Belle's nightmares

di VeronicaDauntless
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** C'era una volta.. ***
Capitolo 3: *** Sacrificio ***
Capitolo 4: *** Prigioniera ***
Capitolo 5: *** Ore sette ***
Capitolo 6: *** Fiamme ***
Capitolo 7: *** Leon ***
Capitolo 8: *** Una rosa per i tuoi pensieri ***
Capitolo 9: *** La biblioteca ***
Capitolo 10: *** Adam ***
Capitolo 11: *** Un invito ***
Capitolo 12: *** Perché i mostri si temono ***
Capitolo 13: *** Promise? Promise.. ***
Capitolo 14: *** Burattinaio ***
Capitolo 15: *** Bestia ***
Capitolo 16: *** Sopra ogni altra cosa ***
Capitolo 17: *** Un dono ***
Capitolo 18: *** Tè o zuppa? ***
Capitolo 19: *** L'incubo peggiore ***
Capitolo 20: *** Risveglio ***
Capitolo 21: *** Sconfitta ***
Capitolo 22: *** Marchio ***
Capitolo 23: *** Presto. ***
Capitolo 24: *** Impronte ***
Capitolo 25: *** Neve ***
Capitolo 26: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ***


           PROLOGO NVU

In quasi tutte le fiabe, la protagonista è figlia unica di un padre rimasto vedovo, dolcissima 
e dai capelli come raggi del sole. Oppure, tra vari fratelli, è comunque la prediletta.
Io non ero nulla di tutto ciò. Innanzitutto, ho due fratelli più grandi e sono sicuramente
l’ultima in ordine di preferenza. I miei capelli non sono aghi dorati, ma piuttosto una massa
informe di ricci scuri. Inoltre, non è stata mia madre a morire prematuramente, ma mio padre.
Fin da bambina la mia più grande paura è stata quella di addormentarmi. In sogno vedo 
cose che poi, nella maggior parte dei casi, si avverano.  Sono solo scherzi della mia mente,
ne sono sicura. Ma non sono mai riuscita ad evitarlo o a provare meno paura ogni volta che
chiudevo gli occhi.
Ho diciannove anni, mi chiamo Belle e questa, signore e signori, è la mia storia.


Avrebbe potuto dire di aver perso la sua umanità molti anni addietro, ma la verità era che 
non l’aveva mai avuta. Era stato simile ad un uomo nelle fattezze, ma non era mai stato un
uomo. E, quando anche il suo aspetto si era trasformato, aveva creduto che niente avrebbe
più potuto salvarlo. Nessuno avrebbe più potuto salvarlo. L’aveva creduto davvero.
Ma, di fronte a quegli occhi, l’aveva sperato con tutto se stesso.
Ma lui non sarebbe mai stato altro che una bestia.
Questa non è la sua storia. Questa è la storia di come il suo cuore riprese a battere.

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Capitolo 2
*** C'era una volta.. ***


Aprì gli occhi di colpo. Respirava affannosamente, tremava, il suo corpo era ricoperto di sudore. Aveva fatto
un altro di quei sogni, quegli strani sogni che ormai faceva da anni..
Si passò una mano sul volto e si alzò. Era ancora presto, stavano ancora dormendo tutti. Si fece una doccia
veloce e poi frugò nella dispensa in cerca di qualcosa che potesse tirarle su il morale. Alla fine prese un
cioccolatino e lo masticò lentamente. Le immagini del sogno
continuavano a torturarla. C’era un pozzo. Un vecchio pozzo tra l’erba alta. Si era guardata intorno, ma non
aveva visto altro che erbaccia e l’orizzonte. Allora si era
avvicinata piano al pozzo e vi si era affacciata. Il livello dell’acqua era basso, riusciva appena a scorgere il
proprio riflesso sbiadito. Guardò le mani che stringevano
la pietra fredda e si accorse che quello che credeva fosse umidità, era in realtà sangue. Aveva le mani
macchiate di rosso. Inorridita, cercò di pulirsi, strusciandosele
addosso, ma il sangue non si staccava dalla sua pelle. Un rumore improvviso la fece voltare di scatto. Era un
urlo. E lei si ritrovò a cadere nell’oscurità di quel pozzo,
il suo urlo si unì a quello che ancora poteva sentire.
Scosse il capo e prese un sorso d’acqua dal rubinetto. Fin da bambina sognava queste strane vicende.
Solo quando era diventata più grande si era resa conto che nella maggior parte dei casi, le immagini che
animavano i suoi sogni si avveravano. Non si riteneva una strega
o una medium o qualsiasi altra cosa del genere. Era solo una persona che arrivava a conclusioni 
ragionevoli e le interpretava a modo suo nei sogni. Per questo ciò che
vedeva, poi accadeva davvero. Era solo quello. Solo quello.
Guardò l’orologio: erano quasi le sette. Salì le scale e aprì appena la porta della camera dei suoi
fratelli. Dominic dormiva aggrovigliato tra le coperte. Si voltò verso Christiàn, ma il suo letto era vuoto.
Fece vagare lo sguardo nella stanza e lo trovò accovacciato davanti
allo specchio a figura intera. La mamma lo aveva comprato per la loro camera pochi giorni prima,
in un negozio di antiquariato. Aveva il bordo ovale, in legno scuro.
-Ma che stai facendo?-
-E tu che ci fai qua?-
-Sono le sette, ero venuta a svegliarvi-
-È già così tardi?-
-Mi dici che cavolo ci fai lì a terra?-
-Sono affari miei-
Si inginocchiò accanto a lui.  –Dai, non fare l’antipatico, dimmelo-
Christian era il più grande ed era anche il preferito in casa, ma si cacciava spesso in guai che poi non
riusciva a risolvere.
Le sorrise.  –E va bene, ma tu non devi dirlo a nessuno. L’ho scoperto qualche giorno fa.. lo so che
sembra.. assurdo, ma.. neanch’io lo credevo possibile.. guarda-
Avvicinò una mano allo specchio.. e ne trapassò la superficie. La sua mano era scomparsa.
La guardò sorridente, ma lei non disse nulla. Il suo cuore aveva perso un battito. Lo specchio, il riflesso..
come nel pozzo del suo sogno. L’immagine delle mani colme di sangue le riempì la testa.
Lanciò un grido strozzato.
Gli spinse la mano via dallo specchio.
-Non farlo mai più!-
-Ma che ti prende?-
-Tu non.. solo non farlo mai più, ok? Non avvicinarti più a questo specchio-
Non sapeva dei suoi sogni. Nessuno sapeva dei suoi sogni né avrebbe mai dovuto saperlo. Sfilò
velocemente il lenzuolo dal suo letto e coprì lo specchio. Lo guardò.
-Ti prego, porterà solo guai-
 
 
La mattina seguente, entrando nella stanza dei fratelli, vide che Christian non c’era. Il lenzuolo era
stato tirato via dallo specchio. Sospirò, si rannicchiò sul suo letto e aspettò.
Riaprì gli occhi davanti ad un sorriso entusiastico.
-Dov’eri?-
-Belle, dovresti vedere cosa c’è dall’altra parte! Ero in un castello.. una reggia! E c’era oro
ovunque! E..-
Lo fermò con un gesto rapido della mano.  –Non mi interessa. Tutto ciò non porterà a nulla di buono.
Non è una cosa normale! Per favore, per favore, promettimi che non andrai mai più oltre lo specchio-
Lui la guardò. Non era da lei e lui lo sapeva. In circostanze diverse sarebbe stata entusiasta di una
tale scoperta, ma quel sogno..
E i suoi sogni si avveravano sempre.
Ma lui non promise.
Sospirò ancora, alzandosi e avviandosi fuori dalla camera. Prima di uscire, si voltò verso di lui.
Spero di sbagliarmi, spero che non ti accada nulla.
-Per una volta, ascoltami-
 
Quella notte nuove immagini arrivarono per torturarla. Occhi neri, artigli e sangue. Artigli che fendevano
l’aria, verso di lei, su di lei. Un dolore atroce, al cuore. Urla, le sue, ma non solo. Trafiggevano il suo
udito, più dolorose del varco sul petto. E sangue, troppo sangue.
Ovunque, su di lei, tra le dita. Sotto il suo corpo stramazzante a terra. E ancora quel pozzo. Era di
nuovo affacciata verso il proprio riflesso. Consapevole di cosa stava
per accadere, si guardò le mani. Le strusciò con rabbia sui vestiti, invano. Un urlo. Si voltò di scatto e
il tempo parve fermarsi. Sentiva il proprio respiro, il vento sul
viso, davanti a lei l’erba iniziò a diramarsi. C’era qualcosa all’orizzonte. Veniva verso di lei, correva
verso di lei. Una bestia..
Arretrò, cadde, sentì il vuoto oltre i piedi e nello stomaco. E poi il buio.
Si svegliò di soprassalto. Fece dei respiri profondi, cercando di calmare il fiato affannato. Si mise seduta
sul bordo del letto, prendendosi la testa tra le mani.
Guardò la sveglia sul comodino: le sei meno un quarto. Erano anni che non riusciva a farsi un’intera
nottata di sonno. Come ogni mattina, lasciò che l’acqua della doccia le scivolasse addosso per quasi
un quarto d’ora, si vestì con calma e scese in cucina. Afferrò il solito
cioccolatino al latte e lo masticò lentamente. Accese la televisione, cercando di scacciare le
immagini del suo sogno con quelle sullo schermo.
Alla fine spense la tv e salì in camera dei fratelli. Sentì dalla stanza in fondo al corridoio la
sveglia della madre attivarsi.
Il letto di Christian era vuoto, ancora una volta. Sospirò. Scosse il ragazzo che dormiva
sulla sinistra. Lui fece una smorfia e richiuse gli occhi. Stette così ancora qualche secondo,
ma alla fine si alzò. Indicò il letto del fratello con il mento.
-Dov’è Christian?-
-Io.. non lo so-
-Beh, vorrà dire che il bagno è mio-
Quando fu di nuovo sola, si accostò allo specchio. Dove si era cacciato? Perché non
tornava? Una terribile sensazione le attanagliò le viscere. E tutto il sangue del suo sogno.. Allungò una mano verso la superficie riflettente e la vide scomparire. La ritirò con un
sussulto.
Maledizione, Christian, te l’avevo detto.
Il sangue sulle mani, il pozzo..
Si voltò verso la porta chiusa, tornò a guardare il proprio riflesso. Esitò, chiuse gli occhi. E
l’attraversò. 

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Capitolo 3
*** Sacrificio ***


Si ritrovò in un’ampia stanza dalle pareti di legno e piena di attrezzi da giardino ricoperti di
polvere e abbandonati a terra. Dietro di lei, uno specchio identico a quello che aveva
appena attraversato, le rimandava indietro la sua immagine. Provò a sfiorane la superficie,
ma le dita scomparvero oltre la superficie. Le ritrasse immediatamente e si voltò verso la
porta. Sulla soglia, si guardò intorno, in quello che sembrava una distesa d’erba bassa.
Doveva essere in una rimessa. Davanti ai suoi occhi, si stagliava un enorme castello. Altro
che splendore, fratello..
Il cielo era cupo, carico di pioggia non ancora caduta, una distesa di alti alberi secchi
circondava il palazzo. Centinaia di rampicanti risalivano lungo la scalinata d’ ingresso e sui
muri della struttura. Nessun fiore, solo spine. Delle guglie appuntite spuntavano
incombenti dal tetto. All’interno, nessuna luce animava l’ambiente. Le vetrate erano
maestosamente decorate, ma erano scure anch’esse, piene di polvere.
Rabbrividì di freddo e si affrettò attraverso i tronchi privi di vita. I rami le graffiavano le
braccia e il volto. Cercò di proteggersi gli occhi con le mani, una ciocca di capelli le si
impigliò tra i rami, facendola rimbalzare all’indietro. Afferrò i capelli e tirò. Si guardò
intorno. Mille occhi gialli la scrutavano. Girò su se stessa col fiato corto, perse la strada.
Tutto era uguale. E quei maledetti rami erano ovunque. Gufi. Dovevano essere gufi.
Doveva calmarsi, prendere fiato e..
Un ululato pervase l’aria. Zampe sulla terra, fiati concitati, ringhi, ovunque intorno a lei.
Corse più veloce che poteva. Inciampò. Il colpo le mozzò il fiato. Altri ululati la
raggiunsero, si rimise in piedi con uno scatto e corse, corse. Sempre di più. Ignorò la fitta
al fianco, il vento tra i capelli, i rami sul viso, il dolore lancinante ai polmoni. Si voltò,
guardò alle sue spalle, senza fermarsi. Due canini affilati fendettero l’aria ad un soffio dal
suo volto. Aprì la bocca per urlare, ma il respiro le era morto in gola quando qualcosa
l’aveva fatta cadere all’indietro. Con il cuore in gola e le tempie che non smettevano di
pulsare, sbatté più volte le palpebre. Ma davanti a lei non c’erano altro che alberi. Una
lacrima di paura le solcò la guancia, ma l’asciugò rapida. Abbassò lo sguardo. Era sulla
scalinata. Si rimise in piedi e raggiunse tremante la porta d’ingresso. Vi si poggiò con tutto
il peso e quella scivolò silenziosa verso l’interno. Cercò di vedere cosa ci fosse oltre quella
porta, ma scorgeva solo l’oscurità.
Non hai idea di quanto tu sia in debito con me, Christian.
Deglutì, fece un profondo respiro ed entrò. Una fiaccola si accese a pochi metri da lei.
Fece un primo passo e la porta si richiuse con un tonfo alle sue spalle.
Camminò lungo il corridoio finché non si ritrovò ad un bivio. Sulla sinistra c’era un enorme
salone riscaldato da un fuoco ardente. C’erano due poltrone e un lungo tavolo. Suo fratello
non c’era. Alla sua destra, il corridoio continuava fino ad una scalinata stretta che
scendeva ancora più in profondità. Prese coraggio e imboccò le scale. Appena poté,
si affacciò per vedere dove portavano. Erano celle. Celle con sbarre di ferro, come quelle dei
palazzi antichi.
-Christian- sussurrò. Non ebbe risposta. Provò ancora.
-Belle? Belle!- un movimento catturò la sua attenzione.  –Sono qui-
Corse verso la cella e lui le strinse le mani attraverso le sbarre. I suoi occhi erano sbarrati.
-Che ci fai qui? Devi andartene prima che lui ti veda-
-Devo farti uscire da qui-
-No! Devi andartene!-
-Io ti avevo avvertito!-
-Ora non ha più importanza. Devi salvarti, vattene!-
-Sono venuta a prenderti e non me ne vado senza di te-
-Tu non capisci, non posso andarmene da qui. Lui.. lui mi ha imprigionato a questo luogo..-
Le mostrò la mano destra. Il disegno di uno stelo spinato e di una rosa scarlatta risaliva
dal dorso fin sopra il polso.
-Se vado via, morirò-
Un fulmine illuminò per un istante l’ambiente e lei vide una figura emergere dall’ombra.
Urlò  e cadde a terra. Alzò lo sguardo sul carceriere. E inorridì.
Ringhiò, mostrandole le zanne. Arrivava fin quasi al soffitto, era ricoperto da una pelliccia
scura, la schiena era incurvata, come un orso che si solleva sulle zampe prima di
attaccare, e le sue zampe erano provviste di artigli lunghi e affilati. Due grandi occhi gialli
erano puntati su di lei. Era una.. bestia.
-Via dal mio castello- disse con voce roca in un ringhio.
Incapace di muoversi o anche solo di respirare, guardò la belva con gli occhi sbarrati.
-Vattene, Belle!-
La voce di suo fratello parve riscuoterla.
-La prego- urlò, sperando che sentisse il suono tremante della sua voce.
-Lasci andare mio fratello-
-NO!- tuonò. Le si avvicinò ancora.  –È un ladro e non lo lascerò andare fino a quando non
avrà estinto il suo debito-
-Allora le propongo uno scambio. Prenda me. Al suo posto. Tenga me e lasci andare lui-
Ad un soffio dal suo viso, quegli occhi gialli quasi s’insinuarono nei suoi. Parve soppesarla
qualche istante. Si allontanò.
-E sia!-
Aprì la cella con un solo gesto e afferrò il braccio del ragazzo.
-Belle!-
Pietrificata, vide la bestia trascinare suo fratello lungo il corridoio. Si riscosse e salì di
corsa dietro di loro, ma la porta si richiuse dietro le spalle del suo proprietario. Tentò di
aprirla, le fu impossibile. Corse nel salone, cercò con lo sguardo una finestra e, quando la
trovò, vi accorse.
-Belle!- continuava a chiamare.
-Christian!- poggiò le mani sul vetro freddo, quasi cercando di raggiungerlo. Vide svanire
le loro figure oltre gli alberi, mentre sul dorso della sua mano e sul polso compariva
sempre più nitida l’immagina di una rosa scarlatta. Si accasciò a terra.
L’ho fatto per te.
Dopo minuti che le sembrarono solo istanti, la porta si aprì e si richiuse con un tonfo. La
bestia fece il suo ingresso nel salone e la guardò.
Scattò in piedi.
Cosa ho fatto?

 

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Capitolo 4
*** Prigioniera ***


Sbuffò. Erano ore che se ne stava davanti alla finestra, immobile. La bestia l’aveva condotta al piano superiore,
in una stanza provvista di qualche mobile e con due grandi
vetrate decorate. Aveva sbattuto la porta dietro di lei, senza dirle nulla e non si era vista da
allora. Il letto a due piazze era coperto da una spessa coperta bianca ricamata lungo i 
bordi ed aveva un’alta testiera accostata al muro alla destra delle finestre. L’armadio 
aveva tre ante e, quando aveva trovato il coraggio di sbirciarci dentro, aveva visto con 
stupore che conteneva decine di abiti meravigliosi. Erano voluminosi, con corpetti
impreziositi da perline o piccoli brillanti, maniche a sbuffo e sottane di tulle. Li aveva 
guardati uno per uno, estasiata. Erano abiti degni di una principessa, come quelli che
aveva ammirato con sospiri guardando i film ambientati nell’ottocento o alle corti imperiali. 
Aveva sfiorato ogni ricamo, ogni lembo di tessuto con un’attenzione reverenziale. Ma alla
fine li aveva rimessi tutti al loro posto e aveva chiuso l’armadio con un sospiro
demoralizzato. Non avrebbe dovuto toccare nulla. Dopotutto, lei lì era solo una prigioniera,no?
Eppure, la bestia l’aveva portata in quella stanza invece di rinchiuderla nelle segrete come aveva
fatto con suo fratello. La toiletta era composta da uno specchio ovale fissato al muro, una piccola 
bacinella vuota e una sedia. Dio, le sembrava davvero di essere capitata in una di quelle storie
che amava tanto. Ma lei non era una principessa e quella storia non avrebbe avuto un lieto fine. 
Guardandosi intorno, si era accorta anche che l’ambiente era pulito, ogni superficie risplendeva 
come se qualcuno pulisse ogni giorno. Si era seduta sul sottile davanzale e aveva aspettato che 
accadesse qualcosa. Ma non era accaduto nulla.
Tuttavia, quando il sole era sorto, a poco a poco, l’oscurità aveva lasciato il posto alla luce. Una
luce calda e accogliente. Gli alberi si erano rinfoltiti di fronde verdeggianti e i tronchi erano diventati 
più solidi. Le rampicanti che ricoprivano le pareti esterne si erano riempite di splendide rose rosse 
e i colori delle vetrate erano apparsi più vivaci.
Stupita, alla fine aveva deciso di osare. Si affacciò fuori dalla stanza e guardò nel corridoio illuminato
dalla luce del giorno. Non vedendo nessuno, si affrettò giù per le scale e raggiunse la porta d’ingresso 
cercando di fare meno rumore possibile. Si voltò un’ultima volta e uscì fuori.
Chiuse gli occhi e rise, godendosi il calore del sole sul volto. Inspirò profondamente quell’aria così limpida.
Forse non avrebbe dovuto. Forse si stava solo mettendo nei guai. Cosa avrebbe detto il suo carceriere? 
Cosa avrebbe fatto?
In fondo, però, era stato lui a non chiuderla a chiave. E, poi, non voleva mica fuggire. Avevano stretto un
patto e lei non veniva mai meno alla parola data. Voleva solo.. vedere quel posto.
Corse giù e poi tra gli arbusti rinati. Si fermò e alzò il volto verso la luce del sole. Girò su se stessa, finché 
non vide un bagliore lontano. Si incamminò in quella direzione, schermandosi gli occhi per poterlo vedere 
meglio. Al limitare della foresta, però, il bagliore scomparve. Si guardò intorno disorientata. Cos’era stato? 
Che fosse un’altra delle stranezze che vedeva nella sua testa?
Notò che a pochi passi da lei c’era una fontana con base circolare, una struttura centrale a due piani e un 
angelo sulla cima. L’acqua usciva a fiotti dalle strutture mediane e ricadeva in figure circolari nella vasca interna.
Si avvicinò, si inginocchiò sul terreno umido e si sporse verso la superficie d’acqua. Vi fece scorrere la mano
placidamente, perdendosi nella contemplazione di quella costruzione. Non si accorse del sole che lentamente
svaniva oltre l’orizzonte, o del freddo pungente che si sovrapponeva al torpore del giorno, o dell’oscurità che
tornava ad avvolgere quel luogo. Non vide gli alberi tornare secchi e funerei. Non vide il cielo farsi buio. Non 
vide la fontana, prima splendente e candida, diventare vecchia, cosparsa di crepe ed erbacce, fonte di 
un’acqua sporca e stagnante. Non poteva vederlo. Davanti ai suoi occhi quell’acqua era ancora così limpida. 
Così pura. Fresca al tatto. E due occhi che non erano i suoi avevano incatenato alla fonte il suo sguardo. 
Due occhi blu oltreoceano. Un viso delicato quanto evanescente. Una chioma fluttuante nell’acqua. La figura 
aveva allungato le dita verso le sue. Le avvicinò. Sempre di più.
Le afferrò il polso. Tirò. Non poté gridare. Non ne ebbe il tempo. Cadde nell’acqua. Gelida. E fu sommersa. 


Dall’altra parte di un vetro due occhi gialli la guardavano.

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Capitolo 5
*** Ore sette ***


Cadeva. Attraverso l’acqua gelida e stagnante. La superficie era sempre più lontana. Le gambe, 
che prima aveva cercato di muovere, ore sprofondavano inesorabilmente. E i polmoni, che con 
tanta furia avevano cercato l’aria, si erano arresi. Così, cadeva.
Poi, un misero istante prima che i suoi occhi si chiudessero del tutto, un tocco la riportò alla realtà. 
Quegli occhi che l’avevano incatenata alla fonte, ora le chiedevano qualcosa.
‘Seguimi’, sussurrò nella sua mente. Tese nuovamente le dita verso le sue, invitandola..

 
Spalancò gli occhi ed inspirò di colpo. Ancora col fiato affaticato, balzò a sedere e si guardò intorno.
Era nel salone del castello, il fuoco scoppiettava tranquillo nel camino. Si rese conto che i suoi vestiti
erano completamente bagnati e che stava tremando da capo a piedi. L’aveva visto, con la coda 
dell’occhio. La bestia. Se ne stava in angolo, la osservava, come la prima volta che l’aveva incontrato. 
Si voltò verso di lui e fissò gli occhi nei suoi.
-Non devi più uscire di notte- la sua voce era bassa, ma possente. Risuonò per tutta la stanza, facendola 
rabbrividire.
-Io.. non mi ero accorta che fosse così tardi-
-Non avresti potuto. È per questo che non uscirai più dal castello-
-Cosa?-
Fece per andarsene, ma lei gli corse dietro.
-No, aspetti! Per favore, non mi tenga rinchiusa qui dentro-
Se avesse dovuto rimanere lì per, dio, quanto? Anni? Quando il suo carceriere avrebbe ritenuto estinto 
il debito di suo fratello? Era davvero pronta a restare in quella prigione incantata per gli anni migliori della sua vita?
Si fermò. Tremava ancora e si strinse le braccia attorno al corpo in cerca di un po’ di calore. Lo guardava 
allontanarsi.
-Per favore-
La bestia si voltò appena, fermandosi. Non poteva vederlo in volto e un mantello nero gli copriva gran parte
del corpo, ma anche così la sua stazza riusciva a spaventarla. E le sue mani era delle zampe maledizione!
-Di giorno non posso proteggerti- disse roco. Sembrava che quelle parole gli costassero molto.
-Prometto che sarò di ritorno prima del tramonto- propose con uno slancio, sperando con tutta se stessa 
che accettasse.
-Bene. Ogni giorno alle sette esatte sarai nel salone per la cena. Se ritarderai, lascerò che la foresta ti uccida-

 

Lo avrebbe ucciso. Lo avrebbe torturato, riempito di pugni e.. aah! Lei glielo aveva detto. Lo aveva avvertito 
o no? Non avvicinarti più a quello specchio, gli aveva detto. Ma lui no, doveva fare l’idiota! Non solo era entrato
nel palazzo, aveva dovuto rubare! Chissà cosa diavolo aveva cercato di prendere. E ora per colpa sua lei era 
costretta a rimanere lì con una bestia orrenda. Se ritarderai lascerò che la foresta ti uccida.. fantastico.

Quella foresta poteva ucciderla. Ottimo. Beh, diciamo che aveva immaginato qualcosa quando una fontana 
aveva cercato di farla affogare, ma sentirselo dire era tutta un’altra faccenda. Insomma, se neppure il proprietario 
di casa poteva proteggerla..
E poi che diavolo era quel posto? Di giorno era il paese delle meraviglie e di notte la casa degli orrori. Vestivano 
ancora come l’ottocento, non c’era luce elettrica né qualsiasi tecnologia degli ultimi due secoli. Eppure, non poteva
credere di pensarlo davvero, c’era magia. Magia! Suvvia, dame del lago, cambiamenti repentini di vegetazioni, 
uno specchio che l’aveva portata in un altro luogo, una bestia che parlava! Se non era magia, allora era davvero
impazzita del tutto. In effetti, neanche questa opzione poteva essere esclusa a priori.
Ignorando il freddo che ancora le attanagliava le ossa, salì nella sua stanza e sbatté la porta dietro di sé. Sbuffò. 

Ogni giorno alle sette esatte..
Ma chi credeva di essere? Avrebbe dovuto.. cenare con lui? Glielo aveva ordinato! Che.. animale! E se avesse
tardato di proposito? Se si fosse rifiutata di uscire dalla sua camera? L’avrebbe uccisa? Gettata fuori dal castello, 
dove la foresta l’avrebbe uccisa?
Sospirò, cercando di calmarsi. Si massaggiò la fronte. Okay, per prima cosa, doveva trovare qualcosa di asciutto 
da mettersi.
Frugò nei cassetti dell’armadio finché non trovò un paio di vesti da notte lunghe fino alle caviglie, larghe e 
completamente bianche. Beh, non poteva certo dormire con uno di quei vestiti strabordanti di balze. 
Tolse i vestiti bagnati, poggiandoli sulla sedia accanto alla toiletta, indossò la vestaglia e asciugò i capelli con lo
straccio che stava ripiegato sulla sedia. Già le mancavano gli asciugamani. Per non parlare del fono. Si allontanò 
appena dalla specchio ovale per potersi vedere a figura intera e fu costretta ad ammettere che quella vestaglia 
non era poi tanto male. Era larga e le ricadeva sulle braccia, lasciandole una spalla e il collo scoperti. Inoltre era troppo
trasparente per i suoi gusti, ma, dopotutto, chi avrebbe dovuto vederla? Si infilò sotto le coperte e il sonno la colse quasi subito.
Prima che l’oblio la avvolgesse, pensò che era stata la bestia a salvarla dall’acqua e da qualsiasi cosa tentasse di annegarla.

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Capitolo 6
*** Fiamme ***


Non era uscita tutto il giorno. Avrebbe voluto dire che era perché si sentiva incredibilmente 
stanca, che gli eventi del giorno prima l’avevano spossata, ma la verità era che aveva 
semplicemente paura. Di ciò che sarebbe potuto accadere se, ancora una volta, si fosse 
attardata troppo. Così, era rimasta a letto finché non aveva visto il sole alto nel cielo, poi si 
era arrischiata fuori dalla sua camera ed aveva vagato per il corridoio del piano superiore. 
Non era coraggio o curiosità la sua, ma un’incredibile voglia di fare un bagno caldo. Ovviamente, 
pensò, non ci sarebbero state di certo docce, si sarebbe accontentata di una tinozza e un paio 
di brocche d’acqua. Doveva pur esserci qualche domestico, altrimenti chi puliva le stanze? 
E i pavimenti, che sembravano sempre brillare?
C’erano altre tre stanze da letto vicino alla sua, ma dentro non vi era nessuno. E più si allontanava
dalla sua camera, più l’ambiente si rabbuiava, come se qualcuno avesse coperto tutte le finestre. 
Giunta al limite del piano, vide che sulla destra si allungavano delle scale a chiocciola di pietra. 
Stava per salire, quando una voce la fece sobbalzare.
-Miss, cosa fate? Di lì non potete andare-
Dio, grazie! C’era davvero qualcun altro..
O qualcos’altro. Si immobilizzò, gli occhi sbarrati dalla sorpresa.
Si era voltata per trovarsi di fronte una figura sottile quanto eterea, formata da tante piccole fiammelle.
-Oh- fu tutto ciò che riuscì a dire. La figura non aveva volto, né forma, eppure le sembrò che le 
tendesse la mano. Sentì una lieve risata e ipotizzò fosse la sua.
-Faccio sempre questo effetto. Vi prego, miss, scendete-
-Io.. volevo solo vedere cosa ci fosse-
-Oh, nulla di interessante, sono le stanze del padrone, ma le vostre sono decisamente più belle-
-Io mi chiamo Belle-
-Ed io sono Rebecca, al vostro servizio-
Si piegò appena in avanti in un inchino che la fece sorridere. Che strana domestica.
-Sapete come posso fare per.. uhm.. vorrei fare un bagno-
-Certo, certo, tornate in camera, vi porterò subito l’acqua-
Fece come le era stato ordinato. Aspettò che Rebecca tornasse con una tinozza e poi con più 
di una brocca colma d’acqua riscaldata sul fuoco. Come immaginava. Quel bagno le sembrò il
migliore della sua vita. Ma forse era semplicemente il fatto che Rebecca continuò a parlarle per
tutto il tempo e lei, solo ora riusciva ad ammetterlo, si sentiva così sola in quel posto.
-Io non sono sempre stata così, sapete? Un tempo avevo lunghissimi capelli rossi e delle gambe
per niente male- rise delle sue stesse parole.
-Cosa vi è successo?-
-Cosa è successo a tutto questo posto, vorrete dire. Anche il padrone, prima, era davvero un bell’uomo-
-Cosa è successo, Rebecca?- si sporse verso di lei, ma la figura si allontanò piano.
-È stato tanto tempo fa, miss-
Uscita dalla piccola vasca improvvisata, si asciugò e indossò nuovamente la camicia da notte. 
Aspettò che Rebecca se ne fosse andata, portando con sé tutto ciò che era servito per il bagno e 
tirò fuori dall’armadio tutti i vestiti. Uno ad uno, li soppesava, li appoggiava sul petto per immaginare
come le sarebbero stati e poi passava al successivo. Alla fine aveva scelto un abito con la gonna e 
la parte del corpetto che le fasciava il seno argentati, il resto del corpetto fin giù alla gonna superiore,
arricciata così da essere sollevata fin sotto il ginocchio, erano invece di un intenso blu oceano. Si 
sistemò i capelli in uno chignon morbido con giusto qualche riccio più corto che le ricadeva sulla fronte, 
davanti alle orecchie e sul collo e infilò un paio di scarpe blu senza tacco che aveva trovato in un altro cassetto.


Come si sentiva sciocca, ora, sulla cima delle scale che l’avrebbero portata da lui. Era stata così stupida. 
Tutti quegli abiti stupendi e l’ambiente da favola, le avevano fatto perdere di vista la realtà. Stava 
eseguendo l’ordine impostole dal suo carceriere. Si era imbellettata per una bestia. Quanto, quanto
si sentiva sciocca. Per un istante, soppesò l’idea di tornare indietro per indossare di nuovo il suo
jeans logoro e la felpa nera. Oh, ma quel vestito era così bello e lei aveva sempre sognato di essere
come una di quelle principesse che danzavano formando spirali di tulle e colori.
Così, aveva fatto un gran respiro e si era affacciata nel salone. Come al solito, il camino era acceso
e riscaldava l’ambiente. Era l’unica fonte di luce nella stanza. A capotavola, nel posto più lontano 
dal fuoco, la bestia le dava le spalle. Indossava il solito mantello nero.
-Siediti- ordinò.
Sbirciò oltre le sue spalle e vide che il posto preparato per lei era al capo opposto. Col cuore che 
batteva frenetico, irrequieto, si sedette sulla sedia dall’alto schienale e alzò lo sguardo sul suo cavaliere.
Ancora non riusciva a vederlo bene in volto, ma distingueva l’abito rosso che portava. Con un certo 
stupore, si rese conto che il suo, in realtà, era l’unico posto preparato. La bestia non aveva piatti 
davanti a sé né posate. E mentre lei guardava il brodo fumante nel suo piatto, la bestia guardava lei.
Sentiva i suoi occhi addosso, come se potessero perforarla. Di cosa si cibava?
-Mangia- ordinò ancora.
-Voi non mangiate?-
-Non ora-
Rabbrividì. Un tempo era stato un uomo.. almeno così aveva detto Rebecca. Mangiava come tutti 
gli altri uomini? Mangiava animali? Represse un brivido. O persone?
Immerse il cucchiaio nel brodo, concentrandosi con tutta la sua volontà per non alzare lo sguardo su di lui. 
Ne prese solo pochi sorsi, prima che il tremore alla mano la costringesse a fermarsi. Perché voleva
che lei mangiasse lì? Perché voleva che mangiasse con lui? Se quello era un modo per metterla a
disagio e ricordarle chi comandava, era riuscito nel suo intento. Tuttavia, che modo crudele era. 
E lui l’aveva salvata solo poche ore prima. Per un momento, le balenò nella testa l’idea che forse
voleva solo compagnia. Magari, pensò, si sentiva terribilmente solo, proprio come lei. Ma fu solo 
un attimo e quel pensiero volò via.
Incapace di mangiare oltre, abbandonò le mani in grembo e si voltò per guardare le fiamme.
Il calore le riscaldava il viso e le spalle. E quella danza sinuosa la incantò, incatenandola a quella visione.
Una volta, quand’era bambina, aveva sognato le fiamme. Si era svegliata in lacrime e col cuore in gola. 
Sua madre le aveva accarezzato la testa, sussurrandole che era solo un sogno e che ciò che ci 
spaventa col buio, con la luce cambia aspetto. Ma le immagini che tanto l’avevano spaventata di notte,
la terrorizzarono di giorno, quando videro scoppiare un incendio in un palazzo accanto al loro.
-Perché non mangi?-
Nella sua voce traspariva dell’ irritazione malamente repressa. O era rabbia?
Voltandosi verso di lui, vide che teneva i pugni tanto stretti da far sbiancare le nocche.
-Non ho più fame-
-Avresti più fame se io non ci fossi?-
Abbassò gli occhi.
La bestia si sollevò con furia, scaraventò la sedia a terra, ringhiò, gettò per aria tutto quello che gli capitò
davanti, afferrò il tavolo per un lato e lo rovesciò. Con poche falcate furiose fu da lei. Strinse i braccioli 
della sedia su cui era seduta, imprigionandola. Avvicinò il volto al suo ed espirò.
Ora. Solo ora, per la prima volta, lo vide in viso.

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Capitolo 7
*** Leon ***


                                

                  
                        Ora. Solo ora, per la prima volta, lo vide in viso...

 
Non era una bestia. Almeno, non come aveva pensato fino ad allora. Il muso leggermente
sporgente e i denti, come zanne, le mani più simili a zampe, le ricordavano più un leone.  
Ma i suoi occhi, decisamente felini, che dapprima le erano sembrati solamente gialli, ora 
mostravano qualcosa che la sorprese. Speranza. Erano velati di speranza. E dolore. Un 
dolore profondo che si nascondeva nel retroscena.
Guardò il volto ricoperto da una peluria rossiccia e i capelli più folti di quelli di un uomo. Un
leone, così lo vedeva, non una bestia, ma un uomo con sembianze vagamente animalesche.
-A cosa pensi?- sussurrò.
Ma lei, gli occhi sbarrati, il fiato sospeso, il cuore in tumulto, non riusciva a parlare. Era pietrificata.
-Ti disgusto-
Con la stessa furia con cui si era avvicinato, ora si allontanava. Sparì oltre la porta prima che
lei potesse riprendere il controllo del suo corpo. Lo seguì subito.
-No, aspettate!-
Non la disgustava. Aveva frainteso il suo silenzio. Era spaventata per il modo improvviso in cui
si era avvicinato, per la ferocia che aveva mostrato. Ma non per il suo aspetto.
Corse dietro di lui, cercando di stare al suo passo. Lo seguì fino al piano che le era proibito. 
Sbatté contro la porta che si era richiuso alle spalle. La colpì con la mano. Una volta. Due. 
Voi non mi disgustate, avrebbe dovuto dire. Ma, in fondo, gli importava davvero di ciò che 
pensava lei? E a lei, importava che lui  tenesse al suo giudizio?
Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, guardò quel corridoio così tetro, immerso nell’oscurità,
e tornò nella sua camera. Una voce la raggiunse al di là del legno.
-Miss, va tutto bene? Vi serve aiuto per togliere il vestito?-
No. Non voleva aiuto. Non voleva quei vestiti. Non voleva cene con bestie. Non voleva nulla di
tutto quello. Tirò via i lacci, si strappò di dosso il corsetto, gettandolo a terra. Sgusciò fuori dalle
gonne e le lasciò lì. Si infilò sotto le coperte e lasciò che la coprissero del tutto. Voleva solo 
tornare a casa. Voleva solo che quei sogni finissero.
-Miss- chiamò ancora, ma la ignorò.
Voleva solo lasciare tutto fuori da quella stanza. 


A notte inoltrata lasciò la sua stanza per entrare in un’altra. Si avvicinò alla finestra e guardò la 
desolazione della sua proprietà.
Ad un tavolino, le mani poggiate con il dorso verso l’alto, le labbra cucite, la donna aprì gli occhi. 
I capelli corvini erano pieni di polvere e il suo viso sembrava di porcellana.
-Lei può fermare tutto ciò? Dimmelo!-

Non dipende da lei, Adam. Dipende solo da te.
Sentì quella voce familiare nella testa.
-Allora fa’ in modo che possa conoscere i suoi pensieri-
Allungò una mano verso di lui, senza voltarsi. Tra le dita stringeva una rosa.

Questo ti permetterà di entrare nei suoi sogni. Un petalo per ogni sogno.
Prese il fiore e si avviò alla porta.

Ma fa’ attenzione, l’ultimo petalo sarà la tua ultima occasione per salvarvi entrambi. Quando i 
petali termineranno, anche il suo soggiorno qui come prigioniera terminerà. Ed allora, ogni vostra
possibilità sarà perduta. Per sempre.

Sorrise, tornando ad essere sola.
Un petalo per un sogno..

 
Correva. Si guardò alle spalle. Era vicino, la braccava. Sentiva i suoi ululati, i suoi artigli graffiare
il pavimento, le zanne pregustare la preda. Ma nella sua testa c’era spazio solo per il battito
frenetico del cuore. Girò l’angolo. E corse. Si voltò ancora. Sbatté contro qualcosa e cadde a
terra. Trattenne il fiato. Alzò lo sguardo. Due occhi spalancati la guardavano. Le porse una 
mano per aiutarla a rimettersi in piedi. Lei la strinse.
-Corri- disse concitata. Lo tirò avanti, lungo il corridoio. Verso la porta che si faceva sempre più 
stretta. Sempre più piccola.
-Corri!-
Spalancò la porta e vi appoggiò le spalle, una volta che fu chiusa dietro di lei. Tirò un sospiro di 
sollievo.
Il nuovo arrivato la scrutava.
Ancora col fiato corto e il petto in fiamme, gli sorrise.
-E tu chi sei?-
-Sono.. un amico-
-Ed hai un nome?-
-Mi chiamo.. Leon-
Gli porse la mano. –Io sono Belle, Leon. Benvenuto nella mia testa-
Qualcosa urtò con forza contro la porta, facendola balzare in avanti. Tornò subito a poggiarsi sul
legno. Il ragazzo seguì il suo esempio.
-Chi c’è là fuori?-
-Vorrai dire cosa. In realtà, non lo so. Ma direi che è meglio che non ci prenda-
-I tuoi sogni sono sempre così.. movimentati?-
Lei rise. –Ti ci abituerai- lo guardò, soppesandolo da capo a piedi. Aveva i capelli biondi, il fisico 
magrolino e i suoi occhi, di un verde intenso, le ricordavano qualcosa.
-Sai, è strano che la mia mente ti abbia fatto così, i biondi li detesto-
Sorrise. –Perché?-
-Perché nelle storie più belle le protagoniste sono sempre bionde, mentre..- si fermò.
-Mentre tu non lo sei-
-Già-
-Neanche a me piacciono le bionde, hai ragione-
-Ma se hai i capelli chiarissimi!-
-Tu mi vedi così, ma non vuol dire che io sia così-
-Sei frutto della mia mente, quindi sei come ti vedo-
-Allora cerca di vedermi diversamente-
Un rumore sordo li fece voltare entrambi. Proveniva dall’oscurità davanti a loro.
-Ci ha trovati- sussurrò. Gli strinse con forza la mano e lui si voltò a guardare quelle dita che 
stringevano convulsamente le sue.
-Sono contenta che tu sia qui, chiunque tu sia davvero. Nei miei sogni, sono sempre stata sola-
Lo spinse via. –Vattene, prima che ci raggiunga-
Un ululato la fece rabbrividire. Il cuore tornò a pulsarle terrorizzato nel petto.
-Scappiamo allora- si alzò e le porse la mano. Ma lei non lo guardava più. Il suo sguardo era terrorizzato.
I suo occhi spalancati verso il buio.
-Non capisci. In questi sogni cercano sempre di uccidermi. E mi sveglio sempre nello stesso momento-
-Cioè?-
-Un istante prima di morire-
La belva balzò fuori dall’ombra. Con gli occhi gialli e le zanne ricoperte di sangue. Corse verso di lei
ringhiando. Saltò. E lei vide quei denti ad un soffio dal suo viso.

 
Sobbalzò. Fece vagare lo sguardo a destra e a sinistra, in cerca della luce. Espirò. Ancora quei 
dannatissimi sogni. Da quando era arrivata nel palazzo, si erano fatti più vividi. Distingueva ogni dettaglio,
ogni parola, come se stesse davvero vivendo tutto ciò che sognava. E, quando si svegliava, ricordava 
ogni singolo particolare. Da quando era lì, in tutti i suoi sogni qualcosa cercava di ucciderla. E ci riusciva.
Si alzò dal letto e le gambe per un attimo le tremarono. Quella notte, però, aveva sognato qualcosa di nuovo.
Leon. Anche lui faceva parte di quei sogni. Quelli che lei sapeva si sarebbero avverati. Forse, un giorno,
lo avrebbe incontrato davvero. Nella realtà.
Si avvicinò alla finestra. Quella sera avrebbe rivisto la bestia. O, dopo ciò che era accaduto la sera prima, 
non si sarebbe presentata? Cosa le avrebbe detto? Avrebbe mostrato la stessa furia del giorno precedente?
Le avrebbe mostrato ancora il suo volto?

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Capitolo 8
*** Una rosa per i tuoi pensieri ***


                        

Si sedette accanto alla finestra e prese la rosa tra le dita. Quella sera era stata così silenziosa. Aveva tenuto
lo sguardo basso per tutto il tempo, gli era sembrata sovrappensiero, catturata da qualcosa nella sua mente 
che lui non poteva conoscere. Era sceso appositamente in ritardo, per permetterle di mangiare almeno qualcosa.
In sua presenza, non osava toccare cibo. E lui voleva che mangiasse. Se solo avesse visto come si cibava lui. 
Gettò la rosa a terra e ringhiò, frustrato.
Tutto ciò era assurdo. Lei non avrebbe mai potuto salvarlo. Era stata così coraggiosa, quando si era  offerta al 
posto del fratello. E altruista. Ed era talmente bella.
Mentre lui.. lui non era altro che una bestia. Una creatura orripilante.
Come sperava anche solo lontanamente che lei potesse salvarlo?
E perché avrebbe dovuto? Perché si sarebbe dovuta interessare di lui?
Eppure, quando era arrivato nel salone, gli era parso che lei fosse.. felice.
No, era impossibile. Doveva aver frainteso.
Nessuno dei due aveva proferito parola e per tutto il tempo lui non aveva fatto altro che desiderare ardentemente
poter sapere cosa pensava.
Tornò a guardare la rosa. Un petalo per un sogno. Era stato l’unico momento in cui lei gli aveva parlato davvero,
in cui gli aveva rivelato tutto ciò che pensava.
La sollevò da terra e ne strappò un petalo, che lentamente svanì nella sua mano. Chiuse gli occhi e l’oscurità l’avvolse.

 
Ed eccola lì. Seduta accanto ad un letto, la schiena poggiata al muro e le braccia intorno alle gambe. Teneva
il mento sulle ginocchia. Aveva lo sguardo lontano. Nel sogno della notte precedente aveva il vestito azzurro che
le aveva visto a cena. Quegli abiti non facevano altro che aumentare la sua bellezza. Ora, invece, indossava il 
pantalone e quella strana camicia scura che le aveva visto indosso quando era arrivata lì.
-Qualcosa ti turba?-
Non sollevò lo sguardo, né si mosse. Si sedette accanto a lei.
-Sto impazzendo-
-Perché dici questo?-
-Perché è così- una lacrima le solcò il viso. E lui sentì il bisogno impellente di rincuorarla. Allungò una mano verso
di lei, ma si fermò. Lui era solo una bestia. Lei sarebbe stata inorridita del suo gesto. Poi però si ricordò che, in quei
sogni, lui era semplicemente Leon.
Allora le sfiorò il viso, asciugando quella lacrima.
-Oh, Leon- si voltò a guardarlo e vide nei suoi occhi una luce che non aveva mai visto.
-Solo tu lo sai-
-So cosa?-
-Dei miei sogni, perché li hai visti. Ho sempre fatto degli strani sogni, fin da quando ne ho memoria. E spesso ciò 
che sognavo.. accadeva davvero. Si avverava, capisci? Non l’ho mai detto a nessuno, nessuno avrebbe capito. 
Ma tu puoi. Perché sei qui, nella mia testa. Sognavo le fiamme e arrivava l’incendio, sognavo qualcuno e arrivava
la morte.. –
Il suo sguardo tornò a farsi vago. –Ho sognato mio padre, la notte prima che morisse.. e ho sognato il pozzo e c’era
il mio riflesso e tutto quel sangue.. e sono passata attraverso lo specchio.. il riflesso, capisci? Ma erano solo immagini
e finché restavano tali, potevo illudermi che fosse normale, che fosse solo.. ma da quando sono in quel castello, non
sono più solo immagini. Ora i sogni sono così
reali e temo che ciò che vedo non solo si avvererà, ma comporterà 
qualcosa di più.. -

No, non stava impazzendo. Era solo ancor più speciale di quanto lui avesse pensato. Ed era ovvio che in quel posto
impregnato di magia, i suoi sogni sembrassero più reali.
-Non tutti i sogni sono necessariamente fiamme e morte. Forse hai talmente paura delle cose brutte che sogni, che 
non riesci a concentrarti su quelle belle-
-Non so. Forse è davvero come dici, eppure..-
Eppure mi sembra che ci sia qualcosa che mi costringe a sognare sempre la mia morte. Perché lei era sempre sul 
punto di essere uccisa. E aveva quella strana sensazione che quei sogni così vividi, quelli iniziati al castello, non erano
completamente opera sua.
-Eppure?-
Un rumore li fece voltare di scatto. Era al di là della porta chiusa. Come uno scroscio costante. Come il rumore delle 
onde del mare che si infrangono l’una sulle altre.
-Cos’è?-
Si strinse ancora di più le ginocchia al petto.  –Acqua-
La porta si spalancò sotto il peso del flutto. L’acqua entrò prepotente, puntò verso di loro feroce. Era troppa. Troppa. 
E li sommerse entrambi.



Maledizione. Era stato strattonato fuori dal sogno prima che anche lei si svegliasse. Si alzò e si precipitò al piano di sotto.
Lei doveva star ancora dormendo. Davanti alla sua porta esitò. Il modo in cui si era confidata con lui.. no, non con lui. 
Con Leon.
Entrò piano, facendo attenzione a non fare il minimo rumore e si avvicinò al letto. Come immaginava, stava ancora 
dormendo. Aveva le mani abbandonate accanto al viso e respirava piano. Osò avvicinare la mano per sfiorarle la guancia
con il dorso.
E se, svegliandosi, lo avesse visto? Quel suo gesto l’avrebbe di certo ripugnata.
Si ritrovò a sperare che si svegliasse, nonostante tutto. Solo per vedere ancora quegli occhi..
Si voltò e uscì di corsa dalla stanza. Cosa gli era saltato in testa? Solo nei sogni, solo lì, avrebbe potuto sfiorarla.

 
Sprofondava di nuovo. Cadeva in acque sempre più profonde, incapace di muoversi, di raggiungere la superficie e 
respirare. Leon era scomparso. Un tocco familiare la scosse. La donna dagli occhi di un intenso blu le porgeva la mano.

Seguimi, sussurrò nella sua mente. E lei lo fece. La guidò tra le acque, finché non si ritrovò su un prato illuminato 
dalla luce del giorno e scoprì di poter respirare di nuovo. Girò su se stessa, in cerca della donna. La riconobbe a 
pochi passi da lei, ma non era come l’aveva sempre vista. Ora aveva lunghissimi capelli biondi raccolti in una treccia
morbida che le ricadeva sulla schiena, indossava uno di quei vestiti ampi, pieni di tulle, con il corpetto dorato, ricco 
di ricami e il suo volto era illuminato da un sorriso gioioso. Stava correndo nel bosco anteriore alla casa. Spesso si 
voltava indietro, ridendo.

-Sono più veloce di te-
La raggiunse e guardò nella direzione del suo sguardo. Ma non vide nessuno.
-Ti sto solo facendo vincere- rispose la voce di un uomo.
Lei rise ancora, riprendendo la corsa.
Prima che le desse le spalle, vide due occhi di un blu intenso perforarle l’anima.


Sbatté le palpebre più volte. Quella era la donna che aveva visto nell’acqua della fontana. Un terribile presentimento si 
fece strada in lei. Aveva sempre visto solo il futuro nei suoi sogni, per cui non aveva mai pensato di poter vedere altro. 
E se, invece, quello che stava vedendo non fosse il futuro, ma un ricordo del passato?
Si mise a sedere e alzò lo sguardo.
La porta della sua stanza era aperta.

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Capitolo 9
*** La biblioteca ***


                     8- la biblioteca

          I bei libri si distinguono perché sono più veri di quanto lo sarebbero  
                 se fossero storie vere.

                                                                                 Ernest Hemingway

Erano passati alcuni giorni. Aveva ripreso ad uscire, di giorno. Passeggiava tra gli arbusti
oppure arrivava fino alla distesa d’erba, si sedeva a terra, chiudeva gli occhi, e lasciava
che il sole la inondasse, riscaldandola. Dietro il castello, erano state costruite due serre e
riempite di decine di tipi di piante, ma dovevano essere abbandonate da tempo, i vetri 
erano sporchi, opachi, i fiori secchi, morti. Aveva chiesto alla bestia se ci fosse già qualcuno
che se ne prendesse cura e lui le aveva semplicemente detto che ‘se la cosa le era di 
gradimento, poteva occuparsene lei’.
E così aveva fatto. Inoltre, stesso il giorno seguente, 
le si era avvicinato un uomo, Paul, affermando che un tempo era lui che si occupava delle
serre, prima che il padrone desse l’ordine di non curarle più. Paul l’aiutò a ripulire tutto, 
buttare le piante vecchie e portare le nuove. Le diceva i nomi dei fiori che lei non conosceva,
le mostrava come trattarli, quanta acqua e quanto concime mettere. Da quando aveva
scoperto quel luogo, era lì che passava la maggior parte del tempo. Ogni mattina le annaffiava,
toglieva le erbacce e potava i rami troppo sporgenti. Di tanto in tanto, raccoglieva qualcuno
di quei fiori e li portava nel castello. Quando poi scendeva per la cena, li sistemava al centro
del tavolo, in un vaso che si era fatta portare da Rebecca. La maggior parte delle volte, però,
li sistemava nella sua camera, accanto al letto cosicché, al suo risveglio dopo uno dei soliti
incubi, avesse qualcosa di bello da vedere. Appena la luce iniziava ad attenuarsi, rientrava
nel castello. Non si era più avvicinata alla fontana. Si era anche arrischiata a mettere il naso
nelle stanze sul piano che non le era proibito, tenute nella penombra da spesse tende e strati
di polvere, ma erano per lo più vuote. Una sera, mentre l’aiutava a prepararsi, Rebecca le 
aveva rivelato che quelle stanze erano le più odiate dal padrone, tuttavia, quando gliene aveva
chiesto il motivo, lei aveva cambiato discorso senza aggiungere altro. La stanza che più la
colpì e, in effetti, l’unica ancora arredata, era un’enorme biblioteca, in cui facevano bella mostra
decine e decine di scaffali ricolmi di libri. Due scalinate, ai due lati opposti, risalivano dal 
pavimento fino ad un livello superiore, dove una lunga scaffalatura accoglieva tomi più antichi.
La prima volta che era entrata nella stanza, si era sentita mancare il fiato. I suoi occhi avevano
vagato frenetici lungo i due piani, vagliando e sfiorando ogni rilegatura, ogni volume, increduli.
Non aveva mai visto così tanti libri. Per un’intera settimana, si era rintanata lì ogni giorno, 
dalle prime luci dell’alba fin quando non si era accorta di essere terribilmente in ritardo per
la cena. Aveva sfogliato così tante pagine e sfiorato così tante copertine. Non avrebbe fatto 
in tempo a leggerli tutti neanche in una vita intera. Adorava leggere fin da bambina, aveva la
camera piena di libri, dai romanzi più moderni alle raccolte dei migliori classici, ma quelli.. erano
davvero più di quanti ne avesse mai visti in assoluto.
Anche quella sera aveva fatto tardi. Si era scusata, come ormai faceva ogni volta ed aveva 
preso posto a tavola.
-Ho trovato la biblioteca- disse infine, quando trovò il coraggio.
-Sì, lo so- rispose solamente. Rebecca aveva l’ordine di informarlo ogni giorno su di lei. L’aveva
osservata spesso, rapito, mentre camminava piano, decidendo quale libro prendere. Nascosto
oltre la porta, la spiava sedersi su una delle poltrone, aprire il libro sulle gambe incrociate e 
leggere per ore. Lui restava lì, incatenato a quella visione, incantato e staccarsi era sempre 
più difficile. Il volto le si illuminava di una luce che non le aveva mai visto, sembrava così rilassata.
Non osava pensare che magari lei potesse essere.. felice. Anche lì. Anche con lui.
Ora, gli sorrideva spesso. Ogni mattina la sentiva uscire di buon ora e camminare canticchiando
fino alle serre. Nel ritornare si attardava sempre nel bosco oppure si allungava fino al prato e, 
una volta rientrata, si precipitava in biblioteca. Sceglieva sempre gli stessi generi. Poesie o tragedie.
Qualche commedia teatrale. E poi c’erano i libri più antichi, quelli che gli erano pervenuti da suo 
nonno. Li sfogliava con un’ammirazione devota, quasi fossero reliquie sacre. Si soffermava sulle 
vecchie storie, le leggende di paesi lontani. Era passato così tanto tempo da quando lui aveva 
smesso di leggere. O di curare le piante.
Quella ragazzina gli stava lentamente ricordando cosa volesse dire vivere.
-Ci sono dei libri davvero stupendi- continuò.  Negli ultimi giorni cercava spesso il suo viso. Non 
per paura, non con disgusto. Voleva solo.. poterlo guardare in volto.
E lui stava iniziando a concederglielo.
Cadde il silenzio e lei abbassò lo sguardo.
-Sono contento che.. ti piaccia-
Un sorriso le illuminò nuovamente il volto.  –A voi piace leggere?-
-Un tempo leggevo molto-
-Allora dovreste riprendere-
-Potresti.. – no, cosa stava facendo? Era una follia.. lei non avrebbe mai accettato.. e lui non avrebbe
dovuto chiederlo.. perché avrebbe dovuto accettare?..  -..leggere per me-
La vide sgranare gli occhi ed esitare. E i suoi pugni si chiusero finché non sentì le unghie nella carne.
Poi, però, sorrise. –Sì. Vado subito a prenderne uno-
Corse via e tornò poco dopo, tenendo tra le braccia tre volumi.
-Allora, abbiamo Shakespeare, i sonetti, poi i viaggi di Gulliver e il fantasma di Canterville. Quale preferite?-
Si sedette davanti al fuoco, sistemandosi la veste dell’abito e lisciando il tessuto con le mani. Si posò i
libri in grembo e lo guardò, in attesa di una risposta.
-Gulliver- sussurrò, ancora incredulo. Le si sedette accanto.
Quando lei iniziò a leggere, lui non poté fare a meno di sorridere, dopo tanto tempo.
E sperò che, poco a poco, lei dimenticasse la sua vecchia vita e iniziasse ad amare la nuova.

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Capitolo 10
*** Adam ***


                

Al quarto sbadiglio, le sorrise.
-Continuiamo domani-
Lei annuì, alzandosi. Prima di andarsene, si voltò verso di lui.
-Non mi avete mai detto come vi chiamate-
-Adam-
-Adam.. come l’uomo che fu cacciato dal paradiso- lo guardò seria. –Cosa vi è accaduto?-
La sua espressione si indurì. –Sono stato cacciato dal paradiso-
-Qualsiasi sia stata la vostra colpa, vi siete punito più di quanto non siate stato già punito da
questa.. maledizione. Magari mi sbaglio, ma credo che da tempo abbiate smesso di 
considerarvi come un uomo che aveva fatto un errore e abbiate iniziato a considerarvi solo 
come un mostro-
-Un uomo che compie un atto mostruoso, diventa un mostro-
-Non siete un mostro. Siete una persona che ha commesso molti errori-
-Ed il mio aspetto mi ricorda ciò che ho fatto-
-Il vostro aspetto vi ricorda che dovete migliorare. Non è una punizione, è un monito-
-Dunque non mi consideri un mostro?-
-Io.. non so ancora come considerarvi- fece per andarsene, ma ancora una volta si voltò.
-Siete stato voi ad aprire la porta della biblioteca, vero? Prima quella stanza era chiusa a chiave-
Lui non rispose e abbassò lo sguardo.
Annuì.   -Grazie-


Era nel castello, all’ultimo piano, quello che le era proibito. Eppure ora nessuna tenda 
impediva alla luce di entrare dalle finestre e illuminare il corridoio. Guardò fuori. Doveva 
essere mattina presto. Delle risate la raggiunsero da una delle camere, si avvicinò alla 
porta e vi accostò l’orecchio. Erano due voci distinte e lei le conosceva entrambe. Abbassò
la maniglia e si sporse appena oltre la soglia. Dietro un paravento a quattro ante proveniva
la voce di un uomo; sul letto, stesa, gli occhi rivolti verso il sole oltre il vetro e le mani 
abbandonate accanto alla testa, c’era la donna della fontana, i lunghi capelli biondi erano
sparsi sul cuscino e sulla veste da notte.
‘Adam,’, disse d’un tratto la donna, ‘perché non fai costruire una di quelle stupende fontane
da giardino? Una di quelle da cui l’acqua sgorga come cascate’
‘Perché proprio una fontana?’
‘Il castello di mio padre era molto vicino ad un lago, ricordi? Mi manca tanto quel luogo. E
non possiamo certo costruire un lago nel giardino’
L’uomo rise. Sì, anche la sua voce conosceva. Adam. Era la bestia, prima che divenisse tale.
‘D’accordo, Rosaline. Se la mia bellissima sposa vuole una fontana, una fontana avrà’
Rosaline sorrise.
-Belle!- sentì chiamare. Leon. Una strana sensazione le attanagliò il petto. Come se lui non 
dovesse sapere, come se non dovesse scoprire quello che Rosaline le stava mostrando. 
Tornò rapida nel corridoio e si chiuse la porta alle spalle.
-Belle- la scrutò perplesso. –Che ci fai lì?-
Si staccò dalla porta e gli andò incontro. –Tu piuttosto, sei.. castano-
Si toccò i capelli. –Davvero? Oh, questo è strano-
Rise. –Mi hai detto di vederti diversamente, magari sto iniziando a farlo- lo soppesò. –Già, 
così stai decisamente meglio- gli porse la mano. –Vieni, vediamo cosa c’è in queste stanze-
Evitò accuratamente la camera da cui era appena uscita ed entrò in quella più distante dalle
scale. Doveva essere una camera per gli ospiti, era arredata come una camera da letto, ma
non c’era nessuno.
Si sedettero accanto alla finestra, sul piccolo davanzale, uno di fronte all’altra. Belle guardava
fuori, sovrappensiero.
-Che ne pensi di questo posto?- gli chiese d’un tratto.
Lui la imitò, voltandosi verso il vetro. –Lo trovo adorabile, ma la verità è che mi piacerebbe 
molto vivere vicino al mare-
-Sì, sarebbe davvero bello- chiuse gli occhi, immaginandosi la scena.
-E tu? Che ne pensi di questo posto?-
Sospirò. –Non so.. il fatto è che qui tutto ha una doppia faccia. C’è la foresta notturna dove il 
primo giorno un lupo ha cercato di sbranarmi e capirai che quella non mi è mai piaciuta 
particolarmente e poi c’è la foresta fiorente del giorno, con un sole che scalda perfino il cuore. 
C’è la bestia che ha rapito mio fratello e.. l’uomo che mi chiede di leggere per lui. C’è una donna
che cerca di affogarmi, ma in realtà non chiede altro che essere ascoltata..-
Leon strinse i pugni, la sua espressione si fece dura, ma lei non se ne accorse.

La mia bellissima sposa.. quella donna era sua moglie.
-Tutto è orrendo, terribile e un attimo dopo è tutto perfetto e meraviglioso e io.. io credo che non 
mi piaccia nessuna delle due versioni. Insomma, di giorno c’è sempre il sole, non sarebbe bello
vedere la pioggia anche quando la foresta è fiorita? Non sarebbe bello vedere il sole quando gli 
alberi sono secchi? Qui tutto è estremo-
-Perché non vai via?-
Abbassò gli occhi.  –Non posso- sfiorò con le dita la rosa sulla mano. Da un po’ di giorni si era 
accorta che si stava lentamente sfoltendo, sembrava quasi che i petali diminuissero giorno dopo
giorno. Non aveva mai avuto il coraggio di chiederne il motivo ad Adam, ma si era chiesta più 
volte se, una volta che il fiore avesse perso tutti i suoi petali, lei fosse stata libera.
-Perché la bestia ti tiene intrappolata qui?-
-Non è solo questo.. mio fratello mi disse che non poteva andar via o sarebbe morto, ma io ho 
stretto un accordo e non voglio andarmene prima che lui ritenga il debito saldato-
-Il tuo carceriere? Com’è?-
-È..- rise, nervosa.  –Perché ti interessa?-
Leon, che l’aveva scrutata con attenzione fino a quel momento, scrollò le spalle.
-Faccio conversazione. Quindi è per tuo fratello che sei qui?-
Annuì.  –Non mi ha mai dato ascolto. Mia madre alcuni giorni fa ha comprato uno specchio in un 
negozio di antiquariato e mio fratello una mattina mi disse di aver scoperto che poteva attraversarlo,
che dall’altra parte c’era un posto bellissimo, ricco d’oro. Io gli ho detto di non usarlo mai più, di 
non avvicinarsi a quel posto- sospirò.  –Ma non mi ha mai ascoltato e non l’ha fatto questa volta.
Così, quando l’ho visto in quella cella.. non potevo lasciarlo lì, no?-
-Tu l’avevi avvisato. Perché sacrificarti per lui? Non avevi paura di quello che sarebbe potuto 
succederti?-
-Sì, ma lui è mio fratello. Dovevo aiutarlo-
Leon abbassò lo sguardo, perso nei suoi pensieri.
-Se la bestia di cui parli, ti lasciasse andare, te ne andresti? Se ti liberasse dal tuo patto-
-Credo di sì-
Credo di sì.. perché aveva risposto così? Perché non aveva detto solo di sì? Credo.. non era più 
sicura di volersene andare? Ma che le veniva in mente? Restare lì, con.. Adam. Sarebbe stata poi
un’idea così brutta? Le aveva mostrato la biblioteca, anche se in un modo tutto suo, le aveva 
chiesto di leggere per lui.. No, no, no! Era forse impazzita? Adam era pur sempre una bestia. 
Una bestia che aveva rapito suo fratello e che la teneva prigioniera, non doveva dimenticarlo. 
Lei era pur sempre imprigionata lì contro la sua volontà.. o no?
-Belle?-
Riemerse dai suoi pensieri e gli sorrise. –Cosa?-
-Mi hai detto che tuo padre è morto. Parlami di lui-
-Morì sul lavoro quando avevo sei anni. Faceva il muratore. Ricordo che la notte prima sognai che
eravamo andati a pattinare e lui era scivolato sul ghiaccio. Mi sorrise e mi disse che stava bene.
Il giorno seguente mia madre venne a prendere me e i miei fratelli a scuola, dicendoci che nostro
padre era caduto da un’impalcatura, che era andato in un posto migliore- sorrise triste.  –Ricordo 
che non piansi quel giorno. Dicevo a tutti ‘tranquilli, mi ha detto che sta bene’. Ma da allora le cose
sono cambiate. Mia madre non ha mai detto nulla, ma era chiaro che ha sempre preferito i miei
fratelli a me. Non che non mi volesse bene, è solo che.. non ci siamo mai capite. Io vivevo in questo
mondo tutto mio fatto di strani sogni e spesso dicevo cose senza senso, mentre lei cercava solo 
un po’ di sicurezza. Una sicurezza che io non ho mai potuto darle e che, invece, ha trovato nei miei 
fratelli. Christian e Dominic erano più grandi di me, sapevano dare consigli concreti, ragionati. Non
ci siamo mai capite, ecco-
-Non le hai mai detto dei tuoi sogni, perché?-
-Non l’ho mai detto a nessuno, è una cosa troppo strana perché possano capirla. Mi prenderebbero 
per pazza e la verità è che io stessa penso di esserlo- scosse il capo, quasi volesse scacciare quel 
pensiero. Poi lo guardò e sorrise. –Ma tu non dovresti già saperle queste cose, visto che sei nella mia
testa?-
Le sorrise a sua volta. –Raccontate da te hanno tutto un altro effetto-
Fece per ribattere, ma un colpo contro la porta li fece sbandare entrambi. Balzarono in piedi e lei gli 
strinse la mano.
-Si accettano scommesse su cosa sarà questa volta- scherzò, ma la sua voce tremava e il suo sorriso
era tirato, il cuore martellava contro le costole. Strinse con più forza la mano di Leon. Un altro colpo.
La porta tremò.
-Grazie- disse, continuando a tenere lo sguardo agitato fisso sulla porta. Un altro ancora.
-Per cosa?-
-Perché tu mi ascolti sempre-
La porta si spalancò. Rovi puntellati di spine per tutta la loro lunghezza li raggiunsero in pochi secondi, 
strisciarono fino ai loro piedi, si avvolsero alle caviglie di Belle, la strattonarono, cadde a terra con uno
strillo spezzato. La trascinavano verso la porta, verso l’oscurità che attendeva oltre. Leon le strinse la 
mano con forza, cercando di trattenerla. I suoi piedi scivolavano sul pavimento. Cadde anche lui, si 
aggrappò ad un piede del letto e la guardò. Non riusciva a tenerla.
Lei urlò, le spine che le perforavano la pelle. I rovi la strattonarono con forza, tirandola sempre di più. 
Il sogno non sarebbe finito finché non avesse lasciato che la portassero via.
Ricambiò il suo sguardo, cercando di calmare il battito del cuore. Non riusciva a non avere paura, anche
se sapeva che era solo un sogno, anche se sapeva che ogni volta qualcosa avrebbe cercato di farle del 
male, non riusciva a non avere paura.
Lasciò la presa sulla mano di Leon e strinse gli occhi.
-Belle!- sentì, mentre veniva trascinata nell’ombra.

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Capitolo 11
*** Un invito ***


            Image and video hosting by TinyPic 11-

Aprì l’armadio e passò in rassegna gli abiti, come ormai faceva tutti i giorni. Ne scelse uno
rosso, con la gonna non molto ampia e sul davanti uno spacco dalla scollatura a cuore fino
alla vita che rivelava altro tessuto rosso impreziosito da piccoli brillanti. Raccolse i capelli in
una treccia laterale e scese in salotto per la cena.
Adam era già lì, in piedi davanti al camino, le dava le spalle.
-Adam- lo chiamò in un sussurro, ma se ne pentì subito. Le sembrava così strano chiamarlo
per nome. Lui si voltò e le sembrò stupito proprio come lei. Felicemente stupito.
Dopo che lei ebbe finito di mangiare, Adam le porse il libro dei viaggi di Gulliver e si sedette
ancora una volta accanto a lei per ascoltare la sua voce. Non si accorse nemmeno di essersi
lasciata scivolare il libro dalle mani un istante prima di addormentarsi contro la poltrona. La 
mattina seguente avrebbe ricordato solo sprazzi di immagini e suoni, due braccia che la 
sollevavano da terra con delicata attenzione, le lenzuola del suo letto poco dopo, dei passi 
che si allontanavano e la sua stessa voce.
‘Adam’, avrebbe ricordato vagamente di aver biascicato, ‘domani potreste venire con me alle
serre’
Immersa nell’oblio del sonno, non vide la bestia esitare, stringere i pugni, combattendo contro
se stesso. E poi quell’assenso appena sussurrato, prima che andasse via.


La mattina seguente si svegliò placidamente, come accadeva raramente. Nessun incubo aveva
agitato i suoi sogni e rimase alcuni istanti rannicchiata sotto le coperte, sorridente.
Le giornate erano passate così rapidamente tra le serre, la biblioteca e le cene con.. Adam. 
Arrossì di colpo e si maledì subito. La bestia. Doveva tenere bene a mente che lui era pur sempre
una bestia. Qualsiasi cosa avesse fatto per diventare così, doveva essere stato qualcosa di grave,
no? Aveva fatto del male a qualcuno? A quella donna? Sua moglie. Una fitta di gelosia le colpì
inaspettatamente il petto, ma la scacciò via con rabbia. Scosse il capo, cercando di riportare 
ordine tra i suoi pensieri. Bestia. Bestia. Bestia..
Doveva continuare a considerarlo semplicemente come una bestia se non voleva correre il rischio
di affezionarsi a lui. Si morse il labbro e tirò le lenzuola sopra la testa, sospirando.
Ma temeva che ormai fosse troppo tardi per questo.
Un pensiero le attraversò la mente, ma fu talmente rapido che non riuscì ad afferrarlo e fuggì lontano
dalla sua portata. Poi, improvvisamente, le tornarono alla mente le parole della sera prima. Domani
potreste venire con me alle serre.

Dio, cosa le era saltato in testa? Cosa credeva di fare? Una passeggiata romantica tra i fiori, eh, Belle?
Tu e il tuo carceriere. Perfetto. Iniziamo a soffrire della sindrome di Stoccolma?, pensò, maledicendosi 
e alzandosi come una furia dal letto. Si guardò allo specchio. E aveva un aspetto orribile! Con quei
capelli arruffati e le guance arrossate.. ma cosa diavolo stava facendo? Ringhiò, frustrata. Cosa 
avrebbe dovuto importarle dei capelli o dei vestiti o di quella stupida passeggiata o.. di lui.

Bestia, bestia, bestia, continuò a ripete sottovoce, cercando di rimanere con i piedi per terra. Sei una
prigioniera, Belle, e sei qui solo per salvare tuo fratello, non certo perché dopo tanto tempo ti sei sentita
di nuovo apprezzata, no, assolutamente no. E decisamente non per le serre o per i libri o per come ti 
ascolta ammaliato quando leggi per lui..
In fondo, era lì a causa di Christian, aveva compiuto un atto eroico, allora perché non cercare di godere 
dei lati positivi della vicenda?
Vide il jeans e la felpa nera che Rebecca aveva lavato e sistemato sulla sedia accanto allo specchio. 
Non li indossava da quando era caduta nella fontana e lui l’aveva salvata. Aprì l’armadio e sorrise. 
Avrebbe messo l’abito verde.

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Capitolo 12
*** Perché i mostri si temono ***


                Image and video hosting by TinyPic 12- perchè i mostri si temono

             I'll tell you my sins and you can sharpen your knife..
                                                                            
Hozier, Take me to church

Camminava avanti e indietro di fronte alla porta principale. Non avrebbe dovuto accettare. Avrebbe dovuto
inventare una scusa, dire che era impegnato, che non usciva mai dal castello di giorno e non avrebbe
incominciato per lei.. e invece avrebbe incominciato proprio per lei. Perché non era ancora scesa? Perché
ci stava mettendo tanto? Aveva cambiato idea? Sicuramente aveva cambiato idea. Sì, doveva essere così.
Quando, la sera prima, gli aveva chiesto con voce impastata di sonno se avesse voluto accompagnarla alle
serre, per un attimo aveva creduto di aver sentito male. Perché avrebbe voluto stare in sua compagnia?
Si voltò verso il corridoio illuminato dalla luce del giorno e la vide. Lo guardava con un sorriso divertito sul 
volto. Portava un abito verde e bianco, con le spalline sottili che ricadevano oltre le spalle e una fascia alta 
stretta sul corpetto. Aveva notato con una certa gioia che non aveva più indossato quegli strani vestiti che 
portava il primo giorno. Forse avrebbe davvero potuto convincerla a restare lì, con lui.
Le aprì la porta e si scostò per farla passare. Prima di raggiungerla, esitò, guardando il cielo.
-Qualcosa non va?- gli chiese.
-Io.. non sono mai uscito di giorno.. tutta questa bellezza non si addice al mio aspetto-
Lei sorrise. –Gli alberi o il sole non vi giudicheranno, fidatevi- gli porse la mano. –Venite-
Guardò la mano che gli porgeva, la strinse. La sua pelle era delicata, liscia, in contrasto con i suoi artigli e la
pelle ruvida. Ed era calda. Una stretta che raggiungeva perfino l’anima, riscaldandola. Uscì alla luce del sole,
affidandosi a quel gesto e ben presto si ritrovò a stringere la sua mano quasi convulsamente, anelando quel 
contatto come una flebile fiammella dopo anni di gelo. Non era come nei suoi sogni, lì, l’aveva stretta a Leon,
ad un uomo normale. Ora, la stava stringendo ad una bestia. E non sembrava esserne turbata o ripugnata. Non
appena lei si voltò, incamminandosi, lui sorrise. Sperava che lei fosse felice lì, ma, in fondo, voleva che restasse
soprattutto perché lui era felice da quando lei era lì.
La seguì in silenzio, esultando tra sé e sé per ogni suo passo entusiastico.
Conosceva bene la strada fino alle serre, ma lasciò che fosse lei a guidarlo, felice che non avesse lasciato la 
presa sulla sua mano per tutto il tragitto.
Gli mostrò tutte le piante che stava curando, parlando senza sosta di quelle che più le piacevano o di come se ne
era presa cura insieme a Paul o di come fosse stata contenta quando aveva scoperto quel posto.
-Paul ha una certa fissazione per la puntualità. Ogni giorno, appena il sole inizia a tramontare, mi butta fuori di qui,
ordinandomi di tornare nel castello e sono più che sicura che in questo ci sia il vostro zampino- gli sorrise raggiante
e lui non poté fare a meno di abbassare lo sguardo. In effetti, aveva dato specifiche istruzioni a Paul affinché 
facesse attenzione che rientrasse prima che il sole fosse tramontato. Non voleva altri incidenti come quello della
fontana. Se le fosse accaduto qualcosa..
Si riscosse e si schiarì la voce, avvicinandosi ad una delle piante. Non ti scordar di me. Non gli erano mai piaciuti
quei fiori, aveva deciso di metterne qualcuno nella serra solo perché Rosaline li adorava. Che macabra coincidenza.
Dopo tutto quello che era accaduto, non si sarebbe mai scordato di lei. Alzò lo sguardo su Belle e si accorse che 
lo stava osservando.
-Sembrate sovrappensiero. Quei fiori vi ricordano qualcosa?-
-Sì- disse solo, tornando a guardarli.
-Mi piacerebbe sapere qualcosa di voi-
Lui non rispose e lei inspirò profondamente. Voleva conoscere l’uomo che aveva scombussolato così radicalmente
la sua vita, l’uomo che aveva rapito suo fratello, ma che non le aveva mai fatto del male. Voleva sapere perché era 
diventato una bestia.
-Avevate una moglie, non è così?-
Trasalì.
-Come fai a saperlo?-
Ancora una volta quella fitta al cuore. Gelosia.
-La donna della fontana.. io.. ho solo supposto che..-
Strinse gli occhi, scrutandola con attenzione.  Supposto? No, non gli stava dicendo tutto. Doveva averla vista in uno
dei suoi sogni. Non poteva permettere che scoprisse la verità, non avrebbe mai dovuto sapere cosa aveva fatto, 
cos’era successo a Rosaline. Mai.
Le si avvicinò in poche falcate, l’espressione dura. Parlò con un tono più severo di quanto volesse.
-Non devi, per nessun motivo, avere a che fare con lei. Non ascoltare ciò che dice, non avvicinarti alla fontana e non.. 
seguirla-
Lo guardava con gli occhi spalancati, immobile. Si ritrasse appena, rendendosi conto di averla spaventata. –Hai capito?-
Annuì. Non seguirla. Parlava come se sapesse dei suoi sogni, come se sapesse che non si stava riferendo solo 
all’immagine che aveva visto nell’acqua. Ma come poteva saperlo? Non gli aveva mai detto dei suoi sogni e così a
Rebecca o a Paul.
E quel pensiero, che già una volta le aveva attraversato la mente, tornò a farsi vivo, sfuggendole.
L’espressione della bestia si addolcì appena.
-Non voglio che ti succeda qualcosa- sussurrò e, per alcuni istanti, lei lo fissò, incredula. Arrossì, pentendosi subito 
di quelle parole, ma poi lei rivolse lo sguardo su un’altra pianta e gli indicò un fiore dai petali blu disposti a corona
intorno ad un centro di un tenue viola. Fiordaliso.
-Questo è il mio preferito-
-È stupendo, in effetti- indicò un altro fiore dai pochi petali lunghi.  –Io adoro i lilium bianchi-
Si voltò per guardarli e sorrise.
-Sì, sono molto belli- si incamminò tra i due lunghi tavoli su cui erano appoggiati i vasi contenenti le piante dai rami
più corti.
-Raccontatemi di lei. Vostra moglie-
Non avrebbe dovuto dirle nulla, non avrebbe voluto dirle nulla, tuttavia, la speranza che in questo modo non avrebbe 
cercato informazioni altrove lo spinse a parlare. Sospirò.
–Si chiamava Rosaline. Era la figlia di un conte che amministrava dei terreni al nord. Stringemmo un accordo d’affari 
e, per sancirne il vincolo, volle che io sposassi sua figlia. E così fu-
-L’amavate?-
-Credevo che si potesse imparare ad amare una persona-
-E lei vi amava?-
-Era una donna bellissima- sussurrò, perso nei ricordi. –Forse ciò che amavo era proprio la sua bellezza. Feci di tutto
perché lei mi amasse, le donavo tutto ciò che desiderava, facevo tutto ciò che chiedeva e, sì, credo che alla fine lei 
abbia iniziato ad amarmi-
-Avete cercato di comprare il suo amore-
-Chi non lo farebbe?-
-Chiunque voglia un amore sincero. Poi cos’è successo?-
-Suo padre mi tradì e lei morì-
Un brivido le percorse la schiena. Che fosse stato lui ad ucciderla?
Alzò lo sguardo su di lei, inchiodandola. Che fosse questa l’azione mostruosa di cui parlava?
Le si avvicinò piano, soppesando i suoi movimenti e si fermò a pochi centimetri da lei, continuando a tenere lo sguardo
fisso nel suo.
Perché era diventato una bestia? L’aveva davvero uccisa lui? Forse per vendicare il tradimento del padre?
-Perché non hai paura di me?-
-Non mi avete mai fatto del male, perché dovrei avere paura di voi?-
-Perché i mostri si temono-
-Ci sono mostri ben peggiori da temere e che si celano dietro un volto angelico-
-E se io non fossi un mostro solo nell’aspetto?-
-Se mai vedrò in voi un mostro, allora vi temerò-
Le sfiorò la guancia con la mano e lei piegò leggermente la testa, abbandonandosi a quel contatto. Chiuse gli occhi.

Passeggiavano uno accanto all’altra. Gli aveva raccontato della sua famiglia, di tutti i guai in cui si era ficcato Christian e 
dei salti mortali che lei e Dominic avevano dovuto fare per sistemare le cose senza che la madre lo sapesse, di come si 
era procurata la piccola cicatrice che aveva sul ginocchio. Quando aveva accennato a ciò che avrebbe voluto fare appena
tornata a casa, lui si era rabbuiato, così aveva cambiato argomento, gli aveva chiesto della sua vita prima. Prima di aver
e quell’aspetto, prima di Rosaline. E lui si era rivelato più loquace di quanto immaginasse. Le aveva parlato della sua
infanzia, di come suo nonno, suo padre e poi lui si erano prodigati per trovare sempre nuovi libri per la biblioteca, di come
i suoi genitori fossero morti durante un lungo viaggio quando aveva solo sedici anni, lasciandogli averi, titoli, possedimenti..

E un senso di solitudine che non era riuscito a colmare, pensò tristemente.
Un animale sfrecciò davanti a loro e corse via.
Belle sorrise raggiante.  –Era un cerbiatto!-
Poi, quella strana sensazione che le rimbombava spesso nel petto, si ripresentò, frastornandola. Era la stessa sensazione 
che provava nei sogni che poi si avveravano, era come se qualcosa le indicasse esattamente cosa fare. Guardò nella 
direzione in cui il cerbiatto era scappato. E lo vide, poco distante da loro, si era fermato, la guardava. Stava aspettando 
che lo seguisse.
Gli corse dietro, dimentica di Adam e della loro passeggiata o del vestito che le rendeva così difficile affrettarsi tra tutti quei
rami o della voce che continuava a chiamarla.
-Belle!-
Lo ignorò, continuò a correre, a tenere lo sguardo fisso sull’animale, una presa ferrea la trattenne, la strattonò, facendola 
voltare. Spalancò gli occhi davanti all’espressione furiosa della bestia. Il suo sguardo ardeva di rabbia. Strinse la presa, 
avvicinandola ancora di più a sé. Cercò di liberarsi, inutilmente, sentì gli artigli graffiarle la pelle.
-Mi fate male- sussurrò, con una smorfia di dolore, ma la presa non si allentò.
-Ti avevo detto di non seguirla!- ringhiò contro di lei.
-Ma.. dovevo..-
Seguirla? Di cosa stava parlando? Il cerbiatto l’aveva aspettata, voleva mostrarle qualcosa.. Si guardò intorno, confusa. 
Erano ancora nella foresta, ma si stavano avvicinando al castello.. no, alla fontana. Rosaline. Era Rosaline che voleva 
mostrarle qualcosa, voleva farla tornare alla sorgente. E lui lo sapeva.
-Sapete che lei cerca di dirmi qualcosa- strattonò il braccio e stavolta la lasciò andare. Il fianco le doleva per la corsa e
respirava ancora affannosamente. Fissò gli occhi nei suoi, cercando di cogliere qualsiasi pensiero li attraversasse.
-L’avete uccisa?-
Il suo sguardo si fece imperscrutabile, lontano, un muro troppo solido per potervi vedere oltre. E, quando rispose, la sua voce
era priva di emozioni.
-Sì-

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Capitolo 13
*** Promise? Promise.. ***


Image and video hosting by TinyPic 13- Promise? Promise

“Non dobbiamo promettere ciò che non dovremmo, per non essere chiamati a svolgere
    ciò che non possiamo.”

                                                                                                  Abraham Lincoln

 

-Adam!-
La donna corse verso l’ingresso, gli strinse il braccio, l’espressione stravolta, tremava. Lui
si fermò, aspettandola, ma continuò a darle le spalle.
Si prese la testa tra le mani, guardando la scena. Doveva star sognando. Non ricordava 
neanche di essersi addormentata. Non osò avvicinarsi ai due coniugi e rimase immobile,
aspettando che Rosaline continuasse a parlare.
-Ti prego, è mio padre.. per favore, risparmialo-
Con uno strattone, si liberò dalla sua presa e si incamminò calmo verso la scalinata. Un 
cavallo lo aspettava, Paul lo tratteneva per le redini.
-Adam!- urlò ancora, chiamandolo.  –Promettimelo- sussurrò e per un attimo credette che
lui non avesse sentito. Ma l’uomo si fermò, evitando ancora di voltarsi. Poté vedere solo il 
fisico robusto e imponente, i capelli bruni che gli ricadevano sul collo. Strinse i pugni, come
gli aveva visto fare molte volte.
-Promettimelo- sussurrò ancora lei, facendo un passo oltre la soglia, in attesa.
-Te lo prometto- rispose semplicemente, prima di avvicinarsi al cavallo.
Un rumore costante e lontano attirò la sua attenzione, facendola voltare. Fece pochi passi 
lungo il corridoio. Era uno sciabordio d’ onde. Spalancò gli occhi, quando vide l’acqua 
comparire oltre il bivio del corridoio e dirigersi impetuosa verso di lei. La vide sovrastarla,
trattenne il fiato, si coprì il volto con le braccia e aspettò.
L’impatto la gettò indietro, facendole perdere presa sul pavimento e togliendole il fiato che
aveva trattenuto. Cercò istintivamente di urlare e l’acqua le riempì la gola.
Fu sbattuta a terra, la schiena e la testa sbatterono contro il pavimento duro, mentre sentiva
il petto bruciarle per la mancanza d’ossigeno. Inspirò di colpo ed espirò. Aprì gli occhi, 
continuando a respirare affannosamente. Tossì, sputando l’acqua rimastale in gola. Era 
accanto alla fontana, stesa sulla terra, il sole stava tramontando. Si rimise in piedi, tremando
per gli abiti completamente fradici. In ginocchio, un braccio appoggiato al bordo della vasca,
Rosaline faceva scorrere le dita sul filo dell’acqua, proprio come aveva fatto lei tempo prima.
Le si avvicinò. La prima volta che l’aveva vista, in sogno, aveva pensato che fosse bellissima, 
con la pelle candida e i lunghi capelli biondi, sembrava un essere quasi angelico. Ma adesso
un’ombra oscurava il suo volto. Lo trasformava, rendendolo cupo, angosciato.
-Aveva promesso- disse, come se fosse rivolta all’acqua. Il sole calò completamente,
lasciando che la notte ricoprisse il cielo.
Alzò lo sguardo su di lei, trafiggendola. Trasalì, arretrò, gli occhi sbarrati. Come poteva vederla?
Com’era possibile? Era solo un sogno. Non poteva vederla, era assurdo. Non poteva sapere 
che era lì, quello era un ricordo.. un ricordo..
Un ululato la scosse. Si voltò, tremava, fece un passo indietro, le zampe dell’animale avanzavano
rapide sul terreno. A chi doveva stare attenta? Alla donna? Al lupo? Cosa doveva fare? Si voltò 
verso la donna, che la guardava impassibile, ignara del mostro che si avvicinava. Perché? 
Perché non sentiva anche lei il rumore del fiato concitato della bestia? Di chi doveva avere paura?
Lacrime amare le rigarono il volto, agitate quanto il suo respiro.
Cosa fare? Cosa doveva fare?
Cercò tra gli alberi. Cercò quegli occhi gialli che ormai conosceva. Li cercò, aspettando che le
si avventassero contro. Guardò di nuovo la donna.
-Scappa- mosse appena le labbra, quasi senza proferire suono.
E lei scappò via. Corse attraverso la foresta, senza alcuna idea di dove stesse andando.
-Belle!-
Leon. Era la voce di Leon. No! Doveva andare via. Via di lì.
Continuò a correre, ignorò la voce di Leon che continuava a chiamarla, i suoi passi dietro di lei. 
Sapeva che era lui. Il ragazzo che l’aveva ascoltata, a cui aveva raccontato dei suoi sogni. E 
sapeva che non doveva fermarsi. Corse ancora, sebbene esausta, corse sempre più lontano. 
Vide la rimessa per gli attrezzi, un moto di speranza le accese l’anima. Aprì la porta, camminò 
nell’oscurità, cercando di vedere lo specchio che l’aveva portata lì.
Lo trovò, esattamente dove ricordava che fosse, si avvicinò e allungò una mano. Doveva 
andarsene. L’immagine di suo fratello si rifletté sul vetro, immobilizzandola.

L’unica cosa che pensò fu che lui stava tornando a prenderla.

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Capitolo 14
*** Burattinaio ***


14
       Salve a tutti...chiedo venia per il tremendo ritardo nel pubblicare
       (*sorride imbarazzata*)... ma spero di farmi perdonare con questo
        nuovo capitolo (*sfoggia due enormi occhioni da cane bastonato*).
       Grazie a tutti quelli che mi seguono e che sostengono Belle nella
         sua stramba avventura.

 
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Sbuffò. Il tempo sembrava non passare mai in quella stanza. Si alzò da sopra il davanzale,
camminò avanti e indietro, si guardò allo specchio, cercando di sistemare almeno un po’ il
groviglio dei suoi capelli, soppesò il risultato e sospirò ancora. Si era svegliata dopo un 
sogno che l’aveva turbata molto. Christian sarebbe tornato presto. Per lei. Ma la bestia non
l’avrebbe lasciata andare. Guardò la rosa sulla sua mano, seguendone i lineamenti con le
dita, il bocciolo era sempre più piccolo a mano a mano che passavano i giorni. Erano
rimasti pochi petali. Una volta che non ne fosse rimasto più nessuno, Adam l’avrebbe liberata,
no?
Eppure, quel sogno le aveva mostrato anche qualcos’altro. Finalmente era riuscita ad 
afferrare quel pensiero che più di una volta l’aveva sfiorata. La bestia non aveva fatto altro 
che cercare di ammaliarla per tutto quel tempo, di convincerla a restare, aveva cercato di
farle dimenticare cosa c’era dall’altra parte dello specchio. I libri, le serre, le letture davanti al
fuoco, era stato tutto un inganno per intrappolarla lì di sua volontà. Aveva fatto tutto perché lei
volesse rimanere, per non farla più andare via. Era stata una stupida. Si era fatta abbindolare
per tutto il tempo, aveva permesso che manovrasse la sua mente e quanto abilmente il
burattinaio aveva guidato i fili, manipolando i suoi sentimenti, quanto malleabile si era 
dimostrata lei, creta ignara. Aveva evitato la realtà dei fatti, lei non sarebbe mai stata altro che
una prigioniera.
E si era sentita ancor più sciocca nel momento in cui si era resa conto che, oltre la rabbia, c’era
la delusione, il dolore.
Così, si era imposta di non uscire da quella stanza per nulla al mondo. Se era una prigioniera, 
allora quella sarebbe stata una prigione a tutti gli effetti.  


Era sceso nel salone molto prima delle sette. Non era riuscito ad aspettare un attimo di più,
si era tormentato tutto il giorno, a stento aveva chiuso occhio durante la notte.

L’avete uccisa? Sì..
Cosa diavolo gli era venuto in mente? Doveva essere sconvolta, terrorizzata, disgustata..
Gli aveva detto che non lo riteneva un mostro, ma ora che sapeva..
Si allontanò dalla finestra e si affacciò nel corridoio. Perché non era ancora arrivata?
Non l’aveva sentita uscire quella mattina e Rebecca gli aveva detto che non era andata neanche
in biblioteca. Sicuramente era turbata dopo quello che le aveva detto.
Eppure avrebbe dato qualsiasi cosa per vederla scendere le scale. Sentì dei passi e trattenne
il fiato, scrutando la penombra.
Rebecca comparve a pochi passi da lui, illuminando l’ambiente.
-Signore-
-Cosa c’è ora?-
-Mi manda a riferire che..- arretrò impercettibilmente. -..non scenderà per la cena-
-Cosa?-
Avrebbe dovuto immaginarlo. Finalmente aveva visto cos’era realmente, una bestia. Logico che
lo evitasse, che ora lo temesse, che non volesse più vedere il mostro, le aveva rivelato di aver 
ucciso sua moglie, era stato lui a spaventarla. Era.. sensato, ragionevole, ovvio, lecito, eppure..
Non era solo la bestia che stava rifiutando, ma anche lui.
Al suo arrivo non le aveva forse detto che non avrebbe tollerato una sua assenza? Che, in tal caso,
avrebbe lasciato che il bosco la uccidesse?  Minacce inconsistenti ovviamente, tuttavia una sola 
cosa le aveva imposto, scendere ogni sera per la cena e non avrebbe concesso una disobbedienza.
-Allora dille che è un ordine-
-Mio signore.. io.. non credo scenderà comunque-
Ringhiò. Si precipitò per le scale con furia, raggiunse la porta della sua camera e picchiò con forza.
-Credevo di averti detto di scendere per la cena alle sette esatte- sbraitò contro il legno.
La sua voce lo raggiunse calma, fredda, impassibile.
-Non ho fame-
-Se non uscirai da qui, butterò giù la porta!-
Gli rispose solo il silenzio. Rebecca lo guardava dalla cima delle scale.
-Signore, forse.. con più gentilezza..-
-Sono stato fin troppo gentile e questo è il risultato- tuonò, indicando con enfasi la porta e
fulminandola con lo sguardo. Fece un profondo respiro, cercando di calmarsi. Dopotutto.. magari..
se avesse provato..
-Potresti scendere per la cena?- chiese, cercando di modulare la voce. Rebecca gli fece un cenno
con la mano, incitandolo a continuare.
-Per favore?- aggiunse, tra i denti, con un certo sforzo.
-No- rispose solo.
Il suo ringhio riecheggiò per tutto il castello, rimbombando attraverso le pareti. Colpì con forza la 
porta, spalancandola. Belle, seduta sul davanzale, balzò in piedi, gli occhi sbarrati, lo spavento 
dipinto sul volto.
Avanzò verso di lei, guardandola truce. Le afferrò il braccio e la trascinò fuori, giù per la scalinata e 
poi nel sotterraneo. La strattonava con forza, tirandola dietro di sé per farla stare al suo passo. 
Rebecca continuava a chiamarlo, implorandolo, ma la ignorò.
Lei non fiatò, arrancò dietro di lui, stringendo a sua volta la zampa chiusa in una morsa dolorosa.
Respirava affannosamente, invasa dalla paura.
Furente, aprì una delle celle e la spinse dentro senza garbo. Richiuse le sbarre, trafiggendola con 
uno sguardo di fuoco.
-Se vuoi rimanere rinchiusa, ti accontenterò-
Lo vide scomparire prima che potesse rendersi conto di cosa stesse succedendo. Si mise seduta, 
sentendo le articolazioni brontolare per il modo barbaro in cui avevano picchiato terra. Si massaggiò
il braccio dolorante, guardandosi intorno.
Eccola lì, alla fine, nelle segrete. Dove sarebbe dovuta stare fin dall’inizio. Sbuffò, spostandosi i 
capelli da davanti agli occhi e sistemandosi la felpa. Aveva indossato di nuovo i suoi panni e si era
sentita proprio come il primo giorno, quando aveva visto suo fratello allontanarsi con la bestia.
Sola, persa, in trappola.
Allo stesso tempo, però, aveva percepito i suoi piedi tornare a toccare terra. Non era mai stata 
una principessa, un’eroina di quelle storie che adorava tanto, era di nuovo semplicemente la 
ragazzina spaventata che aveva fatto di tutto per salvare suo fratello, la ragazzina che si era sempre
sentita sola ma che avrebbe fatto il possibile per tornare a casa. Si era sentita di nuovo se stessa 
e non quella versione perfetta quanto evanescente di una regina.
Si alzò, appoggiandosi alle sbarre, si asciugò una lacrima solitaria sfuggita al suo controllo e sospirò.
Non riusciva ancora a considerarlo una bestia. Dopotutto, non aveva fatto nulla che non avesse 
avuto il diritto di fare.
Suo fratello aveva rubato in casa sua e lui lo aveva imprigionato. Avevano fatto uno scambio e ora era
lei quella rinchiusa in una cella.
Era suo diritto. Non era un mostro per questo. Era un uomo che era sempre stato solo e aveva 
dimenticato cosa volesse dire l’umanità. Questo vedeva. Guardò la mano. Rimanevano solo due 
petali. Due notti. Solo due notti e poi sarebbe stata libera.
Si stese a terra, accanto al muro, raggomitolandosi su se stessa e stringendosi le ginocchia al petto.
Chiuse con forza gli occhi, ignorando le lacrime che iniziarono a bagnarle il volto amare.
Inoltre, presto sarebbe arrivato Christian. Lei sarebbe stata libera, Christian sarebbe tornato a 
prenderla e sarebbero andati via insieme.
Con questo pensiero, si addormentò.

C’era una volta, in una terra prospera e lambita da un enorme lago, una donna, figlia del nobile
che possedeva quella terra. Ella, che era in realtà una ninfa marina, dotata di straordinaria
bellezza e immortalità, era priva dell’anima. Come le leggende avrebbero poi narrato negli anni
avvenire, le ninfe marine potevano ottenere l’anima solo sposando un uomo mortale, ma ciò 
avrebbe sancito anche la perdita dell’immortalità. Così la ninfa accolse lieta il matrimonio
impostole dal padre e, ottenuta l’anima e abbandonata l’immortalità, iniziò ad amare quell’uomo
che esaudiva ogni suo desiderio e che aveva giurato di amarla oltre qualsiasi cosa.
Ma il padre della ragazza tradì il patto stretto, così, nonostante il giuramento fatto alla giovane
sposa, l’uomo si recò da lui per ucciderlo.
Aveva giurato di amarla sopra ogni altra cosa, ma la vendetta era venuta prima del suo amore.
Aveva promesso di risparmiare il padre, e così non era stato.
La ninfa, sopraffatta dal dolore, si tolse la vita e maledì il suo sposo.
Lo trasformò in una bestia, così che tutti sapessero che mostro era stato nel venir meno alla
parola data. Lo marchiò con l’immagine di una rosa e di questi fiori ricoprì ogni superficie, così 
che ricordasse ogni momento ciò che aveva fatto. Trasformò il giorno in un perenne paradiso 
e la notte in un incubo infernale, per ricordargli la menzogna in cui era vissuta. Marchiò ogni 
abitante presente e futuro del castello, affinché sapesse che non era il solo a rispondere delle 
sue azioni.
Infine, poiché le aveva dato la possibilità di ottenere l’anima, gli concesse una sola occasione. 
Una sola occasione perché qualcuno potesse amarlo sopra ogni altra cosa, nonostante il suo 
aspetto mostruoso. Una sola occasione perché lui amasse qualcuno sopra ogni altra cosa. 
Una sola occasione per redimersi ed essere finalmente libero.. 


Era nel bosco, circondata dagli alberi e dalla luce tenue del mattino. La voce dolce e 
malinconica che l’aveva cullata fino a quel momento in una tenera litania, si era affievolita
poco a poco. Si guardò intorno in cerca di Rosaline, per chiederle perché aveva voluto 
raccontare tutto questo proprio a lei. Sicuramente non era di lei che parlava, qualcuno che 
potesse amarlo.. lei non lo amava. Ed era certa che neanche lui l’amasse, considerato che 
l’aveva appena rinchiusa in una squallida cella.
-Rosaline- chiamò.
Si incamminò, sperando di aver preso la direzione della fontana, anche se non riusciva a vedere
altro che alberi. Dei passi affrettati la fecero voltare di colpo. Trattenne il fiato.
Rosaline.
-Oh, sei tu- lasciò andare l’aria e continuò a guardarsi intorno. Leon le si avvicinò cauto.
-Ti aspettavi qualcun altro?-
Si voltò, puntando lo sguardo nel suo. Perché sembrava così teso? E il suo sguardo era carico 
di.. pentimento? Cosa aveva combinato?
-Stai bene?-
-Perché non dovrei stare bene?- sorrise per la sua preoccupazione. In effetti, non le dispiaceva che
le rivolgesse tutte quelle attenzioni. Forse temeva che la bestia le avesse fatto del male?
Il sorriso le morì sulle labbra, mentre continuava a guardare quegli occhi. Quello sguardo carico di 
speranza e dolore..
Uno sguardo che così tante volte le era parso familiare.
Guardò l’uomo che le stava di fronte, così diverso da come l’aveva visto la prima volta, con i 
capelli scuri, la corporatura possente e il volto statuario. Non temeva che la bestia le avesse 
fatto del male.
Sapeva che la bestia le aveva fatto del male.
-Sei tu- arretrò, spiazzata, la mente in subbuglio. –Sei sempre stato tu, Leon non è mai esistito-
Avanzò verso di lei, la mano protesa, lo sguardo colmo d’ansia.
-Belle, aspetta..-
Arretrò ancora, allontanando le braccia per non farsi toccare.
-Gliel’avevi promesso.. è colpa tua.. tutto questo solo perché non hai voluto mantenere la parola data..-
Aveva detto di averla uccisa lui perché si sentiva colpevole della sua morte. Ed era così.
Non aveva ucciso lei, ma aveva comunque assassinato un uomo.
Si prese la testa tra le mani, stringendo gli occhi e cercando di calmare il vortice di pensieri che 
continuava a frastornarla.
-Avresti infranto la parola data di nuovo, non è così?-
Ora capiva. I sogni, Rosaline che le diceva di scappare.. le stava dicendo che non l’avrebbe mai
fatta andare via. Aveva capito che cercava di convincerla a restare, ma sperava che, terminata
la sua prigionia, una volta che il debito fosse stato estinto, l’avrebbe liberata. Ecco perché le 
aveva mostrato la sua storia. L’aveva avvertita. Non avrebbe mantenuto l’accordo, ancora una
volta. Non l’avrebbe mai liberata.
-Volevi trattenermi qui! Hai cercato di rabbonirmi, di.. di.. convincermi che qui ero più felice, 
mi hai ingannata! Non mi lascerai mai tornare a casa..-
Adam era immobile, le braccia abbandonate lungo i fianchi, la guardava in silenzio.
Una luce sinistra illuminò i suoi occhi.
-Dove nessuno sa dei tuoi sogni? Dove ti aspetta un fratello che ti ha messo in questa situazione? 
Dove hai il perenne timore che ti credano pazza?-
-Almeno lì nessuno mi ha mai mentito. In tutta questa storia l’unico mostro sei tu-
Una lacrima le solcò il volto, mentre lo vedeva abbassare il capo e chiudere gli occhi, sconfitto.
Voleva andare a casa. Voleva solo andare a casa.

 
Aprì gli occhi di colpo, trattenendo il fiato. Balzò a sedere e sbatté più volte le palpebre.
Accanto a lei, Rebecca la chiamava insistentemente.
-Miss! Miss!- sussurrava concitata.  –Forza, prima che il padrone se ne accorga. Venite-
Si alzò, ancora frastornata, e la seguì.
-Come hai fatto a prendere le chiavi della cella?-
-Ho i miei assi nella manica, miss-
Si diresse verso il lato più in ombra dei sotterranei, allontanandosi dalle scale, si accostò al muro
dove faceva bella mostra un drappeggio raffigurante una scena di caccia.
Belle si passò una mano sul volto, senza farsi vedere, e notò di avere il volto umido di lacrime, 
l’asciugò in fretta, con un gesto rabbioso. Rebecca la guardava.
-Spostate il dipinto, troverete una porta e un sentiero che vi porterà fuori dal castello. Una volta 
fuori, dovete proseguire sempre dritto e arriverete alla rimessa-
-Come conosci questo passaggio?-
-Miss, lavoro qui da molto ormai, conosco ogni centimetro e ogni antro-
Sorrise, sentendo l’improvviso bisogno di abbracciarla.
-Perché mi stai aiutando?-
Un rumore di passi affrettati fece voltare entrambe.
-Andate- la incitò ancora.
Aprì la porta di legno con la chiave che Rebecca le aveva dato e, dopo averle sorriso per l’ultima
volta, se la richiuse alle spalle.
A quel punto fu completamente al buio, sola. Tastò le pareti attorno a lei. Era uno stretto corridoio
in pietra, alto pochi centimetri più di lei e non abbastanza largo da permetterle di tenere le braccia
distese. Si incamminò, seguendo le mura con le mani. Più di una ragnatela le si impigliò tra i 
capelli o tra le dita e ogni volta un brivido di ribrezzo le percorreva la schiena.
Probabilmente era stata una fortuna che non vedesse nulla, chissà quanti insetti le stavano 
camminando tranquillamente intorno ai piedi. Sospirò, chiuse gli occhi, soffocò il disgusto e proseguì.
Doveva andarsene il prima possibile.
Dopo un tempo che le parve un’eternità, scorse una luce fioca raggiungerla e farsi sempre più intensa
mano a mano che proseguiva. Velocizzò il passo, finché non si ritrovò davanti una grata di ferro 
chiusa a chiave. Oltre quella, la notte faceva capolino sopra una foresta particolarmente silenziosa. 
Usò ancora una volta la chiave che le aveva dato Rebecca e la grata si aprì. Uscì da quel cunicolo 
orribile e si levò di dosso le ragnatele. Scosse i piedi, lasciando cadere i piccoli insetti che 
cercavano di risalire lungo la gamba e dovette prendersi un momento per controllare il conato di vomito
che l’aveva assalita. Odiava gli insetti. Odiava i ragni. Odiava qualsiasi animale che le camminasse 
addosso.
Sospirò. Cos’era costretta a fare.
Riaprì gli occhi e girò su se stessa, respirando a pieni polmoni la brezza fredda della notte.
Rebecca le aveva detto di continuare dritto per tornare alla rimessa.

Fece un profondo respiro e si incamminò, senza voltarsi indietro.

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Capitolo 15
*** Bestia ***


            Image and video hosting by TinyPic 15- Bestia

Aveva distrutto l’unica speranza che avrebbe mai avuto. L’aveva frantumata, sbriciolata,
calpestata, polverizzata, e con le sue stesse mani. Aveva visto una possibilità profilarsi 
all’orizzonte, si era prodigato affinché ogni cosa andasse nel verso giusto e poi aveva 
rovinato tutto. Le aveva confessato di essere la causa della morte di sua moglie e lei 
aveva semplicemente smesso di guardarlo. Era tornata al castello, silenziosa, senza 
aspettarlo né proferire parola. Non aveva osato seguirla, fermarla, provare a spiegare. E, 
quando non era voluta scendere per la cena, aveva sentito ogni suo sforzo farsi vano, 
l’ultima sua occasione scivolargli via dalle mani come acqua, lui, che come un bambino 
troppo smanioso aveva cercato di afferrarla. Alla fine lei lo aveva riconosciuto per quello 
che era davvero, un mostro e lui non poteva sopportarlo. Lei era la sua unica possibilità 
per porre fine alla maledizione e tornare quello che era un tempo. La frustrazione aveva
bussato alla sua porta, pronta, e lui aveva lasciato che lo sopraffacesse, che la rabbia le si
sostituisse indisturbata.
Ed esattamente in quell’istante, aveva sancito la sua condanna.
Continuava a vedere quello sguardo spaurito, terrorizzato che lo fissava allibito. 
L’espressione spaesata quando l’aveva lasciata nelle segrete, il rumore del fiato trattenuto 
quando l’aveva stretta con troppa forza.
Cosa rimaneva dell’uomo, ora che non aveva più neanche il controllo di sé?
La bestia. Rimaneva solo e sempre la bestia.
Uscì dalla sua camera con furia, davanti alle scale che conducevano alle celle esitò per alcuni
istanti.
Scusarsi, parlare, spiegare, essere gentile..
Avrebbe dovuto andare da lei?
Con un ringhio soffocato recuperò la furia che l’aveva animato e uscì dal castello.

Cosa rimaneva dell’uomo..? Solo la bestia..
Sull’ultimo gradino iniziò la sua corsa.
Sovrastato dalla notte, circondato da morte e gelo, fu a quattro zampe, come l’animale che 
era, avanzava, rapido, letale, fiutando l’aria, sguainando gli artigli, mostrando le zanne, 
cacciava.
Si era illuso di poter essere ancora un essere umano, quando non era altro che un predatore
e della preda sentì l’odore, rintracciò la corsa, braccandola.
Catturò il cerbiatto, ruggendo, avventandosi su di lui con le fauci spalancate.
E la preda non ebbe scampo.
Ma, con i denti e l’anima immersi nel sangue e nella carne della creatura, avidi della sazietà,
un sussulto richiamò la sua attenzione, facendogli sollevare di scatto la testa.
Due occhi sbarrati lo fissavano sconvolti.


Un sussulto le aveva scosso il corpo e si era coperta la bocca con le mani per non urlare. 
Quegli occhi gialli, ora folli, la guardarono per pochi attimi, prima che la bestia si 
sollevasse, aspettando una sua azione. Era coperto di sangue,  intorno alla bocca, sulle
zanne, sul corpo, ritirò gli artigli, continuando a scrutarla. Il cerbiatto giaceva a terra, ai suoi
piedi, ormai senza vita, dilaniato.
A quella visione, si girò e scappò via, sperando che non la raggiungesse, pregando di 
arrivare allo specchio prima che la fermasse, chiamò a raccolta tutte le sue forze, implorò i 
muscoli di sostenerla. Non osò voltarsi indietro, né ascoltare il rumore dei suoi passi dietro
di lei, sentiva solo il proprio fiato sfiancato e terrorizzato tuonarle nel petto, il battito ansioso
del cuore pulsarle nella testa. Respinse le lacrime che già le pungevano gli occhi, mentre, 
sfinita, rallentava la sua corsa.
Non ce l’avrebbe fatta..
Un ululato la raggiunse, vicinissimo, e si fermò di colpo. Più di un ululato. In un battito di ciglia
cinque lupi la circondarono, fissando gli occhi su di lei e sfoderando i canini.
Come nel suo sogno, quello di fronte a lei balzò, scagliandosi contro il suo volto e lei urlò, 
coprì il viso con le braccia e strinse gli occhi.
Ma il colpo non arrivò mai. Per uno splendido istante, pensò di essersi svegliata, che quello
fosse tutto solo un incubo. Quando aprì gli occhi, vide la bestia lottare con i lupi.
Lo circondarono, avventandosi su di lui, mordendolo.
Lui urlava, ferito, ma continuava a graffiare a sua volta, mordendo, ringhiando contro di loro, 
animato da una furia più folle che mai.
Lo guardava, incapace di muoversi, un terrore acuto che ancora le squarciava il petto.
I lupi erano in maggioranza, forti e la bestia parve arrendersi, accasciandosi sulle ginocchia, 
respirando a fatica. I lupi lo sovrastarono.
Si guardò intorno, agitata. Doveva aiutarlo. Le serviva qualcosa, qualunque cosa.
Raccolse da terra un ramo spezzato, abbastanza sottile per poterlo stringere in una presa salda
e poterlo sollevare. Raggiunse una delle belve e la colpì con forza.
Non sarebbe scappata mentre lui moriva. Non l’avrebbe abbandonato.
Il lupo guaì, voltandosi e guardandola con occhi iniettati di sangue.
Arretrò, spaventata, impugnando con forza il ramo davanti a sé.
Sarebbe morta, di questo era certa, ma non l’avrebbe abbandonato. Poi, con un sussulto, sentì un
urlo brutale e la bestia si eresse dietro l’animale, scaraventandolo via con una zampa. Quello guaì
ancora e corse via, abbandonando i corpi ormai senza vita dei suoi compagni.
Belle li guardò, stesi sulla terra macchiata di sangue, inermi. E guardò Adam, ancora in piedi di 
fronte a lei, ferito, che la scrutava in silenzio. Lui l’aveva
salvata. Di nuovo.
Notò che barcollava leggermente sulle gambe sanguinanti e aveva il fiato affannato. Gli porse la 
mano e lo aiutò a tornare al castello. 


Aveva chiesto a Rebecca di portare dell’acqua e delle bende, sorridendole, quando aveva esitato, 
vedendola. Ad Adam, invece, aveva detto di sedersi davanti al fuoco, sulla poltrona, poi si era
inginocchiata accanto a lui e aveva pulito le sue ferite, facendo ben attenzione a non alzare gli occhi
sul suo viso, nonostante sentisse il suo sguardo rovente puntato addosso.
-Stavi scappando- disse alla fine, ritraendo appena la mano. Doveva fare molto male, ma lei non 
poté fare a meno di sorridere.
-Sì- disse solo.
-Chi ti ha aiutato?-
Sollevò lo sguardo, alzando le sopracciglia.  –Va bene, non dirmelo-
Fasciò l’avambraccio con una delle bende, poi passò al volto. Lavò via il sangue, tamponò 
delicatamente i tagli con una delle bende asciutte. Cerotti e acqua ossigenata sarebbero andati molto
meglio.
-Perché non sei andata via quando potevi?-
-Non abbandono qualcuno che è in pericolo-
-Neanche me?-
-Adam, tu sei.. una bestia e non intendo questo- indicò il suo volto. –Hai dimenticato cosa vuol dire
l’umanità già da prima della maledizione, ma.. se ti avessi lasciato lì lo sarei stata anch’io-
Abbassò lo sguardo, stringendo i pugni e serrando la mascella.
-Quindi ora lo vedi- tornò a fissare gli occhi nei suoi.  –Il mostro-
Ripensò al cerbiatto, al sangue, al modo in cui l’aveva trascinata nelle segrete. Una buona azione non
riscattava tutto.
-Sì-
-Perché mi hai visto nella foresta?-
-Perché mi hai ingannato, perché non hai imparato nulla dal passato. Solo le bestie compiono sempre
gli stessi errori- sospirò.  –Avresti mai considerato il debito estinto?-
Non rispose, si limitò a guardare il disegno della rosa sulla mano che teneva ancora la benda. La indicò.
-Se avessi attraversato lo specchio, saresti morta. Cosa avevi intenzione di fare?-
-Io.. beh, c’è un solo petalo ancora, quindi manca una sola notte. Avrei aspettato nella rimessa, 
sperando che tu non ti accorgessi della mia fuga fino a quel momento. Ma, se tu non avessi 
considerato il mio pegno pagato neanche allora, immagino che sarebbe stato inutile-
Chiamò Rebecca, le porse la bacinella piena d’acqua cremisi e le bende avanzate. Tornò a sedersi
accanto a lui.
-In ogni caso, grazie per avermi salvato. Neanche tu eri costretto-
Si morse il labbro, avvolgendo le braccia intorno alle ginocchia.  –Dimmi una cosa. Eri nei miei sogni.. 
com’è possibile?-
-Una strega. È arrivata qui attraverso lo specchio anche lei e non è più voluta andare via-
-Lo specchio nella rimessa? Perché è lì?-
-L’ho fatto spostare io, subito dopo l’arrivo della strega. Avrei voluto distruggerlo, ma lei mi convinse
a risparmiarlo-
-Era di Rosaline?-
Annuì.  
Ma allora.. era stata Rosaline a fare in modo che lei arrivasse in quel posto o erano state tutte 
coincidenze? La copia dello specchio che la mamma aveva trovato nel negozio di antiquariato, la strega
che l’aveva convinto a non distruggerlo.
Aveva fatto in modo che Adam entrasse nei suoi sogni. Leon.. in fondo, le mancava.
Spostò lo sguardo sulle vetrate del salone, mentre le prime luci dell’alba facevano capolino in lontananza.
-Belle!- un urlo ancora fioco la raggiunse. Scattò in piedi, il battito accelerato e gli occhi sbarrati.
-Belle!- sentì ancora, più chiaramente.
Sorrise, sollevata e raggiante. Era Christian. Era tornato a prenderla, come nel suo sogno.
Suo fratello era lì.


Balzò alla porta, il fiato sospeso, un enorme sorriso che le illuminava il volto.  –È Christian!-
Sulla soglia del salone si fermò, perdendo il sorriso. Si voltò verso Adam, che non distoglieva l’attenzione
dalle fiamme nel camino.
Tornò da lui, cadde in ginocchio, le mani poggiate sul bracciolo della poltrona, lo sguardo implorante.
-Ti prego- sussurrò.  –Non fargli del male-
Fissò lo sguardo spento nel suo, imprigionandola per alcuni istanti.
Le mostrò il palmo della mano, chiedendole con quel gesto la sua.
Esitò, studiando la sua espressione, ma alla fine lo assecondò e aspettò.
Sfiorò la rosa con le dita e quella sparì poco a poco, come un serpente che si allontana tra l’erba alta. Lo
stelo spinato, il bocciolo ornato da un solo ultimo petalo.
Sgranò gli occhi e li fissò nei suoi. La stava lasciando andare?
-Il debito è estinto, sei libera. Va’ da tuo fratello, tornate a casa-
Avrebbe dovuto sorridere. Avrebbe dovuto gioire, non perdere altro tempo e correre fuori. Ma non ci riuscì. 
Non poté sorridere e non si sentiva felice. Per quanto Adam le avesse mentito, Leon le era sempre stato 
accanto. Continuò a tenere lo sguardo fisso nel suo, con l’anima preda di mille parole che avrebbe voluto 
pronunciare e che invece si persero prima di arrivare alle sue labbra.
La bestia ruppe improvvisamente quel contatto, voltando la testa verso il fuoco.
-Vattene!- sbraitò rude.
Sobbalzò, scattando in piedi. Lo guardò un’ultima volta.
-Belle!- sentì ancora.
-Prima che cambi idea- aggiunse.
Si avviò al portone d’ingresso, ma, prima di raggiungerlo, tornò a voltarsi.
-Grazie- sussurrò.
Non vide i pugni serrati o gli occhi privi di luce inchiodati sulle fiamme o l’anima che crollava in frantumi 
sempre di più ad ogni suo passo.
Attraversò l’ingresso, si precipitò per le scale e poi tra gli arbusti, senza mai voltarsi indietro.
-Christian!- urlò in risposta.
E lo vide. Non molto distante da lei, gli occhi cerchiati da grandi occhiaie e il volto pallido che si illuminò 
non appena la scorse.
Spalancò le braccia e lei vi si catapultò, lasciando che la stringesse a sé.
-Ero così preoccupato- sussurrò contro i suoi capelli.
Gli prese la mano e lo esortò a velocizzare il passo. Doveva allontanarsi da quel posto, da quegli eventi e
da quell’uomo. Avrebbe dovuto semplicemente dimenticare ogni cosa, lasciarsi tutto dietro le spalle.
Arrivati alla rimessa, Christian le fece segno di andare per prima attraverso lo specchio. Fece un profondo
respiro, costringendosi a guardare solo lo specchio e il suo riflesso su di esso, a non voltarsi indietro, a 
non esitare, a non soffermarsi su quel piccolo rifugio che ora le sembrava meno oscuro e crudele. Guardò suo
fratello, che le sorrise, chiuse gli occhi e passò attraverso la sua immagine riflessa.

 
Riaprì gli occhi in una stanzetta stretta, soffocata da troppe cianfrusaglie inutili o dimenticate e illuminata solo
da una piccola lampada da comodino. Suo fratello apparve subito dopo di lei.
-Ho spostato lo specchio nello sgabuzzino, sai, per evitare che accadesse qualcosa a Dominic o alla mamma
e anche perché non mi vedessero tentare di attraversarlo-
-Tentare..?-
-Dopo che la bestia mi ha scaraventato indietro, non sono più riuscito a passare, non fino ad oggi. Credo che 
ci fosse una specie di.. barriera, non so, o forse permette solo un determinato numero di viaggi ogni mese, 
l’importante ora è che tu sia qui-
-Ogni mese?-
I giorni erano passati così velocemente e allo stesso tempo le era sembrato che fosse passato molto più tempo.
Era stata via per un mese.
-Cosa hai detto alla mamma?-
-Ecco..- si portò una mano alla nuca con aria colpevole.  –Non le ho detto nulla, lei ha pensato che tu fossi, beh.. 
scomparsa. Ha chiamato la polizia-
Lo fulminò con lo sguardo, sospirando. Ma dopotutto, non avrebbe certo potuto dire che una bestia al di là di uno
specchio la teneva prigioniera. Fece per uscire dallo sgabuzzino, pronta ad inventarsi chissà quale bugia, quando
Christian la fermò.
-Belle, mi dispiace davvero tanto per quello che è successo, giuro che d’ora in poi ti darò sempre ascolto-
Era ora.
-Sono così dispiaciuto, è stata tutta colpa mia e lo so che sarà difficile perdonarmi, ma..-
-Christian- lo zittì con un gesto.  –Ti ho già perdonato, dopotutto, sei tornato indietro per me-
-Temevo che ti facesse del male-
-Non mi ha fatto del male, sto bene-
La studiò e lei sorrise, rassicurandolo.
Sospirò, lasciando la presa sul suo braccio.  –Una strana avventura da raccontare quando saremo vecchi-
Afferrò una mazza da baseball che Dominic aveva voluto comprare ad ogni costo, ma che poi era stata 
abbandonata lì, inutilizzata.
-Che vuoi fare?-
-Evitare che accada ancora-
Alzò le braccia e colpì lo specchio. Lei urlò, cercando di fermarlo, ma era troppo tardi. Un rumore acuto li circondò
e si coprirono il volto per proteggersi dalle schegge. Quando rialzò lo sguardo, Christian aveva lasciato cadere a 
terra la mazza da baseball e fissava l’involucro vuoto che gli stava di fronte. Decine di pezzi di vetro facevano 
risplendere il pavimento, rimandando indietro i loro riflessi spezzati.
Non sarebbe più potuta tornare indietro.

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Capitolo 16
*** Sopra ogni altra cosa ***


                Image and video hosting by TinyPic 16- Casa

Casa non le era mai sembrata così bella. Vestiti comodi, acqua calda che usciva dal
doccione, phon, cibo preconfezionato, riscaldamenti, nessuna fontana assassina o lupi e
soprattutto nessun incubo. Non sognava da quando era tornata ed erano passati giorni 
ormai. Sua madre aveva quasi avuto un infarto quando l’aveva vista. L’aveva stretta con
tanta forza da soffocarla quasi e anche Dominic era stato più affettuoso del solito. Non 
aveva saputo che scusa inventare per il fatto di essere sparita per un mese, così aveva 
semplicemente detto la più assurda delle bugie. Non ricordava nulla. Assolutamente nulla.
Christian l’aveva trovata priva di sensi in un vicolo della città e l’ultima cosa che ricordava
era che era uscita di casa la mattina in cui era scomparsa. Sua madre non aveva indagato
oltre, le aveva solo chiesto centinaia di volte se stesse bene. In effetti, tutte quelle attenzioni
non le dispiacevano. Veniva coccolata, viziata e, per la prima volta da tanto, ascoltata.
Quello che non aveva apprezzato erano state le attenzioni della polizia. L’avevano 
sommersa di domande, scrutandola come se fosse una pazza o una bugiarda. E non 
avevano tutti i torti. Ma lei aveva continuato a sostenere la sua tesi. Non ricordava nulla.
Inoltre Christian aveva detto di averla trovata a terra, svenuta.
Aveva dovuto fare anche una visita medica di accertamento dei “danni”, ma l’unica lesione
che avevano trovato era stato il livido che aveva sul polso sinistro, dove la bestia l’aveva
afferrata per portarla nelle segrete. Alla fine i poliziotti avevano lasciato perdere, almeno 
finché lei non avesse ricordato qualcosa che potesse aiutarli nelle indagini.
Christian era diventato più protettivo nei suoi confronti, come tutti del resto. Ogni notte, prima 
di andare a dormire, socchiudeva appena la porta della sua stanza e le chiedeva se fosse
tutto okay.
Aveva sfiorato più volte il pensiero di raccontargli tutta la storia, di Rosaline e dei suoi sogni, 
ma ogni volta scacciava quell’idea.
Inoltre, che importanza aveva più? Ora che Christian aveva rotto lo specchio, non avrebbe 
più rivisto il castello, né tanto meno Adam.


Aveva riposto quel poco che restava del fiore sotto una piccola teca di vetro, l’aveva
lasciato al buio, in una stanza dove non sarebbe entrato mai più, dove non avrebbe più
potuto vederlo. Aveva chiesto alla strega di proteggerlo con un incantesimo, così che non
sarebbe appassito mai, così che ci sarebbe sempre stato almeno quel flebile ricordo.
Avrebbe voluto distruggerlo, bruciarlo, stringerlo tra le mani finché tutto il suo colore non
l’avesse abbandonato, scorrendo sulle sue mani colpevoli, ma non aveva potuto, perché 
ora quel sottile petalo rimasto conteneva tutta la sua anima. E lui non era altro che un 
corpo vuoto.
Aveva dovuto, aveva dovuto lasciarla andare. Lì, costretta in quelle mura, con una bestia
che non aveva fatto altro che mentirle, sarebbe morta. E lui non avrebbe sopportato che 
quella luce nei suoi occhi si spegnesse, non se lo sarebbe mai perdonato.
Aveva sempre creduto di essere solo un mostro e che nessuno avrebbe mai potuto 
salvarlo, ma, quando quella notte aveva visto per la prima volta i suoi occhi, l’aveva sperato
con tutto se stesso. Aveva sperato che potesse essere salvato, redento, per poter essere 
degno di quello sguardo. Si era aggrappato con disperazione alla speranza che potesse 
anche solo avvicinarsi a quell’anima che vedeva attraverso quegli occhi.
E aveva quasi creduto che il suo desiderio potesse avverarsi. Ma quella notte, di fronte 
all’orrore che riempiva il suo sguardo, aveva capito che lui non sarebbe mai stato altro che
un animale che un tempo era la brutta controfigura di un uomo. Il suo cuore, che così
timidamente e sorprendentemente aveva ripreso a battere, nutrito da un sentimento che 
credeva gli sarebbe stato per sempre estraneo, si era infranto definitivamente, finché non ne
era rimasto altro che un muscolo avvizzito di cenere molle. Lo sentiva ancora sanguinare 
copiosamente, strappato all’anima che lui aveva rinchiuso in una teca impolverata, 
nascondendola, preda del ricordo di un’altra anima affine, ora troppo lontana.
E avrebbe voluto rincorrerla, fermarla, costringerla a tornare da lui, quell’anima, perché il primo
istinto di chi non trova aria è spalancare la bocca e respirare, e perché se il suo cuore non
fosse tornato a battere, lui sarebbe morto.
Ma non aveva potuto. Per la prima volta in tutta la sua vita, aveva sentito il bisogno di
mettere la felicità di qualcun altro prima della propria.
Così, aveva perso l’aria per i suoi polmoni, la benda che gli teneva in vita il cuore e né le
urla né la furia con cui aveva distrutto ogni cosa nel castello, nella serra, avevano potuto
lenire quella mancanza.
Si era rinchiuso in una stanza, a fissare il vuoto con lo sguardo perso, sopraffatto da un 
dolore che non conosceva e che era molto più forte di lui, tenendo lontano il pensiero della
rosa e dell’ultimo sogno che gli era rimasto.


Mi sono sentito uno stupido, sai?, le aveva detto quella sera, quando aveva bussato alla
sua porta, come ormai faceva sempre. Insomma, urlavo il tuo nome al vento e ho pensato,
ecco, ora quella bestia mi sente e mi riduce a polpette, ma non sapevo se fossi ancora nel
castello e magari, se mi avessi sentito.. non ho riflettuto molto.

Oh, Christian, non era riuscita a non rispondere, non è una bestia.
Suo fratello l’aveva guardata, aspettando che continuasse, ma lei era rimasta in silenzio, 
restituendogli lo sguardo.

L’importante ora è che tu sia qui, aveva sussurrato alla fine e, dopo averle sorriso, l’aveva 
lasciata sola.
Già. Lei era lì, a casa, quello era l’importante. O no?
Sospirò, esasperata, rigirandosi ancora una volta nel letto. Non avrebbe mai detto che i suoi
sogni le sarebbero mancati, ma la sua mente la stava torturando con quel silenzio ad oltranza.
Scalciò via le coperte, si alzò e avanzò scalza fino alla cucina. Si raggomitolò sul divano,
avvolgendosi con una coperta e accese la tv. Poco a poco, mentre attori e telecronisti si 
susseguivano sullo schermo, gli occhi le si fecero pesanti e fu avvolta dall’oblio.  


Sbatté le palpebre più volte, guardandosi intorno e non poté fare a meno di sorridere.
Stava sognando. Portava l’abito verde e bianco che aveva indossato per andare alle serre
con Adam, prima che scoprisse la verità su Rosaline e su Leon. Si scostò i capelli dal viso,
cercando di capire dove fosse. Di fronte a lei si allungava una scalinata di marmo bianco 
spezzata in più rampe, i cui tasselli erano bianchi scalini rovinati dal tempo, costellati di 
crepe. Ad ogni curva, una finestra rettangolare lasciava intravedere un prato secco, 
circondato da un alto cancello di ferro e più su, la notte. Alle sue spalle occhieggiava una
porta, anch’essa totalmente bianca, socchiusa. Soppesò l’idea di continuare a salire, ma 
alla fine optò per la porta, ritrovandosi in un ampio androne dalle pareti bianche e le grandi
finestre, arredato solo con due tavoli rotondi e qualche sedia sparsa qua e là, molte delle 
quali rotte o con i piedi spaccati. L’edificio doveva essere stato abbandonato anni prima, il
pavimento era ricoperto da uno spesso strato di polvere, i vetri erano sporchi e in molti angoli
i ragni tessevano silenziosi le loro ragnatele. Aprì l’unico altro uscio della stanza e attraversò
il corridoio costellato di soglie chiuse, finché non arrivò ad un’ altra porta, più grande, provò 
ad aprirla, ma doveva essere chiusa a chiave. Sembrava una specie di ospedale o ricovero.
Chissà perché avevano smesso di utilizzarlo.
Si avvicinò ad una delle tante porte, spingendola delicatamente, e guardò dentro. C’erano
solo due letti e un piccolo armadio, la solita finestra rettangolare e poi una figura. Un uomo.
Sembrava guardarsi intorno, confuso.
Trattenne il fiato, lasciando la presa sulla maniglia.
-Adam?- si voltò di scatto, non appena udì la sua voce. Fece un passo verso di lei, ma poi
si bloccò, sovrappensiero.
Gli era mancata terribilmente. E rivederla non faceva altro che ricordargli quanto quella
mancanza gli facesse male. Avrebbe dovuto rimanere nel suo dolore solitario, oscuro, 
lontano da quella rosa, spoglia dopo quella notte, e lasciare che lei lo dimenticasse.
Ma l’istinto era stato più forte, lo aveva condotto fino alla teca, tentandolo e lui aveva ceduto.
-Io.. volevo solo assicurarmi che tu stessi bene-
-Sto bene- si avvicinò appena.  -E così, questo è il tuo vero aspetto-
Nel suo ultimo sogno, era stata così presa da ciò che Rosaline le aveva mostrato, che non
si era presa il tempo per guardarlo e studiarne ogni dettaglio. Si avvicinò ancora, sollevando
la mano, e lui rimase immobile, scrutandola con attenzione, mentre faceva scivolare le dita
sulla fronte ampia, il naso appuntito, le guancie. Se non l’avesse più rivisto, voleva almeno
imprimersi a fuoco nella mente ogni particolare. Lasciò cadere la mano.
-Mio fratello ha rotto lo specchio- sussurrò, senza neanche sapere perché.
-Io.. credevo che non volessi tornare al castello-
-È così, ma..-
Arretrò, portandosi le mani sul volto, mentre il suo respiro accelerava. Ma? Aveva detto ma?
Dio, era così confusa. Quando era tornata a casa si era sentita così sollevata e non voleva
tornare al castello, non voleva tornare da una bestia che l’aveva ingannata. Adam, però, le
mancava ogni giorno di più, le mancava la felicità che aveva provato con lui e, sebbene le
avesse mentito, l’aveva fatto per poterle stare accanto, lui l’aveva sempre ascoltata, l’aveva
salvata più di una volta, le aveva donato la biblioteca e la serra, anche se in un modo tutto
suo. Non voleva lasciare la sua famiglia e non voleva perdere Adam.
-Io non posso farlo. C’è la mia famiglia e.. non posso-
Lui annuì, abbassando lo sguardo, quella lieve speranza svanita dai suoi occhi.
-Adam, la maledizione può essere spezzata solo da qualcuno che ti ami sopra ogni altra 
cosa.. tu.. pensavi che fossi io?-
No, non l’aveva mai pensato, ma l’aveva desiderato ardentemente.
-Non ha importanza. Se anche non fossi tu e un giorno arrivasse qualcuno, non avrebbe
importanza. La maledizione più grande non era non essere amato, ma non amare 
nessuno, ma ora.. ora tutto è cambiato-
Cosa? Tutto è cambiato? Si accigliò, lasciando che lui si avvicinasse.
-Che vuoi dire?-
Le afferrò il braccio, attirandola a sé e poggiò le labbra sulle sue, stringendola con la foga
di chi respira di nuovo dopo tanto tempo.
Si staccò da quel contatto di malavoglia e, in realtà, anche stupito non solo che lei glielo
avesse lasciato fare, ma che avesse risposto con lo stesso impeto. Voleva che lei capisse.
-Belle, al diavolo la maledizione, non mi importa di essere un mostro, perché tu non vedi la
bestia, tu vedi..-
Indicò se stesso.  -.. questo. Quello che voglio dire è che non mi importa più ciò che io vedo
allo specchio, ma ciò che vedi tu-
Le prese il volto tra le mani, costringendola ad alzare lo sguardo. –Belle?-
Cosa avrebbe dovuto dire? La confusione che aveva provato prima non era nulla in 
confronto al vortice con cui mille pensieri la stavano torturando.
Aprì la bocca per rispondere, ma non uscì alcun suono. Un movimento oltre le spalle di 
Adam attirò la sua attenzione. Ma che..? Quando erano finiti in quel bosco? Sbatté le 
palpebre insistentemente, sicura di vedere male, anche se una brutta sensazione le aveva
attanagliato lo stomaco. Il movimento che aveva attirato la sua attenzione era la corsa di un
cerbiatto in fuga da qualcosa. Si sporse oltre Adam, cercando di capire cosa stesse 
succedendo.
-Belle?- lo ignorò, scrutando la vegetazione.
Il cerbiatto riapparve nel suo campo visivo, sfrecciandole accanto. Seguì la sua corsa, prima
di tornare a voltarsi. A poca distanza da loro, una figura d’uomo avvolta dall’ombra, si era 
appena fermata. Sollevò il fucile, puntò, premette il grilletto.
Belle sgranò gli occhi, trattenendo il fiato. No, no, no.
Era solo un sogno, solo un sogno..
Non poteva lasciare che colpisse Adam. Non poteva permettere che gli accedesse qualcosa.
Al diavolo la maledizione, al diavolo ciò che aveva fatto in passato, il suo aspetto, ciò che le
aveva rivelato Rosaline, al diavolo i suoi sogni, il fatto che non l’avrebbe rivisto mai più.
Lo scostò, sentendo il proiettile perforarle la carne, ferirle l’addome. Trattenne il fiato, il 
cacciatore svanì poco a poco, Adam urlò il suo nome, la sorresse, stendendola 
delicatamente a terra.
Guardò l’espressione di dolore e stupore che gli scolpì il volto.
Lei lo amava, più di ogni altra cosa.
Le accarezzò i capelli, il volto, mentre una lacrima silenziosa gli solcava il viso.
-Andrà tutto bene, okay? È solo un sogno, solamente un orrendo incubo.
Deve essere 
solo un sogno-

-Lo è- sussurrò, le palpebre sempre più pesanti.
Lo era, solo che prima o poi si sarebbe avverato.

 
Spalancò gli occhi in un’oscurità che non si diramò poco a poco grazie ai raggi della luna.
Un’oscurità immobile che la circondava, senza lasciarle fiato. Non poteva muoversi, 
parlare, sollevare le dita e non poteva piangere, come avrebbe voluto. Era in un limbo 
silenzioso e scuro dal quale voleva risvegliarsi a tutti i costi, così, presa dal panico del 
sogno e dell’insolito risveglio, urlò.
Una luce pallida l’accecò e delle braccia la scossero, finché non mise a fuoco il volto teso
di sua madre.
L’abbracciò d’istinto e lasciò che le accarezzasse i capelli e la schiena, sussurrandole 
parole dolci e rincuoranti.
-Oh, mamma- piagnucolò, nascondendo il volto sulla sua spalla.  –Ero in un posto buio e 
non potevo muovermi o parlare-
Si strinse di più a lei, tenendo gli occhi sbarrati in cerca della luce.
-Tesoro, calmati, era solo un sogno-
Smise di tremare e lasciò la presa, tornando a stendersi. Guardò sua madre come se 
fosse una figura troppo distante per poterla toccare ancora.
-Sei più tranquilla ora?-
Annuì, la mente lontana.
-Lascio la luce accesa?-
Scosse la testa. Non era l’oscurità a spaventarla, ma quelle parole. Era solo un sogno..
L’ultima volta che sua madre aveva detto così, delle persone erano morte.

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Capitolo 17
*** Un dono ***


                Image and video hosting by TinyPic" /> 17

Ed ecco finalmente il nuovo capitolo (con un ritardo imperdonabile, lo so, ma spero
che possiate perdonarmi. Non accadrà più, giuro ^.^)

 


Sei mesi prima.


Non si preoccupò di mettere bene a fuoco ciò che lo circondava, si alzò, percorse il
corridoio in poche falcate e spalancò la porta, senza aspettare il permesso di entrare.
Raggiunse la donna, seduta come sempre al tavolino, il volto impassibile, la scosse con
forza, costringendola ad aprire gli occhi vitrei su di lui, ma nulla turbò l’espressione serena
che aveva ogni volta che la guardava.
-Stava morendo! Ero nel suo sogno e lei era ferita..-
Camminò col fiato corto fino alla porta, poi tornò dalla donna, e poi di nuovo verso la porta.
-Nei suoi sogni è successo altre volte, certo, che.. che .. qualcosa- attraversò ancora la 
stanza, gesticolando, lo sguardo perso dietro a pensieri confusi.  qualcosa, non qualcuno
cercasse di farle del male, ma ora..- sospirò, tornò a guardare la donna  -finora era 
Rosaline a mostrarle dei ricordi, questo era uno dei suoi sogni- si accostò al vetro, 
scrutando la sua proprietà popolata solo dai lupi, in cerca di una minaccia invisibile.
-e i suoi sogni si avverano sempre- si voltò, lo sguardo duro, si avvicinò e sbatté le mani
sul legno del tavolo  -dimmi come salvarla, strega!-
Quella non parve turbata, puntò lo sguardo ghiacciato nel suo e indurì a sua volta
l’espressione, pronunciando seria parole che riecheggiarono nella sua mente.  

Ti avevo già detto come salvarla. Ti avevo detto che l’ultimo petalo sarebbe stata l’ultima
possibilità per salvare entrambi. Ora, non c’è più nulla che tu possa fare.

Nel suo ultimo attimo di lucidità, pensò che non poteva proteggerla, poiché non conosceva
cosa o chi la minacciava, pensò che poteva sopportare di saperla lontana, saperla morta 
era tutt’altra storia.
Così, non appena questo pensiero lo assalì, lasciò che la bestia prendesse il sopravvento
sulla mente umana e sul corpo già trasfigurato.
In seguito, si sparsero delle voci. Nel paese vicino si vociferava di una bestia che aveva 
appiccato l’incendio nella boscaglia della tenuta maledetta, che nulla si era salvato dalla
rovina, né il castello, né le serre, si vociferava anche che la bestia vagava ancora per le 
strade, senza nessun rimorso per aver distrutto tutto ciò che possedeva.
Le fiamme si erano espanse rapide, molti uomini, giovani e vecchi, donne e ragazzi, si 
erano arrischiati fuori dal paese per spegnere il fuoco prima che raggiungesse le loro case.
Degli abitanti del palazzo non videro nessuno e pensarono che nessuno era riuscito a salvarsi
, se non un uomo intossicato dal fumo a cui diedero ospitalità, ma che morì quella notte stessa.

Il mostro, il mostro, sussurravano alla compagna di chiacchiere, al marito, quello che fu 
maledetto, il mostro, è uscito dal castello, presto arriverà qui, ci ucciderà.

Sprangarono porte e finestre, tennero stretti tra le sottane i bambini.
Intanto, già a molte miglia da lì, una bestia avanzava con una luce folle che gli accecava la vista. 
Non si sarebbe fermato finché non avesse trovato quel mago. Non avrebbe avuto pace finché
non l’avesse salvata.


Mercoledi 11 Aprile. 12:05


E così, dimenticò.
O meglio, finse di dimenticare.
Le sembrò la cosa migliore da fare. E, dato che non poteva, non riusciva a dimenticare, a
cancellare ciò che aveva visto e sognato e provato, semplicemente lo tenne ben nascosto,
chiuso sottochiave in un angolo della sua mente dove faceva ben attenzione a non
avvicinarsi mai.
Non sognò più né Adam, né nulla che avesse a che fare con lui o con il cacciatore e questo
l’aiutò, almeno in parte. Sognava spesso l’edificio bianco, invece, si aggirava per quelle 
stanza deserte, tra mille oggetti abbandonati, finché non si svegliava.
La vita era tornata quella che era sempre stata, lei aveva ripreso ad andare all’università, 
Dominic aveva trovato un lavoro fuori città e aveva preso una stanza in affitto insieme ad altri
ragazzi, sua madre le aveva comprato uno spray antiaggressione da portare sempre nella
borsa e Christian aveva finalmente iniziato a darle ascolto. Di tanto in tanto bussava ancora 
alla porta della sua camera, chiedendole se stesse bene. Lei sorrideva e mentiva.
-Sì- diceva. E diventava sempre più brava, tanto che, trascorsi i giorni e le settimane, iniziò 
a crederci persino lei. Forse era davvero così. Stava bene.
Più se lo ripeteva, più si convinceva. Smise di pensare ad Adam, alla sua strana avventura,
al sogno in cui veniva uccisa e tornò alla sua vecchia vita.
Fu come se nulla fosse mai accaduto.


Ancora quel maledetto edificio bianco. Ancora quelle stanze vuote, quel corridoio cesellato
di porte, quel senso di solitudine sempre più acuto. Ancora quel sogno.
Ormai aveva guardato su ogni piano, in ogni camera, percorso tutte le scale, guardato fuori
da ogni finestra ed era tutto assolutamente spoglio.
Si era seduta a terra, le gambe incrociate, la schiena contro il muro ed era rimasta così a 
lungo, rimuginando, finché il suono sordo di uno sparo non la scosse. Si alzò, precipitandosi
nella direzione da cui aveva sentito provenire il colpo, ma, quando arrivò, nulla era cambiato
dall’ultima volta che aveva guardato, né vide nessuno.
Qualsiasi cosa accadesse dall’altra parte dello specchio ridotto in frantumi, lei non poteva 
più farne parte. Sospirò, tornando al posto dove prima si era seduta e chiuse gli occhi, 
aspettando di riaprirli nella realtà.
Una scia di sangue, lì dove lei non aveva scorto nulla, spiccava a prova di un reato che lei
non poteva scorgere, sulle mattonelle candide, incidendole.


Parcheggiò nello spiazzo adiacente al mercato e scese dalla macchina. Era tardi, le strade
accoglievano decine di automobili, i negozi aspettavano quei pochi minuti ancora prima di
poter chiudere, l’aria era gremita di profumi e il mercato che facevano tutte le mattine nella
piazza si era riempito di voci, bancarelle e passanti. Attraversò il mercatino per tutta la sua
lunghezza, fino ad arrivare alla bancarella di fiori dove il proprietario, un uomo dai capelli 
bianchi e gli occhiali sottili, la riconobbe, le sorrise e le chiese cosa volesse.
-Un mazzo di fiori per mia madre- rispose contraccambiando il sorriso. –È il suo compleanno.
Vorrei una composizione con delle margherite e.. quelli cosa sono? Girasoli? Anche quelli 
allora-
Pochi minuti dopo pagò e tornò tra la gente che animava il mercato, ripercorrendo la strada 
a ritroso e sgusciando tra i frettolosi e i distratti, cercando di evitare urti e piedi vaganti. Di 
tanto in tanto si fermava a qualche bancarella per lanciare un’occhiata ai vestiti o ai libri e, 
prima che potesse arrivare alla macchina, una donna di mezz’età, con i capelli grigi sciolti sulle
spalle, una gonna scura lunga fino alle caviglie e un enorme sorriso che le ingentiliva il volto,
le si avvicinò, fermandola.
Tra le mani teneva un cesto pieno di rose scarlatte, ne prese una e gliela porse, continuando 
a sorridere.
-Manca una rosa-
-Grazie, ma non la voglio-
Ci aveva messo sei mesi per dimenticare tutto ciò che aveva a che fare con le rose. Ma il suo
cuore, infido, incespicò, promemoria che non sarebbe potuto tornare tutto esattamente come 
era sempre stato; inoltre la donna insistette, sorridendole.
-Un dono- disse.
Soppesò il gesto, contraccambiando il sorriso e accettò il regalo.
-Grazie- le rispose, portandosi la rosa al viso per gustarne il profumo.
Alzò di nuovo lo sguardo, ma la donna si era già allontanata. La cercò tra la folla, e, 
quando la scorse, quella si voltò, sorridendole ancora. Belle allentò la presa, lasciando che
la rosa cadesse a terra, fece un passo avanti, trattenendo il fiato, calpestò il fiore 
abbandonato e la rincorse.
-Aspetta!- urlò, cercando di seguirla tra la folla sempre più fitta.
Urtò alcuni passanti, si scusò più volte, si sollevò sulle punte dei piedi, cercando ancora 
quel volto, che ormai era scomparso tra mille facce, ma alla fine si fermò, sospirando. Era
sicura di quello che aveva visto. Quella donna era Rosaline.
Guardandosi intorno, si rese conto di averla seguita più in là di quanto pensasse, così da 
ritrovarsi in una strada che ricordava vagamente, davanti ad un negozio che recava  l’insegna
“Il bello dell’antiquariato”. Una spia luminosa si accese nella sua mente, ricordando che sua 
madre le aveva parlato di quel negozio. Era lì che aveva comprato lo specchio per la camera
dei suoi fratelli. Uno specchio che poi si era rivelato più speciale di quanto affermasse il suo
certificato di autenticità. Consapevole che, per quanto assurdo potesse sembrare, Rosaline
l’aveva portata in quel posto per un motivo, fece un profondo respiro ed entrò.
L’ambiente doveva essere piuttosto grande, ma era talmente ricolmo di oggetti che c’era a 
stento lo spazio per camminare. La luce era fioca, soffusa, donava un’atmosfera raccolta, forse
addirittura soffocante, ma caratteristica, come un film degli anni ottanta. Nell’aprire la porta, 
un campanello segnalò la sua presenza e una voce di donna risuonò dall’altro lato del negozio.
-Arrivo tra un secondo, dia pure uno sguardo in giro-
-Ehm.. d’accordo-
Fanciulli e ragazzine le sorridevano attraverso volti di porcellana dai loro angoli sui comodini a
tre piedi o sui tavoli di legno placcato, osservandola a decine, una coppia di carlini seduti 
educatamente le apriva la via e vari tipi di quadri e piccoli ritratti ricoprivano ogni centimetro 
della carta da parati a fiori, mentre fronzoli di ogni genere attiravano vagamente la sua attenzione. 
Avanzò piano, guardando bene dove metteva i piedi e si chiese se avrebbe dovuto evitare quei
tappeti dai filamenti dorati e i rombi scuri e camminare nelle sottili strisce di pavimento che
lasciavano libere.
Mentre proseguiva a zig zag per evitare di toccare qualsiasi oggetto, un quadro in particolare la 
spinse a fermarsi, attirandola con le rose rosse asfissiate da un intrico di rami e spine, dipinti su
uno sfondo totalmente nero. Si avvicinò, seguendo con gli occhi ogni particolare e ne sfiorò la 
superficie, ritrovandosi del colore sulle dita e una scia scura che imbrattava l’opera, uno scippo
fluido che intaccava la bellezza dell’immagine.
Oddio, oddio, oddio, oddio! Cosa aveva combinato, doveva fare qualcosa, doveva.. doveva 
andarsene, scappare via?, no, doveva prendersi la responsabilità, pagare il danno, doveva..
L’indice e il medio, che aveva posto nuovamente sulla sbavatura per cercare di arginarla, erano
scomparsi oltre la tela.
Ma porca.. non poteva succedere ancora!
Se Rosaline si stava prendendo gioco di lei, l’avrebbe uccisa. Beh, per modo di dire.
Si voltò, cercando con lo sguardo e con l’udito qualche indizio che la proprietaria stesse arrivando, 
sentì i suoi passi avvicinarsi, spalancò gli occhi verso la mano che non riusciva più a vedere. Pensò
ad Adam, al colpo del cacciatore che era rivolto a lui, al sogno dell’edificio bianco, pensò che lui 
doveva essere in pericolo, pensò che i suoi sogni non mentivano mai e, diversamente da come si 
era ripromessa e da ciò che aveva creduto negli ultimi mesi, attraversò il portale. Di nuovo.

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Capitolo 18
*** Tè o zuppa? ***


                Image and video hosting by TinyPic Tè o zuppa?

Cinque mesi prima.


Camminava da giorni, settimane forse. Non aveva dato peso al susseguirsi della luce e dell’oscurità, si fermava solo quando la stanchezza gli impediva di proseguire oltre, trovava un posto isolato, lontano dai villaggi, nei boschi che attraversava, si copriva con il mantello, per la prima volta grato della sua natura animalesca che gli permetteva di non patire il freddo come una persona qualunque, e lì riposava. Non appena recuperava le forze, riprendeva il viaggio. Di tanto in tanto era stato rallentato anche dalla fame e dalla sete, aveva dovuto prendersi del tempo per cacciare, trovare un ruscello o una fonte d’acqua, non volendo avvicinarsi alle abitazioni. Tenere a bada la bestia stava diventando sempre più difficile, prendeva il sopravvento, oscurando i suoi occhi e la sua mente e trasformandolo in un essere fuori controllo.
Dopo quello che gli parve un tempo interminabile, scorse la dimora del mago, lontana da occhi indiscreti, adiacente al ruscello che scendeva fino a valle e che aveva seguito per tutto l’ultimo tratto. Era una casa modesta, edificata da mani non molto esperte, tuttavia non poté evitare di guardarsi intorno, in cerca di possibili trucchi o pericoli, prima di avvicinarsi.
Prima ancora che bussasse, un uomo canuto, dal volto scavato, gli aprì la porta. Era molto più basso di lui, dal fisico esile sotto i pantaloni scuri e la camicia bianca, gli occhi annaquati dall’età lo scrutarono vispi per alcuni secondi, la fronte corrugata, poi gli mostrò un enorme sorriso.
-Entra, forza-
Adam, che lo aveva scrutato a sua volta con gli occhi stretti, rimase fermo dov’era, sulla difensiva, guardando il vecchio. Che fosse cieco e non avesse visto il suo aspetto? Che fosse matto?
L’uomo lo lasciò sulla soglia e gli voltò le spalle, dirigendosi verso il focolare, dove era stata posizionata una piccola pentola, la tolse dal fuoco e ne versò il contenuto in due tazze, prima di aggiungere delle erbe essiccate.
-Vuoi del tè, giovanotto?- sollevò lo sguardo su di lui, aspettando. –Beh, io l’ho preparato, se vuoi, te lo porto lì-
Giovanotto?  -Sono qui per il vostro aiuto-
-Tutti quelli che vengono qui vogliono chiedermi qualcosa, ma loro almeno entrano in casa e si siedono educatamente, prima di pormi le loro domande-
Gli indicò la poltrona di fronte a quella su cui si era appena seduto e sorrise gentilmente, così Adam, guardandosi un’ultima volta alle spalle, chiuse la porta e si accomodò, evitando però la bevanda scura.
-Non siete cieco-
-Sei venuto fin qui per chiedermi se sono cieco?-
-No..-
-Ma ti chiedi perché non temo il tuo aspetto. Ecco, non ho visto minacce in te e, nel caso diventassi un problema, sono sicuro di poterti sopraffare più facilmente di quanto tu creda-
Fece una smorfia. Non era la prima persona a dirgli una cosa simile.

Se mai vedrò in voi un mostro, allora vi temerò.  Alla fine, però, lei il mostro lo aveva visto.
Guardò ancora il volto rugoso e le spalle delicate, le mani sottili che gli porgevano la tazza fumante.
-Si parla meglio con le membra riscaldate-
Sorseggiò il suo tè, il volto rilassato, gli occhi socchiusi.
-Sono venuto a chiedere il vostro aiuto per una.. situazione molto importante-
Lo indicò.  –Si tratta della maledizione che ti ha trasformato? Non posso fare più nulla per quello-
-No, non è per la maledizione. Un uomo mi ha parlato del vostro potere, mi ha detto che avete fermato la sua trasformazione, venne da voi molti anni fa-
-L’uomo con la rosa sulla mano..-
-Sì, quell’uomo mi ha detto che siete riuscito a fermare la maledizione-
-Fermare, non eliminare. Il mio potere è umano, legato al mio corpo terreno, il potere che ha scagliato la maledizione era divino, non potevo cancellarlo, l’ho solo contenuto, ne ho arginato le conseguenze, evitando che si trasformasse ed ho potuto farlo solo perché la sua trasformazione non si era ancora ultimata. Inoltre immagino che il tuo amico non ti abbia parlato delle implicazioni del suo gesto. Per impedire che l’incantesimo si compisse appieno, ha dovuto offrire qualcosa in cambio. Ha legato la sua vita alla fonte della maledizione, tutto ciò che essa subisce, subisce anche lui-
-Ma se siete riuscito in questo, potrete di certo aiutare anche me e non mi importano le conseguenze. Si tratta di qualcosa che non è ancora accaduto-
-Interferire con il futuro? Giovanotto, la tua mente è più offuscata dalla bestia di quanto pensassi. Con la materia si può giostrare, ma il tempo è tutta un’altra questione-
-Si tratterebbe di evitare un evento-
-E questo come lo chiami?-
Adam strinse i pugni, cercando di calmare la furia che gli offuscava la vista.
Il mago lo osservò a lungo, in silenzio e sostenne il suo sguardo.
-La cosa che ti porti dentro ha più potere di quanto pensassi.. è sempre più difficile mantenere il controllo, non è così? E sarà sempre peggio se non trovi il modo di spezzare questo legame-
Quel modo lui l’aveva già trovato e aveva rovinato tutto.
-Non sono qui per questo. Si tratta di una persona e lei deve assolutamente aiutarmi-
E il suo sguardo, dapprima duro, si ammorbidì.
-Vi prego-
Così, il vecchio ascoltò con pazienza ed attenzione mentre il suo ospite gli raccontava chi fosse questa persona e quale fosse il problema.
-Quindi stiamo parlando di qualcosa che è successo in un sogno?-
Annuì.  –Ma i suoi sogni si..-
-Si si, ho capito, l’hai già ripetuto decine di volte. E questa.. strega ti ha detto che non puoi fare più nulla-
Annuì ancora.
-Beh, non ha tutti i torti. Finché interferisci con un sogno non ci sono ripercussioni e se, come dici, i suoi sogni si avverano, allora si sarebbe avverato ciò che lei aveva visto in sogno, tuttavia.. –
Si massaggiò il mento, lo sguardo perso e si versò altro tè.
-Se ho ben capito non è che i suoi sogni si avverino, ma semplicemente lei riesce a vedere ciò che sta per accadere, di conseguenza giovanotto, si potrebbero invertire le carte in tavola, lasciando intatto il gioco-
-Che cosa intendete?-
-Quanto tieni a questa persona?-


Socchiuse gli occhi per vedere oltre l’oscurità, ma tutto ciò che riusciva a distinguere erano le pareti nere, che si assottigliavano sempre di più e un bagliore tenue, troppo lontano perché le permettesse di vedere altro. Soppesò il mazzo di fiori che aveva ancora in mano, ormai rovinato dalla sua folle corsa dietro la donna, e si lasciò scappare un sospiro. L’aveva pagato quasi venti euro. Inoltre, se fosse scomparsa di nuovo, probabilmente sarebbe stata la volta buona che a sua madre venisse un infarto. Poi, c’era da considerare il sogno che aveva fatto, se si fosse avverato, lei sarebbe morta. Ancora, i suoi rapporti con Adam erano.. complicati, insomma, l’aveva rinchiusa, lei gli aveva detto che era un mostro, l’aveva salvata dai lupi assassini che altrimenti l’avrebbero utilizzata come cena e poi lei se n’era andata. Gliel’aveva detto chiaramente, no?

Non posso... credevi che fossi io?...
Tra lui e il suo mondo, avrebbe scelto il suo mondo. Che poi avesse capito di amarlo subito dopo, quando l’aveva visto in pericolo, quello era tutto un altro discorso.
Infine, c’era l’odio profondo, immenso e incontrollabile che provava nei confronti di Rosaline. L’aveva portata da Adam una volta e ora eccola di nuovo lì, attraverso un quadro.. un quadro maledizione, la stava prendendo in giro? La odiava, la odiava terribilmente.
Considerato tutto, forse sarebbe semplicemente dovuta tornare a casa. Lei e il suo mazzo di fiori da venti euro.
Perfetto. Doveva iniziare a pensare un po’ di più prima di fare qualcosa.
Ormai, però, era lì, tanto valeva cercare di capire cosa stesse succedendo. In fondo, se aveva accettato l’invito, se così si poteva dire, di Rosaline, era solo perché temeva per la vita di Adam. Perché quel cacciatore, chiunque fosse, non aveva puntato lei, ma Adam.
Lasciò cadere i fiori rassegnata e si incamminò nel corridoio malamente illuminato, rendendosi conto che, più avanzava, più le pareti si stringevano su di lei, assottigliando sempre di più lo spazio, finché non fu costretta a proseguire con la schiena ricurva, poi gattoni, infine quasi strisciando, tirandosi con le braccia. Raggiunse il bagliore che aveva intravisto prima, riconoscendolo come l’unica via d’uscita. Si sporse con il busto oltre lo stretto ovale, ma non riusciva a vedere nulla al di là di esso. C’era solo luce, proprio come prima c’era stata solo l’oscurità. Si passò una mano sul volto. Odiava davvero tanto quella donna. Fece un profondo respiro, si spinse di più con le gambe, chiuse gli occhi, e si lasciò cadere.
La caduta fu breve. Colpì il pavimento con la schiena e un gemito di dolore le fece aprire gli occhi. Si voltò prima sul lato, rendendosi conto che il pavimento in realtà era un terreno brullo segnato da radici e, quando le fitte alla schiena cessarono, si mise in piedi. Riconosceva quel posto, era la foresta della tenuta di Adam. Qualcosa, però, non tornava. Insomma, quando se n’era andata, la foresta non era completamente bruciata, giusto? Cosa diavolo era successo? Il terreno era cosparso di fuliggine, i rami dei pochi arbusti sopravvissuti erano spogli, mentre gli altri alberi erano orrendamente mutilati. Doveva essere scoppiato un incendio. Soffermò lo sguardo sul castello, le vetrate in frantumi, le rampicanti bruciate, i muri anneriti e, ancora, la fontana distrutta, come se qualcuno l’avesse colpita con un oggetto pesante, l’acqua totalmente evaporata.
Era tutto in rovina. Salì le scale, superò quello che era rimasto della porta d’ingresso e trattenne il fiato. Ogni cosa era andata distrutta nell’incendio o dai colpi rabbiosi di qualcuno. Sentì le lacrime offuscarle la vista, mentre valutava i danni di ogni camera, le tende, i mobili, tutto distrutto. Il corrimano di legno era stato incenerito, ma salì comunque le scale e corse nella biblioteca. Tutti i libri che aveva sfiorato rapita solo poco tempo prima, la poltrona su cui si sedeva..  Anche della sua stanza era rimasto ben poco, e così degli abiti meravigliosi che aveva indossato. Dovette allontanarsi, le lacrime che rischiavano di vincere le sue resistenze. Non poté andare oltre il secondo piano, le macerie impedivano il passaggio. Un lampo le attraversò la mente e si affrettò fuori, verso le serre, ma non ci fu bisogno di spingersi molto lontano. Poteva già vedere le vetrate in pezzi, i vasi di terracotta sparsi a terra, vuoti.
Ma cos’era accaduto?
Non sapendo cos’altro fare, si incamminò nella direzione opposta al castello. Doveva pur esserci qualcuno, no? Un villaggio, magari. Qualcuno a cui chiedere cosa fosse successo, un posto dove poter pensare a cosa fare.
Durante tutto il cammino, continuò a chiedersi dove fossero Rebecca e Paul, dove fosse Adam e soprattutto se stesse bene.


Aveva scorto le case quando il sole aveva iniziato a tramontare e, quando si era affacciata sulla strada sporca e deserta, era già buio e dalle case provenivano voci sommesse e luci tremolanti. Aveva bussato alla prima locanda che aveva incontrato e aveva chiesto ospitalità, nonostante la lunga occhiata inquisitrice della donna che le aveva aperto. Era robusta, spalle larghe seguivano il volto duro e squadrato, due occhi scuri, i capelli erano legati dietro la nuca, ma qualche ciocca ricadeva scompostamente sul viso e i vestiti erano lerci, rattoppati in più punti. La locandiera l’aveva lasciata entrare, offrendole un letto per la notte e un piatto caldo, o meglio, uno strano intruglio che doveva essere una specie di minestrone. In ogni caso, lei si era limitata a ringraziare e ingoiare senza soffermarsi troppo sull’aspetto, rispondendo con un sorriso al cipiglio burbero della donna. I due uomini seduti ad un tavolo poco distante dal suo si allontanarono poco dopo il suo arrivo, sparendo oltre le scale. Se gli abitanti di quel villaggio erano tutti così, dovevano essere tipi davvero strani, anche se probabilmente era lei a sembrare strana, considerato il modo in cui avevano scrutato i suoi vestiti, il modo in cui parlava, così lontano dal loro dialetto. Nonostante ciò, dovevano essere persone gentili, le avevano offerto aiuto senza chiedere troppe spiegazioni.
Mentre mangiava, il figlio della locandiera le si era avvicinato e si era seduto di fronte a lei, soppesandola con due grandi occhi marroni. Doveva avere sette o otto anni.
-Non sei come i viandanti che ospitiamo di solito-
-Ah sì?-
-I tuoi vestiti sono strani-
-Già, ehm.. da dove vengo io sono molto comuni-
-Come ti chiami?-
-Belle, e tu come ti chiami?-
-Antoine, ma tutti mi chiamano Chicco. Noi ti ospitiamo senza un pagamento per stanotte, ma domani te ne devi andare, lo sai?-
Sì, davvero gentili.  -Tua madre me lo ha già detto-
-Vieni anche tu dal castello, vero? Lavoravi lì anche tu?-
-Dal castello? Chi altro avete ospitato, Antoine?-
-Un uomo, diceva di chiamarsi Paul, ma è morto durante la notte-
Morto? Paul era morto? Soppresse un brivido.  –Non avete visto nessun altro?-
Il bambino scosse il capo. –Lavoravi anche tu per la bestia, eh, Belle? Tu.. tu l’hai vista? Mamma non vuole che ne parli, dice che sennò lui mi ucciderà-
-Lui non ti ucciderà-
-Allora tu l’hai visto davvero? Sai, la bestia ha distrutto il suo stesso castello, ha dato fuoco a tutto e ora non ha più nulla- si sporse verso di lei con fare cospiratorio, facendola sorridere. –Ora si aggira per i villaggi, completamente folle, in cerca di qualcuno da mangiare- sussurrò.
Che sciocchezze. Scosse il capo, ma almeno sapeva che era ancora vivo. Così come Rebecca, dopotutto, il fuoco non poteva certo ucciderla, no? Ma, se quello che si vociferava era vero e cioè che era stato lui a distruggere tutto, ad appiccare l’incendio, che fosse vero anche che era diventato completamente folle?
Doveva trovarlo.
-Antoine, l’uomo che avete aiutato, Paul, ha detto qualcosa?-
-Solo che la bestia era impazzita- scrollò le spalle.  –Ah, e che aveva ospitato una donna arrivata attraverso uno specchio e scomparsa allo stesso modo, oltre uno specchio. Una strega, secondo mia madre. Ha detto che a volte indossava abiti strani, che non aveva mai visto qui e parlava anche in modo strano. Inoltre, l’aveva sentita parlare con la bestia,  gli chiedeva come avesse fatto ad entrare nei suoi sogni. Mia madre pensa che sia una strega della peggior specie, questo dice, che riesce a controllarti la mente, per questo dopo che se n’è andata, la bestia è impazzita, ma molti qui dicono che è solo una pazza che deve essere rinchiusa-
-Chicco!- il bambino si voltò verso la madre e corse da lei.
Belle abbassò gli occhi, sentendo comunque il peso dello sguardo della donna su di sé, deglutì a fatica e allontanò la ciotola ancora mezza piena.

..indossava abiti strani.. parlava anche in modo strano.. i tuoi vestiti sono strani..
In che razza di guaio si era cacciata? Doveva andarsene  immediatamente. Doveva andare via di lì. Si alzò, ma una fitta lancinante alle tempie la bloccò, costringendola ad appoggiarsi con forza al tavolo. Le girava la testa, si sentiva confusa, vedeva ogni cosa ruotare vorticosamente intorno a lei, sfrecciando troppo velocemente davanti ai suoi occhi, cercò di mettere a fuoco la zuppa, la locandiera, il suo sguardo duro, le braccia strette attorno al bambino. Traballò. Doveva andarsene.. subito..
..i tuoi vestiti sono strani..
Cadde in ginocchio, si prese la testa tra le mani e chiuse gli occhi, cercando di afferrare pensieri sempre più sfuggenti, sempre più confusi. Doveva.. andarsene..
Lei.. doveva..
La zuppa, qualcosa nella zuppa, l’ultimo pensiero lucido fu che le avevano messo qualcosa in quella brodaglia dall’aspetto orrendo.
..doveva..

Perse i sensi.

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Capitolo 19
*** L'incubo peggiore ***


                Image and video hosting by TinyPic l'incubo peggiore

Alzò lo sguardo sulla notte, solo per una frazione di secondo, prima di trasformarsi in un poeta. Se avesse potuto cacciare le stelle come si cacciano gli animali, o come lui cacciava i derelitti, avrebbe guadagnato sicuramente di più. Sbuffò, ma non si mosse dalla colonna contro cui aveva appoggiato la schiena, era lì già da molti minuti. Il vento aveva smesso di soffiare, anche se mancava ancora molto all’alba. Sentì il rumore delle ruote sulla strada e ruotò appena il volto, aspettando che la carrozza si fermasse, la raggiunse in poche falcate, guardandosi ancora una volta intorno per assicurarsi che non ci fosse nessuno. Salì sulla vettura, si sedette di fronte all’uomo e si tolse il cappello.
-Hai novità per me?-
Annuì.  –Sapete la storia dell’uomo maledetto? L’uomo che abitava nella tenuta distrutta dall’incendio e che si diceva fosse stato trasformato in una belva orrenda-
-È solo una leggenda, quel castello è abbandonato da anni e gli stolti lo evitano per paura-
–Se non fosse solo una leggenda? Ieri è arrivato un uomo al villaggio, l’unico sopravvissuto dell’incendio, diceva di lavorare per la bestia, parlava anche di una ragazza, l’aveva sentita chiedere alla bestia come avesse fatto ad entrare nei suoi sogni. Diceva che aveva attraversato uno specchio. Una strega secondo alcuni-
-O una povera anima in pena bisognosa di aiuto-
Nella penombra della carrozza non riusciva a vedere il volto del suo interlocutore, ma ormai ne conosceva ogni gesto e sapeva che doveva aver rivolto gli occhi fuori, nella notte, mentre si stropicciava distrattamente le mani.
-Una ragazza convinta di avere una qualche specie di potere dei sogni.. potrebbe essermi utile nella mia ricerca-
Rimase in silenzio ancora alcuni attimi.
-Portamela. Quando me l’avrai consegnata, riceverai il tuo compenso-
-E la bestia?-
-Fanne ciò che vuoi, ma prima, portami la ragazza-
Annuì, si mise il cappello e aprì la portiera, ma una stretta salda lo fermò prima che scendesse dalla vettura.
-Gaston, che non si ripeta l’errore dell’ultima volta-
Lo lasciò e, non appena richiuse lo sportello, la carrozza ripartì, lasciandolo nuovamente solo. Un ghigno gli illuminò sinistro il volto. Quella sarebbe stata la caccia migliore della sua vita.


Sei mesi dopo.

-Chicco, va’ di sopra-
Il tono di sua madre non ammetteva repliche, come sempre. Sgattaiolò per le scale, fermandosi sull’ultimo gradino, avvicinando il viso alle sbarre della ringhiera. Sua madre aprì la porta e, subito dopo, tre uomini varcarono la soglia. Il primo indossava un cappello dalla tesa larga, si accostò a sua madre e le porse una piccola sacca di pelle, facendole un cenno col capo, gli altri due avevano le spalle più grosse e il volto scoperto, si avvicinarono alla ragazza stesa a terra, sollevandola. Uscirono senza il minimo fiato e sua madre richiuse la porta alle loro spalle, poi aprì il sacchetto e lo rovesciò sulla mano libera. Contò le monete, le lasciò cadere di nuovo nella sacca e alzò lo sguardo su di lui. 


Qualcosa continuava a infastidirla, distogliendola dall’oscurità in cui si era smarrita da tempo, colpiva i suoi occhi, insistente, riportandola lentamente e controvoglia alla realtà, dove si rese conto che altro non era che un fascio di luce accecante che si fermava sul suo viso. Dovette aspettare alcuni secondi che la vista si abituasse, prima di mettere a fuoco la stanza dove si trovava, il materasso duro sotto la schiena, il letto vuoto accanto al suo, la finestra decorata da sbarre di ferro, la porta massiccia, le pareti bianche..
Si mise seduta e si prese la testa tra le mani, cercando di fermare lo stordimento che d’ ora in avanti avrebbe associato sempre ad una disgustosa zuppa di verdure. Quando il mondo smise di girare e la vista si fece più chiara, si alzò sui piedi scalzi, si scostò i capelli dagli occhi e si accostò al vetro per cercare di capire dove fosse. Oltre le sbarre vide un prato ben curato illuminato da un sole che rischiarava indisturbato il cielo, una decina di persone, coperte solo da un leggero camicie bianco e uno scialle, ingobbite, dallo sguardo vacuo o dall’espressione rassegnata camminavano pigramente, alcuni sorretti da donne il cui volto era coperto da enormi copricapi, bianchi anch’essi. Suore, no.. infermiere. Si strinse le braccia al corpo, rabbrividendo. Quelle mura trattenevano un gelo peggiore di quello invernale e di certo nessun calore aveva mai riscaldato la stanza. Guardò il camicie che indossava anche lei, lungo fino alle ginocchia, semplice, pulito, ma logoro, come se fosse stato usato e lavato più e più volte. Sentì le forze mancarle, mentre capiva che lì, come nei suoi sogni, tutto quell’eccesso di candore non aveva niente a che vedere con la purezza. Si gettò contro la porta, sbattendovi contro i pugni con forza, urlando fino a ferirsi la gola.
Non doveva essere lì, non era il suo posto, non poteva essere rinchiusa.
Colpì la porta fino a sentire dolore nei polsi, nelle mani, nelle dita, e oltre, continuò finché non sentì dei passi affrettati e delle voci concitate dall’altra parte, gridò fino a stordire anche i propri timpani.
Non poteva, non poteva essere vero, non doveva trovarsi lì, lei non doveva essere in un posto simile.
Era il peggiore dei suoi incubi, la più crudele delle sue paure. Essere creduta matta.
La porta si aprì e due uomini molto più alti e possenti di lei la presero per le braccia, bloccandola, mentre lei si dimenava, calciava, scuoteva la testa, resa cieca dall’odio verso Rosaline, verso chiunque, persino verso se stessa. Non si rese conto di piangere, non sentì le lacrime bruciare sul suo volto, non si accorse neanche dei suoi disperati tentativi di richiesta di essere lasciata andare. Una donna dalla candida aureola le si avvicinò, il viso pacato. Ma non era altro che l’angelo della morte.
-Sshhh- continuava a ripetere, in un macabra cantilena, mentre di soppiatto le infilzava nel braccio la sua spada di fuoco, annebbiandole la mente, rendendo vano ogni suo attacco, demolendo tutte le sue difese.
Venne invasa da quel rilassante calore che non avrebbe mai abitato le mura che la circondavano, chiuse gli occhi e fu di nuovo il nulla.
Quello era il suo peggiore incubo.
E se i suoi incubi si avveravano sempre, alla fine, anche questo aveva preso vita.


Guardò i due portantini sistemare la ragazza, la nuova paziente, nel letto della cella d’isolamento e un’infermiera legarle i polsi e le caviglie alle sbarre del letto.
-Cos’è successo?- chiese alla donna, quando richiuse la porta della cella.
-Ha reagito male al risveglio, dottore, abbiamo dovuto sedarla-
-Capisco. Quando si sveglia, chiamatemi-
-Sì, dottore-


Distolse lo sguardo dalla finestra da cui si sentivano provenire le grida e sorrise appena all’infermiera, sapendo fin troppo bene che i ficcanaso non erano graditi in quel posto.
Doveva essere una nuova arrivata, reagivano quasi tutti così. I medici lo chiamavano delirio, ma avrebbe dato di tutto per vedere come quegli aguzzini avrebbero reagito nelle stesse condizioni. E pensare che sua figlia pagava fior di quattrini per tenerlo in una prigione dalle lenzuola sterilizzate. Per il suo bene, diceva, affinché si prendessero cura di lui nel modo migliore. Bazzecole, lui non era pazzo e se mai fosse uscito da lì, avrebbe tolto a quella figlia degenere fino all’ultimo penny della sua eredità. La famiglia, brutta bestia.
L’infermiera gli si avvicinò.
-Allora, signor Lefebvre, come ha dormito stanotte?-
-Oh, signorina, benissimo- mostrò un ampio sorriso, prima di farle l’occhiolino - ma le ho ripetute mille volte che può chiamarmi Maurice-

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Capitolo 20
*** Risveglio ***


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Era sveglia già da un po’, una delle infermiere le aveva portato un vassoio con acqua, pane e una scodella di brodo, ma lei non aveva toccato nulla. L’aveva slegata, anche se era ancora in quella umida cella piccola e senza finestre, di tanto in tanto un uomo dagli occhi chiari apriva lo spioncino rettangolare della porta e le lanciava uno sguardo, forse per assicurarsi che fosse ancora lì. Di certo non poteva scappare. Si era stesa sul letto, lo sguardo puntato ben oltre la parete davanti a sé, perso in un luogo dove non avrebbe dovuto pensare a nulla, ma quel piccolo angolo di pace che si era creata non durò a lungo.
La porta si aprì, l’infermiera e l’uomo dagli occhi chiari la scortarono in un’altra stanza, grande, luminosa, ben arredata, con una libreria ricolma di tomi e una scrivania grande oltre la quale sedeva un uomo anziano, canuto, ben rasato e dal fisico magro. Indossava un completo elegante, scuro e sopra di esso spiccava il camicie bianco.
Le sorrise, vedendola entrare, ma quel ghigno servì solo a metterla a disagio. Si strusciò le mani sulle braccia scoperte, nonostante non facesse freddo, si portò i capelli, che ormai dovevano sembrare solo un rovo incasinato, dietro l’orecchio e cercò di deglutire, ma un groppo le bloccava la gola.
-Siediti-
Le indicò la sedia di fronte alla scrivania e lei obbedì silenziosa, sentendo i passi dei suoi aguzzini che si allontanavano oltre la porta chiusa.
-Io sono il Dottor Delacroix, gestisco questo posto. Sai dirmi il tuo nome?-
Qualsiasi cosa le avessero iniettato, doveva essere un farmaco potente, perché la nebbia non aveva ancora smesso di offuscarle la mente, non riusciva a pensare lucidamente.
Una vocina le disse che sarebbe stato meglio mentire, ma nella confusione di immagini e suoni, non poté trovare neanche un nome.
-Belle Duval-
-Sai dove ti trovi e perché sei qui?-
Sono nel mio peggiore incubo.  –In un manicomio-
-Una casa di cura- la corresse subito, forzando ancora di più il sorriso.
-Questo è.. reale? Se fosse solo un sogno..-
-Sei qui perché eri un pericolo per te stessa e per gli altri, Belle, vagavi in stato confusionale, capisci cosa intendo? È reale-
In stato confusionale..? Ce l’avevano portata loro in stato confusionale!
-Io.. non è così..-
-Perché credi di trovarti in un sogno?-
-Perché se non è così..- il suo sguardo vagò sui tanti titoli della libreria, anatomia umana.. delirio e le cure.. nuovi metodi per la cura della schizofrenia..
-Questo è un manicomio..-
Lo aveva già detto?
-Una casa di cura- la corresse ancora, alzandosi e appoggiandosi alla scrivania, guardandola con attenzione.
-Credi di poter controllare i sogni?-
Oh, se solo avesse potuto controllarli..  la voce di quell’uomo non le piaceva, così pacata, sinuosa, così serpentina. Doveva essere per forza velenosa.
Le tornò in mente la brodaglia della locanda, le pareti bianche della stanza in cui si era svegliata, l’infermiera che le faceva l’iniezione. Chiuse gli occhi, lasciando che tutte le sue forze scivolassero via senza opporre resistenza, accogliendo il vuoto che ne rimase come unica ancora di salvezza. Guardò gli occhi piccoli e luccicanti del medico e non trovò assolutamente nulla da dire, nulla che volesse dire.
Lui continuò a porle delle domande, a chiamarla, ma lei rimaneva in tranquillo silenzio consolatorio. Alla fine l’uomo dagli occhi chiari tornò a prenderla, ma stavolta la scortò nella stanza dove si era svegliata o, almeno, era identica a quella, ma ugualmente vuota. Niente compagna di stanza per lei. L’infermiera chiuse la porta alle sue spalle.
Si rannicchiò sul letto, le ginocchia strette al petto, la schiena incastrata nell’angolo del muro, avvolse le braccia attorno alle gambe e fissò nuovamente lo sguardo lontano da lì, in quel mondo tutto suo che non aveva mai raggiunto veramente, fatto di illusioni e pace, tuttavia, questa volta era una pace che mascherava unicamente il vuoto. E lei vi si perse, grata di averlo finalmente trovato, perché, se avesse voluto sopravvivere, non c’era altro modo.

 
Il dottor Delacroix continuò a parlare con lei, giorno dopo giorno, ma lei continuò a non rispondere e, poco a poco, il suo sguardo si fece sempre più vacuo, il suo corpo sempre più provato dalle privazioni, nonostante qualcuno ai margini della sua visuale, continuasse a lasciarle un vassoio di cibo nella stanza, la sua pelle sempre più pallida, forse perché evitava il sole rintanandosi nel suo angolo oscuro finché non calava la notte.
Poi, dopo un tempo che a stento aveva sentito scorrere, l’infermiera l’aiutò a scendere delle scale fino a che non sentì il calore del giorno sul viso e la luce accecante negli occhi.
Sbatté le palpebre e vide un prato ben curato, animato da molte anime assenti come lei.
Chiuse gli occhi, ancora e ancora, ma quella visione non sparì. Dov’era il suo angolo buio? Dov’era il suo angolo privato di vuoto e silenzio?
Il suo sguardo si posò sugli uomini e le donne smunte e dallo sguardo perso, anche lei appariva così?, sugli angeli candidi della morte nei loro abiti bianchi, sul palazzo maestoso alle sue spalle.
L’infermiera la fece sedere su una sedia e le disse che si sarebbe allontanata alcuni istanti. In fondo, anche se aveva lasciato quel vuoto così confortante, poteva continuare a restare nel suo silenzio. Almeno così non l’avrebbero imbottita di sedativi.
Un uomo dalle guance paffute e il viso sorridente le si sedette vicino. Non lo degnò di uno sguardo. Ma lui continuava a fissarla sorridendo, con i capelli grigi scompigliati e la posa rilassata.
-Ehilà, ragazzina, finalmente ti hanno fatta uscire, eh? Dì un po’, come ti chiami?-
Finse di ignorarlo, ma lui non la lasciò comunque in pace.
-Io sono Maurice, paziente già da.. allora, vediamo.. due anni, ma, ehi, non hanno sperimentato ancora nessuna nuova cura su di me. Certo, qualche volta mi hanno rimpinzato di farmaci per ‘alleviare la tensione’- sbuffò –Che sciocchezze. Metà della gente che sta qui non era altro che povera gente, persone che avevano tutte le rotelle apposto e ora guardale- indicò con il mento alcuni pazienti che camminavano con lo sguardo incantato rivolto al cielo e la bocca spalancata in un sorriso scomposto.
-Il dottor Delacroix sperimenta sui suoi pazienti un nuovo metodo di cura all’avanguardia, ma ancora in via sperimentale. Quando li portano via, sono normali, quando li rivedi.. e più passa il tempo, più peggiorano. Chissà quanto ci metterà a decidere che è il mio turno. Ma tu sei sanissima, proprio come me, dico bene?-
La scrutò, trafiggendola con uno sguardo intenso che non aveva più nulla di giocoso.
-Mi chiamo Belle- sussurrò.
-È un piacere, Belle. I nuovi arrivati hanno sempre delle difficoltà, ma io ti consiglio di lasciar perdere il mutismo e collaborare. Meno loro ti credono matta, più tempo avrai prima di..- lasciò cadere il discorso, ma i suoi occhi erano puntati nuovamente sui pazienti che le aveva indicato poco prima.
Si voltò nuovamente verso di lei e le diede una leggera gomitata, riportandola fuori dai suoi pensieri.
-Molti di noi si creano un mondo tutto loro appena arrivati, per sfuggire a tutto questo, ma ciò non vuol dire che tu sia davvero matta-
E, solo per un attimo, trovò la forza di sorridere.


Si impegnava davvero. Ogni giorno, durante l’ormai abituale seduta con il dottor Delacroix, si sforzava di rispondere placidamente a tutte le domande che le porgeva, cercava, beh, cercava di non sembrare pazza, come le aveva consigliato Maurice. Aveva ripreso a mangiare, non si era più fatta prendere da crisi di panico o di mutismo, sorrideva alle infermiere, anche se ciò le costava uno sforzo non indifferente e chiacchierava spesso con Maurice, durante l’ora d’aria o nel pomeriggio, quando li lasciavano liberi nella stanza principale, dove ognuno poteva sedersi ai tavoli rotondi, leggere dei libri portati dalla famiglia o, nella maggior parte dei casi, fissare inebetiti il vuoto. C’erano un paio di tipi che la facevano rabbrividire tutte le volte, Maurice le aveva sussurrato che a volte anche i criminali venivano portati lì e che quei due uomini erano stati condannati per omicidio appena l’anno prima. Così, evitava di incrociare il loro sguardo o, ancora meglio, la loro strada. Passava la maggior parte del tempo libero con Maurice e Simon, un uomo che doveva aver passato i cinquanta già da un po’, con una calvizie evidente e le mani troppo piccole per un uomo, uno dei pochi che aveva ancora tutte le rotelle apposto.
A volte aveva sorpreso alcuni dei portantini fissarla in maniera alquanto insistente e si era sentita vulnerabile, indifesa, consapevole che quelli, almeno nel suo mondo, non erano stati tempi d’oro per le donne, soprattutto in un posto dove o eri matto davvero, o ti ci facevano diventare. In ogni caso nessuno di loro aveva protezione, lì.
Ma lei abbassava lo sguardo, ignorava il tremolio alle mani, ingoiava il groppo che rischiava di soffocarla e pregava con tutto il cuore che riuscisse a tornare a casa illesa.
Insomma, lei si impegnava davvero, ma quei dannatissimi sogni dovevano sempre incasinarle la vita, smascherarla, puntarle il dito contro, mostrando a tutti quanto davvero fosse fuori di testa. Si svegliava spesso in piena notte, urlando in preda a orribili incubi, e le infermiere accorrevano per sedarla. Il pomeriggio aveva sempre una terribile emicrania che le dilaniava la testa.
Maurice le diede una leggera gomitata sul braccio, ma lei non tolse le mani dal cranio né aprì gli occhi.
-Ehilà, bella addormentata, non escluderci così-
Si massaggiò le tempie, sospirando.  –Sono sicura che la mia testa scoppierà da un momento all’altro-
-Non ti accadrà nulla, devi solo smetterla di farli arrabbiare-
-Non è colpa mia, gli incubi mi perseguitano. Se solo non sognassi più..-
Aprì gli occhi e vide che Simon se ne era andato. Perfetto, non l’aveva neanche sentito allontanarsi. Maurice si voltò verso di lei.
-Dì un po’, ragazzina, è vero che hai un qualche.. potere dei sogni? Gira voce che è per questo che sei diventata il nuovo giocattolino del dottor Braise*-
-Braise?-
-Sì, è il nuovo nome che gli hanno appioppato, perché sai, dopo le terapie.. a volte riesci a sentire l’odore di bruciato.. l’odore dei tuoi neuroni che vanno in fumo, almeno così dicono-
Lo fissò basita. Era orribile.
-Allora? È vero?-
Sospirò ancora.  –Non ho nessun potere, è solo che, alcune volte.. i miei sogni si avverano-
-Chiarisci alcune volte-
Scrollò le spalle.  –Nove volte su dieci-
-Però, ragazzina, chi l’avrebbe mai detto- rise di gusto.   –Magari sei davvero una strega-
Lo fulminò con lo sguardo, ma non poté evitare di sorridere a sua volta.


Continuava a girare su se stessa, ad avanzare in una direzione, tornare indietro, cercare ovunque, ma tutto intorno a lei non esisteva altro che buio. Il respiro divenne irregolare, mentre il panico le attanagliava il petto e la gola si chiudeva, impedendole di respirare.
Poi, proprio davanti ai suoi piedi, si disegnò una scia luminosa che, tuttavia, in tutta quell’oscurità non l’accecava, invece, la invitava, rassicurante, le mostrava dolcemente la via e lei la percorse. Fece alcuni passi, forse camminò a lungo, a lei sembrò un tempo infinito, ma quella strada non conduceva a nient’altro che a nulla. Si fermò, si voltò indietro, voleva tornare sui suoi passi, ma, appena oltre i suoi piedi, la strada scompariva, tornando ad essere notte e cecità, cancellata da una mano accurata, letale, impassibile, sicura, eliminata lentamente, ma sempre più indietro. E lei non poteva più percorrerla, non poteva più tornare indietro. E allora dimenticava perché era lì, come era arrivata in quell’unico punto luminoso sotto i suoi piedi. Quando anche quello si spegneva, lei ripiombava nel buio, nella paura, nell’inconsapevolezza del perché fosse lì. La gola si chiudeva, ancora, il petto dilaniato dal panico, ancora, il fiato mozzo, ancora.
E lei urlava.

*Braise in francese significa brace


Angolo autrice:  Salve a tutti, come al solito pubblico con un immenso ritardo (non odiatemi), spero che il nuovo capitolo vi piaccia. La scelta dell'immagine non è casuale, diciamo che questa è stata l'immagine che ha messo in moto tutta la storia, che ha generato l'idea a cui poi non ho potuto evitare di dare vita. Fatemi sapere cosa ne pensate, buona lettura.

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Capitolo 21
*** Sconfitta ***


21- Sconfitta

Ehm.. sì, beh.. siamo a Giugno.
Vedo già pietre e pomodori volarmi addosso, per cui chiedo subito perdono per questa lunga, lunga assenza, purtroppo è un periodo incasinato, capitemi >.<
Come segno di pace, vi porto il nuovo capitolo; appena potrò, risponderò alle vostre recensioni, che sono sempre strafelice di leggere. 
*E mentre arretra, lieta di aver evitato pietre e pomodori, augura: Buona lettura*

Per giorni, cercò un modo per andare nel mondo di Belle, per raggiungerla, per evitare che il suo sogno si avverasse. Rimase dal mago finché lo ritenne necessario, consultando i suoi libri, le sue conoscenze e, mentre lui cercava un modo per trovare lei, qualcun altro aveva trovato lui.
Era un uomo dai corti capelli neri, gli occhi altrettanto scuri, il mento sporgente e le spalle larghe, aveva con sé un fucile, quando aveva tentato di sparargli o di catturarlo, non l’aveva capito. Aveva sentito che qualcuno lo seguiva, osservandolo, nel bosco e, da predatore che era, aveva trasformato il cacciatore in preda, sorprendendolo alle spalle, aveva ringhiato, servendosi di quei secondi di paura e smarrimento per stordirlo con un colpo ben assestato alla testa.
Quando l’uomo aveva riaperto gli occhi, si era ritrovato in una piccola stanza accogliente riscaldata dal fuoco, legato saldamente alla sedia su cui era seduto.
-Non voglio ostaggi in casa mia, giovanotto- disse una voce che collegò al vecchio seduto accanto al camino.
-Non è un ostaggio- rispose la seconda voce.  –Voleva uccidermi. Prima scoprirò il motivo, poi lo lascerò andare.. o lo ucciderò, dipende-
La bestia gli si avvicinò e lui sollevò il mento, fronteggiandolo. Eccolo. Il mostro. La sua preda migliore. Quando fosse stato di nuovo libero, ne avrebbe fatto il suo trofeo più maestoso. Lo aveva preso alla sprovvista, questo doveva ammetterlo, con quell’aspetto più simile ad una belva di quanto non sembrasse da lontano, ma nessuna preda gli era mai sfuggita. Né umana né animale.
-Il tuo “amico” si è svegliato-
-Chi sei?- tuonò la bestia, ignorando il vecchio.
-Sono Gaston Legrand- rispose, sollevando il mento.
-Mi seguivi. Perché?-
Sorrise, nonostante la testa pulsasse ancora per il colpo ricevuto.
Di quella conversazione non ricordò molto dopo quel momento. Giorno dopo giorno, ricordava solo che ad ogni domanda a cui non rispondeva, la bestia lo colpiva sempre più forte, la follia sempre più dilagante nei suoi occhi. Non mangiò. Non gli diede da bere se non le poche volte in cui rispose alle sue domande.

Ti ha mandato qualcuno? No
Ce ne sono altri con te? Sì
Da quanto sei sulle mie tracce? Due mesi.

Il secondo giorno, gli aveva gettato ai piedi i corpi senza vita dei suoi uomini.
-Giovanotto! Chi pulirà tutto quel sangue?- aveva sbraitato il vecchio, ma la bestia non aveva distolto lo sguardo dal suo.
Dopo quella che gli parve una settimana, anche se poteva essere un mese o semplicemente due giorni, sfiancato dalla sete e dalla fame, all’ennesima tortura di quell’animale, cedette.
-Se ti dirò tutto, mi lascerai andare?-
-Tu inizia a parlare-
Fece un profondo respiro, cercando di inamidare le labbra secche e rotte con quel poco di saliva che produceva e alzò lo sguardo su di lui.
-In paese parlavano: la leggenda della bestia è vera, il castello è stato distrutto dal mostro e lui si aggira per i villaggi. Gli uomini del mio villaggio avevano soccorso un uomo scampato alle fiamme, disse di aver lavorato per la bestia, e che da quando la strega se n’era andata lui era diventato completamente folle-
-Sono stati gli uomini del villaggio a mandarti da me, per uccidermi?-
Sorrise appena. –No, ti ho cercato per mio unico volere. Saresti stato il mio trofeo più straordinario. Signore e signori, la renna, l’orso, il lupo e.. la bestia-
La prospettiva che la sua testa mozzata venisse eretta su una parete come dimostrazione della forza di un uomo non parve scuoterlo.
-L’uomo che vi ha detto ciò, dov’è ora?-
-È morto la notte stessa-
Per alcuni minuti, la bestia lo scrutò, soppesando ciò che gli aveva rivelato, poi si adagiò sulla sedia che sosteneva a stento il suo peso e il suo volto sembrò rilassarsi.
-È tutto?-
-Mi lascerai andare?-
-Se questo è quanto hai da dirmi, no, ti ucciderò-
-C’è dell’altro- esclamò subito, provocandogli un ghigno.
-Riguardo la strega-
-La strega? Arrivò al mio castello come una mendicante e sono convinto che sia scampata all’incendio senza difficoltà; inoltre, non vedo perché dovrebbe importarmi di lei-
-Scampata all’incendio? L’uomo disse che la ragazza era passata attraverso uno specchio prima dell’incendio-
Fu allora che comprese. Strega. Non parlava della donna che aveva accolto al castello tempo prima, ma di Belle.
Raddrizzò le spalle, avvicinandosi a lui, gli occhi ridotti a due fessure, i pugni stretti.
-Continua- gli intimò.
-L’uomo disse che la ragazza era arrivata attraverso uno specchio e allo stesso modo era scomparsa, che credeva di avere dei poteri, di poter entrare nei sogni degli altri e che con la sua magia aveva scatenato la pazzia della bestia-
Gaston esitò un istante, soppesandolo e Adam capì che nulla di buono sarebbe seguito.
-Ho riferito quello che sapevo al dottor Delacroix, che gestisce la casa di cura, sapevo che sarebbe stato interessato al caso della strega-
Esitò ancora e Adam ringhiò, scuotendolo.
-Non so altro, giuro!-
-Menti- sibilò, mentre una lama fendeva l’aria, conficcandosi senza sforzo nella carne dell’uomo. Gaston urlò inorridito, sorpreso, fissandosi la gamba sinistra. La fronte già imperlata di sudore si corrugò nello sforzo di non lasciarsi sfuggire altre grida.
-Io ho solo detto al dottore quello che sapevo, non so cosa abbia fatto di quelle informazioni-
Adam strinse saldamente il manico del pugnale, tenendo lo sguardo fisso sul volto sofferente, ruotò appena la lama, lentamente, godendosi i gemiti di dolore del suo interlocutore.
-Ne sei sicuro?-
Ruotò ancora e Gaston si lasciò sfuggire un altro grido strozzato. Puntò gli occhi iniettati di sangue su di lui.
-Delacroix mi incaricò di portarla da lui, ho pagato la locandiera perché mettesse delle foglie di laudano* nel suo piatto e l’ho consegnata al dottore. Non l’ho più vista-
Com’era possibile che fosse tornata in quel mondo, se lo specchio era rotto? Che avesse trovato un altro passaggio? E, soprattutto, perché l’aveva fatto?
-Quindi ora dov’è?-
-Io l’ho lasciata alla casa di cura-
Il manicomio.


Si costrinse a restare lucido. Solo così poté organizzare tutto, obbligare Gaston a garantire per lui con uno dei medici che lavoravano al manicomio, facendolo passare come dottor Martin, chiedere al mago se conoscesse un modo per farlo tornare umano il tempo necessario per fingersi un dottore e portare Belle fuori da quel posto maledetto.
Il vecchio non rispose subito, rifletté a lungo, prima di sospirare, alzando lo sguardo su di lui.
-Un modo ci sarebbe- disse  -ma, una volta che ti tramuterai di nuovo in bestia, non sarai più altro che questo. Penserai, agirai e proverai unicamente come se non fossi mai stato un uomo, sarai solo.. un animale come tanti-
-Quanto tempo avrò a disposizione?-
-Una settimana-
-Sarà sufficiente-
Fece per allontanarsi, ma l’uomo gli stinse il braccio, fermandolo.
-Adam, te lo sconsiglio vivamente- era la prima volta che lo chiamava col suo nome. Il suo sguardo era serio e determinato come non lo aveva mai visto. –Perderai te stesso, per sempre-
-Posso perdere me stesso, ma non posso perdere lei. Non di nuovo-
Il mago lasciò la presa e annuì, senza aggiungere altro.
Sotto minaccia di morte, Gaston aveva portato a termine il suo compito, convincendo uno dei medici della casa di cura ad accogliere il nuovo dottore, con la possibilità di mandarlo via, se non si fosse rivelato all’altezza, ma dopo era scomparso nel nulla.
Da parte sua, Adam non aveva perso tempo a cercarlo, ora che non gli serviva più.
Era tornato alle macerie del castello e lì era rimasto finché, guardando il suo riflesso, aveva visto ciò che non vedeva da tempo, ciò che pensava perduto per sempre.
Recuperare l’aspetto umano si era rivelato più complicato e doloroso di quanto avesse immaginato. Si era procurato un lungo taglio al centro del petto e, infilatavi la mano, aveva afferrato il proprio cuore, lo aveva tirato fuori con uno strattone e, la mano tremante e insanguinata, lo aveva riposto in uno scrigno che il mago aveva ricoperto di rune a lui sconosciute. Per due giorni rimase in uno stato di semi incoscienza, preda della febbre e di un dolore sordo che gli assediava tutto il corpo. Quando recuperò le forze e la coscienza di sé, non trovò più le zampe o gli occhi felini sul suo corpo, ma solo le fattezze di un uomo.
Conscio di aver già perso due giorni e irritato per il disaggio che provava in quella pelle ormai sconosciuta, si affrettò a raggiungere il villaggio, comprò dei vestiti nuovi e pagò la locandiera per poter dormire in una delle stanze della locanda. Alla vista della generosa somma di denaro che lasciò cadere sul bancone, la donna cambiò aspetto e lo guidò con ogni premura nella sua stanza, preparandogli un bagno caldo e una cena che non prevedesse zuppa soporifera.
Adam represse l’istinto omicida nei confronti della donna che aveva firmato la condanna di Belle, consapevole che il suo piano sarebbe andato a buon fine solo se fosse stato in forze e se fosse sembrato davvero un dottore arrivato da poco.
Ad accoglierlo fu un giovane medico dal camice bianco che mascherava malamente il fisico magro e il volto pallido.
Lo guidò lungo i corridoi dell’edificio, indicandogli brevemente le varie camere e i nomi dei pazienti di cui si sarebbe occupato, infine lo condusse dal dottor Delacroix, che gli strinse rapidamente la mano e lo salutò con un cenno distratto del capo, prima di mandar via sia lui che la sua guida.
Era ancora molto presto, i pazienti aspettavano nelle loro camere il giro di visite e il giovane medico gli indicò nuovamente il corridoio dove si trovavano i pazienti di cui si sarebbe occupato, prima di allontanarsi verso il lato opposto dell’edificio.
Un’infermiera gli si accostò, affermando che l’avrebbe assistito nel giro di visite.
Dopo una manciata di camere e di uomini ancora assonnati o mentalmente assenti, si avviò alla penultima camera e si bloccò, lo sguardo fermo sul nome scritto sulla porta.

Belle Duval. 


Socchiuse appena gli occhi, cercando di mettere a fuoco i corpi da cui provenivano le voci che l’avevano svegliata o almeno di capire che ora fosse, ma, come ogni mattina, non riuscì neanche ad alzare la testa e, incapace di tutto fuorché di ascoltare, rinunciò all’impresa.

-Perché è in questo stato?- aveva chiesto una delle due voci, quella più roca, la voce di un uomo.
Le abbiamo somministrato dei sedativi.. per farla dormire..
Questa, invece, era una donna, sicuramente una delle infermiere.
..prima che si rimetta..?
..dottore.. tra poche ore.. benissimo..

E tornò nel suo mondo buio e inconsistente.


Si svegliò che era ormai tarda mattinata e l’infermiera la condusse nella sala comune, dove gli altri pazienti stavano aspettando il pranzo seduti ai tavoli o camminando lungo il corridoio. Si sedette accanto alla finestra, determinata a tenere lo sguardo fisso sulla pioggia primaverile che precipitava violenta e costante contro i vetri, ripulendo le anime o riempiendole di inquietudini. Maurice le si sedette accanto, le spalle rivolte alla finestra e le mani incrociate comodamente sulla pancia rotonda. 
-Ci siamo alzati col piede sbagliato stamattina, eh?-
Lei sospirò, ma lui parve non notare il suo malumore, o semplicemente lo ignorò.
-Hai visto il nuovo tirapiedi di Braise? È arrivato stamattina, un giovanotto non molto sveglio, secondo me, se è venuto in questo posto abbandonato da Dio-
-Dio non esiste-
-Mmm- la soppesò serio.  –giornata brutta più del solito?-
-È solo che.. se Dio esistesse, perché dovrebbe accanirsi su una persona?-
-Non è Dio, ragazzina, ma quei pazzi squilibrati che si credono dio-
-No, non sto parlando di questo posto, né del fatto che continuino a sedarmi tutte le notti senza preoccuparsi minimamente della mia salute, ma..- posò uno sguardo rapido sul dottore, sui capelli bruni, gli occhi profondi che la scrutavano a sua volta, e tornò con uno scatto a fissare la pioggia, infine sospirò e chiuse gli occhi.
-..continuo a vedere qualcuno che è solo nella mia testa.. -
-Parli dei tuoi sogni?-
-Parlo della realtà, Maurice! Parlo della stramaledetta realtà in cui niente sembra più avere senso.. io..-
-Ci trattano come pazzi, ragazzina, ma non lo siamo, non lasciarti convincere da loro, non sei pazza, sei solo più speciale di noi-
Sorrise triste. –Da dove vengo io, si dice che una persona è speciale solo per non dire che è strana-
-Oh, sei la persona più strana che io abbia mai incontrato, questo è certo, ma la normalità non mi è mai piaciuta-
E questa volta il suo sorriso fu sincero.

 
Insistette per fare anche il turno di notte, nonostante tutto sembrasse tranquillo, con le poche infermiere rimaste che di tanto in tanto controllavano i pazienti più instabili e il silenzio colorato di dolore che pesava sull’edificio. E poi quel grido che lacerava la notte, agghiacciante, sofferente, senza tregua.
L’infermiera corse nella stessa direzione in cui era accorso lui e aprì la porta della stanza, superando quella soglia sulla quale lui era rimasto pietrificato dallo shock e dalla stessa sofferenza che pervadeva una voce che gli era troppo cara.
Belle, il volto una maschera di paura e la pelle imperlata di sudore, si dimenava con furia, urlando, gli occhi ancora chiusi dal sogno.
-Come le dicevo, dottore, tutte le notti la stessa storia-
Un’altra infermiera giunse per aiutare la prima, provarono a tenerla ferma, ma lei si dimenò ancora, colpendo entrambe, divincolandosi da qualcosa che loro non potevano vedere. Quando riuscirono a bloccarla, la prima infermiera premette con forza l’ago di una siringa contro l’interno del gomito, rilasciando il sedativo.
Belle, ora calma e immobile, il respiro regolare, socchiuse solo per un attimo gli occhi arrossati, fissandoli nei suoi.
-Adam..- sussurrò, ma le sue palpebre erano già chiuse.
Strinse i pugni, uscendo dalla stanza senza aspettare le infermiere, né proferire parola. L’avrebbe portata fuori da lì l’indomani stesso.

 
Pioveva a dirotto anche quel giorno. Un pianto scrosciante e rabbioso, precipitava impetuoso, lanciato dal vento, schiantandosi contro vetrate e arbusti. Il pomeriggio stava volgendo al termine e così la sua pazienza, mentre Belle continuava a tenere lo sguardo spento fisso sulla pioggia che oscurava qualsiasi visuale, il volto stanco e smunto, le ginocchia strette al petto in una presa debole.
Fece un cenno all’infermiera, aspettando che si avvicinasse.
-Il dottor Delacroix mi ha incaricato di portare la paziente Duval da lui-
L’infermiera annuì, accingendosi a sollevare Belle dal suo angolo e guidandola fino da lui.
Strinse delicatamente la presa sul suo braccio, conducendola lungo il corridoio che portava allo studio del dottore, riportando alla mente il tragitto che li avrebbe condotti alle scale e poi fuori dall’edificio.  
-Dottor Martin- si sentì chiamare da una voce bassa e decisa, che lo costrinse a fermarsi.
Delacroix gli si accostò insieme a un altro medico e uno dei portantini.
-L’infermiera mi ha riferito che stava già portando la paziente nel mio studio, anche se, ad essere sinceri, non ricordavo di averlo chiesto a lei. Ma non importa, la ringrazio dottore, ora ce ne occupiamo noi-
Il portantino strinse la presa sull’altro braccio, mentre Belle rabbrividiva.
La sentì tremare, posare lo sguardo su Delacroix, poi sul medico che lo affiancava e sospirare leggermente e si sentì impotente, mentre era costretto a lasciare la presa, a guardarla allontanarsi, a rimanere immobile, ad aspettare ancora.
Un uomo, un paziente, raggiunse il corridoio con poche falcate, la fronte corrugata in un’espressione preoccupata.
-Belle- la chiamò a voce troppo bassa perché potessero sentirlo, ma lei si voltò comunque, gli occhi sbarrati su pupille dilatate e li guardò entrambi per un interminabile, straziante istante.
Il paziente, Maurice Lefebvre se non ricordava male, sospirò pesantemente, scrollando il capo e tornando nella sala comune con gli altri. Adam tornò a guardare il corridoio ormai vuoto, uno strano presentimento che gli lambiva il petto, perché quell’uomo, Maurice, gli era sembrato che sapesse cosa stava per succedere, gli era sembrato.. sconfitto.

 

*Il laudano è narcotico.

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Capitolo 22
*** Marchio ***


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In futuro, solo poche immagini sarebbero rimaste impresse nella sua mente come il marchio su una bestia. Sempre le stesse avrebbero popolato i suoi incubi, come ricordi
lontani. Scalini di pietra, sporchi, logorati, imbanditi di fratture, l’ansia opprimente che le
chiudeva la gola, soffocandola, provocandole un potente conato di vomito. La penombra gelida, priva di pace, spezzata da una sola luce in un antro distante dalle scale.
Sotterraneo, questo aveva pensato in un primo momento, ma con molta probabilità si
sbagliava e, volendo essere sinceri, non si era soffermata a lungo a capire dove fosse,
piuttosto perché. Forse era solo un altro piano dell’edificio, ricavato così in profondità che nessun suono, anima o respiro, sarebbe mai risalito.
Il lettino già sistemato, al centro di quella camera infernale, i macchinari palpitanti che lo circondavano a pochi metri di distanza, l’infermiera che attendeva pacata, inespressiva, che si avvicinò non appena vide gli ospiti, che aiutava il giovane medico e il gigante a tenerla ferma, stenderla su quel lettino candido, rigido, spoglio, che li aiutava a bloccarle polsi, caviglie e spalle con cinghie di cuoio. E invano si dimenava, invano urlava, provava a liberarsi da una morsa disumana, implorava, invano.
Fin da bambina la sua più grande paura erano stati i suoi sogni. Su lenzuola pulite, scoprì che c’era una paura ancor più grande e lacrime acide di quella paura le bruciavano il volto. La voce che aveva odiato sin dalla prima sillaba che aveva ascoltato, gli elettrodi che il giovane dottore posizionò con delicatezza sulle tempie, sussurrandole che dopo sarebbe stata meglio, l’apribocca di gomma che l’infermiera le costrinse ad accettare, molto meno delicatamente.
Alla fine, pregò. Pregò qualsiasi dio esistente, se qualcuno esisteva, di non abbandonarla a quel destino, e a quella preghiera sussurrata con tutta l’anima si aggrappò, finché il dolore non la costrinse ad abbandonare la presa, squassandole il corpo intero.
Ancora cosciente, non riuscì a ritrovare quella invocazione disperata per avvinghiarcisi nuovamente.

… somministrare un secondo trattamento... voltaggio più alto...
Oh, quella voce. Quella stramaledettissima voce odiosa.
Se un dio esisteva, non l’avrebbe salvata, no, avrebbe fatto marcire lui all’inferno per l’eternità, anche solo per quella seconda scarica.
Ma, di tutto ciò che accadde, in futuro, lei conservò solo poche immagini.
Scalini di pietra sporchi e rovinati, l’ansia talmente opprimente da provocarle un conato di vomito, l’immobilità, il dolore. Un atroce dolore in tutto il corpo.
E sì, si ritrovò a pensare molto tempo dopo, l’odore di bruciato lo sentiva.
Quell’odore avrebbe popolato i suoi peggiori incubi, quel dolore sarebbe stato la sua paura più grande.


-Perché non si sveglia?-
-Si sveglierà-
-Ma perché non si è ancora svegliata?-
-Si sveglierà, vedrai-

Ma questa, più che una rassicurazione, sembrava una speranza.


La prima cosa che percepì fu il proprio respiro regolare. Inspirava, espirava. Poi sentì un lieve torpore abbandonarla, lentamente, così che potesse seguire il dolore che lo sostituì lungo ogni muscolo e su quello successivo. Ancora, l’udito: iniziò a sentire i rumori prodotti intorno a lei, i sussurri, il fruscio delle lenzuola sotto le dita che iniziavano a muoversi, una porta aperta e subito richiusa senza garbo.
Infine, la vista. Sollevò le palpebre, abituò gli occhi alla luce tenue, inspirò, posò lo sguardo sui due uomini che la scrutavano, in attesa, mise a fuoco e urlò.
Arretrò con uno scatto, raggomitolandosi contro la testiera del letto, le braccia tese in avanti a farsi scudo contro i due estranei.
-Chi siete?- strillò, gli occhi sbarrati e il respiro rapido.
Quello più giovane fece un passo verso di lei, chiamandola per nome con dolcezza, nonostante la voce roca.
-Come conosci il mio nome? Do.. dove sono?-
L’altro, più avanti negli anni e con qualche centimetro di girovita più del necessario, sospirò, abbandonandosi pesantemente contro lo schienale della sedia su cui stava seduto.   –Ti avevo avvisato che poteva accadere-
Il più giovane chiamò ancora il suo nome, ora più allarmato, avanzando di un altro passo.
Lei scattò in piedi, liberandosi delle coperte e precipitandosi alla porta, la spalancò, corse scalza sul legno del pavimento, arrivò all’ingresso, si precipitò fuori. E si fermò.
Sbalordita, fu tentata di sorridere. Quanto avrebbe amato una visione del genere, se solo avesse ricordato come ci era arrivata. La luce che filtrava tra migliaia di foglie verdi, appollaiate su rami sottili, accarezzate dal vento, la terra che le solleticava i piedi nudi, miglia e miglia colorate solo di arbusti e fronde.
-Belle- si voltò a quel sussurro, fissando lo sguardo in quello colmo di apprensione del giovane.  –Cos’è l’ultima cosa che ricordi?-
-Ero a casa.. mia madre.. lei aveva appena comprato uno specchio-


-Così.. tu eri un paziente del manicomio, come me-
Maurice annuì, sorridente. Osservandola, seduta con le gambe incrociate e i capelli disordinati, si chiese se fosse stato davvero un male ciò che era accaduto. Conosceva Belle da poco, ma nei suoi occhi c’era sempre stato quel vortice caotico di tristezza e ineluttabilità, mentre ora gli sembrava così serena.
Adam gli aveva raccontato del patto e della strega, dei sogni in cui si era finto Leon, del fratello che era tornato a prenderla e poi quell’ultimo sogno, più per il bisogno di rivelare tutto a qualcuno che per il desiderio di metterlo al corrente dell’intera vicenda, ma lui aveva ascoltato ogni parola, pazientando durante i silenzi, in attesa che riprendesse a parlare. E aveva inteso più di quello che Adam lasciava trapelare dalle parole: sperava con tutto il cuore che lei recuperasse la memoria, che si ricordasse di lui, per questo lo aveva avvisato ripetutamente, mettendolo in guardia sulla possibilità che lei non conservasse alcun ricordo, com’era accaduto a molti dei pazienti di Delacroix.
Le era rimasto accanto, giorno e notte, vegliando su di lei, aveva donato la sua vita, riducendola a sette miseri giorni per poterla portare via da quel posto, aveva viaggiato per settimane in cerca di un aiuto, convinto che, altrimenti, lei sarebbe morta.
Teneva a lei, più di quanto potesse un uomo e più di quanto una bestia possa dimostrare, ma, nonostante questo, lui sperava ciò che per Belle era la cosa migliore.
Nonostante questo, sperava che Belle non recuperasse mai più i suoi ricordi.
Adam sarebbe diventato una bestia nel corpo e nella mente, ma Belle poteva ancora tenersi stretta la serenità che ora, solo ora da settimane, scorgeva sul suo viso.
-E quell’uomo.. Adam.. mi ha salvata.. dopo avermi tenuta prigioniera?- rise appena, scuotendo il capo. 
-Non so se sia più assurdo quello che mi racconti o che io ti stia a sentire-
Doveva, però, sapere la verità. Non avrebbe ricordato Adam, ma avrebbe ricordato il suo gesto.
-Perché mi ha salvata?-
-Perché ti ama-
Belle voltò il viso, seguendo con lo sguardo i movimenti di Adam, nella stanza accanto.
-E io lo amavo?-
-Non lo so, ragazzina, ma oramai importa davvero? Ora che il suo tempo sta per scadere?-
-Che intendi?-
-Gli restano solo due giorni. Tornerà ad essere una bestia e questa volta sarà per sempre-
Continuò ad indugiare con lo sguardo sulla figura dell’uomo, senza in realtà pensare a nulla, semplicemente studiandone il volto, soffermandosi sui movimenti, sui gesti.
Le aveva salvato la vita e non ricordava nulla di lui.

Una bestia..
No, neppure quegli occhi talmente carichi di un sentimento che non riusciva a definire, neppure quelli risvegliavano la sua memoria.
Allora perché il solo saperlo lì, il solo poterlo vedere, poter essere sicura che lui fosse a pochi metri da lei le donava una pace calda e rincuorante?


-Credo di doverti ringraziare-
Si voltò, incrociando un accenno di sorriso e tornò a guardare davanti a sé.
-Per avermi aiutata- continuò, sedendosi sul gradino del misero portico di legno antistante la casa.
Annuì leggermente, senza posare gli occhi su di lei, che abbassò i propri, torturandosi le mani.
-Maurice.. – prese fiato –Maurice mi ha detto che sai dei miei sogni-
Questa volta sollevò lo sguardo, trovando il suo, agitato e preoccupato.
-Te l’ho detto io?-
Non aspettò una risposta.  –È che.. non l’ho mai detto a nessuno.. non l’avevo mai detto a nessuno e.. –
-Non me l’hai detto-

Non a me. L’hai detto a Leon, non a me.
-Come?-
-L’ho scoperto-
-E non credi che io sia pazza?-
-No, non lo credo-
Scrutò attentamente i suoi occhi, cercandovi, forse, proprio quei ricordi che lei non poteva più trovare.
-Perché mi hai aiutata, Adam?-
-Perché non potevo fare altrimenti-
Tornò a dirigere lo sguardo davanti a sé, senza aggiungere altro e lei fece lo stesso, lasciando che il silenzio si propagasse quieto per i minuti che seguirono.
-Mi dispiace- disse d’un tratto, attanagliata davvero da quel sentimento.
-Per cosa?-
-Perché non mi ricordo di te-


Correva a perdifiato, guardandosi continuamente alle spalle, guardava l’oscurità e quella correva come lei, più veloce di lei, la incalzava e lei fuggiva, fuggiva, seguendo l’unico sentiero luminoso che vedeva. L’oscurità non doveva raggiungerla, lei non voleva che l’oscurità la inghiottisse. E poi, improvvisamente, stava cercando qualcuno, qualcuno che neanche conosceva.
-Leon!- chiamava a gran voce, fin quasi a sgolarsi.  –Leon!-
Ma l’uomo che aveva davanti non aveva volto e lei disperava.
-Non riesco a vederti- diceva, la voce rotta, ma l’uomo rimaneva immobile, impassibile, spento.
-Non riesco a vederti- ripeté in un sussurro, cercando di riprendere il fiato perso durante la corsa.  –Non riesco a vederti-
E, ancora, correva, con i muscoli urlanti, fitte dolorose al fianco, i polmoni brucianti, i passi rimbombanti nella testa, inspiegabilmente inseguita dall’oscurità in una caccia senza fine.


Si svegliò nel cuore della notte, sorpreso di essersi addormentato. All’alba sarebbe partito, voleva allontanarsi il più possibile da Belle prima di trasformarsi in una belva priva di coscienza e non voleva trascorrere quelle ultime ore dormendo, ma il sonno doveva aver avuto la meglio. Strinse gli occhi, abituandosi al buio della stanza e il suo sguardo corse subito al letto dove riposava Belle, trovandolo però vuoto.
Si alzò, cercandola nella modesta casa che avevano scelto come rifugio temporaneo, prima di uscire fuori. La trovò là, in piedi a qualche metro di distanza dal portico, sotto la fitta pioggia primaverile, il capo rivolto in alto e le braccia strette attorno al corpo, come riparo dal freddo della notte.
-Belle- la chiamò piano, quando le fu vicino.  La vestaglia da notte impregnata d’acqua le aderiva al corpo e i riccioli scuri si erano appesantiti sulle spalle e attorno al viso.
Abbassò il capo e sbatté le palpebre più volte, cercando di vedere oltre la pioggia.
Perché era lì? Da quanto tempo se ne stava sotto l’acqua?
-Cosa stai facendo?-
-Ho fatto un sogno orribile- disse  -Ti cercavo, ma non riuscivo a vederti-
-Cercavi me?-
Scosse il capo, scrollando i capelli impregnati di pioggia.  –No, un uomo di nome Leon-
Adam trattenne il fiato, irrigidendosi.  –Era uno di quei sogni?-
Scosse di nuovo la testa, abbattuta.
Represse un singhiozzo e strinse ancora di più le braccia attorno al corpo.
Adam fece un altro passo verso di lei, osservandola corrucciato.
-Stai piangendo?-
-No!- disse subito, concitata, pulendosi con gesti frenetici le guance che subito si coprirono nuovamente di pioggia e lacrime.
Le scostò le mani dal volto, cercando di capire il motivo del suo stato d’animo, nonostante lei evitasse il suo sguardo.
-Perché piangi?-
-Perché è una sensazione così brutta- sussurrò così a bassa voce che quasi credette di esserselo immaginato.
-Quale sensazione?-
-Io..- sollevò gli occhi e la mano sul suo volto. Esitò, prima di poggiare le dita sulla sua pelle, la fronte corrugata, seguì il profilo della fronte, del naso, delle guance, come già aveva fatto in sogno. 
–La tua voce.. io so di averla già sentita, i tuoi occhi mi sono così familiari, ma non riesco a ricordarmi di te.. è come sentire una canzone e sapere di conoscerla, ma non riuscire a ricordarne il titolo e io mi sforzo e continuo a pensare, a cercare di ricordare, ma.. è inutile-

-Una bestia? Nel senso di un animale?- aveva chiesto a Maurice, quel giorno.
-Nel senso di una bestia senza ragione né anima- le aveva risposto lui.

Poche ore. Avrebbe voluto che recuperasse la memoria, avrebbe voluto darle tempo per riacquistare i ricordi, aiutandola a ricordare, ma non aveva tempo.
Poche ore. Forse non avrebbe ricordato mai più e lui non aveva abbastanza tempo.
Gli serviva dannatamente, il tempo, e lui non ne aveva più.
Le afferrò il polso. Fermò la sua mano.
Lui sarebbe tornato ad essere una bestia e lei sarebbe tornata dalla sua famiglia, alla sua vita.
E allora, forse, sarebbe stato meglio che non ricordasse nulla.
Fece un passo indietro, lasciando la presa.
Aveva la possibilità di cancellare tutto. Ogni errore, ogni parola detta con rabbia, ogni inganno, ogni segreto passato.
Guardò quegli occhi spalancati, l’ espressione stupita.
Gli era stata concessa un’ ulteriore possibilità. Per salvarla.
Arretrò ancora.
Per salvarla da lui.
-Non sforzarti più di ricordare-
E la sua voce era dura, fredda.
-Ma..-
-Non riesci a ricordare perché ti farebbe male-
Gli faceva terribilmente male. Mollare la presa, pronunciare quelle parole, lasciarla andare. Di nuovo. Per sempre.
-Non ricordi nulla perché hai sperato così ardentemente di dimenticare tutto che, appena ha potuto, la tua mente ha cancellato ogni cosa. Non ricordi nulla perché non erano altro che ricordi di un mostro che ti ha fatto soffrire, ricordi di giorni infernali, di una persona che ti ha strappato via dalla tua famiglia, che ha minacciato tuo fratello, che ha minacciato te, rinchiudendoti nelle segrete. Non ricordi nulla perché non vuoi ricordare-
Era questo il motivo, no? Dopotutto, per quale ragione avrebbe dovuto voler recuperare tutti quei tristi ricordi?
Perché non voleva ricordare?
-E allora smettila di provarci, smetti di cercare di ricordare qualcosa, qualsiasi cosa e torna a casa-

Là, forse, sarai felice.
Ma lei rimaneva immobile, continuava a scrutarlo, per nulla scossa dalle sue parole.
Ancora una volta, si era dichiarato un mostro e, ancora una volta, lei non lo scorgeva.
Tuttavia ora, resa insicura dall’oblio nella sua mente, tentennava, esitava, incerta su cosa pensare, se credergli.
-Maurice..-
-Maurice mente! Sei scappata via da me, prima di ritrovarti di nuovo qui, non te ne chiedi il motivo? Volevi fuggire, andare il più possibile lontano da me-
-No, io..-
Lei cosa? Adam non sembrava un mostro, ma poteva esserne sicura? Nel suo sogno stava scappando.. che la sua memoria stesse riaffiorando e la stesse mettendo in guardia da lui?
Ma allora perché la voleva allontanare? Perché appariva così abbattuto, così sconfitto?
Sospirò, abbassando il capo e massaggiandosi la fronte.
-Torna a dormire, Belle, ma dammi retta, appena ne hai l’ occasione, torna a casa-
Ma lei restava immobile, continuava a guardarlo, continuava a non credergli.
E pensare che le aveva detto solo la verità nuda e cruda.
Ma lui non aveva tempo.
-Vattene!- urlò.
Lei sobbalzò, spalancando gli occhi.
E lei poteva ancora tornare al punto di partenza, come se nulla fosse mai successo.
-Vattene!- urlò ancora.
E lei scappò in casa.
Tra poche ore, d’altronde, neanche lui avrebbe più ricordato nulla di lei.




Angolo autrice:  *evita disinvoltamente di far notare il laaargo ritardo con cui ormai aggiorna
e afferma*: una svolta inaspettata. Aggiungo un'unica cosa: E ora? 
Un grazie di cuore a tutti i carissimi lettori che seguono la storia di Belle.

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Capitolo 23
*** Presto. ***


Image and video hosting by TinyPic 23. Presto

L’aveva sentito andar via. Aveva trascorso il resto della notte immobile, gli occhi stretti nella speranza di riprendere sonno, ma la sua mente continuava a lavorare e l’udito le riportava i passi dell’uomo, sempre più distanti, lievi, finché era tornato il silenzio. Al mattino Adam non era ancora rientrato, al suo posto un uomo bizzarro si era presentato alla porta. Era anziano, i capelli bianchi spettinati lo rendevano ancora più sbarazzino di quanto non facessero i vestiti larghi che indossava o l’enorme sorriso, sprovvisto di un paio di denti, che aveva mostrato al suo ingresso. Aveva un fisico minuto, i polsi piccoli e le gambe magre, ma i capelli non erano per nulla radi e la pelle, per quanto ricoperta di rughe, era ancora rosea.
Maurice lo guardò per alcuni istanti, gli occhi sbarrati per cacciare il sonno e il corpo rilassato.
-Sì?- domandò e l’uomo non attese oltre, entrò in casa e poggiò la sua minuscola borsa a terra, accanto alla porta.
-Sono un amico di Adam-
-Oh- Maurice sembrò scrutarlo un momento, prima di stringere gli occhi.  –Lei è l’uomo di cui mi ha parlato- lo soppesò un istante ancora, prima di scuotere la testa e tornare sui suoi passi, brontolando.
-Una strega va bene, ma due.. guarda un po’ Maurice se non ti cacci sempre nei guai-
Belle fece un passo verso il vecchio, seguendo i suoi movimenti.
-Mi scusi.. cosa.. lei chi è?-
-Sono un mago naturalmente-
-Un.. ? Cos..?-
Senza aggiungere altro, iniziò a rovistare tra le poche stoviglie, la schiena curva. Di tanto in tanto sbuffava.
-E.. ehm, perché è venuto qui?-
-Ho visto che avevate bisogno di aiuto, cara- rispose pacato, come se fosse l’ ovvietà del giorno.
-Oh finalmente!- si sollevò, stringendo nella mano un pentolino non molto capiente e le sorrise.
-Un the?-
Aveva iniziato a fare caldo e lei avrebbe preferito di gran lunga un’aranciata, ma dubitava che sarebbe comparsa a breve in quel posto.
-Mmm.. d’accordo-
Maurice li aveva raggiunti in tempo per vedersi consegnare una tazza fumante.
-Sapevo che quel giovanotto avrebbe combinato un pasticcio,- esordì il vecchio, sedendosi senza troppe cerimonia  -ma bevete il the, su, rilassa le membra-
Ne aveva preso un sorso, iniziando a volgere la mente altrove, ma il mago aveva subito richiamato la sua attenzione.
-Belle, giusto?- le aveva porto la mano, stringendo la sua in una presa troppo salda per una persona della sua età e continuando a sorriderle allegro.
Aveva esitato, ritirando lentamente la mano e lanciando uno sguardo furtivo a Maurice.
-Sì-
Il vecchio l’aveva scrutata ancora per qualche istante, prima di volgere la sua attenzione ad un Maurice particolarmente eloquente, permettendole di rilassare i muscoli.
Il sole si alzava velocemente e lei approfittò di un momento di silenzio per rivolgersi all’amico.
-Dov’è Adam?-
Maurice si irrigidì, sospirando e abbassando le spalle, prima di voltarsi verso di lei.
-Se n’è andato stamattina, lui non.. non tornerà, Belle-
Lei annuì, alzandosi e posando la sua tazza, ora vuota.
Quando vide lo sguardo indagatore dell’altro, si sforzò di sorridere.
-Non mi interessa cosa gli succederà, davvero-
Già, non le interessava. Che scappasse via, che diventasse una bestia, non le importava.
-Attenta a ciò che dici, ragazzina, le bugie non le sai dire-
Il nuovo arrivato non la guardava, ma lei lo vide ruotare leggermente la propria tazza, scrutandone il fondo. 


-Qui è diverso dal posto da cui vieni, non è così?-
Si voltò verso l’uomo alla sua destra, che le sorrideva mesto, e tornò a guardare davanti a sé, scrutando l’oscurità della vegetazione in cerca di una risposta che la luce del giorno non riusciva a darle.
-Sì- gli rispose, sospirando. Era un tipo strano, quel mago.
Da giorni il silenzio dei suoi sogni la tormentava, frustrandola più degli insetti che le pungevano la pelle o del modo incondizionato in cui era costretta ad affidarsi a Maurice in quella terra che non ricordava. Le aveva raccontato tutto ciò che Adam aveva riferito a lui su quell’uomo e non aveva ancora digerito il fatto che Adam avesse spiattellato il segreto dei suoi sogni ad un estraneo. Inoltre, il silenzio non le permetteva di dormire, costringendola a rimuginare più di quanto avrebbe voluto.
Così aveva ipotizzato varie alternative.
Uno: l’avevano rapita, drogata, magari le avevano dato anche una botta in testa e ora stavano utilizzando l’amnesia a loro vantaggio, per farle chissà cosa.
Due: l’assurda storia della bestia, dell’ ex-moglie incazzata e di lei che tornava indietro per salvare il bestione antipatico era vera. Nella sua testa. In sintesi, era diventata pazza.
Tre: la storia della bestia, dell’ex-moglie incazzata e di lei che tornava indietro per salvare il bestione antipatico era vera. Per davvero. E lei era pazza comunque. Oh, andiamo, perché diavolo avrebbe voluto mettere a rischio la sua vita per salvare quell’uomo così scostante, che ora molto probabilmente correva tra i boschi, a quattro zampe, ricoperto di peli, ululando alla luna?
Era fantastico, no, davvero, chi poteva vantare nel proprio curriculum la voce ‘matta da legare’?
Beh, in effetti i sogni premonitori erano stati un primo enorme segnale. E ora non si facevano più vivi, bastardi. E lei brancolava nel buio, giorno o notte che fosse.
-Sì- ripetè. –Da dove vengo io è diverso-
-Cosa c’è qui che lì non c’era?-
Si voltò a guardarlo e incontrò i suoi occhi pacati.

Cosa c’è qui che lì non c’era?, sentì ripetere una vocina nella sua testa.
-Lì c’erano i miei sogni, qui.. –
-Qui no?-
-No, ci sono anche qui, almeno credo, ma prima era tutto chiaro, mentre ora mi sembra di essere su una strada senza luce e non so dove mettere i piedi e.. –
-E non trovi la strada di casa-
-Cosa? No, io..- si prese la testa tra le mani e inveì sottovoce. –Vorrei ricordare, ecco tutto- terminò, la voce più calma.
-Capisco. Non sai perché sei qui, né se gli uomini che hai incontrato siano davvero tuoi amici, né se tutta questa stramba storia che ti hanno raccontato sia vera. Non sai chi sei-
-Io.. perché non ricordo più nulla? Come posso fare se non ricordo nemmeno le mie stesse azioni?-
-Se non ricordi nemmeno i tuoi stessi pensieri?-
-Già- alzò nuovamente lo sguardo su di lui.  –Tu sei un mago, vero? Puoi aiutarmi?-
-Potrei, ma io posso restituirti solo le immagini, pallide, gelate scene di vita. I ricordi sono qualcosa di solo tuo e solo tu puoi toccarli, ripescarli. Io posso darti il passato, ma è davvero ciò che vuoi?-
Le sfiorò appena la spalla, senza aggiungere altro né aspettare che assimilasse le sue parole e si allontanò silenziosamente, tornando in casa.
Belle riportò lo sguardo sull’oscurità, ripensando alle parole del vecchio.
Quella notte, dopo quasi un mese di notti silenziose, fu proprio un sogno a svegliarla.


Destra, sinistra. Un piede dopo l’altro. Avanzava nel buio, rassicurata dalla candela che creava una bolla di luce attorno al suo corpo, ben salda nel suo piedistallo dorato. Strinse la presa nel minuscolo manico, continuando a camminare, le spalle dritte, il passo deciso e lo sguardo alto, senza chiedersi dove stesse andando o dove dovesse andare.
Un ramo spezzato la fece voltare di scatto, cercando nella sua sfera luminosa l’autore del rumore e trovò a fronteggiarla una figura di donna bellissima e sorridente, i cui occhi luccicavano alla luce della candela.
Ammirò i suoi lunghi capelli d’oro, il viso aggraziato e la pelle bianca.
-Chi sei?-
-Vendo rose-
-Ma io non ho come pagarle-
-Rose rosse scarlatte-
-Davvero? Devono essere bellissime-
-Erano bianche, ma io ho usato il sangue per tingerle di rosso-
Arretrò lentamente, inorridita, squadrando quella figura angelica, dallo sguardo luccicante.
-Chi sei?-
La donna le porse la mano, ma lei arretrò ancora.
-Chi sei?!- urlò, ma la donna, con il viso non più angelico, ma freddo, livido, fiore della morte, rimase in silenzio.
-Possiedi anche tu delle rose?- chiese in un fiato ghiacciato che le scivolò lungo la spina dorsale, facendola rabbrividire.
-No! Io non sono come te!-
Trasalì, scottata da una goccia di cera bollente, lasciò la presa, la candela cadde a terra, si frantumò con un suono sordo, la bolla di luce scoppiò, sentì un alito ghiacciato ad un soffio dal suo viso e scappò via.
Sotto i suoi passi terrorizzati, il terreno franò, la terra la inghiottì, facendola precipitare nell’acqua limpida e fresca che le chiuse i polmoni, infiammandoli. Lei scalciava, arrancava, colpiva l’acqua, cercava di farsi largo, di tornare a riva, di respirare, spinta 
sempre più giù. Lottava sommersa, l’acqua irruppe al posto dell’aria. Annegava.



-Cosa ti è successo alla faccia?-
Tenne gli occhi fermi sul boccale quasi vuoto, il quinto.
Dannato bambino. Faceva troppe domande.
-Sto parlando con te-
E non gli piaceva per niente.
-Lo so. Ti sto ignorando-
-Qualcuno ti ha picchiato? Chi ha vinto? Lo hai ucciso?-
-Non uccido gli uomini-  lo guardò. E sollevò un lato della bocca in un ghigno nascosto dall’ ombra soffusa della locanda.  –Ma tu potresti essere il primo-
Il bambino sostenne il suo sguardo, ma alla fine abbassò gli occhi.
-Tornatene da tua madre-
-Io ti ho visto con la strega. Non zoppicavi, prima-
-Neanche tu zoppichi, per ora-
-Ti sei ferito mentre cercavi di prendere lui?-
Sbuffò.  –Chi?-
-La bestia-
Strinse la presa sul boccale, digrignò i denti.
-Lo prenderò. Appenderò la sua testa sulla mia parete dei trofei. Presto. –

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Capitolo 24
*** Impronte ***


                                    Image and video hosting by TinyPic 24. Impronte

Mettimi come sigillo sul tuo cuore,
come sigillo sul tuo braccio;
perché forte come la morte è l'amore,

tenace come gli inferi è la passione:

le sue vampe son vampe di fuoco.

                             Cantico dei Cantici




-Christian?-
Frugava nella credenza, le dava le spalle, indossava ancora il pigiama. Si voltò verso di lei, la scatola di cereali in una mano, una tazza nell’ altra.
-Che c’è?-
-Stai facendo colazione?-
Il suo sguardo si fece interrogativo e, dopo un attimo, rise.  –Non devo?-
Si guardò intorno nella cucina illuminata dai primi raggi del mattino, la sveglia della mamma in lontananza, la coperta malamente buttata sul divano, la televisione ancora accesa.
Doveva essere stato un altro dei suoi orrendi incubi.
-Ho fatto un sogno assurdo, non ci crederai mai. La mamma aveva comprato uno specchio e tu l’hai attraversato e c’era una reggia che di giorno era stupenda e di notte diventava la casa degli orrori e poi un pazzo mi ha rinchiuso in un manicomio e diceva che ero io la matta-
Rise di nuovo e lei con lui.  –Magari sei davvero pazza- la punzecchiò, lanciandole addosso una manciata di cereali al cioccolato.
-Ehi- si appoggiò al tavolo, fingendosi offesa.
D’un tratto, però, una stretta improvvisa le mozzò il fiato. Si portò una mano sull’addome, riprendendo fiato, e toccò un corpetto ricamato, allacciato sulla schiena.
-Ma che diavolo è?-
-Cosa?-
-Ma stai scherzando? Il corpetto, Christian!-
-Belle.. stai bene?-
-Non lo vedi..?-
Non lo vedeva? Com’era possibile?
I lacci strinsero ancora. E ancora. Cercò di strapparselo di dosso, tirò i lacci, forzò il tessuto, portò le mani al petto, ansimante.
-Non respiro.. –
-Belle, che ti prende?-  la sua voce era allarmata.
-Non riesco a respirare.. – sussurrò appena, rossa in volto per la mancanza d’aria, i gesti rallentati, la vista annebbiata.
E, in un attimo, suo fratello le dava di nuovo le spalle, lei lo chiamava, e chiamava, ma nessun suono usciva dalle labbra livide. Non aveva voce. Lui non la sentiva.


Il sogno finiva e il successivo iniziava. Senza tregua.
Ogni notte, da quando era arrivato il mago, sogni diversi affollavano il suo sonno. 


Un uomo minuto, dai capelli d’oro, la fronteggiava. Tra loro, a dividerli, una scia di sangue spiccava sul terreno candido.
-Sono impronte?- chiese all’uomo.
Lui annuì.
-Sai di chi sono?-
Annuì ancora.
-Forse ha bisogno di aiuto-
Annuì una terza volta.
-E cosa fai ancora lì? Dobbiamo aiutarla-
-Allora aiutala-
E il fuoco, improvviso e feroce, lambì la scia scarlatta, innalzando un muro oltre cui un uomo minuto, dai capelli d’oro, continuava a guardarla.

Continuamente.


Quando aprì gli occhi, la trovò lì, accanto al letto, lo guardava e sorrideva.
Sbatté più volte le palpebre, strinse gli occhi e poi li spalancò, cercando di mettere a fuoco nell’oscurità. Si sollevò sui gomiti e sbadigliò.
-Ragazzina, sei inquietante-
Lei rise.  –Mi ricordo di te-
Si pietrificò per alcuni secondi, scrutandola come se cercasse di capire se stesse ancora sognando, poi, completamente sveglio, si precipitò ad abbracciarla, continuando a chiederle se lo stesse prendendo in giro.
-Mi ricordo di te e dello specchio e ..– storse il naso, contrariata.  –della casa di cura-
-Beh, bentornata, era ora- si schiarì la voce, guardandosi distrattamente le mani.
-E.. Adam?-
Scosse il capo.  –No, di lui non ricordo ancora nulla-
-Oh, suvvia, non disperare, non puoi mica ricordare tutto in una sola volta. Inoltre, hai ricordato la cosa più importante. Me-


-A cosa pensi, ragazzina?-
Alzò gli occhi, puntandoli in quelli dell’amico seduto accanto a lei, accennò un sorriso, scuotendo piano le spalle. Era l’alba, non era più riuscita a prendere sonno e Maurice l’aveva seguita nella cucina, preparando per entrambi un the caldo. Le lanciava sguardi furtivi, di tanto in tanto, soppesandola, ma non aveva osato fare di nuovo cenno ad Adam.
Riscaldata dalla bevanda fumante, le ginocchia al petto, sospirò, ma ancora non rispose.
-Non tornerai lì, te lo prometto, Delacroix non ti farà più del male-
Sorrise, mentre le lacrime iniziavano a rigarle le guancie e i singhiozzi a scuoterle il corpo, senza che potesse fermarli, spingendo via dalla sua testa il ricordo dei gradini di pietra, del dolore atroce, dell’odore di bruciato, inutilmente. Lasciò che Maurice la stringesse a sé, rilassandosi in quell’abbraccio e abbandonandosi al pianto, terrorizzata che ciò che era successo al manicomio potesse succederle ancora e sollevata perché, alla fine, i ricordi erano tornati. 



Si lasciò cadere sul terreno umido del mattino, sdraiandosi sulla schiena, gli occhi rivolti al cielo chiaro e il respiro pesante. Era partito subito dopo aver parlato con Belle e aveva camminato a lungo, a passo svelto, cercando di mettere più distanza possibile tra lui e la casa che aveva appena lasciato. Quella doveva essere una radura poco visitata dall’uomo, visto lo stato selvaggio della natura e le molte bestie che gli giravano intorno, annusando il suo odore e scrutandolo sospetti. Doveva sembrare loro una creatura molto strana, né uomo né bestia. La trasformazione era già iniziata, sentiva tutto il corpo formicolare, la pelle indurirsi e la mente confondersi. Il suo cuore giaceva ancora nello scrigno coperto di rune, strappato al suo petto, ma lui riusciva a sentirlo, nonostante ciò, batteva più rapido, sempre più frenetico e contemporaneamente il respiro diveniva concitato. Non era riuscito a camminare oltre, il dolore gli attraversava le ossa, i muscoli, fitte appuntite gli spillavano i denti, gli occhi, le punte delle dita. Stremato, chiuse gli occhi, continuando a cullare nella mente il pensiero che adesso lei era salva. Ripescò l’immagine del suo viso rilassato quando leggeva per lui accanto al fuoco, del sorriso che gli aveva rivolto, prendendolo per mano e guidandolo fuori dal castello, alla luce del sole. Si aggrappò a quel sorriso, alla stretta sulla sua mano ruvida, a quell’emozione che non aveva saputo definire, allora, e che gli aveva riempito il petto, strabordando.
Si aggrappò a quei ricordi, sempre più tenacemente, finché non fu solo il buio.
Riaprì gli occhi, inspirando rumorosamente. Due occhi gialli.

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Capitolo 25
*** Neve ***


25- Neve@  Image and video hosting by TinyPic

Zoppicava ancora. Un medico aveva ricucito la ferita, ma lo aveva avvertito che probabilmente non avrebbe mai più ripreso a camminare normalmente e poi aveva iniziato un lungo monologo sul perché, quali danni la ferita aveva inferto, cosa era stato danneggiato, ma lui aveva già smesso di ascoltare. Non gli importava. Non importava se ancora zoppicava, se avrebbe zoppicato per tutto il resto della sua vita. Avrebbe avuto la testa di quell’animale sulla sua parete dei trofei e questo avrebbe ripagato tutto. Maledetta bestia, l’avrebbe catturata finalmente.
Fece un cenno ai suoi nuovi, decisamente più numerosi, uomini, immobilizzandosi a sua volta. Molti del villaggio si erano offerti di aiutarlo nella sua caccia contro la bestia che minacciava i loro figli e le loro figlie.

La bestia? Si è avvicinato così tanto al villaggio?
Era bastato che gonfiasse un po’ la verità, la storia di come il mostro lo aveva ferito a sangue freddo, di come aveva progettato di andare al villaggio e divorarne gli abitanti, di come i suoi occhi erano iniettati di sangue, le sue zanne armi spaventose.
Aveva sentito qualcosa. E, appena qualche metro avanti a loro, vide due occhi gialli scintillare minacciosi. Ma la bestia, invece di attaccarli, si voltò, dando loro le spalle e si allontanò pacatamente. Pregustando già la gloria che lo avrebbe accolto una volta tornato al villaggio con la testa del mostro che aveva ucciso completamente da solo, si avviò dietro la bestia, distanziandosi dagli altri, il fucile pronto. Alcuni passi dopo, la belva si fermò, fronteggiandolo. Poco oltre svettava il castello che una volta era stata la sua abitazione, ora desolato, distrutto, nient’altro che una rovina. Non sembrava volersi difendere, immobile sulle quattro zampe. Il suo aspetta era peggiore di quanto ricordasse e così quegli occhi gialli iniettati di sangue. Puntò i piedi a terra e, sollevato il fucile, prese la mira.


Rideva. Era una bambina, avanzava tentennando senza pattini sul ghiaccio, tenendosi al bordo per non cadere e rideva. Suo padre doveva essere lì, poco distante da lei, nell’altro sogno lui era lì con lei, ma quando alzò lo sguardo, sul ghiaccio, nella notte, c’era solo una bestia. La guardava, immobile sulle quattro zampe, respirava piano e il sorriso le morì sulle labbra.
A lungo guardò la bestia, ma quella non attaccò.


-Perché nessuno mi ha svegliato?-
Maurice rise, guardando i capelli scompigliati e gli occhi ancora assonnati, il mago, invece, non alzò gli occhi, intento a preparare la cena.
-Ho sognato una bestia-
-Davvero?-
Annuì.  –Era sul ghiaccio, come mio padre-
-Mmm- assaggiò il contenuto della pentola, storcendo appena il naso e aggiungendovi qualcosa.  –Paragone interessante. E.. cosa faceva?-
Esitò, riflettendo.  –Aspettava-
Così, ancora una volta, pensò che quell’uomo vedesse molto più lontano di quanto non facessero i suoi stessi sogni.


Era in un posto buio, ma gli occhi si abituarono subito alla luce della luna e distinse un corridoio vuoto, due porte chiuse sulla sinistra, una ringhiera di legno color mogano sulla destra, più avanti una scalinata. Portò le mani sul vestito, ne strinse il tessuto liscio, sorridendo. Era bellissimo, con il corpetto decorato di perline, l’ampia gonna sopra strati di tulle, frusciava deliziosamente ad ogni suo minimo movimento. Sollevò la veste con una mano, avanzando lentamente.
-Mamma?- sussurrò, aprendo la prima porta. Poi la seconda.
-Christian? Dominic?- si guardò intorno, scrutò oltre la ringhiera, raggiunse la soglia delle scale. Un ringhio alle sue spalle la fece sobbalzare, si voltò di scatto,due occhi gialli brillavano nel buio, lasciò la presa sul legno scuro, inciampò, la terra mancò sotto i suoi piedi. Cadde, ruzzolò per le scale, urlando, ogni gradino le feriva le gambe, la testa, le braccia alzate a proteggere il volto. Finalmente a terra, distesa sulla schiena senza forze, scombussolata, probabilmente ferita, sollevò lo sguardo sulla cima delle scale.
Lì, immobile nel buio, le zampe anteriori posate sul primo gradino, c’era una bestia. Gli occhi gialli lampeggiavano, guardandola. Ma non l’aveva inseguita, non ringhiava. Era lì, immobile.
Chiudeva gli occhi e li riapriva all’aperto, al freddo, il sole pallido che la riscaldava appena attraverso le fronde degli alberi sopra di lei, la neve si stava lentamente sciogliendo sotto il suo peso, in una macchia sempre più scura. Qualcuno la teneva stretta tra le braccia, ma non ne vedeva il volto, vedeva solo le foglie che ondeggiavano, lentamente, mosse da un vento leggero. E lei aveva freddo, molto freddo.  

Aprì gli occhi, vide la luce ancora tenue del mattino fare capolino dalla finestra, riscuotendola dal torpore e si mise in piedi, vestendosi velocemente ed uscendo dalla casa.
Non aveva dato a quell’ultimo sogno molta più importanza di quanto non ne avesse dato ai precedenti; sapeva di aver già sognato qualcosa di simile in effetti, ma non ricordava altro. Ciò che più la assillava negli ultimi giorni, però, non erano i suoi sogni, per quanto bizzarri.

Cosa c’è qui che lì non c’era?
Quando il mago le aveva posto questa domanda, aveva pensato che le stesse semplicemente chiedendo se le mancasse casa sua, ed era così. Le mancava terribilmente. Dominic sarebbe stato sconvolto, Christian avrebbe sospettato qualcosa, probabilmente, e forse si stava chiedendo come tornare in quel mondo per riportarla indietro, di nuovo. E sua madre.. beh, era sparita due volte nell’arco di un anno, sarebbe stata distrutta. Avrebbe voluto essere lì, stringerla forte, rassicurarla e dirle che era tutto a posto, che lei stava bene. Non ne era stata in grado, fino ad allora. Non aveva potuto strapparle via dalla mente il dolore e i ricordi e l’odiosa nostalgia che spesso le oscurava il viso; si era limitata a starle accanto, accettando l’idea che non avrebbe mai potuto comprenderla come invece facevano i suoi fratelli. Ma neanche adesso poteva, no? Era lontana da casa, dalla sua famiglia e..

Cosa c’è qui che lì non c’era?
Aria. Ecco cosa c’era. Fresca e pura e ristoratrice. Respirava. Per la prima volta respirava. I suoi sogni erano dall’una e dall’altra parte, non erano quelli a soffocarla. Non si trattava di cosa ci fosse o meno da una parte o dall’altra, si trattava di cosa ci fosse per lei.
Si fermò, prendendosi il tempo per inspirare a pieni polmoni e sentire l’odore di pino che negli ultimi giorni l’aveva sempre accompagnata nelle lunghe passeggiate con cui cercava di far passare il tempo. Si sedette sulle radici di un albero e il suo sguardo cadde sulla terra secca e scura. Nel suo sogno c’era la neve, ma mancava ancora molto all’inverno. Nel sogno lei stava.. morendo, no? Sarebbe successo d’inverno? No, non era quello, aveva la netta sensazione che la neve non indicasse il momento, ma fosse una specie di similitudine.
E, nonostante non avesse dato particolare peso a quel sogno, si era trovata a raccontarlo a Maurice, senza neanche capirne il motivo. Quella stessa sera, mentre rientrava nella casa del mago, li aveva sentiti parlare, ignari della sua presenza appena oltre la porta.
-Adam mi ha raccontato di quel sogno, ma entrambi pensavamo che fosse ormai un pericolo lontano, visto quanto è accaduto-
Il mago sembrava tranquillo, come sempre d’altronde.  –Ma lei lo ha sognato di nuovo-

Era di nuovo nel corridoio buio, la ringhiera sulla destra e le due porte chiuse alla sua sinistra. Non portava più l’ampio abito dell’altra volta, indossava semplicemente un jeans e una maglia scura a maniche corte. Si guardò intorno, alla ricerca della bestia che l’aveva spaventata, facendola ruzzolare giù per le scale, ma non ce n’era traccia.
Aprì la prima porta, aspettandosi di trovare la stessa stanza vuota dell’ultima volta e, invece, la camera era piena di oggetti, mobili, quadri, tutti distrutti e raccolti lì per essere dimenticati. Avanzò con attenzione, raggiunse uno dei pochi ritratti ancora appesi alla parete e allungò la mano per tenere insieme la tela ferita. Sembrava quasi che fosse stata squarciata da artigli molto affilati, eppure non c’era niente nell’uomo rappresentato che potesse spiegare un tale odio. Guardò a lungo il suo viso, gli occhi azzurri, i capelli bruni, ma poi una luce tenue richiamò la sua attenzione, allontanandola dal quadro e attirandola verso un piccolo tavolino rotondo proprio davanti al balcone chiuso. Su di esso, coperta da una cupola di vetro, brillava una rosa. Sembrava rimanere dritta da sola, poggiata sulla base dello stelo sottile. Sollevò la teca e ne sfiorò i petali lisci con le dita, esitante. Come poteva brillare in quel modo? Sembrava ricoperta di una rugiada simile a piccoli diamanti. Strinse lo stelo per prenderla e sentirne l’odore, ma si punse e la lasciò ricadere subito, con un lamento di dolore. Tornata magicamente al suo posto, Belle la coprì nuovamente e uscì in fretta dalla stanza, con la strana sensazione che non dovesse essere trovata lì.
Si avviò verso la seconda porta e scoprì che anche questa, come la prima, non era più vuota. Al centro della stanza spiccava un piccolo tavolo di legno e, oltre, una donna dagli occhi chiusi  e le labbra orrendamente cucite insieme se ne stava seduta con le mani poggiate sul tavolino, il dorso rivolto verso l’alto. Si avvicinò, sedendosi di fronte a lei. Sembrava interamente ricoperta di polvere, quasi fosse stata abbandonata lì come i mobili della stanza accanto, i suoi capelli erano scuri, lunghi, un rovo non curato da tempo, il suo abito nero era logoro.
Non appena si fu seduta, la donna aprì gli occhi vitrei, inchiodandola al suo posto.
-Tu sei.. – corrugò la fronte, cercando di ricordare.  -.. Rosaline-

Vendo rose. Le sembrò di sentire la voce nella sua testa. Rose rosse. Erano bianche, ma io ho usato il sangue per tingerle di rosso.
-Cosa? Aspetta.. questo me l’hai già detto, giusto? Sai cosa significa la neve, non è vero?-
Erano bianche, ma io ho usato il sangue per tingerle di rosso.
-Erano bianche.. e la neve si è tinta di rosso.. Io non capisco.. quando la neve non sarà più bianca, vuoi dire questo? Un momento.. il manicomio era sempre bianco nei miei sogni.. accadrà quando ricorderò tutto, è così?-
La donna sorrise e le cuciture si tesero orrendamente, gli occhi vacui sempre fissi davanti a sé, tese il braccio sinistro e puntò l’indice verso il pavimento. Gocce di sangue ne macchiavano la superficie impolverata. Si alzò in piedi per guardare meglio.
-Sai di chi sono? È in pericolo-

Allora salvala.
-Ma.. ma il cacciatore non mirava a me, mirava a Leòn-
Una presa dolorosa la fece voltare di scatto, trasalendo. Stretta attorno al suo braccio c’era una mano scheletrica e, oltre, un corpo putrefatto, un volto vivido di carne morta e ossa visibili. Urlò, ma nessun suono uscì dalle sue labbra, il fiato bloccato in gola.
Con gli occhi sbarrati, guardò quelli ancora vitrei della strega e si sentì gelare il sangue.

Il suo nome, la sua voce era più possente e fredda di prima,  non è Leòn.
Strattonò il braccio dalla sua presa e corse via, uscendo dalla stanza e precipitandosi giù per le scale, il cuore che palpitava in gola e il respiro corto.
Si voltò solo un secondo, per assicurarsi che non la stesse seguendo e fu allora che li vide. Due occhi gialli, proprio in cima alle scale. La bestia ringhiò, mostrando le zanne coperte di sangue, ai suoi piedi, un cerbiatto giaceva senza vita, il corpo dilaniato.
Questa volta sentì il proprio urlo acuto, prima di scappare nuovamente via, ancora più lontano, fuori dal castello, il più velocemente possibile, il freddo che riempiva i polmoni già doloranti. Arrivò ad un lago ghiacciato, ma continuò a correre, ignorando il rumore del ghiaccio che si crepava sotto i suoi passi, voltandosi ancora una volta indietro. La bestia la stava inseguendo, era ad un soffio da lei, molto più veloce, i capelli le nascosero la vista, tirati dal vento e lei sentì un rumore sordo, il suolo crollarle sotto i piedi e cadde, sommersa dall’acqua gelida. Presa di sorpresa, spalancò la bocca per urlare e respirare e..


Inspirò di colpo, spalancando gli occhi. Scattò a sedere, portandosi una mano al petto e cercando di regolarizzare il respiro. Era ancora notte fonda, ma non doveva perdere tempo. Balzò in piedi, si vestì rapidamente e uscì di corsa dalla casa, addentrandosi nel bosco, senza avvertire nessuno, senza pensare a cosa stesse facendo, a dove stesse andando, senza badare a come dovesse sembrare stravolto il suo viso. Si allontanò senza voltarsi indietro neanche una volta, sicura che non avrebbe sbagliato strada. Un unico pensiero occupava la sua mente. Adam.

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Capitolo 26
*** Epilogo ***


Epilogo

Commiato d'autore: Ebbene sì, sono ancora viva. In realtà avevo già in mente il finale di questa storia e l'avevo anche già abbozzato, ma non so perchè ho esitato a postarlo. Forse mettere la parola fine ad una storia che ho sentito particolarmente mia mi rattristava un po', ma è anche giusto che i personaggi (e i lettori) abbiano il loro finale. A questo punto avrete capito che questo è il capitolo finale, per cui mi eclisserò in fretta. Volevo solo ringraziare tutti quelli che hanno seguito la storia, perchè ogni racconto ha raggiunto il suo scopo, se anche vi fosse un solo lettore a portarlo nel cuore. Un bacio, VeronicaDauntless.

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La prima cosa che vide fu il fucile. Nei suoi sogni il colpo rimbombava così vivido che le sembrava familiare. Ad imbracciarlo con mani sicure, un occhio già chiuso per prendere la mira, c’era un uomo giovane, le spalle larghe e i capelli scuri lunghi. Anche lui le sembrò familiare, come se avesse popolato i suoi incubi allo stesso modo dell’arma che impugnava.
E poi c’era la bestia. Le zampe solide piantate a terra, il corpo incurvato e la bocca leggermente spalancata sulle zanne bianche. Gli occhi scintillavano nella poca luce del mattino, gialli, grandi, privi d’espressione, come non li aveva mai visti. Fu questo a scuoterla.
Si gettò contro l’uomo, afferrando la canna del fucile e cercando di cambiarne la traiettoria, prima che fosse troppo tardi. Il colpo mancò il bersaglio, volò lontano, il rombo la fece sobbalzare, gli occhi stretti.
-Che diavolo.. – il cacciatore strattonò la sua presa, liberando il fucile e spingendola lontano con violenza.  –Maledetta strega- sputò con la voce impregnata di disprezzo.

Strega.
Sbatté con forza contro il tronco di un albero, sentì un dolore sordo infiammarle la spina dorsale, le spalle, prima di rovinare a terra. La caduta le mozzò il fiato e le graffiò le mani, immobilizzandola sul terreno umido.
L’uomo puntò l’arma verso di lei, che spalancò gli occhi, trattenendo il fiato. Ma il colpo non arrivò. Al suo posto, un ringhio feroce le percorse la schiena, attirando l’attenzione di entrambi. La bestia balzò contro Gaston, che si scansò, ma subito dopo emise un gemito di dolore e si portò una mano sul braccio, dove quattro profonde scie rosse gli sfregiavano la pelle bianca.
-Adam- sussurrò, ma lui non la stava guardando, continuava a tenere gli occhi fissi sull’avversario, mentre questi sollevava nuovamente il fucile e, senza perdere tempo per prendere la mira, sparò.
Belle sentì l’ululato di dolore dell’animale trafiggerle il corpo, scuotendola,  si sollevò, ignorò le fitte che le attraversavano la schiena ad ogni respiro e tenne gli occhi fissi sui due contendenti. Adam aveva attaccato di nuovo, sfruttando il momento di esaltazione dell’altro e ora lottavano, troppo vicini perché lei avesse il coraggio di afferrare il fucile, che ora giaceva abbandonato a terra, e sparare.
D’un tratto vide qualcosa luccicare tra loro, ma fu solo un secondo, l’istante dopo il mugolio straziante della bestia la raggiunse e capì che Gaston doveva avere con sé un pugnale. Subito dopo lo vide correre nella direzione opposta alla sua, verso il castello distrutto dalle fiamme a cui non aveva rivolto nemmeno uno sguardo. Adam lo seguì, l’andatura incostante, eppure notò che anche l’altro zoppicava leggermente.
Corse dietro di loro, arrivando in tempo per vederli salire la scala annerita, ma quella scala si interrompeva presto, affacciandosi nel vuoto e, ancora oltre, sulla fontana abbandonata.
Gaston arrivò sul penultimo gradino e si voltò, il fiato corto, la lama sollevata, la bestia si erse in tutta la sua grandezza, lui si fece indietro, perse l’equilibrio, sul suo viso comparve una smorfia spaventosa e lei urlò, vedendolo oscillare nel vuoto, sorretto solo dalla zampa di Adam, che gli graffiava la spalla e dall’intrico di foglie e rose che risaliva sulla facciata del castello. La sembrò che i rami fossero mossi dal vento, leggermente, costantemente, finché non li vide avvinghiare le braccia di Gaston, che cercava di trovare un appiglio sul muro franato, stringersi intorno ai gomiti, ai polsi, ad ogni singolo dito, finché la pelle non iniziò a farsi pallida, sempre più pallida e poi cinerea, come cenere, o meglio, come brandelli di una statua di pietra. Lui urlò, terrorizzato, gli occhi spalancati fino a sembrare enormi cerchi scuri, la bocca aperta in un grido senza fine, sempre più acuto.
-Aiutami!- urlò, strappando le foglie, i rami, allungò il braccio verso Adam, ne afferrò il pelo, ma le dita si sgretolarono, come frammenti del castello che aveva intorno.
La bestia ringhiò, non minacciosa, ma confusa, guardava l’uomo e l’uomo fissava le sue dita, quello che ne era rimasto, mentre la carne cinerea cadeva, pezzo dopo pezzo, nel vuoto, precipitando nell’acqua con un rumore tonfo.
Quando anche l’altra mano si sfaldò, cadde, avvolto dalle sue stesse grida e dal silenzio attonito di Belle e della bestia, di cui ancora vedeva gli occhi gialli. L’impatto con l’acqua gli mozzò il fiato, zittendolo, e sollevò un’onda scomposta attorno a lui.
Belle si precipitò, allungando le mani per aiutarlo, ma quando stava già per sentire la ruvidezza dei suoi abiti, vide due mani delicate, due braccia lunghe avvolgergli il corpo e spingerlo verso il fondo, in acque più profonde di quanto avrebbero dovuto essere. Allora ritrasse le mani, ancora distese verso di lui e fece un passo indietro. I suoi occhi, ancora spalancati e colmi di terrore, scomparvero presto. Un unico gorgoglio distorto precedette il silenzio, mentre l’acqua tornava liscia e calma.
Non si concesse un attimo di più e corse all’interno della casa, scorse la bestia accasciata sul pavimento coperto di fuliggine, gli occhi socchiusi e la bocca aperta in un respiro affannoso. Accennò un passo nella sua direzione, ma lui mostrò le zanne, ringhiando, le orecchie ebbero un fremito e lei si arrestò.
-Adam- sussurrò, prima di far scivolare il piede di qualche centimetro più avanti, lentamente.
-Adam, sono io, sono Belle-
La sua voce si ruppe e solo allora si rese conto di avere la vista annebbiata. Sbatté più volte le palpebre, ricacciando indietro le lacrime e il groppo che le chiudeva la gola.
-Sono Belle, sono qui, Adam-
La bestia continuava a tenere gli occhi stretti su di lei, ma a mano a mano che lei avanzava, ritraeva gli artigli, lasciando ricadere le zampe senza forza, poi smise di ringhiare, aprì bene gli occhi e lasciò che lei cadesse in ginocchio al suo fianco.
-Oh, Adam- sollevò la mano, seguendo la ferita del fucile alla spalla, e del pugnale, al petto, ma non riuscì a toccarlo. Sanguinavano entrambe, sporcandogli il pelo scuro e rallentandogli il respiro. Spostò lo sguardo sui suoi occhi, ignorò le lacrime che ora, prepotenti, le inondavano il volto, scuotendole il petto e gli sfiorò il viso in una carezza delicata. L’animale guaì e lei dovette reprimere un singhiozzo.
-Adam non farmi questo.. non puoi lasciarmi.. mi ricordo di te ora.. Adam.. –
I suoi occhi si schiarirono, ma fu solo un istante e lei trattenne il fiato, sentendo la sua mano tra i capelli, la stessa mano che aveva stretto quando tutto le era ancora troppo confuso. Chiuse gli occhi, coprendo la mano con la propria, ma quando li riaprì, la sua mano era tornata una semplice zampa, ricadde debole sul suo grembo e lei lo scosse, chiamando il suo nome tra i singhiozzi, lo sguardo fisso sui suoi occhi ora chiusi. Alla fine si abbandonò contro di lui, affondando il viso contro la pelliccia ruvida, sentendo il sangue ancora caldo macchiarle la pelle e pianse, stringendo convulsamente tra le mani il pelo scuro.
-Io ti amo-
Sussurrò impercettibilmente e lasciò fuoriuscire il fiato, allentando la presa sul suo corpo, quando il calore quasi la scottò, costringendola ad allontanare di scatto le mani e il viso. Scosse la testa, ma i fasci di luce dorata, sempre più numerosi, più luminosi, c’erano davvero, avvolgevano il corpo di Adam in una spira morbida. Arretrò, balzando in piedi e asciugandosi il viso con gesti frettolosi. Le tornò alla mente cos’era successo all’altro uomo, alle mani che lo avevano afferrato, trascinandolo giù e balzò verso Adam, le braccia già allungate verso di lui, in cerca di un appiglio, ma la luce divenne talmente accecante che le bruciò gli occhi e lei dovette scostare la faccia, proteggendosi il viso con le braccia. Quando la luce sembrò affievolirsi, osò riaprire gli occhi, in cerca del corpo della bestia, ma il pavimento era vuoto. Davanti a lei, però, c’era un uomo. I capelli scuri gli ricadevano sulle spalle, incorniciando la pelle chiara del volto, le linee marcate del naso, delle sopracciglia, le labbra incurvate in un sorriso.
Continuava a girare le mani davanti al viso, guardandole stupito, poi alzò gli occhi su di lei e li puntò nei suoi. Trasalì, arretrando.
Lui le porse la mano.
-Belle-
Socchiuse gli occhi, scrutandolo. Non era l’uomo che aveva conosciuto nei suoi sogni né quello che l’aveva portata via dalla casa di cura, c’era qualcosa di diverso adesso, una strana luce nel suo sguardo. Un ricordo le attraversò la mente, ridestato, rivide davanti a sé quello stesso sguardo e quella stessa luce in due occhi simili, ma appartenenti ad una bestia. Era lo sguardo che vedeva ogni giorno, quando leggeva per lui o quando passeggiavano fianco a fianco.
-Adam?-
Corse verso di lui, che aprì le braccia e lei vi si gettò, lasciando che la stringesse a sé con forza, mentre affondava il volto contro la sua pelle e sentiva il calore del suo corpo.
-Ti ho visto morire- sussurrò, senza sciogliere l’abbraccio.
-Anch’io ti avevo vista morire. Ma ora è tutto finito-
-Mi avevi riconosciuta-
-E tu hai ricordato chi ero-
Le prese il viso tra le mani, costringendola a sollevare lo sguardo e le sfiorò con le dita la fronte, il naso, il mento, come più di una volta aveva fatto lei. Sorrise, poggiando la mano sulla sua e inclinando leggermente il capo per sentire tutto il calore di quella carezza.
-Non lasciarmi più andare via-
-Mai più- soffiò sul suo volto, prima di poggiare le labbra sulle sue e stringerla nuovamente a sé.


Prima di tornare da Maurice, Adam aveva dato un ultimo sguardo al castello, poi i suoi occhi si erano fermati su una piccola scatola intagliata, l’aveva presa da terra e l’aveva aperta, sorridendo al suo interno. Aveva cercato di sbirciare oltre la sua schiena, chiedendogli cosa fosse, ma lui l’ aveva richiusa in fretta, rispondendo che era solo un vecchio regalo del mago e a lui la consegnò, appena arrivarono a casa. Mentre andavano via, lasciandosi alle spalle il castello in rovina e la fonte d’acqua che era stata tomba di Rosaline e ora di Gaston, avevano dovuto evitare una folla di uomini che parlavano a gran voce. Tra di loro, Belle riconobbe Chicco, il figlio della locandiera e, per quanto provasse ancora dell’odio verso quella donna, non poté evitare di sorridere allo sguardo stupito del bambino. Gli sorrise, mentre si dirigevano nella direzione opposta e si portò un dito alle labbra, facendogli segno di non dire nulla.
Il bambino la guardò con gli occhi sgranati, ma alla fine la sua espressione si fece risoluta ed annuì.
Alla vista dello scrigno, il vecchio aveva annuito, sorridendo ad Adam e toccandogli gentilmente la spalla, eppure lei era sicura che fosse vuota.
Maurice aveva brontolato per un bel po’, continuando a rimproverarla per averlo fatto preoccupare ed essere andata da Adam senza chiamarlo, ma, quando lei lo strinse a sé, lui ricambiò l’abbraccio. Strinse anche la mano di Adam, sussurrandogli un ‘ben fatto’.


Andarono a vivere in una casa piccola, ma accogliente, abbastanza lontana dal villaggio perché Delacroix non li trovasse, se anche stesse ancora dando loro la caccia. Maurice accettò l’invito del vecchio di trascorrere qualche giorno da lui, sebbene il mago continuò a sostenere di non ricordare di aver mai avanzato nessun invito, finché non avesse trovato un posto dove vivere.
-Ti sei autoinvitato, Maurice?- gli chiese un giorno, lontano dall’ancora ottimo udito del mago e lui aveva mostrato un sorriso sghembo, guardandola, ma non aveva risposto e, sebbene continuasse a dirgli che avrebbe potuto stare con lei ed Adam per tutto il tempo che voleva, lui ripeteva che lì stava bene, si sentiva a casa ed era contento così.
Andava da loro più spesso che poteva e la maggior parte delle volte li trovava seduti accanto al fuoco con in mano una tazza di the. Era sicura che Maurice non sarebbe più andato via da quella casa e che al vecchio, in fondo in fondo, non dispiacesse poi tanto.
-Hai.. visto la tua famiglia?-  le chiese Maurice un giorno.
Lei abbassò lo sguardo, le sembrava ancora così strano poter parlare liberamente dei suoi sogni, ma sì, aveva visto la sua famiglia. L’aveva sognata.
Sorrise.  –Sì-
-E?-
E.. aveva visto più in là di quanto avrebbe voluto. Dominic aveva una famiglia, Christian viveva in una casa tutta sua e sua madre sorrideva spesso, anche se spolverava ogni giorno una foto che ritraeva tutti e tre i fratelli abbracciati, sorridenti. Faceva scivolare l’indice sui loro volti e si soffermava a lungo sul suo, guardandolo con gli occhi lucidi. Passato quel minuto, abbandonava la fotografia e tornava ai suoi impegni.
-E stanno bene, tutti-
-Ti mancano-
Non era una domanda, ma lei rispose ugualmente.  –Mi mancheranno sempre, ma è qui che voglio stare-
Maurice le sorrise sornione, come al solito, dandole una leggere gomitata.
-Ti mancherei troppo, eh?-
Aveva ricevuto anche una visita inaspettata. Una mattina qualcuno aveva bussato alla porta e si era trovata davanti una ragazza bellissima, la vita stretta, fluenti capelli rossi e un sorriso sbarazzino. Sollevò appena la lunga gonna, mostrando le ginocchia e lei sgranò gli occhi, presa di sorpresa.
-Le avevo detto che avevo delle belle gambe, miss-
-Rebecca!-
Trascorsero la giornata a parlare, Rebecca le raccontò dove si era rifugiata dopo l’incendio e la sorpresa quando si era vista di nuovo umana, che era tornata dalla sua famiglia e che, in paese, un ragazzino, il figlio della locandiera, ne raccontava delle belle: la bestia aveva ucciso Gaston e mangiato la bella, altre volte che la bella aveva baciato la bestia, scaldandole il cuore e rendendola umana, o ancora che i due amanti sfortunati si erano tramutati in cervi e adesso vivevano nei boschi, insieme.
-Che storie assurde- aveva esclamato, facendole l’occhiolino.
La sera si congedarono con la promessa di vedersi presto.
Stavano bene, tutti. 



Prese un profondo respiro, lisciandosi distrattamente la gonna ampia, prima di sorridere ad Adam e stringere la mano che le porgeva. Le mise una mano sulla vita, avvicinandola a sé e ricambiando il sorriso. Registrò solo il primo passo, prima che la musica iniziasse a guidarla autonomamente, e che il suo sguardo si perdesse in quello, adesso così luminoso, del suo accompagnatore. Adam sollevò il braccio, trascinando in alto anche il suo e facendola girare, prima di stringerla nuovamente contro di sé. Rise. Come doveva sembrare goffa. Ma fu il pensiero di un istante, sparì subito, così com’era sparita l’ansia. Pensò a come doveva brillare, il suo vestito dorato, mentre ruotava, inseguendo i suoi volteggi, gonfiandosi intorno alle sue gambe e ondeggiando l’attimo dopo, accarezzandole le caviglie, per poi tornare ad accostarsi al blu dell’abito di Adam, e questi pensieri la riempirono di contentezza. Rideva ogni volta che lui la faceva girare, sperando di non inciampare, di non pestargli i piedi, ma lui era un ottimo cavaliere, riusciva a guidarla nei movimenti e lei tornava sempre di fronte a lui, stretta nel suo braccio, dove quasi riusciva a percepire il battito del suo cuore e dove il suo sorriso la riempiva di calore e d’amore in un solo istante..


Si svegliò di soprassalto, delusa che il sogno fosse già finito. Tornò a chiudere gli occhi, mentre Adam la stringeva a sé, affondando il viso nei suoi capelli.
-Adam?-
-Mmm?- rispose, non del tutto sveglio.
-Ho sempre voluto imparare a ballare-
Lui sorrise, gli occhi ancora chiusi.  –Ti insegnerò io-


     
                                                      FINE

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