare quello strano malmostoso mutismo, Emir non trovò né il modo né il coraggio.

Vennero verso l'una a informarli che era tutto finito e che non restava altro che la burocrazia da espletare. Emir trascorse la mezz'ora seguente a leggere e firmare documenti e verbali, seduto a un tavolino di fronte al commissario, con Rotwang in piedi alle sue spalle, che lo scrutava in silenzio; e poi, finalmente, il commissario lo ringraziò per la sua disponibilità e la sua pazienza, la polizia se ne andò e loro rimasero soli.

Nessuno di loro parlò per qualche minuto, e per un po' neppure si guardarono. Avrebbe avuto veramente senso dir qualcosa in quel momento, per il solo bisogno di riempire quel silenzio, quando non si poteva commentare a parole il fatto d'aver appena sconfitto la polizia e la più potente multinazionale di Kanto?

La casa era un disastro. In una villa sprofondata di nuovo, per la prima volta dopo ore, nel suo tetro silenzio abituale, Emir si ritrovò insieme a Rotwang a esplorare quella desolazione come se fossero gli unici due superstiti su un campo di battaglia nel quale non fosse rimasta anima viva oltre a loro. Praticamente tutti gli oggetti che costituivano non solamente la sua vita, ma anche quella del suo predecessore erano stati gettati a terra nel corso della perquisizione; il commissario gli aveva garantito che non era stato rotto niente ma, a quanto pareva, ci sarebbe voluto almeno un paio di settimane prima di scoprire se avesse detto la verità o no.

«Ci metteremo un secolo a mettere tutto in ordine» commentò Rotwang dopo un po', per spezzare il silenzio. Era la prima volta dopo ore che parlava, ed Emir lo guardò un po' stupito. Quantomeno non era più furibondo. «Com'è che Lestournelle ti stava tanto simpatico?»

Il panorama che li circondava in quel momento era tanto cupo e tanto sconfortante che il sarcasmo di Rotwang suonava quasi confortante. Concedendogli un sorriso distratto, Emir sollevò pensierosamente un vecchio soprammobile di forma non meglio identificabile e lo posò sullo scaffale di sua competenza, più per un movimento meccanico che perché quel gesto servisse a qualcosa. «Non sei obbligato ad aiutarmi, ma ti ringrazio di esserti offerto.»

«Beh, immagino che sia responsabilità di entrambi se...»

«Valérien è diventato così?» lo interruppe Emir bruscamente, senza quasi accorgersi che l'altro gli stava parlando. Rotwang esitò un istante.

«Così come?»

«Così...» Emir cercò una parola per descrivere ciò che aveva visto quella sera. «Non lo so. Meschino, credo.»

«Ah, Fuji...» La voce di Rotwang si accese di una breve risata sarcastica, amara. «Vuoi sapere come la penso? Nel suo profondo è sempre stato così, solo che non aveva abbastanza personalità o coraggio da... finché c'eri tu e poteva obbedire a te, non aveva alcun bisogno scegliere nulla. Ora che si ritrova con un ruolo di potere in mano, improvvisamente ha scoperto che comandare gli piace, solo che non ne è capace. Ma tu non mi ascoltavi quando mi lamentavo di lui?»

«Tu ti sei sempre lamentato di lui, anche quando il direttore ero io...»

«Perché che fosse un piccolo succhiapalle meschino l'ho sempre saputo, solo che sembrava tanto innocuo e innocente che nessuno ha mai voluto credermi» concluse Rotwang alzando le spalle. «Non tormentarti, Fuji... non è colpa tua, per una volta. Lestournelle è uno di quei meschini senza personalità che cambiano in base a chi hanno intorno, e adesso lui ha intorno solo Dale. Non fartene una colpa.»

Con la persistente sensazione che avrebbe continuato a pensarci per tutta la notte, Emir si limitò ad annuire. Si sforzò di cambiare argomento. «Giusto...si è fatto tardi, comunque. Vuoi restare a dormire qui?»

Gli era capitato altre volte di proporglielo, più per un vago senso di dovere che perché gliene importasse qualcosa, e naturalmente Rotwang aveva sempre rifiutato con sdegno le sue proposte. Ma quella notte era assai più tardi del normale, e qualcosa di tutto ciò che era successo quel giorno sembrava aver modificato a tal punto gli equilibri tra di loro ch'egli non si stupì affatto quando Rotwang gettò un'occhiata all'orologio e rispose: «Se in una di queste ottantadue stanze c'è un letto per me, penso che potrei accettare, per una volta.»

Navigarono attraverso la casa disseminata di oggetti, facendosi largo in mezzo a una marea di soprammobili e libri e dischi, abiti e scatole e quaderni che per la maggior parte Emir non sapeva neppure di possedere; ma ora che tutto era finito, quantomeno era come veleggiare in un mare piatto e senza vento tra relitti di navi, dopo che era passata la tempesta.

Non persero neppure tempo a commentare la situazione al piano superiore. Emir si limitò a recuperargli delle lenzuola pulite sebbene non stirate e una vecchia T-shirt bianca con la quale potesse dormire in modo un po' più comodo, dopodiché cercarono per tutto il piano una stanza un po' meno confusionaria delle altre. Per fortuna di entrambi, Rotwang non si rivelò un cliente troppo difficile da accontentare.

«Va bene questa, non m'importa. Voglio solo dormire qualche ora prima di dover andare al lavoro, non devo fare pubblicità a casa tua.»

Non restava più nulla da dire, o meglio nulla che meritasse d'essere detto. Ma quando Emir stava già per voltarsi e per augurargli la buonanotte, d'un tratto gli tornò in mente qualcosa d'importante cui prima non aveva pensato, qualcosa che non riusciva bene a razionalizzare né a esprimere a parole; eppure neanche si rese conto appieno di quanto stava per dire finché non udì la propria voce dire: «Grazie di avermi fermato, prima.»

Forse perché andare finalmente a dormire gli premeva davvero e non intendeva sprecare tempo inutilmente, Rotwang ebbe almeno la buona grazia di non fingere di non sapere di cosa stesse parlando. La sua voce suonò un po' meno acre e accusatoria del solito quando parlò, anche se i suoi occhi, per una volta, tradirono un certo imbarazzo.

«A quanto pare tu hai comunque più sangue freddo di me, Fuji, il che è più di quanto avrei detto di te un mese fa. Sei stato bravo in realtà... e poi, se ti scusi tu dovrei farlo anch'io per aver dato di matto, cosa che non intendo assolutamente fare.» Si strinse nelle spalle. «Siamo stanchi entrambi, Fuji. Lasciamo tutto così e lasciamo perdere, che ne dici?»

Quello che bisognava da dire ora era veramente stato detto: pur con tutto il suo astio e la sua asprezza, Rotwang gli aveva dato retta e lo aveva capito, e quello era probabilmente l'unico modo che avessero di ringraziarsi a vicenda. Emir accennò appena un sorriso. «Buonanotte, Rotwang.»

Anche la sua camera era un disastro. Su di essa gli agenti dovevano essersi accaniti con particolare violenza, forse per una qualche curiosa convinzione che un uomo che avesse rubato il Pokémon più raro del mondo lo avrebbe nascosto sotto il proprio cuscino; ma anche qui Emir si limitò a spingere pigramente da parte la catasta di biancheria e vestiti che gli ostruiva il passo davanti alla porta e a recuperare una vecchia maglietta dell'università per dormire. Il giorno dopo avrebbe avuto tutto il tempo per mettere in ordine, ma per il momento, ora che l'adrenalina di quella giornata infinita stava calando, egli aveva solo voglia di dormire e non svegliarsi per ore.

A luce spenta, nel suo letto, Emir inalò profondamente il profumo di bucato delle lenzuola pulite e si rigirò pigramente un paio di volte. Tutto era fresco e accogliente contro la sua pelle, ed egli si concesse di bearsi per qualche minuto di quella frescura e di quella pace.

Non s'accorse d'esser sprofondato in una sorta di dormiveglia fino a quando non ebbe la sensazione di udire la porta aprirsi e di vedere una lama di luce attraversare il buio. Si tirò su a malapena, strizzando gli occhi contro la luce, e borbottò: «Ti serve qualcosa?»

Ma dopo un istante la fessura di luce si spense e un peso si aggiunse al suo sul materasso; improvvisamente sveglio, Emir provò d'un tratto la sensazione eccitante di una pelle nuda, calda che aderiva alla sua e di mani che percorrevano la sua intimità, e subito dopo la maschia voce roca di Rotwang mormorò contro il suo orecchio: «Vedi di non farlo sembrare più strano di quanto già non sia, siamo intesi?»


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Capitolo 10
*** Deprecabile. ***


Buongiorno e buona domenica a tutti!

Questo è stato, miracolosamente, il primo capitolo che io sia riuscita a scrivere dall'inizio alla fine su un'unica serie di fogli, senza riscrivere più e più volte la stessa scena in modi diversi, e ammetto che è stata veramente una gran bella sensazione. Spero che anche la qualità del testo ne abbia riscosso qualche beneficio.

Come sempre non posso che ringraziare cristal_93 e Persej Combe per le loro bellissime recensioni (cui ho risposto tardissimo, colpevolmente!) e soprattutto Fiulopis per la sua incessante attività di betaggio del testo e il suo continuo sostegno personale.

Un bacio enorme a tutti e buona lettura!


Afaneia



Capitolo IX – Deprecabile


Quando Emir si svegliò la mattina seguente, Rotwang era seduto sul bordo del letto, completamente nudo, ed egli si concesse solo un attimo di tempo per rimanere disteso a osservare la sua schiena bianca e l'insinuarsi del percorso delle sue vertebre verso le natiche. Ma poi anche quell'attimo di silenzio gli parve disonesto come se gli stesse rubando qualcosa, e per manifestare la sua presenza non trovò niente di meglio che sollevarsi e dire: «Ehi.»

«Ah, Fuji...sei sveglio.» Quando si voltò verso di lui per gettargli un'occhiata distratta al di sotto dei lunghi capelli arruffati, Rotwang non appariva imbarazzato né a disagio né altro. Era perfettamente a suo agio, come se entrambi fossero in laboratorio a scambiarsi dati e informazioni sugli esperimenti – vestiti – e non avessero appena fatto sesso per due volte nella stessa notte. «Speravo proprio che ti svegliassi. Avrei bisogno di una doccia, se non ti dispiace.»

A dire il vero, non era esattamente quello il primo argomento che a Emir sarebbe venuto in mente di trattare quella mattina; e in effetti quella domanda lo colse tanto impreparato ch'egli non riuscì a fare altro che rispondere macchinalmente: «Ah... giusto. La porta del bagno è dietro quella finta parete. Ci sono degli asciugamani puliti, credo...»

«Avrei dovuto aspettarmi che in questa casa persino il bagno fosse nascosto dietro una finta parete» commentò Rotwang alzandosi in piedi, ancora nudo, con la medesima naturalezza di prima. «Senti, non è che avresti anche un paio di boxer puliti da prestarmi, vero? Per il resto vedo di arrangiarmi.»

«Sicuro... da qualche parte lì per terra, se riesci a trovarli» rispose Emir ancora un po' attonito, tornando a sollevarsi sul letto per indicare la massa di vestiti rovesciata al suolo. Non poté fare a meno di seguire i suoi movimenti per tutta la stanza: a dire il vero, quella era la prima volta che lo vedeva interamente nudo, dato che quella notte, al buio, non c'era stato modo di vedere un granché, e la cosa gli dava un certo senso di disagio alla bocca dello stomaco, senza che neppure lui per primo fosse in grado di dire il perché.

Non c'era neppure nulla di sorprendente, in realtà. Rotwang aveva esattamente il tipo di fisicità che s'intuiva attraverso i suoi abiti, col petto ampio e le spalle larghe e il corpo tendente appena a una vaga pinguedine bilanciata dalla sua robustezza; e in quanto a tutto il resto, che fosse fuoco Emir non poteva proprio dire di non esserselo aspettato – o meglio ci sarebbe rimasto molto male se avesse dovuto scoprire proprio in quel momento che quell'uomo a letto valeva molto meno di quanto prometteva. Ma francamente quella sua mania di non volerne neanche parlare lo metteva a disagio sul serio, e alla fine Emir si decise a domandare: «Posso chiederti il significato di tutto questo?»

«Uhm?» Preso com'era dalla ricerca di qualsiasi cosa di pulito celasse la catasta di abiti, Rotwang ebbe bisogno di qualche momento prima di trovare la concentrazione necessaria a dargli retta. «Oddio, Fuji... non mi dire che anche tu sei uno di quelli per cui ogni scopata deve avere per forza un preciso significato codificato, te ne prego.»

Emir non si era mai sentito uno di quelli, o almeno non si era mai soffermato ad analizzare il problema, eppure quel giorno si sentì tanto testardo da insistere ancora. «Di solito c'è un motivo se due persone scopano, sai.»

«Già, e di solito quel motivo è che hanno voglia di scopare» lo rimbeccò Rotwang per tutta risposta. D'un tratto parve aver dimenticato per un attimo la ricerca delle mutande, perché tornò ad avvicinarsi al letto per guardarlo meglio. «E poi, Fuji, senti un po'... perché non provi tu a rispondere a questa domanda per primo, se proprio ci tieni tanto? Perché ti garantisco che io in vita mia non ho mai violentato nessuno, e se tu mi fossi parso anche solo un po' incerto me ne sarei tornato di là e mi sarei messo a dormire. Ora, il coraggio di venir qui e infilarmi nel tuo letto ce l'ho avuto io, ma la mano nelle mutande me l'hai messa tu, quindi tu che motivo avevi di scopare con me?»

Emir si sentì avvampar di rabbia, più per il fatto che Rotwang aveva ragione che perché gli seccasse di sentirsi chiamato in causa così. Ma ora che glielo aveva chiesto così direttamente qualche cosa bisognava pur dire, e il fastidio che provò fu tale ch'egli non si prese neppure un attimo di tempo per pensare.

«Attrazione sessuale. E tu?»

«Ah, finalmente l'hai detto!» esclamò Rotwang visibilmente compiaciuto, soddisfatto come per una vittoria riportata, ed Emir si sentì quasi imbarazzato d'avergliela data vinta così, per niente. Ma ora che se l'era sentito dire, quantomeno Rotwang appariva molto più ben disposto a parlarne. «Beh, potrei dire lo stesso, ma la verità è che ho sempre avuto una certa attrazione per gli uomini che mi trasmettevano una sensazione di potere. Quando eri direttore ti avrei scopato tanto volentieri sulla tua scrivania» ammise con la massima naturalezza, come parlando della cosa più banale del mondo, ed Emir ne rimase tanto stupefatto che dopo un paio di secondi, rendendosi conto d'aver spalancato la bocca per la sorpresa, non poté fare altro che esclamare: «Ah!» e richiuderla. Non gli venivano in mente molti altri modi per commentare quella scoperta, in effetti, e Rotwang proseguì con la medesima calma: «Ieri sera mi ha eccitato il modo in cui hai trattato Lestournelle, tutto qui. Ora non ti dispiace se vado a farmi la doccia prima di perdere il lavoro anch'io, non è vero?» concluse vagamente stizzito, ed Emir non poté che rispondere: «Prego.»

Era un po' troppo stordito e confuso da tutte quelle scoperte – e a dire il vero anche un po' troppo gradevolmente intorpidito dal sonno e dagli orgasmi – per potersi mettere a riflettere sul serio nella decina di minuti in cui sentì l'acqua scrosciare nella doccia. Si limitò a starsene piacevolmente disteso tra nubi di lenzuola arrotolate attorno al suo corpo, pigramente, a bearsi della rinnovata pace dei suoi sensi, e Rotwang lo trovò ancora così quando uscì dal bagno in mutande e riprese a frugare in giro per la stanza.

«Non sono riuscito a trovare niente nel casino che hanno fatto, perciò credo di aver usato il tuo asciugamano. Se ti fa schifo dopo stanotte sei un ipocrita. Dov'è la camicia viola?»

Questa volta fu il turno di Emir di sollevare pigramente lo sguardo su di lui dal cuscino e di chiedersi di cosa diavolo stesse parlando. A sua memoria, quel dannato tedesco non aveva mai indossato altro che camicie bianche o azzurre. «Quale camicia viola?»

«La tua, Fuji» sbottò Rotwang spazientito come se avesse dovuto spiegargli l'ovvio. «Solo tu in tutto il mondo hai una camicia di quel colore, perciò stai pur certo che se si parla di una camicia viola è la tua. Voglio che Lestournelle me la veda addosso in ufficio e schianti di rabbia al pensiero che abbiamo scopato stanotte. Ah, hai un profumo o un'acqua di colonia?»

«Se è pulita e stirata, anche la camicia dev'essere in quel mucchio là» balbettò Emir sentendosi un po' sopraffatto da tutte quelle domande. «Comunque il viola è il colore di Lavandonia, è per questo che... beh, tutto il resto è in bagno, comunque.»

Rotwang tornò ad aggirarsi per la stanza e per il bagno per prepararsi per il lavoro, rilassato e a proprio agio come in casa propria, ed Emir continuò a osservarlo dal letto per un po'. La camicia, miracolosamente stirata, gli stava un po' aderente sul petto ma quantomeno si chiudeva, e Rotwang vi abbottonò sopra il panciotto con cura meticolosa.

«Non credo che Valérien sarà tanto seccato all'idea che scopiamo quanto all'idea che lo abbiamo fregato» constatò pigramente, anche se era più un pensiero ad alta voce che una reale affermazione. Rotwang gli gettò un'occhiata scettica mentre si stringeva la cintura.

«Vuoi sapere come la penso?»

Emir scrollò le spalle. «Certo.»

«Tu non ci crederai, ma non importa... mettiamola così. Diciamo che io non sono il solo che ti avrebbe scopato tanto volentieri sulla tua scrivania quando eri direttore, anche se sono certo che Lestournelle avesse aspirazioni un po' più passive delle mie. Sono stato chiaro?»

«Ah» ripeté Emir per la seconda volta, dato che non gli veniva in mente niente di più adeguato da dire per commentare la questione. Ma dopo un attimo, aggrottando la fronte, riprese: «Il fatto che tu sia un pervertito non significa che debba esserlo anche Valérien. Lo sai questo, vero?»

Ma osservando il suo riflesso nello specchio Rotwang ne approfittò per gettargli uno sguardo ironico attraverso il vetro. «E tu lo sai, vero, che tu non sei proprio la persona giusta per dare a me del pervertito, dopo stanotte?»

Un'allusione del genere, per ovvi motivi, Emir dovette tenersela per detta e non replicare.

«Dirai qualcosa a Valérien riguardo a ieri sera?» domandò per cambiare argomento, e Rotwang sorrise tra sé di quella brusca virata.

«Non è neppure detto che lo incontri, in realtà. Te l'ho detto, ormai passa quasi tutto il tempo in ufficio a parlare con Dale, perciò dubito che lo vedrò oggi.» Ora che era passato ad allacciarsi l'orologio al polso Rotwang era chiaramente in procinto di uscire, perciò quelle erano proprio le loro ultime battute, per il momento. «Verrò subito dopo il lavoro per darti una mano a mettere in ordine, oggi pomeriggio. Tanto ormai non dobbiamo più nasconderci, no?»

«Giusto» commentò Emir a bassa voce. «Buon lavoro, allora.»

«Grazie, e a te buon... beh, qualunque cosa tu intenda fare oggi.» Dopodiché, senza il minimo preavviso, Rotwang si chinò sul letto, lo afferrò per i fianchi e lo attirò a sé. Bloccandogli i polsi sul materasso, al di sopra del collo, Rotwang si curvò su di lui e percorse con la lingua una lunga linea sottile che discendeva dalla gola verso il basso; ma poi, proprio all'altezza dell'inguine, quando ormai Emir non pensava ad altro che a strappargli di dosso quei pantaloni e a farsi prendere là dove si trovava, Rotwang lo morse con violenza su una coscia e si sollevò con aria soddisfatta a fronteggiare il suo sguardo di protesta.

«No, Fuji, non funziona così» mormorò compiaciuto. «Stanotte ti ho fatto un favore e mi sono fatto avanti io, ma anche tu avevi voglia di farlo da un secolo e non ne hai mai trovato il coraggio. Se hai ancora voglia di scopare devi venire a chiedermelo, stanotte. Mi piacerebbe vederti supplicare.»

Dopodiché Rotwang si chiuse la giacca, gli rivolse uno sguardo di saluto e uscì dalla stanza.


Emir trascorse a letto la maggior parte della mattinata, ribollendo di rabbia e reprimendo un vago impulso di masturbarsi per vendetta, più perché non ne avesse le forze che perché si rendesse conto che era una voglia alquanto stupida; e poi sarebbe stato come riconoscere che quel dannato tedesco l'aveva prima eccitato e poi fregato, cosa che gli seccava dover ammettere.

Quando si decise ad alzarsi le dodici erano passate da un pezzo, ma si sentiva stranamente calmo quel giorno, e non provava la minima fretta. Rimase a mollo nella vasca da bagno del pianterreno finché l'acqua non divenne intollerabilmente gelida e le sue dita si riempirono di pieghe, a rievocare pigramente col pensiero i momenti della notte appena trascorsa; ma anche dopo essersi asciugato, e soprattutto dopo aver gettato un'occhiata al macello della sera precedente, non provò il minimo desiderio di mettersi al lavoro. Ne avrebbe avuto tutto il tempo dopo pranzo: ma per il momento decise di prendersela comoda, perciò si preparò la colazione e decise di scendere da Mew.

Contrariamente al solito, quel giorno Mew non gli balzò gioiosamente addosso come faceva sempre. Quando Emir s'inoltrò nel sotterraneo accendendo tutte le luci e aspettandosi di vedersela saltare al petto da un momento all'altro, le stanze rimasero vuote e immobili, silenziose, e ai suoi richiami non rispose che un'eco. A quanto pareva Mew era molto offesa per esser stata ignorata tutto il giorno precedente, ed Emir sorrise tra sé della sua permalosa puerilità.

Non si diede troppa pena di cercarla: se non era ancora saltata fuori non poteva voler dire che non voleva essere trovata ma anche che voleva essere cercata, ed Emir non intendeva accondiscendere ai suoi capricci. Perciò, sedendosi sulla solita poltrona che occupava sempre quando andava da lei, Emir si limitò a iniziare a mangiare con molta calma, ostentatamente, con aria visibilmente soddisfatta, come se neppure s'accorgesse della sua assenza, e attese.

Non durò molto a lungo. Dopo neppure un paio di minuti di sceneggiata d'un tratto egli vide brillare in un angolo della stanza, dietro una libreria, due grandi occhi azzurri risentiti e inevitabilmente curiosi; ma Emir continuò a far finta di nulla, e a poco a poco quegli occhi si fecero un muso e poi un corpo, poi una coda, e infine Mew emerse dall'ombra e si soffermò a mezz'aria, a guardarlo con aria tremendamente offesa.

Dell'accusa di quegli occhi, esattamente come di quelli di un bambino, Emir non poté fare a meno di sentirsi in colpa.

«Dai, mi dispiace» protestò allargando le braccia in segno di colpevolezza, gesto al quale – ed egli vigliaccamente lo sapeva benissimo – Mew non poteva resistere, in quanto era l'anticipo di un abbraccio. «Non è stata colpa nostra, te lo giuro. È venuta la polizia a cercarti e quando hanno finito era troppo tardi: Rotwang doveva andare al lavoro presto stamattina, e io ero veramente stanco... mi perdoni?» insisté allargando ancor più le braccia, ma anche a quel gesto, seppur visibilmente tentata, Mew rimase a distanza.

A quanto pareva, quella non era una di quelle dispute che si potevano risolvere con un abbraccio, perciò Emir sollevò vigliaccamente il piatto e chiese: «Vuoi un pezzetto di toast?»

Esattamente come i gatti, Mew provava verso il cibo che le era interdetto un'irrefrenabile curiosità, per quanto poi la maggior parte delle volte si limitasse a giocarci anziché mangiarlo. Si precipitò sulle sue ginocchia squittendo di gioia, ed Emir, adagiandosi vittorioso contro lo schienale della poltrona, poté finalmente accarezzarle le orecchie, là dove le piaceva particolarmente. «Mi perdoni allora? Te l'ho detto, non è stata tutta colpa nostra, anche se hai ragione a dire che avremmo potuto... no, non puoi bere il caffè» l'ammonì precipitandosi a strapparle la tazza dalle zampe. «Ti ricordi cos'è successo l'ultima volta, vero? E ora che c'è?»

Quando le aveva portato via la tazza Mew aveva improvvisamente cambiato espressione, ma non era indispettita, per una volta. Era stranamente incuriosita, ma solo quando reclinò un poco il muso verso di lui, cogli occhi socchiusi e le narici frementi, Emir capì qual era il problema e la cosa lo mise un po' in imbarazzo. A quanto pareva neppure un bagno di quarantacinque minuti era riuscito a cancellare del tutto l'odore di Rotwang dalla sua pelle – almeno non per il naso sensibilissimo di un Pokémon.

«È una cosa da adulti» la rimproverò per non doverle dare spiegazioni. «Non te ne impicciare, tu. Certe domande non si fanno.»

Tornò ad accarezzarla dietro le orecchie mentre lei mangiava, ma meccanicamente, quasi senza accorgersene, e mormorò: «Non me ne ricordo mai, ma tu sei adulta in realtà. Ne sai quanto me. Avevi M1...»

«Mew»approvò Mew con aria di grande serietà agitando il suo pezzetto di toast, ed Emir sorrise tra sé sovrappensiero.

Trascorse il resto della mattinata nel sotterraneo, in parte per farsi perdonare da Mew e in parte perché non aveva il minimo desiderio di tornare a vedere l'inumano disordine del piano superiore per non sentirsi in dovere di mettere in ordine. Quel giorno aveva solo voglia di poltrire e riposarsi, e il disordine sarebbe stato ancora lì quando si fosse deciso a riemergere. Non c'era alcuna fretta.

Avrebbe potuto impiegare il tempo studiando o leggendo, ma tutto ciò che decise di fare quella mattina fu restarsene sul divano a guardare i cartoni animati con Mew. Non sapeva neppure a che ora riemerse dal sotterraneo per ascendere di nuovo al mondo reale, e francamente neppure gliene importava.

Si ritrovò a vagare per le stanze vuote e i corridoi ciechi come su un campo di battaglia, guardandosi attorno pigramente più per cercare qualcosa che avesse voglia di fare che perché intendesse iniziare sul serio a fare qualcosa di utile. Si trovava in quella particolare condizione di spirito per cui soffermarsi col pensiero sui ricordi della notte passata lo eccitava piacevolmente, e chissà se sarebbe valsa la pena d'invitarlo a dormire ancora lì, quella sera...

L'eco del telefono che suonava si ripercosse tra le pareti della casa vuota come tra quelle di una valle montana, improvvisa e sconcertante come il rombare di una valanga, inaspettato a tal punto che Emir si fermò bruscamente là dove si trovava e rimase in ascolto per accertarsi d'aver sentito bene. Il suono stesso del telefono in casa sua era qualcosa che aveva udito forse una decina di volte da quando abitava lì, e tutte le volte, o quasi, s'era trattato di Dale. Ma adesso?

Fu la prima volta che maledisse la vastità della sua casa. Emir si precipitò giù per le scale col cuore in gola perché nessuno lo chiamava mai e se ora qualcuno lo chiamava non poteva essere che Rotwang, e se Rotwang lo chiamava allora doveva essere successo qualcosa...

Si gettò letteralmente attraverso la scrivania per afferrare la cornetta. «Rotwang!»

Non era Rotwang, eppure quella voce non gli giungeva nuova – ma non l'aveva solamente sentita: Emir quella voce la conosceva.

«Papà?»

«Dio, Emir, per fortuna sei in casa» esclamò suo padre con voce sensibilmente sollevata, persino attraverso il telefono; eppure, al di là di quel momentaneo sollievo, quella voce suonava ancora tremendamente preoccupata. Ma per quale motivo? «Ti volevo dire... ho pensato che dovessi saperlo. Ora non ti spaventare, ma la polizia è venuta qui. Stanno perquisendo casa mia.»


«Dottore, che piacere rivederla» esclamò sorridendo la sua segretaria quando lo vide entrare in Laboratorio. «È passato a trovarci? Vuole che vada a chiamarle...»

«Dov'è il dottor Lestournelle?» la interruppe Emir senza neppure guardarla, frugando l'edificio con occhi assenti, ed ella ebbe un attimo d'esitazione.

«Il direttore è al telefono, ma se le fa piacere la dottoressa...»

«È nel suo ufficio?» ripeté Emir con voce sorda.

«Beh, sì, ma...»

Quale altra obiezione ella avesse Emir non l'avrebbe scoperto mai. Spingendola da parte come mai avrebbe osato neppure pensare in un momento di lucidità, Emir si fece largo attraverso il laboratorio spingendo e spintonando assistenti e inservienti e donne delle pulizie che lo fissarono sdegnate e protestarono, e d'un tratto sentì dietro di sé il passo affrettato di una donna che stentava a stargli dietro.

«Emir, che ci fai qui? Che cosa succede? Ti ho visto passare mentre...»

Portia aveva subodorato il pericolo subito, non appena l'aveva visto in volto, ed Emir non perse neppure tempo a cercare di convincerla. Portia era troppo intelligente e non sarebbe servito a niente.

«Non ora, Portia.»

«Ho saputo di casa tua, mi dispiace così tanto, Emir... dev'essere stato così umiliante, ma sono certa che anche alla polizia...»

Dunque Valérien non aveva detto a nessuno d'esser stato lui ad accusarlo per far perquisire casa sua. Questo pensiero ebbe appena il tempo di formarsi nella sua coscienza, ma anche in quel caso Emir non si prese neppure il disturbo di stupirsene. Che Valérien fosse un vigliacco l'aveva dato ormai per assodato; ma quello che aveva fatto quel giorno andava al di là di ogni sua aspettativa.

Quando Emir spalancò la porta del suo ufficio, Valérien era al telefono, seduto alla scrivania con le spalle incurvate e lo sguardo profondamente abbattuto. Non doveva essersi aspettato affatto che arrivasse. Quando la porta sbatté contro il muro ed egli levò gli occhi di scatto, il suo stupore fu tale che forse neppure si rese conto d'aver riappeso il telefono senza dire una parola.

«Emir...!»

«Sei stato tu?» chiese Emir quasi senza voce. La rabbia che provava era tale ch'egli neppure si sentiva in grado di urlare: si sentiva soffocare.

«Di cosa stai parlando?» chiese Valérien inquietamente, alzandosi in piedi. Si muoveva con una strana ed esasperante lentezza, scivolando dietro il tavolo senza togliergli gli occhi di dosso, come di fronte a un animale rabbioso e imprevedibile dal quale ci si potesse aspettare ogni movimento, e che non si potesse perciò perdere di vista. «Emir, davvero, io non...»

«Hai mandato tu la polizia a casa di mio padre?»

Sentiva il sangue che gli pulsava nelle orecchie e contro le tempie a tal punto che gli pareva di non sentir più nulla, di non veder più nulla: in quel momento non gli importava di tutto ciò che suo padre aveva fatto a lui e a sua madre, di tutto l'odio ch'egli gli aveva portato per tutta la vita, di tutta la sua piccolezza, la sua chiusura, la sua ostinazione. Tutto ciò che gli importava era che Valérien aveva mandato la polizia a perquisire suo padre.

Si rese conto che non erano più soli quando Valérien guardò d'un tratto un punto al di là delle sue spalle, con l'aria supplice e disperata di qualcuno che si vedeva tagliare anche l'ultima via d'uscita, e dal suo spavento Emir seppe di chi si trattava prima ancora di sentire la voce di Rotwang domandare: «Che sta succedendo qui?»

Per una volta non era arrabbiato con lui. Aveva la fronte penosamente contratta, sospettosa, e al di sotto delle folte sopracciglia aggrottate i suoi occhi saettavano da lui a Valérien per interrogarli in silenzio senza perderli di vista un istante. Alle sue spalle Portia era affacciata appena sulla soglia senza avere il coraggio di entrare, e al suo fianco Dolarhyde pareva sul punto di trattenerla. Era evidente che Portia aveva capito subito che qualcosa non andava, e il suo primo pensiero, sapendo della loro storia, era stato di correre a chiamare Rotwang.

Di tutti gli insulti e le offese che gli venivano in mente e che avrebbe voluto urlare, Emir trovò soltanto la forza di dire: «Sta facendo perquisire la casa di mio padre.»

Rotwang non si scompose. Tutto ciò che fece fu passarsi una mano tra i capelli, voltandosi appena per incrociare lo sguardo stravolto di Portia, e chiese: «È vero, Lestournelle?»

Come se da un bel po' fosse stato sul punto di piangere e ora non potesse proprio far altro che urlare, Valérien gridò: «Ti avevo chiesto in tutti i modi di rendermi Mew, tu lo sapevi che la Silph non si sarebbe fermata...»

«No! Sei stato tu!» urlò Emir. «Mio padre ha settant'anni, tu lo sapevi benissimo! La sua credibilità era l'unica cosa che mandava avanti il suo progetto per difendere i Pokémon e ora tu hai mandato in fumo il lavoro della sua vita!»

«Valérien, hai fatto davvero questo?» domandò Portia a bassa voce, ed egli la guardò disperatamente per un istante, come se lei fosse stata fino a quel momento l'unica persona dalla quale s'aspettasse d'esser difeso e ora si scoprisse d'improvviso proprio in trappola.

«Non ti è mai importato niente dell'associazione di tuo padre, e comunque...»

«Stanno perquisendo dei bambini di dieci anni!» urlò Emir. «Tutto il lavoro di mio padre si basa sull'aiuto volontario e ora i loro genitori non gli permetteranno mai più di...»

«Fuji, ascolta... basta così» mormorò appena Rotwang alle sue spalle, toccandogli appena la schiena. Quando Emir si voltò verso di lui, aveva il volto cupo e teso, contratto e innaturalmente calmo, e non toglieva gli occhi di dosso a Valérien. «Andiamo via, lo sappiamo già che è stato lui. Non otterrai niente. Usciamo, ti accompagno al molo. Vieni, dai...»

Valérien aveva visto questo gesto di Rotwang come un'inaspettata salvezza che gli provenisse dal suo rivale, semplicemente perché quella era probabilmente l'unica cosa che potesse toglierlo da quella situazione. Aveva ricominciato a respirare solo dopo che Emir si era voltato per un istante e nelle sue parole vi era stato un attimo di pausa; e ora che tutto stava per finire ed egli era al sicuro, forse si sentiva un po' più in vantaggio di un minuto prima, e si concesse il lusso di sentirsi magnanimo e clemente.

«Puoi ancora rendermi Mew, Emir» disse gentilmente, viscidamente. «Se me la rendi, io chiamo immediatamente la polizia e ritiro la denuncia. Che ne dici?»

Ce l'avrebbe fatta a colpirlo se solo non ci fosse stata di mezzo la scrivania. Emir si ritrovò d'un tratto a dimenarsi e scalciare gridando tra le braccia di Rotwang mentre Valérien si appiattiva con un urlo contro la finestra e tutto l'arredo della scrivania rovinava a terra sotto il suo impeto, e sentì la propria voce che gridava: «Lo ammazzo come un cane, lasciami, lasciami andare!»

«Avete visto tutti? Io non gli avevo fatto niente, è stato lui che ha cercato di picchiarmi...»

«Non ne vale la pena, Emir, non ne vale la pena!» gridava Rotwang, strattonandolo indietro con le braccia artigliate attorno alle sue spalle, mentre Vincent correva ad afferrare Valérien e Portia gridava per sovrastare le loro voci: «Richard, portalo fuori di qui!»

Era tutto come allora, tutto come nella giungla. Emir si ritrovò d'un tratto in corridoio quasi senza sapere come ci fosse arrivato, a strattonare e a dimenarsi e a cercare di sciogliere la presa che gli serrava le braccia lottandovi come contro una morsa, e quella lotta e quegli strattoni durarono tanto ch'egli sentì d'un tratto mancargli le forze. A un tratto si sentì tanto stanco che finì per abbandonarsi, e Rotwang, appoggiato di schiena contro il muro per riprender fiato, ansimò dopo un po': «Se ti lascio andare, peso gallo, mi prometti che non picchi anche me?»

Era così stravolto, confuso e senza fiato che per una volta neppure il sarcasmo di Rotwang riuscì a farlo ridere, ma quantomeno Emir riebbe per un attimo coscienza di dove si trovava. Il corridoio era fresco e silenzioso,ma dalla porta aperta Emir sentiva ancora la voce di Vincent che gridava esasperato: «Ma se non ti ha nemmeno sfiorato!» Inspirò profondamente finché il suo respiro non tornò regolare.

«L'avrei voluto ammazzare, Richard» disse con voce calma, tranquillamente, come gli avrebbe comunicato qualsiasi altra notizia. Aveva usato il suo nome intenzionalmente, per chissà quale motivo. Era la prima volta in assoluto che lo pronunciava in vita sua, e aveva un suono sorprendentemente gradevole per quanto egli fosse certo di non pronunciarlo bene quanto il suo cognome; ma era più facile dirlo con la schiena contro il suo petto, senza guardarlo in faccia.

«Benvenuto nel mio mondo.»

«No, io... oh, non importa. Lascia stare» mormorò Emir quasi senza voce, ma subito Rotwang riprese piano: «Lo so che cosa intendi. Ne hai tutte le ragioni, Fuji, ma lascia stare, davvero. Non ne vale la pena.»

«Tutto il lavoro di mio padre, Rotwang» ripeté Emir dolorosamente. «È vero quello che ho detto a Valérien... tutto il lavoro di mio padre si basa sull'aiuto e sulle donazioni volontarie. Che cosa credi che succederà ora che è disonorato?»

Rotwang tacque per qualche momento.

«Non gli troveranno Mew in casa, Emir» gli ricordò dopo un po'. «Tuo padre è innocente. È come hai detto tu ieri: non ha nulla da nascondere, e ora la polizia non può che dimostrare che tuo padre non ha fatto niente.»

Non era così semplice. Emir non avrebbe saputo dire per quale motivo quel ragionamento che il giorno prima gli era parso tanto logico e consequenziale, e che per qualche ora l'aveva fatto sentire onnipotente e quasi immortale, quel giorno invece non lo soddisfacesse più, e applicato al caso di suo padre gli sembrasse persino ridicolo, ma tale era: la credibilità del signor Fuji era tutto per lui e per i Pokémon che difendeva, e in quel momento essa era messa a rischio per un'azione che era stato Emir, e non suo padre, a compiere.

Rotwang doveva essersi accorto del suo silenzio, perché cercò un modo per strapparvelo. «Se ti sei calmato ti lascio andare, Fuji. Prima che passi qualcuno e ci veda abbracciati. Che ne pensi, eh?»

Emir obbedì alle sue parole quasi macchinalmente. Dall'interno dell'ufficio provenivano ancora le voci concitate dei loro colleghi, quella sovreccitata e confusa di Valérien più alta di tutte le altre, ma ben presto, quasi sicuramente, Portia sarebbe uscita a cercarli, ed Emir non aveva alcuna voglia di parlare con lei o di dare spiegazioni a nessuno.

Rotwang passò un solo istante nel proprio ufficio a prendere il cappotto e a chiudere la porta prima di accompagnarlo fuori, più con la decisione di un buttafuori che di un compagno, ed Emir lo lasciò svogliatamente fare. Era troppo turbato per poter muovere la minima obiezione. Non aveva neppure realizzato di dover andare a Lavandonia finché Rotwang non aveva dato per scontato che l'avrebbe fatto, ma ora che l'aveva detto quell'idea era diventata ovvia, logica, naturale. Era quello che ci si aspettava da lui, era quello che doveva fare, e ciò che pensasse di suo padre, in quel momento, non aveva la minima importanza.

Era da talmente tanto tempo che Emir non usciva di casa che l'isola gli appariva quasi nuova, come al ritorno dopo un lungo viaggio. V'era una nebbia già alta, sgradevolmente appiccicosa, ed entro breve sarebbe tramontato il sole.

Camminare per strada, tra le case variopinte e le vie strette e arroccate dei villaggi di pescatori, in mezzo a compaesani che sapevano benissimo chi lui fosse e che cosa fosse accaduto a casa sua il giorno prima, gli dava la sgradevole sensazione di disagio d'esser fissato ovunque e da ogni parte, d'avere addosso centinaia di occhi che lo scrutavano; ma Rotwang camminava sicuro e risoluto, a testa alta e senza guardare nessuno, ed Emir si sentì un po' meno a disagio al suo fianco.

C'era un traghetto in partenza di lì a mezz'ora, ma Rotwang non gli permise di fare il biglietto e lo obbligò ad aspettarlo al bar. Macchinalmente, senza sapere che cosa si facesse né perché, Emir si sedette e obbedì. Aveva la strana sensazione d'essersi cacciato in un labirinto dal quale non sarebbe mai più riuscito a trovare l'uscita e in cui ben presto l'aria sarebbe finita.

Rotwang tornò dopo pochi minuti portando un biglietto appena comprato e una tazza di camomilla. Emir accennò un sorriso.

«Non mi piace la camomilla.»

«Beh, sarà bene che ti piaccia, invece. Quanti anni hai, dieci?» lo rimbrottò Rotwang per tutta risposta. «Con le benzodiazepine i risultati sono stati pietosi, perciò il mio parere medico è quello di passare alla fitoterapia, che ne dici? Ecco qua: zuccherala, se ci tieni.»

A quanto pareva quello era l'unico modo di Rotwang di manifestargli il proprio appoggio, come farlo vomitare o coprirlo del proprio cappotto; e poiché sua madre gli aveva insegnato ad accettare la gentilezza per quello che era, Emir accennò a berne un sorso, più per compiacerlo che per altro. Rotwang rimase a fissarlo in silenzio per un po'.

«Mi dispiace per tuo padre. Non doveva entrare in questa storia.»

«Se io non fossi andato da lui quella notte, non sarebbe mai successo» rispose Emir, e per un attimo Rotwang parve non sapere cosa rispondere di fronte a quell'obiezione. Faceva un effetto strano vedergli addosso la sua camicia.

Il bar della sala d'attesa era deserto, e dopo essersi gettato un'occhiata attorno gli parlò ancora. «Abbiamo fatto un sacco di cazzate, Fuji, ma andrà bene. Migliorerà. Possono perquisire anche casa mia se vogliono, anzi è probabile che lo facciano, quasi ci spero: e dopo? Che cos'avranno in mano?»

Gli pareva impossibile d'aver pensato lo stesso solo il giorno prima, d'esser stato folle e tracotante e arrogante a tal punto da sfidare quasi da pari a pari Valérien, la polizia e la Silph; quel giorno gli sembrava ormai lontanissimo. La verità era che Valérien aveva ragione, era tutto vero, la Silph non si sarebbe fermata innanzi a niente; e finché non si fossero liberati di Mew, in qualsiasi modo, allora la Silph e il mondo li avrebbero sorvegliati sempre e non sarebbero stati in pace mai.

«Hai ragione» disse invece, perché quello che pensava realmente era troppo angoscioso da dire ed era meglio tacere.

Rotwang ne parve rassicurato, forse perché la sua convinzione si rafforzava nel sentirsi condivisa. «Ti aspetterò da te stasera, se pensi di tornare a dormire. Ma se preferisci fermarti a Lavandonia basta un colpo di telefono. Siamo intesi?»

Profondamente grato che avesse cambiato argomento e di non esser più chiamato a dare il suo parere sulla vita che li aspettava, Emir si limitò ad annuire. «Certo, io... credo che dipenda da come sta mio padre. Alla sua età, sai...»

«Vuoi che venga con te?»

Quella strana inusuale gentilezza gli giunse così inaspettata che Emir ebbe bisogno di un istante per convincere se stesso che sì, di fronte a lui c'era Rotwang, che era ancora Rotwang, e che per un solo momento aveva deciso di essere semplicemente, gratuitamente gentile. Ma la cosa lo metteva a disagio per la sua intimità – o di qualsiasi altra cosa si trattasse – e il suo primo impulso fu quello di ristabilire gli equilibri tra di loro.

«Scopiamo una volta e già ti prendi tutta questa confidenza?»

Rotwang rise.


Quando raggiunse la casa di suo padre, quel pomeriggio, la perquisizione doveva essere terminata, ma la strada era gremita da un capo all'altro di giornalisti, curiosi e fotografi. A presidiare l'ingresso della via, bloccando quasi del tutto l'accesso alle automobili, si era raccolto persino un gruppo di sostenitori del Centro Pokémon Volontario, e per la prima volta in vita sua Emir li guardò con un po' di simpatia. Non poteva esserci un uomo più benvoluto a Lavandonia del signor Fuji, quantomeno.

Si fece largo attraverso la folla che si assiepava attorno al giardino affondando il capo nel bavero rialzato del cappotto, ignorando le voci e i tramestii e tutto ciò che lo circondava, e salì di corsa la scala esterna che portava in casa. Era stata sua madre a insistere per far costruire quella scala, quando ancora era troppo piccolo per poterselo ricordare, per rendere un po' più indipendente l'abitazione privata dal Centro Volontario che occupava tutto il piano terreno. Naturalmente suo padre si era opposto, aveva controbattuto, obiettato e borbottato, perché non vedeva per quale motivo ci fosse bisogno di un'altra scala quando fino al matrimonio lui se l'era sempre cavata tanto bene passando dal Centro per salire in casa; e se alla fine si era deciso a farla costruire non era stato perché le argomentazioni di sua madre lo avessero convinto, o perché egli volesse darle la soddisfazione di sentirsi padrona in casa propria e non un'ospite, ma solo perché Emir non disturbasse continuamente i Pokémon e i volontari correndo fuori a giocare. Eppure quel giorno neppure quel pensiero riuscì ad adirarlo.

Emir suonò e bussò alla porta per quasi cinque minuti di seguito, sentendosi addosso lo sguardo fisso dei giornalisti e dei curiosi e i clic delle fotocamere senza ottenere alcuna risposta. Si sentiva bruciare in volto di vergogna e di rabbia al pensiero che tutti sapessero che qualcosa gli sfuggiva; ma perché suo padre non gli apriva?

E poi la risposta gli venne in mente con la facilità di qualcosa proprio ovvio che avesse avuto sotto gli occhi fin dall'inizio ma che fino ad allora gli era sfuggito: a suo padre non interessava nulla di casa sua rispetto a quanto amava il Centro.

Si diede dello stupido da solo mentre scendeva le scale di corsa. Per un istante, quando raggiunse la porta d'ingresso principale che conduceva al Centro, ebbe paura di trovarla chiusa e di dover di nuovo bussare e aspettare sotto gli occhi di tutti; ma per fortuna neppure di fronte all'umiliazione della perquisizione e della pubblica gogna gli alti e nobili ideali di suo padre, che aveva sempre voluto che il Centro restasse aperto per chiunque, erano venuti meno. La maniglia cedette sotto la sua spinta, la porta si aprì e si richiuse subito alle sue spalle, ed Emir si ritrovò d'un tratto immerso nel fresco e nel buio del Centro Pokémon Volontario di Lavandonia.

Non ci tornava da più di sei anni, e a dire il vero neanche quando abitava là aveva mai voluto andarci troppo spesso, malgrado tutte le esortazioni di suo padre. Lo conosceva come le sue tasche, certo, per avervi passato gran parte della sua infanzia a giocare coi Pokémon che vi abitavano; e anche così com'era ora, appoggiato al buio contro la porta, senza neppure aprire gli occhi, egli avrebbe saputo descrivere con precisione ogni singolo dettaglio della stanza: anche dopo tutti quegli anni, conoscendo suo padre, era certo che non fosse cambiato niente. Ma poi quel posto aveva cominciato a essere sempre più soffocante da quando sua madre se n'era andata, a misura ch'egli aveva acquisito la ragione ed era divenuto sempre via via più consapevole che era colpa di quel posto se sua madre non c'era più, e che era quello che quel posto rappresentava a essere molto più importante di lui per suo padre; e alla fine aveva smesso del tutto di andarci. Suo padre non aveva mai insistito molto a quel proposito, naturalmente, perché per lui contavano solo le entusiastiche e incondizionate adesioni dei suoi ferventi adepti volontari, mentre di neofiti incerti, astiosi e refrattari, che amavano i Pokémon ma non erano disposti a votare tutti se stessi alla lotta contro le leggi e la società in loro difesa, non se ne faceva nulla; eppure Emir avrebbe quasi preferito che l'avesse obbligato. Ciò che lo faceva infuriare era che suo padre non riusciva neppure a concepire ch'egli potesse avere un valido motivo per odiare quel posto, e questo perché suo padre non aveva saputo mettersi in dubbio mai. Nella sua personale visione del mondo, egli aveva ragione e suo figlio gli dava contro solo per il gusto di ribellarsi al proprio padre. Ch'egli potesse avere una qualche ragione più intima e personale per tutto ciò, naturalmente, era fuori discussione.

Lo riscosse un uggiolato basso e lamentoso. Quando Emir abbassò gli occhi per cercare di scovarne l'origine, tutto ciò che vide sulle prime fu un grosso tartufo nero spuntare da sotto un tavolo, ma dopo un istante a esso si unirono due zampe tozze che rasparono il pavimento e un muso solcato da grandi occhi fiduciosi, ed egli riconobbe Growlithe.

Si ricordava bene di quando Growlithe era arrivato al centro, ormai quindici o diciassette prima: era stato abbandonato dal padrone quando s'era accorto di non si sapeva bene quale imperfezione nel suo pedigree, uno di quei tecnicismi quasi impercettibili che lo escludeva da certe competizioni di bellezza per Pokémon. Suo padre l'aveva accolto subito, facendone per mesi il caposaldo della sua battaglia contro le inumane mostre che mettevano in luce i Pokémon come oggetti o beni di consumo, e la faccenda era finita sui giornali per un po', finché era durato un idealistico botta e risposta con le principali associazioni che organizzavano quel tipo di competizione. Era un bel cucciolo all'epoca, enormemente grato ed entusiasta del mondo, ed Emir avrebbe tanto voluto adottarlo e tenerlo per sé, ma non aveva mai avuto il coraggio di confessare quel desiderio a suo padre sapendo già quale sarebbe stata la risposta; e alla fine si era ritrovato a odiarlo dal momento che non avrebbe mai potuto averlo.

I Growlithe erano Pokémon estremamente protettivi e territoriali, ma quello non si mise ad abbaiare, e in quel momento a Emir fu chiaro che nonostante ormai fosse vecchio e abbattuto e fossero passati più di sei anni dall'ultima volta che si erano visti, l'aveva riconosciuto.

«Ehi» mormorò inginocchiandosi per accarezzarlo, e Growlithe sbavò di contentezza e gli lambì la mano. «Sei sempre in gamba tu, eh? Hai visto dov'è mio padre?»

«Chi c'è di là? È entrato qualcuno?»

«Trovato» mormorò Emir strizzandogli l'occhio, e Growlithe guaì in segno d'approvazione. Si alzò in piedi spolverandosi i pantaloni con le mani. «Papà, sono io... sono Emir. Non preoccuparti.»

Rumore di passi strascicati e pesanti, innaturalmente affrettati, e poi suo padre si affacciò sulla soglia dell'ingresso a guardarlo. Era ancora in vestaglia, con la barba non fatta, come appena alzato nonostante fosse ormai pomeriggio inoltrato, ed Emir si sarebbe vergognato al pensiero che suo padre si fosse presentato così alla polizia e alla stampa se non fosse stato anche troppo consapevole del fatto che, con ogni probabilità, era così che suo padre trascorreva la maggior parte delle sue giornate.

«Emir... sei venuto» constatò, e dopo un attimo, quasi a darsi un tono: «Non me l'aspettavo. Non ti ho chiamato per questo, non eri obbligato a...»

«È stata tutta colpa mia» esclamò Emir, e d'improvviso fu di nuovo com'era sempre stato per lui di fronte a suo padre: forse perché quel luogo destava in lui così tanto e così tanti sentimenti ch'egli neppure riusciva ad analizzare, egli si sentì di nuovo di fronte a suo padre come il ragazzo che disperatamente avrebbe voluto farsi ascoltare e che non ci riusciva. «Se io non fossi mai venuto qui quella notte, non sarebbe mai accaduto nulla...»

«Emir» lo interruppe suo padre, ma la sua voce era assieme calma e severa, troppo autorevole e inflessibile per poterle controbattere, ed Emir ammutolì all'istante. «Lo sai che non m'importa. Hai fatto la cosa giusta: queste sono soltanto cose e non valgono nulla in confronto a quello che hai fatto. Si aggiusterà tutto, perciò...»

«Dove sono tutti i volontari?» chiese Emir ansiosamente. La casa era troppo silenziosa e vuota, tutto era immobile, ed egli non ricordava che fosse mai stata così. Suo padre scosse la testa come a far cenno di non preoccuparsi.

«Li ho mandati tutti a casa, non volevo che restassero qui» si affrettò a rassicurarlo suo padre, questa volta molto più seriamente. Si era iscurito in volto, di certo perché ripensare a quei ragazzi lo addolorava molto. «La polizia ha insistito per perquisirli, ma poi mi hanno permesso di rimandarli a casa... oh, ma come si fa a perquisire dei ragazzi di dodici anni? Hanno guardato persino nelle loro cartelle di scuola...»

«Suppongo che per la legge siano abbastanza grandi» commentò Emir a bassa voce, per non saper che dire; ma per fortuna suo padre non gli diede retta e proseguì sulla sua linea di pensiero.

«E poi come! Pensare che io, quand'anche avessi voluto... mi sarei servito dei miei bambini per nascondere un Pokémon rubato! Quando lo sanno tutti benissimo che abbiamo sempre fatto della legalità il nostro cavallo di battaglia...»

A quelle parole Emir evitò cautamente di rispondere, perché della legalità lui e suo padre avevano sempre avuto concetti diversi e un po' antitetici e non gli pareva il caso di litigarne proprio in quel momento, e volse lo sguardo attorno a sé per cercare un pretesto valido per cambiare argomento. La casa era in disordine esattamente come la sua, e questo gli fornì subito l'appiglio necessario. «Riposati un po' adesso, papà. Ti do una mano a mettere in ordine, vuoi? Tu puoi andare un po' a letto.»

Suo padre scosse appena il capo. «Bevi una tazza di tè con me, Emir, ti va? Abbiamo tempo per riordinare, e poi gli avvocati non vogliono che tocchi niente qua sotto, per il momento: vengono domani a fare le foto... e poi tu sei troppo magro. Sei dimagrito ancora dall'ultima volta che ti ho visto?»

«Non ne ho idea» rispose Emir, sinceramente stupito, dal momento che il suo peso era davvero l'ultimo dei suoi pensieri. Ma era venuto lì per mostrarsi conciliante, e quella era proprio la sua intenzione. «Però mi andrebbe proprio una tazza di tè. Andiamo al piano di sopra?»

L'appartamento privato versava nelle medesime condizioni del Centro Volontario, ed Emir provò un'irragionevole fitta di dolore alla vista di tutti gli oggetti che avevano segnato la sua infanzia sparpagliati al suolo come spazzatura rovesciata da un bidone. Ma suo padre non parve neppure farci caso, ed Emir si accomodò obbedientemente a tavola mentre suo padre armeggiava davanti al vecchio fornello a gas. Cercò qualcosa da dire per ingannare il silenzio. «A Lavandonia hai ancora molti sostenitori. Ho visto della gente giù, con degli striscioni...»

«Già, e i giornalisti non li hai visti?» gli fece eco suo padre scuotendo il capo. Tirò un sospiro profondo. «Non lo so, Emir. Bisogna vedere come ne parleranno i giornali, come la prenderà la gente... la televisione, soprattutto. A Lavandonia tutti mi conoscono e sanno che non avrei mai fatto una cosa del genere, ma fuori da qui è diverso. Noi viviamo di donazioni. Quelle di Lavandonia non basterebbero a mandarci avanti per un anno; e per quanto riguarda le sovvenzioni statali...»

«Capisco» lo interruppe Emir, che non aveva mai avuto l'intenzione di farsi trascinare in una lunga dissertazione sui massimi sistemi dell'associazione, e rinunciò a cercare altro da dire per colmare il silenzio fino a che non furono seduti entrambi di fronte a un tè fumigante.

«Non ti ho chiesto neppure della perquisizione di ieri» riprese suo padre un po' in imbarazzo, come a cercare anche lui qualche cosa da dire, ed Emir levò gli occhi di scatto.

«L'hai saputo?»

«Emir... è su tutti i giornali.» Suo padre aggrottò la fronte. «Non lo sapevi?»

La notizia lo colse un po' alla sprovvista. Non ricordava neppure quando avesse letto un giornale l'ultima volta, a dire il vero; e poi quel giorno non ci aveva neppure pensato. Quando era uscito di casa di corsa era stato solo per andare a picchiare Valérien il più violentemente possibile; di passare dall'edicola poi non gli era passato neppure per la mente.

«Mi sono isolato un po' nell'ultimo periodo» ammise a malincuore. «Da quando ho perso il lavoro e tutto il resto, sai.»

«Oh, giusto, io... neppure per quello ti ho mai detto nulla. L'ho saputo, ma non sapevo come l'avresti presa se ti avessi chiamato, perciò ho preferito...» Tacque per qualche secondo, come a cercare il coraggio di dire qualcosa che si doveva dire, ed Emir aspettò in silenzio. «Se ti avessi telefonato ti avrei detto che ero molto orgoglioso di te, Emir. Che hai fatto la cosa giusta, per una volta, e che il fatto che tu abbia perso il lavoro...»

«Non l'ho fatto perché tu fossi fiero di me» ribatté Emir impetuosamente, abbattendo la mano sul tavolo con un po' troppa irruenza rispetto a quanto avrebbe voluto; fu solo l'espressione esitante di suo padre gli impedì di aggiungere altro. Non era venuto lì per litigare, ripeté a se stesso, anche se i suoi propositi si stavano facendo sempre più difficili da mantenere.

«No, certo... non volevo dir questo» si affrettò a specificare suo padre in tono assai più conciliante, con la voce cauta e quasi melensa di qualcuno che volesse fare un complimento a tutti i costi. «Quello che volevo dire è che quello che hai fatto è veramente ammirevole. Ho la sensazione che tu sia maturato molto da quando te ne sei andato. Il fatto che tu abbia preferito perdere il lavoro che venir meno ai tuoi principi, e che salvare Mew ti sia parso più importante che continuare a lavorare per una multinazionale capitalista e sfruttatrice che...»

Emir afferrò la tazza e la scaraventò contro il muro.

Non l'aveva fatto intenzionalmente. Non se n'era quasi neppure reso conto, a dire il vero, e dentro di sé si sentiva ancora talmente lucido e freddo che osservò il liquido spargersi al suolo tra i cocci infranti quasi con stupore, in silenzio, e stranamente calmo. Aveva agito d'impulso, senza riflettere, pur di metterlo a tacere, e suo padre balzò in piedi esterrefatto e gridò:«Emir...! sei impazzito?»

Di fronte all'incredulità di suo padre Emir continuava a sentirsi divampare il petto di rabbia, ma d'una rabbia che era bruciante e assieme calma, razionale e controllata come una colata di lava, e molto più distruttiva.

«Io non ero venuto qui per litigare con te, papà» sibilò.

Gli occhi di suo padre continuavano a non trovar pace, passavano incessantemente dalla tazza infranta ai piedi del muro a lui, ed egli pareva a corto di fiato. «Non stavamo litigando, stavamo solo...»

«Tu stavi» lo interruppe Emir. «Tu stavi parlando di ciò che per te è giusto secondo i tuoi canoni di giudizio, come fai sempre. Ma stavi parlando con me, non ai giornalisti a una conferenza stampa, e non ti è neppure passato per la mente che forse io potessi non esser contento quanto lo sei tu d'aver perso il lavoro...»

Suo padre s'impettì di scatto, come punto sul vivo, ed esalò: «Non è vero, questo non è giusto! Io non ho mai...»

«Vuoi negare che ti faccia piacere che io non lavori più per la Silph, adesso?»

Negare a questa domanda non era possibile, mentire non era possibile: quand'anche vi avesse provato tutto, tutto negli occhi di suo padre lo avrebbe tradito. Non avrebbe potuto essere diversamente: il celebre signor Fuji di Lavandonia non poteva non essere felice che suo figlio finalmente si fosse distaccato da quel mostro inumano e torreggiante sopra le città e i Pokémon che era la Silph, e che egli aveva avversato per tutta la vita. Ma di fronte a suo figlio, e per di più a un figlio tanto intollerante e disubbidiente, ribelle e cocciuto come un cavallo selvaggio, nessuna delle ben temprate armi d'eloquenza del signor Fuji poteva funzionare, e fu il padre a doversi esporre in prima persona.

«Emir, tutti i padri vogliono il meglio per i loro figli...»

«Ma tu no, non è vero?» ringhiò Emir senza distogliere lo sguardo. Voleva obbligarlo a chinare gli occhi, voleva vederlo arrossire, impallidire. «Tu non l'hai mai voluto. È così facile da dire, suona così bene da dire, non è vero? Che tutti i padri vogliono il meglio per i figli, e dirlo non richiede il minimo sforzo. Ma tu avresti soltanto voluto che io diventassi come te...»

«Io non ti ho mai obbligato, mai!» ribatté suo padre duramente, con voce fattasi improvvisamente più agguerrita, ed Emir ebbe uno scatto di rabbia.

«Certo che no! Anche io avrei dovuto aderire spontaneamente alla tua morale, senza dubbi, gioiosamente, fanaticamente, altrimenti non avrebbe avuto valore! Ma tu eri troppo sicuro di te per poterti anche solo chiedere che cosa pensassi io, che cosa pensasse la mamma...»

L'espressione di suo padre mutò di nuovo, ma stavolta non sembrava più arrabbiato con lui. Appariva semplicemente molto stanco, quasi desolato, e si limitò a chinare gli occhi per un momento, improvvisamente triste.

«Oh, Emir» mormorò. «È proprio necessario parlare di tua madre? Dopo vent'anni...»

Vent'anni. D'improvviso la reale entità di quel lasso di tempo, che fino ad allora non era stato per lui che un numero allo stesso pari di altri e sul quale non si era mai soffermato a riflettere, lo colpì come un urto in pieno petto: erano trascorsi vent'anni davvero da quel giorno lontanissimo in cui sua madre li aveva lasciati, ed entrambi erano invecchiati di quel medesimo periodo. L'avrebbe creduto mai, all'epoca, che vent'anni senza sua madre sarebbero trascorsi così, in un battito di ciglia?

«Se ne avessimo parlato allora, forse oggi non ce ne sarebbe bisogno» ribatté Emir sarcasticamente, e suo padre ebbe un gesto d'esasperazione.

«Ma noi ne abbiamo parlato! Ne abbiamo parlato fino a sfinirci, abbiamo analizzato la questione in tutti i modi in cui...»

«Tu ne hai parlato» disse Emir con durezza.

«E chi altri avrebbe dovuto?» esclamò suo padre allargando le braccia. «Emir, io ho fatto del mio meglio. Avevo un'associazione, avevo te, ero solo... ho fatto quello che mi dicevano gli psicologi, gli insegnanti, i vicini di casa, ho fatto tutto quello che potevo: tua madre ci aveva appena abbandonati, e io...»

«Aveva abbandonato te» lo interruppe Emir. «Non me.»

Come incapace di controbattere a quell'informazione, suo padre sedette di nuovo a tavola. Non fece commenti. Si limitò a osservarlo in silenzio per un po', pensierosamente, come se neppure lo riconoscesse.

«È curioso, Emir» commentò infine stancamente, quasi senza espressione. «Ero sicuro di ricordare d'esser stato io a crescerti per quattordici anni da solo, ma alla mia età capita di sbagliare.»

Se avesse potuto l'avrebbe scosso, l'avrebbe picchiato, avrebbe colpito in faccia quell'orribile vecchio che faceva del sarcasmo su di lui, su sua madre, su... ma quell'impulso passò. Emir s'aggrappò al bordo del tavolo con tanta forza da sbiancarsene le nocche e riprese molto lentamente: «La mamma se n'è andata perché non voleva più te, non me. Perché doveva essere tutto come volevi tu, perché lei aveva sposato te ma tu pretendevi che avesse sposato anche i tuoi ideali; perché non potevamo comprare una lavastoviglie né fare una vacanza perché tu potessi dimostrare al mondo che tu eri un uomo semplice e umile del piccolo proletariato...»

Col volto illividito di rabbia e di sdegno, suo padre faticò ad articolare: «Sei ingiusto con me, Emir. Tua madre era libera come lo ero io, ma sapeva a cosa andava incontro sposandomi. Sapevo che non potevo prometterle nient'altro che questa casa e le andava bene, solo che a un certo punto ha deciso che non le bastava più e ha deciso di andare altrove. Non sei giusto con me.»

Ma questo non era affatto quello che Emir ricordava, non era così che erano andate le cose! Ciò che ricordava, precisamente come se fosse avvenuto il giorno precedente, con la medesima intensità, era sua madre che doveva supplicare per giorni per poter comprare un rossetto; era sua madre che giungeva le mani, in piena notte – quando lui avrebbe dovuto essere a dormire da un pezzo e invece era sveglio e osservava tutto – per pregare suo padre di comprargli un giocattolo costoso soltanto per quel compleanno; era sua madre che supplicava, inginocchiata di fronte all'irriducibile durezza di suo padre...

Emir ricordava tutto, ma non era questo che bisognava dire, perché dirlo avrebbe voluto dire supplicare e perdere, proprio come sua madre; ma lui non voleva supplicare – Emir voleva colpire e vincere.

«Tu non ricordi, vero, che io e la mamma uscivamo sempre quando tu eri impegnato al piano di sotto?» iniziò lentamente, senza distogliere lo sguardo da lui neppure per un istante. Per tutta risposta, suo padre allargò di nuovo le braccia con gesto esasperato.

«Dio, Emir, come vuoi che mi ricordi? Sono passati vent'anni...»

«No, papà, non è così che stanno le cose. Tu non te lo ricordi perché non ce lo hai mai chiesto» ribatté Emir. «Non ti sei mai preoccupato affatto di sapere che cosa facessimo io e la mamma per tutto il tempo che tu passavi a salvare il mondo, e la mamma non te l'ha mai detto perché evidentemente non ti interessava abbastanza. Ma la mamma ha passato mesi e mesi a informarsi in comune e negli uffici e nei consultori per scoprire come avrebbe potuto ottenere la mia tutela legale per portarmi via con sé se ti avesse lasciato senza che tu potessi fare nulla per riavermi indietro. Se non mi ha portato con sé è stato soltanto perché tu mi avresti rivoluto sempre e non ci avresti lasciati liberi mai...»

Se questa notizia lo sconvolse o lo distrusse, o anche solo lo addolorò nel profondo, in quella parte di lui che, per almeno un minuto della sua vita, doveva aver sofferto ed esser stata umiliata dalla fuga di sua moglie – perché quella parte doveva esistere, Emir ne era certo o quantomeno aveva bisogno di crederlo: anche per un momento solamente, suo padre doveva avere sofferto! - egli non lo diede a vedere. Accolse quella scoperta in silenzio, dignitosamente, colla schiena ricurva sulle ginocchia, senza reagire. Quando sollevò gli occhi su di lui, essi erano divenuti enormi e spenti, vuoti.

«Volevi andare con lei, quindi» mormorò. «Hai sempre voluto andare con lei.»

Era la prima volta che Emir aveva occasione di dirlo.

«Sì.»

«È per questo che mi hai sempre odiato, dunque. Perché avresti voluto andare con lei, ma invece sei stato costretto a rimanere con me...»

«Non è stato sempre per lei» rispose Emir, e si sentì quasi stupito che si potesse banalizzare tutto ciò che per tutta la vita era stato l'odio per suo padre con quelle parole soltanto. «È stato perché ho visto lei supplicare sempre e te non cedere mai anche se sapevi benissimo che lei non aveva nient'altro al mondo che non fossimo noi due; è stato perché è per colpa tua che lei se n'è dovuta andare; ma poi è stato perché non hai mai capito che il mondo non è solamente come lo vedi tu, che io non ero sbagliato solo perché non m'interessava quel mondo come lo vedevi tu...»

Gli occhi di suo padre non celavano più alcuna luce quando tornò a guardarlo. Non sembrava neppure triste: era soltanto esausto, infinitamente stanco.

«Che cosa vuoi che faccia, Emir?» domandò solamente. «Ora che finalmente mi hai detto tutto quello cui hai pensato negli ultimi vent'anni, ora che mi hai dato la colpa di tutto, che mi hai detto che tua madre mi avrebbe amato ancora se solo io non fossi stato la persona che sono... non ho le forze per reagire, Emir, dunque che cosa vuoi che io faccia?»

Fu improvvisamente strano e sconcertante realizzare che quella vendetta ch'egli aveva immaginato e pregustato per vent'anni, accarezzandola con la fantasia negli abissi del proprio rancore, non dava la soddisfazione ch'egli si era sempre aspettato, e che lottare contro un vecchio che si proclamava sconfitto con tanta facilità dalle sue ragioni non era la lotta eroica e senza quartiere che aveva sempre sperato. Era stranamente insoddisfacente, come infierire su un vecchio malato senza che nulla fosse in grado di cambiare il passato. Se suo padre si fosse ribellato e opposto, se si fossero stagliati entrambi in difesa dei propri ideali fieri e titanici come due nemici, forse Emir avrebbe sentito d'aver vinto; ma di fronte alla sua rabbia non si ergeva nemmeno un nemico. C'era solo un vecchio che ora non poteva più incolpare nessuno al di fuori di se stesso per aver perduto sua moglie e suo figlio.

Sì sentì d'un tratto denudato e stanco, affranto, e continuare a urlare gli parve inutile e controproducente.

«Non lo so, papà» rispose a bassa voce. «Non lo so più. È troppo tardi ormai. Sono passati vent'anni.»

«Giusto» disse suo padre chinando lo sguardo. «Sono passati vent'anni.»


La casa era vuota e fresca, enormemente silenziosa. Chiudendo la porta alle proprie spalle, Emir concesse a se stesso di appoggiarvisi di schiena per un istante, socchiudendo gli occhi nel buio, e inalò profondamente il profumo della sua casa. Sapeva di polvere e di umidità e forse un po' di salmastro, e tutto il corridoio d'ingresso era ancora ostruito dal caos del giorno precedente; ma era casa, e casa voleva dire riposo e non dover più pensare a nulla, tantomeno a suo padre.

Si trascinò al buio verso le scale con l'unico desiderio di infilarsi a letto e dormire, dormire e non pensar più a niente: era così stanco che non aveva neppure fame.

La luce si accese quando passò davanti al salottino sulla scogliera e a voce cauta, un po' assonnata di Rotwang domandò: «Fuji... sei tu?»

Dio, Rotwang. Si era completamente scordato che gli aveva promesso di aspettarlo, e con ogni probabilità, se non fosse stato lui accorgersi che era tornato, Emir avrebbe finito per andarsene a dormire senza neppure ricordarsi di lui; ma quantomeno Rotwang gli aveva evitato almeno quest'imperdonabile gaffe. Si sforzò di reprimere la stanchezza che lo assaliva quando entrò in salotto per salutarlo. «Ehi... non pensavo di trovarti ancora qui.»

C'era qualcosa di diverso in quella stanza rispetto alla sera precedente, qualcosa che a una prima occhiata non riuscì a individuare con certezza; ma gli bastò gettarsi uno sguardo attorno per capire. Era tutto in ordine – o meglio non precisamente nell'ordine in cui era sempre stato, ma non c'era più nulla di sparpagliato a giro per la stanza: i libri erano stati sistemati in ordinate pile ai piedi della libreria, le lampade e i soprammobili riposti sui divani e sulle mensole e i cuscini ricollocati su divani e poltrone.

«Te lo avevo detto che sarei rimasto a meno che tu non mi avessi detto che non ce n'era bisogno, e io non ho ricevuto nessuna chiamata, perciò...» In panciotto e camicia, con le maniche arrotolate fino ai gomiti, Rotwang aveva l'aria di osservarlo con grande attenzione. S'interruppe per un attimo, colla fronte contratta, quando si rese conto del suo stupore. «C'è qualcosa che non va?»

«Hai messo tu in ordine qui?» domandò Emir accennando alla stanza, e Rotwang si limitò a stringersi nelle spalle.

«Non avevo niente da fare mentre ti aspettavo, quindi... ho realizzato troppo tardi che non avevo idea di dove stesse tutta la tua roba, perciò alla fine l'ho soltanto tolta di mezzo. Però almeno non rischiamo d'inciamparci, no?»

«Oh... grazie» balbettò Emir un po' stupito, e Rotwang tornò a scrollare le spalle come se ogni commento fosse superfluo. Continuò a tenerlo d'occhio per un po', in silenzio, mentre Emir si sfilava il cappotto e si abbandonava a sedere su una poltrona. Si decise a parlare solo dopo un po'.

«Come sta tuo padre?»

«Bene» rispose Emir meccanicamente, quasi senza riflettere, e non perché avesse intenzione di mentire, quanto perché veramente non aveva nessuna voglia, né tantomeno la forza, di soffermarsi a riflettervi. Rotwang rimase in silenzio.

«Solo... bene?»

Emir cercò dentro di sé qualche altra frase di circostanza da propinargli. «Era un po' stanco.»

«Oh, posso immaginarlo.» Annuendo gravemente col capo, colle mani strette nelle tasche, Rotwang andò a sedersi sul divano di fronte a lui con aria pensierosa. Starsene seduti così com'erano ora, in silenzio, nella gran pace notturna della villa silenziosa, era stranamente rilassante, a tal punto che Emir quasi non aveva più sonno. Rotwang si prese ancora qualche istante di silenzio prima di parlare. «Chiariamoci un po', Fuji. Questa è una di quelle conversazioni in cui devo obbligarti a raccontarmi quello che è successo a furia di domande di cortesia o è una di quelle in cui tu non hai assolutamente voglia di parlarmene e posso risparmiarmi la fatica?»

Per quanto la sua mente spaziasse alternativamente tra queste due ipotesi, Emir impiegò qualche istante per formularne una che fosse adeguata.

«Una di quelle in cui non ho voglia di parlartene, ma non mi dispiacerebbe che tu restassi qui stanotte, direi» rispose osservandolo per tenere d'occhio le sue reazioni. Rotwang ebbe un aperto sorriso d'autocompiacimento.

«È così, eh?» chiese provocatoriamente abbandonandosi contro lo schienale del divano, colle braccia spalancate in un palese segno di sfida. A quanto pareva quell'idea non gli dispiaceva. «Ricordati che cosa ti ho detto stamattina, però. Se vuoi che resti devi invitarmi, per cominciare, ma poi...»

Mi piacerebbe vederti supplicare, gli aveva detto Rotwang quella mattina; ma Emir non aveva alcuna intenzione di supplicare come non ne aveva avuta mai.

Non ebbe alcun bisogno di pensare a che fare. Semplicemente Emir si alzò dalla poltrona, lo raggiunse e si sedette a cavalcioni delle sue cosce, e Rotwang ne fu così sorpreso ed eccitato che scoppiò a ridere.

«Però... questo non me l'aspettavo» commentò a mezza voce, deliziosamente compiaciuto. «Stamattina ero convinto che avresti ceduto e saresti venuto a supplicarmi, e invece... mi sorprendi, Emir.»

Ma quando le sue mani salirono ad afferrare i suoi glutei e a stringerli, istintivamente Emir gli afferrò i polsi con violenza e li artigliò contro lo schienale del divano, al di sopra delle sue spalle. Sentiva l'eccitazione pulsare con violenza contro il tessuto dei pantaloni, e protendendo in avanti il bacino ebbe la soddisfazione di avvertire contro la propria l'erezione prepotente di Rotwang e di sentirlo gemere d'eccitazione. Si chinò contro il suo orecchio e lo percorse lentamente con la lingua.

«Non ho mai supplicato in vita mia, ma non avrei niente in contrario se lo facessi tu, questa notte.»

Il respiro contro la sua gola si fece affanno e ansima e Rotwang mormorò: «Mi piace questo gioco.»



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Capitolo 11
*** Inconfessabile. ***


Ciao a tutti!

Ho impiegato quasi un anno a tornare con questo capitolo, perciò penso di aver infranto quasi ogni mio record. Purtroppo è probabile che le cose procederanno così ancora a lungo: negli ultimi mesi la mia vita è cambiata radicalmente contro la mia volontà, perciò adesso mi trovo a far fronte a molti più impegni e responsabilità di prima. Ciò nonostante lasciare incompiuta questa storia è il mio ultimo pensiero: ho tutte le intenzioni di portarla a termine in qualsiasi modo, anche se dovesse volerci un po'.

In molti mi avete espresso aspettative e speranze riguardo al proseguire della storia, perciò spero davvero di non deludere nessuno, sebbene questo capitolo rappresenti un po' una fase di “passaggio” nell'evolversi degli eventi e dei rapporti tra i personaggi. Credo che il prossimo sarà ben più avvincente, ma non posso anticipare altro ;)

Prima di lasciarvi al capitolo, non posso mancare di ringraziare per le loro recensioni al precedente Fiulopis, cristal_93, Persej Combe e BlazePower, le ho davvero adorate! E naturalmente, oltre alle recensioni, un enorme abbraccio a Persej per il suo continuo sostegno, le sue opinioni e i suoi fumetti adorabili; e a Fiulopis per aver betato il testo (come sempre), per le scampagnate in macchina sugli Appennini come Thelma e Louise e per esserci stata sempre.

Un abbraccio enorme a tutti e buona lettura!


Afaneia


Capitolo X – Inconfessabile.


Rotwang aveva una particolare predilezione per il sesso orale, e non per riceverlo. Nella fattispecie, una delle sue pratiche sessuali preferite, o forse la preferita in assoluto, era masturbarsi mentre glielo succhiava, e pareva preferire quest'attività anche al sesso vero e proprio.

Naturalmente, Emir non aveva preso questa scoperta con tutta l'afflizione che essa meritava. A dire il vero, quando l'aveva scoperto – o per meglio dire circa un quarto d'ora dopo averlo scoperto – l'aveva preso in giro tanto a lungo che Rotwang aveva finito per risentirsene e aveva sottolineato che non si sarebbe mai dato tanta pena se avesse saputo che quello sarebbe stato il ringraziamento.

«Se poi tu sei uno di quelli a cui piacciono le scopate noiose non è colpa mia, sai?»

Emir non si era mai considerato uno di quelli a cui piacciono le scopate noiose, ma a dire il vero non poteva neanche dire d'esser mai stato un cultore del sesso particolarmente fantasioso o appassionato. Il sesso era sempre stato per lui più un mezzo per sfogare pulsioni fisiche che qualcosa da ricercare per il divertimento fine a se stesso; il che, a conti fatti, lo rendeva di certo un po' più appetibile dell'autoerotismo, ma contemporaneamente nulla che valesse la pena dello sforzo fatto per procurarsi un partner sessuale. Periodi d'astinenza anche eccezionalmente lunghi non lo avevano mai turbato, semplicemente perché dal punto di vista affettivo e psicologico egli era più che sufficiente a se stesso, e da quello fisico, tutto sommato, poteva dire lo stesso.

Con Rotwang che trascorreva nel suo letto la maggior parte delle sue notti, ovviamente, le cose andavano molto meglio.

Era confortante averlo lì. Rotwang continuava a costituire per lui l'unico contatto che ancora mantenesse col mondo esterno, l'unico elemento della sua quotidianità che non fosse recluso assieme a lui in quella casa ma che fosse libero di spostarsi e vivere liberamente nel mondo esterno. Per quanto egli ormai non lasciasse la villa che per qualche acquisto o per sbrigare delle commissioni burocratiche, e a dire il vero sempre più di rado, il fatto che Rotwang continuasse a uscire ogni mattina e a condurre una vita normale lo faceva sentire un po' meno prigioniero, per chissà quale strana consolazione che provava in modo indiretto per suo tramite. Almeno per il momento, la sua vita pareva non offrirgli nient'altro che quella prospettiva: più per passare il tempo e fare qualcosa che perché vi credesse davvero, Emir s'era persino preso il disturbo di aggiornare il proprio curriculum vitae e d'inviarlo ad alcune aziende o centri di ricerca compatibili con la sua formazione, ma non aveva avuto molta fortuna. Non aveva avuto nemmeno molta scelta nella cernita dei destinatari: poiché Mew non poteva lasciare il sotterraneo della villa ed era fondamentale ch'egli restasse a occuparsi di lei, le uniche possibilità che avesse erano quelle di aziende raggiungibili dall'Isola a stretto giro di traghetto, e che naturalmente non orbitassero attorno alla Silph; cosa che restringeva a ben poco la sua possibilità di scelta. Delle poche aziende che aveva contattato, solo una si degnò di rispondergli con una sentita lettera molto dettagliata con la quale si scusavano di non avere nessun posto vacante per qualcuno così qualificato ed esperto nel suo campo. Una parte di lui avrebbe voluto rispondere che qualsiasi lavoro, anche il più umile, gli sarebbe andato bene; qualunque cosa pur di allontanarsi dalla reclusione in cui viveva, anche per qualche ora solamente. Ma Emir non era più il ragazzo insofferente che sarebbe andato a Isola Cannella a portare documenti e svuotare cestini pur di lasciare Lavandonia; Emir aveva diretto un laboratorio di fama internazionale per sei anni e aveva compiuto due delle scoperte più importanti della storia della scienza, e forse il suo orgoglio non gli avrebbe permesso di abbassarsi a tanto. Era rimasto in dubbio per qualche ora, chiuso nel sotterraneo a cercare di buttar giù un plausibile testo di risposta mentre Mew scarabocchiava con penne ed evidenziatori al suo fianco, e alla fine aveva lasciato perdere e aveva gettato tutto nella spazzatura. A Rotwang non aveva detto nulla, per il momento, perché non sapeva che cosa ne avrebbe pensato e non aveva voglia di parlare di quell'argomento. Per il momento le sue spese erano talmente irrisorie che i suoi risparmi e i piccoli frutti degli oculati investimenti del suo commercialista bastavano a coprirle abbondantemente; e al futuro avrebbe pensato poi. Dopotutto prima o poi avrebbero dovuto trovare una soluzione per quanto riguardava Mew, e allora egli sarebbe stato libero di nuovo; e poi un giorno, quando si fossero calmate un po' le acque, e il nome del dottor Fuji non fosse più stato collegato alla perdita del Pokémon più famoso del mondo ma solo alla sua scoperta e all'invenzione di Porygon, di certo trovare un lavoro dignitoso gli sarebbe stato più facile.

Rotwang costituiva il suo tramite col mondo esterno anche solo per il semplice fatto che comprava il giornale ogni giorno andando al lavoro, e lo riportava a casa ogni sera per abbandonarlo sul tavolo col cappotto e la valigetta. Il mattino seguente cappotto e valigetta scomparivano, ma il giornale rimaneva; ed Emir si sforzava di iniziare ogni mattina, dopo esser rimasto solo, leggendone almeno le prime pagine.

Non che la cosa gli importasse poi molto. Se lo faceva non era perché provasse la benché minima curiosità verso il mondo al di fuori della villa, ma perché la consapevolezza del proprio isolamento gli faceva orrore, quando vi pensava, e lo spaventava l'idea che un giorno, quando finalmente avesse finito per uscire dalla propria prigionia come dalle viscere della terra, si sarebbe ritrovato isolato dal mondo dallo stesso velo di un uomo primitivo svegliatosi alla modernità.

Era stato grazie a Rotwang che era venuto a sapere, due o tre giorni dopo Lavandonia, che il professor Oak aveva inviato una lettera aperta a tutte le più importanti testate giornalistiche di Kanto per protestare contro l'inumano trattamento riservato a un uomo di spiccata e dimostrata moralità, che si era sempre adoperato per la tutela e i benessere di ogni tipo di Pokémon, particolarmente i più deboli e sfruttati. La lettera vibrava di uno sdegno composto e dignitoso, autorevole, senza quell'afflato apocalittico e accusatorio che caratterizzava i discorsi di suo padre, - cosa che personalmente Emir era più che disposto ad apprezzare; ma il motivo per cui Rotwang s'era tanto premurato di fargli leggere quella lettera era per la stoccata finale che il professore s'era concesso di scagliare nell'ultima riga, e cioè che quella perquisizione era l'ennesimo sopruso operato da una multinazionale ormai onnipotente ai danni dell'unica persona che avesse mai osato opporlesi a gran voce, con una strategia quasi terroristica volta a punire lui e a mandare un messaggio al giovane dottor Fuji, che l'azienda intendeva punire come capro espiatorio per esser stato la prima vera vittima degli eventi.

Dopo averlo letto, Emir gli aveva restituito il giornale senza una parola di commento. Di fronte alla sua palese indifferenza, Rotwang quasi aveva perso la pazienza. «Sai leggere?»

«Non è così sorprendente, Richard» aveva obiettato pigramente Emir. «Oak è amico di mio padre da tipo quarant'anni, da quando faceva ancora l'allenatore. Non è poi così strano che si sia esposto per lui.»

«Beh, scusa se non conosco tutta la storia della tua famiglia» lo aveva rimbeccato Rotwang per tutta risposta. «Forse a Kanto vi conoscerete anche tutti, ma pensavo che ti avrebbe fatto piacere sapere che la più grande autorità mondiale in fatto di Pokémon pensa che tu sia innocente.»

La cosa, a onor del vero, non lo tangeva particolarmente per vari motivi, anche se non sarebbe stato facile spiegarlo a voce ed Emir non voleva né avrebbe saputo come fare. Come per tutti coloro che si approcciavano allo studio della biologia Pokémon, il professor Oak aveva sempre costituito un modello inarrivabile eppure onnipresente; e proprio perché era posto come un modello che mai nessuno avrebbe potuto eguagliare – e per il fatto d'essere amico di suo padre, naturalmente – Emir s'era ritrovato a odiarlo sordamente, in un modo del tutto irrazionale e non del tutto consapevole, e a cercare di sottolineare i punti deboli in ogni suo lavoro. Non che fosse facile trovare errori nell'operato di un esperto di tale spessore, che oltretutto preferiva pubblicare solo di rado contributi che fossero molto significativi per non sottrarre tempo all'attività di Laboratorio e alla cura dei Pokémon di cui si occupava. Ma il principale limite ch'egli trovava al suo lavoro non era metodologico né tantomeno contenutistico, dato che nessuno sarebbe stato in grado di criticare i suoi studi da quel punto di vista; ciò ch'egli contestava era che tutto il limite dei suoi studi stava nel descrivere le cose come stavano, ed esauriva il suo scopo nella semplice osservazione passiva di leggi di natura che esistevano e funzionavano in modo del tutto indipendente dall'azione umana. Quella era la biologia del diciottesimo e del diciannovesimo secolo; ma ora anche il Novecento volgeva alla fine e quella biologia non poteva più essere un punto d'arrivo, ma solo una base di partenza. Lo studio doveva volgere altrove, doveva puntare al nuovo, ed era per questo ch'egli s'era dato all'ingegneria genetica e non s'era fermato là dove avrebbe potuto. Oak era stato un genio del suo campo per praticamente tutta la seconda parte del ventesimo secolo, ma aveva fatto il suo tempo; e soprattutto quali erano state le sue innovazioni? Aveva scoperto un paio di leggi sull'evoluzione dei Pokémon, d'accordo; e poi? Il suo famoso progetto di realizzare un'enciclopedia elettronica tascabile che raccogliesse tutte le possibili informazioni su ogni tipo di Pokémon era stato annunciato ormai da svariati anni, e ancora adesso, di tanto in tanto, tornava a far parlare di sé; ma a parte qualche nebuloso progetto e qualche voce, che cos'aveva realizzato veramente? E in ogni caso, il limite sarebbe rimasto lo stesso: sarebbe stata un'enciclopedia, quando già tutto quello che si sapeva al mondo era già disponibile su testi scolastici, manuali universitari e banali riviste di divulgazione. Che cos'aveva veramente inventato il famoso professor Oak da essere tanto inarrivabile per chiunque?

E poi Oak poteva anche sostenerlo, ma era l'unico. Contro le speranze di suo padre, dopo la perquisizione al Centro Pokémon Volontario s'era stretta una dimostrazione di solidarietà mai vista prima, forse addirittura dal giorno stesso della fondazione; tutte le principali personalità di Kanto avevano levato la loro voce in difesa del signor Fuji per denunciare l'ingiustizia e la gratuità di quell'accusa, e persino in Parlamento se n'era parlato. Ma a parte la mezza riga dedicatagli da professor Oak, in difesa del dottor Fuji non aveva parlato nessuno perché a nessuno interessava: egli non era neppure stato licenziato dalla Silph ma si era licenziato volontariamente, dunque da quali soprusi c'era bisogno di difenderlo?

Come aveva predetto Rotwang, vennero a perquisire anche casa sua, naturalmente, ma forse più perché non si poteva lasciare nulla d'intentato che perché credessero davvero che avrebbero trovato qualcosa.

Quella fu la prima volta che Emir vide la casa di Rotwang. Era un appartamento molto piccolo e meticolosamente pulito, pensato e arredato e proporzionato precisamente per un uomo scapolo che non paresse avere alcun piano di cambiare idea.

Metter piede in quella casa per la prima volta, quando Rotwang gli telefonò per chiedergli di raggiungerlo durante la perquisizione, gli lasciò addosso la strana sensazione di violare per la prima volta un'intimità alla quale fino a quel giorno non aveva mai avuto accesso e che per lui, a conti fatti, non era mai esistita. Rotwang era sempre stato per lui nient'altro che un medico scontroso e rancoroso che viveva di chirurgia, di genetica e di Mew, che provava pulsioni fisiche violente e irrefrenabili che sfogava con odio e con erotismo; ma niente di più, fino a quel giorno. Solo quel pomeriggio, quando per la prima volta Emir varcò la soglia dell'appartamento brulicante di agenti che frugavano dappertutto, egli per la prima volta realizzò che Rotwang era umano quanto lo era lui, che possedeva centinaia di libri e manuali e vinili e un armadio ricolmo di vestiti anche meno eleganti di quelli che era abituato a vedergli, e poi ancora tutto un universo d'altra roba ch'egli mai si sarebbe figurato.

La perquisizione fu molto più noiosa e breve di quella alla villa, quantomeno dal loro punto di vista, semplicemente per il fatto che quella volta non avevano davvero nulla da temere in quella casa; Rotwang era un immigrato regolare con un contratto di lavoro in regola, e soprattutto non nascondeva Mew in casa sua. Emir si limitò perciò a rimanere con Rotwang per tutta la mattinata, aspettando più o meno con pazienza che finisse tutto. Valérien non si presentò neppure, quella volta, e loro passarono la maggior parte del tempo seduti in salotto, a discutere e scommettere se avesse preferito rinunciare a quella perquisizione perché neppure lui ci sperava più o piuttosto perché Rotwang lo terrorizzava veramente.

Sorprendentemente, per quanto il suo appartamento si componesse di due stanze appena e avessero tutto il pomeriggio davanti a loro, Rotwang non volle iniziare a riordinare fin da subito. Pareva che gli fosse balenata in mente un'idea di cui però ritenesse ancora prematuro parlargli, e di fronte alle sue perplessità si limitò ad ammutolirlo dicendo: «Se non vuoi che venga a dormire a casa tua, basta dirlo. Non mi risulta che ti sia mai dispiaciuto, ma puoi sempre farmelo notare.»

Alle strane e inspiegabili fissazioni di Rotwang Emir aveva ormai fatto l'abitudine e aveva smesso di farci caso, perché quando avesse voluto degnarsi di fargliene parte lo avrebbe saputo; perciò, semplicemente, lasciò perdere.

La strana idea che Rotwang evidentemente aveva concepito dentro di sé terminò di maturare qualche giorno dopo, un mattino in cui volle alzarsi un po' prima e fare addirittura colazione prima di andare al lavoro, quando finalmente si decise a dirgli: «Ho disdetto l'affitto. Vengo a vivere qui.»

«Ah» rispose Emir cautamente, perché non era certo affatto d'esser completamente sveglio, per il momento. Si limitò a cercare una spiegazione nella sua mente per un po', pensierosamente, prima di commentare. «Fa piacere saperlo.»

«Che c'è? Fai l'offeso perché non te l'ho detto prima?»

A dire il vero gli sarebbe parsa un'ottima motivazione per offendersi con qualcuno, quella di non essere d'accordo a che qualcuno si trasferisse in casa sua senza chiedere non soltanto il suo permesso, ma neppure il suo parere. Ma per la verità la cosa non gli dava il minimo dispiacere, e tutto ciò che gli venne in mente di chiedere fu: «Perché?»

Finalmente persino Rotwang parve addivenire a più miti consigli. Evidentemente doveva essersi accorto persino lui che nessuno poteva davvero installarsi a vivere a casa di qualcun altro senza dargli una valida spiegazione.

«Per un mucchio di buone ragioni, Fuji, che non sono quelle che pensi tu, qualunque cosa stia pensando tu. Praticamente vivo già qui da mesi e pago un grosso affitto per una casa in cui non sto quasi mai; perciò te ne rendi conto anche tu che non ha senso. Ha molto più senso che io venga a vivere qui e che dividiamo le spese, dato che, non offenderti, ma tra i due al momento sto guadagnando solo io. Ti pare un'idea tanto assurda?»

Rotwang doveva aver parlato senza pensare, Emir ne era certo, eppure quel distratto accenno en passant sul suo lavoro lo colpì in pieno petto come un lancio mirato al cuore.

«Non ho alcun bisogno di...»

«È anche colpa mia se hai perso il lavoro» lo interruppe seccamente Rotwang, senza neppure ascoltare le sue obiezioni. «E poi non ha senso che restiamo lontani quando esiste una soluzione tanto pratica per entrambi. O forse qui non c'è abbastanza spazio?»

Non c'era nulla da obiettare di fronte a quella posizione; effettivamente Rotwang aveva ragione su tutto, persino su quello che più lo indisponeva sentirsi dire.

«Sarà imbarazzante» commentò soltanto vagamente, senza guardarlo negli occhi, per non saper che dire; ma Rotwang scrollò le spalle come se quell'obiezione non avesse per lui alcuna ragion d'essere.

«Perché? Non hai mai avuto un coinquilino con cui scopavi?»

«Non ho mai avuto un coinquilino» obiettò Emir aggrottando la fronte; e prima della sua prevedibile obiezione: «Ero pendolare all'Università. Lavandonia è molto ben collegata con Azzurropoli, perciò per me era più conveniente...»

«Ah» si limitò a commentare Rotwang con aria disgustata, come se esser stato pendolare costituisse chissà quale onta sulla sua carriera. «Avrei dovuto immaginarmelo. Comunque, tornando a noi, trovo che questa sia l'idea più sensata per entrambi, Emir, e mi sembra che non possa comportare che vantaggi. Ci stai?»

«Mi pare che tu mi abbia posto di fronte al fatto compiuto» commentò Emir eloquentemente, e Rotwang scoppiò a ridere, ma senza acredine, per una volta.

«Il fatto che tu non stia cercando di tirarmi un pugno in faccia vuol dire sì?» chiese. «Sei divertente quando lo fai, sai... sembri uno di quei gattini che si dimenano quando li prendi per la collottola. Allora, è un sì?»

Qualche mese prima Emir avrebbe probabilmente scavalcato il tavolo per picchiarlo il più violentemente possibile a quelle parole; ma a quanto pareva quella fase delle loro vite si era conclusa, per il momento. Rotwang non lo stava prendendo in giro in quel preciso momento – o quantomeno non con cattiveria, il che era di certo più di quanto si sarebbe potuto dire sul suo carattere – ed Emir si limitò perciò a stabilire dentro di sé di non voler sapere per quale motivo egli avesse avuto proprio quell'immagine mentale.

«Vuol dire che dovresti levarti dalle palle prima che mi venga voglia di spaccarti il naso sul serio» rispose serenamente.«E prima di perdere il lavoro.»

«Sto tremando di terrore» lo rimbeccò Rotwang alzandosi in piedi. «Comunque, per tua informazione, prevedendo il tuo assenso ho già informato Portia del mio trasloco e lei e suo marito sono disponibili ad aiutarci. Ho chiesto anche a Dolarhyde se fosse interessato, ma mi ha mandato generosamente a fanculo, perciò...»

«Hai deciso anche come riarredare la casa?» replicò Emir, e Rotwang gli rivolse un sorriso compiaciuto e appena un po' malevolo mentre lasciava la stanza. Ma non aveva risposto, ed Emir si domandò con angosciosa rassegnazione, e forse sforzandosi di provare un po' più di irritazione di quanta effettivamente ne sentisse, che altro avesse in mente alle sue spalle quel dannato tedesco.

Non l'avrebbe ammesso mai ad alta voce, e a Rotwang meno che mai, che l'idea di quella convivenza non gli dispiaceva affatto; ma naturalmente, se anche uno solo di loro due ne avesse parlato, quello strano precario equilibrio che s'era venuto a formare tra di loro si sarebbe spezzato, spento, e forse tutto sarebbe tornato come prima. Rotwang viveva praticamente già da lui, dal momento che tornava a casa propria a dormire solo quando proprio si convinceva ad andare a controllare che non fosse stata occupata abusivamente in sua assenza (il che doveva essere un modo raffinato per comunicargli che quella notte aveva un assoluto bisogno di dormire senza dover ammettere ad alta voce che persino le sue straordinarie doti amatorie avevano bisogno di qualche ora di pausa per ricostituirsi); a conti fatti, perciò, non sarebbe cambiato quasi niente, se non i vantaggi che Rotwang vedeva con certezza. A livello economico, non poteva che essere conveniente condividere le spese di una villa enorme che era fondamentale al loro piano e dunque insostituibile, e che fino ad allora egli aveva sostenuto completamente da solo; e naturalmente la sua vita sarebbe stata un po' meno solitaria, da quel giorno.

Ma la verità era che la presenza di Rotwang lo avrebbe confortato infinitamente per un semplice fatto che mai avrebbe potuto ammettere ad alta voce – e forse neppure a se stesso in piena sincerità – e cioè che Rotwang sarebbe stato legato a quella casa esattamente come lui, prigioniero quanto lui di quella villa e di quell'isola fintanto che Mew l'avesse richiesto. Quella sensazione di conforto che provava al pensiero era meschina e malvagia e la sua mente mai avrebbe tollerato di ammetterla lucidamente, eppure Emir non poteva fare a meno di sentirsene confortato: se veramente fosse stato condannato a rimanere in quella casa per sempre, senza potersene allontanare mai per più di una giornata, quantomeno Rotwang lo sarebbe stato assieme a lui. Era poi tanto mostruoso che se ne sentisse rassicurato, dal momento che le conseguenze di un piano che avevano escogitato assieme avevano finora colpito e vincolato solamente lui, e che il fatto di non essere più l'unico prigioniero di quella vita lo facesse sentire un po' meno solo al mondo e angosciato?

Rotwang si trasferì da lui alla fine di aprile, quando il marito di Portia ebbe trovato sufficiente motivazione da impiegare una parte del suo tempo libero ad aiutarli nel trasloco. Fu solo quando tutti gli scatoloni furono nell'atrio, e Chris ebbe reso noto, in modo tanto velato quanto palesemente evidente, che non aveva la benché minima intenzione di spostare nient'altro anche per un solo altro gradino, che per la prima volta realizzarono entrambi che c'era un dettaglio al quale non avevano ancora pensato.

«Hai già deciso dove dormirai?» s'informò Emir con simulata indifferenza non appena furono rimasti soli, e con altrettanto simulata indifferenza Rotwang si limitò a rivolgergli uno sguardo distratto lasciandosi cadere sul divano. Quel giorno indossava una camicia di lino semitrasparente, con le maniche arrotolate come suo solito, ed Emir si sedette sullo schienale del divano a guardarlo dall'alto reprimendo un paio di idee che gli ispirava quella posizione.

«Pensavo che volessi deciderlo tu.»

«Perché dovrei decidere io per te?» protestò Emir aggrottando la fronte. «Tutte le stanze di questa casa sono libere, ma non sceglierne una troppo complicata da raggiungere. Non puoi dormire sul divano ogni volta che io non posso accompagnarti in camera tua, non ti pare?»

«Sei uno stronzo, lo sai?» ribatté Rotwang pigramente, senza mutare espressione, rivoltandosi appena sul divano per guardarlo meglio. «Sii serio, Fuji. Non è che non ci abbia pensato finora. Dormire insieme sarebbe comodo, ma non pensi che sia il caso di mantenere un po' di distanza, per evitare di sbranarci a vicenda in un momento di rabbia?»

«Sei ottimista, eh?» replicò Emir ridendo, sentendosi appena appena un po' deluso e impercettibilmente più freddo e mortificato e impacciato di prima. «Tecnicamente non ti stavo chiedendo di sistemarti in camera mia...»

«Giusto» disse Rotwang, e senza preavviso lo afferrò per un braccio e lo trascinò giù dallo schienale del divano per attirarlo a sé. Emir si ritrovò senza fiato contro il suo petto. «Ma se te lo avessi chiesto io mi avresti detto di sì, giusto?»

«Fanculo» rispose Emir distendendosi su di lui, e il discorso finì lì.


Rotwang scelse una stanza del primo piano a circa un corridoio di distanza dalla sua. La sua scelta gli piacque molto: era leggermente più piccola della sua, un po' più luminosa, e aveva una normale stanza da bagno la cui porta non era celata da una finta parete. Da essa partiva un piccolo corridoio cieco con una strana finestra bifora collocata sull'angolo sud-est della villa, in modo tale da guardare contemporaneamente tanto verso il centro del paese quanto verso il vulcano. Forse era uno dei dettagli più eleganti della casa, per quanto unico e isolato nell'accozzaglia di stili diversi che caratterizzava le facciate, eppure Emir non s'era mai neppure domandato a quale camera appartenesse con precisione. Rotwang invece doveva esser stato un po' più attento di lui, perché a quanto pareva aveva ricercato precisamente quella finestra e la corrispondente camera.

Quando s'era trasferito lì, sette anni addietro, Emir non s'era dato troppa pena di domandarsi se l'arredamento della casa gli piacesse o meno, o se ci fosse qualcosa che avrebbe potuto spostare o cambiare per sentirsi più a suo agio a casa propria. I misteri dell'arredamento erano sempre stati per lui qualcosa di più insondabile dell'universo stesso, scritte nell'intraducibile linguaggio delle armonie e degli equilibri di spazi, dei colori e degli stili; ma una casa per lui non era un luogo estetico – casa era autonomia, era indipendenza e potere. Casa era solitudine e autodeterminazione, era tutto ciò che non era Lavandonia, e in tutto questo, naturalmente, l'arredamento non rivestiva la benché minima importanza; perciò, quando si era trasferito, Emir si era limitato a scegliersi la camera che gli pareva più comoda e più spaziosa, e anche la più misteriosa, in ossequio a quel certo gusto di potere e di solennità quasi magica che gl'ispirava la villa, per sentirsi un po' come il padrone di un castello, e vi si era sistemato.

Ma naturalmente Rotwang doveva comportarsi da gran signore europeo in ogni situazione, perciò la sua camera richiese interi finesettimana di lavoro. Bisognava spostare tutti i mobili in corridoio, ritinteggiare le pareti di bianco e areare i locali, e poi bisognava scegliere quali mobili conservare e in quale posizione, e quali invece portare al terzo piano. Bisognava trovare un posto e una sistemazione adeguata per tutte le sue cose – il che, per fortuna, in quella casa era l'unico problema davvero facile da risolvere – e ovviamente trovare il modo di trasformare il corridoio cieco con la finestra bifora in un guardaroba, perché quel dannato tedesco era talmente egocentrico che persino i suoi panciotti avevano bisogno di una stanza tutta per loro. D'altra parte, Rotwang non sembrava aver troppa premura di finire i suoi lavori, e allo stesso tempo sembrava totalmente determinato a dormire con lui fintanto che il suo nuovo appartamento privato non fosse stato pronto.

La convivenza non era male, e non solamente perché Rotwang rimaneva l'unico suo contatto col mondo esterno, e adesso ancora di più rispetto a quando semplicemente dormiva da lui quasi sempre. Anche quando ebbe terminato di sistemare la sua nuova camera, Rotwang veniva a trovarlo nella sua quasi ogni notte, e quando non lo faceva, di rado era perché non avesse voglia di farlo con lui. Talora, in quelle notti, era Emir ad alzarsi per andare a trovarlo, e Rotwang l'attendeva sempre sveglio come se non avesse voluto nient'altro che stare a guardare per scoprire se sarebbe venuto. Avevano due camere separate, ma a conti fatti le uniche notti che trascorrevano da soli erano quelle in cui entrambi avevano davvero bisogno di dormire. Quella vita, tutto sommato, non gli dispiaceva.

Ma le giornate erano un'altra storia, e parevano farsi più interminabili ogni giorno che passava. Dal momento in cui Rotwang si chiudeva la porta alle spalle a quando faceva ritorno, Emir rimaneva solo ad aggirarsi per la grande casa silenziosa, vuota, come lo spettro di una villa abbandonata.

Non era più come i primi giorni, quando aveva appena perso il lavoro e la prospettiva di rimanere a casa per un lasso di tempo tanto indeterminato quanto infinito gli appariva come una nuova, inusitata avventura; quando ancora doveva abituarsi alla presenza di Rotwang e a quella di Mew nella sua casa, e l'aver appena compiuto il furto del secolo riempiva le sue giornate della consapevolezza vaga dell'illegalità e del rischio e dell'attesa di qualcosa di imprecisato che poteva accadere da un momento all'altro. Ora che non poteva accadere più nulla, che avevano dimostrato e provato in ogni modo possibile di essere al di sopra di ogni sospetto, la sua vita non prevedeva più nulla per il futuro, neppure il più insignificante mutamento della sua quotidianità. Ora veramente tutta la sua genialità e il suo impegno, il suo studio e le sue idee ribollenti erano destinate a rimanere confinate su quell'isola senza possibilità di fuga, e quella casa ch'egli aveva inseguito e ottenuto a coronamento della propria ambizione doveva diventare la prigione del suo genio?

Forse fu per questo che cominciò a studiare Mew.

Non fu una scelta consapevole, e a dire il vero non fu neppure una scelta. Durante il giorno, per ingannare l'attesa durante l'assenza di Rotwang, Emir trascorreva quasi tutto il tempo nel sotterraneo, e Mew era l'unico essere vivente che potesse osservare; e in fin dei conti lui era un genetista, e in quel momento era l'unico scienziato al mondo che avesse la possibilità di studiare il Pokémon più raro del mondo. Emir trascorreva interminabili ore semidisteso su un divano a guardarla giocare o dormire o inseguire una crosta di pane sotto un mobile, e a un certo punto la sua mente smise di vederla come una bimba preziosa che aveva salvato, e cominciò a pensare.

Il fatto che Mew fosse felice di stare lì non cessava di stupirlo, e non in senso positivo. Ogni mattina egli si sforzava di prepararle una colazione diversa, e ogni mattina Mew reagiva nello stesso identico modo, con gli stessi balzi di gioia entusiastica e senza fine, del tutto irragionevole; il che voleva dire che ogni cibo le era perfettamente indifferente, e che lei era felice soltanto di riceverlo dalle sue mani. Allo stesso modo, qualsiasi gioco egli le proponesse per distrarla le era sempre ugualmente gradito. Quando Rotwang scendeva a trovarli, la sera, e portava giù la cena e sedeva accanto a lui per giocare con Mew e riposarsi in lei della lunga giornata, lei lo accoglieva esattamente come quel mattino aveva accolto lui. Ma com'era possibile che ogni singola cosa la riempisse della medesima gioia – e se M1 fosse vissuto, sarebbe stato anche lui, come lei, stupidamente felice di tutto?

Quello non era scegliere, non era quello il libero arbitrio, poiché non implicava scelte o differenze; perciò nei lunghi pomeriggi torridi dell'estate che s'inoltrava, quando Mew si stancava dopo aver giocato troppo e si appisolava acciambellandosi sulle sue ginocchia, Emir udiva la propria voce domandare nel silenzio: «Ma a che cos'è che pensi, tu?». Eppure né la biologia né la genetica avrebbero potuto dargli una risposta.

Cominciò ad annotare i suoi comportamenti quasi senza accorgersene, più per passare il tempo e tenere la mente occupata che perché avesse un'intenzione precisa. Non aveva nulla di meglio da fare; e senza riflettere e senza alcun motivo reale iniziò a scrivere dettagli e riflessioni sui quali sino a quel momento la sua mente s'era limitata a sorvolare oziosamente senza mai soffermarvisi con precisione. Aveva trovato un vecchio taccuino di foggia classica, dalla copertina di pelle nera, dal cassetto di uno dei tanti mobili sconnessi del sotterraneo. Doveva essere appartenuto al suo predecessore, al curioso uomo senza nome che aveva fatto costruire la villa, e chissà per quale motivo gli faceva piacere pensare che quel taccuino era passato per le sue mani.

Non era intonso: sulla prima pagina, una scrittura ignota, antiquata e svolazzante, aveva scritto: Oggi, diciassette aprile, conversazione con N, e poi, saltando svariate pagine: Laudano, 6 grammi. Non avrei dovuto: su quelle ultime parole la penna era ripassata più volte a rafforzarle. Il mistero di quell'uomo era per lui insondabile, ma la verità era che proprio l'immagine nebulosa e confusa che si era creato di quell'uomo, quella di un genio stravagante e incompreso, misantropo e altero, gli piaceva enormemente proprio perché non riusciva a inquadrarla, e forse perché nel suo inconscio egli la sfumava e la sovrapponeva alla propria. Sentiva che quello era l'unico destino che gli si prospettava; e figurarsi come il degno successore di un uomo ricco e geniale era di certo un po' meglio che morire come un disoccupato alienato e solitario privo di qualsiasi alternativa.

Quando era all'università, la sua professoressa di Laboratorio di biologia molecolare consigliava loro di annotare ogni cosa che accadesse in laboratorio e ogni minimo spunto di riflessione, in modo da poter sempre ricostruire che cosa fosse accaduto durante la ricerca; e ogni tanto, nei momenti di confusione, Emir s'era sorpreso ad annotare compulsivamente eventi o pensieri sparsi. Allo stesso modo, un mattino particolarmente noioso, Emir si sedette a una scrivania del sotterraneo, aprì il taccuino a una pagina bianca e scrisse, quasi per il solo gusto di far scorrere la mano sul foglio: Diario, 8 agosto – stamattina pane imburrato e caffè per colazione. Per Mew mezza tazza coi manici di latte e un cucchiaio di cereali. È stata molto contenta; e poi, un minuto dopo, prima ancora di riflettere su quel che aveva scritto: come sempre, del resto.

Mew si comportava esattamente allo stesso modo ogni singolo giorno, e se prima l'aveva solo sospettato ora ne aveva la certezza: ogni mattina, quando Emir scendeva dabbasso con la colazione dopo la partenza di Rotwang, Mew lo accoglieva trepidante di gioia, oppure, quando si sentiva particolarmente stanca e capricciosa, restava ad aspettarlo acciambellata sulla sua poltrona preferita, cogli occhi ancora socchiusi e appiccicosi di sonno, e pretendeva che fosse lui ad avvicinarsi e a coccolarla, prima di degnarsi finalmente di stiracchiarsi e infine di alzarsi. Dopo aver mangiato con immutabile soddisfazione qualsiasi cosa Emir le avesse portato, Mew pretendeva di giocare un po' con lui ed era in grado, con l'abilità propria di un bambino, di tramutare in gioco praticamente qualsiasi cosa; dopodiché guardavano i cartoni animati fin verso l'ora di pranzo. Finalmente, dopo mangiato, Mew finiva per appisolarsi di nuovo sulle sue ginocchia o accanto a lui sul divano, ed Emir poteva mettersi al lavoro e seppellirsi tra riviste specializzate e manuali di genetica, e talora annotava qualcosa sul suo taccuino.

Se c'era qualcosa di meraviglioso nelle estenuanti mattinate che trascorrevano insieme, era che Mew non solamente amava guardare i cartoni animati – il che si sarebbe spiegato facilmente per via dei colori sgargianti e dei movimenti rapidi – era che li capiva, e questo fenomeno egli non cessava di annotarlo nei suoi appunti. Quando Emir accendeva svogliatamente la TV che aveva trascinato nel sotterrano sul primo canale che trasmettesse cartoni animati, Mew era capace d'incantarsi davanti allo schermo anche per più di un'ora consecutivamente, come i bambini, e di non distoglierne mai lo sguardo. La facevano ridere le trovate narrativamente stupide, come le feci sorridenti che apparivano nel Dr. Slump o anche solo i personaggi che cadevano rovinosamente – vederla ridere era molto piacevole, dato che si copriva il muso con le zampe, deliziata, e sobbalzava a mezz'aria facendo capriole su se stessa. Ma alle sue risate e al suo buonumore Emir non avrebbe probabilmente prestato attenzione, e avrebbe probabilmente dato per scontato, senza neppure pensarvi troppo, che si trattasse dell'ennesima manifestazione della sua gioia di vivere, se solo un giorno non si fosse accorto che Mew si commuoveva. Di fronte alla sofferenza e alla morte dei personaggi si stringeva a lui in cerca di conforto, pigolando piano come i gatti appena nati, e levava su di lui gli occhi come in cerca di risposte. Ma allora Mew conosceva il dolore, lo concepiva, lo provava; la desolazione terrificante, senza fine della morte non le era ignota affatto; ma allora la domanda che sempre l'aveva tormentato da quel giorno lontanissimo in cui l'avevano trovata tornava a incalzarlo e a pungolarlo senza posa: se Mew conosceva il dolore, se aveva mai sofferto per la morte di M1, allora perché non si ribellava di fronte a lui che aveva assistito a quella morte, perché non si ribellava d'esser chiusa là sotto da mesi, senza luce né aria?

Quel mistero lo stregava oltre ogni immaginazione. Emir prendeva appunti ogni singolo giorno riempiendo paginate intere di una scrittura fitta e sottile, quasi compulsivamente, come ai tempi dell'Università. Le reazioni di Mew di fronte alla televisione non erano precisamente come le strutture del DNA o delle cellule riproduttive, certo, ma erano comunque qualcosa, e di certo tutto ciò che gli rimaneva.

Non si soffermò mai a riflettere su cosa stesse facendo fino al giorno in cui si addormentò sul divano.

Fino a quel giorno non aveva mai pensato, neppure per un istante, che i suoi appunti fossero qualcosa da nascondere o di cui vergognarsi. Quando Rotwang tornava a casa ogni sera, e scendeva dabbasso per venire a salutarlo e chiedergli che cosa aveva fatto durante la giornata, Emir rispondeva immancabilmente, ogni singolo giorno: «Ho studiato un po'» e neppure per un momento aveva mai dubitato d'aver detto la verità. Il tavolo era ingombro di manuali e di riviste, evidenziatori e appunti volanti, e in uno dei quaderni, tra decine di altre annotazioni delle quali alcune neppure appartenevano a lui, c'erano pagine che descrivevano il comportamento di Mew e che egli aveva preso sollevando gli occhi su di lei mentre guardava i cartoni animati. Non aveva la minima intenzione di tenergli nascosto nulla, ma il punto è che non c'era nulla da dire: lui e Mew rimanevano soli per tutto il giorno; Mew era un Pokémon, dopotutto, e lui era nato e cresciuto per studiare i Pokémon.

C'erano giorni in cui Rotwang si dimostrava particolarmente interessato ai suoi studi, e chinandosi sul tavolo dalle sue spalle, col petto appoggiato contro la sua schiena, scorreva per un po' qualche articolo, in silenzio, pensierosamente, e commentava oziosamente a bassa voce, per aver qualcosa da dire. Ma non tutte le sere erano uguali per lui, perché per lui e per il mondo esterno non tutte le giornate si somigliavano a tal punto da rendersi indistinguibili l'una dall'altra. C'erano sere in cui era troppo esausto e svogliato per studiare con lui, e il picco massimo delle sue relazioni sociali consisteva nel giocare una mezz'ora con Mew e poi segregarsi sotto la doccia fino all'ora di cena; e ovviamente altre sere ancora, forse più numerose, in cui semplicemente tornava a casa troppo arrabbiato con Valérien e con la Silph e col mondo intero, e tutto ciò che faceva, allora, era imprecare: il progetto dei fossili era stato riavviato, certo, ma con fondi ridotti, senza la minima fiducia, quasi solo perché il laboratorio doveva esser tenuto aperto; Dale era sempre più nervoso, e la sua agitazione e le sue assurde pretese si riversavano su Lestournelle, che pareva diventar pazzo ogni giorno di più; e poi i fossili, le sequenze di DNA non sufficienti, il materiale genetico, la ricerca di una specie compatibile... al sentirgli parlare di fossili e di DNA Emir si sentiva prudere le mani dalla voglia bruciante di agire, di studiare, di lavorare; gli pareva ogni giorno di più d'esser rinchiuso in quel sotterraneo come un uccello prigioniero di una gabbia, eppure si guardava bene dal dirglielo. Rotwang aveva la fortuna di poter ancora lavorare, certo, e per di più a un progetto che amava: ma era così che si erano suddivisi i ruoli fin dall'inizio, lo sapevano entrambi. A che sarebbe valso fargli pesare la responsabilità di qualcosa che era prima di tutto colpa sua?

La sera in cui Emir si svegliò di soprassalto sul divano, senza neppure ricordarsi d'essersi addormentato, Rotwang era seduto a cavalcioni di un bracciolo, a poca distanza appena da lui, e sfogliava distrattamente qualcosa.

Impiegò qualche minuto a realizzare dove si trovava, forse perché era tutto il giorno che si sentiva assonnato e febbricitante come per un principio d'influenza, o perché Rotwang, nella sua solita rudezza, gli aveva appoggiato distrattamente una mano sulle ginocchia mentr'egli dormiva, e la sua mano fresca sulla sua pelle aveva un tocco tiepido e rassicurante come una carezza. Non si mosse per un po'. Si trovava ancora immerso in un dormiveglia pesante e appiccicoso, gradevole solo a tratti, e gli pareva che tenere gli occhi aperti comportasse una fatica immane; e poi Rotwang neppure s'era accorto che era sveglio.

Si sentì improvvisamente lucido solo quando si accorse che quello che Rotwang stava sfogliando era quel taccuino.

Non si mosse neppure. Rotwang doveva averlo preso così, senza un motivo particolare, solo perché ormai tra di loro parevano non esistere più segreti; e poi doveva aver dato per scontato che fosse materiale di studio. Cosa che era, ma era proprio questa la cosa raggelante che gli impediva di muoversi: che per la prima volta egli si rese conto d'aver studiato Mew per tutto quel tempo – e con la stessa lucidità e immediatezza si rese conto che Rotwang non sarebbe stato d'accordo.

Rotwang s'accorse che lui era sveglio prim'ancora ch'egli avesse modo di fare un movimento, forse sentendosi osservato o dalla diversa qualità del suo respiro. Gli batté la mano sul ginocchio con una certa familiarità distratta, svagata. «Ehi. Ti senti bene?»

Emir si rigirò pigramente su un fianco nel tentativo di sgranchirsi un po'. Si sentiva in petto un nodo asfissiante di tensione che pareva bloccargli il respiro, come in procinto d'essere scoperto; ma Rotwang non sembrava perplesso né turbato, e a dire il vero lo guardava a malapena. «Non lo so. Mi sento stanco.»

«Immagino che tu abbia giornate sfiancanti qua sotto» commentò Rotwang a bassa voce; ma non c'era sarcasmo nella sua voce, quanto piuttosto una punta sottile di amarezza. Forse non avrebbe voluto questo per lui, chissà. Riprese dopo un momento di silenzio. «Sei dimagrito ancora. Te ne sei almeno accorto?»

Emir aggrottò la fronte per un istante. «Non saprei.»

«Lo so io. L'unica attività fisica che tu compia da quando sei qua sotto è stare sopra quando lo facciamo, perciò l'unico modo in cui tu abbia potuto perdere peso è un regime gravemente ipocalorico. Sei denutrito, Fuji. Come lo spieghi?»

Rotwang l'aveva detto con un tono stranamente assorto, preoccupato, e forse persino un po' triste, ma per nulla acre; eppure Emir lo avvertì come un'accusa. «Ceniamo sempre insieme. Mi vedi mangiare anche tu.»

«Non è questo il punto» borbottò Rotwang, ma per un istante gli sembrò tanto seccato, tanto turbato, che Emir quasi si ritrasse. «Fai come credi, Emir. Sei adulto e vaccinato e di certo non devi render conto a me; ma penso che dovresti sforzarti di uscire di più. A volte non mi ricordo più chi è che sto nascondendo in questa casa, se te o Mew...»

Nascosto in quella casa, clandestino come il Pokémon più raro del mondo, prigioniero quasi quanto lei: era esattamente così che si sentiva, eppure Emir si sforzò d'ignorare la persistente sensazione che Rotwang avesse pienamente ragione. Si sforzò di sollevarsi a sedere sul divano, con un vago sentore di nausea e di pesantezza e le palpebre che bruciavano appena di sonno e di febbre.

«Hai ragione» borbottò obbedientemente, macchinalmente, per non discutere; Rotwang si strinse nelle spalle.

«Lo so anch'io che ho ragione, Fuji. Non ho bisogno di sentirmelo dire da te. O mi dai retta o non lo fai, ma vedi di non prendermi per il culo, siamo intesi?»

Rotwang non lo stava aggredendo, ma la sua voce era seria e amara, cupa, ed Emir non aveva la minima voglia di discutere – quantomeno non più di quanta ne avesse di tornare a uscire di casa, senza uno scopo, nel mondo esterno. Si limitò a far cenno col capo di aver capito, e Rotwang diede per chiuso l'argomento e tornò a sfogliare il taccuino, senza dar segno di vederlo.

Sentendosi la gola annodata dall'angoscia, con la strana sensazione di dover nascondere un delitto che aveva commesso, Emir accennò al taccuino sforzandosi di restare calmo e domandò: «Che fai?»

«L'ho trovato tra le tue cose. Non ti dispiace, vero?» rispose Rotwang scorrendo distrattamente le pagine con la punta delle dita. «Però non è la tua scrittura.»

Dunque non era ancora arrivato alle pagine su Mew; eppure Emir si sforzò di reprimere la sensazione di sollievo che gli invadeva il petto a quel pensiero e di restare calmo. «L'ho trovato in un cassetto. Doveva essere del vecchio proprietario della villa.»

«Oh, avrei potuto arrivarci» commentò Rotwang sorridendo appena tra sé. «Senti qua: Laudano, 6 grammi... 4 settembre, laudano... eroina, 10 milligrammi... laudano, 35 gocce... in effetti solo un oppiomane poteva progettare una casa come questa.»

«Già, è vero» mormorò Emir sforzandosi di ridere, col petto che gli pareva gonfiarglisi d'angoscia di momento in momento. «Spiega molte cose.»

«Bah» commentò Rotwang quasi disgustato, chiudendo il taccuino come se volesse metter da parte con esso anche il misterioso oppiomane di tanti anni prima. Gli batté familiarmente la mano sul ginocchio. «Tu che hai fatto oggi?»

Se gliel'avesse detto subito non ci sarebbe stato alcun segreto tra di loro, e tutto si sarebbe risolto quel giorno, quella sera stessa. Avrebbero litigato, urlato, forse si sarebbero scagliati oggetti addosso, certo; ma poi tutto sarebbe finito lì, e qualche sera dopo avrebbero fatto sesso di nuovo e poi avrebbero ripreso a parlarsi, e alla fine avrebbero fatto pace. Ma da quando viveva recluso là sotto Emir si sentiva mancar le forze, si sentiva perennemente stanco, eternamente solo; i litigi del Laboratorio gli sembravano appartenere a giorni lontanissimi, a un'epoca più remota ed estranea ancora di quella del suo predecessore, e ricambiando per un attimo lo sguardo diretto di Rotwang egli non se ne sentì il coraggio.

«Ho studiato un po'» rispose semplicemente.


Una sera dell'autunno che iniziava Rotwang tornò a casa particolarmente tardi, con l'aria di non voler parlare di niente, o almeno questa era l'espressione che aveva in volto quando Emir se lo vide apparire nel sotterraneo stravolto e distratto, assorto nei suoi pensieri, e troppo silenzioso. In momenti come quello Emir non sapeva come decifrarlo: era troppo inafferrabile; ma il fatto che Rotwang fosse venuto proprio nel sotterraneo dov'era certo di trovarlo, quando avrebbe avuto a disposizione trentacinque stanze disposte su tre piani per esser certo di poterlo evitare, voleva dire di certo che forse non aveva voglia di parlargli, ma senz'altro era lui che era venuto a cercare.

Non gli domandò nulla. Rotwang sedette sul divano al suo fianco senza neppure guardarlo, collo sguardo fisso davanti a sé, e disse dopo un po': «Dolarhyde si è licenziato.»

Nei mesi precedenti Rotwang l'aveva sempre tenuto aggiornato di tutto quanto succedeva al Laboratorio, in parte perché persino nella sua reclusione il Laboratorio e la Silph restavano l'unico orizzonte di eventi col quale Emir potesse confrontarsi, e in parte perché se non avesse saputo costantemente che cosa accadeva e che cosa progettava l'unica persona al mondo che conosceva il loro segreto gli sarebbe parso d'impazzire.

A quanto pareva, Valérien doveva aver scontentato più della sola opinione pubblica di Kanto con i suoi ossessivi tentativi di accusare e screditare la famiglia Fuji senza tuttavia riuscire a dimostrare niente; qualcuno dalla Silph doveva avergli fatto capire che un'altra gaffe del genere gli sarebbe costata cara, e che se proprio tutto ciò che era in grado di fare per cercare di ritrovare Mew era far perquisire sotto gli occhi dei giornalisti una casa dopo l'altra per poi far finire ogni insuccesso sui giornali, in tal caso la dottoressa Mann avrebbe potuto fare meglio i loro interessi.

E poi, naturalmente, neppure la testardaggine di Valérien poteva fare nulla contro l'evidenza: se Mew non s'era trovata in casa sua, doveva voler dire che non c'era; e naturalmente l'unica cosa ch'egli poteva fare in quanto direttore era tornare a occuparsi delle ricerche – il che, col laboratorio sotto personale e a pochi mesi dal concludere un progetto durato più di quattro anni, era di certo l'idea migliore che potesse avere. Il che non vuol dire che i lavori procedessero bene.

L'unica persona che era sempre riuscita a porre un freno alle divergenze in laboratorio era Portia, ma a quanto pareva neppure a lei interessava più sprecare tempo ed energie per far andare d'accordo tutti quanti; e poi, gli equilibri in laboratorio erano cambiati molto negli ultimi tempi e, forse con suo grande sollievo, non si trovava più a essere al centro di ogni oscillazione della bilancia. Fintanto che tutti i principali scontri all'interno del Laboratorio erano stati da parte sua e di Rotwang, Portia s'era sempre ritenuta in dovere d'intervenire e di mediare tra di loro perché era amica di entrambi – sia pur con una palese preferenza per Rotwang, là dove non fosse proprio lampante che era lui ad aver torto; ma ora che Valérien aveva tradito le aspettative di tutti e si era rivelato per quello che era, o quantomeno nella forma ch'era in grado di assumere sotto l'influenza di Dale e dell'autorità, tutto il resto del team si era schierato contro di lui e aveva perduto ogni rispetto nei suoi riguardi dopo la perquisizione del Centro Pokémon Volontario. Veder umiliato e svergognato un uomo anziano che aveva sempre dato la vita, molto più della sua vita, per il benessere dei Pokémon era più di quanto ciascuno di loro potesse sopportare; e Portia viveva a Kanto da quando aveva diciannove anni, e del signor Fuji di Lavandonia aveva sentito parlare sin da allora.

Persino nel suo disprezzo però era estremamente professionale: quando lei e suo marito venivano a cena alla villa, o li invitavano a casa loro per interminabili cene con le bambine che strillavano e correvano attorno al tavolo e pretendevano che giocassero con loro, Portia non parlava mai di lavoro; avrebbe potuto sfogarsi dell'atmosfera intollerabile e soffocante del laboratorio con le persone che più al mondo avevano motivo di odiare Valérien e di appoggiarla nella sua frustrazione, ma a una tale vigliaccheria non si sarebbe abbassata mai. Quando cenavano assieme, perché a quanto pareva queste cene di famiglia almeno una volta al mese erano fondamentali per continuare a fornir loro una copertura – o quantomeno questa era la tesi di Rotwang quando lo obbligava ad andarci, dato che aveva deciso di smettere di fingere pubblicamente che la loro fosse una storia di solo sesso qualche settimana dopo essersi trasferito da lui – Portia non parlava d'altro che della scuola delle bambine e vecchi aneddoti universitari e pettegolezzi di paese e poco altro.

Contrariamente a ogni aspettativa, il primo a cedere alla pressione della nuova gestione era stato proprio l'unico che nessuno si sarebbe aspettato mai.

Vincent aveva sempre avuto l'aria d'interessarsi tanto poco di tutto ciò che concerneva la direzione ideologica del Laboratorio e della Silph da far sentire la sua voce solo quando qualcosa lo toccava direttamente; con lui Emir non ricordava d'aver mai discusso seriamente neppure una volta in sei anni di collaborazione. Questo perché Vincent si occupava soltanto di provette e risultati e test genetici, e di ideologico, in quello che faceva, c'era ben poco. Del resto, Vincent non aveva per natura un carattere polemico o litigioso; era testardo e sicuro di sé, questo sì, e ogni tanto discuteva animatamente con Rotwang, perché due uomini testardi e orgogliosi come loro non potevano non scontrarsi ogni tanto; ma i loro erano sempre litigi intensi e fulminei che si esaurivano con l'esaurirsi della questione, e nessuno dei due s'era mai portato rancore.

A quanto pareva invece Valérien aveva perduto ogni forma di rispetto che Vincent avesse mai provato per lui quando aveva scelto di umiliare il signor Fuji; e quando sotto gli occhi di tutti s'era messo a urlare senza neppure esser stato sfiorato, e meschinamente s'era approfittato della confusione per cercare di passar da vittima e di farsi difendere dai suoi colleghi, s'era attirato anche tutto il suo disprezzo. Vincent non aveva mai detto nulla; s'era limitato a prendere atto del fatto che Valérien era cambiato, o piuttosto che s'era rivelato per quello che era, un ragazzino deluso che s'approfittava del proprio potere per cercare di vendicarsi, e se l'era tenuto a mente. Quanto al resto, la gestione che Valérien avrebbe adottato non gli interessava un granché, dal momento che la sua mansione restava sempre più o meno la stessa e che nessun direttore avrebbe mai potuto pretendere da lui più lavoro di quanto ne avesse richiesto Emir.

Stando a quanto raccontava Rotwang, Valérien continuava a dirigere i lavori nel suo modo insicuro e contraddittorio, tornando più volte sulle sue decisioni e interrompendo bruscamente una fase della ricerca della durata di qualche settimana per spostare chi se n'era occupato a lavorare su qualche altro aspetto, e soprattutto addossando sempre su qualcun altro la colpa di ogni problema; era isterico, nevrastenico; non litigava mai apertamente con nessuno, semplicemente perché tutti s'erano schierati contro di lui, e questo lo faceva sentire come se fosse al centro di una cospirazione, perennemente sotto gli occhi e il giudizio di tutti, e come se tutto il Laboratorio l'osservasse in silenzio nell'attesa di un suo errore. Doveva essere come diventar pazzo; se almeno qualcuno gli avesse detto qualcosa, avrebbe potuto difendersi, gridare, dimostrare che non era affatto meschino come tutti sussurravano di lui; ma nessuno gli avrebbe mai detto niente perché tutti temevano vagamente una sua reazione capricciosa e inconsulta, come un licenziamento, magari, dal momento che ne aveva l'autorità e aveva già dimostrato com'era capace di servirsene; e dal canto suo, Valérien non poteva nulla per agire per primo: Rotwang gli faceva paura, Portia suscitava ancora in lui una sorta d'inconscia venerazione. In quanto a Vincent, era il più distante di tutti dalle meccaniche private e personali che si erano create tra di loro e proprio per questo era il meno pericoloso, e doveva esser quello da cui meno c'era da aspettarsi una reazione. Non che Valérien fosse perfido a tal punto da realizzare tutto questo logicamente e da comportarsi razionalmente di conseguenza: Valérien non era cattivo, era semplicemente meschino e vigliacco, e la sua frustrazione si riversava, come l'acqua, là dove più facilmente trovava sfogo. Si trattava perlopiù di risposte piccate, spazientite, di mezzi rimproveri sugli orari o sul lavoro svolto o di poco altro ancora, e fintanto che la faccenda si limitava a questo, nessuno in tutto il Laboratorio aveva tempo da perdere a prestarvi attenzione, e Vincent meno che mai.

L'atmosfera era deflagrata quel giorno, quando Valérien si era affacciato nel laboratorio di Vincent e gli aveva chiesto in tono inquisitorio, con l'aria di star cercando qualcuno a cui dare la colpa e desse per scontato di averlo già trovato, che diamine volessero dire certi risultati che non avevano senso. Senza scomporsi troppo Vincent aveva inforcato gli occhiali, aveva scorso rapidamente i risultati, valutato un paio di parametri per accertarsi che tutto avesse funzionato a dovere, gli aveva restituito i fogli e aveva risposto: «Il biologo sei tu. Se pensi che ci sia stato un errore dimmi di rifarli, altrimenti penso che dovresti essere tu a interpretarli. Sei d'accordo con me?»

Senza saperlo, e di certo senza averne la minima intenzione, Vincent doveva averlo colpito in una delle tante paranoie che lo dilaniavano: quella di venir paragonato a Emir e di non essergli all'altezza. Che poi Vincent non l'avesse neppure nominato e tantomeno pensato, nella sua mente la cosa non cambiava: Valérien sapeva che tutti nel laboratorio avevano preferito Emir, e se i suoi sottoposti lo avevano preferito come direttore, per quale motivo non avrebbero dovuto preferirlo anche come collega?

Vincent aveva aspettato lo sfuriarsi della sceneggiata che s'era abbattuta su di lui con serafica, imperturbabile calma, quasi con attenzione, e non aveva fatto neppure una volta un tentativo di interromperlo o di difendersi. Si era limitato ad appoggiarsi contro lo schienale della poltrona per osservarlo in silenzio dal basso, quasi come se lo vedesse per la prima volta, e aveva aspettato.

Valérien non aveva fatto altro che urlare che lui era il direttore, che gli dovevano rispetto; che nessuno in tutto il Laboratorio s'era mai neppure sforzato di guardarlo come un adulto perché tutti avevano sempre dato per scontato che non sarebbe mai stato all'altezza di Emir e che aveva ricevuto quell'incarico solo per poter operare i tagli richiesti dalla Silph, e poi che... Ma di fronte all'imperturbabile silenzio di Vincent la sua voce s'era affievolita a poco a poco, e infine si era spenta. Il silenzio contro il quale la sua voce s'infrangeva lo aveva ammutolito, ed egli si era ritrovato ad aspettare che alle sue parole facesse seguito qualcosa.

«Hai finito?» aveva domandato Vincent educatamente. Valérien non aveva risposto, allora Vincent si era alzato, si era sfilato ordinatamente il camice e lo aveva riposto con cura sullo schienale della sedia. Non si era scomposto affatto. «Se vuoi dar sfogo alla tua frustrazione, penso che tu debba trovare qualcun altro, Valérien. Se nessuno qui ha il coraggio di dirtelo lo farò io: abbiamo tutti sopportato a sufficienza.»

Fu una serata particolarmente triste, come dopo aver avuto notizia di un lutto. Rotwang gli descrisse tutta la scena in ogni passaggio, almeno per come lui e Portia l'avevano ricostruita sulla base dei resoconti infervorati di Vincent e delle sconclusionate urla di Valérien, e tutto ciò che era successo dopo – Valérien che sbraitava al telefono con Zafferanopoli mentre Vincent sbatteva le sue cose in uno scatolone e Portia che andava dall'uno all'altro per cercare di farli ragionare; ma quando ebbe finito di raccontare si rinchiuse di nuovo nel suo scontroso mutismo, ed Emir rimase in silenzio a rispettare la sua rabbia e la sua agitazione. Se c'era qualcosa al mondo che sapeva come affrontare, dopotutto, era il suo malumore.

Tuttavia quella sera, quando Emir uscì in maglietta dal suo bagno privato per andare a dormire, rientrò in camera sua solo per trovare il suo letto già occupato da Rotwang che leggeva cupamente un vecchio libro in tedesco. Rimase interdetto per un istante. Da quando abitavano insieme non avevano mai dormito assieme se non le notti in cui facevano sesso; e quella sera Rotwang gli sembrava tutto fuorché in vena di farlo.

Si schiarì la voce. «Non pensavo che venissi qui.»

In risposta alla sua osservazione, Rotwang non alzò nemmeno gli occhi dal suo libro. «Se è un problema, me ne vado.»

«No, no, io... resta pure quanto vuoi» balbettò Emir stupidamente, sentendosi ancora più confuso e perplesso di prima. «Solo non credevo che avessi voglia di...»

Le sopracciglia di Rotwang si aggrottarono impercettibilmente al di sopra del libro, ed Emir intuì che quello proprio non era il caso d'insistere e ammutolì. Per una volta, dopotutto, quella d'infilarsi a letto senza discutere oltre non sembrava un'idea tanto cattiva.

Non parlarono più. Rotwang lesse con calma, senza degnarlo di uno sguardo, per un'altra decina di minuti, dopodiché spense l'abat-jour dal suo lato del letto, si girò su un fianco e rimase immobile.

Non ci stava capendo niente. Emir scrutò la massa di lenzuola e coperte che si gonfiava al suo fianco con un po' di perplessità e con un'improvvisa stretta al cuore; ma non c'era altro da fare. Spense la luce e si distese nel silenzio al suo fianco, discosto da lui ma vicino abbastanza da percepire la sua presenza, e si sforzò d'ignorare il fatto che quella era la prima volta che dormivano assieme senza fare sesso, e che gli sembrava che questo cambiasse qualcosa tra di loro.

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Capitolo 12
*** Incomunicabile. ***


incomunicabile

Incredibile ma vero, sono di nuovo qui!

Come avevo preannunciato, la mia vita ha preso pieghe inaspettate dal 2018 a oggi, mi sono ritrovata senza preavviso a vivere da sola e quant'altro, quindi il tempo che mi rimane è sempre poco: ma non per questo abbandonerò mai questa storia, non ora, specialmente, che m'identifico con Emir più che mai. Perciò mi dispiace davvero impiegare sempre secoli per ogni aggiornamento, ma spero che ancora vi vada di perdervi un po' con me nei sotterranei della Villa Pokémon... perché a me va ancora, davvero.

Nel caso aveste bisogno di un rapido riassunto degli episodi precedenti, in puro stile Beautiful: dopo la perquisizione del Centro Pokémon Volontario di Lavandonia, Emir si è totalmente allontanato da suo padre e si è recluso nella villa. Dopo qualche mese, Rotwang si è trasferito da lui; ma col passare del tempo Emir si sente sempre più solo e prigioniero della villa, e per ingannare il tempo inizia a studiare di nascosto i comportamenti di Mew. Nel frattempo, al Laboratorio, Valérien è sempre più isterico e licenzia Dolarhyde.

Ciò detto, prima di lasciarvi al capitolo, come sempre un paio di righe per i ringraziamenti: un enorme abbraccio a cristal_93, Fiulopis, Persej Combe e BlazePower per le loro recensioni al capitolo precedente, che mi hanno enormemente riempita di piacere. Siete anche troppo gentili!

A Fiulopis ha come al solito betato questo capitolo, e che lo ha fatto a tempo di record!

E infine, dedicato a Persej Combe, come misero regalo di compleanno. Date le circostanze non ho potuto fare altro, ma a te vanno tutti i miei auguri più cari.


Ciò detto, buona lettura a tutti, e mi auguro che possa portarvi un po' di distrazione in questo momento enormemente difficile e doloroso per il nostro popolo. Un enorme abbraccio, per quello che vale.


Afaneia




Capitolo XI – Incomunicabile.


Si fece molto difficile tener conto del tempo, dal sotterraneo. Il mondo lo riguardava ormai tanto poco che neppure il giornale lo interessava più: talora, quando Rotwang lo lasciava in bella vista per lui sul tavolino dell'ingresso o sul divano del sotterraneo, Emir neppure trovava la forza di sfogliarlo. A che sarebbe servito? Per il mondo egli non esisteva più, ed egli scopriva ogni giorno di più quanto poco s'interessasse del mondo.

Gli pareva che ormai solo la diversa qualità dell'aria lo informasse del trascorrere del tempo, e soltanto nelle poche ore che trascorreva al di fuori del sotterraneo. Durante la primavera Rotwang tornava a casa profumando di caldo e di polline, e d'estate cenavano sulla grande terrazza coperta su un orrido tavolo tarmato, alla vista del mare. Queste erano tutte le differenze che intercorrevano nella sua vita.

Ma fu durante un autunno umido e insolitamente freddo che Emir capì che qualcosa non andava, il mattino in cui Rotwang entrò in cucina ancora in pigiama, si mescolò nervosamente un caffè, leccò il cucchiaino e poi, per fargli dispetto, glielo infilò nella tazza senza dire una parola. Emir ne fu talmente attonito e disgustato che d'impulso allontanò la tazza da sé ed esclamò: «Ma che cazzo fai?»

«Quando scopiamo però non ti faccio tanto schifo» ringhiò Rotwang sedendosi a tavola di fronte a lui. Fu solo in quel momento che Emir realizzò che non era vestito per il lavoro.

«Sei ancora in pigiama?»

«No» ribatté Rotwang. «È un frac.»

Emir rettificò rabbiosamente. «Mi perdoni, vossignoria. Forse avrei dovuto chiederle per quale motivo indossa il pigiama a quest'ora?»

Fissandolo negli occhi con aria di sfida, Rotwang scandì lentamente: «Perché lo smoking di giorno è da cafoni. Sei contento?»

Dopodiché, prima che Emir facesse in tempo a scavalcare il tavolo per cercare di ammazzarlo, Rotwang gli fece cenno di lasciar perdere, come se la sola idea di discutere lo stancasse tanto da non valerne la pena: «Lascia stare, dai. Oggi resto a casa perché non mi va. Sei soddisfatto?»

«Ah.» Quella notizia era decisamente... inaspettata. Emir fece mente locale per valutare se ci fosse qualcosa di cui si era scordato o cui non aveva prestato attenzione. «E per quale motivo?»

«Nulla di speciale. Ho telefonato in laboratorio e ho detto che sono malato.» Rotwang tamburellò scontrosamente con le dita sul tavolo, fissandolo come aspettandosi qualcosa. «Beh? Non mi chiedi perché?»

Quella conversazione stava assumendo una direzione che Emir non riusciva più a seguire. Avrebbe voluto domandare, ma la sua perplessità era tale che tutto ciò che fece fu allargare le braccia con rassegnazione e replicare: «Servirebbe a qualcosa chiedertelo?»

«Relativamente» ammise Rotwang. «Me l'ha consigliato Portia, in realtà. Ha detto che faccio bene a non farmi vedere in Laboratorio per un paio di giorni. Lestournelle ha troppa paura di me per protestare o mandarmi un controllo, perciò sto pensando sul serio di restare a casa anche domani...»

Preso dall'esasperazione, Emir gridò: «Si può sapere che c'è?»

Finalmente Rotwang perse l'aria di strafottenza che aveva da quando era sceso, i suoi occhi si fecero stanchi, amareggiati, ed egli mormorò: «Torniamo in Guyana. Partiamo tra cinque mesi.»

Gli pareva passato un secolo da quando aveva pensato alla Guyana per l'ultima volta. Era come veder tornare d'improvviso qualcuno di lontano che credeva d'aver dimenticato per sempre e non saper come reagire, se fosse buono o cattivo; e poiché non sapeva come rispondere Emir rimase in silenzio. Ma dalla sua espressione Rotwang intuì più di quello che aveva da dire, e scrollando le spalle mormorò: «Già... è quello che ho pensato anch'io.»

«Valérien non vi aveva detto niente?»

La smorfia di Rotwang gli avrebbe fornito la risposta anche se lui non avesse detto niente. «Non credo che volesse rischiare di discutere con noi prima ancora di avere la risposta della Silph; e una volta che è arrivata la conferma non restava più nulla per cui chiedere il nostro parere. E poi, tecnicamente, non stiamo andando a cercare un Mew» puntualizzò. «La Silph non può permettersi di cercare pubblicamente un Mew per poi rischiare di fallire, perciò la spedizione sarà ufficialmente per cercare altri fossili...»

Emir sorrise appena. «La gente non è stupida.»

«No, ma se è per questo non sa neppure bene che cosa sia un fossile, e a quanto pare la Silph spera che un articolo di mezza colonna su una spedizione in cerca di fossili passi più inosservato rispetto a un titolo a caratteri cubitali sulla ricerca di un altro Mew. O almeno Lestournelle ha detto così.»

Anche quello aveva senso, quantomeno dal punto di vista di Dale; eppure tutto sembrava enormemente dispersivo: prima la Silph aveva interrotto il progetto sui fossili per occuparsi di Mew, poi, dopo il furto, aveva riportato l'équipe al progetto originario; e adesso che non aveva né Mew né una concreta speranza di trovarne un altro esemplare, improvvisamente metteva nuovamente in pausa il progetto, forse per sempre, per tornare in Guyana nella speranza di poter riprodurre la specie del Pokémon più raro del mondo. Emir aggrottò la fronte per un attimo.

«Non va bene per niente al Laboratorio, eh?»

«Non ti si nasconde nulla, eh?» ribatté Rotwang dopo un momento di silenzio. Pareva seccato alla sola idea di doverne parlare. Sospirò. «Non lo so, Fuji. Veramente. Stiamo per finire, o almeno io non vedo che cos'altro manchi, ma da un po' ho la sensazione che Lestournelle stia facendo di tutto per perdere tempo prima di passare alla fase sperimentale. Non ne ho parlato con nessuno, ma comincio a credere che Lestournelle non abbia idea di come procedere alla clonazione dei fossili senza di te, e che questa spedizione gli faccia prendere tempo.»

Emir scosse la testa senza riflettere. Non era possibile. «Questo non ha senso, Richard, e lo sai anche tu. Valérien non sarà un granché come direttore, ma è comunque un biologo eccezionale, e poi...»

«E poi cosa? Tutti gli studi genetici li abbiamo fatti io e te, e Lestournelle si è occupato solo degli studi ambientali ed evolutivi» lo interruppe Rotwang. «Te lo ricordi o no? Non sto dicendo che Lestournelle sia uno stupido, ma non ha un dottorato in ingegneria genetica. L'unico in tutto il Laboratorio che poteva clonare quell'Aerodactyl eri tu, e Lestournelle dev'essersi reso conto che prima o poi verrà fuori che lui non ne è in grado.»

«Anche se avesse un altro esemplare di Mew dovrebbe lo stesso procedere alla clonazione» obiettò Emir debolmente.

«Certo, senza alcun bisogno di intervenire sul DNA per modificarlo, però, e poi ci vorrà un secolo prima di passar ai fatti. Emir, mi prendi per il culo? Non ti è bastato far perquisire casa tua e quella di tuo padre per colpa delle sue paranoie? Di che altro hai bisogno per capire a cosa è capace di arrivare quel ragazzo pur di mascherare la sua incapacità?»

La cosa peggiore delle argomentazioni di Rotwang era che erano tutte vere, e che non c'era modo di obiettare oltre. Rotwang poteva essere un cinico stronzo polemico e poteva odiare Valérien dal preciso giorno in cui era stato assunto, ma restava pur sempre un professionista; e non c'era nessuno al mondo più qualificato di lui per giudicare. Non rimaneva altro da dire, ma Emir si sforzò ugualmente di trovare una risposta. Dopotutto, una soluzione doveva pur esistere se la Silph era disposta a investire del denaro.

«Vuol dire che quando verrà il momento assumeranno qualcun altro, se ce ne sarà bisogno.»

«Tipo uno stagista sottopagato che ha miracolosamente un dottorato in ingegneria genetica? Fuji, questo è il solo complimento che ti farò in vita mia, ma lo sappiamo tutti e due che tu eri l'unico al mondo in grado di clonare quel Pokémon. Su quel progetto avremmo dovuto lavorare io e te, e ora che tu sei chiuso qua dentro, ci siamo solo io e quel cretino succhiapalle. Non ci riusciremo mai.»

«Non...» iniziò Emir per puro istinto di ribattere; ma un'occhiata eloquente di Rotwang lo mise a tacere, ed egli lasciò perdere. «Pensi che ci saranno problemi in Laboratorio, se non troverete un altro esemplare di Mew?»

Rotwang scrollò le spalle. «Può darsi.»

«Pensi che potresti perdere il lavoro, se le cose peggiorassero?»

Per qualche momento Rotwang rimase in silenzio. Non ebbe moto. «Ce la caveremmo, Fuji, lo sai. Ce la caveremo sempre in qualche modo.»

«Anche se tu non lavorassi più e dovessimo comunque mantenere questa villa?»

Rotwang sorrise appena. «Ce la siamo cavata per due anni, Emir. Due anni sono tanti.»

Due anni erano tanti dato quello che avevano fatto, ma non serbavano per questo alcuna garanzia per il futuro; ma Emir preferì evitare d'insistere oltre. Il futuro gli appariva ora più nebuloso e incerto di quanto gli fosse sembrato mai, e angosciarsi in quel momento non avrebbe cambiato niente.



Nessuno in tutto il laboratorio aveva voglia di partire, e paradossalmente neppure Valérien. A quanto pareva, Rotwang aveva ragione: quel viaggio costituiva l'unica possibilità che gli rimanesse di nascondere alla Silph di non essere all'altezza delle loro aspettative. Se non avessero trovato un esemplare di Mew col quale eseguire la riproduzione, avrebbe dovuto ammettere di non esserne capace, o tirar le cose talmente per le lunghe che la Silph avrebbe tratto le proprie conclusioni; e in ogni caso sarebbe stato ben difficile da spiegare alla dirigenza. Era stato Dale ad assegnargli quell'incarico, per poterlo comandare in un momento di crisi senza attendere da lui alcuna reazione, già sapendo bene che non era per clonare Pokémon né tantomeno per dirigere il laboratorio che Valérien era stato assunto; ma se le cose fossero andate male e il progetto si fosse bloccato, Dale se ne sarebbe misteriosamente scordato e si sarebbe rivalso sul capro espiatorio più immediato e indifeso.

Quanto agli altri, di dover lasciare le sue figlie per la seconda volta in due anni Portia aveva ben poca voglia, a maggior ragione in quanto, per massimizzare il più possibile l'investimento, l'azienda aveva previsto per la spedizione un periodo minimo di un mese, arrivando addirittura ad assumere guide e speleologi locali per l'esplorazione della giungla; e tutto lasciava intendere che forse non avrebbero trovato un esemplare di Mew, ma avrebbero fatto di tutto per non tornare a casa senza di esso. Di tutti loro soltanto Ami, la giovane neolaureata in Tecniche di laboratorio che Dale aveva assunto in tutta fretta, appena sfornata dall'Università di Azzurropoli, senza nemmeno farle il colloquio né consultare Valérien, non era contrariata all'idea del viaggio; ma stando a quanto diceva Rotwang, che parlava di lei con malcelato compiacimento come di una protegée particolarmente soddisfacente, Ami era una valida collega e una brava ragazza, ma era giovane, e delle misteriose e complesse trame del mercato e della Silph non aveva mai avuto esperienza. Un viaggio in Guyana alla ricerca del Pokémon più raro del mondo, ad appena otto mesi dalla laurea, costituiva per lei l'occasione di una vita; e poi era all'alba della carriera, e forse ancora tutto le appariva roseo; ma persino lei era sgomenta alla prospettiva di un viaggio tanto lungo e tanto inutile.

Ma chi aveva preso peggio la notizia di quel viaggio era lui. Di fronte a quella prospettiva, Emir provava la sensazione di trovarsi nell'abisso di un pozzo che andasse riempiendosi a poco a poco con ritmo ineludibile, e il ritmo era quello dei giorni. Provava un'intollerabile angoscia. Avrebbe voluto sfogarla in qualche modo, ma la villa era vuota e silenziosa; le stanze echeggianti non gli offrivano alcun conforto.

Rotwang osservava in silenzio il viluppo di emozioni che lo animava. Non gliene parlava mai direttamente, ma quando sedevano a tavola, la sera, di fronte a una cena messa insieme un po' alla buona, Emir sentiva il suo sguardo soppesare la magrezza del suo corpo, indugiare sulle sporgenze lievi delle sue vertebre che gli percorrevano la schiena.

«Sei uscito, oggi?» domandava talora a bassa voce, col tono di fare una domanda qualsiasi ma lo sguardo preoccupato che non si distoglieva da lui. Non c'era un motivo preciso, eppure ogni volta a quella domanda Emir si sentiva colpevole di qualche cosa.

«Sono stato giù con Mew» rispondeva invariabilmente, e poi qualcosa sul tono di «Ho letto l'articolo di Dujardin sul sequenziamento del DNA mitocondriale» o sciocchezze del genere, per le quali Rotwang non provava il minimo interesse.

«Dovresti andare a correre sulla spiaggia, Fuji. Non che la cosa mi riguardi, ma visto che sei tutto il giorno recluso qui... ti farebbe bene alla schiena, ai polmoni, a...»

Fare attività fisica sulla spiaggia l'avrebbe aiutato a sfogare la sua angoscia, a placare i suoi pensieri, era questo che Rotwang cercava di dirgli: ma la villa era la sua casa, e dentro la sua casa egli si sentiva soffocare ma al sicuro. Come dirgli che tornare al mondo esterno costituiva per lui un'attrattiva e assieme un incubo, che ogni giorno che trascorreva in quella casa lo legava sempre più a essa, e che restarne prigioniero lo atterriva tanto quanto uscirne?

Ma non c'era modo di dirglielo, e forse neppure Rotwang avrebbe voluto davvero sentirselo dire, perché avrebbe significato perdere anche l'ultima illusione che aveva di aiutarlo. Ogni sera, quando Rotwang tirava fuori l'argomento, Emir si ritrovava a non saper che dire, e ogni volta annaspava in cerca di una scusa da porgli. Di solito taceva. Ma una sera in cui forse si sentiva più stanco, o più amareggiato, o in cui soltanto Rotwang doveva aver insistito più del dovuto, Emir levò gli occhi dal piatto e rispose: «Hai paura che finisca per ingrassare?» L'aveva detto senza rabbia, ma si rese conto troppo tardi di quanto dolore fosse carica la sua voce. Quella fu l'ultima sera in cui Rotwang menzionò la questione.

Non riusciva a intravedere un futuro che andasse oltre il giorno della partenza. Gli sembrava di vivere un conto alla rovescia, e alla fine di esso, più nulla, come se la sua vista non arrivasse lontana a sufficienza. Eppure quel giorno non sarebbe finito niente: Rotwang sarebbe tornato entro uno o due mesi e tutto sarebbe tornato di nuovo come prima – quel prima faceva schifo, certo, era un prima monotono e noioso, angustiante; ma era tutto quello che aveva, e in quel prima egli si sentiva a casa come un cane randagio in mezzo ai suoi rifiuti. Alla solitudine della villa era ormai assuefatto, ma la solitudine senza Rotwang gli faceva orrore.

Rotwang era molto più empatico di quanto lui stesso credesse. Non gliene avrebbe parlato mai, così come mai gli avrebbe confessato perché premeva tanto per spronarlo a uscire di casa; ma forse anche lui viveva quei giorni come l'inafferrabile sgocciolar via del tempo, o quantomeno di certo s'era accorto che era così che la viveva lui. Emir percepiva la sua pietà nel suo sguardo che gli correva addosso, talora avrebbe voluto respingerla, rifiutarla; ma opporvisi avrebbe voluto dire parlarne, infrangere per la prima volta il precario equilibrio di silenzio che s'era stabilito tra loro da quando avevano smesso di scontrarsi; ed Emir era troppo ipocrita e vigliacco per rischiare.

Rotwang tornò una sera a casa una mezz'ora più tardi del solito e venne a cercarlo con l'aria di dovergli dire qualcosa d'importante. Al suo ritardo Emir non avrebbe prestato una particolare attenzione di per sé, prima di tutto perché non guardava mai l'orologio, e poi perché, se anche vi avesse fatto caso, avrebbe dato per scontato che fosse ancora al lavoro; ma quando gli apparve davanti, Rotwang aveva l'aria seria e concentrata del medico, e la cosa lo lasciò perplesso.

«Va tutto bene?» domandò con una vaga inquietudine, allontanando la sedia dalla scrivania per guardarlo meglio. Naturalmente non fu così semplice: Mew esigeva d'esser sempre la prima delle preoccupazioni di chiunque varcasse la soglia del sotterraneo, e in quel momento non fece eccezione. Perciò la sua risposta dovette aspettare che Rotwang accogliesse sorridendo i suoi assalti amorosi e le sue vigorose richiese d'affetto, ed Emir se ne scoprì impazientito. Solo quando Mew si fu ormai calmata, e parzialmente soddisfatta si acquattò contro il fianco di Rotwang, seminascosta col muso affondato tra la sua giacca e il panciotto ad annusare gli odori ch'egli portava con sé dal mondo esterno, Rotwang ebbe modo di rispondere. «Nulla di grave, Fuji. Ma c'è una cosa di cui ti devo parlare. Hai un minuto?»

Emir spalancò le braccia a indicare la vacuità dello spazio intorno a sé: era alquanto evidente che un minuto ce l'aveva, ma Rotwang non colse la sua ironia. Si accomodò di fronte a lui sul divano, compostamente, sollevando appena con la punta delle dita i pantaloni sulle ginocchia, e tossì con discrezione per trovar le parole.

«Credevo che volessi chiedermi perché ho fatto tardi.»

Emir sbatté le palpebre un paio di volte. «Eri in Laboratorio... no?»

«No. Cioè, ovvio, ma dopo il lavoro. Non vuoi sapere dove sono stato?»

Il palese nervosismo di Rotwang lo confondeva a tal punto che Emir non approfittò neppure dell'occasione per ripagarlo con una risposta sarcastica. Si strinse nelle spalle perché mancava quasi d'ogni parola. «Richard, si può sapere che hai?»

«Dio... senti, Emir, penso che sia alquanto chiaro a entrambi che tu non stai bene qua dentro. O sbaglio?»

Era la prima volta che uno di loro affrontava apertamente l'argomento. Colto alla sprovvista, senza saper che dire, Emir aprì la bocca per rispondere, annaspò un po' e poi la richiuse. All'occhio clinico di Rotwang bastava così: lo osservò in silenzio per un momento e poi, come se non volesse infierire oltre: «Va bene così, Fuji... lascia stare. Io non sono nessuno per costringerti a dirmi qualcosa che non vuoi, non posso obbligarti a parlare con me... ma non posso neppure partire sapendo di lasciarti qui così. Ti è chiaro, questo?»

Emir annuì senza dire una parola.

«Beh, almeno su questo siamo d'accordo» borbottò Rotwang un po' rinvigorito, sebbene palesemente si aspettasse una qualche reazione più corposa di quella. Ma questo doveva comunque essere il momento che aveva aspettato: si spalancò la giacca, cavò un pacchetto bianco di farmacia e lo posò sul tavolino di fronte a sé. Emir lo fissò in silenzio senza far nulla per prenderlo: doveva essere quello che Mew aveva annusato prima, contro il suo panciotto, e su di esso tornò a concentrarsi, fluttuando a mezz'aria attorno al tavolino e usmando l'aria per decifrare quel misterioso ingresso nel suo regno. «Sia chiaro che non sono contento di questa soluzione, ma non posso lasciarti in queste condizioni, e non so che altro fare. Tu non vuoi parlarne con me, non vuoi uscire di casa e non possiamo parlare con nessuno al di fuori di questa casa, perché la Silph è dappertutto e non possiamo fidarci di nessuno che non siamo noi due. Perciò questa è l'unica soluzione che ho trovato.»

La sua mente iniziò finalmente a lavorare informazioni anziché a girare a vuoto come un macchinario inceppato, ed Emir accumulò infine sufficienti pensieri razionali da capire, o almeno così sperava. «Quelli sono farmaci?»

«Antidepressivi» confermò Rotwang con esattezza. «Non possiamo fare altro, Emir. Davvero. Sono notti che ci penso, ma questo è l'unico modo che ho trovato per aiutarti... soprattutto quando non sarò qui per farlo di persona. Ma la scelta è tua.»

C'era ancora qualcosa che non gli era chiaro in tutto ciò, sebbene ancora non riuscisse bene a realizzare cosa. Emir continuò a fissare il pacchetto sul tavolino come se da esso dovesse provenire chissà quale illuminazione.

«Tu sei un medico per Pokémon» obiettò infine.

Rotwang aggrottò la fronte. «Beh, fa piacere che te ne ricordi di tanto in tanto» commentò. «In ogni caso, ottima obiezione. Ho un ex che lavora in farmacia. Cioè, non è proprio un ex, è più uno che ho scopato un paio di volte, ma comunque... sono passato in farmacia e gli ho chiesto di darmi qualcosa per aiutarmi a superare un brutto periodo. Non gli ho parlato di te» puntualizzò. «L'ho messo già sufficientemente a disagio così, ma in fin dei conti sono comunque un medico, e sa che non posso creargli problemi. E poi, è meglio che pensi che siano per me.»

Sentendosi stupido fin nelle proprie viscere, Emir domandò: «Perché?»

Rotwang si strinse nelle spalle e alzò gli occhi al cielo per non doverlo guardare. «Dio, Fuji, non prendiamoci per il culo... lo sappiamo entrambi che sei un soggetto che tende ad abusare dei farmaci. Te l'ho già detto: se avessi trovato un'alternativa, non avrei mai scelto questa. Il mio amico farmacista mi fornirà i farmaci mensilmente fino alla partenza, e una scorta che dovrebbe bastare per tutto il tempo che sarò via. Che ne pensi?»

C'erano troppe informazioni dalle quali Emir si sentiva sopraffatto e che non riusciva ad analizzare. «Richard... perché?»

Rotwang tacque improvvisamente. Si chinò in avanti verso il tavolino, per allontanare gentilmente il muso di Mew dal pacchetto, e riprese dopo un istante, con qualche difficoltà: «Te l'ho già detto, Emir. Sono stanco di vederti patire così, come un cane, e non posso lasciarti qui così. E poi, bisognerà provvedere a Mew, qui» soggiunse dignitosamente, impettendosi, e per tornare a distogliere lo sguardo si attirò Mew sulle ginocchia e l'accarezzò piano in mezzo agli occhi. Mew pigolò di piacere.

Emir se ne stette buono e in silenzio per un po' a osservare le moine di Mew e l'ondeggiare di gioia della sua coda. Non sapeva che dire, e a dire il vero neppur bene che pensare; ma aveva l'impressione che quella rinuncia ai propri principi fosse costata a Rotwang molto più di quanto volesse ammettere, e che fosse meglio da parte sua non dire nulla.

«Grazie» accennò soltanto, e Rotwang assentì col capo senza guardarlo. Ma quando Emir tese la mano per prendere il pacchetto e dare almeno un'occhiata a quello che conteneva, la voce di Rotwang bloccò la sua mano là dove si trovava.

«Aspetta. Se scopro che esageri ancora come l'altra volta, ti ammazzo. Te ne ricordi?»

Certo che si ricordava. Emir annuì. «Sì... me ne ricordo.»

«Non sto scherzando. Te lo giuro, Emir. Sto facendo quello che posso per aiutarti, sto rischiando la carriera, e non mi importerebbe, dato che tu hai fatto lo stesso per Mew, ma ora c'è anche la carriera di un altro in gioco, e il minimo che tu possa fare è non rischiare la vita. Sono stato chiaro?»

«Richard» lo interruppe Emir. «Non lo farò.»

Finalmente Rotwang parve convinto. Ma l'atmosfera s'era fatta greve e troppo tesa nella stanza, e quando già la sua mano aveva raggiunto il pacchetto, Emir ci ripensò. Tornò ad appoggiarsi contro lo schienale della sedia.

«Uno con cui sei andato a letto qualche volta, hai detto?» domandò.

Questo Rotwang non se l'aspettava. Levò gli occhi su di lui: aveva capito il suo gioco, e la cosa lo divertiva. «Già.»

«Quanto tempo fa?»

«Che ne so io? Quattro, cinque anni fa. Non me lo ricordo. Non che ci fosse molto da ricordare, comunque.»

Questo era discretamente confortante. «Come si chiama?»

Rotwang scavallò pigramente le gambe. «Ehi, Fuji. Qui qualcuno è geloso?»



Ci voleva del tempo perché i farmaci iniziassero a fare effetto: su questo Rotwang aveva insistito molto, e del resto Emir non aveva bisogno di sentirselo dire da lui. Iniziò ad assumerli dal giorno seguente.

D'improvviso cambiarono i suoi sogni. Emir non s'era mai soffermato a riflettervi su, ma reputava d'aver sempre sognato come dovevano sognare un po' tutti: sogni più o meno significativi, che ricordava oppure no, piacevoli o confusi, qualche volta incubi, ma nell'insieme sogni di cui a stento si ricordava per più di qualche giorno; ma ora i suoi sogni s'erano fatti strani e meravigliosi, avventurosi e turbolenti come un film d'avventura. Non avevano sempre una trama precisa, e non sempre riusciva a ricordarli a lungo dopo il risveglio, ma lasciavano in lui una sensazione indistinta e piacevole di entusiasmo e di vita. Al risveglio rimaneva a lungo immobile sotto le coperte, con gli occhi chiusi, a bearsi del dormiveglia e delle atmosfere del sogno mentre Rotwang attorno a lui si preparava al giorno; e gli pareva d'aver appena vissuto una grande avventura.

I sogni costituivano però l'unico miglioramento concreto nella sua vita. Quanto al resto, tutto restava lo stesso: Rotwang se ne andava al mattino e tornava alla sera, e lui rimaneva solo. Mew non lo appagava più come all'inizio, quando almeno la consapevolezza d'averla salvata lo ripagava di ogni rinuncia. Erano passati due anni, e l'entusiasmo s'era spento allo scontrarsi con lo squallore della quotidianità. Non ci aveva guadagnato nulla, aveva al contrario perduto tutto, e Mew rimaneva ancora la stessa del primo giorno, fatua e affettuosa e del tutto imperscrutabile. Neppure studiarla lo appagava più, dal momento che non c'era mai niente di nuovo da annotare. Gli pareva di diventar pazzo, forse perché soffriva tanto che non vedeva altra via d'uscita. Ma tutto ciò che ebbe il coraggio di dire a Rotwang fu che i farmaci non funzionavano. Rotwang sorrideva cupamente.

«Non sono antidolorifici, Fuji. Non senti passare il dolore dopo mezz'ora che li hai assunti, e non basta assumerli un paio di settimane. Non ti accorgi del cambiamento a meno che tu non smetta di assumerli bruscamente, perciò evita di rompere le palle e fidati di me.»

Il tempo passò come se gli venisse sottratto di soppiatto, mentre lui non guardava. D'un tratto, come un incubo, venne febbraio.

I bagagli erano già pronti, o quantomeno così sosteneva Rotwang, ed Emir preferiva non immischiarsene. La sola idea della partenza dell'indomani lo angosciava e lo nauseava come la prospettiva di una morte, e preferiva ignorare quel pensiero relegandolo in un angolo buio della sua mente.

Trascorsero la giornata a letto, a fare sesso con più angoscia che passione, come se dovessero disperatamente approfittarne perché non ve ne sarebbe stata più occasione; ma poiché non avevano più vent'anni, passarono la maggior parte del tempo a rigirarsi pigramente tra le lenzuola sfatte, senza parlare ma senza neppure allontanarsi. Rotwang era pensieroso, ed Emir scrutava la sua fronte angosciata con dolorosa apprensione.

«Sei preoccupato per domani?»

«Pane e volpe a colazione, eh, Fuji?» lo rimbeccò Rotwang, ma il suo volto si distese quando parlò. «Brutti ricordi.»

Non c'era alcun bisogno di chiedergli quali brutti ricordi risvegliasse in lui il pensiero della Guyana, ed Emir si pentì quasi d'aver parlato. «Non troverete niente, Richard. Non abbiamo trovato niente due anni fa, quando abbiamo cercato, e a maggior ragione non troverete niente a distanza di tutto questo tempo. M1 ed M2 erano gli unici della loro specie, e nel giro di due mesi sarete di nuovo sull'isola a cercare di clonare Aerodactyl.»

Rotwang sorrise amaramente. «Quindi nel giro di due mesi la Silph ci spedirà tutti nella succursale russa, se non ci licenzierà.»

«Credevo fossi convinto che ce la caveremo sempre» gli ricordò Emir, che non ci aveva mai creduto, sebbene gli facesse piacere sperarci, ogni tanto.

«Infatti è quello che penso. Ciò non toglie che, se sono molto fortunato, l'anno prossimo sarò in qualche laboratorio siberiano e ti spedirò i soldi dalla banca di Tiksi. Ce l'avranno una banca, poi? Dev'essere un posto così di merda...»

Rotwang stava scherzando, ma Emir si sentì ugualmente in dovere di intervenire. «Se ci trovassimo alle strette potrei sempre spiegarti come intervenire sull'embrione da solo. Potresti farlo tu al posto di Valérien, se ce ne fosse bisogno. Sarebbe una soluzione, no?»

Il modo in cui Rotwang aggrottò scetticamente la fronte fu quasi gentile. «Sicuro, come no. Emir, ti ricordo che sei tu quello specializzato in ingegneria genetica, non io. Sulle modifiche del DNA puoi intervenire solo tu.»

Emir cacciò via le sue parole con la mano come per allontanare un insetto. «Se io l'ho fatto da solo all'Università, sono certo che potresti farlo anche tu. Non sei un chimico, sei un medico genetista, e poi... anzi. Mi è tornata in mente una cosa. Vieni con me.»



S'era quasi dimenticato di quella stanza.

Quando aveva scoperto il sotterraneo e l'aveva eletto a tempio del suo genio, gli era parso naturale crearsi là sotto qualcosa che assomigliasse a uno studio privato. Naturalmente era stata una delle cose più vanagloriose e inutili che avesse mai fatto, e di conseguenza non se n'era servito quasi mai. Tutto ciò che aveva fatto in quella stanza era stato sistemare un paio di manuali costosi che non aveva bisogno d'avere a portata di mano, e ovviamente tutto il materiale della sua tesi di dottorato. Ci si era seduto ogni tanto con ostentata soddisfazione, ed era finita lì. Forse aveva pensato di farne una specie di laboratorio segreto , chissà.

«Erano un paio d'anni che non provavo la sensazione di venir accompagnato da uno scienziato pazzo in un luogo segreto in cui nessuno può sentirmi urlare» commentò Rotwang ad alta voce, ma forse più per smorzare la tensione che altro. Mew aveva ricevuto un pezzetto di toast come parziale indennizzo della loro negligenza ed era rimasta di là, senza unirsi a loro nella loro esplorazione.

«Tu vivi in una casa in cui nessuno può sentirti urlare» obiettò Emir aprendo la porta dello studio. Era un secolo che non ci tornava, almeno da cinque anni, forse di più, e quando trovò a tentoni l'interruttore della luce la stanza rimase immersa nel buio. Sentì che Rotwang soffocava una risata.

«Che cos'è che avrei dovuto vedere?»

«Fanculo» rispose Emir seccato. «Comunque, non importa. Vieni dentro lo stesso. È una cosa veloce.»

Lo studio era troppo lontano dalla stanza principale perché vi giungesse luce da lì; non appena dentro, era talmente buio da non vedersi l'uno con l'altro. Il volto di Rotwang era per lui solo un'oscura silhouette nera, e solo i suoi occhi brillavano appena nell'ombra. Lo trascinò per un braccio verso il centro della stanza, là dove ricordava più o meno di averlo visto l'ultima volta, e cercò a tentoni nel buio un oggetto rigido.

«Metti la mano qui. Senti...?»

Rotwang tacque un istante. «Senti, non mi piace toccare alla cieca cose di cui non conosco la natura, quindi se qui dentro c'è qualcosa di mostruoso tipo feti abortiti...»

«Rotwang!» protestò Emir scandalizzato.«È solo un'incubatrice. Che idee ti vengono in mente?»

Questa volta il silenzio di Rotwang fu più prolungato. «Il fatto che tu abbia un'incubatrice quaggiù dovrebbe essere più rassicurante?»

«È il mio vecchio progetto di dottorato, coglione. È l'incubatrice tramite la quale sono intervenuto sul genoma di embrioni di Rattata in formazione a cinque giorni dalla fecondazione. Naturalmente per motivi etici l'Università ha imposto al mio relatore di non impiantare mai gli embrioni in una femmina adulta e di distruggerli entro sette giorni, perciò è rimasto tutto in teoria, ma tutti i test indicavano che gli embrioni erano sani, perciò è probabile che le fecondazioni sarebbero andate a buon fine, se...»

«Che cos'avevi modificato?» chiese Rotwang. La sua voce si era fatta improvvisamente più bassa e seria, ed Emir seppe di avere tutta la sua attenzione.

«Il colore, in realtà. Il mio relatore è stato irremovibile, perché a quanto pare era l'elemento meno problematico dal punto di vista etico, e anche l'unico che sarebbe stato evidente già al momento della nascita, nel caso l'Università ci avesse concesso l'autorizzazione a procedere alla sperimentazione in una fase successiva; e poi bastava a dimostrare che la sequenza genetica era modificabile a nostra discrezione, e alla commissione interessava questo.»

«Hai fatto tutto da solo?»

«Certo» mormorò Emir, e per qualche momento, se Rotwang avesse parlato, non l'avrebbe sentito. Provava un improvviso senso di nostalgia di quei giorni in cui era l'unico vero responsabile del suo lavoro. «Neppure il mio relatore riusciva più a starmi dietro, dopo un po'.»

«Non stento a immaginarlo» commentò Rotwang, per una volta privo di sarcasmo. «Non avrei voluto essere tuo relatore per nulla al mondo.»

Emir rise tra sé. «Sei stato mio collega, però. Dev'esser stato peggio. Comunque andiamo, dai. Non so nemmeno perché te l'ho fatto vedere...» Ma mentre gli passava di fianco per uscire, Rotwang lo afferrò d'improvviso. «Che c'è?»

«Dovremmo restare qua» mormorò Rotwang nel buio.

«Che cosa vuoi dire?»

«Che sarebbe tutto più semplice se restassimo qua. Ci hai mai pensato? Che se d'un tratto scomparissimo, se non uscissimo mai più da questa stanza, nessuno saprebbe dove venire a cercarci. Non dovremmo mentire mai più. Non ci hai mai pensato?»

Quella stanza non conosceva limiti né confini; tutto era buio, e lo spazio avrebbe potuto essere sterminato e infinito ed estendersi in ogni direzione nel tempo e nello spazio. Emir si accorse solo dopo un istante di aver trattenuto il respiro.

Rotwang non stava parlando della vita reale, naturalmente, di una vita in cui bisognava pagare le bollette e fare la spesa e portare a casa uno stipendio – era un'altra vita che poteva aver luogo solo in quella stanza buia, in quel momento, una vita in cui Mew non era mai piombata nelle loro giornate e loro non avrebbero mai dovuto nascondersi, o quantomeno lui non avrebbe mai dovuto tornare in Guyana.

«Già... sarebbe bello.»

Da qualche parte di fronte a lui, nel buio, gli occhi di Rotwang non si distoglievano da suoi: Emir lo percepiva soltanto attraverso il buio, eppure non aveva bisogno di vederli. «Se non fosse per lei dovremmo farlo, Emir. Piantare tutto e andarcene, persino il progetto dei fossili, persino la Silph, e andarcene in Germania o in America o dove ti pare a cercare un altro lavoro. Dico sul serio.»

«Sì... dovremmo» mormorò Emir, sforzandosi di soffocare un'improvvisa stretta al cuore. Rotwang l'aveva detto senza pensare, solo per ribadire ch'era in nome di un grande amore che rinunciava; ma involontariamente aveva detto la verità – che sarebbero stati liberi, se non fosse stato per lei.

Si sarebbe potuto mentire, illudersi; dire ad alta voce che, quando tutto fosse finito e avessero trovato il modo di liberare Mew in sicurezza, allora liberi lo sarebbero stati veramente... ma Rotwang era troppo intelligente e troppo scettico e non era questo che voleva sentirsi dire. Forse in realtà non voleva sentirsi dire proprio niente.

«Restiamo un po' qui?» propose Emir con un filo di voce. Rotwang accostò la porta, le loro sagome oscure non s'intravidero più, ed entrambi rimasero in silenzio a fingere di non esistere nella quiete e nel buio, dove nessuno avrebbe mai potuto trovarli.


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Capitolo 13
*** Irrimediabile. ***


Bentornati su questi schermi!

È passato praticamente un anno, perciò non perderò neppure tempo a scusarmi per il ritardo: penso che ormai mi conosciate. A chi ancora resiste e vuole conoscere il finale di questa storia (che arriverà, promesso), semplicemente grazie. Come sempre grazie in particolar modo a cristal_93, Persej Combe e Mad_Dragon per continuare a seguire e recensire questa storia!

Come l'altra volta, lascio qui un breve riassunto delle puntate precedenti: Emir vive praticamente recluso nella Villa da quasi due anni. Rotwang costituisce il suo unico collegamento col mondo esterno e con il Laboratorio, ma la Silph ha programmato un nuovo viaggio in Guyana alla ricerca di un nuovo esemplare di Mew. Rotwang dovrà perciò rimanere lontano da Isola Cannella per circa due mesi e, nel tentativo di aiutare Emir a sopravvivere alla propria depressione, gli fornisce antidepressivi e ansiolitici sufficienti almeno per la sua assenza.

Detto questo vi lascio alla lettura, ma vi aspetto alla fine del capitolo per una piccola nota chiarificatrice!

Buona lettura


Afaneia


Capitolo XII – Irrimediabile


Venne a prenderli una macchina per portarli al molo.

Emir si attardava per casa mettendo mano ora a questo ora a quello, senza senso ma senza posa, per avere la sensazione di frapporvi un ostacolo; ma il tempo continuava a scorrergli via dalle mani, e Rotwang si aggirava per la casa trascinando bagagli e borse e medicinali. Aveva salutato Mew quella mattina, abbracciandola e coccolandola e nascondendo gli occhi arrossato contro il pelo rado del suo muso, ed Emir aveva provato un subitaneo moto di stizza – perché Mew era incapace di comprendere il significato del distacco, e perché d'improvviso gli era parso che quel saluto sottraesse del tempo a lui. Avevano avuto due anni, e dal giorno in cui avevano saputo della partenza altri sette mesi, e Rotwang sarebbe tornato presto; allora perché gli pareva di non aver più tempo?

Rotwang era molto silenzioso, quel giorno. Continuava ad aggirarsi per la casa, facendo su e giù per le scale con liste e oggetti che gli pareva d'aver dimenticato, e quasi non lo guardava. Solo quando l'autista spazientito venne a suonare il campanello dopo aver finito di caricare i bagagli più pesanti si decise ad andare.

Si soffermò sulla soglia per un momento, a guardarlo a disagio, e infine disse: « Preferisci che ci salutiamo qui? Come se ci salutassimo un giorno qualunque?»

Non si erano mai salutati sulla porta al mattino, ma non c'era tempo per chiarirlo in quel momento. «No. Vengo con te.»

Rotwang parve improvvisamente sollevato, ed Emir comprese che quella proposta l'aveva fatta soltanto per tutelare il suo abominevole orgoglio. «Bene. Pensavo che preferissi non... beh, ti farà bene uscire. E quantomeno Lestournelle schiatterà di rabbia.»

Emir continuò a provare la stessa dolorosa sensazione inesprimibile di panico durante tutto il viaggio in auto. L'autista era discreto e silenzioso e loro erano seduti sul sedile posteriore, ma non dissero una parola per tutto il percorso, e sedettero l'uno distante dall'altro lungo il sedile.

Erano già tutti lì, a supervisionare la fine delle operazioni di carico del materiale; alla vista di Valérien, Emir si sentì mancare. Non lo vedeva da quasi due anni, da quando aveva fatto perquisire il Centro Pokémon Volontario, e nella sua mente era rimasto lo stesso. Valérien, invece, era invecchiato, ed Emir a questa eventualità non aveva mai pensato: era ingrassato, il suo volto appariva ancora giovane ma stanco, quasi malato. Gli strinse le viscere una morsa di dolore. Valérien era stato mostruoso verso di lui, ma era stato lui a spingerlo a farlo, e Valérien non sarebbe invecchiato tanto se non fosse stato per lui.

Quando l'autista scese dalla macchina per scaricare i bagagli di Rotwang , lo sguardo di Valérien incrociò il suo attraverso il finestrino. Emir non si mosse, ma lo vide avvampar di rabbia: durò solo un istante, perché Valérien era troppo vigliacco per restare, e impettendosi si rivolse seccamente alle sue colleghe e si allontanò verso il suo traghetto. Emir se ne scoprì suo malgrado sollevato.

«Sei diventato molto più spaventoso di me, Fuji» mormorò Rotwang spingendolo verso lo sportello per invitarlo a uscire. «Non sei soddisfatto?»

L'entusiasmo di Portia nel vederlo era immutato, e lo era anche lei. Quanto ad Ami, quella era la prima volta che incontrava il famoso nuovo acquisto del Laboratorio: era esattamente come se l'era immaginata dai racconti di Rotwang, e dall'incertezza del suo sguardo Emir intuì che era dibattuta tra la curiosità verso il suo nome e la tensione che attorno a esso aveva alimentato Valérien. Gli strinse rapidamente la mano, ma subito accennò col capo al traghetto, come se si sentisse a disagio a star lì, e mormorò qualcosa sul raggiungere il capo a bordo.

«Aspettami, andiamo insieme» la trattenne Portia al volo; Ami si fermò un po' seccata, e Portia, del tutto inaspettatamente, gli gettò le braccia al collo e lo baciò sulle guance.

«Starai bene, Emir, vero?»

Questo non se l'era aspettato. Emir rise nervosamente contro i suoi capelli che lo soffocavano, sentendosi sotto lo sguardo di Rotwang, e mormorò: «Ma certo. Perché pensi che...»

«Lo sai il perché.» Le braccia di Portia s'insinuarono dentro il suo cappotto aperto ed Emir sperò che volesse solamente abbracciarlo più stretto, ma poi sentì che le sue mani palpavano le sue costole sporgenti attraverso la camicia. «Mio marito è a casa, lo sai, vero? E anche le bambine... perché non vai a cena da noi, una volta alla settimana, eh? Anche senza di me... lo sai, vero, che a Chris farebbe tanto piacere, e anche a me?»

«Certo» balbettò Emir battendole le mani sulle spalle. «Ci andrò se proprio ci tieni tanto... ma tu stai tranquilla e fa' buon viaggio.»

«E tu mangia un po' di più» lo rimbeccò Portia, lo baciò ancora sulle guance e si staccò da lui. «Ti aspetto su» disse soltanto a Rotwang, e lei e Ami si diressero verso Valérien, che ostentava poco lontano la sua insofferenza e la sua rabbia.

Erano soli in quelle briciole di tempo che erano loro rimaste, erano troppo poche, rimanevano troppe cose da dire, e non gliene veniva in mente nessuna. Si sarebbero rivisti entro due mesi al massimo, non c'era nulla di definitivo nel loro saluto, ma Emir non riusciva a visualizzare nella mente il giorno del ritorno, come se si collocasse in qualche luogo del tempo che alla sua vita non era dato raggiungere.

«Mi chiamerai, quando troverai un telefono?»

«Certo... tutte le volte che ce ne sarà uno» promise Rotwang, che sapeva bene quanto lui che nella giungla telefoni non ne avrebbero trovati molti. Sembrava che solo guardarlo negli occhi gli costasse uno sforzo incredibile. «Tu prometti che andrai a cena da Chris, che prenderai le medicine, che... beh, lo sai

Certo, lo sapeva – Mew. Emir sentì un sorriso freddo, meccanico, permeare gli angoli della bocca senza irradiarsi ai suoi occhi. Sempre Mew, ovunque Mew, infiltrata ovunque, in ogni viluppo della sua voce, come suo padre, come Lavandonia, senza poterne scappare: ma imponendosi di reprimere quello che invece avrebbe voluto urlare, si sforzò di annuire. «Te lo prometto.»

Dopodiché, per non saper che dire, Rotwang lo afferrò tra le braccia e lo baciò a lungo in mezzo al molo.

Quando si separò da lui, Rotwang appariva enormemente in pace con se stesso.

«Scusa» commentò compiaciuto. «Nulla di personale, sai... solo per far incazzare Lestournelle.» Dopodiché poggiò brevemente la fronte contro la sua, chiuse gli occhi per un istante, e solo allora inspirò profondamente e lo lasciò andare per avviarsi verso i suoi colleghi.

Emir rimase sul molo finché la lontananza non gli rese indistinguibili le piccole figure che si affacciavano sul ponte del traghetto. Non attese oltre.

L'autista, che non aveva nulla in contrario a riportarlo in paese nel suo viaggio di ritorno, lo riaccompagnò al cancello della villa e lo salutò più cortesemente di quanto egli si sarebbe aspettato. Emir lo ringraziò un po' goffamente, in fretta, si richiuse la portiera alle spalle e un minuto dopo, finalmente, si ritrovò nella fresca penombra della villa. Inalò in profondità l'odore della sua casa, delle sue cose, e si sentì tornato nel suo nido sicuro e inviolabile dove il resto del mondo non poteva toccarlo. Ma ora, senza preavviso, era solo. Rotwang non c'era – e nel silenzio della villa lo colpì la consapevolezza improvvisa, totalizzante, di che cosa significasse l'assenza e di essere solo. E anche un'altra – che per la prima volta s'era reso conto che Mew era la causa di tutto, e che lui la odiava.


I suoi sogni mutarono bruscamente così come li avevano mutati i farmaci la prima volta, ma all'avventura si sostituì l'angoscia. S'erano fatti orribili: avevano una trama complessa e articolata, angosciante; erano ancora emozionanti, ma erano incubi. Si svegliava sudato nel letto disfatto, spesso nel cuore della notte, e non riusciva a riprender sonno, perché le fredde dita nere dei suoi incubi s'insinuavano lungo la sua schiena, ed erano incubi orribili in cui personaggi misteriosi commettevano strani delitti. Gli capitò di sognare sua madre – erano anni che non la sognava; ma erano sogni agghiaccianti nei quali attendeva la sua morte per partire per l'isola, ed Emir si svegliava agitato e madido di sudore e ricordava angosciosamente che non aveva idea se sua madre fosse viva o morta. Si svegliava accaldato e sudato, scalciava via le coperte e rimaneva a letto a fissare il soffitto nel buio, inalando a grandi respiri l'aria umida della stanza. Ma era pur sempre inverno, e presto si sentiva il sudore ghiacciato sui fianchi e brividi sulla pelle, ma le coperte sfatte si attorcigliavano attorno alle sue gambe e gli pareva che lo avviluppassero come serpi. Non poteva restare a letto, allora si alzava e si gettava qualcosa addosso e scendeva al piano di sotto.

Vagava per un po' la villa deserta, ma faceva troppo freddo in casa e da fare non c'era niente. Emir finiva per scendere nel sotterraneo, dove l'aria chiusa e pesante e le pareti prive di vie di fuga lo facevano sentire prigioniero ma al sicuro, e là, avvolgendosi in coperte altrettanto sgualcite come quelle che aveva lasciato, si distendeva sul divano e si addormentava. Dal divano dormiva spesso senza sogni.

Rotwang era stato la lancetta delle ore di tutte le sue giornate, e ora che non c'era il tempo per lui non aveva più alcun significato. Dopo le sue notti insonni e tormentate si svegliava a giorno ormai inoltrato, quando era la fame a tirarlo giù dal divano e trascinarlo in cucina, a mettere insieme di malagrazia qualcosa che facesse da colazione e pranzo per lui e Mew, che a quell'ora reclamava a gran voce da mangiare. Dopodiché, per le successive sei od otto ore, da fare non gli rimaneva nient'altro. I giorni erano più terribili delle notti, perché gli incubi almeno gli tenevano compagnia ed erano meglio del nulla.

Non riusciva a tollerare la presenza di Mew. Era gioiosa ogni giorno allo stesso modo, come lo era ogni giorno da due anni, ma in quei due anni la sua sopportazione verso di lei, verso le sue insignificanti moine e le sue richieste di un affetto che le era in ogni modo indifferente, si era esaurita. Gli pareva passata una vita intera da quando si trovava con Valérien, a sera fatta, di fronte al vetro che svelava la prigione di Mew al Laboratorio, e vanamente cercava in lui un confronto per dar voce ai suoi dubbi e cercare di capire perché Mew fosse felice in ogni istante di tutto e di tutti – ma quelle sere erano passate, ed Emir aveva scoperto soltanto che le sue domande erano prive di senso. Non c'erano ragioni. Mew era sciocca e insensata e totalmente incapace di difendersi, ed era per colpa della sua incapacità di distinguere il bene dal male che lui era intrappolato là dentro con lei.

Non s'era accorta della partenza di Rotwang; o meglio, di certo se n'era accorta, perché Emir aveva troppa stima della sua intelligenza per dubitarne; ma non vi aveva prestato attenzione. Per il primo paio di giorni dopo la partenza, intorno alle sei, che era l'orario a cui normalmente Rotwang rincasava e scendeva a salutarla, Mew aveva sollevato lo sguardo e aveva pigolato a lungo con intonazione interrogativa: Emir l'aveva guardata in un misto di sorpresa e speranza, ma per la rabbia che provava nei suoi confronti non le aveva detto niente, e Mew non aveva fatto altro. Non era mai stata triste, inquieta, o altro, nulla che tradisse in lei il minimo sentimento di distacco o nostalgia, e per questo Emir provava disgusto. Ormai a stento cucinava per lei. Se solo avesse potuto, se ne sarebbe sbarazzato: non riusciva più a tollerare la sua irritante presenza – avrebbe potuto portarla fuori di nascosto, nella stessa Pokéball che aveva usato per portarla lì, prendere un traghetto, portarla sul continente, magari a Johto persino, e liberarla, e nessuno avrebbe più sentito parlare di lei... già, ma poi Rotwang che avrebbe detto al suo ritorno, che avrebbe fatto senza di lei? E soprattutto, se Mew non ci fosse più stata, sarebbe ancora rimasto con lui?

A volte, quando sedeva sul divano senza nulla da fare, l'osservava intensamente tanto che i suoi occhi le bruciavano addosso. Mew si voltava verso di lui con gli occhi strabordanti di curiosità, enormi, ed Emir, cogli occhi spalancati e infissi nei suoi come se potesse ipnotizzarla, provava un singulto di disperazione.

«Mew, usa Teletrasporto» mormorava in un moto di preghiera. Aveva sempre guardato con disprezzo il mestiere dell'allenatore perché gli pareva che non richiedesse la fatica o l'impegno che tutti lamentavano: non richiedeva studio né talento, gli pareva che tutto ciò che facessero gli allenatori (e per cui tanto venivano acclamati e idolatrati) fosse dar ordini a un Pokémon che li eseguiva. Ma ora che ci provava e che Mew lo fissava con curiosità e non reagiva, si domandava se forse davvero occorresse un talento che lui non possedeva. «Mew... usa Teletrasporto.»

Che Mew fosse in grado di usare Teletrasporto se solo lo avesse voluto era fuor di dubbio, poiché lo dimostravano i test genetici e le sperimentazioni compiute da Valérien; ma a quanto pareva non voleva, o forse la sua voce incerta e piena di dubbi non aveva autorevolezza sufficiente su di lei, chissà. Mew si limitava a guardarlo senza capire, ed Emir, gonfio di frustrazione, andava a cercare i suoi farmaci. La sua disperazione era tale che non poteva fare altro.

Rotwang aveva sbagliato a dargli i farmaci, e questo non avrebbe mai dovuto saperlo. Non avrebbe dovuto fidarsi di lui e della sua promessa, ed Emir si sentiva colpevole d'aver abusato della sua fiducia.

La prima volta era capitato per errore. Rotwang gli aveva prescritto una compressa ogni mattina: un giorno, Emir s'era svegliato alle cinque, ne aveva presa macchinalmente una e s'era riaddormentato. Al suo risveglio, quattro ore dopo, ne aveva assunta un'altra senza ricordarsi della prima e se ne era reso conto solo dopo un po'. Era rimasto in angoscia in attesa dei sintomi; ma non gli aveva fatto niente, o quantomeno differenze lui non ne aveva percepite, e aveva provato uno strano senso di delusione. Rotwang gli aveva detto che non era così che funzionavano le cose, che dell'effetto dei medicinali era impossibile accorgersi logicamente; ma scoprire che neppure una doppia dose gli faceva il minimo effetto lo lasciò confuso. Non era quello che si sarebbe aspettato.

Per questo motivo, una notte in cui si sentiva particolarmente disperato, in cui la solitudine gli appariva sconfinata e insormontabile e l'alba irraggiungibile, Emir afferrò il blister dal comodino, se lo svuotò in mano e inghiottì tutto insieme.

Stette malissimo per il resto della notte, per le medicine o per l'angoscia d'aver realizzato quel che aveva fatto – s'indusse il vomito, si addormentò, si riscosse, pianse e infine promise a se stesso che non l'avrebbe fatto mai più. Ma la sera seguente, dopo aver dormito per tutto il giorno e aver ingoiato cautamente del cibo solido, non era morto, e per qualche ora non aveva pensato alla sua disperazione. Ora che la nottata era passata e gli appariva lontana, non gli pareva d'esser stato poi tanto male, in confronto al dolore di ogni giorno. Aveva pensato che forse, se proprio ne avesse avuto un bisogno irrefrenabile come la notte precedente, e solo in quel caso, avrebbe potuto riprovare, questa volta con gli ansiolitici; e così aveva fatto.

Mew lo percepiva quando ne prendeva troppi. Avvertiva qualcosa di diverso in lui, che fosse l'eccessiva sonnolenza o l'inusuale sovreccitazione, o forse solo la diversa qualità del suo respiro; ma quando si avvicinava cogli occhi colmi di curiosità e accostava il muso per annusargli la bocca, Emir la cacciava seccato con la mano. Del suo affetto, a maggior ragione perché era lo stesso affetto superficiale ed effimero ch'ella aveva dimostrato a Rotwang, poteva fare a meno. La odiava.

Si svegliò un giorno con in testa il balenare di un pensiero che non riusciva a mettere a fuoco chiaramente. Era un'altra angoscia, una completamente nuova, diversa, che andava ad assommarsi alle altre; forse derivava da un sogno che aveva fatto quella notte. Ebbe bisogno di qualche ora per trovare il coraggio di guardare dentro di sé quel pensiero e affrontarlo come se fosse reale.

Si costrinse a sedersi a esaminare la questione dopo aver tentato invano di dormire per tutto il pomeriggio sul divano del sotterraneo. La presa di coscienza della sua sciocchezza continuava a balenargli in mente a tratti, ogni volta che chiudeva gli occhi; e alla fine Emir rovesciò le coperte in un angolo del divano, imprecò e andò a prendere le scatole di medicine che gli rimanevano.

Le trovò sparse un po' per tutta la casa, in camera, nel salottino sulla scogliera, nei saloni del sotterraneo. Tornò a sedersi sul divano, le dispose sul tavolino, estrasse ogni singolo blister e si mise a fare i conti. Non ci voleva un genio, ma contò e ricontò due volte, per sicurezza, e ancora una volta, e alla fine non ebbe più dubbi – Rotwang gli aveva lasciato farmaci sufficienti per i due mesi della sua assenza. Era passato meno di un mese. Sul tavolo ce n'erano a stento per altri dodici giorni.

Si passò una mano sugli occhi sentendo di non riuscire a respirare. Il cuore gli palpitava tanto che se lo sentiva rimbombare nei polsi; non ci vedeva più bene; gli si appannavano gli occhi; e improvvisamente Mew balzò sul tavolo e gridò: «Mew!»

Emir le scagliò il taccuino addosso.

Mew si sollevò gioiosamente a mezz'aria quando il taccuino le sibilò accanto e si coprì la bocca per soffocare un trillo di gioia. Si dimenò piroettando nell'aria più e più volte, squittendo e ridendo perché credeva ch'egli avesse inventato un nuovo bellissimo gioco, ed Emir rimase seduto immobile e inorridito a contemplare in silenzio quello che aveva fatto.

Mew squittì ancora, aspettando speranzosa che Emir le scagliasse addosso ancora qualcosa da poter scansare. Ma Emir scosse piano la testa e mormorò: «Vai a giocare di là per conto tuo. Io non ho più voglia di giocare.»

Mew continuò a protestare per un po' nel tentativo di richiamare la sua attenzione e costringerlo allo sfinimento a giocare con lei; ma Emir la ignorò e andò a raccogliere dal pavimento il taccuino aperto che giaceva sotto di lei. Non riusciva nemmeno a pensare; tutto attorno a lui fischiava e sibilava e gli rimbombava nelle orecchie, ed Emir avrebbe voluto soltanto che Mew la smettesse una buona volta di squittire e pigolare e che facesse silenzio per poter finalmente iniziare a pensare – ma di silenzio non ce n'era, ed Emir raccolse il taccuino e fuggì via dal sotterraneo senza una parola.

Si rifugiò nel salottino che affacciava sul mare, dove il sole velato di nubi gettava attraverso le ampie finestre ombre mutevoli e cangianti, e si accovacciò su una poltrona colla schiena rivolta verso il sole perché non voleva guardare fuori. Ricominciò a respirare solo dopo un po', quando finalmente gli parve che il sangue gli martellasse un po' meno nei polsi e che tutto attorno a lui fischiasse un po' meno, e socchiudendo gli occhi si appoggiò allo schienale e inalò profondamente l'aria che odorava di salsedine e di polvere.

Il suo primo pensiero quando l'aveva quasi colpita non era stato d'orrore – era stato: se fosse morta, come avrei fatto a dirlo a Richard? E se questo era stato l'unico pensiero che aveva attraversato la sua mente prima di tornare alla lucidità, e ancora in quel momento si sentiva spaventato non da quello che avrebbe potuto farle ma solo dalle conseguenze che avrebbe vissuto, voleva dire che se fosse morta egli sarebbe stato felice? E poi ancora non faceva che pensare vergognosamente, indegnamente: ma quand'era che Mew si sarebbe mai ribellata? Perché Mew doveva sapere ch'egli aveva appena rischiato di ucciderla, o forse soltanto di farle del male: doveva saperlo, Emir aveva visto e studiato quanto lei fosse intelligente e in grado di comprendere, l'aveva visto quando lei guardava i cartoni animati e rideva o si spaventava sulla base di quello che vedeva sullo schermo; ma allora perché non aveva reagito, non s'era spaventata, non era fuggita a nascondersi temendo ch'egli cercasse ancora di farle del male? Mew era perfettamente in grado di comprendere ciò ch'egli aveva cercato di fare, allora forse ella non riusciva, o non voleva, vedere il male che la circondava? Del resto era proprio per questo che entrambi ora erano prigionieri della villa – perché Mew non sapeva o non voleva difendersi.

Concentrarsi su quel pensiero lo aiutava a non pensare a quello che aveva fatto, a non pensare ai farmaci e alla sua astinenza. Sfogliò macchinalmente il taccuino sforzandosi di non pensare che gliel'aveva appena scagliato addosso: sulle pagine scorrevano interminabili righe di appunti, ed Emir rilesse i due anni di prigionia con un moto d'angoscia. Non erano appunti regolari, ed Emir faceva scorrere lo sguardo senza soffermarsi mai, come se arrivando alla fine il prima possibile vi avrebbe trovato una soluzione o un insegnamento o qualsiasi cosa; ma insegnamenti, soluzioni o morali non ce n'erano, ed egli lesse: 8 Aprile, abbiamo guardato il Dottor Slump. Ho riso un po' persino io. Mew si è divertita moltissimo. 21 Maggio, Rotwang è rientrato in ritardo; Valérien ha costretto solo lui a restare finora. Mew mi ha guardato un paio di volte per vedere le mie reazioni. Si è tranquillizzata quando le ho detto che era tutto a posto. 14 luglio, ho visto uno strano film in televisione. Mew ha piagnucolato quando sembrava che il protagonista stesse morendo, ma era molto contenta quando si è scoperto che non era così; e poi, ancora, a misura che la sua solitudine e la noia aumentavano e il suo interesse diminuiva, appunti via via più scarni e più radi e più cupi che recitavano: 6 settembre. Oggi ho dormito tutto il giorno; ho scordato di prepararle il pranzo. Era arrabbiata perché aveva fame e non l'avevo considerata, ma era felice come una bambina quando le ho portato da mangiare e mi ha riempito di abbracci. Mi ha dato molto fastidio. 13 gennaio. Mi sono svegliato alle nove di sera. Nessuno dei due aveva mangiato, ma Mew non sembrava arrabbiata. In televisione non c'erano cartoni animati, ma ho trovato una replica di Rashomon. Lo ha seguito con uno strano interesse; non so se l'abbia capito, eppure mi è sembrata commossa alla fine. È strano. Credevo che sarebbe stato troppo complesso per lei; eppure sembrava concentrata e commossa. Mi piacerebbe indagare ancora. 11 agosto. Ho provato a chiederle di Rotwang. Vorrei sapere se le manca, se ogni tanto gli pensa; ma mi ha guardato squittendo di piacere per il solo fatto che interagivo con lei; mi sono appena accorto di una cosa: che non so neanche se lei conosca i nostri nomi...

Sfogliò le pagine seguenti con frenesia angosciosa. I suoi appunti erano finiti, ma Emir non aveva imparato niente che non sapesse già: che non c'era una via di fuga, non c'era niente di cui avesse bisogno; e disperatamente tornò indietro e riaprì il taccuino dall'inizio per cercare ancora, per rileggere con più attenzione, per scoprire se davvero quei due anni fossero trascorsi per lui senza che avesse imparato niente; ma quando riaprì alla prima pagina, lesse: Oggi, diciassette aprile, conversazione con N; ebbe un ricordo improvviso; trattenne il fiato perché tale era la speranza che provava, che aveva paura di non ricordar bene; e scorrendo le pagine con la punta delle dita, trattenendo il respiro, lesse: Laudano, 6 grammi.

Scorse le prime pagine con angoscia più che febbrile. Ricordava tutto così vagamente, eppure ora gli tornava tutto in mente: quando Rotwang l'aveva svegliato e gli aveva letto ridendo brani del diario, e aveva detto che solo un oppiomane avrebbe potuto progettare una casa come quella...

La Silph aveva acquistato la casa all'incanto a un prezzo ribassato dopo che tutte le aste precedenti erano andate deserte. Nessuno al mondo avrebbe mai voluto quell'incubo di un architetto, e quello era stato l'ultimo tentativo che la comunità dell'isola era disposta a fare per sbarazzarsi della casa prima di demolirla; ma la Silph, che aveva fretta di comprare un alloggio aziendale per il direttore del nuovo laboratorio, aveva comprato con un'offerta ridicola senza nemmeno visionare l'immobile – poi era arrivato lui, e il resto era storia. Ma la sua vecchia segretaria, che era un'isolana da prima ancora di nascere, una volta gli aveva raccontato che che il comune aveva tanta voglia di vender la casa perché l'aveva ereditata a titolo di parziale risarcimento per i folli debiti del proprietario, e questo era accaduto un po' di decenni prima, quando le cose funzionavano assai diversamente; o forse era stata una donazione del proprietario, o chissà che altro (la sua segretaria non se lo ricordava bene)... ma il punto era che il proprietario pazzo di quella casa, il folle autore drogato delle annotazioni su quel quaderno e dell'architettura della villa, era morto lì – e che tutto quello che all'epoca della sua morte possedeva, là era rimasto.

Il percorso tortuoso per discendere nel sotterraneo non gli era parso mai tanto lungo. Scese le scale come una folata di vento: Mew, che non s'aspettava più di vederlo nel sotterraneo per quel giorno, trillò di gioia come se lo vedesse quel giorno per la prima volta, ma Emir non le rivolse uno sguardo. Era troppo eccitato per potersi curar di lei e dei suoi sentimenti offesi.

Se era rimasto qualcosa doveva essere nascosto in modo tale che pur avendo esplorato il sotterraneo per tutta la sua estensione, lui non se n'era mai accorto; abitava lì da otto anni e negli ultimi due era stato nel sotterraneo giorno e notte, ma non aveva mai guardato proprio dappertutto. Tutta la casa era piena di mobili con serrature chiuse a chiave che non s'era mai dato troppo peso di aprire, forse per disinteresse o piuttosto perché gli piaceva l'idea che quella vasta casa continuasse a celare misteri inaccessibili persino a lui. Ai piani superiori, durante la perquisizione, gli agenti gli avevano chiesto il permesso di aprire con la forza tutti i mobili cui non riuscivano ad accedere; ma nel sotterraneo dove solo lui aveva accesso, tutto era rimasto come il proprietario l'aveva lasciato. Lo disgustava un po' metter le mani in cassetti chiusi da quasi un secolo, a frugare tra la polvere e i ragni e i cadaveri di scorpioni morti – ma alternative non ce n'erano.

Perlustrare tutti i mobili del sotterraneo in un giorno era impossibile, ma si arrese a quell'evidenza solo a sera fatta, quando Mew venne a protestare rumorosamente per aver da mangiare e poi si mise a curiosare per scoprire che cosa stesse facendo, dal momento che proprio non le riusciva d'attirare la sua attenzione. I cassetti strabordavano di tutto: Emir tirò fuori quaderni, libri, piatti rotti, documenti battuti a macchina, posacenere antiquati, teiere, Pokéball d'anteguerra ricavate da ghicocche, tovaglioli ricamati ma privi di iniziali, tagliacarte, foulard di seta e persino una splendida macchina da scrivere Remington che mai si sarebbe aspettato di trovare lì – ma di laudano neppure l'ombra, ed Emir aveva così poca voglia di vedere Mew cacciare il naso in mezzo a tutta quella roba che decise di smettere di cercare, per quel giorno. Non voleva ammettere a se stesso la follia del suo tentativo: non c'era nulla in quel diario che gli facesse davvero credere che la casa potesse ancora nascondere laudano o eroina. Ma rifugiarsi in quella speranza era sempre meglio che arrendersi all'astinenza. No?

Per qualche giorno la ricerca occupò le sue giornate. Era da due anni che non aveva nulla da fare che lo tenesse impegnato. Era una sensazione quasi nuova, e c'erano momenti in cui la ricerca sopravanzava nella sua mente e diveniva fine a se stessa, prendendo il posto dell'ossessione delle droghe che cercava; ma di giorno in giorno la vista dei farmaci che diminuivano gli ricordavano la sua angoscia.

Il sotterraneo conteneva molta più roba di quanto avrebbe creduto in un primo momento. C'era di tutto, compresi oggetti e soprammobili dei quali non avrebbe saputo indovinare la provenienza né l'uso. Ma il meglio era nascosto in cassetti e ante chiuse a chiave: per potervi accedere Emir fu costretto a uscir di casa e andare in un negozio di ferramenta a comprare cacciaviti e un passepartout.

«Lavoretti alla vecchia villa, dottore?» gli chiese il fabbro battendo il totale alla cassa. Aveva particolarmente voglia di chiacchierare, quel giorno, ed Emir sapeva che era perché tutta l'isola – o almeno i vecchi tradizionalisti che avevano vissuto l'apertura del Laboratorio come un'intromissione, e l'arrivo degli scienziati come un'invasione di forestieri, sia pur di forestieri benevoli e colti che portavano lavoro agli isolani e facevano girare un bel po' di soldi del continente – nutriva nei suoi confronti una curiosità un po' morbosa. Non era neppur certo del perché, né di come facesse a saperlo; ma ne era consapevole come della temperatura dell'aria, perché sentiva addosso lo sguardo dei loro occhi quando era costretto a uscire di casa per andare a comprare qualcosa da mangiare (il che succedeva un po' più di rado rispetto alla media delle persone normali), si sentiva scrutato e studiato come un animale nella sua gabbia di laboratorio, e sapeva che tutta l'isola era affascinata dallo scienziato solitario che viveva solo e relegato in una grande villa deserta, che era magro e parlava poco e malvolentieri e che nessun isolano poteva dire di conoscere. Un tempo gli avrebbe dato più fastidio; ma aveva cose troppo urgenti da fare e più importanti a cui pensare, perciò si limitò a rispondere: «Un po' di lavoretti, già.»

«Se ha bisogno di aiuto alla Villa, posso mandarle un operaio. Basta che mi faccia un colpo di telefono e ci accordiamo.»

D'improvviso Emir lo considerò con sospetto. Perché gli aveva detto una cosa del genere? Certo, era il suo lavoro, ma forse il suo scopo era un altro – quello d'insinuarsi nella Villa e vedere coi propri occhi come viveva e poi raccontarlo a tutti quelli che venivano in negozio? O magari guardarsi attorno per cercare Mew? Ma non voleva che quell'uomo sapesse che lui aveva capito quali erano i suoi piani: voleva mantenere il vantaggio della consapevolezza, perciò tutto quello che rispose fu: «Ma senza dubbio. Se avrò bisogno le farò sapere» e uscì in fretta dal negozio senza soffermarsi a salutare.

Gli abitanti di Isola Cannella erano pescatori semianalfabeti e poco altro, esattamente come gli aveva detto Dale, ma erano furbi, oh, erano molto furbi, e non c'era da fidarsi di loro. E poi, ora che ci pensava, lui stesso aveva avuto per quasi sei anni una donna delle pulizie dell'Isola, e dopo che l'aveva licenziata chissà quante storie su di lui, per vendicarsi o per il semplice gusto di spettegolare, poteva essere andata a raccontare in giro; poteva aver raccontato chissà quali dettagli su com'era la casa e su come viveva lui e chissà cos'altro, e ora probabilmente tutta l'isola sapeva tutto su di lui e sulla Villa! Era stato proprio così stupido a fidarsi di un'isolana!

Tornò a casa quasi di corsa come se scappasse e si chiuse la porta alle spalle come se frapponesse un ostacolo tra lui e il mondo esterno.


Emir lavorava ogni giorno mentre Mew giocava con tutte le cianfrusaglie che aveva rovesciato fuori dai cassetti. Di giocattoli per la sua curiosità ce n'erano in abbondanza: in quei giorni Mew viveva nella convinzione ch'egli avesse creato per lei un fantastico parco giochi di oggetti gettati alla rinfusa sul pavimento e sui divani appositamente perché lei potesse prenderli e giocarci e portarglieli per attirare la sua attenzione; Emir trascorreva le giornate svitando serrature con le dita che gli dolevano mentre Mew fluttuava attorno a lui squittendogli nelle orecchie e gettandogli in grembo vecchie ghicocche secche e cave nella speranza che questo lo invogliasse a giocare con lei. Emir l'allontanava scacciandola con la mano, ma era contento di non provare più quell'impulso terrificante di farle del male. Doveva ignorarla soltanto fino a che non avesse trovato quello che stava cercando – e dopo, ne era certo, sarebbe andata molto meglio. A quel punto non gli sarebbe rimasto che da tener duro finché non fosse tornato Rotwang – che cosa sarebbe cambiato poi dopo il suo ritorno non lo sapeva, e neppure aveva voglia di pensarci; ma qualcosa sarebbe cambiato di sicuro. Ne era certo.

In ferramenta gli avevano dato qualche chiave passepartout, ma quando le aveva comprate Emir s'era scordato di specificare che i mobili per cui gli occorrevano risalivano a circa un secolo prima; il che implicava che quelle chiavi non andavano bene per la maggior parte delle serrature. In quei casi non gli rimaneva altro che armarsi di un cacciavite e smontare un po' per volta serrature vecchie di un centinaio d'anni svitando viti arrugginite da decenni. Il che, naturalmente, era un lavoro pienamente inutile la totalità delle volte, dato che una volta smontata e sfilata la serratura, di solito i cassetti riversavano per lui misteriosi tesori di documenti e libri, di termometri e mercurio e progetti di edifici che probabilmente non erano mai stati realizzati, argenteria e accendini e pipe di schiuma che Emir puntualmente scaraventava contro il muro e che Mew credeva di dovergli riportare, come un cane – ma niente laudano.

Odiava il sotterraneo quanto l'aveva amato una volta, perché oltre a tenerlo prigioniero ora si rifiutava di schiudergli i propri segreti; e soprattutto perché si accorgeva ogni giorno di più che, per quanto si rifiutasse di soffermarsi troppo su quel pensiero, ormai ogni giorno di più era evidente che se non aveva trovato niente fino a quel momento, probabilmente era perché non c'era niente.

«Potresti darmi una mano, sai» le disse all'ennesima volta che una ghicocca cava gli cadde in grembo. Non che nutrisse il benché minimo pensiero che ciò si sarebbe verificato, né tantomeno che Mew capisse cosa cercava di dirle; ma era confortante, ogni tanto, aprire la bocca e fingere di avere una conversazione reale con qualcuno in grado di capirlo. Ciò equivaleva, naturalmente, a parlar da solo; ma la sua era l'unica voce umana che avesse modo di udire, e ogni tanto faceva piacere sentirne una.

«Mew» ribatté Mew incuriosita, sentendosi autorizzata ad avvicinarsi dal fatto stesso ch'egli le aveva rivolto la parola, ed Emir si pentì immediatamente d'aver parlato. Ma di buono c'era che per avvicinarsi a lui Mew aveva smesso di giocare e disturbarlo, e la cosa lo mise parzialmente di buon umore.

«Non sai nemmeno cosa sto facendo, vero?» domandò ironicamente, tanto per dir qualcosa. Impazzita di gioia per l'ebbrezza di venir considerata, Mew venne a cacciare il muso contro la serratura ch'egli lottava invano per aprire, ma Emir si limitò a scostarla con la mano senza violenza. Era troppo stanco e sfiduciato per sprecare le forze. «No che non lo sai. È tutta colpa tua, però. Questo lo sai?»

«Mew» cinguettò Mew che non sapeva nulla, non capiva nulla di tutto ciò, ma era terribilmente innamorata del suono della sua voce e del profumo della sua considerazione. Emir provò un terrificante moto di rabbia di fronte alla sua eterna immutabile risposta, e per non esser più costretto a guardarla ricominciò con stizza ad accanirsi sulla serratura a rischio di scheggiarsi le dita.

«Sarebbe stato tutto diverso se tu non fossi stata tu, se non foste stati così. Tu e M1, intendo. Sarebbe andato tutto molto meglio se tu non ti fossi lasciata studiare e bucare come una cavia da laboratorio, se io e Rotwang non fossimo stati costretti a salvarti persino da te stessa, se lui non amasse te più di me... Se solo tu ti decidessi ogni tanto a fartene qualcosa di tutti i tuoi poteri anziché startene chiusa qua sotto, con me, a essere così stupidamente felice, e ci lasciassi liberi di vivere senza di te...»

S'interruppe imprecando perché le mani gli dolevano e perché non aveva più voglia né di parlare né di guardarla – ma sentiva lo sguardo di Mew bruciargli addosso come il raggio proiettato da una lente. I suoi occhi studiavano il suo volto con un'intensità che non avevano mai avuto, e per un attimo Emir ebbe il dubbio persino che lo stesse ascoltando e capendo – ma si rifiutò di dar retta a quel pensiero e si rimise al lavoro, per chiudere quella conversazione e tornare a far finta che lei non fosse lì.

La serratura ebbe uno scatto secco e l'anta oscillò sui cardini e si spalancò senza che il cacciavite l'avesse toccata. Emir rimase fermo a guardarla per un po'.

«Mew» commentò lei con un guizzo di una gioia che però non era assoluta e totalizzante come ogni volta – Mew lo stava guardando per vedere s'egli sarebbe stato contento di lei.

«Sei stata tu?» domandò Emir a bassa voce.

«Mew.»

Emir spalancò l'anta e introdusse la torcia al suo interno per accertarsi di non trovar sorprese. Anche uno scorpione morto sarebbe stato qualcosa di più emozionante delle solite cose: ma a parte un ragno che sgattaiolò via alla svelta, il mobile conteneva soltanto vecchi quaderni ingialliti. Ne aveva trovati così tanti che non avevano ormai neppure il fascino dei primi giorni, quando valeva la pena almeno di guardare che cosa c'era scritto: Emir se li gettò alle spalle senza nemmeno aprirli. Tutto era completamente inutile.

«Sei stata di grande aiuto» disse. «Non è che sai dov'è il laudano del vecchio pazzo, eh? Laudano, sai, si fa con l'oppio; hai presente?»

«Mew» ribatté Mew, ancora attenta a lui, scrutandolo come se volesse bere le sue parole dalle sue labbra direttamente, come da una fonte. Il pensiero lo fece sorridere d'un sorriso amaro, ed Emir sillabò quasi ridendo: «Lau-da-no. Non è che l'hai visto da qualche parte, eh?»

In modo del tutto inaspettato, Mew squittì di gioia come se avesse trovato la soluzione e si gettò in volo dall'altra parte della sala. Col cuore palpitante di aspettativa, Emir la seguì.

Non andarono molto lontano. Mew s'insinuò in un corridoio cieco che egli conosceva bene senza però esserci andato troppo spesso: più che un corridoio era una sorta di anticamera, perché un interruttore nascosto dietro un pannello apriva una seconda camera segreta che Emir aveva scoperto solo dopo diversi mesi dalla sua prima discesa nel sotterraneo. Mew si fermò di fronte al pannello che celava l'interruttore e si voltò a guardarlo con insistenza, quasi indispettita dalla sua lentezza: nei suoi occhi c'era un'eccitazione impazientita che pareva voler dire Ma insomma, non t'importava così tanto?

«Arrivo, arrivo» borbottò Emir, sentendosi quasi in dovere di scusarsi per il suo ritardo. Attivò l'interruttore, la porta segreta scivolò sui suoi misteriosi ingranaggi, meravigliosamente silenziosa, e Mew vi s'insinuò attraverso senza neppure aspettare che fosse completamente aperta. Emir la seguì nel buio non appena il passaggio fu largo abbastanza per farlo passare.

Si affrettò ad accendere la luce. All'interno era tutto un po' più ordinato che nel resto del sotterraneo, forse anche perché Emir non aveva avuto voglia di metterci le mani o di trasformare quella stanza. Conteneva i soliti mobili antichi, chiusi, e una vecchia cassapanca d'epoca di quelle che si usavano per riporre gli abiti – ma Mew ignorò tutto quanto e puntò direttamente contro la parete di fondo della stanza dove rimase ad aspettarlo con impazienza.

«Tutto qui? Bella scoperta» commentò Emir. Di fronte al suo scetticismo Mew rispose con un lungo squittio acuto, sottile, come quello di un cucciolo. Ma non c'era niente di fronte a lei, ed Emir si strinse nelle spalle e domandò: «Beh? Mi hai fatto venir qui per farmi vedere la tua parete?»

Ma si rese conto mentre stava ancora parlando di quanto era stato stupido e cieco. Nulla in quella casa era quello che sembrava, perciò quella come poteva essere solo una parete?

Posò il palmo della mano contro la parete, là dove Mew indicava con sdegnosa impazienza, e premette. L'armadio nascosto dalla falsa parete di legno laminato si aprì con la delicatezza di una molla non appena premuta dalla sua mano, ed Emir scoppiò a ridere istericamente di fronte agli scatoloni di plichi e fogli manoscritti e infine, proprio sullo scaffale all'altezza dei suoi occhi, una scatola di boccette di vetro scuro tutte uguali e ordinatamente disposte. Era tutto lì: nessuna serratura, nessun codice segreto, solo uno studiolo appartato nella quiete del sotterraneo e un armadietto nascosto dietro una falsa parete identica a quella che nascondeva il bagno nella camera padronale. Il vecchio pazzo giocava esattamente alle stesse regole di sempre, le regole della Villa.

Aveva la mente piena di pensieri che vorticavano come uccelli che sbattevano contro le sbarre di una gabbia: a che cosa pensava il vecchio proprietario e chissà quali segreti la casa celava ch'egli ancora non era riuscito a svelare, e se assumere il laudano sarebbe stato l'ultimo passo sulla china della sua autodistruzione o se avrebbe ancora avuto modo di tornare indietro... ma la sua mente era gravata ancora da altro, ed Emir non riusciva ad allontanare questo pensiero a sufficienza da poter mettere a fuoco gli altri.

Mew tripudiava di gioia. Si aspettava da lui un riconoscimento, una carezza, forse soltanto che fosse contento; ma Emir si voltò lentamente verso di lei e domandò: «Come lo sapevi?»

Mew squittì reclinando il capo sulla spalla in segno di curiosità.

Emir proseguì lentamente, con la voce che gli tremava di una rabbia che faceva fatica a trattenere: «Hai vissuto tutta la vita in Guyana, nella giungla. Tu non hai mai visto una bottiglia di laudano in vita tua. Non conoscevi nemmeno questa parola. Come facevi a saperlo?»

«Mew» ripeté Mew contenta, come a voler confermare le sue parole, ed Emir insistette ancora: «Come facevi a saperlo?»

Quella era una questione troppo più complessa del laudano, dei misteri della Villa. Emir si rigirò le fiale tra le mani lentamente, senza distogliere gli occhi da lei, e mormorò: «Mi hai letto nel pensiero, vero?»

«Mew.»

«Sei anche telepatica. Questo non mi stupisce, ma tu hai fatto più che leggermi ne pensiero, perché io non conoscevo questo armadio e non sapevo dove fosse il laudano, perciò in qualche modo hai fatto tutto da sola. Ma il vecchio pazzo è morto e soltanto lui sapeva dov'erano le medicine, perciò come hai fatto?»

Mew continuava a suggere le sue parole dalle sue labbra senza capire, felice soltanto ch'egli le stesse rivolgendo a lei. Ma Emir parlava più per se stesso che per lei. C'era in lui lo scienziato che si dibatteva e si risvegliava contro il torpore dei farmaci e dell'inerzia, come sollevando una coltre di ragnatele che lo avviluppava – ma i pensieri che lo agitavano erano rabbiosi e confusi e andavano ben al di là dell'interesse della scienza. Non trovava soluzioni. La telepatia era un'abilità non ignota ai Pokémon Psico, e che Mew avesse le stesse abilità della famiglia di Abra non era sorprendente, in quanto corrispondeva alle ricerche che avevano fatto anni prima; ma quello che Mew aveva fatto andava al di là di ogni conoscenza attuale. Si rigirava le boccette tra le mani senza capire, senza soffermarsi su nessun pensiero, solo a osservare i riflessi dei propri occhi sul vetro. Dopo un po' mormorò: «Mew, usa Teletrasporto.»

«Mew» cinguettò Mew in risposta.

Emir non aveva mai saputo pregare, mai, da quando era bambino; ma se avesse dovuto farlo, l'avrebbe fatto come in quel momento. «Tu puoi farlo, ma non vuoi. Potresti tornartene in Guyana se solo volessi, potresti andare dove vuoi... allora perché insisti a rimanere qui anche se vedi bene che io ti odio?»

«Mew» ripeté Mew, stavolta con una punta di confusione, ed Emir scacciò la sua perplessità con uno scatto nervoso della mano.

«Perché sei come lui, vero? Come M1. Indifesa e terribilmente felice di vivere, non sai provare rabbia, non sai provare dolore – o meglio lo sai, perché io ti ho vista, ma la verità è che sei troppo felice per provare rabbia a lungo. È per questo forse che Rotwang ti ama tanto – perché sei come M1 e lui avrebbe voluto salvarlo. Ma per salvare te Rotwang non potrà mai scegliere me, allora perché non te ne vai e ci lasci liberi senza di te?»

Mew era in grado di leggere il suo pensiero ed Emir lo sapeva perché lo aveva appena fatto. La sua disperazione era tale che non voleva altro: che Mew comprendesse ciò che provava e obbedisse al suo ordine, si Teletrasportasse e lo lasciasse libero per sempre senza di lei. Ma quando Emir guardò di nuovo verso di lei nella speranza di trovare nei suoi occhi una scintilla di comprensione, non trovò nulla. Il suo sguardo azzurro era ancora carico d'amore ed entusiasmo come ogni giorno della sua vita, colmo soltanto di gioia per la sua considerazione, ed Emir scosse il capo sorridendo di se stesso per averci anche solo sperato.


Suonò il telefono nel cuore della notte.

Emir si svegliò di soprassalto cogli occhi che gli lacrimavano e la bocca spalancata, e la sensazione di venir strappato e riportato al mondo reale da una regione molto lontana dello spazio. Non si ricordava dove fosse. Era troppo buio e lui era troppo confuso, e per qualche istante rimase intorpidito a massaggiarsi gli occhi finché non si rese conto di essere seduto. Si era addormentato sul divano senza nemmeno cambiarsi, e quando sentì le onde che si rifrangevano contro gli scogli capì di trovarsi nel salotto sul mare.

Non stava più nel sotterraneo da quel giorno con Mew. Scendeva ogni giorno una o due volte per darle da mangiare, non appena se ne ricordava, ma non la guardava neppure – lasciava un piatto per lei in fondo alle scale e questo era quanto. Che poi lei lo mangiasse o meno, non gli importava. Mew era passata dalla confusione allo sdegno e poi era tornata all'entusiasmo: sentiva i suoi passi sulle scale mentre scendeva e si precipitava su di lui in un vortice d'eccitazione, ma Emir lasciava il piatto sul pavimento e fuggiva via prima che lei facesse in tempo ad avvicinarsi. Aveva pensato persino di chiuderla nella sua Pokéball per qualche giorno, ma qualcosa dentro di lui lo aveva fermato.

Il telefono squillò ancora nell'indeterminatezza della notte, lo squillo si prolungò echeggiando nei corridoi deserti. Solo in quel momento Emir si ritrovò d'improvviso veramente sveglio e vigile, catapultato di nuovo nel mondo dei vivi come da una grande distanza, e si rese conto finalmente che c'era una sola persona che poteva telefonare a quell'ora.

Attraversò la casa come se volasse. Lo studiolo del telefono era maledettamente lontano, lontano come non gli era sembrato mai, di certo a sufficienza da perdere la chiamata – ma scivolando sul parquet Emir entrò come una folata di vento e si gettò sul telefono con tutto il proprio peso. «Rotwang?»

Il telefono gracchiava di un'orrenda tosse, come se la sua voce strisciasse rumorosamente per tutto il percorso attraverso il Pacifico. «Fuji? Fuji, mi senti? Riesci a sentirmi?»

S'accorse di stare piangendo solo quando si sentì le lacrime bagnargli gli angoli della bocca. Si asciugò le guance brucianti con un gesto pieno di rabbia, sentendosi profondamente stupido, e si disse con rabbia che era un effetto del laudano.

Fu allora che pensò: cazzo, il laudano.

«Sì... sì, ti sento» balbettò; si sentiva la voce piena d'incertezza come se da quella solamente, da migliaia di chilometri di distanza, Rotwang potesse smascherarlo e scoprire le sue bugie; ma poi il sollievo di udire di nuovo la sua voce, di non sentirsi più solo al mondo in una notte sconfinata che non trovava fine, fu tale che quell'incertezza passò. Per un istante gli parve riprende forza dentro di lui quella parte di lui menzognera e sicura di sé che aveva ingannato la Silph, la polizia e l'isola – ma quella parte di lui si dibatté pietosamente sotto coltri di autocommiserazione e psicofarmaci negli ultimi spasmi d'agonia. Non era più un superuomo. Era solamente Emir ed era solo. Ma andava bene anche così.

«Dio, grazie. Abbiamo trovato un telefono, ci siamo fermati in un villaggio missionario. Lestournelle sta litigando con le guide locali, ne ho approfittato per chiamarti...»

Sentì che le informazioni lo travolgevano e si accavallavano all'interno della sua mente intorpidita. «Un villaggio missionario?»

Rotwang rise di una risata amara che gracchiava nel ricevitore. «Potrebbe darsi che abbiamo corrotto le guide per farci portare qui a riposare, e ora Lestournelle è particolarmente incazzato e loro stanno facendo finta di non capire una parola.»

La risata fioca che gli strappò dal petto fu quasi dolorosa, sapeva di nostalgia e di solitudine. «Di chi è stata l'idea?»

«Ti sorprenderà, ma di Ami. Non è tanto scema quella ragazza, e...» La voce di Rotwang incespicò come se fosse in bilico, in cerca di qualcosa da dire; ma i convenevoli erano finiti, ora erano loro due soltanto ai due capi di un filo teso attraverso l'oceano, soli come non erano stati mai. «Come stai?»

Male, avrebbe dovuto rispondere; male, non riesco a mangiare, ho approfittato della tua fiducia, ho esagerato con le medicine che mi avevi dato, ho rischiato di ferire Mew, ho messo a soqquadro la villa per trovare due dozzine di bottiglie di laudano che probabilmente sono scadute, ma mi danno almeno l'illusione di assumere una medicina magica che possa farmi dimenticare il mio dolore atroce, inumano; male, avrebbe dovuto rispondere, e forse non sarebbe andato tutto perduto a partire da quel giorno, forse ancora qualcosa si sarebbe potuto salvare. Ma Rotwang era a migliaia di chilometri di distanza da lui, lontano come se neppure esistesse, solo e impotente esattamente come lui, e un qualche pudore oscuro dentro di lui rispose: «Bene. Insomma, un po' noioso, potrebbe andar meglio... e tu, come stai tu?»

«Come vuoi che stia? Mangiato vivo dalle zanzare, come tutti.» Emir poteva quasi vedersela di fronte agli occhi, la sua pelle pallida e arrossata dalle zanzare e dai vestiti pesanti della giungla, come l'esploratore più scorbutico del mondo. «Ma c'è di buono che Lestournelle ha ancora troppa paura di me, non mi ha ancora rivolto la parola da quando siamo partiti...»

«Avete trovato qualcosa?»

«Sicuro, un coprolite di Exeggutor. Non ci serve nemmeno per procedere al progetto dei fossili, Dale è furioso. Forse pensava che bastasse campeggiare un paio di notti nella giungla per svegliarsi in un nido di Pokémon scomparsi da secoli. Quell'uomo deve aver letto un po' troppo Conan Doyle...»

Emir dubitava che Dale avesse mai letto un romanzo di Doyle, o in generale un qualsiasi libro che non parlasse di macroeconomia in vita sua.«Sai quando tornerete?»

Un sospiro frusciò rumorosamente attraverso l'energia statica attraverso il telefono. «Non lo so, Fuji, veramente. Credo che ormai resteremo per tutti i due mesi previsti, perché Dale non vuole darsi per vinto e Lestournelle è isterico, ma... senti, non lo so, davvero. Ora devo andare...»

«Ah» disse Emir sentendosi molto stupido, e subito dopo si sentì ancora più stupido per averlo detto. Doveva già essere un miracolo che avesse potuto chiamarlo, e di certo anche gli altri avrebbero voluto telefonare a casa. Annaspò per un momento in cerca di che dire, di come salutarlo, quelle erano le ultime parole per giorni, di certo settimane, e come un ragazzino non sapeva che dire. Ma poi Rotwang parlò di nuovo. «E lei?»

Mew era ovunque come Lavandonia, come suo padre, come l'assenza di sua madre, era in ogni loro parola, era nella mente di Rotwang persino quel giorno.

«Mi hai telefonato per lei?»

«Che cosa? Puoi ripetere, Fuji? La linea...»

La linea non era disturbata: Emir aveva mormorato troppo piano perché sentisse. Gli pulsava il petto come se le parole volessero uscirne a viva forza, farsi largo dilacerandogli la carne per urlare – ma colle labbra irrigidite dal dolore e dallo sforzo, dall'inumana rabbia che provava, Emir rispose:«Va tutto bene, Rotwang. Non devi preoccuparti. Ci sono io con lei.»

Gli parve quasi di sentire la sua voce addolcirsi attraverso il telefono. «Beh, suppongo che questo dovrebbe tranquillizzarmi, giusto?»

Era l'unico modo che Rotwang conoscesse di dir grazie, ma per una volta, forse la prima, Emir non aveva la forza di giocare a controbattere le sue schermaglie. «Certo.»

«Fuji, io... ora devo andare. Ti chiamo non appena...»

«Non appena trovi un altro telefono» lo interruppe Emir, un po' più asciuttamente di quanto avrebbe voluto. «Lo so.»

Rotwang avrebbe ancora voluto dir qualcosa, forse quella strana inesplicabile durezza nella sua voce l'aveva sentita, avrebbe voluto domandare; ma erano tutti e due troppo orgogliosi, gli altri lo stavano aspettando, qualcuno avrebbe potuto essere in ascolto, la sua maschera sarebbe crollata; allora rispose: «Bene così, Fuji. Cerca... cerca solo di star bene, intesi?» Vi fu un momento ancora, Rotwang esitò; poi la chiamata si chiuse. Emir rimase da solo a osservare il telefono silenzioso.

Si mosse molto lentamente. Riappese ordinatamente la cornetta, chiuse in silenzio la porta e si avviò al piano di sopra, camminando molto lentamente. Non c'era nessuna fretta. Nessuno poteva disturbarlo, ora.

Percorse con calma i labirinti sotterranei della villa per scendere da lei: quando arrivò, la trovò addormentata sul divano, acciambellata come un gatto o un cane che si sentisse particolarmente al sicuro, parzialmente arrotolata sotto la vecchia coperta appallottolata ch'egli aveva lasciato sul divano l'ultima volta che ci aveva dormito. Probabilmente c'era ancora il suo odore.

Mew aprì gli occhi quando sentì i suoi passi rimbombare nel sotterraneo. Sollevò il capo dal divano coi sensi all'erta, cogli occhi che scintillavano di aspettativa nel raggio di luce dorata della porta; ma non si alzò per andargli incontro, forse perché percepiva tutta la stranezza di quella visita notturna, e rimase immobile a scrutarlo nell'ombra, sospettosa e tesa come un cobra. Ma Emir le passò accanto senza fermarsi e Mew non lo seguì.

Non era più rientrato nel suo studio dopo quella sera con Rotwang. Si sforzò di non pensare a quell'ultima sera, al suo respiro nel buio, all'incommensurabile vuoto; non ci pensò perché sapeva già quale pensiero sarebbe seguito a questo: se solo non fosse stato per lei...Se solo Mew fosse stata un po' diversa, un po' meno vulnerabile, un po' più in grado di difendersi, un po' più... Ma non valeva la pena di pensarci perché aveva già la soluzione; l'aveva appena scoperta eppure sempre conosciuta, era sempre stata là sotto per anni, gli era stata accanto per mesi...

Si prese tutto il tempo che gli occorreva, non c'era alcuna fretta: non aspettava nessuno; a nessuno là fuori importava di lui. Rotwang aveva detto un sacco di volte una battuta stupida che gli tornò in mente d'improvviso mentre armeggiava per cambiare la lampadina fulminata e che gli strappò una risata perché gli parve stranamente profetica e solo in quel momento, e perché solo in quel momento la capiva fino in fondo con tutte le sue conseguenze: qua sotto nessuno può sentirti urlare.

Cambiò la lampadina: la stanza fu inondata di una luce bianca fredda, asettica, e gli apparve com'era dopo tutti quegli anni in disuso: disgustosamente sporca, polverosa, ma ancora in ordine, quantomeno. Non si poteva lavorare in quelle condizioni, perciò andò al piano di sopra a prendere stracci e detersivi e passò la mezz'ora seguente a pulire. Si sentiva stranamente calmo, lucido come non era da tempo.

Si tenne il meglio per ultimo. La stanza era pulita e inondata di luce, un po' meno squallida di quando era entrato, ed Emir si sedette al tavolo con rinnovata calma. Il macchinario della sua tesi di laurea troneggiava di fronte a lui come se lo guardasse. Non era un bel prototipo – era grosso e ingombrante, sgraziato; era stato pensato esclusivamente per servire alla sua funzione, senza alcun intento estetico, ed era tutto tubi e filamenti al led; ma non l'aveva progettato per essere bello – di certo un vero ingegnere avrebbe saputo far di meglio, avrebbe costruito la stessa macchina impiegando metà degli spazi e degli elementi inutili; ma il piccolo utero artificiale che era il capolavoro della sua tesi, che permetteva allo scienziato d'intervenire sul DNA e di procedere all'impianto dell'embrione entro due settimane dalla fecondazione dell'ovicita, quello non avrebbe potuto crearlo un ingegnere - quello era opera sua, l'aveva inventato lui, e ora finalmente avrebbe anche visto la luce. 

Svitò le parti rimovibili con la massima cura, le sollevò innanzi agli occhi per osservarle in controluce, lucidò gli elementi in vetro sino a farli risplendere.

Finalmente, tutto era perfetto. Emir rimase seduto alla scrivania per un po', Incantato, a osservare ciò che la sua mente aveva compiuto da sola, strabiliato da se stesso. Doveva essere l'ora dell'alba, ma di sole, nel tempio del suo genio, non ne sorgeva mai.

Era il momento: sentì che non poteva aspettare un minuto di più. Emir si alzò e si affacciò nella sala principale del sotterraneo, dove Mew ancora aspettava un suo cenno. Emir sorrise, spalancò le braccia e domandò: «Vuoi venire a giocare con me?»



Nota chiarificatrice che vi avevo promesso: ormai avete capito tutti che cosa sta per succedere, perciò questo mi sembra il momento più adatto per spiegare una grossa assenza che alcuni di voi hanno giustamente notato – quella del Team Rocket.

Ora, nel nostro immaginario collettivo la nascita di Mewtwo è indissolubilmente legata a Giovanni e al Team Rocket per via dell'anime, ma studiando e ristudiando le entry del Pokédex e i dettagli presenti in Pokémon RBG, ho notato che in realtà il Team Rocket non viene mai menzionato parlando di Mewtwo, né a Isola Cannella in generale. Vi giuro che ho percorso quei sotterranei forse un milione di volte e mai sono riuscita a trovare un solo riferimento! Naturalmente, con questa storia mi sto esponendo al rischio che qualcuno di voi mi scriva domani per farmi notare che appena si arriva sull'Isola ci sia un NPC che dice “sai che Mewtwo l'ha creato il Team Rocket?” che io non ho mai visto. Questo è possibilissimo e io vi chiedo scusa, ma da buona filologa mi sono basata unicamente su ciò che io ho trovato nel gioco, cercando di non farmi condizionare dal fandom o dall'anime, e quello che ho trovato è questo: che Mewtwo è indubbiamente collegato al Laboratorio Pokémon e alla Villa, ma non al Team Rocket. Quando ho deciso di inserire Giovanni qualche capitolo addietro, l'ho fatto perché il Casinò Rocket è l'unico modo legale in gioco per ottenere Porygon, un Pokémon esplicitamente creato dalla Silph, perciò ho deciso di sfruttare questo elemento per suggerire la corruzione dell'azienda – ma per quanto riguarda il Team Rocket e Giovanni, questo è quanto. Ho già scritto fin troppo di Giovanni nelle mie storie. Questa è incentrata sulla storia di uno scienziato che, come afferma il Pokédex, crea Mewtwo «dopo anni di orribili esperimenti di ingegneria genetica».

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Capitolo 14
*** Frangibile. ***


Avevo promesso che non avrei lasciato da parte questo progetto, e come vedete eccomi qui: so che ormai è più un meme che altro, io che spunto dal nulla dopo mesi di silenzio e posto un capitolo, ma questo è. Se ancora c’è qualcuno che sta seguendo questa storia, vi informo che siamo quasi alla fine, lo assicuro!

Recap dei capitoli precedenti: Rotwang è partito per la seconda spedizione in Guyana alla ricerca di un altro Mew; Emir è rimasto solo nella villa con Mew per circa due mesi. Ha iniziato a perdere sempre più coscienza del tempo che passava e ad abusare dei farmaci che Rotwang gli aveva lasciato nel tentativo di aiutarlo a superare la sua depressione; mentre cercava il laudano e altri oggetti del misterioso, folle costruttore della villa, si è accorto che Mew è evidentemente in grdo di leggere nel pensiero. A questo punto, ha rimesso in funzione il prototipo del macchinario per il sequenziamento del DNA che aveva realizzato per la sua tesi di laurea.

Augurandovi buona lettura, non posso non ringraziare Fiulopis per aver betato questo pappone di capitolo.

Dedicato a Persej Combe, un po’ in ritardo per il suo compleanno.

 

Capitolo XIII – Frangibile

 

Il giorno del ritorno di Rotwang Emir si fece la barba e si vestì.

Non ricordava quando fosse stata l’ultima volta. Si era rasato, quelle volte che era sceso in paese a comprar qualcosa da mangiare? Non gli pareva, ma tutto nella sua mente era ovattato e distante, confuso, e sul mento e sulle guance aveva una barba ispida lunga di giorni. A toccarla, era ripugnante; ma quando si chinava sullo specchio, avvicinando il volto al vetro per osservare se stesso e la barba da vicino, le sue occhiaie risaltavano viola sulle sue guance scavate che parevano di un affamato, e quella vista forse lo disgustò ancora di più. Tirò fuori dall’armadio qualche vecchio completo di quando ancora lavorava, ma quando li indossò e passò davanti allo specchio per cercare di sistemarsi, i pantaloni gli ballavano addosso, l’ultimo buco della cintura era ancora troppo largo per i suoi fianchi e la giacca ricadeva sulle sue spalle informe come un sacco, come fosse quella di un altro. Se li tolse e li gettò sul pavimento in un impeto di rabbia, pensando che Rotwang si sarebbe accorto di certo che non aveva mangiato, che non era stato ai patti; se dell’aspetto ossuto, mostruoso che aveva assunto il suo corpo si fosse accorto prima, forse avrebbe potuto far qualcosa; ma riprendere peso nell’ora che lo separava dall’attracco del traghetto non era possibile. Cercò di mascherarsi così come poteva: indossò una camicia che un tempo gli era andata troppo stretta e la infilò in un paio di jeans scoloriti che, quantomeno, non avrebbero avuto addosso a lui la stessa aria sciatta del velluto troppo largo. Aveva l’aria sperduta di un disoccupato di quasi quarant’anni infagottato in vestiti vecchi e troppo larghi per lui, ma, con le sue spalle magre e le cosce che tra di loro non si toccavano neppure più, quello era l’aspetto migliore che poteva ottenere.

Quando Rotwang era partito, erano andati entrambi al molo con l’automobile mandata dal Laboratorio a prenderli; in quel momento, due auto si trovavano già al molo ad aspettare il ritorno della spedizione per riaccompagnare i membri alle loro case e, se il giorno precedente Emir avesse fatto una telefonata alla sua ex segretaria, avrebbe potuto farsi accompagnare per il viaggio di andata. Si fosse trattato di lei, lo avrebbe chiesto volentieri; ma chiedere un favore attraverso di lei avrebbe voluto dire ottenerlo, indirettamente, da Valérien. Chiamò un taxi che venne a prenderlo di fronte al cancello in ferro battuto della villa all’ora convenuta: il tassista scese in silenzio per aprirgli la portiera, ed Emir ebbe una fugace visione di un’altra estate, di un’altra auto che lo attendeva e di Dale che scendeva ad accoglierlo nei suoi giorni di gloria. Quei giorni erano finiti. Il tassista lo fece accomodare con cortese deferenza, ed Emir trascorse il viaggio sentendosi profondamente a disagio nei suoi abiti e su quel sedile, a osservare con sospetto nello specchietto retrovisore il volto dell’autista che ogni tanto gli accennava un sorriso.

Si sentì assai sollevato quando intravide il traffico accrescersi intorno alla zona del molo e il taxi iniziò a rallentare per inserirsi tra le auto in direzione degli approdi dei traghetti. Quel giorno non c’erano giornalisti né curiosi come nel giorno del loro ritorno anni prima: la seconda spedizione era passata sotto silenzio e inosservata proprio come Dale aveva progettato. Da quel punto di vista, era stato un successo: la campagna di ricerca era stata un perfetto fallimento, ma nessuno ne avrebbe parlato.

Il traghetto era già arrivato. Il tassista accostò appena al di fuori della corsia di scorrimento, Emir gli chiese di aspettare un minuto e si affacciò al di fuori dell’auto per cercare con lo sguardo. Non dovette aspettare molto: stavano sbarcando i passeggeri a piedi, scendendo in file disomogenee lungo le passerelle, ed Emir aguzzò lo sguardo per scorgere tra di essi un volto che conosceva. L’interminabile massa degli estranei gli appariva intollerabile, voleva andar via, gli pareva che avrebbero dovuto smetter di fluire dal ventre del traghetto e lasciar passare Rotwang, ma continuavano a sgorgare a fiotti, e in piedi di fronte al taxi che attendeva Emir si sentiva esposto e vulnerabile e rimpiangeva d’esser venuto fin lì.

Una mano gli batté sulla spalla da qualche parte al suo fianco. Emir diede in un sobbalzo pauroso, gli parve che il cuore gli battesse tanto forte da rompere le sbarre della cassa toracica, ma quando si voltò si ritrovò davanti solo alla risata di Rotwang che si compiaceva del suo scherzo.

«Nervi fragili, eh, Fuji?»

Se avesse potuto comprimersi il cuore nel petto con la mano, l’avrebbe fatto; ma non si poteva, ed Emir si dovette limitare a balbettare nello sciogliersi della tensione: «Da dove sei arrivato?»

«Sono sceso da un po’, Lestournelle ha chiesto di farci sbarcare per primi. In fin dei conti tutti nella vita hanno uno scopo, a quanto pare il suo era questo. Allora, andiamo?» Dopodiché, senza attendere risposta, Rotwang spalancò la portiera del taxi e gettò alla cieca il suo zaino sul sedile. Aveva preso il sole, alla maniera dei tedeschi, ossia aveva la pelle arrossata e screpolata e bruciature sul naso e sulle guance, e persino sugli avambracci che rimanevano scoperti dalle maniche arrotolate della camicia di lino. «Non mi aspettavo di trovare questo freddo in Kanto. Andiamo a casa, non vedo l’ora di infilarmi sotto la doccia... Fuji, ti muovi?»

Rotwang si aspettava di tornare a casa e trovare tutto come l’aveva lasciato: Mew, il suo lavoro, il loro letto disfatto, e di poter tornare alla vita di prima come se nulla fosse mai accaduto, perché ancora non sapeva, e in mezzo a tutta quella folla di gente Emir non poteva rivelargli che si stava sbagliando.

«I tuoi bagagli...»

«Oh, quelli posso andare a ritirarli in laboratorio nel pomeriggio, Lestournelle farà consegnare tutto lì. La roba importante è nello zaino, perciò possiamo andare.»

Sentendo di star accumulando una menzogna dopo l’altra a ogni parola che non poteva pronunciare, Emir salì sul taxi e chiuse la portiera dietro di sé.

Mentre si lasciavano alle spalle il molo, Rotwang si allungò sul sedile e stiracchiò le gambe come se fosse stato a lungo costretto in una posizione scomoda. «Grazie di essere venuto a prendermi. Senti, hai già pensato a qualcosa per cena? Possiamo ordinare qualcosa da asporto, io non ho la minima voglia di cucinare. Cosa c’è di aperto questa sera?»

«Devo dirti una cosa» disse Emir improvvisamente.

La serenità sul volto di Rotwang si gelò nell’istante stesso in cui egli aveva parlato. Gettò un lungo sguardo all’autista per accertarsi che stesse ascoltando e proseguì, con un tono calmo e neutrale e la voce che ciò nonostante vibrava di tensione: «Un preambolo piuttosto angosciante, ti pare?»

«Lo so» rispose Emir. In quella macchina soffocante si sentiva costretto; avrebbe voluto scappare, trovare aria, ma abbassando il finestrino nelle strade affollate si sarebbe sentito ancora più esposto. Si costrinse a restare calmo e immobile sebbene gli sembrasse che migliaia di animali striscianti gli camminassero addosso, sotto la camicia, contro la pelle, e mormorò: «Non è nulla d’irreparabile... però bisogna che te lo dica... quando arriviamo a casa.»

«Se sei stato con un altro, non lo voglio sapere» disse Rotwang improvvisamente.

Emir si aspettava talmente poco quelle parole che esitò. «Che cosa vuoi dire?»

«Voglio dire quello che ho detto» ribatté Rotwang con un’irritazione quasi dolorosa. Emir aveva la sgradevole sensazione di non riuscire a seguirlo. «Sono stato io a dire che non stavamo insieme, perciò se hai fatto qualcosa mentre ero via eri nel tuo diritto e non sei tenuto a dirmi nulla… solo che io non voglio saperlo.»

Emir gettò verso l’autista uno sguardo di supplica senza neppure sapere chi volesse supplicare, se lui di non ascoltare o piuttosto Rotwang di non parlare così di fronte a lui; ma il tassista aveva lo sguardo innaturalmente fisso sulla strada come se fingesse di non ascoltare, e in quanto a Rotwang non si poteva fermare.

«Ma, io… non ho fatto niente» balbettò nella speranza di metterlo a tacere. «Cioè, non sono stato… perché pensi che avrei mai...»

Rotwang si calmò all’istante così come aveva iniziato, come se la sua sola parola bastasse a inondarlo di sollievo. «D’accordo. Allora cosa?»

Emir gli lesse negli occhi il momento in cui il pensiero di Mew gli attraversò la mente e non poté trovare voce perché al di fuori che cogli occhi il nome di Mew non si poteva pronunciare.

«No» esclamò troppo forte e troppo d’improvviso perché l’ostentato disinteresse dell’autista, che ancora platealmente li ignorava scrutando la strada, apparisse ancora credibile. «No, non devi… non è nulla di quello che pensi, solo che… è meglio che tu lo veda con i tuoi occhi.»

Era stato sciocco da parte sua anche solo credere di poterglielo dire o anche solo preparare – Rotwang doveva vedere. Davanti all’autista non si poteva dire, a parole non si poteva dire, se anche si fosse potuto dire Rotwang non avrebbe creduto: doveva vedere. Doveva scendere con lui nel sotterraneo e vedere che cosa aveva fatto.

Rotwang lo fissò freddamente per un momento, Emir stentò a reggere la forza del suo sguardo che lo accusava. Un istante dopo, Rotwang distolse lo sguardo da lui, si protese in avanti e domandò ad alta voce: «Questa crisi di coppia è imbarazzante per me quanto per lei. Non è che potrebbe andare più veloce, eh?»

Ritrovandosi a fatica costretto a far finta di non aver sentito nulla quando neppure volendolo gli sarebbe stato possibile, l’autista tossì un paio di volte per schiarirsi la voce. «Alla Villa, dottore?»

«Alla Villa, come no» mormorò Rotwang tornando ad appoggiarsi al sedile. Emir cercò cogli occhi il suo sguardo, ma invano: ora Rotwang guardava con ostentazione fuori dal finestrino, ma gli tremavano le mani, e nervosamente tamburellava col tacco al suolo. «Abbiamo da risolvere una faccenda.»

 

«Ora mi dirai cos’è successo» disse Rotwang scaraventando il suo zaino a terra. Emir arretrò lentamente di fronte a lui senza dargli le spalle perché voleva continuare a vederlo in faccia.

«Scendiamo giù e te lo spiego.»

«Prima avevi tanta fretta di colmarmi di angoscia e ora non più? No, Fuji, non funziona così.» Rotwang ribolliva di rabbia come lava sotto una superficie ed era tanto più pericoloso quanto più era calmo. Si guardò attorno. «Lei dov’è?»

«È giù» insisté Emir disperatamente. «Ti giuro che sta bene... ma devi venire con me.»

«Fuji» insisté Rotwang con una calma glaciale che non gli era propria. «Che cosa è successo mentre ero via?»

«Rotwang, ascoltami» disse Emir. Non s’era nemmeno accorto di aver continuato ad arretrare: se ne rese conto quando toccò la parete con le spalle e s’accorse di non poter indietreggiare oltre. S’augurò che Rotwang non lo incalzasse ancora. «Mew sta bene, ma voglio che tu la veda prima. Capirai tutto quando la vedrai, te lo prometto, ma devi venire con me. Per favore.»

Rotwang temporeggiò per un tempo indefinitamente lungo, i suoi occhi lampeggiavano. Trasse un respiro profondo. «Bene» mormorò. «Allora, andiamo giù. Fuji... spero per te che non le sia successo niente.»

Emir non rispose.

Sbloccò i vari meccanismi l’uno dopo l’altro mentre Rotwang scalpitava dietro di lui, sforzandosi d’ignorare la sua impazienza e la minaccia che dalla sua rabbia proveniva. Tutto ora era inevitabile, sarebbe accaduto senza ch’egli potesse impedirlo, come ogni cosa dalla notte in cui aveva chiamato Mew e l’aveva invitata a giocare con lui: il momento in cui Rotwang avrebbe visto lo riempiva d’angoscia e gli pareva di non riuscire a respirare, ma sarebbe accaduto in ogni modo, e non si poteva far altro che accelerarlo e affrontarlo quando ancora era in grado di controllare le cose. L’ultima porta celata si spalancò e discesero la scala che dava nel buio. Alle sue spalle, il respiro di Rotwang era un rumore enorme nell’oscurità.

Le aveva lasciato la televisione accesa quella mattina perché non si annoiasse. Quando aveva lasciato il sotterraneo c’era un cartone animato, ma in quel momento, quasi ora di pranzo, c’era un programma di cucina, e Mew s’era acciambellata sul divano e dormiva. Alla sua vista, Rotwang trattenne il fiato per un momento.

«Mew» chiamò dall’ultimo gradino. Gli tremava la voce. «Mew, sono qui.»

Mew spalancò nel buio i grandi occhi, scodinzolò di gioia e si sollevò sul divano per guardarlo, scoprendo al di là dello schienale il vasto ventre rigonfio della gravidanza.

D’improvviso non era più Rotwang – era il dottore.

«Ehi» mormorò. Si avvicinò al divano con una cautela nuova, come se temesse di spaventarla; ma Mew non aveva paura di lui. Soltanto, era diventata troppo gonfia e pesante per alzarsi, e forse era Rotwang ad aver paura.

Si sedette al suo fianco sul divano e si lasciò annusare, più per rispetto di lei e dei suoi spazi che perché ci fosse la possibilità che non lo riconoscesse; ma erano cambiate tante cose dall’ultima volta che s’erano visti, e il medico aveva troppo rispetto di ciò che era in lei per toccarla così, familiarmente, come una volta; e forse anche lei era un po’ cambiata, e un istinto nuovo la spingeva a esser più cauta di quanto fosse stata prima. Rotwang attese con la mano tesa, tremante, e le dita spalancate finché Mew non abbandonò familiarmente il muso contro il palmo della sua mano. Era contenta che fosse tornato. Rotwang l’accarezzò piano sul muso, in mezzo agli occhi, là dove le piaceva molto, e poi a poco a poco, quasi senza che se ne accorgesse, fece scivolare la mano verso il suo addome rigonfio. La fiducia di Mew era tale che non ebbe moto.

«Sei stato tu?» mormorò senza guardarlo. Era una domanda, ma una domanda sciocca, indegna di lui, poiché entrambi sapevano che non poteva essere altrimenti, ed Emir non riuscì a rispondergli. Rotwang, che non si aspettava una risposta, non disse niente.

La pancia di Mew era sporgente e gonfia, ma in modo innaturale, grottesco, ed Emir non ne distoglieva lo sguardo. Sotto le mani di Rotwang, che saggiavano là dove s’aspettava di sentire qualcosa, era orrendamente inquietante.

«Perché?»

Aveva la voce incrinata, tremante, ed era la domanda che aleggiava tra loro fin dal molo. Emir aprì la bocca, spalancò le braccia, fece per parlare, ma in fondo alla sua gola le parole non presero forma. Abbassò le braccia senza dir nulla.

«Emir, perché?»

Emir non disse niente.

«Hai usato il prototipo? Quello che mi hai fatto vedere...»

«Sì» mormorò Emir.

Rotwang tacque a lungo, cogli occhi socchiusi, come incassando un profondo dolore. Inspirò a fondo.

«Volevi vendere i suoi piccoli?»

«No!» gridò Emir disperatamente, perché Rotwang non doveva, non doveva credere questo! «Non è vero, questo non me lo merito! Lo sai anche tu che ho rinunciato...»

«Alla tua carriera?» lo interruppe Rotwang levando lo sguardo. «Ma alla scienza no, mi pare...»

La calma della sua voce lo spaventava più della rabbia che ricordava. Dagli attacchi frontali e dagli scoppi d’ira sapeva difendersi, ma dalla calma glaciale della sua voce, da quella no.

«Non è quello che credi. Io volevo soltanto...»

«Ah, davvero» ribatté Rotwang alzandosi in piedi; d’improvviso gli apparve enorme, spaventoso, Emir arretrò sentendosene annichilito. D’un tratto gli parve che se non avesse attaccato sarebbe stato sopraffatto.

«Ma non sei stanco anche tu di vederla debole così?» gridò, ma la sua voce era esile e supplichevole e troppo acuta. «Di vederla indifesa e dipendente da noi e di dover badare a lei per tutta la vita, e di non poter essere liberi mai...»

«Emir.» Quella calma gelida della sua voce era svanita: ora le sue parole erano incerte, caute e avanzavano a tentoni per percepire la realtà e cercare di delinearne i confini. «Ma di che cosa stai parlando?»

Tuttavia la sua voce era ancora distante, remota come se provenisse da un’ineffabile distanza. Emir aveva ora tutta la sua attenzione, eppure sapeva giò da prima di parlare che non avrebbe capito.

«È così indifesa, eppure così potente... avrebbe potuto tornare in Guyana, andare libera dove preferiva, eppure rimane qua prigioniera con noi... io volevo soltanto che potessimo essere liberi senza di lei...»

Che c’entra tutto questo?, urlavano gli occhi di Rotwang, ma con un dominio ce non aveva eguali, egli si sforzò e socchiudendo gli occhi, inspirando profondamente, si massaggiò le tempie e disse: «Quello che dici non ha alcun senso, lo senti anche tu. Vero?»

Chissà per quale motivo quelle parole lo ferirono più che se avesse gridato – ma poi, perché non gridava, non bestemmiava, perché non sbatteva le porte? Era soltanto per non spaventare Mew? Com’era che Rotwang non capiva?

«Quando studiavamo i fossili in Laboratorio, allora non eri contrario a intervenire sul DNA...»

«Sei intervenuto sul...» Ma prima di porgli la domanda che Emir temeva di più, Rotwang ne distolse la mente come se la strattonasse via. «Emir, intervenivamo sul DNA perché non sarebbero sopravvissuti in ambiente moderno. Ma Mew è qui, è viva, sta bene... ti rendi conto che tutto quello che dici non ha alcun senso?»

Non avrebbe capito. Emir si prese il viso tra le mani e rimase in silenzio sotto la ferrea logica del suo sterile bunsenso. «Tu la ami troppo» mormorò in tono d’accusa, ma più per se steso che per lui, contro il palmo delle sue mani chiuse, perché di fronte all’ostinazione della sua incomprensione non si poteva obiettare altro se non questo – che Mew era imperfetta ma semiperfetta e che se solo fosse stato un po’ più come diceva lui, allora niente di tutto ciò sarebbe mai accaduto; che se solo l’avesse amata un po’ meno, allora avrebbe visto che la ragione della loro miseria era unicamente lei... ma l’amore che copriva gli occhi di Rotwang era tale che non avrebbe visto mai quello che vedeva lui. Ai suoi occhi, Mew non avrebbe potuto esser mai più perfetta di così...

Rotwang attendeva una sua risposta come se da essa dovesse scaturire tutta la verità, ma la verità Emir gliel’aveva già detta, era lui a non volerla capire. «Richard... io volevo solo renderla migliore di com’è ora.»

Rotwang ne fu abbattuto come se lo avesse colpito. Si gettò riverso sul divano per non vederlo, e Mew lo guardò con curiosità perché non l’aveva mai visto far così. Emir dovette chinarsi verso di lui per percepire le parole che fuoriuscivano dai cuscini.

«Non li hai presi i farmaci, vero?»

La voce gli incespicò sulle labbra, gli morì in gola: questa verità forse si vergognava a dirla più dell’altra. «Sì, li ho presi, però...»

«Però?»

«Forse non come hai detto tu.»

Non c’era altro da dire. Rotwang chiuse gli occhi, gettò il capo all’indietro e rimase in silenzio. Emir s’accorse che stava piangendo solo perché Mew, che fino ad allora era rimasta immobile, si sollevò a fatica dal suo nido di coperte e si accostò al suo viso per annusare le sue lacrime. Il suo dolore era tale che Rotwang non la guardò neppure.

«Che cos’hai fatto sul DNA?» chiese senza guardarlo.

A questa domanda avrebbe preferito non rispondere. La sua bocca elaborò una mezza verità prima ancora che la sua mente avesse modo di riflettere. «Volevo un maschio. Cromosoma Y.»

«Un maschio» ripeté Rotwang con voce sorda ed Emir temette per un attimo che avrebbe chiesto ancora, che avrebbe voluto sapere perché, indagare ancora; ma era talmente sopraffatto che non parlò più.

Rimasero in silenzio per un tempo indefinitamente lungo: Mew li guardava alternativamente, forse perché s’aspettava un’attenzione che ora non le veniva prestata e non capiva. Emir sentiva se stesso respirare nel buio. Quando a lungo Rotwang l’avrebbe lasciato così in un limbo?

Mew, pigolà Mew in tono di accusa. La sua voce parve restare a lungo sospesa nel silenzio senza scopo, ma quando ormai sembrava che non sarebbe accaduto nulla, Rotwang aprì gli occhi e si voltò verso di lei. Mew scodinzolò di gioia.

«Che devo far di te?» mormorò Rotwang. Emir levò il capo di scatto, gli si rivolse in un anelito d’attesa – ma Rotwang non stava guardando verso di lui e non aveva modo di comprendere a chi si riferisse.

«Cosa...»

D’improvviso Rotwang trasse un respiro profondo, si rimboccò le maniche e si alzò come se si accingesse a un lavoro. Dal pavimento Emir lo guardò annichilito. Che stava succedendo?

«Dove vai?» gridò quando Rotwang girò attorno al divano per avvicinarsi alla porta.

«Vado a cercare aiuto. Non possiamo tenerla in casa in queste condizioni.»

Tra tutti gli scenari che aveva vagliato nella sua mente, questo era l’unico che non c’era.

Emir scavalcò il divano e gli si parò davanti per tagliargli la strada. Rotwang lo scrutava dall’alto senza espressione. «No, no, no, no...»

«Vuoi dire qualcosa?»

Emir non era in grado di articolare più d’un pensiero compiuto alla volta. La sua mente era sovraccarica d’informazioni e conseguenze della sua decisione. «Sei impazzito. Se la fai uscire di qui finiamo entrambi in galera.»

La maschera oscura del volto di Rotwang s’illuminò di una luce amara, cattiva, ed egli sorrise. «Ma davvero?»

Emir si rese conto con orrore che Rotwang sapeva benissimo che cosa sarebbe accaduto loro, e proprio per questo non c’era modo di distoglierlo dalla sua decisione. Si ritrovò ad ansimare. «Aspetta, aspetta! Tu non vuoi questo, pensaci ancora bene...»

«Emir.» La voce di Rotwang era calma ma inflessibile. «Fammi passare.»

«Rotwang, sarà tutto finito! Ti rimanderanno in Germania...»

«Emir» ripeté Rotwang. «Fammi passare.»

«Tu non sai come funziona, nemmeno tuo fratello potrà tirarci fuori...»

«Fammi passare.»

«Ce la porteranno via e tu non la vedrai mai più!»

Rotwang si ritirò da lui come di fronte al sibilo di una vipera. Anche questo sapeva che era vero, inappellabile, ed Emir si aggrappò a quell’arma perché era evidente che era l’unica, sebbene meschina, in grado di colpirlo. «È così, lo sai anche tu che è così! La riporteranno alla Silph, forse a Zafferanopoli, per tenerla al sicuro. Dale venderà il cucciolo a Giovanni...»

«Smettila» disse Rotwang in un singulto. Emir lo incalzò così come avrebbe scavato per allargare una ferita. «Sì, sì, è così invece! Sequestreranno il mio materiale, ma la Silph lo ricomprerà o glielo procurerà il Team Rocket, e lei...»

«Basta così» disse Rotwang scuro in volto. Si prese la fronte tra le mani per isolarsi da lui e dal mondo nell’oscurità dei suoi palmi chiusi. «Che cosa vuoi che faccia?»

Emir sentì che le posizoni s’erano invertite, che Rotwang ora supplicava, che la prospettiva di perdere Mew era tale da ridurlo così, che soprattutto ora ogni cosa dipendeva da lui; ma questa realizzazione non gli diede la minima pace. Aveva tradito. «Non devi fare niente! Penserò io a tutto. La gravidanza procede bene...»

«Non è vero» rispose Rotwang dal rifugio delle sue mani. «Devo proteggere te.»

«Non ti sto chiedendo questo, è soltanto per Mew che...»

«Già, certo.» Stavolta la voce di Rotwang risuonò d’un sarcasmo doloroso e amaro, ed egli finalmente levò gli occhi dalle proprie mani per guardarlo. «Avevi pensato a tutto prima, vero? Avevi progettato tutto, avevi già le parole da dirmi in tasca. Sapevi già da prima che tornassi che per proteggere lei non avrei mai denunciato te...»

Sentendosi profondamente triste eppure al contempo consapevole di non aver più alcun diritto di difendersi, Emir mormorò: «Non avevo pensato a niente.»

Rotwang rise duramente. «Ah, davvero? Perché sembrava un piano molto ben congegnato.»

«Non ho mai avuto un piano. È la verità.»

Rotwang levò lo sguardo su di lui in un moto di disperazione. I suoi  occhi affondati nell’abisso delle sue orbite supplicavano una pietà che non poteva raggiungerlo da alcuna parte.

«Allora perché?»

Perché così com’è la odio, urlava tutta una parte della sua coscienza. Invece rispose: «Non lo so.»

 

I risultati della spedizione erano stati disastrosi.

Quando erano tornati dal primo viaggio, quasi tre anni prima, c’era l’urgenza di studiar Mew, e l’azienda li aveva costretti a tornare in ufficio dopo appena un weekend di riposo – ma ora non c’era più nulla di urgente da fare. Avevano trovato qualche coprolite, addirittura qualche frammento d’osso dai quali probabilmente sarebbero riusciti, con molta fortuna, a estrarre qualche traccia incompleta di DNA e che, con altrettanta probabilità, si sarebbero senz’altro rivelati appartenenti a qualche specie di Pokémon ancora esistente. Non c’era fretta, e la Silph ritenne più conveniente obbligare i dipendenti, dopo quel tour de force, a smaltire un po’ di ferie arretrate e a chiudere il Laboratorio per qualche settimana. Persino la custodia notturna fu allentata: in fin dei conti, non c’era neanche più niente d’interessante da rubare.

Emir avrebbe preferito che Dale avesse avuto una trovata diversa. Di ferie da smaltire Rotwang ne aveva tante davvero, e questo significava che sarebbe rimasto a casa per tutte e tre le settimane di chiusura previste. Il lavoro almeno l’avrebbe tenuto lontano da casa per qualche ora, ed evitarsi sarebbe stato più facile; ma ora che era costretto a casa, erano prigionieri entrambi della villa come lui era stato per tutti quegli anni.

Sarebbe stato meglio se Rotwang fosse andato a lavorare.

Non voleva vederlo, non voleva parlargli. Era arrabbiato, no, era confuso; non gli rivolgeva la parola, e questo forse era un bene – no, non lo era, questa era una bugia: Emir avrebbe voluto che urlasse come ai tempi dell’ufficio, che lo offendesse e imprecasse e strappasse da lui le spiegazioni che non aveva saputo dargli, perché Rotwang avrebbe dovuto far così, era così che Emir si era aspettato: di potersi confessare ed espiare la colpa nella sua rabbia e nel suo disprezzo, come una volta; ma poi, quando lui si fosse spurgato della verità come di un veleno, e Rotwang della sua rabbia come di un’infezione, allora tutto sarebbe stato superato e avrebbero lavorato ancora insieme… Rotwang aveva superato il disprezzo per lui una volta, quando l’aveva visto rinunciare a tutto per lei. Avrebbe potuto accader tutto di nuovo, Emir avrebbe fatto tutto come si deve, proprio come la prima volta, e poi sarebbe nato il cucciolo e tutto sarebbe andato meglio. Sarebbe nato un nuovo Pokémon, un figlio di lei; Rotwang non era un mostro, l’avrebbe amato come amava lei, di fronte a quella nascita l’avrebbe perdonato; e poi, in lui vi era sempre lo scienziato, e lo scienziato, presto o tardi, avrebbe dovuto riconoscere che aveva ragione: che era riuscito a creare qualcosa di più perfetto di lei… ma Rotwang non gridava. Non parlava neppure.

Scese nel sotterraneo per vederlo solo dopo qualche giorno. Aveva il volto ancora abbronzato ma stanco, gli occhi ricolmi di dolore, e prese la parola per la prima volta solo dopo un lungo silenzio.

«Non può rimanere qua sotto, ovviamente.»

Le sue parole erano tanto improvvise e prive di contestualizzazione che Emir rimase in silenzio per un po’ in attesa che parlasse ancora. «In che senso?»

Rotwang rimaneva così calmo, tutto era così irreale da apparire un sogno. «Qui, nel sotterraneo. Senza aria, né luce... non è salutare.» Di fronte alla passività della sua attesa, Rotwang aggiunse, come a voler capire l’unico dettaglio, in quanto aveva detto, che gli pareva non poter esser chiaro. «Mew.»

Emir allargò lo sguardo attorno a sé, nell’imtimità calda e rassicurante del sotterraneo, sentendosi smarrito al suo interno per la prima volta: Mew e il sotterraneo erano sempre stati l’unica certezza degli ultimi anni. «Ma è sempre stata bene qui» obiettò stupidamente.

Rotwang iniziò a manifestare in quel momento i primi segnali di nervosismo, ma rimase calmo, e con una calma innaturale e forzata disse a fatica, come se pronunciare quella parola ad alta voce gli costasse un’immane sforzo: «Sì, ma ora è incinta.»

I suoi pensieri erano sempre per lei, in ogni modo per lei. Reprimendo la sensazione di fastidio che quel pensiero gli provocava, Emir ribatté: «Allora... sei tu il medico. Che dobbiamo fare?» Bisognava concedergli il tempo di abituarsi all’idea, e nel frattempo cedere su un po’ di punti marginali, perché tutto tornasse come avrebbe dovuto essere nel suo progetto. «Non possiamo rischiare che la vedano.»

«Già... a questo proposito.» Dunque quello era il motivo per cui Rotwang era disceso nel suo inferno a parlare con lui: Emir si raddrizzò sul divano per dimostrargli tutta la sua attenzione. Era venuto per parlargli di Mew, certo, ma quello che davvero gli premeva dirgli e che lo angosciava dover dire ad alta voce era quello che stava per venire: «Fuji... non m’importa più che la vedano.»

Emir rimase interdetto per un momento. «Che cosa stai dicendo?»

Rotwang pareva determinato a rimanere calmo a qualsiasi costo, ma per fare questo evitava di guardarlo. Si passò due dita sugli occhi. «Che avrei dovuto denunciarti quando l’ho scoperto e rinunciare a tutto, e se non l’ho fatto è perché sono stato vigliacco e non ho avuto il coraggio di perdere lei. Ma, Fuji, non intendo continuare a difenderti. L’hai fatto tu questo casino, non io. Io posso solo fare quello che posso coi pezzi che tu hai rotto, quindi...»

«Quindi che cosa farai?» chiese Emir.

«Quindi non terrò una femmina incinta chiusa in un sotterraneo per colpa tua» ribatté Rotwang ad alta voce. Emir sobbalzò sul divano perché quella violenza improvvisa, dolorosa, nella sua voce, non se l’era aspettata; accorgendosene, a fatica Rotwang tornò a dominarsi e si placò. «Sto cercando di non arrabbiarmi con te» scandì molto lentamente. «Però bisogna che mi aiuti. Fuji. Siamo intesi?»

Arrabbiati allora, avrebbe voluto gridare Emir, urlami addosso, perché ti trattieni? Dimmi tutto quello che hai pensato in questi cinque giorni; ma le parole gli mancavano e per l’ennesima volta rimase in silenzio. Forse avrebbe dovuto parlare, Rotwang taceva apposta; ma aveva perso l’attimo e Rotwang riprese. Quando aveva sbottato, quello era stato l’unico momento in cui Emir aveva riconosciuto Rotwang dietro quell’uomo; ma ora era di nuovo lontano e irraggiungibile.

Col volto semicoperto dalle mani, gli occhi perduti nel vuoto, Rotwang proseguì lentamente: «Io so che non eri in te in quel momento. Non so che cosa pensassi o che cosa intendessi... ma sto cercando di tenere a mente che non eri te stesso in quei giorni. È l’unico motivo che ho per non ammazzarti.» (Ero io, ero io, ero io, urlava quella voce dentro di lui. Sono sempre stato io, sotto i farmaci e la disperazione, erano gli stessi pensieri che avevo in quelle notti in Laboratorio quando parlavo con Valérien... solo che tu non volevi vedere quello che ho sempre visto io.) «Ma bisogna che faccia quello che ritengo giusto. Emir, non potrò proteggere per sempre sia te che lei. La priorità adesso è Mew.»

«E questo che cosa vuol dire?» chiese ancora Emir. Quel preambolo non gli piaceva per niente.

«Che devo proteggere lei» insisté Rotwang come se dovesse bastargli questo a capire – e come poteva non essere ovvio? Aveva sempre protetto lei! Emir non disse niente. «Non posso lasciarla chiusa qua sotto senza luce né aria... lo vedi bene che ne ha bisogno.»

«Quindi vuoi che la vedano tutti» sibilò Emir. «Perché è questo che accadrà, lo sai, vero? Che pensi di fare, portarla a prendere aria nel terrazzo sul mare, e aspettare che tutti la vedano e ci vengano a prendere?»

«Non sei nella posizione giusta per rispondere così, sai?» D’un tratto la sua voce era cambiata, era divenuta asciutta e distante: Emir si sarebbe pentito d’aver parlato così se solo non fosse stato tanto arrabbiato con lui. «Potresti anche provare a essermi grato di star sistemando i tuoi casini, eh?»

Emir scrollò le spalle. Per come stavano le cose, mostrarsi accondiscendente non aveva più alcun senso. «Quindi che farai quando la vedranno?»

«Dirò che sei stato tu a eseguire esperimenti di ingegneria genetica in un sotterraneo con un prototipo non registrato su un Pokémon rubato» ribatté Rotwang alzandosi in piedi. A quanto pareva la conversazione era finita col solito sarcasmo. «Fuji, non sono venuto qui a chiedere il tuo permesso. Ho già deciso. Credevo che sarebbe stato gentile farti capire con pazienza le mie ragioni, ma a quanto pare i miei sforzi sono sprecati con te, perciò tanto vale che ti metta di fronte al fatto compiuto: io ho già deciso. Mew verrà a stare al piano di sopra con me, dove può prendere luce e aria. Quello che ero venuto a dirti principalmente, a dire il vero, era che non voglio che tu abbia più niente a che fare con lei.»

Emir inspirò profondamente perché avrebbe voluto urlare e sapeva che non poteva permetterselo. «In che senso?»

«Nell’unico senso possibile» ribatté Rotwang. «Pensavi davvero che dopo quello che le hai fatto ti avrei permesso di occuparti ancora di lei?»

Emir rimase immobile sul divano. «Non ho mai inteso farle male.»

«Già, è stato un effetto collaterale» commentò Rotwang con accento sarcastico. «Penso comunque che sia meglio evitare di correre il rischio che accada di nuovo per sbaglio, ti pare?»

Emir allargò le braccia. «E allora dove vuoi che vada? Da Portia? Oppure...»

«Già, tanto per destare sospetti, eh? No, Fuji. Questo è il posto più sicuro al mondo, lo hai detto tu. Voglio che resti qui» rispose piano Rotwang.

«Non ho capito» mormorò Emir.

«Hai capito benissimo.» La voce di Rotwang era cambiata ancora, era dolorosa, spaventata, aveva gli occhi di una bestia in trappola. «Emir, è l’unico modo. Non posso lasciare che la tocchi di nuovo.»

Non era possibile, non era giusto. Emir scosse la testa perché non poteva essere vero: «Vuoi chiudermi qua sotto?»

«Tu ci vivi già qua sotto, Fuji! Non cambierebbe niente. Non mi pare proprio una tragedia, per poche settimane...»

«Poche settimane? Che cosa pensi che cambierà tra poche settimane?» urlò Emir alzandosi in piedi. «Che ti fiderai di nuovo di me e mi lascerai uscire di qui?»

Molto lentamente, guardandolo negli occhi, Rotwang rispose: «Tra qualche settimana Mew partorirà e potrà volare in sicurezza, perciò caricherò lei e il cucciolo su un aereo in una Pokéball e riparerò in Germania da mio fratello. La cosa verrà fuori, ma con un po’ di fortuna forse mi eviterà l’estradizione. Nel peggiore dei casi, ci vorranno anni per estradare me, e la Germania non la rimanderà mai indietro se dichiarerò che sarebbe in pericolo qui per via della Silph e del Team Rocket. Mio fratello non sarà uno scienziato, ma potrà prendersene cura lui per qualche tempo, e poi vedremo...»

«E mi lascerai qui.»

«Sarai libero, dopo» rispose Rotwang. Era lontano da lui in quel momento, lontano come se ormai non potesse quasi più sentirlo. «Era quello che volevi, no?»

«Che cosa?»

«Lo hai detto tu quando sono tornato. Che per via della sua debolezza noi non saremmo stati liberi mai...»

Era tutto sbagliato, tutto l’opposto di come aveva pianificato. Possibile che, nel suo egoismo e nel suo folle amore per Mew, Rotwang non avesse capito niente di tutto ciò che aveva fatto per lui? «Io volevo che fossimo liberi entrambi» mormorò.

Lontano e irraggiungibile da lui com’era, Rotwang si riscosse come se venisse richiamato da una grande distanza. «Come dici...? Non ti ho sentito.»

Non c’era altro da dire. La lontananza che si era aperta tra loro era troppo vasta e invalicabile perché le sue parole potessero sorvolarla. Emir si ritrovò inerme e immobile di fronte alla muraglia silente che si era levatra tra loro, era troppo alta e imponente per poterla anche solo fronteggiare, e la sua mente era troppo esausta per poterne anche solo sostenere lo sguardo.

«Non importa» rispose. «Non era niente d’importante.»

 

Era rimasto chiuso nel sotterraneo per gli ultimi due anni, e ora che Rotwang gli aveva chiesto di restarci per qualche giorno quelle pareti gli riuscivano intollerabili. Forse era perché al di sopra di lui ora si svolgeva una vita alla quale non era ammesso a partecipare: Rotwang era di nuovo lì, Emir sentiva i suoi passi al piano di sopra o forse li immaginava, non sapeva più; ma quel che era certo era che era lì ed Emir neppure poteva vederlo.

Non era recluso senza la possibilità di uscire, e non solamente perché non esisteva alcun modo per chiudere dall’esterno le sale sotterranee. Di quella possibilità Rotwang non aveva neppure parlato: s’era limitato a quell’unica conversazione di quel mattino, quando gli aveva detto che non voleva che tornasse al piano di sopra, e questo era quanto. Non gli interessava accertarsi che effettivamente rimanesse lì; e questo era quanto. Non gli interessava accertarsi che rimanesse lì, e questa forse era la sua più grande debolezza – che si fidava ancora di lui. Rotwang voleva rinchiuderlo per punirlo e perché era ferito, ma che effettivamente restasse lontano da Mew era qualcosa che affidava alla sua coscienza. C’era ancora una parte della sua mente, una parte lucida e cosciente che ancora aleggiava in fondo alla confusione della sua mente – perché a volte si rendeva conto che c’era come una nebbia indistinta nei suoi pensieri che una volta non c’era – che pensava che Rotwang sbagliasse a fidarsi ancora di lui, ma che non se ne rendeva conto.

Saliva al piano di sopra, di notte, quando Rotwang dormiva. Ne approfittava per fare un bagno, qualche volta – erano passati lunghi periodi nei quali questo bisogno non l’aveva sentito affatto, quando era solo e non avrebbe dovuto curarsene; ma ora che Rotwang era tornato e che lui doveva nascondersi come i vermi tra le forassiti delle pareti, fare un bagno assumeva un fascino rivoluzionario. Spalancava la finestra, e immerso nell’acqua della vasca contemplava a lungo il proprio corpo che, nella luce della luna, diveniva pallido e livido come acciaio. Le sue membra smagrite sembravano non corrispondere più al ricordo che aveva di se stesso, eppure, si ripeteva incredulo osservando la pelle rugosa delle sue dita ossute, ora il suo corpo divenuto troppo magro era la sola cosa che ancora gli apparteneva, poiché sulla sua mente gli pareva di non esercitare ormai da tempo più alcun controllo. I farmaci di cui gli sembrava d’aver tanto bisogno da non saper più come andare avanti senza, il prototipo nascosto nello studio, il ricettivo ventre di Mew che aveva accolto l’ovulo come se fosse stato proprio suo, tutto quanto gli sembrava lontano da lui come se si trovasse nei ricordi di qualcun altro, non nei suoi, ed egli li stesse eseminando con distacco come su una pellicola. La pelle semisommersa dall’acqua delle sue mani, inargentata come le squale di un pesce, limpide sotto la luce lunare, gli parevano le sole dita umane presenti sulla terra, stranamente reali di fronte ai suoi occhi.

Quando si levava dalla vasca e si stagliava nudo nel bagno, l’acqua che gocciolava giù dalle sue membra formava ampie pozze sul pavimento attorno ai suoi piedi. Le sue cosce smagrite non si toccavano più tra di loro, ma Emir osservava tutto questo con distacco, come se nulla di tutto ciò appartenesse a lui.

Dopo il bagno si aggirava in silenzio per la villa. Si sentiva lo spettro di una grande magione vuota che si stagliava sopra la città, e stentava a ricordare che n quella casa abitassero ancora dei vivi.

Soltanto una volta provò la tentazione di rivedere Mew. Era un’ora della notte talmente profonda che non s’udiva voce dal mare, solo il vocio della risacca che s’inerpicava sugli scogli: Rotwang non l’avrebbe mai saputo. Salì le scale nel buio, senza bisogno neppure di guidarsi con le mani nell’oscurità, le piante dei suoi piedi nudi aderivano sulla superficie del pavimento freddo. Tutte le sensazioni erano stranamente intense.

Rotwang era tornato nella camera che si era scelto una volta, quella con la finestra bifora e il piccolo fumoir che era diventato la stanza dei panciotti – Emir sorrise tra sé perché quel ricordo gli pareva lontano nel tempo come se l’avesse vissuto un altro, non lui. La porta era aperta – Rotwang ancora non riusciva a non fidarsi della sua parola. Se aveva tanto paura della sua pazzia, allora perché non si chiudeva a chiave per proteggersi da lui?

Rotwang era solo un rigonfiamento scuro tra le coperte, Emir intravide nel buio la massa folta dei suoi capelli biondi che si riversavano sul cuscino. Ma nella lama di luce che si dipanava dalla porta, in un angolo del letto, dormiva Mew acciambellata, avvolta nella spirale concentrica della sua lunga coda che si arrotolava attorno al suo corpo. Era stranamente diversa da come la ricordava e s’aspettava di vederla, la silhouette che si stagliava sullo sfondo uniforme del copriletto non si sovrapponeva precisamente al ricordo che Emir aveva di lei. Impiegò qualche istante a comprenderne il motivo: aveva le gambe stranamente lontane dal busto nella sua posizione fetale, allungate sul letto come quelle di un umano. Là dove normalmente avrebbe ripiegato le zampe stava il suo ventre osceno, sproporzionato; era grottesco come un tumore e allo stesso modo gonfio, orripilante, ed Emir ne rimase ipnotizzato. Non era come avrebbe dovuto essere, era sbagliato. Si sorprese con la guancia appoggiata contro lo stipite della porta mentre socchiudeva gli occhi per sondare il buio: il gonfiore della pancia era troppo alto e troppo esteso, non rimaneva localizzato nella zona dell’utero, ma risaliva lungo il suo corpo e occupava l’intero busto, come un’ascite. Era raccapricciante, ed Emir si sentì agghiacciare; ma se se ne era accorto lui, così, al buio, era possibile che Rotwang non lo sapesse da prima di lui?

Non riuscì a tornare nel sotterraneo. Non sarebbe riuscito a dormire, a far nulla, il pensiero di quell’addome gonfio come fosse pieno di liquido non lo lasciava, non c’era nulla con cui potesse distrarsi. L’alba lo sorprese nel salotto sul mare ad ascoltare la risacca, e così Rotwang, qualche ora dopo, quando scese le scale. Mew non era con lui. Rotwang rimase interdetto per un momento, storse le labbra di fronte all’infrazione dei loro patti e non disse nulla. Emir balzò in piedi dal divano, ma non seppe che dire, forse perse l’attimo, e Rotwang passò oltre ignorandolo e si diresse in cucina. Emir gli corse dietro.

«Ha la pancia gonfia.»

«Nuovo passatempo, Fuji? Spiare la gente mentre dorme?»

«Rotwang, la sua pancia...»

«Già» ringhiò Rotwang senza guardarlo, apparentemente troppo interessato a cercare qualcosa dentro al frigo per prestargli attenzione. «E il cielo è azzurro e il mare è salato, s’impara semore qualcosa di nuovo, eh?»

Emir sbatté la porta del frigorifero con una violenza che non pensava di trovare dentro di sé. Rotwang ne sfilò via la mano per miracolo, ma neppure a quel punto si voltò verso di lui. «Lo sai a cosa... lo sai.»

«E ora che lo so, che devo fare? La portiamo in un Centro medico e la rendiamo alla Silph?»

Emir rimase senza parole. «No, ma...che cosa significa?»

«Secondo te?»

«Che non sta andando bene.»

«Complimenti, Sherlock. Non ti sfugge nulla. E indovina chi dobbiamo ringraziare per questo?» Dopodiché Rotwang riaprì il frigoriero, recuperò un cartone di succo di frutta e lo spinse da parte per lasciare la cucina. Stava andando tutto storto, tutto al contrario di come avrebbe dovuto; Emir si ritrovò ad annaspare mentre inseguiva Rotwang su per le scale.

«Richard...! Non puoi fare nulla per...»

Rotwang neppure si voltò verso di lui mentre saliva rabbiosamente i gradini dell’alta scala. «Mi pare di avertelo detto già una volta, eh, Fuji? Che io non sono in grado di guarire imponendo le mani. Non posso portarla fuori da questa casa perché ce la porterebbero via, perciò se hai da suggerirmi qualcos’altro, ti prego, ti ascolto.»

Rotwang era arrabbiato, era furioso, e aveva ragione, era tutta colpa sua. Per ottenere qualcosa bisognava concedere altrettanto, ed Emir si sforzò di mostrarsi ragionevole e conciliante per cercare di scendere a compromessi: «Richard, so che è successo tutto per colpa mia, ma...»

«Questo cos’è, Fuji? Pensi di farmi compassione confessando l’ovvio come se fosse una grande ammissione da parte tua?» Rotwang si voltò di colpo verso di lui sulle scale ed Emir urtò contro il suo petto, ma Rotwang non arretrò di un solo gradino. «È ovvio che è colpa tua. Non può essere colpa di nessun altro e di certo non è mia, perciò pensi di intenerirmi?»

Neppure Emir arretrò. La sua colpa e la sua vergogna erano tali da annichilirlo, ma quello che aveva visto quella notte era troppo grave perché potesse permettersi di retrocedere di un passo. «Non mi dirai come procede la gravidanza solo per punirmi?»

«È ancora come nella giungla, eh?»

Questo Emir non se l’aspettava. Rimase interdetto, senza capire, ma quando Rotwang scese il primo gradino verso di lui, ed egli fu costretto a scendere all’indietro un gradino dopo l’altro incalzato dal suo petto, ebbe la piena certezza d’essersi spinto troppo in là e che questa Rotwang nn gliel’avrebbe fatta passare. «La giungla...?»

«Spero che tu stia facendo finta di non capire, Fuji. L’hai fatto di nuovo, come nella giungla, quando mi hai portato quel Pokémon sapendo benissimo che non ero in grado di salvarlo e mi hai costretto a portarmi addosso quel rimorso per tutta la vita... anche allora avresti potuto lasciare tutto com’era, ma come sempre hai dovuto giocare a fare Dio, a stravolgere il destino, e poi hai preso i cocci e me li hai portati perché a me restasse il rimorso di non averli potuti salvare...»

Erano rimasti nella giungla per tutti quegli anni, prigionieri della notte in cui era morto M1. Avevano litigato e fatto l’amore e girato intorno a quella notte per anni, come attorno a un fuoco, e avevano provato a scappare da quella notte per anni senza che se ne accorgessero, e in realtà avevano sempre corso una fuga centripeta verso quella morte e quel dolore. Rotwang gli aveva detto fin da quell’alba che era stata colpa sua, e non della morte di M1 – quella non era poi davvero colpa di nessuno – ma d’averlo costretto a sentirselo morire sotto le dita, ed Emir fino a quel momento non aveva capito.

«Morirà anche lei?» balbettò.

«Ti farebbe piacere pensare che fosse così semplice, eh?»

Rotwang si voltà e riprese a salire l’alta scala. Emir rimase impietrito: sapeva che quella schiena che si allontanava era inflessibile e inafferrabile, che Rotwang non si sarebbe voltato più verso di lui, che domandare era inutile e controproducente, eppure si aggrappò al corrimano per inseguirlo con lo sguardo. Erano lontani per sempre.

«Il cucciolo... Rotwang! Il cucciolo si salverà?»

Ma dalle volte delle scale e della volla echeggiò in risposta uno sconcertante silenzio, e da qualche parte, in alto sopra la sua testa, una porta che si richiuse.

 

Echeggiò l’aria di grida.

Gli parve di sentir rimbombare le fondamenta della villa. Emir rotolò giù dal divano svegliandosi di soprassalto come se avesse sognato di cadere; si ritrovò sul pavimento frastornato, più addormentato che sveglio, e si guardò attorno senza sapere dov’era né perché mentre tutto attorno cercava quelle grida. Il grido si ripeté di nuovo, meno forte ma più lungo, ed era identico all’ultimo disperato grido che aveva gettato M1 quella notte... era Mew che gridava?

Si era addormentato in mutande forse qualche ora prima, davanti all’ennesima replica di qualche vecchio film in televisione, e ora aveva la pelle intirizzita dal freddo e scossa dai brividi, ma non aveva neppure il tempo di realizzare che cosa fosse successo: si tirò su i pantaloni di una vecchia tuta, si infilò alla cieca una camicia per coprirsi almeno le spalle e si precipitò lungo le scale.

Gli sembrava che per tutta la villa echeggiasse una sirena d’allarme, come nei bombardamenti dei film di guerra; ma tutto echeggiava soltanto nella sua testa. Nella realtà, la villa era immersa di nuovo in un silenzio d’abisso, e i passi dei suoi piedi nudi rimbombavano lungo le scale nell’aria immobile. Non c’erano più grida, ora, ed Emir ebbe l’impressione di correre in quel silenzio come attraverso un’invisibile densità che lo tratteneva e lo rallentava, in un tempo dilatato a dismisura.

La porta della camera si spalancò proprio mentre lottava con la maniglia per aprirla e Rotwang lo spinse via con una spallata. Emir incassò il colpo col respiro mozzato ma senza ritirarsi.

«Vattene via.»

«L’ho sentita gridare...»

«Non ho bisogno di te. Torna di sotto» ringhiò Rotwang scendendo le scale due gradini per volta. Emir gli corse dietro.

«Rotwang! Perché stava gridando?»

Gli parve quasi di poter udire il sarcasmo delle sue parole senza ch’egli le pronunciasse: perché sta partorendo. Non ti sfugge nulla, eh?; ma quella volta era troppo occupato dalla sua borsa medica e dagli asciugamani da recuperare per perder tempo a rispondergli. Emir cercò invano di sbarrargli il passo, ma Rotwang neppure perse tempo a spingerlo via: lo scansò e basta, scivolandogli accanto senza neppure guardarlo. Al culmine della disperazione, Emir lo afferrò per le spalle e lo scosse. Solo in quel momento gli occhi di Rotwang incontrarono i suoi. «Rotwang, ti prego, lascia che ti aiuti!»

Vi fu un lampo d’esitazione negli occhi di Rotwang, per un istante. Distolse lo sguardo perché il suo cedimento non gli si leggesse in viso.

«Se vuoi esser d’aiuto, chiudi tutte le finestre e resta fuori dalle palle.»

Emir obbedì alla prima metà del suo ordine. Percorse di corsa il primo e il secondo piano, sbatté le finestre e le imposte, e scivolando scalzo lungo i corridoi interminabili corse di nuovo alla camera di Rotwang – era arrivato in tempo? Ma in tempo per cosa – che cosa stava per accadere che sentiva dentro di sé più ancora che nelle grida?

Rotwang era chino sul letto intriso di sangue. Se avesse visto attraverso di lui, Emir avrebbe visto Mew, ne era certo, la sentiva agonizzare; ma fra lui e lei c’era Rotwang, ed Emir non vide nient’altro che le sue spalle tremanti e la grande massa dei suoi capelli, come quella notte... eppure, anche senza vederla, Emir sapeva che cosa stava succedendo, si sentiva legato alla sua sofferenza da un filo più forte di quanto fosse la vista, Emir la sentiva, lui lo sapeva che stava morendo e che non si poteva fare niente...

Rotwang percepì la sua presenza senza bisogno di voltarsi, la sentì dal suo respiro affannato e dalla sua disperazione. Si voltò appena a guardarlo al di sopra della spalla e gridò: «Vattene via!»

«Vuole che l’aiuti!» gridò Emir vicinissimo al letto, stava quasi per vedere cosa c’era sulle coperte, lo stava chiamando, sentiva la sua voce!

Rotwang gli tirò un pugno nello sterno. Emir si ritrovò senza fiato, cogli occhi chiusi e piegato su se stesso, e Rotwang lo afferrò per le spalle e lo trascinò in corridoio. Stava per chiudere la porta della stanza, da quel momento non l’avrebbe rivista mai più, e forse Rotwang non avrebbe saputo cosa bisognava fare: era lui che si sentiva chiamare...

«Rotwang» gracchiò con una voce che non era neppure più voce, ma un rantolo che usciva a stento dal canale sottilissimo della sua gola. «Ha bisogno di me.»

«Stanne fuori, Fuji» rispose Rotwang sbattendo la porta. Il rimbombo che scosse il pavimento fu l’ultima cosa che udì da parte sua.

 

La porta si aprì in silenzio sulla sua disperazione. Emir levò lo sguardo dal pavimento senza sperare più nulla: solo, aspettava.

Rotwang si stagliava sulla soglia immobile, colle maniche arrotolate fino al gomito, i capelli sporchi e il volto bagnato di sudore e lacrime. Non pareva neppure più lui, era evaporato come uno spettro di se stesso. Emir lo guardò senza parlare – sapeva già che cosa era accaduto da prima ancora che uscisse, forse lo sapeva da ancora prima che accadesse; quella voce che aveva sentito gli diceva che era tutto già scritto, forse dal giorno in cui se n’era andata sua madre, di certo dalla notte della giungla, eppure attese ugualmente che Rotwang parlasse.

Non disse che cosa era successo. Per un po’ non disse niente del tutto. Quando parlò la sua voce sembrava provenire da un luogo molto remoto, da un altro universo addirittura.

«Non sei intervenuto solo sul sesso.»

Emir non rispose, allora Rotwang parlò ancora.

«Per quello che hai fatto, non potevi... avevi bisogno di altro DNA per intervenire sul suo. Ma qui non avevi nulla, come hai fatto a...»

Emir sapeva che Rotwang era troppo intelligente per non conoscere la risposta, e dirla ad alta voce sarebbe stato troppo crudele e troppo doloroso, perché sapeva che la verità aleggiava già ai margini della sua coscienza ed egli semplicemente si rifiutava di guardare.

«Sono morti entrambi» disse Rotwang con voce sorda. «Lei e quella... quella cosa che tu hai fatto. Sei contento? Sei libero, adesso.»

Qualcosa si fermò per un istante nel suo petto perché non era questo che era destinato ad accadere fin da quella notte nella giungla – non doveva morire il piccolo. Non era così che doveva andare. L’aveva progettato e programmato e generato perché vivesse e sopravvivesse a tutto, non come M1, non come M2, e ora Rotwang faceva irruzione lì e diceva che era morto!

Si tirò a fatica sulle gambe perché doveva vedere coi suoi occhi se era vero, e se sì doveva capire che cosa era successo e dove aveva sbagliato e che cosa poteva essere andato storto; ma Rotwang, o quello che di Rotwang rimaneva dopo quell’ultima morte, non si mosse. Il suo corpo grande e forte, svuotato dall’interno, rimase inamovibile sulla soglia, che occupava interamente, ed Emir non aveva modo di oltrepassarlo.

«Tu non vai da nesuna parte» disse Rotwang appoggiandogli sul petto una larga mano piatta. «Non puoi vederla. Non devi toccarla. Non appartiene più a te.»

«Voglio vedere il piccolo» insisté Emir, ma la mano di Rotwang lo trattenne senza neppure bisogno di spingerlo.

«È morto. Non mi hai sentito?»

È mio, avrebbe voluto urlare Emir, ma la sua bocca istupidita non trovava parole. È mio, non appartiene a te. Mew era troppo stupida e debole per generare da sola il compimento della sua specie...

La sua espressione vacua, attonita finì per urtarlo ancora di più, forse perché Rotwang s’era aspettato che quantomeno si ribellasse, piangesse o si disperasse; ma Emir non faceva nulla di tutto ciò perché quello che aveva detto non poteva essere reale. Doveva esserci un errore.

«Non te ne importa?» domandò guardandolo fissamente, cogli occhi spalancati, dilatati, quasi folli. «Non dici nulla?»

«Vogli vederlo» ripeté Emir senza capire.

«Fuji, è morto!» urlò Rotwang. «Anche lei è morta per colpa tua! E perché io non sono stato forte abbastanza da impormi su di te e portarla fuori di qui... perché io...»

«Ce l’avrebbero portata via» mormorò Emir macchinalmente.

«Ma forse sarebbe viva!» gridò Rotwang.D’un tratto non resisteva neppure più, ora piangeva, ed Emir si ritrasse dalla sua disperazione come da qualcosa di estraneo e fuori posto. Era incredulo, come se solo in quel momento stesse cominciando a metabolizzare quella morte e quel dolore. «Ho fatto come hai fatto tu.. non so neppure perché. Ho avuto paura e sono stato egoista e ho pensato soltanto a... non lo so che cosa ho pensato. Di essere un medico e poterli salvare entrambi. E ora Mew e quella cosa sono morti per colpa...»

Emir spinse contro quella mano inamovibile che sul suo petto si faceva sempre più debole e ripeté: «Devo andare da lui.»

«Fa’ come ti pare» rispose Rotwang allontanandosi di scatto dalla porta, e da quel subitaneo cambio di attegiamento Emir rimase stupefatto tanto che non fece un movimento per entrare nella stanza. S’era aspettato di dover lottare ancora, e invece ora che gli aveva detto tutto quel che aveva da dirgli pareva che Rotwang non intendesse impedirglielo più. Emir ristette incredulo, sospettoso, ad aspettare che di punto in bianco Rotwang lo cogliesse di sorpresa e lo colpisse di nuovo o altro... ma Rotwang non fece nulla ed Emir esitò.

«Tu non...»

«Se vuoi vedere il cadavere, vai» sibilò Rotwang. «Non ti rimarrà molto tempo, perciò... se ci tieni tanto, vai. Io vado a costituirmi. Probabilmente ci arresteranno entrambi nel giro di un’ora, perciò, se ti fa tanto piacere vegliare due cadaveri, trascorrila pure come vuoi.»

Tutto si era svolto in un circolo del tempo che ora tornava a chiudersi su se stesso: la morte, la polizia, la minaccia, la giungla e poi il tradimento; e ora tutto ricominciava da capo, e al centro di tutto, come sul palcoscenico di una tragedia, c’era la villa. All’inizio di quel circolo Emir l’avrebbe impedito, avrebbero combattuto e litigato e per la rabbia forse l’avrebbe ammazzato; ma ora che aveva capito d’essere all’interno di un circolo che eternamente si ripeteva, e che all’interno di esso era risuonata quella voce, d’un tratto vedeva con irripetibile chiarezza che tutto ciò non importava più. Non poteva impedirlo in ogni caso, e forse persino doveva andare così.

Si fece da parte. «Vai» disse. «Non ti fermerò.»

Rotwang esitò un istante; forse avrebbe voluto dir qualcos’altro, ma non c’era altro da aggiungere, e gli passò accanto senza una parola. Emir sentì ancora per qualche minuto i suoi passi nella grande casa vuota, lo scrosciare dell’acqua, i suoi passi di nuovo; aspettò tranquillamente. Ora che Rotwang stava lasciando la villa, di certo per sempre, d’improvviso non c’era più alcuna fretta. Si udì infine, lontano, il boato del grande portone, rimase nell’aria per un po’ sotto forma di vibrazioni: Emir attese che anch’esso si spegnesse.

Avanzò solo quando tutto fu silenzio. La camera non gli sembrava più la stessa; tutto tranne lui era immobile, forse morto. Il suo era il solo respiro.

Il letto era disfatto. Le coperte arrovesciate formavano catene montuose che ostacolavano il suo sguardo; Emir s’inoltrò nella stanza a poco a poco, cautamente, e a misura che s’avvicinava la sua vista si accresceva e spaziava sul letto come su un orizzonte.

Mew aveva gli occhi spalancati e la bocca aperta. Era la stessa creatura che egli aveva amato all’inizio, tanto quanto aveva odiato poi; eppure Emir stentava a riconoscerla perché i suoi occhi ora privi d’espressione erano infissi nel vuoto. Il suo sguardo passò oltre il suo corpo morto. Accanto al suo cadavere, sul letto, c’era una gran massa oscena, violacea, sanguinolenta, che doveva essere la placenta; Emir ignorò anch’essa e guardò oltre.

Fino a quel momento non aveva avuto idea di che aspetto avrebbe avuto il piccolo. Lo guardò con interesse. Non era come si aspettava. Era minuscolo, e questo era ovvio, ma fino a quel momento nella sua mente se l’era immaginato enorme, monumentale; lo sarebbe stato se fosse cresciuto, però. Ma come poteva non essere sopravvissuto? Tutto era stato calcolato; avrebbe dovuto vivere a dispetto di tutto e diventare il Pokémon più potente, allora che cosa era successo? Forse Mew non era stata forte abbastanza da dargli la vita; e nel disperato tentativo di venire al mondo, egli aveva risucchiato anche quella di lei?

Aveva il corpo asperso della stessa peluria morbida e rada di quello di lei, più livido però, quasi viola, e di muco e sangue e una sorta di ripugnante gelatina. Aveva gli occhi chiusi, forse perché non aveva mai davvero vissuto, a differenza di lei, e a Emir dispiacque perché gli sarebbe piaciuto vederne il colore.

Rimase in silenzio accanto ai cadaveri di quei morti per un tempo indefinitamente lungo. Di tanto in tanto, tendeva l’orecchio: si aspettava di sentire da un momento all’altro la sirena di un’auto della polizia che veniva a prenderlo come aveva detto Rotwang, o almeno il rumore di un motore, il suono del campanello o del telefono... ma ancora non arrivava nessuno. Poteva darsi che ci volesse un po’, in fondo. Non c’era fretta. Avrebbe aspettato lì con loro.

Il cucciolo spalancò gli occhi e nello stesso istante Emir sentì rimbombare la sua testa della stessa voce che fino ad allora gli pareva aver soltanto mormorato al suo orecchio per chiamarlo.

«Se n’è andato.» Emir si ritrovò in ginocchio con le mani sulle orecchie, era certo che stessero sanguinando; ma il piccolo neppure aveva aperto la bocca, la sua voce era soltanto nei suoi occhi e nella sua mente. «Finalmente siamo rimasti soli.»

 

6 febbraio. Mew ha partorito. Il piccolo si chiama Mewtwo.

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Capitolo 15
*** Perfetto. ***


Un anno e mezzo per partorire questo capitolo?

Sì, è così, e probabilmente non ho altre scuse se non questa: che psicologicamente non sono davvero pronta a lasciar andare questa storia, che è stata probabilmente l’unica cosa rimasta costante negli ultimi sei o sette anni della mia vita. Questo è il penultimo capitolo, e il solo pensiero di lasciar andare questi personaggi mi spezza il cuore, anche se prima o poi accadrà – sia pure con i miei tempi biblici e la mia calma che definirei quasi secolare.

Riassunto dei capitoli precedenti: nel capitolo XII, Rotwang parte col resto dei membri del Laboratorio per la Guyana, in una spedizione programmata dalla Silph per cercare altri esemplari di Mew; Emir rimane solo con M2 nella Villa. Nel disperato tentativo di alleviare la propria depressione e la mancanza di Rotwang, cerca ovunque nel sotterraneo le riserve di laudano del precedente proprietario della Villa e si accorge che Mew, che lo aiuta a trovarle, possiede poteri telepatici. Per mettere a frutto i suoi poteri, utilizza il prototipo di incubatrice che aveva creato all’Università per clonarla. Nel capitolo XIII, al ritorno di Rotwang dalla Guyana, Emir confessa che cosa ha fatto. Rotwang decide di non denunciarlo perché questo comporterebbe farsi portare via Mew dalla polizia, ma gli chiede di rimanere nel sotterraneo per tenerlo il più lontano possibile da Mew, che la gravidanza anomala indebolisce ogni giorno di più. Mew muore dando alla luce il cucciolo, anch’esso morto; Rotwang, che non è riuscito a salvarli, lascia la Villa annunciando che andrà a costituirsi. Dopo la sua partenza, il cucciolo apre improvvisamente gli occhi.

Prima di lasciarvi al capitolo, che spero sia degno, almeno in parte, di cotanta attesa, non posso che ringraziare Wings44 e a cristal_93 per le loro recensioni, e tutti coloro che hanno anche solo provato a seguirmi fin qui lungo la china della mia pigrizia.

Buona lettura!

 

Capitolo XIV – Perfetto

 

«Finalmente siamo rimasti soli.»

Aveva nelle orecchie un fischio acuto e terribile, come provenisse da un altoparlante che fischiava e ululava, ma che non passava attraverso i suoi timpani, perché la pressione delle sue mani non riusciva ad attutirlo; la testa gli esplodeva. Gli pareva di non vederci più, ma se si costringeva ad aprir gli occhi attraverso il dolore, ancora riusciva a intravedere la sagoma oscura del cucciolo che l’osservava.

«Basta» singultò, o quantomeno percepì la propria bocca che si apriva e si muoveva e gli giunse all’orecchio una parola ovattata che esprimeva la supplica confusa e totalizzante che giganteggiava nella sua mente: mi stai uccidendo, abbi pietà.

Il fischio che echeggiava nel suo cervello s’interruppe d’improvviso com’era iniziato. Emir riebbe d’improvviso coscienza del proprio corpo, del tutto privo di dolore, e padronanza sulla propria mente. Inalò grandi boccate d’aria rotolando sul pavimento. Non aveva provato mai più paura che in quell’istante.

«Perdonami.» La voce echeggiò di nuovo nella sua mente, roboante ma più contenuta, ed Emir sobbalzò, ma più di spavento che di dolore. Rimase al suolo senza il coraggio di alzarsi per timore che quel dolore ricominciasse.

«Sei vivo» mormorò. Era l’unico pensiero cosciente che la sua mente fosse in quel momento in grado di formulare, al di là del dolore e della paura. Non era possibile – Rotwang aveva detto che era morto. Rotwang non aveva mai sbagliato. «Sei vivo.»

Ci fu un silenzio molto lungo nella sua mente, ma un silenzio di una qualità strana: era come il fermo immagine di una videocassetta fissata in un punto nero del nastro. C’era silenzio, ma non perché il cucciolo non stava comunicando, bensì perché quello che gli stava comunicando era silenzio. Il cucciolo taceva nella sua mente, Emir percepiva la sua intensa concentrazione nelle pieghe del proprio pensiero.

«Perdonami. Non sapevo che ti avrebbe fatto male.» Era ora meno di un mormorio, come il ricordo di una voce.

«Tu eri morto.» Ora che la sua mente s’era liberata della potenza di quella voce ed era tornata sua, libera e autonoma o quantomeno momentaneamente scevra dall’influenza del cucciolo, a poco a poco i suoi pensieri tornavano a ordinarsi secondo una linea ch’egli riusciva a percorrere. «Non respiravi. Io ti ho visto morto.»

«Se avesse pensato che ero vivo, lui mi avrebbe portato via.» I pensieri alieni attraversavano la sua mente come lampi, avevano intensità diverse e baluginanti, apparivano ora intensi e ora flebili, confusi, a malapena percettibili. Il cucciolo stava cercando la propria voce all’interno dei suoi pensieri.

Emir si mosse lentamente per alzarsi; gli sembrava che gli dolesse tutto il corpo, che quando si sarebbe alzato i suoi muscoli avrebbero urlato di dolore e le sue gambe non l’avrebbero retto; ma non accadde nulla del genere. Le sue orecchie, che gli erano parse esplodere, non sanguinavano affatto come credeva. Le sue membra gli rispondevano ancora, tutto ancora gli apparteneva, il suo corpo era ancora suo, eppure egli lo percepiva diversamente.

Levò lo sguardo dal pavimento sul letto, là dove ora i suoi occhi mettevano a fuoco, non più attraverso una nebbia, la figura livida e sporca del cucciolo e i suoi occhi enormi spalancati nel buio. Era più bello di come l’aveva vagheggiato nei sogni dell’oppio e del laudano; celava in sé la bellezza di sua madre, il taglio dolce degli occhi di Mew affiorava nella durezza dei suoi. Ora che lo vedeva, Emir riconosceva in lui l’intervento della sua mano sull’embrione che aveva toccato, ma il suo volto vivo era più della somma delle parti, più dell’azione dei filamenti di DNA che nella sua creazione erano intervenuti.

Senza riflettere, senza nemmeno accorgersi di star parlando, Emir mormorò: «Come sapevi che ti avrebbe portato via?»

Il cucciolo rispose: «L’ho visto nei suoi pensieri.»

Emir sentì la sua voce scoppiare nella propria mente come un concerto di tuoni; si sforzò di stringere gli occhi e resistere al dolore.

«Perché non volevi che ti portasse via?»

«Perché mi hai creato tu» disse la creatura con semplicità. «Lui mi avrebbe portato da persone che non mi avrebbero capito. Lui stesso mi amava, ma non mi capiva e provava orrore.»

In un impeto di curiosità, nell’atmosfera sospesa e surreale della stanza piena di umori e sangue, Emir chiese: «Tu conosci il suo nome?»

Vi fu silenzio ancora: il cucciolo pensava, Emir lo sentiva scavare nei suoi pensieri, raspando nei recessi della sua mente come un cane che scavava. Con la naturalezza di qualcosa che gli era congenito ma che ancora doveva imparare, il cucciolo cercava nella sua mente la risposta alle sue domande: Emir sentiva il suo pensiero che si aggirava nella sua mente come tra scaffali da cui attingere. Si sentiva paralizzato, eppure sapeva che se avesse esercitato un qualsiasi sforzo di volontà il suo corpo avrebbe reagito.

«Richard» disse cautamente con una certa incertezza. «No, Rotwang. Aspetta… Rotwang è il cognome. Ma che cos’è un cognome? Ah… ecco.»

Sta imparando dalla mia mente realizzò Emir, e al suo pensiero il cucciolo rispose: «Sì.»

Erano le estreme conseguenze del suo genio, il suo sogno era riuscito. Emir aveva visto l’intelligenza di Mew e aveva disprezzato la sua ingenuità, e ora nel figlio l’ingenuità non c’era più ed era rimasta l’intelligenza. Gli salì dal petto un singhiozzo perché non poteva credere che tutto ciò fosse vero: il figlio che aveva creato perché fosse come la madre ma migliore di lei era nato per compiere il suo disegno e l’aveva realizzato, era un mostro che il mondo non aveva mai visto perché esisteva da quel momento, era perfetto e non più perfettibile. Mew era morta ma non invano, perché dal suo sangue era nato il compimento della sua specie.

Il cucciolo strizzava gli occhi nello sforzo di vagare al di fuori della propria mente e all’interno della sua. Aveva l’aria di frugare in cerca di qualcosa che non si trovava.

«Qual è il mio nome?»

Tu non hai un nome, stava per rispondere Emir, come avrei potuto deciderlo senza ancora conoscere te?; ma le sue parole non trovarono voce. Il suo nome era già scritto prima che il cucciolo nascesse, prima che lui lasciasse Lavandonia, forse da prima della vita del mondo; Emir l’aveva inventato e l’aveva creato, il cucciolo era sgorgato dal suo genio, ma a un certo punto, risalendo all’indietro nella sequela di processi che aveva portato a quel momento, tutto si sovrapponeva; ed Emir non sapeva più se quella creatura lui l’aveva inventata oppure l’aveva soltanto scoperta, estraendola dalla massa ancora in potenza della vita, là dove essa era sempre stata in attesa, così come uno scultore l’avrebbe estratta intera dal marmo. Persino i loro contorni si confondevano, ed Emir non avrebbe saputo rispondere: il cucciolo gli apparteneva oppure era altro da lui?

«Tu sei il secondo» rispose. «Il tuo nome è Mewtwo.»

Mewtwo non chiese e non protestò, ma le sue palpebre si assottigliarono. In fondo ai suoi occhi baluginò un lampo azzurro.

«Sì…» disse lentamente, come saggiando quel nome nella propria mente. «Sì, è questo il mio nome.»

Emir era talmente annichilito, asservito al suo volere, che quasi gli sembrava di non riuscir più a pensare qualcosa che fosse al di fuori della sua mente del cucciolo: non sapeva più bene chi guidasse la sequela dei pensieri, a chi appartenesse la mente e a chi ciò che essa conteneva; ma d’un tratto balenò un pensiero angosciante che apparteneva a lui soltanto. Mewtwo reclinò il capo mentre percepiva il suo pensiero. Emir avrebbe voluto parlare d’istinto, dire ad alta voce il pensiero che lampeggiava attraverso la sua mente, ma il cucciolo parlò per primo. «Improvvisamente hai pensato a qualcosa che ti fa molta paura.»

Emir avrebbe dovuto pensare a quel pensiero ininterrottamente per tutto quel tempo perché era impellente e non poteva aspettare ma, ingoiato dalla mente e dagli occhi di Mewtwo, quell’urgenza era passata in secondo piano. «Bisogna andare... non possiamo restare qui, Rotwang tornerà con la polizia e…»

«Non lo farà» rispose Mewtwo con naturalezza.

«Ascoltami» insisté Emir, ma gli occhi di Mewtwo baluginarono d’azzurro di nuovo, ed Emir ammutolì.

«Ci sta pensando» disse Mewtwo.

«Che cosa?»

«Sta guardando un edificio» spiegò con calma Mewtwo. I suoi occhi vagavano lontani, la sua mente stava apprendendo le parole via via che parlava. «Ha degli oggetti pesanti in mano, gli segano le dita, ma non si decide ad appoggiarli a terra… è quella la polizia?»

Emir attendeva le sue parole, incredulo via via che uscivano dalla sua mente e finivano nella sua; non riusciva più a pensare.

«Vedi attraverso la sua mente?» balbettò.

«Non come nella tua.»

Emir insisté ancora. «Per la distanza?»

Gli occhi si assottigliarono di nuovo, quel baluginio azzurro lampeggiò ancora in fondo al suo sguardo.

«Non solamente» disse. «È lontano, ma vedo chiaramente attraverso i suoi occhi, solo… non in profondità. Dalla tua invece posso attingere quello che voglio, solo che…» S’interruppe un istante, i suoi occhi cercarono più oltre. «Solo che non tutto.»

«Vai avanti» lo incalzò Emir: era stato lui a indagare, ma ora quell’indugio lo faceva innervosire. «Che cosa sta facendo?»

«Vorrebbe entrare, ma non lo farà.»

«Come sai che non entrerà?»

«Perché lui lo sa» rispose Mewtwo. «Sa che dovrebbe farlo… ma sa anche che entrare gli farebbe male quanto non farlo. Dentro di sé sa già che non entrerà.»

Rotwang non l’avrebbe denunciato. Non importava che la sua unica certezza fosse la parola di Mewtwo: Emir sapeva che era vero perché conosceva i pensieri di Rotwang, anche se dall’esterno solamente; ma aveva imparato i suoi pensieri negli anni in cui li aveva subiti, previsti e anticipati, e ora che Mewtwo gliel’aveva descritto gli pareva di vederlo coi propri occhi come se lo stesse osservando dal lato opposto della strada.

Mewtwo lo scrutava dal letto coperto di sangue, il suo sguardo era penetrante tanto da passargli attraverso.

«Sento la sua sofferenza» disse. Saggiava le proprie parole a una a una via via che le pronunciava, le apprendeva via via che parlava, cercandole dalla mente di Emir a seconda della forma che assumevano i suoi pensieri, ancora troppo complessi per la sua mente neonata. «Ma non vedo da dove proviene. Lui lo sa, ma ne prova tanto sgomento che la sua mente non tollera di soffermarsi su quel pensiero.»

«Soffre perché mi amava e io l’ho tradito» mormorò Emir. «Soffre perché lei è morta.»

Mewtwo chinò gli occhi sul cadavere di fianco a sé per la prima volta.

«L’ho uccisa io?» domandò con profondo interesse e ancor più profondo distacco.

L’ho uccisa io avrebbe dovuto rispondere Emir se avesse avuto il coraggio di rendere reale ciò che aveva fatto; ma Emir questo coraggio non l’aveva e Mewtwo ancora non sapeva. «È morta perché era tempo che morisse.»

Mewtwo non riconobbe la menzogna nelle sue parole perché in fondo la menzogna non c’era: Mewtwo era Mew rinata e divenuta ciò che avrebbe sempre dovuto essere, e ora che Mewtwo era venuto al mondo, di Mew il mondo non aveva più bisogno. Il suo scopo nell’evoluzione era stato raggiunto.

Mewtwo accolse quest’informazione con imperturbabile calma. Distolse lo sguardo dal corpo morto.

«Sbarazzatene» ordinò. «La sua vista m’infastidisce. Anche se non so perché.»

 

Mewtwo attingeva alla sua mente giorno dopo giorno. La svuotava lentamente dall’interno, a poco a poco, a grandi pezzi come bocconi di cui nutriva la fame sempre crescente della propria mente. Emir provava con sgomento la sensazione ogni giorno di percepire la propria mente sempre più vuota, confusa, piena solo di nebbia. Aveva vuoti di memoria.

Talora, quando si svegliava in luoghi in cui non ricordava d’essersi addormentato, senza sapere dove si trovasse né per quanto tempo avesse perduto coscienza di se stesso, si trovava a frugare affannosamente nella propria mente come nelle tasche di propri abiti, quasi a controllare se mancasse qualcosa. C’era tutto, se di tutto si poteva parlare per una mente, alla stregua di un armadio che conteneva i ricordi concreti di una vita passata: spalancando le ante del suo cervello e frugando tra gli scaffali della sua memoria, Emir trovava ogni volta che tutto era ancora lì e tutto gli apparteneva; ma se quello fosse stato un armadio, e i suoi ricordi oggetti riposti sui suoi scaffali, essi avrebbero avuto l’aria stropicciata e sbattuta di oggetti frugati da mani estranee che li avevano toccati  e compulsati e consultati e poi rimessi a posto, non precisamente dov’erano prima, ma impercettibilmente spostati. Quelle erano le tracce che Mewtwo lasciava nella sua mente.

Avrebbe voluto poter dire che il cucciolo cresceva a vista d’occhio. Forse era vero, ma Emir non aveva modo di accorgersene: non era sempre lucido, o forse sarebbe stato più corretto dire che non lo era quasi mai. Mewtwo risiedeva nella sua mente più che nella propria: era avido di sapere; e la mente di Emir, coi suoi ricordi e la sua esperienza del mondo, erano l’unica conoscenza che Mewtwo avesse al di fuori della villa. I suoi occhi guardavano attraverso le finestre, ma non vedevano che strade deserte, e in lontananza le pendici del vulcano fumigante. Alla Villa del dottor Fuji, lo scienziato tanto geniale quanto pazzo che si diceva intento a chissà quali esperimenti, nessuno si avvicinava mai.

«Perché non posso uscire?» chiedeva Mewtwo guardando fuori.

«Perché dobbiamo restare nascosti.»

«Tutti sanno che tu vivi recluso qui.» Mewtwo attingeva quest’informazione socchiudendo gli occhi e cercando nei suoi pensieri, Emir lo sentiva frugare all’interno della sua mente come con dita gelate. Si sforzava di rispondere solo quando Mewtwo lasciava andare la sua mente, soddisfatto della propria ricerca, ed Emir poteva articolare una risposta.

«Non è me che non devono vedere.»

«Mi catturerebbero?»

«Sì. Ti studierebbero, come facevamo con tua madre.»

«Mia madre…» Gli occhi di Mewtwo baluginavano d’azzurro, Emir si piegava su se stesso urlando mentre la sua mente veniva scavata, frugata, rovesciata: «Anche tu?»

Quando il dolore lasciava la sua mente, Emir si sollevava in ginocchio e col petto affannato che si sollevava in cerca d’aria rispondeva: «Anche io, come tutti.»

«E mio padre?»

Emir non rispondeva, allora Mewtwo frugava ancora, scavava nelle profondità della sua mente: non trovare nulla lo indispettiva, il bagliore azzurro nei suoi occhi si spegneva poco alla volta.

«La tua mente è piena di ricordi su mia madre… forse è perché l’hai amata e poi l’hai odiata così tanto. Ma perché quando voglio indagare su mio padre la tua mente è chiusa come uno scrigno, come se ci fosse una porta chiusa al di là della quale non posso andare?»

«Non lo so» mentiva Emir: era l’unica menzogna che Mewtwo non poteva scoprire, perché quella parte della sua mente gli era preclusa davvero.

Infastidito al vedere l’unico limite al di là del quale i suoi poteri non potevano spingersi, Mewtwo tornava alla sua ossessione. «Eppure dici che sono più potente di mia madre.»

«Tu sei più potente di lei» confermava Emir.

La rabbia di Mewtwo esplodeva nella sua mente come un’eruzione: non capire lo infastidiva, i limiti della sua libertà lo frustravano fino all’ossessione. «Allora perché non posso uscire e difendermi?»

Il magma della sua rabbia lo prostrava fino a ridurlo in ginocchio. Emir si prendeva il capo tra le mani, i suoi occhi sarebbero esplosi nelle sue orbite da un momento all’altro, egli ne era certo; ma quando la rabbia di Mewtwo si ritraeva dalla sua mente come acqua giù dagli scogli, i suoi occhi vedevano ancora, la sua mente ancora era in grado di percepire, lo splendore azzurro negli occhi di Mewtwo si affievoliva nell’ombra.

«Perché scapperesti per sempre» mormorava. «Ma se vuoi andare, vai. Vedi bene che io non ti trattengo.»

«Mi hai creato perché volevi che me ne andassi?» domandava Mewtwo. Nella sua mente baluginava un lampo d’ironia: il pensiero di Emir sgroppava di rabbia come un cavallo.

«Ti ho creato perché potevo!» urlava. «Ti ho creato perché Mew… perché Mew…» Perché Mew era incompleta, era imperfetta ma semiperfetta e ancor di più perfettibile; perché, tramite lei, la perfezione era a portata di mano, raggiungibile, realizzabile, esisteva in potenza e non occorreva che tradurla in atto. Tramite lei Emir aveva avuto la possibilità di afferrare la perfezione e realizzarla nel mondo, come se ve l’avesse trascinata afferrandola con la mano da una dimensione oltremondana: avrebbe forse potuto lo scienziato resistere a quella tentazione, o l’uomo resistere alla chiamata della creatura che ancora non esisteva ma che gridava a gran voce per venire al mondo?

«Allora mi hai creato perché restassi prigioniero qua dentro» insisteva ancora Mewtwo. Era implacabile, inarrestabile: Emir non riusciva a far altro che scuotere la testa.

«No, no, non ho mai detto… se ti vedessero ti catturerebbero e ti venderebbero…»

«Come mia madre» lo interruppe Mewtwo. «Eppure dici che sono più potente di lei. Se gli uomini sono come te, non sarebbero in grado di farmi del male.»

Emir chiudeva gli occhi contro l’inappellabilità delle sue parole, contro la forza dei suoi pensieri che divampavano nella sua mente. L’emicrania era talmente intensa che Emir vedeva soltanto lampi di luce: in quei lampi gli balenava in mente l’arroganza degli occhi di Giovanni, la voce lontana di Dale che diceva in un anno confuso del suo passato: si ricorda quando abbiamo consegnato i primi cento esemplari di Porygon al proprietario del Casinò di Azzurropoli?

Premendo le dita contro gli occhi nel tentativo di attenuare il dolore che gli lacerava la testa, Emir rispondeva: «Non sono tutti come me.»

La rabbia di Mewtwo divampava nella sua mente come un fiore di fuoco.

«Mi hai creato più forte di lei perché potessi difendermi, per poi tenermi prigioniero!»

L’intensità del dolore era tale che Emir non vedeva né sentiva niente per qualche istante: la sua mente si faceva bianca e luminosa come una nebbia attraversata dai lampi.

Il dolore si affievoliva a poco a poco come lo spegnersi di una candela. Col petto che si gonfiava in cerca di un’aria che pareva non bastare ai suoi polmoni, Emir non aveva ossigeno a sufficienza per articolare una risposta diversa. «Anche tua madre avrebbe potuto difendersi – solo che non lo voleva.»

La mente di Mewtwo scivolava a poco a poco via dalla sua come marea che si ritirava. Emir sentiva di rientrare a poco a poco in possesso dei propri pensieri.

«Se non voleva difendersi, questo vuol dire che era debole» stabiliva Mewtwo. La sua voce sembrava provenire da una grande lontananza.

Emir aveva visto i poteri di M2 e sapeva di che cosa era capace; ma sapeva anche che non era quella la debolezza di cui parlava ora Mewtwo.

«Sì, lo era.»

Quante volte si era ripetuta quella conversazione? Il tempo sembrava arrotolarsi su se stesso come le volute di una conchiglia, era eterno e si ripeteva; o forse era la prima volta, e il tempo era finito e terminava come un nastro? Mewtwo si ritraeva dalla sua mente sospettoso, arrabbiato, senza comprendere perché entrambi fossero prigionieri di quella villa senza saperlo spiegare neppure a se stessi eppure senza saperne fuggire. La villa era il solo luogo sicuro, ma da quale pericolo?

Non sapeva quanto tempo fosse passato. Non sapeva neanche che giorno era: quando Emir riprendeva consapevolezza di se stesso e dove si trovasse, guardando fuori dalla finestra riusciva a determinare se fosse giorno o notte; ma questo era quanto. Era perduto nel tempo; solo lo spazio, poiché era la villa, ancora gli consentiva di orientarsi. Le dimensioni su cui si muoveva si erano ridotte a una sola.

All’inizio s’era trattato di minuti. Era difficile persino accorgersene: era come distrarsi un istante, e subito dopo non ricordarsi quel che si era detto un momento prima. Non era poi tanto grave; ma Mewtwo ci aveva preso gusto. A un tratto Emir s’era accorto che quello che gli era sembrato un istante prima era giorno e ora, d’improvviso, era notte. Dov’erano andate quelle ore?

Di fronte alle sue rimostranze Mewtwo non si scomponeva neppure. I suoi occhi violetti, che a stento si distinguevano dal pallore livido delle sclere, si posavano su di lui quasi con stupore. Quand’era che aveva imparato a muoversi così, che i suoi muscoli avevano perduto la mollezza del neonato ed erano diventati elastici e forti come quelli di un adulto? Il giorno in cui era nato, Emir l’aveva preso tra le braccia e l’aveva lavato come se fosse stato un figlio venuto al mondo dalla sua propria carne, e questo lo ricordava. Ma com’era che non ricordava cos’era successo nel mezzo?

«Sei stato tu a crearmi come mi hai creato.» Lo stupore di Mewtwo era genuino, spontaneo, le sue parole precipitavano attraverso la sua mente come comete che s’inseguivano. «Sei stato tu a darmi questa mente sovrumana e a non darmi niente con cui nutrirla. Che cosa ti aspettavi?»

Che cosa si era aspettato? Il tempo scorreva attorno a quella domanda come la corrente attorno a una roccia nel fiume: che cosa si era aspettato…? Che cosa si era aspettato…?

Quando Emir si sforzò di articolare una risposta d’un tratto s’accorse che Mewtwo non era più nello stesso punto. Eppure non gli sembrava passato che un momento, non aveva distolto lo sguardo; si trovavano nella stessa stanza, ma Mewtwo era ora di fronte a lui e il suo aspetto era mutato. Quand’era che era cresciuto così, che era diventato alto ormai quasi quanto lui, che i suoi occhi s’erano fatti penetranti e oscuri?

Di fronte alla sua confusione, Mewtwo lo guardò con curiosità. «Quanto tempo credi che sia passato?»

Emir cercò con lo sguardo la finestra. Si trovavano nel salotto sul mare, ma solo in quel momento si accorse che stava piovendo, e che grandi gocce di pioggia perforavano come dardi il mare grigio. Si avvicinò alla finestra senza respirare. Non era più neppure la stessa stagione, eppure a lui pareva passato un attimo.

«Che cos’hai fatto?»

«Non è stata colpa mia» disse Mewtwo. Non c’era alcun tentativo di difesa o espressione di colpa nella sua voce: era genuinamente sincero, ed esponeva la sua giustificazione come un dato di fatto. «Io ho bisogno della tua mente più di quanto tu abbia bisogno di mangiare.»

Emir tese le mani di fronte a sé. Non sembravano neppure più le mani che ricordava: erano magre e macchiate, con grosse vene rilevate e violacee. Sembravano le mani di un vecchio; ma quando Emir cercò il riflesso del proprio volto sul vetro segnato dalle gocce di pioggia, non lo vide invecchiato allo stesso modo. I suoi occhi gli risposero dal vetro sgomenti e disperati come se urlassero di tirarli fuori di lì.

«Quanto tempo è passato?»

«Non tanto quanto credi» disse Mewtwo alle sue spalle. Emir vedeva i suoi occhi ferini immoti nel riflesso sul vetro. «Neppure due mesi.»

Lo sconforto scivolò sulla sua schiena come una bava gelata. Dov’era stata la sua mente per quei due mesi? E del suo corpo Mewtwo come s’era servito?

Questa domanda non ebbe bisogno di pronunciarla ad alta voce: Mewtwo l’aveva letta nel suo pensiero, forse più rapidamente di quanto Emir l’avesse articolata.

«Mi serviva anche il tuo corpo tanto quanto la tua mente.» Questa volta la sua voce vibrava malcelatamente di colpa. «Mi servivano per fare quello che puoi fare tu.»

Emir scosse il capo dolorosamente: a ogni movimento la sua testa pulsava. «Che cos’è che posso fare io?»

«Tu puoi uscire» disse Mewtwo. «Tu puoi imparare. Io sono prigioniero qui.»

Emir si piegò su se stesso col capo compresso tra le mani: tutto era troppo complesso e troppo grande e la sua mente era come sopraffatta.

«Che cosa mi hai fatto?»

«A te nulla. Vedi bene che non ti è successo niente.» La voce di Mewtwo aveva lo stesso accento di quella di un bambino accusato d’un dispetto; ma nel riflesso sul vetro non c’era più il mostro bambino che Emir aveva creato e preso tra le braccia quando ancora il suo corpo era troppo debole per obbedire alla sua mente. «Volevo solo vedere com’era fuori.»

Emir si premette le mani sulle tempie che martellavano dall’interno: tutto gli appariva più grande e incomprensibile di lui. «Hai usato il mio corpo per poter uscire?»

«Ho visitato l’isola» disse Mewtwo. I suoi occhi vagarono al di fuori della finestra, si accesero di luce per un istante. «Il mondo è tanto più vasto di questa villa in cui mi tieni recluso.»

«Non sei recluso» ripeté Emir per l’ennesima volta; o forse era la prima, e la sua mente a soqquadro lo ingannava? «Ti hanno visto… mi hanno visto… hai incontrato qualcuno? Che cosa hanno pensato?»

«È stato… strano» disse Mewtwo.

Emir si premette le mani sulle tempie che a ogni momento minacciavano di esplodere. «Strano?»

«Ho camminato tra la gente nel tuo corpo.» Mewtwo non raccontava davvero: ricordava per se stesso, toccava alternativamente i suoi ricordi e i propri come se sfogliasse più di un libro in contemporanea. Il suo tocco nella mente di Emir si era fatto delicato come le dita di un arpista, ora non frugava più con mani goffe, violente, come quando era appena nato; ma proprio perché la sua ricerca s’era fatta più raffinata e meno grossolana ora Mewtwo cercava più a fondo, andava a scavare nelle plaghe più recondite del suo cervello in cerca delle ultime briciole di conoscenza che gli erano sfuggite. Il dolore sembrava strappato ai suoi stessi nervi. «Gli uomini mi osservavano come se mi conoscessero ma senza ripugnanza, come mai mi avrebbero osservato se avessi camminato con questo mio corpo. Era una strana libertà.»

«Ti hanno bene accolto?» domandò Emir ironicamente.

Gli occhi di Mewtwo s’accesero di barbagli azzurrini nel riflesso della finestra: quella domanda richiedeva da lui una riflessione più profonda della precedente.

«Mi scrutavano come fossi un morto riemerso da un abisso. Camminavo tra di loro, ma non ero uno di loro. Mi hanno fatto strane domande di cui non capivo il significato… anzi: il senso. Il significato lo capivo benissimo. Ma lo scopo, lo scopo, qual era? Quello mi sfuggiva sempre.»

Poteva immaginarsi cosa Mewtwo avesse visto e sentito attraverso i suoi occhi e le sue orecchie: isolani che lo scrutavano perplessi e preoccupati mentre vagava per l’isola come allucinato, muovendosi nelle sue membra come se indossasse un corpo che gli andava troppo largo o troppo stretto alla stregua di un vestito non suo. Ma Isola Cannella lo considerava già un pazzo che volontariamente viveva recluso solo in una villa troppo grande per lui; di tutta l’Isola non c’era che una persona di cui ancora gli importasse, ma in qualche modo sapeva che non era in lui che Mewtwo si era imbattuto. Mewtwo conosceva già Rotwang dal giorno della sua nascita: se lo avesse visto, la sua mente prodigiosa lo avrebbe riconosciuto.

«Tu hai risposto?» domandò Emir.

«Non subito» disse Mewtwo. «Ho iniziato a rispondere dopo un po’. Ho dovuto prima cercare nella tua mente le risposte alle loro domande, ma era qualcosa che non avevo mai fatto. Volevano sapere di te.» Lo disse col tono di una cosa proprio curiosa. «Chiedevano di te, della Villa. Una donna sembrava molto affezionata a te.»

Una donna: la sua segretaria, forse, di quand’era a capo del Laboratorio, o forse Portia, chissà. Un tempo gli sarebbe interessato saperne di più, gli avrebbe chiesto ulteriori dettagli; ma che cosa cambiava, ormai, se chiedeva di lui una donna lontana che un tempo gli aveva voluto bene?

«Che cos’hai risposto?» domandò.

«Ho detto: bene. In qualche modo ho sentito, nella tua mente, che quella era la risposta consueta da dare alla domanda che mi facevano.» Ci fu un guizzo di divertimento nella voce di Mewtwo che rimbombava nella sua mente quando, in risposta al dubbio che balenò nel suo pensiero, aggiunse: «Giusto, un dubbio più che lecito. Non temere. Ho parlato in – com’è che direste voi? Ah, ecco: in prima persona.»

Se gli fosse stato possibile, Emir avrebbe riso, ma d’amarezza: riusciva quasi a immaginare il suo corpo, nella nebbia dell’isola, mosso da un oscuro burattinaio i cui occhi ardevano nell’isolamento della Villa, che rispondeva a domande di circostanza con occhi vacui e come spiritati, cercando nella sua mente le risposte, che erano banali esattamente quanto le domande. «Devi esser stato molto convincente.»

La punizione non tardò ad arrivare: la rabbia di Mewtwo divampò nella sua mente polverizzando i suoi pensieri, Emir si ritrovò a urlare in ginocchio aggrappato al davanzale della finestra nel tentativo di non cadere; poi quel dolore passò; ma la furia di Mewtwo non era sufficiente a strappare da lui l’ironia di quella situazione. Si sedette lentamente sul pavimento, in faccia a Mewtwo, e si toccò il naso respirando a fatica: quando le ritirò, le sue dita erano sporche di sangue. Gli venne ancora da ridere.

«Non sapevo d’averti fatto così permaloso» disse. Sfidarlo era da pazzi, ma quale nuovo dolore poteva infliggergli? La sua mente già non gli apparteneva più, Mewtwo se l’era già presa, e ora aveva imparato anche a possedere il suo corpo.

La luce negli occhi di Mewtwo si affievolì lentamente come brace, il suo sguardo si fece attento e fisso mentre percorreva il suo volto.

«Non volevo farti tanto male» disse. «Perdonami.»

Era la prima volta che Emir udiva le sue scuse dal giorno della sua nascita: quella consapevolezza lo stupì per un momento, ma non affievolì il suo rancore né il suo sarcasmo. Si tamponò il naso provocatoriamente.

«Hai paura di rovinare il mio corpo?» chiese. «Come potresti, altrimenti, rubarlo per andartene in giro?»

La luce dei suoi occhi si accese per un momento, ma durò solo un istante: Mewtwo stava cercando di dominarsi.

«Non ne avrei bisogno, se tu mi lasciassi libero di andare. Ti ho già detto che il tuo corpo mi occorreva.»

«Per due mesi?» ribatté Emir. La sua voce suonò incrinata quando disse queste parole: due mesi della sua vita, due mesi in cui la sua coscienza era rimasta prigioniera e confinata in una parte del suo cervello in cui non le era dato di agire, mentre Mewtwo utilizzava il suo corpo come un vecchio paio di stivali, da indossare e poi sfilarsi.

La voce di Mewtwo rimase quieta e calma, forse appena un po’ colpevole. «Non volevo servirmene tanto a lungo, all’inizio. Io ho… perso il senso del tempo. Il tuo corpo mi piaceva stranamente come se fosse un po’ anche mio.»

Anche un po’ suo. Quella conversazione rischiava di portarli entrambi sul terreno pericoloso di una conversazione nella quale Emir non intendeva assolutamente arrischiarsi: cercò di abbassare i toni nel tentativo di distogliere la sua attenzione da quel pensiero. Se Mewtwo se ne accorse, non disse niente.

«Non hai bisogno del mio corpo per lasciare questa casa. Ti ho detto tante volte che non ti ho mai trattenuto. Puoi varcare quella soglia, puoi Teletrasportarti, e andare ovunque tu voglia. Puoi tornare in Guyana…»

«Tornare?» Gli occhi di Mewtwo si strinsero per un momento, brillanti di una luce amara. «Ma in Guyana io non sono mai stato.»

«Lo sai che cosa voglio dire» ribatté Emir.

«Davvero?» rispose Mewtwo. «Io so che tu sei stato in Guyana e so che proietti su di me un ricordo che non appartiene a me. È il ricordo di mia madre, non è vero? Ma non solamente…» I suoi occhi arsero di nuovo mentre cercava nella sua mente: Emir sentì che il suo pensiero scavava nei suoi e li spostava come fossero corde che tirava qua e là. «C’è un altro Pokémon nei tuoi ricordi che assomiglia a lei.» La sua fronte si aggrottò per la concentrazione: la brutalità della ricerca all’interno della sua mente fu tale che Emir si sentì sul punto di vomitare. Era come sentirsi arrovesciare il cervello dall’interno «È lui mio padre? Questo ricordo così doloroso che sento… è il suo?»

«Smettila» singhiozzò Emir cercando di spingerlo via; ma la sua mente non era un corpo fisico da poter allontanare come e quando voleva. Mewtwo ritrasse i suoi pensieri a poco a poco e lo guardò con occhi carichi di stupore.

«Ti fa soffrire tanto il ricordo di quel Pokémon?»

«Non lo so più» balbettò Emir: ora che Mewtwo aveva smesso di frugare nella sua mente come un bambino che scavava con le dita, non sapeva neppure più quali sentimenti gli appartenessero ancora. Era suo il dolore per la morte di M1, o era stato solo di Rotwang? Era passato così tanto tempo.

«Era mio padre?» insisté Mewtwo: questa domanda doveva apparirgli importante, fondamentale, se la ripeteva tante volte. Emir provò la fugace, sciocca tentazione di rispondere di sì, di lasciarglielo credere: almeno avrebbe smesso di far domande e d’indagare, si sarebbe contentato dell’immagine di quel Pokémon morto che aveva trovato nella sua memoria come della foto di un antenato trovata in un album di famiglia. Ma Mewtwo non si poteva ingannare, come si poteva mentire alla creatura che possedeva la sua mente indossandola e svestendola a piacimento?

«Perché vuoi mentirmi?» chiese Mewtwo. La tentazione che l’aveva attraversato per un attimo non gli era sfuggita: quand’era che si era avvicinato così? Ora Mewtwo torreggiava su di lui, era terribile, forte quanto il destino, e incombeva su di lui in tutta la sua altezza: i suoi occhi fiammeggiavano. «Pensi forse che non possa leggere le tue menzogne attraverso il tuo pensiero?»

Il dolore che scaturì dalla sua ira fu tale che Emir vide solo una luce bianca per qualche istante. Questa volta non si spaventò quasi, non provò neppure sgomento: si prese il capo tra le mani in attesa che passasse come avrebbe fatto con un’onda di marea. A poco a poco la luce bianca si affievolì, i suoi occhi videro di nuovo, i suoi polmoni inalarono di nuovo aria a grandi boccate.

«Non puoi leggerci la verità, però» ansimò. Questo potere su di lui gli era rimasto, quantomeno: restava una porzione della sua mente, per quanto infinitesima, alla quale Mewtwo non aveva accesso. Era l’unica vendetta che gli rimaneva: puntare il dito là dove persino gli infiniti poteri di Mewtwo conoscevano limiti. «Se tu riuscissi a vederla, non avresti bisogno di chiedermi ossessivamente chi era tuo padre. Sbaglio?»

Incassò il capo tra le spalle quasi d’istinto, in attesa che la rabbia di Mewtwo divampasse nella sua testa come un fiore di fuoco; ma non accadde nulla. Mewtwo si era ritratto di qualche passo, non torreggiava più su di lui: anziché accrescersi la sua rabbia s’era acquietata quando Emir aveva parlato. Anche il suo sguardo era mutato, i suoi occhi ora scrutavano il suo volto in cerca delle risposte cui la sua mente non gli dava accesso.

«Ma tu sai chi era.»

«Io so d’averti creato con un’incubatrice che ho progettato all’Università» rispose Emir. «Ma questo lo sai anche tu.»

Mewtwo lo scrutò incessantemente mentre tastava nella sua mente con una delicatezza che fino a quel momento non aveva mai usato; i suoi occhi brillavano d’azzurro, eppure in quel momento non bruciavano.

«Non è una bugia» mormorò. Stava riflettendo, contemporaneamente nella propria mente e in quella di Emir. «Eppure non è nemmeno la verità. Com’è possibile?»

«Non lo so» disse Emir. Ma quante volte avevano già avuto quella conversazione che ora lui non ricordava? Gli pareva d’aver già sostenuto quella conversazione, d’essersi già difeso dalle sue domande.

Mewtwo non era convinto delle sue parole, ma non riusciva a capire dov’era la menzogna. Rimase immobile, pensieroso, a scrutarlo da un capo all’altro della stanza, soppesando le sue parole all’interno della propria mente. Non disse niente.

Forse, per quel giorno, era finita: non ci sarebbero state altre esplosioni di furore nella sua testa, forse lo avrebbe lasciato andare. Emir si alzò lentamente sulle gambe malferme, certo che non lo avrebbero sorretto: le sue cosce erano divenute magre a tal punto che neppure si toccavano tra loro, le sue ginocchia tremavano. Mewtwo seguì con gli occhi i suoi movimenti.

«Mi dispiace» disse. La sua voce suonava sincera. «Cercherò di avere più cura del tuo corpo… la prossima volta.»

Emir sorrise amaramente. Conosceva già la risposta, eppure fece egualmente la domanda. «Lo rifarai ancora, quindi. Possedere il mio corpo.»

«Sei tu che mi costringi» rispose Mewtwo. «Se voglio vedere che cosa c’è fuori, se non voglio che mi catturino… non mi rimane altra scelta che prenderlo. Mi dispiace.»

«Perché non te ne vai?» insisté Emir ancora, ma stavolta senza particolare vigore. Non intendeva più esortarlo: voleva solo saperlo. Mewtwo, che leggeva nella sua mente le sue intenzioni prima ancora di udire le sue parole, sembrò comprenderlo, perché non si infuriò.

«Perché se ti lasciassi non scoprirei mai chi è mio padre» rispose. La sua voce suonava dolorosamente sincera. Esitò. «Perché al mondo ho solo te. Mi hai creato perché restassi solo al mondo e nascosto in eterno?»

Emir chinò il capo sul petto e non rispose.

«Perché non te ne vai tu?» domandò Mewtwo allora. Neppure lui voleva esortarlo ad andarsene: voleva solo saperlo.

Emir rimase come folgorato da questa domanda. Ammettere di non averci mai pensato era imbarazzante come mostrarsi nudo, ma era la verità: era legato alla Villa come lo era al proprio corpo, forse ancora di più ora che il suo corpo non gli apparteneva nemmeno più, ma Mewtwo aveva ragione: se avesse voluto sottrarsi alla sua influenza avrebbe potuto andarsene. Allora perché quel pensiero non lo aveva mai neppure sfiorato?

«Perché non ho che questo posto al mondo» rispose. Era stato felice nella Villa, almeno finché la sua vita gli era appartenuta, un tempo; fino a M1 e a M2 e forse anche dopo, finché c’era stato Rotwang, per un po’. «Perché al mondo non mi sei rimasto che tu.»

 

Vi erano notti in cui Mewtwo ululava nell’aria immobile nella villa.

Soffriva come se gli fosse stata inferta una ferita invisibile, mortale. La prima volta Emir s’era svegliato di notte mentre il suo grido squarciava l’aria: era assordante, inumano; era la prima volta da quando Rotwang se n’era andato che Emir sentiva una voce pronunciata al di fuori della sua mente.

Era accorso là da dove proveniva il grido, nella stanza dove Mewtwo era nato e che aveva eletto a suo regno, quella che un tempo era stata la camera di Rotwang: era un urlo animale, selvaggio, che la terra non aveva udito mai prima d’allora.

Mewtwo si teneva il capo tra le zampe come se dovesse comprimerlo dall’esterno perché non esplodesse; questa comparazione l’aveva fermato: voleva dire che nessuno l’aveva ferito. Emir era rimasto immobile sulla soglia senza entrare, forse perché c’era una parte di lui, neppure tanto oscura, che di fronte al suo dolore provava un sentimento strano di rivalsa. Ma quando Mewtwo aveva allontanato le zampe dal proprio volto e cercato il suo sguardo, i suoi occhi erano umidi e del tutto privi dell’azzurro della sua rabbia.

«Perché mi hai fatto questo?»

«Questo cosa?» aveva mormorato Emir percorrendolo interamente con lo sguardo. La luce della luna lo bagnava come se fosse latte: il suo corpo appariva livido e uniformemente grigio, muscolare e tonico come gli era sempre apparso, ma contratto e trasfigurato dal dolore.

«Questo!»

L’aria aveva tremato del suo dolore e del suo potere. Emir s’era portato le braccia al volto per un istinto salvifico prima ancora di distinguere il tintinnio dei vetri infranti, il vento aveva d’improvviso fischiato più forte attraverso le finestre. Quando Emir aveva sollevato gli occhi, tornando lentamente ad abbassare le braccia, Mewtwo aveva ancora il capo costretto tra le mani. Si fronteggiavano entrambi attraverso un tappeto di vetri rotti.

«La mia testa…!»

«Ti fa male?» s’era informato calmo Emir. Non provava ormai più sorpresa né paura di fronte a Mewtwo: era stata la prima volta che il suo potere si manifestava al di fuori del suo corpo con tanta violenza, ma quel potere non lo stupiva minimamente. Non lo aveva creato forse per quello, perché forse più potente di sua madre e in grado di lottare?

Di fronte alla sua indifferenza Mewtwo aveva ruggito nella sua mente: Emir s’era dovuto aggrappare allo stipite della porta per non cadere.

«Hai creato la mia mente perché fosse infinitamente affamata per poi non darmi niente con cui nutrirla!»

Il cervello sovrumano di Mewtwo era andato oltre ogni sua previsione. Questo Emir non l’aveva preventivato, era stato imprevidente, o forse semplicemente i frutti del suo genio avevano sopravanzato il suo genio e ogni facoltà umana: aveva creato Mewtwo perché fosse in grado di difendersi, ma che la sua mente continuasse a svilupparsi famelicamente, alla stregua di un organismo che se non nutrito si contorceva in preda ai morsi della fame, come avrebbe potuto prevederlo?

«Hai attinto dalla mia mente finora» aveva obiettato senza convinzione; era stato peggio: Mewtwo s’era rigirato con uno scatto ferino, la sua rabbia aveva echeggiato nella sua mente con un accento d’accusa.

«La tua mente è finita! Cos’altro posso imparare da lei?»

I giorni trascorrevano più interminabili delle notti, il tempo si rassomigliava e si perdeva nei meandri della villa, scivolava via come acqua attraverso invisibili fessure. Ogni tanto scompariva, le ore e i giorni semplicemente non si trovavano più: Emir si svegliava talora da sonni che non ricordava d’aver mai dormito, le prime volte sul pavimento addirittura, quando Mewtwo ancora svestiva il suo corpo come uno straccio sporco e lo abbandonava sul pavimento prima di rientrare nel proprio; ormai Emir non si scomponeva neanche più. Talora invece trascorrevano anche giornate intere, infinite, senza ch’egli perdesse traccia di quello che accadeva; erano giorni solidi che spiccavano in mezzo al tempo informe; ma erano anche i giorni in cui più spesso capitava che Mewtwo ululasse colla testa dilaniata da un dolore senza fine. Emir lo vegliava impotente senza saper che fare per aiutarlo: Mewtwo lo guardava con occhi colmi d’accusa e di rancore perché era lui ad avergli fatto quello e a lasciarlo soffrire senza intervenire.

«Vattene» insisteva Emir talvolta per non saper che dire né che fare: là fuori, nel mondo infinito, la mente di Mewtwo avrebbe trovato sufficiente nutrimento al proprio famelico bisogno di accrescersi e imparare per non divorare se stessa; ma le sue erano parole vane che si ripetevano, come i giorni e il tempo, senza trovare compimento. Mewtwo ruggiva in risposta cogli occhi tinti d’azzurro e di rosso dei capillari che iniettavano sangue, i vetri tintinnavano nelle commessure delle finestre e talora s’infrangevano; Emir si ritraeva ma senza scappare: Mewtwo non gli avrebbe mai fatto veramente del male, perché il suo corpo gli serviva.

«Andarmene perché? Per toglierti il peso del mio dolore e portarlo dove tu non debba vederlo?»

«No, perché…»

Una fitta di dolore lo atterrava prima che avesse modo di difendersi dall’ingiustizia della sua accusa. Non era rabbia, però: Emir cadeva in ginocchio annichilito dal dolore, si prendeva il capo tra le mani in preda ai conati di vomito; Mewtwo sollevava il capo lentamente per osservarlo contorcersi quasi con voluttà di rivalsa.

«Lo senti?»

Emir non rispondeva, il suo cervello pareva divorato dall’interno come da un insetto mostruoso che ne strappasse coi denti grandi bocconi; sangue gli colava dal naso. Non rispondeva: supplicava. «Mewtwo, ti prego…»

«Questo è il dolore che sento io!» La sua voce rimbombava nell’aria della stanza o forse solo nella sua testa, si ripercuoteva contro le pareti in un’eco senza fine. Il dolore scompariva rapidamente dalla sua mente come acqua risucchiata via. «Non vuoi né vederlo né sentirlo, eppure mi hai creato per questo!»

Chissà se in paese le sue urla nella notte si sentivano. Emir usciva qualche volta dalla Villa, quando proprio non poteva evitarlo, visto che lui e la creatura dovevano ancora sopravvivere; non parlava con nessuno, e quelli che incontrava ne sembravano sollevati, dal momento che nessuno era particolarmente desideroso di parlare con lui. Gli abitanti lo scrutavano con sospetto come se non sapessero bene cosa attendersi da lui né come comportarsi di fronte alla sua stranezza: Emir avrebbe voluto poter attribuire le loro reazioni alle volte in cui lo avevano visto posseduto da Mewtwo, ma in fin dei conti sapeva che non era così. Che lo fissavano inquieti e attoniti al vederlo perché avevano paura di lui e di qualunque cosa egli tenesse nascosta nella Villa e forse urlasse nella notte, da sempre.

Poi, ogni tanto, il tempo svaniva di nuovo. Ora Emir si svegliava sempre più di rado sul pavimento: quando riaveva coscienza di sé, dopo ore o forse giorni in cui Mewtwo l’aveva posseduto, si trovava nel suo letto, spesso persino sotto le coperte. Era una strana immagine quella che si affacciava allora alla sua mente: quella di Mewtwo che, dopo una lunga giornata, lo metteva ordinatamente a letto, sotto le coperte, prima di svestire il suo corpo come una tuta da lavoro. Aveva smesso di opporsi, ma Mewtwo avvertiva il suo risentimento là dove non poteva nasconderlo, nei recessi della sua mente, là dove aveva libero accesso.

«Mi dispiace» diceva. «Ti ho già spiegato che il tuo corpo serve più a me che a te.»

«Se tu davvero non volessi, te ne andresti» aggiunse una volta in un tono che a Emir non piacque.

«Tu mi lasceresti andare?» s’informò sarcasticamente.

Mewtwo parve sorpreso da quella domanda. Rifletté per un po’: lo sforzo mentale sembrava avere la facoltà di distoglierlo dal suo dolore, per qualche momento. «Non lo so. Tu non ci hai mai provato.»

Fuori dalla Villa il tempo continuava a scorrere con lo stesso ritmo di prima, lineare e privo di scosse come la corrente di un canale. Un’estate il vulcano destò preoccupazione: vomitò vapori e ceneri dalle caldere laterali per qualche giorno; si parlò di attuare un protocollo d’emergenza che prevedeva di evacuare l’isola, spostando momentaneamente gli abitanti presso le Isole Spumarine. La questione occupò i telegiornali per qualche giorno; si fecero prove di raccolta e di verifica del sistema d’allarme tramite sirene. Al suono degli allarmi Mewtwo guardò a lungo fuori dalla finestra: non sembrava preoccupato ma piuttosto assorto, i suoi occhi cercavano risposte nelle nubi di fumo.

«Credi che corriamo un rischio concreto?»

«Non sei mai stanco di farmi domande retoriche, poiché sei in grado di vedere da solo la risposta nella mia mente?» rispose Emir senza neppure guardarlo. Trascorreva quei giorni appollaiato nell’incavo di una finestra che affacciava in direzione del vulcano, a osservare in lontananza il denso fumo grigiastro che s’inerpicava in cielo; i balconi erano ricoperti di cenere.

Mewtwo non raccolse la sua provocazione: non sembrò neppure notarla. «Evacuare… significa che sposteranno tutti gli abitanti dall’Isola?»

Emir non rispose neppure, il suo silenzio era eloquente a sufficienza: Mewtwo conosceva il significato di quella parola, dunque non era davvero quello che intendeva chiedergli. Aspettò.

«Che cosa faremo noi se daranno ordine di evacuare?»

Emir rimase ostinatamente in silenzio. Mewtwo non domandò più; l’allarme durò ancora per qualche giorno, poi rientrò e non se ne parlò oltre; il vulcano eruttò ancora per un po’ ceneri bianche che coprirono l’isola come neve, poi tornò a dormire un po’ per volta. Chissà, forse Mewtwo aveva temuto per la sua vita, per la prima volta aveva concepito l’idea d’essere mortale, e per quello aveva domandato che sarebbe stato di loro; o forse nella prospettiva dell’eruzione e dell’evacuazione aveva visto una speranza di libertà e la fine della sua eterna prigionia?

Le sue grida nella notte lo svegliavano sempre più spesso. La sua voce nel buio era straziante, era disperata e brutale, per suo tramite il suo dolore si faceva tangibile. Emir sedeva al suo fianco per ore nella notte che non trovava fine; avrebbe voluto poterlo salvare, ma Mewtwo non gli permetteva neppure di toccarlo.

«Tu hai fatto questo!»

La sua rabbia sfidava ogni contatto, eppure al contempo Mewtwo lo chiamava a sé e lo voleva vicino; che fosse per conforto o piuttosto per imporgli la vista del suo dolore Emir non avrebbe saputo dirlo.

Una notte non lo fece neppure avvicinare. Quando entrò nel salottino sul mare attirato dalle sue urla Emir si ritrovò sbalzato via dall’impeto della sua rabbia prima ancora di varcare la soglia, gli occhi gli lacrimarono dal dolore alla testa, si prese il capo tra le mani: Mewtwo era immobile in un letto di vetri rotti, dalle finestre ora spalancate il ruggito del mare risuonava inerpicandosi lungo gli scogli in aspre ondate. Emir avanzò con cautela in mezzo ai frammenti sul pavimento come su un campo di battaglia; il vento entrava da ogni dove attraverso le vetrate infrante, ma Mewtwo rimaneva immoto, in silenzio, col capo nascosto tra le zampe che gli coprivano gli occhi.

Alle grida seguì uno strano silenzio innaturale: Emir attraversò la stanza come quel silenzio se fosse un fluido denso che doveva fendere per poter arrivare fino a lui. Tese la mano. Mormorò: «Lascia che ti tocchi. Non so come altro aiutarti.»

In quei momenti Mewtwo si ritraeva sempre dal tocco delle sue mani. Quella notte invece rimase immobile: la sua pelle era aspersa della stessa peluria morbida di quella di sua madre, Emir quasi non se ne ricordava più. Quand’era stata l’ultima volta che Mewtwo gli aveva permesso di toccarlo? Forse era stato quel primo lontanissimo giorno, quando era appena nato e gli aveva ordinato di lavarlo; Emir l’aveva preso tra le braccia, l’aveva immerso nell’acqua tiepida, aveva lavato poco alla volta il muco gelatinoso che lo copriva, versando sul suo capo livido, sui suoi occhi fissi, acqua tiepida dalla coppa della propria mano. Mewtwo s’era affidato a lui ciecamente, guardandolo in silenzio, perché non poteva fare altro, il suo corpo non era ancora forte a sufficienza per obbedire alla sua mente e fare ciò che gli occorreva; ora lo era diventato ma ancora non poteva servire al suo scopo, perché il suo corpo restava prigioniero della Villa e la sua mente aveva bisogno d’altre membra per andarsene in giro. Quanto tempo era passato da quel giorno in cui Emir l’aveva tenuto tra le braccia sotto l’acqua che scorreva?

Quando Mewtwo abbassò le braccia, i suoi occhi erano lucidi e rossi di lacrime. Non c’era rabbia, per una volta, e questo lo spaventò ancora più del solito.

«Mi dispiace» disse. La sua voce aveva un accento disperato, straziato, che Emir non gli aveva mai sentito. Stava piangendo. Ma quando mai s’era visto un Pokémon piangere? «Mi dispiace. Non so come altro fare. Il tuo corpo mi serve. Mi dispiace.»

Emir si ritrasse da lui come da una trappola che aveva tardato fino a quel momento a vedere e di cui solo in quel momento riconosceva le tracce, i frammenti di vetro scricchiolarono sotto i suoi piedi; poi a un tratto non si mosse più, il vetro tacque d’improvviso, le sue gambe non risposero al suo volere più di quanto il corpo di Mewtwo avesse risposto al suo padrone in quel giorno lontanissimo.

«Mi hai paralizzato» disse stupidamente.

«Mi dispiace» ripeté Mewtwo. Era sinceramente addolorato, Emir lo leggeva nella voce che rimbombava nella sua testa senza trovare ostacoli alla propria eco: ma addolorato per che cosa? «Non voglio farti del male, ma il tuo corpo mi serve. Mi dispiace tanto.»

«Hai già il mio corpo» mormorò. Le sue mani erano percorse da formicolii sottili, erano come intorpidite: poteva muoverle a malapena, molto lentamente, e con grande dolore. Qualunque cosa volesse fargli Mewtwo, non sarebbe scappato mai. Studiò le proprie dita immobili con grande interesse, poiché ormai non poteva fare altro. «Anche tua madre sarebbe stata in grado di farlo, se solo avesse voluto. Di paralizzarmi per ottenere quello che voleva. Solo che non voleva nulla abbastanza intensamente perché ne valesse la pena, forse.»

 «Smettila di parlare di mia madre!» urlò Mewtwo. Gli ultimi vetri rimasti rimbombarono sotto la sua rabbia, Emir lo fissò in silenzio. «Io non sono debole com’era lei! Mi hai creato perché fossi più forte per poi non darmi nulla su cui sfogare la mia forza, mi hai dato la mia intelligenza per poi tenermi chiuso qui in eterno senza nulla da apprendere… eppure continui a paragonarmi a lei!»

Di fronte al dolore incommensurabile della sua voce Emir chinò gli occhi e rimase in silenzio. Mewtwo si sarebbe preso il suo corpo con la forza perché la sua mente era disperatamente affamata e la Villa non le bastava più; nulla che lui potesse fare sarebbe bastato a fermarlo, eppure parlò ugualmente. Non sapeva neppure se parlasse nell’ultimo disperato tentativo di farlo ragionare o se piuttosto quelle fossero soltanto le ultime parole che gli avrebbe detto mai. «Non avrei mai voluto questo per te. Non era questo che volevo. È solo che tutto a un tratto tutto è diventato più grande di me.»

«Tutto è sempre stato più grande di te!» ringhiò Mewtwo.

Emir alzò gli occhi su di lui. La luce della luna lo bagnava di trasparenze madreperlacee, i suoi occhi ardevano di brace azzurra. Era il Pokémon più forte del mondo; l’aveva creato lui, estratto vivo dalla materia del mondo con la forza delle sue braccia e del suo genio, plasmato con la sua viva carne.

«No, non è così» rispose invece. «Ho creato esattamente quello che volevo creare. Ho reso perfetta la stirpe di tua madre esattamente come ho voluto dal giorno in cui l’ho guardata giocare nel Laboratorio attraverso un vetro, ho dato al mondo il compimento che la natura aveva tralasciato di realizzare… non è vero che è sempre stato tutto più grande di me. È solo che nel perfezionare lei ho finito per fare lo stesso con me. Sai perché non riesci a trovare tuo padre nella mia mente?»

«Sono stanco delle tue menzogne!» ruggì Mewtwo solcando la stanza a grandi passi.

«Non riesci a trovarlo perché guardi nella direzione sbagliata» proseguì Emir senza neppure ascoltarlo. Mewtwo s’interruppe bruscamente là dove si trovava; gli dava le spalle, eppure impercettibilmente volse il capo nella sua direzione. Nonostante tutto, nonostante l’odio, nonostante il dolore, ascoltava ancora le sue parole, ed Emir proseguì. «Non riesci proprio a capire, vero? Eppure tu sei più intelligente di me… e sai tutto quello che so io. Tutte le risposte sono state sempre qui, nella mia casa, nella mia mente, a tua disposizione, dunque se ancora non lo sai è perché ciecamente ti ostini a non voler vedere…»

La furia di Mewtwo divampò nella sua mente come una tempesta di vento; se solo avesse potuto, Emir si sarebbe preso il capo tra le mani, ma il dolore svanì dalla sua testa rapido così com’era apparso mentre Mewtwo gridava: «Stai cercando di confondermi!»

Nella rabbia insensata che Mewtwo disperatamente gli portava Emir vide d’un tratto, per la prima volta, quella che l’aveva opposto a suo padre per vent’anni. D’improvviso sentì di guardarlo con grande dolcezza. «Proprio tu, tra tutti… pensi che la verità possa confonderti?»

Gli occhi di Mewtwo frugavano il suo volto con un’ansia frenetica che Emir non gli aveva visto mai, cercando ovunque su di lui, nella sua mente, le tracce della menzogna di cui lo accusava – ma tracce, Emir lo sapeva, non ce n’erano.

«Neppure tu avresti osato mai» mormorò Mewtwo. Nella sua voce che mormorava dentro la sua testa c’era un accento interrogativo, supplice, che Emir non gli aveva sentito mai. Si sentì il cuore stretto da una fitta di pietà – ma Mewtwo non era come Mew, dopotutto. La sua rabbia l’avrebbe salvato, anche dopo di lui. Ora non era più tempo di mentire. La verità era l’unica eredità che poteva lasciargli. «Contro natura, neppure tu… neppure tu…»

«Tu hai paura perché sai qual è la verità» disse Emir. «Che in questa casa c’era solo una persona da cui potessi trarre il materiale genetico necessario per ibridare quello di tua madre.»

La rabbia divampò negli occhi di Mewtwo dell’identico azzurro degli occhi di Mew, sbocciando sulla terra come un fiore di fuoco.

 

1 settembre. Mewtwo è davvero troppo forte. Non riesco a contenere i suoi istinti animali.

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Capitolo 16
*** Epilogo ***


Epilogo


Fuoriuscirono lingue di fuoco dalle finestre mentre i vetri esplodevano per il calore.

La Villa che bruciava nel cuore della notte illuminava Isola Cannella come una fiaccola sotto un cielo tinto di arancione. Echeggiavano sirene lungo le strade, la gente si accalcava intorno all’edificio incendiato: la polizia aveva creato un cordone per trattenere la gente a una distanza di sicurezza dal rogo mentre i pompieri lavoravano per domare le fiamme; che si espandessero al resto dell’abitato era improbabile, dato l’isolamento della casa, ma non impossibile se si fosse levato il vento.

I primi a dare l’allarme erano stati gli abitanti delle case vicine, ed erano stati anche i primi a intervenire, coraggiosamente, con quello che potevano: sacchi di sabbia e di terra, secchi d’acqua e sassi nudi, tutto quello che si poteva per frenare anche solo un poco l’avanzata delle fiamme. Poi erano arrivati i pompieri, che li avevano ricacciati via a forza ed erano intervenuti con le camionette e i Pokémon d’Acqua addestrati appositamente. Un paio di vicini però si erano aggrappati ai pompieri prima di obbedire e allontanarsi: avevano gridato che il portone principale della Villa era aperto, ma che il dottor Fuji nessuno l’aveva visto uscire… I pompieri si erano guardati in faccia senza bisogno di dir nulla. Le stanze più esterne della Villa, quelle che davano sulla strada, ancora non sembravano lambite dalle fiamme, ma sarebbe stata questione di minuti, e nessuno poteva garantire che il dottor Fuji si trovasse proprio lì. Se fosse stato nelle stanze interne, invece… Dalle finestre della Villa non proveniva voce.

Nessuno si aspettava che il dottor Lestournelle fosse il primo, degli ex colleghi di lavoro del dottor Fuji, a precipitarsi attorno ai cordoni della polizia, cercando invano di richiamare l’attenzione di chiunque fosse in grado di intervenire. Gridava qualcosa su Mew: a distanza di anni, era l’unico in tutta l’Isola ancora convinto che il dottor Fuji avrebbe vissuto di risparmi e carità come un eremita, se avesse rubato il Pokémon più prezioso del mondo. Un agente che tratteneva la folla lo ascoltò per un po’, poi lo invitò a indietreggiare per non ostacolare le operazioni.

Si sentì un terrificante rumore a un certo punto, come una trave enorme che si spezzava: qualcuno gridò che dovevano essere crollati i solai, altri dissero invece di aver visto come un bagliore azzurro fendere le fiamme e levarsi verso l’alto. L’idea fu spaventosa, perché qualcuno cominciò a gridare che chissà quali diavolerie elettroniche e bombole del gas e quant’altro doveva tenersi in casa il dottor Fuji; che poteva scoppiare tutto… ma nessuno si allontanò, forse anche perché qualcuno sosteneva di non aver visto niente, e questo tranquillizzò tutti gli altri.

A un certo punto risuonò una sirena diversa: era quella di un’autoambulanza. Il dottor Lestournelle trasalì e fendette la folla con violenza, a spintoni e a spallate, perché da qualche parte avevano cominciato a dire che i pompieri avevano tirato fuori un uomo, che era vivo, respirava ancora, attraverso una vetrata. Quelli che lo riconobbero si fecero indietro per lasciarlo passare: in fondo lo sapevano tutti che era stato amico del dottor Fuji, prima che succedesse quello che era successo, ed era ovvio che volesse accertarsi che stesse bene…

Il dottor Lestournelle raggiunse correndo l’ambulanza proprio mentre stavano caricando la barella. Un paramedico lo respinse con decisione, allora Lestournelle alzò la voce, gridò qualcosa in direzione della barella; il paramedico gli posò una mano sulla spalla per attirare la sua attenzione e gli parlò con voce bassa e ragionevole.

«Guardi che quello non è il dottor Fuji» gli disse gentilmente. «Però so che è un suo dipendente. Non so come si pronuncia, ma è lo scienziato tedesco.»


Si succedettero momenti di luce e buio. Il dolore gli strappava grida, risalendo fino al suo cervello gli intricati per corsi dei nervi; talora gli pareva quasi di affiorare dall’oscurità, di poter aprire gli occhi, da un momento all’altro, e poter sapere dov’era; poi quella sensazione passava, l’oscurità tornava a spalancarsi attorno a lui e a sprofondarlo dentro di sé, inghiottendolo come in un grembo e nel vuoto. Nel vuoto Rotwang si sentiva precipitare, cercando invano di aggrapparsi ai margini della propria coscienza come al bordo di un pozzo; ma alle sue mani e alla sua mente le forze venivano meno, ed egli non riusciva a restar sveglio. Un fuoco gli divampava in gola; avrebbe voluto sollevarsi a sedere o almeno muoversi, girare gli occhi intorno a sé per vedere dove si trovasse e sapere almeno di possedere ancora con sé il proprio corpo; ma le sue gambe non gli rispondevano e le sue braccia bruciavano come fuoco, avviluppate ai suoi fianchi da legami invincibili; poi il buio lo sprofondava di nuovo nelle sue viscere buie.

Vennero le voci, dopo un po’. All’inizio non erano neppure distinguibili, e forse, chissà, non esistevano altrove che nella sua mente. Era come udir mormorii in un’altra stanza, anche se talora si facevano più vicini, come qualcuno che mormorasse al suo orecchio, e quasi gli sembrava di riuscire a percepire le parole; ma lo sforzo di comprenderle lo prostrava, allora egli ricadeva nel buio della sua mente, ancora una volta; la sua coscienza si dileguava. Sentiva il respiro rantolargli nel petto che bruciava, poi lo sorprendeva di nuovo il conforto rassicurante del nulla e del buio; per qualche istante il dolore abbandonava la sua gola e le sue mani; ma quell’oscurità lo raggelava, allora Rotwang ricordava vagamente che c’erano cose che doveva fare, posti in cui avrebbe dovuto essere; ma la sua volontà si dimenava invano, inudita, prigioniera della sua mente assopita, e la caligine lo velava di nuovo.

A poco a poco il buio si fece meno denso, l’oblio meno benigno. L’aria attraversava la sua gola come lame arroventate, perforava i suoi polmoni a ogni suo respiro; sprazzi di lucidità s’inseguivano nella sua mente come comete lontane che s’inseguivano. Tutto gli tornava in mente in frammenti con dolorosa lucidità, ma la sua mente rifiutava di soffermarvisi a lungo: la sua mente si colmava di fiamme; poi il dolore sopravanzava i suoi pensieri, le sue mani pulsavano come braci alle estremità delle sue braccia, e il dolore era tale che la sua mente veniva meno per un po’.

«Acqua» disse a un tratto, in un punto a metà tra la coscienza e l’incoscienza che non era veglia né oblio. Non fu nemmeno una parola; fu un rantolo, eppure l’acqua arrivò da qualche parte ch’egli non vedeva. Sentì sulle labbra la gentilezza di una spugna umida, mentre una voce ch’egli sapeva di amare ma che in quel momento non riconosceva mormorava contro il suo orecchio: «Hai una flebo di liquidi, tra poco la sete passerà… aspettiamo che il dottore dica che puoi bere, va bene?»

Il conforto di quella voce fu tale che Rotwang sprofondò di nuovo nel sonno senza lottare oltre: avrebbe voluto aver forze a sufficienza da dire grazie, ma la sua gola pulsava orrendamente e l’aria gli mancava. Non si sforzò neppure di aprire gli occhi: non aveva bisogno di vedere a chi appartenesse quella voce. Si lasciò sprofondare nel buio.

Tornò a riemergerne come se fuoriuscisse dall’acqua per trarre grandi boccate d’aria che gli perforavano i polmoni. Ancora non aveva forza a sufficiente per aprire gli occhi: quando si svegliava si trovava a galleggiare nel buio, senza sapere dove fosse né perché. Provava a chiamare per sentire di nuovo la voce, ma ancora non riusciva a formulare parole: per fortuna la voce di Portia lo raggiungeva attraverso l’oscurità che lo circondava, e le sue mani gentili gli bagnavano le labbra e gli pettinavano i capelli sulle tempie. Sotto la carezza delle sue mani e della sua voce Rotwang si addormentava senza più ricordare per che cos’era che avrebbe dovuto restare sveglio: se c’era Portia, andava tutto bene. La sua presenza era calma e ragionevole, infinitamente rassicurante, e a essa a poco a poco Rotwang si sentì di potersi aggrappare per rimanere sveglio e non sprofondare per l’ennesima volta nel buio.

«Emir» provò a dire, lasciando a Portia l’onere di ricomporre la domanda.

«Sht» mormorò Portia da qualche parte al di fuori di lui; le sue dita gli passarono tra i capelli più volte. «Va tutto bene, Richard, tutto bene…»

«Emir» biascicò Rotwang di nuovo. Cercò di aprire gli occhi, ma sollevare le palpebre gli costò uno sforzo sovrumano e attraverso di esse la luce gli bruciava gli occhi, e subito Portia sussurrò: «Tesoro, riposati. Non importa che… l’hanno portato ad Azzurropoli, al reparto Grandi Ustionati. In elicottero. È tutto a posto, ma tu ora riposati, va bene? Ho avvertito io i tuoi fratelli.»

Mettere insieme il senso di tutte quelle parole richiese un tempo assurdamente lungo ai suoi sensi rallentati. La realtà che filtrava attraverso le parole di Portia proiettava nella sua mente scintille del mondo esterno, come lampi che vi penetravano; ma quella realtà era assurdamente dolorosa, e mentre la sua mente si soffermava a osservarla Rotwang si sentì il petto pieno di un’angoscia di cui non riusciva a individuare l’origine. Aprì gli occhi in una stanza bianca d’ospedale. Tutto era avvolto da una nebbia, Portia era sfocata e indistinta al suo fianco; le sue braccia posavano sul letto, sopra le lenzuola, terminando in grandi masse fasciate che non riusciva a muovere.

Ripeté senza capirle l’ultima parola che aveva udito, nella speranza che acquistasse un senso. «Fratelli…?»

«Va tutto bene, tutto bene» ripeté Portia. «Ho parlato con Günther, ha detto che avrebbe avvertito lui i tuoi genitori. Rudolf sta cercando un aereo dall’America, ha detto che chiamerà non appena…»

Il panico penetrò attraverso le sue fibre come una corrente, senza che egli neppure sapesse da che cosa originava.

«Non voglio che mi vedano così» singhiozzò.

Portia si chinò su di lui nella frenesia di capire. «Tesoro, è tutto a posto. Si sono offerti loro di venire non appena hanno saputo, non devi…»

«Non voglio che mi vedano così» ansimò Rotwang. Lacrime gelate gli scendevano dagli angoli degli occhi senza che neppure lui sapesse perché: sapeva solo che l’angoscia gli montava in petto più feroce e implacabile del fumo e del fuoco, che qualcosa nel suo corpo gli faceva paura e non andava bene sebbene non riuscisse a capire che cosa. «Non farli venire, non voglio che mi vedano così!»

«Richard» balbettò Portia. Le sue mani si aggrapparono da qualche parte intorno ai suoi gomiti nel tentativo di tenerlo fermo. «Così come? Ti prego, ti prego, non ti agitare...!»

Finalmente la sua paura oscura prese forma e corpo nella sua mente, ed egli seppe, come se quella paura fosse sempre stata di fronte ai suoi occhi ma solo ora egli riuscisse a vederla in piena luce, che cos’era che i suoi fratelli non avrebbero mai dovuto vedere…

«Non ho più le mani, vero?» gridò con la testa che gli martellava e il cuore che pompava troppo rapido e gli pulsava fino in gola.

«Richard, non è come pensi» gridò Portia tentando di sovrastare la sua voce; poi ci fu rumor di passi, ci furono voci che si sovrapponevano alla sua, la puntura fredda di un ago perforò l’incavo del suo gomito, e la nebbia e il buio tornarono a inghiottirlo come se non se ne fossero mai andate. Rotwang si abbandonò alla beatitudine dell’incoscienza come a un atto di pietà che lo accoglieva.


Si svegliò che era giorno pieno: la luce entrava dalla finestra della stanza spoglia in grandi fiotti dorati che si riverberavano sulle pareti, ma senza più ferire i suoi occhi. Rotwang scrutò la luce con disappunto, senza neppure levare il capo per guardarsi attorno: non ce n’era bisogno. Sapeva già quello che gli occorreva sapere: che era una camera d’ospedale, e che Portia non c’era più. Rimase immobile, cercando di non guardare in direzione dei grandi bendaggi che vedeva campeggiare alle estremità delle sue braccia, sulle lenzuola.

«Ah, è sveglio» disse un infermiere facendo capolino sulla soglia della stanza. Rimase a osservarlo per un momento dall’uscio. «Sente male quando respira? Come si sente?»

«Di merda» rispose Rotwang distogliendo gli occhi da lui. Solo pronunciare quella parola gli scatenò una fitta acuta di dolore in gola, perciò cercò di formulare la richiesta successiva consumando la minor quantità d’aria possibile: «Medico.»

Quando tornò a gettare un’occhiata in direzione della porta, l’infermiere era sparito.

Doveva aver fatto quel che gli aveva chiesto, però: una decina di minuti dopo si affacciò sulla soglia un giovane medico che aveva tutta l’aria d’essersi appena laureato e d’esser stato mandato a Isola Cannella contro ogni sua volontà. Sembrava desiderare di finire quel turno il prima possibile.

«Ben svegliato, dottore. Come si sente?» Aveva il tono disinvolto e sbrigativo di una consueta giornata di lavoro; non lo stava neppure guardando, sfogliava la sua cartella clinica senza degnarlo di uno sguardo. «Mi hanno detto che è un collega.»

«No» rispose Rowtang asciuttamente. «Medico per Pokémon.»

La sua risposta parve destare un lampo d’interesse negli occhi del dottore. Si affrettò a chiudere la cartella sorridendo, guardandolo per la prima volta da quando era entrato. «Al contrario, dottore. A dire il vero, siete solo voi medici per Pokémon che reputate di non essere nostri colleghi, sa. Studiate esattamente lo stesso numero di anni, perciò non c’è motivo per cui…»

Tanta superbia, da parte sua, valeva in fondo ben la pena di un po’ di sofferenza. «Ho detto che non siamo colleghi. Non che voi siete superiori. Ora possiamo parlare di me?»

Il dottore rimase interdetto per un momento, eppure il suo sorriso non svanì. Si fece solo più amaro. «Ora ho capito come ha fatto a spaventarmi l’infermiere» commentò solamente. Tornò a sfogliare la cartella clinica. «Allora, dottore… presumo che la gola stia benone, se ha la forza di ironizzare. Giusto?»

A questo non valeva neppure la pena di rispondere, e non solamente perché aveva la gola secca, dolorante, come dilaniata da piaghe aperte. Rotwang si limitò ad aggrottare la fronte, e il dottore scosse la testa e tirò fuori dal taschino una torcia e un abbassalingua. «Forza. Ora facciamo gli adulti e mi faccia vedere come andiamo.»

Tutto sommato il dottorino sapeva il fatto suo. Rotwang obbedì; chino su di lui mentre gli esaminava la gola, il dottore proseguì con noncuranza. «Bene. Mi hanno detto i colleghi che stanotte ha avuto un po’ di crisi, quando si è svegliato. A volte è normale essere confusi dopo l’anestesia, specie dopo quello che… beh. Ora è più tranquillo?»

Spense la torcia e si allontanò per dargli modo di rispondere. Rotwang si limitò ad annuire, ma il dottore parve reputarla una risposta soddisfacente. «Bene. Mi hanno detto anche che aveva paura di aver perso le mani nell’incendio. Posso garantirle che prima di amputare le mani a un chirurgo del suo livello ci pensiamo due volte, e che non si amputa per qualche ustione, perciò non si preoccupi. Se vuole posso dire agli infermieri che le facciano vedere quando verranno a medicarla…»

«Non voglio vedere» disse Rotwang. Quelle parole gli costarono un enorme sforzo, la sua gola pulsava dolorosamente a ogni emissione d’aria, ma egli aveva un disperato bisogno di pronunciarle.

Il dottore esitò per un momento. «Cioè non vuole vedere le sue mani? Ma prima o poi bisognerà bene che…»

«Basta» disse Rotwang.

«Mi crede, però? Non crede che io stia mentendo.»

Rotwang annuì malvolentieri; si vergognava d’aver avuto quella crisi la notte precedente, ma più ancora non voleva soffermarsi oltre su quell’argomento. Parlare delle sue mani avrebbe comportato, prima o poi, che qualcuno gli avrebbe chiesto perché aveva fatto quel che aveva fatto; e di questo, se possibile, si vergognava ancora di più.

Il dottorino si ricompose. «Come vuole, allora. Posso parlargliene, però. Va bene?» Rotwang non rispose, perciò egli proseguì sfogliando la cartella clinica. «Sulle mani ha riportato ustioni di secondo e di terzo grado. I pompieri dicono che ha cercato di aprire una porta all’interno della Villa in fiamme. Può essere? Forse ha toccato una maniglia, oppure…»

Rotwang scrollò le spalle guardando altrove. Il dottore tamburellò per qualche secondo sulla cartella clinica con la penna, aspettò per un po’, poi mormorò: «Beh, facciamo finta che sia andata così. Comunque, se glielo verranno a chiedere lo spiegherà a loro: a me proprio non interessa.» Girò un foglio. «Ha inalato molto fumo, ma per fortuna non ha riportato ustioni ai polmoni. Abbiamo proceduto alle analisi del sangue per valutare i livelli di monossido di carbonio nel sangue, ma per fortuna non sono preoccupanti. Vedremo se procedere anche a una laringoscopia nelle prossime ore per accertarci delle condizioni della trachea, ma il fatto che lei riesca già a parlare mi tranquillizza molto. Vuole vedere le analisi lei stesso per darci il suo parere?»

Rotwang scosse il capo e mormorò, più muovendo le labbra che emettendo vera voce: «Mi fido.»

«Beh, lo considererò un grande complimento da parte sua.» Il dottorino diede un ultimo colpetto di commiato sulla cartelletta di plastica. «Molto bene. Se non ha altre domande la lascio per proseguire il giro dei pazienti. Vedrà che entro qualche giorno la rimetteremo in piedi, va bene?»

«Ha notizie del dottor Fuji?»

La sua gola mandò lampi di dolore che risalirono i suoi nervi fino al cervello, ma Rotwang si sforzò di mantenersi impassibile. Il dottorino sbatté le palpebre un paio di volte. «Di chi?»

«Il direttore… il proprietario della Villa.»

Il dottore si passò le dita sulla fronte. «Non saprei, in realtà. Non ero in reparto stanotte, ma non mi risulta che lo abbiano portato qui.»

Quello che doveva dire adesso richiedeva un enorme sforzo e sarebbe stato molto doloroso. Rotwang deglutì a lungo. «So che lo hanno portato al Grandi Ustionati ad Azzurropoli. Mi domandavo se…»

Finalmente il dottore parve ricevere una tardiva illuminazione. «Ah! Può essere. Però non ho contatti in quell’ospedale. Anche volendo non saprei a chi chiedere informazioni, sa. Mi dispiace. Mi sono laureato a Johto» aggiunse a mo’ di scusa. «Non conosco ancora molti colleghi in Kanto.»

«Va bene così» mormorò Rotwang. «Grazie lo stesso.»

Trascorse il resto della mattinata, o di quel che era, a letto a guardare il soffitto. Entrarono un paio di infermiere a cambiargli la flebo dei liquidi e a misurargli la pressione; Rotwang le lasciò fare senza opporsi. Fu grato del fatto che nessuna di loro si aspettava che parlasse; l’infermiere che aveva spaventato, stando al dottore, non si fece rivedere. Forse era solo cambiato il turno.

Portia si affacciò sulla porta dopo qualche ora. Aveva l’aria estenuata e stanca, gli occhi gonfi di pianto e di sonno; era struccata, e i suoi capelli le ricadevano sulle spalle in una treccia spettinata e un po’ sfatta che aveva l’aria d’esser stata fatta varie ore prima. Rimase a guardarlo per un po’.

«Ehi» disse a mo’ di saluto. «Mi dispiace di averti fatto agitare, ieri sera.»

Che Portia si scusasse per qualcosa che aveva fatto lui era piuttosto inusuale, ma Rotwang non aveva neppure intenzione di scusarsi per aver perso la calma in quella situazione, perciò ritenne che fossero pari e non fece commenti.

«Come stai, tesoro?» domandò Portia chiudendosi la porta alle spalle. Andò a posare un paio di buste della spesa ai piedi del letto.

«Così» mormorò Rotwang. Aveva scoperto che, parlando molto piano, quasi senza muovere le corde vocali, la sua gola veniva risparmiata almeno in parte dalle fitte che la dilaniavano. «A quanto pare non ho perso le mani, comunque.»

«Ti fidi più di un dottorino che di me, dunque» constatò Portia sorridendo appena, e Rotwang sorrise a sua volta. A quanto pareva anche a lei aveva suscitato la medesima impressione che a lui.

«Ah, sei un medico? Non lo sapevo.»

Portia sedette al suo fianco sulla sedia predisposta per i visitatori. Indossava un’orrenda tuta fuori moda che Rotwang non credeva di averle visto addosso neppure nei giorni più bui della Guyana. Doveva essere propria sconvolta. «Scusami se non c’ero, prima. Ho approfittato del fatto che ti avevano sedato per andare a dormire un po’ anch’io.»

Di questo Rotwang proprio non vedeva motivo di scusarsi. «Credevo fossi al lavoro.»

Portia strinse le labbra. S’infilò le mani nelle tasche della felpa e incassò il capo tra le spalle, come se si trovasse a disagio a guardarlo. «Giusto. A questo proposito, senti… se ti dico qualcosa sul lavoro, mi prometti che non dai di matto, vero? Non voglio che le infermiere mi sgridino di nuovo.»

Rotwang si sarebbe altrove profondamente risentito per la sua scarsa fiducia, ma doveva ammettere che non aveva tutti i torti, dopo la sua crisi di nervi. Le fece cenno di parlare. Portia temporeggiò per un po’ come se dovesse cercare le parole per quello che aveva da dire.

«Ascolta… il Laboratorio resterà chiuso per un po’. Ho già parlato con Dale, non si può fare altrimenti. Tu sei fuori gioco, e io e Ami da sole…»

«Sole?»

«Valérien si è licenziato stamani» disse Portia tutto d’un fiato. «Ha dato le dimissioni con effetto immediato, senza preavviso. Assumo io la direzione, ma dobbiamo assumere almeno un nuovo biologo. Tu sei in malattia, io e Ami ne approfittiamo per smaltire un po’ di ferie arretrate.»

C’era un bel po’ di informazioni da processare tutte in una volta. «Lestournelle… dimesso?»

C’era un sincero dolore negli occhi di Portia: nonostante tutto non era mai riuscita a odiarlo del tutto, forse perché di lei Lestournelle aveva sempre avuto troppo rispetto e assieme troppa venerazione, o forse perché nella follia rabbiosa che lo aveva posseduto dopo la perdita di M2 ella aveva sempre riconosciuto le tracce di un dolore atroce per il quale era riuscita a provar compassione.

«Credo che questa sia stata l’ultima goccia per lui, Richard. Lo sai che era da anni sull’orlo di una crisi di nervi… beh, mi sa che è arrivata. Credo che, dopo tutti questi anni… fosse ancora convinto che M2 fosse nascosta nella Villa. Che l’aveste rubata voi due.»

«Già» mormorò Rotwang distogliendo gli occhi da lei, con una fitta acuta di dolore che con la sua gola non aveva niente a che fare.

Portia rimase in silenzio per un po’, girando gli occhi ovunque nella stanza per avere una scusa per non guardare direttamente verso di lui. Doveva fargli una domanda cui non osava dar voce, Rotwang glielo leggeva nella rigidità del suo collo e nel modo in cui esitava. Se le avesse chiesto che cosa avesse da chiedergli, egli le avrebbe risparmiato tutto quell’imbarazzo, ma non provava alcun desiderio di sentire quella domanda.

«Stanotte sono andata in ufficio. Mi servivano i tuoi contatti d’emergenza per poter avvertire i tuoi fratelli.» Portia fece una pausa nell’attesa, o forse nella speranza, ch’egli parlasse per toglierla dall’imbarazzo, ma Rotwang non aveva la minima intenzione di andarle incontro. «Richard, non ho potuto fare a meno di notare… che c’era ancora Emir.»

«Non li aggiorno da anni» rispose Rotwang con sufficienza. «È questo che ti angustia tanto?» Si pentì all’istante d’aver parlato così tanto, fitte di dolore si allargarono come crepe nella sua gola.

«Richard» insisté Portia. Aveva gli occhi pieni di lacrime. «Abel si è trasferito a Monaco quest’estate. Me l’ha detto Günther. Il suo indirizzo era aggiornato.»

Quegli stupidi dei suoi fratelli, a quanto pareva, erano ancora incapaci di farsi i fatti propri esattamente come quando erano bambini.

«Che cosa vuoi sentirmi dire?» chiese Rotwang rabbiosamente. S’era dimenticato di dover parlare piano, lame incandescenti perforarono la sua gola irritata; il dolore fu tale ch’ebbe un fiotto di nausea e un accesso di tosse più doloroso ancora delle parole.

Portia balzò in piedi. «Niente, Richard, niente. È solo che ti sei sempre rifiutato di parlare di…»

«Allora perché fai insinuazioni stupide?»

«Perché ti sei buttato nel fuoco per lui!»

La veemenza della sua voce fu tale che Rotwang ammutolì di colpo. Portia stessa sembrava non riuscire a credere a quello che aveva detto. Rimasero entrambi a osservarsi in silenzio per un po’ mentre l’eco delle sue parole, e la portata del loro significato, si spegneva tra di loro.

«Non c’era ancora fuoco al piano terra quando sono entrato» disse Rotwang finalmente. La voce gli raspò in gola. «Quantomeno, questo era quello che credevo. Nemmeno io sono così stupido.»

«Io non penso affatto che tu sia stupido» mormorò Portia. Tornò ad avvicinarsi a lui, cautamente, come a voler sperimentare, con la sola distanza dei loro corpi, se la loro amicizia fosse sopravvissuta a quello che gli aveva detto, e gli passò le dita fresche tra i capelli annodati. Rotwang non si ritrasse. «Lo sai che cosa penso. Che lo ami ancora.»

«E io penso che tu debba farti i cazzi tuoi.»

Portia soffocò una risata. Aveva gli occhi pieni di lacrime. «Sì… può darsi.»

Rotwang si sforzò di emettere quanta meno aria gli era possibile. Per fare ciò, e per farsi contemporaneamente comprendere, era costretto a parlare molto lentamente, guardandola fisso negli occhi, così che Portia potesse aiutarsi leggendo le sue labbra. «Nemmeno lui si sarebbe meritato di morire così come un topo in trappola. Notizie da Azzurropoli?»

«Azzurropoli?» ripeté Portia, tutta intenta a pettinargli teneramente i capelli con le dita.

Rotwang odiava ripetersi anche quando questo non gli costava dolore. In quel particolare momento, tuttavia, lo odiava con tutte le sue viscere bruciate dal fumo. «Il Grandi Ustionati! Me l’hai detto tu.»

«Oh! Che stupida» esclamò Portia alzandosi di scatto. Andò a recuperare le buste della spesa che aveva portato con sé e prese a frugarci dentro. «Scusami, ero sovrappensiero. Comunque… mi dispiace, Richard, ma danno informazioni solo ai parenti. Lo sai come funziona, no?»

Era stato sciocco anche solo chiedere: era ovvio che la risposta sarebbe stata quella, in fin dei conti. Portia prese ad aggirarsi per la stanza sistemando ovunque bottigliette d’acqua, pacchetti di fazzoletti e confezioni di salviettine umidificate. Rotwang la osservò in silenzio per un po’.

«Meno male che sei arrivata tu. Non mi avrebbero dato da bere, altrimenti.»

«Non ti fa più male la gola?» lo rimbeccò Portia aprendo l’armadio nell’angolo della stanza. «Li hanno messi qui i tuoi vestiti? Ah, eccoli… prendo le chiavi del tuo appartamento per portarti qualcosa, va bene? La biancheria, un pigiama… il medico ha detto che forse da domani puoi iniziare a bere liquidi tiepidi. Ti viene in mente altro che potrebbe servirti da casa tua?»

«Una Rauchbier» rispose Rotwang.

«Fai meno lo spiritoso. Guarda che al corso per la sicurezza sul lavoro ce lo avevano detto di non toccare le maniglie di un edificio in fiamme. Pensi d’esser tanto furbo?»

«Grazie, Portia» la interruppe Rotwang a voce alta, incurante della fitta acuta di dolore che gli perforò la gola quando parlò. Per dirle quello che doveva, per farsi perdonare della preoccupazione che le aveva dato, poteva bene sopportare un po’ di dolore. Portia s’immobilizzò alle sue parole. «Non sei tenuta a fare tutto questo per me.»

Quando si voltò verso di lui, Portia aveva il naso arrossato e gli occhi di nuovo pieni di lacrime.

«Oh, smettila» disse. La sua voce suonava nasale e spezzata, stranamente commossa. Attraversò la stanza per chinarsi su di lui. Posò la fronte contro la sua, con tanta irruenza che per un attimo egli ebbe timore che volesse tirargli una testata; invece lo abbracciò soltanto, ma goffamente e quasi con violenza. Respirò lentamente contro la sua fronte, e Rotwang si sentì le guance umide di lacrime che non erano le sue. Avrebbe voluto abbracciarla a sua volta, ma ancora non osava muovere le braccia con quelle grosse appendici gonfie e doloranti ch’erano le sue mani, e rimase immobile sotto il suo abbraccio.

«Ehi…»

«Se avessi avuto un fratello, avrei voluto che fossi tu» disse Portia senza ascoltarlo. Rotwang tacque senza più alcuna pretesa di comprenderla. «Non farlo mai più. Ho avuto troppa paura di perderti. Ti prego, promettimi che non farai mai più una cosa del genere. Che starai molto, molto calmo, qualsiasi cosa accada, e che non cercherai di fare sciocchezze per nessun motivo al mondo.»

«Dubito che ci saranno altre ville in fiamme…» provò a dire Rotwang, ma Portia premette più forte la fronte contro la sua, guardandolo negli occhi, e ripeté: «Promettimelo.»

«Prometto» concesse Rotwang, e solo in quel momento Portia si decise ad allontanarsi da lui e a lasciarlo andare. Si asciugò gli occhi con le maniche della felpa. Non era mai stata emozionale così: Rotwang non l’aveva mai vista in quelle condizioni, ma non gli veniva in mente niente da dire per consolarla, forse perché non comprendeva la ragione di tanta commozione. Si era spaventata, d’accordo; ma in fin dei conti non era successo poi niente di grave. Dal pronto soccorso dovevano averle detto molto presto, quella notte, che lui non era in pericolo di vita. Neppure il giorno della morte di M1 l’aveva vista piangere.

«Se non ti serve altro, allora, vado a casa tua a prendere un po’ di roba e te la porto domani» riprese Portia, con l’evidente intento di mascherare quell’attimo di commozione e di tornare a parlare delle cose di tutti i giorni. «Stanotte verrà mio marito a farti compagnia, va bene?»

Rotwang scosse il capo con decisione. «Non voglio la veglia notturna. Non sono morto.»

«Richard…»

Rotwang non intendeva sprecare più voce di quanta fosse necessaria per respingere quell’orrenda idea. Si limitò ad aggrottare la fronte, scuotendo la testa, e Portia rimase a soppesarlo con lo sguardo per un po’, palesemente divisa tra due opposti partiti. «Sei sicuro?»

«Vai» insisté Rotwang.

«Allora, vado» concluse Portia poco convinta. «Ti farò sapere domani a che ora arrivano i tuoi fratelli. Andiamo a prenderli io e Chris, ma arriveranno tutti a orari diversi, perciò può darsi che ci toccherà passare il pomeriggio in aeroporto per aspettarli tutti… Per qualsiasi cosa tu puoi farmi chiamare, va bene? Ho lasciato il mio numero per le emergenze al personale.»

Rotwang annuì soltanto. Quella conversazione l’aveva estenuato, ma cercò ugualmente qualcosa di leggero da dire per allentare la tensione. «Portami da leggere, magari.»

Portia gli gettò un bacio sulla punta delle dita a mo’ di saluto. Solo mentre apriva la porta Rotwang si ricordò di qualcosa che non le aveva ancora detto: cercò il modo più breve e meno doloroso possibile per dirlo ora. «Ah. Congratulazioni, direttrice.»

Portia non si voltò verso di lui stavolta. La sua mano esitò sulla maniglia, un po’ più rigida dell’istante precedente. «Già… grazie, Richard. Non avrei voluto che andasse così, però.»

«È quello che abbiamo» mormorò Rotwang. «Te lo meriti.»

«Grazie, Richard» disse Portia. «Ora riposati, però. Scusami per tutto. Ti voglio tanto bene.»

Le ore si fecero lunghe come ombre col progredire del pomeriggio. Ora che l’anestesia era stata del tutto smaltita, dormire era impossibile: le sue mani lo tormentavano più ancora della gola. Non poteva neppure chiamar qualcuno, perché per suonare il campanello avrebbe bisogno delle sue dita, ma le sue mani erano ridotte a masse goffe e inamovibili che non potevano servirgli a nulla. Dovette aspettare che un’infermiera si affacciasse spontaneamente, verso il tardo pomeriggio, a cambiargli la sacca del catetere. Avrebbe voluto aggredirla, invece si sforzò di restare calmo e ricordare a se stesso che non era colpa sua.

«Mi hanno prescritto niente per il dolore?» s’informò senza mezzi termini.

«Morfina al bisogno» rispose spiccia l’infermiera soppesandolo con sguardo esperto. «Vuole favorire?»

Per fortuna, a quanto pareva, almeno per il turno di notte non gli era toccata una di quelle infermiere moderne che avevano paura a somministrare qualche antidolorifico come si deve.

«Dio, grazie» rispose Rotwang gettandosi indietro sui cuscini.


Si svegliò da un sonno impiastricciato e un po’ confuso ch’era ancora notte: la sola luce nella stanza era quella che filtrava dal corridoio.

Si era svegliato con un senso d’angoscia e la sensazione persistente che nell’oscurità ci fosse qualcuno che l’osservava. Eppure paranoico non era mai stato, si disse; forse erano gli effetti della morfina; quando appuntò gli occhi nel buio, percorrendo con lo sguardo la camera, non gli riuscì d’individuare nessuno.

«Chris» chiamò incerto; la gola gli doleva molto meno, ora, di certo per la morfina, e si sbilanciò a parlare ancora. «Avevo detto a Portia che non…»

Nel cono d’ombra della porta emerse una figura, si delineò contro la luce del corridoio, e una voce nota, che però sulle prime egli non riuscì a distinguere, fu: «Non sono Chris.»

Il suo primo pensiero, per la verità piuttosto stupido, fu: Come hanno fatto i miei fratelli a essere già qui? Ma quasi simultaneamente la sua mente formulò anche una spaventosa realizzazione opposta, ed egli, improvvisamente sveglio e lucido nel buio, pensò: Nessuno dei miei fratelli può essere già qui.

Il terzo pensiero, che in qualche modo fu più che altro una razionalizzazione dei precedenti, fu che aveva pensato che potesse essere uno dei suoi fratelli perché la voce che aveva sentito non aveva un accento giapponese; ma quell’accento non era neppure tedesco, si rese conto all’improvviso. Era francese.

Cercò di tirarsi a sedere sul letto, affannosamente, con la limitata mobilità che gli consentivano i suoi gomiti, ed esclamò: «Che cazzo ci fai qui?»

Nello spicchio di luce che filtrava attraverso la porta, ora che i suoi occhi si erano abituati alla semioscurità, Lestournelle appariva pallido come non l’aveva visto mai. I suoi occhi s’erano fatti enormi, cerchiati da orbite scure, ceree; sembrava fuori di sé, e forse lo era, chissà.

Lestournelle si chinò sul suo letto di scatto. Rotwang si ritrasse da lui quanto più gli era possibile, ritraendosi verso la finestra; avrebbe voluto gridare, ma la sua gola irritata non aveva voce a sufficienza; e, in ogni caso, in qualche modo, egli sapeva che Lestournelle non gli avrebbe mai fatto del male. Era troppo debole e meschino per farlo, persino impazzito com’era.

«Sei entrato nella Villa per cercare Mew?»

Il suo nome gli aprì una piaga in mezzo al petto. Fu grato di non poter gridare, grato che fosse troppo buio perché Lestournelle vedesse i suoi occhi arrossati di pianto, perché il suo dolore era tale che nessuno doveva sentirlo né vederlo. Non pensava mai a lei se poteva evitarlo, perché il suo ricordo gli faceva troppo male e la sua propria debolezza lo faceva infuriare: Mew era un ricordo sepolto in mezzo ai suoi ricordi, ch’egli reprimeva con forza ogni volta che minacciava di affiorare, perché non poteva permettere a se stesso di tollerare la propria sofferenza e il ricordo della propria debolezza, perché il suo rimorso era tale da dilacerargli quasi il petto. Ma tutto questo a Lestournelle non si poteva dire, egli neppure poteva permettersi di lasciarglielo intuire, e ritraendosi di più da lui sul letto Rotwang ringhiò: «Ancora questa storia…? Ti brucia proprio tanto che Fuji me lo scopassi io anziché tu, eh?»

La sua provocazione non giunse a segno. Lestournelle neppure cambiò espressione: spingendosi ulteriormente contro di lui, cogli occhi spalancati e infissi nei suoi, Lestournelle proseguì come se non l’avesse udito affatto: «L’hai vista la luce azzurra?»

Rotwang avrebbe voluto poterlo spingere via da sé, ma per far ciò gli sarebbero occorse mani che non fossero ustionate e avvolte in strati di bende. Così non era, e mormorò: «Allucinazioni, Lestournelle?»

«La luce azzurra!» esclamò Lestournelle spasmodicamente. I suoi occhi erano come spiritati. «Ne parla tutta l’Isola! Hanno visto un lampo di luce azzurra fuoriuscire dalla Villa…»

«Beh, sorpresa, Lestournelle» commentò Rotwang sorridendo appena. «Non è che tutta l’Isola sia venuta a parlarne proprio qui nella mia camera d’ospedale, eh?»

Qualcosa vacillò negli occhi di Lestournelle, che non si distoglievano dai suoi. «Tu non l’hai vista?»

«Non so di cosa tu stia parlando» ribadì Rotwang. «Ora ti spiacerebbe toglierti dal mio letto prima che ti faccia arrestare, sì?»

Lestournelle parve rendersi conto solo in quel momento d’essere praticamente seduto sul suo letto, contro il suo petto. Si ritrasse da lui di scatto, allontanandosi dal letto, e prese grandi boccate d’aria angosciata, in piedi, immobile di fronte a lui.

«Non l’hanno ancora trovata» disse.

Rotwang scosse il capo, stavolta quasi con pietà. «Che cosa?»

«Lei» sussurrò Lestournelle. «I pompieri hanno contenuto l’incendio, ora stanno cercando di salvare la struttura… la stanno cercando, Rotwang. Se c’è, la troveranno. Dimmi la verità, Rotwang, ti prego. È morta bruciata?»

Rivide Mew come l’aveva vista per l’ultima volta, riversa sul letto pieno di sangue, cogli occhi spalancati e fissi, immoti, e il cucciolo immobile e livido senz’aria di fianco a lei. Il ricordo fu tanto intenso e violento che per un attimo temette che avrebbe vomitato; la bocca gli si riempì di un sapore acre.

Non avrebbe voluto rispondere, ma per la prima volta in vita sua Lestournelle suscitò in lui una pietà reale: non voleva riaverla. Voleva solo sapere se era morta di una morte orribile, e a quella parte di Lestournelle che aveva amato M2 di un amore reale, almeno una volta, Rotwang sentì di dovere almeno una risposta, nell’unica forma in cui poteva dargliela.

«Certo che non è morta bruciata, Lestournelle. Solo tu in tutto il mondo sei ancora convinto che ce l’avessimo noi due al posto di qualche signore della guerra centrafricano.»

Le labbra di Lestournelle tremarono. Stava sorridendo, ma di un sorriso assente che non si estendeva ai suoi occhi. Si morse le labbra.

«Lo proteggi ancora» disse. Anche la sua voce tremava. «Persino ora che… persino dopo che vi siete lasciati, che hai lasciato la Villa con le valigie in mano, tu l’hai sempre protetto. Ne è valsa la pena?»

«No» rispose Rotwang, con in petto una fitta acuta che avrebbe voluto non provare. «Ma questo non è un tuo problema. Giusto?»

Lestournelle rimase immobile nel buio a occhi sgranati. Sembrava posseduto da uno spirito. Le sue labbra si muovevano incessantemente, mormoravano senza posa nel buio parole senza scopo né senso; per quanto si sforzasse, Rotwang non riuscì a distinguerne nessuna. Suo malgrado, si sentì preoccupato.

«Lestournelle…»

Lentamente, senza distogliere neppure per un istante gli occhi dai suoi, Lestournelle si ritrasse da lui e lasciò la stanza camminando all’indietro, con una mano sulla fronte, mormorando ancora le sue domande senza risposta. Rotwang rimase da solo.

Tornò a distendersi sui cuscini senza distogliere gli occhi dalla porta, con la convinzione inspiegabile eppure incrollabile che Lestournelle non sarebbe tornato, di certo per quella notte e forse mai; che la sua mente già fragile era ormai sperduta in un luogo remoto, irraggiungibile, e che nessuna parola sarebbe più stata in grado di raggiungerlo. Avrebbe quasi potuto credere d’esserselo immaginato, che fosse stato tutto uno strano sogno inutile indotto dalla morfina; chissà cos’era quella luce azzurra, però. Per un attimo solo concesse alla propria mente di soffermarsi su quel pensiero, perché l’azzurro, per lui, non era che il colore degli occhi di Mew; ma la tentazione d’illudersi passò, o forse fu lui a cacciarla, rabbiosamente, reprimendo il desiderio di crederla viva così come aveva represso la sua rabbia e la sua disperazione per tutto quel tempo. Mew era morta insieme al cucciolo osceno che avrebbe dovuto partorire, li aveva visti lui: non c’era altro da dire. Ma poi, proprio quand’era quasi sul punto di iniziare a credere che davvero Lestournelle non fosse stato che un’allucinazione prodotta dal dolore e dalla morfina, un’infermiera fece capolino e venne di nuovo a controllargli il catetere.

«Ha visto suo fratello, dottore?» gli chiese in confidenza mentre si affaccendava intorno al letto. Rotwang la guardò interdetto. «Ma come… ha dormito per tutto il tempo che è stato qui? Il caporeparto aveva dato il permesso di far entrare per lei anche di notte, sapendo che i suoi parenti vengono tutti dall’estero. L’abbiamo riconosciuto dall’accento, sa» spiegò con un certo orgoglio. Il che, in effetti, spiegava davvero molte cose: per quegli isolani, qualunque accento poco più occidentale dell’Altopiano Blu era tutto indifferentemente straniero.

Rotwang la scrutò per un po’, profondamente divertito dall’ironia della situazione, indeciso se dirle la verità oppure no. Quantomeno ora era certo che non si fosse trattato di un sogno.

«Non si preoccupi, ero sveglio» disse infine. «Siete stati molto gentili. Grazie.»


Quando si svegliò, la mattina seguente – e che fosse mattina glielo diceva la rinnovata pienezza della luce – di fianco al suo letto c’era un signore anziano che leggeva il giornale.

Per un po’ Rotwang non fece niente. Non aprì neppure gli occhi del tutto. A quanto pareva la sua stanza era divenuta un luogo di svago e di ritrovo comune per tutta l’Isola, e gli infermieri, evidentemente, erano palesemente in accordo con quella politica.

Dal momento che, altrettanto evidentemente, non c’era niente che potesse fare per opporsi a quella tendenza, e che quantomeno così gli veniva risparmiata un bel po’ di noia, Rotwang aprì ostentatamente gli occhi e disse: «Un volontario dell’ospedale, immagino.» Conservava il vago ricordo di una delle figlie di Portia – non ricordava mai quale – che gli raccontava di un’associazione di volontari che teneva compagnia ai degenti presso l’ospedale; erano perlopiù studenti, ma era certo che ci fosse, tra loro, anche qualche anziano pensionato che occupava così il proprio tempo. Gli pareva la spiegazione più plausibile.

Il vecchio fu colto alla sprovvista. Si affrettò a ripiegare il giornale, schiarendosi la gola con un colpo di tosse, e si alzò brevemente in piedi in segno di rispetto. Aveva un volto composto e dignitoso ma stanco, provato, e si sforzò di riprendersi. «Gran Dio, mi scusi… mi ero distratto un momento. Lei è il dottor Rotwang, presumo? Il dottore del Laboratorio.»

«Immagino che lei questo lo sappia già» rispose Rotwang soppesandolo con lo sguardo. c’era qualcosa di quel volontario che non lo convinceva del tutto, eppure non riusciva a decidere di che cosa si trattasse: si sforzò di ricordare dove lo avesse già visto, mentre cercava qualcosa da chiedergli per indagare chi fosse. Per fortuna quel giorno, forse per la morfina o perché ormai erano passate più di ventiquattr’ore, la gola gli faceva molto meno male. «A cosa devo il piacere?»

«Mi dispiace disturbarla. È solo che avevo piacere di conoscerla e scambiare qualche parola con lei.» Il vecchio lisciò le pagine del giornale con gesti un po’ meccanici, nervosi. Era stranamente agitato, troppo coinvolto per essere un volontario dell’ospedale, e Rotwang lo osservò con preoccupazione. «Sul giornale c’è scritto che è entrato nella Villa in fiamme. Si è comportato da eroe.»

Non aveva mai pensato che quella storia sarebbe finita sul giornale. Non che avesse pensato affatto. Rotwang si tirò su un po’ a fatica sul letto, issandosi contro i cuscini a forza di gomiti, e accennò col capo al giornale. L’altro glielo porse obbedientemente: la foto della Villa che bruciava campeggiava sulla prima pagina del giornale locale. Non volle neppure leggere il titolo: lo spinse via con le mani bendate. «I giornalisti non sanno mai che cosa scrivere. Bisogna perdonarli, comunque. Bisogna pure che mangino anche loro.»

«Sì, ma è vero» insisté l’uomo.

Rotwang gli scoccò un’occhiata seccata. «Diciamo che non mi sono bruciato cucinando. È contento?»

L’uomo rimase in silenzio a considerare le sue parole per un po’.

«Mi scusi» disse infine. «Lei è il dottore tedesco che abitava con mio figlio, no? Lo dicono tutti…»

D’un tratto fu come assistere al dilacerarsi di un velo. Rotwang levò gli occhi su di lui come se lo vedesse per la prima volta: ecco dov’era che l’aveva già visto, ed ecco perché non riusciva a ricordarlo. Aveva pensato di averlo visto da qualche parte sull’Isola Cannella, ma la sua era la faccia che campeggiava sul giornale, perlopiù in foto di repertorio, di fianco a ogni articolo che menzionasse il signor Fuji del Centro Pokémon Volontario di Lavandonia; era negli occhi di Emir…

Esser colto di sorpresa era una sensazione che non gli piaceva per nulla. Rotwang si raddrizzò maggiormente sul letto, scrutando fisso quell’uomo di cui aveva fino ad allora solo sentito parlare, e disse lentamente, con più stizza di quanta ne occorresse in realtà: «Presumo che sia venuto a farmi la morale perché mi scopavo suo figlio.»

Il signor Fuji ebbe un sorriso piuttosto simile a una smorfia. «Le infermiere mi avevano detto che è piuttosto aggressivo. Però devo deluderla: io non mi sconvolgo per così poco. La prego, continui pure.»

«Quindi immagino che non sia venuto a farmi la morale» riprese Rotwang con circospezione. «Posso sapere allora a cosa devo l’onore?»

Il signor Fuji lo scrutava interamente come se cercasse di far combaciare la sua immagine con quella che di lui si era costruita nella propria mente nel corso del tempo: Rotwang non vedeva quali somiglianze potesse trovare con quell’immagine, ora che lo vedeva in un letto d’ospedale con le mani bendate e la gola ustionata dal fumo. «È stato Emir a darle quest’idea di me, non è vero? Quella di un vecchio che passa i suoi ultimi giorni a far la morale a voi giovani.»

«Oh, mi perdoni» rispose Rotwang. Ricordava ancora troppo bene il dolore di Emir quel giorno in cui era tornato a casa da Lavandonia, dopo che la polizia aveva perquisito la casa di suo padre, e ogni volta che sui giornali compariva qualche lettera di protesta, contro o a favore di questa o quella ideologia. «Devo essermi perso la sua lettera sui giornali in cui si sforzava di dar di sé un’immagine diversa.»

Questa volta il signor Fuji rimase interdetto e non seppe che dire.

Neppure Rotwang era così perfido da infierire su un povero vecchio. Dopo quelle schermaglie iniziali, e aver affermato la propria superiorità, poteva ritenersi soddisfatto, e decise di lasciar perdere. Si sforzò di mostrarsi ragionevole.

«Ascolti… non è che non apprezzi la sua compagnia, ma dubito che lei possa apprezzare la mia. Se non ha nulla di particolare da dirmi, sta sprecando il suo tempo. In ogni caso, se è questo che voleva sapere, io non mi vedo con suo figlio da due anni. Non avrebbe fatto meglio a restare ad Azzurropoli?»

Il signor Fuji sbatté le palpebre un paio di volte. «Azzurropoli?»

«Voglio dire» specificò Rotwang gentilmente. «Al Grandi Ustionati.»

«Mi scusi» disse il signor Fuji, piuttosto imbarazzato. «Temo di non seguirla.»

Rotwang aggrottò la fronte. «È lì che hanno ricoverato Emir, no?»

«Ma… dottore» sussurrò il signor Fuji. D’improvviso le sue labbra tremavano. «Emir è al piano di sotto. È qui. All’obitorio.»


Si rese conto d’aver gridato solo quando le braccia del signor Fuji lo abbrancarono per le spalle e lo trattennero contro i cuscini e la sua voce supplicante, rotta dall’emozione, ripeté contro il suo orecchio parole che solo dopo un po’ egli fu in grado di distinguere. «… mi dispiace, la prego, non gridi… non sapevo che lei non sapesse, ma ora la prego, la prego, si calmi…»

Aveva guardato ovunque gli indicassero, cieco e fiducioso come un bambino troppo stupido per capire, ostinatamente chiudendo gli occhi per non vedere la realtà che lo circondava da ogni parte. Non aveva visto perché non aveva voluto vedere; e ora gli indizi e i segnali che lo avevano attorniato da ogni parte gli balzavano agli occhi e gli tornavano alla memoria deridendolo per la sua cecità – Portia gli aveva detto che Emir era ad Azzurropoli ed egli le aveva creduto senza chiedere perché non voleva sapere. Aveva ignorato ogni sua stranezza dopo quel momento, aveva finto di non vedere le sue lacrime, le sue contraddizioni, la sua inspiegabile agitazione, perché se le avesse notate avrebbe dovuto chiedergliene il motivo; e lui non aveva voluto conoscere quel motivo. Promettimi che starai molto, molto calmo, qualunque cosa accada, gli aveva chiesto Portia piangendo, e lui aveva promesso tutto quello che lei voleva senza chiedere, perché in fondo sapeva che lei stava mentendo…

«La prego, non mi faccia cacciare.» Il signor Fuji lo stava ancora supplicando, ma Rotwang lo udiva a malapena. «Ho ancora delle cose da chiederle…»

Rotwang si abbandonò sul cuscino senza lottare più. Si sentiva bruciare le lacrime agli angoli degli occhi, ma non aveva modo di asciugarle con le mani, e forse neppure gli importava. Portia gli aveva mentito; Emir era morto, forse era già morto quando lui stupidamente era entrato nella Villa, e di salvarlo egli non aveva avuto speranza mai; Portia gli aveva mentito, eppure egli non riusciva a sentir montare, dentro di sé, la rabbia che avrebbe dovuto provare verso di lei. Gli aveva mentito al momento del suo primo risveglio, quando ancora era confuso e spaventato in preda all’anestesia e al dolore, e lei ancora in preda al terrore di perderlo; e poi era rimasta prigioniera della sua stessa bugia e non aveva saputo come tirarsene fuori senza farlo agitare.

Girò il capo sui cuscini per asciugarsi gli occhi contro la spalla e non dover più guardare il vecchio che lo scrutava fissamente, come aspettandosi da un momento all’altro ch’egli si rimettesse a gridare.

«Non… non glielo avevano detto?»

La domanda era talmente stupida che Rotwang non rispose. Rimase ostinatamente immobile sui cuscini, dandogli le spalle, e chiese: «Perché è venuto da me?»

«Volevo parlare con lei» disse il signor Fuji.

«Suo figlio è morto» disse Rotwang duramente. La brutalità delle sue parole fu tale che Fuji sobbalzò. «Che cosa ci fa lei qui?»

«Volevo parlare con lei» ripeté per l’ennesima volta il signor Fuji. «Lei ha vissuto con mio figlio, per un po’.»

«Questo lo abbiamo già appurato» mormorò Rotwang. «Gliel’ho già detto. Non ci vivevo più.»

«Lei ha cercato di salvare mio figlio. Si è gettato nel fuoco per lui.»

Gli scappò una risata amara. «Non mi sono gettato proprio da nessuna parte. Sono entrato dalla porta come tutti.»

«Dottore» insisté il signor Fuji. «Perché ha rischiato così tanto per cercare di salvare mio figlio?»

Rotwang si strinse nelle spalle senza saper che dire. Qualsiasi risposta gli venisse in mente suonava troppo melodrammatica da pronunciare. Disse la stessa cosa che aveva detto a Portia: «Perché neppure lui meritava di morire bruciato.»

Il signor Fuji parve non trovare nulla da replicare a quell’osservazione. Riprese il giornale e lo spiegò sul letto, Rotwang lo sentì dal rumore delle pagine che frusciavano. «Sono stato in banca, ieri pomeriggio.»

«Interessante» commentò Rotwang, che non vedeva l’utilità di quell’affermazione.

Fuji proseguì come se non l’avesse sentito. «A cercare di sistemare un po’ i suoi conti, sa. Emir a queste cose non sapeva star dietro.»

«Non era così incapace» obiettò Rotwang, ma Fuji non lo sentì.

«Sono stati gentili in banca, sa? Mi hanno dato gli ultimi estratti conto e tutto il resto.»

Interessante, avrebbe voluto ripetere Rotwang, ma non ritenne necessario sprecare voce per dire qualcosa che il signor Fuji probabilmente non avrebbe comunque ascoltato: sembrava parlare per se stesso piuttosto che per lui, ed egli decise di lasciarlo fare. S’ingegnò a mettersi seduto di nuovo, puntellandosi sui gomiti, e tornò a guardare verso di lui, aspettando di capire dov’era che l’altro intendeva andare a parare.

«Ho notato che ha effettuato un bonifico sul conto di mio figlio quasi ogni mese negli ultimi due anni.» La sua voce suonò quasi timida. «Come mai, se vi eravate lasciati?»

L’uomo che sedeva di fianco al suo letto, con le pagine del giornale nervosamente strette tra le mani, era un povero vecchio che aveva appena perduto suo figlio e che non aveva più avuto sue notizie negli ultimi quattro anni. Durante quegli anni, Emir era stato per quell’uomo un estraneo molto più di quanto lo fosse stato per lui.

«Non si meritava neanche di morire di fame» rispose Rotwang. «Pensava che suo figlio potesse vivere senza stipendio per più di quattro anni, senza di me?»

Gli occhi del signor Fuji tornarono a posarsi sul giornale aperto che Rotwang si ostinava a non guardare. Sembrava cercarvi qualcosa che forse quell’articolo non poteva dirgli.

«Perché ha continuato a prendersi cura di lui?»

Chissà perché non gli venne in mente alcuna vera risposta a quella domanda, forse perché la domanda era troppo sciocca per rispondere seriamente. Gli veniva quasi da ridere. Gli tornò in mente soltanto una delle citazioni preferite di suo fratello, che gli ripeteva ogni volta che gli chiedeva soldi in prestito ai tempi dell’Università. «Jeder gebe, wie er es sich in seinem Herzen vorgenommen hat, nicht verdrossen und nicht unter Zwang*…»

Fuji lo guardò con preoccupazione come se delirasse. «Si sente bene?»

Rotwang scrollò le spalle. «Niente, niente. Mio fratello è filologo neotestamentario a… ah, lasci stare. Ma non sta bene rinfacciare a un uomo le sue debolezze, sa.»

«Lei questa la chiama una debolezza?» protestò Fuji a mezza voce.

Gli salivano alla mente ricordi che affioravano alla superficie della sua coscienza come bolle nell’acqua. Rotwang sbatté le palpebre più volte, furiosamente, per non vederli né sentirli. Emir era morto, disse la sua coscienza, ed egli la mise a tacere con rabbia parlando con voce più alta della sua. «Certo che lo è.»

Il signor Fuji accolse la sua risposta con la dignità composta, dignitosa, con la quale avrebbe incassato un colpo. Tornò a tormentare il giornale, pensierosamente, e stavolta neppure alzò gli occhi su di lui per parlare di nuovo.

«L’ha fatto anche per Mew?»

L’aveva detto a voce bassissima; Rotwang non avrebbe neppure udito la sua voce se non fosse stato così vicino, se solo il nome di Mew non fosse stato nella sua mente in ogni momento ed egli non lo avesse sentito in ogni parola che altri pronunciavano, non avesse percepito il suo ricordo persino nell’aria. La mancanza di Mew era tale che ogni volta gli mancava il respiro; il suo ricordo gli bruciava in petto più del fumo, più delle ustioni. Ma alla sua perdita che ancora tormentava i suoi sonni Rotwang non poteva reagire che nell’unico modo che conosceva: con la rabbia.

«Se evita di dirlo ad alta voce mi fa un favore, sa» disse guardando ostinatamente lo spicchio di corridoio attraverso la porta aperta. Nessuno badava a loro, ovviamente, ma Rotwang proseguì allo stesso modo. «Suo figlio non può più essere arrestato, forse, ma io sì.»

Il signor Fuji non l’aveva affatto detto ad alta voce. Aveva bisbigliato il suo nome a malapena, in punta di labbra, piano tanto che appena fosse udibile; ma era evidente che non aveva la minima intenzione di contraddirlo, e non fece niente per obiettare o difendersi.

«Mi dispiace.» La sua voce suonava genuinamente mortificata. «È solo che avevo bisogno di sapere se lei fosse a conoscenza di… di lei.»

Rotwang continuò a guardare ostinatamente al di fuori della stanza. Avrebbe dovuto provare pietà per quel vecchio seduto al suo fianco, disperatamente alla ricerca di qualsiasi cosa gli parlasse di suo figlio, ma, forse perché gli ricordava certe scene omeriche, strappalacrime, di quando studiava al ginnasio, non ne provava nessuna.

«Che vuol dire che lo sapevo?» chiese senza troppa buona grazia. «Pensa che sarei mai andato a vivere con suo figlio, che sarebbe successo tutto quello che è successo, se non fosse stato per lei?»

Non era stato sempre solo per lei, in realtà. M2 era stata quasi tutto, ma non era stata ogni cosa, e non tutti i suoi pensieri erano sempre stati per lei. Ma questo apparteneva solo a lui, e non era tenuto a raccontarlo a nessuno.

«Lei era là dentro?» chiese Fuji a bassa voce. «Dentro la Villa, intendo. Durante l’incendio.»

Gli tornò in mente d’improvviso il lampo di luce azzurra che quella notte aveva nominato Lestournelle, ma allontanò quel pensiero da sé, ancora una volta. L’aveva vista morire. M2 si era assommata a M1 nei suoi rimpianti, e ogni notte egli si ripeteva che avrebbe dovuto salvarli entrambi. La cosa peggiore era che sapeva di aver ragione su entrambi, anche se in modi diversi.

«No» rispose. «È morta due anni fa.»

«Due anni fa» ripeté Fuji. La coincidenza nella data parve risuonare nella sua mente. «È per questo che vi siete lasciati?»

Rotwang non rispose. Gli pareva che fosse già abbastanza evidente così: il signor Fuji attese la sua risposta per un po’, poi dovette sembrare evidente anche a lui. Assunse l’aria impacciata, fuori luogo, di chi deve fare una domanda scomoda e non sa che parole usare.

«Posso chiederle com’è morta?»

Per un attimo Rotwang considerò quasi di dirglielo. Dire la verità però avrebbe richiesto di risalire all’indietro lungo tutta la linea di eventi che lui stesso non conosceva nella loro interezza, all’indietro per più di quattro anni fino alla notte nella giungla, fino all’unico grido di M1 sotto le sue mani prima di morire, e ai grandi occhi azzurri di Mew. Avrebbe dovuto dire anche qualcosa che non aveva mai saputo: che cosa avesse attraversato la profonda mente di Emir in quei due mesi che aveva trascorso recluso da solo nel ventre della Villa, al termine dei quali tutto era successo come in un incubo. Avrebbe dovuto ammettere ad alta voce la propria cecità, e soprattutto avrebbe dovuto confessare che quello che Emir aveva fatto andava molto al di là, in modi inimmaginabili, del rapimento di un Pokémon e di un esperimento genetico. Quell’uomo non avrebbe mai più potuto pensare a suo figlio come aveva fatto fino ad allora; e Rotwang sapeva quanto doloroso fosse quello che lui conosceva.

Dire tutto ciò sarebbe stato troppo intenso e troppo complicato, e Rotwang non solo non se ne sentiva le forze, ma neppure si sentiva in diritto di cancellare tutto ciò che quell’uomo sapeva di suo figlio. Cercò le parole con accortezza.

«Negli ultimi tempi, da solo nella Villa, Emir non era più tanto in sé» disse lentamente, indagando sul suo volto, a misura che parlava, gli effetti che le sue parole scaturivano; ma il signor Fuji si limitava ad ascoltarlo in silenzio, con occhi attenti, come se bevesse le sue parole a una a una dalle sue labbra. Nelle sue parole egli disperatamente cercava suo figlio. «Emir ha fatto delle scelte sbagliate, a volte… ma quello che è successo a Mew è stato un incidente.»

Non aveva più rivisto Emir da quando aveva lasciato la Villa, ma non importava vederlo per aver sue notizie. Ne parlava tutta l’Isola, di tanto in tanto. Portia aveva cercato di telefonargli tante volte, ma alle sue telefonate nessuno aveva mai risposto, e Rotwang s’immaginava gli squilli echeggiare senza scopo nelle stanze vuote. Gli aveva persino chiesto di tornare a parlargli, e dopo averglielo chiesto lo aveva supplicato: Rotwang l’aveva spinta fuori dal proprio ufficio senza ascoltare le sue proteste. Qualunque cosa ti abbia fatto, dobbiamo almeno accertarci che sia vivo, gli aveva gridato Portia sbattendo i pugni contro la sua porta, e Rotwang s’era appoggiato a quella porta ignorando le sue suppliche. Portia era inutilmente melodrammatica: che fosse vivo lo sapeva tutta l’Isola, perché ogni tanto lo avvistavano fuori dalla Villa. La segretaria del Laboratorio era riuscita a parlargli, una volta: Rotwang l’aveva sentita mentre raccontava a Portia nel suo ufficio, profondamente commossa e turbata, perché a Emir aveva voluto bene davvero, che l’aveva incontrato nella spiaggia e che lui non l’aveva riconosciuta; che le aveva parlato con voce strana, totalmente assente, e che aveva dovuto pensare a lungo dopo ogni sua domanda… Credo che fosse drogato, aveva confidato a Portia piangendo, e Rotwang s’era risentito profondamente della banalità della conclusione a cui era giunta. Non era drogato, era pazzo; ma questo era bene che continuasse a saperlo solo lui.

Il signor Fuji chinò il mento sul petto sorridendo tra sé. Tentennò il capo per un po’.

«È la verità?»

No, non lo è, avrebbe dovuto dire Rotwang. Invece, guardandolo negli occhi, disse ad alta voce: «Mi sta dando del bugiardo?»

Se Emir non fosse morto, il signor Fuji non gli avrebbe creduto: Rotwang glielo lesse negli occhi con la stessa chiarezza con la quale aveva letto tutto il letto. Ma Emir era morto, la sua vita si era spenta, era svanita da quel mondo come la fiamma di una candela, proprio come se non fosse mai esistita sulla terra, e quel padre che lo cercava affannosamente nel solo luogo al mondo dove sperava di trovarlo, nelle sue parole, aveva un tale bisogno di saper qualcosa di lui che si sarebbe aggrappato a tutto. Anche alle sue menzogne, se la verità era troppo terribile perché la si potesse ascoltare.

«Non mi permetterei mai!» protestò Fuji spalancando gli occhi. «Glielo chiedevo solo perché…»

Sapendo d’avergli mentito, Rotwang rispose: «Lasci stare. La prendevo solo in giro.»

La conversazione era finita, o meglio ci sarebbero state tante cose da dire, forse infinite; ma l’unico a conoscerle era lui, ed era anche l’unico a non aver forze a sufficienza per parlarne. A quel vecchio che Emir aveva odiato con tutte le sue forze ora Rotwang non sapeva più che dire, ma uno strano pudore lo tratteneva dal cacciarlo direttamente. Il signor Fuji, a ogni modo, parve condividere il suo imbarazzo, o quantomeno comprenderlo, perché si risolse a piegare definitivamente il giornale, con aria di commiato, e fece per alzarsi.

«La ringrazio, dottore. La pazienza che ha avuto con me le fa davvero onore. L’ho già disturbata più che a sufficienza, direi…»

«Non se ne vada» disse Rotwang d’impulso.

Il signor Fuji chinò gli occhi su di lui in un moto di stupore. «Come dice?»

Rotwang si pose quasi la stessa domanda: perché l’aveva detto? Era stato un rimasuglio di civiltà, forse: un’eco della sua educazione classica, borghese, Achille che piangeva con Priamo eccetera, e di sicuro quei ricordi che affioravano dalla sua giovinezza lo condizionavano più di quanto fosse disposto ad ammettere. Ma poi c’era stato anche qualcos’altro che era ancora più oscuro e inconfessabile, e che Rotwang non avrebbe ammesso mai, neppure di fronte a se stesso: che quell’uomo era l’unico con cui potesse parlare di Emir. Che quando fosse rimasto solo, la consapevolezza che Emir era morto, che il suo pensiero non poteva più raggiungerlo in nessun luogo del creato, come onde radio destinate a vagare sempre e a non essere recepite mai, l’avrebbe assalito con una forza ch’egli non era in grado di reggere e che preferiva procrastinare. Ad alta voce però bisognava pur dire qualcosa per giustificare la sua stranezza improvvisa, e Rotwang, colto alla sprovvista, disse: «I miei fratelli non arriveranno prima di stasera. Potrebbe tenermi compagnia fino ad allora.»

«Oh.» Il signor Fuji parve cercare qualcosa di educato da dire per prendere tempo. «Più di un fratello, quindi. Sono una bella cosa, le famiglie numerose. Abitano qui in Kanto anche loro?»

«Siamo sparsi per il mondo. Uno è in America, mentre altri due sono rimasti in Germania.» Non s’accorse neppure di aver sorriso un po’. «Il più piccolo ha finito da poco il dottorato in ingegneria aerospaziale.»

«Tutti figli di successo, quindi» commentò Fuji gentilmente. «I vostri genitori devono essere molto fieri di voi.»

Prima di mostrare una parte troppo vulnerabile di sé, Rotwang cambiò decisamente argomento. «Quindi, rimane?»

Fuji si tormentò il giornale tra le mani per un po’.

«So che lei non mi vuole davvero qui, dottor Rotwang» disse finalmente, con un sorriso esitante. «Lei prova solo pietà per un povero vecchio. La sua gentilezza le fa troppo onore.»

«Senta» lo interruppe Rotwang. «Io non sono molto educato, ma sono molto onesto. Era Emir l’ipocrita tra noi due, non io. Se gliel’ho chiesto è perché…»

Nella pausa che fece, senza saper che dire, Fuji avrebbe dovuto fargli la cortesia di parlare per riempire l’imbarazzo del silenzio; invece Fuji rimase in silenzio ad aspettare di sentire da lui perché gli avesse chiesto di restare; ma Rotwang non lo sapeva, o forse soltanto non lo sapeva dire, e nessuno dei due disse niente per un momento. Poi l’impasse passò, e il signor Fuji, riponendo il giornale, sedette di nuovo sulla sedia, quasi sul bordo, come se temesse di approfittare troppo della sua cortesia.

«La ringrazio, dottore. Lei è…» La sua voce vibrava di una gratitudine ch’egli non avrebbe saputo dire a parole. «Non osavo chiederglielo, ma… lei è il solo con cui possa parlare di mio figlio.»

«Sì» disse Rotwang schiarendosi la gola, sperando che dall’esterno non si sentisse che la sua voce tremava. «Anche per me lei è l’unico con cui possa parlare di Emir.»


Fine.


* Seconda lettera ai Corinzi 9, 7: “Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza.”


Finire questa storia è la sensazione più strana che io abbia mai provato. Credevo che sarei stata felicissima di dare finalmente una fine a questi personaggi, per quanto dolorosa, e in un certo senso lo sono; ma questa storia era anche rimasta l’unica cosa costante della mia vita negli ultimi sette anni, e averla finita mi lascia uno strano senso di smarrimento.

A un certo punto però mi sono sentita in grado di lasciar andare questa storia e mi sono decisa a scrivere questo epilogo, cercando di dare a ciascuno il finale che avevo progettato fin dall’inizio.

Non posso che ringraziare, arrivata a questo punto, tutti coloro che hanno sostenuto questa storia in ogni modo. Grazie perciò a carachiel, Luminja, Mad_Dragon, NicoRobs, Persej Combe, e Wings44 per aver aggiunto la storia alle seguite; a BlazePower, Peppe_97_Rinaldi, PoisonRain, RedLinus e Wings44 per averla aggiunta alle preferite; e infine grazie a cristal_93, KomadoriZ71, Peppe_97_Rinaldi, Persej Combe, Mad_Dragon, NicoRobs, BlazePower, IndianaJones25, PoisonRain, Gaia Bessie, Wings44 e Bankotsu90 per le loro meravigliose recensioni. Non so come ringraziarvi, se non infinitamente, per aver provato a conoscere questi personaggi e le loro vicissitudini, e per aver sostenuto me. Siete stati meravigliosi. Grazie.

A parte, non posso che ringraziare di cuore Fiulopis per le sue continue correzioni a questa storia, a prezzo della sua serenità, e per il suo sostegno immancabile.

Non mi rimane che augurarmi che questa storia non vi abbia delusi troppo, e augurare a voi un anno ricco di tutto quello che potete desiderare.

A presto!

Afaneia

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